La rivalsa di Ofiuco

di DarkDemon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Prologo Pt.2 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 1.1 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 1.2 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 1.3 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 2.1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




    Il sole di fine settembre iniziava a perdere il suo calore, i suoi raggi carezzando con gentilezza le foglie rosse invitando gli alberi a liberarsene completamente per prepararsi al gelo invernale. Quel pomeriggio il vento soffiava più del solito, portando con se un aria gelida ma ancora piacevole che riempiva i polmoni e spettinava i capelli. Le nuvole erano giganteschi cumuli di cotone che correvano veloci nel cielo terso dell’autunno appena iniziato.
  Boniface quel giorno era quasi felice di avere il turno di guardia alle porte del Campo Giove, quasi. Il clima era tale che una felpa sopra la maglia e la sottile armatura era sufficiente per non farlo gelare troppo. Le macchine scorrevano languide e silenziose nonostante la velocità, nella vicina autostrada, noncuranti dei due ragazzi di guardia ad un tunnel invisibile ai mortali. Sapeva di un tempo in cui le macchine non erano elettriche e dove i loro motori erano chiassosi: non riusciva ad immaginare come fosse stato fare di guardia al passaggio allora, immerso nel chiasso e nello smog. Ringraziava gli dei di essere nato in un epoca in cui l’uomo aveva rimediato, o almeno ci stava provando, ai suoi errori, e sopratutto dove l’Olimpo non minacciava di cadere da un secondo all’altro.
  Erano passati sessantotto anni da quando Apollo era stato tramutato in umano da Giove ed aveva dovuto sconfiggere quei folli del triumvirato, da allora sembrava che la pace si fosse più o meno stabilita… o almeno questo era quello che pensavano quasi tutti. Chiunque aveva un briciolo di dono della profezia aveva iniziato ad avvertire da ormai qualche mese che questo sottile equilibrio aveva iniziato ad incrinarsi e Bonny per primo era pronto ad aspettarsi il peggio.
  Il figlio di Giano stava in piedi dritto, appoggiato all’asta della sua lancia mentre si osservava attorno con sguardo preoccupato.
  «Non succede mai nulla eh?» Ridacchiò al suo fianco Helen, una ragazzina figlia di Opi, divinità agraria, giunta al campo solo qualche mese prima; scappata dall’orfanotrofio ormai viveva come lui a Nuova Roma per tutto l’anno.
  Si strinse nelle spalle e le lanciò uno sguardo veloce: «Suppongo di si...» Non era un veggente e men che meno l’augure, che gli dei lo scampassero, ma faceva spesso sogni la cui realizzazione era anche troppo precisa. In quanto figlio di Giano non aveva grossi poteri che lo aiutassero in battaglia, ma poteva vedere un po’ del futuro ma anche del passato, tuttavia i suoi sogni erano così strambi che faticava a distinguere il vero dal falso; ancora aspettava il giorno in cui dal cielo fossero caduti piccoli coniglietti bianchi al posto dei fiocchi di neve la vigilia di Natale, erano già passati tre anni.
  «Sai, girano voci, alcuni figli di Apollo dicono di aver avuto delle visioni e l’augure sembra piuttosto irrequieto.» Helen aveva abbassato lo sguardo a terra mentre giocava nervosamente con uno dei suoi boccoli dorati. Boniface non aveva mai parlato con lei nonostante facessero entrambi parte della seconda coorte e la ragazza sembrava piuttosto timida e a disagio. «Tu… voglio dire, anche tu ne sai qualcosa no? Sto ancora imparando tutti questi dei, ma tu sei figlio di Giano, no? Qualcosina riesci a vederla.»
  «Si, è così, ma il mio non è un vero e proprio dono della profezia, è più un ‘whops’. Come quando fai qualche tiro a basket e per puro caso fai canestro, non sai farlo davvero, è il caso.» Per sua sorpresa Helen ridacchiò «Mi stai dicendo che i tuoi sogni captano le frequenze radio sbagliate?» Non l’aveva mai pensata da quel punto di vista, ma era un bel modo di vedere la cosa.
  «Si, effettivamente si, sono una radio rotta… o super dotata, dipende dai punti di vista.» Sorrise e tornò ad osservare l’orizzonte. «Però non posso aiutarti, non ricordo più neanche un sogno. So che li faccio, di importanti dico, mi sveglio che ricordo qualche frammento, ma dopo pochi minuti tutto diventa polveroso e alla fine il ricordo scompare prima che io possa scriverlo da qualche parte.» Aggiunse dopo un attimo di silenzio con sguardo serio. Alla sua destra poteva intravedere il viso roseo di Helen che lo osservava, probabilmente preoccupata.
  «Pensi che stia per succedere qualcosa?»
  «Statisticamente è certo, nulla è eterno.» Si voltò a guardarla nuovamente, trovandosi davanti un espressione ben più preoccupata di quanto pensasse. Si affrettò ad aggiungere: «Oh ma non è detto! Potrebbero volerci mesi se non anni! La venuta di Percy Jackson era stata...» Non poté finire la frase poiché nella corsia alla sua sinistra si levò un violento strombazzare di auto diversi veicoli inchiodarono, perforando l’udito dei due poveri semidei.
  Boniface strinse la lancia mentre guardava una figura correre tra le corsie dell’autostrada, scavalcare a fatica il guard raill e venirgli incontro. Sembrava un insieme di panni sporchi che andava sciogliendosi man mano che si avvicinava, afflosciandosi sempre di più sul terreno.
  Il traffico attorno a loro iniziava a riprendere a scorrere veloce mentre l’uomo zoppicava verso di loro. Era anziano, la pelle incartapecorita dal sole pendeva molle sulle ossa sporgenti, la barba bianca sottile, così come i capelli radi.
  «Che cosa...» Provò a dire Helen, il cui gladio tremava nelle mani piccole.
  «Ci vede. Non è mortale.» In qualche modo Bonny lo sapeva, forse per quella sensazione alla gola, come quando incontri qualcuno per la prima volta ma di cui hai già sentito parlare fin troppo e non sai come comportarti, o più probabilmente per gli occhi. Nonostante tutto in quell’uomo fosse decrepito ed avvizzito, gli occhi brillavano come due gemme già da lontano, animati da una forza decisamente immortale. Quando gli arrivò di fronte poterono incrociare lo sguardo solo un secondo prima che l’uomo crollasse a terra.

 



    L’infermeria era silenziosa eccetto per il respiro pesante del vecchio sdraiato sul lettino e l’ovattato ticchettio dell’orologio. La brillante luce del sole pomeridiano entrava nella stanza filtrata da sottili tende di lino grezzo, illuminando l’ambiente di una polverose luce calda, in cui le volute di fumo emesse dalla sigaretta del Pretore Morin aleggiavano come spettri.
  Dopo che il vecchio gli era letteralmente svenuto sui piedi Boniface aveva mandato Helen a chiamare aiuto. Quando era tornata assieme ad un robusto figlio di Vulcano i due avevano portato l’uomo in infermeria e lasciato Helen a fare la guardia, mandandole in affiancamento poi il primo semidio incontrato per strada. Ora si trovava solo nell’infermeria assieme al pretore, che osservava con aria contrita prima lui poi il vecchio steso sul lettino.
  «Quindi ricapitoliamo, un vecchio ha attraversato un autostrada come un cerbiatto smarrito, vi ha zoppicato incontro e vi è svenuto ai piedi e voi lo avete portato qui?» Messa giù così non sembrava più una grande idea.
  «Esatto, ma se ci ha visti ed ora possiamo dire che è riuscito ad entrare qui, superando pure il Piccolo Tevere...» Si strinse nelle spalle. «Ho pensato fosse la cosa più giusta da fare»
Cesaria sospirò e prese un lungo tiro dalla sigaretta per poi massaggiarsi il setto nasale con due dita, Bonny cercò di non farle notare che si era stampata due aloni rosa a causa delle dita ancora sporche di vernice fresca. «Speravo che un momento del genere non capitasse mai, almeno non mentre ci sono in carica io. Dopotutto un popolo si capisce dal suo sovrano: se ho tempo di dipingere nel mezzo del pomeriggio vuol dire che davvero non ho un cazzo da fare.» Ridacchiò la figlia di Venere alzandosi dalla sedia su cui sedeva in modo scomposto e avvicinandosi al lettino.
  «Mi hai detto che tu non ti ricordi i tuoi sogni vero? Almeno non quelli utili.» Aggiunse mentre prendeva un’altra lunga boccata pensierosa.
  «Si, più o meno da quando gli altri hanno iniziato ad avere previsioni strane io non ricordo più le mie, non può essere un caso.»
 «Grazie al cazzo, certo che non è un caso, genio. Vammi a recuperare l’augure, o qualsiasi persona si ricordi queste dannatissime visioni.» Sbottò tornando a sedersi sulla sedia e poggiando i piedi sul letto.
  Boniface uscì con un veloce cenno del capo, ormai si era abituato al temperamento della figlia di Venere che, ad oggi, rimaneva tra i semidei più singolari che avesse mai conosciuto. Una ragazza scostante e che pareva tutto meno che figlia della dea dell’amore. Volgare e piena di vizi si era candidata al ruolo di pretore per gioco, ma la sua grinta e determinazione le avevano assicurato il ruolo per ormai diversi anni, ruolo che in realtà ricopriva sorprendentemente bene. Nonostante i suoi vizzi e abitudini discutibili era una persona pratica, organizzata e realista che, in un modo o nell’altro, era riuscita a garantire al Campo ciò di cui aveva bisogno. Certo non senza l’aiuto dell’altro Pretore che ricopriva le sue assenze nei week-end, che passava a dormire per recuperare le ore di sonno perse durante il resto della settimana.

 



    Quentin era seduto a gambe incrociate in mezzo al tempio di Apollo, gli occhi chiusi ed un sorriso pacifico dipinto sul volto. Era un ragazzo magro e dai tratti delicati ma il carattere frizzante, che ben sapeva come utilizzare i propri privilegi per evitare allenamenti e “intercedere con gli dei”, ovvero meditare o, nella maggioranza dei casi, mangiare.
  «Non ti dovresti star allenando?!» Boniface entrò a fiato corto, i passi che rimbombavano tra le colonne bianche. L’augure aprì un occhio verde e gli lanciò uno sguardo divertito per poi richiuderlo e alzare il mento. «Boniface Dixon, ti stavo aspettando...» Disse strascicando le parole e portando il figlio di Giano a roteare gli occhi. «Smettila di dire puttanate, lo sappiamo entrambe che non funziona così, prova i tuoi trucchetti da guru su qualcun altro, Quin, alzati.» Disse, dandogli un paio di calci, le mani nelle tasche della felpa grigia. «Ti vuole Cesaria, abbiamo trovato, ho trovato, un vecchio strano alle porte del campo.» Quentin aprì finalmente gli occhi e si alzò spazzolandosi jeans chiari: «Oh bhe, quindi è iniziata.» Trillò allegro, anche se i suoi occhi chiari non brillavano della stessa luce del suo sorriso.
  «Cos’è iniziato?» Domandò Bonny con diffidenza, non sapendo se l’augure si stesse ancora prendendo gioco di lui o se fosse, per una volta, serio.
  Il ragazzo si voltò verso di lui con sguardo preoccupato. «Amico mio, prega che non sia chi penso, altrimenti… bhe, siamo in una montagna di merda.»

 



    Quando arrivarono di nuovo in infermeria Cesaria aveva finito la sua sigaretta che ora giaceva fredda e spenta sul comodino, aveva le braccia incrociate ed un espressione seria dipinta sul bel volto, se non fosse che si conoscevano ormai da anni Boniface avrebbe scommesso che si trattava di una ragazzina di forse diciassette anni, imbronciata perché i suoi genitori l’avevano messa in punizione, e non di una donna adulta e, a modo suo, responsabile. Lui e Quentin dovettero schiarirsi la voce un paio di volte per catturare la sua attenzione, rivolta completamente al vecchio addormentato.
  «Chi è?» Chiese, senza nemmeno alzare lo sguardo dal soggetto della sua domanda. Quentin entrò lentamente nella stanza, prendendo una sedia e portandola affianco al letto in modo da essere opposto al pretore. «Non ho risposte certe, ma penso che venga dall’alto… almeno credo.»
  «Dall’alto, che cazzo vuol dire dall’alto?» Sbottò la figlia di Venere, non particolarmente in vena quel giorno per i soliti giochi di parole dell’augure.
  «Rilassati dolcezza, cercavo di alleggerire la tensione.» Ridacchiò sedendosi sulla sedia.
  «Oppure facevi solo il minchione come tuo solito, dolcezza.» Sorrise Cesaria assottigliando lo sguardo e sporgendosi verso di lui.
  «Dall’alto vuol dire cielo, sicuramente non è caduto da un aereo, non credi?» Ridacchiò, punzecchiando con in dito il naso del pretore che gli scoccò uno sguardo irritato ma che nascondeva un mezzo sorriso divertito.
  «Non è Caelus, vero?» Domandò Bonny dalla soglia, da cui non si era mosso. I due semidei si voltarono a guardarlo sorpresi, non aspettandosi di trovarlo ancora li.
  «Dei spero di no, spera di no, o hai portato un folle al campo.» Sorrise angelica la figlia di Venere. «In ogni caso, a quanto ne so io, lui ora dovrebbe avere la forma di una deliziosa tartar quindi non credo.» Aggiunse, cercando però conferma nello sguardo di Quantin che annuì piano in risposta.
  «Dubito anche io, nulla nelle mie previsioni mi ha fatto pensare a lui, solo un oracolo davvero stronzo avrebbe cercato un modo per parlare di Caelus in maniera così vago.»
  «Sbaglio o noi abbiamo solo una divinità celeste? Eccetto Giove ovviamente… ma non penso sia lui, no?» Chiese Boniface, appoggiandosi allo stipite della porta ed osservando il vecchio con un misto tra curiosità e preoccupazione. Si sentiva stupido a chiedere tutte quelle domande, sapeva di averlo sognato, lui o qualcosa che lo riguardava, doveva sapere almeno qualcosa, ma non ricordava nulla.
  «E’ probabile si tratti di un dio greco, loro hanno… un catalogo molto più ampio.» Rispose piano Quentin.
  «Quindi è un dio.» Disse Cesaria, confermando quello che fino a quel momento era stato solo un alito di pensiero comune alle loro menti, che disperatamente cercavano di ignorarlo. Un dio non faceva mai visita a caso e sopratutto, non sveniva per mezz’ora.
  «Allora perché non è a Long Island?» Ancora una volta Bonny portò lo sguardo dei due ragazzi su di se, tuttavia nessuno di loro poté pensare ad una spiegazione. In silenzio si voltarono tutti a guardare il vecchio, la mente piena di domande.
  «Beh se quindi è una divinità, io gli do altro nettare. La dose semidivina che gli han dato i figli di Apollo prima probabilmente non l’ha nemmeno sentita.» Esclamò Cesaria alzandosi dopo un paio di minuti in cui nessuno aveva mosso un dito. Prese la bottiglia di nettare dal comodino e con delicatezza versò ben più di qualche goccia nella bocca socchiusa del vecchio. Per qualche secondo non successe nulla, poi l’uomo iniziò a muoversi.
  Strizzò gli occhi e fece una smorfia per poi finalmente svegliarsi. Si guardò attorno smarrito per un attimo, per poi sorridere riconoscente. Il pretore e l’augure erano però persi ad osservare le sue iridi, anche Boniface si avvicinò per poter vedere bene ciò che aveva solo intravisto.
  Il vecchio aveva gli occhi più blu che i ragazzi avessero mai visto, una colorazione così scura ed intensa che nessun essere mortale poteva vantare, ma non era finita li: le iridi erano screziate di centinaia e centinaia di piccolissime pagliuzze argentate che brillavano riflettendo la luce.
  «Ora capisci perché l’ho portato qui?» Disse piano, rivolto a Cesaria che annuì lentamente in risposta.
  «Ti ringrazio, ragazzo.» Disse il vecchio, guardando Boniface, che stava ai piedi del letto. Il ragazzo raddrizzò la schiena quando lo guardò negli occhi.
  «Semidei, siete ragazzi valorosi, mi dispiace essere io il portatore di cattive notizie, ma ho bisogno del vostro aiuto, tutti noi ne abbiamo.» L’uomo parlava a fatica mentre faceva vagare lo sguardo sui loro volti.
  «Siamo onorati della sua presenza, possiamo chiederle il suo nome?» Chiese educatamente Cesaria mentre tornava a sedersi sulla sua sedia, questa volta in modo più composto, pur restando nei suoi limiti.
  «Ah, figlia di Venere, la tua domanda è in realtà legittima.» Sorrise e tornò a chiudere gli occhi. «Io sono Astreo.»
  «Titano degli astri, delle costellazioni e dell’oroscopo.» Terminò per lui Quentin, che aveva un espressione di curiosità misto ad ammirazione, come ogni volta che si parlava di qualcosa o qualcuno che potesse, in un modo o nell’altro, prevedere il futuro.
  «Corretto, augure.» Aprì nuovamente gli occhi e li fissò in quelli verdi di Quentin, l’espressione grave. «L’equilibrio si sta rompendo, dopo anni ciò che temevo si sta avverando. Tu sai ragazzo… lo sapete entrambe.» Terminò la frase guardando Boniface il quale era fermo sul posto, lo sguardo smarrito. Lui sapeva? Sapeva che cosa, non ricordava nulla e perché solo lui non ricordava nulla? Non aveva senso. Si sentiva le mani sudate ed il battito accelerato, gli sembrava di aver appena corso una maratona. La testa gli scoppiava mentre cercava di recuperare memorie sepolte da tempo, ricordi ormai irraggiungibili.
  «Bonny… Bonny...» La voce preoccupata di Quentin gli arrivò ovattata, si riscosse come da un sogno e sbatté le palpebre più volte, l’occhio sinistro che bruciava inspiegabilmente. Si accorse solo quando portò le dita ad esso che stava lacrimando copiosamente. Astreo lo guardava con un sorriso mesto.
  «Cos’è?» Gli chiese in un filo di voce.
  «Il futuro, ragazzo mio.»

 

 

Angolo Autore

    Ma buon salvissimissimo!
 Prima di tutto vi ringrazio per aver aperto la storia e nel caso averla letta fino a qui, spero vi sia piaciuta. Penso onestamente che la qualità di questo prologo peggiori di riga in riga, ma sono curiosa di sapere cosa ne pensate voi. Ammetto però di esserne in qualche modo fiera: non scrivevo davvero da un sacco e devo dire di aver notato dei miglioramenti dall'ultima volta. Ho sempre avuto il vizio di narrare poco e portare avanti la storia a discorsi, cosa che ho sempre odiato parecchio, su di me ma anche come lettore, e migliorare quest'aspetto è sempre stato un mio pallino. Penso onestamente di esserci riuscita anche se sono un po' ricaduta nel vecchio vizio verso la fine, ma sto cercando di non badilarmi troppo.
 Dunque, passando ai fatti: cosa ci faccio qui? Bhe gentaglia, questa è una storia interattiva! Yay! Avevo voglia di scriverne davvero da un fottio, poi ieri ho avuto sto flash mistico e ho colto la palla al balzo. Si è vero, attualmente ho altre due interattive in "corso" (sempre se un capitolo all'anno vuol dire in corso) ma c'è una differenza chiave tra quelle interattive e questa: l'organizzazione. Wow, pazzessco, sono stupita di me stessa, ma ho già messo giù i punti salienti di questa storia, che potrà andare da un minimo di 14 capitoli ad un più probabile massimo di almeno 28. 
 Probabilmente da questo prologhetto avete capito veramente poco, quindi lasciatemi spiegare molto brevemente: Ofiuco rompe i maroni e vuole diventare un segno zodiacale, spuattanando l'equilibrio cieleste e di tutto quello che ne consegue. I nostri 12 amatissimi segni sceglieranno quindi dei semidei che verranno "benedetti" da loro per combattere, liberarli e ancora una volta salvare il culo a tutti quanti.
  Per mandare le schede avete due settimane di tempo, domenica pubblicherò la seconda parte di questo prologo (oh si, c'è una seconda parte 
(¬‿¬)).
  Per terminare ringrazio i miei tre demoni tentatori angeli che mi han convinto a fare sta cacata.
  Ma passiamo a delle semplici e veloci regole:

 

REGOLE
        ⩥ Avete tempo per consegnare le schede fino il 19/04 (ci si può accordare su eventuali proroghe)
      ⩥ Spero di non dover arrivare al punto di dire "se non recensite/vi fate sentire ogni tot siete fuori" tanto gli oc moriranno in un modo o nell'altro comunque. Il punto è, io certo scrivo per me, ma se mi affidate dei vostri personaggi mi sembra davvero il minimo da parte vostra non sparire.
     ⩥ Per favore, mandatemi OCs origiali e scritti bene. Non voglio vedere due righe di fisico e tre aggettivi per la personalità, non me ne frega, siete fuori. Se non dovessi ricevere abbastanza schede decenti tapperò i buchi con i miei OCs, ci metto pochissimo. Oppure potrei prendere più OCs da una persona: cercherò di essere varia ma anche giusta, nei confronti degli altri e miei, non ho intenzione di bloccarmi per colpa di OC tridimensionali quanto un triangolo.
      ⩥ Mi servono 11 OCs. Cercate di essere omogenei sia con il sesso che con i genitori divini. Possono essere sia greci che romani.
      ⩥ Così come vi scarto se mi fate OCs piatti, lo faccio anche se non trattate tematiche serie in modo inadeguato.
      ⩥ Potete mandarmi quanti oc volete.
      ⩥ L'età preferirei che andasse dai 17 ai 25
      ⩥ C'è posto libero per un pretore e per tutti i centurioni, idem per i vari ruli nel campo mezzosangue.
    ⩥ Potete richiedere a che segno assegnare il vostro semidio ma non è certo che venga assegnato a quello, la cosa importante è il carattere combaci con le caratteristiche del segno. Non in modo spiaccicato, non fate OCs con caratteri copiaincollati dalla pagina di "Donna moderna: le caratteristiche degli scorpioni". Grazie. Inoltre non penso ci facciate una grande figura. Non è detto che un OC sia assegnato al segno zodiacale sotto cui è nato.


⫸ PER PARTECIPARE
      ⩥ Per partecipare basta una recensione a questo capitolo, non la futura parte due, in cui dite età, sesso, discendenza e di che segno vorreste sia. Argomentate un po' le vostre recensioni, non dico di idolatrarmi ma non usatele solo per iscrivervi (ho memoria di anni fa in cui mi han rimosso la storia perchè "sfruttavo le iscrizioni per avere più recensioni", vorrei evitare.)
      ⩥ Le schede van mandate esclusivamente per messaggio privato con oggetto "Nome e Cognome - La rivalsa di Ofiuco"
      ⩥ Mandatemi una sola scheda per messaggio, grazie.




