Bound to you

di LazySoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Cena con ospiti ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Incontri notturni ***
Capitolo 3: *** Capitolo III: There's a new wolf in town ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV: L di Looser ***
Capitolo 5: *** Capitolo V: Proprio un caro ragazzo ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI: Nudi ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII: Seduzione a tavola ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII: Oggetti volanti ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX: Giri in moto e magliette scomparse ***
Capitolo 10: *** Capitolo X: Gossip pre-festa ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI: Festa in casa Ling ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII: Salvataggio ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII: Meritata punizione ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV: Edith, artista emergente ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV: Visite inaspettate ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI: L'origine della specie ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII: Tutta la mia vita in una borsa ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII: Parli nel sonno, lo sai? ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX: Lezione di combattimento ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX: Ladra di vestiti ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI: Regalo di benvenuto dall'Alpha ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII: Via lontano, lontano ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII: Il braccialetto dell'amicizia e la cugina dalla Francia ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV: Codardo ***
Capitolo 25: *** Epilogo: Dopo ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: Cena con ospiti ***


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***

N.A. Spero che la storia sia di vostro gradimento e se avete tempo mi piacerebbe sapere la vostra opinione al riguardo.
La storia si può trovare anche su Wattpad.
Buona lettura!

***


Capitolo I: Cena con ospiti


 

Presi dalla credenza sei piatti e li disposi sul tavolo della sala da pranzo, poi fu il turno dei bicchieri, dei tovaglioli e infine delle posate. Feci attenzione a non inciampare su Edith che, coricata per terra, stava disegnando fiori su un quaderno e andai a chiedere a mamma quando sarebbero tornati Kyle e papà.

Mamma stava leggendo, come ogni volta che papà non era in casa, il libro di poesie che le aveva regalato per il loro primo anniversario di matrimonio. Era seduta sul divano, le gambe piegate sotto di sé con le caviglie nude accavallate, aveva i capelli raccolti in un semplice codino e i lunghi capelli neri erano ancora umidi dopo la breve doccia che aveva fatto dopo la sua oretta di 'jogging' nel bosco. Quando mi fermai a due passi dal divano e iniziai a schiarirmi brevemente la voce, lei alzò lo sguardo dal libro, così da puntare i suoi occhi scuri nei miei: «Dimmi, tesoro», mormorò, mentre chiudeva momentaneamente il libro, tenendo il segno con l'indice della mano destra, mentre con la sinistra mi indicava il posto libero accanto a sé.

Feci un profondo respiro e mi lasciai cadere pesantemente sul divano poi, dopo pochi secondi, lasciai che la mia testa scivolasse fino ad appoggiarsi sulla spalla spigolosa di mamma.

«Perché Kyle può andare a caccia con papà?», alzai una mano, bloccando ciò che mia mamma stava per dire: «Lo so che non sono ancora maggiorenne, quindi è pericoloso per me, ma mancano due mesi! Sono grande abbastanza e so badare a me stessa. Lo sai anche tu che Kyle non è mai riuscito a battermi in una lotta corpo a corpo, quindi non vedo perché...»

La porta sul retro che dava su una piccola veranda e l'orto della nonna si aprì rumorosamente, facendomi perdere il filo del discorso, mentre mamma si alzava in piedi ed andava ad aiutare mio fratello, che sembrava stesse trasportando da solo un bufalo intero dalla strana espressione che aveva in viso.

«Aiuto», ansimò, mentre muoveva brevi passi verso la porta che dava sulla dispensa e lanciava occhiate imploranti a me e mamma. Io rimasi sul divano ad osservare la scena buffissima che mi si presentava davanti, dato che se ero troppo piccola per andare a caccia, di conseguenza non mi reputavo nemmeno abbastanza grande per poter aiutare Kyle con il cervo che portava sulle spalle.

Comparve al fianco di mamma anche Edith che con gli occhi che le brillavano per l'emozione, applaudiva la forza di mio fratello e saltellava eccitata chiedendo a mamma quando avrebbe preparato il pasticcio di carne che tanto amava, o il polpettone, o anche solo semplicemente carne alla griglia.

Mamma cercava di aiutare mio fratello e contenere l'eccitazione di mia sorella come poteva, e quindi senza ottimi risultati su entrambi i fronti.

Alla fine decisi di prendere Edith in braccio e portarla nuovamente al suo disegno incompiuto a terra, chiedendole se avesse bisogno di una mano e ricevendo un'occhiata piena di gratitudine da mamma e Kyle.

Stavo per prendere il pennarello blu ed aiutarla a colorare il cielo, quando dalla porta entrò papà, seguito a ruota dal signor Picard e i suoi due figli, Michel e Francine. Edith, appena sentì l'odore di muschio e dopobarba di papà diffondersi nell'ambiente perse di nuovo interesse per il disegno e corse verso di lui per abbracciarlo.

Io invece mi limitai a salutare con una stretta di mano il signor Picard e con un annoiato: «Ciao, come va?» Francine e Michel, lui compagno di corso di mio fratello all'Università, quindi di un anno più grandi di me, lei invece sfortunatamente aveva la mia età ed ero costretta a sopportarla durante alcune delle lezioni che frequentavamo insieme a scuola.

«Tutto bene, tu?», chiese Michel, abbagliandomi con uno dei suoi sorrisi mozzafiato, mentre mi passava un braccio sulle spalle. Avevo avuto una lieve cotta per lui fino ai quattordici anni, poi avevo avuto il 'discorso' con mamma, durante il quale mi aveva spiegato tutto ciò che una ragazza lupo come me avrebbe dovuto sapere sulla propria natura, compreso cosa significava legarsi ad un maschio per la vita e la necessità di scegliere bene, perché da quella decisione non si poteva tornare indietro. Da quel giorno avevo cominciato a tenere le distanze da Michel, tipico playboy da strapazzo interessato a me solo perché mio padre era l'Alpha del branco, iniziando a dedicarmi nel tempo libero a seguire mia nonna ovunque andasse, per imparare da lei tutte le leggende e tradizioni del nostro popolo.

«Bene», risposi distrattamente, mentre cercavo con lo sguardo mamma che, appena tornata dalla dispensa stava dando un bacio sulla guancia a papà, appena riuscii ad attirare la sua attenzione le chiesi: «Dov'è la nonna?»

Kyle sbuffò: «Si sarà persa nel bosco come suo solito, conoscendola avrà come minimo perso la cognizione del tempo», si lamentò, mentre batteva il cinque con Michel e iniziava a vantarsi con lui del cervo appena abbattuto.

«Vado a cercarla», dissi, prendendo il mio cappotto appeso accanto alla porta, per poi uscire dalla porta sul retro. Nessuno mi fermò e iniziai a camminare verso il piccolo sentiero che, dopo pochi metri, portava direttamente negli ettari ed ettari di bosco che presto, a sentire mamma, sarebbero diventati zona protetta.

Avessi avuto abbastanza dimestichezza con la mia forma da lupo mi sarei trasformata per andare a cercarla, ma ancora mi era difficile mutare forma a comando, tranne quando mio fratello mi faceva arrabbiare, sfidandomi a batterlo; in tal caso ci mettevo meno di cinque secondi, un record personale. Forse apprezzavo tanto la compagnia di nonna perché anche lei, a causa della vecchiaia, faticava a trasformarsi in lupa, preferendo passare il suo tempo a passeggio nei boschi a raccogliere piante ed erbe medicinali che ancora non mi aveva insegnato a riconoscere, ribadendo più volte che avevamo tutto il tempo del mondo davanti a noi.

Quando il sentiero deviò a destra, invece di continuare in direzione del bosco, tagliai per il prato, affondando gli scarponi che avevo ai piedi nel fango e facendo attenzione ai cespugli di rovi, per evitare che qualche spina fastidiosa mi si conficcasse nella pelle.

Il giorno precedente aveva piovuto tutto il giorno, costringendo l'intera città a passare il sabato chiusa in casa. Nonna non aveva apprezzato molto la cosa ed era stata di cattivo umore per tutto il giorno, mentre Edith non aveva fatto altro che correre per casa, inseguendo Kyle o papà a turno, o chiedendo alla mamma di disegnare con lei. Io invece ne avevo approfittato per fare tutti i compiti scritti che mi erano stati assegnati per la settimana successiva, e avevo iniziato a leggere gli appunti per la verifica di letteratura inglese su Virginia Woolf e James Joyce, anche se con poca attenzione.

In realtà avrei dovuto leggere entro la fine delle vacanze di Natale, quindi un mese fa, un libro a scelta tra 'Gita al faro', 'La Signora Dalloway', 'Ulisse' o 'Gente di Dublino', ma avevo finito coll'entrare nella piccola biblioteca cittadina poco prima di Natale senza prendere nessuno dei quattro libri in prestito. Non che non mi piacesse leggere, semplicemente quelle trame non mi avevano incuriosito minimamente, così alla fine avevo deciso di cercarmi online la trama e l'analisi del romanzo più corto, quindi 'La Signora Dalloway' (con le sue 192 pagine). La fortuna volle che la mia migliore amica, Isabel, avesse letto durante le vacanze di Natale proprio 'La Signora Dalloway' e quindi si era gentilmente offerta di farmi copiare, nel caso ne avessi avuto bisogno, ma speravo vivamente di non dover usufruire della sua gentilezza dato che non era gradevole essere in debito con lei, soprattutto prima della festa di Primavera.

Venni bruscamente riportata alla realtà quando percepii un odore sconosciuto a meno di due chilometri da casa mia. Fino a pochi secondi prima c'era solo l'odore della nonna, la quale sentivo addirittura borbottare poco più avanti, poi il vento aveva portato quell'odore forte, maschile e vagamente gradevole che mi aveva fatto bloccare nel bel mezzo di una piccola radura.

Continuavo ad annusare l'aria che proveniva da est, da dove mi era giunto l'odore, ma sembrava essere scomparso letteralmente nel nulla. Mi voltai allora verso sud, poi ovest e infine nord, ma non riuscivo a percepire altro se non l'odore di nonna e quello di papà, Kyle, il signor Picard, Francine e Michel che erano passati da lì poco più di dieci minuti prima.

Cominciai a temere di essermi immaginata tutto, anche se continuavo ad avere una strana sensazione, così non persi ulteriormente tempo e decisi di raggiungere il prima possibile la nonna, che sembrava avercela con uno stupido fungo o qualcosa di simile.

Gli ultimi metri che mi separavano da lei li feci quasi di corsa, mentre continuavo a tenere ogni senso in allerta.

Quando vidi la nonna, accovacciata a terra che raccoglieva dei funghi e li metteva poi nel suo cestino di vimini, non potei fare a meno di pensare a 'Cappuccetto Rosso' e a sorridere dell'ironia della situazione.

«Nonna?», chiamai, mentre incrociavo le braccia al petto, per proteggermi da improvvisi brividi di freddo, e mi avvicinavo a lei: «Sembra che tu stia raccogliendo delle spugne», dissi, col sorriso sulle labbra, quasi del tutto dimentica dell'odore sconosciuto che avevo sentito poco prima, intenta com'ero a sbirciare sopra la spalla della nonna per aver una migliore visuale del fungo che aveva appena raccolto.

«Si chiama 'Spugnola', trovo che sia uno dei funghi più affascinanti che la natura ha da offrirci, tu che ne pensi, Diana?», disse, porgendomelo, così da permettermi di vederlo meglio.

«Sembra un alveare», mormorai, sfiorandolo affascinata: «Ha un buon odore».

Nonna annuì e sorrise, mettendo ancora più in evidenza la ragnatela delle sue numerose rughe: «Spero che tu sia venuta a cercarmi perché è ora di cena, Diana; ho proprio una fame da lupi».

Ridemmo insieme della sua battuta poi le presi il cestino di mano, per aiutarla, anche se lei non sembrava contenta, e ci incamminammo insieme verso casa.

Per quanto cercassi di mostrarmi rilassata e spensierata, rimasi coi sensi all'erta per tutto il tragitto di ritorno, pronta a fiutare o a udire qualsiasi cosa sospetta, ma non incappammo in nulla di vagamente pericoloso o equivoco. Il bosco era calmo, quel tipo di calma che non preannuncia nulla di male; gli uccellini cinguettavano, il cuculo cantava il suo monotono cu cu, il vento trasportava odore di resina, pini e umidità, e in lontananza un cane abbaiava.

Quando uscimmo dal bosco tirai un involontario sospiro di sollievo. Non amavo essere colta alla sprovvista, odiavo le sorprese e sentirmi debole; tutte cose che avevo provato sentendo quell'odore sconosciuto nel bosco. Ma se c'era una cosa che odiavo ancora di più era non essere creduta.

Ecco perché quando entrammo in casa e mamma ci invitò a lavarci le mani e a sederci per mangiare, non dissi nulla, certa che avrebbero finito per non credermi.

Ero io la prima a non essere sicura di ciò che avevo percepito, quindi prima di parlarne con i miei genitori volevo assicurarmi che quell'odore esistesse davvero e non fosse stato solo il frutto della mia immaginazione.

Solo quando uscii dal bagno, dopo essermi lavata le mani, mi resi conto che il signor Picard, Francine e Michel non erano andati via ma, anzi, mamma aveva messo la prolunga al tavolo e aveva aggiunto tre piatti per loro.

Feci di tutto pur di non stare vicino a Michel e Francine; avrei preferito sorbirmi due ore di discorsi noiosi da adulti piuttosto di dover stare a meno di un metro da loro, ma il destino - quel crudele burlone - mi fece finire proprio tra loro due.

Il brutto di tutta quella faccenda era che io e Francine non ci potevamo proprio vedere. Il nostro odio reciproco derivava da stupide scaramucce risalenti al periodo dell'asilo, che poi erano diventati veri e propri dispetti, poi disprezzo reciproco, farcito da una buona dose di insulti non molto velati alle medie e infine lotte all'ultimo sangue - interrotte sempre per (s)fortuna da Kyle o Michel - ogni volta che ci trovavamo entrambe sotto forma di lupo. Lei era convinta - erroneamente - che io fossi interessata a suo fratello e per questo mi odiava, io ero convinta - giustamente - che lei fosse interessata a mio fratello e per questo la odiavo.

Non mi sorpresi quindi se 'accidentalmente' mi finì addosso un bicchiere colmo di coca cola che le era scivolato 'per sbaglio' di mano, così come lei non si stupì quando sbagliai la mira - mentre le riempivo il piatto di pasta al sugo - facendole finire metà degli spaghetti sulle gambe.

Mamma, papà e il signor Picard non sembravano accorgersi di nulla, troppo intenti a discutere del bene del branco, mentre nonna continuava ridere sotto i baffi ogni volta che ci facevamo i dispetti e Kyle e Michel ci guardavano come se fossimo state coetanee di Edith.

Per fortuna mio fratello salvò, o almeno ci provò, la situazione prima che questa diventasse insostenibile e decise di far sedere nostra sorella tra Francine e me. All'inizio ero entusiasta dell'idea, convinta che in quel modo la serata sarebbe migliorata, ma mi sbagliavo; da quel momento in poi Michel iniziò a prendersi libertà che io non sarei mai e poi mai stata disposta a concedergli.

All'inizio Michel si limitava a passarmi le pietanze o a riempirmi il bicchiere con fare molto servizievole, cosa che in fin dei conti apprezzavo, ma dopo i primi cinque minuti di pacifica convivenza cominciai a sentire una mano di troppo sulla mia coscia e dato che le mie le stavo usando per tenere forchetta e coltello e quelle di mie sorella erano ben visibili sul tavolo, l'unico che avrebbe potuto osare tanto poteva essere solo il playboy alla mia destra. All'inizio mi limitai a lanciargli un'occhiata di fuoco che avrebbe fatto desistere anche un grizzly, poi, una volta appurato che era più stupido di quanto pensassi decisi di contrattaccare e 'accidentalmente' mi ritrovai con la forchetta impiantata sul dorso della sua mano - quella che continuava ad importunare la mia gamba.

Michel, con una forza di volontà che non pensavo possedesse non urlò o cambiò minimamente espressione - anche se le lacrime agli occhi erano ben visibili - e si limitò semplicemente a togliere la mano e a lasciarmi in pace per il resto della serata.

Kyle decise di tirare fuori l'unico argomento possibile durante una cena in cui erano presenti dei genitori: la scuola e i professori. Non esiste tema di conversazione più deprimente, soprattuto se viene discusso la domenica sera, quando a separarti dall'agonia delle lezioni ci sono solo poche ore di sonno.

Michel iniziò a lamentarsi della sua professoressa di chimica, Francine si limitava a dargli ragione e Kyle guardava me con disapprovazione perché non stavo contribuendo in nessun modo a tener viva la conversazione. Così, sentendomi un po' in colpa, assecondai mio fratello e iniziai a parlare della verifica su Woolf e Joyce e di quanto a mio parere fosse inutile, eccetera, eccetera; insomma le solite cose che si dicono davanti ad altri studenti per non passare per il secchione di turno.

«Noi invece abbiamo iniziato le poesie di Frost l'altro giorno», disse Kyle, mentre io aiutavo Edith a tagliare la bistecca che aveva nel piatto.

L'idea che fossimo solo al secondo e che ci mancassero ancora un paio di portate prima di poter salutare la famiglia Picard, augurando loro la buona notte, mi faceva solo deprimere ancora di più, soprattutto se alla mia destra Michel continuava a lanciarmi occhiate da pesce lesso.

Uno dei maggiori motivi per cui avevo deciso di non lasciarmi abbindolare dai suoi modi gentili da lupetto innamorato, oltre al fatto ovviamente che era troppo libertino per i miei gusti, era Isabel; la mia migliore amica era innamorata di Michel da quando avevamo quattro anni e giocavamo a rincorrerci nel parco mentre le nostre madri instauravano un grande rapporto di amicizia.

Abbassai lo sguardo al ricordo della signora Picard che ci aveva lasciato già da cinque anni, sentendo una forte stretta all'altezza dello stomaco al ricordo dei suoi modi gentile e la sua erre moscia che faceva sempre ridere sotto i baffi Kyle e me. Quando guardavo Michel o Francine non potevo fare a meno di scorgere, a volte, un'espressione di smarrimento nei loro sguardi, come se ancora non avessero superato la perdita. Era in casi come quello che il mio odio nei confronti di Francine veniva sostituito da un forte sentimento di pietà, cosa che Francine detestava.

«Diana?», mi chiamò mio fratello, muovendomi la mano sotto gli occhi per farmi tornare alla realtà. Abbozzai un sorriso e scossi appena la testa: «Scusate», dissi, rincominciando a mangiare: «Mi ero incantata».

«Sicura di stare bene?», mi chiese Michel, appoggiando una mano sulla mia spalla, accarezzando la mia pelle esposta con malizia. Il contatto con la sua pelle calda sarebbe anche stato piacevole se non fosse stato per il modo lascivo con cui mi fissava. Lui non era realmente interessato a me come compagna per l'eternità, mi vedeva solo come una possibile avventura per una notte.

Mi voltai verso di lui e ringhiai appena, mettendo in mostra i canini per fargli capire che non stavo apprezzando il suo tocco.

La stanza cadde all'improvviso in un silenzio pieno di tensione, mentre Michel scopriva a sua volta i denti e stringeva la presa sulla mia spalla con un gesto possessivo che non apprezzai. Mi alzai di scatto, liberandomi dal suo tocco: «Non osare mai più toccarmi», ringhiai, furiosa, prima di lasciare la stanza e dirigermi con passo sostenuto verso la mia camera da letto.

L'ultima occhiata che rivolsi alla tavolata mi rivelò il sorriso compiaciuto di Francine e quello orgoglioso di nonna, mentre tutti gli altri mi fissavano come se mi fosse spuntato all'improvviso un terzo occhio.

Non era un segreto di stato che i miei genitori e il signor Picard avrebbero visto di buon occhio un'unione tra me e Michel e, malgrado i miei continui tentativi di fare capire a tutti che tra me e lui non ci sarebbe mai stato nulla, loro sembravano non sentire.

Sbattei la porta della mia camera da letto e mi lasciai cadere sul letto, portandomi un braccio a coprirmi il volto, per proteggermi dalla luce accesa della stanza. In momenti come quelli avrei voluto avere un alleato che non fosse la nonna, che, malgrado fosse l'elemento più anziano del branco, veniva raramente presa in considerazione a causa della sua continua e sempre più grave perdita della memoria.

Era vero che noi uomini-lupo vivevamo più a lungo rispetto agli umani, per esempio nonna Diana aveva centoquaranta anni, ma ne dimostrava ottanta, mamma ne aveva da poco compiuti settantatré e sembrava avere meno di quarant'anni. Io ne avevo diciassette, ma ne dimostravo quindici, quando ero fortunata; il primo giorno di liceo, per esempio, la professoressa di matematica pensava che fossi una bambina delle elementari che aveva sbagliato edificio. L'unica cosa che mi rassicurava era che entro due mesi sarei stata maggiorenne e quindi in grado di cacciare la mia prima preda e dimostrare che, anche se dall'aspetto non sembravo forte o matura, ero in grado di cavarmela egregiamente da sola. Non avevo bisogno di nessun maschio che mi facesse la corte per poi fare di me una 'sforna-cuccioli'. Non che disprezzassi la vita di mamma o non volessi avere dei bambini in futuro, ma non ero disposta a lasciarmi sottomettere. E Michel voleva solo e soltanto mostrare di essere un vero maschio, in grado di conquistare qualsiasi femmina, ma con me non avrebbe funzionato, poteva starne certo.

Abbandonai il letto per sedermi alla scrivania e accendere il pc, nella speranza che anche Isabel fosse attaccata al computer e avesse voglia di chattare un po' con me su Skype.

Mentre il computer si accendeva non potei fare a meno di studiare il mio riflesso sbiadito attraverso lo schermo illuminato. La mia attenzione venne catturata, come ogni volta, dalle mie iridi eterocromatiche e dal leggero brillio dei due anellini che portavo all'orecchio sinistro. Studiai prima l'occhio color grigio chiaro, per poi passare a quello color nocciola, chiedendomi perché proprio io dovessi avere un difetto così vistoso e non la perfetta Francine, con la chioma bionda da modella e gli occhi verdi e brillanti come smeraldi.

Sbuffai, distogliendo lo sguardo dal computer per guardare il buio oltre la finestra chiusa della mia camera. Sapevo che dovevo alzarmi e andare a tirare giù le tapparelle, ma le mie gambe al momento erano pigramente comode e desiderose di restare dove si trovavano, così rimandai l'ingrato compito a dopo.

Inoltre ero ancora troppo furiosa per ciò che era successo e se mi fossi avvicinata alla finestra avrei finito con l'aprire le ante e buttarmi di sotto per poi correre e correre fino a quando non avessi perso la strada di casa o il fiato nei polmoni.

Michel non aveva mai fatto una cosa simile, non si era mai comportato come se fossi qualcosa di più di una ragazzina con cui flirtare nel tempo libero e non riuscivo proprio a concepire perché avesse reagito in quel modo assurdo.

Quando il computer si accese sulla homepage, distolsi lo sguardo dalla finestra e aspettai che si aprisse automaticamente Skype. Per essere sicura di avere la mia amica dall'altra parte dello schermo pronta a rispondermi e a rassicurarmi decisi di mandarle un messaggio col cellulare e chiederle se fosse collegata o meno. La sua risposta mi arrivò su Skype:

Isabel: «Ciao, tesoro, certo che sono collegata. Mi sto guardando l'ultima puntata di Shameless della quarta stagione, dato che mi avevi ordinato di mettermi in pari ;) Tu invece? Come mai già attaccata al computer? Di solito non ceni a quest'ora?»

Sorrisi involontariamente, mentre m'immaginavo la mia migliore amica avvolta in una pesante coperta e mezza coricata sul letto, magari con una ciotola di popcorn accanto a sé e una lattina di coca cola - che ancora miracolosamente non le era scivolata - stretta in una mano. Era domenica sera, quindi me la immaginavo struccata e con i capelli ancora umidi a causa della doccia appena fatta.

Diana: «La cena è stata un completo disastro, dovessi scriverti tutto quello che è successo in chat non finirei più. Ti racconto poi domani, avevo solo voglia di chiacchierare un po' e calmarmi...»

Isabel: «Chi ti ha fatta arrabbiare? Chi ha osato strappare il sorriso dal tuo bel faccino? :(»

Risi alle sue parole, scuotendo appena la testa mentre me la immaginavo avvicinarsi ancora di più allo schermo del computer, quasi fosse il modo migliore per estorcermi maggiori informazioni.

Diana: «Domani ti dico tutto. A te com'è andata la cena?»

Isabel: «Noiosa come al solito... Ho un'idea: vieni a trovarmi e raccontami tutto subito! Tanto non sarebbe la prima notte che sgattaioli fuori dalla finestra per venire a importunarmi! Questa volta sono addirittura consenziente ;)»

Ci pensai per giusto due secondi prima di chiudere di scatto il computer e mettermi gli scarponcini ai piedi. Per correttezza nei confronti dei miei genitori scrissi un biglietto che lasciai sopra la scrivania: «Sono da Isabel, torno per le undici. Buona notte».

Dato che faceva piuttosto freddo la notte optai per un cappellino, giacca di jeans con l'interno in sherpa e guanti a mezze dita.

Aprii la finestra e mi accucciai sul davanzale prima di spiccare un balzo e appendermi ad uno dei rami della quercia davanti casa, dal quale mi calai facilmente a terra.

L'agilità era una delle cose che amavo di più del mio essere una mezza lupa, certo, se mi fossi trasformata, sarei stata ancora più agile e scattante che in forma umana, ma anche così avevo numerosi vantaggi rispetto agli umani.

Prima di sfrecciare via lanciai una veloce occhiata alla luce accesa del salotto e, incuriosita, mi fermai a sentire cosa stessero dicendo in mia assenza e per accertarmi che non mi avessero udita mentre fuggivo da camera mia. Nonna stava ridendo con gusto, mentre mamma cercava in tutti i modi di farla stare zitta, per lasciar parlare il 'povero Michel'. Non potei fare a meno di sorridere, contenta che nonna fosse come sempre dalla mia parte. Dopo pochi secondi, per la gioia di mamma, il 'povero Michel' riuscì a prendere la parola: «Signor Wood, mi dispiace per ciò che è successo poco fa. Avrei voluto parlargliene prima, ma pensavo che sarebbe stato meglio avviare il discorso con Diana e poi aggiornarla sugli sviluppi... Non voglio girarci intorno, le dirò la verità: Diana mi piace e vorrei avere da lei il permesso di poterla corteggiare e, in futuro, la sua benedizione per fare di sua figlia la mia compagna per la vita».

A quelle parole persi un battito e la mia bocca si spalancò, pronta a diventare il rifugio dei numerosi moscerini che mi ronzavano intorno.

No, non poteva aver chiesto a mio padre di...

Senza pensarci due volte cominciai a correre verso il bosco, percorrendo il sentiero che due ore prima mi aveva portato a due passi dalla nonna. Avrei dovuto fare un'altra strada per arrivare più in fretta da Isabel, ma avevo bisogno di schiarirmi le idee e correre in quel momento mi sembrava la soluzione migliore.

C'era stato un tempo in cui sentire quelle parole uscire dalla bocca di Michel mi avrebbe fatta saltellare di gioia e ridere come una stupida. Ora invece tutto quello che riuscivo a sentire era una forte stretta di panico all'altezza dello stomaco e la voglia di fuggire da tutto e tutti. Non riuscivo a capire perché lui si fosse accorto di me proprio in quel momento e - domanda da un milione di dollari - perché io? Perché non poteva corteggiare Isabel? Lei ne sarebbe stata felicissima!

Quel pensiero mi fece fermare nel bel mezzo della foresta.

Non potevo andare da Isabel e dirle tutto, mi avrebbe odiata, forse non subito, ma nel giro di un paio di giorni, quando si sarebbe resa conto che il suo sogno di diventare Mrs. Picard era svanito nel nulla come una goccia d'acqua evaporata al sole, avrebbe iniziato ad odiarmi.

Appoggiai la schiena al tronco di un albero ricoperto da muschio ed edera, mentre cercavo di regolarizzare il respiro e il battito impazzito del mio cuore.

L'unica cosa che mi rassicurava era che non poteva fare di me la sua compagna per la vita fino a quando non avessi raggiunto la maggiore età, quindi avevo poco più di due mesi per inventarmi qualcosa, qualsiasi cosa ed evitare che...

Una fredda folata di vento proveniente da ovest mi colpi dritta in faccia, portando con sé l'odore sconosciuto che quel pomeriggio avevo sentito per la prima volta.

Non ci pensai più di tre secondi ed iniziai a inseguire quell'odore fino a quando non mi fermai di scatto davanti ad un abete che era impregnato dall'odore di urina. Qualcuno aveva marcato il territorio all'interno del perimetro controllato dal mio branco, qualcuno che non era mio padre, l'Alpha. Ringhiai appena, prima di annusare l'aria alla ricerca della pista da seguire. Tutto quello che riuscivo a sentire però era l'odore forte e maschile dell'urina fresca che si trovava ai miei piedi.

Una cosa era certa: chiunque avesse lasciato quel ricordino cercava la morte.

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Capitolo 2
*** Capitolo II: Incontri notturni ***


Capitolo II: Incontri notturni

 

Ticchettai con le dita contro la portafinestra della stanza di Isabel un paio di volte, mentre mi sedevo sulla sdraio che occupava il suo piccolo balcone e aspettavo che mi aprisse.

Mi ero detta che avrei dovuto tenere tutte le vicende della serata dentro di me e non dire nulla alla mia migliore amica per non farla soffrire, ma alla fine mi ero resa conto che avrebbe sofferto ancora di più se non le avessi detto niente e fosse venuta a conoscenza dell'accaduto da altri.

Così, dopo una lunga corsa in mezzo al bosco, mi ero ritrovata sotto casa sua e mi ero resa conto che avevo proprio bisogno di sfogarmi con lei.

La tenda bianca fatta all'uncinetto della porta finestra si spostò appena, mettendo in mostra lo zigomo e l'occhio sinistro di Isabel, prima che mi aprisse la porta con il suo migliore sorriso stampato sulle labbra.

«Ciao, predatrice, mentre ti aspettavo ho fatto ordine in camera mia, infatti, come puoi notare non ci sono vestiti sparsi in giro o pacchetti di patatine nascosti sotto i cuscini», disse, accogliendomi dentro con un veloce abbraccio stritolatore.

Affondai per un breve istante il volto nell'incavo del suo collo ed espirai a fondo il suo odore di tè verde e limone, sentendomi a casa.

Isabel mi allontanò con una smorfia: «Hai il muso ghiacciato! E poi cos'è 'sto strano odore che hai addosso?», chiese, annusando nella mia direzione con aria disgustata.

«Lunga storia», dissi, togliendomi il cappello e la giacca, prima di sedermi sul pouf ai piedi del suo letto e di passarmi una mano tra i capelli, cercando di sistemare le ciocche che avevo davanti agli occhi dietro alle orecchie, ma fallendo miseramente, dato che erano ancora troppo corte.

«Te l'ho mai detto che sento la mancanza dei tuoi capelli lunghi?», chiese Sab, chiudendo la portafinestra e lanciando uno sguardo pieno di rimpianti ai miei capelli corti.

«Ogni santo giorno», dissi, alzando gli occhi al cielo.

«Eri così carina coi tuoi capelli lisci e perfetti anche con l'umidità, che nemmeno Francine riusciva ad eguagliare stando due ore a piastrarsi...», mormorò con occhi sognanti, prima di puntarmi contro il cellulare a mo' di arma: «Ma stiamo divagando, tu sei venuta qua per un motivo ben preciso: raccontarmi cosa o chi ti ha fatto arrabbiare», mi ricordò, prendendo la sedia a rotelle dalla sua scrivania, posizionandola davanti a me. Accese la torcia del cellulare e me la puntò contro: «Che la confessione abbia inizio».

Risi, nervosa e insicura su cosa dovessi confidarle prima, poi, dopo un profondo respiro, decisi di iniziare semplicemente dall'inizio.

«Mio fratello ha catturato un cervo oggi», dissi per avviare il discorso e lei alzò una mano, bloccandomi: «Hai di nuovo litigato coi tuoi a proposito del tuo desiderio di andare a caccia?»

«No», dissi, guardandola male per la sua interruzione e per la luce che continuava a puntarmi addosso: «Posso andare avanti?»

«Certo, spara».

Rimanemmo per qualche secondo in silenzio, lei che mi guardava con aspettativa e io che cercavo di farle capire che doveva spegnere la torcia del suo maledetto cellulare nuovo, altrimenti sarebbe andata incontro a morte certa. Lei inizialmente sembrò non capire, ma quando collegò il mio sguardo furioso alla luce bianca puntata nei miei poveri occhi, si riscosse e con un sommesso: «Scusa» spense la torcia e posò il cellulare sulla scrivania.

Presi un profondo respiro e tornai al mio racconto: «Con mio fratello c'era anche la famiglia Picard».

«Oh, hai detto al mio futuro marito che io sto ancora aspettando che lui si accorga della mia esistenza?», chiese infastidita Sab, guardandosi le unghie per fingere indifferenza: «Capisco che rispetto a te; la figlia dell'Alpha dallo sguardo misterioso, io sono solo una ragazza lupo mediocre e senza attrattive, ma mi sto stancando di aspettare che...»

Alzai una mano, attirando la sua attenzione e facendola zittire: «Posso continuare? Ti prometto che parlerò anche di Michel e di cosa ha detto e di come ho rovesciato la pasta al sugo addosso a Francine, una cosa per volta, ok?»

«Hai rovesciato la pasta... Diana, te l'ho mai detto che ti amo?!», chiese lei, iniziando a ridere con gusto.

Ridemmo insieme per qualche secondo, poi Isabel, portandosi una mano al cuore, mi disse di andare avanti.

«Beh, per sfuggire a Michel e le sue mani lunghe sono andata a cercare mia nonna, che era andata nel bosco a cercare funghi. L'avevo quasi raggiunta quando ho sentito all'improvviso un odore di lupo sconosciuto. L'odore poi è scomparso allo stesso modo in cui era comparso, quindi quando sono tornata a casa con nonna ho deciso di non dire nulla a nessuno, per paura che fosse tutto frutto della mia immaginazione...»

«Intenti l'odore di uno straniero? Un lupo solitario?», chiese Sab con gli occhi fuori dalle orbite: «L'ultima volta che un lupo si è avvicinato al nostro territorio e ha sfidato tuo padre è stato... quanto? Sette anni fa?», si portò una mano sulla bocca: «E se fossero più di uno? A meno che non siano pacifici, dubito che la situazione nei boschi sarà tranquilla nei prossimi giorni».

Annuii, abbassando lo sguardo.

Anche io ero preoccupata; mio padre, anche se portava molto bene i suoi ottant'anni, non era più forte come un tempo e Kyle, anche se cercava di mostrarsi forte, in realtà non era ancora pronto a diventare il nuovo Alpha.

«Mentre venivo da te ho sentito di nuovo quell'odore, così l'ho seguito e ho scoperto che quel qualcuno ha marcato con l'urina un albero. Appena papà lo verrà a sapere sarà guerra, Sab», mormorai, stravaccandomi ulteriormente sul pouf rosso, mentre la mia amica sembrava letteralmente sotto shock.

«Merda», sussurrò, scuotendo con forza la testa: «Questo sì che è un problema, altro che la verifica di inglese, non c'è proprio confronto».

Sorrisi alle sue parole, prima di ricordarmi che non le avevo ancora detto tutto e che dovevo farlo, prima di perdere l'occasione: «E non ho ancora finito».

Isabel mi guardò con un mezzo sorriso sulle labbra: «Penso che qualsiasi cosa mi dirai passerà in secondo piano rispetto alla bomba che hai appena sganciato».

Scossi piano la testa e iniziai a mordermi il labbro inferiore, sentendomi terribilmente in colpa per qualcosa che non potevo controllare; quanto avrei voluto poter ordinare a Michel di amare Sab, sarebbero stati la coppia perfetta: lei formosa, mora, con gli occhi scuri; lui alto, castano, con gli occhi azzurri...

«Durante la cena, a cui i Picard sono stati invitati mentre ero andata a recuperare la nonna, Michel si comportava nel suo solito modo viscido e quando gli ho ringhiato contro per fargli capire che non gradivo le sue attenzioni, lui mi ha ringhiato contro a sua volta. Ero furiosa, così senza pensarci sono fuggita in camera e dopo aver chattato con te ed esser fuggita dalla finestra, ho sentito che Michel chiedeva a mio padre il permesso per potermi corteggiare», le ultime parole mi uscirono di bocca talmente piano che io stessa faticai ad udire la mia voce.

Guardai Sab, seduta di fronte a me alzarsi di colpo ed iniziare a girare nella stanza senza una meta effettiva. Aveva le mani tra i capelli e cercava in tutti i modi di trattenere le lacrime.

Senza pensarci due volte mi alzai anche io e la bloccai, costringendola a guardarmi negli occhi: «Sai benissimo che io non lo voglio. Sai benissimo che non ti farei mai nulla del genere... e sai benissimo che mi opporrò con tutte le mie forze e se non dovessero bastare me ne andrò, diventerò un lupo solitario e andrò a farmi ammazzare da qualche branco a nord».

Le lacrime che aveva lottato tanto per trattenere le scivolarono lungo le guance arrossate e un triste sorriso le comparve sulle labbra: «Che amica sarei se ti lasciassi buttare nel cesso un'opportunità simile?»

Io scossi violentemente la testa: «Ne abbiamo già parlato, Sab. Io non lo amo e non penso che nei prossimi giorni cambierà quello che provo per lui», le dissi, abbracciandola stretta: «Devo ancora incontrare il lupo che mi metterà il guinzaglio e, fidati, non è Michel».

Isabel rise piano, scuotendo con forza la testa: «Sei così fortunata ad avere Michel ai tuoi piedi, D. Ma ringrazio il cielo che tu non sia minimamente attratta da lui, altrimenti avrei dovuto sfidarti e sarei stata malamente sconfitta e costretta all'esilio».

«Non permetterò mai e poi mai che accada qualcosa del gente, Sab».

Rimanemmo per qualche minuto strette l'una all'altra, perse nei nostri pensieri, prima che lei si allontanasse e mi sorridesse: «Ringrazia che il lupo solitario, barra i lupi solitari, hanno scelto questo momento per dichiarare guerra, così Michel sarà occupato a dare una mano per proteggere il branco e avrà meno tempo da dedicare al tuo corteggiamento».

«Ti adoro, riesci sempre a trovare il lato positivo di ogni cosa», le dissi, prima di allungare una mano: «Nessun rancore?»

Senza esitare un solo istante, strinse la sua mano destra alla mia: «No, D, nessun rancore».

«Com'è andato il weekend?», le chiesi, gettandomi nuovamente sul pouf, mentre lei si sdraiava sul letto.

«Niente di che, l'unica cosa entusiasmante è stata sentire i miei genitori parlare animatamente tra loro a proposito di avere un altro bambino. Non saprei spiegartene il motivo, ma è stato semplicemente agghiacciante sentirli parlare di sesso come se niente fosse mentre io ero a due metri di distanza».

Risi alle sue parole, coprendomi la bocca con la mano: «I tuoi genitori sono dei grandi», dissi, pensando al sorriso dolce e giovane della signora Drake mentre mi raccontava delle sue numerose avventure giovanili e le decine di volte che era stata in gattabuia per proteste ambientali contro l'inquinamento o a favore della protezione di specie a rischio di estinzione. Il signor Drake invece aveva un carattere più riservato e timido, tanto che era stata la moglie a raccontarmi di come, prima di incontrare lei, fosse stato un lupo solitario.

«Certo, tranne quando progettano gite romantiche nel bosco davanti alla sottoscritta», disse Sab, facendo finta di vomitare.

Lanciai un'occhiata distratta all'orologio a parete e rimasi delusa nel constatare che erano già le dieci e quaranta.

«Cavolo, devo andare. Domani c'è scuola e ho il coprifuoco alle undici», borbottai, abbracciando ancora una volta la mia amica: «Grazie per avermi ascoltata e per essere ancora mia amica dopo le pessime notizie che ti ho riferito. Ci vediamo domani sull'autobus».

Mi battè il cinque e mi sorrise: «Contaci».

«Buona notte, Sab», le augurai, prima di mettermi giacca e cappello, uscire sul balcone e buttarmi di sotto.

«'Notte, D», mi salutò, accompagnandomi con lo sguardo fino a quando non scomparvi nel bosco, diretta a casa mia.

Non avevo molta voglia di tornare dai miei, soprattutto perché sapevo che ad aspettarmi ci sarebbero stati una furiosa mamma e un furioso papà che non volevano uscissi da sola la notte fino a quando non avessi raggiunto la maggiore età. Infatti quasi tutte le volte che andavo da Isabel la sera, Kyle doveva accompagnarmi e venirmi a prendere, stessa cosa per le feste organizzate dalla scuola o i compleanni. Per fortuna la maggior parte delle volte riuscivo a sgattaiolare fuori casa senza che i miei se ne accorgessero, evitando la mia personale e fastidiosissima guardia del corpo.

Non capivo il motivo per cui facevano di tutto per farmi ancora sentire una bambina indifesa in mezzo ad un mondo buio e crudele, tranne - ovviamente - quando progettavano a tavolino di farmi sposare con Michel nel giro di massimo tre mesi. Anche se non avevo sentito mio padre dare o meno il suo consenso al giovane Picard, una vocina nella mia testa continuava a ripetermi che non poteva avergli detto di no per pochi ma ovvi motivi. Primo: era un buon partito; secondo: davanti al signor Picard, amico di famiglia da quando si era unito al branco con la famiglia sedici anni prima, non poteva dire di no, altrimenti avrebbe dovuto motivare il rifiuto e non aveva nulla contro Michel; terzo: sperava nella nostra unione da quando aveva scoperto che Michel non era adatto a comandare, quindi diventare il nuovo Alpha, quindi sconfiggere mio fratello in combattimento e scacciarlo dal trono che gli spettava da quando era nato; quarto: era convinto, chissà come o perché, che io avessi un debole per lui. In poche parole era letteralmente impossibile che gli avesse detto di no.

Sentii un rumore improvviso di rami spezzarsi e, senza pensarci due volte, mi voltai accucciandomi in posizione di difesa mentre scandagliavo il bosco grazie alla mia vista notturna. Dal punto di vista olfattivo sentivo un odore sconosciuto che non corrispondeva a quello che avevo sentito precedentemente e ciò mi mandò solo in confusione: quanti cavolo di lupi solitari stavano infestando il nostro territorio?!

Inspirai a fondo, saziandomi di quell'odore nuovo e semplicemente delizioso che mi riempiva dolcemente i polmoni. Riconobbi una punta dolce di cannella e poi la nota dominante: sandalo, coriandolo e qualcos'altro di inafferrabile, mi ricordava in modo impressionate il profumo che aveva comprato mamma a papà anni fa: Égoïste.

Uno spostamento d'aria alla mia destra mi fece voltare di scatto e attaccare l'ombra scura che mi si stava avvicinando. Atterrai su un corpo umano che non tentò nemmeno di opporsi o liberarsi mentre gli bloccavo coi fianchi le gambe e le braccia con le mie mani. Mi bruciavano i muscoli dallo sforzo di tenerlo completamente immobile sotto di me. Avevo la certezza che se avesse cercato di liberarsi col fisico che si ritrovava non ci avrebbe messo molto ad invertire la situazione, per questo preferii prevenire e fare in modo che non avesse nessuna possibilità di movimento.

Per quanto la mia vista fosse sviluppata non riuscivo a scorgere perfettamente il suo aspetto, dato che il suo corpo era interamente in ombra, ma potevo sentire chiaramente il battito calmo e forte del suo cuore che pompava sangue e l'odore afrodisiaco della sua pelle e il respiro caldo che si scontrava e mescolava al mio.

«Chi sei?», ringhiai, sentendo il lupo dentro di me lottare per prendere il sopravvento e uccidere la preda appena catturata.

«Accogliete sempre così i lupi solitari che chiedono di entrare a far parte del branco? O la tua è una tattica personale per fare sentire a proprio agio le persone, tigrotta?», chiese il ragazzo con una voce profonda, tremendamente calda e carezzevole.

«Voglio il tuo nome, così potrò farlo scrivere sulla tua lapide una volta che ti avrò ucciso», dissi con un tono di voce tagliente; non si poteva permettere di chiamarmi 'tigrotta' o con qualsiasi altro appellativo simile. Solo perché ero femmina non voleva dire che poteva mancarmi di rispetto in quel modo e non essere punito.

Vidi le sua labbra aprirsi in un sorriso che mise in mostra i suoi denti bianchi e affilati: «Che ne dici di liberarmi? Non che non apprezzi il tuo grazioso corpo addosso al mio, ma temo che ci siano troppi vestiti di mezzo per potermelo godere appieno e poi , di solito quando parlo con la gente, mi piace poterla vedere in faccia».

Che sfacciato!

Arrossii involontariamente alle sue parole prima di stringere la presa sui suoi polsi, in modo da conficcare le poche unghie che avevo nella sua pelle: «Stai tirando troppo la corda, straniero. Non ti conviene continuare con questo comportamento insubordinato, a meno che tu non voglia morire».

«Mi fai male, femmina», disse, sollevando il capo di colpo e colpendomi senza preavviso sullo zigomo destro con la fronte, facendomi perdere la presa e quindi il vantaggio che avevo su di lui.

Ribaltò in due secondi le nostre posizioni, malgrado io continuassi a scalciare e tirargli pugni contro il petto.

Senza preavviso si alzò in piedi con un movimento fluido e fulmineo e mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi: «Nessun rancore, tigrotta, voglio solo parlare con l'Alpha del tuo branco, quindi se non ti dispiace farmi strada, ti sarei grato se mi accompagnassi da lui».

Mi misi seduta e fissai con astio la sua mano; se davvero pensava che avessi bisogno del suo aiuto per alzarmi si sbagliava di grosso. Mi portai una mano sulla guancia, sentendola ancora dolorante per la recente botta. Per fortuna il livido che si stava già formando sarebbe scomparso nel giro di un giorno al massimo, grazie alla mia natura di ragazza lupo.

«Mi dispiace di averti colpito, dolcezza. Solitamente sono dell'idea che le donne non si possano toccare nemmeno con un fiore, ma tu mi stavi facendo davvero male», disse, massaggiandosi i polsi.

Bene, avevo davanti un gentiluomo con chiare crisi d'identità. Dovevo solo sfruttare tale informazione a mio vantaggio.

Abbassai il volto, gemendo appena, fingendo un dolore che non stavo provando, nel misero tentativo di farlo sentire in colpa e fargli compiere un passo falso.

«Hey, cucciola, stai bene? Non pensavo di averti fatto così tanto male...»

All'udire l'ennesimo nomignolo odioso persi il controllo e, senza pensarci due volte, lo attaccai per la seconda volta nel giro di dieci minuti. Una volta in piedi gli tirai un pugno sul naso che lo fece barcollare all'indietro per la sorpresa, poi puntai il mio avambraccio contro la sua gola e lo spinsi verso un albero, a quel punto giocai la mia ultima carta e gli tirai una ginocchiata all'inguine che lo fece accovacciare a terra per il dolore.

Un sorriso di trionfo comparve sulle mie labbra.

'Ecco, quello è il tuo posto, straniero', pensai, battendomi mentalmente il cinque da sola.

«Così impari a non sottovalutare mai una donna», sibilai tra i denti, prima di immergere la mano tra i suoi capelli per sollevargli il volto.

Ero furiosa e ad un passo dal trasformarmi in lupo per farlo fuori, ma una parte della mia mente ebbe il tempo di constatare quanto morbida al tatto fosse la sua chioma scura tra le mie dita.

Quando tornai a scrutarlo in viso ci rimasi male nel notare che stesse sorridendo: «Sei tosta», sussurrò, prima di afferrarmi una gamba e farmi perdere l'equilibrio, facendomi cadere rovinosamente a terra. L'istante dopo era sopra di me e mi teneva ferma come avevo fatto pochi minuti prima io con lui: «Mi piace», disse, facendomi l'occhiolino.

Sbuffai, infastidita da tutta la sua virile sicurezza e tentai di muovermi per scrollarmelo di dosso: «Lasciami», ringhiai, cercando di sfruttare la mia piccola statura per sgusciare via da sotto il suo corpo.

«Forse, se prometti di fare la brava tigrotta e comportarti in modo civile», disse, scrutandomi in volto con un'espressione che al buio non riuscii a decifrare, ma che mi fece uno strano effetto.

Lo fulminai con lo sguardo, odiandolo sempre di più.

'Potrai anche avere un buon odore, una bella voce e anche un bell'aspetto magari, ma ti odio per il modo arrogante con cui mi stai trattando. Non sono una bambina e te lo dimostrerò, in un modo o nell'altro', pensai, ringhiando nella sua direzione, per fargli capire che non avevo affatto intenzione di dargliela vinta.

«Allora?», chiese, avvicinando il suo viso al mio e sollevando in modo interrogativo il sopracciglio destro, facendomi solo infuriare ancora di più. Davvero si aspettava che io deponessi l'ascia di guerra? Era così ingenuo?

Stavo per tirargli a mia volta una testata così da avere la possibilità di liberarmi dalla sua presa quando sentii chiaramente la voce infuriata di mio padre chiamare il mio nome a meno di un chilometro di distanza.

Fantastico, ci mancavano solo i genitori preoccupati e quindi furiosi con la sottoscritta per concludere al meglio la giornata.

Lo straniero allentò appena la presa e voltò il capo verso destra, permettendomi di avere una bella visuale della sua gola. Ebbi la forte tentazione di azzannarlo, ma non avevo abbastanza libertà di movimento per poterlo fare, accidenti!

Dopo meno di dieci secondi comparvero dagli alberi mamma e papà, seguiti dal signor Picard e Michel. Quando li vidi riuscii a pensare solo a due cose: uno, perché mio fratello era rimasto a casa - molto probabilmente - con Francine? E due: perché i miei genitori si erano portati dietro la scorta?

Il fascio di luce della torcia che aveva in mano mamma illuminò il volto dello straniero, permettendomi di constatare con fastidio che era davvero bello, anche con il labbro spaccato a causa del mio precedente pugno, accidenti a lui!

«Diana», sbottò mio padre, prima di ringhiare contro il ragazzo che continuava a tenermi in modo equivoco sotto di sé.

Michel, quella testa vuota, ebbe la brillante idea di accorrere in mio soccorso facendo spostare lo straniero e tirandomi in piedi in modo brusco e nient'affatto gradito, in modo da potermi spingere dietro di sé per proteggermi. Per ringraziarlo del suo gesto gentile gli tirai un calcio contro lo stinco e lo scansai, volevo vedere il volto sofferente dello straniero mentre mio padre lo sgozzava, dato che io ormai non potevo più farlo.

«Stai bene, Diana?», chiese mio padre, lanciandomi una veloce occhiata.

Annuii: «Me la stavo cavando egregiamente anche da sola», dissi, fulminando con lo sguardo Michel, che si massaggiava lo stinco con una smorfia di sofferenza stampata in volto.

«Con te faremo i conti più tardi», disse papà, prima di tornare a fissare con astio lo straniero: «Chi sei?»

Il lupo solitario si alzò in piedi e si passò le mani sui pantaloni per togliere le foglie che vi erano rimaste attaccate, prima di sorridere e mettere in mostra le fossette più belle che avessi mai visto. Quanto lo odiavo, lui e il suo viso perfetto che mi faceva solo venire voglia di rovinarglielo.

«Mi chiamo Xavier, sono qui perché vorrei chiederle il permesso di entrare a far parte del branco», disse il ragazzo, facendo un breve inchino verso mio padre.

«Attaccare la figlia dell'Alpha, che bel modo di fare buona impressione», disse Michel, guardando con odio il nuovo arrivato.

Papà sorrise: «Sono stupito che tu sia ancora vivo, Xavier, mia figlia non è conosciuta per i suoi modi gentili», disse, facendo un passo avanti: «Questo può significare solo due cose: o hai fatto colpo su di lei o sei abbastanza forte da tenerle testa».

Inorridii alle sue parole e aprii la bocca per dire chiaro e tondo che non avevo affatto un debole per quello lì, ma venni preceduta da Xavier.

«Posso assicurarle che non è stato semplice sopravvivere», disse, sorridendomi in un modo che mi fece sentire una fastidiosa stretta allo stomaco: mi stava prendendo in giro? Come osava?!

«Perché dovrei accettare la tua richiesta di far parte di questo branco?», chiese mio padre, tornando serio.

Xavier mi fissò dritto negli occhi per pochi secondi, permettendomi di vederne il colore verde chiaro, prima di concentrare tutta la sua attenzione sull'Alpha: «Mio padre è stato ucciso da un lupo solitario pochi mesi fa, ho seguito le sue tracce fino a qui. Quando mi sono reso conto che qua c'era un branco ho deciso di chiedere ospitalità, anche se ancora non so per quanto tempo. Ho intenzione di vendicare mio padre prima, poi sarei onorato di entrare a far parte del vostro branco a tutti gli effetti», disse le ultime parole fissandomi in un modo che mi mise in imbarazzo, anche se sul momento non avrei saputo spiegare il perché.

Papà aggrottò le sopracciglia: «Mi dispiace per vostro padre, come si chiamava?»

«Frank O'Bryne», disse Xavier senza lasciar trapelare nessuna emozione dalle sue parole.

Mio padre sussultò: «O'Bryne?», ripeté con un tono di voce triste e stupito: «Temo di averlo conosciuto molto tempo fa. Le mie condoglianze, era un brav'uomo e un lupo coraggioso».

Rimanemmo tutti in silenzio per qualche secondo, prima che papà chiedesse: «Conoscete il nome del lupo che state inseguendo?»

Xavier scosse la testa: «Sfortunatamente conosco solo il suo odore», rispose.

«Sapresti indicarmi dov'è passato? Vorrei aiutarti personalmente nelle ricerche, in onore di Frank».

Xavier stava per aprire bocca quando lo precedetti: «Ha marcato il territorio poco distante da casa di Isabel, ho sentito l'odore quando sono andata a cercare prima di cena la nonna nel bosco, ma ho avuto la conferma che un lupo solitario fosse in cerca di uno scontro quando ho trovato l'albero marcato», dissi, incrociando le braccia al petto e lanciando a Xavier uno sguardo colmo di arroganza: «Stavo giusto tornando a casa per raccontarti tutto, papà, quando sono stata attaccata e trattenuta da...»

«Attaccata? Ma se sei stata tu a saltarmi addosso? Io volevo solo parlare», m'interruppe Xavier, beccandosi un'occhiata di puro odio dalla sottoscritta, che ricambiò con un sorriso divertito.

«Dettagli», sibilai tra i denti, prima di tornare a guardare mio papà: «Comunque suggerisco di controllare bene il bosco e il perimetro del territorio del branco al più presto, potrebbe essere ovunque a quest'ora», dissi con tono esperto, anche se in realtà volevo solo far vedere a Xavier che non ero una ragazzina.

Non ero stupita da questo mio desiderio di mostrarmi più grande, in fondo ero sempre vissuta all'ombra di mio fratello e la mia vita era stata caratterizzata dal vano e continuo tentativo di essere migliore di lui in tutto. Quello che mi stupì fu il moto di orgoglio che provai quando Xavier mi scrutò con uno sguardo pieno di ammirazione. Perché m'importava tanto ciò che pensava di me?

«E perché ce lo dici solo ora?», intervenne mia mamma che, piuttosto alterata, continuava ad annusare l'aria alla ricerca di odori sospetti, senza però trovare nulla.

«Volevo esserne prima sicura», dissi, omettendo quanto odiassi non essere creduta e la certezza che non l'avrebbero fatto se non avessi portato loro almeno una prova.

«Va bene, vorrà dire che questa sarà una buona occasione per metterti alla prova Xavier», disse papà, prima di voltarsi verso di me: «Diana vai a casa e dì a Francine e Kyle di raggiungerci al più presto, metti a letto Edith e poi fila anche tu a dormire che domani hai scuola», disse, facendomi sentire al pari di una bambina.

«Non posso venire con voi?», chiesi, mettendo il muso: «E poi cosa c'entra? Anche Michel, Francine e Kyle hanno scuola domani!»

Mamma alzò gli occhi al cielo, mentre papà mi appoggiava una mano sulla spalla e mi sorrideva rassicurante: «Tra due mesi sarai maggiorenne e potrai unirti alle battute di caccia, per ora sei troppo piccola».

«Cosa vuoi che cambi in due mesi che ancora non è cambiato?», chiesi io, sbuffando mentre mi allontanavo da quel posto, altrimenti avrei finito per insultare qualcuno.

«È stato un piacere conoscerti, Diana», mi urlò dietro Xavier, facendomi voltare un'ultima volta per poterlo salutare con il dito medio e la linguaccia.

Mentre correvo via sentii mio padre scusarsi per il mio comportamento, mentre Xavier rideva di gusto.

'Ah, ti diverto?', pensai, furiosa, mentre mi dirigevo con passo sostenuto verso casa: 'Ride bene chi ride ultimo, Xavier, mi sa che dovrò ricordartelo la prossima volta che c'incontreremo'.

 

 

***********
 

Ciao popolo di EFP!

Ecco a voi il secondo capitolo, dove conosciamo due personaggi molto importanti per la trama: Isabel, la migliore amica di Diana e Xavier, un misterioso lupo solitario che sembra mettere la nostra protagonista in difficoltà con la sua sfacciataggine. 

Spero che la storia vi stia piacendo, e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione!

Un abbraccio,

LazySoul

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Capitolo 3
*** Capitolo III: There's a new wolf in town ***


Capitolo III: There's a new wolf in town
 

«Non ce la faccio, sono troppo stanca», mormorai, rivolta alla sveglia alla mia destra, quasi nella speranza che si spegnasse da sola e mi lasciasse dormire in pace.

Mi avvolsi ancora di più nelle coperte, nel vano tentativo di riprendere il sogno da dove l'avevo interrotto. Mi sfuggì un lamento quando mi resi conto che già non ricordavo più cosa stessi sognando.

Allungai un braccio fuori dal calore del mio letto e cercai la sveglia con gli occhi ancora chiusi, nella speranza di riuscire a spegnerla e poter tornare a dormire.

Stavo provando in tutti i modi a tenere lontana dalla mia mente la consapevolezza che fosse Lunedì, convincendomi che fosse ancora Domenica e che avessi davanti a me ancora ore e ore di sonno.

Quando raggiunsi con le dita la sveglia la colpii sul dorso, sperando di spegnerla al primo colpo, ma sbagliai leggermente la mira e invece di zittirla la feci cadere a terra.

«No», mormorai, affondando ancora di più il volto contro il cuscino, mentre mi sporgevo col braccio oltre la sponda del letto per cercare di raggiungere quello stupido oggetto inanimato che mi stava martellando il cervello col suo continuo bip-bip.

Sfiorai con le dita il pavimento freddo, continuando a muovere la mano alla ricerca della sveglia, che non riuscivo proprio a capire dove fosse finita.

Ad un tratto, quando ormai avevo l'arto completamento abituato alla fredda temperatura della camera, decisi che non potevo continuare a fingere, così feci uno sforzo disumano e aprii prima un occhio e poi l'altro, salutando il nuovo giorno con un grugnito che aveva ben poco di femminile.

Sbadigliai e mi stiracchiai per pochi brevi secondi, prima di sporgermi ed afferrare quella stupida sveglia, spegnendola una volta per tutte ed appoggiandola - forse con troppa forza - sul comodino.

«Buongiorno, Diana», mi dissi, passandomi stancamente una mano sul viso: «Pronta per un nuovo entusiasmante giorno di scuola?», mi chiesi con la voce roca e quindi orribile che mi ritrovavo la mattina presto.

In quel momento Kyle entrò in camera mia con addosso solo delle mutande e uno smagliante sorriso sulle labbra.

Quanto odiavo il suo esibizionismo e i suoi addominali scolpiti.

«Mamma dice che ti devi sbrigare, l'autobus passa tra venti minuti», mi informò, prima di rubarmi un codino dalla scrivania per legarsi i capelli, che gli arrivavano alle spalle, in una semplice coda di cavallo.

E ancora di più odiavo i suoi capelli lunghi.

'Perché cavolo ho tagliato i miei?', mi chiesi, mettendomi a sedere e guardando il mio riflesso nello specchio a parete, fissando prima il mio occhio grigio, poi quello color nocciola e infine il livido che Xavier mi aveva lasciato sullo zigomo destro.

'Ah, già', ricordai, provando a portarmi le ciocche che avevo sugli occhi dietro alle orecchie: 'Michel aveva detto - in non ricordo quale occasione, forse Natale - che gli piacevano molto i miei capelli lunghi e io per dispetto li ho tagliati'. In effetti non era stato un comportamento molto maturo da parte mia, ragionai, prima di sospirare ed alzarmi in piedi.

Come prima cosa mi fiondai in bagno per sciacquarmi la faccia e fare la pipì poi, una volta tornata in camera, sollevai la tapparella e lasciai che i timidi raggi del sole illuminassero la stanza, così da poter spegnere la lampadina sulla scrivania.

Afferrai nell'armadio un paio di jeans scuri, una felpa degli Avenged Sevenfold che mi stava leggermente piccola - dato che l'avevo comprata già da tre anni - e gli anfibi neri. Nel giro di cinque minuti ero completamente vestita e mi congratulai con me stessa per il nuovo record personale.

Tornai davanti allo specchio a parete e osservai con una smorfia i miei capelli schiacciati su un lato e sparati dall'altro. Ringhiai contro il mio riflesso poi decisi di appiattirli nell'unico modo che conoscevo: indossando il mio fedele cappellino di lana.

Afferrai lo zaino di scuola e lo issai su una spalla, accesi il cellulare e me lo ficcai in tasca, dopo aver appurato che nessuno mi aveva cercato durante la notte.

«Buongiorno, tesoro», mi accolse in cucina papà, sollevando la sua tazza rosa confetto fumante di caffè e dedicandomi un caloroso sorriso. In momenti simili faticavo a vederlo come l'Alpha forte e temerario che guidava il branco.

«'Giorno», dissi con la voce roca a causa della gola secca, mentre gettavo a terra lo zaino e mi accasciavo poco aggraziatamente sulla sedia che solitamente utilizzavo durante i pasti.

Mamma stava preparando il pranzo per papà, o meglio; stava mettendo della pasta con polpette congelate in un contenitore in inox che papà, una volta al lavoro, avrebbe scaldato nel microonde durante la pausa pranzo.

Mi guardai intorno alla ricerca della caraffa del caffè e non trovandola da nessuna parte cominciai ad entrare nel panico tipico delle persone in astinenza: «Caffè?», riuscii a mormorare, ancora mezza assonnata, guardando disperata la schiena di mamma, che ancora si stava occupando del 'pranzo', per poi spostare lo sguardo negli occhi azzurri e sorridenti di papà.

«Kyle l'ha finito».

Non saprei neanche dire chi dei due mi avesse risposto, tutto quello che riuscivo a fare in quel momento era guardarmi intorno smarrita: «Cosa?!», esclamai, sperando che fosse tutto un brutto, anzi bruttissimo incubo dal quale mi sarei svegliata.

Lanciai una veloce occhiata al mio orologio da polso e sentii il mondo cadermi addosso: nel giro di sette minuti sarebbe passato l'autobus.

«Non può essere vero!», mi lamentai, prima di lanciare uno sguardo di fuoco a mio fratello che, proprio in quel momento, fece la sua entrata trionfale da re della foresta.

'Quanto odio essere nata seconda, se solo fossi la primogenita mi mostrerebbe un po' di rispetto e...'

Ma chi volevo prendere in giro? Lui era fatto così: sconsideratamente arrogante un momento e il secondo dopo sommessamente docile e gentile, fosse nato secondo non sarebbe cambiato nulla.

«Hai finito il caffè!», lo accusai, puntandogli un dito contro.

«Forse la prossima volta ti sveglierai puntuale invece di rimanere a poltrire fino a tardi», disse, sorridendomi sornione.

«Mi vendicherò», lo minacciai sollevandomi in piedi e riafferrando con rabbia lo zaino, prima di rubare la tazza di papà per bere un misero sorso di caffè, anche se non mi piaceva senza zucchero e annacquato dal latte.

«Hey!», si lamentò lui, pizzicandomi il fianco, facendomi sussultare e rovesciare alcune gocce di caffè sulla felpa.

«Papà!», esclamai, lasciando la sua tazza per asciugarmi rabbiosamente con un pezzo di scottex il petto.

Kyle rise di gusto, seguito a ruota da mamma e papà che mi fissavano come se fossi un clown e non vedessero l'ora di assistere allo sketch successivo.

Ringhiai di frustrazione e rabbia, prima di correre in bagno per lavarmi i denti e controllare l'entità del danno. Per fortuna la felpa era scura, quindi il caffè non si notava molto, anche perché non avevo tempo di andare in camera a cambiarmi, dato che avevo tre minuti per trovare la giacca, salutare mamma e papà ed arrivare alla fermata del pulmino scolastico in tempo.

Trovai la giacca sulla sedia della scrivania in camera mia, proprio dove l'avevo lanciata la sera prima, dopo esser tornata a casa furiosa col mondo intero.

Era stato davvero disgustoso trovare Kyle con Francine accoccolata accanto, che guardava un film sdolcinato, mentre Edith disegnava e la nonna leggeva il futuro nelle foglie del tè. Almeno, quando avevo fulminato la coppietta abbarbicata sul sofà, Francine aveva avuto la decenza di rimanere zitta e staccarsi dagli addominali di mio fratello all'istante. Il momento peggiore però era stato convincere Edith ad andare a dormire, mentre nonna mi passava una tazza di tè e mi diceva di bere tutto d'un fiato così avrebbe potuto predirmi eventi futuri.

La buona notizia era che Edith si era lasciata convincere abbastanza in fretta e, dopo aver lavato i denti e messo il pigiama, si fece dare il bacio della buona notte e poi scomparve in camera sua da brava. La cattiva notizia era che non riuscii a sfuggire in camera abbastanza in fretta e la nonna mi disse, con gli occhi che le brillavano dall'eccitazione, che presto qualcosa sarebbe cambiato radicalmente nella mia vita e che - a meno che non l'avessi già incontrata - avrei conosciuto una persona speciale.

Quando mi ero ritrovata nel letto, dopo aver dato la buona notte a nonna Diana, mi ero ritrovata a sperare con tutta me stessa che la persona speciale non fosse Xavier. Non che non fosse carino, insomma, avevo un occhio grigio e uno nocciola, ma questo non significava che fossi cieca, anzi, grazie alla mia natura di ragazza lupo avevo una vista particolarmente sviluppata, e sarebbe stato impossibile, anche per un maschiaccio come me, non accorgersi di quanto il nuovo arrivato fosse attraente. Semplicemente non ero pronta ad avere una relazione, sia che fosse con il viscido Michel o con l'affascinante Xavier; avrei preferito mantenere ancora un po' la mia indipendenza...

Mentre uscivo dalla camera, persa nei ricordi della sera prima, mi scontrai con Kyle, che pensò bene di rubarmi il cappello e correre fuori casa.

«Ma cos... Kyle!», esclamai, prima di salutare mamma e papà con un sbrigativo: «Ciao, buona giornata», per poi partire all'inseguimento di mio fratello, addentrandomi nel freddo pungente di Febbraio, mitigato da pochi e fiochi raggi di sole che penetravano attraverso la spessa coltre di nubi.

Appena raggiunsi Kyle, lo colpii alla spalla con un pugno: «Ridammi il cappello! Subito!»

Rise di gusto, sollevando in aria l'oggetto incriminato, tenendolo fuori dalla mia portata e ridendo di gusto alla vista dei miei miseri tentativi iniziali di afferrarlo.

«L'hai voluto tu», dissi, prima di colpirlo allo stinco destro con un calcio che lo fece piegare in avanti per il dolore, così da permettermi facilmente di recuperare il mio povero cappello.

Odiavo quando sfruttava il suo metro e ottanta abbondante di altezza per farmi sentire piccola.

Rise di gusto per tutto il minuto e mezzo in cui rimanemmo ad aspettare l'autobus, mentre mi pizzicava i fianchi o provava a farmi il solletico.

«Ma cos'hai?», gli chiesi, mentre provavo a sfuggirgli, tra una risata e l'altra: «Ti ha morso la tarantola?»

Scosse la testa e mi sorrise in un modo così dolce e spensierato che mi fece sentire una strana fitta al petto: «Sono solo felice», mi disse, facendomi l'occhiolino.

«E quale sarebbe il motivo della tua invadente allegria?», gli chiesi, mentre paravo un suo pizzicotto.

'Ti prego, non dire Francine. Tutto, ma non Francine e le coccole a cui ho assistito ieri sera...'

«Lo vedrai», disse - facendomi tirare un sospiro di sollievo. Con gli occhi che gli luccicavano in modo inquietante, aggiunse: «Hai ginnastica oggi a scuola?»

La sua domanda mi insospettì: di solito non si interessava mai ai miei orari.

«Forse», dissi, assottigliando lo sguardo: «La professoressa Rushkin è andata in pensione giovedì scorso e da quello che so non hanno ancora trovato una sostituta».

Lo vidi annuire distrattamente, sempre con quello spensierato e - per me snervante - sorriso sulle labbra.

«Ieri sera ho chiacchierato un po' col tipo nuovo... come si chiama? Xander?»

«Xavier», lo corressi subito, vedendolo sogghignare in un modo strano; dalla sua espressione capii di aver commesso una gaffe, anche se non avrei saputo dire quale.

«Sì, lui», annuì, mentre guardava il pulmino di scuola che si avvicinava alla nostra fermata: «Mi ha detto che lo hai attaccato come una furia e che gli piace il tuo carattere ribelle».

Senza volerlo sentii le mie guance andare in fiamme, mentre tenevo lo sguardo fisso di fronte a me: «Deve essere masochista, allora», risposi, chiedendomi perché tutto ad un tratto avevo voglia di abbracciare mio fratello e ringraziarlo. Ringraziarlo di cosa poi? Del solletico? Della pessima informazione?

«È quello che gli ho detto pure io», rise Kyle, prendendomi giocosamente a braccetto mentre salivamo sul pulmino: «Comunque sembra che a Michel non stia molto simpatico».

Un sorriso amaro mi comparì sulle labbra: «Davvero? Penso sia la prima volta che io e Michel siamo d'accordo su qualcosa. È un evento da segnare sul calendario».

Ci sedemmo nei primi posti liberi, io dalla parte del finestrino, lui verso il corridoio: «Perché detesti tanto Michel? E pensare che lui è completamente innamo... Ahi!»

Lo zittii con un pizzicotto sul braccio: «Michel è solo un lupo che non sa prendere da solo delle decisioni e si fa comandare a bacchetta dal padre. Non è affatto innamorato di me, credimi».

Kyle alzò gli occhi al cielo: «Come vuoi, sorellina».

Rimanemmo in silenzio per i successivi cinque minuti: lui cercava in tutti i modi di darmi fastidio, facendomi innervosire sempre di più, mentre io lo colpivo con pugni poco delicati sul braccio.

Per fortuna arrivò la sua fermata, che distava pochi metri dall'Università. Così dopo un sbrigativo: «Ci vediamo a casa, fai la brava a scuola» e un bacio sulla guancia - che pulii fingendomi disgustata - scomparve dalla mia vista.

Notai con fastidio che la maggior parte delle ragazze sul pulmino seguirono la sua uscita di scena con occhi a cuoricino e sospiri innamorati. Patetiche.

Una volta sceso mio fratello salì un'imbronciata Francine, seguita da Isabel e il suo sorriso smagliante.

«Hey, D», mi salutò, mentre occupava il posto vuoto a sedere accanto a me.

«Ciao, Sab», dissi, facendole segno di avvicinarsi: «Ho delle novità», le dissi, sottovoce: «There's a new wolf in town», canticchiai prendendo come base la canzone 'New Kid in Town' degli Eagles.

Isabel sbarrò gli occhi: «Cosa?! Intendi quello di cui mi parlavi ieri sera?»

Scossi la testa: «Un'altro».

Il ricordo degli occhi di Xavier su di me mi fece stringere maggiormente la presa delle dita sul mio zaino. Cosa mi aveva trattenuta dall'ucciderlo subito? Il suo profumo? Il suo sguardo? La sua voce?

«Si chiama Xavier ed è nei paraggi perché ha seguito l'assassino di suo padre fino a qui e, guarda caso, l'assassino di suo padre è il lupo di cui ho sentito l'odore ieri, prima di venire da te. Ha chiesto il permesso a mio padre di rimanere nel territorio per un periodo di prova e poi entrare a far parte del branco, una volta che avremo appurato che non ha cattive intenzioni», le raccontai, tenendo un tono di voce abbastanza basso da impedire agli umani seduti intorno a noi di sentirci.

«Ma...», iniziò, venendo però interrotta da Francine - quella ficcanaso dei miei stivali - che, guarda caso, aveva trovato libero il posto a sedere dietro di noi e aveva udito la nostra conversazione: «Michel mi ha detto che quando vi hanno trovato lo straniero era sopra di te... Prima ci provi con mio fratello e poi, appena sai di avere il suo cuore servito su un piatto d'argento, passi alla preda successiva?»

Ringhiai voltandomi verso Francine, lasciandole intendere che il suo intervento non era stato gradito: «Stavamo lottando», chiarii, prima di accennare un ghigno: «Ma non penso che tu possa capire cosa voglia dire preoccuparsi di difendere il territorio, dato che passi tutto il tuo tempo libero a farti la manicure».

La ragazza, colpita nell'orgoglio, nascose le mani nelle tasche della sua giacchetta di pelle rossa e distolse lo sguardo. La presi come una dichiarazione di resa e tornai a voltarmi verso Sab: «Comunque te lo farò vedere in giro, così poi potremmo odiarlo insieme», le dissi, facendole l'occhiolino.

«E perché lo dovremmo odiare?», chiese ridacchiando.

«Semplice: perché Diana si sente minacciata da lui», disse Francine dietro di noi, facendomi voltare nuovamente verso di lei.

«Come hai detto, scusa?», le ringhiai contro, trattenendo a stento la rabbia che mi ribolliva nelle vene. Sentivo forte l'impulso di trasformarmi in lupo e sbranarla, ignorando le regole e la quarantina di occhi fissi su di noi.

«Vuoi forse negare? L'unico motivo per cui fai la stronza con me è perché hai paura che io seduca tuo fratello, portandotelo via. Flash news: prima o poi accadrà - con me o con qualcun'altra - devi imparare a convivere con l'idea che tuo fratello un giorno sceglierà una compagna per la vita e quella donna - ovviamente - non sarai tu. Ecco quindi spiegato il tuo odio nei miei confronti; quello che non mi spiego è perché vedi Xavier come una minaccia...»

Rimasi con gli occhi sbarrati per qualche istante, prima di ridere in faccia a Francine, facendola sussultare per la sorpresa: «Io ti odio perché sei una stronza arrogante e Xavier lo odio perché è uno stronzo arrogante, punto.»

Stavo sorridendo, mostrando i miei denti bianchi, ma in realtà dentro di me sapevo perfettamente che lei aveva dannatamente ragione; semplicemente non ero ancora pronta ad ammetterlo.

Francine aggrottò le sopracciglia, poi fece una smorfia divertita che non mi aspettavo: «Magari siamo fatti l'uno per l'altra allora, non mi resta che provarci con lui», disse, prima di alzarsi e scendere dal pulmino - che non avevo nemmeno sentito fermarsi - con passo spedito.

Il sorriso scomparve dal mio viso e provai una forte stretta al petto: 'Non penso proprio: provaci, e io ti uccido.'

I miei lieti pensieri vennero interrotti dalla mano di Isabel che iniziò a muoversi davanti al mio viso: «D? Ci sei? Dobbiamo scendere. A cosa pensi?»

Seguii la mia amica giù dall'autobus senza rispondere alla sua domanda. Nella mia testa si accavallavo pensieri, domande; non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui le ultime parole di Francine mi avessero fatta ingelosire. Fino a prova contraria non ero interessata a Xavier, anche se era molto carino e... Ok, forse ero attratta da lui, ma questo non significava assolutamente nulla. Ero stata attratta da altri ragazzi prima, Michel per esempio, e me li ero lasciati tutti alle spalle, senza rimpianti, quindi non vedevo perché con Xavier la faccenda dovesse essere diversa o più complicata.

«Spero che non abbiano ancora trovato una nuova professoressa di ginnastica, ho proprio bisogno di un'ora e mezza buca per iniziare al meglio la giornata», disse Sab, arrendendosi all'idea che non avrei risposto alla sua precedente domanda, mentre si massaggiava le tempie.

«Diana!», mi chiamò la voce fin troppo familiare e indesiderata di Michel.

Mi voltai, con la fronte aggrottata dal disappunto e me lo ritrovai a pochi metri di distanza, appoggiato all'auto di suo padre, con un mazzo di fiori in mano.

Sbiancai all'istante e, prendendo bruscamente Sab per un braccio, iniziai ad avviarmi, con passo di marcia, verso scuola, sperando dentro di me che Michel afferrasse l'implicito messaggio che gli volevo lanciare e non mi costringesse a fare una scenata davanti a mezza scuola.

Probabilmente il giovane Picard aveva la mente più bacata di quanto mi aspettassi, dato che non feci in tempo a percorrere mezzo metro che mi ritrovai la sua mano sulla spalla e il suo viso troppo vicino. Usare la velocità dei lupi per raggiungermi era stato un colpo basso.

«Ciao, ti ho chiamato, non mi hai sentito?»

Fulminai con odio la sua mano, che continuava a stare appesa in modo fastidioso al mio giubbotto di jeans preferito: «Non ho una forchetta a disposizione al momento», dissi, per ricordargli l'episodio della sera prima: «Ma posso sempre improvvisare e sbranartela», aggiunsi con un tono di voce dolce che mal si accompagnava alla mia occhiata assassina.

Michel, sfruttando i suoi pochi neuroni, tolse la mano dalla mia spalla e sorrise in modo imbarazzato, prima di salutare Isabel che, accanto a me, cercava di guardare da un'altra parte, ignorandoci.

«Cosa vuoi? Non dovresti essere all'Università?», chiesi, con un tono di voce acido e scontroso; odiavo veder soffrire la mia migliore amica, soprattutto se la causa era la testa vuota che mi trovavo di fronte.

«Sono venuto a portarti questi», disse, porgendomi il mazzo di fiori.

L'odore di margherite, fiori di campo e rose mi invase le narici, facendomi involontariamente sorridere: «Grazie.»

Afferrai il bouquet con una mano, mentre con l'altra riprendevo il braccio della mia amica, e tornai a camminare con passo spedito verso l'ingresso della scuola: «Addio», lo liquidai, senza degnarlo di ulteriori attenzioni.

Inizialmente avevo pensato di accettare il mazzo per poi buttarlo nel cestino più vicino, ma mi dispiaceva per quei poveri fiori innocenti, così decisi di regalarli a mia sorella una volta tornata a casa; Edith adorava ricevere doni inaspettati.

Senza parlare, ci dirigemmo verso la palestra, dove speravamo di non doverci cambiare e di poter rimanere e fissare il vuoto con i nostri compagni di corso fino al suono della campanella.

«Sai, una piccola parte di me sperava che scherzassi a proposito di Michel», sussurrò Sab, sospirando: «Fa male vederlo provarci con te, anche se sono sollevata all'idea che tu non sia minimamente attratta da lui», aggiunse, sorridendomi appena.

«Troveremo una soluzione a questa terribile situazione, te lo prometto», le dissi, stringendo maggiormente la presa sul suo braccio, per farla fermare: «Non ho intenzione di perdere la mia migliore amica», l'abbracciai per pochi brevi secondi, inebriandomi del suo odore di tè verde e limone, prima di sorriderle: «Andiamo, dai».

Una volta arrivate davanti alla palestra della scuola mi bloccai, sentendo un caldo brivido attraversarmi interamente, mentre lo stomaco mi si chiudeva in un fastidioso nodo.

Annusai ancora una volta l'aria, nella vana speranza di essermi sbagliata, ma quel gesto non fece altro che confermare i miei sospetti: Xavier era nei paraggi. Vidi Isabel, accanto a me, annusare a sua volta l'aria: «Ma quest'odore da dove cavolo...?»

La porta della palestra si aprì di colpo e ne uscì proprio lui, Xavier, che con una tuta da ginnastica grigia - che gli fasciava in modo incantevole il corpo, ma non l'avrei mai e poi mai ammesso ad alta voce - e un fischietto intorno al collo, mi sorrise.

Dietro di lui una massa sospirante di ragazze e indignati ragazzi in tenuta da ginnastica lo seguivano come se fossero stati un branco di pecore.

«Signorine, stavamo proprio venendo a cercarvi. Sono il nuovo professore di Ginnastica, Xavier O'Bryne e oggi faremo una staffetta nel campo di atletica, dato che la temperatura è piuttosto mite. Andate a cambiarvi e raggiungeteci lì al più presto.»

Rimasi con la bocca spalancata per la durata dell'intero discorso, intontita com'ero dal suo odore, che sembrava ancora più inebriante rispetto alla sera prima, ma soprattutto sconvolta dalle sue parole. Lui? Il nuovo professore di ginnastica? Scherziamo?

In quel momento mi spiegai le risate di Kyle e le sue domande a proposito del corso di ginnastica.

«Certo», disse Sab, trascinandomi verso gli spogliatoi, mentre io continuavo a fissarlo, sconvolta.

«È uno scherzo?», domandai con un filo di voce, una volta che mi ritrovai con Isabel negli spogliatoi femminili della palestra.

«È lui il nuovo lupo, vero? Chissà perché pensavo fosse più vecchio... invece è giovane e attraente... Giusto per sapere: lo dobbiamo odiare perché ti piace e non vuoi ammetterlo? Com'era successo con quel tipo... com'è che si chiamava? Donovan?»

Mi sfilai con rabbia il cappello e il giubbotto, prima di voltarmi verso di lei: «Uno: si chiamava Dylan e lo abbiamo odiato perché mi ha baciata alla festa di Halloween, rendendola l'esperienza peggiore della mia vita. Due...»

«Sì, ma prima che ti baciasse avevi detto che ti piaceva», sussurrò Sab, sorridendomi in un modo che mi fece solo innervosire ancora di più.

«Aveva dei begli occhi, punto. Per il resto era insopportabile e...»

La porta dello spogliatoio si aprì di colpo, mostrando la chioma bionda di Francine e il suo ghigno peggiore: «Xavier mi ha mandato a chiamarvi. Dice che avendo l'agilità dei lupi dovreste essere più veloci degli umani e quindi essere già al campo di atletica».

«Sì, ma se vogliamo rimanere sotto copertura dobbiamo fingere di essere umane, o sbaglio?», dissi con un tono di voce pieno di astio e di veleno. Se solo fossi stata in grado di uccidere con lo sguardo, Francine sarebbe deceduta già da sedici anni.

«A Xavier non piace aspettare», aggiunse, come se non avesse sentito le mie parole, prima di richiudersi la porta alle spalle e andarsene.

«A Xavier non piace aspettare!», la scimmiottai, mentre mi toglievo la felpa e sostituivo il normale reggiseno con uno sportivo: «E invece direi di sì, dato che ancora non ha ucciso il lupo che ha fatto fuori suo padre», dissi, mentre cercavo nella mia sacca da ginnastica i pantaloni: «Quanto li odio, lei e i suoi capelli tinti come una Barbie, lui e i suoi modi arroganti. Per non parlare...»

«Diana», disse Sab, appoggiandomi le mani sulle spalle ancora nude: «Potresti smetterla di inveire contro di loro? Tanto non cambia nulla. E poi non è carino quello che hai detto a proposito della sua vendetta, dubito che ancora non abbia ucciso l'assassino di suo padre per scelta».

Mi morsicai con forza l'interno guancia e abbassai il capo, sentendomi - malgrado tutto - in colpa per ciò che avevo detto: «Hai ragione», sussurrai, infilandomi i pantaloni della tuta: «Non so cosa mi sia preso», mentii, mentre finivo di vestirmi.

Isabel tornò a cambiarsi con un sorriso stampato sulle labbra - probabilmente era fiera di esser riuscita a farmi ragionare.

La aspettai, seduta sulla panchina che si trovava in mezzo alle due file di armadietti dello spogliatoio, cominciando a giocare coi due orecchini a cerchio che avevo al lobo dell'orecchio sinistro ed analizzando a fondo il mio comportamento.

L'unico motivo per cui mi ero sentita in dovere di colpirlo con le mie parole - anche se lui non era propriamente nei paraggi per sentire - era stata la fastidiosa stretta allo stomaco che avevo sentito quando Francine aveva pronunciato il suo nome come se fosse stata la sua migliore amica da tutta una vita.

'Sai come si chiama quest'emozione, vero? Inizia con la G e finisce con elosia', m'informò con poco tatto il mio subconscio, facendomi aggrottare le sopracciglia per il disappunto. Perfetto, ora avrei anche dovuto fare del mio meglio perché la gente non si accorgesse della crescente attrazione che provavo per il mio 'professore di ginnastica'.

«Magnifico», sussurrai con ironia, passandomi una mano tra i capelli, facendo voltare Sab verso di me con uno sguardo pieno di curiosità.

