Morto per la Libertà

di AliceGerini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 4 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 5 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 6 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 7 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 8 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 9 ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 10 ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 11 ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 12 ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 13 ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 14 ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 15 ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 16 ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 17 ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 18 ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 19 ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 20 ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 21 ***
Capitolo 22: *** CAPITOLO 22 ***
Capitolo 23: *** CAPITOLO 23 ***
Capitolo 24: *** CAPITOLO 24 ***
Capitolo 25: *** CAPITOLO 25 ***
Capitolo 26: *** CAPITOLO 26 ***
Capitolo 27: *** CAPITOLO 27 ***
Capitolo 28: *** CAPITOLO 28 ***
Capitolo 29: *** CAPITOLO 29 ***
Capitolo 30: *** CAPITOLO 30 ***
Capitolo 31: *** CAPITOLO 31 ***
Capitolo 32: *** CAPITOLO 32 ***
Capitolo 33: *** CAPITOLO 33 ***
Capitolo 34: *** CAPITOLO 34 ***
Capitolo 35: *** CAPITOLO 35 ***
Capitolo 36: *** CAPITOLO 36 ***
Capitolo 37: *** CAPITOLO 37 ***
Capitolo 38: *** CAPITOLO 38 ***
Capitolo 39: *** CAPITOLO 39 ***
Capitolo 40: *** CAPITOLO 40 ***
Capitolo 41: *** CAPITOLO 41 ***
Capitolo 42: *** CAPITOLO 42 ***
Capitolo 43: *** CAPITOLO 43 ***
Capitolo 44: *** CAPITOLO 44 ***
Capitolo 45: *** CAPITOLO 45 ***
Capitolo 46: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1 ***


Dicono che la paura sia come una mina antiuomo che esplode non appena qualcuno vi poggia il piede sopra.
Noi eravamo così…Camminatori inconsapevoli su un campo minato.
E la prima bomba stava per esplodere sotto uno di noi.
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
 
E così hanno sparato a Nairobi. Poverina, mi piaceva Nairobi…O forse meglio dire mi piace, non so se sia ancora viva o morta ma temo più la seconda opzione vista l’agitazione improvvisa di tutta la banda.
Tokyo. Rio. Nairobi. Denver. Stoccolma. Helsinki. Bogotà, Palermo e altri volontari.
Il Professore dietro le quinte che a quanto pare comunica con tutti loro attraverso una minuscola radiolina posizionata sulle loro orecchie.
Personalmente non li conosco ma ho letto tutti i loro fascicoli, probabilmente li conosco meglio dei loro specchi.
Vediamo un po’…Chi altro c’è in questa allegra combriccola? Oh si, il caro vecchio sciacallo di povere anime, Arturo Romàn che sembra godere del trambusto generale.
Bastardo.
Se solo fossi qui sicuramente sospireresti, scuoteresti la testa e diresti una delle tue frasi ad effetto. Poi li faresti tornare tutti in riga, assumeresti il comando e ci tireresti fuori in un batter d’occhio.
Sono bloccata alla Banca di Spagna da meno di un’ora con gli altri ostaggi e già i qui presenti rapinatori professionisti litigano tra loro come dei mocciosi.
Dio quanto vorrei alzarmi e prenderli a schiaffi uno per uno.
Stringo i pugni fino a far sbiancare le nocche, sento le unghie perforare la cane e a malapena trattengo un grido quando sento Arturo incitare gli altri ostaggi a ribellarsi, i classici analfabeti funzionali pendono dalle sue labbra ma mi fa piacere notare che ci sono alcuni che dubitano di lui, Governatore compreso.
Pover’uomo, non dimenticherà mai questa giornata di lavoro.
Così come non la dimenticheranno mai gli ostaggi.
E i componenti della banda.
Mi alzo in piedi alzando la mano, il ragazzino che ci fa da guardia alza il fucile in mia direzione sperando di potermi fare paura, inconsapevole che la paura ce l’ha davanti.
«Mi scusi, dovrei andare in bagno.» chiedo fingendo di esser spaventata a morte.
«Non è il momento, siediti.» risponde secco e deciso.
«Allora vorrà dire che la farò qui.»
Inizio a slacciare la tuta sotto lo sguardo un po’ sbalordito e un po’ schifato di tutti i presenti, arrivo in fondo alla zip e il ragazzino di guardia cede.
«Che cazzo fai? Dai, muovi il culo.»
Aspetto che volti le spalle per sogghignare soddisfatta.
Che lo show abbia inizio.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2 ***


Andare a caccia di ricordi non è mai una cosa buona. Quelli belli non li puoi catturare. Quelli brutti non li puoi uccidere.
 
FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
«Raccontami una storia, non riesco a dormire.»
Mento. Sdraiata su questo petto potrei anche morire e mi ritroverebbero con un bel sorriso stampato in faccia.
Andrés mi guarda dall’alto verso il basso con un’espressione divertita: «Dovrei considerarla un’offesa?»
Mi metto a ridere piano mentre giro il viso e poggio il mento sopra la sua pelle, assaporando ogni singolo respiro: «Dai su, raccontami una storia.» insisto.
Lui sospira anche se so che finge di essere scocciato, chiude gli occhi e inizia a recitare: «Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita.»
«No, no.» protesto e lui apre un occhio solo, sembra stia per scoppiare a ridere: «Voglio sentire una delle tue storie.»
Ci pensa un attimo, il suo braccio mi cinge completamente e spinge il mio corpo più vicino al suo viso: «C’erano una volta tre uomini che volevano entrare alla Banca di Spagna…»
***
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Il ragazzo mi porta in bagno, forse è un effetto psicologico ma sento davvero il bisogno di far pipì, slaccio la tuta e quando sto per chiudere la porta lui mi blocca.
«Ti piace guardare?» lo provoco.
«Ordini superiori.»
Fingo stupore mentre faccio quello che devo fare, la testa china tra le mani e i capelli che coprono il sorriso.
La storia della Banca di Spagna ha accompagnato quasi tutte le mie notti anche quelle in cui Lui non era al mio fianco, per paura di dimenticarla l’avevo annotata su un quaderno e senza rendermene conto la favola aveva preso le sembianze di un vero e proprio piano per una rapina.
Eccomi, io sono qui.
E tu non ci sei.
A questo pensiero il sorriso si cancella in automatico, esco dal bagno e mi fermo davanti allo specchio dopo aver pulito le mani con cura.
«Muoviti.»
Guardo il ragazzino.
Se Lui fosse qui probabilmente lo avrebbe già messo al suo posto. Anzi, sono convinta che se nemmeno lo avrebbe chiamato per un progetto di proporzioni così vaste.
Alzo la mano sopra la testa, da bravo soldato lui alza il mitra minacciandomi di uccidermi.
Tolgo questa stupida parrucca nera lasciando liberi capelli biondi, non ho bisogno dello specchio per togliere le lenti verdi così da mostrare gli occhi nocciola profondi. In un rapido gesto cancello i nei marroncini che avevo disegnato sul volto.
«Ma tu chi cazzo sei?» sbotta il ragazzino preso in contropiede e abbassando leggermente l’arma.
Raddrizzo le spalle e cammino decisa in sua direzione coi tacchi che echeggiano per tutto il bagno: «Dovrei parlare con il Professore, ne avete un disperato bisogno.»
 
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3 ***


L’amore è un’arma molto potente.
Ma anche l’odio non scherza.
C’era una persona che il Professore non aveva previsto. E se non l’aveva prevista lui, come avremmo potuto farlo noi?
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Trovo la banda fuori dalla stanza del Governatore, non ci sono tutti ma quelli che mi servono: Tokyo, Denver, Stoccolma, Rio e…Palermo.
Parlottano tra loro ma smettono di colpo quando vedono arrivare me e il ragazzino.
«Cos’è, ci appartiamo con gli ostaggi adesso?» sbotta Denver.
Senti da chi viene la predica, proprio lui che conobbe Stoccolma appartandocisi durante la rapina alla Zecca di Spagna. Infatti è proprio lei a scoccargli un’occhiata dubbiosa, il che rende la scena paradossalmente comica.
«Vuole parlare col Professore.» prova a difendersi il ragazzino.
Come prevedibile è Tokyo a fare un passo verso di me: «Non negoziamo con gli ostaggi.» dice altezzosa guardandomi negli occhi.
«Non devo negoziare, devo parlare.» preciso reggendo il suo sguardo. Se spera di farmi paura si sbaglia di grosso: «Per favore.» dico a denti stretti, Dio solo sa quanto detesti chiedere il permesso per una cosa che mi spetta di diritto.
Tokyo pigia sul suo orecchio per attivare l’auricolare ma non smette mai di tenermi d’occhio: «Professore, c’è una donna che vuole parlare con lei.» ascolta quello chele dice l’uomo, dopo una smorfia incomprensibile mi passa l’auricolare.
«Grazie.» le sussurro mentre infilo l’apparecchio facendo attenzione ai capelli: «Professore, le sono mancata?» chiedo subito senza nemmeno dargli tempo per dire qualunque cosa.
«Mi perdoni ma non vedo come possa mancarmi qualcuno di cui non conosco il nome.»
Fatta eccezione per una volta in cui ho perso le staffe, mi è sempre piaciuta la sua calma e quel suo strano modo di riuscire a trasmetterla anche attraverso una telefonata. Siamo nel bel mezzo della rapina più grande della storia, deve gestire l’esterno, una dei componenti della banda è stata ferita a morte ma lui è…Calmo.
Mi ritrovo a sorridere senza motivo: «Quando hai ragione, hai ragione.» gli do atto girandomi verso i componenti della banda: «Sono io, Esme.»
Solo ora incrocio lo sguardo carico d’odio di Palermo.
Il silenzio del Professore mi avvisa che, forse, non è più così calmo e spavaldo come pochi istanti fa.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 4 ***


FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
Adoro il monastero che Andrés ha acquistato, qui ci sono così tante storie da studiare, così tanta cultura da respirare e una magnifica lontana vista della città di Firenze.
Non potrei essere più felice e tranquilla di così, qui dentro sono pervasa da un meraviglioso senso di protezione. Forse è soprattutto perché so che c’è lui.
Ho appena finito di leggere uno dei libri antichi della biblioteca, sento lo stomaco brontolare e voglio chiedere ad Andrés di andare a pranzo fuori, magari in qualche vigna, ubriacarci fino domani mattina e dimenticare persino i nostri nomi.
So bene dove trovarlo, da quando ha visto il mio diario con sopra la storia della Banca di Spagna ha organizzato una stanza del monastero come studio con cartine appese ovunque, planimetrie, lavagne scarabocchiate, libri sparsi…Un vero e proprio covo da ladro professionista.
Sto per aprire la maniglia della porta quando sento la voce di un uomo alzarsi all’improvviso e mi blocco all’istante.
«Si può sapere che ti è saltato in mente?!»
«Guarda quanta precisione e minuziosità nei dettagli Martìn, questi disegni li ha fatti lei. Ti assicuro che è un vero talento.» risponde Andrés con la spavalderia che lo contraddistingue.
«Oh e quindi le parli del NOSTRO piano perché è brava a disegnare?»
«È più intelligente di quanto pensi.»
«Sei accecato, Andrés!»
«E la tua gelosia ti impedisce di ragionare, Martìn.»
Silenzio.
Sento dei passi avvicinarsi in fretta alla porta, mi sposto di qualche metro per evitare che questa mi colpisca. Esce un uomo che non avevo mai visto qui al monastero, ha il volto squadrato, un naso pronunciato e grande, occhi piccoli dal colore indecifrabile e dei capelli castani arruffati.
Mi squadra da capo a piedi senza fare troppi complimenti, sorride amaramente e nel sorpassarmi mi da una leggera spallata.
«Simpatico.» dico ad Andrés entrando nello studio, che mi senta quel tipo, non me ne importa nulla.
«Martìn è solo arrabbiato perché ti ho detto del nostro piano.» sospira, porta una mano sugli occhi poi torna su di me: «Ho bisogno di una pausa. Andiamo in un locale molto carino, ti va? Ti faccio conoscere il mio fratellino.»
Al diavolo il suo amico isterico.
Abbraccio Andrés piena di felicità, non solo mi ha letto nella testa ma mi farà finalmente conoscere un componente della sua famiglia.
Qualcuno mi dia un pizzicotto perché sono sicura di star sognando, è tutto troppo bello per essere vero!
 

Da una parte la gelosia bruciante.
Dall’altra un senso di colpa lacerante.
Il Professore e Palermo, i due uomini apparentemente più forti del nostro gruppo, erano diventati i più fragili. Come un castello di carte buttato giù all’improvviso dopo tanta fatica per averlo costruito.
Esme era la tempesta che lo aveva distrutto in un soffio.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 5 ***


Prima della banda non avevo una vera concezione di famiglia. Ero un gatto randagio che usava le persone solo per sopravvivere.
Ero convinta che Esme fosse come me.
Ma in realtà c’era un abisso a dividerci.
Perché lei una famiglia ce l’aveva avuta.

 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Il Professore schiarisce la voce, uno strozzato «Esme» gli esce dalle labbra, deglutisce pesantemente, sospira e dopo una manciata di secondi finalmente torna a parlare: «Perché sei li?» chiede avendo perso tutta la tranquillità per cui è famoso.
Allungando il collo guardo fuori dalla finestra, c’è una folla numerosissima con cartelli di protesta, chi indossa le maschere di Dalì e chi persino l’uniforme rossa per cui la banda è diventata nota.
Il Professore ha giocato benissimo le sue carte con il popolo, ora la gente tifa per loro, per i più deboli, per gli sfigati a cui lo Stato non ha tempo per pensare.
Questo è un ottimo vantaggio.
«Diciamo che solo per questa volta sarò la tua ancora di salvezza.»
Il Professore si ammutolisce di nuovo.
Ma adesso lo faccio anche io.
La folla scompare ai miei occhi vitrei e per un frammento di secondo sono sicura che io e lui siamo tornati indietro nel tempo in quel ristorante, il primo giorno in cui ci siamo conosciuti quando Andrés mi aveva presentata come, appunto, la sua “Ancora di salvezza”.
«Hai saputo di Nairobi?» chiedo dopo aver scosso la testa, non posso farmi prendere dalla malinconia, non adesso.
«Si e purtroppo anche la situazione qui fuori non è delle più rosee.»
«Ovvero?»
«Per ora non posso parlarne, concentratevi sulla Banca e sull’oro, una volta fuso tutto vi tirerò fuori da lì.»
«Lo sai che non puoi fare tutto da solo.»
Ammutolito, di nuovo.
«Ripassami Tokyo, per favore.»
«Sai dove trovarmi.»
«Esme, non fare sciocchezze.»
Non rispondo, passo l’auricolare ad una Tokyo molto confusa. Il Professore le da alcuni ordini e spegne la comunicazione dopo pochi secondi.
É Denver a rompere il breve silenzio: «Quindi, si può sapere chi sei?»
Palermo risponde anticipandomi, dipingendo sul volto un sorriso enigmatico: «Signori, questa è Esmeralda de Fonollosa.» è l’unico a tenere ancora il mitra puntato su di me, il dito sul grilletto: «La prima moglie di Berlino.»