⫸ SCHEDA
      ⩥ NOME E COGNOME:
      ⩥ SOPRANNOME:
      ⩥ ETÀ E COMPLEANNO:
      ⩥ IDENTITÀ DI GENERE:
      ⩥ GENITORE DIVINO E RAPPORTO CON ESSO:
      ⩥ FAMIGLIA MORTALE E RAPPORTO CON ESSA:
      ⩥ SEGNO ASSEGNATO & QUATTRO AGGETTIVI PER DESCRIVERE L'OC:
      ⩥ GRECO O ROMANO:
      ⩥ EVENTUALE RUOLO E/O POSIZIONE E COORTE.
      ⩥ FISICO:
      ⩥ PRESTAVOLTO (facoltativo): 
      ⩥ ABBIGLIAMENTO E STILE:
      ⩥ CARATTERE:
      ⩥ STORIA PERSONALE:
      ⩥ PAURE E DEBOLEZZE:
      ⩥ ABILITÀ:
      ⩥ POTERI:
      ⩥ ARMI:
      ⩥ HOBBY E PASSIONI:
      ⩥ AMICIZIE:
      ⩥ INAMICIZIE:
      ⩥ AMA:
      ⩥ ODIA:
      ⩥ ORIENTAMENTO SESSUALE & DISPONIBILE PER UNA RELAZIONE?:
      ⩥ PARTNER IDEALE:
      ⩥ ALTRO:

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Capitolo 2
*** Prologo Pt.2 ***


 
    Quentin era augure ormai da dieci anni: giunto al campo quando ne aveva ancora cinque, dopo che Lupa lo aveva salvato dai ruderi della sua macchina in fiamme, dove la sua famiglia era morta, era adesso tra i ragazzi che frequentava il campo da più tempo. Tuttavia, nonostante le linee sul suo braccio aumentassero anno dopo anno, sopra la scritta S.P.Q.R. la pelle era ancora pulita: non riconosciuto. Sapeva di avere il dono della profezia, cosa che stringeva significativamente le possibilità, eppure nessun dio si era ancora preso il disturbo di riconoscerlo.
  Dopo che l’occhio di Boniface aveva iniziato a lacrimare Astreo era svenuto di nuovo e i tre ragazzi se ne erano andati lasciandolo alle cure dei figli di Esculapio e di Apollo. Cesaria aveva mandato subito a chiamare tutti, riunendo un assemblea in Senato per spiegare la situazione: era durata un ora e mezza ed ormai il cielo era scuro e pieno di stelle.
  Lo avevano riempito di domande a cui non era riuscito a dare risposte: vedeva da mesi le stesse cose ma non sapeva cosa fossero o cosa significassero ed onestamente non sapeva più cosa fare. Aveva sognato un vecchio con iridi fatte di cielo, aveva visto ed udito un uomo con un serpente ridere in modo maligno e poi solo tante, troppe immagini di un mondo ormai distrutto.
  Quando arrivò al padiglione della mensa, dopo che era finalmente riuscito ad andare in bagno, gli altri si apprestavano già a terminare il pasto. Sedette in un angolo della tavolata della quinta coorte e si servì lentamente la propria porzione, la mente affollata di pensieri.
  «Ehi Quin, tu ne sai qualcosa?» Chiese trillando una voce alla sua destra. Lanciò uno sguardo veloce alla ragazza di fianco a lui, una giovane dal viso affascinante e che decisamente non conosceva.
  «Non più di quanto il rapporto non vi abbia detto» Disse tra un boccone e l’altro. Conosceva il modus operandi fin troppo bene ormai: dopo le sedute i pretori aggiornavano il Campo prima dei pasti e in seguito sarebbe arrivato un foglio con stampato il rapporto della seduta, di modo che tutti potessero aver accesso alle informazioni reali senza storpiarle con inutili passaparola. 
  «Quantin, comunque.» Aggiunse scocciato, terminando il piatto e servendosene velocemente una seconda porzione.
  «Non ti facevo così irritabile… ma quanto mangi?» Chiese la ragazza, scrutandolo con un paio di profondi occhi neri e poggiando la testa sul pugno chiuso. Mentre si risedeva l’augure notò il simbolo sul suo braccio: Cupido. Roteò gli occhi irritato.
  «Prevedere il futuro fa bruciare davvero tante calorie, dolcezza.» Disse, mettendosi in bocca una forchettata forse un po’ eccessiva di mac n’chees, sperando che vedendolo occupato la brunetta rinunciasse. Era a conoscenza da ormai qualche anno che tra alcuni semidei riuscire a sedurlo era diventata una sorta di scommessa. Non sapeva bene da cosa fosse nato tutto o che cosa ci fosse in palio, ma la cosa stava diventando decisamente troppo molesta. A quanto gli aveva spiegato velocemente Cesaria una volta, centrava il suo non essere riconosciuto e il fatto che in tredici anni di permanenza al campo nessuno fosse mai riuscito ad intessere una relazione con lui. Non aveva compreso bene la prima parte, ma la seconda era qualcosa di cui non andava fiero nemmeno lui. Non era mai successo, tutto li.
  «Ma non mi dire, e dici che è una cosa che si può insegnare?» Continuò imperterrita la ragazza, scivolando sulla panca per avvicinarglisi ancora.
«Cazzo tesoro certo che ti può insegnare, così come un figlio di Giove ti può insegnare a volare!» Si intromise una vocina acuta. Una gamba coperta da una delicata calza bianca si intromise tra i due e un secondo dopo Angelika era seduta tra i due semidei, lo sguardo angelico sul viso fanciullesco rivolto alla figlia di Cupido che con uno sbuffo si voltò dall’altra parte.
  «Gli piaci proprio tanto, eh?» Trillò la ragazza, dondolando le gambe sotto il tavolo, un sorriso allegro e la pelle che brillava di una delicata luce bianca.
  «Che cosa ho fatto di male non lo so.» Sospirò esasperato Quentin, mettendosi in bocca l’ultima forchettata di pasta per poi allontanare il piatto, ormai decisamente sazio, o almeno per ora.
  «Sai, penso che chi non ti corteggi ti odi, hai i semidei più belli del campo a farti la corte, almeno uno paio potresti sfruttarli per farti una scopatina ogni tanto.» Ridacchiò facendolo sorridere. Nonostante si conoscessero da anni non poteva non sorridere al controsenso ambulante che era quella ragazza: alta un metro ed un barattolo, l’aspetto di una quattordicenne, seppur fosse più grande di lui, l’abbigliamento da bambola e la finezza di uno scaricatore di porto. Lui, Angelika e Cesaria erano tra i semidei che da più tempo vivevano al campo e per questo erano diventati un trio affiatato.
  «Però è roba grossa eh… Era da tempo che non succedeva roba simile, chissà che tu dica una grande profezia.» La sola idea fece gelare il sangue nelle vene al ragazzo. Era un opzione a cui non aveva nemmeno pensato e che avrebbe preferito continuare ad ignorare, però era inevitabile, in una situazione del genere.
  «Confido in Astreo, che si svegli presto e ci dica cosa sta succedendo. Spero sia venuto fino a qui per una ragione, non per finirci il nettare.» Brontolò il ragazzo, guardando con sguardo contrito la torta, meditando se prenderne una fetta o lasciar perdere, lo stomaco di colpo aperto all’idea di un po’ di crostata.
  «Come cosa ha effettivamente senso sai.» Angelika si leccò un dito e raccolse un po’ delle briciole della torta tagliata rimaste sul vassoio. «Non sei l’unico ad essere preoccupato.» Aggiunse piano mangiando le briciole mentre stringeva le ginocchia al petto. Con la frangetta castana e lo sguardo malinconico la figlia di Luna sembrava ancora più piccola di quanto già non paresse.
  «Cesaria?» Chiese il ragazzo, tagliandosi finalmente una fetta di torta. Certe volte si stupiva di quanto il suo stomaco si svuotasse velocemente, che la divinazione non bruciasse davvero calorie?
La ragazza annuì piano. «Vuole che io vada da lei sta notte.»
  «Non una novità.» Scrollò le spalle Quentin, ma vedendo lo sguardo truce dell’amica si affrettò ad aggiungere: «Ma immagino che questa volta ci sia qualcosa di diverso.»
  Di nuovo Angelika annuì. «Non l’ha chiesto come suo solito...» Sembrava stesse per aggiungere qualcosa ma fu interrotta da un urlo proveniente dal fondo della stanza.
  «QUENTIN CAZZO BLAIS ALZA IL CULO E VIENI!» In piedi su una panca Cesaria lo fissava con sguardo truce, da come lo guardava era certo che prima di quella volta lo avesse già chiamato almeno due. Dopo il momentaneo silenzio l’intera mensa era di nuovo caduta nel chiasso più assoluto, abituata ormai alle scenette del pretore. La figlia di Venere nel frattempo era tornata con i piedi per terra e parlava animatamente con una figlia di Esculapio le cui guance arrossate indicavano che doveva aver corso fin li dall’infermeria.
  «Parli del diavolo… vai, e trattamela bene, che sono io a dovermela sorbire sta notte.» Ridacchiò Angelika, guardandolo allontanarsi. »»


 


    Quando arrivarono in infermeria Astreo era seduto dritto sul letto, appoggiato ad una sfilza di cuscini rubati ai letti vicini. Nonostante il volto fosse ancora stanco, sembrava stare decisamente meglio mentre chiacchierava con una piccola figlia di Apollo, evidentemente a disagio mentre il titano cercava di intavolare una discussione come fosse una persona del tutto normale e non una divinità secolare.
  «Divino Astreo, la trovo meglio.» Asserì Cesaria entrando con decisione in infermeria e congedando con un gesto i pochi figli d’Apollo presenti, invitandoli ad andare a mangiare.
  «Pretore Morin, siete stata veloce.» Sorrise il vecchio voltandosi verso di lei e incrociando le nodose dita in grembo. Fece poi vagare lo sguardo da lei a Quentin, che si teneva qualche passo indietro.
  «Sbaglio o i pretori sono due?» Chiese ironicamente, guardandosi attorno come se si aspettasse di veder saltar fuori il figlio di Aurora da sotto un letto.
  «Non si sbaglia, ma per quanto la sua presenza ci onori abbiamo anche cinque Coorti di adolescenti riuniti in una stanza con del cibo. Avrà modo di incontrare il suo bel faccino domani, non si preoccupi.» Rispose spiccia, irritata da quella domanda, a suo avviso, inutile: erano loro quelli che dovevano fare le domande. Si sedette, scomposta come al solito, sulla stessa sedia di qualche ora prima, che era stata solo leggermente spostata per permettere ai figli di Apollo ed Esculapio di lavorare meglio.
  «Scelta saggia. Quindi tu devi essere quella più diplomatica.» Annuì il titano, parlando quasi più a se stesso.
  «Se questo implica che Nowak è quello che parla alle masse avrei qualcosa da ridire.» Borbottò Quentin divertito dall’altra parte della stanza dove era andato a recuperarsi una sedi a sua volta, rivolgendo uno sguardo angelico a Cesaria che lo guardava truce.
   «Diciamo che ce la caviamo entrambi, ma almeno adesso possiamo passare al sodo senza bisogno di ulteriori presentazioni.» Concluse la figlia di Venere, sporgendosi in avanti sulla sedia. 
  «Quindi, possiamo avere l’onore di sapere che cazzo succede?» Chiese, un sorriso smagliante sul volto, che tuttavia non brillava della stessa allegria. Era onestamente stufa marcia di aspettare che quel vecchio –perché anche se era un dio era vecchio– gli desse risposte: ci aveva già girato abbastanza attorno. Per quanto si fosse dimostrato un buon pretore in quegli anni, la pazienza continuava a non essere la sua più grande virtù.
  «Immagino che io vi debba delle spiegazioni.» Sospirò il titano abbassando lo sguardo sulle proprie mani. Quentin, che era riuscito finalmente a sedersi annuì vigorosamente. «Non so se ci dirà una profezia o ci spiegherà le cose per quello che sono, ma prima ci aggiorna sui fatti prima possiamo aiutarla.» Disse gentilmente l’augure, guardandolo con uno sguardo quasi di supplica, anche lui decisamente stufo di quelle che erano state in realtà poche ore d’attesa.
  «Immagino che tutti voi conosciate lo zodiaco.» Iniziò, quando i due semidei annuirono in risposta riprese piano. «Ogni segno zodiacale è generato da un mito, così come ogni altra costellazione: persone, animali o cose la cui essenza è stata tramutata in stelle. Essa non è però la persona stessa ma un suo riflesso. Nel caso degli essere viventi è come se un fragmento della loro anima fosse stato strappato e avesse dato vita ad un riflesso. Questi riflessi sono le costellazioni e rientrano sotto il mio regno.» I ragazzi non sembravano molto convinti ma dopo un attimo annuirono lentamente, facendo segno di aver, più o meno, capito ed invitandolo a continuare.
  «Di questi, i dodici segni dello zodiaco sono i più potenti, che influiscono maggiormente sulla vita di voi mortali, sono… un elite del cielo, se così vogliamo definirli: dei duchi? Cavalieri...»
  «Saint Seiya!» Esclamò Quentin, lo sguardo illuminato come quello di un bambino, per poi stringersi nelle spalle leggermente imbarazzato. «Mi scusi, non intendevo interromperla.»
  «Blais, smettila con le tue cagate del secolo scorso.» Sbottò Cesaria per poi rivolgersi nuovamente ad Astreo, che li guardava con sguardo divertito. «Lo perdoni, diceva?»
  «Più o meno hai capito, augure, comunque ho amato quella serie, al tempo.» Sorrise e ammiccò al ragazzo che batte le mani deliziato, mentre assestava un calcio alla sedia di Cesaria la quale roteò gli occhi seccata.
  «Dov’ero rimasto… oh certo, lo zodiaco. I segni sono dodici e dodici devono restare, ma da qualche anno un nuovo segno sta tentando di inserirsi nello zodiaco, provai a spiegargli più volte ma non mi ha mai dato ascolto. Pensavo avesse capito, ma stava segretamente complottando da tempo ormai. Per anni ha sussurrato nell’orecchio dei mortali quest’idea, e più persone credevano e desideravano la sua presenza nello zodiaco più lui si faceva potente.» Sospirò passandosi una mano sul volto.
  «Avrete sentito parlare di Ofiuco.» Disse piano. «Ha catturato ed imprigionato i segni zodiacali e quando ci sarà il cambio di segno ha intenzione di imporre la sua presenza. Se dovesse riuscirci, le conseguenze saranno catastrofiche.»
  «Si, potrei averne una vaga idea.» Disse monocorde Quentin, deglutendo a vuoto.
  «Lo Zodiaco non può combattere e nemmeno io, il mio potere è il riflesso del loro, più loro sono deboli più lo sono io.»
  «Ed è qui che entriamo in gioco noi!» Esclamò deliziata Cesaria, nonostante il suo volto fosse serio come quello della morte stessa mentre guardava il dio, gli occhi blu accesi di quella che a Quentin sembrava in tutto e per tutto rabbia.
  «Mi sta chiedendo di mandare degli adolescenti contro delle stelle impazzite?»
  «Ti sto chiedendo dodici persone.» Tagliò corto Astreo, la voce dura così come si era fatto il suo volto. Era facile arrabbiarsi contro un vecchio fragile e malaticcio, ma era pur sempre una divinità, un Titano vecchio quasi quanto il mondo, che probabilmente stava perdendo la pazienza.
  «Dodici ragazzi che verranno benedetti da un segno. Saranno i loro ambasciatori, verranno protetti e rinforzati dal loro spirito, ma bisogna che siano persone degne e capaci. Sono qui come loro intercessore.» Posò il suo sguardo su quello del pretore.
   «Faremo tutto quello che è in nostro potere per proteggervi, figlia di Venere. Chiedo solo dodici vite, per salvarne miliardi.»
  «Tanto so che non mi sta dando una scelta.» Sospirò alzandosi. «Domani mattina spiegheremo tutto al senato, e ci sarà anche lei. Le consiglio di riposarsi.» E fatto un veloce inchino, palesemente a caso, si avviò a passo spedito fuori.
  Quentin rimase ad osservarla uscire con sguardo affranto. «La deve perdonare, giuro che sa essere simpatica quando si impegna.» Con una piccola smorfia si alzò, passandosi una mano tra i capelli biondicci, dove la tinta arcobaleno era ormai quasi del tutto sbiadita.
  «Anche a nome dei pretori la ringrazio.» Infilò le mani nelle tasche della felpa over-size mentre sulle labbra sottili appariva un sorrisetto divertito. «Penso non abbiano capito quanto siamo fortunati ad aver avuto una spiegazione chiara. Buona notte.» E detto ciò si incamminò con passo rilassato fuori, non vedendo l’ora di andarsi a coricare.


 


    Una volta che il sole era sceso l’aria si era fatta fredda e il vento si era alzato. Tuttavia quello non era l’unico motivo per cui Angelika indossava una lunga vestaglia mentre sgattaiolava fuori dal dormitorio della prima Coorte. Come figlia di Luna non aveva nessun potere se non quello di brillare, cosa in parte molto utile ma anche molto fastidiosa, sopratutto se l’intensità della luce rifletteva quella delle sue emozioni.
   Uscita in strada l’aria di fine novembre la fece rabbrividire, si strinse nella sua vestaglia rosa e, attenta a non far rumore, si incamminò verso il dormitorio dei pretori. Erano anni che percorreva quella strada, tant’è che avrebbe potuto farla anche immersa nella più completa oscurità, anche senza che brillasse. Da che ne sapeva lei, Cesaria non dormiva mai, non durante la settimana, preferiva recuperare le ore nel week-end e spendere le nottate a dipingere, fumare e bere. Era una cosa che probabilmente sapevano tutti ma di cui nessuno parlava, non fino a che non creava problemi seri; discutere con la figlia di Venere avrebbe solo creato inutili rogne che non avrebbero risolto un bel nulla. Angelika era l’unica, che ne sapesse lei, che era mai stata invitata alle serate di Cesaria e la cosa le accendeva un barlume di orgoglio dentro. La prima volta che glielo aveva chiesto era stato quasi un gioco: un invito sussurrato seducentemente all’orecchio con il solo scopo di vederla brillare più del solito, ma a quanto pareva al pretore la sua compagnia non era affatto dispiaciuta.
  Le finestre dell’alloggio di Cesaria erano coperte da spesse tende, ma la luce all’interno filtrava comunque tra gli spiragli. Angelika aprì la porta piano e se la richiuse alle spalle delicatamente, sapeva che era sarebbe stata perché avevano già avuto modo di constatare che Cesaria non l’avrebbe mai sentita bussare a causa delle cuffiette che indossava sempre.
  La stanza era un caos: immersa nella luce calda della lampada era quasi un assalto agli occhi: il letto era in un angolo, coperto da un telo di plastica spessa per poter salvare almeno quello dal marasma della figlia di Venere. Sui muri erano appesi o appoggiati dipinti, e sotto ad essi le pareti erano ricoperte di disegni e scritte. Un divano era a malapena visibile sotto scatole di tempere e pastelli. Opposto alla porta stava un cavalletto di legno e dietro di esso file e file di tele bianche. Su un piccolo tavolino i pennelli straripavano dai numerosi barattoli di vetro in cui erano stati infilati. Non era una stanza grande, ma, per citare la figlia di Venere, il caos aveva il potere di far entrare tutto il necessario in qualsiasi spazio.
  La stanza sapeva di fumo ed alcool, di vernice e di carta da disegno: un mix che non sapeva per nulla di buono ma che per Angelika sapeva di amicizia ed in un certo senso di vita.
  Si poteva dire qualsiasi cosa del pretore, ma non che non fosse una ragazza vitale. Per quanto il suo stile di vita fosse tutto meno che consigliabile, il suo intento non era quello di morire, ma quello di vivere a pieno quella che sapeva sarebbe stata comunque un esistenza corta.
Cesaria era in piedi davanti al cavalletto, osservava una tela piccola ricoperta da uno spesso strato di vernice blu scuro, interrotta da grumi di pittura bianca.
  «Zieetta.» Cantilenò Angelika, avvicinandosi al letto sfilando da sotto di esso il minifrigo dell’amica e prendendo una lattina di birra, consapevole che non l’aveva neppure sentita entrare. Le si avvicinò piano, mentre apriva la propria lattina e beveva un sorso.
  «Zia.» Chiamò di nuovo arrivandole di fianco. Vedendola con la coda dell’occhio l’altra sgranò appena gli occhi e si levò i due piccoli auricolari wireless per poi infilarli nella tasca frontale della salopette.
  «Lieke.» Disse in quello che era quasi un sospiro di sollievo. Angelika veniva chiamata Lieke solo ed esclusivamente dai suoi familiari, cosa che includeva curiosamente Cesaria, essendo la sua matrigna una figlia di Venere. «Sei qui da tanto?»
  «Abbastanza da servirmi da sola.» Ridacchiò alzando la birra per mostrargliela e prendendo poi un sorso. «Sono entrata adesso.» Sorrise e fece scivolare un braccio attorno a quello dell’altra, che con le mani in tasca osservava il dipinto. «Che cos’è?» Chiese piano poggiando la testa alla suo braccio, era in momenti come quelli che la sua altezza non le dava per nulla fastidio.
  «Sono gli occhi di Astreo.» Mormorò piano la figlia di Venere. «Ma questo quadro non fa loro giustizia, è come se tutte le stelle del cielo fossero state condensate in due iridi, eppure il blu è ancora dominante.» La figlia di Luna aveva alzato lo sguardo per guardare il volto di Cesaria.
  «Ti ci puoi perdere.» Si passò distrattamente la lingua sulle labbra screpolate e si riscosse, allontanandosi da Angelika, allungandosi per prendere un bicchiere pieno di un liquido ambrato e terminandolo con un breve sorso.
  «Non mi hai aspettato...» Mormorò la figlia di Luna. Avevano sempre iniziato a bere assieme, era una routine senza regole, mai erano state scritte, eppure in qualche modo erano infrangibili. Probabilmente come era la forza di gravità prima che venisse definita: un qualcosa di presente e certo pur non avendo spiegazione. Si sentiva in qualche modo tradita ed offesa da quella piccolezza.
  «No, non oggi.» Sbottò l’altra, recuperando la bottiglia da dietro una tela e riempiendosi il bicchiere nuovamente.
  «Ehi, se volevi ubriacarti da sola potevi evitare di coinvolgermi, a differenza tua la gente tende a dormire la sera.»
Lo sguardo che le rifilò Cesaria era impassibile, eppure un insieme di emozioni confuse tormentavano nei suoi occhi. «Se sei venuta per rompere il cazzo puoi tornare al tuo amatissimo letto.» Poggiò malamente il bicchiere sul tavolo e si mise a spostare le cose che ingombravano il divano per poi recuperare nuovamente il bicchiere e lasciarsi affondare in esso, il tutto sotto lo sguardo gelido dell’altra.
  «Potevi non disturbarti a chiamarmi.» Tra la testardaggine di una e la suscettibilità dell’altra quella non era la prima volta che litigavano e probabilmente non sarebbe stata l’ultima. Eppure non lo avevano mai fatto in quei momenti. Le notti che passavano assieme erano fatti di lunghi silenzi e di parole dette piano, oppure di risate ed abbracci. Erano momenti di amicizia e in cui confrontarsi e confidarsi, non fatti per i litigi. Mentre si avviava verso la porta sentiva una fastidiosa stretta al petto e in cuor suo sapeva che se avesse davvero varcato quella porta qualcosa si sarebbe spezzato nel loro rapporto.
  «Lieke.» Sentì chiamare la figlia di Venere, non aveva intenzione di fermarsi. Chiunque avrebbe detto che era per un motivo stupido, ma si era offesa, per davvero. Stava per aprire la porta quando l’altra la chiamò ancora.
  «Fermati.»
Si sentì pervadere da un brivido e di colpo il suo corpo era come un sasso. Non poteva credere lo avesse fatto davvero, aveva usato la lingua ammaliatrice su di lei, su sua nipote, sulla sua migliore amica.
  «Per favore.» Quando Cesaria parlò di nuovo sentì il corpo sciogliersi e il suo cervello riacquistare il controllo, si voltò furente verso di lei, se dopo quello che aveva fatto pensava di passarla liscia si sbagliava, si sbagliava tantissimo.
  «Tu… sei morta.» Sibilò, avrebbe voluto aggiungere di più ma era ancora troppo scossa, troppo sconvolta all’idea di quello che le aveva appena fatto.
Cesaria era nell’angolo del divano e la guardava con sguardo stanco, gli occhi lucidi e le occhiaie ancora più profonde del solito.
  «Sei fatta...» Iniziò a dire piano Angelika, assottigliando gli occhi ed avvicinandosi di qualche passo.
  «Non sono deficiente, lo sai che non bevo e non fumo quando mi faccio di roba.» Sbuffò l’altra, bevendo. Fu in quel momento che la figlia di Luna vide il pezzo di alluminio che un tempo avvolgeva il tappo della bottiglia di Jack Daniel’s, abbandonato ora a terra probabilmente da qualche ora, osservò poi la bottiglia, svuotata almeno per un terzo. Aveva bevuto molto più di quel che pensava, probabilmente appena era rientrata in stanza quella sera.
  «Cosa cazzo ti prende.» Chiese avvicinandosi sospirando, farle una scenata in quelle condizioni avrebbe avuto la stessa utilità di chiedere al sole di smettere di brillare. In quel momento il minimo che poteva fare era ingoiare il boccone salvando il litigio per l’indomani e supportarla, o sopportarla. Almeno avrebbe evitato di usare nuovamente la lingua ammaliatrice.
  «Nulla… sono solo un po’ agitata, tutto qui.» Mugugnò, stringendosi il bicchiere vuoto al petto. Angelika bevve un sorso della propria birra e andò a sedersi al suo fianco.
  «È normale avere paura.»
  «Non ho paura.» La figlia di Luna alzò un sopracciglio scettico e l’alta abbassò lo sguardo.
  «Okay, forse un pochino.» Brontolò in risposta. «Il punto è che non sono certa di essere la guida di cui il campo ha bisogno in questo momento. Andava bene fino ad ora, quando non stavamo per morire ecco…» Osservò il bicchiere vuoto e ridacchiò. «Questa sera va così, mi dispiace.» Cesaria non era una ragazza né da sentimentalismi e men che meno da discussioni a cuore aperto, ma se l’alcool la prendeva nel verso storto capitava che si sciogliesse e desse voce alle sue insicurezze.
  «Non è la prima volta che hai la ciucca triste, tesorino.» Ridacchiò, bevendo un altro lungo sorso di birra. «Andrà bene, non sei una sprovveduta, ci fidiamo di te, mi fido di te… solo cerca di dormire un po’ di più, non abbiamo eletto un panda.»
  «Ah ah. Bella questa.» Rise, poggiando la testa sulla sua spalla. Angelika poteva sentire il suo respiro caldo sul collo darle i brividi lungo la spina dorsale. «Sei la mia migliore amica, te l’ho mai detto?»
  «Si, ma mai da sobria.» Roteò gli occhi divertita, eppure come ogni volta non poté percepire il suo cuore fare una piccola capriola soddisfatta nel sentiglielo dire.
  «Anche Quin, ma tu non dirglielo.»
  «Non oserei.» Rispose ironica, terminando la propria birra.
  «Ma tu sei meglio...» Il suo tono era pensieroso e concentrato, come se stesse formulando un elaborato pensiero filosofico e non una semplice lista delle prprie amicizie. «Hai qualcosa in più...»
  «La figa?» Ci fu un attimo di silenzio prima che entrambe le ragazze scoppiassero a ridere. Risero per parecchi secondi, appoggiandosi l’una all’altra prima che Cesaria si bloccasse guardandola in modo serio.
  «Io non voglio che tu o Quin andiate in qualche missione suicida.» Nei suoi occhi cangianti si poteva leggere una paura umana e reale, non dovuta dall’alcool, che solo aveva avuto l’incarico di portarla alla luce. Cesaria era tante cose, testarda, ribelle, sotto certi aspetti, sicura e stranamente responsabile, ma più di qualsiasi altra cosa era umana: piena di difetti che non temeva di nascondere, guidata da vizzi di cui non si vergognava. La paura era umana, eppure quella cercava sempre di nasconderla, presentandosi invece come sicura ed determinata.
  Ma era pur sempre umana e, come tutti, certe volte crollava.
  «Non andremo da nessuna parte e nemmeno tu.» Disse la figlia di Luna piano, spostandole una ciocca di capelli blu dal viso. Sedute ormai a gambe incrociate una davanti all’altra le due ragazze rimasero ad osservarsi per un po’, non avevano bisogno di parlarsi per godere della compagnia l’una dell’altra, ma nemmeno di guardarsi in modo profondo. Il loro sguardo era rilassato e pacifico, come se il solo volto dell’amica fosse già di per se qualcosa di accogliente e familiare in cui trovare rifugio.
  In un attimo la fronte di Cesaria si corrugò e la osservò pensierosa. «Posso baciarti?» Disse di getto.
  «Cosa?!» Chiese l’altra. Colta del tutto alla sprovvista iniziò a brillare molto più intensamente, ma non era sicura se fosse per la rabbia o l’imbarazzo. Si erano già baciate prima, non sarebbe stata una novità, eppure nell’ilarità dell’altra sapeva che probabilmente lo aveva detto solo per farla brillare come una lampadina e ridere di lei.
  «Sei una stronza! Smettila di farlo apposta.» Protestò, lanciandole la lattina vuota che ancora aveva in mano.
  «Ahahaha, proprio non puoi impedirtelo eh? Come se poi non lo avessimo mai fatto… ahahaha, adorabile.» Continuò a ridere, asciugandosi una lacrima dall’angolo dell’occhio. Si conoscevano da quando aveva sette anni, eppure Cesaria non aveva mai smesso di istigarla con lo scopo di farla imbarazzare o arrabbiare e ancora adesso all’età di ventidue anni, rideva ogni volta ancora come quella bambina di otto anni che Angelika aveva conosciuto ormai tanti anni fa.
  «Certo che non posso impedirmelo, cretina! Lo sai benissimo! E poi cosa vuol dire “posso baciarti”?!» Sbottò, rifilandole un calcio. «Se vuoi baciarmi fallo e basta.»
  Il suo sguardo era serio mentre guardava l’altra che piano piano smetteva di ridere massaggiandosi lo stinco dove era stata colpita. Sembrò esitare solo qualche frazione di secondo prima di slanciarsi verso di lei, azzerando la distanza che le separava.
  Cesaria sapeva di fumo e di alcool, di vernice e di carta da disegno: un mix che non sapeva per nulla di buono ma che per Angelika sapeva di amicizia ed in un certo senso di vita.

