Ombre strette nel raso verde

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'abito color smeraldo ***
Capitolo 2: *** Sussurri di parola ***
Capitolo 3: *** La danza macabra ***
Capitolo 4: *** La sposa rubata ***
Capitolo 5: *** Confessioni di un malandrino ***
Capitolo 6: *** L'innocenza perduta ***
Capitolo 7: *** La pietra vichinga ***



Capitolo 1
*** L'abito color smeraldo ***


Ombre strette nel raso verde

 

 

I'm falling

In all the good times I find myself

Longing for change

And in the bad times I fear myself

(Shallow, A star is born OST)

 

 

 

I

L’abito color smeraldo

 

Londra, primavera 1857

 

Il pendolo batté le sei di pomeriggio e fu quello il preciso istante in cui Loki alzò lo sguardo dal tavolo ingombro di fiale e boccette, posò la penna nel calamaio e si ritrovò a stirare le labbra in un sorriso sbieco e laterale, compiaciuto. Controllò l’orologio da taschino per sincerarsi che quello alla parete non gli avesse mentito e poi, semplicemente, fece quanto doveva: chiuse gli appunti che teneva sempre con sé, s’infilò il soprabito, prese il cappello e uscì senza voltarsi indietro. Lei, probabilmente, a quell’ora stava ammirando la sua immagine riflessa nello specchio in cerca del dettaglio stonato, dell’imperfezione. Loki Odinson si concesse un ghigno breve a quel pensiero.

La delicata e bionda Sigyn non avrebbe trovato niente che non andasse, scrutando il suo doppio imprigionato oltre la superficie riflettente. La sua pelle chiara avrebbe spiccato irrimediabilmente sul magnifico abito color verde smeraldo che le fasciava il busto con assoluta precisione, accarezzando le sue forme femminili, soffermandosi sulla curva dolce dei seni, sulla vita stretta dove una volta aveva osato posare le dita – lei aveva sussultato sorpresa, ma non si era ritratta – per poi dipanarsi nelle volute dell’ampia e fluttuante gonna.

Avrebbe raccolto la sua chioma bionda in un’acconciatura sofisticata in grado di lasciarle scoperti ed esposti il collo elegante e la nuca? Oppure alcune ciocche si sarebbero arrotolate fin sulla scollatura ampia e generosa?

Che incantevole capolavoro aveva creato.

Salì in carrozza con un movimento fluido e scandì l’indirizzo con voce ferma, per farsi udire dal cocchiere infradiciato e, mentre le ruote correvano veloci sull’acciottolato di una Londra lucida e buia già ghermita dalla notte, si concesse di stringere tra le mani il pomello intarsiato del bastone, di poggiare le spalle larghe, ma tese, sullo schienale. Era pazzo.

C’è un prezzo da pagare per ogni cosa, anche per la vendetta e l’amore e la morte.

Gli tornò in mente la vecchia nenia che una strega di New Orleans gli recitava nel quartiere francese, mentre invocava i fantasmi di una terra perduta e lontana – come la sua – indecisa, fino all’ultimo, se svelargli gli intrugli creoli, le formule magiche e i misteri che rendevano più oscuro il Nuovo Mondo. Stregonerie che Loki avrebbe sommato a quelle, altrettanto antiche e insidiose, apprese in India e in Oriente, in mezzo ai fumi dell’oppio. Chiuse gli occhi mormorando a mezza voce una formula perduta in una lingua dimenticata e morta, ma l’invocazione, anziché calmarlo, gli regalò una consapevolezza nuova e terribile. Per quanto il corrispettivo che aveva deciso di pagare fosse ignobilmente alto, lui era disposto a versarlo con l’acuta freddezza con cui aveva fatto ogni cosa, svolto qualsiasi compito, ingannato anche il destino avverso. Il suo spirito affamato era incapace di farsi bastare quello che aveva e mirava sempre in alto, all’irraggiungibile conoscenza perduta negata agli uomini da un cielo impietoso. Non era capace di accontentarsi del destino che taluni definivano benigno che, pure, gli era toccato in sorte, non lo era affatto. Piegò le labbra sottili in una smorfia, quando finalmente la carrozza si fermò di fronte al sontuoso portone d’ingresso della bella dimora londinese di Lady Vanheim.

 

Loki attraversò l’atrio con l’elegante sicurezza che gli era propria, sostenendo fieramente gli sguardi incuriositi e sospettosi degli altri invitati. La sua comparsa incrinò il sorriso divertito di Lady Freya, congelò per un momento le battute e le risate dei gentiluomini e delle gentildonne presenti. Fu Thor il primo e il solo ad avvicinarsi.   

“Non dovresti essere qui. La tua presenza suona come sgradita, inopportuna e persino offensiva.”

Gli puntò addosso i suoi occhi quasi trasparenti. “È un piacere vederti anche per me, fratello.” Lo disse ghignando, senza mascherare affatto la punta di scherno racchiusa nella sua bella voce vibrante, crudele. Spostò lo sguardo sulla sala affollata in cerca della ragione che giustificava la sua presenza. Si leccò le labbra, trovandola.

Se solo le sue intenzioni fossero state meno spietate.

Lei era bella da far male ed era esattamente come l’aveva immaginata. L’abito, di un verde acceso, accarezzava davvero ognuna delle sue forme sinuose, tanto da far quasi risplendere la sua carnagione sana e rosata; le ciocche bionde, diligentemente arricciate, scendevano con delicata grazia sulle spalle appena scoperte, lasciando nudo il collo. L’unico dettaglio non considerato era il nastro di raso nero da cui pendeva un ciondolo d’agata verde – un gioiello perfetto, antichissimo: un regalo che aveva osato farle pensando che sarebbe rimasto dentro uno scrigno smaltato di bianco, nella sua stanza di ragazza. Invece, era stata tanto sfrontata da indossarlo, quasi sapesse che non avrebbe avuto nessun’altra occasione per posarlo sulla propria pelle. Proveniva dal corredo funebre di una strega veggente, una profetessa danese morta mille anni prima, protagonista di una storia oscura di cui era rimasta una sola traccia in un’antica saga giunta incompleta.

Lei era bella da mozzare il respiro e trattenne il suo, quando incrociò i suoi occhi verdi e lupeschi. Non gli sorrise, non poté, sarebbe stato oltremodo sconveniente, ma schiuse le labbra piene e perse per un momento il filo del discorso che stava intrattenendo. Loki riuscì a indovinare il fremito che l’aveva scossa nel bagliore rapido capace di illuminarle, per un istante, lo sguardo grigio. Ricordò il profumo dolce della sua pelle, intuì la morbidezza della sua bocca – no, bugia, quella già l’aveva assaggiata nel silenzio della notte, mentre lei affondava le dita nella massa nera e scomposta dei suoi capelli e gli sussurrava sulle labbra che aveva paura di loro, di quello che c’era ed era nato senza che lo volessero. Tremava e aveva le mani gelate e Loki si era tolto il soprabito per posarglielo sulle spalle sottili. Anche quella notte le sue dita sarebbero state fredde, ma lui non avrebbe potuto fare nulla per scaldarle.

Nel Regno dei Morti c’è un girone fatto apposta per chi inganna e mente come te, Lingua d’Argento. Uno dove la tua anima brucerà fino alla fine dei tempi e anche oltre, in eterno.

 

Bevve, cacciando via la voce del fantasma di suo padre – Lord Odinson, immobilizzato dalla gotta e mezzo cieco, che lo malediceva prima che partisse per le Indie, che gli scriveva mentre si ubriacava d’assenzio a Baltimora, che gli mandava oscuri messaggi mai aperti abbandonati presso una casella di posta di New Orleans. Al suo ritorno in Gran Bretagna, Thor lo aveva condotto nella cripta di famiglia per fargli vedere la lapide. Si era messo a fissarlo cercando sul suo volto i segni della commozione, anzi, di un pentimento tardivo o, meglio ancora, di una rappacificazione con lo spirito volitivo e crudele del defunto. Si era fermato di fronte al suo sguardo liquido, alla mascella che tremava, all’ira che aveva scosso il suo corpo asciutto, arrendendosi momentaneamente all’idea di averlo smarrito in qualche tempio indiano, in una sala d’oppio a White Chapel, nelle paludi della Louisiana o dietro qualsiasi altro segreto oscuro; Loki glielo aveva lasciato credere. La realtà, in fondo, non è che un mero punto di vista.

 

Si avvicinò a Sigyn, nonostante tutto. Si liberò della presa del fratello che ancora gli stringeva la spalla e, ignorando gli sguardi degli ospiti che si posavano su di lui, straniero in patria, le si accostò. La vide arrossire lievemente, scorse il seno stretto sotto il corsetto color smeraldo alzarsi e abbassarsi ansioso. Desiderò posare le labbra sulla pelle morbida e invitante della scollatura, spogliarla di quell’incanto d’un verde brillante fatto apposta per lei, tinto di quella particolare sfumatura solo per la serata che stavano vivendo. L’avrebbe ricordata così per sempre, pensò. Con quella maschera di determinata disperazione addosso che solo lo sguardo liquido e grigio tradiva.

Oh Sigyn, era l’unico modo.

 

Thor avrebbe detto che non era vero. Non si sarebbe fatto scrupolo alcuno nell’accusarlo di essere un pazzo egoista, che l’Asia e i Tropici avevano irrimediabilmente corrotto, come sempre succedeva ai cadetti inglesi, costretti dalle Compagnie a vivere presso oceani troppo caldi e in terre assolate eppure misteriose. Il vecchio Odino diceva, senza mezzi termini o filtri, che la sua follia non era da imputarsi ai lunghi viaggi che lo avevano tenuto lontano dalla Gran Bretagna per quasi dieci anni, ma aveva il suo seme altrove, nel sangue. Sì, Lord Odinson soleva spesso sedersi accanto al camino acceso, con i suoi due segugi accucciati ai piedi e un bicchiere di porto in mano, a raccontare di come il sangue magiaro per parte di madre che scorreva nelle vene di Loki lo avesse[1], alla fine, infettato, regalandogli uno spirito inquieto e ribelle, incapace di accontentarsi dei privilegi legati al suo nome. Era stato per evitare i continui contrasti e punirlo per le sue sregolatezze che lo aveva mandato in India e poi in America, a cercare le stoffe più pregiate, il cotone migliore, a scoprire le ricette antiche che permettevano di ottenere tinte brillanti e vivaci.

 

“Il vostro ultimo cavalier servente già vi lascia sola?” Loki si permise di squadrarla in maniera sfacciata e lei alzò leggermente il mento, sostenendo quello sguardo intenso, lupesco.

Sigyn piegò la testa di lato. “È nella biblioteca, con mio padre e mio fratello. Potete raggiungerlo, se lo desiderate,” lo stuzzicò.

Una risata breve. “Temo non sarebbe un incontro piacevole per nessuno. È di tuo gradimento?” aggiunse, riferendosi all’abito.

La ragazza fu colta da una lieve esitazione e la sua sicurezza venne meno. “Il raso più bello, il colore più acceso.”

Loki dondolò distrattamente il bicchiere. “Ha un prezzo.”

Le labbra di lei fremettero. “Come ogni cosa, suppongo.”

“No,” scosse la testa l’uomo, “tu non sai.”

Sigyn lo guardò intensamente, ma non rispose nulla. Sfiorò con le dita il ciondolo, come se il gioiello potesse darle la forza di pronunciare un’altra battuta ammiccante e faceta. Il brusio di sottofondo apparentemente innocuo che li circondava – avvolgeva – era creato da uomini e donne in cerca di un nuovo pettegolezzo che li riguardasse. Lei era l’eterea erede d’un conte, lui lo scapestrato figlio d’un duca morto maledicendolo – o implorando che tornasse. Se solo il sorriso laterale di Loki non fosse stato così carico d’una oscura bellezza, forse Lord Vanir gli avrebbe concesso la mano della sua unica figlia femmina, nata quando la giovinezza era ormai un ricordo lontano; si sarebbe sforzato di considerarlo meno pericoloso di quanto gli era sembrato, arrivando a permettergli di corteggiare la molto amata e spesso insofferente Sigyn. Ma questo non era successo e lei, curiosa di sapere com’era il mondo, impaziente di vivere, si era avvicinata a quell’inglese quasi straniero sventolando graziosamente un ventaglio, domandandogli come fossero le Indie e le Americhe. Loki l’aveva soppesata con quei suoi occhi verdi e penetranti, per poi affascinarla con un discorso divertente e brillante, che nascondeva, al suo interno, qualcosa di cupo, il riflesso di chissà che considerazione affilata. Sigyn, scorgendo una simile ombra, aveva agitato con più vigore il ventaglio per nascondere l’agitazione oscura e annichilente che le saliva dalle gambe fino ad arrivare al petto e al cuore. Era rimasta affascinata dal fratello di Lord Odinson anche se sapeva che non doveva farlo.

La conoscenza s’era infittita nel corso di tutte le occasioni mondane che aveva offerto la fredda Londra quell’inverno. A teatro, durante i canonici intervalli tra un atto e l’altro, nell’anticamera ben arredata di qualche salotto alla moda, nei giardini rarefatti delle case di campagna che circondavano la città. Luoghi in cui si erano create, involontariamente e non, tutta una serie di circostanze che avevano portato i loro sguardi a incrociarsi, a cercarsi. Loki Odinson aveva sempre la battuta pronta e le sue risposte erano ogni volta tremendamente argute, pungenti, e Sigyn non riusciva a fare a meno di ascoltarle, per poi rispondere e domandare ancora.

 

La ragazza non sorrideva più. Si sentiva oppressa da un peso che le stringeva il cuore, annodandolo con mille lacci neri. “Non mi chiedete di ballare, stavolta?” mormorò a bassa voce.

Loki scosse la testa. “Abbiamo troppi occhi su di noi.”

“Potrebbe essere la vostra ultima occasione. Mia cugina mi attende nel Lincolnshire per l’inizio del prossimo mese,” aggiunse lei vaga, come se l’informazione non avesse poi tutta questa importanza. Non era mai stata brava a mentire e quello era uno dei motivi per cui le cose erano precipitate in modo così drammatico e rapido. Aveva rifiutato due pretendenti in nome di cosa, per chi?

Lui finse di non sapere del viaggio imminente. “Credevo fosse una festa di compleanno, non una d’addio.”

“Appropriato, non credete?” La ragazza inclinò il capo di lato.

“Più di quanto immaginiate,” commentò Loki. Si accorse della figura frettolosa di Theoric che si avvicinava rapidamente alla sorella con la chiara e manifesta intenzione di allontanarla da lui. Gli rivolse un sorriso sghembo e insolente e poi alzò il calice di cristallo nella sua direzione, come a voler brindare idealmente con lui. Il giovane s’accigliò e, raggiunta Sigyn, la prese per un braccio.

“Dovresti circondarti di compagnie migliori, Sig cara,” le bisbigliò severo all’orecchio.

La giovane donna s’irrigidì. “Come i tuoi amici, per esempio?”

“Sono gentiluomini, loro,” fu la secca risposta, data fissando Loki negli occhi e calcando sull’ultima parola. Cercava di mettere idealmente un segno tra sé e ciò che l’altro non avrebbe mai potuto essere veramente, ma l’avventuriero poteva avvertire come, dietro la pesante coltre di disprezzo sfoggiata dal figlio di Lord Vanir, ci fosse un pozzo senza fondo di terrore. Con amarezza pensò che se Theoric fosse stato più determinato, coraggioso e consapevole, Sigyn non sarebbe morta.

La ragazza si morse le labbra, per trattenersi e non ribattere ancora in maniera piccata, ma, mentre il fratello l’allontanava, non resistette all’impulso di osservare un’ultima volta la figura alta e slanciata di Loki. Lui si era già voltato in direzione di qualche vacuo conoscente in comune.

“Abbi almeno la decenza di non far vedere a tutti che lo fissi,” la rimbrottò l’altro, guidandola verso le altre stanze affollate.

Sigyn si bloccò sotto l’arco di una porta, incapace di rimanere in silenzio. “La reputazione di una ragazza adesso si compromette con uno sguardo?”

Qualche testa si voltò nella loro direzione, spinta dalla pigra curiosità di osservare perché i figli di Lord Vanir battibeccassero. Theoric se ne accorse e le sue guance divennero rosse.

“Quante altre volte dovremo farti questo discorso?”

“Possiede rendite ingenti, più delle nostre,” gli ricordò lei severa. “È colto, la sua famiglia antica. È tornato,” aggiunse, aggrappandosi a parole che, lo sapeva, non avrebbero mutato l’idea del fratello sull’uomo che amava.

“Sai quello che si dice su di lui.”

“Come su tutti quelli che trascorrono qualche anno di troppo dall’altra parte del mondo. Che diventano selvaggi, che hanno per amanti le donne del posto, che fumavano oppio. Cose che hai fatto anche tu e i tuoi amici, mi pare.”

Theoric fu scosso da un brivido. “Non capisci. Lui è diverso.”

Sigyn si voltò di scatto, liberandosi dalla presa dell’altro. “Se mi chiedesse di sposarlo la mia risposta sarebbe sì. È sì.”

 

 

 

In un angolo della sala affollata, una pianista dall’aspetto magro e nervoso suonava con incerto talento un brano di Mozart; Thor Odinson le rivolse un’occhiata veloce, per poi tornare a concentrarsi sul volto affilato e severo del fratello, ritto davanti a lui. Lo vide inumidirsi le labbra col ricercato champagne rimasto nella coppa[2], mentre insultava tra i denti e senza troppi scrupoli Lord Njord Vanir. La disapprovazione per la senz’altro inopportuna incursione fatta da Loki era stata velocemente soppiantata dal viscerale senso di protezione che provava nei suoi confronti in qualità di attuale capofamiglia. Thor reputava la presenza dell’altro lì come una sfida, ma non riusciva a tollerare che suo fratello venisse considerato alla stregua di un ospite sgradito. Il richiamo del sangue e il fiero orgoglio glielo imponevano, perché gli Odinson avevano combattuto con Riccardo Cuor Di Leone durante la Terza Crociata e seguito Enrico V sul campo di battaglia di Azincourt[3], distinguendosi in ogni conflitto per il valore e la ferocia.

Appartenevano a un casato potente e antico d’origine normanna[4], che spesso s’era legato alla dinastia regnante. Un rifiuto secco come quello che era stato inflitto a Loki colpiva non solo lui, ma generazioni e generazioni di Odinson. Eppure, la notizia che Lord Vanir disapprovava il corteggiamento dell’altro tanto da voler spedire la figlia lontano lo aveva lasciato, allo stesso tempo, irritato e sgomento, ma sorpreso no, affatto. La spiacevole decisione in fin dei conti era comprensibile, viste le voci che giravano sul conto di Loki.

“Che stai tramando? Qualunque cosa tu abbia in mente, ripensaci,” l’avvertì.

Non fu in grado di usare lo stesso tono severo del loro defunto padre, ma si chiese cosa avrebbe pensato di loro vedendoli, e come avrebbe preso l’infelice, ma saggia, presa di posizione di Lord Vanir. Forse si sarebbe deciso a fargli recapitare un invito per partecipare a una battuta di caccia nella loro tenuta di campagna; lì, davanti a un sorso di buon liquore, gli avrebbe parlato, con tono solo all’apparenza svagato, delle rendite e degli investimenti della loro famiglia, allettandolo poi con la promessa di condividere con lui opportunità e guadagni. Sì, il buon vecchio Odino sarebbe riuscito a manipolare e convincere Njord tanto da fargli vedere l’unione tra Loki e Sigyn come il punto di partenza per un futuro sfavillante. In questo, nella bieca capacità di piegare il destino al proprio volere con crudele precisione, suo fratello assomigliava fin troppo al loro padre, pensò Thor.

 

Loki increspò le labbra in una smorfia carica di dispetto. Nonostante la sconfitta palese e visibile, scrutava la sala altero come il principe che quasi era, puntando lo sguardo verde e sprezzante sugli astanti curiosi.

“È troppo tardi,” sibilò incrociando i suoi occhi.

“Per cosa?”

L’altro s’accigliò e scosse la testa, vuotando con un solo gesto la coppa. Non gli avrebbe risposto, lo sapeva. Si erano messi in moto troppi eventi e lui non poteva più tirarsi indietro. Era troppo tardi. La vendetta che l’aspettava in caso di un fallimento sarebbe stata atroce – immaginò di essere seppellito, vivo, di svegliarsi dentro una tomba, incapace di muoversi e di scappare, urlando nel buio finché non avrebbe perso il respiro.

Thor lo riscosse dai suoi pensieri. Lo teneva per una spalla e stringeva. “Per cosa?” gli ripeté a denti stretti. “Comportati in maniera degna!”

Loki gli puntò addosso quel suo sguardo chiarissimo e rapace. “Altrimenti?” lo sfidò.

“Il nostro nome non ti proteggerà per sempre,” l’avvertì il giovane lord. Avrebbe dovuto fermarlo. Lo sentiva nelle ossa e nella carne – suo fratello stava per commettere qualcosa di irreparabile: Ahmed Dall[5], il suo fidato maggiordomo, gli aveva raccontato di come Loki s’intrattenesse in compagnia di personaggi malfidati e oscuri, più corrotti di quanto non fosse lui stesso.

“Non parli come nostro padre,” notò il cadetto con uno scintillio divertito negli occhi, per poi spostare la sua attenzione sulla porta del salone principale. La figura di Sigyn, avvolta nello splendido abito di raso verde, lo catturò, di nuovo. Loki increspò le labbra in una smorfia feroce e lupesca. Avvicinarsi a lei era stato un compito dolce, un inganno piacevole da mettere in atto, ma il pensiero che quella notte la ragazza sarebbe morta, che, presto, quel magnifico vestito l’avrebbe soffocata strappandola alla vita, lo rendeva inquieto. Per un momento, un solo istante, si chiese se la verità non si fosse confusa con la menzogna, se la recita non avesse preso i colori della realtà. Alzò la coppa ormai vuota in direzione di lei, stupenda nel suo vestito color smeraldo, ignorando la fitta di rancore e di desiderio che gli infiammava il petto.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Girls,

Questa storia ha una genesi strana e particolare, tanto che preferirei parlarvi di come e quando è nata alla fine. Per ora vi basti sapere che tempo fa la mia cara Ciop mi mandò un articolo di moda e costume che mi ispirò moltissimo. Iniziai a scriverla più di un anno fa, ma sopraggiunte problematiche e altre storie presero il sopravvento oscurando questa. La quarantena, molte chiacchierate e un momento problematico per me, mi hanno convinta che oggi fosse il momento giusto per postarla. Dovevo – devo – evadere.

Penso che sarà una minilong – voglio disperatamente che sia una minilong. L’ambientazione squisitamente vittoriana mi ronzava in mente da diverso tempo e quindi ecco qua. Tutto quello che trovate sul passato dello scapestrato Loki Odinson, su Sigyn e su Thor è plausibile con il contesto scelto, ovvero la metà del XIX secolo, l’Ottocento. Questo racconto, che spero sia di vostro gradimento, non sarebbe possibile senza l’appoggio della sopracitata E. e delle cosette mie, _Lightning_ e Miryel, che hanno aspettato e minacciato per questa storia che, ve lo anticipo già… no, meglio di no!

La dedico a chi mi ha sostenuto fin qua e chi continuerà a farlo o inizierà a farlo. Grazie di cuore, voi non sapete quanto un commento anche semplice possa fare per chi scrive. Se vi è piaciuta, fatemelo sapere listando (in alto a destra ♥) o recensendo.

Vostra,

Claudia Shilyss



[1] Magiaro: col termine magiaro si indicano alcuni gruppi specifici, di guerrieri nomadi, antenati degli odierni ungheresi. I miei ringraziamenti alla cosetta _Lightning_.

[2] Oggi lo champagne si serve nelle flûte, ma fino al 1970 (e ovviamente nell’Ottocento) era servito nelle coppe.

[3] È un omaggio a Tom Hiddleston, interprete dell’Enrico V.

[4] Quindi al seguito di Guglielmo il Conquistatore; il riferimento è alla storica battaglia di Hastings.

[5] Chiaramente è Heimdall. Per verosimiglianza storica il nome del dio guardiano del Bifrost e la sua posizione sono relegati a un ruolo di subalternità rispetto a Lord Odinson. Prendetelo come un dato storico necessario.

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Capitolo 2
*** Sussurri di parola ***


2

Sussurri di parola

 

Avrà il silenzio la voce che ho,

e mani lunghe abbastanza,

sarà d’attesa e d’intesa, però

saprò quello che ancora non so.

[…] ci sarò e non ci sarò, ti parlerò

con ogni fragile accento

e sarò traccia sulla neve, neve sarò,

mi dirai di sì o mi dirai di no.

(L’apprendista stregone, Angelo Branduardi)

 

 

 

 

Sigyn sentiva su di sé il peso del ciondolo che indossava. L’agata verde le sfiorava la pelle infondendole una forza particolare, ma forse era la sua mente a illudersi che quel gioiello antico avesse su di lei qualche potere. Era un dono che non avrebbe dovuto accettare, come l’abito, anzi, la sua stoffa; gliel’aveva offerta Loki personalmente – metri di raso color smeraldo brillante per un vestito cucito apposta perché lui la guardasse e a lei mancasse il respiro. Si era incantata di fronte alla bellezza di quella tinta che univa assieme la vanità e il mistero e, guardandosi allo specchio, per un momento non si era riconosciuta: nel contrasto che si era venuto a creare tra la pelle del collo, del seno e delle braccia e lo stupendo abito, si era vista diversa, più donna. E, di nuovo, quella fitta bassa e dolorosa l’aveva fatta tremare, rivelandole un’oscurità che non credeva di possedere, infestando i suoi sogni e i versi che componeva di notte, quando tutta la casa dormiva. Rime fosche, febbrili, inadatte, che la lasciavano inquieta, ma di cui era schiava.

“Parlatemi della profetessa che lo indossava,” aveva domandato a Loki quando lui aveva osato regalarglielo. Passeggiavano l’uno accanto all’altra e l’avventuriero aveva riso buttando la testa all’indietro.

“Dissero che riuscì a sedurre un ricco conte,” iniziò, concedendole un sorriso lupesco e affascinante, che gli scopriva i denti bianchi e ben fatti. “Uno che per lei rischiò di dannarsi l’anima o, forse, la perse davvero.” Lo sguardo acuto di Loki celava immagini di oceani perduti. Teneva le mani allacciate dietro la schiena e camminava come se il sentiero fosse suo e così gli alberi, il prato, il cielo. Sigyn pensò che avesse il portamento di un condottiero e ne ammirò la figura slanciata e forte.  Rigirò tra le dita la bella pietra. “E poi?”

“Forse lui morì pazzo in un monastero o forse lei divenne la sua concubina e poi se ne tornò nelle terre del Nord.” I suoi racconti l’incantavano. Sapeva trasportarla in luoghi mai visti e c’era, nella sua voce roca e accattivante, qualcosa in grado di attrarla. Bugia, erano i suoi ragionamenti acutissimi e il suo modo cinico e affascinante di parlare, a stregarla. Ascoltandolo, aveva appreso che il mondo era un magnifico incubo e che i suoi versi concitati tendevano verso il precario equilibrio esistente tra la luce e l’oscurità: ed era lì, su quel filo sottilissimo e traballante, che, a volte, Sigyn si perdeva.