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 6 ***


FIRENZE, 2 ANNI PRIMA
 
Sono chiusa nel monastero da non so più quanto tempo, vesto tutti i giorni a lutto e quando ho voglia di svagare la mente vengo quassù, nella stanza più alta a guardare il panorama assaporando bottiglie su bottiglie di whiskey invecchiato almeno quarant’anni.
Mi rilassa, mi aiuta a non pensare.
E ho un disperato bisogno di non pensare.
Bussano alla porta e qualcuno entra senza permesso.
«Ciao Esmeralda.»
Per la prima volta da quando lo conosco, la sua voce tranquilla mi da il nervoso. Chiudo lentamente gli occhi resistendo alla voglia quasi incontrollabile di buttarlo giù dalla finestra: «Ciao Sergio.»
Restiamo in silenzio, la tensione è tale che potrebbe tagliarsi con un coltello.
E vorrei tagliarci la sua gola, con quel coltello.
«Come stai?»
Una persona intelligente come lui che fa una domanda così stupida.
«Morta.» rispondo senza mezzi termini. «Tu?»
Non dice nulla.
Si avvicina, gli do le spalle ma sento che ha alzato gli occhiali sul naso con un tipico gesto, è imbarazzato come giusto che sia.
Ma non abbastanza da dirmi l’ultima cosa che mi sarei aspettata: «Ho bisogno di te, Esmeralda.»
Adesso mi giro di scatto, apro gli occhi talmente tanto che provo dolore.
«Ho intenzione di mettere in atto il colpo alla Banca di Spagna, sei una dei quattro che conosceva il piano alla perfezione e…»
«No.» ho sentito abbastanza.
«Ti prego, pensaci.»
Adesso basta, ho sopportato anche troppo: mi muovo di scatto avvicinandomi a pochi centimetri dal suo viso, lo guardo negli occhi e anche se è più alto di me non mi fa paura: «Vaffanculo Sergio. Fuori da casa mia.»
Imbarazzato e spero dilaniato dai sensi di colpa, Sergio si gira verso la porta di ingresso della stanza, prende la maniglia in mano ma esita, come se si aspettasse che gli dica qualcos’altro…E in effetti non ho intenzione di farmi sfuggire quest’occasione, finalmente posso sputargli addosso tutto il mio veleno.
«Dimmi che non lo avevi previsto.» sibilo a denti stretti: «Girati, guardami negli occhi e dimmi che non lo avevi previsto.»
Come mosso da una scossa elettrica, Sergio si gira di scatto guardandomi negli occhi, i suoi sono lucidi e persino la voce calma per cui è tanto famoso trema e balbetta: «Non lo avevo previsto. Non avevo previsto tante cose del colpo alla Zecca e…»
«Stronzate!» non ce la faccio più. Urlo così forte che sento la gola bruciare: «Lo sapevi! Sapevi meglio di me che sarebbe successo! Sai perché Andrés è morto? Perché tu te ne stavi beato seduto su una poltrona a non fare un cazzo! E ora ti stai godendo i soldi guadagnati col suo sangue!»
«Tu hai perso un marito, io ho perso un fratello!» Mai in questi anni lo avevo sentito gridare. E non avrei immaginato che nel sentirlo mi avrebbe potuto fare così male. Sergio abbassa la testa: «Ho perso un fratello.» si mette a piangere.
E mi odio perché sento le lacrime scendere anche sulle mie guance.
Avevo promesso a me stessa che non avrei più pianto e invece ora eccomi qui, ad abbracciare mio cognato tra singhiozzi violenti.
E per un attimo, per un solo attimo, mi piace illudermi di essere ancora tra le braccia di Andrés.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 7 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Palermo ha ammutolito il corridoio con la sua uscita, sul volto di tutti c’è una piacevole espressione stupita, tutti tranne lui che sorride ironicamente.
«Ti sono mancata?» gli chiedo avvicinandomi.
«Non sai quanto.»
La verità è che io e Palermo non siamo mai andati d’accordo, nemmeno quelle rare volte in cui eravamo insieme ad Andrés o il Professore per parlare del piano, la sua gelosia lo ha sempre divorato e io mi sono sempre divertita a punzecchiarlo anche se mi faceva sembrare una ragazzina viziata.
Lo faccio anche ora che mi tiene il mitra puntato contro, sposto i capelli dietro le spalle mostrando con vistosità la fede dorata che non ha mai lasciato il mio anulare e faccio in modo che lui lo noti.
«Quello psicopatico era sposato?»
«Denver!» Stoccolma rimprovera il proprio fidanzato ammonendolo con lo sguardo.
«Quello psicopatico vi ha salvato il culo alla Zecca di Spagna.» cerco di mantenere la calma mentre mi avvicino sempre più alla stanza del Governatore, guardo Denver negli occhi, sono molto più belli dal vivo che in foto, ora capisco perché Stoccolma gli è caduta ai piedi: «E per la cronaca, lo psicopatico si è sposato cinque volte.»
Apro la porta con Tokyo che cerca di bloccarmi ma non ci riesce, nessuno si ferma con il solo uso delle parole, se avesse voluto fermarmi avrebbe dovuto spararmi alle mani o alle gambe.
Trovo Nairobi sdraiata su un letto di fortuna, ha gli occhi chiusi, è legata a dei tubicini e respira appena.
Al suo fianco c’è una degli ostaggi in veste di infermiera e quello che stando alle documentazioni che ho studiato dovrebbe essere Bogotà.
«Questa chi è?» domanda quest’ultimo accennando a me con lo sguardo, ma lo sento a malapena.
Lo “spettacolo” che ho davanti è talmente pietoso da azzerare ogni tipo di senso.
 
In quel momento il cuore di Esme era diviso in tanti piccoli pezzi, devastato da un turbinio di emozioni. Era felice perché il destino aveva voluto per Nairobi la stessa sorte funesta che era toccata a suo marito. Era triste perché una madre stava rischiando di lasciare solo un figlio. Era arrabbiata, perché con la sua ingenuità Nairobi stava vanificando il sacrificio di Berlino. Ma soprattutto era invidiosa perché era stata Nairobi e non lei ad aver visto suo marito per ultima.
E a giudicare dal suo sguardo, era  questo sentimento a prevalere su tutti gli altri.

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 8 ***


FIRENZE, 6 ANNI PRIMA

«Ho vinto! Ho vinto!»
I monaci del monastero mi guardano malissimo, nonostante abbiano fatto voto di silenzio posso sentire i loro pensieri che mi mandano al diavolo.
I miei pezzi bianchi composti da cavallo, fante e Regina circondano il Re nero, Sergio osserva il tutto tirandosi su gli occhiali con un rapido gesto: «Beh, complimenti, una bella partita.»
«Fratellino, non è da te perdere a scacchi.» Andrés da lontano prende in giro Sergio e alza il bicchiere di vino in mia direzione: «Complimenti.»
Come risposta gli lancio un bacio…E ricambio lo sguardo d’odio di Martin.
«Ne facciamo un’altra?» chiedo iniziando a rimettere i pezzi al loro posto.
«Va bene.»
Giochiamo in silenzio, ogni tanto lancio un’occhiata a mio marito e al suo amico, sono abbastanza lontani per non sentirci: «Credi davvero che il colpo alla Banca di Spagna sia possibile?» chiedo a bruciapelo a Sergio.
Lui fa la sua mossa poi si prende qualche secondo per rispondere: «È indubbiamente una follia ma stiamo studiando tutto minuziosamente.»
Una risposta che non è una risposta. Classico. Sospiro abbozzando un sorriso: «E dimmi, cosa farai quando avrai la tua parte?»
Sergio sorride imbarazzato, è piuttosto carino quando lo fa: «Non ci ho ancora pensato.»
«Io prenderò Andrés e andremo a vivere su un’isola sperduta, solo io e lui, tutto il giorno a bere vino di classe e mangiare cibo dei migliori chef del mondo.» Noto che il suo imbarazzo si è trasformato in disagio, il che è sottolineato anche da una mossa sbagliata sulla scacchiera. «So che gli è stata diagnosticata una malattia letale.» continuo “mangiando” uno dei suoi alfieri: «Me l’ha detto. E so anche che mi sarà infedele, che spremerà la sua vita fino all’ultimo secondo, che io sarò solo una parentesi che lui deciderà di aprire e chiudere a suo piacimento.»
«E allora perché stai ancora con lui?»
Da lontano, Andrés e Martin sono sempre più vicini, parlano come se io e Sergio non esistessimo. «Perché volte dobbiamo rassegnarci all’infedeltà di chi è affascinante se non vogliamo rischiare di perderlo.»
Continuiamo la nostra partita ma dura decisamente meno del previsto, adesso sono io quella distratta e Sergio ne approfitta perché in sole quattro mosse mi ha messa alle strette.
«Scacco matto.»
«Ti odio.»
Ci mettiamo a ridere e ancora una volta devo ricredermi sull’estetica del mio cognatino.
Peccato che, a differenza di mio marito, io sia una donna fedele.

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 9 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

«È la moglie di Berlino.» Tokyo risponde al mio posto alla domanda di Bogotà.
La ringrazio con tutto il cuore perché con le sue parole è riuscita a distrarmi dal vuoto che mi aveva afferrato il cuore. Non deve succedere mai più, non durante una rapina di queste proporzioni.
«Piacere.» gli dico con un sorriso.
«Berlino aveva moglie?»
Porca vacca, Helsinki è decisamente più grosso di quel che pensavo! Lo vedo uscire dal bagno e per un attimo mi chiedo come abbia fatto ad entrarci con la sua stazza.
«Cinque, io sono stata la prima.» rispondo in sua direzione. Ma al prossimo che mi ricorda dell’infedeltà di mio marito gli stacco le gambe. «Tokyo.» mi rivolgo a lei perché credo sia l’unica assieme a Stoccolma con un po’ di cervello qui in mezzo: «Dobbiamo riprendere a fondere l’oro, stiamo perdendo tempo. Alcuni dovranno stare di guardia qui con Nairobi, altri devono tornare con gli ostaggi, quelli che avete piazzato fanno pena.»
«Da quando sei tu a dare ordini?»
Palermo è sulla soglia della porta, almeno ha smesso di puntarmi l’arma addosso.
«Da quando voi avete iniziato a litigare come dei ragazzini.» rispondo secca.
«Qui dentro non conti un cazzo, Esme.»
Il rumore sordo dei miei tacchi è l’unico che si sente, c’è una tale tensione che persino la temperatura sembra scesa: «Conosco questo piano molto, molto meglio di te, Martìn. Devo ricordarti perché o ci arrivi da solo?»
Forse un tempo sostenere il suo sguardo mi metteva a disagio. O forse ero solo condizionata dai sentimenti che provavo per Andrés. Non volevo litigare con uno dei migliori amici di mio marito, ingoiavo il rospo solo per rispetto a lui e a Sergio. Ma adesso non c’è nessuno ad impedirmi di bruciarlo con lo sguardo.
È lui a perdere la sfida, abbozza un sorriso amaro poi se ne va a grandi passi, con gli insulti che echeggiano per il corridoio.
Sospiro, chiudo gli occhi e torno su Tokyo: «Non farti strane idee, non voglio comandare ma…»
«In che senso conosci il piano?» Denver non è il tipo che ama aspettare.
«Ha senso se era sua moglie.» a sorpresa di tutti è Bogotà a rispondere: «In un rapporto che funzioni marito e moglie parlano, di solito.»
Non ricordo l’ultima volta in cui ho sorriso dolcemente, però è piacevole farlo di nuovo: «Già»
«Quindi cosa facciamo?» Meno male Tokyo non si perde in chiacchiere e arriva subito alla questione.
«Quello che ho detto poco fa, dividetevi in squadre, posso restare io con Nairobi.»
Tokyo annuisce girandosi verso la banda: «Denver, Stoccolma, tornate alla fonderia. Rio ed io andremo dagli ostaggi. Helsinki e Bogotà starete qui con Nairobi.» Tokyo si zittisce un attimo tornando a guardarmi con attenzione: «Non ti lascio da sola con la mia amica.»
Però…È più intelligente di quanto pensassi.

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 10 ***


FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
Mi sveglio nel cuore della notte, come di consueto allungo una mano per sentire il corpo di Andrés.
Anche questa notte non c’è.
So che potrebbe andarsene da un momento all’altro ma so anche che in questo periodo non lo farebbe mai.
Lo trovo dove l’ho lasciato ieri sera prima di andare a dormire: dentro lo studio.
Chino sulle planimetrie e sugli appunti quasi illeggibili, Andrés ha una mano sulla fronte e l’altra che gioca nervosamente con una penna. Ha un fascino devastante e nonostante sia abituata ad averlo attorno tutti i giorni resto per qualche secondo a guardarlo, ammaliata come sotto incantesimo… Finché non lo sento sbuffare e buttare indietro la testa. Ecco che il diavolo tentatore si trasforma nell’angelo di dolcezza.
Mi avvicino piano e lo abbraccio da dietro, lui chiude gli occhi annusando l’aria profondamente.
«Andrés, vieni a dormire.» poggio leggermente le mie labbra sul suo collo.
La mano libera dalla penna si unisce dolcemente al mio braccio: «Non ci riesco, sono tormentato da questa cartina.»
Allungo lo sguardo per notare la planimetria di tutta la Banca di Spagna, nelle ultime settimane io, Andrés, Sergio e Martin l’abbiamo studiata da cima a fondo, la cartina che ho disegnato basandomi sui documenti e sugli appunti che mi sono stati recapitati dai due fratelli.
«Cosa ti tormenta?» chiedo in un sussurro.
«C’è qualcosa di sbagliato ma non è un errore.»
Aggrotto le sopracciglia sedendomi sulle sue ginocchia, ormai il sonno è andato a farsi benedire: «Che intendi?»
«Hai disegnato la piantina alla perfezione Esme, eppure c’è qualcosa che non va.»
«Fammi vedere.»
Ed eccoci di nuovo qui a studiare questa stramaledetta Banca di Spagna. Non ne posso più, ho la nausea di questi disegni e se sento ancora parlare di liquefazione d’oro e formule chimiche, vomito. Tuttavia cerco di concentrarmi il più possibile, prima risolviamo questa faccenda e prima potremo tornare a letto.
Il piano sotterraneo e il piano terra non sembrano avere niente di strano, passiamo al piano superiore e persino con l’aiuto del dito indice controllo ogni singola stanza.
Non capisco cosa ci sia di strano: la sala conferenze, la sala stampa, gli uffici dei vari Consiglieri, la segreteria del Governatore, la stanza personale del Governa…
 
L’astuzia è l’arte di celare i propri difetti e di scoprire le debolezze degli altri.
Esme aveva imparato ad applicare quest’arte non solo alle persone ma a tutto ciò che la circondava.
Doveva sempre avere un vantaggio.
E anche in questo caso l’aveva trovato.
 
«Hai ragione.» sussurro talmente piano che credo di aver pensato: «C’è decisamente qualcosa che non va.» picchetto il dito sull’ultima stanza che stavo esaminando: «Esattamente qui.»

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 11 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
 
Eccola qui, la stanza del Governatore, la parte sulla planimetria che ha tolto il sonno ad Andrés per settimane.
Mi guardo attorno mentre il ritmato bip dell’attrezzatura che tiene in vita Nairobi fa da snervante sottofondo musicale. Anche se un po’ pacchiano per i miei gusti non posso fare a meno di notare che si tratta di un bellissimo ufficio, le pareti in legno massiccio, una piccola teca con alcuni libri dall’aspetto antico, le tede di velluto. Non male come uso dei soldi dei contribuenti.
Mi avvicino alla scrivania e senza farmi troppi problemi mi siedo sulla comoda poltrona in pelle nera, se devo aspettare che Nairobi si svegli tanto vale farlo comoda.
«Che brutta visione di passato.» dice Helsinki guardandomi e scuotendo la testa.
Aggrotto le sopracciglia: «In che senso?»
«Anche Berlino sedeva su scrivania, nella Zecca.»
Per la seconda volta in troppo poco tempo mi ritrovo a sorridere dolcemente.
E ancora una volta devo costringermi a concentrarmi sull’obbiettivo anche se resterei volentieri qui a crogiolarmi su questo paragone con Andrés, così accenno a Nairobi: «Si riprenderà?»
«Perché ti interessa?» chiede di rimando Bogotà.
Alzo le mani in segno di resa: «Chiedevo e basta.»
«Ho visto come la guardavi poco fa e credo che Tokyo abbia avuto una brillante idea a non lasciarti sola con lei.»
Il mio sorriso da dolce diventa tagliente, vorrei alzarmi ma questa poltrona è veramente troppo comoda, ora capisco perché il Governatore veniva a lavoro tutti i giorni: «Non ho interesse ad uccidere Nairobi, devo solo farle una domanda.»
«Berlino è morto per salvare tutti noi, Berlino era pazzo ma anche eroe.»
Non mi aspettavo questa uscita, forse vuole solo alleviare la tensione che sta crescendo: «Grazie Helsinki.»
«Che domanda devi farle?» insiste Bogotà non capendo la saggia intenzione del suo compagno.
Inizio a scivolare con la sedia a destra e a sinistra, cullandomi alla ricerca di una risposta: «Cose da donne.» lo guardo negli occhi cercando di essere il più convincente possibile: «Ma ripeto che puoi stare tranquillo, non ho intenzione di uccidere Nairobi.»
«Perdonami se non mi fido.»
Ancora una volta alzo le mani, non me la sento di giudicare male Bogotà per quello che ha detto, dopo tutto non mi conosce nemmeno, è normale che non si fidi.
E così eccoci qui in silenzio ad osservare l’ostaggio-infermiera che si occupa di Nairobi, ho le mani giunte e per la prima volta in vita mia, fingendo di assumere una posizione pensante, prego.
Voglio che apra gli occhi adesso, voglio essere la prima persona che veda una volta tornata tra i vivi.
Ma ad aprirsi non sono gli occhi di Nairobi bensì la porta principale della stanza, come un gatto e con un’agilità che stride con la sua enorme stazza, Helsinki prende un fucile puntandolo addosso all’aggressore…
Rio ha il volto preoccupato e il petto che si alza e abbassa velocemente: «Palermo…È impazzito!»
Malavoglia mi alzo dalla comoda poltrona, indico Bogotà ancora seduto accanto Nairobi: «Resta con lei.» guardo prima Helsinki poi Rio: «Facci strada.»

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 12 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
La scena che mi ritrovo davanti è veramente pietosa: i componenti della banda che puntano le armi verso un Martìn vestito di tutto punto con tanto di valigetta, pronto per uscire dalla Banca.
Sembra un impiegato che ha appena finito la giornata e non vede l’ora di tornare a casa.
Sta battibeccando con Tokyo ma la mia attenzione è tutta rivolta al pavimento.
«Porca puttana!» sbotto attirando l’attenzione e scendendo di corsa le scale che separano il primo piano con l’ingresso: «Dove cazzo l’hai trovato del C4?»
Guardo le piccole cassette posizionate in terra, il loro raggio sarebbe abbastanza ampio da ammazzare non solo tutti i componenti della banda ma anche distruggere buona parte dell’edificio.
Della serie: non diamo nell’occhio.
Palermo mi sorride amaramente: «Non sei l’unica piena di sorprese, Esmeralda.» Alza la valigetta con la mano sinistra: «Me ne vado.» poi alza la mano destra che stringe il telecomando di attivazione delle bombe: «E se provate a fermarmi…Boom.» conclude con enfasi.
«Non lo farai.» interviene Tokyo provocandolo e alzando meglio il fucile.
Palermo sfiora il pulsante di attivazione delle bombe, ora il suo sguardo è su di lei: «Tu credi? Prova a fermarmi.»
Cazzo, Tokyo non lo conosce abbastanza. Si che lo farà.
Qui bisogna intervenire o salteremo tutti per aria.
«Va bene.» mi avvicino di qualche passo finendo proprio in mezzo ai due C4, le mani alzate in segno di resa: «Fallo, facci saltare tutti in aria.» ora sono io a sorridere con amarezza: «Uccidimi così potrò finalmente tornare da Andrés. E sarò nuovamente un passo avanti a te.»
 
Astuzia.
Esme conosceva benissimo la debolezza di Palermo.
…Perché era anche la sua.
 
