Nel tuo mondo

di steffirah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 44: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


 
Tutto ebbe inizio il giorno in cui mio padre ricevette una nuova offerta di lavoro. Inizialmente era indeciso e restio se accettare o meno, dato che non se la sentiva a lasciarmi da sola tanto a lungo, senza sapere quando di preciso sarebbe tornato. Nel contratto c’era scritto mezzo anno, ma sapevamo entrambi che spesso gli scavi richiedevano più del tempo previsto.
Io lo rassicurai. In un modo o nell’altro me la sarei cavata. Sapevo che andare in Egitto in esplorazione delle piramidi e alla scoperta di tutti i tesori che esse celavano era il suo sogno di una vita, quindi non gli avrei imposto la mia presenza, bloccandolo nel raggiungimento di uno dei suoi più grandi desideri. In fondo avevo sedici anni, potevo sopravvivere da sola. Ciononostante lui detestava l’idea di lasciarmi, quindi provò a contattare alcuni nostri parenti per vedere se ci fosse qualcuno che potesse rendersi disponibile per accogliermi.
Purtroppo non eravamo una famiglia molto numerosa: da parte di padre mi restava soltanto lui, essendo figlio unico e i nonni deceduti. Idem da parte di madre, l’unico che avevo conosciuto era stato il mio bisnonno, ma dubitavo che questi con la sua veneranda età avesse le forze necessarie a “prendersi cura” di me. Secondo mio padre ero, infatti, ancora una bambina e non poteva lasciarmi con me stessa, senza sapere cosa mi sarebbe successo… e, soprattutto, voleva evitare che mi sentissi sola.
Da quando avevo cominciato le medie circa iniziai in effetti a provare questo sentimento: la solitudine. La ragione era piuttosto evidente, visto che mio padre a causa del lavoro stava via a lungo, talvolta settimane intere, e mio fratello aveva cominciato a frequentare i corsi nell’università più facoltosa di Tokyo – attualmente stava seguendo un master in Gran Bretagna, quindi anche lui era da escludere tra le opzioni di alloggio. E l’assenza di mia madre, naturalmente, diveniva giorno dopo giorno sempre più gravosa.
Alla fine papà ricordò che una cugina di mia madre viveva in Hokkaido insieme alla figlia, di un anno più grande di me. Parlò con quest’ultima, pensando che mi avrebbe fatto piacere trascorrere del tempo con una mia quasi coetanea, conoscere una nuova parente e frequentare la sua stessa scuola. Da un lato mi dispiaceva abbandonare tutto ciò che avevo qui, a Tomoeda, sebbene non fosse molto. Dall’altro non vedevo l’ora di esplorare l’ignoto, spinta dalla mia indole curiosa che oramai da anni mi contraddistingueva.
Per cui accettai di buon grado quella proposta, facendo le valigie, dicendo addio al mio passato. Salutai papà all’aeroporto, dove prendemmo due direzioni diverse, lui verso i deserti caldi del sud, io verso le alpi glaciali del nord.
Da quel momento in poi la mia vita cambiò totalmente.










 
Angolino autrice:
Buon Halloween! Trick or treat?
Come preannunciato, ecco qui una nuova storia! Diciamo che è nata chiacchierando con diverse persone sul come potrebbe essere una storia di CCS con vampiri sul modello di Twilight, ci ho ragionato su, sono partita da un bozzetto, da cosa nasce cosa e... è venuta fuori una storia abbastanza lunghetta ^^' Non quanto Early Christmas Present, meno della metà haha. Inoltre andando avanti si è distaccata totalmente dalla saga della Meyer, scrivendosi praticamente da sola (ci saranno delle similitudini, ma non troppe).
Stavolta sto pubblicando (per la prima volta) una storia non ancora conclusa, quindi 1) non vi posso ancora dire con certezza quanti capitoli saranno (credo attorno alla quarantina), 2) sarò più lenta nell'aggiornare (anche perché ho cominciato la magistrale, per cui lo farò nei giorni liberi).
Come al solito, vi chiedo di portare un po' di pazienza con me.
Alcuni di voi già sanno che con le trame faccio schifo, perciò ignoratela e non vi affidate troppo ad essa. Nella scelta del raiting anche sono stata in difficoltà, quindi quando arriveremo al culmine della storia mi direte voi se ho fatto bene o è esagerato l'arancione. Per quanto concerne il genere, neppure è stato semplice: è una storia di vampiri (non come tutti li conoscete, huhu), in cui c'è amore ma anche tanta tristezza, per cui non ho messo "romantico" o "sentimentale". Anche perché avrei dovuto mettere pure "malinconico" per certi versi. Comunque non disperate, ci sono momenti dolci anche se dalla descrizione può sembrare che non sia così (anche perché, se non ci fossero scene smielate non sarei Steffirah haha).
Come al solito vi sto facendo una testa di chiacchiere. Sappiate comunque che stavolta le mie incursioni saranno minori perché ci sarà poco da spiegare e mi sono presa la libertà di essere meno verosimile e un po' cattivella.
Detto ciò, vi auguro buona lettura e ringrazio da ora chiunque deciderà di seguirmi in quest'oscura avventura! Vi mando un morso affettuoso a distanza :3

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Nuova casa


 
In una regione settentrionale dell’Hokkaido, tra immense foreste di conifere che si estendevano a perdita d’occhio sulla superficie della Terra, si apriva il cuore di una piccola cittadina fino ad allora a me sconosciuta, chiamata Reiketsu. Non l’avevo mai sentita prima e l’avevo anche cercata sulle mappe per curiosità, senza tuttavia trovarla. Quasi come se non esistesse, come fosse una città fantasma – il che, di per sé, non sembrava molto confortante.
Dopo circa un’ora e mezza di volo e altre due ore in taxi finalmente giunsi all’indirizzo lasciatomi da mio padre. Dovemmo abbandonare la città, inoltrarci in zone periferiche, attraversare catene montuose e sopravvivere a curve vertiginose prima di poter intravedere il cartello che recitava “Benvenuti a Reiketsu-chou”.
Non appena ebbe parcheggiato l’auto ringraziai l’autista, il quale gentilmente mi aiutò anche a tirare fuori la grossa valigia dal bagagliaio, e attesi che si allontanasse prima di voltarmi a guardare la villa di mia cugina, restando a bocca aperta. Era incommensurabile, almeno il triplo di casa mia.
Un’ampia abitazione in legno e mattoni a due piani, costruita sullo stile di una dimora occidentale, si erigeva a ridosso del bosco, i cui abeti e ginkgo la circondavano creando un semicerchio, estendendosi fin sulla strada. Essa sembrava quasi una fusione tra le tipiche abitazioni a graticcio tedesche, una magione vittoriana e un castello medievale francese. Le pareti erano tinte in grigio, o forse si erano scolorite col passare degli anni – ma era anche plausibile che fossero le nuvole perenni a farla sembrare così scura. A quanto mi era parso di capire in questa cittadella – in cui c’erano all’incirca 1070 abitanti – sarebbero stati tutti giorni di nuvole e pioggia, mentre quelli di sole si potevano contare sulle dita… di una mano.
Sospirai affranta, ma mi consolai pensando che entro l’estate prossima sarei dovuta ritornare a casa. Magari sarei riuscita ad invitare anche mia cugina e così avremmo potuto andare al mare insieme. Ero certa che questo cielo plumbeo non faceva bene a nessuno, né al fisico né all’umore.
Allungai un dito suonando il citofono e dopo non molti secondi mi rispose una voce adulta di donna, lievemente gracchiante, chiedendomi chi fossi.
«Kinomoto Sakura» annunciai sorridente, domandandomi se ci fosse una qualche telecamera da qualche parte per vedere chi sostava dinanzi casa. In tal caso, non volevo mostrare il mio stato d’animo prostrato per la dipartita con mio padre.
Il cancello in ferro battuto si aprì automaticamente ed entrai, fermandomi un attimo a studiarne il disegno: c’erano edere rampicanti che avvolgevano dei cuori curvilinei, da cui partivano onde a spirale. Era affascinante e un po’ mi ricordava l’entrata della villa al mare del nonno, sebbene quella fosse lievemente meno appariscente.
Passai oltre, guardandomi intorno nel vasto giardino, seguendone il sentiero rettilineo. C’erano numerosi arbusti ben potati ma altissimi, tanto che quasi bloccavano la visuale di tutte le finestre. Chissà se erano lasciati crescere così per una questione di privacy oppure per motivi estetici. Poteva pur sempre trattarsi di qualche arte del giardinaggio che ancora non conoscevo.
Prima dell’ingresso c’era un portico con due colonne marmoree e il tetto a timpano, raggiungibile tramite tre scalini. Mentre li salivo notai sulla sinistra un roseto curato finemente con un rosaio rampicante che occupava molto spazio, pieno zeppo di rose rosse. Che strano che fiorissero con questo clima e in questa stagione.
Le mie riflessioni andarono in fumo nel momento in cui udii la porta scattare. Mi voltai prontamente, mettendomi sull’attenti, restando senza parole. Sulla soglia mi sorrideva cordialmente una ragazza bellissima. La sua pelle era diafana, sembrava essere fatta di porcellana, e tale impressione era accentuata dal suo aspetto delicato. Era minuta, aggraziata, con lunghi capelli fluenti che le incorniciavano il viso e le spalle, scivolandole morbidamente sulla schiena con onde leggere. Quasi fossero fatti di fili di seta che avevano rubato i colori della notte. Anche i suoi occhi avevano un che di eccezionale: erano grandi, carezzevoli, del colore della lavanda. Mi guardavano con aria amichevole e curiosa, forse perché mi ero letteralmente imbambolata.
Mi ridestai  d’un botto, inchinandomi profusamente, presentandomi.
«Sono Kinomoto Sakura, piacere di conoscerti.»
«Il piacere è tutto mio, Sakura-chan.» La sua voce era tenue, sottile e graziosa, suonava come uno scampanellio. «Io sono Daidouji Tomoyo.»
Mi rimisi dritta, sorridendole, e vidi anche lei fare un piccolo inchino con la testa.
«Se vuoi seguirmi…»
Fece un cenno con la mano e mi accomodai dopo di lei, chiedendo permesso.
L’interno era persino più spettacolare. Subito dopo essere entrati si apriva un largo spazio con una scalinata in marmo bianco giusto al centro, che conduceva al piano superiore. La stanza era ben illuminata da un lampadario in quello che mi sembrava cristallo che pendeva dal soffitto e mostrava contro le due pareti laterali mobili, vasi, quadri, specchi e una sfilza di antichità che mio padre avrebbe invidiato con tutto se stesso. Per la maggior parte sembravano essere originarie dell’Occidente, forse erano state importate dall’Europa.
Oltre alla meraviglia provocata dall’ambiente, ci si aggiunse la presenza di un numero esorbitante di cameriere che mi diedero il benvenuto. Mi pietrificai, non sapendo come reagire. Erano almeno il doppio di quelle che lavoravano per il nonno! E mio padre non mi aveva avvertita a riguardo!
Imperturbabile, mia cugina ordinò a una di queste di portare la mia valigia in camera, mentre mi conduceva verso una porta che dava sul retro. Aprendola mostrò un’immensa biblioteca, antichissima, e quanto più tempo trascorrevo qui tanto più mi convincevo che questo posto sarebbe piaciuto tantissimo a otou-san. Quando sarebbe atterrato avrei dovuto fargli un resoconto quanto più dettagliato possibile.
Sul lato sinistro, dinanzi ad un caminetto in mattoni spento, sostava un’alta poltrona rossa. Sentii mia cugina ridacchiare – il che suonò più come il tintinnio di tanti campanelli –, dicendo: «Starà sicuramente dormendo.»
Si pose dinanzi ad essa, avvicinandovisi con una camminata elegante e sinuosa, quasi come se fluttuasse in aria. Non potevo che rimanere colpita da ogni sua azione, ogni sua parola, ogni suo gesto.
Scrollò qualcuno che da qui non riuscivo a vedere, sussurrandovi qualcosa che non captai, ma suonava dolce, quasi… mieloso. Sorrise, seguendo con lo sguardo un’altra figura che si stiracchiò, prima di alzarsi e voltarsi. Arrossii lievemente non aspettandomi di trovare anche un ragazzo. Non sapevo di avere un cugino!
Lui mi si avvicinò con la sua stessa grazia e, mentre mi si approcciava, me lo studiai. Era pallido quanto lei, pure la sua pelle sembrava fatta di alabastro. Si somigliavano tantissimo, anche nel colore di capelli, sebbene i suoi fossero lisci e tendenti al blu. Era più alto e slanciato di lei, dal fisico asciutto, e quando mi giunse innanzi mi accorsi di arrivare appena alla sua spalla. Un gigante! Anche i suoi occhi avevano un taglio gentile e carezzevole, ma a differenza di quello di mia cugina il suo sorriso aveva un che di… ambiguo, ecco. E le sue iridi, a loro volta, erano stupefacenti. Color ghiaccio, non potevo sbagliarmi. Di un celeste chiarissimo, tendente al grigio, contornati di cobalto, trasparenti. E quella stessa trasparenza sembrava rendere così me, quasi riuscisse ad aprirmi la mente e leggervi ciò che vi celavo. Che cosa assurda.
«Piacere di conoscerti, Sakura-san.» San? Lo fissai perplessa da tutta quella cerimoniosità – era persino più formale di Tomoyo-chan, che già aveva mostrato di preferire utilizzare un linguaggio gentile.  «Il mio nome è Hiiragizawa Eriol.»
Fece un piccolo inchino e io lo imitai, dicendogli che il piacere era tutto mio. Poi mi ripetei le sue parole.
«Hoe? Non siete fratelli?» domandai confusa.
«No» rispose pacata mia cugina, appoggiando delicatamente una mano sul suo braccio. Vedendoli così, sembravano usciti da un romanzo d’amore. Mi si strinse il cuore, trovandoli toccanti. «Eriol-kun è il mio ragazzo» spiegò.
Annuii, comprendendo, rallegrandomi per loro, trovandoli una coppia bellissima. Dopo non molto, tuttavia, feci due più due.
«E vivete insieme?»
Confermarono col capo, il che mi lasciò ancora più perplessa.
«M-ma… E tua madre, Tomoyo-chan?»
«È una lunga storia, ne parleremo con calma a cena. Per ora c’è solo una cosa che dobbiamo dirti, prima di farti riposare.» Si rivolsero un’occhiata per poi tornare a guardarmi, augurandomi in coro, una in tono acuto, l’altro con voce sottile: «Benvenuta nella tua nuova casa.»
Li ringraziai di cuore e ascoltai il loro suggerimento, convenendo con loro che fosse meglio che riposassi un po’ per recuperare le energie perdute col viaggio; seguii quindi una cameriera, la quale mi condusse nella mia stanza e si offrì di mettere a posto tutto col mio consenso, mentre mi rinfrescavo. Assentii non trovando le forze di negarglielo, sebbene avessi potuto occuparmene tranquillamente da sola in seguito, e mi andai a fare una rapida doccia, cambiandomi in abiti puliti prima di gettarmi sul letto a due piazze, cedendo alla stanchezza.
 
 
 
Quella sera, dopo che mi fui risvegliata, la prima cosa che feci fu scrivere immediatamente una lunga e-mail a mio padre per raccontargli del viaggio e di ciò che avevo visto finora. Non appena gliela inviai telefonai a mio fratello, certa che fosse in apprensione per me, per assicurargli che fossi arrivata sana e salva.
«Mostriciattolo, ce ne hai messo di tempo» mi attaccò immediatamente.
«Oh, scusami se ero stanchissima e ho finito con l’addormentarmi» sbuffai risentita.
«Ma adesso sembri stare bene» ridacchiò perfidamente. Cielo, se soltanto fosse stato ancora a portata di mano lo avrei strozzato. «Com’è andata?»
«A parte la fiacchezza, bene. La casa di Tomoyo-chan è grandissima, dovresti vederla.»
«Mandami delle foto.»
«Lo farò senz’altro, devo condividere tutto questo anche con papà, ne sarà entusiasta. È un luogo pieno di meraviglie» descrissi eccitata.
«Sembri felice.»
«Lo sono!» confermai, alzandomi in piedi, scostando le pesanti tende scure dalla finestra. «Peccato per il grigiore del cielo» mi rammaricai.
«C’è cattivo tempo?»
«A quanto ho capito è meglio che mi ci faccio l’abitudine, saranno rari i giorni di sole.»
«Per una come te che ama l’estate deve essere un inferno» rise, per niente dispiaciuto.
«Affatto! È il paradiso, e sai perché?»
«Perché?»
«Perché a differenza di te che sei un oni, Tomoyo-chan ed Eriol-kun sono due angeli» cantilenai dispettosa.
«Chi è questo “Eriol-kun”?»
«Il suo fidanzato.»
Fece una breve pausa, indagando poi in tono infastidito: «E vive con voi?»
«Così mi è parso di capire.»
Non sentii la sua risposta perché proprio allora bussarono alla porta. Aprii rapidamente e una cameriera mi informò che la cena era servita. Lo riferii a mio fratello, salutandolo rapidamente, ignorando le sue proteste. Non concepiva proprio l’idea che un ragazzo e una ragazza vivessero insieme, se non imparentati. Ma se si amavano che problema c’era?
Mi sciacquai rapidamente il viso prima di scendere le scale, affondando i piedi nel tappeto rosso, sentendomi quasi una principessa.
Giunta nel salone al primo piano rimasi nuovamente abbagliata dalla quantità di candelabri con candele accese posti in fila sulla tavola, nonché dalla lunghezza di quest’ultima, le cui portate erano intervallate da vasi pieni di rose rosse. Sembrava di stare ad una cerimonia nuziale in stile occidentale.
Notandomi, Eriol-kun e Tomoyo-chan mi vennero incontro, chiedendo come mi sentissi e come avessi riposato, attendendo che fossi la prima ad accomodarmi. Mia cugina si sedette a capotavola e il suo ragazzo alla sua destra, di fronte a me. Sembravamo vicini, ma in realtà tra di noi intercorrevano almeno una cinquantina di centimetri di spazio, se non di più – non ero mai stata brava coi calcoli. Spostai poi gli occhi sulle portate, restando senza fiato. Non saremmo mai riusciti a mangiare tutto quel ben di dio! C’erano patate al forno, tacchino, bistecche, insalate russe e numerosi piatti che non riuscivo a distinguere, con tanto di pudding come dessert.
Cominciai a prendere un po’ di tacchino e patate, mostrandomi curiosa dopo aver risposto alle loro domande. «Come mai siete così… tendenti alle usanze occidentali?»
Li guardai di sottecchi, sperando di non averli offesi in alcun modo.
Eriol-kun rispose con la sua voce fine, quasi le sue more uscissero dai fori di un flauto traverso. «Perché io ho origini inglesi. Ti dispiace?»
Sembrò sinceramente preoccupato alla possibilità, per cui scossi la testa con vigore.
«No anzi, mi piace questo cibo!» lo rassicurai, mangiando con gusto.
Tomoyo-chan prese un po’ di insalata, versandosi in un calice del liquido rosso scuro, facendo altrettanto con Eriol-kun che continuava a sorridermi in maniera furba.
Abbassai lo sguardo, chiedendomi se si trattasse di succo di mirtilli. Ma c’erano altre cose ben più importanti da analizzare: i piatti erano in porcellana, le posate d’argento, i calici al posto dei bicchieri molto verosimilmente di cristallo con base e stelo decorati….  Sul serio, quanto poteva essere ricca la cugina di mia madre?
Vidi Eriol-kun mettersi nel piatto una bistecca al sangue – ragione per cui l’avevo evitata, preferendola ben cotta – e tossicchiai, riprendendo la conversazione che quel pomeriggio non avevamo portato a termine.
«Tomoyo-chan, quindi zia…?» la incalzai.
Lei finì di bere a piccoli sorsi, pulendosi con eleganza le labbra con un fazzoletto di seta ricamato sui bordi.
«Mia madre è in viaggio di affari in America, tornerà a dicembre, nel periodo natalizio.»
Ecco, stavo cominciando a farci l’orecchio con la perfezione della sua voce da soprano.
«Capisco.»
Assaggiai anche io l’insalata, assimilando l’informazione. Per un attimo avevo pensato che avesse lasciato la casa in eredità a loro due e lei si fosse trasferita altrove. Se però era come diceva, presto avrei potuto incontrarla! Ed essendo cresciuta con mia madre sicuramente mi avrebbe potuto raccontare tanto di lei!
Sorrisi lieta a quel pensiero, formulandone intanto un altro: ciò significava anche che fino a dicembre avremmo vissuto soltanto noi tre – insieme alla servitù, naturalmente. Un sogno adolescenziale!
Contenta, presi un altro po’ d’insalata e misi il tacchino in un altro piatto, complimentandomi con lo chef chiunque fosse.
Quando giungemmo alla fine del pasto – purtroppo lasciando tantissimi avanzi – Eriol-kun ci invitò a spostarci sui divani nel salone.
Qui non mi sorpresi più nel vedere l’enorme lampadario con gocce pendenti e angeli con le trombe d’argento come portacandele, piuttosto rimasi stupita nel ritrovarmi innanzi un vero e proprio arsenale al di là di una teca. C’erano armi di tutti i tipi e le epoche, naturalmente da collezionisti: spade, sciabole, lance, pugnali, fucili, pistole…. E in un angolo accanto ad una delle tende di broccato purpureo alla finestra c’era un’armatura completa di un cavaliere medievale. All’angolo opposto, invece, quella di un samurai. Fantastico, era come trovarsi in un museo!
Sulle pareti scure erano affissi due orologi a pendolo, elmi e maschere del teatro noh. Restai un attimo a fissare l’hannya, rabbrividendo dalla testa ai piedi. Ecco come una notte al museo diveniva una notte nella casa infestata. Oh no, no. Non dovevo assolutamente lasciarmi sopraffare da pensieri del genere.
«Sakura-san, vieni pure a sederti.»
Risposi immediatamente all’invito di Eriol-kun, scivolando sul morbido divano imbottito. Wow, era più morbido del mio letto a Tomoeda! Naturalmente lo era anche quello della stanza che mi avevano assegnato di sopra, oltre che essere più alto e largo, con tanto di baldacchino e tendaggi velati semitrasparenti.
Dopo che mi fui seduta di fronte a lui Tomoyo-chan si accomodò al suo fianco, appoggiandosi alla sua spalla. Un dipinto. Ecco, sembravano essere usciti fuori da un dipinto.
«Tomoyo mi ha detto che hai sedici anni.»
Mi ridestai dai miei sogni ad occhi aperti, confermando.
«Esatto, li ho compiuti il primo aprile.»
«Quindi frequenti il secondo anno» osservò, pensieroso.
«Noi stiamo al terzo» mi informò mia cugina.
«Lo so.» Sorrisi, facendo capire che tale differenza d’età non rappresentava alcun problema. «Papà mi aveva detto che eri più grande di un anno di me.»
Annuì, aggiungendo: «Proprio pochi giorni fa è stato il mio compleanno.»
«Sul serio?»
«Il tre settembre.»
«Hoe!! Non ne avevo idea! Auguri!»
Sorrise rallegrata, ringraziandomi, ma non aggiunsi altro perché vidi Eriol-kun carezzarle i capelli con una delicatezza disumana. Arrossii io al posto loro, sviando lo sguardo. Non ero esattamente abituata a tutte quelle dimostrazioni palesi di affetto.
«Comunque stai tranquilla, andremo a scuola tutti insieme» mi rincuorò Tomoyo-chan. Bene, anche perché non avevo alcuna idea del dove fosse ubicata. «E a tal proposito» Si alzò in un unico movimento che avrebbe fatto invidia ad una ballerina, avvicinandomisi esaltata. «Mi servono le tue misure.»
«Le mie misure?» ripetei spaesata.
«Per assicurarmi che quelle della divisa siano giuste» ammiccò.
Mi illuminai, alzandomi intrepida. Salutai Eriol-kun e la seguii verso la mia camera, entrando prima nella sua per prendere un metro da sarta e un blocchetto con una matita che portò con sé. Cominciò a girarmi attorno, dandomi indicazioni sul come posizionarmi, e fece tutto ad una rapidità impressionante, soprattutto quando doveva segnare i numeri sulla carta, lasciandomi basita.
Quando finì mi guardò elettrizzata.
«È perfetta!» decretò, senza neppure farmela misurare. Se lo diceva lei mi fidavo, io poco mi intendevo di sartoria. «Te la porto domattina.» Stava per congedarsi, quando si voltò un’ultima volta, carezzandomi con uno sguardo. «Ah, e davvero Sakura-chan, stai tranquilla. Ti ambienterai subito e riuscirai sicuramente a stringere nuove amicizie.»
Sospirai, buttandomi supina sul letto dopo che si chiuse la porta alle spalle senza fare il minimo rumore, fissando gli occhi su quella cupa notte che si intravedeva al di là della finestra.
«Lo spero davvero…» soffiai sottovoce, sentendo un po’ d’ansia salire a galla. Decisi tuttavia di mettere da parte ogni insicurezza, filando a cambiarmi per indossare il pigiama e mettermi a letto, preparandomi psicologicamente alla giornata che mi aspettava.
Strinsi al petto Kero-chan assorbendo il suo coraggio da leone, augurando la buonanotte sia a lui che alla foto della mamma che avevo sul comodino. Chiusi gli occhi, abbandonandomi presto al sonno.
Aveva fine così il mio primo giorno nella mia nuova casa.










 
Angolino autrice:
Salve! Aggiorno prima del previsto avendo un po' di tempo a disposizione (yay!).
Il nome della città l'ho inventato io (più avanti scoprirete il significato) e "chou" nel cartello si scrive col kanji di "città".
Riguardo agli onorifici, il -san come immagino saprete è piuttosto formale/gentile, mentre tra coetanei/amici vengono usati il -chan per le ragazze dalle ragazze e il -kun per i ragazzi dalle ragazze.
Il teatro noh nasce nel XIV secolo ed è considerato una forma d'arte caratterizzata da lentezza, grazia e maschere, tra le quali l'hannya è quella della donna gelosa divenuta demone.  
Otou-san = papà, oni = demone
Grazie sempre a chi legge :3

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Primi incontri


 
Il mattino seguente piovigginava. Fu proprio il suono della pioggia a destarmi, che seppur lieve ticchettava sulle tegole del tetto, risuonando sul soffitto.
Mi alzai sonnecchiante, avvicinandomi alla finestra, poggiandomi contro essa per sostenermi. Stropicciandomi gli occhi osservai la foschia che si alzava dal suolo, lievemente abbattuta. Speravo in un minimo sprazzo di sole, almeno il primo giorno di scuola…. E invece no, la pioggerellina mi accoglieva. Decisi comunque di vederla sotto una buona prospettiva, come se il cielo si fosse commosso e piangesse per darmi il suo benvenuto.
Con una nuova carica mi avviai a lavarmi, sebbene dopo non molto sentii bussare; chiesi chi fosse e nell’udire quella voce argentina lasciai entrare Tomoyo-chan, la quale, avvolta in una candida camicia da notte ornata di trine e coi capelli raccolti in una lunga, spessa treccia, era venuta a portarmi la nuova divisa.
Lo sconforto tornò ad assillarmi quando mi accorsi dei colori anonimi di questa: giacca e gonna erano grigio cenere, accompagnati da una camicetta color glicine e un fiocco di una cromatura simile alle profondità degli abissi. Ecco, rischiavo che questi divenissero i colori che mi rappresentavano. Rimpiansi per un secondo la mia precedente divisa dello stesso azzurro del cielo primaverile, ma immediatamente mi ripresi, dicendomi che dovevo restare fedele a me stessa e al mio animo solare, senza permettere a questo tempo e alla città di cambiarmi.
Quando raggiunsi l’ingresso trovai già la coppia pronta ad aspettarmi. Augurai il buongiorno e mi scusai per il ritardo – diversamente dal solito non era che non avevo sentito la sveglia, bensì avevo proprio dimenticato di azionarla, e quando mi ero svegliata mi sentivo spaesata. Ci avevo messo un po’ a ricordarmi di essermi trasferita e non trovarmi più nella mia calda, accogliente, luminosa casetta.
Essi mi dissero che non dovevo darmene pensiero e prima di uscire mi porsero la mia cartella e il mio bentou insieme a un sacchetto bianco, spiegando: «La tua colazione.»
Sbirciai all’interno, estraendone un cornetto bello caldo ripieno alla crema. Non era esattamente ciò che ero abituata a mangiare di mattina, ma non mi lamentai. Sarebbe stato uno sgarbo se lo avessi fatto, visto che mi stavano praticamente viziando.
Uscii con loro nel cortile, dove Tomoyo-chan condivise il suo ombrello viola dagli orli merlettati con me. La ringraziai prima di dare un morso, sentendo immediatamente la crema che mi si scioglieva sulla lingua. Mmm, era buonissimo! E sembrava anche fatto in casa! Che meraviglia avere qualcuno che cucinava per te!
Mentre proseguivamo in silenzio rivolsi uno sguardo di sbieco a Eriol-kun, notando che la camicia maschile era di una sfumatura molto tenue di pervinca, quasi tendente al celeste. Chissà perché entrambi ci stavano benissimo, sembravano due figure diafane di altri tempi giunte da noi per portare pace e amore; mentre io, invece, in questi abiti sembravo scialba e goffa. Ecco un’altra cosa che rischiavo qui: un calo di autostima. Soltanto quello ci mancava!
Mi tolsi quell’ennesimo pensiero negativo dalla testa e buttai le cartacce in un cestino che trovammo in strada, concentrandomi piuttosto sul percorso da fare, tentando di memorizzarlo. Per consuetudine procedevo a passo spedito, troppo abituata all’utilizzo dei rollerblade per decelerare, ma nessuno dei due sembrava curarsene, mantenendosi tranquillamente al mio fianco. Seguimmo la destra lungo la banchina, sfiorando quasi con le nostre gambe l’erba folta che si alzava dal suolo, e dopo pochi metri giungemmo nel paese. Qui dovemmo svoltare in due strade ciottolate sulla sinistra che formavano una linea serpentina, prima di raggiungere un edificio non molto grande. Non mi stupì il fatto che fosse più piccolo della villa di Tomoyo-chan, considerando che doveva ospitare sì e no due centinaia di studenti.
Non appena mettemmo piede nel cortile della scuola mia cugina salutò il suo ragazzo per accompagnarmi fino alla segreteria. Una volta al riparo le assicurai che non c’era bisogno restasse con me, sarei riuscita sicuramente a trovare la strada verso la mia classe. D’altronde, non che ci fossero molte aule, erano due sezioni per gli ultimi due anni e una per il primo anno sviluppate, da quanto vedevo sulla mappa, su due corridoi in due piani, più laboratorio scientifico e artistico, aula di musica, di informatica e di economia domestica. Potevo farcela.
Mi annunciai alla segretaria, la quale mi sorrise in maniera calorosa dandomi il benvenuto, porgendomi poi i miei libri e le schede con le mie materie, la classe e gli orari. Misi tutto a posto in borsa, tenendomi solo la cartina, prima di uscire di lì. Dopo aver cambiato le scarpe nell’armadietto assegnatomi salii le scale, entrando nell’ufficio del preside per comunicargli il mio arrivo e ricevere i suoi saluti. Fortunatamente in poco tempo mi congedò, augurandomi una buona permanenza.
Tornata nel corridoio controllai dove dovessi dirigermi per raggiungere la classe in cui mi avevano piazzata; stando con la mappa sotto il naso, tuttavia, non mi accorsi di avere qualcuno innanzi e finii pertanto per sbattervi contro. Mi scusai per la mia disattenzione, guardando la povera malcapitata, notando che fosse una ragazza. Questa aveva due alte trecce ai lati del viso e mi sorrideva tranquilla, scuotendo la testa.
«Sei la nuova studentessa, vero?»
Annuii, per niente sorpresa. Immaginavo che lì tutti si conoscessero.
«Molto piacere, io sono Mihara Chiharu.»
Sembrava una ragazza amichevole e, soprattutto, solare. Proprio come me!
«Piacere mio!» sorrisi raggiante, finalmente rilassandomi. Mi sembrava quasi che l’aria attorno a noi si fosse tinta di giallo e arancio.
«In quale sezione sei?» domandò curiosa, sbirciando sul foglio. Glielo mostrai e lei si illuminò, contenta. «Ma allora saremo compagne! Vieni, ti mostro la classe.»
Rincuorata la seguii, parlottando con lei del più e del meno. Prima di entrare salutò altre due ragazze, sue amiche, i cui nomi erano Sasaki Rika e Yanagisawa Naoko. Poi mi introdusse anche il suo ragazzo, Yamazaki Takashi, e completò il giro di presentazioni giusto qualche secondo prima che ci pensasse il professore in carica della classe ad interromperla. Questi, Terada-sensei, riportò l’ordine in aula prima di farmi entrare. Mentre scriveva il mio nome alla lavagna mi presentai da sola, brevemente, dicendo da dove mi ero trasferita e sintetizzando le ragioni per cui l’avevo fatto, concludendo con un: «Abbiate cura di me.»
Il prof sembrò felicemente colpito dalla mia intraprendenza e dopo aver pronunciato «Mi raccomando, siate cortesi e fate amicizia»  mi indicò il posto in cui avrei dovuto sedermi.
Per non fargli perdere tempo mi avviai a passo lesto in uno degli unici due banchi vuoti, il penultimo della fila a sinistra, tra la finestra e Chiharu-chan. Quella sì che era fortuna! Le sorrisi nel sedermi, prendendo immediatamente astuccio, libro e quaderno.
«Li, guarda che ti ho notato.»
«Chiedo scusa, mia cugina mi ha fatto perdere tempo» si giustificò con poca curanza una voce fin troppo bella. Era roca, calda, profonda e contemporaneamente melodiosa. Eh no, da quando ero qui mi avevano circondata!
Incuriosita di scoprire a chi appartenesse alzai la testa verso l’altra porta, quella che dava agli attaccapanni. Qui un ragazzo si attardava ad appendere il suo lungo cappotto nero, come se sul serio non gli importasse di essere arrivato in ritardo. O forse stava approfittando del fatto che il professore stesse facendo l’appello per prendersela comoda.
Risposi distrattamente al mio nome, cui seguì quello che supponevo essere il suo, Li Syaoran, visto che rispose annoiato con «Presente», prima di voltarsi verso la sua sedia; e, di conseguenza, verso di me.
Allora potei vederlo in viso e mi sentii come folgorata. Era bellissimo. Quanto mia cugina e il suo ragazzo. O forse persino di più, perché il tono della sua pelle non aveva quello stesso pallore mortale, quasi malato; il suo era più roseo – seppure restava più bianco di me e di tutto il resto della classe. Sembrava abbastanza alto, anche se non potevo sapere quanto con certezza, stando seduta. Un istinto più grande di me quasi mi spingeva ad alzarmi per accertarmene, ma in qualche modo riuscii a controllarmi e a metterlo a tacere. I suoi lineamenti erano marcati, e al contempo sinuosi ed eleganti. Le sue labbra erano sottili, d’un rosa molto tenue, quasi niveo, e in quel momento erano tese, come se stesse trattenendo il respiro. I suoi capelli scompigliati erano di media lunghezza, alcune punte si alzavano ai lati formando piccole curve, rendendoli ancora più selvaggi. Ma ciò che aveva di più straordinario erano i suoi occhi: di un colore così caldo, proprio di quel caldo che mi mancava, come ambra sciolta nel miele in una corolla di petali di girasole. Essi erano però sgranati, mi fissavano come se avessero appena visto qualcosa di orribile e temibile.
Mi voltai a guardarmi alle spalle spaventata, preoccupata che ci fosse qualcosa fuori la finestra. Tuttavia, non c’era nulla.
«Ripensandoci, credo di non sentirmi bene» lo sentii proferire rapidamente e per quando mi rigirai era già sparito con le sue cose.
A nulla servirono i richiami del prof. Questi sbuffò qualcosa di incomprensibile, utilizzando presumibilmente il dialetto del luogo, facendo ridacchiare un po’ tutti. Dopo neppure mezzo minuto riportò immediatamente all’ordine la classe, dando inizio alla lezione.
I corsi si susseguirono quasi senza difficoltà e notai che bene o male riuscivo a stare al passo coi programmi proposti. Soltanto ogni tanto restavo confusa da qualche passaggio, ma Chiharu-chan – che a quanto m’era parso di capire era la rappresentante di questa sezione – mi venne incontro ogni volta che sembravo perdermi, aiutandomi a trovare le pagine degli argomenti trattati.
Durante la pausa pranzo mi fece fare un rapido giro per l’istituto, dopodiché mangiammo insieme ai suoi amici. In realtà mi avrebbe fatto piacere se vi si fossero aggiunti anche Tomoyo-chan ed Eriol-kun, ma quando li incrociai nel corridoio mi spinsero a raggiungere gli altri e non curarmi troppo di loro. Immaginai che volessero starsene tranquilli da soli, così non insistetti e mi unii al gruppo.
Trovai immediatamente tutti simpatici: Chiharu-chan era proprio come appariva, energica, spigliata e vivace; Yamazaki-kun aveva l’aria furba ed era allegro e divertente con le storie che inventava; Naoko-chan seppur timida mostrava acutezza e creatività, dimostrando di apprezzare a sua volta racconti e favole; infine Rika-chan era una ragazza semplice, matura e pacata.
Tra le tante cose, parlammo dei diversi club che la scuola offriva – sebbene fossero la metà di quelli del mio liceo – e così scoprii che Naoko-chan faceva parte del club di letteratura, Rika-chan era iscritta al club di musica, Chiharu-chan a quello di cheerleading, mentre Yamazaki-kun giocava a basket. Mi chiesero a quale volessi prendere parte e alla fine optai anche io per cheerleading.
«È dalle elementari che ne faccio parte.»
«Fantastico!» esclamarono tutti colpiti, con Chiharu-chan che ne gioiva.
«Così ci vedremo anche il pomeriggio!»
Mi aggiunsi al suo entusiasmo, chiedendomi poi di quali club facessero parte Tomoyo-chan ed Eriol-kun. Ma anche se non fossimo tornati insieme non era difficile ritrovare casa, quindi non dovevo essere così dipendente da loro.
«Cambiando argomento, Kinomoto, è da prima che un dubbio mi assilla. Posso farti una domanda?» Yamazaki-kun prese parola abbassando il tono, quasi temesse che qualcuno lo sentisse. Attesi che proseguisse e quando riprese divenne ancora più inudibile. «Per caso hai fatto qualche torto a Li?»
«Hoe?» Piegai la testa su un lato, perplessa. Tutti mi avevano puntato gli occhi addosso, quattro sfumature diverse di castano mi scrutavano, in attesa. «Mmh… No. Non credo, almeno. Neppure lo conosco.»
«Sicura che non vi siete già incontrati prima?» aggrottò la fronte Rika-chan.
«Sembrava quasi come se, guardandoti, avesse rivisto la sua nemica giurata» meditò Naoko-chan.
«Un attimo. Stava guardando me?» Spalancai gli occhi, sconvolta. Non l’avevo minimamente capito!
«Certo che guardava te.» Chiharu-chan alzò gli occhi al cielo.
«Oh no! Avrà pensato che sono una scostumata! Ovviamente si sarà sorpreso di vedere un viso nuovo in classe, si sarà chiesto chi fossi e… e io non ho fatto altro che fissarlo incantata» riconobbi, nascondendo la testa tra le braccia, incrociandole sul tavolo.
«Sakura-chan, non preoccuparti di questo. Sarebbe stato strano se non ti fossi incantata, è stata la reazione di tutti la prima volta che lo abbiamo visto» provò a consolarmi Rika-chan.
«Sul serio?» Alzai di poco il capo, guardandola sorpresa.
«Diciamo che… ha un certo fascino» scrollò le spalle Chiharu-chan, come se la cosa la lasciasse indifferente, lanciando un’occhiata di sfuggita a Yamazaki-kun. Lui, tuttavia, sembrava aver perduto qualsiasi interesse in noi e mangiava ignorandoci.
«Lo stesso che emanano tua cugina e il suo ragazzo» aggiunse Naoko-chan, facendomi l’occhiolino.
«Vero» riconobbi, aggiungendo poi quasi senza rendermene conto, riflettendo: «Però Li-kun mi ha lasciato un’impressione diversa.»
«E ci credo» sbottò Chiharu-chan, prendendosela. «Ti ha praticamente guardata come se fossi una visione orribile, quando tu sei bellissima.»
Arrossii lievemente a quel complimento inaspettato, ribattendo che non era vero.
«Oppure è stata stessa la tua bellezza a lasciarlo tanto di stucco» ridacchiò Rika-chan.
«State esagerando! Non sono poi così bella» farfugliai imbarazzata.
«Lascia giudicare noi che abbiamo un occhio attento in questo campo» si intromise Naoko-chan, facendosi largo tra i miei rossori.
«Io ho un’altra teoria» dichiarò Yamazaki-kun di punto in bianco. Gli dedicammo tutte le nostre attenzioni e lui si allungò sul tavolo, con fare cospiratorio. In tono fin troppo serio proferì: «Li è un vampiro ed è rimasto sconvolto dal tuo odore.»
Non riuscì ad aggiungere altro che Chiharu-chan gli lanciò un ceffone dietro la nuca, guardandomi stufa.
«Ignoralo quando dice cose simili, se ne inventa eccome di stronzate. È praticamente il suo hobby.»
Sorrisi in maniera tirata, sentendo i battiti del mio cuore accelerare. Non dovevo essere sciocca, era naturale che mostri come i vampiri, appunto, non esistessero. Non c’era nulla di soprannaturale da temere in questo mondo.
«Sakura-chan? Stai bene? Hai un viso cinereo» si preoccupò Rika-chan, scrutandomi più da vicino.
«S-sì, scusatemi» balbettai, tornando alla realtà. «Dunque, dicevamo?»
«Com’è vivere nella reggia Daidouji?»
Ridacchiai a quel titolo, riassumendo un po’ quello che avevo visto fino a quel mattino, lasciandoli a bocca aperta. Tra una chiacchiera e un’altra suonò la campanella, per avvisarci che dovessimo rientrare in classe. Li-kun non tornò più, per cui supponemmo tutti che si fosse sentito veramente male. In effetti, non aveva una bella cera. Sperai comunque che si riprendesse al più presto.
A fine giornata mi ricongiunsi con Tomoyo-chan ed Eriol-kun accanto al cancello, salutando i miei nuovi amici. Mentre procedevamo verso casa mi chiesero come fosse andata e io chiacchierai a lungo senza freno, esaltata. Quando me ne accorsi mi scusai, convinta che stessi facendo una testa quadrata ad entrambi, ma loro sembravano tranquilli e mi ascoltavano taciti. Narrai quindi loro delle prime impressioni ricevute dai docenti e dai miei compagni di classe, facendo inevitabilmente riferimento a Li-kun. Al suo nome entrambi si fermarono sulla soglia prima di rientrare, voltandosi a guardarmi.
«Puoi ripetere cosa ha fatto?» mi chiese Eriol-kun trattenendo un sorriso, quasi come se la cosa lo divertisse particolarmente.
«A detta degli altri mi ha guardata come se fossi la sua nemesi. E poi è fuggito, dicendo di stare male.» Mi crucciai, seguendoli all’ingresso. «Spero che non sia nulla di grave.» Li sentii emettere un risolino sommesso e tra me aggiunsi: «E che non mi detesti.»
«Perché pensi che ti detesti?» indagò mia cugina.
Scossi la testa, ignara. «Non lo so, ma…. È un timore insensato, vero?»
Sorrisi tirata mentre Eriol-kun soppresse una risata.
«Stai tranquilla Sakura-san, sono certo che non ti detesti. Probabilmente era soltanto una giornata no per lui.»
«Possibile.»
Accettai quell’idea, di certo più plausibile di quel che io invece supponevo. Ciononostante mi segnai mentalmente che, non appena si fosse ripreso e fosse tornato a scuola, avrei dovuto farmi perdonare per la mia scortesia e presentarmi a dovere. Non si poteva mai sapere, magari le nostre erano state impressioni errate e, alla fine, anche noi saremmo riusciti a stringere amicizia.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Festival d’autunno


 
A scapito di quel che mi ero ripromessa, per tutto il resto di quella settimana Li-kun non si fece vedere. La cosa che trovavo maggiormente grave era che sembrava fossi l’unica ad allarmarmi della sua assenza, mentre per gli altri pareva una cosa naturale. Chiharu-chan un giorno mi disse: «Ogni tanto succede che non si presenti per più giorni, a quanto pare ha una salute cagionevole». Il che mi impensierì persino di più. Proprio a causa della sua salute cagionevole mia madre ci lasciò anzitempo e non volevo che pure lui venisse privato del suo futuro, morendo prematuramente.
Le ragazze sembravano non spiegarsi come mai fossi così presa da lui. Ogni mattina in maniera del tutto automatica controllavo il suo posto vuoto, spostando lo sguardo sulla porta, nella costante speranza che potesse apparire e io potessi rimediare ai miei errori. Utilizzarono il termine “ossessionata”, anche se io non mi ritenevo tale; ero semplicemente preoccupata e, in parte, mi sentivo in colpa. Quasi come se, qualunque fosse la sua malattia, gliela avessi trasferita io. Mi auguravo vivamente di sbagliarmi o non me lo sarei mai perdonata.
Quando esposi questo timore ad alta voce Naoko-chan mi assicurò che non era plausibile per due semplici motivi: primo, se fosse stato così allora tutti avrebbero dovuto contrarre questo ipotetico virus ed esserne infetti; secondo, non si era neppure avvicinato ad un metro da me, non c’era stato alcun contatto, non gli avevo né starnutito né alitato in faccia, quindi era pressoché impossibile. A quel punto mi sentii un tantino ridicola: forse più che ossessionata stavo diventando paranoica. Magari non era grave quanto pensavo.
Naturalmente non ruotava tutto attorno a Li-kun, quindi entro quei tre giorni consegnai l’iscrizione al club e cominciai partecipando alle mie prime lezioni, durante le quali venni subito elogiata per la mia fisicità. In parte, era lusingante. La professoressa Miura mi mise immediatamente in coppia con Chiharu-chan, definendoci le due ragazze più talentuose, elastiche e atletiche del gruppo. Quella era una vera e propria esagerazione, ce n’erano tante altrettanto brave, solo un po’ più tese nei movimenti ed esitanti nel saltare. Poteva trattarsi della paura di cadere, e se fosse stata quella anche io c’ero passata per un breve periodo alle medie. Almeno finché non acquisii dimestichezza con le ruote e le capriole. Tutto stava nell’avere fiducia nelle proprie capacità e nel proprio corpo, così, dopo essermi consultata con la sensei, su suo consiglio tenni un breve discorso in cui spiegai come avevo superato quella piccola fobia, ritrovando me stessa. Quella me imbattibile e sicura di sé che si era nascosta dietro il timore di non farcela e ferirsi, ma che non avevo fatto prevalere. 
Fu un argomento toccante da trattare, anche perché un po’ tutte le mie compagne si ritrovarono nelle mie parole e le presero come un incoraggiamento. Ero lieta di sapere che avevo fatto qualcosa di buono, soprattutto se in tal modo avevo rincarato la loro autostima. Chissà se bastava a contrastare almeno una parte del karma negativo che mi aveva colpita in precedenza.
Riguardo alle mie attività extrascolastiche, invece, mi misi d’accordo con Naoko-chan e Rika-chan per andare a dormire a casa di Chiharu-chan nel fine settimana e fare un pigiama party tra donne. L’invito partì dalla padrona di casa affinché potessimo conoscerci meglio e lo accettai immediatamente, non avendo mai avuto l’opportunità di farne uno in vita mia.
Ci organizzammo quindi per quel sabato, giorno in cui si celebrava anche un festival per onorare l’autunno e il raccolto. Esso si teneva in un piccolo santuario accanto alle sorgenti termali naturali, più su in montagna, e per l’occasione venivano allestite diverse bancarelle con i prodotti locali ed eseguite performance teatrali e musicali.
Il sabato mattina, pertanto, mi trasferii momentaneamente a casa di Chiharu-chan insieme alle ragazze. Qui ci preparammo al matsuri, facendoci aiutare anche da sua madre per indossare i kimono, e non appena fummo pronte ci ricongiungemmo a Yamazaki-kun sulla strada principale della città. Questa era stata abbellita con festoni e lanterne dei colori dell’autunno, in un percorso che andava in salita. Seguimmo il resto degli abitanti per questa strada e notai, sorprendentemente, che c’era un numero piuttosto equo di adulti e anziani, mentre i bambini erano pochissimi.
Per strada acquistammo castagne arrostite, girandole che ruotavano al venticello fresco creando circonferenze dai mille colori, mangiammo kabocha no nimono e facemmo alcuni giochi, spostandoci tra i diversi stand assemblati nelle prossimità dei bacini d’acqua calda.
Mentre ci inoltravamo tra la folla approfittai del fitto chiacchiericcio che ci circondava per raccontare alle ragazze del sogno assurdo fatto quella notte, rievocandolo soltanto in quel momento.
«Eravamo in paese durante il festival, proprio come adesso, e cercavamo alcuni gruppi che sapevamo avrebbero suonato i tamburi. Sentendone il suono ci avviammo per raggiungerli, in modo tale da assistervi, ma ad un certo punto vi persi di vista, venendo quasi inghiottita dalla folla. L’agitazione divenne crescente mentre vi chiamavo a gran voce, sperando poteste sentirmi al di sopra delle chiacchiere spensierate degli altri; ma non vi vedevo da nessuna parte e, come se non bastasse, mi sentivo sempre più oppressa, quasi ci fosse un’incombente ombra nera alle mie spalle. Quando mi voltavo, tuttavia, non trovavo nessuno dietro di me, se non comuni visitatori che non mi prestavano alcuna attenzione. Eppure ero sicura che ci fosse una sagoma che si celava tra le ombre, i cui occhi erano fissi su di me, per cui cominciai a correre a perdifiato tra la ressa finché non vi raggiunsi, ritrovandovi. Vi pregai di tornare quanto prima a casa e dopo non molte insistenze, capendo quanto mi sentissi a disagio, rincasammo, con me che mi guardavo costantemente indietro per accertarmi che nessuno ci seguisse. Una volta rientrate mi appoggiai allo stipite della porta, ansante ma rincuorata; nel riaprire gli occhi però mi accorsi che voi non eravate con me. Mi guardai intorno nel panico e quando esitante girai la chiave per uscire…»
Feci una pausa, insicura se proseguire o meno, ma loro pendevano letteralmente dalle mie labbra, guardandomi piene di eccitazione.
«Cosa successe?» mi sollecitò Naoko-chan, che sembrava la più trepidante di tutte. Doveva adorare proprio questo genere di storie.
Abbassai lo sguardo, lievemente imbarazzata, concludendo tutto d’un fiato.
«Eravate tutte lì fuori e parlavate tranquillamente con Li-kun. Non ricordo cosa vi steste dicendo, fatto sta che voi ridevate deliziate alle sue parole e quando lui si accorse di me e si voltò a guardarmi mi sentii pervasa dalla calma. Mi sentii finalmente al sicuro. E l’ultimo ricordo che ho sono le sue ultime parole: “Fai attenzione”. Poi mi sono svegliata.»
Oh cielo, era meglio che non ne parlassi. Mi vergognavo così tanto….
Alzai esitante gli occhi su di loro, trovandole a mantenersi pancia e bocca, evidentemente morendo di risate. Lo trovavano, forse, divertente. Sicuramente meglio dell’angoscia che avevo provato io, soprattutto quando dopo essermi recata a casa di Chiharu-chan quella mattina stessa scoprii che era una copia esatta di quella del mio sogno, sia all’esterno che negli interni, sebbene fosse la prima volta che la vedessi e vi mettessi piede. Speravo che non fosse del tutto un sogno premonitore, dato che sovente mi capitava di farne.
«Non mi dire, Sakura-chan» pronunciò Chiharu-chan tra un singhiozzo e un altro, «che ti sei già presa una cotta per lui.»
Avvampai dalla testa ai piedi.
«Certo che no!» sbottai, forse con troppa foga perché le ragazze mi sorrisero maliziose, per niente convinte.
«Tuttavia» riprese Rika-chan, asciugandosi una lacrima, «è un sogno che non potrebbe mai avverarsi, visto che Li-kun non ci ha mai rivolto la parola.»
«Mai?» ripetei sbigottita.
«Solo il primo giorno, poi silenzio. Non si lascia andare a chiacchiere inutili e sembra semplicemente disinteressato a tutto e tutti» fece spallucce Naoko-chan.
«Diciamo che è un tipo taciturno, se ne sta sempre sulle sue. Le uniche persone cui permette di avvicinarsi sono tua cugina e il suo ragazzo, spesso li abbiamo visti insieme.»
«Davvero?» Guardai sorpresa Chiharu-chan. Non mi avevano detto di conoscerlo! Che figuraccia che avevo fatto!
«E sua cugina, Meiling-chan» aggiunse Rika-chan. «Frequenta anche lei il secondo anno, ma sta nella prima sezione.»
«Non credo di averla mai vista…»
«È lei.»
A quelle parole seguii lo sguardo di Yamazaki-kun, verso la sommità della scalinata. Lì vidi una ragazza con due codine alla Sailor Moon, i cui lunghi capelli corvini lisci come spaghetti le sfioravano il fondoschiena. Quando si voltò, probabilmente sentendosi osservata, mi raggelò con uno sguardo. Mi pietrificai su uno scalino. Eravamo distanti, eppure le sue iridi scarlatte ardevano, come se bruciasse il fuoco in esse e le fiamme potessero avviluppare anche me.
«Sakura-chan?»
Spostai lo sguardo da lei alle ragazze che mi avevano preceduta, impaurita. Se con Li-kun restavano dei dubbi, lei era certo che mi disprezzasse. Ma per quale ragione?
Mi affrettai ad affiancarli, scusandomi, e tentai di distrarmi come potevo. Osservai un breve spettacolo di danza a ritmo di taiko dinanzi alla statua del Buddha, iniziando ad inquietarmi. Era tutto troppo simile a quel sogno. Il suono di essi cominciò a rimbombarmi nelle orecchie, l’aria si fece rarefatta e mi girò la testa.
Con la scusa di andare a comprare qualcosa da bere mi allontanai, raggiungendo il limitare della foresta. Mi sedetti sul tronco di un albero abbattuto, prendendo respiri profondi, portandomi una mano sul petto, sentendomi i polmoni pesanti. Quasi vi ci fosse sopra un macigno.
“Non essere stupida, Sakura. Rilassati, non hai nulla da temere” continuavo a ripetermi, sforzandomi di crederci.
Ciononostante mi sentivo osservata. Come se nelle tenebre più profonde del bosco due occhi fossero fissi su di me. Ricordai tutte le storie dell’orrore con fantasmi che apparivano nelle foreste che mi raccontava da piccolo mio fratello, con perfidia, per farmi spaventare. Mi si formarono le lacrime e rabbrividii, finché una candida mano femminile dalle dita eleganti e le unghie ben curate non si protese verso di me.
«Sakura-chan, stai bene?» chiese la voce di Tomoyo-chan.
Mi alzai da sola, tirando su col naso, forzando un sorriso.
«Sì, soffro solo un po’ di claustrofobia» mentii, asciugandomi gli occhi.
«Non ne avevo idea» si dispiacque, mentre Eriol-kun mi scrutava con sospetto, quasi sapesse che stavo dicendo una bugia.
Sviai dai suoi occhi indagatori, concentrandomi su mia cugina.
«Siete qui da molto?»
«Il tempo di assistere alla parata. Dove sono gli altri?»
Li indicai, le loro teste sbucavano tra il pubblico dello spettacolo.
«Vado a comprare una bottiglina d’acqua, forse mi sarà utile bere un po’.»
Dovevo allontanarmi quanto prima dal buio.
Tornai in mezzo alla ressa, con mia cugina e il suo ragazzo che mi stavano alle spalle, decidendo di farmi compagnia. Sembravano quasi due bodyguard.
Ridacchiai a quel pensiero e mi accostai ad uno stand, acquistando la bottiglina, ma nel voltarmi notai in uno spiazzale più aperto quella ragazza, Li Meiling, insieme ad altre quattro ragazze che sembravano più grandi e mature di noi. Erano tutte tanto belle da mozzare il fiato. Purtroppo alla flebile luce delle lanterne aranciate e rossastre non riuscivo a distinguerne bene i lineamenti e mi dispiaceva, perché sembravano veramente stupende.
All’improvviso, quasi avessero avvertito il mio disappunto, si voltarono tutte contemporaneamente a guardarmi. Quattro paia di occhi sottili e affilati, simili a quelli di una volpe, mi incatenarono sul posto.
A sciogliermi da queste catene ci pensò Eriol-kun, il quale si frappose a noi per domandarmi curioso: «Cosa stai guardando?»
«Niente!» esclamai, in un tono un po’ troppo alto, tradendo una nota d’isteria, col risultato che feci girare alcune persone nella nostra direzione.
Mi feci piccina sul posto e, quando rialzai la testa, vidi anche gli altri unirsi a noi.
«Ecco dov’eri finita!»
Salutarono tutte in maniera molto gentile Tomoyo-chan ed Eriol-kun, mentre io riprendevo fiato. Senza che ne comprendessi appieno la ragione, mi sembrava di aver fatto una corsa chilometrica.
«Ci eravamo allarmate a non vederti tornare, dopo il sogno che hai fatto» si crucciò Rika-chan.
«Quale sogno?» chiese mia cugina, curiosa.
«Nu-nulla di importante!»
Ridacchiai nervosa, avvertendo il calore pervadermi le guance. Accidenti, perché le mie reazioni dovevano essere sempre così evidenti, così esagerate, da palesarmi?
«Ad ogni modo, vogliamo tornare a casa? Ci aspetta una lunga serata!» Chiharu-chan mi tirò un colpetto col gomito e io annuii, prendendo un respiro profondo, accendendomi di entusiasmo. Dovevo scacciare tutte quelle ombre scure e godermi il momento.
Salutai quindi gli altri, avviandomi con le tre ragazze a casa di Chiharu-chan. Qui, sedute sul suo lettone, chiacchierammo per tutta la notte degli argomenti più svariati: volevano sapere com’era la mia vita a Tomoeda, che tipo di città fosse, chi erano i miei amici, se avevo mai avuto ragazzi e così via. Fu quasi imbarazzante dover ammettere che non avevo mai provato alcun interesse particolare nei confronti del genere maschile che andasse oltre la semplice amicizia – eccetto che per la mia cotta infantile per Yukito-san, ma da lui fui rifiutata  per sentirmi dire che mi vedeva soltanto come una sorella, scoprendo invece che il suo affetto fosse totalmente rivolto a mio fratello. Non potevo proprio prendere un abbaglio più grande. Forse stessa quella vicissitudine mi aveva portata a non provare più nulla per nessun altro, nel terrore di potermi sbagliare ancora una volta.
Toccò poi a me chiedere delle loro vite, interessandomi inevitabilmente anche del loro aspetto amoroso; così scoprii che Chiharu-chan si era messa da poco insieme a Yamazaki-kun (ma a quanto pareva erano amici d’infanzia e l’amore che provavano l’uno per l’altro era cresciuto insieme a loro), Naoko-chan non era interessata a relazioni reali, le bastavano quelle che viveva tramite i libri, mentre Rika-chan aveva una cotta pazzesca per un professore che, per quanto si sforzasse, non riusciva a mettere a tacere. Pensandoci bene, la sua situazione era la più problematica. Almeno finché non avessimo finito il liceo.
Oltre a ciò guardammo qualche film d’amore strappalacrime – per rimanere in tema – mangiando patatine e gelato direttamente dalle vaschette, prima di crollare.
Quando mi addormentai ero talmente stremata che, fortunatamente, non sognai nulla.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Avendo delle cosine da spiegare ne approfitto per specificare una cosa che ho dimenticato nel prologo: tra le caratteristiche della storia ho messo OOC e da qui forse già si vede un po'; comunque al solito ho cercato di essere il più fedele possibile al vero carattere dei personaggi.
Passando al Giappone, il kabocha no nimono è praticamente zucca bollita accompagnata da salsa di soia e mirin (un saké dolce che si usa in cucina), mentre i taiko sono i tamburi.
Traduzioni: sensei = docente/prof/professoressa, matsuri = festival
Stavolta non so quando posso aggiornare perché con l'università mi stanno riempiendo di impegni, ma spero di poterlo fare quanto prima. Ciononostante ringrazio chi ha la costanza di continuare a leggere nonostante i miei tempi imprevedibili.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Tentativi d’amicizia


 
Il lunedì quando misi piede in classe mi bloccai sulla porta. Gli occhi mi caddero inevitabilmente sul posto dietro il mio, trovandolo occupato. Sorrisi radiosa entrando, sentendomi il cuore più leggero. Salutai quei pochi compagni di classe che già erano seduti mentre mi dirigevo verso gli attaccapanni per appendere il mio cappotto, prima di posare la borsa e spostare la sedia, accomodandomi direttamente rivolta nella sua direzione.
Li Syaoran era qui. E sembrava stare bene. La settimana cominciava in maniera a dir poco perfetta.
Guardava fuori la finestra con aria concentrata, col gomito poggiato sul banco e una guancia posata su una mano. Supposi che non mi avesse notata, per cui tossicchiai per attirare la sua attenzione. Non appena si riscosse mi rivolsi a lui amichevolmente, rimediando alla mia scostumatezza.
«Ciao! Perdonami se la settimana scorsa non mi sono presentata. Sono una nuova studentessa, mi chiamo Kinomoto Sakura.»
Lentamente spostò lo sguardo nella mia direzione, fissando i suoi occhi nei miei per un tempo lungo. Lunghissimo. Non sapevo dire quanto, poteva essere tanto un minuto quanto un’ora per quel che mi riguardava. Era come se tutti gli orologi si fossero fermati a quel momento, esattamente come accadde la prima volta in cui incrociammo i nostri sguardi. Con la differenza che, adesso che ero perfettamente di fronte a lui, il colore delle sue iridi era persino più stupefacente e… abbagliante.
«“Sakura”» ripeté in un tono bassissimo, facendomi uscire dalla trance in cui ero cascata. Fece un mezzo sorriso obliquo, a malapena percepibile, presentandosi a sua volta in modo molto conciso. «Li Syaoran.»
Sorrisi, facendo un cenno di riconoscimento col capo.
«Lo so.»
«Per i pettegolezzi, scommetto» borbottò, tornando a guardare il panorama. Non sapevo dire se il suo tono fosse infastidito o meno, ma in ogni caso si sbagliava.
«No. Perché è il nome cui rispondesti all’appello il primo giorno» spiegai con ovvietà.
«E lo ricordavi?» Stavolta suonava dubbioso.
«Certo!» Come avrei potuto dimenticare un nome così inconsueto, dalla cadenza tanto elegante?
Si voltò nuovamente verso me, alzando un sopracciglio. Gli rivolsi un altro sorriso amichevole proprio mentre il professore entrava in classe.
Mi sedetti dritta, facendo “ciao” con la mano a Chiharu-chan non avendone avuto il tempo prima, e fronteggiai il docente di arte. Dopo che ci inchinammo per salutarlo ed ebbe finito di controllare i presenti sul registro, ci disse che il compito del giorno sarebbe stato disegnare il volto di un nostro compagno di classe. Per questo ci invitò a dividerci in gruppi di due e, sorprendentemente, mi accorsi che le coppie erano già tutte formate. Che cosa insolita.
Restava senza partner soltanto Li-kun, il quale non ne sembrava per niente toccato. Come se fosse una situazione che lui stesso si era cercato, come se volontariamente non volesse avere contatti con gli altri, come se preferisse restarsene solo. Era un lupo solitario che innalzava attorno a sé una barriera spessa, impossibile da attraversare; ciononostante, io l’avrei abbattuta, in un modo o nell’altro.
«Faresti gruppo con me?» gli chiesi quindi, gentilmente.
«No.» La sua risposta mi spiazzò. Non solo era stata secca, ma anche sgarbata.
Gonfiai le guance, facendogli notare: «Guarda che così resto sola anche io.»
Lui rimase noncurante, il che mi snervò persino di più.
Si rifiutava in tutti i modi di guardarmi per cui, scocciata, posai le mani sul suo banco, allungandomi verso di lui, sibilando: «Se non accetti ci metterà in coppia il sensei in ogni caso. Non puoi tirarti indietro.»
E invece fu proprio quel che fece. Si scansò, quasi fosse stato investito da una vampata di calore. Trattenne nuovamente il fiato, guardandomi ad occhi sgranati, ma in un secondo si fece minaccioso e ringhiò sottovoce: «Stammi alla larga.»
Rimasi a bocca aperta, non sapendo come ribattere. Mi odiava sul serio! Ma perché? Cosa gli avevo fatto di male?!
«Voi due, smettetela di battibeccare e muovetevi a disegnare, siete gli unici che ancora non hanno cominciato» ci rimbrottò Mori-sensei, ponendosi in mezzo a noi a braccia conserte.
Mi scusai anche da parte sua, visto che continuava a comportarsi da menefreghista. Che caratteraccio. Ah, ma non gliel’avrei data vinta, per niente.
Non appena il prof si allontanò presi un foglio da disegno, mi armai di temperino, matita e gomma, e mi girai totalmente verso di lui con la seggiola. Ignorai le sue occhiatacce, cominciando a tracciare le prime linee di contorno.
Sfortunatamente ero negata nelle materie artistiche, per cui il risultato sarebbe quasi certamente stato un oltraggio alla sua bellezza. Ma pazienza, non potevo di certo oppormi al prof e proporgli di disegnare, piuttosto, un fiorellino o un elementare sole sorridente circondato da nuvolette.
Ciononostante mi misi d’impegno, anche perché se seguivo tecniche mie alla fine riuscivo a riprodurre qualcosa che potesse definirsi almeno decente.
«Se non la smetti di corrugare la fronte rovinerai tutto» sentii Li-kun bofonchiare, facendomi deconcentrare con la sua voce bassa.
Alzai il capo stupita, notando che nonostante tutte le sue rimostranze alla fine aveva ceduto. Era tanto difficile? Sorrisi tra me, scuotendo la testa.
«Meglio?» domandai, tornando al mio lavoro.
«Mmh. Il sorriso ti dona di più» sussurrò in un tono talmente flebile che mi chiesi se l’avessi udito davvero.
Mi bloccai con la matita a mezz’aria, col batticuore. Chiusi per un secondo le palpebre, sperando che il rossore abbandonasse quanto prima le mie gote.
«Scommetto che lo stesso vale per te» mormorai con un fil di voce, quasi parlando tra me.
Non ricevendo risposta sbirciai nella sua direzione, trovandolo impassibile. Sospirai rassegnata, abbozzando gli occhi, il naso, la bocca e i capelli, con pochi tratti chiari di base. Spostai lo sguardo da lui al foglio ad intervalli, assicurandomi di star compiendo le giuste azioni. Lui disegnava calmo, come se non gli richiedesse alcuno sforzo mentale, la matita sfiorava appena la carta ad una velocità impressionante. Che fosse un artista?
Misi da parte i miei interrogativi, cominciando col delineare il suo naso: piccolo, corto e dritto. Poche linee semplici bastavano per replicarlo, al che mi resi conto che sembrava quello di un ragazzo immagine uscito dalla copertina di una rivista. Poi le sue labbra: perennemente tese, fini e sottili, strette e… seducenti. Deglutii a fatica, notando la mia mano tremare. Non era un compito facile, per niente. Mi concentrai sui suoi capelli folti e arruffati, creando quelle leggere onde sul suo capo e tutt’attorno all’ovale del suo viso, le cui ciocche fortunatamente erano abbastanza lunghe da coprirgli pure le orecchie. In questo passaggio mi stavo dilettando più di quanto pensassi. Infine, passai alla parte più ardua. Posai gli occhi sui suoi, memorizzandone il taglio: a mandorla, molto simili a quelli di un lupo, con lunghissime ciglia nere, e dalle iridi talmente grandi da perdervisi all’interno. Li alzò su di me e il mio cuore perse un battito. Chinai il capo sul mio lavoro, sperando che vi rendesse giustizia.
«Hai finito?»
«Non ancora» negai, concentrandomi sul mio operato.
«Quanto ti manca?»
Sembrava spazientito.
«Soltanto gli occhi» lo informai, accelerando.
«Resterò fermo.»
Lo guardai confusa, notando che aveva posato il foglio a testa in giù per non mostrarlo. Che furbo.
Come preannunciato, divenne immobile come una statua, guardando dritto davanti a sé. Quindi, a me. Imbarazzata cercai di far finire quanto prima questa tortura.
Mentre creavo le curve delle sue ciglia, non sostenendo più il silenzio gli domandai: «Come stai?»
Dato che tardava a rispondermi lo guardai di sottecchi, in attesa; lui pareva perplesso.
«Intendo, sei guarito? La settimana scorsa non ti sentivi bene.» Mi mostrai apprensiva, ricordandomelo soltanto adesso. Che screanzata.
Fece un piccolo sospiro.
«Non si può dire esattamente che sono “guarito”, ma sto meglio.»
Mi accontentai di quella spiegazione, per quanto mi sembrasse incompleta.
«Fatto» dichiarai, mettendo a posto gli strumenti.
«Posso?»
Protese una mano verso il foglio e, per quanto mi vergognassi, non riuscii a dirgli di no. Glielo allungai e lui lo prese, voltandolo verso di sé, accigliandosi.
«Sono davvero così?»
«No, sei più bello di così» negai. Le parole mi sfuggirono di bocca prima ancora che me ne rendessi conto. Volevo sprofondare.
Lui mi guardò stranito, ma non disse nulla.
Mi schiarii la gola, indicando il suo disegno.
«Posso?» lo imitai, timidamente.
«Mi sembra corretto, dato che io ho visto il tuo» concesse.
Lo presi, voltandolo verso di me, restando a bocca aperta. Era come guardarmi allo specchio!
«È un capolavoro!» esclamai in tono talmente alto che tutti si girarono verso di noi. Avevo totalmente dimenticato il fatto che ci trovassimo in classe e completamente ignorato il vociare degli altri. Ma c’erano questioni ben più importanti. «Sensei!» richiamai la sua attenzione. «Sensei, venga a vedere! È stupendo!»
Certo, dire fosse stupendo quando rappresentava me poteva suonare un po’ spocchioso, ma era un dato di fatto. Non avevo mai visto un disegno tanto perfetto, così simile ad una fotografia, fatto unicamente con una matita. Sembrava persino più vero di me!
Il professore ci si avvicinò togliendomelo dalle mani, prolungandosi in un “Ooooh” intriso di ammirazione. E anche gli altri studenti vennero a sbirciare, lanciandosi in esclamazioni piene di stupore. Ci complimentammo tutti con Li-kun, ma lui si limitò a farfugliare una sorta di ringraziamento, tornando a guardare l’esterno, quasi volesse sfuggire a tutte queste attenzioni.
A sua volta, sorprendentemente, anche il mio disegno venne apprezzato dal docente, sebbene non ci fosse alcun paragone con il modello che lo aveva ispirato.
Purtroppo quello fu l’unico momento in cui riuscii a parlare con Li-kun, visto che per le restanti ore dovevamo seguire diligentemente le lezioni – sebbene io desiderassi ancora conversare con lui, sperando di conoscerlo meglio.
Non appena suonò la campanella della pausa pranzo mi alzai in fretta, afferrando il bentou, ma per quando mi voltai lo vidi già accanto alla porta. Camminava troppo spedito! Lo raggiunsi con grandi falcate, affiancandolo mentre uscivamo.
«Col disegno di stamattina mi hai resa più bella di quel che sono, quasi eterea» sorrisi piena di invidia, spezzando il ghiaccio.
«Di cosa stai parlando? Ti ho semplicemente rappresentata come ti vedo, non è nulla di diverso dalla realtà.»
Spiazzata, restai un passo indietro. Ma tanto bastò per perderlo di vista in mezzo alla calca di studenti.
Rimasi lì imbambolata finché Chiharu-chan e le ragazze non mi affiancarono, attirando la mia attenzione per raggiungere la mensa esterna. Le seguii distratta e in tale stato restai per tutta la durata del pranzo, tanto che non seguii per niente le loro conversazioni. Ma non potevo farci niente. Non riuscivo a togliermi dalla testa le parole di Li-kun. Mi sentivo come sotto l’effetto di un incantesimo, chiusa in una bolla di sapone in cui arieggiava il suo fascino e se mangiavo lo facevo in maniera del tutto automatica.
«Pronto? Terra chiama Sakura-chan. Ci sei?» mi gridò Chiharu-chan in un orecchio, facendomi sobbalzare. Solo così mi accorsi che le altre due ragazze mi sventolavano ciascuna una mano davanti agli occhi.
Mi scusai mortificata, chiedendomi per quanto tempo fossi stata assente.
«Scusatemi, ero immersa nei miei pensieri.»
«Da un lato non ti biasimo» sospirò Rika-chan.
«Sei stata coraggiosissima.»
Guardai disorientata Naoko-chan che aveva appena parlato.
«A fare cosa?»
«Sei riuscita a collaborare e conversare civilmente con Li-kun, complimenti» rise. Suonava ironico.
Feci spallucce, considerandola una cosa da niente. Anche se c’era da ammettere che non era stato semplice, avevo praticamente dovuto metterlo con le spalle al muro.
«Davvero eccezionale, dovrebbero darti un premio per la prodezza.»
«Ma esagerate!» risi, chiedendomi intanto perché la facessero tanto tragica.
«Per niente. Bastano tre aggettivi per descrivere Li-kun» ribatté Chiharu-chan e a lei si legò Naoko-chan segnandoli sulle dita, mentre Rika-chan annuiva a ciascuno. «Asociale, freddo e scontroso.»
«Non mostra nessuna emozione» riassunse Yamazaki-kun.
«Non è vero» replicai, ponendomi dalla sua parte. «A me è parso anche fin troppo pieno di emozioni, forse semplicemente fa difficoltà ad esternarle…» ipotizzai. «Oppure ha paura di farlo…» soggiunsi tra me.
No, un attimo. Perché eravamo finiti di nuovo a parlare di lui?! E perché io non riuscivo a togliermelo dalla testa?
Scrollai il capo, notando che tutte mi fissavano allibite; mi schiarii la voce, preferendo cambiare argomento.
«Di che stavate parlando prima?»
«Stavo dicendo» riprese Yamazaki-kun, alzando l’indice con fare sapiente, «che il “bentou” si chiama così perché è “veramente comodo”. Quando il suo creatore lo ideò, affinché potesse diffondersi facilmente creò lo slogan “hontou ni benri da, hontou!” che fu poi abbreviato con “bentou”.»
«Wow, non ne avevo idea!» esclamai emozionata. Avevo imparato una cosa nuova!
Naoko-chan e Rika-chan si scambiarono un risolino, mentre Chiharu-chan scuoteva la testa incredula. Dopodiché fulminò Yamazaki-kun, mettendogli le mani attorno al collo come per strozzarlo.
«Dovresti avere un minimo di decenza e sensi di colpa, guardala com’è ingenua!»
Parlavano di me? Piegai la testa su un lato, ma scoppiai a ridere nel vederli continuare a picchiarsi, seguita dalle ragazze. Erano così spassosi!
Presi finalmente a mangiare con gusto, sentendomi la testa meno pesante, osservando e saggiando davvero quel che stavo inghiottendo. Rispetto a ciò che ci facevano trovare a casa durante i pasti, fortunatamente questo era cibo prettamente giapponese. Era in quei momenti quieti, circondata da alimenti cui ero abituata e persone serene e allegre, che mi sentivo come se fossi ancora a Tomoeda.
Quando tornammo in classe dopo pranzo mi accorsi che Li-kun era già seduto al suo posto, nella stessa posizione di quella mattina. Gli rivolsi un sorriso nell’accomodarmi, ma lui mi ignorò bellamente. Sospirai, mettendomi composta, poggiando i gomiti sul banco e il mento sulle mani intrecciate, ripensando a come lo avevano descritto le ragazze. Se era vero non lo stavo importunando imponendogli la mia presenza? Mi sentivo in conflitto. Da un lato volevo farmi i fatti miei, non intromettermi nella sua quotidianità, lasciarlo vivere in pace come aveva sempre fatto. Dall’altro mi si stringeva il cuore a vederlo tanto isolato. Volevo farmi breccia in quel muro che aveva eretto intorno a sé e capire cosa lo spingesse a comportarsi così. Non poteva essere una persona così terribile cui, invece, si atteggiava. Qualcosa mi induceva a credere che la sua fosse solo una facciata, una maschera indossata a dovere per non avere attorno nessuno. E questo pensiero mi rattristava.
Nonostante ciò, capivo che non dovevo ficcanasare ed era meglio per entrambi se me ne stessi per i fatti miei. Per cui quel giorno non insistetti a provare in tutti i modi a parlarci e, di conseguenza, non avemmo più possibilità di comunicare.
A fine giornata sparì prima che riuscissi a salutarlo, per cui un po’ sconsolata mi avviai verso l’esterno con gli altri. Sul cancello li salutai, ricongiungendomi con Tomoyo-chan ed Eriol-kun, spostandomi con loro nella direzione opposta alla cittadella. Dopo pochi passi, tuttavia, sentii una voce femminile piuttosto squillante e contemporaneamente chiara, con un’accentazione straniera cantilenante, chiamare mia cugina e il suo ragazzo.
Ci voltammo tutti e tre e grande fu la mia sorpresa quando vidi correre verso di noi quella ragazza dai codini d’ebano e gli occhi di fuoco. Li Meiling.
Il cugino sembrava contrariato dalle sue azioni e rimase in disparte, poggiandosi al muro di fianco al cancello a braccia conserte, non perdendola d’occhio.
«Daidouji, insomma.» Sorrise apertamente, lasciandomi ancora più sbigottita. Sembrava una ragazza così allegra e spensierata, in contrapposizione a come l’avevo intravista sabato. Che fosse stata un’illusione? Avevo visto male a causa delle lanterne?
«Non mi presenti tua cugina?»
Trasalii, sentendomi chiamata in causa, e prima che ella potesse aprire bocca la anticipai.
«Perdonami, non ci eravamo ancora incontrate. Sono Kinomoto Sakura.»
Feci un breve inchino e lei mi imitò.
«Io sono Li Meiling, la cugina di Xiaolang» disse, indicandolo alle sue spalle. Che modo strano aveva di pronunciarlo. Pensandoci bene, i loro nomi non sembravano per niente giapponesi, forse… cinesi? «Ho saputo che state in classe insieme, e avendo la mia stessa età ci tenevo a conoscerti» proseguì imperterrita. «Anche per darti un consiglio: non avvicinarti troppo a lui.» Il suo sorriso ora sembrava molto meno socievole, il suo tono suonava come un avvertimento.
Non battei ciglio, ripetendomi mentalmente le sue parole. Non avevo idea di come reagire, mi sentivo… bloccata, ecco. Mente, corpo, cuore. Mi si era fermato tutto.
«Meiling-chan, non essere così gelosa. Finirai per spaventare Sakura-chan.» Tomoyo-chan si pose al mio fianco, quasi come una guerriera, poggiandosi le mani sui fianchi con aria da rimprovero.
«È meglio che capisca subito che è inutile che provi ad approcciarsi a lui.» Rivolse i suoi occhi a me, stavolta inchiodandomi sul posto, proprio come sabato. Stava tutto in uno sguardo. «Xiaolang è mio» scandì, parola per parola, e ogni mora mi feriva senza che riuscissi neppure a capire il perché. «Quindi attenta a non osare troppo.»
Si scrollò con eleganza i capelli da una spalla, ghignando soddisfatta, per poi andarsene senza concedermi il tempo di sciogliermi.
«Sakura-chan.»
Non so come ebbi la forza di scongelarmi, guardando atterrita Tomoyo-chan. Avevo sbagliato, lo sapevo.
«Non darvi pensiero» sorrise, carezzandomi con leggerezza i capelli. A malapena lo percepii il suo tocco inguantato.
Annuii, incamminandomi con loro, restando un po’ indietro, desolata. Lei mi odiava, mi odiava sul serio. Ed io oggi le avevo dato ancora più ragioni per detestarmi. Avrei dovuto fare testa e muro per la mia stupidità.
D’accordo, avrei preso le distanze da lui – per quanto, incomprensibilmente, ciò andasse contro i miei desideri. 
Quella sera a cena fui meno logorroica del solito, ma la cosa non pareva disturbare affatto i miei due coinquilini, i quali al contrario sembravano piuttosto a loro agio nel silenzio. Notai ancora una volta che Eriol-kun mangiava pochissimo, sbocconcellando un po’ di tutto quasi senza neppure assaggiarlo, mentre invece beveva tantissimo di quel succo. Se continuava di quel passo sarebbe dimagrito tantissimo, ma se Tomoyo-chan che era la sua ragazza non gli diceva niente, chi ero io per intromettermi?
Dovevo farmi i fatti miei, ecco, e non lasciarmi coinvolgere dalla vita degli altri. Concentrandomi unicamente sulla mia.










 
Angolino autrice:
Buonsalve! Capitolo "un po'" lunghetto, hehe ^^' Spero che la lunghezza non disturbi la lettura, rendendola troppo pesante. 
So che mi odierete forse per come ho reso Meiling qui, ma ogni cosa ha il suo perché. Più avanti troveremo la Meiling che amiamo (è uno spoiler questo?).
Passando alle traduzioni, sensei è "docente/professore" e la frase "hontou ni benri da, hontou" sarebbe "è veramente comodo, veramente". Quindi secondo Yamazaki il termine bentou (ossia cestino per il pranzo) deriverebbe dalla fusione di benri e hontou - naturalmente, non è vero. 
Detto ciò vi lascio. A presto! 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Vicini e lontani


 
Nei giorni successivi tentai di rispettare il volere di sua cugina, mantenendo per quanto possibile le distanze da Li-kun. Mi limitavo pertanto a salutarlo quando arrivavo, attaccavo poi a parlare del più e del meno con le ragazze, lasciandomi coinvolgere dai loro dialoghi, sforzandomi di ignorarlo con tutta me stessa…. Proprio come facevano gli altri. Questa era la cosa che più mi feriva. Volevo essere onesta, volevo comportarmi come sempre, volevo essere la solita socievole Sakura; ma al di là delle parole intimidatorie di Li Meiling, continuavo ad essere convinta di poter rappresentare un fastidio per lui. Temevo che potesse considerarmi una scocciatura a lungo andare.
Un giorno a pranzo i miei amici mi misero alle strette, domandandomi come mai mi ostinassi ad essere cordiale con lui sebbene mi ignorasse. Non avevo una vera e propria risposta da dare. Una parte di me sapeva che non se lo meritava, visto che effettivamente era stato scortese con me sin dall’inizio – almeno secondo il loro punto di vista. Eppure forse io ero cieca, perché in quella poca comunicazione che avevamo avuto vi avevo sentito qualcosa in più. Una sorta di richiesta di aiuto, come un muto segnale, un bisogno di qualcuno. O forse mi stavo immaginando tutto e semplicemente c’era quell’altra parte di me che dentro di sé sperava che prima o poi ricambiasse, pur nella consapevolezza che non sarebbe mai avvenuto.
Così spiegai che fosse semplicemente nella mia indole salutare tutti quelli che conoscevo, ero stata educata in quel modo da mio padre, ad essere sempre cortese e gentile con il prossimo. Tuttavia mio fratello mi aveva anche insegnato a non farmi mettere i piedi in testa da nessuno, quindi se avessimo avuto nuovamente occasione di conversare avrei continuato a rispondergli a tono. Magari impuntandomi di più.
Annuii quindi decisa, mordendo un pezzo di onigiri con determinazione, e per la prima volta nel sollevare lo sguardo mi capitò di vedere passare nel corridoio davanti ai tavoli Tomoyo-chan ed Eriol-kun. Chissà dov’erano diretti.
Li fissai raddolcita vedendoli conversare amabilmente, mentre camminavano pacati mano nella mano, salutando con eleganza le persone che trovavano sul loro percorso. A volte sembravano un gentiluomo e una gentildonna di tutt’altra epoca.
Il mio sorriso scemò quando mi accorsi che a pochi passi di distanza da loro c’erano Li-kun che camminava imperturbabile, fissando dinanzi a sé, e sua cugina che non la smetteva di chiacchierare allegramente con un’altra ragazza che non conoscevo. Ciononostante mi sembrava di averla già vista. Adocchiai quei capelli rossicci, d’una sorta di marrone ruggine, che le scendevano morbidamente sulla schiena, visualizzandoli legati in una crocchia. Ecco, era una delle quattro ragazze viste al festival, quella dall’aria più giovane!
Nello stesso momento in cui l’ebbi riconosciuta, Li Meiling si voltò nella nostra direzione, rivolgendomi un’occhiata raggelante. Rabbrividii e sussultai, colta in flagrante, finendo quasi col strozzarmi col riso, per cui tossicchiai e mentre le ragazze mi davano dei colpetti sulla schiena bevvi dell’acqua a grandi sorsate. Quando sembrai riprendermi rialzai lo sguardo, ma erano già spariti tutti e cinque.
Mi rabbuiai, ripensando all’inspiegabile astio che ella covava nei miei confronti e a quelle sue parole così ostili. Mi sforzavo sempre di non rimuginarci su, ma a dire la verità per due notti consecutive esse mi portarono a fare incubi. Era quasi sempre la stessa scena, con lei che mi ripeteva di non avvicinarmi a lui, altrimenti me l’avrebbe fatta pagare. Io non la ascoltavo e ostinatamente mi avvicinavo a Li-kun, con l’unico risultato di sentirlo ripetermi le sue stesse parole, oltre che dovevo disprezzarlo e soprattutto temerlo. Ciò nondimeno anche nei miei sogni ero cocciuta e ogni volta che gli dicevo che di lui non avevo paura lui perdeva la pazienza, sfogando la sua rabbia su ciò che ci circondava probabilmente per non picchiare me, ripetendomi quanto fossi stupida a cercare “una persona come lui”. Nei miei sogni non mi sforzavo di capire, semplicemente tacevo, e quando mi stancavo di sentirlo abbaiarmi contro, non credendo al fatto che quella fosse la voce della sua anima, finivo con l’abbracciarlo. Allora la scena cambiava, diventava tutto buio, seppure fossimo avvolti da ciliegi di un rosso brillante nel suo vermiglio. Solo a quel punto mi accorgevo che c’era sangue dappertutto. Sangue sulle sue mani. Sangue sul mio corpo. Sangue sulle sue labbra. Lacrime di sangue scivolavano dai suoi occhi, bagnandomi le guance. E quando esse mi tingevano il viso lui mi s’avvicinava, bloccandomi contro una parete invisibile, e mi baciava, nonostante io tentassi di liberarmi dalla sua presa. In lontananza sentivo l’eco della risata di sua cugina e io mi sentivo sempre più fiacca, sempre più debole.
Come se lui con ogni bacio mi stesse risucchiando le energie. Come se lui con ogni bacio mi stesse rubando la vita.
Fortunatamente questi incubi non poco inquietanti non ebbero la meglio sulla mia sanità mentale, essendo intervallati e poi sostituiti del tutto da sogni fantasiosi e avventurosi, nei quali ero spesso la fanciulla delle fiabe che andava tratta in salvo o una maga che sconfiggeva il demone malvagio in un villaggio. Questi potei raccontarli con piacere anche alle ragazze, le quali ne sembrarono tutte colpite, paragonandoli a dei veri e propri film; soprattutto Naoko-chan si illuminò come tante lucine iridescenti nell’ascoltarmi e mi chiese se potesse sfruttarli per crearne tanti mini racconti.
In realtà si trattava sempre di un riflesso di quel che vivevo durante l’arco della giornata, visto che, forse accorgendosi del mio stato d’animo ombroso, a casa Tomoyo-chan mi chiedeva spesso di leggere delle favole ad alta voce, intrattenendo sia lei che Eriol-kun. Quello era uno dei momenti più piacevoli in quanto, seppure non fossi una divoratrice di libri, mi dilettavo ad entrare nei diversi racconti, trovando spesso tratti in comune coi personaggi di essi. Chissà che non fossi anche io l’eroina della mia storia?
Fatto sta che giungemmo a questo perché nei momenti liberi cercai di conoscerli meglio, intrattenendomi con loro; così facendo scoprii non solo che stavano insieme da ben tre anni e che Eriol-kun viveva con loro per concessione di mia zia, ma mi illustrarono anche quali fossero i loro passatempi.
A Tomoyo-chan piaceva ideare e confezionare vestiti, per cui cominciò a realizzarne diversi anche per me. Mi mostrò un raccoglitore pieno zeppo di suoi abbozzi colorati e c’era da ammettere che erano stupendi. Avrebbe potuto diventare una stilista affermata, ce la vedevo a perfezione! Poi adorava cantare – era infatti iscritta al club di coreutica – e spesso la sua candida, dolce voce risuonava per i corridoi e le stanze, leggera e calmante, come una ninnananna.
Eriol-kun, invece, amava spassionatamente i libri, sarebbe stato capace di leggerne cinque di fila senza stancarsi. Ed erano anche letture piuttosto pesanti, da quel che mi era parso di vedere. Talvolta lo trovavo seduto sulla grossa poltrona di velluto rosso in biblioteca con dinanzi a sé tomi che più che libri sembravano mattoni, per quanto erano spessi. Davo per scontato che fosse iscritto al club di letteratura, come Naoko-chan, invece mi sorprese facendomi scoprire che ce n’era anche uno sugli scacchi. Doveva essere proprio super-intelligente!
Infine, un’altra passione che sembravano avere in comune era mettermi sempre al centro dell’attenzione, qualunque cosa facessi. Al punto tale che mia cugina cominciò ad approfittare di ogni occasione propizia per registrarmi, con una videocamera all’avanguardia sviluppata dalla compagnia gestita da sua madre. All’inizio mi imbarazzò un tantino, ma subito mi ci abituai. Mi faceva indossare ogni volta nuovi abiti che cuciva e finiva in un tempo umanamente impossibile, implorandomi di sfilare per lei o passeggiare soltanto per il roseto, cercando angoli buoni da cui riprendermi nonostante la fioca luce delle nubi.
Per il resto, nei giorni adibiti restavo agli allenamenti del club,  consumando lì tutte le mie energie. Durante le lezioni mi concentravo sulle parole dei docenti per prendere appunti e anche a casa trascorrevo ore intere a studiare, in modo tale da mantenermi alla pari con lo studio – soprattutto considerando che una parte del semestre già era finita prima che arrivassi. Fortunatamente per me sia Tomoyo-chan che Eriol-kun si offrirono di aiutarmi ogni volta che mi fossi trovata in difficoltà e furono entrambi molto gentili nel riassumermi ciò che mi ero persa fino ad allora, considerando che quello era il programma che avevano dovuto studiare l’anno precedente.
Fu soprattutto grazie a loro e a tutte le attenzioni che mi dedicarono che il mio umore migliorò radicalmente, oltre al fatto che ogni sera ci pensava mio fratello a distrarmi con le sue provocazioni. Almeno riusciva a farmi addormentare con un sorriso.
Così trascorse un’altra settimana in una maniera che si poteva definire sufficientemente serena.



Il lunedì successivo era il mio turno delle pulizie della classe, per cui dovetti svegliarmi prima. Mi avviai a passo svogliato a scuola, sbadigliando e strofinandomi gli occhi durante il tragitto, sentendomi tremendamente assonnata. Il fatto che facessi sogni attinenti alla realtà mi lasciava sempre un po’ rimbambita, per cui soltanto una parte un po’ più lucida di me si chiedeva con chi dovessi farle, avendo dimenticato di controllare il venerdì precedente.
Mi affrettai a raggiungere il complesso scolastico, dicendomi che fosse meglio arrivare puntuale e non far aspettare chiunque mi avrebbe fatto compagnia. Salii intrepida le scale e aprii la porta dell’aula, incuriosita; sulla soglia di essa mi pietrificai. Mi riflessi in un paio di occhi che per quei sette giorni avevo forzatamente evitato e immediatamente sviai lo sguardo, posandolo sul lato inferiore della lavagna. Nell’angolo sulla destra c’era la data del giorno e, subito al di sotto, il suo nome si trovava accanto al mio. Come potevo ignorarlo adesso?
«Buongiorno» mormorai a testa bassa, andando a posare la cartella accanto al mio banco prima di togliere il cappotto e la sciarpa – ultimamente aveva cominciato a fare più freddo, sebbene fino ad un anno fa in questo periodo ancora non avevo tirato fuori le magliette a maniche lunghe.
Come di consueto, Li-kun non mi rispose. Mi sarei meravigliata se avesse fatto l’opposto.
Passò oltre me prendendo il vaso coi fiori dalla mensola, per poi uscire dall’aula senza dire una parola. Ipotizzai che stesse andando a cambiarne l’acqua.
Rilasciai il respiro, rendendomi conto solo allora di starlo trattenendo a causa della tensione. Non potevo continuare così. Non mi garbava affatto quella situazione, dovevo assolutamente ribaltarla.
Non appena rientrò posò il vaso dov’era e io rimasi a fissarlo sorpresa. Ne aveva cambiato anche i fiori, sostituendo quelli ormai secchi con campanule. Chissà dove le aveva trovate.
«Che belle…» sussurrai tra me, sfiorandone un petalo a punta. Sembravano freschissime. «Le hai colte tu?»
«Prato sul retro» spiegò brevemente.
Mi voltai sorpresa. Mi aveva risposto! Davo per scontato che fingesse che non esistessi, che avesse deciso ormai di non rivolgermi più la parola…. E invece non era così!
«Cos’è quel sorriso idiota?»
Assottigliai gli occhi, rivolgendogli un’occhiataccia.
«Scusami se sono felice» sbottai avvicinandomi al registro delle presenze, prendendolo e sedendomi al mio posto per cominciare a segnarci.
«Scusami tu» ribatté dopo qualche minuto di silenzio. Si scompigliò i capelli, guardando oltre le finestre. «Non volevo essere scortese.»
«E io non volevo ignorarti» replicai sottovoce, rifiutandomi di guardarlo, bloccandomi nel mio operato. Osservai tacita il suo nome appena scritto da me, lasciando la punta della penna sospesa sul foglio, a pochi centimetri da quei caratteri. Temevo che a causa di quei sogni mi sarei sentita a disagio in sua presenza, ma non era così; al contrario, nonostante ogni volta che eravamo soli mi prendeva una strana agitazione, indecifrabile, cui non riuscivo a dare alcuna spiegazione, lo trovavo piacevole.
Mi schiarii la voce, ridestandomi per informarmi: «Ci sono annunci particolari da fare agli altri?»
Lo vidi scuotere la testa, serrando le labbra. Sembrava quasi che si stesse trattenendo dal dire qualcosa e restai a guardarlo, in attesa. Trascorsero interi secondi in cui sostenne il mio sguardo, ma poi semplicemente sospirò, comunicandomi: «Mi sono già occupato di tutto, quindi… pensi tu a segnare le presenze?»
Annuii tornando al lavoro, conteggiando quelle dell’ultima settimana. Ne tracciai il totale prima di dimenticarlo, finché non mi accorsi che si era appoggiato al banco di fronte al mio. Alzai la testa colpita dal fatto che, adesso, fosse lui a cercarmi, e lo trovai con un mezzo sorriso.
«Conti ancora sulle dita?» mi beffò.
Gonfiai le guance, indispettita.
«Non è colpa mia se sono negata in matematica.»
«Davvero?» Non sembrava per niente sorpreso, il che mi stizziva ancora di più.
Tuttavia non c’era molto che potessi dire a favore di me stessa, per cui tornai ai conti, brontolando imbronciata: «So di non avere talenti.»
«Ti sbagli.» Si accomodò sulla sedia, poggiando le braccia allo schienale, posandoci il mento sopra. «Ti ho vista fare ginnastica. Sei la persona più atletica della classe. Forse addirittura di tutta la scuola.»
Era un mero giudizio, detto in maniera schietta, non molto differente da quello espresso in precedenza da Miura-sensei, eppure bastò per imbarazzarmi.
«M-ma… non è nulla di grandioso.» Giocherellai con la penna, replicando impacciata: «E poi, me lo vieni a dire tu che sei così portato, in tutte le materie?»
«Non in tutte» mi contraddisse, scuotendo il capo. «A volte ho difficoltà col giapponese della letteratura classica.»
Oh, giusto!
«Le tue origini non sono giapponesi, vero?» indagai e alla sua conferma lo guardai piena di ammirazione. «Però parli benissimo la lingua! Credimi! E in ogni caso, il linguaggio antico è un po’… criptico e incomprensibile. Soprattutto alcune poesie» ridacchiai.
Dato che restò in silenzio tornai seria, chinando lo sguardo per continuare quel che stavo facendo. Ed io che speravo potessimo intavolare una conversazione….
Dopo non molto prese finalmente parola, cambiando totalmente argomento, cogliendo tutta la mia attenzione nel mostrarsi esitante.
«Ascolta, io… So che è passata una settimana da allora, ma vorrei scusarmi. Per quello che ti ha detto Meiling» rispose alla mia muta domanda.
Rimasi a fissarlo inespressiva, sebbene mi sentissi il cuore in tumulto.
«Sapevo che sarebbe stato totalmente inutile e impossibile perché dipende da me, non da te» riprese, mandandomi in confusione. «Anche se in realtà un po’ dipende da te, visto che ho fatto di tutto per odiarti, per essere inavvicinabile e risultarti scontroso e -»
«Aspetta!» lo interruppi, alzando le mani per bloccarlo e, al contempo, difendermi. «Non riesco a capire. Se tua cugina è innamorata di te può stare tranquilla, non ho intenzione di ostacolarla.»
Alzò un sopracciglio, perplesso.
«Non sto parlando di amore.»
«Hoe? Ma lei ha detto che sei “suo” e io pensavo…» Tacqui, ragionando. Avevo frainteso?
Sospirò pesantemente, passandosi una mano sul viso. «Ha esagerato un po’» borbottò, per poi guardarmi con serietà. «Io non sono di nessuno. E non potrò mai esserlo.»
«Perché?» domandai sbigottita.
«Perché non è sicuro starmi accanto, e questo vale anche per te. Perciò ti ho detto di starmi alla larga. Perciò volevo starti alla larga.» Sembrava combattuto e quanto più parlava tanto più mi sentivo persa nelle sue parole. «Ciononostante non sono riuscito nel mio intento, anche perché tu vanifichi continuamente tutti i miei sforzi. Perché, per quanto io ti tratti male, ti ostini a rivolgermi la parola? Perché devi sorridermi e salutarmi ogni giorno? Perché quanto più io ti spingo lontano tu ogni volta ti riavvicini, perfino più di prima?»
«Perché voglio esserti amica» risposi con onestà, non appena sembrò aver sfogato tutta la sua frustrazione.
Lui spalancò gli occhi, come se ciò lo sconvolgesse.
«È piuttosto semplice, no?» Sorrisi mesta, abbassando lo sguardo sulle mie mani, notando quanto fossi nervosa. «E anche perché sono cocciuta e… perché esattamente come te, non riesco ad ignorarti.»
Non appena ebbi pronunciato quell’ultima parola suonò la campanella.
Sobbalzai per lo spavento, lui invece rimase impassibile. Si alzò in un unico movimento, chinandosi sul mio banco, raggiungendo quasi il mio viso. Trattenni il fiato, travolta del tutto dall’intensità delle sue iridi, così vicine adesso. Così piene di dettagli. Ma non feci in tempo a raccoglierli tutti che sussurrò, in tono quasi implorante: «Dico sul serio. Anche se io dovessi avvicinarmi a te, tu respingimi e stammi alla larga. Puoi voltarmi le spalle, maltrattarmi, rivolgerti a me con sgarbo o tutto quello che vuoi, ma qualunque cosa tu scelga, qualunque cosa tu faccia… non permettermi di starti così vicino.»
Detto ciò si allontanò, occupando il suo posto, lasciandomi rilasciare finalmente il respiro. Volevo girarmi a guardarlo, ma ero troppo in conflitto, tanto quanto lui sembrava afflitto.
Desideravo davvero andare incontro alle sue volontà, ma c’era un unico problema: oramai gli ero già troppo vicina.










 
Angolino autrice:
Ta-dan, capitolo a sorpresa della buonanotte!
Sarò molto breve, vi spiego solo che nelle scuole giapponesi gli studenti usano fare dei turni per le pulizie e gli onigiri sono "polpette di riso" ripiene, solitamente triangolari e avvolte dall'alga nori.
Vi auguro dolci sogni (sullo stile di quelli fiabeschi) :3

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Calore di un fiore
 

 
“Un rapporto superficiale di amicizia”. Ecco cosa desiderava Li-kun. Non me l’aveva detto esplicitamente, ma rielaborando le sue parole e i suoi modi di fare tanto intricati e talvolta persino contraddittori ero giunta a quella conclusione.
Il punto era che non avevo idea di come far sì che tutto filasse liscio, se dovevo attenermi ad una relazione di quel genere. Non gli parlavo, non lo guardavo, tentavo anche di non rispondergli quelle rare volte in cui era lui a cedere per primo rivolgendomi la parola, ma ci riuscivo sì e no per qualche minuto. E il tempo diminuiva sempre più, fino a che non mi resi conto che non attendevo neppure cinque secondi prima di rispondergli.
Solitamente lui evitava proprio di conversare con me, anche se non mi rifiutava un saluto di cortesia sia al mattino che il pomeriggio, prima di andarcene; ciononostante c’erano situazioni in cui era inevitabile comunicare, come quando i sensei ci mettevano a lavorare insieme.
Quel venerdì, ad esempio, alla terza ora avevamo scienze e il professore ci fece spostare tutti nel laboratorio. Senza che neppure mi guardassi attorno sapevo già che il mio compagno sarebbe stato lui. Lui e nessun altro, perché per nessun altro esisteva. Quindi ci sedemmo automaticamente uno accanto all’altro, in attesa che Saito-sensei ci illustrasse il compito del giorno alla lavagna. Dovevamo analizzare del polline al microscopio e indovinare a quale pianta appartenesse. Già lo detestavo.
Ci mise all’opera e afferrai il mio, ingrandendo la lente al massimo. Mi tirai indietro sorpresa. Sembrava un riccio di mare, con le spine sull’arancio-rossastro. Ci pensai su. Doveva per forza esserci nel libro di testo. Mi spremetti le meningi, controllandolo in continuazione, ma quanto più lo guardavo tanto più somigliava ad un konpeito. Non trattenni un risolino, ma per fortuna riuscii a mantenere un tono basso e soltanto Li-kun mi udì.
«Che pianta è?» si incuriosì.
«Ah non lo so, però mi fa ridere.»
Feci una risata sommessa e lui si allungò sul mio microscopio, prendendolo momentaneamente in prestito. Diede una rapida occhiata, restituendomelo nel giro di pochi secondi.
«Sei fortunata. È facile.»
«Mmm, per te magari sì» sbuffai, riosservandolo. Eppure, effettivamente, mi sembrava di aver già visto quella forma da qualche parte. E non nelle caramelle.
Mi si avvicinò impercettibilmente, suggerendo: «È un fiore che conosci bene.»
Rimuginai sottovoce a braccia conserte, scavando nella mia mente. Ci doveva stare, di certo….
«Dicesti che “trasmetteva calore”.»
«Girasole!» esclamai, ricordando martedì, quando cambiai le campanule, portando io fiori nuovi.
Li acquistai quella stessa mattina dal fioraio e raggiunsi scuola tutta contenta. Quando Li-kun mi vide chiese come mai avessi scelto proprio quei fiori e io risposi: «Perché trasmettono un po’ di calore, in questa città grigia e fredda. Non ti sembra che adesso l’aula sia più luminosa?» A questo  quesito fece un giro a 360 gradi, ma non replicò in alcun modo, finendo col guardarmi in viso più a lungo del dovuto.
A volte aveva quella strana fissa di guardarmi. C’erano momenti in cui, anche durante le lezioni, mi sembrava di sentire i suoi occhi perforarmi la nuca. In quei frangenti mi capitava spesso di rabbrividire dalla testa ai piedi, e allora quella percezione svaniva.
Tornai al presente, accorgendomi che tutti mi fissavano con aria interrogativa, a metà tra l’essere divertiti e scocciati. Come al solito, mi ero fatta notare da studenti e docenti.
Mi scusai e affondai goffa il viso sul quaderno, scrivendo la risposta e abbozzando quello che vedevo. Dovetti dare qualche altra sbirciata per essere più precisa, ma alla fine non era altro che un gomitolo sferico con gli aculei. Lo colorai anche coi pastelli e mi appoggiai allo schienale, soddisfatta, notando solo allora che Li-kun aveva finito da un pezzo.
Mi feci più vicina, curiosando, provando a leggere il nome senza riuscirci. Era stato tracciato in romaji.
«Ri…Lishi…»
«Lisianthus» pronunciò per me.
Mi voltai verso di lui attonita, restando china sul suo quaderno. Lui rimase fermo nella sua posizione, non spostandosi neppure di un centimetro, ma mi sorprese nel farsi trovare con un pugno sulle labbra, quasi stesse trattenendo una risata.
«Che pianta sarebbe? Non l’ho mai sentita.»
«Forse lo conosci come “eustoma”.»
«Oh! Sì, ho capito qual è!»Doveva essere quel grazioso fiore che avevo visto in molte composizioni, con i tanti petali ad imbuto. Dava un senso di allegria e leggerezza, quasi un invito a librarsi in volo.
Proprio come aveva fatto anche lui prima, guardai all’interno del suo microscopio, confrontando il vetrino con il disegno da lui tracciato. Era una replica perfetta! Incredibile, veramente incredibile. Si era pure impegnato a fare le sfumature più chiare e scure.
Tornai al mio posto, con un pizzico di invidia. Non era rivolta soltanto al campo artistico, bensì era un discorso molto più in generale.
Per esempio, quando facevamo educazione fisica i miei occhi erano costantemente puntati su di lui. I nostri compagni di classe lo ignoravano, o almeno fingevano di farlo, mentre c’erano alcuni studenti che lo fissavano di sottecchi per non farsi notare e altri che non nascondevano astio misto ad apprezzamento. Non era certamente rispettoso nei suoi riguardi, eppure in parte li capivo: Li-kun era abilissimo in tutto quel che gli veniva chiesto di provare e per ora si era trattato di calcio, basket, badminton e pallavolo. Chissà di che club faceva parte e se mi era concesso chiederlo….
«Li-kun…» osai, facendomi avanti.
Mi fece un cenno di silenzio e così vidi che il prof aveva richiamato l’attenzione di tutti, cominciando a girare per i tavoli. Soffiai dal naso, abbattuta. Ecco una delle tante occasioni sprecate.
Dopo aver completato il giro il sensei rivelò che soltanto pochi di noi si erano sbagliati – dovevo ringraziare Li-kun se io non rientravo tra questi. Ci delucidò quindi su tutte le risposte, spiegandone le ragioni, insieme a come avremmo potuto capirne le caratteristiche e come individuare le differenze con le altre tipologie di polline. Vi prestai attenzione soltanto a metà; mi serviva per gli esami, di certo non nella vita. Dubitavo che, qualunque carriera avessi deciso di intraprendere in futuro, avrebbe avuto a che fare con la scienza.
A fine lezione stavo per raccogliere le mie cose per avviarmi in classe a recuperare il bentou, quando Li-kun mi fermò.
«Cosa stavi per dire?»
«Nulla di importante» minimizzai, facendo un cenno con una mano come a dire che poteva anche dimenticarlo.
«Sicura?»
Mi venne un’idea geniale. No, non gliel’avrei detto. Almeno non per il momento.
«Te lo dirò un altro giorno, così avremo una scusa per parlarci.»
Gli sorrisi furba e me ne andai in classe, lieta e soddisfatta. Non poteva respingermi, ero sicurissima che volesse saperlo.
Presi il bentou tutta contenta, rivolgendomi alle ragazze.
«Mangiamo in classe?»
«Ci tocca, il vento fuori è aumentato» fece notare Rika-chan.
Unimmo i nostri banchi, sedendoci in circolo, augurandoci buon appetito. Tra un morso e l’altro scherzavamo, chiacchierando di argomenti leggeri e quotidiani, finché non mi bloccai con un pezzo di carota a mezz’aria. Là fuori, tra gli alberi smossi dal vento, seduto comodamente su uno dei rami più alti, mi parve di vedere Li-kun. Sbattei le palpebre, ma quando riguardai non c’era più. Hoe? Lo avevo immaginato?
Osservai il suo posto, trovandolo vuoto. In effetti, a ora di pranzo non era mai nei paraggi. Chissà dove si rintanava. Un posto solitario…. Forse la terrazza! Ma con quel vento non gli conveniva di certo.
«Alla ricerca di Li-kun?» mi punzecchiò Chiharu-chan.
Sobbalzai, colta sul vivo.
«M-mi chiedevo solo dove fosse…» provai a giustificarmi, miserevolmente.
«Sei proprio presa ormai» sospirò Rika-chan, dandomi una pacca su una spalla.
«Metticela tutta, non è una facile conquista» aggiunse Chiharu-chan, ponendo la mano sull’altra mia spalla.
Hoe?
«Sappi che avrai tutto il nostro sostegno» soggiunse Naoko-chan.
Ma cosa avevano capito?!
«Non è come pensate! È solo che stiamo diventando amici… credo….»
«In effetti, sembrate proprio in sintonia.» Rika-chan si puntò una mano al mento, meditabonda.
«È la prima volta che assistiamo a qualcosa del genere.»
Guardai confusa Naoko-chan.
«A volte non riesco a capire perché sia tanto emarginato» riflettei ad alta voce. «Mi sembra una persona gentile e disponibile.» Escludendo alcuni momenti in cui era un po’ più lunatico.
«Se lo è si mostra così soltanto a te, perché quando noi provavamo a parlargli se rispondeva lo faceva con monosillabi» ribatté Chiharu-chan.
Sospirai, preferendo lasciar perdere. Forse, se fossi riuscita a mantenere un rapporto “stabile” con lui, avrei convinto anche gli altri che in realtà era una brava persona.
«Parlando d’altro, oggi vieni a fare shopping con noi?» mi ricordò Rika-chan.
«Certamente!» esclamai energica.
«Allora ci vediamo verso le cinque alla fermata degli autobus» decretò allegra Chiharu-chan.
Annuii entusiasta.  Non vedevo l’ora di uscire un po’ da quella cittadina, almeno per qualche ora.
La sera prima avevamo deciso di approfittare del fatto che quel giorno nessuna di noi avesse i club e che il sabato non ci fosse scuola per poter andare a Furano. Si trattava di una città montana le cui località, a quanto dicevano le ragazze, erano spesso utilizzate come set fotografici pre-matrimonio.
«Hai presente la fotografia dei miei genitori in soggiorno?» chiese qualche ora dopo Chiharu-chan, mentre in pullman passavamo dinanzi ai campi.
Rievocai quell’immagine pittoresca dei due coniugi immersi in onde di lavanda e strisce di altri fiori colorati sul pendio di una collina.
Annuii visualizzandola e lei svelò, indicando quei campi aridi e stepposi, ove ora bruciavano colori caldi: «Vennero a scattarla qui.»
«Non avrei mai detto che fosse lo stesso luogo» sussurrai colpita, seguendone l’estensione a perdita d’occhio.
«In effetti il cambiamento è grande da stagione a stagione. Ma ti assicuro che in tarda primavera questa zona è stupenda.»
Le sorrisi persuasa e mentre Naoko-chan prendeva il sole – esattamente come me, per questo avevo il viso praticamente schiacciato contro il finestrino, per rubarvi un po’ di calore – Rika-chan guardava l’esterno con aria sognante.
«Quanto mi piacerebbe sposarmi qui, al di sotto della campana sulla collina degli innamorati…»
«Su con la vita Rika-chan, un altro anno e potrai esaudire questo desiderio!» la rincuorò Chiharu-chan, facendola avvampare.
Un altro anno?
«Hai diciassette anni?»
«Li ho compiuti il 24 giugno.»
«Hoe? Siete tutte più grandi di me?»
«Io sono nata il 28 maggio» annuì Chiharu-chan.
«Io invece ho ancora sedici anni» concluse Naoko-chan. «Ne compio diciassette l’11 ottobre.»
Mancavano circa due settimane! Dovevo tenerlo a mente e trovare qualcosa da regalarle.
«Ma io sono la più piccola» mi imbronciai.
«Quand’è il tuo compleanno?» si incuriosirono.
«Il primo aprile.»
«Sei nata in primavera!» gioì Rika-chan. «Che meraviglia!»
«In effetti sì, è una stagione bellissima. Sono nata insieme ai ciliegi.»
«E per questo “Sakura”» ammiccò Chiharu-chan.
Ridemmo tutte e io, intanto, confermai. Da lì aveva origine il mio nome. Perché dopo che mia madre mi diede alla luce, come guidati dal mio primo vagito entrarono dalla finestra dell’ospedale i petali di quegli alberi, che rigogliosi fiorivano lungo tutte le strade. Fu la prima cosa che ella vide dopo di me e, a detta di papà, uno di essi mi si posò su una guancia. In quel momento mia madre pronunciò con dolcezza “sakura” e dato che io sorrisi a quel suono, quasi lo avessi capito, lo si scelse come mio nome.
Giunte a destinazione scendemmo dal mezzo pubblico, inoltrandoci per le strade di quella città, più grande di quanto mi aspettassi. Entrammo in negozietti molto carini, che vendevano accessori maschili e femminili per tutte le età. Mi persi dietro una lunga collezione di oggetti con una marca il cui simbolo erano degli adorabili orsetti abbracciati e senza farmi notare presi un grappolo di portachiavi con un orsacchiotto colorato. Andai a pagarli lesta e poi mi avvicinai alle ragazze, porgendo quello giallo a Chiharu-chan, quello bianco a Rika-chan e quello blu a Naoko-chan, tenendomi quello rosa.
«Come simbolo della nostra amicizia» spiegai.
Loro parvero tutte commuoversi e mi strinsero in un abbraccio, ripetendomi con le lacrime agli occhi che fosse stato un gesto troppo dolce, non necessario. Lo appendemmo tutte accanto alla cerniera delle nostre borse e uscimmo di lì contente, facendoli tintinnare.
Mentre proseguivamo pensai che fosse meglio comprare qualcosa anche a Tomoyo-chan ed Eriol-kun, per ringraziarli dell’ospitalità. Gironzolammo per i vicoli, passando poi in un antiquariato che vendeva articoli bellissimi. Sembrava così ricco di storia. Diedi un’occhiata a tutto, chiedendomi se non avessi potuto trovare proprio lì qualcosa che avrebbe fatto al caso mio. Presi un caleidoscopio e lo portai accanto ad un occhio, chiudendo l’altro. Lo girai lentamente, estasiata. Era una fusione di gemme inserite in rosoni, che formavano cangianti figure floreali di tutti i colori dell’arcobaleno. Lo rimisi a posto, colta da un’illuminazione. Ma certo!
Mi accostai alla vetrina accanto al bancone, osservando le pietre preziose. E allora vidi proprio ciò che stavo cercando: due bracciali identici, uno con una goccia d’ametista, l’altro con un minuscolo zaffiro. Erano perfetti, splendenti come i loro occhi. Chiesi al negoziante se potesse aprire la teca per mostrarmeli da vicino e me li studiai per bene. Sì, ce li vedevo bene attorno ai loro polsi. Avevano anche un laccetto color lillà e l’altro di un blu chiarissimo, simile alla polvere. Speravo che potessero apprezzarli.
Decisi di prenderli, facendomeli mettere in un sacchetto che riposi in borsa e mentre ricevevo il resto i miei occhi caddero su altri due ciondoli uguali. Stavolta erano simili a due magatama, una dritta e l’altra capovolta, intagliate in una mezza monetina d’argento legata ad una collana con catenina di cuoio nero. Sembravano quasi completarsi, perché mettendole vicine creavano una circonferenza perfetta. Le studiai attentamente. Quella dritta era verde, forse fatta di smeraldi. Un colore cui ero abituata da sempre, che incontravo ogni volta che mi guardavo allo specchio. Il colore dei miei occhi, ereditato dalla mamma. Quella capovolta, tuttavia, pure mi risultava familiare. Forse fin troppo familiare. Era ambra. Avrei potuto paragonarla al colore delle iridi di Yukito-san – sebbene il suo fosse più simile a quello dei ricci delle castagne – ma sapevo che non reggeva assolutamente il confronto. Erano gli occhi di Li-kun.
Mi riscossi da quell’osservazione, accettando il resto del commesso che mi fissava in attesa, e raggiunsi in fretta le ragazze, lasciandomela alle spalle.
Mostrai i miei acquisti e dopo che uscimmo di lì facemmo un giro in una libreria, dove Naoko-chan acquistò una decina di libri; successivamente entrammo, come avevamo originariamente pianificato, in negozi di abbigliamento. Trovammo con nostra fortuna molti capi graziosi scontati, ma alla fine me ne uscii quasi a mani vuote, non avendo bisogno di nulla. Mi bastavano i vestiti portati da casa – insieme a ciò che mia cugina aveva preso a cucire per me – e le uniche cose che ebbi premura di comprare furono un piumino bianco e un maglione sui toni del verde chiaro, non avendolo trovato rosa. Mi dicevano sempre che fosse un colore che mi donasse, perché evidenziava il colore dei miei occhi.
Occhi, occhi, occhi.
Il mio pensiero circolare tornava sempre lì e non avevo idea di come spezzarlo. Non c’era una mano più grande che potesse reciderne il filo, ponendo fine a quel loop apparentemente infinito?
Tornate in strada ci avviammo verso la fermata, ma a metà tragitto le ragazze si arrestarono, porgendomi una busta.
La afferrai curiosa e mentre la aprivo e ne estraevo il contenuto loro tre esclamarono in coro: «Il nostro regalo per te!»
Osservai senza parole la sciarpa a maglia coi motivi a treccia, di un caldo rosa pesca, con una rosa realizzata a uncinetto su un’estremità. Le guardai toccata, prossima alle lacrime. 
«Non dovevate» piagnucolai commossa.
«È per ricambiare» mi zittì Chiharu-chan, non volendo sentire repliche.
Le ringraziai di cuore, sostituendo quella anonima che indossavo con questa, riponendo la precedente in busta.
«Come mi sta?» domandai contenta, piroettando.
«Ti dona tantissimo» approvarono all’unisono, alzando un pollice.
Risi con loro e tutte assieme, avvolte dai nostri caldi sorrisi, ce ne tornammo a casa.










