Ad illuminarci, è la stessa luce

di ryuji01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mokupuni ***
Capitolo 2: *** Hala ***
Capitolo 3: *** Maluhia ***



Capitolo 1
*** Mokupuni ***


Nel caso vi troviate proprio persi, anche se vi consiglio di continuare la lettura fino in fondo ad ogni capitoletto, alla fine del capitolo trovate un glossario con le traduzioni.
 
Mokupuni
Isola
 
Un ragazzo percorreva velocemente uno degli angusti vicoli della periferia con la testa china. Ogni suo passo era concitato; aveva il volto arrossato per il caldo meridiano, e l’odore di putrido che veniva dagli edifici fatiscenti gli faceva torcere il naso.
La stretta via terminava in un molo di legno marcio fermato sulla banchisa in malo modo. Impauriti alla vista del ragazzo, dei wimpod scapparono, arrampicandosi su per le pareti degli edifici per poi infilarsi in una qualche fessura e scomparire.
Il giovane si fermò per farsi sferzare il viso dalla brezza salmastra, mentre osservava quel panorama, davanti al quale gli venne una fitta al cuore, come accadeva ogni volta dopotutto. Titubò, poi inspirò quell’aria malsana per continuare a vivere. Sospirò.
Più a largo di qualche metro rispetto alle abitazioni abusive, il mare riprendeva il suo colore ancestrale, e sopra di esso degli wingull danzavano leggiadri, piangendo il loro pianto. La distesa d’acqua salata, costellata da isolette qua e là, continuava a sinistra incorrotta fin verso l’orizzonte, mentre a destra veniva chiusa nell’abbraccio della baia dove sorgeva la città di Mana‘olana.
Le spiagge candide quanto neve appena caduta erano interrotte da una striscia di asfalto nero costruita loro a ridosso, e dietro di essa si ergeva qualche filare di costruzioni. Dietro gli abitati, poi, si stagliava un’immensa foresta che il giovane sperava sarebbe rimasta intatta per molto tempo ancora, come lo era sempre stata. Questa si estendeva coprendo di un leggero manto viride tutti i colli dell’uka, dai quali nascevano le pendici del sommo monte Lanakila, unica cima d’Alola dove riposavano nevi perenni.
Quella era la sua regione natale, che adesso stava venendo man mano corrotta, ed egli purtroppo non poteva capire quanto in profondità quella malattia fosse arrivata, o forse semplicemente non lo voleva capire.
Il ragazzo strinse la sua maglia lisa all’altezza del petto, con le sue forti mani, e si costrinse a distogliere lo sguardo da quel nostalgico e tremendo spettacolo. Poi si voltò e tornò indietro di qualche passo per fermarsi ad una piccola porta di un edificio le cui finestre erano state sbarrate con delle assi.
Con cautela, fece scattare la maniglia e aprì la porta cigolante, infilandosi dentro il buio locale. La porta si richiuse alle sue spalle da sola, con tanta veemenza che pensò gli sarebbe cascato il soffitto sopra la testa.
Mentre l’aria fresca del locale lo avvolgeva, confortevole, il ragazzo si diresse al bancone del locale, dietro al quale un omone vestito elegante stava preparando un qualche cocktail. Il banconista aveva iniziato a squadrarlo dall’alto al basso, ma quando i loro occhi si incrociarono, il suo sguardo si addolcì leggermente. Il ragazzo serrò i pugni.
Sarebbe stato meglio fare in fretta: quel posto era stato costruito per incontri a fini non proprio legali, e ci si poteva sempre trovare qualcuno sulla cui strada era meglio non incappare. Almeno, però, lì nessuno faceva domande sul conto altrui, fintanto che neanche l’altro si fosse dimostrato troppo curioso.
Si sedette al bancone, su uno degli alti sgabelli imbottiti, rivestiti di una morbida stoffa cangiante color porpora. Nell’attesa, ordinò il solito, un semplice succo di baccananas, perdendosi nei suoi pensieri mentre l’uomo gli versava il denso liquido giallo.
Quando seguiva l’addestramento per entrare nelle guardie reali i suoi istruttori parlavano spesso di quella rete criminale i cui membri venivano semplicemente detti mea pale kānāwai, i fuorilegge. Se ne possedevano pochissime informazioni, e tutti quelli che erano riusciti a scoprire qualcosa erano celebrati unanimemente come eroi. Per questo erano anche la preda più succulente per tutti quegli ingenui cadetti che desideravano gloria e fama assicurata.
Nella sua innocenza, anche il giovane l’aveva desiderato un tempo, per un momento, cosicché magari, almeno per una volta, si sarebbe potuto sentire come tutti gli altri. Sarcastico come, non appena fu sbattuto fuori dall’unità di cui faceva parte, ritrovatosi a dover fuggire per non venire arrestato, la spirale degli eventi lo aveva fatto scivolare in quel fossato da cui, ormai lo sapeva, era così difficile uscire. Tuttavia, non potendo sopravvivere altrimenti, aveva deciso di sguazzare nell’abisso, fin tanto che il fango non fosse diventato sangue almeno.
Dietro al bancone, su dei ripiani di vetro ben lucidati riposavano delle bottiglie eleganti, ripiene di liquori e di grappe, con quella loro peculiare viscosità da cui il ragazzo era sempre rimasto affascinato. I raggi del sole venivano distorti e ovattati dalle spesse finestre variopinte, che davano sulla baia, e quando si scontravano con le bottiglie si creava un complesso gioco di riflessi che portava pace nel suo animo, rapendolo con la sua gravosa bellezza.
Quello era l’unico punto di tutto il locale illuminato; tutto il resto era rischiarato fiocamente da degli steli di metallo opaco che terminavano in boccioli vitrei, al cui interno brillavano delle fiammelle tenui.
Il ragazzo chiuse gli occhi che potevano finalmente riposarsi dall’intensa luce meridiana, riempì lentamente i polmoni di quell'odore pungente che impregnava l'aria del locale, e bevve un sorso dal suo bicchiere.
Si sentiva fuori posto, e non tanto per quell’universo di cui era finito a far parte, ma perché era come se si fosse trovato da un’altra parte del mondo, come se da un momento all’altro fosse finito in uno di quei posti esotici le cui foto ricoprivano i libri provenienti mai ka ʻāina ʻē, da terre straniere. Le sue membra erano inebriate da quella cultura, quella nuova tradizione che anelava a far soccombere per sempre la sua, ma, per quanto ne potesse essere terrorizzato e disperato, ormai era succube anche lui di quell’incubo; presto non si sarebbe nemmeno più riconosciuto.
Un efficace veleno era penetrato in ogni anfratto del governo d’Alola, corrompendo nel tempo anche la mentalità della gente, presa così alla sprovvista da non riuscire a reagire in alcun modo, tantomeno quando videro che persino tra i propri cari c’era chi aveva cospirato l’intossicazione e bramato la malattia, che per loro portava un altro nome, molto più semplice, molto più cieco, quasi speranzoso: civilizzazione.
L’omone andava avanti indietro per la porta della cucina, portando con sconcertante destrezza le pietanze più disparate, che emanavano i più invitanti profumini.
All’improvviso, mentre stava finendo la propria bevanda, la porta del locale sbatte con il solito fracasso, ed una voce calda e sicura irruppe nella quiete.
« Ahola, ragazzo! Vedo che non sono ancora riusciti a catturarti; ne sono veramente contenta. Allora, trovato qualche posto carino dove stare, o girovago come al solito? » Gli chiese la donna dall’aria materna, vestita con degli abiti che cadevano morbidi sulle sue curve. Dietro di lei la seguiva un uomo muscoloso, che portava in spalla un signore in giacca e cravatta, mani e polsi legati.
« Evitami i convenevoli, ché sai bene come sono messo. Forza, dimmi cosa devo fare. »
 