«Che aspetti, fallo.»
Helsinki mi sorpassa e senza farsi problemi abbraccia i due C4 sfidando Palermo ad ucciderlo.
Cosa vedo?
Esitazione.
Negli occhi di Martìn succede qualcosa: diventano lucidi.
Implora Helsinki di lasciar perdere e alla fine cede. Non preme il bottone. I due si abbracciano con commozione.
Tokyo dà l’ordine: «Legate questo coglione.»
Gli altri eseguono come bravi soldati ammaestrati.
Non ho mai staccato gli occhi da quelli di Martìn e solo ora, dopo tanti anni di odio e disprezzo, penso che forse lui possa essere l’unico a capire davvero il dolore che ho dentro.

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 13 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Palermo è stato incatenato accanto la persona più sbagliata all’interno della Banca: Gandìa, il capo della sicurezza.
Vado verso di loro prima che possano iniziare a conoscersi e, peggio mi sento, fare comunella.
Ho letto il fascicolo col profilo del capo della sicurezza, è un assassino che non si farebbe scrupoli ad ucciderti solo perché gli è andata male la giornata. Ha una moglie, una figlia, ma questo non ha placato la sua sete di sangue.
Non oso immaginare il casino che combinerebbe se fosse libero.
«Qualcuno ha una sigaretta?» urlo verso gli ostaggi che tremanti mi osservano sottecchi dal basso verso l’alto. Arturo Romàn compreso. «Nessuno?» dico proprio rivolta a lui, poi mi giro verso Palermo: «Che delusione.»
Nemmeno degno lo sguardo d’odio di Gandìa, non è lui il mio obbiettivo.
Per ora. E sinceramente spero non lo sia mai.
«Perché ti sei comportato da coglione?» chiedo senza mezzi termini poggiandomi alla colonna, accanto a me, Palermo osserva gli ostaggi con stampato in volto una beata espressione da schiaffi.
«Perché sai meglio di me che questo piano senza di lui non ha senso.» risponde con ovvia allusione ad Andrés.
«Allora perché hai accettato di farne parte, Martìn?»
«E tu perché ti sei ricreduta?»
Cala il silenzio.
Se devo essere onesta nemmeno io conosco la risposta alla sua domanda, è successo una mattina, come un fulmine a ciel sereno qualcosa mi ha spinta a prendere il primo volo per la Spagna sotto falso nome e falsa immagine, prima che scoppiasse la rivolta esterna mi sono intrufolata dentro la sede centrale della Banca di Spagna e…Bam, nemmeno due ore dopo ero nel bel mezzo della rapina più grande della storia.
Me lo sentivo, un sesto senso che alla fine mi ha condotta nel posto giusto al momento giusto.
«Ti ricordi quella volta che un po’ di cenere cadde sui suoi appunti?» Martìn parla con me ma non mi guarda, la sua mente è altrove, viaggia nel tempo a qualche anno fa.
Sorrido incrociando le braccia: «Mamma mia, non lo avevo mai visto così infuriato!»
«Perché rischiavo di incendiare la biblioteca del monastero. E quella volta in cui si scheggiò una delle statue in marmo?»
Non trattengo una risata divertita: «Quei poveretti della ditta di restauro fecero un lavoro in tempi record!»
«Si, ma se ti ricordi sbagliarono la sfumatura di colore del marmo.»
«Si incavolò così tanto che sparì dopo essersi versato un bicchiere di whiskey, si calmava davvero solo così.»
«Solo se il whiskey era invecchiato di almeno trent’anni.»
«Si metteva a berlo sulla finestra più alta del monastero…E se lo disturbavi…»
«Ti faceva un cazziatone che te lo ricordavi per tutta la vita.»
Mai avrei pensato che nella mia vita avrei riso così di gusto con Martìn.
Non ci era mai successo, di solito litigavamo fin quasi a venire alle mani.
«Forse saremmo potuti andare d’accordo, Martìn.» gli dico senza però avere le forze per guardarlo.
Lui abbassa la testa scuotendola a destra e a sinistra: «No, Esme. Tu eri la prima moglie, io un amante così come lo erano le altre donne. È vero, si è sposato cinque volte ma quando aveva bisogno davvero di essere amato o di stare in pace correva da te. Perché tu lo capivi, ti considerava al suo livello, la sua ancora di salvezza, ti chiamava sempre così quando non c’eri. Tu sedevi sulla cima della sua piramide. Hai avuto l’onore di amare l’Andrés che nessun’altro ha mai conosciuto.» incrocia il mio sguardo, ha gli occhi lucidi e la voce tremante: «E io ti odierò e invidierò sempre per questo.»
Sento qualcosa di strano dentro al petto, il cuore è stretto in una morsa, una tagliola pronta a chiudersi di scatto, cerco di prendere un lungo respiro ma l’aria viene su a tratti e quando mi sposto dal muro per allontanarmi sento le gambe molli.
Solo dopo aver passato una mano sulla guancia e averla sentita bagnata, mi rendo conto di aver pianto.

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 14 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

Esme era l’unica tra noi che indossava i tacchi. Quel suono continuo era come lo scandire del tempo di un orologio letale e snervante ma nessuno di noi osava dirle niente. Con la sua sola presenza capimmo perché era stata scelta da Berlino come prima moglie: sembrava rassicurante ma in realtà incuteva lo stesso disagio.

 
Cammino avanti e indietro nella stanza del Governatore, c’è tensione tra i componenti della banda e credo di aver quasi capito il perché, deve esserci un malato quadrato amoroso tra Tokyo, Rio, Denver e Stoccolma. Per fortuna nessuno di loro è qui e per fortuna nessuno tra quelli che ho incontrato mi ha chiesto il motivo dei miei occhi arrossati e il volto paonazzo.
Sono corsa all’interno della stanza del Governatore a testa bassa ma non mi è sfuggito lo sguardo prima insospettito poi quasi paterno di Bogotà: «Pensi che ce la faremo ad uscire da qui sani e salvi?» chiede con tono meno accusatorio del solito.
Annuisco respirando a fondo, finalmente l’aria non viene più su a tratti: «Se facciamo tutti la nostra parte, si.»
«E la tua parte sarebbe…»
«Farvi uscire da qui possibilmente sulle vostre gambe.»
Bogotà si zittisce per qualche secondo: «Che è successo con Palermo?»
«Ha dato di matto, gli altri lo hanno legato nel salone centrale.» rispondo sedendomi sulla comoda poltrona del Governatore.
«Non intendevo adesso. Voi due vi conoscevate già, non è vero?»
«Qualche screzio passato, niente che comprometterà questo colpo.» taglio corto.
Va bene parlare e conoscere più a fondo i componenti della banda ma non ho la minima intenzione di spingermi oltre il limite.
Anche perché dopo questo colpo mi ritirerò ufficialmente dalle scene e per loro dovrò essere solo un vago ricordo.
Restiamo in silenzio e chiudo gli occhi cercando quanto possibile di rilassarmi un po’.
Ammetto che le parole di Martìn hanno avuto un pesante effetto su di me.
Inevitabilmente penso ad Andrés, alla felicità dei giorni che non torneranno mai più…Quante volte ho pensato di farla finita, buttarmi giù dalla finestrapiù alta del monastero per morire e raggiungerlo sul trono del cielo…E quante volte poi mi è mancato il coraggio. Forse non l’ho amato abbastanza? Forse avrei dovuto assecondare il desiderio di suo fratello Sergio e cercare una cura anziché giocare a fare la ladra. Provare a vivere insieme per sempre anziché per qualche anno senza freni e senza regole.
Avrei potuto risolvere tante cose e invece che ho fatto? Ho giocato alla principessa nel castello che aspetta il ritorno del cavaliere dalla battaglia.
Quest’ultima considerazione risveglia in me quelle maledette lacrime che ero riuscita a contenere tanto bene per così tanto tempo…
Poi sento l’urlo di Bogotà.
«Nairobi!»
A quanto pare non sono l’unica ad essersi risvegliata.

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 15 ***


FIRENZE, 3 ANNI PRIMA
 
Me lo sentivo nelle ossa.
Persino il vento sembrava cambiato, non più leggero e delicato ma una folata violenta e fredda.
Il sole aveva lasciato da giorni spazio a delle nubi oscure e i raggi caldi diventati pioggia gelata.
Anche oggi è una giornata nera, qualcuno bussa al portone principale del monastero e vado ad aprire dato che mi trovo poco distante dall’atrio principale. Inaspettatamente il mio cuore inizia a battere a mille, il mio sesto senso mi ha spesso salvato la vita.
Ma ora so che sta per distruggermela.
Dall’altro lato del portone in legno massiccio c’è Martìn bagnato fradicio dalla testa ai piedi, la bocca contorta in una smorfia di dolore e in mano una pistola calibro.9 puntata verso il basso.
«È morto.» piagnucola piano, con il rumore delle gocce di pioggia a fare da sfondo. «È morto, Esmeralda.»
Lo sapevo.
Sapevo che Andrés un giorno mi avrebbe abbandonata, ero convinta che sarei stata pronta il giorno della sua eventuale dipartita…Ma in realtà non lo sono per niente.
«È morto in quella cazzo di Zecca di Spagna.» adesso Martìn grida con rabbia: «E noi non c’eravamo! È morto da solo!»
Non riesco a parlare, mi manca l’aria. Le gambe cedono e in un attimo mi ritrovo seduta a terra con le mani sui capelli, gli occhi spalancati e le orecchie che si riempiono del dolore di Martìn.
Perché, perché non riesco ad avere una reazione? Perché sento le lacrime scendere dagli occhi ma il resto del corpo non si muove?
«Tu…» Martìn mi punta la pistola in fronte ma non ho paura.
Non sento niente.
«Tu hai avuto l’onore di amare l’Andrés che nessuno ha mai conosciuto…E nonostante questo l’hai lasciato morire da solo. Ancora di salvezza un cazzo.» tira indietro il cane dell’arma: «Brutta troia approfittatrice.»
Secondi che passano come un’eternità.
Martìn spara ma quel colpo non raggiungerà mai la mia testa.
Non sono mai stata religiosa ma forse vivere in un monastero ha acceso qualcosa in me, una sorta di fiammella della speranza: credo di essere ancora viva perché ho ancora qualcosa da compiere.
E forse, chi lo sa, è proprio lo spirito di Andrés a chiedermelo.
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

 
La prima persona che Nairobi vede una volta aperti gli occhi è proprio Bogotà che per la gioia ha totalmente distolto l’attenzione da me. L’ostaggio improvvisato infermiera procede subito agli accertamenti di salute della sopravvissuta.
I miei occhi sono fissi su di lei, le mani strette a pugno.
Nairobi si accorge della mia presenza solo quando mi alzo in piedi, è assurdo ma dal suo sguardo perplesso e sconcertato ho l’impressione che mi conosca.
…Forse anche questo è un volere dello spirito di Andrés.
 

La pallottola di Palermo era stata deviata da un pensiero: Esmeralda era l’ultima prova vivente dell’esistenza del Berlino che nessuno di noi aveva mai conosciuto.
Dell’uomo che aveva amato.
Ma col senno di poi, forse, sarebbe stato meglio che quel colpo fosse andato a segno.

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 16 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Bogotà si alza di scatto mettendo una mano di fronte al corpo dell’amica: «Non ti avvicinare a lei.»
«Per l’ennesima volta, non è mia intenzione ucciderla.» faccio una pausa ad effetto in cui osservo con attenzione prima Nairobi poi lui: «Fidati, se l’avessi voluta morta nessuno di voi lo avrebbe raccontato.» mi giro verso la diretta interessata, fa fatica a parlare, respira piano e ha gli occhi semiaperti, nonostante tutto riesco a leggere nel suo sguardo impaurito e allo stesso tempo dubbioso: «Ciao Nairobi, mi chiamo Esmeralda de Fonollosa.» alzo le mani al cielo muovendo l’anulare sinistro avanti e indietro, lasciando che la fede nuziale brilli alla luce: «Sono la prima moglie dell’uomo che hai conosciuto col nome di Berlino.»
Capisco che non è la prima cosa che uno vorrebbe sentirsi dire una volta uscito dal coma.
Nairobi spalanca gli occhi, i suoi profondi occhioni neri, stringe la mano di Bogotà che non si risparmia nel guardarmi malissimo, cerca di alzarsi dal letto di fortuna ma l’infermiera la blocca dicendo che ancora è troppo debole per fare qualsiasi tipo di movimento.
«Stai calma, voglio solo farti una domanda.»
In realtà ne avrei tante di domande ma ce ne è una in particolare che mi ha dilaniata per anni e che finalmente avrà (spero) risposta.
Non riporterà Andrés in vita, lo so, ma egoisticamente voglio sollevare il mio animo.
«Ti prego.» cerco di assumere un tono quasi amichevole: «Quali sono state le sue ultime parole?»
Anche se i componenti della banda non mi credono giuro che non ho mai dato colpa a Nairobi per quello che è successo ad Andrés. Non avrebbe senso. Andrés ha fatto la sua scelta. Non è colpa di nessuno se non sua.
E questa cosa mi uccide da quando ho saputo della sua morte, come se col suo sacrificio avesse voluto ammazzare anche me.
Lei ha gli occhi lucidi, prima di rispondere la vedo chiudere le palpebre con forza, non so cosa le stia passando per la testa, cosa stia rivivendo dentro la mente.
«Ho passato la vita facendo un po’ il figlio di puttana, ma oggi credo di voler morire con dignità.»
Ora sono i miei occhi ad essere lucidi.
Ora sono io a chiudere le palpebre con forza.
La stessa forza con cui corro verso di lei.
E prima ancora che Bogotà e l’infermiera possano fermarmi, mi butto sul suo collo.
In un abbraccio forte e deciso.
«Grazie.» le dico tirando su col naso: «Grazie per averle ricordate.»
Nairobi mi mette una mano sulla schiena e a giudicare da come si alza e abbassa il suo corpo, credo stia piangendo con me.

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 17 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Imbottita di morfina e circondata a turno dai componenti della banda, Nairobi si sta riprendendo molto velocemente. Non ha mai smesso di lanciarmi occhiate e sorrisi di intesa, persino Bogotà sembra finalmente fidarsi delle mie buone intenzioni, talmente tanto che acconsente a voler cambiar turno con Tokyo così da lasciar sole noi tre donne. Quattro, considerando l’infermiera.
«Posso farti una domanda?» chiede Nairobi girandosi verso di me: «Come vi siete conosciuti?»
Sorrido abbassando la testa, poi la rialzo in un lungo sospiro: «Durante un colpo.»
«Rapinavate insieme?» chiede una Tokyo particolarmente eccitata.
«Non proprio.»
 
FIRENZE, 8 ANNI PRIMA
 

«Ah, eccola qui.» sussurro in un soffio e spalancando gli occhi per lo stupore: «Di notte sei ancora più bella.»
La Croce di San Giovanni Battista, la reliquia del monastero, si presenta in tutta la sua bellezza al centro del bianco altare della chiesa. Dopo due giorni passati a fingere di essere una turista, memorizzato la mappa nei minimi dettagli e la sua posizione, finalmente l’ho trovata, la piccola croce che si dice abbia accompagnato il Santo per tutta la durata della sua vita.
I monaci la espongono in bella vista di giorno per attirare i turisti, non immaginavo che la lasciassero così libera anche di notte, probabilmente pensano che nessuno sano di mente verrebbe qui di notte per rubare una croce d’oro grande quanto un mignolo.
Ma, ehi, io non sono affatto sana di mente.
Metto la croce al collo, nessun allarme ha suonato e nessuna guardia ha fatto irruzione…Insomma, un colpo liscio come l’olio. Sono sicura che potrei persino azzardare ad uscire dalla porta principale senza il rischio di incontrare nessuno ma preferisco non giocare troppo con la fortuna, penso proprio che mi atterrò al piano iniziale e scapperò dal cortile.
Esco dalla chiesetta muovendomi silenziosa e sinuosa come un gatto, la luna piena illumina a giorno la zona ma ho studiato tutto così bene che so dove muovermi per ottenere maggiore copertura, l’architettura del monastero concede parecchie zone d’ombra specialmente tra le colonne e i muretti di passaggio.
Arrivo al cortile già visitato di giorno, ci sono erbe medicinali, piante e fiori di ogni sorta ma soprattutto tantissimi alberi da frutto e devo fare uno sforzo immane per non saccheggiare l’albero di ciliegie.
Oh beh, pazienza, festeggerò la riuscita del colpo con cibo e vino decisamente più pregiati.
Bene, è ora di levare le tende.
Poggio una mano sulla fredda pietra che funge da muro divisorio con l’esterno, cerco il primo appiglio quando una voce si alza solenne alle mie spalle.
«Riconsegna la croce.»
Merda.
Mi giro lentamente tenendo le mani in alto…Ma rilassandomi non appena vedo uno dei monaci con tutto il corpo chiuso in un saio marrone.
E io che temevo fosse una guardia!
Mi avvicino con fare seducente, è solo una piccola parentesi.
E allora facciamo sì che sia una parentesi divertente.