 

 
Angolo Autore
 
Yo yo yo!
Sono puntuale! Come? Bho, magia di Pasqua (?)
A proposito, buona Pasqua! Vi ho fatto un regalino, visto che brava?
Che tra parentisi quanto domenica scorsa pubblicai io mica mi ricordavo che oggi sarebbe stata Pasqua, lol.
Allora, passiamo alla ciccia: sono fiera di questo capitolo? Non direi. Avrei potuto far di meglio? Assolutamente. E' lungo due volte lo scorso e metà è assolutamente inutile? Hell yes. Spero comunque vi sia piaciuto, o vi abbia divertito, ma che sopratutto vi abbia chiarito le idee. La parte importante è quella centrale (aka quella che mi fa più cacare. Daje.), il resto sono fronzoli messi giusto per allungare e rendermi una bimba felice. Capitemi, nel momento in cui l'interattiva in cui Cesaria e Lieke dovevano apparire è stata cancellata senza nemmeno arrivare alla selezione ci sono rimasta veramente male, dovevo dare a queste due bambine un attimo di gioia (a loro eh, non a me). Tra parentesi, fate tutti ciao ciao con la manina ad Angelika: non è una mia pargola, ma una creaturina di mamma Fe_ che mi ha gentilmente concesso di farle fare un cameo dolcino. Non è un personaggio principale della storia, non agitatevi, così come non lo è Cesaria (triste, lo so.), semplicemente queste due nelle nostre menti ormai girano in coppia, se c'era una non poteva non esseci l'altra u.u
Inoltre, il pretore citato è ancora una volta opera non mia ma di Itzi, avrete modo di conoscerlo meglio. (¬‿¬)
Passando ai fatti, spero abbiate capito un po' meglio la trama. Ci sono ancora alcuni punti non chiariti, ma ogni cosa a suo tempo.
Se qualcuno di voi avesse trovato oggi la storia: ehila! Siete ancora in tempo per partecipare, ma per favore prenotatevi nel capitolo precedente (comodità mia, sorry).
Per chi ormai è di casa,  ben ritrovato, sollecito chi non mi ha ancora inviato le schede a mandarmele ricordandosi che manca una settimana.
A seguito trovate un veloce FAQ per rispondere alle domande più richieste, una comoda dabellina che spiega come pronunciare i nomi pià improponibili e la lista dei segni zodiacali non più disponibili. Non vado in ordine di ricevimento (?) ma di quale oc preferisco/è scritto meglio. Se avevate prenotato un oc con un "occupato" mandatemelo comunque, si sa mai che io preferisca il vostro. Oppure ditemi se volete cambiarlo.
Alla prosima
Peace out ✌🏼
Ebe

P.S. Spero di non aver di nuovo fatto casino con l'editing





 


Pronunce:
In generale partite con il presupposto che i nomi non van letti all'itliana. Non so usare tutti i segnetti fighi e corretti per le pronunce,
farò del mio meglio nel traslitterare come si pronuncia.

Boniface: all'inglese: "Bonifeis" [fatelo pronunciare a google traduttore se avete dubbi]
Cesaria: alla francese: "Sesarìa" [again, google traduttore è vostro amico]
Angelika: alla francese: "Angelique" [no questa volta niente traduttore]




FAQ

Cosa si intende per identità di genere?

L'identità di genere è il sesso in cui una persona si riconosce. Se questo combacia con il sesso biologico si dice Cisgender,
altrimenti si può essere trans, genderfluid, non binari,...
P.S. Se non dovesse essere Cisgender, specificate i pronomi che usa


Il segno zodiacale assegnato deve combaciare con quello di nascita?
Nop. Basta che il carattere rispecchi il segno assegnato.

Cosa sono le "quattro parole per descrivere l'oc"?
Una descrizione in breve del personaggio, NON del segno. Le sue caratteristiche principali che
possono tornarmi utili nel caso dovessi cambiare il vostro oc di segno.





SEGNI NON PIU' DISPONIBILI
PER ALTRE PRENOTAZIONI

Gemelli
Toro
Pesci
Scorpione
Cancro
Acquario
Vergine

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 1.1 ***


 


   Quella mattina il cielo non era più altrettanto sereno come il giorno precedente, pesanti nuvole grige si avvicinavano da est e probabilmente entro mezzogiorno avrebbero avuto una bella piovuta. L’aria sapeva di ozono e di pioggia, facendo pizzicare il naso e il vento gelido, non più scaldato dai raggi del sole, si infiltrava nel collo e nelle maniche.
    
Cesare camminava tranquillo mentre dal campo si dirigeva verso Nuova Roma. Aveva appena avuto una veloce riunione con i dieci centurioni riguardante le attività di quella mattina. Nonostante il recente sviluppo degli eventi, non avrebbe avuto senso interrompere le normali attività, sopratutto ora che più che mai avevano bisogno di legionari pronti ed allenati.
    
Aveva le mani in tasca e camminava abbastanza rilassato, nonostante la sua mente non lo fosse altrettanto, concentrata invece su ciò di cui presto avrebbero discusso in senato.
   
«Dove vai e per che motivo?!» Tuonò una voce alla sua destra, facendolo sobbalzare leggermente. Era quasi giunto alle porte della cittadina e questo implicava l’apparizione di Terminus, una routine che non aveva comunque del tutto assimilato e che lo coglieva sempre di sorpresa, anche quando stava attento e aspettandosi da un momento all’altro il suo arrivo.
   
«Sai chi sono e anche perché sto andando in città.» Mormorò tranquillo, roteando gli occhi.
   
«Non faccio privilegi, pretore Nowak.» Continuò imperterrito il dio, facendogli sollevare un sopracciglio divertito. Non poteva dire di aver conosciuto molte divinità in vita sua, ma si augurava di cuore che non fossero tutte come Terminus, altrimenti capiva bene come mai fossero sempre i semidei a dover fare il lavoro sporco. Cercò di non soffermarsi troppo su quel pensiero, ben consapevole che gli dei conoscevano più delle parole di loro mortali.
   
«Cesare Nowak, pretore. Sto andando in Senato.» Disse tranquillo, sperando che la divinità non fosse in vena di chiacchiere: era certo Cesaria fosse già là ad aspettarlo, lo sguardo fisso sull’orologio per potergli dire i minuti esatti di ritardo. Per sua fortuna la statua sparì nel nulla e lui ebbe il permesso di entrare nella città. Non era particolarmente presto, ma le strade erano ancora mezze vuote, nonostante i negozi fossero già aperti. La strada lastricata era coperta da un leggero strato d’umidità depositata lì durante la notte e le sue timberland producevano un suono ovattato mentre procedeva verso il palazzo del senato.
   
Come previsto Cesaria era già lì, nella stanza sul retro, la toga porpora già indosso sopra la salopette di jeans sporca di tempere. Era seduta a gambe incrociate sopra una scatola di legno che conteneva probabilmente vecchie toghe e qualche documento ormai ingiallito; quando Cesare entrò i suoi occhi blu caddero dall’orologio sopra la porta a lui.
   
«Due minuti e diciassette secondi.» Il volto era poggiato alla mano mentre lo guardava annoiata. Sapevano entrambe che la figlia di Venere non era così fiscale come dava a credere e che lo faceva solo per dargli fastidio, ma al contempo anche quella era diventata una sorta di abitudine.
   
«Beh faccio progressi.» Ridacchiò, avvicinandosi alla rella dove le varie toghe erano appese. Ogni stampella aveva infilato un cartellino con su scritto il nome del proprietario e un disegnino identificativo fatto da Cesaria: Cesare aveva un panda rosso. La spiegazione della ragazza era stata che lui era un orsacchiotto, ma a causa dei suoi tratti asiatici aveva deciso di assegnargli come animale guida il panda rosso. Tutto sommato gli era anche andata bene considerato ad un senatore aveva disegnato un insettino stilizzato, si era giustificata dicendo che gli insetti sono animali essenziali per l’ecosistema. In un secondo momento aveva poi rivelato a Cesare che quella era chiaramente una zanzara: inutile e fastidiosa.
   
Cesare e Cesaria. Una coincidenza fin troppo ridicola per essere puramente casuale. Avevano scherzato più volte sull’idea di reintrodurre il saluto “ave”, tuttavia nessuno dei due aveva l’esuberanza di credere così tanto nel proprio nome.
   
«I centurioni?» Chiese la ragazza, appoggiando la schiena al muro e guardandolo mentre si avvolgeva nella toga purpurea.
   
«Sono abbastanza tranquilli, a modo loro. Alleneranno i ragazzi come sempre, se poi dovesse piovere vedremo cosa fare, magari teoria al chiuso.»
   
La ragazza roteò gli occhi sbuffando: «Lo sanno vero che i mostri li attaccano anche quando piove?» Era sempre stata una ragazza decisa e realista e spesso non concepiva che la gente avesse delle debolezze, oppure cose come il raffreddore. Per lei erano semplici problemi collaterali perfettamente risolvibili.
   
Cesare dal canto suo, per quanto la pensasse bene o male nello stesso modo, possedeva un briciolo di buon senso in più. Tra i due era quello che si occupava di più dei ragazzi, dei nuovi arrivati e delle attività. Era più predisposto a rapportarsi con piccoli gruppi di persone che non a parlare alle folle o tenere in piedi un’assemblea in senato: per quello c’era Cesaria, sicuramente lei sapeva come farsi notare.
   
Dopo aver ritmato un piccolo motivetto sulle cosce con le mani si alzò, sistemandosi la toga che nel suo sedersi scompostamente era andata completamente disfatta. Si avvicinò al ragazzo e gli sistemò meglio il tessuto sulla spalla, un sorriso divertito sulle labbra. «Tre anni di servizio e ancora non hai imparato a farlo decentemente.» In realtà non c’era nulla di sbagliato nel modo in cui Cesare metteva le toghe, Cesaria era semplicemente fissata con il bello e la precisione, in quei casi.
   
«Perdonami se non ho ancora raggiunto il livello massimo di panneggio umido.»
   
«Bagnato. Si chiama panneggio bagnato. Non farlo suonare ancora più equivoco di quanto non sia già, ti prego.» Rise e gli diede due schiaffi leggeri sul braccio. «Andiamo, abbiamo un modo da salvare.» Sospirò e si avviò verso la pesante porta in legno.

 

 

   Il senato era una stanza quadrata dal soffitto alto. Due livelli di sedute erano disposte a semicerchio lungo tre pareti di essa, affacciandosi su uno spiazzo centrale, dove una piccola sedia da pescatore era stata momentaneamente posizionata per permettere ad Astreo di sedersi. Sull’ultima parete libera c’era la piccola tribuna dei pretori e, di fianco la loro pedana, la sedia dell’augure. Le sedute in legno intagliato sembravano dei piccoli troni, ma era ormai anni che colorati cuscini dalle dubbie fantasie coprivano ogni sedia. Era stata una delle prime decisioni prese da Cesaria e uno dei suoi punti forti in quella che era stata un improvvisata campagna elettorale. Restava ancora una delle cose di cui andava più fiera.
   
Appollaiato nel suo scranno Quin succhiava un lecca-lecca mentre leggeva un libricino, la testa pigramente appoggiata alla mano. Nonostante la seduta fosse relativamente piccola, il ragazzo era talmente minuto da riuscire a rannicchiarvisi comodamente.
   
«Buongiorno.» Mormorò, senza alzare lo sguardo dal libro. I capelli colorati erano ancora più scompigliati del solito e sotto la toga aveva una maglietta oversize che gli faceva praticamente da abito.
   
I due pretori mormorarono un saluto in risposta e si sedettero ai loro posti. Cesare fece vagare lo sguardo sulle tribune che piano piano andavano riempiendosi di senatori. Alcuni di loro erano adulti, altri ragazzi ed altri ancora anziani. Un ometto secco e curvo entrò strisciando i piedi e si diresse con una lentezza snervante verso il suo sedile, facendo risuonare per tutto il senato il suono delle sue babbucce. Cesare si voltò a guardare Cesaria che seguiva con sguardo irritato quello che per lei ora si chiamava ufficialmente “Zanzara”. Il senato era illuminato sia dalla luce che entrava dalle finestre che dal lampadario che pendeva dal soffitto e forse fu per quello che solo in quel momento che se ne accorse. Mentre osservava la ragazza c’era qualcosa di diverso sul suo viso che non riusciva bene a collocare. Era… riposata? Tutto sul suo viso sembrava rilassato e persino le occhiaie profonde sembravano quasi essersi sbiadite leggermente. Sbatté le palpebre perplesso. «Cesaria..?» La chiamò. La ragazza si girò verso di lui alzando un sopracciglio chiaro. «Hai dormito?» Chiese stupito: non era la prima volta che la vedeva in quello stato, ma di solito avveniva solo di lunedì, dopo che aveva passato un week-end a dormire e recuperare tutte le notti insonni della settimana.
   
«Può essere.» Disse sbrigativa, un sorrisetto divertito sul volto. Cesare allungò una mano per toccarle la fronte. «Oh dei, non avrai la febbre vero? Oggi è giovedì.» Disse, lo sguardo fintamente preoccupato.
   
«Ho solo pensato che data la situazione fosse meglio riposare.» Sbottò.
   
«Cazzate, ieri Angelika è andata da lei.» Disse dal suo angolino Quentin, gli occhi verdi ancora abbassati sul libro, anche se sul volto da folletto aveva un sorriso divertito.
   
«Stronzo.» Borbottò la ragazza.
   
«Ah ecco, ora ha più senso. Quindi, ti sei divertita.» Cesare appoggiò il mento alla mano, sporgendosi verso di lei.
   
«No.» Roteò gli occhi. Non era del tutto una bugia, la serata non era di certo iniziata nel migliore dei modi. Non aveva ancora incontrato Angelika, ma sapeva che appena si fossero viste, l’aspettava una bella sfuriata, probabilmente anche meritata.
   
«Oh certo. Una noia mortale scommetto.»
   
«Senti, lo sai che non ho il minimo imbarazzo ad ammettere se ho fatto qualcosa, se non ti dico nulla è perché non c’è niente da raccontare.» Terminò. Era effettivamente vero, non era successo nulla quella sera, solo baci e nulla più, poi un po’ per l’alcool e un po’ per la stanchezza si era addormentata, non senza che Angelika l’obbligasse ad andare a letto e la coccolasse fino a che non era stata certa dormisse davvero. Quando al mattino s’era svegliata, la figlia di Luna era sparita, probabilmente se n’era andata già da parecchie ore, per non far chiacchierare troppo la coorte.
   
Cesare si appoggiò allo schienale nel momento in cui la porta si aprì ed entrò un vecchio accompagnato da un robusto figlio di Esculapio. Era secco e dai capelli bianchi, ma i suoi occhi erano svegli e vigili, allontanò gentilmente il semidio e si diresse da solo verso la sedia, sedendosi pesantemente. Tutti nel Senato s’erano alzati e il vecchio sorrise e con un cenno fece segno di sedersi. A guardarlo in faccia Cesare capiva come mai il figlio di Giano lo avesse portato dentro senza esitazione: era tutto meno che mortale.
   
«Divino Astreo, benvenuto. Spero si sia riposato.» Disse cordialmente Cesaria, osservandolo come a tentare di capire se fosse cambiato qualcosa nella figura dell’uomo, tuttavia nulla era diverso dalla sera precedente.
   
Il titano chinò il capo cordialmente in risposta, un sorriso tranquillo sul volto. «La ringrazio Pretore.» Si guardò attorno e nel vedere che tutte le sedute erano ormai occupate prese parola, saltando di netto tutti le varie formalità che solitamente precedevano l’inizio di una seduta. Cesare si voltò verso un uomo di circa quarant’anni che sedeva in uno scranno laterale, davanti ad un piccolo banchetto con una macchina da scrivere. L’uomo guardava prima lui, poi il macchinario e poi il dio, smarrito. Con un cenno il pretore gli disse di iniziare a scrivere.
   
Il ticchettio della macchina da scrivere iniziò a risuonare per la stanza, interrompendo il dio che guardò l’uomo un po’ confuso per poi ritornare a parlare. Erano tutti ben consapevoli che era un oggetto antiquato e scomodo, ma era l’unico mezzo che non interferiva minimamente con barriere, divinità e foschia.
   
«Dunque, dicevo come Ofiuco stia tentando di sovvertire l’ordine delle cose. Secondo alcuni mortali che auspicano la sua presenza nello zodiaco, il suo dominio dovrebbe iniziare il 30 Novembre.» Fece vagare lo sguardo sui presenti come in attesa di una domanda, che tuttavia non arrivò. Trasse un respiro stanco e riprese a parlare: «Quest’anno inoltre il 30 novembre è Luna nuova. Per questo ha atteso così tanto: in assenza della luna le stelle hanno il loro massimo potere. E’ il momento in cui è più potente ma anche quello in cui tutte le altre stelle lo sono, la nostra possibilità.»
   
Il senato era immerso nel silenzio quando Cesaria si alzò, stiracchiandosi per frugare nelle tasche della salopette nascoste tra le pieghe della toga per estrarre un pacchetto di sigarette spiegazzato e un accendino. La accese con calma, ben consapevole degli occhi posati su di lei. «Scusate, non volevo interrompere. Quindi, abbiamo trentacinque giorni per liberare dodici costellazioni, trovarne una tredicesima che sta cercando di distruggere l’ordine cosmico e salvare il mondo, corretto?» Chiese tornandosi a sedere sullo scranno e portandosi la sigaretta alle labbra. In una frase era riuscita a rendere tutto ancora più complesso di quanto già non sembrasse.
   
«Come sapremo chi verrà scelto dai segni?» Questa volta fu Cesare a parlare. Non era un grande oratore e tendeva a lasciare che fosse la figlia di Venere a portare avanti le sedute in Senato, tuttavia quella era una domanda diretta al solo titano, che ora lo guardava attentamente. Si sistemò sulla sedia leggermente a disagio nel sentire il peso di quello sguardo millenario su di se.
   
«Domanda più che legittima, pretore. Sta notte, incanalerò la già debole energia dello Zodiaco e la rilascerò tra di voi. Questa energia si legherà a dodici persone, conferendo loro una frazione di potere.» Astreo sospirò rilassandosi contro lo schienale della propria sedia. «Mi costerà molta fatica: dopo di ciò, non sarò in grado di mantenere la mia forma mortale qui sulla terra. Se avete domande, è questo il momento.» La risposta non aveva minimamente soddisfatto Cesare, che continuava a non capire esattamente in che modo la scelta si sarebbe svolta, ma non se la sentiva di chiedere nuovamente spiegazioni. Dopo tutto gli stava andando anche troppo bene: nessuna profezia e nessuna scommessa nel mandare semidei in missione, sperando che fossero effettivamente quelli prescelti. Si passò una mano sul mento, osservando il resto del Senato, cercando di capire se qualcuno avesse effettivamente qualcosa da chiedere. Un movimento alla sua sinistra attrasse il suo sguardo: Quentin aveva alzato il braccio per aria, fissando Astreo in attesa di ricevere la parola come uno scolaretto. Il titano sorrise divertito al gesto dell’augure e con un cenno delle mani lo invitò a parlare.
   
«Spero di non sembrare indelicato, ma perché si trova qui e non al Campo Mezzosangue? Dopotutto lei non è… una nostra divinità.» Chiese abbassando il braccio e sistemandosi a gambe incrociate sul proprio scranno. Con la toga sarebbe potuto sembrare quasi un qualche monaco eremita, compostamente appollaiato sulla cima di una montagna, se non fosse stato per i capelli colorati e le stelline verde evidenziatore che si era disegnato quella mattina sugli zigomi. Un leggero mormorio si levò nella stanza, unito allo scricchiolare delle sedie di legno. L’augure aveva appena dato voce ad una domanda più che legittima a cui nessuno però aveva davvero pensato. Il sospiro di Astreo richiamò l’attenzione facendo tornare il silenzio.
   
«Sei un ragazzo sveglio, augure. Non ti sbagli, io appartengo infatti al pantheon greco, tuttavia, paradossalmente, il dominio è legato più a voi romani. I pianeti portano tutti nomi romani, essi sono essenziali nell’astrologia e nella lettura del cielo. Inoltre so per certo che la maggior parte dei semidei che lo zodiaco sceglierà verrà da questo campo, è tutto quello che sono riusciti a dirmi.»
   
Cesare si ritrovò stranamente sorpreso, non aveva minimamente considerato i colleghi di Long Island e non sapeva se fosse sollevato o no all’idea che alcuni di loro avrebbero dovuto unirsi a quella missione. Sicuramente significava meno eventuali perdite da parte loro, ma al contempo temeva che la differenza di addestramento potesse risultare in eventuali problemi organizzativi.
   
«Ha avuto modo di informarli di quanto accadrà?» Chiese. Si umettò le labbra e si voltò verso Cesaria che proprio in quel momento faceva cadere un po’ di cenere della sigaretta in un posacenere posto in precario equilibrio sul bracciolo del suo scranno. Le picchiettò il braccio ed allungò la mano per farsi passare la sigaretta. La ragazza mimò con una smorfia seccata un ‘no’ muto, mentre faceva un tiro, non volendo disturbare il titano che stava rispondendo ora ad un’altra domanda dell’augure.
   
«Solo un tiro, non voglio accenderne una nuova.» Bisbigliò. La figlia di Venere cedette finalmente allungandogli la sigaretta e lasciandogli fare un tiro. Quella di fumare era un abitudine che non aveva prima di diventare pretore, glie era in fatti stata passata d Cesaria, anche se paragonato a lei era pressoché un fumatore occasionale. Oltre al nome e alle sigarette avevano in comune un particolare di cui non tutti erano a conoscenza, avevano entrambi un piercing sulla lingua. Questa buffa coincidenza era stato uno dei loro primi argomenti di discussione. Il risultato era una coppia di pretori improbabili, dai nomi buffamente pretenziosi ed accurati per quel ruolo accomunati da linee sottili ma ben diversi caratterialmente; cosa che alla fin fine creava una coppia valida per il comando.
   
«...quindi si, consiglio una chiamata con il Campo Mezzosangue in preparazione a questa sera» Terminò Astreo. Cesare fece un lungo tiro e ignorò la mano di Cesaria, tenendosi la sigaretta ancora per un po, intenzionato a farne un secondo.
   
«Li chiameremo dopo pranzo, lei potrà riposarsi in infermeria, penso avrà bisogno di quante più forze possibili per sta sera.» Disse pacatamente Cesaria, il braccio ancora teso verso il figlio di Aurora. «Se nessuno ha altre domande, ritengo la seduta conclusa.» Continuò guardandosi attorno. Aspettò qualche secondo in cui osservò lo sguardo dei senatori, chi impassibile e chi faceva piccoli cenni per confermare alla ragazza che poteva concludere li la seduta.
   
«Molto bene.» Si alzò, seguita da Cesare, il quale gli restituì velocemente la sigaretta.. «Divino Astreo, la ringraziamo del suo tempo. Senatore Jones, confido che le copie dei rapporti siano fatti avere alle coorti entro pranzo.» Disse con un piccolo cenno all’ometto alla macchina da scrivere, che annuì vigorosamente. «Buona giornata a tutti.» Con un ultimo cenno del capo al Titano scese dalla pedana avviandosi fuori dalla stanza, portandosi la sigaretta ormai quasi terminata alle labbra.

 

 

   Verso est il cielo aveva iniziato ad appesantirsi di pesanti nuvole scure che minacciavano di abbattersi pesantemente sul campo da un momento all’altro. Fino a una decina di anni prima questo non avrebbe minimamente preoccupato i semidei del Campo Giove, tuttavia da qualche anno ormai si era deciso di lasciare che le barriere di entrambi i campi non filtrassero completamente gli eventi atmosferici, in quanto l’ambiente tutelato in cui si allenavano non rispecchiava ciò che li attendeva una volta superate queste ultime. Agli occhi di Hercules, sembrava proprio che nel giro di poche ore avrebbero avuto un bell’acquazzone, poteva già sentire il pungente odore della pioggia solleticargli le narici mentre osservava la massa scura avanzare.
   
Un grido soffocato attirò la sua attenzione, costringendolo a spostare gli occhi verdi dal cielo ai propri legionari, intenti ad ad allenarsi a duello sparsi per il campo. Ad una trentina di metri da lui un ragazzino aveva una mano sul naso sanguinante mentre una ragazza dalla pelle olivastra era chinata su di lui con sguardo preoccupato.
   
«Oddio scusami! Non avevo visto che mi eri venuto dietro! Però è stata una gran bella mossa!» Sorrise, sperando di sollevare un po’ il morale del poverino che aveva gettato la testa all’indietro nel tentativo di non sgocciolare tutto il sangue sull’armatura e la maglia, anche se ormai era troppo tardi.
   