“La storia è incompleta,” ammise lui, “i frammenti superstiti non dicono altro.” Si fermò scrutandola con un’occhiata lenta, da cacciatore. Sigyn sentì quello sguardo verde percorrere il suo corpo fatto di carne, sangue e palpiti nascosti. Era riuscita a percepirlo mentre indagava nella sua anima protesa verso qualcosa che non poteva avere. Avrebbe voluto essere come la strega pagana del racconto; libera di amare un feroce conte guerriero, di offrirgli le sue labbra, il suo corpo inviolato, il suo spirito febbricitante. Invece, sventolò un ventaglio e scosse i capelli in un gesto leggero e aggraziato che nascondeva, però, il dolore per non poter essere diversa, per dover recitare costantemente la parte della figlia perfetta, della ragazza graziosa di buona famiglia. In bocca le erano rimaste incastrate parole che avrebbero divertito e forse stupito il fratello di Lord Odinson: desiderava chiedergli se avesse visto il sepolcro della profetessa – s’immaginò una strega affascinante e potente e rimase incantata da quell’immagine anche se, probabilmente, era un peccato. E poi, ancora, avrebbe dato ogni cosa per poter essere abbastanza sfacciata da domandargli quale fosse il ricordo più scuro e spaventoso che aveva portato con sé dai suoi viaggi. Loki le aveva regalato un ciondolo appartenuto a una veggente vichinga, portando una ventata d’insondabile mistero nel salotto troppo rigoroso di suo padre, spazzando via, col suo ghigno ironico e beffardo, le teorie razionali che riempivano l’aria assieme al fumo acre dei sigari d’importazione. Era l’ultimo degli alchimisti o il primo degli scienziati, corrotto dai Tropici e poi tornato a Londra per fissarla con quei suoi occhi acuti, indagatori, che troppe volte aveva sorpreso sulla sua pelle.

Un altro uomo l’avrebbe già chiesta in moglie dichiarandole il proprio amore. Era già successo. Loki no. Non aveva accampato scuse imbarazzanti per giustificare le sue occhiate attente e sfrontate e si era preso le sue labbra senza vagheggiare di fidanzamenti. Era irriverente e sconsiderato e non glielo nascondeva. Vedeva ciò che lei si sforzava di celare dietro un comportamento inappuntabile, riconoscendo la scintilla di curiosità che le illuminava lo sguardo, svelando quanto la sua anima bruciasse dalla voglia di conoscere, di sapere, di liberarsi dai sorrisi rarefatti e dai discorsi vuoti di zie e cugine.

Lo cercò nella sala, di nuovo. Sperò che non fosse già andato via, perché alle volte era così che faceva: appariva e scompariva come un fantasma; le parve di scorgere la sua figura slanciata, di spalle, vicino a Thor. Erano accanto a una porta finestra. Pensò che attraversare la sala avrebbe attirato nuovamente l’attenzione degli ospiti e scelse di passare per la stanza accanto e il giardino: così facendo, nessuno l’avrebbe notata. Seguì il suo proposito, ma a un tratto iniziò a mancarle il respiro. Si fermò un momento e le venne istintivo il gesto di sfiorarsi il seno stretto nel vestito di raso. Qualcuno le domandò se stesse bene e volesse dell’acqua; rispose di no, ma si ritrovò a bere un bicchiere, con le orecchie che le ronzavano. Le sembrò che quel semplice gesto la facesse sentire meglio e, ostinata, si diresse verso la finestra che dava sull’esterno, nella penombra di una notte lucida e bagnata. L’aria pungente odorava di pioggia. Fece pochi passi e di nuovo il mondo prese a girare. Gli cadde tra le braccia. Loki la sorresse cingendola per la vita e la strinse a sé, svelto e rapace. Erano soli, suo fratello forse era tornato nel salotto, da dove proveniva l’eco distante del piano. Sigyn si toccò la gola sfiorando il gioiello d’agata. Boccheggiava, e un formicolio le intorpidiva le braccia e le gambe, uno che si trasformò in un tremito convulso, in una nausea feroce. Loki non le chiese nulla, ma la condusse al riparo nel gazebo che distava solo pochi passi.

“Devi ascoltarmi,” le disse, “stai per morire.”

Il giardino sapeva di pioggia ed erba fradicia, la luna non si era affacciata nel cielo: Sigyn lo guardò nel buio e strinse tra le dita un lembo della sua elegante giacca scura, in una muta e disperata richiesta d’aiuto. Se solo lei avesse potuto guardarlo negli occhi, se solo la tenebra non li avesse avvolti.

 

Ti ho appena uccisa. Ti ho condannata a una morte tremenda, stupenda ragazza.

Non sempre il male aveva una spiegazione o una ragione; Sigyn tremava tra le sue braccia e Loki era cosciente del fatto che avrebbe dovuto lasciarla lì, da sola, a tremare nel gelo di una sera autunnale in attesa che il cuore le rallentasse nel petto. Tenerla avvinta a sé e sfiorarle i bei capelli d’oro significava tradire intenzioni e progetti in cui era invischiato da mesi. Sigyn era sottile e incantevole e spaventata e forse Loki era ancora in tempo per cambiare l’esito di quella serata. La prima volta che aveva risposto a un suo sorriso regalandole un ghigno sfacciato sapeva già di doverla uccidere. Aveva dato un volto al nome pronunciato troppe volte sulla nave che lo aveva riportato dalle Indie a Londra, che si era rigirato in bocca apprezzandone la musicalità e la forza: Sigyn. Che ora teneva stretta a sé in attesa che il respiro spaventato si affievolisse fino a interrompersi, stordito dal profumo dolce della sua pelle che non avrebbe dovuto offuscare la sua mente, ma che, invece, lo inebriava. Era sull’orlo di un precipizio e, nella sua tasca, l’orologio segnava lo scorrere del tempo con implacabile precisione. Sapeva che il coperchio intarsiato toccava qualcos’altro di freddo e utile.

Perché, mormorò Sigyn con un filo di voce strozzata.

 

Cosa l’aveva spinto a forzare una recita già pericolosa dandole quella collana? Come mai lei aveva scelto di sfoggiarla, esibendola con fierezza, come se fosse il dono di un fidanzamento impossibile e inesistente? Non avrebbe dovuto cercarlo. Sarebbe stato infinitamente meglio se fosse rimasta nella sala, a ballare e a morire tra le braccia di un altro.

Ma così no, era ingiusto.

Pensò a quello che avrebbe detto il vecchio Odino, dall’inferno in cui senz’altro bruciava; piegò le labbra sottili in una smorfia amara, mentre il tempo gli scivolava via tra le dita che s’impregnavano di veleno.  Lo avrebbe chiamato impostore, traditore, ladro, assassino, pazzo, perché anche lui, nella parte più vecchia della loro tenuta nell’Asgardshire, aveva tentato di trasformare il piombo in oro[1], ma di violare la morte no, non aveva avuto il coraggio, mai. C’era stato un tempo in cui il fu Lord Odinson aveva condiviso col suo figlio cadetto le inquietudini di uno spirito volitivo e brillante, l’anelito verso una conoscenza che avrebbe spezzato il confine tra la vita e la morte, il bisogno di sperimentare e scoprire i meccanismi che governavano il mondo. Era un sostituirsi a Dio che, nella maggior parte degli uomini, suscitava raccapriccio e terrore, ma non in loro. Per curare un uomo, per capire quella magia che era la vita, bisognava paragonarlo a una macchina e vedere come, in quale modo, funzionasse: non ci si poteva né doveva fermare di fronte ai precetti e alla morale che parlavano d’inviolabilità, perché la conoscenza non aveva prezzo. Poi, un giorno, Odino Odinson si era accorto che il confine tra chimica, medicina, galvanismo, scienza e stregoneria era una blasfemia e gli avrebbe dannato l’anima[2]. Guardando Loki, aveva ritrovato una versione di sé più giovane e spregiudicata e incontrollabile. Quando lo aveva chiamato macellaio augurandogli di marcire in prigione? Il giorno in cui lo aveva sorpreso a sfruttare il loro laboratorio non per ottenere colori vivi, resistenti e brillanti capaci di tingere le stoffe delle principesse d’Europa, ma veleni, pozioni, intrugli ed esperimenti. Lo aveva cacciato, sperando che tornasse con qualche segreto rubato ai maghi che, ancora, vivevano in Asia o in Africa. L’Asgardshire, del resto, ospitava da secoli una delle più importanti sedi manufatturiere in cui venivano filati i migliori tessuti della Gran Bretagna tutta, tanto sottili e compatti da venire paragonati alle stoffe indiane. Non poteva diventare la sede degli esperimenti di un duca che si dilettava con veleni e magie e anteponeva la conoscenza a qualsiasi cosa, anche alla propria anima. Le ultime parole che si erano scambiati in questa vita erano state accuse reciproche cariche di rancore: Loki ricordava di averlo chiamato ipocrita e bugiardo.

 

 

Lord Laufey era stato un volto conosciuto in mezzo ai fumi dell’oppio, comparso all’improvviso nella penombra di un locale, a Hong Kong. All’inizio lo aveva scambiato per una curiosa allucinazione, ma l’illusione solo apparente gli si era avvicinata, vestita di tutto punto, per chiedergli cos’avesse scoperto, nel corso dei suoi passaggi repentini dal sonno alla veglia[3]. Forse era entrato in contatto, come gli sciamani, con qualche entità superiore capace di rivelargli i perché della vita? Loki gli aveva riso in faccia senza ritegno – non lo possedeva più, del resto. Si era abbandonato al caos e scottava, preda della sostanza fumata, riverso a terra, con la camicia slacciata e il corpo lucido e febbricitante, in cerca di un ordine che, nel caos personale della sua esistenza, non riusciva ad afferrare.

Laufey non gli aveva raccontato subito della ragazza. Si era messo d’impegno per rimetterlo in sesto quel tanto che bastava per parlargli ed essere sicuro che lui lo ascoltasse. Disse di averlo cercato per mesi, e confessò come fosse certo che anche Loki avesse tentato di rintracciarlo. Non aveva del tutto torto. Sapeva dei suoi dissidi con Odino, intuiva che aveva mescolato troppo spesso l’utile al dilettevole. A Londra dicevano di lui che avesse rapporti con la Compagnie delle Indie e fosse alla ricerca delle stoffe più belle, degli ingredienti per ottenere i colori più brillanti, ma Laufey conosceva la vera natura di suo padre e intuiva la sua. Erano tutti e tre ossessionati dalla stessa cosa – scoprire se si poteva sconfiggere la morte o fare ritorno da essa, sapere se le anime si disfacevano come neve al sole o erano eterne e immutabili. Per dare una risposta ai suoi dubbi, l’uomo davanti a lui non aveva esitato a rovinarsi la reputazione e la carriera, trasformandosi da scienziato in orco. Odino lo aveva fatto espellere da ogni club e associazione scientifica, facendogli perdere persino la cattedra all’università. Loki lo ricordava, perché era stato per colpa di Lord Laufey se suo padre aveva cominciato a dubitare che le loro ricerche fossero legittime, giuste. Cosa li separava dagli esperimenti morbosi del professore rinnegato? La morale, quella che tu non hai, Loki.

Spariti gli effetti dell’alcool e dell’oppio, non aveva potuto fare a meno di ascoltarlo nonostante sapesse bene perché lo stesse cercando: una spirale di vendette accumulate per una vita intera, la possibilità di avere al proprio fianco qualcuno che potesse aiutarlo, cui lasciare un’eredità in caso la morte non fosse stata sconfitta.

“Cosa c’è di meglio che far sapere a tuo padre di averlo tradito, scegliendo come mentore il nemico che ha avuto per una vita? Di fatto vi ha esiliati entrambi, Loki, ma mentre Thor è tornato e prenderà il suo posto, a te, che sei rimasto accanto a lui, rimarranno le briciole e il biasimo per aver seguito una strada che lui stesso ti ha indicato,” gli aveva suggerito Laufey, maligno.

Lui si era limitato ad annuire con un cenno del capo, stabilendo che i suoi piani sarebbero variati – ma di quanto, il suo nuovo socio non lo avrebbe saputo mai.

 

Gli aveva parlato per la prima volta della ragazza alcuni mesi dopo. Di nuovo, la sua reazione era stata quella di ridere in faccia al professore radiato, perché quella era una follia impossibile da assecondare persino per lui. Si erano imbarcati da qualche giorno sulla nave che li avrebbe riportati a Londra ed era una notte stellata, ma fredda. Ascoltandolo, la risata gli si era smorzata in gola trasformandosi in un ghigno tirato: aveva compatito il grande scienziato, l’alchimista mancato. Si era accorto di avere di fronte un uomo che, come suo padre, era debole e temeva la morte. Eppure, doveva necessariamente esistere un confine netto che separasse ricerca scientifica e magia. Laufey non poteva sperare di avere una donna facendola diventare un’altra. Era una passione malsana – prendere la figlia perché, al tempo, non si era potuta avere la madre. Come poteva un uomo brillante e spregiudicato come quello, capace di opporsi, da solo, contro un’intera comunità scientifica, invaghirsi di un sogno?

Con un misto di pietà e d’interesse, nelle sere seguenti aveva continuato ad ascoltare i piani forsennati dell’altro guadagnandosi la sua fiducia notte dopo notte, raccogliendo confidenze, idee, strategie e, soprattutto, quello che più gli interessava: formule.

Sì, Loki aveva scelto di aiutarlo nella sua impresa perché era il solo modo per avere accesso alle sue ricerche sugli spiriti e sulla morte e su ciò che rimane di ogni individuo dopo il trapasso: le avrebbe unite ai bisbigli confusi che gli avevano confidato gli sciamani in trance e così, finalmente, il percorso fatto dalle anime sarebbe stato rivelato e così i molti misteri che circondavano l’uomo e la sua anima forse immortale. Una simile conoscenza avrebbe avvicinato chiunque al concetto di divinità.

 

Laufey voleva Sigyn perché un tempo aveva amato da lontano sua madre senza mai averla: la desiderava, trovando che fosse persino più incantevole dell’altra, di cui era il riflesso, l’immagine perfezionata. Una volta tornati a Londra, aveva chiesto a Loki di avvicinarla al posto suo e di studiarla, per alimentare quell’insana passione con una serie di racconti precisi e puntuali. Per quanto la fama che si portava dietro lui stesso era dubbia e tutt’altro che limpida, non era additato come un reietto agli occhi della società. Grazie al buon nome di Thor Odinson poteva ancora entrare in qualsiasi salotto: il difficile era rimanerci, ma quello non era un problema. E che un uomo giovane e prestante come il fratello del duca d’Asgardshire corteggiasse, anche solo per passare il tempo, una ragazza, era qualcosa di socialmente accettabile, che rientrava alla perfezione nel modo di condurre i rapporti tra uomo e donna. Così, mentre Loki frequentava la casa di Lord Vanir, Laufey languiva e fremeva, in attesa di poter immaginare lei attraverso la voce arrochita del proprio socio. Solo che lui avrebbe dovuto spiare, riferire, studiare e descrivergliela al punto da rendergliela quasi reale, non corromperla, sedurla o desiderarla.

Era successo che una sera, ebbro d’assenzio e col bicchiere ancora in mano, Loki gli aveva raccontato di lei per l’ennesima volta, ma con più particolari del solito e si era ritrovato a volerla lui stesso. Gli aveva descritto la pelle soda e compatta, lo sguardo attento e grigio e liquido – ma, talvolta, ammaliatore, e il seno che s’alzava e abbassava dopo una corsa e aveva sentito la gola farsi improvvisamente secca, il desiderio tormentarlo con una fitta improvvisa e profonda. All’inizio, aveva dato la colpa di tutto all’assenzio e alle proprietà dell’artemisia[4], ma poi, lentamente, aveva compreso cos’era successo: a forza di raccontarla, era rimasto incastrato nella sua stessa rete di parole. Laufey non si era accorto di nulla, troppo bramoso di sapere per accorgersi di come la mascella affilata di Loki si contraesse e lo sguardo gli bruciasse, quando il discorso toccava Sigyn: parlava di lei tra i denti, perché condividere la sua immagine lo disturbava ogni sera di più – e, alla fine, l’aveva baciata.

 

E ora, protetti dall’oscurità della notte e dalla struttura leggera del gazebo, la stringeva tra le braccia, eppure avrebbe dovuto comunque ucciderla, lasciando che Laufey agisse nell’ombra, come contava di fare da anni; quando l’effetto del veleno l’avrebbe fatta risvegliare, sarebbe stata inerme e preda degli esperimenti e dei sortilegi oscuri dell’altro, capaci di renderla, per sempre, sua schiava in nome di una donna morta anni prima. Sigyn pagava con la vita un sorriso che non aveva scelto di avere, due occhi grigi che erano appartenuti anche a un’altra, ma ora erano solo suoi.  Era un prezzo altissimo, troppo.

Lo pagherò anche io, il costo di tutto questo. Avrebbe desiderato dirglielo, svelando quanto costasse quell’inganno e ricordarle come l’unica certezza stesse nella formula che gli era servita per tingere la stoffa di un colore vivo e vibrante. Tutto il resto, erano vaghe pratiche apprese nel corso dei viaggi troppo lunghi che aveva passato alle estremità del mondo, mentre suo fratello ereditava la tenuta e il titolo, com’era nell’ordine delle cose che fosse. Ma le regole esistono per essere ribaltate, distrutte, annullate; com’era successo non troppi anni prima in Francia e nel Nuovo Mondo, in quella colonia orgogliosa che aveva osato ribellarsi alla madrepatria e all’Impero. Ma poteva e voleva farlo?

Laufey era un uomo orrendo, corrotto, servo di una serie di passioni esecrabili e sbagliate, a metà strada tra lo stregone e il macellaio, ma tradirlo voleva dire gettarsi in un abisso privo di ritorno. L’immagine della tomba gli avvelenò la mente, di nuovo[5]. Gli doveva la vita e invece lui, irriconoscente, aveva tentato di portargli via ciò che l’altro bramava ignorando i patti, rubandogli i segreti della sua arte. Condividevano le stesse passioni e non se ne era reso conto – non lo aveva voluto ammettere – fino a quella notte, quando aveva visto Sigyn indossare l’abito maledetto. Avrebbe preferito che lei fosse come qualsiasi altra donna con i capelli chiari raccolti in bande laterali: una fragile fanciulla che si occupava di cucito e di beneficenza, capace solo di abbassare gli occhi quando le parlava. Ma Sigyn sosteneva il suo sguardo quasi avidamente e beveva ogni sua parola. Deglutì, chiedendosi non come potesse agire, ma se desiderasse ancora che la vendetta si concludesse così come era stato deciso. Si accorse di non avere alcuna risposta. Il ciondolo della strega vichinga catturò un raggio di luce o forse brillò nella notte perché conteneva ancora la magia infusa dalla veggente morta da secoli.  

Loki scosse Sigyn per le spalle, la strinse a sé con più forza. Il respiro di lei si era fatto corto e irregolare – non doveva assolutamente perdere i sensi. Armeggiò sostenendola con un braccio e infilando la mano in tasca per trovare ciò che gli serviva, ma probabilmente era già troppo tardi e non solo perché Theoric o Thor sarebbero venuti senz’altro a cercarli.  Tolse con un gesto secco il tappo alla fiala che teneva in tasca, accanto all’orologio.

“Bevi o morirai,” le disse. Aveva usato un tono perentorio, deciso, ma in realtà non sapeva se e in quale modo la pozione avrebbe potuto salvarla. Forse, se fosse morta immediatamente, tra le sue braccia, sarebbe almeno riuscito a evitare che Laufey l’avesse.

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e Lettori,

 

Grazie per essere giunte/i fino a qui. Non vi sto a tediare con tutti i riferimenti gotici e vittoriani e storici presenti in questa storia: sapete che mi diverto a sfruttare dettagli realistici e non lo sapete, mo’ ce lo sapete. Alcuni dettagli futuri… nah, non ve lo dico XD! Vi informo solo che il consumo dell’oppio e dell’assenzio nel corso del XIX secolo era fatto su larga scala (bambini, sono tutte cose che fanno malissimo). Come guest star in questa storia troviamo Laufey, che nell’MCU è il padre naturale di Loki. Qui, come spero avrete capito, il padre naturale è Odino e Laufey è un padre nel senso di mentore. No, aspettate, una cosa molto importante: la questione della vendetta non è ancora stata esplicitata del tutto e avrà un senso e una spiegazione nei prossimi capitoli, perché le cose sono appena un po’ più complicate di quanto stabilito a fine capitolo.

Prossima settimana arriverà Scintille nel buio mentre questa storia non dovrebbe avere più di 4/5 capitoli.

 

Spero che le mie storie possano tenervi compagnia in questi giorni difficili ♥, quanta ne fate a me quando leggo della vostra presenza perché vi palesate recensendo o listando. Anche se non rispondo pubblicamente a tutte le recensioni le leggo appena arrivano e mi commuovo ogni volta♥.

Per voi un clic può non essere nulla, ma per un’Autrice significa tantissimo – e io lo so perché (sono) stata lettrice, prima che scrittrice. Voi non sapete quanto mi faccia piacere. Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

 

Per ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/.  Ah, mi trovate pure su Twitter e Instagram ;)



[1] Così cercavano di fare gli alchimisti – senza successo.

[2] Il patronimico di Odino è Borson, ma per esigenze di copione ho deciso che il cognome della famiglia è Odinson.

[3] Sono un effetto del fumare oppio – bambini, non fatelo da casa!

[4] Uno degli ingredienti dell’assenzio.

[5] Come nel cap. 1.

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Capitolo 3
*** La danza macabra ***


3

La danza macabra

 

 

 

Sono io la morte e porto corona
Io son di tutti voi signora e padrona 
E davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare 
E dell'oscura morte al passo andare […]

Sei l'ospite d'onore del ballo che per te suoniamo
Posa la falce e danza tondo a tondo 
Il giro di una danza e poi un altro ancora 
E tu del tempo non sei più signora

(Ballo in fa diesis, Angelo Branduardi)

 

 

 

Theoric non trovava sua sorella da nessuna parte. La musica nel salotto si era fatta più allegra e nervosa, disturbante. Cercò tra gli ospiti il vestito color smeraldo o la figura slanciata di Loki Odinson e, nel farlo, passò accanto al ritratto della sua defunta madre, che aveva donato il suo sorriso largo e solare a Sigyn. Se la ricordava appena e non sapeva dire se sua sorella le assomigliasse anche nel carattere; forse nelle intemperanze, nella curiosità spesso sfacciata, nell’animo appassionato. E adesso lei sembrava sparita, scomparsa, inghiottita dalla notte umida e fredda, che odorava ancora di pioggia. Vide il duca di Asgardshire che discorreva con un paio di banchieri e fumava un grosso sigaro e gli si avvicinò.

“Dove sono?” domandò, livido in volto. Gli uomini di quella famiglia, pensò, assomigliavano tutti agli antichi cavalieri normanni sbarcati sulle coste inglesi insieme a Guglielmo il Conquistatore. Avevano uno sguardo duro e magnetico e il portamento di un guerriero.

Thor lo soppesò con lo sguardo e tirò una lenta boccata. “Mio fratello è andato via; a vostra sorella dovreste pensare voi.”

“È ancora una ragazzina.”  

“Ma è graziosa e Loki possiede rendite e terre in abbondanza. Capisco bene perché non vi piace e, se fossi al vostro posto lo avrei già preso a pugni,” rise il duca, “ma l’interesse della mia famiglia dovrebbe lusingarvi,” terminò, senza celare affatto una nota di severo rimprovero.

“Ed è interesse, Vostra Grazia[1]? Lord Odinson non si è mai sbilanciato,” sibilò Theoric. “E vostro padre voleva diseredarlo.”

Thor si stufò del sigaro. “È una diceria priva di fondamento e non voglio che la ripetiate mai più,” l’avvertì, ma in cuor suo sapeva di non potersi offendere eccessivamente col figlio di Lord Vanir: Loki aveva fatto di tutto per sporcare la propria reputazione, per esibire ciò che suo padre nascondeva: ricordò con feroce nostalgia il tempo in cui andavano ancora a caccia insieme e lui era solo uno studente ironico e brillante, prima che la febbre della conoscenza gli appannasse lo sguardo.

 

Theoric uscì in giardino, sempre più teso: temeva e sperava di vedere il sorriso sardonico e beffardo di Loki Odinson e ripensava alle parole del duca su suo fratello. Non sarebbe bastata tutta l’Inghilterra a rendere quella specie di alchimista un partito accettabile. C’era qualcosa, in lui, di corrotto, sbagliato, oscuro, capace di contrapporsi totalmente alla sua incantevole e radiosa sorella. Aveva intercettato i loro sguardi, negli ultimi mesi; un paio di occhiate sfacciate, un mezzo sorriso di troppo: si desideravano, null’altro che questo.

Nell’oscurità, un’ombra si staccò dal gazebo: Sigyn. La fievole luce che proveniva dal salotto la illuminava appena, rendendola una figura sottile ed evanescente e lui la raggiunse con un paio di falcate: quando le fu vicino, si accorse che era pallida e si guardava attorno, inquieta. L’acconciatura aveva un che di disordinato e in lei stessa c’era qualcosa di dissonante.

“Che ti è successo?” chiese con un brivido. La abbracciò e lei non fece obiezioni, anzi, gli posò la fronte sulla spalla. Era esile e leggera – ultimamente, a pranzo e a cena, spiluccava appena, tormentata dal sentimento impossibile che nutriva per il fratello del duca. Lo amava? Soffriva per la sua assenza? Theoric conosceva la risposta, ma non voleva dirlo ad alta voce né accettare che la sorella potesse scegliere, tra tutti, Loki l’alchimista, lo scienziato, l’esploratore che non aveva riguardo né di Dio né degli uomini.

“Ho un terribile mal di testa, perdonami,” boccheggiò lei. Si sentiva debole e confusa e viva. Sulle labbra aveva il sapore di un bacio e di una pozione in grado di bruciarle la gola. Aveva sete e le tremavano le gambe. “Vorrei andare a riposare nelle mie stanze. Saluta gli ospiti da parte mia.”

 Theoric si accorse che le sue braccia nude erano gelate. Fu sul punto di domandarle dove fosse lui o perché si ostinasse a ignorare qualsiasi regola per quell’uomo, ma preferì essere indulgente e non le fece alcuna domanda. Se ne sarebbe pentito, più avanti.

 

Il cielo si era fatto cupo, carico delle nubi che, presto, avrebbero rovesciato una pioggia lugubre e insistente su tutta Londra. Sigyn era nella sua stanza e indossava ancora l’incantevole abito che le aveva tolto il respiro, ma ne ignorava la pericolosità, come sapeva vagamente di aver bevuto l’antidoto che l’aveva strappata alla morte e di essere viva per un caso, nulla più. Quando aveva detto alla sua cameriera che si sarebbe spogliata da sola, quella le aveva risposto con un sonoro sbuffo, ma non aveva insistito solo perché la casa era piena di ospiti. Era l’occasione perfetta – stava compiendo una follia, tanto grande e spaventosa che occorreva abbracciarla senza esitazione o rimanerne schiacciate. La casa dormiva, la borsa con i suoi pochi effetti personali era già pronta. Aveva scelto di utilizzare parte del bagaglio preparato con anticipo in vista del periodo che avrebbe dovuto trascorrere da sua cugina[2], ma le girava la testa e sentiva le palpebre pesanti. Quel viaggio programmato da tanto tempo a casa dei suoi zii non si sarebbe verificato mai, perché Sigyn stava per infilarsi un mantello e fuggire. Avvertì l’impulso di lasciarsi cadere tra le candide e rassicuranti coltri del suo letto, ma lui l’attendeva già e lei aveva promesso: gliel’aveva sussurrato mentre la teneva tra le braccia.

Non era quello che volevo? Che mi chiedesse di andare via con lui?

Forse non avrebbe dovuto fidarsi di Loki, ma era troppo tardi. Si appoggiò a una delle colonne del baldacchino sfiorandosi il corsetto aderente. L’orologio batté le due del mattino e la ragazza si avviò verso la porta cercando di non fare il benché minimo rumore. Con una mano reggeva la borsa, con l’altra gli stivaletti che avrebbe indossato solamente nel patio. Cos’avrebbe fatto l’antica sacerdotessa danese che aveva sedotto un conte, di cui lei indossava una parte del corredo funebre? Sarebbe scappata con l’uomo che amava, assumendosene il rischio, lei che, fiera e pagana, si era unita a un cristiano, corrompendolo.

