To sleep: perchance to dream

di CyanideLovers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inhale ***
Capitolo 2: *** Deeply ***
Capitolo 3: *** Exhale ***
Capitolo 4: *** Slowly ***
Capitolo 5: *** Now ***
Capitolo 6: *** Wake up ***



Capitolo 1
*** Inhale ***


 

Eppure resta che 
Qualcosa è accaduto, 
Forse un niente che è tutto. 
— Eugenio Montale, Quel che resta del giorno 

 
 

 
 

 
 

 

 

 

 
 

 
 

Poteva essere solo un sogno. 
Poteva essere — forse — la sua immaginazione.  
Sembrava stupido ripensarci da sveglio, non aveva mai creduto a quel genere di cose.  
Erano solo sogni, dopotutto. 

Un bambino dovrebbe fantasticare su quel genere di cose: angeli e demoni, enormi serpenti e spade fiammeggianti. Giardini incantati e mele proibite.
Non un adulto.  
No. 
Un adulto è costretto a vivere in un mondo grigio e sterile, noioso, vedere sempre le stesse facce, giorno dopo giorno.  
No, pensò Crowley. Gli adulti non hanno la meravigliosa immaginazione di un bambino.  

Eppure… 
eppure. 
Eppure quei sogni gli facevano provare strane sensazioni che non aveva mai provato prima. Come se si fosse risvegliato qualcosa dentro di lui, indomabile e feroce, che ormai riusciva a malapena a contenere. 
Rise di se stesso. 
Poi corrugò la fronte, preoccupato. 

 

 

Era sdraiato sul letto. Le braccia riposavano sullo stomaco mentre lui osservava, pigramente, come la luce dell’orologio elettronico illuminava a intermittenza la sua piccola stanza da letto. Succedeva spesso. Mezzanotte. La luna non splendeva come faceva di solito attraverso la finestra sul lato della stanza. Un temporale si stava avvicinando e pesanti nubi oscuravano il cielo. 

Un peccato, se qualcuno glielo avesse chiesto. Crowley aveva sempre amato studiare le stelle quando si sentiva particolarmente malinconico. Si limitò a guardare annoiato la nebbia alzarsi, la luce della sveglia, le ombre addensarsi agli angoli del soffitto. 

Non aveva voglia di dormire. Nonostante la giornata fosse stata particolarmente estenuante, non ci riusciva. Forse, forse, aveva più che altro paura di dormire. Non lo avrebbe mai ammesso neanche a se stesso ma sapeva che era così. Era spaventato all’idea di camminare di nuovo fra i suoi sogni, nell’intricato scenario che il suo subconscio si divertiva a ideare. Delle piccole e brevi conversazioni. I luoghi che sembravano essere così familiari anche se sconosciuti. 
Vedere lui, di nuovo. 

 

 

Non ricordava quando tutto era iniziato. Non sapeva quando quel complicato mondo aveva iniziato a vorticargli in testa; tutti quei piccoli dettagli che sembravano diventare così veri da farlo stare male. L’unica cosa che sapeva era che quei sogni non avevano fatto altro che far aumentare le domande nella sua testa.  

E se c’era una cosa in cui era bravo Crowley, era quello di porre troppe domande a cui non avrebbe mai trovato risposta.

Perché si sentiva spaventato? Perché questi sogni sembravano così reali? Perché il suo cuore batteva ogni volta come se dovesse uscirgli fuori dal petto e il suo sterno faceva male al pensiero? 
Non lo sapeva. Non voleva saperlo. 

Erano passati solo pochi minuti da mezzanotte. Crowley si alzò, si sedette sul bordo del letto e portandosi le mani sugli occhi. Era di nuovo andato a dormire con gli occhiali da sole e il segno delle lenti contro gli zigomi affilati facevano leggermente male. 
Li tirò sulla testa, rimanendo sul bordo del letto guardando di fronte a sé con lo sguardo perso nella penombra della stanza.  
“Che palle.” Sussurrò al nulla. 
Poi sospirò. 

 
Non c’era molto da fare a quell’ora. L’idea di uscire sembrava assurda la maggior parte delle volte; lo sforzo fisico di rimettersi in sesto dopo aver dormito solo per un paio d’ore sembrava insormontabile. Non aveva una televisione nel suo appartamento ma c’erano molti libri che lui li aveva sempre ignorato. Non era mai stato un gran lettore.  

 

La cosa più fastidiosa era la noia. Niente da fare, nessuno con cui parlare. Quindi il più delle volte finiva col bere un bicchiere di vino seduto sul divano del soggiorno o, in alternativa, si sdraiava nuovamente nel letto fingendo di dormire.

 

 

Ripensò di nuovo ai suoi amici e alla loro conversazione della sera prima. Quel giorno aveva trovato il coraggio di raccontargli uno dei suoi sogni. Che cos’è che avevano detto? 
“Magari è destino.” Aveva detto Anathema. Non era tanto il tono che aveva usato, neanche le parole in sé — idiozie secondo lui — era stato lo sguardo che aveva scambiato con Newt.  
Quella veloce occhiata preoccupata di lei. Newt e i suoi occhi sgranati e quel suo borbottio sommesso che sembrava dire: Un sogno? Questo è normale? 

(Di solito ignorava quel genere di sguardi girando la testa e fingendosi distratto. Appoggiava un braccio contro lo schienale della sedia vuota alla sua destra, fissava il vuoto e ignorava le loro espressioni tristi).

 

Oh, a volte li odiava.

Non erano male, però ogni tanto non riusciva a non provare un senso di malessere quando li vedeva. Anathema e Newt erano il tipo di amici che hai da così tanto tempo che non ricordi più come li hai conosciuti. Qualcosa a che fare con un gran casino avvenuto chissà quanti anni prima, si erano incontrati per caso cercando di risolverlo e alla fine erano ritrovati a rivedersi ogni mercoledì sera in un pub a Soho per discutere del più e del meno.  

La cosa strana era che i due erano sempre lì per lui, pronti a ascoltarlo. Era piacevole avere qualcuno con cui parlare, solo che a volte non sopportava i loro sguardi — come se si aspettassero qualcosa da lui, come se dovesse esplodere da un momento all’altro, neanche fosse una bomba che ticchettava furiosa — e lui sentiva sempre la necessità di andarsene via, scappare il più lontano possibile da loro.  
Solo per un po’. Finiva sempre per tornare alla fine. 

 

Era strano, non sentiva di avere altri legami. Non gli importava particolarmente della sua famiglia; facce e nomi sbiaditi nella sua memoria, solo una nota mentale che gli ricordava di Starne alla larga il più a lungo possibile marchiato a fuoco dentro il suo petto. Poteva sembrare una vita noiosa e solitaria ma lui non sapeva dire se gli piacesse o meno. Il tempo sembrava passare troppo velocemente in ogni caso. I giorni tutti uguali si fondevano insieme e lui avrebbe giurato che giusto ieri fosse stato un mercoledì e di certo non poteva essere già passata un’altra settimana.  

Un sospiro di sollievo sfuggì dalle sue labbra quando si rese conto che, in fin dei conti, non rivelare ogni dettaglio dei suoi sogni ai due era stata la scelta migliore. Non avrebbe mai potuto essere destino. Eppure, stranamente, anche se non lo avrebbe mai ammesso, adesso che ripensava alle parole di Anathema, sperò che lo fosse. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Ogni sogno iniziava quasi sempre allo stesso modo. 
Crowley camminava tranquillamente per il parco di St. James. Il giardino era deserto se non per qualche bambino che giocava sul prato o che dava da mangiare alle anatre nel laghetto. C’erano delle coppie che passeggiavano tenendosi per mano. Lui se ne andava senza una meta precisa con le mani in tasca, sentendosi un po’ distante da tutto il resto.  
 
C’era un uomo solitario seduto su una panchina che non faceva niente, se ne stava semplicemente lì a guardare il cielo e a studiare le nubi che si addensavano a oriente. 
Senza pensarci, avanzò verso di lui.  
Più si avvicinava, più dettagli poteva cogliere.  

Il viso rotondo, delicato. Capelli così chiari da sembrare bianchi come la neve e riccioli disordinati gli incorniciavano il volto. Abiti di un dolce color crema, occhi dello stesso colore del cielo mattutino. Strane domande iniziarono a accavallarsi nella sua mente: chi si veste in quel modo al giorno d’oggi? Gli occhi… sono azzurri oppure verdi? Cosa starà pensando? L’uomo sembrava in pace, magari anche bello sotto la luce tenue del sole. Gli angoli della bocca erano ricurvi verso l’alto come se sorridesse, felice di starsene lì a osservare il paesaggio.  
C’era una macchia rossa ai suoi piedi, una qualità di fiori di campo comuni, eppure in quel momento non riuscì a identificarli. Strano, pensò, era sempre stato bravo con le piante. 

La presenza di Crowley fu subito notata. Con un piccolo “Oh” l’uomo allargò il suo sorriso e Crowley si ritrovò a pensare, con un po’ di imbarazzo, che l’uomo avesse il viso più bello che avesse mai visto. Si spostò per fargli posto e Crowley si sedette accanto a lui con un “Grazie” detto a bassa voce.  

In silenzio, lui seguì il suo sguardo. Entrambi stavano guardando il cielo. C’erano nubi grigie a est ma il vento che si muoveva fra i suoi capelli era piacevole. Il silenzio poteva sembrare imbarazzante ma non lo era. Crowley si sentiva in pace, il che era stano per lui. Era sempre stato un tipo leggermente nevrotico, raramente riusciva a stare fermo, eppure l’uomo emanava un profondo senso di tranquillità.  

“Hey, stai aspettando qualcuno o qualcosa?” Domandò Crowley. 
L’uomo si limitò a scrollare le spalle. “Non proprio, mi piace questo posto.” 
Crowley si limitò a guardarlo meglio, sempre più incuriosito. Sembrava bizzarro ma non si sentiva in grado di giudicare. Forse l’uomo era semplicemente un solitario, proprio come lui. 

“Nient’altro da fare?” 
 
“No davvero. Semplicemente mi piace stare qui a osservare il cielo.” Crowley annuì senza aggiungere un’altra parola. “Tu invece?” 
“Io cosa?” Domandò Crowley. 
“Non aspetti qualcuno?” 
“No.” 
“Sicuro?” 

Crowley gli rivolse uno sguardo sorpreso. Da quando quel sogno era iniziato non aveva fatto altro che provare la sensazione di dover cercare qualcosa. Sembrava importante, eppure se ne era dimenticato non appena aveva visto l’uomo. C’era qualcosa di peculiare in lui, quasi familiare, come se lo avesse già conosciuto.  

“Vieni qui spesso?” 
“Ogni tanto.” 
 
Ci fu un altro momento di silenzio, in cui nessuno disse niente. Sembrava giusto, in un certo senso. Naturale forse, come se Crowley fosse stato creato solo per vivere accanto a questo estraneo che aveva conosciuto da neanche dieci minuti.  
Corrugò la fronte a quel pensiero. 
 
“Tu non avevi… un libro?” 
“Un libro?” 
“Si, un... libro.” Disse Crowley senza sapere dove volesse andare a parare. La mente lo aveva portato da qualche parte, l’immagine dell’uomo mentre leggeva era vivida nella sua mente. Poteva… immaginarlo, si disse.  
 
“Io ho molti libri, mio caro.” 
“Di che tipo?” 
“Di tutti i tipi.” 
“Mh.” Disse eloquentemente.  
No, si disse, forse la domanda che voleva fare era un’altra. L’uomo aveva posseduto qualcosa di speciale, prezioso, ne era certo. Qualcosa che aveva dato via molto tempo fa. 
“Scusa, so che questo può sembrarti strano,” disse Crowley, “ma ci siamo già conosciuti?” 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Il sogno era finito con l’uomo che si era alzato dalla panchina con un movimento elegante. “Devo andare via,” aveva detto ma gli aveva promesso che si sarebbero di certo rivisti se lui fosse passato di lì. Lo aveva guardato allontanarsi ma poi la sua attenzione era stata catturata dai fiori che crescevano accanto alla panchina e, l’istante dopo, lui era sparito.  

 

 

Si era svegliato nervoso e confuso, chiedendosi come fosse possibile sognare qualcuno senza averlo mai visto prima, ma che gli aveva scaldato il cuore in modo così inaspettato. Non ricordava la risposta alla sua domanda. Il pensiero lo confondeva, era difficile da esprimere a parole, come se fosse… il termine giusto bruciava sulla punta della sua lingua senza riuscire a pronunciarlo. 
Affondò la testa nel suo maglione, assaporando l’odore di gelsomino. 

Buffo, pensò. Non aveva mai avuto vestiti che profumassero di gelsomino. Così buono, così… nostalgico? 
Non era certo del perché avesse pensato così all’improvviso a una cosa del genere quindi, come era solito fare, ignorò la questione. Il colletto del maglione scivolò giù dal suo naso ma l’odore continuò a permanere nella stanza.  

 

 

Guardò l’orologio. Mezzanotte e undici. Ancora non stava piovendo e lui era sveglio. Le palpebre erano pesanti ma i suoi occhi non volevano saperne di chiudersi. Era nervoso e all’erta, non riusciva a rilassarsi. 

“Idiota.” Disse a sé stesso. 

Dopo qualche minuto spesi nel vano tentativo di riprendere sonno si arrese e si alzò dal letto, prendendo una bottiglia di vino rosso e sedendosi sul divano. Avvicinò le ginocchia al petto, appoggiando la testa contro di esse. L’odore di gelsomino, che il suo maglione di almeno tre taglie più grande emanava, tornò a tormentarlo. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Iniziavano sempre allo stesso modo quei sogni ma poi cambiavano il loro percorso. Ogni tanto lui camminava fino alla solita panchina, altre volte l’uomo lo aspettava vicino al laghetto per dare da mangiare alle anatre. C’erano delle volte in cui lui leggeva un libro a voce abbastanza alta da permettergli di ascoltare parole e frasi che sembravano venire da un’altra dimensione. Crowley si avvicinava un po’ di più a lui, inspirando profondamente quel profumo contemporaneamente diverso e familiare.  