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All’orizzonte svettavano alti palazzi di vetro, metallo e pietra, i primi segni dell’urbanizzazione che piano piano, come un’onda, avrebbe travolto tutta Mana‘olana. Nella parte originaria della cittadina le abitazione erano fatte di legno e avevano i tetti coperti di palma; in fianco alle porte erano inchiodate statuette apotropaiche, raffiguranti i kapu, i numi protettori delle isole.
Più verso l’uka si trovava una specie di piazza, al cui c’entro si ergeva un grande pedana da combattimento, dove un tempo si svolgevano gli incontri di lua, ma che a quel giorno servivano solo durante le hoʻolauleʻa per mettere in scena danze e spettacoli. In quello spiazzo e lungo le vie che vi sboccavano era perennemente allestito un vivace mercato, dove i malihini andavano per comprare qualche ricordino del proprio viaggio; non importava a nessuno che cosa un tempo avevano significato quei simboli, ora prodotti venduti in serie. Neanche agli isolani interessava più oramai. Contava solamente guadagnare e, alla fine, non li si poteva biasimare.
All’improvviso, una magra figura con il volto mascherato si gettò tra la folla, inseguito da dei poliziotti  che urlavano alla gente di fare largo, aiutati dalle ringhia dei growlithe.
Benché all’apparenza fosse gracile, quel ragazzo correva incredibilmente veloce: sembrava quasi come se stesse danzando, destreggiandosi a serpentina tra le persone ignare e confuse. Gli inseguitori, però, lo seguivano senza intoppi, schiamazzando a destra e a manca perché la gene si scansasse.
I growlithe, invece, erano smarriti: non avevano una chiara visuale, e gli odori del mercato gli impedivano di captare in che direzione fosse andato il mascherato. Inoltre, non potevano usare i propri poteri in un posto tanto affollato, ché altrimenti avrebbero rischiato di ferire qualcuno.
Comunque, il ragazzo non sarebbe riuscito ad andare avanti così ancora per molto: il battito del cuore gli martellava le tempie, e il respiro era sempre più costretto e annaspato, tanto più che non riusciva ad ispirare abbastanza aria.
Ad ogni ampia falcata, l’anello di metallo opaco incastrato nelle fessure per le narici della maschera vi sbatacchiava rumorosamente, facendo vibrare il volto del giovane; ma per quanto gli desse fastidio, togliersela sarebbe stato troppo rischioso.
Finita la zona più gremita del mercato, il ragazzo iniziò a dare fondo a tutte le sue forze: doveva trovare il modo per arrivare alla foresta, dove sarebbe stato più semplice seminarli. Si scervellò per qualche istante, senza in realtà riuscire a concentrarsi per davvero. La frustrazione era come un pugno allo sterno, giusto sotto le clavicole: non erano riusciti a risolvere niente, e tutto era andato per il peggio.
Ad un tratto, però, il suo sguardo cadde su un ragazzo che era appena uscito da una viuzza laterale e, benché fosse più alto e ben più atletico rispetto a lui, decise che avrebbe provato comunque a prenderlo in ostaggio, perché l’alternativa sarebbe stata la galera.
Con lo slancio della corsa, cinse la vita del ragazzo e gli punto un coltello alla gola. Lo strattonò con sé, tenendoselo davanti a mo’ di scudo umano, ed indietreggiò per un vicolo che portava alla foresta.
Da lontano, si sentivano i latrati dei growlithe, che aveva superato la massa di persone, e i loro versi rabbiosi si facevano sempre più chiari e distinti, ma al contempo, da dietro di lui, si udivano provenire i primi versi dei manana, per un momento, fu sollevato.
Quell’attimo di distrazione, però, fu abbastanza perché il ragazzo, che tratteneva, si divincolasse dalla stretta del suo braccio e, a quel punto, all’unisono ogni parte del suo corpo  cominciò a tremare istericamente. Era la fine.
Tuttavia, inaspettatamente, quel giovane si girò verso di lui, guardandolo dritto negli occhi con fare grave. Il suo volto era magro ma dai tratti morbidi, con labbra carnose, un po’ più scure della pelle olivastra, e i suoi corti capelli mori, appiccicati sulla fronte dal sudore, in qualche punto lasciavano intravedere delle sfumature rosa.
« Lasciami andare » Gli intimò con voce salda il giovane che continuava a fissarlo serioso, con dell’aspettativa. « E se vuoi, poi, puoi anche scappare, per quel che mi riguarda. »
Le iridi azzurre di quel ragazzo, che lo teneva fermo per le braccia, avevano iniziato a rilucere, come le  acque, quando a mezzodì riflettono il sole con il loro brilluccichio ammaliante e disorientante. Quel colore cristallino era identico a quello di cui si era sempre immaginato fosse il mare di Pali-uli, terra leggendaria di gioia e ricchezza dove, come narrato nei tomi de Ka loʻolelo lōʻihi, venivano cresciuti i figli degli aliʻi.
Non appena il mascherato si accorse che erano stati raggiunti, però, l’incantamento finì e, in un istante, ripuntò il coltello dall’elaborata impugnatura al collo del ragazzo, tenendolo fermo con l’altro braccio. « E ʻae mai ʻoukou i koʻu hele, akā naʻe pepehi ā make au iāia! » Urlò con voce spezzata, ma la sua ansima rumorosa, le mani nervose e lo sguardo, che balzava terrorizzato da un poliziotto all’altro, lo tradivano.
Il ragazzo minacciato di morte sospirò profondamente, abbastanza perché la lama del coltello gli facesse rivolare del sangue giù per il collo. Era meglio fare in fretta, prima che qualcuno di loro lo riconoscesse.
Prese dal polso il suo osteggiatore torcendoglielo dietro la schiena per disarmarlo, e poi lo scaraventò a terra. Si sgranchì un attimo la schiena: messosi al sicuro da uno, doveva occuparsi degli altri. Avanzò verso gli agenti con passo sicuro e i suoi occhi ripresero a emanare una tenue luce turchina, la stessa di prima.
« Adesso, tutti voi ci lascerete andare senza fare storie » Proferì. « Quando tornerete in caserma, e vi chiederanno cosa sia successo, direte che avete dovuto abbandonare l’inseguimento perché, una volta nella foresta, avete incontrato un bewear. Tutto chiaro? »
Come incantati, sia i poliziotti che i growlithe se ne andarono, sotto lo sguardo stupito del mascherato.
 
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Gli alberi della foresta avevano alti fusti ricoperti da una sottile corteccia, e lussureggianti chiome da cui di tanto in tanto pendevano delle liane. L’aria che vi si respirava era assurdamente afosa e non spirava un soffio di vento. Alto nel cielo, il sole batteva coi suoi caldi raggi dai quali neanche l’ombra degli alberi poteva portare sollievo.
« Adesso che ci siamo allontanati abbastanza dalla città, mi vuoi dire perché mi hai aiutato? »
« Preferivi che ti lasciassi nelle mani della polizia? Se vuoi, faccio sempre in tempo a riportartici. »
« Non è quello che intendevo » Si spazientì il mascherato. « Capiscimi: ti ho puntato un coltello alla gola, e ho pure minacciato di ucciderti! »
« Sì, è ti stavi pisciando sotto mentre lo facevi. »
« Lo so, ma… è che non sono un criminale. Non volevo farti del male, ma al contempo è stata l’unica cosa che mi è venuta in mente da fare per poter scappare senza che quelli là mi seguissero. »
Dalle valli ad est, riecheggiò un rumore assordante, il pianto di una krokorok in calore.
« Veramente… » Sospirò, abbassando lo sguardo « non volevo farti del male. »
« Tranquillo. » Rise l’altro, dandogli una possente pacca sulla schiena. « Sarei riuscito a stenderti in ogni caso: te l’assicuro. »
Al sordo suono dei passi dei due ragazzi i piccoli ledian e i pikipek scappavano, nascondendosi nel sottobosco o tra le folte fronde.
« Comunque… » Ricominciò l’altro « Che ruolo hai per poter utilizzare il mana? »
« Fidati: non ti interessa. »
« Eccome se mi interessa, invece. » Ribadì, alzandogli la maglia così per vedere il tatuaggio, che avrebbe dovuto permettergli di capire che pattuente si trovasse davanti.
« T’ho detto che non ti interessa! » Gli berciò contro, strattonandolo via.
« Ma… » Costatò perplesso il ragazzo, recuperato l’equilibro. « Non hai nessun tatuaggio! Eppure coloro col potere dei folletti lo dovrebbero avere sull’addome basso, e sono abbastanza sicuro che sia quello lo ‘ao del tuo mana. Tra l’altro dov’è il tuo manana pattuente? Non dovrebbe stare sempre con te? »
« Parliamo un po’ di te, invece: che ne dici? » Propose seccato, scoprendogli il ventre a sua volta. « Come mai il mio mana non funziona su di te, visto che neanche tu mi sembri essere un pattuente di alcun tipo? »
« Beh, è semplice » Ridacchio. « Diciamo che sono un monaco del tempio del ghiaccio, o almeno… circa. È un po’ complicata la storia. Ad oggi vivo qua verso il kai. E non ho il tatuaggio perché non ho ancora stretto il patto, ma a tutti gli effetti il manana mi ha già offerto la sua benedizione, e così il mana è già presente in me, solo che non lo posso usare volontariamente. Per questo, il tuo potere non ha effetto su di me. »
« Alla faccia del semplice. È quasi più contorta la tua situazione della mia. » Se la rise il ragazzo « Comunque, se vuoi te la puoi togliere la po‘oki‘i? Non ho intenzione di andare dalla polizia, tanto. »
Quella maschera era un tradizionale simulacro di Kapu Pulu intagliato a mano nel legno.
« Non per offenderti, ma… sai com’è: ci conosciamo da troppo poco tempo perché possa essere sicuro di fidarmi di te. Ma grazie comunque della preoccupazione. »
« Comunque è veramente bella. »
« Sì, piace moltissimo anche a me. Peccato che dovrò bruciarla… » Sospirò triste. « Era un regalo del mio kumu, ma se non lo faccio rischio la galera, quindi… »
I ragazzi proseguivano spediti per il loro tragitto, tagliando liane, scalando pendii di radici e, più di una volta dovettero aggirare la tanta di un manana potenzialmente pericoloso.
« Ma, scusa la domanda: perché mi stai seguendo? » Chiese il mascherato.
« Beh, perché non ho un cazzo da fare, ovvio no? » Ironizzò.
« Dai, seriamente: perché? »
« Perché » Il volto del ragazzo dagli occhi cerulei si incupì « Non appena l’effetto del mio mana sarà finito e quei poliziotti si renderanno conto di chi ero, mi inizieranno a cercare per tutto l’uka. Quindi è meglio sbrigarmi. »
« Un attimo » Si fermò il ragazzo, il sangue raggelatosi nelle vene. « Tu sei ricercato dalla polizia? »
« Sì, ma penso che tu sia l’ultima persona a potermelo dire con quel tono. »
« Ma io non ho fatto niente di male. »
« A parte puntarmi un coltello alla gola, ma tralasciamo i dettagli, no? » Consigliò. « Comunque, neppure io ho fatto nient… »
« Un attimo, un attimo, un attimo. Un giovane pattuente ricercato dalla polizia, il cui mana è di ‘ao āiwaiwa: tu devi essere quel tale Huali! »
« Sono diventato famoso, allora! » Ridacchiò tra lo sconforto e l’amarezza. « Sì, sì, sono proprio io. Ma dimmi: voi persone normali sapete perché sono ricercato? »
« No, le locandine dicono solo che hai stretto un patto con un folletto. » Spiegò incerto, guardando lontano da quel ragazzo, mentre stropicciava il fondo della sua maglia, con convulsione preoccupata.
D’un tratto, Huali gli si avvicinò e sorrise come un folle. Il mascherato trasalì, costringendosi in un’apnea. A quel punto la foresta si riempì di una fragorosa risata.
« Ahahah, ma quanto sei scemo… » Si piegò in due dalle risate il ragazzo, simulando un finto divertimento. Sperava che dietro quelle risate, forse isteriche, sarebbe riuscito a nascondere le paure di una vita senza tregua e senza requie, come di un mostro ripugnante aberrante agli occhi della gente; sperava che il loro frastuono avrebbe ovattato, almeno alle orecchie di quel giovane, la colpa che alla fin fine egli sentiva sua. Un essere che ambulava senza meta, corroso dentro e bestiale al di fuori, ecco qual era la sua essenza.
« Scemo a chi?! » Riprese a respirare in preda al panico l’altro, mentre l’altro si forzava ancora a sbellicarsi. « Potresti essere un semplice ladro come un assassino per quanto ne sappia. »
« Non ho mai ucciso nessuno » Affermò, d’un colpo gravoso e triste. « In verità non ho mai fatto niente » Sorrise con falsità. « Ma se lo chiedi a loro ti diranno che ho rubato qualche pietruzza. »
Piano piano che si avvicinavano ai pendii dei colli, lo scenario cambiava poco a poco: gli alberi si facevano sempre più radi, la terra sempre più brulla e il sottobosco, che verso il kai impediva quasi i movimenti, lì non era più così lussureggiante. Anche gli schiamazzi dei manu erano ormai vaghi pianti alle loro spalle, ma al compenso si iniziavano a vedere dei manana strisciare celeri per terra, di buca in buca.
« Comunque, il mio nome tu lo conosci già, adesso tocca a te dirmi il tuo. »
« Kōnane. Sono Kōnane. » Rispose il ragazzo, con un sorriso genuino, portando le proprie mani dietro al capo, per slacciare il nodo che gli teneva attaccata la maschera al volto.
 
