Il Cavalier Gattapelata e le sue bizzarre avventure

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incontro di Gattapelata ed il drago Alemanno, uccisore di sbronzi ***
Capitolo 2: *** Il ritorno di Gattapelata e la selvaggina particolare ***
Capitolo 3: *** Gattapelata latitante e Giminiano beffato ***
Capitolo 4: *** Ancora sulle disavventure di Giminiano ***
Capitolo 5: *** Discorsi di Gattapelata e il fratello Gragnaniello ***



Capitolo 1
*** L'incontro di Gattapelata ed il drago Alemanno, uccisore di sbronzi ***


Ad un crocevia della strada che portava al feudo verso cui era diretto, Gattapelata, cavalier di ventura, scorse in lontananza il baluginar di luci provenire da una locanda, nel bel mezzo d'una vallata calata nella notte. Si fece allegro alla vista e spronò la sua bestia ad accelerare esclamando per l'appunto "Avanti bestia!" e mollandogli, senza tanti complimenti, una tallonata ai reni. 

Ora, la bestia di cui si parla era un baio dallo sguardo perennemente assonnato e tinto di pesca, sotto uno spesso strato di fango secco, polvere e insetti. Anche se nato baio aveva l'ego di un urosangue e il nobile equino si risentì non poco ad essere nominato in tal maniera e l'unica delle due bestie ad andare in avanti fu il cavaliere, che venne disarcionato di sella dall'animale che si impennò sulle zampe anteriori. Fece un volo che neanche il cristo quando ascese, ma dopo il volo ripiombò a terra e come corpo morto cadde fra le frasche d'un cespuglio d'ortiche. Il cavallo si avvicinò,  impaurito di aver esagerato e seccato il padrone, ma quando infilò il muso per verificare la salute del suo cavaliere, ci mancò poco che il tondo dritto d'una lama non lo decapitò.

Infuriato come una biscia, si levò dalle piante il suo cavaliere, brandendo lo spadone con ambedue le mani, con tanta rabbia che il suo elmo gli fremeva sul capo.

"Bestia ti ho detto e bestia sei! Ora vola svelto, prima che al tuo fantino cresca un grosso interesse per il filetto equino!" Lo spronò una seconda volta il suo padrone, con ben più decisione di prima. Il cavallo però lo prese in parola fin troppo e si mise a galoppare veloce giù per la strada fino alla locanda, lasciando indietro il povero cavaliere, che presto si ritrovò a corrergli dietro, volteggiando lo spadone in aria e lanciando dannazioni fino alle stelle.

***

Giunto alla locanda, dopo una lunga corsa, il cavalier Gattapelata non aveva più il fiato per dare una lezione al suo destriero traditore, dunque si limitò ad entrare nell'accogliente locanda, dove fu investito dal calor del caminetto, tanto che gli parve d'essere in primavera. Il proprietario del posto, un signorotto adorabile, basso e tarchiato, con due guanciotte che gli pendevano come quelle d'un molosso, vedendo un tale in armatura entrare nella sua modesta attività, gli si fece incontro per cogliere la splendida occasione di profitto che gli si presentò quella notte.

"Buongiorno a voi cavaliere" Gli disse, quindi, con voce melliflua "Immagino siate ben conosciuto, ma io, purtroppo, sono un povero ignorante non vi riconosco. Con chi ho il piacere di parlare?".

"Gattapelata!" Rispose egli fra un sospiro e un altro "vassallo di nessuno e signore del mio cammino".

"Grandioso!" Esclamò il signorotto pur non avendo capito una cicca "Gradite un tavolo?"

"Lo accetterei ben volentieri".

"Da questa parte allora, cavalier Gattapelata".

Lo accompagnò ad un grazioso tavolo in un angolo del locale, sistemato sotto il trofeo d'una testa di cervo. Il signorotto mise la tovaglia, accese una candela profumata e gli si piazzò davanti.

"Allora, cosa gradisce?"

"Fieno e avena".

"Fieno e avena?"

"Per il mio cavallo si intende."

"Oh, bene. E voi cavaliere?"

"Mah, non ho granché fame stasera".

Sicché non aveva granché fame egli si limitò a ordinare un antipasto di salumi e formaggio, seguito poi da una bistecca di manzo alta tre pollici, un secondo di polenta e salsicce e, per concludere, una salutare mela.

"Signore" lo interruppe l'oste nel mentre Gattapelata addentava il pomo "voi avete una gran fame, ma non avete bevuto nulla".

"Per Giove, avete ben donde a farmelo notare. Dite, avete del vino?"

"Il migliore della regione!"

"E sia. Portatemene una damigiana".

"Intenderete un fiasco".

"Affatto. Intendo proprio una damigiana".

L'oste borbottando scese in cantina e risalì con un suo assistente a trasportare una pesante damigiana di buon vino, sbattendola sul tavolo del cavaliere.

"Ecco a voi la vostra damigiana cavaliere, scusate il ritardo".

"Nessun disturbo gentil signore. Mi avete appena reso l'uomo più felice del mondo!"

E, afferrata la damigiana con le mani possenti, il cavalier Gattapelata diede gran prova di forza quando se la sollevò alla bocca e, come nulla fosse, iniziò a sbevazzare finché non la vuotò.
Quando il cavaliere riposò la damigiana, ora ben più leggera di prima, gli occhi di tutto il locale eran rivolti verso di lui.

"Padre" disse lo sguattero al proprietario, di cui era figlio "Il suo nome mi era vago, ma la sua fame è leggendaria e ora ricordo. Credo che egli sia lo stesso cavalier di ventura che anni fa si era fatto nomea di cialtrone da queste parti e che, per diverse storie di cui non oso parlare, sia stato esiliato dal signore. Se fosse lui?"

"Figliolo, cialtrone o meno questo Crapapelata pare possedere grandi somme vista l'armatura che indossa. Dai retta a me, finché ha il danaro il cliente ha sempre ragione".

Rincuorato il figliolo e speditolo amorevolmente a calci in cucina per evitare che rompesse ancora, il signorotto dalle guanciotte pendetti si avvicinò al valente cavaliere, che si era appena sbafato mezza dispensa sena neppure togliersi l'armatura. Egli giaceva sulla sediolina con la visiera che si alzava e abbassava a seconda del suo russare. Con un gentile tocco sulla spalla l'oste lo destò.

"Chi è là? Salgiuchidi? Mammalucchi? Ungheresi? O ancor peggio Reggiani?" S'agitò Gattapelata dal suo sedile.

"Cavaliere calmatevi, sono solo l'oste della locanda e vi porto il conto".

"Ohibò, allora è ancor peggio. E sia, ciò che è giusto è giusto, mi dica ciò che le devo".

"Sono duecento danari esimio cavaliere".

Dalle fessure dell'elmo il proprietario poté ben vedere gli occhi stralunati del possentecavaliere innanzi a lui.

"Duecento danari?" Ripetette sconvolto.

"Esimio cavaliere, la maggior parte è il costo del vino".

"Ma il costo del vino nel menù non pareva tanto alto".

"È vero, ma voi non avete preso un fiasco, ma tutta una damigiana che pesa tanto quanto me!"

Dopo un attimo di esitazione il cavaliere si arrese e, alzando una mano, abbassò il capo.

"Ancora una volta avete ben donde in ciò che dite. E io vi dico che adesso vi darò quanto vi devo".

Si mise mano ad una cintura e il signorotto poteva già sentire il tintinnio del danaro. Ma ecco che di fronte a sé vide il cavaliere farsi pietra.

"Embè cavaliere? Dove sono i danari?".

"In tutta onestà" replicò imbarazzato il cavaliere, gesticolando "ho paura d'aver perso la mia sacca".

A quella risposta, al signorotto, rimasto fino ad allora gentile e  affabile, risalì per la gola una vociona roca che pareva provenisse dall'oltretomba e iniziò a sbraitare.

"Ma insomma, che storielle son queste? Voi venite a mangiare pensando di non dover pagare? Ma lo sapete che anch'io devo campare?"

"Voi equivocate. Io pensavo di pagare, ma mi rendo conto solo ora di aver perso il mio portamonete. Deve essere avvenuto quando fui disarcionato da cavallo".
L'oste, che ormai aveva perso ogni riguardo per il cavaliere, continuò a infuriarsi in maniera crescente.

"Insomma, vi fate fuori mezza dispensa e ora pensate di cavarvela con questa ridicola scusa?"

"Ma no, lasciatemi andare, giuro che troverò il portamonete e tornerò a pagarvi".

"Ah, certo e io vi lascio scappare così e oltre che rapinato son pure preso per il naso? Ah no, non se ne parla proprio! Mi pigliate per scemo?"

"Mai detto nulla di simile".

"E allora rendetemi qualcosa di vostro in cambio per risarcirmi".

"Risarcirla? E con che cosa?"

L'oste ci ponderò un po' su. Poi adocchiò una parte dell'armamento del cavaliere che lo interessò non poco. Il brando che Gattapelata si portava appresso, legato con una spessa cintura alla vita, gli arrivava quasi fino al piede e, quando camminava, si sentiva sbattere il fodero sulla coscia come mestolo sulla scodella.

"La vostra spada pare proprio di buon fabbro, tanto quanto il mio vino era di buona vigna" si espresse il il proprietario, tornando alla sua voce melliflua "Saprei rivenderla ad un buon prezzo e voi ve ne riacquisterete tranquillamente un'altra con i soldi di cui andate cianciando".

"Il mio spadone?" Il cavaliere reagì scomposto quasi gli avessero chiesto invece la testa "Giammai! Non sarei più il cavalier Gattapelata senza di esso".

A quel punto l'oste perse le staffe, sbatté il piede in terra e gli sbraitò contro.

"Macché cavaliere! Io vi ho trattato da gran signore perché ne avevate l'aria, ma ora mi rendo conto che mio figlio aveva proprio ragione: siete solo un gran cialtrone dalla pancia ad otre!"

"Vostro figlio ha detto cosa?" Sbraitò di rimando il nerboruto cavaliere, e di nuovo gli fremeva l'elmo in capo. Le sue mani stritolavano l'aria quasi da renderla solida "Nessuno può chiamare il cavalier Gattapelata un cialtrone e camminare ancora; è una macchia che va lavata col sangue! Volevate la mia spada? Ve la mostro ora. A noi!"

Ma il cavaliere era ancora ubriaco fradicio dopo essersi scolato per intero quella damigiana e, quando cercò di estrarre la sua lama, essa gli sfuggì ed il suo pomello d'ottone atterrò diritto in fronte ad un tranquillo avventore seduto al tavolo di fronte, che crollò a gambe all'aria.

Fu allora che si scatenò un putiferio. Il gestore della locanda richiamò a sé inservienti, amici, clienti, vicini di casa e già che c'era un'individuo che passeggiava per caso lì di fronte. Presto una moltitudine di contadini, pastori, artigiani, mercanti e fannulloni circondarono l'alta figura del cavaliere e gli si avventarono addosso, decisi a scaraventar l'ingombrante e sgradito ospite fuori dalla porta. Il nostro cavalier Gattapelata diede allora un'altra prova della sua tremenda forza. Il primo che gli si fece avanti non fece neppure in tempo a tentare un colpo che subito fu agguantato saldo e sbattuto come un sacco di tuberi sopra il tavolo su cui il nuovo arrivato aveva consumato il lauto pasto dopo un lungo digiuno, sfondando aggressore e mobile. Ecco gli si parò davanti il secondo, che teneva sopra la testa minacciosamente una sedia, e alle spalle il terzo. Uno ricevette un pugno del suo guantone di ferro, da farlo volare fin sopra il lampadario e l'altro, che aveva cercato di prenderlo alle sue cavalleresche spalle, ricevette un cavalleresco calcione nelle terga, proiettandolo fuori dalla finestra.

Ebbene sì, sporadici ma carissimi lettori che vi siete imbattuti in questa storia. Benché fino ad ora il nostro eroico cavaliere abbia fatto una figura ben grama e sia stato chiamato cialtrone dal figlio del proprietario, egli e anche voi a quanto pare, ignoravate le sue vere doti. Dopotutto non si diventa cavalieri di ventura per nulla. Il grande Gattapelata, seppur non particolarmente brillante né sia il più dritto dei dritti, se spronato dalla giusta motivazione sa tirare fuori la forza di un leone come avete potuto vedere. Certo, sperimentarla su dei poveri diavoli ignari non é certo la migliore dimostrazione, ma credetemi se vi dico che egli é un uomo di buon cuore. Cercate di capirlo, è molto suscettibile alle offese rivolte alla sua persona, peggio ancora se colto quando é sbronzo marcio, come ebbero modo di confermare il quarto ed il quinto, che, rispettivamente, uno prese una ferrea testata del suo elmo da lasciargli l'impronta della visiera sul muso e l'altro una cinquina tanto forte da farlo ribaltare, fare il giro a mezz'aria e atterrare in piedi, dove si inchinò fra gli applausi e stramazzò a terra. Insomma, Gattapelata sembrava un novello Carlo Martello, protagonista della sua personale battaglia di Poiters.

Nel frattempo, il terzo assalitore, che, qualora ve lo foste scordati, era stato spedito con un calcio fuori dalla finestra, rientrò armato di un randello abbastanza nodoso e gli corse incontro per restituirgli qualche batosta. L'abile cavaliere, abituato ad essere preso di mira da più lati, sistemò velocemente il sesto, mandandolo oltre il bancone semplicemente pigliandolo per il naso e si voltò verso il tenace avversario. Vedendo vibrare il colpo sollevò il braccio, contro cui armatura il bastone si schiantò, finendo in pezzi, inondando l'aria di segatura. L'uomo rimase sgomento ad osservare la metà di bastone che gli era rimasta in mano, mentre il cavaliere, prontamente, gli assestò un gancio tanto poderoso da farlo volare per tutta la stanza e ributtarlo di nuovo fuori dalla porta, da cui era tornato. Sperando di coglierlo distratto, un particolarmente audace cliente regolare, si alzò dalla sedia, la sollevò sopra la propria testa, e gli corse incontro, ancora voltato, brandendola e desideroso a farne uso non ortodosso. La calò sopra il celato setto nasale del Gattapelata come avrebbe calato una zappa, ma quello gli arrestò il tragitto prematuramente, alzando solo la mano sinistra e serrandola sul legno del sedile. Gliela strappò di mano e la poggiò alla sua sinistra, mentre il cliente già preparava un diretto destro. Gattapelata però blocco anche quello a mezz'aria ancor più facilmente, ci chiuse intorno alle dita, intrappolandogli il pugno e con quella mano che era un maglio d'acciaio ci giocherellò, torcendoglielo e rigirandolo. L'audace, ma sfortunato, ululò dal dolore, fino a che il bruto in armatura si stancò di quel verso e, sollevando minaccioso la mano destra, la richiuse a cazzotto e gli calò un piccione sulla fronte, che rintoccò a batacchio di campana. Quello prese a brancolare sperduto come un ignavo, ma premuroso, Gattapelata, lo indirizzò, con uno spintone, a sedersi sulla sedia che aveva preparato antecedentemente. Nuovamente ricondotto da dove si era alzato, Gattapelata la sollevò, con lui ancora rintronato sopra e scaraventò sedia e sedente sulla folla.

Ormai nessuno cercava più uno scontro diretto e tutti i rimasti cominciarono a buttargli addosso tutto quello che avevano. Incurante delle bottiglie, sedie e sassi che gli rimbalzavano e infrangevano per tutta l'armatura, il cavaliere si piegò su una panca su cui potevano sedersi cinque persone, la sollevò come un fuscello sopra la propria testa e la lanciò verso la folla tiratrice, che arretrò verso le pareti per evitare di venirne schiacciati.
Dopo questa ennesima prova di forza erculea, regnava un tremendo silenzio nel salone. Ormai alla folla era passata interamente la voglia di misurarsi con un mostro del genere e si limitava a guardarlo con occhi impauriti.

Allora una tremenda risata risuonò per tutta la stanza, proveniente dall'elmo di cavalier Gattapelata, una risata sprezzante interrotta da singhiozzi da ubriaco e frasi di gloria.

"Allora gentaglia, vi siete arresi? Vi è passata la voglia di scherzare, branco di conigli? Avete capito con chi avete a che fare, pusillanimi? Avete innanzi a voi l'uomo che vi ha sbaragliato tutti da solo, disarmato e senza perder fiato. Non riuscirono i mori e pensate di impensierirmi voi? Altro che cialtrone, io sono il tremendo Gattapelata! Tenetelo bene in testa quando vi lavorerò per bene le facce, perché quando vi chiederanno della vostra salute voglio che sappiate chi ringraziare!"

Detto questo cominciò ad avanzare verso le povere anime, che tremavano, facendo tremare il pavimento coi suoi pesanti passi di ferro. Quell'armatura spaventosa pareva proprio inarrestabile, ma l'apparenza fu dissolta da un gran baccano. Fra lo stupore di tutti i presenti il potente Gattapelata si fermò, traballò e cadde in avanti spalmando la faccia a terra, rivelando dietro di lui l'oste della locanda, con in mano un pesante mattarello ancora pieno di farina, con cui aveva vibrato il colpo provvidenziale.

"Legno di stagione. Anche il più valoroso condottiero può piegarsi con del buon legno di stagione".

Per tutta la folla si sparsero esclamazioni di gioia e complimenti e il nome di Giorgione, l'oste appunto, si sparse per tutta la locanda in festa.

"Bravo Giorgione!"

"Irreprensibile Giorgione!"

"Portiamolo in trionfo!"

E appunto erano già pronti a trascinarlo per il paese e organizzare seduta stante una processione in suo onore, ma con gran severità Giorgione li portò all'ordine e con un gesto indicò il corpo esanime del Gattapelata.

"Signori, vi ringrazio, ma avete forse dimenticato il motivo per cui ha avuto inizio questa rissa? Questo tale, Crapapelata, ha fatto lo gnorri invece di pagare onestamente la sua cena ben sostanziosa. Ebbene, ora che ha avuto la sua lezione è il momento di saldare il conto".

Facendosi strada fra la folla attorno a lui, Giorgione si avvicinò al corpo esanime del cavaliere e gli si chinò sopra. Lo prese per le spalle e lo ribaltò con l'aiuto dei presenti, come una tartaruga e una volta fatto gli levò l'elmo dal capo. Si trovò di fronte alla faccia di un omone con un naso largo, fronte sporgente e sopracciglia spessissime, la cui faccia era incorniciata dai riccioli di barba e capelli rossi come il sangue.

"Che faccia spaventosa" commentò il terzo assalitore, chiamato Goffredo, rientrato di nuovo nella locanda ormai pesto "se lo lasciamo andare questo qui combinerà solo guai. Io dico di buttarlo nel fiume!"

Questa proposta provocò molti assensi fra i presenti e presto iniziarono ad urlare a gran voce "nel fiume! Nel fiume!" Ogni animo fu però zittito da Giorgione che sbatté il mattarello per terra come un comandante ai suoi uomini.

"Amici, capisco la vostra rabbia, ma una giusta pena è equivalente al crimine. Oggi non annegherà nessuno".

"Ma non possiamo lasciarlo così!" Protestò il figlio, sbucando dalla cucina "era già stato esiliato una volta da queste terre per le sue malefatte ed ora è tornato. Non possiamo lasciarlo libero".

"Il ragazzo ha ragione! Al fiume, al fiume!" Gli diede corda Goffredo. Presto si levò un altro turbinar di incitamenti e grida per sbarazzarsi del povero, esanime, Gattapelata. Ma di nuovo ogni insurrezione fu placata quando il mattarello in legno di stagione volò e si schiantò in fronte a Goffredo che rimase steso a terra.

"Figliolo, torna in cucina o il prossimo lancio sarà a tuo indirizzo. E voi, ragazzoni, aiutatemi con questo balordo".

Presto gli uomini circondarono la figura del Gattapelata e iniziarono a spogliarlo. Così come egli aveva non solo rifiutato di pagare la cena, ma anche aveva distrutto il salone, così Giorgione non si accontentò della spada, ma gli prese tutta l'armatura. Una volta spogliatolo delle armi, delle placche, della cotta di maglia e anche la pettorina di cuoio, lasciandolo nudo e crudo, essi gli cinsero addosso una tovaglia e lo legarono con corde robuste e nodi stretti. Poi lo trasportarono fuori, svegliarono Baldobracco che dormiva accanto le ciotole di fieno e avena e ci issarono sopra il cavaliere, in maniera che non cadesse. Quindi portarono il cavallo fino in strada e con una pacca ben assestata lo mandarono al galoppo verso il confine da cui erano giunti il cavallo e il suo sgradito cavaliere, sperando di non rivederli più.

Alla fine rientrarono nel locale e indissero una festa in onore del buon vecchio Giorgione.

***

Frattanto Baldobracco continuava a correre per la strada a perdifiato fino a giungere di nuovo alla vista del crocevia. Fu allora che Gattapelata prese di nuovo conoscenza, con un brutto mal di testa, tutto indolenzito e infreddolito. Iniziarono a tornargli in mente tutti gli avvenimenti di poco fa. Si rese poi conto di essere stato spogliato della sua armatura, avvolto in una tovaglia e legato come un salame in sella al suo destriero. Che brutta situazione. Non gli ci volle molto per piantare i piedi nei fianchi del cavallo per farlo arrestare ed impennare sulle gambe posteriori, facendolo di nuovo ruzzolare a terra, fra imprecazioni, che non possiamo permetterci di riportare, a dio, alla madonna e tutti gli angeli in colonna. Anche il cavallo si dimostrò degno di tale padrone e nitrendo per il dolore ai fianchi, cominciò ad insultare nella sua lingua tutte le divinità equine.

"Perdonami Baldobracco, era necessario" si scusò il cavallerizzo, cercando di rizzarsi in piedi, ma tanto era ancora pieno in corpo d'alcol che non riusciva a reggersi in piedi. Continuando a ciondolare di qua e di là, il cavaliere si dimenava fra i nodi che quella masnada giù alla locanda gli avevano messo addosso. Lo avevano talmente conciato per le feste che la rogna lo avrebbe probabilmente accompagnato fino a Natale. Dondolava che dondolava, preso com'era a cercare di liberarsi le mani da dietro la schiena, perse l'equilibro e cadde di nuovo miseramente a terra, insultando i fautori di quel brutto scherzo fino alla settima generazione.

Ciononostante non tutto il male vien per nuocere, dice un proverbio più vecchio dell'epoca in cui è ambientata codesta storia. Difatti, da quella nuova prospettiva, il nostro valoroso cavaliere senza armatura poté vedere con chiarezza la sua maledetta sacca di iuta impigliata fra i rami di un cespuglio d'ortiche, lo stesso in cui era caduto precedentemente quella notte.
Grande fu il gaudio e la gioia che gli rinfrancarono le viscere! La sua tremenda forza lo attraversò di nuovo fremendogli il corpo. Ora che aveva trovato la sacca con le monete egli poteva ora tornare indietro e consegnare il dovuto all'oste, ripagando così il suo debito, per ottenere indietro la sua armatura e tutto l'equipaggiamento annesso e ripulire il suo nome dal marchio di cialtrone che gli era stato illecitamente attribuito. L'unico problema che si contrapponeva fra lui e la riuscita di questo piano erano solo quelle corde. Ed egli, dunque, cominciò a sforzarsi. Si mise seduto in terra e cercò d'allargare le braccia con tutte le sue forze. Le sentiva allentarsi, gli pareva di riuscire a spezzarle, ma il dolore era tanto e a forza di scavarsi i polsi non riusciva comunque liberarsi. Smise per riposare e rimase ad ansimare a lungo stando seduto. Il cavalier Gattapelata pareva essere davvero stato sconfitto da un branco di avventori di taverna. Che umiliazione insopportabile.

