How it all began

di KatWhite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First meeting ***
Capitolo 2: *** Igniting the spark ***
Capitolo 3: *** I could kiss those lips forever ***
Capitolo 4: *** Don't get too close, it's dark inside ***



Capitolo 1
*** First meeting ***


First Meeting

Era una giornata assolata e calda, senza nemmeno un piccolo cirro che riparasse dal sole. In cielo, ad assorbirne appieno i violenti raggi, vi era l’esercito del Clan delle Dee al pieno della propria potenza, capeggiato da Ludociel, e l’esercito del Clan dei Demoni che aveva schierato in campo solamente i Dieci Comandamenti. Nonostante l’alleanza Stigma tra Clan delle Dee, Clan delle Fate, Clan dei Giganti e umani – i quali stavano conducendo una battaglia via terra facendosi largo tra i demoni minori – la forza del Clan dei Demoni era di gran lunga superiore a quella del Clan delle Dee.
Elizabeth si era sempre rifiutata di mettere piede sul campo di battaglia poiché sosteneva da sempre la propria visione pacifica di un mondo senza divisioni, senza clan, e soprattutto senza guerra. Ma quel giorno era stata costretta a farlo proprio per volere della Regina, la quale sosteneva che la figlia dovesse smettere di dire assurdità del genere facendole aprire gli occhi, e mostrandole cosa fosse la vera guerra e del perché fosse in realtà necessaria per il bene dell’umanità.
Ed era proprio per questo motivo che Elizabeth, la Principessa del Clan delle Dee, quel giorno si trovava nelle retrovie ad osservare.
“Mia madre vuole mostrarmi a tutti costi che noi siamo i buoni e loro sono i cattivi” rifletté amara mentre vedeva Sariel invocare la propria grazia Tornado e fare a pezzi letteralmente uno dei Dieci Comandamenti. Una compagna del demone intravide l’attacco sferrato e si precipitò da lui per proteggerne la rigenerazione. Un demone per morire deve essere ferito a tutti e sei i suoi cuori, meditò annuendo Elizabeth. Nel mentre, il demone donna, con sguardo temerario e assassino, e completamente nuda, attaccò con ferocia Sariel, il quale incassò il colpo e venne sbalzato indietro.
“Ma vedo è solamente che ci infliggiamo a vicenda lo stesso dolore: quello di veder perire o ferire coloro che amiamo” concluse triste Elizabeth. Possibile che non esistesse nessuno che volesse ascoltarla? Che condividesse le sue idee?
Un lampo tanto repentino quanto sottile e quasi invisibile attraversò il cielo; Elizabeth se ne accorse, e vide la lunga chioma nera di Ludociel portarsi dietro ad un ragazzo basso e biondo. Il ragazzo era impegnato in un combattimento, questa volta con Sariel e il suo compagno di sempre, Tarmiel. Quei due erano dei temibili avversari, la combinazione delle loro grazie era letale la maggior parte delle volte; eppure quel mingherlino gli stava tenendo testa, anzi, sembrava addirittura in leggero vantaggio: Elizabeth giurò di aver visto, forse per la prima volta nella sua vita, Sariel e Tarmiel ansimare per lo sforzo.
Ma ecco che fu finalmente chiaro il perché della presenza di Ludociel, il quale recitò in un incanto in una lingua che Elizabeth non conosceva, e che fece bloccare istantaneamente il biondo. Una smorfia di dolore gli attraversò il viso, come se stesse venendo trafitto da mille lame nello stesso momento per tutto il corpo, e cadde.
Anche altri demoni si accorsero della caduta di Meliodas, ma non riuscirono ad andare a soccorrerlo poiché impegnati con le forze del Clan delle Dee, e dai non più impegnati Sariel e Tarmiel. Ludociel sorrise malignamente arricciando le labbra in un gesto di puro piacere e soddisfazione, e scattò rincorrendo il Principe dei Demoni.
Elizabeth aveva assistito impotente a tutta la scena. Qualcosa scattò dentro di lei, come un peso nel cuore che le diceva che non era corretto, e anch’essa gli si precipitò dietro, pregando di trovare il ragazzo prima di Ludociel.
Scese più veloce che poté, contò qualche secondo e si ritrovò su una collinetta erbosa, con una distesa di fiori colorati infinita che si muovevano pigramente in direzione del vento. Sarebbe stata una meravigliosa giornata estiva, quelle in cui non pensi a nulla se non a sdraiarti sotto il sole proprio in mezzo a quei fiori che tanto ami, giocando a fare l’angelo anche senza la neve; ma in quel momento, Elizabeth sapeva di non potersi concedere quel lusso, il lusso dell’innocenza e della fanciullezza. Perciò scandagliò la collina e, dopo qualche minuto, intravide la zazzera bionda e spettinata del ragazzo ancora incosciente. Si avvicinò e vide che aveva il corpo ricoperto di chiazze nere, gli abiti zuppi di sangue, altri rivoli di sangue che gli colavano dai lembi delle labbra e gli occhi ancora chiusi.
“Sembra un angelo” fu la prima cosa che pensò senza trattenersi Elizabeth, sorridendo solamente dopo qualche secondo, resasi conto della contraddizione che c’era nelle proprie parole. Poi tracciò con le mani il contorno del simbolo che aveva sulla fronte, curiosa di toccarlo.
Scosse la testa: doveva curarlo prima che li trovasse Ludociel! La principessa dalla chioma argentata si affrettò e tese le mani, concentrando in esse tutto il suo potere. Gli occhi arancioni le brillavano della forza curativa che fluiva da lei in lui, e cercò di impegnarsi ancora di più per condensare maggiore magia, in modo che il ragazzo si svegliasse alla svelta.
Forse l’impegno che ci mise fu troppo, perché il biondo in uno scatto felino si portò a sedere, e immediatamente strinse il collo della ragazza. Elizabeth si spaventò e allontanò le mani tremanti dal corpo di Meliodas per portarle al proprio collo, implorandolo con lo sguardo di lasciarla.
Forse il biondo si era reso conto che si trattava di una ragazza indifesa, o forse si era accorto che era essa stessa la fonte della propria rigenerazione, fatto sta che liberò il collo di lei dalla propria morsa.
Elizabeth tossì un paio di volte, poi inspirò altre due, e infine parlò esibendo un sorriso che tentò di far apparire fiducioso: «Abbiamo poco tempo prima che ci trovi Ludociel, quindi ti chiedo di fidarti di me e di lasciare che ti curi, va bene?»
Meliodas la squadrò torvo, però si rese conto che stava dicendo il vero: aveva sentito un improvviso tepore che lo aveva rinvigorito, e nel momento in cui si era svegliato, esso era scomparso. «E va bene, donna» acconsentì con disprezzo. «Ma fai un solo passo falso e ti uccido» sputò con freddezza.
Elizabeth si avvicinò nuovamente al corpo di lui, e riprese a curarlo, evitando accuratamente di incrociare i propri occhi con quelli del ragazzo.
«Toglimi una curiosità, Dea» parlò il biondo inizialmente con tono divertito e curioso, ma finendo con l’enfatizzare con astio e scherno la parte finale. «Perché lo fai? Perché aiuti il Principe dei Demoni Meliodas?» domandò con cipiglio pomposo, beffardo e superiore.
Elizabeth si bloccò per istanti che parvero giorni: non ci poteva credere che tra tutti avesse finito per soccorrere proprio uno dei pezzi grossi! Tentò di riacquistare un minimo di compostezza e alzò gli occhi, finalmente trovando il coraggio di cercare quelli del suo interlocutore e di incatenarli ai propri, desiderando trasmettergli la serietà e la solennità delle proprie parole. «È stato un colpo vile e crudele, quello di Ludociel. Nessuno, umano, Dea o Demone, dovrebbe essere attaccato di spalle» dichiarò con voce sottile e delicata. «Sei libero di credermi o no» aggiunse mentre Meliodas alzava un sopracciglio scettico e poco convinto.
«E non ti spavento?» inquisì ulteriormente il Demone accennando al suo corpo nero e contaminato, alla sua aura maligna, ai suoi occhi neri, vitrei e spenti, alla propria potenza divina, anzi infernale. «Potrei ucciderti qui e ora se volessi».
«No, non mi fai paura» rispose la ragazza. «E non penso che tu sia il tipo che uccida così, a sangue freddo» concluse Elizabeth, senza una punta di esitazione o incertezza nei propri occhi.
Meliodas era a metà tra l’incredulo e il dubbioso: tutti, persino i suoi stessi compagni Demoni avevano paura di lui. Cercò di mascherare il proprio stupore bofonchiando un «Comunque non mi fido» scocciato e piccato. Nel mentre, sentì qualcosa di diverso dentro di sé: come un calore, diverso da quello che le stava donando Elizabeth. Questo proveniva da uno dei suoi cuori, quello nel petto, e si scioglieva in esso facendolo palpitare, anche se di poco.
Meliodas si alzò improvvisamente in piedi e allontanò Elizabeth con uno strattone. Il tempo di un battito di ciglia ed ecco Ludociel, a spada sguainata e con un ghigno ferino, avanzare e scagliarsi violentemente contro il Principe dei Demoni.
Il biondo parò il colpo dell’arcangelo, ma non riuscì a contrattaccare in quanto Elizabeth non aveva ancora terminato le proprie cure. «Maledetto bastardo, che cosa mi hai fatto?» gli ringhiò contro Meliodas.
Ludociel lo ignorò e si rivolse direttamente alla Dea: «Principessa Elizabeth, brava! Lui è Meliodas, il figlio del Re dei Demoni! L’ho indebolito con un incantesimo antico che gli ha bloccato tutti i suoi cuori demoniaci, ma sembra che si stia riprendendo. Dobbiamo finirlo, ora!»
Elizabeth guardò prima uno e poi l’altro: cosa doveva fare, dannazione?!
Disperata, si pose in mezzo ai due, che indietreggiarono confusi: «Basta! Non dobbiamo combattere, non-» ma non riuscì a terminare la frase dato che Ludociel le tirò uno schiaffo in faccia talmente veemente da farla ruzzolare a terra. «Ancora con queste stronzate Elizabeth? Ne ho abbastanza!» urlò in preda alla follia e al sadismo più puro. «Li uccideremo tutti, i Demoni! E cominceremo proprio da lui» si leccò le labbra e indicò Meliodas.
Meliodas piegò le ginocchia e lo fissò con astio: «Oh Ludociel» annunciò con finta reverenza. «Non ti ha mai detto nessuno che non si mettono le mani addosso ad una signora?» chiese divertito ghignando sardonico. «Specialmente se…» il suo corpo divenne quasi totalmente nero, e improvvisamente sparì, ricomparendo proprio alle spalle dell’arcangelo. «…Si tratta di teste di cazzo come te!» Meliodas sorrise compiaciuto mentre lo afferrava con le proprie braccia demoniache e gli spezzava gli arti.
L’urlo di Ludociel squarciò il cielo mentre Elizabeth spostava gli occhi lampeggianti prima su uno e poi sull’altro, confusa e turbata dall’accaduto.
«Principessa» arrivò squillante la voce di Meliodas. «Con questo siamo pari. Non ti devo niente» dichiarò solenne ma esibendo un sorriso… Sincero e sereno. O almeno, questi furono gli aggettivi che più si avvicinarono secondo Elizabeth: c’era comunque qualcosa di enigmatico negli occhi e nei gesti del Principe dei Demoni.
La ragazza annuì mostrando i suoi veri occhi a Meliodas: un azzurro splendente e dolce come il cielo in primavera, ma decisi come il mare in tempesta.
«La prossima volta che ci incontreremo sarà come avversari sul campo di battaglia» promise e, sfoderando le ali, balzò in aria senza guardarsi indietro, si diresse verso i compagni e ordinò la ritirata.
Meliodas non sapeva di starsi sbagliando di grosso.
Elizabeth si rimise in piedi e ammirò la sagoma di Meliodas librarsi nel cielo, allontanarsi e farsi sempre più piccola, fino a diventare un puntino nero. Poi si diresse da Ludociel e prese a curare anche lui.
La ragazza sorrise enigmatica: forse… forse c’era qualcuno disposto ad ascoltarla.
 