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Kōnane, finito di mangiare la cena di bacche che avevano improvvisato, si era cambiato i vestiti con degli altri che aveva nascosto in una grotta di quella zona, quella mattina stessa. Nel frattempo, invece Huali si era sdraiato sulla pietra della montagna, per poi addormentarvici.
Quando si svegliò, il sole era iniziato a tramontare ed il cielo si era tinto d’arancio e di rosa. Huali era intento a guardare fisso il cielo imbrunito. Il suo volto era quieto, il suo corpo rilassato, tutta la sua figura era immersa nella luce del tramonto, e stagliava un’ombra tagliente sulla pietra dietro di sé. Sembrava star contemplando quella scena con un’aria religiosa, come se stesse pregando a qualche creatura leggendaria.
Il sole stava man mano affondando con tutto il suo splendore nella scura e rada foresta, le cui chiome erano smosse da un venticello serale proveniente dal kai. Dove l’astro diurno calava, il cielo si era infranto nell’iride, mentre la parte opposta della sfera celeste stava già prendendo i colori della notte, permettendo di vedere il brillio delle prime stelle.
« Ben risvegliato, Huali. Hai fatto buon riposo? » Gli domandò Kōnane senza muoversi.
« Diciamo… » Gli rispose l’altro, massaggiandosi una spalla.
Il sole era ormai tramontato completamente dietro gli alberi, ma la sua luce aleggiava ancora nell’aria con una strana iridescenza.
« Sono contento per te. » Sorrise il ragazzo.
Ci fu in quel momento un silenzio imbarazzante durante il quale tutta la loro estraneità si rivelò, per poi dissolversi, diradandosi come nebbia mattutina.
Uno scoppiettio improvviso catturò l’attenzione di Huali, che solo allora si accorse del piccolo fuoco che quel ragazzo aveva acceso affianco a sé, e in mezzo alla brace le ultime fiamme lambivano quasi con dolcezza un anello metallico.
« Non preoccuparti Huali » Proferì Kōnane, anticipando ogni possibile apprensione del ragazzo « Ho badato che il fuoco non producesse troppo fumo quando l’ho acceso. E in ogni caso, se qualcuno ci avesse rintracciato, sarebbe già arrivato, ma non è apparso nessuno, quindi siamo al sicuro. »
Dopo qualche minuto, quando anche la luce solare restante si estinse definitivamente, si aprì il sipario del cielo notturno dove risplendevano le stelle e la falce crescente della luna, che rischiaravano la terra fievolmente.
Dai candidi ghiacciai innevati, che rispecchiavano la luce astrale come fossero una pietra preziosa, scendeva un’aria gelida e densa, che correva giù lungo la schiena dei due ragazzi.
« Piuttosto » Lo rimbeccò Huali. « Perché eri inseguito da dei poliziotti?»
« Ah, quello… » Si fermò un attimo Kōnane, con un’espressione incerta, poi amareggiata. « Senti, per quanto riguarda tutto quello che è successo questo pomeriggio, kala hoʻi. Kala hoʻi mai iaʻu ē. » Parole traboccanti di senso di colpa.
« Sta tranquillo, non fa niente. » Gli rispose l’altro dopo un po’, senza rivolgergli lo sguardo.
Non appena la luce era calata, la foresta aveva iniziato a brulicare di vita, e i manana si erano svegliati e lasciavano le loro tane e i loro nidi, preparandosi a danzare il conflitto dell’esistenza fino all’aurora. Era molto più cupa di quel pomeriggio: non se ne distinguevano che le chiome delimitanti l’orizzonte, e ne provenivano versi lancinanti e rumori paurosi che, però, non facevano breccia nell’animo dei due ragazzi.
« Comunque, il motivo per cui mi seguivano. Allora, questa mattina sono stato alla protesta contro la costruzione del supermercato nel bosco sacro a Kapu pulu. Hai presente, no? »
Huali fece cenno di sì, ne aveva letto a proposito qualche giorno prima, su un giornale.
« Io avevo già visitato qualche volta quel bosco. Tu l’hai mai visto?
« Nasce in una zona circondata dalla torbiera, dove crescono arbusti ed alte erbe. Una volta ci ho anche visto una liliwai in fiore, lì. Il bosco si trova in una zona asciutta, superata la torbiera, ed è il più antico di tutte le isole. Lì vivono solo piante autoctone della regione, protette dalla torbiera che ha fatto sì che quelle introdotte da tutte le popolazioni che nel tempo hanno colonizzato l’isola, persino noi, non vi si diffondessero. Entrare in quel bosco è come fare un viaggio nel tempo, in un’epoca arcana e immemore. In mezzo ci si trova un piccolo heiau, ma, anche se è piccolo, sul suo kuahu erano poggiate offerte di ogni tipo: lei, lunghe piume sgargianti, bacche rare, profumi e altri oggetti.
« Ma, nonostante sia un luogo di culto secolare, quegli imprenditori hanno intenzione di costruirci sopra un supermercato » Sibilò con rabbia il ragazzo, annichilito. « Ed mi lascia veramente sconsolato il pensiero che la monarchia gliene abbia dato il permesso.
« Così, come tutte le mattine da qualche settimana, anche stamattina ero là a protestare, e quando abbiamo saputo che incominciavano i lavori per bonificare la torbiera io e qualche altro manifestante abbiamo deciso di prendere azione. Ci siamo mascherati e siamo partiti. Volevamo soltanto sabotare i loro macchinari e, lo so, non è una cosa giusta, ma comunque non avevamo intenzioni violente nei confronti dei lavoratori. I tizi a capo del progetto, invece, avevano preparato per noi una muta di houndoom addestrati al peggio. Poveri…
« Insomma, ce la siamo vista brutta, molto. Ad un certo punto, nella fuga, una di noi è inciampata e, quando quei manana l’hanno raggiunta, hanno iniziato a morderla e lacerarla. Lei cercava di divincolarsi, dimenandosi, mentre io sono rimasto lì paralizzato, impalato dall’angoscia come un cretino, e l’ansia mi faceva salire il vomito. » La voce si riempì di rammarico, gli occhi gli si abbassarono.
« Alla fine, qualcuno l’ha soccorsa, e quando siamo riusciti a seminare gli houndoom, ci si è messa la polizia a inseguirci » Constatò con tono amaro. « Poi, quando pensavo che anche quella avesse perso le mie tracce, mi sono ritrovato ad essere inseguito in città. Il resto lo sai anche tu.
Ogni tanto, il silenzio era interrotto dai versi dei manana che stavano sfruttando al meglio quella notte, troppo corta come tutte le altre.
Intorno ai due, diretti nella foresta per rubare qualche uovo di spearow favoriti dall’oscurità, iniziarono a sfrecciare di soppiatto degli sneasel, le cui bianche unghie riflettevano le stelle, producendo veloci bagliori.
« Un attimo che vado a prendere delle erbe repellenti…  » Riferì Kōnane all’altro, alzandosi in piedi « Sennò, tempo di tornare a casa e avremo tutti i vestiti strappati… sempre nel migliore dei casi. »
Così dicendo, il ragazzo rientrò nella grotta, e poco dopo ne uscì con dei fascetti di erbe essiccate ed una scatoletta.
« Li hai fatti tu quelli? » Chiese stupito Huali, avvicinatosi.
« Sì, studio la tradizione di Alola da quando sono piccolo, e prima che arrivassero da oltremare i repellenti, qua nella regione si utilizzavano questi. »
Il giovane tirò fuori un fiammifero dalla scatoletta, e lo sfregò su una delle facce abrasive. Alla luce della piccola fiammella, i loro volti s’illuminarono.
« Funzionerebbero meglio se le erbe fossero fresche, ma beh… non prenderebbero fuoco con un fiammifero in quel caso, no? »
Kōnane portò uno dei fascetti sopra la fiamma, dando vita a una piccola scintilla ad una delle sue estremità. Quando vide che s’era acceso, spense il fiammifero, e poi si mise a muovere lentamente le erbe ardenti per diffondere nell’aria il fumo aulente che quelle sprigionavano.
« Ecco, a posto. Uno dovrebbe bastare a tenere i manana lontani per qualche minuto. »
L’odore non era cattivo, solo molto intenso, ma finché avesse fugato le creature che si aggiravano quatte quatte sotto il velo della notte, Huali avrebbe sopportato.
Il cielo era sempre più scuro e si iniziava a vedere che l’infinità di stelle che vi brillava, ognuna di un colore differente, si concentravano per la maggior parte lungo una fascia centrale allontanandosi dalla quale diventavano sempre più rare. Kōnane ne indicava alcune a Huali, elencandogli i nomi che quella terra aveva loro donato. Poi il ragazzo iniziò a raggrupparle in costellazioni, da quelle più semplici, di sole forme geometriche, a quelle così complesse che i loro contorni erano quasi impossibile da figurarsi. Infine gli raccontava le leggende ad esse legate, miti tramandati da così tanto tempo, che sembravano parlare della vera essenza dell’uomo e della realtà.
« È ora. » Lo avvisò Kōnane narrata un’altra di quelle storie « Andiamo. »
A Huali dispiacque veramente dover lasciare quel luogo meraviglioso.