«Barton! Tutto bene?» Accorse il figlio di Cerere, la mano destra che frugava disperatamente in una delle numerose tasche dei pantaloni color kaki, tirandone fuori un pacchetto di fazzoletti un po’ stropicciato. «Nice, cosa ti ho detto riguardo l’usare il martello con i nuovi arrivati?» Chiese canzonatorio mentre si chinava sul ragazzino allungandogli un fazzoletto e gli dava indicazioni base per evitare che il sangue andasse al cervello.
   
«Lo so benissimo, a mia discolpa posso dire che gli ho dato una gomitata e non una martellata?» Sorrise angelica la figlia di Venere che lo guardava sorridente, le braccia toniche incrociate sul petto, il fidato martello da guerra poggiato ai piedi come un fedele animale da caccia. «Però ehi, è stato bravo, me lo sono trovata dietro in mezzo secondo, peccato che mentre caricavo il colpo l’ho colpito con il gomito.» Si strinse nelle spalle accennando un sorrisetto colpevole.
   
«Va bene, ho capito… Mason vai in infermeria a farti fermare l’emorragia, poi torna qui, non sei ferito a morte.» Sospirò il centurione rialzandosi, spazzolando con una mano il ginocchio che aveva posato a terra, più per abitudine che non per un vero interesse nel pulirli.
   
«Hanno intenzione di farci allenare anche se piove, vero?» Domandò un po’ sconsolata Bernice, lo sguardo verde perso verso l’orizzonte scuro. Hercules annuì piano sospirando, capiva benissimo il pensiero dei pretori e lo condivideva, ma teneva ai propri ragazzi probabilmente più di loro e non era mai divertente trovarsi mezza coorte con il raffreddore e la tosse, sopratutto di notte quando dormire diventava quasi impossibile, con il silenzio interrotto puntualmente da un colpo di tosse o da qualcuno che si soffiava il naso. «Già, ma Cesare ci ha detto che se piove forte faremo qualcosa di teorico.» Sul volto della ragazza si allargò un sorriso soddisfatto e dal luccichio nei suoi occhi sapeva già cosa stava per chiedergli: «Posso finire quel corso di cucito dell’altro giorno?» Un espressione implorante dipinta sul bel volto.
   
«Per me va bene, ma è tua sorella quella che devi convincere.» Si strinse nelle spalle il figlio di Cerere. Sapeva che tra i due pretori la figlia di Venere era quella più difficile da convincere, anche se ormai aveva capito che la metà delle volte si opponeva alle cose solo per il gusto di farlo, cedendo poi all’ultimo, quando ormai stavi per gettare la spugna.
   
«Cesaria si attacca, quando in una missione le si staccherà un bottone di una delle sue salopette e non saprà come ricucirlo mi penserà.» Liquidò la faccenda con un gesto della mano.
   
Bernice aveva sempre dimostrato una grande attenzione per i nuovi arrivati al campo tant’è che era diventata un aiuto prezioso nell’organizzazione pur non avendo alcun ruolo reale. Si occupava di fare tour alle nuove reclute e organizzava corsi per imparare cose basilari ma per nulla scontate, come cucito o cucina. Se in un primo momento avere il permesso di organizzare queste attività non si fosse dimostrato semplicissimo, quando la voce aveva iniziato a girare aveva finito per trovare l’appoggio di diverse persone, sopratutto tra i più anziani, che ormai erano stufi di sentire raccontare la mitologia romana ogni estate da capo durante i giorni di brutto tempo.
   
«Sicuramente la conosci meglio di me, parlane tu con lei.»
   
«Ehi ehi, fate salotto senza invitarmi?» Proruppe una voce alle spalle della figlia di Venere, facendola voltare con un sorriso. Maia era decisamente bassa, ma non per questo era da sottovalutare. Teneva il proprio giavellotto ben piantato per terra, appoggiandovisi leggermente. La mano libera era poggiata sul fianco e dal braccio pendeva una felpa decisamente troppo grande per il suo corpicino. Il viso da folletto era lucido vicino ai capelli color grano per il sudore che le copriva le braccia lasciate scoperte dalla maglia a maniche corte, mettendo in mostra gli innumerevoli tatuaggi che le ricoprivano.
   
«Niente salotto, la tua morosa qui ha quasi rotto il naso ad uno dei ragazzini arrivati la scorsa estate.» Spiegò Hercules sospirando, le braccia incrociate al petto.
   
«Non ho fatto apposta! E non è la mia morosa, lo sai.» Protestò Bernice, avvolgendo però un braccio attorno alle spalle dell’altra ragazza.
   
«Magari, Herc caro, magari.» Sospirò la figlia di Marte, appoggiandosi all’amica con un sorrisetto divertito. «Mi ammazzi i novellini? Pensavo tu fossi quella che se ne prendeva cura.» Aggiunse alzando lo sguardo su di lei.
   
«Me lo rinfaccerete per sempre vero?»
   
«Molto probabile.» Rise e in quel momento una goccia le cadde sulla punta del naso, portandola ad incrociare gli occhi azzurri. «Uh uh, temo stia iniziando.» Canticchio, ancora prima di finire la frase un rombo lontano le rispose e poco dopo una sottile pioggerellina cadeva su di loro, quasi minimamente percepibile. Si accorse che buona parte dei ragazzi si erano fermati, tra chi guardava il cielo e chi cercava con lo sguardo i due centurioni della propria corte per capire cosa fare. Con un sospiro Maia si staccò dall’amica e allontanandosi un poco sventolò la lancia per aria, attirando l’attenzione dei ragazzi.
   
«Amori sono tre gocce d’acqua, fin tanto che è così andate avanti ad allenarvi e non pressate l’anima.» Gridò, poté sentire chiaramente un significativo numero di persone lamentarsi e brontolare, ma non se ne curò minimamente. Osservò Hercules allontanarsi con una corsa leggera verso una ragazza alta e dai lunghi capelli biondi che la stava osservando da una ventina di metri, le braccia conserte il viso un po’ imbronciato. La figlia di Apollo doveva chiamarsi qualcosa tipo Virginia ed era, tecnicamente, la sua compagna di allenamento, peccato che l’avesse piantata in asso appena a questa era caduto il gladio. Le mostrò la lingua con un sorrisetto colpevole per poi voltarsi verso Bernice.
   
«Beh che dire, mi concedi questo ballo?» Disse, aggiustando la presa sul giavellotto.

 

 

   Nonostante l’effetto fosse decisamente scenico e bello, Ansel non amava particolarmente le strade lastricate di Nuove Roma. Erano curate, pulite e senza dubbio particolari, tuttavia erano scomode per girarvici in skateboard. Non che per lui fosse un particolare problema, ma una strada asfaltata era sempre decisamente più comoda. Il figlio di Nettuno amava tutto ciò che prevedesse una tavola, che fosse surf, snowboard o lo skateboard, con cui si muoveva per andare praticamente ovunque.
   
La seduta in senato si era appena conclusa e onestamente non sapeva cosa pensarne. Gli sembrava una storia decisamente ridicola, non vedeva e non capiva come l’aggiunta di un segno zodiacale potesse portare ad una cosa come la distruzione dell’ordine di tutte le cose. Era davvero un dramma così grosso? Gli sembrava davvero che tutti stessero esagerando, tuttavia non aveva interesse o ragione di esprimere la sua opinione.
   
Quando la sera prima gli era arrivata la lettera dei pretori per la seduta dell’indomani, non lo negava, aveva roteato gli occhi. Il suo ruolo in senato era qualcosa di indeterminato, era quasi più li a far numero che non a collaborare effettivamente. Veniva convocato solo quando ce ne era assoluta necessità, non per ogni minima sciocchezza, ma anche in quelle occasioni si limitava ad ascoltare in modo passivo.
   
I palazzi di Nuova Roma scorrevano veloci ai suoi fianchi mentre usciva dalla città, diretto al campo. Ormai aveva concluso i propri anni di servizio da tempo e le numerose tacche sul suo avambraccio non facevano che confermarlo, tuttavia era rimasto ingiro per dare una mano, insegnare qualche tecnica base di combattimento e gestire un po’ i ragazzi, che sembravano moltiplicarsi di anno in anno. Non che Ansel fosse un ragazzo particolarmente laborioso o altruista, ma non avrebbe comunque avuto niente di meglio da fare. Era sempre stato un po’ atipico, cresciuto in un ambiente dalle poche regole, queste erano a lui piuttosto estranee anche come concetto stesso. Al campo finiva per insegnare di più quella che alcuni ragazzi avevano soprannominato “l’arte dell’improvvisazione”. La dove il Campo Giove imponeva regole, formazioni rigide e disciplina militare, lui trovava spazio per uno stile di combattimento più istintivo e libero: se l’affondo ti viene scomodo in un certo modo, non è necessario ammazzarsi di allenamento per impararlo, scartalo e trova un modo tuo che non ti risulti scomodo. Unica regola: non morire.
   
Aveva sempre trovato divertente come, dopo le sedute in senato, lui fosse sempre il primo ad arrivare al campo. Inizialmente i ragazzini gli correvano incontro per chiedergli novità e informazioni, ma avevano presto imparato che non gli avrebbero estorto una parola in quanto non era esattamente un ragazzo loquace. Si fermò pochi secondi quando la statua di Terminus gli apparve di fianco con fare minaccioso, tuttavia, dopo tredici anni, era una cosa che il dio stesso quasi sorvolava, volatilizzandosi pochi secondi dopo. Raggiunse velocemente il Campo Marzio dove i ragazzi erano sparsi ad allenarsi a duello. Gli abiti erano scuriti dalla pioggerellina e i capelli di tutti quanti iniziavano ad inumidirsi ed attaccarsi fastidiosamente al corpo. Strinse gli occhi chiari alla ricerca di un centurione e lo trovò quando finalmente vide la possente figura di Hercules allenarsi poco lontano da lui. Lasciò lo skateboard fuori dal campo e si incamminò verso il figlio di Cerere, le mani nelle tasche dei jeans.
   
«Ehi, Herc.» Lo chiamò piano e se non fosse che il ragazzo era ormai abituato ad individuare la sua voce bassa avrebbe dovuto richiamarlo più volte. Si girò piano, alzano una mano per fermare la sua compagna che non sembrava entusiasta all’idea di non poter finire neppure quel duello.
   
«Ansel. Già finito?» Chiese, quasi più per gentilezza che non per avere una vera e propria risposta. Hercules era probabilmente tra i ragazzi più responsabili al campo e quindi quello con cui il figlio di Nettuno si era trovato ad interagire maggiormente. Non che lo considerasse un amico, ma non erano nemmeno completi sconosciuti. Herc poteva dire di conoscerlo abbastanza bene, almeno quanto bastava per poterci interagire umanamente e sapeva altrettanto bene che non avrebbe risposto a quell’ovvia domanda e che nemmeno avrebbe aggiunto altro se avesse lasciato cadere la discussione in quel momento. «Quindi, ci alleniamo fino a che non piove tanto e poi facciamo cose teoriche al coperto. Probabilmente Bernice finirà il corso di cucito che ha iniziato l’altro giorno. Ti andrebbe di prendere un gruppo per un po’ di mitologia?»
   
Ansel non era una cima, la sua educazione era disseminata di terribili lacune riguardante anche le cose più basilari, ma l’essere stato adottato e cresciuto da due semidei gli aveva assicurato un’infanzia ricca di miti e racconti che lo rendevano ora decisamente esperto in materia. Non sapeva fare uno studio di funzione, ma trovava decisamente più utile sapere di non tagliare le testa ad un idra.
   
Annuì piano, un sorriso di cortesia dipinto sul viso come al solito. «Se c’è qualche ragazzino da solo mi alleno io con lui, altrimenti vi aspetto al coperto.» Non che la pioggia gli desse fastidio, anzi, gli piaceva, tuttavia era abbastanza pigro da non voler aspettare in piedi sotto la pioggia aspettando che questa aumentasse.
   
Hercules scosse la testa. «No grazie, non ce n’è bisogno.» Alzò lo sguardo verso il cielo, stringendo gli occhi verdi nella pioggia. «Tanto penso che aumenterà tra poco.»
   
Con un cenno del capo Ansel si congedò, andando a recuperare il proprio skate. Si diresse verso i cinque padiglioni che avevano costruito appena fuori dal Campo Marzio, dopo la modifica alla barriera pochi anni prima, non avere un posto coperto dove fare attività era presto diventato un problema, quindi per qualche mese i ragazzi avevano lavorato a gruppi per costruire cinque padiglioni che potessero ospitarli in giornate come quelle. Erano decisamente imperfetti e solo da qualche anno avevano colato del cemento per livellare ed alzare un po’ il terreno. Il figlio di Nettuno ricordava chiaramente i suoi giorni di servizio in cui l’acqua colava nei dislivelli del terreno, creando pozzanghere ben peggiori e più fastidiose di qualche goccia in testa.
   
Si sedette su uno dei tavoli da picnic, i piedi sulla panca, guardando i ragazzi allenarsi.

 

 

   Quando Boniface aveva visto i pretori arrivare al Campo Marzio era subito corso da loro, i capelli ricci umidi e appiccicati alla fronte. Prima di raggiungerli aveva provato a pulirsi gli spessi occhiali, accorgendosi troppo tardi che si trattava di una cosa pressoché impossibile. Sbuffò leggermente e chiamò piano l’attenzione di Cesare, che si era allontanato da Cesaria e procedeva verso la sua metà di campo.
   
«Ehi, scusa, posso andare da Astreo?» Chiese sbrigativo giochicchiando nervosamente con le dita sulla lancia. Si rendeva conto che la domanda potesse sembrare strana ed era quasi completamente certo che il figlio di Aurora non lo avrebbe lasciato scappare dalla pioggia tanto facilmente. Tuttavia aveva davvero bisogno di parlare con il titano e non era esattamente propenso all’idea di dirlo al pretore. Non si conoscevano molto se non di vista e per questo l’intera situazione lo metteva ancora più a disagio.
   
Cesare lo guardò pensieroso, non sapeva se stesse cercando di ricordarsi il suo nome o se cercasse di capire quali fossero davvero le sue intenzioni. Si guardò alle spalle per vedere dove fosse Cesaria per poi tornare a posare lo sguardo su di lui con un sospiro. «Okay, sei tu che lo hai trovato no? Cerca di non metterci troppo, o tra mezzora vengo a prenderti di peso.» Il suo sguardo era serio ma il suo tono era abbastanza ironico. «In infermeria, dovrebbe essere li con lo gnomo arcobaleno.» Disse ridendo, indicando con il mento verso la struttura bianca poco lontana.
   
«Grazie mille, prometto che non serviranno sequestri di persona.» Sorrise riconoscente e si avviò a passo veloce verso l’infermeria.
   
Quella notte aveva dormito poco e rigirandosi nel letto si era chiesto se Astreo sapesse qualcosa dei suoi sogni e del perché non funzionassero più come una volta. Non aveva il dono della profezia, che gli dei lo scampassero, ma gli capitava di avere il visioni, di solito di pochi secondi, sul futuro, anche se era capitato di averne anche sul passato. Aveva imparato a distinguerle dai sogni normali perché quando si svegliava piangeva, ma sempre solo da un occhio. Non sapeva se ci fosse una correlazione effettiva tra la sua eterocromia e la sua discendenza divina, ma sospettava di sì. Quando aveva visioni del futuro gli lacrimava l’occhio destro, quello azzurro, quando invece sognava il passato era quello sinistro e castano ad essere umido al risveglio. Non era un grosso problema per lui, gli piaceva avere l’eterocromia e di sicuro era meglio che avere due teste, quello si che sarebbe stato scomodo. Tuttavia aveva impiegato anni prima di capire come le cose erano concatenate e aveva avuto la conferma effettiva solo la sera prima, grazie ad Astreo. Sperava solo che le discendenze divine venissero con tanto di libretto delle istruzioni.
   
L’infermeria era quasi del tutto vuota eccezion fatta per un ragazzo con uno stantuffo di cotone in una narice, una figlia di Esculapio che lo stava aiutando e Astreo, che stava avendo una fitta discussione con l’augure. Il titano gli dava le spalle quindi fu quest’ultimo il primo a notarlo.
   
«Bonny!» Chiamò allegro, facendo voltare anche la divinità che lo accolse con un sorriso gentile. Entrò un po’ titubante, richiudendosi la porta alle spalle nonostante fosse stata aperta al suo arrivo, se ne accorse solo a metà del gesto ma ormai era troppo tardi per fermarsi a metà o riaprirla.
   
«Spero di non disturbare.» Iniziò piano avvicinandosi ai due, Astreo scosse il capo e gli indicò la sedia posta vicino al letto su cui era seduto, invitandolo ad accomodarsi. Si sedette piano, cercando di ignorare il sorriso sghembo di Quentin. Era quasi tentato di invitarlo a lasciarli soli, ma poi avrebbe dovuto mandare via anche gli altri due ragazzi e in generale non era una faccenda privata, non più di tanto. Appena si sedette il più piccolo prese posto senza troppi complimenti su una delle sue gambe, con la stessa faccia soddisfatta di un gatto quando si siede sulla tastiera del computer. Un tempo forse la cosa lo avrebbe infastidito o messo in imbarazzo, ma ormai lo conosceva a sufficienza e si era arreso al suo essere profondamente e terribilmente molesto.
   
«Stavamo chiacchierando di Saint Seiya, finalmente qualcuno con un po’ di cultura!» Quentin rise allo sguardo vagamente divertito, ma profondamente confuso, del figlio di Giano e con un sorriso tranquillo gli staccò una ciocca che si era appiccicata alla stanghetta degli occhiali.
   
«Allora, cosa ti serviva?» Chiese, anche se sapeva che probabilmente non era lui l’oggetto della sua ricerca, lo sguardo che si spostava prima sul dio e poi sul ragazzo.
   
«Uhn… si ecco, mi chiedevo se sapesse qualcosa delle mie visioni, del perché non funzionano più.» Boniface non si riteneva una persona timida, per nulla, era solo tranquilla, almeno la maggior parte delle volte. Non era il tipo di ragazzo che si approcciava con leggerezza al primo sconosciuto che incontrava, ma nemmeno il genere di persona da andare in panico nel presentarsi. Tendeva a parlare quando interpellato, quindi iniziare una discussione era semplicemente più complesso per lui.
   
«Oh ragazzo, in realtà è piuttosto semplice.» Il sorriso del titano era caldo e la sua voce rassicurante mentre lo osservava con i suoi strani occhi blu. Boniface poteva capire che anche Quentin era interessato ed attento alla loro discussione senza guardarlo poiché aveva smesso di muoversi e giochicchiare con qualsiasi filo od orlo gli capitasse tra le dita.
   
«Tu non hai il potere della profezia, non del tutto.» Iniziò a spiegare con calma. Il figlio di Giano aveva la netta sensazione che la spiegazione sarebbe stata decisamente poco semplice se non contraddittoria, o altrimenti Astreo non l’avrebbe presa così larga.
   
«A differenza di questo giovanotto tu non prevedi il futuro, tu lo vedi.» Strinse le labbra, cercando un modo per spiegarsi meglio. «Chi ha il dono della profezia vede appunto profezie, futuri ipotetici, indicazioni che possono manipolare gli eventi che verranno, se ben interpretate.» Non aveva mai pensato all’effettiva distinzione tra il suo potere e quello di Quentin, pensava solo si trattasse dello stesso ma molto più debole.
   
«Di conseguenza fai molti meno sogni perché non molte cose sono certe nel futuro, ben poche in realtà.» Inclinò la testa per osservarlo, come se stesse ascoltando il filo di pensieri che stava elaborando.
   
«Ho sempre sognato cose vicine nel tempo.» Ammise piano, il discorso del dio stava piano a piano acquistando senso, non aveva mai sognato eventi chiave, che gli suggerissero come fare o non fare qualcosa. Sognava un evento senza sapere quando sarebbe accaduto, e questo finiva poi per avverarsi, effettivamente, nell’arco massimo di qualche settimana, massimo un mese o due. Si lasciò scappare una risatina, doveva proprio dire addio alla nevicata di conigli.
   
«Esatto. Nel momento in cui qualcosa minaccia il futuro il tuo potere va in tilt, almeno metà.» Disse con tono eloquente, lo sguardo chiaramente posato sul suo occhio sinistro. «Quello funziona ancora, dico bene?» Boniface annuì piano, cercando di ignorare Quentin che, accigliato, si era avvicinato a fissare il suo occhio, non capendo.
   
«Non puoi più vedere il futuro perché la situazione è così delicata che potrebbe influire pesantemente su anche i gesti più piccoli di chiunque. Come hai capito ieri, tu hai visto il futuro, ne hai visti molti, ma non puoi ricordarli.»
   
«Il suo potere entra in contrasto con le profezie, conoscere il futuro quando è certo è una cosa, ma conoscerne molti, sapere tutti i possibili scenari, renderebbe una profezia completamente inutile.» Disse Quentin, realizzando con sorpresa. Guardò stupito prima Boniface e poi la divinità.
   
«Mi sta dicendo che i poteri di Bonny non funzionano perché gli dei preferiscono vederci dannare con le profezie?» Il suo tono era sorpreso e divertito ma terribilmente serio.
   
Astreo rise scuotendo la testa: «No ragazzo, assolutamente. Le ragioni principali sono due. Prima di tutto, il Destino è potentissimo, nemmeno noi divinità possiamo sottrarci ad esso. Le profezie sono più potenti perché… diciamo che combaciano meglio con le regole del Destino.» Ridacchiò piano ritrovandosi a fare qualche colpo di tosse. Quentin fece per prendere il bicchiere d’acqua dal comodino e passarglielo ma Astreo lo fermò prima ancora che si fosse alzato del tutto.
   
«E in secondo luogo, non esistono due futuri, ma nemmeno due passati o due presenti, il tempo è una retta. Così come non possono esserci due futuri tu non puoi ricordarne più di uno.» Sorrise. «Diciamo che il tuo potere si auto-censura nel momento in cui il futuro cambia e in questa occasione, è un cambiamento costante, quindi dimentichi tutto immediatamente.»
   
Boniface sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di elaborare tutto ciò che aveva appreso.
   
Si, avrebbe decisamente voluto un libretto delle istruzioni.

 

 

   Avevano resistito forse un ora e mezzo prima che un tuono scuotesse l’intera vallata e la pioggia iniziasse a riversarsi scrosciante su di loro. I ragazzi erano presto corsi ai padiglioni; chi era fortunato si trovava vicino ad essi, chi meno aveva dovuto correre attraverso l’intero Campo Marzio. Serafim ringraziò mentalmente il se stesso del passato per aver guardato il cielo quella mattina ed aver deciso di posizionarsi a pochi metri dalle strutture o in quel momento sarebbe stato ancora in mezzo al campo ad arrancare nel fango.
   
Osservava i ragazzi da un angolo, vicino al bordo del padiglione, i centurioni stavano cercando di farli calmare e di dividerli in cinque gruppi, cercando di capire cosa volessero fare. Serafim non stava più ascoltando da un po’ ormai, si era fermato alle prime due opzioni: cucito con Bernice o mitologia con Ansel, poi la sua attenzione era caduta e si era spostata altrove. Il figlio di Melainia non soffriva in modo particolare di iperattività, anzi quasi per nulla, tuttavia era la sua attenzione a dargli tutti i problemi, non sapendo rimanere su una cosa per più di un secondo. Nell’arco di pochi minuti aveva già osservato la pozzanghera che si stava forando appena accanto la pedana di cemento su cui erano, il ritmo in cui la pioggia cadeva e i suoni che produceva, la pesantezza dei suoi abiti bagnati. Strinse le labbra scostandosi una ciocca bionda dal volto, sempre la solita che nonostante i suoi sforzi non voleva saperne di starsene assieme alle altre nella coda bassa. Sospirò guardando con occhio critico il proprio gilet, fradicio sotto la lunga giacca che aveva dovuto posare durante l’allenamento. Serafim aveva uno stile decisamente eccentrico, portava abiti gotici ed eleganti, e per quanto lui li trovasse comodi, non negava a se stesso che una maglia cinquanta percento cotone e cinquanta percento poliestere avrebbe reagito molto meglio a cose come sudore, acqua e fango, che erano purtroppo all’ordine del giorno.
   
Il suo sguardo si spostò ancora, posandosi questa volta sulla collina dei templi. Sul lato dell’altura un piccolo tempio circolare era animato di vita: una figura faceva avanti e indietro spostando qualcosa da fuori a dentro, o viceversa. Sorrise impercettibilmente sapendo bene cosa stava guardando. Quella era la prima vera pioggia di quella stagione e questo gli ricordò che pure lui, quella sera, avrebbe dovuto dare un occhio alle sue preziose piante.
   
«Cos’hai deciso di fare?» Chiese una voce alle sua sinistra, richiamando la sua attenzione. Cesare lo guardava con le mani nelle tasche della felpa bagnata, i corti capelli scuri lucidi di umidità.
   
«Non ho ascoltato.» Rispose tranquillamente, abbassando lo sguardo sul proprio bastone. «Opzioni?» Chiese, tornando a guardare il pretore. Si conoscevano relativamente da poco, o meglio, parlavano da poco. Cesare lo aveva trovato una sera che si era attardato particolarmente ad annaffiare le sue piante notturne e in qualche modo erano finiti a chiacchierare. Non era certo se la loro si potesse definire un’amicizia, ma era anche vero che non aveva mai visto il biondo parlare con molte altre persone.
   
«Cucito, mitologia, sopravvivenza base, approfondimento sui mostri e teoria del combattimento.» Elencò con calma il figlio di Aurora, osservandolo sbattere le palpebre piano, meditando sulle opzioni.
   
Serafim tornò a guardare la collina dei templi. «Sembra che la abbiano bisogno d’aiuto.» Disse tranquillo, decidendo di ignorare del tutto le opzioni che gli erano state proposte. «Potrei andare a dare una mano, che ne dici?» Quando tornò a guardare Cesare che stava osservando vagamente accigliato, nonostante il sorriso divertito, il piccolo tempio circolare a sua volta.
   