 
Angolino autrice:
Buon dicembre a tutti! (Meglio tardi che mai)
Chiedo scusa per il ritardo, non mi ero minimamente resa conto che fosse trascorso tutto questo tempo dall'ultimo aggiornamento. Purtroppo, di nuovo, non so quando riuscirò ad aggiungere il prossimo capitolo, spero prima di Natale o prima dell'anno nuovo. 
Spiegazioni: 
- i konpeito sono caramelle/confettini sferici colorati che sembrano avere degli aculei dalla punta arrotondata, fatti prettamente con acqua e zucchero (se qualcuno ha guardato "Kobato", sono quelli che deve raccogliere nella bottiglietta)
- il romaji è il sistema di scrittura con l'alfabeto latino. Il fatto che Sakura si confonda con "ri" e "li" è per una questione di pronuncia (in giapponese vi è un suono a metà tra i due) e "shi" è perché non esiste il suono "si" in giapponese. Se vi chiedete perché Syaoran è in grado di pronunciarlo, vi ricordo che il cinese ha una fonetica differente.
- la magatama è una perla curva a forma di virgola, solitamente le trovate di giada verde.
Traduzioni: sensei = prof, bentou = cestino per il pranzo, sakura = ciliegio.
Penso di aver detto tutto, se restano dubbi non esitate a chiedere.
Grazie mille per continuare a leggere nonostante i miei ritardi çwç

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Nella foresta

           
Quanto più ci avvicinavamo a Reiketsu tanto più le nuvole si addensavano nel cielo, rendendo il sole che ci aveva accompagnate quel pomeriggio un miraggio lontano. Per fortuna, però, il vento sembrava essersi affievolito, così era più facile camminare senza temere di essere sollevati in aria e venire trascinati via.
Dato che il viaggio in bus durava più di un’oretta ed eravamo partite al tramonto, per quando giungemmo a destinazione s’era già fatto buio. Salutai le ragazze, ringraziandole per la bella giornata trascorsa insieme, avviandomi sulla superstrada. Accertandomi che non passassero macchine – cosa rara quanto il sole, da quanto mi era parso di capire – attraversai la strada, seguendo la banchina, decidendo poi di superarla per affondare i piedi nell’erba. Era così soffice che quasi ci si sprofondava.
Continuai dritta cominciando ad intravedere la casa di Tomoyo-chan, sorridendo internamente nell’immaginarmi come avrebbero reagito lei ed Eriol-kun alla vista del regalo. Speravo con tutta me stessa che ne sarebbero stati felici.
In maniera automatica controllai il sacchetto in borsa, quasi temessi di averlo dimenticato da qualche parte; per fortuna c’era. Sospirai sollevata e rabbrividii ad una folata di vento che mi fece stringere nel cappotto, ma fu inaspettatamente intensa, al punto tale che dovetti fermarmi e pararmi gli occhi con le braccia prima che vi entrasse la polvere. Quando li riaprii mi accorsi che era stata tanto forte da farmi volare via la sciarpa – la quale con i miei vari movimenti già si era allentata. Dispiaciuta la seguii, per quanto fosse visibile alle lievi luci bianche dei lampioni stradali, e mi accorsi che fu spinta fino alla foresta. Mi morsi un labbro, correndo verso il buio per non perderla di vista; ma dopo aver superato tre alberi, ecco che non c’era più.
Guardai in alto, scrutando tra le fronde. Rispetto ai colori accesi d’autunno che tanto mi erano familiari, il rosso, il giallo e l’arancio, qui c’era un tripudio di verde, sebbene ora fosse poco visibile e risultasse più cupo. Inoltre, gli alberi erano altissimi, alcuni sembravano toccare il cielo con le loro cime. Mi inoltrai maggiormente, cauta, ma il fogliame impediva alla maggior parte della luce dei lampioni di penetrare, smorzandola, per cui dovetti avanzare a tentoni alla flebile luce della luna, laddove faceva capolino dalle nubi.
Dopo quelli che mi parvero quindici minuti buoni di inutile vagare senza meta rinunciai. Mi si formarono le lacrime agli occhi per la mia disattenzione. Me l’avevano appena regalata! Una lacrima sfuggì mentre pestavo i piedi a terra, frustrata, calpestando foglie, sassi, terra e rami spezzati. Calciai una brattea di pigna, prima di sedermi sul ceppo di un vecchio albero, tentando di calmarmi. Presi respiri profondi, asciugandomi le guance, e quando riaprii gli occhi mi accorsi che quel piccolo spiazzale sembrava più luminoso di prima. Alzai la testa, incontrando una bella luna piena. Sorrisi quasi inconsciamente, sentendomi un po’ meglio.
Mi rimisi in piedi e mi pulii le gambe dal terriccio, armandomi di coraggio, prima di guardarmi intorno e rimanere disorientata. Da quale parte ero venuta? Purtroppo i cespugli fitti rendevano difficile scorgere la strada principale. Mi incamminai verso sud, incerta, seguendo piccole luci che scorgevo a distanza. Forse si trattava dei lampioni, sebbene queste producessero un baluginio tremolante, spettrale. E poi si spensero. Mi pietrificai, col cuore in gola.
Non si trattava mica di fantasmi?! Arretrai, sentendomi mancare, correndo trafelata nella direzione opposta. Le lacrime ripresero a scorrermi sulle guance mentre valutavo la situazione. Ero sola, nel bosco, di notte, totalmente indifesa, con luminescenze indefinite che forse non esistevano neppure, forse erano riflessi lunari, forse erano soltanto frutto della mia immaginazione….
Non dovevo andare nel panico.
Mi appoggiai ad un albero, riprendendo fiato, sforzandomi di riflettere con calma. Presi il cellulare dalla borsa, notando quanto la mia mano tremasse. Provai a digitare il numero di mia cugina, ma non c’era segnale. Non era quello il contesto tipico dei film horror? Sarei morta lì? Un cacciatore mi avrebbe strappato il cuore, come nella storia di Biancaneve? Gli spettri avrebbero rivendicato la mia anima per trascinarmi con loro nell’aldilà?
Le mie gambe cedettero, incapaci ormai di sorreggermi. Era finita. Sarei scomparsa o morta di paura in ogni caso. Nessuno sarebbe mai riuscito a trovarmi in quel labirinto di conifere. Persino la luna, che rappresentava il mio unico conforto, era così grande e luminosa che gli alberi stendevano ovunque le loro ombre, inghiottendomi nell’oscurità.
Il vento riprese a soffiare tra i tronchi, cantando melodie inquietanti. Chiusi gli occhi e mi tappai le orecchie, accovacciandomi, affondando la faccia tra le ginocchia. Non volevo vedere. Non volevo sentire. Non volevo sapere.
Tuttavia, nonostante il mio udito fosse attutito dai miei palmi, mi giunse distintamente il rumore di passi. Si avvicinava sempre più…. Qualcuno! Qualcuno stava giungendo a cui avrei potuto chiedere aiuto!
Alzai la testa piena di speranza, ma questa scemò non appena vidi quel che mi si parava innanzi: un lupo. Restai immobile, non sapendo bene come reagire. Era la prima volta che mi capitava di vederne uno dal vivo, in tutta la mia vita. Come avrei potuto capire le sue intenzioni? Se fossi rimasta ferma avrebbe capito che ero innocua e non volevo fargli del male? 
Esso mi si avvicinò scrutandomi con circospezione. Immaginai che fosse una novità anche per lui, magari era la prima volta che si ritrovava innanzi un essere umano.
Provai a sorridere attraverso le lacrime, e sebbene queste ancora mi rendessero la vista sfocata, mi accorsi quanto più mi si accostava che aveva qualcosa che svolazzava tra i denti. Quando mi fu a pochi metri di distanza scoprii che si trattava della mia sciarpa. Me la stava riportando?
Colpita, allungai lentamente una mano col palmo rivolto verso l’alto, con prudenza. Non volevo rischiare di spaventarlo.
Il lupo vi si fermò innanzi, lasciandovela cadere sopra. Notai così che fosse alto quanto me da seduta.
Osservai la sciarpa a quella luce fioca, vedendo sorprendentemente che fosse intatta. Non sembrava esserci neppure uno strappo né alcun filamento appeso, solo qualche ago di pino. Ringraziai il lupo accorata, togliendone dall’intreccio le foglie per avvolgermela attorno al  collo, sollevata dinanzi al calore ritrovato.
Il lupo continuò a guardarmi, come in attesa. Ipotizzai che un ringraziamento verbale non bastasse, per cui mi protesi verso di lui, lasciandogli una carezza sul capo, tra le orecchie. Il suo pelo era sofficissimo, ed emanava un calore piacevole per quelle temperature. Tuttavia il contatto durò poco perché immediatamente si ritrasse, emettendo un piccolo ringhio. Alzai le mani in alto, stavolta scusandomi con lo sguardo. Non volevo essere così espansiva, avevo solo ipotizzato che potesse fargli piacere.
Mi fece poi un segno con la testa, quasi volesse indurmi a seguirlo. Mi misi in piedi, restando dietro di lui, ma una volta usciti fuori da quel piccolo cerchio di luce divenne più difficile distinguerne la sagoma. Allora, forse per agevolarmi, mi si affiancò. Percepii la sua presenza alla mia destra e sbirciai nella sua direzione, vedendo così che i suoi occhi gialli rilucevano, come due fanali che fendevano la nebbia. Erano meravigliosi, così simili all’oro, quasi gli stessi di Li-kun.
Spostai lo sguardo sul percorso, mal celando preoccupazione. Subito dopo pranzo s’era fatto fare un permesso per andarsene, affermando di cominciare a sentirsi male. Era infatti pallido e dolente, e la cosa mi aveva sorpresa, considerando che quella mattina era sembrato stare bene. Stava fingendo? Fatto sta che mi ero inevitabilmente allarmata, visto che sua cugina lo aspettava fuori l’aula e una volta uscito lo aveva aiutato a sostenersi, mentre si portava una mano alla fronte. Voleva dire che, qualunque sintomo avesse, doveva essere grave. E d’altronde lui stesso aveva detto di essere guarito solo parzialmente. Pregavo che non fosse una malattia mortale, inguaribile, e che tutto potesse risolversi per il meglio per lui.
Avevo cercato di non pensarci tutto il giorno per non angosciarmi, ma alla fine lui sembrava tornare sempre. Bastava anche una cosa minima, una pietra, un colore, un’azione per riportarmelo alla mente. Perché non riuscivo a smettere di pensare a lui? Perché mi tormentavo tanto con lui?
Giunti fuori la foresta sorrisi rincuorata, riconoscendo il giardino della villa. Chissà come faceva il lupo a sapere che fossi diretta qui. Ah, forse poteva aver seguito il mio odore!
Mi voltai per ringraziarlo nuovamente e rimasi basita: sembrava essersi volatilizzato nel nulla. Che fosse stato anch’esso un’illusione? Ma in tal caso chi mi avrebbe portato la sciarpa? L’avevo trovata da sola e quella era stata tutta una grande fantasticheria? Forse era il mio spirito guardiano?
Ne toccai la stoffa intatta mentre mi affrettavo a rientrare, continuando a rimuginare. Una volta in casa mi scusai per il ritardo, ma poi mi sorpresi scoprendo che non erano neppure le nove e mezza. Ed io che pensavo fosse già mezzanotte, avevo totalmente perso la cognizione del tempo.
«Ti sei divertita?» chiese Tomoyo-chan dopo che mi avevano accolta, mostrandomi che la cena stava giusto giusto per essere servita.
Mi accomodai a tavola, confermando, raccontando tutto quel che avevo visto e fatto a Furano. Allora ricordai subito i pensierini acquistati a loro, per cui mentre ingurgitavo del pollo, facendolo scendere con dell’acqua, mi alzai a prenderli dalla borsa. Li porsi ad entrambi, spiegando che fosse segno della mia gratitudine per avermi accolta in famiglia.
Mia cugina parve smuoversi e anche Eriol-kun sorrise gentilmente, mentre tiravano fuori i due braccialetti.
«L’ametista indica una trasformazione spirituale» informai la prima.
«Sul serio?» chiese, accendendosi di interesse.
«Sì. Significa “rinascita della mente e del corpo”. È una sorta di cambiamento che porta al miglioramento di sé. Tra i suoi benefici scaccia gli incubi, allontana lo sconforto e migliora l’autostima.»
«Non poteva essere più perfetto» sorrise amorevolmente Eriol-kun, rivolgendosi direttamente a lei, la quale abbassò lo sguardo come imbarazzata.
«Lo zaffiro, invece» ripresi, dedicandomi a lui, «protegge, è legato alla saggezza, alla regalità, alle profezie e detiene il favore divino. Inoltre è utile per l’autodisciplina, porta ordine nella mente, dona forza, attenzione e la capacità di vedere oltre le apparenze superficiali» conclusi soddisfatta.
«Anche la tua, non poteva essere più precisa» ridacchiò mia cugina.
«Complimenti Sakura-san, hai sintetizzato tutte le nostre caratteristiche» ammiccò Eriol-kun.
«Sono lieta di averci preso!» esultai.
«E quindi, ti interessa la cristalloterapia?» indagò.
«Tra le tante cose» confermai, lieta di poterne parlare. «Lo so che si tratta di una pseudoscienza e non ci sono prove specifiche a riguardo, ma non posso farne a meno e con me ha funzionato spesso in diversi frangenti. Ad esempio, c’è stato un periodo in cui mi sentivo molto timida e indossare una collana con un turchese mi aiutò molto a lanciarmi nelle conversazioni, sentendomi più sicura di me stessa.»
«Da quel che ho letto, il turchese aiuta a comunicare la verità, ad essere onesti ed empatici, facilitando il perdono e facendoti amare il mondo, proteggendoti dalla negatività. Sembra essere una descrizione totale di te.»
Arrossii lievemente, riconoscendomi abbastanza in essa.
«Eriol-kun, anche tu sei interessato alla cristalloterapia?» domandai eccitata, sperando in una risposta positiva.
«Ho svariati interessi.»
«Anche io» ridacchiai. «Ad esempio, nella lettura degli astri.»
«E nella divinazione?»
«Anche.»
«Allora quando vorrai ti leggerò il futuro.»
«Ne sei capace?» chiesi incredula.
Annuì e Tomoyo-chan rivelò, nascondendo un risolino dietro una mano: «Aveva previsto il tuo arrivo prima ancora che tuo padre ci contattasse.»
Mi sentii gasatissima da quella nuova informazione.
«Possiamo farlo stasera?» lo implorai, letteralmente.
«Se non sei stanca…» concesse.
«Per niente!»
Mi mostrai pimpante e finii di mangiare con irruenza, intrepida che arrivasse quel momento.
Dopo cena ci spostammo pertanto in biblioteca, dove Eriol-kun prese le carte e si accomodò sulla sua poltrona, dinanzi ad un tavolino. Io mi sedetti sul bordo in mattoni del camino spento, trattenendo a stento l’entusiasmo. Lo vidi mescolare i tarocchi, disponendoli sul tavolo, alla luce soffusa di una candela. Non avevo idea che lui fosse anche un cartomante!
Girò la prima carta, come fosse la pagina di un libro, e mi protesi in avanti per leggere anch’io quel che c’era scritto: “Il Matto”.
«Bene direi.» Sorrise, alzando i suoi occhi su di me. Alla flebile luce della fiammella assunsero una tinta violetta, simile a quelli di mia cugina. «Stai per iniziare qualcosa di nuovo che non sai dove ti porterà, ma proseguirai per quella strada seguendo l’istinto. L’importante è che tu non perda di vista la tua innocenza e genuinità, così sarai al riparo dai pericoli.»
«Ci saranno pericoli?» domandai preoccupata.
Lui capovolse un’altra carta. “L’Impiccato”. Ero abbastanza sicura che non portasse a nulla di buono e ciò parve essere confermato dal suo tono che si incupì.
«Attraverserai una fase di dolore. Sarai immobilizzata e dovrai accettare tutto ciò che il mondo ti porterà: pioggia, freddo, sofferenza. Dovrai sacrificare te stessa per giungere ad un rinnovamento. Ciò significa che potrai ritrovarti a rinnegare quel che sei, a capovolgere il tuo modo di vedere le cose, a confutare le tue convinzioni, affrontando le tue paure e accettandole. Dovrai agire in modo diverso dagli altri, fare il contrario di ciò che qualcun altro farebbe al tuo posto.»
La sua fronte liscia si corrugò, come se tale pensiero non gli garbasse. Anche Tomoyo-chan parve contrariata e, in tutta onestà, neppure io ero tanto lieta di udire una simile profezia. Era esattamente ciò che più temevo: perdere di vista me stessa.
«Ma non preoccuparti, Sakura-san. Il Matto ti ha suggerito come affrontarla. Seppure agirai in modo diverso da come normalmente faresti, tu continua a seguire il tuo cuore. È lì che è rinchiusa la tua vera essenza, il tuo vero “io”. Metti da parte le preoccupazioni e fidati del tuo istinto. Gioisci del presente ed abbi fiducia nel futuro.»
Decisi di ascoltare quei consigli. Li avrei seguiti con tutta me stessa.
«Ma tutto questo a cosa apporterà?»
Voltò un’altra carta e trattenni il fiato, leggendo “Gli Amanti”. Avrei sul serio vissuto tutto quello soltanto per amore?
Tomoyo-chan lanciò un’esclamazione di stupore, portandosi una mano sulla bocca; Eriol-kun, invece, tese le labbra, quasi fosse indeciso se sorriderne o meno.
«Va bene, non c’è più nulla da dire.» Mi alzai, facendo capire che desideravo finissimo lì, e mi inchinai rispettosamente. «Ti ringrazio tantissimo per avermi dedicato il tuo tempo.»
Superai il tavolino e li lasciai nella stanza, salutando cortesemente i domestici mentre salivo in camera. Tutta quella previsione aveva un che di assurdo. Forse, più che su carte e parole, mi bastava continuare ad infondere fiducia nei miei sogni. D’altronde, non era ciò che Il Matto stesso mi aveva suggerito?

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Tra incubo e realtà


   
Corsi tra i campi del parco, avvolta in un pomposo abito bianco. Mi alzai le vaporose gonne, saltando di fiore in fiore, ridendo spensieratamente. Tomoyo-chan mi seguiva con la sua videocamera, con un’espressione di pura beatitudine.
«Sakura-chan, sei splendida!»
«L’abito che mi hai confezionato tu lo è!» replicai, rivolgendole un enorme sorriso.
Eriol-kun ci osservava a breve distanza, con aria serena. Lo salutai con la mano inguantata di pizzo e lui ricambiò, facendoci un piccolo cenno togliendosi il cappello.
Il vento che giungeva da valle sollevò il mio velo mentre scendevo il pendio correndo, dilettandomi cantando in mezzo a tutto il giallo di quei garofani d’India. Mi spostai verso il mare purpureo di lavanda, facendo roteare l’ombrello bianco dai bordi orlati in macramè sopra la mia testa, per proteggere la mia pallida pelle dal sole. Lo abbassai soltanto quando fui al riparo sotto un albero che estendeva la sua lunga ombra su di me, mentre ammiravo rapita tutto il panorama al di là delle colline. Una valle di meraviglie di cristallo, verde chiaro e celeste.
Distesi la mente, smettendo di pensare, finché non percepii qualcosa posarsi sulla mia testa. Alzai il viso, incontrando il sorriso di Li-kun. Un sorriso così estraneo nella sua dolcezza che, tuttavia, sentivo di conoscere da sempre.
Osservai attentamente il suo abbigliamento formale mentre si poneva al mio fianco, chiedendomi: «Ti piace?»
Tastai quel che mi aveva messo sui capelli, prendendolo tra le mani: era una corona fatta con rose bianche e rosate.
«È bellissima» confermai, sciogliendomi.
Lui scosse lievemente il capo.
«Ne sono lieto, ma intendevo questo posto.»
«Sì.»
Mi appoggiai contro la sua spalla, rilassandomi.
«Non ti penti di essere qui?»
«Non potrei mai» negai con certezza. «Sono contenta di essermi trasferita, perché così ho avuto l’opportunità di conoscerti.»
Lo vidi fare un mezzo sorriso mentre chinava lo sguardo, fissando i suoi lucenti occhi nei miei. «Non ti penti di essere diventata la mia sposa?»
«È la gioia più grande che io abbia mai provato.»
Mi guardò gratificato, prendendomi le mani per tirarmi in avanti, più al centro del campo. Qui mi fece sedere e lui fece lo stesso, accomodandosi a pochi centimetri di distanza. Ammirammo per un po’ tacitamente il paesaggio, finché la mia attenzione non fu catturata dai raggi del sole che rilucevano sulla sua pelle, rendendola nivea e diafana, sembrando quasi attraversare il suo corpo mentre si allungava su di me.
Mi spostò con delicatezza una ciocca di capelli dal volto, attardandosi a seguire la linea del mio viso fino al mento, sussurrando in maniera bassa e seducente: «Sai che dovrai assumertene le responsabilità.»
Lo guardai perplessa, chiedendomi cosa intendesse, ma prima che riuscissi ad agire in alcun modo mi strinse a sé e le sue labbra si posarono sul mio collo scoperto. Mi pietrificai, il sole sparì, minacciose nubi coprirono il cielo col loro manto oscuro. I nostri abiti immacolati si tinsero di nero, un nero consunto, antico, macchiandosi di fuoco. Un vortice di vento ci avvolse, facendo svolazzare petali ovunque. Quando mi passarono dinanzi al viso, tuttavia, mi resi conto che fossero scarlatti.
Abbassai lo sguardo sul prato, ora divenuto un mare rosso. Rosso come il sangue. Il mio sangue.
Spinsi via Li-kun per tirarmi indietro, portandomi una mano sul collo. Quando la riguardai la trovai impregnata di quello stesso colore. Non poteva essere….
Riportai gli occhi su di lui, terrorizzata; ma al suo posto trovai un lupo dal folto pelo bruno e le iridi di quella stessa cromatura vermiglia. Ghignò, mostrandomi le sue zanne insanguinate, prima di lanciarsi su di me, facendomi precipitare negli abissi del buio. 
 
 
 
Tre giorni dopo ero ancora sconvolta. Non riuscivo a credere di aver sul serio sognato non solo di sposare Li-kun, ma anche che lui non era umano e che di nuovo tentava di farmi del male. Di questo sogno – come del precedente di cui era protagonista – non dovevo assolutamente farne parola con nessuno. Era non solo imbarazzante e umiliante, ma anche diffamante. Come aveva potuto la mia psiche essere così scortese con lui?
Dovevo cercare di dimenticarlo, di non pensarci, di celarlo nei più reconditi luoghi dell’inconscio, per non far capire quanto mi sentissi confusa e in colpa – seppure su di esso non avessi potuto avere alcun controllo.
A scuola quindi serbai una parvenza di normalità e riuscii a comunicare tranquillamente con tutti… tranne che con lui, naturalmente. Non appena lo vidi sviai lo sguardo, sentendomi arrossire. Farfugliai un buongiorno e per fortuna la sua indole distaccata lo portava lontano da me. Di conseguenza non mi pressò facendomi domande, questionandomi su quel mio comportamento che, ai suoi occhi, sicuramente poteva parere bizzarro.
Ciononostante, per quanto mi sforzassi, il resto del mondo non sembrava venire incontro ai miei piani e così durante l’ora di letteratura inglese ci ritrovammo nel laboratorio informatico. Noi due, ovviamente, seduti vicini.
Occupai il posto accanto alla finestra, quasi spiaccicandomi contro essa, chinando il capo in modo tale che i capelli mi ricadessero in avanti a nascondermi. Per non essere tentata a guardarlo posai anche la mano destra sulla gota, appoggiandone il gomito sul banco. Ecco, avevo calato un sipario tra di noi.
Il docente, mr. Jones, ci informò di punto in bianco che quel giorno ci avrebbe mostrato un video documentario sull’evoluzione del romanzo gotico. Rabbrividii non appena esso ebbe inizio. Possibile che dovessimo trattare un argomento tanto pauroso?
Approfittai del buio per spiaccicare la faccia sul banco, avvolgendo la testa tra le braccia, stringendo la divisa tra le dita. Musiche fosche e tenebrose e rumori inquietanti accompagnavano la voce narrante, seguiti occasionalmente da grida in sottofondo. Che incubo. Serrai le palpebre e le labbra tra i denti, per non cedere alla paura. Non dovevo lasciar trapelare il mio essere una fifona – che figura ci avrei fatto?
Tra le tante cose sentii vagamente nominare il “Frankenstein” di Mary Shelley e “Dottor Jekyll e Mr. Hyde” di Louis Stevenson. Paura per l’ignoto. Una questione psicologica. Sdoppiamento. Angoscia. Crisi dell’Io. L’irrazionale contrapposto alla scienza. Lo spingersi oltre i limiti di essa.
L’origine della mia fobia, forse, rientrava parzialmente in queste categorie, visto che anch’io temevo ciò che non vedevo, sebbene fosse una paura che non partiva da me: sin da quando ero bambina mio fratello mi parlava di fantasmi ed esseri indefiniti dalle apparenze mostruose che incontrava per strada. Spesso me li indicava e talvolta ci si fermava anche a conversare amabilmente, come fossero amici di vecchia data.
Io gli dicevo sempre di smetterla di parlare di quelle cose ridicole, assurde, che non esistevano, soltanto per farmi piangere. Tuttavia, una parte di me capiva che un fondo di verità dietro quelle parole pronunciate perfidamente per farmi dispetti c’era. A volte percepivo un brivido lungo un braccio e lui mi riferiva cose del tipo «Ti ha appena carezzata, dice che vuole fare amicizia con te». Ma quando guardavo dove indicava non c’era mai niente.
Una volta ne ebbi abbastanza e scoppiai a singhiozzare copiosamente, urlandogli contro. Lui in quell’occasione mi rimproverò a lungo l’aver offeso il fantasma di una bambina, facendola piangere e andare via. «Vogliono essere amichevoli, dovresti accettarli per ciò che sono» spiegò lucidamente. Ma come potevo accettare qualcosa che non sapevo neppure che aspetto avesse, se non tramite le descrizioni che lui ne faceva? E poi aggiunse: «Se continui così si vendicheranno.»
In seguito a quel velato avvertimento cercai di comportarmi bene e trattenere le lacrime ogni volta che un venticello freddo mi sfiorava la pelle, portandomi a rabbrividire. Talvolta mi si rizzavano tutti i peli e il cuore mi saliva in gola, soprattutto quando percepivo un peso sulle spalle. Mio fratello diceva, in quei casi, che piccoli esseri deformi vi si appoggiavano, scrutandomi da vicino. Spesso sembrava che gli parlassero davvero, in quanto lui mi spiegò che si sentivano tanto attratti da me a causa del mio sangue: a quanto pareva emanavo un buon odore, simile a quello dei ciliegi, alberi cui quegli spiriti erano tutti legati, essendo essi la porta che legava i due mondi.
Mi sembrava una maledizione. Mi fingevo coraggiosa perché non volevo mostrarmi debole dinanzi a mio fratello maggiore, ma in realtà volevo soltanto fuggire a gambe levate e piangere disperata per quella condizione. Crescendo, tuttavia, mi resi conto anche di quanto potesse sentirsi solo e incompreso Touya. Un giorno mi confrontai con nostro padre e, a quanto pareva, neppure lui percepiva nulla. Non era in grado di vedere esseri soprannaturali, né di comunicare con loro; al contrario, quella era stata una dote di mia madre. Una sua caratteristica peculiare che, ai suoi occhi, la rese ancora più eterea e angelica di quanto già riteneva fosse.
Io, dal mio canto, volevo soltanto essere lasciata in pace da queste cose. I sogni premonitori non mi dispiacevano, ma i morti erano tutt’altro conto. Se tra questi ci fosse stata anche mia madre, forse sarei riuscita ad accettarlo. Forse lei avrebbe potuto guidarmi a fare la scelta giusta, quando sarebbe giunto il momento fatidico predetto dalle carte….
Mi riscossi da quel pensiero quando nel video vennero nominati i vampiri.
Scattai con lo sguardo sullo schermo, mentre veniva citato “Dracula” di Bram Stoker come esempio. Si parlò della trama e delle fonti storiche e letterarie da cui l’autore aveva tratto ispirazione, ma una cosa in particolare catturò la mia attenzione: aveva delle spose. E aveva morso anche Lucy e Mina, per farle sue. Vennero riprodotte proprio quelle scene, riprendendole da un film di Francis Ford Coppola.
Scossi la testa, sentendomi ridicola. Quella notte non avevo fatto altro che un sogno premonitore su ciò che avrei dovuto studiare una volta tornata a scuola, ma io ne ero rimasta tanto impaurita e atterrita da evitare per tutto il tempo una persona che non c’entrava assolutamente nulla.
Sbirciai nella direzione di Li-kun facendomi piccina, mortificata, guardandolo di sottecchi. Sorprendentemente lo trovai già con lo sguardo fisso su di me, come se mi stesse studiando. Lasciai cadere la mano sul tavolo, stupita. I bagliori dello schermo si rifrangevano sul suo viso, dipingendolo di tinte cupe. Mi distrassi ad osservare lui, lui e quel suo volto così bello da mozzare il fiato, lui e quegli occhi indagatori, ricchi di domande non poste, lui e quelle labbra perfette, perennemente tirate, lui e quei capelli ribelli che lo incorniciavano, quasi fossero stati scolpiti da un abile artigiano. Mi ritrovai senza parole, mi erano state completamente strappate di bocca. Non riuscivo neanche più a pensare. Non sentivo più la voce dello studioso. Non esisteva più nessun altro, né nient’altro. Non capivo cosa stava succedendo. Era come se fosse circondato da un sottile strato di elettricità, con le cui scariche colpiva anche me. Mi si strinse lo stomaco e restai pietrificata, inchiodata dall’intensità delle sue iridi. A quella fioca luce sembravano quasi più scure del solito e pareva che quanto più mi guardasse tanto più il loro colore si addensasse.
Fortunatamente fu il primo a distogliere lo sguardo e io rilasciai un sospiro, rendendomi conto solo allora di essere talmente tesa da aver stretto convulsamente la camicia della divisa tra le mani. Distesi le dita, sentendole dolenti e intorpidite, e dato che vennero riaccese le luci mi accorsi di essermi persino spezzata un’unghia. Speravo di non aver sfilacciato nulla.
La tirai via facendo attenzione a non peggiorare la situazione e mi tenni il dito in bocca, succhiando quel poco di sangue che stava uscendo, sperando che finisse presto.
Quando il docente ci congedò raccolsi il quaderno e la penna con una mano, facendo per alzarmi. Li-kun, tuttavia, mi bloccava la strada perché ancora non si era mosso dalla sua sedia. Teneva una mano davanti alle labbra e lo sguardo fisso sul suo quaderno.
«Li-kun?» Provai ad attirare la sua attenzione per farlo spostare, ma lui si voltò di scatto incenerendomi con uno sguardo. Come con sua cugina mi sentii raggelare. E, soprattutto, ferita. Perché improvvisamente mi trattava male?
Sembrava arrabbiatissimo, come mai lo avevo visto, e non capii che torto avessi mai potuto fargli. Ero certa però che fino a qualche minuto prima non aveva quell’espressione. A cosa era dovuto quel mutamento repentino?
Mi parve quasi di vederlo digrignare i denti al di là delle sue dita prima che si alzasse con impeto, raccogliendo rapidamente le sue cose e uscendosene impettito. Sbattei le ciglia, profondamente confusa e turbata da tutto ciò. Mi ripresi dalla pietrificazione soltanto quando mi si accostarono le ragazze, invitandomi a tornare in classe quanto prima, dichiarandosi affamate. Le seguii a poca distanza, quasi timorosa di ritrovarlo in classe e ricevere di nuovo quell’occhiata carica d’odio. Ma quando vi misi piede, come al solito, lui già non c’era più.        
Approfittai pertanto dell’orario di pranzo per mettere un cerottino sul dito, che fortunatamente aveva smesso di sanguinare, sebbene ancora lo sentissi pulsare. Nonostante ci fosse l’infermeria a scuola avevo l’abitudine di portarne sempre una scatola dietro con me, visto che ero famosa per inciampare spesso col mio andare costantemente di fretta. A volte ero un paradosso vivente: ero atletica, avevo un buon equilibrio, ma ero anche incurabilmente imbranata.
«Che ti sei fatta al dito?» domandò Chiharu-chan, adocchiandolo mentre mangiavamo.
«Niente di che, mi si è rotta un’unghia.» Scrollai le spalle, lasciando perdere, e ripresi l’argomento che stavano trattando. «Quindi Naoko-chan, che programmi hai per il tuo compleanno?»
«Pensavo di andare semplicemente in un café con voi. Non sono la tipa da feste.» Sorrise in maniera un po’ tirata, ma io ricambiai energicamente.
«Ci divertiremo di certo!» le assicurai.
Le ragazze mi spiegarono che ad ogni compleanno facevano semplicemente dei picnic all’aperto, tranne che per Naoko-chan visto che il tempo non lo permetteva. Quindi o si incontravano a casa sua oppure cenavano fuori.
Dopo mangiato ripresero le lezioni, ma anche se Li-kun ritornò in classe non mi degnò di uno sguardo. Non avevo idea né del perché ce l’avesse improvvisamente con me, né riuscivo a spiegarmi quel suo comportamento altalenante. Mi imbronciai fino a fine giornata, quando finalmente potei sfogarmi con le attività del club.
Una volta finite salutai le altre ragazze e dopo essermi cambiata e aver recuperato le mie cose mi inoltrai nelle strade della cittadina. Prima di rincasare volevo acquistare il regalo per Naoko-chan, quindi mi attardai un po’ mettendomi alla ricerca di una libreria. Ne trovai una piccola in un vicolo, ma nonostante l’apparenza quando vi entrai mi resi conto di quanto fosse ben fornita. Cercai tra le raccolte poetiche e a primo colpo trovai quella che la mia amica rimase a guardare a lungo quando andammo a Furano, intitolata “Nel cielo alto”, di Kikuo Takano. Mi accorsi che ce ne fosse soltanto una copia per cui corsi a pagarla, uscendo di lì soddisfatta.
Canticchiai allegra mentre svoltavo a destra, quando mi ritrovai dinanzi una persona. Era un ragazzo poco più grande di me, dai capelli e gli occhi scuri, tendenti al nero. Un abitante del loco?
Mi feci da parte per lasciarlo passare, ma lui si arrestò scrutandomi dalla testa ai piedi. Prese un foglietto dalla tasca, facendo come per mostrarmelo.
«Mi sapresti dire dove -»
Lo stroncai sul nascere, mortificata. «Scusami, non sono di queste parti.» Ero la persona meno indicata cui chiedere informazioni stradali.
Feci un piccolo cenno col capo, abbassando lo sguardo, sentendomi un po’ in soggezione. Se anche lui era uno straniero, perché mi guardava con tanta insistenza?
Mi tenni stretta la borsa, superandolo, ma dopo che ebbi raggiunto la superstrada me lo trovai inaspettatamente davanti, a bloccarmi il cammino. Com’era possibile? Com’era riuscito a superarmi senza che me ne accorgessi? E, cosa ancora più grave, mi stava seguendo?
Presi un profondo respiro, ricordando quello che mi diceva sempre mio fratello insieme alle solite raccomandazioni sul non uscire mai da sola di notte perché il mondo è pieno di persone perverse. Se ne avessi mai incontrata una dovevo puntare agli occhi, poi alle parti basse e scappare finché era “fuori combattimento”, avvisando immediatamente le forze dell’ordine. Era questo uno di quei casi? Pensavo che in un paesino così piccolo sarebbe stato impossibile che capitasse, ma se non era un abitante del loco e non mi lasciava in pace, non poteva significare altro che quel che temevo.
Mi mostrai tranquilla mentre, senza farmene accorgere, infilavo una mano in borsa cercando il cellulare, premendo sul registro delle chiamate. Se non ricordavo male l’ultima che avevo effettuato doveva essere proprio a Tomoyo-chan e se lei avesse capito che ero in pericolo avrebbe avuto più chance rispetto a me di chiedere aiuto.
Il ragazzo mosse un passo verso di me, al che ne feci come di riflesso uno indietro. Quanto più mi si avvicinava tanto più arretravo e proprio a causa di ciò mi ritrovai con le spalle contro il muro. Mi sentii intrappolata, non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Non capivo più cosa stava succedendo. Semplicemente i miei occhi si bloccarono nei suoi, come se li avesse legati con funi indistruttibili, impedendomi in alcuna maniera di sviare lo sguardo. Percepii le mie membra tremare e l’unico pensiero cosciente che riuscii a formulare fu che la sua espressione sembrava quella di un predatore. Era esattamente quella di un animale affamato, quasi io fossi cibo e lui fosse stato a digiuno per tutto questo tempo.
«Hai un buon profumo, straniera» disse allora con voce affilata e contemporaneamente vellutata, prendendo la mia mano ferita, portandosi il dito incerottato accanto alle narici, dilatandole per inalare il mio odore.
Mi pietrificai, supponendo che questa rientrasse nelle peggiori delle categorie di maniaci. Lottai contro quel sortilegio che mi aveva bloccato i muscoli, ritraendo con irruenza la mano, scansandomi. Dovevo combattere e vincere, ad ogni costo.
Mi rivolse un ghigno compiaciuto, era come se i miei tentativi di resistenza lo divertissero. Fu in quel momento che notai i suoi canini: sembravano lunghi e affilati, proprio come quelli dei vampiri, proprio come quelli di Li-kun nel mio sogno, ma non poteva essere…. Loro non erano reali, solo frutto della fervida fantasia di scrittori che trovavano gusto nel macabro e l’occulto. Mere immagini astratte che non potevano certamente concretizzarsi nella realtà. Non nella mia realtà.
Per un istante mi chiesi se non fosse una di quelle entità che vedeva Touya e tentavano di approcciarsi a me perché era il mio stesso sangue a richiamarle. Ragionai però sul fatto che questa la vedevo, quindi non poteva trattarsi di un fantasma….
“Onii-chan… cosa faccio? Cosa faccio?!”
Seguendo l’istinto provai a scappare, non guardando neppure mentre attraversavo la strada, sentendo unicamente i palpiti furiosi, rimbombanti del mio cuore e il mio respiro affannato, sull’orlo di un attacco di panico. Una piccola parte di me, conscia che mi trovavo nei pressi della foresta, pregò che accorresse quel lupo a salvarmi. Chiusi gli occhi, trattenendo le lacrime, finché non udii un tonfo sordo. Pensai che lo sconosciuto fosse stato investito da un’auto, era il suono di qualcosa che veniva colpito e spinto via con violenza, in seguito ad un potente impatto, ma quando mi voltai non c’era assolutamente niente. E nessuno. Aguzzai la vista per fendere la nebbia che andava alzandosi, approfittando di quel momento. Accelerai diretta verso casa e per quando raggiunsi il cancello avevo il fiatone. Qui mi scontrai con qualcuno e gridai con quanta aria mi era rimasta in corpo, ma fortunatamente riconobbi subito la voce che mi chiamava.
«Tomoyo-chan!» esclamai sollevata, gettandomi tra le sue braccia in cerca di conforto, piagnucolando. «Grazie al cielo!»
«Sakura-chan, cos’è successo? Sei sconvolta!» Allarmata mi guidò all’interno, cingendomi con un braccio.
«Non puoi immaginare.» Tirai su col naso, asciugandomi rapidamente le lacrime mentre entravamo.
Le spiegai brevemente l’accaduto e lei mi strinse maggiormente a sé, carezzandomi i capelli come avrebbe fatto una madre. A quel punto crollai e con me il mio mondo, in un cupo dirupo di timori.










 
Angolino autrice:
Buongiorno e - anche se in super-ritardo - buon anno nuovo!
Chiedo veramente scusa per la lunga assenza, ma l'università non mi ha dato pace (sicuramente da marzo sarà di nuovo così, quindi spero possiate perdonarmi se mancherò nuovamente di aggiornare per un lungo periodo).
Finalmente mi sono ritagliata un po' di tempo per pubblicare il continuo, anche se mi rendo conto che sia un capitolo un tantino... creepy
Di parole straniere c'è solo "onii-chan", ossia "fratellone", ma dato che vado un po' di fretta potrebbe essermi sfuggito qualcosa, quindi se ci sono domande chiedete pure!
Un bacio e buon appetito :3

P.S.: Ringrazio chiunque non mi abbia ancora abbandonata TwT Vi farò una statua per la vostra infinita pazienza.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Qualcosa senza nome


           
Nei giorni successivi cercai con tutte le mie forze di non pensare più a quella brutta esperienza, mettendola momentaneamente da parte; d’altronde non era successo effettivamente niente, quindi dovevo lasciare che ansia, agitazioni e paure mi scivolassero addosso, senza sconvolgermi totalmente la vita. Ciononostante ci impiegavo più tempo del previsto ad addormentarmi e quando finalmente ci riuscivo non erano mai sogni tranquilli. Dormii per giorni consecutivi rannicchiata in una posizione talmente rigida che quando al mattino mi svegliavo definitivamente e mi alzavo mi facevano male tutti gli arti, come se non avessi riposato affatto.
Oltre a ciò non mi sentivo serena all’idea di uscire dopo il calar del sole, e il fatto che mi guardassi perennemente intorno e mi controllassi le spalle ogni volta che ero fuori casa poteva tradirmi e far capire che la mia calma era puramente apparente. Ero arrivata ad un punto in cui ogni volta che incrociavo lo sguardo di qualcuno che non conoscevo vi davo le spalle, fuggendo nella direzione opposta, diffidando di chiunque, pregando mentalmente che tale persona non decidesse di seguirmi e incutermi maggiore paura. Come se non ne stessi accumulando già troppa.
Per fortuna, comunque, dopo aver scoperto l’accaduto Eriol-kun e Tomoyo-chan si assicurarono di non lasciarmi più sola e quando ero in compagnia dei miei amici era abbastanza semplice calmarmi, anche perché le ragazze, non sapendone nulla, mi distraevano con le loro felici e spensierate chiacchiere – le quali riguardavano prettamente i preparativi per il compleanno di Naoko-chan.
Inoltre, in quegli stessi giorni venne organizzata dalla scuola una gita in montagna per novembre, che si sarebbe tenuta proprio la settimana successiva al festival della cultura. Solitamente simili viaggi venivano pianificati durante il periodo invernale, ma qui ciò non era molto attuabile considerate le temperature – a meno che l’intenzione non fosse quella di congelare tutti gli studenti, che già ne erano pochi. Ci vennero quindi consegnati i moduli da far firmare ai nostri genitori e io mi domandai come potessi fare a partecipare senza papà che potesse approvare.
Rivolsi quella questione a Tomoyo-chan ed Eriol-kun, soprattutto perché pensavo si trovassero nella mia stessa situazione essendo soli, ma a differenza mia loro non si posero alcun problema perché non avevano intenzione di prenderne parte.
«Perché no?» domandai un po’ delusa. Sarebbe stato bello stare tutti insieme una volta tanto.
«La organizzano ogni anno, ormai abbiamo visto e vissuto tutto di quel posto» spiegò mia cugina, con un piccolo sorriso. «Le tue amiche verranno?»
Annuii in conferma.
«A quanto ho capito parteciperà tutta la classe.»
«Oh? Anche Syaoran?» si sorprese Eriol-kun.
Mi strinsi nelle spalle, incerta. Ad essere sincera non ne avevo idea. Chissà se sarebbe venuto…. Pensare che non ci eravamo neppure più rivolti la parola dopo lunedì….
«Voi lo conoscete meglio di me, dovreste saperlo» borbottai, un po’ risentita per il fatto che non mi avessero detto subito che erano amici.
«Io lo conosco solo da tre anni» replicò Tomoyo-chan, «è Eriol a conoscerlo da quando erano bambini.»
Sgranai gli occhi dinanzi a quell’informazione.
«Siete amici di infanzia?»
«Sì e no» ridacchiò, mettendosi più comodo in poltrona. «Ero un po’ come un fratello maggiore, l’ennesimo.»
«Hoe? Ha fratelli più grandi?»
«Solo quattro sorelle più grandi» negò, sorridendomi furbo. «Sakura-san, ho notato che provi un interesse particolare nei suoi confronti.»
Tomoyo-chan gli rivolse un’occhiataccia che finse di non vedere mentre io avvampavo dalla testa ai piedi, non sapendo che dire.
«È perché… alcuni suoi comportamenti mi sembrano inspiegabili…»
Sfuggii dal suo sguardo, ripensando all’ultima occasione in cui ci eravamo parlati. Che atteggiamento assurdo.
«Lo consideri come un enigma da risolvere?» provò a venirmi incontro, suggerendomi lui le parole da usare.
«Parzialmente.»
«Sarà anche colpa del suo fascino» rimuginò tra sé.
Mia cugina, a questo, mise su un adorabile broncio, fingendosi offesa: «E noi non siamo affascinanti?»
Mi feci sfuggire una risata, ribattendo: «Voi tre siete le persone più affascinanti che io abbia mai avuto l’onore di conoscere.»
Sembrava che Tomoyo-chan volesse sentirsi dire proprio quello perché esultò vistosamente, alzandosi per piroettare, accendendo poi inaspettatamente la videocamera e puntandomela in faccia.
«Per me, però, resti tu la persona più bella, elegante e affascinante che io abbia mai conosciuto.»
Detto da una dea come lei sembrava un ironico controsenso, ma la conoscevo abbastanza per capire che fosse sincera.
Tentai di non pensare all’imbarazzo provocato dal suo complimento e dall’obbiettivo a poca distanza dal mio naso, tornando invece sul mio problema.
«Comunque, papà non può di certo firmarmelo dall’Egitto» sospirai sconsolata, sventolando il foglio.
«Se mi dai il permesso posso firmartelo io.»
«Tu?» ripetei sbigottita, guardando Eriol-kun.
«Non col mio nome, naturalmente, fingiamo che tu abbia un tutore.»
«Eh?! M-ma, e se scoprono che non è vero? Passeremmo dei guai!»
«Non lo scopriranno» garantì ammiccante, prendendo una penna piuma, intingendola in un antico e sofisticato calamaio d’ottone e firmando prima ancora che io riuscissi a reagire in alcun modo per impedirglielo. Sbiancai, come quel foglio di carta. Ormai era fatta.
Me lo porse e io lo voltai nella mia direzione, leggendo ad alta voce il nome tracciato con quella scrittura elegante: «Clow… Reed?»
«Un mio antenato» spiegò brevemente, allungandosi in avanti, intrecciando le mani sulle ginocchia, sorridendomi sicuro di se stesso. Nei suoi occhi leggevo persuasione. «Stai tranquilla, non ti diranno nulla. E non dovrai neppure giustificarti, ci penseremo noi a convincerli.»
Rinunciai all’obiettare in alcun modo, accettando il foglio.
Il giorno successivo, quando effettivamente lo consegnai, la docente non si espresse in alcun modo, pur notando sicuramente il cognome diverso dal mio. Non ne parve neppure turbata. Eriol-kun era veramente velocissimo ad agire.
Mi accomodai risollevata e, prima di sedermi del tutto, rivolsi uno sguardo di sbieco a Li-kun, trovandolo a fissarmi. Ero ingenua, certo, ma fino a un certo punto. Ultimamente mi guardava spessissimo: cominciava da quando entrava in classe, seguitava per tutte le ore successive e finiva solo quando dovevamo andarcene, al punto che si attardava dietro di me, quasi a volersi assicurare che me ne andassi per prima. Era come se mi tenesse d’occhio, ma non in senso negativo. Era quasi come se… come se volesse controllarmi per proteggermi, assicurandosi che non mi accadesse nulla.  
Ciononostante continuava a non rivolgermi la parola, finché un giorno quella situazione apparentemente inestricabile non prese una svolta quando, con mia grande sorpresa, mi venne in aiuto di sua spontanea volontà.
Quel giovedì durante l’ora di matematica venimmo chiamati entrambi alla lavagna per risolvere due equazioni e io dentro di me già piangevo scoraggiata, consapevole che avrei fatto una grande figuraccia, soprattutto se dovevamo mettere a confronto le nostre discrepanti abilità: mentre lui prendeva cinque in quella materia, il massimo per me era un due dato senz’altro per pietà. Sapevo già che sarebbe stata una catastrofe, quanto più guardavo la formula tanto più numeri e incognite mi vorticavano davanti agli occhi e il risultato diveniva sempre più difficile da afferrare. Fu allora che mi stupì: sebbene normalmente lui ci avrebbe impiegato meno di un minuto a trovarne il risultato rallentò a metà procedimento, notando forse quanto fossi in alto mare, al che sottovoce mi sussurrò cosa scrivere, controllando i miei procedimenti con la coda dell’occhio.
E quella non fu l’unica occasione: il giorno successivo mi venne chiesto di leggere un testo in inglese ad alta voce. Nelle lingue straniere non ero mai stata un genio e la mia pronuncia non era di certo tra le migliori; avendolo notato lui cominciò a pronunciare le parole dietro di me, suggerendomele, ed io le seguii ripetendole come meglio ero in grado.
Continuò ad aiutarmi in entrambe le materie, forse capendo quanto fossi una capra, e usava in quelle situazioni una tonalità bassissima, quasi inudibile, che chissà come riuscivo a capire. Era come se quelle parole le mormorasse direttamente nella mia testa, affinché soltanto io potessi sentirlo.
Ciò mi rese felicissima, anche perché dalla settimana seguente prese ad aiutarmi in tutti i momenti di bisogno, venendo incontro alle mie difficoltà e sollevandomi da compiti sia mentali che fisici. Ad esempio, capitava che se mi veniva chiesto di portare una pila di documenti da un docente lui si sostituiva a me, quasi non voleva facessi sforzi inutili. In quel caso mi dispiaceva che si facesse tanto carico di tutto, soprattutto perché se veramente aveva una salute cagionevole era lui che doveva stare quanto più a riposo possibile. Non dimenticavo di certo i due giorni in cui si era sentito male in classe. Quindi spesso rifiutavo, e per fare tutto questo avevamo ricominciato a parlare normalmente, quasi non fosse successo niente e non ci fosse stato alcun disagio tra di noi.
In tal modo cominciò ad uscire fuori la sua gentilezza, manifestandosi in quei piccoli, preziosi gesti che mi regalava quotidianamente. Ciononostante continuavo a sembrare l’unica a vederla: gli altri parevano non accorgersene e io non sapevo più che fare affinché potessero accettare tutti Li Syaoran, così com’era. Perché, per me, poco alla volta si stava rivelando una persona fantastica; bisognava soltanto scavare un po’ sotto la superficie, ma con la dose giusta di perseveranza e pazienza non era impossibile. Se io ero riuscita a farlo sciogliere almeno un minimo in mia presenza, ero certa che potesse esserne in grado chiunque. E sarebbe stato realmente bello se gli altri studenti avessero smesso di evitarlo e temerlo, cosicché avesse potuto trovare anche lui degli amici.   
Quando ne parlai con le mie nuove amiche loro mi ascoltarono fino a che non ebbi finito di esternare totalmente quel pensiero. Parzialmente mi compresero e mi assecondarono, ma poi mi posero dinanzi ad un quesito cui non riuscii a rispondere con concretezza: «Sakura-chan, tutto questo interesse per lui da cosa ha origine?»
Da cosa aveva origine? Anche io me lo chiedevo spesso e sembravo non trovare mai una vera e propria risposta.
Da un po’ di tempo avevo cominciato io stessa ad interrogarmi a riguardo, supponendo come sempre che fosse spinto unicamente dalla mia curiosità perenne. Ma era davvero soltanto curiosità? Lui, per me, era davvero soltanto un enigma da risolvere? Una persona che volevo conoscere in ogni suo aspetto per comprenderla e divenire sua amica? Mi bastava quello? O forse c’era dell’altro dietro?
Dopo che anche le ragazze misero in dubbio le mie intenzioni iniziai a dubitare ancora più di ciò che mi spingeva verso di lui e della ragione alla base di ogni mio proposito, soprattutto a causa delle allusioni che tutti facevano. Ero certamente famosa per essere tonta, ma sapevo di non essere tarda. L’istinto era una delle mie più grandi doti, ma se lo avessi seguito, se lo avessi ascoltato… mi avrebbe dato un responso non completamente esauriente. Un responso che, in parte, mi faceva paura.
Il momento in cui presi a riempire i miei pensieri di quella possibilità fu quando ricordai la predizione fatta dalle carte: il risultato di tutto sarebbe stato l’amore.
Era inutile che provassi a fingermi esperta, perché sapevo di non conoscere affatto l’amore. Non avevo alcuna idea di cosa fosse, di come sbocciasse, di quale fosse la maniera per riconoscere il nascere della scintilla che avrebbe acceso quel sentimento…. Perché era così che funzionava, no? Nelle storie d’amore lette, viste e sentite accadeva sempre qualcosa di magico: una sorta di legame intrecciato di sogni veniva ad instaurarsi tra due persone e, eventualmente, entrambe se ne accorgevano. Una delle due si sarebbe dichiarata e se tutto andava bene ed era corrisposta si finiva insieme. Ma l’amore poteva mai essere un meccanismo così semplice?
No, non credevo. Quel vocabolo sembrava portare molto più in sé, un significato più intrinseco e profondo e, soprattutto, complesso.
Fino ad allora non avevo vissuto alcuna esperienza simile, escludendo quell’infatuazione avuta in passato nei confronti di Yukito-san…. Ma no, quella non osavo classificarla come amore. E se invece fosse stato così? Se quella era una delle tante forme dell’amore, come dovevo prenderla? Ciò che provavo per Li-kun non era la stessa cosa, per niente, e in tal caso era assolutamente da escludere che l’amore che mi aspettava s’incarnasse in lui.
Eppure, c’era una vocina nella mia testa che mi diceva che non potevano essere soltanto la mia gratitudine ed estroversione a spingermi tanto verso di lui. A farmi desiderare tanto di parlare con lui, di ascoltare la sua voce, di vedere il suo viso quasi sempre inespressivo e cercare di leggere oltre esso. A farmi agognare il raggiungimento di quel che nascondeva sotto la superficie, come mai avevo fatto prima, per carpire ciò che si celava nel suo cuore.
Lui era una grande prova, forse la più difficile per una sempliciotta come me. Ma era anche qualcos’altro: qualcosa a cui non riuscivo a dare un nome.  










 
Angolino autrice:
Ta-dan, due aggiornamenti di fila, sperando di farmi perdonare! A parte ciò, devo realmente approfittare di ogni giorno libero e dovevo anche cancellare un po' l'ansia apportata dal precedente capitolo.
Qui ho solo due piccole cose da spiegare: il festival della cultura si tiene i primi giorni di novembre (lo vedrete meglio più avanti) e i voti in Giappone - sulla base dei centesimi - vanno da 1 (che è il minimo, diciamo da 0 a 59) a 5 (che è il massimo, tra 90-100). Quindi il 2 di Sakura sarebbe tra i 60-69 (la nostra sufficienza, insomma). Se non è chiaro posso spiegarvelo meglio in privato, basta che me lo dite :3 
E con questo vi saluto, avvisandovi già da adesso che domani sicuramente non potrò aggiornare, ma cercherò di farlo il prima possibile. 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Festeggiamenti

 
           
Per il compleanno di Naoko-chan, come previsto, andammo in una caffetteria a cenare a base di dolci. Eravamo soltanto noi cinque del nostro gruppetto e ognuno di noi scelse un tipo di torta diversa, così che potessimo assaggiarcele a vicenda, accompagnandole con del tè caldo: io ne presi una fetta al cacao composta da tre strati di pan di spagna intervallati da panna, Chiharu-chan ordinò una crostata all’arancia e nocciole, Yamazaki-kun un ciambellone alle arachidi, Rika-chan un soufflé di castagne e la festeggiata una morbida torta alla zucca con gocce di cioccolato.
Quella sera Naoko-chan era bellissima: indossava una camicetta con colletto alto d’una calda tonalità di arancio a maniche lunghe, su una gonna rossa con fantasia a scacchi che le arrivava alle ginocchia, calze scure e Vans dal colore bruciato, che richiamavano la stessa fantasia della gonna. Chiharu-chan indossava un vestitino stretto in vita da una fascia velata color giallo canarino, fatto d’un tessuto con un pattern floreale molto solare ed estivo, venendo a contrastare con la stagione – sebbene fosse pur sempre a maniche lunghe. Rika-chan, invece, aveva un che di sofisticato, col suo abitino di un celeste pallido, più corto sul davanti rispetto al retro, il cui tessuto mi sembrava tulle. Anche Yamazaki-kun era abbastanza elegante, nonostante fosse vestito con un semplice e comodo jeans blu acceso e Converse della stessa fattura, cui aveva abbinato una camicia con scollo alla coreana di una tinta neutra.
I capelli delle ragazze erano tutti raccolti in acconciature poco elaborate, mentre con me mia cugina si era divertita a mettere in atto tutto il suo talento non solo come stilista, ma anche come acconciatrice, facendosi aiutare da due cameriere mentre realizzava il suo operato. Così mi aveva alzato i capelli in due trecce riuscendo in qualche modo a prendermi la maggior parte delle corte ciocche, arricciando col ferro quelle che restavano sciolte, truccandomi leggermente in viso, e mi aveva cucito apposta per l’occasione un abito lungo fino al ginocchio, dallo scollo a barca arricciato con un elastico – lasciandomi quindi scoperte le spalle – e le maniche lunghe rigonfie. Esso era bianco crema fino alla vita, da cui si apriva un’ampia gonna liscia piena di organza sotto per essere gonfia, sulla cui stoffa sembravano essere direttamente dipinti ciliegi – non escludevo che potesse averli disegnati davvero lei, viste le sue doti artistiche –, mentre in vita c’era un nastro nero legato in un fiocco sul davanti.
A detta sua e di Eriol-kun sembravo una bambolina. Non potevo dire di sentirmi propriamente a mio agio, non essendo abituata ad indossare abiti tanto… belli. Più adatti ad una principessa che a me, che solitamente mi vestivo da maschiaccio – il che era piuttosto inevitabile dopo aver vissuto esclusivamente con due uomini per circa sedici anni e considerando che fino a un certo periodo rubavo, letteralmente, le maglie di mio fratello, trovandole comodissime nella loro ampiezza e larghezza. Ciononostante sembravo aver sviluppato da sola una certa femminilità, caratteristica che mio padre elogiava spesso visto che era ciò che mi faceva somigliare maggiormente a mia madre, la quale la si poteva ben considerare come il prototipo della donna ideale. Era un angelo sceso in Terra lei, con la sua bellezza serafica.
Fatto sta che ricevetti molti complimenti dalle mie amiche, le quali mi consigliarono di vestirmi più spesso con abiti tanto delicati e morbidi, poiché a loro detta mi donavano. Se Tomoyo-chan le avesse sentite avrebbe fatto le capriole, sia per l’orgoglio che per la felicità. Dovevo riferirglielo una volta tornata a casa.
Restammo nel locale per quattro ore buone, cantando anche al karaoke che era lì installato, finendo col coinvolgere con nostro grande piacere anche gli altri clienti, al punto che tutti fecero gli auguri a Naoko-chan quando giunse il momento di soffiare sulle candeline. Subito di seguito le demmo i nostri regali. Eravamo andati tutti sul sicuro acquistando un libro – naturalmente ci eravamo messi d’accordo per non rischiare di comprare tutti lo stesso – e ad esso Chiharu-chan e Yamazaki-kun, che l’avevano fatto in coppia, allegarono un cofanetto con dodici segnalibri, uno per ogni mese dell’anno con caratteristiche stagionali. Parve apprezzare tutto perché quando ci ringraziò aveva gli occhi lucidi per la commozione.
Dopo un altro giro di canto uscimmo dalla bakery e ci salutammo, ognuno incamminandosi per la sua strada. Purtroppo dovevo andarmene da sola verso la tangenziale, visto che nessun altro abitava in quella direzione, per cui dopo che voltai loro le spalle accelerai il passo, mettendomi le cuffie nelle orecchie, svuotando la mente. Mi strinsi nel cappotto, notando che facesse più freddo del previsto, e per non vedere ombre dove neppure c’erano mi distrassi, canticchiando silenziosamente quel che ascoltavo. Sulla strada principale, tuttavia, inciampai e per poco non sarei caduta oltre il marciapiede se non fossi stata afferrata al volo.
Mi voltai verso il mio ignoto salvatore, sgranando occhi e labbra per l’incredulità. Tolsi le cuffie, esclamando contenta: «Li-kun!»
«Kinomoto» ricambiò il saluto, rivolgendomi un’occhiata di rimprovero. «Sempre con la testa tra le nuvole, eh?»
Gonfiai le guance, riponendo gli auricolari in borsa. «Ma no, ascoltavo la musica.»
«Senza guardare dove mettevi i piedi.»
«Che ne sapevo che ci sarebbe stata una pietra nel mio percorso.» Alzai gli occhi al cielo, passandovi attorno e superandola, guardandolo poi soddisfatta allargando le braccia. «Ta-dan, non sono caduta!»
Lui scosse il capo, trattenendo un sorriso, ma non lo scherno nella voce. «Sei assurda.»
«Da quale pulpito» borbottai.
Non replicò nulla, semplicemente mi affiancò, avviandosi verso casa di Tomoyo-chan.
«Hoe? Stavi venendo da noi?»
«No, tornavo a casa» negò, guardando dritto davanti a sé.
«Anche tu abiti qui?!» Ero sconvolta. Possibile che non mi fossi mai accorta che facevamo lo stesso percorso per rincasare?
«Non esattamente. Abito nella foresta.»
Le sue risposte erano costantemente secche e imprecise, il che mi induceva a ficcanasare solo di più.
«Hai una casa nel bosco? Meraviglioso! Mi piacerebbe tanto vederla!» mi illuminai, immaginandomi quanto potesse essere bella.
«Non ti perdi nulla.»
«Invece scommetto che è stupenda! La condividi con le tue sorelle e i tuoi genitori?»
Mi fulminò guardandomi di sbieco, contrariato.
«Come fai a sapere che ho sorelle?»
«Me l’ha detto Eriol-kun.»
Si arrestò, fissando truce la casa di mia cugina che si intravedeva da lì, per poi rivolgermi un’occhiata che osavo definire impermalita.
«Spero non ti abbia raccontato troppo di me.»
«No, resti un grande mistero» lo rassicurai ridacchiando, guardando a destra e sinistra per accertarmi che non venissero macchine prima di attraversare.
Lo percepii a poca distanza, continuava a sembrare seccato dalla cosa.
«Non dovevo saperlo?» domandai dispiaciuta.
«Non vedo come possa esserti utile come informazione.»
«Non capisco cosa intendi.»
A volte parlare con lui mi mandava in un labirinto di confusione di cui avevo difficoltà a trovare via d’uscita.
«A che ti serve sapere che ho quattro sorelle?» sbottò piccato.
«A capire meglio che tipo di persona sei.»
Si fermò di nuovo sotto un lampione, alzando un sopracciglio. Stava per replicare qualcosa, ma poi parve ripensarci. Era una cosa che faceva spesso con me, il che in parte mi lasciava insoddisfatta. Avrei voluto conoscere tutti i suoi pensieri, sempre.
Sorprendentemente, in mezzo al silenzio, allungò una mano verso la mia sciarpa, alzandomela fin sopra il naso con aria burbera. Chissà che non fosse per mettermi a tacere.
«Copriti bene o prendi freddo» borbottò, voltandomi le spalle.
Fui spiazzata da quella gentilezza inaspettata, ma il mio cuore parve riempirsi di un sentimento caldissimo, palpitando pieno di emozione. No, non poteva essere soltanto riconoscenza quella. Mi affrettai a raggiungerlo, sorridendo tra me, lieta che lui non potesse vedermi.
Proseguimmo in silenzio finché non giungemmo dinanzi al cancello di casa Daidouji. Qui mi si pose di fronte e, sfruttando la luce fioca che giungeva dalla lanterna bianca sulla colonna accanto all’inferriata, mi scrutò da capo a piedi. Mi sentii arrossire dinanzi all’intensità di quello sguardo, soprattutto perché era come se, in qualche modo, riuscisse a vedermi al di sotto del cappotto, scoprendo il vestitino che portavo. Incrociai le braccia, ritraendomi dalla sua vista, imbarazzata.
Lui parve accorgersene solo allora perché guardò altrove, rimbrottandomi: «Non dovresti uscire da sola di notte, è rischioso. Non sai mai chi puoi incontrare.»
Sorrisi sbilenca, considerando che il mio spiacevole incontro era già avvenuto. Ma era meglio che lui non lo sapesse.
«Grazie per la tua premura.»
Mi inchinai di poco e lui mi fece solo un cenno di saluto con la mano, prima di augurarmi la buonanotte e andarsene senza aggiungere altro. Senza voltarsi indietro. Svanendo nell’ombra in men che non si dica.
Una volta rientrata non c’era bisogno che parlassi dell’incontro avvenuto casualmente con Li-kun, visto che per qualche ragione Eriol-kun sembrava già saperlo. Mi chiesi se lui e mia cugina non ci avessero spiato da una qualche videocamera nascosta, dato che entrambi mi fronteggiarono non appena misi piede oltre la soglia; con entusiasmo mi spinsero fino al salone, indagando sul dove ci fossimo incontrati, se ci fossimo dati appuntamento per vederci e proseguendo su questa linea, ma quando sfatai le loro supposizioni essi elogiarono a lungo il suo altruismo nel decidere di accompagnarmi fino a casa. In realtà, non li capivo. A volte sembravano contrariati all’idea che io potessi provare un qualsiasi tipo di attrazione nei confronti di Li-kun, altre volte invece pareva che la cosa li deliziasse. Ero certa che, una volta resi chiari i miei sentimenti, nel caso in cui avessi scoperto di essere sul serio innamorata di lui – per quanto il mero pensiero ipotetico mi facesse desiderare di sprofondare dalla vergogna – loro mi avrebbero sostenuta con tutti se stessi. Ciononostante mi davano l’idea che in parte si sforzassero di appoggiarmi, quasi fossero combattuti se fosse la cosa giusta o meno da fare.
«Forse si sarà preoccupato e avrà deciso di accompagnarti per non farti tornare da sola» meditò Tomoyo-chan quando scemò la sua eccitazione.
«In effetti mi è sembrato abbastanza apprensivo. Sono comuni gli incidenti in questo paesino?» mi informai, impensierita.
«Non esattamente, ma quando arrivano stranieri non si sa mai che intenzioni hanno.»
Tacqui, capendo quel discorso. Sapevo bene che nel mondo non c’erano solo oro e meraviglie, onii-chan mi aveva istruita a sufficienza a riguardo, soprattutto nei mesi che avevano preceduto il suo trasferimento all’estero.
«Però lui non sa cos’è successo» obiettai, al che entrambi si scambiarono un’occhiata colpevole. «… Vero?»
Eriol-kun sorrise appena, ammettendo: «Quella sera uscii per parlargli.»
«Perché?» domandai sconvolta, spiazzata.
«Questo non posso dirtelo.»
Scosse il capo, alzandosi per augurarci la buonanotte e andandosene, non degnandomi di risposta.
«Tomoyo-chan -» Provai con lei, ma mia cugina mi stroncò prima ancora che formulassi qualsiasi frase, spostando la nostra attenzione altrove.
Si alzò con eleganza per porsi davanti a me, congiungendo le mani in preghiera.
«Sakura-chan, non so se ti hanno già detto che ogni anno per Halloween si fa una parata in paese. Posso realizzare anche il tuo abito?»
Sospirai rassegnata, sapendo che non sarebbe servito a nulla rifiutare, avrebbe insistito fino a farmi cambiare idea.
«No, non lo sapevo, ma d’accordo» approvai, ricevendo in risposta due sfere d’ametista luccicanti di lieto fervore.
«Evviva!» esclamò raggiante, sprizzando felicità da tutti i pori. «Vedrai, sarai la più bella in assoluto!»
Ammiccò e io risi, informandomi: «Hai già qualche idea su che costume fare?»
Ci pensò su, portandosi un indice al mento.
«Mmh… Ci sarebbero sette opzioni per ora.»
«Già così tante?!»
«Strega occidentale, cappuccetto rosso, zucca, maga, angelo, gatto o principessa goth» elencò sulle dita. Rise brevemente dinanzi al mio tacito stupore, proponendo poi: «Oppure preferisci fare gruppo con noi?»
«Con voi?»
«Me, Eriol, Li-kun, le sue sorelle e Meiling-chan.»
«Vi travestite ogni anno?» domandai sorpresa, riflettendo intanto sul quanto dovessero andare d’accordo se addirittura si vestivano tutti facendo gruppo.
«Sì.»
«Da cosa?»
«Vampiri» sogghignò e io fui attraversata da un inspiegabile brivido, cui lei parve non fare caso, essendo totalmente persa nella sua immaginazione dalle tinte dark. «Tu saresti la regina delle tenebre, la più elegante dei dannati, di una bellezza immortale, intaccabile, letale. La gente cadrebbe ai tuoi piedi.»
Ridacchiai, sebbene quelle sue fantasie le trovassi un po’ macabre e grottesche, ma se ci teneva tanto….
«Va bene» accettai. «Rendimi una vampira.»
I suoi occhi si accesero d’eccitazione più di prima e cominciò a saltellare sul posto, congedandosi immediatamente per iniziare a lavorare su qualche bozza.
Lasciata sola, ci pensai su. Più tempo passava, più mi convincevo che, dopotutto, quel sogno che feci non era altro che un innocuo messaggio per il futuro.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Emozioni

 
           
Da circa metà ottobre a scuola non si faceva altro che parlare dell’imminente festival della cultura. Come in tutti i licei esso veniva considerato uno degli eventi più importanti del calendario scolastico, in cui mostrare la propria eccellenza e competere con le altre classi e, per quanto fossero esigui gli studenti, anche qui ben presto l’aria si impregnò del fuoco della competizione.
Ciascuna delle poche classi che componeva l’istituto voleva raggiungere alti traguardi, proponendo idee originali per dimostrare chi fosse il migliore. Non che ci fosse un premio da vincere, eccetto il riconoscimento da parte del preside e una piccola coccarda con un fiocco di neve dal colore vermiglio, che a quanto m’era parso di capire era il simbolo del paese.
Si fece quindi ben presto un sondaggio per vedere cosa avremmo dovuto organizzare noi della nostra classe e, dato che si teneva soltanto tre giorni dopo Halloween, con ogni proposta si decise di rimanere in tema.
Quel periodo era terribile, il peggiore dell’anno per una fifona come me, ma fortunatamente contro la casa dei fantasmi e il labirinto col cimitero degli zombie ottenne la maggioranza la mia proposta, ossia quella di fare una specie di maid café, indossando però come divise abiti gothic lolita.
Una volta ottenuta l’approvazione dal professore in carica della classe cominciammo a dividerci i compiti, mettendoci d’accordo sul quando potessimo restare per allestire tutto in base alla nostra disponibilità. Così quelle ultime due settimane del mese trascorsero in fretta tra la realizzazione di cartelli da affiggere, volantini da consegnare e di uno striscione da appendere sulla porta col nome del café, “Bloody Flower”. Di questo creammo l’insegna su carta ingiallita, attaccandola su del cartoncino dopo averne bruciato i contorni con un accendino, e ne decorammo la scritta con fiori e rose dipinte in modo tale da sembrare insanguinate, con gocce che cadevano dai petali di esse e macchie nelle zone vuote.
Riguardo all’allestimento, decidemmo che avremmo sfruttato un banchetto come bancone adibito al pagamento, mentre avremmo messo alcuni banchi in fila con la cattedra per cucinare le nostre pietanze “dark” (che prevedevano muffin, cupcake, stuzzichini spaventevoli e bevande colorate). I banchi che avanzavano li avremmo invece usati come tavolini con le sedie. Cucimmo le tovaglie e i fazzoletti sfruttando delle stoffe usate che non utilizzavamo più ornandole di pizzo – per questo a casa mi feci dare una mano da Tomoyo-chan, la quale si offrì generosamente di cucire la divisa per tutti –, scrivemmo i menù a computer con un font elegante – naturalmente nero – su carta scarlatta e li stampammo facendone una decina di copie, creammo decorazioni floreali di carta crespa e origami, alternandoli a veli e fiocchi da appendere al soffitto, accanto alle tende davanti alle finestre e sulle pareti. Naturalmente, il tutto rigorosamente sui toni del nero, blu, viola e rosso.
Ovviamente al mattino continuavamo con le lezioni e un po’ con la sua apertura, un po’ anche grazie a queste attività pomeridiane che mi permettevano di trascorrere più tempo con lui, mi sentivo sempre più vicina a Li-kun. Soltanto nella terza settimana del mese si assentò da scuola per qualche giorno, ma poi quando ritornò lo trovai abbastanza in forma.
Da allora prendemmo a conversare più a lungo, dovevo dire anche più facilmente, visto che rispondeva alle mie domande senza più mostrare molta ritrosia; in tal modo potei finalmente interrogarlo sul club di cui faceva parte, per scoprire che si era iscritto a quello di kendo. Come per quello di scacchi di cui era membro Eriol-kun non sapevo che esistesse e non avendone uno neppure nella mia precedente scuola, a Tomoeda, morivo dalla curiosità di vedere come fosse.
Per questa ragione io e Chiharu-chan – che a differenza mia conosceva meglio di me gli orari degli altri club – approfittammo di un giorno in cui lui aveva gli allenamenti per andare a dare una sbirciatina. Cercammo di non farci scoprire, affacciandoci appena dalla porta del dojo, e non appena lo adocchiammo entrambe restammo a bocca aperta. Nonostante l’armatura lo riconoscemmo subito, anche perché al suo passaggio gli altri ragazzi si lasciavano andare ad un lieve vociare – subendo diversi rimproveri dal loro sensei.
Li-kun camminava eretto, con un portamento fiero e rilassato, come se si trovasse totalmente a suo agio sotto tutti quegli strati di vestiti, come se non gli pesassero addosso, mostrando calma e tranquillità. Il suo viso, prima che indossasse l’elmo, era più disteso che mai. Certo, persisteva la sua tipica indifferenza, eppure c’era qualcosa che luccicava nelle sue iridi, lasciando intendere che quella situazione non gli dispiaceva.
Nonostante il suo sensei ci avesse scoperte ci permise di entrare, chiudendo un occhio, informandoci che quel giorno eravamo state abbastanza fortunate da avere l’opportunità di assistere ad una dimostrazione pratica di combattimento. Ci fece quindi appoggiare ad una parete adiacente all’ingresso, mentre promettevamo di restare in silenzio e non far rumore.
Per quanto mi riguardava poco mi importava degli altri, per cui mi concentrai unicamente sulla figura di Li-kun, soprattutto quando fu il suo turno. Nonostante non me ne intendessi, mi accorsi che riusciva a parare gli attacchi con maestria e ogni colpo inferto a quanto pareva andava a segno, perché sentivo il suo allenatore complimentarsi sottovoce accanto a noi, dichiarando ogni volta la sua vittoria. Gli fece affrontare diversi ragazzi per concludere col senpai, vincendo persino contro questi.
Quando si tolsero l’elmo quest’ultimo e il sensei si congratularono con lui, definendolo un talento puro. Lui si strinse semplicemente nelle spalle, senza ringraziare né replicare nulla, e solo allora voltò la testa, notandoci. Non appena i nostri occhi si trovarono lo salutai allegramente con la mano, mimando con le labbra un “Sei stato bravissimo”. Resse il mio sguardo per qualche secondo, aprendosi poi in un minuscolo, quasi invisibile sorriso, dandoci le spalle in maniera impacciata.
Dinanzi a tale reazione emisi un risolino, dopodiché ci congedammo, ringraziando il sensei per averci concesso di restare.
Mentre ce ne tornavamo in classe per finire i lavori Chiharu-chan rispose al mio entusiasmo con altrettanta eccitazione e stima, pungolandomi poi inspiegabilmente un fianco col gomito e guardandomi in una maniera allusiva che non riuscivo a decifrare. L’unica cosa che mi disse prima di rientrare in classe fu «È stata una reazione positiva», accompagnandola ad un occhiolino.
Non sapevo bene a cosa si riferisse, ma pensando che fosse un richiamo al suo breve sorriso non potei che darle ragione. Finalmente cominciava ad abbattere una parete alla volta, permettendo al vero se stesso di emergere.
Soltanto in seguito si venne a sapere che il senpai che aveva battuto era il miglior combattente all’interno del club, tanto che aveva vinto molte gare anche in altre città e all’estero, e la notizia fece parecchio scalpore, sebbene non molti si lasciarono meravigliare da ciò. Fui lieta di vedere che ci fossero studenti che avevano fiducia nelle sue capacità e credevano in lui, proprio come facevo io.
L’ammirazione che provavo nei suoi confronti divenne giorno dopo giorno sempre crescente, finché non raggiunse l’apice nel momento in cui, con mio grande stupore, lo sentii suonare al pianoforte. In realtà accadde totalmente per caso: stavo tornando dalla classe dopo aver ripreso le mie cose in seguito agli allenamenti quando, nello scendere le scale, udii una melodia morbida, calmante, tenue e… vuota. Vuota di qualsiasi emozione.
Curiosa come sempre di scoprire chi fosse a suonarla andai a ficcanasare nell’aula di musica e allora grande fu la sorpresa nel trovarlo seduto allo sgabello, mentre le sue dita scorrevano sulla tastiera quasi senza neppure toccarla, premendone i tasti con una leggerezza inumana. Ero sicura che chiunque altro ci avrebbe messo una maggiore pressione, mentre a lui quel poco sembrava essere sufficiente.
Senza voltarsi né riaprire gli occhi mi notò, richiamandomi.
«Perdonami, non volevo disturbarti» mi scusai immediatamente, temendo di potergli dare fastidio.
«Non disturbi.»
Rimasi sorpresa dinanzi alla calma e al tono carezzevole della sua voce.
Lasciai perdere gli indugi e mi feci coraggio. Presi un respiro profondo, prima di entrare nell’aula e andare direttamente ad appoggiarmi contro il muro. Chiusi gli occhi, ascoltandolo tacita per tutto il tempo, facendo oscillare un po’ la cartella seguendo quel ritmo leggero e cadenzato.
Quando finì e lo guardai lo trovai a fissarmi, con le mani congiunte in grembo.
«Sei eccezionale, lo sai?» sorrisi, onesta. Non avevo proprio idea che sapesse suonare anche uno strumento! Quanti talenti nascosti aveva?
«Non è nulla di straordinario.»
Si comportò come ogni volta, occupandosi dello spartito per sfuggire a quel complimento.
Mi avvicinai trattenendo un risolino e mi appoggiai al pianoforte nero, allungandomi a leggere il titolo al di sopra del foglio pentagrammato.
«In cosa ti stai esercitando?»
«Un brano che dovranno cantare i membri del club di coreutica per il festival. Ci sarà anche tua cugina.»
«L’hai dovuto inventare tu?» chiesi allora, spaparanzando gli occhi.
«Loro hanno inventato la canzone, quindi…»
Fece un gesto con la mano come a dire che si trattava di qualcosa di poco importante. Faceva sempre così, minimizzava ogni cosa che lo riguardava.
«Ma è incredibile!» Mi illuminai, saltellando intrepida. «Non vedo l’ora di sentirvi, scommetto che siete tutti bravissimi! Di cosa parla la canzone?»
«È una sorta di inno della scuola, improntato sulla positività, l’unione e la gentilezza» rispose atono, alzandosi.
Recuperò in fretta i fogli mettendoli in borsa e indossò il cappotto, avviandosi all’esterno. Mi affrettai ad affiancarlo meditabonda, mantenendo il suo passo con lo sguardo basso.
«Sputa il rospo.»
«Hoe?»
Alzai di scatto la testa, vedendo che mi guardava in attesa.
«Lo so che ti stai trattenendo dal fare qualche commento. Forza, dimmelo.»
Ma mi si leggeva in faccia quel che pensavo?!
«È che non vorrei…»
Esitai, facendomi piccina, chiudendomi in me stessa, mentre lo imitavo cambiandomi le scarpe; lui sospirò pesantemente, poggiandosi all’armadietto adiacente al mio.
«Non aver paura di ferirmi. Ti assicuro che sono inscalfibile.»
Risi per poco e chiusi l’armadietto, confessando non appena tornai seria: «D’accordo, sarò diretta. È che mi pare strano che debba esprimere tutto questo, perché sembrava abbastanza piatta quando l’hai suonata. Non mi spiego come possa essere così.»
Alzò un sopracciglio e io immediatamente avvampai, rimediando agitata: «N-non fraintendermi, non ti sto insultando, né svalutando! Al contrario, sei veramente, veramente bravissimo! Voglio solo dire che, essendo tu una persona molto altruista, mi è sembrato strano non percepirti...»
Sollevò gli occhi al cielo e se ne uscì, aprendo un ombrello nero piuttosto sobrio, non degnandomi di risposta.
«Lo so che non ci devi inserire te stesso» insistetti, raggiungendolo oltre il cancello col mio ombrello floreale rosa, facendolo roteare sotto la pioggerellina. «Ma è pur sempre una composizione tua…»
«Su linee guida che mi ha dato Ono-sensei» replicò imperturbabile.
«Lo so, però…  l’unica cosa che hai espresso di te è il nulla. E tu non sei il “nulla”.» Feci apposta le virgolette con due dita, seppure lui non fosse neppure rivolto nella mia direzione. Guardava dritto davanti a sé, camminando impettito, quasi le mie parole non lo scalfissero; eppure, una parte di me sentiva che stavo facendo breccia in quell’armatura che ancora si ostinava di indossare.
«E da cosa lo dedurresti?»
Fece un mezzo sorrisetto sardonico e di conseguenza mi arrestai, in attesa che anche lui si voltasse, per fronteggiarlo. Sollevai di poco l’ombrello per guardarlo, sperando capisse quanto fossi sincera.
«Dalla mia esperienza. Perché io ti sto conoscendo, anche se poco alla volta. Io riesco a vederti, Li-kun, e lo so che, anche se tendi a nasconderle, tu sei pieno di emozioni.»










 
Angolino autrice:
Eccomi tornata, con un capitolo un po' breve ma abbastanza importante (cercate di tenere a mente quello che viene detto qui per quando arriveremo più avanti).
Spiegazioni/traduzioni (molte cose probabilmente già le saprete, quindi scusatemi se ciò che dico è "ovvio", ma è meglio assicurarmi che sia tutto chiaro, visto che come avrete notato ho la tendenza ad usare parole e concetti stranieri): 
- il maid café è un tipo di caffetteria a tema dove le cameriere indossano divise di foggia vittoriana o francese, ricche quindi di merletti, pizzi e ovviamente grembiule.
- il gothic lolita è un tipo di abbigliamento che fonde la moda gotica a quella "da bambolina".
- bloody flower significa "fiore insanguinato". Questo dettaglio apparentemente insignificante tenetelo a mente (consiglio di ricordare anche il "simbolo" del paese, a tempo debito tutto diventerà chiaro).
- l'origami è "l'arte di piegare la carta", che consiste nell'assegnare varie forme alla carta piegandola seguendo determinati passaggi. 
- il kendo è un'arte marziale, letteralmente significa "la via della spada", ed è un'evoluzione del combattimento con la katana dei samurai. Naturalmente non si usano spade vere, bensì una versione di esse fatte con canne di bambù, chiamate "shinai". Si indossa come avete letto un'armatura protettiva ("bogu"), ma dato che è difficile farvi capire a parole com'è fatta per chi non ce l'ha presente sarebbe meglio se cercasse qualche immagine.
- il dojo è il luogo in cui si svolgono gli allenamenti di arti marziali. 
- sensei significa professore/maestro, e indicando "una persona che insegna qualcosa" può essere usato in questo caso anche per l'allenatore.
- senpai è lo studente "più grande", nella storia ad esempio Tomoyo ed Eriol, trovandosi al terzo anno, sono i senpai di tutti gli altri (che stanno al secondo anno). Ricordo che in Giappone il liceo dura tre anni. 
Detto ciò, svanisco e vi auguro buona giornata. 
Grazie a chi legge e chi mi lascia un pensiero! :3

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Notte di Halloween


 
La sera prima della parata rimasi sbigottita quando misi piede nel salone, ritrovandomi dinanzi le quattro donne viste al matsuri, la cugina di Li-kun e lui stesso, comodamente seduti ad un tavolino con mia cugina e il suo ragazzo. Mi arrestai, non sapendo bene che fare, quando tutti gli occhi si puntarono su di me. Deglutii a fatica sotto lo sguardo attento e indagatore di quelle che a quel punto supponevo trattarsi delle sorelle di Li-kun e la freddezza che mi rivolgeva sua cugina. Accennai a un sorriso e un saluto, scusandomi per averli interrotti mentre conversavano, e feci come per fare dietrofront, pronta ad andarmene per non disturbarli ad oltranza, sentendomi in soggezione. Vedendoli tutti e otto insieme erano di una bellezza senza pari. Tutti candidi, sopraffini, con quella pelle che pareva di porcellana e un portamento austero e aristocratico mentre sorseggiavano del tè ai frutti rossi, della qualità preferita di Tomoyo-chan ed Eriol-kun.
Ciononostante non riuscii a compiere neppure un passo che mia cugina mi bloccò, alzandosi e facendomi un gesto accomodante con la mano per prendere il suo posto.
«Sakura-chan, puoi unirti a noi. Ti presento le sorelle di Li-kun.»
Mi avvicinai cercando di non fissarle a lungo – sebbene fossero talmente stupende che lo avrei fatto volentieri per ore, senza mai stancarmi – scivolando spesso con lo sguardo sul tappeto, tranne quando mi disse i loro nomi. Esse si alzarono, le loro labbra si stesero in un sorriso mentre mi guardavano con aria amichevole.
«Loro sono Fuutie-san, Shiefa-san, Fanren-san e Feimei-chan.»
Le guardai una ad una, vedendo subito che due cose avevano in comune col fratello: il fatto che sembrassero più statue realizzate da un abile scultore che umane e il castano dei capelli, sebbene il loro tendesse più al colore della cannella. Per il resto erano totalmente diverse da lui.
Supponevo che Fuutie-san fosse la più grande, era quella con l’aria più adulta insieme a Shiefa-san. Probabilmente erano gemelle, si assomigliavano tantissimo: entrambe avevano il viso lungo e affilato e gli occhi dal taglio sottile, l’unica loro differenza stava nel colore, più tendenti al viola quelli di Fuutie-san, mentre Shiefa-san li aveva di un marrone molto scuro. Fanren-san aveva i capelli più lunghi di tutte, il suo viso era un po’ più squadrato, i suoi occhi erano nero pece; Feimei-san, invece, aveva un bel visetto tondo, due occhioni verdi dalle ciglia lunghissime e tratti molto giovanili. Pensai che potesse essere la più piccola di loro e ciò mi venne immediatamente confermato da ella stessa: «A scuola non ci siamo ancora incontrate, ma sto all’ultimo anno insieme a Tomoyo-chan ed Eriol-kun.»
Ricordai soltanto allora di averla effettivamente intravista a mensa, ma non avevo collegato potesse essere la sorella di Li-kun!
Mi si avvicinò per prima e io immediatamente mi inchinai col batticuore, presentandomi, spiegando anche da quanto tempo fossi ospite qui, concludendo con: «È un vero piacere conoscervi.»
«Il piacere è tutto nostro!» squittirono ad un’unica voce melodiosa, prima di sorprendermi lanciandosi tutte addosso a me, abbracciandomi insieme.
Trattenni il fiato e vidi Li-kun fare lo stesso, mentre le guardava sconvolto. Sua cugina pareva esterrefatta da tanta impulsività, mentre Eriol-kun e Tomoyo-chan risero sotto i baffi, nascondendosi con una mano.
Mi concentrai su ciò che dicevano le quattro sorelle, visto che non facevano che adularmi.
«Sei così carina!»
«Troppo carina!»
«E tanto piccina, ahh!»
«E adorabile!»
«Hai degli occhi bellissimi!»
«E un odore buonissimo!»
«Così floreale!»
In mezzo a quella cascata di complimenti riuscii a rispondere soltanto all’ultimo.
«Oh, è un bagnoschiuma a rose e gelsomino» sorrisi, guardandole.
Loro chiusero gli occhi, avvicinandosi contemporaneamente ad annusarmi, facendomi avvampare.
«Squisito!» esclamarono allontanandosi, quasi in estasi.
La loro cugina sospirò pesantemente, scuotendo la testa, Li-kun si nascose il viso in una mano, rifiutandosi di assistere a tale scena – probabilmente si vergognava lui per loro –, Eriol-kun si fece scappare un risolino mentre Tomoyo-chan si aggiungeva a loro, dandovi manforte.
Una volta libera mi poggiai alla parete, osservandole, trovandole abbastanza buffe con quegli atteggiamenti tanto bambineschi. All’inizio avevo avuto quasi paura, neppure io sapevo di cosa, ma erano quattro giovani donne amabili nella loro follia.
Con la coda dell’occhio, poi, mi accorsi che Li-kun aveva abbassato la mano, così mi voltai verso di lui e lo vidi rivolgermi uno sguardo di scuse. Tacitamente gli lasciai intendere che non faceva niente, dedicandogli un grande sorriso.
«Sakura-san, siediti pure.» Eriol-kun toccò il posto vuoto affianco a sé e io mi accomodai, accanto al bracciolo del divano.
Anche Tomoyo-chan e le quattro sorelle Li tornarono a sedersi, così fu ripresa la precedente discussione, che riguardava gli abiti di Halloween ormai pronti. Solo allora notai custodie per abiti e grucce impilate le une sulle altre su un mobile.
Rimasi in silenzio mentre si mettevano d’accordo sul dove ci saremmo dati appuntamento il giorno successivo – a quanto pareva qui, fuori la villa – e sgranocchiai dei biscotti al burro per tenermi occupata, sentendone a malapena l’aroma e il sapore a causa del raffreddore. Le temperature, un po’ alla volta, avevano cominciato a calare e per quanto stessi attenta a coprirmi neppure quest’anno ero riuscita a scamparmi dal solito naso chiuso.
In mezzo alle chiacchiere e un morso e l’altro mi accorsi che Li-kun stava facendo cambio posto con sua cugina, in modo tale che questa finisse accanto a me sull’altro divano. Sostenni il suo sguardo un po’ intimidita, ma lei improvvisamente parve pentita; si allungò verso di me, abbassando la voce in modo tale che soltanto io potessi udirla.
«Perdonami per l’altra volta, ho esagerato.»
Scossi la testa, come a dire che non importava.
«Pensavo di aiutare Xiaolang, ma penso che sia meglio smettere di intromettermi e lasciare che le cose facciano il loro corso» soggiunse con un fil di voce.
La guardai perplessa e mi accorsi che anche lui la squadrò sbigottito, quasi fosse riuscito a sentirla.
Non aggiunse altro, semplicemente mi sorrise concludendo: «Spero che riusciamo a diventare amiche.»
A questo mi illuminai, ricambiando il suo sorriso. «Anche io!»
Dopo che fu accordato anche l’orario per vederci ci alzammo tutti per congedarci. Mi sembrava inutile accompagnarli fino alla porta, quindi mi limitai a fare un saluto con la mano. Loro presero le loro cose e si avviarono all’ingresso insieme alla padrona di casa, ma prima di uscire del tutto Li-kun si voltò un’ultima volta, guardandomi con una punta di apprensione.
«Abbi cura di te.»
Hoe?
Dinanzi alla mia confusione la sua espressione si riempì di premura, sciogliendosi.
«Per il raffreddore. Non stare troppo tempo fuori e quando è necessario copriti bene.»
Mi morsi un labbro per trattenere un sorriso.
«Anche tu» sussurrai, «non trascurarti.»
Annuì prima di seguire le altre fuori casa.
Quella sera mi rimase una calda sensazione nel petto, forse perché così come io mi mostravo sempre attenta alla sua salute, anche lui sembrava far caso ad ogni mio minimo cambiamento. Certo, mi aveva sicuramente tradita il naso arrossato e il fatto che tirassi sempre su il moccio, ogni tanto soffiandomelo; ma nessuno aveva mai dimostrato così tanta cura e preoccupazione nei miei confronti, se non i membri della mia famiglia.
Quella sensazione divenne sempre più piacevole, era come se mi facesse galleggiare il cuore su variopinte bolle di sapone, dalla superficie però morbida, elastica, risplendenti di una luce propria dai mille colori pastello. Ed essa si intensificò quando giunse la notte di Halloween.
 
 
           
Mi guardai allo specchio a malapena riconoscendomi, mentre mia cugina mi girava intorno facendomi le feste con occhi brillanti, riprendendomi da ogni angolazione.
L’abito che mi aveva confezionato aveva un che di stupefacente: era bordeaux, il corsetto era strettissimo – tanto da formarmi un vitino a vespa –, ricamato con pizzo nero floreale sulla scollatura e si allacciava sulla schiena con grossi nastri di raso; l’ampia gonna scendeva morbidamente dalla vita ai miei piedi, nascondendomi gli stivaletti neri, richiamando lo stesso decoro di rose nere nella parte superiore, giusto all’attaccatura del corsetto. Le maniche erano insolite, partivano da sotto le ascelle lasciandomi le spalle nude, aprendosi da lì in una gonfiatura drappeggiata, divenendo poi aderenti dal gomito al polso, da dove si apriva una larga striscia di pizzo a campana tagliata per rassomigliare a dei petali, lunga fino alle mie ginocchia. Per non farmi congelare vi aveva aggiunto un ampio mantello nero foderato di velluto con cappuccio, che creava una coda scivolando dietro di me ad ogni passo.
Come accessori mi aveva prestato una collana girocollo in pizzo, cui erano legate perle nere e brillanti, dalla quale mi scendevano sul petto tre gocce perlate di due dimensioni, medie quelle laterali e più grande quella centrale; vi aveva abbinato anche anelli, orecchini e tra i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura pure vi aveva inserito una fila di perle scure, a mo’ di coroncina. Mi aveva reso la pelle pallidissima, dipinto le labbra con un rossetto matte d’un rosso scuro definito da lei “borgogna”, e allungato le palpebre con molto ombretto, mascara e eyeliner, rendendomi lo sguardo più “accattivante” (termine suo), donandomi un’aria più raffinata. Mi sentivo veramente una nobildonna.
Naturalmente, lei non era da meno, solo che aveva puntato sul bianco come colore – il che la rendeva eterea. Era un abito che mi ricordava un po’ una dama medievale, una di quelle rappresentate in molte illustrazioni con castelli e cavalieri, come quelle che spesso trovavo nelle storie epiche d’Occidente che talvolta papà mi leggeva quand’ero bambina. Proprio come le donne in queste stampe, anche i suoi capelli erano intrecciati e alzati tutti sul capo, avvolti attorno ad una crocchia, lasciando scivolare dei morbidi e fluttuanti boccoli accanto al suo viso. Contrastando col suo make-up simile al mio, sembrava piuttosto un angelo tentatore.
Lo stesso richiamo lo ritrovai nell’abito di Eriol-kun, il quale indossava una camicia abbondante bianca dallo scollo a V, con fili intrecciati sul petto, polsini e colletto ricamati, pantaloni eleganti scuri e un mantello altrettanto candido, con gli stessi ricami della gonna di lei. Altro che me, erano loro due a sembrare due sovrani di una tenebrosa terra di luce. Erano un paradosso mozzafiato.
Quando uscimmo di casa per ricongiungerci agli altri subito mi arrivò alle orecchie il parlottio acceso delle sorelle di Li-kun. Erano veramente delle gran chiacchierone, esattamente l’opposto del loro fratellino. Quasi fossero l’estate, mentre lui evocava attorno a sé un’atmosfera invernale. Inutile dire che, dopo averle appena conosciute, già mi stavano tutte simpatiche.
Anche da lontano le intravidi, coi capelli arricciati raccolti e lunghe tuniche scure dal busto stretto – che metteva in mostra tutte le loro curve –, a loro volta piene di pizzo e merletti, accompagnate anch’esse dallo stesso mantello nero con cappuccio.
Spostai poi gli occhi su Meiling-chan, notando che il suo abito era lievemente diverso dagli altri in quanto costituito da una sorta di tubino cremisi di base che le avvolgeva petto, busto e gambe fino a metà coscia, mentre il vestito al di sopra a maniche lunghe era completamente in pizzo nero ed era stretto fino al ginocchio per poi allargarsi fino ai piedi, mostrando stivali alti coi lacci e un tacco vertiginoso. Anche lei aveva i capelli alzati che le ricadevano morbidamente attorno al viso, incorniciandolo in maniera spettacolare, e come le altre le sue palpebre erano pesantemente truccate di nero, in un make-up tipicamente gotico.
Le rivolsi un sorriso quando incrociò il mio sguardo e mi salutò, dopodiché spostai l’attenzione sul ragazzo alla sua sinistra, trovandomi a trattenere il respiro non appena incontrai i suoi occhi.
Li-kun era… bellissimo. E dire ciò era poco, sminuente, non bastava nessun aggettivo esistente per descriverlo.
In maniera simile a Eriol-kun indossava una larga camicia della stessa tonalità del mio vestito, sebbene i suoi ricami fossero meno ricercati, su uno stretto pantalone nero e anfibi dello stesso colore con lacci e cinghie, ma al posto del mantello al di sopra aveva un cappotto nero slacciato dal collo alto e il taglio irregolare. Inoltre, mentre Eriol-kun si era gelatinato i capelli su un lato, lui li aveva lasciati allo sbaraglio, rendendoli persino più scompigliati del solito.
Mi ripresi da tale visione soltanto perché Tomoyo-chan mi diede una lieve spinta sulla schiena, invitandomi a proseguire. Deglutii tutta la saliva che mi si era raccolta in gola e feci un saluto generale, chinando timidamente lo sguardo di fronte a tutti gli elogi che giunsero in risposta. Di sottecchi continuavo a guardare Li-kun, ma non appena le sue iridi trovarono nuovamente le mie mi sembrò di andare a fuoco.
Mi dedicai totalmente alle altre ragazze, sperando che così riuscissi a sbollire e quell’inaspettato batticuore scemasse. Fuori c’erano all’incirca otto gradi, eppure per qualche inspiegabile ragione faceva un caldo bestiale.
Camminai in mezzo a Meiling-chan e Tomoyo-chan, parlando allegramente con loro per distrarmi, e mi sentii sollevata nel vedere che riuscivo a comunicare tranquillamente con tutte, come se fossimo amiche da una vita. Dietro di noi c’erano le sorelle Li e alle loro spalle i due ragazzi – il che, in parte, mi tranquillizzava, così non mi sentivo perforare la schiena dallo sguardo di Li-kun, visto che non l’aveva distolto da me neppure per un momento. E ciò mi fu confermato anche da Meiling-chan, che guardando indietro senza farsene accorgere sghignazzò tra sé: «Non ti stacca mai gli occhi di dosso.»
«Chi?» domandai ingenuamente, non capendo al momento.
«Mio cugino.» Fece un ghigno da volpe, al che mi sentii le guance infiammarsi. «È proprio perso.» Scosse la testa e io sorrisi appena, non sapendo bene come fosse meglio interpretare quelle parole. Preferii semplicemente sorvolare.
In città incontrammo anche Chiharu-chan e gli altri e li salutammo tutti, anche se mi parvero abbastanza perplessi nel vedermi insieme a Meiling-chan e alle sorelle di Li-kun; ciononostante non fecero commenti, se non complimentarsi con Tomoyo-chan per la realizzazione di abiti “che sembravano usciti da un film”. Effettivamente, non che io ne guardassi, ma probabilmente in molti film di vampiri ci si vestiva così. Se non ricordavo male anche in quel documentario che vedemmo a scuola molti attori indossavano abiti simili. Chissà che mia cugina non fosse un’appassionata del genere?
Restammo per un po’ di tempo con loro mentre assistevamo alla parata coi carri in cartapesta e successivamente ci fermammo in vari stand, mangiando würstel a forma di dita insanguinate e mele caramellate, regalando dolcetti a quei pochi bambini che bighellonavano per le strade.
Dopo non molto, tuttavia, finimmo involontariamente col separarci e quando mi guardai intorno persi di vista tutti. Sbuffai dinanzi alla mia solita distrazione – avevo distolto lo sguardo giusto qualche secondo per ammirare una strega in volo su una scopa sopra le nostre teste – e mi avventurai verso il marciapiede, trovandomi a vedere con mio grande piacere una faccia conosciuta a poca distanza.
«Li-kun!» sorrisi sollevata, raggiungendolo di corsa.
«Come mai non sei con gli altri?» indagò, avviandosi non appena lo affiancai.
«Mi ero persa» spiegai imbarazzata, ridendo nervosa.
Lui assottigliò le labbra e scosse la testa in maniera simile a sua cugina, come a dire “Sei senza speranze”. E aveva ragione.
«Tu?» domandai di rimando, alzando di poco la gonna per accelerare, attenendomi al suo passo.
«Non sopporto la folla.» Fece spallucce e solo dando un’occhiata attorno a noi mi accorsi che ci stavamo allontanando dal centro, imboccando una stradina laterale che conduceva fino al bosco. «Perché mi segui?»
«Scu-scusami, è che preferisco non restare sola.»
Chinai il capo, rabbrividendo al ricordo di quello che avevo rischiato solo qualche settimana fa.
Mi parve che Li-kun si irrigidisse al mio fianco, lo vidi anche stringere un pugno accanto alla sua gamba, ma quando sollevai lo sguardo la sua espressione era indecifrabile.
Rimase in silenzio mentre si avvicinava al delimitare del selciato, cominciando ad inerpicarsi su per i sentieri di montagna. Alzai gli occhi verso la notte, vedendo le nuvole passare davanti alla mezza luna, assumendo così un chiarore fioco, sbiadito, ma di un grigio luminoso. A modo suo, aveva un che di incantevole.
Li-kun si arrestò nei pressi di una sequoia, abbassandosi a spostare dei sassolini prima di sedersi e farmi segno di affiancarlo. Obbedii immediatamente, aggiustando il mantello e la gonna nell’inginocchiarmi accanto a lui. Poggiai poi la schiena all’ampia corteccia, fissando lo sguardo sulle luci fluttuanti delle lanterne a forma di zucca in città. Sembravano formare un percorso stellare che si ramificava al centro di un cielo nero, privo di luce. Sorrisi mio malgrado, trovandolo affascinante nella sua tetraggine.
Nessuno dei due pronunciò parola, limitandoci ad ascoltare i rumori notturni: versi di gufi e battiti di ali provenivano dal bosco alle nostre spalle, mentre dalla città si elevava un lieve vociare gioviale, pieno di vita, cullato dallo scrosciare di qualche corso d’acqua. Mi rilassai a quei suoni e quelle visioni, beandomi della muta compagnia di Li-kun, finché lui non mi si avvicinò di soppiatto, alzandomi il cappuccio in testa e coprendomi meglio col mantello, avvolgendomi quasi come se si trattasse di una coperta. Lo guardai basita, col cuore in gola, trovandomi il suo viso a poche spanne di distanza dal mio.
«Non prendere troppo vento» sussurrò preoccupato, facendosi un po’ indietro.
Prima che si allontanasse del tutto presi le sue mani senza che riuscissi a frenarmi, in modo tale da esprimergli la mia gratitudine per ogni singola cosa che faceva per me. Tuttavia il contatto ebbe breve durata, in quanto entrambi sobbalzammo staccandoci, quasi ci fossimo bruciati; e per un attimo la mia percezione era stata realmente quella, considerando quanto fosse fredda la sua pelle. Era innaturalmente gelida. Non era normale.
Allarmata, afferrai di nuovo le sue mani, resistendo sebbene fosse come toccare cubetti di ghiaccio, e con le basse temperature esterne non era molto piacevole.
Provò di nuovo a ritrarsi ma io rafforzai la presa, approssimandomi a lui.
«Li-kun, stai ghiacciando! Sicuro di sentirti bene?»
Lui annuì solo una volta, mormorando: «È sempre così, non devi preoccuparti.»
«Sì che mi preoccupo! Ci sono giorni in cui stai male, sei pallido quasi come un cadavere e ora scopro che hai una temperatura corporea così bassa che è quasi come se non vi scorresse sangue!»
Unii le sue mani al centro delle mie, sperando di scaldarle, vedendomi tremare. E sapevo che non fosse solo per il freddo. Era la paura. Il terrore che qualunque malattia avesse potesse sul serio portarlo via da me prima che io potessi accorgermene. Al solo pensiero mi veniva da piangere. Non volevo perderlo. No…. Li-kun, ormai, era diventato un amico così importante per me. Era l’unica persona che sentissi tanto vicina, sebbene fosse in realtà quella che mi era più lontana. O meglio, quella che più si manteneva lontana da me e cui più fosse difficile approcciarmi.
Strinsi le dita attorno alle sue, alzando gli occhi su di lui, trovandolo invece più vicino di quanto mi aspettassi, quasi a contraddirmi.
Mi si bloccò il respiro in gola e lui si accostò sempre più, finché non rimasero che pochi centimetri a separarci. Nelle sue iridi meravigliose c’era un luccichio particolare, una profonda intensità, criptici messaggi che cercava di lanciarmi, senza però farmeli realmente recapitare. La sua espressione si sciolse in qualcosa di caldo, qualcosa che mi entrò dentro, lambendomi le membra, legandomi le interiora. Mi mostrò, per la prima volta, un sorriso dolcissimo. Un sorriso che non avevo ancora visto su quel suo volto marmoreo.
«Ti preoccupi troppo, inutilmente» mi rimproverò, senza accusarmi davvero.
«Vorrei soltanto poter fare qualcosa per aiutarti…» La voce mi uscì a stento, quasi mi sentivo prossima a perdere i sensi.
Era come se il mio corpo fosse in sua completa balìa, come se lui fosse corrente marina che riusciva a portarmi alla deriva. Non avevo idea di cosa fosse quel sentimento, non avevo idea di come classificarlo, non sapevo come spiegarmelo. Ero soltanto certa di non aver mai provato nulla di simile prima. Sapevo che mai mi era accaduto con qualcuno di perdere totalmente il contatto con la realtà, di dimenticare tutto ciò che mi circondava, di non percepire neppure più la terra sotto di me né l’aria sopra di me. Niente, nient’altro che me, lui, noi, totalmente soggiogati da qualcosa di luminoso, accecante.
«Non c’è bisogno che tu faccia niente» replicò in tono debole, chiudendo gli occhi. «Niente» ripeté, il suo respiro stavolta giunse a carezzarmi le labbra.
Le schiusi automaticamente, appressandomi di più a lui, socchiudendo gli occhi senza più pensare, senza più riflettere, ma prima che i nostri nasi potessero anche solo sfiorarsi si liberò della mia presa, alzandosi in un movimento tanto repentino da farmi girare la testa.
Mi diede le spalle per qualche minuto buono, mentre io riprendevo il respiro ad occhi sgranati, realizzando poco alla volta ciò che stavo per mettere in atto. Ma cosa mi saltava in mente? Che mi era preso? Ero impazzita? Come potevo rovinare tutto? Stavamo appena diventando amici, eppure io…. Io…. Cos’era che volevo?
Strinsi le palpebre trattenendo le lacrime, convinta che adesso mi odiasse; ma poi sentii i suoi passi farsi vicini e quando lo guardai lo trovai proteso verso di me, a tendermi una mano. Sul suo volto leggevo una stanchezza e insicurezza che ancora mi erano sconosciuti. Quella sera mi stava mostrando infiniti nuovi aspetti di sé.
«Ti accompagno a casa.»
Accettai il suo aiuto, rimettendomi in piedi, ma anche quando stava per ritirare la mano mi intestardii a tenergliela. Non sapevo quanto potesse servire per farlo stare bene, ma se era il massimo che potevo fare gli avrei prestato tutto il mio calore.