KitKat says- author's corner
Mi sono presa troppo bene con questa ship dopo aver visto la terza stagione: quando hanno mostrato il loro passato, ho subito pensato "Ma non ci dicono come cavolo si sono conosciuti?" Nope --> Ci ha pensato il mio cervello.
Sono abbastanza fiduciosa su questa fiction perché l'ho studiata per bene e messa addirittura per iscritto. Dovrebbe essere lunga 3/4 capitoli penso. E intanto mi emoziono perché non ho mai scritto fiction così lunghe *sigh*. E anche perché oddio, dopo secoli mi sembra di essere tornata a scrivere bene, quasi come quando scrivevo ShikaIno.
Dato che ho poca fantasia per i titoli, ho scelto "Obstacles" perché è il titolo della mia canzone preferita di LiS e perché un minimo mi sembrava che c'entrasse con le difficioltà affrontate da Elizabeth e Meliodas.
Sperando che la fiction vi sia piaciuta, mando

Baci stellari,
Kat

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Capitolo 2
*** Igniting the spark ***


Igniting the Spark

Elizabeth volava pigramente con occhi sconsolati e apatici, facendo attenzione a rimanere ad almeno un metro di distanza dalla madre che la precedeva.  
«Muoviti Elizabeth» ordinò tuonante e imperante la Dea Suprema, ma la figlia la ignorò come segno di protesta. Non capiva davvero il motivo, ma soprattutto il senso, nell’accompagnarla ad un incontro diplomatico che di diplomatico non aveva assolutamente nulla: la Dea Suprema l’aveva incitata a venire al fine di mostrarle che non era possibile alcuna via diplomatica con i demoni villani
Elizabeth sapeva benissimo che non stavano andando ad incontrarsi col Re dei Demoni per promuovere la pace, ma solamente per avere un pretesto per lanciargli ulteriori guanti di guerra. Odiava il fatto di essere l’unica che ritenesse che fosse tutto troppo sbagliato, che fosse l’unica che avesse il fegato logorato perché loro non erano i buoni.
Trascorse un’altra mezz’ora abbondante prima che arrivassero al punto prescelto. Una volta giunte, il Re dei Demoni non era ancora arrivato, perciò la madre di Elizabeth si eresse in tutta la sua fierezza e alterigia verso il cielo, attendendo con espressione tronfia l’arrivo della controparte.
Dei fulmini improvvisi scossero il cielo, che divenne improvvisamente e rapidamente scuro, per poi rasserenarsi così come era rannuvolato. Sotto il punto in cui si erano scatenate le saette troneggiava l’imponente, macabra e oscura figura del Re dei Demoni che, come la Dea Suprema, non era venuto solo: accanto ai suoi piedi vi era la minuscola figura di un uomo dai biondissimi e spettinatissimi capelli color giallo limone.
Elizabeth era visibilmente un po’ spiazzata, al contrario Meliodas appariva impassibile mentre la studiava con occhio critico dalla ciocca di capelli argentata fino alla punta appuntita delle scarpe. 
«Re dei Demoni» esordì la Dea in tono stucchevole e affettato alzando la mano in un vago e svogliato saluto. Lui fece altrettanto. «Una giornata perfetta per un incontro di pace, non trovi?» domandò con voce altrettanto smorfiosa e studiata. Elizabeth si chiese se fosse l’unica a trovarla così palese o forse sua madre credeva davvero di riuscire a celare la propria falsità. 
«Io e la mia gente non chiediamo altro!» esclamò esaltato ed entusiasta il Demone. Le sue parole risultavano più vere al confronto di quelle della Regina delle Dee, ma Elizabeth ritenne che ci fosse qualcosa che non quadrasse: era come se stesse comunque cercando di ingannare, ma con metodi più melliflui e lusinghieri.
«Ho portato mio figlio Meliodas affinché ne esca istruito del nostro dialogo. È mio desiderio compiere ogni gesto necessario per la pace e l’armonia tra i nostri popoli, superando le differenze delle nostre nature e stili di vita» e mentre il padre parlava con la massima austerità, il figlio sorrise e sbuffò roteando gli occhi, con una smorfia da “Ma chi vuoi che se la beva”. «Chi ha mai detto che Demoni e Dee non possono essere amici? O quanto meno collaborare per uno scopo comune?» concluse con lo stesso tono affabile di un candidato alle elezioni che cerca di esporre il proprio piano politico per vincere la poltrona.
«Beh la vostra stessa natura lo dice» arrivò la risposta insolente e arrogante della Dea Suprema. «Dite di volere un vostro posto su questa terra pacifica, ma ciò che vedo che portate è solamente morte e distruzione ad essa e ai suoi abitanti». La Regina portò l’indice destro sulla guancia e se la massaggiò, poi riprese con voce afflitta: «Come ci può essere pace con un popolo così rozzo e bruto che fa affidamento solo sulla forza fisica e non prova nemmeno un briciolo di compassione per gli avversari caduti e per i loro cari?». «Ogni mese ci incontriamo caro Re dei Demoni» continuò dopo una breve pausa, preparandosi a sferrare la stoccata finale. «Ma pare che una soluzione a questo cruccio non la si riesca mai a trovare, dato che le vostre azioni parlano più delle vostre parole» concluse con tono aggressivo, se ne fosse stata in grado avrebbe sputato anche veleno.
Il Re dei Demoni e Meliodas erano rimasti impassibili per tutta la durata della tiritera della Dea Suprema; proprio quando uno dei due stava per rispondere, Elizabeth raccolse tutto il coraggio che poté, incamerò più aria possibile nei polmoni e parlò in direzione della madre: «Non è vero madre» disse in un soffio, ma ben udibile da tutti i presenti. «L’odio genera altro odio. La guerra genera nuova guerra. Tutti i nostri alleati Stigma, Clan delle Dee, Clan delle Fate, Clan dei Giganti e umani, così come il Clan dei Demoni, non abbiamo provato pena o pietà per le vite che abbiamo preso. Ho visto tantissimi appartenenti al Clan delle Dee con lo sguardo iniettato di sangue ed inebriato dal potere che hanno strappato innumerevoli vite di demoni che si erano arresi e chiedevano indulgenza» il tono della giovane dea divenne sempre più acuto e infervorato, il cuore le batteva all’impazzata mentre sperava che le sue parole potessero fare breccia nel cuore di qualcuno.
Ma dopo qualche secondo di pausa continuava a regnare il silenzio, nessuno più osava parlare. E allora Elizabeth continuò, questa volta urlando a squarciagola: «E poi parli parli, ma mi sembra solo che tu stia blaterando a vuoto. È chiaro che non hai nessuna intenzione di intercedere con loro, ma come pensi che potrà mai avere fine questo bagno di sangue se nessuno è disposto a fare un passo nella direzione dell’altro? Perché non iniziare a fare prigionieri invece di uccidere chiunque? Perché non graziare qualcuno invece che calare la spada sulla sua testa? Perché non-»