«Penso possa andare bene.» Disse stringendosi nelle spalle. «Magari aspetta che la pioggia diminuisca un po’.» Fece per andarsene ma si bloccò, guardando Serafim leggermente preoccupato, lo sguardo che andava da lui al suo bastone. «Riesci o ti serve una mano?» Chiese a disagio. Non lo riteneva più uno sconosciuto, tuttavia non sapeva ancora come approcciarsi alla sua lieve disabilità. Non sapeva esattamente a cosa fosse dovuto, ma aveva capito che doveva trattarsi di un qualche dolore non persistente poiché lo aveva visto allenarsi ed era anzi un buon spadaccino.
   
«Sto bene, grazie.» Il figlio di Melainia sorrise cortesemente e Cesare se ne andò con un cenno del capo.
   
Aveva dovuto aspettare almeno dieci minuti prima che la pioggia diminuisse, probabilmente sarebbe andata avanti ad intermittenza in quel modo per tutta la giornata. Di positivo c’era che aveva avuto modo di riposare almeno un poco la sua anca che iniziava ad essere indolenzita in seguito all’allenamento di quella mattina. Non sapeva quanto tempo avrebbe avuto prima che l’acqua tornasse a scrosciare quindi si era affrettato il più possibile, venti minuti dopo era al tempio di Vesta.
   
La piccola struttura circolare era bianca e costellata di colonne lungo il perimetro, il basso tetto a due livelli era ricoperto di tegole rosse, che brillavano lucide sotto la pioggia. Serafim quasi corse su per i pochi gradini spinto dall’acqua che aveva ripreso a precipitare poco prima. Trasse un piccolo sospiro di sollievo e si appoggiò al muro del tempio, sentendo l’anca rilassarsi un poco. Aveva iniziato a dargli fastidio già da diversi minuti ma si era imposto di ignorare il dolore, non poteva di certo fermarsi a metà strada e tornare indietro sarebbe stato ancora più inutile e stupido.
   
Dopo essersi concesso qualche minuto per riprendere fiato si staccò dalla parete ed entrò piano nel tempio, sperava solo di non essere arrivato troppo tardi per poter effettivamente aiutare.
   
L’interno del tempio era illuminato dalle calde fiamme di un braciere posto al centro della stanza. Le fiamme non erano particolarmente alte eppure brillavano luminose e scaldavano l’ambiente. Nonostante il caldo non fosse per nulla fastidioso, anzi era un piacevole tepore, Serafim poté sentire l’acqua iniziare ad asciugarsi dai suoi abiti ed evaporare dai suoi capelli. Una ragazzina di forse quattordici anni con un velo posato morbidamente sul capo, un estremità posta sulla spalla, stava vicino al braciere, attizzandolo di tanto in tanto con un asta in ferro. Vicino alla porta un ragazzo stava chinato su una serie di vasi, sparpagliati tutt’attorno, come lui era fradicio.
   
Reidarr era un ragazzo dalla pelle abbastanza scura e il fisico robusto, al campo da appena un annetto, era un mortale con la Vista. Aveva trovato il suo posto al Campo Giove presso il tempio delle Vestali, di cui era una sorta di guardiano, mentre le sacerdotesse si prendevano cura della fiamma, lui si occupava principalmente di badare al tempio e alle sue piante. Faceva ufficialmente parte della quinta coorte, non era quindi esonerato dagli allenamenti, ma le regole erano per lui meno rigide. Giusto il giorno prima aveva innaffiato diversi vasi attorno al tempio e sapeva che con quella pioggia il terriccio sarebbe stato troppo bagnato, così appena era iniziato il diluvio era accorso per portare le piante al coperto.
   
«Posso essere utile?» Chiese gentilmente Serafim. Non si conoscevano molto, ma si erano trovati più volte ai Giardini di Bacco ad occuparsi delle piante e qualche parola era scappata, seppur nessuno dei due fosse particolarmente propenso alle chiacchiere. Reidarr si voltò quasi di scatto, non avendolo notato. Lo osservò con la sua perenne espressione corrucciata e poi tornò a concentrarsi sul proprio lavoro. «Faccio bene da solo, grazie.» Faticava ad accettare l’aiuto offerto degli altri e tendeva più che altro a voler far tutto da sé, questo sommato al suo parlare in modo impulsivo lo facevano apparire facilmente come una persona scontrosa e un po’ burbera, cosa che in realtà non era.
   
Serafim trasse un sospiro sconsolato, osservando dalla porta aperta del tempio i padiglioni in lontananza, per un attimo quasi gli parve di vedere Cesare appoggiato ad uno dei pilastri, ma sarebbe potuto essere chiunque. «Vorrà dire che dovrò tornare indietro, spero Nowak non mi riprenda troppo.» Disse piano, quasi tra sé e sé, anche se chiaramente con un tono abbastanza alto da farsi sentire.
   
«Ho portato dentro le piante più delicate prima che ho potuto, ma a molte sono cadute molte foglie. Pulisci i vasi e svuota i sottovasi se sono pieni d’acqua… grazie» Disse dopo qualche minuto di silenzio senza alzare lo sguardo. Segretamente gli era abbastanza grato per essersi offerto di dargli una mano, non aveva avuto il cuore di chiedere a qualche sua sorella di aiutarlo, essendo tutte abbastanza piccole e minute. Serafim a differenza sua aveva un fisico sottile e sembrava piuttosto secco, ma lo aveva visto più di una volta sollevare vasi abbastanza pesanti senza troppa fatica, sapeva quindi che sotto quei vestiti strambi c’erano almeno un po’ di muscoli.
   
Lavorarono in silenzio a lungo, Reidarr a disporre i vasi lungo le pareti, svuotando i sottovasi pieni d’acqua e Serafim a rimuovere delicatamente il più delle foglie e rimasugli di fiore che erano caduti a causa della violenta pioggia, riponendoli in un sacco che il ragazzo gli aveva dato poco prima. Il silenzio ovattato era interrotto solo dal suono del loro lavoro e dallo scoppiettare delle fiamme, che stavano pian piano asciugando i loro abiti. All’interno del tempio di Vesta si respirava un aria calda e tranquilla, quella di un calore familiare che nessuno dei due ragazzi aveva avuto modo di conoscere del tutto. Il fuoco era sempre della temperatura perfetta, sia in estate che in inverno, e asciugava in tempo record gli abiti bagnati pur lasciando la stanza piacevolmente tiepida.
   
Reidarr aveva trovato nelle vestali una sorta di famiglia: le sacerdotesse erano le sue sorelline e quel tempio la cosa più simile ad una casa che avesse mai conosciuto. Non era una Vestale, il suo genere non glielo consentiva, ma la dea aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo sentire accettato all’interno di quel piccolo gruppo, dandogli il ruolo di guardiano del tempio. Non sapeva se fosse qualcosa di storicamente accurato o se Vesta se lo fosse un po’ inventato sul momento, ma non si era mai posto il problema, stava bene.
   
«Ci sarà una grande impresa?» Chiese una voce sottile alle loro spalle. La ragazzina che stava accanto al falò stringeva l’attizzatoio con eccessiva forza e il viso era acceso di rosso, non avrebbero saputo dire se per l’imbarazzo o per il calore della fiamma.
   
«Si vedrà.» Disse monotono Serafim dopo averla scrutata per un attimo, voltandosi di nuovo a lavorare, infastidito dalla brillantezza del fuoco. Reidarr dal canto suo dedicò un po’ più di attenzione alla sorella, increspando in modo quasi invisibile le labbra in quello lei sapeva essere un sorriso.
   
«Non si sa ancora nulla, ma noi non abbiamo ragione di preoccuparci.» Disse tranquillo, alzandosi per stiracchiare le gambe. Non aveva mai assistito a nessuna missione e in generale l’idea di grande impresa gli era ancora un po’ estranea. Sembrava quel genere di cose che non capitano più, che sono relegate al passato, come le grandi guerre o le pestilenze, ma questo era anche quello che pensavano tutti nel duemilaventi, quando scoppiò l’epidemia di coronavirus.
   
Reidarr era tuttavia tranquillo, almeno per i limiti di una persona che sa che il mondo potrebbe potenzialmente finire. Si sentiva molto uno spettatore di tutto quello che stava accadendo, in quanto mortale, il fatto che si trovasse al campo non cambiava nulla, era un mortale tanto quanto le persone all’infuori di esso, non aveva potere in quella situazione. Tutto ciò che doveva fare era aspettare, che il mondo finisse, o che venisse salvato, non lo sapeva, ma sapeva che non avrebbe potuto farci nulla.

 


 
Angolo Autore
 
Yo yo yo!
Se nello scorso capitolo aprivo l'angolo del disagio esprimendo la mia sorpresa nell'essere stata puntuale, questa volta lo faccio non sorprendendomi minimamente del mio ritardo.
Un mese e mezzo per una selezione, tra l'altro nemmeno completa, è alquanto imbarazzante. Ho pensato più volte di mettere magari una lista degli oc selezionati, ma non vi avevo chiesto cose carucce come "frasi che lo caratterizzano" e io non so riassumere i miei OCs, figuratevi quelli altrui. Tra l'altro alcuni manco hanno un prestavolto. Sarebbe stato un triste elenco di nomi.
Ho preferito evitare ecco.
Dunque, questo capitolo è stato un parto e penso si noti. Alcuni paragrafi mi piacciono, altri... meh
Non succede quasi nulla, ma ho cercato di introdurre al meglio i personaggi, dandovi già qualche notizia chiave di ognuno di loro per cercare di farli rimanere impressi al meglio nei vostri bei cervellini gelatinosi.
Ci sarò riuscita? Probabilmente no, spero solo che il capitolo vi abbia almeno intrattenuti.
Come avrete notato, questi non sono tutti gli OCs. Questo primo capitolo sarà diviso in due, probabilmente tre, parti:
I romani, che abbiamo appena visto
I greci
Il rituale (both greci&romani)
In questo capitolo ho anche voluto chiarire cose come i poteri di Bonny, ho visto dai commenti che molti si erano giustamente interessati alla cosa, tuttavia non sono parte della trama principale. Ho voluto chiarire subito per evitare distrazioni, spero vi sia tutto chiaro.
Ma passiamo alle formalità. Maggio è... un mese di merda. Siamo tutti sommersi di roba ed è per questo che ho tardato tanto, i problemi con le schede han fatto si che iniziassi a scrivere tardi e questo mi ha portato a fronteggiare questo infausto mese. 
Quest'anno ho l'esame di maturità e per questo sono un pelino sommersa di roba. No davvero, uccidetemi. Ne approfitto quindi per dirvi che non mi vedrete fino probabilmente a luglio, se vi va bene fine giugno. Quindi ecco, non è che mollo, ho solo altre priorità. 
Dopo gli esami dovrei essere più tranquilla, certo, poi sarà il turno della certificazione di inglese e gli esami per le università, ma EHI, sono certa sarà meno stressante, almeno non avrò lezioni o compiti.
Detto questo, fagiolini, vi lascio, come sempre vi invito a farmi sapere, se vi va, cosa ne pensate, segnalarmi errori, se ho ben rappresentato i vostri oc e cazzi e mazzi che sapete tutti.
Alla prossima
Peace out ✌🏼
Ebe

 





 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 1.2 ***


 

Le giornate sono sempre piene di attività e ogni sera mi corico distrutta, ma è in qualche modo piacevole sentire il corpo pesante sprofondare nel letto e le palpebre chiudersi come la testa si posa sul cuscino. Spero tu stia bene, mi manchi, non vedo l'ora che sia Natale per poterti rivedere.

Baci
Desdemona

    Con un sospiro la ragazza chiuse la penna, piegò con cura il pezzo di carta e lo mise nella busta su cui aveva già scritto l’indirizzo e messo il francobollo. Si alzò e con passo sicuro si diresse verso la Casa Grande, dove da qualche anno, era stata messa una cassetta postale per quei semidei che, come lei, amavano scrivere ai propri cari.
    
Quando solo una settimana e mezzo prima aveva "picchiato la prof di motoria”, una gorgone, ed era conseguentemente stata espulsa, Desdemona si era letteralmente sentita cadere il modo addosso. Lei e sua nonna avevano cercato disperatamente qualche scuola che l’accettasse ad anno ormai iniziato, ma appena scoperto che era stata espulsa e il motivo, tutti avevano subito rifiutato. A coronare quella situazione già abbastanza complessa ci si erano messi gli attacchi che erano di colpo aumentati, come se i mostri avessero scoperto in quel momento l’esistenza di una semidea a Portland. Doveva essersi sparsa la voce perché nell’arco di tre giorni aveva attirato l’attenzione di una gorgone, due empuse e un telchino. Il campo era quindi sembrata l’unica soluzione. Abbandonare sua nonna le aveva spezzato il cuore, sopratutto poiché nessuna delle due aveva ancora superato la morte del nonno, avvenuta solo un anno prima.
    
La cassetta era attaccata al muro, di fianco l’ingresso: una piccola cassa in legno verniciato di azzurro con su scritto in uni-posca giallo “posta per la famiglia”. Qualcuno aveva scritto a matita sotto, in piccolo, “ad avercela” e nonostante i numerosi tentativi, nessuno era mai riuscito a cancellarlo del tutto. La figlia di Cimopolea imbucò la lettera per poi avviarsi verso il laghetto delle canoe.
    
In quei giorni la mattina l’aria era fresca ma nel pomeriggio il sole tornava a splendere, scaldando le temperature in modo piacevole. Aveva sentito dire che al Campo Giove avevano modificato la barriera per consentire al clima di penetrarla, seppur filtrando i casi più gravi. Al Campo Mezzosangue, nonostante ora avessero la pioggia e la neve, anche se quest’ultima era concessa solo una volta l’anno, non avevano potuto permettersi questo lusso. Le fragole dopotutto erano la loro prima fonte di sostentamento, avevano bisogno di un costante clima mite. La cosa non entusiasmava troppo Desdemona. Se ne ricordò, come ogni volta, nel momento in cui costeggiò i campi, dove i frutti rossi erano gonfi e profumati. Arricciò il naso infastidita e si affrettò lungo la strada: proprio alle fragole doveva essere allergica?
    
Il lago era tranquillo, qualche semidio sull’altra sponda stava preparando le canoe per farsi un giro prima dell’inizio delle attività pomeridiane e il loro vociare arrivava ovattato e piacevole alle sue orecchie. Desdemona non era il genere di ragazza che si sarebbe potuto definire espansiva o loquace tuttavia, sorprendentemente, odiava la solitudine. Non si riteneva particolarmente ferrata nelle relazioni interpersonali, le sue discussioni finivano spesso per essere molto imbarazzanti e impacciate, per cui anche solo sentire un animato chiacchiericcio era sufficiente a tenerle compagnia.
    
Estrasse dalla tasca del suo impermeabile color petrolio un sottile e piccolo fascicolo di foglietti pinzati tra loro e una matita e si sedette su una panchina all’ombra. Le erano sempre piaciuti i sudoku, li trovava stimolanti e divertenti. Fosse stato per lei, sarebbe stata volentieri a fare sudoku tutto il pomeriggio: allenavano la mente e aiutavano a pensare, qualità utili ai semidei tanto quanto quelle fisiche di combattimento.
    
«Secondo me, lì ci va un quattro.» Aveva esordito una voce alle sue spalle. Non sapeva quale casella indicasse il “lì” e, riconoscendo la voce, era piuttosto sicura che non fosse realmente riferito a nulla. Al suo fianco, scavalcando la panca, si sedette una ragazza dai lunghi capelli color borgogna.
    
Amanda era una ragazza piuttosto allegra ed estroversa, sicuramente più di lei almeno, le si era avvicinata alcuni anni prima dopo che si erano trovate in coppia per alcuni allentamenti. Nonostante non lo dimostrasse troppo, Desdemona le era grata per essere andata contro la sua timidezza e sostanziale incapacità con le relazioni umane. Questo suo essere chiusa in se stessa passava sempre per una sorta di freddo distacco, ma non era sembrato importare alla figlia di Dioniso.
    
«Che fai qui tutta sola?» Si sporse sopra la sua spalla per sbirciare il foglio; non era un asso nei sudoku ma dopo anni di amicizia iniziava a capirne qualcosa anche lei. «Una torta.» Rispose, una nota d'ironia nel tono tranquillo.
    
«Tu che facevi?» Chiese, scribacchiando una “tre” in una casella. «Ero nel bosco.» Sospiro Amanda, affranta, suscitando una piccola risata nell’altra. Il motivo per cui la figlia di Dioniso sparisse periodicamente nel bosco era un segreto non molto celato: bastava rivolgerle la parola per più di trenta minuti per saperlo. La ragazza aveva infatti, da anni, una cotta terribile per un driade tuttavia il ragazzo non sembrava ricambiare il sentimento poiché era perennemente nascosto nel suo albero, apparentemente del tutto intenzionato a non farsi trovare.
    
«Secondo me ha paura di te.» Bisbigliò piano, assorta nel rompicapo; il tre appena posizionato si era presto rivelato errato, infastidendola molto.
 
«Ma perché?!» Si lamentò abbandonandosi sulla panca, gli occhi castani rivolti alle fronde sopra di loro. Aveva i suoi sospetti, ovvero la sua discendenza, ma lei non era suo padre. Inoltre era ormai almeno dieci anni che Dioniso aveva lasciato il Campo, facendo di Chirone l’unico loro responsabile.
    
Rimasero in silenzio ancora a lungo, ascoltando il suono del vento tra le foglie e il vociare dei semidei nel lago. Desdemona stava proprio per chiedere che ore fossero quando il corno risuonò in lontananza. Si alzò con un sospiro, riponendo fogli e matite in tasca, allungando una mano ad Amanda che la guardava corrucciata, decisamente poco incline all’idea di allenarsi.
    
Quando il corno suonò ancora e poi ancora una volta, tuttavia, le loro espressioni mutarono quasi all’unisono: tre richiami lunghi, un suono che non udivano da davvero tanto tempo, alcuni di loro mai lo avevano sentito: qualcosa era successo.

 

 

    Appena udito il corno i semidei erano presto accorsi in massa alla Casa Grande. Chirone aveva provato più volte negli anni a spiegare che quel richiamo era indirizzato ai Capi Cabina e non a tutti quanti ma, come al solito il centauro aveva dovuto scacciare i ragazzini, urlando ordini e indicazioni per le attività pomeridiane. Era poi rientrato con la coda che si muoveva in modo nervoso, un rappresentante per Casa alle sue spalle.
    
Teodora era rimasta seduta almeno venti minuti sotto uno degli alberi di rimpetto l’edificio, gli occhi chiari che vagavano in cerca di un segnale che le facesse capire che, finalmente, la riunione era finita. Saltare gli allenamenti non era mai stato un problema particolarmente insormontabile per la figlia di Clio, dopotutto il suo fisico fragile e cagionevole non poteva essere sforzato troppo ed era facile giocare la carta della povera ragazzina debole e malaticcia.
    
Quando finalmente la porta d'ingresso si era aperta i ragazzi che ne erano usciti avevano espressioni illeggibili, chi confuso chi spaventato. Quando aveva visto il fratellastro gli era andata incontro a passo deciso, intenzionata a sapere tutto nei più minimi dettagli. Addison era ormai abituato ai suoi interrogatori e non aveva resistito troppo alle sue insistenti domande. Dopotutto, Teodora non si era guadagnata la nomea di “infopoint” a caso, tutti sapevano che, al giusto prezzo la ragazza avrebbe saputo rispondere, bene o male, a ogni domanda. Nonostante Chirone non avesse apprezzato particolarmente la cosa, ormai si era rassegnato e sapeva che non avrebbe potuto fermala facilmente.
    
La notizia della nuova grande missione l’aveva colta alla sprovvista e non sapeva cosa pensarne: da un lato era curiosa, quasi eccitata, dall’altro era allarmata e spaventata, dopotutto in palio c’erano le loro vite e l’ordine dell’universo, almeno da quanto aveva colto. Non aveva ben compreso in che modo una costellazione in più nello zodiaco avrebbe portato all’apocalisse, ma non aveva intenzione di mettersi a discutere con nessuno a riguardo.
    
Quando era tornata ai campi di allenamento un capannello di ragazzi le si era raccolto attorno, pronti a offrire turni di pulizie e il proprio pugnale migliore in cambio di qualche informazione sulla riunione appena conclusasi. Dopo dieci minuti di trattative la diciassettenne aveva accettato a divulgare qualche notizia per una settimana di turni di pulizie ai bagni, due di servizio al campo di fragole e un pacco di penne gel glitterate. Avrebbe voluto la penna a inchiostro invisibile, ma la figlia di Demetra non sembrava per nulla propensa a separarsene tanto facilmente quindi aveva finito per accettare quelle con i glitter.
    
«Per farla breve, ci sarà una grande missione.» Disse sospirando. I ragazzi attorno a lei sussultarono ed iniziarono a parlare talmente forte che anche gli altri ragazzi, che stavano diligentemente tirando ancora con l’arco, posarono tutto e li raggiunsero, con enorme disappunto del figlio di Apollo che stava loro insegnando. Quando finì di raccontare tutto ciò che aveva appreso il caos era ormai totale, chi teorizzava su che semidio sarebbe stato scelto, chi invece si chiedeva come la scelta sarebbe avvenuta e chi aveva iniziato a scrivere il testamento e a pregare gli dei.
    
Teodora se ne stava a braccia conserte, la fronte corrucciata in mezzo a quel marasma di gente urlante.
    
«Su su bambini!» Esclamò, facendo del suo meglio per farsi sentire in mezzo al chiasso. Riuscì ad attirare l’attenzione di qualche semidio più grande che al termine ‘bambini’ l’aveva guardata con un sopracciglio alzato. «Sta sera avrete tutte le vostre risposte, adesso tornate a fare quello che dovete fare, o questa è la volta buona che Chirone chiude il vostro Infopoint di fiducia in una cella.» E agitando una mano andò a sedersi in un angolo, non le andava proprio quel giorno di usare l’arco, non aveva particolare problemi con esso, semplicemente non aveva voglia di avere i muscoli doloranti quando stava ancora bene.
    
«Mi fanno male le braccia...» Mentì con tono angelico massaggiandosi un braccio quando vide il figlio di Apollo guardarla male.

 

 

    La vista dalla cima della parete di lava era proprio piacevole, pensò Royal, appoggiandosi alla ringhiera del piccolo terrazzo. Sentiva il fiato corto e ogni muscolo bruciargli, sia per la fatica che per le colate roventi che lo avevano sfiorato più di una volta.
    
Si sporse verso gli altri ragazzi, ancora fermi a metà scalata e li osservò con un sorriso sghembo.
    
«Siete lenti!» Gli urlò ridacchiando. Ormai lo sapevano tutti, per Royal De Vries tutto era una sfida, anche quando gli altri non stavano partecipando, lui puntava ad arrivare primo, amava le sfide e le scommesse ma sopratutto amava vincere.
    
Il vento là su era un po’ più fresco e forte, gli scompigliava i capelli castani e gli faceva gelare il sudore addosso. Sapeva che sarebbe dovuto scendere poiché da lì a poco gli altri sarebbero arrivati in cima e il piccolo spazio si sarebbe presto riempito, ma gli piaceva godersi il vento e la quiete di tanto in tanto.
    
Quando il primo ragazzo lo raggiunse lo salutò con un cenno del capo e iniziò a scendere la scalinata di metallo sul retro della parete, senza troppa fretta, dopotutto il suo corpo era ancora stremato dalla scalata. Aveva una muscolatura a malapena accennata e la sua statura era ridicolmente bassa, a suo dire, non che un metro e sessantotto centimetri fossero pochissimi, certo, ma non abbastanza. La sua frustrazione era alimentata dal fatto che lui si impegnasse davvero tanto per mettere su muscoli: si allenava diligentemente e mangiava praticamente solo verdure, nonostante nemmeno gli piacessero così tanto, ma il suo corpo sembrava fregarsene completamente.
    
«Ehi chico, conti di darti una mossa?» Lo chiamò una voce da giù. Una ragazza dalla pelle abbronzata e lunghi capelli castani lo aspettava con le braccia cariche di salviette e felpe che i ragazzi non avevano voluto lasciare sulla terra bruciacchiata dagli schizzi di lava.
    
Che Lizard non amasse le altezze ormai risaputo, inoltre con i suoi ventitré anni era tra i semidei più vecchi per cui era stato facile assumersi il ruolo di supervisore e quindi poter star giù a controllare i ragazzini inerpicarsi sulla parete.
    
Royal le si avvicinò con un sorrisetto divertito recuperando la propria salvietta tra quelle che la figlia di Menta stringeva e si asciugò velocemente il sudore per poi infilare la felpa.
    
«Con calma principessa, qui qualcuno ha lavorato.» Si sedette a terra con un tonfo e recuperò la propria borraccia, bevendone avidamente il contenuto. Lizard gli si sedette accanto con un sospiro, i giorni in cui provava a ricordargli il proprio nome erano ormai lontani, eppure il nomignolo le faceva sempre roteare un po’ gli occhi. Non che ci fosse nulla di personale, Royal era famoso per scordarsi qualsiasi nome, per lui erano tutti principesse.
    
«Mentre eri su è passato un figlio di Demetra, veniva dall’arena di tiro con l’arco.» Iniziò la ragazza, le dita che si attorcigliavano attorno al cordino di una delle felpe. Royal sapeva benissimo cosa voleva dire: quando Chirone richiamava i Capi Cabina tutti al capo avevano la cura d'informarsi sulle attività di Teodora Stylianos per sapere da dove le informazioni sarebbero giunte.
    
«E? La caccia alla bandiera è stata annullata anche questa volta?» Chiese, giochicchiando distrattamente con dei fili d’erba. Non si aspettava di certo l’arrivo di qualcosa di grosso, dopotutto era già un eventualità quando l’oracolo pronunciava una missione anche delle più semplici.
    