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 18 ***


FIRENZE, 8 ANNI PRIMA
 
Mi avvicino al monaco, ha gli occhi neri profondi, capelli pettinati alla perfezione dello stesso colore, un mento privo di barba…Un bell’uomo, che spreco. Perché una bellezza così dovrebbe dedicare la propria vita alla castità?
«Mi perdoni padre, perché ho peccato.» sono accanto alle sue labbra, devo alzarmi sulle punte per raggiungere l’orecchio: «Ma sa come si dice: ama il tuo peccato e sarai innocente.» nel tornare nella mia posizione faccio sfiorare le nostre labbra abbozzando un sorriso.
«Consegnami la croce e non chiamerò la polizia.» risponde con lo stesso tono fermo e sicuro di poco fa.
Notevole, ha una bella forza di volontà.
«Per essere uno che ha fatto voto di silenzio, chiacchieri parecchio.» gli facci notare muovendo l’indice a destra e a sinistra come se stessi sgridando un bambino: «Non va bene.»
Un secondo di calma prima di scattare verso la parete che mi condurrà all’esterno, ma non faccio nemmeno un passo perché la mano del monaco si è stretta con forza attorno al mio braccio.
Una forza non proprio tipica di un devoto alla pace e alla compassione.
«Terzo e ultimo avvertimento.» questa volta è lui a sgridarmi come fossi una bambina: «Ridammi la croce.»
Il bastardo mi sta facendo male ma non gli darò mai modo di capirlo, cerco di sorridere maliziosa nascondendo il dolore: «Le minacce non vengono viste male da Dio?»
«Io non rispondo alla legge di Dio.» da sotto di noi sento un click che mi fa gelare il sangue: il monaco ha appena caricato una pistola.
Merda.
Basta giocare, qui devo reagire.
Con la mano libera allontano la pistola dal corpo, preso alla sprovvista dalla mia agilità, il monaco scioglie la presa sul mio braccio. Devo disarmarlo e ci riesco sfruttando ancora quel poco di elemento a sorpresa che ho a disposizione: calcio via la pistola e con una piroetta torno a colpire l’uomo sullo stomaco.
Ma è maledettamente bravo a parare il colpo usando entrambe le mani.
A quanto pare non conosce il detto che le donne non si devono toccare nemmeno con un fiore.
Il bastardo cerca di colpirmi con un pugno ma sono abbastanza abile da schivarlo, come lui è abile a schivare il mio.
E così eccoci sotto la luce della luna piena che come un faro illumina il palcoscenico, io e il monaco due attori che danziamo con mosse dalla tecnica perfetta, colpi che vanno a segno e vengono parati con precisione.
Tutti tranne uno che mi centra in pieno allo stomaco e mi fa rotolare in terra per qualche metro. Cado su qualcosa di metallico, impreco sonoramente fregandomene di essere in un luogo sacro, quando alzo gli occhi vedo di esser capitata proprio sopra la pistola.
Miracolo o no, la fortuna ha girato dalla mia parte.
Non ci penso due volte: la prendo e premo il grilletto verso il monaco.

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Capitolo 19
*** CAPITOLO 19 ***


FIRENZE, 8 ANNI PRIMA
 
Click.
Click.
«Ma che cazzo?!» sbotto guardando l’arma e subito dopo il monaco: «È scarica!»
Sorride divertito, sotto la luce della luna sembra un leone che ha finalmente raggiunto la preda, pronto per sbranarla: «Prima ti presenti al monastero come turista per due giorni di fila e poi cerchi di uccidermi? Sei prevedibile.»
Al diavolo! Per la frustrazione gli tiro addosso l’arma ma lui la schiva semplicemente spostandosi di lato.
«Anche questo era prevedibile.»
Riparto alla carica cercando di non pensare al dolore, adesso sono veramente incazzata.
Come osa prendersi gioco di me in questo modo? E perché cavolo continua a sorridere come un coglione? Perché non contraccambia i miei attacchi ma si limita a schivarli o a pararli?
Alla fine ottengo una reazione, il monaco mi afferra il polso destro e senza troppi complimenti mi rigira così che la mia schiena finisca sul suo petto, la mia testa finisce sulla sua spalla e per un istante il suo pungente profumo aggredisce le narici fino a stordirmi.
«Che razza di monaco sei, tu?» chiedo digrignando i denti, cercando di divincolarmi ma la presa adesso è veramente troppo stretta e io sono fisicamente stanca.
«Non lo sono.» dice avvicinando le labbra al mio orecchio, la mano sinistra scivola sul mio petto fino ad arrivare alla croce di San Giovanni Battista, il monaco la alza così che entrambi possiamo guardarla: «Bellissima, non trovi?» chiede sussurrando.
…Ha una bella voce.
«Non avrei cercato di rubarla, altrimenti.»
«Ti capisco, ma ci sono oggetti che devono rimanere al loro posto.»
Alzo gli occhi al cielo: «Risparmiami la predica.»
«La bellezza della storia e della cultura deve rimanere sempre alla portata di tutti, non è giusto che solo pochi possano goderne.»
«Oh ma per favore!» sbotto provando a muovermi ma sono ancora immobilizzata dalla sua presa e il suo maledetto profumo mi sta distraendo come non vorrei: «L’arte è destinata a morire.» ribatto: «Tanto vale che se la goda chi la merita.»
«L’arte non morirà mai fin quando ci sarà anche solo una persona a continuare a fare ciò che lo appassiona.» mette giù la croce lentamente fin quando la sua mano sinistra non si ferma sul mio ventre. Mi sta…Abbracciando?
«Tu avresti chiesto a Michelangelo di smettere di scolpire il suo David?»
No.
A rispondere sono i miei occhi che si abbassano lentamente e il corpo che smette di lottare.
Sentendo che mi sto arrendendo, anche il monaco allenta la presa fin quando non la lascia del tutto.
E sotto al suo sguardo ora stranamente dolce, faccio una cosa che in anni di attività non ho mai fatto: cedo il mio agognato bottino.
Tolgo la croce dal collo e gliela restituisco.
In silenzio mi accompagna alla porta di ingresso facendomi uscire, prima che possa oltrepassare la soglia lo sento ridere piano: «Ti aspetto domani mattina per il giro turistico.»
Come risposta alzo il dito medio mentre mi incammino verso il sentiero.
Eppure, nonostante sia andata peggio di come sperato, non riesco a smettere di sorridere.

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Capitolo 20
*** CAPITOLO 20 ***


FIRENZE, 8 ANNI PRIMA
 
Sono tornata davvero, non so perché ma l’ho fatto.
Mento a me stessa convincendomi di essere nuovamente qui per perfezionare la rapina andata male, è stato solo uno stupido errore di valutazione che non commetterò di nuovo.
Abbozzo un sorriso quando la guida accompagna me e altri turisti all’interno della chiesetta dove la croce di San Giovanni Battista è in bella vista, la guida ci intima di non toccarla così tutti si accontentano di scattare foto coi cellulari, chissà cosa direbbero se sapessero che nemmeno dodici ore fa questa piccola reliquia era sul mio collo.
«Bellissima, non trovi?»
Mi giro di scatto verso la direzione da cui proviene la voce.
Il “monaco” che questa notte ha mandato all’aria i miei piani indossa un completo elegante senza giacca che gli sta divinamente, e soprattutto delinea un fisico niente male.
Ci fissiamo intensamente senza dire una parola, i nostri sguardi dicono tutto ciò che ci sarebbe da esprimere.
È lui a parlare per primo non appena il gruppo di turisti di cui facevo parte scompare dietro ad una porta.
«E così sei tornata.» mi provoca.
Abbozzo un sorriso amaro: «Fammi indovinare, anche questo era prevedibile.»
«Nella maniera più assoluta, Esmeralda Cortega.»
Spalanco gli occhi alla massima estensione fino sentire dolore, non mi calmo nemmeno quando vedo la sua mano destra avvicinarsi al mio ventre, anzi, mi agito ancora di più perché mi rendo conto di esser disarmata.
Come cazzo fa a sapere il mio vero nome?
«Andrés de Fonollosa.» si presenta.
Deglutisco pesantemente, non gli stringo la mano, tutto quello che riesco a fare è fissarlo negli occhi in un misto di eccitato e preoccupato. È il secondo sentimento a prevalere anche se una parte di me non può fare a meno di sentirsi attratta da questo…Andrés.
Tra l’altro: chi mi assicura che questo sia il suo vero nome?
«Sta tranquilla.» dice sorridendo e tornando a guardare la croce: «Se avessi voluto informare la polizia della tua intrusione di questa notte lo avrei già fatto.» non so come rispondere così lo lascio continuare: «Seguimi.»
Ammaliata come se lui fosse una calamita e io il suo polo gemello, seguo Andrés senza smettere di tenergli gli occhi addosso. È vero, non è stato ostile e non ha chiamato la polizia, mi intriga ma non voglio fidarmi del tutto e preferisco sempre tenerlo sott’occhio.
Raggiungiamo l’orto del monastero, quando vedono Andrés arrivare i monaci si allontanano in silenzio e a capo chino.
«Si può sapere chi diavolo sei veramente?» gli chiedo una volta raggiunta l’ombra proiettata dall’albero di ciliegie.
«Te l’ho detto, mi chiamo Andrés de Fonollosa e sono il proprietario di questo monastero.» stacca una ciliegia dall’albero addentandola con delicatezza: «E ho una proposta da farti.»

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Capitolo 21
*** CAPITOLO 21 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
«Quale fu la sua proposta?» chiede Tokyo spalancando gli occhi.
«Lavorare insieme, mi ha addestrata per far parte del colpo del secolo.» apro le mani e allungo le braccia: «Questo.»
Nairobi si alza appena sui gomiti ma dopo un paio di smorfie torna a sdraiarsi: «Cazzo che romantico. Alla fine la croce l’hai rubata?»
«La porto sempre con me.»
Silenzio. Un silenzio finalmente tranquillo, per un attimo non sembra nemmeno di essere all’interno della Banca di Spagna durante una rapina, piuttosto diamo l’illusione di essere tre amiche che si sono ritrovate dopo tanto tempo.
Tokyo butta la testa di lato mentre fissa con un po’ troppa attenzione il mio anulare sinistro: «Non dirmi che…»
Giocherello con la fede nuziale, Nairobi scoppia a ridere dopo aver imprecato: «Questo mi ricorda che anche noi abbiamo dell’oro da fondere.» finalmente riesce ad alzarsi e l’infermiera si accerta delle sue condizioni.
«Tranquilla.» Tokyo le poggia delicatamente una mano sul braccio facendo attenzione alla flebo: «Ci stanno pensando Stoccolma e Denver.»
«Gli altri?»
«A badare agli ostaggi. Palermo ha dato di matto, non sai che casino.»
Lascio che parlino tra loro, in cambio chiedo in prestito l’auricolare per parlare col Professore, risponde non appena avvio la comunicazione.
«Professore, Nairobi è tornata tra i vivi.»
Questa notizia lo solleva particolarmente e lo capisco grazie ad un bel sospiro: «Tu, come ti senti?»
«Meglio.»
«Aggiornami.»
«Stiamo fondendo l’oro ma siamo un po’ indietro, gli ostaggi stanno tutti bene e abbiamo incatenato Palermo.»
Sergio esita, posso immaginarlo spostare leggermente la testa di lato: «Come scusa?» chiede fingendo di non capire.
«Ha provato a scappare dalla Banca e per rallentarci ha pensato di piazzare delle cariche C4.»
«Esme per l’amor del cielo, vallo a liberare.»
«Non ci penso proprio!» sbotto forse a voce un po’ troppo alta perché ho attirato l’attenzione delle altre presenti.
«Dovete collaborare tutti insieme per poter uscire da lì, lo sai meglio di me.» cerca di farmi ragionare con la sua dannata calma e quella voce terribilmente sensuale.
Maledetto cognato!
Scuoto la testa come fosse qui davanti: «Tu speri davvero di ottenere la collaborazione di uno che ci avrebbe fatti esplodere?»
«Non lo avrebbe mai fatto e lo sai benissimo.»
Non ce la faccio più, che mi senta tutta Madrid: «Perché continui a difenderlo!?»
«E tu perché continui a fargli la guerra adesso che non avete più un motivo?»
Le parole di Sergio arrivano dritte al cuore. Se mi avesse sparato probabilmente avrebbe fatto meno male.
Chiudo la comunicazione buttando l’auricolare sopra la scrivania, a passo sicuro apro la porta dello studio del Governatore.
«Che succede?»
Non rispondo a Tokyo, non ho più tempo da perdere in chiacchiere e ora più che mai voglio uscire da qui.

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Capitolo 22
*** CAPITOLO 22 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
 
Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti. E noi avevamo un disperato bisogno di andare avanti.
Purtroppo accadde qualcos’altro che nessuno di noi avrebbe potuto prevedere.
Nemmeno l’astuzia di Esmeralda.
 
Raramente ho avuto la sensazione del sangue che si congela nelle vene. In un malinconico flashback ricordo la notte in cui Andrés mi aveva puntato una pistola scarica al petto, il mio corpo immobilizzato, gli occhi spalancati e la salivazione pari a zero.
In testa un solo pensiero: sto per morire.
Provo lo stesso quando dall’alto delle scale dell’atrio principale della Banca vedo Martìn ancora incatenato e al suo fianco…Il vuoto.
«No.» sussurro talmente piano che credo di aver pensato.
Mossa da una scossa disperata faccio le scale di corsa finendo sopra Martìn in tempo record, le mani avvolte attorno la camicia bianca, gli occhi fuori dalle orbite fissi sul suo sorriso divertito.
«Dove cazzo è Gandìa?» ringhio.
Gli ostaggi alle mie spalle rumoreggiano, mi giro per notare che non c’è nessuno della banda a fare da guardia.
«Che c’è Esme, qualcosa non va?»
Torno su Martìn stringendo ancora più forte e avvicinandolo al viso: «Rispondi.»
«Te l’ho detto: senza di lui questo piano non ha senso.»
L’istinto mi dice di stringere il pugno destro per fargli fare diretta conoscenza con lo zigomo di Martìn ma resto ferma, lucida per quanto possibile.
Respiro profondamente una, due, tre volte e chiudo gli occhi. Devo calmarmi altrimenti sarà la fine per tutti.
«Problemi?»
Il ragazzo che mi ha accompagnata in bagno poche ore fa torna con un’espressione da ebete spaesato.
«Dove cazzo eri finito?» sbotto senza smettere di tenere le mani addosso a Palermo.
«A salutare Nairobi.» si difende aprendo le braccia.
Persino Martìn si lascia andare in un sorriso amaro, siamo d’accordo sul fatto questo moccioso sia un’incapace. E sono sicura che entrambi ci stiamo chiedendo cosa avrebbe fatto Andrés al nostro posto in un’occasione simile. Non mi piace sentirmi troppo affine con Palermo, non va affatto bene.
Prendo un lungo respiro dando voce al mio timore, cercando di rimanere fredda: «Gandìa è scappato.»
Sulla cima delle scale appaiono Denver e Rio, la loro espressione di terrore vale più di mille parole.
…E noto un dettaglio su Rio che inizialmente mi era sfuggito.
Ma su cui decido di sorvolare.
Per ora.

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Capitolo 23
*** CAPITOLO 23 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Denver da una spinta al ragazzo che avrebbe dovuto controllare, lo insulta poi si rivolge a me: «Come cazzo ha fatto a liberarsi, lo avevamo ammanettato!»
«Basta slogarsi un polso per liberarsi da delle manette.» rispondo in automatico nemmeno stessi tenendo una lezione di evasione.
«Cazzo, quello lì libero è un problema!»
«Lo so.»
Inizio a camminare avanti e indietro in una minuscola porzione di pavimento, occhi chiusi e unghia del pollice ai denti. Non so perché ma questo mini rituale mi ha sempre aiutata a ragionare, mentre cammino annullo completamente le domande insistenti di Denver e le richieste di spiegazioni da parte di Rio, non vedo lo sguardo divertito di Martìn…C’è solo una cosa nella mia testa: lo studio del monastero a Firenze.
E se mi concentro bene posso ancora sentire il profumo di mio marito.
FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
«Una panic room?» Martìn se la ride mentre beve un sorso di vino bianco: «Non ha senso.»
«Ce l’ha eccome quando sei il Governatore della Banca di Spagna.» ribatto indicando il bagno sulla planimetria, la stanza che ci ha tolto troppe ore di sonno: «Che altro potrebbe essere questo metro e mezzo di differenza col muro esterno?»
«Uno sbaglio del geometra?»
«Certo, una svista proprio nella stanza più importante di tutto il palazzo.» ribatto ironica.
«Esme ha ragione.» La voce di Andrés fa alzare le sopracciglia a me e storcere la bocca a Martìn: «Non è una svista e nemmeno uno sbaglio sulla planimetria.» osserva l’amico con un dolce sorriso, ammetto che una parte di me vorrebbe vomitare: «Pensaci tu ad avvisare Sergio, ti dispiace?»
Martìn sorride compiaciuto: «Tranquillo, ci penso io.»
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
«Non lo hai fatto.» dico girandomi verso Martìn a rallentatore, Denver e Rio che non capiscono a cosa mi riferisco: «Non glielo hai mai detto.»
«Detto, detto cosa?»
Ancora una volta la voce di Denver arriva lontana.
Ancora una volta resisto alla tentazione di tirare un pugno in faccia a Martìn.
Per quale motivo non ha avvisato Sergio di un dettaglio così fondamentale? Cosa cazzo ha nel cervello questo qui? Forse non è troppo tardi, posso avvisarlo io. Chiedo l’auricolare a Denver ma prima di far partire la comunicazione un altro agghiacciante pensiero mi attraversa la testa.
«Nairobi!»