Glossario:
‘ao āiwaiwa: tipo folletto (lett. tipo misterioso, meraviglioso)
‘ao: tipo
ali‘i: figura politica di un certo rilievo
E ʻae mai ʻoukou i koʻu hele, akā naʻe pepehi ā make au iāia!: Lasciatemi andare, altrimenti lo uccido!
hoʻolauleʻa: santuario tipico hawaiano, formato da una piattaforma rialzata in pietra
hoʻolauleʻa: celebrazioni
Ka loʻolelo lōʻihi: La lunga storia, titolo del libro fittizio contenente tutta la storia di Alola, tra il mitico e il reale
kai: mare, zona costiera
kala hoʻi mai iaʻu ē: versione più enfatica e formale di kala hoʻi
kala hoʻi: scusami, perdonami
kapu: i Tapu (per maggiori informazioni guardare la parte linguistica che segue)
kuahu: altare
kumu: maestro
lei: collana di fiori
liliwai: Acaena exigua, pianta estinta della famiglia delle rose
lua: stile di lotta molto pericoloso tipico delle Hawai‘i
malihini: stranieri, turisti
mana: contestualizzato, la forza elementare che i pokémon possono controllare
manana: libero adattamento della parola pokémon
manu: pokémon uccelli
Pali-uli: una specie di Eden della cultura hawaiana
po‘oki‘i: maschera
uka: entroterra
 
Spazio autore:
Questa storia ce l’ho in cantiere da troppo tempo ormai, e so che se non la pubblicassi adesso, non la finirei mai, quindi eccola qua.  Ho iniziato a scriverla quando è uscita la settima generazione, e pertanto si basa sui contenuti di “lore” che erano stati svelati solo fino a quel punto.
Spero che vi possa piacere  comunque. Però vi avviso: è abbastanza lenta, soprattutto questa prima parte. Non ho tanto altro da dire, quindi lascio la parola a voi, per critiche, consigli e commenti.
Grazie mille di aver letto fin qui e al prossimo capitolo.
 
Curiosità:
Un po’ come i più inesperti se ne escono con dei sincretismi culturali per quanto riguarda l’Estremo Oriente, mischiando cultura cinese, coreana, giapponese, tibetana e chi più ne hapiù ne metta, la stessa cosa accade per la cultura polinesiana, soprattutto in ambito linguistico.
Infatti le parole che vengono usate quando si ambienta una storia alle  Hawai‘i, per un motivo  a me oscuro – benché abbia la mia ipotesi – si tendono ad usare termini provenienti da varie altre lingue polinesiane.
Infatti, in hawaiano c’è stata un’evoluzione fonetica abbastanza rara, che si può riscontrare solo in pochi altri luoghi della Polinesia, ossia il cambiamento: t à k, k à ‘ (colpo di glottide).
Parole come tiki e tapu (usato nei videogiochi) ne sono un esempio, giacché in hawaiano sarebbero ki‘i e kapu.
Dopo varie ricerche non saprei dirvi comunque da che lingua provengano precisamente quei termini, però posso dirvi che:
  1. Lessicalmente parlando non si sono differenziate granché le lingue polinesiane l’una dall’altra, e quindi sono quasi certo che se andate a cercare quelle parole le troverete un po tutte uguali in tutti i dizionari.
  2. I tiki, wikipedia docet, sono dei simulacri delle personificazioni delle divinità (per intendersi, lo Strano Ninnolo dei videogiochi) tipici delle Isole Marchesi, quindi… sarà Marchigiano (?)?
Ultima curiosità: la parola maschera, po‘oki‘i, è composto da po‘o faccia e ki‘i immagine, simulacro. Quindi vuol dire letteralmente “simulacro da faccia”

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Capitolo 2
*** Hala ***


Nel caso vi troviate proprio persi, anche se vi consiglio di continuare la lettura fino in fondo ad ogni capitoletto, alla fine di tutto trovate un glossario con le traduzioni.
 
Hala
Passato

Con la luce diurna che diveniva sempre più intensa, Huali si svegliò, tirandosi a sedere con un grugnito arioso. Si stropicciò gli occhi, e guardandosi attorno rimase per un attimo confuso: si trovava in una stanza fatta completamente di legno, alle cui pareti erano fissati dei pannelli in kapa, sulle quali erano pitturate delle scene familiari.
Per quanto, però, sembrasse il tutto e per tutto quella di un’abitazione alolense tradizionale, la stanza era ammobiliata con dei mobili esotici ben tenuti, ma dall’aria consunta da una vita. Sul lato opposto alla porta c’era un divano di bambù, e lì a fianco, dietro Huali, si ergeva una libreria piena zeppa di tomi, sui cui ripiani più alti si trovavano degli strani gingilli.
« Sei sveglio, finalmente. » Lo accolse Kōnane, affacciandosi all’interno della stanza, e d’un tratto anche i ricordi si ridestarono.
La notte precedente aveva attraversato la foresta, barcollando al seguito di Kōnane, che lo aveva invitato a dormire a casa sua. Non aveva memorie ben chiare del tragitto percorso per arrivare fin lì: le forme della foresta la sera si fondono in una monocromia indistinta, e con esse anche concetti come illusione e realtà perdono completamente di significato, miglia diventano metri, metri diventano miglia. La mente ottenebrata dal sonno, aveva proceduto per inerzia, andando talvolta a incespicare in una radice sporgente.
Kōnane, calmo, aveva dimostrato la propria dimestichezza con quell’ambiente, prendendosi il tempo necessario per misurare il cielo e le stelle, così da esser certo della propria direzione, e controllando con regolarità se erano incappati nel territorio di un manana, tutti i sensi allerta nel caso ne avesse trovato tracce. Agli occhi assopiti dell’altro, ogni gesto che il ragazzo compiva sembrava un rito, possedeva una connaturata spiritualità, come se a ricolmarlo di significato fosse stato il tempo stesso.
Ad un certo punto, quando ormai non aveva più cognizione alcuna, Huali aveva osservato la foresta diradarsi sempre più a ogni passo che si avvicinavano alla città, così come anche le stelle avevano cominciato ad affogare nella luce dei bracieri che illuminavano la città. Il resto del cammino doveva averlo fatto in un attimo di sonnambulismo inerte.
« Huali, ci sei? Su dai, sbrigati a rimetterti in sesto, la colazione è quasi pronta. » Riprese Kōnane, notando che il ragazzo non si ripigliava.
Stiracchiatosi, Huali si alzò dal giaciglio di coperte dove aveva dormito e, senza essere ben sicuro di aver capito, si diresse oltre le due pesanti coltri in kapa appese alla porta da cui aveva fatto capolino l’altro.
Nel momento stesso in cui scostò le tende, una brezza fresca lo avvolse. Davanti a sé, c’era un giardino curato, al cui centro erano piantati sei alberi di pīʻai, mentre in fondo lungo tutta la recinzione cresceva rigoglioso del wauke, pianta dalle cui fibre si ricavava proprio il kapa con cui erano fatti i pannelli dentro la stanza. Nell’angolo a sinistra tra il recinto e l’edificio, invece, c’era un piccolo orto, dove dei germogli spuntavano appena dalla terra dissodata. Al centro del piccolo quadrato di terra marrone era stato piantato un alto paletto, su cui erano intagliati i ki‘i dei quattro numi protettori della regione.
Giusto a fianco dell’orto, Kōnane stava armeggiando con una stufa, di quelle pesanti in metallo battuto provenienti da oltremare, sopra la quale stava scaldando una padella piena d’olio.
« Allora » Iniziò Kōnane non appena lo vide. « Diciamo che per questa colazione mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo e ho preparato un po’ di roba. Adesso, mi manca solo di cucinare le malasade e poi ho finito. Intanto che l’olio raggiunge la temperatura giusta, tu va pure a sederti. » Disse, indicando un tavolino sotto le fronde, già apparecchiato con delle stoviglie di legno.
Dopo qualche minuto di silenzio, Kōnane arrivò a tavola con un piatto zeppo di malasade ancora sfrigolanti e un altro con del kulolo tagliato a fette.
« Un attimo che vado a prendere le marmellate, e… da bere, cosa preferisci? Acqua, succo di pīʻai, latte di cocco… ? » Gli chiese, già quasi sulla porta.
« Aspetta un attimo, Kōnane. Hai preparato tutto questo per me?! »
« Beh, no, anche per me in veri… »
« Non intendevo quello. Nel senso… » Sospirò. « Grazie. »
« Di niente. Allora, da bere? »
« Succo. » Rispose in fretta.
« E succo sia. Ah, e se vuoi qualche pīʻai fresca, prendila pure dagli alberi. » Disse, scomparendo dietro le tende variopinte.
Huali tacque, mentre con lo sguardo indagava titubante e incerto quelle pietanze.
Si erano conosciuti da una manciata di ore, e quel ragazzo sapeva che era un criminale, ma ciononostante l’aveva trattato meglio lui, di quanto la maggior parte delle persone non avesse fatto negli ultimi cinque anni.
« Hoʻolohe ‘o Kōnane » Fece Huali per richiamare l’attenzione del ragazzo, appena uscito con in mano un vaso oblungo ricolmo di succo e due vasetti. « Mahalo, mahalo nui loa. » Quello stridulo sussurro, sul punto di scoppiare in una miriade di pezzi, risuonò nell’aria silente per qualche secondo.
Huali respirava lentamente, le labbra tremule, il capo chino per non mostrare le lacrime che cercava di trattenere.
« Mai hoʻokaumaha. E ʻai kāua i kēia manawa » Gli disse Kōnane, facendo finta di niente. « E finita colazione, possiamo parlare un po’, cosa ne dici? »
Il ragazzo annuì con un impercettibile cenno del capo, accompagnato da un verso strozzato.
« Bene. » Disse l’altro contento.
Huali, senza badare allo sguardo dolce del ragazzo che di fronte a lui mordicchiava una fetta di kulolo, ingoiava enormi bocconi di ogni pietanza, quasi senza masticarli, nella speranza che avrebbero sciolto il nodo alla gola, che gli impediva di respirare. Sforzo vano: l’odore inebriante di malasade, gli portava alla mente ricordi così felici, che si era costretto a non rimembrare per tanto tempo.
 