Ti conosco, pensava chiudendo gli occhi e ascoltando l’uomo parlare. Gelsomino, tè, vecchie pagine che venivano sfogliate così spesso da essere consumate, ma che erano trattate con cura e devozione. Legno, cioccolata calda e cotone pulito. Inspirava profondamente, gustava l’aria e l’uomo aveva il viso dolce come quello di un — 

“Angelo?” Lo chiamò delicatamente Crowley, gustando la risata sommessa dell’altro, ricca di una nota dolce e affettuosa. 
“Dimmi, mio caro?” 
“Cosa stai leggendo?” 
“Paradiso Perduto, di John Milton.” 

Crowley ascoltava la storia degli angeli caduti dal paradiso. Lucifero, non un mostro spaventoso ma un affascinante oratore, sembrava essere un terribile seduttore. Crowley pensò che poteva capire perché in così tanti lo avessero seguito. Lo avrei fatto anche io al posto loro, si ritrovò a pensare. 

“Sembra stia per piovere.” Disse improvvisamente l’angelo — ormai nella sua mente era così che aveva iniziato a chiamare — e sembrò infastidito dalle nuvole, come se lo avessero personalmente offeso, probabilmente perché gli avevano rovinato il pomeriggio. Crowley guardò davanti a sé, grossi nuvoloni neri si stavano addensando di nuovo a oriente.
“Già.” Commentò lui. 

Il vento aveva iniziato a soffiare un po’ più forte, portando l’odore della pioggia, l’aria statica, fredda. Quando il cielo divenne scuro come se fosse notte l’uomo accanto a lui sospirò, chiuse il libro e lo guardò negli occhi.  
“Devo andare.” 

“Oh, di già?” 
“Sta per piovere, mio caro.” 

Crowley sussultò. Di nuovo quel ‘mio caro’. Poteva vedere come rotolava con naturalezza dalle labbra dell’uomo. Mio caro, come se fosse la persona più importante del mondo. Si sentì arrossire e invadere dal senso di familiarità. 

“Dovresti tornare anche tu a casa. Non vorrei che prendessi freddo.” 

Crowley non rispose, annuì leggermente. Forse… aveva intuito quanto detestasse la pioggia? Non l’aveva mai sopportata, ogni volta che pioveva, sognava di grandi alluvioni e persone che gridavano. C’era qualcosa di intrinsecamente pericoloso nell’acqua, come se potesse ferirlo. 

“Ci rivedremo, ne sono certo.” 
“Dici?” Crowley sperò di non sembrare troppo disperato.  
“Potremmo prendere un tè insieme, magari. Offro io.” Il sorriso dell’uomo era così genuino che Crowley si ritrovò a annuire senza pensare. L’uomo si era alzato, salutandolo con un altro dei suoi sorrisi, ma prima che potesse ricambiare, era già andato via. 

Prima di svegliarsi aveva passato gli ultimi momenti seduto sulla panchina, cercando di identificare quei fiori che spuntavano dove sedeva di solito l’uomo. Erano aumentati dall’ultima volta che li aveva visti. Erano color sangue con lo stelo lungo, i petali si muovevano a ogni minimo sbuffo di vento tanto erano delicati. Il loro movimento lo ipnotizzavano, continuò a guardarli finché non si svegliò. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
I sogni sono veramente strani, pensò. Di solito le persone sognano cose assurde, come i cavalieri della tavola rotonda, per esempio. Spie segrete che combattono contro i Nazisti, grandi complotti. Qualcosa del genere, non ne era certo. Piccole gocce di pioggia iniziarono a colpire il vetro della sua finestra cogliendolo di sorpresa. Il suo viso si corrugò senza che se ne accorgesse. 

 

La sua camera da letto era buia. Mezzanotte e venti. Le ombre si allungavano, tutto era grigio, nero, blu. Neanche una luce a illuminare gli scaffali carichi di vecchi libri. Crowley ne prese uno in mano. Li aveva sempre ignorati e forse si sarebbe dovuto stupire del fatto che Paradiso Perduto fosse uno dei primi a catturare la sua attenzione ma, allo stesso tempo, sembrava logico che fosse così. Quando si svegliava era più facile ricordare che quelli non erano altro che sogni, intrighi creati dalla sua mente, non c’era niente di reale. Forse aveva visto il libro prima di andare a dormire, ragionò, magari aveva letto quella frase sfogliandolo distrattamente a un certo punto.  

 

 

Questo doveva essere il motivo per cui poteva immaginare chiaramente un luogo oscuro illuminato solo dalla fiocca luce di una brace gigantesca, esseri che si muovevano cercando di risalire una pozza infernale, ali che bruciavano e gente che gridava. Aprì una pagina a caso, e lesse: “Milioni di creature spirituali si muovono, non viste, sulla terra, quando siamo svegli come quando dormiamo.” 

Richiuse il libro vagamente disturbato. Era stanco e si portò una mano al volto, sperando di potersi schiarire le idee. Era andato a dormire di nuovo con gli occhiali da sole, anche se quel giorno era stato talmente tanto nuvoloso che di certo non gli erano serviti a granché. Eppure si ostinava a indossarli, come se altrimenti fosse troppo esposto al mondo. 

 

(Un giorno li aveva tolti al pub, con Anathema e Newt. Entrambi lo avevano guardato sconvolti, come se i suoi occhi avessero qualcosa di innaturale. Avrebbe voluto guardarsi allo specchio ma lei gli aveva preso una mano, glieli aveva rimessi sul viso con gentilezza.  “Non è da te toglierteli.” Aveva detto. “È più nel tuo stile tenerli.” E lui l’aveva guardata ridacchiare nervosamente. Da quel giorno non aveva mai più fatto lo stesso errore). 

 
 

 
 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non erano sempre uguali, i sogni.  
Camminava, immerso nel verde ma, ogni tanto, lui era diverso. A volte era una persona normale, altre vote un demone. Ogni tanto, un serpente.   
C’erano delle volte in cui non era nessuna delle tre cose, qualcosa del tutto diverso, e poteva immaginarsi mentre plasmava e modellava corpi celesti e poi li appoggiava in cielo come se non fosse altro che una tela nera su cui lui poteva fare tutto ciò che desiderasse. 

Altre volte camminava in mezzo a un giardino di una bellezza straordinaria, piante verdi e vibranti, fiori dai colori impossibili, acqua cristallina. Sentiva ridere in lontananza, e su un imponente muro di pietra poteva giurare di aver visto una figura vestita di bianco, la schiena dritta e una spada avvolta tra le fiamme.  

 

Quando si risvegliava era sempre notte fonda. Mezzanotte e la stanza non gli era mai sembrata così vuota. Nel piccolo appartamento c’erano delle piante che curava, verdi ma non come quelle del suo sogno. Belle, ma non abbastanza da poter essere messe a confronto. Beveva del vino, tornava a dormire e i sogni proseguivano. 
Quasi sempre l’uomo era accanto a lui e insieme si divertivano a parlare di filosofia, teologia, fisica e astronomia.  

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Camminava, di nuovo, lungo lo stesso sentiero ma questa volta non c’era nessuno seduto sulla panchina.  
“È in ritardo?” Si chiese sedendosi al solito posto. Stare lì senza l’altro alla sua destra era strano. Il cielo era nero. Non c’era stato ancora un solo giorno di sole. Non che fosse una novità, era pur sempre a Londra.  
Piccole gocce di pioggia avevano iniziato a bagnargli il viso ma lui non se ne curò, troppo distratto mentre si chiedeva se non si fosse semplicemente illuso o se lui sarebbe mai arrivato. La cosa che lo disturbava di più era quel senso di solitudine. Come poteva mancargli qualcuno che non conosceva, con cui aveva solo scambiato qualche breve conversazione? 

Un’ombra calò su di lui facendolo sussultare, notando solo ora che la pioggia non lo stava più colpendo.  
“Ah, grazie.” 
“Io ti riparo sempre dalla pioggia.” Disse l’uomo con un sorriso delicato.  
“Come?” 

L’uomo ridacchiò. “Ho detto,” disse con un’espressione tranquilla, “cosa ci fai qui sotto la pioggia, mio caro?” 
“Ah… Io, ngk, stavo aspettando…” 
“Ti andrebbe una bella tazza di tè caldo? In quel piccolo caffè hanno anche dei biscottini che sono assolutamente deliziosi.”  

Lui aspettò pazientemente che si alzasse e entrambi entrarono nel caffè dall’altra parte della strada. Per tutto il tempo l’uomo aveva parlato del più e del meno, per lo più di libri che aveva letto, di quelli che avrebbe voluto leggere, posti da visitare, graziosi ristoranti, andare al teatro, assistere a qualche rappresentazione di Shakespeare. 

“Hai mai letto Amleto?” Chiese lui, stringendo tra le mani la sua tazza di tè. “No, tu sembri più il tipo… scommetto che ti piacciono solo le commedie.” 
Più Crowley lo ascoltava, più non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di familiarità, come se lo conoscesse da una vita. “Come fai a saperlo?” 
L’uomo scrollò le spalle. “È solo una sensazione.” 

(Ti conosco, ti conosco, sei tu, ma non so perché non riesco a ricordare il tuo nome). 

 

 

La lampada del locale era proprio alle sue spalle e lo illuminava come se intorno a lui ci fosse una luce divina.  
“Questo è strano.” Disse sorseggiando la sua tazza di caffè fumante.  
“Cosa?” 
“Tutto, credo. Perché sprechi il tuo tempo con me?” 
“Magari mi piace chiacchierare con te.” 
“Ma perché?” Domandò “Standard troppo bassi?” 
 


“Mi sei mancato, sai?” 

Tuoni e fulmini rimbombavano fuori dalla finestra. Il vento iniziò a soffiare più forte. “Quando credi che smetterà di piovere?” Domandò l’uomo davanti a lui, prima che Crowley potesse dire qualcosa. 
“Potrebbero volerci ore.” 
“O minuti.” Disse l’uomo con un sorriso triste. “Il che mi ricorda che devo andare.” 
“Cosa, di già?” 
“Oh, ti piace la mia compagnia?” 

“No, voglio dire… forse.” Si sentì nervoso, senza una ragione. In tutta la sua vita non ricordava di essersi mai sentito così. Come se non desiderasse altro che passare ancora una manciata di minuti a parlare con lui. Come se fosse l’altra metà di una moneta. Finse di trovare la torta dell’angelo che stava mangiando particolarmente interessante.  
“Potremmo rivederci.” Disse Crowley senza alzare gli occhi dal suo piatto. “Potrei… ho la macchina qui vicino. Ti do un passaggio a casa, ovunque tu voglia andare.”  
Ma lui disse l’esatta cosa che non avrebbe voluto sentirsi dire. Come se sapesse già quali parole avrebbe scelto. Come se non ci fosse altra risposta che potesse dargli.  

“Tu vai troppo veloce per me, Crowley.” 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

 
 

Quella volta, si era svegliato con le guance bagnate. Aveva pianto per ore senza neanche sapere il perché. Si sentiva esausto, distrutto, disperato. Con un gesto arrabbiato si tolse gli occhiali dal viso guardandoli fracassarsi contro il muro più vicino. Stupido, era uno stupido. Odiava quando succedeva, quando si addormentava con gli occhiali, come se non li togliesse mai.  

Non che fosse importante al momento, ma pensare a quello era meglio che soffermarsi su quanto fosse stato umiliante essere rifiutato dal suo stesso sogno. Ma poteva davvero biasimarlo? Si erano a malapena conosciuti.

Cosa gli era venuto in mente, quello era solo un sogno.  

 

Si strofinò gli occhi e controllò l’ora. Mezzanotte e ventisette. Non voleva dormire, non lo avrebbe fatto. Era troppo nervoso all’idea, troppo agitato per starsene nel letto fermo e immobile. Iniziò a girovagare per casa. C’era una vecchia copia di Amleto dimenticata sul tavolino da caffè vicino alla poltrona. Un paio di occhiali da vista dallo stile vintage erano appoggiati sul libro. Per un momento Crowley immaginò quell’uomo, un sorriso soddisfatto mentre li indossava per poi bearsi sfogliando il libro, cullando un calice di vino rosso.  

Lesse due o tre pagine, immaginando la voce dell’uomo scandire le parole e prima che potesse rendersene conto, poteva recitare ogni parola, ogni frase, come se lo avesse già fatto prima. Aveva ragione, non gli piacevano le tragedie, così decise di chiudere il libro, deluso. Seduto sul divano, guardava il camino dove non c’era fuoco e la stanza era buia, fredda e tetra.  

Il suo corpo era dolorante, lo implorava di tornare a letto fra i cuscini, di rilassarsi. Con un gesto infastidito chiuse il libro e lo appoggiò accanto ad un vaso ricolmo di papaveri rossi sul tavolino da caffè. Ma chi era questo tipo, comunque? Perché sembrava così importante scoprirlo? 
Finse che non gli importasse. 
Nonostante la stanchezza, non dormì per molto tempo.  

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 
 

Note: 

Ma cosa volete che vi dica? Ho scritto questa storia durante la quarantena perché la mia insonnia ha preso il sopravvento su di me e sono cinque giorni che dormo al massimo due ore quindi adesso vi beccate un’altra bella dose di angst.
L’unica cosa che posso promettervi sono i soliti plot twist, tanto cosa vi stupite a fare, so scrivere solo questo *piange in un angolo*

PS:
Questa storia fa parte della serie: Oneirataxia.
"Tre storie non collegate fra loro che hanno come unico tema l'oneirataxia, ovvero l'incapacità di distinguere la realtà dal sogno. Questa serie si concentra sul mondo delle illusioni, l'immaginazione, incubi e, ovviamente, sogni."

Per questo motivo, nel caso aveste letto la storia precedente "La morta innamorata" potreste notare alcune somiglianze, ma vi assicuro che le storie che fanno parte della serie non hanno niente a che fare tra di loro.

Siate buoni e regalatemi qualche recensione, io intanto aspetterò con ansia bevendo vergognose quantità di camomilla e valeriana

 

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Capitolo 2
*** Deeply ***


Ma è possibile,
Lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.

Eugenio montale — Tuo fratello morì giovane

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cielo era ancora nuvoloso ma aveva smesso di piovere. Crowley poteva sentirne ancora l’odore e lo trovò quasi rilassante. Eppure per qualche ragione si sentiva spossato. Stanco, come se portasse un grande peso sulle spalle. Inforcò le mani nelle tasche dei jeans e iniziò a camminare verso l’uomo seduto sulla panchina. Ogni passo era lento, fiacco, come se non avesse più energie in corpo.