«Ho dimenticato a casa la felpa della tuta da ginnastica», mi lamentai con un broncio, anche se in realtà non era quella la mia preoccupazione maggiore.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV: L di Looser ***


Capitolo IV: L di Looser
 
 

Il campo di atletica era un percorso ellittico color mattone che circondava il campo da football della scuola. Tutt'intorno c'erano gli spalti bianchi che, durante le partite, erano gremiti di tifosi, genitori e parenti degli studenti che sfoggiavano con orgoglio i colori della scuola.

Una volta arrivate, il 'prof' ci accolse con uno scocciato: «Pensavo vi foste perse», prima di indicarci la zona del prato in cui i nostri compagni stavano facendo stretching: «La prossima volta...», si voltò verso di me e rimase per qualche istante a fissarmi con uno sguardo che mi fece rabbrividire: «Non hai una felpa?», mi chiese, aggrottando le sopracciglia.

«Dimenticata», dissi, facendo spallucce, prima di superarlo e raggiungere i miei compagni, che si stavano toccando la punta dei piedi con la punta delle mani e alcuni per farlo sembrava che stessero facendo uno sforzo immane.

Ero sconvolta all'idea che per due secondi - due secondi di troppo in qualsiasi caso - i suoi occhi si fossero fermati all'altezza del mio seno. Per curiosità, mentre raggiungevo gli altri, guardai il mio petto e diventai rossa come un peperone, notando come mi si scorgessero lievemente i capezzoli, induriti a causa dell'aria fredda. Ora sì che avrei voluto con tutto il cuore avere una felpa. Non che il mio seno fosse particolarmente prosperoso, portavo a malapena una prima e Francine, quando ci urlavamo contro - ossia un giorno sì e l'altro pure - tirava sempre fuori le mie poche e quasi inesistenti forme, per farmi sentire al pari di una bambina.

«Ma non mi dire, sembra quasi che tu abbia delle tette, anche se probabilmente mi servirebbe un microscopio per poterle vedere appieno», infierì Francine, facendomi ringhiare di rabbia.

Ecco, appunto.

«Signorina Picard», la chiamò Xavier, facendola sussultare per la sorpresa: «Due giri del campo, ora», disse, con un tono di voce vellutato colmo di minaccia.

Aggrottai le sopracciglia per la sorpresa, mentre fissavo la bionda iniziare la punizione come se niente fosse.

Fissai i miei occhi colmi di disapprovazione e rabbia in quelli sorridenti e maliziosi di Xavier, cercando di fargli capire che non avevo bisogno del suo aiuto. Erano anni che me la cavavo benissimo da sola contro quella stupida smorfiosa dalle tette più grosse del cervello, non necessitavo di essere protetta o vendicata da lui. Anche se - dovevo ammetterlo almeno con me stessa - il suo gesto mi aveva scaldato un poco il cuore.

«Appena la signorina Picard finirà i suoi giri di punizione, vi dividerete in sei gruppi da cinque e organizzeremo una staffetta. Signorina Drake ho dimenticato di prendere i testimoni, le dispiacerebbe andarli a recuperare in palestra?»

Isabel annuì e dopo avermi lanciato uno sguardo pieno di punti interrogativi - probabilmente si stava chiedendo, come la sottoscritta, perché Xavier mi avesse difesa dagli insulti poco velati di Francine - corse verso la palestra, abbandonandomi tra Jules Harrison e Frida Martinez, del mio stesso corso avanzato di spagnolo: «Com'è andato il weekend?», mi chiese Jules, mentre seguivamo le indicazioni di Xavier e facevamo esercizi per le braccia.

«Normale», dissi, forse con un tono un po' troppo brusco per essere considerato gentile: «Tu?»

«Sono andato a sciare in montagna con i miei ieri, è stata una bella esperienza. ¿Por qué el nuevo profe te mira come si te conociera?»

«¿Por qué hablas en español?», gli chiesi, aggrottando le sopracciglia.

«Así, creía que el no entendiera, pero ahora...»

«Mi dispiace interrompere la vostra conversazione, ma volevo ricordarvi che questa è la lezione di ginnastica, non di spagnolo. ¿Entendéis?», ci interruppe Xavier, fulminando Jules con uno sguardo che lo fece sbiancare in modo preoccupante, prima di punirci con due serie da venti di addominali.

Quanto odiavo non poter contestare ai suoi ordini.

Finii gli addominali in poco tempo, ringraziando le numerose corse nei boschi, le interminabili passeggiate che facevo solitamente con la nonna e il mio corpo elastico da 'eterna bambina', come soleva definirmi Kyle.

Jules invece ci mise un po' più tempo, aveva infatti una massa corporea piuttosto consistente e non amava particolarmente fare sport, probabilmente la domenica a sciare era stata una tortura impostagli dai genitori e mi aveva mentito quando l'aveva definita una 'bella esperienza'.

Frida lo aiutò poi ad alzarsi e gli diede una pacca sulla spalla: «Ce l'hai fatta», esultò con lui, prima di tornare a fare altri esercizi per riscaldare i muscoli della schiena e poi quelli della gambe, impostici dal nuovo - gentile, simpatico, amabile - professore.

Seguivamo passo a passo tutti i movimenti che ci faceva vedere Xavier e - mi doleva ammetterlo - faticavo a distogliere lo sguardo dal suo corpo ben allenato che ci mostrava gli esercizi con sicurezza e scioltezza.

Sab tornò con una scatola di cartone, dove all'interno c'erano i testimoni che tintinnavano colpendosi tra loro, proprio nel momento in cui Francine finiva i suoi due giri di punizione.

«Dividetevi in sei squadre da cinque», ci istruì Xavier, mentre prendeva sotto braccio dei coni in plastica rosa e iniziava a studiare con occhio critico il campo.

Sab, Jules, Frida ed io stavamo disperatamente cercando un quinto giocatore da aggiungere alla nostra squadra, quando ci rendemmo conto che Daniel, il miglior corridore (umano) della scuola, era già stato accalappiato da Francine e la sua amica Carol per far parte della loro squadra.

«Tu», dissi, indicando un ragazzo che si doveva chiamare Paul, o forse Carl, e che sapevo essere veloce a correre: «Nella nostra squadra».

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e si unì al nostro gruppetto con sguardo basso.

Facevo davvero così tanta paura?

«Su, ragazzi, non abbiamo tempo da perdere!», esclamò Xavier, prima di sorridermi: «Voi, che avete già formato la squadra, venite con me».

Noi, da bravo branco di pecore, lo seguimmo fino al punto in cui c'erano, segnate in bianco, le linee di partenza, dove lasciammo Paul/Carl con in mano un testimone verde; sarebbe stato lui il primo a correre.

Percorremmo circa un quinto del campo e Xavier utilizzò i coni rosa per segnare i punti in cui sarebbero avvenuti i cambi per le diverse squadre. Lì decise di rimanere Frida, dopo aver dato una pacca d'incoraggiamento a Jules.

Percorremmo un'altra parte di campo e di nuovo Xavier posizionò i coni rosa a terra. Sab, Jules ed io ci guardammo per qualche secondo, incerti su chi fosse meglio che rimanesse. Alla fine fu Isabel a voler restare, così la salutai con un sorriso e tornai a seguire il 'prof'.

Nella penultima linea di cambio rimasi io, mentre nell'ultima si posizionò un incerto Jules, che non sembrava particolarmente contento di correre.

Ovviamente, da ragazza competitiva quale ero, avrei voluto vincere a tutti i costi, ma sapevo che Francine, avendo in squadra Daniel, aveva un bel vantaggio. Certo, anche io e Sab eravamo veloci, essendo entrambe ragazze lupo, ma una delle regole fondamentali del branco era 'Non farsi scoprire dagli umani', quindi non potevamo (allo stesso modo di Francine), usare la nostra super velocità, altrimenti sarebbero cominciate le domande, e noi non volevamo che ciò accadesse.

Xavier, dopo aver abbandonato Jules vicino al suo cono rosa, ripercorse il campo all'incontrario, per accertarsi di aver messo correttamente i coni.

Quando si trovò a pochi passi da me ne approfittai per porgergli alcune domande, dato che non c'era nessuno che avrebbe potuto sentirci.

«È stato mio padre a farti avere questo lavoro?», gli chiesi, incrociando le braccia al petto, senza distogliere il mio sguardo indagatore dal suo viso sorridente.

Quanto odiavo le sue irresistibili fossette.

«Indovinato», disse, semplicemente, mentre spostava appena un cono rosa.

«E perché mai hai accettato?», domandai, fulminandolo coi miei occhi, quando si inginocchiò ai miei piedi per spostare più indietro il mio cono di una decina di centimetri.

Alzò lo sguardo verso di me e mi fece l'occhiolino: «Per poterti comandare a bacchetta senza che tu possa fare nulla al riguardo».

Spalancai la bocca dalla sorpresa e l'indignazione: «Scusa?», dissi, certa di aver sentito male, o che lui avesse formulato in modo scorretto la frase, o...

«Mi dispiace per il livido», sussurrò, fissandomi lo zigomo destro con uno sguardo colmo di rammarico.

Mi portai una mano al viso e feci una smorfia nel constatare che faceva ancora male: «A me invece non dispiace averti tirato un pugno», risposi, fissandolo truce.

Lui si mise a ridere: «È così difficile per te essere gentile, lupetta?», mi chiese, ma dedussi dal tono di voce che fosse una domanda retorica e che quindi non avesse bisogno di risposta.

Lo guardai indignata mentre si allontanava, dirigendosi verso la postazione di Isabel, si voltò verso di me un'ultima volta - beccandomi mentre gli stavo fissando in modo, ahimè, esplicito il sedere - sussurrandomi poche ultime parole che mi fecero fremere: «La prossima volta, se non vuoi che ti salti addosso, ricordati la felpa».

Gli diedi le spalle, imbarazzata dal suo commento ed ostinata a non rivolgergli più la parola per il resto della mia vita. Beh, forse sarebbe già stato un ottimo risultato riuscire ad ignorarlo fino alla fine della lezione...

Anche le altre squadre, una volta formatesi, si divisero nelle diverse zone del campo segnate dai coni rosa. Fu una tale gioia ritrovarmi accanto Francine, che non potei fare a meno di farle una linguaccia, mostrando la mia maturità e facendo ridere a pochi passi di distanza Xavier. Possibile che quel lupo non si facesse mai i fatti suoi? Doveva per forza fissarmi ogni secondo?

«Lo sai che vinceremo noi, vero? Accettando Harrison in squadra ti sei praticamente scavata la fossa da sola», disse Francine, legandosi la sua lunga chioma tinta in una coda di cavallo.

«E io che pensavo di essere in vantaggio non avendo Carol, la-cheerleader-senza-cervello, in squadra. Conoscendola inizierà a correre dalla parte opposta rispetto a dove dovrebbe andare», ribattei, sorridendo alla mia vicina di corsia.

Xavier si parò davanti a noi, facendoci sussultare. Possibile che non l'avessi sentito arrivare? Ero così distratta?

«Giusto per sapere, è normale che vi punzecchiate così o è solo in mio onore?», chiese, incrociando le braccia al petto, sorridendomi maliziosamente.

Io gli lanciai uno sguardo annoiato - ostinata a non rivolgergli la parola per il resto della lezione -mentre Francine diceva, con un tono da gatta morta che mi fece venire voglia di vomitare: «Sfortunatamente il mondo non gira intorno a te, bel fusto».

'Bel fusto? Ma stiamo scherzando? Nemmeno mia nonna parlava così'.

«Va bene, che ne dite di cucirvi le labbra e non dire nient'altro l'una all'altra per il resto della lezione? Pensate di potercela fare?», ci chiese, scrutandoci in viso per qualche secondo.

Non ottenendo risposta da nessuna delle due - io, ancora giocavo al gioco del silenzio, mentre Francine probabilmente era rimasta delusa dal fatto che lui non avesse apprezzato il suo complimento - annuì e sorrise ancora una volta: «Brave, continuate così.»

Xavier tornò alla linea di partenza, controllando che tutti stessero accanto al proprio cono rosa poi, dopo aver preso fiato nei polmoni, soffiò nel fischietto che aveva al collo, dando il via alla gara.

Paul/Carl era davvero veloce e mi complimentai con me stessa per aver avuto la brillante idea di costringerlo a far parte della nostra squadra. Fu il primo a raggiungere il cono rosa dove si trovava un'ansiosa Frida, che per poco non fece cadere a terra il testimone da quanto era agitata. Per fortuna riuscì a non inciampare o perdere il testimone durante il breve tragitto che la separava da Sab, mentre Carol, in squadra con Francine, inciampò nei suoi stessi piedi un paio di volte, facendo ringhiare di rabbia la ragazza accanto a me.

Mi misi in posizione e incitai Isabel, che rispetto agli altri aveva un leggero vantaggio.

Quando mi passò il testimone mi resi conto che eravamo state raggiunte dalle altre squadre e capii che le nostre probabilità di vincere erano praticamente pari a zero.

Malgrado ciò non mi persi d'animo e corsi il più in fretta possibile, facendo attenzione però a rimanere nei parametri umani e, consegnato a Jules il testimone gli dissi: «Vai a vincere, Harrison».

Ero fiera di me stessa per esser stata più veloce di Francine nel correre il nostro tratto di pista e, senza rendermene conto, dopo aver esultato brevemente con Isabel, cercai con lo sguardo gli occhi verdi di Xavier, che, pieni di calore e ammirazione mi stavano scrutando.

Un sorriso idiota mi comparve involontariamente sulle labbra.

Jules alla fine tagliò il traguardo per secondo, mentre Tim - della squadra di Francine - per terzo, facendo esultare Isabel e me ancora di più. Appena raggiungemmo Harrison lo abbracciammo, facendolo sorridere pieno di orgoglio.

«Bravi ragazzi», disse Xavier, mentre segnava qualcosa sul registro di classe: «Ora, che ne dite di giocare a 'palla avvelenata'?»

Tutti i presenti di sesso maschile iniziarono a lamentarsi, come da copione, perché avrebbero preferito qualcosa di più competitivo come calcio o basket, ma dopo aver ricevuto un'occhiata ammonitrice da parte di Xavier si zittirono di colpo e con sospiri rassegnati tornammo tutti in palestra, dove ci dividemmo in due squadre.

Io, da ragazza matura, continuavo a guardare Francine con un sorriso vittorioso stampato sulle labbra e, ogni volta che si girava dalla mia parte, mi portavo la mano sulla fronte, formando con il pollice e l'indice la lettera 'L'.

«Signorina Wood», mi riprese Xavier, guardandomi con un finto sguardo severo, mentre provava a trattenere le risate: «Le dispiacerebbe smettere di istigare la signorina Picard?»

Abbassai lo sguardo, fingendomi dispiaciuta dell'accaduto e, appena lo vidi voltarsi per mandare un mio compagno a prendere un pallone, feci un'ultima volta la 'L' di 'Loser' a Francine, facendo ridere accanto a me Frida e Sab.

«È oggi che la professoressa Perez ci assegna la ricerca su un poeta de la Generación del '27?», mi chiese Frida, mentre ci disponevamo il più lontano possibile dalla linea che divideva il campo, in modo che fosse più difficile per la squadra avversaria colpirci, dato che avevano loro il pallone.

«Mi sembra di sì», annuii, spostandomi a destra per evitare che la palla mi colpisse il polpaccio.

«Ti va se la facciamo insieme? Ovviamente se ci permetterà di scegliere il partner», mi propose, sorridendomi.

Frida ed io non eravamo amiche del cuore, anche perché lei, essendo umana, non avrebbe mai potuto capirmi appieno. Andavamo però molto d'accordo, eravamo entrambe le studentesse preferite della Perez e amavamo passare l'ora di spagnolo a giocare a tris, quindi non avrei potuto sperare in una compagna di banco migliore.

«Certo», le dissi, prima di afferrare al volo il pollone che Francine mi aveva lanciato contro, facendola finire automaticamente in prigione. Non riuscii a trattenermi e le feci un'altra volta la 'L' col pollice e l'indice, beccandomi un'occhiataccia da Xavier, che rabbonii con un sorriso di scuse.

Il resto della lezione volò via in un battibaleno e la partita a palla avvelenata finì in un pareggio.

Una volta nello spogliatoio mi cambiai d'abiti il più velocemente possibile, dato che non volevo arrivare in ritardo per la lezione di biologia, durante la quale avremmo parlato di genetica; la professoressa Tyler doveva ancora finire di spiegare il quadrato di Punnet.

«I fiori», mi ricordò Sab, passandomi il bouquet che mi aveva regalato Michel quella mattina, evento di cui mi ero totalmente dimenticata.

«Ah, già», dissi, distrattamente, mentre li prendevo sotto braccio e mi avviavo verso l'uscita dello spogliatoio, che venne però bloccata da una Francine semi nuda e in vena di litigare, soprattutto dopo esser stata battuta in campo poco prima; voleva riscattare il suo orgoglio ferito.

«Chi è lo stupido che ti regalerebbe mai dei fiori?», chiese la Barbie, guardandomi con aria di sufficienza: «Te li sei portata da casa per fingere che qualcuno sia interessato a te, scherzo della natura?»

Odiavo quando Francine faceva riferimenti, non tanto velati tra l'altro, alla mia eterocromia, facendomi sentire ancora più strana di quanto già non mi sentissi.

Ma il fatto che mi facesse stare male con poche semplici e crudeli parole non voleva dire che gliel'avrei lasciato capire.

«Tuo fratello», dissi sorridendo, prima di superarla e di uscire dagli spogliatoi femminili per prima.

Avrei voluto ricevere una medaglia per la velocità con cui ero riuscita a liberarmi di lei con due semplici parole.

«Diana», mi salutò Xavier con un veloce gesto del capo, mentre, appoggiato alla porta della palestra, scorreva il pollice sullo schermo touch del suo cellulare.

«Straniero», lo apostrofai, prima di provare a superarlo così da potermene andare, ma lui mi bloccò il passaggio.

Non sapevo chi, tra lui e Francine, fosse più irritante.

«Fiori?», constatò Xavier, fissando il mazzo che avevo sottobraccio.

Aggrottai le sopracciglia, confusa.

Si erano messi d'accordo, lui e Francine? O semplicemente mancavano entrambi di originalità?

«Michel non capisce quando si trova davanti ad una causa persa», ammisi, sollevando le spalle indifferente.

Tutto quello che volevo era correre nell'aula di biologia; possibile che fosse diventato all'improvviso così difficile essere una diligente liceale di diciassette anni?

«Ha una cotta per te?», chiese, posando il cellulare in tasca e sollevando i suoi occhi verde chiaro su di me.

Il modo in cui mi stava scrutando mi metteva a disagio, come se stesse analizzando nei minimi dettagli il mio corpo nudo, tanto che sentii la necessità di controllare di essere vestita.

«Forse», risposi, tentando ancora una volta di conquistare la libertà, ma lui mi sbarrò nuovamente la strada col suo corpo: «Dovrei andare a...»

«E tu hai una cotta per lui?», domandò, senza lasciarmi finire la frase e facendomi sbarrare gli occhi dalla sorpresa.

«No», dissi, come se stessi constatando qualcosa di assolutamente ovvio.

«E per chi hai una cotta allora?», mi chiese, piegandosi leggermente in avanti, in modo da avvicinare il suo viso al mio.

Il suo profumo mi invase le narici all'istante, facendomi sentire un caldo languore in tutto il corpo.

'Se continui a farmi sentire in questo modo potresti essere il candidato numero uno', pensai, prima di ritrovare un minimo di razionalità e fare una smorfia di scherno: «Perché dovrebbe interessarti?»

Ero convinta di averlo messo con le spalle al muro con le mie parole così, con passo sicuro feci per passargli accanto, in modo da uscire dalla palestra, ma un suo braccio mi bloccò il passaggio, facendomi sussultare dalla sorpresa.

Sentii il suo caldo respiro contro il mio orecchio, mentre sussurrava: «Perché questa sera ti porto fuori a cena, quindi mi sembrava corretto informarmi su possibili rivali».

La mia bocca si aprì, mentre sbattevo un paio di volte di troppo le ciglia e sentivo un suono forte ed assordante nelle orecchie. Ci impiegai due minuti buoni prima di rendermi conto che quello che udivo era il battito impazzito del mio povero cuore.

«Pensaci, ti aspetto qua quando finiscono le lezioni», sussurrò, prima di spostare il braccio e allontanarsi dalle porte della palestra.

Senza pensare a quello che mi aveva appena detto, perché sapevo che altrimenti avrei sinceramente rischiato di fare qualcosa di davvero stupido; come per esempio saltargli addosso e baciarlo, o saltargli addosso e sbranarlo, mi allontanai a passo di marcia, diretta all'edificio principale del liceo, dove si trovava l'aula di biologia.

Ero piacevolmente sorpresa e allo stesso tempo altamente infastidita dal modo arrogante con cui aveva dato quasi per scontato che sarei voluta andare a cena fuori con lui quella sera.

Davvero si credeva così irresistibile? Beh, non lo era.

Arrivata all'aula di biologia mi sedetti in prima fila proprio mentre suonava la seconda campanella, evitando per un soffio le occhiate infastidite che solitamente la professoressa Tyler lanciava a tutti i ritardatari.

Tirai fuori il quaderno e cominciai a prendere appunti, seguendo il più attentamente possibile la lezione, anche se ogni tanto il mio pensiero si perdeva nel ricordo del sorriso malizioso di Xavier e di come il suo odore sembrasse in qualche modo penetrare attraverso i pori della mia pelle, inebriandomi.

In quel momento mi resi conto di sentire qualcosa di non ben definito infestare in modo fastidioso il mio stomaco. E no, non erano sicuramente farfalle, probabilmente era semplicemente il mio corpo che si lamentava di non aver fatto colazione, nulla di preoccupante.

Le ore di lezione si susseguirono una dopo l'altra, fino a quando non arrivò l'ora di pranzo, che passai seduta ad un tavolo con Sab, Frida, Jules e Ann, la cugina mezza lupo di Isabel. Ancora faticavo a spiegarmi il motivo per cui la mamma di Ann si fosse accontentata di stare con un umano, soprattutto se si teneva conto del fatto che lui sarebbe morto molto prima di lei, lasciandola sola per buona parte della sua vecchiaia. Certo, l'amore non ha età, regole e quant'altro, ma l'idea di sopravvivere inevitabilmente a suo marito non disturbava la signora Jackson neanche un po'? I pochi decenni che avrebbero passato insieme sarebbero bastati a compensare il vuoto che lui avrebbe lasciato una volta morto?

Ann aveva compiuto da pochi mesi quattordici anni, età in cui di solito si è già in grado di trasformarsi in lupi con l'aiuto della luna piena o in caso di emozioni forti e improvvise, eppure lei non sembrava mostrare alcun segno di essere in grado di mutare forma come il resto del branco.

Ogni tanto i miei genitori, dopo cena, quando stavano accoccolati sul divano davanti alla tv spenta, parlavano di quanto dovesse essere difficile per Ann, ma soprattutto di quanto fosse abbattuta la signora Jackson all'idea di non poter condividere con la sua unica figlia i segreti del branco.

«Che bei fiori», disse Ann, sfiorando i petali di una delle margherite che componevano il bouquet.

Avevo pensato di portarli a casa e regalarli a Edith, ma mentre guardavo lo sguardo sognante della quattordicenne che avevo davanti, decisi che lei ne aveva più bisogno.

«Te li regalo se vuoi», dissi, sorridendole, odorando l'odore familiare e floreale di Ann; lei non aveva un odore forte, come succedeva alla maggior parte dei lupi, ma un aroma delicato che la faceva somigliare molto più ad una semplice umana.

La ragazzina sorrise: «Davvero?», mi chiese la conferma e, quando annuii, la osservai - con un sorriso sulle labbra - portarsi il bouquet al naso e aspirarne a fondo l'odore.

Non avevo idea di come ci si potesse sentire ad essere e non essere parte del branco; certo, io avevo la mia parte di disgrazie: l'eterocromia, Michel sempre tra i piedi, un fratello rompiscatole e un papà testardo, ma in confronto sapevo che la vita di Ann doveva essere molto più complicata.

«Dovevi vedere la faccia di Francine quando sei uscita di scena dopo averle detto: 'Tuo fratello'. È stata una scena epica», disse Sab, mentre masticava una forchettata di spaghetti al ragù.

«Non si parla con la bocca piena», la ripresi scherzosamente, mentre Frida rideva di gusto.

«Francine è proprio insopportabile! L'altra settimana al corso di chimica si credeva la regina del mondo solo perché ha risposto correttamente a una domanda, che tra l'altro non era neanche così difficile...», disse Jules, con un'espressione imbronciata.

Gli diedi una pacca sulla spalla, per cercare di mostrarmi compassionevole: «Già», annuii semplicemente.

La tavola cadde in un breve e momentaneo silenzio, prima che Frida introducesse un nuovo argomento: «Vogliamo parlare di quanto è sexy il nuovo professore di ginnastica? Xavier O'Bryne è diventato nel giro di due secondi il mio sogno proibito, appena i suoi stupendi occhi si sono posati su di me ho capito di essere irrimediabilmente innamorata», disse, guardando dall'altra parte della sala con occhi sognanti, portandosi una mano al cuore.

Seguii il suo sguardo, notando come Xavier fosse seduto al tavolo degli insegnanti e stesse chiacchierando pacificamente con la professoressa di pittura.

Aggrottai le sopracciglia e mi impedii di controbattere, trattenendo dentro di me il mio scetticismo e la mia acidità, che cercavo in tutti i modi di non classificare come gelosia, ma semplice realismo.

«Sì, è molto affascinante», aggiunse Sab, lanciandomi una veloce occhiata maliziosa.

Pure lei ci si metteva? Non bastava il mio corpo in continuo conflitto con la mia mente?

«Troppo arrogante per i miei gusti», ribattei, tornando a concentrarmi su quella che la cuoca mi aveva assicurato essere pizza, ma che le mie papille gustative classificavano in modo differente.

«Anche tu sei arrogante», s'intromise Jules, beccandosi una mia occhiataccia.

«Assolutamente vero», gli diede corda, Isabel, che colpii - accidentalmente - col piede all'altezza dello stinco.

«Sei così orgogliosa che non riesci neanche ad ammettere che è un bel pezzo d'uomo?», rincarò la dose Sab, dopo aver risposto al mio calcio con un altro calcio, che mi fece stringere i denti dal dolore.

«L'aspetto fisico non è tutto, bisogna tenere conto anche del suo pessimo carattere», ribattei, assottigliando lo sguardo.

«Il tuo carattere è pessimo, eppure ti vogliamo bene lo stesso», disse Frida, facendomi l'occhiolino.

Non ero ferita dalle loro parole, sapevo che avevano ragione, eppure non volevo dargliela vinta.

Inoltre non avevo intenzione di ammettere il mio piccolo - quasi inesistente, in effetti - debole per il professore O'Bryen, soprattutto se lui si trovava nella stessa stanza e aveva la possibilità di sentirlo.

Grazie, ma no grazie.

«Pensatela come volete, secondo me è solo uno sbruffone», dissi, addentando un pezzo della mia 'pizza', che aveva la consistenza della gomma da masticare e un disgustoso retrogusto di plastica. Avrei preferito abbandonare nel piatto il mio pranzo, ma avevo troppa fame per fare la schizzinosa, così continuai a masticare, mentre Sab alzava gli occhi al cielo sconsolata e gli altri sorridevano divertiti.

«Avete sentito che Paul questo weekend darà una festa a casa sua?», chiese Jules, con gli occhi che gli brillavano dall'eccitazione.

«Paul chi?», chiesi, aggrottando le sopracciglia.

«Ah, sì, Paul Ling», rispose Frida, mangiando con gusto la sua pasta.

Rimasi perplessa a fissare prima uno poi l'altro, chiedendomi di chi diavolo stessero parlando, prima di voltarmi verso Isabel con un sopracciglio sollevato ed un espressione smarrita: «Questo Paul Ling sarebbe... ?»

Sab sbuffò: «Tu e la tua memoria selettiva. Paul Ling è il riccone con la macchina rossa che odi tanto perché sei convinta che in una realtà parallela quella sia la tua Maserati».

Una lampadina mi si accese in testa: «Aaah», esclamai, annuendo convinta: «Che dite, ci imbuchiamo?», chiesi, ricordandomi come, oltre alla macchina, invidiassi anche la super villa di lusso di quel ragazzo.

Quattro paia di occhi mi fissarono con un misto di stupore e compiacimento.

«Così ti voglio, D», mi disse Sab, colpendomi scherzosamente col suo gomito e facendomi l'occhiolino, prima di lanciare una veloce occhiata a sua cugina: «Tu però non puoi, sei troppo piccola, Ann».

Inutile dire che la piccola mezzo lupo ci rimase male, ma provò comunque a mascherare il suo dispiacere con un affrettato: «Tanto non ci volevo comunque venire», che fece sorridere sotto i baffi l'intera tavolata.




***********

Ciao a tutti!
Il capitolo vi è piaciuto? Spero tanto di sì e che abbiate tempo di lasciarmi una recensione, per farmi sapere che ne pensate di Diana, Xavier, Sab, Francine e i nuovi personaggi che sono stati introdotti; Frida, Jules e Ann.
Un bacio,
LazySoul



 

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Capitolo 5
*** Capitolo V: Proprio un caro ragazzo ***


Capitolo V: Proprio un caro ragazzo

 


La pizza mi rimase sullo stomaco durante le due interminabili ore di spagnolo, minacciando ogni pochi secondi di percorrere al contrario il tragitto che l'avevo costretta a seguire solo pochi minuti prima.

Frida era preoccupata per la mia salute e ogni tanto mi appoggiava la mano sulla spalla e mi chiedeva come stessi, dato che mi vedeva pallida.

«Non bene», «Mi sento uno straccio», «Una favola» (con tono ironico, ovviamente), «Potrei vomitare da un momento all'altro», «Ho la nausea», erano le risposte più gettonate.

Ma malgrado la mia sofferenza non la lasciai annoiare durante la lezione e giocai a tris con lei per la maggior parte del tempo, ovviamente facemmo entrambe attenzione a non essere viste dalla Perez, altrimenti avrebbe iniziato uno dei suoi monologhi infiniti che iniziavano sempre con le sei parole magiche: «Pero chicos un poco de respeto...» e continuavano poi per almeno quindici minuti, durante i quali parte della classe proprio non la ascoltava, nell'altra metà c'era chi la ascoltava ma non era minimamente toccato emotivamente dalle sue parole e chi invece si sentiva in colpa subito dopo aver sentito la parola "respeto".

Dopo averci fatto un'ampia panoramica sugli scrittori della "Generación del '27", sciorinò i nomi dei poeti più importanti e ci chiese di scegliere un compagno con cui svolgere la ricerca, mentre lei scriveva i nomi su dei biglietti e ci faceva pescare a caso dal suo cappello di lana l'autore che avremmo dovuto approfondire.

Lasciai che fosse Frida a tentare la sorte, mentre io cercavo di sopravvivere al forte dolore allo stomaco.

L'autore che avremmo dovuto approfondire e presentare di fronte alla classe era Luis Cernuda, avevamo una settimana e mezza di tempo per preparare la ricerca e la completa disposizione della professoressa nel caso avessimo avuto bisogno di aiuto.

Prima che suonasse la campanella, mi misi d'accordo con Frida e decidemmo di vederci mercoledì pomeriggio dopo scuola e sabato, prima della festa di Paul Ling, per lavorare al progetto.

«Stammi bene, Diana», mi salutò Frida, quando uscimmo dall'aula, lei diretta al suo armadietto e io al mio.

«Cercherò di sopravvivere», la rassicurai, facendole ciao-ciao con la mano.

Posai i libri nel mio armadietto, controllando le lezioni che avrei avuto il giorno dopo e decidendo di portarmi a casa solo il libro di letteratura inglese; le pagine per la verifica del giorno dopo non si sarebbero studiate da sole, sfortunatamente.

«Hai una brutta cera», mi informò Sab, mentre uscivamo da scuola, dirette alla fermata dell'autobus.

«Tutta colpa della pizza, la cuoca ha provato ad avvelenarmi», mi lamentai, portandomi una mano allo stomaco che, imperterrito, continuava a emettere rumori imbarazzanti.

Oltre alla nausea, mi sentivo vagamente in colpa per non aver raggiunto Xavier in palestra, dopo le lezioni, come lui mi aveva chiesto. Una parte di me continuava a chiedersi cosa sarebbe accaduto se fossi andata, anche se non era difficile immaginarlo; per quanto cercassi in tutti i modi di impormi un minimo di contegno, non avevo mai provato una tale attrazione fisica nei confronti di un ragazzo e sapevo con assoluta certezza che trovarsi da sola con lui non avrebbe portato a nulla di buono.

Ero ovviamente una ragazza dotata di autocontrollo, ma tendevo a lasciarmi spesso trasportare dall'istinto senza pensare più di tanto alle conseguenze, quindi dovevo cercare di tenere le distanze da Xavier per il tempo necessario a schiarirmi le idee.

«Diana?», mi chiamò Isabel, passandomi una mano di fronte agli occhi: «Hai sentito quello che ti ho detto?»

Con le gote arrossate per l'imbarazzo, scossi la testa: «Scusa, Sab. Ero persa nei miei pensieri», ammisi, sistemandomi il cappello di lana in testa nel tentativo di non mostrarle troppo il rossore sul mio viso; Isabel era brava a leggermi nel pensiero, ci mancava solo che intuisse a cosa stessi pensando fino a cinque secondi prima.

«Ho detto», iniziò lei, con tono leggermente alterato (odiava non essere ascoltata): «che dovresti andare a casa e prepararti qualcosa di caldo, una bella tisana depurativa magari. Dovrebbe aiutarti a stare un po' meglio».

Annuii: «Hai ragione».

L'autobus spuntò all'orizzonte e tirai un involontario sospiro di sollievo, qualche minuto e sarei stata lontana dalla scuola, ma soprattutto lontana dalla palestra. Stavo fuggendo da Xavier, era imperdonabile la mia vigliaccheria, ma non ero nelle condizioni fisiche adeguate per poterlo affrontare, o almeno stavo provando a convincermene.

Una forte fitta allo stomaco mi fece storcere il naso e stringere le mani a pugno, con le unghie conficcate nella pelle dei palmi.

«Dio, Wood, hai un aspetto orribile», esclamò Francine, con una smorfia di disgusto sul volto: «Più del solito, intendo».

Sab si mise tra di noi, le braccia incrociate e uno sguardo di fuoco: «Non è corretto attaccare quando l'avversario non è in grado di difendersi».

La bionda sollevò un sopracciglio e sorrise malignamente: «Drake, sempre in mezzo, vedo, pronta a difendere le cause perse».

Per chi non conosceva Isabel e la difficile situazione con sua cugina, Ann, il commento di Francine sarebbe parso un po' scialbo, privo della cattiveria che ci si aspetterebbe dalla regina delle stronze, ma io sapevo perfettamente dove la bionda voleva andare a parare e non le avrei permesso di dire una parola di più.

«Oh, Francine, penso che tu abbia dimenticato uno dei tuoi calzini nello spogliatoio; ti sei dimenticata di imbottire una delle coppe del reggiseno», dissi con la mia voce da zombie, bassa e sofferente.

Venni premiata del mio sforzo dall'espressione sconvolta e imbarazzata della bionda che, con gli occhi sbarrati si controllò subito il petto, facendo ridere sotto i baffi Sab e un paio di persone intorno a noi che avevano origliato la nostra conversazione.

Per fortuna in quel momento l'autobus accostò di fronte a noi e, senza degnare Francine di un altro sguardo, salii con Isabel e mi sedetti accanto a lei nei nostri soliti posti.

«Non c'era bisogno che intervenissi, me la potevo cavare benissimo da sola», borbottò Sab, l'espressione corrucciata e le mani strette a pugno.

«Lo so, lo stesso vale per te», replicai, con un debole sorriso sulle labbra.

Isabel riuscì a tenermi il muso per poco più di dieci secondi, prima di rilassarsi contro il sedile e lanciarmi uno sguardo d'intesa, sostituito da uno colmo di preoccupazione: «Hai davvero una brutta cera».

Alzai gli occhi al cielo, e poi li chiusi: «Smettila di constatare l'ovvio».

Il resto del viaggio lo passammo in silenzio, Sab scese tre fermate prima di me, ma prima di andarsene mi fece promettere di non morire e di scriverle appena mi fossi sentita meglio, le promisi che avrei fatto il possibile e le augurai un buon pomeriggio.

Pimpante e allegro - troppo allegro per i miei gusti - arrivò mio fratello a prendere il posto di Isabel accanto a me.

«Sorellina, stai bene?», mi chiese, mentre si sfregava le mani per scaldarsele.

«Una meraviglia», gracchiai, le mani premute contro la pancia e gli occhi socchiusi per il dolore.

«Sei in quel periodo del mese?», mi chiese con un filo di voce e fare cospiratorio: «Questo spiegherebbe anche il tuo caratteraccio di ieri sera».

«Sono stata avvelenata dalla pizza della mensa», gli spiegai, sperando di zittirlo.

«La solita esagerata», sbuffò con un sorriso: «Allora, passato una piacevole giornata?»

Il suo sguardo ammiccante mi fece sentire ancora peggio; non riuscivo a capire dove volesse andare a parare.

«Direi di no, come puoi notare, sto male», mugugnai.

Kyle alzò gli occhi al cielo: «Certo. Oltre al male, ti sei divertita?»

«Sono andata a scuola, non a Disneyland», cercai di farlo ragionare, mentre ringraziavo la breve distanza che ci separava dalla nostra fermata: «Divertirsi non è tra le cose che solitamente ci si aspetta dalla scuola».

Mio fratello sbuffò: «Nemmeno durante l'ora di ginnastica?», mi chiese, ammiccando.

Ah, ora capivo dove voleva andare a parare.

Fu il mio turno di alzare gli occhi al cielo e sbuffare: «Ovvio, non mi sono mai divertita tanto», dissi in tono sarcastico, mentre mi alzavo e lo seguivo giù dall'autobus.

«Dovevi vedere come si sono illuminati gli occhi di O'Bryen quando gli è stato offerto il lavoro d'insegnante di ginnastica, sai, per mantenere le apparenze...»

«Immagino», gli diedi corda, sapendo perfettamente che smorzare il suo entusiasmo non sarebbe servito a niente.

«E ancora non sai la parte migliore», continuò lui, lanciandomi un'occhiata che mi fece sudare freddo; ero certa che qualsiasi cosa stesse per dire non mi sarebbe piaciuta affatto.

«Papà, per tenere d'occhio O'Bryen, gli ha permesso per un paio di giorni, giusto il tempo necessario per trovare una soluzione alternativa...»

Fu costretto a lasciare la frase in sospeso a causa del forte rombo di una moto che ci superava, fermandosi davanti al garage di casa nostra.

Quando il motociclista si tolse il casco, rimasi con un'espressione da pesce lesso a fissarlo.

«... a restare nella nostra camera degli ospiti».

Xavier O'Bryen mi fissava a pochi metri di distanza a cavallo di una moto nera sul cui serbatoio del carburante spiccava in bianco la scritta Ducati.

«Una Monster 797», disse mio fratello con tono sognante: «Ha promesso di farmela provare».

«Questa giornata non fa che migliorare», mi lamentai, con le guance arrossate dall'imbarazzo e dalla malattia.

Mentre ci avvicinavamo alla porta d'ingresso cercai in tutti i modi di non pensare alle frecciatine e alla conversazione che avevo avuto con Xavier quella mattina, concentrando tutta la mia attenzione sul dolore alla pancia.

«O'Bryen», lo salutò mio fratello, fermandosi accanto a lui e alla moto.

Io ebbi giusto la forza di alzare lo sguardo e constatare di essere al centro dell'attenzione con gli occhi di mio fratello e del suo nuovo "migliore amico per la pelle" puntati addosso. Feci ad entrambi un gesto veloce col capo e poi entrai in casa, dove il calore della stufa mi fece sentire istantaneamente meglio.

«Sta male?», sentii chiaramente la voce di Xavier chiedere e, chissà perché, la sua preoccupazione nei miei confronti mi rese un po' meno infastidita dalla sua presenza.

Non rimasi però a origliare, dirigendomi verso il salotto, dove trovai mia nonna intenta a guardare la sua telenovela preferita.

«Diana, hai un aspetto orribile», esclamò la nonna, vincendo il premio originalità della giornata, prima di alzarsi e venirmi incontro, accompagnandomi con apprensione fino al divano che aveva da poco abbandonato.

«Siediti qua», mi ordinò, sprimacciando per bene i cuscini: «Dove hai male?»

«Allo stomaco, il pranzo non vuole farsi digerire», mi lamentai.

Fu facile farle pena e convincerla a prepararmi una tisana calda, mentre mi lasciavo cadere a peso morto sul divano e speravo che la morte giungesse in fretta.

Forse stavo leggermente esagerando, certo, stavo male, ma sapevo che non sarei morta per un banale mal di pancia. Semplicemente mi piaceva fare un po' di scena e lasciarmi accudire dalla nonna.

«Ti preparo una calda tisana con salvia, miele e limone», mi annunciò la mia infermiera personale dalla cucina, mentre la sentivo riempire il pentolino d'acqua e metterlo sul fuoco.

«Ciao, nonna», entrò in scena mio fratello, abbandonando la giacca e la borsa di scuola sul tavolo del salotto.

«Ciao, Kyle, com'è andata a scuola?»

«Tutto bene», rispose lui, occupando il poco divano che avevo lasciato libero con la sua mole da gigante buono: «Diana, Diana», cantilenò: «A quando il funerale?»

Gli ringhiai debolmente contro, chiedendomi distrattamente dove fosse finito Xavier.

In quell'istante il rombo del motore della sua moto mi fece intuire che se ne fosse andato via.

«Sai, non vuole creare troppo disturbo e mi ha detto che ha già preso appuntamento con un paio di agenzie immobiliari per dare un'occhiata a qualche appartamento vicino alla scuola», disse mio fratello, leggendomi nella mente e facendomi andare a fuoco le guance. Questa sua mania di indovinare i miei pensieri doveva finire. Subito.

«Di chi stai parlando, Kyle?», chiese la nonna, comparendo con qualche foglia di salvia in mano.

«Xavier O'Bryen».

«Oh, quel caro ragazzo», esclamò la nonna, facendomi socchiudere con orrore le labbra: «É carino da parte sua preoccuparsi», lo elogiò lei, prima di scomparire nuovamente in cucina.

Non ci potevo credere. Aveva fatto il lavaggio del cervello anche alla nonna.

«Proprio un caro ragazzo», rincarò la dose Kyle, sporgendosi verso di me e ammiccando un'ultima volta, prima di alzarsi: «Vado a studiare», annunciò, scomparendo con la giacca e la borsa in corridoio.

Solo in quel momento mi ricordai del cappello e della giacca e decisi che era tempo di togliermeli e, dato che c'ero, decisi che avevo sopportato abbastanza la tortura del reggiseno per quel giorno, slacciandolo e abbandonando sulla sedia più vicina anche lui.

Dopo qualche minuto arrivò la nonna con una tazza fumante che diffondeva ovunque odore di salvia.

«Ecco qua, è bollente, fai attenzione», mi avvertì, porgendomi la tisana e accarezzandomi dolcemente la testa.

Dopo aver bevuto sentii il calore della bevanda scaldarmi il petto e lo stomaco piacevolmente.

«Grazie, nonna», le dissi, ricevendo in risposta un bacio sulla fronte.

Appena finii la tisana, appoggiai la tazza a terra accanto a me, chiusi gli occhi e, quasi istantaneamente, mi addormentai.

Quando mi svegliai mi resi immediatamente conto di non essere più in salotto, ma in camera mia; l'odore delle coperte e delle lenzuola del mio letto era inconfondibile. C'era qualcosa che stonava però, un'odore forte di sandalo che...

Sbarrai di colpo gli occhi, cercando comunque di mantenere il respiro regolare, così da non far capire a Xavier, che si trovava a pochi centimetri da me, seduto per terra, con la schiena appoggiata al comodino e lo sguardo che vagava per camera mia, che ero sveglia.

Venni però tradita dal mio cuore che, per la sorpresa, iniziò a battere ad un ritmo irregolare, attirando l'attenzione dell'ospite sgradito che infestava la mia camera.

«Diana», mi salutò, appoggiando la nuca al comodino, con gli occhi chiari puntati nei miei: «Ti senti meglio?»

Sì, mi sentivo meglio, il mal di pancia era scomparso, sostituito da un lieve mal di testa dovuto alla stanchezza e al desiderio di chiudere nuovamente gli occhi e non riaprirli per il resto delle mia vita.

«Cosa ci fai qui?», la mia voce gracchiante mi fece vergognare tremendamente, ma ormai era tardi, l'aveva sentita, non c'era più niente da fare.

«Ho pensato che saresti stata più comoda sul tuo letto», spiegò, passandosi distrattamente una mano tra i capelli scuri. Così facendo, mise in mostra, forse volontariamente, l'anellino dorato che aveva all'orecchio sinistro.

"Mi sembra giusto", pensai esasperata: "Non aveva abbastanza caratteristiche che lo rendevano incredibilmente attraente, mancava l'orecchino".

«Non hai risposto alla mia domanda», gli feci notare, con tono esasperato, mentre mi tiravo su a sedere e mi passavo le mani sul viso.

Lo sentii inspirare a fondo e poi trattenere il respiro.

Il suo strano comportamento mi fece aggrottare la fronte e voltare verso di lui, incuriosita.

Aveva le labbra socchiuse e umide, come se ci avesse appena passato sopra la lingua e gli occhi mi scrutavano intensamente.

«Sei brava a fingere indifferenza», mormorò, alzandosi in piedi con uno scatto elegante: «Peccato che il tuo odore ti tradisca».

Il mio viso andò a fuoco per l'imbarazzo, mentre mi chiedevo di cosa stesse parlando; cosa c'entrava il mio odore?

«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.

«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra, senza però dare segno di volersi avvicinare ulteriormente.

Era terribile. Non ci potevo credere, non ci volevo credere. Se lui capiva esattamente cosa provavo semplicemente dal mio odore ero spacciata; la mia maschera di indifferenza e freddezza non sarebbe servita a nulla.

«Tu sei pazzo», affermai, allontanandolo con uno spintone: «E un guardone», aggiunsi, considerando che era rimasto a guardarmi dormire per chissà quanto tempo.

Xavier rise, mettendo in mostra i denti bianchi e i canini particolarmente affilati: «Non ti preoccupare, non ho intenzione di toccarti, non vorrei rimanere senza mani».

Feci una smorfia alle sue parole, odiavo la sua arroganza e il modo neanche tanto velato con cui mi prendeva in giro.

«Saggia decisione», replicai, cercando di apparire sicura di me, anche se ero ancora sconvolta dalle sue parole: «Ora ti dispiacerebbe andartene? Ho un compito in classe domani».

Xavier sorrise: «Non ho intenzione di rubarti altro tempo», fece qualche passo verso la porta, poi si voltò un'ultima volta, osservandomi: «Volevo solo dirti un'ultima cosa: anche il tuo corpo ti tradisce, non solo il tuo odore».

Il secondo successivo era uscito e si era richiuso la porta alle spalle, lasciandomi finalmente sola.

Con la fronte aggrottata mi chiesi a cosa si riferisse e, guardandomi il petto, capii diventando paonazza. Attraverso il tessuto della felpa si intravedevano i miei capezzoli inturgiditi, e non per il freddo. Maledetta me e la mia pessima mania di togliermi il reggiseno appena tornata a casa.

Sbuffai, arrabbiata con me stessa e con il mondo intero.

Mi alzai e mi diressi verso il mio zaino che si trovava ai piedi del mio letto. Recuperai il cellulare; avevo una chiamata persa di Isabel e un paio di messaggi preoccupati sempre da parte sua.

Decisi che chiamarla era la soluzione più rapida e indolore.

«Grazie al cielo sei viva!», esclamò la mia amica dall'altra parte della cornetta. La sentivo parlare in modo strano e dedussi che stesse mangiando.

Lanciai una veloce occhiata all'orologio che avevo al polso, erano le cinque e un quarto del pomeriggio e ciò voleva dire che avevo dormito un'ora intera, invece di studiare.

"Magnifico, era semplicemente magnifico"

«Ciao, Sab, mi sono appena svegliata, è per questo che non ti ho chiamato prima», le spiegai, recuperando il libro di letteratura inglese e sedendomi sul letto.

«Il mal di pancia?», mi chiese, sgranocchiando quella che sembrava frutta secca; conoscendola erano arachidi.

«Mia nonna mi ha fatto una tisana miracolosa», le dissi, aprendo il libro e cercando le pagine da studiare.

«Tua nonna è un mito», esclamò, continuando a mangiare.

«É fastidioso sentirti sgranocchiare arachidi», dissi, esasperata dal suono nell'orecchio.

«Ehi, come fai a sapere che sono arachidi?», chiese sorpresa: «Va beh, non importa. Mangio perché è l'unico modo che ho per non udire i miei genitori provare la resistenza delle molle del letto nella camera accanto», spiegò con un tono di voce a dir poco schifato.

«Mettere le cuffie e ascoltare musica ad alto volume era troppo semplice?», le chiesi, sapendo perfettamente come si doveva sentire, anche io avevo avuto la sfortuna di svegliarmi nel cuore della notte e udire cose che avrei preferito non sentire. Forse cominciavo a capire il perché del mio fisico da eterna bambina; mi avevano bloccato la crescita.

«Ottimo suggerimento, grazie D. Ora, per quanto mi piacerebbe rimanere al telefono con te ancora un po', dovrei studiare per la verifica di domani e penso che tu dovresti fare lo stesso, quindi ti lascio, ciao!», mi salutò, proprio in quell'istante udii chiaramente qualcosa colpire ripetutamente il muro: «Non ci posso credere», gemette schifata Sab, prima che la comunicazione s'interrompesse.

Risi sonoramente, mentre posavo il cellulare e pensavo a quanto doveva essere imbarazzata in quel momento la mia povera migliore amica.

Presi un profondo respiro e fissai le pagine del libro di fronte a me, solo che non riuscivo a vedere le parole; scarabocchi neri in un mare bianco.

«Accidenti!», imprecai, mentre chiudevo gli occhi e cercavo di concentrarmi.

Fino a quel momento ero riuscita a ignorarlo, ma ora sembrava impossibile; il forte profumo di Xavier era ovunque e mi impediva di pensare a qualcosa che non fosse lui.

Il modo in cui aveva detto, poco prima, a pochi centimetri dal viso: «Prendimi», con quella sua voce roca e profonda, con una intensità negli occhi chiari che mi aveva fatto vacillare. Ancora non riuscivo a capire da dove avessi attinto la forza necessaria per allontanarlo da me.

Mi portai una mano al viso, sentendolo caldo per il rossore che aveva iniziato a colorarmi la pelle.

Cominciavo a temere che quella forte attrazione che sentivo tra di noi non se ne sarebbe andata facilmente. Certo, avevo intenzione di fare tutto ciò che era in mio potere per tenerlo a distanza, per mantenere la mia indipendenza e impedirgli di cambiarmi. Ma dubitavo potesse essere abbastanza.

E poi...

Il mio sguardo si posò sul libro di letteratura inglese, aperto di fronte a me.

Dovevo studiare e smetterla di pensare a lui.

Con un sospiro di rassegnazione mi alzai in piedi e afferrai lo zaino, dove misi il cellulare e il libro. Indossai una tuta comoda e la giacca, pronta a cercare nel bosco una radura tranquilla che non fosse impregnata dell'odore di sandalo, coriandolo e cannella di Xavier.

Uscii da camera mia e incrociai a metà strada mio fratello, diretto in cucina.

«Hey, sei sopravvissuta?», mi chiese, con tono sarcastico, mentre si legava i capelli in uno chignon disordinato.

«Non grazie a te», risposi, superandolo e dirigendomi verso la porta che dava sul retro della casa e il bosco.

«Dove vai?», mi chiese Kyle, facendosi come al solito i fatti suoi.

«Ho bisogno di prendere un po' d'aria, cercherò una radura tranquilla dove studiare», gli spiegai, indossando gli stivali di gomma.

«E ti sembra saggio? Vorrei ricordarti che c'è un lupo solitario che si aggira da queste parti».

La sua preoccupazione nei miei confronti non mi sorprese; eravamo fratelli, ci preoccupavamo l'uno dell'altra, anche se non ci piaceva renderlo troppo evidente e ci divertivamo a mascherare la preoccupazione con il sarcasmo.

«Non mi allontanerò troppo, lo prometto», lo rassicurai, alzando gli occhi al cielo con fare scocciato.

«Ho sentito te e Xavier parlare prima», disse, sgranocchiando delle arachidi.

Si doveva essere messo per forza d'accordo con Sab, quelle coincidenze erano troppo forzate.

Fermi tutti! Cosa aveva detto?

Alzai lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi scuri e attenti, troppo attenti.

«Come scusa?», chiesi, fingendo di non aver sentito per guadagnare tempo e pensare a inventarmi qualcosa.

"Pensa, Diana, pensa".

«Ho detto», ripeté, le labbra sollevate in un sorriso furbo che mi gelò il sangue nelle vene: «che ho sentito te e Xavier parlare prima».

Allora avevo sentito bene, accidenti!

«Ah, sì?», fu tutto quello che riuscii a emettere, mentre recuperavo il mio cappello e il reggiseno che mi ero tolta prima di cadere addormentata. Xavier doveva averlo visto quando era venuto a prendermi per portarmi in camera. Merda. Perché capitavano tutte a me? Cosa avevo fatto di male?

«Sì», disse semplicemente mio fratello, mentre io ficcavo il reggiseno nello zaino e lo nascondevo alla vista di occhi indiscreti.

«Vuoi che ci parli io?», chiese Kyle, tirando indietro le spalle e mettendo ulteriormente in evidenza il suo metro e ottanta di statura.

Scoppiai a ridere, un po' per smorzare la tensione del momento, un po' perché era incredibilmente buffo con la maglietta di topolino che gli stava stretta, le calze pelose color malva della mamma che aveva palesemente rubato senza dirle nulla e il sacchetto delle arachidi stretto tra le mani, neanche fosse stato un tesoro prezioso.

Eravamo sicuri che un tipo del genere sarebbe stato in grado di guidare il branco?

«No, ma grazie per esserti offerto», gli dissi, rassicurandolo con un sorriso: «E tu? Sei sicuro che cadere tra le spire di Francine sia una mossa saggia?»

Kyle rischiò di strozzarsi con le arachidi.

«Sono in grado di gestirla da solo», borbottò, leccandosi le dita sporche di arachidi: «Dovresti smetterla di trattarla male, comunque, fa parte del branco, capisco che ci possano essere incomprensioni e scaramucce, ma quest'odio tra di voi è troppo».

Detto da Mr. Maglietta di Topolino suonava piuttosto assurdo, ma capivo perfettamente cosa intendeva.

«Potrei provarci, ma deve gettare l'ascia di guerra pure lei», ribattei, indossando il cappello di lana e aprendo la porta sul retro: «Torno presto, tu non strozzarti con le arachidi».

«Ci proverò», disse con la bocca piena.

Mentre camminavo verso il bosco non potei fare a meno di chiedermi come avessi fatto a ignorare la somiglianza, non solo caratteriale, ma anche di gusti, di mio fratello e la mia migliore amica.

Forse avrei dovuto svolgere il ruolo di Cupido, anche se non ero sicura che mi si addicesse, e provare a convincere Isabel che mio fratello sarebbe stato un partito di gran lunga migliore di Michel. L'idea non mi dispiaceva, avere Sab come cognata sarebbe stato di gran lunga meglio che avere Francine.

Trovai una radura tranquilla a cinque minuti da casa e decisi che era il luogo adatto in cui spremersi le meningi e studiare. Così mi sedetti a terra, ignorando l'erba umida e tirai fuori dallo zaino il libro di letteratura inglese, lo aprii e iniziai a leggerlo con attenzione, cercando di memorizzare le nozioni principali.

Rimasi abbastanza concentrata da capire quello che stavo leggendo per circa 30-40 minuti, un record personale, considerando il fatto che avevo sempre avuto una soglia dell'attenzione molto bassa. Quando mi resi conto che continuavo a leggere lo stesso paragrafo senza però capire nulla, chiusi un attimo gli occhi e mi massaggia le tempie con gli indici.

«Diana, ce la puoi fare», mi incoraggiai, prendendo un profondo respiro e aprendo gli occhi.

Fu in quel momento, mentre cercavo la mia concentrazione perduta, che si alzò il vento e sospinse da nord una brezza fredda che mi fece rabbrividire; una brezza che portò con sé un odore che mi fece alzare di scatto, dimentica del libro, del compito del giorno successivo e della promessa di non allontanarmi troppo che avevo fatto a mio fratello.

Oltre all'odore sentii chiaramente il suono di rami spezzati e di ringhi in lontananza.

Due lupi stavano combattendo.

Xavier aveva trovato l'assassino suo padre.




 

************
 

Ciao a tutti!

Questo capitolo è piuttosto denso di avvenimenti, me ne rendo conto, ma a quanto pare non sono in grado di scrivere capitoli noiosi; se non succede qualcosa non sono contenta.

E so anche che finisce in modo piuttosto brusco e, lo ammetto, l'ho fatto apposta perché volevo essere cattiva e creare un po' di suspence.

Spero che, malgrado tutto, il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di lasciarmi un commento per farmi sapere la vostra opinione ;)

Un bacio,

LazySoul

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI: Nudi ***


Capitolo VI: Nudi

 

Mossi i primi passi senza rendermene effettivamente conto, sospinta da una forza più forte di me.

Poi, dopo essermi fermata, titubante, per pochi secondi, iniziai a correre.

Sfrecciavo tra gli alberi senza peso, veloce e incurante dei rami che mi sferzavano il volto e il corpo. Tutto quello che riuscivo a pensare, anche se non razionalmente, ma con ansia e paura, era che Xavier era a qualche metro da me, forse in pericolo, forse ferito e io dovevo raggiungerlo, dovevo aiutarlo.

Probabilmente un lupo più saggio e con più esperienza si sarebbe tenuto a distanza o, invece di correre verso il pericolo da solo, avrebbe chiamato i rinforzi. Ma io non ero saggia, ero solo una bambina, e pensai a queste possibilità solo quando ormai era troppo tardi.

Di fronte a me due lupi lunghi più di due metri e alti quanto me, si azzuffavano in un groviglio di zanne, arti e code.

Era difficile capire chi dei due stesse avendo la meglio, se quello grigio chiaro tendente al bianco o quello grigio scuro tendente al nero. Certo era che vederli era uno spettacolo da togliere il fiato. Erano entrambi maestosi e forti.

Quando il lupo chiaro puntò il muso nella mia direzione, scrutandomi minaccioso con le zanne scoperte e gli occhi scuri iniettati di sangue, mi resi conto di essere ancora in forma umana, a pochi metri da loro e con molte poche possibilità di sopravvivere.

Io e la mi impulsività avremmo finito col farci uccidere, magari quel giorno stesso.

Senza pensarci due volte mi tolsi gli stivali, decisa a spogliarmi e a trasformarmi.

L’unico pensiero nella mia testa che martellava con decisione e mi spingeva a sbrigarmi era: “Xavier ha bisogno di me”.

Sentii un ringhio basso e furente che mi fece sollevare lo sguardo. Rimasi per qualche secondo inchiodata dagli occhi verde chiaro del lupo nero. Xavier non era contento, non mi voleva lì.

Forse per proteggermi?

Beh, gli avrei dimostrato che non avevo bisogno di protezione, che ero in grado di cavarmela da sola.

Dimentica degli indumenti che avrei dovuto togliere prima di trasformarmi, così da avere qualcosa da indossare dopo essere tornata in forma umana, lasciai che il lupo prendesse il sopravvento.

La pelle mi bruciò intensamente e le ossa mi si spezzarono, per poi ricomporsi dolorosamente. Urlai durante la trasformazione, ma il mio lamento si trasformò ben presto in ululato.

Difficile da descrivere la sensazione di essere sempre se stessi, ma in un corpo diverso; sentire quelle quattro zampe, la coda, le zanne affilate, ogni nervo e cellula parte di sé, come se non avessi appena cambiato forma, ma fossi sempre rimasta la stessa.

La mia trasformazione durò pochi secondi e distrasse entrambi i lupi che ora non erano più avvinghiati l’uno all’altro, ma si scrutavano a qualche metro di distanza, quello scuro davanti a me a farmi da scudo.

Con un ringhio basso e minaccioso affiancai quello nero, fronteggiando lo straniero con coraggio e la mia solita impulsività.

Percepivo chiaramente il disappunto di Xavier; malgrado non potessimo parlare, eravamo in grado di comunicare grazie ai gesti e movimenti del corpo, che risultavano molto più efficaci delle parole.

La posa di Xavier, la sua tensione, mi urlavano chiaro e tondo: «Vattene», ma io non avevo intenzione di ascoltarlo. Sarei rimasta ad aiutarlo, non mi sarei tirata indietro come una codarda, non io.

Rimanemmo immobili, studiandoci a lungo. Xavier non mi degnava di uno sguardo, intento a scrutare l’assassino di suo padre e a non perderlo di vista per un solo istante. Lo straniero invece lanciava occhiate tutt’intorno, sembrava alla ricerca di una via di fuga, una qualsiasi.

Ad un tratto, con un gesto fulmineo, il lupo bianco fece un passo avanti, nella mia direzione. Ero pronta a farlo indietreggiare, attaccandolo alla giugulare, ma Xavier si mise in mezzo, finendomi addosso nel tentativo di impedire allo straniero di avanzare ancora.

Approfittando del momento propizio, il lupo bianco scomparve nella vegetazione, dirigendosi verso nord.

Xavier corse all’inseguimento, un lampo nero tra la fitta vegetazione e io, dopo essermi un po’ ripresa dalla botta al fianco che mi aveva involontariamente inflitto, cercai di stargli dietro.

Il colpo però era troppo fresco e sentivo il dolore pulsare, impedendomi di correre come avrei dovuto per raggiungerli.

Senza volerlo, fui costretta a rallentare e in fine a fermarmi.

Accasciandomi a terra, mi leccai la zona dolorante, mentre il battito del mio cuore raggiungeva un ritmo più regolare e la pelliccia mi sfrigolava, pronta a essere sostituita dalla pelle.

Lasciai che la trasformazione mi bruciasse nuovamente viva, urlando. A causa del forte dolore al fianco, ci impiegai un minuto buono a tornare alla mia forma umana, ritrovandomi in un bagno di sudore e con il respiro corto che non riusciva a riempirmi abbastanza i polmoni d’ossigeno.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime di rabbia, dolore e delusione.

Abbassando lo sguardo sul mio corpo notai con orrore che dalla vita in giù, fino al ginocchio, il mio lato sinistro era ricoperto di macchie rosse e tendenti al viola.

Non era la prima volta che mi succedeva, essendo di piccola statura e con uno scheletro più delicato, era normale che finissi col riempirmi di lividi più facilmente, quindi non ero particolarmente preoccupata. Non mi ero rotta niente, tutto sommato mi era andata bene.

“Se Xavier non si fosse messo in mezzo però, a questo punto non mi troverei con il lato sinistro tumefatto”, pensai, sollevandomi in piedi con difficoltà e appoggiandomi all’albero più vicino per mantenere l’equilibrio.

Con i sensi all’erta cercai di capire dove fossero andati, ma si dovevano essere allontanati di molto, perché mi era impossibile udirli.

Zoppicai poco aggraziatamente verso gli stivali, gli unici indumenti rimastimi, e li indossai con fatica. L’aria fredda di Febbraio sulla pelle nuda era più piacevole di quanto pensassi, soprattutto sui lividi, ma sentivo comunque la mancanza di un paio di pantaloni e un maglione.

Mi portai una mano al fianco sinistro e tastai con attenzione la zona arrossata. Secondo i miei calcoli avrebbe smesso di farmi male nell’arco di un giorno al massimo, il rossore probabilmente sarebbe scomparso anche prima. Sì, tutto sommato mi era andata bene.

Sentii dei passi avvicinarsi, senza pensarci recuperai da terra un bastone e lo sollevai, pronta ad ignorare il dolore e a difendermi da chiunque stesse arrivando.

Dopo qualche secondo mi resi conto che i passi erano umani e che l’odore che solleticava le mie narici era quello di Xavier.

Lasciai andare il bastone, sommersa dal sollievo di saperlo vivo e scrutai la vegetazione, cercandolo. I suoi passi erano sempre più vicini e capii dal loro ritmo, che stava correndo. Per questo motivo quando comparve a quattro metri da me, ci mise meno di un battito di ciglia a raggiungermi, stringendomi le spalle con le mani forti e fissandomi con il volto furioso sospeso a pochi centimetri dal mio.

«Cosa diavolo ti è saltato in mente? Volevi farti ammazzare per caso?», mi ringhiò contro, aumentando la presa sulle mie spalle.

Con una scrollata di spalle mi liberai dalle sue mani, che mi stavano facendo male e, mettendo da parte il sollievo, gli puntai l’indice al petto: «Arrogante, presuntuoso che non sei altro! Volevo aiutarti!»

«Nessuno ha chiesto il tuo aiuto!», urlò, schiaffeggiando la mia mano. Probabilmente il mio indice conficcato nella carne non doveva esser stato piacevole.

«Questa è la mia battaglia, Diana, la mia!» ringhiò, colpendo con forza la corteccia dell’albero alle mie spalle.

«Ingrato, odioso», sputai tra le labbra, cercando di spingerlo lontano, ma fallendo miseramente.

Mi bloccò i polsi con le sue mani, questa volta il suo tocco era delicato e attento: «Saresti potuta morire», mormorò, il tono di voce basso e colmo di dolore che mi fece spuntare nuovamente le lacrime agli occhi.

«Non farlo mai più», continuò, lasciandomi i polsi e facendo un passo indietro.

Solo in quell’istante mi resi pienamente conto della situazione: eravamo nel bel mezzo del bosco, da soli e nudi.

Capii che aveva fatto il mio stesso ragionamento quando i suoi occhi persero il contatto coi miei, scivolando verso il basso. Stranamente non mi sentivo in imbarazzo, non in quel momento, non di fronte a lui.

Lasciando da parte il pudore seguii il suo esempio e abbassai lo sguardo sulle sue labbra socchiuse, sul suo corpo allenato e snello, sui fianchi stretti e sul livido scuro all’altezza delle costole. Allungai la mano, sfiorando la sua ferita. Dal suo gemito di dolore e dalla smorfia apparsa sul suo viso dedussi che si dovesse essere rotto qualcosa.

«Hai bisogni di essere medicato», dissi, preoccupata per la sua salute: «Nonna saprà cosa fare», lo rassicurai, cercando di mettere tra noi qualche passo di sicurezza, ma il dolore al fianco sinistro mi impedì di realizzare il mio desiderio, costringendomi a rimanere dov’ero.

«Mi dispiace, volevo…», iniziò lui, portando la sua mano sul rossore che copriva metà del mio corpo.

«Lo so, volevi proteggermi», terminai al suo posto, sospirando: «La prossima volta però, lascia che mi difenda da sola».

Annuì, gli occhi velati da una patina di tristezza mentre continuava ad accarezzare la mia pelle tumefatta, facendomi rabbrividire per la piacevole sensazione.

«Fa tanto male?», chiese, incrociando il mio sguardo.

«No, è solo la botta», lo rassicurai, sorridendogli debolmente.

Avevo il busto interamente coperto dalla pelle d’oca e il freddo, malgrado stesse contribuendo, non ne era il motivo principale.

«Forse è meglio se rientriamo», proposi, facendo un passetto indietro, nella direzione in cui sapevo essere casa mia.

Un sorriso malizioso comparve sulle labbra di Xavier: «Ti facevo più coraggiosa».

Sapevo perfettamente a cosa si riferiva. Lo sentivo anche io il legame, la forte attrazione, che ci univa; il desiderio di fare un passo avanti e di lasciarmi avvolgere dal calore del suo corpo e dall’inebriante odore della sua pelle.

E sapevo che probabilmente sarebbe stato inutile opporsi, ma non ero pronta.

Abbassai lo sguardo sulla sua mano che continuava a sfiorare la mia pelle e, per quanto fosse piacevole, mi costrinsi a fare un passo indietro, interrompendo il contatto.

«Andiamo», dissi semplicemente, voltandogli le spalle e incamminandomi, con passi incerti e doloranti.

Percorremmo qualche metro in assoluto silenzio.

Avrei voluto chiedergli dell’assassino di suo padre e del perché fosse tornato indietro invece di inseguirlo e attaccarlo nuovamente, ma temevo di farlo nuovamente arrabbiare così decisi di tacere.

«Pensavo che il tuo manto sarebbe stato scuro come i tuoi capelli», disse con un tono di casualità, come se stessimo commentando il tempo.

Alzai lo sguardo su di lui con un sopracciglio sollevato; non riuscivo a capire cosa intendesse.

«Hai il manto argentato», continuò, guardando la foresta di fronte a sé: «Sei uno spettacolo trasformata, i tuoi occhi poi…»

Abbassò lo sguardo, incontrando il mio.

«Stai davvero cercando di fare una “normale” conversazione?», chiesi, muovendo le dita per mimare le virgolette, fermando il nostro avanzare, così da poterlo guardare comodamente in faccia: «Ti rendi conto che ci conosciamo da un giorno scarso e siamo nel bel mezzo del bosco, nudi?»

Le sue labbra di aprirono in un caldo sorriso.

«Non mi stai neanche simpatico», aggiunsi confusa, scuotendo la testa.

Le mie parole lo fecero scoppiare a ridere: «Non sono io quello insopportabile».

Oltraggiata, con la bocca aperta e uno sguardo di puro odio, lo colpii al petto con il palmo aperto: «Parla l’arrogante che…»

«Diana!»

L’urlò di mio fratello giungeva da qualche metro più a sud e solo in quel momento, prestando attenzione ai suoni che ci circondavano, mi resi conto che ci stava correndo incontro. Molto probabilmente aveva sentito il mio ululato poco prima, durante la trasformazione o…

Xavier mi superò, facendomi scudo col suo corpo.

«Cosa stai facendo?», domandai, stupita, mentre mi ostinavo a tenere lo sguardo alto e a non abbassarlo sul suo lato B.

In quel momento Kyle sbucò all’orizzonte, accompagnato da una figura che, sfortunatamente riconobbi all’istante: il signor Picard.

«Non ci posso credere», sussurrai, coprendomi il volto arrossato dalla vergogna con le mani, per qualche secondo.

«Siamo a corto di vestiti», constatò l’ovvio Xavier, con un tono di voce allegro e nient’affatto imbarazzato.

«Cos’è successo?», chiese mio fratello, togliendosi la giacca e superando il mio scudo umano per porgermelo, mentre il signor Picard manteneva una certa distanza e osservava con fin troppa attenzione gli alberi che ci circondavano.

Indossai quell’indumento con gioia e, una volta tanto, ringraziai il metro ottanta di mio fratello; avrei potuto tranquillamente indossare quella giacca come vestito e nessuno si sarebbe reso conto che non avevo niente sotto.

Stavo per chiedere a mio fratello perché fosse arrivato con la scorta, quando udii chiaramente altri passi in avvicinamento e, annusando l’aria, riconobbi all’istante quella delicata fragranza di rosa e margherite di campo. Senza perdere tempo sorpassai Xavier e mi parai davanti a lui, coprendo la sua nudità giusto in tempo per impedire a Francine di vedere qualcosa.

«Oh», disse la nuova arrivata, sorridendo: «Mi sono persa qualcosa?».

«Diana, ti avevo detto di non allontanarti!», esclamò Kyle, mentre si sfilava i pantaloni e li lanciava a Xavier, rimanendo in mutande.

«Lo so, ma…», iniziai, venendo però interrotta: «Ma niente! Perché ti è così difficile ascoltare e fare quello che ti si dice?», urlò mio fratello, prima di spostare lo sguardo alle mie spalle: «Cos’è successo?»

Non avevo mai sentito quel tono di voce, colmo di risoluzione e rabbia, uscire dalle labbra di mio fratello e il fatto che lo stesse usando contro di me mi ferì più di quanto ero disposta ad ammettere.

«Mi sono scontrato con l’assassino di mio padre. Stavamo combattendo, quando è arrivata Diana e…», anche Xavier venne interrotto, gli occhi di Kyle tornarono su di me, ancora più furiosi: «E ha pensato bene di trasformarsi e mettersi in mezzo, invece di chiamare qualcuno più competente e starne fuori!»

Avevo la vista offuscata dalle lacrime; non mi ero mai sentita così umiliata in vita mia.

Lo sapevo di non aver agito come ci si sarebbe aspettati da una ragazzina di diciassette anni debole e indifesa, ma solo perché non ero né debole né indifesa! Perché nessuno lo voleva capire?!

La mano di Xavier si appoggiò sulla mia spalla, infondendomi, malgrado tutto, un senso di fiducia che mi diede la forza necessaria per ribattere: «E avrei dovuto lasciarlo a combattere da solo? Venendo a chiamare voi avrei solo perso tempo!»

«Tu sei ancora troppo piccola!», urlò mio fratello ad un palmo dal mio naso.

Una lacrima sfuggì al mio autocontrollo e mi scivolò lungo la guancia sinistra: «Eppure non sei mai riuscito a battermi», mi impuntai, decisa a non lasciargli vincere quello scontro verbale.

«Pensi che combattere per gioco con tuo fratello sia la stessa cosa che scontrarsi con un assassino?»

«Non potrò mai saperlo se continuerete a trattarmi come una poppante!»

«Basta!», tuonò la voce ferma e autoritaria di mio padre.

Alzai lo sguardo e mi resi conto di aver dato spettacolo davanti a metà del branco; oltre Francine, il signor Picard e mio fratello, si erano aggiunti la signora Drake, la signora Jackson e mio padre.

«A casa, tutti quanti. Tranne tu, Xavier, ho bisogno di parlarti», continuò il capo branco.

Ignorando il forte dolore al fianco, scansai la mano calda che ancora si trovava sulla mia spalla e iniziai a correre verso casa.

L’ultima cosa che sentii fu Xavier sospirare alle mie spalle, poi lasciai che fosse l’ululare del vento ad invadere le mie orecchie, il rumore dei rami spezzati e il crepitio delle foglie secche.

Feci una breve tappa nella radura dove avevo studiato per recuperare lo zaino e il libro abbandonato a terra, poi mi diressi verso casa.

Mamma era in cucina a preparare cena, mentre nonna aiutava Edith con i compiti.

«Cos’è successo?», chiese subito mia madre, pulendosi le mani sporche di pomodoro sul grembiule.

«Perché piangi?», domandò la vocina di mia sorella.

Nonna non fece domande, si limitò ad osservare il mio abbigliamento e ad annuire con fare pensieroso.

«Io non mangio», comunicai, ignorando i tre paia di occhi che mi fissavano.

«Ma tesoro…», iniziò mia mamma, allontanandosi dai fornelli per venirmi incontro.

«Non ho fame», dissi semplicemente, schivando il suo tentativo di abbracciarmi e dirigendomi con passo malfermo verso il corridoio, dove mi spogliai della giacca di mio fratello e dello zaino, che lasciai a terra, e mi chiusi in bagno.

Rimasi in mezzo alla stanza per qualche secondo, nel tentativo di regolarizzare il respiro, ma il dolore al fianco continuava a mozzarmi il fiato, impedendomi di riempire i polmoni di ossigeno.

Mi sporsi verso il rubinetto della vasca e aprii l’acqua calda, così da coprire con il suo scrosciare i singhiozzi che mi scuotevano il corpo e i gemiti di dolore.

Qualcuno bussò alla porta, facendomi sussultare.

«Diana?», era la voce della nonna, attutita dal legno che ci separava: «Ti ho preso un po’ di unguento per i lividi, te lo lascio qua fuori».

Udii chiaramente i suoi passi allontanarsi e, solo quando la sentii tornare in sala da Edith, mi decisi ad aprire la porta, prendendo la ciotola che aveva posato a terra.

Era lo stesso unguento di sempre, quello che la nonna mi spalmava sui lividi da quando avevo due anni: arnica e artiglio del diavolo.

Lo appoggiai sul bordo del lavandino, intenzionata a farmi prima un lungo bagno rilassante.

Appena l’acqua raggiunse la giusta altezza chiusi il rubinetto e mi immersi nella vasca, godendo della sensazione paradisiaca che l’alta temperatura riusciva diffondere sulla mia pelle.

Chiusi gli occhi, nel tentativo di rilassarmi ulteriormente, ma dietro alla mie palpebre serrate non potei fare a meno di rivivere il litigio con mio fratello e ogni altro evento che aveva caratterizzato quella giornata.

Non ero più una bambina, perché si ostinavano a trattarmi al pari di Edith? Non era giusto.

“Vuoi saltare cena perché speri di far sentire in colpa tuo padre e tuo fratello. Ti sembra un comportamento maturo?”

Zittii la vocina nella mia mente, affondando completamente la testa sotto il pelo dell’acqua e godendomi il silenzio assoluto.

“Io voglio solo che la gente smetta di trattarmi come una dodicenne”.

Quando riemersi, decisi che mi sarei rivolta all’unica persona che mi trattava come una persona matura: mia nonna. Lei di sicuro sarebbe riuscita a consigliarmi qualcosa, dall’alto del suo quasi secolo e mezzo di età.

Una volta finito il bagno, mi avvolsi nel mio accappatoio color rosa antico e, portando con me l’unguento, mi diressi verso camera mia.

«Signora, è molto gentile, ma non ho bisogno di…»

Mi fermai nel mezzo del corridoio e tornai indietro di qualche passo, così da poter sbirciare la scena in salotto dove Xavier, con ancora addosso i pantaloni di mio fratello e nient’altro, stava cercando di convincere nonna Diana che non voleva essere medicato.

«Se vuoi guarire prima ti conviene sederti e lasciarmi fare», lo rimbeccò lei, spostandogli la sedia e indicandogliela con un cipiglio serio.

«Non…», iniziò lui, poi si bloccò e, voltandosi di scatto verso destra, finì coll’individuarmi fuori dalla porta del salotto. I nostri sguardi rimasero allacciati per qualche secondo.

«Stai bene?», mi chiese, facendo un passo verso di me.

Io indietreggiai: «Un po’ di unguento e sarò come nuova», risposi, anche se sapevo perfettamente che la sua domanda non si riferiva ai miei lividi, non soltanto almeno: «Ascolta nonna Diana, ne sa una più del diavolo».

Mi voltai e mi diressi verso camera mia, a piedi scalzi, lasciando dietro di me una scia di impronte umide sulle piastrelle color ambra.

Ebbi la fortuna di non incontrare nessuno, tranne la piccola Edith, che mi chiese se volevo giocare con lei.

«Mi dispiace, devo studiare», dissi, recuperando da terra il mio zaino.

Sul volto paffuto di mia sorella comparve una smorfia triste, ma stranamente non insistette e se ne andò verso il salotto, dove udivo mia nonna borbottare qualcosa di indistinto.

Una volta in camera mi sfilai l’accappatoio e mi diressi verso la cassettiera.

Il dolore causato dai lividi era diminuito considerevolmente, tanto da permettermi di tornare a camminare normalmente. Subito dopo aver indossato un semplice paio di mutante di cotone nere e una maglietta grigia a cui feci il nodo per tener scoperta la pancia, decisi di spalmare comunque un po’ dell’unguento di nonna Diana sulla pelle tumefatta, facendo attenzione a non metterne troppo.

Recuperato il libro di letteratura inglese, mi coricai sul letto, in modo da non poggiare sul fianco dolorante e sfogliai le pagine, cercando quella che stavo leggendo prima di…

Sospirai: “…Prima di andare a cacciarmi nei guai come mio solito”.

L’odore di Xavier era ancora lì, constatai annusando a fondo il copriletto, ma non mi sarei lasciata distrarre, dovevo assolutamente studiare.

Leggendo ad alta voce le parti più importanti cercai di memorizzare gli eventi più importanti che caratterizzavano la vita di Virginia Woolf e quella di James Joyce. Poi passai alle loro tecniche narrative e all’elenco infinito di opere che avevano pubblicato e che dovevo sapere a memoria.

Per fortuna il test sarebbe stato quasi tutto a crocette, tranne una domanda aperta finale, dove avrei dovuto parlare del libro “letto durante le vacanze invernali”.

Mi sentivo un po’ in colpa per non aver scelto nessuno dei libri che la professoressa ci aveva chiesto di leggere, optando per autori che non rientravano nel programma di quell’anno, ma che avevano attirato la mia attenzione e che non avevo potuto fare a meno di leggere; “Espiazione” di Ian McEwan e “L’uomo che non poteva morire” di Findley.

Sporgendomi verso lo zaino, che avevo abbandonato ai piedi del letto, recuperai il mio lettore mp3 e le cuffie, selezionando “What I’ve done” dei Linkin Park.

Di solito non amavo studiare con la musica, tendevo sempre a lasciarmi distrarre dalle parole del testo e finivo col cantare e ignorare i libri di scuola, ma in quel caso avevo bisogno del suo potere terapeutico.

Quando pensai di aver memorizzato abbastanza nozioni, decidendo di essere decentemente pronta per superare con la sufficienza il compito del giorno successivo, chiusi il libro e controllai i lividi dove la pelle rossa di poco prima era ora di un rosa acceso. Mi alzai in piedi, il lettore mp3 in una mano e il dolore al fianco completamente scomparso, dirigendomi nuovamente verso la cassettiera, per recuperare dei pantaloni.

La porta della mia camera si aprì di poco, lasciando entrare la testa della mia migliore amica.

Mi tolsi di scatto gli auricolari alle orecchie e sbarrai gli occhi: «Sab?»

Isabel entrò in camera mia, chiudendosi la porta alle spalle: «Mamma mi ha detto cosa è successo e l’ho convinta a lasciarmi venire qua per vedere come stavi», disse, prima di puntarmi contro il dito e fare una smorfia di disappunto: «Anche perché qualcuno stava palesemente ignorando il cellulare e le mie chiamate».

Voltai lo sguardo verso lo zaino, avevo abbandonato al suo interno il telefono prima di andare nel bosco e non l’avevo più controllato.

«Mi dispiace», ammisi, tornando a guardare la mia amica, che si era seduta sulla sedia girevole davanti alla mia scrivania: «Ce l’ho in modalità silenzioso».

Sab annuì, giocando con il mio Funko Pop di Jon Snow, accarezzandogli il capo: «Raccontami tutto, Diana. M sento un po’ come lui in questo momento», disse, indicando il pupazzetto che stringeva nella mano destra: «Non so niente».

Lo sguardo della mia migliore amica mi studiò dalla testa ai piedi, fino a bloccarsi all’altezza dei miei lividi: «Potresti iniziare il racconto dicendomi chi è stato».

Annuii e mi coricai sul letto a pancia in su, fissando lo sguardo sul soffitto: «Quando mi è passato il mal di pancia sono andata a studiare in una radura qua vicino, avevo bisogno di prendere un po’ d’aria e…»

«Perché», iniziò a dire Sab, prima di annusare a fondo l’aria, avvicinandosi al mio letto: «Sento l’odore di Xavier sulle tue coperte?»

Arrossii.

«Ecco», mormorai, coprendomi brevemente il viso con le mani: «Diciamo che è venuto a farmi visita per vedere come stessi. Sai, il mal di pancia», spiegai, con un tono impacciato che non era da me.

“Diana, riprenditi. Sei ancora sconvolta per quello che ti ha detto a proposito degli odori, ok. E la tua vita non è più la stessa da quando lo hai visto nudo, comprensibile. Ma non puoi lasciarti condizionare in questo modo da quello sbruffone”.

La mia vocina interiore mi diede la spinta necessaria per cancellare quell’espressione colpevole dal mio volto: non avevo fatto nulla di male e Sab doveva sapere ciò che era successo, basta cincischiare.

«Ma non è questo il punto», continuai, con un tono più fermo e controllato: «Mentre ero nel bosco ho sentito Xavier e il lupo solitario scontrarsi, allora senza pensarci sono intervenuta per aiutarlo. Nel tentativo di proteggermi, Xavier mi ha colpito al fianco e l’altro lupo è scappato. Non so perché l’abbia lasciato andare, forse ha perso le sue tracce».

«Mia mamma ha detto che hai litigato con tuo fratello», disse Sab, fissandomi con uno sguardo colmo di comprensione.

Strinsi forte le mani a pugno: «Kyle pensa di sapere tutto solo perché ha 14 mesi in più di me».

Isabel sospirò, coricandosi accanto a me.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, perse nei nostri pensieri. Fu Sab a parlare per prima: «Vediamo il lato positivo».

Mi sollevai su un gomito, scrutando la mia amica con uno sguardo confuso: «E quale sarebbe?»

«Hai visto Xavier O’Bryen nudo».

Arrossii all’istante, lasciandomi nuovamente cadere di schiena sul letto, contemplando il muro bianco sopra di noi: «E lui ha visto me».

«Com’è stato?»

«Cosa?», chiesi, fingendo di non aver capito dove volesse andare a parare.

«Come cosa?! Stare nuda di fronte a lui. Vederlo nudo…»

Aprii bocca, ma poi la richiusi.

Cadde di nuovo il silenzio, questa volta fui io a spezzarlo: «Terrificante».

Isabel si sollevò su un gomito, guardandomi dritto in faccia: «Si è comportato male?»

Il suo sguardo serio e teso mi fece quasi commuovere, era bello sapere che lei per me ci sarebbe sempre stata: «No, non si è comportato male».

Un leggero bussare alla porta ci interruppe.