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Qualche mese dopo essere diventato pattuente, un Huali undicenne si ritrovò davanti a casa sua degli uomini corpulenti, vestiti con pāʻū lāʻī. Gli intimavano di sciogliere il patto che aveva stretto, sicché secondo la norme aloliane le persone comuni non dovrebbero poter controllare il mana: quella capacità spetta unicamente ai nobili. Tuttavia, forse per il coraggio dimostrato dai suoi genitori che avevano infranto la legge pur di salvare il proprio figlio, forse per non macchiarsi di infanticidio annullando il patto, l’amministrazione decise di agire fuori dagli schemi prestabiliti. Così, quegli uomini raggirarono con parole millantatorie Huali, e la sua bambinesca ingenuità, e ai genitori non rimase rimasto nient’altro se non prepararsi a salutare il proprio figlio, che da lì a qualche parte avrebbe lasciato casa per frequentare la Kula Aliʻi o Alola, accademia dove i figli dei nobili vengono istruiti a nelle più svariate arti e scienze, e in particolare ad utilizzare i propri poteri. Finita l’Accademia, viste le sue origine, l’unico ruolo che avrebbe potuto assumere in quanto pattuente era quello di guardia reale, e forse gli avrebbero fatto anche aiutare la polizia per dei casi complessi, anche se ne dubitava: avrebbe portato troppa attenzione attorno ad un semplice ragazzo.
Per tutti gli anni a venire, Huali si sarebbe ricordato quello che i suoi genitori gli dissero sulla soglia di cosa, quello che gli fecero promettere.
« Huali » Lo strinse in un lungo abbraccio la madre, per poi prenderlo per le spalle e guardarlo negli occhi.  « Sei pronto, Huali? »
« Sì, mamma, sono prontissimo. » Sorrise genuino il ragazzino.
« Allora, prima che tu parta, ti devo dire qualcosa. All’Accademia imparerai molte cose nuove ed incontrerai molte nuove persone. Ma non sarà così semplice come qua a Uluniu, perché il mondo lì funziona in modo diverso, e la gente che incontri potrebbe non trovarti simpatico o non ascoltarti, e il motivo è che sei diverso da loro. »
« Ma mamma, nessuno è uguale a me! Nel senso, le persone sono tutte diverse, tra di loro. » La guardò confuso il bambino.
« Lo so che non ha senso, ma non tutte le persone la pensano così, e in casi come questi che cosa dobbiamo fare noi? »
« Dobbiamo cercare di capire come la pensano loro, giusto? E poi… poi dobbiamo cercare di fargli capire come la pensiamo noi. »
« Giusto, Huali, e sempre col massimo rispetto, perché ricorda: il limite tra valere e prevalere è sottilissimo. »
« Ma io come capisco quando l’ho superato? >>
« Lo capirai col tempo, ma solo se non ti fermerai alle apparenze. Quando una persona si mostrerà ferita dalle tue affermazioni, allora prova a fare un passo indietro. Però sappi che molti per scacciare via il proprio dolore e la propria paura, utilizzano la rabbia e il disprezzo. Non averne paura, ma non stuzzicarli troppo: ci sono persone che semplicemente preferiscono prevalere. »
« Ci proverò. »
« Bravo, ē ku‘u keiki, e promettimi che sarai sempre te stesso. » Disse, assumendo un tono grave. « Promettimi che seguirai sempre quello che ti dicono le tue naʻau, e che se mai vorrai ridere, urlare o piangere, lo farai. »
« Perché dici che piangerò, mamma? Io sono sicuro che mi divertirò un sacco! »
« Ne sono sicura anch’io, tesoro, ma tu promettimelo. »
« Te lo prometto. »
« Giurin giurello? »
« Giurin giurello. »
« Vieni qui, è fatti abbracciare ancora una volta, Huali. »
Dopo qualche momento, alla stretta si era unito anche il padre.
« E non avere mai paura di voler bene, qualunque persona tu abbia davanti » Disse il padre, trattenendo le lacrime « D’accordo? »
« Va bene » Sussurrò il piccolo Huali, inspirando quel dolce profumo di malasade e marmellata, rimasto sui vestiti dei genitori che avevano passato la mattina a preparargli la colazione più ricca di sempre.
Inutile dire che Huali non sarebbe riuscito a mantenere quelle promesse, anche se con senno di poi ne avrebbe capito i perché. Se l’Accademia fosse stata soltanto un luogo di disciplina, non ci sarebbero stati problemi, ma in quelle aule i figli portavano avanti gli attriti e le diatribe delle proprie nobili famiglie, corroborando vecchie alleanze e creandone di nuove.
In un simile mondo, un ragazzo solare, che avrebbe voluto avere la libertà di parlare con chiunque avesse voglia, e di decidere chi gli stesse simpatico e chi no per conto suo, non avrebbe avuto vita lunga. Tutti quei soffocanti vincoli che non gli appartenevano, ma che lo riguardavano ciononostante, non era ancora pronto ad affrontarli. In un mondo già tanto opprimente, il piccolo Huali non avrebbe avuto la forza di affrontare la solitudine, che segue l’affermazione di sé stessi.
Così per sopravvivere e mantenere le relazioni che si era dovuto scegliere, il suo vero sé dovette diventare segreto, dispetto il consiglio materno, e l’odio divenne parte integrante della sua vita, riempiendo le sue giornate.
Odiava chi gli impediva di scegliere con chi avere rapporti e a chi voler bene; odiava i propri genitori, che non avevano fatto abbastanza per convincerlo a non andare all’Accademia; e, nell’ebrezza del branco, odiava pure chi tutti gli altri gli dicevano di odiare.
Infine, a promesse infrante, finì per odiare anche sé stesso.
Forse per questo, che cinque infernali anni dopo, quando avrebbe conosciuto un ragazzo, in una maniera un po’ rocambolesca, Huali avrebbe deciso di rischiare di essere arrestato pur di rimanerci insieme anche solo per una giornata. Kōnane sarebbe stata la prima persona, dopo anni, che nessuno gli avrebbe detto di odiare; la prima persona, prima ancora di sé stesso, a cui forse avrebbe potuto voler bene, senza averne paura.
 
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Finita la colazione, i due ragazzi rimasero in giardino a parlare, le sedie rivolte verso l'uka, dove si ergeva il monte Lanakila.
Il sole aveva quasi raggiunto l’hoʻokuʻi, ma il vento che soffiava dal kai rendeva l'afa sopportabile.
« Senti Kōnane: ieri mi hai detto che sei un monaco dei ghiacci, no? Ecco, ma i monaci non dovrebbero vivere nei pressi del proprio tempio? »
« Tecnicamente sì, ma diciamo che sono un’eccezione. Sai, io non sono diventato accolito per vocazione, ma piuttosto come naturale conseguenza dell’aver sempre vissuto assieme ad un monaco.
« Te l’ho detto, no? Che sono stato io a decidere di non accettare il patto offertomi dal manana guardiano, perché non mi sentivo pronto. Ecco, non è che non sia vero,  ma a dirla tutta anche se mi fossi sentito pronto, il mio kumu si sarebbe rifiutato di farmi accettare, perché non conosco il vero mondo. Mi ha detto che avendo sempre vissuto sulla montagna non avevo mai avuto la possibilità di incontrare nuove persone, da cui imparare e con cui condividere esperienze; che non avevo mai avuto l’opportunità di trovare una mia via, che non fosse quella che mi ha mostrato lui.
« Se ci penso, forse si sente in colpa perché, con il fatto che non poteva allontanarsi dal tempio, mi ha dovuto crescere in montagna, limitando i miei contatti col mondo. Ma non me ne sono mai fatto un problema io: dopotutto se non mi avesse raccolto dalla strada quando ero ancora piccolo, oggi non sarei qui, probabilmente.
« Così, l’hanno scorso, mi ha mandato qua da dei suoi vecchi amici. I libri che hai visto dentro li hanno accumulati loro nel corso degli anni, alcuni risalgono a quando la stampa non era ancora stata importata qua sulle isole.
« Sugli ultimi ripiani, invece, non so se li hai visti, ma ci sono degli strani oggetti. Quelli provengono da oltremare: li ha portati il figlio dei signori al ritorno dai suoi viaggi. Sai, è un grande studioso, loro figlio, anche se all’apparenza non si direbbe. La sua naturale simpatia e il suo profondo rispetto nei confronti degli altri lo hanno aiutato a stringere dei profondi legami con le persone, che incontrava durante le sue avventure. Adesso, viaggia meno frequentemente rispetto a prima, perché è stato scelto dai sovrani come kahuna nui in materia di affari esteri. Lavora anche come organizzatore dei festival qua in città, anche se quella è una funzione che ha ereditato dai genitori.
« Loro erano esperti delle tradizioni di queste isole. Mi hanno insegnato un sacco di cose, anche a cucinare le malasade. Purtroppo qualche mese fa il mare li ha reclamati. »
Il mondo tacque, mentre Huali realizzava piano cosa implicava il racconto di Kōnane. Quel ragazzo, che aveva visto il kai solo da lontano per gran parte della propria vita, sorrideva sincero, ma nei suoi occhi aleggiava una certa malinconia.
« E tu invece? » Ruppe Kōnane il silenzio, leggero come una piuma. « Qual è la tua storia? Sai, con il fatto che i motivi della tua ricerca non sono ben chiari, si spettegola molto su di te qua in città. C’è chi dice che è perché hai ucciso un tuo compagno all’Accademia, chi perché hai rubato il monile di una qualche nobildonna, e chi pure si è inventato tutto un intrigo amoroso. »
Huali cacciò una risata amara, per poi prendere a parlare.
«  In verità, non saprei veramente dirti il motivo per cui i poliziotti pensino che mi stiano braccando, però posso dirti che l’unica ragione che ho io per farlo è che me l’ha ordinato la persona nei cui confronti mi sento veramente colpevole, per quanto lei ne possa dire. Per quanto riguarda la mia accusa, c’entra qualcosa con delle pietre che avrei rubato… sinceramente non ho capito bene la storia.
« Lo so che è un po’ deludente come spiegazione, ma non so veramente cosa dire. In compenso ti posso raccontare come sono arrivato io a stringere un patto con un manana.
« L’avrai già capito, ma io non ho nobili origini. La mia famiglia possiede una piantagione di palme da cocco a sud-est di Liliʻi, ed è lì che ho sempre vissuto. All’incirca quando avevo undici anni, però, mi sono ammalato. Se mi chiedi di cosa, non lo so, i dottori ad oggi non lo hanno ancora capito. Fatto sta, comunque, che stavo morendo, e allora i miei genitori sono andati nella foresta, e hanno pregato i comfey perché mi aiutassero. Uno di loro ebbe pietà, e stringemmo il patto. È solo grazie a quello che posso vivere, ed è per questo che il poʻo kumu dell’Accademia ha deciso di non togliermi il potere, ma piuttosto di istruirmi a controllare.
« Ah, e tutta la storia di come ho ottenuto i miei poteri è anche il motivo per cui non vedi nessun comfey volarmi attorno: diciamo che non mi ha salvato, perché volesse vivere una straordinaria avventura insieme a me. Mi ha solo fatto un grande favore. »
« Beh, vedo che siamo entrambi messi bene. » Se la rise Kōnane.
« Già. » Sospirò Huali, che in qualche modo non riusciva a non sorridere. « Comunque, cambiando discorso: ti posso chiedere una cosa? Non è che avresti qualcosa con cui posso tingermi i capelli. Perché, non li vedo, ma sono quasi certo che si inizino a vedere delle ciocche rosa e, sai com’è, è un po’ difficile passare inosservato in una folla se li lascio al naturale. Figurati scappare dalla polizia.»
« Forse qualcosa riesco a inventarmelo. »
 