 

La casa dove aveva trascorso una vita intera era un labirinto buio fatto di ombre note e scricchiolii di cui conosceva l’origine e la provenienza. Attraversò il corridoio facendo attenzione a poggiare i piedi scalzi sui tappeti orientali, scese le scale trattenendo il respiro. Il bagaglio era leggero, eppure le sue mani faticavano a sorreggerlo. Si aspettava di vedere comparire da un momento all’altro una delle cameriere con la cuffia da notte in testa, Theoric o, addirittura, suo padre, ma la casa era come sotto l’effetto di un incantesimo: addormentata, immobile, stregata, buia. S’inoltrò nelle stanze che conosceva tanto bene da non avere bisogno della luce per muoversi, individuando, nell’oscurità, il profilo di un mobile o di un arredo. Le sembrava di camminare in un sogno. Quando, finalmente, raggiunse il soggiorno, vide che le pesanti tende non erano completamente accostate e lasciavano filtrare una flebile luce che proveniva dall’esterno. Si fermò a osservare la lama illuminata e si accorse che la stanza aveva assunto dei contorni sinistri e sconosciuti. Sbatté le palpebre e si accorse troppo tardi del respiro accanto a lei. Una mano l’agguantò per la vita, un’altra le tappò la bocca. La voce di Loki, suadente, roca e pericolosa, le accarezzò la pelle facendole tendere la schiena. Poteva sentire il profumo dei suoi abiti e sapeva, sentiva, che anche lui doveva trattenersi dallo sfiorarle con le labbra il collo, le guance, la bocca.

“Dobbiamo sbrigarci,” le disse prendendole la borsa. Sigyn annuì, riconoscendo con una stretta al cuore che Lord Odinson era riuscito a violare la sua abitazione scassinando la finestra e, ora, si muoveva nell’oscurità con l’agilità e la sicurezza di chi è abituato ad agire di nascosto. Era un brigante col sangue blu nelle vene, il figlio reietto di un duca morto chiedendo perdono per i peccati di entrambi. E lei, Sigyn, che sapeva tutto questo e molto altro ancora, stava commettendo una follia. Nel gazebo, Loki le aveva raccontato che la sua vita era in pericolo: se voleva vivere, doveva seguirlo quella stessa notte, perché non avrebbero avuto mai più un’altra occasione. Per convincerla, si era visto costretto a rivelarle un particolare spaventoso, che nessuno, a eccezione della sua famiglia, avrebbe dovuto conoscere, ma era chiaro che le stesse nascondendo dell’altro. Sigyn poteva sentire il filo scarlatto che univa le loro vite trascinandoli in qualcosa di più grande e ineluttabile. Era attratta dal caos che lui emanava, come le farfalle che, danzando, si avvicinano sempre più alle fiamme. Perché non le aveva fatto alcuna proposta di matrimonio? Cosa voleva da lei? Nel giardino l’aveva stretta a sé e baciata con rancore e desiderio, assaggiandole le labbra per imprimere meglio nella sua testa il loro sapore, la consistenza, come se stesse perdendola per sempre e non sapesse rinunciare a lei. La voleva e sapeva di avere il mondo contro – ne erano consapevoli entrambi. Il suo corteggiamento era stato insistente, sfacciato, a volte persino velato dall’ambiguità, ma lui era stato il solo per cui aveva provato un fremito basso. Le mancava il respiro ogni volta che Loki la fissava troppo intensamente, la sfiorava o erano tanto vicini da potersi toccare, ma non lo facevano. Con che parole poteva esprimere sensazioni tanto violente e improvvise?

Quante volte gli aveva permesso di arrivare con i suoi baci fino allo scollo del vestito, alla morbida consistenza dei seni, pregando, mordendosi le labbra, che osasse domandarle ciò che lei non poteva chiedere[3]? Come poteva fidarsi tanto da salire in carrozza con lui, nel cuore della notte? Si conoscevano, stuzzicavano e parlavano da mesi e, sebbene non avessero mai affrontato apertamente il discorso, conoscevano il destino che li attendeva a meno che.

 

Ma la loro non era una fuga d’amore. Qualcosa di terribile stava avvenendo e Loki non le aveva rivelato che un frammento troppo piccolo di verità, una che Sigyn voleva conoscere e, per farlo, doveva seguirlo, perché dopo aver bevuto a forza la fiala che le aveva avvicinato alla bocca, ogni malessere si era calmato. Dicevano che fosse un alchimista, un medico, uno scienziato, un esploratore, un farabutto: era ogni cosa e nessuna – era tutto questo e molto di più, ma se Lord Odinson era un uomo dall’anima nera, lei non poteva dire di essere totalmente candida. I sogni che spesso la svegliavano erano fatti di nebbie voluttuose e immagini innominabili. Scenari onirici di cui non riusciva a pentirsi, ma che, al contrario, desiderava solo approfondire e rendere reali, abitati dal fantasma beffardo e virile di lui, che ora la sorreggeva mentre lei s’infilava gli stivaletti, per poi guidarla nella notte resa meno oscura dal fascio di luce di una lanterna cieca. C’era un servitore di casa Odinson dall’aria truce, ad attenderli.

Sigyn non era più in tempo per tornare indietro e scelse di fidarsi, di seguirlo nel giardino dall’erba fradicia, nella carrozza che li attendeva poco distante – abbastanza perché il rumore delle ruote sull’acciottolato non svegliassero suo padre. Era stata sul punto di morire, quella sera, eppure le labbra di Loki, che sapevano di un liquore dolce e sconosciuto, le avevano ridato il respiro e la vita. La stessa che, altrimenti, sarebbe rimasta incastrata dentro un sorriso finto, come quelli dipinti sulle porcellane, o rinchiusa in una sonata eseguita con disperazione, ma costretta a disperdersi nel vento. Poteva vivere solo accanto a lui, a quel gentiluomo protervo che non s’interessava delle sue ricchezze e si era seduto davanti a lei nella carrozza, imponendosi una calma che la mascella serrata e lo sguardo mobile e ardente tradivano. Poteva vivere solo scegliendo – e ne avrebbe pagato il prezzo.

 

L’acconciatura si era quasi disfatta e l’umidità notturna le aveva gonfiato i capelli, rendendoli ancora più ribelli e vaporosi. Loki pensò che fosse bella – il tesoro più prezioso che avesse mai rubato – e Sigyn approfittò dell’occhiata sfacciata e diretta dell’uomo per catturare la sua attenzione.

“Che tipo di fuga è la nostra, Lord Odinson?” Il seno avvolto nel raso verde si alzava e abbassava ansioso.

Lui si concesse d’ammirarla. “Una che condanna entrambi. Ma necessaria.”

Sigyn tremò di fronte a quell’ammissione fatta con un sorriso storto e uno sguardo feroce, lupesco. “Cosa avreste fatto, se non fossi scesa?”

“Sarei salito nella vostra camera e vi avrei portata via.”

“E se avessi gridato?” lo sfidò. Si sentiva ancora debole, ma l’emozione per la fuga le conferiva l’energia necessaria per rispondere a ogni battuta con la forza di sempre – quella stessa che lo divertiva e affascinava, ne era sicura.

Loki scosse il capo, lasciandosi sfuggire una mezza risata. “Non l’avresti fatto, Sigyn.”

“Dove mi stai portando?”

“In un rifugio sicuro. Una delle mie case.” Lo sguardo tagliente di Odinson si puntò oltre i vetri della carrozza. “Non abbastanza degna di una lady, ma dove nessuno ci verrà a cercare,” considerò.

Per qualche minuto rimasero in silenzio. Avevano gettato via ogni convenevole parlandosi direttamente[4], ma Sigyn aveva ancora troppe domande incastrate in gola e Loki era laconico. Si accarezzò la gemma d’agata che le ornava il collo e non aveva più tolto.

“Come sapevi di mia madre? Cosa c’entra lei, con noi? Non lo abbiamo mai detto a nessuno, a parte il prete,” mormorò a voce tanto bassa che credette di non essere stata udita.

Loki tornò a fissarla col suo sguardo attento, rapace, valutando il pallore delle sue guance, gli occhi mobili e grigi, grandi e rotondi. “Chi vuole farti del male,” iniziò con lentezza, scegliendo con cura le parole, “è colui che ha aperto la sua tomba.”

Sigyn impallidì, raggelata dalla rivelazione. Dalla cassa non era stato portato via niente a eccezione di un libro di preghiere e di un medaglione che conteneva, al suo interno, una treccia d’oro – la sua. Erano state dette tante cose su quella profanazione dolorosa.

Tu come lo sai?” soffiò.

“Io so molte cose, Sigyn, e conosco troppe persone e non tutte sono raccomandabili,” le spiegò lui con voce calma, lenta, senza trattenersi dal piegare le labbra sottili in un ghigno di cui la ragazza non riuscì a cogliere il sarcasmo. Lo avrebbe fatto, poi.

 

 

Sigyn stringeva tra le dita una tazza di latte caldo che non osava bere. Dentro, Loki aveva versato qualche goccia della stessa pozione già ingerita nel gazebo. L’aveva salvata. Da un passato che le chiedeva il conto di una somiglianza troppo spiccata, da una vita in cui si sentiva in trappola – già morta, costretta a cantare graziosamente come un usignolo rinchiuso in una gabbia. Invece ora era viva e libera e l’altro non sapeva dove fosse e non avrebbe dovuto scoprirlo, mai. Importava solo questo. Il suo nome era un dettaglio irrilevante, il perché un’ossessione di cui lei stessa non desiderava parlare: una parte del passato della sua famiglia era fatto di bisbigli e di segreti da cui era sempre stata tenuta lontana. Ricordava brandelli di discussioni catturati quand’era bambina, nient’altro. Parole di cui non era riuscita a cogliere il senso, che le restituivano un’immagine di sua madre diversa dalla donna che le intrecciava i capelli d’oro intonando vecchie filastrocche. Una che si era macchiata della colpa di ridere di un uomo. E Lord Odinson, dal canto suo, si era rifiutato di dirle quale fosse il piano che aveva così abilmente sventato, come avesse fatto a conoscerne tanto a fondo i dettagli. Così finsero che quella notte lei non fosse quasi morta, ma in fondo anche questo era un inganno in cui si stavano smarrendo. Lo avrebbero capito, poi.

 

Loki l’aveva salvata e il perché gli si leggeva negli occhi lupeschi e attenti, carichi di rancore e desiderio. E, di fronte alla proposta folle di fuggire insieme, Sigyn non si era tirata indietro. Le era mancato il respiro, aveva sentito la vita scivolarle via e lui era riuscito a ridarle aria, spalancando la gabbia in cui era intrappolata, facendole tremare le vene dei polsi. Tutto il resto – l’orrore – doveva sparire, o l’avrebbe inghiottita. Ci sarebbe stato il tempo per le domande, ma non quella notte, non dopo che la vista le si era appannata e solo la pozione dolciastra inghiottita quasi a forza l’aveva riportata indietro. Loki era riuscito a salvarla e Sigyn voleva ripagarlo e sentirsi viva.

 

Erano in una stanza da letto sobria ed elegante, in una casa posta in un quartiere raffinato pieno di famiglie benestanti e perbene. Facevano eccezione loro due, in silenzio, colpevoli di aver violato ogni norma sociale in nome di un desiderio che scorreva nelle vene di entrambi e non aveva ancora trovato un nome. Che infiammava lui e bloccava lei. Da fuori, l’abitazione si presentava come l’austera dimora di un avvocato spesso assente per lavoro, ma all’interno le camere erano arredate col gusto sofisticato di chi ha viaggiato per il mondo, esplorandone gli ultimi misteri e cercando reperti e tesori: scaffali, mobili e librerie contenevano antichità e cimeli mai visti ed erano stati sistemati secondo un gusto particolare. Tra le meraviglie esposte, c’era un manoscritto conservato sotto una teca in vetro, scritto in un’elegante carolina[5] e miniato con cura.

“Dove lo hai trovato?” boccheggiò Sigyn. Aveva riconosciuto la grafia, ma non riusciva a leggerla correntemente; tuttavia, individuò l’argomento osservando le immagini che decoravano la pagina: raccontavano la storia del conte che s’invaghì della strega pagana.

“Lo raccolse mio nonno. C’è chi dice che sia una leggenda di famiglia,” spiegò l’alchimista piegando le labbra nell’ennesimo sorriso storto.

A quelle parole, il cuore della ragazza batté più forte nel petto. Sentiva che le vicissitudini dei due amanti lontani nel tempo e nella storia erano legate a lei, a loro. Il mito le parlava, calmando l’incubo che era giunto a ghermirla da vicino e che sapeva di morte, annullando il presente. Era fuggita come l’ultima delle cameriere, seguendo l’uomo che amava, obbedendo al cuore e alla testa che, insieme, gridavano e sanguinavano di nostalgia per un sorriso sbieco che non riusciva a dimenticare, per due occhi verdi che non poteva smettere di sognare. Se non era destino che fosse sua moglie, capì tremando, sarebbe stata la sua amante, quella notte o un’altra. Era un fato cui nessuno poteva opporsi, né suo padre, né Theoric, né il duca Thor né lei e Loki.

“È per questo che hai cercato la sua tomba?” gli domandò sfiorando il vetro. Loki sembrava non volerle rendere le cose facili. L’osservava tenendo le mani allacciate dietro la schiena, facendo attenzione a ogni suo movimento, sussulto, sguardo.

“Era una leggenda interessante, sì. Dovresti berla,” l’invitò, riferendosi alla tazza. “E indossare qualcosa di meno bello, ma più comodo,” concluse con voce roca, strappandola alle sue considerazioni per riportarla lì, in una delle sue stanze, nel cuore della notte.

Sigyn strinse le labbra. C’erano ancora troppe domande sospese, tra loro. E non di tutte era certa di voler conoscere le risposte.

“Fuggire era l’unico modo? Io non capisco mai i tuoi intenti, Loki. Mi corteggi, ma non ti esponi. Dici di avermi salvato la vita, ma lasci intendere di essere immerso nell’oscurità.”

L’alchimista parve compiacersi di quella confessione così sincera. Attendeva che Sigyn gli ponesse il quesito giusto. “Ed è così. Non mi avrebbero mai lasciato avvicinare a te. E lui voleva portarti via. Ho agito in fretta.”

L’accenno, pur lieve, fece rabbrividire Sigyn, spingendola a scacciare via l’orrore da cui era fuggita e a concentrarsi sul viso affilato di Loki, sul suo ghigno sempre ironico che aveva lasciato il posto a una smorfia tirata. Nascondeva un’infinità di segreti: glielo leggeva nelle ombre inquiete che danzavano nei suoi occhi quasi trasparenti.

“In nome di cosa?” l’incalzò rapida, facendosi avanti finché lui non resistette all’impulso di carezzarle la guancia serica, il collo elegante, il nastro di velluto nero che reggeva l’agata verde, per poi risalire con lentezza fino alle labbra piene, di cui ricordava il sapore.

 

Loki deglutì, al pensiero di quanto fosse assurdo e folle il suo piano e dei rischi che comportava, ma Sigyn si era avvicinata troppo per lasciarla andare. La strinse a sé lasciando scorrere le dita sulla schiena che tremava al suo tocco, sulla vita stretta dal corsetto. In nome di cosa? Del rancore e del desiderio, avrebbe dovuto risponderle. Laufey sognava d’averla e Loki si era svegliato scoprendo di nutrire la stessa disperata brama, di essere stretto dai lacci del medesimo incanto. E ora Sigyn era sua, tra le sue braccia, con ancora l’abito avvelenato addosso, che solo il suo antidoto aveva reso non mortale. Era splendida e fremeva sotto le sue dita, vittima stupenda dei suoi baci sfacciati, scorretti, dati ovunque tranne che sulle labbra bramate – doveva perdersi, graffiargli con più forza le braccia, sciogliersi e supplicarlo.

“In nome di cosa, rispondi: io rinuncio al mio nome, stanotte,” gli sussurrò, infilando le dita tra i suoi capelli scuri. Sigyn aveva le labbra piene e uno sguardo febbricitante, dolce, liquido e deciso. Voleva dimenticare e vivere, annullarsi con lui, smarrirsi per poi ritrovarsi. Cosa sarebbe stato di loro, l’indomani? Sarebbe tornato da Lord Vanir, avvertendolo che l’onore di sua figlia era compromesso e non rimaneva nessun’altra via che sposarla? L’avrebbe portata in Francia o in Germania, dove pochissimi avrebbero fatto domande? E Laufey, come impedire che Laufey si vendicasse di entrambi? Poche ore prima, Thor lo aveva implorato e minacciato di comportarsi come un gentiluomo, ma Loki non era capace di rimanere dentro i limiti imposti dalla società rarefatta dei suoi pari. I confini entro cui si muoveva erano labili e incerti, a metà strada tra il regno dei vivi e quello dei morti. Si muoveva tra il bene e il male, tra scienza e magia, tra esperimento e maleficio. E Sigyn, desiderata con ferocia per mesi, era finalmente tra le sue braccia, inquieta e bellissima e viva, avvolta in un vestito che avrebbe dovuto essere il suo sudario e invece ne esaltava il corpo snello, fremente, ancora vivo per merito suo, che ora le baciava la pelle candida del collo inebriandosi del suo profumo di donna, del desiderio che avvertiva nelle dita sottili, impazienti e nervose di lei, sfacciata, perduta, sua.

“La soddisfazione non è nella mia natura. Non voglio cederti,” rivelò con voce roca. Laufey l’avrebbe sepolto vivo: così faceva con i suoi nemici.

“Cedermi?” Sigyn si mise in punta di piedi per sfiorargli le labbra, tentandolo con un bacio mancato che non ci sarebbe stato, sfiorandogli il naso con la punta del suo. Era sfrontata e priva di malizia a un tempo.  Una fitta di desiderio lo colse, spingendolo a prenderla tra le braccia, ad adagiarla senza grazia sul bel letto.

Sigyn lo fissò da sotto le ciglia scure artigliando le coperte con le dita, spaventata e decisa. “Sono io che scelgo: quando sono uscita dalla mia stanza, ho scelto,” mormorò.

Il corsetto s’alzava e abbassava a un ritmo irregolare e Loki si stese su di lei, cercando con le dita abili e veloci i nastri dell’incantevole abito color smeraldo, raccogliendo i suoi sospiri, cercandole, finalmente, le labbra dolci, prima lambite appena, poi ghermite in un bacio fatto di molti altri baci, feroce e intenso e impaziente, come non lo erano le mani lente, sicure, che la spogliavano senza fretta, uno strato dopo l’altro. E lei disse che si sarebbe mostrata a patto che anche lui si svestisse, per valutare con curiosità il torace asciutto e scolpito, i muscoli nervosi e tonici, il fisico agile e virile di un uomo giovane e forte abituato a cavalcare, a navigare a esplorare terre insidiose e lontane.

 

Il verde è un colore insidioso e stupendo: per ottenere una tinta vibrante e piena occorreva usare, tra gli altri ingredienti, l’arsenico, un veleno[6]. Non si contavano le dame e i gentiluomini che avevano fatto tappezzare le pareti e rifatto il guardaroba con il color smeraldo abbracciando la morte come lui stringeva Sigyn. Nella sostanza usata per tingere il raso dell’incantevole abito della ragazza, Loki aveva usato quello e molti altri ingredienti segreti: Laufey voleva preservare la bellezza della propria preda – lui, all’inizio, era curioso solo di vedere gli effetti della sua pozione maledetta. Ora, invece, scopriva la pelle morbida e soda di lei, nascosta dall’abito: carezzava la linea sinuosa delle gambe sottili, dei fianchi rotondi, della vita stretta e dei seni sodi, dalle punte dure prima ancora di sfiorarle con le labbra, di carezzarle con la lingua fino a farla implorare. L’aveva immaginata e sognata e voluta, ma l’aspettativa non si avvicinava alla realtà e il bisogno di averla era una febbre capace di fargli dimenticare la prudenza e i suoi piani capaci di variare di minuto in minuto, certo, ma sempre presenti. Sigyn. Invocò il suo nome, quando la liberò dall’ultimo strato di stoffa. Fuori pioveva e l’alba non era lontana, ma il bisogno di cercarsi a vicenda la pelle, di rendere reali quelle che erano state fantasie brucianti li avvolse, li strinse come si serrarono le loro mani, si avvinghiarono i loro corpi, corrosi dal desiderio, tesi verso un’unione necessaria, anelata, che avvenne. Fu dolce e brusca. Rotta da sospiri, carezze e labbra che si lambirono, sfiorarono, gustarono, ora lente ora impazienti, come le attenzioni nervose e urgenti che si scambiarono. Sigyn l’accolse e scoprì che tra le coperte del letto iniziava e finiva il mondo. Si sentì libera e viva, perduta e ritrovata e accarezzò la schiena larga e scolpita di Loki, dopo, stupendosi del respiro rapido dell’altro, del battito accelerato del cuore che sentiva all’altezza del seno e si mescolava al suo. Lo amava. Lo pensò mentre, ancora ansante, gli chiese cosa sarebbe accaduto, ora.

Loki si sollevò sui gomiti strappandole un bacio lento e irriverente e scostandole una ciocca bionda dal viso.

“Ho anticipato le sue mosse. Il suo piano era venirti a prendere prima dell’alba. Ci cercherà, ma non ci troverà,” spiegò con un ghigno perfido. L’ammirò ancora, compiacendosi che fosse nuda sotto di lui, e, crudele, le tormentò un seno con spietata lentezza. Sigyn s’inarcò e boccheggiò di fronte a quell’attenzione imprevista. Loki la scioglieva, l’incantava, la faceva vibrare e tendere con una facilità disarmante e spaventosa, cui lei non aveva mai voluto resistere. E ora, che aveva scoperto il doloroso piacere di averlo, non voleva rinunciarci mai più.

“Come fai a conoscere così bene le sue intenzioni?”

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e Lettori,

 

Scusate l’assenza di questi giorni e scusate il capitolo particolarmente lungo (supera di poco le 4000 parole), ma le cose da dire erano tante e i passaggi introspettivi complessi. Spero anche di non aver lasciato troppi refusi, dato che la prima parte l’ho riletta tipo duecentocinquanta volte e l’ultima tipo due. Eh, lo so :(.

Non è semplice entrare nella mente di una ragazza dell’Ottocento e io sono una grande amante dei grandi romanzi del periodo, soprattutto inglesi, russi e francesi. Per una ragazza aristocratica come Sigyn decidere di donarsi a Loki è qualcosa che va contro ogni morale o regola, un atto da “cameriera”: questo discorso classista va chiaramente inserito nella mentalità elitaria dell’epoca. Il fatto che lei osi andare contro le regole non significa che non le condivida. Semplicemente, le infrange, coerentemente con l’epoca.

Come i più attenti avranno notato, ho inserito l’avvertimento “Fable!AU” ma non ho specificato quale fiaba sia stata rappresentata, perché sono almeno due e se vi avessi svelato quali sono avreste capito troppe cose della trama.

Spero che le mie storie possano tenervi compagnia in questi giorni difficili ♥, quanta ne fate a me quando leggo della vostra presenza perché vi palesate recensendo o listando. Anche se non rispondo pubblicamente a tutte le recensioni le leggo appena arrivano e mi commuovo ogni volta♥.

Per voi un clic può non essere nulla, ma per un’Autrice significa tantissimo – e io lo so perché (sono) stata lettrice, prima che scrittrice. Voi non sapete quanto mi faccia piacere. Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

 

Per ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/.  Ah, mi trovate pure su Twitter e Instagram ;)



[1] Vostra Grazia è il titolo riservato anche ai duchi. Odino era duca di Asgardshire e Thor, in quanto primo figlio, ha ereditato il titolo. Seguendo l’uso inglese, Loki è invece Lord Odinson in quanto figlio e fratello del duca, ma è un titolo di cortesia.

[2] Come accennato nel precedente capitolo.

[3] Considerando la condizione attuale della donna e quella del 1857 e il tabù che tutt’ora rappresentano le nostre pulsioni o il ciclo mestruale che viene indicato con infinite perifrasi, il pensiero di Sigyn è particolarmente moderno. Lei vorrebbe che Loki andasse oltre (e già quello che fanno è terribilmente sconveniente) ma l’educazione che ha le impedisce di chiedere.

[4] Cioè dandosi del tu e abbandonando ogni formalità.

[5] La carolina è un tipo di scrittura medioevale usata in molti codici manoscritti.

[6] I sintomi dell’avvelenamento da arsenico sono bruttissimi e totalmente differenti da quelli descritti qui e nel precedente capitolo. Mi prendo la licenza poetica di variarli perché Loki li ha mischiati con altre cose ed è un alchimista.

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Capitolo 4
*** La sposa rubata ***


Capitolo 4

La sposa rubata

 

Come luce lei brillava

Quando sposa andò

Dove mai l'avrà portata

Il signore che la rubò

Da tre notti non riposo

Resto ad ascoltare:

È la vipera che soffia

Soffia presso l'acqua

(La sposa rubata, Angelo Branduardi)

 

 

Era una domanda che doveva porgli, di nuovo, perché in carrozza Loki le aveva detto qualcosa di vero, quando aveva fatto riferimento agli oscuri legami di cui si era circondato nel corso della sua scapestrata esistenza. Anche lei era uno di quelli? Sentiva il suo corpo vibrante e vivo come non era mai stato e provava già nostalgia per le sensazioni intense vissute solo pochi istanti prima. Aveva conosciuto il desiderio e l’amore e le sue gambe cingevano ancora i fianchi stretti di Lord Odinson.

E lui non le aveva promesso niente – né Sigyn si era messa a chiedere altro se non di essere amata come le sue mani, la sua bocca e i suoi sguardi feroci promettevano. Gli sfiorò con la punta delle dita la mascella diritta e virile risalendo fino allo zigomo affilato, in una carezza stupita, ammirata: quante notti aveva sognato di essere tra le sue braccia e come era diversa ogni cosa, ora che lui la stringeva a sé? Piegò le labbra in un broncio lieve. Avrebbero dato a Loki la colpa e la responsabilità di quella fuga. Ecco l’ennesima storia dell’avventuriero spavaldo e giramondo che seduce la fanciulla e la rapisce: un dramma di cui Sigyn era la protagonista di nome, ma non di fatto, la cui voce non contava nulla. A chi sarebbe importato che lei desiderasse fuggire e che amasse Loki? A nessuno. La sua volontà, che l’aveva spinta nel cuore della notte a scappare in punta di piedi, veniva vista come il capriccio di un animaletto grazioso e raggirabile. Ma Sigyn non si sentiva così innocente. Era diventata l’amante di Lord Odinson perché la sua anima non era del tutto pura; provava ancora fitte di gelosia cocente al pensiero delle donne che lui aveva amato nel corso dei suoi lunghi viaggi; vederlo ridere o scherzare con altre dame la rendeva insofferente e di malumore quanto le attenzioni di Loki euforica. L’estate prima aveva fatto ogni cosa per rimanere sola con lui, finché un pomeriggio si erano ritrovati troppo vicini e Lord Odinson l’aveva guardata nell’identico modo in cui la fissava ora: con curiosità e desiderio e soddisfazione e qualcosa d’indefinibile e oscuro, accentuato dal sorriso laterale e sbieco che le aveva rivolto. Si erano baciati fino ad avere le labbra gonfie, a perdere il senso del tempo. Lui aveva riso dicendole che il suo aspetto delicato era quello di una fata, ma il suo lo spirito appassionato era di una strega – ma non una qualunque, specificò, quella che condannò un famoso conte alla perdizione.

“Colpa sua, che si lasciò incantare,” aveva ribattuto Sigyn, altera e sfacciata e felice.

Loki era rimasto in silenzio, come se fosse in cerca della risposta giusta da darle. Quando aveva parlato, la sua voce le era parsa più bassa e roca del solito. “Oh, avete ragione, mia signora. Voleva perdersi con lei e abbandonarsi al caos.”