Buffo, pensò, come quei sogni fossero così pieni di dettagli. L’aria era fresca e il rumore delle foglie che si muovevano seguendo il vento, lo starnazzare delle anatre del laghetto, persino quella sensazione di stanchezza sembrava reale. Immaginò che fosse così perché non aveva dormito granché nelle ultime settimane.

Cercò di studiare il paesaggio piuttosto che pensarci. L’erba verde, l’odore dell’aria, i fiori intorno alla panchina. Erano aumentati? Adesso circondavano la panchina e tutto il prato intorno, come se ne spuntasse uno ogni volta che sbatteva gli occhi. Non sapeva perché l’idea lo innervosisse.

 

Nonostante avesse fatto di tutto pur di non far notare il suo disagio, lui capì con uno sguardo che c’era qualcosa che non andava. Crowley non camminava con il suo solito stile inconfondibile e un’espressione preoccupata sbocciò sul suo viso.

“Cosa ti è successo?”  Chiese chiudendo il libro che aveva in mano. “Non sembri stare bene, mio caro.”

“Bè, neanche tu sei una bellezza.” Mugugnò infastidito.

“Non c’è ragione di usare questo tono.” Mormorò l’altro, anche se non sembrava arrabbiato, solo preoccupato per Crowley che adesso si era seduto accanto a lui con la schiena ricurva mentre si massaggiava il collo distrattamente.

“Ma che gentiluomo!”

“A differenza tua io conosco le buone maniere.”

“Mh” disse Crowley fingendo di concordare con lui. Il biondo aveva assunto un’espressione soddisfatta che era subito sfumata in una più preoccupata quando notò che si stava massaggiando il collo.

“Ti fa male?”

“Non è niente.” Si affrettò a dire lui, scoprendo di odiare quella espressione sul suo viso. “Sto bene.” Aggiunse.

“Puoi riposare sulle mie gambe se ti va.”

“Cosa?” Domandò, immaginando di essere improvvisamente arrossito.

“Non mi darebbe fastidio, davvero.”

“È imbarazzante.”

L’uomo scrollò le spalle. “Non ti vedrebbe nessuno in ogni caso.”

 

Era vero, Crowley non poteva negarlo. Il parco era vuoto così come le strade. Si spostò un po’ e l’uomo lo imitò per fargli posto e scivolò verso di lui lentamente, appoggiando la testa contro il suo grembo morbido.

Sospirò profondamente, assaporando l’odore di gelsomino e di erba bagnata. Quel profumo, di nuovo. Tè e vecchi libri. Chiuse gli occhi stancamente e per la prima volta dopo settimane sentì il suo corpo rilassarsi.

L’uomo, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, portò una mano sulla sua testa, facendo scivolare distrattamente le dita fra i suoi capelli lunghi.

Crowley soffocò un sospiro di piacere al gesto. Era rilassante, lui disegnava piccoli cerchi lungo la tempia destra e Crowley sentì le sue guance diventare ancora più rosse. Era una sensazione assolutamente meravigliosa. Non si era mai sentito così tranquillo.

Familiare, pensò, questa calma è così familiare, come se lo avesse già fatto altre mille volte.

“Mi sei mancato, mio caro.” Sussurrò lui senza fermare le carezze.

Crowley rimase in silenzio, insicuro se stesse sognando o se la voce sopra di lui fosse davvero quella dell’uomo dai boccoli biondi.

“Avevi detto che andavo troppo veloce per te.” Disse, stupendosi di quanto suonasse triste il suo tono.

“Ti ho detto molte cose stupide.”

“Mh.”

 

Una parte di lui avrebbe voluto rispondere: “Anche tu mi sei mancato.” Ma non sapeva perché provasse quella profonda, sconcertante, serie di emozioni. Perché il suo cuore batteva così forte? Perché gli era mancato così tanto?  Perché si sentiva così al sicuro mentre un estraneo gli accarezzava i capelli?

Non sapeva niente di lui, ma c’erano cose che poteva immaginare.

Poteva vederlo con i suoi occhiali da vista mentre leggeva seduto su una poltrona. Un libro sulle ginocchia e il viso rilassato. Poteva immaginarlo gustarsi un’ottima cena, prenderlo per mano, baciarlo.

Non disse niente, maledicendosi per quei pensieri.

 

“Cosa stavi leggendo?”

“Uno dei miei libri preferiti.” Disse l’latro senza smettere di accarezzargli i capelli. “La Divina Commedia, mai sentito?”

“Forse,” disse tenendo gli occhi chiusi “forse l’ho già sentito… non è quel libro assurdo con quel tipo con il nasone che se ne andava a spasso per l’Inferno?”

“Quello è il primo dei tre, anche se credo che Dante non avrebbe apprezzato il tuo commento sul suo naso. Era un tipo piuttosto permaloso.”

“Davvero?”

“Ha messo all’Inferno tutti quelli che gli stavano sullo stomaco.” Rispose con una risata. “Però devo dire che il primo libro è davvero molto bello e interessante a differenza del Paradiso.”

“Mh,” commentò, “il Paradiso non ha gusto.” E fu ricompensato con un altra risata sommessa che suonava come tanti piccoli campanelli d’argento.

“Posso leggertelo, se vuoi.”

“Fa’ come preferisci.” Disse lui scollando le spalle, guardando dritto davanti a sè.

Sentì l’uomo muoversi leggermente sotto di lui, per un attimo sperò che non smettesse di accarezzargli i capelli. Non lo fece. L’uomo iniziò a leggere e lui sentì i suoi occhi chiudersi, cullato dal suono soave della sua voce.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Ogni parola non era solo letta ma recitata, ogni piccola nota aleggiava come una canzone, dolce e delicata. Crowley, se possibile, sentì il suo corpo rilassarsi ancora di più. L’uomo con una mano teneva il libro e con l’altra continuava a tracciare piccoli cerchi, lievi linee intorno alla sua tempia e tutto quello che Crowley poteva fare era di rimanere completamente spalmato contro la panchina, la testa che riposava beatamente contro le sue gambe.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

 

C’era qualcosa di vagamente erotico in quelle parole. Non… non nelle parole in sé e non che fosse particolarmente interessato a quel genere di cose, era piuttosto l’idea di vorticare per sempre per l’inferno abbracciato a qualcuno che ami così tanto da non poterlo abbandonare neanche dopo la morte.  Quel tipo di intimità e quelle parole sussurrate con così tanta devozione e cura erano già di per sé una libidine. Con la voce di un angelo l’uomo continuò a parlare, raccontare dei due amanti che si erano baciati ispirati dalle parole di un libro e lui pensò, sul baratro del sonno, non sarebbe meraviglioso se capitasse anche a noi?

 

 

 

 

 

 

 

Quello era stato il sogno più breve di tutti. Si era svegliato ma non si era alzato dal letto. Il corpo gli faceva ancora male, continuava a essere esausto, ma ciò che lo amareggiava di più era che poteva ancora avvertire le sue mani che si muovevano fra i suoi capelli. Si portò una mano al viso, si tolse gli occhiali con uno sbuffo, e iniziò a disegnare piccoli cerchi contro la fronte, imitando i movimenti dell’uomo. L’effetto non era quello che aveva sperato.

Il profumo di gelsomino e vecchi libri, il sapore di tè caldo nella sua bocca, il leggero tamburellare della pioggia contro la finestra, le emozioni che erano diventate una riflesso pavloviano ogni volta che vedeva l’uomo dei suoi sogni e che aveva cercato di spingere giù e ignorare… accettò tutto. Non sapeva se avrebbe mai avuto il coraggio di riconoscerle, ne era ancora spaventato. Ma accettò l’idea che avrebbe fatto un altro sogno su di lui.

 

Controllò l’ora; gli occhi si chiudevano per la stanchezza ma non abbastanza per dormire. Mezzanotte e mezza e la pioggia continuava a cadere. Un tuono scoppiò di nuovo facendo vibrare la finestra e lui si strinse ancora di più fra le coperte. L’odore di gelsomino che emanavano lo cullò in uno stato di torpore.

 

 

 

 

 

 

C’erano delle volte, rare ma non abbastanza, in cui aveva degli incubi.

Sognava, per esempio, di sentire una voce tuonare furiosa mentre chiamava un nome che avrebbe dimenticato un attimo prima di svegliarsi. Faceva domande e quando succedeva, sognava di cadere da un’altezza spaventosa. L’aria frustava il suo viso e c’erano ali sulla sua schiena che non riusciva a far funzionare. Cadeva senza nulla a cui aggrapparsi.

 

Altre volte, una pioggia torrenziale lo colpiva e lui cercava nell’acqua che si alzava inesorabile di salvare bambini senza volto.

Ma i più terrificanti erano quelli sul fuoco. Sognava di schiantarsi e finire in una pozza di lava e zolfo. Grandi fornaci e esseri che ne strisciavano fuori, gridando e affondando artigli e zanne nella terra sulfurea. Una volta aveva sognato di entrare in una libreria in fiamme e di chiamare qualcuno per nome senza riuscire a trovarlo e poi…

Quando si svegliava da quei sogni Crowley leggeva, cercava il modo per trovare un  senso a quello che aveva visto. Passava ore, giorni e giorni, sfogliando vecchi libri, bibbie che profumavano d’incenso e salvia e anche se l’odore lo disgustava, non riusciva a fermarsi.

“Crowley?” Non aveva sentito la voce di Anathema finché non era apparsa accanto a lui, troppo intento a leggere un passaggio trovato per caso in una strana bibbia con dei refusi, doveva ammetterlo, piuttosto divertenti. Erano stati i versetti successivi che lo avevano incantato.

 

(E il Signore Dio parlò al cherubino a guardia della porta d’oriente e chiese: “Dov’è la spada folgorante che ti è stata data?”)

 

“Crowley, sono mesi che non esci da casa, sono preoccupata.” La voce di Anathema sembrava, in effetti, piuttosto preoccupata. Ma lui non riusciva smettere. Lei era lontana e sfocata, c’era odore di carne bruciata, non sembrava particolarmente importante. Voleva continuare a leggere.

 

(E il cherubino rispose: “Era qui un attimo fa, devo averla appoggiata da qualche parte. Lascerei in giro anche la testa se non l’avessi attaccata al collo.”)

 

“Crowley, le tue mani!” Strillò Anathema prendendolo improvvisamente per i polsi. Lui si guardò i palmi, rossi e bruciati, i bordi neri e segnati. L’unica cosa che riuscì a fare fu quella di guardare il libro rotolare per terra e avrebbe voluto urlare  Non farlo, a lui non piace quando qualcuno rovina i suoi libri’.

L’unica cosa che riuscì a dire, dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco quello che lo circondava, era stato un leggero “Oh” confuso.

“E questo come me lo sono fatto?” disse dopo un po’, guardando la ragazza mentre avvolgeva la mani con delle garze madide di unguenti. Anathema corrugò la fronte, lui la guardò mentre muoveva la bocca senza dire una parola, come se avesse qualcosa da dire, ma alla fine rimase in silenzio. C’erano delle sottili rughe d’espressione sul suo viso e Crowley si chiese come fosse possibile che fosse invecchiata così in fretta.

“Perché sei qui nel bel mezzo della notte?”

“Ero preoccupata per te.” Disse lei “Sono mesi che non ti fai vedere.” Ripetè per la seconda volta.

“Scusa.” Disse lui, leggermente a disagio. “Ero occupato.”

“Occupato?”

“Leggevo, c’è qualcosa in quei libri, forse… forse posso capire cosa sta succedendo.”

Anathema lo guardò con uno sguardo triste e lui distolse lo sguardo.

“Cosa sta succedendo, Crowley?”

 

 

 

 

 

 

Questo sogno lo aveva fatto solo ieri sera e era l’unica ragione per cui era ancora sveglio anche se erano passate molte ore dopo la mezzanotte. Era lungo il solito viale, le mani affondate nelle tasche. Un altro pomeriggio nuvoloso ma il sole spuntava di tanto in tanto e illuminava il prato del giardino. Il parco era vuoto ma l’uomo dai capelli biondi era sempre lì, seduto sulla solita panchina.

Eppure, stranamente, questo sogno sembrava diverso. Ad ogni passo verso l’uomo le sue ginocchia tremavano per l’ansia. “Maledizione.” Mormorò stringendo i denti. Sentiva il suo viso sempre più caldo, gli girava la testa, il cuore gli batteva all’impazzata.

 

Il viso dalle curve morbide, gli occhi chiari e tutto il resto. Erano più azzurri del solito, notò Crowley quando fu abbastanza vicino e lui alzò lo sguardo, un sorriso luminoso e un soffice: “Ah, eccoti qui.”

C’erano papaveri intorno a lui, rossi e freschi, dondolavano seguendo la brezza delicata del vento. Erano aumentati a dismisura e forse sarà stato per la pioggia, forse perché il terreno era particolarmente fertile lì, ma la vista di tutto quel rosso gli parve sconcertante.

 

“Stai bene, mi caro?” Domandò quando lui si sedette sulla panchina alla sua sinistra.

“Sì” annuì Crowley “Sto bene.”

“Mi sembri un po’ rosso in faccia, sei malato?”

“Malato?” Si toccò il viso che in effetti era piuttosto caldo.

“Stai tremando, Crowley.”

“Oh,” disse stupidamente, “s-sto bene. Forse… ho solo freddo.”

“Dovresti prenderti più cura di te stesso.” Disse l’altro. Il viso era contorto in un’espressione triste. L’uomo si mosse verso di lui, appoggiando una mano calda contro la sua schiena. Il calore si irradiò dal suo palmo e solo in quei momento Crowley si accorse che stava gelando.

“Io… non sto dormendo bene in questi giorni… settimane… non lo so…” confessò sospirando. “Sto facendo sogni strani, ancora più strani del solito…”

“Mi dispiace, mio caro.” Disse l’uomo distogliendo lo sguardo. “Forse… questo è stato un errore. È colpa mia.”

“No!” Esclamò lui, improvvisamente spaventato all’idea che l’uomo potesse smettere di far visita nei suoi sogni. Immaginò di andare a dormire senza la promessa di rivederlo. Gli si gelò il sangue al solo pensiero.

“Va bene.” Disse il biondo con un’espressione gentile. “Starò con te finché mi vorrai.”

“Sempre angelo, per l’eternità.” Disse stringendogli la mano come se fosse un naufrago e lui la sua unica boa di salvataggio.