«ORA BASTA ELIZABETH!» tuonò furente la madre. «Mi sembra che abbia sprecato fiato a sufficienza. La tua insolenza è pari solamente alla tua ingenuità. La tua Regina ti ordina di andartene immediatamente» ordinò perentoria e adirata.
«Ma-»
«ORA»
Ecco, quello era il capolinea: oramai non c’era più nulla che potesse fare. Elizabeth chinò mestamente il capo, e mentre ancora si mordeva le labbra stizzita, si allontanò da essi.
Volò per qualche metro diretta verso la propria casa, dove si sarebbe buttata in lacrime sul suo letto: ci aveva provato ma aveva solo ottenuto di rendersi ridicola davanti a tutti. Fu solo in quel momento che si accorse di qualcosa accartocciato nel suo palmo destro; aprì la mano e all’interno vi era un pezzetto di carta dai lembi fumanti e bruciacchiati sul quale vi era scritto: “Vediamoci dove ci siamo conosciuti. -M”.

Elizabeth arrivò volando di corsa su quella collinetta fiorita; ci mise non poco a ritrovare il punto preciso in cui lei e Meliodas si erano appartati per curarlo, dato che aveva un pessimo senso dell’orientamento. Capì poi di averlo scovato quando intravide in lontananza il ciuffo appuntito e ribelle del ragazzo. Corse nella sua direzione e qualche minuto dopo gli fu di fronte: lui era in piedi di fronte a lei, basso ma col petto muscoloso, con le braccia incrociate al petto e un sopracciglio inarcato all’insù. Anche stando in piedi, Meliodas non le arrivava nemmeno al busto. Il suo corpo era ricoperto delle solite chiazze nere e vi era la solita runa nera sulla fronte a simboleggiare la sua appartenenza ai Dieci Comandamenti. I suoi occhi erano neri come la pece ma erano in qualche modo diversi. 
Nonostante non fosse la prima volta in cui stavano così vicini da potersi osservare attentamente, Elizabeth sembrò realizzare solamente in quel momento la loro breve distanza e arrossì. Non capiva come mai le provocava quell’effetto.
«Elizabeth» parlò Meliodas con voce perentoria. «Sono contento che tu abbia ricevuto il mio messaggio e abbia accettato il mio invito» continuò questa volta distaccato ma comunque autoritario.
«C’è qualcosa di cui vorresti parlarmi, Meliodas?» domandò esitante Elizabeth. Non sapeva davvero cosa rispondere, e soprattutto cosa aspettarsi.
Meliodas sorrise, a metà tra un ghigno malefico e rassegnato. «Ti dirò il vero: mio padre… Mi ha portato con sé per ucciderti» disse e ad Elizabeth si ghiacciò il cuore. «Avrei dovuto farlo con tua madre a fianco, per provocarla» spiegò il ragazzo in tono eloquente e miseramente tentando di essere rassicurante. «Ma la verità è che dopo aver udito le tue parole, io non credo di…» la voce gli si affievolì ad ogni parola fino ad interrompersi. Chiuse le mani tremanti in pugni, e abbassò lo sguardo.
Non sapeva nemmeno lui che cosa gli stesse succedendo, in parte temeva questo suo esitare. No, in realtà lo sapeva, aveva solo paura di ammetterlo a se stesso e a suo padre: la verità era che era stufo marcio di uccidere, solo uccidere senza sosta. Era il Principe dei Demoni e questo avrebbe dovuto portargli solamente piacere, e glielo aveva dato per i primi decenni forse. Ma dopo un po’ le urla delle persone morenti, i loro occhi che si spegnevano tra le sofferenze… Avevano iniziato a segnarlo, sia che essi fossero amici sia che fossero nemici. E in più, spesso si soffermava a spiare la vita quotidiana degli umani semplici, e li invidiava: loro potevano sperimentare l’amore, avere una famiglia, fare figli, vivere sereni senza combattere e permeati solamente dall’amore della famiglia. La sua di famiglia non era così, non aveva mai provato questo con suo padre e nemmeno con Zeldris, il quale era da sempre stato geloso di lui.
Oramai scendeva sul campo di battaglia e lottava solamente per inerzia, con l’illusione che un giorno sarebbe riuscito a ritagliarsi il proprio posto sulla Terra e a provare una vita semplice come quella degli umani sulla propria pelle. E quando tutto sembrava andare verso un senso unico, quando oramai confondeva le giornate tra di loro, quando non sapeva nemmeno più se stesse combattendo per le mire espansionistiche di suo padre o per il suo piccolo sogno, era arrivata lei, Elizabeth, che sproloquiava esattamente sulle stesse cose che lui avrebbe voluto sentirsi dire. Solo che lo faceva con un approccio diverso dal quale tutti i partecipanti alla Guerra Santa ne parlavano, e questo lo affascinava: parlava davvero di una Pace con la P maiuscola, non una “pace” effimera che in realtà mirava ad altro. C’era questo ad attirarlo a lei, come una falena attratta dalla lanterna, e voleva conoscerla, aiutarla se era possibile.
Sentì del calore sul proprio pugno e vide solamente in quel momento che la piccola e bianca mano della ragazza era poggiata sulla propria. Alzò lo sguardo con occhi sbarrati e incontrò il viso sorridente di Elizabeth a pochi centimetri dal suo. Anche davanti alla morte, lei sorrideva, notò il ragazzo. Sentì uno strano calore sulle guance e una morsa allo stomaco che non seppe spiegarsi.
«Ho capito» sussurrò Elizabeth con voce dolce. «Non preoccuparti Meliodas, ti perdono» disse e si allontanò dal ragazzo, il quale non rispose e nemmeno cercò giustificazioni. Le era venuto spontaneo rassicurarlo avvolgendo le proprie mani nelle sue, ma forse stava attraversando un confine che non avrebbe dovuto attraversare.
Meliodas si ritrovò a sentire la mancanza di quel piccolo e flebile contatto, ma non disse nulla e si limitò ad alzare il mento. Seguì con lo sguardo la dea che si era andata a sedere in mezzo ad un’aiuola.
«Ludociel. Quella volta… Avresti potuto ucciderlo, ma non l’hai fatto. Perché?» gli chiese a bruciapelo.
«Per lo stesso motivo per cui poco fa non ti ho uccisa» rispose in un mormorio sommesso Meliodas, le labbra che quasi non si aprivano da tanto il suo tono era basso. 
«Elizabeth» la chiamò nuovamente con urgenza. «Pensi davvero che possa esistere la pace tra i nostri popoli?».
E fu così che i loro incontri clandestini iniziarono. Nessuno dei due avrebbe potuto sapere che questi avrebbero portato allo sbocciare sentimenti profondi per entrambi, sentimenti così forti e genuini che nessuno dei due aveva mai provato sulla propria pelle, ma di cui capirono presto di avere bisogno come l’ossigeno per i polmoni. E quando avrebbero inoltre capito che proprio questi loro sentimenti avrebbero portato alla morte ancora più persone della guerra stessa, sarebbe stato oramai troppo tardi per sopprimerli.
 