 

Sigyn lo sapeva: suo padre, temendo uno scandalo, non sarebbe mai andato a denunciare la sua scomparsa a Scotland Yard[1], ma l’avrebbe fatta cercare e, quando l’avesse trovata, non sarebbe rimasto nemmeno un momento ad ascoltare le sue spiegazioni. L’avrebbe fatta sposare con l’uomo che reputava giusto per lei, condannandola a un’esistenza piatta e perbene: una settimana prima si era messo in testa di presentarle un conte già vedovo e con figli, manierato e cortese, ma capace solo di fare discorsi vecchi e vuoti. L’idea di essere sfiorata da lui la ripugnava nella misura in cui desiderava le mani di Loki su di sé. Sì, il suo amore per il fratello del duca sarebbe stato bollato come una fantasia o, peggio ancora, un capriccio indotto in cui era caduta perché ingenua. Al pensiero si sentì ribollire il sangue nelle vene, perché sentiva di appartenere all’alchimista e a nessun altro, anche se percepiva, era cosciente, di quanto lui fosse spregiudicato.

“Tu sapevi,” insistette, “sapevi abbastanza da avere con te l’antidoto,” sussurrò. Non voleva spezzare l’incanto, eppure era necessario sollevare il velo del dubbio, dopo essere stati corrosi dall’urgenza di aversi.

Loki, sopra di lei, volle assaggiare una volta ancora le sue labbra, appropriarsi della loro morbidezza. Infilò un braccio sotto la sua schiena ghermendole la nuca, come se Sigyn potesse fuggire o lui volesse possederla ancora più intimamente di quanto non aveva fatto.

Lei lasciò che la baciasse, tremando al pensiero della risposta che avrebbe ricevuto, vittima del desiderio che scuoteva ancora entrambi, avvinghiati uniti, vicini. Loki sapeva troppo – l’aveva salvata, ma a che prezzo?

 

Lord Odinson si aspettava quella domanda. L’attendeva da quando aveva scoperto di ricercare l’attenzione della giovane figlia di Lord Vanir non per Laufey, ma per sé. Nelle lunghe sere trascorse nel suo studio, con un bicchiere di whisky ormai vuoto posato sulla scrivania ingombra di carte, appunti e formule proibite, aveva immaginato nel dettaglio cosa sarebbe successo se avesse tentato di salvarla. Ogni piano elaborato, però, era stato scartato; Loki si era convinto che Sigyn sarebbe stata la sua rovina, ma la soddisfazione non era nella sua natura e, lentamente, senza nemmeno rendersene conto, aveva cominciato a cercare per proprio conto l’antidoto che l’avrebbe strappata al suo mentore e alla morte. Doveva portargliela via, rubargliela, farla sua, vederla abbandonare ogni resistenza e invocare il suo nome, tenerla tra le braccia come stava facendo in quel momento. E Laufey era già sulle sue tracce, probabilmente. I suoi servitori a quell’ora erano entrati nella camera di Sigyn e, non trovandola, avevano sicuramente avvertito il loro capo. Laufey lo avrebbe fatto chiamare, sospettando immediatamente di lui? E Lord Vanir come si sarebbe mosso, scoprendo che la figlia era svanita nel nulla? Il vecchio avrebbe coinvolto Thor, senza dubbio. Sì, Loki aveva previsto ogni mossa dei suoi avversari, compresa quella domanda che veniva proprio dalle squisite labbra della sua incantevole e desideratissima amante, ma aveva lasciato spazio anche all’imponderabile, al caos che stravolgeva ogni piano. Avrebbe messo a tacere Vanir, conquistato il favore di Thor, ucciso Laufey prima che la vendetta di quest’ultimo si abbattesse su di lui.

E poi, forse, le avrebbe confessato di aver avvelenato la stoffa usata per il magnifico abito che l’aveva fasciata fino a poche ore prima, che lui aveva accarezzato e toccato incurante dell’arsenico mischiato ad altre rare erbe indiane – ma aveva bevuto anche lui un goccio d’antidoto, mentre attendeva che la festa a casa Vanir finisse.

Così, seguendo l’intricata rete di trappole che aveva messo a punto, rispose a Sigyn negandole una completa verità che sarebbe stata troppo difficile da spiegare o da accettare, ma dandole una risposta che, pure, era abbastanza vicina a essa. Un inganno sottile e necessario, tanto da potersi spezzare in ogni momento, eppure, proprio per questo, più robusto.

“Conosco le sue intenzioni, sì,” ammise. “So cosa ha usato per avvelenarti. Mi ha chiesto aiuto per la pozione,” le rivelò con voce roca, sottilmente compiaciuta. “E io ho creato il veleno e l’antidoto.”

La sentì irrigidirsi sotto di lui, la vide sgranare i begli occhi grigi. Intuiva che c’era dell’altro, aveva colto la pericolosità insita nelle sue parole, si era affacciata oltre il precipizio oscuro che era la sua anima contorta e assetata di conoscenza. Un sapere che non aveva prezzo, per cui era disposto anche a sacrificare la vita sua e degli altri, ma questo Sigyn ancora non poteva saperlo, né conosceva l’imponderabile, la bestia oscura che gli graffiava il petto. Lo avrebbe scoperto, però.

 

“Perché hai atteso stanotte?” gli sibilò flebile e decisa.

L’alchimista piegò le labbra in un ghigno ironico e mesto; con la mano libera, scostò una ciocca bionda dalla sua fronte.

“Avrebbe trovato un altro modo. Dovevo impedirglielo, facendogli credere fino alla fine che il suo piano si sarebbe realizzato stanotte.”

Di nuovo, non si trattava di una menzogna, ma nemmeno della totale verità: era qualcosa nel mezzo – un inganno, volto a celare la parte più bieca della vicenda, quella che Sigyn sospettava e Loki, ancora, nascondeva. L’avrebbe persa, altrimenti, e non era disposto a farlo. Non era sazio di lei, di loro, della sua pelle morbida e dorata, delle sue labbra dolci, del suo corpo snello e teso intrappolato sotto il suo. L’aveva catturata e la desiderava ancora. L’avrebbe persa comunque, forse, ma non quella notte maledetta che già si trasformava in un’alba grigia e fredda[2].

Sigyn legò l’una all’altra le informazioni scoperte. L’intrigo in cui Loki era invischiato le apparve davanti in maniera più nitida; non immaginava ancora che ad avvelenarla era stato il bell’abito che lui le aveva sfilato di dosso, ma era un dettaglio trascurabile rispetto alla portata del gesto in sé.

“Mi hai avvelenata.” Ora che lo aveva detto le sembrò più vero – e spaventoso. Ed era nel suo letto, stretta a lui, senza difese. Aveva l’odore di Loki addosso, il sapore dei suoi baci su ogni curva del suo corpo. Aveva seguito il drago nella sua caverna lasciandosi irretire dalle sue carezze e ora si trovava tra le sue spire meravigliose crudeli[3].

“Ti ho salvata.” Loki la strinse con più forza strappandole un bacio sul collo capace di farla comunque tendere; la sua voce aveva assunto un tono secco e graffiante, che non ammetteva repliche. “Era il modo più sicuro. L’unico sicuro,” puntualizzò torvo.

 

Sigyn doveva – poteva – credere alle sue parole? Aveva offeso la sua famiglia fuggendo con un uomo dall’anima oscura, ma nel suo sguardo lupesco la ragazza riconobbe una scintilla del tormento in cui Loki era rimasto incastrato nei mesi in cui l’aveva baciata, corteggiata e frequentata sapendo che un altro voleva farla sua.

“Stavo per morire, eppure non sono mai stata così viva come stanotte,” gli confessò. “Perché sono qui?”

L’alchimista non le rispose, ma nella penombra le loro labbra si cercarono ancora, insolenti e disperate, nervose come le loro mani e i corpi avvinghiati e corrosi da un desiderio sublime e maledetto. Non era destino che si amassero, ma questo, ancora, Sigyn non poteva immaginarlo, Loki non voleva dirlo.

 

 

Thor era ancora in veste da camera quando Lord Vanir e Theoric bussarono alla sua porta. Li ricevette e ascoltò il racconto della sparizione di Sigyn e l’accusa che vedeva coinvolto il suo introvabile fratello. Gli chiesero dove fosse, lo pregarono di non proteggere ulteriormente Loki, colpevole di aver corrotto una ragazza innocente, invaghita dei suoi modi affascinanti e insolenti. Era stato davvero lui? Aveva osato macchiarsi di un gesto così orrendo, capace di rovinare per sempre la vita di una donna? La voleva fino a quel punto? Pensò alla sera prima e decise che suo fratello era senz’altro degno di un piano tanto crudele.

Si chiese cosa avrebbe detto o fatto il vecchio Odino e fu preso dalla voglia di risolvere la questione personalmente, una volta per tutte, e intervenire a costo di mettersi definitivamente contro Loki, così sfuggente e perfido, incapace di accontentarsi di ciò che la vita gli offriva o di conquistare ciò che desiderava se non con l’inganno. Se avesse dimostrato alla famiglia di Sigyn di voler essere per lei un buon marito, loro avrebbero davvero rifiutato a oltranza la sua proposta?

Ma su suo fratello correvano voci orrende e Thor sapeva che non tutte erano semplici maldicenze; aveva cercato di scoprire qualcosa di più sui suoi esperimenti, sui veleni e i segreti proibiti cui si dedicava seguendo una tradizione che affondava nei secoli, al tempo dei primi alchimisti o di quando veggenti e streghe camminavano su questo mondo. In parte, la fascinazione di Loki per l’oscurità derivava dagli interessi altrettanto oscuri del loro defunto padre. Da lui Loki aveva ereditato l’astuzia e la spregiudicatezza, assieme all’arte di architettare trucchi e trappole. Erano due farabutti con un titolo nobiliare addosso, pirati incapaci di fermarsi di fronte ai divieti morali – e ce l’avevano nel sangue, quell’insaziabile desiderio di conoscere. Sigyn era rimasta intrappolata dalla brama feroce di suo fratello di avere ogni cosa, si era lasciata incantare dal suo sorriso beffardo e dalle sue battute argute e ora lui, Thor, doveva rimediare. Eppure, tradire Loki non era nei piani. Doveva trovarlo prima che altri lo facessero e convincerlo a ragionare.

Lord Vanir era invecchiato di dieci anni in una notte. Le rughe che gli solcavano il volto magro si erano fatte più profonde, gli occhi chiari, liquidi e mobili, si guardavano attorno come se Sigyn potesse comparigli davanti all’improvviso; gli tremavano le mani nodose, su cui spiccavano le vene bluastre. Chiamava la figlia bambina mia e raccontava di come assomigliasse a sua madre. Thor ricordò che, anni prima, l’uomo aveva sofferto per la perdita improvvisa dell’amata moglie, ma pensò anche che Sigyn era una giovane donna innamorata. Gli sembrò fragile e patetico nella sua supplica, quanto Theoric nervoso e incapace di fare altro che chiedere il suo aiuto.

“Loki non è qui,” sospirò. “Vi accompagnerò nella nostra tenuta di campagna, ma vi devo avvisare: dubito che lo troveremo lì o in qualsiasi altra delle nostre proprietà.”

“La sua casa in città è vuota,” disse Theoric. “Dove altro può averla portata? In un ostello? In un altro paese?” azzardò.

Se sono insieme.” disse. Loki la voleva, certo, ma agire in maniera tanto plateale e rischiosa non gli si addiceva non perché mancasse di coraggio: un simile atteggiamento cozzava con la sua natura calcolatrice e infida. Thor lo conosceva bene e il doloroso ricordo delle giornate passate a cacciare insieme gli ferì il petto.

“Vostra Grazia! Così ci offendete!” esplose Vanir.

Se sono insieme, mio lord, varrebbe la pena di considerare l’idea di unirci non solo nella loro ricerca. Se l’ha convinta a fuggire, avete la dimostrazione che mio fratello è davvero interessato a Sigyn,” sottolineò Thor con forza, fissando entrambi i suoi ospiti negli occhi. Lo stava facendo ancora una volta. Stava difendendo Loki come aveva fatto per una vita intera, giurando di combatterlo per poi proteggerlo alla prima occasione utile, nonostante sapesse quanta oscurità si celasse nell’animo dell’altro, ma senza sospettare nulla dell’abito avvelenato.

 

 

La casa di Odino è piena di traditori.

Loki si aspettava che Laufey lo guardasse negli occhi scandendo con lentezza quella frase vera, dal sapore di una condanna. Ogni muscolo e nervo del suo corpo agile e nervoso era pronto a scattare, a pugnalare al cuore o alle spalle il vecchio mentore, ma l’altro si limitò a guardare il giardino che si stendeva sotto la propria finestra con le braccia allacciate dietro la schiena e la bocca piegata in una smorfia dolorosa. Le dita di Lord Odinson sfiorarono il bracciolo in pelle della poltrona su cui si era seduto con l’abituale noncuranza, cercando di mascherare la tensione.

“Indossava l’abito, ieri sera?” gli domandò a un tratto Laufey con voce roca, gracchiante.

“Sì,” rispose Loki. Se l’avesse scoperto, la sua fine sarebbe stata quella di essere sepolto vivo sotto sei piedi di terra, ma fuggire o sparire equivaleva ad ammettere di aver nascosto Sigyn. Doveva lasciare Londra non appena i sospetti su di lui si fossero allentati e, per fare questo, aveva bisogno di dirottare l’attenzione dei suoi molti nemici altrove. Il prezzo per un piano così ardito era rischiare il collo andando a fare visita proprio al proprio maestro, il più pericoloso dei suoi avversari.

“Com’era?” insistette l’uomo stringendo le dita fino a farsi sbiancare le nocche.

L’alchimista ricordò il raso verde che accarezzava le curve di Sigyn, la sfumatura viva di colore che ne esaltava la carnagione dorata, la bocca appena schiusa che lui aveva assaggiato dopo averle dato una fiala con l’antidoto. Non voleva condividere col mostro che aveva davanti l’immagine di lei, eppure. “Incantevole,” decise infine.

“Dove può essere andata? La sua famiglia sospetta di te: stamattina è andata da tuo fratello,” l’informò Laufey voltandosi con lentezza nella sua direzione.

Lord Odinson non si mosse e sostenne lo sguardo del mentore con fermezza. “Se sospettano di me,” ghignò, scandendo ogni parola, “è perché tu mi hai chiesto di avvicinarla. Era nei nostri piani che immaginassero una nostra fuga d’amore, ricordi? E mentre loro avrebbero cercato d’incastrare me, tu avresti fatto con lei ciò che dovevi,” concluse tra i denti.

Il vecchio studioso soppesò il discorso dell’altro. Non c’erano falle né dubbi nelle sue frasi puntuali e acute. Era stato lui a coinvolgerlo in quel piano che, all’improvviso, si era trasformato in un orrendo incubo.

“L’hai mai desiderata?” lo affrontò infine a bruciapelo.

Loki rise buttando il capo all’indietro, ma nei suoi occhi scintillava un bagliore sinistro. “Mi sono esposto, Laufey,” puntualizzò alzandosi. “Ho avvelenato il vestito che indossava. Per te. Perché fosse finalmente tua,” insistette, nascondendo abilmente il brivido che gli correva lungo la schiena al pensiero di lei tra le sue braccia: aveva ancora il suo profumo addosso, il sapore dei suoi baci sulle labbra. Si era macchiato di una colpa infinitamente grande – aveva tradito l’uomo che lo aveva riportato in Inghilterra e lei, lasciandosi corrodere da un fuoco che gli aveva infiammato l’anima fino a bruciarla, ma nonostante fosse consapevole della rete in cui si era invischiato e che lui stesso aveva contribuito a tessere con pazienza, non provava alcun rimorso. Voleva Sigyn a tutti i costi. L’idea che Laufey, con le sue mani sciupate e macchiate dal sole dei Tropici, con le sue spalle già curve e i denti marci[4], potesse sfiorarle la bocca, i fianchi rotondi o il seno sodo, gli era intollerabile e faceva scaturire nel suo petto un rancore sordo e senza nome, una gelosia smisurata che gli serrava lo stomaco e la gola. Avrebbe dovuto ucciderlo in quell’istante; valutò la fattibilità di una simile azione, considerò che nessuno al mondo si sarebbe messo a piangere per la morte di quel grandissimo bastardo.

 

Lo studioso reietto lo aveva ascoltato in silenzio. Era a conoscenza delle voci che circolavano sul suo giovane amico e Sigyn. Era vero, aveva fatto di tutto per alimentarle, invitando l’altro a visitare il più spesso possibile la casa di Lord Vanir e qualsiasi altro ambiente la ragazza frequentasse per soddisfare il suo bisogno di conoscerla tramite la voce dell’altro. Non si era mai concesso di sospettare di Loki perché troppo sicuro di sé, del suo piano e, soprattutto, della bramosia che il figlio di Odino nutriva verso le arti occulte. No, l’uomo di fronte a lui non avrebbe sacrificato la conoscenza del mistero della vita e della morte per amore di una ragazza, eppure Laufey sapeva quanto il desiderio, troppo spesso, infiammasse i lombi offuscando la ragione.

“E allora lei dov’è, amico mio?” insistette.

L’alchimista lo squadrò dall’alto in basso. “Verrei qui, se fosse con me? Sarebbe un gesto stupido e folle,” sentenziò freddamente.

“A meno che tu non voglia imbrogliarmi,” ragionò il vecchio.

“Chiedi che fine ha fatto agli uomini che dovevano portartela. Forse ti fidi troppo di loro,” insinuò Loki crudele, consapevole di aver condannato degli innocenti a una fine tremenda. Un altro sorriso sghembo e astuto gli attraversò le labbra. “Pensaci, Laufey. Lei era incantevole, inerme,” sibilò. “Il suo cuore aveva appena cessato di battere, ma era ancora calda.” Scoprì i denti bianchi e regolari vedendo l’altro impallidire e credergli, almeno per il momento – gli faceva comodo farlo, doveva allontanare dal suo braccio destro i sospetti, ne aveva bisogno per non annaspare nella disperazione.

Loki sentì il sangue fluire nelle sue vene al ritmo sostenuto del suo battito accelerato. L’ennesima trappola era scattata e, con tutta probabilità, aveva guadagnato qualche giorno di respiro. Com’era patetico il suo mentore, che si struggeva per una ragazzina appena entrata in società, com’era pericoloso il suo piano – ucciderla per evocare un’altra – quanto era stato insistente nel chiedergli che profumo avesse la sua pelle, ignaro che quell’aroma lo inebriava e acuiva il suo desiderio! Ora ne pagava il prezzo e il dolore che lo dilaniava era solo una minima parte di quello che lo attendeva in futuro.

Eppure, Laufey non era l’unico pazzo nella stanza. Era quasi sera, e Sigyn era rimasta nella casa in cui l’aveva nascosta, di cui nessuno, nemmeno Thor sapeva niente. Si congedò, allontanandosi con passi lunghi e misurati e facendo attenzione che nessuno lo seguisse, ripetendo mentalmente le prossime mosse da compiere. Avrebbe passato un’altra notte con lei, sarebbe riuscito ad allontanare da sé l’attenzione di Laufey e di Vanir convogliandola su qualcun altro e poi l’avrebbe portata sul continente. Il padre e il fratello di Sigyn erano già andati a bussare alla porta di casa Odinson e credevano certamente che lui fosse fuggito nella tenuta di famiglia, in campagna; al loro ritorno, Loki li avrebbe attesi dimostrando come nella sua casa londinese non ci fosse traccia alcuna della ragazza. A quella dove Sigyn l’aspettava non sarebbero mai riusciti a risalire, perché intestata a un nome fittizio[5]. Non si trattava della soluzione migliore, ma certamente era quella più indolore. Ciò che avrebbe dovuto fare, sarebbe stato pararsi di fronte a Laufey e sparargli in mezzo agli occhi, per poi dare la sua casa alle fiamme, non prima di aver rubato ogni suo appunto utile e distrutto il resto.

 

 

 

Il pomeriggio aveva lasciato il posto a una sera fredda e umida e Sigyn non era ancora riuscita a finire la lettera che si era ripromessa di scrivere a suo padre. La fuga con Loki era stata troppo repentina per comporre anche solo un biglietto, e la ragazza sentiva di dover giustificare le proprie azioni di fronte a una famiglia molto amata che l’avrebbe cercata fino allo sfinimento. Per tre volte si era convinta di aver messo su carta le sue motivazioni in maniera chiara e precisa e altrettante aveva stracciato ogni foglio. Il suo desiderio più grande era che accettassero la sua decisione e si convincessero della forza dei suoi sentimenti verso Loki Odinson: il ricco fratello di un duca che le avrebbe permesso di vivere nell’agio – anche questo aspetto si era premurata di sottolineare, nelle varie versioni della missiva, ma le rendite dell’affascinante e astuto alchimista non l’interessavano come avrebbero dovuto. Era lui, col suo sguardo chiarissimo e aguzzo perennemente tormentato da una sete insaziabile, con la sua ironia pungente e taglientissima, col suo modo di fare misurato e sicuro di sé, a incantarla. Indossava un abito color avorio che lui l’aveva pregata di indossare e il ciondolo danese appartenuto alla strega. Dell’abito di raso verde non c’era più traccia. Tirò su le gambe accoccolandosi meglio sulla poltrona, in attesa che lui tornasse. Al pensiero che avrebbero trascorso di nuovo la notte insieme, strusciò senza accorgersene le ginocchia tra loro, lasciando scorrere una mano sulla gonna chiara che la copriva: lo voleva. Il suo corpo fremeva al pensiero delle labbra di Loki che lo percorrevano accarezzando ognuna delle sue curve tremanti. Allo stesso modo, le sue mani desideravano esplorare ancora il corpo agile e scattante contro cui si era stretta, fatto di muscoli tonici che spiccavano sotto la pelle. Il dolore piacevole e imprevisto che aveva provato facendo l’amore con lui era qualcosa di cui si era accorta di aver bisogno. Eppure, c’era qualcosa, in Loki, che ancora le sfuggiva. Aveva creato il veleno e l’antidoto, mettendo a repentaglio la sua vita per salvarla. Sigyn credeva alle sue parole e non dubitava di essere l’oggetto della vendetta di un uomo che già si era accanito con la sua famiglia, eppure la freddezza con cui Loki aveva organizzato il suo personale piano per salvarla la spaventava, il racconto che le aveva fatto nascondeva ancora delle ombre. In attesa che l’alchimista tornasse e nelle pause necessarie dovute alla mancanza d’ispirazione per la difficile lettera per suo padre, aveva visitato ogni stanza della casa, curiosando in cerca di dettagli o indizi che le rivelassero qualcosa in più dell’uomo che amava. Aveva vagato per corridoi e sale, soffermandosi sui titoli dei volumi contenuti nelle numerose librerie, su qualche spada antica dall’elsa istoriata con pietre preziose che campeggiava appesa nei vari salotti. Si era fermata unicamente di fronte a una porta chiusa a chiave.

 

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e Lettori,

 

Mi stavate già dando per dispersa **? È stata una settimana veramente brutta e ha ragione un noto scrittore contemporaneo, si scrive quando si sta bene, pure quando si regalano sfighe ai personaggi. Alcuni di voi hanno azzeccato quale, anzi quali fiabe siano racchiuse in questa “Fable!AU”. Credo di aver detto tutto quanto nelle note. Come sempre, ogni dettaglio inserito, anche caratteriale, è assolutamente coevo con i personaggi del periodo.

Il riferimento incessante al ciondolo della strega ovviamente avrà un senso e prima che lo diciate: no, Loki non poteva fuggire immediatamente da Londra. Nella prima versione di questa storia (mentale) faceva esattamente così, ma c’erano troppe cose che non mi tornavano e nel prossimo capitolo Loki ve le spiegherà.

Spero che le mie storie possano tenervi compagnia in questi giorni difficili ♥, quanta ne fate a me quando leggo della vostra presenza perché vi palesate recensendo o listando. Anche se non rispondo pubblicamente a tutte le recensioni le leggo appena arrivano e mi commuovo ogni volta♥.

Ah, prossima settimana arriva DAVVERO “Solo un accordo”!

Per voi un clic può non essere nulla, ma per un’Autrice significa tantissimo – e io lo so perché (sono) stata lettrice, prima che scrittrice, e vedere che alcuni di voi tengono nel proprio spazio su Efp le mie storie o trovano il tempo di lasciarmi due righe mi rende felice come Loki mentre abbracci il Tesseract, ecco. Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

 

Per ulteriori info, tante foto di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento… c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/.  Ah, mi trovate pure su Twitter e Instagram ;)

 



[1] Che all’epoca, 1857, già c’era. Considerate che Sigyn è una donna nobile e che il buon nome della famiglia e la sua personale reputazione verrebbero messe a repentaglio se la polizia venisse a conoscenza della sua sparizione.

[2] È una voluta ripetizione.

[3] La metafora del drago e della principessa l’ho usata in Solo un accordo (tipo sempre) in Oltre l’inganno e in qualche altra parte e sappiate che ci tengo abbastanza.

[4] L’immagine è un po’ schifosa, ma considerate che la vita media nel 1850 in Gran Bretagna superava di poco i cinquant’anni e in cinquantenni di metà Ottocento non assomigliano assolutamente ai nostri. Lo stato della medicina era quello che era soprattutto per quanto riguarda i denti: tenete presente che Lev Tolstoj a trentacinque anni era già sdentato, che Washington portava una dentiera in legno, se non vado errata.

[5] Come detto anche nel capitolo precedente.

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Capitolo 5
*** Confessioni di un malandrino ***


  Capitolo 5

Confessioni di un malandrino

 

 

Buona notte alla falce della luna

Sì cheta mentre l'aria si fa bruna,

Dalla finestra mia voglio gridare

Contro il disco della luna

La notte è così tersa,

Qui forse anche morire non fa male,

Che importa se il mio spirito è perverso

E dal mio dorso penzola un fanale

(Confessioni di un malandrino, Angelo Branduardi)

 

 

Sigyn pensò che varcare la soglia di quella stanza, qualora avesse trovato la chiave, sarebbe stato un errore fatale. Fu un pensiero lucido e assoluto, che spazzò via tutti i dubbi possibili, ma che si legava anche a un’altra considerazione: sarebbe entrata, in un modo o nell’altro. Sfiorò la maniglia e l’abbassò di nuovo. Quasi senza alcun dubbio era lo studio nascosto di Loki, l’uomo che amava nonostante la tenebra che avvolgeva il suo passato oscuro, quello che conteneva i libri proibiti di cui tutta Londra vociferava. Dov’era, lui? Le aveva parlato di un appuntamento necessario e improrogabile, e lei non aveva fatto domande per non dover ascoltare qualche menzogna. Si allontanò misurando i passi e tormentando il ciondolo d’agata; si sentiva viva come non era mai stata, protagonista del suo destino, eppure sul suo cuore gravava il peso di una consapevolezza senza nome: aveva la sensazione di stare assistendo a qualcosa di già visto o scritto, d’ineluttabile, capace di stringerla con lacci di seta stretti e impossibili da sciogliere[1]. Le avevano presentato lord Odinson una sera piovosa e tetra: era uscita con sua cugina e la zia Freya per partecipare a una seduta spiritica indetta da una famosa medium, ma la donna, un’anziana dalle labbra tremanti e le pupille acquose, pochi minuti dopo averle incontrate aveva manifestato un improvviso e destabilizzante malessere, tanto invalidante da spingerla ad annullare l’incontro che, per una serie di coincidenze, non si era ripetuto mai più. Un’ora dopo, gli occhi chiari e indagatori di lord Loki Odinson l’avevano spogliata di ogni sua difesa, scrutandola come se dovesse valutarla. Ricordò che, in quell’occasione, l’alchimista aveva parlato con perfida ironia dell’arte di interrogare gli spiriti[2]. Si era divertito definendola una pratica incerta e troppo facilmente manipolabile, usata da ciarlatane di dubbia fama. Lei, punta sul vivo, si era difesa accusandolo di aver intrapreso una serie di lunghi viaggi in giro per il mondo allo stesso scopo: la conoscenza dell’insondabile. A quell’affermazione, gli occhi verdi di Loki scintillarono di soddisfazione. Era irriverente. Affascinante. Astuto. Capace di farla avvampare con una battuta salace, ma sempre nei limiti della cortesia necessaria tra un uomo e una giovane donna. Confini che lui si era divertito a lambire molte volte, ma non all’inizio. Nel primissimo periodo della loro conoscenza, Sigyn si era convinta che Loki la giudicasse costantemente, soppesando il suo modo di rispondere, vestire, parlare. La teneva d’occhio e rispondeva in maniera faceta alle sue battute, ma con la stessa grazia sfacciata che tributava agli altri ospiti. Erano attenzioni fredde, le sue, figlie di calcoli impossibili da immaginare che la spingevano inesorabilmente verso di lui, in un insieme di attrazione e repulsione che aveva la sua origine in un punto così nascosto di lei da vivere solo nell’ombra dei sogni. Quando erano cambiate le cose? Quale era stato il momento in cui Loki Odinson si era trasformato da spettatore a cacciatore? La prima volta che avevano ballato insieme, le sue dita le avevano sfiorato la schiena facendola tendere e sussultare proprio come l’ultima?