Il calore era sparito dal suo viso e lui sospirò sollevato. Tornò, quasi immediatamente, quando l’altro si avvicinò per mettergli un braccio intorno alle spalle e lui appoggiò la testa sul suo petto, come se lo avesse fatto da sempre. Il cuore gli batteva all’impazzata.

 

Eppure… Crowley non sapeva cosa avrebbe dovuto dire. Per la prima volta, durante quei sogni, anche se sapeva già ogni parola che si sarebbero detti, ogni emozione che avrebbe provato, non prestò attenzione a quello che lui o il biondo dicevano. Tutto era confuso e lui poteva solo guardare l’angolo del suo viso, rotondo e morbido.

Sapeva solo che a un tratto l’uomo lo chiamò ma lui non rispose. La sua mano si stava facendo strada lungo i suoi zigomi affilati, passandoci sopra il pollice. Tuttavia, non disse una parola.

Un piccolo sorriso aleggiò sul suo viso, gli occhi brillavano di una luce intensa, blu come il punto in cui mare e cielo si incontravano. Si chinò verso di lui.

“Una confessione?”

Adesso anche Crowley stava sorridendo. Si avvicinò ancora di più a lui. “Forse” disse “Solo se tu vorrai accettarla.”

Il sorriso divenne, se possibile, ancora più dolce.

“Forse lo farò.”

 

 

 

 

 

 

Il rossore era tornato sul suo viso nel momento in cui ricordò il secondo sogno più breve. Nascose la testa sotto il cuscino, imbarazzato per il modo in cui era finito. Ricordava cos’era successo negli istanti prima che si svegliasse: un bacio, dolce e delicato come l’uomo biondo dei suoi sogni. Lento e soffice. Che pian piano era diventato un po’ più urgente, bisognoso e passionale. Finché non si era concluso con altri piccoli baci, questa volta casti, appena accennati.

Aveva sentito le sue labbra formicolare quando si era svegliato, come se fosse appena successo.

“Oh” inspirò profondamente, sospirò piano. Abbracciò l’altro cuscino, quello che aveva l’odore di gelsomino, immaginando che ci fosse qualcuno accanto a lui. Poteva essere?

Gli venne in mente una parola e lui scosse la testa, avvertendo le lacrime che iniziavano a formarsi.

Come potrebbe essere? Cosa… potrebbe essere?

Era ridico il solo pensiero.

Era semplicemente un sogno, una serie di sogni, in cui incontrava e si innamorava di un uomo?

 

Chiuse gli occhi. Sperò di addormentarsi.

Inspirò, profondamente.

Di nuovo, mezzanotte e mezza.

Sospirò, piano.

 

Gli occhi si chiudevano, il corpo lo supplicava di arrendersi, di riposare. Pensò che forse — forse — era arrivato il momento di lasciarsi andare e tornare a sognare. Voleva sentire ancora una volta le labbra morbide dell’uomo dagli impossibili occhi azzurri contro le sue. Il sonno lo prese lentamente. Il rossore ancora vivo sulle sue guance,  il suo cuore stava ancora correndo all’impazzata ma lui lo ignorò. Si concentrò sull’effetto calmante del profumo di gelsomino e finse che qualcuno lo stesse abbracciando finché non si riaddormentò.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

1) Non esiste forza al mondo che riuscirà a fermarmi dal prendere in giro Dante. Sono u'appassionata della Divina Commedia e innamorata del canto quinto, ma è sempre bello prendere in giro quel nasone dallo svenimento facile.

2) Vergogna a chi dice che non so essere romantica.

3) Mi dispiace se gli aggiornamenti sono un po' lenti, tra trasloco, lezioni online e tesi di laurea sto davvero cercando di fare il possibile.

 

Più importante, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e di ricevere altre recensioni con le vostre opinioni. Così, giusto per mettervi ansia, vi ricordo che non mi faccio scrupoli ad uccidere questi due e che dovreste cercare di farmi contenta. 

(Schezo... o forse no? uhmm)

Bacini e bacetti, 

Cyanidelovers

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Capitolo 3
*** Exhale ***


 

In giorni come questi, spesso
la tetraggine m’assale
e il vivere d’ora in ora
mi tortura. Ma arrivi tu
che sconfiggi la noia
coi tuoi discorsi variopinti.

Anche oggi cercheremo una breccia.
Una parola che ci possa salvare
e che ci tenga in bilico
sul confine ideale tra realtà
e fantasia potrà, anche
se per poco, cangiare l’esistenza.

Eugenio Montale — In giorni come questo, spesso

 

 

 

 

 

 

 

C’era qualcosa di fastidiosamente reale in quei sogni, ogni singolo dettaglio così vivido da prenderlo alla sprovvista. Le mani dell’uomo erano calde contro la sua pelle, il vento profumava di gelsomino misto all’odore acre del laghetto davanti a loro. Le anatre starnazzavano, le persone intorno a loro chiacchieravano come sempre, il tè era dolce. Ogni piccola sensazione, ogni minuscolo dettaglio era così vero che non appena iniziava a camminare per il sentiero del giardino si dimenticava che quello era tutto frutto della sua immaginazione.

Poteva… essere vero?

No, certo che no.

Come potrebbe, era solo un sogno.

Eppure ogni parola si insidiava nel suo cuore e forse questo poteva non essere solo finzione. Forse — forse — quei sentimenti non erano del tutto frutto di un gioco della sua mente.

Stava pensando troppo? Possibile. Questo non lo avrebbe fermato dal fare altre domande.

 

“Mi sei mancato, mio caro.” Disse l’angelo accanto a lui.

Non ricordava quando aveva iniziato a pensare a lui come un angelo. Sarà stato per il suo aspetto delicato, le guance rotonde e tinte di rosa. Sarà stato per quegli occhi azzurri come il cielo che lo guardavano come se fosse la persona più importante del mondo.

“Ci siamo visti solo ieri, angelo.”

C’era uno sguardo un po’ triste nei suoi occhi, qualcosa che non riuscì a identificare a pieno. Si avvicinò ancora di più a lui, lasciandosi abbracciare mentre appoggiava la testa sulla sua spalla.

 

Perché ti sogno sempre?

C’era qualcosa di pericoloso nel porre quel genere di domande. Aveva come la certezza che qualcosa di terribile sarebbe successo se lo avesse fatto. Eppure non poteva smettere di chiedersi, ancora e ancora, perché quell’uomo fosse così familiare, o perché avesse lo stesso profumo delle sue lenzuola. Come faccio a conoscerti?

“Ti stai prendendo cura di te stesso?” Domandò l’uomo accanto a lui, mentre faceva scivolare le sue dita morbide fra i capelli. “Che cosa hai fatto alle mani?”

“Io…” iniziò Crowley guardandosi i palmi delle mani ancora ricoperti da un sottile strato di cotone. Perché ti interessa tanto?

“Mi sono bruciato… non so come.” Rispose incerto.

“Non lo sai?”

“Non lo so, non ricordo di essermi bruciato.” Rispose lui.

“Mh.”

 

Per un po’ rimasero in silenzio. Intorno a loro, solo il vento che soffiava delicato in mezzo ai fiori. Erano aumentati ancora. Ce n’erano sempre di più, così tanti che sembrava impossibile contarli. Papaveri rossi dagli steli lunghi, delicati e belli. Una volta aveva letto da qualche parte che parlare alle piante alleviava lo stress e lui probabilmente aveva preso la cosa un po’ troppo sul serio. Nel suo appartamento sfogava tutta la sua frustrazione su di loro, gridava che avrebbero dovuto essere migliori, più belle, più verdi o semplicemente… qualcosa di più. Le sue piante erano le più belle di Londra ma niente a confronto dei papaveri che crescevano indisturbati.

“Dovresti prenderti più cura di te stesso, mio caro.” Disse l’uomo accanto a lui.

Forse non avrebbe dovuto chiederlo. Forse non avrebbe mai dovuto guardare in bocca del cavallo che gli era stato donato. Forse avrebbe dovuto accettare la sua presenza senza provare a capire chi o cosa fosse. Ineffabile, suggerì una voce nella sua testa.

Il punto è che Anthony J. Crowley è un tipo che fa domande scomode. E comunque i cavalli sono degli animali del cazzo, che cavolo di regalo è un cavallo.

 

“Perché ti preoccupi per me?” Domandò di punto in bianco.

“È normale mio caro, ci tengo a te.”

Aveva delle immagini impresse dietro le palpebre. Una discussione sotto un gazebo. Un edificio in fiamme. Le stelle, una supplica. Quando chiudeva gli occhi poteva ancora avvertire il calore del fuoco intorno a lui. Niente aveva senso, non c’era logica in quelle immagini, eppure non riusciva a smettere di pensarci.

 

“No. Tu hai detto che non ti piaccio, che non siamo amici. Ti ho chiesto di venire via con me e tu hai detto di no. Due volte.” Disse improvvisamente arrabbiato. “Quindi perché adesso ti preoccupi tanto per me dopo tutto quello che hai fatto?”

 

“Ti ho detto molte cose stupide.”  Rispose lui guardando i fiori davanti a lui. Era la prima volta che sembrava vergognarsi di qualcosa. Gli strinse la mano, rimanendo seduto accanto a lui con il capo abbassato e gli occhi lucidi per le lacrime. “Sono stato un folle, ho sprecato così tanto tempo e ora…” Sospirò profondamente, “tu lo sai che ho detto quelle cose solo per proteggerti, non è vero?”

 

 

 

 

 

 

 

Da quel momento, nei suoi sogni l’angelo lo sfiorava delicatamente. Lo baciava sulla fronte e sulle guance come faresti con ciò che ami di più al mondo. Quando si svegliava non voleva fare altro che tornare e dormire, avrebbe preferito non smettere mai di sognare.

 

Andavano a cena fuori, e Crowley poteva ascoltare quegli adorabili mugolii di piacere quando l’uomo assaporava per la prima volta una nuova pietanza. Passavano le serate a chiacchierare del più e del meno bevendo vini pregiati. Andavano a teatro, o semplicemente rimanevano seduti sul divano, ognuno beandosi della presenza dell’altro.

 

Quando si svegliava, la delusione lo assaliva. Mezzanotte, come sempre. La stanza era buia e la solitudine era diventata, mano mano che i sogni si accavallavano, insopportabile.

Che senso aveva possedere così tanti libri se a lui non interessava leggere? Perché il suo appartamento aveva così tante coperte tartan se a lui non piacevano? Da dove veniva il profumo di gelsomino se lui non usava detersivi con lo stesso odore?

Si rigirò nel letto, cercando di riprendere sonno. Non gli importava. Voleva solo tornare a dormire, sognare lui di nuovo e forse non si sarebbe più sentito così solo.

La sensazione di qualcuno che lo abbracciava tornava ogni volta, come un fantasma. Pensò, senza riuscire a chiudere gli occhi che, per quanto assurdo potesse sembrare, la vita nei suoi sogni era molto più luminosa e piacevole della realtà.

Chiuse gli occhi, provando a immaginare con tutto se stesso una mano calda e morbida contro la sua schiena, un’altra che gli scostava una ciocca di capelli e la faceva scivolare intorno all’orecchio, occhi che lo guardavano, innamorati.

 

 

 

 

 

 

 

Aveva aspettato ore di riaddormentarsi, ma non ci era riuscito. Aveva passato settimane sveglio, rimanendo in uno stato di perenne agitazione, mentre il suo cervello era lento e assopito. Ancora peggio, i rari momenti in cui riusciva a dormire non sognava, e quindi si svegliava ancora più nervoso e stanco di prima. Aveva provato qualsiasi cosa, dalle tisane alle pillole, alcol e lunghe passeggiate. Nulla aveva funzionato. Così era rimasto nel suo appartamento sveglio e allerta, leggendo solo per combattere la noia. Il rumore delle pagine che venivano sfogliate lo disturbavano, gli ricordavano lui e non riusciva più a non immaginare il suo angelo girovagare per l’appartamento.

Cosa aveva detto Anathema quando gli aveva chiesto di incontrarsi per ricevere qualche rimedio contro l’insonnia?

“Forse è un bene.” La ragazza l’aveva guardato con aria preoccupata mentre svuotava un altro bicchiere di liquore. “Forse è un bene, stava diventando un’ossessione, non fai altro che dormire ma devi tornare alla realtà, Crowley. Non puoi vivere nel tuo mondo fatto di sogni.”

“Un bene?!” Domandò con tono sconcertato “Un bene… Io sto impazzendo!”

“Crowley, ti prego,” disse Newt con il suo solito tono conciliatore, “capisco che deve essere difficile ma ascolta. Forse il tuo cervello sta cercando di proteggerti. Non posso dire con certezza se questi sogni di cui parli siano un male, posso solo dirti che noi siamo tuoi amici e siamo preoccupati per te.”

Anathema guardò il ragazzo con aria funerea. “Non erano un bene, non capisci… devi vivere nel mondo reale, non puoi dormire per sempre.”

 

 

 

 

 

 

 

Il problema era che loro non capivano. Che senso poteva avere uscire di casa ogni giorno, lavorare e tornare la sera in un appartamento freddo e vuoto? Non poteva esserci di più?

Quando camminava per le strade di Soho c’erano dei luoghi che gli facevano venire in mente strani ricordi, alcuni frammenti dei suoi sogni. Come il museo di storia naturale. Camminava e lui pensava a sorrisi e risate fragorose. Il Ritz, ogni volta che ci passava davanti c’erano sempre uno o due camerieri che lo salutavano ma lui non ricordava di esserci mai entrato. Le chiese. Le chiese erano strane. Gli ricordavano di stupide discussioni, battibecchi, una bomba, libri. Una voce più insistente delle altre che lo avvertiva di non entrarci perché sarebbe stato troppo pericoloso, doloroso.

“Cosa succederà quando voi non ci sarete più?” Aveva domandato un giorno a Anathema e lei gli aveva rivolto uno dei suoi sguardi tristi. Non osò continuare con quel genere di domande, ma si accavallavano in testa una dopo l’altra e lo tormentavano. Morirò anche io un giorno di vecchiaia? Perché voi invecchiate così in fretta mentre io rimango sempre lo stesso? Com’è possibile?

“Sei solo fortunato,” diceva Anathema con un sorriso dolce ma lui si sentiva solo annoiato. Non aveva niente da fare, nessuno con cui parlare e… qual’era il punto di vivere così?