Sulla soglia comparve la nonna: «Isabel, ti fermi per cena?»

La mia amica mi lanciò prima un’occhiata veloce, poi tornò a guardare la nuova: «Non voglio disturbare…»

«Sì, nonna, si ferma a cena», interruppi la mia amica: «Avete bisogno di una mano per apparecchiare o preparare qualcosa?»

«Edith avrebbe bisogno di due giovani fanciulle come voi», disse nonna con uno strano sorriso sulle labbra: «Non le piace disegnare da sola».



******

Ciao a tutti!
Eccovi il nuovo capitolo, spero che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione per farmi sapere che ne pensate!
Mi dispiace se la scena con Xavier e Diana da soli e nudi non è stata come ve la sareste aspettata, ma dovete pensare che si conoscono da appena un giorno, inoltre Diana è ostinata a voler resistere all'attrazione che prova per Xavier, quindi sarebbe stato poco realistico se fosse successo qualcosa di "romantico" tra i due.
Il prossimo capitolo arriverà sabato 23 Settembre!
Un bacio,
LazySoul

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII: Seduzione a tavola ***


Capitolo VII: Seduzione a tavola


 

Sciolsi il nodo che avevo fatto alla maglietta, che cadde stropicciata a coprirmi la pancia e recuperai un paio di pantaloni comodi.

Infilai i piedi nelle mie pantofole con il pelo e, facendo segno a Sab di seguirmi, mi diressi in salotto, dove trovai Xavier appoggiato al tavolo, che passava a mia sorella un pastello colorato. Doveva essersi fatto una doccia, aveva ancora i capelli umidi, indossava un paio di jeans dal taglio largo e una maglietta dei Red Hot Chili Peppers.

Lanciai uno sguardo a mia nonna e, dal modo in cui apparecchiava tavola con un radioso sorriso sulle labbra capii che aveva indovinato fin troppe cose.

Ne ebbi conferma quando mi guardò dritto in faccia e mi strizzò l'occhio.

A quanto pare, oltre a Isabel, anche nonna Diana tifava per Xavier.

Magnifico.

Edith prese il pastello, lo studiò un attimo e poi scosse la testa pensierosa.

«Bisogno di una mano?», chiesi, avvicinandomi al tavolo e mettendomi, intenzionalmente, tra lei e Xavier.

«Dii!», esclamò lei, mettendosi in ginocchio sulla sedia e sporgendosi verso il suo precedente aiutante, gli prese la confezione di pastelli dalle mani e la consegnò a me con fare solenne: «Aiutami, lui non è bravo».

Un sorriso genuino nacque sulle mie labbra, presi il pastello giallo e lo passai a mia sorella: «Per disegnare il sole», le proposi, vedendola annuire convinta, lo sguardo gioioso.

Lanciai uno sguardo alla mia sinistra e incontrai lo sguardo di Xavier: «Temo che i tuoi servigi non siano più richiesti», gli dissi, muovendo la scatola di pastelli tra le mani come se fosse stata un oggetto importante: «Il potere è nelle mie mani, ora».

Lui sollevò un sopracciglio e mise in mostra le fossette - quelle dannate tentatrici.

«Non ho intenzione di arrendermi», disse: «Voglio sfidarti a duello. Chi vince, avrà il potere».

Non pensavo sarebbe stato al gioco, mi immaginavo una veloce ritirata e un grazie per averlo liberato dalle grinfie di mia sorella.

Aggrottai le sopracciglia, piacevolmente sorpresa.

«Dobbiamo scegliere il campo di battaglia», gli feci notare.

Isabel, di cui mi ero completamente dimenticata, fece capolino nel mio campo visivo con un sorriso sornione stampato sulle labbra: «Io ho un'idea».

Io e Xavier rimanemmo a fissarla, in attesa, mentre la vedevo aprire il mobile che conteneva i giochi da tavolo.

«Non Monopoli», le dissi, posando la scatola di pastelli, decisa a raggiungerla e impedirle di proporre qualcosa come...

«Twister?»

Ecco, appunto.

Xavier accanto a me scoppiò a ridere: «Perché no?»

Io inorridii: «Non so... è da tanto che non ci gioco e...»

«Io non ci ho mai giocato», ammise lui, lanciandomi uno sguardo divertito: «Non avrai intenzione di tirarti indietro, spero».

Sospirai, mentre Edith era già accanto a Sab e la aiutava ad aprire la scatola del gioco: «Come se potessi scegliere», mi lamentai, alzando gli occhi al cielo.

«Io giro la lancetta!», urlò mia sorella, saltellando emozionata.

Incontrai lo sguardo divertito di Xavier e non potei fare a meno di lasciarmi scappare un sorriso.

«Io farò da giudice», dichiarò Sab, posando a terra il telo bianco con sopra disegnate file di cerchi colorati.

Sfilai dai piedi le pantofole pelose e mi posizionai ad un capo del tappeto, mentre il mio avversario occupava quello opposto, sfilandosi le Converse nere.

Edith fece girare la lancetta e il gioco ebbe inizio.

Dopo dieci minuti eravamo entrambi accucciati in posizioni strane, io ero stata costretta a far passare una gamba in mezzo alle sue e il suo braccio destro era pericolosamente vicino al mio sedere.

A salvarmi da umiliazione certa ci pensò mamma, che annunciò la cena pronta in tavola, incitandoci a interrompere il gioco, altrimenti si sarebbe freddato tutto.

Una volta tornata in posizione verticale, lanciai un'occhiata di sottecchi a Xavier che stava piegando il tappeto, aiutato da mia sorella. Averlo nella stanza degli ospiti la notte e a scuola di giorno sarebbe stato deleterio per la mia salute mentale; speravo vivamente che si trovasse al più presto un appartamento suo.

Dalla porta sul retro entrò papà, seguito a ruota da Kyle: «Niente di nuovo sul fronte occidentale», esclamò quest'ultimo, citando il titolo di un libro che aveva letto poco tempo prima.

Forse si aspettava di fare pace così? Fingendo che nulla fosse accaduto e facendo qualche battuta spiritosa?

Lo guardai impassibile per qualche secondo, poi gli diedi le spalle e mi diressi verso la cucina.

«Ciao, Isabel», disse papà, mentre si sfilava gli scarponi e la giacca.

«Signor Wood», salutò lei di rimando, beccandosi un'occhiata di disappunto da mio padre: «Chiamami Noah».

Osservai la scena dal riflesso della finestra della cucina, mentre nonna sistemava in tavola il sale e il pepe.

«Diana?», chiamò papà, costringendomi a voltarmi.

Aveva uno sguardo stanco in volto, sembrava invecchiato rispetto a quella mattina e una ruga profonda gli solcava la fronte: «Diana, mi dispiace, ma non voglio che tu ti avvicini ai boschi da sola nei prossimi giorni».

Aprii la bocca per ribattere, con gli occhi sbarrati, ma non fui abbastanza veloce.

«Ora l'assassino di Frank conosce il tuo odore e il tuo aspetto, potrebbe pensare che tu sia una minaccia, potrebbe volersi vendicare del tuo intervento. Tutto è possibile. Promettimi che farai attenzione e non andrai da sola nel bosco».

Papà era serio, aveva in volto la sua espressione preoccupata e severa, quella che immancabilmente finiva sempre per rivolgere a me.

Chiusi la bocca, mordendomi il labbro inferiore per non dire le parole che mi passavano per la mente in quel momento.

"Dimostragli di essere grande, fagli vedere che non sei una bambina".

«Va bene», dissi semplicemente, abbassando lo sguardo sulle mie ciabatte pelose.

Dopo brevi secondi le calze rosse di papà entrarono nel mio campo visivo e la sua mano si posò sulla mia spalla, coprendola interamente: «Lo so che non è facile per te».

Avrei voluto essere sola, con lui, non circondata da tutti quegli occhi puntati addosso.

«Tra due mesi sarai maggiorenne e arriveranno le responsabilità, ma per il momento goditi la gioventù», mi consigliò papà, facendomi un buffetto sulla guancia.

Gli sorrisi, anche se con poca convinzione e annuii.

Che altro avrei potuto fare? L'unica che pensava fossi abbastanza grande per ragionare e prendere decisioni era nonna. Le lanciai un'occhiata veloce, era alle spalle di papà e mi guardava impassibile.

Promisi a me stessa che le avrei parlato il giorno dopo, appena tornata da scuola.

«Ora, a tavola, ho una fame da lupi», esclamò mio padre, facendo sorridere tutti, tranne la sottoscritta. Continuavo ad essere dell'idea che puntare sulle battutine per farsi perdonare fosse stupido e un insulto alla mia intelligenza.

A tavola mi trovai seduta tra Edith e Isabel, di fronte avevo la nonna e Xavier.

Come direbbe Jules: "Bene, ma non benissimo".

Pensare al mio compagno di scuola mi fece tornare in mente la festa di sabato sera e la ricerca che dovevo fare con Frida.

«Papà, sabato posso dormire da una mia amica?», chiesi, beccandomi un'occhiata indagatrice da Sab. Ah, già, con lei ancora non ne avevo parlato.

«Che amica?», chiese lui, servendosi una porzione a dir poco disumana di lasagna.

«Frida Martinez, dobbiamo fare una ricerca di spagnolo insieme e mi ha chiesto di andare da lei sabato pomeriggio e fermarmi a dormire da lei», mentii, senza sentirmi minimamente in colpa.

In realtà Frida mi aveva solo invitato a cena e mi avrebbe poi accompagnato in macchina alla festa di Paul Ling, non si era offerta di ospitarmi per la notte.

Vidi papà annuire e lanciare occhiate in direzione di mamma, quasi volesse cercare di capire la sua opinione in merito, senza però chiedergliela esplicitamente.

«Una ricerca su cosa?», continuò l'interrogatorio papà, puntando i suoi occhi scuri su di me.

«Un autore spagnolo, Cernuda», risposi prontamente, servendomi a mia volta un'enorme porzione di lasagna.

Quando tutti i piatti furono pieni, iniziammo a mangiare e il discorso sembrò cadere nell'oblio. Ma sapevo che papà aveva semplicemente bisogno di tempo per elaborare i dati che gli avevo fornito e decidere cosa fare. Amava ponderare le decisioni, diversamente da me.

«Diana?», mi chiamò nonna, facendomi alzare lo sguardo su di lei: «Domani ho bisogno del tuo aiuto, con questo pericoloso lupo in giro non mi fido ad andare da sola a raccogliere viole e primule», la sua voce era seria, ma nel suo sguardo lessi una punta di divertimento che mi fece sorridere internamente.

«Va bene, nonna», risposi, sentendo papà sbuffare: «Mamma, così però non mi aiuti».

«Le accompagno?», chiese Kyle, senza alzare lo sguardo dal piatto.

Lo fulminai con lo sguardo, ero ancora furiosa con lui e non lo volevo tra i piedi. Avevo bisogno di sbollire la rabbia.

«Non penso che ce ne sarà bisogno, domani pomeriggio Robert si occuperà della ronda e sono certo che nonna e Diana non si allontaneranno molto da casa, vero?»

«No, ovvio che no», risposi, facendo un occhiolino a nonna dall'altro lato del tavolo. Xavier accanto a lei cercò di camuffare la sua risata in tosse.

Il resto della cena trascorse tranquillamente, chiacchierai del più e del meno con Isabel, papà fece un paio di battute, dicendo che doveva essere strano trovarsi allo stesso tavolo del nostro nuovo professore di ginnastica e Isabel ammise che la trovava una situazione singolare.

Fu mamma a introdurre un discorso che attirò l'attenzione di tutti, compresa quella solitamente altalenante della nonna.

«Allora, Xavier, raccontaci di te. Da dove vieni?»

La tavolata cadde in un silenzio di tomba.

«Ho frequentato il liceo a Salt Lake City», disse, guardando tutti i presenti con aria divertita. Non sembrava minimamente a disagio o sotto pressione; era rilassato, sorrideva e mangiava come se niente fosse. Avevo solo una parola per descriverlo: esibizionista.

«Penso sia stato il periodo più lungo che ho passato nella stessa città, papà amava viaggiare. Stavamo cercando un branco a cui unirci, quando siamo stati attaccati».

Non si era perso in dettagli, era stato un racconto piuttosto scarno e mamma non sembrava affatto soddisfatta.

«Siete sempre stati soli?», chiese papà.

«Sì», rispose Xavier, passandosi una mano tra i capelli.

Era forse un gesto dovuto all'imbarazzo? Alla tensione?

Alzai gli occhi al cielo. Certo che no, era solo un modo come un altro per mettere in mostra l'anellino che aveva all'orecchio sinistro. Esibizionista.

Dato che a quanto pare si poteva bombardare di domande personali l'ospite d'onore, decisi che volevo partecipare anche io: «So che a Salt Lake City c'è un branco. Avevate contatti con loro, prima di andarvene?»

Xavier sollevò un sopracciglio e sorrise: «Avevo un paio di compagni di scuola che facevano parte del branco, andavamo d'accordo. Si chiamavano Fiona e David, erano fratelli gemelli».

Il boccone di lasagna che stavo mangiando mi rimase bloccato in gola. Aveva detto... ?

Fu mio fratello a porre la domanda che avevo sulla punta della lingua: «Fiona e David Middle?»

Xavier corrugò le sopracciglia: «Sì, li conoscete?».

Io e Kyle ci guardammo sconvolti. In realtà ce l'avevo ancora con lui per come si era comportato nel bosco davanti a tutti, facendomi passare per una bambina priva d'intelletto, ma decisi di mettere da parte l'ascia di guerra, momentaneamente.

Essendo la figlia del capo branco e una bambina piuttosto testarda, ero riuscita più di una volta a farmi portare con lui alle riunioni tra Alpha, le quali si tenevano due o tre volte all'anno in giro per gli Stati Uniti. Alla riunione a Salt Lake City di due anni prima papà aveva deciso di portare me e Kyle. Io e mio fratello avevamo stretto amicizia con alcuni dei figli dei partecipanti, tra cui Fiona e David Middle.

«Sì», dissi, ricordando chiaramente i sorrisi identici dei gemelli, i loro occhi color ghiaccio e la voce squillante di Fiona che si divertiva a spettegolare su tutto e tutti. Mi aveva per caso parlato di un certo Xavier O'Bryen? Non riuscivo a ricordarlo.

«A proposito», esclamò mio fratello, guardandomi curioso: «David ti scrive ancora su Facebook?»

Arrossi all'istante, sbarrando gli occhi. Era ufficiale: mio fratello voleva morire.

«No», risposi con tono secco, guardando dalla parte opposta del tavolo, così da fargli capire che non avevo intenzione di ascoltarlo oltre.

«Cos'è questa storia?», chiese subito mamma. Udii chiaramente mio fratello ridere sotto i baffi.

Voleva la guerra? L'avrebbe avuta.

«David mi ha scritto un paio di volte chiedendomi come stessi, tutto qua. Penso che in realtà fosse Fiona a costringerlo; l'ultima volta che ci siamo sentiti mi ha detto che sua sorella si era presa una bella cotta per te, Kyle, ma che tu non le rispondevi ai messaggi».

«Cosa?», chiese mamma, guardando prima me e poi mio fratello con gli occhi fuori dalle orbite.

Doveva essere dura per lei venire a sapere che i suoi due figli maggiori avevano raggiunto l'età in cui si era sessualmente attivi. Pensava davvero che io e Kyle non avessimo mai avuto qualche spasimante o qualche cotta?

Alzai lo sguardo su Xavier, che mi scrutava con attenzione dall'altra parte del tavolo.

Non sapevo cosa pensare di lui, dovevo ammettere che i suoi tentativi di avvicinamento mi avevano dato fastidio, ma allo stesso tempo mi avevano lusingato. Lui era un bel ragazzo, niente in confronto a Jason Mamoa, ma aveva il suo fascino. Perché sembrava essersi intestardito con me?

Sollevai un sopracciglio, cercando di capire cosa volesse: perché continuava a fissarmi?

Sentii chiaramente mio fratello tirare fuori una scusa patetica per cercare di spiegare la questione "Fiona" a mamma, ma ero troppo concentrata a capire se il ragazzo seduto di fronte a me mi stesse sfidando a una gara di sguardi, per prestare attenzione alla voce di Kyle e ai toni scandalizzati di mamma.

O'Bryen mise in mostra le fossette e mi fece l'occhiolino.

Aggrottai la fronte e strinsi le labbra in una linea sottile, non riuscivo a capire a che gioco stesse giocando e la cosa mi innervosiva.

Schiuse le labbra, mostrando i denti, poi mi mandò un bacio silenzioso.

Stavo per distogliere lo sguardo per vedere se qualcuno avesse per caso assistito, ma non lo feci; volevo vedere fino a dove aveva intenzione di spingersi.

Xavier inspirò a fondo e aggrottò le sopracciglia, come se qualcosa non stesse andando come voleva. Un ciuffo di capelli gli scivolò sulla fronte, il naso si arricciò appena e la mano accorse subito a rimettere a posto la ciocca ribelle.

I suoi occhi si abbassarono sulle mie labbra e io feci involontariamente lo stesso, portando lo sguardo sulla sua bocca schiusa, dalla quale uscì la lingua.

Mi aveva appena fatto una boccaccia?

La sua lingua si mosse lenta, inumidendo prima il labbro inferiore, per poi passare a quello superiore.

Quel gesto provocò il corto circuito del mio cervello. Rimasi a fissarlo a bocca aperta per due infiniti secondi, prima di recuperare il controllo e cercare di convincermi che quello non fosse stato il gesto più sensuale al quale avessi assistito in diciassette anni di vita.

«Diana, secondo te domani piove?»

Voltai lo sguardo verso Isabel e la fissai, sbattendo le ciglia, come un'imbecille.

Sollevai le spalle e scossi la testa, impossibilitata a parlare; avevo la gola più secca del deserto del Sahara.

Mi versai dell'acqua nel bicchiere e bevvi tutto d'un fiato, rischiando di strozzarmi.

Quando tornai a guardare di fronte a me, vidi chiaramente Xavier sfoggiare un sorriso compiaciuto.

L'affronto appena subito mi bruciò viva, facendomi desiderare la vendetta più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Voleva giocare?

Sollevai un sopracciglio, e aspettai che i suoi occhi incontrassero i miei, a quel punto sorrisi, cercando di essere il più gentile possibile.

«Mi passeresti le verdure per favore?», gli chiesi, indicando il piatto di carote accanto a lui.

Sfoggiando il suo sorriso compiaciuto, anche se gli occhi erano diventati guardinghi, mi porse ciò che gli avevo chiesto e io mi servii, pensando a come fare per vincere la guerra.

In quel momento Sab mi colpì la gamba da sotto il tavolo, facendomi arricciare le labbra per il dolore. Una volta che puntai lo sguardo su di lei, mi resi conto che mi stava ignorando.

Non capii subito, ma quando ci arrivai non potei fare a meno di ghignare.

Sab, usando, come suo solito, modi pacati mi aveva suggerito la mossa successiva.

Senza pensarci allungai la gamba destra in avanti incontrando quasi subito il polpaccio di O'Bryen, il quale sussultò e mi fissò con sguardo confuso.

Mossi il piede verso l'alto, poi lo lasciai scivolare nuovamente verso il basso, il tutto senza distogliere lo sguardo da quello di Xavier. Non ero sicura di ciò che stavo facendo; non ero una grande seduttrice e mai lo sarei stata. Speravo vivamente però che funzionasse.

Senz'ombra di dubbio avevo attirato la sua attenzione; non mi levava gli occhi di dosso e aveva uno strano sguardo famelico. Era un segno positivo? Non ne ero del tutto convinta.

Sentii nonna iniziare a discutere dell'orto e capii che io e Xavier non eravamo al centro dell'attenzione come temevo. Bene.

Mi passai distrattamente una mano sul collo e sulla gola, giocando con la catenella in oro bianco che mi era stata regalata qualche anno prima per il mio compleanno, e dalla quale non mi separavo mai.

Sapevo che non avevo a che fare con un vampiro e che quindi il mio tentativo di spostare l'attenzione sulla mia giugulare non aveva molto senso, ma ero a corto di idee e quella era l'unica abbastanza sensata da meritare di essere presa in considerazione.

Poi, ebbi l'illuminazione.

Mi portai la catenella alle labbra, facendo scorrere il ciondolo da una parte all'altra della bocca.

Vidi il compiacimento nell'espressione di Xavier evaporare, sostituito da uno sguardo che avrei potuto definire in un modo soltanto: torbido.

Esultai dentro di me, sentendo di avere il coltello dalla parte del manico; ora il problema era capire come fare a...

«Diana?», mi chiamò mamma, facendomi voltare con un sorriso a trentadue denti verso di lei, ero l'immagine dell'innocenza: «Sì?», risposi, smettendo di giocare con la collana e di accarezzare il polpaccio di Xavier col piede.

«Mi aiuteresti a sparecchiare?»

Mi alzai, senza guardare Xavier; avevo bisogno di ritrovare la sanità mentale perché era palese che una qualche interferenza tra i neuroni aveva impedito alle cellule del mio cervello di ricevere abbastanza ossigeno e...

«Vi aiuto», si propose O'Bryen, alzandosi da tavola e iniziando a impilare i piatti intorno a sé.

«Non ce n'è bisogno», tentò di fermarlo mamma, ma lui parve irremovibile e insistette, dicendo che con il suo aiuto avremmo fatto prima.

Ero certa che avesse un qualche piano in mente, ma non riuscivo a capire quale.

Il resto della famiglia e Isabel si spostarono in salotto, Edith tornò a colorare e la mia amica le diede una mano, suggerendole i colori. Nonna, papà e Kyle parlavano animatamente dell'orto e, ad un certo punto, anche mamma si aggiunse alla conversazione, lasciandomi da sola con Xavier, in cucina. C'era però un lato positivo: mancavano alcuni tovaglioli, l'acqua e i condimenti da spostare e la tovaglia da sbattere e poi avremmo finito.

Feci di tutto per evitare contatti fisici o visivi con lui, ostinandomi a tenere lo sguardo basso e osservando attentamente le piastrelle ai miei piedi.

Era chiaro che il suo intento era stato quello di rimanere da solo con me e ora che ce l'aveva fatta non riuscivo a capire perché non facesse nessuna mossa o tentasse di darmi fastidio come suo solito.

Quelle furono le ultime parole sensate che riuscii a pensare, prima di venire intrappolata nell'unico angolo della cucina che non era visibile dal salotto.

Col respiro irregolare per la sorpresa e gli occhi sbarrati, mi ritrovai letteralmente con le spalle al muro, avevo le labbra di Xavier contro il lobo del mio orecchio sinistro e le sue mani calde che mi accarezzavano le braccia.

Brividi leggeri mi corsero sulla pelle e un caldo languore mi fece chiudere gli occhi per qualche secondo. Circondata dal suo corpo, inebriata dal suo profumo non potei fare a meno di concedermi brevi attimi di resa, in cui lasciai che la punta del suo naso scorresse lungo il mio collo, facendomi venire la pelle d'oca.

Quando mi ricordai chi ero, con chi ero e dove ero - tre dettagli che per cinque secondi buoni erano stati cancellati dalla mia mente - decisi che non l'avrei lasciato vincere, non senza controbattere in qualche modo.

Così mi lasciai guidare dall'istinto e alzai una mano, immergendola tra i suoi capelli, sentendone chiaramente la consistenza solleticarmi i polpastrelli. Facendo presa sulle sue ciocche scure gli spostai il capo, in modo da poterlo guardare dritto negli occhi.

Entrambe le mie mani gli circondarono il viso, per poi scorrere verso il basso e appoggiarsi contro il suo torace muscoloso.

I suoi occhi, sorpresi e rapiti dai miei gesti mi risvegliarono, ricordandomi che stavamo giocando.

Lo spinsi, allentandolo da me e sgusciando via dalla posizione contro il muro.

Avevo bisogno di prendere aria e ricordarmi il mio nome.

«Diana», mormorò Xavier, aiutandomi col punto due della lista di cose da fare.

Alzai una mano, interrompendolo.

Non doveva parlare, non lì a pochi metri dai miei genitori, non con quello sguardo negli occhi.

Sapevo a grandi linee cosa voleva dirmi, perché anche io pensavo lo stesso.

Quel gioco era pericoloso, prima o poi uno dei due avrebbe finto col farsi male e le probabilità erano tutte contro di me. Quella pazzia doveva finire.

Scossi la testa e mi portai un dito alle labbra, facendogli segno di non dire niente e di andarsene.

Xavier mi scrutò ancora per qualche istante, combattuto, poi decise di darmi retta e andò in salotto, lasciando a me l'ingrato compito di scuotere la tovaglia e sistemare i piatti sporchi nella lavastoviglie.

Approfittai di quella manciata di minuti da sola per cercare di fare mente locale e tranquillizzare il mio cuore esagitato, per non parlare della mente; un guazzabuglio di pensieri che era impossibile districare.

Xavier mi piaceva, dovevo ammetterlo almeno a me stessa. Caratterialmente ancora non lo conoscevo molto e quel poco che avevo visto non mi aveva colpito positivamente, ma da un punto di vista fisico era molto, anzi troppo, attraente. Questo però non voleva dire niente.

Dovevo solo resistere qualche giorno in più, poi avrebbe smesso di vivere sotto il mio stesso tetto e tutto sarebbe tornato alla normalità. Il mio corpo poteva desiderarlo quanto voleva, non avrei ceduto.

Decisi che l'avrei ignorato, cercando in ogni modo di non trovarmi mai più, da sola con lui; ne andava della mia sanità mentale.

Raggiunsi gli altri in salotto, beccandomi uno sguardo interrogativo da parte di Sab, che cercai di ignorare inizialmente, convinta che si sarebbe rassegnata. Ovviamente mi sbagliavo.

«Diana, mia mamma viene a prendermi tra circa venti minuti, che ne dici, andiamo in camera tua a ripassare un po' per la verifica di domani?», chiese ad alta voce, attirando l'attenzione di mamma: «Domani avete una verifica?»

«Letteratura inglese», rispose prontamente la mia amica, fissandomi dritto negli occhi.

Sospirai, arrendendomi: «Va bene».

Venti secondi dopo eravamo barricate in camera mia e l'indice indagatore di Isabel era puntato minacciosamente contro di me: «Cos'era?», chiese, confondendomi.

«Cos'era cosa?»

Mi gettai sul letto di pancia, affondando la faccia contro il cuscino: il paradiso.

«Cos'era quel teatrino pornografico a cui ho dovuto assistere per metà cena?», specificò Sab, trapanandomi le orecchie.

No, il paradiso me lo immaginavo più silenzioso, quello doveva essere l'inferno.

«Non lo so», ammisi, voltandomi sulla schiena e portandomi le mani al viso. Non ero mai stata così tanto stanca in vita mia.

«Potrebbe essere lui, ci hai pensato?», chiese.

«Di cosa stai parlando?», ribattei, sempre più confusa dalla stramba conversazione che stavamo avendo.

«Potrebbe essere il tuo compagno per la vita».

Mi tirai su a sedere, aprendo la bocca per dirle chiaro e tondo che si stava sbagliando, ma le parole mi rimasero incastrate in gola.

«No, non ci avevo pensato», ammisi, rigettandomi sul materasso con la fronte corrucciata.

Forse era per quello che sentivo quella fronte attrazione. Non mi era mai capitato prima, con nessuno. O forse Isabel si sbagliava e la mia era semplice e banale attrazione fisica, giustificata dal fatto che il soggetto in questione era particolarmente avvenente.

Sab si sedette sul letto accanto a me, con le gambe incrociate: «Promettimi che, in qualsiasi caso, farai attenzione e che ci penserai due volte prima di fare qualcosa di avventato».

La guardai negli occhi, leggendovi reale preoccupazione: «Lo prometto».

Isabel annuì, l'espressione sul volto più rilassata: «Allora, cos'è questa storia che vai a dormire da Frida Martinez?», mi chiese con un sopracciglio sollevato.

«Oh, ho mentito», le confidai in un sussurro: «In realtà era una scusa per poter andare alla festa di Paul Ling senza dovermi portare dietro Kyle», ammisi, facendole l'occhiolino.

Sab scoppiò a ridere: «D sei incredibile e dove pensi di dormire? Da Ling?».

«Stavo pensando di portarmi dietro la tenda da campeggio e il sacco a pelo e accamparmi con te nella nostra radura preferita», le proposi, guardandola con aria cospiratoria.

«Tu sei pazza», disse semplicemente, scuotendo la testa, con aria rassegnata.




 

*****
 

Ciao a tutti!

Molti di voi devono essere confusi, penseranno: "Ma come? Ma quindi questo compagno per la vita esiste o no? Com'è che tutti sembrano così insicuri?"

Ebbene, sì, esiste, ma diversamente dalle altre storie che ho letto su questa categoria, non basta essere attratti da una persona per innamorarsi. Diana è impulsiva e desiderosa di essere trattata alla stregua di un'adulta, ma per quanto riguarda l'amore (penso di averlo reso abbastanza chiaramente) è proprio una bambina, schifata quasi dall'idea di innamorarsi. Perché? Lo scopriremo meglio nei prossimi capitoli.

Probabilmente penserete che questa storia non va avanti, il fatto è che creare un mondo nuovo, partendo da zero, non è facile e sto cercando di andare piano per riuscire ad analizzare al meglio quello che succede e darvi un chiaro quadro della situazione, senza però annoiarvi troppo. Non è affatto facile, quindi mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.

Detto ciò, vi dò appuntamento al prossimo sabato.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII: Oggetti volanti ***


 

Capitolo VIII: Oggetti volanti


 

Le lezioni del martedì si trascinarono con la solita lentezza. Biologia, filosofia, matematica, arte, la transumanza da un'aula all'altra, le chiacchiere con Sab, quelle con Jules e Frida, le frecciatine con Francine. Tutto noiosamente monotono.

Unica cosa positiva di tutta la giornata fu che non incrociai il nuovo professore di educazione fisica da nessuna parte, così da concedere a me stessa un po' di tregua e al mio povero corpo la purificazione necessaria.

In mensa con Sab discutemmo della questione "Festa di sabato sera" e io provai a convincerla che andare a dormire nel bosco con un lupo mannaro omicida non sarebbe stato poi così tanto pericoloso.

«Vorrei ricordarti che tuo padre ti ha fatto promettere di non metterti nei guai», aveva cercato di dissuadermi lei, puntandomi contro la forchetta.

«Ha detto che non vuole che vada nel bosco da sola», le ricordai, sorridendole furbescamente: «Se ci andiamo insieme non ci dovrebbero essere problemi. Inoltre vorrei ricordarti che anche tu ed io siamo lupi mannari».

A quella mia osservazione non era riuscita a rispondere in modo convincente e la conversazione era caduta nell'oblio.

L'unica lezione che sembrò sfuggire dalle regole temporali che vigevano a scuola - ossia la strana equazione che permetteva ad un minuto di durarne cinque - fu l'ultima, quella di letteratura inglese.

Dopo quelli che mi parvero venti minuti scarsi, la lezione era già giunta al termine, obbligando noi, poveri studenti, a consegnare la verifica e ad uscire dall'aula per tornare a casa.

Non avevo idea di come fosse andato il compito, ero fiduciosa però e speravo nella sufficienza.

Una volta tornata a casa non ebbi nemmeno il tempo di posare lo zaino, che mamma - uscita prima dal lavoro, per mia immensa sfortuna - mi mise in mano scopa e spazzolone e mi disse con tono concitato di lavare il pavimento in cucina e salotto.

«Devo andare a fare la spesa, altrimenti non so proprio cosa preparare per cena. Ci vediamo presto, tesoro!», mi salutò lei, prendendo la borsa, le chiavi della macchina e uscendo di casa.

«Bentornata a casa, Diana!», mi dissi, gettando lo zaino sul divano, subito seguito dal giubbotto: «Com'è andata oggi a scuola? Tutto bene?»

Sospirai e alzai gli occhi al cielo.

Lavare per terra non era nella lista delle cose che avevo messo in programma di fare quel giorno, ma non potevo protestare in nessun modo, mamma ormai mi aveva incastrata.

Iniziai col passare la scopa in cucina e, quando ormai avevo quasi finito, venni raggiunta dalla nonna che, con in mano il suo cestino di vimini studiò brevemente le mie mosse, prima di informarmi che mi avrebbe aspettata fuori.

Avevo assolutamente bisogno di passare del tempo da sola con nonna; volevo parlarle e chiederle qualche consiglio senza avere nessuno intorno.

Così iniziai a lavorare con convinzione, decisa a finire il più in fretta possibile.

Una volta terminato con la scopa, riempii un secchio d'acqua calda e ci versai dentro il detergente e lo straccio. La maggior parte della superficie la lavai con l'ausilio dello spazzolone, ma dovetti accucciarmi a terra e sfregare lo straccio con le mani quando arrivai alla mattonella su cui Edith aveva pensato bene di versare il latte caldo col miele, nel tentativo di togliere più in fretta la patina appiccicosa che la ricopriva.

«Signora...», la voce di Xavier si interruppe, facendomi voltare verso di lui: «Sei tu», disse semplicemente, rimanendo fermo a pochi passi da me, il suo profumo che iniziava a diffondersi nell'ambiente.

Quella mattina avevo di nuovo annusato le coperte per cercare il suo odore, proprio come avevo fatto la sera prima per addormentarmi. Ci avevo impiegato un giorno intero per disintossicarmi e ora lui compariva così dal nulla, rovinando tutto quanto. Che rabbia.

«Mamma è andata a fare la spesa», lo informai, capendo subito chi stesse cercando, mentre tornavo a dedicarmi con ostinazione alla mattonella.

«Ah», aggiunsi: «Vedi di uscire, se lasci impronte fresche qua dove ho appena lavato ti sbrano».

Una volta finito con la mattonella mi alzai, tornando ad impugnare lo spazzolone.

Sapevo che lui era ancora lì, a pochi passi, più in corridoio che in salotto, proprio alle mie spalle. Oltre all'odore, ne percepivo la presenza.

«Diana», mi chiamò, facendomi automaticamente alzare lo sguardo su di lui. Ma il suo tono di voce e l'espressione che lo accompagnava mi fecero paura, così cercai di ignorarlo, tornando a concentrarmi sul mio lavoro.

«Potresti spostarti?», gli chiesi soltanto, in modo da poter lavare anche le mattonelle su cui si ostinava a sostare.

Fece due passi indietro senza protestare: «Diana», mi chiamò di nuovo: «Potresti fermarti solo un minuto?»

"No, non posso fermarmi", pensai, gli occhi inchiodati al pavimento e allo straccio rosa acceso: "Ho paura dello sguardo che ha in questo momento, è lo stesso che aveva ieri sera, dopo che l'avevo quasi baciato".

Gettai lo straccio nel secchio, lo strizzai e poi tornai al mio lavoro: «Come vedi, sono impegnata al momento».

"Codarda!", urlò una parte di me, facendomi serrare con forza la mascella: "Cosa potrebbe mai dirti di così terribile?"

"Meglio non saperlo", ribatté una seconda vocina nella mia testa e decisi che aveva maledettamente ragione. Era meglio non saperlo, non in quel momento, non prima di essermi consultata con nonna e aver chiesto il suo parere.

Ma fu più forte di me e alla fine alzai lo sguardo, proprio quando finii di lavare per terra. Lui era da una parte della stanza, io dall'altra, il pavimento ancora bagnato a dividerci.

«Devo raggiungere la nonna», dissi semplicemente, asciugandomi le mani umide contro i pantaloni scuri.

I suoi occhi chiari studiarono ogni mio movimento, lo sguardo serio: «Hai intenzione di ignorarmi? Di ignorare il legame che c'è tra di noi?»

Apprezzavo la sua schiettezza, il suo modo diretto di pormi le domande, di mettermi a conoscenza dei suoi pensieri. Ero però dell'opinione che la vera domanda da porsi era: "Si poteva ignorare un legame simile?"

«No», ammisi, facendo un passo indietro, verso la porta alle mie spalle, che dava sul retro.

I suoi lineamenti si addolcirono e spuntarono le sue stupende fossette. Quello però era un colpo basso; doveva averlo capito ormai che quelle fossette erano la mia rovina. Lo faceva apposta? Le sfoderava per mettermi in difficoltà? Come un guerriero sguainerebbe una spada?

Aprì bocca, quasi volesse aggiungere altro, ma lo precedetti: «Ora devo andare, mi lanceresti la giacca?».

Recuperò dal divano - che si trovava alla sua sinistra - il mio cappotto, spostò il braccio all'indietro, poi lo mosse di colpo verso di me, con forza. La giacca mi colpì in pieno viso mezzo secondo dopo.

Quando puntai il mio sguardo offeso e furioso su di lui, vidi chiaramente che si stava trattenendo dal ridere.

«Scusa», disse, alzando le mani a mo' di resa, continuando a sfoggiare un luccichio divertito negli occhi chiari: «Pensavo lo prendessi».

Avrei voluto lanciargli in faccia qualcosa, mi sarebbe piaciuto vedere la sua reazione, ma non avevo nulla a portata di mano, tranne lo spazzolone o il secchio e non mi sembrava il caso...

Un'idea improvvisa mi fece comparire un sorriso malizioso sulle labbra.

Avrei potuto lanciargli... No, mi imposi un minimo di contegno e distolsi lo sguardo, decisa a uscire, raggiungere la nonna e passare un po' di tempo con lei, da sole.

«Pensavo mi avresti tirato contro lo spazzolone», disse lui, appoggiandosi allo stipite della porta, incrociando le bracci al petto.

La vocina dispettosa nella mia testa mi consigliò di accontentarlo e io, senza pensarci due volte decisi di assecondarla. Incastrai la giacca in mezzo alle mia gambe e gli lanciai un sguardo di sfida mentre infilavo le mani sotto il mio maglione.

Vidi la confusione dipingersi sul suo volto, insieme a un malcelato interesse per la striscia di pelle della pancia che le mie manovre lasciavano scoperta: «Cosa stai...?», iniziò, ma non riuscì a finire la frase perché ricevette in pieno viso il mio reggiseno.

«Ora siamo pari», dissi, indossando in fretta la giacca, un sorriso a trentadue denti a illuminarmi la faccia.

Si tolse il mio indumento intimo dal viso e lo strinse tra le dita: «Lo considero un regalo».

Aveva la voce roca e gli occhi torbidi.

All'improvviso non ero più del tutto certa che quella fosse stata una buona idea.

«Fa come ti pare», gli dissi, prima di scomparire oltre la porta.

Scesi le scale della veranda e raggiunsi nonna, appoggiata al tronco del melo.

«Andiamo?», le chiesi, chiudendo la giacca e nascondendo le mani nelle tasche.

«Cominciavo a temere che ti fossi persa», si lamentò, stringendosi nel cappotto e iniziando ad incamminarsi verso il bosco.

I primi minuti li trascorremmo in silenzio, mentre ci addentravamo per il sentiero battuto.

Ebbi così modo di pensare a quello che era appena successo con Xavier e a chiedermi perché diavolo avessi deciso di ascoltare quella stupida vocina nella mia testa. Avrei dovuto lanciargli lo spazzolone, non il reggiseno!

Sospirai e nonna si fermò, guardandomi: «Penso che il nostro ospite sia interessato a te».

La sua schiettezza mi ricordò quella di Xavier poco prima e sorrisi, involontariamente.

«Lo penso anche io, nonna», le diedi ragione, accovacciandomi accanto a lei per raccogliere le viole che coloravano il verde praticello ai piedi di un grosso abete.

«E penso che tu non sia indifferente alle sue attenzioni», continuò, studiando il mio viso a pochi centimetri dal suo.

«No, non lo sono», confessai, portandomi una mano ai capelli, nel tentativo di tirarli indietro: «Nonna, non so cosa mi sta succedendo».

Mi sedetti su una radice sporgente, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e il volto tra le mani. Avrei voluto sfogarmi ancora, dirle tutto quello che mi passava per la mente, dirle che sentivo il forte desiderio di lasciarmi andare quando ero con lui, di essere me stessa, nel bene e nel male, senza pormi troppe domande.

La sua mano tiepida mi accarezzò la testa, facendomi sollevare lo sguardo: «Alla tua età io ero esattamente come te», disse, sorridendomi con calore: «Uno spirito libero, pronta a seguire l'istinto e a ignorare gli ordini; mio padre non riusciva a limitare le mie decisioni, per quanto ci provasse. Quelli erano tempi diversi, pieni di tradizioni antiche e sciocche; le ragazze lupo come te erano costrette a scegliere un compagno e donarsi a lui entro il loro diciottesimo compleanno. Io andai contro le leggi e quando mi venne chiesto di unirmi all'uomo che mio padre aveva scelto per me, al cospetto del capo branco e della luna piena, mi rifiutai e decisi che l'esilio era meglio di essere imbrigliata a vita».

Avevo gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse, mentre ascoltavo con attenzione, decisa a non lasciarmi sfuggire nessun dettaglio della storia. Nonna non mi aveva mai raccontato della sua gioventù, di solito era piuttosto schiva, evitava di parlare di se stessa, preferendo puntare il riflettore sugli altri. Doveva costarle molto mettere da parte la sua natura e parlarmi della sua adolescenza a cuore aperto. Gliene ero grata.

«Mio padre cercò di concedermi un'ultima possibilità, non voleva perdermi, ero la sua figlia più piccola, quella che avrebbe sempre visto come una bambina. Gli spezzai il cuore, questo è l'unico rimpianto che ho. Avrei voluto evitargli tutto quel dolore, ma non potevo assecondarlo. Durante la notte me ne andai, riempii una sacca con qualche vestito e del cibo, rubai un cavallo e lasciai che fosse l'istinto a guidarmi».

Sul suo viso comprare uno sguardo triste, le rughe si infittirono, creando una ragnatela delicata intorno ai suoi occhi e bocca.

«Non fu semplice, ma era una decisione che avevo preso e che avrei portato a compimento. Testarda e orgogliosa com'ero la resa non era un'opzione. Viaggiai molto, vidi posti incantevoli che posso ancora rievocare nella mia mente. Montagne, boschi, laghi... Vivevo nei boschi, facevo delle grotte che incontravo la mia casa, cacciavo cervi e mi lavavo nei torrenti».

«Era raro trovare altri lupi solitari, ma quando succedeva, facevo attenzione a non farmi scovare e a tenerli alla larga. Per circa due anni vissi da sola, in mezzo alla natura e, per quanto sentissi la mancanza di casa, non volevo tornare indietro; ero finalmente libera, Diana, libera di essere me stessa, di correre se avevo voglia di correre, di digiunare se non avevo abbastanza fame e di passare ore in acqua a osservare il cielo sopra di me».

Era difficile immaginare nonna in un contesto diverso da quello in cui la vedevo immersa ogni giorno da quasi diciotto anni, ma non impossibile. Riuscivo quasi a sentire come si doveva essere sentita, l'ebrezza della libertà, l'eccitazione e la paura folle. Mi ritrovai a provare una punta di invidia nei suoi confronti.

«Poi sul mio cammino trovai una piccola cittadina e decisi di provare a inserirmi nella vita di quel paesino. Cercavano un'insegnante per i bambini più piccoli e io decisi di propormi. Coi soldi che guadagnavo affittavo una stanza in una pensione al limite del bosco, mi compravo nuovi vestiti e del cibo. Inizialmente credevo di essere l'unica lupa mannara della zona, poi un giorno, mentre facevo una corsa nel bosco, incontrai tuo nonno e il suo branco».

Nonna smise di raccontare, si alzò in piedi e continuò a camminare lungo il sentiero, lo sguardo a terra, alla ricerca di primule e viole. Mi alzai anche io di scatto: «E poi?», le chiesi, nel tentativo di incitarla a continuare. Non poteva interrompersi sul più bello.

Nonna sospirò, accovacciandosi nuovamente; davanti a lei una decina di primule coloravano il terreno. Mi accucciai accanto a lei, aiutandola a porre i fiori nel cesto.

«E poi tuo nonno tentò di uccidermi, quello era il suo territorio e io non avevo il diritto di passare. Per fortuna nel periodo che avevo passato da sola nel bosco avevo imparato qualche tecnica di difesa e riuscii a sfuggirgli. Lo incontrai sotto forma umana due giorni dopo, era alla fiera del paese e mi riconobbe all'istante. All'inizio i rapporti furono tesi, io lo evitavo e lui faceva lo stesso, ma lo sentivo che qualcosa di profondo ci legava e per quanto ci provassi, ignorarlo fu quasi impossibile. Eravamo entrambi orgogliosi e testardi, riuscire a non sbranarsi dopo cinque minuti di conversazione era dura, eppure finì per farmi innamorare».

Non avevo avuto la possibilità di conoscere il nonno, era morto quando io ancora non ero nata e tutto ciò che sapevo su di lui era stato gentilmente offerto dai racconti di papà, quasi mai dalla nonna.

Presi coraggio e decisi di farle altre domande, troppo curiosa per continuare a tenermele dentro.

«Com'era il nonno?»

Un sorrise triste comparve sul viso di nonna: «Tuo nonno era burbero, orgoglioso e testardo. Era forte, mai impulsivo, ponderava sempre le sue decisioni, un po' come tuo padre».

«Nonno aveva gli occhi come i miei?», chiesi.

Scosse la testa, puntando lo sguardo prima nel mio occhio grigio e poi in quello color nocciola: «No tesoro, tu sei unica».

«Perché nessuno si rende conto che sono grande? Mi trattano tutti come se avessi due anni!», mi lamentai, decidendo di passare alla seconda questione che avevo l'impellente bisogno di discutere con lei.

Nonna sorrise divertita: «Io ero la più piccola in famiglia, so come ti senti. Non puoi fare nulla per cambiare la loro visione delle cose; sei piccola, vai protetta, fine della questione».

«Mi potresti dare lezioni di lotta? Magari se mostrassi loro che sono in grado di difendermi, forse...»

La risata divertita di nonna mi interruppe: «Tesoro sono vecchia, tutto quello che posso insegnarti è: mai dare le spalle al nemico. Posso provare a sciorinarti tanta teoria, ma con la pratica temo di non poterti essere utile».

L'entusiasmo di poco prima svanì, sostituito dalla rassegnazione.

«Potresti provare a chiedere a qualcun altro, qualcuno a cui non scricchiolano sinistramente le ossa ogni volta che fa un movimento leggermente diverso dal solito», mi sorrise, puntando i suoi occhi nei miei: «Potresti provare a chiedere al nostro ospite, Xavier O'Bryen».

Inciampai in una radice sporgente e recuperai all'ultimo l'equilibrio, evitando di cadere rovinosamente a terra. Aveva detto...?

«Sei seria?»

«Direi che abbiamo raccolto abbastanza fiori, possiamo tornare verso casa», mi informò, avviandosi verso il sentiero a pochi metri dal prato in cui ci eravamo fermate a raccogliere viole e primule.

Per il resto del tragitto verso casa non disse più nulla, facendomi capire che lei rimaneva ferma nella sua convinzione: se volevo aiuto dovevo chiedere a Xavier.

Arrossii al ricordo di come gli avevo lanciato addosso il reggiseno meno di un'ora prima. Con che coraggio l'avrei guardato negli occhi e gli avrei chiesto di aiutarmi a diventare più forte nel combattimento corpo a corpo?

Una smorfia comparve sul mio viso. Di sicuro avrebbe cominciato a fare battute idiote, doppi sensi. Me lo immaginavo squadrarmi dalla testa ai piedi e farmi l'occhiolino: «Corpo a copro, eh?»

Sospirai e decisi di pensarci su. Per una volta non volevo essere impulsiva, ma ponderare i pro e i contro.

Arrivate a casa trovai lo zaino proprio dove l'avevo lasciato sul divano, lo recuperai e feci un gesto di saluto a nonna mentre mi dirigevo verso camera mia.

Non avevo compiti per il giorno dopo, ma ne avevo per giovedì, così decisi di darmi da fare e portarmi avanti con il lavoro.

Indossai dei pantaloni della tuta e un maglioncino color giallo canarino che mi era stato comprato da mamma quando andavo alle medie e che, grazie al mio fisico da eterna bambina, mi andava ancora bene.

Gettai le scarpe in un angolo della camera e mi buttai a peso morto sul letto, fissando il soffitto per qualche istante, persa nei miei pensieri.

Quello che mi aveva raccontato nonna a proposito della sua adolescenza, della sua fuga e del modo in cui lei e nonno si erano conosciuti e poi innamorati, mi infondeva speranza. Lei era andata contro tutte le regole, aveva seguito l'istinto e aveva realizzato il suo destino, aveva incontrato il suo compagno per la vita e aveva trovato la felicità.

Mi rotolai sul copriletto, affondando il volto nel punto in cui l'odore di Xavier era più forte, inspirai a fondo e chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal senso di protezione e appartenenza che mi trasmetteva.

"Diana, ma chi vuoi prendere in giro? Davvero hai bisogno di pensarci?"

Mi coprii il viso e iniziai a ridere.

Dimenticai i compiti per giovedì e tutto quello che avevo pensato fino a poco prima a proposito di "ponderare le decisioni" e mi alzai in piedi. Indossai le ciabatte pelose e uscii in corridoio. Non c'era nessuno in giro, la via era libera. Mi diressi verso le scale che portavano alla stanza degli ospiti, che occupava l'intera mansarda. Salii i gradini cercando di non fare troppo rumore e, una volta arrivata, bussai piano alla porta.

«Avanti», sentii dire dall'interno, così entrai nella stanza, chiudendomi l'uscio alle spalle.

Xavier era seduto alla scrivania, aveva il computer acceso davanti e un quaderno tra le mani.

I suoi occhi verde chiaro incontrarono i miei con un misto di sorpresa e interesse: «Non ho intenzione di restituirti il reggiseno», disse, posando il quaderno sulla superficie di legno accanto a sé, prima di abbassare il monitor del computer, così da impedirmi di vedere cosa stesse facendo.

«Non sono qui per quello», ammisi, le gote arrossate per la sua insinuazione.

«Ah, no?», chiese, alzandosi in piedi: «Perché sei qui allora?»

«Voglio che tu mi insegni a combattere», vomitai le parole senza ponderarle, senza valutare i pro e i contro. Era più forte di me, non riuscivo ad andare contro la mia natura e probabilmente non ci sarei mai riuscita.

Un'espressione stupita comparve sul suo volto: «Combattere?», ripeté, studiandomi con attenzione.

«Sì, voglio dimostrare a tutti di essere forte, di...», Xavier alzò la mano, interrompendomi.

Osservò lo schermo del cellulare, e fece una smorfia: «Ora non ho tempo, devo andare a vedere un appartamento, mi hanno anticipato la visita».

Senza degnarmi di ulteriori attenzioni, indossò la giacca e recuperò un paio di converse alte nere, infilandole ai piedi. Rimasi ad osservarlo, indecisa su come comportarmi.

«Il tuo è un modo strano e atipico di dire di no?», chiesi, aggrottando le sopracciglia.

Xavier alzò lo sguardo su di me e sorrise: «Ci devo pensare».

"Ah, già", pensai, sentendomi una stupida: "Di solito la gente normale fa anche queste cose prima di prendere una decisione".

«Va bene», dissi, aprendo la porta per uscire di lì; l'odore di Xavier era ovunque e rischiavo di fare qualcosa di altamente sconsiderato e folle se fossi rimasta un minuto di più.

«Diana?», mi richiamò lui, smettendo di stringere i lacci delle scarpe: «Avrai una risposta al più presto».

Annuii, non riuscendo a dire nulla e uscii dalla stanza, correndo giù per le scale come una pazza.

Mi chiusi in camera mia, appoggiando la schiena contro il legno della porta. Sentii chiaramente i passi cadenzati di Xavier che scendeva le scale, percorreva il corridoio e usciva di casa.

Un enorme sorriso idiota comparve sulle mie labbra.

Ci avrebbe pensato, non aveva detto "no", non mi aveva riso in faccia e non aveva storto il naso per il fastidio. Cavolo, non aveva nemmeno fatto battute stupide!

Con la testa leggera raggiunsi la scrivania e recuperai il libro di matematica dallo zaino, decidendo che ero abbastanza di buon umore per poter affrontare la mia acerrima nemica; l'algebra.

Avevo quasi finito l'ultimo esercizio, quando sentii qualcuno bussare alla porta.

Esitai per qualche secondo, chiedendomi se oltre il legno ci fosse Xavier, poi decisi di smetterla di fare la stupida e invitai ad entrare chiunque si trovasse in corridoio.

Kyle entrò in camera mia e si richiuse la porta alle spalle, guardandomi con aria circospetta.

Aggrottai le sopracciglia. Ce l'avevo ancora con lui, mi aveva trattata da bambina davanti a mezzo branco, facendomi sentire stupida. Cosa voleva adesso? Essere sbranato?

«Mi dispiace disturbarti», disse, incrociando le braccia al petto e muovendo qualche passetto fino alla cassettiera, appoggiandocisi contro col sedere: «Dobbiamo parlare».

Continuai a studiarlo, rimanendo impassibile. Voleva parlare? Bene, io non gli avrei reso le cose facili.

«Io...», iniziò, fissando un punto imprecisato sopra la mia spalla: «Ecco, volevo solo dirti che ieri ho esagerato», borbottò, grattandosi il mento e il velo di barba che lo ricopriva: «Non avrei dovuto dire quelle cose davanti a tutta quella gente».

I suoi occhi chiari si puntarono nei miei, quasi in attesa di un commento da parte mia, commento che non arrivò.

«In mia discolpa posso dire che ero molto preoccupato e arrabbiato perché non avevi fatto come ti avevo chiesto», aggiunse, incrociando nuovamente le braccia al petto, mettendo in risalto i muscoli delle braccia.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi decisi che aveva strisciato abbastanza. Non sarebbe mai riuscito a dire "ho sbagliato" o "mi dispiace", era troppo orgoglioso, così mi accontentai di quel poco che era riuscito a dire.

«Sei stato uno stronzo», gli dissi, sorridendo.

Lui sbuffò e sollevò gli occhi al soffitto. Poi sorrise anche lui: «Pace?»

Annuii: «Pace».

Pensai che se ne sarebbe andato, lasciandomi continuare i compiti di algebra, ma lui rimase col sedere attaccato alla mia cassettiera per qualche secondo ancora, sorprendendomi: «Vuoi dirmi altro?», gli chiesi.

«Cosa sei andata a fare in mansarda?», domandò, assottigliando lo sguardo.

Non volevo dirgli che volevo prendere lezioni di lotta da Xavier. Non sapevo come avrebbe potuto reagire e poi, per il momento, volevo che fosse un segreto. Avrei potuto parlargliene quando avrei cominciato a essere abbastanza brava da poter provare la mia indipendenza e forza.

«Niente», dissi semplicemente, sollevando le spalle.

L'espressione di mio fratello era colma di scetticismo: «Niente?», ripeté, avvicinandosi alla porta di camera mia: «Sicura?»

«Sì», dissi semplicemente, continuando a mantenere un'espressione impassibile.

«Mi prometti solo una cosa, Diana? Questa volta per davvero», chiese, con un tono di voce serio è preoccupato: «Fai attenzione».

La sua espressione e il modo in cui l'aveva detto mi fecero sentire una stretta al cuore.

«Va bene», promisi, sorridendogli, nel tentativo di rassicurarlo.

Kyle annuì, rispondendo alla mia espressione rilassata con una altrettanto distesa: «Ora ti lascio continuare in pace», disse semplicemente, prima di scomparire in corridoio.

Tornai a fissare il libro di matematica di fronte a me con un sorriso sulle labbra; ero contenta di aver fatto pace con mio fratello. Temevo che ci avremmo impiegato di più, eravamo entrambi terribilmente testardi e orgogliosi.

Due minuti dopo avevo finito i compiti, mi stiracchiai la schiena, che era rimasta ingobbita sul libro per troppo tempo e meritava un po' di riposo; così decisi di abbandonare la scrivania per buttarmi sul letto.

Recuperai dalla tasca dei pantaloni il cellulare, non avevo chiamate perse o messaggi non letti, così lo abbandonai sul comodino, decisa a chiudere gli occhi e schiacciare un pisolino.

Prima di addormentarmi però, mi raggomitolai in modo da percepire l'odore di Xavier che, come immaginavo, ebbe il potere di cullarmi fino a farmi finire in un dolce dormiveglia e poi, in fine, giunse il tanto agognato sonno.




 

****

Ciao adorati lettori e adorate lettrici! 😘

In questo capitolo scopriamo qualcosa sulla gioventù di nonna Diana (penso che ora sia ancora più chiaro da chi abbia preso il carattere la nostra protagonista), Kyle a modo suo "chiede scusa" per quello che è successo nel bosco e si chiarisce con sua sorella, mentre Diana - tanto per cambiare - lascia che l'impulsività prenda il sopravvento, decidendo di chiedere a Xavier di insegnarle a combattere. Che dite, le dirà di sì?

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di lasciarmi un commento per farmi sapere la vostra opinione.

Vi dò appuntamento al prossimo sabato per l'aggiornamento!

Un bacio,

LazySoul

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX: Giri in moto e magliette scomparse ***


Riassunto del capitolo precedente: Diana lancia addosso a Xavier un reggiseno, poi fugge dalla nonna, che le racconta della sua gioventù e del suo vagabondaggio per i boschi prima di incontrare quello che poi sarebbe diventato il suo compagno per la vita. La nonna suggerisce a Diana di chiedere a Xavier aiuto nel combattimento e la ragazza segue il suo consiglio.
Buona lettura!



 

Capitolo IX: Giri in moto e magliette scomparse


 

Mercoledì e giovedì furono giornate prive di avvenimenti entusiasmanti.

La scuola fu monotona, Isabel continuava a non volermi dare una risposta definitiva per sabato, dicendo che doveva pensarci e doveva trovare una scusa decente con i suoi genitori: «D, ci stiamo imbarcando in una missione suicida, mi concedi un po' di tempo per organizzare le ultime cose prima di dire addio al mondo? Il testamento non si scrive da solo», era stata l'ultima risposta che avevo ricevuto da Sab quando ci eravamo salutate sull'autobus giovedì.

Il mercoledì pomeriggio l'avevo passato a casa di Frida, una villetta pulita e graziosa, in cui avevo fatto la conoscenza della signora Martinez, una signora sui quaranta con un seno prosperoso e un sorriso gentile. Frida era la sua esatta copia di vent'anni più giovane. Passammo l'intero pomeriggio a lavorare, portandoci avanti col lavoro, tanto che a mio parere avremmo anche potuto passare il sabato pomeriggio a poltrire, la ricerca era praticamente già conclusa. Frida però voleva raggiungere la perfezione e mi diede appuntamento per sabato alle quindici, dicendomi che prima di prepararci per la festa dovevamo assolutamente aggiungere ancora qualche riga al nostro progetto.

Una volta tornata a casa mercoledì sera, scoprii che avevamo ospiti a cena; papà aveva avuto la brillante e poco gradita idea di invitare i Picard per passare una serata insieme. Era stato snervante trovarsi seduta allo stesso tavolo di Michel, che continuava a lanciarmi sguardi intensi e occhiolini, Francine, che faceva battute taglienti e provava a farsi notare da Kyle, Xavier che studiava le dinamiche e rideva sotto i baffi e Kyle che ignorava o fingeva di ignorare il tutto, perso nel suo mondo.

Con Xavier non ero riuscita più a parlare; passava tutto il suo tempo nei boschi o a visitare appartamenti in giro per la città, sembrava intenzionato a ignorarmi o forse voleva semplicemente tenermi sulle spine. Il problema era che il suo odore era completamente scomparso da camera mia; mamma mercoledì pomeriggio aveva avuto la brillante idea di spalancare le finestre nelle camere, per far cambiare l'aria e, oltre a ritrovarmi a dormire in una ghiacciaia quella notte, non avevo nemmeno avuto la possibilità di lasciarmi cullare dall'odore di sandalo e cannella che adoravo tanto.

Quindi dovetti trovare una soluzione alla questione, non potevo passare le notti in bianco, ne andava della mia salute e, dato che Xavier non si faceva mai vedere in giro, decisi di prendere in prestito da camera sua una maglietta a caso e nasconderla sotto il mio cuscino. Giovedì notte dormii come un pascià; missione compiuta.

La giornata di Venerdì si rivelò essere più entusiasmante delle altre.

Appena sveglia mi ritrovai con la maglietta di Xavier arrotolata intorno alla testa e un sorriso ebete stampato in volto. Il fatto che nemmeno il rumore fastidioso della sveglia fosse riuscito a scalfire il mio buon umore voleva dire solo una cosa: la situazione era più grave di quanto pensassi.

Ma non diedi troppo peso alla faccenda, era bello svegliarsi felici, una volta tanto.

Ripiegai accuratamente la maglietta sotto il cuscino, aspettai il mio turno per il bagno e poi mi vestii con la testa tra le nuvole; un paio di jeans, una felpa a caso, le scarpe e lo zaino.

Il buon umore aumentò quando realizzai che era venerdì e le ultime due ore avrei avuto educazione fisica, per non parlare del fatto che mancava solo più un giorno al weekend e quindi alla festa a casa di Paul Ling.

Lo stato estatico in cui mi trovavo si dissolse quando trovai ad attendermi in cucina Michel, un sorriso a illuminargli il viso e un sacchetto di carta in mano.

«Buongiorno, Diana, oggi ti porto a scuola io», annunciò, facendomi l'occhiolino e facendo sorridere in modo malizioso mamma, che stava preparando il caffè.

Ero troppo assonnata e di buon umore per litigare; gli stralci del sogno a cui ero stata strappata ancora intorpidivano i miei neuroni e senza la mia dose mattutina di caffeina ero reattiva quanto un bradipo morto.

«A scuola?», ripetei, studiando Michel dalla testa ai piedi con la fronte aggrottata.

Alle mie spalle comparve Kyle, già pronto per scuola, con i capelli sciolti che gli ricadevano in onde disordinate sulle spalle: «Hey, Mick», salutò il suo amico: «Riesci a darci un passaggio allora?»

Michel annuì: «Sì, mia sorella ci aspetta in macchina».

Ah, all'equazione si sarebbe aggiunta anche Francine?

Rivissi un'ultima volta il sogno, cercando di tornare al buon umore che avevo avuto fino a pochi secondi fa, ma non funzionò.

Dissi addio all'onirica figura di Xavier, che aveva passato la notte con me, cullandomi tra le sue braccia e sussurrandomi parole sdolcinate che avrebbero fatto cariare i denti a tutti i presenti, compresa quella romanticona di mamma, e mi rassegnai ad affrontare la realtà.

«Io prendo l'autobus», dissi semplicemente, appollaiandomi accanto a mamma e quindi alla caffettiera come un avvoltoio su una carcassa.

«Oggi c'è lo sciopero dei mezzi pubblici», disse Michel, sorridendo sornione: «Non lo sapevi?»

Ebbi un fugace ricordo di Isabel che mi diceva qualcosa di simile il giorno prima, aggiungendo che lei si sarebbe fatta accompagnare in macchina da sua madre.

Guardai l'orologio, era troppo tardi per andare a scuola a piedi, sarei arrivata di sicuro in ritardo. Accidenti.

«Prendo la bici», farfugliai, riempiendomi generosamente una tazzina di caffè.

Kyle rise: «Le strade sono ghiacciate, questa notte ha nevicato».

Aggrottai ancora di più la fronte e, appoggiata al bancone della cucina, mi bruciai la lingua col caffè.

"Addio giornata felice e priva di tristi avvenimenti, sei iniziata bene, ma ora stai perdendo colpi", mi lagnai con rassegnazione, sospirando.

Stavo per accettare svogliatamente il passaggio di Michel, quando entrarono in cucina Xavier e papà, entrambi con un sorriso smagliante sulle labbra.

Il primo perse il buon umore appena vide il giovane Picard, il secondo invece sembrò ancora più felice, mentre raggiungeva l'intruso e gli tirava una gentile pacca sulla spalla. Per una volta sperai papà usasse tutta la sua forza e gliela spaccasse.

«Michel, qual buon vento?», lo accolse papà, facendogli segno di sedersi.

«C'è lo sciopero dei mezzi, accompagno io Kyle e Diana a scuola oggi».

«Ah, davvero?», chiese papà, lanciandomi un'occhiata a dir poco imbarazzante, mancava solo che ci unisse in matrimonio seduta stante, con tanto di pianti commossi di mamma e petali di fiori lanciati in aria da Edith.

«Diana non te l'ha detto?», chiese Xavier, cogliendomi di sorpresa mentre mi passava il suo casco, che aveva al braccio fino a pochi secondi prima: «Le avevo proposto di accompagnarla io in moto oggi».

Afferrai il casco senza pensarci, guardandolo confusa.

Magnifico, ora dovevo anche scegliere chi deludere: papà, mamma, Michel e Kyle o Xavier?

Aprii bocca per fermare quel teatrino, avrei preferito andare a piedi e prendermi una nota per il ritardo, piuttosto che farmi tirare da una parte all'altra, manco fossi stata un osso conteso da due cani: «Ma io non ho paura del ghiaccio, voglio andare in bici».

«La moto con la neve non è molto sicura», disse mamma, passando la tazza fumante di caffè a papà.

Quel suo commento mi fece alterare, se avessi voluto andare in moto, con Xavier, ci sarei andata, neve o non neve. Non avevo bisogno del suo permesso. O sì?

«Dipende dalle capacità del motociclista», borbottai, affogando i miei dispiaceri nella droga, dicasi anche caffè amaro.

Vidi O'Bryen sorridere delle mie parole, mentre mamma mi fulminò: «Preferirei che tu andassi in macchina con Michel».

Probabilmente se mamma fosse rimasta zitta e mi avesse fatto decidere da sola, avrei finito coll'abbandonare il casco di Xavier e seguire Picard e mio fratello fuori casa, senza fiatare.

Ma la sua imposizione mi diede fastidio. Non sopportavo di ricevere ordini e quello, anche se velato da apprensione, era un ordine. E poi era palese che la sua preferenza era dettata dal fatto che era la fan numero uno di Michel; fosse stato lui a proporre di andare in moto, mamma non avrebbe fiatato.

Finii il caffè, presi una fetta biscottata e la addentai, poi, col casco stretto sotto braccio e un'espressione agguerrita in volto, mi voltai verso Xavier: «Andiamo o faremo tardi».

«Diana!», esclamò mamma, facendomi voltare un'ultima volta verso di lei, ma non la feci parlare, precedendola: «Il fatto che a te piaccia di più la macchina non vuol dire che per me sia lo stesso. Ci vediamo dopo, buona giornata!»

Afferrai Xavier per la manica della giacca, tirandomelo dietro: «Signor Wood, signora Wood, buon lavoro», disse, mollando la sua tazza sul tavolo e seguendomi in corridoio.

Aveva un sorriso compiaciuto sulle labbra, mi preoccupai immediatamente di farglielo sparire, tirandogli una gomitata nello stomaco: «Cos'hai da ridere?»

Xavier tossì e gemette per il colpo che gli avevo inferto, portandosi una mano sulla zona offesa: «Ho una domanda», annunciò, continuando a fare versi gutturali per lasciarmi intendere che stava soffrendo molto: «Anzi, più di una».

Uscii di casa, mentre Xavier passava dal garage per recuperare la moto.

Parcheggiata sul vialetto di casa vidi la macchina grigio metallizzato di Michel, seduta sul posto del passeggero c'era Francine, che si limava tranquillamente le unghie.

Avrei voluto raggiungerla e spaventarla, magari intavolare una bella discussione, insultarla giusto il minimo indispensabile per migliorare la giornata.

Il portone del garage alle mie spalle si aprì e l'odore di Xavier mi invase le narici.

Fu in quel momento che mi resi conto che dovevo liberarmi assolutamente della sua maglietta nascosta sotto il mio cuscino. Non andava bene quello che stavo facendo; assecondare l'attrazione che provavamo l'uno per l'altra non avrebbe portato a nulla di buono. Dovevo disintossicarmi, non aumentare la dose giorno dopo giorno.

«Stai venendo con me solo per fare un dispetto a tua madre?», chiese, affiancandomi.

"Ah, giusto, ha detto di volermi fare delle domande", ricordai, alzando gli occhi al cielo: "Peccato che io non abbia voglia di rispondere".

Indossai il casco, chiudendo il gancio sotto al mento, poi mi sistemai bene la giacca e lo zaino; non volevo rischiare di perdere nulla per strada.

«Lo prendo per un sì», disse mentre saliva a cavalcioni sulla moto e allungava una mano nella mia direzione.

Sapevo che si stava solo comportando gentilmente e che le sue intenzioni erano buone. Certamente voleva aiutarmi a salire dietro di lui, ma io non ero dell'umore giusto.

Avevo perso il mio buon umore quando avevo trovato Michel in cucina, quando avevo visto il modo in cui mamma e papà l'avevano accolto, come se fosse stato il mio fidanzato.

Quello che mi dava terribilmente fastidio era che papà non mi aveva riferito la richiesta di Michel di potermi corteggiare e fare poi di me la sua compagna per la vita. Certo, io conoscevo i fatti perché avevo origliato la loro conversazione, ma mi sarebbe piaciuto che mettessero subito le carte in tavola con me. Avrei voluto che papà mi prendesse da parte il giorno dopo e mi riferisse le parole di Michel. Avrei voluto che papà, prima di dire di sì a Michel, avesse parlato con me e chiesto il mio parere.

«Diana?»

La voce di Xavier, profonda e divertita mi riportò alla realtà, facendomi allo stesso tempo ricordare il sogno di quella notte.

Una gomma magica cancellò dalla mia mente gli ultimi cinque minuti. Ero di nuovo contenta; avevo dormito bene, cullata da un sogno incantevole e inebriata dal forte odore del ragazzo che a mezzo metro di distanza mi stava ancora porgendo la sua mano.

Senza pensarci l'afferrai, senza perdere il contatto visivo con gli occhi chiari di Xavier.

Mi issai sulla moto dietro di lui, portando poi le mani sulle sue spalle per tenermi.

In quel momento Kyle e Michel uscirono di casa, quest'ultimo non sembrava particolarmente felice.

Mi dispiaceva per lui, non sapevo se i sentimenti che diceva di provare per me fossero veri o meno, e la mia intenzione era proprio quella di non alimentare false speranze.

Forse una ragazza normale gli avrebbe dato una chance.

Peccato che io non lo fossi.

Xavier avviò il motore poi, cogliendomi alla sprovvista, spostò le mie mani dalle sue spalle alla sua vita: «Stringiti forte», mi consigliò, sovrastando il rombo del motore.

L'istante dopo eravamo partiti.

Ebbi la soddisfazione di vedere la faccia oltraggiata di Francine mentre le passavamo davanti, poi l'ambiente intorno a me si fece confuso.

Xavier guidava come un pazzo, tutto quello che potevo fare era artigliargli la giacca e sperare di sopravvivere.

In fondo lo conoscevo da qualche giorno, troppo poco per fidarsi di una persona. Perché avevo accettato il suo invito ad andare in moto con lui?

Ah, già, volevo far arrabbiare mamma e rifiutare il passaggio di Michel. Accettando la proposta di Xavier avevo preso due piccioni con una fava.

Per fortuna il suo odore di sandalo e cannella riuscì a tranquillizzarmi, tanto che rilassai i muscoli, appoggiando il capo contro la sua schiena e chiusi gli occhi, godendomi il tepore del suo corpo contro il mio.

Quando finalmente ci fermammo davanti alla scuola ringraziai la mia buona sorte per avermi concesso di sopravvivere.

«Tu sei pazzo», lo informai, mentre staccavo le mani dal suo corpo e scendevo dalla moto.

Gli restituii il casco e lo vidi sorridere: «Ammettilo che ti è piaciuto», disse, facendomi l'occhiolino.

Alzai un sopracciglio: «Perché non avrebbe dovuto, mi piace rischiare la vita», farfugliai con tono sarcastico, mentre lo fissavo contrariata.

Il suo sorriso si allargò ulteriormente, mettendo in mostra le sue fossette. Maledette tentatrici!

Per non rischiare di saltargli addosso, decisi di allontanarmi, dirigendomi verso l'ingresso del liceo, dove speravo di trovare Isabel ad aspettarmi.

«Dopo la lezioni di educazione fisica vorrei parlarti, ho una risposta da darti».

Fermai la mia fuga, voltandomi verso Xavier; aveva la sua borsa in una mano, il casco nell'altra, i capelli scuri spettinati e le labbra erano atteggiate in un sorrisetto.

«Perché non ora?», gli chiesi.

Il problema era che mi conoscevo; avevo già aspettato due giorni, aspettare ancora sette ore mi avrebbe portata alla pazzia. Dovevo saperlo, subito.

Xavier rise, raggiungendomi in poche falcate: «Perché ora devo andare in palestra, non posso arrivare in ritardo, sono il professore».

Mi superò, incamminandosi dalla parte opposta rispetto a dove dovevo andare io.

Non gli avrei permesso di fuggire così facilmente.

«Non è giusto!», mi lamentai, seguendolo e afferrandolo per la manica della giacca: «Xavier!», lo chiamai, cercando di fermare la sua avanzata.

Si fermò di botto, voltandosi verso di me: «Dopo», mi fece un buffetto sul naso: «Non dare spettacolo».

Le mie guance iniziarono a scottare dall'imbarazzo, mentre allontanavo la sua mano con uno schiaffo: «Non trattarmi come una bambina».

Il sorriso scomparve dalle labbra di Xavier, sostituito da una smorfia: «Pensavo fosse chiaro», mormorò, tenendo il tono di voce basso, gli occhi verdi erano colmi di un'emozione indecifrabile. Sembrava stesse parlando con se stesso e non con me.

Mi prese la mano, trascinandomi all'interno della palestra, per poi chiudere entrambi nella stanza in cui veniva riposta l'attrezzatura sportiva.

Ritrovarmi in uno spazio chiuso con lui non era nei piani. Avevo provato a liberarmi dalla sua stretta prima che fosse troppo tardi, ma non c'ero riuscita ed ora ero lì, rinchiusa in uno stanzino con lui.

Il suo odore era ovunque. Sarei mai riuscita a disintossicarmi?

Inizialmente c'era una considerevole distanza di sicurezza tra di noi, poi scomparve.

Le sue mani erano sulle mie guance, calde e forti, il suo viso a pochi centimetri dal mio.

«Non penso che tu sia una bambina», disse, sfiorando il suo naso contro il mio.

Lo sentii inspirare il mio odore, poi le sue mani lasciarono il mio viso, per scivolare lungo le mie spalle e le mie braccia, le sue labbra si posarono pericolosamente vicino alle mie.

Sentivo la pelle bruciare al suo tocco.

Il suo sguardo si posò prima sul mio occhio destro, poi su quello sinistro: «Pensavo fosse chiaro che quando ti guardo, non vedo una bambina».

In quel momento, forse per ciò che aveva detto o forse per il modo in cui l'aveva detto, avrei voluto eliminare le distanze e baciarlo.

Non mi ero mai sentita una donna. Non mi ero mai vista bella o affascinante o seducente. Io non ero come Francine; sempre attenta ai vestiti, al trucco e ai capelli.

Lo sguardo di Xavier e le sue mani sulla mia pelle mi facevano sentire una donna.

Ad un tratto mi chiesi cosa vedesse in me. Tutti vedevano una ragazzina che doveva ancora crescere, bassa, vestita come un maschio, senza curve, con un occhio grigio e l'altro color nocciola. Cosa vedeva lui?

Il suono della campanella fece sussultare entrambi.

Lo allontanai, ricordandomi di dover andare a lezione e di non aver tempo per flirtare con lui.

Xavier non mi trattenne, fece un passo indietro, con le braccia lungo i fianchi, aveva le mani chiuse a pugno.

Aprii bocca, avrei voluto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma le mie corde vocali sembravano aver deciso di scioperare.

«Vai», mi disse, indicando la porta.

Annuii e non me lo feci dire due volte, pronta a fuggire da quella stanza troppo piccola, dal suo odore troppo buono e da quella situazione troppo soffocante.

Arrivai in classe in ritardo, Mrs. Fairchild, l'insegnante di storia, mi accolse con una calorosa occhiataccia che, se ne avesse avuto il potere, avrebbe potuto bruciarmi viva.

Raggiunsi il posto libero accanto a Isabel e mi sedetti con l'eleganza di un ippopotamo.

La mia amica mi guardava con uno sguardo a metà tra il curioso e il sospetto, poi un sorriso malizioso comparve sulle sue labbra: «É l'odore di Xavier quello che sento su di te?»

La sua domanda era palesemente retorica, non aveva bisogno di risposte, sapevamo benissimo entrambe che sì, quello era l'odore di O'Bryen.

Con le guance bollenti per l'imbarazzo mi tolsi la giacca e tirai fuori dallo zaino il quaderno e l'astuccio, ignorando Sab e i suoi occhi che seguivano ogni mio movimento.

«Ha per caso qualcosa a che vedere con il musetto triste che sfoggiava Michel poco fa, mentre faceva scendere dalla sua auto quell'oca di sua sorella?», rincarò la dose Isabel, mentre tamburellava con la matita sul banco.

Non si sarebbe arresa facilmente, non fino a quando non avessi confessato tutto.

Sospirai, cercando di tornare ad avere un battito cardiaco normale. La mente però era ancora rallentata dall'effetto degenerante che l'odore e il tocco di Xavier avevano su di me.

Solo in quel momento mi ricordai di non essere riuscita nel mio intento: non mi aveva detto se aveva intenzione o meno di insegnarmi a combattere.

Aggrottai le sopracciglia. Stavo cominciando a comportarmi come una ragazzina stupida, dovevo smetterla. Non ero immune al fascino di Xavier, quello ormai era stato tristemente constatato, tutto quello che potevo fare era cercare di non lasciare che questo mi sconvolgesse troppo la vita.

Dovevo assolutamente liberatemi della maglietta che gli avevo rubato e che usavo come copertina di Linus per dormire. Sì, quella sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto una volta tornata a casa quel giorno.

«É una storia lunga, Sab, dopo», cercai di calmare la mia amica e guadagnare un po' di tempo per riorganizzare le idee.

«Va bene», disse semplicemente, senza insistere. Sapeva di avermi in pugno, tutto quello che doveva fare era aspettare che avessimo un po' di tempo durante la giornata per chiacchierare da sole.

Quel momento arrivò durante l'ora di pranzo, quando venni letteralmente trascinata dalla mia amica a uno dei pochi tavolini doppi della caffetteria: «Siamo solo tu ed io, sputa il rospo».

Con rassegnazione e tanta pazienza e imbarazzo, le raccontai tutto; le dissi del sogno, della maglietta, di Michel, del passaggio in moto e dello stanzino dell'attrezzatura sportiva, tentando di non tralasciare nessun dettaglio.

Isabel ascoltò tutto con gli occhi sbarrati e un'espressione famelica in volto; faceva paura.

«Quindi ancora non ti ha detto se ha intenzione di insegnarti a combattere o meno», disse, affondando la forchetta nel piatto in modo indignato.

«No, ma ha detto che lo farà dopo l'ora di educazione fisica», dissi, mangiucchiando l'hamburger che avevo nel piatto con circospezione; ero già stata avvelenata una volta, non volevo ripetere l'esperienza.

Sab annuì: «Ti porta lui a casa?»

Arrossii e storsi le labbra: «Non lo so e sinceramente non penso di voler ancora salire su quella moto. Guida come un pazzo, prende le curve troppo velocemente e...»

Alzai lo sguardo, guardandomi intorno, cercando tra i volti che infestavano la caffetteria le parole per descrivere la pessima guida del nostro professore di educazione fisica.

Fu in quell'istante che incrociai un paio di occhi verde chiaro che mi scrutavano dal tavolo dei professori.

Arrossii, ma non distolsi lo sguardo.

Aveva sentito tutto quello che avevo raccontato a Isabel?

Concentrandomi, provai a sentire cosa stessero dicendo la professoressa di inglese e quella di pittura al suo tavolo, ma non riuscivo a distinguere le parole.

Tirai un sospiro di sollievo e, per renderlo partecipe della mia contentezza, gli feci la linguaccia.

Distolsi lo sguardo quando lo vidi ridere sotto i baffi e tornai a concentrare tutta la mia attenzione su Sab.

«Allora», iniziai, giocherellando con la forchetta: «Deciso qualcosa per domani sera?»

Isabel sorrise e addentò un pezzo di hamburger: «Ho detto ai miei genitori che vado a dormire da Frida Martinez, che ci sei anche tu e che abbiamo in programma una tranquilla serata tra ragazze a guardare un film romantico».

Il mio volto s'illumino, poi le sue ultime parole mi fecero storcere il naso: «Film romantico? Io? Ti hanno creduto?»

Isabel scoppiò a ridere e mi lanciò contro una fogliolina d'insalata che, dall'aspetto, sembra aver smesso di essere commestibile da almeno tre giorni.

Che schifo.

«Mia mamma è convinta che dietro alla tua maschera da maschiaccio si celi un animo dolce e romantico».

Le rilanciai la foglia d'insalata nel piatto e alzai gli occhi al cielo: «Tua mamma ha visto troppi film».

Isabel scoppiò a ridere, annuendo: «Non posso darti torto».

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi il sorriso tornò ad addolcire i lineamenti di Sab: «Io dormo con te nel bosco, ma tu metti un vestito alla festa di Paul Ling».

Fu il mio turno di scoppiare a ridere, talmente forte da attirare l'attenzione dei tavoli vicini. Quando ritrovai il controllo avevo le lacrime agli occhi: «Isabel, sai benissimo che non accadrà mai».

La mia amica alzò gli occhi al cielo.

Non sembrava particolarmente offesa o dispiaciuta, era più che altro rassegnata.

«Alla festa di Primavera?», chiese, facendomi gli occhi dolci.

Stavo per dirle che no, neanche alla festa di Primavera avrei messo un vestito, ma lei me lo impedì: «Probabilmente alla festa di Primavera ci sarà anche Xavier tra gli altri professori a controllare che tutto vada bene. Sicura di non voler mettere un vestito? Nemmeno per Xavier?»

Assottigliai lo sguardo e le sorriso: «Sono sicura».

Isabel sospirò: «Vedrò di farti cambiare idea».

«Puoi provarci, ma non ci riuscirai», le risposi, sorridendo affabilmente.

Dopo pranzo avevamo l'ultima lezione della settimana: educazione fisica.

Il professore O'Bryen ci fece rimanere in palestra - dicendo che il terreno era ancora umido per la neve della sera prima e che quindi non sarebbe stato saggio uscire - organizzando una corsa ad ostacoli e una partita a basket.

Passai la maggior parte del tempo a chiacchierare con Frida e Sab a proposito della festa del giorno dopo, venendo rimproverata un paio di volte da Xavier; ovviamente ogni volta che accadeva Francine sorrideva da orecchio a orecchio.

Quando la lezione finì, mi diressi con Sab verso gli spogliatoi, ma la voce di Xavier mi fermò: «Signorina Wood, posso chiederle di darmi una mano con gli ostacoli e il resto del materiale? Con il suo aiuto finiremo in un battibaleno».

Isabel mi fece l'occhiolino: «In bocca al lupo», sussurrò prima di raggiungere Frida.

«Molto divertente!», le urlai dietro, alzando gli occhi al cielo.

Lei e mio fratello avevano lo stesso senso dell'umorismo.

Raccolsi uno degli ostacoli con la mano destra e un altro con la mano sinistra e iniziai a trasportarli verso lo stanzino dove io e Xavier avevamo "chiacchierato" quella mattina.

Li posai accanto agli altri appoggiati contro la parete e uscii, recuperai altri due ostacoli e li sistemai al loro posto. Continuai così fino a quando non misi ogni cosa in ordine.

Nel frattempo Xavier aveva passato quel tempo a scrivere qualcosa sul registro di classe, senza aiutarmi minimamente.

Stavo per andarmene, infastidita dal suo comportamento, quando la sua voce mi bloccò: «Diana?»

Sospirai e mi voltai verso di lui, aveva il registro sotto braccio e mi stava facendo segno di raggiungerlo accanto alla cattedra sul bordo campo.

«Sì?», chiesi, incrociando le bracci al petto, fermandomi ad un metro da lui. Era meglio mantenere una certa distanza di sicurezza; sapevo che era pericoloso l'effetto che aveva su di me e tutto quello che potevo fare per contrastarlo era non avvicinarmi troppo.

«Non mordo», disse, alludendo alla distanza tra di noi.

«Lo so. Sto bene qui», risposi, cercando di mantenere un minimo di contegno. Dalla mia posizione, riuscivo lo stesso a sentire il suo odore, la prossima volta mi sarei dovuta ricordare di aumentare lo spazio tra di noi; un metro non era abbastanza.

«Ho preso una decisione», disse, recuperando la dietro la cattedra la sua borsa e caricandosela a spalle: «Se vuoi imparare a combattere, ti insegnerò quello che so».

Sorrisi.

Mi ero ripromessa di rimanere seria, di non lasciare trapelare nessuna reazione, sia in caso di rifiuto, sia in caso di risposta affermativa, ma non ci riuscii. Avrei voluto raggiungerlo e buttargli le braccia al collo, stringerlo e ringraziarlo, ma non lo feci, preferendo mantenere le distanze.

«Quando iniziamo?», gli chiesi emozionata, seguendolo mentre si dirigeva verso l'uscita della palestra.

Si fermò davanti agli spogliatoi e io feci lo stesso: «Cambiati, così ti riporto a casa», disse semplicemente, prima di scomparire oltre la porta del suo studio.

Negli spogliatoi femminili erano rimaste circa cinque ragazze, tra cui Frida.