All’inizio, fascino e timore si erano mescolati, rivelandole, solo mentre dormiva, che quel perenne sospetto in grado di morderla quando lui la fissava per un secondo di troppo l’infiammava di sdegno e non solo. Poi, una sera, Loki aveva stretto tra le dita un bicchiere colmo di whisky e si era messo a parlare dei suoi viaggi col tono che avrebbe usato per raccontare una fiaba. Non erano soli, nella sala, ma era come se lo fossero e il mondo attorno a loro non esistesse più.

 

Un rumore la distrasse dal flusso dei suoi pensieri. Lo sentì rientrare e ragionò sul fatto che non aveva completato la lettera da spedire a suo padre. Mentre gli andava incontro, comprese che non c’erano parole giuste per spiegare una fuga d’amore. La sua famiglia avrebbe dovuto convincersi che il patrimonio ereditato dal duca d’Asgardshire era abbastanza ingente da garantirle per sempre una vita agiata, prendendo atto che lei e Loki vivevano sotto lo stesso tetto come un uomo e una donna, come due amanti, come marito e moglie, anche se nessun contratto o cerimonia li aveva resi tali, se non i baci ansiosi e le carezze sfacciate e intense che si erano scambiati mentre la notte lasciava il posto all’alba. Ma Loki non le aveva promesso nulla se non di salvarla dalle mire di un altro. Un uomo che, per Sigyn, era un’ombra venuta direttamente dal passato della sua famiglia, ma da cui si sentiva estranea. L’aveva mai incontrato? Come poteva aver organizzato il suo assassinio e da quando lord Odinson sapeva? Il piano per salvarla era nato nel momento stesso in cui gli era stato proposto di avvelenarla, come diretta conseguenza di un sentimento che l’affascinante alchimista già provava per lei?

Non aveva risposte, ma solo domande. E Loki era davanti a lei, col suo ghigno perenne.

 

Non c’era traccia di Loki e Sigyn nella grande tenuta di famiglia fuori Londra. Erano svaniti nel nulla, inghiottiti nella nebbia, scomparsi in mezzo alle vie trafficate e un po’ grigie della città o nella brughiera aspra e ventosa, dominata da un cielo metallico e dall’erica ostinata. Il duca di Asgardshire, però, non ne era affatto sorpreso. Aveva accompagnato il padre e il fratello di Sigyn fino alla tenuta ben sapendo che mai, per nessuna ragione, Loki si sarebbe rifugiato nella dimora preferita del loro defunto padre. Anzi, osservando le torri austere della grande casa pensò che, con tutta probabilità, quella caccia intrapresa nella direzione sbagliata non aveva fatto altro che favorire i piani di suo fratello. Forse Loki era ancora a Londra o lui e Sigyn si erano imbarcati su un piroscafo alla volta di Calais. Quando il pomeriggio aveva lasciato il posto alla sera, si era offerto di ospitare lord Vanir e suo figlio nella tenuta per la notte, ma quelli avevano rifiutato; così, i tre si erano rimessi in viaggio verso Londra, fermandosi unicamente all’ufficio postale per telegrafare i loro spostamenti. Era stato lì che Thor aveva mandato un messaggio nella propria casa londinese indirizzato, però, a suo fratello. C’era una remota possibilità che Loki bussasse alla sua porta o che qualche servitore, fedele a entrambi, gli recapitasse in un modo o nell’altro il messaggio. Aveva scritto poche parole, secche e perentorie; sperava suscitassero nel destinatario una sola reazione: quella giusta per lui, per Sigyn, per il vecchio tormentato dagli occhi lacrimosi che gli sedeva di fronte.

Lord Vanir raccontò a Thor Odinson una storia, quella sera. Lo fece nonostante le rimostranze di Theo, stringendo il suo bastone da passaggio con tanta violenza da farsi sbiancare le nocche ossute. Disse che le donne della sua famiglia erano maledette, perseguitate, e che c’era una ragione se si era sempre opposto all’idea che Loki Odinson frequentasse sua figlia, la sua delicata Sigyn che assomigliava tanto alla defunta madre tragicamente scomparsa.

“Quale? Se mio fratello ha rischiato tanto per lei, se si è esposto, è per fare la sua mossa e impedirvi di ostacolarlo,” precisò Thor. Era una questione d’onore. Sigyn era bella e possedeva un’intelligenza vivace, ma suo fratello senz’altro la meritava, era degno di lei. Nelle sue vene scorreva il sangue feroce dei valorosi cavalieri normanni che avevano accompagnato Guglielmo nella conquista della Gran Bretagna e quello, persino più feroce, dei conti magiari che galoppavano nelle steppe dell’Europa più selvaggia. C’era, in lui, qualcosa di oscuro e imprevedibile, un caos senza nome che i mari del sud avevano sicuramente esasperato, ma la spregiudicatezza che gli scintillava negli occhi discendeva direttamente dai fieri guerrieri che, dal continente, avevano raggiunto le coste inglesi. La domanda era: l’aveva spinta a fuggire con lui? Ripensò al modo in cui si guardavano, fatto di occhiate lunghe e avide, alla tensione che sembrava scuoterli non appena le distanze si accorciavano, ai sorrisi trattenuti, al desiderio nascosto dietro un mezzo inchino e uno sventagliare rapido. Si cercavano e si volevano – erano senz’altro insieme. Dovevano esserlo.

“L’oscurità,” disse lentamente il vecchio, levando la voce oltre il rumore della carrozza e riportando Thor al presente. “La passione per l’occulto. Certe frequentazioni intollerabili,” sibilò infine, distogliendo lo sguardo dal duca e volgendolo altrove, verso il buio che si scorgeva oltre il finestrino. Sarebbero arrivati a notte fonda. Asgardshire aggrottò la fronte altrimenti serena. Gli era parso di scorgere un lampo di vergogna nello sguardo del padre di Sigyn. Gli nascondeva qualcosa. Si chiese se Loki ne fosse a conoscenza e fino a che punto si spingesse la verità su quelle voci già sentite – con quale feccia si intratteneva suo fratello? Certe maldicenze si intrecciavano alla verità e traevano la loro linfa vitale proprio da quest’ultima, distorta eppure, in qualche maniera, presente. E Thor sapeva, non poteva negare, di conoscere, almeno in parte, lo scopo delle ricerche di Loki, perché erano le stesse che aveva condiviso con Odino Odinson in persona prima che quest’ultimo, avvicinandosi alla morte, le rinnegasse quasi del tutto.

“Mio fratello è uno scienziato, uno studioso. Come nostro padre,” ribadì con decisione.

Vanir sospirò. “Un alchimista, un mago. Come vostro padre.”

 

 

“Come mai hai acquistato proprio questa casa?” domandò Sigyn giocando con quanto rimasto nel piatto. Loki stirò le labbra in un sorriso breve e laterale. Non era la prima domanda che gli rivolgeva quella sera. Per tutta la durata della cena, l’aveva bersagliato con una raffica di quesiti volti a soddisfare una curiosità necessaria, questo Odinson lo capiva, ma terribilmente pericolosa. Eppure, se Sigyn non si fosse dimostrata arguta, se nei suoi occhi grigi grandi e rotondi la dolcezza non si fosse accostata a una scintilla di consapevolezza, Loki non avrebbe rischiato ogni cosa per lei.

Bevve un sorso di vino e si leccò le labbra. “Mi serviva un posto dove nessuno mi avrebbe disturbato.”

“Ma tu non vivi qui.”

“Non ufficialmente,” ammise. “I miei conoscenti mi cercano altrove. Andremo via presto.”

Sigyn schiuse le labbra, fissandolo in attesa. Andremo. Era fuggita con Loki Odinson perché lui l’aveva stretta a sé sussurrandole di fidarsi, se non voleva morire, e lei, che non aspettava altro che un gesto da parte sua, lo aveva seguito anche se non le aveva promesso niente. Nel giro di una notte, la ragazza aristocratica che si divertiva a intrecciare conversazioni giocose e vivaci si era trasformata in una donna, e non solo perché quella mattina si era risvegliata tra le braccia dell’uomo che le sedeva di fronte, ma perché sentiva di essere fuori dall’ala protettiva della propria famiglia e di pagare il prezzo di un desiderio che l’aveva consumata per settimane e mesi, spingendola, a volte, a osare fino ai limiti della decenza pur di vederlo, incontrarlo, scambiare una battuta o uno sguardo. Eppure lo aveva temuto, all’inizio. La prima volta che si erano incontrati era stata scossa da un tremore figlio di un presentimento antico, più vecchio di lei, di Londra, del tempo stesso, che solo dopo si era trasformato nel languore capace di stringerle il petto e mozzarle il respiro. Significava qualcosa?

“Che progetti abbiamo?” gli chiese.

Gli occhi verdi dell’alchimista la trapassarono una volta di più, facendole battere più forte il cuore nel petto, come quando, la sera prima, lo aveva visto comparire nel salotto pieno di gente della sua casa e lei indossava lo stupendo abito di raso verde che era sparito.

“Uno in grado di mettere al sicuro entrambi,” le ripose con voce roca.

Per Sigyn quella frase era una promessa pericolosa: forse voleva sposarla, legandola a sé con un matrimonio segreto che avrebbe trasformato la loro fuga folle e sconsiderata in un gesto che sarebbe stato raccontato con qualche risata allusiva in un salotto. S’immaginò per sempre sua, la notte trascorsa insieme moltiplicata per cento e per mille, stretta tra le sue braccia forti, accarezzata dalle mani che l’avevano fatta sussultare, risvegliando una parte di lei che la ragazza aveva solo intuito esistere nell’ombra. Ma appartenere a Loki Odinson voleva dire anche convivere con la sua oscurità, con i segreti nascosti dietro il suo sorriso affascinate e beffardo, che gli scopriva i denti bianchi e ben fatti.

“C’è una stanza chiusa a chiave,” iniziò, cambiando argomento.

L’alchimista non si scompose. “Ah sì?”

“Quella al piano superiore, in fondo al corridoio,” proseguì Sigyn. Le vennero in mente certe fiabe antiche che le raccontava sua madre, dove principesse fuggiasche finivano in castelli incantati. Erano destinate sempre a violare l’ala o la stanza proibita, e poi.

Loki scosse la testa e rise. “Lì non c’è niente di interessante.”

“Credevo fosse uno studio privato o qualcosa del genere.”

“No. Quello è accanto alla biblioteca.” Si riferiva alla stanza curiosa ed elegante dove Sigyn aveva visto l’antico manoscritto che riportava la leggenda della strega.

“Allora mostramela.”

“Non stasera. Ci sono solo vecchi libri, qualche mobile da buttare.”

Lei sorrise, ma sapeva che nessuno chiude a chiave una stanza dove non viene tenuto nulla d’importante, e il suo pericoloso e astuto amante non era da meno. Di nuovo, le aveva mentito con una naturalezza spiazzante che dava ragione alle molte dicerie sul suo conto. È un pirata, un mago, un pazzo. Se non fosse per il sangue che gli scorre nelle vene, penzolerebbe già da una forca. Era un brillante e promettente studente, no, l’assistente di un professore, ma qualcosa, in lui, a un certo punto si è spezzato. Colpa di suo padre, dicono. Theo le aveva ripetuto quelle frasi decine di volte, eppure lei non ci aveva mai creduto, perché Loki Odinson era ferocemente lucido quando parlava delle persone che aveva incontrato, dei viaggi intrapresi nelle zone più remote e lontane del mondo. Sigyn aveva letto anche alcuni suoi articoli scientifici e li aveva trovati brillanti, figli di una mente acutissima e moderna, desiderosa di svelare i misteri del mondo. Quale che fosse il fuoco destinato a corroderlo, non era la follia a spingerlo ad agire. Forse Loki era in cerca della gloria personale o della conoscenza fine a se stessa; in questa prospettiva, anche le ricerche più ambiziose e spregiudicate assumevano un taglio nuovo.

Sigyn sorrise e decise che avrebbe trovato la chiave ed esplorato la stanza perché doveva sapere. Più tardi lasciò che l’alchimista la spogliasse con infinita lentezza, s’imprimesse nella mente ognuna delle sue curve, esplorasse con le labbra il collo che lei gli offriva come un dono, scendendo giù, fino alle punte dei seni tremanti, al ventre piatto che si tendeva al suo tocco, al bacino proteso. Non avrebbe dovuto abbandonarsi così a lui, non finché non le avesse mostrato la stanza chiusa a chiave, non fintantoché tra loro c’erano segreti, ma le carezze della notte prima erano diventate necessarie a entrambi. Non era come lo raccontavano sottovoce amiche più esperte o cameriere ridanciane; lord Odinson, a letto, la trascinava in un gioco fin troppo serio in cui dettava regole che poi le insegnava a infrangere. Sapeva farla fremere mentre le slacciava il corsetto e conosceva il modo per convincerla a sfilarsi piano le calze. Era una danza fatta di sguardi e di baci, in cui Sigyn soffriva di gelosia, perché l’inesperienza di lei era pari solo alla sfacciata abilità di lui nel trascinarla in un caos in cui smetteva di essere la figlia perbene di un gentiluomo per trasformarsi nell’amante ansiosa di un alchimista che le toglieva i vestiti citando con malizia evidente Ovidio e Catullo.

E Sigyn lo voleva. Desiderava sentire di nuovo sulla sua pelle l’odore di quella di lui e lasciar scivolare le dita sui muscoli tesi e scattanti; le si stringeva lo stomaco all’idea delle mani di Loki che percorrevano le linee del suo corpo facendolo vibrare in maniera sconveniente, in una maniera che si addiceva più all’ultima delle sgualdrine che popolavano i romanzi stampati sulla carta di poco prezzo che a una ragazza aristocratica come lei[3]. Era condannata, era pazza – lei, non Loki, ma ormai era sua, voleva essere sua; si erano lasciati incatenare a un desiderio cui non sapevano né volevano resistere, e Sigyn credeva di ravvisare, nell’impazienza con cui Loki la cercava dopo averla spogliata, la stessa sensazione di disperato bisogno.

 Ricordò che le aveva mentito, mentre le loro mani si stringevano e i loro corpi si cercavano, ansiosi di allacciarsi in una danza che avrebbe annullato il tempo e lo spazio. Glielo disse tra un respiro rotto e l’altro, graffiandogli la schiena e perdendosi in lui, in loro, nei sospiri spezzati, nei baci ansiosi.

“Se l’ho fatto,” le soffiò Loki sulla bocca prima di baciarla un’altra volta ancora[4], “se ti ho mentito è per evitarti l’orrore. Non fare domande, non aprire porte che trovi chiuse.”

Ancora avvinghiati dopo l’amore, col cuore di lui che batteva contro il suo petto, Sigyn nascose il viso nell’incavo del suo collo inebriandosi col profumo della sua pelle, trovando conforto tra le braccia virili. Qualunque cosa ci fosse tra di loro, nessuno dei due sapeva né voleva arginarla. E nella tasca sinistra della sua giacca, Loki teneva un mazzo di chiavi.

 

 

 

Laufey aveva fatto uccidere i propri uomini. I loro corpi erano stati trovati nel Tamigi. Loki Odinson lesse la notizia senza alcuna particolare emozione: era responsabile della loro fine orrenda, ma non provava alcun senso di colpa. Lui aveva suggerito al vecchio e disgustoso mentore che, probabilmente, quei due avanzi di galera erano colpevoli della sparizione di Sigyn e quello, il giorno dopo, li aveva fatti ammazzare dopo un interrogatorio che l’alchimista non dubitava fosse stato orrendo. Erano morti per un crimine che non avevano commesso, ma non erano innocenti e nel figlio del defunto duca Odino d’Asgardshire non c’era spazio per sentimentalismi o rimorsi di coscienza. Lui e Laufey combattevano una guerra di più ampio respiro: come in tutti i conflitti, c’era un prezzo da pagare anche in vite umane. Sigyn era al sicuro nella sua casa e, presto, sarebbe potuta uscire persino dalla sua necessaria reclusione: questo contava. Lei, che in quel momento dormiva dopo averlo accolto nel suo letto, era più importante di due farabutti qualsiasi indegni di qualsiasi sentimento di pietà – era sua, come era stata quella sera e le notti prima ancora. Si riempì un bicchiere di whisky adagiandosi contro la poltrona imbottita su cui era rimasto inchiodato nelle lunghe notti passate a studiare fino a consumarsi gli occhi. Bevve e si leccò le labbra pensando, però, che al liquore mancava qualcosa d’indefinibile. Lentamente, aprì un cassetto laterale della scrivania e ne trasse una piccola scatola nera. C’era un anello, al suo interno. Un gioiello antico, appartenuto alla nervosa e altera contessa ungherese che suo padre aveva sposato e da cui lui aveva ereditato il sangue selvaggio. Lo prese in mano, valutando la bellezza della montatura, lo splendore della pietra. La notte, quando lui e Thor erano bambini, lei si sedeva tra i loro letti raccontando le storie degli dèi del Nord, condannati da una profezia oscura a morire dopo un inverno fatto di sette lunghi inverni che si erano avvicendati l’uno all’altro, facendo sprofondare il mondo nel caos e nel terrore. Con un sussurro di voce e il suo accento per sempre straniero, passava poi alla storia della strega danese che aveva portato alla dannazione un conte normanno vissuto prima ancora che gli Odinson ottenessero l’Asgardshire. Sorrise, immaginandosi la bionda incantatrice sedurre il guerriero e pensando che, forse, l’agata indossata da Sigyn fosse proprio un regalo dell’uomo alla veggente. Ma queste erano fiabe, racconti sfilacciati che non si accostavano l’uno all’altro, parentesi in cui era possibile evadere mentre l’orologio segnava, implacabile, la fine di un altro giorno in cui il suo piano aveva retto.

Ma l’indomani sarebbe stato altrettanto fortunato? Laufey presto avrebbe capito l’inganno, Thor lo cercava, lord Vanir pure, e la bella Sigyn era a casa sua da tre giorni e lo fissava con quei suoi incantevoli occhi grigi, chiedendogli silenziosamente il conto delle sue azioni passate, presenti e future.   

Ammirò ancora l’anello e buttò il capo all’indietro. Avrebbe dovuto sposarla quella notte stessa. Pagare un prete compiacente, rimediare un paio di testimoni, pronunciare i voti.

Rise di se stesso e della follia che stava accarezzando, ma che forse non era poi così assurda. Forse doveva davvero ingannare le intenzioni, correggere definitivamente il passato e rendere onesta e pura quella passione divorante, magnifica e crudelissima che lo legava a doppio filo con Sigyn. Nome ripetuto di notte, maledetto come malediceva se stesso ogni volta che l’amava, la cercava, la corrompeva facendole scoprire cos’era il desiderio, per poi lasciarsi corrodere irrimediabilmente da lei. La sera prima aveva ricevuto un biglietto allarmato da parte di suo fratello – se è con te, sii un gentiluomo e chiedi la sua mano. Lady Odinson le donerebbe, come nome[5]. Aveva bruciato la lettera ed era entrato nella stanza di lei. Senza dirle una parola, si era inginocchiato affondando la testa tra le sue gambe finché Sigyn non aveva gridato, incapace di trattenersi oltre, disposta a essere sua, di nuovo.

Aveva bisogno di quella ragazza; bruciava per lei, che gli infiammava l’anima con i suoi occhi grigi e rotondi, ammiccanti, dolci, liquidi. L’aveva resa la sua amante trascinandola con sé dentro l’ampia vasca, per strapparle il virginale pudore che la faceva sentire a disagio quand’era senza vestiti addosso, rivelandole il piacere di sfiorarsi e toccarsi finché il tempo non si dilatava o annullava.

Sposarla, sebbene di nascosto, significava aderire a una convenzione necessaria. Era il giusto passo riparatore che lo avrebbe messo al riparo da qualsiasi futura accusa; persino l’omicidio di Laufey gli sarebbe stato perdonato: avrebbe raccontato la storia del marito innamorato che protegge la sua incantevole e sensuale sposina dalle grinfie di un mostro che la voleva usare per degli oscuri esperimenti. Chi lo avrebbe mai condannato, con queste premesse? Lo avrebbero chiamato eroe, perché quale uomo non avrebbe fatto altrettanto, per difendere chi amava? Sì, sposandola sarebbe riuscito a ottenere ogni cosa – Sigyn e gli appunti di quel pazzo di Laufey. Riflettendo su come un’idea assurda si era trasformata in un colpo di genio, fu preso da una fitta d’indescrivibile esaltazione. Era come se ogni tassello della sua esistenza fosse appena andato nel posto giusto, nell’incastro che qualche entità al di fuori del tempo e dello spazio aveva previsto in un altro luogo, in un mondo diverso. Sul momento, però, l’astuto lord Odinson non poté cogliere la portata di quella riflessione tanto netta. Lo avrebbe fatto, poi.

 

Nonostante l’ora tarda, decise di organizzare immediatamente il suo piano. Mise l’anello nella tasca destra e uscì senza contare quante chiavi erano appese al mazzo che gli tintinnava nell’altra. Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva dietro di lui svegliò Sigyn. La ragazza si tirò su a sedere, rabbrividendo per il freddo. Aveva preso la chiave dell’ipotetico studio – non era stato difficile: era l’unica identica a quelle delle altre stanze, ma ora che poteva finalmente soddisfare la sua curiosità, fu morsa dal dubbio. Era giusto entrare in una stanza che Loki l’aveva invitata a dimenticare? Si era addormentata tra le sue braccia: sulle labbra sentiva ancora il sapore dei suoi baci, il suo corpo infreddolito ricordava le loro carezze urgenti, l’intrusione che l’aveva fatta gridare fino a perdere il controllo. Varcando la soglia del presunto studio, Sigyn avrebbe tradito la fiducia dell’uomo che amava e l’aveva salvata, dell’alchimista oscuro con cui era fuggita, ma che continuava a nasconderle parte della verità. Pensò che voleva sapere ogni cosa di lui. Era pronta ad affacciarsi nell’abisso, perché si era messa nelle sue mani abbandonandosi a lui e meritava di sapere. Per essergli davvero fedele, come la moglie che era solo di notte, aveva bisogno di conoscere la verità. Le parve di udire un rumore provenire dalla camera in fondo al corridoio. Si mise una vestaglia di Loki sulle spalle e, girando la chiave nella toppa, disse ad alta voce che non avrebbe trovato nulla. Sobbalzò quando la luce del lume illuminò il vestito: l’aveva scambiato per una presenza oscura, un fantasma, eppure, dopo l’iniziale spavento, dovette ammettere che una parte di lei aveva sempre saputo che l’abito era lì. Non era uno studio, su questo Odinson era stato sincero: si trattava di un laboratorio. Muovendosi come in un sogno, illuminò la moltitudine di appunti, i libri proibiti, la corrispondenza. Fu quest’ultima a spingerla ad afferrare la pistola posata sulla scrivania – e scoprì che era pesante, molto più di quanto non immaginasse. Così la trovò Loki: una figura pallida con i capelli color dell’oro sciolti sulle spalle e gli occhi che scintillavano di terrore. Si appoggiò allo stipite stirando le labbra in un sorriso beffardo. Era bella, incantevole, e, come sempre, maledettamente capace di distruggere ogni suo piano.

Sigyn, tremante, gli puntò l’arma contro. “Tu chi sei?” gli gridò. Sulle labbra salate aveva ancora il sapore dei baci dolci, urgenti, disperati, che si erano scambiati solo poche ore prima.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

 

Vi ho fatto penare un po’ con questo aggiornamento, ma sono state giornate faticose e impegnative e scrivo ritagliandomi il tempo, quindi mi scuso in anticipo per eventuali refusi – ho veramente poco tempo per scrivere e ancora meno per revisionare. È possibile che gli aggiornamenti passeranno da settimanali a ogni dieci giorni, ma non temete, non sparisco ♥, anzi, ho in mente nuove cose e porterò a conclusione le vecchie.

 

Un paio di cose sul capitolo: l’Ottocento e l’epoca vittoriana sono dei periodi molto particolari che però conosco piuttosto bene. Anche se le gambe dei tavoli venivano coperte per decenza le pulsioni delle donne esistevano. Il fatto che qualcosa non sia socialmente accettato non significa che non esisteva, tanto che la storia della fuga e della passione tra Loki e Sigyn in questa storia è vagamente ispirata a una più o meno coeva, quella tra Mary Godwin Shelley e Percy B. Shelley (quella Shelley). Per esempio, è considerato non accettabile e non da bravi studenti marinare la scuola, eppure la sottoscritta l’ha fatto più volte (però poi studiavo e mi impegnavo per prendere voti decenti). Idem qui. Sigyn è una brava ragazza, ma anche le brave ragazze fanno cose che non dovrebbero. Sulla lunghezza della storia… vi confesso che questo doveva essere il penultimo capitolo, ma non sono sicura che riuscirò a chiuderla così in fretta.

 

Voglio ringraziare coloro che recensiscono/ leggono/seguono/ricordano e preferiscono – ogni volta che listate o vi palesate m’illumino d’immenso, per voi sembrerà una cretinata ma io che ne so che non la aprite perché vi fa schifo? C’è gente che guarda le carogne agli angoli delle strade, mica sempre uno legge cose belle. A questa storia poi ci tengo per un sacco di motivi.

Prossima settimana vorrei aggiornare di nuovo questa storia, ma mi conoscete. Dipende molto dall’ispirazione del momento.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss



[1] Ricorda il titolo della mia raccolta “Lacci stretti tra Fedeltà e Inganno.”

[2] Le sedute spiritiche erano un vezzo della nobiltà e della borghesia vittoriane.

[3] Anche in passato non tutto quello che veniva stampato era di pregio o da considerarsi alta letteratura. Esistevano collane, romanzi a puntate sui giornali, ecc.

[4] Ebbene sì, è il titolo di una mia shot, leggetela ^^.

[5] È il messaggio che Thor fa avere di ritorno dalla tenuta.

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Capitolo 6
*** L'innocenza perduta ***


Capitolo 6

L’innocenza perduta

 

E come li stornei ne portan l’ali

nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;

nulla speranza li conforta mai,

non che di posa, ma di minor pena. […]

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto V)

 

 

Lady Sigyn Odinson. Il nome le sarebbe calzato a pennello. L’immaginò padrona e signora di uno dei possedimenti più antichi della sua famiglia, quello che s’affacciava sul Mare del Nord e guardava verso la penisola scaldica. Nelle notti gelide, rese più lugubri dal vento che veniva dalla costa, si sarebbero cercati assecondando quel bisogno d’aversi che li aveva quasi condannati, così urgente da intrappolarli in un incantesimo squisito capace di spezzare loro le vene, mozzare il respiro. Avrebbero vissuto lontani da Londra e dai suoi salotti ipocriti ed eleganti finché il suo bisogno di viaggiare non fosse stato saziato, spingendolo a tornare nella capitale. Forse, si sarebbe deciso a portarla con sé in giro per l’Europa, magnifica e solenne. Sposarla sarebbe stato come pugnalare Laufey dietro la schiena – cosa che, a ogni buon conto, si era ripromesso di fare, pregustando dentro di sé il momento in cui la lama di un pugnale avrebbe penetrato la carne dell’altro.