 

 

 

 

 

 

 

Doveva essersi addormentato a un certo punto. Ne era certo perché Crowley camminava e lungo il sentiero del parco milioni di papaveri erano sbocciati. Ovunque, tutto il prato ne era infestato. Papaveri rossi come il sangue e lui non era sicuro di poterne sopportare la vista. Solo quell’immagine avrebbe dovuto essere un segnale di pericolo.

Ma l’uomo era sempre lì, seduto sulla panchina, e lo guardava da lontano con i suoi occhi che brillavano di un colore ultraterreno. Quando si sedette accanto a lui, lo prese per un braccio e lo baciò con così tanto affetto che, per un attimo, gli sembrò di essere venerato.

“Mio caro,” sussurrò lui guardandolo con un sorriso dolce “mi sei mancato terribilmente.”

“Anche tu, angelo.” Disse lui stringendolo. “Mi sei mancato anche tu.”

Lui si avvicinò mettendogli le mani intorno al collo, lo stava baciando di nuovo e questa volta sembrò un po’ più frettoloso nel farlo. Lo fece con cura e devozione, affondando le mani nei suo capelli rossi e lunghi e Crowley riuscì solo a stringersi intorno ai suoi fianchi morbidi e a inspirare profondamente il suo profumo.

“Mio caro,” disse l’angelo e il suo tono sembrava triste e preoccupato allo stesso tempo, “Devi svegliarti adesso.”

“Ti prego,” sussurrò, “lasciami stare qui con te un po’ più a lungo. Sono così solo quando mi sveglio e la mia stanza è sempre buia e fa troppo freddo.” Non sapeva perché avesse iniziato a piangere. Forse gli era davvero mancato troppo, forse sapeva quello che sarebbe successo da lì a poco, forse — forse  avrebbe potuto trovare il modo di addormentarsi una volta per tutte e non svegliarsi più. “Non lasciarmi di nuovo.”

“Crowley, mio caro, amore mio,” disse scandendo ogni parola con un bacio, “io sono qui con te, ma questo è andato avanti per troppo tempo e tu devi svegliarti adesso.”

“No!”

“Non puoi continuare a vivere nei tuoi sogni, Crowley. Questa è stata tutta colpa mia e mi dispiace, ma adesso...”

“Non ha senso, niente a senso, e tutto è così grigio e tetro senza di te e io — “ Interruppe il suo blaterale quando l’angelo gli rivolse un altro dei suoi sorrisi tristi.

“Mi manchi troppo, mio caro.” Disse lui con un ultimo bacio, “ti prego svegliati, Crowley.”

 

 

 

 

 

 

 

Crowley si svegliò con un sussulto, odiandosi per non essere riuscito a far durare di più il sogno. La testa gli faceva male e un dolore lancinante alle costole lo lasciò senza fiato per qualche minuto. Si accasciò tra le lenzuola cercando di soffocare un gemito, mentre cercava in ogni modo di riprendere fiato.

“Aziraphale…” sussurrò tra le lacrime e una nuova fitta alla testa lo lasciò per un momento a tremare nel letto, con le mani avvinghiate alle coperte come se potesse perdere la presa di ciò che era reale.

“Aziraphale,” sussurrò di nuovo, ignorando per un momento il dolore e scostando le coperte dale letto con così tanta forza che fece cadere tutto quello che aveva lasciato sul comodino. Ignorò il vaso di papaveri che si era frantumato al suolo, gli occhiali e il telefono.

“Aziraphale,” disse di nuovo, questa volta più forte. Il nome sembrava importante e certamente lo era visto che sapeva che quel nome era dell’uomo che amava. Come aveva fatto a dimenticare?

Corse verso il bagno, e con un sussulto spaventato si guardò il viso. Era magro, gli zigomi scavati e c’erano delle occhiaie nere e profonde intorno agli occhi. Non era questo che lo aveva scioccato, tuttavia.

“Che diavolo…” sussurrò portandosi una mano sulla guancia, osservando gli impossibili occhi gialli che lo osservavano di rimando. Pupille dritte e sottili come spilli lo fissavano, seguivano ogni suo movimento ma lui non poteva credere a quello che stava vedendo. I suoi occhi — i suoi occhi — non potevano essere quelli di un serpente, eppure sembravano naturali, come se fossero sempre stati così da sempre.

Spaventato, si vestì in fretta e uscì dall’appartamento sopra la libreria.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Sarò onesta con voi, avevo perso un po' di ispirazione scrivendo questa storia. Per quelli che hanno già letto alcune delle mie storie: sapete che io non faccio mai passare più di una settimana tra un capitolo e l'altro. Eppure giuro, questo periodo è stato folle per la mole di lavoro che mi sono ritrovata ad affrontare. Io avevo sinceramente sperato nel lockdown per avere un po' di tempo libero e invece no!
(che tristezza!)

Sono le quattro del mattino ma credo che ormai aspetterò la mattina per pubblicare questo capitolo giusto per essere sicura che non ci siano troppi errori. Se ne notate altri, per favore, ditemelo perchè ormai conosco questo capitolo a memoria e potrei non vederli tutti ahah

VI chiedo ancora scusa per il ritardo, ormai per questa storia va così, ma spero che continuerete a lasciarmi la vostra opinione visto che amo leggervi <3

un bacione,
Cyanide

 

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Capitolo 4
*** Slowly ***


mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto-

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

Eugenio Montale — Il sogno del prigioniero.

 

 

 

 

Crowley era felice. Felice come non lo era mai stato. Il cuore batteva all’impazzata mentre stringeva il volante e la macchina sfrecciava per la strada. La versione di Tchaikovsky ‘I want to break free’ era a tutto volume e lui non riusciva a non cantare sopra le note, evitando l’ennesimo pedone per un pelo.

“Via dalla strada, umano!” Gridò senza smettere di ridere.

Il passeggero al suo fianco non sembrava così contento. “Sei impazzito?!” Strillò Aziraphale “ Non puoi andare a novanta all’ora nel centro di Londra, finirai per farci ammazzare!”

Au contraire, Aziraphale, ho dimostrato più di una volta che posso, in effetti, guidare anche più veloce.”

“Dio ci salvi, non ci provare!”

Crowley si voltò verso di lui e ghignò di nuovo come un maniaco notando che, nonostante l’espressione preoccupata, l’angelo stava sorridendo. Rallentò leggermente solo per tranquillizzarlo un po’, ma ignorò un segnale di stop giusto per tenere il punto.

“Adoro vederti così felice, mio caro.”

Crowley lo guardò mentre il viso dell’angelo accanto a lui si illuminava in un’espressione soddisfatta e allegra. Non poteva smettere di osservarlo, ogni piccola ruga d’espressione, il volto candido, morbido, il sorriso dolce, il papillon, i capelli ricci e disordinati. Tutto era bellissimo.

“Tieni gli occhi sulla strada, demonio.” Disse in tono affettuoso.

 

“Tu devi essere reale.” Disse lui di punto in bianco. “Devi esserlo. Non ci sono altre spiegazioni, Devi. Non puoi essere solo frutto della mia immaginazione.”

“Mi sei mancato, mio caro.” Rispose lui, come se non avesse sentito una parola.

“Non dirlo, ogni volta che lo dici tu…”

“Lo so. Ma non posso farne a meno. Mi dispiace, se solo fossi stato più attento questo non sarebbe successo. È colpa mia se adesso tu sei in questa situazione e io non so come rimediare. Ti ho deluso.”

“No, Angelo.” Non osava guardarlo, quindi finse di prestare più attenzione alla strada davanti a lui. “Non mi hai mai deluso, non una volta. Tu sei perfetto. Qualsiasi cosa sia successa, noi la risolveremo.”

“Non so se puoi sentirmi, Crowley. Non so se puoi ma ti prego, fallo per me…”

Crowley si voltò verso di lui, il suo buon umore era sparito, il volto dell’angelo si era intristito, e lui poteva avvertire un brivido corrergli lungo la schiena. Le mani bruciavano, la testa gli faceva male e quel dolore lancinante fra le costole era tornato. Dallo specchietto retrovisore notò che il sedile posteriore era pieno di papaveri rossi. Scostò lo sguardo di nuovo su di lui.

“Ti prego svegliati, Crowley.”

 

 

 

 

Crowley aprì gli occhi, solo per versarsi l’ennesimo bicchiere di liquore. Non gli importava cosa stesse bevendo. Bruciava, la vista si appannava e questo bastava per assopire per un momento quella sensazione di dolore intenso alla testa e allo sterno. Era meglio così, pur di non pensare avrebbe bevuto fino all’esaurimento scorte.

“Oh, Crowley…” disse Anathema, apparendo davanti a lui. Non sapeva da quanto fosse lì e lui non aveva voglia di sentirla parlare. Le mani tremavano e non portava gli occhiali da sole. La luce era più intensa e faceva male.

“Cos’è successo?” Chiese la ragazza.

“Tu sai chi è lui?” Domandò Crowley ignorando la sua domanda. Anathema sgranò gli occhi, preoccupata. Newt sussultò vedendo, per la prima volta da chissà quanto tempo, gli occhi del rosso.

“C-Crowley, i tuoi occhiali!” Balbettò lui.

“Che cos’hanno i miei occhi?” Domandò confuso, “perché sono così?”

“Crowley…”

“Cosa sta succedendo,” disse portandosi le mani fra i capelli “Non capisco.”

Anathema aprì la bocca per dire qualcosa. Crowley la stava guardando con gli occhi lucidi, confusi.

“Devi dirglielo, Anathema.” Disse Newt, e per una volta il ragazzo aveva un tono deciso. Nessuno lo aveva mai sentito parlare in quel modo. Crowley avrebbe voluto fare altre cento domande ma venne distratto dall’uomo che era appena uscito dal locale. Un po’ basso, abiti color crema, biondo.

“Aziraphale!” Disse saltando in piedi, correndo fuori il locale nella speranza di raggiungerlo.

 

Anathema e Newt stavano correndo dietro di lui ma Crowley non se ne curò. Aveva perso di vista l’uomo ma era sicuro di averlo riconosciuto. Senza pensarci troppo, si era ritrovato a camminare lungo il solito percorso del parco di St. James, non del tutto certo di come fosse arrivato lì. Non poteva fermarsi, non ci riusciva. Ormai il parco era diventato così familiare che avrebbe potuto camminare anche a occhi chiusi, riuscendo a trovare la solita panchina che condivideva sempre con l’angelo.

“Crowley, aspetta!” Urlò dietro di lui Anathema.

Non aveva bisogno di farselo ripetere. Era esausto, con il fittone e sudato. Il dolore tra le costole era tornato più forte che mai. Finì per accasciarsi sulla panchina, con le mani al volto.

“È reale.” Sussurrò toccando la panchina constatando che era fatta in legno e ferro battuto. Solido, vero. “Ma questo… questo non è possibile, io l’ho sognato, non può essere vero.”

“Crowley… “

“E perché lui continua a parlarmi nei miei sogni? Perché è sempre lì?”

“Anathema, basta.” Entrambi si voltarono a guardare Newt, che fino a quel momento era rimasto in zitto. Il ragazzo, di solito silenzioso e dai modi nervosi e insicuri, aveva lo sguardo fermo sulla ragazza seduta accanto al demone. Sembrava arrabbiato, anche se forse quella non era la parola giusta per descrivere a pieno la sua espressione.

Crowley non capiva cosa stesse succedendo. Non riusciva a registrare le lacrime che gli solcavano il volto, le voci sembravano ovattate, le immagini confuse. La voce di Newt, un po’ più forte del solito mentre riprendeva Anathema per qualcosa che il demone non sapeva, lo avevano scosso leggermente anche se tutto quello che lo circondava sembrava avvenire attraverso una spessa campana di vetro.

“Mi scuso per aver alzato la voce.” Disse il ragazzo addolcendo il suo sguardo, “capisco che stai cercando di proteggerlo ma ascoltami, Ana, guardalo.” Anathema scostò lo sguardo da lui per osservare Crowley che sembrava quasi un animale in trappola. “Non lo stai aiutando, non così. Non stai facendo altro che ferirlo. Devi dirgli la verità.”

Anathema non era mai stata una dalla lacrima facile. Non piangeva per i film sdolcinati o cose del genere. Non si commuoveva spesso. Della coppia, il ragazzo era il più emotivo. Sapeva essere dolce e materna quando voleva, e amava prendersi cura di chi gli stava intorno. Ma non versava lacrime così facilmente. Per questo anche Newt si stupì nel vederla piangere.

“Mi dispiace.” Sussurrò avvicinandosi ancora di più a Crowley. “Non volevo che questo succedesse, non volevo farti del male, è tutta colpa mia… ma lui mi ha pregato di farlo, mi ha supplicato, e io non sapevo cosa fare perché ero spaventata e lui… io… ah, non credo di aver fatto la cosa giusta.”

“Cosa… io non… cosa?” Domandò Crowley, confuso.

“Adesso devi ricordare quello che è successo quel giorno.” Disse Anathema, seria.

C’erano papaveri rossi davanti a loro, ovunque. Una distesa infinita, si estendevano lungo i prati e fra gli alberi. Crowley li guardò mentre dondolavano delicatamente mossi dal vento. Aveva come la sensazione che ricordare sarebbe stata un’espressione davvero poco piacevole. Stava tremando, la testa gli faceva male, le mani bruciavano come se avesse toccato dell’acido, il suo sterno faceva male come se il cuore dovesse uscirgli dal petto in qualsiasi momento. Si rese conto che nonostante la paura, il terrore di vedere qualcosa che lo avrebbe distrutto, non poteva fare a meno di desiderare di sapere cosa fosse successo. Nonostante tutto, pensò, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di rivedere Aziraphale ancora una volta.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Mi dispiace per il costante ritardo e per aver pubblicato un capitolo così breve. Doveva essere molto più lungo in realtà ma ho deciso di dividerlo in due. All’inizio questa storia doveva avere solo 5 capitoli ma ho deciso di aggiungerne uno in più.

Una cosa importante, per me almeno: anche nell’ultima storia che ho scritto Newt aveva un ruolo marginale e questo un po’ mi dispiace perché adoro questo personaggio. Rivedo molto me stessa in lui, povero semolino nervoso, però vorrei ricordare a tutti che in fin dei conti è uno dei personaggi più intelligenti nel libro (aka, è lui che fa notare ad Anathema, quando lei dice che non sa quale profezia di Anges sia quella giusta per sapere quello che succederà più avanti, che in realtà possono prenderne una a caso visto che la strega avrà sicuramente visto quale avrebbero preso.)

