K_Protocol (in collaudo)

di T612
(/viewuser.php?uid=981225)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Codice Arancione ***
Capitolo 2: *** Codice Viola ***
Capitolo 3: *** Codice Verde ***



Capitolo 1
*** Codice Arancione ***


Avviso dalla regia:

Mi è stato fatto notare che tendenzialmente i miei scritti sono composti dall'80% di "angst" e solamente il 20% di "fluff"... quindi, come ultimo esperimento e capitolo conclusivo del M.T.U. ho deciso di ribaltare le cifre e nuotare in acque un po' meno "conosciute".
Questa storia tripartita vuole essere un passatempo senza troppe pretese, un'ultima avventura per celebrare una Casa delle Idee che mi ha dato tanto e alla quale ho restituito più del dovuto… credo che una pausa sia dovuta, un po' perché ho davvero finito gli argomenti su cui ricamare, un po' perché per tornare ad apprezzare Mamma Marvel forse è giusto lasciar parlare la nuova Fase in dirittura d'arrivo.
Detto questo, diamo a Cesare quel che è di Cesare: il 20% di sottotrama angst è stata gentilmente offerta da "Bad Blood", ultima fatica della testata Black Widow in versione puramente testuale che ha reso questa quarantena carente di strisce disegnate un po' più leggera… l'80% di fluff invece è interamente farina del mio sacco, andando finalmente a spegnere quella fiammella di rivalsa grande quanto un "what if?" su cui si basa l'intera raccolta che celebra i due disgraziati di Bucky e Natasha (più Kobik, in questo caso). 

 

Veloce riassunto delle puntate precedenti: James è finalmente riuscito a trascinarsi Natasha all'altare, hanno distrutto dalle fondamenta il Dipartimento X (si spera definitivamente stavolta) e, nel rocambolesco susseguirsi degli eventi ("Studi di Anatomia", per i curiosi), hanno adottato Kobik – tecnicamente James ha adottato il Tesseract versione bambina di quattro anni, Natasha si è semplicemente adeguata realizzando di non essere più la sola donna di casa. Tre anni dopo i due, esperti assassini e coraggiosi idioti, non hanno ancora ben capito come dovrebbero comportarsi dei "bravi" genitori… ma provandoci sembra ci stiano riuscendo, sembra, perché nonostante tutto il "K Protocol" è ancora in piena fase di collaudo. 

 

*translate-note: dato che l'amico Google finge di sapere il russo, vezzeggiativi collaudati a parte, tutto ciò che trovate scritto < così > vorrebbe essere in lingua slava. Ora mi zittisco, giuro. 







 

Codice ARANCIONE
Protocollo: Mamma apprensiva

Missione: Lupo Solitario
Status: (purtroppo) in corso



 

«Togli le mani dal vetro, lasci le impronte.» la bacchetta Natasha posandole una mano sulla spalla come incentivo nel eseguire il richiesto, svicolando dal suo sguardo perentorio staccando riluttante i polpastrelli dalla superficie liscia del vetro appannato dalla condensa, lasciando il proprio nome fastidiosamente incompleto ed osservando intristita le lettere già tracciate sgocciolare fino al bordo del banco frigo. «Che gusto di gelato vuoi?» 

Kobik scrolla le spalle e punta il polpastrello decisa contro la superficie trasparente per automatismo, imprimendoci l'ennesima ditata già dimentica della correzione appena ricevuta da Natasha, indicando il talloncino colorato con la stilizzazione di Iron Man a pennarello che contrassegnava il gusto "Follia Stark al cioccolato" mentre la donna sospira rassegnata, si scusa con il gelataio per le impronte digitali e termina le ordinazioni pagando il richiesto prima di consegnarle tra le mani la sua agognata coppetta gelato. 

Kobik la segue a ruota passandole sotto il braccio mentre Natasha le tiene aperta la porta del chiosco, salutando con entusiasmo il gelataio e rischiando di inciampare sul gradino della soglia al contempo, suscitando un timido sorriso da parte dell'uomo che ricambia il saluto con un cenno della mano augurandole di tornare presto, correndo poi alla panchina più vicina per accaparrarsi il posto, lanciando via la cartella ed addentando soddisfatta la prima cucchiaiata. Natasha la raggiunge con calma dopo essersi armata di tovagliolini di plastica, chinandosi a raddrizzare la cartella prima di sedersi composta al suo fianco, districando i Ray-Ban dai ricci cremisi per neutralizzare ogni possibile fonte di disturbo celando il proprio sguardo ai passanti che passeggiavano lungo i marciapiedi di Central Park, reclinando la schiena contro la panchina ostentando uno stato di rilassatezza apparente. 

«Ma non sa da dentifricio?» chiede Kobik di punto in bianco interrogando la donna, indicando con un cenno del mento il cono gelato di Natasha riferendosi alla pallina di "Spaccatella Hulk" già ridotta a metà. «Papi dice che sa da dentifricio.»

«Papi è un idiota geloso, è un banalissimo gelato alla menta con delle banalissime scaglie di cioccolato.» le spiega Natasha accennando un sorriso divertito all'angolo delle labbra, porgendo il cono nella sua direzione. «Vuoi assaggiare?» 

«Buono!» esclama la piccola dopo un paio di leccate, vantando un cipiglio confuso dopo essersi ripulita le labbra con la punta della lingua. «Allora perché Bucky-bukaroo dice che sa da dentifricio?» 

«Perché è un idiota geloso, Kobik. E perché adora farmi saltare i nervi.» confessa Natasha scrollando le spalle, lisciandosi una ciocca sfuggita allo chignon portandosela dietro l'orecchio tradendo una briciola di nervosismo, lasciandosi scappare un'ondata di apprensione che si infrange contro Kobik rovesciandole lo stomaco sottosopra – James e Natalia si erano ormai abituati a non frenare le proprie emozioni quando si trovavano in sua presenza, solamente in rare occasioni prestavano reale attenzione nel limare gli impulsi più deleteri per non farla agitare, ma il più delle volte rimanevano entrambi invischiati in situazioni talmente paradossali da lasciar libero sfogo alla rabbia, alla preoccupazione ed alla frustrazione, facendo crollare i rispettivi muri mentali travolgendo la bimba di riflesso, rendendola disgraziatamente partecipe a più faide di quelle che idealmente avrebbero voluto. 

«Non ha ancora chiamato, vero?» chiede titubante la piccola, scrutando la maschera imperturbabile di Natasha mentre le concede un sorriso sereno e le pettina le ciocche castane con le dita in una coccola apprensiva. 

«C'è sicuramente un motivo logico e sensato se non si è ancora fatto vivo, possiamo stare tranquille моя дорогая.» afferma Natasha zuccherando la bugia appena espressa con un altro sorriso, sporgendosi a pulirle gli sbaffi di cioccolata con fare forzatamente rilassato, annuendo con finta convinzione scegliendo di assecondarla. «Successo niente di interessante oggi a scuola?»

«Scott [1] ha abbrustolito un altro albero…» inizia a raccontare Kobik, issandosi in piedi ed afferrando la mano di Natasha una volta gettati via tutti i tovagliolini, affiancandola dal lato in cui non le pendeva dalla spalla la sua cartella di Hello Kitty, seguendola fino all'accesso della metropolitana spostandosi in direzione dell'Upstate. 

«Clarice [1] è riuscita a teletrasportarsi senza perdere un arto? Ma è una notizia fantastica!» la asseconda Natasha ascoltandola attenta, dimostrando più entusiasmo del normale per impedirsi di pensare alle possibili brutte notizie una volta raggiunto il Complesso – era un vecchio automatismo che le aveva rivelato James, in tre anni che abitava sotto il loro stesso tetto Kobik aveva imparato abbastanza trucchi e sfatato sufficienti altarini per saperli leggete entrambi come un libro aperto, illimitati poteri cosmici o meno… il fatto che entrambi preferissero illudersi dell'esatto contrario era ben altro paio di maniche, adeguandosi alla menzogna per non turbarli più del dovuto, dato che paradossalmente preferivano credere che Kobik stesse ritorcendo contro di loro le nozioni basilari dello spionaggio assorbite negli ultimi tre anni – cosa per altro vera, ma non così fondamentale quando aveva dalla propria parte un radar emotivo pressoché infallibile che andava a nozze con i sentimenti geneticamente amplificati dei suoi genitori adottivi.

Era in quel genere di momenti, quando James era lontano da casa già da troppi giorni mantenendo un totale silenzio radio tale da innescare la paranoia di Natasha, che Kobik provava una profonda nostalgia nei confronti di Parigi… la loro vita in Europa era ben diversa da quella che conducevano in America, l'aria parigina aveva il sapore di un'eterna ed effettiva vacanza dove il profumo dei croissant appena sfornati riempiva la pancia di tutti e tre la mattina, quella della Grande Mela invece puzzava di sangue, polvere da sparo e adrenalina, la stessa che dava vita ad una relazione saltuaria condita da musi lunghi annegati nel caffè e punti di sutura ben prima dell'alba. Non che a Kobik dispiacesse avere tutti i suoi zii ad un paio di fermate di metropolitana di distanza invece che un oceano intero, ma allo stesso tempo le mancava la tranquillità e l'equilibrio che poteva percepire solamente nella sua cameretta tra le pareti azzurro pastello e la costellazione luminescente dell'Orsa Maggiore appiccicata al soffitto… la quale non aveva niente a che vedere con le ombre aguzze proiettate dalla lucina a muro sulle anonime pareti verdi della propria stanza a Little Ukraine. 

Kobik sopportava New York con la stessa flemma con cui tollerava i cavoletti di Bruxelles a cena, ma forse era fin troppo conscia per una bimba di soli sette anni che il Sergente Barnes e l'Agente Romanov si guadagnano da vivere facendosi sparare addosso ed erano assegnati alla giurisdizione di un Continente decisamente più guerrafondaio di quello europeo, ammettendo tra sé e sé che la scelta sofferta del trasloco a lungo andare si era rivelata la soluzione migliore per tutti… tralasciando ovviamente quanto lei adorasse la sua nuova scuola, scelta accuratamente da zio Logan [1] come ripiego "più idoneo alle sue capacità" rispetto a quella parigina – se durante la ricreazione Kobik perdeva le staffe all'X-Mansion e nella propria furia telecinetica sradicava un paio di arbusti, il massimo che rischiava era un richiamo dal Preside McCoy ed una chiacchierata nell'ufficio di Charles [1], a differenza della scuola "umana" in cui le conseguenze erano ben più serie, come spaventare gli altri bambini semplicemente cambiando tinta di capelli all'improvviso lasciando comparire il bianco candido del proprio colore naturale per qualche secondo o teletrasportando i propri libri dallo zaino al banco con uno schiocco di dita. 

«Quando torniamo a casa ti aiuto a fare i compiti, allora.» conclude la chiacchierata Natasha, ormai giunte davanti all'ingresso del Complesso e già impegnata a trasferire nella propria borsa in tela le lettere ed i disegni dei loro "piccoli fan" prelevati dalla cassetta della posta contrassegnata "Barnes - Romanov" appesa al muro d'entrata, per poi chinarsi a raccogliere lo scatolone di gadget posato a terra indagando curiosa sul contenuto, scoppiando a ridere deliziata porgendole l'oggetto del misfatto appena scartato. «Tieni, questo è tutto tuo… James impazzirà di sicuro quando lo vedrà. Sempre se Baloo non è geloso, ovvio.» 

A Kobik sembra già di sentire le lamentele dell'uomo in merito alla malsana fissazione del mercato mondiale nel affibbiare il nome dei singoli Avengers ad ogni possibile merce personalizzabile – era stato pressoché inutile il tentativo di Natasha di spiegargli che almeno il 10% del loro stipendio era dovuto al merchandise, con tanto di pagina Amazon a supporto della propria tesi che dichiarava sold-out tutti i peluche di "Bucky Bear" a cifre folli perché ormai diventati articolo da collezione, chiamando in causa una punta di vago imbarazzo del diretto interessato che segretamente pregava per l'estinzione del giocattolo dal mercato globale dopo più di ottant'anni dall'ideazione della discutibile trovata pubblicitaria –, quindi per la bimba trovarsi a stringere tra le braccia la suddetta palla di pelo sintetico in divisa aveva un ché di incredibile, a metà tra l'euforia ed il sorriso machiavellico speculare a quello dipinto sulle labbra della propria mamma. 

«Credo che Baloo possa farsene una ragione.» concede con una scrollata di spalle, allungando le mani ad afferrare l'orsacchiotto per stringerselo al petto mentre risalivano le scale fino al loft al terzo piano, puntando all'ala medica con passo spedito cercando con lo sguardo la testa bionda di zia Yelena. 

Circa una settimana prima l'Agente Belova era stata inviata a Chicago, era giunta una segnalazione sospetta da una clinica delle Holt Industries, l'informatore anonimo nominava un patogeno pericoloso nel reparto di malattie infettive ed avevano inviato una delle due Vedove Nere a controllare… peccato che del patogeno non si era più saputo nulla e la donna era stata ritrovata quattro giorni dopo a girovagare in periferia in un profondo stato confusionale – era stata Natasha a trovarla dopo settantadue ore di silenzio radio, portandola di corsa al Complesso per capire a cosa fosse dovuto lo sbalzo biochimico, la febbre anomala e la totale amnesia della sorella. Banner ci aveva provato ma non era riuscito a strappare nemmeno una mezza teoria plausibile per spiegare cosa fosse successo alla seconda Vedova, nel frattempo James aveva preso l'iniziativa e si era armato fino ai denti riprendendo la pista abbandonata dalla cognata nel punto esatto in cui la memoria di Yelena iniziava a deteriorarsi, ma dopo trentasei ore in cui avevano ricevuto solamente il primo aggiornamento dopo le prime dodici mandando in fumo i due seguenti, i livelli ansiogeni di Natasha ormai toccavano vette inaudite nonostante si sforzasse di nasconderlo e Kobik non poteva fare altro se non cercare nel suo piccolo di sedare gli incubi della propria mamma – la notte prima si era arrampicata sul materasso matrimoniale e si era rannicchiata contro la schiena di Natasha facendo attenzione a non svegliarla, reni contro reni per drenare via tutti gli incubi che urlavano attraverso i muri impedendole di chiudere occhio sulle proprie pareti verdi, calmando la donna ed addormentandosi a sua volta con il naso affondato nel cuscino del proprio papà e tenendosi Baloo stretto al petto. 