KitKat says- author's corner
Secondo capitolo sfornato in pochissimi giorni, wowowowo. Sì, non ho davvero nulla da fare a casa (: A parte il test d'ingresso di domani per la magistrale, ma di cui non so ancora ora e dettagli, dato che la mia uni è efficiente come al solito.
Comunque questo è un capitolo un po' morto, me ne rendo conto, però mi sembrava doveroso un piccolo accenno ai rapporti tra i due "boss finali". E sì, tra l'altro ho notato solo alla fine che in realtà solo Meliodas è il Principe dei Demoni, Elizabeth non è la figlia della Dea Suprema ma una semplice Dea, ma vabbè, fingiamo che sia così; aggiungere altro pathos alla Romeo e Giulietta può fare solo bene, no? *spera in una risposta positiva*.
Mi rendo conto che il mio stile sta lentamente declinando e tornando al solito schifo, ma vabbè. Giuro che mi impegnerò al massimo per fare una fiction decente.
Lascio come sempre alcune indicazioni musicali: i pezzi in cui interagiscono Elizabeth e Meliodas vanno letti ascoltando questa canzone bellissima. Ho cambiato invece il titolo alla fiction, mi sembrava troppo scarno e non trasmetteva appieno la mia visione. Face my fears è la opening di KH, altra saga che amo con tutto il cuore.
Sperando che la fiction vi sia piaciuta, mando

Baci stellari,
Kat

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Capitolo 3
*** I could kiss those lips forever ***