 
Angolino autrice:
Buonsalve! Scusatemi sin da adesso, d'ora in poi temo aggiornerò con grossi intervalli, visto che è ricominciata l'università... Ma farò del mio meglio per essere presente!
Questo, lo confesso, è uno dei miei capitoli preferiti (per molte ragioni haha). Finalmente Sakura ha conosciuto le sorelle di Syaoran e Meiling è diventata la Meiling che tutti amiamo, yeey! Tra l'altro, forse vi accorgerete che ci sono altre somiglianze a Twilight (beh, era partita come una Twilight AU, dovevo pur utilizzare qualcosa dalla saga della Meyer xD).
Qui ho da spiegarvi solo matsuri = festival e il fatto che Tomoyo usi il -chan solo con Feimei è perché, come ha detto quest'ultima, sono nella stessa classe; per le altre usa il -san perché sono più grandi, mentre Sakura usa il -san con tutte e quattro perché ancora non le conosce. Se non è chiaro, chiedetemi pure una delucidazione sull'utilizzo degli onorifici, io sono sempre a vostra disposizione! 
Detto ciò, auguro a tutti un buon inizio di primavera (anche se un po' in anticipo)! 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Qualcosa di vero, puro e struggente

 
           
Per quei due giorni che precedettero il festival della cultura eravamo stati indaffaratissimi con gli ultimi preparativi per il café, il che mi aveva aiutato molto a fuggire dai miei pensieri. Questi, tuttavia, si rendevano più presenti di notte, manifestandosi in sogni agitati.
Oscillavo tra il terrore di poter perdere per sempre Li-kun da un momento all’altro per cause a me sconosciute, il desiderio di agire, di fare qualcosa ed essergli più vicina che mai per evitarlo e il candore di qualche sentimento nuovo che stava sbocciando proprio in quel periodo in me. Paura, frustrazione e un affetto smisurato mi dilaniavano, mi contorcevano, mi stiravano le interiora, quasi volessero strapparle. I timori mi rendevano timida, l’inappagamento mi avviliva, e quel mio voler bene…. No, non era un semplice voler bene, era qualcosa di più grande, di più forte, di più caldo, di più doloroso, di più intenso, di più sconvolgente, di più confuso…. Cosa, cosa era? Era forse, davvero… amore…? Poteva essere? Era giusto che lo fosse?
Non sapendo più che fare e come interpretare tale caos mi rivolsi a mia cugina, considerando che potesse saperne più di me, e le chiesi se potessimo parlare in privato, in cerca di consiglio. Così una sera ci ritrovammo nella mia stanza e, sedute sul mio letto, le confessai tutte quelle strane sensazioni che provavo, le quali talvolta sembravano persino fare a lotta l’una con l’altra.
Non sapevo dire se lei fosse lieta o meno di ascoltarmi, come sempre sembrava combattuta; fatto sta che mi disse soltanto una cosa: «Sakura-chan, il cuore umano non è facile da comprendere. Ora è imperversato da una tempesta, ma vedrai che presto tutto si schiarirà, le nubi si dissolveranno e tornerà il sereno. Quando giungerà il momento capirai da sola cos’è questo sentimento. Tu non cercare la risposta adesso, c’è troppa confusione e finiresti soltanto col sentirti maggiormente sottosopra. Vedrai che prima o poi il sole stesso ti guiderà alla verità.»
Le sue erano parole sagge, un po’ difficili da interpretare, ma bene o male ne compresi il senso: dovevo lasciare che le cose facessero il loro corso e vivere, momentaneamente, in simbiosi con quella burrasca infuriante.
Come conseguenza di tutto, al centro di quel ciclone che ero diventata io stessa, provai a farmi coraggio per approcciarmi a Li-kun ogni volta che potevo; tuttavia, con mio grande sgomento, ogni volta lui scappava prima che potessi mettere in atto qualunque cosa o pronunciare anche solo una parola. Se i nostri sguardi si incrociavano, era lui il primo a sviarlo e impegnarsi con altro. Se provavo ad aprire bocca per parlargli ecco che fingeva di non vedermi o chiacchierava con Yamazaki-kun – non avevo idea di quando si fossero avvicinati di preciso, ma a detta di Chiharu-chan era accaduto per puro caso in città e, dopo averlo un po’ inquadrato, il suo ragazzo non voleva mollarlo più per poterne discernere di più su di lui.
Pur non capacitandosi totalmente di quel grande “mutamento”, approfittando di un momento in cui eravamo sole in bagno, lei mi rivolse queste parole: «Se Li-kun è cambiato è soltanto grazie a te.»
«Non è cambiato, è sempre stato così» replicai allora io, schierandomi dalla sua parte, nonostante mi sentissi ferita da ogni sua singola azione. Ogni istante in cui mi voltava le spalle equivaleva ad una stilettata al petto, eppure non riuscivo ad evitare di prendere le sue difese, come avevo sempre fatto. Lui era così, sapevo che era così. Era sempre stato gentile, seppure chiuso in se stesso, ed era onesto. Quindi perché? Perché improvvisamente aveva cominciato di nuovo a fingere che non esistessi?
Una parte di me conosceva la risposta: avevo commesso un errore, avevo osato fare qualcosa che non potevo assolutamente permettermi.
«Ti sbagli» ribatté Chiharu-chan, quasi avesse letto i miei pensieri e stesse rispondendo direttamente ad essi. In quel buio abisso in cui stavo precipitando colpevolizzandomi, improvvisamente mi parve di intravedere una luce rischiarante. «Non puoi saperlo perché non c’eri, ma lui ci ha sempre snobbati tutti. Adesso non ci ignora più e trovo un’unica spiegazione.»
Attesi trepidante che continuasse, appigliandomi a quel raggio di sole con tutta me stessa. La risposta che cercavo poteva essere quella. Tutto poteva dipendere dalle sue prossime parole…. E proprio quelle, invece, mi spinsero nuovamente sul fondo.
«Si è innamorato.»
Il mio spirito cadde e contemporaneamente sentii crollarmi tutto addosso: l’edificio scolastico, l’intera città, il mondo stesso. Non riuscivo a capire bene il perché, ma provai un dolore intenso nel posto riservato al mio cuore. Per un attimo mi chiesi se ci fosse ancora perché non ne percepivo più i palpiti; piuttosto, sembrava fosse stato sostituito da una grossa pietra. Un macigno mi pesava sul petto e io mi sentii improvvisamente indebolita, privata di qualunque volontà, spenta, come se le nuvole più cupe, spesse e grigie si fossero addensate tutte sulla mia testa.
Scavai in quel che restava del mio animo per capire quale fosse il problema. Mi sentivo in colpa, sì, ma c’era qualcos’altro: un dolore maggiore, scatenato dall’ultima affermazione della mia amica.
“Si è innamorato.”
Li-kun era… innamorato? Di chi? Chi? Chi era la persona che gli piaceva?
Mi si chiuse lo stomaco, mi si accartocciò il cuore, mi si addormentarono le membra. La testa mi divenne pesante, cominciò a dolermi mentre continuavo a porgermi quel quesito, ripetutamente: chi? Chi poteva essere? Di chi poteva trattarsi?
A quel punto iniziai a comprendere. Immaginai una persona al suo fianco, una ragazza che non conoscevo che prendeva la sua mano al mio posto, con cui lui sorrideva e parlava con naturalezza. Ricordai i miei sogni, sostituii la mia immagine con una sconosciuta, pensai alle sue labbra sulla sua pelle, mi mancò il respiro. Gelosa. Ero gelosa. Non gradivo l’idea che a lui potesse piacere qualcuno. Era così grave, così sbagliato da parte mia. Non ero mai stata gelosa in vita mia, mai di nessuno. E non potevo cominciare ad esserlo proprio con Li-kun! Eravamo amici, soltanto amici!
Presi respiri profondi, ricordando quel che lui desiderava. “Un rapporto superficiale d’amicizia”. Riflettei su quel che io stavo creando. “Un rapporto profondo, intenso d’amicizia”. Ero riuscita a diventare una sua buona amica, o almeno così mi sembrava, quindi avrei dovuto comportarmi come tale: dovevo smetterla di essere egoista, tifare per lui e incoraggiarlo nel suo amore, a scapito di a chi fosse rivolto.
Uscii dal bagno dopo essermi rinfrescata il viso e mi unii alle ragazze mostrandomi spensierata, tornando a comporre i fiori di carta insieme agli altri. Liberai per un po’ la mia mente concentrandomi sulla loro forma, ma inevitabilmente quando lui si alzò per andarsene lo seguii con lo sguardo, percependo una stretta al petto. Osservai angosciata le sue spalle che si allontanavano sempre più, sentendomi come se quella fosse la fine di ogni cosa. Sarebbe sparito per sempre, proprio come temevo, lasciandomi sola, e io avrei perso la persona divenuta per me, in così poco tempo, la più importante al mondo.
Dopo che se ne andò spostai gli occhi su Chiharu-chan, indecisa; avrei voluto chiederle su chi ricadessero i suoi sospetti, ma allo stesso tempo temevo troppo la risposta. Perché sicuramente non poteva trattarsi di me. Lui mi stava ignorando con tutto se stesso, esattamente come i primi giorni. Scioccamente, in un momento di forsennatezza, avevo tentato di baciarlo e lui mi aveva palesemente respinta. Al solo ripensarci mi parve che si fosse appena riaperta una ferita e qualcuno vi stesse gettando del sale dentro, sadicamente. Era atroce.
Talmente atroce che mi indusse a capire finalmente cos’era quel sentimento che provavo per lui.
 
 
 
Durante il festival scolastico mi immedesimai nel mio ruolo di “cameriera”, dedicandovi tutta me stessa, tentando di svolgerlo al meglio.
Naturalmente Tomoyo-chan ci aveva cucito delle divise bellissime: alla fine non si trattava d’altro che di una camicia viola melanzana con volant sulle maniche, un fiocchetto nero sotto al colletto e un’ampia gonna nera che scendeva a campana fino alle ginocchia, ad alta vita, stretta sotto il petto con nastri incrociati sull’addome. Al di sotto indossavamo calze in pizzo autoreggenti e al costume furono aggiunti diversi accessori gotici – nel mio caso un frontino con rose nere tra i capelli perfettamente piastrati e una collana girocollo fatta di pizzo con nastrini. La divisa dei ragazzi pure aveva il suo fascino, consistendo in una camicia color vinaccia col colletto alto, panciotto nero ricamato con rose argentee e pantaloni neri, con tanto di cintura con borchie e catenine pendenti ai lati, chiuse a formare semicerchi sui passanti in vita.
Prendevo e posavo ordinazioni, sforzandomi di guardare tutti tranne Li-kun, sebbene da quel che sentivo vociferare dietro il bancone con i dolci fosse colui cui donava maggiormente la parte. Venne esaltato per il suo pallore spettrale che lo rendeva perfetto per quel ruolo “dannato”, per il suo portamento fiero e altero, per la totale assenza di sorrisi e le parole di cortesia appena pronunciate nel momento di dare il benvenuto e il congedo alla clientela.
Ad un certo punto, a forza di sentir tanto parlottare di lui, non resistetti più alla tentazione di rivolgergli un’occhiata; pertanto, mentre tornavo a posare dei piatti vuoti dopo aver salutato dei clienti, lo cercai per la classe, ma inaspettatamente lui proprio in quel momento stava uscendo dalla tenda che separava la “sala” dalla “cucina”. Ci ritrovammo faccia a faccia, i nostri occhi rimasero fissi gli uni negli altri soltanto per pochi secondi, ma a me parvero ore, ore piene, ore intere. Riuscii a vedere così tanto in quelle profonde iridi ambrate, tanto da accorgermi che anche se era serissimo, a sua volta concentrato in quel che faceva, un’ombra scura pareva essere calata sul suo viso, incupendo il suo spirito. Che anch’esso avesse raggiunto il mio nel precipizio?
Spostò lo sguardo dal mio senza rispondere a quella mia muta domanda, passandomi oltre per portare l’ordinazione al tavolo da servire. Mi avviai mogia a pulire, chiedendomi abbattuta cosa gli prendesse. Cosa ci prendesse, ad entrambi.
Dopo averci dormito su ci avevo riflettuto a lungo ed ero giunta ad una conclusione: se veramente tenevo tanto a Li-kun, non dovevo desiderare la sua felicità? Sì, desideravo la sua felicità. E se quella felicità non era ottenibile stando con me? Allora avrei dovuto accettarlo e farmi da parte.
Ciononostante non mi riusciva semplice frenare quel fastidio, quel dolore bruciante che provavo dentro di me. Volevo sostenerlo, con tutta me stessa, ma forse non ne sarei mai stata in grado al cento per cento; perché per farlo avrei dovuto prima mettere a tacere i miei stessi sentimenti nei suoi confronti, ma era possibile farlo? Avrei avuto qualche possibilità di cancellarli completamente?
Tentai in ogni caso di comportarmi da buona amica ed evitai di esagerare, per non rischiare di superare più alcun confine, mantenendomi concentrata sulla mia parte anche per i due giorni successivi, finché non si giunse alla fine del festival.
Quel che avevo notato nell’arco di quelle tre giornate erano due cose in particolare: la prima, positiva, era che finalmente avesse cominciato ad indossare dei guanti insieme ad una sciarpa, oltre al cappotto lungo. Almeno ero sicura che si tenesse un po’ più al caldo, il che mi confortava.
La seconda, un po’ più preoccupante, era che lui soltanto rifiutasse di mangiare gli avanzi dei dolci e le bevande che ci dividevamo tra noi e Terada-sensei. Ero indecisa se si trattasse di eccessiva premura oppure avesse una qualche intolleranza alimentare che gli impediva di gustarseli. Se ciò fosse stato, perché non ne sapevo nulla? Effettivamente, glielo avevo mai chiesto? No. Così come, da grande screanzata qual ero, non gli avevo neppure mai domandato se gli avesse potuto fare piacere pranzare qualche volta insieme a noi. Avevo sempre semplicemente dato per scontato che durante la pausa pranzo preferisse starsene in solitaria, finendo col comportarmi da sconsiderata. Dovevo rimediare a quella mia mancanza, ma come potevo se avevamo persino smesso di parlarci?
Avevo effettivamente rinunciato a provare a comunicare con lui, sia per il mio bene che per il suo, tranne che in un’unica occasione: per congratularmi insieme a tutti al momento di chiusura del festival, dopo che suonò sul palco per il club di coreutica. Il suo modo di suonare era impeccabile, era un accompagnamento perfetto, il brano di per sé era stupendo, la voce di tutti era sublime, il messaggio pieno di positività era chiaro, eppure… eppure qualcosa ancora mancava. Mancava la sua presenza. Si era totalmente estraniato, alienandosi dal gruppo, come se lui non ne dovesse far parte. Come se lui stesso non lo volesse. Ma che potevo dirgli in quel momento, a parte un “Complimenti”? Che d’altronde rivolsi anche ai cantanti, soprattutto a Tomoyo-chan – sebbene la sua voce così calda, melodiosa, serafica, non fosse per me una novità.
Alla fine del festival, dopo che fu premiata la classe di Meiling-chan con la casa infestata – per ovvie ragioni non ero andata a visitarla, ma fortunatamente era venuta lei a trovarci insieme a Feimei-san ed erano carinissime vestite da demone volpe – mettemmo tutto a posto, dividendoci le cose da riportare a casa.
Salutai tutti nella classe ed uscii nel corridoio, incrociando qui Tomoyo-chan ed Eriol-kun, agghindati da antiche bellezze; quel mattino avevano preso parte ad una recita storica scritta e organizzata dai membri del club di letteratura, i quali avevano richiesto la loro partecipazione per impersonare i due amanti protagonisti, che finivano col compiere shinjuu. Erano stati bellissimi, impeccabili e struggenti nella loro interpretazione.
Mi complimentai di nuovo con entrambi, scusandomi per non aver partecipato alla “divinazione” organizzata dalla loro classe. Mi sarebbe piaciuto davvero, ma purtroppo eravamo sempre indaffarati.
Loro mi fecero capire che non era tanto importante, anche perché se proprio ci tenevo avremmo sempre potuto replicare quella situazione a casa.
Risi lievemente riconoscendo che avevano ragione e li salutai, informandoli che dato che ero pronta avrei cominciato ad avviarmi a casa. Proseguii quindi per il corridoio deserto, ma dopo che ebbi svoltato verso le scale mi ritrovai ancora una volta Li-kun davanti, in procinto di salire. Mi chiesi come fosse possibile che per quanto tentassi di evitarlo, per quanto smettessi di cercarlo e ritenessi più sano stargli lontana, finissimo sempre per ritrovarci. Quasi fossimo inevitabilmente attratti l’uno dall’altra.
Abbassai lo sguardo, consapevole che gli dovessi quantomeno delle scuse per le mie scellerate azioni, così gliele mormorai debolmente prima di volgergli la schiena, avviandomi nella direzione opposta, senza sapere dove andare. Sentii tuttavia i suoi passi alle mie spalle e prima che riuscissi a svoltare nel corridoio verso le aule mi sorpassò, bloccandomi il cammino.
Guardai i suoi piedi torturandomi le labbra, ma poi presi un respiro profondo e mi feci coraggio per affrontarlo. Alzai lentamente la testa e quando finalmente raggiunsi il suo viso lo trovai altrettanto mortificato, al di là del suo atteggiamento algido e tirato.
«Dispiace a me» sussurrò abbattuto. «È tutto così sbagliato, tutto un grosso errore. Non dovrei desiderare tanto la tua vicinanza, non dovrei cercarti nemmeno. Eppure non ce la faccio. Non riesco…. Non riesco a starti alla larga. Kinomoto, per favore, lo dico per la tua stessa incolumità. Stavolta devi respingermi, devi starmi lontana e se necessario chiedi aiuto a Hiiragizawa e Daidouji per distanziarci perché… perché è così ingiusto da parte mia…»
Mi guardò con occhi imploranti, ma come potevo? Come, quando nel giro di un mese e mezzo circa ero arrivata a provare quei suoi stessi desideri, se non addirittura di più?
Mi morsi il labbro inferiore, chinando la testa per non fargli vedere quanto mi sentissi triste. Quanto fossi prossima alle lacrime.
Qual era la difficoltà? Perché si sentiva tanto diviso? Perché lo riteneva ingiusto? Perché sembrava che mi volesse e, al contempo, che non mi volesse?
«È tutto così confusionario, Li-kun. Non riesco a capirti.»
“Non riesco a capire me, come posso comprendere te?” aggiunsi in cuor mio.
Lo fissai di sottecchi, cercando di fronteggiarlo senza mostrare tutta la sofferenza che provavo. «Se per te è tanto difficile perché continui a starmi accanto?»
«Perché ho troppa paura di perderti.»
Lo disse quasi tra sé, in tono inudibile, guardandomi come se provasse un’atroce sofferenza; ma poi sgranò gli occhi, forse rendendosi conto solo allora delle sue parole, e scosse vigorosamente la testa, portandosi le mani sul viso. Lo vidi serrare le labbra, quasi stesse lottando con se stesso, prima di allontanarsi frustrato, passandomi accanto, mentre io mi sentivo del tutto pietrificata da quella confessione. Era precisamente quel che provavo io per lui. Se provavamo le stesse cose, allora significava forse che…?
Scivolai sul pavimento, portandomi una mano al cuore, sentendomelo scoppiare. Non dovevo illudermi. Non dovevo sperare. Non c’era alcuna possibilità per me, ma forse Chiharu-chan si sbagliava e non ce ne sarebbe mai stata per nessuno al mondo, perché lui stesso lo aveva detto: “Io non sono di nessuno. E non potrò mai esserlo”.
Se non poteva essere di nessuno, conseguentemente non sarebbe stato neppure mio. Non lo sarebbe stato mai. E ciò mi feriva terribilmente, dopo la conclusione cui ero giunta: quel che provavo nei confronti di Li-kun non era curiosità.
Non era ossessione.
E nemmeno un’infatuazione.
Era peggio, molto peggio.
Era qualcosa di infinitamente vero, puro e struggente.
Era amore.  










 
Angolino autrice:
Eccomi tornata, approfittando di un giorno quieto, con un capitolo che non lo è poi tanto... Perdonate Sakura, è un'adolescente piena di complessi. E qui si vede perché è un po' OOC, è giunta da sola alle conclusioni (anche se molte errate haha ma almeno ha capito di essersi innamorata). Tra l'altro, vi sarete accorti che ho ribaltato un po' le carte, rendendo lei gelosa.... Era però necessario per potersi capire.
L'immagine di demone volpe (kitsune) potete figurarvela come desiderate (ovviamente la coda e le orecchie le hanno, ma siete liberi di lasciare che la vostra immaginazione faccia il suo lavoro). Vi dico solo che nella mia fantasia gli abiti che Feimei e Meiling indossano sono di tipo sacerdotale.
"Shinjuu" è il termine che indica il doppio suicidio d'amore: usato soprattutto nelle opere letterarie e teatrali di periodo Edo, solitamente troviamo l'uomo che uccide la donna e poi se stesso. (Per chi volesse saperne di più, non esiti a chiedere!)
Bene, e con questo chiudo per il momento.
Alla prossima! 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Bufera



Finalmente giunse la settimana in cui si sarebbe tenuta la gita in montagna. Onestamente, non vedevo l’ora che arrivasse: sentivo il bisogno di cambiare aria e sfuggire per un po’ dagli occhi svegli e indagatori di Tomoyo-chan ed Eriol-kun. Sembrava sempre, sempre, che riuscissero a leggermi dentro, comprendendo appieno ciò che infuriava nel mio animo, persino meglio di quanto ci riuscissi io stessa. Vedevo la preoccupazione sui loro volti e mi sentivo terribilmente in colpa perché sì, mi comportavo normalmente, ma dentro di me mi sentivo un po’… diversa. Ed ero certa che essi riuscissero a cogliere quella differenza in me; temevo che potessero identificarla e darvi un nome, quel nome di cui mi vergognavo, che continuavo a costellare di dubbi e insicurezze.
Ecco perché tirai un sospiro di sollievo già dal momento in cui mi sedetti nel pullman, il giorno della partenza. Il viaggio durò all’incirca quattro ore, allo scadere delle quali finalmente intravedemmo il posto scelto dalla scuola per quel breve soggiorno: situata all’estremo nord del Paese, quella minuscola località turistica sembrava bellissima, totalmente immersa in un mare bianco. Le alte cime innevate si elevavano ovunque attorno allo chalet in cui alloggiavamo, mentre su un lato del pendio montuoso si estendeva una vasta foresta di abeti, raggiungibile direttamente dalla porta sul retro dell’edificio.
Ogni secondo trascorso qui rappresentava uno spasso, visto che oltre a dover seguire obbligatoriamente lezioni di sci eravamo anche liberi di bighellonare a piacimento con lo slittino, scivolando fino a valle e risalendo poi con le funivie. Inizialmente non era stata una passeggiata per me, non avendo mai avuto a che fare con questo genere di sport – a Tomoeda nevicava solo per poche settimane nel cuore dell’inverno, ma neppure in maniera tanto fitta da attecchire in quanto i fiocchi si scioglievano dopo poco quando si posavano sul suolo. Di conseguenza non mi era mai capitato di poter fare neppure una battaglia né un pupazzo di neve, quindi cercai di approfittarne al massimo divertendomi come mai, con la fortuna di avere con me le ragazze che mi insegnarono come mettere in atto ogni singola cosa, dal come appallottolare la neve all’indicarmi i metodi giusti per sciare senza correre rischi.
Di giorno mi affidai totalmente a loro e di notte, dato che condividevamo la stanza, ci dilungavamo in lunghe chiacchierate, finché non venivamo scoperte dai prof in ricognizione per assicurarsi che tutti dormissimo. E allora aspettavamo che si allontanassero per profonderci in risolini soffusi, prima di deciderci finalmente ad addormentarci.
Escludendo anche i pasti, il resto del tempo lo trascorrevo sul balcone che affacciava a valle, con una tazza di tè caldo tra le mani e una coperta sulle spalle, insieme alle mie compagne, ammirando quel paesaggio imbiancato. Per loro non era nulla di nuovo, essendo abituate da sempre a visioni simili. Per me, invece, era la prima volta che vedevo una distesa nivea tanto perfetta, come se fosse panna montata spalmata da un pasticciere su una morbida torta al cioccolato, livellata in maniera impeccabile con la spatola. E i nostri passi potevano equivalere a quelli di minuscole fatine dello zucchero, che volavano sulla sua superficie, golose di darvi un assaggio. Me le figurai con vaporosi capelli fatti di zucchero filato rosa e gonfi abiti gialli, simili ai cieli dell’alba. Sorrisi a quella mia fantasia, chiedendomi da quando avessi sviluppato un’immaginazione tanto fervida.
La penultima sera soltanto – col consenso dei prof, purché non facessimo troppo tardi – ci riunimmo tutti noi studenti nel salone, mettendoci raggruppati sui divani davanti all’enorme camino; stava andando tutto liscio e mi stavo divertendo a stringere nuove amicizie con le compagne di classe di Meiling-chan, sicché in qualche modo tra una chiacchiera e l’altra si finì con l’affrontare il tipico argomento da gita che avevo sempre abilmente evitato: “storie di fantasmi”.
Tremai tutto il tempo, resistendo alla tentazione di tapparmi le orecchie per non svelare quella mia debolezza; provai anche a pensare ad altro per tenermi occupata, finché non ce la feci più a sopportare quella tortura e mi dichiarai stanca, anticipando le ragazze in camera.
Nel percorso di ritorno incrociai lo sguardo di Li-kun trovandolo apprensivo, ma mi limitai a rivolgergli un flebile sorriso passando oltre. Dinanzi alla porta della mia camera, tuttavia, esitai, col cuore in tumulto. Andava tutto bene, mi bastava stare alla larga dalle finestre in modo tale da non vedere nulla al di fuori di esse.
“Stai calma Sakura, stai calma” mi imposi, prendendo profondi respiri; ciononostante, poggiando la mano sulla maniglia della porta, vidi le mie dita tremare come foglie d’autunno.
E se fosse apparsa una yuki onna e mi avesse attratta fuori con la sua sublime bellezza, per potersi nutrire della mia vita o farmi morire congelata, conducendomi in gelidi luoghi che soltanto ella avrebbe potuto conoscere? O ancor peggio, se avessi visto una yama-uba e fosse riuscita a rapirmi dopo aver incrociato il mio sguardo, nutrendosi poi della mia carne?
«Kinomoto, va tutto bene?»
Sobbalzai a quella nuova voce, voltandomi alla mia destra con il cuore in mano.
«Me- Meiling-chan!» esclamai rincuorata, tirando un sospiro di sollievo.
Lei mi scrutò attentamente, impensierendosi. «Sei pallidissima. Stai bene?»
«Sì.» Annuii anche con la testa per essere ancora più credibile. «Mi dispiace non essere rimasta di più, ma... ecco… mi fanno paura le storie dell’orrore…» ammisi con non poca vergogna, sapendo di suonare come una bambina.
La vidi serrare le labbra, quasi trattenesse una risata, ma non sembrava irrisoria. Ero abbastanza sicura che non fosse per deridermi, ciononostante non riuscivo a comprenderne l’origine.
Ammiccò poi, dandomi una leggera pacca rassicurante sulla spalla.
«Stai tranquilla, ti assicuro che non ti succederà niente.»
La fissai colpita da tanta premura, per cui le sorrisi riconoscente.
«Grazie Meiling-chan. Spero che i miei sogni se ne stiano buoni stanotte» aggiunsi tra me.
«Stai avendo incubi?»
«Non esattamente, sono solo un po’ strani. Ricordo soltanto una voce e una figura che non riesco ad inquadrare bene, è come se fosse avvolta da una fitta nebbia nera.»
Aggrottò le sopracciglia, concentrandosi.
«Cosa ti dice?»
Mi strinsi nelle spalle, fingendo che non fosse importante. «Nulla di preoccupante. Allora, buonanotte.»
Le rivolsi un breve cenno di saluto con la mano, ritirandomi in camera. Mi cambiai nel pigiama, filando immediatamente a letto, senza perdere ulteriore tempo, coprendomi fin sopra la testa. Mi concentrai sul mio respiro e cominciai a contare le pecore per agevolare il sonno, visualizzandole oltre le palpebre chiuse mentre saltavano uno steccato su un prato pieno di fiori colorati, riempiendomi la mente di immagini positive.
Probabilmente così facendo riuscii ad addormentarmi perché quando arrivai attorno alla cinquantesima i miei pensieri furono sovrapposti da quella voce maschile, la quale ben presto li soppiantò. Stavolta riuscivo ad udirla meglio, era tanto dolce da parere un artificio, gradevole, pacata e aveva un che di attraente. Era un tipo di voce che avrebbe persuaso chiunque a fare ciò che voleva. Una di quelle voci da temere, che ti avrebbe sedotta inducendoti a compiere qualunque follia.
Mi ribadiva sempre le stesse cose: di fidarmi di lui, che lui avrebbe esaudito i miei desideri, che se questi fossero stati rivolti al mio amore non corrisposto sarebbe riuscito a cancellare i miei sentimenti, se soltanto lo avessi ascoltato.
«Posso renderti felice» ripeteva, il suo tono scivolava nella mia coscienza come miele liquido, riempiendo ogni singola insenatura che componeva la mia volontà. «Basta che segui la mia voce. Seguila…»
Aprii lentamente gli occhi, mettendomi seduta, fissando il nulla. Se la avessi seguita, cosa sarebbe successo?
«Vieni da me…»
Mi alzai dal letto, facendo meno rumore possibile per non svegliare le altre. Percorsi in maniera del tutto automatica la strada che conduceva alla porta, uscendo all’esterno. Affondai i piedi nella neve, ascoltando. Dove dovevo andare?
«Da questa parte.»
Al suo suggerimento mi diressi verso il bosco, percependo appena la consistenza del suolo innevato sotto le mie nude piante. Proseguii come sotto incantesimo, procedendo tra gli abeti, cercandolo.
«Ci sei quasi, Sakura.»
Non appena pronunciò il mio nome sbattei gli occhi, tornando alla realtà.
Il gelo mi colpì all’improvviso, sferzandomi il corpo, costringendomi ad inginocchiarmi. Tremai, stringendomi le braccia al petto, respirando a fatica in mezzo alla bufera. Com’era potuto accadere? Ero convinta di star sognando, ma allora perché percepivo così distintamente la temperatura e il potente vento che mi ghiacciava le ossa? E perché riuscivo a riflettere su quella condizione? Dovevo fare qualcosa o sarei morta assiderata. Però mi sentivo così fiacca e debole….
Provai a rialzarmi lottando contro quelle pesanti frustate di ghiaccio, ma non feci che ricadere sul suolo. Il pigiama mi si riempì di neve, impregnandosene, i miei arti faticavo a sentirli, percependoli sempre più bloccati, pietrificati. Anche tenere gli occhi aperti era un’impresa. Avvertivo le lacrime scorrermi sulle guance, lasciandomi scie fredde come mai lo erano state.
Sollevai di poco la testa, affannata, sforzandomi di muovere le braccia per poter almeno strisciare fino ad un albero. Magari, se ce l’avessi fatta, con la sua chioma avrebbe potuto tenermi un po’ al riparo insieme ai suoi compagni. Feci diversi tentativi ma ben presto rinunciai, stringendo con quelle poche forze che mi erano rimaste quel bianco manto bruciante. Un enorme iceberg parve formarsi nei miei polmoni, comprimendoli, serrandomeli.
«Ormai sei mia» sogghignò colui che mi aveva condotta lì, tornando ad infestare la mia mente con la sua diabolica voce.
Non feci assolutamente nulla per reagire, sentendomi risucchiata e svuotata di qualsiasi energia. Ciononostante volevo almeno vederlo in faccia, quindi con un ultimo grande sforzo provai a tenere gli occhi aperti, sebbene il mondo dinanzi ad essi fosse tutto velato e tremolante.
Proprio allora udii un’altra voce, più calda e confortante, più familiare, che adesso mi sembrava nel panico e anche arrabbiata, mentre gridava il mio nome a pieni polmoni. Sorrisi in me rincuorata, aspettandomi di vedere Li-kun; ma al suo posto intravidi la sagoma di un lupo, seguita dal buio assoluto.
 
 
 
Quando ripresi i sensi ero avvolta da un piacevole tepore e udivo il crepitare della legna bruciata. Calde fiamme mi sfioravano con le loro lingue di fuoco ed improvvisamente mi sentii benissimo: il senso di torpore svanì, così come anche quella pesantezza che avvertivo addosso, sia nel corpo che nella mente, come se piano piano stessi scongelando.
Aprii gli occhi con lentezza, abituandomi poco alla volta a quella luce aranciata. Guardai in basso verso il camino scoppiettante, capendo di essere stesa sul morbido divano in sala, avvolta in ben cinque strati di coperte di flanella.
Provai a mettermi seduta lievemente stranita, chiedendomi come fossi arrivata lì e a chi appartenesse quel pigiama giallo canarino che stavo indossando, ma prontamente una mano mi si posò sulla spalla, attirando la mia attenzione con la sua delicatezza.
«Resta al caldo.»
Mi voltai verso il pavimento, scoprendo che proprio accanto alla mia testa era seduto a gambe incrociate Li-kun.
Rimasi senza parole, lasciandolo occuparsi di me, mentre mi aiutava ad appoggiarmi contro il divano, rialzandomi le coperte fino al mento. Fatto ciò si allungò a prendere una tazza fumante dalla mensola dinanzi alla bocca del focolare e me la porse.
«Tieni, bevi questo.»
Sbucai con le mani fuori dalle coperte, lieta che finalmente esse rispondessero ai miei comandi, sebbene le punte delle mie dita continuassero a sembrare irrigidite. Esitai prima di prendere la tazza, temendo di rovesciarne involontariamente il contenuto; accorgendosene, Li-kun mi aiutò ad afferrarla con fermezza, avvolgendo le mie piccole mani nelle sue per poco, e anche se la temperatura della sua pelle era la stessa che avevo percepito all’esterno, in qualche modo non mi faceva male. Anzi, era… era scaldante.
Sorrisi dinanzi a tutta quella premura e strinsi la presa sulla tazza, osservando ciò che conteneva, attratta da quel buon profumo familiare. Camomilla! Me la portai avidamente alle labbra, avvertendone subito il benefico effetto.
«Grazie» gracchiai, scoprendo così di avere una voce roca. Provai a schiarirmi la gola, a scioglierne i nodi con quel liquido dolce e floreale, di cui più avevo bisogno in quel momento.
«Mi spieghi perché devi essere tanto sconsiderata?» mi rimproverò di punto in bianco mentre mi dissetavo, cogliendomi di sorpresa. «Come hai potuto uscire lì fuori nella tormenta, senza coprirti a dovere, e per lo più scalza?! Sei impazzita? Avevi intenzione di ammazzarti? Sai come si sentirebbero le persone che ti vogliono bene a perderti?»
La sua voce tremava, sembrava impaurito, e io boccheggiavo, incapace di rispondergli. Ripensai alla notte trascorsa, al sogno fatto, cominciando a domandarmi quanto ci fosse di reale e irreale in esso. Ero uscita davvero? A giudicare dal come mi sentivo ancora un po’ il corpo intirizzito e la testa pesante supponevo di sì. Ma perché? Come era successo?
«M-mi dispiace» balbettai, sentendomi in colpa, incapace di dargli una vera e propria spiegazione. «Io non volevo, davvero. Pensavo fosse soltanto un sogno, non credevo che...»
«Sei sonnambula?»
«… Così pare…»
A dire il vero, non lo ero mai stata in vita mia; o perlomeno nessuno se ne era mai accorto o nessuno mi aveva mai scoperta a vagabondare per casa nel cuore della notte, né mi ero mai risvegliata in posti diversi dalla mia camera. Al massimo mi ritrovavo a terra invece che sul letto, ma immaginavo fosse normale quando ci si rigirava nel sonno, visto che sin da bambina ero sembrata essere quel tipo di persona abbastanza irrequieta durante la notte. Ma mai mi era capitato di fare sempre lo stesso sogno, consecutivamente, e mai mi aveva lasciata così confusa, rendendo tanto labile il confine tra sonno e veglia. Cos’era reale? E cosa non lo era?
Alzai timidamente gli occhi su Li-kun, insicura se stessi sognando o meno. Ma in ogni caso… «Grazie, per avermi salvata.»
Scosse la testa, guardandomi preoccupato.
«Che sogno era?»
Rabbrividii, stringendomi nelle coperte.
«Non saprei descriverlo bene, stavo seguendo una voce.»
«Una voce…» ripeté pensieroso, adombrandosi.
Mi sembrava inquieto quanto me, per cui decisi fosse meglio parlare d’altro.
«Quanto tempo sono rimasta priva di sensi?»
Rivolse una rapida occhiata alla finestra, rispondendo: «All’incirca quattro ore, è quasi l’alba.»
«E sei rimasto tutto il tempo qui?» domandai dispiaciuta. Non gli avevo fatto chiudere occhio….
«Per poco c’è stata Meiling, ti ha cambiata prestandoti un suo pigiama e poi si è fatta sostituire per andare a prepararti quella, pensando che ti avrebbe risollevata quando ti saresti svegliata» concluse, indicando la tazza.
Sorrisi raddolcita, finendo di berla.
«Non c’era bisogno di fare tanto.»
«Invece sì. Dovevo vegliare su di te.» Digrignò i denti, stringendo i pugni sulle ginocchia. «È la seconda volta che fallisco.»
No, un attimo! Non doveva prendersela con se stesso!
«Non è così!» Posai la tazza sul tavolino, prendendo poi una sua mano tra le mie. «Syaoran-kun, non è così.»
Sgranò gli occhi, forse nel sentirsi chiamare in maniera tanto familiare, al che avvampai, lasciandolo di botto.
«Scusami, è solo che tu mi hai chiamata per nome, e quindi…» Tacqui, trattenendo il fiato, vergognandomi. «Non l’avrò mica sognato?»
«No, è stato più forte di me. Non volevo prendermi tutta quella confidenza» si scusò, ma io lo arrestai prima che proseguisse.
«Non mi ha dato fastidio, tutt’altro! Mi renderebbe felicissima se cominciassi a chiamarmi sempre per nome!»
Sviò lo sguardo, sembrando travagliato. Fissò gli occhi sul fuoco, le cui fiamme si rifletterono sul suo volto, creandovi un baluginio incantevole. Lo vidi serrare le labbra e scompigliarsi i capelli prima di tornare a guardarmi, mostrandomi insicurezza. Una debolezza così rara in lui.
«Sakura…» sussurrò, col suo tono basso, gentile e pastoso, così gradevole alle mie orecchie. Avrei potuto sentirlo chiamarmi per nome per tutta la vita, esso si scioglieva sulle sue labbra, riempiendomi il cuore di calma e dolcezza.
«Syaoran-kun» ricambiai con gaiezza, rivolgendogli uno dei miei sorrisi più sinceri.
Lui era reale, di certo. E nonostante tutto, non mi aveva abbandonata; era rimasto al mio fianco, proprio quando temevo che non mi avrebbe neppure più rivolto la parola.
Lo guardai dritto negli occhi, piena di gratitudine. Non poteva neppure immaginare quanto la sua presenza mi stesse aiutando a sopravvivere, quanto fosse divenuta essenziale nella mia nuova vita.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Sono riuscita ad aggiornare prima che passasse un mese, questo è un miracolo! 
Quello che avete appena letto è un capitolo fondamentale che segna una svolta: d'ora in avanti aspettatevi il terrore muahaha. Scherzi a parte, verranno spiegate molte cose, ma si aggiungeranno altri misteri. 
Dunque, è palese che per le "fatine dello zucchero" mi sia ispirata alla carta The Sweet? Ebbene, sappiate che l'aspetto è quello!
Qui ho da spiegarvi solo due figure soprannaturali, appartenenti al folklore giapponese:
- la yuki onna (lett. "donna delle nevi") è una donna di bell'aspetto, raffigurata solitamente con lunghi capelli lisci e un kimono bianco, 
 i cui occhi provocano terrore, che si dice appaia di notte confondendosi col paesaggio;  
- la yama-uba (lett. "vecchia della montagna") ha l'aspetto di una mostruosa strega, coi lunghi capelli spettinati e un kimono sporco e strappato. 
Per il resto, quello che si pensa facciano è scritto nel capitolo stesso.
Detto ciò, vi auguro una buona serata!
A presto (spero)
Steffirah

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


La verità


           
L’ultimo giorno di gita andò meglio: durante la mattinata Syaoran-kun e Meiling-chan si aggiunsero alla nostra comitiva, con grande sgomento di tutte e mia incommensurabile gioia. Potevo capire la sorpresa delle ragazze, se era vero che finora erano sempre state snobbate da lui; Yamazaki-kun, invece, se ne mostrò entusiasta, riflettendo il mio stesso umore. Quella poteva finalmente essere l’occasione per diventare tutti un grande gruppo unito.
Certamente, i due cugini continuavano a starsene un po’ sulle loro, intervenivano poco nelle nostre conversazioni e ogni tanto si staccavano da noi per restare da soli. In quei momenti mi chiedevo di cosa discorressero, soprattutto perché sembravano sempre molto coinvolti da quel che si dicevano ed erano piuttosto accesi nel rivolgersi l’uno all’altro. Quel pomeriggio per un istante quasi temetti che stessero litigando per quanto alzarono la voce, ma quando si accorsero di noi Meiling-chan ci sorrise come se nulla fosse, mentre Syaoran-kun si limitò a guardarmi. I suoi occhi erano direttamente rivolti ai miei, le sue iridi mi incatenarono sul posto con la loro profondità. Era come se mi stessero lanciando un avvertimento e quanto più mi sentivo annegare in esse tanto più s’incupivano, si ottenebravano. Mi sembrava strano se fosse stato realmente così, visto che dopo l’incidente mi era stato tanto vicino, persino più di prima.
Ad esempio, proprio qualche ora prima mi aveva assistito mentre sciavamo, forse nel timore che potessi cedere alla stanchezza e perdere i sensi; ma in realtà mi sentivo più pimpante che mai. Inoltre, nonostante lui normalmente fosse più veloce di me aveva rallentato per stare al mio fianco e dopo essere giunti a valle eravamo ritornati insieme in seggiovia.
Era stato così emozionante stare finalmente un po’ sola con lui, a così poca distanza. Approfittai di quel raro momento per non fare altro che ammirarlo, sempre più incantata dalla sua bellezza, sia esteriore che interiore. Mi rasserenai allora, capendo che era tutto molto più semplice di quanto pensassi: mi bastava stare in sua compagnia per sentirmi bene, completa.
Sentendosi probabilmente osservato, ad un quarto del percorso si voltò verso di me, domandandomi come stessi.
«Bene. Benissimo» risposi onesta. Dopo aver fatto un bagno caldo una volta alzata mi sembrava di aver riottenuto tutto il calore perduto.
«Ho qualcosa in faccia?» chiese in seguito, toccandosi una guancia con fare perplesso.
Ne osservai scrupolosamente ogni centimetro, negando col capo, piegandolo poi su un lato, disorientata.
«Perché?»
«Dovresti dirmelo tu, mi stai fissando.»
Arrossii più del dovuto, sentendomi colta in flagrante, e agitata scossi le mani davanti al viso, finendo con lo smuovere tutta la cabina.
«Perdonami, non volevo essere indiscreta!»
«Tranquilla, non fa niente» replicò in fretta, prendendomi le mani per farmi stare ferma. «Ma sta’ attenta, se dondoli troppo rischi di cadere.»
A quel punto annuii soltanto, scusandomi ancora.
«Sicura di stare bene?» si assicurò un’ultima volta, guardandomi dritto negli occhi, quasi tentasse di leggere oltre essi per assicurarsi che non stessi mentendo.
Confermai convincente e solo allora mi lasciò, rimettendosi composto, dedicandomi un piccolo sorriso che aveva un che di celestiale, per quanto effimero e a malapena accennato. Tuttavia, quelle sue meravigliose iridi luccicarono e quasi come una reazione naturale le mie budella si attorcigliarono. La cosa buffa è che tutto ciò durò soltanto pochi secondi, ma mi sentii come se provassi tali emozioni da un tempo eterno, immemore.
Fu comunque quella stessa ultima notte allo chalet che scoprii il suo segreto, cominciando a districare un po’ quel grande enigma che era.
Stavamo cenando – al solito, lui e Meiling-chan se ne stavano in disparte a digiunare o sbocconcellare cibo, il che ormai mi induceva a chiedermi se non seguissero una qualche dieta particolare – quando improvvisamente impallidì e si lasciò aiutare dalla cugina mentre usciva dalla sala, con quell’aria sofferente che avevo già visto per due mesi consecutivi. Nessuno parve farci caso e io mi chiesi come fosse possibile che soltanto io me ne accorgessi, quando era piuttosto lampante.
Diedi una rapida occhiata agli altri, vedendoli proseguire col pasto come se nulla fosse, e un po’ infastidita – seppure senza una vera e propria ragione che riuscissi a spiegarmi – mi affrettai a finire i miei udon. Mi alzai col piatto per posarlo sul bancone e tornai dagli altri, usando la scusa di dover andare in bagno per allontanarmi; una volta uscita dalla sala da pranzo cercai i due cugini per i corridoi, senza tuttavia trovarli.
Mi avviai pertanto al piano superiore, diretta verso le camere dei ragazzi con la convinzione che lei lo avesse accompagnato nella sua stanza. Quanto più salivo le scale tanto più lo stomaco mi si stringeva in una morsa, sempre più in ansia per quella malattia sconosciuta.
Non appena misi piede nel loro corridoio quasi mi scontrai con Meiling-chan e mi bastò dare una rapida occhiata attorno a lei per accorgermi che fosse sola.
«Meiling-chan, come sta Syaoran-kun?» andai dritta al sodo.
Parve contrariata da quel mio interessamento, ma mostrò un viso tranquillizzante.
«Bene.»
«Lo so che non è vero» ribattei, volendone sapere di più. «Ho visto la sofferenza sul suo volto.»
Lei sospirò, ponendosi perfettamente di fronte a me, fissandomi ardentemente negli occhi, usando un tono di voce terribilmente convincente.
«Ti assicuro che sta bene, davvero. Non è nulla di grave, soltanto un po’ di stanchezza.»
Sbattei le ciglia, sentendomi un po’ rintronata. Non avevo idea di come stesse cercando di abbagliarmi, ma non potevo permetterglielo.
«Perché non puoi dirmelo?» insistetti, mantenendomi lucida.
Sembrò abbastanza sorpresa da quella domanda, o forse fu tutta la mia reazione ad interdirla; fatto sta che assunse un’espressione abbattuta, sviando dai miei occhi.
«Ci sono casi in cui è meglio non sapere.»
Più mi venivano dette questo genere di cose, più mi sentivo sprofondare negli abissi del panico, e il terrore mi artigliava con le sue grinfie per trascinarmi sempre più a fondo. Stava morendo, non trovavo altre spiegazioni. Per quello non mi voleva con sé. Per quello aveva sempre tentato di allontanarmi. Per non farmi stare male dopo la sua scomparsa.
Non potevo permetterglielo. Non era giusto essere così egoisticamente altruista.
«Perché?» ripetei debolmente, temendo la risposta.
«Perché se tu lo scoprissi» fece una pausa, chinando la testa, proseguendo disillusa, «ti allontaneresti sicuramente da lui. È ciò di cui lui è convinto e so che è anche ciò che più spera. Tuttavia, sia io che le sue sorelle siamo così liete di vederlo finalmente stare così bene con qualcuno che non sia parte della sua famiglia che non vorremmo mai e poi mai che tu lo abbandonassi.» Stavo per replicare, quando lei schioccò la lingua al palato, guardandomi rassegnata. «Ma tanto se non lo farai tu, saremmo costrette a farlo noi… se tu dovessi scoprire la verità.»
Dovevo ammettere che non ci avevo capito molto, ma su una cosa non avevo dubbi.
«Ti sbagli, Meiling-chan. Qualunque sia la cosa che lo affligge, qualunque sia il suo segreto, io non potrei mai abbandonarlo. Non lo lascerei mai solo, bensì mi assumerei parte della sua sofferenza.»
Le sorrisi, percependo una lacrima sfuggire dal mio controllo.
Lei schiuse le labbra, sbigottita, sembrando a corto di parole, sussurrando solo un: «Tu…»
Mi asciugai rapidamente gli occhi, spostando per un attimo lo sguardo verso l’esterno. E allora mi sentii cascare sotto terra. Poggiai le mani contro il vetro, l’aria mi mancò dai polmoni mentre cercavo di capacitarmi di quel che vedevo, sperando che quella sagoma non fosse la sua. Ma quell’ammasso di capelli bruni era inconfondibile e stava indossando lo stesso giubbone color notte che aveva portato con sé in montagna. Cosa ci faceva Syaoran-kun lì fuori, con quelle basse temperature, in mezzo alla neve?! Ero convinta che stesse riposando!
Mi morsi le labbra, allarmata, affrettandomi a fare dietrofront.
«Sakura.» Mi voltai spazientita, ma al contempo colpita. Meiling-chan mi aveva appena chiamata per nome. «Quello che vedrai potrebbe corrispondere ad una realizzazione delle tue più grandi paure.»
Risposi senza indugio, sicura di me stessa. «Se anche così fosse non avrei alcun timore. Stiamo parlando di Syaoran-kun.»
Lei sorrise con approvazione e ad un suo cenno ripresi la mia corsa, afferrando al volo giubbino, sciarpa e cappello, imbacuccandomi rapidamente mentre mettevo le scarpe.
Uscii trafelata chiudendomi la porta alle spalle, seguendo quel che rimaneva delle sue impronte prima che il vento le cancellasse. Mi accorsi che, per quanto flebili e lievemente trascinate, esse conducevano verso il bosco, così allungai il passo affrettandomi a raggiungerlo.
Mi inoltrai nella foresta, continuando a cercare le sue tracce, perdendo il conto ormai di quanti alberi avessi già superato. Dovevo trovarmi ormai nel fitto della foresta perché il biancore era quasi scomparso e le montagne non si vedevano più a causa di tutte quelle chiome elevate.
Mi fermai per un attimo a riprendere fiato, sentendomi gli occhi pizzicare e le narici bruciare a causa del freddo e della fragranza pungente degli aghi. Mi stropicciai le palpebre e soltanto quando tolsi le mani notai Syaoran-kun: era rannicchiato al di sotto di uno di questi abeti maestosi, la sua schiena rivolta verso la corteccia, le ginocchia strette al petto e la testa nascosta tra le braccia.
Feci qualche passo verso di lui e quasi contemporaneamente lui, notandomi pur senza guardarmi, ordinò in tono cupo: «Vattene.»
«No» mi impuntai, continuando a farmi avanti, risoluta.
«Sakura, vattene. Non farmelo ripetere.»
Finsi di non sentirlo, proseguendo, al che alzò la testa di scatto, mostrandosi adirato.
«Vattene!» ringhiò, alzando la voce. Essa divenne più gutturale e cavernosa, sembrava quasi quella di un animale.
I miei piedi si radicarono al terreno e trattenni il fiato, non riuscendo a reagire in alcun modo.
Notai le lacrime raccogliersi nei suoi occhi, scivolargli sulle gote, mentre le sue iridi divenivano ancora più ocra e lucenti, brillanti anche nella notte. Sentii un tonfo al cuore vedendolo piangere. Stava così male? Cosa potevo fare per alleviare il suo dolore?  
Le sue lacrime scintillarono sotto la luce della luna, e solo in quel momento mi accorsi che c’erano pochissime nuvole nel cielo e il suo chiarore non ne era celato, illuminando tutto quel che ci circondava.
Così, la sua figura mi raggiungeva in maniera chiara e distinta: strinse i denti e li digrignò, accovacciandosi sul suolo. Lo vidi poi sorpreso da piccoli spasmi che lo scuotevano, facendolo contorcere, e io volevo poter essere in grado di fare qualcosa, qualunque cosa per porre fine a tutta quella sofferenza che vedevo sul suo volto. Ma ero totalmente inerte dinanzi a qualcosa di tanto straziante, di tanto inverosimile, di tanto incredibile.
Le sue fattezze cominciarono a cambiare poco alla volta, i suoi vestiti si strapparono insieme al mutarsi del suo corpo, mentre una coda si faceva largo tra le sue vesti; si accucciò su quattro zampe ed emise un lungo ululato che narrava di un atroce tormento, prima che le sue fattezze mutassero del tutto.
Ben presto, al posto dello Syaoran-kun che conoscevo, mi ritrovai dinanzi il lupo che incontrai nel bosco. Non dubitavo che non fosse lo stesso: ne riconobbi il manto di quel caldo marrone, come quello dei capelli di Syaoran-kun, quel muso lungo e largo che mi aveva restituito la sciarpa, le orecchie piccole e pelose ora afflosciate, quegli occhi così svegli, che adesso esprimevano paura e un profondo pentimento.
Mi inginocchiai sulla neve, incapace di battere ciglio, temendo che se gli avessi camminato incontro sarebbe scappato e allora sarebbe stato impossibile inseguirlo. Per questo mi tolsi i guanti e allungai soltanto una mano verso di lui, col palmo rivolto in alto, per fargli capire che poteva fidarsi di me: non gli avrei fatto del male, né sarei fuggita, né l’avrei mai rivelato a nessuno.
Con cautela mi si avvicinò, forse temendo di spaventarmi, ma io gli sorrisi incoraggiante. Ne osservai fascinata le ampie zampe che calpestavano la stoffa ridotta in brandelli, spingendola indietro, e la sua corporatura snella e robusta; questa divenne ancora più evidente quando si fermò a pochi centimetri da me. Poggiai una mano al suolo, sprofondando nella neve, e mi allungai in avanti, giungendo parallela ai suoi occhi.
«Syaoran-kun…» sussurrai con morbidezza, posando la mano destra sulla sua testa, in mezzo alle orecchie. Le mie dita si insinuarono nel suo lungo e denso manto, scendendo fino al dorso, carezzandolo con delicatezza. Era così caldo e soffice….
Sollevai anche l’altra mano, quasi desiderosa di abbracciarlo, ma lui mi anticipò spostando il muso contro il mio palmo, sniffandomi e strusciandovelo contro; ridacchiai deliziata, sia a causa della punta umida che per il solletico che mi faceva. Mi parve quasi di vedere quegli occhi sottili sorridere, al che decisi di lasciar perdere tutta la mia cautela e lo avvolsi con le mie braccia, affondando il viso nel suo possente collo, dove il suo mantello era più lungo. Mi accorsi così che il suo odore, solitamente molto delicato, fosse più selvatico, simile alla terra e le foglie.
Mi staccai per riosservarlo e dato che si stese posando la testa sulle zampe anteriori potei analizzare con accuratezza ogni dettaglio del suo corpo, notando i grossi artigli e quanto fosse folta la sua coda. Ci giocai per un po’, sperando di non farlo innervosire, e lui la smosse a destra e sinistra, alzando un po’ di neve. Ridendo me la scrollai di dosso e per ritrovare calore mi stesi al suo fianco, posando la testa tra il suo addome e i suoi arti anteriori, ammirando la luna con una piacevole sensazione nel petto.
Forse sì, Meiling-chan non aveva torto: sarebbe stato più normale e umano aver paura di ciò a cui avevo assistito. Ciononostante non potevo fare a meno di provare pena se pensavo a tutto quello che lui sembrava essere costretto a vivere ogni volta che avveniva la trasformazione, soprattutto se lo faceva soffrire anche durante l’arco della giornata.
E dopotutto, si trattava pur sempre di Syaoran-kun: ero certa al cento per cento che lui non mi avrebbe mai fatto del male, mai e poi mai.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Finalmente riesco ad aggiornare, con un capitolo importantissimo che segna una svolta, sia nella storia che nel rapporto stesso tra Syaoran e Sakura. Non vi preoccupate se per ora ancora sembrano esserci delle cose poco chiare, tutto verrà spiegato per bene già dal prossimo capitolo. Io vi avviso, preparate i fazzoletti perché da qui in poi diventa tutto un pochino più angst. 
Gli udon, per chi non lo sapesse, sono gli spaghetti giapponesi (i noodles, per intenderci).
Ringrazio tutti coloro che hanno la costanza di seguirmi ancora e continuare a leggere, nonostante le mie prolungate assenze.
Vi auguro una buona serata e - considerando come andranno le cose d'ora innanzi con l'università - immagino anche un buon inizio d'estate.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Scoperte

 

Eravamo tornati a Reiketsu già da una settimana. Le lezioni trascorrevano in maniera tranquilla e in ambito scolastico non ci furono eventi importanti, eccetto il fatto che mi accorsi che Syaoran-kun e Meiling-chan trascorrevano non più il loro tempo da soli o con Tomoyo-chan ed Eriol-kun esclusivamente, bensì cercavano di mostrarsi amichevoli con tutti. Persino Feimei-chan si avvicinò a noi, presentandosi anche ai miei amici, salutandoci ogni volta che ci vedevamo a inizio e fine giornata.
Come ormai era loro consuetudine continuavano ad andarsene da qualche parte ignota durante il pranzo, sparendo per quei minuti, lasciandomi ancora a chiedermi dove si nascondessero. Soltanto un giorno rividi Syaoran-kun comodamente appollaiato su un ramo poco distante dalla finestra della nostra aula, mezzo nascosto dalle frasche. Lo fissai stupita – ma quindi qualche settimana fa non avevo avuto un’allucinazione! – e rallentai nel mangiare, preoccupata. Non era pericoloso starsene lassù? Ripensando a ciò che avevo scoperto da poco, tuttavia, immaginai che non dovessi allarmarmi tanto.
Quando si accorse che lo avevo notato mi rivolse un piccolo sorriso e fece cenno di silenzio, svanendo; sogghignai tra me, abbassando gli occhi sul mio bentou, sentendomi il cuore fare le capriole al pensiero che avrei dovuto aggiungere quello alla lista dei suoi segreti che dovevo assolutamente mantenere. Erano qualcosa che soltanto noi due condividevamo, qualcosa che ci univa, ci rendeva complici, separandoci dal resto delle persone che ci circondavano. A quell’idea mi esaltai, vedendomi saltellare nella mia mente, troppo su di giri.
Giorno dopo giorno non facevo che scoprire nuove cose su di lui, e tra queste quella che mi rincuorò in maniera totale fu il fatto che non avesse alcuna malattia: mi spiegò che quando stava male era dovuto semplicemente all’influsso della luna che lo rendeva più “umano” e, di conseguenza, più debole. Quel discorso fu piuttosto confusionario, ma mi accontentai di quella breve spiegazione, certa che prima o poi avremmo avuto modo di parlarne più a fondo.
In realtà, l’occasione di farlo giunse prima del previsto. Quello stesso sabato mi chiese se potessimo incontrarci dalla mattina per stare un po’ fuori, approfittando del “bel” tempo – ovviamente si faceva per dire, visto che le nuvole persistevano a velare il cielo – e dell’assenza di vento, rendendo un po’ più sopportabili i cinque gradi percepiti. Lassù, nel nord del Paese, si ghiacciava se non si stava accorti nell’abbigliamento, il che ci portava tutti inesorabilmente a riempirci di strati e strati di vestiti, competendo con quelli delle cipolle.
Dopo quella richiesta feci difficoltà ad addormentarmi, riempiendomi di aspettative, strapazzando Kero-chan di coccole, rotolando con lui su tutta la superficie del letto prima di scaricarmi del tutto e crollare; ciononostante, mi svegliai sorprendentemente presto e ne approfittai per prepararmi, mal celando la trepidazione. Forse non lo era affatto, trattandosi unicamente di un invito offerto con uno scopo ben preciso, però da un lato lo si poteva considerare come una sorta di appuntamento, no? E se tale si fosse rivelato, sarebbe stato il primo in assoluto della mia vita!
Probabilmente per questo quella mattina ci misi molto impegno nel rendermi presentabile e mia cugina mi aiutò parecchio, dandomi abiti che erano non solo caldissimi ma anche adorabili da vedere. Mi fece infatti indossare una canottiera in flanella al di sotto di un lungo maglione morbidissimo di lana, color crema, che mi arrivava fino a metà coscia, con delle calze scure pesanti, stivali neri alti fin sopra il ginocchio e un chiaro cappotto svasato con un fiocco sul fondoschiena, abbinandolo alla sciarpa che mi avevano regalato le ragazze, un basco di lana con due fiori bianchi realizzati all’uncinetto su un lato e guanti bianchi. Mi consigliò inoltre di mettere una crema sulla pelle scoperta del viso, sia per ammorbidirla che per evitare si seccasse al gelo, e fare una passata di balsamo sulle labbra affinché non si screpolassero.
Una volta pronta salutai mia cugina ed Eriol-kun, avviandomi allegra verso il portone, facendo dondolare la borsa. Dopo il ritorno dalla gita entrambi avevano capito che qualcosa era cambiato, soprattutto perché io e Syaoran-kun eravamo praticamente diventati inseparabili, ma naturalmente non feci assolutamente parola con loro di ciò che era successo. Dissi soltanto che ci eravamo avvicinati un po’ di più e nessuno dei due fece domande per investigare più a fondo, mostrandosi invece entrambi contenti. In realtà, avevo sempre l’impressione che al di là dei loro sorrisi perfetti ci fosse un minimo di preoccupazione, per cui tentavo di rassicurarli come potevo, mostrandomi costantemente gaia. Era un dato di fatto ormai che per quanto mi mancasse la mia vecchia casa, la mia vecchia città e i miei vecchi amici, anche qui mi ero ambientata, cominciando a sentirmi a mio agio. E, soprattutto, felice.
D’altronde, a Tomoeda non era rimasto più molto: le foto della mamma le avevamo portate con noi, dividendocele, mio padre era in Africa, mio fratello in Europa, e oltre loro l’unico parente più prossimo che avessi era il mio bisnonno. Per il resto non avevo instaurato forti rapporti con nessuno in particolare: ero amica di tutti, ma vi volevo bene allo stesso modo. Fino a quel momento non c’era mai stata una persona cui mi sentissi particolarmente legata. Soprattutto non nel modo con cui mi sentivo in compagnia di Syaoran-kun.
Sorrisi raggiante scorgendolo accanto al muretto in strada e affrettai il passo, salutandolo pimpante quando si voltò a guardarmi. Uscii dal cancello e mentre ricambiava il saluto notai il suo abbigliamento, dalle tinte molto dark. Che io fossi troppo luminosa con queste stoffe chiare?
Quando sollevai lo sguardo sul suo viso lo trovai a scrutarmi allo stesso modo da capo a piedi, sembrando contrariato.
«Distruggi i miei piani» mi rimproverò.
«Hoe? Che piani avevi?»
Lo affiancai per incamminarci, attraversando la strada deserta.
«Volevo mostrarti la zona.»
Lo guardai perplessa. In realtà, avevo già avuto modo di vedere tutto il paesino, piccolo com’era, e in ogni caso non capivo come lo stessi intralciando.
«Intendo, la parte non abitata» precisò, sorprendendomi.
Abbassai gli occhi sugli stivali, capendo.
«Non avrò difficoltà» assicurai. «Fammi strada.»
Parve pensarci un po’ su, ma poi scavalcò la recinzione che ci separava dal bosco, protendendo una mano per aiutarmi. Lo imitai senza difficoltà e lasciai che mi guidasse in mezzo agli alberi e le felci.
Mi guardai intorno, restando sempre più senza parole quanto più ci inoltravamo in esso. Sebbene i colori fossero piuttosto spenti per l’assenza del sole, le larghe fronde si estendevano al di sopra di noi, creando quasi una cupola dal profumo d’autunno, con qualche goccia d’inverno.
Sorrisi inalandolo, calpestando foglie, terra, pietre e legnetti, ammirando le folte chiome attorno a noi che sfumavano da un verde scuro ad un giallo-arancio tendente al marrone, intervallandosi. Qui l’aria era abbastanza fresca, ma non per questo sentivo freddo – e forse ciò era dovuto anche al fatto che, sebbene ci fossero i guanti a separarci, continuavo a tenergli la mano.
In lontananza udii di nuovo quello scroscio d’acqua che avevo sentito la notte di Halloween, per cui mi guardai intorno, cercandone l’origine. Quasi leggendomi nel pensiero Syaoran-kun si inerpicò su un sentiero celato tra castagni e querce, e dopo poco mi mostrò un sottile ruscello. Ci avvicinammo ad esso ed io mi inginocchiai, togliendomi un guanto per immergere la mano in quelle acque cristalline, giocando coi sassi piatti sul fondale, prendendone qualcuno per sfiorarne la superficie levigata. Dopo che li posai creai per diletto delle piccole interruzioni nella spuma formatasi dalla corrente, sennonché mi accorsi di essermi persa nel mio mondo di fascino, ignorando totalmente Syaoran-kun.
Mi voltai a guardarlo con uno sguardo di scuse, ma piuttosto che risentito lo trovai rasserenato.
Si accovacciò accanto a me, chiedendo: «Vuoi vedere dove finisce?»
Annuii intrepida, rialzandomi immediatamente.
Seguimmo il suo corso verso ovest finché poi, al di là di numerosi platani, trovammo un piccolo specchio d’acqua. Spalancai le labbra dinanzi ad una tale meraviglia. Tutt’attorno era di un verde smeraldo, riflettente la luce degli alberi, mentre giusto al centro aveva un cuore di un turchese brillante, come se sul fondo vi fossero incastonati lapislazzuli. L’acqua era così limpida da mostrare muschio, rocce, piante acquatiche e residui di alberi caduti, che coi loro rami e tronchi creavano una fitta rete, una mappa da seguire dagli animali che quella sorta di irregolare laghetto ospitava.
Ero totalmente colma di meraviglia, mi sembrava una creazione divina per il come riluceva senza sole, per il come riflettesse le foglie che lo abbracciavano e lentamente, poco alla volta, vi scivolavano sopra, galleggiando e cullandosi sulla sua superficie.
«Ti piace?» domandò tenuemente Syaoran-kun, quasi temesse di spezzare la quiete del momento.
In risposta gli mostrai i miei occhi luminosi, sperando parlassero per me.
Distese le labbra vedendomi e mi disse: «C’è anche un altro posto che rientra tra i miei preferiti. Vuoi che ti ci porti?»
Confermai immediatamente. Certo che volevo! E poi, così era come se mi mostrasse anche tanti piccoli sprazzi di sé! Non mi era difficile immaginarmelo mentre vagava solitario nei boschi, immergendosi in così tanta calma e silenzio. Nulla si udiva, eccetto lo sbattere d’ali di qualche uccello, il lieve stormire delle fronde sui rami e i passi di qualche animale. Chissà di quale si trattava.
«Che animali ci sono qui?» mi interessai mentre proseguivamo.
«Lupi, volpi rosse, scoiattoli, cervi, alci…» cominciò ad elencare, per poi interrompersi. «Ti fanno paura?» domandò timidamente.
«Per niente, adoro gli animali!» negai, speranzosa di poterne incontrare qualcuno.
«Nella foresta di conifere all’altro lato, verso la casa di tua cugina, si possono scorgere anche razze rare, come gli ezo momonga e lo shima-enaga.»
Sapevo che il primo fosse una specie di scoiattolo volante, ma il secondo non l’avevo mai sentito. E, purtroppo, non mi era ancora capitato di vederli.
«Cos’è lo shima-enaga?»
«Un tipo di codibugnolo, talmente piccolo da sembrare un batuffolo d’ovatta.»
Cercai di capire cosa fosse, visto che neppure quel nome mi era familiare.
Leggendo forse la confusione sul mio volto soppresse una risata, spiegando: «Si tratta di un uccello simile ad un passero e una cinciallegra.»
«Wah! Vorrei tanto vederlo!»
«Se ci tieni, un altro giorno potremmo andare in esplorazione.»
«Oh! Sì, per favore andiamoci!» esultai come una bambina, gioendo già all’idea. Potevo immaginarmelo, con lui che mi istruiva in tutte quelle cose in cui ero ancora ignorante e io che mi riempivo di nuove scoperte, stando al suo fianco!
«Prometti?»
Gli feci uno sguardo da cucciola, ma mi resi conto che non fosse necessario visto che aveva già deciso. Per cui annuì solennemente, al che esultai vistosamente. Tentai comunque di contenermi, proprio per timore di far scappare involontariamente qualche abitante del loco.
«Tu bazzichi spesso queste zone?» mi incuriosii, facendo dondolare le nostre mani giunte.
Confermò con un cenno della testa, rivolgendomi un’occhiata di sbieco.
«Tu, invece, dovresti evitarle da sola.»
Trattenni una risatina, pur ritrovandomi d’accordo con lui.
«Dico sul serio» insistette, arrestandosi.
Mi fermai pochi passi più avanti, dandogli la mia parola.
«Se non fosse stato per te che mi aiutasti ad uscirne non so cosa avrei fatto, quindi ti ringrazio e ti garantisco che non proverò più ad avventurarmici senza avere idea di dove andare e come tornare.»
Lui fece un sonoro sospiro, per poi voltarsi e puntare un dito davanti a sé, mostrandomi una vasta distesa d’erba alta. Lasciai la sua mano per spostarmi lì e quando mi ci avvicinai mi accorsi che si trattava di innumerevoli steli dalle sommità giallastre, con piccioli da cui partivano dalle cinque fino alle nove foglie ovali oblunghe, di un colore a metà tra il verde e l’argento.
Mi inoltrai tra esse, inginocchiandomi al centro di quel cerchio che si apriva tra gli alberi, togliendo entrambi i guanti per passare le dita sulle foglie, spostandole a destra e sinistra.
Dopo non molto Syaoran-kun mi si accomodò di fronte a gambe incrociate, rivelando: «Sono lupini, ma non è la stagione più giusta per ammirarli.»
«Come sono quando fioriscono?»
Chiusi gli occhi, immaginandoli mentre mi raccontava di quella distesa gialla e viola. Scommettevo che era bellissimo stare lì in estate.
Non appena tacque riaprii le palpebre, trovandolo a guardare tutto l’ambiente con un affetto smisurato, che si poteva rivolgere soltanto a qualcosa di estremamente caro.
«Sembri trovarti a tuo agio, qui.»
«Perché mi permette di essere me stesso. Non sono tenuto a nascondere la mia vera natura.»
La sua vera natura…. Deglutii, decidendo che fosse giunto il momento di affrontare quell’argomento, una volta per tutte.
«Syaoran-kun, come… come mai ti trasformi nelle notti di luna piena?» domandai debolmente, sperando di non essere indelicata. «Insomma, come è successo?»
«Sono nato così.»
Giocherellò con i lembi del suo pantalone sulle caviglie, mentre io assimilavo quell’informazione.
«Quindi sei un…» Scavai nelle profondità del mio cervello, alla ricerca del termine giusto. «Un… lupo mannaro?»
Cose simili esistevano davvero, quindi?
Scosse la testa, sembrando indeciso. Sviò lo sguardo, sussurrando: «Meiling mi ha detto che hai paura del soprannaturale.»
«È così» confermai, aprendomi in un piccolo sorriso. «Ma non ho paura di te.»
«Sei un paradosso, Sakura.» Fece una breve risata sommessa, spostando poi gli occhi sulle foglie tra le mie mani. «Non saprei da dove cominciare.»
«Parti dalle origini» suggerii, volendo capire di più del suo mondo.
«Potrei traumatizzarti.»
«Syaoran-kun, non temere. Io desidero sapere ogni cosa, desidero che tu mi renda partecipe della tua vita.»
Cercai di spronarlo come potevo e lui aggrottò le sopracciglia, guardandomi come se non si capacitasse delle mie parole.
«Perché?»
Arrossii, col batticuore. Non potevo dirgli di certo così, di punto in bianco, che era per quel caldo sentimento che provavo verso di lui che lo desideravo.
«Pe-perché…» temporeggiai, torturandomi le dita, agitata. Come glielo dicevo? E se lo avessi confessato, cosa avrebbe pensato di me?
Percependo forse il mio cambiamento d’umore lasciò perdere, giungendo ad un compromesso con se stesso.
«Ti parlerò di me e se alla fine dovessi spaventarti ti prometto che ti riporterò a casa sana e salva. Poi svanirò del tutto dalla tua vita. E se non dovessi riuscirci da solo, chiederò alle persone che mi conoscono di aiutarmi… di aiutarci a tenerci lontani.»










 

Angolino autrice:
Buonsalve! Finalmente la sessione estiva si è conclusa e posso ridedicarmi alla scrittura e alla pubblicazione - anche se farò sicuramente delle pause, la prima a inizio agosto (visto che partirò) e la seconda non appena ricomincerò a studiare per i prossimi esami. Ciononostante, cercherò di essere più presente (anche perché non posso più interrompermi, i prossimi capitoli sono strettamente connessi gli uni con gli altri). Da qui in poi ci saranno tutta una serie di rivelazioni, come potrete ben immaginare. Posso solo consigliare alle persone sensibili di preparare i fazzoletti, nei prossimi due capitoli si potrebbe piangere. 
Detto ciò, vi ringrazio per esserci ancora e auguro a tutti buone vacanze!

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


Rivelazioni

 

Ascoltai tutto quel che Syaoran-kun aveva da dirmi in religioso silenzio, senza quasi proferire parola finché non parve essere giunto alla fine.
«Come avrai capito, Sakura, io non sono umano. Ma non sono neppure un licantropo, come tu pensi. In realtà, la mia vera e propria origine è…» Fece una piccola pausa, prendendo fiato. «Quella di un vampiro.»
Misurò ogni parola, osservandomi scrupolosamente, forse aspettandosi che fuggissi via a gambe levate in preda al terrore. Invece, sorprendendo persino me stessa, rimasi tranquillissima. L’unica cosa che pensai fu che finalmente molti aspetti oscuri di lui diventavano chiari e sentii che, nel profondo, era una verità che avevo sempre saputo.
«Mia madre appartiene ad una delle tre nobili stirpi di vampiri, all’interno della quale non è mai capitato che nascesse qualcuno come me. Nel corso del tempo ha fatto diverse ricerche per vedere se ci fossero stati casi simili in passato e pare che una situazione analoga alla sua si fosse verificata molti secoli fa, in un altro clan. Non so quanto ci sia di affidabile in quelle fonti, io stesso ne dubito, visto che so di non essere altro che “un errore” compiuto da mia madre.» La sua voce non tradì nulla mentre diceva questo, rimanendo totalmente atona, così come il suo viso restò inespressivo.
«Accadde che si innamorò della persona sbagliata, ossia di un nostro nemico naturale. Quello che viene comunemente considerato come il nostro nemico giurato, un licantropo. Sia lei che mio padre ricevettero una severa punizione per aver infranto un tabù: lui venne ucciso e lei venne esiliata dal nostro clan, per cui fu costretta ad allontanarsi dalla nostra patria, insieme alle mie sorelle. Voleva spingersi più lontano, ma sapeva che qui in Giappone avrebbe trovato qualcuno che poteva nasconderla da coloro che volevano fare del male alla sua famiglia.» Mi guardò di sottecchi, esitante. «Sto parlando di Hiiragizawa.»
Solo in quel momento sussultai, cominciando a capire tantissime cose.
«Anche Eriol-kun è un vampiro?»
«Di un’altra stirpe» confermò, non distogliendo lo sguardo dal mio viso, forse temendo che quella scoperta potesse spaventarmi persino di più.
Ero giunta ad un punto, ormai, in cui il soprannaturale cominciava a sembrarmi naturale, più reale della realtà stessa in cui avevo sempre vissuto. O meglio, in cui ero sempre convinta di aver vissuto, perché considerando gli interventi spirituali avvenuti nella mia vita c’era sempre stato ben poco di normale.
Da quando mi ero trasferita ci facevo caso più di prima e soprattutto da quando avevo conosciuto Eriol-kun avevo cominciato a presumere che qualcosa non quadrasse, né in lui né negli altri, quindi una parte di me se lo aspettava.
Piuttosto, c’era un’altra cosa che mi turbava.
«Quindi anche mia cugina…?» provai a chiedere, ma mi interruppi notando la tristezza sul suo volto.
«Ritengo sia più corretto che siano loro a raccontarti la loro storia.»
Annuii, trovandomi d’accordo, e visto che ingoiai le mie domande lui riprese: «Quel che nessuno eccetto mia madre sapeva era che lei aspettasse un bambino da quell’uomo che tanto amava, per cui chiese a Hiiragizawa di nasconderci dal nostro clan nemico, sapendo che di lui poteva fidarsi. La mia nascita fu quindi taciuta al nostro mondo, ma fu a lungo temuta, dato che non si sapeva come sarei stato, cosa sarei stato.
«Quando venni alla luce sia mia madre che le mie sorelle si sentirono risollevate, vedendo che avevo le tipiche caratteristiche vampiresche. Anzi, a quanto pareva portavo in me un po’ dell’antico splendore nobile che col tempo si era perduto, sia nei miei tratti che nel mio potere. Tuttavia ben presto si accorsero che una volta al mese sembravo patire le peggiori pene dell’inferno e allarmate cominciarono a darsi da fare, cercando rimedi su rimedi per liberarmi da quella maledizione. Nel mio primo mese di vita mia madre cadde naturalmente nel panico, non avendo mai assistito a nulla del genere, e la famiglia Reed in quel periodo le fu molto vicina, spiegandole cosa mi stava succedendo, appigliandosi proprio a quell’esperienza che dichiaravano di aver vissuto, registrata nei loro annali. Essendo licantropo, mio padre era in tutto e per tutto un umano, escludendo quella peculiarità: alla fine non si tratta d’altro che di una mutazione genetica che colpisce alcuni individui piuttosto che altri, i quali hanno già determinate predisposizioni fisiche che ne permette la metamorfosi. Avendo preso i miei caratteri da entrambi i miei genitori, durante le notti di luna piena il mio cuore prende a battere in una maniera impressionante, il sangue comincia a scorrermi freneticamente nelle vene portandomi a provare un calore insopportabile, che mi brucia dall’interno e si estende su tutta la superficie della mia epidermide. Normalmente la mia temperatura corporea è sui ventitré gradi, più alta di quella dei vampiri, che si aggira attorno ai diciotto; in quei frangenti, però, mi capita di sfiorare anche i quaranta gradi, quindi immagino non sia molto dissimile da quando voi umani avete la febbre. Tutto ciò ha la durata di tre giorni, talvolta in maniera più intensa, altre volte manifestandosi in maniera leggera e alla fine, quando la luna raggiunge la sua massima posizione in cielo, mi trasformo totalmente in un lupo, restando in quella forma fino al suo calare. Mia madre temeva che ciò potesse apportarmi dei problemi crescendo, ma ogni mese è sempre stato così. Certo, col tempo mi sono abituato un po’ al dolore.»
Mi morsi il labbro, dispiacendomi, non sapendo che dire.
«Ultimamente però sta diventando più sopportabile» aggiunse sottovoce, quasi parlasse tra sé.
«Cos’è cambiato?» domandai flebilmente, sperando fosse qualcosa in cui potessi aiutarlo.
Sollevò lo sguardo, fissandolo sul mio, senza lasciarlo per un po’. Non mi rispose, e io non domandai più nulla, in attesa.
«Non ne sono certo» ammise infine, sembrando sconfitto.
Alzò per un po’ gli occhi sulle nubi, facendo un mezzo sorriso.
«Scommetto che ci saranno molte cose poco chiare per te, ora che sai che sono un vampiro. Ti chiederai “Come fa ad andare in giro di giorno?” Beh, la risposta è quella.» Indicò il cielo e io seguii il suo dito, fissando lo sguardo sulle fitte nubi. Per la prima volta nella mia vita, fui grata al maltempo. Da quel poco che avevo sentito dire sui vampiri, non mi sembrava che la luce del sole vi facesse bene. Era per quello che li chiamavano “creature della notte”, no?
«Poi, sarai curiosa di sapere di cosa mi cibo.»
Riportai gli occhi su di lui, trovandolo a guardarmi esitante. Potevo immaginare che non fosse semplice affrontare tutti quegli argomenti con me, che non avevo molti diritti di sapere, essendo estranea a quel mondo. Ma volevo sostenerlo, volevo fargli capire che non lo giudicavo, che non mi importava quanto riprovevole potesse essere quel che mi stava dicendo perché io lo accettavo, così com’era. Per cui gli feci un gesto accomodante, invitandolo a continuare e lui lo fece quasi vergognandosi.
«Prima di venire qui in Giappone la mia famiglia usava nutrirsi di sangue umano. Aveva però un codice da seguire, una propria legge, per cui non lo faceva in maniera sconsiderata, bensì soltanto con le persone in fin di vita o per salvarne altre da attacchi di criminali. Come saprai, ci sono buoni e cattivi anche tra di voi.» Fece un sorriso amaro, abbassando lo sguardo. «Non che io mi classifichi tra i buoni, anzi. Sebbene una volta giunti in Giappone abbiamo cominciato a seguire la dieta a base di sangue animale di Hiiragizawa c’è voluto del tempo per abituarci, e ciò valeva soprattutto per me: per farmi crescere forte necessitavo di sangue umano, per cui era di quello che venivo nutrito da mia madre finché non divenni abbastanza grande da potermelo procacciare da solo. Ero però il più giovane e, come conseguenza della mia natura, anche il più avventato. Mi attenevo alle regole dei Reed, eppure se sentivo una buona scia tendevo a non riflettere prima di nutrirmene. Nel corso della mia infanzia mia madre mi ha aiutato molto a controllare questo aspetto di me, e insieme scoprimmo che quasi istintivamente ero portato a cacciare anche animali, il che un po’ facilitava i loro sforzi. Con gli anni sono riuscito a capire la differenza tra sangue umano e animale, tra i miei impulsi vampireschi e quelli da lupo, ponendomi così dei limiti, cominciando anche io a cacciare animali con gli altri. E tutto sembrava andare bene, tutto sembrava essersi finalmente stabilizzato, finché… non sei arrivata tu.»
Il cuore mi salì in gola, sentendomi chiamata in causa. Ecco, sapevo di aver sbagliato in qualche modo. Lo guardai pentita, ma lui non mi concesse il tempo di esprimermi.
Strinse gli occhi, come se questa cosa fosse ciò che gli riusciva più difficile rivelare, parlando in maniera bassa, titubante.
«Quel primo giorno, quando ti ho vista, qualcosa… scattò in me…. Non saprei descrivertelo, semplicemente ti guardai, tu mi guardasti, e per un attimo mi parve che qualcuno mi stesse afferrando ogni singolo organo, stritolandomelo. Mi mancò il fiato, per cui osai respirare, sperando che una sensazione così estranea, così preoccupante, potesse svanire in fretta. Invece, me ne pentii all’istante. Il tuo odore era così buono, come niente lo era mai stato prima. Era davvero qualcosa di mai sentito, così dolce, delicato, ma al contempo intenso e penetrante. Somigliava a quello dei ciliegi in primavera, però aveva un che di più forte e perpetuo. Mi travolse, del tutto, distruggendomi dentro. Era una fortuna che ci fossero tutti quei metri tra di noi, perché se fossimo stati anche soltanto pochi centimetri più vicini probabilmente non mi sarei trattenuto.»
Rabbrividii inevitabilmente, sentendomi la pelle d’oca, rendendomi conto di quanto fossi stata vicina al pericolo.
Lui riaprì gli occhi lentamente e nonostante la breve distanza che intercorreva tra di noi mi accorsi che il colore delle sue iridi era più cupo del solito, quasi tendente ad un rosso scuro, simile al sangue. Ma durò la frazione di qualche secondo perché in un battito di ciglia tornarono come le conoscevo.
«Per questo preferii fuggire. Non potevo rovinare te, me, tutti i presenti e le loro e nostre famiglie in una sola giornata. A causa di una mia debolezza saremmo stati costretti a compiere uno sterminio, facendo sparire un’intera città, e una simile violenza ingiustificata andava contro la nostra morale e i nostri principi. Quindi mi rintanai nella mia stanza, meditai a lungo sulle mie azioni e mi punii per i miei pensieri errati. Quando mi ravvidi, prima di tornare in società mi nutrii più del solito, decidendo di affrontarti. D’altronde, sia Hiiragizawa che Daidouji riuscivano a starti affianco senza desiderare di ammazzarti e io non potevo essere tanto diverso da loro. Era vero che entrambi erano conosciuti maggiormente per il loro controllo, ma non ero da meno. Non mi sarei lasciato sconfiggere da te, quindi tornai a scuola.
«Dato che ne ebbi parlato con tutta la mia famiglia chiedendo loro consiglio, cercando di capire cosa ci fosse di tanto particolare in te oppure di sbagliato in me, sia le mie sorelle che Meiling provarono a sentire il tuo odore: lo trovarono particolarmente buono, ma non al punto da farle impazzire come, invece, faceva con me. Erano d’accordo sul fatto che fosse una fragranza rara, ma riuscivano tranquillamente a sopportarla. Io non me ne capacitavo e pure quel giorno, mentre ti parlavo, ti osservavo, ti odoravo, continuavo a chiedermi perché mi bruciasse così tanto la gola, come se non bevessi da anni, perché mi sentissi stringere le viscere e strapazzare il cervello. Poiché nessuna di loro ce la faceva a vedermi tanto tormentato, Meiling provò ad intercedere tra di noi, minacciandoti affinché tu potessi capire che fosse meglio per te starmi alla larga, così un po’ col suo sostegno, un po’ aiutandomi io stesso, ho cercato di mantenere una certa distanza. Come hai visto non è durato a lungo, sono stato piuttosto arrendevole e nel giro di una settimana ho ceduto al desiderio di scoprire e capire di più su di te.»
Si fece sfuggire un sorriso, rivolgendomi una lieve accusa: «E poi tu continuavi a parlarmi, a guardarmi, ad avvicinarti a me e rivolgermi le tue attenzioni. Come potevo ignorarti? Soprattutto considerando che il destino infame ci aveva avvicinati di nuovo col turno delle pulizie.»
Mi feci piccina, ma dentro di me sorrisi a quelle parole. Era esattamente ciò che pensavo anche io in quel periodo, seppure da un punto di vista più umano.
«Così ho lasciato perdere ciò che fosse più giusto fare e, pur mantenendomi prudente, mi sono concesso di divenire tuo amico. E mi bastava, davvero. Volevo soltanto conoscerti, capire com’eri fatta, quali erano le tue particolarità. Allo stesso tempo, però, mi sono reso conto che qualcosa stava cambiando in me. O meglio, nel mio atteggiamento nei tuoi confronti. Inizialmente tentavo di mantenere un certo distacco, di non lasciarmi coinvolgere e sconvolgere da te più di quanto fosse lecito; ma poi ho cominciato a trovare sempre più difficile ignorarti e, stando al tuo fianco, mi sentivo sì morire, ma al contempo rinascere. Mi sono accorto che, tra le tante cose che provo stando con te, talvolta mi capita di percepire come delle scariche elettriche che irradiandosi da te colpiscono anche me, sfrigolando sulla mia pelle, facendomi rabbrividire. Non so se ciò dipende dai miei poteri, visto che il mio elemento sono i fulmini. Non so se tutte queste sensazioni, tutte queste percezioni, tutti questi tratti poco da me, così umani, e questa attrazione che provo verso di te siano dovute alla mia doppia natura o da qualcosa che trascende persino essa. In parte presumo sia così, non trovo altre spiegazioni sul perché proprio io dovrei essere tanto affascinato, persino stregato, da te, che sei un’umana come tante altre.»
Sapevo che il suo non voleva essere un insulto, ciononostante mi mostrai lievemente offesa. Attesi imbronciata che continuasse, eppure non lo fece; si limitò a guardarmi come se neppure lui avesse delle risposte a tutto. A quel punto decisi finalmente di rilasciare il respiro, dicendogli il mio parere.
«Forse non è la tua natura, Syaoran-kun. Forse è il tuo cuore che ti spinge verso di me, così come il mio mi spinge verso di te.»
Sembrò poco convinto da quella cosa, ma la tralasciò, ponendo un quesito più pertinente: «Sakura, non hai paura?»
«No» risposi con un sorriso, lieta che la mia voce non tremasse.
«Hai capito, vero, che volevo ucciderti? Che volevo nutrirmi di te?» Sottolineò tutto ciò, quasi volesse che io mi spaventassi e scappassi via. Ma non mi sarei allontanata, né lo avrei lasciato solo, considerando tutta la tristezza della sua vita. E, inoltre, avrei potuto essere la loro prima amica umana! Se necessario avrei potuto proteggere il loro segreto dai miei simili, affinché non facessero loro del male e non li temessero, nella speranza che un giorno potessimo comprenderci l’un l’altro e andare tutti d’accordo.
Questione diversa, invece, quella che riguardava me stessa. Mi mortificai, replicando mogia: «Mi dispiace.»
«Di cosa?» domandò incredulo.
«Di essere nata così, di avere questo odore e farti questo effetto devastante. Non mi piace essere la fonte dei tuoi tormenti.»
Strinsi i pugni sulle ginocchia, sentendomi impotente. Cosa avrei potuto fare? Sarebbe bastato celare il mio odore con altre fragranze? Dovevo riempirmi di profumo prima di uscire?
«Non preoccuparti di questo.» Sbirciai timorosa nella sua direzione e lui mi rivolse un lieve sorriso. «Ti assicuro che non è atroce come prima. Ora non è più assuefacente, anzi è diventato… piacevole. Lo vedi anche tu, no? Riesco a starti accanto senza provare intenti omicida. Al contrario, adesso… adesso non desidero fare altro che proteggerti» ammise, guardandomi preoccupato. «So che dovrei proteggerti anche da me stesso -»
«No» lo interruppi, gattonando verso di lui, fermandomi a pochi centimetri dal suo viso. Lo guardai dritto negli occhi, cercando di trasmettergli tutta la gratitudine che provavo. «Già mi stai proteggendo tantissimo, come nessuno ha mai fatto prima per me.»
Stese le labbra, mostrandosi raddolcito, ma in maniera totalmente repentina cambiò espressione e fece un sospiro, fissandomi fintamente scocciato.
«Quante domande hai in serbo per me?»
«Parecchie» lo misi al corrente, organizzandole nella mia mente.
«Allora me le porgi più tardi, si è fatta ora di pranzo e tu devi mettere qualcosa sotto i denti.»
In tutta risposta il mio stomaco brontolò rumorosamente, facendomi vergognare non poco. Soffocò appena una risata, mentre io lo guardai con attenzione.
«Tu non devi mangiare?»
Mi feci più vicina, sperando di poter capire dai suoi occhi se mi stesse mentendo o meno. Lui non si mosse di un centimetro, fece solo un mezzo sorriso sghembo.
«Mi stai offrendo te stessa?»
Arrossii vistosamente, spalancando gli occhi, sentendomi il cuore nelle orecchie. Gli avrei offerto me stessa? Lo avrei fatto, davvero? Se si trattava di poche gocce non ci vedevo nulla di male, sarebbe stata come una trasfusione, no? Ma lui come la avrebbe presa? Come si sarebbe sentito?
«I-io…»
Sorprendentemente rise, scuotendo la testa a destra e sinistra.
«Sei una grande tentazione, ma no grazie. Mi sono già nutrito.»
Si rimise in piedi con un unico movimento e mi porse le mani per aiutarmi, mentre mi chiedeva dove volessi mangiare. Appoggiai poi una mano sul suo braccio, guardandolo timidamente, indicando la mia borsa.
«A dire il vero, stamattina mi sono fatta preparare un bentou da portare con me e pensavo -» Avvampai, sentendomi improvvisamente stupida. «Speravo potessimo condividerlo» mi corressi, abbassando la voce in tono inudibile, quasi borbottando tra me.
Lui parve riflettere a riguardo e poi si illuminò, come se avesse avuto un’idea geniale.
«D’accordo allora, ti mostrerò un altro dei miei posti preferiti. Lì potrai chiedermi tutto ciò che ti angustia e mangeremo il bentou che hai portato.»
Lo fissai confusa da quelle parole, ma in ogni caso decisi di seguirlo, fidandomi di lui.









 

Angolino autrice:
Et voilà, le rivelazioni che tutti aspettavamo! In realtà questo è solo l'inizio, ci sono ancora molte cose da scoprire - e siate pronti, tutto quello che trovate qui è soltanto un assaggio.
Cercherò di aggiornare prima di partire, ma nel caso in cui non dovessi riuscirci domani se ne parla verso metà agosto. Spero comunque di farlo domani, non voglio farvi aspettare molto per il seguito (soprattutto non dopo due mesi di attesa). 
Grazie a chi ancora prosegue con la lettura!
Bacioni, Steffirah

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Domande

 

Nella direzione opposta a dove ci trovavamo, immerso nel verde e giallo della fitta vegetazione, c’era un piccolo ponticello in legno che collegava le due sponde del ruscello. Mentre lo attraversavamo e io mi guardavo intorno riempiendomi di una meraviglia sempre crescente – seppure un po’ mi turbasse il fatto che le assi scricchiolassero sotto i nostri piedi – Syaoran-kun mi raccontò che la gente lo chiamava “il ponte del mistero”.
«In realtà nessuno viene più qui, non dopo che sono apparsi alcuni spiriti della foresta, spaventando gli umani.»
A quel riferimento mi bloccai, giusto al centro del breve percorso.
«Che… Che tipo di spiriti?» indagai, con voce tremante.
Lui mi guardò sbigottito. «Adesso hai paura?»
«Dipende!» esclamai, sentendo il panico stringermi le budella. «Che tipo di spi-spiriti?» ripetei, trattenendo un fremito.
«Kodama.»
«E che aspetto hanno?»
«Non ne ho idea, non li ho mai visti. Ma da quel che si dice sembrano delle fatine. Per questo lo hanno chiamato anche il “ponte delle fate”.»
Sospirai risollevata, pensando al fatto che esse solitamente fossero graziose, piene di luce e di bell’aspetto.
«La tua non è una paura del soprannaturale in generale, vero?»
Scossi la testa, riaffiancandolo per procedere.
«Solo degli esseri brutti e orripilanti, ad esempio zombie, goblin, ghoul, questo genere di cose. Più che altro è quel che riguarda la morte, o meglio, la “non-morte” a spaventarmi e in generale si tratta di fa…» Abbassai il tono, temendo che qui ce ne fossero e potessero sentirmi, per cui mi aggrappai alla sua maglia in cerca di difesa. «Fantasmi.»
«Non devi averne paura, loro non possono farti nulla.»
«Invece sì!» ribattei terrorizzata. «Possono possedere il tuo corpo uccidendo il tuo spirito, possono maledirti, vendicarsi per qualche torto subìto in vita e fare tante altre cose orribili!»
«Per non essere un’amante del genere ti trovo abbastanza informata» ridacchiò, nascondendosi le labbra con una mano.
«Ringrazia mio fratello per questo, si è sempre divertito a traumatizzarmi con le sue visioni» sbottai risentita.
«Anche lui li vede?»
Lo guardai impallidendo. «Non mi dirai che anche tu…» La voce mi morì in gola, ma lui scosse lievemente la testa.
«Io li percepisco soltanto, intravedo la loro aura, capendo così se è benevola o malevola. È mia madre a vederli e comunicare con essi. Spesso le parlano del futuro o la mettono in guardia da pericoli imminenti. E poi, grazie a questa abilità ha la possibilità di incontrare ancora mio padre.»
Ci pensai su, bloccandomi, realizzandolo solo in quel momento. «Quindi secondo te mio fratello vede la mamma?»
Mi rivolse uno sguardo partecipe del mio dolore, capendo immediatamente.
«Penso di sì. Dovresti chiederglielo» suggerì e io ne presi nota. «Tuo fratello è come te?»
«Intendi… umano?» Ad un suo assenso confermai. «Sia io che papà che Touya, siamo tutti umani.»
«E tua madre…?»
«Anche la mamma lo era. Lei era la cugina della madre di Tomoyo-chan, però prima di venire qui non lo sapevo neppure. Delle famiglie dei miei genitori si è sempre saputo poco perché anche loro sono stati costretti a staccarsene.»
Vidi la confusione sul suo volto, per cui spiegai: «Mia madre aveva la mia età quando si innamorò di mio padre, che all’epoca era un professore del suo liceo. Sebbene attesero che lei compisse almeno diciotto anni per sposarsi e vivere insieme, i genitori di lei non riuscirono mai a perdonarglielo; soltanto il mio bisnonno ci accetta, adesso, ma unicamente dopo aver conosciuto me e Touya, rivedendo in noi sua nipote. Come vedi, anche “noi umani” possiamo infrangere le regole per amore.» Feci apposta le virgolette con le dita e lui mi guardò pieno di empatia.
«Poi cos’è successo a tua madre?» chiese con delicatezza.
«Si ammalò e morì quando io avevo a malapena un anno. Ma era sempre stata anemica, la sua salute era cagionevole e sapevamo tutti che non avrebbe vissuto a lungo. Mio padre era costantemente preparato all’idea che l’avrebbe persa prima del previsto, per questo cercarono di godersi e vivere al meglio ogni giorno insieme.» Mi rabbuiai, addolorata per entrambe le nostre perdite. «Per i tuoi genitori non c’erano alternative?»
Scosse la testa, fissando lo sguardo nel vuoto.
«È stato tremendo per mia madre, visto che era l’unico uomo che fosse riuscita realmente ad amare. Per punirla, l’hanno costretta ad assistere mentre lo uccidevano.»
Trattenni il respiro, sentendomi mancare. Mi si formarono le lacrime agli occhi, ma mi sforzai con tutta me stessa di trattenerle, cercando di non pensare a quanto potesse essere stato brutale, dilaniante, atroce.
«Naturalmente non ho mai conosciuto mio padre, ma nonostante quel che mi ha lasciato di sé non sia esattamente piacevole, gli sono grato per avermi donato la vita e aver reso felice mia madre.» Si incupì, ringhiando: «Per questo non potrò mai perdonare coloro che hanno fatto loro del male.»
Gli strinsi il braccio, sperando che questo non lo portasse a compiere pazzie, consapevole che la vendetta non avesse sempre risvolti positivi.
«Comunque» riprese tornando a guardarmi, mostrandosi tranquillo e curioso. «Se siete tutti umani, come mai tuo fratello ha un’abilità tanto particolare?»
Mi strinsi nelle spalle, non avendone idea.
«Proprio non saprei, ma in maniera simile a te anche io li percepisco.» Trasalii, ripensando a tutte quelle esperienze che avevano segnato il mio passato. «Non ne intravedo l’aura, come dici tu. Li sento soltanto.»
«Senti anche le loro voci?»
Scossi la testa, stringendomi maggiormente alla sua manica, mantenendo gli occhi bassi.
«Solo la loro presenza. Capisco quando mi sono accanto e quello che mi fanno, se ad esempio provano a toccarmi e cose simili. A volte, quando ero piccola, mi facevano anche dei dispetti, come tirarmi i capelli o posarsi sulle mie spalle, appesantendomi, con grande diletto di mio fratello.» Sbuffai, prendendomela. «Secondo me era lui a suggerire loro di darmi fastidio, quell’antipatico.»
Calciai una pietra, imbronciata, e Syaoran-kun ridacchiò accanto a me.
«Vedo che andate molto d’accordo.»
«Oh sì.» Alzai gli occhi al cielo, scuotendo poi la testa e stringendo un pugno. «Come se non bastasse, osa chiamarmi “mostriciattolo”. Un giorno addirittura mi paragonò a Godzilla» piagnucolai scuotendo il suo braccio, facendolo ridere soltanto di più.
Si nascose il viso dietro la mano destra, sbottando tra un singhiozzo e l’altro: «T-ti sto i-immaginando, pff!»
Lo ammirai basita, notando che quella fosse la prima volta che lo vedevo ridere così apertamente, quasi si stesse divertendo davvero. Ne sorrisi interiormente, sentendomi lieta, ma finsi di restarci male.
«Tu ridi, io me la prendevo a morte con lui.»
«In effetti, stuzzicarti così sulle tue paure è stata un’azione alquanto malvagia da parte sua» riconobbe e non gli negai un sorriso al suo prendere le mie parti. «Ma parlandoti di me non ho fatto lo stesso?» meditò tra sé, al che sospirai pesantemente, rinunciandoci. Come potevo fargli capire che la sua situazione era diversa?
Non aggiungemmo più altro, il silenzio fu intervallato soltanto dal mio stomaco affamato, al suono del quale entrambi accelerammo. Tolse qualche ramo più basso e spostò degli ostacoli dal terreno col piede, onde evitare che io inciampassi, sostenendomi quando dovevamo sorpassare delle radici. Non ce n’era bisogno in realtà, ma mi lasciai aiutare in ogni caso, approfittando un po’ della sua gentilezza. Soltanto una volta scivolai su del muschio, finendo col sedere a terra. Mi lagnai istintivamente e lui immediatamente si mostrò apprensivo, chinandosi su di me, controllandomi.
«Ti sei fatta male?»
«Per niente» negai, ripulendomi, notando però che mi si erano un po’ sfilacciate le calze. Mi imbarazzai, mentre lui mi toglieva alcune foglie dai capelli. Vide poi lo strappo e si dispiacque.
«Sapevo che fosse una cattiva idea.»
«Ormai è fatta» tagliai corto, rimettendomi dritta e composta. «Continuiamo.»
Un po’ riluttante proseguì, prestandomi maggiore attenzione, non staccandomi gli occhi di dosso, il che mi faceva arrossire non poco.
Dopo non molto, fortunatamente, giungemmo dinanzi ad una roccia sopraelevata su un lato della montagna. Mi aiutò ad arrampicarmi e una volta raggiunta la cima spianata di essa schiusi le labbra, estasiata. Da quassù si intravedeva un fiumiciattolo che percorreva un altro paesino, le cui abitazioni erano costruite proprio al centro del bosco sulle sponde del rivo, come cubi e rettangoli piantati tra cerchi macchiati da tempere di un verde molto pallido, accostato al giallo, all’arancione, al rosso e al marrone, in molteplici gradazioni diverse, estendendosi fino a valle in mezzo ad altri pendii.
Restai senza fiato e mi accomodai soltanto dopo che lui si sedette su un bordo. Mi ci avvicinai, affiancandolo, ma lui mi guardò contrariato e mi spinse più indietro, verso la parete rocciosa.
«Così è rischioso per te.»
Sbuffai insoddisfatta, ma lo assecondai. Mi misi quindi più comoda, appoggiandomi alla ruvida pietra, e cacciai il bentou dalla borsa. Quando lo aprii, tuttavia, rimasi sorpresa nel trovare una porzione che sarebbe bastata soltanto a me. Risi, capendo. Ovviamente, loro già sapevano che Syaoran-kun non ne avrebbe potuto favorire.
Prima di cominciare gli chiesi comunque se volesse seriamente assaggiare e lui sembrò soppesare la risposta.
«Tecnicamente potrei, ma non sa di niente.»
«Non ne avverti il sapore?»
Scosse la testa, girandosi col corpo per fronteggiarmi, spiegandomi un po’ di più mentre mi invitava a favorirne.
«Noi vampiri, per poterci mimetizzare al meglio nel mondo degli umani, abbiamo sviluppato una certa abilità nel “fingere” di mangiare. Di solito si tratta di una mera farsa, altre volte invece ci proviamo davvero, ma in ogni caso non è molto piacevole, né utile visto che non ha alcun effetto su di noi e non lo digeriamo. Per questo a volte capita che lo…. No, forse è meglio non dirtelo, non vorrei disgustarti» cambiò idea.
«Lo vomitate?» domandai allora, tra un boccone e un altro.
Lui si accigliò, guardandomi stranito, come se fossi io l’anormale. In effetti, forse lo ero.
«La cosa non ti fa rivoltare lo stomaco?»
Feci spallucce, addentando un onigiri.
«Basta che non lo immagino.» Pensai quindi ad un altro dettaglio, chiedendogli: «E quella piccola parte umana di te quando ti trasformi in lupo non ne ha bisogno?»
«Sì e no, posso farne a meno. Col tempo però mi sono accorto che mangiare carne mi manteneva in forze in quei periodi.»
«Bistecche al sangue, scommetto.»
A quell’idea storsi il naso, ricordando la prima sera a casa Daidouji.
«No. Sì. Anche» farfugliò, senza darmi una vera e propria risposta. Va bene, era meglio non saperlo in quel momento. «Alla fine, mi comporto da lupo» borbottò, vergognandosene.
Meglio non pensare neppure a quello.
Passai alle verdure impanate, rammaricandomi.
«È un peccato però, ti perdi un sacco di sapori buonissimi. Soprattutto quelli dei dolci.»
«Quelli, in effetti, non ho mai provato ad assaggiarli» rifletté.
«Dobbiamo fare un tentativo» proposi, eccitata all’idea.
Lui non si mostrò né d’accordo né contrariato, era come se la cosa lo lasciasse del tutto indifferente.
«Come vuoi.»
Mi ingozzai rapidamente, bevendo dell’acqua, supponendo che questo fosse lo stesso sapore che lui sentiva con tutto il nostro cibo. Misi tutto a posto in borsa e, ignorando le sue proteste, mi riavvicinai al bordo.
«Sei forse un’amante del pericolo?» mi rimbrottò.
«Forse» ammisi, sempre più stupita da me stessa. Da quando mi ero trasferita qui, in effetti, stavo cambiando tantissimo. Proprio come avevano profetizzato le carte!
Lasciai le gambe dondolare all’aria, rivolgendomi totalmente a lui.
«Posso cominciare a porgerti le mie domande?»
«Non hai ricevuto già troppe informazioni per oggi?» replicò invece.
«Ammetto che devo ancora rielaborarle, ma dato che mi aspettano altre novità a casa reputo sia meglio avere quanti più dettagli possibile, in modo tale da comprendere meglio.»
«Ma sentiti» mi canzonò. «Ne parli come se stessimo discutendo di qualcosa di normalissimo.»
«Oh, insomma. Devo approfittarne, può darsi che dopo che avrò rimesso insieme i pezzi mi sentirò più -»
«Spaventata?» mi interruppe, quasi speranzoso.
«Fuori posto» lo corressi, incrociando le braccia.
«Tu? Fuori posto?» ripeté, tentando di capacitarsene.
Feci spallucce, spiegando: «Sono circondata da vampiri, mi sento un pesciolino fuor d’acqua. E non dimentico la questione del mio sangue.»
«Ti preoccupi ancora di questo?»
«Ora che me ne hai parlato temo che me ne preoccuperò per sempre» mi crucciai. «Non voglio essere un peso, non voglio rovinare la vita di nessuno -»
Non continuai, bloccata dalle sue braccia che mi avvolsero. Poggiò la testa contro la mia, inspirando il mio odore. Mi pietrificai, con gli occhi sbarrati. Era forse masochista?!
«Sya-Syaoran-kun…» lo richiamai, preoccupata.
«Va tutto bene, vedi? Ce la faccio.» Si staccò di poco, rivolgendomi un sorriso celestiale. «Perciò non darti pena. Me lo prometti?»
Annuii, incapace di pronunciare parola. Allora si tirò indietro, ritornando al suo posto, facendomi tornare l’aria nei polmoni.
«Comunque d’accordo» si arrese, mettendosi comodo. «Chiedi pure.»
Non gli negai un sorriso, cominciando col mio breve interrogatorio: «Hai detto che appartieni ad una “stirpe” di vampiri.» Ad una sua conferma, continuai: «E ce ne sono tre, giusto?»
«Esatto. Noi, i Reed e i D.»
«I Reed è quella a cui appartiene Eriol-kun» dichiarai con certezza. Lui stesso aveva detto che il mio pseudo-tutore, Clow Reed, fosse un suo antenato. Annuì e aggiunsi: «In tal caso, perché il suo cognome è giapponese?»
«Per nascondersi.»
«Anche lui si nasconde?» domandai sconvolta.
A questo assunse un’espressione amareggiata, sibilando: «È che i D. non ci lasciano in pace. Hiiragizawa ha abbandonato il suo clan in Inghilterra per poter stare vicino ad una persona a lui cara.»
«Intendi… Tomoyo-chan?» ipotizzai.
Si strinse nelle spalle. «Potrebbe essere, anche se non credo.»
«Okay, passiamo ad altro. Hai detto anche che la tua è una stirpe nobile, ma nel senso proprio del termine? Cioè, “aristocratici”?»
«A questo non so risponderti bene, non ti so dire se siamo mai stati influenti nel mondo, visto che cerchiamo di restare quanto più possibile nell’ombra. La mia ipotesi è che noi dei clan ci definiamo tali confrontandoci ai vampiri trasformati.»
«Come Tomoyo-chan» affermai con sicurezza e lui mi diede ragione. «Ho capito. E crescete?»
«Fino ad una certa età, poi il processo di invecchiamento rallenta a partire dai 20 anni. Ad esempio, le mie sorelle Fuutie e Shiefa, le più grandi, in termini umani dovrebbero avere 38 anni. Tuttavia come avrai visto ne dimostrano a malapena sulla ventina.» Lo guardai affascinata. «Chi viene trasformato, invece, resta bloccato all’età della “morte”.»
Nell’udire ciò mi dispiacqui, pensando alla condizione di mia cugina e il suo ragazzo.
«E poi morite?» mi uscì in tono soffocato.
«Dopo aver vissuto qualche secolo finiamo con l’indebolirci. Molti di noi non ce la fanno a vivere in quello stato, così decidono di suicidarsi esponendosi al sole, divenendo quindi cenere. Non so, però, se sarà così anche per me. Sono uno dei “rari” casi di vampiri “diversi”.» Immaginavo che, in qualche modo, per lui sarebbe stato differente.
In realtà c’erano moltissime cose che volevo sapere, però alcuni argomenti ritenevo fosse meglio non affrontarli. Non ancora, almeno. Per cui mi concentrai su quelli che consideravo un po’ più leggeri.
«In che senso il tuo potere è legato ai fulmini?»
«Posso controllarli, ma non è limitato alla sfera meteorologica. Sono in grado di emettere io stesso scariche elettriche.»
Spalancai le labbra, colpita.
«Wow! E hai qualche altro potere?»
«Solo questo, pare però che da secoli non si palesasse qualcuno che sapesse padroneggiarlo. Le mie sorelle controllano gli elementi, mia madre oltre alla capacità di vedere i fantasmi prevede il futuro, Hiiragizawa legge nella mente e Daidouji è stata abbastanza fortunata da ottenere una dote particolare, ossia quella del canto con cui riesce a pacificare gli animi. Immagino che, in vita, fosse una ragazza di buon cuore.»
Sorrisi a quel complimento rivolto a mia cugina, ma poi feci due più due. Avvampai, sbottando: «Aspetta, Eriol-kun legge i pensieri?!» Ad un suo assenso mi sentii sprofondare. «Di tutti?»
«Solo di chi desidera, altrimenti sarebbe tremendo.»
Sorrisi tirata, un po’ risollevata. Mi auguravo vivamente che non lo facesse con me.
«E Meiling-chan?»
«Lei non ne ha. Capirai la sua frustrazione.»
Oh, quindi non era un dono che possedevano tutti.
«Ho capito, mi dispiace per lei» mi rammaricai.
«Da un lato, è meglio non averne. A volte sono difficili da gestire.»
Giocherellai con un dito del guanto, tirandolo mentre ragionavo.
«Hai finito?» domandò divertito.
«No, però… vorrei chiederti un’ultima cosa.» Attese con pazienza, mentre io abbassavo lo sguardo, concludendo timidamente: «Inizialmente volevi starmi lontano, e lo comprendo, davvero. Ma poi ti sei avvicinato tantissimo a me e ancora non mi spiego perché.»
«È cominciato dall’incidente.» Lo vidi rabbuiarsi, riportandolo alla memoria.
«Quello sulla neve?»
«Quello non ha fatto altro che rendere ancora più forte il mio desiderio di proteggerti.» Lo fissai a bocca aperta, non aspettandomelo, sentendomi il cuore mettere le ali per involarsene. «Ma mi sto riferendo a quello in città.»
Ci pensai su, cercando di capire a cosa si stesse riferendo. Poi ricordai che Eriol-kun gli aveva parlato del maniaco da cui ero stata abbordata, al che storsi la bocca. «Non successe niente.»
«Perché intervenni in tempo» replicò, sprezzante.
Lo guardai turbata. «Un attimo… tu…?» Mi morì la voce in gola, ma lui mi fronteggiò senza remore. Solo, vedevo la rabbia lampeggiare nei suoi occhi.
«Lo allontanai da te, prima che potesse morderti. E poi lo uccisi.»
«Quindi non era… umano?»
Sbiancai, soprattutto quando confermò i miei sospetti: «Era un vampiro, uno di quelli trasformati che non hanno idea di come comportarsi, non rispettano le leggi del territorio e non si fanno problemi ad uccidere chiunque incontrano sul loro cammino.»
Presi un respiro profondo, tentando di capacitarmene. «Quindi, sono stata fortunata» dichiarai con voce tremante, sentendomi debole.
Lui si allarmò, facendosi subito indietro, ponendo almeno un metro di distanza tra di noi. Alzai gli occhi verso il cielo, sperando di non crollare davanti a lui.
«Mi dispiace, lo so che sono un essere spregevole, siamo esseri spregevoli -»
«No» sussurrai, prossima alle lacrime. «No. Syaoran-kun, voglio solo dirti grazie.» Qualche lacrima traboccò, scivolandomi giù lungo la gota, lasciandolo basito. «Grazie per avermi protetta, anche quando non ne ero consapevole.»