«Che giorno è? Giovedì?» brontola Yelena di punto in bianco, socchiudendo un occhio per prendere nota dell'intrusione da parte della sorella e la nipote, afferrandosi le tempie reprimendo una smorfia dopo essersi rigirata nella branda dell'infermeria ed aver fulminato l'elettrocardiogramma con un moto di profondo fastidio. «Non li reggo proprio i giovedì.»

«Noto.» commenta atona Natasha mordicchiandosi le labbra, trattenendo a stento le domande pressanti che Kobik poteva quasi vederle agitarsi sottopelle – Ci sono novità? Non ricordi ancora nulla? Hai la febbre? Ti prego, ti supplico, dammi qualcosa su cui lavorare… 

«Nat.» esordisce il dottor Banner varcando la soglia, l'espressione stanca e tirata di chi aveva almeno mille domande da tre risposte inconcludenti l'una a rimbalzargli nella scatola cranica, cadendo con lo sguardo su Kobik mentre i propri occhi cerulei intercettano i referti dei nuovi esami eseguiti su zia Yelena. «Ehi K, tutto bene a scuola?» 

«Tutto benissimo.» ribatte spiccia cogliendo la punta di nervosismo di Bruce e la perenne virgola arrabbiata che contrassegnava la presenza latente di Hulk, cercando frenetica una via d'uscita alle quattro onde emotivamente anomale che le si stavano scagliando contro in quel preciso istante… lasciando morire sul nascere l'impulso di cercare il porto sicuro di zio Steve confinato nel Centro Operativo ad un corridoio, una rampa di scale ed un ballatoio di distanza, adeguandosi alle dita possessive della sua mamma che erano giunte egoiste a ghermirla per usala come anestetico inconscio ai propri timori. 

«L'hai trovata una soluzione Banner? La febbre mi sta uccidendo… non ricordo più quand'è stata l'ultima volta che ce l'ho avuta per tre giorni di fila.» mugugna un lamento Yelena, issandosi seduta puntellandosi ai gomiti. 

«È in calo, domani dovrebbe scomparire del tutto… il fattore anomalo è che non c'è nulla che la giustifichi.» spiega Bruce affrettandosi a pulire le lenti degli occhiali con un lembo del camice, tradendo una punta di nervosismo che non passa inosservata a nessuna delle tre spie presenti – due di professione e la più piccola in addestramento –, aspettando che l'uomo si schiarisca la voce per portare a termine la spiegazione sollecitato dal sopracciglio arcuato di Natasha. «Ho isolato il patogeno e ho già somministrato gli antibiotici, ma in condizioni normali il siero avrebbe dovuto bruciare i batteri al primo contatto… sei entrata ed uscita dai laboratori di Allan Holt fisicamente sana come un pesce Yelena, gli antibiotici non sarebbero dovuti essere necessari per principio considerata la mutazione genetica dei super-umani.»

Kobik, dall'alto del proprio DNA inesistente e biologicamente strutturato con particelle d'energia cosmica ordinate per deteriorarsi di anno in anno con cicli di tempo umani, sapeva per esperienza personale che le mutazioni genetiche terrestri non erano tutte uguali. A scuola ne aveva un esempio ad ogni angolo, ma in linea di massima il Professor Xavier le aveva spiegato che potevano raggrupparsi in tre ceppi in base al fattore scatenante – terrigenesi, mutazione e sperimentazione [2] – e dato che circa la sua intera famiglia adottiva rientrava nell'ultima categoria, il Dottor Banner aveva deciso di conseguire la quarta laurea della propria carriera scientifica specializzandosi in biochimica ed ormai sapeva in linea di massima come curare ogni singolo membro degli Avengers con un infinitesimale margine d'errore. 

«Allan Holt?» Natasha spezza il ritmo della conversazione di punto in bianco, curvando in direzione dell'unico elemento a lei sconosciuto, fiutando aria di sospetto assottigliando lo sguardo mentre Kobik capta una punta di diffidenza nella sfera emotiva del Dottore. «È nuovo?» 

«Forse per te, nel mio ambiente è una delle menti più illustri della medicina contemporanea.» spiega Bruce per fugare ogni dubbio, ma senza riscuotere alcun tipo di riconoscimento nei propri uditori. «Le sue ricerche in campo genetico hanno portato a cure mediche avanzate e vaccini per patologie a cui fino a qualche anno fa non c’era cura…» 

«Un filantropo con una laurea in pratica.» lo stronca la donna, riducendo la scoperta ai minimi termini. «Tony che ne pensa?» 

«Pensa che sia un egocentrico che promuove finto buonismo.» le concede Bruce, se si era sentito offeso per la brusca richiesta dell'opinione del collega non l'aveva dato a vedere, consapevole che Stark avesse un radar buono quanto quello di Romanov per fiutare i problemi. «Gli ha negato un paio di finanziamenti anni addietro, non si fida più ad investire su nessuno dopo-...» 

«-... dopo il disastro con l’AIM, capito.» lo anticipa Natasha, senza farsi troppi problemi nel monopolizzare la conversazione, placando l'ansia latente che Kobik non riusciva ad assorbire con il maggior numero di informazioni che poteva reperire nell'immediato. «Holt dove ha trovato i soldi?» 

«Oscorp, a quanto pare. Harry, il figlio di Norman, sta portando avanti l’azienda da quando Osborn Sr è morto.» replica asciutto il Dottor Banner, evitando di sbilanciarsi troppo in merito alla tempesta mediatica che Hill aveva prontamente placato sul nascere quando un Peter dalla tenuta lacera e lurida era atterrato sul tetto del Complesso a notte fonda attivando l'allarme. «Steve e Sharon lo stanno tenendo d’occhio, diciamo pure “per sicurezza”.» 

Natasha annuisce pensierosa, rompendo le righe lanciandosi in una chiacchierata con Yelena ricca di gossip con cui distrarsi dalla preoccupazione di fondo, lasciando libera Kobik di auto-inviarsi da zio Steve per carpire i tasselli mancanti che la donna per ora non voleva ancora conoscere, smaterializzandosi dall'ala medica e ricomponendosi al Centro Operativo senza il minimo preavviso, facendo andare di traverso il caffè a Capitan America. 

«Ehi, Kobik.» la saluta l'uomo dopo essere riuscito a riprendere fiato, voltandosi facendo cenno di volerla sollevare da terra una volta chiuse alcune schermate olografiche. «Salta su, ti faccio vedere una cosa.»

Kobik rinuncia a spiccare il volo in maniera autonoma, preferendo di gran lunga gustarsi la coccola calda dello zio, avvinghiandosi al suo busto con le gambe e sporgendosi con le dita curiose in direzione di una finestra pop-up sul quale si muoveva un puntino lampeggiante. 

«Non ha ancora chiamato, ma Bucky sta bene… o almeno, è dove dovrebbe essere. Sei qui per questo, no?» afferma l'uomo puntando l'indice contro la piccola spia gialla che pulsa ritmica sul pannello olografico, mentre Kobik corre con lo sguardo al bordo della schermata identificando gli indici di grandezza in scala di una planimetria, leggendo la dicitura che identificava il luogo come uno dei laboratori di ricerca delle Holt Industries collocati a Chicago. «Durante l'ultima manutenzione Tony ha innestato un microchip nella protesi, così noi sappiamo sempre dove dobbiamo andare a recuperarlo in caso di emergenza.»

«Ma questa si chiama violazione della privacy ed è una di quelle cose che non andrebbero mai fatte.» interviene Natasha varcando la soglia del Centro Operativo, puntando un indice perentorio contro Kobik per sottolineare il concetto, a discapito del sorrisetto colpevole che le incornicia le labbra. «Papà non deve scoprirlo mai, altrimenti fa in modo di togliersi il localizzatore e sparisce dal radar di Mamma, chiaro моя дорогая

La punta di colpa macerata nel sollievo di zio Steve diventa un chiaro campanello d'allarme di quanto Capitan America disapprovi la scelta di innestare un microchip nella protesi del fratello trattandolo alla stregua di un cane di razza, registrando tuttavia una spiccata ondata di sollievo scaturire dal fascio di nervi tesi della sua mamma dopo giorni interi in balia dei soliti pensieri morbosi alla sola vista della lucina intermittente, catalogando l'infrazione al pari del dispositivo che le rilevava le pulsazioni cardiache ed i livelli di tossicità del sangue ogni volta che Natasha indossava i Morsi ai polsi, inviando direttamente i dati al cellulare di Bucky all'insaputa della moglie – il concetto di "privacy", tra i suoi genitori adottivi almeno, era talmente labile che Kobik trovava "carino" il fatto che i due pretendessero di fingere di rispettarlo, tentando di spiegarle al contempo quando il loro comportamento abitudinario fosse in realtà profondamente sbagliato. 

«Chiaro.» conferma Kobik con un breve cenno della testa, memore della discussione con zio Steve in merito al bisogno quasi fisiologico della sua mamma di avere il controllo della situazione e l'altrettanto urgente necessità del suo papà di sapere in salvo Natasha, asserendo che finché le informazioni personali di ogni Avengers – tipo le allergie, il colore delle mutande e la quantità di caffè e proteine ingurgitate prima di pranzo – restavano dentro le mura del Complesso tutti erano più che felici di avere due hard-disk umani a coprire loro le spalle. 

«Dici che sta bene?» indaga riluttante Natasha, approcciandosi a Steve con la stessa spavalderia con cui si chiedevano solitamente le previsioni del tempo, nascondendo magistralmente la nota di apprensione che marca il suo accento slavo più del solito. 

«Dico che sta bene.» la asseconda l'uomo per mera solidarietà, con decisamente meno maestria nel fingere di credere davvero nelle parole appena espresse, affrettandosi a cambiare argomento posando Kobik a terra. «Te lo ricordi che domenica siete a pranzo da noi, vero? Sharon mi ha chiesto se puoi occuparti tu del dolce.»

«Certo, nessun problema.» annuisce la donna, sollevandosi sulle punte dei piedi per scoccare un bacio sulla guancia di Steve prima di allungare una mano in direzione della bimba, sottintendendo la volontà di fare ritorno a casa. 

Era ormai tradizione consolidata che la prima domenica del mese zio Steve ospitasse James ed addendi a pranzo, era un'occasione come un'altra per fingere di comportarsi come una famiglia normale – Kobik sospettava fosse il pretesto scovato dal suo papà per ristabilire una sottospecie di routine sostitutiva ai picnic mensili sulla riva della Senna che a lei mancavano terribilmente –, godendosi appieno un intero pomeriggio di sacrosanta pace con tutti e otto i dispositivi spenti, sia i cellulari che i cercapersone, ed il televisore sintonizzato su una partita a caso di baseball o NBA. Kobik supponeva che il bisogno intrinseco di una "routine" da parte dei suoi genitori fosse una scusa per colmare il divario di occasioni andate perse negli ultimi sette decenni, trovando estremamente buffa la cocciutaggine dei due nel consolidare certe abitudini solo "per lei" quando ai suoi stessi occhi era palese che ogni singolo gesto fosse "per loro", con l'unica variante che lei si incastrava sempre nel mezzo – ciò non significava che le volessero meno bene o la considerassero "superflua", ma Kobik era abbastanza convinta che Natasha non li trascinava a Coney Island il 10 marzo perché lei desiderava fare un giro sugli autoscontri o sulle montagne russe, come era abbastanza certa di poter far tranquillamente a meno della favola dello Schiaccianoci a Natale, in qualsiasi forma James gliela presentasse perché a lei la storia piaceva da impazzire. 

Erano piccole abitudini che sommate insieme formavano una routine quasi monotona, ma che faceva da contropalco alle settimane adrenaliniche e fuori dall'ordinario che scandivano le loro giornate al ritmo della suoneria dei cellulari e dei cercapersone – mangiare il pollo alla cantonese sul divano davanti a Netflix ogni giovedì sera diventava quasi rassicurante se lo si osservava sotto una determinata ottica, soprattutto se Natasha era in preda ad una malcelata crisi nevrotica e si divertiva a cancellarla dipingendo loro le unghie con lo smalto, spazzolando ed intrecciando i capelli di Kobik in acconciature ogni volta sempre più elaborate. 

«Talia, è la settima volta che mi metti lo smalto sull'alluce.» interviene Kobik sollevando lo sguardo dal proprio piede al volto della donna, la quale si interrompe a metà del gesto con la boccetta dello smalto sospesa tra loro, scrollando le spalle in un cenno di noncuranza talmente repentino da far quasi sciogliere il nodo all'asciugamano che le raccoglieva i capelli ancora umidi dalla doccia. 

«Con sette passate non dovresti scheggiarlo subito, tutto qui.» si giustifica Natasha chiudendo la boccetta ed issandosi da terra, spazzolandosi i pantaloni del pigiama mentre leva lo sguardo all'orologio appeso alla parete della cucina. «Aspetta che si asciughi lo smalto e poi si fila dritti a nanna, okay? Io ti raggiungo quando ho finito di sistemarmi.»

Kobik annuisce guadagnando un bacio sulla fronte, scollandosi dal divano in pelle e spegnendo il televisore qualche minuto dopo, avviandosi in punta di piedi fino alla propria camera compiendo una virata costretta in direzione del bagno quando Natasha strepita un "denti" da sotto il rumore del phon, tradita dal riflesso catturato dallo specchio mentre tentava di attraversare la soglia con fare furtivo. 