Quand'ecco si mise all'erta quando gli parve d'udire un fruscio di foglie. E poi dopo il fruscio il rumore di rami spezzati. E poi dopo ancora delle zampe che affondavano per terra.
Questi rumori provenivano tutti dalla foresta di fronte a lui, accanto alla quale era stata scavata la strada. Si facevano sempre più forti e definiti che quasi poteva immaginare la stazza dell'animale che gli veniva incontro. La bestia camminava e camminava. Ed ecco gli apparve. Prima una figura in penombra fra le frasche e poi sempre più definita agli occhi della luna. E parlando di occhi... che occhi che aveva quella belva! Erano non due, ma tre enormi occhi gialli tagliati a lama di coltello, si cui uno sulla fronte. E la testa che li conteneva pareva un incrocio fra quella dei coccodrilli e quella d'un lupo, né completamente l'uno e né completamente l'altro e per questo ben più spaventoso di tutti e due. La bestia camminava su quattro zampe, ma un terzo paio si protraeva verso di lui per ghermirlo. Con abile scatto Gattapelata si buttò indietro, evitando di essere afferrato da quelle brutte manacce unghiate che volarono sopra la sua testa. Nel frattempo Baldobracco aveva preso a imbizzarrirsi e saltava agitato.

"Guai a te bestia! Hai di fronte il grande Gattapelata!" Esclamò minaccioso il cavaliere, con l'alito ancora al gusto di vino.

"Guai a te Gattapelata, perché stai per divenir Gattascuoiata!" Gli replicò a modo il mostro, rizzando in aria le orecchie lupine. Il baldo eroe fu colto di gran sorpresa a sentirsi rispondere dietro dalla creatura. Così, tremando e a ben ragione, decise che forse era il caso di chiedere delucidazioni.

"Chi sei tu che mi minacci?"

"Io sono Alemanno, il drago che infesta questa foresta e tu sei il primo che ha il coraggio di rivolgermi parola. Dite, non avete paura?"

"Un cavaliere che combatte per la giustizia non ha motivo d'aver paura".

"Voi avete la parlata da cavaliere" Osservò il drago "ma è difficile credervi così conciato. È forse questa tovaglia l'armatura con cui mi venite incontro?"

"Ridi pure bestia, so io come trattare razze come la tua".

"Io rido e a ben donde. Voi siete ubriaco e gli ubriachi sono il mio pasto preferito. Avete la carne bella tenera e condita quando vi piglio a tornare a casa tentennando. Ma voi, caro il mio cavaliere, o presunto tale, siete pure già legato e servito su un piatto d'argento. Sarà una cena che ricorderò finché campo vedendo quanto siete grosso".

Avanzando lentamente il drago a sei zampe gli venne incontro, spalancando una bocca tanto da farla sembrare una caverna. Aveva un alito fetido e il povero cavaliere non poteva neppure tapparsi il naso. Era troppo tardi per scappare, era vero, ma ciò non voleva dire che non avrebbe venduto cara la propria pelle.

***

Cari lettori che siete giunti sin qui.
Vi ringrazio per la lettura.
Quel che avete fatto significa molto per me e se è vero che un autore scrive per passione è anche vero che vedere che il suo lavoro venga notato porta gioia al suo cuore
Volevo solo farci sapere questo. Non ho idea di quando aggiornerò la storia, forse domani forse mai. Non ho neanche idea di come finirla, ma si direbbe che questo, data la natura della storia, non sia affatto importante.

Con tutta sincerità vi ringrazio ancora per aver letto.

 

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Capitolo 2
*** Il ritorno di Gattapelata e la selvaggina particolare ***


Alla locanda si festeggiava come non si festeggiava da tempo, con brocche che passavano più tempo piene che empie tanto veloce venivano rifornite dagli sguatteri di Giorgione. Lui stesso andava da una tavolata all'altra, come una trottola impazzita, con due fiaschi stappati differenti per mano, agitando le guaciotte da molosso, arrossate dalla bevanda infernale, quasi dovesse prendere il volo come un coleottero.

"Questo è Malvasia delle Lipari!" Declamava, spillandone un po' ad Ettore che tendeva la brocca "Questo il Greco di Napoli!" Continuava, versandone a Gilberto, che non l'aveva affatto chiesto e si trovò senza volerlo sotto una fontana rossa "E per te, Giminiano, la tua Vernaccia omonima!"

Giminiano era dall'altra parte del salone e, sentendo il suo nome, agitò le orecchie come un pastore tedesco e si voltò appena in tempo per vedere Giorgione prendere slancio e lanciargli addosso il fiasco.  Pareva un dardo da guerra di quelli che avevano abbattuto le mura di Cartagine, ma quando Giminiano sollevò la mano sinistra aperta e la richiuse, ecco che, come per magia, si ritrovò stretto in pugno il collo d'anatra del fiasco di Vernaccia. Predata la preda con presa perentina, ringraziò l'oste con un cenno dei suoi occhi delicati e adagiò le labbra, tanto rosse che parevano cresciute su un ciliegio, all'orlo del fiasco di Vernaccia, sfiorandolo appena, come baciasse una dama di vetro dormiente.

Giminiano non era stato partecipe alla ressa di poco fa. Era il novello capo delle guardie del paese, un ventenne biondo e riccio, talmente privo di barba e baffi che alcuni dicevano non gli crescessero affatto, quasi avesse pelle di donna; gli occhi di un azzurro delicato che sembrava sarebbero andati in frantumi da un momento all'altro e le mani tanto lisce e le unghie pulite, che si sarebbe detto non avesse lavorato mai in vita sua. Questo ragazzo di porcellana era stato mandato a chiamare, dal figlio dell oste, per venire a festeggiare un grande avvenimento. Pareva, da quanto gli avevano detto, che un prepotente gigante, dalla criniera di fuoco, avesse fatto irruzione nella locanda e avesse seminato panico manco fosse grano ad ottobre. Il racconto confuso continuava parlando di come, con fame mostruosa, si fosse avventato sulla dispensa, divorandola in meno di un pater nostro, e che avesse poi tentato di fare lo stesso con gli avventori. Ma, come in ogni racconto, le forze del male furono piegate, stavolta non da spada ma dalla buona cucina che il gigante tanto bramava, incorporata nel fendente decisivo di una mattarellata sul capocollo, opera d'arte di Giorgione. Il gigante corazzato fu reso gigante stramazzato e, spogliato del suo terribile arsenale dai magnanimi paesani che, invece di spaccargli la testa in due come un'albicocca ancora aspra, lo avevano mandato a farsi un giro giù al confine, in groppa al suo cavallo imbizzarrito, quest'ultimo bardato di tutto punto e il cavaliere nudo e dormiente come un neonato.

Ora, il motivo per cui i paesani festeggiavano, non erano certo tutti i denti persi e i lividi trovati nella rissa, ma del bottino che si erano fatti, stavolta è il caso di dirlo, in barba al cavaliere di fattura gradassica. Corazza di placche sporche ma integre e sonanti come campane; cotta di maglia intessuta con tale precisione che pareva seta prodotta da un bruco che filava ferro; un elmo tanto resistente ed elastico che neppure la sferzata di legno di Giorgione l'aveva scalfito e fatturato per una testa tanto grande che se ci si urlava dentro si sentiva l'eco lontano d'una caverna. La spada poi! Pesava quasi dieci libbre ed era lunga poco meno di sei piedi: la si fosse posta accanto ad un uomo lo avrebbe superato di una testa e forse di più. Il traverso era corto come il prepuzio di un ebreo e il manico, dal pomolo tinto d'oro, era tanto spesso quanto quasi la lama, già di per sé ampia, segno che, l'unico che potesse brandirla, fosse qualcuno che avrebbe potuto benissimo stringere nel palmo della mano la testa di un uomo, un vero e proprio gorilla fattosi bipede perenne. E lo scudo? Non c'era. Né su di lui, né sul suo cavallo. E d'altro canto ne avrebbe mai avuto bisogno un bestione simile che, seppur svenuto, servirono cinque uomini per spostarlo appena? Un bestione simile che avrebbe potuto venire alle mani con Golia e uscirne vincitore?

Giorgione e gli altri speravano di trovargli addosso anche il portamonete, ma il gigante diceva il vero, non l'aveva. Un barbaro come lui, dopotutto, che se ne faceva del denaro quando poteva mettere a soqquadro trattorie, locande e fattorie a mani nude, come aveva per poco fatto lì?

Ma i paesani erano contenti lo stesso. Portavano in cerchio, in parata, sopra le loro teste, gli scintillanti e pesanti trofei, inneggiando canti all'irreprensibile Giorgione, loro salvatore locale.

Ma l'allegria generale, che si diramava da un villico all'altro con tale rapidità ch'era seconda solo alla peste di Atene, non contagiava Giminiano. In un angolo beveva piano il suo fiasco di Vernaccia, muto e assorto accatastato al muro, circondato da gente che divorava spezzatini di cinghiale, affondati nella polenta bollente e granulosa, condita con sugo sfizioso e sfrigolante di cinghiale stesso, sedano, cipolla e aglio. O ancora, in altre tavolate, altra selvaggina, con solide costine di capriolo in umido, belle salate e speziate da rosmarino e altre erbe profumatissime. Al centro del cerchio della parata dei ferri del cavaliere battuto e messo in rotta stava una piccola orchestra di suonatori di paese, uomini e donne con la cetra o il liuto che pizzicavano le corde, altri che soffiavano a perdifiato in cornetti diritti o serpentini, chi percuoteva un tamburo basco e chi invece agitava le nacchere. La gente ballava indipendentemente che si trovasse per terra o sui tavoli e si intonavano canti, tutti quelli che gli passavano per la testa, fossero canzoni popolari, di chiesa, satira sull'imperatore e il papa, ballate di eroi, non aveva alcuna importanza.

Giorgione era ora in testa al piccolo corteo, con lo spadone da dieci libbre sollevato per aria, fra il plauso generale. Goffredo, pesto ma incosciente del dolore, s'innalzò su un tavolo, con in mano un calendario. La sua voce stridula era tanto potente che si udiva pure fra le risa, i canti e la musica.

"Sant'Ignazio, Santa Vereburga, San Nicezio, via, tutti via questi balordi!" E nel dire gettò via il calendario al vento "Hanno forse abbattutto un gigante questi timorati? Sentite come suona bene invece San Giorgione!"

"Bevete e mangiate, mangiate e bevete!" Raccomandó Giorgione a destra e manca "Oggi sia fatta gran festa e crepi l'avarizia, poiché domattina stessa ci recheremo al castello a rallegrare il nostro signore!"

Gli fu subito accanto il figlio, Frederico, che si era messo in testa l'elmo di Gattapelata, ma era così grosso e così piccola la sua testa, che quando cercò di parlare uscì un rimbombo incomprensibile da troll scandinavo. Il padre poggiò un momento la spada per assestargli un sonoro coppino sulla nuca metallica, che gli fece alzare di scatto la visiera. Ripresosi dal colpo riprese anche il discorso di Frederico.

"Gli racconteremo di come fummo assaliti da un furente cavaliere ch'egli stesso aveva esiliato e tornato per saccheggiare le sue terre! Gli racconteremo di come da soli lo abbiamo assalito e disarmato! Gli racconteremo della fine grama che gli abbiano fatto fare senza disturbare la milizia! Sarà così riconoscente che ci siamo occupati del suo vecchio nemico che ci ricompenserà, poiché è magnanimo il nostro signore, Pipino il lungo!"

"Troppe parole figliolo" Esclamò Giorgione dandogli un altro coppino, che gli fece ricascare la visiera "Ma egualmente apprezzate. E non scordatevi, signori miei, del gruzzolo che ci rifaremo a rivendere tutta questa argenteria!"

E portò al cielo di nuovo lo spadone. La musica, le risa e i canti ripresero. Giminiano strinse forte il fiasco fra le dita eleganti che quasi gli scoppiò in mano. Che umiliazione. Da quando era stato eletto balivo, pensava, e lo avevano spedito in questo paese dimenticato da dio a far valere la legge, non era successo proprio un bel niente. Il fatto che non succedesse niente era assai grave, perché significava che senza alcun bandito da scacciare, ladri da incarcerare e adulteri da mettere alla gogna, non ci sarebbe stata occasione per lui di poter carriera impressionando i suoi superiori in città. Aveva già fatto richiesta di trasferimento per andare da qualche parte più turbolenta del feudo, ma fu respinta. Gli avevano scritto che da quando era arrivato i crimini erano scesi quasi a zero e sarebbe stato un peccato privare i paesi della valle di un così bravo tutore della legge.

Smacco ancor più grave, l'occasione buona di farsi valere e occuparsi di un tremendo bandito gli era sgusciata via dalle dita perlacee quando gli abitanti stessi del paese lo avevano scacciato via a suon di sganassoni senza rendere conto alle autorità, cioè lui, se non a fatti avvenuti. E ora, quelle iene, lo avevano invitato solo per brindare alla faccia sua.

Non voleva passare il resto della sua giovinezza bloccato in questo paese di sub-umani buzzurri a girarsi i pollici. Si sarebbe voluto mangiare le mani, ma si trattenne: il suo sangue non era certo rosso.

"Lode a Giorgione!" Gridò Goffredo, steso su un tavolo adoperato come un divanetto etrusco, alzando una coppa di legno in suo onore.

"A Giorgione, che stroncò il gigante Crapapelata!" Fece eco Frederico, imitando il brindisi sollevando l'elmo del gigante rosso, riempito di Ippocrasso addolcito con miele.

"Gattacolata!" Lo corresse una voce da vecchio

"Grattasuolata!" Propose ancora una voce nasale.

"Checcarosata!" S'intromise una voce squillante.

"GATTAPELATA!" Diruppe una voce potente e chiara, che soverchiò tutte le altre.

A chi suonava il liuto saltarono le corde. A chi beveva andò di traverso. Chi mangiava si morse la lingua. A chi cantava mancò l'aria. Chi ballava incespicò. Chi si baciava trasalì e diede una testata all'altro. La sala si fece silenziosa mentre tutte le pupille guardavano l'ombra che si schierava fra il buio della notte nella cornice della porta. Era un plantigrado che aveva molto più in comune con un orso che un umano. Tutti nella sala si tramutarono come statue di sale, meno che Goffredo, Giorgione e Giminiano. Il trio di siffatti diversi coraggiosi si fece avanti alla figura torreggiante di Gattapelata.

Il cavaliere aveva un aspetto terribile, ancor peggiore della prima volta che ci avevano avuto a che fare. Era nudo e crudo come lo avevano lasciato, avvolto solo di una pelliccia di peli tanto rossi e folti da far credere andasse a fuoco. Non aveva neanche la tovaglia in cui lo avevano fasciato a mo' di sudario a parare la vista dei presenti dal suo membro di una certa importanza.

Giminiano gli si era fatto incontro, pur non avendolo mai visto pria di allora, proprio in ragion della sua stazza tremebonda. Il fisico pachidermico del possente Gattapelata non tradiva le aspettative di tutti resoconti inverosimili e concitati che gli avevano fatto, che, seppur contradditori in più punti, concordavano che il gigante rossiccio avesse una mole da montagna. Il novello balivo non fu affatto deluso da quelle spalle larghe, una schiena che avrebbe trascinato un giogo ed un collo da quercia. I suoi occhi, piegati sotto delle sopracciglia infuocate, brillavano quasi di luce propria. Non c'erano dubbi, era lui la bestia di cui gli avevano parlato pocanzi, e ora, giubilio dei giubili, si era ripresentata di sua spontanea volontà, pronta per essere catturata e portata alla giustizia. Finalmente avrebbe avuto modo di impressionare quelli giù in città.

Giorgione invece aveva solo voglia di cambiargli i connotati per bene questa volta. La prima, nonostante avesse sfasciato mezzo locale e si fosse avventato sugli avventori, si era trattenuto e gli aveva dato, tutto sommato, una punizione ben leggera. Ma giacché all'impudente era balzata la malaugurata idea di far rivedere il suo brutto muso da diavolaccio, non lo avrebbe lasciato uscire dall'osteria se non un pezzo alla volta. Aveva quindi riposto al sicuro lo spadone e aveva tirato fuori il mattarello in legno di stagione.

Goffredo invece era balzato all'attacco solo perché sopravvalutava le sue reali capacità.

"Ho un conto in sospeso con voi" Annunciò Gattapelata. Solo ora si notavano, su tutto il corpo, graffi, morsi, lividi, strappi e ferite varie fresche e sanguinanti. Menzione meritano anche strane chiazze gialle viscose e ribollenti che andavano a colare e confondersi con la sua linfa vitale, creando una strana pozzanghera sul pavimento ai suoi piedi color arancio.

"Io pure!" Fu il grido di guerra del baldo Goffredo, scattato all'attacco, tirandosi dietro un fiasco vuoto per riempire di bernoccoli la testa del cavaliere.

Non ne ebbe il tempo però, che si ritrovò sommerso da un corpo gigantesco di un essere più grande anche di Gattapelata. Un corpo ancora caldo, disarticolato, dalla pancia molle, peloso, irsuto e che puzzava di zolfo, magnesio e carbone tutti insieme. Se vi dovesse riuscire difficile immaginarvi qualcosa del genere, cari lettori, immaginatevi lo sgomento di Goffredo quando si trovò schiacciato da una mostruosità simile. Cadde a terra di schiena, con il corpo mostruoso, che Gattapelata gli aveva gettato addosso, riverso su di lui, che non poteva alzarsi tanto era pesante. Goffredo alzò un poco il capo, stordito dal colpo, studiando che razza di meteora gli fosse piombata a terra. Per poco non urlò quando si vide sul petto un viso lupesco dal naso lungo e squamato, la bocca semiaperta, ricoperta di denti gialli a doppia fila, due lingue violastre, quasi blu a penzoloni e che pendevano da delle fauci prive di labbra. I tre occhi gialli a lama di coltello erano ancora aperti, più o meno, con le palpebre solo un poco abbassate, quasi l'animale stesse svegliandosi. Ma l'animale non si sarebbe svegliato più, era morto e il suo sangue giallo ricadeva dalla sua bocca su Goffredo, inzuppandolo.

Ebbene sì, era il drago Alemanno, che Gattapelata si era trascinato dietro per chissà quante miglia tirandolo per la coda pelosa e serpentesca. Nessuno osava preferire parola di fronte ad uno spettacolo simile.

"Oste!" Richiamò Gattapelata, indicandolo con l'indice e guardandolo fisso "Ti chiedo di perdonare il mio comportamento di stasera. Mi sono comportato in maniera oltremodo disgustosa e ho recato grave danno a te, la tua dispensa, i tuoi mobili e le facce dei tuoi clienti. Siete stati nel giusto, tutti voi, a mettervi contro di me e vi ringrazio per essere stati così compresivi e misericordiosi da risparmiarmi la vita, soprassedendo la vostra giusta collera. Io, vagabondo che non sono altro, ho trovato conforto direi quasi materno nelle vostre randellate premurose. Mi avete fatto tornare alla mente i dolci ricordi dell'infanzia, di come mia madre adoperasse lo stesso vostro fare amorevole nel deliberare nespole, batoste, scapaccioni e manorovesci al me infante. Io, che mi meritavo pienamente questo ed altro, non chiedo se non di accettare questo mio dono. In cambio spero solo di avere il vostro perdono e, così, giusto per dire, magari, forse, se proprio ne avete voglia, ridarmi indietro ciò che era mio e ora vostro bottino".

Giorgione lo guardò, prima incerto, poi confuso, poi commosso e ancora infuriato. Per tutto il discorso, Gattapelata aveva abbassato l'indice e il capo sempre di più, fino a mettersi in ginocchio. Ad un certo punto aveva preso a piangere e frignare,mosso dal suo stesso discorso, che si dovette asciugare le lacrime con la ruvida coda di Alemanno. Giorgione era indeciso su cosa dire. Poi guardò la bella carne di drago, con cui avrebbe potuto farci delle bistecche che sarebbero bastate per la prossima sagra di paese. La pelle, con cui si potevano fare vestiti caldissimi ed eleganti per la prossima collezione autunno/inverno. I denti, per collane, utensili, portafortuna e chiodi. Il sangue, come combustibile per le lampade. I draghi dopotutto non erano troppo diversi dal maiale: non si butta via nulla.

Giorgione gli si fece incontro e gli poggiò il mattarello infarinato sulla spalla, quasi lo volesse nominare suo vassallo.

"Gattapelata, voi siete un leccaculo eccezionale" commentò il saggio oste "ma a dragon donato non si guarda in bocca. Alzatevi dunque e sedetevi. Perché stasera anche voi siete invitato a questa festa".

Gattapelata si rimise in piedi. Aveva smesso immediatamente di piangere.

"Posso servirmi anch'io quindi?"

"Gattapelata, io il drago lo accetto e vi perdono, ma neppure se mi portaste qui il corpo di cristo io potrei permettermi di farvi cenare di nuovo. E poi ho bisogno che abbiate la bocca asciutta, che a quella del drago, come ho detto prima, non gli posso guardare dentro, ma dalla vostra sono curioso di sentir narrare la storia di come diavolo ve la siete trovato una bestiaccia del genere, a quest'ora di notte".

Gattapelata si trascinò su uno sgabello davanti al caminetto, che, per miracolo, non si sfasciò sotto il suo peso gravoso. Altri commensali presero e sollevarono a fatica il corpo di Alemanno per metterlo sotto sale, mentre Goffredo sgusciò via dolorante da sotto quel cadavere antico e freschissimo, andandosi ad pulire da tutto quel sangue ricco di ferro e minerali.

Giminiano invece restò in un angolo, di nuovo adagiato al muro come una farfalla, a rigirarsi fra le dita un pugnale e tendendo le orecchie appuntite. Gattapelata iniziò a narrare, fra un sospiro e l'altro.

***

Ricorderete, cari lettori, di come Gattapelata, ruzzolato giù dal fido Baldobracco, si fosse trovato, nella sua disperata ricerca di liberarsi dai nodi che lo insidiavano come spire di serpe, a tu per tu con l'infido drago Alemanno, i suoi tre occhi, sei zampe e i suoi diciotto artigli. La bestia avanzava lentamente, protendendo le zampe anteriori come braccia umane verso il povero cavaliere e allargando la bocca sempre di più. Poi, improvviso come una folgore, fece uno scatto in avanti da aspide, serrando le fauci, ma Gattapelata riuscì ad eludere la sua mossa, gettandosi di lato con un balzo e ricadendo dolorosamente su un fianco. Non poteva neppure attutire la caduta mettendosi le mani davanti il volto.

Alemanno addentò l'aria con forza. Una delle sue tre pupille rotonde cadde sulla sua destra, dove, steso nella terra brulla, si era proiettato Gattapelata. Subitaneamente si alzò sulle sole zampe posteriori, sollevando le altre quattro in aria, restò fermo un istante, prendendo la mira e ancor più rapidamente ricadde sulla preda con movenze da falco.

Era convinto che stavolta il pasto avrebbe smesso di agitarsi, ma si sbagliava, perché in situazioni come queste, Gattapelata ridiveniva sobrio tutto d'un tratto e, con un colpo di reni, riuscì a rotolare via in salvo, mentre gli artigli esplosero nel terreno di fianco a lui, in un'ondata di erbacce, sassi e terra. Alemanno rimase incastrato per un secondo di troppo con gli artigli nel suolo e Gattapelata riuscì a rimettersi in piedi.

"Gattapelata!" Lo ammonì il drago, alzando un'estremità del labbro, ridendosela della grossa di beffardesco umorismo "Non t'illudere, questo è solo un gioco per me, un innocuo passatempo per divertirmi fra un pasto e l'altro. Avanti quindi, cavaliere dall'armatura di stoffa, fatti avanti e, se non puoi affrontare me, affronta almeno la morte con coraggio!"

Gattapelata sudava, perché sapeva che anche una creatura infame come lui poteva dire il vero. Ma il suo orgoglio era molto più grande della paura.

"Anche senza braccia e senza gambe, al grande Gattapelata rimane la bocca e le mie fauci valgono più di te tutt'intero! Hai commesso l'errore di metterti contro una bestia più selvaggia di te, Alemanno mio!"

Alemanno ringhiò, facendo risuonare un gorgoglio marino degno di Cariddi e Gattapelata indietreggiò, ma non per spavento, ma guadagnare spazio. Alemanno saltò come un leone sull'antilope, ma le antilopi saltano più a lungo del leone e Gattapelata piegò le ginocchia e zompò a sua volta sotto l'arco circoscritto da Alemanno, portandosi dietro di lui. Alemanno atterrò, di nuovo colpendo a vuoto e si guardò intorno confuso. D'improvviso un dolore lancinante gli si propagò per il corpo, partendo dalla coda. Si voltò lacrimando, letteralmente, lacrime di coccodrillo e si trovò davanti uno spettacolo paradossalmente mostruoso anche per lui.