 
I could kiss those lips forever

Una leggera brezza si levò e vorticò sugli spiazzi fioriti. I fiori presero a danzare attorno alle due figure sedute sulle ginocchia, l’una di fronte all’altra. Alcuni petali si posarono tra i fulgidi capelli argentati della figura femminile, che risplendevano della stessa luce cristallina ed eterea delle stelle; la ragazza reagì scoppiando in una lieve risatina. Il ragazzo biondo e spettinato di fronte a lei accennò ad un sorriso.
Erano passati poco più di tre mesi dal primo incontro tra Elizabeth e Meliodas. Da allora, incontrarsi almeno due volte alla settimana era diventata la loro routine. Inizialmente vi era una certa reticenza da parte di entrambi, ma poco per volta i rapporti avevano iniziato ad ammorbidirsi, aprendosi l’uno all’altra; la prima a sciogliersi non poté che essere l’ingenua e bonaria Elizabeth. Si scoprirono entrambi buoni ascoltatori e sorprendentemente bravi nello strapparsi un sorriso a vicenda.
Per Meliodas invece fu più complicato lasciarsi alle spalle anni e anni di bugie letteralmente tatuati sulla pelle, ma per quanto piccolo, avvertiva il cambiamento che stava avvenendo dentro di sé. Se all’inizio della sua vita da giovane demone, egli traeva piacere solo nelle morti che causava, dopo un po’ ad esso si era sostituita l’apatia; e dopo anni e anni di assenza di emozione alcuna, pensò che non sarebbe più stato in grado di provare quel piacere scaturito dall’ultimo respiro esalato della vittima o dalle implorazioni di questi. E fu proprio grazie ai suoi incontri fissi con Elizabeth che cominciò a rendersi conto che la compagnia di lei non gli dispiaceva per nulla, anzi, gli era gradita in piccola misura, senza andare ad eguagliare l’idillio raggiunto negli anni d’oro da spietato assassino.
Si iniziò a chiedere se era questo ciò che provavano gli umani quando avevano al loro fianco una donna o un’amica: cos’era Elizabeth? Era una sua amica? Si riscoprì spesso a spiarla di nascosto, ad osservare attentamente come uno scienziato ogni suo più piccolo movimento: dalle varie sfumature azzurrine presenti nei suoi occhi, al cielo che vi era rinchiuso all’interno; di come questi prendessero a brillare quando parlava di ciò che amava; del profumo che emanavano nell’aria i suoi capelli argentei liscissimi, alla curva che prendevano le sue labbra quando sorrideva, la fossetta che le si formava nell’angolo destro del viso. Ogni volta che le sue labbra si curvavano all’insù, il cuore di Meliodas faceva una tripla capriola all’indietro e lo stomaco gli si stringeva e si attorcigliava su se stesso. Non si sarebbe mai abituato a queste seccanti, fastidiose, ma allo stesso tempo piacevoli e calde (non sapeva veramente come descriverle) sensazioni che, per quanto lottasse, non riusciva a far andare via.
Stava cambiando anche fisicamente: il suo corpo era sempre più roseo, tanto che aveva iniziato a portare dei vestiti per coprirsi le parti sensibili; le sue ali nere erano scomparse, ricomparivano solo a comando. Insomma, stava cominciando sempre di più a NON somigliare ad un demone, e sinceramente non sapeva cosa pensare al riguardo. Tuttavia, non era ancora scomparso il simbolo demoniaco sulla fronte e i suoi occhi erano ancora scuri come una notte senza luna.
«Quindi, cosa ti piacerebbe fare se in questo istante cessasse la guerra?» chiese Meliodas abbandonando involontariamente il suo solito tono duro per esibirne uno pacato e affabile, mentre si sdraiava a terra per fissare le nuvole trasportate pigramente dal vento.
Elizabeth lo imitò, solo che si sdraiò nella direzione opposta rispetto al ragazzo, in modo che le gambe di lei fossero posizionate verso la sua testa. Così facendo, le loro teste si ritrovarono l’una di fianco all’altra, a pochi centimetri di distanza. Sentivano l’uno il respiro cadenzato e pacifico dell’altra, sarebbe bastato piegarsi leggermente affinché le loro labbra si sfiorassero.
«Vedere le stelle proprio qui, su questa collina, su questo posto che sembra dimenticato da chiunque e dove il tempo sembra fermarsi» sussurrò flebilmente Elizabeth con una punta di malinconia. «Fare quello che voglio quando voglio, senza sentire la responsabilità di mia madre sulle spalle» concluse, questa volta con voce più dura e meno sognante.
La giovane Dea girò il volto in direzione di Meliodas per fargli appunto la stessa domanda. Ma non appena girò il capo nella sua direzione, vide che il biondo già la stava fissando talmente intensamente che si sentì nuda sotto quello sguardo penetrante. Involontariamente schiuse le labbra, sentendosele improvvisamente secche. Rimasero così a fissarsi per secondi che parvero anni, completamente immobili e senza fare nessun movimento.
Fu la ragazza a spezzare il silenzio: «Meliodas» lo chiamò in un sussurro. «Hai degli occhi… Meravigliosi» mormorò dopo una breve pausa, cercando l’aggettivo giusto.
Il ragazzo si stranì e la sua espressione cambiò da una di ammirazione ad una di sorpresa. Si alzò velocemente per andare a contemplarsi in un piccolo specchio d’acqua nelle vicinanze, e sbarrò occhi e bocca appena si vide: due enormi smeraldi gli restituivano lo sguardo sbigottito. Si accorse che vi erano incastonate varie sfumature, dal verde del più profondo degli oceani al verde del prato appena tagliato.
«Ma questo sono… No, non può essere» si ripeteva sommesso ed incredulo. Elizabeth apparve dietro di lui e gli si inginocchiò accanto, aggraziata come la Dea qual era. «Va tutto bene?» domandò preoccupata sbattendo i suoi due occhioni celestini.
Sparì improvvisamente qualunque traccia di rabbia o rancore vi fossero dentro di lui. Si sentì completamente pervaso dalla spensieratezza, dalla gioia della compagnia di Elizabeth. «Mi sento… diverso» mormorò a testa bassa, così piano tanto che Elizabeth quasi non riuscì a sentirlo. Le parve anche che nella voce di Meliodas ci fosse una venatura amareggiata; come se fosse spaventato di quel cambiamento a cui accennava.
Elizabeth non fece in tempo ad indagare oltre, dato che Meliodas parlò nuovamente: «Voglio fare cose che prima non pensavo di voler fare» disse, e lentamente girò il volto fino ad incontrare quello della ragazza.
I loro occhi si cercarono in automatico e si incatenarono, studiandosi a vicenda talmente intensamente tanto da poter scrutare le profondità più recondite del cuore di entrambi. Meliodas si sentiva incredibilmente strano, come se la sua stessa anima – se mai ne avesse avuta una – stesse venendo scandagliata e salvata dalla Dea. Non si era mai messo così, nudo ed indifeso, davanti a qualcuno, nemmeno a suo padre o i suoi fratelli. Con Elizabeth non si sentiva un demone, ma nemmeno un angelo, un umano o una fata: era semplicemente se stesso, quel Meliodas che aveva tanta paura a mostrare agli altri.
Vide le iridi cristalline di lei illuminarsi e scintillare di quella luce così particolare e sua, solo sua, un barlume che si accendeva e le faceva risplendere gli occhi. Meliodas non oppose resistenza, e si lasciò volentieri trascinare e cullare in quel prezioso mare color zaffiro. Fu proprio lì, mentre il cielo e l’erba si incontravano e si mescolavano languidamente, che fu colto da un’illuminazione improvvisa: capì il perché delle farfalle nello stomaco che si scatenavano ogni volta che era con Elizabeth, capì il perché sentiva le guance infiammarsi ad ogni sua smorfia, capì il perché le proprie gambe gli sembravano cedere quando le era accanto. Lo capì perché in quel momento l’unica cosa che pensò fu “Baciala”.
Meliodas abbandonò oramai tutti i propri freni inibitori, con un gesto rapido le ghermì il mento avvicinandoselo piano, chiuse gli occhi e la baciò. Fu un tocco fresco e leggero, rapido come un petalo di una rosa che cade in acqua, ma che bastò per fare esplodere in mille scintille il cuore nel petto di Meliodas. Percepì le lunghe ciglia di Elizabeth sfiorare la sua fronte per abbassarsi e chiudere gli occhi, ricambiando il bacio. Il petto di lei prese ad alzarsi ed abbassarsi sempre più freneticamente, il respiro le divenne più pesante. Fu uno sfiorarsi che durò pochissimi secondi e che così come iniziò, finì.
Meliodas la allontanò da sé come se fosse stata una delicata bambola di cristallo e la guardò, curioso della reazione della ragazza. Si aspettava una Elizabeth rossa fino alla punta delle orecchie, imbarazzata dal gesto e che completamente impanicata gli avrebbe urlato contro “Oddio non farlo mai più!”, ma così non fu. Elizabeth era sì rossa in viso e col respiro affannato, ma le sue labbra erano ancora schiuse ed umide, i suoi occhi gonfi e sicuri, determinati. Non c’era nemmeno una briciola di esitazione in lei, ed infatti, con enorme sgomento di Meliodas, questa volta fu lei a baciarlo posando delicatamente una mano sulla sua guancia.
Meliodas si aggrappò a lei come se la propria vita dipendesse da quel bacio: si fece largo tra le sue braccia e intrecciò le proprie dita con le sue, stringendola a sé per non lasciarla andare mai più. La sua lingua si insinuò piano nella bocca di lei, la quale acconsentì tacitamente sorridendogli a fior di labbra, mentre entrambi, scarlatti in volto, approfondirono il bacio.
Meliodas respirava ansimando a pieni polmoni il profumo di Elizabeth, il suo preferito, che gli mandava impulsi elettrici al cervello, facendolo letteralmente impazzire. Attorcigliò un dito in una ciocca di lei, le accarezzò i capelli, il capo, scendendo lentamente fino al viso, esplorando ogni centimetro di pelle sul suo percorso, per poi aggrapparsi ad esso.
Elizabeth in risposta si avvicinò ancora di più a Meliodas facendo aderire completamente i loro corpi, che combaciavano perfettamente come due pezzi dello stesso puzzle. Percepiva chiaramente la propria pelle bruciare, come se lui fosse stato il suo sole personale; le orecchie di lei fischiavano, il cuore le martellava talmente forte che temeva potesse uscirle dal petto. In quel momento, desiderò solamente restare lì insieme a lui per tutta la sua vita: aveva appena trovato il proprio posto nel mondo, il suo angolo di paradiso felice in cui si sentiva amata, protetta; e sapeva che le braccia di Meliodas l’avrebbero cinta e tenuta per sempre al sicuro.
Della brezza si levò nuovamente nel cielo, travolgendo di fiori la giovane coppia. La schiena di Elizabeth tremò per venire poi pervasa da mille brividi per tutto il corpo. Non seppe se fu colpa del vento o del bacio, ma Meliodas si allontanò piano e dolcemente dalla ragazza, entrambi si sorridevano l’un l’altra con gli occhi liquidi ed incantati.
«Hai freddo?» le chiese con voce più dolce del miele mentre faceva scivolare le proprie mani sulla schiena della ragazza prendendo a scorrerle in alto e poi in basso nel tentativo di scaldarla. Si sorprese che le proprie corde vocali potessero assumere una sfumatura così affettuosa.
«Sì» disse Elizabeth col volto cremisi, le labbra gonfie e il petto che si alzava e abbassava a piccoli fiati. Dio, quanto avrebbe voluto baciarla di nuovo.
«Sarà meglio scaldarti allora» disse con sorriso furbo e sguardo predatore, e la ragazza scoppiò a ridere alitandogli sulle labbra mentre le loro bocche si lambivano e univano nuovamente.
 