«Avanti, snuda le fauci.» pretende Natasha sollevandole il mento con due dita una volta riposto spazzolino e dentifricio al loro posto, annuendo soddisfatta prima di chinarsi a raccoglierla dal pavimento per trascinarla di peso fino alla sponda del suo letto, sdraiandosi sul ciglio del materasso stringendosela al petto – James e Natasha la stavano pian piano disabituando alle incursioni sul lettone e alla loro presenza costante finché Kobik non cedeva al sonno nel proprio giaciglio, ma c'erano volte in cui venivano meno ai loro stessi ordini per il semplice fatto che non c'era l'altro a scaldare la metà vuota del loro materasso, usando spesso e volentieri la scusa che "mamma pantera si preoccupava a morte quando papà giaguaro non c'era" e viceversa. 

«Puoi chiederlo, se vuoi.» afferma Kobik di punto in bianco a metà di uno sbadiglio, facendo corrugare le sopracciglia di Natasha in una espressione interrogativa, sbalzando la lancetta dell'ansia alle stelle e causando un acquazzone con i fiocchi nel frattempo. 

«Lo senti, vero?» chiede riluttante la donna, ascoltando il crepitio dei fulmini in arrivo come conferma implicita alla propria domanda e puntando lo sguardo alla lucina notturna che gettava ombre soffuse lungo le pareti verdi fino al soffitto. 

«Starti vicino è come nuotare in un mare in burrasca, ti percepisco anche attraverso i muri… e di conseguenza non riesco a percepire papà.» ammette la bimba dopo l'ennesimo tentativo a vuoto, nonostante negli ultimi venti minuti si fosse concentrata al massimo ad occhi chiusi percorrendo chilometri nello spazio figurato estendendo la propria firma energetica ben oltre lo Stato del New Jersey, ma dell'impulso vitale di James non ne aveva captato nemmeno l'ombra… in compenso le ondate emotive di Natasha si infrangevano impetuose contro tutti i muri di casa, spingendo la piccola a chiedersi insofferente perché i super-umani dovessero per forza percepire il mondo amplificato e non la versione a bassa frequenza a cui generalmente sopravvivevano tutti gli altri comuni mortali – era stancante, a Kobik a volte girava quasi la testa… e fuori, di conseguenza, pioveva. 

« < Mi dispiace tesoro, è che-... > »

« < Lo so perché sei preoccupata, lo capisco… papà non è rimasto mai così tanto lontano da casa in silenzio finora > .» la anticipa Kobik in russo adeguandosi al vocabolario in corso con uno scarto di difficoltà minimo, contemplando il silenzio della sua mamma che si limita a stringersela al petto ed intimarle di dormire, appisolandosi qualche minuto dopo cullata dal ticchettio della pioggia contro le tegole del tetto.

Ciò che la sveglia non è di certo il telefono, il tramestio in salotto o gli schiocchi sonori del temporale, ma la bomba atomica che esplode nella camera da letto dall’altra parte del corridoio, obbligando Kobik ad armarsi di Bucky Bear per farsi coraggio ed avventurarsi in cucina a vedere cosa diavolo sia capitato, trovando Natasha vestita di tutto punto in tenuta da combattimento che sparava ordini a salve all’auricolare già infilato all’orecchio, placandosi congelata sul posto a metà arsenale assemblato alla vista della bambina confusa che si affaccia alla soglia del salotto.

«Sta arrivando zio Steve a prenderti, la mamma deve andare via.» tenta invano di tranquillizzarla la donna, mentre la piccola scocca uno sguardo veloce all’orologio appeso in cucina deducendo l’unica ipotesi plausibile che giustificasse una Vedova Nera armata fino ai denti ed in procinto di sfidare il temporale uscendo dalla porta di casa alle tre di notte.

«Talia… cosa è successo a Papo?» chiede in punta di voce Kobik, rendendo appena udibile la domanda, agitandosi per non riuscire a scalfire il muro emotivo dietro al quale Natasha si stava riparando per non soccombere, iniziando a far tremare i vetri dell’intera casa per riflesso inconscio, turbata dal picchiettare costante della pioggia nonostante fosse lei per prima a causarla.

«Non lo so ancora, probabilmente ha la febbre. Ho solo una posizione GPS su cui lavorare.» si affretta a giustificarsi Natasha, cadendo a carponi dinanzi a lei afferrandole le guance per asciugarle i lucciconi con i pollici, aprendosi in un sorriso teso che si sforzava di mostrarsi incoraggiante, placando il tremore all'intelaiatura delle finestre. «Devo andare a prenderlo e riportarlo a casa, tutto qui.» 

«Perché?» sussurra la bambina, stringendo convulsamente la zampa dell’orsacchiotto.

«Perché non è nelle condizioni di tornarci con le proprie gambe, a quanto pare.» afferma Natasha, celando per sé gran parte delle informazioni, spingendo Kobik a porsi le domande giuste al momento sbagliato – James riusciva a guidare anche senza braccio sinistro, lo sapeva, l’aveva visto tenere il volante con le ginocchia mentre cambiava le marce con la destra… non poteva guidare se aveva una gamba fratturata, ma poteva zoppicare fino alla prima sede dello SHIELD in zona, quindi se non poteva trascinarsi fino al primo Centro Operativo voleva dire che non riusciva nemmeno a reggersi in piedi o aveva paura di essere seguito, attaccato... ucciso.

«Non gli hai parlato…» deduce Kobik mentre il terremoto telecinetico aumenta di intensità e diminuisce nel raggio d’azione, spostando il divano di un paio di metri e rischiando di far precipitare il televisore a terra frantumando i cristalli liquidi dello schermo nell’impatto, tentando invano di razionalizzare ciò che non percepiva colmandolo con supposizioni campate per aria, captando con la coda dell’occhio la pioggia battente fuori dalle finestre che stava trasformando la strada in fiumi – forse con l’asfalto ridotto ad uno scivolo dell’acquapark non era sicuro guidare senza un arto, forse era solo per quel motivo se era Natasha quella che si stava muovendo per recuperarlo… anche se ciò non giustificava le armi, senza calcolare che il numero salvato nelle chiamate d’emergenza di James era quello della sua mamma e non quello di Sam come da accordi d’ufficio.

«No. GPS, te l'ho detto.» smorza il sorriso Natasha mostrandole sullo schermo il puntatore di Maps, palesando la tensione a Kobik facendole capire la serietà della situazione che non implicava lo spazio per i suoi capricci. «Puoi far smettere di piovere? Mamma vorrebbe pestare il piede sull'acceleratore.»

Il ticchettio della pioggia cessa quasi all'istante, venendo premiata con un abbraccio soffocante ed un bacio sulla fronte, interrompendo il contatto al suono del campanello. 

«Ti sei calmata, K? Perché se ricomincia il diluvio abbiamo un problema, sono qui in moto.» esordisce Steve varcando la soglia puntando l'attenzione direttamente su Kobik, i capelli umidi ed i vestiti fradici. «Fino a trenta secondi fa pioveva solamente nel vostro quartiere, non è scesa nemmeno una goccia a Manhattan per tutta la notte. Giusto per.»

«Ops.» si stringe tra le spalle Kobik mentre Natasha leva gli occhi al cielo, annotando mentalmente di aver mandato a rotoli la striscia positiva di assenza di "anomalie" degli ultimi tre mesi, a discapito della situazione già di per sé inconsueta. «Scusa…» 

«Nessun problema.» la giustifica Steve con una scrollata di spalle, tenendo la porta aperta a Natasha mentre quest'ultima si carica il borsone in spalla ed afferra in corsa le chiavi dell'auto. «Non fare nulla di avventato, capito?» 

«Ah-a.» mugugna la donna saltando a piè pari i tre gradini d'entrata, brandendo le chiavi come fossero un'arma accendendo i fanali e sgommando via lungo la strada nel giro di un minuto netto – quindi no, James non aveva inviato la sua posizione GPS a Natasha solo perché aveva la "febbre" e non poteva fare l'autostop, lasciando sfuggire al cielo un paio di brontoli ed un tuono fragoroso che illumina le nubi. 

«Kobik.» la richiama Steve con lo sguardo puntato al temporale in arrivo, inclinando la testa verso il basso incontrando i suoi occhi cerulei da cucciolo spaventato. «Va tutto bene, okay? Davvero.» 

«O-... OKay» mormora la bimba respirando a fondo, scacciando via i rombi dei tuoni mentre stritola la zampa di Bucky Bear per farsi coraggio. 

«Vuoi tornare a dormire qui nel tuo letto o andiamo a Brooklyn?» la interroga l'uomo squadrandola dall'alto in basso come se si aspettasse di vederla scoppiare in lacrime da un momento all'altro visto che la pioggia era ufficialmente terminata all'esterno, togliendosi le scarpe facendo leva sui talloni ed abbandonandole all'ingresso al suo desiderio di rimanere. «In questo caso vorrei un paio di asciugamani ed un cambio di vestiti, mi vai a prendere qualcosa da mettere dall'armadio di papà, per favore?» 

Kobik in tutta risposta schiocca le dita materializzando il richiesto direttamente tra le mani dello zio, seguendolo con lo sguardo mentre si avviava verso la porta del bagno, spostando il divano di nuovo al suo posto una volta fuori dalla supervisione di Steve, accoccolandosi contro i cuscini stringendo l'orsacchiotto di peluche tra le braccia, crollando incontro al bracciolo mentre accendeva il televisore sulla CNN per tentare di capire cosa gli adulti non le stessero dicendo, ormai troppo sveglia ed agitata per pretendere di tornare a dormire – niente incendi dolosi, sparatorie o "fughe di gas" a Chicago e zone limitrofe, in compenso era scoppiato un incendio in California, il Presidente Ellis aveva rilasciato un'intervista in mattinata, nell'ultima ora si era verificato un maxi-arresto nel Queens per opera di Peter ed ora stavano trasmettendo il reportage della cerimonia indetta dal sindaco di L.A. nel pomeriggio, il quale tesseva le lodi degli Young Avengers in favore di camera per i servizi resi alla città nelle ultime settimane, sorridendo divertita nel vedere Kate inchinarsi alla folla con fare esibizionista alle spalle di un Elijah particolarmente fiero del proprio operato mentre Cassie, Thomas e Riri se la ridevano di gusto al successo riscosso dall'amica nel dare spettacolo, distogliendo l'attenzione dallo sguardo esasperato di Teddy e Billy che confabulavano in un angolo del palchetto. 

«Devo fare un discorsetto a tutti e sette quando tornano a New York.» esordisce Steve alle sue spalle, fresco di cambio e con sguardo fisso allo schermo del televisore, afferrandole le caviglie con una mano sola sollevandole per farsi spazio sul divano, finendo per posarsi i piedi nudi di Kobik in grembo come se nulla fosse. «Carino lo smalto, ha un bel colore.»

«Perché la ramanzina? A me sembra si stiano solo divertendo.» replica la bimba rigirandosi sul divano come un pesce fuor d'acqua, spiazzata dal contesto abitudinario ma dai soggetti insoliti, riportando il discorso in campi neutri. «Che c'è di male nel divertirsi?» 

«Fuori dalle mura di casa abbiamo tutti un certo comportamento da mantenere… è lo stesso motivo per cui tu non puoi uscire di qui con i capelli bianchi, giocare con la telecinesi in mezzo alla strada o provocare… acquazzoni geolocalizzati perché ti senti triste.» ribatte l'uomo spigliato mente Kobik mette su il broncio, nonostante afferri il concetto fondante dietro la predica – zio Steve aveva il permesso di riprenderla, per gentile concessione di James che a volte si pentiva di essere più permissivo di quanto fosse lecito. «Possiamo sembrare spaventosi agli occhi delle persone che non ci conoscono, e se vogliamo rispetto dobbiamo essere i primi a dimostrarlo.»

«Mama e Papo si divertono.» ribatte Kobik cocciuta, unicamente per rispondere con lingua affilata all'editto emanato dallo zio, che a discapito di tutto e tutti continuava a tenere in piedi l'intera baracca da quando Stark si era ritirato in pensione. 

«Mama e Papo non ricevono onorificenze da nessun Sindaco, prendono ordini direttamente da Fury e da Ellis.» asserisce Steve senza demordere, indicando il televisore a supporto della propria tesi. «Si divertono a farsi sparare addosso, motivo per cui la CNN non parlerà mai di loro.»

«Non ho comunque sonno.» brontola Kobik punta sul vivo replicando al suggerimento inespresso, distogliendo lo sguardo dallo schermo iniziando a giocherellare con l'orlo della divisa rossa e blu dell'orsetto, richiamando l'attenzione dello zio sulla stoffa. 

«Quello dove l'hai trovato? Non ne vedevo uno dal '44.» ride Steve puntando lo sguardo sul Bucky Bear che lei si stava stringendo al petto. «Baloo che fine ha fatto?» 

«È arrivato stamattina al Complesso con la posta… e Bucky-Bear mi piace di più di Baloo.» spiega stringendosi tra le spalle con un gesto di noncuranza. 

«Sappi che sparisce appena Bucky rimette piede dentro casa.» ci tiene a sottolineare Steve con un sorriso malcelato sulle labbra. «Lo detesta.»

«Per questo Talia me l'ha fatto tenere e non l'ha rivenduto subito su eBay.» confessa Kobik divertita, facendo scoppiare a ridere Steve di nuovo mentre quest'ultimo chiede retorico dove Romanov reperisse la volontà e le forze per trovare sempre nuovi pretesti per cui bisticciare con James, requisendo il controllo del telecomando trovando il canale di Cartoon Network nel frattempo. 

Kobik non sa a che ora imprecisata della notte "Billy e Mandy" abbiano perso la loro attrattiva facendola precipitare nel mondo dei sogni, ma il svegliarsi raggomitolata sul divano sotto una coperta leggera con il profumo di uova e pancetta lasciate a sfrigolare in padella rientrava al quarto posto nella sua personale classifica di "amabili novità".

«'Giorno, è quasi pronto da mangiare.» annuncia Steve ad alta voce dalla cucina quando avverte il rumore dei cuscini precipitare a terra, incespicando assonnata fino al tavolo ed issandosi sulla sedia nel momento esatto in cui lo zio le piazza il piatto sotto il naso con aria soddisfatta. «La tua colazione è felicissima di vederti.»