Se solo Sigyn non fosse entrata. Se non gli avesse rubato la chiave, varcando la soglia di una stanza che raccontava troppo e, tuttavia, non le avrebbe detto abbastanza. Non la biasimava per l’eccessiva curiosità dimostrata, in verità. Al suo posto avrebbe fatto di peggio, perché l’anima nera di Loki era guardinga e diffidente. Ora però, anche quella di Sigyn si era macchiata, perché la conoscenza lascia sempre qualcosa a chi la tocca. Lei, per esempio, aveva perso del tutto l’innocenza: il mondo non avrebbe più avuto niente di benigno, perché le carte che aveva appena letto possedevano il potere di sollevare il velo della speranza lasciando solamente l’ombra. E, con lei, la consapevolezza che la morte non sempre equivale alla liberazione da ogni male. Tutt’altro.

“Tu chi sei?” inquisì. La sua voce era appena incrinata.

“Loki Odinson. Uno scienziato, un alchimista, un chimico. O tutte queste cose insieme. C’è chi mi chiama mago, ma forse legge troppi libri,” sorrise scaltro, senza allontanarsi dallo stipite né mostrare preoccupazione per la canna della pistola puntata contro il suo petto.

“E cosa più di questo?” Sigyn prese delle lettere e le gettò a terra. “Era un inganno,” soffiò. “Mi hai mentito.”

Loki riconobbe immediatamente le missive sul pavimento e, di nuovo, non rimproverò affatto la ragazza. Pensò che l’anello nella sua tasca fosse diventato quasi inutile perché lei non avrebbe mai accettato di sposarlo, non più. Sarebbe stato meglio vivere nel disonore che unirsi a lui. E se anche, spinta dalle circostanze, avesse acconsentito, sarebbe stata per sempre sua premura ricordargli ogni giorno l’orribile trappola che le aveva teso. Avrebbe dovuto distruggere la corrispondenza compromettente che, in qualche modo, lo incastrava. In un certo senso, lo aveva fatto: si era assicurato di rintracciare, far rubare e bruciare quelle che aveva inviato a Laufey, ma non aveva agito nello stesso modo con le lettere che il mentore gli aveva spedito. Voleva una prova tangibile del suo piano maligno, della follia che gli avvelenava da troppi anni la mente corrotta. Ma il vecchio scienziato non era l’unico ad avere un’anima nera, tutt’altro.

“Perché l’abito è qui?” La voce di Sigyn tremava, come il suo braccio.

“Il verde è un colore incantevole che le ragazze, però, dovrebbero evitare di indossare. Questo è fatto col raso più bello, tinto con il verde più acceso. Ma il verde, mia dolce Sigyn, si ottiene con l’arsenico, un veleno.”

“La stoffa veniva dalla fabbrica degli Odinson. Era un tuo dono,” boccheggiò lei.

“Ed era un sudario. Dillo, l’hai capito. La formula per ottenere un colore così vivo l’ho studiata io, per mesi,” confermò scandendo con sicurezza ogni sillaba[1]. “Hai letto la verità, in quelle lettere. Ho lasciato che lo indossassi perché, ma questo tu lo sai già da giorni, prima di salvarti io ti ho avvelenata. L’arsenico, mescolato a piante che solo le peggiori fattucchiere creole usano, dà vita a un filtro. Al filtro che gli serviva[2].” Allargò le braccia e mosse un passo verso di lei e l’arma, rendendosi un bersaglio, consapevole che la ragazza non avrebbe sparato. “Ho dovuto farlo. E ora sai anche come, Sigyn. E tu hai dormito con me, sapendolo.”

Sigyn fu scossa da un brivido al ricordo dei tre giorni di passione squisita vissuta con lui sotto quello stesso tetto, porgendogli molte domande giuste, ma accontentandosi di una verità parziale, marcia.

“Hai dovuto farlo? Eravate d’accordo. Lui ti ha chiesto…” la ragazza scosse la testa, sconvolta dall’orrore, disgustata per la doppiezza di un gioco in cui lei era la preda da catturare. L’affascinante alchimista di cui era diventata incautamente l’amante le aveva detto di essere stato costretto a partecipare al piano di Laufey, l’antico spasimante di sua madre, ma dalle lettere che lei aveva letto era uscita fuori una verità più subdola. Loki l’aveva avvicinata per conto dell’altro.

Si era illusa che quegli sguardi attenti e feroci con cui l’osservava sempre nascessero dallo stesso turbamento che la sconvolgeva, ma non era così, affatto. Non all’inizio, almeno. Odinson la teneva d’occhio, divertito dalla struggente e ignominiosa passione che Laufey provava per il ricordo di sua madre, consapevole fin dal principio della trappola in cui sarebbe caduta, stuzzicato – era evidente dal tono spesso sarcastico che Laufey gli rimproverava – dall’intrigo di cui era attore e spettatore a un tempo. Si era innamorata del suo cacciatore – e avrebbe pagato per tutta la vita per quest’errore, ora lo sapeva.

E poi c’era l’esperimento.

 

Un abominio, un atto indegno volto a violare la pace dei defunti e a porre fine alla sua esistenza; almeno su questo, lord Odinson era stato sincero, ammise. Sarebbe morta. Era l’ultima delle mogli che Laufey avrebbe rinchiuso nella sua cantina sperando che il suo terrificante filtro facesse effetto, la sola capace di restituirgli il fantasma di un amore antico, che non era mai stato tale per davvero.

 Strinse la pistola tra le dita e sentì il suo destino dipanarsi assieme agli avvertimenti di suo padre, come se si trovasse in un sogno. Avrebbe dovuto ascoltarlo, ma non era riuscita a farlo.

Loki si mosse verso di lei, avvicinandosi con studiata cautela. Non la temeva, ma nemmeno la sottovalutava. Ed era serio. Sul suo viso affilato non c’era più traccia della sardonica irrequietezza di sempre. “Mi ha chiesto di frequentarti, di scoprire cosa ti piacesse e cosa no. Non di portarti qui.”

Era una puntualizzazione che nascondeva un messaggio che rimase sospeso, perché la lingua svelta dell’alchimista si era attorcigliata di fronte all’impossibilità di dirle, di spiegarle cos’erano il desiderio e la follia e la passione. Non avrebbe ammesso mai che stringerla tra le braccia era una sofferenza e una vittoria, perché nelle sue vene scorreva sangue magiaro e normanno e il suo spirito fiero assomigliava a quello dei personaggi che popolavano le fiabe e i poemi: non si sarebbe piegato di fronte a nulla, nemmeno allo sguardo grigio e traboccante di domande e terrore di Sigyn. Anche a costo di perderla.

“Queste lettere sono la prova della tua infedeltà,” sibilò lei. “Della tua… Loki, tu volevi sapere come sarebbe andato l’esperimento! Ti interessava il suo risultato! Se non fossi io…”

“Ma sei tu. Riguarda te e ti ho salvata,” ribadì lord Odinson con forza. “Era una trappola e ho deciso di liberarti – mi ha chiesto di ucciderti, ho preferito salvarti.”

 Nella penombra, il suo viso le parve ancora più affilato, gli occhi penetranti e aguzzi più chiari, a metà strada tra il verde e l’azzurro, di una trasparenza inquietante e bellissima. Poteva convivere con l’orrore di quella scoperta?

“Dice di essere il tuo mentore. Voi due vi assomigliate.”

Loki pensò al rum e ai colori troppi vividi e intensi delle Indie Occidentali, della Louisiana, dell’Africa, ma anche al mare freddo che lambiva i fiordi delle terre del Nord. “Nelle intenzioni. Nel desiderio di conoscere,” ammise, per poi scuotere la testa. “Non saresti dovuta entrare.”

“Non mi avresti mai detto la verità, se non lo avessi fatto.” La pistola pesava e Sigyn non sapeva davvero se desiderava sparargli. Le chiacchiere che circolavano nei salotti circa gli oscuri esperimenti condotti da lord Odinson non rendevano giustizia alla sua sete di sapere, al bisogno di svelare il segreto che circondava la morte e cosa fosse l’anima, quell’impalpabile essenza che rendeva l’uomo vivo, quel brillio che svanisce non appena la nera signora, con la sua falce, la porta via con sé. Gli studi di Laufey e di Loki volevano proprio svelare che fine facesse lo spirito quando lasciava il corpo, dove andasse, se tenesse memoria della vita appena trascorsa o delle precedenti. Soprattutto, con opportune tecniche, sarebbe riuscito a tornare, a varcare il muro che separa la vita dalla morte – e che tracce avrebbe lasciato, un simile viaggio?

“Cos’è la verità, Sigyn? Un punto di vista, un’opinione soggetta a diverse interpretazioni. La conoscenza a volte pesa – questa grava in maniera indicibile. Ingannandoti, stavo cercando di proteggerti,” sostenne l’alchimista accompagnando ogni concetto con uno studiato movimento delle sue belle mani, ma l’idea che ogni opinione avesse, in sé, il profumo suadente di una truffa non tranquillizzò affatto Sigyn, anzi. In lei si svegliò qualcosa e puntò con più fermezza l’arma in direzione del petto dell’uomo. Lo amava, ma convivere con l’orrore era un’altra cosa – lo desiderava, ma temeva di cadere ancora di più nell’abisso, se si fosse abbandonata una volta di più al suono dei suoi ragionamenti suadenti e crudeli. Ricordò la sensazione di essere cercata, amata e voluta da lui e pensò alla freddezza che trasudava da quelle missive sparse.

“Tu avresti voluto saperlo,” lo accusò di rimando. “Non ti saresti accontentato di una versione incompleta dei fatti.”

Loki le sorrise con orgoglio. “È vero.” Un’altra ammissione concessa con spietata fierezza, un altro passo verso di lei, per disarmarla. Osò sfiorarle una ciocca dorata che s’arrotolava in un boccolo scomposto fino a lambirle un seno, si azzardò a risalire con le dita verso il collo accarezzandole la nuca, avvicinandosi tanto da parlarle sulle labbra, assaggiarle la bocca, incurante dell’arma che lei continuava a tenere in mano, delle lettere, dell’ombra che il vestito avvelenato gettava sul pavimento della stanza. E Sigyn attese il bacio, rispose al suo tocco urgente, perché tremava di paura e risentimento e quella era l’ultima volta che poteva lasciarsi andare con lui. Lo sentiva nelle ossa, nel cuore, nelle vene. Il braccio dell’alchimista le avvolse la vita sottile in un gesto di brusco possesso e lei si tese – era una donna perduta che, per lui, avrebbe rifatto ogni cosa altre cento, altre mille volte. Eppure, mentre il bacio forse d’addio si trasformava in decine di altri baci dolorosi e magnifici e struggenti, negli istanti troppo brevi in cui le loro labbra si rincorrevano offese e ansiose di lambirsi e accarezzarsi, ebbe la sensazione di non poter sfuggire al proprio destino. Immaginò che fosse già stato scritto, filato in un immenso arazzo che conteneva il fato dell’umanità intera.

L’abito verde, testimone silenzioso delle loro carezze sbagliate e disperate, era ancora lì, a pochi passi, intriso di veleno – alle sarte che lo avevano confezionato era stato intimato di lavorare sempre con i guanti per non rovinare il prezioso colore e quelle, ben pagate e sorvegliate a vista, avevano obbedito: una sola doveva morire toccandolo – indossandolo – ed era Sigyn della casa di Vanir – solo che[3].

 

 

 

 

 

Il duca d’Asgardshire si fece annunciare che era quasi il tramonto. Portava con sé notizie di vitale importanza, che giustificavano l’ora inconsueta, il passo svelto e il bussare deciso alla porta dell’altro. Lord Vanir scelse di riceverlo nel suo studio e si stupì, una volta di più, della sua figura possente e gagliarda, che sembrava riempire la stanza. Era un uomo alto e bello, volitivo, che conquistava i suoi interlocutori grazie alla franchezza dei suoi discorsi e contava di farlo anche in quell’occasione. Si accomodò e trasse fuori dalla tasca un biglietto stropicciato, che lesse velocemente e poi poggiò sulla scrivania, in modo che Vanir potesse vederlo. Il più anziano intuì che Thor Odinson doveva aver vagliato con attenzione ognuna delle parole scritte nel messaggio. Si sporse verso il foglio fu colpito dalla grafia appuntita e decisa, ma prima che potesse inforcare gli occhiali e leggere a sua volta, il duca lo anticipò.

“Vostra figlia è con mio fratello. Sono fuggiti insieme. Lei sta bene.”

“Dove?”

“In una casa di cui non sapevo l’esistenza, che Loki ha affittato sotto falso nome,” sospirò Thor.

Vanir illividì. Si prese il viso tra le mani ed emise un sospiro disperato. Le dita gli tremavano e la schiena si curvò come se il peso di quella rivelazione che, dentro di sé, già conosceva, schiacciasse ognuna delle sue ossa. “Cos’ha fatto!” disse, e lo ripeté con voce strozzata, perché sapeva di averla perduta per sempre. Non sarebbe più stata la sua bambina dai capelli d’oro che veniva a curiosare nello studio fissando ogni cosa col suo nasino all’insù e quegli occhi grigi sempre attenti, ma capaci d’illuminarsi quando sorrideva. Non avrebbe più suonato il piano o il violino per lui[4], rendendo le sue serate più dolci. Era perduta, disonorata – anche se avesse bussato in quel momento alla sua porta, non avrebbe potuto più accoglierla, sapendo dov’era stata e con chi e perché[5]. Prima che quel pezzo di carta venisse poggiato sulla sua scrivania, Vanir poteva ancora crogiolarsi nell’illusione di un destino diverso, per Sigyn. Immaginarla da una parente o da un’amica, per quanto assurde potessero essere queste ipotesi, ma il biglietto cambiava ogni cosa. Lo sollevava da una paura tremenda che aveva confidato a Thor Odinson qualche sera prima, mentre la sua voce era accompagnata dal rumore delle ruote di una carrozza che li riportava a Londra, ma, allo stesso tempo, faceva nascere nel suo cuore un’apprensione ancora maggiore e la svilente sensazione che solo la conferma di un sospetto terribile può dare.

“Lord Vanir, l’altra sera mi avete raccontato una storia inquietante, mentre tornavamo dalla mia tenuta. Mio fratello nel messaggio l’accenna,” proseguì Thor, implacabile e schietto, come sempre.

L’uomo sollevò lo sguardo grigio e acquoso verso il duca e lui ne approfittò per continuare, sebbene non poté nascondere a se stesso di essere rimasto turbato dal lampo di terrore che aveva visto luccicare negli occhi dell’altro.

“Qualunque cosa sia successa o significhi, Loki la sposerà – vuole farlo – e Sigyn diventerà mia sorella. Presto, subito.” Thor fece una pausa, per assicurarsi che il suo interlocutore avesse compreso la portata del suo discorso e poi proseguì col medesimo tono incalzante e deciso. “Io vi offro la mia parola, amico mio, che salvaguarderò gli interessi di quella ragazza e dei suoi futuri figli da ogni voce malevola, da qualsiasi azione sconsiderata di mio fratello, passata o futura. Vi garantisco, signore, che non vi pentirete mai della nostra parentela.”

Se lord Vanir fosse stato un uomo più sensibile o intuitivo, forse si sarebbe chiesto cosa aveva significato, per il cadetto di famiglia, vivere nell’ombra di un fratello maggiore tanto sicuro di sé e del proprio trionfo, disposto a liquidare un potenziale scandalo con poche, semplici parole. Certo, aveva offerto supporto, amicizia, denaro e assicurato di tenere fuori Sigyn dai guai di Loki, ma lo aveva fatto con l’inconsapevole tracotanza di chi esce sempre vittorioso da ogni scontro. Il suo obiettivo era che i piani di Loki non venissero intralciati e ottenesse la giovanissima donna per cui si era compromesso. Negli occhi lucenti e azzurri del duca Odinson, però, lord Vanir non vide questo, così come non aveva mai scorto nessuno dei segnali d’insofferenza presenti, forse da sempre, in Sigyn. Tracce di cui, invece, l’astuto secondogenito degli Asgardshire si era reso conto fin dal primo istante in cui se l’era ritrovata davanti, bella e contrariata per via della seduta spiritica che non si era tenuta. No, l’alchimista non si era lasciato abbagliare dalla dolcezza della ragazza, né dai suoi modi eleganti e squisiti; si era messo a esaminare l’impazienza con cui muoveva il ventaglio, aveva seguito il suo sguardo grigio e curioso, ansioso di vivere.

“E cosa dirà la gente, cosa diremo ai nostri comuni amici?”

“Racconteremo la verità. Che la passione li ha travolti e non hanno voluto aspettare nemmeno un giorno prima di sposarsi. La gente spettegolerà sulle rendite di mio fratello e sulla parte di eredità che ancora deve reclamare. Tornerà da voi come lady Sigyn Odinson, rispettata signora di una tenuta che abbiamo al nord. Loki ama quel posto. La data del suo matrimonio perderà presto importanza, vedrete,” concluse il duca spiccio e, nella sua previsione finale, Vanir, stavolta sì, riconobbe una punta malamente mascherata di disgusto.

“Quando?” disse solo.

 

Le labbra di Sigyn erano dolci da baciare quanto i suoi occhi lucenti furiosi, ma in loro Loki riconobbe qualcosa di utile ai suoi scopi. La consapevolezza. Ciò che, fino ad allora, non era riuscita a dedurre o a immaginare, lei lo aveva letto nelle lettere sparpagliate a terra, ammonticchiate sul tavolo in noce. Continuava a tenerla tra le braccia, a stringere il suo corpo di donna flessuoso ed elegante come se lei dovesse o potesse fuggire. La baciò ancora, cercandole con furia improvvisa le labbra e Sigyn rispose con un trasporto straziato, affondando le dita sottili nelle sue braccia e soffiandogli sulla bocca perché ormai vani. Aveva perso l’innocenza – gliel’aveva strappata via lui, velo dopo velo, ma non era bastato. Qualunque cosa ci fosse tra loro non era né indolore né fugace, ma si nutriva dell’anima di entrambi ed era penetrata nelle ossa, nelle vene, nel sangue. E Loki, lui l’aveva desiderata con un’intensità che lo aveva sorpreso, sconvolto, gettandolo in un caos che era una voragine profonda, come i suoi occhi grigi. Sigyn gli sfiorò con la mano libera il volto, accarezzandogli il viso affilato, la mascella ben rasata.

“Perché?” gli disse. “Perché con un uomo del genere? Tu ti sei macchiato… c’entri con quelle donne morte?” iniziò, riferendosi agli esperimenti segreti di cui aveva letto qualche morboso, oscuro, dettaglio, tale da inorridirla. In quelle carte, nulla faceva presagire che l’alchimista fosse direttamente coinvolto, ma la glaciale indifferenza con cui Odinson sorvolava su un simile particolare l’aveva turbata. Sapeva chi era Loki – ora riusciva a vedere quanta parte di oscurità fosse presente nel suo petto – e aveva, di lui, un’immagine finalmente completa, anche se tragicamente complessa e difficile da decifrare. Come il suo sorriso, sempre ironico ed enigmatico, breve e laterale.

Odinson abbassò rapido lo sguardo sulle missive in disordine e poi lo risollevò per sostenere con fermezza quello di lei. Di nuovo stirò le labbra sottili in un ghigno tetro, stregandola, confondendola, mostrandole qualcosa di oscuro e di antico, come la leggenda del conte e della strega di cui si accorse di non ricordare affatto la fine. Lei veniva sepolta nel tumulo, con indosso la collana che brillava sul seno di Sigyn, innamorata fino alla fine del suo uomo, ma lui, il conte, dov’era? Perché aveva in testa la scena dell’amante normanno che cadeva in un bosco, morto?

 “No,” rispose Loki distogliendola dal suo ragionamento. “Laufey lavora al suo progetto da molto prima di conoscermi. Lui era ossessionato, come mio padre, dal desiderio di varcare il confine tra la vita e la morte. Ma, al contrario del buon vecchio Odino, aveva meno scrupoli e un obiettivo disgustoso,” raccontò con freddo divertimento. “Eppure, i suoi esperimenti gli hanno consentito di ottenere le informazioni che mancavano a mio padre,” spiegò. Raccolse un foglio spiegazzato da terra e ne lisciò i bordi. C’erano formule e disegni e schemi di com’erano fatti gli uomini dentro, sotto la pelle. “Il duca fu il primo a indicarmi questa via. Mi ha trascinato nella sua ricerca, mi ha spedito in giro per il mondo con la scusa che gli servivano tessuti pregiati e colori vivaci, e poi, alla fine della sua vita, si è pentito di ciò che era, di ciò che voleva, rinnegandosi e rinnegandomi.”

Sigyn rabbrividì, perché improvvisamente la voce di Loki si era fatta tagliente e crudele, come il suo sguardo di metallo, troppo chiaro. “Ecco quello che è successo.”

“E tu, tu che vuoi, Loki?”

“Ogni cosa,” rispose rapido. “Voglio scoprire qualsiasi segreto nasconda questo mondo, perché non c’è niente di casuale o vago, nel progetto della creazione. Persino nella più terribile e disgraziata delle tempeste è presente un ordine supremo, che governa tutto.”  

“Anche la morte,” soffiò lei, ammirando, suo malgrado, la corrosiva sete di conoscenza dell’uomo che amava. Ma lo amava ancora? Poteva farlo?

Lo sguardo vivace di Loki si accese ulteriormente, colpito dall’acume di quell’affermazione. “Dicono di me che sono un alchimista, uno scienziato. E tu sapevi, sai chi sono. L’altra sera hai intuito la mia parte in questa vicenda,” l’accusò, ma continuava a tenerla tra le braccia, perché era la sua incantevole amante di cui non era ancora sazio ed era la ragione della sua rovina. Non sarebbe scappata, eppure non desiderava lasciarla andare – l’aveva macchiata con l’oscurità che aveva tinto la sua anima di nero, ma ora doveva salvarla fino in fondo. Forse non avrebbe mai accettato d’indossare l’anello magiaro che teneva in tasca, eppure non si era nemmeno strappata dal collo il ciondolo della strega che, anzi, brillava sinistro alla fioca luce delle candele.

“Non le hai uccise?” insistette lei.

“No,” rispose Loki sollevando fieramente il mento. “Ma non ho fatto nulla per impedirlo, tranne che in un caso. Tu.”

Sigyn decise che non le stava mentendo. Che quella verità graffiante non era frutto di nessun imbroglio e che l’inganno stesso in cui l’aveva trascinata conteneva, in sé, una traccia di verità. E capì che riusciva ad amarlo nonostante l’irrefrenabile sete di sapere, a prescindere dalle cose che, quasi certamente, ancora le nascondeva e sempre le avrebbe celato.

“Cosa vuoi fare, adesso?”

“Salvarti e ucciderlo. Vieni con me,” le suggerì lo scienziato stringendola tanto a sé da far aderire nuovamente i loro corpi, divisi dalle stoffe dei rispettivi abiti, ma tesi, immancabilmente, l’uno verso l’altro.

 

“Credevo tu mi avessi già salvata.”

Una pioggia violenta iniziò a rovesciarsi su Londra. L’acqua scrosciava sulle finestre, lustrava i tetti e i marciapiedi, inzuppava le strade che si allontanavano dalla città rendendole quasi impraticabili.

Loki prese la pistola dalle sue mani delicate; per ringraziarla, avvicinò il dorso alle labbra sfiorando la pelle liscia e morbida. La ragazza sussultò, ma il suo sguardo continuava a seguirlo fermo e deciso.

“Ti ho resa la mia amante e una fuggiasca. Ritengo di dover rimediare, almeno a una di queste due cose,” ammise sornione.

Sigyn piegò la testa di lato. “Per dovere? Per vendetta?”

“Non sarai l’ultima delle sue mogli.” La voce dell’alchimista si era fatta roca. Lady Odinson. Forse avrebbe accettato l’anello e, con quello al dito, Laufey non avrebbe potuto sposarla. No, Sigyn non sarebbe stata l’ultima delle sue mogli, stesa su un tavolaccio di legno senza alcun vestito addosso, pronta ad accogliere lo spirito di un’altra. Aveva perso l’innocenza – la purezza – che il suo mentore bramava e considerava un elemento imprescindibile per la buona riuscita del suo esperimento. Era marchiata. “Sarai la mia. Stanotte ci sposeremo. Ho preso accordi con un prete fuori Londra.”

Sigyn rimase immobile. Loki le teneva ancora la mano che aveva baciato e fu sull’anulare di quella che infilò l’anello, leggermente troppo grande, delicatamente lavorato per accogliere una gemma d’incomparabile bellezza. La pietra preziosa era trasparente, ma con delle particolari venature verdastre appena percettibili alla luce fioca delle candele.

Sigyn amava Loki, ne era dolorosamente certa. Non sarebbe fuggita con lui, se non fosse stato così. Fissò il gioiello e poi l’alchimista e pensò che provava una paura cupa e folle. Forse non voleva sposarsi in quel modo, di notte, con un matrimonio segreto e riparatore, eppure non riusciva nemmeno a immaginare di dover abbandonare quell’uomo intelligente e beffardo che sorrideva perfido e la guardava come un drago avrebbe fissato un tesoro. Non si era inginocchiato per chiedere la sua mano. L’aveva pretesa, anzi, di più: si era accordato prima ancora di parlarne con lei.

Eppure, Sigyn non riuscì a offendersi per quel gesto: comprendeva che tradire il vecchio mentore folle esigeva un prezzo molto alto e sentiva che, nel volerle dare il proprio nome, Loki attuava un piano di più ampio respiro. Avrebbe dovuto chiedergli se Laufey fosse già sulle loro tracce, se scoprire che era fuggita con lui l’avrebbe davvero messa al riparo dall’esperimento cui voleva sottoporla. Scelse diversamente.

“Quest’anello,” domandò guardinga, “anche quest’anello apparteneva a una veggente o a una fata?”

Negli occhi di Loki scintillò una luce rapida e fugace, come il suo sorriso laterale e furbo. “Mio padre lo usò per chiedere la mano di mia madre,” raccontò. “Lo fece forgiare da un orefice ungherese[6], ma la pietra apparteneva alla nostra famiglia da quando i miei antenati cavalcano ancora sulle spiagge della Normandia. È stata montata a volte su una spilla, altre su una tiara, più spesso su un anello. Lei forse lo indossò e poi lo diede a una figlia o a una nipote,” ipotizzò, riferendosi alla strega danese. “Ascoltami,” disse. “Questa vecchia storia ci riguarda, ti riguarda, perché Laufey potrebbe raggiungerci da un momento all’altro e tu rischi non sapere mai una cosa essenziale,” proseguì senza lasciarle la mano né tempo per replicare. “Nessuno desiderava che il conte sposasse la strega. Lui era destinato a un altro tipo di vita. Durante una battuta di caccia, però, venne trafitto a morte da una freccia. La veggente danese lo riportò indietro. Pregò i suoi dèi antichi per una notte intera. Invocò il dio delle forche, il mago orbo che fu impiccato per nove notti consecutive, e poi chiamò quello della tempesta e del tuono, col suo martello forgiato per uccidere i giganti. Infine, dissero che pianse e si strappò i capelli supplicando quello del fuoco e degli inganni. All’alba, il mio antenato, il conte, si risvegliò dalla morte. Mio padre e io cercavamo l’incantesimo o la medicina che ha riportato indietro quell’uomo. Tu hai il ciondolo della strega, quello con cui scelse di essere sepolta, l’unico monile che portò nella sua tomba. Lui non lo sa.[7]

 

 

La casa di Odino è piena di traditori. Laufey attendeva nel buio, di fronte a un prato puntellato di lapidi. Alcuni alberi ritorti, senza foglie e con i rami protesi verso il cielo come le mani ossute di un mendicante, ascoltavano le sue maledizioni soffiate tra i denti. Figlio d’un cane, ingrato bastardo. Si era approfittato della sua disperazione seducendo l’unica donna che volesse, la sola che fosse degna di ospitare il suo amore bugiardo, che le assomigliava come una goccia d’acqua. Ripensò allo sguardo vacuo e distratto che Loki gli aveva rivolto mentre sperimentava su di sé gli effetti dell’oppio[8], al ghigno divertito che aveva stampato in faccia quando lui gli parlava dell’amore insano e necessario che provava per Sigyn. E Loki aveva recitato per mesi, occupando indebitamente il posto che toccava a lui. L’aveva sfiorata, cercata, baciata e posseduta – si era preso ciò che gli spettava e avrebbe pagato con la vita, per questo.