Gattapelata, come aveva promesso, aveva fatto uso delle sue fauci e aggirandolo con quel salto sotto il suo naso, quelle tagliole che erano i suoi denti, si erano serrate sulla coda pelosa del povero Alemanno. Il morso era tanto poderoso che la pelle si era spaccata e affondò nei muscoli, facendo zampillare via a fontanella un sangue giallo, vischioso, appiccicoso e caldissimo. La carne di Alemanno, cruda com'era aveva un sapore terribile, come addentare della corteccia, ma non era il momento di fare gli schizzinosi nella situazione di Gattapelata.

Alemanno non rimase senza reagire. Fattosi asino per un istante, rispose con un calcio posteriore all'altezza della milza del cavaliere sventurato, che lo fece volare all'indietro per una distanza impressionante, prima di spatafasciarsi di schiena su un albero al ciglio della strada. Alemanno uggiulò per la ferita. Gattapelata non aveva mai mollato la presa, neppure quando era stato staccato a forza dal colpo e gli erano rimasti in bocca un ciuffetto considerevole di peli neri. Il cavaliere gemette, ma stavolta era lui a ridersela.

"Hai visto?" Si vantò, sputando i peli che gli erano rimasti sulla lingua "Prima la tua coda, poi la tua gola. Ti mangerò pezzo per pezzo, animale".

Alemanno smise subito di contorcersi e tornò all'assalto, caricando il piccolo tronco su cui si era schiantato Gattapelata. Un altro salto di lato e di nuovo le fauci rettiliane morsero il bersaglio sbagliato, chiudendosi su una betulla. Gattapelata se la rise di nuovo e alacramente, agitando i brizzoli della sua barba infuocata, ma fu presto zittito quando si buscò una sberla pesante come il Battistero di Parma che lo fece volare via, una seconda volta, ai piedi di Baldobracco, spaventato. Si chiese, destabilizzato, che razza di torto avesse fatto all'Antelami per meritarsi questo, fino a che non gli si snebbiò la vista e si rese conto che Alemanno si era fatto come propria dell'arma impropria di quella stessa betulla che aveva morso e poi sradicato. La teneva stretta fra le zampe anteriori e si avvicinava al tremante eroe che si rialzò di nuovo a fatica, come il contadino con il falcetto approccia le ortiche per farci i tortelli alle erbette.

"Sbruffoncellesca creatura degna solo di sputi e calci in culo" La ingiuriò Gattapelata, pesto e con una voce che ormai era poco più di un mugugno "Se credi di aver diritto all'ultima parola ti sbagli di grosso. Se avessi le mani libere vedresti dove te lo infilo quell'albero!"

"È proprio questo il punto, caro Gattapelata. Tu non le hai mentre io ne ho ben sei. Sii riconoscente, perché è favorevole essere mangiati morti che vivi".

Sentenziate le ultime parole, il drago sollevò la betulla, con fronde, rami, fusto e radici, sopra la sua testa lupesca. I suoi occhi gialli brillavano al pensiero del purè di cavaliere, condito al vino rosso, che si sarebbe goduto a momenti. Vibrò il corpo mortale e lo assestò centrando in pieno il capo di Gattapelata. Ci fu uno schianto mostruoso, di tali che si sentono solo al cadere una quercia secolare.

La giovane betulla si era rotta in due tronconi. Sotto lo sguardo allibito del drago, la testa di Gattapelata era ancora integra, per la maggior parte. Sanguinava vistosamente da un taglio sulla fronte e tentennó di qui e di là. Ma era vivo.

"Fidati, anche se mi avessi sbattuto addosso la luna io sarei ancora in piedi. Ora è il mio turno, che dici?"

La minaccia di Gattapelata, però, non ebbe seguito perché il mostro gli balzò addosso di nuovo. Stavolta Gattapelata era troppo suonato per capire di spostarsi e vacillò all'indietro, un passo alla volta. Alemanno era fuori di sé. Voleva mettere fuori combattimento, una volta per tutte, questo mostruoso avversario fintanto che era rimbecillito dal colpo. Ora o mai più si diceva e mandava a destra e sinistra delle artigliate micidiali da fendere l'aria. Presto Gattapelata si ritrovò legacci e tovaglia a brandelli e le sue carni insanguinate a fiumi. Ecco che, ancora confuso, provò paura come poche altre volte nella vita. Sentiva la morte vicina e tutto quel sangue gli dava alla testa. Quando, ormai libero dalle corde, si voltò per darsi alla fuga più sfrenata, lo trattenne una grossa zampa che lo afferrò per un braccio e lo costrinse ad affrontare di nuovo il viso profumato di zolfo di Alemanno che spalancava la bocca e si leccava il palato con due lingue viola, quasi blu, luminose di fronte ad un gola senza fine e buia come caverna.
Volle mollargli un cazzotto e andarsene, ma subito anche l'altro braccio fu afferrato. La stretta era dura, ferrea e dolorosa, quasi volesse spezzargli le ossa, ma non lo fece e si ritrovò a venire sollevato per le braccia ad un'altezza considerevole.

Si sentiva come un bamboccio nelle braccia della madre da quanto si sentiva improvvisamente piccolo, almeno nel caso in cui questa madre avesse intenzione di ingoiare il bamboccio in un sol boccone, gesto che Alemanno si appropinquava giusto ora a compiere.

Cari lettori, di nuovo vi chiedo scusa per quello che sto per scrivere, ma sapete cosa si dice quando si ha paura. Che ce la si farebbe sotto e, invero, fu proprio quello che avvenne a Gattapelata. Forse per terrore, forse per tattica anticonvenzionale di lotta o forse ancora come ultimo regalo indigesto prima di farsi inghiottire dal suo avversario, il prode cavaliere pisciò senza ritegno in bocca ad Alemanno. Senza dilungarci in disgustose descrizioni, al sentir il gusto acido dell'urina sulla sua lingua, il famelico drago, autonominatosi uccisore di sbronzi, si risentì tanto che quasi si strozzò per sputare via quel che rischiava di ingoiare al posto di un buon pranzo.

Cogliendo l'occasione e dimenandosi, Gattapelata ricadde al suolo e ritrovato lo spirito guerriero si avventò contro il mastodontico bestio, ancora intento a sputare e lustrarsi la lingua con gli artigli. Caricò un gancio destro e questo si abbatté sullo zigomo da mammifero del drago, seguito presto da un diretto sinistro giusto in mezzo ai tre occhi gialli. Il drago incespicò all'indietro dalla potenza del colpo e si afferrò dolorante il viso in fiamme. Gattapelata non aveva ancora finito però. Gli si avventò di nuovo addosso, rabbioso e generoso di pugni da regalare. Provò un colpo dal basso, un vero e proprio uppercut ante litteram, ma il colpo andò a vuoto. Il drago si era ritratto all'indietro, distribuendo tutto il peso sulle zampe posteriori e afferrando il corpo di Gattapelata, teso in avanti per il colpo, all'altezza del costato, affondando le unghie nella dura carne del cavaliere. Si rotolarono per terra, fino a finire giù dalla strada per un campo d'erba e malva in discesa. In mezzo ai grilli e le cicale lo scontro proseguì ancora più selvaggio, con Alemanno avvinghiato ai fianchi di Gattapelata con quattro delle sue zampe. Provò a liberarsi, ma il cavaliere dovette constatare che parevano uncini da carne e non si sarebbero staccati facilmente.

Toltosi il gusto di piscio dalla bocca, il drago ritentò di nuovo di morderlo alla giugulare, ma le sue fauci dall'alito putrescente vennero fermate dalle dita nodose come rami d'albero di Gattapelata. Il drago affondava sempre di più le unghie delle prime quattro zampe nella carne dell'erculeo avversario, tentando di sfiaccarlo col dolore lancinante e fargli perdere la presa per concludere lo scontro, ma la resistenza al dolore del Gattapelata superava ogni immaginazione. Anzi, fu Gattapelata ad allentare la presa delle fauci di Alemanno sulla sua gola. Anzi, vi dirò di più, ora Alemanno cominciava ad avvertire un dolore lui stesso alla mandibola, come se stesse per spezzarsi. Sì, perché Gattapelata non si limitò ad eliminare la minaccia del morso, ma ora, ignorando le unghie affondate fra le sue costole, mirava a far spezzare la mandibola di Alemanno.

Ora era il drago ad aver paura e presto si fece disperato. Cominciò ad usare anche la quinta e sesta zampa per graffiare le coscie di Gattapelata ripetutamente, come un cane scortica una porta chiusa. Il cavaliere ebbe un sussulto quando sentì questa nuova ferita, quasi cedette e il drago subito ne approfittò per tornare all'attacco e tentò di chiudere la bocca per strappargli le dita con un morso. Ma non ci riuscì perché il cavaliere non si sarebbe arreso proprio ora. Riprese a spingere, più di prima, a divaricare a mani nude quelle fauci salivose e aberranti. Il drago si teneva al corpo martoriato di Gattapelata più di quanto si tenesse alla vita in quel momento, con la fiamma inestinguibile di dolore ai lati del cranio. Infine ci fu uno schiocco.

Il drago si fece rigido come un mattone, poi subito si ammollì. Alemanno era morto e Gattapelata vivo, seppur non vegeto. Respirò a fatica. Non aveva ancora voglia di alzarsi.

 

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Capitolo 3
*** Gattapelata latitante e Giminiano beffato ***


"Gli dislocaste la mandibola?" Chiese una voce flebile, indebolita dal potente racconto di prima.

"Certo!" Ribatté Gattapelata sornione, con la stessa umiltà di un pavone di cristallo "E ora vi mostro le prove!"

E le mostrò davvero. Sui palmi delle mani v'erano segni di denti aguzzi che andavano in profondità, eppure, nonostante la ferita gravosa, il sanguinamento si era già fermato. Nella folla ci fu un mormorio di ammirazione corale. Gattapelata si beava più di un vescovo. Poi ebbe un sussulto e si piegò, arricciandosi su sé stesso per il dolore alla milza. Il suo racconto era stato così immersivo e appassionante da far quasi dimenticare ai paesani di medicargli le ferite. Subito finirono di pulirgli le lacerazioni con acqua calda, sale grosso e aceto, che bruciavano talmente tanto sulla pelle deturpata del Gattapelata da sfrigolare come soffritto in padella. Lo fasciarono poi fino a farlo rassomigliare ad una mummia, gli fecero annusare sali e tragugiare tisane di rosa Canina e decotti di Achillea. Pian piano il prode si rimise in sesto, ma al tempo stesso perdeva e forze, giacché cominciavano ad ammollarglisi le viscere dopo averle tenute tese per tutta la notte, precipitandosi di là e saccagnando di qua. Se avesse dovuto compiere un'ultima impresa, in quella notte infernale, sarebbe stato conquistarsi un letto. Fuori la luna cominciava a tramontare.

Gli si parò innanzi, fra il caminetto e la seggiola, il pacioccoso oste dalle guance molossiche.

"Gattapelata!" Pronunciò il suo nome con gaudio magno e alzando le braccia, proiettando sul muro un'ombra da crocifisso "Vi credevo un piantagrane irrecuperabile che si sarebbe meritato solo legnate a vita e invece siete una persona eccezionale per questo paese. Ci avete portato in dono un drago intero tutto per noi e, presente ancor più grande, una storia da raccontare ai posteri e che arricchirà le nostre leggende locali, di come non se ne sentirono mai di così avventurose in questo luogo in culo ai lupi. Mi sono quasi ricreduto sul vostro conto!"

"Quasi?" Stralunó gli occhi color cenere il povero Gattapelata. Che altro doveva fare ancora per convincerli del suo buon cuore?

"Quasi, sì, perché voi siete irrotto nuovamente qui pretendendo di saldare un certo conto e lo avete quasi fatto. Ma manca un dettaglio".

"Dettaglio?" Lo pappagallò il cavaliere, sudando grandi goccioloni.

"Un dettaglio, che nel dettaglio, ammonta a duecento scudi".

"Per la madonna!" Ansimó tremante l'avventuroso, impeperito. La sua guerra con la vita non accennava ad una tregua manco a pagare "Ma il drago da tremilaottanta libbre non vi basta?"

"Eh..." sospirò un po' mogio Giorgione "Quello è per il locale mezzo scassato. Ma vi manca ancora il conto della cena faraonica che vi siete sbafato bello mio".

"Corretto, tutto corretto" rispose mogio l'orchesco cavaliere, chiudendo gli occhi e chinando il capo, in segno di resa incondizionata. Si schiarì la voce tonante e prese a raccontare di nuovo "Ma ecco, vedete, preso dall'incontenibile orgasmo d'aver stroncato tal magna bestia e di tornar qui per reclamizzare il mio onore e le mie armi, obliai di recuperare pure il mio portamonete. Potevo forse io pensare al vil danaro quando era in gioco la mia immacolata reputazione? Chiedo venia dunque e di chiudere un occhio se ora mi allontano di nuovo a recuperarlo. Sarò di ritorno prima che sorga il sole, la spergiuro!"

"L'occhio lo chiudo, ma voi aprite bene la bocca!" E detto questo Giorgione gli assestò un robusto colpo secco a mano dritta all'altezza del diaframma che avrebbe decapitato una gallina. Gattapelata ebbe uno spasimo, si contorse, soffocò e infine fu costretto a sputare la sua sacca di iuta, comodamente nel palmo in attesa di Giorgione. L'oste si rigirò fra le mani quel disgustoso e salivante trofeo. Tutti persero la lingua.

"Vi siete ingoiato il danaro pur di non pagarmi per bene. Vergogna Gattapelata, mica son nato ieri io".

"Proprio un mascalzone, lo dicevo che andava buttato a fiume io!" Aggiunse Goffredo, adagiato alla moglie per tutti gli acciacchi che aveva preso quella sera.

"Un cialtrone coi fiocchi!" Sentenziò Frederico, indignato per quel tentativo di truffa ai danni del padre "Che vi dicevo io?"

Giminiano si staccò dal muro per fare il suo dovere, ma non ne ebbe la soddisfazione. Giorgione, prima sbuffante di rabbia, si rifece raggiante ed esplose in un grassa risata, dando una vigorosa pacca sulla spalla dell'imbarazzato Gattapelata, che per la sua resistenza non si mosse neppure, ma fu comunque sorpreso.

"Siete proprio un giovanotto pieno di risorse voi!" Lo rincuorò l'oste "A me non la si fa, ma bel tentativo. Siete un cialtrone ma un simpatico cialtrone, avete portato animo ad un paese mezzo morto".

La risata da baritono di Giorgione fu condivisa da tutto il locale. Le feste ripresero come prima, con canti, balli e grosse mangiate. Lo sgabello di Gattapelata fu sollevato da una dozzina di paia di braccia e, con fatica, portato a centro sala per fargli la festa, ma non più con una gragnuola di bastonate, ma nel vero senso della parola. Era un individuo talmente sopra le righe, imprevedibile e dalle doti eccezionali che il paese non aveva mai visto un suo pari prima di allora e mai si era emozionato tanto. Presto presero a rivestirlo delle sue vesti logore, gli legarono i laccetti, gli cinsero la cotta di maglia, gli issarono l'armatura a placche, gli agganciarono la cintura, gli infilarono lo spadone e lo coronarono con l'alloro come fosse un imperatore romano. Ma a dire la verità l'alloro era finito: lo avevano adoperato per l'ultimo coniglio alla cacciatora. Ma non si persero d'animo e presero ad intrecciare pazientemente rosmarino con foglie di basilico fino a che non ottennero un risultato similare, sebbene un po' buffo, e gliela posero in capo, allegandoci fiori qui e là. Gattapelata però era stanco e non reggeva più il peso della sua stessa armatura. Si addormentò sul posto, seduto sullo sgabello, chiudendo la visiera e chinando un poco la testa, mani sulle ginocchia, così rigido che si sarebbe detto ancora sveglio. Non consci che il loro fenomeno locale si fosse assopito, i paesani continuarono a girargli attorno, intonando inni per lui e la sua impresa, ballando e lanciandogli petali, riso e spezie di cucina. Ogni tanto gli rivolgevano delle domande, per chiarire alcuni punti oscuri della sua vicenda. Erano come bambini, volevano sapere proprio tutto e lui finì in un confuso stato di dormiveglia, sfumato fra il mondo dei vivi e dei cieli, dove rispondeva a domande poste da figure misteriose e poco nitide, mentre scivolava sempre di più in un sonno ben poco quieto, in un mare d'oblio.

"E il vostro cavallo, il fido Baldobracco?"

"Scappato, quell'ungulato infingardo. Ma se lo riacchiappo lo costringerò ad una dieta esclusiva di ortiche e rovi di more" Rispose lui, troppo spossato anche solo per arrabbiarsi davvero. Non lo pensava per niente.

"Come avete fatto a non morire dissanguato? Con tutti i litri che avete perso dovreste essere secco come una nocciolina".

"Bah, che vuoi che ti dica" rispose fra uno sbadiglio e l'altro, forse per scherzo, forse sul serio, forse in sogno "Mi sono concentrato molto nella lotta che anche il sangue mi ha imitato e non si è disperso".

"Perché venivate in queste umili terre, cavaliere?"

"Perché di far la fame in Terrasanta non ne avevo proprio voglia" Stavolta la risposta fu un vero e proprio mormorio biascicato da labbra secche e screpolate, che andò scemando fino a trasformarsi in un russare sommesso. Nessuno riuscì a sentire la risposta. Gattapelata si addormentò alla fine, circondato da strane figure che gli danzavano in cerchio. Gli occhi e tutta la furia accumulata precedentemente gli si spensero come candele. Continuò a sentire, durante il sonno, domande vaghe e nebulose. Non riuscì ad aprire la bocca per rispondere, quindi smise del tutto di provarci e continuare a galleggiare.

Giminiano fremeva di rabbia. Lo smacco cresceva sempre di più. Quel drago che Gattapelata aveva ucciso a mani nude era l'unico caso che gli si fosse presentato in mesi di servizio da balivo. Era sulle sue tracce da quando era stato nominato tutore della legge della vallata e se l'avesse trovato prima e ucciso lo avrebbero probabilmente messo a far da balivo in un posto decisamente meno ignobile. E ora, quello smargiasso d'un orso fintosi umano, lo aveva preceduto, trovandolo per caso di notte e stroncando non solo la rettilesca macella, ma anche i suoi progetti. E peggio, molto peggio ancora: Gattapelata si stava prendendo non solo il merito, ma anche il favore e la simpatia di tutto il paese. Se lo avesse arrestato, seduta stante, quella notte stessa, molto probabilmente, quei villici avrebbero contestato l'autorità costituita e, messi contro di lui, avrebbero aiutato quel gorilla dal pelo rosso a scappare. Doveva trovare il momento giusto per agire e mettere ai ferri quella criminale bestiaccia.

Giminiano resistette alla tentazione di scagliare il coltello fra le fessure della visiera di Gattapelata e lo rimise nella fondina sotto il mantello porpora. Quindi, attraversando la sala gremita di presenti, che lo fecero passare timorosi, uscì dal locale. Si era dimenticato di quanto si gelasse fuori. E pensare che Gattapelata si era fatto mezza vallata nudo. La luna era quasi del tutto calata oltre le colline piene di boschi del confine. Dall'altro capo il cielo si tingeva di una leggera evanescenza d'azzurro. Udì uno scrosciare d'acqua regolare e individuò chi stava cercando all'abbeveratoio per cavalli di fianco l'entrata della stalla. L'oste stava pulendosi le mani dalla saliva del prode, strofinandosele con forza. Quando vide con la coda dell'occhio approssimarsi quell'insopportabile figura, Giorgione alzò gli occhi al cielo, mormorò fra sé un paio di bestemmie liberatorie per sfogarsi e poi gli si fece incontro, asciugandosi le mani sull'orlo delle braghe.

"Sior Balivo, si sta divertendo alla festa mi auguro!" E nel dirlo gli offrì la mano ancora bagnaticcia. Giminiano non considerò neppure di stringergliela.

"Niente affatto" Rispose il biondo ricciolato.

"Che novità" Avrebbe voluto ribattere Giorgione, ma si trattenne.

"Ciò che mi turba è che la festa la state riservando a quel criminale là dentro" Gli occhi da gatto di Giminiano brillarono. Non era buon segno.

"Criminale? Oh, ma figuratevi, il sior Gattapelata è diventato mio ospite d'onore per stasera. Non c'è bisogno che vi preoccupiate di perseguirlo sior balivo, io gli ho condonato tutto. Ha devastato la locanda e ci ha regalato un drago per il disturbo; non aveva pagato il conto e ora si è messo in regola; ha imbruttito il grugno dei miei clienti a cazzotti e sventole, ma guardi ora come festeggiano. Tutto il paese lo ha condonato!" Giorgione si era fatto giulivo e gli offriva il più grande sorriso smagliante che potesse, dipanando quelle guance da cane che si trovava da un orecchio all'altro. Giminiano non fu affatto colpito.

"È proprio questo il punto: Voi lo avete condonato, ma Pipino il Lungo no" Come diavolo si potesse riuscire a tenere una faccia seria pronunciando un nome simile lo sapeva solo Giminiano. Nessuno lo aveva mai visto sorridere neanche per scherzo "Il cosidetto cavaliere Gattapelata ha trasgredito l'ordine costituito, oltrepassando il confine di queste terre da cui era stato bandito. Voi vi siete occupati della faccenda non avvertendo la mia milizia e questo mi starebbe anche bene, ma non mi sta affatto bene che ora, voi villani ignoranti, lo trattiate da eroe".

Giorgione ebbe la tentazione di prendergli quel collo da galletto e tenergli la testa dentro l'abbeveratoio fino a quando non gli fosse entrata un po' d'acqua in testa ad occupare il vuoto lasciato nella scatola cranica, ma dovette constatare che Giminiano aveva ragione. La legge era dalla sua.

"Ma proprio non lo potete chiudere un occhio?"

"Neanche se me li cecaste entrambi potrei esimermi dal mio dovere" L'ultima sentenza lapidaria fu accompagnata da una folata di vento improvvisa, che sollevò il pesante drappo del martello di porpora, rivelando il folle arsenale di coltelli da lancio cinti con lacci e laccetti di cuoio intorno la vita e il petto "Come tutti gli esiliati che si fanno beffa della nostra legge, io ho il compito di portarlo, volente o nolente, vivo o morto, di fronte alla giustizia. E qualora lo portassi vivo, vi assicuro, chiunque preferirebbe essere morto prima".

"Insomma, non c'è modo di farvi cambiare idea" sospirò afflitto Giorgione "E sia, avete vinto voi. Vi consegnerò Gattapelata e ne potrete fare ciò che volete".

Neppure quando ottenne ciò che voleva da Giorgione, Giaminiano sorrise. Si limitò ad un cenno di approvazione e si diresse verso la porta della locanda, per rientrare e fare il suo dovere. Giorgione guardò nel vuoto un istante, cercando chissà che cosa, sconsolato. Poi, ridivenne allegro e richiamò subito il balivo, correndogli dietro.

"Giminiano, un momento per favore!"

Il balivo si fermò di colpo per essersi sentito chiamare non per la carica ma col nome proprio e mosse le orecchie da pastore tedesco. Girò il viso elfico e abbassò il mento appuntito, per guardare negli occhi l'oste. Non disse nulla. Non sbatté neppure gli occhi.

"Abbiate la comprensione di aspettare il mattino per l'arresto!"

"Perché dovrei?" Rispose con disprezzo l'ariano, quasi sputandogli in faccia.

"Gattapelata, come ha detto lei, viene trattato come un eroe popolare. Qui in paese è una vita che non si festeggiava così allegri e sarebbe un peccato rovinare tutto proprio adesso, nel bel mezzo della celebrazione".

Giminiano non disse nulla, ma conveniva con ciò che faceva notare Giorgione e cionondimeno non gliene importava un fico secco se a quelle scimmie da campo di second'ordine gli si fosse rovinata la festa o meno.

"Ubriachi e allegri come sono" Continuò Giorgione "Si rischierebbe una rivolta. Dia ascolto a me: ripassi di mattina, che se ne saranno tutti andati e sfiaccati dalla baldoria di stanotte. Quando il campanile suonerà le sette lei si faccia trovare qui e io le renderò Gattapelata".