 

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Capitolo 24
*** CAPITOLO 24 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Corriamo verso la stanza del Governatore, non ho ancora dato spiegazioni a nessuno ma sento il cuore più leggero quando vedo Nairobi ancora sana e salva con accanto il fidato Bogotà.
«Dobbiamo spostarti da qui.» ordino senza mezzi termini.
«Perché?»
«Gandìa è libero.»
Bogotà si alza di scatto imbracciando il fucile d’istinto: «Come diavolo ha fatto a liberarsi, lo abbiamo ammanettato.»
«Si è slogato un polso ma ora vi prego andiamo via, questa ora è la stanza più pericolosa di tutta la Banca.»
«Perché?!» Capisco la frustrazione e l’urlo di Denver.
Porto le mani agli occhi stringendo forte per un attimo e per quanto detesti ammetterlo dico a me stessa che Martìn aveva ragione: questo piano senza Andrés non ha senso.
Non funzionerà mai.
Con Gandìa libero uno di noi dovrà diventare un assassino per amore o per forza, non avere pietà per lui perché noi non ne riceveremo. Dovremo andare contro l’opinione pubblica. Da eroi diventeremo antagonisti…Tutto l’opposto di quello che questo piano avrebbe dovuto essere.
Indico la porta del bagno con gli occhi ancora serrati: «Lì dentro c’è una stanza nascosta chiamata panic room, se non è uno stupido probabilmente Gandìa sta trovando un modo per raggiungerla attraverso i condotti dell’aria.»
Apro gli occhi per notare il palese terrore sul viso di tutti, Bogotà ha già preso Nairobi in braccio: «Allora che aspettiamo, andiamocene da qui!»
«Esme, prendi la mia arma.» mi dice Nairobi accennando ad un mitra posto in un angolo della stanza.
«Non sono una da armi da fuoco.» ammetto avvicinandomi al mitra prendendolo con sicurezza: «Ma accetto l’offerta e te lo giuro: quel bastardo non ti toccherà nemmeno con un dito. Ora forza, andiamo via.»
Aspetto che escano tutti fuori, per mia fortuna Rio è l’ultimo che sta per varcare la soglia della porta. È il momento di agire, con Gandìa libero non ho bisogno di altre complicazioni.
Questa va risolta subito.
«Rio, fermo dove sei.»
Si blocca guardandomi con la solita faccia da cane bastonato, se spera di farmi pena si sbaglia di grosso.
Alzo il mitra, lui alza le mani in segno di resa.
«Perché non hai i segni delle torture?»
Forse non è solo Palermo il bastardo del gruppo.

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Capitolo 25
*** CAPITOLO 25 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

***
 

Il seme del dubbio genera frutti amari.
In tutta la vita, la fiducia di Esmeralda era stata posta e ricambiata da una sola persona.
Una persona morta.
Non si fidava più di nessuno, probabilmente nemmeno della sua ombra.
E per quanto non avesse intenzione di ucciderci, ci sentivamo perennemente al centro del suo mirino.
*** 

Rio è spaventato.
Ancora non ho deciso cosa fare di questo bel faccino, dipende tutto da come risponderà.
Una persona che è stata torturata dovrebbe avere almeno una minima cicatrice, lui sembra perfettamente pulito, ben nutrito e un po’ troppo tranquillo vista la situazione in cui ci troviamo.
Ancora con le mani alzate, Rio deglutisce e gli occhi iniziano a brillare: «Ti prego non hai motivo di dubitare di me.»
Ecco, questo è un tipo di risposta che non mi piace.
«Non erano torture fisiche.» aggiunge in un soffio. «Ma psicologiche. Non hai idea di quello che ho subìto.»
«Illuminami allora.»
Sta per rispondere ma non lo fa, le mani iniziano a tremare.
Nessuno potrebbe essere così bravo a fingere, forse è vero che non è stato torturato fisicamente.
Il tempo stringe, Gandìa è libero e potrebbe raggiungere la stanza del Governatore da un momento all’altro e ammazzare entrambi in un batter d’occhio.
Abbasso il mitra accennando alla porta d’ingresso muovendo il mento: «Dai, usciamo.»
Non so ancora se credergli o meno ma ci tengo troppo alla mia vita per rischiare di morire nella stanza del Governatore, l’importante è che ora Rio sappia che lo tengo d’occhio.
Alla prima cazzata gliela farò pagare.
Raggiungiamo il resto del gruppo e decidiamo come dividerci, mi propongo di badare agli ostaggi insieme a Rio (così da tenerlo ancora sott’occhio), Denver e Stoccolma. Tokio seguirà Nairobi e Bogotà alla fonderia.
Ah giusto, c’è anche Palermo.
E stando al Professore dovrei liberarlo.
Una volta rimasti soli ci guardiamo negli occhi. Ora sono io a puntargli un mitra addosso. È incredibile come le situazioni possano ribaltarsi in meno di due ore.
«Sai perché non gliel’ho detto, Esme?» si riferisce ovviamente alla panic room e al Professore: «Perché mentre Andrés moriva per salvare i suoi amichetti, lui era seduto su una poltrona a non fare un cazzo. Sergio è sempre stato un codardo approfittatore, lo è anche adesso, ha solo cambiato pedine. E sai cosa ti dico? Non sarò io a morire per questo branco di idioti incapaci.»
Una parte di me non può fare a meno di dargli ragione.
Ammetto che forse, se avessi saputo che Andrés aveva intenzione di uccidersi, l’ avrei fatta anche io una carognata simile.
Mi avvicino alla sua schiena per analizzare la catena che lo tiene legato: «Codardo o meno, Sergio vuole che ti liberi ma non ho la minima idea di come…»
Mentre parlo tengo gli occhi fissi sulle mani di Martìn, giocherella con le dita all’interno della giacca fin quando non ne tira fuori una chiave.
«Ammetti che siamo d’accordo.» dice sorridendomi complice per la prima volta da quando ci troviamo dentro la Banca: «Sono degli idioti incapaci.»

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Capitolo 26
*** CAPITOLO 26 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

Quando arrivo in biblioteca assieme a Palermo noto un trambusto generale, il terrore si dipinge sul volto della maggior parte degli ostaggi, molti di loro sono confusi e non me la sento di biasimarli, sicuramente si chiederanno il motivo per cui ora Martìn è libero.
«Qui siamo troppi.» dice Denver: «Non c’è bisogno di un esercito per controllare gli ostaggi. Vado a cercare Gandìa.» guarda preoccupato Stoccolma: «Resta qui.»
«Stai lontano da finestre, porte e condotti dell’aria.» gli dico vedendolo allontanarsi: «E ricorda che hai un figlio da cui tornare.»
Non lo avessi mai detto.
Dal fondo della biblioteca sento una risata soffocata, Arturo Romàn, il bastardo sciacallo di analfabeti funzionali, ci osserva con strafottenza. «Intendi MIO figlio.» guarda Stoccolma in un misto di odio e pietà: «Ancora non glielo hai detto, Monica?»
Palermo fischia compiaciuto, gli altri ostaggi si guardano sottecchi.
«Non gli rispondere.» suggerisco a Stoccolma: «Non fare il suo gioco.»
«E tu chi sei per dirle cosa deve fare?»
Devo ammetterlo, questa uscita di Arturo mi ha particolarmente stupita, non lo credevo così coraggioso. Perché alla fine ci vuole coraggio a parlare così ad una persona armata, anche se sai che questa non ti sparerà.
Stoccolma accenna a lui con un gesto della testa: «Fa silenzio.» prova ad intimidirlo ma un tremore nella voce la tradisce, facendogli capire che ancora ne è spaventata.
Arturo ora sa di avere un vantaggio e da come sorride amaramente credo abbia tutta l’intenzione di utilizzarlo: «Hai lasciato un uomo onesto come me per andare con uno di questi terroristi.» piagnucola con una falsità degna di attore di serie B.
«Tu mi hai detto di abortire!» finalmente sento una bella rabbia uscire dalle labbra di Stoccolma, chissà quanto ha da sfogare, poveretta.
Come me e Palermo, gli ostaggi seguono la conversazione muovendo la testa a destra e a sinistra come in un appassionante torneo di tennis.
Arturo non smette di sorridere: «Sai bene che non lo avresti fatto e che lo avremmo cresciuto insieme in una famiglia vera e onesta! Ti sei lasciata abbindolare come una puttana e ora mio figlio ha un terrorista come patrigno.» scuote la testa mettendo una mano davanti la bocca, cercando l’approvazione del pubblico come in uno dei suoi inutili show: «Avrebbero dovuto fare tutti la fine di quel Berlino e marcire all’inferno, non saremmo qui se non fossero tutti...»
Ci sono poche cose certe nella vita: la nascita, la morte, il Dio denaro che non smetterà mai di dominare.
E Arturo Romàn che non finirà mai la sua frase.
*** 

La reputazione è ciò che gli altri sanno di noi. L’onore è ciò che noi sappiamo di noi stessi.
Esmeralda, che fino a quel momento era sempre stata fredda e calcolatrice imparò a conoscere un nuovo lato di sé: avrebbe difeso l’onore del marito a qualunque costo.
Anche diventare un’assassina sotto lo sguardo terrorizzato di persone innocenti.

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Capitolo 27
*** CAPITOLO 27 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Con uno scatto felino e scavalcando gli ostaggi, infilo la punta del mitra dentro la bocca di Arturo schiantandolo al suolo, la spalla destra bloccata dal mio piede.
Stoccolma dice qualcosa, gli altri ostaggi urlano istericamente spostandosi di fretta, lasciando me e Arturo al centro della biblioteca.
«Piacere Arturito, sono Esmeralda de Fonollosa.» sibilo sorridendo.
Vedo il terrore nei suoi occhi, piccole gocce di sudore imperlano la fronte e tutta la spavalderia di poco fa andata a farsi benedire in mezzo secondo.
Tutti eroi fin quando non si rompe le palle alla persona sbagliata.
«Forse effettivamente questo nome non ti dice niente ma ho sentito con piacere che hai conosciuto mio marito.» parlo con calma, una calma che stona terribilmente con la situazione in cui ci troviamo: «Come dici?» chiedo retoricamente, è ovvio che Arturito non può parlare con la canna del mitra in bocca: «Oh si, era sposato, certo non era molto fedele ma mi faceva sentire viva.» assottiglio lo sguardo: «E tu, ti sei mai sentito davvero vivo, Arturito?»
Mugugna, si agita, ha alzato la mano libera in segno di resa.
Una voce dentro la mia testa urla di ucciderlo. Nessuno deve permettersi di infangare la memoria di Andrés, nessuno.
Sfioro il grilletto, godo ancora del suo sguardo terrorizzato e sono pronta a colpire.
«Ferma ti prego!» Stoccolma mi ha raggiunta, non sa se cercare di allontanarmi o meno dal padre biologico del figlio, probabilmente sospetta che al primo tocco possa sparargli, come una mina antiuomo che appena la sfori, esplode.
E se questo dovesse essere il suo pensiero, non sarebbe così sbagliato.
Voglio ucciderlo. Qui, ora, davanti a tutti.
«Noi non lavoriamo così.» cerca di farmi ragionare Stoccolma.
Ma non stacco gli occhi e tantomeno l’indice dal grilletto mentre rispondo decisa: «Io non faccio parte di questa banda, Monica. Io lavoro così.»
«Non diventare un’assassina, non mandare all’aria il piano per lui, non ne vale la pena.»
Faccio un lungo respiro lasciandomi convincere da quest’ultima affermazione.
Nemmeno Andrès lo avrebbe voluto se fosse stato qui con noi.
Credo o forse mi avrebbe aiutata ad ucciderlo.
Però se lo avesse voluto morto a quest’ora Arturito non sarebbe qui.
Allontano piano l’arma dalla sua bocca ma non mi risparmio nel buttargli il calcio del mitra sul naso, le sue urla di dolore e il sangue che esce all’improvviso mi fanno capire che probabilmente gliel’ho rotto.
Do una spallata a Monica e vado verso Martìn poggiato sulla porta di ingresso della biblioteca: «Avresti dovuto ucciderlo.»
«Lo so. Ultimamente siamo d’accordo su troppe cose, tu ed io.»
«Mi sembra sia già successo una volta in passato, ti ricordi?»
Mi allontano per sbollire il nervosismo.
Mi ricordo benissimo.

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Capitolo 28
*** CAPITOLO 28 ***


FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
 
«Non possiamo entrare e fare una strage, dobbiamo avere l’opinione pubblica dalla nostra parte.» Sergio è agitato, alza gli occhiali con un gesto quasi automatico, gli trema appena la voce ma cerca di rimanere tranquillo.
Chi non riesce a stare tranquilla sono io: «Dio possa perdonarmi per quello che sto per dire.» sospiro, chiudo gli occhi raccogliendoli tra le dita, poi lo indico: «Martìn ha ragione.» non bado alle occhiate di stupore del diretto interessato e di Andrés, credo che per loro sia un evento clamoroso come vedere scendere la neve d’estate: «Se mai dovessero spararmi o farmi del male, mi difenderò. ‘Fanculo l’opinione pubblica.»
Sergio punta gli occhi su di me cancellando un flebile sorriso, evidentemente il mio dare ragione a Martin ha stupito anche lui e la sua immobilità: «Esme nessuno ti sparerà, anche la polizia e il Governo vorranno l’appoggio della gente.»
«Oh ti prego Sergio, smettila di credere nelle favole. Ripeto: Martìn ha ragione: in casi estremi ci difenderemo. Che ne pensi Andrés?»
Mi rendo conto solo ora che mio marito si è messo in disparte ad osservare il vuoto al di là di una finestra, in mano un bicchiere mezzo pieno di whiskey ambrato, beve piano e a tratti, distratto da chissà cosa gli stia passando per la mente.
Senza dire una parola Andrés attraversa lo studio e se ne va, noi tre rimasti ci guardiamo un po’ perplessi e alla fine sono io raggiungerlo a metà corridoio, dopo tutto son pur sempre sua moglie.
Ma prima ancora sono sua amica.
«Ehi, che ti prende?» chiedo sussurrando e prendendolo delicatamente per il braccio, facendo attenzione a non far cadere il bicchiere ancora fisso tra le dita.
Si gira prendendo un lungo respiro, mi guarda dritto negli occhi con altezzosità, la stessa irritante di cui mi sono innamorata il primo giorno in cui l’ho affrontato.
«Tu non parteciperai al colpo.» secco, diretto e con un tono che non ammette repliche.
«Cosa?» sbotto.
«Non voglio rischiare di vederti morire lì dentro. Mi aspetterai qui.»
Anche se in parte mi sento felice del fatto che abbia paura per me, significa che forse qualcosa la prova davvero nonostante i suoi frivoli tradimenti.
Andrés riprende a camminare ma lo raggiungo immediatamente finendogli davanti: «Perché secondo te io son pronta ad affrontare questo rischio?» gli prendo la mano libera facendo intrecciare le nostre dita: «Sai bene che non resterò qui ad aspettarti come una brava mogliettina e soprattutto sai benissimo che so difendermi.»
La mia dolcezza non sembra scalfirlo minimamente: «Ti prego Esme, non comportarti da bambina. Comprendi la situazione.»
«Tu non comportarti da bambino! Questo piano funzionerà solo se saremo tutti insieme. E sono pronta anche a morire tutti insieme.»
Andrés chiude gli occhi, sospira ma non dice niente. Tutto quello che fa è abbracciarmi con dolcezza, preme la mia testa sul suo petto.
Il battito del suo cuore solitamente è una musica rilassante ma ora…Ora sembra sul punto di esplodere e questo non fa che agitare anche me.

***
 
Esme aveva studiato così bene le planimetrie della Banca che avrebbe potuto farci strada verso la libertà ad occhi chiusi e mani dietro la schiena.
Con la stessa facilità e spensieratezza entrò in quella stanza che per noi non aveva alcuna importanza.
Un altro ricordo la investì con una violenza tale che per un attimo, per un solo attimo, le dette speranza.
Una speranza a cui aggrapparsi disperatamente.
Per l’ultima volta.

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Capitolo 29
*** CAPITOLO 29 ***


FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
Sapevo che lo avrei trovato quassù.
I piedi si son mossi in automatico verso la stanza più alta del monastero, una torre che Andrés ha consacrato come sua stanza privata. Questa è una delle rare volte in cui la porta è spalancata e posso vedere gli splendidi quadri appesi, le statue in marmo, i divani in velluto sotto ogni finestra. Tutte tranne una, quella in cui è affacciato col viso verso la luna piena.
«Hai fame?» è la prima cosa che gli dico dopo la nostra piccola lite di oggi pomeriggio.
Andrés non risponde, si dirige verso un antico grammofono e dopo aver poggiato il piccolo ago su un disco nero si alza una musica che conosco fin troppo bene.
Allunga la mano destra verso di me: «Sai ballare il Flamenco, Esme?»
Da ladra professionista ho imparato parecchie cose tra queste anche svariate danze tipiche di altrettante svariate Nazioni, giusto per infiltrarmi a dovere un po’ ovunque.
«Si, certo.» faccio unire le nostre mani.
Prima di iniziare a ballare Andrés prende un altro oggetto da accanto il grammofono: un tagliacarte dalla lama smussata: «E allora moglie mia…Balliamo.»
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
La mensa.
L’ultimo posto in cui avrei immaginato di metter piede.
Non c’è anima viva, gli oggetti e il cibo sparso qua e là fanno pensare che tutti se ne sono andati di corsa non appena hanno saputo dell’intrusione della banda. In silenzio e cercando di far il meno rumore possibile (anche se non credo che Gandìa sia da queste parti) analizzo con attenzione ogni singolo dettaglio cercando di non cedere al cibo, ho una fame pazzesca e non vedo l’ora di ingozzarmi di schifezze una volta uscita da qui. Dalla sala mensa passo alle cucine, anche qui pentole, padelle e accessori sono stati abbandonati alla rinfusa, accarezzo le superfici col mitra abbassato fino a quando un semplice spelucchino non attira la mia attenzione, uno di quei coltelli dalla lama sottile e piccola usato solitamente per sbucciare le verdure.
Lo prendo in mano sentendolo incredibilmente leggero, come se avessi appena sollevato l’aria.
Chiudo gli occhi, respiro profondamente e alla fine deciso di prenderlo, nascondendolo in una delle tasche interne della tuta.
Ritrovandomi a sorridere.
Credo proprio che potrò restituire il mitra a Nairobi.