Kobik sopprime una risata sentita di fronte alla faccina sorridente formata dalle due uova sode e dal bacon, punzecchiando la pancetta abbrustolita con fare svogliato. 

«Non è una buona giornata.»

«Così migliora almeno un pochino?» chiede Steve piazzandole davanti lo schermo del cellulare aperto sulla chat con Natasha, ingrandendo la foto di James addormentato sulla branda del Quinjet. «Tra un ora e mezza atterrano al Complesso.»

«Quindi è davvero tutto okay stavolta.» si stupisce la piccola, palesando la diffidenza che la inseguiva dalla sera prima. 

«Mangia, vestiti e poi ci facciamo un bel giro in moto fino all'Upstate.» la liquida lo zio senza darle conferma, requisendole il cellulare prima che lei possa notare qualche dettaglio sconveniente, sedando la propria paranoia fidandosi della calma piatta che si rifletteva negli occhi sereni di Steve – è questione di attimi prima che Kobik ripulisca il piatto fino a farlo risplendere come uno specchio, catapultandosi in camera arraffando i primi quattro stracci che le capitano in mano quando apre il proprio armadio, presentandosi sulla soglia di casa alla velocità della luce vestita di tutto punto con tanto di scarpe allacciate perfettamente con il velcro, protendendo le mani in direzione del secondo casco che Steve conservava nella sella della Harley. 

Forse il problema è che suo zio era quello che sapeva gestire meglio le proprie emozioni a differenza del resto della sua famiglia adottiva, emanando un'aura alimentata a colpi di speranza ed ottimismo che consumava tutti i suoi demoni prima che provassero a raggiungere la superficie… e, a conti fatti, è sicuramente quello il motivo per cui Kobik si sente tradita nel profondo quando percepisce il cataclisma che imperversa nell'ala medica solo una volta raggiunto il parcheggio interrato del Complesso due ore dopo, materializzandosi quattro piani più in alto nel giro di un battito di ciglia, piombando nel bel mezzo della confusione più totale. 

Steve era stato veloce nel requisirle il telefono perché non notasse la cannula della flebo ed i muscoli contratti dagli spasmi che scuotevano James dalla testa ai piedi… il quale ora gridava spaventato dai fantasmi generati dalla febbre alta, demoni così caotici che Kobik riusciva a vederli anche senza entrargli nella testa, appiattendosi contro il muro per non inciampare nelle ombre di uomini in camice armati di aghi e bisturi che si precipitavano incontro al tavolo operatorio per fare suo padre a fette – il Dottor Banner nel frattempo ragionava ad alta voce chiedendosi come fosse umanamente possibile tollerare la febbre a quarantadue gradi, spingendo a forza James contro il lettino mentre le vene del collo e degli avambracci gli si coloravano di verde smeraldo, individuando una Natasha agitata intenta a preparare i sedativi all'altro lato della stanza… e Kobik reagisce d'impulso, saltando in avanti riassembrandosi a carponi sopra lo stomaco di James, contravvenendo agli ordini di stare alla larga dal suo cervello sguazzandoci dentro fino a trovare il pulsante di spegnimento, dissolvendo all'istante i fantasmi incorporei creati dalla psicosi trovando il volto della sua mamma nella moltitudine scomparsa urlando furente che ciò che aveva appena visto non era solo "febbre". 

«Shh, va tutto bene. Va tutto bene, adesso.» sussurra Natasha con le labbra premute al suo orecchio dopo aver attraversato la stanza di corsa per abbracciarla, coprendole le mani con le proprie dopo avergliele chiuse a pugno per farla smettere di fremere, bisbigliandole parole dolci fino a quando anche i vetri delle finestre avevano smesso di tremare. «< Cosa hai visto, моя дорогая >?» 

« < Aghi. Tanti, tanti aghi. > » era stata l'unica cosa che Kobik era riuscita a bisbigliare con voce ancora venata dal panico, interrompendosi quando la mano destra di James si àncora al polso di Natasha ed inizia a chiamarla brontolando nel sonno indotto con tono agitato, il respiro nuovamente irregolare come se fosse in atto una seconda crisi nonostante lei fosse intervenuta per "spegnerlo" manualmente solo qualche minuto prima. «Talia…»

«Lo so. Va tutto bene Kobik, davvero.» afferma la donna accarezzandole una guancia con la mano libera, spezzando il contatto visivo dopo aver ottenuto un suo breve cenno della testa, sentendosi prelevare di peso da Bruce mentre Natasha si china su James premendo la fronte contro la sua. «Shh, sono qui Yasha. < Calmatiriconoscimi >

Kobik vede con estrema precisione il momento esatto in cui James avverte il profumo di Natasha, rilassandosi di colpo ed aumentando la presa al suo polso per non lasciarsi sfuggire il contatto da sotto i polpastrelli di carne – viveva con loro ormai da tre anni, ma la bimba continuava a non capacitarsi degli effetti calmanti della fragranza della sua mamma sul suo papà, con quel mix narcotizzante ed ipnotico di lavanda e vaniglia, condito con due gocce di Chanel… i suoi genitori adottivi ci scherzavano sopra a volte, Natasha si vantava sempre di profumare come la "donna più bella del mondo", sorridendo deliziata quando James ribadiva il fatto che quel primato le si addiceva comunque anche nel caso lei si fosse trascinata dietro l'olezzo di una discarica, beccandosi un calcio agli stinchi ogni volta che si lasciava sfuggire la proposta di una doccia condivisa per far fronte al problema del tanfo in presenza della figlia. 

C'erano volute un paio di ore prima che Bruce scoprisse che avevano iniettato a James una dose di anticoagulanti tale da impedire la rimarginazione delle ferite, rivelando lo scempio di cerotti e bende che gli ricoprivano la schiena quando zio Steve aveva aiutato il dottore a sfilargli la maglia a peso morto, disinfettando i fori dei prelievi lungo la colonna vertebrale ed in corrispondenza delle vene principali, sospirando tutti sollevati quando il vaccino al patogeno estrapolato da Yelena un paio di giorni prima aveva iniziato a fare effetto ripristinando pian piano i tessuti – Natasha a distanza di ore continuava a non capire come il marito fosse riuscito ad uscire a calci e morsi dal laboratorio, avviare la chiamata d'emergenza e rifugiarsi in un edificio sicuro finché non era arrivata lei a tirarlo in salvo… considerate le condizioni in cui versava, forse la risposta alle sue domande era l'adrenalina, oppure il merito era da attribuire solamente alla testa dura di James. 

Natasha, Steve e chiunque aveva avuto la tempra di provare a litigare con una bimba di sette anni – infuriata con i suddetti adulti e preoccupata a morte per l'uomo che, in quel preciso istante, considerava più come un dio che un padre –, avevano fallito miseramente nel vano tentativo di farla uscire dall'infermeria, gettando tutti le armi quando Natasha aveva finalmente ceduto a patto che "facesse la brava" e Kobik, fiera ed imbattuta, era finita per trascorrere l'intera giornata appollaiata ai piedi del letto di James a fare la guardia – ai demoni che dormivano sotto il leggero velo del sonno, alle ombre dei fantasmi che popolavano i ricordi più recenti, ai mostri sotto il letto veri e immaginari, ma soprattutto agli aghi e le fiale di Bruce. 

Era ormai notte fonda quando Kobik si era ufficialmente acclimatata contro il fianco destro di James, l'orecchio premuto contro il suo sterno ed il braccio libero di circondargli il busto senza scontrarsi con l'arto di metallo – Natasha gli aveva tolto la protesi ancora a bordo del Quinjet, Bruce non gliela aveva rimessa per non incorrere a possibili complicanze –, cullata dalla rinnovata calma piatta della sua mamma, addormentata nella poltrona affianco alla branda, speculare allo stato di pace narcotica in cui naufragava il suo papà, privo di qualsiasi tipo di incubo per merito suo che ne rimuoveva ogni traccia prima ancora che se ne potesse formare uno. 

Kobik viaggiava già in un limbo di dubbia dormiveglia quando il gomito sotto la sua spalla si era piegato ed una mano callosa era giunta assonnata a pettinarle la frangetta, precipitando in uno stato di sonno profondo quando James rinviene giusto il tempo per premerle le labbra contro la fronte augurandole la buonanotte – se si concentra Kobik può illudersi di essere ancora tra le pareti azzurre della propria cameretta a Parigi, sotto una serena costellazione di plastica luminescente… ma la fantasia appena formulata le scivola come acqua tra le dita, inghiottita da un'onda soporifera. 





 

Note:

1. X-men citati: Scott Summer AKA Ciclope, Clarice Ferguson AKA Blink, Hank McCoy AKA Bestia e Charles Xavier. Logan (Wolverine) si è guadagnato l'epiteto di "zio" ancora nel '46 da Natasha quando sono scappati dal Dipartimento X la prima volta, Kobik si adatta di conseguenza. 

2. Specifichiamo le manipolazioni genetiche una volta per tutte: si definiscono "mutanti" coloro che in situazioni di stress o squilibri emotivi innescano il "gene x", presente nel corredo genetico già alla nascita, il quale può attivarsi come no (è pur vero che esiste una scuola di mutanti, ma in genere se uno non viene traumatizzato da piccolo può vivere la sua intera vita convinto di essere un semplice essere umano). Il ceppo degli Inumani invece nasce dall'esposizione alla "terrigenesi", una sottospecie di gas che se viene assimilato correttamente dall’organismo dona capacità “super”, oppure può uccidere all'istante se uno ha la sfortuna di avere un sistema immunitario debole (Quake, Yo-yo, Black Bolt e Medusa, per farvi alcuni nomi). Poi ci sono i "potenziati" che diventano "super" dopo essere entrati in contatto con sieri, parassiti, patogeni, radiazioni (circa tutti gli Avengers e i F4). Una condizione clinica non preclude le altre, tipo i gemelli Maximoff sono sia "potenziati" sia "mutanti", in breve, i test in laboratorio hanno scatenato il gene x. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Codice Viola ***


Codice VIOLA
Protocollo:
Papà paranoico
Missione: Ragno velenoso
Status: (ancora) in corso



 

«Banner, è possibile che mi stia subendo in un colpo solo tutte le influenze che non mi sono preso in ottant'anni?» 

«боже мой, sei proprio un bambino…» sbuffa spazientita Natasha all'ennesima esternazione insofferente del marito, il quale non demorde e la placa per tempo, puntando lo sguardo febbrile ai piedi del letto prima di colpirla alla coscia con un movimento leggero del piede. 

«Sono fuori allenamento con questo genere di cose… nemmeno un raffreddore dai tempi del bunker ed ora mi sento uno zerbino.» brontola James con tono volutamente vittimista e fin troppo consapevole di non racimolare nemmeno un grammo di compassione da parte della donna, inghiottendo a secco le pasticche che Banner gli porge al momento prima di puntarlo come un segugio in attesa di una risposta. «Allora?» 

«Allora la febbre è scesa a quaranta, ma starai da schifo per un altro paio di giorni-…»

«Fino a quando non si rigenerano i litri di sangue persi e la schiena non guarisce del tutto, lo so.» sbuffa l'uomo schiantandosi di peso contro i cuscini, palesando una spiccata irritazione per la sua attuale condizione clinica, pentendosi del gesto compiuto quando le vertebre protestano e scricchiolano alla pressione improvvisa contro il materasso. 

«Visto che lo sai, possiamo tornare a concentrarci?» lo interroga la compagna scoccandogli uno sguardo in tralice che prometteva una morte lenta e dolorosa alla prossima interruzione, torcendosi le dita per trattenersi dal stampargli una cinquina in volto. «Qual è l'ultima cosa che ricordi?» 

«Te, любовь моя, e il tuo meraviglioso gancio destro che mi ha fatto vedere le stelle.» ribatte l'uomo svogliato, premendosi i palmi contro le orbite trattenendo una smorfia di dolore alla fitta lanciatagli dal cervello quando i neuroni scorrazzano liberi in cerca di una risposta e finiscono per scontrarsi contro un muro, puntando poi lo sguardo sul drappello di impiccioni che piantonava apprensivo il suo capezzale. «Ve l'ho già detto cosa ricordo, non ha senso ripetermi… ora mi lasciate dormire?»

«Prima mangia qualcosa.» interviene Steve anticipando la preannunciata sfuriata di Natasha, la quale si limita a comprimere le labbra e posare lo sguardo sul vassoio di cibo salutare e intonso abbandonato a sé stesso sul comodino. 

«Non ho fame.» replica l'uomo laconico, rigirandosi su un fianco e scontrando lo sguardo contro gli occhi curiosi e analitici di Kobik, la quale scalcia nel vuoto annoiata, appostata di vedetta sulla poltroncina a fianco della branda, mettendola a fuoco per la prima volta da quando James si era svegliato quella mattina. «Tu non dovresti essere a scuola, Pulce? Il venerdì hai mate-…» 

«È sabato, papà.» lo ferma Kobik conciliante prima che lui possa ricapitolare il suo intero orario scolastico pur di sfuggire dalla conversazione in corso, trovando un alleata in Yelena, la quale per solidarietà clinica suggerisce scorbutica una pausa pranzo per lasciarlo riposare qualche ora. 

Il corteo se ne va silenzioso, avviato pian piano da Steve quando chiude la custodia del tablet con cui stava prendendo appunti, Yelena si era accodata con aria stanca ed un pallore preoccupante a segnarle ancora l'incarnato, mentre Bruce si era rassegnato a riassumere l'ordine di assunzione dei farmaci picchiettando con il dito contro il tappo dei flaconi arancioni prima di andarsene. 

«Tu non hai fame, моя дорогая?» chiede Natasha prima di chiudere il drappello oltrepassando la porta, puntellandosi allo stipite riservando le proprie attenzioni esclusivamente alla figlia, ancora intestardita nel ignorare James. 

«Adesso arrivo.» concede la piccola affidandosi alla deduzione logica della sua mamma nel credere che lei volesse semplicemente assicurarsi personalmente dello stato mentale di James, aspettando che Natasha si porti lontana dalla soglia prima di sussurrare la sentenza. «Stai morendo di fame, Bucky-bukaroo.»