Mi svestii e rivestii in fretta, decisa a non far aspettare troppo O'Bryen e a tartassarlo di domande fino a quando non avessi ottenuto tutte le risposte che cercavo.

«Ci vediamo domani, Frida», salutai la mia amica, prima di issarmi lo zaino in spalle e uscire dallo spogliatoio.

Xavier era già uscito, a quanto pare era riuscito a cambiarsi più in fretta di me e mi aspettava accanto alla sua moto.

«Allora, quando cominciamo?», gli chiesi, afferrando il casco che mi porgeva e indossandolo.

«Vedremo», disse semplicemente, aiutandomi a salire dietro di sé e spostando le mie mani, appoggiate sulle sue spalle, intorno alla sua vita.

«Tieniti», disse semplicemente, prima di partire.

Tenere gli occhi chiusi non aiutava molto, sentivo comunque l'aria fredda e percepivo chiaramente la velocità in cui era lanciato il veicolo. Avevo però un pizzico di fiducia in più in Xavier; un po' perché aveva promesso di insegnarmi a combattere, un po' perché mi aveva fatta sentire bella e desiderabile dentro lo stanzino della palestra quella mattina.

La sorte fu nuovamente dalla mia parte; sopravvissi al viaggio in moto.

Mentre Xavier ritirava la moto in garage, provai nuovamente a chiedergli quando avremmo potuto allenarci, ma lui rispose vagamente di nuovo, facendomi innervosire, stavo per andarmene scocciata in camera mia, quando le sue parole mi bloccarono.

«Oh, Diana, un'ultima cosa».

Mi voltai verso di lui, in attesa di sapere cosa volesse ancora: «Hai visto per caso in giro una delle mie magliette bianche? Non riesco a trovarla da nessuna parte».

Dallo sguardo nei suoi occhi capii che sapeva tutto e per la vergogna sentii il mio volto bruciare.

«No», dissi semplicemente, facendo un passo indietro: «Non l'ho vista».

Dieci secondi dopo ero fuggita come una codarda in camera mia, ma nemmeno la porta chiusa alle mie spalle mi impedì di sentire la risata divertita di Xavier.



****

Cari lettori e care lettrici, eccovi un nuovo capitolo, anche questo direi pieno di avvenimenti importanti: Diana ladra di magliette, Michel aspirante autista, i genitori di Diana che palesemente sperano che lei e Picard si mettano insieme, Xavier che guida la moto come un pazzo, la scena nello stanzino degli attrezzi, Isabel che accetta di dormire nel bosco con Diana e poi Xavier che le dice finalmente di sì.
Spero che abbiate tempo e voglia di lasciarmi un commento e di votare il capitolo!
Al prossimo sabato!
LazySoul

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X: Gossip pre-festa ***


Capitolo X: Gossip pre-festa


 

Nonna stava leggendo una rivista di giardinaggio, seduta sul divano, con gli occhiali per la vista adagiati in punta al naso. Le rughe le incorniciavano le labbra e gli occhi come una ragnatela.

Mi sedetti accanto a lei, abbandonando la borsa sul tavolo.

«Ha detto di sì», le comunicai con tono casuale, sbirciando le pagine che stava scorrendo.

Nonna Diana si sistemò le lenti sul naso, chiuse la rivista e mi guardò incuriosita: «Tesoro, di cosa stai parlando?»

Sorrisi, mostrandole la mia dentatura perfetta: «Xavier O'Bryen ha detto che mi insegnerà a combattere».

Gli occhi della nonna si illuminarono e sul suo volto comparve un'espressione soddisfatta: «Sono contenta».

Era sabato, mamma era uscita per andare a fare la spesa - non aveva più accennato al giorno prima e alla questione Michel-macchina e Xavier-moto, ma si vedeva che ce l'aveva ancora con me - papà e Kyle erano dai Picard per una veloce riunione per decidere i turni di ronda della settimana successiva ed Edith era in camera sua a giocare.

Era il momento perfetto per parlare con la nonna, senza essere disturbate o senza che qualcuno chiedesse spiegazioni.

«Voglio che tu stia attenta, Diana», disse nonna, cogliendomi di sorpresa.

«Xavier è un bel ragazzo, ma sii sicura che sia la persona giusta prima di farne il tuo compagno per la vita».

Provai ad interromperla, per rassicurarla, ma lei alzò la mano, zittendomi.

«Ricordo come se fosse ieri il momento in cui capii che tuo nonno mi piaceva, appena è successo ho affrettato le cose, ho insistito affinché celebrassimo la nostra unione alla luna piena successiva e sai quanto io possa essere testarda».

Sorrisi alla sua allusione, affascinata dal suo racconto.

«Tuo nonno mi ha detto che avevamo tempo, che potevamo aspettare e mi convinse a far passare un po' di tempo in più. Tuo nonno è sempre stato quello giudizioso, quello che pensava molto prima di prendere una decisione. Ci completavamo a vicenda in tanti piccoli modi... Sai cosa succede durante l'unione? Tua mamma te ne ha mai parlato?»

Scossi la testa, sapevo cosa comportava essere compagni per la vita, cosa mi sarei dovuta aspettare e cosa ci si aspettava da me, ma mamma non si era mai persa in dettagli. Forse, come sempre, aveva pensato che fossi troppo piccola per venire a conoscenza di certe cose.

«Si pronunciano dei voti, un tempo la cerimonia avveniva di fronte all'Alpha del branco e a qualche altro membro importante, ai propri genitori e amici. Ora le tradizioni sono cambiate, spesso si preferisce qualcosa di più intimo. Tua zia ad esempio si è unita a tuo zio Ronald senza dire nulla a nessuno, erano solo loro due e la luna piena. Ci sono dei voti da pronunciare, ma nulla di già scritto o deciso, ogni coppia ha i propri, ognuno apre il proprio cuore all'altro, promettendogli fedeltà e amore per tutta la vita».

Nonna e papà non parlavano spesso di zia Lorel. L'avevo vista una sola volta quando avevo circa dieci anni, era venuta a trovarci alla nascita di Edith. Me la ricordavo come una donna molto bella, con gli occhi scuri e le labbra a cuore, era di venticinque anni più giovane di mio padre e non apparteneva ufficialmente a nessun branco, le piaceva viaggiare e ogni tanto arrivava una sua cartolina dalle parti più improbabili del mondo. L'ultima che avevamo ricevuto arrivava dall'Italia, da Aosta, diceva che le Alpi erano bellissime e che lei e Ronald avevano intenzione di trattenersi il più a lungo possibile; il paesaggio li aveva stregati.

«Tutto qua? Basta pronunciare qualche parola sdolcinata di fronte alla luna piena?», chiesi, aggrottando le sopracciglia; mi ero sempre aspettata che ci fosse dell'altro.

Nonna rise, prendendo la mia mano sinistra tre le sue: «Dopo i voti bisogna fare il patto di sangue. Con un pugnale d'argento ci si incide la pelle e ci si scambia il sangue».

Nonna mi mostrò il palmo della sua mano destra, dove una sottile cicatrice bianca era a mala pena visibile tra le rughe.

«Perché d'argento?», chiesi.

«É una tradizione, inoltre l'argento, rispetto agli altri metalli rallenta la guarigione della nostra pelle, permettendo un vero e proprio scambio di sangue», spiegò.

Annuii, osservando la sua espressione; sentivo che mancava ancora un pezzo del puzzle, qualcosa che ancora non mi aveva detto: «E poi?»

Nonna abbassò lo sguardo e accadde qualcosa che succedeva molto di rado: arrossì.

«Poi... Ecco, diciamo che vi è l'unione vera e propria».

Aggrottai le sopracciglia, confusa.

«L'unione carnale», disse, con un sorriso imbarazzato sulle labbra.

Arrossii a mia volta, sentendomi a disagio: «Ah, capito», dissi, cercando una qualsiasi via di fuga. Non volevo che la conversazione continuasse, non più.

«Un tempo ci si aspettava la purezza del proprio compagno o compagna, era raro che ci fossero stati altri o altre prima...»

Mi alzai di scatto: la conversazione doveva assolutamente finire. Subito.

Controllai l'ora sul cellulare.

«Nonna, devo andare da Frida per la ricerca di spagnolo, se perdo l'autobus poi rischio di arrivare in ritardo», dissi, dirigendomi verso la borsa che avevo lasciato sul tavolo.

Ero felice che i miei non ci fossero, se avessero visto il borsone che avevo preparato per passare una notte fuori si sarebbero resi conto che c'era qualcosa che non andava.

«Diana», chiamò nonna, impedendomi di fuggire come avrei tanto voluto.

Mi voltai verso di lei.

«So che le cose sono cambiate rispetto a quando io ero una ragazza, ma voglio che tu sappia questo: aspettare la persona giusta non fa di te una ragazza eccentrica».

Avevo il volto rosso quanto un pomodoro ben maturo e una strana espressione di panico misto ad imbarazzo che molto probabilmente non mi donava neanche un po'.

«Va bene, nonna, devo andare», indossai la giacca, il cappello e mi caricai il borsone sulla spalla, dirigendomi verso la via di fuga più vicina.

«Divertiti dalla tua amica, ci vediamo domani», mi salutò lei, tornando a sfogliare la rivista sul giardinaggio.

«Sì, a domani».

Uscii di casa e mi fermai in mezzo al vialetto per qualche secondo, prima di iniziare a ridere nervosamente, dirigendomi verso la fermata dell'autobus.

Tirai fuori il cellulare dalla tasca; avevo assolutamente bisogno di parlare con Sab di quello che era appena successo, volevo condividere con lei l'imbarazzo e il disagio.

Isabel rispose al terzo squillo: «Diana, per la ventesima volta: non avrò pietà questa sera e ti trasformerò nella mia bambola a dimensioni reali; è inutile che continui a provare a farmi cambiare idea».

Scossi la testa e risi: «Sappiamo benissimo entrambe che non succederà mai».

Non avevo intenzione di farmi vestire e truccare da Isabel; avevo ancora una dignità e non ero disposta a farla a pezzi per una festa qualsiasi.

«Non è per questo che ti ho chiamato», le dissi, guardando a sinistra, dove mi aspettavo di veder spuntare l'autobus da un momento all'altro.

«Dimmi tutto», sospirò Sab, sentivo dal suo tono di voce che era delusa di non poter mettere le sue grinfie sulla sottoscritta.

«Ho appena avuto la conversazione più stramba e imbarazzante della mia vita», le comunicai, cercando dove avessi messo l'abbonamento del bus.

«Aspetta a dirlo, non potrà mai essere imbarazzante quanto quella volta che i miei genitori hanno deciso fossi abbastanza grande per sapere che i bambini non vengono portati dalle cicogne. Non potrò mai più guardare Dumbo con gli stessi occhi, mi hanno rovinato l'infanzia».

Risi, vedendo l'autobus girare nella mia via: «La conversazione che ho avuto con nonna ci si avvicina molto», le dissi, trovando l'abbonamento nella tasca dei pantaloni: «Mi ha detto che essere vergine non è qualcosa per cui mi devo vergognare, ma anzi faccio bene ad aspettare la persona giusta».

Sentii silenzio dall'altra parte del telefono per qualche secondo, poi Sab iniziò a ridere in modo isterico, facendo ridere di conseguenza anche me.

«Adoro tua nonna!», la sentii dire tra uno scoppio di risa e l'altro: «Ma come siete arrivate a parlare di queste cose?»

Le raccontai, a bassa voce - dato che sull'autobus c'erano altre persone ed erano tutte umane - a grandi linee ciò che avevo scoperto a proposito del rito che permetteva l'unione col proprio compagno per la vita.

«Ouh, interessante! Quindi prima ci sono i voti, poi c'è lo scambio del sangue e poi c'è del buono e sano sesso... Mi piace», commentò Isabel, prima di imprecare sotto voce.

«Sab?», la chiamai, cercando di capire cosa fosse successo per farla sboccare in quel modo; non era da lei.

«Niente», sussurrò; sembrava nervosa.

Sentii il rumore di una porta chiusa e poi un'altra imprecazione.

«Mi ero completamente dimenticata che mamma era in casa, temo abbia sentito tutto», disse a mo' di spiegazione. Il suono di qualcosa che cadeva mi fece immaginare la mia migliore amica gettare con forza a terra la prima cosa a portata di mano.

Fu il mio turno di scoppiare a ridere in modo isterico, facendo voltare verso di me una signora ormai anziana che stringeva al petto la sua borsetta rossa; aveva in volto un'espressione a metà tra il curioso e l'infastidito.

«Non fa ridere», sibilò tra i denti Isabel: «Ora devo andare, la borsa per questa sera non si prepara da sola».

«Va bene, a dopo», la salutai, cercando di fermare le risate che ancora mi sconquassavano il petto.

«Sì, ciao», chiuse la comunicazione.

Posai il cellulare in tasca e, con ancora il sorriso a increspare le mie labbra, mi resi conto che mancavano ancora tre fermate e poi sarei dovuta scendere.

Adoravo la mia migliore amica; riusciva sempre a farmi ridere, allontanando i brutti pensieri dalla mia mente.

"Come per esempio il fatto che sono quasi 24 ore dall'ultima volta che hai visto Xavier?"

Arrossii a quel pensiero, sistemandomi in modo impacciato il cappello di lana in testa.

Non avevo saputo nulla di O'Bryen da quando mi aveva chiesto se avessi avuto idea di dove fosse finita la sua maglietta, il pomeriggio precedente. Lui, dopo esser andato in camera, era poi uscito di casa quindici minuti dopo e non era tornato. Avevo approfittato del fatto che non ci fosse per riportare in mansarda la sua famosa maglietta. Mi ero detta che era giusto smetterla di alimentare l'intossicazione contratta a causa del suo odore. In realtà era stata un'idea pessima; quella notte avevo faticato a prendere sonno e avevo continuato a rigirarmi nel letto nel dormiveglia. Avevo fatto sogni che ricordavo essere stati assurdi, ma di cui avevo dimenticato i dettagli; sapevo solo che nella realtà onirica che avevo immaginato erano presenti la mia migliore amica, Francine e Edith, per il resto avevo rimosso tutto.

Papà la sera prima aveva semplicemente detto che Xavier non sarebbe tornato per cena, ma non aveva spiegato il motivo e il sabato mattina non aveva fatto alcun cenno all'assenza del nostro ospite, nemmeno a pranzo.

Poco prima, avevo avuto la tentazione di chiedere a nonna se sapesse qualcosa a proposito dell'improvvisa scomparsa di O'Bryen, ma poi la conversazione era diventata troppo imbarazzante e non ero riuscita a sopportare oltre. Era in momenti come quello che avrei voluto avere il numero di cellulare di Xavier, giusto per potergli chiedere come stesse, giusto per avere la conferma che fosse vivo, giusto per smetterla di preoccuparmi - molto probabilmente inutilmente - per la sua incolumità.

Scesi dall'autobus e decisi di non pensarci più, avrei dedicato le restanti ore del pomeriggio alla ricerca di spagnolo su Cernuda e a chiacchierare tranquillamente con Frida, avrei passato poi una bella serata e avrei impedito al nome di Xavier di attraversare la mia mente.

I miei buoni propositi durarono giusto venti-trenta minuti, prima che i miei pensieri vertessero inesorabilmente su O'Bryen. Tutta colpa della poesia che stavamo analizzando io e Frida, lei mezza coricata sul suo letto e io appollaiata sulla sedia girevole della sua scrivania.

"Si el hombre pudiera decir lo que ama" di Luis Cernuda era una delle poesie d'amore più belle che avessi mai letto. Rimasi irretita, confusa e stupita dalle parole che quel poeta aveva così magistralmente composto in una meravigliosa proclamazione al vero amore.

Frida continuava a blaterare qualcosa, ma non riuscivo a distinguere le parole e a comprenderne il senso. Continuavo a ripetermi alcuni versi della poesia, sussurrandoli a fior di labbra per saggiarne appieno la potenza e la perfezione.

"Libertad no conozco sino la libertad de estar preso en alguien

cuyo nombre no puedo oír sin escalofrío"

("Libertà non conosco tranne la libertà di essere imprigionato in qualcuno

il cui nome non posso udire senza rabbrividire")

Tenni lo sguardo basso e le mie mani, involontariamente, strinsero con forza i braccioli della sedia girevole.

"Tú justificas mi existencia:

si no te conozco, no he vivido;

si muero sin conocerte, no muero, porque no he vivido."

("Tu giustifichi la mia esistenza:

se non ti conosco, non ho vissuto;

se muoio senza conoscerti, non muoio, perché non ho vissuto")

Il cuore mi batteva ad un ritmo irregolare, lo potevo sentire pompare sangue nel mio corpo con una chiarezza e forza, tali da farmi percepire il battito in gola.

Il mio pensiero corse ad un paio di occhi verde chiaro, un sorriso arrogante e delle invitanti fossette.

Non avrei dovuto pensare a Xavier leggendo una poesia d'amore.

Cosa mi stava succedendo?

Guardai Frida, che stava borbottando qualcosa a proposito di quanto le piacesse la poesia e desiderasse includerla nella nostra ricerca; voleva assolutamente leggerla in classe, o come minimo citarla.

Avevo bisogno di stare da sola per qualche secondo, giusto il tempo necessario per rinfrescarmi il viso, schiarirmi le idee e smetterla di avere il respiro incastrato in gola.

«Frida, posso andare un attimo in bagno?»

La mia amica annuì con vigore e mi accompagnò fuori in corridoio, indicandomi una porta in legno chiaro a cinque passi di distanza.

Una volta in bagno abbassai la tavoletta del gabinetto e mi sedetti, prendendomi il viso tra le mani.

L'istante dopo mi lasciai scivolare a terra, le gambe raccolte contro il petto e la testa incastrata tra le ginocchia.

Non avevo mai avuto un attacco di panico e classificai quello che mi era successo come tale; i sintomi erano piuttosto esplicativi.

Continuai a respirare profondamente, garantendo all'ossigeno di raggiungere il cervello. Nell'arco di qualche secondo mi sentii meglio e decisi di sciogliere la strana posizione in cui mi trovavo, per appoggiare la nuca contro la tavoletta del gabinetto alle mie spalle.

Sapevo perfettamente cos'era successo, semplicemente non avevo intenzione di ammetterlo nemmeno con me stessa. Mi ero lasciata trascinare dai forti sentimenti che quella poesia aveva scatenato in me e mi ero comportata come una ragazzina stupida.

Sospirai e mi alzai in piedi, raggiungendo il lavandino alla mia sinistra.

Quando provai ad aprire il rubinetto, mi resi conto che le mie dita tremavano in modo preoccupante.

"Smettila di comportarti come una patetica quattordicenne che non sa controllarsi!", urlò la mia voce interiore, quella che ascoltavo solo quando aveva ragione e, in quel caso, ne aveva da vendere.

Osservai il mio riflesso nello specchio che sovrastava il lavandino e gemetti, frustrata, alla vista del mio aspetto orribile; avevo la pelle più pallida del solito e l'espressione di una malata terminale.

"Malata terminale, descrizione molto azzeccata".

Abbassai lo sguardo e decisi di vagliare i miei pensieri; sapevo di voler ignorare la faccenda, ma per farlo avevo bisogno di lasciarmela alle spalle e quindi di analizzarla una volta per tutte.

Pensare a Xavier leggendo una poesia d'amore, mi aveva letteralmente mandato nel panico.

Non mi ero mai sentita così tanto legata sentimentalmente a qualcuno che non facesse parte della mia famiglia o del branco. E la portata di quelle emozioni, emersa dopo solo sei giorni dal nostro primo incontro, mi aveva spaventato.

Non ero pronta per l'amore. Io non lo volevo nemmeno! Tutto quello che volevo era essere forte, essere indipendenti ed essere maggiorenne. Appena avessi finto la scuola volevo viaggiare, vedere il mondo, proprio come la zia Lorel. L'amore non rientrava nei piani, l'amore li stravolgeva, li invalidava.

Non potevo permettermi di innamorarmi di lui.

Ero troppo legata alla mia libertà per privarmene senza combattere.

Avrei fatto il possibile per non alimentare ulteriormente quei sentimenti, quell'attrazione e quel forte desiderio di conoscerlo, di sapere tutto di lui.

Mi sarei impegnata a passare con lui solo il tempo necessario per imparare le sue tecniche di combattimento. Nient'altro.

La decisione che avevo appena preso mi diede la forza necessaria per tornare in camera di Frida e finire con lei la ricerca senza che altre crisi mi colpissero. Ci dividemmo il materiale da studiare per l'esposizione in classe e, una volta terminato, ci rendemmo conto che erano già le sette.

«A breve mamma ci chiamerà per cena, le ho chiesto di prepararci qualcosa di leggero perché immagino che alla festa di Ling non mancheranno gli snack», disse Frida, mentre ritirava i libri di spagnolo.

«Spero che tu abbia ragione», borbottai, sentendo suoni preoccupanti provenire dal mio povero stomaco vuoto: «Isabel dovrebbe già essere qua», aggiunsi, cercando di sfruttare il mio udito da lupo per capire se fosse nelle vicinanze.

«Solitamente è puntuale?», chiese Frida, con un sorriso consapevole sulle labbra.

«No!», esclamai, scoppiando a ridere e scuotendo la testa.

Sab era conosciuta da tutti per i suoi ritardi; era più forte di lei, non era proprio in grado di arrivare all'ora stabilita, nemmeno se avesse iniziato a prepararsi due ore prima.

Frida aprì il suo armadio a muro, che occupava la parete a sinistra del suo letto e iniziò a tirare fuori una gruccia dopo l'altra, che reggevano abiti, maglie e pantaloni, adagiandole in modo disordinato sul suo letto.

«Ho bisogno di un consiglio su cosa mettere», disse, portandosi l'indice al mento e osservando la pila di indumenti sulle sue coperte con aria assorta.

«Temo che tu stia chiedendo alla persona sbagliata», la informai, giocando con la sua sedia girevole; avevo intenzione di ruotare fino a quando non mi fosse venuto mal di testa.

«Perché dici così?», rise Frida, portandosi un vestito contro il corpo e facendo un giro di 360 gradi per far volteggiare la gonna ampia.

Smisi di girare e mi portai una mano allo stomaco; oltre al mal di pancia, anche la nausea era venuta a farmi visita. Forse non avrei dovuto ruotare sulla sedia così tanto.

Quando mi sentii un po' meglio la guardai dritto negli occhi: «Perché io non me ne intendo di abiti e moda, è Sab quella che dovresti interpellare».

Mi alzai in piedi e raggiunsi il mio borsone a terra, recuperando la maglietta nera dei Queen che avrei indossato alla festa di quella sera, con jeans e Converse grigie.

In quel preciso istante udii chiaramente un'auto percorrere il vialetto di Frida e la voce della mia migliore amica salutare sua madre.

Cinque secondi dopo suonò il campanello.

«Dev'essere Isabel», disse Frida, andando ad aprire la porta d'ingresso.

Rimasta da sola nella camera, decisi di approfittarne per cambiarmi.

Quando Sab entrò nella stanza e vide il mio abbigliamento, alzò gli occhi al cielo: «Sei incorreggibile, D».

Con l'aiuto di Isabel, Frida decise di indossare una gonna nera e stretta che le arrivava poco sopra al ginocchio, collant neri e un top rosso che metteva in risalto il suo seno prosperoso. La mia amica invece aveva optato per un paio di leggins e un maglione color rosa antico che aveva un profondo scollo sulla schiena, dal quale si poteva vedere il gancetto del reggiseno nero che indossava.

Provarono a convincermi in ogni modo a cambiare il mio outfit, dicendo che mi avrebbero volentieri prestato qualcosa di un po' più femminile, ma declinai le loro generose offerte con occhiate piene d'odio.

Le accompagnai poi in bagno, dove si dedicarono al trucco e ai capelli, mentre io le osservavo divertita, ascoltando i loro discorsi.

«Ho sentito che Peter Fouling ha chiesto a Rebecca Jones di uscire», disse Isabel, mentre si legava i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo alta.

«Ma dai!», esclamò Frida, aprendo il suo beauty, dal quale tirò fuori una palette di ombretti.

«Peter non ha speranze», dissi, appoggiandomi alla parete alle loro spalle.

Rebecca faceva parte del branco dell'Alpha Rise, che occupava il territorio vicino al nostro. Thomas Rice era un caro amico di mio papà e spesso si incontravano per discorrere di "cose da Alpha", come le definiva lui. Tra il loro branco e il nostro c'era un tacito patto di alleanza; ci si aiutava in caso di pericolo e si evitavano le dispute tra di noi.

«Sono d'accordo», disse Isabel, guardandomi attraverso il riflesso dello specchio: «Sicura di non volerti truccare? Ti presto volentieri...»

«Grazie, ma no grazie», alzai gli occhi al cielo, fingendomi scocciata, ma mi tradii con il sorriso divertito che aleggiava sulle mie labbra.

«Hai mai usato il rossetto che ti ho regalato per Natale?», mi chiese Sab, muovendo in modo minaccioso il pennello con cui si stava stendendo del blush sugli zigomi.

«Certo che no», confermai i suoi sospetti, facendole l'occhiolino.

Avevo un vero e proprio rifiuto per i trucchi; li trovavo inutili e poco pratici. L'unica volta che avevo provato ad ascoltare i consigli di Isabel e avevo indossato del mascara e un po' di rossetto, era stato circa quattro anni prima, alla festa di compleanno di Michel. Tutto quello che ricordavo di quel giorno erano le prese in giro di Francine e le risate di scherno delle sue amiche.

Non mi ero mai sentita a mio agio con la faccia impiastricciata di prodotti e le ciglia appesantite dal mascara, per non parlare dei rossetti, li trovavo volgari. Inoltre su di me il trucco non donava; avevo un viso da bambina, se avessi provato a nasconderlo dietro a prodotti su prodotti avrei finito per assomigliare ancora di più a una ragazzina che aveva rubato i trucchi alla madre.

«Verrà il giorno», disse Isabel, con voce tonante e decisa: «In cui indosserai il mio rossetto e farai girare la testa a qualche bel ragazzo».

Risi alle sue parole, scuotendo la testa rassegnata della pazzia della mia amica.

«Qualcuno come il prof O'Bryen», aggiunse Frida, sollevando e abbassando le sopracciglia con sguardo malizioso.

Smisi di ridere, la fronte corrucciata e un sorriso nervoso e confuso sulle labbra.

Xavier era un incubo, continuava a tormentarmi anche quando non c'era.

«Ho visto che sei arrivata a scuola con lui ieri», disse Frida, pronta a farmi il terzo grado, con gli occhi che le brillavano per la curiosità.

Rossa in volto, cercai un modo per cambiare argomento, sperando che Sab mi aiutasse ad uscire da quella situazione difficile.

«Il padre di Diana conosce O'Bryen», disse Isabel, riuscendo a peggiorare ulteriormente la situazione.

Frida aggrottò le sopracciglia: «Oh», esclamò; sembrava confusa: «Quindi ti ha portato a scuola per fare un favore a tuo padre?»

Lanciai un calcio a Sab, facendole capire che il suo intervento era stato ampiamente apprezzato.

«Ieri c'era lo sciopero dei mezzi», dissi, cercando di salvare il salvabile: «E O'Bryen si è gentilmente offerto di accompagnarmi a scuola, tutto qua».

Frida annuì: «Quindi non c'è nulla tra voi due, sicura?»

La gente doveva smettere di fare supposizioni su me e Xavier. Mia nonna, Isabel, Kyle, Francine e ora anche Frida; era un incubo.

«Sicura», dissi, con un tono di voce forse un po' troppo brusco, mentre fissavo il mio riflesso. Mentre guardavo i miei occhi e i loro diversi colori, mi venne in mente lo sguardo di Xavier, quello del giorno prima, che mi aveva fatto sentire una donna, nello sgabuzzino della palestra e non potei fare a meno di arrossire ulteriormente.

«Se lo dici tu», disse Frida, facendomi l'occhiolino.

Per fortuna in quel momento la signora Martinez accorse in mio soccorso, bussando alla porta del bagno e annunciando con il suo forte accento spagnolo, che la cena era in tavola.

Non le lasciai nemmeno finire la frase, che ero già fuori in corridoio, a sorriderle da orecchio a orecchio.

Frida e Isabel mi seguirono a ruota, decidendo di finire gli ultimi ritocchi dopo cena, anche perché non avrebbe avuto senso mettere il rossetto prima di mangiare.

In sala da pranzo, trovammo ad attenderci patatas bravas, un tagliere con affettati e una tortilla de patatas tagliata a fette. C'era inoltre una ciotola di pomodori conditi e un'altra con dell'insalata.

Ringraziammo la gentilezza della signora Martinez e le facemmo i complimenti per i buonissimi piatti che ci aveva preparato.

Assaggiai tutto quello che c'era in tavola, senza però abbuffarmi come mio solito, nel tentativo di apparire ben educata e non passare per una morta di fame. Trovai la tortilla de patatas molto buona e mangiai il prosciutto crudo con del pane fresco, gustandomi il sapore ricco e inebriante del "jamón ibérico".

Mangiai la porzione anche di Isabel che, convinta di dover dimagrire e perdere qualche chilo entro l'estate, aveva a mala pena mangiucchiato qualche pomodoro e patatas bravas. Ero convinta che fosse stata la pessima battuta di Francine di qualche giorno prima a farle venire in mente questa pazzia della dieta. Non ricordavo precisamente ciò che si erano dette, ma avevo impresso nella mia mente il volto ferito e oltraggiato della mia migliore amica e il sorriso trionfale sul volto di Francine. Poi ovviamente ero intervenuta io e avevo rovesciato il mio succo di mirtillo sulla maglietta rosa pallido della bionda, facendola fuggire in bagno a salvare il salvabile.

Dovevo assolutamente parlare con Isabel e farle capire che non aveva affatto bisogno di seguire una dieta; aveva un fisico perfetto e le parole piene di veleno di Francine erano state dettate dalla gelosia, non certo dalla ripugnanza.

Avevo sempre invidiato il fisico a clessidra della mia migliore amica. Forse perché io stavo ancora spettando che l'adolescenza cambiasse il mio corpo, rendendolo più femminile.

«Secondo voi ci saranno i Picard?», chiese Isabel, lo sguardo perso nel vuoto, mentre io ruminano convinta alcune foglie d'insalata.

Pensi al diavolo e...

«Spero di no, Francine è insopportabile e Michel è così pieno di sé!»

Frida mi rubò letteralmente le parole di bocca, così mi limitai ad annuire.

Le guance di Isabel divennero dello stesso colore dei pomodori che aveva nel piatto: «Michel non è pieno di sé».

Alzai gli occhi al cielo, mentre Frida sorrideva maliziosamente: «Non sapevo ti piacesse».

«Isabel ha una cotta per Michel da...», mi portai una mano al mento, pensierosa: «Da sempre?»

Entrambe le ragazza scoppiarono a ridere.

«Nel caso fosse presente allora, dobbiamo trovare il modo di farli rimanere soli, nella stessa stanza», disse Frida, facendomi l'occhiolino.

Mi voltai verso Isabel e sorrisi: «Potrebbe essere la volta buona che riesci a intavolare con lui una conversazione di senso compiuto; è da quando avevamo dodici anni che lo eviti, guardandolo da lontano come una stalker».

«Grazie, D, le tue parole sono molto incoraggianti», borbottò Sab, infilzando con nervosismo un pezzo di pomodoro.

«Non hai qualcosa di più scollato?», chiese Frida, osservando pensierosa l'outfit della mia amica.

«Potresti indossare il maglione al contrario, così da mettere in mostra le gemelle», proposi, occhieggiando l'ultima fetta di tortilla.

Isabel scosse con forza la testa: «No».

Io e Frida iniziammo a ridere della faccia contrariata di Sab poi, cercando di non farmi notare troppo, presi l'ultima fetta di tortilla e la posizionai nel mio piatto.

"E addio ai miei buoni propositi di non sembrare una morta di fame".

 

******

Hola 😊
Eccoci arrivati al decimo capitolo, che ve ne pare?
Grazie alla nonna abbiamo scoperto qualche dettaglio in più su ciò che succede quando ci si unisce al proprio compagno per la vita (spero che la procedura sia chiara, ma in caso contrario chiedete pure). 
Xavier non si fa vedere dal giorno prima Diana non può fare a meno di pensare a lui e a quanto le faccia paura ciò che prova. Spero che dopo questo capitolo cominci ad essere maggiormente chiaro perché Diana non vuole innamorarsi, o almeno uno dei motivi.
Aspetto i vostri commenti e vi dò appuntamento per sabato 21 ottobre! 😘
Un bacio,
LazySoul

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Capitolo 11
*** Capitolo XI: Festa in casa Ling ***


Capitolo XI: Festa in casa Ling

 

 

La villa di Paul Ling si trovava a cinque minuti di macchina da casa di Frida ed era nella zona ricca della città, dove le abitazioni avevano quella sfarzosità e cura dei dettagli che ti faceva immancabilmente sentire una stracciona.

Il vialetto era già occupato da numerose auto, così la signora Martinez ci lasciò sul ciglio della strada, augurandoci una buona serata e raccomandandoci di fare le brave. Frida diede un bacio sulla guancia alla madre e le sussurrò qualche parola per rassicurarla, poi scendemmo dall'auto e ci dirigemmo verso l'ingresso.

Osservando le macchine parcheggiate lungo il vialetto, tirai un sospiro di sollievo nel constatare che quella di Michel non c'era, ma faci una smorfia alla vista di quella di Carol, la cheerleader stupida che viveva in simbiosi con Francine.

Ora le possibilità che almeno un rappresentante della famiglia Picard fosse alla festa era pari al 99%. Ero talmente felice da rischiare un infarto.

Annusai l'aria e, anche se lieve, sentii l'odore di rose e margherite di Francine ed ebbi la conferma di ciò che temevo. Mentre pensavo ad un piano per evitarla, così da godermi la serata senza averla tra i piedi, mi tornarono in mente le parole di Kyle, quando mi aveva chiesto, gentilmente, di dare a Francine una chance e smetterla di odiarla.

Avrei potuto provarci e vedere se Francine avrebbe fatto lo stesso.

Il fatto era che ormai odiarla era un abitudine collaudata nel corso degli anni e non ero sicura di essere in grado di smettere da un giorno all'altro. Punzecchiarsi con Francine era quasi divertente, era qualcosa che rendeva una monotona giornata di scuola, una monotona giornata di scuola con un minimo di intrattenimento.

Quando eravamo bambine io, Isabel e Francine eravamo inseparabili; non c'era giorno che non giocassimo insieme. Eravamo un bel trio, ne combinavamo di tutti i colori, principalmente per colpa mia, poi le cose erano cambiate alla morte della signora Picard.

«Diana, hai intenzione di entrare con noi?», chiese Sab, distogliendomi dai miei pensieri e facendomi realizzare di esser stata ferma, in mezzo al vialetto, a fissare la macchina di Carol per tutto il tempo.

«Certo», dissi, prendendo la mia migliore amica a braccetto, e scortandola fino alla porta d'ingresso di Paul Ling, dove due ragazzi stavano pomiciando senza ritegno accanto al campanello.

Frida voleva bussare, ma ignorai i suoi tentativi di essere una persona civile e aprii semplicemente la porta, che non era chiusa a chiave, ed entrai nel delirio che regnava in casa di Paul Ling, trascinandomi dietro Isabel.

L'ingresso era occupato da alcuni ragazzi del terzo anno che stavano chiacchierando tra loro, tutti con una birra in mano. Il rumore della musica impediva di sentire effettivamente di cosa stessero parlando e l'odore di sudore, alcol, fumo e vomito era talmente forte da far girare la testa.

«Che schifo», riuscii a borbottare, mentre mi dirigevo ad una delle finestre e la spalancavo, nella speranza di far uscire la puzza e far entrare un po' di ossigeno.

In salotto era in corso una partita di beer pong, ragazzi contro ragazze, mentre sul divano un sorridente Paul Ling, circondato da due bionde succinte, si stava vantando di quanto fosse ricco e di quanto fosse intelligente e bla bla bla. Quel ragazzo non sarebbe mai cambiato; l'avevo "conosciuto" qualche mese prima, quando si era presentato a scuola con la sua Maserati rosso magma, attirando l'attenzione di tutti gli studenti. Era talmente pieno di sé e fiero di essere al centro delle chiacchiere che non ero riuscita a trattenermi, ero andata da lui e gli avevo puntato l'indice contro il petto, dicendogli che doveva ritenersi fortunato, che in una realtà parallela quella era la mia auto e che quindi aveva poco da fare lo sbruffone.

Era rimasto senza parole per qualche secondo, poi Isabel era venuta a recuperarmi, trascinandomi via e impedendomi di rubargli le chiavi dell'auto.

«Hey, Paul!», lo salutai, mentre mi sfilavo la giacca e il cappello, tenendoli sotto braccio: «Stai trattando bene la mia auto?»

Per quanto fosse ubriaco, notai dal suo sguardo che mi aveva riconosciuta e un'espressione sconvolta e preoccupata comparve sul suo volto: «Tu sei la ragazza pazza!», esclamò, puntandomi contro la birra che stava bevendo e scansando le due bionde per potersi alzare e fronteggiarmi.

«Cosa ci fai qui? Non sei stata invitata», biascicò, sbattendo il piede a terra.

Quanto era tenero il suo tentativo di farsi valere; sembrava un bambino che faceva i capricci.

Aveva i capelli scuri tirati indietro da fin troppa lacca e gli occhi a mandorla mi scrutavano con odio.

Possibile che riuscissi sempre a farmi dei nemici?

«Non sono un vampiro, non ho bisogno di essere invitata per entrare in una casa», dissi, sorridendo in modo affabile, prima di tirargli una pacca sulla spalla.

Dall'espressione sul suo volto, dedussi di avergli fatto abbastanza male per quella serata, così decisi di dileguarmi alla ricerca di Sab e Frida.

Un mano calda si appoggiò sulla mia spalla e l'odore familiare di muschio e gelsomino m'invase le narici. Mi voltai quel tanto che bastava per incontrare gli occhi azzurri di Michel e per salutarlo con un cenno del capo, poi presi la sua mano e la spostai dalla mai spalla, facendola finire lungo il suo fianco.

«Ciao», dissi di buon umore e decisa a non farmelo guastare da lui: «Hai visto Sab? L'ho persa di vista».

Michel mi sorrise e mi fece segno di seguirlo.

Mi portò in quello che sembrava uno studio, dove un numero impressionante di alcolici era allineato su una scrivania in mogano. Isabel era lì, che prendeva da una cassa due birre, mentre Frida si serviva uno shot di vodka alla menta.

«Grazie», dissi, tirando una pacca gentile sulla spalla di Michel e tentando di allontanarmi per raggiungere le mie amiche, ma lui mi prese il braccio, trattenendomi.

«Possiamo parlare?», mi chiese, indicandomi il bagno vuoto a pochi passi da noi.

«Va bene, ma non là», dissi, certa che il forte puzzo di vomito provenisse proprio da lì dentro.

Avevo deciso di affrontare una volta per tutte il testardo Michel, nella speranza di riuscire a farlo arrendere e tornare ad essere semplicemente amici, come eravamo sempre stati.

Andammo fuori a parlare, dove la musica era meno forte e l'aria era abbastanza pulita da esser respirata. Indossai nuovamente giacca e cappello per proteggermi dall'aria fredda di fine Febbraio.

«Come stai?», chiese, appoggiandosi alla colonna della veranda e fissandomi dritto negli occhi.

In quel momento mi sembrò vulnerabile e mi sentii davvero male per come l'avevo trattato quell'ultima settimana, evitandolo come la peste e ignorando la sua presenza.

«Di cosa volevi parlarmi?», gli chiesi, decisa ad arrivare al punto, non mi piacevano i giri di parole, preferivo la schiettezza.

I suoi occhi si abbassarono brevemente a terra, prima di tornare a puntarsi su di me: «Volevo chiederti se ti andrebbe di uscire con me, uno di questi giorni».

Era nervoso, lo capivo dal modo che aveva di passarsi la mano tra i capelli, grattandosi poi la nuca, anche se cercava di mascherarlo col suo sorriso affabile.

Presi un profondo respiro e decisi di essere sincera con lui, anche se mi dispiaceva deludere le sue aspettative: «Grazie per la proposta, Michel, ma temo di non essere la persona giusta per te».

Distolsi lo sguardo, osservando disgustata una coppia che si stava sussurrando parole dolci all'orecchio.

«Come...?», iniziò, ma non lo lasciai finire, tappandogli la bocca con la mano.

«Stai zitto e ascoltami», gli ordinai, incrociando le bracci al petto; non l'avrei mai ammesso ad alta voce, ma ero nervosa pure io: «Siamo sempre stati buoni amici e stare in tua compagnia è sempre stato divertente e piacevole. Perché dovremmo rovinare tutto?»

Sapevo di non essermi espressa bene, ma le parole, ora che avevo l'opportunità di essere sincera e di sfogarmi, sembravano ingarbugliarsi e uscire in ordine sparso, e non come avrei voluto io.

«Aspetta», dissi, sollevando nuovamente la mano per impedirgli di parlare: «Quello che sto cercando di dirti è che so a cosa vuoi arrivare, ti ho sentito chiedere a mio padre il permesso di corteggiarmi».

Gli occhi chiari di Michel si spalancarono per la sorpresa, mentre arrossiva: «Oh, questo non me l'aspettavo», borbottò, grattandosi nuovamente la nuca con la mano.

«Mi conosci», gli dissi, sorridendogli tristemente: «Non sono il tipo da mettere la parte la mia libertà per sposarmi e avere dei bambini, di sicuro non nell'immediato».

«Sogni ancora di viaggiare per il mondo?», mi chiese.

«Sì», confessai, abbassando lo sguardo a terra: «Il fatto è che non posso accettare il tuo invito ad uscire perché non mi piaci in quel senso, Michel. Sei un bravo ragazzo, ma non sei la persona adatta a me».

«Mentre O'Bryen sì, invece?»

Socchiusi le labbra, sorpresa dalla qua insinuazione: «Lui cosa c'entra?», chiesi, cercando di mantenere un tono calmo, anche se dentro di me mi sentivo ribollire di rabbia.

«Da quando è arrivato in città non fa altro che ronzarti intorno», disse, incrociando le bracci al petto: «Non voglio che ti faccia soffrire».

Spalancai gli occhi e mi sentii ferita dalle sue parole.

Possibile che tutti fossero convinti che sarei stata io quella che si sarebbe fatta spezzare il cuore?

Nonna, Sab, mio fratello e ora Michel; tutti che mi dicevano di fare attenzione.

A nessuno era passato per la mente che sarei potuta non essere io quella che avrebbe sofferto?

«E perché dovrebbe?», chiesi, assottigliando lo sguardo.

«Senti, sono solo preoccupato, tutto qua. Non lo conosciamo, potrebbe essere una cattiva persona», disse, aggrottando le sopracciglia.

«Lui almeno non ha chiesto a mio padre il permesso di fare di me la propria compagna, senza prima chiedere il mio parere», constatai, con tono di voce brusco.

«Mi sembrava corretto nei confronti dei tuoi genitori!», esclamò, allargando le braccia: «Non pensavo te la saresti presa tanto».

Presi un profondo respiro e distolsi lo sguardo: «Ora capisci perché non voglio uscire con te?», chiesi, con una smorfia in viso: «Abbiamo idee diverse, finiremmo per litigare tutto il tempo e...»

«Tu hai solo paura di innamorarti di me o di chiunque altro».

Le sue parole mi sorpresero; non pensavo che mi conoscesse così a fondo.

Lo fissai negli occhi, decidendo di accettare la sfida: «Non ho paura di innamorarmi di te», dissi, ed era la verità, perché chi mi faceva veramente paura era Xavier: «E per dimostrartelo, accetto il tuo invito ad uscire».

Un'espressione colma di sorpresa e trionfo comparve sul suo viso: «Ti passo a prendere lunedì, alle cinque».

Mi pentii istantaneamente di aver accettato, ma non mi potevo più tirare indietro.

Annuii: «Dove andiamo?»

«Non te lo dico, è una sorpresa», mi fece l'occhiolino e si avvicinò a me, inondandomi col suo odore. Ma la mia mente continuava ad essere lucida, i miei occhi a rimanere aperti e i miei pensieri si mantenevano casti. Non era Xavier e il mio corpo ne era fin troppo consapevole.

«Posso andare a prenderti qualcosa da bere?», chiese, sfoggiando un sorriso a trentadue denti, mentre mi passava un braccio intorno alle spalle e tentava di baciarmi.

Mi ritrassi dalla sua presa e riuscii ad evitare le sue labbra: «No, grazie, ci penso da sola».

«Ti va di ballare?», tentò ancora, seguendomi dentro casa.

Mi bloccai e mi voltai verso di lui, puntando il mio indice contro il suo petto: «Non rovinarmi ulteriormente la serata, evapora».

Un sorriso incerto comparve sulle sue labbra, mentre sollevava le mani in segno di resa: «Va bene, ci vediamo lunedì, alle cinque».

Gli feci "ciao" con la mano e mi diressi verso lo studio, trovando Isabel seduta su una poltrona a bere della birra, mentre Frida ballava al centro della stanza, con le mani di Thomas Flinch sul sedere.

Raggiunsi Sab e le presi la birra dalle mani, bevendone un lungo sorso.

«Dov'eri finita?», chiese la mia amica, lanciandomi uno sguardo colmo d'accusa e curiosità.

«Michel», dissi con una smorfia, bevendo un altro sorso di birra, sperando che l'alcol facesse effetto in fretta. Avevo bisogno di svuotare la mente e non pensare a niente.

«Cos'è successo?», domandò, prendendo da terra un'altra birra.

«Mi ha chiesto di uscire, io ho cercato di dirgli di no, lui mi ha detto che sono una codarda, io gli ho detto che non era vero e sono stata costretta ad accettare il suo invito», riassunsi: «Lunedì alle cinque passa a prendermi, ma non devi preoccuparti di nulla, vedrò di trovare un modo per fargli capire che non sono interessata».

Isabel aveva uno sguardo triste mentre ascoltava le mie parole, sorseggiando la sua birra: «Sono almeno due anni che spero di essere notata da lui. Insomma, so di non essere una brutta ragazza, perché lui non se ne rende conto?», si lamentò, gli occhi che cominciavano a diventarle lucidi.

«Tutte le volte che ci vediamo mi chiede come sto, come stanno i miei genitori, chiacchieriamo del più e del meno e lui per tutto il tempo mi guarda come guarderebbe sua sorella», continuò, bevendo un lungo sorso di birra.

«Sab, devi togliertelo dalla testa», dissi, prendendole il viso tra le mani e spostandoglielo in modo da puntare i miei occhi nei suoi: «Se non si rende conto di quanto tu sia bella e gentile e adorabilmente pazza, allora non è la persona giusta!»

Colta dall'euforia del momento la feci alzare in piedi e la trascinai in salotto, la sentivo protestare e chiedermi cosa stesse succedendo, ma la ignorai, fino a quando non mi trovai davanti ad Alan Truce. Lui apparteneva al branco di Rice, avevamo la stessa età, frequentavamo lo stesso liceo e ci conoscevamo da circa tre anni, da quando ci eravamo entrambi trovati in punizione dopo scuola e avevamo iniziato a chiacchierare. Era uno dei ragazzi più carini della città e giocava a basket, aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi e lunghi; quella sera li aveva raccolti in uno chignon disordinato. Avevo sempre pensato che avesse dei capelli semplicemente stupendi.

«Ciao, Alan», lo salutai, prima di spingere in avanti Isabel, in modo da farla scontrare con il metro e novanta di Truce: «Sab vorrebbe ballare», dissi, guardandolo dritto negli occhi, in attesa della sua reazione.

Un lieve rossore comparve sulle guance del ragazzo che guardò la mia amica con un sorriso radioso: «Volentieri», disse, prendendola per mano e accompagnandola al centro della sala, in mezzo alla calca di braccia e gambe.

Il gruppetto di ragazzi con cui stava parlando Alan si disperse, guardandomi male.

Li ignorai e fiera del mio operato rimasi a guardare Isabel e Truce ballare con un sorriso compiaciuto, sorseggiando la birra che avevo in mano.

Il mio momento di solitudine venne interrotto dal familiare odore di margherite e rose di Francine: «Mio fratello dice che ti ha convinto ad uscire con lui», disse, con un tono seccato.

«Già», dissi semplicemente, mentre individuavo il deejay dall'altra parte della sala e, camminando rasente il muro, lo raggiungevo: «Potresti mettere qualcosa di più tranquillo?», gli chiesi, ignorando Francine alle mie spalle.

«Tipo?», chiese il ragazzo, aprendo una nuova pagina YouTube sul computer che aveva di fronte, pronto a digitare il nome della canzone sulla barra della ricerca.

Aprii bocca, indecisa.

Tutto quello che volevo fare era costringere Alan e Isabel a ballare un lento, stretti l'uno all'altra, ma non avevo idea di quale canzone potesse andare bene.

Mi guardai alle spalle, incontrando lo sguardo indifferente di Francine.

«Idee?», le chiesi, vedendola sbarrare gli occhi per la sorpresa.

Scosse la testa, guardandomi male.

Alzai gli occhi al cielo: «Grazie per l'aiuto».

Tornai a guardare quella sottospecie di deejay: «"Everything I do" di Bryan Adams».

Era la canzone che mamma e papà ascoltavano sempre il giorno del loro anniversario, ballando per casa come due adolescenti innamorati. Era, in poche parole, perfetta per l'occasione.

Francine, alle mie spalle, mi picchiettò sul braccio, attirando la mia attenzione: «Ho bisogno di parlarti».

Possibile che non potessi godermi una serata tranquilla senza essere importunata dai fratelli Picard?

Mi ricordai le parole di mio fratello e decisi che avrei provato a comportarmi in modo civile con lei: «Se proprio dobbiamo», dissi, seguendola verso il corridoio, dove la musica era meno forte e potevo tenere d'occhio la mia migliore amica a pochi metri di distanza.

«Allora?», le chiesi, incrociando le braccia al petto.

«Vorrei che la smettessi di giocare coi sentimenti di mio fratello», disse, fulminandomi con lo sguardo.

Appena sgorgarono le prime note di "Everything I do", seguii le mani di Isabel posizionarsi intorno a collo di Alan, mentre lui le cingeva i fianchi.

Sorrisi, fiera di me stessa, poi tornai a guardare Francine: «Tuo fratello voleva un appuntamento, ha insistito fino a farmi dire di sì».

«Se non sei interessata a lui avresti dovuto dire di no», disse la bionda, con tono esasperato.

«Ho accettato il suo invito, così da potergli dimostrare che non siamo compatibili, dopo lunedì smetterà di corrermi dietro, spero», confessai, guardandola dritto negli occhi.

Francine mi studiò brevemente, poi annuì: «Va bene».

Lanciai una veloce occhiata a Isabel, ancora abbracciata ad Alan; sembrava stessero parlando, ma con la musica e il baccano, non riuscivo a sentire cosa si stessero dicendo.

«Allora, tu e O'Bryen, eh?», chiese Francine, facendomi sussultare per la sorpresa.

Cosa ci faceva ancora lì? Non aveva qualcos'altro da fare?

"Aspetta un attimo, cos'ha detto?"

«Come, scusa?», chiesi, aggrottando le sopracciglia.

«Non fingere di non capire», disse, passandosi una mano tra i lunghi capelli biondi: «Siete sempre insieme».

Non riuscii a rispondere alla sua domanda, troppo sconvolta per reagire in qualsiasi modo.

"Giuro che se anche lei mi dice di stare attenta, io..."

«Come reagirà quando scoprirà che hai promesso a mio fratello di uscire con lui?»

«Non riesco a seguirti», dissi, cercando di non lasciar trapelare il nervosismo.

Possibile che fosse così ovvio che tra di noi ci fosse qualcosa?

Certo, Francine ci aveva visti insieme, nudi, nel bosco, ma quello non voleva dire che tra di noi ci fosse stato qualcosa. E anche il passaggio che mi aveva dato in moto non era poi questa gran cosa.

Una strana espressione comparve sul volto di Francine: «Quando anche lui sarà innamorato perso di te lo metterai da parte, come con mio fratello?».

«Io non ho mai voluto che qualcuno si innamorasse di me», dissi, guardandola dritto negli occhi: «Ci conosciamo da quando eravamo piccole: dimmi una sola volta in cui ho fatto qualcosa per piacere a qualcuno?»

«Per esempio quando ti sei truccata al compleanno di mio fratello?», chiese lei, con un sorriso trionfale in volto.

«Mi ero lasciata convincere da Sab, cosa che non è mai più successa!», esclamai, esasperata: «Oltre a quella volta?»

Francine rimase in silenzio, le labbra strette in una linea sottile.

«Ecco», dissi: «Non ho fatto nulla perché tuo fratello si innamorasse di me, così come non sto facendo nulla per far innamorare di me O'Bryen!»

"Bugiarda!", urlò una voce nella mia mente: "Vorrei ricordarti che gli hai lanciato in faccia il tuo reggiseno qualche giorno fa! Per non parlare dei tuoi modi imbarazzanti di sedurlo a cena l'altra sera!"

Riuscii miracolosamente a rimanere impassibile, senza lasciar trapelare espressioni che avrebbero potuto tradirmi, facendole capire che avevo mentito. Francine non aveva bisogno di sapere che i sentimenti che provavo per Xavier mi spingevano a fare cose che mai e poi mai avrei pensato di fare.

«Non hai mai avuto bisogno di fare qualcosa», disse la bionda, guardandomi con uno sguardo colmo di quella che sembrava gelosia. O forse era semplicemente odio?

«Sei sempre così testarda, impulsiva e sicura di te. Finiscono sempre tutti per ammirarti, e non perché sei la figlia dell'Alpha del nostro branco, ma perché sei tu», esclamò Francine, prima di darmi le spalle e andarsene, scomparendo tra la gente che affollava il corridoio.

Feci un passo in avanti, decisa a seguirla, ma nel mio campo visivo comparve una sorridente Sab.

«Diana!», urlò abbracciandomi e trascinandomi verso la cucina, che si trovava alla nostra destra e dove trovai talmente tanto cibo da farmi pensare al paradiso.

«D, mi ha chiesto il numero di telefono! Alan Truce ha detto che vuole uscire con me!», urlò, saltellando come una pazza per la cucina, mentre io sorridevo soddisfatta, con in mano una fetta di pizza.

«Così si fa, ragazza», esclamai, sollevando un bignè a mo' di brindisi.

«Stai davvero mangiando pizza e bignè insieme? Fai schifo», disse, con una smorfia disgustata in volto.

«Si chiama pre mestruo», la informai, sollevando gli occhi al cielo.

«Ah sì? E quando ti dovrebbe venire il ciclo?», chiese, prendendo una manciata di popcorn.

«Tra una ventina di giorni», confessai, sorridendo.

Isabel scoppiò a ridere e scosse la testa sconsolata: «Se incorreggibile, D».

«Sab, tu pensi che io piaccia alla gente per ciò che sono?», chiesi, pensando alla conversazione che avevo avuto prima con Francine: «Intendo, malgrado il mio pessimo carattere e per quanto io non mi sforzi di essere carina; è vero che la gente non può fare a meno di ammirarmi?»

Isabel smise di mangiare popcorn e mi fissò con aria confusa: «É questo che ti stava dicendo Francine, prima che arrivassi?»

Annuii, masticando la pizza con lentezza.

«Beh, Diana, sei una ragazza forte, coraggiosa e schietta. Dici quello che pensi, fai quello che vuoi. Non chiedi mai scusa a nessuno per ciò che sei», disse, Sab, sorridendomi con calore: «Quindi direi che sì, ammirarti viene spontaneo».

Rimanemmo in silenzio per lunghi secondi, fu Isabel a parlare per prima: «Non ci posso credere che Francine ti abbia fatto un complimento, l'ultima volta sarà stato... quando? Alle elementari?»

Risi, scuotendo la testa per il stupore: «Sono sconvolta quanto te», ammisi, finendo la fetta di pizza, per poi lanciarmi verso le tartine.

«Proporrei un'ultima birra e poi possiamo levare le tende», disse Sab, facendomi l'occhiolino.

Annuii con vigore, seguendola verso lo studio che custodiva gli alcolici: «Alan dov'è andato?», le chiesi, sollevando le sopracciglia con fare malizioso.

«Doveva tornare a casa, Rice non vuole che i membri del suo branco stiano fuori fino a tardi in questi giorni; è stato allertato da tuo padre a proposito dell'assassino del padre di Xavier e del fatto che potrebbe essere un pericolo per chiunque», mi spiegò la mia amica, porgendomi una birra.

«Capisco», dissi, prima di far scontrare le nostre bevande e sorriderle: «A te e Alan», brindai.

Isabel divenne rossa all'istante: «A te e Xavier», controbatté, facendomi scoppiare a ridere.

Pochi secondi dopo trovammo Frida per il corridoio, era ancora con il ragazzo che aveva le mani incollate al suo sedere a inizio serata e si tenevano per mano come due piccioncini.

«Hey, ragazze!», ci salutò lei, abbracciandoci: «Lui è Thomas».

Passammo qualche minuto con lei, per cercare di capire se il ragazzo fosse raccomandabile o meno. Quando decidemmo che era un tipo a posto, lasciammo che la portasse nuovamente nel centro del salotto, per ballare.

«Sono fiera delle mie ragazze», dissi, portandomi una mano al petto: «Siete riuscite entrambe a trovare qualcuno con cui divertirvi».

Isabel scoppiò a ridere: «Scema! Tu hai visto qualcuno di interessante?»

"No, Xavier non c'è".

«No, sto bene così», dissi con una smorfia: «Ho già abbastanza problemi senza dover aggiungere anche un altro spasimante all'elenco».

Sab scosse la testa: «La solita esagerata».

Il resto della serata trascorse tranquillamente. Abbandonammo la festa poco dopo mezzanotte, subito dopo aver ringraziato Paul Ling per l'ospitalità e avergli sgraffignato altro cibo che avremmo conservato per la colazione del giorno dopo.

Paul Ling era stato felice di liberarsi di noi, il suo saluto freddo mi ferì e decisi che la volta successiva gli avrei spaccato la spalla e non mi sarei limitata a tirargli una pacca.

Avevamo lasciato le nostre borse nel giardino di Frida, nascoste tra i cespugli, così andammo a recuperarle, prima di addentrarci nella foresta.

La radura che amavamo tanto io e Sab si trovava vicino a casa mia, dovemmo quindi camminare una ventina di minuti prima di arrivarci, ma il bosco era calmo - quel tipo di calma che non lasciava presagire nulla di male - e quindi rassicurante.

«Ogni volta che mi trovo in situazioni simili mi chiedo perché mi lascio convincere tanto facilmente, anche se so che le tue sono sempre pessime idee, dettate dall'impulso», si lamentò Sab, una volta arrivate alla radura.

Aprii il mio borsone e tirai fuori la sacca dentro la quale era contenuta la tenda.

«Perché sei una ragazza avventurosa che ama le sfide», dissi, facendole segno di aiutarmi a montare il nostro giaciglio per la notte: «E anche perché non sei in grado di dirmi di no».

«Vero, assolutamente vero», borbottò.

Alla fine riuscimmo a ergere la tenda senza fare danni; era piuttosto piccola, ma abbastanza grande da contenere entrambe. L'avevo recuperata dal mobile in soffitta che conteneva tutta l'attrezzatura da campeggio che avevano comprato anni prima i miei genitori e che avevamo utilizzato raramente per brevi gite di famiglia.

Recuperai il mio sacco a pelo pesante e lo sistemai sul lato sinistro della tenda, mentre Isabel faceva lo stesso accanto a me.

«Allora», iniziai, sorridendo: «Alan, eh?»

Il cuore di Sab iniziò a battere ad un ritmo irregolare, e le sue guance divennero color porpora: «Non so se ringraziarti per avermi letteralmente gettata tra le sue braccia o tirarti qualcosa addosso».

Le sue parole mi fecero sorridere: «Truce è un bravo ragazzo, lo conosciamo da tanto tempo e sono certa che ti tratterà come una principessa al vostro appuntamento», le dissi, mentre sfilavo le scarpe e le lasciavo fuori dalla tenda.

«Lo so», sospirò la mia amica, guardandomi con uno strano sguardo negli occhi: «Non avevo mai pensato di potergli piacere. Quindi, grazie, D, per avermi spinto tra le sue braccia».

Le feci l'occhiolino: «Sono contenta, almeno hai la possibilità di toglierti Michel dalla mente una volta per tutte. Picard non ti merita».

Isabel sospirò: «Mi ci vorrà del tempo, ma penso che tu abbia ragione», disse, chiudendo la tenda e avvolgendosi all'interno del suo sacco a pelo blu.

«Io ho sempre ragione», la corressi, seguendo il suo esempio e tuffandomi a mia volta nel mio caldo giaciglio.

Lo schermo del cellulare di Isabel si illuminò e non riuscii a trattenere la mia curiosità; mi sporsi per sbirciare, mentre lei cercava di allontanarlo da me per impedirmelo.

«Uuuh!», esclamai: «Qualcuno ha ricevuto un messaggio da Alan Truce!»

Sapevo di risultare odiosa quando facevo così, ma intorno a Isabel non potevo fare a meno di sentirmi come la liceale che avrei dovuto essere; frivola e spensierata. E non come la figlia dell'Alpha di un branco di lupi mannari che veniva considerata troppo piccola per qualsiasi cosa, tranne accettare Michel come proprio compagno per la vita. L'incoerenza dei miei genitori era a dir poco ridicola.

«Mi ha solo inviato la buona notte», disse, colpendomi la spalla per farmi smettere di ridere.

Un sorriso malizioso comparve sulle mie labbra: «Certo, "solo" la buona notte».

Mi beccai un altro pugno, ma ne valse la pena.

 

******

Ciao a tutti! 

Come vi è sembrato il capitolo? So che in molte pensavano e speravano che Xavier avrebbe trovato il modo di imbucarsi alla festa, ma così non è stato e vedremo nei prossimi capitoli perché.
In questo capitolo volevo mostrare un po' le dinamiche tra Diana e i fratelli Picard, cercando di darvi qualche informazione in più sul rapporto che li lega. 
Spero di esserci riuscita.
Aspetto i vostri commenti e opinioni! 😉
Un bacio,
LazySoul

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XII: Salvataggio ***


Capitolo XII: Salvataggio


 

 

Mi svegliai intorno le cinque di mattino, quando il cielo cominciava in lontananza a schiarirsi.

La radura dove io e Sab stavamo dormendo era scura e silenziosa proprio come la sera prima e trasmetteva un senso di sicurezza, dovuto principalmente ai numerosi ricordi felici che erano legati a quel luogo.

Isabel era profondamente addormentata alla mia sinistra, a pancia in su e con le braccia spalancate.

Mi resi conto che doveva essere stata lei a svegliarmi, colpendomi durante il sonno.

Sospirai, rigirandomi nel sacco a pelo, cercando di trovare una posizione comoda, ma la mia vescica scelse proprio quel momento per avvertirmi dei suoi bisogni impellenti, costringendomi ad alzarmi a sedere.

Non ero propriamente lucida; svolgevo i comandi del mio cervello col pilota automatico, muovendomi come uno zombie scoordinato.

Ci misi cinque minuti buoni ad uscire dalla tenda e indossare le scarpe. I piedi continuavano a volersi infilare nella Converse sbagliata (destro con sinistra, sinistro con destra). Inoltre il vento freddo che soffiava da ovest, non era particolarmente invitante e mi faceva desiderare di tornare subito nel caldo sacco a pelo che mi attendeva a pochi centimetri di distanza. Ma la vescica pretendeva di essere svuotata e io dovevo obbedire.

Non mi sembrava carino accucciarmi accanto alla tenda, così decisi di raggiungere l'abete più vicino e rispondere al mio bisogno impellente senza pensare al fatto che non avevo la carta igienica.

Senza rendermene conto finii col bagnarmi le converse, mentre tentavo maldestramente di scrollarmi, prima di indossare l'intimo. Mi resi conto che se avessi fatto la pipì trasformata in lupa avrei finito col fare meno danni e un verso lamentoso mi uscì dalle labbra, spaventando una civetta che si librò in aria.

Sollevai i pantaloni, coprendo la pelle d'oca sulle mie gambe, dovuta principalmente al vento freddo.

Alzai lo sguardo verso il cielo, osservando le stelle.

Quella notte c'era la luna crescente, sabato ci sarebbe stato il plenilunio e allora papà e l'Alpha Rice avrebbero organizzato la solita riunione tra vicini, dove si sarebbero annunciate le novità di entrambi i branchi e poi tenuta una breve festa. La partecipazione non era obbligatoria per tutti i membri dei branchi, ma sapevo che, non avendo scuola il giorno dopo, sarei stata costretta a presenziare; non avevo nessuna scusa per non andare.

Con un sospiro rassegnato mi diressi verso la tenda, sollevando le braccia sopra la mia testa, in modo da stiracchiarmi, cercando una soluzione per il dolore alla bassa schiena.

In quell'istante un rumore poco distante attirò la mia attenzione.

Mi voltai verso est, da dove proveniva quel suono e cercai di capire quale essere potesse averlo prodotto.

Doveva essere un animale a quattro zampe, si muoveva lentamente, quasi con circospezione.

Il vento che giungeva dalle mie spalle portò il mio odore verso l'animale, ricordandomi che avrei dovuto stare attenta e impedire che cose simili succedessero. Far conoscere la propria posizione non era mai un bene.

Un ululato a dir poco sofferente giunse dalla boscaglia, gelandomi sul posto.

Quel suono aveva qualcosa di familiare, qualcosa che mi fece addentrare all'interno del bosco, alla ricerca di chiunque l'avesse prodotto.

I passi si fecero meno cauti, sia i miei, sia quelli che mi stavano venendo incontro. Prima di vederlo sentii giungere alla mie narici il suo odore, misto a quello del sangue.

Misi da parte la circospezione e iniziai a correre.

Pochi secondi dopo trovai un lupo dal manto scuro, era a terra, respirava affannosamente e perdeva molto sangue.

«Xavier!», gridai, cancellando la breve distanza che ci divideva.

Il lupo uggiolò, cercando di sollevarsi in piedi.

Mi inginocchiai accanto a lui, appoggiando le mani sul suo manto scuro: «Stai giù, non muoverti», gli ordinai, mentre cercavo di capire, malgrado il buio della notte, quanto fosse grave la sua situazione.

Era ferito al costato e aveva perso molto sangue, anche sulla spalla destra sembrava spiccare un morso, ma meno profondo rispetto all'altro.

«Devi trasformarti», gli dissi, guardando in quegli occhi chiari colmi di sofferenza: «Non riuscirò mai a trasportarti», mi lamentai con un gemito, guardandomi intorno, quasi nella speranza di veder comparire qualcuno che potesse aiutarmi.

Gli sfuggì un mugolio sofferente, mentre vedevo il suo corpo tremare.

Lo vidi trasformarsi sotto i miei occhi colmi di paura e, una volta tornato nella sua forma umana, le ferite che costellavano il suo corpo sembrarono ancora più gravi e minacciose di quanto avessi pensato.

«Cos'è successo?», gli chiesi, prendendogli il viso tra le mie mani, sporche del suo sangue caldo e viscido.

«Diana», disse, sembrava faticare molto a parlare, così decisi di scuotere con forza il capo e appoggiargli la mano sulla bocca.

«Non sforzarti, parleremo dopo, ora vado a cercare aiuto», gli spiegai, non riuscendo però a muovere un passo. Con che coraggio l'avrei lasciato nel bel mezzo del bosco, da solo e senza difese?

Gli occhi chiari di Xavier si chiusero, una smorfia di dolore gli attraversò il volto.

Senza pensarci due volte mi sollevai in piedi: «Isabel!», gridai nella direzione in cui sapevo essere la tenda.

Non potevo lasciarlo, non ne ero in grado. Dovevo sperare che la mia migliore amica non dormisse troppo profondamente.

Mi pentii di aver lasciato il cellulare in tenda, se solo...

«Diana», chiamò la voce di Xavier, questa volta sembrava meno sofferente, tanto che cominciai a sperare che non fosse poi così grave.

Mi voltai, lasciandomi nuovamente cadere in ginocchio accanto a lui.

Aveva di nuovo gli occhi aperti; il verde delle sue iridi spiccava rispetto al bianco della sua pelle e al rosso del sangue che gli sporcava il mento e la guancia destra: «Di-ana», mormorò, cercando di muovere la mano sinistra verso di me.

Senza pensarci afferrai le sue dita tra le mie; aveva la pelle ghiacciata e capii che dovevo assolutamente fare qualcosa per portarlo al sicuro, non c'era tempo da perdere.

Isabel dormiva troppo profondamente e non sarebbe giunta ad aiutarmi, quindi dovevo trovare una soluzione da sola.

Presi un profondo respiro e sbattei con forza le palpebre, cercando di dissipare le lacrime e tornare a vedere il mondo con lucidità. Non dovevo dare di matto, dovevo usare la testa e trovare un modo per aiutare il ragazzo che, coricato accanto a me, mi guardava con intensità e fiducia.

«Riesci a sollevarti in piedi?», gli chiesi, la voce roca e colma di preoccupazione e nervosismo.

Xavier fece una smorfia e con il mio aiuto riuscì ad alzarsi, appoggiandosi ad un abete.

I suoi gemiti di dolore, uniti all'espressione sofferente che sfoggiava, mi fecero vedere rosso per qualche secondo. Avrei ucciso chiunque era stata a ridurlo in quello stato e, dall'odore che aleggiava nell'aria, capii che me la sarei dovuta prendere con l'assassino di Frank O'Bryen.

Lasciai andare la mano di Xavier e mi allontanai dal suo corpo, sfilandomi le scarpe, poi i vestiti.

In meno di dieci secondi mi ero trasformata, abbandonando la mia figura umana - minuta e debole - per assumere quella di lupa — forte e imponente.

Mi accostai a Xavier, lasciando che si issasse sulla mia schiena, stringendo tra le dita il mio pelo per assicurarsi maggiormente a me. Non mi lamentai per il dolore, stringendo semplicemente i denti e muovendo qualche passo, per assicurarmi che la presa di O'Bryen fosse abbastanza salda da non farlo sbilanciare e cadere.

Quando constatai che era al sicuro, stretto alla pelliccia della mia schiena, mi avviai con passo spedito verso casa mia, lasciando dietro di me i vestiti e le scarpe. Le avrei recuperate in un altro momento. Forse.

Facevo attenzione a non andare toppo veloce, così da non fargli perdere l'equilibrio e non fargli male. Allo stesso tempo però cercavo di mantenere un passo svelto e deciso. Prima fossimo giunti a destinazione meglio sarebbe stato per lui.

«Diana», lo sentii gemere, sentendo gli occhi appannarsi nuovamente a causa delle lacrime.

Non gli avrei permesso di morire; doveva ancora insegnarmi a combattere e dovevo ancora scoprire tanto di quelle cose su di lui... Non sapevo nemmeno quanti anni avesse, cosa gli piacesse fare nel tempo libero...

"Apparentemente gli piace rischiare la vita", sussurrò una vocina stizzita nella mia testa.

Effettivamente era la seconda volta che mi ritrovavo ad aiutarlo a causa di uno scontro con l'assassino di suo padre. Dovevo suggerirgli qualche hobby meno pericoloso.

In quell'istante scorsi oltre gli alberi la silhouette scura della mia casa, illuminata fiocamente dalle prime luci del mattino e sorrisi internamente.

Ce l'avevamo quasi fatta, Xavier era ancora vivo (lo sentivo chiaramente respirare e percepivo il suo cuore battere contro la mia schiena), malgrado avesse perso molto sangue.

Nonna avrebbe saputo cosa fare e papà le avrebbe dato una mano; O'Bryen sarebbe tornato in forma smagliante in un paio di giorni, forse tre al massimo.

Quando giungemmo a casa mia, mi accucciai a terra, cercando di aiutarlo col muso a scendere.

Le mani sporche di sangue rappreso di Xavier, con una forza che non mi aspettavo, portarono il mio sguardo alla sua altezza. Al buio faticavo a vedere il colore dei suoi occhi, ma ormai li conoscevo abbastanza da potermeli figurare in modo abbastanza fedele, senza aver bisogno di una luce.

«Grazie», mormorò con la voce spezzata dal dolore, facendo tornare — prepotenti — le lacrime nei miei occhi.

Appoggiai il muso contro la sua fronte, dimenticandomi per qualche breve secondo la sua ferita e la necessità di chiamare aiuto. Avvolta dal suo odore, stretta tra le sue braccia; sentii le ginocchia tremarmi.

Mi scostai bruscamente e una smorfia di disappunto comparve sul suo volto.

Strinsi i denti e calmai il mio respiro e battito cardiaco, rilassando i muscoli.

Sentii la prima contrazione e poi le ossa si dislocarono per assumere una forma diversa e farmi tornare la minuta umana che ero. La pelliccia grigia scomparve, lasciandomi nuda, a terra, in un mare di sudore.

Respirando affannosamente mi sollevai a sedere, ignorando la stanchezza e i muscoli intirizziti dopo la trasformazione appena avvenuta.

Una volta in piedi corsi verso la porta sul retro di casa mia, iniziando a bussare e a chiamare i miei genitori, mio fratello e mia nonna.

Vidi dopo breve le luci in camera dei miei accendersi e sentii dei passi concitati.

La prima ad aprire la porta fu mia madre, indossava un pigiama bianco e una vestaglia pesante, i capelli scuri erano scompigliati e gli occhi arrossati erano colmi di preoccupazione.

«Diana!», esclamò, fissandomi dalla testa ai piedi contrariata: «Cosa ci fai nuda e...», spostò lo sguardo alle mie spalle, dove Xavier, a terra, rantolava per il dolore, premendo le dita della mano sinistra sulla ferita alla spalla destra.

«Ti spiegherò tutto dopo!», le dissi, correndo verso O'Bryen e afferrandolo per i piedi, pronta ad aiutare a trasportarlo: «Ha bisogno di essere medicato! Ora!»

Sulla soglia comparve papà, il volto stravolto quasi quanto quello di mia mamma, ma negli occhi vi era una maggiore risoluzione. Mi corse subito incontro, prendendo saldamente le spalle di Xavier, facendo attenzione alla sua ferita. Grazie al suo aiuto riuscii a portarlo dentro, dove lo adagiammo sul divano.

Solo in quel momento, con le luci accese, circondata dalla mia famiglia, mi resi razionalmente conto di essere nuda e di aver appena portato in casa una ragazzo altrettanto nudo — anche se ferito mortalmente.

Mamma sarebbe andata fuori di testa e mi avrebbe messo in punizione...

Oh, cavolo! Come le avrei spiegato il motivo per cui non ero a dormire da Frida Martinez in quel momento?

Ero in un mare di guai, ma ci avrei pensato dopo, quando sarei stata certa che Xavier si sarebbe ripreso e che tutto sarebbe andato bene.

Sentivo le voci dei miei familiari intorno a me, ma non riuscivo a distinguere le parole che stavano dicendo, seduta sul divano accanto a Xavier, tutto quello che potevo fare era premere la mano sulla sua ferita, nel vano tentativo di fermare l'emorragia, non perdendo di vista per una solo istante i suoi occhi verdi che ora potevo vedere chiaramente. Allo stesso modo in cui riuscivo a scorgere nelle sue iridi verdi tutta la sofferenza e la debolezza.

«Fate qualcosa!», urlai, sporgendomi ulteriormente su di lui.

Nella mia mente si era formata la malsana idea che lui avesse bisogno di sapermi vicina, che solo grazie alla mia presenza e al mio odore sarebbe riuscito a salvarsi.

Le mani di mio fratello mi presero per le spalle, strattonandomi all'indietro.

«Lasciami!», ringhiai, cercando di usare tutta la forza che mi era rimasta per non abbandonare il mio posto accanto a Xavier.

«Diana, smettila!», mi disse a denti stretti Kyle, facendomi alzare, mettendo un paio di metri tra noi e il divano.

Sentii Xavier gemere dal dolore e cercarmi con lo sguardo: «Diana?», chiamò, la voce debole e gli occhi che minacciavano di chiudersi da un momento all'altro.

Cercai di ribellarmi, di sgusciare via dalla presa di mio fratello, poi nonna entrò nel mio campo visivo e una strana calma si impossessò di me. Dentro di me sapevo che lei non avrebbe mai potuto fare del male a Xavier, che lei era la sua unica speranza di sopravvivere.

Nonna indossava una lunga vestaglia da notte e aveva con sé una ciotola contenente una strana sostanza.

Senza perdere tempo applicò un unguento color melma sulle ferite di Xavier; quasi istantaneamente il sangue cessò di scorrere e macchiare ulteriormente i cuscini del divano.

Le braccia di mio fratello mi stringevano, scaldando la mia pelle fredda, ma lui e i miei genitori in quel momento non erano importanti; erano ombre che a mala pena entravano nel mio campo visivo. Tutto quello che vedevo e sentivo era Xavier, mi sembrava di respirare il suo dolore, ed era atroce.

Mentre lo trasportavo verso casa avevo schermato quelle emozioni, animata dall'adrenalina; avevo uno scopo ben preciso da portare a termine e mi ero concentrata su quello.

Ora l'adrenalina se n'era andata, lasciandomi tremante e debole, in balia di sentimenti troppo forti e sconcertanti per poter essere veri.

"Xavier, non mi lasciare", era tutto quello che potevo pensare, osservando nonna fasciare le ferite con della garza bianca.

Sapevo che la situazione non era così grave, razionalmente ero certa che non sarebbe morto, ma la paura offuscava la mia mente, facendomi temere il peggio.

In mezzo alla nebbia che avvolgeva il mio cervello, un pensiero improvviso mi fece voltare verso mio fratello per sussurrargli poche brevi frasi all'orecchio: «Sab è nel bosco, nella radura dove giocavamo da piccoli. Accertati che stia bene, io non posso andare. Non posso lasciarlo».

Sapevo che i miei genitori, malgrado avessi tenuto un tono di voce basso, avevano sentito tutto; ne ebbi la conferma quando vidi chiaramente mamma sussultare e lanciarmi un'occhiata piena di rimprovero.

Probabilmente mi avrebbero impedito di uscire fino al mio diciottesimo compleanno e cominciavo ad essere tristemente consapevole del fatto che non solo me lo meritavo, ma me l'ero anche cercata.

Quando le braccia di Kyle mi abbandonarono, sentii uno strano vuoto alla bocca dello stomaco, e il mio corpo si ricoprì di pelle d'oca.

Mi mossi come un'automa verso il bagno, recuperando una bacinella e riempiendola di acqua tiepida, presi la spugna e poi tornai in salotto, dove mi inginocchiai accanto al divano, iniziando a pulire il volto e il torso di Xavier. Presto l'acqua limpida iniziò a colorarsi di rosso.

Papà bloccò i miei movimenti, impedendomi di procedere oltre la ferita al fianco. Alzai lo sguardo offuscato dalle lacrime su di lui, cercando di capire cosa volesse e perché mi avesse interrotto.

«Vieni tesoro, mamma ti ha preparato un bagno caldo», mi disse, aiutandomi a sollevarmi in piedi.

Lasciai scivolare lo sguardo sul volto di Xavier, che si era addormentato dopo aver bevuto quello che nonna aveva definito: «Un intruglio miracoloso».

Avrei voluto protestare, ma sapevo di non avere nessuna chance contro la risoluzione di mio padre, così mi lasciai accompagnare in bagno, dove la vasca era colma di fumante acqua calda.

Mamma era lì accanto e mi aiutò ad entrarci.

Sembrava aver messo da parte tutta la rabbia, il nervosismo e il rimprovero. Aveva il volto calmo, anche se colmo di tristezza e i suoi gesti erano pacati.

Era come se avesse saputo che in quel momento non sarei stata in grado di sostenere una conversazione e che quindi arrabbiarsi con me sarebbe stato inutile; urlarmi contro, fiato sprecato.

Mi passò la spugna sul corpo; mi sconvolse vedere l'acqua della vasca tingersi di rosso, proprio come era successo poco prima nella bacinella.

«Sta bene», sussurrò, cullandomi con la sua voce: «Tua nonna l'ha medicato, vedrai che quando si sveglierà più tardi starà ancora meglio».

Lasciai che una lacrima mi scivolasse lungo la guancia, confondendosi con le gocce d'acqua e andando ad immergersi nel rosso della vasca.

Ero talmente stanca che rischiai di addormentarmi durante il bagno; per fortuna venni prontamente svegliata da mamma, che mi avvolse nel mio accappatoio e mi accompagnò in camera.

Mi aiutò ad asciugarmi i capelli e poi mi fece indossare il pigiama.

In quel momento arrivò Kyle, disse qualcosa a mamma che non capii e mi guardò con occhi tristi e spaventati.

«Diana è sotto shock, ha bisogno di riposare», sentii dire accanto a me e ringraziai mentalmente mamma per avermi detto cosa mi stese succedendo. Ora capivo perché mi sentivo tanto debole e confusa.

Mi coricai tra le coperte e mamma si sedette accanto a me, accarezzandomi i capelli e sussurrandomi qualche parola per farmi addormentare.

«Xavier», riuscii a sussurrare, incontrando gli occhi pieni di tenerezza di mamma.

«Sta bene, amore. Andrà tutto bene. Shhh. Ora dormi».

Quando ripresi conoscenza era mattino inoltrata, se non addirittura primo pomeriggio. Il sole era alto in cielo e gli uccellini cinguettavano allegramente fuori dalla mia finestra.

Grugnii e mi rigirai nel letto, nella speranza di, dando le spalle alla luce, riuscire a riaddormentarmi.

Poi il ricordo di ciò che era successo quella mattina presto mi comparve davanti agli occhi, facendomi rivivere l'accaduto.

Con un gemito di sofferenza mi sollevai a sedere e mi fiondai giù dal letto, indossando le ciabatte pelose e dirigendomi verso il salotto.

Le fodere del divano erano state cambiate e una sorridente Edith giocava con i lego: «Didi!», mi chiamò, abbagliandomi col suo sorriso.

Spostando lo sguardo incontrai quello di mamma, seduta al tavolo della cucina che parlava con la signora Drake, la madre di Isabel.

Avevo intenzione di rimandare la resa dei conti ancora per qualche minuto, così uscii dal salotto, decidendo di provare a cercare in mansarda.

Xavier era coricato sul suo letto, mentre nonna controllava le bende per assicurarsi che fossero abbastanza strette.

Il peso che avevo sentito fino a quel momento sul cuore si dissolse, appena percepii chiaramente il battito forte e regolare di O'Bryen.

Grazie al cielo era vivo.

«Oh, finalmente qualcuno è venuto a darmi il cambio», borbottò nonna, prima di porgermi un bicchiere colmo d'acqua: «Nel caso si dovesse svegliare, fallo bere», mi ordinò, recuperando il gomitolo di cotone e l'uncinetto, dirigendosi verso la porta: «Vado di sotto a prepararti un'infuso che ti farà sentire meglio, non hai una bella cera, tesoro».

«Grazie», mormorai con voce roca e tremante.

Non mi riferivo all'infuso, ma alle cure che aveva dedicato a Xavier ed ero certa che nonna lo capì, perché mi sorrise con calore e mi fece l'occhiolino, sussurrandomi: «Dovere», prima di chiudersi la porta della mansarda alle spalle e dirigersi verso la cucina.

Tornai a voltarmi verso O'Bryen e mossi i brevi passi che ci separavano. Appoggiai il bicchiere d'acqua sul comodino, poi mi sedetti sul bordo del letto, sporgendomi su di lui.

Il suo odore mi aveva invaso le narici fin dal momento in cui avevo messo piede in quella stanza, ma ora era ancora più forte e intossicante.

Il suo respiro era regolare, così come il battito del suo cuore e, se non fosse stato per il volto pallido o le bende che fasciavano la sua spalla destra e il suo fianco, avrei pensato che stesse semplicemente dormendo.

Allungai una mano, percorrendo con le dita il contorno della sua guancia, sentendo la sua pelle tiepida.

Ero contenta che le ferite non si fossero infettate, evitandogli di soffrire l'inferno della febbre.

Non era la prima volta che entravo in mansarda da quando lui ci si era trasferito, ma le volte precedenti non avevo avuto molto tempo per guardarmi effettivamente intorno ed esplorare le poche cose che aveva con sé.

Papà mi aveva raccontato che, appena gli aveva dato il permesso di stare in casa nostra temporaneamente, Xavier era partito verso una destinazione ignota ed era tornato poche ore dopo, nel cuore della notte, con una moto e un borsone. Era tutto quello che papà aveva condiviso quando, tre giorni prima, gli avevo chiesto da dove fosse spuntata la Ducati parcheggiata nel nostro garage. Quella stessa moto che un certo ragazzo guidava come un pazzo, rischiando ogni volta di rompersi l'osso del collo.

Forse si diverte davvero a rischiare la vita nel suo tempo libero.

"Questo spiegherebbe la sua attrazione nei tuoi confronti", disse una vocina nella mia testa, facendomi sorridere ironicamente.

Mi alzai dal letto, facendo attenzione a non disturbare il suo sonno e mi diressi verso la scrivania.