Scoprì di odiarlo quanto amava lei – o l’immagine che si era costruito di Sigyn, perlomeno, ma comprese anche di detestare allo stesso modo se stesso. Si era lasciato abbindolare e incantare ed era stato cieco. Non si era accorto che il suo giovane allievo si era invaghito della ragazza. Non avevo messo in conto che la vicinanza reiterata e quel continuo scambiarsi sguardi e sorrisi avrebbe potuto creare un terreno fertile per un desiderio che aveva reso possibile il tradimento. Li avrebbe uccisi, e poi avrebbe avuto la sua vendetta. E l’amore.

 

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

 

siamo al penultimo capitolo di questa storia che sto amando moltissimo e che no, non è affatto una AU, come potete vedere. Come sempre, è un momento particolare: la real life bussa prepotentemente per avere la mia attenzione e credetemi quando vi dico che scrivo nei ritagli di tempo, nelle pause. Il fatto è che per me scriverli è una necessità, nonostante soprattutto le fiabe mi abbiano provocato un po’ di seccature negli ultimi tempi.

Ecco perché il sostegno è importante – si scrive per sopperire a un bisogno, ma la gioia che si riceve quando questo bisogno suscita qualcosa nel prossimo è qualcosa che non si può spiegare. E ricordatevi che anche se non rispondo sempre le recensioni le leggo sempre, tutte, subito.

 

Nel prossimo capitolo parlerò meglio della fiaba di Barbablù e del senso che ha in questa storia e finalmente qui Sigyn ha scoperto come si otteneva il colore verde al tempo che fu. Vi informo fin da ora che la storia della strega danese e del conte verrà scritta, che dopo l’epilogo di Ombre troverete l’aggiornamento di Accordo e quello di Scintille e… chissà. **

 

Voglio ringraziare coloro che recensiscono/ leggono/seguono/ricordano e preferiscono – ogni volta che listate o vi palesate m’illumino d’immenso, per voi sembrerà una cosa da niente, ma vi assicuro che ricevere sostegno per chi scrive ha la sua importanza.

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss



[1] Sulla trasformazione della nobiltà terriera in imprenditoria ho letto troppi testi. Comunque sì, alcuni nobili lungimiranti si adattarono facilmente, grazie alle loro finanze e contatti, al mondo che cambiava. In Gran Bretagna c’è un’antica tradizione manufatturiera nel settore del tessile – sono famose soprattutto le lane, quindi no, non è casuale.

[2] Ovviamente questa è una mia licenza poetica. Bambini, non giocate con l’arsenico!

[3] Se questa battuta vi ricorda qualcosa, è perché è un chiaro riferimento a una mia vecchissima e amatissima minilong, “Sposami, Sigyyn.” La trovata in fondo al mio profilo ^^.

[4] L’educazione del tempo prevedeva che si suonassero uno o più strumenti.

[5] La scelta di Sigyn di fuggire con Loki è coerente col tempo. Né lei né Vanir né Loki mettono in discussione le regole sociali del periodo, pur violandole. Mi spiego meglio: nei secoli (o decenni) passati si faceva molta attenzione all’avere costumi sobri e a non avere rapporti al di fuori del matrimonio, tuttavia c’è un proliferare di figli illegittimi, di persone che hanno due famiglie, di bambini che si scoprono figli di persone che non sono il marito della madre. Ecco perché Sigyn che scappa con Loki non è anacronistico – sa di stare commettendo qualcosa di ritenuto grave, un po’ come quando si lascia la macchina in seconda fila. Non andrebbe fatto, se passa il vigile ci multa, ma spesso per qualche minuto ce la lasciamo.

[6] Quindi è magiaro, almeno per quanto riguarda l’incastonatura. Per questa cosa dei gioielli riutilizzati mi sono basata sui Windsor.

[7] Vi avevo detto che non era una AU…

[8] L’oppio è una sostanza illegale come molte altre droghe. Nell’Ottocento la concezione di queste sostanze e il loro uso era un po’ diverso da quello di oggi (su tutti: l’imperatrice Sissi prendeva regolarmente la morfina, Freud faceva uso di sostanze simili eccetera). Appartiene dunque alla normalità ed è coerente che un giovane nobile scavezzacollo e mezzo scienziato come Loki Odinson in questa storia possa farne uso senza troppo clamore.

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Capitolo 7
*** La pietra vichinga ***


Capitolo 7

La pietra vichinga

 

 

There's no saving anything

Now we're swallowing the shine of the sun

There's no saving anything

How we swallow the sun

But I won't be no runaway

'Cause I won't run

No, I won't be no runaway

(The National, Runaways)

 

 

“Credi che siano stati gli dèi di Asgard a salvare il conte?” La carrozza si sarebbe fermata di lì a pochi minuti. Se ci fosse stato il sole, dai finestrini avrebbero già potuto scorgere l’ombra delle lapidi che circondavano la chiesetta dalla guglia stretta, dove li attendeva il sacerdote. Loki teneva la fronte poggiata contro il vetro freddo.

“Pensi che il dio dell’inganno abbia regalato alla strega una pozione o suggerito un’erba capace di riportare il suo amante in vita?” insistette Sigyn.

Era pallida e bellissima. Cercava di mantenere un contegno aristocratico, ma i suoi occhi grigi lo fissavano spaventati e lucenti. L’alchimista le prese la mano inanellata, sfiorando la bella pietra chiara e il dorso liscio e morbido.

“Forse. Ma ora gli dèi di Asgard sono morti, Sigyn. Il Ragnarok li ha spazzati via, cancellati. Il dio delle forche è stato sbranato dal lupo Fenrir, quello del tuono è stato ucciso dal serpente che avvolge il mondo. Il dio dell’inganno è morto uccidendo il guardiano degli dèi. Asgard è bruciata,” disse, senza alcuna emozione nella voce appena svagata. “Forse erano già morti quando la strega li ha pregati,” spiegò. “O, forse, se ne sono andati perché nessuno credeva più in loro,” sorrise mestamente. “Deve aver usato un’erba o una pozione,” concluse ad alta voce, cambiando tono. Si concentrò sul proprio respiro, sforzandosi di mantenerlo lento e regolare, di imbrigliare il presentimento che gli mordeva i sensi. Era una notte fatale e Laufey gli aveva giurato di seppellirlo vivo, se solo l’avesse tradito. Lui, con le labbra che sapevano di rum, si era limitato e ridere e ad annuire, ma quella minaccia gli si era ficcata nelle ossa, raggelandolo, come se evocasse ben più di un avvertimento. Il suo mentore non parlava mai a vuoto. Le sue frasi erano secche sentenze, ponderate con voce cattiva. Gli aveva promesso una morte orribile e gliel’avrebbe data. A patto che.

“Tu vuoi salvarmi, ma non sai se salverai te stesso,” sibilò Sigyn.

“Ci troverà. E non ha niente, niente da perdere,” ammise l’alchimista lentamente. La carrozza si fermò. “Per qualche giorno sono riuscito ad allontanare i suoi sospetti, ma per liberarmi devo ucciderlo.”

 

Se non l’avesse sposata e Laufey non fosse esistito, o se, pure morendo, l’avesse trascinato con sé nell’Oltretomba, lei, ripudiata dalla famiglia, sarebbe finita in una di quelle stanzette dei sobborghi che si affittavano già ammobiliate per pochi soldi. L’innata eleganza con cui l’aveva vista muoversi nei salotti della Londra aristocratica sarebbe stata sprecata su un marciapiede male illuminato da un lampione a gas; il suo viso delicato, con le labbra morbide e rosate e il naso dalla punta diritta e stretta, leggermente all’insù, si sarebbe sciupato per il cibo pessimo e scarso, per il belletto troppo vistoso. L’avrebbero avuta altri – tutti quelli in grado di pagarla, almeno. E le viscere gli si contrassero dalla gelosia e da un dolore fisico e acuto, al pensiero che fosse di estranei disgustosi e non più sua – che diventasse preda di clienti rapaci, sola, morendo, infine, tisica e infelice chissà dove. Laufey era un rischio calcolato e necessario, uno che doveva correre per dare un senso ai compromessi cui si era piegato, per rendere meno ignobile l’inganno perpetrato a danno di lei. Non gli interessava affatto espiare le proprie azioni, perché erano il frutto studiato della sete bruciante di conoscere e di sapere. E Sigyn non poteva più indossare l’abito di raso verde, ma sarebbe diventata sua moglie con un vestito chiaro, color avorio, con i bordi dorati. Prima di aiutarla a scendere, la strinse a sé per baciarle le labbra e non farle dire quant’era tragico il destino di quegli dèi che sapevano di non essere immortali per davvero, condannati dalla Voluspa a conoscere il modo in cui sarebbero morti. Erano stati in grado di riportare in vita il conte, suggerendo alla strega la pozione o l’incanto giusto da utilizzare, ma non avevano saputo o voluto salvare se stessi. E poi, anche quei due amanti lontani erano morti e, per qualche ragione che né l’alchimista né la ragazza conoscevano, non riposavano insieme, nello stesso tumulo. Lei era tornata nella sua terra aspra e selvaggia, bagnata dai fiordi, lui dimorava sotto il pavimento di pietra di una chiesa normanna. C’era qualcosa di terribilmente ingiusto e crudele nel destino della coppia antica, caduta nel sonno eterno in luoghi e tempi diversi. Loki si chiese se, in qualche modo, dando a Sigyn la gemma che teneva al collo, stava affondando in una maledizione di cui non conosceva i termini o le parole, stesse invischiandosi in una storia di altri, iniziata per ragioni diverse, ormai dimenticate.

E le labbra di Sigyn erano dolci e salate, bagnate di lacrime silenziose di cui non si era accorto: lo amava e non avrebbe dovuto farlo, così come lui non sarebbe dovuto cadere preda di un desiderio che lo aveva infiammato e inebriato finché non era stata sua completamente, totalmente. Ripensò con un brivido alla sera in cui l’aveva avuta e a quelle prima ancora, in cui le sue dita l’avevano accarezzata sotto la seta e il raso e il velluto, insinuandole nella mente che la voleva, fissandola con sguardi rapaci, baciandola come se da quella bocca dipendesse la sua vita, il suo respiro, il battito che martellava nel suo petto. Laufey l’avrebbe seppellito vivo, sì, vendicandosi per un tradimento più doloroso di una picca conficcata nella schiena, ma gliel’aveva portata via e, insieme a lei, sarebbe riuscito a sottrargli anche il segreto che circondava come un velo la morte.

Gli dèi di Asgard, che forse lo conoscevano, avevano scelto di non salvarsi, però. Con fierezza o stolidità, si erano convinti che era meglio accettare il Ragnarok che impedirlo, consci non solo del come sarebbero morti, ma anche per mano di chi. Perché?

Sigyn sollevò la gonna per non macchiare l’orlo e lo seguì sotto la pioggia, verso la chiesa dal tetto appuntito.

 

 

Il duca d’Asgardshire non uscì dalla casa di lord Vanir con il cuore leggero. Aveva stipulato a favore della futura cognata e dei suoi figli una vantaggiosa assicurazione e, seguendo il desiderio di suo padre e dei suoi antenati tutti, era riuscito a proteggere il buon nome della famiglia Odinson, ma sulla soglia era stato raggiunto da un messaggio che gli aveva gelato il sangue nelle vene. Uno dei suoi servitori più anziani era riuscito a rintracciare la casa dove si nascondevano suo fratello e Sigyn, avvertendolo di aver visto i due amanti salire su una carrozza. Stavano andando a sposarsi da qualche parte, da soli, di notte, per tornare in società solamente con un certificato di matrimonio in mano? Era possibile, probabile. Auspicabile, persino, perché Sigyn Vanir non meritava di finire come le donne perdute che circolavano ai margini della società o nei bordelli, rovinate dall’illusione un amore lontano e perduto cui si erano dedicate anima e cuore. Era giovane, bella e intelligente e le spettava un marito altrettanto acuto e brillante. Un Loki al meglio delle sue possibilità, lontano dai ragionamenti oscuri e contorti che gli avvelenavano il petto. Un gentiluomo coltissimo, ricco e sagace, che avrebbe potuto avere una vita felice e agiata, a condizione che. Eppure, il messaggio rapido, che si era ritrovato ad ascoltare sulla porta di una casa divenuta appena meno estranea, lo turbò. Sentì che quella era una notte fatale, in cui il destino della sua famiglia si sarebbe spiegato.

 

 

L’immaginazione è una creatura strana, è un drago che spesso si avvolge nelle sue stesse spire creando mondi possibili, aprendo porte affacciate sulle scelte che non abbiamo fatto. La chiesa era buia, a eccezione di un paio di candele fioche e lontane, che tremavano sotto le raffiche che qualche vecchio infisso lasciava trapelare. Sigyn si tolse il mantello zuppo e tirò indietro una delle sue ciocche chiare, sfuggite all’acconciatura. I suoi passi echeggiarono tetri lungo la navata centrale, accanto a quelli, decisi e marziali, di lord Odinson. Nella penombra, la sua bellezza le sembrò totale, assoluta. Studiò il profilo diritto e virile dell’alchimista, seguendo la linea tagliente del naso ben fatto, la piega che assumevano le labbra sottili segnate da una cicatrice ormai bianca, gli zigomi affilati e alteri. Tutto, nella sua figura, esprimeva forza ed eleganza: camminava come se il mondo gli spettasse di diritto, calpestando il pavimento di pietra con la sicurezza dei condottieri di cui aveva ereditato il sangue. Il prete li attendeva e pareva avere la loro stessa identica fretta.

Sigyn non si chiese se lord Odinson l’avesse pagato o si fosse messo a promettere donazioni e aiuti; si domandò cosa vedesse quel vecchio con le spalle ricurve e gli occhi scuri in loro. Che impressione dessero, di fronte all’altare avvolto nella tenebra. Due amanti fuggiaschi in rotta col mondo, che volevano riparare un torto? Una coppia già formata nella sostanza, che chiedeva di piegare la passione alle regole? Il prete la guardò con insistenza.

“Siete qui di vostra spontanea volontà?” le chiese, e dal modo in cui scandì le parole e dall’incertezza nel suo sguardo, Sigyn capì che il religioso le aveva già posto la stessa domanda e lei non aveva ascoltato.

“Desidero essere sua moglie,” confermò con una voce più solenne e decisa di quanto si aspettasse. Per un momento le sembrò di essere fuori dal tempo e di osservare la scena come se fosse seduta a teatro. Lei non era lì, accanto a Loki, davanti all’altare, ma nel suo palco, chiedendosi se i due innamorati avrebbero coronato il loro sogno. Ascoltò l’alchimista che pronunciava i voti con tono secco e deciso – per lui il rito era una formalità, rappresentava un modo per muoversi più liberamente, visse come in un sogno il momento in cui i loro nomi vennero scritti sul certificato. Lo stava sposando nella tenebra, di nascosto, senza feste né invitati, ma il suo abito era candido e incantevole e non avrebbe desiderato niente di diverso, per sé. Purché ci fosse lui a stringerle le mani fredde, a lambirle con feroce delicatezza le labbra sussurrandole di fidarsi, qualunque cosa fosse avvenuta.

Era ciò che aveva sempre desiderato, del resto. Un matrimonio d’amore, con un uomo capace di farla sussultare solo con uno sguardo, di capirla con un’occhiata[1]. Sagace e insolente nelle discussioni, ma di quell’irriverenza giocosa che si concede agli avversari che si considerano nostri pari. Se ne rese conto mentre il viso ragnesco del prete si addolciva in un’espressione più mite e rilassata, nel momento in cui l’espressione severa dell’alchimista si piegava in un ghigno furbo e, finalmente, soddisfatto.

 Erano marito e moglie. Firmò e, nel farlo, macchiò il foglio. Spaventata, soffiò che era un cattivo presagio. Loki rise e la baciò ancora, rapace, stringendo a sé il suo corpo avvolto nella seta candida, ma non priva di ombre, figlie della notte.

 

Fu quello il momento in cui Laufey scelse di palesarsi, entrando da una porticina laterale. Lo fece seguito da alcuni suoi uomini, avanzando tremante verso la navata. In mano stringeva una pistola. Sparò due colpi senza dire una parola. Il primo mancò il bersaglio, andandosi a conficcare in una delle antiche colonne che risalivano al tempo in cui la chiesa non era ancora tale – forse era stata qualcos’altro, e le sue fondamenta si fondevano con quelle di un tempio di qualche religione perduta e dimenticata. L’altro, invece, andò a segno, anche se non esattamente nel modo in cui Laufey sperava. Era destinato a Sigyn, solo che.

 

Lord Odinson aveva visto il sacerdote impallidire e fissare un punto dietro di lui e, intuendo il pericolo, si era gettato sulla ragazza – su sua moglie – facendole da scudo col proprio corpo. Assecondò l’istinto atavico di proteggere lei, che, tra le sue braccia, era seta delicata e pelle morbida e profumo di miele[2]. Fragile eppure potente – così tanto da spingerlo a rompere un patto tremendo col mentore che aveva seguito da un capo all’altro del mondo, da fargli rischiare di perdere anni interi di ricerche per avvinghiarsi a lei e farla sua nelle ore più buie della notte, e svegliarsi, infine, con la sua testa posata sul petto. Amante incantevole, che lui avrebbe dovuto irretire e ingannare per gioco e che, invece, alla fine aveva preteso per sé, bramandola con lo spasmodico desiderio di un drago verso l’oro. Il dolore lo colse all’improvviso, stupendolo con la sua bruciante intensità.

Lui e Sigyn erano a terra, il prete non c’era più – forse era riuscito a mettersi in salvo, spinto dall’occhiata rapida che si erano scambiati. La prima cosa che notò fu il sangue. Imbrattava il vestito candido di Sigyn, il suo seno diafano che si alzava e abbassava irregolare, sconvolto dal terrore. Lei iniziò a tastarlo, troppo disperata persino per singhiozzare o lasciare che le lacrime le rigassero le guance pallide, gli occhi sgranati e persi. Poi capì – capirono – e lo sorpresero il dolore lancinante della fitta che gli trapassava la spalla, acuto e terribile, il calore del sangue che sgorgava dalla ferita. Lei era salva – lui no, e il passo irregolare di Laufey era sempre più vicino.

“Tu sei un traditore, un ingrato, un bugiardo,” soffiò il vecchio puntandogli nuovamente contro la pistola. La canna era talmente vicina che sarebbe stato impossibile sbagliare il colpo e non ucciderlo. “Ti farò saltare il cervello,” promise. La mano ossuta e nodosa gli tremava per l’ira, gli occhi freddi non esprimevano alcuna pietà, né Loki la voleva, del resto. Aveva un’arma, nascosta nel cappotto: un lungo pugnale indiano dall’elsa finemente intarsiata, eredità dei suoi viaggi negli angoli più remoti dell’impero britannico – del mondo. La sua pistola, invece, era rimasta nella carrozza, ma non faceva alcuna differenza. Non sarebbe mai riuscito a estrarre il coltello prima che Laufey gli sparasse. Il vecchio lo avrebbe sacrificato senza problemi sull’altare della conoscenza o di qualunque altra cosa ben prima che lui gli rubasse Sigyn. Non si sarebbe fatto alcuno scrupolo nell’abbandonarlo a una morte impietosa, e gliel’aveva detto molte volte. Non importava che fosse un allievo e la cosa più vicina a un figlio che avesse mai avuto in vita. Aveva osato intralciare i suoi piani, portandosi via l’unica donna, al mondo, il cui volto ricordava, con dolorosa precisione, quello di un fantasma.

Loki riconobbe che lui e Laufey avevano in comune la spietatezza, oltre a Sigyn. Fu per questo che scelse di provocarlo. Era l’unico modo per prendere tempo e distrarlo abbastanza da tirare fuori quel pugnale o fare in modo che la pallottola non gli fracassasse la testa.

“È stato più forte di me,” ghignò. Con una mano proteggeva Sigyn, ancora stesa sotto di lui, con l’altra premeva il fianco offeso. Se allungava le dita, poteva sentire il metallo freddo dell’elsa, nascosta in una tasca della giacca. “Come potevi pensare che te la lasciassi? Che permettessi a un orribile vecchio come te di… di fare cosa, Laufey? Sua madre non ti amava da viva e non ti amerà nemmeno da morta, neppure se riuscissi davvero a farla tornare!”

Il vecchio strinse le labbra e strabuzzò gli occhi, offeso dalla beffarda canzonatura dell’altro. Sparò prima che Loki potesse sfoderare il pugnale, comprendendo, per la prima volta nella sua vita e con una chiarezza livida ed estrema, la tragedia della propria esistenza e il suo amore patetico per una ragazzina di nemmeno vent’anni che lo fissava con orrore e si aggrappava disperata al collo dell’uomo che amava. Per tutta la vita, Laufey aveva lottato contro il destino e la morte. Non riusciva ad accettare l’idea che fosse condannato a morire come tutti, così come non era stato in grado, in gioventù, di sopportare il peso del rifiuto dell’incantevole e divertente ragazza che lo aveva allontanato per poi morire nemmeno dieci anni dopo. Sigyn era il ritratto di quella donna. Al contrario di lei, non lo fissava con divertita supponenza, ma con orrore. Eppure si affidava a un uomo, Loki, che gli assomigliava per temperamento, ideali, spietatezza, intelligenza. Come lui, anche il figlio cadetto del duca Odino era ossessionato dalla morte e desiderava scoprirne i segreti. Lo sconcertava la paura gelida di non lasciare segni del suo passaggio sulla terra, di diventare polvere che si sarebbe mischiata ad altra polvere, in un ciclo senza fine e senso. Lo raggelava il vuoto che c’era stato prima di lui e che ci sarebbe stato dopo: un baratro immenso in cui la sua essenza sarebbe svanita. Era ossessionato da una febbre interiore e perenne, che lo spingeva a desiderare di poter gettare nel caos l’ordine in cui si spiegava la vita di ogni uomo, perché solo distruggendo è possibile ricostruire. E desiderava osservare quelle rovine dall’alto, studiarle e manipolarle come la creta, piegarle al suo volere, assoluto e dispotico. Loki voleva sfuggire alla rete che ingabbiava l’esistenza in un processo che, partendo dalla nascita, arrivava alla maturità, alla vecchiaia e alla morte. Sebbene fosse ancora giovane, Laufey aveva riconosciuto in lui l’ansia che assale l’animo degli uomini quando si accorgono che la maturità sta cedendo il passo alla senilità e alla perdita della forza fisica e mentale. Eppure, Sigyn lo amava, tanto da aver risposto con uno slancio trepidante alla domanda del prete. Entrambi erano corrotti e, in un altro tempo, sarebbero stati chiamati stregoni, eppure Sigyn avrebbe potuto amare uno solo di loro: Loki dallo sguardo fiero e quasi trasparente, Loki che piegava le labbra strette in un sorriso feroce, Loki col suo portamento altero e principesco, coi suoi modi di fare sicuri e precisi.

Laufey premette il grilletto desiderando con ogni fibra del suo essere di uccidere quel suo figlio putativo che gli aveva strappato le migliori conoscenze e si presentava al mondo come una versione più carismatica e affascinante di lui, ma la vecchia pistola, forse per la troppa umidità, s’inceppò[3].

 

Una luce sinistra barbagliò negli occhi di lord Odinson: era la sua occasione per ribaltare la situazione. Estrasse il pugnale, incurante di stare trascurando la ferita, e tentò di colpire il vecchio mentore, ma nemmeno questo colpo era destinato ad andare a segno; due degli uomini che accompagnavano Laufey scansarono l’uomo appena prima che la lama affondasse nella carne, facendo rimediare al loro capo una ferita di striscio. E Loki fu raggiunto dalla consapevolezza, esatta come una freccia conficcata nel bersaglio, di aver fallito. Gli sgherri si accanirono contro di lui, prendendolo a calci sulle costole, mentre il vecchio mago gli strappava Sigyn dalle braccia. Lei urlava e scalciava e graffiava – e lui non poteva fare niente altro che immaginare il seguito con la spietata acutezza che lo contraddistingueva. L’alchimista si augurò, di nuovo, che il prete fosse fuggito e avesse raggiunto la sua carrozza: lì, avrebbe potuto, con l’aiuto del cocchiere, chiamare aiuto – rintracciare suo fratello. In un altro momento, il pensiero di doversi far salvare da Thor lo avrebbe disturbato, facendogli increspare le labbra in una smorfia d’insofferenza, ma la ferita alla spalla bruciava e il pestaggio inferto senza pietà non gli lasciava possibilità di alzarsi o di difendersi. Poi, fu il buio.

 

 

C’era una donna, a Londra. Una che fingeva di credere agli spiriti, perché sua nonna, una volta, le aveva detto di avere il dono di parlare con i morti. Guadagnava raccontando alla gente quello che voleva sentirsi dire, fingendo di riportare un messaggio dall’Aldilà. Consolava mogli che si ritrovavano vedove troppo presto e madri che desideravano solo poter sentire sotto le dita le guance paffute dei loro bambini perduti. Lavorava creando atmosfere fatte di sussurri, sospiri e mani che si muovevano appena, divertendo e spaventando il bel mondo facilmente impressionabile dell’aristocrazia inglese. A volte, però, qualcosa c’era davvero. Capitava raramente – la donna non ne contava più di due o tre in tutta la sua luminosa carriera – eppure, quelle rare manifestazioni bastavano a farle salire un dubbio atroce: che l’inganno perpetrato a danno delle sue amiche e clienti, spesso le cose si confondevano, contenesse, al suo interno, una spaventosa traccia di verità. La medium, però, non era come il sagace lord Odinson o il lugubre Laufey. Non desiderava conoscere l’inconoscibile, non le interessava sollevare il velo che divide le anime dei vivi da quelle, a volte tormentate, dei morti. Quasi un anno prima, aveva annullato una seduta perché colta da un fremito inspiegabile, da un freddo che nemmeno gli inverni più rigidi le avevano mai instillato. Un gelo sinistro, che si era acuito quando, al suo cospetto, era arrivata una ragazzina dell’alta società dai capelli d’oro. Non aveva nulla di particolare a parte un viso grazioso e un sorriso trascinante e luminoso, eppure, attorno a lei – a loro, per un terrificante momento, si erano accalcate voci che parlavano in una lingua sconosciuta. Le era sembrato che una delle ombre si staccasse dalla parete per ghermirla la vita sottile, il collo abbellito con una sottile collanina di perle, come se fosse l’ostaggio o la preda di qualcosa di oscuro e crudele. L’aveva mandata via e si era impegnata a non rivederla mai più, certa che nel destino della giovane donna si celasse una futura tragedia. Quella notte, alzandosi dal letto, provò la stessa sensazione di freddo estremo provata mesi prima, ma non volle chiedersi perché, né ebbe la forza di pregare. Solo di attendere, seduta sul letto, in camicia da notte, che il gelo passasse.

 

 

“Loki!” L’ultimo calcio ricevuto sulle costole lo aveva quasi tramortito, offuscandogli la vista. Si rese conto di aver perso i sensi forse per un paio di minuti, ma sentiva la testa vuota. La ferita pulsava. Distintamente avvertì che gli spietati colpi capaci di mozzargli il respiro erano cessati; la navata della chiesa era tornata a riempirsi di passi, grida, movimento. Lord Odinson si sollevò appena e, ansante, riconobbe la voce e il volto preoccupato di suo fratello.