"Sarebbe pericoloso lasciare un criminale del genere in circolazione"

"Chiaro, ma non circolerà da nessuna parte, perché, quando tornerà, lei lo troverà ancora addormentato. Ferito e stanco com'è, senza un cavallo, dove vuole che vada quel disgraziato? È innocuo".

Giminiano parve quasi convinto.

"Lo giura sulla sua testa?" Gli chiese a bruciapelo.

"Anche su quella del Papa" Ribatté lui sogghignando. Giminiano apprezzò il coraggio.

"Allora siamo d'accordo. Ritornerò qui alle sette precise" E, detto questo, si cacciò due dita in bocca e lanciò un fischio che pareva più la melodia di un flauto traverso. Subito, dalla stalla, rispose un nitrito ch'era invece una sviolinata, seguito da un trotto fatto di onomatopeici tamburini. Giorgione fu sfiorato da una cometa pallida e dal manto corto che per poco non lo investiva, che venne immediatamente montata al volo da Giminiano con un salto a gambe larghe, atterrando sulla sella come una foglia atterra leggera su uno stagno. Il balivo fece un giro su sé stesso in groppa alla sua cavalcatura per rallentare e fronteggiare di nuovo l'oste, stavolta da ancora più in alto che ora gli pareva un moscerino e, dal suo sguardo, si intuiva che avesse la stessa considerazione per ambedue.

Giminiano era in sella al suo cavallo, un purosangue bianco e snello, ma non secco da vedergli le ossa, con la stessa costruzione fisica di un levriero regale e dagli zoccoli piccoli ma duri. Era ammantato di latte e la criniera la si sarebbe potuta accostare allo zucchero filato se solo all'epoca fosse esistito. La coda era legata in un fiocco fosso, mentre la criniera era decisamente più arricciata del resto del pelo. Giorgione non avrebbe onestamente saputo distinguere il cavallo dal cavaliere.

"Passerò di qui alle sette in punto" Promise, o meglio, minacciò il novello balivo, tirando a sé le briglie, facendo arretrare il cavallo per direzionarlo sul selciato "Voglio trovare pronto il prigioniero quando arrivo. Rispettate le condizioni, o sarò costretto a levarle un peso dal collo".

"Si figuri, passi una buona serata anche lei" Il sorriso di Giorgione non piacque per nulla a Giminiano. Lo fulminò con lo sguardo un'ultima volta, quasi volesse strappargli l'anima con quegli occhi felini, poi spronò il cavallo, che partì al galoppo, ma non un galoppo normale ovviamente, un galoppo che sembrava premesse sui tasti di un organo da chiesa. Perché si trattava di Beltegeuse, l'arabo personale del balivo Giminiano.

Giorgione sospirò. Questa era andata per ora.

***

Giminiano non era un emerito imbecille e si rese conto di non potersi fidare di un accordo simile. Sapeva, che alla prima occasione, quegli avvinazzati ne avrebbero approfittato per far tagliare la corda al loro simpatico fenomeno da baraccone. Si portò quindi lontano e girò il capo per guardarsi le spalle. Appurato di essere ad una distanza considerevole e immerso nel buio, deviò dal selciato e si inerpicò sul fianco di una collina erbosa, frenò Beltegeuse e scese con un balzo leprino. Si trovava in cima ad un piccolo colle da pascolo a riposo e fece qualche passo nell'erba alta prima di giungere in un punto dove questa gli arrivava al ginocchio e lì s'acquattó ad attendere, con solo cavallette e mosconi a fargli compagnia fra il glicine e il sambuco. Si voltò verso Beltegeuse e gli fece segno con la mano di nascondersi. Questo, ubbidiente come un cane e furbo come un gatto, intese subito e si portò, al passo, sotto una macchia vegetale, all'ombra di un melo. Si nascose in mezzo a cespugli di glicine e ciuffi di lavanda a brucare l'erba fiorita di margherite e denti di leone. Si mimetizzava perfino all'olfatto, perché quel cavallo non odorava di bestia sudata e polverosa, ma dello stesso aroma di fiori da campo che andava brucando.

Giminiano, steso sulla gramigna, scostó gli steli di papaveri e carote selvatiche, strizzando gli occhi per bene. Da quello spiazzo poteva tenere d'occhio la locanda e nessuno sarebbe potuto uscire senza che lui non lo venisse a sapere ora. Diede un'occhiata furtiva al campanile del monastero vicino, stagliato, completamente in ombra e nero, contro un cielo violaceo e nuvoloso. Presto sarebbero suonate le tre e mezza. Subito tornò a guardare la locanda e vi rimase tanto immobile nel mentre che mosche e falene presero a zampettargli sul volto senza che desse alcun segno di reagire. L'attesa sarebbe potuta essere piuttosto lunga e infatti lo fu.

***

Suonarono le quattro, poi le mezza e il giorno proseguì fino al rintocco delle sei . Il suo corpo cominciava a intorpidirsi a causa della posizione continua che aveva assunto, si sentiva percorso da strani tremori sottocutanei, faceva un freddo dell'anima e aveva solo un mantello per coprirsi, non poteva muoversi per scaldarsi, gli stava venendo il torcicollo, gli insetti si sentivano tanto a loro agio che a momenti si sarebbero messi a deporgli uova addosso, gli stava venendo fame e lo appesantiva il sonno. Non si permetteva neppure di farsi scappare uno sbadiglio e ne aveva soppressi così tanti che arrivò al punto che a momenti sbadigliava dalle orecchie. Inaudito che dovesse passare un simile tormento per colpa di quegli zotici incartapecoriti a cui faceva da balivo e la loro voglia matta di proteggere un tale cercopiteco troppo cresciuto, cervello escluso.

Se Gattapelata non si fosse fatto vivo si sarebbe addormentato sul posto, prospettiva non esattamente allettante, visto che si sarebbe trovato in mezzo ad un branco di mucche al pascolo, che sarebbero giunte il mattino presto. Forse Giorgione non mentiva affatto. Nel mentre le api si adagiavano sui suoi capelli, scambiandoli per mimose, rumiginò sul fatto che forse avrebbe veramente fatto meglio a fidarsi e tornarsene a casa. Si sarebbe infilato sotto le coperte, si sarebbe svegliato alle prime luci del sole e avrebbe fatto colazione con formaggi, pane, frutti di bosco e un po' d'idromele. Quindi avrebbe sellato e imbrigliato Beltegeuse e avrebbe camminato a passo tranquillo fino alla locanda di Giorgione, dove gli avrebbero consegnato senza problemi il futuro carcerato ancora addormentato e indebolito dal trambusto della sera prima. Si sarebbero stretti la mano e sarebbe partito a servirlo su di un piatto argentato a Pipino il Lungo.

"Ahi, lasso" pensò forte, struggendosi al pensiero di aver perso una notte a far l'insonne per niente "se sol la premura nostra fosse stata prematura a le premure del concittadin nostro! Che gran male c'arrecarono lo scetticismo e il sospetto nel buon cuore umano. Ahi, infiducia, vituperio delle genti! Non ci si rivolga al cielo ma si miri ora come giaciamo derelitti in terra! Fatti non fummo a viver come bruti, noi dalla carne di reale sustanza".

Probabilmente Giminiano si sarebbe messo anche a lagrimar e strapparsi i capelli, invece si strappò solo le ragnatele di dosso quando trasalì. Il suo spettacolo privo di spettatori fu interrotto da un gran vociare e subito i suoi occhi giaguareschi brillarono di una luce strana e ridiedero attenzione alla locanda in fondo la valle. Il cielo ormai era quasi azzurro e il sole stava quasi per mostrarsi, ma il mondo restava in penombra sotto un accumularsi di nuvole grigie di varia intensità.

Sotto i suoi occhi si stava generando un corteo di rispettabili dimensioni. A quanto pare tutto il paese aveva partecipato alla festa di quella sera. Accompagnavano una figura corazzata di scintillante metallo alla stalla adiacente, nel mentre che gli facevano il girotondo e gli lanciavano fiori addosso. Un piccolo quartetto formato da una cetra, un cornetto, un tamburello e un grosso liuto accompagnavano il corteo celebrante, suonando una musica ben più fiacca e triste d'addio. Il corteo scomparve un momento nella stalla, dove s'udirono rumori di nitriti, selle agganciate, musi imbrigliati, pellicce strigliate e zoccoli ripuliti con scalpello e mazzuola. La musica si era arrestata. Indeciso se intervenire o meno, Giminiano attese fremente, pronto a dare il segnale al suo cavallo.

D'improvviso ecco sentire una pacca poderosa, un nitrito che pareva un ruggito e uno scalpiccio frenetico di zoccoli. Subito dalla stalla saltò fuori un dardo di balestra a forma di cavallo, un frisone nero, grosso e robusto, dal collo corto e muscoli impressionanti, che sbuffava un alito caldo come una pentola a pressione e lo sguardo perennemente incazzato.

In cima a questa terrificante cavalcatura, con i piedi ben piantati nelle staffe per non cascare all'indietro, stava l'armatura di prima, grossa poco meno del cavallo. Da come vibrava e rimbalzava disarticolata si sarebbe detto non ci fosse nessuno all'interno, invece c'era eccome perché il fantino si teneva l'elmo fermo bruno con una mano guantata in metallo, mentre con l'altro teneva salda la briglia, sebbene si fosse detto che fosse il frisone a condurre piuttosto.

Il paese intero gli corse dietro poco dopo uscendo dalla stalla come vespe inquiete, agitando fazzoletti e lanciando gli ultimi fiori. La banda seguì subito dopo, suonando una marcia frenetica ed energica da battaglia. Tutti quelli senza uno strumento musicale in mano gli urlarono dietro un ultimo augurio.

"Arrivederci Gattapelata, tenga gli occhi sulla strada, mi raccomando!"

"Gattapelata, si copra che fa freddo!"

"Gattapelata, casomai tornasse, si ricordi di andare a prendere un altro drago. Ma di razza stavolta, eh!"

"Si ricordi di mettersi la tunica che le ho regalato, Gattapelata!"

"Se torna avvisi prima che così le faccio conoscere mia sorella!"

"Disutile plebaglia lavorativa di scarto, fedigrafa, infedele e priva di adeguata materia cerebrale, atta solo a slealtá e macchinazioni assortite ai danni della brava gente, ingannata da voi turlipinatori massimi" Furono queste, più o meno, le buone parole che passarono di mente al balivo per descrivere i servi della gleba nel mentre che si rialzava dolorante, ricoperto d'erbacce e insetti e saltava, con un balzo d'antilope, in sella a Beltegeuse, che aveva già capito di essere nel bel mezzo di un inseguimento. E non parliamo poi delle parole cattive.

Non ci fu il tempo per sviolinate varie, il cavallo zompò senza rincorsa, superando, in un arco soltanto, tutti i cespugli dietro cui si era riparato, cominciando a galoppare non appena toccò di nuovo il suolo dopo vari secondi di volo. Giorgione era venuto meno ai patti, contava di fregarlo con la più bassa delle tattiche, convintissimo che lui ci sarebbe cascato, ma si sbagliava di grosso, perché Giminiano non aveva il sangue rosso, no, lui aveva il ribollente sangue nero degli uomini superiori, di coloro che facevano la storia. Dentro di lui scorreva il sangue di una razza che partiva dai patrizi romani, passava per la corte nobiliare Longobarda e finiva a sgorgare in una ricca famiglia di generali dell'esercito. Avrebbe dimostrato, a quei sempliciotti del terzo stato, che non si sarebbero mai più dovuti azzardare a scherzare con uno del suo sangue.

Correvano al cardiopalma giù per il manto erboso scosceso. Uno zoccolo messo per errore e sarebbero scesi dal colle rotolando in una brodaglia, ma così non fu. Perché Beltegeuse era un arabo purosangue, si diceva Giminiano, buon sangue non sbaglia. Arrivarono infine a raggiungere il selciato, di ghiaia e fango rappresso e spaccato, con un ultimo balzo. Cambiarono direzione in aria con uno strattone del fianco e gli zoccoli del cavallo sollevarono un gran polverone all'arrivo. Si piantarono per bene, quasi affondando nella terra, e, con una base solida per la partenza, si rimise al perseguimento del frisone davanti a sé, ormai lontano, ma non abbastanza. Il frisone correva senza sforzo verso il crocevia, diretto al confine, ma Giminiano non gli avrebbe permesso di raggiungerlo. Ebbe per un momento la voglia di voltarsi e dare una lezione di fioretto a quella manica di menagrami alle sue spalle, ma non poteva perdere tempo e si ripromise di passare dopo a dargli il ben servito.

Il frisone era veloce, quasi non avesse nulla in groppa. Correva veloce come il vento con il Gattapelata strattonato sù e giù, ma non aveva fatto i conti con Beltegeuse, che nell'aria scivolava quasi senza attrito. Ciononostante lo stacco era ancora notevole e non accennava a colmarsi presto. Giminiano si strinse forte al collo del suo animale, sia per togliere ancora più resistenza con l'aria alla loro cavalcata, sia per incitarlo all'orecchio.

"Corri Beltegeuse, corri, non farti lasciare indietro da quel mulo, non assaporargli la polvere! Sibila nell'aria, fatti ippogrifo e raggiungilo in volo!"

Come se intendesse la parlata umana, Beltegeuse sembrò comprendere e, in un modo o nell'altro, riuscì anche a correre più veloce di prima. Vuoi per la maggior aerodinamicitá, vuoi per dovere di trama, Giminiano s'approssimò al fuggitivo tanto che poteva contare i peli della coda alla sua cavalcatura, spessi come fieno.

Il frisone, che era stato appena svegliato e subito mandato al galoppo di prima mattina, cominciava a perdere terreno, mentre l'arabo, ben allenato e più sveglio, gli si portò di fianco. Ormai Giminiano dovette tirare il freno per non sorpassarlo. Li dividevano due metri circa di un tappeto di ghiaia e terra brulla che scorreva sotto di loro a velocità fantastica. Cadere lì sotto sarebbe costato un bel ruzzolone e una parcella salatissima al becchino.

Correvano da appena due minuti, ma ad un ritmo tale che la locanda era già lontanissima, quasi all'orizzonte. Ai lati del selciato, ora, stava alla destra il limitare del bosco e alla sinistra, oltre un fosso acquitrinoso, un campo di miglio. Questo era lo sfondo che si offriva a quella che si prospettava come una tremenda fracassata.

"Gattapelata!" Urlò Giminiano alla sua destra, col volto contorto dall'ira. Il mantello, isterico quanto lui, si muoveva in preda al vento e così anche i bei capelli dorati. L'elmo traballante si voltò verso il balivo. Dentro era così buio pesto che credette di star parlando ad un'armatura fantasma, ma, guardando meglio nella visiera, poteva scorgere due occhi stralunati, incorniciati da delle rughe non di vecchiaia, ma sorpresa. Giminiano doveva veramente incutergli timore.

"Dica" Chiese di rimando Gattapelata, incerto su quell'instabile arcione, più in imbarazzo che sgomento.

"Per ordine di Pipino il Lungo, signore del feudo, ti dichiaro in arresto! Accosta o subiscine le conseguenze!"

"Viecce!" Gridò di rimando lui e subito rimise gli occhi, ora divampanti di decisione, sulla strada. Diede uno strappo secco alle briglie e spinse il cavallo imbizzarrito sulla sinistra. Mirava a dare una sonora bordata, col fianco robusto da barile del suo frisone, al magro arabo e far finire, cavallo e cavaliere, a mollo nel fosso accanto. Ma a Giminiano bastò dare un colpo con gli speroni ai fianchi del bianco animale per spronarlo ad uno scatto fulminante in avanti, eludendo la manovra e portandosi in testa, ma non ci restò a lungo. Gattapelata aveva appena evitato di finire lui stesso nel fosso, ridirigendo il cavallo con un altro strappo repentino per raddrizzarlo, che si ritrovò Giminiano accanto, sulla destra. Volle tentare un'altra bordata, ma non gli riuscì, che il balivo lo precedette e fu lui ad avvicinarsi con Betelgeuse. Questi allungò il braccio e, rapido, strinse le dita lungo le briglie avversarie, tirandole a sé, per tentare un freno forzato e come l'artiglio si serrò, anche la sua bocca si serrava in un muro di denti bianchi e stridenti per la vittoria. Ma la vittoria non venne, anzi, venne al suo posto un sonoro calcione nel fianco che gli fece perdere il fiato e la presa, allontanandolo di nuovo, tutto dolorante al costato sinistro. Udì Gattapelata ridersela tanto che la sua risata fece vibrare la superficie stessa dell'elmo, mentre infilava di nuovo il piede destro nella staffa come fosse il fodero d'una spada.

L'unico motivo per cui Giminiano non ebbe modo di reagire a quel banalissimo contrattacco da manuale era dovuto al fatto che le sue articolazioni erano ancora irrigidite dalla snervante osservazione che aveva condotto neanche cinque minuti fa, senza contare che, per la rogna, alla festa aveva mangiato e bevuto quasi niente e, oltretutto, era in piedi da più di un giorno e il sonno gli bussava inopportuno all'anticamera del cervello. Ma ora, punto nell'orgoglio e preso a calci nei fianchi, gli era rimontata in corpo tutta una foga antica, la stessa che aveva animato nei tempi bui i suoi avi conquistatori. Beltegeuse aveva perso terreno per il colpo ed era andato in confusione per l'improvviso mollare della briglia da parte del suo fantino gemente. Girò il capo, nitrendo di preoccupazione per la salute del suo cavallerizzo e, di conseguenza, il frisone aveva guadagnato terreno di svariate pertiche e continuava a farlo, mentre la sua premura invece gli fece guadagnare solo un altro colpo di speroni.

"Non pensare a me!" Fu l'immediata strigliata del biondo balivo, come se quel calcio di poco fa lo avesse ridestato dal torpore "Stagli dietro, non lo mollare come ho fatto io!"

E l'arabo riprese subito, e più di prima, a passo di carica, sudando davvero, cominciando a perdere il suo dolce profumo. Gattapelata si guardò indietro e, seppure non lo poteva vedere in faccia, Giminiano sapeva che trasalì a vederselo ancora ai calcagni con tanta foga che se ce li avesse sotto i denti glieli avrebbe mangiati crudi. Gattapelata gli tagliò la strada, uno, due, tre volte. Non gli avrebbe permesso di farsi abbordare un'altra volta, rendendo così inutile la velocità di Betelgeuse.

Giminiano fu costretto a tenere sempre un poco tirato il freno per non schiantarsi sul retro dell'animale. Decise quindi di mettere mano ai suoi coltelli e ne sfilò uno da una delle molte fondine. Tirò indietro il colpo argentato e poi subito in avanti, contro la nuca del cavaliere. La colpì in pieno, con un fracasso di stoviglie, ma rimbalzò innocuamente via senza lasciare tracce. Gattapelata se la rise ancora di più.

"Inutile, inutile, inutile" si rammaricò Giminiano e prese quindi di mira il cavallo, ma non gli riuscì di scagliare il coltello. Gattapelata insisteva a star davanti il muso del suo cavallo e se lui avesse scagliato, addosso il suo di cavallo, un coltello alla coscia, questo sarebbe probabilmente crollato di fronte a Betelgeuse e quest'ultimo gli sarebbe inciampato addosso e spezzato l'osso del collo a cadere ad una simile velocità. Ma Giminiano non era finito. Carico di quella determinazione antica, che aveva fatto commettere le più grandi pazzie ai più grandi della storia, sfilò gli stivali dalle staffe. Poi, con cautela, stabilizzò l'arabo e mollò le briglie. Betelgeuse non capiva, ma persistette a correre, fiducioso che il suo padrone stesse compiendo qualcosa di sensato. Infine, Giminiano, si issò sulla sella, prima acquattato a rana, poi, a braccia larghe, si alzò fino a starsene in piedi, curvo sulla schiena del proprio animale. Il mantello faceva una pessima resistenza all'aria e lo tirava indietro, quindi lo sganciò, lasciandolo volare via, indietro nella polvere. Il frisone era vicino, abbastanza per un salto. Piegò le gambe, e senza paura, caratteristica che distingue eroi e assassini, si proiettò in avanti a piedi uniti, braccia tese in avanti a ghermire il nemico e faccia tranquilla, quasi non dovesse uccidere qualcuno di primo mattino.

Atterrò con un tonfo da fiocco di neve sulla sella avversaria, che Gattapelata manco se ne accorse. Si traballava molto su dorso di quel frisone e dovette aggrapparsi a qualcosa se non voleva cadere all'indietro. Portò quindi le mani in avanti e, passando con la sinistra sotto l'ascella del cavaliere, e con la destra intorno al collo del medesimo soggetto, rispettivamente strinse con una le briglie e con l'altra la gola del Gattapelata. Questo, sorpreso di trovarsi l'avversario alle spalle come per magia, quasi non reagì, limitandosi a mollare la presa sulle briglie e annaspando come sott'acqua, agitando le braccia in preda agli spasmi. Di conseguenza, il frisone, fu costretto ad una frenata perentoria e improvvisa, spaccando il terreno sotto i suoi ferri da che li piantò con forza.

Ma il Gattapelata non lo si doveva mica sottovalutare. Non provò neppure a liberarsi dalla morsa al collo ma risolse il problema alla radice. Sollevò il braccio sinistro sopra la testa e lo fece arretrare, assestando una penetrante gomitata corazzata al fianco, già dolorante, del balivo. Quest'ultimo mollò la presa delle briglie ma non del cavalleresco collo, cui si aggrappò furente pure con il braccio appena libero. Al prode cavaliere si ventura mancava l'aria, annaspava disperato, ma non si perse d'animo, raggruppò tutte le forze e si piegò in avanti come una molla, toccando la nuca dell'animale con la punta dell'elmo e trascinandosi dietro il balivo. Questi fu confuso, sinché non si buscò una riecheggiante testata sul mento, frutto del ritorno, alla posizione diritta, del cavaliere. La botta fu sufficiente a far sciogliere le braccia dall'avvinghiamento mortale che esercitavano e, per contraccolpo, Giminiano quasi cadde all'indietro, non fosse che si aggrappò disperatamente all'orlo in cuoio della sella. Con il labbro spaccato bruciante e col gusto di ferro in bocca, l'interesse nella vivisezione della gola umana, fu rivitalizzata nelle priorità del biondo. Si rimise a sedere in sella a tentoni, mentre Gattapelata si voltava per gestirlo faccia a faccia, sfilando già i piedi dalla staffa. Ma il prode fu colto alla sprovvista quando realizzò di essere nella traiettoria d'una coltellata al volto. Giminiano era riuscito infatti a sfilare uno dei suoi attrezzi e, impugnandolo con la destra, lama rivolta in basso, sferzò l'aria, sperando di portargli via un occhio. Ma la visiera sbarrata del Gattapelata lo protesse da tale eventualità, ma non dal pesante contraccolpo. Senza più i piedi nelle staffe, il cavaliere di ventura si trovò senza equilibrio e sul punto di precipitare in strada e restarci per sempre, ma s'aggrappò, cadendo, con tutte le forze, all'orlo della sella e la criniera del cavallo, che nitrì indispettito. La testa gli penzolava dal fianco destro dell'animale e le gambe ciondolavano, scalciando, dal sinistro. Non poteva mollare la presa per alcun motivo, perché aveva il baricentro talmente spostato fuori dal frisone e la sua armatura tanto pesante, che, era certo, sarebbe scivolato del tutto all'indietro se ci avesse provato.

Giminiano non sorrise, ma sapeva di avere la vittoria in pugno e, quasi mettendosi a cavalcioni sulla figura del cavaliere pendente, alzò di nuovo la mano destra per un secondo colpo. Lo calò, ma venne parato dal guantone sinistro del cavaliere, che aveva mollato la presa, dall'orlo della sella, per far da scudo improvvisato, rimanendo intonso e senza graffi. Le gambe del cavaliere si serrarono intorno al barile ch'era la pancia del cavallo, il suo cuore galoppava insieme a lui e la fronte gli grondava e aveva già riempito una pozzanghera in un angolo dell'ampio elmo. Non voleva proprio morire.