 

Angolino autrice:
Ecco qui l'ultima parte delle "rivelazioni" (per il momento, almeno). Il prossimo capitolo sarà incentrato sulla storia di Tomoyo, ma credo che riuscirò a pubblicarlo soltanto dopo che torno dalle vacanze. 
Delle parole straniere, penso di dover spiegare solo che i kodama sono spiritelli che vivono negli alberi delle foreste (forse li avete visti in "Principessa Mononoke"), il bentou è - come ormai sapete - il cestino del pranzo e gli onigiri (che si legge "onighiri") sono una sorta di polpette di riso con alga nori e vari ripieni. 
Detto questo, vi auguro una buona giornata e un buon inizio di agosto (oltre a buone vacanze per chi parte). 
Baci da Steffirah!

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Triste passato


 
Dopo che Syaoran-kun mi ebbe riaccompagnata a casa affrontai di petto mia cugina e il suo ragazzo. 
In realtà, c’era voluto un po’ prima che rientrassimo. Per quanto mi sforzassi, una volta cominciate diveniva sempre difficile interrompere lo scorrere delle mie lacrime e fu necessario più di un minuto buono affinché si arrestassero. Mi asciugai il viso in fretta, scusandomi, pur sentendo in me che non bastava. Covavo ancora tanta, troppa sofferenza nel cuore, che premeva per uscire; ma non era ancora il momento, restavano molti interrogativi cui dare una risposta. Per questo, prima che si facesse troppo tardi, gli domandai se potesse mostrarmi la strada del ritorno. Lui convenne con me che fosse meglio, forse rendendosi conto che le mie emozioni stavano divenendo piuttosto instabili.
Pertanto, una volta giunti dinanzi al cancello di casa Daidouji mi lasciò raccomandandomi di riposare, non appena ne avessi avuto abbastanza; gli promisi che lo avrei fatto e lo salutai. 
Quando misi piede oltre la porta, bastò un’occhiata di Eriol-kun. Probabilmente lesse le mie intenzioni nel mio sguardo, o stesso nella mia mente, al che ci invitò ad andare direttamente a sederci sul divano. Qui arrivai dritta al sodo, rivelando d’aver scoperto la verità e chiedendo se anche loro volessero condividere la loro storia con me, promettendo che avrei mantenuto il segreto. 
Più che di questo, tuttavia, Eriol-kun sembrava impensierito all’idea che potessi spaventarmi, ma mia cugina – che ormai sembrava conoscermi come conosceva le sue tasche, se non persino meglio –, lo rassicurò, posandogli una mano sul braccio. 
«È giusto che gliene parliamo. Se avesse voluto scappare avrebbe avuto il tempo di farlo fino ad adesso, ma Sakura-chan non è stupida. Sa che noi non le faremmo mai del male, e che al contrario, la proteggeremo sempre.»
«Anche io vi proteggerò come posso» assicurai, volendo in qualche modo entrare nel loro mondo seppure non ne facessi legittimamente parte e ricambiare, in qualunque maniera, tutto ciò che essi facevano per me.
Mia cugina mi sorrise grata, prima di congiungere le mani sulle ginocchia e aprire il discorso. 
«Conosco Eriol e la famiglia di Li-kun da sei anni. Prima vivevano altrove, sempre nelle zone dell’Hokkaido, ma poi si trasferirono qui sentendosi più al sicuro, essendoci numerose foreste. E anche se vi sono pochi abitanti a Reiketsu, come avrai notato ognuno si fa i fatti suoi.»
Annuii, approvando quell’aspetto dei cittadini. 
Eriol-kun prese parola, facendole un piccolo cenno per farglielo capire. 
«Reiketsu, in realtà, fu già sede di nostri simili in passato, proprio per tutte le comodità che offre. Nei secoli scorsi si usava dire che fosse “la città del sangue blu”, a causa nostra. Hai fatto caso ai caratteri con cui si scrive?»
Tentai di visualizzarne la scritta nella mia mente e mi si accese la lampadina. 
«“Freddo” e “sangue”!»
«Esatto. Fu un mio antenato a fondarla nel periodo Muromachi, quando giunse qui insieme ai portoghesi. Egli era vicino alle arti magiche nella sua madrepatria e, come forse saprai, in Occidente nel ‘500 si dava ancora la caccia alle streghe. Per questo giunse nel posto più lontano dall’Europa, imbarcandosi insieme ai missionari cattolici, fingendo di essere uno studioso che volesse diffondere i testi sacri e letterari; si staccò, tuttavia, dall’equipaggio per poter procedere da solo nel suo viaggio, uscendo naturalmente unicamente di notte, finché non trovò questo posto che con il suo clima riusciva a farlo uscire anche di giorno. 
«All’epoca era solo bosco. Lui costruì la prima casa e chiamò altri simili, con la promessa che rispettassero le sue regole; esse prevedevano prettamente che ci si cibasse unicamente di animali e non si torcesse neppure un capello agli umani. Questi ultimi arrivarono in seguito, affascinati dalla quiete del posto. Col tempo i vampiri cominciarono ad andarsene, visto che non sapevano come avrebbero potuto giustificare il fatto che non crescessero in maniera “comune”, e divenne una città di soli umani, che ospitava occasionalmente vampiri.»
«Quindi» riepilogai, «è per il fatto che il sole non esce quasi mai dalle nubi e che ci sono poche persone che siete venuti qui.»
«C’è anche la questione della barriera, che soltanto coloro che appartengono ai Reed possono percepire. Tutt’attorno al perimetro della città c’è un cerchio magico invisibile agli occhi umani, che permette ad un discendente Reed di capire se altri vampiri entrano nel nostro territorio. Perché, tecnicamente, sarebbe nostro» spiegò pacato.
«Quindi il fondatore della città è stato…»
«Clow Reed» completò per me, stupendomi. «Purtroppo è deceduto, quindi non ho mai avuto modo di conoscerlo. So soltanto di essere un suo diretto discendente, quindi i suoi studi e le sue scoperte sono state tramandate nella nostra famiglia. Col tempo è divenuto per noi una sorta di idolo, per questo, tentando di emularlo, mi sono avvicinato anche io alla magia. Ho approfondito gli studi che lo riguardavano, scoprendo questa cittadina e, una volta giunto qui, che anche dopo la sua morte la barriera è rimasta.»
«Doveva essere un mago abilissimo» osservai, colpita anche dal fatto che lui ne parlasse con un profondo rispetto.
«Lo era» confermò fiero. «Ed era anche molto buono con gli altri, che fossero della sua stessa razza o meno. Per lui non c’era distinzione, voleva soltanto che potessimo convivere tutti nello stesso mondo.»
Il signor Reed sembrava una di quelle rare persone dal cuore d’oro, il che faceva nascere spontaneamente un sorriso sul mio viso.
«Dopo un breve vagabondare e trasferirci da un luogo all’altro, anche io e la famiglia Li ci siamo stanziati qui. Precisamente da tredici anni.»
«Come mai non siete venuti direttamente qui?»
«Prima dovevamo depistare coloro che cercavano Yelan.» Alzai un sopracciglio a quel nome, e lui specificò: «La madre di Syaoran.»
Serrai le labbra, sentendomi il cuore stretto in una morsa. Quel che aveva dovuto subire era troppo crudele. E ingiusto. 
«Perché la cercavano?» domandai con un fil di voce.
«Non ritenevano il mero esilio una punizione sufficiente.»
Storsi la bocca, contrariata da tutto ciò, preferendo cambiare argomento.
«Eriol-kun, per caso tu sei più grande dell’età che dici di avere?» supposi, visto che la madre di Syaoran-kun era andata direttamente da lui quando fu costretta a fuggire. 
«Se fossi umano avrei 41 anni.» 
«Ma sembri giovanissimo!» esclamai sconcertata. Okay, era vero che aveva un’aria matura, e Syaoran-kun mi aveva detto che si invecchiava più lentamente, ma quello era troppo!
«Confesso che ho fatto un incantesimo per bloccare la mia età all’aspetto di un ventenne.»
Ero strabiliata. Si poteva anche fare una cosa del genere?! 
Guardò con tenerezza Tomoyo-chan, aggiungendo: «L’ho fatto per lei.»
Prese la sua mano, sfiorandone il dorso col pollice, mentre lei gli sorrideva dolcemente. Allora capii: Tomoyo-chan non sarebbe più cresciuta e quello era necessario per poter stare con lei per sempre. Tale pensiero mi scaldò il cuore. Era romanticissimo.
«Voi due come vi siete conosciuti?»
«Per caso, di ritorno da scuola. Ero distratta e non mi ero accorta che stesse passando un’auto, finché non mi sono sentita tirare indietro da qualcuno» rispose mia cugina, riprendendo parola. «Da parte mia, fu amore a prima vista» ammise, ridacchiando.
«Anche io ero affascinato da te» ribatté lui. «Non avevo mai visto un’umana con un portamento tanto fine ed elegante. Era come se fossi avvolta da un’aura di seta.»
Mia cugina gli sorrise dolcemente, prima di voltarsi nuovamente verso di me e assumere un tono piuttosto serio, tornando a noi.
«In realtà, tre anni fa ero già all’ultimo anno di liceo, quindi ti ho parzialmente mentito sulla mia età. Sono ferma a diciotto anni da tre anni.»
«Hoe? Quindi… hai ripetuto il liceo?»
Annuì, spiegando: «Fingemmo che avessi una sorella più piccola che, fino ad allora, aveva vissuto con mio padre – immagino ti sarà stato detto che i miei genitori hanno divorziato.» Annuii, ricordando che mio padre me lo aveva riferito. «Dopo essersi trasferita qui l’abbiamo fatta iscrivere al primo anno, per poter restare affianco a Feimei-chan. Ma, soprattutto, ci siamo iscritti per quando Li-kun avrebbe dovuto cominciare il primo anno, in modo tale che potessimo essere i suoi “senpai”. Insomma, speravamo potessimo essere dei punti di riferimento per lui.»
«Perché lo avete fatto?» domandai, impressionata dal loro altruismo. 
La risposta mi fu data da Eriol-kun: «Perché, a differenza di Tomoyo che ha un ottimo autocontrollo, riuscendo da sola a mettere a tacere la propria sete, lui era un tantino… impulsivo.»
«Sì, me l’ha detto» lo interruppi, portandomi una mano al mento, giungendo alle mie conclusioni. «Quindi lo stavate proteggendo…»
Entrambi fecero un segno di assenso col capo, prima che io ragionassi su un altro dettaglio: «Ma a scuola ti chiamano tutti “Tomoyo-chan”.»
«Li abbiamo persuasi che “mia sorella maggiore” si chiamasse Tomoko.»
«Potete fare una cosa simile?»
«Sappiamo essere convincenti» ammiccò Eriol-kun. 
Ripensai alla gita, a quando stavo per cedere dinanzi a Meiling-chan che cercava di dissuadermi dal cercare Syaoran-kun. Forse quella era una delle loro tante abilità innate.
«E… se posso chiederlo…» Mi feci piccina sul divano, temendo di starmi spingendo troppo oltre. Non avrei dovuto ficcanasare così, lo sapevo, però…. «Com’è successo…? Intendo, come mai tu non sei più… umana?» mi uscì timidamente, guardando insicura mia cugina. 
Lei mi rivolse un piccolo sorriso, mentre invece vidi Eriol-kun intristirsi.
«Stavo morendo.» Sgranai gli occhi, impallidendo, sentendomi bloccarsi il cuore. «Come zia Nadeshiko, ho sempre avuto un sistema immunitario piuttosto carente. Mia madre era convinta che l’aria di montagna potesse farmi bene alle vie respiratorie, per questo venimmo a vivere qui – anche perché il mio corpo non aveva mai sopportato temperature troppo calde. All’inizio andava tutto bene, ma a causa di una mia disattenzione presi una febbre che ben presto divenne polmonite. Mi portarono nell’ospedale più vicino e i medici notarono delle complicanze, diagnosticandomi la sepsi. Mia madre andò nel panico, mentre io paradossalmente mi sentivo tranquillissima. Nonostante la sofferenza ero serena, soprattutto quando Eriol venne a trovarmi.» A questo lui chinò il capo, addolorato, mentre io risentivo le lacrime raccogliersi nei miei occhi. 
«Rimase al mio fianco per il tempo necessario, finché non convinse mia madre a riportarmi a casa e ai medici di lasciarmi andare, essendoci ben poco che essi potessero fare per alleviare il mio dolore. Da quel momento, confesso che i miei ricordi sono piuttosto sfocati.» 
Chiuse gli occhi, intrecciando le dita con quelle di Eriol-kun. 
«Eriol rimase accanto a me per tutto il tempo, finché non giunse la fine. Ma quando riaprii gli occhi ero ancora qui, con tutte le persone che mi amavano.»
«Fu un mio atto egoista» intervenne debolmente Eriol-kun, con voce tremante. 
Scossi la testa, asciugandomi le lacrime, mentre lei gli alzava il viso, guardandolo con dolcezza. 
«No, tu mi salvasti. Per questo io e la mamma ti saremo grate per sempre.» 
A quel punto non riuscii più a contenere il magone. Corsi verso mia cugina, abbracciandola con tutte le mie forze, singhiozzando. Avevano avuto tutti un vissuto così triste. 
«Sakura-chan, perché piangi?»
«Mi dispiace» farfugliai, con voce impastata, interrotta dai singulti. «Sono contenta che tu sia ancora qui. Ma mi dispiace che tu abbia dovuto vivere un’esperienza simile.» 
La percepii carezzarmi i capelli, come avrebbe fatto una madre, il che non fece altro che stringermi maggiormente il cuore. 
Di quante cose era stata privata! Non solo lei, ma anche Syaoran-kun! E sua madre! E probabilmente anche Eriol-kun aveva avuto un passato difficile. 
Non riuscivo a sopportarlo. Era così intollerabile, ingiustificabile, imperdonabile. 
Piansi, rivolgendo un pensiero a ciascuno di loro, sentendomi spezzare di volta in volta. Forse in quel momento stavo buttando fuori tutto ciò che avevo soppresso sin dal mattino, tutta quella pena che si era raccolta in me, non facendo altro che crescere nel mio cuore, fino a schiacciarlo del tutto. 
L’idea che non potessero essere se stessi, perché erano solo una minima percentuale di popolazione del mondo. E che, se lo avessero fatto, sarebbero stati malgiudicati, incompresi, temuti, odiati. 
L’idea che non potessero essere felici, perché la felicità, come la vita stessa, veniva strappata da loro.
L’idea che ci fosse sempre, sempre, qualcuno a squarciarne la serenità, impedendo loro di vivere. 
Tutto ciò mi distruggeva.
Desideravo apportare un po’ di luce e calore nel loro animo tormentato. Una luce e un calore che non li avrebbe feriti, che non avrebbe fatto loro del male, che non li avrebbe uccisi. Ma nella mia piccolezza umana, ne sarei mai stata in grado?









 
Angolino autrice:
Buongiorno! E così si conclude questa giornata di "rivelazioni". Avviso che il prossimo capitolo sarà dal pov di Syaoran, ma dato che alla fine non è altro che una summa di quello finora è successo (più qualche dettaglio extra), chi non è interessato può anche saltarlo. 
Come ho scritto qui, "Reiketsu" (che ribadisco, non esiste in realtà) si scrive coi caratteri di freddo 冷 e sangue 血.
Il periodo Muromachi va dal 1336 al 1573 ed è chiamato anche "periodo Ashikaga" perché sostanzialmente coincide con lo shogunato Ashikaga. Comprende il periodo Sengoku, nonché l'arrivo dei missionari/mercanti (e pirati) portoghesi e spagnoli in Giappone.
Se restano altri dubbi, chiedete pure. 
A presto!
Steffirah

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***





NdA: Vi ricordo che questo capitolo è dal POV di Syaoran, ed è una ricapitolazione di quello che è successo finora.

 
 







Colei che rappresentò la sua rovina



 
Il giorno in cui conobbi Kinomoto Sakura mi dissi: “È fatta. Lei sarà la mia rovina.”
Temevo che con un solo sguardo potesse mandarmi alla deriva. Temevo che con la sua mera esistenza potesse tirare fuori quel mostro sopito dentro di me. Perché sapevo che c’era; sapevo che un essere implacabile riposava sotto la superficie, stando in agguato, pazientemente in attesa di un passo falso con cui palesarsi. Quella era la consapevolezza, la certezza, con cui ero cresciuto. Che io fossi un abominio. Che il mio corpo non fosse altro che il contenitore di un demone assetato di sangue. E da sempre, ciò mi faceva paura. Da sempre, ciò mi teneva lontano dagli altri, impedendomi di mostrarmi in alcun modo socievole. Ma non volevo neppure essere socievole, se ogni volta dovevo vivere col terrore di poter distruggere nel giro di un battito di ciglia tutto quello che con tanta fatica sarei stato capace di costruire.
Mi sentivo fiero, orgoglioso di me stesso: per diciassette lunghi anni ero riuscito a domarlo. Per diciassette lunghi anni ero riuscito a mostrare una parvenza di normalità, di umanità, apparendo simile agli altri nella mia diversità. Avevo sempre mantenuto la calma e le distanze, in qualunque situazione – talvolta anche incutendo timore, ma era necessario: non era sano che gli umani facessero amicizia con me, soprattutto se per qualche errore avrebbero finito col diventare il mio pranzo. Non sarei mai riuscito a perdonarmelo, e per essere impeccabile mi educai ad essere realmente freddo, impassibile, incurante, noioso, sprezzante.
Cercavo, soprattutto, di non affezionarmi. Io avrei vissuto a lungo, troppo a lungo, loro sarebbero morti ben presto. “Non ne vale la pena”, mi dicevo. Come avrebbe potuto giovarmi legarmi a qualcuno che dopo nemmeno un secolo sarebbe divenuto polvere? E di conseguenza impedivo a chiunque di approcciarmisi, a meno che non fosse un mio simile – sebbene ci fossero momenti in cui neppure da essi mi sentissi pienamente compreso, semplicemente perché io ero diverso. Una novità, un frutto del caos, uno sbaglio fatto per amore. Un qualcosa di sconosciuto e temibile, che per questo andava celato agli occhi del mondo. Agli occhi del nostro mondo.
Ma poi, in quel normalissimo giorno d’autunno, furono i suoi occhi ad entrare nel mio mondo. Lo trafissero, lo penetrarono, con fin troppa facilità. Io e Kinomoto Sakura ci guardammo, e fui sopraffatto da un’insolita e oscura angoscia. Lei era come un vortice che mi risucchiava, contro cui dovevo lottare con tutte le mie forze. Lei aveva un potere tale da indebolirmi, sconfiggermi, farmi desiderare l’indesiderabile. Lei mi inibiva, mi rammolliva, portandomi a lottare contro il vero me stesso.
Il suo odore. Tutto era cominciato dall’odore del suo sangue, che segnò per me un cammino verso gli abissi della disperazione e della repulsione. Pur non essendo affamato quel giorno, restavo sempre reduce da una sete incontenibile. Quando mi accadeva in passato sceglievo con cura le mie prede, in modo tale da ripulire il mondo dal male. Non che io rientrassi nella categoria del “bene”, ma almeno così mi sembrava di avere un ruolo onorevole cui rispondere, un etico dovere da eseguire. Un chiaro senso per esistere. Ciononostante mi sforzavo di attenermi alla “speciale dieta” di Hiiragizawa – essendo state quelle le condizioni per farci rimanere. Dovevamo rispettare le sue scelte, per dimostrargli la nostra gratitudine, e per quanto inizialmente l’idea non mi andasse a genio sapevo che non avevo pretesti per oppormi. D’altronde, non era molto dissimile dal come mi comportavo da lupo.
Pertanto quel giorno ero sazio. Ero solo un po’ seccato da Meiling, che per tutta la mattinata mi aveva assillato, lamentandosi di una preda che le era sfuggita e di un’unghia che le si era spezzata nella futile impresa. Ma l’odore della gente a malapena lo percepivo e riuscivo a restare placido e indifferente, dinanzi a chiunque. Eccetto che con la nuova arrivata: come un’onda anomala, il suo delizioso profumo, dolce, floreale, invitante, mi aveva travolto, facendomi annegare.
La odiavo. Per quella ragione, la odiavo. Come poteva distruggere la parte che stavo interpretando, proprio quando finalmente stava divenendo realtà? Come poteva indurmi a fare quasi una strage, rendendomi gelido, algido, senza scrupoli, assegnandomi nuovamente il ruolo di assassino?
La odiavo, per quei pensieri che il suo sangue aveva risvegliato. La odiavo, per quell’abbagliante viso luminoso. La odiavo, per quei limpidi e candidi occhioni verdi. La odiavo, per quegli accecanti e folgoranti sorrisi. Era come se lei fosse una personificazione del sole, il mio peggiore nemico.
Non mi rimaneva far altro che scappare, per non rimanere bruciato, per non ardere vivo, e una volta al sicuro, nel confortevole buio della mia casa, tentai di cancellare quei pensieri immondi. Erano così insistenti, quasi mi parve di impazzire pur di metterli a tacere. Meditai di abbandonare tutto e tutti, sentendomi immeritevole di restare lì, ma per questo fui severamente ripreso da mia madre: mi rimproverò, poi mi incoraggiò, invitandomi a combatterla e sconfiggerla, vivendo come avevo sempre fatto, senza comportarmi da vile. Non importava quanto fosse insopportabile o asfissiante, dovevo vincere. Non c’era altra scelta, e per aiutarmi chiese anche a Meiling e alle mie sorelle di tenermela alla larga.
Esse approfittarono del festival d’autunno per osservarla, non trovando nulla di particolarmente attraente in lei. Anche quando successivamente Meiling le si avvicinò in maniera diretta per metterla in guardia dai pericoli che correva standomi accanto, il suo odore non la investì. Disse semplicemente: «È buono, certo, ed è stranamente calmante. Lo si può tollerare.»
“Calmante. Lo si può tollerare.” Mi ripetei infinite volte quelle parole in testa, cercando di convincermi che fosse realmente così. Che potesse esserlo anche per me. E intanto c’era quella parte miserevole di me che si convinse che il problema fossi io: ero sbagliato, in tutto e per tutto, e la mia rigida formazione non era servita a niente se alla minima novità crollavo in quel modo.
Non potevo accettarlo. Non potevo essere debole, non potevo essere schiavo delle mie paure e da esse lasciarmi sopraffare; per questo tornai a scuola – dopo essermi nutrito più del solito, per sicurezza. Mi sarebbe bastato comportarmi con lei come facevo con tutti, ignorandola e mantenendo le distanze, ma a quanto pareva lei non era dello stesso avviso. Neppure i docenti mi rendevano il compito facile, mettendoci insieme durante le pulizie e i progetti. E ogni volta lei era lì, pronta ad accogliermi e avvicinarsi, nonostante la mia riluttanza. Speravo che, come tutti, si sarebbe rassegnata e stancata di comunicare con me, invece proprio il mio tormento doveva essere l’umana più testarda, ficcanaso, apprensiva che avessi mai conosciuto, devastante e disarmante con la dolcezza che senza remora, giorno dopo giorno, mi serbava.
Non ebbi più alternativa se non tenerla d’occhio, guardandola con attenzione e perplessità per minuti, ore, giorni interi, spingendomi senza neppure accorgermene ad indagare sempre più a fondo in lei. Divenni presente, anche nei momenti in cui non sapeva che io fossi lì a proteggerla con lo sguardo, pronto ad intervenire ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno. E in quel poco tempo capii che era troppo candida, troppo genuina, troppo onesta, non del tutto sveglia ma parecchio istintiva, imbranata e goffa seppure mostrasse doti atletiche, un impiastro in certe materie e un asso in altre. Era delicata, frangibile, allegra, solare, spontanea, amichevole. Faceva amicizia con chiunque e riceveva affetto e amore, ma era anche una calamita di pericoli. Cominciando da me.
Era incomprensibile come potesse circondarsi di così tanta malvagità, quando irradiava una luce tanto buona. Forse il punto era proprio quello: la bellezza della luce attraeva il buio più profondo che avvolgeva noi esseri avidi ed egoisti. Ero io che avevo quasi ceduto, quando cominciò a sanguinare durante la lezione di inglese. Avevo dovuto necessariamente allontanarmi, per prendere una boccata d’aria pulita. E lì fuori mi accorsi che, stranamente, non era doloroso quanto mi aspettassi. Era come se, piano piano, mi stessi abituando. Non era più tragico come all’inizio, per cui riuscii a tornare da lei, seppure mi mantenessi sulle mie, meditando. Perso nei miei ragionamenti, mentre continuavo a chiedermi cosa fosse cambiato nella mia percezione di lei, vagai senza meta, finché Hiiragizawa non ci lanciò un avvertimento: uno sconosciuto era entrato in città. Ogni volta che un vampiro “di nessuno” entrava nel nostro territorio lui ci avvisava, permettendoci di ucciderlo come desideravamo se non avesse rispettato le sue regole. Erano rozzi vampiri trasformati, esseri inferiori e deplorevoli, privi di formazione, che prediligevano il sangue di giovani donne e bambini. Erano indisciplinati, volgari, brutali. Daidouji non rientrava in quella categoria perché lei era “dei Reed” - naturalmente, quando noi trasformavamo qualcuno lo facevamo solo per inserirlo nella nostra famiglia, in situazioni di estrema solitudine.
Risposi a quel segnale, capendo che fossi il più vicino, e ne cercai la disgustosa scia. Fu in quel momento che, per un istante, mi paralizzai. C’era un’altra presenza, accanto ad essa. Una presenza familiare, divenuta effettivamente rassicurante, avvolta da sgomento e paura. Mi affrettai a raggiungerla, e quando vidi il panico riflettersi nei suoi occhi, sull’orlo delle lacrime, fui sorpreso da una rabbia accecante, mai provata prima. Mi avventai su quell’essere, lo feci a pezzi, e senza dargli possibilità di reagire in alcun modo lo disintegrai, cancellandolo dalla faccia della Terra. Eppure, anche quando di lui non rimase che cenere, non riuscivo a calmarmi. Le mie mani e il mio corpo continuavano a tremare in maniera incontrollabile, il mondo attorno a me sembrava essersi tinto di vermiglio. Corsi nella foresta, arrivando in mezzo ai lupini, cercando conforto in essi accovacciandomi tra i loro steli. Presi respiri profondi, abbracciando me stesso, quasi infilandomi le unghie nelle braccia. Dovevo ritrovarmi, prima di perdermi del tutto.
Fortunatamente intervenne Hiiragizawa e, su mia disperata richiesta, mi feci legare da quelle catene incantate che usava su di me ogni volta che perdevo il controllo. Mi lasciai lenire dalla loro fredda costrizione, tornando gradualmente al me di sempre. Lo ringraziai per il suo aiuto e con lui tornai a casa, dove spiegò la situazione alla mia famiglia, facendo notare che troppi vampiri non appartenenti a nessuno stavano entrando in città, senza rispettarne le regole. Se la situazione già mi preoccupava, si aggiunse la dichiarazione di mia madre: «In questi giorni sto praticando la divinazione per interpretare un sogno frequente, in cui compare un ciliegio insanguinato. Purtroppo, non ho avuto alcun responso certo sul cosa possa significare.» Ne fui atterrito. Che il ciliegio rappresentasse Sakura? Che fosse ancora in pericolo?
Dopo tale rivelazione decidemmo di tenerla d’occhio più del solito, e dovevo ammettere che mi rincuorò vedere che, nonostante le brutture che viveva, non si lasciava abbattere: continuava a sorridere ed essere se stessa, andando oltre, dimostrandosi persino più forte e decisa di me. Fu tale risolutezza ad attirarmi maggiormente, al punto tale da sostenerla e inconsciamente proteggerla ogni volta che mi si presentava una possibilità di farlo. Una sera, ad esempio, mi ritrovai a passare davanti ad un café sorprendendomi di trovarla lì, ma poi mi dissi che, probabilmente, avevo istintivamente seguito il suo odore. Mi capitava di farlo spesso da lupo, quindi non mi stupiva se avessi cominciato a comportarmi in quel modo anche da vampiro. Era da quando le riportai la sciarpa che mensilmente cominciai a fermarmi al limitare del bosco, protetto dalla notte e dall’ombra degli alberi, fissando gli occhi sulla finestra che sapevo essere della stanza in cui dormiva. Non la vedevo, ma la percepivo. Sentivo i battiti del suo cuore, sentivo lo scorrere del suo sangue, sentivo la sua voce cristallina, le sue gioviali risate e i suoi placidi respiri. E io mi interrogavo su come fosse possibile che non avesse avuto paura di me, neppure come animale, quasi mi accettasse non solo nella vita giornaliera, ma anche in quella notturna. “Lei mi accetta, per quello che sono”, mi ripetei più volte, capacitandomene a mano a mano, per quanto mi sembrasse assurdo ed incredibile. E quando ci pensavo mi sembrava di sentire le mie labbra piegarsi verso l’alto, in un sorriso che mai aveva trovato la forza di nascermi sul viso. E il mio cuore, solitamente spento, si illuminava di lei, come fece anche quella notte dinanzi al suo riso ilare, mentre si divertiva con quegli amici che aveva trovato in un tempo umanamente impossibile. Era più radiosa che mai, bella come una di quelle primavere viste soltanto tra le figure dei libri, che lei mi stava dando la possibilità di ammirare in prima persona. Quando uscì di lì ero un po’ indeciso se rivelarmi o meno, finché quasi non cadde inciampando e dovetti necessariamente palesarmi. La accompagnai fino a casa, scoprendo così che il suo interesse nei miei confronti fosse decisamente eccessivo e Hiiragizawa non mi aiutava affatto a mantenere la mia facciata. Ma effettivamente, chi ero io per criticarla, quando il mio interesse per lei era comparabile – se non superiore – al suo?
In tale occasione compii anche un’azione che spiazzò persino me stesso: per la prima volta, in maniera incontrollabile, allungai una mano verso di lei. Non l’avevo propriamente toccata, ma in parte era come se lo avessi fatto. Perché la toccavo sempre con gli occhi, memorizzando ogni suo singolo particolare, dai suoi colori alle fossette che comparivano ad ogni sorriso al luccichio nelle sue iridi in situazioni felici alle nuvolette di vapore generate dal suo respiro. Quella sera le stavo solamente sollevando la sciarpa, la mia mente si convinse che fosse per zittirla, il mio cuore suggerì che fosse per non rischiare che prendesse freddo. Anche perché, effettivamente, si beccò un raffreddore. Gli umani erano così deboli, così esposti alle intemperie, impotenti dinanzi ai disastri, e per questo detestavo quella mia stessa condizione – seppure avrei dovuto essere grato alla mia piccola percentuale umana, visto che era essa ad impedirmi di perire dinanzi alla luce lunare. Ma pure con quella consapevolezza, non ero in grado di amare me stesso. Forse non ero in grado di amare e basta, escludendo l’affetto che arrivavo a provare per gli altri, facendo sì che mi prendessi cura di loro. Come facevo con la mia famiglia. Come stavo cominciando a fare con lei. Ed infatti, notando l’abito scoperto che Daidouji le aveva cucito per Halloween, la coprii per preservare la sua salute. Forse lo feci anche per allontanare da me e dai miei istinti la sua cute esposta, che con quell’apparente morbidezza, con quell’invitante profumo, con quel confortante calore mi faceva girare la testa. Ero così tentato a farmi più vicino, ma non avevo lo stesso autocontrollo delle mie sorelle, avrei potuto farle involontariamente del male e allora non me lo sarei mai perdonato.
Poi accadde un’altra cosa imprevedibile: lei prese le mie gelide mani, avvolgendomi nel suo fuoco, e per quanto la facessi tremare continuò a cercare un contatto; lei si preoccupò della mia salute, quando era la sua ad essere a rischio, tanto da mostrarmi per la prima volta un’indicibile paura. Non paura di me, paura per me. C’era mai stato qualcuno che si era curato tanto di me? E io, l’avevo mai permesso? Perché era così in pensiero? Perché mi stava vicino? Perché non rinunciava a me, come facevano tutti? Per un attimo misi a tacere la mia mente, cancellando tutte quelle domande, perdendomi nel “qui ed ora”. In lei che si preoccupava, in lei che, improvvisamente, era totalmente a mia portata. Avrei potuto avvolgerla tra le mie braccia come facevano le mie sorelle, avrei potuto avvicinare l’orecchio alla sua voce, avrei potuto rubare il suo respiro e riempirmene. Le sue verdi iridi riflettevano me, in esse riuscivo a vedermi, ma non ero ancora certo di potermi accettare; per cui chiusi le palpebre, e dietro di esse prese vita un nuovo desiderio: il desiderio di ridurre qualsiasi distanza tra noi, di baciarla, di morderla, di assaggiarla e abbeverarmi della sua anima. Il desiderio di farla mia. Immediatamente mi riscossi da esso, temendolo. Come avevo osato pensare di macchiarla con la mia impurità? Sicuramente di conseguenza mi avrebbe odiato, ma sorprendentemente mi riafferrò la mano e ad essa si appigliò ogni volta che poteva, quasi io fossi un’ancora con cui potesse salvarsi. Ma se c’era qualcuno bisognoso di salvezza, di un porto sicuro, ero io, e non potevo permettere a lei di assumersi quel ruolo; pertanto mi allontanai di nuovo da lei, arrivando persino ad avvicinarmi ad altre persone, tra cui Yamazaki – che non era affatto difficile da approcciare. D’altronde, quello difficile ero sempre stato io, solamente io.
Ero anche giunto ad un punto in cui non mi apportava più disagio la vicinanza di Sakura, né il suo entusiasmo, né le sue domande, quanto i suoi elogi, che cominciarono a diventare piuttosto imbarazzanti e spiazzanti, soprattutto quando disse che mi vedeva pieno di emozioni. Mi ero da sempre sentito spento e vuoto, incompleto perché troppo, diviso in tanti esseri senza essere realmente niente e nessuno. Per questo non ero neppure in grado di dare quel che le persone meritavano. Eppure, nel momento in cui mi disse di vedermi, smisi di dubitarne: lei mi vedeva perché io glielo permettevo. Perché con lei, solo con lei, mi mostravo me stesso, come ciò che neppure io sapevo di essere. Poteva quindi lei completarmi, attraverso la sua visione? E potevo io consentirglielo?
Mi dicevo di no, mi imponevo di starle lontano, ma stavolta fu più difficile. Forse perché ormai mi ero avvicinato troppo. Forse perché mi ero abituato a lei, alla sua presenza. Forse perché, semplicemente, davo tutto per scontato, e nel creare distanza tra di noi sentivo un dolore indescrivibile, che non riuscivo neppure più a capire se fosse un male fisico o emotivo. Dovevo sapere che fosse tutto vano. Era inutile tentare di tornare indietro, a ciò che ero prima, perché la mia voce aveva ammesso qualcosa che la mia mente negava. Avevo paura di perderla. Quella era la cosa peggiore che mi potesse capitare: che io mi affezionassi tanto ad una creatura così effimera da desiderare di mettere me stesso dinanzi a lei, per proteggerla da qualsiasi pericolo. E se quel pericolo fosse stato rappresentato da me, allora avrei distrutto me stesso pur di salvarla.
Il peggio, tuttavia, doveva ancora arrivare. Accadde durante la gita in montagna. Inspiegabilmente la vedevo impaurita, per questo chiesi a Meiling – che sembrava aver cominciato a prenderla a cuore e considerarla una grande amica – di indagare al posto mio. Anche perché per quanto mi riguardava in quelle notti non sarei stato molto attivo. Eppure, qualcosa era cambiato: pur sentendo l’influenza della luna, ne risentivo di meno. Solitamente la sofferenza durava all’incirca tre giorni, ma da quando avevo conosciuto Sakura pareva essere radicalmente diminuita. Che mi lenisse e alleviasse il mio dolore con la sua mera presenza?
Quando mia cugina tornò per darmi il suo responso mi spiegò della sua paura del soprannaturale, che già avevo supposto durante il video di letteratura inglese; ma poi mi disse anche qualcos’altro che mi impensierì, ossia che nei suoi sogni ci fosse una voce che le parlasse. Non mi piaceva per niente, mi domandavo cosa potesse dirle, volevo saperne di più ma al contempo non potevo interrogarla a riguardo, avrei destato troppi sospetti se lo avessi fatto. Si sarebbe senz’altro domandata come facessi ad esserne a conoscenza e dirle che Meiling veniva a riferirmi tutto non era il caso. Anche perché non volevo sembrare più ossessionato da lei di quanto già fossi. Poteva sembrare esagerata la mia apprensione, tuttavia era sensata visto che potevano esserci vampiri con quel potere: il potere di attraversare i sogni, raggiungere tramite essi le loro vittime. Speravo di sbagliarmi, ma quel grande timore si rivelò presto reale.
Quella stessa notte, dopo esserci assicurati che tutti dormissero, io e mia cugina ne parlammo, finché non accadde l’imprevedibile. Entrambi ci accorgemmo che qualcosa non quadrava, qualcosa che riguardava lei. I suoi battiti cardiaci erano troppo deboli, il suo odore era flebile, il suo calore stava sparendo…. E al suo fianco c’era qualcuno. Mi mossi per primo e mi pietrificai, trovandola quasi del tutto sotterrata dalla neve; i suoi denti battevano, le sue labbra quasi violacee tremavano, le sue ciglia fremevano avvolte dalla brina, lottando per restare aperte. Il resto del suo corpo era immobile, come quello di un cadavere, e sembrava essere stato risucchiato di qualsiasi energia vitale. Un’ombra torreggiava sulla sua inerte figura e, non appena allungò una mano, mi avventai su di essa, gridando il suo nome. “Sakura. Sakura. Sakura!” Non la vedevo più. Non vedevo più nulla, accecato da una rabbia incontenibile. Sentivo solo il suo nome tra i miei pensieri, ma era tutto buio. Tutto nero, tutto scarlatto. Non provavo niente, eccetto un incontrollabile desiderio di uccidere, di distruggere.
Tornai in me solo nell’udire la distante voce di Meiling, che mi richiamò a sé. Corsi da lei, vedendo che aveva portato Sakura in casa, l’aveva cambiata e avvolta in numerose coperte, lasciandola riposarsi accanto al camino scoppiettante. Crollai in ginocchio dinanzi a lei, controllando il suo colorito: le sue labbra stavano ritornando di un caldo rosa, scacciando via quel pallore bluastro, e il suo viso stava riacquisendo vitalità. Chiusi gli occhi, focalizzandomi sul suo respiro e i suoi battiti cardiaci tornati stabili, regolarizzandomi ad essi, finché Meiling non si schiarì la voce. Quando la guardai la vidi con le mani sugli occhi e l’aria imbarazzata, mentre mi chiedeva: «Non pensi che dovresti vestirti?» Solo allora mi accorsi di essere completamente nudo, per quanto non me lo spiegassi. Mi ero trasformato, senza accorgermene? Perché? Come era successo? Filai subito a rivestirmi prima di rioccupare il precedente posto, chiedendo il parere di mia cugina. Dopotutto, la luna ancora non aveva raggiunto il massimo splendore, sarebbe accaduto il giorno seguente. Lei ne era confusa quanto me, ma sembrava essersene fatta una mezza idea, rispondendomi: «Perché non lo chiedi a te stesso?» Mi mise dinanzi alla situazione e presunsi che potesse essere stato un risultato di rabbia e preoccupazione, ma secondo lei era qualcosa che trascendeva persino questo. «Penso che l’origine stia nel sentimento alla base di esse, ma non posso dirtelo Xiaolang. Lo devi capire da solo.» Dopo di ciò non aggiunse altro, semplicemente preparò una camomilla e si allontanò per contattare nostra madre e Hiiragizawa e vedere cosa farne della carcassa. Non sapevo in che condizioni la avesse trovata, ma neppure mi importava.
Mi concentrai su Sakura e ripensai alla mia reazione, domandandomi cosa avrebbe potuto spingermi a tanto e come mai, stavolta, fossi riuscito a calmarmi da solo. Qualcosa stava drasticamente cambiando in me, ma cosa di preciso? E da cosa era scaturito? Tali domande sfumarono nel momento in cui lei si riprese. Cercai di dedicarle tutte le mie attenzioni, ma senza neppure accorgermene finii col rimproverarla e manifestare, così, quella grande paura che avevo di perderla. Di perderla per sempre. E per un terribile attimo, lo avevo temuto davvero: che fosse troppo tardi, che lei stava per lasciarmi senza poterle dire che io… che io…. Io, cosa? Cos’era che sembravo anelare così tanto dirle? Cos’era quel sentimento che mi scaldava il petto e mi attraversava le vene insieme a tante scariche elettriche ogni volta che stavamo insieme? E continuava ad esserci anche un’altra cosa che mi frustrava: perché, tra tanti umani, continuavano a colpire lei? Perché tutti volevano lei? Non poteva essere per il suo sangue, visto che ero l’unico che ne subiva quello straziante effetto, quindi… che fosse soltanto un mezzo per arrivare a noi? I D. ci avevano trovati? Qualunque fosse la risposta, ero stato uno sconsiderato: sapevo che dovevamo essere all’erta, ma non pensavo che ci avrebbero seguiti fin qui. Ed era tutto troppo strano, né io né Meiling avevamo percepito nulla, quasi come se… come se quell’essere si fosse materializzato direttamente dai sogni di Sakura. Ma proprio perché mia cugina mi aveva avvisato di quei sogni, dovevo essere ancora più prudente. E invece, ancora una volta, Sakura aveva dovuto vivere una brutta esperienza. Ancora una volta, aveva dovuto soffrire.
Era tutta colpa mia. Io non riuscivo a proteggerla quanto volevo. Io la stavo mettendo in pericolo, sin dal primo giorno. E forse perché volevano me, lei stava diventando vittima di un conflitto che andava avanti da decenni. Mi chiusi nella mia bolla d’inchiostro, finché Sakura non la fece esplodere, chiamandomi per nome. Chiamando me, il mio nome. Quel nome di cui mia madre mi aveva fatto dono, per poter tenere in vita mio padre. Quel nome che parlava di me, come il suo parlava di lei. Quel nome che, attraverso le sue labbra, assumeva una cadenza giovale, candida, bambinesca. Assecondai così la sua richiesta di lasciar perdere le formalità, riconoscendo che per quanto mi ingannassi, per quanto mentissi a me stesso, vi avevamo detto addio da un po’, e pronunciai il suo nome. Non più soltanto nei miei pensieri, ma ad alta voce, e le tre more che lo componevano parvero sciogliersi sulla mia lingua, riempiendomi di un sapore che aveva un che di dolce, troppo dolce, scivolandomi nell’anima, avvolgendomela. E quando lei mi sorrise, chiamandomi di nuovo, mi parve che il mio debole cuore saltasse un battito, smarrendosi in lei. Pensai con diletto che se fossi stato totalmente umano probabilmente sarei arrossito all’inverosimile e avrei avuto un costante batticuore, ogni volta che mi parlava, ogni volta che mi guardava. Cos’era tutto quello?
Dal giorno successivo mi dissi che, definitivamente, avrei cercato di restarle il più accanto possibile. Ecco perché, nonostante mi sentissi febbricitante, non mi allontanai. Nonostante l’influenza della luna, riuscivo a sopportarlo – tranne quando scese il tramonto. Allora, non dopo essermi subito diverse lavate di capo da Meiling per la mia sconsideratezza, uscii all’esterno, sperando vanamente che la neve potesse essere un conforto contro quel bruciore sulla pelle, quel ribollire e scorrere frenetico del mio sangue, quella pesantezza asfissiante. Mi rintanai sotto un albero, distanziandomi dallo chalet in cui erano tutti, e mi appigliai a me stesso, affondando i denti nel mio labbro. Per quanto fossi lontano, non potevo farmi sentire. Non potevo farmi scoprire. E soprattutto, non volevo spaventare nessuno. Più di chiunque altro, non volevo spaventare Sakura, considerando le sue fobie.
Invece, proprio lei doveva trovarmi. Proprio lei doveva venire da me, restare al mio fianco, in un momento in cui non avevo mai permesso a nessuno di presenziare. Un momento di cui mi vergognavo, di cui al contempo andavo fiero ma che soffrivo, perché era per tenere me nascosto che mia madre aveva dovuto rinunciare al suo lignaggio e ad una permanente dimora. Mi aspettavo pertanto che, vedendomi, Sakura fuggisse terrorizzata, mentre un’altra parte di me ormai aveva capito che, per come era fatta, per quanto era buona, sarebbe rimasta. Lei non mi avrebbe mai guardato come un mostro. Lei non mi avrebbe abbandonato. E infatti rimase lì, come la prima volta. Come la prima volta mi invitò ad avvicinarmi, come la prima volta toccò il me lupo e tutto il mio corpo vibrò, tutta la mia anima fu attraversata da un formicolio. Stavolta non la allontanai. Sapevo di volerla con me, sapevo di aver bisogno di lei perché lei, con quella mano ora tiepida posata tra la mia pelliccia, riusciva in qualche modo a curarmi. Le permisi di avvicinarsi, di abbracciarmi, di rubare il mio calore, senza temere neppure per un istante di poterle fare del male. Era buffo come da vampiro quasi avessi paura di lei, mentre da lupo, da animale, mi sentivo più vicino a lei. Mi sentivo, in quel momento, più umano che mai.
Dopo quella consapevolezza, decisi di mostrarmi a lei per ciò che ero, capendo che più a nulla serviva celarglielo, e le raccontai tutta la mia storia. Le raccontai i miei segreti, le rivelai i miei aspetti più immondi, ma lei accettò ogni singola cosa, mostrandosi comprensiva e partecipe. La portai nel mio mondo, e subito lei parve confondersi in esso, prendere parte di esso. Cosa che non avevo previsto, era che potesse angustiarsi per il suo stesso odore. Non poteva farci nulla se era nata così, e in ogni caso…. In ogni caso, stavo cominciando a farci l’abitudine. Stava diventando sopportabile. Riuscivo a stare al suo fianco, a rimuovere le distanze, ad annusarla e controllarmi. E forse, come lei supponeva, la risposta a tutto questo stava nel cuore. Forse aveva ragione, i nostri organi vitali erano collegati, portandoci inevitabilmente l’uno dall’altro. Anche perché, facendola entrare nel mio mondo, lei mi aveva permesso di entrare nel suo. Mi avvolse nella sua gaiezza, facendomi sorridere spontaneamente, facendomi ridere apertamente, di un riso che mi nasceva dal cuore. Nulla di finto, nulla di costruito, nulla di forzato.
Ogni singola cosa che vivevo insieme a Sakura era vera. Poteva essere veramente distruttiva, poteva essere veramente rincuorante. Ma era tutto vero. E prima che io stesso potessi prevederlo, la mia rovina divenne per me una mano che mi conduceva in un mondo migliore, pieno di gioia e letizia, che rischiarava le mie grigie, monotone giornate con la sua luce multicolore.










 
Spiegazione: le "more" sono le sillabe giapponesi.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


Malinconia


 
Quel sabato notte, dopo che mi furono svelate le vere identità di Syaoran-kun, Eriol-kun e Tomoyo-chan, mi addormentai tra le braccia di questi ultimi due, dopo aver consumato tutte le lacrime che avevo in corpo. Mi fu utile lasciarle liberarsi perché già dal successivo risveglio mi sentii più leggera. E, a scapito di quel che temevo, non feci neppure incubi – forse dipendeva dall’acchiappasogni che mi aveva regalato Eriol-kun.
Me ne fece dono proprio dopo che fummo tornati dalla gita, venendo insieme a Tomoyo-chan a bussare in camera mia ad ora tarda, giusto poco prima che mi mettessi a letto. Allora mi porse quel tipico acchiappasogni indiano, fatto in legno, con piccole pietruzze colorate tra cui riconobbi solo l’ametista e la charoite (Eriol-kun chiarificò che quell’altra gemma azzurra dalle venature simili alla rodocrosite fosse il calcedonio) e piume d’un celeste pallido, consigliandomi di appenderlo accanto alla testiera del letto.
Mentre eseguivo ciò Tomoyo-chan mi si affiancò, notando la presenza di Kero-chan sul cuscino accanto al mio. Lo prese guardandolo con occhi luminosi, esclamando: «Eriol, non assomiglia al tuo Suppi?»
«Suppi?» domandai confusa.
«Posso andare a prenderlo?» gli domandò e ad una sua conferma corse via.
Lui allora si tenne il mio peluche giallo tra le mani, ammirandolo da ogni angolazione, con aria pensierosa.
«Appartiene a mio padre» spiegai, sorridendogli raddolcita. «Anche lui da bambino ci dormiva insieme ed è passato prima a Touya poi a me, dopo la mia nascita. Se vedi bene noterai che è un po’ consumato.» C’erano delle scuciture all’altezza della pancia e delle orecchie e piccole sfilacciature sulle zampe e le ali.
«Se lo chiedi a Tomoyo sarebbe più che lieta di rimettertelo in sesto» sorrise, restituendomelo.
Quando lo ripresi strinse per qualche secondo le mie mani nelle sue, guardandomi con un’incomprensibile malinconia e riluttanza nello sguardo, sorprendendomi per quel contatto. Non mi aveva mai toccata tanto direttamente prima e non sapendo ancora niente di lui, allora, rimasi molto turbata dalla sua pelle di ghiaccio. Quella di Syaoran-kun, in confronto, non era nulla. Era come tenere un prodotto surgelato a lungo, senza mai interrompere il contatto; ad un certo punto il freddo diveniva bruciante, dando l’impressione di perforare le ossa.
Quando mia cugina tornò si allontanò, spostando gli occhi sul peluche che aveva portato con sé; mi si avvicinò, mostrandomi quello che mi sembrava un gatto nero – o forse un cucciolo di pantera? – con la punta della coda attorcigliata, occhi celesti e alucce da libellula dello stesso colore. Somigliava molto al mio Kero-chan, che dovevo ammettere tuttora non avevo capito se fosse un orsacchiotto o un leoncino, considerando le fattezze della coda; le ali del mio peluche, tuttavia, erano bianche e sembravano quelle di un angelo.
Feci fare loro conoscenza, presentandoli l’uno all’altro, trovando anche Suppi adorabile.
Il mattino dopo la rivelazione approfittai della colazione per domandare finalmente a Eriol-kun se il suo regalo c’entrasse qualcosa con l’assenza di brutti sogni e mentre infilzavo grossi pezzi di pancake con la forchettina lui mi rivelò: «È un amuleto magico che tiene lontani gli incubi e non solo. Dovrebbe anche impedire l’accesso al tuo inconscio a chiunque stia tentando di penetrarlo.»
A quel riferimento mi fu inevitabile chiedergli se mi avesse letto nella mente, scoprendo della voce che fino a qualche settimana fa infestava le mie notti.
Lui scosse la testa in segno di negazione, confessando poi senza alcun ritegno: «Anche se qualche volta ti ho letto nel pensiero, per curiosità.»
«Curiosità?» gli feci eco, a metà tra il sentirmi basita e indignata.
Tomoyo-chan gli rivolse un’occhiataccia, ma lui sorrise pieno di diletto.
«Per capire se sospettavi qualcosa di noi.»
«Oh…» Riconobbi che, in parte, aveva fatto bene a controllarmi. Era piuttosto sensato preoccuparsi di ciò.
«E, in generale, ogni volta che parlavi di Syaoran.»
«Perché?!» domandai avvampando, imbarazzatissima.
«Per la stessa ragione ed eventualmente capire cosa pensassi di una tale possibilità. Devo dire che i tuoi pensieri a suo riguardo sono particolarmente spassosi» rise, al che Tomoyo-chan gli tirò uno schiaffo sul braccio al posto mio, forse notando il biancore del mio viso.
Lui lo sapeva. Di certo lo sapeva. Eriol-kun sapeva che io fossi innamorata di Syaoran-kun. E sapeva anche che ciò fosse sbagliato perché capivo che, per quanto desiderassi sorvolare su quel dettaglio e ignorarlo, considerandolo poco importante, le nostre differenze non ci avrebbero mai permesso di stare insieme. In realtà, lo facevo per lui: non volevo apportargli ulteriore sofferenza. Non volevo costringerlo a dover affrontare l’ennesimo sacrificio. E quindi avrei messo a tacere quel sentimento, decidendo che mai e poi mai gliene avrei parlato.
«Ti prego di non farlo più» lo implorai in tono esile, abbassando gli occhi sul cibo, sebbene ormai mi fosse passata la fame.
«Non posso promettertelo, visto che è un brutto vizio che ho. Se può consolarti, sappi che tutto quello che pensi è palese dalle tue reazioni.»
Guardai Tomoyo-chan in cerca di conferma e lei assentì, sorridendo dispiaciuta.
«Ma tranquilla Sakura-chan, noi sappiamo mantenere i segreti.»
Desideravo sprofondare, sentendomi fin troppo esposta. Se era vero quel che dicevano, allora probabilmente anche lui se ne era già reso conto….
«Ad ogni modo, è stato Syaoran a dirmelo.»
Mi spiegò che quando ci fu l’incidente nella bufera qualcuno era realmente lì, con me, prima che Syaoran-kun corresse in mio soccorso. La loro supposizione era che non fosse la stessa persona che mi chiamava, ma soltanto un “vicario” mandato, per così dire, in vedetta, per capire se fossi una preda facile o meno.
Quel discorso mi terrorizzò e nell’udirlo tremai come una foglia, nonostante Tomoyo-chan mi carezzasse un braccio con fare terapeutico. Mi si strinse lo stomaco dalla paura e a quel punto non riuscii più a buttare giù neppure un boccone. Al contrario, ero nauseata.
Perché mi cercava? Cosa voleva da me?
Posi quelle domande ad alta voce ed Eriol-kun si rabbuiò, assumendosene la responsabilità.
«Non penso cerchino te direttamente, Sakura-san. Credo vogliano risalire a noi, senza importarsi del fatto che a tale scopo possano fare del male ad un’innocente umana.» Si rivolse poi a mia cugina, guardandola solennemente, mentre io continuavo a rabbrividire. «Se capiscono che siamo tutti qui a Reiketsu saremmo costretti a dividerci e dover disperdere di nuovo le nostre tracce. Per tenerla al sicuro.»
Mia cugina annuì in conferma, accettando già quella sorte, mentre io ritornai in me soltanto per reagire con foga, alzandomi di scatto, sbattendo le mani sul tavolo, opponendomi ad una prospettiva così nefasta.
«Non se ne parla! Non dovete dire addio a tutto per me!» mi ribellai.
«Sakura-chan, non ci restano molte alternative» provò a farmi ragionare mia cugina, ma io scossi vigorosamente la testa. Non volevo allontanarli da tutte le persone che avevano al loro fianco. E la storia non doveva ripetersi, per nessuno di loro.
«Non ve lo permetterò» insistetti, risoluta. Presi qualche respiro, facendo osservare: «Qui a Reiketsu abbiamo una barriera che ci protegge, no?»
Eriol-kun sospirò chiudendo gli occhi, spiegando: «Non tiene lontani i vampiri, anzi, li accoglie. Li chiama. La sua unica utilità è avvisarmi per farmi capire che tipo di vampiro entra in città, se appartiene ad una stirpe oppure è trasformato.»
«Quindi ti accorgeresti se fosse uno dei malvagi.»
«Sì, ma potrebbero ricorrere ad altri mezzi.»
«Quali mezzi?»
«Ad esempio, usare qualche potere particolare per ingannarci.»
«Si può ingannare la barriera?»
«No, ma -»
«In tal caso non ve ne andrete» decretai, ferma nella mia posizione. «Siamo quasi vicini a dicembre, poi dovranno passare altri tre mesi e per marzo dovrei ritornare a Tomoeda.» Inghiottii faticosamente il groppo che mi si era formato in gola, perché c’era un lato di me che non voleva assolutamente partire. Ma dovevo farlo, dovevo tornare alla mia vecchia casa, per il bene di tutti. «Allora sarete liberi, quindi potete stare tranquilli. Andrà tutto bene, sicuramente.»
Sorrisi, aggrappandomi con l’anima e il cuore alla mia positività, ricordandomi che, qualunque sfida avessimo dovuto incontrare, in un modo o nell’altro saremmo senz’altro riusciti a sormontarla. Soprattutto se fossimo rimasti tutti insieme.






Con l’arrivo di dicembre tornò anche zia Sonomi. Non appena mi vide e mi presentai lei fece le lacrime agli occhi, riempiendomi di coccole, definendomi la copia spiccicata di mia madre. Fu toccante sentirglielo dire, per anni ed anni mi ero sempre sentita simile, se non identica, a papà e un po’ mi dispiaceva avere ben poco in comune con la mamma (ossia, unicamente il colore degli occhi).
Raccontandomi di lei, mio padre diceva che avevamo la stessa gaiezza, lo stesso sorriso, la stessa positività e talvolta mio fratello – che aveva avuto modo di trascorrere più tempo con lei, potendola conoscere – confermava, sebbene aggiungesse dispettosamente: «A differenza tua, lei era però bella come un angelo.»
Non che dovesse dirmelo lui, visto che comunque era palese dalle fotografie che fosse stupenda ed eterea.
Per quel che mi riguardava, mi ero sempre sentita diversa da lei: in contrasto coi suoi lunghissimi capelli scuri, talvolta sfumanti verso il blu-viola, talvolta verso il grigio, i miei non erano lunghi neppure fino alle spalle ed erano chiari, tendenti al colore del miele – “biondo fragola” lo aveva definito un giorno Rika-chan, apprezzandolo –; rispetto al suo corpo minuto io crescevo un po’ più alta (se tale mi potevo definire col mio metro e sessanta) e slanciata, oltre che più robusta essendo più atletica, mentre lei era negata nelle attività fisiche. Era un’imbranata cronica, non riusciva a camminare su una superficie piana a lungo senza inciampare nei suoi stessi piedi e capitombolare, e seppure spesso sembravo aver ereditato anche io quel tratto – anche se a me era più che altro una questione di distrazione – ero comunque in grado di tenermi in equilibrio.
Sonomi-san, tuttavia, riuscì a trovare nuove caratteristiche che avessimo in comune: secondo il suo parere avevo una voce calda e cristallina, dai toni infantili, simile a quella di mia madre – la quale tuttavia assumeva sempre un tono più pacato. Mi disse anche che esprimevo la stessa solarità e serenità, avvolgendo con esse chiunque mi stesse accanto. Avevamo gli stessi tratti nel taglio del viso, la stessa pelle nivea più rosea sulle gote, soprattutto quando mi imbarazzavo – ma era piuttosto inevitabile arrossire dopo tutti quei complimenti.
A volte sembrava anche che facessi gesti simili ai suoi, tipo quando abbassavo lo sguardo e mi coprivo coi capelli per la vergogna, o quando sgranavo gli occhi per la sorpresa o gonfiavo le guance imbronciandomi per la stizza.
Erano tutte cose che papà non mi aveva mai detto, ma non gliene facevo una colpa. Sapevo quanto fosse doloroso per lui e per mio fratello parlarne, per cui le uniche domande curiose da infante le porgevo al nonno quando andavamo a trovarlo. Lui mi parlava sempre con grande entusiasmo di lei, permettendomi così di conoscerla, almeno parzialmente.
C’era poi anche la questione che, essendo Sonomi-san sua cugina, avevano trascorso tutta l’infanzia e adolescenza insieme, finché mamma non si ritrovò costretta ad abbandonare la sua famiglia per inseguire i suoi sogni d’amore e stare con papà.
Mi piaceva ascoltare zia, soprattutto per quel grande legame che stava cucendo tra me e mia madre, e ogni giorno alla fine dei pasti ci intrattenevamo in soggiorno, lasciandoci avvolgere da quella dolce nostalgia. Tuttavia, sebbene all’inizio le fossi unicamente grata e sorridessi raddolcita dinanzi alle sue parole, col tempo qualcosa si insinuò in me. La riconobbi quale tristezza. Cominciavo a rimpiangere il fatto di non averla mai realmente conosciuta, cominciavo a struggermi per il non possedere nessun ricordo concreto di lei.
Questa mia sofferenza interiore mi dilaniava giorno e notte, al punto che cominciai a sognarla, splendente e sorridente, come la vedevo nelle fotografie. Non sapevo se c’entrasse qualcosa il fatto che quelle che avevo portato con me al Nord e che cambiavo ogni settimana nella cornice sulla scrivania le avevo avvicinate al letto, in modo tale che fosse l’ultima persona cui davo la buonanotte e la prima cui dessi il buongiorno. Guardavo la sua figura prima di chiudere le palpebre, stringendomi Kero-chan al petto, immaginandomi che sia lei che papà fossero stati lì a cullarmi.
Nei miei sogni lei era sempre avvolta dai fiori: rideva nei campi di margherite, la volta successiva passeggiava sotto archi di gelsomini, poi ancora roteava serena tra cespugli di rose o giocava a nascondino in mezzo ai glicini. Aveva sempre un’aria allegra e spensierata, e mi chiamava con la sua dolce voce: «Sakura, bambina mia!» Allora allargava le braccia, ma prima che io potessi fiondarmici venivo strappata con forza da quel sogno solare, svegliandomi in un buio bagno di lacrime e sudore.
Tentai di celare quella mestizia agli altri, conscia però di non poter ingannare Eriol-kun, il quale mi guardava sempre con occhi partecipi del mio lutto, ma non rivelava nulla per rispetto dei miei riguardi. Sapevo che non lo faceva con cattiveria: leggeva la mia mente per cercare di capire come mi sentissi, cosa mi crucciasse, sperando forse di trovare un metodo per aiutarmi. Ma ahimè, non v’era modo di riportare in vita i morti. E questo una sera me lo disse anche lui, carezzandomi poi per consolarmi. Per quanto lo capissi, per quanto lo sapessi, non riuscivo a rassegnarmi. Avrei voluto vederla, almeno solo una volta….
La cosa peggiore era il fatto che, subito dopo che per sbaglio mi cadde l’acchiappasogni, spaccandosi lievemente, seppure lo avessi riappeso dov’era sulla testata del letto, sognai di nuovo quella voce. Ripeté quelle parole: «Posso renderti felice. Posso realizzare il tuo desiderio». Ma al mattino mi sentivo talmente intontita da non capire se l’avevo effettivamente sognato oppure erano soltanto i miei pensieri quelli, una mia vana speranza che si riaggrappava a vecchi ricordi.
Naturalmente, nonostante la mia facciata e la maschera che avevo deciso di indossare a scuola, anche Syaoran-kun si accorse che qualcosa non quadrava; così, un giorno in cui non avevamo lezioni decise di “rapirmi” venendomi a prelevare fin dentro casa, ordinandomi di imbacuccarmi a dovere per uscire.
Seppure feci quel che voleva con riluttanza cercai di sbrigarmi, visto che comunque avrebbe significato del tempo da trascorrere insieme – a sorpresa! Non importava quanto stessi male, se lui stava al mio fianco sapevo che sarei riuscita a ritrovare in fretta il buonumore.
Quando mi fui preparata e gli chiesi dove stessimo andando lui mi guardò in maniera enigmatica, pronunciando soltanto queste parole: «Nel luogo in cui ritroveremo il tuo sorriso.»










 
Angolino autrice:
Finalmente aggiorno! Non pensavo fosse trascorso più di un mese, gli esami mi hanno fatto perdere del tutto la cognizione del tempo ç_ç Quindi sono qui per scusarmi, sperando che non mi abbiate abbandonata T//T Anche se mi dispiace riprendere con un capitolo così triste.... Fortunatamente, già dal prossimo andrà meglio!
Come vedete, Suppi esiste! E se vi state chiedendo di Yue... beh, vedrete! 
Ora filo via, sperando che questa storia stia continuando a piacervi! Grazie a chi ancora resiste, mi sopporta e supporta TwT

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Sorriso ritrovato


 
Aveva cominciato a nevicare precisamente dal giorno del ritorno di Sonomi-san, il che significava all’incirca da due settimane. Eravamo ormai vicini al Natale, un periodo che in passato amavo: trascorrevo giornate intere insieme a papà, mio fratello e Yukito-san – anche perché tale data coincideva con il compleanno di quest’ultimo. Dopo una cena in famiglia e lo scambio dei doni andavamo a passeggiare per le strade affollate di Tokyo, sotto le luci natalizie. A volte viaggiavamo per vedere le luminarie di altre città e ogni anno amavo tutti quei colori che tingevano la neve, rendendola più brillante. Rendendola magica.
Quest’anno, tuttavia, non avremmo portato avanti quella tradizione, essendo tutti lontani; pertanto mi chiesi come sarebbe stato, cosa avremmo fatto e, soprattutto, i vampiri come erano soliti trascorrerlo.
Rivolsi uno sguardo a Syaoran-kun alla mia destra, il quale camminava un po’ più avanti rispetto a me per aprirmi un passaggio nel bosco, tenendo alzati alcuni rami per farmi passare. Seguivo le sue impronte in silenzio, meditabonda, ma ad un certo punto si fermò e mi guardò con aria dispettosa, scrollando un ramo di pino affinché la neve ivi raccolta mi finisse addosso.
«Waaah, smettila Syaoran-kun!» mi lamentai, ridendo, tentando di togliermela di dosso.
Lui ridacchiò, aiutandomi a disfarmene prima che si sciogliesse e mi bagnasse. Ne prese qualche fiocco sul polpastrello, mostrandomelo.
«Avvicinati.»
Feci come suggeriva, e lui portò il dito a pochi centimetri dal mio naso.
«Chiudi gli occhi» mi ingiunse, facendo altrettanto.
Eseguii gli ordini, finché non mi chiese di riaprirli qualche secondo dopo. Li sgranai, colma di meraviglia, quando mi accorsi che si riuscivano a vederne i cristalli uniti insieme, in una maniera talmente nitida da farmi notare quanto fossero diversi.
«Quanti ne vedi?»
«Cinque!» esclamai su di giri, spostando lo sguardo sul suo viso, incredula. «Come riesci a mostrarli?»
«È una cosa abbastanza semplice. Io li vedo così, quindi mi basta concentrarmi per mostrarti la mia visione delle cose.»
«Si può fare una cosa del genere?»
Un’abilità simile mi lasciava senza fiato. E poi, lui vedeva anche quei dettagli normalmente invisibili a occhio umano?!
Annuì, prima di soffiarvi sopra, facendoli disperdere tra i loro compagni. Ne seguii la traiettoria finché non si posarono al suolo, creando così un campo fiorito.
«Si può fare solo se tu ti apri con me» rispose successivamente, riprendendo il cammino.
«In che senso?»
«Se tu non avessi voluto vederli non li avresti visti. C’è bisogno che venga a crearsi una connessione affinché funzioni e tu sei venuta incontro al mio potere. Chiunque altro avrebbe avuto troppa paura, probabilmente.»
«Paura di qualcosa di tanto bello?»
«Paura di me e di ciò che sono» ribatté, guardandomi con le sopracciglia aggrottate, preoccupato.
«Allora non sanno cosa si perdono» scherzai, prendendo la sua mano.
Sospirò arrendevole, stringendo delicatamente le dita attorno alle mie, invitandomi a proseguire. Sebbene a differenza sua io indossassi guanti di lana color pesca riuscivo a percepire la sua pelle in maniera distinta. Mi sentii un vuoto allo stomaco quando strinsi il palmo contro il suo.
Si voltò prontamente, guardandomi interrogativo, forse credendo che lo stessi richiamando per qualche motivo. Ma la verità era che, per una ragione che mi era piuttosto oscura, in quel periodo sentivo un irrefrenabile bisogno di sentirlo più vicino.
E così, assecondando quel mio muto desiderio, accostò l’altra sua mano al mio volto, alzandomi la sciarpa fin sopra il naso.
«Copriti bene, sei già tutta rossa per il freddo.»
Non era il freddo. Sapevo che non era il freddo, perché con quel minimo tocco mi sentivo andare a fuoco. Era lui. Era Syaoran-kun a farmi arrossire.
Chinai lo sguardo, con gli occhi lucidi, ringraziando il fatto che lui non mi leggesse nella mente come Eriol-kun. Non dovevo assolutamente tradirmi.
«Ci siamo quasi» annunciò, dopo che avemmo ripreso il cammino nella foresta di conifere, ormai quasi del tutto imbiancata.
Si arrestò col viso rivolto in alto, indicando davanti a sé con la mano libera.
«Guarda, sul cedro rosso» sussurrò in tono quasi inudibile, lo stesso che usava spesso a scuola con me, avvicinando apposta le labbra al mio orecchio. Rabbrividii fin dentro le viscere, ma mi mantenni composta.
Non ero in grado di distinguere nettamente le tipologie di alberi quando erano così compatti, per cui seguii semplicemente la direzione del suo indice. E allora schiusi le labbra, sbalordita.
Da dietro il tronco spuntò un uccellino totalmente bianco, che ben si mimetizzava con l’ambiente che lo circondava. Zampettava su un ramo, cinguettando, e a tale suono il mio cuore si riempì di gioia. Sorprendendomi, Syaoran-kun ne riprodusse il verso, e quella sorta di passerotto scattò con la testa verso di noi, rivelandoci i suoi occhietti e il becco neri. Come se rispondesse ad un richiamo spiegò le sue piccole ali, atterrando con quelle minuscole zampette sul palmo aperto di Syaoran-kun. Mi accorsi così che aveva le piume striate di nero e grigio all’esterno dell’apertura alare e sulla lunga coda, mentre il nero era intervallato da qualche macchia marroncina sulla nuca. Per il resto era bianco candido.
«Questo è lo shima-enaga» sussurrò Syaoran-kun, mentre esso si spostava sul suo dito. Chiuse il resto della mano in pugno e l’uccellino in questione mi guardò con aria curiosa.
Mi uscì spontaneo sorridere. Come aveva detto Syaoran-kun, sembrava sul serio un batuffolino! Era adorabile!
«Prova a toccarlo.»
Lo guardai insicura, non volevo farlo volare via con qualche mio movimento brusco. Ad un suo cenno incalzante gli lasciai la mano per togliermi il guanto lentamente, allungando poi timidamente un dito. Timorosa, poggiai con delicatezza il polpastrello sulla sua testa bianca, al che la scosse, arruffandosi. Mi tirai immediatamente indietro, mentre Syaoran-kun trattenne una risata, stringendo labbra e occhi per non farsela scappare. Moou!
Stizzita mi abbassai di poco la sciarpa per fargli una linguaccia, tornando poi all’uccellino, prendendo un profondo respiro. Mi morsi un labbro, rifacendo un tentativo, rendendomi conto di essere talmente agitata da tremare. Evidentemente anche Syaoran-kun se ne accorse perché prese la mia mano, accompagnandomi dolcemente a carezzargli il dorso. Dopo essersi assicurato che se lo lasciasse fare mi lasciò e io mi calmai, sprofondando in quel manto così morbido.
Sorrisi, guardando Syaoran-kun piena di gratitudine.
Lo shima-enaga dopo un po’ si alzò nuovamente in volo, tornando sul suo ramo, ed io lo seguii con lo sguardo finché non parve farci un cenno di saluto con la testa, scomparendo dietro il cedro. Lo salutai con la mano, sentendomi molto più leggera, e quando tornai a guardare Syaoran-kun lo trovai a sorridermi amorevolmente. Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata, il sangue mi confluì tutto sul viso. Non era lecito guardarmi in quel modo, lo rendeva troppo… troppo. Troppo, soprattutto per me.
«Lo abbiamo trovato» sussurrò rincuorato.
«Sì» confermai, piena di entusiasmo, illuminandomi dinanzi alla meraviglia della scoperta. «Grazie per avermelo mostrato.»
Scosse la testa, precisando: «Intendevo, il tuo sorriso». Detto ciò me lo sfiorò con la punta dell’indice, e la sua espressione si riempì di gentilezza. Mi congelai, sentendomi contemporaneamente andare a fuoco. Percepii le mie labbra tremolare sotto quella sua quasi impercettibile carezza, ma cercai di mantenere vivo quel sorriso che lui stava cercando. Per quanto sentissi le lacrime pungermi gli occhi per l’emozione. Per quanto mi sembrasse che il mio cuore stesse per esplodere, rischiando di far traboccare tutti i sentimenti che con tanta fatica tentavo di arginare. Ma lui aveva cercato il mio sorriso. Lui voleva vedermi felice. E aveva fatto tutto quello per me….
Gli presi la mano, baciandone le dita, poggiandomela poi accanto alla guancia, strusciandovela contro ad occhi chiusi. Mi sentivo, di nuovo, sull’orlo delle lacrime, ma non volevo piangere. Non davanti a lui. Avrebbe frainteso e pensato che fossi triste, quando in realtà era l’esatto opposto. Con lui non facevo altro che ricevere gioia e confusione e leggerezza e gentilezza e cura. Che venissero dal mio cuore o dal suo, le percepivo tutte insieme, fluttuanti nel mio petto.
«Sakura, non farlo. Prendi freddo» si preoccupò, tirandosi indietro.
Fece come per rialzarmi la sciarpa ma notandolo mogio posai la mia mano destra sulla sua guancia, restando ferma. E anche lui si immobilizzò.
«Sei più caldo del solito…» gli feci notare, con un fil di voce.
Non andava bene. Più gli restavo accanto, più mi sentivo trasognante.
«Sei annebbiata dal tuo stesso calore» replicò pacato, togliendo la mano, ritraendosi al mio tocco.
Riprese a camminare voltandomi le spalle e io rimasi qualche passo dietro di lui, sentendomi ferita. Come se mi avesse piantato una freccia di ghiaccio nel cuore.
«Ti dà fastidio che io lo faccia?» indagai, imbronciata.
«Non è che mi dà fastidio.» Sospirò, alzando di poco il viso verso il cielo che si intravedeva dalle alte cime. «Ma non sono abituato.»
Mi rivolse un’occhiata di sbieco e io mi redarguii. Che stupida, avrei dovuto immaginarlo.
«Perdonami» borbottai dispiaciuta, rimettendomi il guanto.
«Non è una cosa per cui c’è bisogno di scusarti, solo che… è strano.»
Si scompigliò i capelli, sviando lo sguardo, quasi fosse imbarazzato.
«Perché nessun umano ti ha mai toccato?» osai, sperando di non commettere alcuna gaffe.
«Anche» confermò, senza guardarmi. «Ma ciò a cui non sono abituato sono le mie reazioni.»
A questo alzai un sopracciglio.
«Non reagisci in alcun modo» sottolineai.
«Questo perché cerco di evitare di mettere in atto quel che penso.»
Tacque, lasciandomi a riflettere su quelle parole. Vi rimuginai sopra a lungo, finché non si arrestò all’improvviso; totalmente persa nei miei pensieri finii con lo sbattergli contro e, come di riflesso, mi lamentai massaggiandomi la punta del naso. Lui immediatamente si voltò, sembrando nel panico.
«Ti sei fatta male?»
«No» gli assicurai, abbassando di poco la sciarpa per fargli vedere che era tutto in ordine. Sospirò sollevato, il che mi fece interrogare sul perché si fosse allarmato tanto per qualcosa di così piccolo.
«Uhm, Syaoran-kun» esordii, temporeggiando, sperando di non risultare sciocca a causa della mia ignoranza. «Voi vampiri siete… più forti di noi umani...?»
Lo vidi irrigidirsi mentre rispondeva tirato: «Sì, e anche più veloci e agili. Dobbiamo stare attenti a quello che facciamo, per non destare sospetti.»
Vedendolo tanto teso cercai di alleggerire l’atmosfera.
«Ah, per questo sei così bravo in tutto!» lo presi in giro, e lui si fece scappare una mezza risata.
«Tento di rientrare nei canoni.»
«Tranquillo, seppur fuori dalla media sei un idolo per tutti. Ma immagino che lo stesso valga per Eriol-kun, Tomoyo-chan, Meiling-chan e Feimei-chan» ridacchiai. «Siete modelli da seguire e credo che non facciate altro che spronare involontariamente gli altri a fare del loro meglio. Quindi, non dubitare di te stesso, sei impeccabile sia nel tuo che nel mio mondo.»
Sgranò gli occhi, quasi lo avessi colpito in pieno con una secchiata d’acqua.
«I-io…» indugiò, abbassando lo sguardo, titubante. «È che con te temo di lasciarmi troppo andare e farti del male, senza che io lo desideri.»
Gli presi la mano, in attesa. Dopo che chiuse anche le sue dita attorno alle mie, con la solita delicatezza, gli sorrisi raggiante. «Possiamo cominciare con questo, no?»
Strinse le labbra, come combattuto; ma poi, finalmente, annuì, spronandomi a riprendere il cammino.
Uscimmo dal fitto della foresta e, dopo aver superato i folti rami più bassi degli abeti, ci ritrovammo in un sottile sentiero serpentino totalmente imbiancato. Seppure me lo aspettassi grigio, a causa delle nuvole in cielo, riluceva col suo biancore e le ombre erano d’un celeste ghiaccio.
«Una strada?» mi sorpresi, lasciandolo per corrervi giusto al centro, facendomi carezzare da quei raggi nivei. Il bianco era sempre stato uno dei miei colori preferiti, insieme al rosa. E adesso non faceva che piacermi ancora di più.
«Che in pochi conoscono.»
Feci un giro su me stessa, voltandomi a guardarlo curiosa.
«Dove conduce?»
Ci mise un po’ a rispondere, prima di borbottare: «A casa mia.»
Schiusi le labbra stupita, incapace di parlare.
Si guardò le punte dei piedi, proponendo impacciato: «Ti… Ti va ancora di vederla?»
Annuii immediatamente, non perdendo tempo, prima che potesse cambiare idea. Non vedevo l’ora!
Lo affiancai, seguendolo in quel sottile percorso, e dopo aver svoltato in diverse curve arrivammo a destinazione. Quasi mi girava la testa dopo tutto quel zigzagare a destra e a sinistra, ma mi ripresi immediatamente quando mi ritrovai di fronte alla sua casa.
Era una piccola villetta a due piani costruita in marmo, legno e pietre, che si estendeva in orizzontale. Rispetto a quella di Tomoyo-chan aveva un che di moderno e geometrico, essendo piuttosto larga e rettangolare, ad eccezione di una parte centrale che, sul tetto, si concludeva con una sfera. Era particolare, non avevo mai visto un’abitazione simile prima.
Prima di farmi entrare mi fece fare un giro lungo il perimetro, facendomi così scoprire, dopo aver sorpassato delle rocce, che sul retro c’era una veranda in legno che affacciava su piccole sorgenti sottostanti, le quali scendevano in diversi livelli come tante cascate in miniatura, fino a ritrovarsi in un fiume. Era stupendo. E l’aria lì era così fresca, pulita, calma, silenziosa. Una pace dei sensi.
Mi riportò all’ingresso e sotto il portico parve rifletterci per un secondo prima di spiegarmi: «Ci sono solo mia madre e Meiling, perciò ho pensato che fosse una buona occasione per portarti qui.»
Cominciai a sudare freddo, annuendo. Mi dispiaceva un po’ non poter salutare anche le sue sorelle, con la loro vivacità sarebbero sicuramente riuscite a distrarmi da tutta quell’ansia che mi stava attanagliando lo stomaco.
Strinsi i pugni, raccolsi tutto il mio coraggio e ad un mio cenno aprì la porta color mogano.










 
Angolino autrice:
Salveee! Siamo vicini ad Halloween, il che significa che è quasi trascorso un anno da quando ho cominciato a pubblicare questa storia. E ciò significa anche che nei prossimi giorni, per farmi perdonare, cercherò di aggiornare il più possibile. 
L'unica cosa che c'è da spiegare qui è il "moou" di Sakura, che indica lamentela (come se mettesse il broncio, insomma). Nei capitoli successivi non credo ci sia qualcosa da spiegare, quindi è probabile che non ci saranno mie incursioni. Pertanto, sin da ora vi auguro buona lettura (e come al solito, spero che vi stia piacendo).
A presto! 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Mondo di sofferenza


 
Non appena misi piede all’interno della casa in cui viveva la famiglia Li rimasi a bocca aperta.
A scapito di quel che mostrava l’esterno, l’arredamento richiamava la Cina in ogni sua parte: nei lampadari, negli antichi mobili in lacca su cui erano dipinti in oro fiori di loto, magnolie, farfalle, uccelli, alberi e paesaggi montuosi, nelle ceramiche che essi ospitavano, nei numerosi divanetti bassi, nei ricami dei tappeti e nei quadri affissi sui muri raffiguranti antiche bellezze e figure mitologiche.
Mi attardai soprattutto ad ammirare un’intera parete composta da grosse mattonelle di madreperla, sul cui lato destro erano stati dipinti pruni fioriti, mentre a sinistra c’era una qualche iscrizione che non riuscivo ad identificare. Tutt’attorno v’era una specie di cornice in legno e alle due estremità laterali una sottile parte del muro sembrava emettere una luce dorata, come se fosse trasparente e dietro vi fossero lampadine ad accenderla. Forse si trattava di carta di riso, sulla quale erano incrociate sottili assi d’un marrone bruciato, tendente al rosso, che formavano nell’insieme una sorta di finestre traforate.
Per il resto le pareti erano dipinte d’un color crema, ad eccezione di quella di fronte alla porta, su cui erano rappresentati molteplici fiori che riconoscevo essere peonie, di diverse cromature, dal rosa più pallido al rosso più intenso.
Poi, altre tre cose mi meravigliavano: quelle che supponevo essere due porte ai lati erano separate dalla stanza principale soltanto da lunghi tendaggi che sembravano di seta, alla nostra sinistra in mezzo ad altre mensole con piantine, statue, incensi e divanetti sostava un pianoforte nero a coda, mentre giusto al centro di tutto questo, sul soffitto, vi era un’ampia cupola di vetro, che permetteva alla luce naturale di illuminare tutto l’ambiente. Potevo soltanto immaginare quanto fosse spettacolare ammirare le notti stellate, se soltanto non ci fossero state così tante nuvole a coprire il cielo.
Escludendo ciò, era come se si fossero portati la loro stessa casa, la loro madrepatria qui.
Tale impressione si acuì quando dalla tenda di sinistra emerse colei che supponevo essere la madre di Syaoran-kun. Era la prima vampira adulta che incontravo, ma non aveva perso nulla del suo splendore giovanile, anzi, sembrava che con gli anni il fascino non avesse fatto altro che accrescere, rendendola bella quanto un giglio.
Indossava abiti che mi sembravano di fattura cinese, erano molto belli, eleganti e con tutti quei decori avevano un che di regale. Ciò era accentuato dall’enorme fermaglio dorato appuntato nei suoi lunghi e lisci capelli d’ebano, il che in parte mi intimorì. In sua presenza mi sentivo piccola, come se fossi tornata bambina, impressione che mi rese ancora più nervosa, anche perché cosa poteva pensare di me? Che ero una disgrazia per suo figlio, che gli avevo apportato dolore, che fossi la sua nemesi. Lei avrebbe avuto tutte le buone ragioni del mondo per detestarmi.
Divenni una statua, sentendomi il cuore in gola e tutti gli arti tremarmi, nel timore che ciò che pensavo potesse essere vero.
Ella procedeva con un passo leggerissimo, pareva quasi che fluttuasse, e quando mi fu vicina notai quanto i suoi occhi fossero diversi da quelli di Syaoran-kun, più simili a quelli delle figlie: avevano un taglio sottile e affilato, ciglia lunghissime e le sue iridi erano nere come l’onice. Mi sentivo quasi sprofondare in esse, quasi fossero due buchi neri pronti a risucchiarmi per trasportarmi in un’altra dimensione. Rimasi incatenata al suo sguardo finché Syaoran-kun non mi riportò al presente, prendendo parola, con una riverenza che ancora mi era oscura in lui.
«Madre, lei è Kinomoto Sakura.»
«Kinomoto Sakura» ripeté. La sua voce era quasi un sussurro, ma era ferma e composta, celando perfettamente un antico dolore.
Mi inchinai presentandomi e lei fece lo stesso, prima di avvicinarsi a me, guardandomi dall’alto in basso. Chiuse gli occhi per qualche secondo e io rimasi ferma, col cuore che mi palpitava nelle orecchie, non sapendo come dovessi comportarmi; quando li riaprì, tuttavia, mi sembrava in pena.
Con meno indugio del figlio mi sfiorò una guancia – con la coda dell’occhio mi accorsi che lui aveva l’aria interdetta – e sorrise tristemente.
«Il tuo sangue è veramente speciale.»
Sbattei le ciglia, perplessa, sentendomi arrossire. Era un complimento?
Si rivolse poi al figlio alla mia destra, scuotendo la testa. «A quanto pare non sarà facile, Xiaolang.»
«Non mi importa» rispose prontamente, mostrandosi determinato. Era la prima volta che lo vedevo così, fiamme risolute rilucevano nelle sue iridi. «La proteggerò, con o senza il vostro sostegno.»
Sgranai gli occhi, impallidendo, sentendo il mio cuore saltare un battito. Lo guardai senza parole, ma lui era totalmente rivolto alla madre, la quale sospirò affranta.
«La proteggeremo anche noi, certamente, ma sai che richiederà una rinuncia.»
Lui annuì con consapevolezza, mentre io mi sentivo sempre più soffocare. Avevano parlato con Eriol-kun? Si erano messi tutti d’accordo per divenire miei difensori?
Volevo ribattere qualcosa, qualunque cosa, ma avevo perso la voce, quasi qualcuno mi avesse strappato le corde vocali. Anzi, sembravo aver perduto totalmente qualsiasi capacità di esprimermi, disimparando come si faceva.
«Sakura.»
Alzai la testa di scatto al richiamo della signora, consapevole di avere un aspetto intimorito. Era così: avevo paura, come con Eriol-kun e Tomoyo-chan, che loro potessero strafare e farsi del male. E soprattutto se erano costretti a rinunciare a qualcosa, non volevo assolutamente che accadesse. Non dovevano sacrificarsi per me.
«Ti ho già incontrata, in sogno.»
La guardai sorpresa, un po’ imbarazzata, ricordando solo allora la sua capacità di prevedere il futuro. Mi rimisi composta, prendendo un respiro profondo, attendendo un suo verdetto.
«Dalle mie visioni ho dedotto che dovrai affrontare parecchie difficoltà. Ci saranno diverse sfide ad attenderti.»
«Lei già sa cosa mi aspetta?» provai a chiedere maggiori dettagli, in tono quasi inudibile.
«Purtroppo no, non ho visto che tipo di avversari incontrerai, so soltanto che non sarà piacevole. Tuttavia…» Mi prese di nuovo il viso tra le mani, alzandomelo per renderlo parallelo al suo. Allora stese quelle labbra rosse come una camelia, mostrandomi un piccolo sorriso intriso di speranza. «L’importante è che tu resti sempre te stessa.»
Annuii, ricordando che fosse ciò che mi avevano detto anche le carte. Ed era quello che mi ripetevo sempre.
«Sakura!»
Sobbalzai al suono di quella voce squillante e tutti ci voltammo contemporaneamente a guardare verso l’altra tenda, quella sul celeste. Da lì vidi Meiling-chan correre nella mia direzione e non appena Yelan-san si staccò non perse tempo nel sostituirla, stringendomi tra le sue braccia.
«Evviva, ci sto riuscendo anche io!» esultò poi lasciandomi, facendo la linguaccia al cugino che era impallidito dinanzi al suo gesto. E quella era una cosa possibile solo per lui, in certi casi pareva che la sua pelle divenisse realmente di marmo traslucido.
«Che bello averti qui, Sakura! Vieni con me, ti faccio fare un tour per la casa. Vedrai, la mia stanza ti piacerà» assicurò ammiccante, trascinandomi via.
Mi congedai con la signora, che ci lasciò andare con un minuscolo sorriso, e dopo aver rivolto un’occhiata di scuse a Syaoran-kun – che non ci staccava per un attimo gli occhi di dosso, con aria impensierita – mi decisi a seguirla.
Dopo aver superato quella stessa tenda trovammo delle scale che conducevano al piano superiore, in cui vi era un corridoio con altre quattro tende di colori diversi. Meiling-chan mi istruì a riguardo, indicandole a mano a mano che passavamo: «Questa bianca porta alla stanza di zia, ma non ti conviene entrare visto che c’è un altarino dedicato allo zio e l’aria lì è piuttosto… deprimente». Convenivo con lei che fosse meglio evitare di invadere il suo piccolo spazio intimo, ove poteva sfogare il suo dolore. «Questa blu è di Feimei e Fanren, quella arancione è condivisa da Shiefa e Fuutie.» Mi accorsi che anche coi loro nomi aveva un modo diverso di pronunciarli, con una cadenza più musicale. «E questa è la mia» concluse, dinanzi a una tenda rossa.
Hoe? Non ne mancava una?
«E quella di Syaoran-kun?»
«Si trova al lato opposto della casa» spiegò, aprendo la tenda al centro per passare, rivelandone così due drappi. «Un po’ per garantirgli almeno un minimo di privacy, essendo l’unico maschio qui, e un po’ per… la sua doppia natura.»
«È un pericolo?» domandai stupidamente, entrando dietro di lei.
«Per noi no, ciononostante lui si ritiene tale. Ha scelto lui di stare separato da noi.»
Non mi sorpresi tanto del suo altruismo ormai così familiare, quanto invece per quello che mi si parava davanti agli occhi.
In questa piccola stanza dominavano il rosso e il giallo, sia sulle pareti che sui tessuti riccamente ricamati. Giusto al centro, alla destra di un armadio che si prendeva tutto il muro, c’era un basso divano-letto ricoperto di broccato con una miriade di cuscini frangiati, sparsi anche sul pavimento in legno – come avevo avuto modo di vedere, era così in tutta la casa –, mentre sulla sinistra vi era una scrivania con libri e penne alla rinfusa, lanterne di carta appese al soffitto, un telo rosso rappresentante il Tao affisso alla parete e accanto una grossa finestra circolare che affacciava sulla foresta.
Si accomodò sul letto, facendomi segno di affiancarla, rivelando: «Qui è dove dormo io.»
«Voi vampiri dormite, quindi?» formulai senza riflettere, pentendomene immediatamente, soprattutto per la risata fragorosa che ne derivò.
«Sakura, mettiti bene in testa questo: anche noi siamo esseri viventi. Certo, abbiamo orari e bisogni diversi da voi umani, ma anche noi dobbiamo “risparmiare e ricaricare energie”, sai?» mi istruì, saccente.
La guardai affascinata, scusandomi con lo sguardo, sedendomi alla sua sinistra.
«Allora, ti piace?»
«È una camera molto bella» confermai, annuendo colpita.
Lei si illuminò e si alzò di scatto, avvicinandosi tutta pimpante ad un mobiletto angolare. Ne aprì un cassetto, cacciandone dei biscotti imbustati, porgendomeli immediatamente.
«Condividiamo!» esclamò raggiante.
Ne scartai uno senza farmelo ripetere, guardandola però confusa. Ero strabiliata, soprattutto quando la vidi prenderne con avidità e gustarseli compiaciuta.
Mordicchiai il mio, scoprendo che fossero alla cannella. Erano ottimi!
«Provengono dall’Olanda, sono i migliori in circolazione» gioì, quasi in completa beatitudine.
«Ne senti il sapore?» domandai allora, dando voce al mio stupore.
«Solo di questi» confermò. «Ho assaggiato anche altre tipologie di biscotti secchi, ma erano insipidi e rivoltanti.»
Assunse un’espressione di disgusto, mentre io riflettevo a riguardo.
«Syaoran-kun li ha mai assaggiati?»
«No, si è sempre rifiutato di ascoltarmi» sbuffò rumorosamente, incrociando le braccia. Facendoci caso, nei suoi atteggiamenti Meiling-chan sembrava la più vicina a noi umani. «Non so se hai già capito quanto sia cocciuto» ridacchiò poi, facendo ridere anche me. «C’è però da riconoscere anche che sembrano piacere solo a me. Ciascuno di noi ha gusti diversi.»
Quella mi era nuova! Ma da un lato era anche ovvio che fosse così, era normale che ognuno avesse le proprie preferenze.
«Proprio come noi» sorrisi, rilassandomi.
«Esatto! Mi fa piacere vedere che tu non fai distinzioni.»
Mi guardò soddisfatta, piena di orgoglio, quasi fosse una madre fiera.
«Non avrei ragione di farne» replicai, assaggiandone un altro.
«Oh grazie!» esclamò con enfasi, domandandomi poi sarcastica: «Apri tu gli occhi a Xiaolang?»
La fissai confusa, chiedendomi a cosa si riferisse di preciso.
«Per mio cugino c’è una netta differenza tra lui e gli altri. Spero che con te possa capire che non è così» sospirò, fissando il soffitto piena di fiducia.
«Farò del mio meglio per farlo sentire a suo agio» promisi solennemente. «E anche io spero di riuscire a fargli capire che per me, tra noi, non c’è alcuna diversità. Anzi…»
Tacqui, pensando che invece fosse il contrario. Avevamo già scoperto di avere così tanto in comune.
«Sono contenta che abbia trovato te, Sakura.»
Guardai Meiling-chan, trovandola a sorridermi dolcemente. Mi si bloccò la saliva in gola, sentendomi stringere il petto. Riflettendoci, c’era una cosa che la riguardava che ancora non sapevo e mi chiesi se fosse lecito domandargliela.
Presi un respiro prima di porgere il quesito in tono basso, stringendo la plastica vuota tra le mani.
«Meiling-chan, se mi è concesso chiedertelo… Come mai anche tu ti sei trasferita qui?»
Lei fece un piccolo sorriso, rispondendo in maniera artificiosamente spensierata.
«Mia madre era la sorella gemella di zia Yelan. Erano molto legate, essendo praticamente cresciute insieme, per cui soffrì parecchio in seguito all’esilio di zia. Tentò invano di persuadere gli altri del nostro clan a riaccettarla in famiglia, ma loro rifiutarono di ascoltare le sue richieste e non importava quanto implorasse, alla fine le voltarono le spalle e la lasciarono sola. Si sentiva come se una parte di se stessa le fosse stata strappata via e né io né mio padre fummo in grado di fare nulla per arginare il suo dolore ed evitare che cadesse in depressione. Col trascorrere degli anni divenne una vera e propria patologia che non fece che peggiorare e noi non potemmo fare altro che restare a guardare nella nostra impotenza, standole affianco come potevamo. In parte divenne pericolosa anche per me, quindi papà doveva spesso proteggermi da lei. Cominciò infatti ad infrangere le regole del clan, nella speranza di essere uccisa, ma dato che ciò non avvenne raggiunse il limite della sopportazione e decise di pensarci da sola, suicidandosi.»
Rabbrividii fin dentro le ossa, sentendomi mancare, tanto che dovetti necessariamente appoggiarmi allo schienale del letto.
«Mio padre, pur facendo parte del clan, non accettava la loro noncuranza. Secondo i più anziani lei era impazzita, era inevitabile che facesse quella fine; ma noi continuavamo a vedere la lucidità nei suoi occhi, noi sapevamo che tutto quello che faceva lo faceva con consapevolezza. A nessuno sembrava essere importato della sua morte, per cui, avendo io allora soltanto nove anni, papà scappò portandomi in Giappone da zia Yelan, chiedendole se potesse prendersi cura di me. Lui non voleva che crescessi in un ambiente così egoista, quindi con quella decisione sperava di farmi ritrovare l’amore. Successivamente, dopo che si fu accertato che lei mi accettasse in famiglia, ci lasciò, onde evitare che mi ritrovassero. E ora non so dove si trova, forse da qualche parte in America. Almeno, glielo auguro.»
Dato che tacque il mio tirare su col naso suonò con forza, al che si voltò subito a guardarmi.
«Sakura, non piangere.»
Sorrise asciugandomi le lacrime e io mi gettai tra le sue braccia per nascondergliele, esattamente come feci con Tomoyo-chan ed Eriol-kun. Continuavo a non capacitarmene. Continuavo a trovare tutto ciò terribile, ingiusto, insopportabile.
«Forza, Sakura» tentò di confortarmi, prendendomi per le spalle, mostrandomi occhi risoluti, contrastanti al sorriso un po’ triste che mi rivolgeva. «La vita è costellata da disastri, addii, perdite e sofferenze. È difficile reagire a tutto questo, superare tutto questo, ma non è impossibile. Basta non perdere mai il sorriso, così l’oscurità non può vincere.»
Accettai quelle parole intrise di luce, rimuovendo ogni traccia di pianto, ricambiando il suo sorriso con uno dolorosamente luminoso.
Seppure su scie invisibili e inesistenti, riuscivo tuttavia a vedere che anche dai suoi occhi impassibili stavano sgorgando lacrime. E nonostante la forza che entrambe mostravamo, ciò si aggiungeva a quei cocci affilati che mi stavano già spezzando il cuore.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


Cercando la felicità


 
Dopo che ci fummo entrambe riprese continuai a chiacchierare a lungo con Meiling-chan, conoscendo vari aspetti di lei poco alla volta. La nostra conversazione fu accompagnata da una dolce musica suonata al pianoforte, candida e pacificante, e inizialmente diedi per scontato che Yelan-san stesse ascoltando qualche cd, quando poi ricordai il pianoforte in sala.
«Che cos’è?» domandai, chiudendo gli occhi, lasciandomi cullare da quella melodia calmante. A tratti suonava un po’ come una ninnananna.
«Un preludio di Bach.»
Purtroppo non me ne intendevo molto di musica classica, conoscevo soltanto i componimenti più famosi, e questo non mi sembrava di averlo mai udito.
Dopo neppure un minuto decadde in qualche nota più malinconica, al che la guardai, domandando: «È Syaoran-kun che suona?»
Annuì e si alzò in piedi, proponendo con complicità: «Andiamo a spiarlo, ti va?»
Approvai subito, sollevandomi a mia volta, col batticuore.
Uscimmo e scendemmo le scale facendo il minor rumore possibile, cosa affatto difficile per Meiling-chan, cui invece dovetti prestare maggiore attenzione io. Quando socchiudemmo appena la tenda al piano terra, per sbirciare, lo trovai esattamente come a scuola, ad occhi chiusi e con un’espressione placida. Sul divanetto di fronte a lui Yelan-san sorseggiava in una tazza da tè quello che presumevo essere, più verosimilmente, sangue. Spostai di nuovo gli occhi sul figlio, che sembrava aver appena finito con l’esecuzione di quel brano per cominciarne un altro. L’aria si riempì di note morbide e soavi, ricche di gratitudine, in cui tuttavia sembravano essere intrecciate mestizia e afflizione.
Non avevo idea di come sentirmi, se sorriderne o meno, soprattutto quando Meling-chan bisbigliò direttamente nel mio orecchio: «Questa l’ha scritta lui.»
Mi morsi un labbro e lo ascoltai, portandomi una mano sul cuore, capendo. Quelli erano i suoi sentimenti. Quello era il vero lui. Quindi, non mi ero sbagliata a scuola. Era pieno, strapieno di emozioni, e forse ne aveva provate anche troppe. Anzi, forse lui le aveva provate tutte.
Ad un certo punto smise di suonare, voltandosi immediatamente a guardarci. Di riflesso chiudemmo la tenda, entrambe trattenendo il fiato colte in flagrante, ma poi ridacchiammo uscendo allo scoperto.
Allora Yelan-san posò la tazzina su un lato e si alzò, avvicinandomisi.
«Hai fame, Sakura? È quasi ora di pranzo.»
«La ringrazio per la premura, ma Meiling-chan già mi ha dato dei biscotti.»
Sorrisi dinanzi alla sua gentilezza, tuttavia a quelle parole la vidi assottigliare gli occhi, dicendo alla nipote qualcosa di incomprensibile alle mie orecchie. Era come un insieme di more e toni totalmente sconosciuti e, soprattutto quando Meiling-chan le rispose, con aria birichina, sembrava quasi una cantilena.
Le guardai spaesata, finché Syaoran-kun non ci affiancò, traducendo per me: «Mamma la sta rimproverando perché ruba sempre troppi biscotti dalla cucina e ne mangia in quantità eccessiva.»
La cugina gli fece il verso, mentre io mi illuminai.
«Avete anche una cucina?»
«Te la mostro» mi disse Yelan-san avviandosi verso l’altra tenda, quella rosata, da cui aveva fatto la sua comparsa. «Purtroppo non c’è molto che possiamo offrirti, ma ti andrebbe del tè?»
«Ehm…» temporeggiai, salendo altre scale, ragionando. Dipendeva tutto da cosa si intendesse per “tè”. Però non me la sentivo di rifiutare, soprattutto perché sembrava che la signora morisse dalla voglia di sentirsi ricevere un assenso.
Al mio fianco Meiling-chan non riuscì a sopprimere una risata, elencando: «Allora Sakura, puoi scegliere tra cinghiale, alce, coniglio…»
Sgranai gli occhi, arrestandomi nei miei passi, e madre e figlio si voltarono al contempo per fulminarla, redarguendola: «Meiling!»
Lei continuò a ridere, mentre Syaoran-kun mi guardò dispiaciuto, scusandosi da parte sua. «Non ascoltarla, è -»
«Divertente» completai per lui, concedendomi un risolino. L’avevo detto io stessa che per me non c’erano differenze tra di noi, quindi anche in quel campo dovevo cercare di vedere le cose dal loro punto di vista, accettandole e apprezzandole.
Lui mi guardò come se fossi pazza, lei mi diede una lieve pacca sulla spalla, sghignazzando radiosa.
«Aha, vedi? Non solo è buona, ha una mente aperta e un cuore d’oro, ma ha anche senso dell’umorismo! Non potevi proprio sceglierti ragazza migliore.»
Gli fece un occhiolino e Syaoran-kun la guardò boccheggiante, replicando imbarazzato: «I-io non… non mi sono…»
Spostai il viso dall’uno all’altra, cercando di capire di cosa stessero parlando, finché non mi accorsi che Yelan-san era già andata oltre.
Li sorpassai lasciandoli dietro di me a battibeccare per raggiungerla, seguendola dietro una tenda color sabbia, restando di nuovo senza parole. Sembrava una cucina vera e propria, attrezzata di mobiletti e credenze, con una tavola circolare al centro circondata da una decina di sedie ricurve, il tutto rigorosamente in legno. Anche qui sulle pareti erano dipinti pruni fioriti, seguiti da iscrizioni eseguite in una calligrafia elegante. A quel punto cominciai a supporre si trattasse di poesie.
Accanto alla finestra c’erano due vasi con due piantine spoglie, una mi sembrava un basso arbusto, l’altra un alberello. Così, guardando soltanto il tronco e i rami, non riuscivo a capire di che tipologia di piante si trattasse.
«Che piante sono?» mi incuriosii, indicandole.
«Pruni e peonie» mi rispose la padrona di casa. Chissà perché le prediligevano così. Poi ricordai che il kanji con cui si scriveva Li, “sumomo”, era lo stesso dei pruni. Ma allora le peonie? «I fiori che ci rappresentano e i nostri preferiti» soggiunse, quasi avesse anche lei la capacità di leggermi nella mente. Ma forse, molto più semplicemente, i pensieri mi si leggevano in faccia, proprio come mi avevano detto Eriol-kun e Tomoyo-chan.
Mi fece cenno di accomodarmi su una sedia e allo stesso tempo Syaoran-kun e Meiling-chan si unirono a noi, proprio mentre ella disponeva la teiera e quattro tazzine su un vassoio di bambù, con un doppio fondo cavo. I due mi spiegarono che sin da bambini nella loro stirpe si imparavano diverse arti tradizionali, che si dividevano tra quelle maschili e femminili; tra queste ultime rientrava l’esecuzione della cerimonia del tè e, avendoci dedicato molto tempo della sua vita, Yelan-san era sempre lieta di poterlo fare per qualcuno che potesse non solo apprezzarne l’arte, ma anche beneficiarne.
Pertanto, mentre l’acqua si scaldava nel bollitore restammo tutti e tre in tacita contemplazione. Io in particolare la guardavo imbambolata, totalmente incantata dai suoi movimenti tanto delicati e leggiadri.
Una volta raggiunti i gradi necessari riempì la teiera, facendola lievemente traboccare, versando l’acqua nelle tazzine; usò poi delle pinze in legno per svuotarle riempiendo quelle accanto. Non avevo idea del senso di tutto ciò, né come giovasse bagnare fino a quel punto il vassoio, ma ero certa che avesse il suo significato, per cui misi a tacere la mia perplessità e continuai a seguire attentamente ogni suo gesto.
Utilizzando un cucchiaio di bambù prelevò le foglie di tè ponendole nella teiera, versandovi nuovamente l’acqua. La vidi prendere cinque respiri profondi prima di tenersi nuovamente la lunga manica, per svuotare di nuovo la teiera nelle tazzine con un unico movimento fluido, partendo dalla prima all’ultima e viceversa. La riempì per la terza volta, chiudendo gli occhi, in attesa. Nessuno di noi fiatò, io probabilmente neppure respiravo, tremendamente affascinata. Era come se stesse eseguendo un rito magico.
Trascorsero probabilmente i soliti quattro minuti e non appena riaprì le palpebre ripeté il precedente movimento, riempiendole. Fece tutti questi passaggi per ben sei volte, prima di guardarmi soddisfatta e porgermi finalmente una tazzina.
La ringraziai, prendendola dalle sue mani, assaggiandolo: era dolcissimo e aveva una consistenza quasi setosa.
«È di tuo gradimento?»
Feci “sì” col capo, finendolo in pochi sorsi.
Notai solo allora che anche Syaoran-kun e Meiling-chan lo avevano assaggiato, ma entrambi storsero il naso, rifiutandolo categoricamente. Yelan-san sospirò intristita, per cui cercai di farla riprendere chiedendole entusiasta: «Che tipologia di tè è?»
«Si chiama “Mao jian”, è un tipo di tè verde.»
Vidi i suoi tratti distendersi e mi rilassai a mia volta.
«Dovrò consigliarlo a mio padre» meditai ad alta voce, appuntandomelo sul cellulare. Quella sera stessa gli avrei scritto di quella nuova esperienza vissuta.
Naturalmente, ci scrivevamo in maniera abbastanza frequente, ma ero ben attenta a distinguere ciò che potevo dire o meno. Anche con onii-chan continuavo a sentirmi, e proprio ieri sera gli posi il quesito che tanto mi pesava sul cuore: se lui riusciva a vedere la mamma. Mi rivelò che sì, talvolta accadeva, soprattutto quando io prendevo la febbre, come se il suo spirito vegliasse su di me. Lo avevo rimproverato a lungo per non avermelo mai rivelato.
Posai nuovamente il cellulare in tasca, alzando lo sguardo, incontrando quello della signora attento su di me.
«Tuo padre non è qui con te?» chiese con tatto.
Scossi il capo, spiegandole dove si trovasse in quel momento, il che inevitabilmente mi portò a parlare del suo lavoro. Sia lei che suo figlio mi ascoltarono affascinati.
«Avete molti reperti archeologici a casa?» si interessò quest’ultimo, con occhi brillanti.
Annuii, rivolgendogli un sorriso enorme.
«Provengono dagli scavi che ha già effettuato. Per questo ho sempre pensato che adorerebbe casa di Tomoyo-chan. Amerebbe anche la vostra, di certo» ragionai in quel momento, chiedendomi se quella era una cosa di cui potessi parlargli. Non c’era nulla di male, no? Purché evitassi di dirgli che fossero vampiri.
«E tua madre?» domandò Yelan-san, con delicatezza.
Vidi Syaoran-kun irrigidirsi al mio fianco, mentre io le risposi tranquilla.
«È morta quando avevo solo un anno, non ho alcun ricordo di lei.»
A quel punto, tuttavia, vedendo una scia di dolore attraversarle il viso, mi sentii come se il mondo mi fosse crollato addosso. Sapevo che fosse meglio pensare a quel che mi aveva detto mio fratello, ossia al fatto che lei fosse sempre stata al mio fianco. Ma non riuscivo neppure ad ignorare i miei sogni.
«Sentirai la sua mancanza…» sussurrò, il che mi fece sentire ancora più afflitta e amareggiata.
«Si può sentire la mancanza di qualcuno che non si è mai realmente conosciuto?» mi domandai, e solo quando notai il suo sguardo partecipe mi diedi della deficiente. Che stavo combinando, proprio davanti a loro?!
«Ah ma, non mi è pesato!» mi affrettai a riparare. Sapevo dal modo compulsivo con cui mi attorcigliavo i capelli più lunghi in una mano che mi stavo agitando, però pure volendo non riuscivo a frenarmi. «Ho sempre avuto con me papà, mio fratello e il suo migliore amico, Yukito-san. Siamo sempre stati una famiglia molto unita, non mi hanno mai fatta sentire sola, e anche se adesso loro si trovano in Inghilterra e mio padre in Egitto continuo a sentirli vicini. Poi ho conosciuto Tomoyo-chan e Sonomi-san, che pure fanno parte della mia famiglia, e c’era anche il nonno, o meglio il mio bisnonno, a Tomoeda e -»
Forse era perché stavo blaterando, forse perché mi stava morendo la voce, forse perché neppure lui stesso riusciva più a sopportarlo, fatto sta che Syaoran-kun mi interruppe alzandosi di botto, porgendomi una mano con un sorriso che fingeva calma. Ma io, ormai, riuscivo a vedere tutto ciò che celava al di sotto di quella maschera.
«Vuoi vedere la terrazza?»
Posai senza perdere tempo la mano sulla sua, appigliandomi ad essa come a una roccia, col corpo e col cuore. Mi scusai con la signora e Meiling-chan, ma loro ci lasciarono andare senza fare commenti.
Tornati in corridoio mi accorsi di star tremando, sentendo il mio spirito e il mio coraggio vacillare. Quasi non fossero altro che un castello di carte appena cozzato da qualcuno per sbaglio, facendolo oscillare, portandolo inevitabilmente al crollo.
Syaoran-kun accelerò, passando oltre una tenda verde, e senza fermarsi uscì per le portefinestre, il che non mi permise di vedere molto del locale, se non che dominavano colori neutri, naturali.
Una volta fuori mi diede il benvenuto una fresca arietta, la quale mi pungeva le guance con il suo alito glaciale. Prontamente Syaoran-kun si allontanò e quando tornò dopo pochi secondi mi invitò ad indossare nuovamente il cappotto, dopo che me lo ero tolta all’ingresso, mentre lui mi metteva il cappello e la sciarpa, coprendomi fino al naso.
Finii di chiudermi i bottoni e seguendo la sua volontà infilai i guanti, giudicandolo fin troppo altruista e buono con me. E iperprotettivo – a tratti sembrava Touya.
Alzai lo sguardo, vedendo che anche il terrazzo era in parquet ed era coperto diagonalmente dal tetto. Ci avvicinammo alla balaustra e, sporgendomi, scoprii con mia grande meraviglia che affacciava proprio sulle sorgenti e il fiumiciattolo.
«Che visione stupenda…» sussurrai, restando senza parole di fronte a quell’incontro di bianco e celeste.
«Come ti senti?» domandò accorto.
Mi voltai a guardarlo restando appoggiata alla balaustrata, capendo tutto dal suo sguardo preoccupato. Probabilmente aveva recepito il mio stato d’animo e temeva che stessi per piangere, per cui, ancora una volta, aveva cercato di tranquillizzarmi e rasserenarmi.
«Bene, grazie» risposi sincera.
«“Grazie” di cosa?»
«Della gentilezza che mi riservi.»
Parve che lo ebbi colto sul vivo perché sviò lo sguardo, affacciandosi a sua volta, bofonchiando: «Non devi ringraziarmi.»
Ridacchiai, grata anche di quella timidezza che sembrava mostrare soltanto a me, ma dopo un po’ tornai seria, sentendomi colpevole per la mia mancanza di riguardi.
«Tu, invece?»
«Io sto bene» mi rassicurò, guardandomi dritto negli occhi. Capii che stesse dicendo la verità.
«Sto imparando a comprenderti» dichiarai compiaciuta.
Lui alzò un sopracciglio, poco convinto.
«Ah sì?»
«Anche se forse ci riuscivo anche prima» ragionai. «Perché già ti dissi che eri pieno di emozioni.»
Si strinse nelle spalle e io mi voltai di schiena verso il parapetto, giocherellando con un lembo della sciarpa.
«Stavolta nella tua musica c’eri» aggiunsi sottovoce, rincuorata da ciò.
«Lieto di averti soddisfatta.»
Mi sembrava che la sua voce fosse tirata, per cui lo guardai perplessa.
«Non dovevi soddisfarmi. Era te che dovevi accettare.»
Si voltò di scatto, con gli occhi e la bocca spalancati.
«Cosa vorresti dire?»
«Mi sbaglio, forse?»
Piegai la testa su un lato e lui sbuffò, incrociando le braccia.
«Smettila di scavarmi dentro, Sakura. Non farai altro che trovarne dolore e rifiuto.»
«Smettila tu di dire queste cose su di te. Non è come io ti vedo, e credimi, sono certa di vederti» ribattei prontamente. Perché era così duro con se stesso?
«Sai pochissimo di me.»
«Quel che so basta.» Feci un passo verso di lui, reggendo il suo sguardo. «Non tentare di convincermi che tu sia qualcosa che non sei. Non dirmi che sei malvagio, che sei vuoto o spento o triste o apatico o egoista. Perché non è vero niente. Sei soltanto impaurito, ma lo sono anche io. E non guardarmi speranzoso» mi scaldai, puntandogli un dito contro. «Non ho paura di te, bensì di ciò che mi riserva il futuro. Però tutti me lo state dicendo, no? Che devo avere fiducia, rimanere me stessa, così tutto si risolverà per il meglio.»
Ripresi fiato, mentre lui mi guardava come se cercasse di capire dove volevo andare a parare con quel discorso.
«Insomma, tu stai cercando la mia felicità, giusto?» Attesi un suo cenno di conferma prima di domandargli: «E credi di averla trovata?»
«Spero di sì…» mormorò in tono tenue.
«Allora ti assicuro io di sì, perché quando sono al tuo fianco mi sento sempre felice» ammisi, sebbene la cosa un po’ mi imbarazzasse.
Mi parve di vederlo trattenere il fiato, per cui feci un passo in avanti, verso di lui, avvicinandomi per quanto mi fosse possibile, concludendo: «Permetti anche a me di cercare la tua felicità.»