KitKat says- author's corner
Ecco il terzo capitolo sfornato a tempo record, ma come ho già detto, mi sono davvero presa bene con loro due *fangirla*.
Tutto il capitolo è da leggere con "Kids will be skeletons" come sottofondo, che ho linkato nel capitolo precedente. Spero di essere riuscita a trasmettere le emozioni di Elizabeth e Meliodas e sopratutto di averle rese verosimili. Ringrazio la mia tata che mi ha betato il capitolo e mi ha detto che secondo lei ce l'ho fatta, ma ho paura che sia troppo di parte u.u
Le scene del bacio sono state ispirati a immagini/fanart (?) che potete trovare qui: Meliodas che bacia Elizabeth, Elizabeth che bacia Meliodas <3 <3
Fatemi sapere che ne pensate!

Baci stellari,
Kat

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Capitolo 4
*** Don't get too close, it's dark inside ***


 
Don't get too close, it's dark inside

Meliodas calciò il terreno con fare svogliato, mentre pochi istanti dopo alzava gli occhi all’insù sperando di vedere il sole, le nuvole, il cielo, ma tutto ciò che le sue iridi color pece gli restituirono furono sfumature rocciose nere mischiate al vermiglio di fuoco e sangue dell’Inferno.
Elizabeth gli aveva dato un motivo per vivere in un mondo diverso da quello a cui era abituato; Elizabeth gli aveva dato uno scopo per continuare a lottare. Elizabeth era presto diventata il suo centro gravitazionale, e non sarebbe stato in grado di staccarsi dalla sua orbita nemmeno se ci avesse provato con tutte le sue forze. Eppure ci stava provando: era da più di due settimane che non si presentava ai loro appuntamenti, senza aver dato nessuna spiegazione alla ragazza.
Al solo pensarci abbassò lo sguardo strizzando gli occhi e chiudendo la mano in un pugno dalla rabbia.
Temeva il giorno in cui suo padre avrebbe scoperto il loro amore, perché sapeva che era inevitabile e che era vicino. Ma non era questa la sua paura più grande.
Pensava che Elizabeth fosse il suo balsamo contro le ferite, ma si rivelò essere anche il suo veleno più mortale: era sì vero che era disinibito quando era con lei, ma allo stesso tempo sentiva di non riuscire completamente a controllare la sua natura demoniaca, il suo istinto oscuro che era sempre lì, latente e famelico, e che sarebbe arrivato a divorarla spegnendo la sua luce per sempre. Era questo ciò che lo terrorizzava a morte: che la sua oscurità fosse più grande del suo amore per lei. E non si sarebbe mai perdonato se le fosse accaduto qualcosa per colpa sua.
“Ma chi voglio prendere in giro” si disse Meliodas sorridendo amareggiato. “Sono un demone, potrei farle solo del male” si maledisse con tono duro mentre le mani sanguinavano dalla forza con cui conficcò le unghie nella carne.
Una voce dolce e melodiosa pronunciò il suo nome a gran voce, in un misto di urgenza, preoccupazione e dolore. Meliodas spalancò gli occhi incredulo e terrorizzato, tutto il corpo prese a tremare quando constatò con orrore che la minuta figura angelica camminava piano frustando la chioma argentea a destra e a sinistra alla disperata ricerca del ragazzo innanzi alle porte del Purgatorio.
“Stupida, stupida, stupida!” la maledisse mentalmente sbattendo i pugni contro la parete più vicina digrignando i denti. Avrebbe dovuto sapere che Elizabeth non si sarebbe arresa così facilmente, che sarebbe addirittura arrivata a rischiare la sua vita per ritrovarlo.
“Vattene, ti prego” la implorò poi, temendo non solo per la sua vita, ma non sapendo quanto sarebbe riuscito a resistere nel raggiungerla e fare sue quelle labbra così tristi.
Passarono ancora uno, due minuti e infine Meliodas si decise a varcare le porte del Purgatorio con lo sguardo più adirato e feroce che riuscì a fingere. Incontrò gli occhi di lei ed ebbe paura di sciogliersi in quel momento, perciò agì in fretta: spalancò le enormi ali nere come l’inchiostro e volò rapido come un rapace nella sua direzione, agguantandola infine come una preda. Elizabeth inizialmente gli imprecò contro chiedendogli cosa stesse facendo, ma lui la zittì con un gesto seccato. Non poteva mostrarsi debole ed innamorato, doveva pretendere di odiarla con tutto se stesso e che la sua sola presenza lo disgustasse. Non sapeva se ne sarebbe stato in grado…
Volarono per poche miglia, sistemandosi in una foresta nelle vicinanze e nascondendosi sotto le fronde di un albero. Meliodas la fece scendere delicatamente, e quando i piedi di Elizabeth toccarono terra, si girò nella direzione del ragazzo con gli occhi che lampeggiavano di ira ed incredulità; ma non solo: le sue iridi erano una tempesta che minacciava pioggia, e sapeva che si sarebbe gettato nelle fiamme dell’Inferno di buona lena non appena le lacrime avrebbero preso a sgorgarle silenziose sulle guance.
«Non saresti dovuta venire» esclamò con voce dura e possente, fissandole il volto ma senza guardarla negli occhi e tenendosi ad una debita distanza di sicurezza.
Fece per rialzarsi in cielo e allontanarsi il prima possibile, ma Elizabeth lo afferrò lesta per una spalla, la mano scossa da mille spasimi. «Non pensi che meriti almeno una spiegazione?» strepitò a metà tra rancore e lacrime. Meliodas, che dava le spalle alla ragazza, si voltò nella sua direzione, e questa volta guardò per davvero gli occhi della Dea e, come temeva, non riuscì a dirle di no.
Sospirò e scese a terra con sguardo basso e pregando un qualunque dio di dargli la forza per spezzarle il cuore definitamente. “Lo stai facendo per lei”, “Non potresti mai renderla felice”, “Le faresti solo del male” e altre frasi del genere continuavano a rimbombargli nella testa come un mantra, ogni parola era una stoccata dritta al cuore che lo aveva ucciso almeno un migliaio di volte.
Alzò le sopracciglia guardandola scettico: «Non c’è molto da spiegare, pensavo ci saresti arrivata da sola, ma a quanto pare non posso aspettarmi troppo da una come te» sputò ogni parola come se fosse intrisa di veleno. Si sorprese di saper mentire così bene a comando, ma forse dopo mille anni ci aveva fatto l’abitudine. Era stato sciocco a pensare che le cose potessero cambiare grazie ad un sentimento tanto banale e scontato come l’amore.
Il corpo di Elizabeth si irrigidì, ma le mani e le spalle presero a tremare più forte. Lo vide, lo seppe, stava per piangere, e doveva andarsene prima che succedesse, altrimenti…
«Non ho mai provato nulla per te» disse mordendosi impercettibilmente un labbro, e sentì l’aria, il tempo fermarsi; o meglio, i propri polmoni smisero di respirare per secondi che parvero anni. «L’ho fatto perché volevo ucciderti, ma volevo prima giocare un po’ con te» concluse esibendo un ghigno malefico e divertito a trentadue denti.
Appena concluse la frase, innalzò nuovamente le ali al cielo pianificando di andarsene prima che i singhiozzi soffocati di Elizabeth diventassero insopportabili, prima che il bisogno di stringerla a sé, di baciarla, di rassicurarla, di amarla, vincesse contro il bisogno di proteggerla dalla parte più oscura di sé.
Ma ecco che la voce della ragazza arrivò, debole e sottile come uno filo di raso che si attorcigliò piano al cuore di Meliodas e lo strinse sempre più forte fino a tagliarlo, a farlo sanguinare: «Uccidimi allora».
Una semplice richiesta, e pure sensata dal suo punto di vista, no?
Elizabeth sorrise amareggiata, arresa. Il rifiuto di Meliodas le aveva fatto più male di quanto potesse mai immaginare e le aveva fatto passare completamente la voglia di combattere, di vivere. Tanto valeva fargli esaudire i suoi desideri.
«Io…» tentò di articolare Meliodas, ma fallì dopo la prima parola riscoprendosi senza fiato. Si rese conto solo in quel momento che ogni muscolo del suo corpo era teso come una corda di violino. Provò a regolarizzare il respiro e ci riprovò: «No» fu tutto ciò che gli riuscì di dire.
Elizabeth gli si avvicinò pericolosamente, facendogli un cenno del capo come per facilitargli il compito. Non capiva che così rendeva solo tutto più difficile e straziante per il cuore di Meliodas che stava venendo dilaniato da ogni parte.
«Ho paura» sussurrò con voce talmente sommessa che Meliodas stesso quasi non riuscì a sentirsi. Sentì ogni fibra del suo corpo spezzarsi e frantumarsi, oramai era allo stremo e si abbandonò completamente alle proprie emozioni. Gli occhi si spensero del nero e si tinsero di verde intenso, si lasciò cadere a terra sulle ginocchia e guardò il terreno affranto, senza alcuna speranza. Il nero d’inchiostro incastonato nelle sue iridi, che spaventavano le creature più coraggiose, nascondevano oceani di tristezza smeraldina sotto di essi.
«Ho una paura atroce di non riuscire a proteggerti dal male che io stesso potrei causarti, e che sicuramente ti causerò» ammise con le mani, le gambe, gli occhi che tremavano, non trovando il coraggio di guardarla. «Sono un demone, è nella mia natura. In me c’è un’oscurità che ho paura di non riuscire a controllare e se ti succedesse qualcosa non riuscirei mai a perdonarmelo» rivelò alzando di poco il volto, gli occhi leggermente inumiditi agli angoli e un sorriso forzato.
«Perché ti amo troppo e-» non riuscì a concludere la frase che sentì le labbra umide di Elizabeth premere sulle proprie. Gli parve di provare quella sensazione calda e accogliente di un viaggiatore che ritorna a casa dopo un peregrinare freddo durato anni. Il suo corpo reagì d’istinto, aumentò il battito cardiaco all’improvviso e allungò le mani per stringerla a sé, ma un lampo di raziocinio gli scoppiò nel cervello e trovò le forze per staccarsi da lei tutto d’un tratto.
La prese per le spalle in una morsa ferrea, quasi stritolante, provocandole un principio di dolore e la fissò intensamente negli occhi. Lei era lì, immobile e trepidante, prigioniera tra le sue braccia, che lo guardava con occhi confidenti senza mettergli pressione e che aspettava solamente un suo segnale. Lui la tratteneva, così che non scappasse, così che non potesse sfuggirgli. Era stupido e lo sapeva, ma aveva timore, doveva averne il più completo controllo, probabilmente perché non riusciva a controllare se stesso prima di tutto.
Un brivido gli percorse la schiena come ogni volta che si perdeva in quel cielo più profondo e blu del mare, e boccheggiò respirando a fatica, lottando contro la voglia di riprendere quanto interrotto. Ma sapeva che, per quanto lottasse, era una battaglia persa in partenza, oramai lo aveva capito.
Arresosi così all’evidenza, Meliodas baciò Elizabeth con violenza, bramosia, passione, sempre tenendola ben salda per le spalle. Era un bacio molto diverso dai precedenti, i quali erano molto più casti. Il Demone cercò di imprimere in questo gesto tutte le emozioni che si scontravano in lui: disperazione, amore, sconforto, disillusione, terrore, affetto, frustrazione, lussuria.
La sua mente si era completamente spenta, era sparito qualunque tipo di pensiero, bello o brutto che fosse; oramai sentiva solamente i propri neuroni impazziti esplodere ogni volta che la sua lingua si intrecciava con quella di Elizabeth. Si aggrappò a lei annullando la distanza tra i loro corpi come un riparo per naufrago in una tempesta, come acqua per un assetato nel deserto, e lei lo accolse volentieri, ricambiando con altrettanta cupidigia e desiderio.
Meliodas liberò le spalle di Elizabeth e portò le mani tra i suoi capelli lucenti, stringendo tra le mani più ciocche che poté assaporandone il piacevole tocco delicato e setoso al tatto, e il profumo dolce di lavanda. Sospinse Elizabeth a terra, le farfalle esplosero negli stomaci di entrambi facendoglieli contorcere, i loro timpani fischiarono senza freno, il cuore di ambedue fu presto sciolto dal calore dei loro corpi, che si elevarono in cielo assieme alla quintessenza delle loro anime, uniti per sempre sotto le stelle.