«Ci sarà una grande impresa.» Lizard parlò con tono tranquillo nonostante fosse in realtà piuttosto agitata. Non era preoccupata tanto per se stessa, aveva avuto anni e di addestramento alle spalle e anzi era ormai pronta per lasciare il campo. Ciò che la preoccupava maggiormente erano i ragazzini più giovani, quelli inesperti o addirittura appena arrivati. Se fosse stata una scelta a decidere gli eroi destinati a partire, chiunque di loro sarebbe potuto essere un candidato. La figlia di Menta non era una ragazza particolarmente espansiva tuttavia sapeva essere molto protettiva con chi teneva, riservando comunque un occhio di riguardo anche a chi conosceva meno, pur mantenendo le distanze.
    
«L’augure ha visto qualcosa?» Chiese piano Royal, colto di sorpresa dalla risposta dell’amica. «No, il loro augure aveva problemi esattamente come la nostra Sibilla.» Scosse la testa mentre altri ragazzi le si avvicinavano reclamando salviette e felpe. «Astreo stesso è andato da loro a spiegare come stanno le cose. Partiranno in dodici e verranno scelti questa notte… Non chiedermi come, nel passaparola si è perso questo dettaglio.» Spiegò, nella sua voce si poteva sentire un tono di risentimento: ancora una volta erano i mortali a dover salvare il mondo, per qualche ragione.
    
«Almeno è stato diretto, il grattacapo della profezia ce lo siamo evitato, no?» Era un’affermazione sorprendentemente ottimista quella di Royal, che invece era tutto il contrario. Molti non se lo aspettavano da lui, dopotutto era sempre allegro, con il sorriso in viso e una personalità particolare ed eccentrica. Tuttavia, più ancora che pessimista Royal era bugiardo, quindi perché mostrarsi spaventato, perché un po’ lo era, quando poteva esibire la sua solita flemma e noncuranza.
    
«Spero che la scelta sia qualcosa di divertente, tipo una prova. Oppure con il Cappello Parlante! Quello sarebbe un tocco di stile retrò niente male.» Pensò ad alta voce, gli occhi castani persi nel vuoto.
    
«Tu sei strano forte.»
    
«Lo prenderò come un complimento.» Ridacchiò il figlio di Apate alzandosi, mentre con una mano si spazzolava la terra via dai vestiti. Si levò la felpa e la lanciò di nuovo alla ragazza.
    «Grazie principessa!» E dopo averle mandato un bacio si diresse verso la parete, pronto per il secondo giro.



 


 
Angolo Autore
 
Yo yo yo!
Ehehehe... e voi che pensavate che avrei davvero aggiornato a luglio... AH! ILLUSI.
A parte gli scherzi, sono una persona orribile. Però dai, solo un mese di ritardo, sono stata brava! :D 
No vero? Capisco, capisco.
Allora, a mia discolpa posso dire che quest'estate è stata folle, tra maturità, test d'ingresso per l'università, certificazioni di inglese e affrettatissime ricerce di alloggi in cui stare, stavo davvero morendo, rippissimo. E' andato tutto bene comunque - anche molto meglio di quanto mi aspettassi - quindi daje.
Quindi nulla, questo capitolo è stato scritto in realtà in poco tempo e, diciamocelo, si vede. E' una ciofeca. Mi dispiace non aver fatto giustizia ai bellissimi oc che ho presentato perchè davvero meritano, cercherò di rifarmi, giurin giurello.
Il mio struggle maggiore è che io ho idee per il dopo, cioè tutta sta parte iniziale dove non si conoscono e non si amano ancora mi fa soffrire. Rip.
Dunque, il prossimo aggiornamento sarà quindi la magggica selezione e sarà la fine del primo capitolo. Non voglio farvi promesse con date di pubblicazione che non rispetterò, anche perchè inizio l'università il sette (ma io dico, te pare?! Un mese fa avevo il risultato del test e già mi dici che inizio! Ma fammi vivere!). Posso solo dirvi che vorrei pubblicare entro il 2021 ecco, prima della fine dell'anno. Conoscendomi pubblicherò il 31 dicembre alle 23:59, ma ignoriamo.
Ultima nota, come avete visto, anche tra i greci è la fiera dei nomi di mmmerda (che poi sono belli eh, semplicemente sono strani) e io non posso essere più felice. Sono così fiera di voi.
Ora ho finito di dire vaccate, vado a nascondermi perchè davvero odio questo capitolo.
Please be gentle with me, I'm smoll.
Peace out ✌🏼
Ebe

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 1.3 ***


      
   I falò serali erano un attività diffusa più tra i greci che i romani, dopotutto i loro ritmi sostenuti e la sveglia all’alba non rendevano l’idea particolarmente allettante. I ragazzi che arrivavano dopo cena senza il desiderio di buttarsi in branda erano davvero pochi e, considerando che si trattava di adolescenti iperattivi, la cosa era particolarmente sorprendente. A detta di Cesaria, quella era la migliore tattica che quel campo avesse mai sfornato in anni di esistenza: prenderli per sfinimento; e sembrava del tutto intenzionata a perpetrare l’usanza.
   
Dopo un temporale durato praticamente tutto il pomeriggio, verso sera il cielo aveva iniziato ad aprirsi e le stelle a fare timidamente capolino tra le nuvole. Con il sereno era arrivato anche il vento, che aveva spazzato via i cumuli neri, trascinando le loro tempeste più ad ovest.
   
Serafim, seduto sul proprio letto, allacciava senza fretta i bottoni della propria camicia, lo sguardo chinato sulle dita sottili, i capelli ancora leggermente umidi che gli ricadevano attorno al volto. Trovava davvero ingiusto che ci fossero i turni ai phon. Capiva benissimo che il tempo per lasciare ad ogni semidio il proprio momento alla Beyoncé non ci fosse, ma non tutti avevano la stessa lunghezza di capelli e sette minuti non sempre erano sufficienti, sopratutto in inverno quando asciugarli male rischiava di far ammalare almeno la metà dei ragazzi presenti. Fortunatamente negli anni erano riuscito ad elaborare un ombra di strategia, accordandosi con alcuni dei ragazzi dai capelli più corti per rubare il loro tempo in eccesso. Tuttavia c’era anche chi aveva i capelli ben più lunghi dei suoi e i momenti immediatamente prima delle docce finivano per sembrare mercati del pesce presi d’assedio dai gabbiani.
   
Recuperò il nastro dal comodino e iniziò ad intrecciare blandamente i capelli, non preoccupandosi troppo delle ciocche più corte attorno al viso che, già sapeva, sarebbero scivolate fuori tempo di uscire dalla stanza. Si alzò sospirando infilandosi gilet e la giacca. Sicuramente una felpa sarebbe stata più pratica e lui per primo non lo avrebbe mai negato, tuttavia ormai si trovava più comodo in quegli abiti che non in quelli più mondani, e a dirla tutta li preferiva anche: non aveva alcuna intenzione di cambiare il proprio armadio. Raccolse il proprio bastone dal letto e si avviò con calma fuori. Aveva ancora quarantacinque minuti prima del fuoco, cerimonia o quello che era, poiché era stato tra i primissimi a lavarsi. Non se la sentiva onestamente di andare già al Campo Marzio, dove stavano allestendo una specie di arena improvvisata. Sapeva che o si sarebbe trovato circondato da ragazzi urlanti, o peggio ancora lo avrebbero schiavizzato per sistemare le panche e, considerato anche che si era appena lavato, poteva affermare tranquillamente e senza imbarazzo che non ne aveva minimamente voglia. Una volta uscito dalle baracche si avviò quindi nella direzione esattamente opposta, verso le stalle e più in là i Giardini di Bacco. Sapeva che non avrebbe fatto in tempo a raggiungerli e tornare indietro in orario, ma poco oltre le scuderie si apriva un piccolo prato che era riuscito, piano piano, a colonizzare con alcune delle sue piante notturne.
   
Prestò molta attenzione nel scendere dal sentiero che portava al prato, ponendo cura nel misurare i passi e non rischiare di scivolare nel terreno ancora fangoso. Il suo piccolo giardino privato consisteva di giusto qualche vaso e un arco di ingresso abitato da un rigoglioso gelsomino che, non ne faceva un segreto, gli muoveva un certo orgoglio. Un paio di anni prima Berenice era riuscita a convincere i pretori, sopratutto la sorellastra, a dare come attività ai ragazzi di costruire una piccola recinzione per quello spazio. Nonostante Cesaria non si fosse dimostrata da subito particolarmente avvezza all’idea, Serafim l’aveva scorta aiutare a dipingere e le assi che erano state toccate dalla sua mano artistica erano facilmente identificabili tra le altre.
   
«Sai, mi sono sempre chiesta come mai ce l’hai su con le piante notturne.» Lo sorprese una voce alle sue spalle. Parlavi del diavolo ed eccolo in piedi sul sentiero, una sigaretta stretta tra due dita e la mano libera affondata in una delle giganti tasche della salopette. Nel buio quasi totale, se non per i rarissimi lampioni a lato della strada, scorse un espressione curiosa sul suo volto.
   
«Mi piacciono anche quelle diurne.» Disse semplicemente e la ragazza alzò un sopracciglio. La punta incandescente della sigaretta brillò nel buio quanto prese un tiro piano. Saltò giù dalla strada, leggermente rialzata rispetto al prato, con molta meno cautela di lui, raggiungendolo a passo sicuro.
   
«Ma questo giardinetto ha solo fiori notturni, dico bene?» Domandò chinandosi per osservare meglio una pianta, lì la luce dei lampioni, già non particolarmente potente, arriva ancora più timida, scolpendo appena i contorni delle cose.
   
«Non ti facevo un’esperta di piante.» Non avevano mai interagito troppo e per questo non l’avrebbe definita un’ amica, anche perché era davvero poca la gente che Serafim Branko avrebbe definito tale. Tuttavia, doveva ammetterlo, non la disprezzava così tanto come molti avrebbero potuto pensare. Sì, divergevano molto su più di un fronte, era innegabile, ma la ragazza aveva più di una caratteristica che il figlio di Melania apprezzava, la sincerità prima tra queste.
   
«Non lo sono, ma ero curiosa e ho fatto le mie ricerche.» Scrollò le spalle facendo un tiro annoiato e voltando la testa per soffiarlo lontano sia da lui che dalle piante in una gentilezza che non si sarebbe aspettato.
   
«E poi beh, fioriscono di notte. Non sarò la prima della classe ma non sono deficiente.» Ridacchiò, effettivamente il suo commento aveva parecchio senso. Serafim sapeva bene, come chiunque altro al campo, che le giornate del pretore non erano scandite dal giorno e dalla notte, portandola a star sveglia fino ad orari improponibili e spesso nemmeno a dormire; non si sarebbe stupito nello scoprire che ogni tanto fosse andata a far visita al suo piccolo giardino.
   
«Tra mezz’ora fatti trovare all’arena.» Gli disse con un sospiro, passandosi una mano tra i capelli turchini. «Non voglio ritardi inutili.» Aggiunse e si avviò di nuovo verso il campo, lasciandolo nuovamente solo con i propri pensieri.
 

 

   Dopo il caos di quel pomeriggio le cose si erano finalmente calmate, per quanto un campo di ragazzini iperattivi potesse star tranquillo. L’unico problema era che l’ora della cerimonia si faceva sempre più vicina e l’agitazione stava tornando a farsi sentire. Il fuoco in mezzo a loro passava da pericolosamente alto e vibrante a delle braci a malapena visibili con la stessa facilità con cui Enrico VIII cambiava le mogli e la cosa iniziava davvero ad irritare Teodora. Seduta sul suo solito posto di fiducia, quello con tutti i cuscini per evitare di ritrovarsi a piangere dopo mezz’ora, controllava seccata l’orologio: un quarto a mezzanotte. Sperava davvero che i Romani si muovessero a finire con le docce e a far partire il dannato rituale, perché iniziava a sognare il proprio letto.
   
Con un fuso orario di tre ore tra San Francisco e New York, accordarsi su un orario sufficientemente buio per tutti quanti era stato non poco complesso e, ovviamente, loro erano quelli finiti a fare le ore piccole, o meglio, a dover aspettare, fingendo allegria con canti noiosi attorno ad un fuoco magico più sincero di loro.
   
Avevano tutti sperato fino all’ultimo che Chirone concedesse loro il lusso dei marshmallow, dopotutto c’erano meno della metà dei ragazzi che stavano lì d’estate e tutti erano consapevoli della scorta di dolciumi, nascosti da qualche parte nella Casa Grande.
 
Due dita picchiettarono piano sulla sua spalla richiamando la sua attenzione: «Ehi, ragazza delle notizie, si sa nulla riguardo il come questa… cosa avverrà?»
   Teodora si girò quel poco che le bastava per mettere a fuoco la sua interlocutrice, Amanda figlia di Dioniso, quella con i capelli borgogna. Sì, aveva in mente. Si prese qualche secondo per osservarla e pensò davvero a cosa avrebbe potuto chiederle in cambio, ma la verità era che non ne aveva voglia, aveva guadagnato abbastanza per quei giorni. A dirla tutta non aveva idea nemmeno lei, quindi non avrebbe saputo darle una risposta più elaborata di un “non lo so”.
   
Si strinse leggermente nelle spalle e allungò una mano tra i riccioli chiari, rigirandosi pigramente una ciocca attorno al dito.
   
«Ah bho, tu lo sai? Io no.» Disse tranquilla. «Nemmeno i loro Pretori sembravano particolarmente preparati, a detta di Addison.» Spiegò tornando a guardare il fuoco, ora sempre più spento e cupo man mano che si avvicinava la mezzanotte. Sperò solo che non ci fossero problemi di connessione o robe varie… anche se non avrebbe saputo nemmeno se o come si sarebbero connessi.
   
«Lol.» Commentò Amanda alle sue spalle. Poteva immaginarla senza nemmeno il bisogno guardarla mordicchiarsi il polpastrello del pollice indecisa e poi, finalmente, decidersi a scendere un gradino e occupare il posto vuoto al suo fianco.
   
«Ma dimmi, tu sai per caso chi sono ora i Pretori?» Chiese curiosa. La pace era durata talmente a lungo che i due campi si erano quasi dimenticati l’uno dell’altro. Sapevano che Chirone aveva incontri sporadici con loro, giusto per evitare di diventare completi sconosciuti, ma era anche vero che più di un ragazzino seduto a quel falò non era a conoscenza dell’esistenza di un campo romano fino a quel giorno. Fino ad alcuni anni fa capitava che piccole delegazioni amichevoli venissero da loro, o viceversa, ma i costi dei trasporti avevano finito per terminare preso l’iniziativa.
   
«Ti sembra che possa saperlo?» Rispose piccata ma lo sguardo curioso di Amanda e il suo silenzio insistente le fecero intendere che sì, pensava proprio potesse saperlo. E così era, in realtà.
   
«Il ragazzo asiatico e la figlia di Venere.» Sbottò dopo un po’. In realtà non aveva avuto nessuna conferma, erano loro l’ultima volta che aveva controllato e aveva motivo di credere che se fossero cambiati sarebbe venuta a scoprirlo, in qualche modo.
   
«Oh… pensavo andassero cambiati di frequente, tipo.» Commentò la figlia di Dioniso piegandosi in avanti per poggiare il mento tra le mani. Non si ricordava benissimo quando fosse stata l’ultima volta che si era informata a riguardo, ma un buon due anni dovevano essere trascorsi.
   
«Che ti devo dire, saranno bravi..?» Si strinse nelle spalle Teodora.
   
«Dici? Chissà com’è il Campo Giove.» Sospirò. «Hanno pure una città… che culo che hanno, scommetto che nemmeno se ne rendono conto. Noi pure per degli assorbenti dobbiamo mandare Argo.» Sbuffò infastidita. Il loro piccolo magazzino veniva sempre depredato e le ragazze finivano per attaccare i pacchi come cavallette appena arrivavano, giusto per evitare di trovarsi a secco nei giorni di bisogno. Ogni tanto Lizard, la ragazza più grande del campo, accettava commissioni quando doveva recarsi in città, ma quelle costavano, a differenza del materiale fornito dal campo.
   
«Io sono piuttosto certa che se non sarà il campo ad organizzare qualcosa ci andrò per conto mio. Inoltre Nuova Roma ha un università, potrebbe essere un opzione, giusto per non rischiare di finire fuori corso a causa dei mostri.» Era effettivamente da un po’ che ci pensava. Se non poteva andare in Europa a vedere la Roma, reale accontentarsi della brutta copia era il minimo. Almeno per il momento.
   
«Sì, ho sentito diversi ragazzi che ci sono andati. Mi chiedo come viene registrata nei curriculum...» Disse pensosa. Effettivamente non ci aveva mai pensato, dopotutto era un università nascosta al mondo. Chissà, magari la foschia camuffava il nome in qualsiasi altra scuola, sarebbe stato interessante.
   
Il fuoco era ormai sempre più tenue e Teodora faticava quasi a coglierne il bagliore oltre le lenti scure che era costretta a tenere su costantemente, infastidita anche dalla più semplice fonte di luce. Se di solito la notte le portava un po’ di tregua, il fuoco non faceva altro che allungare il tempo in cui doveva indossarli, lasciandola in una fastidiosa buia cecità eccezion fatta per la fonte di luce. Aveva ormai preso l’abitudine di abbassarli leggermente sulla punta del naso quando doveva osservale qualcosa di diverso dalla fonte di luce. Anche in questi momenti, comunque, la sua vista di certo non dava il meglio di se, essendo, tra le altre cose, anche un po’ miope. Era fastidioso ma era scesa a patti ormai da anni con l’idea che la salute fisica non giocasse esattamente nella sua squadra.
   
Abbassò lo sguardo sull’orologio nell’esatto momento in cui la lancetta dei minuti scattò sul dodici: mezzanotte, si iniziava.
 

 

   «Tu cosa c’entri? È questo che non riesco a capire.» Appoggiata al muro, le braccia conserte la ragazza lo guardava con occhio critico infilare le scarpe. Ansel sospirò alzandosi dalla piccola panchetta nell’ingresso e recuperò la felpa dall’appendi abiti.
   
«Te l’ho detto, sono un mezzo istruttore, faccio ancora parte del campo, quindi devo partecipare.» Ripeté per la terza volta quel giorno.
   
Alice non aveva preso molto bene l’idea che il suo ragazzo partecipasse a riti di selezione per delle imprese, era stata una legionaria anche lei e sapeva come funzionavano gli dei, carini e gentili e poi ti fregavano subito dopo averti detto di non preoccuparti. Non poteva chiederle semplicemente di stare calma.
   
«Ti serve un lavoro serio Sheridan.» Sospirò passandosi una mano tra i capelli chiari. Aveva ventitré anni, il servizio lo aveva ormai terminato, eppure sembrava non se ne fosse mai davvero andato. Iniziavano a crearsi una vita e anche se il matrimonio non era necessariamente nella loro to-do list, sicuramente non si poteva campare per sempre di uno stipendio e qualche agevolazione e piccola somma.
   
«Lo so, sto cercando.» La verità era che Ansel non sapeva cosa cercare, dopotutto non aveva ricevuto un educazione particolarmente completa, anzi. Era cresciuto in un camper e i suoi genitori adottivi si erano preoccupati della sua educazione home school. I due semidei lo avevano cresciuto tralasciando più di una materia ed insegnandogli invece miti e leggende approfonditamente. Per quanto la sua formazione non gli desse particolari problemi, era anche vero che ora che si affacciava verso la vita adulta non aveva esattamente un idea precisa di cosa volesse fare. Sulla bilancia portava un enorme bagaglio culturale assai utile per un semidio, ma quasi completamente privo di valore per qualsiasi altro abitante sia di Nuova Roma che del mondo esterno.
   
«È solo un rituale, Alice. Sarò a casa prima delle undici.» La rassicurò posandole una mano sul viso. «Non è mica la prima profezia a cui assisto no?» Continuò. Poté vedere nei suoi occhi i suoi pensieri e non gli fu affatto difficile capirli, dopotutto erano gli stessi che, non lo avrebbe certo mai ammesso, tormentavano anche lui: “Non mi fido degli dei.”
   
Era probabilmente la regola numero uno di un semidio, non fidarsi degli dei. Che fossero buoni, cattivi, sconosciuti o celeberrimi, non si potevano avere certezze. Giocavano per se stessi e poco gli importava del costo delle vite che impiegavano per raggiungere un obbiettivo, che fosse causare la fine del mondo o, di contro, fermarla. Erano bambini capricciosi ma potenti e sapevano tutti e due che non sarebbe stato un “scusa tanto ma ho terminato il servizio” a fermarli. Tutto ciò che avevano era la magra speranza che almeno le costellazioni fossero un poco più magnanime. Ma erano anch’esse esseri eterni, e come tali non conoscevano il vero valore della vita.
   
L’orologio digitale al suo polso emise un breve suono avvisando dell’ora e Alice sospirò.
   
«Solo non fare cazzate tipo offrirti volontario o roba simile.» Lo ammonì.
   
«Di quello certamente non devi preoccuparti.» Ridacchiò prima di lasciarle un veloce bacio sulle labbra.
   
«A dopo.» La salutò ed uscì, diretto verso il Campo Marzio.
 

 

   Era agitato, decisamente agitato, negarlo sarebbe stato stupido e certamente chiunque avrebbe potuto notarlo. A gambe incrociate in mezzo al tempio di Apollo rivolgeva mute preghiere di aiuto. Verso chi non era ben chiaro nemmeno a lui, dopotutto non si trattava di fare una profezia, non aveva un padre, o una madre, a cui rivolgersi quindi si limitava a pregare.
   
In quanto Augure del Campo Giove, Quentin era la cosa più simile ad una figura sacerdotale che il campo avesse a disposizione e per questo le formalità stavano a lui. In anni che aveva ricoperto quella carica, tuttavia, non si era mai trovato a dover celebrare rituali così importanti e anche se si ripeteva che Astreo avrebbe fatto il grosso, un parte di responsabilità era anche sulle sue spalle. O almeno così gli sembrava.
   
Dopo la cena era corso subito lì nel tentativo di rilassarsi almeno un poco e non arrivare al falò con i capelli ritti in testa e i nervi a fior di pelle. Se fosse effettivamente servito a qualcosa doveva ancora deciderlo. Solitamente non aveva mai avuto particolari problemi a meditare, anzi, era così che riceveva la maggior parte di previsioni e le rare, piccole, profezie che avevano animato gli scorsi anni. Eppure quella sera la sua mente sembrava non volerne sapere di svuotarsi: i pensieri si incatenavano l’uno all’altro in modo confuso in una cascata di pessimismo e negatività che decisamente non gli apparteneva. Quentin Blaise era un ragazzino solare e allegro, puntava a dare gioia alle persone perché di tristezza e negatività nel mondo ce ne era già anche troppa. Non vedeva sempre tutto rosa e fiori, non era stupido, ma ci provava, ci provava davvero, e ora stava fallendo e questa cosa lo devastava. Non riusciva a non pensare che se lui era così disperato chissà come lo sarebbero stati gli altri.
   
Con un sospiro infastidito si lasciò cadere a terra, gli arti aperti come una stellina colorata, caduta per caso in quell’enorme tempio bianco. Osservò dal basso la statua del dio Apollo, chiedendosi ancora un altra volta se quello fosse suo padre, perché non lo avesse riconosciuto, o altrimenti chi altro potesse essere. Prima che la sua mente lo trascinasse in un altro limbo di pensieri negativi dei passi risuonarono alle sue spalle e il ragazzo rotolò sulla pancia per vedere chi fosse. Sulla soglia Reidarr lo guardava lievemente corrucciato, le mani affondate nelle tasche del piumino.
   
«Reidarr!» Lo salutò entusiasta alzandosi, il vecchio sorriso che tornava a dipingergli le labbra sottili. Gli andò incontro e recuperò la giacca prima di avviarsi fuori spegnendo le luci del tempio.
   
«Sei venuto a prendermi?» Chiese infilando le braccia nelle maniche di un enorme parka color senape e affondando il mento le bavero.
   
«Ho visto la luce accesa e volevo controllare.» Rispose semplicemente. I due ragazzi avevano un solo anno di differenza ma caratteri talmente opposti da, in qualche modo, funzionare assieme in un incastro che da fuori sembrava completamente privo di senso. Se Quentin era decisamente vivace e dalla parlata facile Reidarr era più silenzioso e tranquillo. Le loro conversazioni venivano trascinate principalmente dal primo, che non si arrendeva davanti a risposte monosillabe, grugniti e lievi cenni del capo; aveva anzi imparato ad interpretare quei segni senza troppa fatica. Dopo tutto, quando si interpretano segni profetici, qualche grugnito risulta un gioco da ragazzi.
   
«Bhe grazie! Siamo in ritardo?» Chiese affondando le mani nelle tasche; nonostante il cielo si fosse aperto si era proprio fatto fresco, ringraziò il se stesso del passato per aver deciso di mettere dei jeans dopo la doccia e non rimanere in calze come si era ostinato per tutta la mattina.
   
Reidar controllò l’ora sull’orologio e dopo qualche secondo di valutazione decise che sì, erano in ritardo e conveniva accelerare un po’ il passo se non volevano che Cesaria usasse la loro pelle per costruirsi delle tele nuove.
   
Si premurò di esprimere questo suo pensiero in un eloquentissimo «Mh.» E proseguì allungando la falcata, Quentin alle sue spalle, colto di sorpresa, lo raggiunse con una piccola corsa.
   
«Te lo han detto i pretori di partecipare?» Domandò curioso alzando il viso verso di lui. Annuì leggermente. La cosa un po’ lo scocciava, lui non c’entrava nulla in quella faccenda di dei e astri. O meglio, sì ma fino ad un certo punto. Dopotutto non era sicuramente il più abile della legione, dividendo il proprio tempo tra allenamenti e lavoro al tempio, e sicuramente non aveva alcun potere particolare che sarebbe potuto risultare utile in una missione. Però capiva quanto gli aveva riferito Cesare: sei un legionario e come tale sei tenuto a partecipare alle attività importanti; solo guardare, non serve tu faccia altro.
 


 

   I ragazzi si muovevano a disagio sulle panche sistemate attorno ad un piccolo falò come meglio erano riusciti, pigiati spalla contro spalla anche per ripararsi dal freddo notturno, il vento che si infilava nei loro colli.
   