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Capitolo 30
*** CAPITOLO 30 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Questa deve essere la resa dei conti, una volta per tutte.
Ci sono stati troppi intoppi, l’aria è troppo piena di tensione e nervosismo, troppi ricordi che non sarebbero dovuti venire a galla.
Il primo problema da risolvere è Gandìa.
Con sommo dolore tolgo le scarpe col tacco, scalza faccio decisamente meno rumore e posso piombargli alle spalle in totale furtività. Peccato, adoro queste scarpe e in un certo senso mi sento a disagio senza quei centimetri in più che mi separano da terra.
Il cuore martella violentemente in petto, devo faticare molto per respirare a lungo e profondamente per dare l’illusione di essere ancora fredda e lucida. La verità è che ho paura. Se Gandìa dovesse trovarmi sono sicura che mi ucciderebbe. Forse dentro di me sento di non essere ancora pronta per andare all’altro mondo, magari il mio inconscio suggerisce che ho ancora qualcosa da fare in questa vita fin troppo intensa.
Coraggio Esme.
Espiro a lungo e apro la stanza del Governatore…Per trovarla vuota.
Strano.
Mi aspettavo Gandìa seduto sulla scrivania al telefono con la polizia e invece la stanza è esattamente come l’abbiamo lasciata: il letto di fortuna, i medicinali sparsi, le finestre aperte da cui si sentono i manifestanti che non ci hanno mai abbandonati.
Ragiona Esme.
Dov’è? Che abbia sentito il nostro spostamento e ora sia in biblioteca a fare una strage? Oppure, peggio mi sento, che sia andato giù alla fonderia? Quel posto è una trappola senza via d’uscita, gli basterebbe tirarci dentro una bomba per ammazzare tutti.
Odio essere un topo in gabbia. Che senso ha conoscere ogni centimetro di questo maledetto posto se poi non so come sfruttarlo? Potremmo spostarci di continuo ma non cambierebbe niente, ci stancheremmo e basta. L’unica è trincerarci in un punto abbastanza ampio da contenere tutti quanti, ostaggi compresi, aspettare che venga fuso tutto l’oro e contrattare una fuga. È un piano che fa schifo ma ora come ora è l’unico piano che sento possa funzionare.
Torno verso della biblioteca quando giro l’angolo e incontro le spalle di Gandìa a pochi metri da me, di fronte a lui Denver e Rio hanno il fucile spianato. Sento delle minacce a cui Gandìa non risponde, non vedo il suo viso ma sono sicura che stia sorridendo.
Non gli dovete parlare, gli dovete sparare!
Ho voglia di urlare.
Dare ragione alla teoria di Sergio secondo cui non dovremmo difenderci ci farà ammazzare tutti.
Al diavolo, ci penso io.
Ma appena decido di svoltare l’angolo sento un’esplosione che mi costringe alla ritirata.
E poco prima di chiudere gli occhi mi sembra di sentire una voce nella testa.
«Esme nessuno ti sparerà, anche la polizia e il Governo vorranno l’appoggio della gente.»
Una previsione non azzeccata, Professore.

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Capitolo 31
*** CAPITOLO 31 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

 
Soffoco i colpi di tosse mentre strisciando mi allontano dall’esplosione, in testa un solo pensiero: Rio e Denver sono morti.
Perché è impossibile sopravvivere ad un colpo simile.
I passi pesanti e frettolosi di Gandìa alle mie spalle suggeriscono che se la sia data a gambe, bastardo, con tutta questa polvere non capisco dove si sia diretto e nonostante conosca la mappa a memoria sarebbe un azzardo troppo grosso muoversi alla cieca basandomi solo sul rumore dei suoi piedi.
Sarebbe come combattere dentro ad un pesante banco di nebbia con risultato di una morte certa.
Aspetto che torni più o meno tutto alla normalità, mentre cammino verso il luogo dell’esplosione cerco di fare attenzione a dove metto i piedi, avere un detrito sotto la pianta del piede non è il massimo.
Denver e Rio sono a terra, il primo mezzo cosciente l’altro completamente svenuto, forse la bomba sganciata da Gandìa non era così potente. O forse sono stati fortunati.
È da Rio che vado senza aspettare un secondo di più, gli sento il battito cardiaco sotto al collo e tiro un sospiro di sollievo nel sentirlo ancora vivo.
Mi giro verso Denver…
Per ritrovarmi davanti Gandìa.
Cazzo…Da dove è saltato fuori?
Che abbia usato tutto questo macello per creare confusione e non essersi mosso veramente di un centimetro?
Mi sollevo lentamente con le mani in alto, ho ancora il mitra di Nairobi allacciato alla schiena ma sono sicura che se provassi a prenderlo mi crivellerebbe di colpi.
«Farne fuori tre in così poco tempo non è male come record.» ringhia il capo della sicurezza mentre mi squadra da capo a piedi.
Il suo indice è fermo sul grilletto della pistola, non la regge con precisione, forse slogarsi il polso per liberarsi dalle manette deve avergli fatto più male del previsto, c’è una minima probabilità che i suoi colpi non vadano a segno.
«Tuttavia sono un gentiluomo.» mi sorride tagliente, sia avvicina quasi con fare sinuoso, come un cacciatore che gioca con la preda tanto ambita e finalmente catturata: «Vuoi dire un’ultima parola?»
Chiudo gli occhi lentamente, faccio un respiro profondo, sposto il peso del corpo sulla gamba sinistra mentre pronuncio quella che dovrebbe essere la mia ultima parola: «Balliamo.»
Spalano gli occhi.
E da preda mi trasformo in cacciatrice.

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Capitolo 32
*** CAPITOLO 32 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Il Flamenco non è uno spettacolo di forza ma di estetica, stile,
carisma e  disciplina

 
Con questa distanza ravvicinata e il fatto che Gandìa probabilmente sarà rallentato dalla quantità di armi che ha addosso, ho un vantaggio non indifferente. Dalla tasca interna della tuta estraggo il coltellino che ho preso in cucina qualche minuto fa.
I balli tra me e Andrés non erano come quelli di chiunque altro, le nostre mani erano unite non solo alle nostre dita ma anche a dei piccoli tagliacarte.
Mi ha insegnato a difendermi illudendo il mio avversario di esser completamente indifesa.
A volare come una farfalla.
E a pungere come un’ape.
Con una prima stoccata ferisco la mano slogata di Gandìa, colto dall’elemento a sorpresa si esibisce in un piacevole urlo di dolore e getta la pistola a terra. Sta per prendere qualcosa dalla cintura ma con una piroetta lo evito, gli prendo il volto con la mano libera avvicinando i nostri visi.
Lo sento, sento l’odore della frustrazione.
 
Il Flamenco è una filosofia, un modo di pensare e sentire
di un intero popolo e della sua tradizione storica

 
Con uno scatto della mano gli sferro un colpo alla guancia, mi insulta, impreca, ma ormai nelle orecchie ho solo la musica che usciva dal grammofono della stanza di Andrés.
Senza che se ne renda conto, Gandìa sta diventando il partner del mio ballo mortale.
Si sta innervosendo, è arrabbiato, tutto quello che mi serve per colpirlo alla perfezione ora sul braccio, ora sul gomito, stomaco, schiena, gambe.
Fin quando non percepisco le forze venirgli meno.
Avvolgo il mio braccio disarmato al suo collo.
 

Il bello del Flamenco è che è sensuale,
un erotismo che vibra in tutto il corpo.
 

Usando Gandìa come corpo reggente, alzo la gamba sinistra che lo cinge all’altezza del bacino.
Lo stesso bacino che infilzo col coltello. Mi basta un colpo solo.
Le nostre labbra si sfiorano.
 
Nel Flamenco ci sono passioni, dolore, gioia, irrequietezza.
Cattiveria.

 
FIRENZE, 6 ANNI PRIMA
 
«Non ti insegnerò quello moderno, perché il Flamenco moderno è per turisti. No, io ti insegnerò il ballo dei gitani. Il Flamenco degli zingari è come il sesso, devi fare l’amore senza togliere i vestiti, senza mai perdere contatto visivo. Perché gli occhi, Esme, sono gli occhi la vera essenza dell’amore.»
 

BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

Gli occhi sono la vera essenza dell’amore.
Andrés me lo diceva spesso.
Ma in questo momento negli occhi che sto guardando vedo solo una vita spegnersi.
E così cala il sipario sullo spettacolo di Gandìa.
La musica dentro la mia testa spegne, il corpo della guardia di sicurezza mi scivola dalle braccia finendo sul pavimento tra polvere, detriti e chiazze di sangue sparse.
Un quadro di morte.
Il mio primo vero capolavoro gitano.

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Capitolo 33
*** CAPITOLO 33 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

Pulisco il sangue sul coltellino usando i vestiti di Gandìa dopodiché lo rinfodero all’interno della tuta. Nella mia carriera da ladra ho dovuto spegnere delle vite e tutte le volte in cui l’ho fatto mi son sentita viva.
Uccidere per sentirsi vivi, che paradosso colossale.
Una vibrante scossa smuove tutte le ossa e attiva i nervi, l’adrenalina a mille e la magnifica sensazione di poter ribaltare il mondo usando il mignolo come leva.
Mi ritrovo a sorridere mentre osservo Denver quasi del tutto cosciente strisciare verso un Rio ancora addormentato.
Debole.
Siete proprio un gruppo di deboli pecore.
«Cazzo tu sei malata.» ringhia Denver stringendo il suo amico, raccoglie un mitra abbandonato in terra alzandolo verso di me: «Esme lo giuro su mio figlio, non un altro passo.» gli trema la voce, i suoi occhi sono lucidi e deglutisce più volte respirando in fretta.
Sarà pure armato ma sono io quella ad essere in vantaggio, sospiro scuotendo la testa: «Legami e saprò come liberarmi. Chiudimi in una stanza e saprò come uscirne. Uccidimi e non rivedrai mai più tuo figlio.»
«Cosa cazzo fai, mi minacci?»
«No, ti faccio ragionare.»
«Sei un’assassina.»
«Si.» lo dico come fosse la cosa più normale del mondo: «Il mio ruolo principale in questo piano era proprio questo: uccidere per non essere uccisi. Per sei anni Berlino mi ha addestrata a diventare quello che sono.» apro le braccia per fargli vedere che sono innocua: «Tutti noi eravamo d’accordo sulla questione autodifesa tranne il Professore. A sua insaputa ci siamo allenati ogni notte con una promessa: nessuno di noi sarebbe morto anche a costo di fare una strage. E io ho intenzione di mantenere quella promessa. E sono sicura, caro Denver, che sotto sotto anche tu la pensi esattamente come noi. In quel preciso istante, quando hai visto Gandìa tirarvi addosso una granata, qual è stato il tuo pensiero?» Denver digrigna i denti e abbassa gli occhi: «Devi fidarti quando ti dico che non sono io quella che vi vuole morti, se lo avessi voluto avrei lasciato che Palermo vi facesse saltare in aria col C4.»
Nonostante sia sicura di averlo in pugno, non sciolgo ancora i muscoli ma resto ben tesa, pronta a scattare nel caso in cui il caso Denver dovesse spararmi.
Ma alla fine, dopo che il suo viso cambia troppe volte espressione, Denver abbassa il fucile, tira su col naso, ha tutta l’impressione di uno che vuol piangere ma il suo status di duro non glielo vuole permettere.
«E adesso che facciamo con l’opinione pubblica?»
Allungo una mano in sua direzione: «Ti funziona ancora l’auricolare che ti connette al Professore?»
Denver mi da il piccolo apparecchio, nel contatto le nostre dita si sfiorano, percepisco il gelo che lo attraversa, il tremito e gli occhi che si abbassano di colpo.
Ha paura di me.
E questa consapevolezza non fa altro che aumentare la pericolosa eccitazione che mi scorre dentro.
«Professore, Gandìa è morto.» gli dico ancor prima che possa iniziare con la sua cantilena ipnotizzante.
«Cos…Che significa?» sbotta, come sempre cerca di mantenere la calma. Mi chiedo cosa succederebbe se mai Sergio dovesse perdere la pazienza una volta per tutte, probabilmente sarebbe un eccellente serial killer.
«Significa che stava per uccidere Rio e Denver e ho dovuto agire. Tranquillo, loro stanno bene.»
«Esme che diavolo hai fatto? Non faceva parte del piano!»
Abbozzo un sorriso, chiudo gli occhi scuotendo la testa: «Non faceva parte del TUO piano. Faceva parte del nostro.»
«Nostro…»
Tolgo l’auricolare sentendo il fruscio delle parole del Professore venire meno, poi getto a terra il piccolo apparecchio con una violenza tale da spaccarlo a metà. Con la testa faccio un accenno verso Rio: «Portiamolo in biblioteca, forza.»
Mi incammino con nonchalance osservando per l’ultima volta il corpo di Gandìa.
Bisogna sempre accertarsi che il nemico non si rialzi più.
 
In quel momento, quando la vide di spalle, Denver pensò davvero di spararle a bruciapelo.
Ma Esmeralda si era girata e gli aveva sorriso.
Un sorriso dolce e inquietante.
Pensavamo che Berlino fosse pazzo.
La verità è che non avevamo capito niente
E senza che ce ne rendessimo davvero conto, la prima delle bombe che Esme aveva piazzato era esplosa sotto i piedi del povero Gandìa.

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Capitolo 34
*** CAPITOLO 34 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE


Non appena entriamo in biblioteca, Stoccolma dimentica completamente gli ostaggi per gettarsi sul proprio compagno e per prendere Rio in cura, entrambi mi osservano sottecchi mentre chiudo la porta della stanza.
Palermo si avvicina con passo tranquillo, fischiettando, ma abbassando la voce quando si abbassa verso il mio orecchio: «Siamo un po’ sporchine.»
Solo ora noto il sangue di Gandìa sulla tuta, mi guardo facendo un verso di disprezzo e muovendo le mani: «Cacchio, non ne abbiamo una di riserva, vero?»
«Puoi sempre prendere quella di Arturito.»
Come risposta alzo il dito medio verso la sua risata divertita.
«Allora, che è successo? Di chi è quel sangue, del moccioso?» ovvia allusione a Rio che è stato sdraiato in terra con la giacca di Monica che funge da cuscino, muove la testa e appena gli occhi, pian piano si sta riprendendo.
«Gandìa non è più un problema.» rispondo dopo essermi presa qualche istante.
Gli occhi di Martìn si illuminano: «Quindi…»
«Quindi adesso tocca a te. Era questo il piano, no?»
Odio Martìn, non siamo mai andati d’accordo, litigavamo in continuazione con eccezioni talmente rare che potrebbero contarsi sulle dita di una mano.
Eppure, paradossalmente, è l’unico in questa stanza che riesce a capirmi usando solo lo sguardo.
Sorride girandosi verso gli ostaggi, attirando l’attenzione sparando in aria, generando il caos e parlando solo quando tutto torna al silenzio più totale.
Esibizionista.
«Cari ospiti, mi duole annunciare la dipartita del signor Gandìa.» allunga la mano libera dall’arma verso di me: «Per mano di questa gentile signora. Non fatela arrabbiare.» si gira in punto preciso: «Capito, Arturito?»
Faccio un passo avanti mettendomi al suo fianco: «Tuttavia ci tengo a ribadire che non siamo degli assassini, la mia è stata legittima difesa e siete liberi di non crederci. Ma lasciate che vi dia un consiglio: comportatevi bene e non succederà niente, comportatevi male e vi spedisco all’altro mondo a far compagnia a Gandìa.» mi aspettavo che Denver dicesse qualcosa ma rimane impietrito, esattamente come la sua compagna Monica.
«Se avete capito, annuite.»  gli ostaggi obbediscono come bravi soldatini ammaestrati, tutte le teste vanno su e giù a ritmo perfetto, come fossero una persona sola. Palermo se la ride mentre osserva i tre componenti della banda ancora bloccati sul posto: «Vale anche per voi.»
Non obbediscono.
Ammetto che mi piace questo slancio di coraggio, soprattutto da parte di Stoccolma. Credo che sarebbe una serial killer perfetta, un po’ come il Professore: «Ragazzi vi prego, obbedite.» tolgo il mitra di Nairobi dalle spalle per poggiarlo ai piedi della libreria alle mie spalle: «Forse non vi è chiara la situazione.» mi appoggio su una spalla di Martìn, normalmente mi avrebbe scostata in malo modo ma non oggi.
Per la prima volta da quando ci conosciamo, andiamo d’accordo.
Se solo Andrés potesse vederci.
Sorridiamo all’unisono e apprezzo il fatto che lasci a me l’ultima parola.
«Adesso comandiamo noi.»

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Capitolo 35
*** CAPITOLO 35 ***



BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Il colpevole teme la legge.
L’innocente teme la fortuna.
A volte si riconosce l’innocenza di una persona non dalla sua bontà, ma dal male che fa, a volte senza saperlo.
 