Insomma, adoro newt e volevo dargli un po’ più di spazio in questa storia.

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Capitolo 5
*** Now ***


Non era una bella giornata. Grossi nuvoloni si stavano ammassando a oriente e il cielo era scuro, il vento stava iniziando ad alzarsi e l’aria elettrica presagiva che da li a poco una tempesta si sarebbe abbattuta su di loro. 

L’angelo osservava il cielo con uno sguardo accigliato, come se gli avesse appena fatto un torto personale. Poteva anche essere, pensò Crowley, senza riuscire a trattenere un sorrisetto divertito per Aziraphale che si infastidiva così tanto per un semplice temporale. 

“Magari possiamo organizzare il nostro picnic un altro giorno, uno in cui non rischia di caderci il cielo in testa.”

“Oh, ma Anathema e Newt arriveranno tra poco e io avevo già organizzato tutto.” Un sospiro sconsolato sfuggì dalle labbra dell’angelo e Crowley, che non era mai riuscito a sopportare l’idea di vederlo triste, propose con un sorriso: “Spostiamo il divano da quella parte, il tavolino lo mettiamo a destra, stendiamo la coperta a terra e arrangiamo qualche cuscino. Avremo il nostro picnic al chiuso, angelo!”

Il sorriso affettuoso che gli rivolse il biondo era tutto quello di cui aveva bisogno. Con uno schiocco di dita i mobili si spostarono, una grossa coperta color borgogna si stese da sola sul pavimento e eleganti piatti d’argento ricolmi di leccornie apparvero dal nulla. 

“Hai sempre le idee più brillanti, mio caro.” Disse l’angelo rivolgendogli un altro sorriso, “ma permettimi di apportare qualche miglioria.” 

Aziraphale mosse la mano in un gesto elegante e sulla tovaglia comparve un complicato disegno in tartan rosso, bianco, nero e oro. Del vino rosé , il preferito di Anathema, apparve in una glacette accanto ai pregiati vini rossi scelti da Crowley. Dopo un momento L’angelo mosse di nuovo la mano e un vaso di papaveri rossi appena colti apparvero in un elegante vaso dallo stile ottocentesco. 

 

Crowley osservò con occhio critico la tovaglia.

“Tartan?” Domandò come se questo implicasse un insulto personale, “stona con i miei piatti.”

“Non essere ridicolo, Crowley. Il tartan è molto elegante.”

“Non hai idea di cosa sia lo stile, Zira.”

“Oh, taci diavolaccio.” Il tono di Aziraphale era esasperato, come sempre quando il demone criticava i suoi gusti, ma quelle parole nascondevano un un sorriso affettuoso tipico dei loro battibecchi.

 

“Papaveri?”

“Non sono bellissimi?” Domandò Aziraphale, “mi ricordano sempre il colore dei tuoi capelli.” L’angelo sorrise guardando il demone arrossire. “Non solo per quello, simboleggiano immaginazione e sogno, eccentricità e orgoglio… ti ricorda qualcuno?”

“Ngk!” Commentò intelligentemente Crowley. “Non fare il sapientone. Non hanno solo quel significato.” 

“Sei tu l’esperto di botanica, mio caro. Ma sono molto belli, non c’è che dire.” 

 

Aziraphale si era voltato e rabbuiato per un momento, rivolgendo di nuovo lo sguardo al cielo. Attraverso i vetri opachi — per la troppa polvere, sospettava Crowley — il cielo si era fatto ancora più scuro. 

“Cattive premonizioni, angelo?”

“Non saprei, ho un brutto presentimento. Magari è solo questo tempo a rendermi nervoso.”

Crowley avrebbe voluto dire qualcosa per rassicurarlo, ma all’improvviso la porta del negozio si aprì di scatto, facendo suonare la campanella furiosamente. 

“Come diamine facciamo ad avere un picnic con questo tempaccio?!” La voce di Anathema gli fece emettere un sospiro di sollievo.  

“Crowley ha organizzato tutto per farlo qui, mia cara.” Disse con un sorriso l’angelo, prendendo il cappotto della strega e aiutandola a accomodarsi.

“Oh, questa si che è un’idea!” rispose lei allegramente. Dietro di lei, Newt stava porgendo a Crowley una bottiglia di vino, “lo so che voi bevete vini di un certo livello, e questo non è di certo niente di speciale, ma ci sentivamo in colpa a venire a mani vuote.”

“Non ti preoccupare, Newt,” rispose Crowley mentre leggeva l’etichetta della bottiglia, “è un’ottimo vino, ma non avreste dovuto, lo sapete.”

 

Entrambi adoravano i due umani. Era incredibilmente piacevole potersi aprire sulla propria natura con loro, poter essere sinceri per una volta e non doversi sforzare per cercare complicate giustificazioni per i loro strani comportamenti. C’erano volte, e questo Crowley non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, forse neanche a Aziraphale, in cui il demone desiderava essere come loro. Vivere nel mondo da umano senza doversi nascondere e mentire costantemente. 

“Vuoi una mano con la macchina?” Domandò Crowley dopo un momento. Vivere a Soho aveva i suoi lati positivi come negativi. Il peggiore, secondo il demone, era che trovare parcheggio era quasi impossibile. Ovviamente, lui non aveva di questi problemi. C’era sempre un posto ad aspettarlo proprio davanti al negozio di libri, ma sapeva che per Newt non era così semplice. 

“Ti prego, si. Credo di aver bloccato il traffico in qualche modo.”

“Ah, quindi Dick Turpin sta facendo il suo lavoro!”

 

Quando tornarono indietro — dopo una manciata di minuti, giusto il tempo per Crowley di convincere un passante che davvero avrebbe dovuto spostare la macchina, c’era qualcosa che doveva fare al più presto, meglio sbrigarsi — stavano chiacchierando amabilmente, distratti perché entrambi avevano iniziato una nuova serie tv, e forse per questo non si accorsero subito di quello che stava succedendo dentro il negozio. Crowley aveva aperto la porta con Newt alle sue spalle, ma quando varcarono la soglia l’urlo di Aziraphale li fece sobbalzare.

“Crowley, vai via!” 

Il demone si fermò sul posto. Davanti a lui un angelo gli dava le spalle. Solo che non era il suo angelo ma uno che non conosceva. Aziraphale lo fissava con uno sguardo che aveva visto raramente, ma che per questo era forse ancora più pericoloso. La sua espressione era una maschera di furia glaciale, quel misto di paura e rabbia, furore verso chi era entrato senza permesso nel suo territorio. Bisogno di proteggere. Quello non era lo sguardo di Aziraphale ma del guardiano che era stato un tempo.

“Indietro, Newt.” Sussurrò Crowley mettendo una mano dietro di lui e costringendo il ragazzo a fare tre passi indietro.

“A-ana…” fu l’unica cosa che riuscì a dire con voce tremante Newt, troppo spaventato dall’improvviso cambio d’atmosfera. La scena davanti ai suoi occhi divenne improvvisamente chiara in tutta la sua pericolosità. Aziraphale era in una posizione simile. Nonostante l’aspetto soffice e delicato, l’angelo doveva essere scattato immediatamente davanti alla ragazza per proteggerla con il suo corpo. Finora l’intruso non aveva detto una parola. Non che fosse necessario, le sue intenzioni erano chiare da come stringeva in mano una spada celestiale. 

“Tu chi sei?” Domandò Aziraphale con freddezza. 

“Yeratel, dell’ordine delle Dominazioni, terzo reggimento, vengo per punire il traditore.” Disse serio l’angelo senza mai staccare gli occhi da Aziraphale. Anche così, immaginò Crowley, stava tenendo d’occhio anche lui. Il demone era nel suo punto cieco eppure non osò muovere un muscolo. Si sforzò di rimanere calmo e di nascondere il panico per la situazione. Doveva trovare uno stratagemma per sfuggire da quella difficile situazione. Il suo sguardo si spostò sulla spada. Il silenzio era insopportabile.

 

Anche se da solo, una Dominazione era di per sé un gran problema. Erano quelli che si occupavano di organizzare il paradiso, forti e fermi, era notoriamente impossibile sfuggirgli ed erano esperti nel rimettere in riga gli angeli più ribelli. Con un brivido lungo la schiena, Crowley cercò di soffocare il ricordo della sua caduta. 

“Capisco.” Disse Aziraphale. “Non sei stato informato? È stato deciso che sia io che Crowley saremmo stati liberi. Non hai niente da fare qui e dubito che gli Arcangeli ti abbiano dato l’ordine di punirci.” L’angelo non nascose un sorriso soddisfatto quando aggiunse “Gabriele era abbastanza scosso l’ultima volta che gli ho sputato fiamme infernali in faccia.” 

 

Bravo, bravissimo angelo, continua a parlare, ricordagli quanto sei pericoloso, fallo andare via senza creare troppi danni, pensò il demone che a malapena riusciva a tenere sotto controllo il panico. 

La mano di Yeratel si strinse con più fermezza intorno alla spada. “Non importa, è il mio dovere punire i trasgressori.”

“Ci sono umani qui. Non ti è permesso fargli del male.” Aziraphale fece un passo in avanti, e Anathema fece capolino da dietro di lui, guardando Crowley e Newt spaventata. 

“Lei può passare.” Disse l’angelo. 

Aziraphale annuì e con un movimento spinse la strega verso la porta. “Aziraphale…” disse lei guardandolo per un momento. 

“Non ti preoccupare, mia cara, va tutto bene. Vai da tuo marito. Questa è una questione tra angeli.”

Anche Crowley era della stessa opinione. Non avevano il tempo per preoccuparsi anche per gli umani al momento, la situazione era già complicata così com’era e Aziraphale era in una posizione di svantaggio visto che Yeratel stava bloccando la sua unica via di fuga. 

Crowley allungò una mano e tirò verso di sé Anathema, spingendola fuori dal negozio e tra le braccia di Newt. 

“Crowley, ma—“

“Andatevene.” Sussurrò il demone senza guardarli. 

“Anche tu, Crowley.” 

Il demone guardò per un momento l’angelo con un’espressione scandalizzata. “Cosa?!”

“Ho detto che questa è una questione tra angeli.”

“Non ti lascio qui da solo.”

“Basta!” Il battibecco fu interrotto dall’angelo nemico, “non illuderti che lascerò fuggire un demone.”

“Crowley non c’entra niente in questa storia, non ti permettere di sfiorarlo!” Aziraphale aveva abbandonato ogni parvenza dell’adorabile proprietario di un negozio di libri antichi e aveva iniziato a brillare di luce propria. Un’altra spada era apparsa nella sua mano, ricoperta di fiamme incandescenti e in un secondo si scagliò sulla Dominazione, che parò il colpo agilmente. La potenza del colpo, unita alla luce intensa scagliò Crowley all’indietro che dovette coprirsi gli occhi nonostante le lenti scure. 

 

 

Le orecchie fischiavano per il rumore, la vista era confusa, e il rumore dei colpi sembravano distanti ma non meno potenti. Era una fortuna che gli umani non potessero sentirli o vedere quello che stava succedendo tra le creature celesti.

Si rimise in piedi barcollando e la vista era ancora strana, offuscata e traballante, ma non perse tempo a preoccuparsi dei dettagli. Aziraphale aveva bisogno di lui. I due angeli stavano combattendo all’interno dello spazio ristretto del negozio, Aziraphale sembrava essere in leggero vantaggio e per un momento sospirò di sollievo. Ogni tanto dimenticava quanto fosse bravo con la spada. Ma poi in una manciata di secondi tutto era andato in malora, perché Aziraphale aveva perso per un momento l’equilibrio e l’avversario non aveva perso tempo ad affondare la sua spada contro la pelle morbida e candida.

“Angelo!” Strillò Crowley, abbandonando ogni speranza di trovare uno stratagemma per uscirne indenne. Attaccò d’istinto, saltando alle spalle dell’avversario e affondando le sue zanne affilate nel collo dell’angelo e allontanandolo allo stesso tempo da Aziraphale che si era accasciato al suolo stringendosi lo stomaco. 

 

Crowley, con suo grande disappunto, non era granché come soldato. Era sopravvissuto per sei millenni grazie alla sua astuzia, velocità che derivava dall’essere — infondo — un serpente, un’incredibile forza di volontà è la forte convinzione che, se proprio doveva morire, almeno avrebbe fatto di tutto pur di rendere la cosa il più difficile e fastidiosa possibile. 

 

Yeratel aveva cercato di liberarsi dalle sue grinfie ma Crowley lo stringeva con la stessa forza di un Boa constrictor, i muscoli si erano gonfiati e allungati di conseguenza e lui stringeva in una morsa viscerale, mentre iniettava il suo veleno nel collo dell’angelo. 

 

Contro il suo petto poteva sentire il cuore dell’angelo rallentare sempre più velocemente, finché il corpo non diventò lasso e Crowley lo lasciò andare. Doveva aver gridato, prima per la sorpresa dell’attacco e poi per il dolore, perché gli fischiavano le orecchie e gli girava la testa. Stava ancora stringendo la spada in mano, e non avrebbe dovuto perché il metallo celeste gli stava bruciando le mani. Aveva tagli dappertutto, alcuni erano piuttosto profondi, ma non riusciva a metabolizzare l’idea. 

 

Il veleno che ancora scorreva dalle sue zanne lo distraeva, non lo faceva pensare, un misto di mandorle dolci e il sapore ferroso del sangue dell’angelo rendevano la sua vista offuscata e la mente confusa. Il cuore gli batteva all’impazzata, un’incredibile ammontare di adrenalina stava circolando nelle sue vene e sapeva, sapeva che avrebbe dovuto lasciare andare la spada ma non poteva — non poteva — perché erano in pericolo e lui non poteva abbassare la guardia, non adesso, non finché —

 

 

“Crowley?” La voce dolce e delicata di Aziraphale lo svegliò dalla sua trance facendolo sussultare. Il corpo si mosse da solo, lasciando andare la spada e accasciandosi accanto all’angelo che stava ancora sanguinando per terra. 

“No, no, no, angelo, angelo per favore dimmi che stai bene…Zira!” Crowley prese il suo viso fra le mani, cercando di tamponare la ferita, di sentire il battito che c’era, era lì, debole ma il cuore ancora batteva e questo era la cosa più importante.