Reidarr sedeva vicino alla catasta di legna, alzandosi di tanto in tanto per ravvivare le fiamme ed aggiungere un po’ di combustibile sul fuoco. Ogni tanto un ragazzo sottile e dai lunghi capelli neri faceva lo stesso, avvicinando decisamente troppo la mano alle fiamme, dalla sua espressione sembrava proprio lo facesse più per divertimento che non per il bene del fuoco.
   
Maia lo osservò tornare a sedersi accanto ad un ragazzo biondo e occhialuto. Li guardò ancora qualche secondo prima di girarsi lentamente verso Berenice seduta al suo fianco.
   
«Ce l’hanno fatta eh?» Domandò ironica. La figlia di Venere annuì con una risatina, coprendosi appena la bocca con le dita per non farsi sentire.
   
«Davvero! Ormai non ci credevo più!»
   
Egrar ed Armin erano stati il pettegolezzo del Campo Giove per ormai quasi sei anni, sei anni in cui il primo era andato dietro al maggiore, talmente cotto che chiunque lo aveva capito ad una prima occhiata. Purtroppo per il figlio di Apollo, però, la cosa era ovvia a chiunque meno che al diretto interessato. L’estate scorsa si erano finalmente messi assieme e la notizia aveva allietato più di un animo all’interno del campo.
   
«Ce ne hanno messo di tempo.» Sospirò Maia stringendosi nella giacca di jeans. Forse era un po’ troppo freddo per una giacca di quel tipo, ma aveva ovviato al problema infilando due maglie sotto l’enorme felpa. Era la sua giacca preferita, rubata a suo cugino anni prima. Con la sua statura, che non arrivava al metro e sessanta, dire che ci navigava dentro era davvero un eufemismo. Pesava davvero un quintale, tra borchie, spille e toppe varie, ma la amava con ogni fibra del suo corpo.
   
«Armin è proprio un caro ragazzo, ma certe volte sa essere davvero tocco.» Sospirò Berenice, lo sguardo impallato a fissare le fiamme rosse.
   
«Assurdo eh?!» Rispose ironica la figlia di Ares.
   
Ad interrompere la loro discussione, così come ogni altra chiacchiera in quel cerchio, furono quattro figure che entrarono nel cerchio in quell’esatto momento, portando con loro il silenzio. Prima i due pretori e poi l’augure che sorreggeva gentilmente Astreo. Il titano congedò i tre ragazzi tuttavia Quentin non si sedette, rimanendo in piedi tra due panche.
   
Il dio alzò lo sguardo al cielo e trasse un lento respiro, per un attimo le stelle illuminarono il suo viso, lenirono le rughe e fecero risplendere la pelle, mostrando quello che era stato il suo splendore prima che Ofiuco iniziasse la sua rivolta.
   
Tuttavia, quando abbassò lo sguardo, il fuoco non fu altrettanto magnanimo, tornando a mostrare il vecchio che era svenuto davanti al tunnel d’ingresso quella stessa mattina.
   
«Augure.» Chiamò e Berenice avrebbe scommesso di aver visto Quentin sussultare appena.
   
«Il tuo potere è grande, non interpreti solo i segni ma usi il tuo corpo come canale di comunicazione.» Iniziò. La sua voce era molto più potente di quanto non lo fosse mai stata e tutto attorno i semidei ascoltavano in religioso silenzio. «Il tuo corpo è un antenna, mi hai detto che sei in grado di svuotarti e renderti disponibile per chiunque abbia qualcosa da dire, è corretto?» Domandò gentilmente e il ragazzo annuì. Era talmente rigido che Maia provava fastidio per lui e sentì la necessità di ruotare le spalle per scacciare quella sensazione.
   
«Con una piccola spinta questa comunicazione può avvenire al contrario, non ho abbastanza forza per condurre sia il rituale che le comunicazioni con i greci da solo; posso contare sul suo aiuto?»
   
«Assolutamente.» Fu l’unica risposta del ragazzo. Nonostante il fango si sedette senza esitazione in mezzo al cerchio, poco lontano da Astreo e chiuse gli occhi. Per un attimo interminabile non successe nulla. Le sue piccole dita giocavano con i fili d’erba e l’agitazione era leggibile nelle sopracciglia corrucciate. Attesero in silenzio, il fiato sospeso e lo sguardo che rimbalzava dall’augure al titano, non sapendo esattamente cosa stessero aspettando.
   
Per Maia quella era decisamente una mossa azzardata: tenere trenta ragazzini iperattivi in silenzio attorno ad un fuoco, esattamente cosa pensavano li fermasse far casino? Lei stessa iniziava e perdere decisamente la pazienza e la sua attenzione era già caduta tre volte in quel minuto e mezzo. Non si accorse di star facendo dondolare nervosamente la gamba fino a che Berenice accanto a lei non la fermò posandole gentilmente una mano sul ginocchio; probabilmente stava dando il mal di mare a tutta la panca.
   
Chiunque potesse vedere il viso di Quentin capì l’esatto momento in cui i suoi pensieri lasciarono posto al nulla più totale: il viso si rilassò, le sopracciglia si distesero e la schiena si fece dritta. Chi si trovava più vicino a lui poté sentire Astreo mormorare gentilmente «Bravo ragazzo.»
   
Il titano gli si avvicinò e si chinò per posargli una mano sul capo, il pollice premuto sulla sua fronte. Mosse le labbra ma nessuno capì chiaramente ciò che disse.
   
Per un attimo le stelle brillarono più intensamente.
   
L’augure aprì di scatto gli occhi, le orbite accese di una luce bianca.
 

 

   Royal non sapeva cosa aspettarsi, ma di sicuro non il rogo del giovedì sera. Era mezzanotte e otto minuti e non era successo ancora assolutamente nulla. Non un Messaggio Iride, un magico fuoco fatuo parlante o un segnale di fumo all’orizzonte. Iniziava ad irritarsi: i romani non dovevano essere organizzati? Quelli precisi e che facevano le cose bene? Aveva sempre immaginato ricalcassero un po’ lo stereotipo dei tedeschi: fiscali sulle cose più piccole e rigidi come soldati; forse era giunto il momento di rivalutare le sue convinzioni.
   
Si può quindi dire tranquillamente che quando il falò da una brace ormai quasi spento prese improvvisamente vita sollevandosi in una colonna di fuoco, più di un semidio perse un battito dallo spavento. Quando le fiamme si abbassarono un poco scoprirono una specie di ologramma di un ragazzino dai capelli ricci e le gambe incrociate. Per secondi che parvero interminabili non successe nuovamente nulla, poi il ragazzo spalancò gli occhi e iniziò a parlare con una voce decisamente non sua, o almeno questo era quello che Royal si augurava.
   
«Compagni greci! Vi ringrazio della vostra pazienza e della pronta risposta che avete dato alla mia causa.» Proclamò solennemente. Il figlio di Apate alzò un sopracciglio scettico. Non avrebbe definito la loro una “pronta risposta”, dopo tutto era piuttosto convinto non avessero nemmeno ricevuto delle opzioni.
   
«Divino Astreo, è un onore poterla servire.» Intervenne Chirone avvicinandosi al fuoco, aveva uno sguardo dubbioso e fece due giri attorno al braciere osservandolo con occhio critico. Probabilmente stava capendo quanto loro il funzionamento di quel mezzo di comunicazione, cioè poco.
   
«Chirone! Perdonami se non mi dilungo, ma non voglio prosciugare troppo l’augure, sta già facendo tanto.» Ecco quella era nuova; e così quello era l’augure romano. Royal osservò il ragazzino con rinnovata curiosità, certo capirne i lineamenti da un ologramma rossastro in mezzo ad un fuoco non era semplice, ma si prese il suo tempo per studiarlo, tanto per ora i due vecchi stavano solo blaterando convenevoli inutili. Sicuramente se non fosse stato per la sua vista pessima avrebbe di certo saputo carpire di più del viso del ragazzo; finendo quindi per arrendersi presto.
   «A breve inizierò il rituale, dopo di esso non sarò in grado di mantenermi tra voi mortali, non ne ho le forze.» Iniziò con tono solenne.
   
«Prima di lasciarvi voglio ringraziarvi per l’enorme sacrificio che vi sto chiedendo, siete la speranza di tutti noi.» Royal roteò gli occhi, quanto era drammatico! Tuttavia doveva ammettere che era stato sorprendentemente… gentile. Non aveva mai interagito con divinità, ma era piuttosto sicuro non fossero esattamente il tipo di persona da regalare ringraziamenti.
   
«Non abbiate paura di ciò che succederà ora, non vi farà del male.»
   
Seguirono secondi di silenzio e quando l’augure aprì nuovamente la bocca non comprendevano ciò che diceva.
   
Si trattava probabilmente di greco antico, ma la cantilena era talmente bassa e borbottata che nessuno di loro riuscì a decifrare nulla. Ogni tanto qualche parola spuntava in quel caos di suoni, ma non erano a sufficienza per capire cosa effettivamente il titano stesse dicendo.
   
Era talmente concentrato a cercare di capire qualcosa che non si accorse nemmeno del chiarore che iniziò a circondarli. Lentamente, un naso dopo l’altro, alzarono tutti lo sguardo verso il cielo. Non avevano mai visto le stelle così grandi e luminose, sembravano quasi vicine tanta era la forza della loro luce, gli sembrava quasi di cadere nel cielo.
   
O forse era il cielo a cadere verso di loro, una, due, e tante altre stelle che iniziarono a precipitare verso di loro. Ammirati i semidei le seguirono con gli occhi nel loro viaggio dal firmamento fino al loro piccolo campo. Come globi di luce scivolarono tra di loro, portando un tepore piacevole quando accarezzavano la pelle. Alcune sparirono nel nulla subito, altre si attardarono un poco prima di seguire le loro sorelle. Certe stelle passavano in rassegna un semidio alla volta ma la maggior parte volava frenetica tra di loro.
   
Alla fine ne rimasero quattro.
 

 

   Hercules aveva deciso che il falò era una pratica che non gli piaceva, apprezzava che questa non fosse un abitudine romana, e si era già detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per far si che le cose restassero così. Certo, vedeva anche lui l’appeal della cosa, il fascino delle fiamme e il senso di fratellanza nello stringersi a fine giornata attorno ad un braciere. Poi pensava che il fuoco gli faceva paura, sobbalzava ogni volta che qualche legno scoppiava e per poco non aveva urlato quando quel folle di Edgar aveva lanciato sogghignando un ceppo di legno nelle fiamme istigando uno sciame di lapilli. No. Non gli piacevano i falò.
   
Astreo si era fortunatamente sistemato esattamente tra lui e la sua fonte di disagio, e per quando doverlo vedere come una sagoma nera fosse piuttosto fastidioso, costituiva comunque un ottima distrazione.
   
Tuttavia, quando le stelle avevano iniziato a danzare tra di loro, il fuoco si era ridotto ad una consapevolezza lontana che non lo disturbava più. In cuor suo Hercules non sapeva se temere quelle luci e se fidarsi delle parole di Astreo, ma quando un globo gli passò così vicino al viso da sentire come un alito caldo accarezzarlo non poté non scostarsi sorpreso.
   
Quella sera si era recato lì senza la più minima aspettativa, né particolarmente ottimista ma nemmeno il primo tra i pessimisti, sperava solo che le cose si sarebbero risolte per il meglio per tutti. Posò lo sguardo su una ragazzina minuta che si trovava in quel momento faccia a faccia con una stella: era arrivata la scorsa estate ed era stata riconosciuta da nemmeno un mese, Hercules non era nemmeno sicuro avesse ancora capito come tenere in mano una spada. Per un attimo temette davvero che il globo la stesse per scegliere, le volteggiò attorno per un tempo che gli parve interminabile, facendogli sudare i palmi per l’agitazione. Si disse che non era possibile, dopotutto non sarebbe stato utile nemmeno per loro, scegliere eroi a malapena capaci di sopravvivere.
   
Serviva qualcuno di più allenato, di più capace e maturo di più… I suoi pensieri furono bloccati da quella stessa stella che aveva guardato con astio. Prese a girargli attorno e sembrava quasi curiosa nel modo in cui gli saettò tra le caviglie ed accarezzò le mani.
   
La vide scomparire sotto i suoi occhi e prima ancora che potesse guardarsi attorno la sua vista si fece bianca. Per un attimo temette davvero di non vederci più, poi si rese conto che ci vedeva, riconosceva il bagliore del fuoco e la sagoma di Astreo davanti ad esso, ma era come se un velo bianco lo separasse dal mondo. Di colpo sentì il braccio scaldarsi, non tanto da ustionarlo, era un calore piacevole ma decisamente inatteso. Alzò la manica appena in tempo per vedere due sottili strisce di luce disegnarsi sul suo avambraccio. Ci mise qualche secondo per riconoscere quel sessantanove rovesciato: Cancro, era stato scelto.
 

 

   Avrebbe voluto dire che non era spaventata, che non le importava e che era assolutamente pronta a partire per quella missione, ma la verità era decisamente diversa: era terrorizzata.
   
Quando la luce l’aveva avvolta, per un attimo le era sembrato di tornare indietro ad una giornata estiva di cinque anni prima, quando un bagliore turchino l’aveva avvolta e Cimopolea l’aveva riconosciuta. Quella notte, invece, la luce era bianca e sulla sua testa le due onde spezzate dell'Aquario la stavano marchiando come una dei semidei che sarebbero partiti per impedire la fine del mondo. Il suo primo pensiero era andato a sua nonna: come le avrebbe spiegato che non potevano scriversi per il prossimo mese, con che forza sarebbe partita, con la consapevolezza nel petto che se fosse morta la donna si sarebbe trovata completamente sola. Ma forse non importava, forse se fosse morta lei anche gli altri lo sarebbero stati e allora non avrebbe avuto importanza. La più triste delle consolazioni.
   
Strinse le labbra, cercando di ordinare i pensieri e le domande che una dopo l’altra le invadevano la mente come funghi nel sottobosco. Diamine, non era nemmeno il semidio più forte in quell’arena, solo seduti sulla sua stessa fila c’erano almeno altri due nomi che avrebbe fatto che sarebbero stati probabilmente una scelta più saggia, eppure quel destino era toccato proprio a lei.
   
Guardò il braccio su cui ora il marchio riluceva nella luce delle stelle e si concesse un respiro tremante.
   
Una mano si posò gentilmente sulla sua spalla e quando si voltò Lizard la stava guardando con un sorriso comprensivo. Aveva la manica della pelliccia tirata su anche lei, a scoprire un sottile marchio a vi nell’esatto punto dove lei recava quello dell’Aquario: Ariete. I suoi occhi saettarono dal segno al volto della ragazza che allargò il sorriso.
   
«Tutto bene?» Le chiese. Lizard era sicuramente l’ultima persona da cui si sarebbe aspettata un gesto del genere, ma le faceva piacere che si preoccupasse per lei, forse aveva pensato che fosse il momento di iniziare a conoscersi, considerato che avevano ad attenderle una missione mortale che le avrebbe tenute assieme per il prossimo mese.
   
«Potrebbe andare meglio, potrebbe andare peggio… credo.» Si limitò a rispondere, abbassando la manica con un brivido, seguita presto dalla ragazza.
   
Desdemona realizzò solo in quel momento che era talmente presa dalla propria selezione che non aveva prestato minimamente attenzione a cosa le stesse accadendo attorno, non sapeva chi altri fosse stato scelto o da quale segno. Allungò il collo e riuscì solo a cogliere un simbolo bianco sparire in cima alla scalinata, dal lato opposto rispetto a dove si trovava lei, tuttavia non aveva fatto in tempo a cogliere di quale costellazione si trattasse. Stava per chiedere a Lizard se lei avesse colto qualcosa ma la loro attenzione fu riportata sul fuoco per un’ultima volta quella sera.
   
«Grazie semidei.» Parlò l’ologramma dell’augure, la voce che andava pian piano svanendo. Il ragazzo nel fuoco spalancò gli occhi annaspando, l’ologramma sparì e il braciere tornò ad essere un ammasso di braci mezze morte.
   
«Semidei.» La voce con cui Chirone si rivolse a loro era titubante e sembrava quasi timido nel richiamare la loro attenzione. Fece vagare l’attenzione da loro ad altri punti tra gli spalti con sguardo preoccupato.
   
«È tardi, domani mattina parleremo.» Disse semplicemente e sapevano che si stava rivolgendo direttamente ai semidei che erano stati selezionati per la missione: probabilmente dopo colazione, l’indomani, sarebbero dovuti andare nella Casa Grande per discutere della missione.
   
«Tutto qui?» Sentì Lizard sibilare tra i denti.
   
«Riposate semidei, stanno arrivando tempi duri.» Concluse il Centauro avviandosi e lasciandoli soli sugli spalti, in attesa che un semidio coraggioso si alzasse per primo.
   
Fu proprio la figlia di Menta ad alzarsi con un sospiro seccato.
   «Beh, dopo ventitré anni di vita era troppo bello che non fossi ancora stata coinvolta in nulla.» Scrollò le spalle stringendosi con un brivido nell’enorme pelliccia in cui la si poteva trovare avvolta durante il periodo invernale. Aveva una forma molto brutta di dermatite alle gambe che le impediva di indossare i pantaloni, costringendola in pantaloncini anche durante i mesi più rigidi.
   
«Diciamo anche che sarebbe carino da parte degli dei non cercare di uccidere la propria prole.» Commentò Desdemona imitandola e avviandosi al suo fianco verso le cabine.
   
«Gli dei li fanno e poi li accoppano, ricordalo sempre.»
   
«Ma non si dice “Dio li fa e p-”»
   
«Ma questo è quello che dico io, e penso che abbia anche più senso.»
 
«Già, purtroppo...» Un denso silenzio le avvolse fino al focolare al centro del cortile delle cabine dove Lizard le diede una pacca sul braccio con gentilezza.
   
«Riposati davvero, bambina, e vedrai che andrà tutto bene.» La salutò prima di avviarsi verso la propria cabina.
 

 

   “Ah ah. Molto divertente”
   
Questo fu il primo pensiero di Boniface quando sul suo braccio apparve quella specie di acca storta. Gemelli, il figlio di Giano con l’eterocromia era stato scelto dal segno dei Gemelli. Se non altro la sua costellazione aveva il senso dell’ironia, forse anche troppo. In un primo momento si era guardato attorno quasi divertito, come se quello sul suo braccio fosse lo scherzo più divertente del secolo e non una più o meno velata condanna a morte. Tuttavia il panico sullo sguardo dei ragazzi che lo circondavano bastò a spegnergli il sorriso dalle labbra e fargli guardare quel marchio con rinnovata preoccupazione.
   
Era stato scelto, sarebbe partito, e non era scontato che sarebbe tornato. La consapevolezza gli strinse la gola cogliendolo di sprovvista, di colpo consapevole del guaio in cui si era cacciato, nonostante non fosse esattamente stata una scelta sua.
   
Pensò a sua madre, i suoi fratellastri e il suo patrigno e si disse che, se non altro, avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere, lo avrebbe fatto per loro e tutte quelle altre persone che non avevano nessuna colpa nei confronti di una costellazione impazzita.
   
«Grazie semidei.» Fece appena in tempo a cogliere il sorriso di Astreo prima che il titano si dissolvesse in una sottile polvere luminosa e la brezza lo portasse via. Si era dimenticato della sua presenza ed ecco che era già sparito in una nuvola stelle, come la migliore fatina delle fiabe.
   
Stava per sorridere all’idea di un titano con cappello a punta e una bacchetta magica ma, ancora seduto nel cerchio, Quentin riacquistò conoscenza boccheggiando come se fosse stato in apnea fino a quel momento, facendo scattare più di un ragazzo nella sua direzione. Lo fecero accomodare sulla panca e Boniface guardò Berenice estratte una piccola borraccia e porgergliela gentilmente. Non si era nemmeno reso conto che la ragazza si fosse portata uno zainetto. Aveva visto che era stata scelta, nonostante fosse stato troppo distratto dal globo che gli aveva ronzato attorno per due minuti per badare a quale segno l’aveva selezionata. Si trovò inconsciamente a pensare che probabilmente una ragazza così pronta alle evenienze sarebbe stata una buona aggiunta al gruppo.
   
«Qui sistemiamo domani. La sveglia sarà alla stessa ora quindi vi conviene andare a letto, non sono ammessi ritardatari.» La voce seccata di Cesaria richiamò l’attenzione di tutti, strappando più di un lamento tra i legionari. Cesare sembrò cercare di rabbonirla un poco ma dovette aver fallito perché non ricevettero nessun contrordine.
   
I ragazzi avevano già iniziato ad avviarsi quando la figlia di Venere richiamò di nuovo la loro attenzione.
   
«Per quelli che partiranno, domani abbiamo di cui parlare. Per ora dormite che non voglio isterismi alle otto del mattino.» Tagliò corto allungando una mano per prendere le sigarette. Quando le sue mani si gettarono sul pacchetto vuoto lo lanciò in quello che rimaneva delle fiamme con un grugnito.
   
Boniface era ancora agitato, ma l’idea di dormire lo allettava non poco, aveva i muscoli tesi per il freddo e non vedeva l’ora di buttarsi in branda e chiudere gli occhi. Il suo piano originale era quello di finire di copiare gli appunti di quella mattina, gli mancavano giusto un paio di facciate, non voleva restare indietro, ma mentre si avviava verso i dormitori decise che, per quel giorno, Statistica Psicometrica avrebbe potuto aspettare. Dopotutto non era nemmeno certo se il mondo sarebbe stato ancora lì come lo conosceva nell’arco di due mesi, tanto valeva dormire un po’.
 

 

   «Sei uno stronzo.» Sbottò Cesaria indignata sbattendosi la porta alle spalle, senza nemmeno fingere cortesia nell’entrare in una stanza che non era la sua. Si diresse a passo spedito verso il piccolo comodino di legno accanto al letto e si mise a frugare come fosse roba sua.
   
«E dove cazzo tieni il tabacco?!» Gli chiese guardandolo esasperata.
   
Cesare, dal canto suo, non aveva nemmeno la forza per dirle di andare a cagare e di calmarsi, ancora troppo scioccato dagli eventi avvenuti appena un quarto d’ora prima. Si limitò a sospirare ed estrarre dalla tasca della giacca la busta del tabacco e la scatolina delle cartine e dei filtri, porgendogliela in silenzio. La sentì borbottare qualcosa ma non la ascoltò nemmeno, sfilandosi la giacca ed appendendola al gancio sulla porta.
   
«Non vorrei infrangere le tue convinzioni ma non è stata esattamente una mia decisione.» Commentò sedendosi pesantemente sul letto. La collega si lasciò cadere al suo fianco, finendo di rollarsi la sigaretta. Gliela allungò senza nemmeno guardarlo, tanto sapeva che prima o poi le avrebbe chiesto di prepararne una anche per lui.
    «Allora sono stronzi loro.» Grugnì sistemando un po’ di tabacco in una seconda cartina.
   
«Non dovresti dire queste cose.» L’ammonì Cesare estraendo l’accendino dalla tasca ed accendendosi la sigaretta. Non sapeva se la cosa valesse anche per le costellazioni, ma non era mai una buona idea insultare le divinità. Strinse la sigaretta tra le labbra e alzò la manica sinistra: nell’avambraccio, appena visibile, una sottile linea bianca costituiva un tatuaggio speculare a quello della legione.
   
Un cerchio con due corna: Toro.
   
La sua selezione era stata estremamente veloce, altre costellazioni avevano vagato tra i semidei molto più a lungo, alcune sparendo nel nulla dopo essersi soffermata davanti a molti di loro. Ma Toro no: era sceso dal cielo e dopo un giro veloce lo aveva scelto. Il globo di luce era davanti a lui e poi di colpo intorno a lui, avvolgendolo in un aria tiepida. Un bruciore sordo gli aveva poi fatto sollevare di scatto la manica ed eccola lì, sottile e luminosa, la testimonianza che lui sarebbe partito. Attorno a lui molti ragazzini lo avevano guardato spaventati e smarriti, ma lui era solo riuscito a voltarsi lentamente verso Cesaria, completamente paralizzato. La ragazza lo aveva guardato dura e Cesare aveva capito che per lui quella sera non sarebbe finita con lo spegnimento del falò.
   
«Ha senso.» L’ammissione della collega lo colse di sorpresa. Aveva scalciato le scarpe e si era stretta le ginocchia al petto, fumava piano, lo sguardo perso nel vuoto.
   
«Sarete in dodici, serve qualcuno con un minimo di capacità organizzative, inoltre sei un bravo combattente e hai sicuramente un carattere migliore del mio.» Spiegò, facendo un tiro lento. Ora che ci pensava, il ragionamento non faceva una piega. Erano davvero un sacco di semidei da mandare in una missione, se non ci fosse stato nemmeno una persona in grado di gestirli sarebbe stato un suicidio, oltre che terribilmente inutile per il fine ultimo dell’impresa.
   
«Un pretore e due centurioni… volevano anche una fetta di culo?» Rimuginò la figlia di Venere facendolo ridere. In realtà poteva capirla, anche lui si sarebbe agitato ad essere nella sua situazione. Però si fidava di lei e sapeva che era in grado di cavarsela benissimo anche da sola, dopo tutto era già capitato che la lasciasse per qualche mese, quando tornava a casa da suo padre. Sorrise dolcemente e le sistemò una ciocca dietro l’orecchio.
   
«Non preoccuparti, te la caverai alla grande.» Le disse con gentilezza e lei roteò gli occhi.
   
«Sono ancora arrabbiata con te.» Borbottò ma non lo scostò, quindi continuò a ravviarle i capelli dietro l’orecchio, facendo qualche piccolo tiro di tanto in tanto.
   
«Lo so.» Si limitò a dire, divertendosi nel guardare l’irritazione storpiarle il volto in una smorfia.
   
«Sei davvero noioso, non si può nemmeno litigare con te.» Si lamentò. Gli voleva decisamente bene, però certe dinamiche tra loro semplicemente non potevano funzionare ed era principalmente per quel motivo che la pseudo relazione che avevano avuto ad inizio mandato del ragazzo era durata così poco. Se da un lato Cesaria aveva un temperamento focoso e attivo, dall’altro Cesare era più pacato e riflessivo, cercava di evitare le discussioni che la ragazza invece sembrava proprio ricercare.
   