Giminiano pose la sua mano destra sul collo del Gattapelata, strozzandolo nuovamente e spingendolo sempre più giù, tanto che ormai l'erba alta che cresceva al limitare del bosco gli sfiorava la cima del capo. Sapeva che era solo un trucco per spingerlo ad impegnare la sua mano fatta a scudo e avere così libero accesso a sbrindellargli la faccia, ma non potè fare a meno di cercare di liberarsi da quella morsa costrittoria. Aveva bisogno di respirare, e dunque impiegò la sinistra per afferrare il polso della sinistra avversaria e spingerlo via. Il campo era libero da altri ostacoli.

"Gattapelata!" Gli gridò teatralmente il balivo pur essendo a meno di un metro di distanza, levando il coltello, alto e scintillante al sole, per un terzo colpo. "Potrei uccidervi ora, ma vi offro la possibilità di arrendervi! Cosa ne dite della mia magnanimità?"

Gattapelata tossì un poco. Gli faceva ancora male il collo e gli mancava dell'aria, ma infine rispose.

"Che se mi ci pulissi il culo, essa non cambierebbe sostanza".

"Sia fatta la tua volontà".

Giminiano non attese oltre e menò giù la lama. Passò perfettamente fra le fessure verticali dell'elmo e la sentì penetrare carne umana. Se aveva colpito giusto doveva averlo preso in mezzo agli occhi. Subito si levò, dalla visiera, una fontanella di sangue rosso acceso al vento, ma non in senso figurato, uno schizzo che pareva una fontana vera, che, partito dal volto del Gattapelata, centrò quello di Giminiano, macchiandolo completamente e quasi facendolo annegare da che era copioso e improvviso. Distratto, un po' disgustato, il balivo perse la ferrea presa dalla gola avversaria e Gattapelata, ancora vivo straordinariamente, riprese, con la sinistra, una presa salda della sella. Finalmente libero dal soffocamento, non più spinto fuori, libero dalla minaccia del coltello e incazzato come una biscia, Gattapelata subito si caricò il ginocchio destro al petto e scaricò una devastante pedata al petto del biondo balivo, ancora intento a ripulirsi il viso e sputare, che non ebbe modo di assorbire il colpo in modo dignitoso e fu buttato fuori bordo.

Invece di toccare il suolo e scorticarsi ripetutamente per terra, Geminiano fu preso al volo dal suo bianco purosangue arabo, Betelgeuse, bestia così buona e previdente che non se ne troverà mai più una simile in natura. Aveva seguito il combattimento senza mai rimanere indietro, sapendo bene che il suo compito non era finito e difatti ebbe modo di rendersi utile nuovamente. Il povero fantino, tutto concio e malmesso, si ritrovò steso di pancia sul dorso morbido del suo fido destriero. Ringraziò la sua buona stella di avergli donato un cavallo tanto meritevole e si rimise in sesto. Infilate le staffe e prese le briglie, si rimise all'inseguimento.

Era assurdo che Gattapelata fosse ancora vivo, ma dopotutto si trattava dello stesso individuo che aveva abbattuto un albero con la sua sola testa. Ci sarebbero volute ben più coltellate per finirlo. D'improvviso si chiese dove diavolo fosse finito. Si erano addentrati in un sentiero nel cuore del bosco, ma di Gattapelata non vi era traccia sul loro selciato. Eppure sentiva un scalpiccio di zoccoli diverso dal suo e a meno che il cavaliere, oltre che invulnerabile, fosse ora invisibile, doveva pur essere da qualche parte. Si rese conto di stare su una strada legermente in salita e guardò in basso, sulla destra. Non poteva crederlo! Su un sentiero parallelo, ma che si dirigeva invece giù per una depressione, il Gattapelata si dava alla fuga, calpestando funghi, muschio e tutto il resto del sottobosco.

Poi lo realizzò. Nel dargli il secondo calcio, evidentemente, i due dovevano aver attraversato un bivio. E lui, senza aver modo di riprendere il controllo di Betelgeuse per un pezzo, non poté imboccare la stessa via del fuggitivo. Ma se sperava che sarebbe bastato un bivio a divedere le loro strade egli non conosceva il potere della sua giustizia.

Con occhi ardenti, che lanciavano scintille, diede uno strappo e Betelgeuse, ubbidiente anche di fronte a imprese impossibili, e si lanciò giù dallo scosceso, irregolare e accidentato versante del colle, in una maniera che si sarebbe creduta possibile solo ad un capriolo. Ma Betelgeuse poteva, perché lui era un purosangue.

Gattapelata non si rese neppure conto di essere ancora inseguito e già si credeva in salvo, rallentando il passo ad un galoppo appena accennato, che fulminea, una figura da folletto imbruttito dal malumore, gli saltò addosso. Betelgeuse si era portato accanto al frisone nero e Giminiano poté di nuovo abbordare l'ignaro cavaliere. L'impatto del placcaggio fu tanto violento che i due caddero di sella entrambi, strappando di netto le staffe di Gattapelata. Avvinghiato al busto del cavaliere, come se mai lo avesse voluto lasciare di nuovo, Giminiano impattò col suolo erboso pieno di foglie cadute, che attutì di non poco lo schianto, che sarebbe stato altresì fatale. Ruzzolarono e girarono su sé stessi, alzando radici, sassi e foglie, che parve ad entrambi che il mondo fosse diventato un affresco che cola. Quando si fermarono erano troppo rintronati per rialzarsi subito e avevano la vista appannata. Giminiano provò a rialzarsi, con le vesti strappate e la faccia bellissima perturbata da tagli e bernoccoli, ma non ci riuscì, incespicò e cadde riverso in avanti. Si puntellò coi gomiti e si costrinse a guardare davanti a sé e oltre il dolore.

Gattapelata era riverso di schiena invece, qualche piede più in là. Pareva svenuto, le braccia abbandonate, le gambe aperte e il viso piegato da un lato. Forse era morto davvero. Giminiano sospirò, schiacciò un po' di foglie con i pugni, prese fiato e poi gridò.

"Gattapelata!" E qui dovette interrompersi per sputare sangue e saliva che gli si erano ammassati sotto la lingua "Per ordine di Pipino il Lungo, signore di questo feudo, ti dichiaro in arresto! Arrenditi o subiscine le conseguenze!"

"Posso subirle fra cinque minuti? Si sta così bene qui per terra" Mormorò il cavaliere, senza neppure provare a muoversi. Giminiano ne ebbe abbastanza. Aiutandosi con le mani, si rialzò, sbuffando di fatica, sgrullando le spalle dal fogliame, e si rimise in piedi, tentennante. Gattapelata invece continuava ad imitare l'erba. Giminiano si schioccò ogni osso del corpo cigolante, stirò i muscoli e recuperò fiato, fino a che non si sentì pronto per tornare all'attacco. Tirò fuori un terzo coltello. Era passato molto tempo da quando ne aveva usati così tanti per un uomo solo. Tenendolo alla rovescia, gli si fece incontro. Se si fosse arreso lo avrebbe risparmiato, ma Gattapelata aveva giocato troppo con la sua pazienza ormai. Gli si mise a cavalcioni sopra, una gamba lì e una gamba là. Quello continuava a non muoversi. Avvicinò una delle sue mani piene di graffi all'elmo, per togliergli la visiera e colpirlo una seconda volta e per bene.

Ma immantinente, la intercettò il guantone ferrato del cavaliere, prima che egli potesse privarlo della sua vitale protezione. l'instacabile Gattapelata non era null'affatto sfinito, solo a riposo. Giminiano tentò di colpirlo col pugnale, ma la sua traiettoria venne interrotta ancora una volta dalla mano libera del Gattapelata, contro cui stroncò il colpo, sprizzando baluginii e mandando in pezzi l'arma. Presto anche l'altro polso del balivo fu assicurato dalla presa del cavaliere e fatto questo, subito si rizzò a sedere, tenendosi davanti il divincolante biondo.

"E ora il mio gioco preferito" Sghignazzò Gattapelata "Un bel giro di giostra!"

Pose il suo piede di ferro sul ventre del ragazzo e il ginocchio sul petto e si tirò all'indietro di colpo. Con la schiena di nuovo in terra, la pancia di Giminiano sul piedone e i suoi polsi in pugno, fu allora che il gigante di latta poté far scattare la gamba tesa verso l'alto e così proiettare il balivo per aria. E il balivo, preso ai polsi dal cavaliere, fece un arco che come perno aveva le spalle di Gattapelata, venendo giù con foga, fu mollato e fu libero di schiantarsi di schiena fra le felci e i porcini, sollevando un mare di foglie. Se per quella foresta fosse passato un judoka avrebbe fatto un applauso per quel Tomoe-nage perfetto.

Atterrando sul morbido, Giminiano non fu ferito, solo sbalordito dal colpo e si guardava intorno con aria confusa, non sapendo bene che fosse successo. Tentò di rialzarsi, ma non gli fu concesso, che di nuovo, il suo fianco sinistro, fu vittima di una pedata da terremoto, che, affondandogli la punta del ferroso stivale nel rene, lo fece ribaltare di nuovo, sollevandolo in aria. Al povero Giminiano pareva di essere in un torrette di sventole tante botte aveva preso. Ma non poteva dargliela vinta a quella che caffetteria infernale, proprio no, e giacché non si reggeva più in piedi, si trascinò fino alle radici di un Juglans regia maturo, comunemente detto noce bianco. Lì, cinse le mani attorno alla scorza ruvida e muschiosa del tronco, quindi si tirò sù, con uno sforzo eccezionale date le sue condizioni. Si mise in piedi, si adagiò sudato, insanguinato ed ansimante al tronco, ma le gambe non gli ressero e, dopo un tremore di febbre, crollò nuovamente per terra.

E meno male, aggiungo io autore, perché se fosse rimasto un poco di più a riposarsi avrebbe subito un taglio della barba molto in profondità. Gattapelata aveva infatti sfoderato il suo spadone da dieci libbre e sei piedi e gli si fece incontro quasi dovesse bastonare un cane cocciuto con una verga. Se Pietro e Andrea furono chiamati peacatori, allora, a ben donde si sarebbe potuto definire Gattapelata come un boscaiolo di uomini, perché fece adopero della sua grossa lama non differentemente da come avrebbe impugnato una pesante scure. E questo fu il suo errore fatale, perché gli spadoni non son certo fatti per tirar giù gli alberi, specie se si tratta di noci bianchi maturi, e l'arma bianca ci fece un fran solco dentro, profondo quanto il raggio dal centro della pianta e pulito che neppure una scheggia ne volò via.

Disperatamente tentò di estrarla, ma il peso del noce intero stava ora sulla lama, ed era così pesante da risultare inamovibile come la spada di San Galgano e solo chi fosse riuscito a sollevare il peso del noce sarebbe stato capace di estrarla. Gattapelata tentò, ancora e ancora, ma niente, pareva fusa nel legno ormai. Piantò un piede sulla corteccia antica e spinse forte in direzione opposta, provò a smuoverla di lato, ma niente, tentò anche di rovesciare il noce di lato a spallate, facendolo cadere e liberando la spada, ma il taglio era così pulito che il fusto pareva ancora intonso.

"Gattapelata" lo richiamò una voce debole di fianco a lui. Si voltò e vide Giminiano nuovamente in piedi, il volto paurosamente calmo pur deturpato, il sangue che gli colava ancora dal labbro, gli abiti stracciati e macchiati di sangue e sudore.

"Mi sembra di avervi già spiegato che non ho intenzione di arrendermi!" Gli gridò di rimando l'armatura infastidita.

"Non avevo intenzione di chiedervelo" Giminiano si afferrò le cinghie e i laccetti che gli legavano le fondine al petto e se le slacciò. Preso l'arsenale lo lasciò cadere in terra, con fragore "Perché mi sono stancato di giocare con voi".

Gattapelata rise a quella ridicola proposta. Sapeva di avere davanti ormai solo lo spaventapasseri di un balivo. Smise i suoi tentativi di estrazione dell'utensile guerresco e gli si fece incontro, stringendo i pugni di ferro. Conciato da straccio, non poteva proprio immaginarsi come il ragazzo potesse essere ancora una minaccia per lui. Voleva dire che avrebbe finito di mazzuolarlo per bene, cosicché la piantasse una buona volta di stargli appresso.

Subito si portò avanti, caricando un calibrato diritto destro. Ma quel diritto andò a vuoto, perché la testa che mirava a tumefare, quel cazzotto, si spostò di lato. E poi era stato un diritto calibrato, sì, ma senza tenere in considerazione i venti chili di armatura che si teneva addosso. Il cavaliere ebbe appena il tempo di vedersi il polso e avanbraccio afferrati da quelle dita sinuose e strattonato in avanti, che subito si trovò a testa in giù, sulle spalle del biondo balivo, gambe all'aria, petto sulle sue scapole. Fece un volo di tutto rispetto e cadde, con gran fracasso di tegami, in quel morbido tappeto vegetale. Se l'ipotetico judoka fosse ipoteticamente tornato, si potrebbe ipotizzare che avrebbe applaudito ancora di più a vedere un così superlativo Seoi-nage. Gattapelata si rialzò subito e credette d'esser diventato cieco. Invece gli era solo scivolato l'elmo al contrario. Se lo rimise corretto, ma solo per vedere di nuovo la terra da molto vicino, quando un poderoso calcio in culo lo mandò nuovamente steso in avanti ad assaggiare le foglie. Gattapelata si rialzò subito, più ferito nell'orgoglio che altro: quelle mosse non le aveva quasi sentite tanto era corazzato, ma lasciarsi cogliere così da quell'efebico sbarbatello sbarbato era troppo. Scosse la testa, facendo cadere dalla visiera tutte le foglie accumulatevisi, e si alzò prontamente per mangiarsi vivo quel fuscello vestito da balivo.

"Che storie sono queste?" Gli sbraitò contro Gattapelata, con un grido da far scappare via gli uccelli dalle fronde circostanti. Giminiano gli camminava intorno, tranquillo.

"Avete perso, pattume d'uomo, ecco tutto" Giminiano era impassibile. Gattapelata lo squadrò di nuovo.

"A me sembra che sia tu quello messo peggio".

"Controlla meglio" e detto questo prese un leggero slancio e gli si gettò nuovamente addosso. Stavolta era lui a tirargli contro un diretto destro. Che faccia pure, pensò il cavaliere, se odia tanto le sue nocche da infrangersele lasciamolo fare. Ma il ciocco che seguì non fu quello di un destro che si sfracellava contro la visiera d'acciaio d'un elmo, bensì dello stesso che si ode nelle frane. Giminiano aveva difatti sbriciolato un sasso sulla faccia schermata del Gattapelata. Aveva preso quel sasso e strettolo in pugno poco dopo la stivalata nelle terga, mentre ancora il cavaliere era indaffarato a levarsi fogliame marcio dall'elmo. La visiera, ovviamente, non si era spezzata, ma la concentrazione di Gattapelata sì. Giminiano aveva colpito tanto forte che anche lui né restò spinto indietro, ma si riprese e si diresse verso il vulnerabile avversario.

"Hai perso tutti i tupi vantaggi, vigliacco che non sei altro!"

Il cavaliere arretrava dolorante per la concussione spaventosa e non ebbe modo di difendersi quindi, quando dovette incassare un altro calcio, stavolta allo stomaco da farlo piegare in due, subito seguito da una ginocchiata al viso da farlo rimettere sull'attenti seduta stante. Poi si sentì afferrato per le gambe e gli venne tolto il terreno dai piedi. La sua schiena tornò a terra con un tonfo. Le sue gambe erano serrate fra le ascelle e il gomito di Giminiano, che gli spinse poi lo stivale destro sul viso, schiacciandoglielo a terra, girato di lato. Gattapelata lo fulminava da sotto la suola, ma era incapace di reagire.

"Senza più frisone e spadone, che ti rimane ciurmadore? Solo un'armatura vuota quanto la tua tecnica, ma non credere che basterà a difenderti da me. Tu che decantavi tanta forza, te ne è rimasta, anche solo un briciolo, per quest'ora fatale?"

E dicendo questo lo faceva volteggiare intorno a sé, tenendolo per le gambe. La vista del cavaliere era una giostra di macchie di colore ormai. Stava usando il suo stesso peso contro di lui. Perché Giminiano era stato cresciuto, sin da fanciullo, al dolore e all'arte della lotta greco-romana e libera, alla mischia a mani nude, che lui praticava con la stessa leggerezza con cui un'ape assapora il nettare. Lo mollò e quello volò lontano. Toccò il terreno e rotolò in un mare di foglie, finendo alle radici del noce bianco, lo stesso dove era stramazzato Giminiano pocanzi. Tastando la corteccia capì dove si trovava e cercò appigli per risalire. Non ce la faceva più a combattere: chi l'avrebbe detto che quell'armatura potesse essere così pesante da portare appresso? Era illeso, circa, ma gli stava venendo il mal di mare a forza di venire sballottato e sentiva che tutte quelle batoste, anche se parate dell'acciaio, stavano avendo un pessimo effetto sui suoi organi interni. Si rimise in piedi, appoggiandosi al fusto con tanto ardore come non ne mostrava se non alla propria madre. Sentì con il palmo destro una protuberanza strana infilata nel tronco. Era l'elsa della spada. Giminiano stava venendogli incontro inesorabile e continuava ad ammonirlo. Sapeva che non sarebbe mai riuscito ad estrarla in tempo, ma tentò ugualmente, serrando le dita, flettendo i muscoli, piegando le spalle e digrignando i denti.

"Perché è in ore come queste che si rivela l'uomo. C'è chi prova a nascondersi dietro balocchi come i tuoi e chi invece è fatto della stessa carne di cui è fatto il futuro. Oggi tu, Gattapelata, falso eroe e meschino rivale, capitoli per mano mia, onore ben più grande di qualunque infima impresa tu abbia adempiuto sinora".

Il cavaliere stava facendosi saltare i tendini da quanto tirava, ma il brando non voleva staccarsi. Non avvertiva uno scricchiolio da parte dell'albero, non accennava a rendergli la lama che gli sarebbe tornata tanto proficua ora. Sentì Giminiano corrergli addosso e saltare, si voltò e poté ammirare un paio di suole di stivali farsi strada nell'aria. Non vide altro, perché la sua visiera fu schiacciata da quella visione. Giminiano era atterrato con entrambi i piedi sul suo elmo, spingendolo indietro e schiacciandolo, tirandosi appresso tutto il corpo, sull'albero. Giminiano atterrò leggero sulle foglie, mentre Gattapelata rimase attaccato alla corteccia, fattosi incisione sul legno. Ora il balivo poté sedersi e riposare. L'inseguito non sarebbe andato più da nessuna parte.

Steso sul fogliame riprese fiato e riordinò i pensieri. Anzi, riprese a pensare, perché non aveva avuto il tempo di farlo in tutto quel trambusto. Ce l'aveva fatta. Aveva preso Gattapelata. Contro tutte le condizioni a sfavore ci era riuscito. Guardò il cielo. Cominciavano a profilarsi i primi fulmini e i tuoni giungevano, seppur distanti. L'aria si andava facendo sempre più fredda e gli uccelli volavano basso. Non gli importava poi tanto, con quanto aveva sudato, un po' di fresco gli faceva bene. Una folata gli passò fra i riccioli biondi. Erano polverosi, pieni di rami, foglie e spettinati. Aveva l'orlo dei vestiti tutto stracciato per i capitomboli che aveva subito e in più parti, brandelli dei vestiti, erano stati strappati via, lasciando intravedere la sua pelle depilata e chiara. Il viso aveva smesso di sanguinare, ma il labbro spaccato e il sopracciglio tagliato bruciavano ancora. Si slacciò la cintura e si alzò le vesti per guardarsi il fianco, tanto martoriato in quello scontro. Era rosso e viola, un po' sfregato per tutti quei calci e gomitate, senza contare le varie cadute. Provò ad alzarsi, ma il fianco non glielo permise, gli pareva che il rene stesse per scoppiargli, strinse i denti, strizzò gli occhi e tornò a sedere. Si strinse le ginocchia al petto e appoggiò il mento sulle braccia chiuse intorno alle gambe, in posizione tipica del feto. Appena fatto ebbe un colpo di sonno. Betelgeuse gli si avvicinò per annusarlo e, notando il suo fischio tipico di quando dormiva, ovvero il pizzicare di un'arpa, decise di coricarglisi accanto. D'istinto, Giminiano, gli si coricò sul ventre caldo e morbido. Restarono così a lungo.

Ebbe sogni strani confusi, di lotte e dolori incomprensibili. Vedeva i visi ghignanti del Gatapelata, di Giorgione e suo padre, l'unico che non rideva affatto, ma che scuoteva il capo deluso. I calci e i pugni continuavano, sempre più spacca budella che, seppur fatti di pensiero, lo fecero svegliare di soprassalto. Erano scoccate le sette e il campanile le batteva alacramente, in lontanaza. Aveva dormito meno di un'ora e gli era parsa un'eternità. Aveva il viso tutto sudato e si alzò con aria sgomenta dagli incubi. Betelgeuse alzò il capo preoccupato dal suo atteggiamento. Lui non aveva mai dormito, era solo rimasto steso a terra a vegliare su di lui.

D'istinto, Giminiano, si mise in piedi, affondando le mani nel fogliame a terra scricchiolante. Il fianco aveva smesso di tormentarlo, se non del tutto, abbastanza per alzarsi. Il suo primo pensiero fu diretto al cavaliere. Era ancora lì, non era scappato durante il suo sonno, grazie a dio. Aveva smesso di abbellire la corteccia ed era cascato in terra, di faccia. L'elmo era un poco deformato. Dopo tutte quelle botte, anche quell'armatura impenetrabile, era stata violata, anche se di poco. La visiera a fenditure verticali era percorsa da sbarre ormai irregolari, piegate all'interno, in una depressione che combaciava con il suo doppio calcio decisivo.

Aveva preso a piovere. Il campanile smise di battere. D'improvviso, l'armatura fu percorsa da un fremito. Giminiano osservò quell'ammasso di placche tremare sempre di più. Gattapelata stava ridendo. Era una risata spaventosa, pazza, gioiosa e che proveniva dall'altro mondo. Giminiano sentì freddo. Si sarebbe avvolto nel mantello, se solo lo avesse avuto ancora. Scattò verso di lui, voleva farlo smettere, lo rigirò, era leggero. L'elmo vibrava a seconda della terribile risata.

"Smettila bastardo!" E gli mollò un pesante pestone a pungo chiuso sulla sommità dell'elmo, dall'alto al basso. Chi si fece più male fu lui a sbattere su quella superficie dura e la risata continuava a imperversare l'aria. Quindi, la sua mossa successiva, fu quella di levargli l'elmo per menarlo a dovere e fargli interrompere quello sghignazzo per knock out tecnico. Gli pose le dita alla base del collo e sollevò l'elmo tanto forte da farglielo saltar via, alle sue spalle. L'orrore lo pervase, quando si trovò davanti il viso sornione, sanguinante, bagnato da secchiate di sudore e un po' frutto di sbornia di...

"Goffredo" Biascicò Giminiano, mollando subito la presa e lasciandolo cadere contro la base dell'albero.

"E chi ti aspettavi?" Chiese e rise di nuovo l'uomo, pervaso dall'ilarità, mostrando il pomo d'Adamo al cielo "Brunilde?"

***

Una figura avvolta in cotta di maglia e cavalcante un ronzino trovò, dopo un giorno e una notte di viaggio, un monastero, alle prime luci dell'alba. Pioveva a dirotto e andavano a formarsi fiumi per le strade e fango nei sentieri e gli zoccoli della bestia bastarda faticarono a tirarsi sù fino al portone, in cima la collina. Arrivata, la figura barbuta, guardò al cielo, la pioggia negli occhi, e lanciò un grido da belva morente.

"Santuario! Santuario!"

Nessuno venne ad aprirgli. Scese dal ronzino, cadde in una pozzanghera fino alla caviglia, scivolò e sbatté il grugno, sbucciandoselo contro il portone di legno sprangato. Con gli occhi che ormai non ci vedevano più per il sangue e la pioggia, gridò ancora più forte, per farsi sentire fino ai cieli e oltre.

"Santuario per la madonna! Santuario ho detto!"