Un computer spento, qualche matita senza punta, una penna rossa, alcuni bloc-notes inutilizzati, altri dove vi erano appuntati orari e indirizzi (molto probabilmente quelli degli appartamenti che aveva visitato fino a quel momento). Aprii il primo cassetto della scrivania, trovandoci un paio di quaderni: il primo riportava gli schemi delle attività che avrebbe voluto fare svolgere ai suoi alunni — me compresa — nelle settimane successive. Ebbi la tentazione di afferrare la penna rossa che — innocua e innocente — si trovava sulla sua scrivania, per cancellare attività che odiavo, come per esempio ginnastica artistica e pallavolo. Riuscii a resistere all'impulso e posai il quaderno al suo posto, afferrando il secondo, dove non trovai niente di niente; apparentemente non era ancora stato utilizzato.

Nel secondo cassetto trovai il mio reggiseno, quello che gli avevo lanciato contro qualche giorno prima. Diventai istantaneamente rossa e il mio povero cuore iniziò ad aumentare i battiti al ricordo dello sguardo stupito e divertito, ma anche profondamente eccitato, che mi aveva lanciato in quell'occasione.

Allungai una mano, decisa a riappropriarmi di ciò che era mio, quando una voce alle mie spalle mi fece perdere un battito per lo spavento.

«Non ci provare».

Mi voltai di scatto, chiudendo il cassetto e parandomici davanti.

Incontrai gli occhi chiari di Xavier che mi scrutavano con una punta di malizia e divertimento, le fossette erano ben visibili sulle sue guance, tentatrici come sempre.

«Hey!», dissi con un sorriso, cercando di nascondere meglio che potevo il reggiseno che stringevo tra le mani dietro alla mia schiena.

«Rimettilo al suo posto», disse con tono serio, facendomi capire che aveva visto tutto.

«Sarà fatto», dissi, sorridendo da orecchio a orecchio, mentre avanzavo verso di lui, decisa a fargli bere l'acqua, proprio come nonna mi aveva indicato: «Prima però, devi...»

«Intendo nel mio cassetto. Me lo avevi regalato, se non ricordo male», aggiunse, scrutandomi coi suoi occhi verdi piedi di divertimento.

Aveva rischiato la morte poche ore prima ed, ora...

Ora stava fin troppo bene. Dovevo dire a nonna che aveva esagerato con le medicine, qualcuna in meno non gli avrebbe fatto poi tanto male.

Alzai gli occhi al cielo: «Ovviamente stavo scherzando», dissi, porgendogli il bicchiere d'acqua, mentre con l'altra mano stringevo il mio indumento intimo.

Xavvier allungò la mano, la una smorfia di dolore comparve sul suo volto, lasciandomi intendere che avrei dovuto aiutarlo a bere.

Con un sospiro lasciai cadere il reggiseno sulla sedia accanto al letto e mi sedetti accanto a O'Bryen, facendo attenzione a tenere il bicchiere abbastanza inclinato, ma non troppo, così da evitare che l'acqua finisse ovunque tranne dove avrebbe dovuto.

«Grazie», disse, fissandomi con un'intensità che mi fece sentire per qualche secondo a disagio.

Appoggiai il bicchiere sul comodino, sussurrando un imbarazzato: «Figurati», poi mi alzai, decisa a mettere il maggior spazio possibile tra di noi.

La sua mano destra mi afferrò per il bordo del pigiama, facendomi nuovamente sedere: «Diana, non intendevo per l'acqua», mormorò, il divertimento scomparso dal suo volto, sostituito da uno sguardo serio: «Io volevo...»

«Mi hai già ringraziato ieri sera, non ricordi?», gli chiesi sentendomi terribilmente a disagio.

Avevo promesso a me stessa, dopo l'attacco di panico del pomeriggio precedente, a casa di Frida, che avrei evitato di trovarmi nella stessa stanza con lui, da soli. Volevo tenere le distanze; possibile che non riuscissi a fare una cosa così semplice? Cosa c'era di sbagliato in me?

Poi notai una cosa che poco prima, quando mi aveva impedito di alzarmi non avevo notato: aveva usato la mano destra senza mostrare la minima sofferenza in volto.

Un'espressione oltraggiata sostituì quella imbarazzata: «Non ti fa affatto male!», esclamai, muovendo di qualche centimetro verso l'alto la sua mano per avere conferma, notando come effettivamente il gesto non sembravo avergli provocato nessun dolore: «Potevi bere l'acqua da solo senza bisogno del mio aiuto!»

Xavier sorrise, facendomi l'occhiolino: «Mi hai scoperto, ho finto di stare peggio perché volevo averti qua, accanto a me», disse, con una punta di malizia nella voce.

Per qualche secondo mi chiesi se mi stesse prendendo in giro, confusa da come l'espressione sul suo volto sembrasse trasmettermi una cosa, mentre la sua voce ne diceva un'altra.

«Non riesco a capire se sei serio o meno», ammisi, alzandomi in piedi e recuperando il mio reggiseno, decisa ad andarmene.

«Potresti, per una volta, non fuggire?», mi chiese, facendomi bloccare sui miei passi, un nodo in gola e un'espressione colpevole in volto.

Sapevo cosa intendeva e sapevo che aveva ragione.

Non era la prima volta che, quando la situazione si faceva troppo spinosa per i miei gusti mi davo alla fuga.

Smisi di dargli le spalle, incontrando i suoi occhi verdi.

«Ti ringrazio, senza di te non so se mi sarei salvato», mormorò.

«Non dire così», sussurrai, cercando di scacciare le lacrime dai miei occhi, avvicinandomi a lui e intrecciando le dita della mia mano destra con la sua.

«Sono in debito», mormorò, avvicinando le nostre mani unite al suo viso, così da lasciare un bacio sulla mia.

Persi l'uso del mio corpo per un paio di secondi, mentre cercavo di processare le forti emozioni che il mio corpo aveva provato per un semplice e banale baciamano.

"Diana, torna in te!"

«Sì, lo sei», mormorai senza fiato, prima di disincastrare le nostre dita.

La mano destra mi formicolava per il bacio. O ero io che mi stavo immaginavo tutto?

«Fuggi, Diana, so che vuoi farlo», mi disse, lo sguardo triste che non perdeva il mio: «Prometti di tornare a trovarmi però», aggiunse, un sorriso lieve sulle labbra e le sue bellissime fossette sulle guance.

Sorrisi e mi sporsi verso di lui per lasciargli un bacio sulla fronte: «Lo prometto», sussurrai, inspirando a fondo il suo odore e sentendolo chiaramente fare lo stesso.

Meno di tre secondi dopo ero fuori da quella camera, con la porta chiusa alle mie spalle e un'espressione terrorizzata sul mio volto.

L'unica cosa che consideravo positiva di quell'incontro era l'aver recuperato il mio reggiseno.

Nient'altro.
 


*********

Ciao a tutti! :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, scusate per il ritardo, volevo aggiornare ieri, ma ho avuto una giornata parecchio incasinata e non ce l'ho fatta 🙈
Spero abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate!
Il prossimo capitolo arriverà sabato 4 o domenica 5. 
Un bacio, 
LazySoul

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII: Meritata punizione ***


Capitolo XIII: Meritata punizione

 

 

 

«Dove pensi di andare, signorina?»

Papà mi aveva intercettato proprio mentre stavo entrando in camera mia per posare il reggiseno. Fui costretta a lanciarlo a caso all'interno della stanza — così da evitare di dover dare spiegazioni anche sul perché fossi tornata dalla mansarda con quell'indumento intimo in mano e non addosso.

«Volevo vestirmi», mentii, facendogli notare con un gesto della mano che indossavo ancora il pigiama.

Papà sorrise, scuotendo la testa: «Dopo», disse semplicemente: «Vieni qua, tua madre ed io vorremmo parlarti».

Scomparve nuovamente in salotto e io sentii un brivido freddo attraversarmi la schiena.

La morte era vicina, me lo sentivo.

Con un sospiro chiusi la porta di camera mia e, scivolando sulle ciabatte pelose — nel tentativo di posticipare il più a lungo possibile l'interrogatorio che mi attendeva — percorsi il corridoio con sguardo basso.

Sapevo cosa mi attendeva, non ci voleva un'intelligenza superiore per capire che ero in un mare di guai.

Sbirciai in salotto, ma era vuoto.

Trovai mamma e papà seduti al tavolo della cucina; entrambi aveva una tazza fumante di fronte e uno sguardo serio e deluso in viso. Nonna mi dava la schiena e trafficava con un pentolino colmo d'acqua bollente e una tazza vuota; probabilmente mi stava preparando l'infuso che mi aveva promesso poco prima.

Mi bastò vedere i miei genitori in quello stato per sentirmi una pessima figlia, anche se una piccola parte di me continuava a ripetermi che ero abbastanza grande per cavarmela da sola e che la loro preoccupazione era esagerata.

Senza dire una parola papà mi indicò la sedia di fronte a loro e io mi sedetti, iniziando a giocare col bordo della maglia del pigiama per il nervosismo.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo e il mio stomaco ebbe la brillante idea di ricordarmi proprio in quel momento che era da parecchie ore che non mangiavo. Il rumore imbarazzante face ridere sotto i baffi mio padre e io non potei fare a meno di sperare che forse, per quella volta, sarebbero stati clementi. Nonna invece corso il brontolio del mio stomaco come un affronto e mi mise davanti un piatto di biscotti, incitandomi a mangiarli.

«Avevi promesso, Diana», disse mia mamma, posando i suoi occhi chiari e colmi di sconforto su di me: «Tuo padre ed io non sappiamo più cosa fare con te».

«Avevo promesso a papà che non sarei andata nel bosco da sola», dissi, cercando di salvarmi da qualsiasi punizione avessero in mente per me: «Per questo ho chiesto ad Isabel di accompagnarmi».

Mamma alzò gli occhi al cielo, bevendo un sorso del suo tè, mentre papà mi fissava con sguardo serio: «Ci hai mentito. Avevi detto che saresti andata a dormire da una tua amica, noi ci siamo fidati di te e tu ci hai preso in giro».

Abbassai lo sguardo, sentendo le guance e le orecchie bruciarmi per la vergogna.

Aveva ragione, li avevo ingannati e delusi.

«Vediamo il lato positivo: se fossi andata a dormire da Frida probabilmente Xavier sarebbe morto questa notte», dissi, cercando con lo sguardo un minimo di approvazione da parte dei miei genitori.

«Quello che hai fatto è stato sconsiderato e pericoloso, Diana!», esclamò mamma, posando con fin troppa forza la tazza sul tavolo, bagnando la superficie in legno con del tè: «Non vogliamo sentire altre giustificazioni, vogliamo darti la possibilità di raccontarci tutto ciò che è successo ieri sera e che ci hai tenuto nascosto. Solo allora decideremo quale punizione meriti di ricevere».

Ammettere tutto significava parlare della festa. Però, pensandoci bene, probabilmente ne erano già a conoscenza; in fondo avevo incontrato Michel e Francine a casa di Ling, per non parlare di Alan Truce. C'erano stati fin troppi testimoni e sarebbe stato ingenuo pensare che non ne sapessero nulla.

«Ieri pomeriggio sono andata da Frida per la ricerca di spagnolo, poi è arrivata anche Isabel e siamo andate insieme ad una festa», ammisi, grattandomi la tempia con l'indice per il nervosismo.

Sentii mia mamma prendere un profondo respiro e scuotere la testa, mentre papà immobile mi fissava con serietà. L'unica che non sembrava minimamente colpita dalle mie parole era la nonna che, appoggiata al bancone della cucina, mi fissava impassibile.

«Una festa? Hai rischiato la vita per una festa?!», esclamò mia madre, alzandosi in piedi e muovendo alcuni passi per la cucina. Sembrava davvero arrabbiata, faceva paura.

«Non ho rischiato la vita!», precisai, alzando gli occhi al cielo; odiavo quando i miei genitori esageravano le situazioni: «Siamo andate ad una festa e poi ci siamo accampate nel bosco, eravamo nella radura dove giocavamo sempre da piccole, a dieci minuti da casa. Non eravamo chissà dove nel bosco o fuori dai confini del branco. Eravamo al sicuro, poco distanti da qua».

«Al sicuro?! Vorrei ricordarti, signorina, che c'è un assassino a piede libero che gira per questi boschi! Avresti potuto morire, te ne rendi conto?!», urlò mamma, sbattendo con forza le mani sul tavolo e fissandomi coi suoi occhi lucidi.

Abbassai lo sguardo. Non sopportavo l'idea di vedere mamma piangere; non lei che di solito era sempre pacata e ragionevole.

«Non è successo niente di male», cercai di ricordarle: «E poi è da lunedì che l'assassino non mette piede nel nostro territorio, o sbaglio?»

Cercai la conferma nei loro occhi e, quando la trovai, sorrisi: «Perché dovrebbe tornare indietro? Non ne avrebbe motivo. Avrà capito ormai che Xavier si è stabilito qui e che...»

«Cos'è successo dopo che vi siete accampate?», chiese mio padre, interrompendomi.

«Ci siamo addormentate», iniziai, cercando di ricordare più dettagli possibili: «Mi sono svegliata intorno alle cinque perché dovevo fare la pipì, poi ho sentito Xavier e gli sono corsa incontro; sapevo che qualcosa non quadrava, che doveva essere ferito. Quando l'ho trovato non me la sono sentita di abbandonarlo nel bel mezzo del bosco, così mi sono trasformata e l'ho trasportato fino a qua; certa che nonna avrebbe potuto guarirlo».

Mamma appoggiò le mani sulle spalle di papà, annuendo al mio racconto: «Sei in punizione: potrai uscire solo per andare a scuola e tornerai a casa subito dopo la fine delle lezioni, non potrai invitare nessuna amica a casa, nemmeno per i compiti. Inoltre, non ti sarà permesso andare nel bosco».

Spalancai la bocca per la sorpresa e l'affronto.

Ok, non mi ero comportata bene, ma quella punizione era esagerata!

«Cosa?», mormorai, con un filo di voce, spostando lo sguardo da mia madre a mio padre, sperando di guadagnare uno sconto della pena facendo gli occhi dolci. Non funzionò. Quando spostai lo sguardo verso nonna, notai che mi aveva dato le spalle. Traditrice.

«Mi dispiace, Diana», disse papà, abbassando lo sguardo.

«Non è giusto!», esclamai, alzandomi in piedi a mia volta e fissando mamma dritto negli occhi.

Sapevo che era lei la mente malvagia dietro quella punizione, doveva averla suggerita fin dall'inizio, prima ancora di sentire cosa avevo da dire in mia difesa.

«Quale punizione dovremmo darti, allora? Sentiamo», disse mamma, incrociando le braccia al petto.

«Non è successo nulla di male! Ammetto di avervi mentito; è stato un errore. Volevo godermi una festa senza avere Kyle come guardia del corpo, cosa che voi non avreste mai permesso. Proprio non riesco a capire che visione distorta abbiate delle feste. Per quanto riguarda la notte passata nel bosco, come ho già detto, eravamo vicino a casa ed eravamo in due. Quindi vorrei barattare la possibilità di andare nel bosco col mio cellulare».

«Vuoi che ti confischi il cellulare invece di impedirti di andare nel bosco?», chiese mamma, con tono confuso.

«Esatto», dissi, incrociando le bracci al petto e guardandoli con serietà.

«Non potrai andare da sola nel bosco», specificò mamma, puntandomi l'indice contro.

«Andata», dissi, con risoluzione.

Mamma e papà si guardarono negli occhi per qualche istante, poi vidi papà annuire.

«Va bene», acconsentì mamma: «Altro?»

Scossi la testa, addentando uno dei biscotti. Nonna mi lanciò un'occhiata colma di approvazione e orgoglio.

«Bene, allora se volete scusarmi, ho un incontro che mi attende», disse papà alzandosi e dirigendosi verso l'uscita.

«Un incontro?», chiese mamma, seguendolo con lo sguardo, mentre nonna mi porgeva una tazza fumante di tisana.

«Devo discutere con Rice per il plenilunio di sabato», spiegò papà, sorridendoci calorosamente.

Annuii distrattamente, poi un pensiero improvviso di fece sorridere: la mia punizione mi avrebbe impedito di partecipare a quell'inutile...

«Non ci pensare nemmeno», disse mamma, distruggendo con quattro parole il mio sogno ad occhi aperti: «Tu ci sarai», aggiunse, puntandomi un dito contro.

Misi il muso e aprii bocca per protestare, ma venni interrotta da papà: «Non discutere. É un evento molto importante, poi essendo sabato puoi rimanere senza doverti preoccupare della scuola».

Abbassai gli occhi e decisi di affogare nel cibo il mio disappunto.

Per una volta che essere in punizione sarebbe potuto risultare utile...

"Aspetta un attimo", pensai, smettendo momentaneamente di masticare, lo sguardo perso nel vuoto: "Non potrò uscire con Michel domani sera".

Tornai a masticare con gusto. In parte ero dispiaciuta di non poter uscire con Picard la sera successiva; ero dell'idea che prima gli avessi fatto notare la nostra incompatibilità, prima me lo sarei tolto dai piedi e prima sarei potuta tornare alla mia vita normale. Allo stesso tempo però ero molto contenta; la voglia che avevo di andare ad un appuntamento con Michel era pari a zero e la punizione di mamma mi aveva servito su un piatto d'argento la possibilità di rimandare o addirittura annullare per sempre la nostra uscita senza sentirmi minimamente in colpa.

"Voglio proprio vedere la faccia che farà mamma domani, quando il ragazzo con cui spera di vedermi accasata dovrà andare via senza di me, e tutto per colpa sua".

Un sorrisetto malvagio mi increspò le labbra.

«Cavolo se sei inquietante», disse Kyle, facendomi sussultare per lo spavento; non l'avevo sentito entrare.

«Cosa?», chiesi, cercando di nascondere la mia espressione compiaciuta di poco prima dietro alla tazza fumante.

Guardandomi intorno mi resi conto che eravamo rimasti solo io e lui in cucina. Sentivo chiaramente nonna sferruzzare in salotto, mentre mamma era in camera di Edith e la aiutava con i compiti. Papà invece doveva essere in viaggio verso il branco di Rice.

«Quel sorriso», disse mio fratello, sedendosi al tavolo accanto a me: «Che cos'hai in mente?», mi chiese, scrutandomi con sospetto.

Feci spallucce: «Niente».

«Non sei credibile», commentò, rubandomi il piatto dei biscotti.

«Hey!», esclamai, tentando di sporgermi per recuperarlo, ma Kyle fu più veloce e nell'arco di pochi secondi era in piedi e correva verso camera sua con in mano il dolce ostaggio.

Provai a raggiungerlo, abbandonando la tisana e rischiando di spaccarmi la testa a causa delle ciabatte, che slittarono in modo precario sulle piastrelle del pavimento, facendomi perdere l'equilibrio e sbattere contro l'anta della porta. Quando tornai a cercare con lo sguardo mio fratello, mi resi conto che si era ormai chiuso a chiave in camera sua.

Sbuffai, colpendo col pugno chiuso la porta che aveva intralciato il mio cammino, poi tornai sui miei passi, recuperai la tisana e decisi che era arrivato il momento di togliermi il pigiama.

Percorsi il corridoio con calma, guardando con odio verso la camera di Kyle poi, arrivata davanti alla mia stanza, non potei fare a meno di alzare lo sguardo e puntarlo sulle scale che portavano alla mansarda. Sfruttai il mio udito sovrannaturale per accertarmi che il cuore di Xavier stesse ancora battendo e, quando ebbi le conferma che fosse ancora vivo, entrai in camera mia, chiudendomi la porta alle spalle.

Rischiai di inciampare sul reggiseno che poco prima avevo lanciato; ma riuscii miracolosamente a sopravvivere e a non versare nemmeno una goccia di tisana sul pavimento.

Mi ritenni molto fortunata e decisi di non mettere ulteriormente alla prova la sorte, raccogliendo il reggiseno e abbandonandolo nella cesta dei panni sporchi, dove non avrebbe più potuto tentare di mettere fine alla mia vita.

Mi sedetti sul bordo del letto e presi il primo sorso dalla tazza.

Nonna mi aveva preparato il mio infuso preferito: citronella, ortica, foglie di eucalipto e rosa canina.

Un sorriso riconoscente mi addolcì i lineamenti, mentre mi perdevo a fissare il cielo grigio oltre il vetro della finestra di camera mia.

Ero contenta di aver barattato il mio cellulare con la possibilità di andare nel bosco. Certo, non ci sarei potuta andare da sola, ma quello era un dettaglio a cui avrei poi pensato quando sarebbe giunto il momento.

Mamma mi conosceva e sapeva perfettamente quali erano le cose senza le quali potevo sopravvivere e una di queste era il bosco e la libertà che esso mi trasmetteva. Ero contenta però di esser riuscita a farle cambiare idea, passando da una punizione da incubo ad una più sopportabile.

Non ero una grande amante della tecnologia; la utilizzavo per una questione di comodità. Per esempio trovavo molto utile Skype per conversare con Isabel schermo a schermo, così da rendere le nostre chiacchierate più reali. Non ero però una fan di Facebook. Anche se ero stata costretta da Sab a crearmi un account, non lo usavo quasi mai. Trovavo tutto così inconsistente e falso da farmi venire la nausea. A me piaceva la schiettezza, la sincerità; e nascondersi dietro ad uno schermo per criticare o dare un'idea di se stessi diversa dalla realtà era proprio qualcosa che non concepivo.

Probabilmente ero nata nel periodo storico sbagliato e dovevo semplicemente farmene una ragione.

Bevvi un altro sorso di infuso, poi abbandonai la tazza sul comodino e mi sfilai il pigiama, indossando un paio di pantaloni comodi e un maglioncino.

Una volta vestita, riacciuffai la bevanda e raggiunsi la scrivania, dove controllai distrattamente il diario, accertandomi di non avere compiti da svolgere. L'unica cosa che dovevo fare era studiare la ricerca su Cernuda per l'esposizione.

In quell'istante mi resi conto che il borsone che avevo abbandonato dentro alla tenda nel bosco quella mattina era ai piedi del mio letto, con accanto i vestiti e le mie scarpe, quelli che mi ero tolta in fretta e furia prima di trasformarmi per portare Xavier al sicuro.

Mi chiesi chi me li avesse riportati. Era stata la mamma? Papà? Kyle?

Sospirai e decisi di disfare il borsone, recuperando anche la ricerca su Cernuda e la poesia "Si el ombre pudiera decir lo que ama", che Frida aveva gentilmente stampato, dicendomi che dovevo assolutamente riuscire a impararla a memoria per l'esposizione.

Sbuffai e mi sedetti nuovamente sul letto, decidendo di mettermi all'opera.

Durante il tempo che impiegai a bere l'infuso, riuscii ad imparare buona parte della biografia di Cernuda e, ritenendomi soddisfatta, decisi di fare una pausa per riportare in cucina la tazza e magari cercare qualcosa da mangiare.

Trovai nonna intenta a riporre su un vassoio un bicchiere d'acqua e un piatto colmo di minestrina.

Lo spuntino di Xavier non era affatto invitante e non potei fare a meno di dispiacermi per lui.

«Oh, Diana», mi chiamò nonna, interrompendo la mia ricerca disperata di cibo: «Hai voglia di portarla di sopra? Io devo assolutamente stirare».

«Stiro io», proposi senza pensarci e con fin troppa enfasi, stupendo la nonna.

«Cara, stai bene?», chiese nonna, guardandomi con un misto di preoccupazione e divertimento: «Tu odi stirare», mi fece notare, porgendomi il vassoio.

Sospirai e accettai la mia sorte avversa, prendendo lo spuntino di Xavier e rassegnandomi a non poter tenere le distanze dalla mansarda come avrei voluto.

«Non ci sono dei biscotti per me?», chiesi, guardando nonna speranzosa.

«Hai già finito quelli che ti avevo dato?», domandò, con stupore: «Guarda che ti rovinerai la cena se continuerai a mangiare», mi rimproverò, prima di dirigersi verso il salotto, dove l'asse da stiro era comodamente posizionato di fronte alla tv, così da garantirle un minimo di intrattenimento durante il lavoro.

«Me li ha rubati Kyle!», le spiegai con tono lamentoso, ma nonna non sembrava prestarmi attenzione; stavano trasmettendo uno dei suoi programmi di cucina preferiti.

«Va bene, ho capito», borbottai, dirigendomi verso la mansarda: «Volete farmi morire di fame».

Una volta davanti alla porta di Xavier presi un profondo respiro e bussai.

«Puoi entrare», mi invitò la voce di O'Bryen e un caldo languore mi invase istantaneamente lo stomaco.

"Questo è il motivo per cui non volevo venire quassù! Non posso continuare a stargli intorno e non affezionarmi a lui!"

Aprii la porta, facendo attenzione a non rovesciare il contenuto del vassoio ed entrai.

Finsi di non essere minimamente scossa dal suo odore o dalla vista dei suoi occhi chiari; mantenendo un'espressione impassibile sul volto.

Ma aveva senso fingere quando il mio cuore traditore batteva ad un ritmo vertiginoso?

«Sei tornata», disse semplicemente, abbagliandomi con le sue fossette.

Feci una smorfia, avvicinandomi al suo letto: «Senza volerlo sono stata promossa infermiera», mi lamentai, sedendomi sulla sedia accanto a lui, appoggiando il vassoio sul comodino.

«Non sei costretta a rimanere, se non vuoi», mormorò, distogliendo lo sguardo.

Aprii bocca, poi la richiusi.

"Oh, Xavier, perché non puoi rendermi le cose più facili? Perché devi essere così perfetto?"

Sarebbe poi stato tanto grave conoscerlo, lasciare che si insinuasse ancora di più sotto la mia pelle?

Scossi la testa, decisa a non pensarci in quel preciso momento.

«Stai meglio?», gli chiesi, decidendo di cambiare discorso.

Xavier annuì, lo sguardo pensieroso fisso sulle travi a vista del soffitto.

«Tanto da potermi dare lezioni di combattimento domani?», gli chiesi, abbozzando un sorriso.

Le sue labbra si arricciarono in una smorfia, poi si aprirono in un sorriso complice e divertito: «Non esageriamo», disse, scrutandomi coi suoi occhi chiari: «Temo che dovrai aspettare almeno fino a martedì, tua nonna mi ha prescritto riposo, riposo e ancora riposo», mi confidò con una smorfia.

«Che noia», dissi, guardandomi intorno.

«Puoi dirlo forte», mi diede ragione, muovendosi appena tra le coperte.

Un gemito di dolore gli sfuggì dalle labbra e smise istantaneamente di rigirarsi, lasciando cadere il capo contro il cuscino e chiudendo gli occhi per lo sconforto.

Senza pensarci mi alzai, sedendomi sul letto accanto a lui: «Non fare il bambino, vedrai che un paio di giorni passeranno in fretta e...»

«Vorrei vederti al mio posto», disse: «Non resisteresti un minuto».

Arrossii, in parte perché sapevo che aveva assolutamente ragione, in parte perché non pensavo di essere così prevedibile.

«Non è vero», dissi, testardamente decisa a non dargli soddisfazione.

«Bugiarda», mormorò, allungando la mano per intrecciare le sue dita alle mie: «Provamelo».

«Come scusa?», chiesi, cercando di capire cosa intendesse.

Il contatto con la sua pelle tiepida era piacevole, troppo piacevole. Avrei voluto allontanare la mano, ma le sue parole mi destabilizzarono troppo, facendomi dimenticare i miei propositi.

«Sdraiati qua, accanto a me», disse: «Provami che non stai mentendo e che riusciresti a stare ferma senza fare nulla senza impazzire».

La sfida nei suoi occhi mi colpì dritto al petto.

Gli avrei dimostrato che non avevo paura di quell'insulsa competizione e che ero più che capace di perdere tempo senza dare di matto. Sarebbe stato facile come bere un bicchier d'acqua.

«Va bene», gli dissi, issandomi sul letto accanto a lui, accomodandomi sul materasso e lasciando che la mia testa sprofondasse sul cuscino.

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto.

«Dovrei imboccarti, nonna mi ha mandata apposta per nutrirti», dissi, guardando il vassoio che avevo lasciato sul comodino e di cui mi ero totalmente dimenticata.

«E così che vuoi perdere la sfida? Per imboccarmi?», chiese, voltando il capo verso il mio.

Alzai gli occhi al cielo: «Muori di fame allora».

Rise delle mie parole, scuotendo il capo.

Fu lui ha spezzare il silenzio: «Ti ho sentita litigare coi tuoi genitori».

Voltai il viso verso il suo e, solo in quell'istante, mi resi conto di quanto fossimo vicini; a separarci c'erano pochi miseri centimetri.

«Non si origliano le conversazioni altrui», lo sgridai, cercando di tenere a bada lo strano formicolio che sentivo alle mani. All'improvviso tutto quello che riuscivo a pensare era che avrei voluto toccarlo e non per fargli male.

«Non stavo origliando», si difese, aggrottando la fronte: «Non ho potuto fare a meno di sentire te e tua madre gridare», aggiunse.

«Sei stata ad una festa?», chiese.

«Mi sono imbucata ad una festa di compleanno, sì», precisai, tenendo lo sguardo puntato sulle travi a vista.

Non avevo intenzione di voltarmi verso di lui, anche se ero curiosa di vedere le sue espressioni; non volevo rischiare di cedere alla tentazione e fare qualcosa di molto stupido. Tipo baciarlo.

«E ti sei divertita?», domandò,

«Abbastanza», feci spallucce; non avevo voglia di raccontargli come la presenza di Francine e Michel mi avesse impedito di divertirmi a dovere.

«Mi dispiace di non esserci stato, mi sarebbe piaciuto vederti tutta agghindata».

Non potei resistere e voltai il capo verso di lui, cercando di capire dalla sua espressione se fosse serio o mi stesse prendendo in giro.

«Io non mi agghindo», dissi, con un'espressione schifata in volto.

«Chissà perché non avevo dubbi in proposito», sussurrò, voltandosi a sua volta verso di me.

Ebbi la conferma che mi stesse stuzzicando dal modo in cui mi sorrideva.

«Tu invece? Dove eri scomparso?», gli chiesi, decisa a spostare i riflettori su di lui.

«Eri preoccupata?»

Il suo tono di voce, profondo e caldo, mi mandò in tilt il cervello.

Senza pensare a quello che stavo facendo mi voltai interamente verso di lui, accoccolandomi contro la silhouette del suo corpo e appoggiando il capo contro la sua spalla, facendo attenzione a non fargli male.

«Certo che no», risposi, ma sapevamo entrambi che stavo mentendo.

«Non volevo farti preoccupare, mi dispiace», sussurrò contro la mia fronte, lasciandoci un bacio.

«Non farlo più».

Avrei voluto ordinarglielo, scuoterlo e urlargli contro che mi aveva terrorizzato a morte, invece la frase mi uscì come una supplica; avevo le guance che mi bruciavano per l'imbarazzo.

«Non pensavo che mi sarei scontrato con lui», disse: «Volevo solo trovarlo, stabilire la sua posizione e tornare qua», una breve risata gli scosse il corpo, facendolo gemere di dolore subito dopo: «Volevo tornare entro ieri sera, chissà perché mi ero messo in testa che dovevo assolutamente convincerti a uscire con me».

Scossi piano il capo, al ricordo dell'ultima volta che mi aveva invitato ad uscire.

«Non ti arrendi mai?», chiesi con un filo di voce.

«No, mai», rispose, con tono solenne.

Spostai il capo, in modo da poterlo guardare negli occhi: «Ti avrei detto di no».

«Lo so, ma prima o poi mi dirai di sì», ribatté, il viso serio e gli occhi colmi di ostinazione.

«Cosa te lo fa pensare?», chiesi, sinceramente curiosa di ricevere una risposta.

«Non puoi sfuggirmi Diana, ammiro il tuo tentativo di tenere le distanze e la tua ostinazione nel non volermi lasciare entrare nella tua vita, ma sappiamo entrambi che ormai è troppo tardi».

Strinsi le labbra in una linea sottile e chiusi gli occhi.

"Quanto sarebbe grave se lo lasciassi avvicinare? Se gli lasciassi scoprire il mio mondo e sbirciassi a mia volta nel suo?"

«Perché hai paura Diana? Non voglio farti del male», sussurrò.

«Non sono pronta», dissi semplicemente mentre aprivo gli occhi, decidendo che la sincerità fosse la carta migliore da giocare: «Io non voglio una relazione, non voglio innamorarmi».

«Perché no?», mi chiese, gli occhi chiari puntati nei miei.

«Perché mi piace la mia libertà», ammisi: «Perché questa vita mi sta stretta e voglio andarmene. Appena mi diplomerò voglio viaggiare per il mondo come mia zia, come mia nonna quando era giovane».

Sorrise, la preoccupazione nei suoi occhi era scomparsa, sostituita dalla comprensione: «E questo viaggio deve essere per forza solitario o accetteresti la compagnia di qualcuno?»

«Nessuno vuole venire con me», dissi: «Le persone che conosco sono troppo contente di vivere la vita che stanno vivendo. Sab non vede l'ora di diventare la moglie trofeo di qualcuno e sfornare cuccioli, mio fratello vuole laurearsi e trovare un lavoro in città, Edith è troppo piccola...»

«Vengo io».

«So già che mamma e papà daranno di matto appena scopriranno che non ho intenzione di...», lasciai la frase a metà, sbarrando gli occhi.

"L'ha detto davvero o me lo sono immaginata?"

I suoi occhi erano limpidi e sinceri.

«Verresti davvero?», chiesi, le parole che faticavano ad essere pronunciate a causa del nodo stretto che mi bloccava la gola.

«Sì, ne sarei onorato», rispose, sorridendomi.

"Beh, questo cambia tutto", pensai, abbassando lo sguardo.

Avevo sempre pensato che avrei dovuto scegliere tra l'innamorarmi o vivere il mio sogno; forse perché non avevo mai conosciuto qualcuno come Xavier prima. Qualcuno che non sembrava troppo legato alle proprie radici per potersi lasciare tutto alle spalle e incominciare una nuova vita con me.

Un timido sorriso comparve sulle mie labbra: «Vedremo», sussurrai, alzando lo sguardo sul suo viso: «Se sarai abbastanza meritevole».

«Sfida accettata», ribatté, facendomi l'occhiolino.

In quell'istante mi chiesi se potesse esistere una felicità maggiore di quella che mi comprimeva il petto, impedendomi di respirare normalmente, in quel momento.

"Oh, Xavier, sarai la mia rovina".

 

 

********

Ciao a tutti!

Ecco il nuovo capitolo, spero che vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di dirmi cosa ne pensate!

Ho una brutta notizia da darvi, temo che non riuscirò a postare la storia ogni sabato/domenica come ho fatto fino ad ora, molto probabilmente gli aggiornamenti slitteranno di qualche giorno, ma vi terrò aggiornati in proposito.

Buona domenica e un bacio a tutti!

LazySoul

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV: Edith, artista emergente ***


Capitolo XIV: Edith, artista emergente

 

«Quand'è il tuo compleanno?»

Fu Xavier a spezzare il silenzio, facendomi sussultare per la sorpresa.

«Il 14 Aprile», risposi con tono scocciato.

Erano passati venti minuti buoni da quando ero entrata in camera sua per consegnargli la minestrina preparata dalla nonna.

L'unica cosa che mi impediva di andarmene era la stupida sfida che mi impediva di muovermi dal letto. Non avrei ceduto, ne andava del mio orgoglio: gli avrei dimostrato che ero in grado di stare sdraiata a far niente senza impazzire.

«Diciotto anni», sussurrò, muovendo il capo in modo da guardarmi in volto: «Hai in programma di organizzare una festa?»

Risi alle sue parole, scuotendo la testa per lo stupore: «I miei genitori non mi lasciano andare da sola alle feste. Cosa ti fa pensare che potrebbero permettermi di organizzarne una?»

«Prima di ieri sera non eri mai andata ad una festa?», mi chiese, gli occhi colmi di stupore.
«Non da sola», ammisi con una smorfia: «I miei non mi lasciano andare da nessuna parte senza Kyle come guardia del corpo».
«Come mai?»
«Guardano troppa tv, sono convinti che le feste siano un luogo pericoloso per le ragazze. Mi dicono sempre di fare attenzione a cosa bevo e di non dare confidenza agli estranei», dissi, alzando gli occhi al cielo: «Come se qualche umano potesse mai farmi del male».

Xavier rise, scuotendo la testa: «Ho avuto il piacere di scontrarmi con te; sei forte Diana, ma non sei invincibile. Posso capire la preoccupazione dei tuoi genitori».

Sospirai: «Lo so, ma non sono nemmeno una ragazzina indifesa. So badare a me stessa».

«Devi dare loro tempo», disse Xavier: «Anche mio padre era sempre molto apprensivo con me».

«Davvero?», chiesi, curiosa.

«Sì, mi riempiva di raccomandazioni ogni volta che mi facevo degli amici e volevo uscire con loro. La mia adolescenza è stata piuttosto solitaria in realtà, ci trasferivamo da una parte all'altra degli Stati Uniti ogni pochi anni, non era facile stringere amicizie durature. Quando venne attaccato, avevamo appena finito di litigare; gli avevo detto che volevo entrare a far parte di un vero branco, che volevo avere un luogo da considerare casa. Sono stato stupido; pensavo di aver bisogno di quattro mura e un tetto fisso sopra la testa, quando poi tutto quello che mi serviva per sentirmi a casa era lui, la mia unica famiglia».

La tristezza che traspariva dalla voce di Xavier era tale da farmi sentire un fastidioso groppo in gola.

Non riuscivo a immaginare come dovesse sentirsi. Nella mia breve vita avevo partecipato ad un unico funerale, quello della signora Picard, e mi era bastato.

«Quanti anni hai?», chiesi, tenendo lo sguardo basso; sapevo che se avessi visto nei suoi occhi il dolore che avevo percepito nella sua voce, avrei finito per fare qualcosa di stupido. Come per esempio baciarlo nel tentativo di consolarlo.

«Ne compio 23 a Luglio», disse: «Chissà dove saremo».

Aggrottai le sopracciglia e lo scrutai: «In che senso?»

I suoi occhi chiari seguirono i lineamenti del mio volto con un'espressione dolce e vagamente divertita: «Beh, prima parlavamo di un viaggio in giro per il mondo. A Luglio potremmo essere qua, come in Europa o...»

«Sei sicuro di voler venire con me? Non volevi mettere radici?»

Ero rimasta colpita dalle sue precedenti parole, quando aveva parlato del padre e del loro litigio. Possibile che perdere suo padre gli avesse fatto cambiare così profondamente idea?

«Era quello che credevo di volere», disse: «Ora non ne sono più sicuro».

«Perché no?»

«Perché ho conosciuto te».

L'aria mi rimase incastrata nei polmoni, il cuore batteva forte contro la mia cassa toracica e il dolore era tale da farmi sentire debole. Mi sollevai dal letto, quel tanto che bastava per poter sovrastare il suo viso col mio, appoggiandomi coi gomiti al materasso.

Cercai nel suo sguardo la veridicità delle sue parole e tutto quello che trovai fu la mia stessa paura, la mia stessa confusione e la mia stessa resa.

Per quanto si mostrasse padrone della situazione, era spaventato quanto me dal forte legame che ci univa.

Il suo cuore sembrava impazzito quanto il mio, il suo respiro era irregolare e accelerato come il mio.

La paura venne sostituita da una sensazione di pace; sapere di non essere sola, di non essere l'unica a provare quelle emozioni così totalizzanti e nuove, mi trasmise un senso di calma e appartenenza.

Non aveva senso avere paura. Non di lui e non di quello che ci univa.

Lasciai che la mano destra percorresse i contorni del suo viso, saggiando la pelle ruvida per l'accenno di barba che gli scuriva la mandibola. Il pollice sfiorò il suo labbro inferiore, facendo dischiudere le sue labbra morbide e invitanti. Di riflesso, socchiusi a mia volta la bocca, lasciandomi sfuggire un sospiro.

Xavier sollevò il volto, nel tentativo di avvicinarlo al mio, proprio mentre io mi abbassavo su di lui.

Le nostre labbra s'incontrarono a metà strada, brevemente; eppure quel semplice contatto mi emozionò più di quanto avrei mai potuto pensare.

Contrassi le dita, stringendo forte una manciata di suoi capelli; sentendone la consistenza morbida contro i polpastrelli.

Fu un bacio breve, giusto il tempo di inspirare a fondo il suo odore e lasciarmi travolgere dalle forti emozioni che quel semplice contatto aveva provocato nel mio corpo, poi ci separammo.

Le labbra mi formicolavano e le dita pizzicavano.

Un brivido di desiderio mi attraversò interamente, lasciandomi senza fiato.

Emise un suono gutturale, un gemito quasi sofferente e si sollevò ancora, nel tentativo di far scontrare nuovamente la mia bocca con la sua, ma io mi allontanai, appoggiando una mano contro il suo petto per farlo rimanere sdraiato.

Il forte desiderio nei suoi occhi mi fece paura, i suoi occhi sembravano più scuri, colmi di una risoluzione, di una fame e una follia che ero certa fossero presenti anche nei miei.

«Diana», sussurrò, tentando nuovamente di sollevarsi.

Mi alzai, mettendo qualche passo tra il letto e me.

Tenevo gli occhi bassi, puntati sulle mani che mi tremavano in modo incontrollato. Stargli lontano era più difficile di quanto avessi pensato; combattere contro il mio stesso corpo non era facile.

Strinsi forte le mani a pugno e sollevai lo sguardo, incontrando l'espressione dolorante e contrariata di Xavier. Aveva provato a sollevarsi per afferrarmi e impedirmi di allontanarmi da lui; tutto ciò che aveva ottenuto, muovendosi in modo così sconsiderato, era stato aprire la ferita sulla sua spalla.

Corsi verso la porta e chiamai nonna, dicendole di fare in fretta, poi tornai accanto a lui, dove l'odore del suo sangue e il rosso che ricopriva ora la sua spalla erano più vivi e forti.

Aprii bocca, avrei voluto dirgli che mi dispiaceva, ma le parole mi rimasero incastrate in gola.

Rimasi semplicemente a fissarlo, spostando lo sguardo dalla sua spalla dove il rosso sporcava sempre di più la garza bianca, al suo volto contratto dalla sofferenza.

Quando nonna arrivò, borbottando qualcosa a proposito dell'incoscienza dei giovani d'oggi, portando con sé delle garze pulite, ne approfittai per fuggire; non riuscivo a sopportare lo sguardo di Xavier e il dolore che gli induriva i lineamenti. Sapevo che quel dolore non era dovuto alla ferita aperta, non solo almeno.

Il senso di colpa mi spinse a fuggire; scesi le scale di corsa, il cuore che mi batteva furiosamente nel petto e le guance rosse per la vergogna.

Mi chiusi in camera, dove mi gettai sul letto, nascondendo il volto contro il cuscino.

Ero una codarda, un'essere ignobile e senza spina dorsale.

Quando era successo? Quando ero diventata un essere tanto pavido e orribile?

Ero fuggita di fronte al momento più bello di tutta la mia vita.

Mi voltai a pancia in su e mi coprii il volto con le mani. Sbirciai la sveglia sul comodino attraverso le dita e mi resi conto che era ormai pomeriggio inoltrato; un paio di ore e mamma avrebbe chiamato tutti a tavola per cena.

Non avevo nemmeno dato la minestra a Xavier; avevo preferito accettare la sua stupida sfida e coricarmi accanto a lui sul letto, per dimostrargli che ero in grado di stare ferma e non fare nulla...

Oh, cavolo! Avevo perso.

Sbuffai e chiusi gli occhi, concentrandomi per sentire il battito cardiaco di Xavier al piano di sopra. I muri di casa mia erano piuttosto spessi ma, se ci si impegnava, era possibile sentire ogni minimo rumore.

«Sta fermo», sentii dire alla voce di nonna.

Xavier gemette per il dolore, udii nonna borbottare qualche parola che non riuscii a distinguere.

«Diana doveva nutrirti, non farti riaprire le ferite di questa notte», si lamentò lei, facendomi chiudere gli occhi per la vergogna.

Mi pentivo di ciò che avevo, o forse sarebbe stato meglio dire non avevo fatto, ma ormai era tardi.

Non potevo tornare indietro nel tempo, tutto quello che potevo fare era sperare che Xavier non mi odiasse troppo.

«Non è stata colpa sua», rispose O'Bryen, con voce bassa e dolorante, tanto che faticai a distinguere le parole che stava pronunciando: «Sono stato impulsivo».

«Mia nipote è giovane», disse nonna, il tono di voce mi ricordava quello che rivolgeva a mio padre per rimproverarlo quando non si comportava come lei gli consigliava: «Ha bisogno di tempo».

Le parole di nonna mi fecero scottare le guance per l'imbarazzo; malgrado sapessi che aveva ragione, sentirglielo dire fu comunque destabilizzante.

«Lo so», rispose Xavier: «Solo che a volte me ne dimentico».

Smisi di origliare, decidendo di aver udito fin troppo.

Per non cedere alla tentazione di tornare ad ascoltare la loro conversazione, recuperai gli auricolari dallo zaino e poi presi il computer dalla scrivania, accendendolo.

Non potevo utilizzare il cellulare come mio solito per ascoltare la musica, mamma l'aveva già sequestrato; notavo con rassegnazione che non si trovava più sulla cassettiera, ossia dove l'avevo lasciato.

Inserii gli auricolari nell'apposita apertura laterale e la riproduzione di brani casuali decise di deliziarmi con le prime note di "Under Pressure" dei Queen.

Appoggiai il computer sulla pancia e mi lasciai cadere di schiena sul materasso.

Tenevo gli occhi chiusi per concentrarmi sulle parole della canzone, che canticchiavo a mezza voce.

Non ero particolarmente brava a cantare, la maggior parte delle volte non riuscivo a raggiungere la nota giusta e finivo con stonare malamente, rovinando l'armonia della canzone. Ero però troppo testarda per arrendermi e continuavo a provarci, malgrado Kyle mi urlasse contro o mi insultasse ogni volta che mi sentiva cantare.

«Why can't we give love that one more chance?», sussurrai a fior di labbra, sorridendo tristemente: «Why can't we give love give love...».

Smisi di cantare e sfilai gli auricolari, il petto compresso da una strana sensazione di malessere.

Possibile che ogni cosa mi facesse pensare a Xavier? Possibile che non riuscissi a scollegarmi dalla realtà per pochi brevi minuti?

Con un sospiro rassegnato abbassai lo schermo del computer.

Avevo sbagliato ad allontanarmi, a non baciarlo nuovamente quando tutto ciò che volevo era sentire ancora le sue labbra bollenti e delicate sulle mie.

Quello che ci eravamo scambiati non era stato il mio primo bacio, ma avrebbe potuto benissimo esserlo. Non avevo mai provato quella totalizzante sensazione di pace e desiderio. Con nessuno.

Mi portai una mano al petto, cercando di calmare il battito impazzito del mio cuore.

Sarebbe potuto sembrare facile; tutto quello che dovevo fare era andare da lui, dirgli che provavo per lui qualcosa che non riuscivo a descrivere a parole, dirgli che non potevo immaginare la mia vita senza di lui, baciarlo.

Non era affatto facile.

Non quando ci conoscevamo da una settimana e tutto quello che sapevo di lui era l'età, il giorno del suo compleanno e pochi (troppi pochi) dettagli a proposito della sua adolescenza.

Sollevai nuovamente lo schermo del computer e feci una cosa che non facevo da almeno una settimana: entrai sul mio profilo su Facebook.

Avevo una ventina di notifiche e una richiesta d'amicizia.

"Ma dai, Alan Truce vuole diventare mio amico, interessante".

Sorrisi, ripensando alla sera precedente e al modo in cui lui e Isabel avevano ballato il lento; stretti l'uno all'altro, persi in una conversazione sussurrata a mezza voce.

Accettai l'amicizia e poi controllai le notifiche, erano principalmente di Sab, mi aveva taggato sotto una decina di foto di meme, oltre ad avermi menzionata in un paio di post.

Isabel era quella tecnologica tra noi due; quella che non poteva vivere senza Facebook, Instagram, Twitter e Snapchat. Quella che mi faceva vedere foto di attori o modelle, criticandoli oppure osannandoli.

Ricordo che una volta mi aveva fatto vedere la foto di un modello particolarmente carino, dicendomi che quello sarebbe stato il padre dei suoi figli. Quando le avevo detto che non avevo idea di chi fosse quel ragazzo, lei mi aveva tirato un coppino, dall'alto del suo metro e sessantasette, e mi aveva detto che dovevo smetterla di vivere fuori dal mondo e farmi una cultura. In risposta le avevo chiesto il nome del cantante dei Queen, quando era rimasta in silenzio per cinque secondi buoni, le avevo detto che quella che si doveva fare una cultura era lei e avevo smesso di ascoltarla per qualche minuto. Avevamo fatto pace dividendo un doppio cheeseburger con patatine e frappé al cioccolato, perché non avevamo abbastanza soldi per potercene permettere uno a testa.

Guardai, una dopo l'altra, tutte le foto sotto le quali mi aveva taggata, poi le inviai un messaggio, chiedendole come stesse, l'ultima volta che l'avevo vista era stata quella mattina, intorno alle cinque di mattino, quando l'avevo abbandonata da sola in tenda per soccorrere Xavier. Speravo non se la fosse presa troppo.

Mentre aspettavo che rispondesse, decisi di scorrere velocemente la home di Facebook, ma mi stancai presto e, guardandomi intorno, l'occhio mi cadde sulla ricerca di Cernuda, abbandonata ai miei piedi.

«Tanto vale fare qualcosa di utile», borbottai, allungando la mano e scorrendo con lo sguardo la biografia di Cernuda, alla ricerca dell'asterisco che avevo fatto in matita per indicare ciò che avevo già studiato e cosa no.

Il telefono di casa squillò, facendomi sussultare per la sorpresa.

Fu Edith a rispondere: «Pronto?», la sua voce dal tono allegro e infantile e il modo in cui allungò la vocale finale della parola, mi fecero sorridere.

«Ciao! Va bene, te la chiamo subito», ci fu un secondo di pausa e poi con tutto il fiato che aveva in corpo, Edith urlò il mio nome: «Diana, telefono!»

Abbandonai il computer e la ricerca sul letto e infilai in fretta le ciabatte pelose, correndo in salotto.

Mia sorella mi porse la cornetta con un sorriso: «É Isabel», disse, poi saltellò verso il tavolo, dove il suo set di acquarelli l'attendeva.

«Pronto?»

«Tu sei la peggior amica che esista sulla faccia della terra», disse Sab. Me la immaginai stravaccata sul divano, oppure sul suo letto, una coperta ad avvolgerle i piedi e una tazza bollente di latte tra le mani. La conoscevo così bene che forse avrei potuto anche indovinare il colore del maglione che indossava in quell'istante.

«Lo so», ammisi, sedendomi a terra, accanto al mobiletto su cui si trovava il telefono fisso, portandomi le ginocchia al petto.

«Per una settimana hai fatto leva sulla mia ingenua bontà fino a convincermi a fare questa pazzia, assicurandomi che nessuno l'avrebbe mai scoperto e che ci saremmo divertite e basta. Poi, mi abbandoni da sola, di notte, nel bosco, per salvare O'Bryen che, vorrei ricordarti, avevi detto di odiare, e mi fai venire a recuperare da Kyle».

Rimasi in silenzio, sapevo che non aveva ancora finito e che aveva bisogno di sfogarsi.

«Quando tuo fratello mi ha svegliata ero in posizione Superman, con la bava alla bocca e il mascara che mi arrivava fino al mento».

Mi coprii la bocca per non farle sentire la mia risata, anche se silenziosa. Dovevo assolutamente chiedere a Kyle se aveva avuto il tempo e la prontezza di farle una foto prima di svegliarla.

«So che stai ridendo e questo non è affatto il comportamento che ci si aspetterebbe dalla propria migliore amica», disse Sab con il suo tono fintamente ferito; sapevo che, malgrado fosse arrabbiata con me, stava sorridendo anche lei in quel preciso istante.

«I miei genitori mi hanno messo in punizione per il resto della mia vita, quindi non c'è niente da ridere», aggiunse, sospirando tristemente.

«Per il resto della tua vita?», chiesi, stupita; i signori Drake non mi sembravano il tipo da mettere in punizione la figlia così a lungo.

«Ma no, l'ho detto per dire. Volevo farti sentire in colpa», disse Sab: «Ci sono riuscita?»

Scoppiai a ridere e questa volta non cercai nemmeno di nasconderlo.

«Direi di no», commentò con un sospiro rassegnato: «Comunque la punizione non è stata affatto leggera: non posso avere una vita sociale all'infuori della scuola per una settimana. Se mi comporterò bene, la prossima domenica questo incubò sarà finito, altrimenti la punizione proseguirà per ancora una settimana. Sappi che incolpo te di tutte le cose brutte che stanno capitando nella mia vita».

«Addirittura? Cosa intendi con "cose brutte"?», domandai, smettendo di ridere, curiosa di sentire la sua risposta.

«Sì, addirittura», esclamò: «Ti incolpo della punizione che mi hanno dato i miei genitori, del brufolo che mi è comparso sulla fronte a causa dello stress a cui mi hai sottoposto con il tuo comportamento sconsiderato e del polpettone bruciato che ha preparato mamma a pranzo».

Scoppiai a ridere, coprendomi il volto con la mano: «Come fa ad essere colpa mia il polpettone bruciato di tua madre?»

«Continuava a urlarmi contro per la questione "festa" e non ha sentito suonare il timer, quindi ha bruciato il polpettone. Mia mamma, la regina del polpettone, ha bruciato il polpettone ed è tutta colpa tua».

Mi passai la mano tra i capelli, cercando di contenere la mia ilarità; sapevo che Sab poteva essere particolarmente permalosa quando si strattava da cibo; bastava pensare al modo schifato con cui mi aveva guardato la sera prima quando avevo "osato" mangiare un bignè e una pizzetta insieme.

Ridere del polpettone bruciato della signora Drake avrebbe potuto firmare la mia condanna a morte.

«Mi dispiace, Isabel», ammisi, attorcigliandomi il filo del telefono intorno alle dita: «Come potevo sapere che il nostro brillante piano sarebbe stato sabotato da O'Bryen?»

A pronunciare quel nome una stretta fastidiosa mi strinse lo stomaco.

Forse avrei dovuto scusarmi anche con lui; per aver lasciato che la mia irrazionale paura di innamorarmi rovinasse il nostro primo bacio.

«A proposito, come sta?», chiese Sab.

«Meglio di qualche ora fa, un paio di giorni al massimo e sarà come nuovo», la rassicurai, sentendola sospirare di sollievo: «Meno male».

Per qualche secondo rimanemmo in silenzio.

Ero incantata a fissare mia sorella colorare e il modo concentrato con cui faceva attenzione a non uscire dai bordi, quando Sab parlò: «Alan mi ha chiesto di andare al cinema sabato pomeriggio».

Riuscivo a figurarmela, sdraiata sul divano, con un sorriso radioso in volto e gli occhi a forma di cuore persi a fissare il soffitto.

«E?», le chiesi, curiosa di sapere maggiori dettagli.

«E gli ho dovuto dire di no perché per colpa di qualcuno, di cui non ho intenzione di fare il nome coff, coff, Diana, coff, sono in punizione».

Era ufficiale, Isabel non mi avrebbe mai perdonato. Non solo le avevo indirettamente impedito di uscire col ragazzo con cui aveva ballato un lento la sera precedente, ma avevo anche spinto la signora Drake a bruciare il polpettone.

Ero una pessima amica.

Sospirai.

Sapevo cosa dovevo fare per farmi perdonare, ma non ero sicura di essere in grado di compiere un sacrificio simile. Mi grattai il mento, sperando che Isabel dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, per farmi capire che in fondo non era poi così arrabbiata.

Dal suo capo della linea giungeva solo silenzio.

«Indosserò un vestito», dissi, una smorfia schifata in faccia e gli occhi chiusi dallo sconforto: «Questo sabato, al plenilunio».

Sab trattenne il fiato per qualche secondo: «E metterai il rossetto che ti ho regalato a Natale».

Aprii bocca per protestare, poi mi resi conto che non potevo negoziare; dovevo farmi perdonare e se quello era l'unico modo in cui avrei potuto farlo, allora avrei accettato passivamente le sue condizioni.

«Va bene».

«Sì!», urlò Sab.

L'istante successivo sentii chiaramente qualcosa cadere a terra e la mia amica imprecare.

«Isabel?», chiamai, cercando di capire cosa fosse successo.

«Ora ti devo lasciare, ho fatto cadere a terra la tazza di latte e miele e se non pulisco in 0,2 secondi rischio che mamma se ne renda conto e...»

«Isabel Teresa Drake cosa diavolo...?», urlò la voce a dir poco adirata della signora Drake.

«Ci vediamo domani a scuola, forse», sussurrò Sab, poi concluse la chiamata.

Quando posai la cornetta, venni immediatamente intercettata da nonna, che mi chiese di aiutarla a preparare cena, mettendomi in mano il mestolo per girare la minestra, mentre lei preparava lo spezzatino di cervo, uno dei miei piatti preferiti. Prestai la massima attenzione ad ogni suo passaggio, cercando di memorizzare ogni minimo dettaglio. Dovevo approfittare della sua conoscenza per farmi insegnare tutto ciò che sapeva; così da essere poi in grado di cavarmela da sola una volta che fossi andata in giro per il Mondo.

«Nonna?», attirai la sua attenzione: «Mi insegni i tuoi segreti?»

Vidi nonna smettere di legare con spago da cucina la salvia, l'alloro e il rosmarino fresco, così da sollevare lo sguardo e puntarlo sul mio volto: «I miei segreti?»

«Sì, a riconoscere le erbe, crearci medicine e unguenti, a cucinare...», elencai, senza smettere di mescolare la minestra e fissandola con occhi colmi di supplica.

«Va bene», disse nonna, tornando a legare il mazzetto di erbe aromatiche: «Se vuoi, domani dopo scuola possiamo avere la nostra prima lezione».

Sbarrai gli occhi per la sorpresa e la contentezza: «Grazie!», esclamai, trattenendo a stento l'euforia.

«É giusto tramandare la mia conoscenza a qualcuno. Non vivrò per sempre e penso che tu, tra i tuoi fratelli, sia quella maggiormente portata per apprendere e portare avanti la tradizione che mia nonna aveva insegnato a me quando avevo la tua età. Prima di imparare però a riconoscere le erbe, faremo una lezione di storia, sulle origini del nostro popolo e sul perché vivere in armonia con la natura sia così importante, quasi necessario».

Alla parola "storia" sentii un po' del mio entusiasmo scemare, ma non mi persi d'animo e le sorrisi: «Va bene».

Pochi secondi dopo arrivò anche mamma a darci una mano, apparecchiando tavola.

«Questa settimana hai verifiche?», mi chiese, mentre disponeva i piatti.

«Ho un'interrogazione», dissi, ricordandomi della ricerca su Cernuda.

«Che materia?»

«Spagnolo», dissi, venendola annuire distrattamente.

«Domani non ci sarò a cena», disse mamma, portandosi le mani ai fianchi: «Io e tuo padre andiamo da Rice, a quanto pare facciamo un'ultima riunione pre-plenilunio per decidere i dettagli finali. Mi raccomando, mi aspetto che vi comportiate bene e che non facciate impazzire vostra nonna».

Aggrottai le sopracciglia, mettendomi sulla difensiva: «Perché lo dici solo a me?»

«Con tuo fratello e tua sorella ne ho già parlato», mi spiegò, sollevando gli occhi al cielo.

«Ah, va bene», dissi, annuendo.

Volevo chiederle più dettagli; più cose avrei saputo sulla festa di sabato (per esempio il numero di persone davanti alle quali mi sarei umiliata indossando un vestito) meglio mi sarei potuta preparare all'inevitabile catastrofe.

In quell'istante entrò in cucina mio fratello, il piatto che un tempo conteneva i biscotti era ormai vuoto e stretta in una sua mano. Quell'infame aveva anche il coraggio di sorridermi come se niente fosse.

Lo fulminai con lo sguardo: «Me la pagherai».

Mamma e nonna si lanciarono occhiate confuse, e vidi con nell'angolo del mio campo visuale sollevare le spalle e scuotere la testa confuse mentre cercavano di capire perché dovessi farla pagare a mio fratello.

Kyle appoggiò il piatto sul bancone della cucina, poi si portò una mano al cuore: era l'immagine dell'innocenza:«Sorellina, non capisco a cosa ti riferisci».

Sbuffai, colpendolo alla spalla sinistra: «Hai mangiato tutti i biscotti!»

Presa dalla furia, tentai di saltargli addosso e colpirlo in quella sua testa vuota, ma le mani di papà (che non avevo sentito arrivare) si appoggiarono sulle mie spalle, bloccandomi dov'ero.

«Cosa sta succedendo qua?», chiese, scompigliandomi i capelli e lanciando a Kyle un'occhiata indagatrice.

«Papà!», mi lamentai, tentando di sfuggire alla sua presa, ma lui mi strinse in uno dei suoi abbracci da orso, rischiando di soffocarmi con la sua mole e impedendomi per cinque lunghi secondi di fuggire.

Quando potei respirare e muovermi nuovamente, puntai l'indice contro Kyle: «Ha mangiato tutti i biscotti!»

Mamma scoppiò a ridere, seguita subito dopo dalla nonna. Traditrici.

Papà sorrise e mi scompigliò nuovamente i capelli: «Quando la smetterete di punzecchiarvi come quando eravate bambini? Pensavo foste cresciuti entrambi».

Aprii bocca per ribattere e fargli notare che era stato Kyle a rubarmi i biscotti, quindi il bambino era lui, non io, ma venni interrotta da Edith, che arrivò correndo con in mano un foglio e un sorriso radioso sulle labbra.

«Papà, guarda!», esclamò, mettendogli sotto al naso il disegno, che non potei fare a meno di sbirciare.

Sul foglio c'era disegnata, in modo abbastanza chiaro da essere sorprendete per essere frutto della manualità e fantasia di una bambina di otto anni, la camera in mansarda e due figure sul letto che si stavano baciando.

Sbarrai gli occhi e sfilai dalle mani di mia sorella il disegno, così da poterlo vedere bene.

Spostai lo sguardo su Edith: «Cos'è questo?», le chiesi, impedendo al resto della famiglia, che mi pressava da ogni lato, di dare anche solo una breve sbirciatina al disegno.

Mia sorella sfoggiò il suo sorriso più malefico, poi esclamò: «Diana ama Xavier! Diana ama Xavier!»

Tutti scoppiarono a ridere, Kyle riuscì a rubarmi di mano il disegno e scoppiò a ridere ancora più forte, mentre io fissavo la scena con un misto di orrore e vergogna, con le guance bollenti per l'imbarazzo.

Mamma e papà mi scrutarono con un sorriso malizioso che peggiorò ulteriormente la situazione.

Tutto ciò che riuscii a dire in mia difesa fu: «Edith ha fin troppa fantasia».

Nessuno però sembrò credermi.

 

**********

Ciao a tutti!

Scusate se vi ho fatto aspettare un po', ma non è stato facile scrivere questo capitolo (la scena del bacio è stata un'agonia per me come per voi, anzi, forse per me è stata addirittura più traumatica) 🙈

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di lasciarmi un commento per farmi sapere la vostra opinione!

Un bacio 😘

LazySoul

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Capitolo 15
*** Capitolo XV: Visite inaspettate ***


Capitolo XV: Visite inaspettate

 

Edith era andata avanti per tutta la durata della cena a riempire i silenzi con la sua vocetta squillante e odiosa, informando tutti di come la settimana successiva ci sarebbe stata l'inaugurazione di un nuovo parco giochi a pochi passi dalla scuola elementare che frequentava.

Mamma, per un incontro organizzativo con l'associazione di beneficenza per aiutare i senzatetto (della quale era l'orgogliosa vicesegretaria), non ci sarebbe potuta andare, mio papà lavorava fino a tardi il martedì e Kyle aveva già preso impegni per quel pomeriggio. 

Io e nonna ci guardammo per qualche istante, rassegnate; a nessuna delle due piaceva socializzare e l'apertura di un nuovo parco giochi equivaleva a dover intrattenere tediose conversazioni con madri sigle disperate e signore ammogliate altrettanto scontente della loro vita.

«Io mi vedo con Laurel martedì», disse nonna, facendo cadere l'intera tavolata in un silenzio di tomba.

«Laurie?», chiese papà, nello stesso istante in cui Kyle chiedeva: «Zia Laurel?»

Ero delusa da nonna, che mi stava tradendo, lasciandomi da sola all'inaugurazione del parco giochi, ma allo stesso tempo non potevo fare a meno di essere emozionata all'idea di rivedere, dopo tantissimo tempo, zia Laurel.

«Ha preso una stanza nella pensione della signora Jackson, si fermerà pochi giorni», spiegò nonna, prima di spostare lo sguardo su di me: «Ha detto che per il tuo diciottesimo compleanno non potrà esserci e che quindi ha deciso di anticipare la visita per farti gli auguri di persona».

«Davvero?!», esclamai, non riuscendo a stare ferma sulla sedia da tanta era l'emozione.

Mamma si alzò da tavola, attirando la mia attenzione; aveva in volto un'espressione a dir poco contrariata che non riuscivo a capire.

«Tesoro», la chiamò papà, seguendola in salotto e successivamente in corridoio.

Mi guardai intorno, confusa, notando il medesimo stupore nello sguardo di mia sorella e mio fratello.

Nonna sospirò e si alzò a sua volta, recuperando dalla credenza un bicchiere che riempì con dell'acqua fresca: «Vieni con me, Diana».

Abbandonai, a malincuore, lo spezzatino mangiato solo per metà e la seguii in corridoio.

Sentivo indistintamente mamma e papà discutere in camera loro, il loro tono di voce era però basso e mi impediva di capire effettivamente cosa si stessero dicendo.

Lanciai a nonna uno sguardo indagatore, ma lei scosse la testa, lasciandomi intendere che non mi avrebbe spifferato nulla — o almeno, non in quel momento.

Quando mi resi conto che stavamo salendo le scale, dirette alla mansarda mi bloccai, rischiando di mettere un piede in fallo e cadere. Mi appesi alla ringhiera per non rotolare giù per le scale e guardai con un misto di stupore e contrarietà nonna Diana.

«Non so se quello che ha disegnato Edith sia successo veramente o meno, ma tu e quel giovanotto dovete parlare e chiarirvi», disse nonna, mettendomi tra le mani il bicchiere: «Andare a dormire con i sensi di colpa o arrabbiati con qualcuno non è bello, fidati».

Aprii bocca, pronta a smentire le sue parole e a dirle che non era il mio caso, ma le parole mi rimasero incastrate in gola.

Nonna mi poggiò una mano sulla spalla: «Fai quello che pensi sia giusto», poi scese le scale e tornò in cucina.

Mamma e papà in camera loro continuavano a discutere, sentivo il brusio delle loro voci nelle orecchie, come una colonna sonora indesiderata, mentre io ero bloccata in mezzo alla rampa di scale con un bicchiere in una mano e un'espressione a dir poco combattuta in volto.

"Salgo o non salgo?"

Guardai i gradini, li contai — erano 12.

"Hai intenzione di rimanere impalata in mezzo alle scale ancora per molto?", mi chiesi infine, scuotendomi dalla mia immobilità.

Salii i gradini con passi decisi, quando in realtà avrei voluto soltanto correre in camera mia e nascondermi sotto il letto per una decina di anni.

Xavier mi stava aspettando — la spalla non era più insanguinata, ma era avvolta da uno strato di garza immacolata — e i suoi occhi chiari mi scrutavano con quella che sembrava indifferenza.

Aprii bocca, poi la richiusi e distolsi lo sguardo, cercando di elaborare una frase di senso compiuto.

«Ti ho portato dell'acqua», dissi.

Xavier chiuse gli occhi e distolse lo sguardo.

Non disse niente, ma non ne aveva bisogno. Era palese che portargli un bicchiere di acqua non sarebbe bastato per farmi perdonare. Potevo leggere chiaramente la delusione sul suo viso. Persino il suo odore aveva una punta di amarezza che non avevo mai percepito.

"... gli odori celano delle emozioni".

Finalmente le parole che mi aveva detto Xavier pochi giorni prima assumevano un significato.

Un fastidioso senso di nausea mi strinse lo stomaco in una morsa e percepii chiaramente il poco spezzatino che ero riuscita a mangiare, tentare di compiere il percorso inverso e risalire fino alla gola.

Appoggiai il bicchiere sul comodino, così da poter nascondere alla sua vista le mani che mi tremavano, portandomele dietro alla schiena. Presi un profondo respiro, e mi avvicinai, fino a quando il suo odore fu talmente forte e intossicante da farmi perdere contatto con la realtà.

«Mi dispiace», dissi, con un filo di voce.

Xavier prese un profondo respiro, muovendo il capo verso di me.

Quando i nostri occhi s'incontrarono capii di esser stata perdonata.

«Non ho intenzione di arrendermi», mormorò, l'intensità del suo sguardo era tale da farmi tremare dal desiderio e dal timore. 

«Lo so».

Rimanemmo a scrutarci per qualche istante, entrambi in silenzio.

Ricordandomi del bicchiere d'acqua, feci per porgerglielo, ma lui mi bloccò: «Non ho sete, berrò dopo».

Feci un passo indietro, pronta a fuggire, ma non riuscii a resistere e mi sporsi su di lui per dargli un bacio sulla fronte: «Buonanotte».

«Buonanotte, Diana», mormorò, contro la pelle della mia guancia.

Con lo stomaco stretto in una morsa dolorosa e piacevole allo stesso tempo, uscii dalla mansarda, chiudendomi la porta alle spalle.

Con un sorriso radioso scesi le scale, decisa a tornare in cucina e finire lo spezzatino che avevo abbandonato poco prima.

In corridoio incrociai Kyle, che stava fuggendo nella sua stanza con il piatto colmo di cibo.

«Non si mangia in camera», dissi, citando una delle regole di mamma, beccandomi come risposta un'occhiataccia e la linguaccia.

«Lo dico a mamma», gli dissi.

Ricordai solo in quell'istante — quando la nebbia mentale provocata dall'odore di Xavier si dissipò — la reazione di mamma alle parole di nonna e mi resi conto che non si sentivano più voci provenire dalla camera dei miei genitori.

Andai in cucina, curiosa di capire cosa fosse successo e trovai papà seduto a tavola, mentre Edith e nonna guardavano la tv in salotto.

Mi sedetti a tavola, scrutando il volto teso di papà per qualche sitante, prima di chiedergli dove fosse finita mamma, ricevendo come risposta un sospiro a dir poco tormentato.

Avrei voluto insistere, ma sapevo che papà, essendo una persona molto riflessiva — diversamente da me — aveva bisogno di qualche minuto per elaborare una frase.

Mentre attendevo mi dedicai allo spezzatino, ignorando il fatto che si fosse raffreddato; ero troppo affamata per curarmene.

«Laurie e tua mamma non sono mai andate particolarmente d'accordo», disse papà, posando le posate: «Sono entrambe orgogliose e testarde e faticano a trovare un punto d'incontro. Tua madre in questo momento è andata a fare una corsa nel bosco, aveva bisogno di stare un po' da sola». 

«Kyle è andato a mangiare in camera sua», feci la spia: «Mamma non vuole che...»

In quell'istante qualcuno suonò il campanello, sovrastando per pochi secondi il suono della mia voce.

Con la bocca piena di cibo mi alzai da tavola, seguendo papà in corridoio: «Chi potrebbe essere?», chiesi, rischiando di spargere bocconi di spezzatino ovunque: «Aspettiamo qualcuno?»

Papà aprì la porta, mostrando la figura incappottata e infreddolita della signora Jackson, accanto a lei si trovava Ann.

«Cora, a cosa dobbiamo questa visita?», chiese mio padre, facendosi da parte per permettere a madre e figlia di entrare. 

La zia e la cugina di Isabel sembravano entrambe sconvolte; tremavano per il freddo e avevano gli occhi sbarrati e i visi particolarmente pallidi.

«Mi dispiace disturbare a quest'ora», disse Cora Jackson, stringendosi nel cappotto: «Ann», chiamò la donna, facendo segno alla figlia di togliersi il cappotto.

La prima cosa che notai, appena mi concentrai sulla figura minuta della cugina di Sab, fu l'odore. Non aveva più la fragranza delicata e floreale che aveva sempre avuto, simile a quella di un semplice umano; ora il suo odore era forte e molto più simile a quello di una ragazza lupo. 

La signora Jackson aveva le lacrime agli occhi mentre fissava mio padre e annuiva con vigore: «É successo un paio di ore fa».

«É una bellissima notizia», disse papà, scortando le nostre ospiti in salotto e facendole accomodare: «Com'è successo?»

«Stavamo facendo una passeggiata nel bosco, solo io e Ann», iniziò il racconto la signora Jackson, la mano stretta intorno alla spalla della figlia, quasi volesse assicurarsi costantemente di averla accanto: «Mi sono fermata a raccogliere dei funghi lungo il cammino, mentre Ann è andata avanti, seguendo il sentiero. Quando l'ho sentita urlare pensavo fosse stata attaccata da qualcuno; ho pensato...», la voce le si spezzo, lo sguardo perso nel vuoto: «Ho temuto fosse stato quel randagio, l'assassino», disse con tono spaventato, spostando lo sguardo da me a mio padre: «Invece, quando l'ho raggiunta mi sono resa conto che in realtà stava avendo la sua prima trasformazione».

«Sabato, durante il plenilunio, verrà presentata a tutti gli effetti come nuovo membro del nostro branco», disse papà, con il tono solenne che utilizzava sempre quando prendeva il sopravvento l'Alpha che era in lui.

Nonna arrivò in quell'istante, dopo aver portato Edith a letto, e si unì a noi, scrutando Ann con occhi curiosi: «Ti preparo una tisana che ti rimetterà in forze, devi essere stanca».

«Grazie», mormorò Ann, voltando il capo verso il corridoio.

Kyle entrò in salotto con la bocca piena e il piatto vuoto tra le mani, aveva i capelli disordinatamente legati in uno chignon e le guance sporche di cioccolato.

Guardò confuso le nostre ospiti e, con sommo imbarazzo di tutti, rimase a bocca aperta, mostrandone il contenuto, a fissare la figura minuta di Ann per quelli che parvero secoli.

«Fai schifo», gli dissi, lanciandogli contro uno dei pennelli che Edith aveva lasciato sul tavolo del salotto, intorno al quale eravamo tutti seduti.

Le mie parole e il pennello — che gli arrivò contro la spalla — lo riscossero abbastanza da chiudere le fauci e mostrarsi imbarazzato: «Scusate, non sapevo avessimo ospiti».

Kyle continuava a tenere lo sguardo fisso su Ann, sembrava vederla per la prima volta.

L'avevo guardata anche io così quando avevo sentito poco fa il suo nuovo odore da lupo?

«Ciao», disse mio fratello, guardando Ann dritto negli occhi, poi spostò il capo verso Cora Jackson, gli occhi ancora incollati a quelli di Ann: «Buonasera».

«Il piatto va nella lavastoviglie», gli feci notare, beccandomi come risposta un'occhiataccia.

Kyle scomparve in cucina per qualche secondo, portando con sé l'imbarazzo che era calato in salotto. 

«Diana», attirò la mia attenzione papà: «Ti dispiacerebbe aiutare Ann nei prossimi giorni, nel caso dovessi vederla in difficoltà? Magari potreste vedervi fuori scuola».

«Se non ricordo male sono in punizione e non posso invitare amiche a casa», gli ricordai, aggrottando le sopracciglia. 

Perché glielo avevo ricordato?

"Perché sei stupida, ecco perché".

«Posso pensarci io!», esclamò Kyle, sedendosi a tavola accanto a me, un sorriso radioso a illuminargli il volto e alcune ciocche di capelli a incorniciargli il volto. 

Aprii bocca per fargli notare le macchie di cioccolato sulle guance, ma in quell'istante capii cosa stava probabilmente succedendo e un sorriso crudele mi increspò le labbra: «Non penso sia una buona idea. Forse Isabel è la persona più adatta per questo compito».

Papà annuì: «Sono d'accordo. Cosa ne pensi Cora?»

Kyle mi conficcò il gomito nelle costole, mostrandomi quanto avesse gradito il mio intervento.

La donna annuì, spostando lo sguardo sui presenti con aria smarrita: «Cominciavo a temere che questo giorno non sarebbe mai arrivato», disse, gli occhi traboccanti di lacrime non versate.

Mio padre scosse la testa, il volto colmo di compassione, mentre io mi massaggiavo il fianco dolorante e nascondevo il sorriso crudele dietro alla mano. 

Era palese che mio fratello fosse interessato a lei, probabilmente era stato il suo odore da lupa, diverso da quello che aveva avuto fino al giorno prima, ad attirare la sua attenzione. O forse c'era sempre stata dell'intesa tra loro due e io non me n'ero mai resa conto?

«Alla piccola Ann serviva solo un po' di tempo in più», disse nonna, portando con sé un vassoio con due tazze di tè fumanti; una per la signora Jackson e l'altra per la figlia: «Come ti senti cara?»

La ragazzina aveva le guance arrossate, forse per l'imbarazzo o forse a causa della timidezza: «Bene, credo».

Nonna annuì: «I primi tempi saranno i più duri», fece una breve pausa, guardando Kyle e me per qualche secondo: «Prendi mio nipote ad esempio; era terrorizzato all'idea di far del male ad altre persone o alla sua sorellina».

Mio fratello sfoggiò un sorriso imbarazzato: «Ah, sì? Non ricordo».

«Oh», dissi, gettandogli un braccio intorno al collo: «Che tenerone che sei!»

Le guance di Kyle si fecero incandescenti, mentre cercava — con scarsi risultati — di liberarsi dalla mia presa ferrea.

«Levati!», esclamò a fior di labbra, facendo scoppiare a ridere nostro padre: «Quand'è che crescerete, voi due?»

«Forse sarebbe meglio organizzare, magari per domani pomeriggio, un breve incontro con il branco. Così da informarli, prima del plenilunio di sabato, della lieta notizia», disse papà, tornando a sfoggiare la sua espressione seria da Alpha.

Un sorriso radioso mi illuminò il volto. Adoravo le riunioni con il branco; spesso e volentieri volevano dire lunghissimi pomeriggi passati a chiacchierare con Sab, in camera mia, mentre i grandi discutevano di cose serie e — la maggior parte delle volte — noiose. In quel caso la mia adorazione era a dir poco raddoppiata perché quella riunione sarebbe stata la scusa perfetta per passare un pomeriggio con la mia migliore amica malgrado la punizione impostami dai miei genitori.

«Così all'ultimo minuto dubito che riusciremo ad esserci tutti», fece notare nonna, mentre prendeva posto sul divano, dove l'attendeva il suo lavoro all'uncinetto.

«Hai ragione, ma qualcuno ci sarà, almeno un rappresentante per famiglia», borbottò papà, mentre si grattava la barba con fare pensieroso: «Armand, Daisy e Timothy dovrebbero esserci...»

«Io sono ancora dell'opinione che creare un gruppo whatsapp del branco sia una buona idea», disse Kyle, che era riuscito a liberarsi dalla mia presa intorno al collo, e ora stava scrutando con occhi incuriositi Ann, la quale teneva lo sguardo basso.

«Non tutti sono tecnologici come voi delle nuova generazione», gli fece notare papà: «Non penso che al signor Montgomery l'idea piacerebbe».

Cora sorrise tristemente: «Saranno un paio di pleniluni che non si fa vedere, come sta?»

Papà scosse il capo: «Tira avanti».

Robert Montgomery aveva perso la moglie una settimana prima di Natale, da quel momento si era fatto vedere una sola volta, durante la cerimonia organizzata per dire addio alla moglie defunta, poi aveva ignorato i pleniluni successivi, preferendo rimanere in casa da solo.

In quel momento la porta sul retro si aprì.

Mamma era sulla soglia, la fronte aggrottata e i capelli umidi che le incorniciavano il volto: «Sta iniziando a piovere», disse, prima di notare Cora e Ann e sorridere agli ospiti: «Ciao, Cora! Tutto bene? A cosa dobbiamo questa visita?»

«Ann, questo pomeriggio, si è trasformata per la sua prima volta», disse papà.

Il sorriso di mamma si allargò ulteriormente: «Questa è una bellissima notizia».

I cinque minuti successivi furono riempiti dalla voce di mio padre che faceva un riepilogo di quanto accaduto, così da aggiornare mamma.

«Penso che Cora sia la persona più indicata per aiutare Ann a comprendere cosa voglia dire essere parte di questo branco e come comportarsi d'ora in avanti per non farci scoprire. Isabel, Diana e Francine saranno di supporto all'interno dell'ambiente scolastico», disse mamma, sedendosi alla destra di papà. Quando i suoi occhi si posarono su Kyle e me, notai nel suo sguardo una tristezza che non scorgevo da molto tempo.

Mi chiesi cosa fosse successo con zia Laurel di così terribile da portare mamma a reagire in modo così strano alla notizia di una sua breve visita.

«Kyle, sei sporco di cioccolato», gli fece notare mamma, facendo ridere me e papà sotto i baffi, mentre mio fratello correva in bagno a lavarsi.

«É tardi, ne parleremo poi domani pomeriggio, quando ci saremo riuniti», disse papà, alzandosi — seguito da Cora, Ann e Kyle.

«Domani? Prima della cena da Rice?», chiese mamma, con la fronte aggrottata.

«Oh, mi ero completamente dimenticato della cena!», ammise papà, portandosi una mano alla fronte.

«Prima del plenilunio sarà dura incontrarci tutti, direi di rimandare a sabato, quando saremo sicuri che tutto il branco sarà presente per la luna piena, dubito che qualcuno si lamenterà di non averlo saputo prima», disse mamma, alzandosi in piedi e seguendo gli altri che si stavano dirigendo verso l'ingresso: «Cora, nel caso dovessi aver bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, sai benissimo che puoi contare su di noi, non ti fare scrupoli», aggiunse mamma, baciando la donna sulla guancia destra e sorridendole con affetto.

«Grazie, Rachel, sei molto gentile», disse la mamma di Ann, prima di salutare e augurare la buona notte a tutti, seguita a ruota da Ann. Kyle era a due passi dalla ragazza e approfittò dell'istante di confusione dovuto ai saluti finali e ai baci e abbracci per avvicinarsi ulteriormente e annusare il nuovo e particolare odore di Ann.

Decisi che gli avrei parlato al più presto; non poteva fare il maniaco in quel modo e poi non aspettarsi di spaventare qualcuno — per esempio Ann. 

Appena le nostre ospiti se ne furono andate, mamma sospirò.

«Una buona notizia ogni tanto», disse, prima di andare in cucina: «Grazie per aver sparecchiato, Diana», aggiunse con tono sarcastico, minacciandomi con un mestolo: «Mai una volta che prendiate l'iniziativa per aiutarmi».

«Perché il plurale?», chiese Kyle: «Io che c'entro? Ho messo il mio piatto nella lavastoviglie».

«Sì, ma sei andato a mangiare in camera, e sai che mamma non vuole», dissi, decidendo di vendicarmi per la gomitata che mi aveva tirato poco prima.

«Kyle!», esclamò mamma, puntando il mestolo verso di lui: «Quante volte te lo devo dire?! Non voglio che mangiate in camera!»

Felice di esser riuscita, per una volta, a scampare all'ira di mamma, fuggii — non sentendo cosa avesse da dire Kyle in sua difesa — così da non rischiare di essere ripresa a mia volta o di dover sparecchiare.

Durante la notte dormii poco e male. Continuavo a rigirarmi, non trovando una posizione comoda.

Continuavo a pensare all'imminente arrivo di zia Laurel e al modo in cui aveva reagito mamma alla notizia.

Pensavo inoltre all'interrogazione di spagnolo, che avrei dovuto sostenere nell'arco di pochi giorni ed ero preoccupata all'idea di non riuscire a dare il massimo.

Poi non potevo fare a meno di chiedermi se Xavier, al piano di sopra stesse dormendo. Forse se avessi avuto la sua maglietta sotto il cuscino sarei riuscito ad addormentarmi prima, o forse no.

Quando suonò la sveglia, mi resi conto di essere più stanca di quando lo fossi la sera prima e un grugnito sconsolato mi sfuggì dalle labbra.

«Diana!», urlò la voce di mio fratello dal corridoio: «Ti vuole la nonna!»

Finii di vestirmi in pochi secondi e, corsi in salotto con una scarpa addosso e l'altra tra le mani. Nonna mi aspettava con un vassoio della colazione tra le mani: «Portalo a O'Bryen, io devo correre ad aiutare tua mamma...», borbottò qualcosa che non riuscii a decifrare e con un sospiro rassegnato afferrai il vassoio, abbandonando in salotto la scarpa che dovevo anche indossare. Salii le scale di fretta e bussai lievemente alla porta prima di entrare.

Xavier stava ancora dormendo, era sdraiato sul fianco destro e aveva le labbra leggermente socchiuse.

Cercando di non fare rumore mi avvicinai a lui e appoggiai il vassoio della colazione sul comodino accanto al letto.

«Diana», sussurrò, facendomi sussultare per la sorpresa.

Quando spostai lo sguardo su di lui, incontrai i suoi occhi ancora appannati dal sonno.

«Buongiorno», dissi, sorridendogli: «Ti ho portato la colazione».

Xavier allungò il braccio sinistro e mi avvolse i fianchi, facendomi cadere sul letto accanto a lui: «Grazie, sei stata molto gentile», mormorò, mettendosi a sedere con maggiore scioltezza rispetto al giorno prima.