James rinuncia a priori nel campare una scusa per aria con la quale giustificarsi, consapevole che Kobik era in grado di guardare agli esseri umani come ad un enorme "Allegro Chirurgo" organico, studiandola curioso mentre lei si arrampicava sulla branda a fianco e si tuffava nella borsa di Natasha cercando il portafoglio. 

«Quanto è saggio far arrabbiare Talia, ora come ora?» lo interroga la piccola porgendogli il proprio tesoro, puntando uno sguardo scettico sul vassoio abbandonato sul comodino. «Il tuo stomaco può digerire anche le pietre, ti procuro qualcosa di più buono se vuoi.»

James si apre in un sorriso malizioso di fronte alla logica inconfutabile appena sviscerata dalla piccola, avanzando l'ipotesi di un cheeseburger con doppio formaggio e salsa barbecue, porgendole il contante da far materializzare nel vasetto delle mance abbandonato sul bancone del Burger King per equiparare il furto dalla catena di montaggio nelle cucine. 

«Mamma é già arrabbiata con me per una lista infinita di motivi, un attentato al mio colesterolo non cambia di troppo le carte in tavola.» garantisce l'uomo euforico, concedendole la sua benedizione e lasciandosi sfuggire un verso soddisfatto quando il panino gli si materializza in mano sostituendosi al contante in un scintillio azzurrino, prendendone un morso che cola formaggio e salsa macchiandosi la maglietta, scrutando critico il disastro compiuto a causa dell'unico arto disponibile al momento. «Mh… amen, Natalia l'avrebbe scoperto in ogni caso.»

«Ora che hai lo stomaco pieno, me lo dici cos'è successo a Chicago e cosa hai fatto per far arrabbiare mamma?» chiede titubante Kobik, molleggiando sui talloni irrequieta memore dell'insegnamento di Natasha, la quale sosteneva che la via alla lingua sciolta degli uomini era attraverso l'appetito… era una sottigliezza capire di cosa fossero affamati, ma la bimba è certa di aver fatto centro quando James riconosce la tecnica e la scruta allibito. «Cosa? Non te l'aspettavi?» 

«Sinceramente? No.» afferma l'uomo pulendosi l'angolo della bocca con il dorso della mano, schiarendosi la voce. «Mamma che ti ha detto?» 

«Assolutamente nulla.» replica Kobik spigliata, smettendo di torturarsi le dita quando lo sguardo di James cade sulle sue mani in una correzione implicita, consapevole di essere quello "malleabile" rispetto alla moglie, tentennando sul farle guadagnare una risposta o meno. «Papà

«Subdola.» ribatte l'uomo assottigliando lo sguardo al suo richiamo, addentando il panino fingendo di prendere tempo. «Sei subdola, tanto quanto tua madre. Cristo

«Allora?» insiste Kobik non riuscendo a fare a meno del sorriso soddisfatto che le incurva le labbra, vedendosi brandire il panino contro. 

«Allora, signorina, fattelo dire da Natalia. Io ho la bocca cucita.» sentenzia James, deducendo di aver tirato troppo la corda nel sottolineare il grado di parentela acquisita in modo gratuito, intaccando il suo orgoglio nell'essere riuscita a farlo vacillare in un compito in cui lui era un maestro indiscusso. 

«È difficile.» ribatte la piccola, consapevole che la donna fosse un osso dannatamente più duro di James. 

«Ma non impossibile, io ci riesco senza troppi problemi.» scherza l'uomo aprendosi in un sorriso, ricevendo uno sbuffo spazientito in risposta. 

«Tu hai un potere su di lei che io non ho.» gli ricorda Kobik, atteggiandosi alla sua massima interpretazione di "occhi dolci" di cui fosse in grado, strappandogli una risata ed un ordine che le intimava di trascinarsi a pranzo. 

La cucina ospitava solamente Natasha e la sua porzione di pasta fumante quando Kobik si siede al tavolo e tuffa la forchetta nel piatto, rinunciando in partenza al mettersi alla prova, assaporando in silenzio ogni forchettata con aria vagamente abbattuta, sorprendendosi quando la donna – dopo cinque minuti di silenziosa contemplazione ed una attenta valutazione dei pro e dei contro – solleva la manica della maglietta permettendo alla piccola di vedere le macchie violacee che le segnavano la porzione di pelle scoperta. 

«Facciamo un piccolo esercizio di memoria, vuoi?» chiede Natasha prendendola in contropiede, sollevando lo sguardo verde su Kobik al suo cenno affermativo del capo, confusa dall'evoluzione della conversazione. «Ti ricordi in che condizioni ho trovato la zia qualche giorno fa? Cosa ha fatto quando mi ha vista?» 

«Ti ha attaccata perché vedeva il fantasma di Starkovsky [1], non te.» afferma Kobik, deducendo cosa doveva essere successo la notte prima, trovando una valida giustificazione al borsone di armi con cui Natasha era partita da casa, puntando lo sguardo ai lividi spaventata. «È stato Bucky-bukaroo, vero?»

«Sapevo che era una delle possibilità, ero preparata.» replica asciutta la donna tornando a nascondere le ecchimosi sotto la manica della maglietta, liquidando l'argomento con un cenno di noncuranza della mano, arricciando il naso infastidita quando capta la lieve traccia di fritto che Kobik portava impresso sui vestiti. «Cheeseburger?»

«Colpa mia.» si affretta a specificare la piccola, togliendo pretesti per cui i due potenzialmente potessero ampliare la lite, grattando con la forchetta contro il fondo del piatto lustro imbarazzata per essere stata scoperta, realizzando che la propria bravata non era passata inosservata fin dall'inizio come invece pensava. «È stata una trattativa fallimentare.»

«Avresti potuto materializzargli davanti anche una pila di pancake e sciroppo d'acero alta un metro e non saresti riuscita a fartelo dire lo stesso.» spiega la donna con un sorriso, portandole una ciocca bianca dietro l'orecchio in una coccola sfuggevole prima di prelevare il piatto e le posate per depositarle nella lavastoviglie. «A James non piace ammettere quando perde il controllo, si sarebbe inventato qualcosa ed avrebbe cambiato discorso.»

«Quindi ora che si fa?» chiede dubbiosa Kobik, seguendola con lo sguardo mentre avviava l'elettrodomestico e si incamminava in direzione dell'infermiera armata di tablet e blocco degli appunti. 

«Lo sai già, моя дорогая. Ti abbiamo addestrata meglio di così.» ribatte Natasha con ovvietà, sottolineando implicitamente il fatto che avere il midollo ed il sangue di un Soldato ed una Vedova in giro per il Paese era pericoloso quanto la diffusione delle cartelle cliniche dei suddetti, reputando "sconsigliabile" entrare nel mirino di un caso nazionale se la notizia trapelava ai piani alti… e, dato che Yelena e James non si reggevano in piedi, erano giunti alla conclusione che Natasha fosse l'unica con le qualità e le competenze adatte per rintracciare le fiale e mettere a ferro e fuoco tutti i campioni sviluppati in laboratorio. 

Alla fine si era scoperto che, nella sua incredibile idiozia, James era stato lungimirante nel impostare l'invio della posizione GPS ai contatti di emergenza al quinto messaggio senza visualizzazione ne risposta di Natasha. L'uomo aveva ripreso le piste di Yelena muovendo un paio di passi nella giusta direzione, ma alla sua terza richiesta negata di un consulto diretto con Allan Holt in portineria, era stato ripagato con un sedativo per elefanti sparato nel collo ed un viaggio in barella fino al laboratorio nel seminterrato del palazzo… il resto era confuso, James ricordava vagamente le iniezioni ed i prelievi, gli allucinogeni non avevano più gli stessi effetti su di lui come ai tempi del Dipartimento ma non aveva calcolato gli anticoagulanti, riuscendo tuttavia a combatterli quel tanto che bastava per evadere prima della sospensione del cocktail di farmaci studiato per fargli perdere la concezione di tempo, spazio e memoria, rifugiandosi nel primo edificio abbandonato dove era stato recuperato da Natasha – nessuno aveva menzionato il microchip nella protesi che aveva permesso alla donna di rintracciare James eludendo il tranello che voleva attirarla a sua volta nel laboratorio dove era rimasto il cellulare, ed entrambi i suoi genitori avevano taciuto in merito all'attacco violento ai danni di Natasha lasciando cadere nel silenzio la preoccupazione di fondo nel non aver saputo riconoscerla come nemica o alleata… Kobik avrebbe voluto sapere chi aveva visto suo padre al punto da scatenare una reazione omicida, costringendo la moglie a sparargli un tranquillante e trascinarlo di peso a bordo del Quinjet per riportarlo a casa, ma a conti fatti la bimba sapeva che era solo questione di tempo prima che un incubo si materializzasse ai suoi occhi e vedesse di persona il fantasma che cercava aggirarsi per i corridoi di casa mentre James urlava nel sonno confinato nella propria stanza. 

Era ormai tardo pomeriggio quando Natasha si era decisa a caricare James in macchina per riportarlo a casa, vantando la scusante che voleva evitarsi una seconda dormita sulla poltrona in infermeria, imbottigliandosi nel traffico per raggiungere Little Ukraine con l'impianto stereo eletto ad unica compagnia. Kobik, rintanata nei sedili posteriori dietro il guidatore, godeva di un'ottima visuale dell'espressione tirata di James – sguardo febbricitante, pallore cadaverico, mandibola serrata a combattere il mal di testa montante ed un onda anomala di sensi di colpa per le azioni compiute che si infrangeva contro gli scogli dell'orgoglio, perché di quelle possibili reazioni era stato avvisato direttamente dalla moglie a cui non aveva dato ascolto, partendo nel cuore della notte per combattere un mostro che non era riuscito ad uccidere da solo ed ora minacciava coloro che aveva giurato di proteggere. Natasha, di contro, non era furiosa per i lividi che pulsavano ogni volta che cambiava le marce o dolevano in silenzio quando prestava i piedi contro i pedali dell'auto, ma per l'orgoglio ferito di essere stata tagliata fuori e la frustrazione di chi, dopo giorni di esasperante attesa chiedendosi se James fosse vivo o morto, ora si ritrovava una situazione allucinante sulle spalle a cui doveva far fronte da sola. 

Una volta Kobik aveva sentito James dire che Natasha fosse la sua più grande forza, ma allo stesso tempo la sua più grande debolezza… che il suo intero mondo girava intorno a lei – e a Kobik, negli ultimi tre anni, quindi "perderle" era diventata un'opzione esclusa a priori, dogma autoimposto che tuttavia creava più liti di quante ne evitava dato che la moglie si sceglieva da sola le proprie battaglie con o senza il suo permesso, bisticciando per difendere una posizione di speculare predominanza. Kobik sapeva che l'amore che provavano l'uno per l'altra era la stampella che li reggeva in piedi nei momenti di sconforto, ma in quei tre anni di convivenza aveva visto anche come quel sentimento potesse annientarli come nessun altro fattore esterno riusciva – la bimba ricordava fin troppo nitidamente l'aura che regnava tra le mura di casa nei primi mesi di convivenza a Parigi, l'impegno di James nel far funzionare le cose dopo il disastro di Madripoor [2] in contrasto con l'impellente desiderio di fuga di Natasha, che in seguito alle prime settimane di euforia aveva iniziato a percepire le mura di casa come una prigione anche a causa dell'incombenza di essersi ritrovata "madre" senza il minimo preavviso. Era sparita per tre mesi, una mattina Kobik si era svegliata ed aveva trovato James seduto sui gradini che scendevano in strada, una sigaretta tra le dita e la notizia di una "missione" che avrebbe tenuto lontana la sua mamma per un tempo indefinito, spiegandole che lui la capiva, che tornare a vivere in una pelle che non era più la propria era difficile da gestire, che lui per primo era sparito dalla circolazione per anni dopo Washington – Kobik, una delle tante sere in cui suo padre si era perso in contemplazione delle fotografie appese al frigorifero con la testa da un'altra parte, gli aveva chiesto come riuscisse a tollerare l'intera situazione… ricordava che James le aveva sorriso, confidandole che se Natasha voleva sapeva dove trovarlo, che il segreto dietro alla loro relazione leggendaria era nella consapevolezza che lui non aveva nessun diritto nel trattenerla ma le aveva giurato di non sgusciare via dalla sua vita ed abbandonarla, che le porte di casa erano sempre aperte e stava a lei decidere quando farci ritorno, poi le aveva proposto una passeggiata e le aveva comprato un gelato sulla riva della Senna. Natasha era tornata la notte della Bastiglia, James l'aveva portata a vedere i fuochi d'artificio e quando erano risaliti a Place du Tertre l'avevano trovata accampata sui gradini d'entrata, Natasha aveva finto di non ricordare dove avesse lasciato le chiavi di casa e James l'aveva baciata con impeto prima di varcare la soglia, dimenticando all'istante l'intero "inconveniente" durato per tre lunghissimi mesi. 

Ogni volta che litigavano Kobik temeva che quella famosa parentesi graffa arzigogolata potesse ripetersi, non importava se James affermava il contrario ma quei novanta giorni erano stati i più tristi che gli avesse mai visto patire da quando lo conosceva e nonostante Natasha non fosse il tipo di persona propensa a cedere a sentimentalismi, Kobik sapeva che anche per lei il marito era la sua più grande forza e la sua più grande debolezza… e se James, ormai avvezzo della merda fino al collo in cui navigava da sette decenni abbondanti, avrebbe voluto costruire un muro di cinta per proteggerle entrambe, Natasha era più il tipo di persona che in quella stessa merda era finita per navigarci prima per solidarietà, poi per amore ed infine per vincoli matrimoniali, prediligendo un approccio diretto che di solito la vedeva vincitrice per mera forza di volontà uscendone vittoriosa, con la testa decapitata del loro nemico brandita come trofeo e ammonimento nei confronti delle future gorgoni. Il problema era che, nonostante il punto di partenza e di arrivo fosse il medesimo, i suoi genitori adottivi avevano un modus operandi che faceva faville quando si scontravano e le urla erano pressoché assicurate: perché se non si può uccidere né ignorare un problema si grida fino a farsi esplodere i polmoni, vero? 