Ecco, cadde in avanti ancora, nel terreno bagnato. Si rimise in ginocchio e alzò gli occhi appannati. Il portone era stato aperto da due figure incappucciate di monaco, vestite di marroncino, che lo guardavano dall'alto in basso.

"Chi sei tu che invochi il nome della vergine invano?" Chiese quello alto e snello.

"E ti sembra invano questo, sacco di patate?"

"Il nostro fratello non ha tutti i torti" disse l'altro, osservando il cielo che continuava a scrosciare. Anche lui era snello, ma basso.

"Piano te" si risentì l'uomo in cotta di maglia "Io di fratello ne ho uno e non ha la tua faccia. Si trova qua dentro, fatemi entrare!"

***

L'abate Gregorio era solo nella sala della copiatura, a riscrivere a mano un testo di Seneca. Aveva acceso solo un alto candelabro alle sue spalle a tre bracci. Fuori, oltre i vetri e i muri di pietra, ululava ancora la tempesta. Stava rifinendo ora una miniatura, quando si ruppe l'austero silenzio. Si aprì una porticina di legno in fondo alla sala.

"Padre Gregorio" lo chiamò una voce dell'entrata che dava al portico centrale "Un uomo vuole vedervi".

"Gli dica di aspettare".

"Non è possibile. Dice di essere vostro..."

"Fratello!" Esclamò una voce dirompente dal fondo della sala. L'uomo aveva letteralmente scavalcato la testa calva del povero monaco ed era saltato oltre, atterrando con un tonfo sul pavimento rozzamente piastrellato. La mano dell'abate ebbe una contrazione involontaria, che tracciò a penna una striatura con l'inchiostro rosso. Subito si prodigò a versarci sabbia sopra e correggere. Si voltò, con volto sbigottito. La figura del nuovo arrivato era avvolta nell'ombra, ma aveva riconosciuto la voce.

"Tu qui?" Chiese con cenno stranito Gregorio, sollevando le sopracciglia che pareva dovessero volargli via dalla fronte.

Un fulmine illuminò la sala. D'improvviso, davanti all'abate si palesò un orso fatto uomo, dai capelli e barba di fuoco, sopracciglia a gobbe di cammello, fronte prominente e naso largo, avvolto in una cotta di maglia e tunica da fante sgualcita. A decorargli il capo stava una corona di rosmarino e basilico, ormai appassiti.

"Sì, io".

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Capitolo 4
*** Ancora sulle disavventure di Giminiano ***


"Maledetto, maledettissimo imbroglione, maledetta la tua famiglia, la tua terra, la tua razza, maledetto il mondo intero per aver permesso che una malnata e malforme e malpensante creatura, quale tu sei, potesse vedere la luce!" E dicendo questo, Giminiano scuoteva Goffredo con quanta forza aveva in corpo, cioè poca, perché l'ultimo briciolo l'aveva usato per pulire il pavimento con la faccia di quest'ultimo e tristemente non ne aveva più per poterlo fare di nuovo come desiderava. Goffredo, nonostante gli scossoni che gli facevano dondolare la testa da fargli male al collo, continuava a ridersela tanto da sputare in faccia al ragazzo. Giminiano alzò un pugno per piantargli un ben poco aggraziato pestone sui denti, ma infine chiuse gli occhi e mollò pugno e presa. Goffredo tornò con la schiena poggiata al fusto del noce bianco, il capo appena sotto il manico dello spadone conficcato nella pianta. Giminiano si mise in ginocchio, le mani sulle cosce e gli occhi chiusi, mentre la risata di Goffredo andava a spegnersi, non per mancanza di voglia, ma perché non respirava e gli doleva la mascella dall'eccessiva risata di sberleffo.

"Me lo sarei dovuto aspettare" Ammise a capo chino il biondo "Mio padre mi aveva messo in guardia dalla povera gente e i suoi tranelli. È proprio vero che voi ne conoscete una più del diavolo".

"Modestamente è vero, gli ho insegnato tutto quello che sa" sospirò Goffredo, con la faccia di chi si addormentava ogni notte con la coscienza lieve. Seguì un altro breve risolino "Ma stavolta siete nel torto a dubitare della mia buonafede, sior balivo carissimo. Io non so proprio di che parlate, perché, vedete , io non vi ho teso alcun tranello".

"Ah, no?" E subito Giminiano gli avventò nuovamente addosso, lo afferrò per il bordo dell'armatura dove s'apre per far uscir il collo e proprio lì gli serrò uno dei suoi coltelli. Prese un gran respiro e gli sputò addosso di ogni "Tu, bugiardo, menzognere, imbonitore, frottoliere, millantatore, fedigrafo, transfuga, lestofante, mascalzone, filibustiere, canaglia, farabutto, insincero, venduto, spergiuratore, turlipinatore, falso, infame, carogna, voltagabbana, traditore figlio di puttana, spiegami come potrei credere a una singola parola di quello che dici".

"E se non mi credete, che ve lo spiego a fare?" Il sangue della ferita in cima la testa gli si era seccato in viso, creandogli una maschera rossa, ma quello continuava a ridersela.

"Basta con i giochi!" E gli premette il coltello sulla pelle, ma senza essere in grado di fargli mutare espressione "Perché indossi l'armatura del Gattapelata? Perché scappavi? Dove si trova il vero cavaliere? Dillo o non lascerò neppure un corpo da restituire ai tuoi cari".

Subito il viso di Goffredo si fece scuro, aggrottando la fronte. Ma era tutta una palese recita "Ma sior balivo, voi mi offendete. Il cavaliere Gattapelata sono io".

"Storie!".

"Oh, sì, si narreranno grandi storie di me! Forse voi non lo sapete, perché siete tornato a casa prima stasera, ma proprio oggi, fra le tre e le quattro di mattina, giù alla locanda, l'audace cavaliere, che voi conoscevate come il Gattapelata, si è detto stanco della vita guerriera errante e che si sarebbe ritirato ad arar campi. Così nominò un successore che avrebbe portato le sue armi e quel successore fui io. Ero così emozionato che subito mi dipartì dalla mia famiglia, il lavoro, la mia gente e la mia terra per continuare questo gravoso compito assegnatomi. Capirete, voi che siete figlio di nobile stirpe, che non potevo certo lasciare un nome glorioso, come quello del Gattapelata, a prendere polvere in un'angolino del tempo. Così, accontentandomi di un umile frisone da fatica che mi offrì, sia benedetto, un mio amico, io mi misi in marcia di buona lena per purgare ingiustizie e battermi con banditi, come si addice ad un buon cavaliere errante rispettabile. Ma invece finì solo per battermi con voi".

"Perché non ti fermasti quando te lo ordinai? Perché scappare e batterti con me, tutore della legge, tu che ti dichiari gran giustiziere della mia fava?" Giminiano non credeva ad una sola parola che quello gli proponeva, ma Goffredo aveva una faccia di bronzo tale che cominciò quasi a dubitare che fosse tutto vero.

"Perché per esser nominato cavaliere" alzò l'indice il vecchio, con fare da saputello "Uno deve essere puro come l'acqua e non aver mai commesso iniquità e nefandezze in vita sua, o aver già fatto penitenza per queste. Imperrocché di questo, io, che nulla avevo commesso contro la legge di dio e degli uomini, credetti che voi foste impazzito e cercai di trarmi in salvo alla vostra furia. Si trattò di legittima difesa".

"E non ti è mai passato per la testa, razza di animale, che, così conciato, ti avrei scambiato per l'uomo che cerco? Perché non vi fermaste a spiegare tutto prima che finissimo per azzuffarci? Così non avrei sprecato un'ora e più del mio tempo con te".

"Questa è solo colpa vostra, sior balivo" L'ultima goccia. Giminiano alzò il coltello per piantarglielo in una guancia e farlo sbucare dall'altra, ma quando calò la lama deviò il colpo per galanteria nei confronti di un nemico sconfitto, seppur cospiratore e gli mostrò misericordia piantando la lama nel tronco, all'altezza della sua tempia e di fianco ad essa, facendo compagnia allo spadone di Gattapelata. Quindi, con ancora la mano serrata alla base del collo dell'armatura, con la destra libera andò ad afferrargli il cinturone e lo alzò, lo portò al suo fianco e lo scagliò come un giavellotto. Atterrò sulle foglie di pancia, strisciando in avanti di una pertica intera, tanto forte era stato tirato. Quindi il balivo gli calò addosso di nuovo e lo rivoltò, pronto a ricominciare.

"Dillo di nuovo, dimmi ancora come poteva essere mia la colpa, io che sono la vittima dei vostri scherzi".

Goffredo esitò, mentre Giminiano ansimava dalla fatica e dalla voglia di sapere cosa stesse sbagliando di così ovvio. Poi riprese a sorridere.

"Pensavo fosse palese chi fossi e non mi piace ribadire l'ovvio a qualcuno che già lo sa, poiché lo trovo ridondante. Così credetti che voi ce l'aveste proprio con me, per un qualche ignoto motivo".

"Ma io non lo sapevo, gargantuesco citrullo! Come potevo immaginare che ci fossi tu sotto l'armatura del mio nemico?"

"Questa dicevo, è colpa vostra. Non ditemi che non vi è mai balenato in testa, neppure per un istante, che steste battendovi con il precedente Gattapelata. Lo stesso Gattapelata che ruppe una mandibola di drago a mani nude e una betulla con la testa. Lo stesso Gattapelata che aveva la forza di mettere in riga un intero locale a suon di schiaffi. Lo stesso Gattapelata che ha la forza e lo stomaco d'un bisonte" E qui scoppiò a ridere di nuovo tanto da lagrimare "Davvero voi credevate di averlo vinto, mingherlino come siete? Non per offendervi, ma una bestiaccia del genere? Siete un inguaribile ottimista ragazzo mio".

La presa di Giminiano si allentò.

"Quella ferita, che v'ho inciso in cima la testa, vi ha solo sfiorato. Io miravo al volto del cavaliere, ma voi, ben più basso, vi sfiorai appena lo scalpo. E allora perché tanto sangue ne sgorgò fuori?".

"Mah, lo sapete bene anche voi. Il vecchio Goffredo ha la pressione tanto alta che basta un taglio per riempire un fiume in secca".

Giminiano inspirò, espirò, ritrovando la calma, o almeno l'apparenza di questa, e si alzò, zoppicando, verso Betelgeuse. Per il dolore al fianco e la stanchezza poggiò male il piede e prese una brutta storta. Cadde in avanti, ma si aggrappò all'ultimo, con la destra al corno della sella e l'altra alle redini del purosangue. Il cavallo bianco nitrì appena per quello strappo improvviso alle sue briglie, per non dar pena al suo fantino, tutto grondante di sangue e sudore, che si trascinava in cima al suo groppone. Si issò con estrema lentezza, le gambe gli andavano in fiamme e non gli permisero di eseguire uno dei suoi caratteristici balzi, quindi, infilando un piede in una staffa e, elevandolo con gran fatica, facendo passare sopra l'arcione l'altro, facendolo scorrere giù dall'altro fianco del cavallo, infilò anche quello. Prese le redini, ma non gli venne voglia di farle scoccare, nè ne ebbe bisogno. Betelgeuse già si era messo al passo sulla strada da cui erano venuti. Giminiano non ce la faceva neanche a star diritto con la schiena in sella e guardava i piccoli zoccoli del suo cavallo affondare e rialzarsi dal terreno. La pioggia scendeva pigra. Goffredo, ancora disteso, alzò lo sguardo e vide il biondo balivo allontanarsi. Continuando a sorridere coi suoi denti ingialliti lo richiamò indietro, rimanendo disteso.

"Sior balivo! Dove se ne va di bello?" Ma Giminiano non rispose. Goffredo si alzò in piedi, acciaccato ma pieno di soddisfazione. Perché spesso, fra stanchezza e malumore, non c'è molta differenza e Goffredo se ne era completamente svuotato della prima e, in diretta proporzione, anche della seconda. Il suo frisone era scappato via, dunque si lanciò all'inseguimento a piedi. Ripescò l'elmo da terra e, galoppando più veloce del cavallo, stanco quanto il fantino che si teneva in groppa, gli si parò davanti a gambe larghe e braccia aperte, frenando Betelgeuse "Se se ne va a spasso guardi che le tengo compagnia. Dopotutto andiamo nella stessa direzione mi sa. Credo di aver dimenticato salutare mia cognata giù in paese".

"Dipartiti da me, uccello del malaugurio, e non intralciarmi mai più!" Fu l'ordine perentorio del giovane biondo, elevando il braccio a mano aperta, come a scacciare un moscone "Ho già sciupato tempo a sufficienza con te e ho una faccenda ben più importante cui attendere. Libera dunque il passaggio, perché io non ti girerei mai attorno, ma ti schiaccerei con questi stessi zoccoli che tu ostacoli".

E subito Betelgeuse si lanciò in un trotto. Goffredo, vecchio irriducibile, balzò d'un lato per non farsi investire, solo per tornare a corrergli dietro.

"Sior balivo, non vi offendete! È stato un gran bel duello in fondo. Certo, per tirare giù un vecchio brocco come me ci avete messo un po' però, siete fuori allenamento?"

"Dipartiti ho detto!" Fu l'ultimo gesto di collera di Giminiano. Dopodichè non alzò più la mano e neppure la voce. Non lo guardò neppure mentre correva a fianco della sua cavalcatura. Parlava come in sonno, mormorando parole appena udibili "Devo dirigermi al paese e farmi rendere ciò che mi spetta da Giorgione. E anche se tu mi avessi trattenuto in questo dannato bosco, a sfidarmi a singolar tenzone per una quaresima intera, ho la parola di quell'oste e in pegno la di sua testa. Se il Gattapelata, che voi proteggete con tanto affetto, non mi sarà consegnato come da patti, un'orrendo trofeo esporrò nella mia casa".

"Se vi fa piacere, allora, precipitatevi pure alla taverna. Da come dite non c'è modo per voi di perdere questa trattativa".

E Giminiano prese a galoppare, capelli al vento, lasciando quella vecchia figura in armatura indietro. Alle sue spalle, la risata di Goffredo, risuonava terribile come il tremolio d'una falce.

***

Appena fuori dal bosco, a due leghe di distanza, Giminiano già vide segni di cambiamento giù in paese. Dalla piazza del fumo andava ad elevarsi, acre e nero, sopra il tetto della caserma e guizzi di fiamma baluginavano, qui e là da porte e finestre. V'era grosso movimento intorno e due file di persone che andavano fino al pozzo e ne trasportavano l'acqua con secchi, pentole e barili di birra. La guarnigione locale era irriconoscibile dalla popolazione circostante. Pochissimi erano in uniforme e armatura, anzi, alcuni si davano da fare, portando acqua e salvando oggetti dal fuoco seminudi o in camicia da notte. Fino ad allora, il biondo balivo, era tornato a passo di trotto, ma al vedere una scena simile fu preso dalla disperazione e, mettendosi una mano alla bocca e l'altra alle redini, diede cenno di mettersi al galoppo al suo purosangue, che così fece, venendo giù dal bosco martoriando il terreno sotto i suoi zoccoli. Non aveva il tempo materiale per farsi la strada così com'era stata battuta, quindi indirizzò per bene il suo cavallo e questo, saltando oltre il fosso acquitrinoso, si mise a percorrere l'accidentato terreno d'un campo messo a maggese, poi un prato da pascolo e infine un campo di patate. Entrarono nell'agglomerato cittadino tutti e due coperti di terra e polvere, il bel manto candido di Betelgeuse reso grigio acciaio e la sua criniera soffice spettinata e crespa e Giminiano era di sì simile aspetto che quando giunse di fronte ai suoi uomini, non appena essi ebbero un momento per levare il capo al loro balivo, quasi lo ignorarono, credendolo un paesano qualunque. Nessuno aveva tempo di badare a lui nel mentre che lavoravano di asce e scuri per aprirsi passaggi e si passavano a vicenda secchi pieni e vuoti.

"Uomini, che accadde, perché tutto arde?" Disse Giminiano scendendo veloce di sella con un balzo. Ma le gambe gli dolevano e rotolò sul ciottolato della piazza, dentro la folla. Si rimise in piedi, aggrappandosi all'orlo della veste d'un fante che teneva indietro le persone con un'alabarda e tempestandolo di domande "Mi sono allontanato appena un'ora soltanto, qualcuno mi dica che succede"

"Succede che c'è da lavorare, mano ai secchi tu!" E con uno spintone dato con l'alabarda lo scostò da sé, non avendolo riconosciuto. Giminiano andò a gambe all'aria e non riusciva ad alzarsi, per la troppa gente attorno di curiosi. Dovette gattonare dove la mandria era meno fitta e lì giunse di fronte ad un grosso cumulo coperto da un telo bianco di stoffa, disseminato di macchie gialle. Si aggrappò ad esso per fare perno ed aiutare a rimettersi in piedi, ma quando ci provò la sua mano affondò in qualcosa di morbido e freddo, che al tatto pareva un grosso cumulo di stracci. Non resistette alla tentazione e alzò un lembo per mirare di cosa si trattasse questo grosso carico coperto nel bel mezzo della piazza. Si ritrovò davanti un volto peloso e lupino, dal muso squamoso, coccodrillesco, gli occhi, tutti e tre spalancati, gialli ma arrossati, la lingua violastra penzoloni e il sangue giallo che macchiava il telo. Era Alemanno, il drago fatto perire in maniera violenta dal Gattapelata la notte prima e poscia portato in dono alla locanda di Giorgione. Ma perché portare lì la bestia invece che tenerla in cantina sotto sale? Non ci stava capendo più nulla, gli pareva d'essere in un incubo. Il Gattapelata gl'era scampato, aveva perseguito la persona errata e ora la caserma che dirigeva era in preda alle fiamme. Si mise le mani fra i capelli, mentre gli si infossavano gli occhi e gli tremavano le gambe. Corse al pozzo nel mezzo della piazza, dove stava una donna che riempiva una brocca. Gliela afferrò la brocca con ambo le mani e quando capì che non gliel'avrebbe consegnata volentieri le diede una spallata e, ottenuta la brocca, se la versò in una cascata gelida sulla testa.

Subito gli si lavò via il sangue, la saliva, la polvere e la pazzia. Nuovamente lucido si rivolse alla signora che aveva gettato in terra e la prese da sotto le braccia per aiutarla a rialzarsi, ma subito quella si dimenò via e gli mollò un ceffone.

"Cosa sprechi l'acqua, lazzarone, in un momento come questo? Renditi utile piuttosto o impiccati, che è uguale".

"Che cosa posso fare signora?" La pregò lui "Tutto mi scivola e non capisco più nulla".

"Se vuoi fare qualcosa buttati nel fuoco".

"La smetta col sarcasmo!"

"Macché sarcasmo, biondo! Hanno detto che il servo dell'armaiolo sia ancora dentro. Lo avevano lasciato a lucidare l'arsenale stanotte ed è rimasto bloccato quando è divampato l'incendio".

Giminiano si sentì rianimare.

"Mille grazie signora" E si fece strada in mezzo la folla, dando e ricevendo gomitate per passare. nel mentre si strappò un brandello della sua bella veste già rovinata e inzuppata d'acqua e se lo legò sul viso, a coprirsi, con il drappo sgocciolante, naso e bocca. Infine giunse davanti la guardia di prima con l'alabarda.

"Altolà, le ho già detto di tornare con un secchio se vuole rendersi utile o di girare al largo!"

"Mi faccia passare, ho un dovere da compiere"

"Perché invece io sto qui a grattarmi le palle, dico bene?"

"Non ho tempo per simili sciocchezze" Gli afferrò l'alabarda parallela al terreno, gliela alzò al cielo, quello guardò per aria e lui gli mollò un calcio nello stomaco, che lo fece ruzzolare a terra raggomitolato. Rimasto con l'alabarda in mano, Giminiano, apertosi una breccia nel cerchio di guardie, poté passare, correndo come un'atleta del salto in lungo da come teneva innanzi a sé l'arma. Quando al biondo gli si pararono davanti altre guardie per tenerlo lontano dalle fiamme, quello non rallentò, ma anzi, pareva andare più veloce. E più che atleta parea campione quando piantò poi la punta dell'alabarda fra un ciottolo e l'altro e si levò in aria, perno la lama nella pietra, e li superò tutti e tre con un balzo impressionante. Quelli non capirono sul momento e lui ne approfittò, dirigendosi a capofitto verso l'entrata. Ne uscivano nuvole di fumo dall'odore pesante e irrespirabile, del sapore tipico del bruciato. Appena entrato il calore si fece insopportabile, l'aria era calda e gli opprimeva la gola, l'acqua che lo inzuppava si faceva già brodo e davanti a lui si estendeva un paesaggio infernale di pilastri lambiti dal fuoco, travi crollate e sfrigolanti e un tetto aperto e sfondato. Nell'aria piena di scintille di, davanti a lui il pavimento era crollato e dava sull'armeria sottostante. Ci buttò dentro un occhio, sporgendosi appena e vide, poveretto, un ragazzino riverso in terra, svenuto e la bocca semiaperta. Tosto ci si buttò dentro senza pensare. Atterrò duramente su un tavolino a piedi uniti, che sperava lo reggesse, ma così non fu e quel mobile, ricoperto di sciabole, asce e mazzafrusti, rovesciò in terra rumorosamente in un mare di assi spezzate, olio, pagliette d'acciaio, alcol e strofinacci. Ormai però non lo sentiva quasi più il dolore, quanto più uno stordimento angoscioso e si trascinò fino al ragazzo, che scrollò. Ma quello niente, non si muoveva, pareva morto, ma così non era, sentiva il petto sollevarsi a ritmo singhiozzante e il battito lento l. Doveva subito portarlo fuori e si guardò intorno. L'armeria era libera di fuochi, ma il soffitto crollava di continuo, sfrigolando e gettando scintille. Si rimise in piedi e corse verso le scale che portavano di sopra, ma queste ultime e la porta, ahimè, erano cinte dalle fiamme ormai. Non considerandola strada praticabile si mirò intorno e vide una scala a pioli poggiata in un angolo. L'afferrò e portò fino a dove stava il tavolo poco prima, dove la issò fino al buco soprastante. L'appoggiò ad un margine del buco e ci mise entrambi i piedi sul gradino per capire se reggeva, ma non resse. Il soffitto si spaccò solo di più sotto la pressione della scala e lui crollò in avanti, sbucciandosi il naso fra due pioli, sbattendolo sul pavimento. Perdette sangue ma non l'animo e, tiratosi su per l'ennesima volta, tirò su anche il ragazzo e se lo poggiò fra una spalla e l'altra, con un braccio sul retro dei ginocchi e l'altro sul collo. Quindi prese a risalire i gradini in legno che portavano nuovamente di sopra. Per i primi andò tutto bene, ma al terzultimo gli crollò sotto i piedi. Quasi rischiò di far cadere il ragazzo giù per le scale, ma ormai il suo corpo s'era fatto di pietra e le sue braccia non persero la presa nonostante lo scossone. Con la gamba sinistra infilata sotto le assi davanti a sé, il cavaliere fece una gran fatica, ma tirò su l'arto intrappolato, sebbene lo squarciò per bene nel legno spezzato, tirandolo fuori a forza. Riprese il cammino e davanti a lui gli ultimi gradini e la porta stessa ardevano di fiamma giovane. Ma Giminiano avanzò ugualmente e pose lo stivale destro sulla fiamma. Avrebbe voluto saltarla di fretta e subito buttar giù la porta prima di abbrustolirsi, ma con il carico sulla schiena non poteva in alcun modo permetterselo. Quindi, facendo affidamento sul buon cuoio della sua calzatura, procedette quella penosa salita, sperando le suole non gli bruciassero prima, che già le sentiva accaldarsi. Giunse alla porta e stava su un gradino le cui lingue di fuoco gli giungevano ora al polpaccio. Non volendo perdere le gambe si diede subito da fare, sollevò il piede sinistro e schiantò la sua suola di fiamma sul legno carbonizzato, che si aprì subito, cascando dai cardini. Credeva d'esserne uscito e invece ancora una tribolazione lo aspettava. L'entrata, da cui aveva fatto il suo ingresso nell'infuocata caserma, era ora ostruita da una grossa trave cascata nel posto peggiore possibile, ovvero con un'estremità sulla cornice e l'altra piantata nelle assi del pavimento, portandosi appresso anche tegole, mattoni e detriti vari dal tetto. Imprecò un'esclamazione che nel crepitio del fuoco e lo schianto della struttura non si udì. Ma non perse tempo. Poggiò il ragazzo per terra e si lanciò verso la grossa trave. Tentò di estrarla fuori ma non gli riuscì di smuoverla neppure. Da fuori, gli altri, vedettero quel che stava facendo e vennero a dargli una mano. Si unirono altre otto braccia allo sforzo, ma quella trave era tanto pesante e ben piantata nel pavimento che non la si sarebbe tolta in questo modo. Quindi Giminiano arretrò, saltò il corpo del ragazzo e riattraversò la porta che conduceva all'armeria. Gli si sfondò però il primo gradino sotto i piedi e finì con il percorrere i restanti capitombolando giù, ma appena arrivò a toccare il pavimento riprese a correre come se non avesse fatto nient'altro fino ad allora. Quindi corse verso un supporto per armi e ne trasse una grossa ascia bipenne da tagliare la zampa d'un elefante in un colpo secco. Risalì e stavolta le scale, che parevano consumarsi e rovinare sempre più ogni volta che le attraversava, gli crollarono del tutto quando fu quasi uscito. Ma piantando l'ascia nel pavimento del piano davanti a lui rimase appeso per un po', fino a quando riuscì a tirarsi su e attraversare la cornice della porta per dirigersi a completare il lavoro per bene. Saltò nuovamente il ragazzo steso e alzò l'ascia sopra la testa, infierendo il colpo sulla trave, corpo principale di quel gruppo di detriti. Ma dopo sei colpi capì che non aveva la forza necessaria, né il tempo per sbriciolarla pezzo per pezzo, tant'era spessa la sua scorza, imperrocché gli balenò un'idea migliore. Alzò nuovamente l'ascia sopra la testa, ma non colpì la trave, bensì il pavimento su cui poggiava una dei suoi lati. Ancora e ancora, fino a che, e qui ringraziò dio, questo crollò, portandosi dietro trave e detriti con sé, sotto nell'armeria, ma, e qui lo maledisse, con i detriti cadde anche lui. Sentendosi mancare la terra sotto i piedi agitò le braccia per spingersi e cadde all'indietro, riuscendo a non precipitare, rimanendo con le gambe a ciondoloni sul grosso foro che s'era formato dinnanzi la porta. Ritornò indietro e si rimise il corpo del ragazzo sulle spalle e si diresse nuovamente al foro. Vedendolo uscire il salvatore con il salvato, le persone di fuori, subito si prodigarono per riceverli, tendendogli le mani.