 
Angolino autrice:
Buona domenica!
Ecco finalmente la terza parte di questa giornata. Tecnicamente finisce qui, anche se nel prossimo ci saranno altre piccole informazioni, ma nel complesso il capitolo successivo sarà dedicato maggiormente ad una festività prossima: ossia, il Natale! Spero ciononostante di riuscire ad aggiornare prima di dicembre.
Quindi a presto! E grazie a chi ancora legge! 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


Magia del Natale


 

Alla fine quel giorno ritornammo in quella che scoprii essere la camera di Syaoran-kun: era piuttosto sobria, ordinata e quasi spoglia, con un letto futon in bambù posto contro una parete color mandorla, sul quale c’erano pochi cuscini larghi foderati con un tessuto che sembrava ricamato a mano, un armadio relativamente piccolo in un angolo – se comparato a quello di Meiling-chan –, un cassettone di antica fattura quasi celato verso il muro, libri e quaderni su una scrivania e diversi fogli con matita, gomma e penna ben impilati accanto al letto, in prossimità di una lampada piuttosto lunga, di forma rettangolare, in legno e fogli di carta di riso. Senza farmi notare vi diedi una sbirciatina e mi accorsi che fossero degli spartiti, su cui erano tracciate note musicali a me quasi totalmente ignote – ad eccezione di ciò che dovevo studiare.
Gli chiesi quindi se stesse componendo qualcosa di nuovo e lui rispose che ci stava lavorando su già da un po’ di tempo, lasciandomi stupefatta. A quel punto mi fu inevitabile domandargli come mai, tra tanti strumenti, avesse scelto proprio il pianoforte. Lui mi spiegò che sua madre sapeva suonarlo e che quando da bambino si trasformava lei cercava di placarlo e alleviare il suo dolore con una musica pacificante; di conseguenza, aveva deciso di imparare per ricambiare ciò che lei aveva fatto per lui, per tutti quei mesi, tutti quegli anni.
Era commovente vedere che avessero un legame così forte, così intriso d’amore, sebbene a volte ne parlasse come se lei fosse una donna fredda e rigida. In cambio gli raccontai che anche mio fratello da piccolo aveva imparato a suonarlo da mia madre, sebbene lui avesse poi smesso, e a differenza sua non aveva mai realizzato alcuna composizione.
Dato che eravamo entrati in argomento, nella via di ritorno verso villa Daidouji continuai a parlargli della mamma, o almeno di quel che sapevo, chiedendogli di fare altrettanto con sua madre, anche perché mi aveva incuriosita parecchio scoprire che le erano state insegnate cerimonie tradizionali. Ero avida di sapere ormai, desiderosa di ascoltare e immaginare come avesse potuto vivere in Cina, come fosse cresciuta, quale fosse stato il suo vissuto e come sarebbe stato se fossero rimasti lì. Come sarebbe cresciuto lui, che tipo di esperienze avrebbe fatto, come sarebbe diventato.
Syaoran-kun, ovviamente, non poteva mettersi nei panni di sua madre per sapere le cose nel dettaglio, ma quel poco che riuscì a dirmi mi bastava per figurarmela. La vedevo che cresceva con le sue sorelle e i suoi fratelli, imparando ogni arte necessaria a poter divenire la donna ideale. La vedevo che imparava che non doveva essere un mostro, che doveva ammaliare, soggiogare, affascinare le sue vittime, le quali avrebbero dovuto essere esclusivamente persone con un eccesso di Yin. Per quel che avevo capito, la malvagità degli altri doveva riempire il loro corpo, il loro cuore, avendo essi una natura buona, Yang. Quel concetto mi portò a chiedergli se ciò valesse per tutti nel suo clan, ma Syaoran-kun mi spiegò che col tempo si erano create due ramificazioni distinte della stirpe e che si cercava di fonderle nuovamente insieme tramite il matrimonio affinché vi potesse essere un ritrovamento di equilibrio, sebbene la prole continuasse a mostrare una tendenza verso l’uno o verso l’altro.
Il precedente marito di Yelan-san, cioè il padre delle sorelle di Syaoran-kun, apparteneva pertanto alla linea “Yin” della famiglia. La madre aveva accettato in silenzio il matrimonio, sebbene non provasse nulla più che un semplice affetto e devozione per il coniuge, ma si riprese molto dopo la nascita delle figlie, anche perché dovette darsi molto da fare per tenere a bada la loro vivacità. Erano i suoi raggi di luce in una vita tenebrosa che le era stata imposta, finché poi non conobbe il padre di Syaoran-kun: entrambi si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra.
Come già m’aveva detto, una volta che fu scoperta la loro relazione illecita ci fu uno scandalo e “ovviamente” vennero entrambi puniti per aver portato disonore in una delle famiglie più eccellenti e influenti di tutta la Cina, macchiandone il nome. Ne venne fatta una questione di Stato, ma per me non era ovvio per niente. Anzi, mi sembrava del tutto eccessivo. Tuttavia sapevo che quello era il passato e che, per quanto lo desiderassi, non si poteva fare nulla per cambiarlo.



Da quando Syaoran-kun mi aveva aperto un’altra porta per rendermi partecipe della sua vita erano trascorsi diversi giorni e, finalmente, si era giunti al Natale.
Come ogni anno, ero stata intrepida per tutta la settimana che lo precedeva. Un giorno, dopo scuola – quando nessuno di noi doveva rimanere per i club –, insieme a Chiharu-chan e gli altri andai in un negozietto in paese che vendeva molti articoli da regalo realizzati a mano. Erano tutti adorabili e alla fine decisi di donare a tutti un fiocco di neve, un alberello, una renna, un bastoncino di zucchero, un Babbo Natale o un angelo scolpiti nel legno, dipinti con colori caldi e solari in maniera molto verosimile, con un laccetto sulla sommità che permetteva di appenderli. Li presi per tutti coloro che conoscevo, quindi i miei amici, i membri della mia famiglia qui – ad eccezione di Tomoyo-chan, cui regalai un pendente per cellulare col ciondolo di una macchina fotografica rossa decorata con stelle di Natale – e la famiglia di Syaoran-kun, sentendo però che anche lui, come mia cugina, meritasse un regalo speciale. Ci pensai a lungo, a fondo, perché desideravo che in qualche modo, indirettamente, capisse quel che provavo per lui. Desideravo che fosse chiaro quanto fosse importante per me.
Alla fine ebbi un’idea geniale: acquistai sempre in quel negozio una boccetta grande quanto il mio pollice, un tappo di sughero e due fialette di brillantini dorati e argentati. La notte della Vigilia versai nella bottiglietta i brillanti, mescolandoli, e mentre ve li facevo scorrere dentro mi riempii di pensieri positivi: la mia gioia, la mia serenità, la mia speranza, la mia fiducia. Era tutto ciò che desideravo donargli. Feci sì che potessero mischiarsi perfettamente prima di richiuderli, aggiungendovi un fiocchetto rosato, all’interno della cui piega trascrissi qualcosa che speravo potesse strappargli un sorriso. Ecco, quello sarebbe stato il miglior regalo che lui potesse mai farmi.
Naturalmente, a casa Daidouji il Natale veniva celebrato in due modi: seguendo le tradizioni inglesi e quelle giapponesi. Alle seconde ero più accostumata, per cui mangiammo il pollo fritto (seppure non quello del KFC) e una torta di Natale con panna e fragole – a dir poco deliziosa –, accompagnati da tipiche canzoni natalizie, come “Jingle Bells”.
Ciò che rappresentò invece una novità fu, in primis, l’apparizione di un abete vero in giardino, affiancato da scatoloni pieni di addobbi. Piuttosto che affidarlo ai servitori chiedemmo loro solo di aiutarci mentre ce ne occupavamo noi stessi, avvolgendo l’albero con festoni, nastri, luci e perline, appendendo palle di natale, orsacchiotti, omini che sembravano fatti in marzapane, campanelle, fiocchetti e caramelle, mettendo sulla punta una grossa stella in cristallo. Al di sotto vi ponemmo i doni impacchettati, ma io misi da parte quello per Tomoyo-chan e Syaoran-kun, non tanto perché fossero diversi, quanto perché volevo consegnarglieli in privato. Riempimmo poi sia il giardino che tutta la casa con luci colorate e fiocchetti rossi e dorati.
La sera di Natale trovammo pertanto la tavola imbandita anche di tacchino ripieno di mirtilli, purè di patate, pudding e dolci con frutta candita o marzapane, decorati con agrifoglio, di cui ogni portata era divisa da ghirlande e spesse candele rosse. Ringraziai il fatto che ci fossero anche i nostri amici umani e Sonomi-san, altrimenti non ce l’avrei mai fatta a mangiare tutto quel ben di dio da sola. Quest’ultima, inoltre, non aveva badato a spese nell’abbellire la sua dimora, rendendola estremamente luminosa. E tale luce emisi anche io per tutto il periodo, sentendomi finalmente al centro del mio elemento: nell’aria si respiravano amore, serenità e gaiezza, era una stagione in cui ci si sentiva più buoni e si dimostrava il proprio affetto agli altri, vivendo in armonia.
Difatti quella sera, quando ci ritrovammo tutti insieme, umani e vampiri, non ci fu alcuna tensione, alcuna parete a dividerci: era come se ci conoscessimo da una vita. Persino Yelan-san mise da parte per qualche ora il suo stoicismo, lasciandosi travolgere dalla giovialità di mia zia.
Mangiammo quindi con allegria, sebbene i vampiri presenti cercassero di limitare al massimo le loro dosi, spesso persino fingendo, ma fortunatamente nessuno parve accorgersene. Ciò fu favorito anche dal fatto che eravamo un po’ tutti distratti dalle loro parole, mentre ci raccontavano delle usanze natalizie in Cina: anche lì si faceva l’albero, abbellendolo però con candeline, lanterne e ornamenti di carta colorati, e si mangiavano delle polpette di riso glutinoso, chiamate “tangyuan” o una cosa del genere. Fuutie-san disse anche che i taoisti usavano celebrare riti per poter ottenere il favore delle divinità ed evocare i fantasmi, dettaglio dinanzi al quale io rabbrividii da capo a piedi, mentre Naoko-chan si riempì di entusiasmo, volendone sapere di più. Alla fine Shiefa-san e Fanren-san chiarirono che “evocare i fantasmi” fosse solo un’iperbole per dire che, semplicemente, venivano venerati gli antenati, cosa che mi fece ritrovare un minimo di conforto.
Dopo mangiato noi adolescenti uscimmo a giocare a nascondino in giardino, proposta che partì da Meiling-chan, immediatamente approvata da Chiharu-chan; così ci dividemmo, lasciando contare Syaoran-kun e Yamazaki-kun, mentre noi ragazze ci nascondevamo. Eriol-kun preferì restare ad osservarci accanto a Tomoyo-chan, la quale, stando comodamente seduta su un dondolo sotto il portico, guidava un drone nel cielo per poterci fare delle riprese dall’alto. Non cambiava mai.
Mentre cercavo un buon posto isolato in cui acquattarmi rievocai il momento in cui mia cugina era entrata in camera mia quel pomeriggio, portandomi il pacchetto col suo regalo: ossia, il vestitino rosso acceso che stavo indossando. Era molto carino e natalizio, sulla stoffa vi erano tinti a mano degli agrifogli – non dubitavo neppure per un istante che non l’avesse fatto lei stessa –, aveva la gonna a campana che se giravo su me stessa si alzava tutta e lo scollo a barca bianco, con piccoli cristalli argentei. A quel punto le avevo dato anche il mio e quando lo aveva scartato si era mostrata contentissima, abbracciandomi gioiosa, correndo poi subito a mostrarlo a Eriol-kun.
Sorrisi tra me, lieta d’averla resa felice con poco, e mi venne un’idea. Considerando che Syaoran-kun era uno dei “cercatori” supposi che fosse meglio mascherare il mio odore come potevo, quindi corsi silenziosamente verso una zona lasciata in ombra del roseto, accucciandomi tra i cespugli, strofinando il viso e il collo contro le rose. Avevano un profumo soave e continuavo a chiedermi come potessero essere ancora in fiore in quell’arida stagione. Che c’entrasse la magia?
I miei ragionamenti furono interrotti dal non sentire più i ragazzi contare. Tenni i sensi all’erta, cercando di avvertire anche il minimo spostamento, ma dopo neppure due minuti mi vidi comparire Syaoran-kun davanti, sbucando dal nulla.
Soffocai un grido di spavento, portandomi la mano alla bocca, e lui sorrise beffardo, cantilenando sottovoce: «Trovata.»
Gonfiai le guance, lanciandogli in faccia un po’ di neve, sibilando: «Imbroglione.»
Mi guardò sbalordito. «Guarda che non è stato facile.» A questo mi sentii un po’ vittoriosa.
Pur restando inginocchiato si allungò verso di me, arrivando col naso contro il mio viso.
«Hai tentato di camuffarti.» Ecco, l’aveva capito subito. Tremai, percependo il suo freddo respiro così vicino. Mi sentii tutti i peli rizzarsi, con la pelle d’oca, mentre lui inclinava di poco la testa accanto al mio mento, inalando il mio odore. Dischiuse le labbra, pronunciando in tono basso: «Ma non serve a molto, Sakura. Io ti ritroverei sempre, ovunque.»
Mi sentivo sempre più confusa. Mi mancava il fiato, mi mancava il pensiero, mi mancava il cuore. Mi sembrava di morire e, nella frazione di un secondo, vidi le luci di Natale attorcigliate attorno alla struttura del roseto come se fossero grossi fari colorati visti in lontananza, che non facevano che allargarsi e fondersi in diversi vortici, frullandomi il cervello.
Mi ritrovai a terra, senza neppure sapere come, con Syaoran-kun affacciato su di me a fissarmi costernato.
«Che è successo?»
Era quello che volevo sapere anche io. Avevo avuto un mancamento? Ero svenuta?
Mi sentii andare a fuoco, i battiti del mio cuore accelerarono, forse andando a mille all’ora. Lo spinsi lievemente di lato, tornando seduta, portandomi una mano sul petto, tentando di tornare a respirare normalmente. Non potevo emozionarmi così. Non era corretto.
Mi alzai un po’ traballando, sostenendomi alla struttura, e solo allora ricordai il mio ruolo nel gioco, per cui corsi verso la tana; ovviamente Syaoran-kun mi superò, arrivando prima. Pertanto fui “catturata” e mi rincuorai nel vedere che c’era già Chiharu-chan, seduta sul legno del porticato.
La affiancai, sollevata, e lei mi cozzò col gomito, con fare allusivo.
«Ma guarda, sei stata la prima che ha trovato.»
Mi strinsi nelle spalle, non sapendo che dirle. Non potevo certo rivelarle che c’erano dietro questioni di sangue.
Attendemmo che tutti venissero trovati e, come al solito, Meiling-chan e Feimei-chan litigarono con Syaoran-kun insistendo di essere arrivate prima di lui. Dato che Yamazaki-kun favoreggiò il suo compagno d’armi, noi ragazze ci schierammo con loro, e tale rivalità diede vita, in maniera del tutto imprevista, a una battaglia di palle di neve. Anche quando fummo tutti fradici fino al midollo noi ragazze continuammo a rotolare nella neve, creandovi angeli col corpo aprendo e chiudendo le braccia e le gambe, per poi costruire dei pupazzi.
Verso la mezzanotte ci scambiammo i regali e fui contenta di vedere che tutti si erano messi in società, così un solo regalo poteva restituirmi mille ricordi.
I miei compagni di classe mi regalarono un quadretto d’ossidiana con fiocchi di neve fatti di cristalli, i membri della famiglia Li mi donarono una piccola palla di vetro con neve con all’interno quella che mi sembrava una pagoda cinese avvolta da un dragone rosso, Sonomi-san mi prese una collana con un fiore di ciliegio e da Eriol-kun ricevetti un bracciale simile a quello che diedi loro, ma con una goccia di smeraldo. Sapevo bene cosa indicava: simbolo di speranza, crescita, rinnovamento, rendeva chiari i pensieri e faceva sì che si potessero raggiungere con maggiore forza i propri scopi, senza arrendersi. Tra le tante cose, indicava anche un amore incondizionato ed era legato alla capacità di prevedere il futuro. Non potevo aspettarmi di meno da Eriol-kun.
Ringraziai tutti di cuore, erano doni stupendi, e mi sentii più leggera nel vedere che anch’essi sembravano aver apprezzato i miei, per quanto fossero abbastanza simili e si differenziassero in poco.
Attesi che ci salutammo, dandoci la buonanotte, prima di chiedere a Syaoran-kun di restare un altro po’ per potergli consegnare il suo regalo in privato.
Andammo quindi a sederci sulla panchina sotto il traliccio con le rose rampicanti e mi assicurai che non ci fosse più nessuno nel giardino, prima di scavare nelle mie tasche e porgergli il sacchetto contenente il mio regalo.
Lo vidi stupirsi al di sotto di tutte quelle luci natalizie.
«È soltanto un pensiero» bofonchiai umilmente, dentro di me pregando che lo apprezzasse.
Quando lo aprì i suoi occhi scintillarono, quasi rubando il luccichio contenuto nella boccetta. Prima che potesse aprire bocca gli mostrai l’interno del fiocchetto e lui lo voltò di poco, leggendo.
Chinai il capo, torturandomi le mani per il nervosismo, sperando di non aver esagerato. “Le tue stelle” era ciò che avevo scritto, e il motivo per cui lo avevo fatto era semplice: seppure a portata d’occhio, lui non aveva quasi mai la possibilità di ammirarle.
«Ho voluto rubare la polvere delle stelle e donartela, nella speranza che possa realizzare i tuoi desideri» sussurrai debolmente, tenendo lo sguardo fisso sulle mie dita strette tra di loro. «Lo so che non è vera, non è che ci siano state realmente delle stelle cadenti, basta che fingi -»
Mi zittì, posandomi due dita sulla bocca. Non mi mossi di un centimetro mentre si avvicinava cauto, posandomi per un microscopico istante le sue gelide labbra sulla gota sinistra, lasciandovi un leggerissimo bacio. Un istante che mi parve lunghissimo, in cui mi sentii precipitare in un dirupo senza fondo.
«Sakura… È il miglior regalo che tu avessi mai potuto farmi» mormorò accorato, allontanandosi, lasciandomi pietrificata, scossa, emozionata, in tumulto, col respiro bloccato in petto.
Mi prese poi le mani, sciogliendole da quell’intreccio, ponendo al centro di queste un pacchetto. Deglutii, non aspettandomelo, già con le lacrime agli occhi. Aprii la scatola dopo aver sciolto il fiocco e qui trovai un acchiappasogni con al centro la luna, e tutt’attorno le piume erano sormontate da piccole stelline. Non potevo crederci. Ci eravamo fatti un regalo simile.
Posò l’indice sulla luna, spiegando: «Questo sono io, e con ciò spero di poter riuscire a proteggerti anche a distanza. La trama di fili sono le mie speranze, i miei desideri, il mio augurio che tu possa fare sempre dolci sogni, catturando i tuoi incubi, intrappolandoli per farli dissolvere. Così potrai sentirti leggera e sempre serena» concluse, puntando alle piume.
«E le stelle?» domandai in tono roco, trattenendo a stento le lacrime. Mi stavo commuovendo.
Lo sentii sorridere quando rispose, indicandole una alla volta: «Quelle rappresentano te. Te che sei rimasta al mio fianco, senza sparire, anche dopo aver scoperto i lati oscuri di me. Te che hai perseverato e mi hai avvolto nella tua luce, anche quando io cercavo di allontanarmi per restare in ombra. Te che mi hai letto nel cuore, andando oltre la bestia che sono, accettando il mio vero io. Te che sei entrata nel mio mondo, spalancandomi le porte verso il tuo, facendomi capire che sì, è possibile convivere, comunicare, volersi bene e amarsi, perché non contano nulla le nostre differenze. Anzi, tu probabilmente neppure le vedi» ridacchiò, finalmente riconoscendolo.
Lasciò l’ultima stella, posando le dita sul mio mento, voltandomi verso di sé. E allora mi accorsi che i suoi occhi erano meravigliosi, più luminosi e splendenti di tutte le luci che ci circondavano.
«Sakura, meriteresti tutta la gioia, l’amore, la luce, le bellezze e la felicità di questo mondo. E so che forse non sarò molto bravo a darti tutto questo, alcune cose in particolare potrebbero essere impossibili per uno come me, ma voglio provarci. Voglio fare un tentativo e vederti sorridere.»
Trattenni un singhiozzo, non riuscendo a credere alle mie orecchie. Poteva mai essere vero?
«Mi hai detto di voler cercare la mia felicità, ma non è difficile trovarla: perché la fonte della mia felicità è il tuo sorriso.»
Non lo lasciai proseguire, sommersa da un fiume di lacrime e dolci emozioni. Mi gettai tra le sue braccia, smettendo di riflettere, piangendo contro la sua spalla. Non avevo mai ricevuto parole simili in vita mia. Così belle, così gentili, così piene di affetto.
«Sono felice, Syaoran-kun! Sono felice! Non sono mai stata così felice!» continuai a ripetere, sperando che lo capisse.
Lo stesso valeva per me: la sua felicità era tutto ciò che poteva assicurarmi felicità. La sua presenza bastava per sentirmi viva, forte e invincibile. La sua vicinanza era ciò che mi scomponeva, per poi ricompormi e farmi fiorire. Ed io amavo tutto ciò. Amavo lui, amavo i suoi pensieri, amavo i suoi gesti, amavo il suo essere, amavo le sue luci, amavo le sue ombre. Amavo il fatto che abbattesse le barriere e mi mostrasse le sue debolezze, come adesso che le sue braccia tremavano lievemente mentre mi cingevano, timorose forse di stringermi troppo, senza capire che invece io non ne avevo abbastanza. Non ne avevo mai abbastanza. Mi strinsi di più a lui, approfittando di quel momento nostro, e solo quando mi calmai avvertii le sue braccia rilassarsi contro la mia schiena.
«Anche io sono felice» sussurrò allora accanto al mio orecchio.
Al suono di quelle parole sorrisi verso il cielo invisibile, avendo trovato un universo d’amore qui, sulla Terra. Quella doveva essere la grande magia del Natale.










 
Angolino autrice:
Buona vigilia a tutti! E già che ci sto, vi auguro anche buon Natale e buon anno!
Spero che questo capitolo sia un buon regalo e che stiate trascorrendo delle splendide vacanze.
All'anno nuovo!
Steffirah

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 ***


Incubo alle onsen


 

Durante le vacanze invernali io, Chiharu-chan, Rika-chan e Naoko-chan decidemmo di trascorrere un breve soggiorno in montagna per usufruire delle onsen naturali. Non vedevo l’ora di partire!
A scuola i giorni si susseguivano con una certa calma, se non fosse per la pressione generata dal questionario sulle “scelte che volevamo prendere in vista del nostro futuro”. Fortunatamente, sebbene avessi lasciato il foglio in bianco, non venni assillata a riguardo. Forse ciò dipendeva anche dal fatto che presto sarei dovuta tornare alla mia vecchia scuola, ma la verità era che non avevo alcuna risposta a domande come “Cosa vuoi fare dopo il liceo?” e “Cosa vuoi diventare da grande?”. Una sola cosa era ovvia, ossia che il mio futuro era incerto; per quella ragione cercavo soltanto di godermi ogni giorno appieno, vivendolo in tutte le sue sfaccettature.
Altro aspetto positivo erano i buoni risultati nei test di metà semestre, sorprendentemente anche in materie in cui fino ad allora ero stata negata, come inglese e matematica. Tali miglioramenti erano dovuti al fatto che, oltre a prestare tutte le mie attenzioni alle spiegazioni durante le lezioni, alla fine di queste tartassavo Syaoran-kun di domande sulle cose che non mi erano chiare, finché non diventavano cristalline, e lui me le ripeteva tanto spesso da farmele memorizzare. A volte mi faceva addirittura dei quiz a sorpresa, porgendomi quesiti random anche durante le nostre conversazioni quotidiane. Le prime volte mi coglieva impreparata, ma in poco tempo divenni sempre più celere nel botta e risposta, con sua grande soddisfazione.
Inoltre dopo che tornavo a casa pure Eriol-kun e Tomoyo-chan mi aiutavano a studiare, a volte dando il via a lunghissime sessioni di studio che potevano durare anche tutta la notte, durante le quali, puntualmente, finivo col crollare e addormentarmi con la faccia sui libri sul tavolino del salone, davanti al caminetto scoppiettante. Non potevo farci niente, l’atmosfera era sempre confortevole e tale era anche la coperta di cashmere in cui mi avvolgevo. Era inevitabile assopirsi con quel bel calduccio.
Nonostante ciò, della mia pigrizia non ne risentirono i voti, così da che ero sempre stata una delle ultime in classifica, quando furono affissi i risultati vidi che ero finita “nella media”. Ovviamente in cima c’era Syaoran-kun seguito da Meiling-chan per il secondo anno, mentre per il terzo i primi tre posti erano occupati in ordine da Eriol-kun, Tomoyo-chan e Feimei-chan. Erano ormai l’élite della scuola, non mi sorprendevo più.
Nel momento in cui controllammo la graduatoria in bacheca Syaoran-kun si felicitò per me, ma successivamente trucidò quasi con lo sguardo Eriol-kun, il quale in cambio gli rivolse un mero ghigno compiaciuto. La cosa mi fece ridere parecchio, perché poi scoprii che adorava competere con gli altri e non riusciva assolutamente a digerire il fatto che il suo “rivale” numero uno lo avesse eguagliato. Allora lo confortai ricordandogli che lui aveva una certa fama anche come atleta, mentre invece Eriol-kun per l’intero istituto era unicamente visto come “intellettuale”. Lo spinsi ad accontentarsi di ciò ed effettivamente se ne rallegrò, riempiendosi di amor proprio. Quando faceva così e gonfiava il petto, mettendosi dritto tutto fiero e gratificato, mi sembrava un pettirosso e mi faceva ridere troppo. E tante altre risate aveva suscitato in me in quelle settimane, tanto che ormai non facevo altro che piegarmi in due per i dolori alla pancia quasi ogni giorno. Era incredibile quanto entrambi fossimo cambiati, in così poco tempo, soltanto stando a contatto l’uno con l’altra.
Una volta si dichiarò anche orgoglioso di essere riuscito finalmente ad abbracciarmi, non restando più indietro rispetto agli altri. Ci tenni ad assicurarmi che non fosse un problema per lui, che non gli facesse del male, e lui mi garantì che si era abituato al mio odore, perché era quello che gli era ormai “più familiare”; più di quello della sua stessa famiglia, disse. Tale discorso mi provocò un’inspiegabile batticuore, quasi mi avesse dichiarato il suo amore. Forse, considerando la sua natura, era realmente così.
Quando finalmente cominciarono le vacanze mi dispiacque dovermi allontanare da lui; come lui si era abituato al mio odore, io mi ero abituata alla sua costante presenza e non averlo al mio fianco mi faceva sentire come se mi mancasse una parte di me. La parte spensierata, radiosa, serena, priva di preoccupazioni, sicura di se stessa, coraggiosa, innamorata. Non che sparisse tutto questo in sua assenza, soltanto che senza di lui era tutto diverso. Tutto più spento e doloroso. E se l’idea di separarci per tre giorni e due notti mi intristiva tanto, non osavo neppure immaginare come mi sarei sentita una volta tornata a Tomoeda.
Ad ogni modo, durante quella breve vacanza io e le ragazze pernottammo in un vecchio ryokan che si trovava su una strada costellata da stabilimenti termali; essi affacciavano su un’altra strada parallela, collegata alla nostra da vari ponti costruiti su un piccolo fiumiciattolo. Si vedeva chiaramente che tutti gli edifici fossero stati eretti in tempi antichi, ovunque si respirava aria del passato, e anche per le vie invece dei lampioni si trovavano lanterne antiquate, fiaccole e candele – il che, la notte, creava un’atmosfera suggestiva.
Ci divertimmo tantissimo in quei giorni, approfondendo ancora di più la nostra amicizia, finché non giunse l’ultima sera e quella serenità cominciò ad essere gradualmente macchiata.
Prima di cena decidemmo di approfittarne per trascorrere più tempo del solito nella vasca a noi riservata, sprofondando beate nell’acqua fino al mento. Chiacchierammo del più e del meno, allegramente, come sempre, finché Rika-chan quasi non mi fece finire totalmente sommersa ponendomi questo quesito: «Sakura-chan, quando hai intenzione di dichiararti a Li-kun?»
Scivolai giù dalla pietra cui ero appoggiata, rimettendomi subito seduta paonazza, mentre le ragazze si accendevano di curiosità.
«I-io… Io n-non… Non è che io sia in… inna…» Ero un disastro balbuziente, un’aragosta messa a cuocere a fiamma alta e lì lasciata a bruciare.
«Vorresti dirci che non ti piace?» domandò scettica Chiharu-chan, guardandomi per niente convinta.
Mi feci piccina sul posto, stringendomi le ginocchia al petto, esagitata.
«N-non sto dicendo che non mi pi… piaccia…» sussurrai, sentendomi quasi soffocare. «Ma non penso ci sia bisogno che io mi dichiari, non è quel livello di “piacere”» mentii, ridacchiando come un’idiota.
«Non ti crede nessuno» scosse la testa Naoko-chan, guardandomi seriamente. «Cosa ti frena?»
Già, cosa mi frenava?
Serrai le labbra, impossibilitata ad ammettere alcunché. Che dovevo dire loro? Che non volevo si ripetesse la stessa storia dei suoi genitori? Che anche se mi sforzavo di dimenticarlo e non pensarci continuavamo ad appartenere a due razze diverse, inconciliabili? Che lui, più verosimilmente, avrebbe dovuto essere un predatore ed io il suo pasto, ma fortunatamente gli era stato fatto dono di un cuore talmente grande che tutti avrebbero dovuto invidiarglielo? Che un giorno io avrei cominciato ad invecchiare, mentre lui sarebbe rimasto per lungo tempo bellissimo, immortale, intoccabile? Il solo pensiero mi provocava una tale angoscia che mi attanagliava lo stomaco, serrandomelo con forza.
«Temi che lui non ricambi?» riprese delicatamente parola Rika-chan.
Sospirai tristemente. Quella era solo una parte del problema.
«Se è così sei proprio ingenua» mi rimbeccò Chiharu-chan, incrociando le braccia stizzita. «Insomma, ti sei resa conto di come si comporta con te? Sin dall’inizio, soltanto con te, è stato… diverso. E adesso, dopo qualche mese, è come se fosse diventato una persona nuova.»
«Non è cambiato, lui è sempre stato così» ci tenni a precisare. Era solo che prima aveva paura di mostrarsi, paura di spaventare gli altri col suo vero io, paura di fare loro del male, paura di essere sbagliato, di essere l’ombra in un mondo di luce.
«Poi dici che non lo ami, soltanto tu affermeresti una cosa simile.» Alzò gli occhi al cielo, scrollando la testa.
«Sakura-chan.» Rivolsi nuovamente le mie attenzioni a Rika-chan, la quale mi guardò con tenerezza. «Ti sei accorta dei sorrisi che ti rivolge?»
Hoe? I suoi sorrisi? Avevo notato che me li mostrasse più spesso negli ultimi giorni, ma non ci trovavo nulla di strano. Voleva solo dire che fosse più felice, no?
«Li dedica solamente a te.»
«Ma no…» provai a ribattere, debolmente.
«A noi non ha mai sorriso. È sempre serioso, soltanto ogni tanto mostra che si sta divertendo, ma glielo si legge più che altro negli occhi. Poi, invece, ti guarda o ti parla e allora, seppure non sorride sempre, un accenno di gioia resta tracciato sulle sue labbra» spiegò, portandosi una mano al cuore.
Era una cosa che non avevo mai notato.
Restai a fissarla sbalordita, sentendomi la gola secca, totalmente prosciugata di ogni parola.
«A volte è difficile rendersi conto di ciò che ci circonda, ma le persone attorno possono aiutarci a comprendere meglio ciò che viviamo. Soprattutto per quanto riguarda i nostri sentimenti» aggiunse dolcemente Naoko-chan.
Mi si strinse il cuore e mi morsi il labbro tremante. Ero così lieta di riuscire a farlo sorridere. Loro non potevano neppure capire quanto mi sentissi sollevata nell’udire ciò e le ringraziavo, tantissimo, per avermelo fatto notare. Per avermelo fatto scoprire.
«In ogni caso» riprese Chiharu-chan, afferrandomi per le spalle affinché ci trovassimo faccia a faccia, «quelli sono sorrisi che farebbe soltanto una persona innamorata.»
Improvvisamente, mi sentii al centro del triangolo delle Bermuda: un vortice s’era aperto nell’acqua, risucchiandomi, il freddo e il ghiaccio mi avevano riempito il cuore, portandolo ad un’esplosione di lava incandescente.
Rimasi a guardarla esterrefatta, sentendomi gli occhi lucidi, probabilmente con un’espressione sconvolta in viso. Quella sarebbe stata la notizia più bella di tutta la mia vita, ma non poteva essere vera. Anzi, non c’erano ipotesi, sapevo che non era vera. Perché per quanto affetto mi dimostrasse, per quanto si prendesse cura di me, per quanto mi confortasse e mi risollevasse ogni volta che cadevo, per lui non significava nulla di speciale. Lui non poteva essere così masochista da farsi volontariamente del male, commettendo un simile errore. Perché sì, nel nostro caso l’amore sarebbe stato uno sbaglio. Perciò io dovevo abbattere quel sentimento, prima che fosse troppo tardi.
«Syaoran-kun è il mio migliore amico, nulla di più. Una persona cui voglio particolarmente bene, e penso che per lui valga lo stesso. Ci siamo rivelati segreti che non abbiamo mai confessato a nessuno e contiamo l’uno sull’appoggio dell’altra, supportandoci a vicenda; ma non c’è nient’altro tra di noi, di questo sono certa» tagliai corto, sperando che la mia voce smorta non mi tradisse.
Era inutile per me sentirmi delusa all’idea che quel mio primo vero amore non sarebbe mai sbocciato. Facevo meglio a rassegnarmi quanto prima, perché per noi non c’era assolutamente alcuna speranza.
Le ragazze emisero un sonoro sospiro in maniera sincronizzata, prima che Chiharu-chan mi lasciasse e Rika-chan facesse un ultimo tentativo: «Se è difficile esprimere tutto a parole, perché non gli mostri quel che provi approfittando di San Valentino?»
Tesi le labbra per non ridere, ma in effetti, preparargli della cioccolata non era poi una cattiva idea. Più che confessargli ciò che provavo, tuttavia, sarebbe stata la volta buona in cui lui finalmente assaggiava un dolce.
Assentii a quella proposta e fortunatamente quel discorso si chiuse lì, incentrandosi sulle loro vite. Le ascoltai e partecipai serenamente, finché non uscimmo per asciugarci prima di cena. Dopo questa partecipammo a diverse partite di ping-pong con altri ospiti e quando si fece abbastanza tardi ci ritirammo nella nostra stanza, avvolgendoci come bozzoli nei nostri futon.
Quel momento, tuttavia, era quello che più temevo: senza il conforto che mi dava l’acchiappasogni regalatomi da Syaoran-kun, i miei incubi e i miei timori tornarono, per venire a trovarmi e calpestarmi; le mie imposizioni mi pesarono addosso come se dovessi supportare la Terra stessa e, per quanto fossi forte, il mio pianeta non faceva altro che schiacciarmi. Il vento guaiva tra i cardini, e se si fosse trattato di un ululato forse mi sarei sentita più protetta; ma no, quello era più simile ad un pianto, ad un lamento, quasi come se fossero richieste di aiuto di spiriti ancora presenti in terra.
Mi coprii fino alla testa, tappandomi le orecchie col cuscino, serrando le palpebre, tremando come una foglia. Mi misi in posizione fetale, stringendomi a me stessa, e attesi che la mia mente elaborasse qualcosa di positivo. Mi sforzai di ignorare quei gemiti, immaginando invece il suono della risata di Syaoran-kun. Così andava molto meglio. Visualizzai il suo viso sorridente, visto che quel giorno ne avevamo parlato, e lo posi in una situazione del tutto irrealizzabile e contraddittoria: in mezzo ad un campo di girasoli, sotto il sole cocente d’agosto, con alle spalle un cielo turchese cristallino, senza neppure una nuvola a macchiarlo. Era ciò di cui più necessitavo in quel momento: lui, al centro dell’estate. E così riuscii finalmente a calmarmi, a distendere la mente e lasciarmi scivolare lentamente nel mondo dei sogni.
Qui, circondata dal buio più totale, mi ritrovai dinnanzi uno specchio della mia stessa altezza, che sembrava tuttavia trasparente. Cercai il mio riflesso, quando poi mi resi conto con mio grande sgomento che io ero il riflesso, mentre qualcun altro, un estraneo, ospitava il mio corpo. E di questi non riuscivo a vedere le fattezze.
Non appena giunsi a questa realizzazione lo specchio si frantumò in mille cocci, spezzando la mia immagine, e tutt’attorno a me si irradiarono scie di luce e sangue. Mi toccai le ferite, perdendo ogni forza, scivolando sul suolo. Intravidi una mano inerme all’altezza del mio viso, per cui provai ad allungare la destra, cercando di afferrarla, lottando contro il dolore che provavo in tutto il corpo. Riuscii a raggiungerne il palmo e la strinsi, facendo un po’ di pressione per sollevarmi quanto bastava per avvicinarmi e vedere a chi appartenesse.
E allora sentii il mio cuore morire perché lì a terra, steso antistante rispetto a me, c’era Syaoran-kun. Inerte, totalmente imbrattato di sangue, con le mie stesse ferite.
«Syaoran-kun…» Lo chiamai in tono flebile, sperando che mi sentisse. Pregando che mi sentisse. «Syaoran-kun!» ripetei con maggiore forza, mentre le lacrime mi invadevano il viso, impastandomi la bocca.
Non poteva essere come pensavo…
Riuscii a strisciare fino da lui, prendendolo tra le mie braccia, togliendogli tutte quelle schegge di vetro dal corpo, singhiozzando senza freni. Continuavo a chiamarlo disperata, stringendolo a me, cercando quel calore particolare che lo caratterizzava, ma era gelido, dello stesso freddo della morte.
«Può cambiare.»
Sobbalzai al suono di una voce, che rimbombava in tutte le direzioni.
«Il futuro può cambiare, se ti affidi a me.»
Era sempre quella voce, quella che avevo sentito mesi fa, quella che tentava di tirarmi verso sé. Quella della persona che voleva farmi del male.
La cercai nel buio, volendovi associare un volto, ma non c’era da nessuna parte.
«Lo so che sei stato tu!» lo accusai, furiosa.
«No, sei stata tu» replicò con calma, dandomi una pugnalata al cuore.
Io…? Io lo avevo… ucciso…?
«Se ti fossi arresa subito non sarebbe successo. Ma puoi ancora modificare questo destino, non preoccuparti.»
La voce continuò a riecheggiare dappertutto attorno a me, ma io vi prestai attenzione solo a metà.
Io… avevo ucciso… Syaoran-kun…?
Mi sentii ghiacciare fin dentro le ossa, come se l’anima mi fosse stata portata via. Allora vidi comparire dinanzi ai miei occhi una figura enorme, che occupava tutta la mia visione. Mi sembrava un drago, aveva una forma serpentina, grosse ali nere, un corno sulla fronte con alla base una striscia ondulata celeste che arrivava fino al muso e altri segni dalla forma ovale dello stesso colore sulle scaglie d’inchiostro.
«Sakura, possiamo risolvere tutto, insieme. Se tu mi aiuti a realizzare il mio desiderio, io realizzerò in cambio il tuo.»
«Cosa desideri?» domandai atona, totalmente spenta e svuotata, non percependo più vita in me.
«C’è una persona che devo salvare e, per fare questo, mi serve il tuo sangue.»
Detto ciò ghignò mostrandomi due lunghe zanne affilate e si avventò su di me.
Scattai seduta ansante, col cuore in gola, sentendomi i polmoni bloccati.
«Sakura-chan, va tutto bene?»
Mi voltai lentamente verso le ragazze, asciugandomi il sudore sulla fronte, cercando di nascondere il terrore che stavo provando. Fortunatamente sembravano tutte ancora un po’ intontite. Per un attimo temetti di aver gridato, finendo col svegliarle, ma dalla luce nivea che filtrava dalle tende alla finestra supposi che fosse già diventato giorno. Presi un respiro e sorrisi loro rassicurante, assicurando che andasse tutto bene.
Ma no, niente. Niente andava bene.










 
Angolino autrice:
Buon anno nuovo! 
Ecco un nuovo capitolo, che comincia bene e finisce male. Chi mi conosce sa che è abbastanza tipico di me (e anche che ho una passione particolare per gli incubi). Come avete visto, ho ripreso qui la figura del drago presente in Clear Card, per il quale immagino ognuno di noi abbia la propria teoria; nel prossimo capitolo ne verrà spiegato il significato (almeno, quello che ha in questa storia).
Immagino che sia un po' superfluo spiegarlo, ma come immagino sapete le onsen sono le stazioni termali, i ryokan sono locande/hotel tradizionali e i futon sono i letti/materassi che si arrotolano. 
A presto!

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


Legami di sangue


 
Quando tornammo a Reiketsu decisi sin da subito di essere totalmente sincera con Tomoyo-chan ed Eriol-kun, consapevole che a nulla sarebbe servito continuare a tacere.
Bastò loro uno sguardo all’orrore che sicuramente tingeva i miei occhi affinché organizzassero una serata per incontrare tutti i vampiri; così dopo aver chiesto – o meglio, ordinato ai servitori di non disturbarci e approfittando del fatto che Sonomi-san fosse di nuovo via in viaggio di lavoro, ci ritrovammo tutti sui divani in sala. Mi sedetti in mezzo a mia cugina e Meiling-chan, avendo di fronte Syaoran-kun e alla sua destra Yelan-san. Cercavo di guardare loro due per tutto il tempo, assorbendo la loro forza e coraggio.
Misi da parte ogni esitazione ed imbarazzo e cominciai a raccontare loro di tutti i sogni che avevo fatto da quando ero lì, concludendo con: «So che possono sembrare soltanto “sogni”, rappresentazioni delle mie paure e dei miei timori, ma anche a me spesso capita di… di fare “sogni premonitori”. Ad esempio, quando mi recai a casa di Chiharu-chan era esattamente come la avevo vista in sogno e vi assicuro che non c’ero mai stata prima.»
«E sognasti anche la vera natura di mio figlio» aggiunse la signora.
Chinai il capo mortificata, sentendomi come se avessi compiuto un atto spregevole, che non mi fosse assolutamente concesso.
«E adesso hai sognato la sua morte.»
Di nuovo, a quelle parole mi sentii come se il mio cuore fosse stato trafitto da mille lame. Affondai il viso tra le mani, sforzandomi di non piangere.
«Mi dispiace…»
«Non esserlo, Xiaolang non è uno sprovveduto.» Alzai di poco la testa, vedendo madre e figlio rivolgersi uno sguardo d’intesa. «E non è neppure tanto debole e rassegnato da essere disposto a rinunciare alla sua vita, facendosi uccidere» soggiunse con fierezza.
Inghiottii il magone prima che mi sopraffacesse, vedendo anche le sue sorelle annuire e lui guardarmi rassicurante.
«Tranquilla, Sakura. Non preoccuparti per me.»
Mantenni la testa bassa, abbattuta, finché Eriol-kun non si concentrò su un altro dettaglio dell’ultimo sogno fatto, ritenendolo a sua detta più importante.
«Se vogliamo interpretarlo in chiave esoterica, il drago è visto come il “guardiano della soglia”.»
«Che cosa significa?» domandò Fanren-san, interessandosi.
«Vuol dire che Sakura-san deve mostrare il coraggio di un guerriero per superare una sfida personificata dal drago stesso, in modo tale da poter avanzare oltre esso.»
«Rappresenta quindi un ostacolo?»
Annuì nella mia direzione, spiegando: «In casi comuni rappresenta paure che devono essere dominate: solitudine, sofferenza, insicurezza, morte.» Trattenni il fiato, guardando automaticamente Syaoran-kun, il quale di nuovo mi sorrise in quel modo rasserenante. Avrei voluto avere almeno metà della sua sicurezza… «Ma in questo caso ritengo rappresenti, invece, un nemico reale che ti opprime e ti intralcia.»
«È quasi buffo sentire questo, visto che in Cina ha un significato positivo» osservò tra sé Meiling-chan.
«In Occidente è l’opposto, viene considerato un pericolo, portatore di morte e rovina» spiegò, facendomi provare ancora di più una morsa allo stomaco. Come se quel drago medesimo lo stesse stringendo tra i suoi artigli, fino a spappolarlo…
«Di chiunque si tratti, abbiamo capito che non è noi che vuole, ma lei. Confermi?» intervenne Syaoran-kun, guardando Eriol-kun in faccia, quasi stesse tentando lui di scandagliargli la mente.
Eriol-kun fece “sì” col capo e sia Tomoyo-chan che Meiling-chan mi carezzarono prontamente la schiena, quasi avessero percepito la mia angoscia.
«Ma perché insiste tanto con lei?» chiese Feimei-chan, mal celando la rabbia.
«Sakura-chan.» Voltai la testa verso Eriol-kun alla mia sinistra, sporto in avanti. «C’è un dubbio che mi assilla. Tua madre ha cercato di dirti qualcosa nei tuoi sogni?»
Provai a rievocarli e, in effetti, avevo avuto l’impressione che, oltre ad abbracciarmi, desiderasse dirmi qualcosa. Al di là del suo splendido sorriso, mi sembrava sempre che un’ombra le oscurasse lo spirito.
«Se è questo che vuoi sapere, basta chiederglielo direttamente.»
Ci voltammo tutti a guardare Yelan-san, la quale mi sorrideva gentilmente, ma sembrava quasi vedere qualcosa attraverso me. Una scintilla di sorpresa attraversò anche gli occhi di Syaoran-kun e io trattenni il respiro, percependo una brezza leggera sfiorarmi il palmo della mano.
«Mamma è… qui…?» mi accertai in tono roco, sentendo le lacrime raccogliersi nuovamente nei miei occhi. Ma forse non li avevano mai abbandonati.
«Vuoi vederla?»
Fissai per qualche secondo Yelan-san, spiazzata. Era possibile? Potevo davvero incontrarla? Finalmente ci saremmo conosciute? Tale pensiero mi faceva paura, ma al contempo fremevo dalla voglia di guardare il suo viso, non soltanto tramite le fotografie.
Assentii e lei si alzò con eleganza, inginocchiandomisi davanti. Chiuse per un secondo gli occhi, chiedendomi di fare lo stesso. Percepii di nuovo quella carezza leggera, impalpabile, sul viso e quando mi fu ingiunto di riaprirli guardai in alto, dinanzi a me. E allora mi riempii di stupore.
«Mamma…» sussurrai incredula, abbagliata dalla sua bellezza.
Era un angelo. Indossava una candida veste che le fluttuava attorno, rendendola quasi un miraggio evanescente. La sua pelle luccicava come se fosse fatta di diamanti, i suoi capelli mossi scivolavano lungo tutto il suo corpo, avvolgendone la figura. Dalla sua schiena si aprivano ampie ali bianche.
Trattenni il fiato, sentendomi leggera come una piuma, e talmente in pace con me stessa che era quasi come se fossi al cospetto di una divinità.
«Sì, bambina mia.» Mi sorrise e stavolta oltre a percepirla la vidi avvicinarsi a me e posarmi la sua mano trasparente su una guancia, guardandomi mortificata.
«Mi dispiace per tutto quello che hai dovuto vivere in passato, perché non c’ero io a guidarti -»
«No.» La interruppi, scuotendo debolmente la testa, sorridendole attraverso le lacrime. «Touya-niichan mi ha detto che eri al mio fianco, ogni volta che ce n’era bisogno. Quindi ti ringrazio, perché sei stata sempre con noi.»
Anche lei mi sorrise, continuando ad accarezzarmi, ringraziando Yelan-san per questa opportunità che ci aveva dato.
Ella restò inginocchiata dinanzi a me e rispose solo con un sorriso, come a dire che non era nulla di grandioso. Ma per me era tantissimo.
«Sakura, tesoro, ascoltami bene.» Dedicai tutte le mie attenzioni a mia madre, asciugandomi le gote, concentrandomi. «Il tuo sangue rappresenta un ponte tra due mondi. È come una porta che lega il mondo umano con quello del soprannaturale, per questo sin da quando eri bambina gli spiriti erano tanto attratti da te. Tuttavia non volevano farti del male, volevano soltanto essere cullati e confortati dalla tua presenza, perché stando con te si sentivano “al posto giusto”. Colui che ora ti cerca vuole sfruttare questa tua caratteristica per salvare un’anima che crede perduta, sebbene non sia così. Dovrete riuscire a parlare con costui e convincerlo che si sta sbagliando, che la persona che ama non rischia nulla. Quando arriverà quel momento parlagli di tuo padre.»
La guardai confusa, non capendo cosa c’entrasse lui. Ero troppo sconvolta per riuscire a porgere qualsiasi quesito, per cui fu una fortuna che Yelan-san fosse più sveglia di me.
«Sai chi è che la cerca?»
Mia madre annuì, direzionando lo sguardo su di lei, pronunciando un nome che a me non diceva assolutamente nulla… o quasi. «Yuna D. Kaito.»
Vidi lei serrare le labbra, tesa, dopodiché mamma si rivolse nuovamente a me.
«Non posso più rimanere, vi ho detto tutto ciò che sapevo.»
Allungai una mano tremante verso di lei, provando ad accarezzare il suo viso, ma fu come toccare l’aria.
Sconfiggendo il mio sogno, tuttavia, mi si fece vicina, avvolgendomi tra le sue impercettibili braccia.
«So che sei forte, piccola mia. Ti ho vista crescere e diventare sempre più coraggiosa, soprattutto negli ultimi mesi. Stai maturando. Abbi fiducia in te stessa e stai tranquilla, ti assicuro che stai facendo le scelte giuste.» Si allontanò di poco, voltandosi verso Syaoran-kun, per poi tornare da me. «E vedrai che anche il tuo sogno d’amore si coronerà.»
Arrossii, non aspettandomelo. Tirai su col naso, chiedendomi come facesse mia madre a sapere così tante cose, quasi leggesse le parole scritte su tutta la superficie terrestre. Rivolsi un’occhiata impensierita verso Yelan-san, in parte sperando che questo non l’avesse sentito: la sua espressione era indecifrabile, statuaria.
Mamma mi riportò da sé, guardandomi stando parallela al mio viso. «Ogni passo che fai ti direzionerà verso il futuro che hai scelto e ciò che più conta è che tu resti sempre positiva. Qual è la tua formula magica?»
«Sicuramente andrà tutto bene» pronunciai automaticamente, aprendomi in un grande sorriso.
Annuì prima di staccarsi ulteriormente e quando capii che stesse per salutarmi mi affrettai ad asciugarmi gli occhi, rivolgendole queste ultime parole: «Grazie, mamma. Sono contenta di averti conosciuta.»
Lei mi sorrise commossa, dicendomi che mi voleva bene, prima di dissolversi in una sottile, invisibile folata di vento. Yelan-san si rialzò per tornare al suo posto e Tomoyo-chan prontamente mi porse dei fazzolettini, per farmi asciugare lacrime e moccio.
La ringraziai debolmente, calmandomi poco alla volta, inebriandomi ancora un po’ di quella visione celestiale, mentre Yelan-san ripeteva per me le informazioni che servivano. Quando mi ripresi e tornai con la testa da loro mi accorsi che regnava il silenzio e sembravano tutti tesi.
Mi schiarii la gola, dando voce ad un piccolo sospetto – di cui, parzialmente, conoscevo già la risposta: «Yuna D. Kaito è un vampiro, vero?»
L’aria sembrò ottenebrarsi e soltanto Eriol-kun mi degnò di risposta, parlandomi con calma.
«Immagino tu sappia che i D. sono una delle tre stirpi?»
Stavo per dirgli che Syaoran-kun me lo aveva riferito quando questi mi anticipò, rispondendo in maniera estremamente tirata.
Allora Eriol-kun riprese parola, spiegando: «Tra di noi, i D. sono i meno civilizzati. Essi continuano a nutrirsi di sangue umano, senza fare alcuna eccezione nelle vittime che scelgono. E questo loro essere senza scrupoli li rende più potenti.»
«Anche i D. sono qui in Giappone?» domandai terrorizzata.
«No, loro di solito non si muovono dall’Inghilterra, a meno che non ci sia qualche situazione particolare.» A questo guardò Yelan-san e, per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, vidi un intento omicida tingerle gli occhi di cremisi. «Sono considerati una sorta di “autorità” nella mia patria, sebbene abbiano ormai accettato che noi Reed seguiamo una nostra “dieta”. Più che una resa, si è trattata di convenienza, così non c’era bisogno che competessimo anche sul cibo. Al contrario, hanno sempre detestato il fatto che mentre in Occidente ci sono due stirpi, in Asia ce n’è soltanto una predominante e, per questo, hanno sempre cercato di immischiarsi come possono negli affari dei Li. Hanno una grande influenza, soprattutto sui capi anziani, e furono proprio essi a giocare a loro favore la carta dell’onore, affinché Yelan fosse cacciata.»
Non potevo crederci. Che importava a loro di quel che facevano gli altri clan?! Mi tenni quella domanda per me, continuando ad ascoltarlo.
«L’uomo che lei amava, il padre di Syaoran, fu ucciso proprio dai D.»
Sentii tutti i Li ringhiare in tono gutturale, ma non reagii in alcun modo. Riuscivo a capirli. Da come li stava descrivendo, ero certa che i D. lo avessero fatto in maniera brutale, il che era a dir poco rivoltante.
«E quando venni qui alla ricerca di mio fratello neppure mi diedero pace.»
Quell’informazione mi era nuova, e non sembravo l’unica stupita. Anche Syaoran-kun, le sue sorelle e Meiling-chan lo guardarono con un misto di confusione e curiosità.
«Lui era particolare, era diverso da noi» spiegò, ascoltando tutte le nostre mute domande. «Era nato umano.»
«È possibile una cosa simile?!» domandò Shiefa-san, sbigottita quanto le sorelle.
«È abbastanza raro, tuttavia ci sono diversi casi nella storia. Fu difficile trovarlo perché la nostra famiglia fu costretta ad abbandonarlo, non potendo accettare un non-vampiro nel clan, e per quanto lo cercassi fu affidato a diverse famiglie in Inghilterra, finché non fu adottato definitivamente qui in Giappone. Allora mi staccai dalle mie radici per stare al suo fianco e attesi che crescesse. Divenni suo amico e gli feci conoscere una donna appartenente alla nostra famiglia, un’altra vampira, per poterlo riportare da noi. Ma per quanto ci impegnassimo non riusciva ad innamorarsi di Kaho, così lasciammo perdere. Alla fine si innamorò di un’umana, com’era giusto che fosse, e a quel punto rinunciai al mio proposito per lasciarli vivere la loro felice vita in pace – anche perché i D. dopo non molto che me ne fui andato capirono le mie intenzioni e provarono a mettermi i bastoni tra le ruote, affinché non riuscissi nel mio intento.»
«E l’hai più incontrato?»
Lui scosse tristemente la testa.
«No. Sono più di vent’anni, ormai, che non so che vita sta conducendo. Spero soltanto che possa essere felice.»
In quelle parole sentii l’eco di quelle che Meiling-chan aveva rivolto a suo padre, sebbene con Eriol-kun sembrassero meno rassegnate. Forse perché, volendo, sapeva che aveva pur sempre la possibilità di rivederlo. Ma se era vero che quel D. era qui, sarebbe stato di certo impossibile.
«Avemmo solo il tempo di partecipare al loro matrimonio prima che Kaho tornasse in Inghilterra e io cominciassi a vagabondare, finché non giunse Yelan.»
«Aspetta, in Inghilterra…» ragionai, sgranando gli occhi con orrore. «Lì stanno studiando mio fratello e Yukito-san! Tu hai detto che i D. non si fanno scrupoli, che attaccano chiunque! Come faccio a sapere se stanno bene?! D’accordo, ci sentiamo periodicamente, però -»
Cominciai ad agitarmi, per cui lui immediatamente mi placò dicendomi: «Se mi dai i loro nomi provvederò ad assegnarvi dei “guardiani” della mia stirpe.»
«Kinomoto Touya e Tsukishiro Yukito.»
«Tsukishiro?!» ripeté sorpreso.
Annuii in conferma, non capendo perché la cosa lo stupefacesse tanto.
«Allora non preoccuparti, tuo fratello è al sicuro.» Dinanzi al mio sguardo interrogativo chiese: «Non sai che negli Tsukishiro scorre sangue divino?»
«Cosa?!» esclamai sbigottita. Possibile?
«In essi risiede una divinità sopita, legata alla luna. Il suo nome, in Cina, lo conoscete come “Yue”» aggiunse rivolgendosi ai Li.
Anche Yelan-san parve sorprendersi, al che suppose: «Che si sia avvicinato a Sakura per il suo sangue?»
«Immagino di sì, a meno che ciò non valga anche per suo fratello.»
«Onii-chan vede i fantasmi e riesce a comunicare con essi» risposi con prontezza.
«In tal caso è possibile che sia stato richiamato dal “potere”, se vogliamo definirlo così, di entrambi. Non preoccuparti di nulla, Sakura-san, se dovesse esserci qualche pericolo la divinità si ridesterebbe e… beh, a quel punto diventerebbe inarrestabile, potrebbe fermarla solo la persona il cui compito è proteggere.»
Mi rincuorai nel sentire questo.
«Adesso dobbiamo pensare a te ed evitare che ti accada il peggio.»
«Noi combatteremo, se necessario» decretò Yelan-san, seguita dal resto della sua famiglia che annuì solennemente.
«E noi faremo lo stesso» promise lui, sia per sé che per Tomoyo-chan.
Quest’ultima mi strinse una mano, sorridendomi incoraggiante.
«Non hai nulla da temere, Sakura-chan. Non ti lasceremo sola.»
Sorrisi a tutti, cercando di sentirmi sollevata da tutto ciò. Dentro di me, invece, continuavo ad essere inquieta e, soprattutto quando spostai lo sguardo su Syaoran-kun, percepii l’angoscia tornare a stritolarmi lo stomaco tra le sue tenaglie. Avevo paura per tutti, ma soprattutto avevo paura che quell’incubo potesse avverarsi.










 
Angolino autrice:
Buonasera!
Lo avevo già preannunciato, ma qui ho dato la "mia" interpretazione del drago.
Come avete letto, si cominciano a scoprire un po' di cosucce... D'ora innanzi sarà un po' tutto così, quindi preparatevi ad un viaggio sulle montagne russe (in tutti i sensi)!
Vi auguro un buon week-end e a presto col prossimo capitolo, dedicato a San Valentino (ohohoh)

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 ***


Il tuo sapore


 
Quelle gelide giornate d’inverno trascorsero fortunatamente piuttosto in fretta. Durante la notte gli incubi sembravano essere nuovamente diminuiti e forse dipendeva anche dall’acchiappasogni di Syaoran-kun. Eriol-kun monitorava come un poliziotto le entrate e le uscite nel paesino e io cercavo di restare sempre nel perimetro di Reiketsu, in modo tale che i vampiri potessero tenermi d’occhio e stare costantemente al mio fianco. Anche quando uscivo con la mia compagnia umana sapevo che nell’ombra si celava sempre qualcuno di essi, affinché potesse accorrere immediatamente in caso di bisogno. Solitamente si trattava di Syaoran-kun, che ad esempio restava a guardarci nascosto tra le fitte fronde di qualche albero non troppo distante, e se ciò da un lato mi alleggeriva lo spirito, facendomi sentire al sicuro, dall’altro mi imbarazzava. Soprattutto quando diventava lui soggetto delle nostre conversazioni, come in quell’ultimo periodo.
Ci avvicinavamo, infatti, a San Valentino, e le ragazze non facevano altro che domandarmi se avessi deciso cosa regalare a Syaoran-kun, che tipo di cioccolata avessi intenzione di preparargli, se volessi cimentarmi in qualcosa di sofisticato o meno. Alla fine le liquidai affermando che avrei preparato a tutti la stessa tipologia di “giri chokoreeto”, lasciandole piuttosto scontente. Tuttavia, sapendo che lui era in ascolto non potevo permettermi di più.
E infatti un giorno, mentre tornavamo insieme a casa dato che entrambi ci eravamo attardati per i club, mi domandò: «È così importante questo “San Valentino”?»
Feci spallucce, fingendomi indifferente. «Solitamente le ragazze regalano della cioccolata.»
«Quindi anche tu lo farai?» indagò curioso.
«Sì, ma sarà “cioccolata di dovere” e la darò a tutti voi che siete al mio fianco.»
«Vampiri compresi?»
«Vampiri compresi» confermai, facendogli capire quanto fossi risoluta a farlo. Non mi avrebbe fatto cambiare idea.
«Anche se forse potremmo non mangiarla?»
«Potete anche solo accettarla e poi buttarla.»
Non parve molto contento da quella risposta, ma ben presto vidi il suo viso illuminarsi.
«Quindi la preparerai anche per me?»
Annuii e lui si aprì in un piccolo sorriso.
«Non vedo l’ora di assaggiarla, allora. Sarà la volta buona.»
Ridacchiai, fingendo poi di minacciarlo.
«Non te la scamperai.»
«Ah, non voglio. Ci terrei davvero a provarla, soprattutto se viene da te.»
E detto ciò mi salutò, non dopo avermi spostato una ciocca ribelle di capelli dal viso, mettendomela in ordine sotto il cappello di lana, rivolgendomi il suo amabile sorriso. Lasciandomi dinanzi all’immenso cancello di casa Daidouji con un batticuore talmente potente da sembrar spandere un terremoto dentro di me e fuori di me.
Me ne entrai infatti ondeggiante, con la testa molto sulle nuvole, e in tale condizione continuai ad essere finché non ci avvicinammo al quattordici febbraio. Così, la sera che precedeva quel fatidico giorno chiesi ai cuochi se potessero cedermi per qualche ora la cucina e canticchiando canzoncine allegre per mantenermi sollevato lo spirito preparai una trentina di biscotti al cioccolato a forma di stelline, mezzelune e fiori, sperando che così avesse potuto apprezzarli anche Meiling-chan. Li misi alla rinfusa in diversi pacchetti, limitando le dosi per quelli che avrei dovuto consegnare ai vampiri. Per un attimo mi ero chiesta se non dovessi aggiungervi qualche goccia di sangue per renderli più “gustosi”, ma poi preferii lasciar perdere. Non ero sicura di averne il coraggio, né che loro lo avessero apprezzato, pensando invece che fossi una pazza squinternata.
Il giorno successivo di prima mattina diedi la cioccolata a Tomoyo-chan ed Eriol-kun. Entrambi la accettarono con un sorriso grato e mangiarono i biscotti senza esitazione, riferendomi che fossero buoni. Capii che lo dicessero soltanto per garbo, ma Tomoyo-chan mi rivelò che essendo stata umana le sue papille gustative continuavano a percepire i sapori, e quindi era onesta. La novità mi sorprese e mi riempì di gioia, visto che significava anche che avevamo gusti simili – essendo quella la mia tipologia preferita di biscotti fatti in casa. La ricetta me l’aveva insegnata Touya tanti anni fa, quando cominciai a cimentarmi nella cucina, e la preparavo ogni anno per lui, papà e Yukito-san. Stando a quanto mi disse, lui l’aveva a sua volta appresa da nostra madre.
Giunti a scuola, prima di entrare nell’istituto mi congedai da mia cugina e il suo ragazzo per avvicinarmi di corsa a Meiling-chan e Feimei-chan, dando a ciascuna il proprio pacchetto e consegnando loro anche gli altri quattro per i membri restanti della famiglia, spiegando le ragioni per cui lo avevo fatto. Entrambe assaggiarono e si sorpresero di riuscire a percepirne il sapore. Mi chiesero se ci fosse qualche ingrediente speciale, ma non c’era nulla oltre i classici prodotti per dolci. Meiling-chan soprattutto era super entusiasta.
«Ora oltre ai biscotti alla cannella potrò mangiare anche i tuoi!» gioì, illuminandosi tutta.
Syaoran-kun attese pazientemente alle loro spalle che finissero di assaggiarli e giudicarli. Lo guardai soltanto in quel momento, trovandolo pieno di aspettative; dato però che proprio allora suonò la campanella glieli negai.
«A te dopo.»
Gli feci la linguaccia, affrettandomi a raggiungere gli armadietti per cambiarmi le scarpe.
«Eeeh?» si lamentò, raggiungendomi in fretta per fare altrettanto. «Perché?»
«Perché ora abbiamo le lezioni.»
Chiusi l’armadietto una volta fatto, spostandomi verso le scale. Mi affiancò in breve, insistendo con tono lagnoso: «Ma tanto dobbiamo andare nella stessa classe.»
«Lo so, però non c’è tempo per farteli mangiare. Te li do a pranzo» promisi e lui sbuffò.
«Sai che a pranzo me ne sto fuori.»
«Vuol dire che trascorrerò quei minuti con te» conclusi, sperando accettasse.
Mi guardò stupefatto.
«Rinunceresti alle tue amiche per me?»
Mi feci scappare una piccola risata, non degnandolo di risposta. Non poteva neppure immaginare che per lui avrei rinunciato a tutto. Anche alla mia umanità.
Entrata in classe appesi rapidamente giubbino, sciarpa e cappello all’attaccapanni, posando i guanti nelle tasche del piumino, e mi avvicinai alla sedia, seguita a ruota da Syaoran-kun. Salutai tutti e presi i pacchetti da dare alle ragazze, le quali me ne porsero a loro volta. Fu un pensiero dolcissimo da parte loro. Li misi tutti in borsa insieme al bentou e mi affrettai a prendere i libri, preparandomi alla prima lezione del giorno.
Rimasi concentrata tutto il tempo; soltanto nel cambio di professori osai sbirciare nella direzione di Syaoran-kun, trovandolo a rimirare il nulla fuori dalla finestra con aria imbronciata. Trattenni una risatina e nel dare un’occhiata alla classe mi accorsi che alcuni ragazzi si stavano lamentando di non aver ricevuto niente, mentre altri gioivano e se ne vantavano. Persino Yamazaki-kun era entusiasta della cioccolata che gli aveva regalato Chiharu-chan, in cambio della quale le raccontò una storia su sfere giganti al cacao che, in passato, rappresentavano un primo prototipo di tartufi. L’unica risposta che ricevette fu un tentativo di soffocamento da parte sua, che ci fece ridere tutti. Non seguii più la loro conversazione per continuare a guardarmi intorno, notando che molte ragazze sembravano indecise sul da farsi nel rimirare le loro confezioni, mentre altre ne parlavano con gaiezza, riuscite nel loro intento o intrepide di dichiararsi e condividere il loro amore. Ecco, l’amore era ciò che si respirava nell’aria. Particelle di esso pullulavano attorno a noi, estendendosi fin dentro le mura, diffondendosi per tutto l’istituto. Era un giorno più importante di quanto credessi.
Dopo quella realizzazione il cuore mi salì in gola, colto da un’agitazione che cresceva quanto più ci avvicinavamo all’orario di pranzo. Al suono della campanella sobbalzai, asciugandomi le mani sudate sulla gonna. Dovevo cancellare gli sciocchi pensieri e vederlo unicamente come un dovere, convincendomi che fosse tale. Presi un respiro e afferrai la borsa contenente il bentou, prendendo quello e il pacchetto coi biscotti, voltandomi poi di scatto verso Syaoran-kun.
Lo trovai col mento appoggiato sulle mani, già intento a fissarmi, finché non incontrò i miei occhi e allora scattò anche lui sull’attenti, con iridi brillanti. Soppressi una risata, alzandomi.
«Pronto?»
«Pronto!» confermò, balzando in piedi pieno di entusiasmo. Per un attimo mi parve quasi di vederlo scodinzolare, il che mi fece sfuggire un risolino.
Si avvicinò all’attaccapanni prendendo sia il suo cappotto che il mio giubbotto, porgendomelo mentre uscivamo dall’aula. Lo seguii un po’ sorpresa che non andasse all’ingresso, chiedendomi dove si stesse dirigendo. Scendemmo al pianoterra, recandoci sul retro della scuola e qui aprì una finestra del corridoio, saltando fuori. Oh, ecco come sgattaiolava via!
Mi porse una mano per aiutarmi ma io posai su di essa ciò che mi occupava le mani, indossando rapidamente il piumino prima di sedermi sul davanzale, saltando giù all’altro lato. Una volta dritta mi ripresi le mie cose e nel guardarlo lo trovai con un sorrisetto divertito.
Salutammo i vampiri che già stavano oziando stesi su quello che a fine estate supponevo essere il campo di campanule e lo seguii attraverso le felci imbiancate, inoltrandoci nella foresta.
Raggiungemmo un piccolo spiazzale e qui si accomodò sulla neve, a gambe incrociate, in prossimità di un pino silvestre, il cui pungente profumo penetrava facilmente nelle narici. Me ne riempii i polmoni, sedendomi di fronte a lui, rabbrividendo al contatto della neve sulle gambe.
Dinanzi a quella reazione Syaoran-kun sgranò gli occhi, allungandosi in avanti.
«Aspetta, alzati.»
«Hoe?»
Mi fece spostare, si tolse il cappotto bofonchiando un «Dovevo rendermene conto prima» e lo stese a terra, dandovi un colpetto per farmi capire di sedermi.
«Non ce n’è bisogno!» provai a ribattere, ma lui mi prese per le spalle, accompagnandomici sopra.
«Tranquilla, tanto non lo sento il freddo.»
Mi aggiustai la gonna, mettendomi composta, facendo attenzione a non calpestarne la stoffa, mentre lui tornava a terra davanti a me, nella precedente posizione.
Attese non nascondendo la trepidazione e io gli passai i biscotti, esitando nell’aprire il mio bentou. Chissà se anche lui ne sentiva il sapore….
Lo guardai di sottecchi, vedendolo sciogliere il fiocco che li chiudeva per afferrare il primo. Se lo studiò da tutte le angolazioni prima di farne un sol boccone, lasciandomi basita. Osservai minuziosamente ogni mutazione sul suo viso, ma non dimostrò nulla.
Aspettai che lo ingoiasse prima di domandare, timidamente: «Co-com’era?»
«Mmm…» Ci pensò su, osservandoli accigliato, e io sospirai affranta. Era chiaro, non gli piacevano.
Gonfiai le guance un po’ risentita, togliendoglieli di mano per mangiarli io. Ignorando le sue proteste me ne buttai anche io uno intero in bocca, masticandolo impermalita.
«Sakura, sono i miei!»
Provò a riprenderseli, per cui glieli tenni lontani, borbottando dopo averlo ingoiato: «Tanto lo so che non ti piacciono.»
«Chi ti ha detto che non mi piacciono?»
Si fece ancora più vicino e io li nascosi dietro di me, indispettita.
«Te lo si legge in faccia.»
«Non è così» cercò di assicurarmi, per poi guardarmi con uno strano luccichio negli occhi. «Non costringermi ad usare le maniere forti per riappropriarmene.»
Suonava un po’ come una minaccia, al che lo guardai dubbiosa.
«Lo faresti?»
«Per riprendermi quel che mi appartiene, sì.»
«Che possessivo.» Mi feci scappare una risata, finché essa non mi morì in gola quando posò le mani ai lati del mio corpo, giungendo col viso a poche spanne da me per guardarmi dritto negli occhi.
«Dico sul serio. Ridammi i miei biscotti» ordinò con una voce profonda, che mi stringeva le budella.
«E va bene!» mi arresi, celando l’isteria che stava per sopraffarmi. Nella mia testa mi vedevo rimbalzare ovunque per l’emozione, come una biglia impazzita, ma sarebbe stato indecoroso da parte mia fargli capire che mi sentivo partecipe delle farfalle che, impetuose, mi svolazzavano nello stomaco.
Glieli cedetti e lui li prese contento come un bambino, posandomi poi l’indice sull’angolo sinistro delle labbra, facendomi sprofondare. Così non mi aiutava per niente a calmarmi. Il sangue mi arrivò al cervello mentre schiudevo le labbra, in maniera quasi automatica, sperando che vi passasse un po’ d’aria.
Osservò la mia bocca, facendosi più vicino, tanto che sentivo il suo respiro sul mio viso e dovetti richiamare tutto il mio autocontrollo e pudore per non azzardarmi a fare alcuna mossa avventata.
“Ragiona, Sakura, ragiona, respira, ragiona, respira, respira…” Non facevo che pensare a questo, ma non era semplice per niente; soprattutto non quando spostò il suo polpastrello più verso l’interno del mio labbro inferiore, seguendone un lieve tratto, per poi allontanarsi mostrandomi delle briciole. Allora crollarono tutte le mie illusioni di sabbia. Mi stava pulendo, nient’altro.
Mi diedi della scema per le mie stupide fantasie da ragazzina innamorata. Dovevo piantarla, una volta per tutte.
Lo osservai mantenendo una parvenza di quiete e normalità, vedendolo portarsi il dito alle labbra, mangiando quel che rimaneva del mio povero biscotto sbranato. Chiuse le palpebre e a me si chiuse lo stomaco, insieme alla mente e alle vie respiratorie. Mi stavo perdendo, del tutto.
«Sono buoni» disse in tono morbido, riaprendo gli occhi, pur senza osare guardarmi. «Sanno di te.»
Tornò al suo posto, lasciandomi incredula. Che cosa intendeva dire? Come facevano a sapere di me? Era perché l’impasto l’avevo lavorato con le mani? Riusciva ad avvertire un sapore simile?
Ritornò a mangiarne, continuando a tenere lo sguardo altrove. E quanti più ne mangiava tanto più mi sentivo divorata. Però… se doveva divorarmi… volevo lo facesse davvero….
Provai ad avvicinarmi, allungando una mano verso la sua, toccandone lievemente il dorso. Appena si voltò mi accostai al suo volto, guardandolo implorante – cosa che parve sorprenderlo.
«Syaoran-kun…» esordii titubante, sentendomi il cuore persino nelle orecchie. Mi morsi il labbro, insicura. Non sapevo da quando avevo cominciato a valutare quell’opzione, non sapevo da quando avevo cominciato a vedere quella possibilità che rendeva realizzabile un futuro insieme, non sapevo da quando avevo cominciato a rinunciare a tutto, tutto, per lui. Forse da quando avevo scoperto la sua vera natura, forse da quando avevo capito di amarlo. Non ero certa del momento preciso in cui era accaduto, ma ero sicura che fosse ciò che più volevo. Perché probabilmente era l’unica cosa che avrebbe mai potuto permetterci di restare insieme, per sempre. «Se io te lo chiedessi…»
«Cosa?» domandò incerto e al contempo accorto.
Presi un respiro, proseguendo col cuore in mano. Per lui, quanto sarei stata disposta a perdere e sacrificare… «Tu mi… mi mo-»
La campanella mi interruppe prima che potessi formulare appieno la domanda, mettendomi i bastoni tra le ruote. Chissà che non fosse un segno del destino.
«Oh no!» esclamò, facendomi fare un balzo sul posto. «Non hai neppure cominciato a mangiare il bentou.» Lo puntò, rammaricato.
Sospirai, raccogliendolo e rialzandomi.
«Tranquillo, non avevo fame, mi basta il biscotto» lo rassicurai in tono flebile, voltandogli le spalle.
«Come sarebbe a dire non avevi fame? Perché?»
Scrollò la neve dal cappotto senza neppure guardare, troppo impegnato a sondare me.
Mi strinsi nelle spalle, fingendo di non saperlo.
«Ogni tanto capita.»
«Ti senti bene?»
«Sì, tranquillo.»
«Cosa stavi per chiedermi?»
Serrai le labbra, prestando attenzione a dove mettevo piede.
«Sakura, non ignorarmi. Cos’è che desideri? Se è qualcosa che io posso darti, chiedimelo pure.»
Finsi di non sentirlo, mentre le lacrime si raccoglievano nei miei occhi. Non avevo idea di cosa mi fosse preso prima, ma troppo spesso mi accadeva con lui: abbandonavo la ragione, lasciandomi guidare dall’istinto, compiendo azioni folli e forsennate. Esattamente ciò che non potevo assolutamente permettermi di fare.
«Sakura» mi richiamò in tono fermo, afferrandomi un braccio per bloccarmi. «Guardami, parlami. Ti prego.» Stavo per cedere dinanzi al suo tono disperato, ma non dovevo. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?»
«No.» Mi feci coraggio per fronteggiarlo, costruendo un sorriso nella mia travagliata sofferenza. «No, sono io che stavo per chiederti qualcosa di sbagliato.»
Piegò la testa su un lato, un po’ perplesso. Mi spostò delicatamente alcuni capelli dal viso, mettendoli a posto con gli altri, con aria crucciata.
«Cosa mai può essere?» meditò tra sé.
«Syaoran-kun… Ricordi quando dicesti che non eri abituato al contatto con me e alle reazioni che ciò suscitava? Lo stesso vale per me.» A queste parole ritirò immediatamente la mano, quasi si fosse scottato, ma io la riafferrai con irruenza, poggiando la guancia contro il suo palmo. «Ogni volta devo controllarmi perché ho la tendenza a dimenticare quel che sei. Dimentico che questo calore che senti provenire da me ti è sconosciuto, dimentico quel che l’odore del mio sangue ti ha fatto, dimentico che con la mia vicinanza non faccio che crearti disagi.»
«Non è più così.» Si fece più avanti, poggiando il sacchetto a terra per posare anche l’altra mano sul mio viso, alzandomelo verso il suo. Leggevo la sincerità nei suoi occhi, eppure così non faceva che ferirmi ulteriormente. «Sakura, te l’ho già detto. Non è più così. Ci ho fatto l’abitudine, a tutto: al tuo profumo, al tuo calore, alla tua presenza, alla tua voce, alla tua risata, al tuo modo di fare, al tuo agire e al tuo pensare, alle tue reazioni, ai tuoi colori, alla tua radiosità, allo scorrere del tuo sangue e al battito del tuo cuore. Adesso mi è diventato tutto talmente familiare che sento, davvero, che non riuscirei a vivere senza di te. Se tu morissi mi lascerei disintegrare dal sole, perché non potrei sopportare che la mia stella, la fonte di ogni mia gioia, si spegnesse. Mi spegnerei anche io, con te.»
Lo ascoltai col fiato sospeso, sentendomi anche io disintegrare, spezzarmi per poi essere ricucita da ogni sua parola e così via in un processo interminabile. Le lacrime minacciarono di traboccare, ma non raggiunsero neppure le mie gote perché lui prontamente le raccolse, bloccandone il cammino, cancellandole, come se non fossero mai esistite. Eliminando anche il mio dolore.
Senza più pensare lasciai cadere il mio pranzo intatto, facendo un passo verso di lui per abbracciarlo. Lui non esitò neppure un istante per ricambiare, riempiendomi il cuore di gioia.
Restammo in quella posizione, stretti l’uno all’altra, per un tempo che mi parve eterno. Fu lui il primo a ritornare coi piedi per terra, osservando: «La campanella ha suonato da un po’.»
Mugugnai una sorta di conferma, poco interessata. Che m’importava, volevo soltanto stargli abbracciata. Nient’altro.
«Non te la senti di rientrare?» Scossi la testa e lui mi carezzò lievemente i capelli, proponendo: «Ti accompagno a casa?»
Ero indecisa se accettare o meno, tuttavia dopo non molto annuii, staccandomi di poco per chiedergli petulante: «Resteresti?»
«Per tutto il tempo che vorrai» assicurò, mostrandomi un sorriso dolcissimo che ricambiai, piena d’amore.
“Per sempre, Syaoran-kun. Lo vorrò per sempre.”










 
Angolino autrice:
Buonasera! Eccomi tornata, finalmente, con un capitolo zuccheroso (?) - il primo di due. Anche se, effettivamente, non so se "zuccheroso" sia il termine giusto, soprattutto per quanto riguarda il secondo... Vabbè, meglio tacere che non voglio spoilerare nulla! Sappiate che la seconda parte arriverà sabato, o in mattinata o nel primo pomeriggio. Vedrò cosa posso fare per aggiornare quanto prima e completare la giornata qui descritta.
Per quanto riguarda le spiegazioni, non credo di doverne fare molte, visto che nella storia stessa viene detto che la "giri (si legge "ghiri") chokoreeto" è la "cioccolata di dovere", che si dà a persone che si rispettano o a cui si è grati; il bentou, poi, è il cestino per il pranzo. 
Auguro a tutti un buon San Valentino, sia che lo trascorriate con la persona amata, sia col personaggio/libro/film/serie/manga/anime/etc che più amate al mondo x3

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 ***


Siamo pari


 
Prima di andarcene Syaoran-kun aveva socchiuso per qualche istante le palpebre, parlottando in tono inudibile. Lo scrutai in silenzio finché non incontrò i miei occhi curiosi, e allora mi spiegò che stava comunicando con Eriol-kun, raccontandogli che non mi ero sentita bene e preferivo rincasare prima. Gli aveva chiesto di avvisare i nostri professori e lui gli aveva assicurato che avrebbe anche recuperato tutto ciò che avevamo lasciato in classe.
Durante il ritorno verso casa non staccai neppure per un istante la mano dalla sua, osservandolo di tanto in tanto di sottecchi. Ogni volta che se ne accorgeva mi rivolgeva un sorriso radioso, al quale rispondevo brevemente, abbassando subito lo sguardo per l’imbarazzo. Sapevo di star sbagliando tutto. Non era corretto da parte mia comportarmi così e ogni mia azione si stava rivelando una gigantesca contraddizione, andando contro tutto ciò che mi ero imposta. Facendo scemare ogni mia risoluzione.
Una volta arrivati la prima cosa che mi impose di fare fu di sedermi a tavola e mangiare il mio pranzo, mentre lui se ne andava nelle cucine, gironzolando alla ricerca di cibo. Non dubitavo che non ne avesse trovato anche per sé.
Finii tutto in pochi morsi, intrepida ed esagitata al pensiero che per la prima volta io e Syaoran-kun saremmo stati a casa da soli – il che si faceva per dire, dato che continuava ad esserci la servitù. Se c’era una cosa che avevo capito, tuttavia, era che questa non si sarebbe intromessa a meno che non fossimo stati noi stessi a chiamarla.
Quando tornò si mise al solito posto occupato da Eriol-kun, di fronte a me, riaprendo i biscotti per finirli. Stavolta notai un luccichio quasi invisibile perseverare nei suoi occhi, finché non giunse alla fine e si leccò anche i baffi.
Il suo verdetto fu: «Non male, questa “cioccolata”.»
«Lo dici solo per accontentarmi?» mi accertai, temendo potesse essere mera cortesia.
«No, dico sul serio. Un giorno me la farai riassaggiare?»
Mi illuminai a quella richiesta, annuendo felicissima.
«Certamente!»
Mi chiesi cosa potessimo fare fintanto che non rientravano anche gli altri e pensando a quando andai a casa sua decisi di ricambiare. Fargli fare un giro per tutta la casa sarebbe stato piuttosto inutile, visto che usava già bazzicare il luogo, per cui scelsi di mostrargli direttamente la mia camera, sperando di sorprenderlo. Ed effettivamente così fu.
Sgranò gli occhi dinanzi alla ricchezza del mobilio, girando curioso attorno al letto. Gli permisi di sedersi per provarlo e non appena lo fece commentò: «È morbidissimo!»
«Lo so, è meraviglioso!» esclamai esaltata, lieta di stargli mostrando qualcosa di me.
Si mise composto, sorridendomi sereno. «Era così anche a Tomoeda?»
«Per niente» negai, andando a posare la cartella sulla scrivania prima di proporgli: «Se vuoi puoi anche riposarti, io mi metto a studiare.»
Mi fissò guardingo, per cui aggiunsi, un po’ timida: «Meiling-chan ha detto che anche voi dormite, sebbene con orari diversi dai nostri.»
«Mmh, di solito dormiamo appena torniamo da scuola, svegliandoci poi verso le due di notte, anche per poter andare a caccia indisturbati» confermò. Ero contenta di vederlo più tranquillo quando mi parlava di sé. «Naturalmente possono esserci delle eccezioni e solitamente dipende da quanto dura il giorno rispetto alla notte, dato che è durante esso che tendiamo a stancarci. Per vivere in mezzo agli umani dobbiamo tuttavia adeguarci anche ai loro orari.»
Mi mostrai comprensiva, insistendo.
«Dormi pure, ti prometto che non ti disturbo.»
Piegò la testa su un lato, indeciso.
«Sei sicura che non ti dia fastidio?»
«Per niente!» gli assicurai con un sorrisone. «Approfitta di un letto simile nel pomeriggio finché puoi» consigliai, facendogli l’occhiolino.
Ridacchiò, accettando, e si mise comodo. Si sbottonò la giacca e allentò la cravatta prima di posare la testa sul cuscino, alzando lo sguardo sul suo regalo, appeso sopra il letto; lo sfiorò, facendone tintinnare le stelline, rivolgendomi un breve sorriso prima di chiudere le palpebre.
Ritenni fosse più consono evitare di guardarlo, per cui mi tenni impegnata. Aprii l’armadio e afferrai abiti puliti, andando a cambiarmi in bagno. Feci un rapido bagno caldo per riprendermi dal freddo che la neve mi aveva lasciato addosso e una volta asciutta e vestita mi rimirai allo specchio, infilando la camicetta bianca nella gonna di velluto purpureo, lisciandomela sulle gambe. Mi aggiustai il nastrino sotto l’alto colletto in pizzo, facendone un fiocchetto sia qui che sull’arricciatura delle maniche rigonfie. Mi pettinai i capelli districandone i nodi che mi si erano formati, per poi ritornare in camera e accostarmi alla scrivania.
Presi quaderni e libri, dedicandomi completamente ai compiti, dimenticando per un po’ la presenza di Syaoran-kun. Trascorsero almeno due ore prima che mi stiracchiassi, abbandonando la penna, sbadigliando involontariamente.
Non resistendo più alla tentazione mi alzai, affacciandomi dal tendaggio del baldacchino, sbirciando su Syaoran-kun dormiente. In fondo, non era detto che avrei più avuto occasioni di vederlo così.
Lo contemplai ammutolita, ma quanto più lo osservavo tanto più mi sentivo il cuore stringersi in una morsa. Più che dormire, era come se… come se fosse…. Scossi la testa a quell’orribile raffronto, rifiutandolo. Ciononostante non c’era effettivamente nulla che lasciasse intendere che stesse soltanto dormendo. Non s’era mosso di un millimetro da come lo avevo lasciato, appena s’era steso. Era lì, fermo, immobile come una statua, con entrambe le mani posate mollemente in grembo. Il suo petto non si alzava e abbassava seguendo il ritmo del suo respiro e ciò mi portava a chiedere se effettivamente respirasse. Chissà se perlomeno era loro permesso di sognare?
Mi sedetti sul bordo del letto, allungando un dito sotto il suo naso: non ne usciva aria. Mi feci più prossima a lui, chinandomi per porre l’orecchio all’altezza del suo cuore. Erano molto deboli, eppure dei flebili e lenti battiti c’erano.
Sospirai confortata e mi sollevai di poco per spostargli alcune ciocche di capelli dalla fronte, raddolcendomi dinanzi alla sua espressione distesa.
«Syaoran-kun, sei molto più umano di quello che credi» gli dissi sottovoce, sperando potesse sentirmi.
Spostò impercettibilmente il viso per poggiarsi contro il mio palmo, mormorando con voce impastata qualcosa di incomprensibile. Suonava tipo “wodee in’ waa”. Lo fissai perplessa, domandandomi se non fosse cinese.
Gli carezzai lievemente una guancia, chiamandolo per nome, convinta si stesse svegliando. Lui prese la mia mano nella sua, portandosela sulla bocca, sussurrando in tono lieve: «Sakura…»
Arrossii violentemente, percependo innumerevoli fremiti al di sotto della mia epidermide. Lui era pura elettricità.
Provai a ritrarmi, invasa dal rossore, ma non me lo concesse: con un movimento fulmineo afferrò anche l’altra mia mano, spingendomi all’altro lato del letto, ponendosi sopra di me. Bloccandomi ogni via di uscita e, con essa, il respiro in gola.
Sbattei le ciglia, imbarazzata e spaesata, tentando di capire che cosa fosse successo; allora mi accorsi che si era svegliato e le sue iridi erano più scure di come le conoscevo, di un marrone rossiccio tendente al bordeaux, con striature color ruggine.
Tentai di aprir bocca, ritrovandola secca, arida e riarsa, incapace di formulare alcunché, del tutto senza fiato. Anche così, erano stupefacenti. Anche così, mi sentivo perdermi e sprofondare. E poi, mi sentii sbranare.
Mi rivolse quello che mi sembrava uno sguardo famelico, bramante, mentre avvicinava il suo viso al mio, fino a che il suo naso non si posò su una mia guancia. Mi pietrificai, ma anche se avessi voluto muovermi non me ne ritenevo capace.
Spostò di poco il viso, il suo respiro mi carezzò le labbra, la saliva mi si bloccò in gola, quasi soffocandomi. Scivolò al di sotto del mio mento, sfiorandomi il collo, e qui lo percepii schiudere le labbra.
Probabilmente il mio cuore cessò di battere perché per un lunghissimo istante pensai che fosse giunto il momento. Mi avrebbe morsa, trasformata, resa parte del suo mondo. Avrei dovuto dire addio a mio padre e mio fratello, addio al sole, addio all’estate, addio a Tomoeda, addio ai miei cibi preferiti, addio a molti dei miei sensi, addio al mio rossore, addio al mio sangue, addio al mio cuore. Me lo avrebbero perdonato? Quanto sarebbe cambiato? Che ne sarebbe stato della mia vita umana? Sarebbe scomparsa del tutto? O sarei riuscita a rimanere unita alla mia famiglia e ai miei amici, senza desiderare di ucciderli? Mi sarei controllata, come Tomoyo-chan? Sarei riuscita a resistere al richiamo del sangue senza fare del male a nessuno?
Questi e altre centinaia di quesiti mi affollarono la mente, tuttavia non durarono neppure un istante perché nel giro di pochi secondi Syaoran-kun si allontanò di scatto, finendo con la schiena contro l’asta di supporto del baldacchino al lato opposto, tenendosi ad essa. Mi guardava con gli occhi sgranati, io osservavo i suoi canini sentendomi rimbambita. Erano un po’ più lunghi e appuntiti della norma, ma non per questo facevano paura. Al contrario, avevano un che di affascinante. Ciononostante lui dovette leggere chissà cosa sul mio volto perché si nascose immediatamente la bocca con una mano, scendendo rapidamente dal letto, voltandomi la schiena.
«Che cosa sto facendo…?» lo sentii interrogarsi, quasi come se non se ne capacitasse.
Mi misi seduta, tornando a respirare a dovere, mantenendo la lucidità.
Lui scivolò a terra, nascondendo la faccia in mezzo alle ginocchia, tra le sue braccia.
«Syaoran-kun -»
«Sakura, non avvicinarti» mi intimò, stavolta c’era una nota di disperazione nella sua voce.
Mi morsi un labbro, insicura sul come fosse meglio comportarmi. Gattonai timidamente fino da lui, inginocchiandomi sul materasso, stropicciandomi il bordo della gonna.
«Syaoran-kun, non è nulla di cui devi preoccuparti.»
«Non devo preoccuparmi?!» sbottò, guardandomi arrabbiato. Sapevo che quella rabbia era rivolta contro se stesso. «Sakura, stavo per fare esattamente quello che mi ero assolutamente ripromesso di non fare mai!»
Gli rivolsi un mezzo sorriso, specchiandomi in quelle familiari iridi ambrate. In questo eravamo fin troppo simili.
«A me non è dispiaciuto» ribattei tranquilla.
«Non ti è…?» Digrignò i denti, voltandosi del tutto verso di me, posando violentemente le mani sul materasso ai lati del mio corpo, fronteggiandomi. I suoi occhi lampeggiavano di sgomento e collera. «Tu devi essere pazza! Ti rendi conto che non è una cosa normale? Ti rendi conto che sono uno sbaglio della natura, che non dovrei neppure essere così e che se soltanto fossi più forte riuscirei a controllarmi ed evitare che accada una situazione simile?!»
«Non è accaduto niente» borbottai con un filo di voce, un po’ intimidita, sentendomi triste. Ero sicura che quella fase la avessimo già superata, che ormai lui si stesse accettando per quello che era, e invece mi sbagliavo.
«Fortunatamente no, ma stava per succedere!»
«Ma non è successo» insistei con fermezza. «Syaoran-kun, non prendertela con te stesso.»
Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro tremante.
Gli posai una mano tra i capelli, carezzandolo con delicatezza, sperando di calmarlo. Poggiai la fronte contro la sua, chiudendo a mia volta gli occhi, concentrandomi sui palpiti del mio cuore.
«Sakura, non starmi così vicina» mi implorò.
«Non è un problema per me» ripetei, chiedendomi come farglielo capire.
«Lo so che hai paura ma non dici niente per rispetto di me.»
«Non ho paura» ribattei turbata. Gli davo quell’impressione?
«Sento che i battiti del tuo cuore accelerano, non serve nascondermelo.»
Pressai le labbra, trattenendo una risata. Era davvero convinto che fosse per quello?
«Non ridere.»
«Scusa» ridacchiai, nascondendomi con una mano. «Ma ti assicuro che non è per questa ragione che accelerano.»
«E allora perché?»
Mi mordicchiai un’unghia, nervosa. Sarebbe stato un bene o un male dirglielo? Esitai, abbassando lo sguardo, vergognandomi un tantino. Con che coraggio potevo rivelarglielo?
Sospirò pesantemente, tirandosi indietro.
«È meglio che io me ne vada» decretò rialzandosi.
«No!» Fu più forte di me, istintivamente gli afferrai una manica, trattenendolo. Non appena me ne resi conto staccai la mano da lui, tenendola occupata per attorcigliarmi i capelli.
«Non resterai da sola, tra poco Hiiragizawa e Daidouji saranno di ritorno.»
Mi imbronciai, delusa. Non era per solitudine che volevo restasse e credevo che ormai fosse chiaro anche a lui.
«Perché non resti fino al loro ritorno?» domandai lagnosa.
«Perché non posso. Non posso rischiare di perdere di nuovo la testa, a quel punto… non potrei mai perdonarmelo» soggiunse cupo, avviandosi verso la porta.
Mi alzai, seguendolo taciturna fino all’ingresso. Dovevo essere comprensibile e comportarmi in maniera matura.
«Ci vediamo domani» lo salutai, quindi, mostrandogli un sorriso.
Ricambiò, e seppure anche lui mise su un sorriso mi resi conto che esso non raggiungeva i suoi occhi.
Sbuffai spazientita, allungandomi sulle punte, afferrando di nuovo il suo braccio per tirarlo verso di me. Raccolsi tutto il mio coraggio, serrai le palpebre e premei le labbra sul suo collo di marmo, sentendomi andare a fuoco. Lo feci durare poco più di una frazione di secondo e quando mi staccai sapevo di essere rossa quanto il costume di Babbo Natale, ma tentai di guardarlo anche se mi vergognavo da morire; trovai anche lui sbigottito e impacciato, il che in qualche modo mi permise spontaneamente di sorridere.
«Così siamo pari» cantilenai sollevata.
Rimase per qualche istante immobile, come se lo stesse rielaborando; poi si fece scappare una breve risata, scuotendo la testa.
«Non siamo pari.» Nel giro di un battito di ciglia si piegò in avanti, facendo lo stesso con me, per subito staccarsi e sorridere raggiante. «Adesso siamo pari.»
E così se ne andò, rivolgendomi un ultimo cenno di saluto, lasciandomi sola a svolazzare follemente insieme a quelle farfalle che ormai scorrazzavano in tutto il mio corpo, in piena frenesia.










 
Angolino autrice:
Hello! Sono riuscita a mantenere la parola, yay! 
Allora, vi spiego solo che l'orario in cui i vampiri si addormentano è dopo le 6 del pomeriggio circa, perché contando anche le attività dei club è più o meno verso quell'ora che si torna da scuola. Per quanto riguarda invece la frase pronunciata da Syaoran, ve ne parlo nel prossimo capitolo (che sarà il secondo dal suo pov, riprendendo tutto quello che c'è stato finora).
Un abbraccio!

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 ***


NdA: Secondo "capitolo ricapitolazione" dal POV di Syaoran (ricordo che chi non è interessato può anche saltarlo).