So quanto Martìn adori il potere così lo assecondo quando mi dice di andare a controllare la fonderia, gli tirerei un pugno in faccia al minuto tuttavia ho cose più importanti a cui pensare.
Non è prudente lasciarlo solo con Denver, ma Denver ha visto che non stiamo scherzando, Palermo gli sparerebbe davvero senza pensarci due volte. Io sarei un po’ più clemente.
Forse.
E così, sempre scalza e tenendo i muscoli ben rigidi ad ogni passo, prendo l’ascensore in direzione fonderia, vorrei avere un orologio per rendermi conto se in tutto questo trambusto stiamo perdendo tempo o meno. Col senno di poi forse quel codardo di Sergio sarebbe stato utile, forse non avrei dovuto rompere l’auricolare.
Il din dell’ascensore interrompe il breve flusso di pensieri avvisandomi che sono arrivata al piano desiderato, pochi passi e apro la porta della fonderia.
Vengo accolta con una serie di armi puntate addosso, alzo le mani e tutti le riabbassano, probabilmente avranno temuto fossi Gandìa.
Do una rapida occhiata in giro, la fonderia è stata costruita alla perfezione così come alla perfezione si muovono tutti i presenti al comando di una Nairobi in modalità Generale. Ammaliata osservo la capsula costruita per entrare nel caveau, la sfioro appena con le dita, immaginando cosa potrebbe dire Andrés se fosse qui.
«Cos’è successo, perché sei sporca di sangue e senza scarpe?» la domanda di Tokio ha fermato i principali componenti della banda, ora i loro occhi sono puntati su di me mentre le formiche operaie continuano il loro lavoro.
«Ah si, c’è stato un piccolo problema di sopra.» rispondo con sufficienza.
«Problema, che problema?» borbotta Helsinki.
«Gli altri stanno bene?» gli fa eco Bogotà.
Sospiro abbozzando un sorriso: «Mi è sfuggita la mano e ho ucciso Gandìa.» lancio uno sguardo a Nairobi: «Te lo avevo promesso, no? Quel bastardo non ti minaccerà mai più.» le faccio un occhiolino e il mio sorriso diventa ampio e allegro.
Forse un po’ troppo allegro.
 
Ma  può essere considerato davvero innocente qualcuno che uccide per un nobile scopo come salvare un’altra vita?

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Capitolo 36
*** CAPITOLO 36 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Lo sbigottimento generale è uno spettacolo, l’unica nota stonata è il viso di Nairobi: i suoi occhioni neri sono leggermente più aperti del normale, il viso e disteso, il corpo rilassato sulla sedia a rotelle improvvisata. E le labbra dipinte in un lieve sorriso enigmatico, un po’ come quello del dipinto Gioconda di Leonardo.
Il primo a prender parola è Bogotà: «Tu non eri quella che doveva farci uscire sulle nostre gambe?»
«Certo, lo è tutt’ora. Tagliare le gambe degli altri ci concederà un vantaggio non indifferente.» rispondo nemmeno dovessi spiegare qualcosa di basilare ad un bambino.
Ora è Tokio a partire alla carica, sempre con quel viso pieno di strafottenza. Da un certo punto di vista mi ricorda molto Martìn.
E io non sopporto Martìn.
«Uccidere degli innocenti non faceva parte del piano.»
Abbozzo un sorriso amaro: «Gandìa era così innocente che stava per far saltare in aria Denver e il tuo fidanzatino.»
Bam, colpita.
Tokio deglutisce abbassando gli occhi, la vedo chiudere leggermente le mani sul mitra.
«Era così innocente che ha minacciato Nairobi.» continuo a dirle senza smettere di guardarla, mi supererà di qualche centimetro ma sono io a guardarla dall’alto verso il basso: «Era così innocente che non si sarebbe fatto problemi ad ucciderci tutti.»
«Come faremo con l’opinione pubblica? Passeremo da assassini.»
«Le telecamere di sicurezza ci daranno ragione: ci siamo difesi, non siamo stati noi i primi ad attaccare. Basterà mandare quei filmati online e tutto il mondo lo saprà.»
«Penseranno sia un montaggio.»
«Un montaggio? Ma dai, Tokio!»
Come risposta alza il mitra su di me.
Prevedibile urla il mio cervello con la voce di Andrés.
Sorridendo, appoggio il peso del corpo sulla gamba sinistra, la mano destra leggermente aperta, pronta a difendermi: «Vuoi ballare, Silene Oliveira?» le chiedo in un sussurro.
Il suo stupore è tale da farle perdere la concentrazione per un secondo. È in questo secondo che decido di agire scattando in avanti.
Quando qualcuno mi si butta addosso, sto per reagire ma mi fermo quando mi rendo conto che si tratta di Nairobi che si è alzata dalla sua sedia e mi sta usando come appoggio. Non sembra avere intenzioni ostili, anzi guarda Tokio in cagnesco.
«Opinione pubblica o no, quello stronzo ha cercato di uccidermi, per come la vedo io doveva morire.» dice quasi in affanno, come se alzarsi dalla sedia per abbracciarmi le fosse costata una fatica immensa. Si gira verso di me annuendo: «Io sto dalla tua parte, signora Berlino.»

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Capitolo 37
*** CAPITOLO 37 ***


FIRENZE, SEI ANNI PRIMA
 

Siamo in silenzio tutti e quattro da troppo tempo.
Seduti all’interno della fresca taverna del monastero davanti ad una infinita serie di carte, appunti e planimetrie, Martìn sta fumando nervosamente, Sergio ha la testa bassa e una mano sulla tempia, Andrés guarda distratto tutto quello che c’è sopra al tavolo e io guardo lui.
C’è una domanda che aleggia in questa stanza da un po’ e sarò io a darle forma dopo un lungo respiro: «E se dovesse succedere?» nonostante lo abbia chiesto in un filo di voce, ho attirato la loro attenzione: «Se uno di noi dovesse morire, gli altri cosa faranno?»
Silenzio, di nuovo.
I secondi che passano pesano come macigni, ogni respiro è un’accelerazione del battito del cuore, perfino l’aria fresca della taverna sta diventando un’afa soffocante.
«Andranno avanti insieme.» Andrés mi guarda dritto negli occhi, la sua fermezza e sicurezza cancellano in un istante il disagio che si era venuto a creare: «Perché questo piano funzionerà solo se resteremo uniti.»
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Nairobi e Tokio si guardano in cagnesco, blaterano qualcosa sull’amicizia, sul legame che c’è tra loro, che Tokio non le vorrebbe sparare e bla, bla, bla. Stupide chiacchiere che fanno solo perdere tempo.
«Siamo in questo macello per colpa di Rio e ti ha pure lasciata!» sbotta Nairobi abbozzando un sorriso amaro, sento la sua presa alla mia schiena farsi più stretta: «Io sono quasi morta per un tuo capriccio, Tokio.»
«Non vi ho costretti a seguirmi, lo avete fatto di vostra spontanea volontà.» si difende lei abbassando del tutto l’arma.
«Se non ti fossi comportata a stronza e fossi rimasta in quell’isoletta di merda…» la stretta di Nairobi diventa ancora più salda, ha una fitta all’altezza dell’addome che la contrae verso il basso in una smorfia di dolore.
Bogotà arriva prontamente con la sedia a rotelle costringendola a mettersi giù.
Guardo Tokio e nonostante i suoi occhi siano puntati verso il basso so che ho la sua totale attenzione: «Senti.» inizio sussurrando: «Non avevo intenzione di uccidere nessuno, ho solo difeso Rio e Denver.» ed è vero, sono una sicaria ma non uccido per divertirmi, non sono così psicopatica. Uccidere per non essere uccisi non è un reato.
«Non avresti dovuto.» ribatte tra i denti tremando un po’.
«Allora la prossima volta non muoverò un dito.»
«L’hai ucciso, no?» finalmente mi guarda in faccia, ha il volto contorto in una smorfia indecifrabile: «Non ci sarà una prossima volta.»
«Sicuramente non con Gandìa.» guardo Nairobi che una volta seduta sembra aver ripreso le forze, è a lei che mi rivolgo: «Cerchiamo di velocizzare il lavoro il più possibile.» torno a guardare Tokio: «All’opinione pubblica e a farvi passare da eroe ci penserò io. Fidati.»

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Capitolo 38
*** CAPITOLO 38 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

 
Torno in biblioteca e quando apro le porte lo spettacolo che mi si para davanti è a dir poco penoso: Denver sdraiato a terra col naso pieno di sangue, Stoccolma al suo fianco da brava crocerossina e Palermo con il mitra puntato su entrambi e ghigno stampato in faccia.
Perché, perché non possiamo avere cinque minuti di pace?
Con uno scatto tiro fuori il coltellino dalla tasca e in due passi sono accanto a Martìn, la lama sotto al collo: «Qualsiasi cosa sia successa, ora basta.»
Alza le mani indietreggiando di un passo, sorride verso Denver che lo riempie di insulti.
Ammetto che apprezzo la sua forza di volontà, mi ricorda un po’ la me non professionista prima di incontrare Andrés: impulsiva ma buona, ingenua ma convinta di avere il mondo ai piedi.
«Che è successo?» domando curiosa, senza smettere di tenere il coltello tra le mani.
«Qualcuno ha provato a ribellarsi e non ci è riuscito.»
«Dai Denver, ti è esplosa una granata nell’orecchio, come ti è venuto in mente di sfidare Palermo che è fresco come una rosa?»
Non risponde, tutto quello che fa è passarsi una mano sul naso colante. Mi inginocchio davanti a lui ma guardo Stoccolma: «Vai a cercare qualcosa per ripulirlo e disinfettarlo, non gli farà più male.»
Stoccolma vorrebbe ribattere, ha l’espressione da cane bastonato ma la bocca leggermente aperta, glielo si legge negli occhi che vuole dire qualcosa. Ma ancora una volta preferisce passare per debole, abbassa la testa e si allontana.
«Rio sta ancora facendo un pisolino?»
«Mi sorprende che sia ancora vivo.» ringhia Palermo con un amaro sorriso.
Sospiro pesantemente, mi chino su Denver che mi guarda con odio, cosa che non dovrebbe fare visto che gli ho salvato la vita due volte ma per ora preferisco sorvolare.
«Ascolta.» gli dico con tono rassicurante: «La fusione dell’oro sta andando a rilento ma procede molto bene, i tunnel per la fuga sono quasi conclusi, perché rischiare di mandare tutto a puttane? Solo perché Martìn ti fa innervosire?» lancio un’occhiata al diretto interessato scuotendo la testa: «Se avessi avuto un centesimo per ogni volta in cui mi ha fatto perdere la pazienza, a quest’ora sarei milionaria.» allungo una mano sulla sua spalla: «Denver…»
«Non mi toccare.» ringhia respirando a fatica, gli occhi lucidi e il sangue che scende copioso dal naso: «Vattene, Esmeralda, hai causato solo problemi.»
 
Le persone che ci aiutano a volte vengono ripagate solo dai nostri insulti e dalla nostra ingratitudine.
Il problema è che ce ne accorgiamo troppo tardi.

 
Annuisco debolmente mentre allontano la mano come appena scottata da un forno incandescente.
E chissà perché, dentro di me provo una stranissima ondata di tristezza mista a delusione.

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Capitolo 39
*** CAPITOLO 39 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

 
Aspettare mi manda fuori di testa, stare con le mani in mano, non avere padronanza del tempo che passa mi uccide lentamente, così ho lasciato Palermo di guardia e sono andata a rovistare tra i vari testi della biblioteca, ho trovato La Divina Commedia di Dante Alighieri e ho sorriso nel leggere le prime righe, Andrés me le recitava sempre quando gli chiedevo di raccontarmi una storia prima di andare a dormire.
Dante scese all’inferno per conoscere e quasi provare sulla propria pelle il costo dei peccati dell’uomo, guidato dal suo maestro Virgilio, conobbe le anime dei dannati anche se, a parer mio, non tutti erano da buttare all’inferno. Esempio? Paolo e Francesca, condannati per essersi amati nonostante non fossero fedeli uno al coniuge dell’altro.
Abbozzo un sorriso, probabilmente se dovesse esistere un inferno, Andrés è finito nello stesso girone dei due amanti. E io sarei disposta a fare esattamente come Dante: scenderei nell’ignoto pur di riaverlo tra le braccia.
«Esme?» La voce di Stoccolma arriva lontana e prende forma solo quando alzo lo sguardo incrociando il suo. «Rio si è svegliato, ha detto che vuole vederti.»
Chiudo il libro per tornare al piano di sotto, Rio è ancora steso in terra ma ha gli occhi aperti e sembra essere cosciente, non appena mi vede ha una reazione totalmente opposta da quella di Denver di poco fa. Con difficoltà si solleva sui gomiti e abbozza un sorriso: «Non hai mai creduto nella mia innocenza, eppure mi hai salvato la vita. Grazie.» torna a sdraiarsi senza smettere di sorridere: «Inizio ad avere un po’ di speranza, se so che sarai qui con noi fino alla fine.»
Un po’ mi sento in colpa per aver dubitato di lui, sospiro facendo spallucce: «Che fai, ci provi? Guarda che sono una donna sposata e fedele.» ribatto scherzosa sedendomi al suo fianco.
Rio si mette a ridere sembrando il ragazzino che è, incredibilmente normale e spensierato. Fa quasi tenerezza: «Non oserei mai, Berlino mi ucciderebbe.»
«Se fosse ancora vivo, credo proprio di si. Non era fedelissimo ma era molto geloso.»
«Mi ucciderebbe anche da morto, ne sono sicuro. E non gli darei torto. Tu sei una donna per cui uccidere.»
Spalanco gli occhi incredula ma Rio non può vedermi perché ha chiuso i suoi. Lancio uno sguardo a Palermo che con una smorfia si concentra su Denver e Stoccolma che si sono appartati in un angolo.
«Cosa confabulate voi due?» chiede attirando l’attenzione di tutti.
«Sono cazzi miei e di mia moglie.» ribatte Denver ringhiando con il naso coperto da delle garze.
«Allora non hai ancora capito chi comanda, ragazzino.»
«Facile fare il fenomeno con un mitra in mano, affrontami da uomo.» Denver lo squadra da capo a piedi: «O da uomo a donna se preferisci, brutta checca isterica.»
Ahi ahi.
Martìn sfila l’arma dalla spalla senza smettere di sorridere, Denver si allontana da Stoccolma, pronto per il secondo round.
«Non li fermi?» chiede Rio che anche ad occhi chiusi deve aver intuito la situazione.
Non lo sopporto ma anche Martìn ha il diritto di divertirsi un po’.
E di difendere il suo onore.
Mi siedo comoda incrociando le gambe, pronta allo spettacolo.
 
***

Una volta andai ad uno spettacolo lirico, il cantante era penoso, stonato e privo della più semplice dote recitativa.
Eppure il pubblico continuava a chiedere il bis e lui cantava sempre peggio della volta precedente, sforzandosi con la gola e il diaframma, sembrava stesse per morire.
“Canta finché non la impari come si deve” aveva detto qualcuno dalla folla.
Perché lo spettatore acclama l’opera d’arte.
Sia essa buona o cattiva.
Angelica o sanguinaria.

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Capitolo 40
*** CAPITOLO 40 ***


FIRENZE, SEI ANNI PRIMA
 

Ho la pessima sensazione che l’aria e l’ossigeno siano stati cancellati dal mondo con la velocità di uno schiocco di dita.
A terra e con le mani attorno allo stomaco, respiro appena tossicchiando e avvolgendo gli occhi nell’oscurità.
«Impara a cadere sui sassi e il pavimento sarà come un morbido materasso.» la voce di Martìn è lontanissima tuttavia la sento abbastanza limpidamente: «In piedi.»
No, non ce la faccio. Questa volta non riesco a rialzarmi.
«Avanti!»
Contorcendomi, porto la fronte sui sassolini, digrigno i denti mentre lascio che la mano destra aiuti tutto il corpo ad alzarsi, le ginocchia in terra, ritrovo un po’ il respiro: «Basta, sono esausta.» imploro.
E odio implorare Martìn.
«La morte non aspetterà che tu ti riposi!» ribatte posando un piede sul mio fianco e buttandomi nuovamente a terra con una leggera pressione. Non mi ha fatto male, almeno non fisicamente, psicologicamente sono distrutta. «Credi che in casi di attacco aspetteranno che tu riprenda le forze? No Esme, non vedranno l’ora di ficcarti una pallottola in fronte!»
Schiena in terra, un flebile sole acceca ancor di più il mio povero sguardo appannato, il taglio di un’ombra mi avvisa che ora Martìn è sopra di me: «Avanti Esmeranlda Cortega, so che puoi fare di meglio.»
Il suo piede si alza inesorabilmente verso il mio viso.
Non so dove trovo le forze, non so cosa succeda al corpo e alle braccia mentre si muovono all’unisono verso la suola della sua scarpa. Una scossa sconosciuta corre in tutte le fibre del corpo fino a farlo scattare, rinnovato di pura energia.
Afferro il piede di Martìn, gli occhi riprendono a vedere con lucidità: «È Esmeralda de Fonollosa.»
 
BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
A prima vista Martìn sembra il classico uomo pacato ed elegante, ma quando ti mette le mani addosso non ce ne è per nessuno.
Denver si muove con rabbia, Martìn con calma.
Denver non ha la minima idea di cosa sia la tecnica, Martìn potrebbe spezzarlo usando il mignolo.
Ecco la differenza colossale che fa sì che Denver cada a terra per l’ennesima volta, la frustrazione alle stelle sottolineata da un urlo quasi disumano, riparte verso Martìn ma lo schiva semplicemente spostandosi di lato.
«Lo ucciderà.» dice Rio con strana calma mentre si mette seduto.
La stessa insolita calma che c’è anche tra gli ostaggi. Forse la paura, forse il sapore del macabro spettacolo o la speranza che i rapitori si uccidano tra loro. Non so cosa li faccia stare in silenzio con gli occhi incollati a Denver e Martìn ma almeno se ne stanno buoni e per noi è tutto di guadagnato.
«No, si sta solo divertendo.» analizzo con attenzione il mio vicino, la sua calma e freddezza sono insolite, a quanto pare Rio è un ragazzo decisamente pieno di sorprese: «Guarda guarda il nostro piccolo hacker.» sorrido tagliente mentre osservo con un certo piacere il suo distogliere l’attenzione dal duello: «Fammi indovinare: io sono una donna per cui uccidere ma allo stesso tempo speri che Palermo uccida Denver per poi consolare Stoccolma. Giusto?»
Uno sbuffo fa alzare a malapena il petto di Rio, deglutisce e scuote la testa: «Ma che stronzate dici?»
Vorrei scoppiare a ridere ma riesco a trattenermi: «Sono una donna, ho un certo sesto senso per queste cose.» mi alzo in piedi stiracchiandomi portando le braccia verso l’alto: «Beh Rio, bastava chiedere.»
Con passo sicuro mi avvio verso Denver e Palermo.
E a giudicare dalla situazione, non credo di aver bisogno di armi.