"Saltate che v'afferriamo!"

Ma Giminiano scosse la testa e fece cenno con gli occhi alla figura svenuta che si teneva sulle spalle. Allora quelli capirono e subito, le guardie, posero le loro alabarde a far da cavalcone sul recente orifizio. Giminiano posò il piede e quelle aste puntute si piegarono, ma non spezzarono. Attraversò la fenditura e fu di nuovo in piazza, con il sole che si levava appena sulle nubi e l'aria, parvergli, molto più fredda di pria.

"Chi siete?" Fu la prima questione che lo accolse, quando gli levarono di dosso quel giogo ch'era il ragazzo.

"Giminiano dei Benevanti" Ei rispose, togliendosi lo stralcio di veste ormai asciutta dal viso "Portate il ragazzo in salvo e me a casa che devo dormire" E li crollò di fronte ai suoi uomini, che lo ressero. Si risvegliò solo il giorno dopo.

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Capitolo 5
*** Discorsi di Gattapelata e il fratello Gragnaniello ***


I passi dell'abate e del cavaliere non si udivano neppure tanto forte la pioggia scendeva scrosciosa, tamburellando sui tetti, frustando le piante e spaccandosi in terra, mentre i tuoni cascavano regolari. L'abate sfuggiva alla figura in cotta di maglia, non per paura, ma sdegno e questa la seguiva, tutta timorosa, come fosse la sua ombra, allungando le mani per invocargli di fermarsi e gridando cose che si perdevano nel vento umido e gelido, stessa sostanza di cui era fatta l'indifferenza dell'ecclesiastico. Passando sotto il portico che circondava il chiostro, il padre cercò rifugio nella chiesa del monastero, passando per una porticina di legno che dava nel transetto della struttura, ma anche lì, fu lesta ad infilarsi la cospicua massa con la cotta di maglia. E questa, pregante, si buttò in ginocchio, e, presogli fra le mani la tonaca nera, lo richiamò disperato, ginocchi sul marmo e sgocciolante.

"Ascolta fratello mio, prestami attenzione. Non sei tu forse allegro che son tornato? Che ti è successo in questi mesi, che ti fai tristo e iroso? Dimmi, che così mi fai impazzire!"

E allora, la figura, si voltò furibonda, strappandogli la tonaca dalla stretta e si chinò per ben urlargli addosso "No che non sono contento, assassino! Perché sei tornato a casa e non te ne sei rimasto a macinar teste come ti aggradava tanto giù a Gerusalemme? Non dirmi che forse ti sei pentito e cerchi perdono, perché io sarei il primo a non crederti!"

"Pentito?" Chiese il cavaliere "Pentito di che?"

"E poi mi chiedi perché non sono allegro, ascoltati! Io non sono cambiato affatto, tu piuttosto, guardati bene dentro, perché io ho paura ad abbracciare un uomo che ignora l'aver le mani sporche di sangue, seppur mio fratello. Allontanati da me, da questa chiesa, non macchiare altri del tuo stesso peccato" E l'abate si rimise diritto e gl'indicò la porta, ancora aperta da cui entrava il vento della tempesta, con mano tremante e viso contratto in smorfia d'odio. Ma il cavaliere non si allontanò affatto, si rimise in piedi, con occhi rossi di fiamma quanto la sua barba e si avvicinò anzi di più all'abate, petto in fuori, ma questi non si smosse né dalla sua postura, né dalla sua posizione.

"Tu mi chiami assassino, peccatore..."

"E pure carogna".

"Basta!" Alzò le mani al cielo e il suo gridò riempì la vuota chiesa, rimbombando più forte dei fulmini "È forse questo il modo di accogliere il sangue del tuo stesso sangue?"

"Se avessi saputo che venivi qui non ti avrei accolto neppure al monastero, ti avrei lasciato fuori ad annegare nel fango. Tu che ponesti il tuo piede sulle teste di Saraceni ed Ebrei, che sputasti sul tempio di Salomone e ne demolisti le mura, che come un cane hai inseguito la gloria e il tuo signore, imbracciando il ferro, come osi tornare?"

"Oso, perché io non ho fatto altro che rendere un servizio, anche grosso, alla cristianitade, servendo alle crociate. Perché ora mi devo sentire appellare in tal modo, dopo che mi sono battuto e rischiato per te, per la tua religione? Tu che mi chiami assassino, peccatore e carogna, hai la minima idea di quel che ho passato, che ho dovuto sopportare e fare? Tu, vigliacco che te ne stai rinchiuso fra i monti a marcire fra i tuoi manoscritti mentre il mondo va in rovina, tu che spergiuri la tua fede imbracciando libri e pergamene, che accusi me, di uccidere, distruggere, depredare, cosa vuoi saperne tu, ignavo? Non fosti forse tu lo stesso che quando nostro padre faticava nei campi fosti il primo ad abbandonarlo e farti frate?"

L'abate scosse il capo.

"Non avrei mai dovuto lasciare che partissi. Tu sei cambiato, da che eri dolce e servizievole hai ora ucciso e lo rifaresti ancora". Ed ei si allontanò ma il cavaliere lo seguì.

"Ascoltami" Gli gridava dietro "Ho ucciso, sì, io ho ucciso tanti uomini che neanche li conto più. Provai orrore, colpa, pentimento, recriminazioni, piansi e mi disperai per quelle teste mozzate, quegli arti tagliati, quei corpi spiccati in due, i fori procurati, le ossa sbriciolate con mazza, scure, spada, lancia e le nude mani. Ma io ti dico, che se rinascessi lo rifarei, cento e altre cento volte ancora!"

L'abate, senza voltarsi a rispondere, prese a salire la scalinata che portava all'altare. Dietro di esso, nell'abside, su un'impalcatura in legno povero, un uomo sporco di tempera andava a rifinire un affresco quasi completo. E il cavaliere continuò.

"Tu ora mi rinneghi fratello, dici che la mia vita è perduta, tu che vivi timorato di dio, che segui le scritture come un fariseo, ma io ti dico, che senza aver visto in faccia la morte mia e degli altri, non mi si sarebbero mai aperti gli occhi".

"Te li sei cecati invece!" Alzò la mano in segno irato l'abate "Dimenticasti forse il quinto comandamento?"

"Dimenticai il numero senza dubbio. Di che si tratta?"

"Non uccidere! E tu, in Terrasanta, non credo cogliessi margherite".

"Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila".

L'abate si voltò, preso in contropiede.

"Primo libro di Samuele, capitolo diciotto, versetto sette. Cosa insinui con questo?"

"Insinuo, mio caro fratello, che anche i re d'Israele, che tu tanto veneri, hanno le mani sporche di sangue e più di quanto potrei sporcarle io in una vita intera. Loro, che prima di noi, conquistarono la Terrasanta di Canaan, liberandola dai Filistei, i Fenici, gli Amorrei, le genti di Gerico e Ai. Fecero forse, anche loro, torto alle leggi di dio, che pure egli stesso aveva ordinato quelle imprese sanguinarie?"

"Cosa vuoi interpretare tu, mente ignorante e rozza, le scritture antiche?".

"Non osare sviare il discorso! Rispondimi, in nome del dio in cui tu credi! Mosè, Giosuè, Giuditta, Davide, Salomone, son tutti assassini quali io sono?"

"No, certo".

"E allora perché essi tu li celebri come eroi e tratti me come un demone, io che sono fratello tuo?"

"Perché essi combatterono per causa giusta, per che combattesti tu, se non per vil denaro e terra?"

E qui, il cavaliere se la rise, tanto che dovette afferrarsi ad un candelabro per reggersi. Poi levò il pugno.

"Per causa giusta tu dici! Per causa uguale, aggiungo io, noi abbiamo combattuto. Come i Giudei che entrarono a Gerico e ne fecero strage, tanto che non scampò uno solo, e si pigliarono oro, vivande e velluti, che facemmo noi forse di diverso, quando sbrecciammo ad Antiochia, Nicea e al santo sepolcro? Nulla facemmo, se non, similemente, ripercorrere le gesta dei fondatori".

"Tu ti paragoni ai grandi re del passato, tu che fino a qualche tempo, mai troppo lontano, ancora aravi i campi, concimavi la terra e tiravi la macina. Ti ordinò forse dio stesso di menarti fino in oriente e falciar teste? Fosti mosso da ispirazione divina, tu che l'ultima volta che entrasti in chiesa fu per rubare le offerte da fanciullo?"

"Forse io no, hai ragione. Ma il signore che io ho servito, che a sua volta serviva l'imperatore e che sua volta ancora serviva il papa, che per ultimo serve il creatore, loro, la fede, mi sa che ce l'avevano eccome, e da svendere pure".

"non mettere alla prova la pazienza mia, pazzo".

"Io voglio solo che tu la smetta di vedermi come un mostro. Io che ho agito tale e quale a come agisce un santo".

"No, tu non lo facesti neanche per scherzo. Perché anche l'intenzione dietro un gesto è importante! Mira!" E l'abate gl'indicò il grosso affresco che il pittore andava diligentemente a finire. Rappresentava, simpaticamente, l'inferno, con un grosso Belzebù, in fondo al centro, atto a masticarsi il capo d'un uomo sfigurato dall'orrore e tutt'intorno uomini appesi per il collo e le palle ad alberi, altri cotti allo spiedo con un pungolo che gli entrava dal culo e usciva dalla bocca, altri buttati nei pentoloni, altri punti da scorpioni e calabroni, altri inseguiti da cani, altri sommersi nella merda, altri mutilati da diavoli muniti di falcione e altri, legati a cavalli infernali per le braccia e le gambe, divisi in due.

"Tale e quale a Gerusalemme" Commentò il cavaliere. Poi si mise una mano alla bocca e gridò a gran voce "Ohi, pasticciatore di pennelli, guarda che quelle budella che hai disegnato mica son fatte così però!"

Il pittore si voltò, il volto sporco quanto la camicia "Quali budella?"

"Quelle la" E tosto gli indicò la figura di un uomo tagliato in due da uno spadone diabolico, con l'intestino tenue che gli cadeva di lato, avvolto a chiocciola "Il sangue è troppo poco, le ossa non gliele hai fatte e quelle interiora sembran più quelle di un vitello"

"Io un uomo scisso in due non l'ho visto mai per fortuna" Si scusò l'artista, scrollando le spalle e accennando un sorriso. Il cavaliere non gli sorrise indietro.

"Si vede".

"Ma insomma" sbottò l'abate "Hai mirato o no?"

"Quattro scarabocchi" rispose il cavaliere "Conoscevo un tale senza braccia che te li faceva meglio e lo pagavi di meno"

"Tu ridi di fronte all'idea della dannazione perché hai paura!"

"Io dannato? E perché mai? Io che andai a casa del cristo per ridargliela".

"Superbia!"

"Superbia, chi non l'ha avuta mai?"

"Accidia!"

"Accidia io? Ma se combattei per la fede!"

"Ira!"

"Iroso? Un po' ma nel mio mestiere è necessaria. Un mercenario senza ira è un mercenario senza pane".

"Gola!"

"Stiamo giocando a questo gioco eh? Vediamo se me le becco tutte allora! Oltre al pane dovresti vedere che gran soldoni che si fanno!"

"Avarizia!"

"E che gran donnoni mori che ho conosciuto".

"Lussuria!"

"Certo, mai quanto le concubine e i puttanoni che si portava in tenda il nostro signore"

"Invidia!"

"Sette su sette! Hai sentito pasticciatore?" Chiese il cavaliere, scuotendo forte l'impalcatura in legno. Così forte in realtà che crollò e venne giù tutta intera in pezzi. Il povero pittore si ritrovò ancora col pennello e la tavolozza in mano a cascare giù e finì in braccio al cavaliere che lo prese al volo. Assestatosi il fracasso, il cavaliere riprese "Allora, che ho vinto?"

Subito il pittore scese dalle braccia dell'armato e corse via dal portone, lasciandolo spalancato, in mezzo alla pioggia. Il cavaliere se la rise ancora e ancora, che si dovette reggere sulle ginocchia. Ma subito l'abate lo prese per l'orecchio e glielo tirò per gridargli bene dentro.

"Cosa ti ridi, dannato, che l'inferno ti aspetta?"

"Occhio Gragnaniello mio!" Si fece serioso il cavaliere, scostando via la sua presa "Che l'ira ti prende e poi all'inferno mi ci devi accompagnare, che tu lo conosci bene pare".

E giù di nuovo a ridersela. Gragnaniello, l'abate appunto, si dovette contenere per non prenderlo a schiaffi da fargli rintoccare le guance come campane e se la filò via, ancora adirato.

"Guardati e riguardati! Che all'inferno, per come sei messo ora, ti ci sei guadagnato un posto d'onore!"

"Ma va la!" Gli replicò dietro l'armato "E se così anche così fosse, ci anderei solo per togliermi lo sfizio di tagliar la coda a Minosse, pelare la barba a quel Caronte, scaraventar dalla sedia Plutone, farmi un sorso del Flegetonte, inghiottirmi Flegias in un sol boccone e Belzebù far fuggir via come un dromedario in Siria! Perché mai si udì di un cavaliere dannato e io non fo eccezione!"

E ancora una volta, Gragnaniello dovette voltarsi, sconcertato.

"E quando mai?"

"Quando mai chiedi tu" Rise il cavaliere appoggiato all'altare, dove aveva sganciato e buttato sopra il ferro. Gragnaniello era ormai sceso dalla scalinata e dovette abbassare il mento per vederlo negli occhi "Ma da sempre. Un cavaliere, si sa, si deve astenere da certe nefandezze mondane per essere investito e all'inferno, così facendo, non ci finisce mica. Orlando, Brandimarte, Oliviero e Bradamante son tutti lassù ad aspettare il loro compagno in sì nobile arte".

"No, menzognero, non quello!" E Gragnaniello risalì le scale e gli si fece accanto. Come il fratello anche lui aveva un aspetto imponente e gli era quasi pari "Quando mai fosti tu un cavaliere! Da che io ricordi partisti da fante che neanche possedevi un paio di scarpe. Tu cavaliere? Ma fammi il piacere, mi trovi più scettico di san Tommaso".

"E come Gesù benedetto mostrò le ferite a Tommaso io ti mostro le mie. Solo che non son ferite, bensì carta firmata e timbrata da Goffredo di Buglione in persona".

E mettendosi una mano sotto la maglia ne trasse fuori un papiro ingiallito e glielo srotolò, fra gli scricchioli, davanti agli occhi. Gragnaniello volle afferrarlo e controllarlo per bene, ma subito ricevette una schicchera sul dorso.

"Mirare, ma non smanacciare".

L'abate sbuffò e diede un'occhiata attenta allo scritto. Pareva proprio vero. Il timbro con lo stemma dalla croce dorata maggiore che ne divideva quattro minori su sfondo bianco era corretto e la formula di investitura pure. Recitava il testo:

Noi, Godefridus Bullionensis, Advocatus Sancti Sepulchri, Duca della Bassa Lorena e duce crociato, sotto il re di Francia Philippum I e il pontefice Urbano II:

Dichiariamo, di fronte a Dio, massimo fattore ed eccelso creatore, che null'opera è fatta senza costui, siano testimoni i santi sui, Michele e Giorgio, affidagli loro, portino ad egli fascio littoro, cavaliere sia fatto seduta stante, sopra lo trono de vecchio Agramante. Ei che è detto Gattapelata, pugnator massimo e grande guerriero, la di lui degna fama sia elevata, sinanche alle nubi fino al cielo.

"Gattapelata?" Stralunò Gragnaniello "E chi accidenti sarebbe?"

"Io, chiaramente".

"Chiaro un bel niente!" Sbottò e lo spinse via, rischiando di danneggiare il prezioso foglio "Che io sappia tu ti chiamavi Fermorante l'ultima volta che t'ho visto salpare su quella nave Veneziana".

"Ma non sai che un cavaliere cambia nome quando viene investito? Come un papa, diciamo".

"No, non la sapevo e mi puzza di menzogna. Attento all'ottavo comandamento! Se fosse vero, e io non lo credo, vorrei proprio sapere come ha fatto un contadino pidocchioso come te a farsi investire dal duca della Bassa Lorena in persona".

"Il magnanimo duce crociato" Iniziò pomposo Gattapelata "ha preso nota delle mie più svariate imprese in Terrasanta. Per esempio, durante l'assedio di Nicea, fui io, con le mie sole forze a trascinar massi e creare una diga al lago che dava acqua alla città, forzandoli alla resa. O ancora, alla battaglia di Dorylaeum, quando i normanni furono circondati dai turchi, io, considerando la mia mazza non sufficiente, sradicai un faggio e lo adoperai come tale per liberarmi di quei fastidiosi arcieri a cavallo. O ancora, quando ci fu da costruire le famose torri d'assedio per la presa di Gerusalemme, indovina chi fu a portarsi in spalla le navi dal mare per il legname necessario".

"Bugie, tutte bugie! Non sai far altro che raccontar frottole da quando sei qui! Ti aspetti che io creda a storie simili? Il documento lo avrai rubato ad un vero cavaliere, detto veramente Gattapelata e che ha veramente compiuto imprese!"

"Ma perché non mi credi, mio adorato Gragnaniello?"

"Perché come posso fidarmi di uno che non ha mai combinato niente in vita sua e ora, tornato, mi racconta di aver preso da solo tutta l'Asia minore?"

"Da solo non proprio, una mano Francesi, Italiani e Normanni me l'hanno data in fondo".

Gragnaniello diede un'occhiata fuori. Aveva quasi smesso di piovere.

"Ti ho sopportato a sufficienza. Fila via ora, non ti voglio più vedere, se non vestito di sacco e penitente come un abitante di Ninive!"

"Ma insomma, non capisci?" E qui Gattapelata saltò sull'altare spoglio, sfondo l'abside infernale e sottofondo un rumore di tuoni e pioggia sommessa. Guardava il fratello con occhi di fiamma "Hai ragione, non combinai nulla di rilevante in vita mia sinora. Ma guardami ora! Investito, cavalierato e acclamato, andrò da Pipino il Lungo e reclamerò un feudo su cui governare. Coloro che pria mi lanciavan sassi e insulti e dicevano -Arriva il mascalzone, Fermorante- ora lanceran fiori al mio passaggio e mi aduleranno -Lode a te, paladino e barone!-. Mai più soffrirò la fame e mai più mi mancherà la terra!"

"E la cosa peggiore di tutte è che potresti anche aver ragione" Lamentò l'abate "Perché viviamo in un mondo dove assassini, saccheggiatori e bugiardi come te, se abbastanza convinti, la faranno sempre franca. Tu, nella ricerca di diventare qualcuno, ti sei fatto araldo di ogni iniquità e mondezza e ora spero tu sia contento del tuo nuovo prestigio. Ma in verità, in verità, io ti dico, verrà il giorno in cui, canuto e spento, ti pentirai infine, di non aver dato retta al sacro comandamento, mentre il tuo spirto verrà trascinato all'eterno tormento".

Gattapelata ebbe un attimo di smarrimento. Poi pianse, non di rammarico, ma tenerezza.

"Hai ragione Gragnaniello, c'è del giusto in quel dici. Tu non sei cambiato affatto e io, da quando ho sperimentato la violenza e devastazione sì, per intero, dalla radice alle foglie. Ho dismesso i panni dello scemo del villaggio per indossare quelli dell'assassino, del povero per il ladro, dell'ingenuo per il truffatore. Dai pure alito alla tua bocca, elenca tutti i peccati che il tuo dio ti ha fatto lista, ma rammenta che sarà inutile, perché io tutti li commisi, dal primo all'ultimo! Ma sul finale, no, ti sbagli, non giungerà alcun pentimento, né rammarico, né colpa, né rimpianto e, soprattutto, punizione alcuna. Perché se in terra di Cristo, Gesù benedetto, ho scoperto qualcosa è che lui è falso tanto quanto Maometto! Perché se così fosse, quel che ho visto in Terrasanta, era un miraggio, un illusione o qualche altra stravaganza. Ma illusione non era ma assai reale; carnaio di corpi, violento e viscerale. E se il papa, poi, dice lo vero; dio è malvagio e io non lo spero. Credo che quando ordinò le crociate, stesse lanciando solo minchiate; frutto di mente vogliosa di terra, feudi per tutti dall'Asia a Gibilterra; E allor che faccio, non ne approfitto? Io mi ci butto tosto a capofitto, per non lasciarmi sfuggir la fonte: di baroni, marchesi, duca e visconte! Se lo posson permetter loro e non io, che zappai la lor terra con tanto brio? L'occasione mi ha fatto ladro, non lo nego, ma non mi vergogno di ciò che ti spiego! Largo ora, passa il Gattapelata; guai a chi lo incrocia lungo la strada! Né dio, né signore lo fermano più; prenderebbe a calci in culo san Pietro e Belzebù!"