“Crowley,” la voce flebile di Aziraphale lo fece sussultare, “sto bene Crowley, sto bene.”

Il demone non era d’accordo. Gli sollevò il capo e iniziò a scostargli i boccoli biondi dal viso, guardandolo con uno sguardo terrorizzato. Magari Aziraphale poteva iniziare a guarire da solo. Magari — si forse si — poteva aiutarlo in qualche modo ma c’era poco da fare, Crowley era un demone, Aziraphale un angelo, e i demoni avevano perso il potere di guarire molto tempo fa. 

 

 

“Va tutto bene, Crowley.” Disse l’angelo. “Yeratel?”

Crowley si voltò guardando l’angelo immobile finché non vide il suo corpo dissolversi in una nuvola di polvere dorata. “Se l’è cercata, ha avuto quel che meritava.”

Aziraphale non commentò, perché sapeva che Crowley aveva ragione ma non per questo era una cosa facile da accettare. “Stai bene?” 

Crowley si guardò per un momento le mani, la testa gli faceva malissimo e respirava a fatica e stava facendo di tutto per non sprofondare in un attacco di panico vecchio stile, non poteva permettersi di distrarsi adesso, non mentre il panciotto di Aziraphale era rovinato e sporco di sangue. 

“Ssssto bene, Zira…” disse distrattamente cercando di tamponare come poteva il sangue. L’angelo stava cercando di sopprimere i gemiti di dolore che il movimento gli procurava, sempre troppo gentile per il suo stesso bene, stava cercando di non farlo preoccupare troppo.

“La tovaglia è tutta rovinata.” La voce di Aziraphale era sempre più sottile, debole. O forse era Crowley che non riusciva a sentirla? Tutto stava diventando confuso, come un sogno poco prima di svegliarsi, la sua vista era piena di puntini neri e i margini tremavano, faceva caldo e freddo allo stesso tempo. 

“Non ti preoccupare angelo, ne comprerò un’altra da quella signora simpatica che ti regala sempre quei biscotti al miele che ti piacciono tanto… sono sicuro che neanche le piacciono quei biscottini, li tiene solo perché sa che tu vai da lei solo per quello, per quello e perché lei ha quelle coperte in cotone caldo in tartan che ti piacciono tanto.” Non sapeva cosa stesse dicendo, ma sapeva che doveva continuare a parlare, così Aziraphale non si sarebbe addormentato. L’idea lo spaventava, l’angelo sembrava sempre più debole e lui non poteva lasciare che accadesse una cosa del genere. 

“Organizziamo un altro picnic angelo, prometto che non mi lamenterò più del tartan o dei fiori o se fa freddo o se fa caldo.” 

C’erano delle mani intorno a lui, gentili e calde, e Crowley era vagamente cosciente che dovevano essere quelle di Anathema che lo allontanavano da Aziraphale. Bene, pensò lui mentre Newt lo aiutava a sdraiarsi su un fianco. Ok, bene, si, lei saprà cosa fare, era una strega intelligente e un’umana, avrebbe sicuramente trovato il modo di aiutare Aziraphale, al contrario di lui che non poteva fare nulla se non parlare. 

Aziraphale stava sussurrando qualcosa nell’orecchio della ragazza, sembrava abbastanza urgente per il modo in cui le sue mani sempre perfette e morbide si stringevano intorno a lei. 

“Crowley, stai tranquillo ok?” La voce di Newt era proprio sopra di lui ma non osò staccare gli occhi dal suo angelo, anche se il tono era dolce perché Newt era un bravo ragazzo, un po’ troppo nervoso per il suo stesso bene, ma dolce e gentile quasi come Aziraphale. 

 

“Ti amo angelo, ok? Non ti addormentare, non farlo, ho bisogno di te e… e tu non puoi lasciarmi bastardo di un angelo, non puoi perché io cosa dovrei fare senza di te?” Blaterò cercando di strisciare ancora più vicino a lui e stringendogli la mano. “E se poi non sei qui con me chi mi prenderà in giro per come guido, e chi leggerà ad alta voce accarezzandomi i capelli, o mi riparerà dalla pioggia con le sue ali come quella volta sul muro del giardino?” Crowley parlava e parlava ma gli occhi di Aziraphale erano già chiusi da un po’ e anche lui faticava a rimanere sveglio. Solo che la visione era così assurda che non voleva accettarlo, non poteva, perché cos’era lui senza Aziraphale?

“E poi tu hai detto che saremmo rimasti insieme per sempre e io ti amo, Zira, ti amo così tanto e io non… io non posso, mi dispiace così tanto, mi dispiace, perché se tu non mi avessi amato forse adesso ti staresti gustando il tuo bel picnic e io sarei stato solo e triste, certo che si, ma almeno tu saresti vivo adesso e io… io…

 

 

 

 

Crowley espirò profondamente, come se avesse trattenuto il respiro perché in realtà, quella cosa inutile e così umana che è respirare stava diventando sempre più difficile. I polmoni sussultarono dentro la gabbia toracica, faceva male, e a un certo punto aveva iniziato a piangere, grossi lacrimoni scorrevano lungo il suo viso ma non riusciva a concentrarsi perché, in tutto questo, respirare stava diventando un’impresa insormontabile. 

“Mi dispiace Crowley, mi dispiace così tanto.” Stava ripetendo Anathema tra le lacrime, abbracciandolo come se avesse paura che il demone potesse sparire in una nuvola di cenere. La mano calda di Newt contro la sua schiena era una silenziosa offerta di conforto, come se sapesse che nulla avrebbe potuto consolarlo. 

“Lui non voleva che tu soffrissi, me lo ha chiesto lui e io ho fatto un incantesimo ma credo sia andato qualcosa storto… mi dispiace,” ripeté di nuovo Anathema, “mi dispiace, lo so che non avrei dovuto ma tu stavi così male e io avevo promesso che mi sarei presa cura di te.”

 

La strega stava continuando a parlare ma Crowley aveva smesso di ascoltarla. Non gli importava, non gli importava più niente. Si sentiva solo e svuotato e il cielo era nero, scuro e carico di pioggia proprio come il giorno in cui aveva perso Aziraphale. 

Lo sterno faceva male, e probabilmente era il suo cuore che si stava frantumando sotto il peso di quella realizzazione. Un cuore che non ha bisogno di battere non dovrebbe avere l’ardire di fare così male ma Crowley era antico, stanco, e molto più umano di quanto uno potrebbe credere, solo e la fine del mondo era arrivata. Non di tutto il mondo, forse, ma il suo era finito nel momento in cui Aziraphale aveva chiuso gli occhi.

Era stanco.

Incredibilmente stanco.

Voleva solo riposare.

“Anathema.” 

“Sì?”

“Dammi dell’acqua santa.”

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Mi scuso davvero per il ritardo. Quando avevo iniziato a scrivere questa storia non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi così tanto lavoro tra capo e collo all’improvviso, quindi mi sento molto in colpa. 

 

Funfact:

1)Yeratel è veramente un angelo del coro angelico delle Dominazioni, e il suo nome significa ‘Dio che punisce i peccatori,’ e mi sembrava azzeccato perché lo sapete quanto sono fissata con questi dettagli inutili.

 

2)Si, lo so che i boa costrittori non hanno anche il veleno, ma Crowley è un demone e non la sa questa cosa perché è ignorante in anatomia, quindi ha anche il veleno e quando ti abbraccia potrebbe anche spezzarti la colonna vertebrale. Such a cuddler.

 

3)Avevo promesso a me stessa che mi sarei sforzata di scrivere un lieto fine ma sono abbastanza nervosa in questo periodo quindi è tutto da vedere perché alcuni di voi hanno imparato a conoscermi e sapete quanto io sia volatile sui finali. 

Lieto fine si, non so di che genere anche se l’idea generale è già nero su bianco *evil grin*

 

Un momento di silenzio per il mio fidanzato che leggendo il capitolo mi ha detto “però st’angelo è un po’ na pippa” e quindi adesso dormirà sul divano, whaoo.

 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e farò del mio meglio per pubblicare il prossimo il prima possibile. Un bacio <3

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Capitolo 6
*** Wake up ***


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Eugenio Montale — Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

 

 

 

 

“Davvero pensavi che ti avrei dimenticato?”

“Mi dispiace, mio caro, non avrei mai voluto che tu soffrissi in questo modo, cercavo solo di proteggerti.”

“Capisco.”

“Non sapevo cosa... ero nel panico e non sapevo cosa fare e tu…”

“Capisco, angelo, davvero capisco è solo che…”

“Si?”

“Ci sono sempre questi sogni, e tu sei sempre qui, ma poi mi sveglio e non so…”

“Cos’è reale e cosa non lo è?”

“Esatto… esatto. E adesso io non capisco… cosa sei tu?”

“Magari sono solo un sogno.”

“Ah.”

“Forse tu mi conosci così bene che puoi immaginare senza problemi quello che direi e cosa farei in ogni momento.”

“Mh…”

“O forse quando ci siamo scambiati il corpo una piccola parte di me è rimasta attaccata alla tua anima.”

“Come quando mescoli due colori e non puoi più dividerli?”

“Potrebbe anche essere.”

“Mh…“

“Tu hai… hai intenzione di usarla?”

“Sì.”

“Sei sicuro?”

“Sì.”

“Perché?”

“Perché tu sei sempre stato la mia unica costante per sei millenni. Perché eri la mia ancora e il mio faro nell’oscurità. Perché senza di te nulla ha senso, il vino non ha sapore e nulla mi stupisce più. Vedo gli umani nascere, vivere e morire e non mi fa più effetto, mi ricordano solo che tu non sei accanto a me.”

“Forse, allora, mio caro… dovresti svegliarti.”

 

Cose che si erano perse tra le righe di questa conversazione:

dita nervose che si stringevano e si muovevano tra di loro tenute in grembo contro un panciotto color crema. Altre mani, che sembravano essere attraversate da una scossa costante, tremavano e si aggrappavano intorno a un termos come se fosse l’ultimo salvagente a disposizione. Un paio di occhiali lasciati cadere con noncuranza sul prato, perché qual’è il punto di nascondere i propri occhi in un sogno?

Due persone sedute sulla solita panchina, uno che cerca lo sguardo dell’altro che non osava alzare gli occhi da un punto non ben definito del suolo. Corpi così vicini da poter sentire l’uno il calore dell’altro ma non abbastanza da toccarsi.

Il peso di sei millenni passati ad amarsi senza poterlo dimostrare e non abbastanza tempo in cui si erano amati, perché quel futuro che avevano sognato per così tanto gli era stato strappato via.

Occhi vitrei, occhi che non si preoccupavano più di nascondere le lacrime, che adesso scivolavano silenziose lungo le guance.

Papaveri rossi che come sempre ballavano intorno a loro e che si erano moltiplicati a dismisura, tanto che ormai non potevano più dire di essere in un parco ma in un campo di fiori.

 

 

 

 

Aveva maledetto Newt e Anathema alla fine. Si sentiva stanco e esausto e si era allontanato con la promessa di non tornare mai più da loro. E li aveva dannati per sempre.

Maledetti, a una vita lunga, felice e tranquilla. Con un cottage in campagna, bambini che corrono in un prato, un lavoro interessante ma non troppo stressante. Con qualche piccola aggiunta. Sarebbero stati costretti a bere sempre il caffè con un retrogusto bruciato, il giornale sarebbe arrivato sempre in ritardo, e ogni mattina sarebbero stati svegliati ad un’ora indegna, troppo presto per i loro gusti, da degli uccellini che avrebbero iniziato a cantare in modo fastidioso.

Un inferno in terra, si disse Crowley, ma non aveva ricevuto il solito calore di una cattiva azione ben fatta.

A dir la verità, poche cose gli procuravano quel calore. Nei suoi sogni parlava con Aziraphale e ogni parola gli ricordava i sei millenni in cui avevano roteato intorno l’uno intorno all’altro senza avere mai il coraggio di toccarsi, un po’ come le stelle di Alpha Centauri che orbitavano tra loro in eterno. Cosa sarebbe successo se una delle due fosse sparita all’improvviso? L’altra stella sarebbe rimasta lì a galleggiare nell’universo, magari spaesata mentre si chiedeva cosa esattamente fosse successo, o avrebbe iniziato a vagare senza meta tra le altre stelle, ormai fredda e sola?

Crowley pensava spesso alle stelle. Le guardava di notte e le odiava perché sembravano così tante, vicine ma lontane, e lui aveva sempre avuto la sensazione di avere un certo legame con loro, solo che non poteva toccarle, e quella era l’ennesima cosa irraggiungibile che gli era stata strappata via.

Il tempo scorreva e lui, che aveva sempre avuto una certa affinità con esso, nel senso che sapeva sempre che ora o anno fosse senza avere bisogno di un orologio, si era ritrovato a non riuscire più a seguirlo. Lo sentiva passare, troppo lentamente per i suoi gusti, e lui rimaneva seduto nel negozio di libri senza davvero sapere cosa fare, senza riuscire a trovare conforto in quello che una volta aveva trovato elettrizzante.

Gli umani, per esempio, erano qualcosa che lo avevano affascinato fin dal primo incontro — sai, quella storia piuttosto famosa a proposito di una donna, una mela, un giardino e un serpente — e li aveva osservati perché era incredibile come riuscissero a divincolarsi in un mondo che sembrava fatto a posta per schiacciarli. Ma erano anche terrificanti, perché sembravano disegnati per rendere la vita del prossimo sempre più difficile, lasciando Crowley un po’ esterrefatto mentre si chiedeva se qualcuno non avesse premuto per sbaglio un qualche bottone nascosto per l’autodistruzione.

Quando era caduto all’inferno, si era detto che nessuno potesse essere più crudele di un demone ma vivendo in mezzo agli umani si era dovuto ricredere, perché erano dotati di quel mix mortale che erano le tre C: creatività, crudeltà, costanza.

No, gli umani erano esattamente come tutto ciò che c’era di bello al mondo. Meravigliosi e pericolosi, interessanti e crudeli. C’era una linea sottile tra l’affascinante e il terrificante e gli umani oscillavano costantemente su di essa come un equilibrista su una fune.