«Vedo che stai molto meglio», gli dissi, mentre tentavo di divincolarmi dalla sua stretta; più forte di quanto pensassi.

Le sua labbra si appoggiarono sulle mie per un istante, poi si allontanarono, lasciando dietro di sé una dolorosa sensazione di vuoto. Lui rimase a guardarmi, scrutandomi come se volesse studiare ogni mia mossa.

Per quanto volessi colmare le distanze e baciarlo a mia volta non ne ebbi il coraggio e decisi di rimanere immobile, in attesa della sua mossa successiva.

«Posso chiederti un favore?», mi chiese, sfoggiando le sue fossette irresistibili.

«Dipende», risposi, sollevando un sopracciglio, incuriosita dalla sua richiesta.

«Mi passeresti quel borsone, quello accanto all'armadio?», domandò, allentando la presa intorno alla mia vita, così da permettermi libertà di movimento.

«Va bene», acconsentii, zampettando per la stanza in modo impacciato a causa della scarpa mancante.

«Perché sei per metà scalza?», mi chiese Xavier, ridendo della mia goffaggine.

«Ero di fretta e non ho avuto tempo di mettere l'altra scarpa», ammisi, sollevando il borsone.

«Quanto pesa!», borbottai, lasciandolo cadere sul materasso, alla sua sinistra: «L'hai riempito di pietre?», chiesi, facendolo ridere.

«Di mattoni», rispose, facendomi l'occhiolino: «Riuscirai a sopravvivere?», mormorò con un'espressione seria in volto.

Aggrottai le sopracciglia: «Sopravvivere?»

«Oggi, a scuola, senza di me».

«Penso di potercela fare», risposi, sollevando gli occhi al cielo: «Hai intenzione di aprirlo o no?», chiesi, con tono impaziente, indicando col mento lo zaino.

Sul volto di Xavier comparve un sorriso divertito: «Tu non dovresti correre a prepararti? Rischi di perdere l'autobus».

Aprii bocca per ribattere e fargli notare che avevo ancora tempo, poi però mi resi conto che lo stava facendo apposta; voleva soltanto che io ammettessi di essere curiosa. Voleva che confessassi di voler stare ancora lì con lui. Cosa che non avrei fatto; non avevo intenzione di giocare al suo gioco.

«Hai ragione, devo scappare, buona giornata!», gli dissi, circumnavigando il letto per dirigermi alla porta.

Xavier sembrò inizialmente deluso, poi sorrise: «Buona giornata anche a te, Diana».

Mi pentii di non essere rimasta ancora un po', giusto il tempo di scoprire cosa contenesse lo zaino, appena misi piede fuori dalla stanza. Ero certa che la curiosità mi avrebbe divorata viva tutto il giorno, ma ormai quello che era fatto era fatto, non avrebbe avuto senso tornare indietro. L'avrei tartassato di domande una volta tornata a casa, quel pomeriggio stesso.

Scesi le scale e recuperai la scarpa che avevo abbandonato in salotto, infilandomela in pochi secondi, poi entrai in cucina, dove mamma stava preparando il pranzo al sacco per papà, Kyle stava sorseggiando il suo caffè e papà stava leggendo il giornale.

«Buongiorno a tutti», li salutai distrattamente, con la mente ancora persa a valutare cosa ci sarebbe potuto essere all'interno del borsone di Xavier. Dal peso avrei quasi detto che contenesse libri, ma perché lasciarli nella borsa e non sistemarli sulla scrivania che aveva in camera?

Mamma mi mise di fronte una tazza di caffè fumante e un vassoio colmo di muffin al cioccolato.

Con gli occhi che mi brillavano la ringraziai, addentando il dolce più vicino.

Mamma sembrava più serena rispetto alla sera prima e canticchiava "Jingle Bells" mentre versava nella tazza di papà l'ultimo goccio di caffè.

«L'autobus passa tra cinque minuti», mi avvisò Kyle.

Annuii distrattamente, stregata dalla bontà dei muffin preparati da mamma.

Finii il caffè in pochi secondi, scottandomi la lingua, poi baciai mamma sulla guancia, sporcandola di cioccolato: «Buona giornata», dissi, prima di correre in camera a recuperare giacca e zaino.

Raggiunsi Kyle alla fermata giusto in tempo e mi sedetti accanto a lui al nostro solito posto sull'autobus.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, poi con un sorriso malizioso e un sopracciglio sollevato, mi voltai verso di lui: «Ann, eh?»

Kyle chiuse gli occhi e sbuffò: «Non capisco a cosa tu ti stia riferendo».

«Certo, fingerò di crederci», dissi, ridendo sotto i baffi.

Per il resto del viaggio ci ignorammo, fino a quando arrivammo alla sua fermata.

«Divertiti oggi a scuola», mi salutò, scompigliandomi i capelli.

«Saluterò Ann da per tua», gli urlai dietro, facendogli alzare gli occhi al cielo mentre scendeva i gradini del bus.

Sab mi lanciò un'occhiata incuriosita appena prese il posto di Kyle alla mia destra: «Ann mia cugina?»

«Sembra che Kyle sia interessato a lei. Ieri sera Cora e Ann sono venute dopo cena a darci la buona notizia e mio fratello ne ha approfittato per fissare tua cugina per tutto il tempo, peggio di un maniaco», la informai ridacchiando.

«Un po' come fa Xavier O'Bryen con te?»

Sbuffai e colpii Isabel al braccio: «Cretina».

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI: L'origine della specie ***


Capitolo XVI: L'origine della specie

 

Quando tornai a casa quel pomeriggio, trovai nonna in salotto, seduta sul divano a sfogliare una rivista di giardinaggio. 

La salutai distrattamente, mentre abbandonavo lo zaino a terra e la giacca sulla sedia più vicina. Ero intenzionata a rubare uno dei muffin al cioccolato che si trovavano ancora in bella mostra sul tavolo della cucina, fare i pochi compiti che mi erano stati assegnati e poi correre in mansarda, dove speravo di trovare Xavier di buon umore e pronto a rispondere alle domande che mi ero preparata, aiutata da Sab. Avevo sollevato l'argomento "borsone" una ventina di volte, portando Isabel all'esaurimento; tanto che alla ventunesima volta mi aveva interrotta, cambiando bruscamente argomento. 

Durante la prima ora buca (dovuta alla mancanza di O'Bryen), avevamo parlato di Alan, di Ann e di Michel. 

Isabel, malgrado cercasse di non darlo troppo a vedere, era ancora abbattuta per l'invito ad uscire che il giovane Picard aveva rivolto a me e non a lei. Forse era anche arrabbiata con me per aver accettato, ma mi piaceva pensare che principalmente fosse delusa dal comportamento di colui che credeva essere l'amore della sua vita, piuttosto che dalla mia impulsività. 

Per fortuna Alan stava cominciando a farle dubitare che il legame tra lei e Michel fosse poi così forte. Sab mi aveva parlato a lungo dei messaggi che si erano scambiati, lei e Truce, facendomi leggere qualche spezzone di conversazione con gli occhi lucidi dall'emozione. Sembrava che Alan fosse proprio il bravo ragazzo che avevo sempre pensato essere e l'idea che gli piacesse la mia migliore amica non mi dispiaceva. Speravo solo di non dovermi ricredere. Non mi piaceva l'idea di vedere, nuovamente, Sab soffrire per un ragazzo; inoltre l'idea di castrare Alan non era particolarmente entusiasmante.

Isabel era rimasta in ansia per tutta la mattinata, incerta su come comportarsi con Truce una volta che l'avrebbe visto a scuola. Era a dir poco insopportabile mentre elencava tutti i possibili scenari in cui ci saremmo potute imbattere.

«E se dovesse fingere di non conoscermi? E se invece non fosse entusiasta come me all'idea di vedermi? Penso che abbia capito che non posso uscire con lui sabato perché sono in punizione, ma se invece si fosse offeso per il mio rifiuto? E se...?»

Era stato il mio turno di zittirla, dicendole che si stava facendo tanti problemi per qualcosa che esisteva solo nella sua testa.

Infatti Alan non l'aveva ignorata e non aveva mostrato in nessun modo di essersi offeso per il suo rifiuto, sedendosi al nostro stesso tavolo durante la pausa mensa, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Lui e Sab avevano passato il pranzo a chiacchierare e a scambiarsi sguardi dolci, entrambi con le guance accese dall'emozione e i cuori che singhiozzavano a ritmi irregolari nel petto.

Io avevo invece approfittato della pausa pranzo per chiacchierare con Ann e Frida, chiedendo a quest'ultima se si sentisse pronta per l'interrogazione di spagnolo che avremmo avuto nel giro di qualche giorno. 

Verso la fine del pranzo un paio di amici di Alan si erano imbucati al nostro tavolo, mentre Frida era fuggita in biblioteca (per approfittare - a detta sua - dell'ambiente deserto per cercare il libro che le serviva).

Fu naturale iniziare a parlare del plenilunio di sabato, considerando che avevamo composto involontariamente un'intera tavolata di lupi. Uno degli amici di Alan, Diego, ne aveva approfittato per chiedermi informazioni personali su Francine e io non mi ero lasciata pregare, raccontandogli qualche aneddoto sulla fredda ragazza senza cuore che un tempo si era finta mia amica.

Truce ci aveva raccontato inoltre di come l'Alpha Rice fosse preoccupato che il lupo solitario si presentasse al plenilunio per creare ulteriore scompiglio. Quel pensiero, per quanto assurdo, mi aveva tormentato per tutto il giorno, quasi quanto la questione "borsone".

Stavo addentando un muffin al cioccolato quando sentii la macchina di mamma parcheggiarsi nel vialetto. Sorrisi e continuai a godermi il dolce, mentre guardavo la nonna persa nella sua rivista di giardinaggio.

«Cosa leggi?», le chiesi, tirando fuori dalla cartella i libri e i quaderni, pronta a fare i compiti.

«Le proprietà terapeutiche della camomilla», disse, senza alzare lo sguardo dalla rivista: «Non che non le conosca già a memoria, ma spero sempre di trovare qualcosa di nuovo che mi sorprenda».

Risi, finendo il muffin in un boccone, mentre sentivo la porta d'ingresso aprirsi.

«Sono a casa!», annunciò la mamma con entusiasmo.

La sua spensieratezza alimentò ulteriormente il mio buon umore.

Le diedi una mano a sistemare la spesa nella credenza, poi dedicai tutta la mia attenzione ai compiti, finendoli in pochi minuti.

«Pronta per la nostra lezione?», chiese nonna, sedendosi a tavola accanto a me con un sorriso a illuminarle il volto. Sembrava sinceramente felice di condividere con me tutta la sua conoscenza centenaria e io non potevo fare a meno di sentirmi onorata.

«Certo! Vado solo a cambiarmi un attimo», dissi, alzandomi.

Le mie intenzioni vennero però interrotte dal suono del campanello d'ingresso.

La mamma mi precedette, andando a vedere chi fosse, prima che io potessi fermarla.

«Michel, caro! Prego, entra», disse mamma, facendomi perdere tutto il buon umore di poco prima.

Picard entrò in casa con aria circospetta, indossava dei pantaloni eleganti e una camicia bianca sotto a un maglione grigio; aveva proprio l'aria del bravo ragazzo che spera di poter passare un piacevole pomeriggio con una brava ragazza.

«A cosa dobbiamo questa visita?», chiese mamma, accompagnando Michel fino alla sala, dove io ero ancora in piedi accanto a nonna.

Avrei tanto voluto fuggire in camera mia, così da evitare l'imbarazzo di dover dire a mia mamma il motivo per cui Picard era in casa nostra, ma il mio cavaliere mi precedette, risparmiandomi la seccatura.

«Sono venuto a prendere Diana», disse, sorridendomi con sicurezza.

Il volto di mamma sbiancò leggermente, mentre guardava me e poi Michel con aria smarrita.

«Ti ha invitata ad uscire?», mi chiese alla fine, il tono di voce leggermente infastidito.

«Sì, sabato, alla festa», le dissi, annuendo.

«Perché non me ne hai parlato, tesoro?», insisté, incrociando le braccia al petto con fare dispiaciuto.

«Sinceramente avevo altro per la testa e poi sono in punizione, ricordi?», le dissi con un sorriso fintamente triste, prima di voltarmi verso Michel: «Mi dispiace Picard, ma sono in punizione e non posso uscire e avere una vita sociale fino a sabato», gli spiegai sollevando le spalle con aria rassegnata.

Ero pronta a ricevere l'Oscar per la recitazione.

Non ero mai stata così brava a fingermi dispiaciuta, meritavo come minimo un riconoscimento per la mia performance da standing ovation.

Nonna, ancora seduta, sorrideva con aria furbesca, mentre sfogliava la rivista di giardinaggio.

Mamma guardava Michel con aria dispiaciuta, mentre quest'ultimo sembrava non credere alle mie parole e mi scrutava con un sopracciglio sollevato.

«Sei seria, Diana?», mi chiese, dopo qualche secondo di silenzio.

«Temo di sì», ammisi: «Sarà per un'altra volta».

Michel mise il broncio, abbassando la testa, abbattuto.

Per qualche secondo mi dispiacque sinceramente per lui, poi mi ricordai delle parole di Francine alla festa di Ling e mi sentii davvero una pessima persona.

«Picard, penso che sia meglio così», ammisi, caricandomi la cartella in spalla: «Sappiamo entrambi che avrei reso l'appuntamento un incubo per entrambi perché mi hai convinto ad accettare facendo leva sul mio orgoglio e la mia impulsività. E non perché volessi davvero uscire con te», dissi, sospirando: «Ho cercato di dirtelo sabato: siamo sempre stati ottimi amici e non ti vedo come qualcosa di più».

Mi avvicinai a lui, appoggiando una mano sulla sua spalla: «Scusami», dissi, abbracciandolo velocemente, lasciandomi avvolgere dal suo odore. Quell'odore che non mi faceva perdere il contatto con la realtà come faceva quello di Xavier, ma mi ricordava la mia infanzia; la spensieratezza e l'innocenza con cui giocavamo insieme nel bosco, inventandoci avventure e sfide, mai stanchi e sempre col sorriso sulle labbra.

Michel annuì distrattamente e, senza alzare lo sguardo, salutò mia mamma e nonna, poi si diresse con passo incerto verso l'ingresso.

Lo guardai mentre usciva di casa e non potei fare a meno di sentirmi una stronza.

Non avevo mai voluto giocare coi suoi sentimenti, non era mai stata mia intenzione. L'avevo sempre trattato come il mio secondo fratello maggiore, lanciandogli frecciatine e scherzandoci con genuinità, proprio come avevo sempre fatto con Kyle. Mai avrei pensato che potesse interpretare il mio affetto per amore.

«Sei sicura, Diana?», chiese mamma, poggiandomi una mano sulla spalla: «Sei ancora in tempo per corrergli dietro».

«Sì, sono sicura», dissi, sorridendole tristemente.

Mamma annuì: «La scelta è solo tua», mi disse, accarezzandomi la guancia: «Stai bene?»

«Sì, mamma», le sorrisi: «Ora che le cose si sono chiarite, mi sento molto meglio».

"Anche se mi dispiace che siano andate in questo modo", pensai, sospirando appena.

«Gli passerà?», chiesi, mordendomi il labbro, mentre scrutavo il viso colmo di apprensione di mamma.

«Gli ci vorrà del tempo», disse, carezzandomi gentilmente i capelli: «Ma sono sicura che sì, gli passerà».

Annuii distrattamente, poi abbracciai mamma, rendendomi conto che era da molto tempo che non lo facevo e che le sue braccia mi erano mancate.

«Vado a cambiarmi», annunciai, abbozzando un sorriso.

Mi sistemai meglio lo zaino a spalle e recuperai la giacca che avevo abbandonato su una sedia, prima di andare in camera.

Sfilai le scarpe per infilare le mie ciabatte pelose, poi indossai i pantaloni della tuta grigi e un maglione.

Osservai a lungo il mio riflesso nello specchio, mordendomi il labbro inferiore e spostando lo sguardo dal mio occhio grigio a quello color nocciola. 

Ero convinta di essermi comportata bene con Michel. Certo, forse avrei dovuto essere più dura durante la festa di sabato ed evitare di accettare il suo invito ad uscire. Di sicuro così facendo avrei evitato di alimentare ulteriormente le sue speranze. Sapevo che Francine mi avrebbe come minimo insultato il giorno successivo a scuola; anche se voleva sempre passare per la regina di ghiaccio, teneva molto a suo fratello maggiore.

Pensare a Francine mi fece sentire ancora più abbattuta.

Mi sarebbe piaciuto riallacciare i rapporti con lei. Sapevo che non tutto era perduto e che dietro alle barriere che aveva eretto intorno a sé, esisteva ancora la bambina dai capelli color miele che si divertiva a fare la principessa da salvare, mentre Sab interpretava il cavaliere dall'armature scintillante che la soccorreva e io l'uomo malvagio che l'aveva imprigionata. Ero certa che mi sarei dovuta impegnare molto per tornare ad esserle amica, ma le sfide non mi spaventavano ed ero pronta a fare il primo passo verso la riconciliazione.

Tornai in salotto, dove la nonna mi aspettava con un sorriso in volto: «Pronta per la prima lezione?», mi chiese.

Non potei impedirle di contagiarmi con il suo entusiasmo e annuii, sedendomi accanto a lei a tavola, dove nonna Diana aveva appoggiato quello che sembrava un libro molto antico e rovinato dagli anni.

«Cos'è?», chiesi, allungando le mani per afferrarlo, ma nonna fu più veloce e allontanò il volume.

«Questo l'ha scritto la tua trisnonna, ossia la mia nonna paterna», disse, sfiorando la copertina del libro con delicatezza: «Si chiamava Dahlia e in queste pagine troverai tutto quello che c'è da sapere su piante e fiori del sottobosco, sui funghi e gli ortaggi, su alberi da frutto e arbusti».

«La tua trisnonna era molto brava a disegnare e ha raffigurato in queste pagine tutte le specie vegetali di cui parla, indicando anche la stagione, il mese o le condizioni in cui la si può trovare più facilmente. Come, dopo averlo concluso, Dahlia ha passato questo testo a me, io ora lo regalo a te. All'interno ci troverai anche alcune mie note a margine e potrai aggiungerne a tua volta».

Allungai le mani e in un moto di impazienza e curiosità, strinsi quel volume tra le dita, sentendo la consistenza ruvida della copertina e percependo con più chiarezza l'odore di pergamena e inchiostro vecchio che ne impregnava le pagine.

«Trattalo bene, mi raccomando», disse nonna, sorridendomi con affetto.

Annuii, gli occhi mi brillavano mentre aprivo il volume.

Sulla prima pagina spiccava in una scrittura corsiva ed elegante il nome della mia trisnonna:

Dahlia Annette Lefevre, poco sotto quello di mia nonna: Diana Amalia Harris.

Nelle pagine successive potei constatare come la trisnonna Dahlia avesse davvero una bella scrittura, elegante ma facilmente leggibile, oltre ad avere una vera e propria predisposizione al disegno. 

«E tienilo lontano da tua sorella», aggiunse nonna, col sorriso sulle labbra: «É ancora piccola, penserebbe che sia un libro da disegnare e non ci penserebbe due volte prima di pasticciarlo con le tempere o i pastelli».

Risi, annuendo: «Tenere lontano dalla portata dei bambini, chiaro».

Chiusi il volume e sbirciai con la coda dell'occhio in cucina, dove mamma stava sorseggiando un caffè con lo sguardo perso nel vuoto; aveva un sorriso triste sulle labbra sottili e mi chiesi a cosa stesse pensando.

«Mamma, tutto bene?», le chiesi, incapace di trattenere la mia curiosità.

La vidi riscuotersi e sorridermi: «Stavo ricordando quando anche io, alla tua età, mi feci raccontare da mia nonna tutte le leggende che circolano sul nostro conto», posò il caffè e ci raggiunse in salotto, sedendosi accanto alla nonna: «Posso assistere?»

Nonna annuì con sguardo serio: «Bene, direi di partire dall'inizio», disse: «Ci sono diverse leggende a proposito dell'origine della nostra specie, molte si contraddicono tra loro, altre sono assurde e altre ancora poco credibili. Oggi ti racconterò quelle che sono considerate più attendibili. La prima dice semplicemente che Dio, allo stesso modo in cui ha creato la razza umana e tutte le altre specie animali, ha creato anche noi. Se vuoi sapere la mia opinione è troppo semplicistica, non scende nei dettagli e lascia piuttosto insoddisfatti. Un'altra leggenda è legata alla mitologia greca: Licaone, primo re di Arcadia, uccideva persone innocenti e commetteva crimini afferrati, per questo Zeus punì Licaone, trasformandolo in un lupo mannaro». 

«Con l'avvento del Cristianesimo e la sua diffusione in tutta l'Europa le leggende popolari legate alla figura del lupo mannaro, che non sempre erano viste con negatività, acquisirono una connotazione malefica. La metamorfosi da uomo a lupo e viceversa veniva attribuita a capacità magiche, oppure come conseguenza di azioni dai poteri portentosi. Come per esempio: il bere acqua piovana raccolta nelle orme di un lupo, l'annusare essenze concentrate estratte dalle loro pelli, il pronunciare per tre volte il nome di un altro lupo mannaro dopo essersi tolti i vestiti e aver orinato intorno a essi, aver assunto dosi di aconito, una pianta velenosa dalle foglie verde scuro particolarmente diffusa nelle aree montagnose. In talune occasioni, il cristianesimo etichettò la licantropia come punizione divina, per esempio quando secondo l'agiografia di San Patrizio d'Irlanda, il santo tramutò in lupo Veretius, il re del Galles.»

L'ingresso in salotto di mio fratello interruppe il racconto di nonna: «Ciao a tutti!», esclamò, sorridendo da orecchio a orecchio: «Che fate di bello?»

«Nonna mi sta raccontando l'origine della nostra specie», dissi, osservando la curiosità sul volto di mio fratello tramutarsi in noia.

«Allora vi lascio», stava per fuggire in camera sua, ma venne intercettato da mamma che lo fece sedere al tavolo con noi.

«Dove pensi di andare?», disse, scompigliandogli la chioma: «Devi ascoltare anche tu».

Kyle sospirò rassegnato: «Va bene, mamma».

«Dov'ero rimasta?», disse nonna, massaggiandosi il mento con aria pensierosa.

«Al re di Galles», le ricordai.

«Giusto. Secondo molti la vera origine della nostra specie è riconducibile a una leggenda che risale a un'epoca molto lontana. Una tribù del popolo germanico, protetta da un forte guerriero di nome Halfrid e guidata spiritualmente da uno sciamano chiamato Stillimot, venne attaccata da una tribù avversaria. L'esito della battaglia sembrava già scritto dalle Norne, le dee che presiedono il destino umano; Halfrid e i suoi guerrieri stavano per essere sconfitti. Stillimot allora chiese aiuto agli spiriti della foresta e il suo grido disperato venne ascoltato da quello del lupo che donò a Halfrid e ai suoi guerrieri la sua potenza, velocità e ferocia. Halfrid vinse la guerra e lo spirito del lupo volle premiare il suo coraggio concedendogli la possibilità di assumere sembianze animali ogni qualvolta si fosse trovato in pericolo. Noi siamo i figli di Halfrid».

Nella stanza calò il silenzio per qualche secondo, poi mio fratello alzò la mano: «Ora posso andare?»

Mia mamma scosse la testa con aria fintamente disperata: «Vorrei proprio sapere cos'hai da fare di così importante».

Kyle sfoggiò un sorriso a trentadue denti: «Mi vedo con degli amici, andiamo a giocare a baseball».

«Da quando hai degli amici oltre a Michel?», gli chiesi, sollevando un sopracciglio.

«Ah, ah, che simpatica che sei», disse mio fratello, facendomi la linguaccia.

«Che amici?», chiese mamma, mentre nonna si alzava e andava in cucina a scaldare dell'acqua, molto probabilmente per del tè.

«Sono dei ragazzi del branco di Rice», disse mio fratello, indossando la giacca: «Alan, Diego e gli altri, staremo nella radura vicino a casa del signor Montgomery».

«Va bene, basta che non diate fastidio a Robert, Dio solo sa quanto stia soffrendo», si raccomandò mamma, scuotendo la testa con aria triste.

«Sì, mamma», con un veloce gesto di saluto, Kyle scomparve oltre la porta, lasciandoci nuovamente sole.

«Diana, tesoro, hai voglia di portare questo tè in mansarda da Xavier, dovrebbe aiutarlo nella guarigione», disse nonna, porgendomi una tazza fumante e un piattino con dei biscotti al cioccolato: «Questi invece sono per sollevargli un po' il morale, deve essere una tortura rimanere chiuso in quella stanza tutto il giorno».

«Sta meglio?», le chiesi.

«Per domani dovrebbe tornare come nuovo», mi rassicurò nonna, sorridendo.

Mentre salivo le scale diretta alla mansarda, non potei fare a meno di ripensare al racconto di nonna. Halfrid era esistito davvero o era solo una leggenda? Ogni famiglia e branco conosceva la stessa leggenda o ne esistevano più versioni?

Riuscii ad abbassare la maniglia della stanza di Xavier grazie all'ausilio del gomito e, una volta entrata, trovai il suo occupante sdraiato a letto con lo sguardo fisso sul soffitto.

«Buonasera!», esclamai, inspirando a fondo l'odore di sandalo e cannella che riempiva l'ambiente, percependo istantaneamente un caldo languore diffondersi nel mio basso ventre.

Xavier sospirò, continuando a osservare un punto indefinito sopra alla sua testa: «Ciao, Diana».

Aveva un tono di voce pacato, quasi triste e all'istante persi tutto il mio buon umore.

«Stai bene?», gli chiesi, poggiando tazza e piattino sul comodino accanto a lui.

Sospirò di nuovo e posò lo sguardo su di me. 

I suoi occhi chiari mi guardavano come se non mi avessero mai visto prima, con circospezione e sospetto.

Mi sentii a disagio, ma cercai di non farglielo capire sfoggiando l'espressione più calma che possedessi.

Dopo pochi secondi smise di scrutarmi e tornò a fissare il soffitto.

C'era una tensione nell'aria che non riuscivo a comprendere; non riuscivo a identificarne l'origine e a stabilire a cosa fosse dovuta.

Alzai a mia volta lo sguardo, chiedendomi se la risposta a tutte le mie domande si trovasse sul soffitto con le travi a vista sopra di noi. 

«Non fuggi?», chiese, spezzando il silenzio pesante che si era creato.

«Vuoi che me ne vada?»

I nostri occhi s'incontrarono e lessi nei suoi un dolore che non riuscii a comprendere.

«Xavier...» iniziai, intenzionata a chiedergli spiegazioni, ma lui mi precedette: «Non voglio che tu ne vada, vorrei che mi dicessi la verità».

«La verità?», ripetei, aggrottando le sopracciglia confusa: «Su cosa?»

«Provi qualcosa per Michel Picard?»

Rimasi con la bocca socchiusa dalla sorpresa per qualche secondo, fissando i suoi occhi seri.

Pensai a due cose in quei pochi secondi; realizzai che doveva aver origliato ciò che era successo al piano di sotto poco prima, quando Michel era venuto a prendermi, ma soprattutto capii che quella tensione che percepivo nell'aria era gelosia.

Senza rendermene conto sorrisi.

Xavier distolse lo sguardo, scuotendo leggermente il capo: «Ridi di me?», il tono della sua voce era colmo di asprezza.

«No», lo rassicurai, sedendomi sul letto, così da diminuire la distanza tra di noi: «Rido della tua insensata gelosia».

Appoggiando una mano sul suo mento, gli spostai il capo e, una volta che riuscii ad incrociare nuovamente il suo sguardo, gli dissi: «Non provo nulla per Michel, è solo un amico».

Xavier annuì, lentamente, e un po' della tensione che c'era nell'aria scomparve.

Rimanemmo a fissarci brevemente, ognuno perso nei propri pensieri.

Quando mi resi conto di aver indugiato troppo a lungo con la mano sulla pelle del suo viso, mi scostai, scottata.

«Lo conosci da tanto?»

«Chi? Michel?», domandai, porgendogli la tazza di tè preparata da nonna.

Annuì, afferrando ciò che gli stavo porgendo con un sospiro: «Non ho mai bevuto così tanti tè e tisane in vita mia».

Il suo commento mi fece sorridere: «Nonna è una ferma sostenitrice del "un tè al giorno toglie il medico di torno"».

«Era una mela al giorno», disse, soffiando sul tè nel tentativo di farlo raffreddare: «Non hai risposto alla mia domanda».

«Lo conosco da anni, da quando la famiglia Picard è entrata a far parte del nostro branco. Michel è sempre stato il migliore amico di mio fratello e fin da piccoli giocavamo sempre insieme. Un tempo anche io e Francine eravamo amiche.»

«Poi cos'è successo?»

«Siamo cresciuti», mormorai, afferrando il piattino di biscotti dal comodino e poggiandolo sulle coperte tra di noi: «É successo gradualmente, giorno dopo giorno sentivo che Francine si stava allontanando sempre di più, ma non ho fatto nulla per trattenerla; non sapevo come fare».

Alzai lo sguardo, incontrando gli occhi attenti di Xavier.

«Con Michel invece... non ho mai pensato che potesse essere interessato a me in quel senso. In realtà non ho mai pensato che qualcuno potesse esserlo, non sono la classica bellezza occhi azzurri e...»

«É un maldestro tentativo per farmi dire che io ti trovo bella?»

Arrossii, e gli colpii la gamba col pugno chiuso, facendolo sbrodolare col tè che aveva ancora tra le mani.

Con gli occhi sbarrati dalla sorpresa e dal divertimento spostò lo sguardo dalle coperte bagnate al mio volto. Appoggiò il tè e il piattino di biscotti sul comodino, poi i suoi occhi tornarono su di me con un'intensità che faticai a sostenere

Si sollevò con una rapidità che non mi sarei mai aspettata da un convalescente, facendo scontrare le punte dei nostri nasi. I suoi occhi chiari, all'improvviso così vicini, erano macchie verdi sfocate, il suo odore così forte e afrodisiaco mi fece perdere il contatto con la realtà.

Le sue mani avvolsero il mio viso con delicatezza; l'imbarazzo e la rabbia che tendevano i miei lineamenti si dissiparono lasciandomi tremante in balia di Xavier.

«Hai davvero bisogno che te lo dica?», mi chiese in un sussurrò.

Le sue labbra sfioravano le mie, mentre le sue dita continuavano a vezzeggiare il mio viso.

No, non ne avevo bisogno, non quando mi guardava in quel modo, non quando eravamo così vicini e tutto quello che volevo era baciarlo, non quando il suo odore di sandalo era intensificato dal desiderio e le mani mi formicolavano dal desiderio di toccarlo a mia volta.

Mi sporsi in avanti, cancellando gli ultimi millimetri tra di noi, premendo con forza le labbra sulle sue.

Non rispose subito al bacio, lasciò che fossi io a dettarne il ritmo, probabilmente memore di come ero fuggita l'ultima volta che eravamo stati così vicini e lui aveva perso il controllo.

Quando interruppi il bacio, mettendo qualche centimetro tra le nostre bocche affamate, i nostri cuori battevano impazziti.

«Sei bella», mormorò con una punta di divertimento nei suoi occhi.

«Lo so», sbuffai e spostai le sue mani dal mio viso, spingendolo in modo da farlo tornare sdraiato sul letto. 

Il sorriso sulle sue labbra si allargò ulteriormente, contagiandomi.

«Ora tocca a me», dissi, pronta a cambiare argomento.

«Tocca a te?», ripetè, sollevando un sopracciglio, incuriosito.

«Cos'hai in quella borsa?», chiesi, indicando il borsone che si trovava ora accanto al suo letto, lo stesso borsone su cui mi ero interrogata per tutta la giornata, chiedendomi cosa potesse contenere.

Xavier sorrise, mostrando i suoi denti bianchi e le fossette sulle sue guance: «La curiosità uccise il gatto».

Sollevai gli occhi al cielo: «Dimmelo».

Annuì e si sporse per afferrare il borsone, poggiandolo accanto a sé sul letto, fece per aprirlo quando si bloccò, guardandomi con serietà: «Qua dentro c'è tutta la mia vita. Sei pronta?».
 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII: Tutta la mia vita in una borsa ***


Riassunto del capitolo precedente: nonna racconta a Diana delle leggende legate alla loro specie, Diana dice una volta per tutte a Michel che lo vede solo come un amico, poi va in camera di Xavier, che scopriamo essere geloso di Michel.

Buona lettura!

 


 

Capitolo XVII: Tutta la mia vita in una borsa



 

Xavier aprì il borsone con lentezza esasperante, fermandosi ogni pochi secondi per guardarmi e sorridermi.

L'impazienza e la curiosità mi stavano consumando viva.

Allungai il collo per spiare il contenuto della borsa, ma Xavier mi coprì gli occhi con una mano, impedendomi di sbirciare.

«Hey!», protestai, liberandomi dalla sua presa.

Le fossette di Xavier erano in bella vista e il borsone era completamente aperto sul suo grembo.

La prima cosa che mi mostrò fu un libro dalla copertina e dorso rovinati, sembrava di terza o quarta mano da quanto era danneggiato. Il modo quasi reverenziale con cui Xavier maneggiava il volume mi lasciò intendere che dovesse avere un grande valore sentimentale per lui.

«Questo era il libro di poesie preferito di mio padre, me l'ha regalato per il mio sedicesimo compleanno», disse porgendomelo.

Sfiorai la copertina di quell'edizione di "Foglie d'erba" di Walt Whitman con cura, sentendo il materiale ruvido contro i polpastrelli.

Avrei voluto fare alcune domande a Xavier a proposito di suo padre, ma sapevo che quello era un argomento delicato e non avevo intenzione di rovinare il momento, così mi limitai a osservarlo, mentre affondava nuovamente le mani all'interno del borsone.

Un sorriso triste comparve sulle sue labbra, mentre estraeva una scatola di latta sulla cui superficie si diramavano illustrazioni natalizie.

Dovetti attendere solo pochi secondi prima che aprisse la scatola, tirandone fuori alcune cartoline, foto e fogli di carta.

«Questa è l'unica foto che ho di mia madre», disse con la voce che gli tremava leggermente per l'emozione.

Appoggiai "Foglie d'erba" sul letto, allungando una mano verso la fotografia che stava scrutando con aria sperduta: «Posso?», chiesi, aspettando che fosse lui a mostrarmela.

Voltò l'immagine , così da permettermi di vederla, e non potei fare a meno di sorridere appena, colta da una profonda malinconia: sua madre era stata una bella donna, con lunghi capelli scuri e occhi chiari. Nella foto stava sorridendo alla telecamera e metteva in mostra due fossette molto simili a quelle che aveva Xavier agli angoli della bocca.

Incerta su come comportarmi, mi limitai a spostare lo sguardo dalla foto al viso del ragazzo che, a mezzo metro da me, mi osservava con aspettativa.

«Come si chiamava?»

«Theresa», rispose, sorridendo appena: «É morta dandomi alla luce».

Sbarrai leggermente gli occhi dalla sorpresa e, senza pensarci, intrecciai la mia mano alla sua, sedendomi in modo da essergli più vicina.

Non avrei dovuto essere tanto sorpresa, avevo immaginato da quel poco che mi aveva raccontato che sua madre non era mai stata particolarmente presente nella sua vita, ma avevo sperato — per lui — che fosse ancora viva.

Non osavo immaginare cosa si dovesse provare nel perdere una persona tanto importante così presto e non avere l'occasione di conoscerla.

Avrei voluto fargli domande al riguardo; chiedergli se suo padre gli avesse mai parlato di sua madre, sapere che tipo di persone fossero entrambi, ma mi limitai a un semplice: «Mi dispiace», malgrado temessi di risultare banale.

«Papà non mi parlava spesso di lei, era doloroso per lui ricordare», disse, spostando la foto in modo da tornare a guardare il volto sorridente di sua madre.

«Le somigli», mormorai, stringendo maggiormente la stretta intorno alle sue dita, muovendo il pollice sul dorso della sua mano, nel tentativo di trasmettergli l'affetto di cui sembrava aver bisogno in quel momento. Non doveva essere facile parlare di cose tanto dolorose e non potevo fare a meno di provare ammirazione.

«Avrei voluto conoscerla», disse, appoggiando la foto sulla copertina di "Foglie d'erba", mentre spostava lo sguardo verso la finestra alla sua sinistra.

Senza pensarci sciolsi l'intreccio delle nostre dita e mi sporsi verso di lui, accoccolandomi accanto al suo torace, nel tentativo di confortarlo.

Dalla sua espressione inizialmente sorpresa, capii che non si era aspettato un gesto simile da parte mia, ma presto i suoi lineamenti si addolcirono e le sue braccia mi avvolsero più vicino a sé.

«Non è facile parlarne», mormorò contro la mia fronte, prima di lasciarvi un bacio leggero: «E mi dispiace ma non penso di essere pronto a condividere altri dettagli. Pensi di riuscire a sopravvivere malgrado la curiosità?»

Sorrisi, scuotendo la testa: «Sarà dura», scherzai, intrecciando la mia mano destra alla sua sinistra.

Avrei voluto rimanere in quella posizione per sempre; a inebriarmi del suo profumo e a godermi la sensazione del suo corpo caldo contro il mio.

Dopo qualche secondo di silenzio Xavier sciolse la stretta delle nostre mani solo per afferrare all'interno della scatola di latta una cartolina raffigurante le cascate del Niagara.

«Quasi mi ero dimenticato di esserci stato, papà voleva portarmi in un posto speciale per il mio dodicesimo compleanno e dato che in quel periodo vivevamo in una cittadina a poche ore dalle cascate ha pensato che potesse essere una buona idea», raccontò: «Quel giorno mentre eravamo in fila per salire su uno dei battelli turistici, mi sono sentito male. Per fortuna papà ha colto subito i segnali e mi ha portato lontano da occhi indiscreti impedendo a qualche curioso di assistere alla mia prima trasformazione».

Mi spostai leggermente, così da poter vedere l'espressione serena sul suo volto mentre mi raccontava l'accaduto.

«Una volta tornato in forma umana ero così scosso e spossato che papà ebbe giusto il tempo di aiutarmi a rivestirmi e portarmi alla macchina prima che mi addormentassi di botto. Ho dormito fino alla mattina del giorno dopo. L'espressione fiera sul viso di mio padre quando mi svegliai... non l'avevo mai visto tanto felice».

«Io mi sono trasformata a dieci anni. Era estate e stavo giocando alla lotta con mio fratello in giardino, ci rotolavamo nell'erba ringhiandoci contro, mentre nonna a pochi passi raccoglieva le verdure nell'orto. Per scherzo mio fratello mi morse il braccio, ma strinse troppo, facendomi male. Mi bastarono pochi secondi per trasformarmi e morderlo a mia volta. Ricordo chiaramente lo sguardo sconvolto di nonna mentre abbandonava il cestino pieno di verdure per terra e iniziava a correrci incontro. Era convinta inizialmente che fosse stato Kyle a perdere il controllo e trasformarsi, quando vide che ero io quella in forma di lupo rimase senza parole, nessuno si aspettava che mi trasformassi così presto», raccontai, sfiorando la cartolina che Xavier stringeva ancora tra le dita: «Mamma e papà mi misero in punizione per una settimana perché avevo fatto male a Kyle».

«Com'è stato?», mi chiese, posando la cartolina per intrecciare nuovamente le nostre dita e iniziare a giocherellarci.

«Intendi la prima trasformazione? Dolorosa», dissi con una smorfia, mentre richiamavo alla mente quel giorno: «Ma durò molto poco, due o tre secondi e poi era tutto finito», spostai il capo in modo da incontrare lo sguardo di Xavier: «La prima trasformazione più veloce della storia, eppure finii lo stesso in punizione».

«Impressionante», mormorò ironicamente, facendomi sollevare gli occhi al cielo: «Lo so», confermai, osservandolo con un sorriso petulante in attesa della sua risposta.

«Ne hai abbastanza per oggi o vuoi continuare?»

«Che domanda è?», chiesi, sollevandomi abbastanza da sciogliere il nostro abbraccio, ma rimanendo comunque vicino a lui, così da godermi il calore del suo corpo: «Continuiamo».

Xavier non si lamentò della mia improvvisa distanza e si limitò a estrarre altre cartoline dalla scatola di latta: New York, il Gran Canyon, Seattle, New Orleans, le Rocky Mountains. Per ogni posto aveva un aneddoto da raccontare; come si era perso a New York, racconti sui musei che aveva visitato, le persone che aveva conosciuto, i piatti tipici che aveva assaggiato.

«Tra tutti i posti che hai visto», lo interruppi, osservando attentamente il suo volto assorto: «Qual è il tuo preferito?»

Capii dalla sua espressione stupita che non si era aspetto di dover rispondere a una domanda simile.

Si prese qualche minuto per pensarci, poi scosse la testa con aria sconfitta: «Non ho un posto preferito».

«No? Come mai?», chiesi, sempre più curiosa.

«Era mio papà quello a cui piaceva viaggiare. Fin da piccolo ho vissuto i traslochi e i trasferimenti come delle punizioni; non riuscivo mai a rimanere abbastanza in una città da farmi degli amici. Col senno di poi sono felice di aver viaggiato e aver visto quasi ogni angolo d'America, ma ai tempi volevo solo essere un bambino normale».

Annuii lentamente, cercando di immaginare come doveva esser stato difficile non avere amici con cui costruire legami duraturi. Mentre mi mostrava le cartoline, tutto quello che ero stata in grado di provare era stata invidia nei suoi confronti per tutti i luoghi che aveva visitato. Ora vedevo l'altra faccia della medaglia, la sofferenza di non appartenere a nessun luogo e di non avere nessuno all'infuori di se stessi.

«Diana?», mi chiamò, risvegliandomi dalle mie riflessioni.

«Scusa, stavo...», lo guardai negli occhi e scossi brevemente la testa: «Pensavo a quello che hai detto, non dev'essere stato facile».

«No, ma ho comunque avuto una vita felice, mio papà non mi ha mai fatto mancare nulla», disse, riposando le cartoline e la foto di sua madre nella scatola di latta.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo.

Avrei voluto fargli altre domande, chiedergli cos'altro contenesse il borsone, ma sentii nonna chiamarmi dal piano di sotto e mi resi conto che era quasi ora di cena.

«Devo andare», dissi, cercando di nascondere il forte dispiacere che provavo all'idea di allontanarmi da lui in quel momento, mentre mi alzavo in piedi.

«Prometti di tornare?», mi chiese, allungando una mano per impedirmi di allontanarmi troppo.

Senza pensarci mi sporsi per lasciargli un veloce bacio sulle labbra, poi indietreggiai prima che lui potesse fermarmi.

Sul viso di Xavier potevo vedere chiaramente il disappunto e non potei fare a meno di sorridere a quella vista.

«Lo prometto», gli dissi, facendo comparire sul suo volto le fossette che tanto adoravo.

«Potremmo guardare un film insieme», mi propose, indicando il computer portatile che si trovava sulla sua scrivania.

Sentii un piacevole nodo al petto e annuii, mordendomi il labbro: «Va bene», acconsentii, prima di uscire dalla stanza e chiudere la porta alle mie spalle.

Mi resi conto del sorriso fin troppo radioso che avevo stampato in volto, solo quando mi trovai di fronte a nonna, che ai piedi delle scale mi osservava con aria interrogativa e una punta di malizia. Mi preoccupai all'istante di nascondere dietro a un'espressione impassibile tutta la mia felicità, così da evitare domande imbarazzanti da parte sua o da chiunque altro.

«Mi aiuteresti con la cena?», chiese semplicemente nonna, evitando di farmi il terzo grado che temevo, mentre si dirigeva in cucina senza attendere una mia risposta.

La seguii senza fiatare, osservandola con aria titubante: cominciavo a pensare che nonna si fosse fatta un'idea sbagliata di quello che era successo in mansarda tra me e Xavier. Temevo però di peggiorare soltanto la mia situazione se avessi provato a spiegarmi, così optai per il silenzio.

Stavo per chiedere dove fossero mamma e papà, ma mi ricordai ben presto del loro appuntamento a cena con l'Alpha Rice, così posi un'altra domanda: «Cosa prepariamo?»

Nonna fece spallucce: «Edith vuole dei pancake e dato che devo mantenere il mio status di "nonna più migliore di sempre", penso che l'accontenterò».

Sorrisi sotto i baffi, osservando mia sorella che stava guardando la televisione in salotto: «"Più migliore"?», ripetei, sentendo chiaramente una dolcezza infinita mentre pensavo a quanto erano adorabili gli errori che, da quando aveva iniziato a parlare, Edith faceva con sempre meno frequenza.

Anche se non lo mostravo spesso, volevo molto bene a mia sorella.

In quel momento, addolcita dalla conversazione che avevo avuto con Xavier fino a poco prima, provai la voglia improvvisa di abbracciare mia sorella e baciarle la fronte.

Senza pensarci troppo raggiunsi Edith in salotto e misi in pratica i miei pensieri, disturbandola dalla visione del suo cartone preferito: Winnie The Pooh. 

«D, smettila», si lamentò ridendo: «Se ti metti davanti non vedo».

Mi sedetti accanto a lei sul divano, osservando distrattamente le immagini colorate che mostravano il Bosco dei Cento Acri e Winnie The Pooh con Christopher Robin, senza preoccuparmi di seguire effettivamente quello che stava succedendo sullo schermo.

Disturbai ulteriormente mia sorella, facendole il solletico, poi fui costretta a fuggire in cucina, prima che mia sorella potesse contrattaccare o arrabbiarsi tanto da volermi fare del male.

Iniziai subito ad aiutare nonna con la pastella dei pancake, mentre cercava la padella adatta per cuocerli.

Ben presto l'odore di quello che stavamo preparando, giunse in salotto, attirando l'attenzione di Edith, che ci raggiunse in cucina con un enorme sorriso in volto, saltellando felice, all'idea di mangiare pancake per cena.

«Nonna sei la più migliore e anche tu, D!», disse, sbirciando la padella sul fuoco e il composto che si cuoceva al suo interno, con fare famelico.

«Che ne diresti di andare a chiamare tuo fratello?», le disse la nonna, sorridendo.

Appena Edith scomparve in corridoio, nonna aggiunse: «Non mi piace l'idea di condividere il titolo di "più migliore"», mi disse, arricciando leggermente le labbra in una smorfia.

«Temo che dovremo sfidarci, allora».

Nonna mi pizzicò il fianco, facendomi sussultare per la sorpresa.

«Sarò vecchia, ma questo non vuol dire che non sia abbastanza arzilla da tenerti testa», mi disse, prendendo il mio posto ai fornelli, mentre mi indicava il tavolo da apparecchiare.

Proprio mentre sistemavo i piatti, mi chiesi quand'era stata l'ultima volta che mi ero sentita altrettanto bene.

Pensai a quando Xavier mi aveva baciato per la prima volta, ma il ricordo di quello che era successo subito dopo — il modo in cui mi ero allontanata bruscamente per evitargli di approfondire il contatto — mi fece stringere le labbra in una linea sottile.

Non era stato il tipo di ricordo perfetto che mi sarei immaginata di conservare per sempre, ma potevo fingere che quel mio momento di paura e codardia non fosse mai esistito, sostituendolo con il bacio che ci eravamo scambiati poco prima. 

Era difficile ammetterlo, ma mi stavo arrendendo ormai ai sentimenti che provavo per lui e l'idea di farlo non mi creava più la paura e la repulsione di pochi giorni prima.

Kyle entrò in cucina con Edith in spalle e un sorriso in volto: «Qualcuno mi ha detto che si mangiano pancake per cena», annunciò, appostandosi alle spalle di nonna, per osservare il suo lavoro: «Hanno un bellissimo aspetto!»

«Potresti anche aiutare», gli feci notare, incrociando le braccia al petto.

Una delle cose che non sopportavo di mio fratello era il fatto che non aiutasse mai con le faccende domestiche, tranne quando non lo si costringeva con la forza o con qualche occhiata minacciosa.

«Penso che nonna se la stia cavando benissimo anche senza il mio aiuto», mi disse, facendo scendere Edith dalle sua spalle.

«Parlavo della tavola», specificai, sollevando gli occhi al cielo.

Kyle sbuffò sonoramente, ma fece lo sforzo di recuperare dal cassetto apposito le posate e poi i bicchieri.

«Attento a non rovinarti la manicure», gli dissi, decisa a stuzzicarlo fino a quando non avrei ottenuto una qualche sorta di reazione.

Mio fratello mi lanciò un'occhiata d'avvertimento, poi recuperò lo sciroppo d'acero, della Nutella e granella al cocco, mentre io mettevo in tavola il miele e della marmellata di fragole.

«Com'è andata la partita a baseball?», gli chiesi, riferendomi ai suoi impegni pomeridiani con alcuni ragazzi appartenenti al branco dell'Alpha Rice: «Hai perso?»

«No, la mia squadra non ha perso», mi disse, facendomi la linguaccia: «Ho visto il signor Montgomery, è venuto a vederci giocare per qualche minuto, poi è tornato verso casa sua».

Completamente dimentica del mio desiderio di far arrabbiare mio fratello, mi sentii all'improvviso molto triste all'idea di come si dovesse sentire uno dei membri più anziani del nostro branco, a due mesi dalla morte di sua moglie.

«Poveretto», disse nonna, scuotendo lentamente la testa: «Non volevo intromettermi nel suo dolore, ma forse è il caso che vada a trovarlo uno dei prossimi giorni. Parlare potrebbe aiutarlo».

«Ti accompagno», dicemmo all'unisono io e Kyle, prima di guardarci male.

«L'ho detto prima io», borbottai, anche se sapevo che non era vero.

«Bugiarda», disse mio fratello: «E comunque possiamo accompagnarla entrambi».

«Non litigate, ci penseremo quando sarà il momento», ci zittì nonna, prima di posare al centro del tavolo il piatto su cui erano impilati i pancake che aveva preparato fino a quel momento: «Chi ha fame?»

«Io!», urlò Edith, sedendosi subito al suo posto, con un sorriso entusiasta.

Iniziammo a mangiare in silenzio, ben presto nonna chiese a mia sorella della sua giornata a scuola e venimmo deliziati da un avvincente racconto di come una compagna di classe di Edith, una certa Nora, aveva perso un dentino a pranzo e aveva rischiato di ingoiarlo, spaventandosi molto, tanto che la maestra aveva dovuto chiamare i genitori.

Kyle rise così forte da rischiare di cadere dalla sedia.

«Non capirò mai il tuo senso dell'umorismo», dissi, confusa, prima di tornare a mangiare il mio pancake con sopra la Nutella.

«Mi sono semplicemente immaginato la scena», disse lui, il sorriso che gli aleggiava ancora sulle labbra.

«Complimenti, nonna, i pancake sono venuti molto buoni», dissi mentre masticavo l'ennesimo boccone, beccandomi un rimprovero da Kyle, che mi ricordò che parlare con la bocca piena non era un gesto molto educato.

Quando la cena-colazione terminò, aiutai nonna a sparecchiare, mentre mio fratello ed Edith tornavano in salotto per guardare ancora un po' di televisione, prima di andare a letto.

Mi offrii volontaria per portare un paio di pancake avanzati a Xavier, ma nonna bloccò sul nascere la mia fuga: «Aspetta, preparo una tisana veloce, così gli porti anche qualcosa di caldo da bere».

Fui tentata di dire a nonna ciò che mi aveva detto Xavier, sul fatto che non avesse mai bevuto così tanti tè in vita sua, ma avevo paura di ferire i sentimenti di nonna, così rimasi zitta e annuii semplicemente, caricando la lavastoviglie mentre nonna metteva a scaldare dell'acqua.

«Avete chiacchierato molto oggi», disse nonna, lanciandomi uno sguardo di sottecchi: «Tu e Xavier intendo».

«Sì», confermai, anche perché sarebbe stato molto stupido e poco credibile dire il contrario.

«Vi state conoscendo?», mi chiese, sistemando su un vassoio un piatto con un paio di pancake avanzati, la marmellata di fragole e il barattolo della Nutella.

«Sì», ripetei, chiedendomi se sarei riuscita a soddisfare la curiosità di nonna con quelle risposte monosillabiche.

«E come ti sembra?»

Chiusi lo sportello della lavastoviglie e incrociai le braccia al petto, osservandola mentre rovesciava l'acqua calda in una tazza su cui c'era disegnato sopra Bugs Bunny. 

«Ancora non lo so», ammisi, aggrottando le sopracciglia, pensierosa.

«È normale, ricordati solo di non essere troppo impulsiva», aggiunse, porgendomi il vassoio su cui aveva sistemato la tisana.

Sapevo che con quelle parole si stava riferendo alla conversazione di qualche giorno prima, quando mi aveva parlato del nonno, del loro incontro e di come lei inizialmente aveva pensato di affrettare le cose tra di loro.

«Certo, nonna», la rassicurai, sporgendomi per lasciarle un bacio sulla guancia, sentendo la rugosità della sua pelle contro le mie labbra.

«Buona notte, Diana», mi disse nonna, sorridendomi, prima di voltarsi verso i miei fratelli che stavano ancora guardando Winnie The Pooh: «Voi due, non pensate che sia ora di andare a dormire?»

Kyle mise il broncio, mentre Edith iniziò a chiedere a nonna se poteva guardare ancora un po' di televisione, cercando di fare leva sul fatto che aveva la nonna più migliore di sempre e che non era stanca.

«Tua sorella è fin troppo furba», disse a mezza voce nonna, facendomi ridere di gusto, tanto che rischiai di rovesciare il contenuto della tisana sul vassoio.

Abbandonai nonna, diretta in mansarda, certa che sarebbe stata in grado di cavarsela egregiamente con Kyle e Edith anche senza di me. 

Mi resi ben presto conto che, mano a mano che salivo i gradini, una dolce impazienza s'impossessava di me.

Abbassai la maniglia col gomito e aprii la porta della mansarda con la spalla, trovando Xavier al solito posto nel letto, aveva però sulle gambe il computer portatile e appena mi vide i suoi lineamenti si distesero in un dolce sorriso.

«Un altro tè?», mi chiese, sistemandosi meglio a sedere contro alla testiera del letto.

«Tisana», dissi, appoggiandogli il vassoio in grembo: «E pancake».

«Mi fai compagnia mentre mangio?», domandò, osservandomi attentamente, il sorriso di poco prima sostituito da un'espressione più seria.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, studiandoci a vicenda.

«Se ti fa piacere, rimango», dissi, confusa dalla sua espressione pensierosa.

«Mi piacerebbe che rimanessi, ma non voglio che tu ti senta in dovere», spiegò, abbassando lo sguardo: «Magari non hai più voglia di vedere un film insieme».

«Certo che ne ho voglia!», esclamai, sfilandomi le ciabatte pelose per salire sul letto e sdraiarmi accanto a lui, facendo attenzione e a non fare movimenti troppo bruschi, che potessero far rovesciare il contenuto della tazza sul suo vassoio.

Xavier sorrise: «Bene, allora, cosa vorresti guardare?»

«Non sono una fan delle commedie romantiche», ammisi con una lieve smorfia, allungandomi in modo da recuperare dalle sue cosce il computer, per appoggiarlo sul mio grembo: «Volendo potremmo iniziare una serie insieme, guardare un episodio ogni tanto», proposi.

«Perché no?», disse Xavier, spalmando un po' di Nutella sul suo pancake: «Hai già qualcosa in mente?»

«Forse», ammisi, spostando lo sguardo dallo schermo del computer al volto sorridente del ragazzo seduto accanto a me: «Frida l'altro giorno mi ha consigliato una serie che pensa potrebbe piacermi».

«Teen Wolf?», chiese Xavier, il sorriso sul suo volto che si allargava ulteriormente.

Risi alle sue parole scuotendo la testa: «No, quello lo guarda Sab e non mi fido molto dei suoi gusti, sono troppo diversi dai miei quando si tratta di film o libri».

Xavier posò sul comodino la tisana — così da lasciarla raffreddare al sicuro da movimenti bruschi, che avrebbero potuto rovesciarla — e si sistemò in modo tale da portare un braccio intorno alle mie spalle, così da sbirciare meglio quello che stavo cercando col computer. 

Sentii chiaramente il mio cuore aumentare i battiti nel sentirlo così vicino, ma cercai di non dare a vedere il mio turbamento.

«Westworld?», chiese, leggendo il titolo della serie che avevo appena cercato.

«Sì, la conosci?»

Voltando il capo verso di lui mi resi conto di quanto fossimo vicini e della macchia di Nutella che aveva all'angolo della bocca, e una morsa di desiderio mi si strinse nello stomaco.

«No», disse lui, lo sguardo sulle mie labbra, prima di tornare a guardare lo schermo del pc: «Sembra interessante dalla trama».

Mi impedii, facendo uno sforzo incredibile, di pulirli la Nutella dal labbro e tornai a mia volta a concentrarmi sulla puntata che si stava caricando.

«Lo sai che lo streaming è illegale?», chiese a bassa voce, facendomi sorridere.

«Siamo lupi mannari in un mondo di umani che non sanno niente della nostra esistenza, a parte vecchie leggende a cui non credono più, davvero ti preoccupi di ciò che è legale?»

Xavier rise: «Hai sempre la risposta pronta».

Inizialmente pensai che la sua fosse una critica e mi voltai, pronta a litigare e a fargli vedere quando potevano essere taglienti le mie risposte, ma mi resi conto dalla sua espressione che la sua non era intesa come una critica.

Sorrisi: «E tu sei sporco di Nutella».

Xavier iniziò a passarsi la lingua sulle labbra, senza distogliere lo sguardo dal mio: «Sono pulito ora?»

Scossi la testa e mi costrinsi nuovamente a non allungare la mano — o la mia bocca — per pulirlo, decidendo di dargli indicazioni per aiutarlo a trovare da solo la Nutella: «A destra, sul labbro».

Xavier sorrise: «Lo so cosa stai pensando», mi disse, immergendo un dito nel barattolo di Nutella sul vassoio ancora davanti a lui: «Sicura di non volerlo fare? A me non dispiacerebbe».

Prima che potessi rendermi conto di quello che era intenzionato a fare, sentii il suo dito sporcarmi la bocca con la Nutella e il nodo di desiderio, che sentivo al basso ventre, si strinse maggiormente.

Poi con un gesto veloce si portò l'indice in bocca, pulendolo.

Abbassai il monitor del portatile e mi preoccupai di appoggiarlo sul comodino, lontano dalle mie dita tremanti, e sentii chiaramente Xavier fare lo stesso col vassoio dei pancake.

Quando tornammo a guardarci misi da parte ogni mia titubanza e mi allungai verso di lui, appoggiando la mano sulla sua guancia.

Leccai via la Nutella dal suo labbro, poi lasciai che lui facesse lo stesso con quella che si trovava sulla mia bocca. Fu inevitabile baciarsi subito dopo, spostandoci nel letto in modo da stare più vicini.

Circondata dal suo profumo, vezzeggiata dai suoi baci di fuoco, mi lasciai andare, sopraffatta dalle sensazioni.

Non mi preoccupai del fatto che nonna o Kyle o Edith avrebbero potuto sentire qualcosa, non mi preoccupai delle ferite che si stavano rimarginando sul corpo di Xavier, non mi preoccupai della mia inesperienza e mi sedetti a cavalcioni su di lui, approfondendo il bacio.

Xavier mi sistemò su di lui in modo da non pesare troppo sulla sua ferita al fianco, poi le sue mani iniziarono a percorrere la lieve curva dei miei fianchi, la mia vita e la mia schiena.

«Ti faccio male?», gli chiesi, scostandomi abbastanza da guardarlo negli occhi.

«Non troppo», disse, sorridendomi.

Tornai a baciarlo, portando le mie mani ad intrufolarsi sotto la maglia che indossava, così da sentire il calore della sua pelle contro le mie dita.

«Hai le mani fredde», mi disse, prima di copiare i miei movimenti e insinuare le sue sotto al maglione che indossavo, sfiorandomi la schiena.

«Anche tu», ribattei, continuando la mia esplorazione, esponendo alla mia vista sempre più centimetri della sua pelle.

«Cosa vuoi fare, Diana?», mi chiese, osservando i miei movimenti con occhi languidi. 

Scrollai leggermente le spalle, spostando il mio sguardo dalla sua pancia ai suoi occhi: «Hai un ombelico buffo», dissi la prima cosa che mi passò per la mente, ottenendo come risposta una risata fragorosa e le sue bellissime fossette.

Mi sollevò il maglione, osservando il mio ombelico con occhio critico: «Il tuo è carino», mi disse, prima di coprirmi nuovamente la pancia. 

«Non sono sicura di voler iniziare una serie tv in questo momento», ammisi, abbassandomi in modo da appoggiare la guancia contro il suo petto e sentire il battito cadenzato del suo cuore.

«Sai, l'avevo intuito», disse, avvolgendomi in un abbraccio, il naso premuto contro i miei capelli.

Senza pensare a quello che stavo per chiedergli sollevai appena il capo, così da incrociare il suo sguardo: «Posso dormire con te questa notte?»

In un primo momento Xavier sembrò essere colto alla sprovvista, poi sorrise e mi diede un bacio lieve sulla punta del naso: «Certo che puoi».

«Intendo...»

«Lo so cosa intendi», mi rassicurò, mentre ci sistemavamo in modo da sdraiarci entrambi comodamente: «Non ho intenzione di affrettare le cose o costringerti a fare qualcosa che non ti senti di fare», mormorò contro le mie labbra, prima di rubarmi un bacio: «Buona notte, Diana».

Mi allungai per spegnere l'interruttore della luce sul comodino, poi tornai tra le sue braccia: «Buona notte».

 

 

***

Buongiorno popolo di EFP!

Come prima cosa chiedo perdono per non aver aggiornato da un bel po' di tempo questa storia, assicurandovi che non ho intenzione di lasciarla in sospeso ma ti terminarla con calma. Cercherò di aggiornare una volta a settimana, ma se non dovessi farcela ve lo farò sapere su Instagram (il nome del mio account è lazysoul_efp) o qua su Wattpad tramite la bacheca dei messaggi.

Detto ciò spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate.

Diana e Xavier sembrano aver raggiunto una sorta di tregua, entrambi sono consapevoli della forte attrazione che provano l'uno per l'altra e vogliono esplorare con calma i loro sentimenti, senza affrettare le cose.

Vi chiedo di non essere tirchi e farmi sapere con precisione cosa ne pensate e per chi vuole sapere quando aggiornerò, spero di farcela entro martedì o giovedì prossimo.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII: Parli nel sonno, lo sai? ***


Riassunto del capitolo precedente: Diana e Xavier si conoscono meglio, guardando cosa contiene il misterioso borsone di quest'ultimo. La mamma e il papà di Diana sono a cena dall'Alpha Rice e la nonna prepara per i nipoti dei pancake per cena. Dopo cena Diana raggiunge Xavier e dopo essersi baciati, decidono di dormire insieme.

Buona lettura!




 

Capitolo XVIII: Parli nel sonno, lo sai?




 

Svegliarsi circondata dalle braccia e dall'odore di Xavier, mi fece istantaneamente sorridere e premere maggiormente il naso contro il suo petto.

La sera prima, dopo avergli dato la buona notte, avevo impiegato pochi minuti ad addormentarmi, sentendomi al sicuro in quel letto, con lui.

Durante la notte mi ero svegliata un paio di volte, destata dai suoi movimenti e del suo respiro che mi solleticava la pelle, ma tornare a dormire era stato poi facile, cullata dal battito regolare del suo cuore.

Non avevo idea di che ore fossero e in parte avrei voluto non dovermene preoccupare, ma ero sempre più consapevole di dover andare a scuola e di dover abbandonare il caldo tepore delle braccia di Xavier.

Mi sollevai quel tanto che bastava per sbirciare oltre le spalle di Xavier verso il comodino, dove sapevo esserci una vecchia sveglia.

Lasciai ricadere la testa sul cuscino quando realizzai che avevo ancora un po' di tempo prima di dover correre in camera a cambiarmi per la scuola.

«Buongiorno», mormorò la voce di Xavier, accarezzandomi in punta di dita la schiena: «Hai dormito bene?»

«Sì, tu?», chiesi, puntando il gomito sul cuscino, così da poterlo guardare bene in volto.

«Parli nel sonno, lo sai?»

Sbarrai gli occhi, rimanendo per una manciata di secondi senza parole: «Non è vero», riuscii infine ad articolare, pentendomi subito di quella risposta infantile.

Xavier sorrise, mostrando le fossette: «Oh, sì che è vero».

«Cos'ho detto?», domandai con un filo di voce, temendo la risposta. Dato che non ricordavo cosa avevo sognato quella notte, cominciavo a temere di aver detto qualcosa di altamente imbarazzante.

«Le noci sono meglio delle arachidi», disse lui, il sorriso che si accentuava ulteriormente, mentre io tiravo un mentale sospiro di sollievo.

«Chissà cosa stavo sognando», borbottai, lanciando un'occhiata verso la sveglia, le cui lancette, inesorabili, si spostavano verso l'orario in cui avrei dovuto abbandonare quel dolce momento.

«Probabilmente delle noci e delle arachidi», disse Xavier, sollevando il capo, in modo da avvicinare il viso al mio: «Sono d'accordo comunque, meglio le noci».

Arricciai le labbra in un sorriso e cancellai il poco spazio rimasto con un veloce bacio a stampo.

«A parte le mie perle di saggezza pronunciate nel cuore della notte, hai dormito bene?», gli chiesi, godendo della sensazione di contentezza che provavo.

«Scalci nel sonno, lo sai?»

Sbuffai, spostando lo sguardo sulla sveglia; avevo sempre meno minuti.

«C'è qualcos'altro che faccio di fastidioso durante la notte di cui vuoi rendermi partecipe?»

«Russi e hai anche cercato di appropriarti di tutte le coperte», disse Xavier, facendomi arrossire per l'imbarazzo: «Però, malgrado tutto, sì, ho dormito bene».

Non riuscii ad articolare una frase di senso compiuto per qualche secondo, troppo imbarazzata per trovare qualcosa con cui ribattere: «Come puoi dire di aver dormito bene se ho fatto tutte queste cose?»

Xavier sorrise, mostrandomi le sue adorabili fossette: «Perché è la verità».

«Secondo me tu stai mentendo, ma non riesco a capire perché», borbottai, constatando con un'occhiata veloce che il tempo a mia disposizione era finito e dovevo assolutamente scendere per prepararmi.

«Devo andare», dissi, stiracchiandomi brevemente prima di scostare le coperte e mettermi seduta.

«Se tua nonna mi dà il permesso, potremmo fare la nostra prima lezione di combattimento, oggi», disse Xavier, bloccando con quelle poche parole la mia ritirata.

Mi voltai verso di lui, trovando il suo viso molto vicino e per un paio di secondi lasciai che lo sguardo finisse sulle sue labbra, per poi tornare a guardarlo negli occhi: «Sarebbe fantastico».

«Mi aspettavo un maggiore entusiasmo», disse, aggrottando appena le sopracciglia.

«Sono ancora mezza addormentata, devo andare a scuola e tutto quello che riesco a pensare in questo momento...», lasciai la frase in sospeso, rendendomi conto di quello che stavo per dire e sentendo immediatamente le mie guance andare a fuoco.

«Cosa? Cosa stai pensando in questo momento?»

Capii che anche lui avrebbe voluto baciarmi, quando vidi il suo sguardo abbassarsi sulle mie labbra.

Senza pensarci mi sporsi e lasciai che la mia bocca entrasse in contatto con la sua, iniziando a muoversi a un ritmo lento e conturbante. Xavier gemette appena contro le mia labbra, allungando una mano per accarezzarmi la guancia e poi attorcigliarsi i miei capelli corti tra le dita.

«Mi porterai alla follia, Diana», sussurrò appena interruppi il bacio, decisa ad alzarmi e correre a vestirmi.

Infilai le ciabatte pelose e sorrisi: «Esagerato!»

«Buona scuola».

«Grazie! Ti auguro un grande in bocca al lupo, non sarà facile convincere mia nonna a farti uscire dal letto», dissi, sorridendo sotto i baffi alla mia ridicola battuta; augurare a un ragazzo-lupo l'in bocca al lupo era sempre divertente.

Xavier scoppiò a ridere: «Ne avrò bisogno, tua nonna è tosta».

Resistetti alla tentazione di lasciarmi cadere tra le coperte e le sue braccia, non ancora sazia di lui, e dopo un ultimo sorriso abbandonai la stanza, chiudendomi la porta alle spalle.

Scesi le scale di corsa, rischiando di finire addosso a mio fratello che girava mezzo nudo in corridoio.

«Vestiti ogni tanto!», gli dissi, storcendo il naso.

«Cosa ci facevi in mansarda?», chiese Kyle, legandosi i lunghi capelli in uno chignon disordinato.

«I fatti miei», ribattei, prima di chiudermi in camera.

Presi un profondo respiro ignorando i borbottii di mio fratello oltre il legno della porta e mi guardai intorno.

Controllai che nello zaino per scuola ci fosse tutto quello che mi serviva, poi mi vestii e cercai di domare le ciocche ribelli indossando il mio fidato cappellino.

Sprecai qualche minuto a cercare il cellulare, prima di ricordarmi che ce l'avevano i miei genitori, dato che ero in punizione, e sbuffai sonoramente mentre mi dirigevo in cucina.

La mia voglia di iniziare un nuovo giorno scolastico era molto bassa, ma rispetto al solito ero stranamente felice e cominciavo a sospettare che il merito fosse tutto di Xavier e della notte che avevo passato tra le sue braccia, inebriata dal suo odore.

«Buongiorno», dissi, dirigendomi verso il mio solito posto al tavolo della cucina.

Papà stava, come suo solito, leggendo il giornale e bevendo il caffè nella sua tazza rosa. Mamma invece era indaffarata con la preparazione di panini e nonna sedeva al mio stesso tavolo, una tazza di tè bollente tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto.

«Diana, se vuoi c'è ancora del caffè», disse mamma mettendomi davanti una tazza vuota, il contenitore dello zucchero, del caffè caldo e un piatto di biscotti fatti in casa.

Rimasi momentaneamente colpita da quel gesto gentile, non perché mamma non fosse premurosa con me, ma perché mi ero abituata ormai a procacciarmi da sola la colazione; era da qualche anno ormai che ero stata promossa a "bambina grande" e trovarmi servita e riverita faceva uno strano effetto.

«Grazie», esclamai felice, preparandomi una tazza di caffè come piaceva a me, con poco caffè e tanto zucchero.

Papà abbassò il giornale quel tanto che bastava per lanciarmi un'occhiata veloce, sul suo volto aleggiava un sorriso divertito.

«Buongiorno, Diana», disse, bevendo un sorso di caffè e ripiegando il giornale sul tavolo accanto a sé.

Capii che stava per succedere qualcosa, quando sentii mamma sedersi nel posto alla mia sinistra e mi ritrovai ad avere entrambi i miei genitori intenti a fissarmi con sguardi divertiti.

Aggrottai le sopracciglia, quando notai che anche nonna sembrava avere la stessa espressione.

«Che c'è?», chiesi, immergendo un biscotto nel caffè: «Che avete da guardare?»

Mamma spostò lo sguardo su papà, sembrava volerlo incitare a dire qualcosa.

«Sappiamo che non hai dormito nella tua stanza questa notte», disse alla fine mamma, puntando i suoi occhi nei miei.

In un primo momento pensai di aver sentito male, poi inorridii e percepii chiaramente le mie guance diventare bollenti.

«Non c'è nulla di male nel voler... esplorare il proprio corpo o quello di un'altra persona, io e tua madre vogliamo solo che siate prudenti», disse papà, sorridendomi in modo rassicurante.

«Non è successo niente», cercai di giustificarmi, cercando intorno a me una scappatoia al discorso imbarazzante che speravo di evitare.

«Non vogliamo conoscere i dettagli, Diana, vogliamo solo che tu sappia che puoi contare su di noi se hai bisogno di chiederci qualcosa che non sai», disse papà, sorseggiando tranquillamente del caffè.

«E speriamo che tu sappia che alla base di un rapporto sano ci devono essere il consenso e la comunicazione», aggiunse mamma, sorridendo in modo strano, sembrava anche più a disagio di me.

Annuii, nascondendomi dietro alla tazza di caffè: «Va bene», dissi semplicemente, nella speranza di interrompere sulla conversazione.

«Sappiamo che non sono discorsi facili da affrontare, soprattutto con i tuoi genitori, ma il sesso è...»

«Buongiorno!», esclamò Kyle, entrando in cucina con un sorriso smagliante e i capelli legati in una treccia: «Uh, biscotti», aggiunse, iniziando ad abbuffarsi, mentre si versava una tazza di caffè.

Cercai di pensare quand'era stata l'ultima volta che ero stata grata di vedere mio fratello, ma non mi veniva nulla in mente, quindi desistetti, limitandomi a ringraziarlo mentalmente.

«Kyle», disse papà, facendogli cenno di sedersi vicino a me: «Stavamo giusto facendo a Diana un discorso che dovresti ascoltare anche tu».

Tutta la mia gratitudine venne spazzata via da quelle parole, sostituita dalla rassegnazione.

«Va bene, di cosa parliamo?»

«Sesso», gli dissi con un finto sorriso, mentre finivo di bere il mio zucchero con caffè.

Kyle rischiò di strozzarsi e iniziò a guardarsi intorno con occhi sbarrati: «Cosa?», chiese con voce stridula.

«Io e vostra madre vorremmo che voi siate consapevoli del fatto che un rapporto intimo con un'altra persona è un passo importante e deve essere compiuto con le giuste precauzioni e ponendo alla base consenso e comunicazione», disse papà, ripetendo ciò che già mi avevano detto a beneficio di Kyle.

«Mh-mh», annuì mio fratello, sembrando molto più a disagio di quanto fossi io in quel momento.

«Il sesso non deve essere un tabù», aggiunse mamma e papà annuì: «Esatto».

«Dovremmo prendere l'autobus», disse Kyle, alzandosi come una molla: «Andiamo, Diana!»

Finii il mio zucchero con caffè, raccogliendo con un cucchiaino i granelli dolce-amari che rimanevano sul fondo, poi salutai tutti.

Corsi alla fermata dell'autobus, dopo aver recuperato zaino e giacca, e rimasi in piedi accanto a mio fratello nel più completo silenzio per qualche secondo.

«Tu sai perché hanno pensato di farci un discorso simile di prima mattina?», chiese all'improvviso Kyle, le mani affondate nelle tasche e le labbra atteggiate in una smorfia.

«Ho dormito con Xavier in mansarda», dissi, facendo spallucce.

Gli occhi di mio fratello si spostarono su di me: «E?»

«"E" cosa?», chiesi, guardandolo a mia volta.

«Avete fatto...», lasciò la frase in sospeso, sollevando appena le sopracciglia per farmi capire cosa intendeva.

«No», dissi, sollevando gli occhi al cielo: «Non abbiamo fatto un bel niente, abbiamo solo dormito».

Kyle annuì: «Se avete solo dormito perché mamma e papà hanno deciso di parlarci di "consenso e comunicazione"?»

«Dovresti chiederlo a loro, non a me», gli feci notare, sorridendo appena alla vista dell'autobus in avvicinamento.

«Vi siete baciati?», mi chiese, cogliendomi alla sprovvista.

«Sì, perché?»

Kyle non disse niente e continuò a rimanere in silenzio anche quando salimmo sull'autobus e ci sedemmo ai nostri posti.

«Farai attenzione, vero?», mi chiese all'improvviso, voltandosi a guardarmi.

«Ti ci metti anche tu?», borbottai, sollevando gli occhi al cielo: «Certo che farò attenzione», aggiunsi, osservando con la coda dell'occhio l'espressione un po' più tranquilla sul suo viso.

Per il resto del viaggio rimanemmo in silenzio.

Continuavo a pensare alle cose che avevo fatto durante la notte: russare, rubare la coperta, parlare...

Era davvero possibile che Xavier fosse riuscito a dormire bene?

«Buona giornata, sorellina», mi disse Kyle, pizzicandomi il fianco, prima di scendere dall'autobus, una volta arrivati alla sua fermata.

Il suo posto a sedere venne occupato poco dopo da Sab: «Ciao. Come va?», mi chiese svogliatamente, addentando un bastoncino di liquirizia.

«Da quando ti piace la liquirizia?»

«Non mi piace infatti, mamma dice però che fa bene alla pressione... o era al cuore? Non ricordo, fa bene a qualcosa e non vuole che muoia prima dei centocinquanta anni o qualcosa di simile».

Annuii osservandola con occhio critico: «Ti percepisco confusa».

«Questa notte ho dormito male», fece spallucce, sospirando: «Mamma e papà stanno continuando ad attentare alla mia sanità mentale. Ieri li ho beccati a pomiciare come degli adolescenti in salotto. Vorrei che ci fosse un modo per cancellare quell'immagine dalla mia mente».

Scoppiai a ridere, beccandomi una gomitata al fianco da una Isabel a dir poco scocciata: «Non è divertente».

Per farmi perdonare decisi di raccontarle l'imbarazzante conversazione di quella mattina, ma tutto quello che ottenni fu un terzo grado su come fosse stato dormire con Xavier quella notte.

Le raccontai ogni minimo dettaglio, tralasciando quello che Xavier mi aveva raccontato della sua famiglia, dato che erano questioni private e non mi sembrava il caso che anche Sab le conoscesse.

«Io ho dormito con te e posso assicurarti che tutto quello che dice Xavier è vero, neanche quando dormi riesci a stare zitta e ferma», disse Isabel, sorridendo divertita.

«Perché non me ne hai parlato?», le chiesi, indispettita. 

«Stai scherzando? Certo che te ne ho parlato! Solo che tu hai questa fastidiosa abitudine di negare le cose che ti danno fastidio o che non hai voglia di ascoltare e dimenticarle nell'arco di pochi minuti».

«Non è vero», mi lamentai, prima di realizzare che così facendo avevo appena confermato le sue parole.

«Visto?», disse Sab, mentre ci alzavamo per scendere dall'autobus e dirigerci con passo svogliato verso l'edificio principale del complesso scolastico.

«Ora che me lo fai notare, potresti aver ragione», dissi, sollevando gli occhi al cielo.

«Potrei? Solo...»

Sab si era fermata a pochi passi dall'ingresso, lo sguardo allucinato: «Mi sono appena ricordata di non aver fatto i compiti di scienze», disse con un filo di voce, prima di correre verso scuola: «Ci vediamo dopo! Devo scappare!»

Nell'arco di pochi secondi mi trovai da sola, ma non durò molto, dato che venni affiancata da Francine, che mi studiò con sguardo annoiato: «Le è venuto un attacco di diarrea?»

Sollevai gli occhi al cielo: «Ciao anche a te, Francine, io sto bene, grazie per averlo chiesto. Tu come stai?»

Usai un tono di voce scocciato, ma mi ricordai ben presto della promessa che avevo fatto a mio fratello e mi morsi la lingua per evitare di aggiungere qualche commento acido finale.

«Perché dovrebbe fregartene qualcosa?»

Mi infastidì il suo tono sulla difensiva e cercai di pensare alla nostra vecchia amicizia, nel tentativo di cercare l'origine di tutto quel risentimento e odio che provavamo l'una per l'altra.

Quando non riuscii a trovarlo, mi voltai verso di lei: «Cosa ci è successo, Francine?»

Vidi gli occhi della ragazza accanto a me sbarrarsi per la sorpresa e le sue labbra socchiudersi: «Cosa intendi?»

«Eravamo amiche, poi cos'è successo?», specificai, bloccandomi in mezzo al corridoio che stavamo percorrendo.

Rimanemmo a fissarci per qualche secondo, studiandoci a vicenda.

«Siamo cresciute, credo», disse Francine, scuotendo le spalle: «Abbiamo iniziato a interessarci a cose diverse e non siamo state in grado di rimanere amiche».

Mi morsi il labbro, pensierosa: «Non ti manca mai?»

«Cosa?», chiese, sembrava scocciata.

«La nostra amicizia: io, te e Sab», specificai, osservando le sue labbra socchiudersi nuovamente per la sorpresa.

«Perché dovrebbe mancarmi? Ho altre amiche», rispose, riprendendo a camminare, Francine, il naso verso l'alto e una smorfia in volto.

«Tipo Carol? Non ti viene mai voglia di avere una conversazione intelligente con qualcuno?», le chiesi, sostenendo il suo passo.

«Carol è intelligente», disse lei, bloccandosi nuovamente nel corridoio.

Iniziai a notare solo in quel momento il viavai crescente di studenti che ci guardava male perché ostruivamo il corridoio, ma li ignorai e continuai la mia missione: capire cos'era successo davvero tra me e Francine.

Era indubbio che crescendo avessimo iniziato ad avere interessi diversi o aspirazioni diverse, ma questo non spiegava i nostri continui litigi e l'odio, a cui ormai mi ero abitata tanto da non ricordarne l'origine.

«Carol? Intelligente? Mi stai dicendo che fa apposta ad essere rimandata a quasi ogni corso che frequenta?»

Francine distolse lo sguardo e riprese a camminare, e io la seguii.

«Non dovresti andare a lezione?», mi chiese all'improvviso, incrociando le braccia al petto.

«Sì, ma speravo che prima mi dicessi cosa ho fatto per farmi odiare così tanto da te».

«Esisti», disse Francine, prima di riprendere a camminare e perdersi tra la folla.

Sospirai e decisi di lasciarla andare; avremmo parlato un altro giorno, quando sarebbe stata pronta.

Mi diressi verso il mio armadietto per recuperare dei libri e poi andai in aula.

Il resto della giornata trascorse in modo fin troppo tranquillo.

Raccontai della chiacchierata con Francine a Sab, che sembrò sorpresa della mia volontà di voler sotterrare l'ascia di guerra e iniziare ad avere toni più civili con quella che un tempo era stata una delle nostre più care amiche. 

Anche Isabel sembrava non ricordare la causa scatenante della rivalità che c'era tra noi e Francine, il che mi fece sentire meno in colpa.

La giornata scolastica si concluse con un test a sorpresa di matematica che nessuno si aspettava e per cui non ero molto preparata, ma cercai di rimanere positiva e mentre mi dirigevo alla fermata dell'autobus mi chiesi se Xavier avesse ottenuto il permesso da nonna di tornare alla sua vita normale.

«Comincio a pensare che io e Alan potremmo non essere una bella coppia».

Le parole di Sab mi fecero tornare alla realtà e un'espressione perplessa apparve sul mio volto: «Perché dici così?»

«È un bel ragazzo, è simpatico e molto educato, penso che potremmo andare d'accordo, ma non credo che sia la persona giusta per me», disse Isabel, guardandomi pensierosa: «Ho visto il modo in cui tu e Xavier vi guardate, vedo il modo in cui mia mamma e mio papà si completando a vicenda, in un modo che non riesco a spiegarmi. Io e Alan non abbiamo niente di simile».

«Non ancora, magari è questione di tempo», le feci notare, salendo con lei sull'autobus e occupando i nostri soliti posti.

«No, Diana, non credo sia questione di tempo», disse lei, giocherellando con il braccialetto dell'amicizia che le avevo regalato anni prima. Un tempo avevo anche io un braccialetto uguale, ma l'avevo perso; per fortuna Sab era stata comprensiva e non se l'era presa, ma aveva anzi deciso di indossare il proprio braccialetto, ogni giorno, per entrambe.

Mi ero impegnata per creare io stessa quei due braccialetti, io che non ero mai stata molto creativa, proprio per dimostrare a Sab quanto tenessi a lei. Avevo anche iniziato a creare un braccialetto per Francine, poi le cose erano andate come erano andate e non avevo più avuto occasione di terminarlo e darglielo.

«Penso ci sia qualcosa di sbagliato in me», sussurrò Isabel, tenendo lo sguardo basso.

Appoggiai la mano sulla sua spalla, stringendo appena la presa: «Non dire così, Sab. Non c'è nulla di sbagliato in te».

Gli occhi grandi ed espressivi della mia migliore amica si puntarono nei miei, quando capii che era ad un passo dalle lacrime, sentii un fastidioso dolore al petto.

«Devo andare, è la mia fermata», disse Sab, alzandosi prima che potessi dirle qualcosa.

Mentre scendeva dell'autobus la vidi passarsi la manica della giacca sul viso per asciugarselo dalle lacrime.

Stavo per scendere a mia volta, decisa a raggiungerla e chiederle spiegazioni, quando venni intercettata da mio fratello che, mi ricordò con una risata che quella non era ancora la nostra fermata e mi sospinse verso i nostri posti a sedere.

«Sei pallida, D», disse Kyle, osservandomi con occhio critico: «Altra intossicazione alimentare?»

«No, penso che Isabel stia passando un brutto periodo, ma non me parla molto e non so cosa fare», ammisi, guardando fuori dal finestrino, individuando la figura della mia migliore amica che si dirigeva verso casa sua.

Cominciavo a temere che la colpa della tristezza di Sab fosse Michel e il fatto che non fosse interessato a lei.

«Strano, Isabel è un chiacchierona», disse Kyle, scrollando le spalle: «Vedrai che quando sarà pronta ti dirà cos'ha», aggiunse passandomi un braccio intorno alle spalle.

«Lo spero», sospirai, osservando le case, i parcheggi e i giardini filare via oltre il finestrino dell'autobus.

Kyle mi tirò una gomitata, svegliandomi dal mio stato di trance: «Come sta Ann?»