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Oltre le fronde, il cielo era terso, e la luce che penetrava tra gli alberi era così intensa da costringere Huali a socchiudere gli occhi per proseguire nella foresta.
Benché fosse felice di avere finalmente trovato qualcuno con cui stare in compagnia, sapeva che se ne doveva andare: se qualcuno l’avesse scoperto, avrebbe condannato Kōnane, una colpa che non avrebbe sopportato.
Adesso, stava andando a recuperare il macete e la sacca, che aveva nascosto nella foresta prima di entrare in città. In genere, cercava di evitare i grandi centri abitati, ma quando doveva visitarli per forza, preferiva non avere alcun intralcio a impicciarlo, nel caso fosse stato necessario scappare.
Tuttavia, se i suoi piani fossero andati in porto, questa sua condizione non sarebbe durata ancora molto a lungo. Si era stufato di girare in tondo su ‘Ula‘ula per non farsi trovare; tornare sempre al punto di partenza svuotava di un fine ogni suo sforzo, ogni sua azione, imprigionandolo in un ciclo che temeva non si sarebbe mai spezzato. Pertanto, aveva escogitato un piano: approfittando della Ho‘olaule’a o ka māuiili o ka hā‘ulelau, festival che avrebbe tenuto impegnati i poliziotti e i pattuenti mandati ad aiutarli, si sarebbe recato al porto di Pō e sarebbe salpato per Poni indisturbato.
Prima di andarsene, Huali ne aveva discusso anche con Kōnane, che aveva concordato. Era una scelta azzardata Poni, perché se una volta arrivato qualcuno lo avesse scoperto, non avrebbe avuto vie di scampo, essendoci solo un porto su quell’isola. Al contempo, però, era anche l’isola meno abitata di Alola e, se fosse riuscito a raggiungerne l’uka, non avrebbe avuto problemi a nascondersi, e magari sarebbe potuto anche stanziarvisi e vivere una vita calma.
Da quando aveva iniziato a scappare la sua visione del mondo era completamente cambiata. Nel momento in cui era fuggito non aveva niente con sé, e non si era potuto fermare a recuperare uno zaino, o una borsa o un qualsiasi oggetto utile. Così, per i primi tempi del suo vagabondaggio non solo aveva provato la fatica di una vita nella foresta, lontano dalla civiltà, ma anche l’impossibilità di portarsi dietro quel cibo che riusciva a recuperare nel suo cammino. Aveva spesso finito di abbuffarsi di bacche, noci, funghi e radici, non sapendo quando sarebbe riuscito a mangiarne altre. In compenso, quei quattro anni di addestramento all’Accademia in materia di sopravvivenza, combattimento e botanica si erano rivelati utili.
Dopo un mese che viveva così, aveva capito che non poteva andare avanti in quella maniera, anche se il motivo per cui decise di tirarsi insieme, fu soprattutto il fatto che non sopportava più il suo stesso puzzo.
Ironico che fu proprio allora che entrò nel mondo dei mea pale kānāwai. Approfittando della sua condizione disperata, che il suo aspetto tradiva, lo assunsero per dei lavoretti. Agli inizi, gli facevano fare giusto il corriere, ma quando capirono chi era, sotto minaccia di rivelare la sua posizione alla polizia, lo costrinsero a usare il suo potere. Non che avesse mai opposto troppa resistenza: gli servivano i soldi, e le loro richieste non gli erano mai sembrate avere fini troppo dannosi, alla fine gli chiedevano quasi sempre di far desistere qualche imprenditore a costruire nuovi palazzi. Nell’ultimo periodo c’era anche stato un aumento delle commissioni che, da quello che aveva capito, a Hau‘oli avevano iniziato a smantellare vecchi edifici per costruire dei grattacieli.
In ogni caso, grazie ai soldi che aveva guadagnato, Huali era riuscito a comprarsi dei nuovi vestiti, pietre focaie, il macete e le altre cose, che stava andando a recuperare.
Da lontano, sentì dei gravi e rauchi ruggiti riecheggiare tra gli alberi, le cui folte fronde riparavano i placidi abitanti di quell’arcano luogo dal cocente sole. Pian piano che si allontanava dalla baia, la vegetazione diventava più scura e fitta, e il rumore delle grandi foglie del sottobosco, che frusciavano al ritmico passo del ragazzo, diveniva una strana melodia.
Giunto al capannello di cespugli in mezzo al quale aveva nascosto la sacca, si chinò e allungo il braccio tra i rami per recuperarla, ma improvvisamente si sentì invadere da un sopore. Non sapeva da dove proveniva quell’immensa stanchezza, fatto sta che fece solo in tempo ad annusare uno strano aroma nell’aria, prima di cadere in un sonno profondo.

 
Glossario:
ē ku‘u keiki: figlio mio (vocativo)
Ho‘olaule’a o ka māuiili o ka hā‘ulelau: Festival dell’equinozio d’autunno
Hoʻolohe ‘o Kōnane: Ascolta Kōnane.
kahuna nui: consigliere
kai: mare, zona costiera
kapa: materiale in scorza d’albero, ottenuto con la raschiatura della parte rugosa della scorza e la battitura con mazzuolo o martello di legno, normalmente usato per confezionare indumenti (Treccani)
Kula Ali‘i o Alola: figura politica di un certo rilievo
kulolo: piatto tipico hawaiano,
kumu: maestro, insegnante, e in genere qualsiasi tipo di modello (sia persona che pattern)
Mahalo, mahalo nui loa: Grazie, grazie mille.
Mai hoʻokaumaha. E ʻai kāua i kēia manawa: Non preoccuparti. Adesso mangiamo.
manana: libero adattamento della parola pokémon
na‘au: interiora, tradizionalmente intese come centro e origine delle emozioni
pāʻū lāʻī: gonna tradizionale hawaiana, fatta di foglie di cordyline fruticosa (nome italiano irreperibile)
pīʻai: bacca
poʻo kumu: preside
uka: entroterra
wauke: gelso da carta (broussonetia papyrifera)
 
Spazio autore:
‘Giorno popolo. In ritardo di dieci giorni posto il secondo capitolo, ma mi giustifico dicendo che questo capitolo fu un tempo 3 capitoli. Infatti, per stringere la storia complessiva ho cancellato una linea di trama che aveva già sviluppato abbastanza, e così quei 9 capitoli che aveva preparato in anticipo sono divenuti la metà… tutto qua.
Poi, mi ero dimenticato di dirlo prima, ma non sono assolutamente un esperto in cultura polinesiana o in lingua hawaiana, e pertanto quello che vedete e il prodotto di qualche anno di approfondimento in materia, e molta fantasia. Aggiungo che, la storia è ambientata in un periodo in cui ancora non esistevano le pokéball (a parte a Johto), idealmente inizio ‘900.  Però, per far combaciare tutto, benché io mi basi grossomodo sulle culture reali, vedrete anche nei prossimi capitoli che ho fatto un mappazzone. In sintesi, volevo dirvi che, i fattori reali che ho messo sono per solleticare la vostra curiosità in ambiti che (forse) non conoscete, ma per affrontare alcuni temi e argomenti ho dovuto piegare i dati reali e il clima generale di pokémon (non del manga) ai miei servigi.
Se avete letto fin qui, vi ringrazio e al prossimo capitolo.
 
Curiosità:
I nomi delle città di settima generazione sono stati presi dall’hawaiano, e in genere sono stati usati degli aggettivi (impropriamente detti) che descrivono la città o la sua atmosfera.
  • Malie: calmo
  • Hauoli (da hau‘oli): allegro, felice
  • Lili (da lili ‘i): piccolo
  • Poh (da ): buio, scuro
Benché in hawaiano il colpo di glottide sia un fonema che distingue delle coppie minime, ossia parole che variano di una sola lettera (esempio italiano: mano – nano; esempio hawaiano ko‘u mio – kou tuo), capisco perché l’abbiano tolto. Dopotutto anche in italiano corrente diciamo Hawaii [aˈwai] o [aˈvai] e non Hawai‘i [həˈvɐjʔi]. Tuttavia, visto che se non mi lamento non è un vero angolo curiosità, darò un consiglio/lancerò una preghiera a tutti quelli che vogliono iniziare a studiare giapponese e si trovano a lavorare con la traslitterazione del testo, e adesso vi spiego cosa c’entra con tutto questo. Il nome utilizzato in italiano per la città di Poh, è una ripresa paro paro  del nome giapponese, che tuttavia hanno trattato come fosse un nome giapponese, usando la romanizzazione degli vocali lunghe con un’acca. Ciò vuol dire che, in giapponese esistono parole, in cui alcune sillabe hanno una vocale che viene sostenuta più a lungo [se siete milanesi, questa è l’esatta differenza tra mangia (mangiare) e mangiaa (mangiato)]. Questo, in genere, viene dall’evoluzione fonetica delle sequenze vocaliche –ou ed –ei, ad esempio quelle di parole come ryokou viaggio, eiga film e Toukyou Tokyo. Quando si vuole fare una traslitterazione di un testo si può scegliere tra più opzioni, di cui vi mostrerò i risultati:
  1. ryokou, eiga, Toukyou
  2. ryokō, ēga, Tōkyō
  3. ryokô, êga,  Tôkyô
  4. ryokoh, ehga, Tohkyoh
Premetto che non tutte queste versioni hanno la stessa frequenza di apparizione, e che per qualche motivo non si tende ad abbreviare –ei. Ciononostante, voglio comunque esortarvi a usare la prima o la seconda opzione (quest’ultima in particolare, e soprattutto se in ambito commerciale). Il perché è presto detto: la terza opzione è una storpiatura della seconda, fatta da persone che non sapevano cos’era un macron; la quarta opzione è un’aberrazione della natura, creata da persone che volevano un modo semplice per digitare, ma non hanno considerato la leggera incongruenza grafica che ne consegue. Purtroppo, per la sua comodità, quest’ultima è quella per cui optano e hanno sempre optato i traduttori dei videogiochi pokémon; basti pensare a Johto e non Jouto, Sinnoh e non Sinnou, Poh e non Pō (l’effettiva parola hawaiana). Però, per dimostrarvi che non sono così rompipalle come sembra, vi dico che Johto lo pronuncerò per sempre yoto.
Infine, ho scelto di creare un aggettivo per Alola, e come avete visto ho deciso di andare per alolense. L’alternativa era alolate. Non mi sembrava di usare la versione inglese alolano. Nel caso avete altre idee? consigli?