Meliodas sorrise, perché poté vantarsi di essere stato in paradiso senza nemmeno mai averci messo piede. Ne uscì sconfitto capendo che non poteva battere in alcun modo i suoi sentimenti per Elizabeth e i sentimenti di Elizabeth per lui. L’unica soluzione era accoglierli e lasciarsi avvolgere da essi, e solo allora sarebbe stato in pace come lo era esattamente in quel momento, con lei nuda distesa accanto al suo corpo che dormiva beatamente con le guance deliziosamente rosse. Sembrava una bambolina, la più bella ed incantevole di tutte, e gli venne voglia di farla ancora più sua di quanto già non fosse: avvolse un braccio attorno ai suoi seni e la attirò ancora di più a sé cingendola tra le braccia, prendendo a passare le mani tra i suoi capelli serici ed argentei, esaminando ciocca per ciocca.
Elizabeth mugugnò sorridendo per le coccole ricevute e Meliodas ricambiò il sorriso sentendosi a casa: Elizabeth era la sua casa.
Un fruscio fece scattare sull’attenti Meliodas, il quale aprì gli occhi di scatto, sgranati e feroci. Nascose dietro il suo corpo Elizabeth e si concentrò meglio nella direzione del rumore.
«Elizabeth» la chiamò con urgenza, ma con una nota di indulgenza che solo la ragazza riuscì a cogliere. «Vestiti veloce rimanendo nascosta, non siamo soli» disse solo, ed Elizabeth non fece nemmeno in tempo a sbattere le ciglia che già Meliodas era sparito.
Il Demone spiegò le ali in direzione del vento tentando di guadagnare più velocità possibile. Così facendo, nel giro di pochi secondi si trovò innanzi al Comandamento del Riposo, Aranak. Lo guardò sospettoso inarcando un sopracciglio: «Aranak» lo salutò facendogli un cenno del capo. «Come mai da queste parti?» continuò, cercando di apparire il più naturale possibile.
Aranak sorrise malignamente. «Principe Meliodas». Aranak si leccò le labbra ghignando, il sorriso che si arcuò da un orecchio all’altro. «Considerereste tradimento un vostro superiore in alta carica che si scopa la Principessa delle Dee?»
Meliodas ringhiò e gli si scagliò contro, reagendo d’istinto alla provocazione del demone. Lo afferrò per la collottola con le orecchie che gli fischiavano dalla rabbia, gli occhi iniettati di veleno, e non ci mise molto ad ucciderlo spezzandogli letteralmente il collo in due parti.
“È stato troppo facile” rifletté dubbioso Meliodas, dopo essersi ricomposto recuperando fiato con grandi boccate d’aria. “Forse sapeva di essere spacciato, d’altronde sono il Comandamento più forte di tutti e il Principe dei Demoni. Ma perché esporsi così?”. Non riusciva a spiegarselo.
Un lampo gli passò come un dardo per la mente, un pensiero che gli bloccò interamente il corpo, i polmoni, il cuore. “Se intendeva letteralmente… Non era solo. E ciò significava che l’altro era… Elizabeth!!”.
Cercò di volare ancora più veloce di prima, mentre la sua mente gli mostrava crudelmente come tanti flashback tutti i momenti felici trascorsi assieme alla sua amata. Dietro di essi, si insinuava come una serpe pronta ad attaccare col più letale dei veleni la terribile paura di perderla, che era tornata a tormentarlo come se avesse degli aghi incandescenti che continuavano a trafiggergli il cuore.
La stoccata finale arrivò quando alla fine della carrellata di ricordi, gli si parò davanti l’immagine del corpo esanime e bianchissimo di Elizabeth stesa a terra, gli occhi vitrei e spenti che guardavano in alto, un rivolo di sangue che scendeva dalla bocca e una ferita che la trapassava da parte a parte nel petto. Il suo fragile corpicino stava venendo trafitto da suo padre, che sorrideva maleficamente sfidandolo mentre sfilava lentamente le lame dalle carni di Elizabeth per poi leccarle del suo sangue.
Il corpo di Meliodas non rispose più e la chiamò a squarciagola, la voce incrinata, ogni lettera ricolma di terrore: «ELIZABETH!». Ogni fibra del suo fisico bruciava, dalla stanchezza, dall’agonia, dall’incubo, dall’orrore, e per ogni metro che percorreva, una fitta lancinante gli trapassava i muscoli implorandolo di fermarsi. Ma Meliodas non si fermò mai, fino a quando non si ritrovò davanti una Elizabeth boccheggiante e allo stremo delle forze che stava lottando contro Zeno, il Comandamento della Pazienza.
«Elizabeth, sono qui!» si annunciò e si affiancò a lei prendendola per mano. Bastò questo piccolo e fugace tocco a far ritornare le energie in Meliodas. Ora sarebbe morto volentieri per proteggerla, affrontando la morte serenamente. «Fuggi, non c’è bisogno che rimanga, posso farcela» mentì rassicurandola con voce soave mentre con il pollice le accarezzava dolcemente il dorso della mano.
Zeno li osservava divertito. «Ma come ti sei ridotto, Principe dei Demoni?» domandò scoppiando poi in una risata sguaiata, crudele. «Avanti, lascia che uccida quel cancro che ti ha deviato dalla retta via e facciamola finita» espose per poi sferrare un attacco diretto contro la Dea. Meliodas si interpose e prese il colpo per lei, finendo sbalzato di qualche metro.
Elizabeth fissava terrorizzata il Comandamento avanzare lentamente verso di lei, così come un predatore pregusta l’assaporarsi della cattura della preda. Sapeva che se gli avesse dato le spalle per correre da Meliodas e curarlo, non sarebbe nemmeno riuscita a fare un passo prima di venire trafitta. Poteva solamente resistere.
«Meliodas, stai bene?» lo chiamò a gran voce per assicurarsi che fosse cosciente. Elizabeth non fece in tempo a concludere la domanda che Meliodas fece un balzo e si ritrovò al suo fianco, per sferrare un pugno a sorpresa contro Zeno, che venne scaraventato lontano dai due.
I due erano visibilmente sorpresi della riserva di energie del ragazzo, ma poi capirono che il motivo era da ricondursi all’affetto infinito che Meliodas provava per Elizabeth: nel momento in cui essa sarebbe stata in pericolo, non gli sarebbe importato di quante volte potesse venire colpito, di quante ferite stessero sanguinando, di quanto fossero spezzate le sue ossa, sarebbe sempre stato lì per lei, pronto a proteggerla. Elizabeth gli prese le mani nelle proprie e presero a brillare, e recitò un incantesimo nel quale donava le proprie forze al ragazzo. «Lo so che non è molto, ma è tutto ciò che posso fare ora» si scusò afflitta, ma Meliodas le alzò il mento e le sorrise sincero, innamorato.
«Non preoccuparti» la tranquillizzò accarezzandole il volto per poi portarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Tornerò sicuramente da te, te lo prometto» e detto questo, si alzò nel cielo e volò nella direzione di Zeno, deciso a mettere la parola “fine” alla vicenda.