Scrollai le spalle: «Non ci ho parlato molto oggi, ma mi è sembrata stare bene», dissi osservando l'espressione fin troppo interessata di mio fratello: «Sai che è inquietante la tua ossessione per una ragazzina di quattordici anni?»

Kyle sollevò gli occhi al cielo: «Non sono ossessionato».

«Certo che no», dissi con tono sarcastico.

«Sono solo... io... non lo so spiegare, ok?», borbottò Kyle, incrociando le braccia al petto.

Decisi di non infierire oltre e non gli feci altre domande.

Appena scesi dall'autobus corsi in casa e provai a chiamare Isabel con il telefono fisso di casa, ma non rispose nessuno e desistetti dopo tre chiamate a vuoto.

Mi diressi quindi in camera a cambiarmi e subito dopo salii le scale diretta in mansarda.

Fece strano trovare la stanza vuota e il letto rifatto.

Non potei impedirmi di pensare, per pochi secondi, che Xavier se ne fosse andato senza dire niente. I miei timori vennero subito smentiti dal fatto che il suo borsone, il computer, i vestiti si trovassero ancora tutti al loro posto.

Corsi giù per le scale con il cuore in gola, raggiungendo subito nonna in bagno, dove stava pulendo lo specchio che si trovava sopra al lavandino.

«Dov'è Xavier?», chiesi con il fiato corto, appoggiandomi allo stipite della porta.

«È andato a fare una passeggiata per sgranchirsi le gambe», disse nonna, sorridendomi: «Non penso si sia allontanato troppo».

Provai un forte sollievo nel sentire quelle parole e ignorai il fatto che avrei dovuto fare dei compiti e studiare, decidendo di correre fuori casa per cercare di raggiungere Xavier, ovunque si trovasse in quel momento.

Mi lasciai guidare dall'olfatto, seguendo l'odore di sandalo e cannella lungo il sentiero che portava al bosco.

Ricordavo chiaramente le parole dei miei genitori e il fatto che mi era proibito avventurarmi da sola tra gli alberi in quel periodo, ma decisi di addentrarmici lo stesso.

Non dovetti cercare molto, Xavier si trovava a cinque minuti a piedi da casa mia, era appoggiato al tronco di un albero e mi sorrise quando lo raggiunsi.

«Ti ho sentita arrivare, così mi sono fermato ad aspettarti», mi disse, notai subito nel suo tono di voce una felicità e serenità che mi resero istantaneamente tranquilla: «Ho vinto contro tua nonna, mi ha lasciato uscire dal letto».

Gli gettai le braccia intorno al corpo e affondai il volto contro il suo petto, ispirando a fondo il suo odore: «Sei stato fortunato», gli dissi, godendo della sensazione di pace e appartenenza che sentivo in quel momento: «Nonna è un osso duro di solito».

Xavier mi circondò a sua volta con le sue braccia, dandomi un bacio tra i capelli: «Devo averle fatto pena».

Dimenticai in quel momento la confusione di Kyle, la tristezza di Isabel, la discussione vagamente pacifica che avevo avuto con Francine, il discorso dei miei genitori e lasciai semplicemente che le sue braccia mi stringessero, che il suo odore mi inebriasse e che la sua voce mi cullasse.

«Ho dovuto insistere per fare questa passeggiata, tua nonna voleva che rimanessi in casa. Poi le ho fatto notare che le ferite si sono ormai rimarginate perfettamente e che non era necessaria tutta quella premura... Stai bene, Diana? Non sono abituato a tutto questo affetto da parte tua».

«Per un attimo ho pensato che te ne fossi andato», ammisi, rimanendo col volto premuto contro il suo petto.

Si scostò leggermente dal mio abbraccio, sistemandomi alcune ciocche di capelli dietro alle orecchie: «E me ne andrei senza salutare? Per chi mi hai preso, Diana?»

Scossi la testa, sorridendo: «Infatti l'ho pensato solo per un attimo».

«Un attimo di troppo», disse, pizzicandomi il fianco con una mano: «Ti va una passeggiata?»

«Quando mi darai lezioni di combattimento?»

Xavier scoppiò a ridere e intrecciando le dita della sua mano sinistra a quelle della mia mano destra, iniziò a muovere qualche passo, seguendo il sentiero: «Domani, forse».

«Forse?», ripetei, aggrottando le sopracciglia e ignorando, per quanto possibile, il caldo languore che sentivo allo stomaco nel vedere le nostre mani unite.

«Tua nonna potrebbe impedirmelo», mi fece notare, scrollando le spalle.

«Ci parlo io con nonna, tu non ti preoccupare», dissi con tono sicuro.

Xavier sorrise: «Sissignora».

Continuammo a passeggiare e chiacchierare per qualche minuto. Finii ben presto col perdere la cognizione del tempo, ma non me ne preoccupai.

Ero con Xavier, ero felice; tutto il resto poteva aspettare.




 

***


Buongiorno popolo di EFP!

Eccoci alla fine del diciottesimo capitolo di questa storia.

Spero che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate, rimango a vostra disposizione per qualsiasi dubbio o domanda.

Ho calcolato che dovrei scrivere ancora nove o dieci capitoli prima di concludere la storia, quindi abbiamo ancora un bel po' di strada davanti a noi.

Vi comunico che dal 10 Luglio fino al 25 sarò in vacanza, quindi avrò meno occasione di scrivere. Magari riesco comunque ad aggiornare, ma preferisco mettere le mani avanti e dirvi di non aspettarvi molto da me.

Ovviamente il capitolo della prossima settimana dovrebbe arrivare senza problemi, ma dal 10 al 25 Luglio chi può dirlo?

Ricordo, per chi vuole, che mi potete trovare su Instagram: il nome dell'account è lazysoul_efp.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX: Lezione di combattimento ***


 

 

Riassunto del capitolo precedente: Diana e Xavier dopo aver dormito insieme, si svegliano e si punzecchiano un po'. I genitori di Diana le fatto un discorso imbarazzante sul sesso e lei fugge alla fermata dell'autobus in anticipo pur di non lasciarli parlare troppo. A scuola Isabel sembra molto triste, perché lei ancora non ha trovato qualcuno con cui stare bene ed essere se stessa. Una volta a casa Diana trova Xavier nel bosco e gli dice che si sarebbe occupata lei di convincere nonna a lasciarli combattere.

 

Buona lettura!

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XIX: Lezione di combattimento

 

 

 

Le sue mani forti mi bloccarono i polsi, impedendomi di colpirlo.

 

La sua stretta era ferrea; non riuscivo a liberarmi, così decisi di colpirlo al petto con una testata, che lo fece indietreggiare per la sorpresa e allentare di quel tanto che bastava la presa intorno ai miei polsi, così da permettermi la fuga.

 

Indietreggiai di un paio di passi, osservandolo.

 

Quando provai nuovamente ad attaccarlo, riuscii a colpirlo con un pugno allo stomaco, ma l'istante successivo ero avvolta dalle sue braccia contro il suo petto. La sua stretta era talmente forte da farmi temere per l'incolumità della mia cassa toracica. 

 

Faticavo a respirare e i miei tentativi di liberarmi questa volta consistevano nel cercare di sfuggire dalla presa, muovendo le gambe, in modo da colpire le sue.

 

La sua stretta si fece ancora più ferrea e per qualche secondo vidi tutto nero.

 

Quando riemersi dall'oblio, pochi istanti dopo, lo sguardo preoccupato di Xavier era a pochi centimetri dal mio, il viso contratto in una smorfia colma di apprensione.

 

«Diana? Stai bene?», mi chiese, accarezzandomi il volto con una dolcezza tale da farmi sorridere.

 

«Mr. X», gli dissi, con la voce roca e bassa: «Sei più scaltro di quanto pensassi».

 

Mi sollevai a sedere, aiutata dalla sua mano bollente che mi sosteneva la schiena.

 

«Mr. X?», mi chiese, con un'espressione divertita.

 

«Ritieniti onorato», lo avvisai, puntandogli contro il petto l'indice: «Professor X è troppo lungo e poi non sei abbastanza meritevole da poter avere lo stesso nome del grande Charles Xavier».

 

La risata divertita di O'Bryen mi fece aggrottare le sopracciglia; odiavo profondamente essere presa in giro.

 

«Oh, Diana, non fai altro che sorprendermi», disse, sollevandosi in piedi.

 

La mia schiena, non più scaldata dalla sua pelle bollente, divenne ad un tratto fredda.

 

Mi alzai a mia volta, pronta a prenderlo a calci nel sedere per il modo poco velato in cui si stava prendendo gioco di me. Ci ero andata piano con lui fino a quel momento perché ero convinta che fosse ancora in convalescenza e non volevo infierire. Era chiaro che invece non si meritava affatto la mia apprensione.

 

Senza dargli tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo, allungai una gamba e gli feci lo sgambetto, facendolo finire a terra, ai miei piedi.

 

Con uno scatto gli fui addosso, bloccandogli le bracci a terra con le mie mani. Quella posizione mi ricordava la prima volta che ci eravamo incontrati; quel pensiero fece tingere di rosso le mie guance.

 

«Non prendermi in giro», dissi, con la fronte aggrottata e la voce colma di stizza.

 

La sua espressione divertita era ancora lì, solo che un altro sentimento sembrava aver preso il sopravvento: lo stupore.

 

«Non ti stavo prendendo in giro», disse, ribaltando le nostre posizioni e prendendomi il viso tra le mani: «Sono piacevolmente sorpreso che tu sia una fan degli X-Men, tutto qua».

 

Sollevai un sopracciglio, indecisa se credergli o meno.

 

«E mi ritengo molto più che onorato, Didi», mormorò, il volto pericolosamente vicino al mio.

 

«Non storpiare il mio nome», dissi, riuscendo a scansarmelo di dosso, per poi tentare nuovamente di bloccarlo a terra col mio peso.

 

«Non ti piace, Didi? Tutti ti chiamano D, ho pensato di poter...», lo zittii colpendogli il ventre con un pugno, che lo fece rimanere senza fiato per un paio di secondi,

 

«Taci», gli dissi, mentre mi preparavo a colpirlo ancora.

 

Le sue mani mi avvolsero i fianchi e mi spinsero di lato, facendomi rotolare tra l'erba. Quando tornai in piedi, lui non perse tempo e mi imprigionò il braccio destro dietro alla schiena, girandolo in modo da farmi male, quel tanto che bastava per impedirmi di pensare a qualsiasi altra cosa.

 

«Mai lasciarsi guidare dalla rabbia o dal nervosismo, Didi», disse Xavier al mio orecchio, continuando a tenere il mio braccio in quella dolorosa angolazione; gli sarebbe bastato davvero poco per spezzarmelo.

 

«Mr. X, mi fai male», sibilai tra i denti, mentre con il braccio libero cercavo di colpirlo in qualche modo. Riuscii ad immergere la mia mano tra i suoi capelli e non ci pensai due volte prima di tirare forte, nel tentativo di ricambiare il dolore con altro dolore.

 

All'improvviso mi liberò e io a mia volta lasciai la presa.

 

Mi voltai per fronteggiarlo, mentre mi massaggiavo il braccio, che formicolava per la scomoda posizione in cui era stato costretto.

 

«Coraggio, Didi, fatti sotto», mi incitò, sorridendomi in quel suo modo arrogante che mi faceva venir voglia di tirargli uno schiaffo.

 

Sapevo che stava continuando a chiamarmi con quel soprannome, perché voleva innervosirmi e sapevo che,per non dargliela vinta, avrei dovuto semplicemente far finta di niente, ma non ne ero in grado. Il suo comportamento era semplicemente troppo snervante, meritava una bella punizione.

 

Con un urlo di battaglia che assomigliò molto ad un ringhio di rabbia, abbattei la mia spalla contro il suo torace, nel tentativo di fargli perdere l'equilibrio e farlo cadere a terra. Le sue mani si avvolsero intorno ai miei fianchi e l'istante dopo volavo.

 

Atterrai scompostamente a un paio di metri di distanza, col fiato corto e un forte dolore al polso destro; non era rotto, ma di sicuro stava meglio prima. Ignorando il male, mi rialzai e lo cercai alle mie spalle. Appena i nostri occhi s'incontrarono notai la sua espressione preoccupata.

 

Afferrai da terra un sasso e glielo lanciai contro, creando il diversivo perfetto che mi permise di saltargli addosso e avviluppare le mie gambe intorno al suo collo, facendogli perdere l'equilibrio.

 

Una volta atterrato, strinsi ulteriormente la presa delle mie gambe, nel tentativo di strozzarlo e soffocarlo insieme, mentre con le mani cercavo di tenere ferme le sue braccia.

 

Riuscii nel mio intento per solo pochi secondi, prima che le sue mani forti e determinate mi afferrassero le cosce e me le allargassero, liberandolo dalla mia stretta.

 

Aveva in volto uno sguardo che mi disorientò, tanto che non riuscii ad oppormi quando mi scansò, facendomi rotolare accanto a lui.

 

Avevo il fiato corto e il cuore che mi batteva ad un ritmo irregolare.

 

Voltai il capo verso sinistra, incontrando gli occhi verdi di Xavier: «Sei pazza», disse semplicemente, gli occhi che gli brillavano, come se mi avesse appena fatto il complimento del secolo.

 

Aggrottai le sopracciglia gli colpii il fianco con una gomitata, facendolo gemere di dolore.

 

«La prossima volta combattiamo nudi, voglio vedere se hai il coraggio di saltarmi addosso come hai fatto poco fa».

 

Un imbarazzante rossore si diffuse sulle mie gote. 

 

"Non l'ha detto davvero", pensai, portandomi le mani al viso, anche se dovevo ammettere che non aveva tutti i torti; ero stata io, in fondo, a tentare di soffocarlo con le mie cosce e non il contrario.

 

«A cosa stai pensando?», chiese Xavier, riportandomi alla realtà e facendomi arrossire ancora di più.

 

«Niente», borbottai troppo in fretta.

 

Un sorriso compiaciuto comparve sulle sue labbra, mentre si appoggiava ad un gomito e si sporgeva su di me: «Quando arrossisci, Didi, sei particolarmente carina».

 

Diventai ancora più rossa: «Smettila».

 

«Altrimenti che fai? Provi a soffocarmi tra le tue cosce? Sarebbe una morte dolce e...»

 

Stanca delle sue provocazioni, provai ad attaccarlo di nuovo, ma lui fu più veloce e riuscì ad evitare il mio pugno, bloccandomi il polso destro.

 

La sua mano sinistra circondò la mia guancia, accarezzandola con dolcezza.

 

Prima che mi potessi rendere conto di ciò che stava facendo, troppo intenta a tentare di liberarmi - di nuovo - dalla sua presa, sentii le sue labbra scorrere contro la pelle della mia guancia, fino ad arrivare alla mia bocca.

 

«Posso baciarti?», sussurrò, mescolando i nostri respiri.

 

Il desiderio che traspariva dai suoi gesti, dal suo sguardo e dalla sua voce, mi fece sciogliere interamente.

 

Annullai le distanze, scontrando con forse troppa foga le mie labbra contro le sue, sentendo la stretta intorno al mio polso destro allentarsi fino a scomparire ed entrambe le sue mani circondarmi il volto. 

 

La sua bocca bruciava, così come la pelle dei suoi palmi sulle mie guance.

 

Le sue labbra, esperte, presero il sopravvento, guidandomi nella danza che le nostre bocche, unite, stavano eseguendo. Riuscii a stargli dietro solo per pochi secondi, prima di ribellarmi allo schema prefissato del ballo, mordendogli il labbro inferiore, per poi succhiarlo. Lo sentii gemere e reagire, spingendo la sua lingua dentro alla mia bocca, in modo da torturarmi lentamente con la sua maestria.

 

Per quanto quel bacio non perfetto, ma non per questo meno piacevole, mi stesse facendo perdere la testa, la parte di me terrorizzata dalle forti emozioni che stavo provando mi spinse ad allontanarlo, appena, così da permettermi di guardarlo negli occhi.

 

Avevo il fiato corto e anche Xavier sembrava faticare a respirare. La mano che avevo appoggiato al suo petto per allontanarlo si spostò sul suo viso, accarezzando le sue labbra ancora socchiuse e umide per il nostro bacio.

 

«Se Didi non ti piace, come posso chiamarti?», mi chiese in un sussurro, giocando con una ciocca dei miei capelli.

 

«Diana?», borbottai, imbronciandomi.

 

Era da circa un'ora che ci trovavamo nel bosco, in quella piccola radura in cui avevo dormito con Sab la notte in cui Xavier era tornato ferito gravemente. Mi sembrava incredibile che fosse passata quasi una settimana da quell'avvenimento.

 

Non era stato facile convincere nonna a lasciarci fare la nostra prima sessione di combattimento; avevo dovuto tormentarla per tre giorni, più di quanto mi sarei mai aspettata, ma alla fine avevo raggiunto il mio scopo.

 

«Il tuo è un bellissimo nome, ma se tu puoi chiamarmi Mr. X, non vedo perché io non possa chiamarti Didi», ribatté Xavier, percorrendo con una mano la mia schiena, lasciando dietro di sé brividi di desiderio.

 

Erano tre giorni che cercavamo ogni scusa per passare più tempo possibile insieme. Mercoledì pomeriggio avevamo anche guardato "Winnie The Pooh" con Edith, accoccolati sul divano, pur di non separarci.

 

Ogni giorno a scuola, non facevo altro che pensare a lui, per poi tornare a casa e cercarlo come farebbe una cocainomane in astinenza. 

 

Quando giovedì Xavier aveva ripreso a lavorare, avevamo iniziato una nuova tradizione e andavamo e tornavamo da scuola insieme, prendendo la sua moto. Lui continuava a guidare come un pazzo e io a lamentarmi per ogni curva presa con troppa velocità, ma non avrei cambiato per nulla al mondo quei momenti insieme.

 

Dopo il nostro pigiama party in camera sua, lunedì notte, avevamo deciso entrambi di non ripetere l'esperienza. Lui, scherzando, diceva che non voleva rischiare di beccarsi altri calci o di essere svegliato ogni pochi secondi dal mio russare o dal mio parlare nel sonno. Io, invece, volevo evitare di dare ulteriori motivi ai miei genitori per farmi di prima mattina discorsi imbarazzanti.

 

Il piano aveva funzionato fino a un certo punto, dato che continuavo comunque a passare molto tempo con lui e agli occhi dei miei genitori quel mio improvviso avvicinamento a un ragazzo, di qualche anno più grande, faceva venire voglia di chiacchierare di argomenti che prima non avevano mai sfiorato.

 

Quella mattina, mamma mi aveva anche chiesto, se volessi che mi prenotasse una visita ginecologica da Cora, la mamma di Ann, che avendo studiato per anni medicina, era considerata un'esperta per quanto riguardava metodi di guarigione moderni. Cora e nonna Diana erano le uniche "dottoresse" del branco, anche se appartenenti a due approcci completamente differenti. 

 

Nonna prediligeva infatti una medicina tradizionale e antica, che curava le ferite non con medicinali prodotti in laboratorio, ma con elementi derivati dalla terra e dalla natura.

 

Cora invece preferiva un approccio più moderno e basato su studi umani, che cercava di applicare anche alla nostra specie.

 

Quando avevo rifiutato l'offerta di mamma, papà era intervenuto dicendo che, se anche non avessi voluto provare a prendere la pillola, essendo ancora una bambina, dovevo fare attenzione e trovare metodi alternativi per non rimanere per sbaglio incinta.

 

Kyle aveva riso per tutto il tempo sotto i baffi.

 

Trovavo quelle conversazioni molto imbarazzanti, ma ero abbastanza matura da rendermi conto che i miei genitori mi parlavano di certi argomenti solo per il mio bene, quindi le accettavo senza lamentarmi troppo.

 

Avevo iniziato a temere, da un momento all'altro, di trovarmi un pacchetto di preservativi sul letto e mamma pronta a spiegarmi come usarli.

 

«A cosa stai pensando?», chiese Xavier, premendomi lievemente un bacio sul naso.

 

«Niente di che», risposi, cercando di scacciare quei pensieri imbarazzanti, pronta a sostituirli con qualcosa di più allegro.

 

«Non ti ho ancora chiesto com'è andata la scuola oggi», disse, incitandomi con lo sguardo a parlargli.

 

Sospirai e mi sdraiai comodamente tra l'erba, lasciando che il mio sguardo si perdesse nel grigio-azzurro del cielo sopra di noi: «Sab continua ad essere triste e Frida è molto contenta per il voto che abbiamo preso per la ricerca di spagnolo. Oh, e Francine continua a guardarmi male e a ignorarmi».

 

Era da martedì ormai che Isabel mi preoccupava.

 

Dopo lo sfogo che aveva avuto con me sull'autobus, non aveva più voluto parlare dell'argomento, cercando di farmi credere di stare meglio.

 

Sfortunatamente per lei ci conoscevamo da anni e mi era impossibile credere a quelle che erano, palesemente, bugie.

 

Avevo notato che, per quanto sorridesse negli ultimi giorni, era raro vedere quella stessa gioia nei suoi occhi. Spesso, inoltre, quando pensava di non essere notata, si chiudeva in se stessa, isolandosi in pensieri che non mi era dato conoscere.

 

Mai, come quella settimana, percepivo l'imposizione di non poter andare a trovare Sab come una vera a propria tortura.

 

Avevo pensato di ignorare la punizione che mi era stata data e di fuggire di notte per raggiungere Isabel e parlare con lei da sole, senza distrazioni di ogni sorta intorno a noi.

 

Avevo desistito quando mi ero resa conto che, se i miei genitori mi avessero beccata, avrei rischiato un'altra settimana di punizione e non ci tenevo a prolungare di così tanto quella tortura.

 

Da quando, il giorno prima, avevo fatto notare a Sab che sembrava molto distante e pensierosa, la mia migliore amica aveva deciso di impostare una recita a dir poco magistrale per dimostrare a tutti di stare bene.

 

Quel venerdì infatti mi era parsa, anche se ero consapevole che fosse solo una facciata, la Isabel di sempre; aveva chiacchierato di ogni cosa, spettegolato su Carol — "l'amica" cheerleader di Francine — e mi aveva chiesto nel dettaglio quale vestito avessi intenzione di indossare per il Plenilunio di sabato sera, ricordandomi che avevo promesso di uscire dalla mia zona di comfort per provare qualcosa di diverso dal solito. Non contenta aveva chiesto a Frida come stesse la ragazza con cui aveva ballato alla festa di Ling, e aveva chiesto a Jules se ci fosse qualche ragazza o ragazzo che gli piacesse della scuola.

 

Sab era stata, per quasi tutte le ore di scuola, l'uragano a cui ero abituata, e per qualche minuto mi ero illusa che forse, stesse effettivamente meglio.

 

Durante l'ultima ora, quella di educazione fisica, avevamo giocato a pallavolo e, mi ero impegnata molto per evitare che la presenza di Xavier monopolizzasse tutti i miei pensieri, studiando con attenzione le espressioni della mia migliore amica e le occhiatacce che lanciava a Francine ogni volta che la loro squadra segnava un punto.

 

Mi era sembrato tutto nella norma, inizialmente, fino a quando non avevo notato nello sguardo di Sab una tristezza che avevo imparato a conoscere bene negli ultimi giorni, una tristezza che fece subito suonare una campanello d'allarme nella mia testa.

 

Era in momenti come quelli che avrei voluto avere il superpotere di leggere nel pensiero delle persone.

 

Cosa continuava a tormentare la mia migliore amica?

 

Mi sembrava assurdo pensare che tutto quel dolore fosse stato generato dal semplice fatto che Sab non avesse ancora incontrato qualcuno, che le facesse provare le stesse cose che sentivo io, quando mi trovavo con Xavier.

 

Per questo avevo iniziato a sospettare che ci dovesse essere qualcos'altro che non mi voleva dire.

 

Osservandola, mentre giocavamo a pallavolo, avevo pensato in un primo momento che centrasse Francine e mi chiesi se Sab non fosse triste, perché anche lei avrebbe voluto riallacciare i rapporti con la nostra ex amica.

 

Poi mi ero resa conto che non poteva essere quello, altrimenti Isabel non si sarebbe fatta problemi a parlarmene apertamente. 

 

«Hai mai desiderato leggere nella mente di qualcuno?», chiesi a Xavier, voltando il volto, in modo da incontrare i suoi occhi verdi.

 

«Sì, in questo preciso momento vorrei leggere la tua», rispose, coricandosi sul fianco e allungando un braccio, in modo da cingermi la vita.

 

«Non ci troveresti niente di interessante, temo; continuo a pensare a Sab».

 

Xavier annuì: «È normale che tu sia preoccupata per la tua amica», mi disse, con tono comprensivo.

 

«Non mi ha mai tenuto nascosto niente, non la capisco», mi confidai, girandomi a mia volta sul fianco, così da fronteggiarlo: «Ho paura di perdere anche lei».

 

Xavier cancellò le distanze tra di noi, stringendomi in un caldo abbraccio rassicurante: «Perché dovresti perderla?»

 

«Perché non mi racconta la verità, si chiude in se stessa e finge di stare bene, quando non è così. Anche Francine faceva allo stesso modo quando ci siamo allontanate, sembrava non avere mai nulla da dirmi, quasi ce l'avesse con me per qualcosa, e col passare dei giorni e delle settimane abbiamo finito coll'allontanarci così tanto da non ricordarci più perché eravamo amiche in primo luogo. Non penso potrei sopportare di perdere anche Sab allo stesso modo».

 

«A me non è sembrato che ce l'avesse con te», disse Xavier, giocando con una ciocca dei miei capelli corti: «Oggi a lezione sembrava più avercela con se stessa».

 

Sospirai, inspirando a fondo l'odore umido della terra, il profumo di Xavier e quello della pioggia in avvicinamento.

 

«Penso che dovremmo avviarci verso casa, a meno che tu non voglia prenderti un raffreddore», dissi, scostandomi dal suo abbraccio, abbastanza da scrutare i nuvoloni scuri che si erano ammassati fino a nascondere completamente l'azzurro limpido del cielo.

 

«Sono d'accordo, non voglio che tua nonna abbia ulteriori motivi per tenermi chiuso in casa», borbottò Xavier.

 

Sorrisi, sollevandomi in piedi: «Soprattutto non il giorno prima del Plenilunio, rischieresti di perderti una festa coi fiocchi!»

 

«Esatto, rischierei di perdermi una bellissima serata con la mia ragazza».

 

Mi bloccai lungo il sentiero che portava verso casa, sollevando lo sguardo sul volto di Xavier per osservare la sua espressione serena.

 

«La tua ragazza?», ripetei, saggiando quelle parole e il significato in esse contenuto.

 

Non ero mai stata la ragazza di nessuno e temevo che fosse un po' troppo presto per etichettare quello che eravamo l'uno per l'altra, ma non potevo impedirmi di sentirmi elettrizzata, all'idea di essere una persona tanto importante per Xavier, il ragazzo che era riuscito ad abbattere tutte le mie difese.

 

Intrecciò le nostre dita, sorridendomi: «Sarei onorato di essere il tuo ragazzo, Diana. E sarei ancora più onorato se tu volessi essere a tua volta la mia ragazza».

 

«Sei un po' esagerato, ma ho afferrato il concetto», dissi, sorridendo a mia volta.

 

«Allora?», chiese, piegandosi leggermente, in modo da portare i nostri occhi alla stessa altezza e le nostre labbra pericolosamente vicine: «Vuoi essere la mia ragazza, Diana?»

 

Mi sporsi, cancellando le distanze, ammaliata dal suo odore e dalla dolcezza nella sua voce.

 

Ci baciammo per qualche secondo, persi l'uno nell'altra e interrompemmo il bacio solo quando cominciammo a sentire le prima gocce di pioggia colpirci il viso.

 

«Era un sì?», chiese Xavier, accarezzandomi le guance, così da creare disegni d'acqua piovana sulla mia pelle.

 

«Ci devo pensare, ma avrai una risposta al più presto», dissi, prima di avviarmi con passo deciso verso casa mia, seguita dai suoi passi alle mie spalle.

 

«Sei crudele», commentò, sbuffando, facendomi sollevare gli occhi al cielo.

 

«Se fossi crudele ti avrei detto di no, senza pensarci nemmeno», gli feci notare, accelerando il passo, quando sentii la pioggia aumentare d'intensità.

 

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, mentre percorrevamo il sentiero.

 

«Posso sapere cosa indosserai domani sera?», mi chiese dopo un po', facendomi arrossire.

 

«Perché me lo chiedi?»

 

«Curiosità, mi chiedevo se la figlia dell'Alfa dovesse indossare o meno qualcosa di specifico», spiegò con tono casuale: «Inoltre non sono sicuro di cosa io, dovrei indossare».

 

«Dovresti parlarne con mio padre o mia madre, non con me», gli feci notare, con un sorriso divertito sulle labbra: «Non so se te ne sei accorto, ma non sono il tipo di ragazza che si interessa di moda e tendenze».

 

«Avevo avuto questo sentore», mi disse, ridendo di gusto alle mie spalle.

 

Calò nuovamente il silenzio, ma non era teso o imbarazzante, era quel tipo di silenzio che permetteva di godere della compagnia di un'altra persona senza sentire l'impellente necessità di spezzarlo con una battuta, delle frasi o una qualsiasi parola.

 

Quando il sentiero si allargò, Xavier mi affiancò, allungando la mano per afferrare le mia e intrecciare le nostre dita.

 

«Non hai risposta alla mia domanda», mi fece notare, urtandomi lievemente con la spalla, così da farmi perdere per un secondo l'equilibrio.

 

«Lo so».

 

Xavier sorrise, mostrando le sue irresistibili fossette: «Quindi non vuoi dirmi cosa metterai domani sera?»

 

«Esatto».

 

«Secondo me non me lo vuoi dire perché ancora non sai cosa mettere», mi disse, sorridendo furbescamente.

 

Cercai di non lasciare trapelare dalla mia espressione alcun tipo di emozione e scossi la testa: «Sbagliato», mentii, guardando dritto di fronte a me.

 

«Sei adorabile quando cerchi di dirmi delle bugie».

 

«Io non sto mentendo», ribattei, fulminandolo con un'occhiataccia.

 

«Non c'è bisogno di essere sulla difensiva, Didi, volevo solo sapere il colore della maglietta o maglione che pensavi di mettere, magari riusciamo ad essere coordinati».

 

«Perché dai per scontato che indosserò una maglietta?»

 

«Perché per tua stessa ammissione so che non ti piace "agghindarti" per le feste e che non ti consideri un'esperta "di moda e tendenze"», disse.

 

«Oh, giusto», borbottai, abbassando lo sguardo, incerta se anticipargli o meno, che per la festa di sabato sera le cose sarebbero andate diversamente.

 

Ricordavo chiaramente di aver promesso a Sab che avrei indossato un vestito per il Plenilunio, l'unico problema era che il mio armadio non conteneva alcun abito particolarmente femminile e per colpa della punizione non potevo nemmeno andare in centro a comprarmi qualcosa di nuovo.

 

Molto probabilmente avrei dovuto chiedere a mamma se aveva qualcosa da prestarmi.

 

«Facciamo a gara a chi arriva prima a casa?»

 

Le parole di Xavier mi animarono e decisi di mettere da parte la questione vestito, annuendo con entusiasmo alla sua proposta.

 

L'istante dopo avevamo entrambi iniziato a correre lungo il sentiero.

 

Fu lui ad arrivare per primo, vincendo per un soffio, ma non mi rattristai molto, certa che avrei avuto modo di chiedergli la rivincita nei giorni successivi.

 

 

 

 

***

 

Buongiorno popolo di EFP!

 

Finalmente Diana e Xavier hanno fatto la loro prima sessione di lotta, anche se sono molti i pensieri che frullano nella testa della nostra protagonista!

 

Secondo voi cos'è che affligge tanto Sab? Solo il fatto di essere sola o, come pensa Diana, c'è qualcos'altro?

 

Spero che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate!

 

La prossima settimana, come vi avevo già anticipato, non ci sarà un aggiornamento, dato che sarò in vacanza, ma per quella dopo ancora dovrei tornare.

 

Per chi fosse interessato mi può trovare su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp.

 

Un bacio,

 

LazySoul

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Capitolo 20
*** Capitolo XX: Ladra di vestiti ***


 

Riassunto del capitolo precedente: Diana e Xavier riescono ad avere la loro prima lezione di lotta, dove Xavier ne approfitta per appioppare un nuovo soprannome a Diana, iniziando a chiamarla Didi, lei per ripicca inizia ad apostrofarlo Mr. X. Isabel continua ad essere triste e Francine continua a non voler parlare con Diana e la festa per il Plenilunio è sempre più vicina.

Buona lettura!




 

Capitolo XX: Ladra di vestiti

 

 

Sbattei le palpebre un paio di volte, mentre osservavo con occhio critico il modo in cui il vestito rosso, che avevo trovato nell'armadio di mamma, mi cadeva addosso.

Se non fossi stata in punizione, probabilmente avrei chiesto a Sab di accompagnarmi per negozi, così da comprare un abito che mi stesse bene per la fatidica festa del Plenilunio. Dato che però ero effettivamente in punizione, e lo sarei stata ancora per qualche ora, mi ero dovuta arrangiare diversamente.

Erano due i vestiti che avevo recuperato in gran segreto.

Il primo era quello che stavo indossando in quel momento, un abito rosso smanicato che scendeva fino a coprirmi le ginocchia; semplice e privo di qualsiasi tipo di fronzoli.

Era innegabile però che, malgrado sembrasse perfetto, nella realtà dei fatti mi stava talmente male da farmi sentire a disagio.

Non ero mai stata particolarmente interessata al mio aspetto fisico, cosa che si poteva evincere aprendo il mio armadio e dall'assenza di trucchi e prodotti per la bellezza. Malgrado ciò ero in grado di capire quando un capo di abbigliamento non era adatto al mio fisico.

Mia mamma, per quanto avesse un copro asciutto e allenato, era dotata di curve femminili che il mio acerbo corpo da adolescente non possedeva, per questo il vestito risultava essere particolarmente abbondante in alcune zone.

Considerando il fatto che le mie scelte erano comunque limitate, decisi di non essere troppo dura con me stessa e il vestito, stabilendo che tutto sommato avrei potuto provare a rendergli giustizia; magari con i giusti accessori sarei riuscita a nascondere i difetti dell'abito e a non sembrare una bambina di cinque anni con indosso l'abito di sua madre. 

Abbassai la zip che si trovava sulla schiena, contorcendomi nell'impresa, e una volta in biancheria intima afferrai l'abito blu scuro, che avevo recuperato invece dall'armadio di nonna.

Il vestito era a maniche lunghe, aveva uno scollo a barca e una semplice gonna a ruota che arrivava poco sotto il ginocchio. L'unico elemento che mi faceva storcere un po' il naso erano gli orli decorati da quelle che sembrano costellazioni di brillantini.

Malgrado il brillio, mi resi ben presto conto che quello sarebbe stato l'abito che avrei indossato. 

Guardandomi allo specchio, non notavo difetti evidenti o parti troppo larghe; ciò mi fece pensare che nonna da giovane dovesse aver avuto un fisico molto simile al mio.

Senza perdere ulteriore tempo, dato che ero fin troppo consapevole che mancava meno di un'ora alla festa del Plenilunio, mi sfilai l'abito e corsi ad occupare il bagno per farmi una doccia veloce.

Più si avvicinava l'ora dell'evento, più sentivo l'ansia concentrarsi all'altezza del mio stomaco, dove sembrava esserci in corso un attorcigliamento di budella considerevole.

Non riuscivo a capire quale fosse la principale causa di tutta quella tensione.

In un primo momento, avevo pensato che fosse dettata dal fatto di indossare un abito e del trucco ad una festa a cui di solito partecipavo in maglietta e jeans.

Mi ero dovuta ricredere però.

Il vero motivo per cui ero così nervosa non era uno solo, ma erano fin troppi.

Quella sera avrei rivisto Michel. 

Dopo il nostro ultimo incontro di lunedì pomeriggio, ogni tanto mi capitava di pensare a quanto fossi stata sciocca e maligna; avevo illuso inutilmente un ragazzo che, in fondo, non mi aveva fatto nulla di male, oltre a invitarmi a uscire. Non avevo scusanti, nemmeno il comportamento di Michel dell'ultimo periodo e il fastidio che mi aveva provocato potevano giustificare il mio comportamento.

Quella sera avrei visto anche Sab.

Speravo vivamente di riuscire, in qualche modo, a parlarle in privato, così da provare a farmi dire, una volta per tutte, cosa la facesse stare tanto male. La messinscena di Isabel e la felicità che indossava come una maschera potevano fregare gli altri, ma non me; io vedevo la tristezza nel suo sguardo, quando pensava che nessuno la stesse guardando. 

Quella sera avrei visto Francine.

Dopo la nostra ultima conversazione di qualche giorno prima non avevamo più avuto occasione di parlare, anche se, per i corridoi a scuola, l'avevo vista più volte lanciarmi occhiate che, stranamente, non contenevano l'odio che solitamente mi riservava. Forse quel poco che le avevo detto e il mio desiderio di riallacciare i rapporti avevano iniziato a far desiderare anche a lei che le cose tornassero come quelle di un tempo. 

Quella sera avrei rivisto molti volti che, per un motivo o per un altro, non facevano parte della mia quotidianità, come le gemelle Dartmoor e i signori Evans, che vivevano dall'altra parte della città, il padre di Michel e Francine, e i genitori di Isabel e Ann. 

Forse però, la cosa che più mi innervosiva era l'idea di passare l'intera serata con Xavier, il mio Mr. X.

«Diana, sei ancora nella doccia? Guarda che tra poco dobbiamo andare!», esclamò mamma oltre la porta del bagno, bussando con foga contro il legno: «Muoviti!»

Mi avvolsi un asciugamano in testa e uscii, ancora in accappatoio, in corridoio.

Mamma mi accolse con un'espressione contrariata, mentre Kyle, alle sue spalle, mi guardava scuotendo la testa: «Sempre la solita», borbottò con tono rassegnato, sorridendo sotto i baffi.

«Corri a vestirti», disse mamma, indicandomi la porta della mia camera: «E tu perché sei ancora in mutande?», aggiunse, fulminando mio fratello con uno sguardo esasperato.

Kyle sorrise apertamente e si sporse per abbracciare mamma: «Sei troppo nervosa, hai bisogno di un po' di affetto», disse, costringendo la mamma in un abbraccio da cui lei cercava inutilmente di liberarsi.

«Kyle non ho bisogno di affetto, ma di...», provò a dire mamma, interrotta da papà che, spuntato in corridoio chiese: «Abbraccio di gruppo?»

L'istante successivo mamma si trovò circondata anche dalle braccia di papà, mentre Edith accorreva dal salotto, con addosso un abito con la gonna a ruota e molti braccialetti colorati ai polsi: «Sì, abbraccio!»

Cercai di allontanarmi, ma venni avvolta a tradimento da un braccio di papà, che mi costrinse ad aggiungermi a quel momento di affetto di cui non avevo bisogno.

«Devo andare a vestirmi», mi lamentai, ma non venni ascoltata e la tortura proseguì per qualche secondo, fino a quando nonna non comparve dalla cucina con in mano una tazza di tè e un'espressione divertita: «Mi aggiungerei, ma non mi piace l'idea di morire soffocata».

«Fuggi finché sei in tempo», disse mamma, al centro dell'abbraccio, facendo ridere sguaiatamente papà, mentre io riuscivo a districarmi e fuggire in camera.

«Dove scappi?», mi urlò dietro Kyle. 

«A vestirmi, cosa che dovresti fare anche tu», gli dissi, prima di chiudermi la porta della mia camera alle spalle.

I successivi minuti li passai a vestirmi, scegliendo con meticolosa precisione anche l'intimo, decisa a voler essere impeccabile.

Solo dopo qualche secondo, quando ormai avevo messo il vestito e mi apprestavo a cercare il rossetto che mi aveva regalato Sab per Natale, mi resi conto del perché avessi impiegato tanto tempo e scegliere che mutande e reggiseno indossare e il pensiero mi fece diventare le guance bollenti.

Malgrado non fossi sicura di voler perdere la mia verginità quella sera, anche perché era un argomento che non avevo ancora mai discusso con Xavier e non sapevo cosa pensasse lui al riguardo di un possibile "approfondimento" della nostra relazione, volevo essere pronta.

Trovai il rossetto in un cassetto della scrivania e lo sfilai dalla confezione in cartone che lo conteneva. Era un rossetto rosso, niente di speciale o particolare, ma abbastanza appariscente da farmi sentire leggermente a disagio all'idea di indossarlo.

Mi ritrovai a chiedermi se a Xavier sarebbe piaciuto il mio vestito e il rossetto che ero sul punto di indossare.

Guardai il mio riflesso nello specchio e, facendo attenzione, iniziai a colorare le mie labbra, con la mano che mi tremava appena.

Fu in quel momento che la porta si aprì ed entrò mamma.

«Diana, sei... ?»

Mi voltai, fissando mamma con le guance bollenti.

L'espressione stupita sul volto di mamma mi fece arrossire ancora di più.

«Sei bellissima tesoro», disse lei, sorridendomi: «Aspettami, torno subito», aggiunse, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Rimasi ferma, col rossetto in mano e parte del mio labbro inferiore colorato ad analizzare la sensazione di orgoglio che provavo in quel momento.

Non era strano sentirsi dire da mia madre che ero bella. Certo, si lamentava spesso dei miei vestiti e di come mi curavo poco, ma questo non le aveva mai impedito di farmi complimenti e aumentare la mia autostima. Mi aveva sempre permesso di essere me stessa, se si lamentava dei miei vestiti lo faceva perché a lei non piacevano, non perché pensasse che non avrei dovuto indossarli.

Mamma tornò con in mano quella che mi sembrava una matita e un enorme sorriso in volto, si richiuse la porta alle spalle con aria cospiratoria e mi si avvicinò.

«Ti aiuto», mi disse, facendomi sedere alla scrivania: «È un attimo sbavare e rovinare tutto, meglio fare prima il contorno con una matita».

Non mi opposi e lasciai che mamma mi desse una mano.

Vidi chiaramente il suo sguardo posarsi sul mio letto per qualche secondo, poi i suoi occhi tornarono su di me: «Allora sei stata tu a prendere il mio vestito, pensavo di averlo perso chissà dove!»

«Sab mi ha costretta», spiegai, facendo una smorfia.

Mamma scoppiò a ridere, prima di alzarmi il viso, in modo da poter disegnare il contorno delle mie labbra.

«Quindi è tutta colpa di Isabel? Pensavo c'entrasse qualcun altro», disse, sul volto aveva un'espressione furbesca che mi fece capire subito a chi si riferisse.

Ero sul punto di ribattere, ma mamma mi dissuase con poche semplici parole: «Non muoverti, altrimenti rovini tutto il mio lavoro».

Quando finì con la matita, mamma mi prese dalle mani il rossetto che mi aveva regalato Sab e iniziò a distendere il colore sull'intera superficie delle mie labbra. La sue espressione concentrata mi fece capire che non avevo nulla da temere, né sbavature né imperfezioni.

«Ecco fatto», disse, facendomi segno di guardarmi allo specchio: «Sei bellissima».

Diversamente dal solito, quando trovai il mio riflesso, non puntai l'attenzione sul mio occhio grigio o quello nocciola, ma solo ed esclusivamente sul colore acceso della mia bocca.

Non avevo mai pensato che un semplice rossetto potesse farmi sembrare e sentire più grande, come una della mia età e non come la ragazzina immatura che, a volte, temevo di essere.

«Penso che a Xavier piacerà molto il tuo aspetto questa sera», disse mamma, sulle labbra aveva nuovamente quel sorriso furbesco.

Le mie guance divennero più rosse del rossetto e spostai subito lo sguardo dallo specchio, per guardare mamma negli occhi: «Non lo sto facendo per Xavier!», dissi, alzandomi in piedi per cercare le ballerine bianche che mi erano state regalate per il mio sedicesimo compleanno e che non avevo mai usato. Con qualche anno di ritardo, ma finalmente mi sarebbero tornate utili.

«Certo che no, ma questo non cambia il fatto che apprezzerà di sicuro», disse mamma, facendomi l'occhiolino: «Vado a vedere se tuo fratello si è messo i pantaloni».

«Mamma?», la chiamai, prima che potesse chiudersi la porta alle spalle: «Pensi davvero che io sia bella anche così? Non sembro ridicola?»

«Con il turbante un pochino», disse, indicando l'asciugamano in cui erano ancora avvolti i miei capelli: «Ma sono certa che senza, nessuno penserà che tu sia ridicola».

Sorrisi, rincuorata: «Grazie».

«Figurati».

Quando mamma abbandonò la stanza tornai alla ricerca delle ballerine bianche, che trovai nella loro scatola di cartone sotto al letto. Le indossai, constatando che mi andavano a pennello.

Mi dedicai poi ai capelli, frizionandoli con l'asciugamano che ancora li avvolgeva, constatando ben presto che erano ormai quasi completamente asciutti.

Mi guardai un'ultima volta allo specchio, studiando il mio riflesso con orgoglio misto a nervosismo, poi uscii dalla camera.

In corridoi trovai Kyle, vestito con un paio di pantaloni color cachi e una camicia bianca col colletto alla coreana, che si stava legando i capelli in uno chignon: «Sorellina, chi ti ha costretta a vestirti così?»

«Isabel», ammisi, facendo spallucce, mentre portavo lo sguardo alle scale che portavano alla mansarda. Dai rumori che percepivo al piano di sopra, ero abbastanza certa che Xavier non fosse ancora sceso.

«Stai bene», disse, studiandomi con occhio critico: «Le scarpe però non mi convincono».

«O queste o gli scarponi», dissi, iniziando a salire le scale, impaziente di vedere la reazione di Xavier alla vista del mio vestito.

«Mi rimangio quanto appena detto, scarpe perfette», disse Kyle, dirigendosi verso il salotto: «Non metterci troppo di sopra, mamma è nervosa».

Stavo per rispondergli che ero fin troppo consapevole dello stato dei nervi di mamma, ma decisi che non ne valeva la pena e continuai la scalata.

Bussai, poi aprii la porta della mansarda, asciugandomi le mani sudaticci contro il tessuto del vestito che indossavo.

Xavier mi stava dando le spalle e sembrava intento a cercare qualcosa tra i suoi vestiti; immaginai fosse alla ricerca di una camicia o di una maglietta, dato che era ancora a torso nudo.

«Hey, dobbiamo andare», gli dissi, rimanendo sulla soglia, in attesa che i suoi occhi si posassero su di me.

«Sono quasi pronto», mi rassicurò, prima di spostare la sua attenzione all'armadio aperto di fronte a sé e cercare tra i pochi abiti appesi: «Eccola!»

Estrasse una camicia azzurra e la infilò velocemente, coprendo le sua schiena e petto tonici alla mia vista. Ne fui in un primo momento dispiaciuta, poi i suoi occhi verdi si posarono su di me e mi dimenticai il dispiacere, troppo concentrata a capire dalla sua espressione se gli piacesse o meno come ero vestita.

Bloccò i suoi movimenti, rimanendo con solo due bottoni allacciati a coprirgli il petto e le sue mani intente a far entrare il terzo nell'asola, mentre i suoi occhi si sbarravano leggermente e la sua bocca si socchiudeva.

Quando i suoi occhi si posarono sulle mie labbra, per poi raggiungere i miei occhi, sentii un caldo languore nel basso ventre e mi ritrovai a deglutire a vuoto.

«Pensavo che non ti "agghindassi"».

Sorrisi appena e cancellai la distanza tra di noi, così da aiutarlo ad abbottonare la camicia: «Sono vittima di un ricatto», ammisi con una smorfia: «Sab mi ha costretta».

Riuscii ad inserire nell'asola un solo bottone, prima che le sue mani si chiudessero intorno ai miei polsi e mi spostassero, in modo da farmi fare un passo indietro.

I suoi occhi scesero ad osservare il mio vestito.

«Ti sta bene», disse, posando poi gli occhi sulla mia bocca: «Questo rossetto mi fa venire voglia di baciarti».

«Niente baci, altrimenti rischi di rovinarmi il trucco», gli dissi, sorridendo.

«Neanche un bacio a stampo?», chiese in un sussurro, avvicinando il volto al mio.

Scossi la testa e mi liberai facilmente dalla sua presa, riprendendo ad abbottonargli la camicia: «Ora no, dopo però possiamo riparlarne».

«Dopo quando?», chiese con una smorfia delusa in volto: «E se dopo non avessi più voglia di baciarti?»

«Ce ne faremo una ragione», dissi, facendo spallucce.

Xavier rise sommessamente e si sistemò i polsini della camicia: «Sono un po' nervoso».

«Andrà tutto bene, tutto quello che devi fare è sorridere e giurare fedeltà al nostro branco, sempre che tu sia ancora convinto di voler entrare a farne parte».

«Certo che lo sono», disse, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Finii di abbottonargli la camicia e sollevai lo sguardo: «Allora non hai motivo di essere nervoso».

Le sue labbra si posarono sulle mie per un bacio che durò meno di un secondo, quando si allontanò la sua bocca aveva rimasugli rossi.

«Ora non lo sono più», disse, sorridendomi con le sue fossette in bella mostra.

Sollevai gli occhi al cielo e allungai la mano per pulirgli le labbra, poi intrecciai le mie dita alle sue e mi diressi verso le scale.

Una volta arrivati in salotto nonna mi guardò con sguardo stranito per qualche secondo, poi sorrise: «Ti sta molto bene».

«Grazie», le dissi, stringendo maggiormente la presa intorno alle dita di Xavier.

Una volta pronti tutti quanti ci dirigemmo verso la porta sul retro e ci dirigemmo verso il bosco.

Era tradizione trascorrere la festa del plenilunio in una radura distante da ogni abitazione o strada, dove già il pomeriggio avevamo aiutato a trasportare sedie e tavoli. L'usanza stabiliva che ogni famiglia facente parte del branco si presentasse alla festa con qualcosa da mangiare o da bere, così da permettere l'allestimento del buffet.

Per questo motivo nonna aveva passato gran parte della giornata a preparare i suoi famosi biscotti all'uvetta, mentre mamma aveva deciso di ordinare della pizza e papà aveva tra le mani una scatola, al cui interno si trovavano alcune bottiglie di vino.

Appena arrivammo a destinazione, notai con piacere che, come ogni anno, la radura era illuminata da candele e lumini che pendevano dai rami più bassi degli alberi e facevano sembrare quel luogo semplicemente magico.

«Wow», sussurrò Xavier, il volto illuminato dalla luce calda delle candele e gli occhi che sembrano brillargli: «Sembra di essere in un sogno».

Sorrisi e strinsi maggiormente la presa delle mie dita intorno alla sua mano.

Nella radura c'erano già la famiglia Picard e Drake al completo.

«Torno subito», dissi a Xavier, prima di abbandonarlo e correre verso la mia migliore amica che sembrava essere in una fitta conversazione con sua madre.

Quando Sab notò il mio vestito e il rossetto, un sorriso radioso le illuminò il volto: «Te ne sei ricordata!», disse, gettandomi le braccia al collo.

Rimanemmo abbracciate per un po' e in quel momento, strette e vicine, ne approfittai per chiederle a mezza voce se stesse bene.

Isabel s'irrigidì leggermente, poi annuì contro la mia spalla: «Non preoccuparti, sto bene».

«Sei la mia migliore amica, è ovvio che mi preoccupo per te», le feci notare, sciogliendo abbastanza l'abbraccio da poterla guardare negli occhi.

Erano lucidi.

«Ho solo avuto un momento di tristezza», mi disse in un sussurro, mentre ci allontanavamo leggermente dal tavolo del buffet e quindi dal resto del branco e da eventuali orecchie tese: «Non volevo farti preoccupare, sto meglio e starò bene».

«Sei sicura? Non devi aver paura di chiedere aiuto», le dissi, mordendomi il labbro inferiore.

Non sapevo nello specifico quanto male stesse Sab, in parte perché era fin troppo brava a fingere di stare bene anche quando non era così, in parte perché non riuscivo a capire cosa avesse causato quell'enorme tristezza che si portava dietro come un peso.

«Sono sicura e sì, lo so», disse, pizzicandomi il naso tre le dita, prima di spostare lo sguardo verso la festa: «Dovremmo tornare a socializzare».

Annuii, anche se non ero del tutto convinta che mi avesse raccontato tutta la verità, e pensai che trovarsi in mezzo al resto del branco avrebbe potuto aiutarla a sentirsi meglio, per questo la trascinai al tavolo del buffet.

«Oh, tua nonna ha fatto i suoi famosi biscotti con l'uvetta!», disse con un sorriso in volto, liberandomi dalla mia stretta intorno al suo braccio per fidarsi su di essi.

Inizia a cercare tra la folla la figura di Xavier, ma prima che potessi individuarlo notai la massa di capelli biondi di Michel e, senza pensarci, lo raggiunsi.

«Ciao», gli dissi, semplicemente, vedendolo voltarsi con sguardo stupito verso di me.

«Ciao», mi salutò a sua volta, studiando il mio aspetto: «Sei molto carina questa sera».

Arrossii appena e sorrisi: «Ho rubato il vestito a nonna, tutta colpa di Sab», spiegai, con un gesto vago della mano, a lasciar intendere che la storia non era poi così interessante.

«Fammi indovinare: ti ha ricattata?»

«Sì, avrei perso per sempre la sua amicizia se non avessi indossato un vestito questa sera», ammisi, facendo spallucce.

«Isabel non cambierà mai», disse, ridacchiando.

«Stai bene?», gli chiesi, osservando attentamente il suo volto, che si fece per qualche secondo serio.

«Sì, Di, sto bene».

«Quindi siamo ancora amici, è tutto ok?», chiesi, rassicurata in parte dal fatto che avesse usato un soprannome per apostrofarmi e non il mio nome completo.

«Non abbiamo mai smesso di essere amici», disse, mettendomi una ciocca di capelli dietro all'orecchio, così facendo sentii più forte l'odore familiare della sua pelle e parte del nervosismo che provavo si dissipò: «Non volevo rovinare tutto, Diana, pensavo di essere innamorato di te, e tutt'ora mi capita di pensarlo, ma non vale la pena di rovinare la nostra amicizia per qualcosa che non provi anche tu».

Annuii lentamente, studiando la sua espressione seria: «Mi dispiace tanto, Michel».

«D'ora in poi tornerò a chiamarti Di e tu tornerai a chiamarmi Mitch, questi nomi interi sono troppo formali», disse lui, sorridendo: «Ora però dovresti raggiungere il tuo ragazzo, tra poco tuo papà dovrebbe iniziare il suo discorso... Vorrà averti accanto».

Senza pensarci strinsi Michel in un abbraccio, affondando il volto contro la sua spalla: «Grazie, Mitch».

«E per cosa?»

«Per essere ancora mio amico, anche se mi sono comportata malissimo», dissi, sciogliendo l'abbraccio.

Michel rise, scuotendo la testa: «Non ti sei comportata malissimo, Di, e non ti preoccupare, non è così facile liberarsi di me, ti toccherà sopportarmi per ancora molto tempo».

«Che fortuna», dissi con tono fintamente sarcastico.

«Puoi dirlo forte», ribatté lui, prima di sospingermi verso il lato della radura dove a quanto pareva si trovava Xavier.

Solo in quel momento mi resi conto che tutto il branco si era riunito, tranne il signor Montgomery e che mio papà era effettivamente pronto ad attirare l'attenzione di tutti i presenti su di sé.

Riuscii a raggiungere Xavier e a stringergli la mano.

«Sei tornata», mi disse, premendo un bacio contro la mia fronte.

«Scusami, ho parlato con...», lasciai il discorso in sospeso quando mio papà si schiarì la voce, intimando il silenzio.

«Buonasera a tutti e grazie per essere qui», disse, sorridendo calorosamente: «Questa notte, due nuovi membri entreranno a far parte del branco. Come molti di voi, se non tutti, sanno qualche settimana fa abbiamo accolto per un periodo di prova Xavier O'Bryne. Xavier, vieni qui, ragazzo».

Lasciai la presa intorno alla sua mano e lo sospinsi verso mio padre, accompagnandolo con un sorriso d'incoraggiamento.

«Ho conosciuto Frank, il padre di Xavier, molti anni fa e serbo di lui un bel ricordo. Averti nel mio branco sarebbe per me un onore, ragazzo, ma la decisione spetta a te. Giuri fedeltà a me e al mio branco?»

Gli occhi di Xavier, a pochi passi di distanza, si puntarono nei miei: «Lo giuro».

«Giuri di proteggerne i membri da pericoli esterni e di essere pronto a dare la vita per assicurarne l'incolumità?», proseguì mio padre.

«Lo giuro», rispose Xavier, la sue spalle mi sembravano meno tese e le mani avevano smesso di stringersi in modo convulso.

«Giuri di rispettare il mio giudizio e il mio volere, sapendo che il mio obiettivo principale è e sarà sempre quello di valutare e decidere ciò che è meglio per il branco?», chiese papà, lo sguardo serio tradiva una fierezza che non riusciva a celare.

«Lo giuro».

Il mio sguardo scandagliò per qualche istante la radura, tutti gli occhi erano puntati su Xavier e mio padre. Un moto crescente di orgoglio mi scaldò il petto.

Puntai i miei occhi in quelli di Xavier e presi un profondo respiro, per sciogliere la leggera tensione, che mi aveva tormentata fino a quel momento.

«Benvenuto nel branco, Xavier O'Bryne».

 

 

 

***

Buon pomeriggio popolo di EFP!

Eccoci giunti alla fine del ventesimo capitolo. 

Non ci credo di aver già scritto venti capitoli di questa storia, come vola il tempo...

Mi sembra ieri che Xavier è arrivato nel territorio del branco a portare scompiglio nel cuore e nella mente di Diana e guardate ora! 

Ovviamente il racconto della festa del Plenilunio continuerà nel prossimo capitolo, che cercherò di pubblicarvi il prossimo giovedì. 

Per il momento cosa ve ne pare della festa? Ve l'eravate immaginata in modo diverso?

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate!

Come sempre ricordo, per chi volesse, che ho un account su Instagram, il cui nome è lazysoul_efp.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI: Regalo di benvenuto dall'Alpha ***


Riassunto del capitolo precedente: Diana ruba un vestito alla nonna per la festa del Plenilunio, durante la quale parla con Isabel, che la rassicura di stare meglio e parla anche a Michel, con il quale sembra chiarire la situazione spinosa tra loro due. Xavier ha fatto giuramento ed è entrato ufficialmente a far parte del branco.

Buona lettura!





 

Capitolo XXI: Regalo di benvenuto dall'Alpha



 

Quando papà raccontò al resto del branco della recente trasformazione di Ann, io mi trovavo casualmente accanto a quest'ultima e a sua madre, Cora.

La signora Jackson aveva un'espressione molto fiera in volto, mentre la figlia era arrossita vistosamente quando si era iniziato a parlare di lei; probabilmente si sentiva in soggezione per tutti gli sguardi che aveva addosso, compreso il mio.

Non mi stupii della mancanza del signor Jackson a quella riunione, malgrado fosse sposato con una donna-lupo da anni, per una questione di sicurezza erano poche le informazioni che gli venivano fornite dalla moglie sulla sua vera natura. Anche Ann avrebbe dovuto iniziare ad omettere e nascondere cose al padre, ora che si era ufficialmente trasformata, dimostrando di essere a tutti gli effetti un membro del nostro branco.

Appena il discorso di papà si concluse, con un augurio a trascorrere una serena serata in compagnia, i presenti iniziarono a dividersi in piccoli gruppetti, ciascuno dei quali aveva il proprio argomento di conversazione.

Quando notai che papà e Xavier sembravano nel bel mezzo di un dialogo molto serio, ai margini della radura, provai il forte istinto di raggiungerli per origliare. Decisi alla fine di non farlo, preferendo rimanere in compagnia di Cora e Ann e di chiacchierare con loro.

«Allora, come sono stati questi primi giorni della tua nuova vita?», chiesi alla cugina di Sab, genuinamente curiosa.

«Strani», disse Ann, con un sorriso timido sulle labbra: «Spero di abituarmici presto».

«Sì, ti ci abituerai in fretta», le dissi, sorridendole, prima di spostare lo sguardo su Cora: «Il signor Jackson come sta?»

Il volto della mamma di Ann s'illuminò: «Joseph, sta bene, o almeno così ci ha detto prima al telefono; è partito da pochi giorni per l'Egitto, a quanto pare ci sono degli scavi molto importanti a cui lui non poteva mancare».

Joseph Jackson era professore di archeologia, specializzato in geroglifici e nella storia dell'Antico Egitto, veniva spesso chiamato ad assistere a scavi o a fare da consulente per datare ritrovamenti e interpretare testi antichi.

«Dev'essere interessante il lavoro di archeologo», dissi più a me stessa che a loro, pensando che non mi sarebbe dispiaciuto rinvenire tombe antiche e vivere avventure al limite del possibile come nel film, "La Mummia".

Cora mi sorrise: «Vado a prendere qualcosa da bere», disse, mostrandoci il bicchiere vuoto che stringeva tra le mani, prima di allontanarsi.

In quel momento si diffusero nella radura le prime note di un lento e non ci misi molto ad individuare Michel e Kyle che stavano trafficando con il cellulare, per scegliere una playlist.

Mio fratello aveva da poco comprato delle piccole casse collegabili via Bluetooth e non mi stupiva più di tanto il fatto che avesse deciso di testarle proprio quella sera.

«Penso che una cosa a cui non riuscirò mai ad abituarmi è la gentilezza di Kyle», disse Ann, cogliendomi alla sprovvista. Anche i suoi occhi erano puntati verso il tavolino, dove mio fratello e Michel stavano litigando per il controllo della musica.

«Kyle? Gentile? Da quando?», chiesi, confusa e incuriosita, osservando con attenzione il viso arrossato di Ann.

«È venuto a trovarmi due o tre volte negli scorsi giorni, mi racconta di vecchie leggende e mi aiuta ad accettare quello che sono. Senza di lui probabilmente sarei ancora la ragazzina tremante di qualche giorno fa», disse, scuotendo appena la testa: «In realtà sono ancora quella ragazzina terrorizzata, ma sto migliorando».

Rimasi a bocca aperta quando mi resi conto che le più recenti uscite di Kyle per "vedere i suoi amici" dovevano essere state utilizzate come scusa per vedere Ann. Dovevo concederglielo; mio fratello era più bravo di me a mentire.

«Kyle quando vuole sa essere proprio un amore», riuscii ad articolare, nascondendo il mio stupore dietro ad un'espressione fintamente spensierata: «Spero si comporti bene», aggiunsi, studiando il volto di Ann.

La cugina di Isabel annuì, gli occhi colmi di quella che sembrava ammirazione erano puntati sulla figura in avvicinamento di mio fratello: «È molto gentile e comprensivo».

Annuii, chiedendomi come avessi fatto a non notare nulla. Xavier mi aveva distratta tanto da impedirmi di cogliere anche solo un accenno dell'odore di Ann sui vestiti di mio fratello?

Quando Kyle ci raggiunse, non potei impedirmi di osservarlo con gli occhi assottigliati: «Ann mi ha raccontato che sei stato un vero e proprio cavaliere in questi ultimi giorni», dissi, notando immediatamente la sua fronte aggrottarsi alle mie parole.

«Ho solo cercato di dare una mano», disse mio fratello, scrollando le spalle e sorridendo calorosamente alla ragazza accanto a me: «Ti va di ballare, Ann?»

Un tenue rossore si diffuse sulle gote di Ann, mentre un timido sorriso le illuminava il volto.

In un primo momento pensai che avrebbe rifiutato, poi vidi la sua mano stringersi intorno a quella protesa di mio fratello.

«Divertitevi», dissi, facendo intendere a Kyle che l'avrei tenuto d'occhio.

Mio fratello rispose facendomi la linguaccia.

«Molto maturo, come sempre», borbottai, con tono abbastanza forte da essere udita.

Tutto quello che ottenni fu di farlo ridere, mentre si allontanava verso il centro della radura, dove era stato lasciato abbastanza spazio per ballare.

Osservai distrattamente le poche coppie in pista, poi mi voltai alla ricerca di Xavier, per vedere se stesse ancora conversando con mio padre, venni però distratta dalla vista di Isabel e Michel che stavano chiacchierando a pochi metri da me, entrambi con un pezzo di pizza in mano e sorrisi sinceri sulle labbra.

Avrei voluto avvicinarmi per origliare la loro conversazione, ma decisi alla fine di rimanere dov'ero; avrei fatto poi il terzo grado a Sab in un secondo momento.

«Mi concederesti questo ballo?», chiese la voce di Xavier alle mie spalle.

Un dolce sorriso apparve all'istante sulle mie labbra, appena mi sentii ricordata dal suo profumo fin troppo familiare.

Distolsi lo sguardo dalle figure di Isabel e Michel, portando i miei occhi in quelli incredibilmente verdi del ragazzo che aveva stravolto quelle mie ultime due settimane.

«Non amo molto ballare», ammisi con una smorfia di scuse, intrecciando comunque le mie dita a quelle della sua mano protesa.

«Ti va di fare un tentativo con me? Se proprio non ti piace ci possiamo dedicare al tavolo del buffet», disse, facendomi l'occhiolino.

Non risposi alla sua domanda, limitandomi ad osservarlo attentamente per una manciata di secondi; sembrava nervoso e non riuscivo a spiegarmi il perché.

«Di cosa hai parlato con mio padre?», gli chiesi, assottigliando leggermente lo sguardo.

Non avrei saputo dire cosa me lo facesse pensare, ma mi era dolorosamente chiaro che c'era qualcosa che non andava, anche se non riuscivo a capire cosa.

Osservai brevemente le persone intorno a noi, ma la festa sembrava procedere senza intoppi, la musica continuava a diffondersi attraverso le casse portatili di mio fratello e la zona buffet era ampiamente frequentata. Tutto sembrava normale.

Quando tornai a puntare gli occhi su Xavier, lui aveva lo sguardo basso, sembrava pensieroso: «Preferirei parlartene più tardi. Siamo ad una festa, non dovremmo divertirci?»

«Mi è difficile divertirmi, sapendo che mi stai nascondendo qualcosa», ammisi, muovendo una mano sotto al suo mento, così da fargli sollevare lo sguardo.

«Lo capisco, ma vorrei prima ballare con te», sussurrò, gettando un'occhiata alle coppie sull'improvvisata pista da ballo: «Non sono mai stato parte di un vero e proprio branco, Diana, vorrei celebrare questo momento stringendoti tra le mie braccia per qualche minuto, dondolando a ritmo di musica».

«Mi hai messo nella scomoda posizione di non poter rifiutare», gli dissi con un sospiro, iniziando a dirigermi verso la pista da ballo.

Ignorai la pelle d'oca, causata molto probabilmente dalla vicinanza di Xavier, più che dall'arietta fresca della sera e allacciai le mie braccia dietro alla sua nuca, mentre le sue mani mi circondavano i fianchi.

Il calore della sua pelle attraverso i vestiti mi fece pensare alla sera prima, quando, acciambellati sul divano, le sue dita si erano insinuate sotto la mia felpa per accarezzarmi la schiena nuda. 

Fu stranamente facile mettere da parte la preoccupazione di poco prima e concentrasi su altri dettagli, come per esempio il fatto che le sue labbra continuavano a sfiorarmi le tempie e la fronte con baci leggeri, o le sue mani che mi accarezzavano la schiena con una delicatezza che fece nuovamente riaffiorare la sera prima nella mia mente; quando avevamo guardato per la terza volta Winnie The Pooh, mentre mia sorella disegnava sul tavolo del salotto.

Nessuno di noi due parlò per alcuni interminabili secondi.

Avrei voluto dire qualcosa, ma temevo di rovinare l'atmosfera o di dire la cosa sbagliata, così optai per il silenzio, rimanendo con la guancia premuta contro la spalla di Xavier e un groppo in gola che non riuscivo a spiegarmi.

«Diana?»

Spostai il volto, così da far incrociare i nostri occhi.

«Ci conosciamo da due misere settimane, eppure mi sembrano mesi», disse, aveva un'espressione incredula in volto: «Com'è possibile?»

Deglutii e scossi piano la testa: «Non lo so, me lo chiedo anche io».

«Non avevo mai provato nulla di simile, prima di conoscerti», sussurrò.

«Nemmeno io», ammisi, sorridendo appena: «Penso di avere una risposta alla tua domanda».

«Quale domanda?», chiese, aggrottando leggermente le sopracciglia.

«Quella che mi hai fatto l'altro giorno nel bosco», appena pronunciai quelle parole, Xavier smise di dondolare a ritmo di musica, osservandomi con un sentimento che non riuscii a decifrare.

«Andiamo verso casa tua, non mi piace l'idea che qualcuno possa sentirci», disse, intrecciando le sue dita alle mie, prima di dirigersi verso il sentiero da cui eravamo venuti.

Passando vicino al tavolo del buffet riuscii ad impossessarmi di una manciata dei famosi biscotti di nonna all'uvetta, mentre Xavier afferrava un pezzo di pizza e lo addentava con gusto.

«Hai fame?», mi chiese, rallentando il passo: «Possiamo fermarci a mangiare qualcosa se...»

«No, non ho fame, andiamo», dissi, rendendomi conto che il mio stomaco sembrava chiuso per il nervosismo, tanto che faticai a finire i pochi biscottini di nonna che ero riuscita ad afferrare.

«Avremmo dovuto salutare?», chiese Xavier, bloccandosi quando ormai eravamo a pochi metri dalla fine del bosco e quindi da casa.

«Forse sì», dissi, rendendomi conto che quel pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato poco prima, quando avevamo abbandonato la festa: «Ma ormai siamo praticamente arrivati».

La mano di Xavier si sciolse dalla mia stretta, percorrendo la lunghezza del mio braccio, coperto dalle maniche lunghe del vestito, fino a quando non arrivò alla mia spalla e poi alla mia guancia.

«Verremo bollati come i maleducati che hanno abbandonato la festa senza nemmeno salutare l'Alpha», disse, nel tono della sua voce potevo percepire una punta d'ilarità, e mi ritrovai a sorridere a mia volta.

«Siamo proprio dei delinquenti», rincarai la dose, rischiando di scoppiare a ridere.

«Dovremmo darci alla macchia», aggiunse Xavier, circondandomi le spalle con un braccio, mentre riprendevamo a camminare.

«Propongo di nasconderci in mansarda per un paio di giorni e di sopravvivere grazie al cibo che ruberemo quando non ci sarà nessuno in casa».

«Piano eccellente, Didi!», esclamò.

«Ancora con 'sto "Didi"?», mi lamentai, sollevando gli occhi al cielo: «Pensavo di averti già detto un centinaio di volte che non mi convince».

«Vero, ma io penso che continuerò ad usarlo, fino a quando non mi verrà in mente un soprannome migliore», disse, pizzicandomi scherzosamente il fianco.

«Hey!», mi lamentai, prima di mettere in atto la mia vendetta e di fargli il solletico.

Per impedirmi di continuare la tortura, Xavier mi issò sulla sua spalla a mo' di sacco di patata, ridendo fragorosamente quando gli intimai di mettermi giù.

Riuscì a percorrere solo pochi passi, prima di dovermi liberata dalla sua stretta, dato che mi dimenavo talmente tanto da rischiare di fare cadere rovinosamente a terra entrambi.

«Sei terribile!», esclamai, infastidita, colpendolo un'ultima volta al fianco.

Xavier rise fragorosamente: «Senti chi ha parlato!»

«Hai iniziato tu!», gli ricordai con tono acido, ignorando la vocina nella mia testa che mi ricordava di essere una persona matura e non una bambina di due anni a cui era stato fatto un dispetto.

«E tu hai finito, direi che siamo pari», disse, intrecciando nuovamente le nostre dita.

Aprii bocca per ribattere, ma non riuscii a trovare qualcosa da rispondere che non mi facesse apparire ancora di più una bambina capricciosa, così optai per il silenzio.

«Prima, mentre ballavamo, hai detto che avevi una risposta per me», disse, Xavier, quando eravamo ormai a due passi da casa.

«Ho cambiato idea», dissi indispettita, sciogliendo la stretta delle nostre dita, mentre salivo i gradini che portavano alla porta sul retro di casa mia.

«Peccato, allora buonanotte, Diana», ribatté, scrollando appena le spalle.

«Non ti sopporto!», mi lamentai, entrando in casa con un broncio molto poco maturo sulle labbra, seguita da un impassibile Xavier.

«Allora quello di cui parlavo con tuo padre non dovrebbe scalfirti più di tanto», disse, incrociando le braccia al petto.

«Di cosa stai parlando?», mi voltai, bloccando la mia fuga, per osservarlo con curiosità mista a dolore. 

Il groppo in gola di poco prima era tornato, ero certa che qualsiasi cosa Xavier avrebbe detto non mi sarebbe piaciuta.

Xavier aprì bocca, poi la richiuse, abbassando lo sguardo: «Ti stai comportando come una bambina e quello che ho da dire è serio, è importante».

Avrei voluto dirgli che non era vero, che non mi stavo comportando "come una bambina", ma sapevo di essere nel torto. 

Presi un paio di respiri profondi, nel tentativo di calmare i miei nervi tesi e il battito furioso del mio cuore, poi annuii: «Non è vero che non ti sopporto», dissi, sedendomi sul divano del salotto: «O forse sì, un pochino, ogni tanto, quando mi trovo in situazioni che mi fanno pensare di apparire come una stupida ragazzina ai tuoi occhi», appoggiai i gomiti alle ginocchia e mi coprii il volto con le mani, fregandomene del rossetto e della possibilità di sbavare il capolavoro che aveva fatto mamma: «Sono impulsiva, sono infantile... Perché continui a passare il tuo tempo con me, se non sono poi così speciale?»

Xavier si sedette accanto a me, sentii l'affossamento del divano sotto al suo peso, i miei occhi erano ancora resi ciechi dalle mie mani premute contro di essi e dalle lacrime, che stavo lottando per non versare.

«Sei speciale proprio per come sei, Diana. Per il tuo carattere a volte impossibile, per la tua testardaggine e sicurezza, per le battute sprezzanti e la tua intelligenza. Non sei una stupida ragazzina», disse lui, appoggiando una mano calda sulla mia spalla: «Diana? Guardami».

Presi un profondo respiro tremante e scostai le mani dal mio viso, mostrandogli le lacrime che avevano iniziato a sgorgarmi dagli occhi.

Xavier allungò una mano, asciugandomi col pollice i sentieri d'acqua salata sul mio volto, i suoi occhi fissi nei miei: «Ti amo».

Un singhiozzò eruppe dalle mia labbra e mi sporsi per gettargli le braccia al collo e premere con forza le mie labbra contro le sue.

Sentii una delle sue mani percorrere con delicatezza la mia schiena, mentre l'altra s'insinuava tra i miei capelli, così da tenermi vicina.

Avrei voluto dirgli a mia volta che lo amavo, ma non ero davvero sicura che quello fosse amore. Avevo quasi diciotto anni, poche esperienze amorose, per non dire inesistenti, alle spalle e il vizio di essere impulsiva e sconsiderata. Dirgli quelle parole avrebbe significato esporsi, mettere a nudo ogni minimo sentimento che avevo provato da quando l'avevo conosciuto e, anche se sapevo che era inevitabile che succedesse, non mi sentivo pronta, non in quel momento.

Tutto quello che riuscii a fare fu approfondire il bacio, passando una mano tra i suoi capelli corti, mentre l'altra era stretta intorno al colletto della sua camicia.

Quando ci separammo brevemente per prendere fiato, sorrisi: «Hai le labbra sporche di rossetto».

«Anche tu», ribatté, passando il pollice sul mio labbro inferiore per raccogliere la prova di quanto appena detto.

Scoppiammo entrambi a ridere, poi tornammo a baciarci.

Tutta la tensione accumulata fino a pochi minuti prima sembrava essere evaporata, ma continuavo a percepire chiaramente quel fastidioso groppo in gola e a chiedermi di cosa avesse parlato con mio padre.

«La mia risposta è sì», dissi, allontanandomi abbastanza da guardarlo negli occhi: «Mi piacerebbe essere la tua ragazza, Xavier».

Lui sorrise, dandomi un veloce bacio a stampo: «Sono felice», sussurrò: «E tu? Sei felice?»

Annuii: «Sì, sono felice».

Tornammo a baciarci, avvicinandoci il più possibile l'uno all'altro, fino a quando non salii a cavalcioni sulle sua gambe, in quel momento Xavier interruppe il bacio.

«Ti va di andare di sopra?», mi chiese, puntando i suoi espressivi occhi verdi nei miei: «Non voglio fare niente che tu non voglia, lo sai, ma i tuoi potrebbero tornare presto e non mi piace l'idea che possano vederci così...», disse, con il naso arricciato in una piccola smorfia: «Penso di aver ricevuto abbastanza insegnamenti dai tuoi genitori negli ultimi giorni, non vorrei dover assistere all'ennesima lezione di educazione sessuale».

Sorrisi, mettendo da parte la mia preoccupazione per un altro momento. Non volevo rovinare la serata a lui e a me stessa, ed ero piuttosto certa che chiedergli di parlarmi di quello che lui e mio padre si erano detti non fosse una brillante idea, non in quel momento.

Mi alzai e intrecciai le mie dita alle sue: «Concordo, credo di aver ricevuto abbastanza avvertimenti e consigli da potermi bastare per una vita intera».

Ci dirigemmo verso le scale ridacchiando, così da sciogliere definitivamente la tensione che si era accumulata tra di noi fino a poco prima.

«Non te l'ho detto, ma ieri ho trovato una scatola di preservativi sul mio comodino», disse: «In un primo momento ho pensato che fossi stata tu, per stuzzicarmi, poi tuo padre mi ha chiesto se avessi ricevuto il suo regalo e ho capito che non eri stata tu».

Arrossii furiosamente alle sue parole, poi non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere: «Ho passato gli ultimi giorni con il terrore di ricevere un regalo simile!»

«A quanto pare hanno deciso di fare a me il regalo e non a te», disse tra le risate, scuotendo la testa: «Un pacchetto di preservativi non è esattamente il regalo di benvenuto che ti aspetteresti dall'Alpha del branco a cui ti sei appena unito».

«Vero, ma è comunque un regalo originale», dissi, mettendo piede in mansarda, seguita a ruota da Xavier, che si chiuse la porta alle spalle.

Non dovetti aspettare molto, prima che le mani del mio ragazzo tornassero su di me, avvolgendomi da dietro in un abbraccio, mentre le sue labbra si posavano sul mio collo e vi lasciavano un bacio leggero: «Hai ragione, i regali non vanno mai disprezzati».

Il suo respiro caldo, sulla pelle esposta del mio collo, mi provocò un brivido di desiderio, che mi portò a chiedermi come sarebbe stato sentire quello stesso respiro su altre zone del mio corpo.

«Xavier?», lo chiamai, voltandomi tra le sue braccia, così da poterlo guardare negli occhi: «Non ho mai fatto sesso», ammisi, storcendo le labbra in una smorfia colma d'imbarazzo.

Dopo la mia confessione ci furono alcuni secondi di silenzio, durante i quali mi chiesi quale sarebbe stata la reazione del mio ragazzo.

In un primo momento credetti che avrebbe ignorato le mie parole e si sarebbe limitato a baciarmi ancora, sospingendomi verso il letto. Subito dopo mi chiesi se la mia inesperienza sessuale avrebbe potuto, in qualche modo, essere un problema nella nostra relazione. 

Anche se mi aveva detto più volte che non avremmo mai fatto nulla che io non avessi voluto, poteva benissimo aver mentito, o sopravvalutato le mie conoscenze in ambito anatomico, credendo che prima o poi...

«Nemmeno io», disse in un sussurro, fermando i mille pensieri che mi affollavano la mente.

«Davvero?», riuscii a chiedergli, riscoprendomi genuinamente felice all'idea di poter condividere la mia prima volta con lui, così come lui avrebbe condiviso a sua prima volta con me.

«Te l'ho detto, ho viaggiato molto con mio padre e non ho mai avuto l'occasione di legarmi a qualcuno... Durante il terzo anno di liceo sono uscito qualche volta con una ragazza umana, ma non siamo mai andati oltre qualche bacio, lei non era pronta e nemmeno io», disse, indietreggiando fino a quando raggiunse il letto alle sue spalle e ci si sedette, mentre io rimanevo in piedi di fronte a lui: «Quindi sì, sono vergine».

«Beh, anche io non ho mai avuto relazioni serie con nessuno prima. Ho baciato un ragazzo alla festa di Halloween dell'anno scorso, ma è stato piuttosto... traumatizzante», ammisi, arricciando il naso al ricordo di Dylan e del modo in cui la sua lingua e la sua salivano avevano invaso la mia bocca: «Quindi sì, sono vergine anche io».

Le mani di Xavier si posarono sui miei fianchi, avvicinandomi ulteriormente a sé: «Non ci sarebbe stato nulla di male... voglio dire, se tu avessi avuto altri prima di me».

«Idem, ma ammetto che probabilmente avrei voluto sapere ogni dettaglio di ogni altra ragazza», dissi, facendolo sorridere e mettere in mostra le sue adorabili fossette.

«Vuoi provare?», mi chiese, la voce che gli tremava appena.

Mi morsi il labbro inferiore e annuii: «Sì, ma con calma».

«Con molta calma», mi confermò con tono serio.

Mi sedetti a cavalcioni di Xavier, prendendo il suo viso tra le mani prima di iniziare a baciarlo, cercando di dominare, per quanto mi fosse possibile, il desiderio bruciante che mi scorreva nelle vene. 

Bastarono pochi baci per farmi perdere contatto con la realtà; tutto quello che riuscivo a pensare era a quanto buono fosse l'odore di Xavier, a quanto piacevoli fossero i suoi baci e a quanto volessi cancellare ogni barriera tra di noi, così da rimanere pelle nuda contro pelle nuda.

«Posso toglierti il vestito?»

Risi sommessamente alla sua domanda, baciandogli la punta del naso: «Stavo giusto pensando che ci sono troppi strati di stoffa tra di noi», ammisi, facendolo sorridere.

Ci alzammo entrambi in piedi, togliendoci le scarpe, poi gli mostrai la schiena, lasciando che fosse lui ad abbassare la cerniera del vestito. Un cerchio imperfetto di stoffa blu si formò ai miei piedi.

Quando tornai a fronteggiarlo, Xavier mi sorrise, allargando leggermente le braccia: «Ora tocca a te spogliarmi».

Mi avvicinai a lui con la consapevolezza di essere molto poco vestita, senza però mostrare il nervosismo che sembrava essersi impadronito di me. 

Iniziai a sbottonare la sua camicia e sorrisi, sentendo le sue dita percorrere con delicatezza la pelle nuda delle mie braccia.

«Ricordi quando sei sconsideratamente venuta ad aiutarmi, mentre combattevo con l'assassino di mio padre? E poi eravamo entrambi nudi nel bel mezzo del bosco?», mi chiese in un sussurro, continuando a disegnare coi polpastrelli linee immaginare sulla mia pelle.

«Come potrei dimenticarlo?», dissi, ridacchiando al ricordo del mio imbarazzo. 

«Devo farti una confessione», mormorò, baciandomi piano le fronte: «L'immagine del tuo corpo nudo mi è rimasta impressa a fuoco per giorni interi, ho rischiato di impazzire».

Gli sfilai la camicia, esponendo alla mia vista il suo petto tonico, sfiorandogli la pelle esposta con le dita che mi tremavano appena: «Impazzire, addirittura?», gli chiesi, premendo una scia di baci sulle sue scapole, per poi scendere con le mani e iniziare a slacciargli la cintura.

«Sei una bella ragazza, Diana», disse, portando le mani sul gancio del mio reggiseno, che, dopo alcuni tentativi, riuscì a slacciare: «Ma non è stato il tuo corpo a conquistarmi, sei stata tu».

Gli abbassai i pantaloni, poi mi sfilai le bretelle del reggiseno, lasciandolo cadere a terra.

Quasi completamente nudi, uno di fronte all'altra, rimanemmo a studiarci per qualche secondo, poi Xavier si portò le mani al bordo delle mutande.

«Al tre?», chiese, mordendosi subito dopo il labbro inferiore.

Afferrai a mia volta il bordo delle mutande che indossavo e annui: «Uno».

«Due».

«Tre».

 

 

***

Buongiorno popolo di EFP!

Vi chiedo intanto scusa per aver pubblicato in ritardo questo capitolo, ma ho avuto un po' di problemi d'ispirazione negli ultimi giorni, dovuti principalmente al caldo infernale che mi impediva di mettere un pensiero di senso compiuto dietro l'altro, figurarsi scrivere delle frasi.

Vi ringrazio per la pazienza e mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate.

Se ci sono errori non esitate a farmeli notare, cerco sempre di stare attenta a quello che scrivo e di rileggere, ma può capitare che qualcosa mi sfugga.

Come potete notare ho modificato i titoli dei capitoli grazie al suggerimento di Akainatsuki, fatemi sapere cosa ne pensate: vi piace l'idea o preferivate com'erano prima?

Per chi volesse, mi può trovare su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp.

Spero di riuscire a pubblicare puntualmente questa settimana, vi farò sapere nelle storie di Instagram, come sempre, se ci dovessero essere ritardi o problemi.