 

Colei che rappresentò la sua felicità



 
Dopo aver detto la verità su di me a Sakura mi sentivo meglio. Come se mi fossi tolto un grosso peso dalle spalle. Sapevo che l’avevo sicuramente scioccata – chi non ne sarebbe rimasto sconvolto? – e per questo cercavo di mostrare sempre molto tatto in sua presenza. Le stavo accanto, controllavo le sue reazioni, cercando turbamenti in lei, sperando sempre di non trovarne.
Avrei voluto vederla sorridere sempre, piena di spensieratezza, ma ben presto capii che qualcosa la stava crucciando. Qualcosa le stava apportando infelicità. Non avevo idea di cosa fosse, ma non avevo alcuna intenzione di sfruttare il subdolo potere di Hiiragizawa per scoprirlo; perciò semplicemente cercai di distrarla, facendola tornare se stessa, mantenendo una piccola promessa. In tale occasione usai per la prima volta una nostra abilità innata, mostrandole la mia visione delle cose. Non ero sicuro che lei avesse recepito la neve come la vedevo io, ma a giudicare dalla meraviglia nel suo sguardo e dalla sua reazione supponevo di sì. Non era semplice bilanciarmi con la sua mente e connettermi ad essa, sapevo come si faceva solo perché mia madre me lo aveva spiegato, ma non avendolo mai attuato prima non ero certo di esserci riuscito. E al di là di questo, non ero ancora sicuro che lei volesse vedere tramite i miei occhi. Continuava a sorprendermi il suo non temermi, sebbene ormai avessi dovuto essermi rassegnato all’idea che non l’avrebbe mai fatto.
Comunque ne valse la pena, sia di mostrarle i fiocchi di neve, che di farle conoscere lo shima-enaga, se quello era il sorriso che mi rivolgeva. Risollevato glielo sfiorai, incantandomi dinanzi alla morbidezza delle sue labbra. Cosa non avrei fatto per vederla sempre, per sempre, con quell’espressione che sembrava sbocciare direttamente dal suo cuore. Con mia sorpresa, lei mi baciò le dita, poggiando la guancia contro la mia mano. Ancora e ancora, lei mi toccava, lei mi cercava, lei ci univa, senza che io riuscissi a fare nulla per evitarlo. Non poteva neppure immaginare cosa mi faceva. Se ero io a stabilire un contatto per primo riuscivo a prepararmi psicologicamente: mi contenevo, mi trattenevo, mi controllavo; ma quando lei prendeva l’iniziativa, dovevo metterci tutto me stesso per non impazzire. Per non sentirmi soggiogato da quel calore, dal suo buon profumo, dal suo dolce viso, dai suoi occhi così colmi di un sentimento che potevo riconoscere come amore, e cedere ad esso. Lei amava tanto, intensamente, chiunque le fosse accanto. Io non avevo mai amato, non sapevo neppure come si facesse, però… per lei… volevo provarci. Volevo sfiorarla, carezzarla, abbracciarla, e sapevo che i miei desideri si spingevano oltre, ma già soltanto per mettere in atto quelli dovevo stare attento perché c’era una cosa che non si poteva cancellare: in qualsiasi situazione, rischiavo di farle del male. Proprio mentre pensavo questo, lei mi disse di credere in me stesso. Di non farmi problemi, di non titubare tanto. Lei riconosceva che io stessi cercando di fare costantemente del mio meglio, in qualunque ambito. Allora mi prese nuovamente per mano, chiedendomi se potessimo cominciare con un gesto tanto piccolo. Sì, potevamo, e per il momento mi bastava, davvero.
Quello stesso giorno la condussi a casa mia, approfittando dell’assenza delle mie sorelle. Se dovevo introdurla al mio mondo, se dovevo renderla partecipe e permetterle di entrare in esso, dovevo farlo bene. Ammirò tutto l’ambiente a bocca aperta, in estasi, emozione che scemò quando incontrò mia madre. Naturalmente, doveva averla intimorita.
Quando tornammo dalla gita la prima cosa che feci fu chiedere a Hiiragizawa e Daidouji di riunirci, raccontando insieme a Meiling tutto quello che era accaduto mentre eravamo lì. Hiiragizawa confermò i miei sospetti, ipotizzando con me che non si trattava della stessa persona dei suoi sogni, piuttosto di qualcuno di “sacrificabile” inviato in avanscoperta. Il vero nemico era ancora da trovare, chiunque fosse. Eravamo persuasi che non volesse lei, ma noi, tranne mia madre, la quale continuava ad avere visioni di ciliegi insanguinati, angosciandomi sempre più, facendomi temere che ci stessimo sbagliando e che invece, chiunque fosse a cercarla, mirava unicamente al suo sangue.
Non appena mia madre ebbe modo di conoscerla e sentì il suo profumo riconobbe che fosse speciale, particolare. Quindi non ero io ad essere pazzo, il che in parte mi rincuorò. Mi fece poi capire che non sarebbe stato semplice proteggerla, ma io ero determinato: avrei messo la mia vita prima della sua e per lei avrei girato anche tutto il mondo, per nasconderla e tenerla al sicuro. Dentro di me, tuttavia, mi sentii come se mi stesse dicendo anche che non sarebbe stato facile per me stare al suo fianco. Sapevo che aveva ragione. Ciononostante, come sempre, mi sarei impegnato con tutto me stesso, comportandomi al meglio. Poi mi sorprese, parlandole in maniera criptica delle avversità che avrebbe incontrato – naturalmente, come tutti i sogni anche quelli premonitori necessitavano un’interpretazione e questa, il più delle volte, non era mai chiara –, dicendole che già l’aveva vista arrivare (quando aveva intenzione di dirmelo?!) e persino sfiorandola e toccandola. Vi si aggiunse anche Meiling abbracciandola, portandomela via, e io mi sentivo sempre più frustrato. Perché lo facevano sembrare così naturale? Perché soltanto per me risultava tanto difficile?
Rimasto solo con mia madre ci sedemmo sul divano per discuterne. Ascoltai il suo parere su di lei, e non era molto dissimile da quel che avevo capito io; era solo incredibile il fatto che nel giro di pochi minuti lei avesse compreso più di quanto io fossi riuscito a fare in mesi interi, ma non c’era da stupirsi considerando la sua età e l’esperienza del suo vissuto. Lasciai pertanto che fosse lei a parlarmi, prestando intanto attenzione a quel che combinava Sakura con mia cugina. Prevedibilmente Meiling le raccontò la sua storia, facendola piangere. Avevo evitato di parlargliene proprio per non apportare ulteriore sofferenza in lei. Mi rabbuiai, chiedendomi come potessi farla riprendere, finché mia madre non si accorse che fossi parzialmente distratto e decise di tenermi occupato chiedendomi di suonare. Spesso ciò mi aiutava a riflettere e rilassarmi, così suonai anche per Sakura e mia cugina, sperando di ridurre almeno un po’ le loro pene. Cominciai con alcuni componimenti di Bach che sapevo mia madre apprezzasse particolarmente, per poi eseguire il componimento che avevo realizzato per lei, per ringraziarla. C’era il me bambino in quel brano e per un attimo mi risentii in esso, perdendomi, finché non mi ritrovai nel cuore palpitante di Sakura.
Lei e Meiling erano venute a spiarci e mia madre si affrettò a nascondere il sangue che stava sorseggiando, mostrandosi più abile di me nel spostare altrove la sua attenzione, proponendole di mostrarle la cerimonia del tè. Peccato che nel frattempo Meiling si divertisse, come sempre, a mettermi in imbarazzo, facendo osservazioni del tutto fuori luogo e provocando la mia timidezza. E no, non mi ero scelto proprio nessuna ragazza. Non c’era nulla da scegliere, perché per quanto io provassi tutti quei sentimenti per lei, Sakura non avrebbe mai potuto stare con qualcuno come me.
Dopo la cerimonia mi riempii di entusiasmo sentendola raccontare del lavoro del padre, visto che come tutti in famiglia ero sempre stato attratto dall’arte e l’archeologia. Mi sarebbe proprio piaciuto vedere i reperti che avevano in casa, ma lo ritenevo infattibile. Meglio che non mi nutrissi di speranze irrealizzabili.
Poi si parlò di sua madre, e io in quel momento capii: ecco cosa la affliggeva, ecco l’origine della sua tristezza; sicuramente ne sentiva la mancanza seppure lei lo negasse, sicuramente avrebbe voluto avere un’altra opportunità per conoscerla, così come anche io avrei voluto vivere un’altra vita, in cui mio padre avrebbe vissuto con noi. Vedevo lo struggimento nelle sue iridi cristalline e mi sentii esplodere. Faceva male, troppo male, quel suo viso così afflitto, quella sua sofferenza, quella sua ansia nel dover per forza mostrarsi serena, per non far preoccupare nessuno.
Non potendone più la portai via da loro, a prendere una boccata d’aria, sperando le giovasse. Là fuori, tuttavia, fu lei a spiazzarmi, non solo interessandosi sul come stessi io, ma anche vantandosi di aver capito come fossi fatto. Lo faceva sin dal nostro primo dialogo, mi scavava dentro, leggendo in me più di quanto io stesso fossi capace di fare. Mi assicurò che per trovare la sua felicità mi bastava stare con lei, e mi chiese di fare altrettanto per cercare la mia. Il mio cuore si alleggerì, rispondendole al mio posto: “Non devi cercarla, Sakura, perché l’hai già trovata. La mia felicità sei tu.”
Quando rientrammo nella mia camera la scandagliò con il suo solito occhio curioso, avvicinandosi agli spartiti che avevo stupidamente lasciato in bella vista, accanto al letto.
«Stai scrivendo un nuovo componimento?» domandò accendendosi di eccitazione e ammirazione.
Se fossi stato umano, a quel punto sarei sicuramente avvampato. Non potevo certamente rivelarle che lo stessi scrivendo per lei. Né potevo confessarle tutte le altre cose che facevo per lei. Per noi. Per cui mi limitai a rispondere di sì, e fortunatamente non insistette per sapere cosa fosse; piuttosto si incuriosì sul perché prediligessi il pianoforte come strumento. Quello non avevo motivo di nasconderglielo, e lei in cambio mi raccontò che anche il fratello suonasse. Chissà se anche lei aveva imparato qualcosa. Avrei voluto chiederglielo e, in caso negativo, proporle di insegnarglielo o suonare insieme a me, attraverso le mie mani, ma no, non potevo spingermi a tanto. Mi distolse da quel pensiero porgendomi altri quesiti su mia madre mentre la riaccompagnavo a casa, parlandomi anche della sua. Da quel che mi raccontava, sembrava sempre più che mi stesse descrivendo se stessa, tralasciando giusto qualche dettaglio.
«E poi, pare che pur essendo negata in cucina inventò una ricetta per fare dei pancake speciali da regalare a mio padre, quando si accorgeva che fosse stanco dal lavoro o giù di morale.» Sorrise luminosa, rivelandomi: «Sarebbe bello se un giorno potessi prepararli anche per te.»
«Sarei lieto di provarli.»
Immaginai come potesse essere, visto che, dopo avermi lasciato intendere che il sapore dei dolci fosse particolarmente buono, mi aveva invogliato ad assaggiarli. Lei ne gioì e io in cambio le parlai di quel che sapevo delle nostre tradizioni. Le spiegai la differenza di quelle femminili, come per l’appunto la cerimonia del tè, la danza, il canto, l’imparare a suonare uno strumento e tutte le arti di seduzione, e quelle maschili, come la pittura, il kung fu, l’arte della spada, per poi dirle quelle che avevano in comune, ossia lo studio, la calligrafia e la divinazione.
«Anche tu le hai imparate?»
Ci pensai su. Non in maniera rigida come avremmo fatto se fossimo rimasti a Hong Kong, ma mia madre era stata abbastanza severa nella mia educazione, sperando che anche con me si tramandassero le nostre tradizioni. Per questo quando ero bambino mi mise nelle mani di un maestro di arti marziali, Wei Wang, umano, affinché potessi imparare a controllare sia il mio corpo che il mio spirito e il mio istinto. Dovevo ammettere che mi fu utilissimo, visto che riuscii a sentirmi più equilibrato grazie alle sue lezioni. Non per questo dovevo abbassare la guardia.
«Nel complesso, sì» confermai quindi, prima di parlarle meglio di mia madre. Dopo averle spiegato di nuovo la sua storia attesi che rientrasse in casa prima di andarmene.
Durante la settimana che seguì quell’evento cercai un regalo adatto a Sakura per Natale. Sarebbe stata la prima volta che facevo un regalo a una persona non facente parte della mia famiglia, sebbene fosse raro che ne facessi in generale, visto che di compleanni da noi si festeggiavano, per così dire, solo il mio – contro il mio volere – e quello di Meiling – anche perché le mie sorelle avevano quasi perso il conto dei loro anni, eccetto Feimei che si ostinava ad esigere una festa seppure più che ventenne. Non avevo quindi idea di cosa donarle, volevo che fosse qualcosa di particolare, di speciale, di bello, di unico e di utile, con cui potessi proteggerla anche a distanza. Ricordai allora di quell’acchiappasogni che Hiiragizawa aveva costruito in precedenza per lei, per cui gli chiesi di insegnarmi la tecnica per realizzarlo e la magia necessaria a difenderla dai suoi incubi. Mi impegnai ogni notte, riducendo le ore di sonno, tuttavia non ne risentivo più molto visto che il sole non era quasi più comparso. Soltanto durante la luna piena dovetti interrompere necessariamente quel lavoro, ma invece di gironzolare nella foresta senza meta – come avevo sempre fatto per scappare da quelle pazze squinternate delle mie sorelle (che altrimenti non mi avrebbero dato pace, approfittando della mia “indole canina”) – tornavo sempre da lei, in quel posticino buio celato dinanzi alla sua finestra.
Da settembre cominciai a farlo tutti i mesi e talvolta la vedevo affacciarsi oltre la tenda, scrutare il bosco e sollevare lo sguardo verso il cielo, con un’espressione gentile rivolta alla luna. Chissà a cosa pensava in quei momenti. La luce lunare illuminava sempre la sua figura, rendendola diafana, quasi divina, e nel guardarla, il cuore sembrava farmi le capriole nel petto. Inconsciamente, la parte animale di me già aveva compreso che non riusciva a fare a meno di lei. Non riuscivo a stare senza di lei. Perché lei mi stava cambiando, lei mi stava migliorando, lei mi stava aiutando a vivere.
Ad ogni modo, una volta tornato umano, pur lottando contro la sofferenza che ormai percepivo solo vagamente, continuai ad abbellire il suo regalo, completandolo proprio la sera della vigilia.
Quella successiva Daidouji ci invitò tutti a cena a casa sua, insieme agli amici umani di Sakura. Eravamo in tanti, forse pure troppi, eppure non mi dispiaceva. C’erano innumerevoli presenze, voci, respiri, vene piene di sangue, cuori che lo pompavano con veemenza a pochi centimetri da me, eppure la mia attenzione era tutta posta su Sakura. Per tutto il tempo non vedevo l’ora che gli altri se ne andassero, che sparissero tutti, che avessimo un po’ di tempo per restare soli e scoprire quale sarebbe stata la sua reazione al mio regalo.
Prima però Meiling voleva giocare e, dato l’entusiasmo unanime, contai con riluttanza insieme a Yamazaki. A ben pensarci, mi dissi che quella avrebbe potuto essere la mia occasione; per cui, non appena arrivammo a 50 cercai la sua scia, la quale si interrompeva a poca distanza dal roseto. Poteva essere più astuta di quanto pensassi se credeva di poter celare così il suo odore, ma no, non ci sarebbe mai riuscita. L’avrei ritrovata, anche a chilometri di distanza. Quando la raggiunsi glielo feci capire, inalando il suo odore, avvertendo quella ricchezza inebriante che superava di gran lunga il profumo delle rose. Con mio sgomento, Sakura finì inspiegabilmente stesa a terra, senza che io potessi prevederlo, come se avesse perso i sensi. Proseguimmo in ogni caso col gioco, ma per fortuna qualche ora dopo finalmente giunse il momento che avevo tanto atteso.
Una volta rimasti soli, prima che potessi farmi avanti lei mi anticipò, dandomi il suo regalo. Aprii il sacchetto sbigottito, osservando quella bottiglietta luccicante. Proprio come lei. Mi fece segno di leggere all’interno del fiocchetto e allora spalancai gli occhi. “Le tue stelle”.
“Sei tu, Sakura…” avrei voluto dirle. Ma non me ne sentivo in grado, la voce mi mancava, per cui semplicemente misi a tacere entrambi, posando le mie labbra sulla sua morbida guancia. Le dissi che era il regalo migliore che potesse farmi, ma in realtà era il più bello che avessi mai ricevuto. Il primo dono che mi aveva fatto era stato se stessa, proprio come avevo fatto anch’io con lei. Glielo spiegai, tuttavia, solo dopo che le ebbi consegnato anche il mio regalo. Tutto quello che sentivo per lei, tutto quello che lei rappresentava e significava per me, tutto quello che io provavo con lei. Tutto era racchiuso in quel singolo oggetto. Le rivelai le mie intenzioni, il mio desiderio di darle tutto ciò che meritava, promettendole che avrei fatto il possibile per far sì che si avverassero. Le dissi che per essere felice io, mi bastava che fosse felice lei. E lei mi assicurò che fosse già felice, abbracciandomi. Ero sempre timoroso di farle del male con la mia forza, ma sapevo anche che avrei saputo controllarmi, quindi dopo che mi strinse maggiormente e smise di piangere riuscii finalmente a rilassarmi, beandomi semplicemente della sua presenza, del suo calore, del suo corpo tanto vicino al mio. Sì, tutto quello mi bastava per essere felice.
Da quel giorno sembrò filare tutto liscio tra di noi: trascorrevamo la maggior parte del tempo insieme, che fosse a scuola o fuori da essa, sebbene continuassimo a prenderci i nostri tempi in base alla nostra natura. Ero lieto che tutto stesse andando meravigliosamente, finché poi, dopo che l’ebbi lasciata sola – non era che volessi farlo davvero, ma dovevo –, tornò più angosciata che mai.
Durante il soggiorno con le sue amiche alle stazioni termali quell’essere che la tormentava aveva ricominciato ad infestarla. Dopo che scoprimmo che fosse un D., secondo quanto aveva detto sua madre, tutto sembrava acquisire più o meno senso. Per una stirpe crudele come la loro, perché accontentarsi di cacciare altri vampiri quando si potevano ottenere anche gli umani? Soprattutto se possessori di un sangue speciale, un sangue come quello di Sakura. Non gli avrei mai permesso che lo avesse, l’avrei protetta sempre, costantemente, a costo di sacrificare me stesso. Ma prima di quello, ora che sapevamo il suo nome, lo avrei ucciso, distrutto, vendicandomi della morte di mio padre, della sofferenza atroce apportata a mia madre.
Quel che mi sorprese, invece, fu scoprire dei sogni di Sakura. Non per me, sebbene avesse sognato la mia morte, ma per lei stessa mi auguravo che non fossero realmente premonitori. Una capacità come quella sarebbe stata una dannazione, le avrebbe apportato unicamente sofferenza.
Per questa ragione nei giorni successivi cercai di alleggerirle la mente, mentre noi organizzammo dei turni di guardia per proteggerla per ogni evenienza, cominciando ad escogitare un piano per sconfiggere il nemico. Non ci era ancora molto chiaro il suo potere, ma da quei pochi dati che avevamo raccolto mia madre supponeva che potesse entrare nel subconscio per sostituire la volontà della persona colpita con la propria. Dovevamo, prima di tutto, difenderci da questo e indagammo in numerosi libri di magia, sperando di trovare un qualche incantesimo che ci potesse difendere da ciò. Che potesse sconfiggerlo e, se fossimo riusciti a scovarlo, che avremmo dato anche a Sakura stessa per proteggerla. Eravamo alla disperata ricerca di qualcosa di più potente di ciò che avevamo fatto con gli amuleti, ma per quanto scavassimo nei testi antichi sembrava del tutto vano.
Pertanto facevo del mio meglio come persona: di giorno stavo con lei, di notte mi allenavo con gli altri, costantemente, dormendo e nutrendomi più del solito per essere quanto più in forze possibile.
In men che non si dica giunse febbraio e, con esso, il cosiddetto “San Valentino” che tutte le ragazze parevano attendere con ansia. Mi aggiunsi a queste solo perché Sakura mi aveva promesso di prepararmi della cioccolata, ma per quanto morissi dalla voglia di assaggiarla mi lasciò per ultimo, dandomela soltanto dopo ore di trepida attesa.
Durante la pausa pranzo, quindi, ci allontanammo nel bosco e lì potei assaggiarlo. Inizialmente ero perplesso, non mi capacitavo del come fosse possibile che sapesse di lei. Ovviamente, non avendola mai assaggiata non potevo essere certo di quale fosse il suo sapore, ma avevo l’impressione che se avessi leccato la sua pelle sarebbe stato lo stesso. Sapeva di ciliegio, del mio amato ciliegio. Esitai quindi nel darle un responso, insicuro se fosse un bene dirglielo o meno. Fraintendendo il mio silenzio lei mi rubò dispettosamente i biscotti, mangiandosene uno; me ne riappropriai stizzito e nell’accostarmi a lei notai le minuscole briciole rimaste sul suo labbro. Glielo pulii, attardandomi per un po’ a seguirne la morbida, rosea curva, sfiorando anche la sua saliva, bagnandomene il polpastrello per poi portarlo alla mia bocca e saggiarla con la mia lingua. Chiusi gli occhi, sentendomi un vuoto allo stomaco, come se stessi precipitando. Era proprio lo stesso sapore, non mi ero sbagliato. Dovetti necessariamente distanziarmi da lei per resistere a qualsiasi impulso che mi avrebbe tradito, ma quasi lo facesse apposta, come sempre quanto più avevo bisogno di spazio tanto più lei mi si avvicinava. Mi toccò e io mi sentii attraversare di nuovo da quell’incomprensibile scarica elettrica e avrei ceduto, davvero, se non mi fossi accorto che c’era qualcosa che non quadrava nella sua espressione. Mi guardava come se volesse chiedermi un enorme favore, ma non sembrava sicura che fosse una buona idea. La spronai a parlare, a rivelarmelo senza remore, ma era irremovibile – quando ci si metteva sapeva essere più testarda di me. Alla fine, sorprendentemente, scoppiò a piangere dopo che le ebbi spiegato ancora una volta tutto quel che provavo, sperando fosse chiaro che poteva chiedermi qualunque cosa, avrei esaudito qualunque suo desiderio, e se questi prevedevano lo stare insieme non potevo che assecondarla perché io ormai non ero niente, più niente, senza di lei. E lei quello sembrava realmente volere, così la accompagnai a casa sua, restando finché non mi avrebbe cacciato. Quella era la mia idea di partenza, ma non potevo immaginare che sarei giunto io stesso a rovinarla.
Avevo ceduto alla sua offerta di dormire di pomeriggio – non lo facevo da tempo e ci voleva proprio – ma come mi stava accadendo spesso negli ultimi tempi lei finiva col palesarsi nei miei sogni, i quali prima che la conoscessi non erano stati altro che dominati dal vuoto più assoluto. Forse dipendeva dal fatto che mi trovassi sul suo letto, forse dipendeva dal fatto che il suo odore era dappertutto nella sua stanza, forse era perché pur nell’incoscienza del sonno sentivo il suo cuore, sentivo il suo calore, sentivo il suo respiro e, improvvisamente, si era fatto tutto troppo vicino. All’improvviso lei era lì, con me, mi abbracciava, io la stringevo, lei mi baciava, io la carezzavo, ed entrambi eravamo privi di tutto, avvolti unicamente da lenzuola candide, che avevano un che di evanescente, immateriale, e splendevano talmente tanto da sembrare essere intessute di luce, rendendo la sua candida pelle ancora più eterea e levigata. Ci sfioravamo, ci amavamo, ed io ero sicuro che quello fosse amore. Non avevo più dubbi perché mai mi ero sentito tanto bene, tanto completo, come quando ero insieme a Sakura. La mia Sakura. Percepivo distintamente il suo calore su di me, il suo odore dentro di me. Volevo morderla. Se lo avessi fatto, lei sarebbe stata mia, lo sarebbe stata per sempre. Così ribaltai la situazione e finii su di lei. La bloccai, gustandomi quella piacevole attesa, prima di avvicinare i denti al suo collo immacolato…. Ma all’improvviso la luce svanì, divenne flebile, soffusa, e avvertii il suo petto alzarsi e abbassarsi ripetutamente sotto di me, come se fosse nel panico. Le diedi una rapida occhiata, notando che fosse vestita, che io fossi vestito, che mi guardava con occhi spalancati, inerme, nelle mie mani, a mia completa disposizione.
Mi staccai violentemente da lei, destandomi. Che cosa stavo facendo?! Che fosse in un sogno o nella realtà era una cosa che non doveva accadere, assolutamente! Avrei dovuto ammazzarmi anche soltanto per averlo pensato, per averlo immaginato. Non importava quanto provassi ad accettarmi, solo perché lei sembrava accettarmi. Quella parte di me continuava ad essere deplorevole, disgustosa, da castigare. E invece lei, ancora e ancora, la perdonava, mi perdonava, dicendomi persino che quando le ero così vicino non le dispiaceva. Pensavo di illudermi, che fosse soltanto ciò che io volevo sentirmi dire, ma sapevo che per lei era realmente così. Glielo leggevo negli occhi. Ed era qualcosa che non sapevo se riuscivo ad approvare, non in quel momento, quando mi sentivo tanto smarrito. Per questo decisi di andarmene, ma prima di salutarla lei mi sorprese ancora una volta, baciandomi per prima sul collo. Nonostante tutto, con quella timidezza sfacciata mi fece tornare il buonumore. Ricambiai pertanto con la stessa moneta, lasciandole in quel flebile bacio il “Ti amo” che non avrei mai potuto dirle.










 
Spiegazione: come immagino avrete già capito nel precedente capitolo, la frase che Syaoran pronuncia nel sonno è "Wǒ de yīnghuā" ("La mia Sakura" - ammetto che qui l'ho messo in corsivo apposta).

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 ***


Positività di primavera


 
Nei giorni successivi mi sentivo costantemente felice, come se fossi avvolta ogni singolo istante da un pallido e piacevole raggio di sole. Qualcosa cambiò, ancora una volta, nel mio rapporto con Syaoran-kun, unendoci persino più di prima. Non mi facevo più problemi ad avvicinarmi a lui, cominciavo a prenderlo per mano o a cercare contatto in maniera del tutto naturale e lui non rispondeva più né con ritrosia né facendosi teso, bensì mi veniva incontro e talvolta era stesso lui il primo a cercarmi.
Un sabato, avendo la giornata libera, mi recai insieme a lui e alla sua famiglia a vedere dei susini in fiore, in un prato che si apriva nel bosco poco lontano dalla loro casa, in prossimità del ruscelletto. Era affascinante vedere come, sebbene tutto fosse avviluppato dalla neve e dal ghiaccio, i fiori resistevano, facendo vincere la primavera sull’inverno.
Yelan-san mi raccontò che coltivavano questi alberi anche nel giardino della sua precedente dimora in Cina ed era usanza piantarne un seme ogni volta che nasceva un nuovo membro nella famiglia. Si trattava di un’antica tradizione che veniva portata avanti di generazione in generazione ed essendo ella molto legata alle proprie radici – per quanto esse stesse la avessero tradita – aveva voluto conservarla anche qui. Per questo ne avevano fatti crescere sette, uno per ciascuno di essi.
Consideravo Yelan-san una donna molto forte, da ammirare: per quanto fosse stata pugnalata e ferita dalla sua stessa famiglia, lei non la rinnegava. Talvolta ne parlava con una certa malinconia nello sguardo, per cui supposi che, un po’ come sarebbe capitato a chiunque, sentiva la mancanza dei suoi fratelli e delle sue sorelle, dei suoi genitori, zii e nonni. Non importava quanti anni passassero, non importava quanto dolore le avessero inferto, lei serbava rispetto e devozione per i suoi avi. Mi chiedevo se tutto questo provenisse dal suo cuore, fossero i suoi veri sentimenti, oppure un mero risultato di un’educazione troppo rigorosa improntata sul rispetto del nucleo familiare. Ma qualunque fosse il caso, restava pur sempre encomiabile.
Ammirai con affetto quegli alberi dai fiori di un rosa carico, quasi tendente al rosso, che rappresentava ciascuno di loro. Seguii le sorelle, le quali me li presentarono uno ad uno, fino ad arrestarmi dinanzi a quello di Syaoran-kun, che era il più piccolino, perfino più basso di me. Mi persi per un po’ ad osservare la sfericità perfetta dei suoi petali, sfiorando appena appena con la punta dell’indice il legno duro e secco dei ramoscelli, timorosa di poterlo in qualche modo segnare e danneggiare con la mia presenza.
Ero talmente assorta da non accorgermi che le sorelle non mi stavano più accerchiando, finché non mi sentii delle dita tra i capelli. Sollevai lo sguardo, trovando Syaoran-kun al mio fianco, con un sorriso dolcissimo ad illuminargli il volto, rischiarando anche me. Tolse la mano e la sostituii con la mia, scoprendo che mi aveva posato in testa alcuni fiorellini della sua pianta. Mi stava dando una parte di sé?
Mi si chiuse lo stomaco, ricordando inevitabilmente uno dei primi sogni che feci su di lui, soprattutto nel momento in cui mi domandò: «Ti piace?»
«Sì» confermai d’istinto, aggiungendo: «E sono contenta di essere qui.»
Mi fissò per un attimo confuso, ma naturalmente non poteva capire a cosa mi stessi riferendo. Lo lasciai nell’ignoranza, beandomi di quel ricordo mentre mi rigiravo tra il pollice e l’indice i fiorellini di cui mi aveva fatto dono. In quel sogno, ripensandoci, io ero anche la sua sposa….
In preda ad un inaspettato batticuore mi riavvicinai a sua madre, decidendo di distrarmi da quel pensiero narrandole del mio giardino a Tomoeda. In maniera simile al loro, anch’esso ospitava i fiori che ci rappresentavano: il ciliegio e il pesco, fuori le stanze mia e di mio fratello, e i glicini rampicanti sul traliccio al fianco della casa, che scendevano in grossi grappoli al di sopra dei numerosi garofani, quasi giungendo a sfiorarli, come se volessero darvi infiniti baci.
Glieli descrissi al meglio, talvolta gesticolando anche per farle avere un’idea della grandezza, lasciandomi trasportare dalle immagini suscitate dal rievocare quei ricordi. Mi mancava un po’ il mio bel giardino fiorito. A breve avrebbero cominciato a spuntare fuori dai nudi rami i primi boccioli, mentre quassù ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che la primavera si diffondesse. Mi rammaricai all’idea che, per il mio compleanno, gli alberi sarebbero stati ancora spogli, spenti e d’un marrone scuro, privo di luce.
E ciò era evidente anche dal fatto che, pur essendo entrati in marzo, la gelida stagione persisteva con il suo bianco, con i suoi venti, con le sue piogge incessanti… al punto che, verso la fine dell’anno scolastico, mi beccai una febbre. Mi sforzai comunque di andare a scuola normalmente, resistendo alla fatica, al sonno e alla spossatezza che sentivo. Tutti naturalmente si accorsero che non ero nel pieno delle mie energie, anche perché, per quanto cercassi di assicurarli che stavo bene, ogni volta che mi alzavo e camminavo vacillavo, ondeggiando da un lato all’altro, tanto che a un certo punto dovette sostenermi Syaoran-kun affinché non cadessi. Lo ringraziai di cuore, mentre lui mi sgridò a lungo, con foga, sorprendendo tutti i presenti. Mi definì una sconsiderata, una folle irresponsabile senza alcuna cura per se stessa e tante altre cose che udii solo a metà, troppo colpita dalla sua preoccupazione per farci caso.
Fatto sta che lui stesso mi accompagnò dapprima in infermeria, chiedendo poi a Eriol-kun di farsi fare un permesso per riaccompagnarmi a casa – non potendo concederselo lui stesso. Sapevo che in realtà avrebbe voluto – me lo confermò anche Eriol-kun nella via di ritorno – ma il fidanzato di mia cugina lo aveva avvisato che sarebbe stato meglio evitare, avendone richiesto già uno poco tempo prima.
Farmi portare in spalla da Eriol-kun, comunque, mi fece quasi tornare indietro nel tempo. Mi ricordò di quando una volta mi successe la stessa cosa alle elementari e mio fratello venne a prelevarmi, accompagnandomi a casa. La sensazione che percepivo era più o meno la stessa e, proprio come allora, anche sulla sua schiena mi addormentai.
Riflettendoci, Eriol-kun aveva molti tratti in comune con la mia famiglia. Talvolta lo sguardo apprensivo che mi rivolgeva sembrava rispecchiare quello di Touya e in talune occasioni, quando mi sorrideva con gentilezza e calore, somigliava anche a mio padre. Che fosse soltanto perché entrambi indossavano gli occhiali? Sebbene a quanto m’era parso di capire a Eriol-kun non servivano neppure, ci teneva a portarli perché rappresentavano per lui un legame con le sue origini e il suo passato, essendo quelle lenti appartenute originariamente a Clow Reed.
La febbre mi durò all’incirca quattro giorni e non mi diede neppure troppi problemi. Al di là di qualche sintomo influenzale come giramenti di testa, dolori alle tempie, senso di affaticamento, mal di gola e naso chiuso, mi sentivo bene. Avevo solo sempre sonno e ringraziai il cielo per non avere incubi, perché per quanto mi sentivo debole non ce l’avrei mai fatta psicologicamente a sostenerli. Neppure la temperatura s’era alzata troppo, si bloccava attorno ai 38 gradi e mezzo e quando prendevo le compresse scendeva fino ai 37.
L’aspetto migliore di quella convalescenza furono non solo le visite che ricevetti (sia vampiresche che umane, queste ultime accompagnate da dolciumi e appunti delle lezioni presi gentilmente da tutte anche per me, dividendoseli in base alla materia), ma soprattutto la vicinanza di Syaoran-kun. Approfittava di ogni sua ora libera per restare al mio fianco, controllandomi la temperatura, raffreddandola con le sue stesse mani, ponendomene sempre una sulla fronte al posto dello straccetto bagnato. E allora mi rilassavo sotto il suo fresco tocco, scivolando facilmente in un regno di placidi sogni.
Soltanto una sera la febbre salì di più e, dato che mi sentivo andare a fuoco, io stessa gli chiesi se potesse stendersi al mio fianco. Accettò senza protestare e, dopo che mi fu affianco, mi raggomitolai contro il suo corpo, sperando che ciò potesse essere d’aiuto a far calare la temperatura. Dopo una buona dormita in quelle condizioni fu effettivamente così e il giorno successivo tornai in forze, più carica, energica e pimpante di prima.
Quando ritornai a scuola si poteva leggermi in faccia la mia felicità e nessuno avrebbe mai potuto distruggere quella mia gaiezza. Il giorno precedente avevo telefonato a papà per dirgli che mi sentivo meglio – mi ero fatta scappare di star male con Touya e lui glielo aveva immediatamente riferito, allarmandolo inutilmente – e chiedergli quando sarebbe rientrato in Giappone. Ormai i sei mesi stavano per scadere, ma esattamente come avevo previsto gli scavi erano stati prolungati. Questo mi permetteva di restare a Reiketsu per qualche altro mese, quindi potevo ancora vivere insieme a mia cugina e al suo ragazzo, alla cortese servitù sempre disponibile, alla mia spumeggiante zia che andava e veniva, ai miei nuovi amici, a quella mia ormai tanto amata famiglia di vampiri che abitava nel bosco… e, soprattutto, sarei rimasta ancora un altro po’ accanto a Syaoran-kun.
Tale pensiero cancellava le nubi più scure, i timori più cupi, le paure più tetre, rendendole un miraggio lontano.
Con questa positività finì anche marzo, e si giunse finalmente al giorno del mio compleanno.



Quel mattino Tomoyo-chan ed Eriol-kun vennero a svegliarmi di persona, portandosi dietro un vassoio su cui erano stati posati una teiera accanto ad una tazzina rosata decorata con ciliegi e un piatto con una torre di ben sette pancake ricoperti da sciroppo d’acero, frutti di bosco e zucchero a velo, con su un lato due fiocchi di panna rigati da un filo di cioccolata sciolta.
Mi si illuminarono gli occhi dinanzi a quella meraviglia, soprattutto quando mi rivelarono che li avevano cucinati loro due, insieme, proprio per questa occasione.
Fu, infatti, il loro primo regalo per me, unito ad un vestito lungo che mi confezionò mia cugina. Quando lo aprii rimasi a bocca aperta: sembrava l’abito di una principessa, d’un rosa pallido, con uno stretto corpetto che si chiudeva con i lacci sulla schiena, dallo scollo a cuore e i ricami floreali. La gonna era di tulle, con una parte velata di diverse gradazioni di rosa arricciata su un lato, scivolando poi morbidamente fino ai piedi. Ero senza parole.
«Tomoyo-chan, è stupefacente!»
«Sono lieta di vedere che ti piace!» gioì, senza nascondere la felicità che provava.
«C’è solo un problema: quando dovrei indossarlo?»
«Stasera!» rispose prontamente, al che la guardai perplessa.
«Perché? Che si fa stasera?»
«Una cenetta tra noi vampiri» rispose per lei Eriol-kun, ammiccando, indicando fuori la finestra. «Dovremmo approfittare del buio.»
Mi alzai con uno scatto, correndo a spostare le tende dalla finestra, restando abbagliata. Mi coprii per un attimo gli occhi, strizzandoli, tentando di riabituarmi a quella luce cui oramai mi ero disabituata. Guardai successivamente il cielo quasi sgombro di nuvole, incredula. C’era il sole!
«Questo deve essere un altro regalo» sussurrò allegramente Eriol-kun.
Mi voltai a guardarli entrambi, trovandoli nell’angolo più buio della stanza. Ops.
Mi affrettai a richiudere le tende, saltellando fino da loro piena di contentezza. Nulla avrebbe potuto rovinare quella giornata, già s’era rivelata stupenda sin dal primo mattino.
Feci colazione a letto chiacchierando con loro e non appena ingoiai l’ultimo boccone, facendo loro i complimenti – erano deliziosi! – accesi il cellulare, ritrovandomi gli auguri sia da parte di papà che di Touya e Yukito-san. Li ringraziai, promettendo che li avrei chiamati ad un orario più consono visto che quasi sicuramente da loro era ancora notte, e non appena mia cugina e il suo ragazzo lasciarono la stanza mi lavai e preparai velocemente, intrepida. Non vedevo l’ora di uscire.
Per la prima volta da quando ero lì indossai dei leggings lunghi fin sotto il ginocchio e una maglietta in cotone larga a maniche lunghe, che mi andava a mo’ di vestitino. Era una di quelle cose che avevo portato con me dalla mia precedentemente vita, ma che ancora non avevo avuto modo di usare. Era anche molto carina, essendo color pesca con un pattern floreale multicolore, avendo il girovita a campana e lo scollo a V – ragion per cui la indossavo sempre insieme ad un top, in questo caso di flanella per non prendere freddo.
Ritornata in camera mi affrettai a raggiungere il cellulare, sentendolo squillare, e vidi che mi stava chiamando Rika-chan. Risposi trafelata mentre con l’altra mano mi spazzolavo i capelli e la sentii esclamare, insieme ad altre voci in sottofondo: «Tanti auguri Sakura-chan!»
«Grazie!»
Tramite lo specchio mi vidi sorridere da una parte all’altra del viso, con gli occhi luminosi.
«Sbrigati a scendere, abbiamo una sorpresa per te!» sentii Chiharu-chan canticchiare.
«Ma siete qui?!» domandai sorpresa, muovendomi a rassettarmi.
Alla loro conferma le informai che scendevo subito e afferrai al volo la borsa da portarmi dietro, saltellando sulle scale per arrivare più velocemente.
Una volta all’ingresso trovai Rika-chan, Chiharu-chan e Naoko-chan attrezzate di cestini da picnic e borse termiche. Li posarono a terra, saltandomi immediatamente addosso, rinnovandomi i loro auguri. Le abbracciai tutte ringraziandole di nuovo e quando ci staccammo Naoko-chan disse, cominciando a spingermi verso la porta: «Dato che sei stata baciata dagli dei oggi approfitteremo del buon tempo per ammirare i fiori.»
La guardai poco convinta dopo aver salutato mia cugina ed Eriol-kun – i quali ci augurarono di divertirci – e una volta fuori le feci notare: «Ma i ciliegi non sono ancora fioriti.» Come avremmo potuto fare l’Hanami?
«Chi ha parlato di ciliegi?» rise, il che mi confuse persino di più. Che cosa avevano escogitato?
Tutte e tre si rivolsero un sorriso complice, ma non rivelarono nulla.
Mentre uscivamo dal giardino Chiharu-chan mi porse gli auguri anche da parte di Yamazaki-kun, spiegando: «Avremmo voluto far venire anche lui e Li-kun, ma dato che quest’ultimo ha rifiutato dicendo di avere altri “impegni”» a tale parola fece le virgolette, alzando gli occhi al cielo, il che mi fece ridere sotto i baffi. Se avesse saputo che, molto semplicemente, il cielo non glielo permetteva...
«Yamazaki-kun non se l’è sentita di stare da solo in mezzo a tante ragazze» completai per lei, la quale si strinse nelle spalle.
«In realtà, la cosa di per sé non avrebbe rappresentato un problema, essendo abbastanza abituato a stare con noi. Piuttosto, ha voluto concederci del tempo tra sole donne, quasi fosse una sorta di regalo extra da parte sua.»
«È un pensiero dolcissimo.»
Sorrisi rasserenata, prestando attenzione solo allora a dove ci stavamo dirigendo, accorgendomi che ci eravamo arrestate alla fermata dei pullman.
«Dove andiamo?» mi incuriosii.
Tutte e tre ridacchiarono di nuovo, portandosi un dito davanti alle labbra.
«È un segreto» canticchiarono all’unisono.
E va bene, avrei portato pazienza.
Salimmo quindi sul primo autobus, occupando gli ultimi posti per stare tutte insieme ed ignorai i nomi dei paesini che attraversavamo, finché i raggi del mezzodì non mi si posarono sul viso, quasi mi stessero chiamando; e allora mi voltai verso il finestrino, restando a bocca aperta.
La neve si era un po’ sciolta sui campi di Furano, creando così l’impressione di tanti fiorellini bianchi sbocciati sui piccoli germogli verdi quasi invisibili. Scendemmo lì, facendoci accarezzare da questo pallido sole, scegliendo un buon punto in cui posizionarci. Risalimmo la collina e proprio sulla cima di essa stendemmo la tovaglia, accomodandoci rivolte a valle. Era tutta una distesa concava di bianco, eppure grazie al bel tempo e all’assenza di nuvole il ghiaccio luccicava, quasi come se fosse fatto di miriadi di diamantini, gioielli dimenticati da gazze ladre sulle chiome degli alberi. Era tutto magico.
Aprimmo poi i cestini, rivelando un’enorme quantità di bentou, soprattutto contenenti dolci tradizionali.
«Li avete preparati tutti voi?» chiesi incredula.
«Solo per te!» confermarono ad una voce, porgendomi anche un pacchetto confezionato.
Lo scartai elettrizzata, scoprendo una tipica busta da spedizione. La aprii e all’interno vi trovai una fotografia che ci eravamo scattate tutte a scuola durante il festival scolastico, insieme anche a Yamazaki-kun. Non la ricordavo nemmeno più!
«Dovrai inserirla nella cornice che ti abbiamo regalato a Natale, le misure sono precise» mi istruì Chiharu-chan.
Le guardai una per una con le lacrime agli occhi, portandomi la fotografia sul cuore, troppo contenta.
«Vi ringrazio tantissimo.»
«Non abbiamo fatto nulla di speciale» ribatté umilmente Rika-chan.
Scossi energicamente la testa, indicando anche ciò che ci circondava. Consideravo tutto quello come parte del regalo.
Scattai una foto a ogni singola cosa, cibo compreso, prima di cominciare a favorirne con loro. Con mio enorme stupore, Naoko-chan aveva portato anche lo yakisoba, conoscendo un trucco per far sì che restasse buono anche da freddo, mentre Chiharu-chan s’era fatta consigliare da Yamazaki-kun una variante dei takoyaki, con calamari al posto del polipo. Naturalmente, era tutto delizioso. I wagashi in particolare, ma quello dipendeva anche dal fatto che io fossi una golosona.
Chiacchierammo serenamente fino alla fine del pranzo, in seguito al quale facemmo un gioco con delle carte che aveva portato Naoko-chan. Non conoscendolo, ci volle una buona mezz’ora prima che ne comprendessi le regole; ma anche una volta capite, finivo col perdere sempre. Ero proprio una schiappa!
Rinunciai essendo arrivata per l’ennesima volta ultima, abbassando le carte rassegnata, facendole ridere tutte.
«C’è un detto che mi ha riferito Yamazaki e spero sia una delle poche cose veritiere che pronuncia» sorrise Chiharu-chan, prima di farmi l’occhiolino. «A quanto pare in Occidente in questi casi si usa dire “sfortunata in gioco, fortunata in amore”.»
Tutte e tre risero ancora più fragorosamente al mio farmi paonazza. Mi nascosi il viso coi capelli, implorandole di smetterla di prendermi in giro, ma loro ormai erano entrate in argomento e, così, mi chiesero com’era andata a San Valentino e se avessi reso chiari i miei sentimenti. Rimasi molto sul vago, incentrandomi sul fatto che Syaoran-kun aveva apprezzato la cioccolata e mi aveva fatto promettere di preparargliela di nuovo, il che le fece letteralmente impazzire in quanto esultarono vistosamente, pigolando come tre pulcini felici. Secondo loro era un buon segno e io misi un attimo da parte le questioni di sangue e natura, guardando le cose dal loro punto di vista. Per cui mi lasciai travolgere dalla loro speranza e ottimismo, credendoci a mia volta.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Spero che stiate tutti bene e vi stiate tutti prendendo cura di voi stessi, in questo periodo difficile. Cercherò di aggiornare più spesso, nella speranza che la lettura possa risollevare gli spiriti (cerco di fare quel che posso, nella mia piccolezza).
Ecco giunta la primavera (quasi) e, con essa, il compleanno di Sakura! Yeee! 
Evito di farvi una testa di chiacchiere, quindi passo subito alle spiegazioni che credo essere nuove:
- i susini sono i fiori corrispondenti al cognome Li (
), il ciliegio ha lo stesso nome di Sakura (桜), il pesco di Touya (dal kanji di Tou, "momo" 桃), i glicini di Fujitaka ("fuji" 藤) e i garofani di Nadeshiko (撫子).
- il sogno qui citato fa riferimento a quello del capitolo 8.
-  dall'episodio 5 di Clear Card ho ripreso gli yakisoba, ossia i tradizionali spaghetti alla piastra, e i takoyaki, che normalmente sono polpette di polipo; i wagashi sono i tradizionali dolci giapponesi, solitamente serviti col tè verde.
A presto con la seconda parte del compleanno!

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 ***


Donandoci noi stessi


 

Al tramonto riprendemmo il bus per tornare a casa e ci salutammo fuori la villa Daidouji.
Me ne rientrai tutta contenta e avendo momentaneamente dimenticato i piani della serata grande fu il mio stupore quando, mettendo piede all’interno, mi ritrovai davanti quasi tutti i membri della famiglia Li ad attendermi. Sorrisi loro raggiante, calciando via le scarpe proprio mentre le quattro sorelle e Meiling-chan mi saltavano addosso, riempiendomi di auguri e bacetti. Ridacchiai troppo contenta, lasciando che mi coccolassero, rivolgendo poi uno sguardo a Syaoran-kun. Mi sorrise dolcemente e, anche da qui, mi parve di sentire i suoi auguri mentre muoveva a malapena le labbra, sillabandone le more. Lo ringraziai con un caloroso sorriso e le ragazze mi porsero gli auguri anche da parte della loro madre, assente poiché impegnata col lavoro.
Mentre mi spingevano a salire le scale affinché potessi cambiarmi mi interessai a riguardo e loro spiegarono che lei sostituiva Sonomi-san come sua vice quando quest’ultima si trovava all’estero. Non ne avevo proprio idea! Per questa ragione doveva intrattenersi spesso con clienti e commercialisti.
Scoprii allora che anche le sorelle maggiori erano dipendenti della sua compagnia, alcune si occupavano della sezione dedicata ai giocattoli e altre a quella dell’elettronica. Naturalmente, la sede principale si trovava in una città vicina, ma vi erano diverse filiali sparse un po’ ovunque, sia dentro che fuori il Giappone. Questo, finalmente, spiegava come facesse mia cugina ad essere così ricca!
Una volta in camera mia lasciarono perdere le questioni lavorative, invitandomi ad indossare l’abito nuovo. Le accontentai senza fare rimostranze e loro si illuminarono tutte, riempiendo di elogi Tomoyo-chan per il suo operato. Meiling-chan si propose di acconciarmi i capelli, arricciandoli e intrecciandoli, mentre Feimei-chan mi truccava e le altre tre sorelle attendevano impazienti che finissero, dando consigli sul cosa fare per rendermi “ancora più spettacolare”.
«Sei un capolavoro!» esclamarono all’unisono una volta che ebbero finito, gongolando.
«Sembri uscita da un dipinto!» piagnucolò felice Shiefa-san.
Arrossii vistosamente, dandomi un’occhiata allo specchio. In effetti, sembravo una di quelle principesse ritratte nei libri di fiabe occidentali. Mi portai una mano sul cuore, chiedendomi cosa ne avrebbe pensato Syaoran-kun vedendomi. Scossi la testa, cancellando quel pensiero sciocco e imbarazzante, notando che le sorelle stavano prendendo qualcosa da una busta che avevano portato con sé. Da questa ne estrassero un pacchetto confezionato e la maggiore me lo porse. Lo scartai cercando di non strapparlo troppo – anche se non era impresa facile, sapendo quanto potevo essere imbranata – e ne rivelai il contenuto, restando a bocca aperta. Era un portagioie in legno su cui erano incisi fiori e caratteri cinesi.
«Che bello…» sussurrai senza fiato, seguendone i disegni con la punta dell’indice.
«Noi lo abbiamo realizzato e nostra madre ha tracciato le poesie» ammiccò Fanren-san.
Aprii le labbra incredula, incapace di esprimermi. Erano state tutte bravissime! Non avrei mai pensato che fosse stato realizzato a mano, ero convinta lo avessero acquistato da qualche parte. Non potevo crederci che si fossero impegnate tanto, dedicandomi tutto quel lavoro e quel tempo, soltanto per il mio compleanno.
«Dentro c’è il regalo da parte mia» mi informò Meiling-chan, in attesa che lo scoprissi.
Appoggiai il cofanetto sul comò, aprendolo con cura. All’interno c’erano diversi scompartimenti con al centro un fermaglio per capelli fatto di pietruzze verdi, su cui erano posate un piccolo paio di ali bianche, che sembravano di madreperla.
«Sono regali bellissimi!» esclamai guardandole tutte, con le lacrime agli occhi. Le abbracciai una per una, ringraziandole, promettendo che ne avrei fatto tesoro per sempre, e mentre Meiling-chan mi appuntava il suo regalo sulla treccia io mettevo la fotografia nella cornice di Natale.
Quando mi girai mi accorsi che tutte la guardavano invidiose, senza che potessi comprenderne la ragione.
Feimei-chan sbuffò facendo alzare alcune ciocche sulla sua fronte, mentre incrociava le braccia.
«Sarebbe bello se avessimo anche noi una foto.»
«Potremmo farla…?» provai a proporre, timidamente.
Le ragazze Li si rivolsero un’occhiata indecisa e Tomoyo-chan sospirò afflitta.
«Non penso sia possibile» si dispiacque Fanren-san, scuotendo il capo.
«Hoe? Perché?»
«Noi non abbiamo mai provato, ma… diciamo che sarebbe un tabù.»
Guardai Shiefa-san disorientata. Addirittura un tabù?
«Si dice che le fotografie possano catturare l’anima delle persone» si intromise Meiling-chan, spiegandomi meglio la questione. Già quelle parole non mi piacevano, avevano un che di inquietante. «A quanto pare nell’Ottocento, quando furono create le prime macchine fotografiche, molti vampiri provarono ad esserne immortalati e…»
Fece una pausa ad effetto, adombrandosi. Trattenni il fiato, tremando. Cosa? Cosa era successo?
«E pare che la loro immagine risultasse… diversa.»
«Diversa…» ripetei, deglutendo a fatica.
Lei annuì, la sua espressione si fece ancora più grave.
«Gli esseri immortalati non avevano lo stesso aspetto che avevano agli occhi degli altri. I tratti erano sfocati e grotteschi, e avevano un che di… demoniaco.» Ci mise un po’ a scegliere la parola giusta, con la quale mi fece rizzare tutti i peli. «La consideravano la nostra vera essenza per cui fu proibito farci fotografie. Così come anche guardarci agli specchi.»
Automaticamente guardai lo specchio che avevo in camera e solo allora mi accorsi che tutte loro si tenevano a distanza dal perimetro del suo riflesso.
Mi avvicinai alla porta, rattristandomi, soprattutto quando Fuutie-san aggiunse: «Abbiamo tutti paura di quel che realmente siamo.»
«Per me, voi siete quel che io vedo» sussurrai, alzando lievemente lo sguardo, rivolgendo loro un piccolo sorriso sincero.
Anche loro ricambiarono debolmente, prima di ridestarsi da quell’umore cupo.
«Ciononostante» riprese Shiefa-san, illuminandosi, «abbiamo la fortuna di essere delle artiste nate.»
«E per questo fate ritratti che pareggiano con le fotografie!» esclamai, ricordando il primo compito che io e Syaoran-kun avevamo dovuto svolgere insieme.
«Precisamente» confermarono allegre le sue sorelle, mentre Meiling-chan sembrava trattenersi dall’aggiungere qualcosa, ridacchiando sotto i baffi.
La guardai interrogativa e mentre le sorelle Li ci anticipavano giù per le scale e anche noi tre ci accingevamo a scendere sussurrò tra sé: «Chissà che Xiaolang non ti “immortali” con questo aspetto?»
Non colsi la sua allusione, solo guardai Tomoyo-chan che sopprimeva a sua volta una risata al di là della sua videocamera e feci notare: «Ma Tomoyo-chan mi sta già registrando.»
Entrambe risero di qualcosa che mi era totalmente ignoto, finché Meiling-chan pure non ci sorpassò per raggiungere prima il pianoterra e Tomoyo-chan mi si accostò, sussurrandomi all’orecchio: «Perché non chiedi a Li-kun di mostrarti i ritratti che fa, qualche volta?»
Mi illuminai come luci di Natale. I suoi ritratti? Quindi era davvero un artista!
Annuii entusiasta, immaginando già che questo ci avrebbe portato inesorabilmente a trascorrere altro tempo insieme. Sarebbe stato bellissimo! E mi avrebbe dato l’opportunità di ritornare in quella casa favolosa!
Giubilai felice, raggiungendo finalmente il fondo delle scale. Trovai in maniera incomprensibile tutte le ragazze Li schierate a mo’ di muro, in fila, bloccando il passaggio verso il salone. Le fissai interrogativa e loro sogghignarono con complicità, prima di scivolare con leggerezza ai lati, quasi fluttuando, come se si stesse aprendo un sipario. Al di là di esse apparve uno Syaoran-kun altrettanto disorientato, il quale non appena posò gli occhi su di me schiuse le labbra, sgranando gli occhi. Sussultai, sentendo il calore invadermi le guance. Pareva che stesse trattenendo il respiro e io mi pietrificai, fissandolo tesa, non battendo ciglio. Cosa pensava? Come mi trovava?
Non avevo idea di quanto tempo fossimo rimasti così, fatto sta che a un certo punto Meiling-chan lo cozzò con un gomito, posandosi le mani sui fianchi.
«Allora?» domandò incalzante.
Lui le rivolse un’occhiataccia, massaggiandosi la zona colpita.
«A-allora, cosa?»
La cugina alzò gli occhi al cielo, le sorelle emisero un sonoro respiro, colpendosi la fronte e scuotendo la testa. Eriol-kun cercava di non ridere per rispetto, ma sembrava tremendamente divertito.
«Allora, non hai nulla da dire?» specificò, indicandomi dalla testa ai piedi.
Lui tornò a guardarmi, sembrando imbarazzato. Spostò gli occhi sul mio vestito e, forse per andargli incontro, mia cugina spiegò: «L’abito gliel’ho confezionato io.»
A questo subito si aggiunse Feimei-chan: «Al trucco ci ho pensato io.»
Meiling-chan mi si avvicinò prendendomi per le spalle, facendomi voltare di schiena.
«E i capelli glieli ho acconciati io» concluse, guardandolo oltre me. Assottigliò gli occhi, sibilando tra sé: «Patetico.»
Piegai la testa su un lato, non capendo, ma lei alzò le mani lasciandomi.
«Basta, ci rinuncio» dichiarò, tornando dalle altre.
Mi rigirai, più confusa che mai.
Ritrovai per un istante lo sguardo di Syaoran-kun, ma lui lo sviò immediatamente, borbottando: «Siete state brave.»
Fu un errore pronunciare quelle parole, perché con esse sembrò far arrivare Meiling-chan sull’orlo di una crisi di nervi. Attaccò quindi a parlare in cinese e sembrava quasi che lo stesse rimproverando. Lui la ascoltò impassibile, per poi sbottare qualcosa di altrettanto incomprensibile. Di conseguenza lo guardai meravigliata: era la prima volta che lo sentivo parlare nella sua lingua madre!
Rimasi ad ascoltarli a bocca aperta, finché non cominciò a vorticarmi la testa per quanto il loro tono fosse alto e le parole veloci.
«Okay, ora piantatela» pose fine al loro battibecco la sorella maggiore, guardandoli male. «Non sta bene parlare in un’altra lingua davanti a chi non vi capisce.»
Entrambi ritrovarono il contegno, scusandosi con noi, e io riacquisii raziocinio, chiedendo: «A casa parlate in cinese?»
«Quello era cantonese» mi corresse Feimei-chan, ammiccando.
«Oh! Ci sono molte differenze?» domandai curiosa, avvicinandomi a lei, entrando in salone.
Confermò con la testa e Shiefa-san sogghignò subdolamente.
«Neh, Xiaolang, perché non le insegni qualcosa?»
«No, no!» rifiutai al posto suo, scuotendo le mani davanti al viso, vergognandomi un tantino nell’ammettere: «Sono negata con le lingue, anche in inglese i miei voti sono a malapena sufficienti.» E non volevo imbrogliarmi il cervello più di così.
«Ara? Xiaolang, dovresti proprio darle delle lezioni» suggerì Fanren-san, guardando il fratello.
Arrossii, scrollando vigorosamente la testa.
«Mi sta già aiutando tantissimo a scuola!» le rassicurai.
Emisero tutte un «Mmh?» prolungato, sorridendo come delle volpi mentre ci accomodavamo a tavola. Syaoran-kun le ignorò bellamente, sedendosi accanto a Eriol-kun che parlottava con lui.
Stavo per sedermi al mio solito posto quando Tomoyo-chan mi accompagnò a mettermi a capotavola, facendo un cenno ad una cameriera.
«Hai mangiato tanto oggi?» si informò di punto in bianco.
«Direi proprio di sì» ridacchiai, ricordando tutto quello che avevano preparato le ragazze.
«Allora questo basterà.»
Sorrise apertamente e, non appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, rientrarono diverse cameriere portando carrelli con tazze da tè, due teiere – di cui solo una fumante, che fu posta davanti a me con una tazzina di porcellana su un piattino – e una torta gigantesca a due piani su un vassoio d’argento.
«Ma è meravigliosa!» esclamai con gli occhi luccicanti, battendo le mani per la contentezza, facendo i salti di gioia nella mia mente. Era completamente ricoperta da fiocchi di panna caramellati, macaron rosati, rose rosse vere – che fossero quelle del giardino? – e ciliegi di pasta di zucchero. Già nell’aspetto sembrava deliziosa!
Essa era sormontata da ben diciassette candeline a spirale rosa, tutte già illuminate. Fu spenta la luce e mentre tutti – servitù compresa – mi cantavano la canzoncina di tanti auguri sorrisi dondolando allegramente la testa a tempo, preparandomi ad esprimere un desiderio. Finito il canto chiusi gli occhi, soffiando su quelle piccole fiammelle, riempiendomi di un unico pensiero: “Fa’ che tutto vada bene e possiamo continuare a condividere questa gioia, tutti insieme, per sempre”.
Riaprii gli occhi soddisfatta e sorrisi vittoriosa nello scoprire che ero riuscita a spegnerle con un sol soffio. Si sarebbe risolto tutto, senz’ombra di dubbio. E forse anche io e Syaoran-kun avremmo mantenuto questo nostro rapporto speciale, continuando a coesistere in questo mondo.
Vennero tagliate le fette e stavolta non mi contenni dallo scoppiare in una fragorosa risata, vedendo tutti storcere il naso disgustati nell’assaggiarla. Tranne, naturalmente, Tomoyo-chan. Col loro consenso mi gustai, pertanto, non solo la mia fetta, ma anche la loro. Era a dir poco buonissima, la crema all’interno sapeva di limone e il pan di Spagna era non solo sofficissimo, ma anche leggerissimo.
Il tè che mi era stato preparato, poi, aveva un sapore floreale, per cui chiesi a Tomoyo-chan di cosa si trattasse e al suo posto Eriol-kun rivelò che fosse un tè alle rose importato direttamente dall’Inghilterra. Aveva un gusto tanto sottile e sopraffino!
Sarebbe probabilmente diventato una delle mie tipologie preferite di tè, insieme a quello cinese che assaggiai a casa Li. Chissà che non ne diventassi assuefatta, proprio come lo erano mia cugina e il suo ragazzo del loro tè ai frutti rossi. Sorrisi tra me, prima di formulare un pensiero. Tè ai frutti rossi… Poteva mica essere…?
Alzai lentamente lo sguardo, vedendoli portarsi tutti la tazzina alle labbra con un’eleganza aristocratica da fare invidia. A differenza della mia, le loro tazze erano scure, tendenti al colore della terracotta. Quando la allontanarono, riponendola sul piattino, le loro bocche erano perfettamente immacolate nel loro pallore.
Ciononostante necessitavo togliermi quel dubbio, per cui mi schiarii la gola per attirare la loro attenzione. La voce, tuttavia, mi uscì più sottile ed esitante di quanto desiderassi.
«Per caso quello che voi state bevendo è… sangue…?»
Nessuno si scompose, a parte Syaoran-kun che trasalì, sbiancando più di quanto fosse pallido normalmente. D’accordo, la risposta era chiara. E non dovevo porgerla quella domanda.
«Scusatemi, è solo che… non dovete preoccuparmi per me» farfugliai mortificata, abbassando lo sguardo. «Voglio dire, è quel che vi piace, quindi non dovete vergognarvi o temere che possa apportarmi disgusto.»
Sorprendentemente Meiling-chan scoppiò a ridere, asciugandosi lacrime invisibili agli angoli degli occhi, quasi piegandosi in due mentre si manteneva la pancia. Quando parve calmarsi lasciò il sorriso divertito sopravvivere sul suo viso, mentre offriva invitante: «Vuoi assaggiare?»
Stavolta sussultai lievemente insieme a Syaoran-kun, il quale ringhiò nella sua direzione, avendola di fronte.
«Non si può mai sapere, magari piace anche a lei» fece spallucce lei.
Nessuno commentò, neppure io provai a ribattere, questionandomi se una cosa simile potesse essere possibile; ricordando però l’effetto che mi faceva anche solo guardare la carne cruda in macelleria lo dubitavo enormemente.
Senza aggiungere altro Syaoran-kun si alzò, avvicinandosi a me, e mi porse una mano. Lo guardai confusa e lui sorrise un po’ imbarazzato, chiedendo: «Verresti fuori con me? C’è una cosa che mi piacerebbe mostrarti.»
Mi alzai nell’immediatezza, annuendo con foga. Non vedevo l’ora di stare un po’ con lui! Era come un sogno che si realizzava!
Mi inchinai in fretta davanti a tutti, ringraziandoli ancora una volta, anche per la loro presenza; dopodiché guardai Syaoran-kun col cuore a mille, prendendo la sua mano. Mi scortò all’ingresso e qui mi passò sia il mio che il suo cappotto e le nostre sciarpe, avvolgendomi per bene attorno alla testa queste ultime a mo’ di turbante, assicurandosi che avessi il collo ben coperto. Lo lasciai fare, a metà tra l’essere divertita e confusa. Che intenzioni aveva?
Uscimmo all’esterno dopo aver controllato che fossi completamente coperta e senza fiatare mi condusse verso il retro della casa, in prossimità della montagna. Mi fronteggiò prendendo un respiro, sembrando indugiante.
«Ti… fideresti… di me?»
«Certo» risposi con sicurezza. Non mi fidavo di nessuno come di lui.
«Anche se potrei farti vivere qualcosa di non esattamente… umano?»
Il mio animo si riempì di aspettativa.
«Sì» affermai convinta. «Voglio conoscere tutto il possibile di te.»
Mi rivolse un sorriso timido, prima di alzarmi anche il cappuccio, spiegando: «È per il vento, non voglio tu prenda freddo.»
«Vento?» ripetei smarrita. Ma se non ve n’era neppure una folata?
Lui non spiegò altro, chiedendo invece: «Posso prenderti in braccio?»
Arrossii, col batticuore, permettendoglielo con un cenno. Senza alcuna difficoltà mi prese proprio come una principessa, facendomi salire il sangue al cervello.
“Niente pensieri melensi, Sakura” mi redarguii, concentrandomi sul mio respiro.
«Tieniti forte.»
Seguii il suo consiglio, facendomi più vicina a lui, stringendo le dita sulla stoffa attorno alle sue spalle. Vidi un luccichio speranzoso attraversare le sue iridi prima che guardasse dritto davanti a sé, cominciando a correre. Mi sorpresi della velocità con cui lo fece e, soprattutto, della sua agilità nel saltare sugli alberi, raggiungendo rami sempre più alti, anche a molti metri di distanza l’uno dall’altro. Strabuzzai gli occhi notando che, neppure in un minuto, ci eravamo allontanati talmente tanto da casa di Tomoyo-chan che sembrava soltanto un piccolo quadrato luminoso, uno dei tanti della città. E nel giro di un altro minuto raggiungemmo la sommità della montagna, sulla cui cima mi fece scendere.
Con difficoltà tornai coi piedi sul suolo, appoggiandomi a lui, sentendomi tremare.
«Hai avuto paura?» domandò apprensivo, togliendomi alcuni capelli dal viso.
Probabilmente mi si erano scompigliati tutti con quel vento impossibile, ma piuttosto era stato… era stato…
«Elettrizzante!» esclamai eccitata, ritrovando la forza di saltellare sul posto. «È stata un’esperienza così unica! Quasi come andare sulle montagne russe, ma molto più rassicurante, molto più veloce, molto più emozionante!»
Continuai a blaterare e balzellare gasata, finché non rimasi senza fiato.
Lui mi ascoltò in silenzio, trattenendo il riso.
«Prendi respiri profondi, qui l’aria è più rarefatta.»
Seguii il suo consiglio, inspirando ed espirando seguendo lui. Una volta calma mi abbassai il cappuccio e alzai il viso verso le nuvole, accogliendo un po’ della frescura d’alta quota, nella speranza che mi facesse sbollire.
«Non me l’aspettavo» ridacchiò, sembrando sollevato.
«Io non me l’aspettavo!» replicai affiancandolo, sorridendogli grata. «Mi hai fatto un regalo inestimabile!»
«Ah… no, ehm…» tergiversò, indicando alle mie spalle.
Mi voltai e i miei occhi accolsero tutto: le luci accese nelle cittadine a valle, l’oscurità delle foreste, le maestose cime delle montagne, il biancore bluastro della neve, il cielo perfettamente sgombro di nuvole.
Totalmente ammaliata a malapena mi accorsi che Syaoran-kun si era avvicinato a me, restando alle mie spalle. Posò la mano destra sulla mia, sorprendendomi. Abbassai lo sguardo e, proprio mentre il mio cuore partiva a centomila all’ora, con un tocco leggerissimo la accompagnò nella tasca del suo cappotto, facendomi chiudere le dita attorno a qualcosa.
«Questo è il mio regalo» sussurrò accanto al mio orecchio, con una voce talmente vellutata e delicata da farmi girare la testa.
Tentai di restare coi piedi ben piantati a terra e, non appena si allontanò per mettersi alla mia destra, estrassi il suo regalo. Anche questo era impacchettato, per cui mi sedetti mettendomi comoda, prima di scartarlo con cura e trepidazione. Allora ne estrassi un portachiavi, cui era appeso un piccolo peluche con un lupacchiotto.
«È adorabile!» esclamai, portandomi la mano alla bocca, troppo contenta.
«L’ho fatto affinché tu possa ricordarti di me» mormorò debolmente, accomodandosi al mio fianco. Lo guardai confusa, chiedendomi cosa intendesse, per cui aggiunse, con un velo di tristezza: «Quando tornerai a Tomoeda.»
Mi si formò un groppo in gola. Che fosse con o senza qualcosa di materiale, non sarei mai riuscita a dimenticarlo. Come avrei potuto?
Tuttavia, se ci teneva a lasciarmi davvero quel pezzo di sé, mi dispiaceva non avergli fatto dono di alcun ciliegio.
«Cosa posso darti io?» meditai ad alta voce. Dovevo trovare anche io un ciondolo per lui?
«Niente» rispose con l’ombra di un sorriso sul viso, alzandolo verso la volta celeste. «Ho già le stelle che mi ricordano te.»
Automaticamente puntai il naso all’insù, osservando il cielo piena di stupore. Qui se ne vedevano eccome e la notte sembrava chiarissima. Notai una stella più luminosa delle altre e la indicai, chiedendogli quale fosse.
«Sirio, una stella bianca.»
«A Tomoeda non se ne vedevano molte, ma al tramonto ce n’era sempre una che spiccava con forza, nella sua luce aranciata.»
«Ti deluderà forse sapere che si tratta di un pianeta. È Venere.»
«Ma i pianeti non emettono luce propria» puntualizzai.
«Sakura, queste cose avresti dovuto studiarle alle elementari» mi derise e io non potei che imbronciarmi, incrociando le braccia.
«Lo sai che ho una pessima memoria e sono negata in queste materie. Mi dai delle ripetizioni?» finsi di pregarlo.
Lui parve meditarci su, finché non rise arrendendosi quando lo spinsi per invogliarlo; assentì, cominciando con la sua lezioncina.
«Nel cielo notturno anche i pianeti brillano perché riflettono la luce della stella ad essi più prossima. Proprio come la Luna.»
«Proprio come la Luna» gli feci eco, guardandolo intensamente negli occhi.
«Ma a differenza delle stelle, le lune e i pianeti non lampeggiano. Sono una luce fissa.»
Alzai lo sguardo sul firmamento, oscillando tra baluginii e punti fermi di luce.
«Alla fine non è altro che un’illusione ottica provocata dall’atmosfera.»
«Syaoran-kun, tu sei proprio come la Luna» lo interruppi, dando voce al mio pensiero. Mi guardò spaesato e gli sorrisi, spiegando: «Tu sei convinto di essere spento e pieno di ombre, ma io da qui ti vedo vivo di luce.»
Aprì la bocca incapace di ribattere, per poi guardare a valle imbarazzato, scompigliandosi i capelli.
«Insomma, Sakura» sbuffò. «Sono io che devo fare regali a te oggi, non tu a me.»
Ridacchiai silenziosamente, osando farmi un po’ più vicina, chiedendo timida: «Come ultimo regalo possiamo abbracciarci?»
Non mi negò un piccolo sorriso, sedendosi composto, allargando le braccia per accogliermi. Mi appoggiai a lui con calma, posando la testa sulla sua spalla, sentendomi in pace.
«Sei più caldo del solito» notai stupita.
«Perché l’altro ieri c’è stata la luna piena, sono ancora un po’ sotto la sua influenza.» La indicò e io guardai pensierosa quella sfera quasi completa.
«Mmh, la stavo rimirando dalla finestra» mi feci sfuggire, prima di riuscire a frenare la lingua.
«Oh? Perché?» domandò curioso.
«Un po’ perché mi ha sempre affascinata, ma soprattutto mi chiedevo... mi chiedevo come stessi» rivelai, imbarazzata.
«Quindi pensavi a me?»
«Ogni mese lo faccio.» Per non dire ogni settimana, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo.
Le sue braccia si strinsero lievemente attorno a me, la sua voce si abbassò di un’ottava.
«Grazie.»
«Per?» lo questionai, sorpresa.
«Per avere così tanta premura nei miei confronti. Non so cosa farei senza di te.»
«Sopravvivresti anche senza di me» minimizzai, ritenendo stesse esagerando. Anzi, senza di me sarebbe stato anche meglio, probabilmente. Era vero che le cose stavano andando bene per entrambi, ma quanto sarebbe durato il nostro idillio? Avrebbe resistito fino alla mia partenza?
«Hai detto bene.»
Al suo darmi ragione sorrisi un po’ amaramente. Sapevo di avere ragione.
«Sopravvivrei, ma non vivrei» soggiunse concludendo, guardandomi mestamente negli occhi, lasciandomi senza parole.










 
Angolino autrice:
Buon primo aprile! (Oggi mi sto dando da fare, lo so, ma tra l'hype per il nuovo capitolo e il fatto che, in generale, è il giorno delle CLAMP mi trovo in uno stato di eccitazione a dir poco... disumana)
Prima di tutto, mi scuso per non aver mantenuto la parola: avevo detto "a presto" e, al solito, è passato quasi un mese. Ugh... Mi dispiace, davvero, ma nemmeno a casa l'università mi dà pace. Ciononostante, nei weekend (tra una cosa e l'altra) cercherò di mantenermi un po' più costante con gli aggiornamenti.
In ogni caso, sono contenta di avere la possibilità di parlare del compleanno di Sakura nell'effettivo giorno del suo compleanno. Quindi yay!
E ora passo subito alle spiegazioni:
- "ara" è un "oh/ah", un'interiezione tipicamente femminile (talvolta, come in questo caso, può anche avere una sfumatura allusiva). 
- il titolo fuorviante (ma quanti titoli ambigui sto dando a questi capitoli? x///D) fa riferimento ai regali (lupi e ciliegi sapete, immagino, che equivalgono ai loro nomi).
- la corsa tra gli alberi è un libero richiamo a quella presente in "Twilight" (mai dimenticare che questa storia è nata come una "Twilight AU", sebbene si distacchi parecchio dall'opera della Meyer). 
E detto ciò, spero che stia continuando a piacervi, e che nonostante la mia assenza riesca ancora a mantenere vivo il vostro interesse.
Alla prossima! 

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Capitolo 34
*** Capitolo 33 ***


Nuova amica



 
Per tutto l’inizio della primavera andai avanti nella mia spensieratezza, ancorandomi alla mia forza interiore e a quella che Syaoran-kun riusciva a prestarmi, fino a che non ci fu un piccolo cambiamento.
All’inizio del nuovo anno scolastico si trasferì nella nostra classe una nuova studentessa. Era carina, gentile e simpatica. Il suo nome era Shinomoto Akiho. Era ospite presso Chiharu-chan essendosi conosciute un po’ di tempo fa, durante una vacanza nello Shikoku, e avrebbe vissuto qui per il primo semestre. Il motivo non mi era molto chiaro, ma sembrava centrarci con le stagioni e i paesaggi, perché a quanto m’era parso di capire era una sorta di suo hobby ricercare luoghi ameni in giro per il mondo da fotografare e in cui avere al contempo la possibilità di leggere con calma i suoi libri preferiti, essendo un’appassionata di letteratura. Da ciò ci aspettavamo che si iscrivesse al club di letteratura, invece si unì a quello di coreutica, essendo il canto la sua seconda grande passione.
Era affascinante ascoltarla, in quanto pur avendo la nostra stessa età aveva già avuto modo di viaggiare un po’ in tutta Europa: era nata in Inghilterra, s’era poi trasferita per un certo periodo in Germania, in Francia, in Italia e persino in Cina, fino a trovare le sue origini in Giappone. Di tutti i posti visitati ci mostrava le fotografie e noi non potevamo far altro che ascoltare a bocca aperta i suoi racconti di civiltà lontane, dai costumi e le tradizioni più svariate.
Era una ragazza veramente dolcissima e adorabile. Molti dicevano che mi somigliasse, ma a differenza mia sembrava più timida e riservata. Essendomi anche io trasferita lì da un’altra città cercai di restarle accanto per sostenerla e supportarla nei momenti di bisogno, tanto che il primo giorno io stessa le feci fare un giro per l’istituto, sostituendomi a Chiharu-chan, sebbene quello fosse uno dei suoi compiti in qualità di rappresentante di classe.
Un giorno ci mettemmo di nuovo tutte d’accordo per andare a dormire da Chiharu-chan e grande fu la mia sorpresa quando vidi che anche Akiho-chan dormisse sempre insieme ad un peluche, chiamato Momo: era un coniglietto bianco con gli occhi chiusi, una sciarpetta pelosa celeste, l’orecchio destro piegato e il sinistro dritto, su cui c’era una coroncina con quelle che sembravano delle lancette di un orologio. Era troppo kawaii e, in cambio, le mostrai le foto che avevo sul cellulare del mio Kero-chan, facendole capire che non dovesse vergognarsi o ritenersi infantile se ancora dormiva con un pupazzo perché tutte noi avevamo ancora abitudini che preservavamo da quando eravamo bambine.
Scoprimmo, infatti, che anche Naoko-chan aveva il suo cuscino personalizzato coi personaggi della sua fiaba preferita che tuttora abbracciava, Rika-chan aveva ancora dei peluche sparpagliati sul letto, mentre Chiharu-chan ne conservava due mensole piene nella sua vecchia cameretta, ora modificata in stanza-studio.
Stavamo costruendo, quindi, una bella amicizia, ma di questa sembrava inspiegabilmente essere contrariato Syaoran-kun. Quando le rivolgeva la parola era sempre tirato, come se gli richiedesse uno sforzo enorme, e ogni volta che rimanevamo soli mi consigliava di non avvicinarmi troppo e non affezionarmi eccessivamente a lei. Di più non si mostrava disposto a rivelarmi, così, un giorno di fine aprile in cui non avevamo scuola, non riuscendo più a sopportare quell’enigmaticità e silenzio, lo costrinsi ad andarcene sulla roccia nel bosco, quella che affacciava sul villaggio che sorgeva sul fiume, spronandolo a parlarmi dei suoi turbamenti.
Neppure lui stesso ne sembrava molto convinto, fatto sta che con aria molto frustrata mi disse: «Non lo so, Sakura. Non mi piace.»
«Ma perché?» insistei, chiedendomi che danno gli avesse inflitto. Era sempre cortese con tutti!
«Non lo so» ribadì guardando lontano, verso l’orizzonte, riflettendo. «Forse è perché sembra un artificio.»
«Un artificio?» ripetei spiazzata.
«Sì, insomma… È troppo simile a te e, al contempo, l’opposto di te.»
Fece spallucce, mentre io scoppiai a ridere, non aspettandomelo.
«Quindi è perché mi somiglia?»
Scosse la testa, confuso. «Non è per quello che tutti ti dicono. Avrete anche un carattere, una solarità, un viso, un fisico e un nome simile, ma non è questo il punto. Quel che mi turba è il fatto che lei sembri… finta. È come se prendesse tratti che ti appartengono, facendoli suoi.»
«Non ha alcun senso» obiettai, spintonandolo per gioco, tentando di farlo rilassare. Era fin troppo serio.
«Forse no» riconobbe, spettinandosi i capelli con un sospiro. «Forse è solo per il suo odore.»
A quel riferimento mi sentii pugnalata dritta al cuore.
Volsi lo sguardo sulle case, rifiutandomi di guardarlo, non trovandone il coraggio. Anche il suo odore aveva effetto su di lui? Mi pareva quasi di soffocare. Cos’era quel sentimento che mi bruciava viva? Sembrava corrodermi e sbranarmi dall’interno, avviluppandomi il cuore, annerendolo. Era forse… gelosia? Ma se effettivamente fosse stato così?
«È… buono?» Dato che non rispose precisai sottovoce, torturandomi nervosa le pellicine accanto alle unghie: «L’odore del suo sangue, dico.»
«Affatto, è disgustoso» rispose prontamente, sconvolgendomi. Lo guardai ad occhi sgranati e lui li alzò al cielo, aggiungendo sprezzante: «È proprio questo il punto, Sakura. Il tuo profumo è vellutato, floreale, pacificante, dolce, soave. È l’essenza della vita e della primavera. Il suo, invece, mi ha a sua volta investito appena ha messo piede in classe, ma in senso negativo. Il suo è… marcio. È autunnale, sa di caduco, deperimento e… morte» concluse, storcendo il naso contrariato.
Mi chiesi come potesse un’essenza suscitare tutte quelle impressioni, ma lui mi richiamò da quelle valutazioni, guardandomi corrucciato.
«Per questo ti consiglio di non stare troppo in contatto con lei.»
«Temi che il mio profumo venga sconvolto dal suo?»
Era quello a preoccuparlo? Forse sì, perché l’idea parve rabbrividirlo, facendogli assumere un’espressione di ribrezzo.
Ma forse no, perché ribatté: «Temo che il mio istinto non mi stia ingannando e che lei possa apportarti sofferenza.»
«Non mi sembra una persona capace di fare del male.»
«No.» Sospirò, prendendomi delicatamente le mani, affinché io potessi smetterla di torturarmi. Non mi ero neppure accorta di starlo ancora facendo. «Ma questo non significa che non possa portarti sventura.»
«Perché dovrebbe?»
Ero confusa, non riuscivo proprio a capire perché si tormentasse tanto su una cosa del genere. A mio parere, non c’era nulla di cui preoccuparsi; la sua era una mera impressione, Akiho-chan non sarebbe stata in grado di ferire neppure una mosca.
Mi carezzò lievemente il viso, sorridendomi tristemente.
«Perché tu possiedi un cuore grande, Sakura. Sei la ragazza più buona, gentile, altruista e comprensiva che io conosca. Sei una persona bellissima, sia fuori che dentro. Una rarità per questo mondo e mi è stato insegnato che le cose migliori vengono distrutte con facilità, perché tutti le desiderano. E sebbene ne porti lo stesso nome, non voglio che tu sia evanescente come i ciliegi.»
Lo fissai basita, col cuore in gola, non sapendo cosa dire. Tutte quelle cose, io le pensavo di lui. Era lui ad avere un cuore enorme, ad essere il ragazzo più buono, gentile, altruista e comprensivo del mondo. Come poteva dire quelle cose di me?
Mi prese tra le sue braccia, stringendomi a sé, e nel modo in cui tremavano le sue spalle capii che stava parlando per paura che qualcosa di brutto potesse realmente accadermi. Ricambiai il suo abbraccio, cercando di rassicurarlo che io ero lì, stavo bene e sarei stata bene.
Stavo per dirglielo, quando mi anticipò nel riprendere parola; la sua voce, adesso, era piena di dolore.
«Non permetterò che tu soffra, Sakura. Nessuno ti farà del male, nessuno riuscirà neppure a sfiorarti. Ti proteggerò sempre, con la mia stessa vita se necessario, affinché tu non svanisca.»
«Non sparirò» lo interruppi, affondando il viso sulla sua spalla, trattenendo le lacrime. «Te lo prometto, Syaoran-kun. Ti prometto che starò attenta a tutto ciò che mi circonda.»
Mi staccai di poco, rivolgendogli un breve sorriso, guardandolo direttamente negli occhi.
“E non ti lascerò solo” aggiunsi nella mia mente, cercando di comunicarglielo con lo sguardo.
Lui ricambiò il mio sorriso con uno altrettanto flebile, posando per un secondo la fronte contro la mia, ad occhi chiusi. Quando si allontanò mi accoccolai di nuovo sul suo petto, lasciando che mi carezzasse con leggerezza la schiena, con fare calmante. Affondai il volto contro il suo collo, chiudendo gli occhi, sorridendo rilassata.
Syaoran-kun non poteva capire quanto mi facesse bene il suo freddo. Quando ero con lui mi sentivo costantemente andare a fuoco, per cui il contatto con la sua pelle era come del ghiaccio lenente.
Mugugnai appagata, finché non mi prese in giro.
«Non addormentarti.»
Scossi la testa, osservando la stoffa a pochi centimetri dal mio viso.
«Sai, ho notato che prima, fuori da scuola, ti vestivi sempre con colori scuri, sui toni del nero. Ultimamente invece sei passato a tinte più chiare.»
«Mi adeguo alla stagione» scherzò.
Risi con lui, per poi sorridergli e parlargli con onestà, indicando la camicia che indossava. «Questo blu ti dona. Scommetto che anche il turchese, l’azzurro, il cobalto, sono tutti colori che ti starebbero benissimo.»
«I colori del cielo e del mare?»
«I colori dell’estate, sì» confermai allegra. «Fanno risaltare in maniera incredibile i tuoi colori naturali.» Piegò la testa su un lato, come se non capisse, per cui specificai: «Il marrone dei tuoi capelli e l’ambra dei tuoi occhi.»
Mi fissò stupito, per poi fare un lieve sorriso imbarazzato. «Non ho mai ricevuto un complimento del genere.»
Ridacchiai in risposta e lui aggiunse: «Sai che sono nato proprio in estate?»
«Davvero?» domandai stupita, assimilando quella nuova informazione. «Quando?»
«Il 13 luglio.»
«È nel cuore dell’estate!» Mi illuminai, per poi fare un’osservazione: «Ma è un po’ paradossale.»
Annuì con un mezzo sorriso e io rimuginai sulla sua condizione, dispiacendomi.
«Non hai mai avuto la possibilità di godertela…»
«In effetti, no» confermò tranquillo, come se la cosa non gli pesasse.
«È così triste» soggiunsi depressa, adombrandomi. «Non hai mai potuto prendere il sole, andare al mare o in piscina, in un lunapark o un parco acquatico, mangiare macedonie e gelati, giocare ai gavettoni, accendere i fuochi d’artificio, far volare aquiloni, ammirare tutte le sfumature con cui l’alba o il tramonto dipingono il cielo e l’oceano passeggiando sulla spiaggia a piedi nudi, fare un castello di sabbia, ascoltare lo sciabordio delle onde e sentire l’odore salmastro della salsedine… E percepire la sensazione del sale e la sabbia che si appiccicano addosso dopo un bagno -»
Mi interruppi, guardandolo con le lacrime agli occhi, convinta di star rattristando anche lui raccontandogli di queste cose che, purtroppo, non aveva mai avuto modo di vivere. Sorprendentemente, invece, lo trovai con un sorriso sereno.
«Ascoltare te, Sakura, mi basta per visualizzarle, sentirle, vederle e percepirle.»
«Non basta, invece» ribattei con un groppo in gola. Ci pensai su, chiedendomi cosa potessi fare per lui, quando poi mi illuminai. Afferrai con foga le sue mani, riempiendomi di entusiasmo a quella prospettiva. «Ho trovato! Un giorno andremo al mare di notte, così almeno avrai la possibilità di vederlo!»
«Insieme?» si accertò, con l’accenno di un sorriso sulle labbra.
«Insieme!» assicurai energicamente, promettendoglielo.
Lui ne sorrise, palesemente felice, per poi subito cambiare discorso e riprendere il precedente, sorprendendomi con le parole che seguirono.
«Ad ogni modo, anche tu stai bene con i colori che prediligi.»
Arrossii, raggiungendo probabilmente la stessa tonalità di un pomodoro maturo, mentre gli spiegavo: «Il bianco e il rosa sono i miei colori preferiti, il verde dicono che risalta i miei occhi.»
«È vero» confermò, guardandomi. E più mi guardava più mi sentivo attorcigliare le budella e la testa andare nel pallone. Il suo sguardo era troppo dolce, troppo gentile, troppo… troppo innamorato. Ma non poteva essere così, no? «Il verde è il mio colore preferito.»
Continuai a sentire il calore infiammarmi il viso, anche perché non aveva staccato neppure per un istante lo sguardo dal mio. Mi portai una mano sul cuore, sperando non decidesse di fuggirmi dal petto. Mi schiarii la gola, eppure la mia voce uscì sottilissima.
«Pe-perché?»
Mi rivolse un sorriso enorme, indicando le foreste attorno a sé. «È uno dei primi colori che ho visto, ciò con cui sono cresciuto.»
Tornò a guardarmi e io annuii, capendo quel discorso.
Non colsi subito l’intensità del suo sguardo, finché non posò delicatamente una mano accanto ad una mia tempia, spostandomi dal viso una ciocca più lunga della frangetta, fluttuante al vento. Stavolta il sangue percorreva tutto il mio corpo con una gioia senza pari, il mio cuore stava facendo le capriole e la mia mente, ormai, doveva essere diventata una pappina inconsistente.
Mi fece sollevare lievemente il viso, affinché fosse parallelo al suo, mozzandomi il respiro.
«Mi fa sentire a casa» aggiunse in tono basso, roco, facendomi tremare l’animo. Che fortuna che fossimo seduti e lui stesso mi stava sostenendo! «E mi permette di essere me stesso.»
A questo sorrisi e anche lui ricambiò. Mi carezzò delicatamente una guancia, le sue dita tremavano, quasi timorose di poter compiere un’azione sbagliata; io automaticamente chiusi gli occhi, abbandonandomi contro il suo corpo. Ormai di me poteva fare tutto ciò che desiderava.
«Stai per addormentarti di nuovo?»
«Ma no!» sbuffai contro la sua camicia, gonfiando le guance.
Ridacchiò brevemente, tornando subito serio. Riprese le mie mani nelle sue e mi toccò mogio le zone accanto alle unghie, sfiorando appena le pellicine che prima mi stavo tirando.
«Guarda che ti sei combinata. Fa male?»
Voltai un po’ la testa, guardando ciò che mi stava mostrando. E allora impallidii.
Mi tirai indietro di scatto, ritraendomi dal suo tocco, nascondendomi le mani dietro la schiena.
«Perdonami» mi scusai, senza fiato.
Piegò la testa su un lato, come se non capisse perché mi comportassi così.
Lo fissai timorosa, mordicchiandomi un labbro. Quanta sofferenza gli stavo apportando in quel momento?
«È terribile, vero?» domandai dispiaciuta.
Alzò un sopracciglio, tentando di decriptare le mie parole. Poi i suoi occhi s’illuminarono di comprensione e scosse la testa, seppure allontanandosi di poco.
«Non è poi così terribile.»
«Me ne vado per prima, così ti lascio del tempo per riprenderti» decisi frettolosamente.
Feci per alzarmi ma lui mi afferrò il braccio, tenendomi giù, guardandomi rassicurante.
«Puoi restare. E in ogni caso non te ne faccio andare da sola.»
Mi ammusai, incerta sul da farsi. Forse stavo reagendo in maniera troppo esagerata. Forse questa minima quantità di sangue non bastava a fargli del male. Forse c’era davvero una qualche speranza per noi.
Mi riguardai l’indice destro, osservando quella lineetta rossastra che si intravedeva sotto pelle. In effetti, non stavo propriamente sanguinando, ma sarebbe bastato finire di tirarmi la pellicina o una lieve pressione per farne uscire almeno una goccia. Cosa avrei dovuto fare?
«So controllarmi» mi assicurò, pur adombrandosi repentinamente; abbassò lo sguardo, quasi pentito. «A meno che non hai paura.»
«Mai» negai prontamente. «So che tu non mi faresti mai del male, quindi non ho paura.» Sorrisi sincera, prima di rattristarmi. «Piuttosto, sicuro di non starti sforzando? Sono preoccupata.»
«Che io possa morderti?»
«Che tu possa soffrire» ribattei, sentendomi il cuore stringersi. Non avrei potuto sopportarlo.
«Non rappresenti alcuna sofferenza, per me.» Prese delicatamente la mia mano nella sua, portandosela accanto al viso, sbigottendomi. «Lo vedi? Sto benissimo.»
Sorrise tranquillo, poggiandosi le dita proprio all’altezza del suo naso. Chiuse con calma gli occhi, inspirando il mio odore, liberando tutte le gru ingabbiate nel mio stomaco. Ormai non si trattava più di farfalle, considerando quanto mi sentivo sconquassata.
Riaprì lentamente le palpebre e io osservai attenta quelle iridi ambrate sfavillare d’oro.
Smettendo di pensare mi feci più vicina, raggiungendo l’altezza del suo sguardo. Mi persi totalmente in esso, attratta come se lui fosse la gravità stessa. Anche lui sembrò immergersi nel mio colore, avvicinandosi maggiormente, fino a far sfiorare le punte dei nostri nasi. Mi sentii totalmente in balìa di una corrente d’amore e dolci sentimenti, per cui lasciai che fosse essa a farmi inclinare la testa, a farmi avvicinare alla sua guancia, a farmi chiudere gli occhi nell’odorare la sua pelle. Aveva sempre quel sentore di bosco e foresta, quel qualcosa di pungente e selvatico, caldo e familiare come un caminetto acceso e contemporaneamente freddo ed elettrico come una giornata di pioggia. Lui, da solo, era così tanto…
Spostò la mia mano dalle sue labbra e, così, il suo respiro mi raggiunse, carezzandomi l’epidermide. Tremai, non sapevo se nel corpo o nel cuore. Mi fu inevitabile ricordare ciò che successe a San Valentino sul mio letto. Allora lui non era in sé, si trovava in dormiveglia; ma in quel momento era diverso. In quel momento, lui era consapevole, doveva essere presente almeno quanto lo fossi io – sebbene, in realtà, mi sentissi più fluttuare in aria che sedere in terra. Doveva volerlo, quanto lo volevo io.
Per questo schiusi le labbra, accogliendo il suo respiro in me, cercando di far sparire quei pochi millimetri che ancora ci separavano… ma nient’altro accadde, perché prontamente mi prese per le spalle, allontanandomi da sé.
Sbattei le ciglia, smarrita, mentre lui mi guardava con le sopracciglia aggrottate, in un misto di vergogna e pentimento.
«Non possiamo» decretò in tono duro, di rimprovero.
Sgranai gli occhi, sentendomi colpevole.
«No-non volevo!» mi scusai, chinando il capo, afflitta. «Davvero, io non so perché… Non era mia intenzione… Mi dispiace!» Di più non riuscivo a proferire. Sentivo, soltanto, il cuore martellarmi con prepotenza nelle orecchie.
Lui per primo si alzò, non proferendo più nulla, e mi diede una mano per mettermi a mia volta in piedi; fatto ciò mi voltò le spalle, cominciando a camminarmi davanti. Lasciandomi vedere di sé soltanto la sua schiena.










 
Angolino autrice:
Buonsalve! Come ve la passate? Spero bene! 
Non ho molto da dire, eccetto spiegare il termine "kawaii", che significa "carino/a", e avvisarvi che da qui in poi le cose iniziano un tantino a... complicarsi. 
Dato che c'è un continuo, cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile!
Buona giornata, buon weekend e buona Pasqua a tutti!

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Capitolo 35
*** Capitolo 34 ***


Un cuore infranto



 
Seguii i suoi passi senza neppure fiatare, calpestando le sue orme nel terreno. Le sue falcate erano più ampie delle mie ma, in qualche modo, con un po’ di agilità riuscivo a starvi dietro.
Quando si accorse della stranezza di quelle mie azioni si voltò di poco, guardandomi interrogativo.
«Che stai facendo?»
«Cerco di raggiungerti.» Gli sorrisi, facendo un saltello per affiancarlo, contenta. «E ci sono riuscita.»
Si fece scappare una mezza risata, il che mi risollevò. E io che temevo potesse essersi arrabbiato con me.
«Cosa ti va di fare?» domandò di punto in bianco, riprendendo il cammino.
Ci pensai su mentre ci inoltravamo nel fitto della foresta.
«Mmm… Non saprei…»
«Decidi tu» concesse, lasciandomi libertà di scelta.
Scavai a fondo nei miei pensieri, infilando le mani nelle tasche del cappottino. Solo allora percepii della carta al di sotto dei miei polpastrelli. Giusto! La afferrai, distendendola per bene, mostrandogliela.
«Le hai scritte tu?» chiesi, indicando le note sul pentagramma.
Il giorno del mio compleanno non ci avevo fatto minimamente caso, essendo buio; soltanto in seguito, una volta tornata in camera, avevo ripreso la carta rosata coi cristalli disegnati che incartava il suo regalo, cercando di lisciarne le pieghe il più possibile. Quando la voltai, per pura casualità, mi accorsi che sulla parte bianca erano state tracciate cinque linee rette parallele in cinque righe, nelle quali erano incastonate note musicali. Non avevo ancora avuto modo di stare totalmente sola con lui per chiedergli cosa fosse.
Annuì, al che mi illuminai.
«Anche questo è un regalo?» ipotizzai eccitata.
«Sì, anche se…» Sviò lo sguardo, scompigliandosi i capelli, sembrando nervoso. «Ad essere onesto, avrei voluto farti un dono musicale. Avrei voluto suonartelo. Ma sarebbe stato incompleto.»
«Incompleto?» ripetei, cercando di capire cosa intendesse. «Vuoi dire che è una composizione tua?!» domandai basita.
Assentì imbarazzato ed io esultai sul posto, saltellando e facendo giravolte, esclamando felice: «Mi hai regalato una composizione tua!!»
Lo sentii ridacchiare mentre mi toglieva il foglio dalle mani, dandovi una rapida occhiata.
«Questo è un pezzo centrale.»
«Me lo fai sentire?» lo implorai, facendogli gli occhi dolci.
«Vuoi che te lo suoni? Anche se non è un brano finito?»
Annuii vigorosamente, gasatissima. Mi sarebbe piaciuto così tanto! In realtà, mi sarei accontentata anche se me la avesse soltanto canticchiata – purtroppo, riuscivo a leggere le singole note ma non avevo idea di che suono avessero gli accordi.
«Allora andiamo a casa mia?» propose.
«Sì!»
Mi riappropriai del foglio e lo piegai per bene per rimetterlo a posto, sentendomi fluttuante.
«Mi mostreresti anche i ritratti che fai?»
«Come fai a sapere dei ritratti?»
Mi rivolse un’occhiata sospettosa, alla quale mi strinsi nelle spalle.
«Sai, Meiling-chan e Tomoyo-chan.»
«Dovrei tagliare la lingua a mia cugina» meditò malignamente.
Mi finsi sconvolta, portandomi una mano alla bocca.
«Oh no, povera Meiling-chan!»
Emise una breve risata malvagia, giusto per dare un nuovo gusto al momento, facendomi ridere dilettata.
«Comunque, me li mostri?» insistei, sperando accettasse.
Lui sfuggì di nuovo dal mio sguardo, esitante.
«Potresti considerarmi male.»
«Male? Perché?»
«Perché…» La sua voce si spense, senza che concludesse. Sospirò, lasciando perdere, e mi prese in braccio senza alcuna anticipazione.
Sorpresa mi aggrappai a lui, giusto un secondo prima che cominciasse a correre nella sua velocità naturale. Poggiai il mento sulla sua spalla, approfittando del fatto che fosse ancora giorno per poter guardare gli alberi che sfrecciavano attorno a noi, simili a quando si guardavano i cespugli sul ciglio della strada dal finestrino di un’auto in corsa. Erano righe verdi e marroni, in diverse sfumature, di una tinta potente, in una scia che si estendeva oltre i nostri corpi, quasi continuando all’infinito. Era incantante.
Appena giungemmo sulla soglia di casa sua mi fece scendere e mi scrutò in viso, forse alla ricerca di qualche segno di paura o malessere; ma quel che ricevette da me fu unicamente una gioia infinita. Adoravo quando mi rendeva partecipe del suo vero io, permettendomi l’ingresso in quella che ritenevo essere la sua quotidianità.
Scrollò la testa rivolgendomi un sorriso sghembo, prima di aprire la porta, informandomi: «Oggi non c’è nessuno.»
«Come mai?»
«Meiling è uscita con Feimei e alcune sue compagne di classe, le altre mie sorelle sono a lavoro, mentre mia madre è a una riunione. Mi è parso di capire che intendono sviluppare un nuovo prodotto.»
«Oh, spero vada a buon porto.»
Allungò un braccio e io, capendo, lo ringraziai, togliendomi immediatamente il cappotto per permettergli di posarmelo su uno dei ganci uncinati dell’attaccapanni a muro.
«Quindi, mi dispiace dirlo, ma niente tè. A meno che non ti accontenti di qualcosa di più semplice e veloce della cerimonia stessa.»
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa.
«Syaoran-kun, mi basta vedere i disegni e ascoltarti. Sarà quello a saziarmi.»
Mi contemplò tacito per un po’ prima di decidersi a proseguire, salendo verso la sua camera. Qui mi fece segno di accomodarmi sul letto e io non me lo feci ripetere, trovandolo sin da subito più morbido di quanto mi aspettassi. Presi un cuscino e lo posai accanto alla parete, appoggiandomici contro. Anche in esso quasi sprofondai. Che fosse in piume?
Le mie considerazioni andarono in fumo quando venne ad accomodarsi di fronte a me, dopo aver preso un raccoglitore da una cassettiera con apertura simile a quella di una porta scorrevole in carta di riso. Forse poteva somigliare di più ad un mobiletto.
Si sedette a gambe incrociate e aprì il raccoglitore, porgendomi diversi fogli. Li voltai verso di me, restando a bocca aperta sin dal primo, che rappresentava sua madre. Era perfetta, non le mancava assolutamente nulla. E l’espressione calma del suo viso sembrava così vera, quasi palpabile.
«È mille volte meglio delle fotografie…» sussurrai tra me, sfogliando le altre.
«È solo il mio modo di vedere gli altri» farfugliò con aria impacciata, in tono basso.
Sorrisi tra me, ammirando le sue sorelle, con tratti più adolescenziali di come le conoscevo. Andai avanti, trovando decine di persone diverse. Lui me le indicò poco alla volta: oltre ai membri della sua famiglia, c’erano tutti coloro che aveva conosciuto nel corso della sua vita, dai professori fino ai compagni di classe, rappresentando proprio scene di vita scolastica. Lo avevo sempre detto che lui si fingeva indifferente al resto, mentre in realtà aveva una cura particolare per ogni singola cosa e persona che incontrava sulla sua strada.
«Ritrai solo persone?» domandai proseguendo, notando che sebbene la maggior parte fossero realizzati a matita o col carboncino ce n’erano anche alcuni a colori, tra cui uno buffissimo di Meiling-chan che faceva una boccaccia. Chissà che non fosse stato eseguito per farle un dispetto.
«Ogni tanto dipingo anche paesaggi.»
Si alzò, forse per recuperare anche quelli, mentre io ammiravo Eriol-kun e Tomoyo-chan commossa. Sembravano veramente serafici.
«Hai colto appieno l’essenza di mia cugina ed Eriol-kun» gli dissi, sorridendo raddolcita.
«Sono bei modelli, in effetti» considerò, ridendo.
Seguii la sua risata per poco, finché non passai alla pagina successiva; e allora il cuore parve arrivarmi in gola. Lo riconobbi immediatamente, portandomelo accanto al viso. Ancora una volta, era come guardarsi allo specchio.
«Sei riuscito ad averlo?»
Lo si poteva chiedere al sensei? Anche io avrei tanto voluto avere con me il ritratto che gli feci, il primo giorno in cui parlammo.
«No, l’ho rifatto.»
«L’hai rifatto?!»
Alzai gli occhi su di lui, scioccata. Si ricordava di me in maniera così nitida, dettagliata e perfetta?
«Non il giorno stesso perché stavo male, a causa della luna. Ma qualche giorno dopo tentai di riprodurlo» confermò, riaccomodandosi, mostrandomi piccole tele con paesaggi montuosi e boschivi, valli, villaggi e corsi d’acqua, ricchi di colori pastello in pennellate morbide, sottili.
«Wow» mormorai soltanto, incapace di esprimermi. Erano mozzafiato. Un incrocio tanto armonioso di toni caldi e freddi. «Sono tutti bellissimi, anche -»
Mi interruppi a metà frase, la saliva mi si bloccò in gola non appena tornai ai ritratti.
Con dita tremanti presi un disegno che ancora non avevo visto, a colori, che riconobbi immediatamente: me, la sera di Halloween. Poi ancora, c’ero io con la divisa da cheerleader, durante un’esibizione. E ancora, io che sorridevo nella neve, in montagna. Io, seduta serena in mezzo ai lupini in fiore. Io che carezzavo cauta lo shima-enaga, circondata da fiocchi di neve. Io protesa sulla balconata della veranda, con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Io che gli porgevo il regalo di Natale, avvolta da luminose stelle fluttuanti sulle rose, in una magica atmosfera. Io che dispettosa fingevo di mordere la cioccolata a lui riservata. Io che volteggiavo in mezzo ai loro pruni, coi capelli pieni di quei boccioli. Io abbracciata da ideali ciliegi in fiore, nel giorno del mio compleanno.
Lo guardai con le lacrime agli occhi, portandomi una mano sulle labbra.
«Sono stupendi…» piagnucolai.
«Sei tu ad esserlo, Sakura. Non i disegni» mormorò con un fil di voce, facendomi nuovamente trattenere il fiato. Il sangue parve pervadermi il viso, travolgendomi come uno tsunami. Il cuore sembrò saltarmi ovunque nel corpo, ballonzolando da un’estremità all’altra, come impazzito.
«Comunque» riprese rapidamente, forse per toglierci dall’imbarazzo, riappropriandosi di tutto; mise i fogli in ordine e li posò nel giro di un minuto, mentre parlava. «Ora potresti pensare che sono una sorta di stalker. So che potrebbero sembrare fraintendibili, ma da quando c’è il divieto per gli specchi e le fotografie lo facciamo tutti. Un po’ è per capire come siamo fatti, non avendo la possibilità di guardarci. Per quanto mi riguarda, parzialmente è per non dimenticare momenti importanti, ma soprattutto… Soprattutto, è per poter avere queste persone con me, anche quando non ci saranno più.»
Lo fissai un po’ stranita, ma non mi concesse il tempo di riprendermi e porgergli domande a riguardo che mi afferrò le mani, facendomi alzare per condurmi di sotto.
«Pronta ad ascoltarmi?»
Feci un cenno flebile col capo, sentendomi ancora intontita.
Mi sedetti sul divano, nello stesso posto occupato da sua madre la prima volta che misi piede in questa casa. Lo osservai in tacita contemplazione mentre si sistemava al pianoforte, chiudendo per un istante gli occhi. Quando li riaprì mi rivolse un tenero sorriso, prima di spostarli sulla tastiera dinanzi a sé. Suonò la prima nota con morbidezza, e ad essa ne seguirono tante altre, dolci, fluide, pastose. La melodia inizialmente era vivace, piena di vita e, contemporaneamente, sommessa, bloccata in un punto fermo che tornava, più e più volte; poi decadde in un suono più tenue e lento, che gradualmente diveniva sempre più caldo, fino a sistemarsi su un pentagramma sicuro, ricco di gioie e certezze.
Mi sentivo profondamente toccata e scaldata da quella dolce sinfonia per due ragioni: riuscivo a sentirlo, in essa, uno Syaoran-kun freddo e schivo che evolveva in uno Syaoran-kun più sincero e vero; non più da solo, perché con lui c’ero io. In quella musica, vedevo una rappresentazione di me stessa.
Come sotto incantesimo mi alzai, totalmente rapita, e mi avvicinai a lui.
Senza interrompere il suono si spostò, facendomi spazio; per cui scivolai al suo fianco sullo sgabello, permettendogli di confortarmi, mantenendo gli occhi fermi sulle sue dita. Come quella volta a scuola, sembravano a malapena sfiorare i tasti. C’era così tanta calma e pace nei suoi movimenti, così tanta felicità che mi stringeva il cuore.
Le lacrime mi pizzicarono gli occhi, soprattutto quando il suo tocco, pur facendosi ancora più leggero, risuonò persino più intenso, sopravvivendo nelle mie orecchie, risuonando nella mia anima. Era come se lui mi stesse plasmando, ci stesse plasmando, e stesse raccontando per noi una storia ricca di amore e serenità. Forse era soltanto una mia impressione, forse era il mio modo di percepire ed interpretare quel componimento. Forse significava tutt’altro, ma anche se così fosse stato, almeno per il momento non volevo rinunciare a quel sogno che mi stava facendo vivere. Seppure si fosse trattata di una chimera. Così, mi lasciai avvolgere da quegli accordi piacevoli: lasciai che mi abbracciassero, mi scaldassero, mi cingessero, mi baciassero. Finché non giunse all’ultima sequenza, interrompendosi improvvisamente.
Non appena smise di suonare mi voltai verso di lui, consapevole di essere in lacrime.
Lui mi rivolse un piccolo sorriso, asciugandole con la punta delle dita, chiedendomi: «Ti piace per ora?»
Annuii col capo, tirando su col naso, finendo di asciugarmi le gote bagnate. Era già meraviglioso così, una volta completo sarebbe stato un capolavoro.
«Perché piangi?» domandò impensierito.
Lo guardai accorata, decidendo di essere onesta.
«Perché ti ho sentito più vicino che mai.»
Sbatté le ciglia, sorpreso, prima di annuire, addolcendosi.
«Doveva parlare di noi.»
Lo fissai incredula, ma lui sviò repentinamente lo sguardo, posandolo sui tasti. Li sfiorò superficialmente con una delicatezza e una tenerezza disumana, mentre io piano piano rielaboravo le sue parole.
«Ho cominciato a comporre questo brano dopo averti conosciuta. È come con i disegni: dapprincipio doveva trattarsi soltanto di una replica che volevo tenere con me, ma poi ho iniziato a ritrarti per poterti ricordare per sempre e averti eternamente al mio fianco, così come sei. Nello stesso tempo ho cominciato a buttare giù una bozza di questa nuova sinfonia partendo da qualche nota e… la musica è venuta da sola. Mi bastava pensare a te e a tutto ciò che desideravo potesse accadere tra di noi. Tutto ciò che speravo potesse avvenire. Così hai preso forma tu, così come sei, e io, totalmente cambiato. Noi, in un’unica melodia che, per quanto sia mera musica, ci permette di coesistere, di vivere in simbiosi, di restare uno accanto all’altra.»
Chiuse gli occhi, sorridendo con mestizia.
«In questa canzone, Sakura, posso toccarti senza dovermi preoccupare di nulla. Posso abbracciarti, stringerti a me con tutte le mie forze, senza temere di farti del male. Sentire su di me il tuo calore, senza impazzire – almeno, non in senso negativo» ridacchiò lievemente, guardandomi con dolcezza e intensità, tornando immediatamente serio. «Posso baciarti, senza macchiarti col mio peccato.»
Sgranai gli occhi, sentendomi mancare. Ecco cosa stava facendo: aveva creato una versione di noi stessi realizzabile, in un mondo in cui secondo lui non avremmo potuto realizzarci. Ma si sbagliava!
«Puoi farlo. Sai che puoi farlo.»
La mia voce tremava, così come notai stessero facendo anche le mie mani, per cui le strinsi sulla mia maglia. Era per quello che si tirava sempre indietro? Perché temeva di “sporcarmi”?
Quando riprese a parlare lo fece con un’immensa tristezza, e la mia stretta sulla stoffa si fece talmente forte che vidi le mie nocche divenire bianche.
«Non posso assolutamente farlo. Forse tu non te ne rendi conto, Sakura, ma la mia bocca è… è la mia arma principale.» Abbassò lo sguardo, come se provasse ribrezzo nei confronti di se stesso. «È ciò che io uso per uccidere, per rubare la vita. Questo non devi dimenticarlo.»
«Ti sbagli» scossi la testa, provando a parlargli col cuore. «La tua bocca chiama il mio nome. Mi parla, mi conforta, mi sorride.»
«Non dovrebbe osare fare neppure questo» mi interruppe, digrignando i denti, frustrato. «Già ho commesso innumerevoli errori toccandoti, anche soltanto con le mie mani. Ma per quanto io mi ammonisca ogni volta di non farlo, di non ricascarci, non riesco proprio a fermarmi. Sono così debole, così schiavo dei miei sensi, così terribilmente egoista. A volte penso che se ti baciassi, potrei ripulirmi di tutto il sangue di cui mi sono macchiato ma… una simile espiazione non me la merito.»
Strinse anche lui i pugni sulle ginocchia, tremando, fissando gli occhi sul pianoforte. Sapevo che per lui fosse impossibile in quel periodo, ma mi sembrava di vedere lacrime sgorgare da essi, rigandogli il viso.
«Io non ti merito. E sono stato egoista anche nel regalarti una parte di me. Da un lato vorrei tu non mi dimenticassi, ma dall’altro mi dico che sarebbe molto meglio se tu lo facessi. Così potrai andare avanti con la tua vita, tornando alla quotidianità spensierata in cui hai vissuto prima di venire qui, a Reiketsu, e conoscermi. Una volta che sarai ritornata a Tomoeda continuerai il liceo, ti innamorerai, un giorno ti sposerai, avrai una famiglia e dei bambini e in futuro anche dei nipoti, vivendo appieno la tua vita.»
Era la seconda volta che mi confondeva con quei discorsi; non capivo dove voleva andare a parare, ma poi fu come se venissi colpita in pieno da un fulmine. Spalancai le labbra, sconvolta, capendo la sua implicazione. Era per quello che aveva composto quella storia! Perché nella vita reale lui non aveva immaginato un futuro insieme a me! Syaoran-kun mi vedeva crescere e invecchiare, da normale umana qual ero, mentre lui a un certo punto si sarebbe fermato ad una determinata età. Lui non pensava di mordermi. Lui non pensava di rendermi una sua simile. Lui non sognava di trascorrere l’eternità con me.
Tale realizzazione mi fece crollare il mondo addosso. Chinai lo sguardo, non volendogli mostrare tutta la mia devastazione. Mi sentivo ferita, lacerata, strapazzata e schiacciata. Per lui non significavo niente? Sarei stata unicamente un mero ricordo? Un sogno infranto?
Mi alzai di scatto, prossima al cedimento. Senza degnarlo di parola gli voltai le spalle, correndo fuori di lì. Via. Dovevo assolutamente andare via.
Quando misi piede oltre la casa nuove lacrime avevano già ricominciato a scivolarmi sul viso. Ma stavolta era diverso. Stavolta erano manifestazione di dispiacere, espressione di sofferenza. Mi aveva rifiutata. Senza che neppure fossi riuscita a dichiararmi, Syaoran-kun aveva già posto dei limiti alla nostra “relazione”, non prendendola minimamente in considerazione. Senza che potessi confessargli quel che provavo da mesi ormai, lui aveva spezzato ogni cosa, sciogliendo i nostri legami, cancellando i miei sentimenti, mostrandomi l’impossibilità dello stare insieme. Non era altro che la realtà dei fatti, eppure faceva così male. Avrei preferito mille volte chiudermi eternamente in una gabbia di sogni irrealizzabili, piuttosto che dover affrontare tutto questo.
Corsi a perdifiato, ma una volta oltre il sentiero che conduceva al bosco dietro casa Daidouji me lo ritrovai davanti. Mi bloccai nei miei passi, trattenendo i singulti, e solo allora mi accorsi che pioveva, unicamente perché la pioggia aveva bagnato totalmente il suo volto, ora contorto in una maschera di dolore. Diveniva sempre più offuscato, sempre più velato, al che chiusi gli occhi, singhiozzando.
Delusione. Sofferenza. Ma anche rabbia. Ero così arrabbiata, perché lui non mi aveva dato possibilità di esprimere la mia opinione. Lui non aveva chiesto il mio parere, non si era interrogato sui miei sogni e le mie speranze.
Scivolai sul suolo e mi portai le mani sul viso, non volendo farmi vedere in un momento di tale debolezza. Soprattutto non da lui.
Lo sentii coprirmi con quello che supponevo essere il mio cappotto, ma non appena percepii una sua mano posarsi tra i miei capelli, forse per calmarmi, mi feci istintivamente indietro, respingendolo.
Il suo guardarmi ferito, tuttavia, mi pugnalò nuovamente. Ma che stavo combinando, con l’unica persona che avessi mai amato? Perché non mi sforzavo di guardare le cose dal suo punto di vista? Perché non cercavo di capirlo?
Presi un respiro, guardandolo dritto negli occhi – anche se, attraverso le lacrime, si faceva per dire. C’era un unico modo per uscirne, indenne o dilaniata, e quello era essere totalmente sincera.
«Syaoran-kun» lo chiamai, tentando di suonare il più ferma e decisa possibile. «Non voglio dimenticarti. Non voglio vivere una vita in cui tu non esisti. Non voglio andare avanti fingendo di non conoscerti, lasciandoti indietro.»
«Ma devi -»
«Non interrompermi!» esclamai con durezza, scaldandomi, per subito riprendere tremante. «Ammetto che inizialmente mi sono avvicinata a te per… curiosità. Sì, curiosità, ma è stata di breve durata, perché essa è stata immediatamente sostituita da apprensione. Sono sempre, sempre, stata preoccupata per te, sempre stata coinvolta da te. Non sono mai riuscita ad ignorarti, neanche quando tu mi imponevi di farlo o io stessa tentavo di convincermi che fosse la cosa più giusta. Così mi sono avvicinata a te, ti ho conosciuto, ti ho visto per ciò che realmente sei. Mi sono affezionata a te, ho cominciato a volerti un bene indescrivibile, un bene mai provato per nessuno prima. Un sentimento così diverso da quello che sento per i membri della mia famiglia o per i miei amici. Un sentimento sconosciuto, che impeccabilmente, inevitabilmente, mi porta da te. Stando al tuo fianco mi sono sempre sentita protetta ma, prima di questo senso di protezione, c’è la felicità. Una gioia incommensurabile, senza pari, che soltanto tu riesci a donarmi. Se sparissi sparirebbe anche questo. Se mi lasciassi mi sentirei totalmente abbandonata e svuotata. E lo so che parlo quasi come se noi fossimo una coppia, ma è perché con te… con te ho instaurato un rapporto tanto particolare, che solo noi due condividiamo. E so che lo stesso vale per te. Ti conosco, Syaoran-kun, e so che non mi vuoi fuori dalla tua vita. So già che avrai da ridire che la tua non è vita, ma credimi, lo è. Finché c’è un cuore che batte, anche tu sei vivo. Anche tu sei umano. Siamo più simili di quello che credi, quindi ti prego, non dividerci così. Non separarci come se appartenessimo a due mondi diversi, perché tu ormai sei parte essenziale del mio mondo, così come io sento di essere divenuta parte portante del tuo mondo. Se dovessimo prendere strade diverse, entrambi perderebbero le loro fondamenta e crollerebbero.»
Mi ascoltava senza ribattere nulla, ma mi accorgevo di quanto fosse partecipe di quel che stavo dicendo. Sapevo che si trovava d’accordo con me, ma se non me lo diceva era sicuramente perché “voleva farmi vivere la mia vita”. Come se io fossi stata in grado di viverla senza di lui. Era sciocco anche soltanto a pensarlo.
«Adesso ho capito. In realtà, l’ho capito già da un po’ di tempo, ma non ho trovato mai il coraggio di dirtelo perché… avevo paura di rovinare tutto» aggiunsi flebilmente, calmandomi parzialmente. «Ma ormai non c’è più molto che resta da rovinare, quindi posso essere del tutto onesta.»
Alzai la testa, fronteggiandolo determinata.
«Ti amo. Ti amo, tantissimo. Immensamente.»
Lo vidi sgranare gli occhi come se avesse ricevuto una notizia sconvolgente, il suo volto perse totalmente colore, divenendo bianco quanto un lenzuolo. Mi sfuggì un breve sorriso in mezzo alla mia afflizione.
«Ammetto che, proprio a causa di questo amore, ho immaginato spesso che un giorno tu decidessi di mordermi e trasformarmi, affinché potessimo stare insieme per sempre. Ma sembra che abbiamo aspirazioni divergenti» conclusi fiacca, spezzandomi in una nota rotta. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a celargli il mio cuore infranto. Per quanto tentassi di raccoglierne i cocci, dei meri cerotti non bastavano a tenerli insieme e risanarli.
Mi misi in piedi e abbassai la testa, passandogli oltre. Ormai non mi restava più nulla da dirgli, per cui me ne andai, bagnata dalla pioggia e le lacrime.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Vorrei parlarvi di cose belle, ma dopo questo capitolo mi sono depressa. Non mi sembra ci sia nulla da spiegare, quindi vi confesso soltanto una cosetta: quando ho immaginato il componimento avevo in mente "L'allodola" di Balakirev e "Liebesleid" di Kreisler (lo scrivo per darvi un'idea di come dovrebbe essere; solo che in certi punti è un po' più dolce e allegro di questi). 
A presto

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Capitolo 36
*** Capitolo 35 ***


L’inizio della fine


 

Nei giorni successivi non feci altro che affliggermi ulteriormente nel mio cuore infranto. Smisi di mangiare come si deve, smisi di dormire, smisi di parlare. Quantomeno, provavo a mostrare una parvenza di serenità nei limiti del possibile.
Era soltanto una questione di tempo, come aveva detto anche Syaoran-kun presto sarei tornata a Tomoeda, dove mi aspettava la normalità. Cosa mai poteva essere doverlo incontrare inevitabilmente, giorno dopo giorno, e fingere che tutto fosse tranquillo come al solito tra di noi, che la sua presenza non mi trafiggesse l’anima e i suoi perpetui sguardi preoccupati non mi strappassero gli organi?
C’era una parte di me che, a dirla tutta, aveva vergogna solo a guardarlo. Ci si metteva l’imbarazzo perché, nonostante la ferita aperta dentro di me, non potevo ignorare il fatto che mi fossi realmente dichiarata. Per la prima volta nella mia vita mi ero innamorata e lo avevo detto ad alta voce. Ero riuscita, chissà come, a convogliare i miei sentimenti in parole e a trasmetterglieli in maniera chiara, cristallina, trasparente. Avevo compiuto il mio passo in avanti, avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per non perderlo. Ormai, di più non mi era concesso e lui sembrava aver deciso di restare indietro.
Com’era ovvio che fosse, sua cugina dovette accorgersi del cambiamento; dato che Tomoyo-chan, Eriol-kun e Feimei-chan s’erano diplomati era con lei che facevo il percorso fino a scuola e durante tutto il tragitto la lasciavo parlare. Mostrava a sua volta un’apparente spensieratezza e calma, di certo non difficile da costruire su quel suo viso perfetto. Ciononostante vedevo una ruga d’ansia solcare la sua fronte e ogni volta che mi accorgevo dei suoi occhi apprensivi fissi su di me la tranquillizzavo che fosse tutto apposto, sorridendo in maniera un po’ tirata, sperando di risultare convincente e che la conversazione cadesse il prima possibile, onde evitare che scavasse ancora più a fondo.
A casa mi sforzavo comunque di mandare giù qualcosa, più che altro per evitare domande. Immaginavo che le occhiaie, per quanto tentassi di mascherarle col trucco, non sfuggissero agli abitanti di quella dimora. Ma per quelle, potevo sempre sfruttare la scusa degli incubi – che, in tutta onestà, erano tornati. Forse c’entrava anche il mio stato d’animo, perché stavolta la voce mi diceva che se avessi dato il mio sangue in cambio sarei diventata una vampira e avrei potuto coronare il mio sogno d’amore. Sapevo che non dovevo ascoltarla. Sapevo che non dovevo farmi abbindolare. Eppure, notte dopo notte, cominciai seriamente a prenderlo in considerazione.
Ragion per cui cercai di nascondere tutto nei limiti del possibile alle abilità di Eriol-kun, concentrandomi su pensieri superficiali in sua presenza. Del tipo, mi lasciavo andare a lunghe riflessioni sui sapori che saggiavo o sulle condizioni meteorologiche, oppure inventavo di sana pianta sogni felici con la mamma per confonderlo. Non sapevo se lui potesse leggermi l’inconscio, andando oltre quella ragione costruita, ma non mi importava.
Quando vedevo che i suoi occhi indagatori indugiavano su di me accadeva anche che mi mettessi a fare i conti. Inizialmente erano sui giorni che mi restavano lì, visto che un pomeriggio di inizio maggio papà mi informò che stava per tornare definitivamente: sarebbe venuto in Hokkaido per ringraziare Sonomi-san dell’ospitalità che mi aveva offerto e poi saremmo ritornati insieme a casa; poi fortunatamente mi fu data la possibilità di concentrarmi su qualcosa di positivo: i giorni che mancavano all’Hanami, dato che proprio nello stesso periodo avevano cominciato a sbocciare i ciliegi.
La primavera stava arrivando, eppure dopo mesi di vento, pioggia, grandine e neve sembrava che l’inverno si fosse radicato nel mio cuore, avviluppandolo. Probabilmente neanche quando sarei ritornata nel mio caldo sud mi avrebbe del tutto lasciata. Ormai esisteva in me, così come in me esisteva Syaoran-kun.
Fare l’Hanami fu comunque una decisione presa unanimemente dalle ragazze, che doveva coinvolgere soltanto noi quattro e Akiho-chan. Forse perché si erano rese conto che un’ombra scura era calata su di me, forse perché si erano accorte che io e Syaoran-kun a malapena ci guardavamo. Succedeva solo al nostro arrivo a scuola e nel momento in cui dovevamo andarcene, ma durava una frazione di secondi ed io ero sempre la prima a distogliere lo sguardo, incapace di sostenere il peso del suo. Soltanto una volta, nel girarmi verso la borsa, con la coda dell’occhio lo vidi nella stessa posizione del primo giorno in cui gli rivolsi la parola: con la guancia appoggiata su una mano, guardava con aria spenta il panorama fuori dalla finestra, come se neppure lo vedesse davvero. Era tornato lo Syaoran-kun di sette mesi fa.
Sapevo di aver giocato un ruolo importante nel suo rinnovamento, me lo avevano ripetuto tutti, più volte, sebbene non avessi mai voluto credervi davvero. Avevo sempre avuto fiducia in lui, sempre visto al di là della corazza il giovane adolescente pieno di timore e gentilezza, che si celava dietro uno scudo impenetrabile per proteggere gli altri da se stesso. Dal mostro che si considerava essere. E ora si stava ritirando nuovamente in sé.
Non udii più la sua voce, per giorni e giorni e giorni. E faceva male, perché mi mancava. Così come mi mancava la sua tenerezza, mi mancava il suo flebile calore. Mi mancava la sua compostezza, mi mancava il suo abbassare le difese in mia presenza. Mi mancava il suo modo di chiamarmi, mi mancavano le sue promesse, mi mancavano le sue dolci parole che mi riempivano di speranza e conforto. Mi mancavano i suoi sorrisi. Era lì, a pochi centimetri da me, ma lo percepivo talmente lontano che era come se fossi tornata nel Kanto. Forse, sarebbe stato meglio per me tornarci davvero.