«Me ne sono fatto una ragione.» Scrollò le spalle e Cesaria gli tirò un pugno.
   
«Dei, con te serve l’erba, altro che una sigaretta.» Il figlio di Aurora rise sonoramente poggiando la testa al muro e voltandosi quel poco che bastava per guardarla almeno di sbieco.
   «Ah guarda, quando vuoi.» La provocò e nonostante il secondo pugno che gli rifilò rise un poco.
   «Prima che tu parta. Magari anche dopo, cerca solo di non morire.»



 


 
Angolo Autore
 
E dopo questo link un sacco sospetto che sembrano le pubblicità a tendina nei siti loschi perchè "sei il nostro visitatore numero X hai vinto un IPhone!" ma vi giuro che non lo è (non saprei nemmeno come fare, stay tranquilli, è un link di youtube) posso dirvi ufficialmente yo.
Come forse avrete notato non è più il duemilaventi e io, come era prevedibilissimo, ho fallito.
Daje.
Ho rimandato davvero un sacco la stesura di questo capitolo, perchè avevo l'idea per il rituale in questo modo ma ero anche convinta fosse un sacco trash e attendevo idee migliori, che non sono arrivate. Quindi mi sono messa a scrivere, ero un sacco lanciata, peccato che ormai fosse un po' tardi. E poi c'è stata sessione. E sul perchè io abbia cazzeggiato anche a febbraio... quella è solo stupidità mia, ma nessuno è sorpreso.
Rappresentazione grafica di come è stato il mio processo creativo.

 

 
Nel caso ve lo stiate chiedendo... sì, mi sto divertendo davvero un sacco a scrivere questo angolo autore hahaha.
Dovrete sorbirvi i miei deliri ancora per un po'.
Dunque dunque. Passiamo alla parte un po' più seria: sono piuttosto soddisfatta del capitolo, wow. Nonostante gli ultimi paragrafi che ho scritto siano penso molto più scarsi e ci sia un imparità fortissima tra presenza tra i personaggi, è stato generalmente divertente da scrivere, sono soddisfatta della lunghezza e della forma, quindi yay a sto giro non mi lamento.
Nei prossimi capitoli cercherò di riequilibrare le cose dando più spazio a chi non ne ha avuto e sopratutto dichiarando i segni degli ultimi selezionati. Il mio piano iniziale era di finire tutta la selezione in questo capitolo, ma già con tre paragrafi stava diventando un sacco ripetitivo quindi ho preferito rimandare inserendo i risultati nel prossimo. Comunque con questo abbiamo finito il primo capitolo! (wow sì. Il primo.)
Cose a caso: giro di applausi per Armin ed Edgar che si sono messi assieme dopo sei anni.
Sono inseriti perchè li amo molto ma anche perchè ( ͡° ͜ʖ ͡°)
Non penso di avere molto altro da dichiarare. Non voglio fare promesse su quando aggiornerò perchè abbiamo capito che tanto non le so mantenere quindi perchè provarci.
Spero solo che il capitolo vi sia piaciuto. Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate per recensione o anche per MP, io mi diverto comunque hahaha.
Prima di andarmene, vi lascio con una cosa trashissima per dimostrarvi che anche se non scrivo questi bimbi e questa storiella trash sono sempre nel mio kokoro.
LA PLAYLIST DI SPOTIFY \(@^0^@)/
Si è una cosa un sacco trash e disagiata, ma mi piace un sacco ascoltare musica e sopratutto farmici i film mentali e collegarla ai personaggi (alcuni miei oc sono ispirati da canzoni stesse come penso noterete appena leggerete un titolo in particolare ehehe) quindi mi sembrava carino condividere. Ho messo anche qualche canzoncina per Cesarina e Quin che sono stati molto amati hahaha. Alcune sono per le coppie ( 
(✿◕‿◕✿)  ), la maggior parte sono per i personaggi e alcune per la storia in generale (Stand by me è l'official track, non chiedetemi perchè ma è così u.u). E quindi nulla, se vi va di darci un ascolto potete anche provare ad indovinare quale canzone è chi (o che coppia hihihi) e se volete potete anche suggerirmene. E' ancora in fase di completamento, alcuni personaggi non hanno ancora canzoni e altri ne anno più di una, ops.
Ora ho davvero finito, alla prossima!
Peace out ✌🏼
Ebe

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 2.1 ***


      
   Avevano a malapena avuto il tempo per godersi una colazione per bene. Tutti non facevano altro che fissarli e chi di loro aveva la pelle più scura non poteva che notare il fastidioso segno bianco sull’avambraccio, sottile eppure terribilmente presente.
   
Lizard lo aveva nascosto sotto la manica della pelliccia e aveva deciso di non pensarci mentre cercava di buttare giù il caffè che, quella mattina, aveva un tristissimo sapore di cartone, o forse era solo una sua impressione.
   
Chirone li aveva poi indirizzati verso le proprie attività, aggiungendo con tono lapidario che «I prescelti lo seguissero.»
   
La figlia di Menta aveva deciso che quella parola non le piaceva, era troppo esuberante, pomposa, alle sue orecchie suonava come un qualcosa di cui essere onorati, fieri, un complimento; a lei suonava solo come una condanna a morte. Pesante sulla sua testa come la lama di una ghigliottina.
   
Aveva fatto una smorfia stanca a quel termine e si era alzata, andando nella direzione opposta rispetto al centauro, decisa almeno a lavarsi i denti. Alcuni semidei avrebbero potuto dire che non ne aveva bisogno, infatti uno dei peculiari poteri che la ragazza aveva ereditato da sua madre era quello di profumare costantemente come la piantina, compreso il suo alito. A quell’affermazione, Lizard rispondeva sempre che non era molto utile sapere di menta se la sua igiene faceva comunque schifo. Quel venerdì mattina, però, la sua motivazione era molto più semplice: voleva solo posticipare l’udienza con Chirone quanto più possibile.
   
Dieci minuti dopo, quando sospirando aprì la porta delle stanza del ping-pong, l’uomo aveva lo sguardo rabbuiato e le braccia conserte, accomodato nella carrozzina la osservò storto, posando poi lo sguardo dietro di lei, come se ci fosse qualcun altro che, tuttavia, non era lì. Lizard non aveva davvero capito chi altri fossero stati selezionati quella sera, ma le sembrava di aver visto quattro, forse cinque luci? In quella stanza, compresa lei erano in tre: qualcuno mancava all’appello.
   
Si accomodò su una sedia di plastica arancione, accanto a Desdemona, con cui aveva parlato la sera prima. La ragazza era china su un foglietto del sudoku, la penna stretta così forte da sbiancarle le nocche scure; aveva scritto appena due numeri.
   
«Non si può coprire.» Disse la ragazzina in un velo di voce che, nel silenzio, prese tutti alla sprovvista. Non era conosciuta per essere particolarmente loquace e sicuramente nessuno dei presenti si aspettava che il pesante silenzio venisse spezzato proprio da lei.
   
«Come?» Domandò Teodora che, dalla sua poltrona imbottita, non aveva genuinamente sentito cosa la ragazza avesse detto.
   
Desdemona alzò appena lo sguardo verso la coetanea, per poi distoglierlo cautamente, un principio di imbarazzo sul volto. «Il tatuaggio, non si può coprire – Ripeté in un filo di voce prima di alzare la manica del maglione. «Ecco, io ho provato, giusto prima… mi annoiavo.» Disse piano e mostrò l’avambraccio. Aveva iniziato a colorare il tatuaggio con la penna nera che aveva ora in mano per il sudoku ma il tratto bianco era ancora ben visibile sopra l’inchiostro.
   
«Oh lo so bene!» Sbottò una nuova voce alle loro spalle cogliendoli tutti quanti di sorpresa. «Lo stronzo mi ha rovinato il tatuaggio!» Royal, dopo essersi gustato qualche secondo l’effetto che l’entrata di scena aveva fatto ai presenti, si diresse verso l’ultima sedia di plastica rimasta vuota, abbandonandocisi con un un sospiro.
   
«Bene, ora che ci siamo tutti possiamo iniziare.» Il tono di Chirone era stanco e Lizard avrebbe detto quasi esasperato, come se ormai fosse abituato al comportamento del figlio di Apate e si fosse rassegnato a non dargli peso. Probabilmente, in realtà, era proprio così.
   
«Aspettavate me? Che carini.» Rincarò la dose venendo, di nuovo, prontamente ignorato dal maestro che si limitò a fargli scivolare lo sguardo addosso per poterlo posare uno ad uno su tutti i presenti.
   
«Come potete vedere, siete pochi. La maggior parte dei prescelti si trova tra i romani e per questo dovrete andare là ad incontrarli per poter partire.»
   
«A San Francisco?!» Chiese sconcertata Desdemona, alzando di scatto lo sguardo dal suo sudoku a cui, in quei minuti, era riuscita ad aggiungere giusto un altro numero.
   
«Sì, per questo serve che partiate al più presto.» Sospirò Chirone passandosi una mano sul viso stanco; sì, sembrava decisamente più vecchio.
   
«E come dovremmo arrivarci?» Chiese cautamente la maggiore, sistemandosi sulla sedia che si stava facendo ogni secondo più scomoda.
   «I figli di Efesto stanno risistemando l’Argo II, dovrebbe riuscire a portarvi almeno fino al Campo Giove.» Disse con talmente poca convinzione che sembrava non crederci nemmeno lui. L’Argo II, spettacolare mezzo di trasporto che aveva accompagnato i Sette nelle loro avventure, era chiusa a prendere polvere nel Bunker 9 da almeno cinquant’anni. Non erano nemmeno sicuri quell’affare ancora si accendesse e men che meno se fosse in grado di portarli dall’altra parte dello Stato.


 

 

   Cesaria guardò con aria dubbiosa il piccolo arcobaleno che aveva davanti, creato da un piccolo prisma appoggiato sulla scrivania dell’ufficio dei pretori, davanti alla finestra. Il cielo sereno sembrava non portare nemmeno il ricordi della pioggia del giorno prima e un sole freddo si riversava attraverso il vetro. La figlia di Venere scosse le spalle e con un sospiro lanciò la moneta d’oro tra i raggi colorati.
   
«Oh Iride accetta quest’offerta e mostraci Chirone.» Disse con decisamente poca convinzione. Con sua sorpresa però la moneta sparì, l’aria si increspò e brillò davanti a lei. I colori si rimescolarono e andarono a disporsi diversamente fino a che no le apparì davanti un uomo dall’aria anziana e i capelli ricci brizzolati.
   
«Chirone? Sono il pretore Morin.» Si presentò. Cesare le si avvicinò in fretta, non sicuro di quanto quel peculiare metodo di comunicazione inquadrasse.
 
«Buongiorno, io sono il pretore Nowak!» Si presentò in fretta. L’uomo li guardò vagamente sorpreso, poi abbassò lo sguardo sul proprio polso, probabilmente a controllare l’ora, per poi sospirare e premersi con due dita il setto nasale.
   
«Certo. Buongiorno, grazie per esservi resi disponibili così presto.» Disse con tono stanco. Cesaria fece un calcolò veloce, in effetti doveva essere già mattina inoltrata là, nonostante si fosse impuntata per alzarsi presto e avesse trascinato Cesare fuori dal letto per poter contattare i greci in tempi utili.
   
«Quanti ne avete voi? Quattro?» Chiese con un cenno del mento. L’uomo annuì e con un gesto vago indicò attorno a se. l’inquadratura si mosse di trecentosessanta gradi, mostrando quattro ragazzi seduti sparsi per quella che sembrava una stanza ricreativa. Alcuni salutarono con un cenno della mano, altri si limitarono ad osservare ad occhi sgranati i due pretori.
   
«Astreo ha dato alcune informazioni al nostro augure, prima del rituale.» Spiegò Cesare con tono gentile. «Temo che, per i fini della missione, sia più comodo che voi ragazzi veniate qui.» Aggiunse, un sorriso leggermente colpevole ad increspargli le labbra. Era pronto davvero a fare tutto quello che era in suo potere per aiutarli, che fosse un contributo economico o che, consapevole del lungo viaggio che li avrebbe attesi prima ancora della missione effettiva.
   
«Grazie principessa, è quello che stiamo cercando di capire da tre ore.» Proruppe una voce seccata fuori inquadratura. Non videro chi era stato a parlare ma solo lo sguardo severo che Chirone gli rivolse prima di tornare a rivolgersi a loro con un sospiro.
   
«Il metodo più veloce sarebbe l’aereo, ma sarebbe rischioso oltre che costoso.» Spiegò. «Pensavamo di rispolverare l’Argo II, i nostri ragazzi la stanno ricontrollando da sta mattina all’alba.»
   
«Capisco. Fateci sapere cosa possiamo fare per aiutarvi.» Annuì il figlio di Aurora e Chirone sorrise riconoscente.
   
«Ho una domanda!» Esclamò un’altra voce. L’inquadratura si spostò su una ragazzina riccia affondata in una poltrona blu. «Una volta partiti per la missione, ci muoveremo a piedi?» Chiese con curiosità anche se il suo sguardo tradiva un po’ di apprensione mentre abbassava il braccio che aveva alzato per prendere parola.
   
Nessuno rispose per alcuni secondi, probabilmente tutti fermi a ponderare un punto importante a cui, effettivamente, nessuno aveva pensato.
   
«Sarebbe più comodo trovare un mezzo...» Constatò Cesare posando lo sguardo sulla collega.
   
«Non si sa quanto cammineremo, e Serafim di sicuro non può camminare per un mese.» Aggiunse pensieroso. Cesaria annuì lentamente mordicchiandosi la pellicina del pollice.
   
«Si ecco, nemmeno io posso camminare troppo.» Specificò la ragazza che era intervenuta.
   
«Oh quindi abbiamo ben due zoppi, splendido.» Commentò la stessa voce di prima e la biondina lanciò un cuscino nella sua direzione.
   
«Ragazzi, per favore!» Intervenne Chirone quando qualcos’altro venne lanciato da fuori capo, forse una penna che la ragazza riuscì a schivare per un soffio.
   
«Io ho un autobus.» A parlare era stata una terza voce, più matura di quella degli altri due ragazzi. L’inquadratura si spostò ancora, questa volta per mostrare una ragazza dalla pelle scura e lunghi ricci castani.
   
«Un autobus?» Chiese lentamente Cesaria, come per essere sicura di aver capito bene e la ragazza annuì con decisione.
   
«Era il mio progettino, è ancora in fase di lavoro, ma penso che tra sacchi a pelo, divani e sedili ci sia spazio per dodici marmocchi.» Sospirò, non sembrava molto entusiasta all’idea di prestare il “suo progettino” alla causa, ma sembrava abbastanza assennata da capire che le opzioni che avevano a disposizione erano davvero poche.
   
«Rimane il problema su come lo porterete qui.» Constatò con gentilezza Cesare che stava tenendo distrattamente l’accendino che Cesaria gli aveva passato mentre lei si rollava una sigaretta.
   
«Bhe, se andremo con l’Argo penso ci stia nelle stalle, c’è stata una statua intera, dopo tutto.» Commentò la ragazza stringendosi nelle spalle, posando lo sguardo su Chirone.
   
Di nuovo inquadrato, l’uomo annuì grattandosi la barba con fare pensieroso.
   
«Potrebbe funzionare, sì.»
   
«Bhe direi che è risolto.» Cesaria soffiò il fumo dal naso e guardò oltre loro, forse ad un orologio appeso alla parete. «Appena sapete se il vostro trabiccolo funziona o no fatecelo sapere, sono quasi le sei e mezzo e abbiamo un campo da svegliare.» Disse, il tono appena seccato, avevano già concesso mezz’ora in più di sonno a quei ragazzi, di quel passo avrebbero iniziato a pretendere cose assurde come la merenda di metà mattina e la figlia di Venere non era affatto intenzionata a concedergliela.
   «Certamente, Pretore Morin, Pretore Nowak, è stato un piacere.» Li salutò Chirone con un cenno del capo e, così come era apparsa, la chiamata sparì, riducendosi di nuovo ad un semplice arcobaleno.

 

 

  Il Bunker 9 puzzava ancora più di quanto si era immaginata. Era un misto di gomma bruciata e olio motore e chissà quanti altri agenti chimici che impestavano l’aria che, per giunta, era anche terribilmente calda. Forse peggiore di quello, era il frastuono dei martelli e delle seghe, per non parlare del basso e penetrate suono delle fiamme ossidriche. Come ci aveva messo piede, Desdemona aveva iniziato subito a chiedersi quando finalmente sarebbero potuti uscire da quel posto.
   
«È enorme...» La voce di Teodora parlò per tutti; erano pronti all’idea di una barca volante, ma chiaramente nessuno di loro aveva realmente fatto i conti con quanto grossa sarebbe stata per poter aver comodamente accolto dodici metri di statua solo nelle scuderie.
   
«That’s what she said.» Fu il brillante commento di Royal, alla quale Lizard rispose prontamente con uno scappellotto ben assestato che gli fece piegare la testa in avanti, soffocando una risata.
   
Desdemona distolse l’attenzione dal ragazzo e tornò a guardare la triremi. Ora che la osservava meglio, capiva quanto la prospettiva stesse giocando a loro sfavore. In secca le navi erano sempre più grandi, per non parlare di tutta l’impalcatura che la stava sorreggendo in quel momento, che la teneva sollevata da terra almeno di un metro. Certo, L’Argo II era fatta per volare, quindi anche tutta la parte che sarebbe stata nascosta dall’acqua sarebbe stata del tutto visibile nei cieli.
   
«Quindi… si può usare?» Chiese timidamente, nemmeno sicura che qualcuno l’avesse effettivamente sentita, di certo nessuno tra i ragazzi di Efesto.
   
Chirone, forse udendola o forse solo per propria curiosità, fece un cenno attirando l’attenzione di una ragazza dalla pelle scura e i capelli acconciati in una miriade di treccine color fuoco. La ragazza si aprì in un sorriso e si avvicinò a grandi passi verso il centauro pulendosi le mani con uno straccio, o meglio, la mano, visto che la sinistra era una protesi di metallo color ottone.
   
«Come vi sembra?» Chiese il mentore, lo sguardo corrucciato ancora puntato sulla nave e i ragazzini che vi giravano intorno urlandosi cose che buona parte di loro nemmeno comprendeva. La ragazza, che riconosceva essere Zakiya, la capo cabina, scrollò le spalle lanciandosi lo strofinaccio su una spalla.
   
«Pensiamo possa volare quasi senza problemi.» C’era una certa esitazione nella sua voce, nonostante le labbra carnose stessero ancora sorridendo con leggerezza.
   
«Ehi ehi principessa, io non salgo su nessun “quasi”.» Intervenne Royal che, fino a quel momento, era impegnato a frugare con curiosità in una scatola di attrezzi lì vicino.
   
«Ma sì ma sì, non è nulla di che!» Lo incoraggiò lei lasciandogli una pacca sulla spalla che lo colse non poco di sorpresa. Le rivolse un occhiata storta per poi controllarsi con una certa apprensione la felpa, per assicurarsi che non vi avesse lasciato nessuna macchia di grasso. Una volta constatato che era salvo, vi passò distrattamente una mano lisciandosela tornando a guardarla.
   
«Può sicuramente volare almeno fino a Nuova Roma, ma là avremo bisogno di rimetterla in sesto per il viaggio di ritorno. Se dovete farci una missione intera allora direi di no.» Aggiunse stringendosi nelle spalle.

Chirone si grattò la barba con fare pensoso posando poi lo sguardo su Lizard.
   
«Tu confermi di poter mettere a disposizione il tuo bus?» La ragazza annuì, certo non con lo sguardo più convinto che potesse sfoggiare.
   
«Quanto ci metterà ad essere pronta?» Chiese allora l’uomo. Non avevano molto tempo per svolgere la missione e un conto era poter partire la sera stessa, un altro se fossero partiti una settimana più tardi.
   
«Lavorando giorno e notte potrebbe essere pronta per domani sera, voleremo nella notte e la mattina saremmo a Nuova Roma.» Rifletté rigirandosi una treccina tra le dita meccaniche.
   
«Sì ecco, sarebbe folle chiedere a qualcuno dei vostri se può buttare un occhio al mio pullman? Alla fine è lui quello che si farà la missione...» Chiese Liz a mezza voce. La ragazza sembrò rifletterci qualche secondo prima di annuire, era un discorso più che sensato dopo tutto. Non sapevano quale fossero le condizioni di questo fantomatico bus, ma sicuramente non era un ultimo modello e men che meno era attrezzato contro i mostri. Non avrebbero potuto sicuramente allestirlo con un lancia razzi, ma assicurarsi che fosse tutto a posto era il minimo che potevano fare.
   
«Certo, ti mando due ragazzi dopo pranzo.»
   
Lizard annuì con sguardo riconoscente e, finalmente, uscirono dal Bunker 9.
   
L’aria fresca del bosco pizzicò piacevolmente il naso quando riemersero, carica di ossigeno e dell’odore salato che il vento portava dal male fino a lì. Nessuno disse una parola fino a che non tornarono alla Casa Grande, dove Chirone li spedì a svolgere le attività con gli altri ragazzi.
   Desdemona trovava surreale come, a parte la riunione mattutina, il resto della giornata fosse così banalmente normale, come se non avessero il Cielo intero sulle spalle, una missione da compiere e chissà quante vite da salvare. La sola idea le faceva girare la testa, forse fingere che fosse tutto normale non era un idea così cattiva.


 

 

   Dopo pranzo Royal, Desdemona e Teodora avevano insistito a tutti i costi per seguirla al garage dove teneva il suo pullman, avevano blaterato qualcosa su come sarebbe stata la loro casa per le prossime settimane e di come fossero curiosi di vederlo; ovviamente volevano solo saltare l’allentamento. Desdemona, in realtà, non sembrava particolarmente convinta, si limitava a sorridere imbarazzata mentre Royal la teneva fermamente sotto braccio, affermando che era anche lei parte della spedizione, e per tanto era tenuta a partecipare.
   
Che cosa volessero vedere, in realtà, non era ben chiaro, e se ne resero conto in fretta anche loro quando entrarono nel veicolo. La parte in fondo era divisa da pannelli di compensato e una misera tendina verde per porta e un letto matrimoniale era stato incastrato nella piccola camera ricavata. C’era una piccola cucina e un lavabo, ancora così grezzi che le antine in legno non erano nemmeno state verniciate. Lizard aveva indicato loro il piccolo bagno, che si trovava giù dalle scale della seconda uscita, ora sigillata, aveva detto che l’idea era quella di costruire muri attorno alla scala, per far sì che fosse più privata e potesse incastrarci la doccia, ma non ne aveva avuto ancora il tempo. Per il resto lo spazio era vuoto, dopo le prime tre file di sedili che i figli di Efesto avevano iniziato a rimontare poco dopo il loro arrivo. Avrebbero dovuto dormire per terra o quanto meno sui sedili, sicuramente non ci sarebbero stati sul letto in più di due o tre. Forse era stato nominato un divano, prima, probabile che semplicemente la ragazza non lo avesse ancora caricato.
   
Dopo aver ispezionato ogni antina apribile, testato il materasso e osservato la visuale dal posto del guidatore, mentre Lizard li vietava di schiacciare tutti i pulsanti che vedeva, Royal aveva perso in fretta interesse, avviandosi fuori con uno sbuffo.
   
Desdemona lo aveva seguito poco dopo, lasciando Teodora e Lizard sole con i due figli di Efesto.
   
«Come pensi di fare?» La domanda aveva iniziato a formarsi nella mente di Lizard già la sera precedente, alla selezione. Aveva passato la mattinata a cercare un modo più delicato per porla ma non aveva avuto molte idee.
   
Teodora, seduta sul bordo del letto, strinse le labbra soppesandola in silenzio. Negare le sue disabilità e svantaggi sarebbe stato stupido, oltre che molto poco producente. Certo non era da lei avere discussioni a cuore aperto e rendersi vulnerabile, ma far finta di nulla, in quel momento, non sembrava un opzione disponibile. Si grattò il naso, cogliendo l’occasione per risistemarsi gli occhiali, che erano appena scivolati.
   
«Non sono del tutto incapace, in caso mi farete da trasportino, o ruberemo una carrozzina…» Rifletté lasciando vagare lo sguardo chiaro per il pullman.
   
«Sono sicura solo di una cosa.» Annuì decisa, posando lo sguardo sulla maggiore, che inarcò un sopracciglio scuro. «Io mi prendo il letto, se mi mettete a dormire su un materassino a terra allora sì che non mi alzo più.»
   
Lizard sorrise appena affondando le mani nelle tasche della pelliccia. «Penso di non poter controbattere a questo.»
   Teodora sembrava soddisfatta, annuì e si alzò, uscendo.


 


 
Angolo Autore
 
 
Che dire, la situazione ha del drammatico, ho ufficialmente superato l'anno. Noice. Buona Pasqua I guess. Risorgo dalla tomba come nostro signore Gesù Cristo.
Un anno di attesa e nemmeno tutti i personaggi, imbarazzante. Questo capitolo è stato davvero terribile e penso di odiarne ogni parola, ma non ha assolutamente la sanità mentale per riscriverlo, quinid ve lo beccate così, sorry not sorry.
Spero sia almeno utile per capire un po' come gireranno un po' i nostri pargoli e bho, a conoscere meglio i personaggi? Che poi sono assolutamente non bilanciati quindi che disagio.
Se avete voglia di vedere come NON sono produttiva potete seguirmi alla pagina instagram che Fe_ mi ha corrotto ha creare cliccando QUI. Ora come ora in realtà spammo aesthetic sui miei oc e non ho grandi programmi per il futuro, ma chi lo sa, potre avere nuove idee suicide. O potete semplicemente guardare delle immagini colorate, che se siete bimbi problematici come me, danno molta gioia.
Questo è quanto, torno nel mio buco, adios. 
Peace out ✌🏼
Ebe

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