Un bacio,

LazySoul

 

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII: Via lontano, lontano ***


Riassunto del capitolo precedente: Diana nota suo padre e Xavier parlare in gran segreto durante la festa del Plenilunio, ma per paura di rovinare la serata decide di non assillare Xavier di domande. Diana dice a Xavier che vuole essere la sua ragazza e lui le dice che l'ama. Scoprono di avere entrambi inesistenti esperienze sessuali e decidono di esplorare il lato fisico della loro relazione.

Buona lettura!





 

Capitolo XXII: Via lontano, lontano

 

 

Quando mi svegliai, rimasi per qualche secondo con gli occhi chiusi, godendomi la sensazione di trovarmi tra le braccia di Xavier, avvolta dal suo profumo.

Percepivo un dolce indolenzimento in tutto il corpo, che mi fece ripensare alla sera prima.

Non riuscii a trattenermi dal sorridere ampiamente.

Quando riaprii gli occhi notai subito gli abiti abbandonati sul pavimento della mansarda; la stanza era nella penombra, ma i pochi raggi di sole che filtravano dalle tapparelle erano abbastanza per permettermi di individuare facilmente la silhouette degli oggetti e gli ammassi informi di stoffa che si trovavano a pochi metri da me.

Avrei voluto girarmi e osservare Xavier, che mi abbracciava da dietro, per vedere il suo volto addormentato, ma avevo paura di svegliarlo, così decisi di rimanere immobile il più a lungo possibile.

Nello stato di dormiveglia in cui mi trovavo pensai ai pochi compiti che dovevo terminare nell'arco della giornata, mi chiesi se anche quel giorno avrei dovuto subire l'ennesima lezione d'educazione sessuale dai miei e ricordai lo stupido litigio che avevamo avuto la sera prima io e Xavier.

Fu in quel momento che mi ricordai di dover chiedere al più presto delle spiegazioni al mio ragazzo riguardo alla conversazione che aveva avuto con mio padre. 

La sera prima avevo deciso di non insistere per farmi dire cosa mi nascondesse, perché non volevo rovinare l'atmosfera, e lui sembrava che avesse evitato l'argomento per lo stesso identico motivo.

Cosa avrebbe potuto dirmi di così triste e serio da rovinare una serata quasi perfetta?

Cosa avrebbe potuto dire di così sconvolgente da oscurare la gioia che avevo provato quando mi aveva detto "Ti amo"?

Faceva male porsi domande simili, faceva male chiedersi cosa avrebbe potuto fare per rovinare tutto.

Presi un profondo respiro e mi mossi tra le sue braccia, così da trovarmi faccia a faccia con lui.

Xavier aveva la bocca aperta a formare una tenera "O", i capelli spettinati e il vistoso segno di un succhiotto sul collo.

Non potei fare a meno di sorridere, fiera, a quella vista.

Quello che avevo di fronte era il mio ragazzo, l'uomo con cui avevo condiviso la mia prima volta la sera prima, colui che mi aveva detto "Ti amo".

Allungai una mano, passandola tra le ciocche disordinate dei suoi capelli, per poi accarezzare la sua guancia, dove percepivo un leggero accenno di barba.

«Xavier?», lo chiamai con un filo di voce.

Aspettai qualche secondo, quando realizzai che doveva essere addormentato troppo profondamente per potermi sentire, sussurrai: «Ti amo».

Rimasi ferma immobile, con il fiato incastrato in gola a osservare il volto rilassato di Xavier, per quelli che mi parvero minuti interi, prima di rilassare la mia postura tesa e respirare di nuovo.

Non mi aveva sentito.

Provai a riaddormentarmi, tentando di lasciarmi cullare dal profumo di Xavier e dal suo respiro cadenzato, che mi ricordava le onde del mare e il loro moto continuo.

Dovetti effettivamente addormentarmi, perché quando riaprii gli occhi, Xavier era sveglio e mi abbagliava con uno dei suoi sorrisi adorabili: «'Giorno».

«Buongiorno», ricambiai il saluto, sporgendomi per premere le mie labbra contro le sue: «Dormito bene?»

«Sì, tu?», mi chiese, stringendo la presa intorno al mio corpo, così da avvicinarci ulteriormente.

«Ho dormito benissimo», lo rassicurai: «Sicuro di non esser stato disturbato dal mio parlare nel sonno, scalciare e cercare di impossessarmi della coperta?»

Xavier scoppiò a ridere, gettando il capo all'indietro: «Mi hai disturbato un paio di volte, ma niente di terribile... Da quello che ricordo parlavi di pizza o di qualcos'altro da mangiare».

Aggrottai le sopracciglia, leggermente in imbarazzo: «Effettivamente ho un po' fame», ammisi, sentendo chiaramente il mio stomaco brontolare.

«Direi allora di vestirci e scendere a scoprire cosa c'è per colazione oggi», mi disse, sollevandosi a sedere.

Scostai le coperte e soppesai le mie opzioni, chiedendomi se fosse meglio scendere con il vestito della sera prima o chiedere una maglia in prestito a Xavier da indossare. In entrambi i casi mi sarei cambiata appena avessi messo piene in camera.

Venni distratta dei miei pensieri quando il sedere nudo di Xavier mi passò a pochi passi di distanza, attirando la mia attenzione.

«Smettila di guardarmi», mi disse, prima di indossare un paio di boxer, celando la perfezione del suo fondoschiena.

«Scusa, è più forte di me», ammisi, portandomi le mani a coprirmi il viso: «Penso di avere un problema», aggiunsi, sospirando amaramente.

«Non abbatterti, penso sia normale», disse: «O almeno lo spero, perché anche io fatico a toglierti gli occhi di dosso al momento».

Scostai le mani dal viso, così da constatare che i suoi occhi erano effettivamente intenti a percorrere il mio corpo nudo, famelici.

Prima che potessi ribattere, percorse la poca distanza tra di noi, baciandomi con foga, mentre le sue mani, si appoggiavano sui miei seni nudi.

Il bacio durò pochi minuti, giusto il tempo di eccitare entrambi, prima che ci scostassimo.

«Non possiamo», gli dissi, pensando al fatto che in casa, essendo domenica, doveva esserci il resto della mia famiglia al completo; l'idea che potessero sentirci mi metteva particolarmente a disagio.

«Lo so, ma fatico a ragionare lucidamente al momento», ammise, mettendo preziosi passi tra i nostri corpi.

Appena sentii che le gambe mi avrebbero sorretto dopo il bacio da togliere il fiato di Xavier, raccolsi da terra il vestito di nonna che avevo indossato la sera prima e lo infilai, senza preoccuparmi di alzare la zip, così da poterlo togliere più in fretta una volta che avessi raggiunto camera mia e avessi avuto bisogno di cambiarmi.

«Ti va una passeggiata dopo la colazione? Per festeggiare la fine della tua reclusione», disse, indossando un paio di pantaloni scuri.

Annuii entusiasta all'idea, poi raccolsi da terra il mio reggiseno e le mutande, soppesando se fosse necessario indossarli per i pochi metri che mi separavano da camera mia.

Xavier mi premette un bacio alla tempia: «Ti copro io in caso dovesse arrivare qualcuno», mi disse, facendomi l'occhiolino.

Rassicurata dalle sue parole, aprii la porta della mansarda e scesi le scale con Xavier accanto.

Il breve tragitto tra le nostre due camere fu privo di avvenimenti o incontri e in pochi secondi riuscimmo a nasconderci oltre la porta della mia stanza.

Misi l'abito blu e l'intimo che avevo indossato la sera prima a lavare, per poi frugare nei miei cassetti alla ricerca di qualcosa da mettere.

Xavier intanto curiosava, osservando gli oggetti sulla mia scrivania.

Indossai un paio di mutande pulite, dei pantaloni della tuta grigi e una felpa.

Quando tornai a guardare cosa stesse facendo Xavier, mi resi conto che stringeva tra le mani il quaderno dove avevo elencato, nel corso degli anni, tutti i luoghi che avrei voluto visitare. 

Dovevo averlo lasciato in giro il giorno prima, invece di riporlo in fondo all'ultimo cassetto della scrivania, come facevo di solito. 

«Questo cos'è?», mi chiese, iniziando a sfogliare il quaderno con interesse.

Feci per levarglielo dalle mani, poi cambiai idea e pensai che condividere un segreto in più o uno in meno, non avrebbe fatto la differenza: «Sarà il mio itinerario di viaggio per quando partirò; ho segnato tutti i luoghi che vorrei visitare almeno una volta nella vita».

«Hai fatto un lavorone», disse: «Scommetto che le riviste di viaggi non sono così precise».

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, fui io a spezzarlo: «Ovviamente puoi aggiungere delle destinazioni, dato che non sarà più il mio viaggio, ma il nostro viaggio».

Xavier annuì, ma il sorriso che aveva avuto sulle labbra fino a poco prima era scomparso; all'improvviso sembrava distante, distratto.

«Tutto bene?», gli chiesi, appoggiando una mano sul suo braccio.

Quando gli occhi di Xavier si spostarono dal quaderno al mio volto, percepii nuovamente il groppo in gola della sera prima e la sensazione di essere sul punto di udire qualcosa che non avrei voluto. 

Xavier chiuse il quaderno e lo posò sulla scrivania alle sue spalle, poi si sedette sul mio letto, portandosi le mani a coprirsi il volto.

Rimasi immobile, gli occhi che seguivano ogni movimento del mio ragazzo e i piedi incollati saldamente al pavimento. 

«Non ti piacerà quello che sto per dirti», mormorò, scostando le mani dal viso, così da potermi guardare: «Ma non posso continuare ad aspettare».

Non dissi niente, rimanendo sospesa in quel momento pieno d'incertezza.

«L'assassino di mio padre continua ad essere in circolazione e io sono qua, a vivere la mia vita come se niente fosse, come se non fosse mio dovere ottenere vendetta».

Calò nuovamente il silenzio.

«Cosa stai cercando di dirmi?», chiesi, dopo qualche secondo, anche se temevo di avere un'idea piuttosto chiara di cosa intendeva.

«Non posso continuare a rimanere qua, Diana», disse, confermando i miei timori: «Devo riprendere le ricerche e raggiungerlo, ovunque si trovi».

Mi sedetti sulla sedia girevole della scrivania, sospirando.

Non mi piaceva l'idea che partisse nell'immediato futuro, ma sapevo che per lui vendicare la morte del padre era importante, quindi non mi sentivo nella giusta posizione per trattenerlo, facendo magari leva sui suoi sentimenti.

Ero talmente talmente presa negli ultimi giorni, presa dai miei amici, dalla mia famiglia e da Xavier, che avevo messo la questione "assassino" in un angolo remoto della mia mente e avevo smesso di pensarci. Così facendo mi ero dimenticata che la permanenza di Xavier era destinata fin dall'inizio ad essere solo passeggera. Il fatto che avesse iniziato a cercare un appartamento in città e a lavorare nel mio liceo non era motivo per me di sperare che rimanesse per sempre, eppure era quello che avevo iniziato a pensare e a dare per scontato.

«Quando?», chiesi con un filo di voce, cercando di trattenere le lacrime, mentre torturavo l'orlo della felpa con le dita che mi tremavano appena.

«Questa sera».

Per qualche secondo rimasi immobile, a cercare di capire tutte le emozioni che stavo provando e ad analizzare ogni pensiero che mi attraversava la mente.

Dolore, tristezza, rabbia.

Il cuore batteva furiosamente nel mio petto e, all'improvviso, tutta la fame che avevo avuto fino a pochi minuti prima era scomparsa.

Senza pensare, mi alzai in piedi, muovendo alcuni passi per la stanza: «Cosa aspettavi a dirmelo?»

Mi trovai Xavier accanto, le mani protese per afferrarmi, ma prima che potesse toccarmi mi scostai, lanciandogli un'occhiata colma di dolore e rabbia.

«Perché me lo dici solo ora?»

Xavier aprì bocca, poi la richiuse: «Perché l'ho deciso ora», disse infine, passandosi le mani sul viso, in un gesto stanco.

Rimasi senza parole a fissarlo, indecisa su come reagire a quelle parole, poi presi un profondo respiro e scossi la testa: «E di cosa hai parlato con mio padre, allora? Del tempo

«Gl ho semplicemente detto che avevo intenzione di partire, ma che ancora non sapevo quando», disse, facendo un passo verso di me: «Ascolta, Diana, io non voglio ferirti, è l'ultimo dei miei desideri, ma non posso continuare a rimanere, ho bisogno di andare. Più passa il tempo, più le tracce dell'assassino si faranno deboli e mi sarà più difficile rintracciarlo. Prima parto, prima potrò tornare».

Lasciai che le sue braccia mi circondassero in un abbraccio, chiudendo brevemente gli occhi, così da assaporare appieno quel momento e l'odore di sandalo e cannella della sua pelle: «Tornerai, quindi?», chiesi con un filo di voce: «Come fai ad esserne tanto certo? E se ti uccidesse? E se ti ferisse gravemente?»

Xavier sospirò, stringendo maggiormente la presa intorno a me: «E se ti dicessi che ho un motivo più che valido per tornare?», sussurrò contro la mia tempia, lasciandovi poi un bacio leggero: «E che quel motivo sei tu?»

«Il fatto che tu voglia tornare da me non vuol dire che succederà», dissi, sentendo le lacrime iniziare a rigare il mio volto: «Te ne rendi conto?»

Xavier non disse nulla, limitandosi a stringere maggiormente la presa intorno a me.

Rimanemmo abbracciati, in silenzio, per qualche secondo, poi per qualche minuto, persi nei nostri pensieri, forse troppo spaventati per dire qualcosa.

«Vengo con te», dissi alla fine, spezzando quel silenzio che cominciava a pesare terribilmente.

Xavier sciolse l'abbraccio, guardandomi dritto negli occhi, e iniziò a scuotere la testa: «No».

«Perché no?»

«E me lo chiedi anche?», esclamò, portandosi le mani al viso, sembrava esasperato: «Non hai ancora diciotto anni, Diana, e non puoi abbandonare la scuola, è importante che tu finisca i tuoi studi», disse, appoggiando le mani sulle mie spalle: «E poi questa è la mia battaglia, sono io a dover vendicare mio padre, Diana, non tu».

Sapevo che le motivazioni che aveva elencato era più che logiche e sensate, ma mi era comunque difficile accettarle; l'idea di non vederlo per giorni, settimane, forse mesi, mi riempiva di un dolore a me sconosciuto.

«Ho bisogno di rimanere sola», dissi, scostandomi in modo da liberarmi dal peso delle sue mani sulle spalle.

Rimasi con lo sguardo basso a fissare i miei piedi nudi sul pavimento, rendendomi conto di aver dimenticato le scarpe che avevo indossato la sera prima in mansarda.

«Va bene, io sarò di sopra», disse, prima di uscire da camera mia.

Mi avvicinai al letto e mi ci lasciai cadere a peso morto, raggomitolandomi su me stessa in posizione fetale.

La lacrime iniziarono a scorrere silenziose lungo le mie guance, l'unico rumore nella stanza era quello dei singhiozzi che non riuscivo a trattenere.

Dopo poco dovetti alzarmi per recuperare un pacchetto di fazzoletti.

Non saprei dire precisamente quanto rimasi sul letto a commiserarmi e piangermi addosso. 

In quel lasso di tempo mi chiesi se, una volta che Xavier fosse partito, sarei mai riuscita a tornare alla mia vita di prima. 

Sarei tornata ad essere la Diana di sempre? Probabilmente no.

Malgrado il mio iniziale tentennamento e il finto odio che avevo creduto di provare per Xavier, le ultime due settimane avevano portato ad un cambiamento relativamente grande nella mia vita.

 Avrei continuato ovviamente ad essere la ragazza a cui piaceva biologia, quella che non vedeva l'ora di viaggiare per il mondo, la migliore amica di Isabel e la figlia dell'Alpha; ma nelle mie giornate un tempo monotone e semplici, ci sarebbe stato almeno un momento di smarrimento. Un momento in cui mi sarei fermata a pensare a Xavier, a chiedermi dove fosse, come stesse; a ricordare il suono della sua voce, il suo profumo unico e i momenti passati insieme.

Probabilmente la mia giornata tipo sarebbe stata composta dagli stessi momenti di sempre: il suono della sveglia, la colazione, il tragitto in autobus verso scuola, le lezioni, il ritorno a casa, i compiti da fare, la cena con la famiglia e poi a letto a dormire. 

Sempre le stesse tappe, con minime variazioni.

Eppure, così come nelle ultime due settimane avevo avuto numerosi momenti in cui avevo pensato a Xavier nell'arco della giornata, ero certa che così sarebbe stato per il resto della mia vita.

Suono della sveglia, Xavier, colazione, Xavier, autobus, Xavier, lezioni, Xavier...

Nell'arco di qualche giorno sarei diventata insopportabile, probabilmente Isabel avrebbe smesso di essere mia amica o mi avrebbe consigliato di farmene una ragione e a quel punto la mia depressione avrebbe raggiunto livelli altissimi e...

La porta della camera si aprì e apparve nella mia visuale il volto serio di Edith.

Senza dire niente, mia sorella si chiuse la porta alle spalle ed entrò, raggiungendo il mio letto.

Stavo per chiederle di andare via e lasciarmi in pace, ma Edith parlò per prima: «Perché sei triste D?»

Presi un profondo respiro tremante e mi asciugai il volto con un fazzoletto: «Perché Xavier va via», dissi, con la voce rovinata dal pianto.

Edith salì sul letto e si sdraiò di fronte a me: «Via dove?»

«Via lontano, lontano», dissi, un nuovo singhiozzo mi squassò il petto: «Lontano da me».

Mia sorella rimase in silenzio per qualche secondo, sembrava riflettere su quella nuova informazione, poi la sua mano sinistra si posò sulla mia guancia e iniziò ad accarezzarla: «E non torna più? È per questo che piangi?».

«Piango perché non so se tornerà», le spiegai, mi soffiai brevemente il naso, poi tornai a parlare: «E se non dovesse tornare sarei molto molto triste».

Edith annuì: «Questo è perché lo ami», disse, con il candore tipico di una bambina.

«Esatto», confermai, sorridendo appena.

«Io coloro quando sono triste, puoi colorare anche tu», propose, poi suo suo volto apparve un sorriso entusiasta: «Possiamo colorare insieme oppure guardare Winnie The Pooh!»

Annuii, sorridendo a mia volta, incapace di rimanere impassibile o triste di fronte alla gioia di mia sorella: «Mi sembra un'ottima idea».

Edith si mise a sedere, poi rotolò fino al bordo del letto e scese: «Vado a prendere i colori», disse, prima di scomparire oltre la porta.

L'ora successiva la passai a disegnare e colorare con mia sorella. 

I pensieri tristi continuavano a tormentarmi, soprattutto quello dell'imminente partenza di Xavier, che non abbandonava mai la mia mente, eppure passare quel tempo con mia sorella, che mi raccontava delle sue amiche di scuola e dei suoi giochi preferiti, mi aiutò a rilassarmi e, soprattutto, a smettere di piangere.

Per pranzo mandai Edith a rubare qualcosa dalla cucina e ci nascondemmo in un fortino di cuscini e coperte, che avevo improvvisato accanto al mio letto, a mangiare patatine e uvetta, le uniche cose che mia sorella era riuscita ad arraffare.

Verso metà pomeriggio, mi sentii abbastanza forte da affrontare nuovamente Xavier e ottenere l'addio che mi meritavo.

Edith si era addormentata tra le coperte del fortino da qualche minuto ormai, mamma era passata a controllare come stessimo e per rimproverarci di aver mangiato in camera, cosa assolutamente proibita. Eppure nelle parole dure di mamma e nella sua espressione profondamente delusa, per un'istante, avevo percepito una tristezza, che mi aveva fatto capire che anche lei, ormai, sapeva dell'imminente partenza di Xavier.

Diedi un bacio sulla fronte ad Edith, poi abbandonai il fortino e camera mia, diretta alla mansarda.

Bussai alla porta, prima di aprirla ed entrare.

Xavier era seduto sul letto, accanto a sé aveva due borse chiuse, il volto tra le mani.

In un primo momento pensai di raggiungerlo per tentare un'ultima volta di convincerlo a rimanere, poi cambiai idea e mi limitai a chiudermi la porta alle spalle e muovere alcuni passi verso di lui.

Mi sedetti accanto a lui sul letto e osservai la desolazione della stanza; i pochi oggetti che aveva messo sulla scrivania, i pochi abiti che erano stati appesi nell'armadio dalle ante aperte fino a quella mattina, ora non c'erano più. Ora quella camera non era più di Xavier, era tornata ad essere una camera per gli ospiti come tante altre, spoglia e impersonale.

Senza dire niente, Xavier scoprì il suo viso e si voltò a guardarmi, poi allungò una mano e intrecciò le nostre dita.

«Posso accompagnarti fino al confine?», chiesi alla fine, non riuscendo a trattenere oltre quella mia richiesta.

«Certo», acconsentì, sorridendomi appena.

Rimanemmo nuovamente in silenzio per qualche secondo.

«Mi chiamerai?», domandai, aumentando la stretta intorno alla sua mano: «Ogni tanto, per farmi sapere che sei vivo e va tutto bene... Anche i messaggi vanno bene».

Xavier si sporse e mi bacio a fior di labbra: «Volentieri».

Prima che si potesse scostare, appoggiai la mano libera sulla sua nuca, trattenendolo vicino a me per approfondire il bacio.

Avrei voluto imprimere a fuoco nella mia mente ogni singola sensazione provata in quel momento. 

L'impressione di avere le labbra a fuoco, i polpastrelli che affondavano nei suoi capelli, Il mio naso che si scontrava con il suo, il suo odore unico che si mescolava con il mio e le nostre mani strette, che non volevano lasciarsi andare.

Trascorremmo il resto del pomeriggio insieme, abbracciati su quello che per due settimane era stato il suo letto, a raccontarci episodi della nostra infanzia.

Gli raccontai di quando, a sette anni, io, Sab e Francine ci eravamo perse nel bosco mentre giocavamo a nascondino e di quando, a nove, io e Francine avevamo fatto uno scherzo a Kyle e Michel, fingendo di essere scappate di casa per causa loro.

Lui mi parlò della solitudine che aveva provato per gran parte della sua vita, mitigata da suo padre, il quale gli leggeva sempre una fiaba o un libro per farlo addormentare, e di quando una volta, vicino al confine con il Canada, aveva rischiato la vita a causa di una mamma orso arrabbiata, il papà era arrivato giusto in tempo per salvarlo.

Quando nonna chiamò per la cena rimanemmo in silenzio a guardarci.

Dopo una manciata di secondi, fu Xavier a parlare: «Andiamo, non facciamo aspettare gli altri».

Scendemmo dal letto e Xavier mi indicò una delle due borse: «Vorrei che la tenessi tu», mi disse: «Me la restituirai quando sarò tornato e se non dovessi tornare, potrai farne ciò che preferisci».

Afferrai il borsone, in silenzio, incerta su cosa fosse meglio dire in quella circostanza, alla fine sorrisi tra le lacrime: «Sicuro di volermi lasciare tutta la tua vita?»

«Sicuro, in fondo ti sei già presa il mio cuore, che male può fare affidarti altro da tenere al sicuro?», disse, issandosi sulla spalla l'altra borsa.

Annuii, asciugandomi le lacrime nella manica della felpa, poi uscii dalla mansarda, seguita a ruota da lui.

La cena sembrò durare un battito di ciglia e, diversamente dal solito, non parlammo molto.

Le uniche che cercavano di sollevare gli animi con argomenti di conversazione erano nonna e Edith, mentre io e il resto della tavolata ascoltavamo in silenzio e rispondevamo a monosillabi o con semplici gesti del capo.

Più volte rischiai di sbrodolarmi durante la cena, dato che mi ero ostinata a mangiare con la sinistra, pur di poter stringere con la destra la mano di Xavier, che sedeva accanto a me.

Dopo qualche minuto le nostre mani avevano iniziato a sudare, rendendo quel contatto quasi fastidioso, ma nessuno dei due aveva lasciato la presa.

Finita la cena, Xavier salutò nonna, Edith e mamma, ringraziando la prima per le numerose tisane, la seconda per avergli concesso l'onore di colorare con lei e la terza per l'ospitalità.

Io, papà e Kyle accompagnammo Xavier fino al confine nord del branco, camminando per la foresta con le torce a illuminarci il sentiero e l'ululare del vento e il bubolare di qualche gufo com unici accompagnatori.

La mia mano destra continuava ad essere strettamente allacciata a quella sinistra di Xavier, ogni tanto osservavo il suo profilo, visibile grazie ai raggi della luna che filtravano tra i rami degli alberi, e provavo il forte istinto di stringerlo forte a me e trovare un modo per impedirgli di partire.

Avrei voluto dire molte cose in quel momento, ma ogni volta che aprivo bocca, mi trovavo a richiuderla poco dopo. In parte perché avevo paura di dire qualcosa di stupido, in parte perché  non volevo che papà e Kyle sentissero.

Avrei voluto dire a Xavier che la notte prima era stata perfetta, non perché non ci fossero stati imbarazzi o momenti in cui eravamo stati particolarmente impacciati, ma perché era stata una notte autentica, passata con l'uomo di cui ero innamorata.

Avrei voluto dirgli che il petto mi faceva male e che ogni passo verso il confine nord mi provocava dolorose fitte allo stomaco.

Avrei voluto dirgli che non avevo mai provato nulla di simile per nessuno prima e che per quanto fossi inesperta sull'argomento, ero certa di essermi innamorata di lui.

Avrei voluto dirgli molte cose, ma decisi di rimanere in silenzio.

Quando arrivammo al confine papà e Kayle salutarono Xavier con una stretta di mano, augurandogli buona fortuna, poi si allontanarono di qualche metro, così da permetterci un po' di privacy.

In un primo momento non riuscii a fare o dire nulla, poi mi lanciai su di lui, saltandogli letteralmente addosso.

Xavier lasciò cadere a terra la sua borsa, circondandomi con entrambe le sue braccia, mentre io affondavo il volto contro il suo petto e lasciavo che le lacrime gli bagnassero i vestiti.

«Va tutto bene, Diana, andrà tutto bene», disse, baciandomi tra i capelli.

«Non puoi esserne sicuro», borbottai, scostandomi abbastanza dal suo petto per poterlo guardare in viso: «Non farmi promesse che non sei sicuro di poter mantenere».

«Hai ragione», disse, circondandomi le guance con le mani: «Ti prometto che farò tutto quello che è in mio potere per tornare da te il prima possibile e ti prometto che ti penserò ogni giorno».

«Ti amo», sussurrai, asciugando, con dita tremanti, le lacrime che scorrevano sul suo viso.

«Ti amo», disse, prima di premere con forza le labbra contro le mie.

Il bacio durò qualche secondo, giusto il tempo necessario per imprimere nella memoria quel momento, poi ci separammo, Xavier raccolse da terra la sua borsa e superò il confine, diretto a nord.

La mano di papà si appoggiò sulla mia spalla, stringendola appena: «Dobbiamo rientrare».

Annuii, continuando ad osservare la sagoma di Xavier che si allontanava nella notte, fino a quando il nero della sua figura non fu un tutt'uno con quello degli alberi.

«Andiamo», dissi in un sussurro, affiancando papà e Kyle lungo il sentiero del ritorno.

 

 

***

Buon pomeriggio popolo di EFP!

Siamo già giunti alla fine del ventiduesimo capitolo, secondo i miei calcoli dovrebbero essercene in totale ventisette o ventotto, quindi la fine è ormai vicina.

Spero che abbiate tempo e voglia di commentare questo capitolo per farmi sapere cosa ne pensate e, come al solito, vi invito a seguirmi su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII: Il braccialetto dell'amicizia e la cugina dalla Francia ***


 

Riassunto del capitolo precedente: Dopo la notte passata insieme, Xavier e Diana si svegliano nello stesso letto. L'idillio del mattino viene però spezzato dalla confessione di Xavier, deciso a partire quella sera stessa, per rimettersi sulle tracce dell'assassino di suo padre. Diana decide di accompagnarlo fino al confine quella notte, così da poterlo salutare e dirgli che lo ama.

Buona lettura!

 

 

Capitolo XXIII: Il braccialetto dell'amicizia e la cugina dalla Francia



 

Il mese di Marzo mi scivolò addosso, lasciando dietro di sé pochi ricordi significativi.

Come avevo previsto prima della partenza di Xavier, le mie giornate tornarono ad essere monotone, ma a quella ripetitiva quotidianità si aggiungevano numerosi momenti in cui il ricordo di Xavier o il pensiero di dove potesse essere in quel momento mi attraversava la mente. 

A volte pensieri simili passavano veloci, senza lasciare tracce permanenti dietro di sé, alte volte rimanevano incastrati minuti interi nella mia mente, tanto da diventare un tormento al quale non esisteva antidoto. 

Per fortuna avevo la mia famiglia e i miei amici, altrimenti quel primo mese senza Xavier sarebbe stato ancora più doloroso e monotono di quanto già non fosse stato.

L'umore di Isabel, dopo la festa del Plenilunio, migliorò considerevolmente. Da quello che mi aveva raccontato, parlare con Michel e chiarire le cose non dette che c'erano tra di loro, l'aveva portata a rivalutare i sentimenti che aveva sempre creduto di avere per lui. Si era resa conto di aver proiettato su Michel tutti i suoi sogni, credendo che bastasse crederci a fondo, per poter ottenere da lui la storia d'amore a lieto fine a cui aveva sempre aspirato.

Quando le avevo raccontato della partenza improvvisa di Xavier, aveva minacciato di andare a cercarlo e di fargli subire le più atroci torture, si era considerevolmente calmata quando avevo aggiunto al racconto il fatto che mi avesse detto «Ti amo» e che avessimo condiviso la nostra prima volta. Dopo quella mia confessione aveva passato i successivi giorni a chiedermi nei minimi dettagli come fosse stato e cosa avessi provato. Quando aveva scoperto del borsone che Xavier mi aveva lasciato aveva preteso di vedere con i suoi occhi le cartoline e l'unica foto esistente della mamma del mio ragazzo. Mi ero opposta in un primo momento, poi avevo selezionato alcune cartoline da farle vedere, tenendone segrete altre. 

Condividere con Isabel ogni cosa non era mai stato un problema, ma temevo che Xavier potesse interpretare le confessioni che facevo alla mia migliore amica come una mancanza di rispetto per la sua privacy, così avevo cercato di raccontarle qualcosa, senza scendere troppo nei dettagli.

Il giorno che avevo temuto sarebbe stato il più noioso e privo di avvenimenti dell'intero mese di Marzo, ossia quello in cui avrei dovuto partecipare all'inaugurazione del nuovo parco giochi con mia sorella, si rivelò essere quello più interessante.

Oltre ai gruppetti di casalinghe che si scambiavano le ricette segrete di famiglia, allo stesso modo in cui io da piccola scambiavo le figurine dei Pokémon con Isabel, al parco c'erano numerosi bambini e bambine entusiasti, che esploravano quel nuovo spazio dedicato al gioco, e tra di loro, seduta su un'altalena, c'era l'ultima persona che mi sarei aspetta di vedere in un posto simile: Francine Picard.

Senza pensarci due volte dissi a Edith di divertirsi senza farsi male o farne a qualcun altro, poi mi avvicinai all'altalena libera accanto a Francine e mi ci sedetti senza pensarci due volte.

Mia sorella giocava poco distante con una bambina che ero abbastanza certa fosse la sua migliore amica, solo che, grazie alla mia inesistente memoria per i nomi, non ricordavo se si chiamasse Sammy o Sally.

«Che fai qui?», chiesi a Francine, iniziando a spingermi con le gambe in avanti e indietro.

«Mi dondolo, non si vede?», mi rispose, scocciata.

«Ti ricordi quando qua c'era un semplice prato? Facevamo a gara a chi era la più veloce, vincevo sempre io».

Subito dopo quelle mie parole, Francine smise di dondolare, puntando i suoi occhi nei miei.

Rimanemmo a fissarci per qualche secondo poi lei annuì: «Come dimenticare, Isabel odiava quelle gare. E comunque non è vero che vincevi solo tu, ho vinto anche io, qualche volta».

Per una manciata di minuto ci limitammo a dondolare in silenzio, io osservavo mia sorella giocare con la sua amica, Francine sembrava persa nei suoi pensieri.

«L'alto giorno mi hai chiesto: "Cosa ci è successo?". Ci ho pensato ed è stata tutta colpa vostra, avete smesso di invitarmi a giocare, avete iniziato a isolarmi, proprio quando avevo bisogno di stare con voi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, penso sia stato quello stupido braccialetto dell'amicizia che hai regalato a Isabel e non a me», la rabbia di Francine era ben visibile nelle linee indurite del suo viso e sulle dita, esageratamente strette intorno alle corde che reggevano l'altalena.

In quel momento il puzzle che per anni non ero riuscita a comporre, in parte perché avevo avuto troppa paura per indagare a fondo cosa fosse successo tra di noi, mi si presentò di fronte con fin troppa chiarezza.

Avevo perso una delle mie migliori amiche per una serie d'incomprensioni.

«Sei seria?», esclamai, guardandola sconvolta: «Solo per questo?»

«Solo? Ad una bambina che aveva appena perso la madre non sembrava così poco».

«Non capisci: io stavo facendo un braccialetto anche per te! Dovrei ancora averlo a casa da qualche parte...», spiegai, sorpresa e dispiaciuta.

«Tu hai fatto un braccialetto anche per me?», mi chiese allibita.

«Certo», confermai.

«Oh», rimase in silenzio per qualche secondo, poi aggiunse: «Io a casa ho il tuo, te l'ho rubato anni fa, volevo che tu e Sab litigaste».

Con la bocca spalancata rimasi a fissare Francine per qualche secondo, prima di scoppiare in una risata quasi isterica.

Avevamo parlato per il resto del pomeriggio, confrontando ricordi passati per capire l'una il comportamento dell'altra e sviscerare un rapporto che avevo creduto perduto e che, forse, non lo era.

Non tornammo ad essere migliori amiche nell'arco di un pomeriggio, ma quella lunga conversazione, tenutasi mentre dondolavamo su altalene destinate a dei bambini,  servì da solida base per le chiacchierate che ci furono nei giorni successivi.

Anche l'incontro non zia Laurel aveva costituito un interessante diversivo alla monotonia dei miei giorni, durante il mese di Marzo.

Era passata a trovarci una sera, auto invitandosi a cena, e fu durante quella visita che scoprii il motivo del contrasto tra lei e mamma.

Per tutta la durata della cena zia non aveva fatto altro che raccontarci dei luoghi meravigliosi che aveva visitato con zio Ron, che aveva lasciato in Italia per qualche giorno e da cui sarebbe ben presto tornata. Ogni volta che zia iniziava a descrivere bellezze esotiche apparentemente impensabili, mamma prendeva un generoso sorso di vino rosso oppure sollevava gli occhi al cielo con aria scocciata.

Il comportamento di mamma mi ricordava quello che avevo dedicato per anni a Francine e che solo recentemente avevo smesso di utilizzare; l'unica differenza era che io non avevo mai bevuto alcolici per rendermi più sopportabile la presenza di quella che credevo essere la mia nemica numero uno. 

Zia Laurel approfittò della serata per farmi in anticipo gli auguri per il mio compleanno, dicendomi che, se avessi mai sentito il desiderio di raggiungerla in Italia, la sua porta sarebbe sempre stata aperta per me. Mi regalò quello che ogni adolescente e giovane adulto sogna di ricevere da ogni parente per il proprio compleanno: una busta con dentro dei soldi.

Solo quando zia se ne fu andata, lasciando come ricordo un piccolo pensierino per la famiglia, ossia un centrotavola intagliato nel legno da artigiani italiani, ebbi occasione di passare da sola qualche minuto con mamma, che mezza ubriaca mi chiese di aiutarla a sparecchiare tavola.

Durante quel breve tempo, mamma sentì il bisogno di raccontarmi quanto zia Laurel fosse stata odiosa con lei, prima ancora che sposasse papà.

Il retro scena "scabroso" che nessuno aveva voluto raccontarmi nei dettagli quando avevo indagato la settimana prima, venne finalmente fuori: zia aveva detto a papà, che mamma frequentava un altro e che papà avrebbe dovuto pensarci due volte prima d'innamorarsi stupidamente di lei. Zia non si era mai scusata per aver cercato di mettere zizzania e mamma non riusciva a dimenticare la cattiverie dette nei suoi confronti.

Ora che conoscevo quel racconto capivo meglio il comportamento di mamma, anche se non ero del tutte certa che bere vino rosso, per fingere di non avere la zia Laurel a cena, fosse la soluzione migliore per mantenersi sani fisicamente e mentalmente.

Quando la settimana prima avevo sentito che zia sarebbe passata a trovarci, avevo pensato che parlare con lei mi sarebbe servito. 

Avevo sempre visto zia Laurel come l'avventuriera della famiglia, come la figura femminile alla quale mi sarei dovuta ispirare per essere libera e felice, e quella convinzione non era stata spazzata via dal racconto di mamma, anche se si era considerevolmente incrinata.

Zia Laurel non era la persona senza macchia e senza paura che avevo creduto, faceva degli errori, faticava a chiedere scusa... Forse non era l'esempio migliore da seguire nella vita, ma non potevo che esserle grata per esser stata la prima donna della famiglia a mostrarmi che c'era un'alternativa, che non ero costretta a mettere su famiglia a meno che non l'avessi voluto, che ero libera di essere me stessa e di scegliere la mia strada.

Marzo, nella sua monotonia, fu un mese tutto sommato felice.

Xavier mi scriveva un messaggio o mi chiamava quasi ogni sera e quando non riusciva mi chiedeva scusa appena possibile.

Sentire la sua voce mi rilassava, leggere i suoi messaggi mi confortava.

Mi raccontava brevemente del tempo, del luogo in cui si trovava e mi chiedeva di parlargli della scuola e di come stessi.

Ero scoppiata a piangere quando mi aveva posto quelle domande, proprio nel momento di maggiore fragilità emotiva causata dal mio ciclo mestruale e lui era rimasto con me per più di mezz'ora a parlare, fino a quando non mi ero sentita meglio.

Avevo scoperto che quella relazione a distanza era meno terribile di quanto avessi temuto in un primo momento. Malgrado ci sentissimo ogni giorno, trovavamo sempre qualcosa di nuovo o di diverso da raccontarci. 

Per scherzare a volte lo chiamavo Mr. X e lui quando mi diceva qualcosa di dolce non usava il mio nome per intero, ma Didi.

Per tutto il mese di Marzo e per le prime due settimane di Aprile, tutto continuò ad essere monotonamente perfetto.

Quando arrivò il giorno del mio diciottesimo compleanno, scoprii che le doti persuasive di Isabel non funzionavano solo con me, ma anche con il resto della mia famiglia.

Senza che sospettassi niente, Sab aveva organizzato alle mie spalle, con il benestare dei miei genitori e l'entusiasmo di nonna ed Edith, una piccola festa a sorpresa a casa mia.

Quel mercoledì venne mamma a prendermi a scuola, costringendomi ad accompagnarla a fare la spesa, attività che odiavo particolarmente.

Una volta tornata a casa mi trovai circondata da striscioni, palloncini e il delizioso odore di torta al cioccolato appena sfornata.

Oltre ad una sorridente Isabel trovai in salotto ad aspettarmi Frida, Jules, Ann, Francine, Michel e i membri della mia famiglia.

«Sorpresa!», urlò Sab, lanciando in aria un palloncino rosso, mentre Edith esclamava: «Buon compleanno, D!»

La festa trascorse in un caotico chiacchiericcio, Frida ci parlò della sua ultima conquista, un ragazzo dell'università che aveva conosciuto poco dopo essersi lasciata con la sua ex, mentre Jules si lamentava del weekend, che aveva trascorso ad arrampicare in montagna con la famiglia. 

Sia Frida che Jules erano rimasti particolarmente sorpresi quando avevo annunciato loro che io e Francine eravamo tornate ad essere amiche. Entrambi avevano accettato di buon grado la questione, concedendole fin da subito il beneficio del dubbio.

Erano bastati pochi giorni, sia a Frida che Jules, per prendersi una cotta per la nuova aggiunta del gruppo. A Frida ero certa che fosse passata dal modo in cui parlava della sua nuova fiamma, ma a Jules temevo che ci sarebbe voluto del tempo in più.

Ann passò la maggior parte del tempo a chiacchierare con Kyle, ma non gliene feci una colpa, soprattutto perché la cosa dava fastidio a Francine e, anche se eravamo tornate ad essere amiche, le vecchie abitudini erano dure a morire.

Kyle e Ann sembravano essere diventati amiconi per la pelle, tanto che mi chiedevo quanto avrebbe aspettato mio fratello, prima di farle capire che per lui quella che stavano instaurando non era una semplice un'amicizia.

Allo stesso modo in cui io e Francine ci eravamo perdonate a vicenda le cattiverie degli ultimi anni, sembrava che anche Michel mi avesse perdonato ogni cosa crudele che avevo detto, pensato o fatto negli ultimi tempi, così come io avevo perdonato i suoi comportamenti strambi.

Faceva impressione trovarsi ad essere così felice e allo stesso tempo sentirsi profondamente triste il giorno del mio compleanno.

Ogni momento felice era rovinato dal pensiero che Xavier era lontano, ogni sorriso era incrinato dal timore che potesse essergli successo qualcosa.

Quando la festa finì e controllai il cellulare non trovai messaggi o chiamate perse da Xavier.

L'avevo sentito l'ultima volta due giorni prima, quando mi aveva detto di trovarsi ormai molto vicino a stanare l'assassino di suo padre e mi aveva detto che per qualche giorno avrei potuto non ricevere sue notizie.

Eppure, malgrado sapessi della situazione delicata in cui si trovava provai la forte tentazione di chiamarlo io. Per fortuna mi addormentai prima di fare qualcosa di molto stupido, che avrebbe potuto rovinargli la caccia.

Per il resto di Aprile, non ottenni sue notizie e nel mio cuore sofferente iniziarono ad insinuarsi dubbi ed ombre che, fino a quel momento, ero riuscita a tenere facilmente a bada: e se Xavier fosse stato gravemente ferito? E se la sua assenza fosse dovuta alla sua morte? E se durante il viaggio avesse incontrato una donna o una donna-lupo migliore di me; magari più bella, più femminile e meno infantile?

Più mi tormentavo più mi era difficile uscire da quel tunnel di dolore.

Per fortuna sia Isabel che Francine si presero l'impegno di farmi sorridere almeno una volta al giorno: Sab mi raccontava dei continui tentativi di procreazione dei suoi genitori, esagerando abbastanza quelle vicende da renderle ridicolmente realistiche, mentre Francine mi raccontava di quanto Carol fosse il tipico stereotipo di cheerleader bionda che si vede nei film e nelle serie tv, riportandomi episodi che sfociavano nell'assurdo.

Non potevo che essere loro grata per le attenzioni che mi dedicavano e i loro tentativi di farmi stare meglio, ma i sorrisi e le risate che mi strappavano erano momentanei.

Bastava un attimo per farmi tornare col pensiero a Xavier, ancora meno per farmi sentire triste e sconsolata.

La monotonia delle giornate di Aprile venne sostituita da quella delle giornate di Maggio; simile ma non identica.

Con breve preavviso arrivò in visita da Marsiglia la cugina di Francine e Michel, Claire, la quale aveva un anno in più di Michel e un marcato accento francese che mi impediva di capire metà delle parole che diceva.

Conobbi Claire quando andai a trovare Francine con Isabel, un sabato pomeriggio di inizio Maggio, e rimasi particolarmente colpita dal suo taglio di capelli corti color grano e dai suoi occhi color nocciola colmi di curiosità. 

Isabel non si smentì e fin da subito le fece un'interrogatorio minuzioso, come se si fosse trovata ad un appuntamento al buio e avesse sentito la necessità di sapere più cose possibili di quella che sarebbe potuta diventare sua moglie.

Ben presto mi resi conto che il mio pensiero non si scostava più di tanto dalla realtà, dato che il dolore e la preoccupazione, che provavo quando Xavier s'insinuava nella mia mente, non potevano impedirmi di notare il modo in cui Claire e Isabel sembravano essersi perse in una bolla troppo stretta, per poter permettere a qualcun altro di metterci piede e disturbare la loro privacy.

Mi sembrò di tornare indietro nel tempo, a quando Kyle aveva visto per la prima volta un'Ann diversa da quella a cui eravamo abituati, solo che questa volta erano Isabel e Claire ad essersi viste per la prima volta.

Francine, Michel ed io assistemmo con stupore allo spettacolo che ci si presentava di fronte agli occhi, affascinati dalla coincidenza che aveva permesso a Sab di incontrare quella che doveva essere la sua compagna per la vita.

Dopo qualche minuto decidemmo di cambiare stanza, così da lasciare loro un po' di privacy.

«È mai successo?», chiese Francine, guardando sconvolta il fratello maggiore.

«Cosa?», domandò lui, mentre sbirciava con la coda dell'occhio sua cugina e una delle sue migliori amiche che chiacchieravano animatamente, ignare del mondo che le circondava.

«Di trovare un compagno o una compagna del tuo stesso sesso», disse Francine, titubante.

Scrollai le spalle: «Perché no, scusa?»

«Pensavo che le coppie si creassero per una mera questione di procreazione...», mi spiegò lei.

«Se fosse così perché il signore e la signora Montgomery non hanno mai avuto figli?», le feci notare: «E anche se Sab e vostra cugina fossero i primi esemplari di donne-lupo gay, non penso sia una cosa terribile».

Francine sollevò gli occhi al cielo: «Non ho mai detto che fosse terribile, Diana! Non mettermi in bocca parole non mie. Sono solo rimasta stupita, perché non mi sarei mai aspettata che la mia amica ritrovata avesse un colpo di fulmine con la cugina che non vedo da circa dieci anni».

Dopo quel primo incontro, Isabel e Claire iniziarono a passare molto tempo assieme, spinte l'una verso l'altra da una forza d'attrazione invisibile che conoscevo fin troppo bene, dato che era la stessa che mi aveva legato indissolubilmente a Xavier fin dal nostro primo incontro, quella notte nella foresta.

La felicità che provavo per Isabel era offuscata soltanto dalla mia tristezza. 

Xavier mi aveva scritto un breve messaggio in risposta ai trenta che gli avevo mandato nell'ultimo mese, per farmi sapere che stava bene e nient'altro.

Avevo provato a chiamarlo qualche volta, ma non aveva mai risposto e non mi aveva mai richiamata.

Non riuscivo a capire perché si comportasse così e più Xavier mi ignorava, più cominciavo a credere di esser stata presa in giro, durante quelle due settimane che avevamo condiviso.

Quando la tristezza e la delusione vincevano su qualsiasi altro sentimento, mi raggomitolavo sul mio letto e cercavo nel borsone di Xavier qualcosa che potesse farmi sentire meglio. Potevo passare minuti interi a contemplare la foto della mamma di Xavier, oppure a leggere qualche pagina di "Foglie d'erba" oppure ancora a sfogliare le cartoline e a ricordare le storie che erano ad esse legate.

Erano rari i momenti in cui mi lasciavo abbattere tanto da non riuscire a reagire in nessun modo, dato che di solito ero brava a trovare una distrazione; leggere un libro, fare i compiti, cercare Edith per farmi raccontare qualcosa o disegnare con lei, parlare con nonna, aiutare mamma con le faccende di casa, prendere in giro Kyle, farmi assegnare qualche ronda extra da papà.

Ora che ero diventata maggiorenne erano arrivate le responsabilità, proprio come mi aveva avvertita mio padre qualche mese prima, e avevo il dovere di difendere i confini del branco quanto tutti gli altri membri adulti.

Le ronde notturne o diurne non mi pesavano, correre mi aiutava a liberare la mente e a scaricare la tensione, oltre a stancarmi abbastanza da aiutarmi a dormire più facilmente.

Quando Maggio finì per lasciare il passo a Giugno, il mio cuore ormai si era arreso all'evidenza che Xavier non sarebbe più tornato.

L'ultimo anno scolastico era terminato e la mia famiglia era molto fiera di me.

Malgrado le resistenze iniziali, mamma e papà avevano infine accettato il mio imminente viaggio, facendomi promettere di scrivere loro spesso e di fare molta attenzione ai pericoli in cui sarei potuta incappare.

Non avevo molti soldi messi da parte, ma lo scopo del mio viaggio non era quello di passare da un Hotel di lusso a un altro, quindi non mi preoccupavo più di tanto per la questione.

Non vedevo l'ora di vivere alla giornata; dormire nei boschi, lavarmi nei ruscelli e, in caso di necessità, cercare dei lavori stagionali, che potessero farmi guadagnare un po' di soldi per mantenermi e continuare il mio viaggio.

Ovviamente sapevo di poter contare sui miei genitori nel caso avessi avuto bisogno di aiuto economico, ma volevo provare ad essere il più indipendente possibile.

Avevo fissato la partenza alla seconda domenica di Giugno e lo avevo scritto in un veloce messaggio a Xavier. Dato che sarebbe dovuto essere il mio compagno di viaggio, anche se ormai non ci speravo più molto, mi ero sentita in dovere di informarlo.

In parte non potevo impedirmi di sperare che tornasse da me, ma più si avvicinava la domenica della partenza, più la speranza di rivederlo si faceva debole e inconsistente.

Eppure, per quanto mi dispiacesse, non potevo aspettare oltre.

Dovevo partire.

 

 

 

 

***

Buongiorno popolo di EFP!

Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e non vi sia parso troppo sbrigativo. Avevo pensato di scrivere più capitoli per descrivere la ritrovata amicizia con Francine e il nuovo amore di Isabel, ma avevo paura di allungare troppo la storia e renderla ripetitiva o noiosa, per questo ho pensato di unire questi due colpi di scena in un unico capitolo. 

Spero che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate, anche perché ormai siamo quasi alla fine della storia e mi piacerebbe sapere quali sono le vostre previsioni per i capitoli futuri!

Per rimanere in tema: secondo voi cos'è successo a Xavier da trattenerlo così tanto lontano da Diana? Riuscirà a tornare prima che lei parta?

Come sempre, ricordo che per chi volesse mi può trovare su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV: Codardo ***


Riassunto del capitolo precedente: Nei mesi in cui Xavier è lontano, Diana parla con Francine, facendo pace con lei. Isabel incontra Claire, la cugina dei fratelli Picard, per la quale prova una forte attrazione. Xavier ignora i messaggi e le chiamate di Diana, che sta progettando di partire senza di lui.

Buona lettura!




 

Capitolo XXIV: Codardo

 

 

Quel Sabato mattina mi svegliai con un leggero mal di testa e gli occhi gonfi.

Non l'avrei mai ammesso, ma avevo passato la maggior parte della notte in lacrime, abbracciata al cellulare.

Dopo aver mandato, qualche giorno prima, quell'ultimo messaggio a Xavier — dove gli avevo annunciato la data della mia partenza — avevo passato giorni e notti da incubo. 

Da quando mamma e papà mi avevano regalato un cellulare per il mio dodicesimo compleanno, l’avevo usato molto poco, giusto per comunicare con Isabel o con i miei genitori, eppure, nelle ultime settimane, mi ero trovata, sempre più spesso, a sbloccare lo schermo del telefono nella speranza di notare la notifica di un messaggio o di una chiamata che non avevo notato da parte di Xavier.

La notte, che avevo appena trascorso, era la penultima prima della mia partenza e la tristezza per la mancanza di Xavier veniva quasi completamente oscurata dall'eccitazione che provavo, all'idea di imbarcarmi in una nuova avventura.

In cucina venni accolta dal profumo dei pancakes e sciroppo d'acero.

Ai fornelli c'era mio papà, con un grembiule natalizio e un sorriso radioso stampato in faccia.

«Buongiorno, tesoro!», mi accolse la voce allegra di mamma, che stava svuotando la lavastoviglie e ogni tanto punzecchiava il fianco a mio padre, facendolo borbottare e contorcersi.

Mi sedetti a tavola rasserenata dall'atmosfera tranquilla che si respirava quella mattina.

Era dalla partenza di Xavier che le tensioni tra me e i miei genitori si erano lentamente dissolte.

Mi era finalmente concesso partecipare alle feste senza avere Kyle con me, anche se dovevo tornare comunque per mezzanotte e avvertire i miei genitori dei miei spostamenti; in quanto membro attivo del branco avevo le ronde come tutti gli altri e, nel caso ci fosse stato bisogno di votare per delle nuove decisioni, avevo la possibilità di dire la mia come chiunque altro.

Quando papà e Kyle andavano a caccia mi chiedevano di partecipare e quando mamma andava a correre nel bosco per tenersi allenata, mi invitava ad accompagnarla.

In un primo momento avevo creduto che il loro comportamento fosse dettato dalla pietà che provavano per me, la ragazza-lupo "sedotta e abbandonata" del branco, poi mi ero resa conto che avevano semplicemente smesso di vedermi come una bambina e avevano cominciato a rispettarmi e a considerarmi una ragazza abbastanza matura da prendere le proprie decisioni.

Mamma mi servì una tazza fumante di caffè, facendomi l'occhiolino, prima di punzecchiare per l'ennesima volta il fianco a mio padre.

Scoppiai a ridere quando papà si voltò e sporcò il naso di mamma con della pastella per i pancake.

«Dov'è nonna?», chiesi, notando che oltre ai miei genitori e me, la cucina era stranamente vuota, malgrado fosse mattina inoltrata.

«Dal signor Montgomery, gli ha preparato un cesto con un po' di zucchine dell'orto», disse mamma, mentre si puliva il naso sporco di impasto per pancake: «Tuo fratello invece è ancora a letto e tua sorella è andata a raccogliere un po' di fragole per la colazione».

Presi un sorso di caffè bollente, bruciandomi leggermente la lingua, mentre annuivo distrattamente.

Nonna aveva preso da un paio di mesi l'abitudine di andare a trovare il signor Montgomery, almeno una volta a settimana per tenergli compagnia e aiutarlo a superare il lutto della moglie. Essendo anche nonna Diana vedova, pensava di sapere quali fossero i pensieri che attraversavano la mente di Robert Montgomery e di essere l'unica in grado di consolarlo.

La calma e serenità della mattinata venne interrotta bruscamente, quando sentimmo un grido provenire dal giardino sul retro.

Non ci misi molto a capire chi doveva aver urlato e una stretta allo stomaco mi spinse a posare la tazza di caffè sul tavolo e seguire con passi veloci i miei genitori, che avevano abbandonato a loro volta quello che stavano facendo per accorrere in aiuto a mia sorella.

Era capitato in passato che le grida giocose di mia sorella fossero state confuse con urla di dolore o paura, ma in quel caso non avevo alcun dubbio: era successo qualcosa a Edith.

Appena uscimmo nel cortile sul retro, notai il cestino delle fragole rovesciato a terra e il cuore iniziò a battermi all'impazzata nel petto, quando non notai i capelli biondi di mia sorella da nessuna parte.

Ero sul punto di trasformarmi, così da sentire meglio le tracce e gli odori e partire alla ricerca di mia sorella, quando mi resi conto della massa di pelo scuro nascosto tra la fila dei pomodori e quella delle zucchine.

«Edith?», chiamò mamma, avvicinandosi alla figura, che tremava leggermente tra le verdure.

Quando realizzai che mia sorella doveva essersi trasformata per la sua prima volta in lupo, rimasi affascinata dalla sua pelliccia scura, che si confondeva facilmente col terreno.

Solo quando mamma appoggiò una mano sul suo manto, Edith sollevò il muso, metà bianco e metà marrone scuro, sul quale spiccavano gli occhi chiari di mia sorella.

«Va tutto bene, tesoro», disse papà, avvicinandosi a sua volta alla lupetto spaventata.

Il battito impazzito del mio cuore si era ormai calmato, la paura di poco prima sostituita dall'euforia e un pizzico d'orgoglio.

Avevo cominciato a pensare che, a causa della mia imminente partenza, non sarei stata presente il giorno in cui Edith si sarebbe trasformata, eppure mia sorella si trovava a pochi passi da me e uggiolava spaventata, mentre mamma e papà la rassicuravano con parole dolci, accarezzandole il pelo scuro.

Mi accovacciai a mia volta nell'orto, allungando la mano per sentire la consistenza morbida e sconosciuta della pelliccia di mia sorella.

«Non preoccuparti, Edith», dissi, aggiungendomi alle voci rassicuranti dei miei genitori.

Dopo una decina di minuti mamma e papà riuscirono ad aiutare Edith a tornare umana.

Mia sorella sorrideva da orecchio a orecchio, malgrado il dolore e la stanchezza che doveva provare dopo la sua prima trasformazione: «Avete visto?!»

Papà scoppiò a ridere, prendendo Edith tra le braccia: «Certo che abbiamo visto, signorina», esclamò con tono orgoglioso, stringendola al petto.

Mamma mi porse il cestino con le fragole e mi chiese di portarlo in casa, mentre loro si prendevano cura di Edith e le preparavano un bagno caldo e rilassante.

Una volta in casa sentii chiaramente l'odore di bruciato che proveniva dalla cucina. Abbandonai le fragole sul tavolo, accanto alla mia tazza di caffè e spensi il gas sotto alla padella che mio papà aveva lasciato accesa, nella fretta di uscire a vedere cosa fosse successo ad Edith.

Aprii tutte le finestre e accesi la cappa sui fornelli nel tentativo di depurare l'ambiente da quel puzzo insopportabile, poi buttai i resti del pancake carbonizzato e presi quello che era stato il posto di papà in cucina, così da finire di preparare gli ultimi pancakes.

Cercai di cucinare senza lasciarmi distrarre dai numerosi ricordi che avevo legati ai pancakes, ma ben presto il sorriso spensierato sul mio viso di trasformò in una smorfia, quando ricordai la sera in cui avevo dormito per la prima volta nello stesso letto con Xavier; la stessa sera in cui nonna aveva preparato i pancakes per cena per fare felice Edith.

Presi un profondo respiro e ignorai la fastidiosa fitta al petto, cercando nella mia mente un altro ricordo, più recente e meno doloroso da sostituire a quello legato a Xavier. Mi ritrovai così a pensare a quando ero andata da Sab, la settimana precedente, e la signora Drake aveva preparato i pancakes con la Nutella per merenda.

Da quando Isabel aveva trovato Claire non era cambiata molto, era sempre la solita chiacchierona, esuberante e solare, che riusciva sempre a farmi impazzire.

La cugina di Michel e Francine era dovuta tornare in Francia dopo una permanenza di tre settimane in casa Picard. Da quando era partita, lei e Sab si sentivano ogni giorno, più volte al giorno. Isabel sfruttava gli anni di studio di francese per impressionare la sua ragazza e Claire le raccontava della sua vita a Marsiglia, invitandola a raggiungerla appena possibile.

Per quanto la mia vita sentimentale non fosse delle migliori in quel momento, non potevo non essere felice per lei, che aveva trovato una compagna gentile e timida che la completava, rendendola ancora più felice di quanto fosse normalmente.

Terminata la preparazione dei pancake, li riposi in una pila ordinata e li misi al centro del tavolo della cucina, prima di munirmi di sciroppo d'acero, nutella, un piatto e un coltello.

Mi dedicai alla colazione con solerzia, godendomi ogni boccone e facendo attenzione a non sprecare nemmeno una briciola di quello che mi ero servita nel piatto.

In quel lasso di tempo ricevetti un paio di messaggi da Isabel, che mi ricordava del ballo scolastico di quella sera, evento a cui mi era proibito non partecipare, pena una morte lenta e piena di dolore.

Non solo Sab, ma anche Francine e Frida si erano coalizzate contro di me.

Per mia fortuna avrei potuto partecipare solo alla prima parte della serata, dato che da mezzanotte alle due dovevo occuparmi della ronda e proteggere i confini del branco.

Passai l'intera mattinata e buona parte del pomeriggio a controllare che nel borsone per il viaggio, che avevo iniziato a preparare dal giorno prima, ci fosse tutto quello che necessitavo; occasionalmente aggiungevo quello che mancava o rimuovevo ciò che era in eccesso.

Per tutto il tempo cercai, anche se con scarsi risultati, di non pensare a Xavier e al fatto che ancora non avesse risposto al mio messaggio.

Non riuscivo a capire cosa potesse essere successo in quei mesi e, malgrado i tentativi di Sab di farmi prendere in considerazione l'idea che il cellulare potesse esserglisi rotto e che per questo Xavier non aveva avuto la possibilità di rispondermi, più il tempo passava più la mia fantasia galoppava, proponendomi scenari sempre più cruenti e dolorosi da sopportare.

Avrei voluto che la rassegnazione vincesse una volta per tutte sulla speranza, così da permettermi di dimenticarlo e andare avanti.

Poco prima delle sette di sera, quando ormai avevo controllato quattro volte che nel borsone per il viaggio ci fosse tutto quello che necessitavo, sentii un lieve bussare alla porta.

Prima che potessi invitare chiunque si trovasse oltre il legno ad entrare, l'uscio si spalancò rumorosamente e una sorridente Isabel mise piede in camera mia.

«D, qualsiasi cosa tu stia facendo, smetti immediatamente, dobbiamo iniziare a prepararci», esclamò la voce entusiasta di Sab, puntandomi contro un indice ammonitore.

«Cosa ci fai tu qui?», le chiesi, confusa dalla sua improvvisa apparizione.

«Siamo qua per aiutarti ad essere bellissima per il ballo», disse Sab, posando a terra l'enorme borsa che aveva con sé.

«"Siamo"?», chiesi, ma non ebbi tempo di indagare oltre, dato che un'imbronciata Francine comparve a sua volta sulla porta di camera mia.

«Ciao, Diana», mi salutò, entrando svogliatamente: «È stata un'idea di Isabel, io ero certa che non avresti apprezzato».

Da quando, qualche mese prima, avevamo sotterrato l'ascia di guerra ed eravamo tornate a frequentarci come amiche, le cose erano andate piuttosto bene.

Ogni tanto ci capitava di lanciarci ancora qualche frecciatina, in memoria dei vecchi tempi, ma tutto sommato eravamo di nuovo il trio inseparabile di un tempo.

«Francine, non sei di aiuto», disse Sab con tono scocciato, prima di chiudersi la porta alle spalle e sorridermi ampiamente: «Ti abbiamo portato un regalo».

Percepii chiaramente un brivido d'orrore attraversarmi la schiena a quelle parole: «Regalo?», chiesi, sperando vivamente che, qualsiasi cosa mi avessero comprato, non fosse un abito per quella sera.

Francine si sedette sul bordo del mio letto, con un sorriso crudele sulle labbra: «È proprio quello che temi che sia», disse, facendo sbuffare Sab dall'altra parte della stanza.

«Francine, oggi sei insopportabile, capisco che il pre mestruo ti renda di pessimo umore, ma stai esagerando», disse Isabel, con tono scocciato.

«E cosa pensi di fare? Lanciarmi contro una manciata di glitter?», chiese la ragazza, sollevando gli occhi al cielo.

«Ancora con questa storia!? È successo dieci anni fa, mamma mi aveva detto che era polvere di fata e io ci ho creduto», disse Sab, estraendo dalla borsa un pacchetto regalo color azzurro cielo.

Accettai quel dono con poca convinzione e iniziai a scartarlo con rassegnazione.

«Polvere di fata o meno ho continuato a trovarmi glitter addosso per anni», si lamentò Francine, incrociando le braccia al petto.

«Esagerata!», esclamò Sab, sollevando gli occhi al cielo: «E comunque ai tempi non ricordo ti fossi lamentata più di tanto».

«Mi avevi detto che era polvere di fata! Perché mai mi sarei dovuta lamentare?»

Estrassi dal pacchetto un paio di pantaloni e un blazer, entrambi neri e dal taglio elegante, una camicia bianca priva di fronzoli e un biglietto su cui c'era scritto: "Vuoi essere il nostro cavaliere per questa sera?"

Sollevai lo sguardo, incontrando il sorriso radioso di Isabel e quello un po' meno convinto di Francine.

«Non è un vestito», constatai, stupita.

«No, non è un vestito. Ti piace?», chiese Sab, sedendosi vicino a Francine sul letto.

«Sì, mi piace», ammisi, sorridendo apertamente; era la prima volta che Isabel mi regalava qualcosa che mi piacesse davvero e non qualcosa che piaceva a lei e che sperava piacesse anche a me.

Passammo il tempo che ci restava prima del ballo a prepararci.

Il completo che mi avevano regalato mi era leggermente lungo sulle gambe e sulle braccia, ma bastava fare un risvoltino per sistemare il problema, ai piedi indossai delle semplici scarpe stringate nere e mi rifiutai categoricamente di truccarmi, lasciando però libertà a Sab di decidere come acconciare i capelli, che mi arrivavano ormai alle spalle.

Dato che Francine e Isabel avevano scelto di indossare abiti più tradizionali per il ballo e, a differenza mia, non avevano intenzione di rinunciare al trucco, fui la prima ad essere pronta e utilizzai quella scusa per raggiungere mamma e papà in salotto, così da lasciare Francine e Isabel da sole a finire.

Papà approvò con una grande sorriso il mio completo e mamma mi sistemò un bocciolo di rosa rossa all'occhiello del blazer, facendomi l'occhiolino.

Papà prese la macchina fotografica e mi fece un paio di foto per documentare l'evento, poi quando comparvero anche Isabel e Francine, ci fece qualche scatto tutte insieme.

Per colpa di Kyle, che si era dimenticato di doverci accompagnare, arrivammo alla festa ben oltre le otto di sera.

Entrai nella palestra della scuola, abbellita per l'occasione con palloncini e striscioni, con un misto di tristezza ed impazienza.

L'idea che il liceo fosse finalmente finito mi sembrava quasi surreale. Avevo aspettato per anni il momento in cui mi sarei lasciata ogni cosa alle spalle, pronta ad iniziare una nuova avventura, e ora che quel momento era finalmente arrivato, non riuscivo ad essere felice come avrei voluto, ed era tutta colpa dei miei pensieri, nei quali continuavo, ogni pochi minuti, a constatare la mancanza di Xavier con me quella sera.

Sab e Francine mi riempirono di attenzioni e mi costrinsero più volte a ballare con loro nell'arco della serata. Frida aveva con sé la sua nuova ragazza, una certa Susan che lavorava part-time in un negozio di vestiti nel centro città e Jules trovò il coraggio di invitare Francine a ballare, riuscendo anche a farla ridere mentre dondolavano al ritmo di un lento.

Adam Truce, che non se l'era presa quando Sab gli aveva comunicato di non essere interessata da uscire con lui, la invitò a ballare un paio di volte, dimostrandole di essere il bravo ragazzo che avevo sempre saputo essere.

Verso le dieci di sera comparvero anche Michel e Kyle, i quali si unirono al nostro gruppo. Mio fratello si distrasse però facilmente, quando vide Ann chiacchierare con un gruppo di amiche, in un angolo della palestra e, senza pensarci due volte, la raggiunse per invitarla a ballare.

Isabel ricevette una telefonata dalla sua ragazza verso le undici di sera e rimase per qualche minuto in videochiamata a parlare fitto francese con Claire.

Poco prima di mezzanotte mi allontanai dalla festa senza farmi notare troppo, riuscendo ad evitare il momento della serata che temevo maggiormente. Sapevo che, se fossi rimasta e avessi concesso ad ognuno dei miei amici la possibilità di salutarmi, avrei finito col commuovermi oppure col rivelare la verità a qualcuno; ossia che non aveva intenzione di partire alle otto del mattino successivo, ma di mettermi in cammino poco dopo la fine della mia ronda notturna.

Sapevo che avrei ricevuto messaggi minatori da parte delle mie amiche, soprattutto da Isabel, con quel mio comportamento evasivo, ma non me ne preoccupai e mi allontanai dalla palestra, diretta verso la foresta poco distante.

Stavo prendendo in considerazione l'idea di spogliarmi e trasformarmi, così da iniziare la ronda senza passare da casa, quando il vento mi soffio in faccia un odore che mi fece tremare le gambe per qualche secondo.

Prima che potessi trasformare i miei pensieri confusi in qualcosa di razionale, avevo già incominciato a correre, ignorando le scarpe che slittavano sul terreno, facendomi perdere frequentemente l'equilibrio, o i capelli che a seconda di come tirava il vento, mi sferzavano il viso.

Raggiunsi in meno di dieci minuti di corsa ininterrotta il confine nord-ovest del territorio del branco, sentendo sempre più vicino l'odore di cannella e sandalo e e il rumore dei passi in avvicinamento.

C'era stata il giorno prima la luna nuova e la foresta era più buia che mai, riuscivo a distinguere le figure degli alberi e dei cespugli solo grazie alla mia vista sviluppata da ragazza-lupo, ma tutto appariva in una monotona scala di grigi, che non rendeva giustizia alla bellezza di quei boschi e alla pienezza dei verdi.

Smisi di correre quando intravidi in lontananza la silhouette di Xavier in avvicinamento e sentii le mie gambe diventare di cemento.

Rimasi ferma, impossibilitata a muovere un altro passo, mentre con gli occhi attenti studiavo l'andatura e la postura del ragazzo che pochi mesi prima avevo considerato mio e che, in quel momento, non ero sicura di poterlo definire tale.

Xavier sembrava stanco, forse era ferito e per questo muoveva i piedi in modo incerto, disordinato. Aveva i capelli scuri che gli arrivavano al mento e la barba che gli copriva interamente la mascella. Portava il borsone sulla schiena come se pesasse troppo per lui e gli abiti stropicciati avevano l'odore di muschio e acqua di torrente.

Non potevo distinguere, in quella tavolozza di grigi, il colore dei suoi occhi, ma ricordavo talmente bene quella sfumatura di verde, che non mi era difficile immaginarla in quel momento.

Xavier fermò la sua avanzata a un paio di metri da me, il volto serio e la mandibola serrata.

Rimanemmo in silenzio per qualche istante, io ero troppo sopraffatta dalle emozioni per trovare delle parole di senso compiuto in quel frangente, lui sembrava altrettanto senza parole.

«Sei vivo», sussurrai alla fine, rendendomi conto solo in quel momento delle lacrime che solcavano le mie guance.

Xavier abbassò il volto e annuì lentamente: «Sì, Diana, sono vivo».

Il sollievo provato fino a quel momento scomparve, sostituito da un dolore e una rabbia tali da farmi accorciare le distanze, fino a quando non mi trovai talmente vicino a lui da potergli afferrare il bavero della maglia che indossava e avvicinare il suo viso al mio.

«Perché non mi hai più scritto? Perché hai ignorato i miei messaggi? Ho temuto il peggio!», confessai, lasciando che le lacrime, le quali mi bagnavano il viso, gli facessero chiaramente capire quanto male mi avesse fatto il suo silenzio: «Cos'è successo?»

Xavier cercò si sfuggire alla mia stretta, di mettere della distanza tra di noi, ma non glielo lasciai fare, aumentando la stretta sul tessuto della sua maglietta: «Voglio la verità, Xavier. Merito la verità».

Quando lui tornò a sollevare il volto, così da guardarmi negli occhi, vidi chiaramente che stava piangendo a sua volta: «Mi dispiace, Diana», sussurrò, con una smorfia di dolore in volto: «Mi dispiace».

Lasciai la presa sul suo bavero solo per avvolgere le braccia intorno al suo torso, più magro rispetto all'ultima volta che l'avevo stretto a me, e affondare il viso contro il suo petto.

Xavier non rispose all'abbraccio, sentivo le sue mani tremargli leggermente lungo i fianchi e mi chiesi cosa fosse successo al ragazzo di cui mi ero innamorata pochi mesi prima e di cui stavo stringendo quello che pareva un'involucro vuoto.

«Cos'è successo, Xavier?», ripetei, questa volta con tono più sicuro ed esigente, scostandomi abbastanza dal suo corpo da puntare i miei occhi nei suoi.

«Sono stato un codardo», sussurrò, il volto distorto in un'espressione sofferente: «Sono un codardo, Diana. Quando ho trovato l'assassino di mio padre, l'ho inseguito per giorni e poi settimane e non sono riuscito ad ucciderlo, non ci ho neanche provato. Continuavo a pensare a quanto volessi vivere e tornare da te e ora che sono qui mi chiedo se ne sia valsa la pena. Sono qua, sono vivo, sono con te, ma mi sento un verme».

Rimasi con le labbra socchiuse, sorpresa dalle parole che uscivano dalla bocca di Xavier.

«Sarei potuto tornare prima, ma mi vergognavo troppo. Quando ho visto il tuo messaggio non ci ho pensato una seconda volta e sono partito per raggiungerti prima della tua partenza e ora che sono qua sento di non meritarmi questo abbraccio, il tuo affetto… Non ti merito, Diana».

Scossi la testa con convinzione, ferita da quelle parole.

«Sono felice che tu sia tornato da me e sono felice che tu non abbia rischiato di morire combattendo contro quell'assassino», dissi, cercando di fargli capire che non aveva motivo di sentirsi un codardo: «Sono felice che tu non sia un assassino, Xavier».

I suoi occhi lucidi si fissarono nei miei, colmi di dolore: «No, non un assassino: un codardo».

Mi sporsi e premetti le labbra contro le sue, zittendolo. Non approfondii il bacio, lasciai che rimanesse quello che era stato; un mezzo per ottenere un risultato: un bacio per ottenere il silenzio.

«Non m'importa, Xavier, ma a quanto pare importa a te. Volevi uccidere l'assassino di tuo padre per vendicarne la morte, ma per chi lo stavi facendo? Per tuo padre o per te? Cosa volevi dimostrare?»

Xavier scosse la testa, asciugandosi il volto con le mani: «Come fai ad essere ancora qui? A continuare a parlarmi? Non ti faccio ribrezzo?»

«Io ti amo, Xavier».

Le sue mani umide di lacrime si appoggiarono sul mio viso, iniziando ad accarezzarmi le guance, mentre gli occhi sbarrati studiavano ogni ruga d'espressione sul mio viso.

«Tu mi ami?», sussurrò, l'espressione incredula sul volto smagrito.

«Sì, io ti amo», confermai, sentendomi più leggera dopo avergli confessato la profondità dei miei sentimenti: «Sarò egoista, ma sono troppo felice di averti di nuovo qui, con me, per pensare di essere migliore di te e poterti giudicare. Non sei riuscito ad attaccare un omicida per vendicare la morte di tuo padre, non sei un codardo, sei semplicemente un ragazzo-lupo che è stato messo di fronte a un compito troppo duro, un compito il cui peso non meritavi di portare sulle spalle».

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo e Xavier sembrò valutare le mie parole, pensieroso.

«Mi sei mancata, Diana», sussurrò alla fine, stringendomi tra le sue braccia calde: «Avevo paura a scriverti perché temevo il tuo giudizio, invece ho dimostrato soltanto di essere uno stupido».

Affondai il volto contro il tessuto della sua maglietta e sorrisi tristemente: «Confermo, sei stato stupido».

«Pensavo non mi avresti giudicato», mi fece notare Xavier e riuscii a percepire nella sua voce l'accenno di un sorriso.

«Non ti sto giudicando, ho semplicemente confermato le tue parole».

Xavier rise sommessamente, baciandomi la fronte.

«Non credo di essere in grado di comprendere appieno ciò che provi, ma se hai bisogno di riposare qualche giorno, possiamo spostare la data di partenza», proposi, saggiando con i polpastrelli la consistenza ruvida e disordinata della sua barba.

«Vuoi partire con me? Malgrado tutto quello che ti ho fatto passare negli ultimi mesi?», chiese con un filo di voce, incredulo.

«Sì, Xavier, voglio ancora partire con te, anche se sono arrabbiata, anche se mi hai fatta soffrire molto, anche se mi hai evitata invece di confidarti con me. So che parlare dei proprio problemi non è facile, ma d’ora in poi, vorrei che tu mi parlassi di ogni cosa che ti passa per la mente. Basta omissioni, basta segreti».

Xavier annuì, accarezzandomi dolcemente il viso: «Promesso», disse, sorridendomi timidamente: «Posso baciar…?»

Non gli lasciai neanche il tempo di concludere la frase e mi sporsi per premere la bocca contro la sua, riscoprendo il suo sapore, la morbidezza delle sue labbra e il desiderio bruciante di sentire la sua pelle contro la mia.

Sapevamo entrambi che ci sarebbe voluto del tempo prima che lo perdonassi per avermi fatta preoccupare tanto e inutilmente, ma non avevo dubbi che quel giorno sarebbe arrivato presto.

Non potevo immaginare appieno quanto avesse sofferto durante quella solitaria caccia. Anche io avevo sofferto durante i mesi di lontananza, ma avevo avuto la mia famiglia e i miei amici accanto, avevo portato a termine gli obiettivi che mi ero prefissata e tutto sommato ero riuscita ad andare avanti. Xavier invece era stato solo, all’inseguimento di un uomo-lupo che gli aveva portato via la persona a cui più teneva al mondo, suo padre, e malgrado il desiderio di vendetta non era riuscito ad attaccarlo. Xavier non era riuscito a compiere l’unico obiettivo che aveva avuto per molto tempo ed era comprensibile che quel pensiero lo tormentasse.

Solo in quel momento, mentre mi lasciavo distrarre dalle mani di Xavier, che mi stringevano a sé, quasi disperate, mi ricordai della ronda e del ballo e del mondo che esisteva all’infuori di noi.

Sciolsi l’abbraccio e il bacio a malincuore, passando una mano tra i capelli spettinati di Xavier e gli sorrisi dolcemente: «Andiamo a casa», gli proposi, intrecciando le mie dita alle sue.

Xavier annuì e mi seguì lungo il bosco.

Parlammo dei miei amici, della mia famiglia; lo aggiornai su tutto quello che si era perso in quei due mesi che non si era fatto sentire e una volta arrivati a casa lo lasciai riposare sul divano, mentre andavo a fare la ronda.

Il mio cuore tormentato era finalmente in pace, ora che Xavier era tornato e sembrava intenzionato a rimanere con me.

 

 

 

 ***

Buon pomeriggio popolo di EFP!

Speravo di riuscire a pubblicarvi prima questo capitolo, ma è stato molto difficile da scrivere, forse perché è il penultimo e l'idea di terminare questa storia mi rende felice e triste allo stesso tempo.

Nei prossimi giorni vi pubblicherò l'epilogo, che sarà piuttosto breve, quindi non dovrei metterci molto a scriverlo.

Spero che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa pensate della storia e di questo penultimo capitolo.

Un bacio,

LazySoul

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Capitolo 25
*** Epilogo: Dopo ***


Riassunto del capitolo precedente: Xavier torna da Diana e le spiega le motivazioni che lo hanno tenuto lontano tanto a lungo e lei gli confessa di amarlo e di voler partire con lui malgrado tutto.

 

Buona lettura!

 

 

Epilogo: Dopo

 

 

«Stai fermo», dissi, bloccandogli la testa nella posizione che volevo io.

«Sissignora», rispose, ridendo sotto i baffi.

Ci trovavamo in riva ad un torrente, sperduti nella Foresta Nazionale di Tahoe, circondati dal verde del bosco e dai cinguettio degli uccellini.

Avevamo lasciato le nostre borse nel prato alle nostre spalle, così come i nostri vestiti e dopo un veloce bagno, era arrivato il momento che Xavier tanto temeva: il taglio di capelli e barba.

«Potresti non farmi sembrare un clown questa volta?», chiese lui, sistemandosi più comodamente sul masso su cui era seduto e chiudendo gli occhi.

Cercai di non lasciarmi distrarre dai rivoli d'acqua che scorrevano sul corpo nudo di Xavier, o sulla sfumatura dorata che aveva acquisito la sua pelle stando al sole e iniziai a tagliargli i capelli con delle forbici che non erano certamente state pensate per quell'utilizzo.

«Vedrò cosa posso fare», dissi, sollevando gli occhi al cielo.

Settembre stava per terminare e il nostro viaggio sembrava essere cominciato da pochi giorni invece che da tre mesi.

Avevamo trascorso gran parte di Luglio e Agosto in Canada e solo da tre settimane eravamo tornati negli Stati Uniti.

Eravamo stati qualche giorno a casa dai miei, ai quali avevamo raccontato delle bellezze del Canada, poi eravamo ripartiti.

Avevamo preso l'abitudine di tagliarci i capelli a vicenda da quando, in Agosto, mi ero stancata delle ciocche che mi solleticavano le clavicole e avevo chiesto a Xavier di tagliarmeli, la settimana dopo ero stata io a prendere in mano le forbici e a occuparmi dei suoi capelli.

Eravamo entrambi degli incapaci in quel campo, ma non ci davamo per vinti.

Avevo quasi finito di accorciargli le ciocche davanti, quando una mano di Xavier iniziò ad arrampicarsi lungo la mia gamba, facendomi perdere la concentrazione.

«Fermo», gli dissi, schiaffeggiandogli l'arto.

Xavier rise, ma non si arrese e riportò la mano sulla mio interno coscia, facendomi sussultare per quel contatto improvviso.

«Vuoi che ti tagli i capelli o no?», gli chiesi, sbuffando.

«Mi è venuta voglia di altro», disse, voltando il capo in modo da far incrociare i nostri occhi.

«Abbiamo solo più due confezioni di preservativi, Xavier», gli ricordai, pizzicandogli il fianco: «E pensavo volessimo tenerci lontani dagli umani per qualche giorno...»

«Potremmo arrivare entro domani alla Napa Valley, dovrebbe essere periodo di vendemmia e potremmo raccogliere uva per qualche dollaro all'ora e poi comprare tutti i preservativi che vogliamo», mi propose, appoggiando i capelli umidi nell'incavo tra i miei seni, guardandomi dal basso: «Oppure potremmo iniziare a fregarcene dei preservativi».

«Ho diciotto anni e mezzo, Xavier. Rimanere incinta non è tra le mie priorità al momento», gli ricordai, tornando a dedicarmi ai suoi capelli, malgrado la posizione scomoda.

«Lo so, ma il tasso di fertilità della nostra specie è piuttosto basso, non è detto che...»

«Non m'importa quanto sono basse le probabilità, non voglio rischiare», dissi, interrompendo il suo discorso.

«Quindi andiamo alla Napa Valley a lavorare un giorno o due e poi spendiamo tutti i nostri risparmi in preservativi?»

«Mi sembra un ottimo piano», confermai, spuntandogli i capelli dietro alle orecchie.

«E poi?», chiese, spostando il capo, così da potermi osservare con la coda dell'occhio.

«E poi cosa?», domandai, esasperata dai suoi continui movimenti, che mi impedivano di tagliargli i capelli.

«E poi dove andremo?»

«Non ricordo l'itinerario a memoria», dissi, sollevando gli occhi al cielo.

Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, mentre finivo di sistemargli i capelli.

«Didi?», mi chiamò, quando lo feci girare, in modo da controllare il mio lavoro quasi finito e spuntare le ultime ciocche troppo lunghe.

«Cosa?»

Una sua mano si appoggiò sul mio fianco, mentre il pollice dell'altra mi sfiorava il capezzolo sinistro.

Per colpa di quel suo movimento finii col tagliargli una ciocca più corta rispetto alle altre.

Sbuffai e lasciai cadere le forbici accanto a noi, sul masso: «Mi hai fatto sbagliare», mi lamentai.

Le sue labbra sul mio seno mi fecero dimenticare il mio malumore e mi lasciai andare a una risata divertita, quando sentii la sua barba incolta pizzicarmi la pelle delicata.

«Devo farti la barba», gli ricordai, passando una mano tra i suoi capelli appena tagliati.

Gli occhi verdi di Xavier si posarono nei miei, poi le sue labbra si aprirono in un sorriso malizioso: «Dopo?»

Mi morsi il labbro inferiore, scuotendo divertita la testa: «Sappiamo entrambi che dopo poi non avrai voglia o ti inventerai qualche scusa per non...»

Non riuscii a finire la frase dato che mi ritrovai spinta oltre il bordo del masso, dritta nel ruscello. Grazie alla mia velocità non umana, riuscii a non rompermi nulla mentre cadevo tra le pietre e l'acqua, sollevando intorno a me spruzzi.

Appena riemersi, sentii la risata divertita di Xavier e, indispettita iniziai a schizzarlo. 

«Ti sei fatta male?», mi chiese, cercando di ripararsi con le mani e braccia dal mio improvviso attacco.

«No, per tua fortuna».

Xavier si lasciò cadere dal masso, raggiungendomi.

Lottammo a suon di schizzi e tentammo di annegarci a vicenda, poi le sue braccia mi bloccarono contro di lui e quando le sue labbra si posarono sulle mie dimenticai quello stupido litigio, rispondendo con foga al bacio.

«Dopo mi fai la barba?»

«Dopo».

 

 

 

***

 

Buongiorno popolo di EFP!

Non riesco a crederci che siamo arrivati anche alla fine di questa storia... che avventura!

Vorrei approfittare di questo spazio per ringraziarvi di cuore per il supporto. A chi ha letto silenziosamente la storia, a chi mi ha lasciato recensioni e a chi ha inserito la storia tra le ricordate, preferite e seguite: grazie di cuore! ❤️

Mi auguro che la storia vi sia piaciuta e che anche il finale sia stato soddisfacente. 

Mi piacerebbe scrivere una spin-off, magari con Ann o Francine come protagonista, voi cosa ne pensate? Vi piacerebbe leggere una storia su una di loro due o su entrambe? Fatemelo sapere e in caso vedrò cosa posso fare!

Nei prossimi giorni rileggerò e revisionerò la storia, così da mettere anche lo stesso font e la stessa impaginazione in ogni capitolo. Sarà un lavorone, ma è necessario, quindi non mi tiro indietro.

Per chi volesse è possibile trovarmi su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp!

Un bacio,

LazySoul

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