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Capitolo 3
*** Maluhia ***


Nel caso vi troviate proprio persi, anche se vi consiglio di continuare la lettura fino in fondo ad ogni capitoletto, alla fine di tutto trovate un glossario con le traduzioni.
 
Maluhia
Quiete
 
L’aurora si avvicinava, portando con sé i colori del mondo assopito.
« Sei sicuro che si trovi qui? » Chiese una ragazza dai lunghi capelli mossi allo stoutland, che la stava conducendo tra le case di una cittadina.
In risposta, il possente manana le abbaiò convinto, e riprese a fiutare l’aria.
La ragazza avanzava piano, senza fare rumore, e ogni tanto si sistemava un fagotto legato al busto, dove un neonato dondolava in riposo.
Qualche ora prima, il piccolo si era addormentato tenendo stretto tra le sue manine un morelull luminescente, come fosse stato un sonaglio. Quando poi era ormai caduto in un sonno profondo, attenta a non svegliarlo, la ragazza gliel’aveva preso di mano, così da essere certa che le spore soporifere che il manana rilascia per natura non lo ledessero.
Man mano che si allontanava dal centro dell’abitato, dove erano accesi dei grandi bracieri, il paesaggio si faceva sempre più indistinto, e in mezzo a quel nulla lo stoutland si fermò.
Alla cieca, la ragazza avanzò nella direzione in cui puntava il muso del manana, un’abitazione tradizionale alolense.
Perché mai si sarebbe fermato in un posto simile? Fermarsi presso un centro abitato era un rischio enorme per un ricercato come lui. Ciononostante, una speranza le alleggerì il petto, e il passo le si affrettò. Se Huali fosse stato veramente lì, allora avrebbe finalmente rincontrato l’amico, che per primo era riuscito a soffiarle una nuova aria, un vento che l’aveva sospinta così lontano, da permetterle di credere in orizzonti altri.
Si fermò di fronte alla porta, e prese un profondo respiro. Poi guardò il bambino che teneva in braccio. Sorrise, e con sicurezza bussò.
« Scusate! C’è qualcuno? » Chiamò con cautela, continuando a picchiettare sulla porta. Nessuna risposta.
Si convinse a provare con un po’ più di forza. Per nulla al mondo si sarebbe data per vinta, avrebbe anche iniziato ad urlare se necessario. La flebile speranza nella presenza di Huali, quel desiderio da solo, non l’avrebbe lasciata arrendersi.
Scattò a quel punto la serratura, e dietro la porta un ragazzo smilzo si svelò dell’ombra, un sorriso genuino sulle labbra.
« Alola » Sussurrò il ragazzo « Pono ʻoe i kōkua? »
« Ecco, vede, lo so che può sembrare, come dire, alquanto peculiare, ed è altrettanto difficile da spiegare, ma… » La ragazza scoppiò in un rauco sospiro, spalmandosi una mano in faccia, arresa a quel suo modo. Poi si ricompose. « Vede, io starei cercando un ragazzo, che dovrebbe essere passato da queste parti. È abbastanza atletico, ha gli occhi celesti ed è alto più o meno così » Fece un segno con la mano per indicare le misure. « Ha i capelli rosa, ma probabilmente se li è tinti. E poi penso che… »
Una mano a stropicciarsi gli occhi, il ragazzo le mise l’altra su una spalla per placarla.
« Intendi Huali? » Domandò quello, sbadigliando vistosamente, troppo stanco anche solo per considerare l’idea di mettersi la mano davanti alla bocca.
All’annuire energico della ragazza, il giovane la fece entrare nella stanza assieme ai suoi manana, invitandola a sedersi dove preferiva.
« ‘O wai kou inoa? » Le chiese il ragazzo.
« ‘O Kamomi. »

« Kamomi? Bel nome » Commentò lui, ancora sonnolente. « Io invece sono Kōnane. Comunque, Kamomi, Huali è stato qui l’altro ieri, si è fermato da me solo un giorno e per ragioni un po’ complicate. Beh, anche spiegarti come ci siamo conosciuti sarebbe complicato. »
« L’altro ieri!? »
« Sì, e se vuoi so anche dove si sta dirigendo. Ha detto di voler andare a Poni, così da poter provare a vivere una vita tranquilla. »
« Una vita tranquilla, eh? » Gli occhi di Kamomi, ricaduti verso il fagotto che teneva al petto, si fecero dolci.« Auē, ʻo wai kēlā pēpē liʻiliʻi? » Chiese Kōnane incuriosito, non appena scrutò nella penombra le fasce avvolte intorno al torso della ragazza.
« ‘O ia ku‘u keiki. ‘O Malu kona inoa. »
« Maopopo iaʻu » Sorrise Kōnane. « Ō moe ‘olua ma ʻaneʻi i kēia pō. ʻĀpōpō e wehewehe ana maikaʻi a'e wau iā ʻoe. »
Sedutolesi accanto, il ragazzo la invitò a seguirlo in una camera, dove c’era un grande letto su cui avrebbe potuto dormire col piccolo. Avrebbero parlato meglio l’indomani.
La quiete ridiscese su quell’anfratto di mondo, con una tale naturalezza da illudere anche il più disperato che quella pace potesse essere l’essenza della realtà.


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Un mare sereno si estendeva fino all’orizzonte, rispecchiando nel suo indaco una luce giallognola. I tori si posavano su uno stretto lembo di sabbia, confine tra mare e terra. Per posare le ali, si direbbe, ma forse la verità era che volessero imprimere le sottili orme nella rena, a rimostra del proprio passaggio, della propria esistenza. Ma marea ormai le sciacquava via, annichilendo ogni potenziale memoria.
Le nubi correvano, si stiravano in cielo, per poi avvolgersi di nuovo su sé stesse; la luce filtrava tra le fronde per danzare sulle foglie del sottobosco; il muschio sulle rocce scandiva il tempo.
Una figura immobile poggiava su un tronco rugoso, il respiro in comunione con quello della natura, alito di vento. Un’esistenza solta nella vegetazione.
« Hane-chan! Yatto mitsuketa yo. Dai vieni, ché il torneo sta per cominciare! » La chiamò un ragazzo non tanto alto e con la testa rasata.
La giovane ragazza si districò lentamente da quel mondo, per poi girarsi verso l’amico.
« Ikou. » Le sussurrò di nuovo il ragazzo, avvicinatosi.
I due giovani seguirono un angusto sentiero in terra battuta, ormai quasi del tutto nascosto sotto la bassa ramaglia incontrollata. Ogni loro passo era cauto: fra i bassi arbusti di quei percorsi gli arbo solevano costruire le proprie tane, ed è sempre meglio non avere a che fare con un loro morso.
D’un tratto, gli alberi lasciarono spazio ad un ampio spiazzo in terra battuta, interrotto solo in qualche punto da delle zolle d’erba moribonda. Dall’altro lato della spianata polverosa si ergevano degli spalti, dove sedevano alcuni spettatori, pronti a guardare le gare che a breve avrebbero avuto inizio.
Davanti a quelle strutture si potevano scorgere i partecipanti al torneo. C’erano degli omoni corpulenti che indossavano soltanto delle mawashi, delle figure più longilinee, ognuno con addosso la propria candida dōgi, con giusto l’orlo degli zubon inzaccherato.
Quel giorno si sarebbero tenuti i duelli di budō, secondo programma e, nell’attesa che finissero le estrazioni e fossero declamate le coppie per ogni combattimento, c’era chi si esercitava pacato, chi cercava di distrarsi, e chi dissimulava la propria agitazione, nascondendola dietro una roboante trepidanza o una calma meccanica.
« Non capisco proprio a cosa gli serva nascondere la propria ansia? Lo so che la gente si aspetta che, in quanto budōka, siano impavidi e imperturbabili, ma se proprio ci tengono a dimostrarsi tali, magari seppellire le proprie insicurezze non è un metodo ottimale, visto che tanto appena inizia il combattimento ritornano subito a galla, se non le hai affrontate in primo luogo.
« Poi, certo che alcuni di loro non si aiutano proprio, eh. Sempre a cantare la loro bravura e i loro traguardi, e alla fine per non tradire le aspettative che loro stessi hanno istillato nella gente, oltre a quelle che questa ha già di per sé, preferiscono affrontare la tensione nel peggiore dei modi: tenendosi tutto dentro.
« Ci arriveranno da soli che, dopo anni che tirano avanti questa farsa, non ci crede più nessuno. E invece no; solo da ubriachi riescono ad essere autoconsapevoli.
« Sai quella volta che sono rimasto qua dopo il torneo, no? Ecco, quella volta mi sono fermato ad una sakaba e c’ho parlato tutta una nottata con alcuni di quelli. Si erano già trangugiati abbastanza sake da non distinguere la destra dalla sinistra, ma almeno così non c’avevano su tutta quell’inutile facciata che c’hanno su ora. E sai che ti dico: erano molto più simpatici così, e in qualche maniera anche più lungimiranti.
« Ma anche lì, bello il loro modo di processare la sconfitta: lasciarla nelle mani del sake. Perché ovviamente facendo così il giorno dopo non ricomincerai tutto da capo, non ricordandoti niente di quello che hai pensato, no!?
« Vabbé, inutile accanirmi. Cazzi loro, che si arrangino. » Si sfogò il ragazzo con la silente Hahami.
« Soredemo, spero proprio che non mi mettano contro uno figo. » Continuò imperterrito, mentre si mischiavano con la folla di lottatori. « Perché sennò, chi ci si concentra più, sul combattimento? »
 