«Non puoi sapere come sarebbero andate le cose se fossimo stati lì entrambi, Tasha.» afferma James scorbutico a cena conclusa, rassegnandosi a chiamare in campo l'argomento per primo dopo ore di chiacchiere vuote sul filo del rasoio. 

«Ma posso supporlo.» ribatte la donna spigliata, posando il calice sul tavolo con freddezza. «Se tu non avessi avuto le spalle scoperte ora non ci ritroveremmo in questa situazione.»

«Oppure ora avrebbero anche il tuo sangue Tasha, saremmo in tre a non reggerci in piedi e-...» tenta di ipotizzare James pragmatico, mentre Kobik scalcia l'aria sotto la propria sedia e sposta lo sguardo da un capo all'altro del tavolo come se quella in corso fosse una partita di tennis particolarmente avvincente. 

«E cosa? Ci sarebbe il problema di chi mandare, vero?» lo interrompe Natasha, stringendo lentamente le mani a pugno contando fino a dieci, accendendo tuttavia la miccia esplosiva al numero cinque mandando all'aria tutti i suoi buoni propositi. «Perché se solo tu mi avessi aspettato, ora non ci ritroveremmo in questa situazione!» 

«Qualcosa andava fatto, Tasha.» replica James accusando il colpo in silenzio, raddrizzandosi contro lo schienale della sedia preparandosi ad incassare di nuovo. 

«Qualcosa andava fatto sì, ma dopo aver ragionato e vagliato tutte le possibili ipotesi, variabili e soluzioni Yasha!» si infervora la donna al suo tono pacato, riversando all'esterno un'ondata di frustrazione tale da incollare Kobik alla sedia e minacciare l'arrivo di ossigeno al cervello di James alla prima parola sbagliata. « < Non puoi prendere, partire e tuffarti a testa bassa in mezzo ad acque sconosciute! > » 

« < Non sono sconosciute, in questa merda ci sguazziamo entrambi da decenni Natalia! > » sbotta James sbattendo il pugno contro il tavolo, facendo sussultare bicchieri e posate. 

« < Visto che ci sguazziamo da decenni, chi è Allan Holt? Chi è davvero, non ciò che c'è scritto sulla sua pagina di Wikipedia. Quali sono i suoi legami con la Oscorp, il suo interesse nel siero-... > » inizia Natasha sparando sentenze a salve, impilando una domanda frenetica dietro l'altra cercando spasmodica un brandello di informazione dopo giorni di vuoti di memoria o dettagli taciuti per comodità. 

« < Holt è uno scienziato, un luminare a quanto pare. L'unico collegamento con la Oscorp è un finanziamento, che non esclude un fine altruistico, considerate le sue ricerche in campo medico… non tutto ciò che esce dai laboratori di Norman è "radioattivo"! > » specifica James a lingua sciolta, offeso per la sua presunta scarsa attenzione nelle indagini fatte, reggendosi al bordo del tavolo per combattere il giramento di testa e sfidando Natasha con sguardo febbrile ma lucido. 

« < E il siero, allora? > » non demorde la donna, sottolineando l'unico appunto stonato che faceva automaticamente crollare la muraglia di presupposti appena enunciati dal marito, artigliando il tovagliolo placando l'istinto di alzarsi in piedi e aggirare l'ostacolo del tavolo, mentre Kobik punta lo sguardo preoccupata sui coltelli che giacciono a pochi centimetri dalle dita di entrambi.

« < Non ho avuto occasione di chiederglielo, sai com'è, mi hanno narcotizzato! > » prosegue James rispondendo alle accuse con la delicatezza di un carro armato, le quaranta linee di febbre che si fanno sentire tutte e non gli scontano nemmeno un attimo di raziocinio per rendersi conto di aver messo piede in un campo minato. 

« < Non ha collegamenti, interessi, ricerche…? > » insiste Natasha smorzando i toni, rendendosi conto che forse il marito aveva davvero fatto i compiti a casa, arretrando impercettibilmente di un passo, illudendo Kobik che quello a cui stava assistendo era solamente molto rumore per nulla. 

« < Ho hackerato il server delle Industries, nemmeno uno straccio di prova o pretesto. > » confessa James su due piedi, ma senza rendersi conto della sottilissima discrepanza nella voce di Natasha che normalmente avrebbe gestito come un cedimento verso la riappacificazione, ma che in quel preciso istante interpreta invece come una dichiarazione di guerra, scatenando il finimondo nel giro di una frase. « < So farlo il mio lavoro, da ben prima e meglio di te a volte. > » 

« < Rimangiatelo. > » se fino a quell'istante Natasha si era sforzata di sedare l'impulso di scaraventare via il tavolo per andar meglio a prenderlo a sberle, la donna ci rinuncia del tutto balzando in piedi ribaltando la sedia all'indietro, puntando i pugni contro il ripiano e proferendo l'ordine con una freddezza tale da spaventare la bambina, che ben pensa di far volatilizzare tutti gli oggetti contundenti nel raggio di due metri. 

« < Altrimenti? > » chiede retorica la furia che spinge James ad alzarsi in piedi a sua volta, barcollando visibilmente puntellandosi al tavolo posando lo sguardo sulla nube azzurrina che fa sparire i coltelli da sopra il ripiano, realizzando di aver superato il limite obbligandosi a ridimensionare i toni, scoccando una veloce occhiata a Kobik prima di risollevare lo sguardo su una Natasha inviperita. «Okay. Io sarò anche partito senza partner e ne sono uscito a stenti, ma tu-... no, niente.»

«No, avanti, finisci la frase.» la donna lo invita ad autografare il proprio necrologio, ostentando una freddezza che nascondeva ogni ferita sanguinante all'orgoglio per essere passata come la cattiva della situazione, quando invece stava semplicemente difendendo il proprio istinto da mamma orsa. «Ti prego звезда моя, spiegami quanto tu sia ponderato, razionale e soprattutto calmo quando c'è il tuo sangue, la tua famiglia e l'incolumità mia e di Kobik di mezzo.»

«Natalia…» 

«Vaffanculo, Barnes. Io domani sera parto, che a te l'idea piaccia o meno.» lo anticipa arrabbiata la donna, la voce affilata come un coltello che si impianta in mezzo alle scapole del marito, sporgendosi sul tavolo per baciare la fronte di Kobik riservandole uno sguardo di scuse. «'Notte моя дорогая.» 

Natasha si allontana dalla cucina a passo spedito, guadagnando la porta del reparto notte fuggendo dalla lite prima che degeneri ulteriormente, placandosi con la mano sulla maniglia quando James la chiama indietro abbaiando un secondo "Natalia" di avvertimento. 

«Sergente.» incurva le labbra in un sorriso che tuttavia non le arriva agli occhi, sbattendo i tacchi eseguendo il saluto militare come fosse un insulto. 

«Sergente? Solo perché sono obiettivo-...» inizia James ripartendo alla carica, la presunta incoscienza febbricitante del giusto ad alimentarlo, che esplode in un ultimo scatto d'ira quando si vede sbattere la porta in faccia. «-... e so quali sono i tuoi limiti?! Ma vaffanculo tu, Nat!» 

Il silenzio che scende in cucina dopo quell'ultima esternazione è surreale, solo a battaglia verbale conclusa Kobik osa respirare sonoramente ed attende comunque paziente una reazione da parte di James, il quale incassa la testa tra le spalle e punta il pugno al tavolo, respirando a fondo per lasciarsi momentaneamente scivolare di dosso l'intera disputa, scrollando le spalle con finta noncuranza iniziando a raccogliere i piatti dal tavolo, aprendo l'acqua del lavello per sciacquarli dallo sporco prima di caricare la lavastoviglie in religioso silenzio. 

«Papà…» tenta Kobik con voce flebile dopo un tempo che reputa ragionevole, sobbalzando appena quando sente il bicchiere di vetro sbriciolarsi tra le dita di James, vedendolo imprecare a mezza voce quando il detersivo entra a contatto con la carne lacera, affrettandosi a pulire lo sfregio sotto l'acqua corrente e tamponarlo con un canovaccio pulito, combinando un disastro colossale avendo solamente un arto utile e funzionante. «Papà…?»

«Adesso passa, tranquilla Pulce.» la rassicura l'uomo, nonostante il pallore che gli segna il volto non sia esattamente un sintomo di buon auspicio. «Davvero.»

«Lo so.» si limita a commentare asciutta la piccola, tentennando appena sul posto prima di schioccare le dita e trasferire tutti i piatti nella lavastoviglie sistemando la cucina in un battibaleno. «Mamma ha ragione, comunque.»

«E tu che ne sai, signorina?» la interroga retorico l'uomo, sbirciando oltre il bordo del canovaccio lo stato di rimarginazione del taglio che gli attraversava la mano. 

« < Potreste litigare anche in cinese e vi capirei lo stesso. > » afferma la piccola in russo, palesando la propria parte attiva nella comprensione della disputa, serrando i pugni per placare il formicolio che continua a percorrerle le ossa a distanza di cinque minuti, avanzando una debole richiesta che sapeva avrebbe incupito suo padre prima ancora di vedere i suoi occhi chiari intristirsi. «Mi prepari una "calmomilla", per favore?» 

«"Calmomilla" in arrivo, prima di subito.» la asseconda James riempiendo una tazza e cercando la scatola di bustine solubili mentre aspettava paziente lo scadere del countdown del microonde – quello era uno dei pochi difetti di pronuncia che James e Natasha le avevano lasciato, un po' perché la camomilla aveva davvero il potere di calmarla, un po' perché era più facile usare un nome in codice piuttosto che ammettere il fatto che la lite, seppure preannunciata e da considerarsi quasi abitudinaria, era riuscita a spaventarla. 

Kobik aveva annegato due intere zollette di zucchero nella bevanda, poi aveva augurato la buonanotte a James e si era rifugiata nella propria stanza – aveva teso le orecchie per udire in che direzione si muovessero i passi dei suoi genitori, ma suo padre non era uscito dal perimetro del salotto e mezz'ora dopo Natasha l'aveva raggiunta per metterla a nanna… non era una notte tranquilla, Kobik lo sapeva, ma ciò non cambia il suo disappunto nel non trovare nessuna traccia della donna al suo risveglio, a differenza di quelle di James che invece urlavano dall'altra parte del muro come quelle di un animale in gabbia, correndo in salotto giusto in tempo per vederlo svegliarsi di soprassalto. 

Sperava di poterlo evitare, nonostante Kobik fosse consapevole che il suo fosse un desiderio vano.

«Tu che ci fai ancora in piedi?» giunge laconica la voce dell'uomo dal divano una volta stropicciatosi gli occhi ed averla messa a fuoco squarciando il sottile velo tra realtà e sogno, studiandola a distanza mentre Kobik trascinava una sedia contro il lavello, afferrava un paio di bicchieri lasciati ad asciugare sullo scola-stoviglie e versava da bere per due. 

«Avevo sete.» afferma scendendo dalla sedia, fermandosi a raccattare i farmaci lasciati sopra il tavolo in cucina prima di raggiungere suo padre ai piedi del divano. «Tu invece?» 

«Teorizzo trattati di pace, non ho sonno.» mente James trattenendo uno sbadiglio a stento, inghiottendo le pasticche che Kobik gli stava porgendo con un sorso d'acqua ed un colpo secco del capo. «Ti ho svegliata io, vero?»

«I tuoi incubi sono rumorosi, e il nonno non piace nemmeno a me.» confessa Kobik chiamando in causa il fantasma che lei segretamente cercava da giorni, reprimendo un brivido al ricordo di Petrovich che scaraventava Mama a terra e la trascinava lontano da Papo tirandola per i capelli mentre lo fucilavano. «Lo tengo lontano io, se vuoi… e ci stiamo tutti e due sul mio materasso.»

«Lo sai che tecnicamente Petrovich non è tuo nonno, vero?» chiede James retorico issandosi in piedi raccogliendola dal pavimento con l'unico braccio disponibile, silenziando anticipatamente le sue deboli proteste in merito allo stato della sua schiena martoriata con una blanda rassicurazione. 

«Tecnicamente tu non sei il mio papà, ma credi che importi a qualcuno?» ribatte Kobik spigliata dipingendogli un sorriso sincero sul volto, sopprimendo uno sbadiglio contro la sua spalla. 

«Giusto-... le finestre aperte? Ancora?» brontola l'uomo appena varcata la soglia, puntando lo sguardo sugli infissi a ghigliottina aperti al primo refolo d'aria percepito. «Kobik…»

«E se Liho torna? Non voglio che resti fuori tutta la notte.» protesta debolmente la piccola, spiando lo sguardo esasperato di James mentre la scarica di peso sul letto, tirandogli dietro un cuscino quando lo vede avviarsi a chiudere le finestre. 

«Uno, è estate, fa caldo e c'è l'aria condizionata in funzione quindi se lasci le finestre aperte la cosa è inutile. Due, Liho è un randagio, avrà trovato qualcun altro che gli dà da mangiare.» replica con tono ovvio suo padre, facendo sfoggio di sensibilità nel escludere a priori la possibilità che il gatto nero non circolava più nel vicinato da settimane perché forse era finito sotto le ruote di un taxi, scostando le lenzuola per farsi spazio e tradendosi con un'autentica espressione di sollievo una volta stiracchiata la schiena. «Fammi un favore, la prossima volta che cambiamo il divano, obbligami a prenderne uno convertibile in letto.»