E, sistemossi la cotta di maglia e saldato ben l'elmo sulla testa, a piè veloce si diresse fuori, mentre il sole, timido, dava i primi bagliori, oltre la nebbia e oltre le strade le strade, rese dall'acquazzon acquitrinate. Sol lo accompagna lo sguardo sì pieno, di sconforto del fratello alto e austero. Varca i battenti della chiesa, lasciati aperti, e nel fango sguazza, sorca le pozzanghere la sua cavalleresca stazza. E infine al portone leva la trave, la scaglia in terra, dove affonda grave; il ronzino richiama con uno squillo, ma quello risponde sol con uno strillo e via per il portone, se la batte dal monastero, sleale se la fugge senza cavalliero. A piedi rimasto, lo ingiuria e offende, poi si volta all'abate e tristezza lo prende; Il cuore lo strazia, non lo sopporta, che la sua anima nostalgica sia nota e scorta. Si passa la mano sulle lagrime amare e subito vorrebbe buttarsi nel mare, per aver reso sconforto a suo fratello, così innocente, sciocco, ma d'animo bello. Tempo non v'è per recriminare pensa, Or che la fame si è fatta tanto densa! E subito pensa al bel mangiare, alle distese di cibi che depredò oltremare, quelli che da baron, si sarebbe fatto cucinare e alle feste signorili, a cui sarebbe stato a banchettare. Ma lo spirto gl'è vuoto quanto lo stomaco al veder il viso di quel tristo monaco. Non si da pace, quindi si dice: Che il diavolo ti porti, tonaca avvinghiatrice! Tu mi rubasti l'amor del fratel mio, che ora m'odia tanto osanna il suo dio, tu chiesa che m'hai menato fin in Israele, a far da puttana sotto le più nefande schiere, io ti bestemmio e così ti maledico, finché aria respiro, ascolta che ti dico: Non avrò pace finché starai in piedi, tu che dividi i re dagli alfieri, fratelli e padri e madri e amici, da un mare di libri, tutti abbindolatrici. Essi mostrano più fedeltà ad un dio, che visto hanno mai se non in disio, piuttosto che alle genti in ossa e carni e così di tutta la società nascono i malanni. Io ti sradicherò, lo giuro con fede, più di quanta ne abbia chi ti venera e crede, abbi paura, o spirito santo, ti rovescerò dal trono fatto di bugie e vanto. Speranza tu sei di quelli indolenti, che preferiscon pregar che levar i mali dolenti, da lo mondo malato che questo è, mirano piuttosto a quello che gli prometti te.

Così ragionando si dipartì. Il viaggio verso il castello di Pipino il Lungo era ancora lungo e il cavallo rischiava di arrivarci prima di lui.

I passi dell'abate e del cavaliere non si udivano neppure tanto forte la pioggia scendeva scrosciosa, tamburellando sui tetti, frustando le piante e spaccandosi in terra, mentre i tuoni cascavano regolari. L'abate sfuggiva alla figura in cotta di maglia, non per paura, ma sdegno e questa la seguiva, tutta timorosa, come fosse la sua ombra, allungando le mani per invocargli di fermarsi e gridando cose che si perdevano nel vento umido e gelido, stessa sostanza di cui era fatta l'indifferenza dell'ecclesiastico. Passando sotto il portico che circondava il chiostro, il padre cercò rifugio nella chiesa del monastero, passando per una porticina di legno che dava nel transetto della struttura, ma anche lì, fu lesta ad infilarsi la cospicua massa con la cotta di maglia. E questa, pregante, si buttò in ginocchio, e, presogli fra le mani la tonaca nera, lo richiamò disperato, ginocchi sul marmo e sgocciolante.

"Ascolta fratello mio, prestami attenzione. Non sei tu forse allegro che son tornato? Che ti è successo in questi mesi, che ti fai tristo e iroso? Dimmi, che così mi fai impazzire!"

E allora, la figura, si voltò furibonda, strappandogli la tonaca dalla stretta e si chinò per ben urlargli addosso "No che non sono contento, assassino! Perché sei tornato a casa e non te ne sei rimasto a macinar teste come ti aggradava tanto giù a Gerusalemme? Non dirmi che forse ti sei pentito e cerchi perdono, perché io sarei il primo a non crederti!"

"Pentito?" Chiese il cavaliere "Pentito di che?"

"E poi mi chiedi perché non sono allegro, ascoltati! Io non sono cambiato affatto, tu piuttosto, guardati bene dentro, perché io ho paura ad abbracciare un uomo che ignora l'aver le mani sporche di sangue, seppur mio fratello. Allontanati da me, da questa chiesa, non macchiare altri del tuo stesso peccato" E l'abate si rimise diritto e gl'indicò la porta, ancora aperta da cui entrava il vento della tempesta, con mano tremante e viso contratto in smorfia d'odio. Ma il cavaliere non si allontanò affatto, si rimise in piedi, con occhi rossi di fiamma quanto la sua barba e si avvicinò anzi di più all'abate, petto in fuori, ma questi non si smosse né dalla sua postura, né dalla sua posizione.

"Tu mi chiami assassino, peccatore..."

"E pure carogna".

"Basta!" Alzò le mani al cielo e il suo gridò riempì la vuota chiesa, rimbombando più forte dei fulmini "È forse questo il modo di accogliere il sangue del tuo stesso sangue?"

"Se avessi saputo che venivi qui non ti avrei accolto neppure al monastero, ti avrei lasciato fuori ad annegare nel fango. Tu che ponesti il tuo piede sulle teste di Saraceni ed Ebrei, che sputasti sul tempio di Salomone e ne demolisti le mura, che come un cane hai inseguito la gloria e il tuo signore, imbracciando il ferro, come osi tornare?"

"Oso, perché io non ho fatto altro che rendere un servizio, anche grosso, alla cristianitade, servendo alle crociate. Perché ora mi devo sentire appellare in tal modo, dopo che mi sono battuto e rischiato per te, per la tua religione? Tu che mi chiami assassino, peccatore e carogna, hai la minima idea di quel che ho passato, che ho dovuto sopportare e fare? Tu, vigliacco che te ne stai rinchiuso fra i monti a marcire fra i tuoi manoscritti mentre il mondo va in rovina, tu che spergiuri la tua fede imbracciando libri e pergamene, che accusi me, di uccidere, distruggere, depredare, cosa vuoi saperne tu, ignavo? Non fosti forse tu lo stesso che quando nostro padre faticava nei campi fosti il primo ad abbandonarlo e farti frate?"

L'abate scosse il capo.

"Non avrei mai dovuto lasciare che partissi. Tu sei cambiato, da che eri dolce e servizievole hai ora ucciso e lo rifaresti ancora". Ed ei si allontanò ma il cavaliere lo seguì.

"Ascoltami" Gli gridava dietro "Ho ucciso, sì, io ho ucciso tanti uomini che neanche li conto più. Provai orrore, colpa, pentimento, recriminazioni, piansi e mi disperai per quelle teste mozzate, quegli arti tagliati, quei corpi spiccati in due, i fori procurati, le ossa sbriciolate con mazza, scure, spada, lancia e le nude mani. Ma io ti dico, che se rinascessi lo rifarei, cento e altre cento volte ancora!"

L'abate, senza voltarsi a rispondere, prese a salire la scalinata che portava all'altare. Dietro di esso, nell'abside, su un'impalcatura in legno povero, un uomo sporco di tempera andava a rifinire un affresco quasi completo. E il cavaliere continuò.

"Tu ora mi rinneghi fratello, dici che la mia vita è perduta, tu che vivi timorato di dio, che segui le scritture come un fariseo, ma io ti dico, che senza aver visto in faccia la morte mia e degli altri, non mi si sarebbero mai aperti gli occhi".

"Te li sei cecati invece!" Alzò la mano in segno irato l'abate "Dimenticasti forse il quinto comandamento?"

"Dimenticai il numero senza dubbio. Di che si tratta?"

"Non uccidere! E tu, in Terrasanta, non credo cogliessi margherite".

"Saul ha ucciso i suoi mille, Davide i suoi diecimila".

L'abate si voltò, preso in contropiede.

"Primo libro di Samuele, capitolo diciotto, versetto sette. Cosa insinui con questo?"

"Insinuo, mio caro fratello, che anche i re d'Israele, che tu tanto veneri, hanno le mani sporche di sangue e più di quanto potrei sporcarle io in una vita intera. Loro, che prima di noi, conquistarono la Terrasanta di Canaan, liberandola dai Filistei, i Fenici, gli Amorrei, le genti di Gerico e Ai. Fecero forse, anche loro, torto alle leggi di dio, che pure egli stesso aveva ordinato quelle imprese sanguinarie?"

"Cosa vuoi interpretare tu, mente ignorante e rozza, le scritture antiche?".

"Non osare sviare il discorso! Rispondimi, in nome del dio in cui tu credi! Mosè, Giosuè, Giuditta, Davide, Salomone, son tutti assassini quali io sono?"

"No, certo".

"E allora perché essi tu li celebri come eroi e tratti me come un demone, io che sono fratello tuo?"

"Perché essi combatterono per causa giusta, per che combattesti tu, se non per vil denaro e terra?"

E qui, il cavaliere se la rise, tanto che dovette afferrarsi ad un candelabro per reggersi. Poi levò il pugno.

"Per causa giusta tu dici! Per causa uguale, aggiungo io, noi abbiamo combattuto. Come i Giudei che entrarono a Gerico e ne fecero strage, tanto che non scampò uno solo, e si pigliarono oro, vivande e velluti, che facemmo noi forse di diverso, quando sbrecciammo ad Antiochia, Nicea e al santo sepolcro? Nulla facemmo, se non, similemente, ripercorrere le gesta dei fondatori".

"Tu ti paragoni ai grandi re del passato, tu che fino a qualche tempo, mai troppo lontano, ancora aravi i campi, concimavi la terra e tiravi la macina. Ti ordinò forse dio stesso di menarti fino in oriente e falciar teste? Fosti mosso da ispirazione divina, tu che l'ultima volta che entrasti in chiesa fu per rubare le offerte da fanciullo?"

"Forse io no, hai ragione. Ma il signore che io ho servito, che a sua volta serviva l'imperatore e che sua volta ancora serviva il papa, che per ultimo serve il creatore, loro, la fede, mi sa che ce l'avevano eccome, e da svendere pure".

"non mettere alla prova la pazienza mia, pazzo".

"Io voglio solo che tu la smetta di vedermi come un mostro. Io che ho agito tale e quale a come agisce un santo".

"No, tu non lo facesti neanche per scherzo. Perché anche l'intenzione dietro un gesto è importante! Mira!" E l'abate gl'indicò il grosso affresco che il pittore andava diligentemente a finire. Rappresentava, simpaticamente, l'inferno, con un grosso Belzebù, in fondo al centro, atto a masticarsi il capo d'un uomo sfigurato dall'orrore e tutt'intorno uomini appesi per il collo e le palle ad alberi, altri cotti allo spiedo con un pungolo che gli entrava dal culo e usciva dalla bocca, altri buttati nei pentoloni, altri punti da scorpioni e calabroni, altri inseguiti da cani, altri sommersi nella merda, altri mutilati da diavoli muniti di falcione e altri, legati a cavalli infernali per le braccia e le gambe, divisi in due.

"Tale e quale a Gerusalemme" Commentò il cavaliere. Poi si mise una mano alla bocca e gridò a gran voce "Ohi, pasticciatore di pennelli, guarda che quelle budella che hai disegnato mica son fatte così però!"

Il pittore si voltò, il volto sporco quanto la camicia "Quali budella?"

"Quelle la" E tosto gli indicò la figura di un uomo tagliato in due da uno spadone diabolico, con l'intestino tenue che gli cadeva di lato, avvolto a chiocciola "Il sangue è troppo poco, le ossa non gliele hai fatte e quelle interiora sembran più quelle di un vitello"

"Io un uomo scisso in due non l'ho visto mai per fortuna" Si scusò l'artista, scrollando le spalle e accennando un sorriso. Il cavaliere non gli sorrise indietro.

"Si vede".

"Ma insomma" sbottò l'abate "Hai mirato o no?"

"Quattro scarabocchi" rispose il cavaliere "Conoscevo un tale senza braccia che te li faceva meglio e lo pagavi di meno"

"Tu ridi di fronte all'idea della dannazione perché hai paura!"

"Io dannato? E perché mai? Io che andai a casa del cristo per ridargliela".

"Superbia!"

"Superbia, chi non l'ha avuta mai?"

"Accidia!"

"Accidia io? Ma se combattei per la fede!"

"Ira!"

"Iroso? Un po' ma nel mio mestiere è necessaria. Un mercenario senza ira è un mercenario senza pane".

"Gola!"

"Stiamo giocando a questo gioco eh? Vediamo se me le becco tutte allora! Oltre al pane dovresti vedere che gran soldoni che si fanno!"

"Avarizia!"

"E che gran donnoni mori che ho conosciuto".

"Lussuria!"

"Certo, mai quanto le concubine e i puttanoni che si portava in tenda il nostro signore"

"Invidia!"

"Sette su sette! Hai sentito pasticciatore?" Chiese il cavaliere, scuotendo forte l'impalcatura in legno. Così forte in realtà che crollò e venne giù tutta intera in pezzi. Il povero pittore si ritrovò ancora col pennello e la tavolozza in mano a cascare giù e finì in braccio al cavaliere che lo prese al volo. Assestatosi il fracasso, il cavaliere riprese "Allora, che ho vinto?"

Subito il pittore scese dalle braccia dell'armato e corse via dal portone, lasciandolo spalancato, in mezzo alla pioggia. Il cavaliere se la rise ancora e ancora, che si dovette reggere sulle ginocchia. Ma subito l'abate lo prese per l'orecchio e glielo tirò per gridargli bene dentro.

"Cosa ti ridi, dannato, che l'inferno ti aspetta?"

"Occhio Gragnaniello mio!" Si fece serioso il cavaliere, scostando via la sua presa "Che l'ira ti prende e poi all'inferno mi ci devi accompagnare, che tu lo conosci bene pare".

E giù di nuovo a ridersela. Gragnaniello, l'abate appunto, si dovette contenere per non prenderlo a schiaffi da fargli rintoccare le guance come campane e se la filò via, ancora adirato.

"Guardati e riguardati! Che all'inferno, per come sei messo ora, ti ci sei guadagnato un posto d'onore!"

"Ma va la!" Gli replicò dietro l'armato "E se così anche così fosse, ci anderei solo per togliermi lo sfizio di tagliar la coda a Minosse, pelare la barba a quel Caronte, scaraventar dalla sedia Plutone, farmi un sorso del Flegetonte, inghiottirmi Flegias in un sol boccone e Belzebù far fuggir via come un dromedario in Siria! Perché mai si udì di un cavaliere dannato e io non fo eccezione!"

E ancora una volta, Gragnaniello dovette voltarsi, sconcertato.

"E quando mai?"

"Quando mai chiedi tu" Rise il cavaliere appoggiato all'altare, dove aveva sganciato e buttato sopra il ferro. Gragnaniello era ormai sceso dalla scalinata e dovette abbassare il mento per vederlo negli occhi "Ma da sempre. Un cavaliere, si sa, si deve astenere da certe nefandezze mondane per essere investito e all'inferno, così facendo, non ci finisce mica. Orlando, Brandimarte, Oliviero e Bradamante son tutti lassù ad aspettare il loro compagno in sì nobile arte".

"No, menzognero, non quello!" E Gragnaniello risalì le scale e gli si fece accanto. Come il fratello anche lui aveva un aspetto imponente e gli era quasi pari "Quando mai fosti tu un cavaliere! Da che io ricordi partisti da fante che neanche possedevi un paio di scarpe. Tu cavaliere? Ma fammi il piacere, mi trovi più scettico di san Tommaso".

"E come Gesù benedetto mostrò le ferite a Tommaso io ti mostro le mie. Solo che non son ferite, bensì carta firmata e timbrata da Goffredo di Buglione in persona".

E mettendosi una mano sotto la maglia ne trasse fuori un papiro ingiallito e glielo srotolò, fra gli scricchioli, davanti agli occhi. Gragnaniello volle afferrarlo e controllarlo per bene, ma subito ricevette una schicchera sul dorso.

"Mirare, ma non smanacciare".

L'abate sbuffò e diede un'occhiata attenta allo scritto. Pareva proprio vero. Il timbro con lo stemma dalla croce dorata maggiore che ne divideva quattro minori su sfondo bianco era corretto e la formula di investitura pure. Recitava il testo:

Noi, Godefridus Bullionensis, Advocatus Sancti Sepulchri, Duca della Bassa Lorena e duce crociato, sotto il re di Francia Philippum I e il pontefice Urbano II:

Dichiariamo, di fronte a Dio, massimo fattore ed eccelso creatore, che null'opera è fatta senza costui, siano testimoni i santi sui, Michele e Giorgio, affidagli loro, portino ad egli fascio littoro, cavaliere sia fatto seduta stante, sopra lo trono de vecchio Agramante. Ei che è detto Gattapelata, pugnator massimo e grande guerriero, la di lui degna fama sia elevata, sinanche alle nubi fino al cielo.

"Gattapelata?" Stralunò Gragnaniello "E chi accidenti sarebbe?"

"Io, chiaramente".

"Chiaro un bel niente!" Sbottò e lo spinse via, rischiando di danneggiare il prezioso foglio "Che io sappia tu ti chiamavi Fermorante l'ultima volta che t'ho visto salpare su quella nave Veneziana".

"Ma non sai che un cavaliere cambia nome quando viene investito? Come un papa, diciamo".

"No, non la sapevo e mi puzza di menzogna. Attento all'ottavo comandamento! Se fosse vero, e io non lo credo, vorrei proprio sapere come ha fatto un contadino pidocchioso come te a farsi investire dal duca della Bassa Lorena in persona".

"Il magnanimo duce crociato" Iniziò pomposo Gattapelata "ha preso nota delle mie più svariate imprese in Terrasanta. Per esempio, durante l'assedio di Nicea, fui io, con le mie sole forze a trascinar massi e creare una diga al lago che dava acqua alla città, forzandoli alla resa. O ancora, alla battaglia di Dorylaeum, quando i normanni furono circondati dai turchi, io, considerando la mia mazza non sufficiente, sradicai un faggio e lo adoperai come tale per liberarmi di quei fastidiosi arcieri a cavallo. O ancora, quando ci fu da costruire le famose torri d'assedio per la presa di Gerusalemme, indovina chi fu a portarsi in spalla le navi dal mare per il legname necessario".

"Bugie, tutte bugie! Non sai far altro che raccontar frottole da quando sei qui! Ti aspetti che io creda a storie simili? Il documento lo avrai rubato ad un vero cavaliere, detto veramente Gattapelata e che ha veramente compiuto imprese!"

"Ma perché non mi credi, mio adorato Gragnaniello?"

"Perché come posso fidarmi di uno che non ha mai combinato niente in vita sua e ora, tornato, mi racconta di aver preso da solo tutta l'Asia minore?"

"Da solo non proprio, una mano Francesi, Italiani e Normanni me l'hanno data in fondo".

Gragnaniello diede un'occhiata fuori. Aveva quasi smesso di piovere.

"Ti ho sopportato a sufficienza. Fila via ora, non ti voglio più vedere, se non vestito di sacco e penitente come un abitante di Ninive!"

"Ma insomma, non capisci?" E qui Gattapelata saltò sull'altare spoglio, sfondo l'abside infernale e sottofondo un rumore di tuoni e pioggia sommessa. Guardava il fratello con occhi di fiamma "Hai ragione, non combinai nulla di rilevante in vita mia sinora. Ma guardami ora! Investito, cavalierato e acclamato, andrò da Pipino il Lungo e reclamerò un feudo su cui governare. Coloro che pria mi lanciavan sassi e insulti e dicevano -Arriva il mascalzone, Fermorante- ora lanceran fiori al mio passaggio e mi aduleranno -Lode a te, paladino e barone!-. Mai più soffrirò la fame e mai più mi mancherà la terra!"

"E la cosa peggiore di tutte è che potresti anche aver ragione" Lamentò l'abate "Perché viviamo in un mondo dove assassini, saccheggiatori e bugiardi come te, se abbastanza convinti, la faranno sempre franca. Tu, nella ricerca di diventare qualcuno, ti sei fatto araldo di ogni iniquità e mondezza e ora spero tu sia contento del tuo nuovo prestigio. Ma in verità, in verità, io ti dico, verrà il giorno in cui, canuto e spento, ti pentirai infine, di non aver dato retta al sacro comandamento, mentre il tuo spirto verrà trascinato all'eterno tormento".

Gattapelata ebbe un attimo di smarrimento. Poi pianse, non di rammarico, ma tenerezza.

"Hai ragione Gragnaniello, c'è del giusto in quel dici. Tu non sei cambiato affatto e io, da quando ho sperimentato la violenza e devastazione sì, per intero, dalla radice alle foglie. Ho dismesso i panni dello scemo del villaggio per indossare quelli dell'assassino, del povero per il ladro, dell'ingenuo per il truffatore. Dai pure alito alla tua bocca, elenca tutti i peccati che il tuo dio ti ha fatto lista, ma rammenta che sarà inutile, perché io tutti li commisi, dal primo all'ultimo! Ma sul finale, no, ti sbagli, non giungerà alcun pentimento, né rammarico, né colpa, né rimpianto e, soprattutto, punizione alcuna. Perché se in terra di Cristo, Gesù benedetto, ho scoperto qualcosa è che lui è falso tanto quanto Maometto! Perché se così fosse, quel che ho visto in Terrasanta, era un miraggio, un illusione o qualche altra stravaganza. Ma illusione non era ma assai reale; carnaio di corpi, violento e viscerale. E se il papa, poi, dice lo vero; dio è malvagio e io non lo spero. Credo che quando ordinò le crociate, stesse lanciando solo minchiate; frutto di mente vogliosa di terra, feudi per tutti dall'Asia a Gibilterra; E allor che faccio, non ne approfitto? Io mi ci butto tosto a capofitto, per non lasciarmi sfuggir la fonte: di baroni, marchesi, duca e visconte! Se lo posson permetter loro e non io, che zappai la lor terra con tanto brio? L'occasione mi ha fatto ladro, non lo nego, ma non mi vergogno di ciò che ti spiego! Largo ora, passa il Gattapelata; guai a chi lo incrocia lungo la strada! Né dio, né signore lo fermano più; prenderebbe a calci in culo san Pietro e Belzebù!"

E, sistemossi la cotta di maglia e saldato ben l'elmo sulla testa, a piè veloce si diresse fuori, mentre il sole, timido, dava i primi bagliori, oltre la nebbia e oltre le strade le strade, rese dall'acquazzon acquitrinate. Sol lo accompagna lo sguardo sì pieno, di sconforto del fratello alto e austero. Varca i battenti della chiesa, lasciati aperti, e nel fango sguazza, sorca le pozzanghere la sua cavalleresca stazza. E infine al portone leva la trave, la scaglia in terra, dove affonda grave; il ronzino richiama con uno squillo, ma quello risponde sol con uno strillo e via per il portone, se la batte dal monastero, sleale se la fugge senza cavalliero. A piedi rimasto, lo ingiuria e offende, poi si volta all'abate e tristezza lo prende; Il cuore lo strazia, non lo sopporta, che la sua anima nostalgica sia nota e scorta. Si passa la mano sulle lagrime amare e subito vorrebbe buttarsi nel mare, per aver reso sconforto a suo fratello, così innocente, sciocco, ma d'animo bello. Tempo non v'è per recriminare pensa, Or che la fame si è fatta tanto densa! E subito pensa al bel mangiare, alle distese di cibi che depredò oltremare, quelli che da baron, si sarebbe fatto cucinare e alle feste signorili, a cui sarebbe stato a banchettare. Ma lo spirto gl'è vuoto quanto lo stomaco al veder il viso di quel tristo monaco. Non si da pace, quindi si dice: Che il diavolo ti porti, tonaca avvinghiatrice! Tu mi rubasti l'amor del fratel mio, che ora m'odia tanto osanna il suo dio, tu chiesa che m'hai menato fin in Israele, a far da puttana sotto le più nefande schiere, io ti bestemmio e così ti maledico, finché aria respiro, ascolta che ti dico: Non avrò pace finché starai in piedi, tu che dividi i re dagli alfieri, fratelli e padri e madri e amici, da un mare di libri, tutti abbindolatrici. Essi mostrano più fedeltà ad un dio, che visto hanno mai se non in disio, piuttosto che alle genti in ossa e carni e così di tutta la società nascono i malanni. Io ti sradicherò, lo giuro con fede, più di quanta ne abbia chi ti venera e crede, abbi paura, o spirito santo, ti rovescerò dal trono fatto di bugie e vanto. Speranza tu sei di quelli indolenti, che preferiscon pregar che levar i mali dolenti, da lo mondo malato che questo è, mirano piuttosto a quello che gli prometti te.

Così ragionando si dipartì. Il viaggio verso il castello di Pipino il Lungo era ancora lungo e il cavallo rischiava di arrivarci prima di lui.

 

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