In un fine settimana di metà mese, io e le mie compagne di classe ci ritrovammo così a sedere tra l’erba, all’ombra di vasti ciliegi. Mi feci avvolgere dall’aria serena e frizzantina di quella giornata soleggiata, sebbene sarebbe stata di breve durata – le previsioni dicevano che nel pomeriggio si sarebbe annuvolato. Speravo soltanto che non apportasse complicazioni al volo di mio padre durante l’atterraggio, visto che proprio quella sera sarebbe tornato.
Lasciai che lo spirito allegro degli altri coinvolgesse anche me e mangiai più di quanto avessi fatto nelle ultime settimane, quasi ingozzandomi. Questo finché il cibo per poco non mi si bloccò in gola strozzandomi, quando Chiharu-chan chiese con delicatezza: «Sakura-chan, visto che a breve te ne andrai, ci puoi dire cos’è successo?»
Deglutii a fatica, sentendomi messa sotto pressione, e cominciai a sudare freddo.
«Cos’è successo?» ripetei debolmente, schiarendomi la voce per assumere un tono decente e controllato.
«Non fare la finta tonta» mi rimbrottò bonariamente e solo allora mi accorsi che tutte e quattro, Akiho-chan compresa seppure ci conoscessimo a malapena da un mese, mi guardavano impensierite. Ero spregevole a far preoccupare tanto futilmente delle persone che consideravo così care.
«Niente» mi strinsi nelle spalle, minimizzando il tutto.
«Non è “niente”» ribatté Rika-chan tristemente. «Stai così da ben tre settimane, è naturale che siamo in pensiero per te.»
Era già trascorso tutto quel tempo? Davvero?
«Non ce n’è bisogno» insistei, aprendomi in un sorriso.
«Sakura-chan, non serve fingere. Noi tutte ti vediamo più spenta, come se avessi perso i tuoi colori» mi mise al corrente Naoko-chan.
Mi morsi l’interno del labbro, chinando la testa, mortificata.
«C’entra Li-kun?»
Sobbalzai a quella questione di Chiharu-chan. Rivissi per un terribile attimo quel momento, risentendo le sue parole.
“Continuerai il liceo, ti innamorerai, un giorno ti sposerai, avrai una famiglia e dei bambini e in futuro anche dei nipoti, vivendo appieno la tua vita.”
Ma questa, Syaoran-kun, la si poteva chiamare vita?
Ripensai alla sua reazione, all’angoscia nei suoi occhi, quasi gli avessi gettato una secchiata d’acqua gelida in faccia dandogli la peggiore notizia che avesse mai udito. Ecco, ciò che pensava di me era quello. Ero un orrore per lui. Ero una dannazione, un terribile demone che lo infestava. Aveva sempre ragione onii-chan quando mi definiva un mostriciattolo.
«È successo qualcosa con lui?» insistettero.
Presi un respiro, pregando di non mostrare nulla, ma neppure più tentando di fingermi indifferente o serena. Come se pochi giorni bastassero a risanare una ferita talmente dolente nella sua invisibilità, inferta nel livello più profondo del cuore.
«Gli ho detto quello che provo per lui.» Sentii tutte trattenere il fiato, al che aggiunsi in tono basso e roco: «Ma lui non ricambia allo stesso modo.»
Faceva così male ammetterlo…
Chiusi le palpebre per qualche istante, finché non udii Rika-chan sbottare incredula: «Ma non è possibile!»
«Che cosa ti ha detto?» domandò più pacata Naoko-chan.
«Niente.»
«Niente?!» ripeterono in coro, sconvolte.
«È rimasto in silenzio. Temo di averlo scioccato.» La presi sul ridere, pur di non piangere.
«Non pensavo fosse un simile codardo» sibilò Chiharu-chan, sprezzante.
Improvvisamente, provai un irrefrenabile desiderio di proteggerlo. Proprio come facevo sempre. Come avevo sempre fatto. E come sempre avrei fatto, schierandomi costantemente dalla sua parte.
«In realtà, ha cominciato lui facendomi un discorso in cui… mi ha fatto capire che non aveva previsto un futuro insieme.» Presi un respiro tremante, stringendo le dita sulla stoffa della mia gonna. «E quindi ho deciso di dirglielo perché in parte speravo di fargli cambiare idea. Ma evidentemente ha preso la sua decisione e lo conosco abbastanza da sapere che è piuttosto testardo. Non cambierà idea» conclusi tristemente, ingrigendomi. Avevano ragione. I colori accesi li avevo lasciati indietro, nel posto che lui occupava.
Spostai gli occhi su ciò che indossavo: bianco sporco e più che rosa la maglia sotto il vestito mi sembrava grigio tortora. Era tutto così cupo, spento. Così assurdo…
«Continua a non avere nessun senso.»
Sorrisi a malapena, sentendole dare voce al mio stesso pensiero. Le vidi trastullarsi il cervello per cercare di carpirne qualcosa, inutilmente.
«Non vi preoccupate, mi passerà» mentii, tornando alla realtà e tenendomi occupata per mettere a posto il bentou.
Sapevo che loro erano ancora in cerca di una soluzione, una soluzione che non c’era. Mantenni lo sguardo basso, dispiaciuta. Sarebbero state male per me, anche se non ce n’era minimamente bisogno, senza che potessi chiarificare nulla. Senza che potessero ricevere una buona motivazione per tale afflizione. E questo valeva soprattutto per Akiho-chan, che ben poco sapeva di noi.
Alzai lo sguardo su quest’ultima, trovandola in pena, con le lacrime agli occhi. Come se stesse provando la mia stessa sofferenza. Perché? Perché sembrava comprendere pienamente come mi sentivo? Perché era triste anche lei? Perché la stavo facendo piangere così? Poteva mai essere tanto empatica e compassionevole da essere partecipe del mio dolore?
Mi affliggevo in cerca di una spiegazione, quando mi sentii tirare indietro. Mi voltai a guardare alle mie spalle, ma non c’era nessuno. Scandagliai l’area confusa, poi lo percepii di nuovo: un vento fresco che mi scivolava su una guancia, un lieve peso su una spalla, un tocco intermittente sull’altra, una leggera presa su un braccio. Spiriti. Rabbrividii, tentando di mantenere la compostezza, convincendomi che, come diceva sempre Touya, volessero solo giocare e cercare conforto in me, non farmi del male. Ci misi un po’ a capire che in realtà stavano cercando di attirare la mia attenzione, con l’intenzione di condurmi in un luogo.
Rinunciai al ritrarmi, decidendo di seguirli. Forse se li avessi accompagnati dove volevano recarsi mi avrebbero lasciata in pace.
Mi alzai di scatto dopo aver messo tutto a posto, e annunciai che mi sarei allontanata per qualche minuto. Con mia grande sorpresa anche Akiho-chan si mise in piedi, chiedendomi: «Posso venire anche io?»
Esitai per un attimo, ma poi annuii. Notai Chiharu-chan portarsi il telefono all’orecchio, mentre rispondeva ad una telefonata di Yamazaki-kun; le ragazze allora ci mormorarono che ci avrebbero aspettate, continuando a gustarsi i dolcetti.
Le salutammo brevemente, cominciando ad allontanarci. Restammo in silenzio per un po’, io troppo occupata a seguire l’invisibile scia fresca degli spettri per preoccuparmi dell’assenza di comunicazione. Non avevo idea di dove stessimo andando, ma quanto più ci inoltravamo in quella che mi sembrava essere una vera e propria foresta di ciliegi tanto più sembravano entusiasti. Era ciò che percepivo nell’aria.
Dopo un po’, tuttavia, fu Akiho-chan a prendere per prima la parola, mortificata: «Sakura-san, perdonami. Forse volevi stare un po’ sola per dare libero sfogo al tuo dolore, e io non ho fatto altro che mettermi in mezzo.»
Mi interruppi nei miei passi, guardandola sorpresa. La trovai con la testa abbassata, a stringersi la maglia in un pugno all’altezza del cuore. Come se le facesse male, fisicamente.
«Akiho-chan, stai bene?» chiesi preoccupata, avvicinandomi a lei per posare le mani sulle sue esili spalle, affinché potessi esserle parallela, rinunciando per un attimo alla missione che mi ero prefissata.
Non avevo mai notato quanto fosse esile e mingherlina, così pallida, dalla pelle quasi trasparente, e i suoi occhi azzurri e quei boccoli color cenere la rendevano ancora più… effimera. Era proprio come aveva detto Syaoran-kun.
«Sì» mi assicurò, mostrandomi un sorriso debole. «Io sto bene, ma tu Sakura-san sembri soffrire così tanto… e io mi sento così impotente. Sono consapevole di non poter fare nulla per alleviare le tue sofferenze, ma tu hai fatto così tanto per me. Mi sei stata vicina sin dal primo momento, aiutandomi e sostenendomi ogni qualvolta ne avessi bisogno. Sei diventata così preziosa per me, una persona che per qualche ragione sento parte di me, come se tu fossi una sorella che non ho mai conosciuto.»
Spalancai gli occhi, sconvolta da tutto ciò. Io mi ero chiusa nel mio bel mondo d’amore, senza rendermi conto di ciò che mi era attorno. Senza accorgermi di quanto, inconsciamente, stessi facendo per lei.
«Akiho-chan, sono contenta se la pensi così…» sussurrai, incerta di come sentirmi.
Ero lieta delle sue parole, ma allo stesso tempo mi provocavano un senso di malinconia che non riuscivo a spiegarmi.
«Per questo vorrei riuscire a ripagarti in qualche modo… Ma non so come…» si torturò, mordicchiandosi il labbro.
A questo sorrisi calorosamente, rassicurandola.
«È già tantissimo quello che stai facendo, credimi. E non sai quanto mi siano di conforto le tue parole.»
«Però sembri così infelice. È come se i tuoi occhi continuassero a versare lacrime inarrestabili…»
Questo diceva di me, eppure era lei a piangere. Mi sentii un groppo in gola e posai le mani ai lati del suo viso, alzandoglielo verso di me, asciugandole le guance coi pollici.
«Perché stai piangendo?»
«Perché mi sento inutile, sciocca, una bambina bloccata nei propri sogni, coi suoi amici immaginari con cui riesce a giocare e divertirsi, senza riuscire a far sorridere le persone reali che conosce, come invece vorrebbe. È così frustrante.» Rise lievemente, in mezzo al pianto.
«Di cosa stai parlando?»
Mi sentivo confusa, ma soprattutto triste. Ormai la tristezza faceva da padrona nel mio cuore.
«Sakura-san, sei la prima persona a cui lo rivelo» esordì, facendosi un po’ indietro per tirare su col naso. Col sorriso che mi rivolse mi sembrò ancora più fragile, ferendomi nell’animo.
«Vedi, sin da quando ero bambina non ho mai avuto amici. La mia famiglia non mi ha voluta, sono cresciuta in un orfanotrofio e lì per il mio carattere chiuso e introverso venivo unicamente presa in giro. Per questo mi sentivo inadeguata, come un pesciolino fuor d’acqua, e non riuscivo a stringere amicizia con nessuno. Dall’età di quattro anni venni affidata a diverse famiglie in molteplici Paesi, finché non fui infine adottata qui in Giappone. Trascorsi molti anni insieme alle uniche due persone che sembravano volermi realmente bene, le uniche due persone che chiamavo “mamma” e “papà”, finché non accadde una tragedia: furono coinvolti in un incidente automobilistico e dopo non molto tempo mi lasciarono.»
Trattenni il fiato, cercando di capacitarmene, sentendomi morire.
«Da allora sono stata affidata al maggiordomo che lavorava presso essi, ma ho finito col commettere un errore madornale: mi sono innamorata di lui. Forse perché è l’unica persona a mostrare cura nei miei confronti, anche se lo so che resta al mio fianco soltanto perché è il suo dovere… Perché deve molto alla mia famiglia, perché la rispetta, perché vuole mantenerne vivo il ricordo… So che è un mero lavoro per lui, eppure io sono così contenta di tutte le attenzioni che mi rivolge. Dei suoi sorrisi, delle sue dolci parole, del suo rispondere continuamente ai miei bisogni, anche quando io gli dico che non è necessario, anche quando gli faccio capire che può smettere di servirmi e restare al mio fianco semplicemente per la persona che è, non per il ruolo che ha… Ma possiamo dire che Kaito-san sia piuttosto testardo.» Fece una mezza risata e anche io abbozzai un sorriso, ascoltandola attentamente.
Strinsi le sue mani tra le mie, sentendomi coinvolta, seppure la sua vita fosse stata terribile rispetto alla mia. Eccola, l’ennesima persona che aveva sofferto senza che lo meritasse.
«Mi dispiace tanto…» mormorai soltanto, consapevole che di più non fosse in mio potere di fare o dire.
«Non importa.» Sorrise più apertamente, ricambiando la stretta. «Sai, è stato lui a consigliarmi di venire qui. Quando ho conosciuto Chiharu-san in estate lui ne è parso molto entusiasta, visto che lei è la mia prima amica. Ammetto che quando è dovuta tornare a casa mi sono sentita molto triste, ma Kaito-san mi è stato affianco sempre, costantemente, e mi ha ripetuto spesso di trascorrere del tempo qui con lei. A saperlo che avrei conosciuto te, Naoko-san e Rika-san mi sarei lasciata convincere prima. Siete tutte così gentili e buone con me. Non mi escludete, mi invitate a far gruppo con voi, mi rendete partecipe di tutto ciò che vivete -»
«È naturale che sia così» la interruppi, parlandole dolcemente. «Sei una nostra amica, Akiho-chan.»
Mi guardò stupita, ma subito nuove lacrime scivolarono copiose dai suoi occhi, prima che si gettasse tra le mie braccia.
La strinsi, carezzandole i capelli, sperando di consolarla, pensando a quanto potesse essere stata dura la sua infanzia solitaria.
«Ci sono io. Ci siamo noi con te» la rassicurai.
Lei annuì sulla mia spalla, staccandosi di poco per guardarmi disperata.
«Per questo mi dispiace. Sei una persona così bella, Sakura-san. Non meriti questa sofferenza.»
La fissai interdetta, scuotendo vigorosamente la testa.
«Sei tu che non la meriti, Akiho-chan. Non è giusto che tu abbia dovuto vivere tutto questo, ma purtroppo il passato non può essere cambiato.» E questo valeva per entrambe. «Impegniamoci in vista del futuro.»
Assentì con forza e si allontanò di più per asciugarsi, ringraziandomi per averla ascoltata, compresa e incoraggiata. Eppure avrei voluto avere il potere di fare molto di più…
Attesi che si calmasse prima di riprendere il cammino, cercando di percepire gli spostamenti d’aria attorno a me; ma proprio mentre ero intenta a fare questo vidi Akiho-chan arrestarsi di nuovo nei suoi passi. Mi voltai verso di lei, temendo che stesse ancora male e desiderasse continuare a sfogarsi; tuttavia, quando mi girai completamente, la trovai a rimirare il vuoto, con sguardo vacuo.
«Akiho-chan…?» la richiamai preoccupata. Cosa le stava succedendo?
Lei volse di poco la testa nella mia direzione, con un lieve scatto, quasi come un automa. Quasi fosse una bambola senza vita. E improvvisamente lo sembrava, una di quelle bambole da collezionisti, con gli occhi vitrei, i riccioli ad incorniciarne il viso di porcellana, gli abiti pieni di balze e merletti, la bellezza immortale di un’altra epoca.
Rabbrividii, spaventata, e arretrai. Era l’agire di uno spirito? L’aveva posseduta? Volevano punirmi per averli messi da parte?
«A… Akiho-chan…» ritentai, tremante, sentendomi la pelle d’oca.
Lei sussurrò con voce spenta, a malapena udibile, un nome che non mi apparteneva, prima di perdere i sensi e crollare, come una marionetta cui erano appena stati recisi i fili. Feci un passo in avanti, allungando un braccio verso di lei, ma mi bloccai vedendo che non cadeva più. Non toccò mai terra, in quanto fu presa al volo da un ragazzo che sembrava poco più grande di noi. Aveva a sua volta una pelle chiara, nivea, occhi d’ametista simili a quelli di mia cugina, ma più freddi e ambigui, lisci capelli corvini e una tenuta da maggiordomo.
“Kaito-san…” pensai, realizzando poco alla volta come mai, nonostante fosse la prima volta che ci incontravamo, sembrasse così familiare. E tale realizzazione prese forma nel momento in cui mi sorrise dolcemente, parlandomi con quel tono mellifluo e carezzevole.
«Finalmente ci incontriamo, Sakura-san.»
Mi pietrificai sul posto, sentendomi risucchiare in un vortice.
«Yuna D. Kaito…» sussurrai soltanto, in tono soffocato.
Fece un piccolo cenno con la testa, in conferma. Il suo sorriso si allargò mostrandomi i suoi denti, con due canini affilati che scintillavano alla pallida ombra delle nubi. Il suo sguardo sembrava rassicurante, eppure adesso che lo vedevo mi faceva più paura che mai.
Lui mi aveva trovata e questo significava soltanto una cosa: per me era la fine.










 
Angolino autrice:
Buon primo maggio! Con un capitolo bellissimo, non c'è che dire... Ad ogni modo, pubblicherò anche domani e dopodomani per non far passare troppo tempo tra una scena e l'altra (anche perché quelle che seguiranno sono abbastanza importanti).
Le parole straniere utilizzate in questo capitolo sono "Hanami" (che consiste nel fare picnic guardando i fiori - e con fiori si intendono i ciliegi) e "bentou" ( = pranzo al sacco). 
Con questo credo di non dover dire altro, solo grazie a chi è arrivato fin qui e continuerà a seguirmi anche d'ora in avanti!

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Capitolo 37
*** Capitolo 36 ***


La chiave



 
Non avevo idea di come dovessi comportarmi. Non avevo idea di come reagire. Non sapevo cosa fare.
In preda al panico, mi guardai frettolosamente attorno, sperando di vedere qualcuno all’orizzonte. Andava bene chiunque, purché potesse avere la forza necessaria per affrontarlo. Forza che a me certamente mancava.
«Se aspetti rinforzi sappi che è del tutto vano.»
Lo fissai terrorizzata, colta da un terribile presentimento.
«Cosa -»
«Non preoccuparti, non li ho rapiti, legati, torturati o cose simili. Non è proprio nel mio stile» ridacchiò divertito. «Sono solo impegnati in una battaglia.»
«Una… battaglia…?» ripetei in ansia, chiedendomi se non avessi sentito male. Com’era possibile che non ne sapessi niente? Che non avessi avuto alcun presagio, che i miei sogni non mi avessero messa in guardia…
“Perché i tuoi sogni sono controllati da lui”, mi risposi da sola.
«Distante da qui, naturalmente, così non potranno interromperci» garantì con fin troppa sicurezza.
Mi sentii mancare, ma dovevo restare cosciente. E, soprattutto, abbastanza sveglia da tenere gli occhi ben aperti. Per questo pregai soltanto per la loro incolumità, sperando che nessuno di loro si ferisse – al peggio non osavo neppure pensarci.
«Ho approfittato della fortuita assenza di Akiho-san per crearmi un piccolo esercito» mi informò, mentre adagiava con delicatezza Akiho-chan sul suolo. «Non potevo farlo con lei nei paraggi. Avevo già mandato qualcuno in avanscoperta per scoprire qualcosa di più sul tuo conto, ma come avevo supposto sei circondata da angeli guardiani. Dovevo pur tenerteli lontani in qualche modo, no?»
Ignorai i brividi che mi attraversarono, spostando invece l’attenzione sulla mia amica ai suoi piedi. Sembrava morta, priva di vita.
«Che cosa le hai fatto?» Mi sforzavo di celare il timore dietro ad un’impavida corazza, per non mostrarmi impaurita, eppure quella nota gracile nella mia voce mi tradiva.
«Nulla. Sta solo dormendo.»
Le spostò delicatamente i capelli dal viso e io all’improvviso ricordai i sogni in cui la sua voce mi parlava. Lì aveva fatto riferimento ad una persona che doveva salvare… e se questa persona fosse stata Akiho-chan, dubitavo volesse ferirla. Ciononostante era pur sempre un D., ed Eriol-kun aveva detto che essi erano senza scrupoli. Facevano del male, indiscriminatamente.
«Come posso esserne sicura? Come potrei fidarmi di te?» domandai allora, con la rabbia che mi faceva tremolare la voce.
«Non puoi, in effetti» riconobbe, stringendosi nelle spalle. «Ne abbiamo già discorso in queste notti, ma alla fine sta a te decidere» concesse.
“C’è una persona che devo salvare e, per fare questo, mi serve il tuo sangue.”
Le sue parole mi riecheggiarono nella mente, ripetutamente, come un disco rotto su un grammofono, stridenti e spezzate, penetranti, dolenti.
Guardai nuovamente Akiho-chan stesa a terra. All’apparenza, sembrava davvero che stesse semplicemente dormendo. Mi morsi il labbro, indecisa. Osservai per un attimo quell’uomo che le carezzava i capelli con dolcezza. Forse anche lui la amava. Forse ricambiava il suo sentimento, e almeno Akiho-chan avrebbe potuto essere felice. Forse qualunque cosa avesse dovuto fare con me sarebbe stata a fin di bene. Forse quella non era una menzogna.
In tal caso, non potevo portargliela via – e anche volendo, non ne avrei mai avuto la forza. Non avevo poteri, non potevo affrontare un vampiro da sola nella mia debolezza umana. Se almeno fossi riuscita a raggiungere gli altri, ovunque si trovassero, pur sempre augurandomi di non essere d’intralcio… Se fossi riuscita ad avvisarli, se almeno uno di loro mi avesse sentita, forse c’era possibilità di salvezza per tutti.
Mia madre mi aveva consigliato di parlare col nemico, ma figuriamoci se fosse stato disposto ad ascoltarmi – e in effetti, non sapevo neppure cosa dovessi dirgli. Di certo, nella sua saggezza Eriol-kun doveva saperne di più.
Per questa ragione feci l’unica azione che mi sentivo in grado di compiere, per quanto mi facesse apparire codarda: cominciai a correre con tutte le mie energie, allontanandomi di lì alla massima velocità concessami dalle mie gambe, e mi guardai disperatamente intorno, tentando di capire come uscire da quel labirinto di ciliegi, diretta verso un luogo senza nome. Un posto indefinito, guidata unicamente dal mio urlante pensiero.
“Eriol-kun, ascoltami! Ascoltami, ti prego!”
Una parte di me sperava che gli spiriti potessero aiutarmi, potessero indicarmi la strada per trovarli e salvarmi… Invece, mi sembrava che essi provassero a trattenermi, a riportarmi dov’ero. Li sentivo ghermire le mie braccia con le loro invisibili, forti, dita, e tirarmi indietro, verso il luogo da cui stavo tentando di scappare. Perché? Perché volevano che io lo assecondassi?
Provai a ribellarmi, ma in ogni caso non riuscii ad andare molto lontano; nel giro di un battito di ciglia mi ritrovai con la schiena a terra, bloccata da quell’uomo.
«Se tenti di scappare, Sakura-san, mi vedrò costretto a spezzarti le gambe» minacciò in tono melenso, con quel perenne sorriso artificioso in viso.
Mi si strinse lo stomaco per la paura. Cosa dovevo fare? Quali altre possibilità avevo? Mi parve di sentirmi il cuore rimbombare in testa; i suoi battiti accelerarono quando mi sfiorò una guancia con le sue gelide dita, con una tenerezza simile a quella usata con Akiho-chan. Dov’era lei? L’aveva lasciata indietro? L’aveva abbandonata? O l’aveva portata con sé?
Spostai lo sguardo attorno a noi, vedendola a breve distanza: continuava a dormire all’ombra di un ciliegio. Mi si formarono le lacrime agli occhi. Cosa le era successo? Perché all’improvviso era mutata così tanto? Perché aveva perso i sensi? Che stregoneria aveva attuato su di lei? E quando lo aveva fatto, se io ero rimasta sempre al suo fianco?
«Sakura-san.»
Al suo richiamare la mia attenzione tornai a guardarlo, guardinga. Qual era il suo potere?
Quasi capisse quel che stavo provando i suoi tratti si ammorbidirono, tanto da fargli assumere un’espressione rassicurante. Fui angosciata dalla mia stessa calma.
«Sai cosa è meglio fare in questa situazione. Ricorderai anche tu cosa accadrebbe se dovessi provare a ribellarti. L’hai sognato tu stessa. Sai bene che non saresti l’unica a pagarne le conseguenze. Devo forse rinfrescarti la memoria?»
Sgranai gli occhi, visualizzando quella stessa scena: Syaoran-kun disteso a terra a pochi passi da me, pieno di ferite, privo di vita.
«Non fargli del male!» gridai, allungando la mano verso la sua immagine. Il terrore mi si rampicava addosso, pungendomi con le sue spine.
«In effetti, questo non posso promettertelo. Facciamo così: se collabori, ammettendo che lui dovesse sopravvivere ai miei soldati, non oserò neppure sfiorarlo» sussurrò accanto al mio orecchio, entrandomi nella mente.
«Nemmeno gli altri! Nessuno deve morire!» insistei disperata, angosciata, ponendo tutte le mie speranze in quel patto.
«Nemmeno gli altri» promise. «Hai la mia parola.»
Avvertii le lacrime scivolarmi lungo le tempie e, a quel punto, mi arresi. Se fosse stato per salvare tutti lo avrei assecondato. Dovevo soltanto avere fiducia in loro e credere che ce l’avrebbero fatta: sarebbero sopravvissuti, tutti.
Mi voltai docile verso quel viso angelico e gli feci capire che avevo preso la mia decisione.
«Perfetto! D’altronde, non dimenticare che anche tu ne gioverai: dopo che mi avrai aiutato esaudirò il tuo desiderio. Non dovrai più soffrire.»
Sorrise incoraggiante, prima di alzarsi e prendermi in braccio, portandomi accanto alla mia nuova amica.
Che stranezza… Mi sentivo debole e intorpidita, fiacca, come se avessi corso per tutto il Giappone. Non percepivo più le gambe, le braccia, la mia testa, il mio busto… Era come se trascendessi dal mio corpo, come se mi trovassi oltre esso. Come se la mia anima vagasse in uno spazio incerto, indefinito, avvolto dal buio, rendendomi incapace di qualunque cosa. E allora capii quali fossero le sue abilità: lui bloccava la mia volontà. Lui entrava nel mio subconscio e la spegneva, quasi ci fosse un interruttore, cancellandola totalmente. Mi sentivo incapace in tutto. Compreso nel pensare.
Per cui rimasi a guardare quel che accadeva completamente estraniata, spenta, come una bambola senza vita. Proprio come Akiho-chan.
Stranamente non mi posò accanto a lei, sul suolo, bensì saltò su un albero maestoso, dalla chioma immensa. Era il ciliegio più grande che avessi mai visto in vita mia, doveva essere ultracentenario. Mi chiesi come avessi fatto a non notarlo prima, grande com’era. Doveva essere largo quanto tutto l’edificio scolastico.
Giunse su un ramo abbastanza ampio con ramificazioni a ventaglio e qui mi adagiò. Era assurdo come ogni sua singola azione fosse totalmente priva di violenza, sebbene il suo intento fosse ovviamente cattivo. Quale fosse, tuttavia, ancora non lo avevo capito.
Stava per allontanarsi da lì per tornare da lei quando riuscii finalmente a far uscire di nuovo la mia voce, seppure risultasse fioca persino alle mie orecchie. Riecheggiava soffusa nella mia mente, ma speravo che a lui potesse suonare più nitida.
«Mi trasformerai in una vampira?»
Si voltò di poco, e attraverso l’offuscamento lo vidi sorridere con indulgenza, come se stesse avendo a che fare con un’ingenua bambina. Probabilmente era così, non era impossibile che fosse molto più vecchio di me. E io, nelle sue mani, in sua presenza, mi sentivo come un’infante.
«Sarà Akiho-san a farlo. Io non posso.»
Lui non poteva? Akiho-chan, invece, sì?
Seguii i suoi movimenti eleganti rintronata, vedendolo posare il suo corpo ciondolante affianco al mio. Accostò insieme l’indice e il medio della mano destra, posandone le punte verso il tronco; da esso apparvero nuovi rami, i quali mi si avvolsero intorno e mi strinsero, quasi fossero delle corde.
«Per essere sicuro che non tenterai la fuga» spiegò carezzevole.
Chiusi per un attimo gli occhi, sospirando per quanto fosse insopportabile. Aveva un’apparenza troppo gentile, non riuscivo a resistervi. Non volevo neppure farlo.
«Non scapperò più» garantii, guardandolo apatica, inespressiva, del tutto svuotata. Che il ciliegio mi stesse risucchiando le poche energie che mi rimanevano? O lo stavano facendo quei fantasmi che ancora mi toccavano, ancora mi sfioravano, bisognosi di conforto?
«Lo spero per te.»
«Akiho-chan… lei… non è una vampira…» riflettei ad alta voce, ripensando alla sua promessa.
Perché mi mentiva su una cosa simile? Cosa ci guadagnava? La mia fiducia? Anche volendo, non sarei mai riuscita a negargliela.
«Non ancora» confermò, prendendo gentilmente il mio polso. «Ma grazie a te potrà diventarlo.»
«Grazie a me?» ripetei affannata e nauseata, sentendomi sottosopra.
Che senso di pesantezza… Non capivo se fossero i ruvidi rami che mi stringevano il petto a soffocarmi o ci fosse davvero qualcosa sui miei polmoni, ad appesantirli, rendendo difficile persino respirare.
«Grazie al tuo sangue.»
Detto ciò si portò il mio polso alla bocca, mordendomi senza alcun preavviso. Qualcosa scattò in me, una forza che davo perduta mi permise di ritrarre immediatamente il braccio mentre gli gridavo di fermarsi, nel panico. Ma ormai era già troppo tardi: osservai sconvolta il sangue che già scorreva giù dal mio polso tremante, i rivoletti che scivolavano lungo la mia pelle, impregnandomi la manica.
No… Non così… Aveva detto che non poteva!
Lo fissai sconcertata, portandomi quello stesso braccio accanto al corpo, sperando di fermarne il flusso in qualche modo; lui intanto valutava, leccandosi le pallide labbra: «È delizioso, proprio come lascia intendere il tuo odore. Il tuo ragazzo ha già avuto modo di saggiarti?»
Sbiancai dinanzi a quel quesito, sentendomi precipitare negli abissi della disperazione. Della solitudine. Dell’abbandono. Mi sentivo così sola, sola con me stessa, una me stessa così fragile e arrendevole…
Lo vidi avvicinarsi al collo di Akiho-chan prima di fermarsi, guardandomi con aria riflessiva.
«Che spreco» sospirò, riafferrandomi il braccio. Provai di nuovo a ritirarlo, con tutte le mie energie, ma stavolta la sua presa era ferrea. «Non dissiparlo macchiandoti i vestiti. Non immagini neppure quanto sia prezioso il tuo sangue. Non solo per me.»
In seguito a quest’ultima affermazione, mi accorsi di qualcosa che fino ad allora avevo parzialmente ignorato: mi sentivo il corpo più leggero e, al contempo, era come se tante mani mi stessero agguantando quell’arto ferito. Decine di mani di diverse dimensioni, di anziani, adulti e bambini, impalpabili, invisibili, ma raggelanti. Mi si raggrupparono le lacrime negli occhi, visualizzandole, dandovi una forma trasparente, dal contorno vetroso. Era come se si stessero arrampicando su per il mio arto, disperatamente alla ricerca del mio sangue, quasi fosse la loro linfa vitale.
Ricordai quello che mi aveva detto mamma: il mio sangue era una porta per i due mondi. E mio fratello lo aveva sempre ripetuto, che le anime vaganti erano attratte da me perché ero un conforto. Ma allora, anche esse lo bramavano?
Scoppiai a piangere, percependo una sofferenza atroce. Mi accorsi, tuttavia, che non ne era una sola, piuttosto era un’unione di molteplici sofferenze. E non provenivano da me, bensì da fuori di me. Mi impregnavano la pelle, scavandomi le ossa, insinuandosi nelle mie vene, riempiendomi di dolore. Erano le loro pene.
«Basta» lo implorai con un fil di voce, incapace di sostenerle. Erano troppe, erano intense.
Cosa potevo fare per loro? Come potevo risollevarli? Come potevo aiutarli a passare oltre?
«Non abbiamo neppure cominciato e già non ce la fai più?» domandò con una punta di scherno. «Visto che sei la chiave che unisce i due mondi, ti ritenevo più aitante.»
Mi morsi il labbro, trattenendo i singhiozzi. Desiderio di sparire, abbandono e solitudine, due sentimenti che mi erano così familiari. Tradimento e disillusioni. Abusi e violenza. Sofferenze fisiche e morali.
«Basta!» ripetei con maggiore impeto, in un grido roco e dilaniato.
Tentai nuovamente di liberarmi, sebbene quanto più mi muovessi tanto più i rami mi si stringessero attorno, soffocandomi, e le incorporee mani dei miseri mi strisciavano addosso…
“Syaoran-kun… Syaoran-kun…”
Gli rivolsi ogni mio pensiero ancora cosciente, usando quel poco di consapevolezza che mi restava per pregare che lui stesse bene. Che a lui non succedesse niente. Che sopravvivesse. Che non sapesse nulla di quello che stavo passando. Eppure, egoisticamente, in parte volevo che fosse qui con me, al mio fianco. Non per combattere, non per sostituirsi a me e farsi male al mio posto, ma per supportarmi e assicurarmi che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Mi sarebbe bastato quel poco. La sua mera presenza. Un tacito incoraggiamento a non arrendermi e lasciarmi sopraffare.
«Non ribellarti, Sakura-san. Così non fai che peggiorare le cose. Se dovessi morire il tuo sangue non potrebbe aiutare più nessuno» mi rimbrottò affabilmente Kaito-san, allentandomi di poco dei rami che mi stringevano la gola e il petto, rendendomi un po’ più leggeri i polmoni.
Dalla mia bocca uscirono soltanto rantoli spezzati, raschianti.
Riaprii faticosamente gli occhi e attraverso un velo lo vidi rivolgermi un sorriso confortante.
«D’altronde è tutto vano. Ormai non si può più tornare indietro.»
Fu allora che vidi altro sangue impregnare le sue labbra: non il mio, ma quello di Akiho-chan.
Tornai repentinamente in me e mi voltai verso di lei, terrorizzata, vedendo un morso anche all’altezza della sua giugulare. La stava trasformando?
Afferrò il mio polso per portarlo accanto al suo collo, pose le dita attorno alla ferita aperta e premette contro essa per far sì che ve ne uscisse più sangue; tuttavia, neppure una goccia riuscì a cadere oltre la mia pelle, perché proprio quando stava per succedere io e Akiho-chan ci ritrovammo improvvisamente sole.
Sbattei le ciglia per qualche secondo, la mia coscienza tornava lentamente a rispondermi. Tolsi rapidamente il braccio, sentendomelo tutto indolenzito e mi voltai freneticamente a destra e sinistra, tentando di capire cosa stesse accadendo. Ora che stavo riprendendo possesso di tutte le mie facoltà la paura mi stava attanagliando, mostrandomi tutto appannato, come se mi trovassi al di sotto del mare, nelle più scure profondità dell’oceano; eppure il terrore che avevo provato dalla comparsa di quell’uomo non era nulla se comparato a quello che germogliò in quel momento. Misi a fuoco la persona che era corsa in nostro aiuto, sentendomi ghiacciare fin dentro al cuore.
Syaoran-kun era lì.

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Capitolo 38
*** Capitolo 37 ***


Il sangue del ciliegio



 
Non ero certa di sapere come mi sentissi. Da un lato ero sollevata, perché se Syaoran-kun era lì, in carne ed ossa, e non era un mero miraggio mostratomi da Kaito-san o un frutto maturato dalla mia mente, poteva solo significare che stava bene. Che era sopravvissuto, che era uscito indenne dalla battaglia, che era salvo. Che aveva combattuto e aveva vinto, proprio come credevo.
Ma dall’altro mi spaventava l’idea che fosse realmente lì con noi. Fino a qualche secondo prima era ciò che io stessa avevo desiderato, ciò in cui avevo sperato, ma a mente lucida capivo che fosse una situazione terribile. Soprattutto se si fosse accorto di me e delle mie condizioni.
Chiusi gli occhi per un secondo, lottando contro il bruciore che sentivo sulla ferita aperta, percependo solo allora il freddo degli spiriti come qualcosa di lenente. Riaprii le palpebre, sopprimendo un lamento, anche a causa della limitatezza dei miei movimenti.
Mi sforzai di analizzare la situazione, per quanto fosse possibile, e tornai a guardare le due persone a qualche metro da me. Syaoran-kun doveva aver scagliato lontano da noi quell’uomo, senza che neppure me ne accorgessi. E supponevo stesse fermo lì per assicurarsi che non tornasse qui.
Lo vidi voltarsi per un attimo a guardarmi. Trattenni il fiato, sebbene così non facessi che intensificare le mie sofferenze. Ma non erano nulla se comparate a ciò che attraversò il suo viso, non appena notò lo stato in cui giacevo, inerme. I suoi occhi mi scandagliarono dalla testa ai piedi, adombrandosi sempre più, riempiendosi di timore quando si arrestarono sul mio braccio. Inconsciamente feci la prima cosa che mi venne in mente, ossia premere la ferita contro il mio fianco, sperando che non sentisse il mio sangue fino a lì. Che non lo travolgesse, non lo turbasse, non lo uccidesse. Sapevo che fosse una speranza vana, considerato che ne erano imbrattate anche le mie vesti, ma era quantomeno prudenza.
Disperata, scoppiai a piangere di nuovo.
«Mi dispiace» sussurrai flebilmente, sentendomi morire, certa che riuscisse ad udirmi. Come potevo infliggergli tutto quel dolore? Perché io? Perché proprio io dovevo nascere con quel sangue?
A tali parole vidi i suoi occhi lampeggiare, per poi posarli con rabbia su Kaito-san. Non mi ero minimamente accorta che, intanto, si fosse rimesso in piedi e si rassettava, come se nulla fosse. Syaoran-kun ringhiò furioso, preparandosi ad attaccarlo, al che vidi Kaito-san scuotere la testa.
«Le avevo anche promesso di non ucciderti.» Si finse desolato, ma stavolta mi fu chiaro lo scintillio assassino che attraversò le sue iridi di pietra. Sul suo volto calò una maschera, facendovi apparire un crudo divertimento.
«Syaoran-kun, lascia stare! Vai via!» lo implorai, con quanto fiato mi era rimasto in corpo.
Ignorando quanto bruciasse la ferita, provai a strappare i rami con la mano libera. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa per uscire da quel torpore. Non potevo restare soltanto a guardare mentre lui rischiava la sua vita per me. E se fosse andata come nel mio sogno… No, non potevo permetterlo! Non potevo accettarlo!
Syaoran-kun e Kaito-san cominciarono a lottare senza che neppure me ne rendessi conto: semplicemente, quando tornai con lo sguardo da loro vidi Syaoran-kun avventarsi violentemente su di lui e Kaito-san nel mentre ghignare dilettato, sia quando scansava un colpo che quando lo riceveva. Pazzo, doveva essere pazzo. E dal piacere che sorgeva dal suo sguardo compresi che non stava aspettando altro che quel momento. Forse stava prendendo tempo apposta, affinché Syaoran-kun potesse raggiungerci. L’aveva definito il mio “ragazzo”, quindi era certo che prima o poi sarebbe accorso a salvarmi. Forse, al di là del nostro accordo, ucciderlo era la sua intenzione fin dall’inizio.
L’ansia mi si avviluppò attorno a tutti gli organi. Smisi di guardarli, provando nuovamente a strappare le catene di legno che mi costringevano, invano. Dannazione, dovevo assolutamente andare da loro, avvisare Syaoran-kun, fermarli in qualche modo… anche a costo di sacrificarmi!
Fortunatamente, proprio mentre meditavo sul come suicidarmi nonostante gli impedimenti, un altro paio di mani si posò sulle mie. Guardai il proprietario di esse, piagnucolando rincuorata.
«Tomoyo-chan!»
«Sakura-chan, stai tranquilla. Ci siamo noi adesso» mi rassicurò, strappando via le fronde senza alcuna difficoltà.
Per un attimo dimentica dei miei propositi mi voltai automaticamente verso Akiho-chan, sperando di poter trovare un modo per frenare il suo sangue, immaginando che la sua ferita sul collo potesse essere più grave della mia; con mio grande sollievo, scoprii che al suo fianco c’era già Meiling-chan a tamponarla con della stoffa. Mi sorrise tirata e capii che si stesse sforzando di non respirare. La realizzazione di quanto potesse essere atroce per loro mi colpì appieno.
Mi guardai freneticamente attorno, alla ricerca d’acqua con cui ripulirmi. Ma c’erano soltanto ciliegi fioriti. Ciliegi, ciliegi, ciliegi sopra di me, sotto di me, tutt’attorno a me, fuori e dentro di me. Il loro odore asfissiante misto a quello del sangue. Se era insopportabile per me, quanto poteva esserlo per loro?
Stringendo i denti mi strappai una parte della gonna, per avvolgermela attorno al polso, ma Tomoyo-chan me lo impedì, mostrandomi un piccolo sorriso.
«Non preoccuparti per noi. Il tuo sangue può tornarci utile.»
Ad un suo cenno Meiling-chan si alzò e portò Akiho-chan via; entrambe sparirono nel nulla, venendo sostituite da una breve folata di vento.
Mi voltai allora verso Syaoran-kun, notando che sia lui che Kaito-san sembravano affaticati. Mi alzai in piedi, lasciandomi sorreggere da Tomoyo-chan, e pregai per l’incolumità di Syaoran-kun.
Esattamente in quel momento Kaito-san fece oscillare una sorta di orologio da taschino dorato, dal quale si irradiò una lieve luce bianca; quando essa si affievolì apparve al suo posto una spada lunga e sottile, simile ad un fioretto, con un’elsa complessa che ne avvolgeva la mano come una sorta di rete ondosa. Aprii la bocca basita, impaurita, guardando immediatamente Syaoran-kun; con mia grande sorpresa lo vidi ripetere i suoi stessi movimenti, usando un bracciale che non avevo mai notato. Il ciondolo col Tao si illuminò, e da esso apparve a sua volta una spada a doppio filo, con la lama larga, la punta affilata e l’elsa piatta, alla cui impugnatura erano appese due frange rosse. Sbalordita, li vidi scontrarsi nuovamente, ogni loro colpo faceva scintille. Nonostante la paura, li trovavo affascinanti nella loro rabbia omicida.
Tomoyo-chan mi ridestò dal mio incanto, riportandomi alla realtà.
«Approfittiamone» mi disse sottovoce.
Lasciai che mi scortasse fino alle radici del maestoso albero, al lato opposto rispetto a quello in cui stava avvenendo il combattimento. Mi prese il polso con fretta ma cautela e premette sulla pelle squarciata, facendone fuoriuscire più sangue. Strizzai gli occhi, mordendomi con forza le labbra per non gridare.
«Perdonami Sakura-chan, ma è l’unico modo che abbiamo per salvare tutti.»
Mi fidavo di mia cugina, per cui sebbene non mi fossero molto chiare le sue intenzioni la lasciai fare, sopportando il dolore. Guardai fiacca il sangue scivolare giù in sottili rivoli, bagnare le radici, seguendone le insenature per poi essere assorbito dal terreno.
In un tono talmente basso che a malapena la udivo Tomoyo-chan cominciò ad intonare una canzone dolcissima, confortante, simile ad una ninnananna pacificante. Mi lasciai cullare e cingere dalla sua voce cristallina, finché tutta la pesantezza non svanì, sostituita da una leggerezza disarmante, rincuorante nel corpo e nello spirito.
Tutte quelle presenze fluttuarono via da me, verso l’albero, e questa volta ciò che percepii da esse fu un’immensa gratitudine. Così compresi quel che stava facendo mia cugina: le stava salvando. In tal modo, guidate dalla voce di un angelo, seguendo un sentiero di fiori vermiglio, avrebbero potuto raggiungere il mondo che li aspettava, un mondo in cui avrebbero potuto riposare in pace e rinascere senza più dover provare nulla di quel tormento che c’era stato.
Le sentii oscillare fluidamente verso l’albero ed entrare da quella piccola pozza di sangue ai nostri piedi; sorprendentemente, essa continuò ad estendersi, tingendo di scarlatto il legno, salendo su fino alla chioma. Sollevai il viso meravigliata, vedendo i petali farsi cremisi e risplendere, come fossero circondati da un sottile velo divino. Uno alla volta si tinsero, le gocce saltavano da un fiore all’altro, come se ballassero una danza seguendo il canto di mia cugina. E così, per quando terminò la canzone, l’albero fu completamente dipinto dal mio sangue e le presenze baluginanti si spensero in esso.
Non appena tacque mi sentii attraversare da quella fioca luce. Trattenni il fiato, guardando lei, vedendola ansante ma soddisfatta.
«Dovremmo essere riuscite ad indebolirlo.»
Indebolirlo…?
Mi alzai di scatto, ricordando solo allora quel che la mia mente aveva deciso di riporre in un angolino, abbagliata da quell’incanto. Come avevo potuto dimenticare così Syaoran-kun?!
Quasi mi precipitai nella direzione opposta, inciampando per poco in una radice sporgente, e mi pietrificai dinanzi alla scena che mi attendeva. Entrambi erano pieni di graffi e ferite, imbrattati del loro stesso sangue, ma continuavano ad attaccarsi ed attaccarsi senza sosta.
Stavo scioccamente per farmi avanti quando un ventaglio si posò davanti al mio viso; lo spostai di lato e vidi Yelan-san, anch’ella con l’aria stanca. Mi sorrise, ricordandomi ciò in cui dovevo credere: «Sicuramente andrà tutto bene.»
Ripetei quelle parole mettendoci tutti i miei sentimenti positivi e ritornai a guardare la scena, a malapena accorgendomi di essere stata affiancata anche da Tomoyo-chan, troppo rapita da quel che mi stava comparendo davanti.
Syaoran-kun riuscì a disarmare Kaito-san dopo averne tagliato i tendini del polso e quasi nello stesso tempo lingue di fuoco, vortici d’acqua, spirali di vento e polveri di terra s’erano tutti raccolti attorno a questi, ingabbiandolo per impedirgli la fuga. Allora vidi che le sorelle di Syaoran-kun erano a poca distanza dal nemico, alle sue spalle, e stavano controllando gli elementi. Guardai poi lui, vedendolo posare due dita sulla lama della sua spada e chiudere per qualche secondo gli occhi, come se si stesse concentrando. Per quel che si intravedeva tra le fitte chiome, notai che le nuvole grigie andavano addensandosi sopra di noi in fitti cumulonembi sempre più minacciosi, neri e violacei; improvvisamente da questi apparvero dei fulmini, i quali colpirono in pieno il centro di quella gabbia.
Sobbalzai al rombo così violento e assordante, coprendomi gli occhi con le braccia dinanzi a tutta quella luminosità, accecata da troppi colori.
Si trattò di una frazione di secondo e quando abbassai le mani tutto era tornato alla normalità. Kaito-san era privo di sensi, attorniato dalle sorelle Li e la loro madre. Tomoyo-chan emise un sonoro sospiro di sollievo al mio fianco. Rivolsi un rapido sguardo attorno, scoprendo che eccetto una zolla di terreno bruciacchiato laddove giaceva inerte Kaito-san non v’erano danni all’ambiente.
Posai infine gli occhi su Syaoran-kun, notando che aveva abbassato la spada, mollemente, con aria stanca. Teneva lo sguardo basso, fisso sul suolo, totalmente apatico. Mi sentii stringere il cuore, riempiendomi di conforto. L’incubo non si era avverato.
Rincuorata, smisi di riflettere e corsi verso di lui, proprio quando vidi le sue gambe cedere. Affrettai il passo, raggiungendolo quanto prima, sostenendolo prima che cadesse del tutto.
«Syaoran-kun…» gemetti, notando tutte le sue ferite. Sembravano terribili. C’erano tagli dappertutto, sulle sue braccia, sulle sue gambe, sul suo busto, sul suo viso. Sfiorai il graffio sulla sua guancia col polpastrello, temendo di peggiorare le cose. «Perdonami, perdonami, ti prego…» sussurrai afflitta, sentendomi tremendamente in colpa.
«Guarirò in fretta» mi assicurò debolmente, spostando il suo sguardo spento sul mio polso. Sfiorò la ferita a sua volta, con dita tremanti, serrandole poi in pugno, allontanandole da me. Si incupì, sibilando: «Non sono riuscito a proteggerti.»
«Ti sbagli!» ribattei energicamente, mostrandomi sana come un pesce. «Mi hai salvata. Voi tutti mi avete salvata!»
«Dovevo arrivare prima che…»
La sua voce si spense e da quel momento rifiutò di guardarmi.
Per quelli che mi parvero minuti interi fui incapace di replicare in alcun modo, sentendomi nuovamente col cuore in una morsa di ferro, finché non ci raggiunse Shiefa-san, che gli chiese: «Xiaolang, ce la fai ad alzarti?»
Lui assentì col capo, rimettendosi in piedi, e io feci lo stesso, facendo caso solo allora che si avvicinò a Yelan-san che lei aveva posato la mano sul ciliegio, chiudendo gli occhi tristemente. Syaoran-kun attese che finisse di pronunciare parole inudibili da qui, sino a che il ciliegio non perse il suo bagliore, tornando come prima; si voltò successivamente verso il figlio, cingendolo e lasciandosi abbracciare.
Li guardai con un groppo in gola e Shiefa-san sussurrò: «Gli stanno dicendo addio.»
Allora capii: anche per il padre di Syaoran-kun, come mia madre, era giunto il momento di raggiungere il posto che gli spettava… rinunciando alla donna che amava. Ma forse, c’era possibilità anche per lui di tornare, proprio come riusciva a fare mamma.
Qualche lacrima sfuggì dal mio controllo, solcandomi le guance, e me ne accorsi solo quando Yelan-san mi si avvicinò, asciugandomele con un sorriso grato.
«Grazie per avergli dato la pace.»
Mi avvolse tra le sue braccia, nelle quali piansi, liberando tutto. Paure, timori, dolori, conforto. Tutto era lì, s’era raccolto in me, e in quel momento stava uscendo, sollevandosi fino al cielo, il quale partecipe cominciò a piangere con me.
«Meglio che andiamo anche noi» mi ricordò, facendomi tornare al presente. Mi staccai da lei, e dando una rapida occhiata attorno trovai soltanto lei e il figlio, oltre me. «Dobbiamo occuparci delle vostre ferite.»
Annuii, tirando su col naso, asciugandomi con una manica. Stava per prendermi in braccio quando Syaoran-kun la sostituì, facendole un cenno, come a dirle di mostrargli la strada. Lei tese leggermente le labbra, prima di aprirci il percorso di ritorno. Mi tenni a lui solo col braccio buono, cercando di non premergli troppo contro le ferite. Notai tuttavia che, come aveva detto in precedenza, qualcuna più superficiale aveva già cominciato a richiudersi.
Sollevai allora il viso verso il cielo, permettendo alla pioggia di risciacquarlo da tutto quello che avevo vissuto. Erano troppe emozioni, troppe scoperte, in così poco tempo. Non solo il mio cuore, ma anche la mia mente non ce la faceva a sostenerne il peso. Per cui le lasciai involarsi verso la volta celeste, almeno per il momento, e chiusi gli occhi, rilassandomi tra quelle braccia sicure.






Quando ritornai cosciente mi accorsi non solo che eravamo già tornati dentro la villa di Tomoyo-chan, ma mi trovavo anche adagiata su uno dei morbidi divani del salone, sotto delle coperte. Mi misi seduta, poggiando subito la testa contro un cuscino, sentendomela pesante. E tutto il corpo mi doleva. Che fosse per la precedente costrizione? Grugnii con disappunto, passandomi una mano sulla gola, sospirando. Speravo che qualunque segno mi fosse rimasto svanisse quanto prima. Percepii fresche dita sull’altro mio braccio e abbassando lo sguardo mi ritrovai mia cugina inginocchiata a terra con una cassetta del pronto soccorso dinanzi, intenta ad occuparsi di me.
Le sorrisi grata prima di dare una rapida occhiata alla sala, vedendo Syaoran-kun seduto su un altro divano a poca distanza, ancora grondante sangue e acqua. Incrociai il suo sguardo per una frazione di secondo e lui immediatamente lo distolse, abbassando gli occhi. Ma tanto m’era bastato per leggervi il rimorso.
Sospirai affranta, spostando l’attenzione sulle sue ferite, notando che molte sembravano ancora aperte. Immaginavo che fosse trascorsa almeno una mezz’ora se non di più da quando avevano sconfitto Kaito-san ed era pur vero che non sapevo come funzionavano i tempi di guarigione vampireschi, ma ci voleva davvero così tanto a risanarsi?
Lo scrutai scrupolosamente, cercando qualche segno che mi facesse capire come si sentiva, al di là di quell’espressione inscalfibile che aveva deciso nuovamente di indossare. Era più pallido del solito, aveva occhiaie profonde, il suo respiro sembrava irregolare. Qualcosa non quadrava. Che giorno era? Quando c’era stata l’ultima luna piena?
«Xiaolang, dovresti nutrirti» lo redarguì sua madre apparendo al suo fianco dal nulla, non celando la preoccupazione.
Hoe? Non voleva?
«Non serve.» La voce gli uscì in un soffio.
«Ma quanto meno per cominciare…»
Scosse la testa lievemente e mi rivolse una breve occhiata devastata prima di sollevarsi, sbandando.
Mi sentii come colpita da un fulmine e scattai seduta, sconvolta.
«Hai combattuto sotto l’influenza della luna piena?!»
«Significa solo che ci vorrà un po’ più del solito a guarire, non preoccuparti» mi mise a tacere, avviandosi verso chissà dove.
Ignorando Tomoyo-chan mi alzai a mia volta, sentendomi tutto girare. Fortunatamente ritrovai l’equilibrio da sola, per cui mi affrettai a raggiungerlo nel corridoio. Lo tirai per un braccio, costringendolo a voltarsi verso di me.
«Non posso fare nulla per te?»
«No» rispose secco, con fin troppa prontezza e durezza.
Dovevo ragionare, e in fretta. Certamente non era in mio potere alleviare le sofferenze della trasformazione, ma almeno le ferite… La madre aveva parlato di nutrirsi, lui aveva detto che non sarebbe servito… Ma ciò sarebbe valso anche se avesse bevuto il mio sangue?
Deglutii a fatica, quasi certa che mi avrebbe rifiutata.
«N-non… non posso neppure aiutarti col mio sangue…?»
Sostenne per un po’ il mio sguardo senza battere ciglio, per poi rivolgermi un mezzo sorriso diagonale, con amarezza.
«Rischierei di ucciderti, e a te non importa?»
«La tua salvezza è più importante della mia vita» riuscii a rivelargli, con coraggio.
Scosse la testa, appoggiando la schiena alla parete, facendosi sostenere. Ormai lo conoscevo abbastanza da capire che fingeva di stare bene solo per non farmi preoccupare.
«Non sto rischiando la morte.»
«Ma stai soffrendo» puntualizzai.
Gli presi entrambe le braccia e mi inginocchiai, tirandolo giù lievemente. Lui non fece resistenza e si abbassò alla mia altezza, sedendosi a terra. Notai una leggera punta di sollievo farsi largo sul suo volto, apparentemente inespressivo.
«E io voglio aiutarti» aggiunsi risoluta.
«Perché?»
Tolsi la benda messa con cura da mia cugina, facendola cadere sul pavimento, mentre borbottavo: «Non sopporterei l’idea di non aver fatto nulla per te, pur avendo la consapevolezza che avrei potuto fare tantissimo… quantomeno per affievolire il tuo dolore.»
«Hai già perso troppo sangue» ribatté, cocciuto.
Stava trovando tutte le scuse. Mi imbronciai, rivolgendogli un’occhiata mogia.
«Non voglio andare via senza riuscire a darti neppure una parte di me…» Avvicinai la ferita al suo viso, guardandolo supplichevole. «Mi fai solo questo favore? Mi prometti di avere cura di te stesso?»
Spalancò gli occhi, stupito. In questi vidi raccogliersi delle minuscole lacrime, alcune scivolarono giù, rigandogli le guance, sbigottendomi. Abbassò le palpebre e schiuse le labbra, rinunciandoci.
Sorrisi tra me, posando il polso su di esse, facendo sì che il mio sangue le bagnasse.
Chiusi a mia volta gli occhi, sentendomi soddisfatta. Mi bastava questo. Mi bastava salvarlo, ricambiando quel che aveva fatto per me. Per quanto paresse dilaniarmi il cuore, non importava se non mi ricambiava. Non importava se non mi amava. Non importava se non mi avesse mai baciata. Solo con questo, speravo di fargli cambiare idea su se stesso. Lui non era un assassino.
«Sei un salvatore, Syaoran-kun» mormorai con un lieve sorriso, guardandolo.
Lo vidi riaprire flebilmente le palpebre, le sue iridi scure si fusero con l’oro e la ruggine, creando un nuovo colore sorridente. La sua bocca era ancora posata sulla mia pelle, mentre leccava e succhiava il mio sangue, senza mordermi sebbene avvertissi i suoi canini affilati pungere contro essa, sicuramente desiderosi di ottenere di più. Evidentemente non cedeva al suo istinto per non farmi ancora più male. E probabilmente, questo sarebbe stato il massimo dell’intimità che avremmo mai vissuto insieme.
Ma a me sarebbe bastato. Doveva bastare, dovevo necessariamente farmelo bastare, per sempre.

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Capitolo 39
*** Capitolo 38 ***


Origini riscoperte




Quel che accadde dopo che diedi il mio sangue a Syaoran-kun era una cosa che sapevamo soltanto noi due: le sue ferite avevano cominciato sin da subito a rimarginarsi, quasi il mio sangue avesse davvero la capacità di rigenerarle, fino a che non si erano chiuse completamente. A quel punto lui stesso mi allontanò da sé, riportandomi in sala per fasciarmi nuovamente il braccio; qui tutto era come lo avevamo lasciato, sebbene non ci fosse più nessuno.
Gli lasciai prendersi cura di me senza pronunciare parola, limitandomi a scrutarlo a dovere per notarne i cambiamenti: aveva riacquisito colorito, aveva un’aria meno stanca e le ferite erano sparite, sebbene sembrasse ancora un po’ debole. Ricordai che avesse detto che il sangue non sarebbe bastato, così mi fu inevitabile chiedergli cos’altro servisse per farlo tornare in forze.
Dinanzi a quel quesito mi rivolse un’occhiata ermetica, indecifrabile, ma riassunse tutto con un: «Di cosa si cibano i lupi?»
Capendo, preferii tacere e smetterla di metterlo a disagio, pur senza che fosse nelle mie intenzioni. Così, mentre lavorava scrupolosamente sul morso ricevuto, tamponandolo e disinfettandolo prima di bendarlo, mi ritrovai a domandargli tutt’altro: «E com’è il mio… sangue…?»
Non rispose subito, per cui diedi per scontato che non volesse farlo. Fui io stessa a riempire i suoi silenzi, blaterando per fargli capire da dove nasceva quella domanda.
«Scusami, forse è un po’ indelicato da parte mia, solo che Kaito-san ha detto che sono buona come supponeva e -»
Mi bloccai ad un suo ringhio, vedendolo digrignare i denti.
«Ha osato toccarti.»
«Mmh, ma non preoccuparti, non mi ha fatto male.»
Lui pareva non sentirmi, continuava a borbottare sprezzante, richiudendo tutto nel kit con scatti impetuosi.
«Ha osato posare le sue luride mani su di te, la sua sporca bocca sulla tua pelle, ha bevuto il tuo sangue, ha assaggiato il tuo sapore.»
La sua voce si riempiva sempre più di rabbia, finché non mi rivolse un’occhiata di fuoco.
«Lo ammazzo.»
«No, no!» esclamai sconvolta, afferrandogli entrambe le mani a medicazione conclusa. «Non è grave!»
«Non è grave?!» ripeté sconvolto, abbaiandomi contro. «Ti ha fatto del male! Ti ha praticamente legata per averti alla sua mercé! Ti ha riempito la testa di illusioni affinché tu collaborassi! Ti ha mentito e sfruttata a suo piacimento! Per lui non sei stata nient’altro che un giocattolo con cui divertirsi per raggiungere i suoi scopi, da usare e gettare una volta che non sarebbe tornato più utile! Che cosa ti ha detto per sottometterti? Che avrebbe esaudito i tuoi desideri?»
La sua voce si alzava sempre di più, piena di foga, mentre io mi facevo sempre più piccina, finendo colpita e affondata. Annuii solo una volta con la testa, incapace d’altro, e lui quasi non ruggì, irato.
«Sakura, dannazione! Se hai un desiderio che vuoi venga esaudito, non fidarti di chi vuole qualcosa in cambio! Se è qualcosa di fattibile, ci penserò io a realizzarlo, senza porre condizioni!»
Mi morsi il labbro, prossima alle lacrime, sussurrando soltanto: «Tu non me lo esaudiresti mai…»
«Perché? È tanto folle?»
«Parecchio» confermai, stringendomi la gonna lercia tra le dita. «Forse te ne parlerò, quando sarai più calmo.»
«Io sono calmo!» ribatté, se possibile scaldandosi persino di più. Che pure quella fosse l’influenza della luna? «Solo che è inevitabile irritarmi all’idea che tu ti sia arresa, rivolgendoti a quell’essere spregevole, senza dirmi nulla. E sono anche furioso per quel che ti ha fatto, ma -»
«Vedi? Non sei per niente calmo» lo interruppi, nascondendo una risatina dietro la mano.
Mi rivolse un’occhiataccia, alzandosi e voltandosi altrove.
«Hai ragione» riconobbe infine. «Non manca molto al sorgere della luna, ne riparleremo in un momento più propizio. E ti consiglio di lavarti e cambiarti, a quanto ho capito a breve avrete degli ospiti.»
Detto questo svanì nel nulla e solo in quel momento ricordai dell’arrivo di mio padre. Mi affrettai a seguire il suo suggerimento, facendomi trovare linda e pulita per ora di cena.
Quando scesi al pianoterra in attesa che Sonomi-san lo portasse da noi Tomoyo-chan riapparve, spiegandomi brevemente la situazione: Meiling-chan aveva portato subito Akiho-chan a casa loro e di lei si era occupato Eriol-kun, facendole un incantesimo per cancellarle i ricordi di quello che era successo, riuscendo anche a richiuderle la ferita sul collo con un impacco magico di erbe. Dato che un segno comunque restava sulla sua pelle, aveva deciso di raccontarle che aveva perso improvvisamente i sensi a causa di un calo di zuccheri ed era caduta, sbattendo sulla radice sporgente di un albero. Come loro, anche io ritenevo fosse meglio che non venisse a sapere così della vera natura della persona che amava: se era destino che lo scoprisse, doveva farlo da sola.
Dopo che era rinvenuta l’avevano accompagnata a casa di Chiharu-chan, cui raccontarono la stessa storia, aggiungendo che lei e Tomoyo-chan si erano ricongiunte a noi a metà strada, facendoci compagnia, e per questo non eravamo più tornate. Naturalmente, seppure vi fossero molti buchi in quel racconto, erano riuscite a persuaderle tutte senza che avessero neppure la possibilità di porgere né porsi domande.
Eriol-kun era poi rimasto dai Li, dove le sorelle avevano condotto Kaito-san, tenendolo prigioniero per interrogarlo sul suo operato, le sue ragioni e le sue vere intenzioni. Il giorno successivo saremmo andate anche noi perché ritenevano corretto che fossi presente anch’io, essendone stata la vittima principale. Convenni che fosse più che giusto, anche perché così avrei potuto porgergli i numerosi quesiti che mi trafficavano in testa.
Pertanto c’eravamo soltanto noi due a casa, in attesa dell’arrivo di papà. Non mancò molto, in quanto proprio appena le cameriere finirono di preparare la tavola ecco che si aprì la porta. Corsi all’ingresso, gettandomi tra le sue braccia, trovandolo più abbronzato – paradossalmente – e trasandato del solito. La sua pelle era più ruvida e callosa, come tutte le volte in cui prendeva parte agli scavi.
«Si vede proprio che sei stato troppo nel deserto» ridacchiai, lasciandomi stritolare dal suo abbraccio.
«Si vede proprio che il freddo ti ha resa ancora più marmocchia. Sei rimpicciolita o è una mia impressione?» replicò una voce al suo posto.
Mi staccai di scatto da papà, trovandolo con un sorriso caloroso. Si fece da parte e alle sue spalle apparve mio fratello.
«Onii-chan!» esclamai in tono stridulo, gettandomi su di lui, tentando di schiacciarlo col mio abbraccio – anche per le parole ricevute.
Lui ricambiò con altrettanta foga.
«Mostriciattolo, ti sono mancato?» domandò divertito.
«Sì!» confermai focosa, pizzicandogli intanto un fianco, facendolo ridere.
Scesi da lui, guardando alle sue spalle, ritrovando un sorriso solare su un viso gentile.
«Yukito-san, ci sei anche tu!» squittii contenta, saltando anche addosso a lui.
Ricambiò l’abbraccio teneramente, confermando prima di esclamare allegro: «Sorpresa!»
Scivolai di lato, salutando rapidamente anche Sonomi-san, e mi affrettai a fare le presentazioni, indicando mia cugina. «Lei è Tomoyo-chan.»
«Ce ne hai parlato tanto» dissero all’unisono papà e mio fratello, imbarazzandomi non poco.
Tomoyo-chan ne parve lusingata e si presentò a dovere, con loro che lo fecero a loro volta. Successivamente Touya chiese, non celando il tono contrariato: «E l’altro coinquilino?»
«Ah, Eriol dorme a casa di un amico» rispose tranquilla mia cugina, senza scomporsi.
«I miei servitori porteranno le valigie nelle vostre camere, dopo vi ci guideranno essi stessi» si intromise tempestivamente Sonomi-san, venendoci incontro. «Prima ceniamo, scommetto che siete affamati.»
Alla loro conferma ci spostammo nel salone dove, per la prima volta, ebbi modo di mangiare con la mia famiglia al completo.
Come al solito, all’occhio acuto di Touya non sfuggì il bendaggio sul mio polso sinistro, per cui sfruttai la stessa scusa utilizzata per Akiho-chan. Speravo non indagasse più a fondo visto che, conoscendolo, sarebbe stato capace di non farsi abbagliare neppure dai vampiri e ficcanasare fino a scoprire la verità. Dovevo chiedere a Eriol-kun di fare un impacco anche a me e farmi guarire prima di tornare a Tomoeda, onde evitare di destare ulteriori sospetti. Per il resto mi erano rimaste lievi abrasioni e arrossamenti che, fortunatamente, con un buon bagno salutare e una dormita cominciarono già a svanire.






Il giorno successivo, col pretesto di dover incontrare delle nostre amiche, io e Tomoyo-chan andammo a casa dei Li. In parte non era neppure una menzogna, visto che nel pomeriggio avevo appuntamento con Chiharu-chan e le altre, e il problema in effetti non sussisteva neppure, dato che papà, onii-chan e Yukito-san avevano deciso di fare qualche tour in paese e nei dintorni per capire in che tipo di luogo avessi vissuto finora, ma ci tenevo comunque a crearci una sorta di “alibi”.
Sebbene inizialmente il ritorno di mio fratello mi avesse colta di sorpresa, lui mi ricordò che il periodo di studio all’estero era già finito da un pezzo, gli mancavano soltanto degli ultimi esami da dare e ne aveva approfittato nell’ultimo anno, riuscendo anche a cominciare ad abbozzare una tesi per il ritorno. Prima di tornare a Tokyo, tuttavia, aveva voluto venire qui con papà, più che altro per vedere come stessi. Temeva che mi stessi deprimendo, per qualche ignara ragione, e voleva assicurarsi che stessi in buona compagnia. Per quanto fosse pestifero e dispettoso, dovevo riconoscere che era davvero un ottimo fratello maggiore.
A questo pensavo mentre ci inoltravamo nel bosco, finché Tomoyo-chan non decise di lasciar perdere le convenzioni per fare una cosa che non mi sarei mai aspettata da una fanciulla dall’apparenza gracile come lei: dopo essersi assicurata che fossimo nel fitto della foresta mi prese in braccio senza alcuno sforzo, correndo ad una velocità che comparava quella di Syaoran-kun verso casa sua. La fissai stupita, arrivando a destinazione in un battibaleno. Riflettei sulla sua precedente vita e mi chiesi se tutto questo, se la sua nuova esistenza, non la facesse sentire più libera. Adesso poteva essere se stessa, correre, saltare, stare al freddo e al gelo, senza doversi preoccupare della sua salute.
Una volta arrivate mi fece scendere per bussare alla porta; Yelan-san venne ad aprirci e quando entrammo nel salone vicino all’ingresso trovammo tutti, Eriol-kun, figli e nipote, stanti in semicerchio, con aria piuttosto spazientita. Mi accorsi immediatamente delle modifiche apportate al mobilio: il pianoforte non c’era più e idem per i divani. La stanza era quasi completamente spoglia, eccetto che per una sedia su cui era legato con funi e catene un Kaito-san bendato. Sgranai gli occhi, pietrificandomi, non aspettandomi una scena simile. Spostai lo sguardo sulle ferite sul suo corpo, alcune sembravano essersi già chiuse, restavano soltanto grumi secchi di sangue; altre, invece, parevano essere state inferte da poco. Per un attimo mi domandai stupidamente perché lo trattassero così, ma immediatamente mi redarguii: era il nemico, non potevano di certo lasciarlo libero di agire come voleva, e sicuramente le stavano provando tutte per ricevere risposte, dato che a quanto mi aveva riferito mia cugina sembrava non voler collaborare. Io ero, per così dire, la loro ultima spiaggia, seppure nemmeno io stessa fossi sicura che in mia presenza avrebbe rivelato tutto… o forse sì, visto che ero l’unica a conoscerlo davvero. Così credevo, così speravo.
Mi avvicinai quatta quatta ad Eriol-kun, domandandogli sottovoce se potessi parlargli. Lui si scambiò un’occhiata d’intesa con Yelan-san, mentre intanto notavo Syaoran-kun guardarmi ammonitorio. Gli comunicai con gli occhi che non avrei fatto stupidate.
Alla conferma della padrona di casa loro si spostarono al lato opposto, dividendosi alle sue spalle e ai lati per tenerlo d’occhio, mentre io mi ponevo di fronte a lui, dopo avergli tolto la benda. Mi sedetti a gambe incrociate sul tappeto e lui aprì stancamente le palpebre, dedicandomi il suo solito sorriso zuccheroso. Anche la sua voce manteneva quella nota dolce e pastosa, sebbene fosse lievemente più bassa e gracchiante.
«Sakura-san. È bello vedere che stai bene.»
Sospirai, facendogli un piccolo sorriso.
«Anche Akiho-chan sarà lieta di vederti sano e salvo.»
A questo il suo sorriso si allargò, ma i suoi occhi si adombrarono.
«Lei come sta?»
«Bene, Eriol-kun si è occupato della sua ferita» lo rassicurai facendo un cenno verso il diretto interessato, il quale sembrò contrariato quando aggiunsi: «Se vuoi saperne di più dovresti chiedere a lui.»
Kaito-san mormorò qualcosa di incomprensibile, stendendo solo lievemente le labbra. Cercai di sondare la sua mente, nel tentativo di carpire ciò che gli passava per la testa.
«Lei non ti odia.»
Trasalì impercettibilmente, ma quando mi guardò mi accorsi che i suoi tratti si erano ammorbiditi: esprimevano, ora, gratitudine.
«Vorrei farti alcune domande, mi risponderesti…?» osai tentennante, guardandolo di sottecchi.
Lui emise un sospiro pesante, simile ad uno sbuffo, replicando sarcastico: «Immagino di non avere altre opzioni.»
«Sei libero di non rispondermi» lo contraddissi, scuotendo la testa. «Anche se mi sentirei più risollevata se sapessi perché -»
«Ho cercato di ottenere il tuo sangue?» completò per me.
Annuii, deglutendo a fatica, rendendomi conto che tutti si erano fatti tesi e l’aria attorno a noi era diventata pesante.
«Te lo dissi in sogno: per salvare Akiho-san.»
«Ma perché?» insistei, non nascondendo apprensione. «È malata, forse?»
«No, ma è probabile che non viva a lungo.»
Spalancai gli occhi, sconvolta. Stava per morire?! La tristezza nel suo sguardo sembrava così onesta, non faceva che farmi ulteriormente male al cuore.
Attesi che mi desse maggiori informazioni e lui parve pensarci su per qualche minuto, prima di proferire: «Ritengo che tu sia abbastanza informata riguardo il nostro mondo…» Ad un mio assenso proseguì: «Può capitare che in una famiglia di vampiri nascano bambini umani, sebbene sia raro.»
Mi voltai automaticamente a guardare Eriol-kun, il quale sembrava dedicargli tutte le sue attenzioni. Forse gli stava sondando la mente perché improvvisamente assunse un’espressione scioccata, guardando immediatamente me. Lo fissai interrogativa ma tornai subito al mio interlocutore, non appena riprese parola.
«Akiho-san è uno di questi casi. Nel mio clan si tramanda che questi bambini non sopravvivano oltre la maggiore età e dato che non voglio perderla per sempre… ho pensato di trasformarla.»
«Mordendola?» domandai col fiato sospeso, tentando di capacitarmi delle sue parole.
Akiho-chan era quindi una vampira? Una bambina abbandonata, rinnegata, proprio come il fratello di Eriol-kun…
Lui alzò un sopracciglio, confuso.
«Non sai come funziona?»
Mi feci piccina sul posto, arrossendo. No che non lo sapevo. Si veniva morsi, o qualcosa del genere… no?
«Mi sembra strano che non te ne abbiano parlato.»
«Non era necessario che Sakura-san ne venisse a conoscenza» si intromise prontamente Eriol-kun, facendo qualche passo avanti, affiancandomi. «Piuttosto, come hai scoperto di lei?»
Spostai lo sguardo dall’uno all’altro, spaesata, e tale smarrimento si rifletteva sul viso di tutti i presenti.
«Una cosa per volta» sorrise calmo Kaito-san.
Rabbrividii io al suo posto, notando l’occhiata furente che ricevette in risposta dai Li. Probabilmente loro avevano altre priorità. Chissà se si rendeva conto della situazione in cui si trovava… Anche se così fosse, non ne sembrava per niente turbato.
«Quando ho conosciuto Akiho-san e ho cominciato a prendermi cura di lei ho capito subito di aver trovato l’unica persona più simile e, contemporaneamente, differente da me. Che per queste stesse ragioni potesse comprendermi davvero. E tale idea si consolidò quando scoprii delle sue vere origini: lei era stata cacciata dal suo clan, per il suo essere diversa, perché troppo debole e priva di poteri. Io fui sfruttato dal mio clan, sin da bambino, per la stessa ragione: una capacità come la mia viene considerata un dono eccelso tra i D., per cui si assicurarono di tenermi sempre sotto custodia, affinché potessi essere il loro servo più fidato ed eseguire ogni loro ordine. Questi consistevano soprattutto in soggiogare e annebbiare la mente dei nostri nemici, affinché i combattenti tra le nostre schiere potessero sconfiggerli. Inizialmente sottostavo alle loro richieste, ma un giorno mi sentii stufo di essere un mero burattino nelle loro mani, che potessero sfruttare a loro piacimento. Naturalmente, se provavo a ribellarmi subivo punizioni severe per quanto non gravi, perché ero troppo “prezioso” per loro, non potevano rischiare di perdermi… Per questa ragione decisi di fuggire lontano, finendo casualmente qui in Giappone, dove cambiai nome e identità e cominciai a lavorare come maggiordomo presso una nobile famiglia asiatica, i Shinomoto. Essi non potevano avere figli, per cui un giorno adottarono questa bambina chiusa nella propria timidezza e mutismo.»
Fece una breve pausa, come se stesse ricucendo insieme i ricordi, prima di proseguire: «Dapprincipio non avevo idea di come raggiungerla, dato che rispondeva soltanto a suo padre e sua madre docilmente, ricordandomi un po’ il me stesso cui avevo rinunciato, mentre in mia presenza manteneva sempre il capo chino, spesso rifiutandosi persino di rispondermi se non con occasionali formule di gentilezza. Quando capii che la sua più grande passione erano i libri riuscii a farla aprire un po’ di più, affidandomi ad essi. Le permettevo di parlarmene anche per ore intere e, allora, mi accorsi dell’entusiasmo che accendeva quel volto spento. Non era morta come appariva. Mi adoperai per cercare di riportarla alla luce, rendendola una perfetta signorina essendo quella l’estrazione sociale cui ero più familiare, pur facendo uscire fuori la vera se stessa. E sembrai riuscirci, finché non fu affidata completamente a me dopo la morte dei suoi genitori. Allora cominciò finalmente a sfogarsi, ad esternare ogni suo sentimento, sebbene la sua voce fosse sempre pacata e il suo viso si mantenesse costantemente tranquillo, pur nella sofferenza. Mi raccontò della sua storia e, per amor suo, cominciai ad indagare sul suo passato, scoprendo delle sue origini e del suo vero nome.» Mi guardò intensamente negli occhi, prima di pronunciare: «Alice Reed.»
Trattenni il fiato, così come un po’ tutti si mostrarono sconvolti. Guardai Eriol-kun, sebbene Fuutie-san mi anticipasse nel domandargli: «Una tua parente?»
Eriol-kun strinse le labbra, restando in silenzio per qualche ragione, continuando a fissare colui che sedeva al centro della stanza senza battere ciglio.
Tornai con lo sguardo da quest’ultimo quando schioccò la lingua al palato, ridacchiando.
«Hiiragizawa Eriol, precedentemente conosciuto come Eriol Reed. La tua fama è ben nota.»
«Posso immaginarlo» commentò con un sorriso tirato. «Continua.»
«Da qui è tutto molto semplice. Dopo aver scoperto chi è davvero e ricordato quel che si diceva nel mio clan ho cominciato ad indagare per capire come salvarla. E allora, in un vampiro anziano ritiratosi a sua volta sulle montagne, qui in Giappone, ho trovato la risposta: egli stesso mi ha detto che basta farle bere il sangue di un suo consanguineo, mescolando questo al proprio, purché ne condividesse lo stesso destino e fosse la persona a lei più vicina.»
A questo lo guardai persino più confusa, non capendo cosa c’entrassi io.
«Le ricerche continuarono per capire chi potesse essere questa persona, finché un giorno non fui fermato da un’indovina, la quale mi disse che la risposta che cercavo l’avrei trovata “nel sangue del ciliegio”. Naturalmente non avevo alcuna idea di quel che potesse significare e dato che avevo una mobilità limitata cominciai a trasformare alcune persone, affinché potessero fornirmi le informazioni che mi mancavano. Trascorse molto tempo, prima che ricevessi un primo feedback: uno dei miei sottoposti non tornò più vivo, ma un suo collega rimasto fuori dalla città, da questa città, possedendo fortunatamente un’abilità che gli permetteva di guardare lontano anche per interi chilometri, assistette a tutta la scena. Egli fu ucciso da nient’altri che il tuo ragazzo, per proteggere te.»
Mi mancò di nuovo un battito alla parola “ragazzo” e sentii le mie guance farsi scarlatte; ciononostante, non staccai gli occhi dai suoi, capendo che stavamo per giungere alla parte importante.
«Mi dissi che fosse strano che un vampiro proteggesse un’umana, ma poi cominciai a collegare i pezzi. La mia ipotesi iniziale era che si trattasse di Eriol Reed visto che avevo già scoperto vivesse in Giappone e appositamente lo stavo facendo cercare, ma la descrizione non coincideva con quel che avevo sentito dire sul suo conto e quindi supposi che vi fosse anche un altro Reed che stesse proteggendo sua sorella. Dato che i miei subordinati non riuscirono più ad entrare in città dovetti accontentarmi di quella mia ipotesi, in cui ho creduto fino a prima di conoscerti.»
Mi guardò dritto negli occhi e sorrise in maniera criptica, facendomi rabbrividire per qualche ragione inspiegabile.
«Sto per dirti una cosa che forse ti farà accapponare la pelle, Sakura-san, ma è giusto che tu sappia tutto. Mi è bastato un tuo capello. Fu colto da uno dei miei sottoposti mentre ti trovavi in una città fuori da Reiketsu, dopo che ebbi scoperto che qui venissero monitorati i movimenti dei vampiri. Tramite esso ho effettuato un incantesimo, in modo tale da raggiungerti e connetterci anche se eravamo lontani. E non è stato affatto difficile, poiché tu possiedi lo stesso sangue di Akiho-san. Mi è stato sufficiente sfruttare anche un suo capello, unirvi, per penetrare nei sogni dell’una tramite l’altra. So che ho sbagliato, che è stato ingiusto da parte mia, perché mi stavo comportando con lei come i D. hanno fatto in passato con me; ma poi mi sono convinto che non si trattava di sfruttamento, in quanto quel che stavo facendo era per la sua stessa sopravvivenza. Adesso non mi pento di essermi comportato in questo modo, anche perché mandandola qui da te siete diventate amiche davvero, cosa in cui non avrei mai sperato. E agendo così ho imparato a conoscerti, scoprendo di essermi sbagliato alla grande su di te. Alcune cose ancora mi sono ignote, visto che neppure tu stessa sai chi sei davvero. Ma di una cosa ho avuto conferma: anche tu sei una Reed.»
Mi parve che il mondo si stesse spaccando sotto le mie gambe. Mi sentii mancare, la stanza cominciò a vorticarmi velocemente attorno, provocandomi le vertigini, la realtà si stava distorcendo.
«N-non è possibile…» sussurrai, soffocando nella mia flebile voce. «Deve… Deve esserci un errore… I miei genitori sono entrambi umani, mia madre lo era, mio padre lo è, io non posso…»
Tacqui, incapace di esprimermi ulteriormente.
Eriol-kun mi si affiancò prontamente per sostenermi, rivolgendomi un’occhiata di scuse.
«Sakura-san, perdonami.»
«Eriol-kun, non può essere» ribattei, sforzandomi di convincermi. «Mia madre, Amamiya Nadeshiko, mi ha partorita, mi ha messa al mondo, ne sono sicura.» Forzai un sorriso, sentendolo tremante, con lo stomaco che sembrava chiudersi in una morsa. «Mio padre, Kinomoto Fujitaka, è il mio vero padre. Loro due erano sposati e si amavano e hanno portato alla luce prima Touya, poi me… Touya, Touya può confermarlo! È nato prima di me, lui lo sa! Lui c’era!» Mi aggrappai disperatamente a quella verità perché non poteva essere che tutta la mia vita, tutta la mia realtà, non era stata altro che una finzione… per diciassette lunghi anni…
«Tuo padre» riprese Eriol-kun, guardandomi con occhi pieni di sofferenza e compassione. «Kinomoto Fujitaka. Il suo vero nome era Elwin Reed.»
A quel nome Tomoyo-chan e i membri maggiori della famiglia Li emisero un’esclamazione di sorpresa e sconcerto.
«E… Elwin… Reed…» ripetei scioccata, pietrificata, tentando di convincermene. Mio padre… era un vampiro…? Ma se quello era il caso, perché non aveva salvato la mamma prima che morisse? Perché il suo corpo era caldo? Perché mi abbracciava, dandomi tutto il suo calore? Perché poteva vivere alla luce del sole?
«Lui è mio fratello» concluse, abbassando il capo pentito.
Rimasi a fissarlo sentendomi improvvisamente svuotata, di tutto.
«Un attimo, come sarebbe a dire?!» si intromise Meiling-chan con la sua voce squillante, mal celando isteria. «Che significa che è tuo fratello?!»
Qualcun altro rispose al suo posto, ricordandole della sua ricerca durata anni e i suoi tentativi di riportarlo dalla sua parte. Rievocai le sue parole. Aveva trovato una donna da amare… mia madre. L’aveva sposata…. E poi, con lei aveva costituito una nuova famiglia, diversa da quella originaria.
«Tu lo sapevi?!» esplosi, non riuscendo più a trattenere in me quel misto di emozioni. Ero delusa, amareggiata, arrabbiata. Era suo dovere dirmelo! E mi sentivo anche tradita, perché avevo un’estrema fiducia in Eriol-kun. Così come la avevo nei confronti di tutti. Mentre venivo sempre lasciata all’oscuro di tutto! Quanti segreti ancora mi stavano nascondendo?
«L’ho scoperto in seguito. O meglio, avevo cominciato ad ipotizzarlo, ma mi sembrava ridicolo che proprio tu potessi essere sua figlia. Tu, che guarda caso sei anche la cugina di Tomoyo. Tu, che sei venuta a vivere proprio con noi. Ma so che non è un caso, so che, come ogni cosa in questo mondo, è semplicemente inevitabile.» Fece una pausa, guardandomi contrito.
«Pur conoscendo la sua identità, tu non ne avevi fatto mai il nome e inizialmente non avevo connesso il tuo cognome al suo. Poi ho cominciato ad interrogarmi sul perché, effettivamente, il tuo sangue emana un odore tanto particolare, tanto estraneo quanto familiare. E, soprattutto, perché in te ci fosse tanto potere. Poi c’è stato un momento in cui hai pensato intensamente a tuo padre, in quell’istante hai visualizzato la sua immagine nella tua mente, io l’ho vista e… ho iniziato a capire. Ma ripeto, non ne ero sicuro. La presenza di Kero-chan, essendoci la tradizione presso i Reed di regalare un peluche intriso della magia del sole ad ogni nascituro affinché possa proteggerlo, mi aveva insospettito, ma soltanto adesso ne ho ricevuto la conferma.»
Non c’era bisogno che aggiungesse altro, leggevo nei suoi occhi sinceri quanto fosse pentito, quanto fosse stato insicuro, combattuto, travagliato da quella possibilità. Sviai lo sguardo dal suo, rivolgendolo a Kaito-san, risentita.
Questi subito riprese: «In conclusione, per questa ragione, essendo voi due tanto compatibili, volevo usare il tuo sangue.»
«Se posso permettermi» si intromise Yelan-san, facendo a sua volta un passo avanti, mentre io ancora tentavo di metabolizzare tutte le scoperte fatte. «Credo che la tua sia stata una paura vana. Io e Hiiragizawa possiamo confermarti che in nessuno dei nostri clan si tramanda ciò che affermi. E a riprova di ciò, il padre di Sakura avrà ormai raggiunto e superato i quarant’anni; eppure è ancora vivo.»
«Perché è un vampiro» ribatté prontamente Kaito-san, stizzendomi maggiormente.
«No» negò, spiegandogli placida: «È un umano nato da vampiri. Sakura appartiene alla generazione successiva, nata da due umani. È probabile che i poteri continuino a tramandarsi, saltando una generazione. Sappi che questa è una novità anche per noi.»
Yelan-san posò i suoi occhi su di me, carezzandomi con lo sguardo, quasi volesse confortarmi.
«Quindi mi sono sbagliato?»
Dato che Kaito-san sembrava sconvolto più da questa possibilità che dalla situazione in sé lo fulminai con un’occhiataccia, domandandogli risoluta: «Realizzerai il mio desiderio?»
Egli alzò un sopracciglio, perplesso.
«Pensavo ti fosse chiaro ormai. Io non posso, deve farlo qualcuno del tuo stesso clan.»
Mi voltai immediatamente verso Eriol-kun, conscia che mi stesse leggendo nel pensiero. Lui esitò per un secondo, ma prima che potesse aprire bocca Syaoran-kun lo anticipò, facendo finalmente sentire la sua voce.
«Di cosa state parlando? Che desiderio?» Nessuno di noi tre rispose, per cui si rivolse direttamente a me, al limite della pazienza. «Sakura?»
Mi morsi il labbro, trattenendo le lacrime. In cuor mio, dovevo ammettere che speravo ancora, o meglio sognavo che potesse essere lui a rendermi una sua simile. Ma a quel punto si rivelava impossibile.
«Forse» riattirò la mia attenzione Kaito-san, quasi stesse rimuginando ad alta voce. «Visto che non sei direttamente figlia di un vampiro, bensì nipote, con te può farlo chiunque. Possiamo provarci, se nessuno ti aiuta. Dopotutto te l’ho promesso.»
Seguì un minuto buono di silenzio in cui io cercavo di capacitarmi se facesse sul serio o meno, mentre tutti gli altri probabilmente tentavano di decriptare la nostra conversazione.
Eccetto Eriol-kun che sapeva e taceva, Syaoran-kun fu purtroppo il primo che parve arrivarci. Per cui fu anche il primo che reagì, in maniera inaspettatamente violenta. Si avventò in un attimo su Kaito-san, afferrandolo per la collottola, sbraitandogli contro: «Le hai promesso di trasformarla in un mostro?!»
«Non un mostro, una di voi» provai a ribattere, ma la mia voce scomparve sotto quella solenne di Kaito-san.
«Gliel’ho promesso, e io non rimangio mai la parola data.»
«Non puoi farle una promessa del genere!»
«Capisco che tu possa esserne geloso, se preferisci ti cedo il piac-»
«Non è gelosia!» lo interruppe sgarbato, alzando talmente tanto la voce che persino il mio cuore rimbombò. Attorno al suo corpo vidi formarsi piccole scintille, dinanzi alle quali tutti si mobilitarono quasi nell’immediatezza. Non prometteva bene, per niente. «È una pazzia! Lei ha la sua vita e tu non hai alcun diritto di portargliela via!» Detto ciò Kaito-san fu colpito da visibili scariche elettriche biancastre, di fronte alle quali nessuno osò più intromettersi. Gridò per una sofferenza che non riuscivo a comprendere e capii che la situazione stava degenerando, per una futile questione.
«Syaoran-kun!» esclamai alzandomi di scatto, avvicinandomi a lui, poggiando senza riflettere la mano sul suo braccio. La ritrassi immediatamente, scuotendola, convinta che era così che ci si sentisse a prendere la corrente. La sentii bruciante e lui immediatamente si placò, guardandomi ad occhi spalancati, impallidendo.
«Seguimi» ordinò in fretta, avviandosi alla porta.
Feci come voleva senza indugio e mi affrettai ad uscire, seguendo il mio cuore ovunque volesse portarmi.










 

Angolino autrice: 
Eccomi qui, viva e vegeta! Finalmente ho finito la sessione estiva, e posso ricominciare ad aggiornare (me commossa!). Se dovessi riuscire a farlo quotidianamente (cosa in cui spero), questa storia potrebbe finire entro fine luglio (e sarebbe anche ora, mi dispiace così tanto prolungarla e farvi aspettare çwç Devo farmi perdonare).
Quindi sono tornata, con un capitolo ricco di spiegazioni! Qui viene rivelato che il vero nome di Akiho è Alice Reed zanzanzaaan (teoria che porto avanti da quando è iniziato Clear Card praticamente) e si scopre che il fratello di Eriol era nientepopodimeno che Fujitaka (col nome Elwin, perché faceva figo hahaha)! 
E... niente, dopo questo sparisco. 
Spero solo che sia piaciuto, che non mi abbia abbandonata nessuno e non vi abbia deluso.
Scusatemi ancora per le lunghe assenze.
A presto!
Steffirah

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Capitolo 40
*** Capitolo 39 ***


La fine di ogni cosa




Una volta fuori vidi Syaoran-kun accelerare per raggiungere il retro della casa, superare le pietre e fermarsi accanto ad una delle pozze d’acqua. Qui mi fece segno di abbassarmi, accovacciandosi, e mi prese delicatamente la mano destra, accompagnandola nell’acqua.
«Mi dispiace» sussurrò ferito, pentito.
«Non preoccuparti.» Girai il palmo verso l’alto, mostrandogli che la mia pelle era intatta, soltanto lievemente arrossata. «Vedi? Non mi sono fatta niente.»
Gli sorrisi rassicurante, ma lui continuava a guardare la mia mano, stringendo i denti.
«Mi dispiace» ripeté, in tono soffocato.
«Per cosa?» domandai rattristandomi.
«Per tutto. Per averti ferita, sia emotivamente che fisicamente. Per non essere riuscito a proteggerti, come ti avevo promesso. Per averti fatta piangere.»
Abbassai la testa, fissando gli occhi sulla superficie azzurrina dell’acqua, sentendo le lacrime raccogliersi in essi. Feci riemergere la mano fino a toccare lievemente la superficie frastagliata della sorgente, accogliendone la freschezza, sperando che affievolisse anche il fuoco che sentivo divampare nella mia testa.
«Come ti senti?» domandò con delicatezza, ammorbidendo la voce, mentre mi si avvicinava impercettibilmente. Osservai con la coda dell’occhio la sua spalla a pochi centimetri di distanza dalla mia; immediatamente ne approfittai e ci poggiai la fronte contro, chiudendo gli occhi.
«Non lo so» risposi sincera. «Non lo capisco. Forse stordita.»
«È normale sentirsi così…» soffiò debolmente, carezzandomi lievemente i capelli.
Mi appoggiai meglio al suo petto, nascondendo il viso sul suo cuore.
«Non fraintendermi, non è che ora ho un’immagine diversa della mia famiglia, sarebbe alquanto insensato. Però…»
«Ti senti tradita» concluse, continuando a lasciarmi carezze terapeutiche. Solo con quel suo tocco leggero, mi sentivo infinitamente meglio. «Sono certo che Hiiragizawa aveva le sue ragioni per tacertelo. Lo hai sentito, no? Neppure lui stesso ne era sicuro. E anche se lo sospettava, non te l’avrà detto per non spezzare l’equilibrio che c’è nella tua vita, per non turbarti.»
«Lo so» bofonchiai, facendomi ancora più vicina a lui. «So che lui stava pensando al meglio per me. È che…»
«Se poi te lo avesse detto e non si sarebbe rivelato veritiero? Avresti sofferto ancora di più, inutilmente» ragionò.
Annuii, riconoscendo avesse ragione. Distesi i nervi e la mente, concentrandomi sul suo sfiorarmi, così tenue eppure intenso. Mi sembrava di percepire i suoi polpastrelli tremare, quasi stesse soffrendo anche lui con me.
Sollevai il viso verso il suo, trovandolo a contemplarmi con un’aria tristemente imbambolata. Mi morsi il labbro, chiedendomi come potessi far sparire qualunque cosa stesse infestando la sua mente. Improvvisamente arrivai a fare una considerazione che mi rese piuttosto incredula.
«Ci pensi? Eriol-kun è mio zio.»
«È vero.» Rise sommesso, ammettendo: «Fa un po’ strano.»
«Fa strano davvero» gli feci eco, lasciandomi sfuggire una breve risata.
Mi guardò con l’ombra di un sorriso, che tuttavia non raggiunse i suoi occhi, troppo partecipi di quel che stavo provando. Forse anche lui aveva vissuto una situazione simile, prima.
«A te hanno detto subito quali sono le tue vere origini?» osai chiedergli, abbassando la voce.
«Non era una cosa che si può nascondere.» Sorrise amareggiato, per poi aggiungere sofferente: «Sapevo già di appartenere a due specie diverse, ma avevo nove anni quando mi fu spiegato ciò che questo implicava e cosa fosse successo a mio padre. Quando ero piccolo mi dissero solo che fosse morto, non mi raccontarono il come e il perché.» Il suo sguardo si adombrò, concludendo con: «Non sapevo ancora di essere un errore.»
«Non sei un errore. Sei l’incarnazione dell’amore» lo corressi, sorridendogli con dolcezza.
Schiuse le labbra, sorpreso, ma in maniera repentina anche il suo sorriso divenne più sincero e le sue iridi si tinsero di tacita gratitudine.
«È la cosa più bella che mi sia mai stata detta.»
«È ciò che penso, da sempre» lo misi al corrente, decidendo che fosse giunto il momento di essere del tutto onesta.
Tolsi la mano dall’acqua per stringere la sua, cercando di rubare la sua forza per poco, in modo tale da rivelargli il pensiero che mi stava assillando.
«Però ecco, vedi… Syaoran-kun, adesso sono io… Sono io a sentirmi sbagliata…»
Mi guardò perplesso, ma capivo che mi stava ascoltando. Che mi stava dedicando tutto di sé. Che si stava sforzando di comprendermi, come poteva.
«Dov’è il mio posto?»
Dinanzi a quell’interrogativo mi sorrise amorevole; mi sfiorò una guancia, rivolgendomi uno sguardo rassicurante.
«Non devi sentirti così, Sakura, perché nulla è cambiato. Il tuo posto è sempre con la tua famiglia.»
«No, è qui che ti sbagli.» Scossi con vigore la testa, afferrando la sua mano, stringendola con tutta me stessa. «Prima di tutto, adesso abbiamo scoperto che ho un potere e Kaito-san potrebbe non essere l’unico a volerlo.»
«Non devi preoccuparti di eventuali nemici» proferì con sicurezza. «Una volta che sarai tornata a Tomoeda andrà tutto bene. Lì ci saranno il sole, tuo padre, tuo fratello e Yue a proteggerti.»
«Non ci sarai tu…» La mia voce si incrinò palesemente, ma tentai di sostenere il suo sguardo come potevo.
Lui assunse un’espressione combattuta, vedevo altrettanto dolore sul suo viso.
«Sai che anche per me sarà dura senza di te. Ma è giusto che sia così.»
«Non voglio che sia così» mormorai, stringendo le labbra tra i denti per non piangere.
«Sakura…»
«Syaoran-kun, ti prego solo quest’ultima volta di ascoltarmi, senza interrompermi.»
Attesi un suo cenno e io mi tirai un po’ indietro, stringendomi una mano sul petto, sentendomi il cuore dolermi.
«Quando Kaito-san ha cominciato ad apparirmi nei sogni, poneva sempre delle condizioni. Se io lo avessi aiutato avrebbe realizzato tutto ciò che volevo in cambio. Sapevo che non dovevo fidarmi, lui era “il cattivo”, eppure… è stato sempre più difficile mantenere la fermezza. Inizialmente desideravo dimenticare, dimenticare tutto. Dimenticare quel che provavo per te, perché sapevo che non sarebbe stato in alcun modo realizzabile. Dimenticare tutto ciò che avevo visto e sentito qui, perché a che mi servivano simili ricordi se poi non avrei più potuto incontrarvi? A che mi serviva tutto quell’affetto, se poi sarebbe scomparso? Ma poi è accaduto il contrario, volevo ricordare ogni singola cosa, ogni persona incontrata, ogni emozione, ogni parola, ogni sensazione… E successivamente, in maniera del tutto inconscia, è diventato un desiderio di vivere ogni cosa non vissuta. Ogni cosa di cui sono stata privata.»
«Di cosa sei stata privata?» domandò spaesato.
Mi sentii gli occhi inumidirsi, sperando che quel che stavo per dire non suonasse troppo come un’accusa. Non gli stavo dando alcuna colpa, semplicemente non potevo crederci che, in realtà, quel che io volevo più di ogni altra cosa avrebbe potuto essere possibile. Avrebbe potuto essere realizzabile. Perché quello era il mio vero destino. Quello era il mio vero io.
«Del mio amore per te. Della mia vita da vampira.»
«A tal proposito -» cominciò, ma io gli rivolsi un’occhiata ammonitoria, asciugandomi rapidamente le guance.
Al di là della mia manica lo vidi portarsi una mano sulla bocca, come se se la ricucisse, strappandomi così un effimero sorriso. Non appena tornai seria, tuttavia, ripresi.
«Il mio ultimo desidero, è diventare vampira» confermai, marcando quella parola.
Paradossalmente lo vidi impallidire, e dinanzi a quel biancore quasi totalmente vampiresco non potei non sorridere.
«E scoprire che io in realtà sono una Reed… Che discendo da una famiglia di vampiri… Tutto ciò alimenta maggiormente questo desiderio.»
Tacqui, in attesa, facendogli capire che fossi giunta alla fine.
Lui mi fissò indecifrabile, a labbra serrate, decretando poi in maniera apparentemente impassibile: «Penso che dovresti rifletterci su con calma, a mente lucida.»
«Non ho più bisogno di rifletterci su. So quello che voglio» ribadii convinta.
«Non hai idea, invece, di quello che chiedi.»
«Perché è doloroso trasformarsi?» supposi.
«Non lo so» sospirò, portandosi due dita alle tempie, massaggiandosele. «Ma non è per questo. Cioè, anche, dubito sia indolore.»
«Allora è perché non sai come si fa? Non hai mai trasformato nessuno prima?»
«So come si fa» mi contraddisse, aggiungendo poi con freddezza: «Sakura, io o uccido o lascio vivere. Non c’è mai stata per me l’opzione di mezzo.»
Chissà se sperava di spaventarmi parlandomi così. Ancora non aveva capito quanto fosse inutile?
«E non vorresti provare a farlo con me?»
Mi resi conto solo in parte di suonare petulante, quasi lo stessi pregando di farlo. E lagnosa, come una bambina di tre anni. Ma che potevo farci, era il mio più grande desiderio…
«Dammi una sola ragione buona per cui io dovrei sconvolgere ulteriormente la tua vita e privarti di essa.»
Col batticuore presi entrambe le sue mani, avvolgendole nelle mie, decidendo di confessare tutto e aprirgli il mio cuore – sebbene mi sentissi andare in fiamme.
«Perché io, la mia vita, voglio viverla al tuo fianco. Per sempre. Anche tra venti, trenta, cinquanta, cento anni. Voglio stare con te, sostenerti, amarti ed essere abbastanza forte da proteggerti.»
Sgranò occhi e labbra, e col suo sbigottimento mi fece arrossire ulteriormente. Ci fissammo per lunghissimi, innumerevoli secondi, con me che mi sentivo sprofondare sempre più dall’imbarazzo; poi fece una cosa che non mi sarei mai aspettata. Le sue labbra fremettero, quasi fosse indeciso se sorriderne o meno di quella rivelazione, i suoi occhi si fecero lucidi, intingendosi d’una grande emozione, e, tremante, mi strinse tra le sue braccia.
«Anche io desidero essere al tuo fianco, per sempre. Che sia anche tra cinquecento anni. Voglio esserti accanto, sostenerti ogni volta che ne avrai bisogno, donarti tutto ciò che desidererai, renderti la persona più felice al mondo. Vorrei amarti come meriteresti, ma proprio perché provo questo sentimento… non posso impedirti di crescere.»
Per tutto il tempo mi sentii il cuore in gola, non riuscendo a credere alle mie orecchie; finché non udii quelle ultime parole.
Mi staccai da lui di botto, scaldandomi.
«Ma non ha alcun senso!»
«Invece sì, Sakura!» Mi guardò dritto negli occhi, confessando: «Ti amo, e proprio per questo non voglio fermare il tuo cuore.»
Lo fissai esterrefatta, congelandomi, sentendomi morire.
Mi amava… Aveva detto che mi amava… Lui, mi amava…
Era vero? Poteva mai essere vero? Stavo forse sognando?
«Sakura…?»
Lo vidi sventolarmi una mano davanti agli occhi, al che battei le ciglia, incredula. Improvvisamente la mia testa s’era fatta leggera come un palloncino, che s’involava fino al cielo. Ecco, mi sentivo fluttuare e salire sempre più su, verso la volta celeste.
«Il mio cuore s’è già fermato» sussurrai sottilmente, percependo l’anima sfuggirmi dal corpo.
Alzò un sopracciglio, poggiando il palmo contro il mio petto.
«No, ti assicuro che batte fortissimo.»
A quel nuovo contatto mi sentii al centro di un incendio. Eppure, non c’era quel calore asfissiante, quella puzza soffocante, era semplicemente tutto tremendamente piacevole.
Prese anche la mia mano, portandola al di sotto della sua, facendomene avvertire i palpiti scalpitanti. Dovevo ammettere che sembrava un tamburo impazzito. Ma che potevo farci, non avevo idea di come rallentarlo e, ancor peggio, non capivo se le sue parole fossero vere o mero frutto della mia immaginazione.
«T-tu… tu mi… m-mi… a…»
Balbettavo, incapace di fare di più, cercando una conferma; ciononostante lui parve capire da solo quel che volevo dire perché si raddrizzò, fissandomi dritto negli occhi.
«Ti amo» ribadì solennemente.
Dinanzi a quella certezza crollai, scoppiando a piangere in maniera incontrollabile.
«Sa-Sakura?!» Mi guardò allarmato, agitandosi, non sapendo come comportarsi. «Che cosa ho fatto?»
«Quello che hai detto» ripresi tirando su col naso, tentando difficilmente di calmarmi, «lo pensi davvero?»
Sbatté le palpebre, regalandomi poi un’espressione dolcissima.
«Sì.»
Sorrisi in mezzo alle lacrime, gettandomi tra le sue braccia.
«Sono lacrime di gioia?» chiese insicuro.
Assentii e lui fece una mezza risata, avvolgendo le braccia attorno a me. Senza preavviso si alzò, portandomi come una principessa, mentre ancora tentavo di asciugarmi il viso.
«Hoe?»
Mi affacciai confusa, stropicciandomi le palpebre, e quando il velo d’acqua scomparve notai che mi stesse rivolgendo un sorriso enorme.
«Tieniti forte» mi avvisò.
Feci giusto in tempo a seguire il consiglio che partì di corsa, inoltrandosi nel bosco. Passammo oltre i ruscelli, oltre i loro susini, finendo in una zona nel cuore della foresta, in cui ancora non mi aveva condotta. Qui c’era più ombra, ma la pallida luce del giorno che filtrava attraverso le fronde donava a tutto un’aria magica. Come una cortina, essa avvolgeva un oggetto che si ritrovava nascosto in una piccola radura, protetto dai maestosi alberi: un pianoforte.
«È il vostro?» chiesi stupita mentre tornavo a terra, con lui che mi aiutava a scendere.
«Sì, lo abbiamo spostato momentaneamente qui finché non capiamo cosa fare con quel D.»
«Che avete pensato a tal riguardo?» lo interrogai, pregando in cuor mio che non decidessero di ucciderlo.
«Per me sarebbe meglio farlo fuori il prima possibile.»
«Syaoran-kun!» lo rimproverai.
Mi guardò, mostrandomi un sorriso divertito.
«Che faresti se lo uccidessi?»
«Ti terrei il broncio in eterno» lo minacciai, incrociando le braccia.
«Che cattiveria» mi assecondò, fingendosi agonizzante.
«So essere crudele anche io, come vedi.» Sorrisi soddisfatta in maniera un po’ diabolica, prima di ritornare seria. «Comunque, dico davvero. So che quello che i D. vi hanno fatto è imperdonabile, ma lui non ha colpa.»
«Ha tante colpe» replicò prontamente.
Sapendo già cosa stava per dire lo anticipai: «Ma come vedi, io sono qui. E sono ancora umana.»
«Lo sarai a lungo.»
Gonfiai le guance, indispettita.
«Insisterò finché non ti convincerò a trasformarmi.»
«Bene, vedremo se ci riuscirai.» Accettò la sfida, prima di volgermi le spalle, avviandosi allo strumento.
«Ad ogni modo, lo risparmieremo. Prima di tutto perché è vero, lui non c’entra con la storia di mio padre, visto che quella fu un’azione attuata dai membri anziani del clan. Sono loro a prendere le decisioni.»
Esultai interiormente, felicitandomi per Akiho-chan. Anche lei aveva la possibilità di vivere il suo amore, se tutto fosse andato bene.
«Poi, non vogliamo abbassarci al loro livello. Siamo assassini, è vero, ma non spietati come i D. Abbiamo ancora una morale.»
«E questo vi rende encomiabili.»
Mi guardò da dietro la spalla, aggiungendo sottovoce: «Oltre a ciò, non voglio vederti piangere più, non voglio che pensi che io sia un demone brutale, non voglio che tu cominci a disprezzarmi -»
«Questo non accadrebbe» lo rassicurai, affiancandolo per prendere la sua mano. «Ma io lo dico per te. Non sporcarti le mani con lui.»
«Cerchi di salvare un’anima ormai perduta?» domandò ironicamente.
Lo fissai seriamente, profondamente convinta di quel che stavo affermando: «Non è affatto perduta. Syaoran-kun, la tua anima è ancora molto pura. Se non lo fosse stata non mi avrebbe risparmiata il primo giorno.»
Storse la bocca, contrariato a quel riferimento.
«Era senso di responsabilità.»
«Vedila come vuoi, per me era il tuo cuore. È sempre stato il tuo cuore a guidarti.»
Si arrestò davanti allo sgabello, voltandosi a guardarmi con un sorriso dolcissimo.
«Sei sempre stata tu a guidarmi.»
Sentii nuovamente i miei battiti accelerare dinanzi a quello sguardo così nuovo, così carezzevole, così roseo, così melenso.
Si voltò a guardare il pianoforte, riprendendo il discorso mentre si sedeva.
«In conclusione, pur lasciandolo in vita Hiiragizawa ritiene sia meglio tenerlo d’occhio, visto che non possiamo fidarci ciecamente di lui. Potrebbe denunciarci ai suoi compagni.»
«Ma ha detto -»
«Lo so, Sakura. È che non sempre quel che si dice corrisponde a verità. Cercheremo di investigare più a fondo nella faccenda, pur senza rivelarci.»
Ridacchiai, notando che così suonava come un piccolo detective.
Si mise comodo sullo sgabello, aggiustandosi la camicia, quasi si trovasse dinanzi ad una platea, e mi fece segno di affiancarlo; mi sedetti intrepida al suo fianco mentre sollevava il coperchio, rivelando quei tasti bianchi e neri ormai tanto familiari.
Cominciò a suonare senza dirmi nulla, ma immediatamente riconobbi la sinfonia che parlava di noi. Chiusi gli occhi, seguendone le note, immaginandone la storia, visualizzandola nella mia mente, vedendoci ancora una volta vivere in armonia, finché non mi accorsi che le dolci sequenze finali erano accompagnate da altre, ancora più morbide e melodiche, ancora più calde, ricche di speranza e realizzazione. La storia di un amore che, alla fine, aveva trovato il suo compimento.
Riaprii gli occhi commossa, trovandolo a guardare i tasti con aria soddisfatta.
«È finita» sussurrò. Potevo udire la contentezza celata nella sua voce.
«Sì» confermai, posando le mie mani sulle sue.
Lui mi guardò contento, voltandole, attorcigliando le sue dita alle mie.
Quella era davvero la fine, la fine di ogni singola cosa.