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L’aria in giardino era ancora fresca, sicché le luci dell’alba non l’avevano ancora toccato, al riparo della montagna.
Kōnane si stava inginocchiando lentamente di fronte ad uno degli alberi di pīʻai. Una volta che i suoi stinchi furono a terra, porse la fronte all’albero, allargando le braccia con i palmi rivolti ad accarezzare l’erba.
« Ē ʻāina, mahalo nui loa no ka hānai ʻai iā mākou i kēia lā pū kekahi. »
Dopo aver recitato questa formula, iniziò a cogliere da quelle fronde alcune bacche e riporle in una cesta. Il suo occhio, ormai avvezzo, si spostava veloce di frutto in frutto, in cerca di quelli più maturi. I suoi movimenti erano lenti, ma avevano una loro cadenza, come un’elegante danza in omaggio alla natura.
Infine, raccolte pīʻai a sufficienza, rinnovò la sua gratitudine per i doni che la natura gli offriva, e tornò a lavorare con tranquillità.
« Ehi, mamma, papà, sono qui! Apritemi, sono tornato! »
Un vuoto al cuore, il ragazzo si sentì mancare per un attimo, come prosciugato dalla sua linfa vitale. Prima o poi, quel giorno sarebbe arrivato, Kōnane lo sapeva, ma ciononostante era altrettanto conscio di non essere ancora pronto ad affrontare la realtà fuori da quella pace, forse falsa in parte, in cui si era costretto a vivere. Quella voce familiare, però, non gli lasciava scampo: doveva accettare quelle parole pesanti.
« Holokai, sono in giardino! » Lo chiamò Kōnane, con un tono piatto.
« Ah, Kōnane! Ciao, come stai? » Domandò tutto euforico quell’uomo, mentre scavalcava la staccionata. « Dai, entriamo, ché ho un mucchio di cose da raccontarvi. Non puoi neanche immaginarti cosa mi è successo; non crederai mai alle tue orecchie. »
« Holokai » Prese coraggio Kōnane. « ‘O Pauahi ame Keanu… »
Inspirò piano, ma espirando emise una sottile nota traballante, che fece crollare la recita. L’uomo sbarrò gli occhi, stringendo con le mani le spalle di Kōnane, nei due occhi s’ingrossavano due lucciconi.
« E così che va la vita, no? » Una risata amara. « Alla fine si muore. »
Holokai abbandonò impotente la presa, e si accasciò a terra, la schiena contro il recinto. Se ne stava là, come un guscio deprivato di ogni carne, illuminato dalla luce che trapelava da dietro il Monte Lanakila.
« Ma che cazzo mi è saltato per la testa? » La faccia contrita. « Sapevo benissimo che non dovevo partire per viaggi troppo lunghi, ché sennò sarebbe successo proprio questo. Ma io che ho fatto? » Holokai strinse i pugni, in un estremo atto di energia. « Che cazzo! »
Con la stessa violenza con cui era arrivata alle sue membra, la rabbia scemò, schiudendogli le mani, privandolo di forze. Tuttavia, nel fondo della gola, in un luogo remoto e antico, un lamento iniziava a gorgogliare di diverso impeto. Nel vano tentativo di sciogliere il nodo che gli stringeva la gola, l’uomo deglutì più saliva che poté, ma quel pianto già iniziava a sgorgare. Un battito bastò: si corrugò la fronte, si tesero i muscoli del volto, e dagli occhi iniziarono a rotolargli giù copiose le lacrime, innegabile riprova della morte dei suoi genitori.
Kōnane si avvicinò carponi all’uomo deformato dal pianto, e lo abbracciò leggero, ma saldo, e dopo qualche istante quello ricambiò la stretta, così come il ragazzo aveva iniziato a intonare il suo stesso canto.
Il sole aveva finalmente scavalcato la montagna, sciogliendo bene e male nella propria luce, e su tutto il mondo con i suoi raggi gettava come un senso di perfezione, di fine. Non fu, però, che illusione d’un baleno, perché la luce aveva svegliato il piccolo Malu, che a modo suo dimostrava la propria tristezza per quel lutto con la richiesta egoista della propria sopravvivenza.
« Uuueeeeh uuueeeeeh! »
 

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Il fuoco crepuscolare, portati con sé i colori dell’iride, stava estinguendosi in favore del blu profondo della notte.
« Volete sbrigarvi con quella katsura, voi due?! » Chiese un po’ snervato il ragazzo dalla testa rasata, che continuava a fare avanti e indietro nella sala in preda all’ansia, smuovendo ad ogni passo la mo del pesante jikitotsu che aveva appena finito di infilarsi.
« Quieto, Hinodzune-kun, ho quasi finito. » Sospirò il cugino, mentre finiva di acconciare la parrucca per Hahami, senza neanche badare all’irrequietezza del ragazzo, abituatoci com’era.
« Caro cugino, forse non te ne sei reso conto, ma il sole sta tramontando! » Continuò il ragazzo, indicando il sole al di fuori della porta. « Se non partiamo subito i carri partiranno senza di noi, e allora ci troveremo nella merda fino al collo! »
« Ti rovinerai la salute a preoccuparti a quel modo, Hinodzune. » Gli rispose il giovane uomo pacatamente, con le mani impegnate a estrarre da una custodia uno spillone per capelli decorato con tante pietruzze e fiorellini colorati. « Inoltre, ti ricordo che siamo quasi allo shuubun: a questa data, il sole tramonta prima. Se proprio vogliamo esagerare saranno le sette, e i vostri carri partono fra un’ora. »
Il ragazzo tacque e, rassegnatosi, si lasciò cadere sul tatami, sbuffando.
« Innanzitutto » Lo riprese il giovane uomo. « A fare così mi rovini il tatami. In secondo luogo: quando dicevo che avevo quasi finito, non stavo ciarlando. » Disse, lasciando che Hahami si portasse avanti verso Hinodzune, vestita del suo sgargiante kimono verde con ricamate delle calde piume. Fissàti da un fermaglio a pettine fiorito, i capelli corvini erano raccolti sulla nuca in un’intricata pettinatura. Una volta Hinodzune aveva provato a acconciarle la parrucca, ma con risultati penosi.
« Mi fa sempre una certa impressione vederti conciata da maiko. » Affermò il ragazzo, alzandosi in piedi.
« A me fa più strano vedere te con gli abiti da monaco, che lei vestita così. » Gli disse il cugino, bisbigliando come fosse un’informazione confidenziale. « Sei proprio l’ultima persona che mi aspetterei nei panni di un monaco. Non ne hai per niente il carattere. »
« Ma sta’ zitto! » Gli urlò, per poi sospirare. « Lo sai benissimo, il motivo per cui sono diventato monaco. Mica l’ho fatto per vocazione. »
« Dai » Disse il cugino dopo un attimo, senza aggiungere altro se non un sorriso amorevole, mentre Hinodzune si era abbassato per mettersi i waraji ai piedi.
« Jaa, mata ne. » Si salutarono, scambiandosi dei piccoli inchini.
Hinodzune e Hahami se ne partirono, allora, verso la stazione dei carri a nord della machi, percorrendo le vie illuminate dalla calda luce delle lanterne di carta, appese agli ingressi di ogni abitazione.
Quella notte, la quiete regnava sovrana, spodestata solamente a tratti dal distante babolare degli hoohoo, e dalle roboanti voci dei partecipanti al torneo, ormai ebbri per festeggiare il trionfo o per dimenticare la sconfitta.
« Anzenna tabi wo. » Le augurò Hinodzune con una voce fraterna, quando alla stazione si dovettero separare.
Il silenzio rispose per la ragazza.

 

Glossario:

‘O ia ku‘u keiki. ‘O Malu kona inoa: È mio figlio. Si chiama Malu.
‘O wai kou inoa?: Come ti chiami?
Alola, pono ʻoe i kōkua?: Ciao, come posso aiutarti?
Auē, ʻo wai kēlā pēpē liʻiliʻi?: Oh, ma chi è questo piccolino?
Ē ʻĀina, mahalo nui loa no ka hānai ʻai iā mākou i kēia lā pū kekahi: O Terra, grazie per nutrirci anche oggi.
Holokai, ‘o Pauahi ame Keanu…: Holokai, Pauahi e Keanu…
manana: libero adattamento della parola pokémon
Maopopo iaʻu. Ō moe ‘olua ma ʻaneʻi i kēia pō. ʻĀpōpō e wehewehe ana maikaʻi a'e wau iā ʻoe.: Capisco. Per questa notte dormi qui. Domani ti spiegherò meglio.
pīʻai: bacche
Anzenna tabi wo: Buon viaggio.
arbo: ekans in giapponese
budō: arte marziale
budōka: artista marziale
dōgi: uniforme per le arti marziali
Hane-chan! Yatto mitsuketa yo: Hane! Finalmente ti ho trovato.
hoohoo: hoothoot in giapponese
Ikou: andiamo (esortativo).
Jaa, mata ne: Beh, allora alla prossima.
jikitotsu: stile di veste monacale buddista sviluppata in Cina
katsura: parrucca
machi: paese, cittadina o città (non metropoli, né villaggio)
maiko: apprendista gēsha
mawashi: mutande tradizionali giapponesi
mo: gonna del jikitotsu
sakaba: taverna, pub, locanda
shuubun: equinozio d’autunno
soredemo: comunque, ciononostante
tori: pokémon ornitomorfi
waraji: sandali di corda di paglia

zubon: pantaloni


Spazio autore:
Finalmente aggiorno!! Ci ho messo una vita!! Perché continuo a costatare l’ovvio!!?? Spero che vi piaccia: ho voluto sperimentare un po’ con il lessico e vorrei continuare su questa strada, cercando di abbandonare il mio spirito da grammarnazi, syntaxnazi e quant’altro. Speriamo in bene. Se avete letto fin qua, come sempre, vi ringrazio moltissimo e alla prossima, quandunque arriverà.

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