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Capitolo 41
*** CAPITOLO 41 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Il viso di Denver diventa bianco come la cera non appena si rende conto che sto arrivando, in marcia sicura verso lui e Martìn, fisso quei meravigliosi occhi ipnotici che, diciamola tutta, sarebbe un vero peccato spegnere.
«Che vuoi, tu? Stattene in disparte.» ringhia Martìn ma non gli do peso.
Noto il suo operato e devo constatare che nonostante gli anni Martìn non ha assolutamente perso la mano, anzi, sembra addirittura migliorato. Ora si sente quasi bene ma domani Denver avrà dei seri problemi di mobilitazione.
Mi abbasso su di lui, cerca di strisciare via mentre le grida di Stoccolma fanno da sottofondo, il raggelante silenzio degli ostaggi è tale da farmi sentire un brivido di freddo. I suoi occhi sono un meraviglioso quadro di terrore, terrore che si accentua quando la mia mano destra gli si avvicina.
Gli afferro l’orecchio destro e facendo leva lo faccio alzare da terra: «Basta giocare, abbiamo cose più importanti da fare.» Denver si dimena lamentandosi nemmeno lo avessi preso a coltellate mentre il suo orecchio viene distorto tra il mio pollice e l’indice. Lo spingo verso Stoccolma: «Cresci, santo Dio, ormai sei diventato padre, basta cazzate!» con lo stesso indice indico un punto preciso tra gli ostaggi prima di continuare: «Tu azzardati a dire una sola sillaba sul fatto che il figlio sia tuo e giuro che te lo stacco a morsi!»
Caro Arturito, non hai bisogno di ulteriori spiegazioni, vero?
Ma…Ops, forse avrei dovuto tenere a freno la lingua perché subito dopo la mia frase Denver si gira raggelato verso Stoccolma. I due si osservano per una manciata di secondi che sembra infinita, poi Denver se ne va, seguito a ruota dalla fidanzata che cerca invano di dargli spiegazioni.
«Ti sei sfogato?» chiedo verso Martìn.
«Abbastanza.» riprende in mano l’arma senza puntarla da nessuna parte: «Anche se sono sicuro che il colpo di grazia lo hai appena inferto tu.»
«Che ci piaccia o no siamo una squadra, giusto?»
Martìn sbuffa abbozzando un sorriso: «Non vedo l’ora che questa storia finisca, odio andare d’accordo con te.»
«A chi lo dici.»
Torno a sedermi accanto a Rio nella stessa posizione in cui ero poco fa, un paio di respiri dopodiché scuoto la testa: «Scusa, il mio compito è di farvi uscire tutti vivi.»
C’è una lievissima punta di delusione sui suoi occhi: «Va bene così.» taglia corto ripiombando nel silenzio.
Ma senza smettere di staccare gli occhi dal punto in cui Monica e Denver sono spariti.

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Capitolo 42
*** CAPITOLO 42 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE

 
Se hai intenzione di provare, vai fino in fondo.
Altrimenti non cominciare neanche.
 

Il silenzio è nuovamente piombato in biblioteca ma non per la ferrea supervisione mia e di Martìn, non perché stiamo aspettando che qualcuno ci dia buone notizie dalla fonderia. Siamo tutti concentrati a tendere le orecchie verso il litigio di Denver e Stoccolma, da ostaggi e rapitori siamo diventati un gruppo di curiose pettegole della peggior specie. Non mi sfuggono le occhiate strane, chi addirittura tiene a freno un sorriso, Arturo Romàn che cerca approvazioni in giro e, ahimé, le trova. Agli occhi di chi non conosce la vera storia di quel povero bambino o meglio, conosce solo la versione raccontata da Romàn in uno dei suoi comizi per poveri decerebrati, lui è la vittima, il povero padre di una famiglia mancata. Non il bastardo già sposato che aveva chiesto all’amante di abortire per non macchiare l’immagine perfetta dell’uomo modello.
Dio, quanto vorrei sparargli in fronte.
Distolgo lo sguardo altrimenti son sicura che lo farei, mi concentro su Rio. Da quando Denver e  Stoccolma hanno iniziato a litigare, è diventato una statua: immobile, sguardo fisso su una libreria, mani giunte, gomiti alle ginocchia, espressione glaciale.
Paradossalmente mi scappa un sorriso, conosco quella posizione.
Conosco quello sguardo.
 
FIRENZE, SEI ANNI PRIMA
 
 
Andrés adora stare sul punto più in alto del monastero, a me invece piace quella porzione di giardino in cui ci siamo conosciuti. Ed è qui che siedo con i gomiti alle ginocchia, le dita intrecciate tra loro, lo sguardo fisso sul muro di mattoni.
«Esme?» la dolce e pacata voce di Sergio mi risveglia dai pensieri, lo guardo appena con la coda dell’occhio: «Vieni, il pranzo è pronto.»
Respiro a lungo annuendo appena.
«Va tutto bene?»
Si, Sergio sarebbe stato davvero un marito perfetto.
Abbozzo un sorriso: «Si.»
«Ne sei sicura?» allunga una mano per aiutare ad alzarmi, la accetto ben volentieri.
«Si, stavo solo pensando ad una cosa ma niente di importante.»
«Andrés ti ha tradita per l’ennesima volta?»
Il mio sorriso si scioglie in una dolce risata: «Sergio, con questa delicatezza non troverai mai una donna disposta a prenderti.»
«Ho detto qualcosa di sbagliato?»
Diventa impacciato, abbassa gli occhi e tira su la montatura degli occhiali velocemente, il corpo sembra essersi irrigidito.
«Tranquillo, per una volta pensavo a me stessa.» mi stiracchio un po’: «Andiamo, ho una fame da lupi! Che c’è per pranzo?»
 

Se hai intenzione di provare, vai fino in fondo.
Altrimenti non cominciare neanche.
Uccidendo Gandìa, Esme sapeva benissimo cosa aveva iniziato.
E sapeva anche come arrivare fino in fondo.
Il problema era che nessuno di noi lo sapeva.
Tranne Palermo.

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Capitolo 43
*** CAPITOLO 43 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 
Ho ripreso a leggere la Divina Commedia, sono nel punto esatto in cui Dante sta per arrivare al cospetto di Lucifero quando una mano interrompe la lettura.
Una mano da uomo, tra le dita un piccolo auricolare.
«Vuole te.» sento la voce di Martìn, riconoscendolo senza guardarlo: «Il cognatino è un po’ arrabbiato.»
Sbuffo spazientita mentre chiudo il libro, lasciando l’indice come segno, infilo l’auricolare: «Si, Professore?»
«Ho i video della sorveglianza della Banca.» inizia apparentemente agitato, come sempre fingendo la fredda calma che, forse, non ha mai avuto: «E tra le varie registrazioni c’è anche il tuo assassinio.»
Un brivido corre lungo la schiena: «Ti è piaciuto?»
«Sai a chi non piacerà?»
«Non è una risposta, Professore.»
Restiamo in silenzio.
Sergio ha il respiro pesante e rapido, in totale contrasto col mio tranquillo e leggero.
«Non piacerà all’opinione pubblica.» continua sgridandomi come un padre con la figlia che l’ha combinata grossa.
«Ancora con la favola dell’opinione pubblica?»
«Esme maledizione, è il nostro punto forza!»
«Te l’ho già detto, non è più il vostro piano.» cavoli, vorrei di nuovo una sigaretta. Non sono una fumatrice ma ci sono momenti in cui vorrei tanto aspirare un po’ di tabacco, farmi del male, rilassarmi ancora un po’. «E comunque stai tranquillo, ho già pensato a cosa fare per risolvere l’opinione pubblica che ti sta tanto a cuore.»
«Posso sapere in che modo?» Eccolo, è di nuovo calmo, un bipolarismo meravigliosamente perfetto.
«Non ancora, ora scusa ma ho una lettura in corso.»
«La lettura può aspettare, Esme.»
«Detto da un uomo di cultura come te…»
Non faccio in tempo a finire la frase che la porta della biblioteca viene spalancata.
Gli ostaggi si agitano, Martìn alza il fucile per sicurezza ma lo abbassa appena quando vede arrivare Helsinki, il sorriso stampato sull’enorme faccione: «L’oro è stato fuso.» dice trionfale.
«Sentito, Professore?»
Sergio fa un lungo respiro, in un certo senso lo immagino che sta sorridendo: «I tunnel sono quasi pronti, preparatevi ad uscire.»
Chiudo la comunicazione senza rispondergli.

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Capitolo 44
*** CAPITOLO 44 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

Chiedo a Rio di andare a recuperare Stoccolma e Denver, obbedisce senza fiatare, poi mi rivolgo agli ostaggi: «Signore e signori, è stato un piacere avervi fatto compagnia. Noi ce ne andiamo.»
«Credete davvero di riuscire a farla franca, brutti bastardi?» è Arturito a ringhiare verso di noi.
Lancio uno sguardo a Martìn e nei suoi occhi leggo la mia stessa voglia di omicidio.
Mi avvicino ad Arturito che invano tenta di indietreggiare ed implorare, quando tiro fuori il coltellino dalla tasca qualcuno grida, ci sono versi di stupore ma cala il gelo quando mi inginocchio di fronte a lui.
«Lo vedi?» chiedo retoricamente facendo danzare la lama davanti ai suoi occhi: «Ho ucciso Gandìa con questo.» un secondo, poi faccio rigirare l’impugnatura sulla mano e infilzo la lama tra le sue gambe. Arturito è senza parole mentre gli occhi si spalancano per lo stupore: «Ecco un altro piccolo trofeo da mostrare in uno dei tuoi comizi per poveri dementi.» lo bacio in fronte, una fronte trapelata di sudore ghiacciato mentre una chiazza di sangue si apre al centro delle gambe.
«Basta giocare Esme, andiamo.»
Alzo gli occhi al cielo scocciata, camminando verso Martìn, Rio, Denver e Stoccolma: «Niente da fare, sei proprio geloso di tutto quello che faccio.» prendo una delle due porte di ingresso della biblioteca.
Martìn prende l’altra: «Il tuo ego è così gigantesco?»
«Sei geloso anche di quello?»
«Fottiti, Esme.»
Sorrido mentre facciamo combaciare le due porte, sigillandole posizionando tra le maniglie alcune sbarre di ferro trovate da Denver chissà dove.
I tre si incamminano verso l’ascensore con Helsinki, io e Martìn restiamo un po’ in disparte.
«Sai cosa voglio fare, vero?» chiedo retoricamente.
«Posso immaginarlo, si.»
«Non ti da più fastidio?»
Prima di rispondere, Martìn guarda sottecchi l’ascensore dove ci sta aspettando la piccola banda: «Forse riuscirò ad andare avanti ma non ti perdonerò mai.»
«Adesso sì che ti riconosco.»

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Capitolo 45
*** CAPITOLO 45 ***


BANCA DI SPAGNA, PRESENTE
 

I tunnel sono stati scavati poco lontano dalla fonderia, Tokyo e Nairobi sembrano aver fatto pace perché ridono e scherzano con dei lingotti d’oro portati alle orecchie.
«Ehi Esme!» dice Nairobi guardandomi gioiosa: «Hai visto che begli orecchini ci siamo comprate? Ne vuoi un paio anche tu?»
«Usciamo da qui e te ne compro un paio veri!»
Tutti gli uomini, fatta eccezione per Palermo che chiude la fila, vanno per primi in direzione dei tunnel, l’oro fuso è già in fase di trasporto.
Chissà a cosa sta pensando Sergio, chissà cosa sta pensando Martìn.
Chissà cosa penserebbe Andrés se vedesse che il piano a cui abbiamo lavorato tutta la vita ha non solo preso vita ma è anche riuscito.
Abbiamo creato l’impossibile nonostante i battibecchi e i disguidi. Certo, son nate nuove cicatrici, nuovi dubbi e nuovi dolori ma spero vivamente che questa banda di incapaci sia abbastanza saggia da non combinare altri casini, che tutti questi soldi basteranno per vivere come hanno sempre voluto.
Nairobi mi sorride dolcemente prima che Helsinki e Tokyo la aiutino a strisciare dentro al tunnel. Sono felice e fiera di averle salvato la vita, di aver affidato a qualcun altro il ricordo di Andrés.
E anche il mio.
Io e Martìn usciremo dal tunnel per ultimi, ci prendiamo del tempo per far sì che gli altri siano abbastanza lontani per non sentirci.
Ci guardiamo negli occhi.
E ancora una volta trovo che sia un paradosso gigantesco che l’unica persona a capirmi qui dentro è la stessa che odio.
No, non è vero.
Non lo odio, forse tutto quello che provo nei suoi confronti è un’invidia bruciante per aver dato a volte ad Andrés ciò che io non ho potuto.
Respiro a lungo, sorrido debolmente: «Hai ancora l’auricolare per parlare con Sergio?»
Non si muove fatta eccezione per la mano sinistra che, libera dall’arma, si sposta sull’orecchio per poi allungarmi il piccolo apparecchio.
Sa che è giunto il momento di attuare il piano finale.
Premo il pulsantino di avvio chiamata: «Professore, abbiamo fuso tutto l’oro, gli altri stanno uscendo dal tunnel, sono tutti vivi.» lo sento respirare profondamente, per la prima volta credo non sappia cosa dire. O forse vuole dirmi di tutto ma non sa come: «Per la questione opinione pubblica puoi dire tranquillamente che i tuoi uomini hanno fatto giustizia, troveranno il cadavere dell’assassino di Gandìa nei tunnel. Occhio per occhio, usa la tua parlantina per girare la storia come preferisci.»
Finalmente ottengo una reazione, Sergio fa uscire un verso strozzato dalla gola e balbetta, come faceva anni fa al monastero quando si trovava in imbarazzo o in difficoltà, quando il nostro problema maggiore era decidere che cosa bere a cena: «Cosa vuoi dire, Esme?»
«Che anche se a volte mi sono comportata da stronza, ti ho sempre voluto bene.» lo dico rivolta a Martìn.
Spengo la comunicazione prima che possa dire qualsiasi cosa.
Martìn mi guarda fisso negli occhi, ha capito cosa voglio fare e perché lo voglio fare.
E sa che toccherà a lui compiere il gesto finale.
Getto via il mio mitra, apro le braccia, sorrido buttando indietro la testa e chiudo gli occhi.
E mentre una calda lacrima riga il mio viso, annuso a pieni polmoni il profumo di Andrés.

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Capitolo 46
*** EPILOGO ***


EPILOGO
FIRENZE, DUE ANNI PRIMA
 
Caro Andrés,
quanto può essere stupido scrivere una lettera ad una persona che non la leggerà mai?
Mi chiedo cosa diresti se fossi ancora qui, probabilmente sorrideresti con il tuo whiskey in mano dandomi dell’esagerata sentimentale, poi poggeresti il bicchiere accanto questa lettera e…Chi lo sa. Il resto mi piace pensarlo nei miei sogni.
Ho rivisto Sergio, non è cambiato di una virgola, mi ha chiesto di aiutarlo per il colpo alla Banca di Spagna, ti ricordi? Il piano che ci ha tormentato per tante di quelle notti che ho perso il conto, il colpo del secolo, l’apologia della bellezza…Non so se accettare, senza te niente ha più senso, vado avanti per inerzia.
Gli ho detto che non ho alcuna intenzione di accettare ma nel profondo del cuore so che non posso prenderlo in giro, non posso prendere in giro me stessa. Sai bene che non sono famosa per restare in casa ad aspettare il marito che torna da lavoro, ho bisogno di azione, di adrenalina.
Ho bisogno di rivederti e penso che succederà se farò bene la mia parte.
Che cosa romantica.
Mi sono appena tagliata i capelli, ho provato i vestiti, indossato tutte le maschere che conosco. Ho ballato da sola, accompagnata solo da un coltello e dal tuo fantasma, ho imparato a disegnare le planimetrie della Banca di Spagna ad occhi chiusi, anche se a volte le linee non sono proprio precise come vorresti tu.
Ho preso la mia decisione e con essa tutte le conseguenze che ne seguiranno.
Non credo mi presenterò con un nome in codice.
I nomi in codice non hanno senso.
Tu ti facevi chiamare Berlino.
Per me eri e sarai sempre Amore.
 
Esme.
 
***

Seppellimmo Esmeralda accanto Berlino, nel monastero a Firenze.
Fu la prima volta in cui piangemmo tutti insieme.
Esme era morta esattamente come suo marito:  per la nostra libertà.
E in fondo al cuore sapevamo tutti, chi più chi meno, che non avremmo mai potuto ricambiare il gesto. Il senso di colpa per le loro morti avrebbe sempre pesato sul nostro cuore.
Ma sapevamo anche che un giorno avremmo sorriso con dolcezza al loro ricordo.
Esattamente come fece Palermo mentre poggiava dei fiori sulla tomba delle uniche persone che avesse mai amato davvero.

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