 
Angolino autrice:
Sono riuscita ad aggiornare anche oggi *^* Me feliceee!
Allora... A scapito di quel che lascia intendere il titolo, questo non è l'ultimo capitolo - ma manca veramente pochissimo: il prossimo sarà l'ultimo dal pov di Syaoran, e poi mancheranno soltanto 2 capitoli + l'epilogo! Non so se esserne felice o piangerne çwç
Ok, basta sentimentalismi, dato che non mi sembra ci sia nulla da dover spiegare qui vi saluto, e ringrazio chi continua a seguirmi.
A presto!

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Capitolo 41
*** Capitolo 40 ***


NdA: Terzo (ed ultimo) capitolo dal POV di Syaoran.
 




Colei che rappresentò la sua salvezza



 
Ancora una volta qualcosa cambiò nel mio rapporto con Sakura. Inaspettatamente ci avvicinammo più che mai, più di quanto ritenessi possibile, e le mie reazioni erano del tutto controllate. A scapito di quel che pensassi, riuscivo a pormi dei freni, e compresi nell’arco di un mese che quello che facevamo non era sbagliato. Sentivo che non c’era nulla di male nello starle accanto, abbracciarla, sfiorarla, toccarla. Sentivo che era qualcosa che entrambi desideravamo, qualcosa che entrambi amavamo. Io mi riempivo della sua presenza, così come lei sembrava riempirsi della mia.
Accadde che per un certo periodo si ammalò e, assicurandomi che le mie visite non coincidessero con quelle dei suoi amici umani, mi recai spesso a trovarla, capendo in parte come potesse sentirsi con la febbre. Mi auguravo solo che non fosse atroce per lei quanto lo era per me. Per questo rimasi al suo fianco ogni volta che ne avevo la possibilità, e una sera in cui la sua temperatura raggiunse quasi i trentanove gradi accettai persino di dormire con lei. Ci coprii entrambi, sebbene per me non ce ne fosse bisogno, ma era necessario per tenerla al caldo e, al contempo, al fresco col mio corpo. In realtà non ero sicuro che funzionassero così i processi di guarigione umani, ma in ogni caso assecondai le sue richieste, convinto che lei sapesse cosa fosse ciò che le avrebbe maggiormente giovato alla salute; così si appiccicò del tutto al mio corpo e pur coprendola con le coperte la abbracciai. Crollò in poco tempo e io, incapace di dormire perché volevo assicurarmi che stesse bene, le carezzavo con delicatezza il viso, asciugandola dal sudore. La vedevo rilassarsi sempre più e quell’incendio che era divampato in lei sembrò scemare poco alla volta, durante l’arco della notte, finché al mattino non si estinse quasi del tutto. Quando si svegliò le passai il termometro e con mio enorme conforto scoprimmo che la febbre era scomparsa.
Si avvicinava allora un evento importante, ossia il suo compleanno, giorno che avevo scoperto grazie a Daidouji – la quale per l’occasione ci aveva invitati tutti a cena lì. Dopo aver donato a Sakura il fiore che portava il mio cognome sentivo che, invece, avessi dovuto consegnarle il mio nome stesso, perciò mi adoperai alla realizzazione di un piccolo lupo da rendere un portachiavi – ragion per cui fui preso in giro a lungo dalle mie sorelle, vista la mia “sdolcinatezza”.
Inutile dire che, sin da quando l’avevo vista quella sera, era più radiosa che mai. Mi veniva spontaneo sorriderle, e per questo Hiiragizawa mi punzecchiò abbastanza in seguito, ma io semplicemente lo ignorai, in trepida attesa che lei tornasse quanto prima. Fu purtroppo anticipata da quelle bisbetiche delle mie sorelle e mia cugina, che mi invitarono a prepararmi psicologicamente a quel che avrei visto. Un po’ mi preoccupai, sapendo quanto potessero essere imprevedibili con i loro gusti estrosi, ma quando poi si tolsero d’avanti mostrandomela e incontrai la sua figura mi sentii mancare, letteralmente, la terra da sotto i piedi. Era stupenda, ma non avevo il coraggio di rivelarglielo; o meglio, avrei voluto dirglielo, ma mi sentivo la bocca secca, riarsa, prosciugata, e cominciai a dubitare di riuscire anche a pronunciare una sola parola. Al solito, mi fece tornare al presente Meiling con la sua forza bruta e inevitabilmente si accese una discussione.
«Non riesci proprio a farle un complimento? Sta aspettando soltanto quello!»
«Meiling, guarda che non è facile! Come posso dirle che… che...»
«“Che” cosa?! Davvero, cuginetto mio, sei senza speranze. Dico sul serio.»
«Glielo dirò se ci sarà occasione.»
«Quando pensi che ci sia l’occasione se non adesso?!»
Fortunatamente Fudie ci fece zittire, facendoci notare quanto fosse scortese parlare in cantonese davanti a dei giapponesi. Preferii comunque isolare le loro voci, parlottando con Hiiragizawa, finché non rinnovammo gli auguri a Sakura mentre spegneva le candeline. Sapevo che quando lo si faceva si esprimeva un desiderio e per un minuscolo istante desiderai possedere la stessa abilità di Hiiragizawa, per scoprire Sakura cosa volesse.
Successivamente lei mangiò anche le nostre fette di torta, bevendo del tè, mentre noi ci nutrivamo, seppure non fossi pienamente concorde nel farlo davanti a lei, la quale quando lo capì non ne parve per niente turbata. E del tutto indesiderate furono le osservazioni di Meiling; ma quanto meno, fu un buon pretesto per stare un po’ soli, approfittando di tale disagio per defilarcela. Finalmente, avrei potuto mettere in atto il mio piano, la mia prima sorpresa per lei. Non avevo idea di come avrebbe potuto reagire dinanzi a qualcosa di tanto poco umano, così come non ero sicuro che me lo avrebbe lasciato fare. Ma al solito, lei cancellava tutti i miei indugi, concedendomi qualunque cosa; pertanto potei prenderla tra le mie braccia, potei correre alla mia velocità, quella reale, senza dover stare attento ai passi che eseguivo. Potei farlo insieme a lei. Potei mostrarle ancora una volta il vero me stesso, un me stesso che lei non aveva ancora conosciuto del tutto, ma con cui sembrava desiderasse ardentemente avere a che fare.
La cosa più buffa era non solo che era talmente esaltata dalla situazione da non stare ferma e zitta neppure un attimo, mettendo a dura prova i suoi polmoni, ma aveva anche frainteso quale fosse il mio regalo. Glieli diedi così, uno alla volta, mettendomi direttamente nel palmo della sua mano. Le lasciai me stesso, le lasciai noi due, chiedendomi quando si sarebbe accorta dello spartito nascosto. Lei mi domandò cosa potesse darmi in cambio che mi ricordasse se stessa, ma forse non le era ancora chiaro che non serviva niente. In primis, non l’avrei mai dimenticata. Avevo la canzone che avevo cominciato a comporre per noi, avevo i suoi ritratti, avevo il suo regalo di Natale e, in quest’ultimo, si celava ciò che lei era per me. L’avrei rivista ogni volta che avrei sentito la sua mancanza, nelle stelle durante le notti sgombre di nuvole, nei ciliegi ad ogni primavera. Pur nella sua assenza, sarebbe sempre rimasta al mio fianco.
Cercai allora di comunicarglielo, e mentre inaspettatamente le spiegavo quel che sapevo d’astronomia lei si perse – come sempre, era troppo difficile per Sakura restare concentrata a lungo su un argomento senza deviarlo – e mi imbarazzò non poco, comparandomi alla Luna, quella Luna che avevo sempre odiato, in cui mi ero sempre rivisto, e dopo quel suo discorso mi ci rividi più che mai. Aveva ragione perché, fino a poco prima di conoscerla, ero veramente freddo, buio, vuoto, ma poi avevo trovato la mia stella e lei mi aveva avvolto nella sua luce, riempiendomi di vita. Lei mi aveva salvato. E senza di lei, sarei ritornato ad essere il nulla. Non sarebbe più stata un’esistenza la mia, quindi non scherzavo quando dicevo che se lei fosse morta mi sarei ucciso a mia volta. Il piano era quello: far sì che crescesse, raggiungesse la veneranda età, rispettando il ciclo della vita e poi, una volta che fosse giunta la sua ora, sarei morto con lei. Doveva crescere, doveva innamorarsi, doveva costruire una famiglia felice con qualcuno che condividesse la sua stessa natura. Era una realtà quella a cui non potevo strapparla solo perché la volevo con me; pertanto, se fossi stato certo che lei avesse continuato a vivere serenamente, potevo sopportare la sua lontananza. Ma non la sua sparizione dal mondo.
Fui lieto in ogni caso di scoprire che quando ammirava la luna lo faceva pensando a me. Era quasi incredibile il come persino i nostri pensieri sembrassero legati dal filo rosso del destino. Ma no, era un filo di sangue nel nostro caso, un filo che sapevo fosse indistruttibile, e che tuttavia avrei dovuto spezzare con tutte le mie forze, per garantirle un futuro. Sapevo che amare significava anche saper lasciare andare e che quella poteva anzi essere una delle forme più dolorose d’amore. Ma avevo fiducia nella mia forza, nel mio coraggio, nel mio essere determinato. Ci sarei riuscito, ad ogni costo, e proprio come le avevo detto sarei sopravvissuto finché non fosse giunta anche la mia fine.
Le cose divennero difficili dopo che giunse la nuova studentessa. Detestavo il suo odore, era come la copia marcia di quello di Sakura, e mi sembrava che fosse avvolta da un’atmosfera negativa, nefasta. Forse era soltanto una mia impressione, fatto sta che avrei preferito che stesse alla larga da Sakura, visto che con quello che già rischiava non si poteva mai sapere… E invece proprio lei era quasi diventata sua amica per la pelle.
Provai a parlargliene, sia di quella sensazione che dei miei timori, della mia paura di perderla, che qualcuno me la strappasse via con la forza, che non fossi in grado di salvarla sebbene fossi disposto a tutto, tutto, per proteggerla. Lei mi ascoltava, sembrava capirlo, e mi rincuorava. Lei rincuorava me, quando avrebbe dovuto essere il contrario e io avrei dovuto sostenerla in ogni momento.
Forse lo fece per alleviare quella mia sofferenza, fatto sta che si finì col parlare di cromature. Con la sua bianca voce mi mostrò l’estate, un’estate fino ad allora immaginata e mai vissuta, permettendomi di avvicinarmici, promettendomi persino che saremmo andati al mare insieme. Era una cosa che mi aveva sempre lasciato indifferente, ma improvvisamente la prospettiva di poterlo fare con lei rese allettante il recarmici. Mi parlò dei suoi colori preferiti, le parlai del mio colore preferito, lo stesso che tingeva le sue iridi, facendole brillare. Quel colore che mi aveva sempre dato il buongiorno, sin dalla mia nascita, quel colore in cui potevo comportarmi secondo la mia vera natura, quel colore che non più semplicemente mi piaceva e mi faceva sentire a mio agio, ma che amavo da quando l’avevo conosciuta.
All’improvviso però successe di nuovo qualcosa che non avrei mai potuto prevedere, e avrei dovuto invece prevenire. Giusto per rimproverarla e farle capire che non doveva farsi del male, neppure inconsciamente, le feci notare cosa si fosse combinata alle dita. Fortunatamente non usciva sangue, ma rispetto alla prima volta che accadde a scuola mi sentivo più controllato, più sicuro di riuscire a dominarmi, per cui se anche ce ne fosse stata una goccia ero sicuro che non l’avrei morsa. Rispetto a quel che accadde a febbraio, in quel momento ero in me, avevo il pieno controllo dei miei sensi. Quindi non ci sarebbe stato niente di male se avessi avvicinato quella piccola ferita al mio naso, se avessi odorato la sua pelle, se le avessi permesso di approcciarsi ancora di più a me, di posare il suo naso sulla mia guancia per fare lo stesso, di schiudere le labbra, di sfiorarmi col suo dolce respiro, bagnandomene a mia volta le labbra, gustandomi soltanto esso, pur desideroso di rimuovere qualsiasi distanza… Ma no, proprio come ad Halloween, non potevo permetterlo. Era un discorso strano forse per lei, anche perché mi era già capitato di cedere e baciarla, ma se lo avessi fatto sulle sue labbra… Se avessi posato le mie sporche labbra, labbra con cui uccidevo, sulle sue, che con tanto candore, tanta purezza, pronunciavano il mio nome, dandomi la vita col loro sorriso... L’avrei macchiata col mio peccato. E proprio perché la amavo non potevo permettere che accadesse. E ciononostante, avevo quasi ceduto. L’avevo quasi sporcata.
Avendocela con me stesso, mentre ce ne andammo non riuscii a fronteggiarla, sebbene fossi turbato e combattuto anche per un’altra ragione: lei, come sempre, sembrava esserci rimasta male. Neppure quel poco ero in grado di fare, neppure quella piccola gioia avrei potuto darle, e per questo mi odiavo sempre di più.
Fortunatamente mi richiamò a sé, raggiungendomi in men che non si dica, e fece riferimento al componimento che le avevo lasciato, chiedendomi di suonarglielo anche se incompleto. Poi mi sorprese nominando quei ritratti di cui con tanta attenzione avevo evitato di parlare – a quanto pareva a casa mia era impossibile tenersi un segreto.
Non potendo più tirarmi indietro a quel punto, la feci accomodare nella mia stanza, rimirandola in silenzio mentre sedeva sul mio letto, totalmente a suo agio, immersa nell’ammirazione dei disegni. Tutto era cominciato dal nostro primo compito insieme: esso prevedeva che ci ritraessimo a vicenda e vedere il suo disegno di me fu in parte buffo, poiché era pieno di cancellature, quasi trovasse difficile replicarmi alla perfezione, e fu anche un’occasione per guardarmi attraverso gli occhi di qualcun altro. Rispetto ai ritratti che mi erano stati fatti dai membri della mia famiglia sembravo più evanescente in quello schizzo insicuro e tremolante, quasi irreale. Neppure lei stessa sembrava convinta del suo operato, tanto che mi definì più bello di come mi avesse disegnato. Ad essere onesto non avevo mai pensato alla bellezza prima di allora, ma col passare del tempo che trascorrevamo insieme mi resi conto che se avessi dovuto assegnarle un nome, quello sarebbe stato il suo. Lei era bellissima, sia fuori che dentro. Mentre pensavo a ciò, mi si scaldò il cuore nel vederla così vicina a me, nel renderla sempre più partecipe di quella che era la mia vita. Al di là di ciò che temevo una volta che avrebbe scoperto dei ritratti che le avevo fatto – timoroso che potesse scambiarla per un’ossessione o un mio essere maniaco, quando semplicemente rappresentavano ricordi ed erano un mezzo per averla sempre con me, anche quando se ne sarebbe andata –, lei reagì commuovendosi. E tale commozione si palesò maggiormente dopo che le ebbi suonato il brano che avevo composto per noi. Per darci un lieto fine, ma quello ancora non ero riuscito a trovarlo. E forse non lo avrei mai trovato.
Le spiegai delle ragioni dietro alle mie azioni, dietro ai miei comportamenti, sperando che lei potesse capirmi, senza pensare invece che, così facendo, non avrei fatto altro che ferire i suoi sentimenti. Così, quando fuggì via, mi sentii morire. La rincorsi sotto la pioggia perché volevo scusarmi per le parole che le avevo rivolto, sebbene fosse esattamente quel che pensassi, o meglio, quel che io ritenessi rappresentasse il meglio per lei, quel che io mi ero convinto fosse più giusto. Lasciarla andare era la scelta più saggia; eppure fu più forte di me, dovetti raggiungerla, dovetti assistere al suo pianto, dovetti coprirla dalla pioggia, dovetti ascoltarla, come era giusto che fosse. Più mi parlava, più mi disperavo per non essere anche io in grado di piangere come lei, di cacciare fuori tutto quello che mi pesava dentro e liberarlo. Gli umani potevano essere così liberi, e io non volevo assolutamente privarla di quella libertà. Aveva così tante opportunità, lei, che a noi vampiri erano negate, ma come in seguito scoprii lei follemente sarebbe stata disposta a rinunciarvi, pur di trascorrere la sua vita con me. Perché lei mi amava. E io, anche io la amavo, la amavo così tanto, ma non potevo dirglielo. Dovevo rifiutarla, ma non avevo la forza di farlo. Forse lo feci con il mio silenzio.
Mi sentivo malissimo. Dover fingere di non amarla, sapendo che lei ricambiava il mio stesso sentimento, era atroce. Aveva ragione lei, avremmo potuto realizzarci, se soltanto io fossi stato più… più istintivo, meno iperprotettivo, più egoista, meno riflessivo. Pensavo di aver scelto il percorso migliore per lei, ma, al contrario, con la mia scelta mi stavo rivelando ancora più egoista. Non sapevo più cosa fosse giusto e sbagliato. Se avessi ceduto al mio desiderio, coincidente col suo, saremmo stati felici entrambi; ci saremmo realizzati entrambi. Tuttavia, così facendo, sarei andato contro la sua natura. Quei pensieri, quei timori, quegli indugi erano asfissianti, soffocanti, angoscianti. Normalmente avrei trovato una risposta, avrei saputo come comportarmi, ma in una situazione simile? Come bisognava comportarsi, quando ci si metteva di mezzo il cuore?
E pensare che allora più che mai dovevo tenere i sensi più all’erta, visto che ormai mancava poco e sarebbe tornata al sud… e proprio in quegli ultimi giorni mi sentivo come se ci fosse qualcosa di incombente: mia madre aveva ricominciato a fare quei sogni nefasti e io mi sentivo sempre più impaurito.
Giunse in fretta la primavera: i ciliegi fiorirono, il confine tra di due mondi divenne più labile, il legame tra vita e morte si rafforzava. La vita di Sakura, la morte di Sakura. Era tutto ciò che mi atterriva, ciò di cui più avevo paura, ciò che più mi spaventava. Vivevo nel terrore, giorno e notte, che avrei potuto perderla da un momento all’altro, che avrebbero potuto strapparmela via, ed era facile adesso che non ero più al suo fianco. Che nessuno di noi poteva più essere al suo fianco perché io, con la mia stoltezza, avevo incrinato il nostro rapporto. Era stato quel mio essere disonesto a distruggere tutto. E ora non potevo far altro che osservarla a distanza e sentirmi trafiggere ogni volta che vedevo il dolore sul suo viso, ogni volta che mi voltava le spalle per non mostrarmelo. Mi sentii, come tanti mesi fa, smarrito, un bambino perso in se stesso, rinchiuso in una gabbia senza vie di uscita. Provai a convincermi, al di là di tutto, che era questione di tempo ormai. Nulla più sarebbe successo e lei sarebbe tornata sana e salva nella sua città.
Per questo, quando sentii che dovesse fare un picnic con le sue amiche, approfittando del sole di un mattino di maggio a pochi giorni dalla sua partenza, non ebbi nulla da ridire e me ne stetti in casa, insieme a tutti. Mi sentivo però inquieto, vagavo avanti e indietro per la stanza, snervando un po’ tutti disturbando il loro sonno, pregando mentalmente che il cielo si annuvolasse quanto prima. E nel momento preciso in cui accadde Hiiragizawa diede conferma ai miei timori: non uno soltanto, bensì una trentina di vampiri erano entrati contemporaneamente nel nostro territorio. Tra questi, uno era un D.
Uscimmo immediatamente per affrontarli, ma con mio sgomento scoprimmo che quelli nel bosco erano soltanto delle pedine, umani trasformati da sfruttare per occupare il nostro tempo. Pur non conoscendo l’aspetto di Yuna D. Kaito, il sangue delle stirpi lo si riconosceva e lui sicuramente non era lì. Mi sentii ghiacciare fin nelle ossa, capendo. Era un diversivo, ci stava tenendo lontani da Sakura per avere il tempo di usarla come avrebbe voluto. Sapevo che coi neo-trasformati, a meno che non avessero ricevuto un’educazione, fosse futile parlare. E nel suo caso, non poteva trattarsi d’altro che di macchine da guerra, la formazione di un esercito con cui contrastarci. Aveva fatto male i conti, trenta di loro non avevano possibilità di batterci. Mi bastò rivolgere uno sguardo a mia madre, la quale con un cenno mi fece capire che potevamo attaccarli. Non c’erano alternative, sapevamo soltanto che dovevamo sbrigarci, prima che Sakura perdesse la vita.
Dopo averne sconfitti almeno la metà Hiiragizawa mi richiamò, ingiungendomi di recarmi da Sakura e salvare lei e Shinomoto, portandomi dietro Meiling e Daidouji. Non avevo idea di cosa c’entrasse la nuova arrivata, ma poco mi importava. Di quella faccenda potevano occuparsene anche loro due, io avevo un unico compito e quello era salvare Sakura, garantendomi che fosse illesa. Ma sapevo che non era così. Quanto più correvo verso la sua scia, tanto più l’odore del suo sangue diveniva intenso, soffocante, riempiendo l’aria. Era ferita, sicuramente, e forse era troppo tardi, forse aveva già usato il suo sangue per il suo scopo – no, non potevo accettarlo. Non riuscivo ad accettarlo. Non potevo essere arrivato troppo tardi…
Lasciai indietro Daidouji e Meiling, accelerando. Non appena individuai il nemico mi avventai su di lui, allontanandolo da Sakura, lanciandolo distante da lei. Approfittai dell’effetto sorpresa e del tempo necessario a riprendersi per controllare lo stato di Sakura, vedendola stesa accanto a Shinomoto, stretta dai rami, con una ferita al polso. La visualizzai, vedendo che si trattava di un morso. Non poteva essere. Guardai il suo viso, trovandola prostrata, ma i suoi occhi stillanti lacrime erano del confortante verde che conoscevo e il dolore che vi leggevo non era quello che si associava alla trasformazione. Non l’aveva uccisa. Ma le aveva fatto del male, e questo non potevo assolutamente perdonarglielo.
Quasi fosse stata colpa sua, Sakura mi disse che le dispiaceva. A quel punto non ci vidi più dalla rabbia. Mi voltai irato a guardare quel D., trovandolo a rimettersi in piedi. Lessi nel suo sguardo che non vedeva l’ora di un confronto e se tali erano le sue intenzioni lo avrei accontentato volentieri. Ignorai l’implorare di Sakura di andarmene perché no, niente mi avrebbe più fermato. Sapevo quanto potessero essere potenti i D., sapevo che forse non ne sarei uscito vivo, ma dovevo vendicarmi finché non mi sarei sentito sazio. Così mi avventai su di lui, combattemmo, e sebbene i miei movimenti fossero un po’ più rallentati dalla precedente battaglia, riuscivo a tenergli testa. Forse era anche grazie ai riflessi della mia seconda natura. Essa doveva essere un vantaggio, per forza, per cui approfittai di quella mia agilità sfruttandola sia nell’attacco che nella difesa.
Con la coda dell’occhio mi assicurai che Daidouji e Meiling avessero raggiunto Sakura prima di allontanarci di lì, per proseguire indisturbati. Dato che riuscii ad affaticarlo usò un incantesimo per evocare una spada e io ringraziai mentalmente Hiiragizawa per aver reso a portata di mano la mia jian. Purtroppo non eravamo riusciti a trovare qualcosa di efficace contro il suo potere soggiogante, ma se non potevo riuscirci con la mente lo avrei sconfitto con la mia forza fisica. E questa misi nella mia spada, colpendolo con tutte le mie forze.
Come previsto, durante tutto il combattimento provò ad entrare nella mia testa, riuscendoci di tanto in tanto, parlandomi, leggendomi, scoprendo tutto di me, sia le mie forze, che le mie debolezze. Aveva fatto lo stesso anche con Sakura? Aveva indagato e svelato anche i suoi segreti più reconditi? Aveva spiato le sue più intime paure? Una simile mancanza di rispetto era imperdonabile. Sentii la sua voce che mi diceva che a nulla serviva sforzarmi tanto, era risaputa la superiorità dei D. rispetto agli altri clan. Lo sapevo, ma non lo accettavo. Un misero, vile, sporco D. non mi avrebbe battuto con facilità. Non scavando nei miei pensieri. Né sarebbe riuscito a soggiogarmi. Poteva dirmi quello che gli pareva, pensava forse di indebolirmi, di indurmi all’autocommiserazione, ma più di quanto lo facessi da solo non poteva riuscirci. Poteva definirmi un mostro, ma sapevo già di esserlo. Poteva anche definirmi uno scherzo della natura, lo avevo sempre saputo. Ma non doveva osare rivolgersi a mia madre con le sue luride parole, definendola una puttana, perché no, non lo era stata, né a mio padre chiamandolo cane, un bastardo che andava eliminato. Con quello stava sorpassando la linea.
Mi avventai su di lui, in preda ad una furia omicida. Se soltanto ci fosse stata la luna piena quella sera e non l’altroieri mi sarei volentieri trasformato per sbranarlo. Ma effettivamente, volendo, avrei già potuto spezzargli quel collo sottile con le mie zanne. Quanto avrei voluto porre fine alla sua esistenza, come avevo fatto con le sue pedine, mozzare la testa del re e schiacciarla sotto i miei piedi, disintegrargli ogni osso, squarciargli quel cuore freddo e stritolarlo tra le mie mani, incenerirlo coi miei fulmini.
Proprio mentre stavo precipitando negli abissi dell’odio, sentii l’odore del sangue di Sakura spandersi nell’aria, dovunque attorno a me. Me ne riempii le narici e, per la prima volta, divenne la mia forza. La forza di tornare in me, al presente, di ritrovarmi e mantenere la lucidità, di non lasciarmi provocare. Non sapevo che sorta di magia stesse facendo Daidouji, sicuramente qualcosa che le aveva insegnato Hiiragizawa e che dovesse aiutarci a sconfiggere il nemico; mi parve, infatti, di vederlo sempre più debole, sempre più fiacco quanto più il suo canto s’innalzava, quanto più il sangue di Sakura si estendeva attorno a noi. Riuscii a restituirgli le stesse ferite che mi aveva inferto, che le aveva inferto, e seppure continuasse a parare in maniera piuttosto abile i miei colpi, vedevo che la sua presa stava cedendo. Avevo a mio vantaggio anche il fatto di essere ambidestro, così cogliendolo di sorpresa gli tagliai i tendini, lo disarmai e lo colpii con un calcio, per farlo piegare in due. Attesi qualche secondo affinché le mie sorelle lo ingabbiassero con i loro poteri prima di approfittare del mal tempo e richiamarne i fulmini, risucchiando tutta l’elettricità che avvertivo nell’aria per riversarla su di lui.
Sapevo che quel tanto sarebbe bastato unicamente per privarlo dei suoi sensi, non era sufficiente ad ucciderlo. Mi era stato tuttavia ordinato di sconfiggerlo soltanto, metterlo fuori combattimento, in modo tale che mia madre e Hiiragizawa potessero interrogarlo. Inoltre, io stesso mi sentivo alquanto spossato, svuotato di tutto. Dover lottare non solo col corpo, ma anche con l’inconscio non era impresa facile; pensare che in parte vi ero già abituato, con la mia doppia natura. Mi sentii le gambe molli, ma prima che cadessi Sakura era lì, a sostenermi nella sua debolezza. Lei, senza un minimo di forza, manteneva me. Me, che avrei dovuto evitare che accadesse tutto questo. Me, che non ero riuscito a fare ciò che mi ero ripromesso. Me, che le avevo fatto vivere un incubo. Se c’era qualcuno che avrebbe dovuto scusarsi, quello ero io, ma sapevo di essere imperdonabile. Lui l’aveva morsa. L’aveva morsa. Avrebbe potuto trasformarla. Avrebbe potuto distruggere tutto ciò che io con tanta fatica, con tante rinunce, stavo tentando di costruire. Mi allontanai da lei, non sopportando la vista della sua ferita, né dei solchi sul suo collo, sulle sue spalle, sulle sue braccia, sulle sue gambe, certo che le avrebbero lasciato dei lividi. Mi avvicinai a mia madre, e insieme a lei dissi addio a mio padre, pregando affinché stavolta potesse riposare in pace. Vidi la sua luce nivea staccarsi dalla terra, fondersi a quel ciliegio bagnato del sangue della ragazza che amavo e sparire insieme ad esso.
Consolai per poco mia madre, prima che ella decidesse di fare lo stesso con Sakura, lasciandola piangere tra le sue braccia, carezzandole i capelli per confortarla con una cura e un affetto materno che non aveva mai potuto mostrare con noi, perché mai noi eravamo stati così tristi. Mai noi avevamo pianto con tanta irruenza, con singhiozzi così forti che le scuotevano tutto il corpo, con una voce dilaniante che sembrava competere coi miei guaiti e ululati da lupo. Era straziante vederla così, ma capivo che gli umani, che avevano la possibilità di farlo, era meglio che cacciassero fuori tutto, sfogandosi.
Dato che cominciò a piovere, ci affrettammo a rientrare. Lasciai che Daidouji si occupasse di lei, mentre tutti gli altri erano a casa mia. Stavo per raggiungerli, sebbene per mia madre fosse consigliabile nutrirmi prima, ma non importava, la mia guarigione poteva aspettare. Così mi alzai, dicendo a Sakura di non preoccuparsi, perché pur essendo sotto l’influenza della luna non era più al cento per cento piena, quindi sarei guarito, solo un po’ più lentamente. Affaticato mi avviai per il corridoio, ma naturalmente lei, testarda, mi seguì, facendomi la proposta più forsennata che potesse uscire dalle sue labbra: di bere il suo sangue, nonostante ne avesse già perso troppo, nonostante sapesse che era rischioso e avrei potuto non controllarmi. Tuttavia nei suoi occhi perseverava fiducia in me, e mi chiese soltanto di prometterle di avere cura di me stesso – quando più verosimilmente avrebbe dovuto essere il contrario, ed ero io a doverle chiedere di prendersi cura di sé. Anche perché, a meno che non combattevo, non avrei rischiato nulla.
Non ci misi molto a cedere al suo volere; come sempre mi mettevo totalmente nelle sue mani, e dopo che ebbe avvicinato il suo polso alle mie labbra le schiusi. Chiusi gli occhi, lasciando quel caldo liquido così estraneo eppure tremendamente familiare scorrere in me, riempirmi gli organi, le vene, le arterie, il cuore, nutrendomi per la prima volta di Sakura. E improvvisamente mi sentii come rigenerato. Il suo sangue era realmente speciale. Non era solo il suo profumo, ma anche il suo sapore era dolce, particolare, stucchevole, un invito a favorirne sempre più, senza mai sentirsi sazi.
Mi disse, allora, che io ero un “salvatore”, il che mi faceva ridere perché finché non l’avevo conosciuta, ma anche fino a qualche secondo prima, ero sicuro di essere tutt’altro. Eppure, se era così che mi vedeva, allora poteva essere vero. La guardai sorridente e leccai il sangue dalla sua ferita, ripulendola, decidendo che fosse abbastanza. Mi era bastato, sì, ed era stato il sangue più buono che avessi mai saggiato.
In cambio mi occupai di lei, fasciandola nuovamente, arrabbiandomi un tantino per le sue azioni sconsiderate; riconoscendo tuttavia che il mio lato aggressivo stesse per prendere il sopravvento decisi che fosse meglio per entrambi che me ne andassi. Tra l’altro, da quanto avevo sentito da Daidouji, a breve sarebbero arrivati suo padre e suo fratello, quindi non sarebbe stata sola. Sapevo che loro me l’avrebbero portata via, ma era giusto così. E da lei avevo già ottenuto più di quanto meritassi. Non importava se non avesse mai saputo quel che provavo.
Corsi nel bosco, diretto verso casa, fuori dalla quale incontrai Meiling che tornava da casa di Mihara dopo aver accompagnato Shinomoto. Entrammo insieme, trovando quel D. ancora privo di sensi, legato al centro della sala. Mia madre mi disse che ancora non s’era svegliato, ma ciò non mi stupì. Sicuramente si stava rigenerando, sicuramente stava recuperando le forze sfruttando quello stato di incoscienza. Avremmo dovuto ammazzarlo finché eravamo in tempo. Lo feci capire a mia madre, ma lei mi rivolse una muta occhiata ammonitoria. Digrignai i denti, frustrato, consapevole che Hiiragizawa aveva intenzione di interrogarlo prima. Ciononostante non riuscivo a sopportarlo, per cui preferii allontanarmi di lì e nascondermi nel fitto del bosco, tra le felci, ove permisi a tutti i miei sentimenti di traboccare, rubati dalla luce della luna. Fu allora che fui sorpreso da qualcosa che scorreva sulle mie guance. Piangendo. Stavo piangendo. Era la seconda volta che mi succedeva nell’arco di un’ora, quando per tutta la mia vita non m’era mai capitato. Ero sempre stato troppo freddo, troppo controllato, per permettere che accadesse nei giorni di vulnerabilità. C’erano sempre state rabbia, vendetta, indifferenza a dominarmi. Ma ora, c’era anche tristezza. Mi fermai accanto a una sequoia e alzai gli occhi al cielo plumbeo, concedendo alle lacrime che mi scivolavano sul viso di vincere su di me.
Il giorno successivo sapevo che Sakura avrebbe presenziato all’interrogatorio. Dopo che si era risvegliato quel D. non s’era degnato di rispondere a nessuna delle nostre domande, per quanto lo torturassimo, per cui Hiiragizawa suppose che l’unica a potergli strappare una parola potesse essere lei – sebbene io fossi contrario a quell’idea. Era una faccenda in cui volevo avesse a che fare il meno possibile. Soprattutto ora che c’era la sua famiglia, doveva pensare unicamente ad essa e dimenticarsi di noi. Era seccante però vedere che aveva ragione, che con lei aveva abbassato le difese e stava sputando il rospo. Alla fine, anche quello era un potere di Sakura: l’innata fiducia che intingeva in chiunque.
Ascoltai muto tutto quello che aveva da dire, tentando di capacitarmi di quelle parole. I sensi di colpa mi attanagliarono quando cominciai a comprendere che fosse stata tutta colpa mia: se mesi prima non avessi protetto Sakura in maniera tanto impulsiva, non l’avrei messa al centro dell’attenzione. Ma se non l’avessi protetta, avrebbe potuto morire. Avevo forse altra scelta? Quale sarebbe stata quella che mi avrebbe garantito la sua sopravvivenza, un’esistenza pacifica, priva di rischi e pericoli? E in essa, la mia presenza era contemplata? Oppure...
I miei pensieri andarono in fumo, non appena confessò quanto la avesse perseguitata. Questa fu solo un’ulteriore aggiunta alla lista delle ragioni per cui lo avrei voluto fare fuori, finché non disse una cosa che mi agghiacciò: Sakura era una Reed. Sakura aveva le mie stesse origini. I nostri mondi non erano diversi, bensì erano uniti, congiunti; il nostro mondo era lo stesso.
Hiiragizawa, al solito, sapeva e taceva. Il padre di Sakura era suo fratello. Potevo capire lei come si sentisse: smarrita, spaesata, persa in falsità. A quel punto non sarebbe stato strano se avesse cominciato a domandarsi chi fosse davvero. C’ero passato anch’io, quindi sapevo cosa si provava a ricevere notizie tanto sconvolgenti. Comprendevo la sua rabbia, la sentivo come mia; ma ancora non mi era chiaro cosa desiderasse.
Avrei voluto che fosse chiara con me, avrei voluto che i suoi desideri li rivolgesse direttamente a me, e non si mettesse nelle mani di nessun altro. Proprio allora quel D. tornò a parlare di questioni di sangue, e io feci due più due. Le aveva promesso di trasformarla! Come osava darle una simile speranza?! Lui, che non aveva alcun legame con lei, che non sapeva niente di lei! Lui, che non conosceva la sua vita! Non aveva alcun diritto di strappargliela! Lo avrei incenerito, lo avrei fatto davvero, lo avrei ridotto in polvere, se Sakura non mi avesse fermato. E allora i sensi di colpa tornarono, perché probabilmente non avevo fatto altro che ferirla ulteriormente: non solo emotivamente, adesso anche fisicamente. Perché? Perché dovevo essere tanto sbagliato?
Disperato, la portai via di lì. Non volevo più vedere la faccia di quel D., non volevo dover più sottostare a tutti quegli sguardi preoccupati per noi, non volevo più vederla soffrire. La prima cosa che feci, assicurandomi che non si fosse bruciata gravemente, fu scusarmi, sebbene sapessi che fossi stato imperdonabile. Poi mi accertai della sua salute. E, come sempre, lei mi chiese di me, quasi capisse come mi sentissi, rivedendomi in lei; per cui le feci capire che anche io, tempo addietro, avevo ricevuto notizie traumatiche, che m’avevano fatto cominciare a sentire inadatto. D’altronde, ero un bambino voluto? Avrei dovuto essere grato a mia madre per avermi tenuto, ma non ero stato uno sbaglio? Ero sempre stato convinto di essere frutto di un errore, ma Sakura, come sempre, mi fece aprire gli occhi: ero frutto dell’amore. E proprio come me, lei si stava porgendo i miei stessi quesiti. “A quale mondo appartengo? Che cosa sono davvero?”
Pensai avesse cominciato a questionarsi sulla sua umanità, ma lei, sempre più forte, sempre più decisa di me, aveva già capito cosa voleva. E quel che voleva mi faceva paura, perché potevo mai essere così fortunato da meritarmi un lieto fine? Decisi allora di essere del tutto sincero, rivelandole quel che provavo e quel che pensavo. Quel che non m’aspettavo fu la sua reazione. Si congelò, letteralmente, finché non pianse dinanzi ai miei sentimenti, in maniera talmente irruente che persino le sue spalle ne erano sconquassate. Non riuscivo a capire, cos’era? Tristezza? Gioia? Andai nel panico, non avendo idea di come comportarmi, finché lei non mi confermò si trattasse della seconda. Allora la abbracciai e mentre ascoltavo il suo pianto felice sentii nel mio cuore quel pezzo che mancava alla nostra composizione. Perciò la condussi là dove avevamo momentaneamente spostato il piano, facendogliela sentire.
Per quanto riguardava la sua trasformazione, non ero più molto fermo nella mia posizione. Ero solo insicuro se fosse o meno la scelta migliore, ma lei sembrava desiderarlo con tutta se stessa, sembrava essere disposta a rinunciare realmente a tutto, e io mi ero messo a sua disposizione per realizzare i suoi sogni. Per questo, dopo non molto tempo mi lasciai persuadere. E in tal modo, finalmente, io e Sakura avevamo trovato la nostra storia.










 
Spiegazione:
"Jian" è il nome della tipologia di spada di Syaoran, dritta e a doppio filo.

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Capitolo 42
*** Capitolo 41 ***


Accettazione




Dopo che Syaoran-kun mi fece ascoltare la fine del componimento che aveva realizzato per noi decidemmo di rientrare. Dato che durante il tragitto il mio stomaco brontolò in una maniera vergognosamente udibile, lui preferì accompagnarmi direttamente alla villa Daidouji, invitandomi a pranzare e ammonendomi a non provare più ad avvicinarmi a Kaito-san a meno che non avessi con me un vampiro che, in caso di necessità, potesse proteggermi. Glielo promisi, al che stava per salutarmi, quando una voce fin troppo conosciuta non lo bloccò nel processo.
«Moccioso, che ci fai con mia sorella?»
Entrambi ci voltammo sorpresi verso la strada, trovandovi papà, Touya e Yukito-san. Pensavo tornassero stasera! Fatto sta che mio fratello stava a braccia conserte a scrutare con un cipiglio Syaoran-kun dalla testa ai piedi, mentre Yukito-san tentava di placarlo con un sorriso ammansivo e papà assisteva alla scena con la sua solita calma.
Mi affrettai a pormi davanti a Syaoran-kun, difendendolo da qualunque attacco verbale potesse giungergli da quell’antipatico di Touya.
«Non è un moccioso e non sono fatti tuoi» risposi quindi al suo posto, cacciandogli la linguaccia.
«Oi oi Sakura. Non mettere a dura prova la mia pazienza.»
«Non sono tenuta a dirti nulla.»
«Papà!» Si rivolse a lui, scioccato. «Ma la vedi come mi parla?»
«Sarà l’adolescenza» fece spallucce lui, sorridendo cordialmente a Syaoran-kun, ignorando le lamentele di Touya. «Sei un amico di Sakura-san?»
«Ah, lui è…»
Esitai, indecisa, sentendomi arrossire. Cosa? Cos’era? Un mio amico, come aveva detto papà? O forse era qualcosa in più? Perché io gli avevo detto che lo amavo. Lui mi aveva detto che mi amava. Si diventava automaticamente fidanzati a quel punto? Quindi, Syaoran-kun era diventato davvero il mio ragazzo?
Esplosi come una teiera a quel pensiero. Vacillai persino, ma prontamente Syaoran-kun mi sorresse, anticipando Touya, snervandolo in maniera lampante.
«Mi chiamo Li Syaoran» rispose mentre mi rimetteva dritta, rivolgendo un piccolo sorriso a mio padre, riempiendosi di formalità. «È un vero onore conoscerla.» Fece un piccolo inchino, dopo essersi assicurato che riuscissi a reggermi da sola.
«L’onore è tutto mio» ricambiò lui, facendo altrettanto con un cenno del capo, presentandosi. «Come si sarà capito, sono il padre di Sakura-san. Puoi anche chiamarmi Fujitaka» concesse, sorprendendomi.
Che stranezza, ai nuovi conosciuti non aveva permesso mai di chiamarlo per nome. Di questo parve accorgersi anche Touya, che lo guardò allibito.
«D’accordo, Fujitaka-san. Anche lei, la prego, mi chiami Syaoran.»
Papà accettò volentieri, passando immediatamente a presentargli mio fratello, col quale resse lo sguardo per un po’ – e lo fecero in una maniera talmente penetrante che mi parve di vedere fulmini e saette passare tra di loro –, e subito dopo Yukito-san, con il quale pure riuscì a presentarsi in maniera cortese e civile.
«Ti fermi a pranzo con noi?» offrì mio padre.
«Veramente lui dovrebbe -»
«Volentieri.»
Fissai Syaoran-kun sbalordita; lui mi sorrise con furbizia, ammiccando. Papà ne gioì insieme a Yukito-san, mio fratello si rabbuiò e prese a borbottare cose incomprensibili in inglese tra sé, mentre io non sapevo più come reagire.
Entrammo pertanto tutti insieme, papà davanti a tutti, io e Syaoran-kun in mezzo sotto gli occhi truci di mio fratello, con Yukito-san al suo fianco che ce la stava mettendo davvero tutta per placarlo. Neppure eravamo a tavola e già cominciavo a sudare freddo.
Accorgendosene, Syaoran-kun ridacchiò sotto i baffi, sussurrando in quel tono solo a me udibile: «Così anche io avrò modo di conoscere la tua famiglia.»
Strinsi le labbra per non farmi scappare nulla, cercando di comunicargli con gli occhi la mia preoccupazione principale: non aveva alcuna idea di quanto Touya potesse essere perspicace e temevo che nel giro di qualche minuto potesse capire tutto. E con tutto intendevo tutto.
«Mi ripeti il tuo motto?»
«Sicuramente andrà tutto bene» bofonchiai, al che lui annuì, sorridendo rassicurante.
«Esatto. Non hai nulla di cui preoccuparti.»
Lo speravo vivamente per lui.
Per un attimo ricordai l’armamentario che Eriol-kun aveva nel salone e sbiancai, rabbrividendo. I vampiri non sarebbero morti con un proiettile nel cuore, vero? Lo guardai allarmata, realizzando che non sapevo come potessero essere uccisi. Speravo vivamente che non fosse così semplice. Non avrebbe dovuto esserlo, no? D’altronde, erano più agili, svelti, veloci di noi umani. Pure ammettendo che mio fratello avesse tentato di ammazzarlo, avrebbe dovuto uscirne indenne.
«Sakura-san?»
«Sì?»
Guardai mio padre, rendendomi conto in ritardo che il mio tono era uscito particolarmente acuto. Lui mi fissò accigliato, prima di mostrarsi preoccupato.
«Qualcosa non va?»
«Hoe? Perché?»
«Sembri distratta» osservò.
Sorrisi tirata, rassicurandolo che fosse tutto apposto. Stavo diventando paranoica?
Entrati in casa mi sforzai di non pensarci più, ma in ogni caso dovevo tenere Touya d’occhio; per questo mi avvinghiai ad un suo braccio, affrettandomi a trascinarlo in sala da pranzo.
«Che stai combinando?»
Oppose resistenza, mentre io continuavo a tirarlo con tutte le mie forze, facendo uno sforzo immane. Gli altri tre risero e ben presto mi accorsi che c’erano altre due persone nel nostro pubblico.
«Bentornati» ci augurò Tomoyo-chan con la sua voce vellutata, sopraffina, e noi tutti esclamammo in coro:
«Tadaima!»
Adocchiai Eriol-kun al suo fianco, il quale col suo sorriso caratteristico a tingergli il viso si avvicinò a mio padre, facendo qualche passo verso di lui.
«Oh, tu sei il fidanzato di Tomoyo-san? Eriol-kun, se non erro?» Ad una sua conferma gli fece un piccolo inchino, proferendo: «Grazie per esserti preso cura di mia figlia.»
Vidi qualcosa nelle iridi indaco di Eriol-kun sciogliersi, ma nulla cambiò nella sua espressione impeccabilmente formale.
«Non c’è bisogno di ringraziarmi» replicò con il solito tono placido. «Sakura-san è stata di ottima compagnia in questi mesi.»
«Vi ha dato qualche fastidio?» s’intromise mio fratello, al che prontamente lo pestai. Che cattivo!
«Assolutamente no» rispose mia cugina, nascondendo una risatina dietro la mano col suo fare elegante.
Papà ringraziò anche lei prima di voltarsi nuovamente verso Eriol-kun, con aria riflessiva.
«Assomigli molto ad un mio conoscente.»
Di nuovo, nulla mutò sul viso di Eriol-kun, mentre io invece mi sentii il cuore chiudersi in una morsa. Chissà come doveva essere incontrare il proprio fratello, sangue del proprio sangue, senza avere la possibilità di rivelargli nulla se non lo si voleva traumatizzare.
«Davvero?» Si finse sorpreso e, ancora una volta, mi stupii della sua abilità peculiare nella recitazione. «Posso chiedere di chi si tratta?»
«Un mio caro vecchio amico…» attaccò a raccontare mio padre.
Entrambi si persero in quella conversazione, io li seguii con lo sguardo mentre sparivano in sala, finché stavolta non fu mio fratello stesso a spingermi per farmi camminare, facendomi riprendere dalla tristezza.
«Muoviti mostriciattolo.»
Ringhiai verso di lui, mollandolo bruscamente per appropinquarmi a Tomoyo-chan. Lei mi sorrise in maniera malvagia, sussurrando: «Ci sarà da divertirsi.»
«Spero che nessuno ci lasci la pelle» mi augurai tra me, facendola ridere ancora di più.
Un sorriso attraversò anche il viso di Syaoran-kun mentre ci sorpassava, sedendosi accanto a Yukito-san. All’altro lato c’era Touya, poi papà a capotavola, Eriol-kun, Tomoyo-chan, io e Sonomi-san all’altra estremità del tavolo – la quale si era mostrata entusiasta di avere tutte quelle persone a pranzo. Le piacevano proprio la compagnia e i grandi banchetti, non c’era nulla da fare.
Mentre ci veniva portato il pranzo tenevo gli occhi fissi su Syaoran-kun, vedendolo parlare poco, ma quando lo faceva aveva sempre un’aria amabile. Lo fissai affascinata per quella capacità innata che tutti loro possedevano, distogliendo lo sguardo soltanto per un attimo quando adocchiai quel che ci era stato servito. Non avremmo finito mai! Alcuni piatti neppure li riconobbi, per cui ci pensò Sonomi-san stessa ad elencarli, indicandoli uno ad uno.
«Antipasto ai frutti di mare accompagnato da purea di patate, lasagne al forno, foie gras, escargot à la bourguignonne, timballo di zucchine, bistecche alla fiorentina, anatra arrosto all’arancia, agrumi e Saint Honoré.»
Era troppo, decisamente troppo!
«Sembra tutto delizioso!» esclamò mio padre, e il suo entusiasmo fu ripreso da Yukito-san, il quale augurò buon appetito e cominciò a saggiare l’antipasto con gusto.
Fortuna che c’era anche lui, avrebbe sopperito col suo stomaco senza fondo alla mancanza di fame dei vampiri presenti.
Notai, comunque, che si erano astenuti dal bere il “succo di mirtilli”, forse per non destare sospetti ed evitare che qualcun altro volesse ingenuamente favorirne. Mi dispiaceva però vederli costretti a mangiare cose che non apprezzavano né digerivano solo per stare con noi. Si sacrificavano sempre così tanto. Noi umani, invece, cosa facevamo in cambio?
Decisi di non pensarci, provando ad assaggiare quelle esukagou o come si chiamavano, trovandole più buone di quanto mi aspettassi, trattandosi di lumache.
Proseguii col pasto tenendo d’occhio le reazioni di Touya, finché Tomoyo-chan non mi fece notare fosse l’ora di incontrare Chiharu-chan e le altre. Mi alzai quindi per prima, scusandomi sapendo che potesse sembrare sgarbato, ma tutti mi lasciarono andare troppo immersi nelle loro chiacchiere. Con mia grande meraviglia – e soprattutto sollievo – pareva che si trovassero bene insieme e addirittura che si stessero divertendo – escludendo qualche occasionale punzecchiamento.
Uscii quindi di buonumore per incontrare le ragazze al piccolo parco affianco alle scuole elementari, godendomi quegli ultimi momenti che avrei trascorso con loro. Fortunatamente ebbi modo di rivedere anche Akiho-chan, la quale non mi chiese nulla del giorno precedente. Sembrava totalmente avvolta dall’ignoranza, cosa che ritenevo essere un bene per lei. Quando avemmo l’occasione di restare un po’ sole, tuttavia, le chiesi di Momo, ricordando la storia che mi aveva raccontato Eriol-kun.
«Te l’ha regalata Kaito-san?»
A quel riferimento arrossì, scuotendo tanto vigorosamente la testa che i boccoli le sferzarono il viso.
«No, l’ho sempre avuta con me, sin dalla nascita.»
A quel punto non vi erano più dubbi. Akiho-chan era veramente Alice Reed, così come anche io ero una Reed. Eravamo imparentate, in un certo senso.
Le sorrisi calorosamente, proponendole: «Quando torni anche tu al sud organizziamoci per rincontrarci.»
«Assolutamente! Mi renderebbe felicissima!»
Sorrise radiosa e io ringraziai il cielo che ciò che si tramandava presso i D. non fosse vero. Speravo davvero, con tutto il cuore, che ogni suo sogno potesse avverarsi.
A fine giornata salutai tutte con un grande abbraccio, consapevole che il giorno successivo non ci sarebbe stato modo di vederci perché loro avevano scuola proprio allo stesso orario del nostro volo. Sarebbe stato triste ritornare a Tomoeda e non vederle più, tuttavia di una cosa assicurai tutte: «Non so ancora quando, ma tornerò di certo!»
«E male che vada, verremo noi a trovarti!» promisero sorridenti, entusiaste all’idea.
«Basta che ci fungi da guida turistica a Tokyo» mi additò Chiharu-chan, facendomi ridere.
«Senz’altro lo farò!» assicurai gasata, già immaginandomelo. Sarebbe stato bellissimo poter godere tutte insieme del sole, magari saremmo riuscite anche ad andare al mare.
Il mare… Ancora non avevo trovato una soluzione per portarci Syaoran-kun, ma di certo ci sarebbe stata. Al massimo, avremmo potuto provare con i porti dell’estremo nord.
Quando rientrai a casa non c’era più nessuno in giro, eccetto mia cugina che decise di farmi fare un’ultima sfilata come “addio”.
Mentre cambiavo e scambiavo i suoi abiti piroettando e posando per lei le domandai dove fossero gli altri.
«Non indovinerai mai.»
La fissai in attesa e lei rise deliziata: «Tuo padre ha chiesto a Li-kun di presentargli la sua famiglia.»
Inciampai in un lembo della gonna, capitombolando faccia a terra.
«Che cosa?!» domandai guardandola esterrefatta, massaggiandomi il naso.
Lei mi aiutò a rialzarmi, continuando a ridacchiare.
«Penso che abbia fatto molto colpo su tuo padre. Gli ha raccontato dei rotoli, delle porcellane e della seta cinese che hanno in casa, tuo padre è andato letteralmente in visibilio, hanno attaccato a parlare di reperti archeologici e improvvisamente ha chiesto di poter vedere il mobilio coi propri occhi.»
Restai a fissarla a bocca aperta, non credendo alle mie orecchie, seppure fosse tremendamente verosimile.
«Poi tuo padre ha espresso il desiderio di bere il tè che gli hai consigliato, il che rallegrerà molto Yelan-san. Anche perché avrà più ospiti cui mostrare la sua amata cerimonia, dato che anche tuo fratello e Tsukishiro-san vi si sono accodati.»
«Hoeeeeee!!! Ma perché?!»
Mi portai le mani al viso, camminando avanti e indietro frenetica, in ansia.
«Magari vuole conoscere il suo futuro genero?»
Avvampai, quasi esplodendo.
«Tomoyo-chan!» sbottai, guardandola imbarazzatissima.
Lei sembrava sempre più deliziata da ogni mia reazione, soprattutto perché aveva modo di registrarle.
Non appena sbollii mi si avvicinò e mi posò una mano su una spalla, accompagnandomi fuori dalla sua camera verso la mia stanza.
«Adesso è meglio se dormi, ti serve riposare visto che devi svegliarti presto. Fa bene alla pelle.»
«Dubito che ci riuscirò» piagnucolai, abbattuta.
«Ci riuscirai» assicurò. «E farai anche bei sogni, visto che sono protetti dall’acchiappasogni di Li-kun.»
Arrossii nuovamente, sentendomi il cuore partire a mille. Forse non ne sarei proprio uscita viva.
Permisi a mia cugina di viziarmi, facendomi fare un bagno alle rose alla luce soffusa di candele profumate, mentre mi spalmava una maschera sul viso. Chiacchierò a lungo con me, finché non mi fui messa a letto e mentre mi faceva la manicure cominciai a sentire la spossatezza.
«Buonanotte» mi augurò allora, accorgendosene subito, assicurandosi che lo smalto si fosse asciugato prima di rimboccarmi le coperte.
«Buonanotte» ricambiai, vedendola attraverso un velo mentre s’allontanava, bofonchiando debolmente: «E grazie di tutto…»
Crollai praticamente subito, nonostante quel che temevo, e dopo quel che mi parve un lasso di tempo infinito sentii una voce chiamarmi. Immediatamente la riconobbi, dato che apparteneva alla persona che amavo.
«Sakura…»
«Syaoran-kun…» mormorai con voce impastata, voltandomi su un fianco, sentendomi felice.
«Sakura, apri gli occhi.»
Feci come diceva e per poco non urlai, trovandomelo abbassato all’altezza del viso. Fortunatamente reagì con prontezza ed evitò che lo facessi, poggiando una mano sulle mie labbra.
«Sssh, non farci scoprire» sibilò, lasciandomi per alzarsi.
Lo fissai rimbambita, mettendomi seduta col batticuore.
«Co-cosa ci fai qui?»
«Volevo mostrarti un’ultima cosa, prima che te ne vai.»
Mi porse una mano, che io afferrai senza indugio, e mi misi in piedi, giungendogli parallela. Mi guardai intorno, notando che fosse ancora buio. Tutto taceva – probabilmente gli altri stavano dormendo. Guardai automaticamente verso la porta, trovandola chiusa.
«Come sei entrato?» indagai, fissandolo curiosa mentre prendeva la coperta dal letto, piegandosela alla bell’e meglio su un braccio.
Indicò verso il balcone e solo nel voltarmi notai che le finestre erano aperte, le tende scostate e così la pallida luce della luna penetrava nella stanza. Mi ci avvicinai sorpresa, incerta se le avessi chiuse o meno la notte precedente, e Syaoran-kun mi affiancò, dicendo: «Mancano poche ore all’alba. Spero tu abbia dormito abbastanza.»
«Mi sento carichissima» assicurai. A riprova di ciò allungai le braccia, stiracchiandomi, e feci dei saltelli per riprendermi dal torpore.
«Hai fatto bei sogni?»
«Mmm… Se non ricordo male, c’era la mamma.»
«Doveva essere un sogno stupendo» commentò con dolcezza.
Assentii con foga, prima di domandargli esaltata: «Usciamo?»
Alla sua conferma gli chiesi di aspettare un attimo e corsi in bagno, sciacquandomi rapidamente viso e denti. Mi attese appoggiato al vetro e quando tornai al suo fianco mi avvolse nella coperta, facendo di me un burrito. Risi sottovoce, divertita, e anche lui fece un sorriso sghembo, tenendomi i due lembi stretti sotto il mento. Si abbassò alla mia altezza, chiuse gli occhi, e mentre io contemplavo incantata ed estasiata come la sua pelle sembrasse brillante, quasi baluginante per quanto era bianca sotto il candore lunare, lui mi si avvicinò al viso. Trattenni il respiro, lui invece ne prese uno profondo, sfiorando il mio naso col suo. Il cuore mi saltò in gola, ma subito discese al suo posto quando si staccò, sembrando deluso.
«Il tuo odore è cambiato.»
«Prima puzzavo?» ipotizzai turbata.
Rise sommesso per non svegliare nessuno, prendendomi poi in braccio con naturalezza.
«Profumavi» negò avviandosi verso il balcone. «E profumi anche adesso. Solo che prima era più intenso.»
«Perché sapevo di sonno» borbottai imbarazzata, nascondendo la faccia sulla sua spalla. «Deve essere orribile…»
«Non osare dire questo di te o ti faccio cadere.»
Mi affacciai, notando che ci trovavamo in equilibrio sulla ringhiera in marmo.
«Non lo faresti davvero…»
«Hai ragione, ti prenderei al volo. E conoscendoti, ti ecciteresti persino dinanzi ad un simile pericolo.» Sospirò e senza darmi tempo di ribattere in alcun modo saltò via, correndo nella foresta.
Mi godetti quella sensazione per un’ultima volta, incerta se ce ne sarebbe mai stata un’altra occasione. Mi appoggiai quindi comodamente contro il suo corpo, finché non giungemmo alla destinazione da lui scelta.
Mentre mi posava a terra mi guardai attorno, tentando di distinguere l’ambiente. Capii soltanto che si trattava di una zona vasta, forse una radura, e l’erba era alta, arrivandoci alle ginocchia. Eppure, sembrava essere composta da tante piccole foglioline rassomiglianti a petali.
Provai ad abituarmi alla luce, ma dopo che Syaoran-kun mi ebbe srotolata usò la coperta a mo’ di mantello posandola attorno alle mie spalle, per poi prendermi entrambe le mani, ingiungendomi di chiudere gli occhi. Li riaprii solo quando mi disse di farlo e allora fissai la distesa dinanzi ai miei occhi a labbra spalancate.
Pur nel buio della notte, i lupini in fiore splendevano nelle loro tinte violacee e gialle, come tanti piccoli opali. Era come se la luce della luna vi si rifrangesse sopra, come se i petali la assorbissero per restituirla con nuovi bagliori. Gli alberi abbracciavano questa magia con il loro smeraldo irradiante turchese, che s’innalzava fino al cielo, quel cielo coperto solo da una sottile coltre di nuvole, che passando dinanzi alla luna quasi piena venivano attraversate da semicerchi concentrici d’arcobaleno. Sembravano così vicini, quasi potessi toccarli con mano.
«Che meraviglia…»
«Che cosa vedi?»
Gli descrissi ogni singola cosa e lui sorrise al mio fianco, abbracciandomi.
«Grazie per esserti aperta tanto con me.»
«Grazie a te per regalarmi visioni così stupefacenti.»
Ricambiai il suo abbraccio e in tale posizione restammo per quello che mi parve un minuto durato ore, finché non fu lui il primo a scioglierlo per prendermi le mani, guidandomi verso il centro di quella circonferenza. Qui mi fece sedere, accomodandosi alla mia sinistra, e io mi guardai divertita intorno, notando che ora le punte dei lupini erano quasi più alte di noi, arrivando infatti all’altezza del mio mento.
«Sembra che siamo immersi in un mare fatto di fiori.»
Risi deliziata, sfiorandoli con la punta delle dita, facendoli oscillare lievemente. Carezzai con i piedi scalzi la morbida e fresca terra, ma poiché le foglioline più basse mi facevano il solletico dovetti ben presto smettere.
«Grazie davvero, Syaoran-kun» gli dissi accorata. Mi voltai nella sua direzione, e mi stupii nel trovarlo steso con le mani intrecciate dietro la nuca.
Ridacchiai, notando che quasi spariva in mezzo a quelle chiome in miniatura. Lo vidi sorridere rasserenato e senza dirgli nulla, senza chiedergli il permesso, mi stesi accanto a lui e mi poggiai al suo petto, coprendoci entrambi.
«Sakura, guarda che sei tu quella che deve stare al caldo» mi ricordò.
«Ma non serve» ribattei debolmente, accoccolandomi contro il suo corpo.
Mi aspettavo che facesse ulteriori rimostranze, invece con mia piacevole sorpresa avvolse le braccia attorno al mio busto. Avrei potuto restare così per sempre.
«Syaoran-kun…» esordii dopo qualche minuto di silenzio, intervallato unicamente dai suoni della notte. Attesi un suo mormorio prima di osare confessargli: «Ho parlato con Tomoyo-chan della trasformazione. Lei non ha ricordi a riguardo, ma mi ha spiegato le differenze tra il prima e il dopo. So già che il mio senso del gusto rimarrà, ma che ne sarà del tatto? Della vista? Dell’olfatto? Dell’udito? Lei mi ha detto che si affineranno tutti, ma non ho osato chiederle una cosa. Sento che mi mancherà.»
Alzai di poco la testa, trovandolo affacciato a scrutarmi con la fronte aggrottata.
«Ne sei proprio convinta eh?»
«Sì.»
Sospirò pesantemente e si sollevò di poco sui gomiti, arrivando parallelo al mio viso.
«Ma qualcosa ti mancherà» fece notare.
«Sì, forse sì.» Allungai una mano verso di lui, posandola sulla sua guancia. «Questo.»
«Toccarmi?» domandò confuso.
«No, la differenza di temperatura. Questo freddo, mi mancherà.» Quella fu una frase che non avrei mai pensato di pronunciare in vita mia, per un’amante del caldo come me. «Tu come mi percepisci, adesso?»
«Come se tu fossi fatta di fuoco.»
Ritrassi la mano immediatamente, preoccupata. Perché non me l’aveva mai detto che potesse essere tanto insopportabile?
Riprese la mia mano, poggiandovi spontaneamente la stessa guancia contro, e chiuse le palpebre, parlando in tono morbido e malinconico.
«Anche a me mancherà questo calore. E lo scorrere del tuo sangue. E i battiti del tuo cuore, il come essi improvvisamente accelerano quando sei con me. Il come la tua pelle rosea diviene repentinamente rossa e i tuoi occhi si fanno lucidi, come se in essi luccicassero stelle, ogni volta che ti imbarazzi.»
Sentivo di star replicando tutto quello che stava dicendo, ma era inevitabile quando mi rivolgeva parole simili.
Riaprì gli occhi, proseguendo: «E mi mancherà la tua morbidezza. Certo, sei un po’ troppo morbida e gracile, e devo sempre stare attento a come ti tocco, a quanta forza ci metto, per paura di farti male. Ma mi mancherà, perché è uno dei tanti tratti che ti rendono quello che sei.»
Abbassai lo sguardo, sentendomi le lacrime raccogliermisi negli occhi.
«E probabilmente cambierà, quindi mi mancherà anche il tuo odore.»
Dinanzi a quella possibilità mi sentii trafiggere il cuore.
«Potrebbe… essere diverso?»
«Non ne sono certo.» Mi guardò titubante, supponendo: «Se sarò io a trasformarti -»
«Sarai tu!» esclamai, stringendogli le mani. «Vero, lo farai?» aggiunsi insicura, mordendomi un labbro.
«Se non lo faccio io non lo fa nessuno, questo è sicuro» borbottò tra sé. Sapevo che intendesse dire che non lo avrebbe permesso, e ciò mi fece ridere sotto i baffi. La sua gelosia era vera.
«Riformulo quel che stavo dicendo. Quando ti trasformerò, tra tanti anni» evidenziò, al che sbuffai sonoramente, imbronciandomi, «dovrò mescolare il mio sangue al tuo. Quindi sì, potrebbero cambiare sia il sapore che l’odore.»
«Mi spieghi bene come funziona?»
«Ti mordo, mi mordo, ti passo il mio sangue, tu ti trasformi e una volta diventata vampira devi mordermi per nutrirti» spiegò brevemente.
«Devo morderti per forza?»
«Solo la prima volta, per abituarti con qualcosa che già conosci.»
«Ma così ti faccio male!»
Lo vidi alzare gli occhi al cielo e scrollare la testa.
«Non è certo di questo che devi preoccuparti. Conoscendoti, sono certo che saresti delicatissima.»
«E conoscendo te, sono certa che anche tu sarai il più buono possibile con me» replicai con sicurezza, sorridendogli serena. «Poi dopo la prima volta non morderò più te ma…?»
Lasciai completare a lui la frase, non sapendo bene che dire.
«Potrai continuare a nutrirti di animali, cacciandoli tu stessa, o comportarti da vampira raffinata come Daidouji che beve solo da tazze e bicchieri.»
«Non c’è bisogno quindi di mordere?»
«Diciamo che si può evitare, ma ogni tanto dovrai farlo, sarà istintivo. Potrai sempre mordere me, in ogni caso.»
«Hoe? Perché?»
«Perché dato che ti darò il mio sangue, sarà quello da cui sarai più attratta.»
Emisi un “oooh” prolungato, osservando schietta: «Quindi sarà il contrario di adesso!»
«Credo che continuerò ad essere attratto da te, anche se dovessi essere diversa.»
Preferii ignorare l’incontrollabile batticuore che mi provocava la prima parte di quella dichiarazione, concentrandomi sulla seconda: «Non sarò diversa. Sarò sempre io, solo un po’ più simile a te.»
«Tu sei già molto simile a me» mi contraddisse.
«È vero» riconobbi, intrecciando le mie dita alle sue. «Ma voglio essere così simile a te da vivere le stesse cose che tu vivi. E queste cose voglio viverle con te.»
Tese le labbra, giocherellando con la mia mano, ma capivo dallo scintillio nelle sue iridi quanto lo rendessero felice le mie parole.
«E ti ringrazio per parlarmene così apertamente, adesso» aggiunsi.
Lui rise, mettendosi seduto.
«Non ho molte alternative e non posso lasciarti nell’ignoranza. Devi sapere a cosa vai incontro.»
Mi si illuminarono gli occhi, capendo che era fatta. L’avevo convinto, finalmente!
Senza aggiungere altro si alzò, chiedendomi: «Ti va di vedere l’alba?»
Stavo già per fare i salti di gioia, finché non mi accorsi di un dettaglio da non trascurare.
«Ma il sole non ti fa male?»
«Ci saranno un sacco di nuvole, infatti. Quantomeno potrai vedere il colore del cielo cambiare.»
«Allora sì!»
Se lui non rischiava niente accettavo di buon grado.
Mi preparai stavolta ad essere presa in braccio e gli avvolsi prontamente le braccia attorno al collo, sorridendogli radiosa. Ci spostammo più verso nord e dagli alberi che sorpassavamo mi resi conto che sembrava una zona piuttosto familiare. Quando arrivammo sulla nostra roccia che affacciava su quella che io avevo rinominato “la valle incantata”, con le case che sorgevano sul fiume, ebbi la mia conferma.
Mi sedetti accanto a lui, ciondolando le gambe all’aria. Mi guardò apprensivo, ma non disse niente. Sapevo comunque che si teneva pronto ad afferrarmi nel caso in cui avessi finito distrattamente col cadere.
Tenni lo sguardo fisso a levante e gradualmente, con mia immensa meraviglia, vidi una fioca luce irradiarsi da dietro le montagne. Al di là dell’oscurità le nuvole nere si tinsero dapprima di porpora, facendo estendere verso l’immenso un verde acqua stupefacente. Poi, nel giro di pochi minuti, quel vermiglio divenne aranciato, fino a mutarsi in un giallo pallido che s’immergeva nel cobalto. Tutt’attorno, estendendosi verso le nostre teste, le nuvole divennero gradualmente grigie, con una base rosata al di sotto.
«Syaoran-kun, guarda come il rosa tinge il nero!»
«Come tu tingi me.»
Mi voltai verso di lui col batticuore, rimanendo a bocca aperta, incapace di esprimermi, finché non mi fece notare che a breve dovessi “svegliarmi”. Con mestizia riconobbi che era giunto il momento di congedarci, per cui accettai il suo aiuto per mettermi in piedi, lasciandolo riportarmi a casa.
Restammo in silenzio per tutto il tragitto; io intanto mi chiedevo se sarebbe rimasto o fosse passato più tardi per salutarci tutti. Ma lo dubitavo fortemente, visto che naturalmente anche lui doveva andare a scuola.
Rattristata posai i piedi a terra, sforzandomi di non fargli capire quanto mi sentissi afflitta mostrandogli un minuscolo sorriso. Quando ci saremmo rivisti? Saremmo rimasti in contatto? Mi avrebbe scritto? Avrebbe accettato di chiamarmi? Ogni tanto avrei avuto la possibilità di venirlo a trovare? E nel cuore dell’inverno, quando le ore di sole sarebbero diminuite, avrebbe potuto trascorrere un po’ di tempo nel Kanto? Oppure non ci saremmo proprio più visti e sentiti finché lui non avesse accettato di trasformarmi? Tra quanto tempo sarebbe stato? Per quanti anni saremmo stati lontani? Perché dovevo andarmene?
Troppe domande affollavano la mia mente e diveniva sempre più difficile celargliele. Sentivo che le lacrime stavano per traboccarmi dagli occhi al pensiero che quello avrebbe potuto essere sul serio l’ultimo momento in cui lo avrei visto, prima di un lungo periodo di distanza e probabilmente silenzio. Quando avremmo potuto parlare? Pensandoci, non ci eravamo neppure scambiati i numeri di cellulare. Però avevo quello di Meiling-chan, forse tramite lei avrebbe accettato di parlarmi…
Decisi per il bene di entrambi, onde evitare di crollare dinanzi a lui, che fosse meglio salutarci lì. Per cui gli rivolsi un radioso sorriso, ringraziandolo di cuore per tutto, concludendo speranzosa: «Ci rivedremo presto.»
«Io ti aspetterò» promise, facendomi palpitare pazzamente il cuore.
Il mio sorriso divenne più sincero, lo sentivo nascere spontaneamente proprio dal mio petto. Lo salutai con la mano, voltandomi, ma prima che riuscissi a rientrare del tutto mi chiamò per nome un’ultima volta.
«Sakura.»
«Mmh?»
Mi girai e lo trovai con un sorriso timido; c’era un’inespressa aspettativa nelle sue iridi, che non riuscivo bene a decifrare.
Lo osservai confusa, e lui sussurrò soltanto: «Chiudi gli occhi.»
Lo feci senza pensarci, supponendo che volesse mostrarmi nuovamente la sua visione delle cose. Anche se di cosa, in effetti?
Attesi che mi prendesse le mani, ma con mia sorpresa le sue dita si posarono inaspettatamente su una mia guancia. Mi balzò il cuore in gola, sebbene mi sentissi piuttosto smarrita, ma l’emozione che provavo nel sentirlo tanto vicino sorpassò qualsiasi cosa, facendomi smettere di pensare, rendendomi la mente una tabula rasa, perfettamente liscia, pur piena dei sentimenti che provavo per lui.
Percepii il suo viso a poche spanne dal mio, ma non mi mossi di un centimetro, timorosa come al solito di poter compiere qualche passo falso… Sennonché, stavolta, fu lui a farsi avanti per primo.
Fu lui a carezzarmi col suo respiro, facendomi girare la testa.
Fu lui ad esitare, sfiorandomi la guancia con la punta del suo naso, solleticandomi la fronte coi suoi capelli, facendomi decollare verso una meta rosata.
Fu lui a posare le sue labbra sulle mie, facendomi atterrare su morbide stelle.










 
Angolino autrice:
Helloooo! Vi lascio con questo capitolo, che si conclude in maniera abbastanza soddisfacente (minimizzo, sebbene io stessa stia sclerando). Sabato parto, e dato che torno a metà agosto per gli aggiornamenti bisogna aspettare un pochino - anche se, ormai, manca una manciata di capitoli ç_ç
Giacché ci sto, auguro a tutti una buona estate! E per chi è in vacanza, cercate di godervela e di cancellare tutti i brutti pensieri ^_^
A presto!
Steffirah

P.S.: Stavo per dimenticarlo, ma "tadaima" significa "Siamo tornati (a casa)".

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Capitolo 43
*** Capitolo 42 ***


Ritrovarsi




Sorrisi tutto il tempo inebetita, sentendomi quasi fluttuare su una nuvoletta rosa durante l’intero arco della mattinata. Già a colazione avevo mangiato i cornetti caldi in maniera molto distratta, facendo cadere briciole dappertutto sulla tavola, e il tè col latte lo avevo sorseggiato ad interruzioni, fissando il vuoto. Mio fratello mi aveva adocchiata con sospetto e a giudicare dal suo sguardo rabbuiato probabilmente aveva pure capito cosa era successo, ma c’era poco da fare. Anche se avesse provato a distruggere la pace che provavo non sarebbe mai riuscito a rovinare il mio buonumore.
La sensazione delle sue labbra, le labbra di Syaoran-kun, sulle mie, persisteva. Era come se col suo ghiaccio mi avesse lasciato un’impronta indelebile di fuoco. Anche quando si era allontanato lo avevo guardato sentendomi totalmente rimbambita… finché non avevo razionalizzato quel che aveva fatto, e allora mi sentii esplodere come una teiera. Syaoran-kun aveva riso di quella mia reazione, sebbene in quel suo modo quasi impercettibile anche lui paresse piuttosto imbarazzato, e mi aveva salutata definitivamente, augurandomi buon viaggio. In realtà avrebbe voluto rimanere, almeno finché non fossero cominciate le lezioni, ma a sua detta rischiava di far innervosire mio fratello – che per qualche ragione sembrava non averlo preso in simpatia.
«È perché sei troppo perfetto, troppo impeccabile, e sa che ti amo e che per te farei qualunque follia, compreso dire addio per sempre alla mia umanità, alla mia vita» avrei voluto dirgli, ma dopo quella sua azione totalmente imprevista dalla mia bocca uscivano solo suoni sconnessi.
Le mie labbra bruciavano, scottavano, come se avessi baciato il sole stesso, ed era un paradosso quando la sua temperatura era invece tanto bassa che avrebbe dovuto soltanto farmi rabbrividire. E sì, i brividi li avevo, ma di certo non erano provocati dal freddo. Anzi, era quel piacevole calore che aveva lasciato dentro e fuori di me ad azionarli.
Sospirai sognante, appoggiando la fronte contro il finestrino, ammirando il vasto cielo e l’immensa distesa di nuvole bianche sotto di noi senza neppure vederli davvero. Ripensai alla morbidezza di quel bacio, così simile ad una carezza, così casto e innocente e ingenuo e puro e limpido. Era il mio primo bacio in assoluto! E pensare che Syaoran-kun mi aveva veramente baciata, come aspettavo da così tanto, così tanto tempo… Poteva mai essere reale?
Chiusi gli occhi, beandomi di quel ricordo, decidendo che lo avrei custodito in eterno nel mio cuore e nella mia memoria. Ci eravamo lasciati in una maniera fantastica, sorprendente, inimmaginabile. E speravo che quando ci saremmo ritrovati avremmo rivissuto un’emozione simile, se non persino più grande.






A Tomoeda gli anni trascorsero in fretta. Per la mia gioia, le settimane si susseguivano una dopo l’altra, i mesi si rincorrevano, gli anni saltavano, rendendo sempre più vicino quel momento che tanto agognavo. Senza che neppure me ne rendessi conto il tempo ticchettante volò via dalle mie mani, e in men che non si dica giunse il momento di tornare. Di tornare al nord. Di tornare da lui.
Naturalmente, sapendo che quelli sarebbero stati i miei ultimi istanti da umana, cercai di godermeli al meglio. Facevo tutte le cose che soltanto a me erano possibili, ad esempio cominciai a mangiare persino più del solito, soprattutto dolci a non finire – con grande piacere di mio padre; insieme a lui e Touya provammo anche a cucinare cibi etnici, che fossero indiani, italiani, turchi e così via, invitando ogni volta a cena Yukito-san che ne favoriva volentieri. Feci di tutto per non perdermi nulla, cominciando a vivere appieno la mia vita. Ogni giorno sorridevo, in vista della giornata fantastica che mi aspettava, e il mio sorriso si allargava anche di più dinanzi alla prospettiva che mancava sempre meno, sempre meno, e presto anch’io sarei divenuta una “creatura delle tenebre”. Ciò che più temevo in passato, ciò che adesso più amavo.
Quando c’erano belle giornate, pertanto, le trascorrevo sempre fuori casa, tenendomi impegnata con uscite o commissioni. Non era difficile, visto che ormai avevo finito il liceo e con l’università fortunatamente avevo un po’ più di tempo libero. Il primo anno seguii tutti i corsi e studiavo impeccabilmente, ma già dal secondo potetti cominciare a gestirmela io, non avendo più obbligo di frequenza. Attualmente mi trovavo al quarto anno, ben presto lo avrei finito e i miei sogni d’amore avrebbero potuto realizzarsi, proprio come mi aveva promesso la mamma.
Mi mancava Syaoran-kun. Il fatto che ci fosse il tabù sullo specchiarsi non ci permetteva di fare videochiamate, il che già era un punto a nostro sfavore. Non lo vedevo da quasi cinque anni. Mi mancava il suo viso. Mi mancava il suo sorriso. Mi mancava il suo freddo. Mi mancava il suo respiro. Mi mancavano i suoi colori. Mi mancava la sua voce, non quella profonda e meccanica che si sentiva a telefono, ma quella calma e pacificante, quella che mi sussurrava direttamente alla mente, quella che mi infondeva coraggio. Ci chiamavamo quasi ogni sera, ci mandavamo messaggi ogni giorno, ma non bastava. Capivo dalle sue parole, talvolta intrise di malinconia, che anche lui sentiva la mia mancanza, sebbene oltre ai regali che gli avevo fatto lui avesse anche i ritratti di me. Per questo, non facendocela più neppure io, ogni anno prima delle vacanze gli proponevo se potessi salire al nord, ma lui puntualmente rifiutava e mi rimproverava, dicendomi “Vivi la tua vita con i tuoi simili finché puoi”.
E lo stavo facendo, davvero. In estate andavo al mare con i miei nuovi amici conosciuti all’università e per tre anni consecutivi c’erano anche stati Chiharu-chan, Yamazaki-kun, Rika-chan, Naoko-chan e Akiho-chan. Come promesso funsi loro da guida turistica per visitare le zone più famose del Kantō e durante le nostre gite scoprii che Chiharu-chan e Yamazaki-kun avevano deciso di sposarsi una volta completati gli studi. Mancavano ancora degli anni, ma già mi avevano invitata – o meglio, obbligata a presenziare al loro matrimonio, naturalmente al fianco di Syaoran-kun. Ero molto contenta per loro, sapevo che si amavano praticamente da sempre e non vedevo ragioni per cui non avrebbero dovuto unirsi una volta per tutte.
Rika-chan pure si era dichiarata al sensei, e sebbene inizialmente lui la avesse messa dinanzi all’improbabilità di una relazione fattibile – essendoci molte difficoltà a causa della loro differenza d’età –, lei non si era arresa e col tempo lui aveva capito quanto fosse sincera e disposta ad aspettare. Una volta divenuta maggiorenne quello che una volta sembrava un abisso insormontabile pareva essersi ridotto e fortunatamente lui le permise di avvicinarsi a sé.
Anche Naoko-chan aveva trovato l’amore stesso all’università, dove per caso era stata aiutata in un momento di difficoltà da un gentile senpai, che in realtà aveva già notato quando andava a studiare in biblioteca.
Ero felicissima di trascorrere di nuovo del tempo con loro e ricevere tutte quelle notizie positive.
Approfittando della presenza di Akiho-chan, inoltre, per un certo periodo visitammo anche il luogo in cui abitava, nello Shikoku. Umaji era un piccolo villaggio circondato da montagne, foreste e corsi d’acqua, celebre per la produzione di yuzu, che avemmo la possibilità di provare non solo come cibo ma anche nei cosmetici e negli shampoo. Essendo avvolto dal verde somigliava molto a Reiketsu, ma era così pieno di sole che mi chiesi come avesse fatto Kaito-san a vivere lì per anni interi. Forse non usciva mai di giorno, se non col maltempo? Eppure i doveri di un maggiordomo mi sembravano più pressanti di così…
Ad ogni modo, durante quelle estati trascorse insieme ci recavamo in tutti i luoghi in cui si poteva andare col sole, finendo anche con l’abbronzarci più che mai. Nuotavamo al mare e in piscina, facevamo escursioni, praticammo trekking, rafting ed equitazione nello Shikoku, partecipavamo ai matsuri, mangiavamo gelati e granite, spaccavamo angurie… facevamo realmente di tutto.
Per quanto riguardava la mia relazione a distanza, le ragazze, dopo avermi parlato delle loro situazioni amorose, si interessarono a loro volta sul suo andamento e io raccontai che – nonostante quel piccolo posto vuoto onnipresente al mio fianco – stava andando bene, perché Syaoran-kun occupava tutto il mio cuore.
Frequentando anche loro l’università a Sapporo mi raccontarono di averlo incontrato spesso in giro per il campus e quando lo incrociavano lo vedevano sempre un po’ giù di morale, ma nel suo viso c’era anche determinazione. Sapevo già che avesse cominciato a frequentare quell’università, insieme alle nostre cugine ed Eriol-kun, mentre Feimei-chan aveva voluto aprire un negozio di artigianato nel paesino stesso. Erano rimasti tutti lì, ma era inevitabile. Mi dispiaceva sempre che dovessero perdersi tante meraviglie del mondo, ma capivo che non avevano molta libertà di spostarsi.
Pertanto, questo divenne il mio obiettivo: una volta completati i quattro anni universitari qui avrei provato ad ottenere un master lì in scienze delle comunicazioni e turismo. Avevo scelto quella facoltà perché comunicare con gli altri sembrava l’unica cosa che riuscissi a fare realmente senza sforzo e per quanto fosse pesante lo studio era piacevole; soprattutto, lo erano i tirocini.
La ragione per cui avrei aspettato tutto quel tempo era molto semplice: dopo che fui ritornata nella mia città Syaoran-kun fu piuttosto chiaro riguardo alle condizioni per trasformarmi. Mi scrisse una lunga mail elencandomi i pro e i contro (come se così avesse potuto fermarmi, quando sapeva che non mi sarei mai ravveduta), seguiti da una sfilza di richieste che prevedevano il fare tutte le cose da umana (come il dormire di più la notte, assaggiare tutti i cibi possibili e gustarmeli, prendere il sole, fotografarmi, uscire con altri esseri umani, abbracciarli con tutte le mie forze, restare costantemente accanto ai miei cari). Inoltre, dato che sarei stata come Tomoyo-chan la mia crescita si sarebbe bloccata, quindi desiderava che prima maturassi e compiessi almeno vent’anni.
Non potendo starmene due anni a fare nulla, una volta finito il liceo decisi di proseguire subito iscrivendomi all’università di Tokyo, la stessa frequentata da mio fratello – seppur non ottenendo i suoi risultati eccezionali –, dando a Syaoran-kun un ultimatum di massimo 5 anni. Di più non gli avrei concesso, temevo d’invecchiare e che la differenza tra di noi divenisse troppo palese.
Al suo accettare quel lasso di tempo ne gioii dentro, anche perché così il mio piano avrebbe funzionato. A lui non lo avevo svelato perché volevo fargli una sorpresa, ma lo raccontai sia a Tomoyo-chan che a Meiling-chan, in modo tale che eventualmente avessero potuto fungermi da complici.
Una volta completata la tesi e laureata, quindi, controllai i risultati per i test d’ammissione alla Hokudai, scoprendo che sebbene non con un punteggio eccellente ce l’avevo fatta a passare, e tanto mi bastava. Mi preparai quindi a fare le valigie, a dire addio a tutto, una volta per tutte: alla mia città, alle mie amicizie, alla mia famiglia. Era difficile staccarsi da loro, l’affetto che provavo mi induceva ad interrogarmi se quella fosse realmente la decisione giusta da prendere, ma sapevo che lo era. Sapevo che quello era il nostro destino. E sapevo che Touya non me l’avrebbe mai perdonato. Ma per quanto avrei voluto che anche loro facessero la mia stessa scelta per continuare ad averli vicini, mio fratello e mio padre avevano la loro vita da vivere ed io per il mio amore non potevo costringerli a rinunciarvi. In questo, un po’ capivo perché Syaoran-kun era sempre stato così riluttante.
La cosa peggiore era non poterne parlare con nessuno, perché nessuno mi avrebbe realmente capita. Se ci avessi provato non avrebbero fatto altro che tentare di “mettermi del senno”, convincendomi a non lasciare quel che avevo. Era un porto sicuro, contro un futuro incerto. Eppure, quel che nessuno avrebbe compreso era che per me anche quel futuro oscuro rappresentava un nido in cui mi sarei sentita amata e protetta.
Qualcuno avrebbe anche potuto pensare che, essendoci io e Syaoran-kun innamorati quando eravamo adolescenti, col tempo quel sentimento avrebbe potuto affievolirsi e persino svanire; ma non era così. Al contrario, seppure distanti sentivo che il nostro legame non faceva che rafforzarsi. Era come se ci fosse un significato più grande dietro tutto quello che stavo vivendo, come se noi fossimo realmente nati per unirci, per completarci, per stare insieme in qualunque forma, in qualunque esistenza. Quel pensiero mi riempiva di gioia e dolcezza, dava un senso a tutto e mi faceva sentire sicura e coraggiosa. Syaoran-kun era il mio destino e il mio destino mi stava aspettando. Non dovevo farlo attendere ancora.
Pertanto, una volta finite le vacanze primaverili presi il primo volo per Sapporo. Non appena scesa dall’aereo sorrisi contenta al cielo grigio e mi affrettai a recuperare la mia valigia, prima di correre a prendere un pullman. Scesi a pochi passi dal campus e una volta giunta dinanzi all’accademia la fissai trattenendo il fiato, col cuore a mille. C’eravamo quasi.
Pensai fosse meglio posare il bagaglio prima, per cui mi recai dapprincipio nella mia stanza del dormitorio femminile. Bussai alla porta, in attesa che la mia coinquilina mi aprisse, e quando essa si sbarrò il mio sorriso arrivò probabilmente alle orecchie.
«Sakura, eccoti!» esclamò in tono acutissimo Meiling-chan, trascinandomi all’interno per stritolarmi – si fa per dire.
«Meiling-chan!» piagnucolai felicissima, abbracciandola a mia volta, cominciando a rilassarmi nel risentire quella freschezza assente per tanti anni.
«Ben arrivata.»
Mi si staccò, prendendo lei il mio trolley, per poi chiudere la porta. Mi riempì di domande, sul come era andato il viaggio, sulla mia vita fino ad allora, se fossi stanca e così via. Non smetteva un attimo di parlare e capivo perfettamente il suo entusiasmo, ma le mie risposte erano alquanto brevi. Il mio cuore palpitava in maniera incessante, le mani cominciarono a sudarmi per l’agitazione.
«Dai, chiedi pure» rise, notando quanto fossi irrequieta.
«Come… Come sta Syaoran-kun?» domandai timidamente, sentendomi arrossire.
Lei mi rivolse un sorriso ammiccante, sedendosi sul suo letto nella parte già occupata della stanza, di fronte alla mia ancora spoglia.
«Perché non glielo chiedi tu? Lo trovi di certo nel parco, tra i ciliegi» assicurò con certezza, indicando verso l’esterno. «Hai bisogno di una mappa?»
«No, lo troverò!» assicurai, ringraziandola prima di correre via.
Il mio cuore lo avrebbe di certo trovato.
Uscita fuori seguii sentieri, campi, superai edifici, caffetterie e la mensa, affiancai piccoli canali e stagni facendomi accarezzare dai lunghi rami dei salici piangenti, e scrutai tra gli alberi che solo in questo periodo stavano ritornando alla vita. La mappa me l’ero studiata alla perfezione nell’ultima settimana, in modo tale da riuscire a muovermi più velocemente in questo territorio così vasto, e se non ricordavo male gli yaezakura sbocciavano di fronte alla biblioteca della facoltà di medicina.
Corsi in quella direzione, sentendomi sempre più accaldata quanto più mi ci avvicinavo. Non appena li raggiunsi mi ci fermai per un istante al di sotto, notando quanto fosse scuro il loro rosa e quanti petali ne componessero i fiori. Come si diceva, sembravano realmente delle peonie.
Presi un profondo respiro posandomi le mani sulle guance, sperando di calmarmi e raffreddarmi, tentativo del tutto futile visto che continuavo a sentirmi bruciare. Cominciai a percorrere quel viale, guardandomi attentamente intorno. Non sembrava esserci nessuno a quell’ora – forse non c’era molta gente perché il tempo portava pioggia – per cui non avrei dovuto avere difficoltà a trovarlo. Eppure, non riuscivo a vederlo da nessuna parte.
Per un attimo temetti potesse non essere lì, magari era in biblioteca o nella sua stanza. Calpestai la poca neve rimasta un po’ abbattuta, osservando i frutti rossi che emergevano da un nanakamado ancora spoglio. Mi ci avvicinai avvilita, e allora mi bloccai.
Proprio affianco ad esso, quasi a volerlo coprire con la sua folta chioma rosata, v’era un ciliegio dal colore pallido che sembrava cingerlo. Al di sotto di quei petali sostava un ragazzo, col naso puntato all’insù e le palpebre chiuse, in un atteggiamento rilassato. I suoi capelli erano un po’ più corti e ordinati di come li ricordavo, ma erano i suoi. Indossava un maglione blu, d’un blu elettrico, stupendo, del colore dell’oceano, il colore che io gli avevo associato. Le sue labbra si distesero in una morbida linea poco prima che aprì gli occhi, spostandoli dai fiori direttamente a me, riempiendomi di dolcezza con quel suo candido viso.
Sentii le lacrime raccogliersi, soprattutto quando si voltò aprendo le braccia, quasi ad invitarmi di tuffarmici. E così feci.
Corsi scoppiando a piangere, saltando tra le sue braccia, stringendolo con tutta me stessa. Lui mi sorresse e mi avvolse la schiena, posando il viso tra i miei capelli, respirando tra essi.
«Bentornata, Sakura.»
Ascoltai la sua voce, così simile eppure diversa, un po’ più pacata e matura. Mi allontanai di poco per guardarlo in viso, sorridendogli in mezzo alle lacrime.
«Sono tornata.»
Rispose con un sorriso radioso e mi asciugò le guance, assicurandosi: «Sono di felicità?»
«Assolutamente sì!» lo rassicurai, ridendo, lasciandolo fare.
Mi staccai di poco giusto per riprendermi, facendogli notare: «Mi trovi cresciuta?»
Piegò la testa su un lato, analizzandomi dalla testa ai piedi, con aria concentrata.
«Sei cresciuta?»
Gonfiai le guance, fingendomi stizzita.
«Certo che sì! Ora sono alta precisamente un metro e sessantadue!» mi vantai fiera, mettendomi dritta.
Mi fissò impassibile, un po’ incredulo, mettendosi a sua volta dritto.
«Non te ne accorgi perché anche tu sei diventato più alto» borbottai, dandogli una lieve spinta.
Rise divertito, ammettendo: «Hai ragione, sei più alta.»
Esultai interiormente, precisando: «E sono anche più donna.»
Si portò una mano davanti alla bocca con aria riflessiva, scrutandomi. Speravo con tutto il cuore che tanto gli bastava, avevo gioito come non avevo mai fatto una volta scoperto che stavo maturando, proprio come lui desiderava. Ciononostante non diceva nulla e io non avevo idea di come interpretare quel silenzio analitico.
«Non… non vado ancora bene?» chiesi con un fil di voce, abbassando lo sguardo.
Lo sentii posarmi una mano sul viso, per sfiorarmi delicatamente la guancia. Riportai gli occhi nei suoi, percependo il mio cuore galoppare, certa che anche lui lo udisse.
«Sei sempre stata perfetta» smentì, avvicinando il viso al mio, guardandomi con una dolcezza impareggiabile. «Mi sei mancata tantissimo.»
Nel sentire il dolore celato nella sua voce avvertii di nuovo una lacrima rotolarmi giù fino al mento.
«Anche tu, sempre. Costantemente.»
«Ma adesso sei realmente qui.»
«Sì.»
«Sei realmente al mio fianco.»
«Lo sarò per sempre.»
Chiuse gli occhi, e io avvertii il suo cuore sorridere.
«Anche io, Sakura. Staremo insieme in eterno.»
«In eterno…» gli feci eco, cominciando a sentirmi la testa leggera mentre abbassavo lentamente le palpebre, mi allungavo sulle punte, incontrando la morbidezza delle sue fredde labbra.
Di nuovo, per la seconda volta in questa vita, ricevetti il suo respiro, e la terra scomparve da sotto i miei piedi, facendomi volare in un paradiso tutto nostro. Di nuovo, esistevamo solo noi due, e per le ore, i giorni, le settimane a venire, la mia mente divenne leggera come un palloncino, riempendosi poco alla volta del coronamento del nostro sogno.










 
Angolino autrice:
Salveeee! Che dire, ero convinta che mancassero due capitoli ancora, e invece questo è l'ultimo (seguirà l'epilogo). Ora piango sul serio T//T
Tralasciando il mio commuovermi, passo direttamente alle spiegazioni: 
- le università in Giappone durano generalmente 4 anni
- col termine "senpai" si indica uno studente che si trova uno o più anni davanti a noi (può essere usato anche in altri ambiti, per indicare che una persona lavora in un determinato posto da più tempo e quindi ha più esperienza)
- lo "yuzu" è un frutto, una specie di mix tra un mandarino e un limone
- "Hokudai" è diminutivo di "Hokkaido University" (l'università qui descritta esiste davvero - naturalmente non ci sono stata, ma ho cercato di esservi fedele)
- gli yaezakura sono una tipologia di ciliegi (ma penso si fosse capito)
- il nanakamado (o sorbus commixta) è una specie di albero tipico del Giappone - per le piante, consiglio di cercare immagini per poterle visualizzare.
Credo di aver detto tutto, ma come sempre, se ho tralasciato qualcosa non esitate a farmelo notare.
A presto con la fine fine fine TwT
Steffirah

 

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Capitolo 44
*** Epilogo ***


Epilogo




Ascoltai tacita e rilassata le onde dell’oceano, perdendomi nei meandri dei miei pensieri. Lasciai vagare lo sguardo lungo tutta la superficie scura di esso, permettendo all’acqua di lambirmi i piedi.
Sorrisi, osservando lo scintillio dell’anello che portavo al dito sotto la pallida luce lunare. Erano già trascorsi quattro anni da quando io e Syaoran-kun ci eravamo sposati, sei da quando lui mi aveva trasformata. Per un breve periodo avevo vissuto ancora al suo fianco come umana, affinché anche lui potesse dire addio a tutte quelle caratteristiche di me che pensavamo sarebbero andate perdute per sempre. Non potevamo neppure immaginare quanto ci stessimo sbagliando.
Chiusi per un secondo gli occhi, rievocando quel momento.
Per l’occasione tornammo a Reiketsu, a metà maggio. Proprio nel giorno in cui avevamo dovuto separarci. E proprio in quella foresta di ciliegi in cui per poco non ci eravamo perduti a vicenda ci smarrimmo nuovamente; stavolta, però, camminando fianco a fianco.
Ci sedemmo al di sotto di quel ciliegio, la porta che univa i due mondi, io appoggiata alla corteccia, lui steso, con la testa adagiata sulle mie gambe; gli carezzavo i capelli, in trepida attesa, finché col primo schiarirsi delle nuvole più plumbee non decise che fosse giunto il momento. Allora prese la mia mano sinistra nella sua, facendo scivolare un anello d’argento con minuscole pietre preziose che riconobbi come pietre di luna. Intrecciò le sue dita alle mie, facendomi notare che anche lui ne avesse uno uguale, ma dorato e con pietre del sole. Mi spiegò che, dopo aver insistito a lungo con Kaito-san, tra le tante cose che avevano scoperto c’era che con queste due pietre fosse possibile realizzare un incantesimo, utilizzando anche un’erba particolare dal nome impronunciabile, che ci avrebbe permesso di uscire alla luce del giorno senza correre rischi. Mi aveva aspettato per indossarla, accontentandosi di innumerevoli giorni di buio e ombra, perché la luce voleva scoprirla insieme a me.
Dopo avermi rivelato ciò mi chiese se mi sentissi pronta e alla mia conferma gli permisi di mordermi direttamente sul collo; in neppure un secondo, lo vidi mordersi a sua volta sul polso e lasciare il suo sangue scorrere in me, per fondersi al mio. Gli sorrisi per tutto il tempo, finché rimasi cosciente. Del resto non mi rimanevano molti ricordi, finché non riaprii gli occhi e lo trovai con una punta d’apprensione in quello sguardo non più irraggiungibile.
All’inizio era tutto… strano. Tutto più nitido, chiaro, luminoso. Mi diedi una rapida occhiata attorno e vagamente mi accorsi di compiere azioni velocissime, solo perché Syaoran-kun mi ingiunse di rallentare – con una mezza risata nervosa. Nel giro di un battito di ciglia notai milioni di dettagli invisibili fino ad allora, ad esempio una coccinella che a grande distanza da noi si librava da una fogliolina verde su cui era posata aprendo le sue ali trasparenti, una ragnatela in cui erano intrappolate goccioline di rugiada dalla pioggia di quella mattina, i fiochi bagliori del giorno che filtravano attraverso le chiome degli alberi, posandosi sulla terra…. Queste e tante altre cose in una visione stratosferica riempivano i miei occhi, finché non tornai su Syaoran-kun, sentendomi come se lo vedessi davvero per la prima volta. E proprio come la prima volta, era perfetto, ed era così sincero, così vero e reale.
Intanto lui mi guardava, come se fosse in attesa di qualcosa. La prima domanda che mi pose fu come mi sentissi. La sua voce mi danzava dentro, sentivo un’agitazione che mi sconquassava le interiora, come se vi fosse un uragano nel mio stomaco. Gli risposi di stare bene, il che era vero al di là di quegli strani brividi interni che avvertivo, e allungai una mano per toccarlo, un po’ timorosa. Posai il palmo sulla sua guancia, sorpresa di avvertirlo così caldo. Lui rise lievemente, spiegandomi che fossi io, adesso, ad essere più fredda. Me ne dispiacqui un po’, convinta che già sentisse la mancanza della mia temperatura, ma lui non sembrava pensarla così e mi prese la mano, stringendola. Stringendola davvero, senza dover più trattenersi. Dinanzi a quella realizzazione gli saltai addosso, con tanta irruenza da farci cadere entrambi, e lo abbracciai con tutta me stessa.
Ancora una volta rise di tutta quella foga, ma ricambiò, e nel percepire le sue braccia attorno al mio corpo, le sue mani sulla mia schiena, mi parve di sentirle per la prima volta davvero. Era come se fossi appena rinata.
Gli sorrisi, prima di posare le mie labbra sulle sue, trovandole morbide e bollenti. Intrecciai le mie dita tra i suoi capelli, permettendomi di osare come non avevamo mai potuto fare, e dato che ricambiò il mio bacio con la stessa fame, con lo stesso desiderio, mi lasciai andare di più, rendendo più profondo il nostro contatto. Mi staccai dopo chissà quanto tempo, sentendomi stravolta quanto lui, e presi un respiro profondo, ritrovandomi paradossalmente senza fiato, come se il petto stesse per bruciarmi; a quel punto la gola cominciò ad ardermi. Tornò quel formicolio interiore non appena il suo odore mi penetrò nelle narici e senza neppure rendermene conto lo morsi, avvinghiandomi a lui. E il sangue di Syaoran-kun era squisito, più di tutti i miei cibi preferiti, così come lo era il suo odore, così come lo era la sua voce, così come lo era il suo sorriso, così come lo erano i suoi sguardi. Tutto di lui era impeccabilmente perfetto.
Scoprimmo in seguito che avevo la tendenza a cibarmi come mia cugina in presenza di altri, ma se eravamo soli non mi dispiaceva andare a caccia di animali. Anche perché avevo così tante cose da imparare da lui. L’autocontrollo non fu problema, ci misi poco a capire come muovermi e agire per sembrare ancora umana, e non venivo mai colta da alcun desiderio particolare, tranne quando si trattava di Syaoran-kun stesso. Ma era inevitabile, visto l’amore che ci univa. Era proprio grazie ad esso che avevo cominciato a capire perché lui mi avesse trovata tanto attraente, tempo addietro: a suo parere era perché discendevo già da vampiri e perché lo lenivo dalle sue sofferenze, ma in cuor mio sentivo che fosse proprio perché ci saremmo amati. Quasi come se le nostre vene, il nostro organo vitale, lo avesse previsto prima di noi.
A proposito di cuore, scoprimmo che il mio non s’era fermato del tutto. Inizialmente lui pensava fosse soltanto il ricordo di un suono nostalgico, ma poi entrambi capimmo che nel mio petto ancora scalpitava, seppure molto adagio. Scoprii allora che quello era il cuore dei vampiri, che pompava il loro sangue freddo. Quindi non ero morta come Syaoran-kun temeva e di conseguenza, forse proprio grazie alle mie origini, anche io mutavo col tempo. A dimostrazione di ciò, seppure più lentamente le mie unghie e i miei capelli continuavano a crescere, quindi non ci fu bisogno che Syaoran-kun si bloccasse ad un’età definita. Saremmo maturati ancora ed invecchiati insieme.
Per quanto riguardava il mio potere, oltre a guidare gli spiriti col richiamo del mio sangue – il cui odore, con grande gioia di Syaoran-kun, non era quasi per niente cambiato – continuavo a fare occasionalmente sogni premonitori prima di avvenimenti importanti che ci avrebbero riguardato. Inoltre, come Yelan-san ora cominciavo anche io a vedere gli spiriti, ma non ne avevo più paura. Perché Syaoran-kun era con me. Io ne vedevo la forma, lui ne vedeva l’essenza, insieme potevamo guidarli verso una nuova vita. Una vita nuova, come quella che stavamo vivendo, come quella che avevamo creato.
Lo scoprii poco tempo dopo che la situazione coi D. sembrava essersi risolta per il meglio: Kaito-san aveva finalmente collaborato per dare loro i nomi dei capi anziani che avevano rovinato la vita di Yelan-san, e li aiutò persino a farli uscire allo scoperto, attirandoli in Giappone in virtù del suo essere ricercato. Così facendo poterono combatterli tutti insieme e sconfiggerli – sapendo dell’orgoglio dei Li lasciammo fare tutto a loro, per quanto io fossi in ansia. C’era stato un momento in cui, scoprendo che i lupi si vendicassero della morte dei membri del loro branco, avevo sperato in una loro collaborazione, sennonché mi fu rivelato che il padre di Syaoran-kun, quando conobbe Yelan-san, era già stato cacciato da esso. Era quasi assurdo come fossero tutti negletti, abbandonati e lasciati a condurre vite incerte, senza il sostegno di alcuno. Ciononostante alla fine riuscirono con le loro sole forze a batterli, portando così a termine la loro vendetta e liberarsene una volta per tutte.
In seguito, non appena le acque si calmarono, parlai con Yelan-san, spiegandole di qualche disturbo che avevo cominciato ad avvertire che non ero sicura fossero comuni per tutti i vampiri – anche perché Tomoyo-chan, Meiling-chan e le sorelle di Syaoran-kun non sembravano accusarli, quindi mi consigliarono di parlarne con la madre.
Allora non potevo di certo pensare che potesse essere qualcosa di tanto bello. I sogni non mi avevano aiutata a prevederlo, e di questo vi ero grata; almeno, non mi avevano rovinato la sorpresa, né l’avrebbero rovinata a Syaoran-kun.
Proprio per parlargli di questo lo avevo invitato sulla spiaggia, in modo tale da poter anche mantenere la promessa fatta anni fa.
Neppure avesse capito che la mia mente era piena di lui, venne a sedersi alla mia sinistra, accanto al mio cuore, senza fare il minimo rumore. Mi sorrise dolcemente nel prendere la mia mano, intrecciandola alla sua.
«Finalmente» lo presi in giro, appoggiandomi alla sua spalla.
«Perdonami, tuo padre mi ha trattenuto.»
Mi diede un lieve bacio sulla fronte, prima di rivolgere lo sguardo verso il punto all’orizzonte in cui si incontravano cielo e mare.
Alla fine glielo avevamo rivelato, sia a mio padre che a mio fratello – il quale dire che aveva dato in escandescenze era poco. Pur avendo accettato tutta la loro storia, avevano deciso di rimanere ciò che erano, in quanto “se siamo nati umani c’è una ragione”. Sapevo bene che quella ragione risiedeva nella persona a cui erano destinati, e per questo non ci provai proprio a convincerli. Dopotutto, anche da umani, sarebbero sempre rimasti al mio fianco.
«Hai fatto giusto in tempo, manca poco all’alba» lo informai, rivolgendomi a mia volta al levante.
Presto sarebbe stato anche il compleanno di Syaoran-kun e speravo che dargli quella notizia sarebbe stato per lui un ulteriore regalo. Attesi che spuntasse il primo raggio di luce a schiarire il cielo, facendo ritirare il telo stellato della notte per mostrare i suoi pallidi toni rosati e aranciati. Leggere scie pastello si riflessero sulla superficie liscia del mare, apportandovi un baluginio scintillante.
Mi voltai allora verso Syaoran-kun, che a sua volta si stava girando a guardarmi, rivolgendomi il suo amorevole sorriso.
«Grazie» mormorò, strizzandomi la mano.
Ricambiai sorridendogli, prima di accompagnare la sua mano sul mio grembo. Mi guardò perplesso per un istante, io semplicemente lo fissavo in silenzio, piena di sottintesi, sperando di comunicarglielo così, sentendomi incapace di farlo pienamente a parole. Speravo riuscisse a sentirla, quella piccola vita che stava cominciando a pullulare in me. Forse sì, perché poggiò meglio il palmo, stendendo le dita, e il suo viso fu attraversato dalla comprensione.
«Stiamo per diventare… genitori…?» domandò incerto, e io riuscii solo ad annuire, troppo emozionata.
Lo vidi altrettanto sopraffatto. Sorrise da un lato all’altro del viso e mi prese tra le sue braccia, cingendomi con amore.
«È il regalo più grande che mi potessi fare» sussurrò commosso, sprofondando il viso tra i miei capelli.
Scossi la testa e avvolsi le braccia attorno al suo collo, ribattendo pacata: «Il regalo più grande l’ho ricevuto io, nel momento in cui mi hai permesso di entrare nel tuo mondo».
Perché se non me lo avesse concesso, non avremmo potuto vivere questo momento. Se non mi avesse aperto le porte del suo cuore, non saremmo stati dove eravamo. Non avrei conosciuto la vera me stessa. E non avrei potuto dare vita al futuro, quel futuro ormai non più così incerto e distante, bensì a portata di mano.
Ci separammo solo per riabbracciarci rivolti verso il sole, irradiati dall’alba di un domani in cui nessuno di noi avrebbe più sofferto. Perché da quel giorno, ad aspettarci, c’erano solo gioia e calore, nel candore della nostra nuova primavera.










 
Angolino autrice:
Siamo alla fine! T///T *piagnucola triste e felice insieme*
Bando alle ciancie, passo subito ai ringraziamenti.
Prima di tutto, ringrazio chiunque mi ha fatto compagnia in questa lunga avventura. Ci ho impiegato più tempo del previsto nella pubblicazione, e di questo mi mortifico... Ma proprio per questa ragione, vi sono profondamente grata, per essere rimasti e non avermi abbandonata TwT
Grazie Aretha, _fioredineve_, crazy lion, Noceforti18, Tiziana27, costybene, serenity240203 per le vostre recensioni. Che siano lunghe (Francy mi riferisco prettamente a te hahah - so che ne arriveranno altre e non vedo l'ora, come sempre) o brevi, sono state tutte di grande impatto. Ogni volta che vedevo la notifica della mail di EFP mi venivano le lacrime agli occhi. Per le vostre parole ho riso, ho pianto, mi sono emozionata e mi sono sentita grata, soprattutto nei momenti di maggiore insicurezza. Quindi vi ringrazio davvero, per avermi lasciato un vostro pensiero, e con esso il vostro supporto. 
Ovviamente, un enorme grazie va anche a chi ha inserito la storia tra le preferite (////).
E last but not least, grazie a tutti voi che avete semplicemente letto e fatto parte di questa storia.
Grazie davvero.
Steffirah

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