“Sei ferito.” La terribile constatazione era stata pronunciata da Thor, che, dopo averlo liberato dal suo aggressore, stava tentando di soccorrerlo come poteva, cercando di capire quanto fossero gravi le sue condizioni. Loki si riscosse, deglutì, bevve un sorso di whisky da una fiaschetta che gli porse il duca. Quest’ultimo, spinto da un presentimento inspiegabile, aveva deciso di raggiungere l’unica chiesa il cui sacerdote non temesse suo fratello; era giunto in tempo per incrociare la carrozza dove il religioso e il cocchiere stavano salendo per andare a chiamarlo. Una circostanza così fortunata riaccese, in Loki, la necessità di provare a impedire che il destino terribile di Sigyn si compisse. Immaginò che, nel brevissimo tratto fatto insieme, il prete avesse raccontato a suo fratello i dettagli dell’assalto che avevano subìto.

“Lei è ancora qui. Non può averla portata lontano,” ragionò – boccheggiò.

Thor lo aiutò a sollevarsi.  “Hai perso molto sangue.”

“Laufey è un mostro,” fu la replica detta senza badargli, ma aggrappandosi alla spalla robusta dell’altro. E, nel dirlo, Loki riconobbe freddamente che le differenze tra lui e il mentore erano quasi insignificanti: se il vecchio non era degno di essere annoverato in altro modo, privo di umanità e di coscienza com’era, cosa poteva dire di se stesso il figlio cadetto del duca Odino Odinson? Al contrario di quest’ultimo, che si era pentito poco prima di raggiungere il letto di morte, Loki non aveva mai nemmeno pensato di rinnegare la propria natura insaziabile. Conoscere qualcosa equivaleva a possederla, a saperne – condividerne – i più reconditi segreti: lui desiderava questo, svelare i misteri più oscuri e indicibili del mondo, levargli la pelle, svuotarli della loro aria di impenetrabilità, violarli. Mentre abbandonava la navata tranquillizzando il fratello sulle proprie condizioni, negli istanti in cui intuì che Laufey si era rifugiato, certamente, nella cripta nascosta sotto la chiesa, non poté soffocare un brivido maligno: davvero il vecchio mentore aveva trovato la formula per riportare indietro le anime dei defunti e sconfiggere, così, la mortalità che calava, come una maledizione, su tutta l’umanità, rendendola troppo lontana da Dio? Dubitava che l’intruglio che Sigyn avrebbe dovuto bere non avrebbe avuto conseguenze sul suo fisico delicato; gli esperimenti fatti in tal senso si erano risolti in modo orrendo, tutti. E ora lei stava per accostare a un calice tanto venefico le labbra dolci e morbide che lui aveva lambito, conosciuto, sfiorato col trasporto che hanno i desideri intoccabili quando vengono rapiti e, finalmente, posseduti.

 

E se non ci fosse stata lei, la sua amante, la sua meravigliosa moglie, nella cripta in fondo ai gradini di pietra umidi e scoscesi da cui si intravedeva già una fioca, tetra luce, Loki seppe che si sarebbe trovato lì, a braccia incrociate, a osservare con perfido interesse se era possibile ingannare la morte, dominarla, asservirla. Varcò un arco senza leggerne le iscrizioni, ma anche se lo avesse fatto, le antiche frasi latine abbreviate, come l’uso del tempo imponeva, non gli avrebbero suggerito nulla di rilevante.

Sì, se non ci fosse stata la sua incantevole Sigyn dai capelli d’oro e l’intelligenza vivace, dal fisico snello e flessuoso, capace di inarcarsi con tanta squisita grazia contro il suo, lui sarebbe stato nella cripta assieme al suo maestro, malvagio come lui, a fissare con morbosa curiosità una donna che beveva un intruglio, in trepidante attesa di scoprire se le teorie di Laufey avevano un senso. Invece lei era bella e, con la sua curiosità lo aveva incantato, stregato, maledetto, condannato a un sortilegio orribile che gli imponeva di desiderare la conoscenza, ma di non volerla sacrificare sull’altare della sapienza.

La cripta gli si svelò in tutta la sua lugubre bruttezza. “Lasciala, o ti ucciderò come un cane!” gridò, fissando gli occhi cattivi del vecchio. Ma se gli avesse sparato, ragionò, il rischio era quello di colpire lei. Era arrivato troppo tardi?

 

 

Thor, dietro di lui, imprecò. Armati e sgomenti, i due fratelli fissarono con occhi mobili e inquieti la scena. Laufey era dietro la ragazza e la stringeva. Una mano le ghermiva il fianco, impedendole di scappare, l’altro era vergognosamente posato sul seno morbido coperto dalla stoffa pregiata dell’abito. Lei non era riuscita a impedirsi di piangere, ma invece di supplicare, prometteva al suo rapitore la peggiore delle sorti: il fallimento. Vedendo, oltre il velo delle lacrime, Loki, singhiozzò il suo nome. Intravide il sangue, lo stesso che le macchiava l’abito e la pelle, e riconobbe, nello sguardo feroce e sprezzante dell’altro, nella smorfia d’ira che gli fece scoprire i denti bianchi, una determinazione fatale. Lord Odinson era un lupo pronto ad attaccare alla gola il vecchio capobranco per riprendersi ciò che gli spettava di diritto: lei e la conoscenza.

 

 

Laufey assottigliò gli occhi vedendo i due uomini. Intuì che uno dei suoi famigli era stato ucciso davanti l’altare e che il duca Thor avrebbe ingaggiato uno scontro col servitore che era rimasto con lui. Loki, il suo feroce e brillante allievo e confidente, aveva appena sparato all’altro e, nel giro di un respiro, sarebbe stato libero di sfidarlo e combatterlo, di impedirgli di portare a termine il piano di una vita. Aveva pochi istanti per agire. Il pallore sul viso dell’alchimista contrastava con gli occhi lucenti e fieri; ragionò che la ferita dovesse essere abbastanza grave e, forse, ciò avrebbe bilanciato le loro forze. Strinse più forte Sigyn e alle narici salì il profumo di lei – fiori e miele, che inalò mentre Loki annullava la distanza tra loro e Thor parava un pugno lanciato dal suo sgherro.

“Era d’accordo con me. È curioso quanto me,” sussurrò all’orecchio di Sigyn. La sentì irrigidirsi, ripugnata da tale vicinanza, offesa dalla mano che ancora le ghermiva la vita. L’altra no, era andata in cerca della siringa dove aveva versato una pozione che l’avrebbe quasi certamente uccisa, ma gli avrebbe restituito l’altra, quella che amava e, anni prima, lo aveva schernito, bella e crudele.

“Lo so. Mi ha detto tutto.” La voce di Sigyn era un sussurro quasi inudibile – assomigliava a sua madre nella decisione, nella schiettezza.

“E lo ami ancora, nonostante questo?” disse, esitando, per un momento, nell’infilarle l’ago nella carne, ma mostrandole lo strumento fatto di vetro e di metallo, riempito con un liquido venefico.

Sigyn fissò con orrore l’oggetto. Loki era a pochi passi da lei, con una pistola in pugno, ma non poteva sparare di nuovo: rischiava di colpirla. “Lo amo e tu fallirai,” predisse.

Il vecchio scienziato la strinse più forte e le iniettò il veleno sul seno, sopra il cuore, vicino a dove aveva posato le dita nodose e adunche.

E Loki sparò, ma nel tentativo di salvare sua moglie, mancò il bersaglio. Comprese che lei era la sua debolezza, e rivisse per qualche ignota ragione lo spaventoso incubo di quella sepoltura da vivo che il vecchio alleato gli aveva promesso e lui immaginava come se l’avesse già vissuta non una, ma mille volte.

 

 

La differenza, tra lui e il suo carismatico allievo dall’intelligenza penetrante e il sorriso furbo, pensò Laufey, stava nella capacità di affascinare il prossimo, nella fortuna di essere amato nonostante l’oscurità. Loki aveva mostrato a quella ragazza la parte peggiore di sé. Il vecchio recitò poche parole di una lingua morta mentre Sigyn gridava, si contorceva, si accasciava. Il suo viso assunse un colorito terreo, il corpo fiorente e sano tremò, scosso dal dolore.

E l’alchimista, che non aveva fatto in tempo a salvarla, era lì, davanti a lui, con la mascella serrata e lo sguardo carico di un rancore antico e senza nome, la rivoltella stretta tra le dita, Laufey finalmente sotto tiro e senza scudi. Eppure, la priorità non fu di piantargli una pallottola in mezzo agli occhi, ma di picchiarlo, avendo cura di farlo con la pistola in mano, per infliggergli un danno ancora maggiore e spaccargli il naso, rovinargli lo zigomo. Il colpo fece barcollare violentemente il maestro e Loki ne approfittò per prendere il corpo esamine di Sigyn tra le braccia, posarla delicatamente a terra.

“Questo era quello che volevamo. Si risveglierà e la riavrò indietro,” si compiacque il vecchio scienziato, eppure la sua soddisfazione sapeva di fiele. Aveva portato a termine l’esperimento, ma Thor, ormai libero, gli puntava una pistola alla testa e Loki non lo avrebbe mai lasciato uscire vivo dalla cripta. Così avveniva nella natura che l’umanità tentava inutilmente di plagiare: chi è più forte, coraggioso e fortunato sfida il capo ormai debole, sulla cui testa pesano solo rimpianti. Non ultimo, quello che il giovane alchimista l’avesse avuta per primo, godendone, forse generando con lei persino una scintilla di vita. Nell’ipotesi in cui Sigyn si fosse risvegliata, accogliendo lo spirito che lui aveva evocato, non avrebbe potuto averla. “Tu mi hai tradito, tu l’hai…” iniziò, ma il sangue sgorgava a fiotti dal naso e le forze gli venivano meno. Era ancora in piedi perché il pensiero che Loki e Sigyn fossero stati amanti accendeva in lui una gelosia cieca e disperata.

 

La ragazza sussultava sul pavimento della cripta, con gli occhi rivolti verso il cielo e le labbra schiuse. Il rito si era compiuto. Loki si era chinato su di lei, tastandole il polso e il collo. Il battito era flebile, quasi impercettibile, le dita gelate. La stava perdendo. Infilò le dita tra sue le ciocche bionde, in una carezza lenta che sapeva di stupito addio. La furia sarebbe venuta, dopo. Montava già nel sangue, caricandosi di se stessa e delle frasi sconnesse che l’alleato tradito gli rivolgeva mentre si asciugava il sangue. Covavano la medesima ira mortale, fatta di desiderio e rancore.

“Taci, maledetto!” Era stato Thor a parlare. Inorridito, fissava ora la cognata in fin di vita, ora il profilo terreo e affilato di suo fratello. Aveva assistito al tentativo immondo di forzare il muro che separa le anime dei vivi da quelle dei morti e le sue mani erano macchiate di sangue. Disgustato, diede un calcio alla siringa usata su Sigyn, caduta a terra e ormai infranta, che giudicò troppo vicina al vecchio scienziato[4]. Il rumore del vetro e del metallo che rotolava sulla pietra umida sembrò riscuoterla.

Loki s’irrigidì.

 

Forse il rito aveva funzionato. Lei aprì gli occhi, li sbatté più volte, osservò la cripta, non la riconobbe. Si sollevò appena, guardandosi attorno. Non era la ragazza che era stata trascinata nel sotterraneo. C’era qualcosa, nel suo sguardo, di antico e sconosciuto, inconsueto. L’acconciatura aveva ceduto e i suoi capelli le ricadevano sciolti sulle spalle esili. Il suo sguardo grigio si posò su Loki, pallido quasi quanto lei, che la fissava a labbra strette, per poi spostarsi sul vecchio scienziato. Vide un uomo ossessionato da un sogno che non gli era mai appartenuto e un altro corroso dalla brama di avere tutto, dall’incapacità di accontentarsi che, come una maledizione, lo inseguiva ogni volta, da sempre, spingendolo a distruggere tutto ciò che toccava. Piegò la testa di lato. Laufey la chiamò con molti nomi e disse di amarla, nonostante Thor lo invitasse a non osare pronunciare una simile sconcezza e continuasse a tenere la rivoltella puntata su di lui.

Loki, invece, rifletteva in silenzio, notando le differenze, roso dal dubbio. Cominciava a sentirsi debole: forse, aveva perso troppo sangue. I begli occhi di Sigyn tornarono a puntarsi su di lui, lucenti e fermi, ma carichi di una dolcezza infinita. “Cosa mi hai fatto?” gli sussurrò. “Cosa ti sei fatto?”

“Ti ho avvelenata e poi ho provato a salvarti. A proteggere la tua vita e il tuo onore,” riconobbe lui con un sorriso mesto. “Ma sono arrivato troppo tardi.”

Le strinse le mani, fredde e incolori, e lei lo baciò sulla bocca, piano, delicatamente, come se volesse consolarlo o ringraziarlo, ma anche scoprirlo, ritrovarlo e perdersi. Uno sfioramento leggero che faceva calare, su di loro, un drappo d’incertezza. Era un bacio come non se lo erano mai dato, eppure avevano scambiato quella stessa effusione decine, centinaia di volte.

“Chi sei?” le domandò l’alchimista, ma una parte di lui, la più razionale, non riusciva a credere che l’esperimento di Laufey fosse riuscito. Pensò al discorso che aveva fatto a Sigyn nella carrozza, prima di sposarla: agli dèi di Asgard che conoscevano in anticipo la loro sorte bagnata di sangue e che, nonostante ciò, avevano scelto di affrontare a viso aperto la Voluspa, troppo arroganti o saggi per cambiare il loro destino. Pensò anche alla strega danese, che si era messa a supplicare i suoi dèi ormai morti di salvare la vita del conte trafitto dalla freccia e di come loro l’avessero ascoltata. Lui e Laufey avevano aperto la porta proibita della conoscenza: si erano convinti che era possibile entrare nel regno dei morti e strapparne via le anime, ma avrebbero dovuto ricordare che le intrusioni di questo genere lasciavano sempre una macchia indelebile, da qualche parte. Chiamò sua moglie e lei abbassò le ciglia scure sulla sua ferita.

Lo guardò e le sue labbra tremarono. “Tu stai morendo,” sospirò. “Ci ritroviamo sempre, a questo punto,” aggiunse con tristezza, carezzandogli delicatamente il viso affilato.

Loki si tastò la ferita, ritraendo le dita sporche di sangue. “No che non morirò, sono stato ferito più gravemente, in passato,” la corresse, ma c’era, nello sguardo della ragazza, un’ombra antica e straniera, carica di un rimpianto sordo e straziato.

Sigyn, o chiunque fosse, si alzò in piedi, lieve e decisa, mostrando l’abito bianco macchiato di sangue. La sua schiena era diritta come una freccia e sul viso, pallidissimo, spiccavano gli occhi grigi che Loki ricordava scintillare divertiti a ogni battuta o facezia.

“Tu non hai risvegliato la donna che amavi,” disse, rivolgendosi al vecchio scienziato e muovendo un passo verso di lui. “Ma hai commesso un errore e stanotte morirai anche tu,” annunciò severa.

Loki si sollevò vincendo il dolore, frapponendosi tra moglie e il mentore tradito, fissando con sospetto sia uno che l’altra.

“Chi sei?” ripeté. Lo trafisse l’idea che la ragazza che aveva tenuto tra le braccia, con un vestito di raso verde addosso, non ci fosse più e, al suo posto, fosse stata evocata una creatura diversa, più saggia e antica.

Sigyn sorrise mestamente e con le dita sfiorò la bella gemma che teneva al collo. Le era appartenuta molte volte, perché gli oggetti in cui vengono infusi sentimenti, desideri e speranze diventano amuleti, talismani che ci inseguono in questa vita e nelle altre. “Se te lo dicessi, amore mio, tu non ricorderesti,” confessò.

 

 

Ciò che avvenne dopo non fu che un ricordo confuso e troppo rapido. Uno degli uomini che accompagnava Laufey, rimasto stordito nella navata, si era ripreso ed era sceso nella cripta. Non trovò, a bloccarlo, né il prete né il cocchiere. Erano corsi in cerca di un medico per il fratello del duca e di rinforzi. L’uomo raggiunse il sotterraneo in tempo per vedere Sigyn al centro della stanza, eterea e delicata come un fantasma, e a sorprendere Thor, che minacciava il suo capo. I brevi momenti di colluttazione che lo videro, comunque, perdente, permisero a Laufey di lanciarsi verso la donna per abbracciarla o stringerla o chiederle chi fosse e dove avesse nascosto lo spirito esangue che amava. E Loki ne approfittò per completare il suo tradimento e infilare il pugnale, fino all’elsa, nella schiena del maestro che aveva intravisto per la prima volta in mezzo ai fumi dell’oppio. Il vecchio fu scosso da un ultimo fremito e crollò su se stesso, senza illudersi di aver trionfato, con in bocca una frase che rimase lì, congelata tra i denti e la gola. Il furbo Loki Odinson, per parte sua, pagò caro il suo gesto. Lo sforzo di quell’estremo affondo, inflitto per vendetta e precauzione, annebbiò la sua vista, ottenebrò i suoi sensi.

 

Si ritrovò steso per terra, con la testa poggiata sulle gambe di Sigyn: aveva ragione lei, stava morendo. Aveva perso troppo sangue. Se ne rese conto con orrore, mentre la vita gli scivolava via dalle dita e lui non poteva far nulla per impedirlo. Le notti insonni che aveva trascorso studiando formule e testi antichi, pozioni ed esperimenti, gli sfilarono davanti come i grani di una collana, vacui e inutili.

“Tu sei la strega che incantò il conte,” mormorò, mentre il dolore pulsante svaniva sotto il tocco delle mani di lei, pietose e gentili. Gli carezzava la fronte e mormorava una nenia sconosciuta a fior di labbra, di cui non riusciva a distinguere le parole.

“Io sono stata molte cose,” ammise lei, “anche una strega, una volta, e tu mi hai amata,” soffiò con orgoglio. I suoi occhi, ora, erano pieni di lacrime trattenute. “Ma non puoi ricordarlo, né ora né mai,” proseguì con voce bassa, appena spezzata, “e questo non doveva accadere – la porta della conoscenza non va varcata, mai. Morirò anche io, adesso. Mi tiene in vita solo il seiðr, il veleno che scorre nel mio corpo è troppo potente. Mi vedi? Sto già tremando. Siamo mortali, Loki, ma il nostro spirito no. Ti raggiungerò presto – e ti ritroverò, amore mio.”

Lord Odinson le rispose che non doveva morire, che non desiderava essere seguito nel regno delle ombre. Con l’ultimo barlume di lucidità rimasta, ritenne che quelle erano le fole di uno spettro maligno o i deliri di una donna che la paura improvvisa aveva reso pazza. Non era la ragazza del vestito verde. Non più. L’intuizione che gli era servita per collegare l’antica leggenda che circolava nella sua famiglia con quelle spiegazioni sconnesse gli apparve debole e inconsistente, eppure scoprì con orrore di avere gli occhi lucidi, mentre lei, sempre più vicina, parlava e gli sfiorava i capelli scuri e umidi con le ultime forze rimaste.

“Perché la tua maledizione è questa, Loki,” proseguì Sigyn. “Non saprai mai chi sei, né chi sei stato: e non conoscere, per te, è il peggiore dei tormenti. Io lo so. Hai vissuto centinaia di vite, ma la tua natura, a volte, ti tradisce e replichi gli stessi sbagli fatti in passato. E come potresti correggerli, del resto? La memoria di ogni esistenza viene spazzata via, cancellata. Resta solo la mia, che, ogni tanto, riaffiora, ma quando lo fa, è solo dolore. Come allora, quando indossavo questa pietra e tu eri un conte, come adesso, che so di averti avuto e ti sto perdendo. Passeranno anni prima che potremo incontrarci ancora. Io sono lei. Lei era me,” confessò chinandosi verso di lui, e pronunciò il nome più antico che avesse mai avuto, il primo che lui, in un altro tempo, assottigliando appena le palpebre, aveva ascoltato e rigirato in bocca, assaporandone il suono dolce come l’idromele.

 

Poi, asciugandosi le lacrime, la dea della Fedeltà gli raccontò del dio degli Inganni che tradì gli Æsir per soddisfare la sua sete di vendetta e di come evocò il Ragnarok che bruciò ogni cosa, riducendo la bella Asgard dalle torri d’oro a un cumulo di macerie e cenere, perché così era scritto; che tutti gli dèi morissero uccidendosi l’un l’altro. Ma la morte non bastò a fermare i loro fantasmi inquieti, aggiunse. Le loro essenze continuarono a vagare e a esistere, cercandosi e combattendosi, amandosi e lasciandosi. Alcuni di loro avevano finito per esaurirsi, raggiungendo il Valhalla e ritrovando il proprio antico posto e la pace, ma loro no, erano incapaci di fermare la ruota che girava eternamente, trascinandoli in ogni parte del tempo e dello spazio. Il dio degli inganni non voleva morire, del resto. Pur di non farlo, aveva spinto Hela, la terribile signora del regno dei morti, a cancellare il proprio nome dal libro dei defunti.

Ma con questo inganno il dio del Caos aveva finito per intrappolare se stesso, concluse la dea della Fedeltà con un sorriso breve. Inconsapevole della propria vera natura, s’incaponiva in ogni vita cercando di aprire le porte dell’inconoscibile e sfidando l’ordine costituito.

Era una fiaba bellissima, decise l’alchimista. La voce della ragazza arrivava da sempre più lontano, o forse era lui che si stava allontanando, perdendo le forze come perdeva il sangue. La ascoltava, ma non sapeva, non riusciva a ricordare le storie cui si riferisse, né aveva idea che la terra calpestata, Midgard, fosse il nascondiglio e la prigione che lui stesso aveva scelto per non desiderare, per sempre e ormai invano, Asgard ormai fatta di cenere e rovina, canto perduto di un popolo che l’aveva dimenticata, la cui memoria distrutta non era che una fiaba da sussurrare nelle sere d’inverno. Lei gli raccontò, in quei brevi momenti in cui la coscienza gli scivolava via a ogni respiro, di un fiordo incantato illuminato da una tenue luce dorata. E lui credette di vederla, la luce che colorava ogni cosa con sfumature rossastre e miele, come i capelli d’oro di lei. Illusione, sogno e ricordo si mescolarono come le acque di tanti fiumi che, alla fine, si ritrovano nel mare.

Lord Odinson non vedeva più. Non sapeva che Sigyn, boccheggiando, era quasi stesa su di lui, non sentiva Thor che, stremato dall’ultima lotta, gli gridava invano di resistere. Non era più nella cripta e il dolore scemava, come i sensi del gusto e del tatto.

“Fidati di me, Loki. Lasciati andare. In questo mondo ci incontreremo per soffrire, ci ritroveremo senza sapere il perché per ancora troppe volte. Raggiungimi nel Valhalla. Torna a essere ciò che sei, dio degli inganni, anima mia.”

Furono le ultime parole che sentì. Dopo, il dolore svanì e l’alchimista scivolò nell’oblio senza luce né colore della morte, nel sonno senza sogni in cui l’ultima sensazione che lo raggiunse fu il sapore salato delle labbra di lei, fu il singhiozzare disperato di un corpo scosso dai tremiti del veleno e della perdita, fu la propria mano che cancellava, con la penna nera di un corvo, un patto antico, fu la promessa di ritrovarsi in un luogo che non c’era più.

 

Dopo il buio, fu la luce del sole che illuminava il fiordo, fu l’oro che barbagliava sull’acqua e il cielo rosso e viola.

 

 

 

What makes you think I'm enjoying being led to the flood?

We've got another thing coming undone

And it's taking us over

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, throw your arms in the air tonight

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, lose our shirts in the fire tonight.

The National, Runaways

 

Fine

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

 

è particolarmente difficile accomiatarmi da questa storia e scrivere le note. Mi mancherà, sniff ♥.

Non è stato un periodo semplice. Ho avuto tante cose da fare e da pensare nella real life un paio di momenti di scoramento che mi hanno fatto sentire il bisogno di allontanarmi un po’ da Efp, ma Loki e Sigyn fanno parte di me in una maniera che non vi so spiegare se non scrivendone e se li ignoro per troppi giorni bussano con altre storie o con quelle che ho già iniziato.

Postare la fine di una fiaba come Ombre è stato complesso perché la stessa Barbablù è una fiaba complessa – si trovano poche altre storie che hanno lo stesso intreccio/senso: basandomi su alcune teorie psicoanalitiche (non fatte dal primo scemo che passa) di studiosi che hanno dedicato la vita all’argomento, ho abbracciato la tesi che Barbablù sia la storia della perdita dell’innocenza e del tradimento, temi affrontati anche qui. Nella fiaba originale, la sposa di Barbablù viene messa in guardia dal marito in procinto d’assentarsi: non entrare nella stanza di cui hai la chiave, le dice. Lei, ovviamente, entra e vede le mogli morte e perde l’innocenza. Sa cos’è successo. Barbablù si accorge che la moglie ha trasgredito, perché la chiave si macchia irrimediabilmente di sangue. Come avviene quando si hanno rapporti per la prima volta e si è donne. Barbablù muore perché non perdona la moglie e si fa ammazzare dai fratelli di lei

 

Sigyn è la moglie di Barbablù per eccellenza: sposa quello che avrebbe dovuto essere il suo assassino, ma che in realtà si è invaghito di lei, ma il tema della porta aperta che doveva rimanere chiusa riguarda anche Loki e Laufey, ansiosi di svelare il segreto della vita. E questa non è una AU, ma una storia che si lega al canone e che parla di un post Ragnarok. Semmai è una soulmate!AU, dato che Sigyn e Loki sono, come sempre e per sempre, anime gemelle destinate a incontrarsi. Vi ho spiegato anche perché Thor e Odino sono presenti (anime non ancora placate) e altri assenti. E niente, spero vi sia piaciuta. Ogni dettaglio storico è assolutamente coevo e coerente, così come la mentalità dei personaggi.

La dedico a chi ha letto le anteprime, a chi mi ha sostenuta fino a questo momento e a chi l’amerà. Grazie di cuore ♥ a chi l’ha inserita nelle liste e a chi lo farà ♥ – ogni volta che listate o vi palesate m’illumino d’immenso, per voi sembrerà una cosa da niente, ma vi assicuro che ricevere sostegno per chi scrive ha la sua importanza e le leggo tutte, anche se non sempre riesco a rispondere.

 

Perdonatemi per la lunghezza infame. Generalmente i miei capitoli sono la metà esatta di questo, ma non volevo spezzarlo. Proprio per la lunghezza, spero non ci siano troppi refusi. Non ho avuto il tempo di rileggerlo più di due volte. Vi confermo fin da ora che la storia della strega danese e del conte verrà scritta, che adesso mi metterà a lavorare sull’aggiornamento di Accordo e quello di Scintille e… chissà. **

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre fiabe/storie da me postate né qui né altrove e lo stesso vale per gli headcanon su Loki o Asgard.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss



[1] Il concetto di matrimonio d’amore, di famiglia nucleare (cioè composta da una giovane coppia con i figli) e tante altre amenità che adesso appaiono scontate non lo erano fino a pochi decenni fa.

[2] Erano anni che volevo usare questa scena: che Loki sia cavalleresco, al netto della sua stron***gine, è canone: lo abbiamo proteggere Jane in TDW.

[3] Questo è il miracolo di San Ceppato! Le pistole ottocentesche non erano come quelle attuali e avevano questo difetto: s’inceppavo e spesso ti esplodevano in mano. In tanti mi dicevate che sarebbe stato figo se Sigyn avesse sparato a Loki, nello scorso capitolo. Sarebbe piaciuto anche a me, ma Loki ci tiene a dire che non è una fetta di groviera.

[4] Nella metà dell’Ottocento si usano già le siringhe.

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