Meliodas volava basso con i vestiti a brandelli, il corpo nero e zuppo di sangue, le gambe spezzate, le orecchie che fischiavano e gli occhi stanchi, che minacciavano di chiudersi. Ma non poteva concedersi questo lusso, doveva resistere e rimanere sveglio fino a quando non l’avesse ritrovata. D’altronde, glielo aveva promesso. Vide in lontananza la sua chioma argentea scossa dal vento correre nella sua direzione. I suoi occhi erano colmi di preoccupazione ma anche di sollievo, e Meliodas sorrise nel vedere che ce l’aveva fatta, era riuscito a proteggerla.
Chiuse gli occhi per quello che gli parve un secondo, e quando li riaprì vide il viso angelico di Elizabeth chino sopra di lui. Vedeva solamente le sue dolci labbra che si aprivano e si chiudevano, ma non sentiva il suono che vi usciva da esse.
Probabilmente lo stavano chiamando. Sbatté per qualche volta le palpebre, poi tutto divenne buio e cadde preda di Morfeo.

Quando si svegliò, Meliodas si trovava sotto le coperte di un letto. Elizabeth era seduta accanto a lui e lo abbracciò stringendolo a sé singhiozzando non appena recuperò coscienza.
«Meliodas» lo chiamò supplichevole in mezzo ai singhiozzi. «Temevo di averti perso per sempre, temevo che…» non riuscì a concludere la frase poiché venne presa da un attacco di pianto.
«Shhh» la zittì dolcemente accarezzandole il capo, tentando di trasmetterle tutta la propria contentezza nel vederla. Si sorprendeva ogni volta di quanta dolcezza e affettuosità fosse in grado di donarle. Ma sicuramente il merito era solo suo, della sua Elizabeth, che riusciva a tirare fuori il meglio di lui. «Te l’ho detto che sarei tornato, no?» le chiese in tono scherzoso e affabile facendole l’occhiolino. Elizabeth rise tra le lacrime, e ciò bastò a tranquillizzarla.
Meliodas tornò improvvisamente serio, e la cercò con lo sguardo mentre le stringeva e accarezzava le mani. «Ora lo sanno» iniziò e un brivido gli percorse la schiena, temendo di continuare. «Le menti dei Comandamenti sono collegate, se decidono di condividere un pensiero, tutti lo sapranno» spiegò anticipando la domanda di Elizabeth, che lo guardava confusa. «Sanno che siamo amanti».
Calò il silenzio da entrambe le parti, non sapendo come reagire. Non avevano mai discusso della possibilità perché, per quanto reale fosse, discuterne spaventava troppo tutti e due dato che avrebbe significato porre fine ai loro incontri e alla loro relazione.
Poi Meliodas raccolse coraggio e con la voce più candida e calorosa glielo chiese: «Fuggiamo insieme?» 
 


KitKat says- author's corner
Here I am (What you did? Look at me, life in jail no aspè, citazione sbagliata). Questo è il capitolo più lungo che abbia scritto e il mio prima fiction lime pubblicata, quindi let’s celebrate yeee or not.
Questo capitolo originariamente non avrebbe dovuto esserci, ma è nato ascoltando Demons e rivedendo Nanatsu, in cui mi sono accorta solamente ora che nella seconda stagione parlavano di Meliodas che aveva ucciso due Comandamenti che sarebbero poi stati sostituiti da Drole e Gloxinia, particolare che avevo completamente rimosso. Quindi ho unito le due cose e…
Ho volutamente saltato le scene di combattimento in quanto a) non avevo voglia di scriverle; b) sono una pippa nel farlo perché non ho fantasia.
Dopo questo capitolo ce ne sarà ancora uno, e così questa sarà anche la fiction più lunga che abbia mai scritto. Perciò complimenti a me per la costanza che pensavo di non avere lol. Però la storia fa schifo uguale (:
Btw vi saluto, dato che tra pochi giorni la mia migliore amica fa gli anni e avrei voluto scriverle qualcosa. E ovviamente, non ho ancora abbozzato niente. Vi ho mai parlato della mia capacità di rispettare gli impegni?

Baci stellari,
Kat

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