Era anche per questo che aveva sempre avuto bisogno di Aziraphale. L’angelo era stato un porto sicuro e un faro nella nebbia, una voce costante che gli ricordava, nei momenti più bui, che gli umani potevano essere tanto crudeli quanto buoni e puntava il dito, quando Crowley pensava che fosse ormai impossibile, e gli indicava quelle persone che sembravano più santi degli angeli in paradiso. Non era solo questo, ovviamente, il suo amore per Aziraphale non poteva essere descritto, ma lo aveva sollevato così tante volte da terra che ormai sembrava impossibile immaginare di farlo da solo.

Non ce n’era bisogno. Ora che l’angelo non era più accanto a lui, non c’era motivo di alzarsi e guardare il mondo, poteva semplicemente lasciarsi andare. Quindi rimase chiuso in se stesso, seduto sul divano nel retro del negozio di libri, ignorando il rumore e tutto ciò che lo circondava, con il termos stretto in mano aspettando di addormentarsi e di sognarlo di nuovo.

 

 

 

 

Era stato Newt a chiamarlo. Potevano essere passati minuti, anche se in realtà erano passati anni, e gli aveva chiesto di raggiungerlo nel loro cottage perché Anathema era vecchia e malata e non poteva più affrontare il viaggio fino a Londra.

“Chiede sempre di te,” aveva detto, “e ci manchi immensamente.” E Crowley non aveva avuto il cuore di rifiutarsi. Quindi aveva guidato la sua amata Bentley fino a Tadfield, guardando dritto davanti a se e ignorando il sedile del passeggero vuoto. Anathema era invecchiata. Quella visione gli strinse il cuore, ricordandogli come gli umani avessero delle vite troppo brevi. Quei pochi che aveva amato sembravano sfiorire anche più velocemente perché avrebbe voluto stringerli a se e mantenerli nel fiore degli anni per sempre. Ma la natura umana era crudele, un fato che avevano incontrato per colpa sua, si ripeteva, cosa che faceva spesso quando dimenticava solo per un momento che quello che aveva fatto non era stato altro che proporre due scelte e che i primi umani avevano preso, nel bene e nel male.

“Crowley.” La voce di Anathema era roca per l’età e molto più bassa e sottile di quel che ricordava. Era seduta su una sedia con una coperta sulle gambe, l’immagine era bizzarra per una ragazza che un tempo era stata forte e piena di energie.

“Posso offrirti del te? Ti offrirei del caffè ma non sarebbe di tuo gradimento,” disse con un sorriso, come se sapesse del suo dispetto.

“Ah, mh, certo.”

Newt gli aveva passato una tazza di te fumante e Crowley aveva constatato come il ragazzo si muovesse bene nonostante dovesse camminare appoggiandosi al suo bastone. Si era seduto e avevano parlato tutto il pomeriggio, finché non si era fatta sera. Non c’era stato imbarazzo ma solo la familiarità di stare insieme a delle persone che, nonostante l’assurdità dell’affermazione, forse lo conoscevano meglio di sè stesso.

I due umani gli avevano raccontato della loro vita insieme, dei figli che erano nati e cresciuti e che erano andati per la loro strada, Crowley aveva raccontato qualche aneddoto dei suoi incontri con gli umani più illustri, finché non si era ritrovato a raccontare di nuovo del muro, il giardino e dell’angelo che aveva regalato la sua spada agli uomini.

“Mi dispiace…” aveva sussurrato Anathema quando il demone si era fatto improvvisamente silenzioso, “non avrei mai immaginato che sarebbe andata così.”

“Basta con queste scuse,” aveva risposto lui, “mi hai ripetuto più e più volte quanto ti dispiace e io ti ho già perdonata molto tempo fa.”

“Allora perché non sei più tornato da noi?”

“Per me il tempo si muove diversamente. Per te quel giorno del picnic è successo quarant’anni fa, per me è come se fosse stato ieri.”

“È per questo che non hai ancora usato l’acqua, perché devi ancora elaborare?”

“Si e no… non ho ancora avuto il coraggio di usarla perché so, infondo al cuore, che Aziraphale non avrebbe voluto,” disse realizzando solo ora quanto fossero vere quelle parole. Neanche da morto riusciva a sopportare l’idea di deludere il suo angelo. “Ma qual’è il punto? Non è che sia veramente qui. Ogni giorno è un incubo senza di lui.”

“Mi dispiace,” disse Anathema stringendogli la mano, “non posso immaginare cosa provi e forse è per questo che posso chiederti qualcosa di davvero egoista.”

 

 

 

 

Quello che Anathema gli aveva chiesto, nell’ultimo giorno della sua vita, era qualcosa di egoista, è vero, ma Crowley non era riuscito a rifiutarsi. “Prenditi cura di Newt,” aveva detto lei, “sai che può essere un po’ imbranato quando è distratto.” E poi si era messa a ridere delicatamente, senza nascondere uno sguardo che era rimasto quello di una giovane innamorata nonostante l’età.

E Crowley aveva detto si, va bene, cosa potevano essere altri dieci o quindici anni per lui?

Il funerale di Anathema era stato struggente e tutti avevano pianto, i figli erano tornati da lontano e avevano proposto al padre di prendersi cura di lui ma Newt si era rifiutato, perché non voleva essere un peso per loro. I demone aveva osservato la scena da lontano anche se la cerimonia si era svolta in un prato e lontano da chiese o campisanti. La ragazza non era mai stata religiosa e non amava quei generi di luoghi. Semplicemente non era riuscito ad avvicinarsi, era rimasto appoggiato ad un albero osservando da lontano quello che stava succedendo. Non riusciva a ricordare se avessero fatto un funerale a Aziraphale o se il corpo era semplicemente sparito, come se non fosse mai esistito.

E cosa avrebbe detto in quel caso?

Avrebbe raccontato tutta la loro storia, o avrebbe iniziato a dire quanto gli sarebbe mancato?

Probabilmente nessuna delle due cose, immaginò guardando Newt che si chinava per lasciare cadere un ultimo fiore sulla tomba della sua sposa, non c’erano parole o abbastanza tempo per elaborare tutto quello che avrebbe potuto dire.

 

Crowley si era stabilito nel cottage il giorno stesso, dopo che tutti erano andati via, e senza dire una parola aveva preparato del te per il ragazzo — anche se era invecchiato per lui sarebbe sempre rimasto poco più che un bambino, così come Anathema — e poi gli aveva cucinato la cena e si era assicurato che fosse andato a dormire e che la casa fosse in ordine.

Crowley, ne era molto fiero, era un demone di parola.

 

Ogni giorno passava simile all’altro, in una nuova quotidianità che era malinconica ma anche tranquilla e quasi piacevole. I tempi erano scanditi dai pasti e la sera si fermavano a osservare il cielo e chiacchieravano del più e del meno mentre Crowley guardava sfiorire sempre di più Newt, senza riuscire a capire come potesse sembrare ogni momento un po’ più sereno, come se fosse in pace con sè stesso.

Sognava Aziraphale ogni notte, e tutte le volte lo supplicava di lasciarlo rimanere con lui un po’ più a lungo, solo un po’ di più, ma l’angelo sembrava imperturbabile. Gli chiedeva di svegliarsi e Crowley lo faceva, ma non c’era stata una sola volta in cui si era sentito più riposato dopo il suo sonno.

 

“Inizio a capire,” disse Newt un giorno mentre sorseggiavano del te in veranda, “il perché hai voluto l’acqua santa nel momento in cui hai ricordato che Aziraphale non era più accanto a te.”

Crowley non disse niente, finse di bere altro te, e lasciò parlare l’uomo.

“Se non ci fossi stato tu, Crowley, non credo sarei durato una settimana. In tutti questi anni non ti ho mai ringraziato, so che deve essere stata dura.”

“Newt, tu sei mio amico, non ti avrei mai potuto lasciare solo.”

“Non credo che dovrai aspettare ancora molto” disse con un sorriso triste l’uomo guardano in lontananza nel prato.

C’era una figura che si avvicinava lentamente. Era vestita di nero e li osservava e Crowley non riuscì a soffocare i brividi a quella vista. Troppo presto. Era sempre troppo presto.

“Mi dispiace, non posso fare nulla contro di lui.”

Morte si avvicinava, e Crowley non poteva fare a meno di fissarla, sapeva di non avere poteri contro di lui, poteva curare in minima parte ma la morte non poteva mai essere evitata, non per gli umani.

“Questo è vero, purtroppo,” disse l’immagine di Aziraphale accanto a lui, “è nella natura umana nascere e morire, e noi non possiamo fare niente per interrompere questo cerchio. È triste, ma è un male necessario.”

“Dovrebbe essere così per gli umani, non per te,” puntualizzò Crowley con un sospiro, “ma tu sei morto, così come Anathema, e cosa rimarrà adesso a me? Nulla, solo le vostre ceneri.” Il tono di Crowley era amaro e Newt e Aziraphale —che non era veramente lì, il demone stava chiaramente impazzando, ne era certo — lo guardavano tristemente.

“Va tutto bene, Crowley. Adesso potrò raggiungere Anathema e forse ci rivedremo presto.”

“No, non funziona così. Gli umani hanno vite mortali e anime immortali. Per gli angeli e demoni non c’è niente dopo la morte. Né inferno né paradiso, solo oscurità.”

“Che mi dici dei sogni?” Domandò Newt dopo averci pensato un attimo.

“Cosa vuoi dire?”

“Cosa succede quando un demone muore in un sogno?”

“Cosa… uhm, ah, non lo so?”

Newt lo guardava con un sorriso strano, come se conoscesse un segreto di cui Crowley era all’oscuro. Il demone guardò per un momento l’acqua santa che stringeva tra le mani, e… quando l’aveva presa? Non ricordava.

“È solo che,” continuò Newt ignorando l’espressione confusa del demone, “gli manchi così tanto. Ci manchi, Crowley… e lo so che per te questo non vuol dire niente, ma ci manchi, davvero.”

“Io…” Il demone non sapeva cosa dire, il richiamo dell’acqua santa era così invitante, come un marinaio che finalmente vede casa all’orizzonte. Non sapeva cosa sarebbe successo, e non poteva negare di esserne spaventato — anche se il termine più adatto sarebbe Terrorizzato Oltre Ogni Umana Concezione — ma era così stanco di lottare, stanco dei sogni irraggiungibili, stanco di quel mondo grigio e triste. Era solo stanco.

“Io non so se puoi sentirmi, Crowley.” Disse Aziraphale accanto a lui, appoggiando una mano sulla sua e la sensazione era reale, calda, tangibile. “Non so se riesci a capire quello che sto dicendo o se mi hai già dimenticato…”

“Non potrei mai!” Esclamò Crowley stringendogli la mano, “non potrei mai, angelo.”

“… e non lo so cosa stai sognando ma ti prego, ti prego svegliati.”

“Io non sto sognando, angelo. Questo è reale e tu sei… tu sei un qualche tipo di allucinazione. Sono impazzito, non lo so… io non capisco…”

Le mani di Crowley si strinsero intorno al termos in un gesto nervoso, non aveva senso quello che stava dicendo Aziraphale, come poteva svegliarsi se non stava dormendo?

“Svegliati, ti prego, svegliati,” lo supplicava Aziraphale, e Crowley si stupì nel vederlo piangere.

“Come? Non capisco come posso…”

“Apri gli occhi, anche solo per un istante, ti supplico.”

Crowley sospirò, la situazione era così confusa e entrambi lo guardavano come se si aspettassero qualcosa da lui, ma lui non capiva. Accanto a Newt, c'era Anathema. Entrambi gli umani erano di nuovo giovani ma questo… questo era impossibile. Tutti e tre non facevano che ripetere ossessivamente le stesse parole, come se fosse diventata una cantilena insopportabile. “Svegliati, svegliati, svegliati...”

Crowley nascose il viso tra le mani, era vagamente cosciente del tremore incontrollabile del suo corpo, la testa gli esplodeva e tutto sembrava fare male.

“Svegliati.” Ripetè per l’ennesima volta Aziraphale.

Crowley chiuse gli occhi, il buio sembrava aiutarlo. Le voci erano diventate un mormorio indistinto, lontane e vicine allo stesso tempo. Voleva che finisse ma non sapeva più dove fosse finita l’acqua santa. Strinse gli occhi finché l’oscurità e il silenzio non diventarono assoluti.

Poi riaprì gli occhi e si svegliò.

 

 

 

 

C’era il sole, quel mattino. La luce filtrava dalla finestra e c’era una voce — calma, tranquilla, dolce, delicata — che lo cullava. Non si era mai sentito così in pace.

Aprì gli occhi piano, sbattendo le palpebre diverse volte perché non era più abituato a tutta quella luce. Era nella sua stanza e questo era strano perché prima era in una veranda, ne era certo. La sua stanza era strana e ricordò che quella era la sua stanza, certo, ma per molto tempo era stata la stanza da letto sopra il negozio di libri, che era diventata sua quando aveva iniziato a vivere con Aziraphale.

C’era qualcosa di diverso.

Le coperte erano più calde del solito e non ricordava l’ultima volta che si era svegliato e aveva trovato la luce ad accoglierlo.

“Oh!” Esclamò la voce accanto a lui, fermando quel fiume di parole rassicuranti. “Ti sei svegliato, finalmente.”

Il demone sbatté le palpebre un altro paio di volte, mentre la vista si abituava alla luce e si schiariva, mettondo a fuoco il corpo rotondo e soffice che era sdraiato accanto a lui. Aziraphale sfiorava la sua guancia con la mano morbida, lo guardava con occhi azzurri — o blu, verdi, grigi, era impossibile da capire — che brillavano come stelle. I capelli biondi erano un’aureola di boccoli dorati, e Crowley sapeva —sapeva — di non aver mai visto un viso più bello.

“Angelo?”

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

A MIA DISCOLPA, AZIRAPHALE GLIELO AVEVA DETTO A CROWLEY DI SVEGLIARSI!

Chiedo scusa per il consueto ritardo, ma dovevo scriverlo bene questo capitolo e ho perso un po’ di tempo per non rischiare di creare delle discrepanze con i capitoli precedenti (anche se i miei appunti con tutti i collegamenti che avevo fatto hanno raggiunto dei volumi indecenti)

Nel mio cuore, questo è l’ultimo capitolo. Ma in realtà sento che dovrò scriverne un altro per chiarire un po’ le idee a tutti e anche perché disapprovo gli angst senza un po’ di meritato conforto emotivo ahah

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