«E tu fa un favore a me, domani mattina non bruciarmi i pancake.» lo avverte Kobik prevenuta, tuffando il naso contro la piega del suo collo e riaddormentandosi cullata dal russare sommesso dell'uomo – la sua, ovviamente, era stata una preoccupazione inutile dato che puntualmente il mattino dopo James si era svegliato all'alba con l'intenzione di calarsi nei panni dello chef stellato che assolutamente non era, vedendo andare i propri piani in fumo quando aveva trovato Natasha già in piedi per placare la catastrofe preannunciata. Forse l'alba l'avevano vista davvero, almeno era quello che poi le avevano riferito, ma dovevano aver fatto anche pace perché di punto in bianco avevano smesso di guardarsi in cagnesco – c'era qualcosa di ipnotico nelle loro movenze che la sera prima mancava, Kobik lo notava nel modo in cui James ronzava intorno a Natasha mentre preparava il caffè, nel colpo d'anca con cui sua madre aveva chiuso il frigo passando sotto il braccio alzato di suo padre che si allungava a raggiungere le tazze, nell'efficiente gentilezza di pulirgli lo sbaffo di cioccolato all'angolo della bocca e nel giocoso slancio di rubargli il coltello da burro sporco di Nutella… senza contare che la piccola li aveva beccati in flagrante a farsi gli occhi dolci da un capo all'altro della cucina, James con la testa affondata nel palmo, lo sguardo febbricitante ed il termometro in bocca mentre Natasha si puntellava svogliata al piano cottura, pulendo la ciotola sporca di pastella a ditate da leccare via divertita. 

Il resto della mattinata era trascorso lento e monotono, Natasha si era data da fare per cucinare il dolce che aveva promesso al Capitano Rogers, a differenza di James che era collassato sul divano con "i Simpson" di sottofondo e trentanove linee di febbre a rendere le battute squallide un po' più divertenti del normale, mentre Kobik si sforzava di ignorarlo e tentava di terminare i propri compiti per casa stesa sul tappeto in diagonale. Zio Steve e zia Sharon erano arrivati per l'ora di pranzo con una pila di tupperware a sostegno dell'invalido – riempiendo il frigorifero di scorte per non farli morire di fame nella settimana a venire, dato che Natasha era ancora intenzionata a partire alla volta di Chicago la notte stessa –, seguendo la regola di bandire le beghe lavorative da ogni discussione per l'intero pomeriggio, ripiegando nel gossip sfrenato che tra le mura del Complesso di certo non scarseggiava. 

Avevano ordinato le pizze a domicilio per cena quando gli zii se ne erano tornati a Brooklyn, la febbre era scesa ancora e le ferite alla schiena di James erano guarite quasi del tutto, ma ciò non gli aveva impedito di pretendere di mangiare semi-sdraiato sul divano, contrattando un massaggio ai piedi a Natasha come equo scambio – entro sera Kobik aveva già raccolto abbastanza prove a sostegno del sospetto che i due si fossero riappacificati, ma ne aveva avuto la conferma ufficiale quando la sua mamma si era spalmata contro il petto del suo papà cercando un appoggio migliore dei cuscini del divano per godersi il film che avevano deciso di vedere, promettendogli di aspettarlo sveglia per il "secondo round" prima della partenza – qualunque cosa esso significhi – quando era stato il turno di James di trascinare Kobik a nanna. 

Il mattino dopo la bimba aveva trovato suo padre stranamente di buon umore per essere uno che era stato confinato a forza tra le mura di casa, ma Kobik non aveva avuto il tempo per metabolizzare e catalogare l'informazione che James le aveva piazzato davanti una scodella di Spidy-Cheerios annegati nel latte e la piccola aveva avuto a malapena il tempo di nutrirsi che zia Sharon era passata a raccattarla per portarla a scuola prima di raggiungere l'ufficio a Manhattan. L'aveva riaccompagnata a casa Peter, ridendo come una pazza per poter sfruttare la scusa di volare tra i palazzi del centro all'ombra dell'arrampica-muri, rientrando in casa trovandola nella confusione più totale come se ci fosse passato un uragano. 

«Bucky-bukaroo?» chiama preoccupata la piccola, seguendo il rumore indistinto che proveniva dal seminterrato. 

«Pulce, sei già a casa?» sente la voce echeggiante di James salire dalle scale. 

«Cosa stai combinando?» chiede Kobik curiosa quando scende al piano inferiore e trova James – nuovamente armato di protesi tirata a lucido – con entrambe le mani impegnate a smontare, pulire e rimontare ogni semi-automatica che lui e la moglie tenevano nascosta in casa, notando distrattamente lo scaffale a muro svuotato per metà dalle munizioni e, appena oltre il reparto armeria, i dischi del bilanciere abbandonati sulla panca. «Ammazzi il tempo, immagino.»

«È stata una giornata estremamente… produttiva.» conferma l'uomo inclinando all'indietro le gambe della sedia mentre ricapitolava l'elenco contando con la mano destra, ancora disabituato ad avere la sinistra calibrata e funzionante dopo giorni senza. «La febbre è scesa ancora… mi sono allenato, ho lucidato i coltelli e le armi, ho scoperto che Natalia se ne è portata dietro sei dei miei oltre al mio fucile ed ho quasi finito l'inventario. Scuola?»

«Prima della classe in ginnastica, ma la cosa dubito ti sorprenda.» afferma orgogliosa la bimba, proclamando la A in tutte le discipline atletiche con cui Mystica l'aveva testata in tarda mattinata. «Me lo merito un regalo, no?» 

«Un regalo per qualcosa che io ti ho insegnato prima e meglio di Raven?» la sbeffeggia l'uomo depistandola dai suoi intenti mostrandosi indifferente al cipiglio scontroso della piccola, inclinando la testa notando con la coda dell'occhio i guantoni appesi ai pali del ring. «Ti vanno due tiri? Devo ancora testare gli aggiustamenti alla protesi da quel punto di vista.» 

«Mi devi dare una mano in matematica, dopo.» taglia corto Kobik, dissolvendosi in un glitch e riassemblandosi al centro del tappeto, appendendosi alle corde. «Allora? Stavolta ti tengo il sacco o mi alleni?» 

«Se non sei già troppo stanca… Io ci vado piano ma tu non puoi atterrarmi con i poteri, niente KO.» James stila il regolamento abbandonando le infradito sul bordo ed entrando scalzo al suo cenno affermativo, il colpo alla nuca ancora troppo fresco nel tempo per averlo già rimosso o catalogato come un mero incidente di percorso. «Tutto chiaro, Pulce?» 

L'apprensione di James era più che comprensibile, la volta prima Kobik si era spostata dalle sue ore due alle ore sette con un glitch, facendogli lo sgambetto a tradimento che si era concluso con una franata incontro al tappeto ed una botta micidiale alla testa perché l'uomo non era riuscito a dosare il proprio peso nel stramazzare al suolo… e considerata la sua attuale situazione clinica era meglio evitare urti particolarmente violenti – probabilmente se Natasha fosse rimasta a casa e fosse scesa nel seminterrato in quel preciso istante avrebbe fatto una lavata di capo ad entrambi, a Kobik per voler assecondare suo padre in qualunque folle proposta e a James perché la sua fissazione per un costante ed imminente pericolo non lo giustificava dal voler addestrare loro figlia per far fronte alle peggiori eventualità. Sua madre non voleva trasformarla in una assassina, nonostante fosse consapevole dei rischi di farla crescere tra le loro mura domestiche, le quali erano tutto fuorché a prova di infante… e la donna, per essere una che empatizzava difficilmente, non poteva fare a meno di notare quanto di sé stessa vedeva in lei – il fatto che Kobik avesse una madre in primis ed un padre che era l'esatto contrario di Petrovich non la faceva comunque dormire tranquilla la notte, spaventata dalla proposta ragionevole di addestrarla perché Kobik era "piccola" – la loro piccola –, lei e il marito non erano esattamente "innocui" e, al contrario di quanto i più pensavano, non erano "eterni". Di fronte a quei fattori imprescindibili Natasha era giustamente terrorizzata di non poter controllare gli eventi e proteggerla per sempre, a differenza di James che al contrario temeva di non poterle insegnare abbastanza per poter poi fronteggiare a guardia alta il mondo senza caderne vittima… e Kobik, che del Cosmo conosceva i segreti ed aveva visto ogni possibile linea temporale, a volte si scopriva gelosa della figlia che i suoi genitori non avevano mai cresciuto [3], quella che non aveva mai aperto gli occhi sul sorriso spensierato di sua madre e che non aveva ombra di idea dei demoni che assillavano suo padre – quella condannata alla nascita, desiderata e persa. Kobik a volte pensava che James l'avesse accolta in casa perché inconsciamente gli mancava l'idea di "Anya" [3], come era abbastanza convinta che Natasha fosse tornata e le avesse permesso di restare perché lei, in qualche strano modo, gliela ricordava nonostante entrambi non l'avessero mai conosciuta nel verso senso della parola. 

Alla fine si era scoperto che la protesi funzionava a meraviglia e Kobik era finalmente riuscita a placare gli assalti ritorcendoli contro alla fonte, uscendo illesa dallo scontro con un uomo della stazza di James – calmando notevolmente suo padre, che ora aveva ufficialmente la conferma di saperla in grado di aprirsi una via di fuga se le cose si fossero dovute mettere male. La bimba poi aveva avuto il permesso di farsi una doccia, James aveva controllato che Kobik si fosse risciacquata bene lo shampoo dai capelli e, nel tempo che lei si era rivestita ed era approdata in cucina con il libro ed il quaderno di matematica sottobraccio, suo padre aveva avuto tutto il tempo del mondo per lavarsi a sua volta e prepararle un panino, rigorosamente senza croste, per la merenda di metà pomeriggio. Gli esercizi di matematica, contrariamente a quanto Kobik pensava, si erano rivelati meno difficili del previsto ed aveva recuperato abbastanza tempo per guardarsi due interi episodi delle "Superchicche" su Cartoon Network prima che ad uno dei due tornasse la fame e James racimolasse la voglia di accendere il forno per scaldare il pasticcio di carne che zia Sharon aveva preparato per loro. 

Kobik era intenta a gustarsi la propria cena quando James aveva preso una chiamata, si era alzato da tavola e si era chiuso in camera per poter parlare liberamente, ma ciò non aveva impedito alla piccola di dedurre dalla fuga precipitosa che all'altro capo della linea ci fosse Natasha, captando una nota d'ansia che mal si sposava con il sorriso forzatamente rilassato di suo padre quando venti minuti più tardi l'uomo era tornato in cucina. 

«Cosa sta succedendo?» chiede la bimba guardinga, ignorando il cenno di noncuranza con cui aveva preteso di liquidarla James. «Volevo parlare anch'io con mamma.»

«Non ero al telefono con Natalia, era Maria, domani mattina fa in modo di recapitarmi in ufficio i fascicoli che le ho richiesto.» scrolla le spalle suo padre, tagliandosi un altro boccone del pasticcio ormai freddo. 

«Non dirmi le bugie.» lo ammonisce la bambina, stringendo più saldamente la forchetta tra le dita. «Hai promesso di non dirmi bugie.»

«Infatti non lo sto facendo.» replica James con tono piatto, portandosi una seconda forchettata alle labbra. «Vorrei parlare anch'io con Mamma, continua a liquidarmi con gli SMS… credo che sotto sotto sia ancora arrabbiata, sai?» 

«Che fascicoli hai chiesto a Maria?» elude la domanda Kobik, reputando superflua un'ovvia risposta, cambiando discorso per cercare di capirne qualcosa. «Per aiutare Talia? Hai ricordato qualcosa?» 

«No. È che non mi fido di Holt, voglio sapere perché ha voluto rifiutare tutte le mie richieste d'incontro, tutto qui… dagli archivi dello SHIELD non risulta nulla, spero che allo SWORD sappiano qualcosa in più che a me sfugge.» afferma James versando dell'acqua in entrambi i bicchieri, porgendo a Kobik il proprio. «Tieni, bevi troppo poco… in ogni caso, Fury può risalire al trisavolo di ogni essere umano se si mette d'impegno, una sbirciatina alla sua Black Box mi farebbe comodo e l'unica che può accedervi è Hill.»

Kobik aveva annuito, si era scolata l'intero bicchiere ed avevano terminato la cena in silenzio. Aveva dato una mano a James a svuotare la lavastoviglie ed aveva puntato lo schienale della sedia contro il lavello per andare meglio a raggiungere ed asciugare i bicchieri che suo padre le porgeva, poi come premio Kobik si era divertita da pazzi a battere James alla Playstation – sparare con un fucile evidentemente era più facile di digitare i comandi per sparare con un joystick, sentendosi ribadire per la milionesima volta che lei sarebbe dovuta passare sul suo cadavere prima che l'uomo le mettesse in mano un'arma carica e le insegnasse ad usarla, che l'addestramento era un conto, il saper uccidere a sangue freddo era ben altro. 

«Credi che se le cose fossero andate in modo diverso, questa sarebbe comunque la tua vita?» domanda la bambina qualche mezz'ora più tardi, obbligata a sdraiarsi sul materasso a discapito della mancanza di sonno, attirando l'attenzione di James che pian piano si stava appisolando sopra il libro del "Mago di Oz". «Tu lo avresti seguito comunque il sentiero giallo?» 

«Non credo di afferrare, Pulce.» sbadiglia suo padre, rassegnandosi a chiudere il libro e sollevarsi su un gomito, bilanciando meglio il proprio equilibrio precario sul bordo del letto. «Di che "sentiero giallo" parli? Dubito tu ti riferisca a Oz.»

«Mi hai sempre detto che la vita non ti ha mai lasciato scelta, che qualcuno ti ha sempre obbligato a seguire un percorso già tracciato… e se quel qualcuno invece di sbarrati sempre una strada ti avesse concesso di scegliere?» spiega Kobik sforzandosi di cercare le parole giuste per esprimersi, girandosi su un fianco per guardare James in volto e notare ogni singola bugia che gli poteva o meno attraversargli lo sguardo. «Saresti comunque qui? In questa casa, con me, con l'ansia a mille per Talia?» 

«Percepisci la mia ansia?» si stupisce James, cercando di depistarla. 

«Tu la nascondi meglio di mamma, ma è qui. Costante.» afferma la piccola posandogli una mano sul fianco, alludendo a quella spina che sembrava volesse risalirgli le costole e trafiggergli il cuore. «Non ci pensi mai?» 

«Certe cose non cambiano, Pulce. In ogni linea temporale la somma dell'equazione è sempre la stessa.» proclama James con un tono che non ammetteva repliche, pettinandole la frangetta con le dita. «So che ti manca Mamma, so che se avessimo una vita diversa io ora come ora non sarei ridotto così e Tasha non sarebbe in Illinois a sistemare i miei casini… ma non importa cosa succeda o cosa sia successo, alla fine di ogni giornata io amo Natalia, lei ama me, viviamo la miglior versione della vita che desideravamo ed abbiamo te

«Questa non è la versione migliore…» brontola Kobik, mordendosi le labbra per esserselo fatto sfuggire, consapevole che quel discorso lo avevano già affrontato e la bimba non era riuscita a smuovere suo padre di nemmeno una virgola – lei l'aveva vista, la versione migliore della loro vita, quella in cui sua madre era riuscita a scappare con zio Logan, quella in cui suo padre li recuperava a Madripoor e li portava in salvo a Londra come informatori, quella in cui Natalia e James si baciavano sotto il vischio appeso agli stipiti del bunker a Natale, tornavano negli States illesi e compravano una bella casa con un giardino enorme in Indiana in cui crescere Anya, invecchiando insieme mano nella mano come sarebbe dovuto essere e non era mai stato. 

«Lo so, ma non mi importa.» conferma James rotolando giù dal letto, lasciando implicita la convinzione che illudersi di una fantasia non la rendeva reale, che aveva imparato ad essere felice con ciò che aveva senza rimpianti, chinandosi a baciarle la fronte. «Ora dormi.»

James era in grado di nascondere e tollerare meglio di lei la propria ansia, ma Kobik sa per esperienza personale che qualcosa di brutto è sempre in agguato e nessuno le nega il desiderio di una gita in direzione del lettone quando la sveglia sul comodino lampeggia le due di notte e la piccola non è ancora riuscita a chiudere occhio da quando James aveva lasciato la stanza… peccato che suo padre in quel preciso momento stesse miracolosamente dormendo, quindi svegliarlo per un suo sciocco attacco di insonnia non era esattamente l'opzione ideale – soprattutto quando una soluzione c'era, e l'unica che poteva fornirgliela era Natasha. 

« < звезда моя, é notte fonda… è successo qualcosa? Kobik sta bene? > » risponde la donna al secondo squillo, tradendo una punta di panico nella voce che scema velocemente e tentenna appena. «… Yasha?» 

«Papà dorme… io no.» confessa Kobik in un solo fiato mettendosi il cuore in pace, il cercapersone trafugato in un glitch stretto con entrambe le mani per non lasciarlo scivolare. «Scusa.»

«моя дорогая... io sto bene, davvero.» replica Natasha dopo un sospiro, la voce assonnata rotta da un sorriso all'ipotesi dietro alla chiamata. «Bucky Bear non ti protegge dagli incubi?» 

«Bucky-bukaroo l'ha fatto sparire e-... e non ricordo dove ho lasciato Baloo.» ribatte agitata la piccola, comprimendo le labbra per non farsi sfuggire un singhiozzo o una risatina isterica – Le ombre contro l'armadio erano sempre state così scure? James aveva controllato che non ci fossero mostri sotto il letto prima di andarsene, vero? 

«È rimasto al Complesso, dopo scrivo a Maria e le dico di lasciarlo in ufficio insieme ai fascicoli che ha richiesto James.» la rassicura la voce suadente della donna all'altro capo della linea, risolvendole il problema di tutte le notti future tranne di quella attuale, ponendole poi un quesito con tono giocoso. «Ora hai due possibilità, lo sai vero?»

«Quali?» chiede titubante la piccola, arricciando le punte dei piedi focalizzandosi su qualcosa che impedisse agli oggetti posati sulla sua scrivania di tremare. 

«O ti fai coraggio, accendi la torcia del cellulare di papà e controlli da sola la tana dei mostri, oppure ti materializzi dal Bucky Bear a grandezza naturale che sta ronfando al di là del corridoio.» spiega candida Natasha con logica cristallina, conoscendo a priori l'opzione prediletta dalla figlia, macchiando il tono della frase seguente con un sorriso. «Dì all'orso di girarsi su un fianco così smette di russare, e dagli un bacio da parte mia. Notte notte, моя дорогая.» 

Nella frazione di secondo in cui Natasha stacca la telefonata, James scatta a sedere di colpo quando Kobik piomba in un lampo azzurro sulla parte di lettone vuota, sporgendosi precipitosa a baciare una delle guance ispide di suo padre, che stringeva il proprio telefono tra le mani e la osservava confuso per averlo ricevuto di persona ad orari improbabili della notte. 

«Posso restare qui?» chiede titubante la piccola, accoccolandosi contro il fianco di James quando quest'ultimo alza un lembo del lenzuolo per farle posto, sprimacciando il cuscino di Natasha sfilando la lama nascosta nella federa. 

«Così non ti fai male se ti muovi nel sonno.» si giustifica l'uomo abbandonando il coltello sul comodino, ruotando su un fianco ingabbiando Kobik tra le braccia. «Non sei troppo grande per dormire ancora con Baloo?» 

«No.» afferma categorica la piccola, spalmandosi meglio contro il petto di James. «Non russare, mi dà fastidio.»

«Impara a conviverci.» ribatte suo padre assonnato assecondando la debole lamentela fine a sé stessa, seppellendo uno sbadiglio contro i suoi capelli. «In realtà lo so che non ti dà fastidio… ma se proprio devi, tirami un calcio. Notte.»

La mattina dopo era stato James a portarla a scuola, la febbre era passata del tutto ed i momenti di squilibrio erano ormai rari – non l'aveva detto, ma uno dei motivi per cui si era intestardito ad attraversare Manhattan in moto fino alla X-Mansion non era solamente un pretesto per comportarsi da bravo genitore, ma anche una scusa per recuperare i saggi appuntati pubblicati da Holt che Charles gli aveva promesso di fargli trovare in biblioteca, dato che ormai James si era rassegnato a percorrere ogni pista possibile, alimentato dalla paranoia e dal messaggio vocale di Natasha recapitato all'alba nel quale la donna si era vantata orgogliosa di aver strappato un appuntamento alla segretaria del genetista per il pomeriggio seguente. 

Evidentemente i ragazzi dovevano essere tornati da L.A. perché all'uscita da scuola Kobik aveva trovato la Mini Cooper viola di Kate ad aspettarla, raccattando Billy e Thomas agli alloggi universitari dell'X-Mansion e trasformando il tettuccio dell'auto in una pista di atterraggio per Peter, il quale aveva approfittato del proprio alter-ego per scroccare un passaggio fino all'Upstate a Kate palesandosi all'altezza dell'incrocio della 14esima strada [4]. I cinque poi, una volta parcheggiato, erano saliti in ascensore ed avevano recapitato Kobik al loft del terzo piano, pigiando il pulsante che portava al Centro Operativo dove la bimba sapeva che li aspettava zio Steve per una strigliata con i fiocchi da cui, probabilmente, si salvava solamente Peter per il semplice fatto che non aveva potuto raggiungere gli amici in California nelle settimane prima. 

La piccola aveva trovato James in cucina, la pila di documenti e volumi seminata sul tavolo da pranzo, in parte perché non voleva essere di impiccio al piano di sopra, ed in parte perchè lo stomaco reclamava le pastine rubacchiate dal vassoio recapitato da Pepper quel mattino per festeggiare il compleanno di Morgan. 

«Ti ho tenuto da parte un bignè al cioccolato.» la saluta suo padre quando Kobik oltrepassa la soglia della cucina e si arrampica sulla sedia al suo fianco. «Con il traffico e tutto il resto avrai anche fame, è quasi ora di merenda.»

«Grazie.» si illumina Kobik arraffando il dolcetto ed assaporando la crema al cacao che le si scioglie sul palato al primo morso. «Tu hai fatto progressi?» 

«Non più di quelli fatti una settimana fa, per ora.» afferma l’uomo affranto, stropicciandosi gli occhi con aria stanca, probabilmente dovuta dal fatto che non doveva essersi schiodato dalla sedia da quando si era piazzato. «Le mie conoscenze genetiche si limitano al fatto che abbiamo quarantasei cromosomi, anche se gli appunti di Charles aiutano.»

«Uhm, capito. Qual è Holt?» indaga la bambina accucciandosi sulla seduta, puntando i gomiti sul bordo del tavolo ed allungando il collo in direzione della pila di fotografie e ritagli di giornale arrivati insieme agli stampati di Fury. «Ti do una mano a smistarle, se vuoi. I titoli degli articoli sono in stampatello e riesco a leggerli senza problemi... e sono bravina anche con il minuscolo, ormai.» 

«Holt è questo qui.» punta l’indice di metallo James, indicando un uomo sulla sessantina senza perdere troppo tempo, sperando di velocizzare i tempi e fornire qualche dettaglio in più alla moglie in vista dell’incontro. «Questa pila è tutta tua.»

Kobik si era pulita le mani dalla glassa al cioccolato che le si era sciolta sui polpastrelli, iniziando a sfogliare il materiale della propria pila sentendosi fiera di essere utile, dividendo in torrette ordinate gli articoli sui premi, quelli sui saggi e le pubblicazioni e, in un cumulo a parte, le collaborazioni e le foto di gruppo di cui sicuramente suo padre conosceva qualche faccia e nome in più di lei – anche se nella foto che stringeva tra le mani, una istantanea di rito per commemorare l’inizio di un qualche anno accademico, l’uomo a braccetto con Allan Holt assomigliava parecchio a quello a cui stringeva la mano all’inaugurazione della sede storica delle Holt Industries. Era curioso, Kobik non ne conosceva il motivo, ma lo sconosciuto anonimo – di cui non reperiva il nome da nessuna parte – le sembrava una faccia già vista… forse un filino più giovane, probabilmente filtrata dagli occhi e rielaborata negli incubi di qualcun altro, ma era uno di quei volti che sicuramente suo padre conosceva.

«Bucky-bukaroo, lui chi è?» chiede guardinga la piccola, porgendogli la fotografia in questione, agitandosi quando le pupille di James si dilatano fameliche ed afferra il cercapersone alla velocità della luce, componendo il numero automatico della moglie senza degnarla di una risposta.

«Stryker.» abbaia al telefono suo padre appena Natasha accetta la chiamata, prendendola in contropiede per averle negato il saluto, captando un “Quale? William...?” confuso provenire dall’altro lato della linea se Kobik si sforzava di assottigliare il proprio udito. «Holt, Tasha. Il finanziamento dalla Oscorp ha senso, se hanno assunto William Stryker nel dipartimento di ricerca.»

Oh beh, Yasha… siamo nella merda. Mi servi qui, звезда моя.” afferma la voce della donna dopo il paio di secondi necessari per assimilare la notizia, tradendo un sospiro sconsolato che la bimba riesce a percepire senza troppa difficoltà, insieme alla scarica di adrenalina che percorre la schiena di James alle parole di Natasha. “Da New York fino a Chicago sono dodici ore di macchina, a meno che tu non chieda uno strappo ad uno dei piloti.

«Dammi un ora per organizzarmi, poi ti raggiungo… facciamo colazione insieme al bar domani mattina, любовь моя? Ho bisogno di zuccheri in corpo se devo dare la caccia a qualcuno.» la saluta James prima che la moglie gli riattacchi il telefono in faccia, voltandosi circospetto a fronteggiare la figlia preoccupata. «Serve davvero che te lo dica?»

«No papà… l’ho già capito da sola.»







 

Note:

1. Generale Starkovsky: mentore e protettore di Yelena, l'equivalente di Ivan Petrovich per Natasha. 

2. Riferimento a "Studi di Anatomia". 

3. Scegliete voi come considerare Anastasia, un mio headcanon o una fan-theory mai documentata per intero – nei comics ci sono degli effettivi buchi di trama che ai fumettisti fa comodo non colmare. 

4. Calcolando che la storia "cade" nell'estate del 2023, tutte le date collimano in modo da piazzare tutti gli Young Avengers al college (chi sceglie di andarci, specifichiamo), indi per cui Kate recupera Peter alla 14esima perché il Signor Parker finisce per frequentare l'ESU (Empire State University). 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Codice Verde ***


Codice VERDE
Protocollo:
Bimba iperattiva
Missione: Gatto randagio
Status: (finalmente) conclusa




 

«Sto bene, ora

«Quindi?» chiede James con un sorriso saccente e l'indole di chi, al momento, non importava di lasciarsi alle spalle un'orfana per mano di una Vedova irritante e molto più scorbutica di quella che aveva scelto di sposarsi. «Tasha ha chiesto di me, Yelena. E Stryker è mio, fine della discussione.»

«Non esiste che mi tagli fuori, Barnes.» insiste la bionda, avanzando di un passo minacciosa nonostante le mancassero almeno venti centimetri in altezza per risultare anche intimidatoria. «Sai meglio di me che è un lavoro per minimo tre persone, non di certo due. Ed ora come ora, Stryker è un problema mio tanto quanto è vostro

A detta di sua madre, zia Yelena quando si intestardiva su qualcosa diventava peggio di un dobermann al quale veniva sottratto l'osso… ormai era questione di attimi prima che si lanciasse ad azzannare James alla gola e, semplicemente, Kobik non voleva assistere quando la cosa si sarebbe verificata – dati i presupposti un cedimento da parte di suo padre era pressoché utopico, ma la Belova poteva ancora sperare in un compromesso se sapeva giocare bene le proprie carte e premere i tasti giusti, anche se ciò che preoccupava davvero la bambina era il fatto che entrambi mantenessero il tono di voce calmo e pacato. Kobik preferiva le urla, almeno in quel caso sapeva cosa doveva aspettarsi. 

Era da mezz'ora ormai che i due tiravano avanti quel teatrino di "sì" e "no" scandito dalla condivisione di dati, James aveva convocato Yelena al terzo piano appena Natasha gli aveva riattaccato il telefono in faccia, accogliendola con un cipiglio irrequieto a solcargli il volto ed una richiesta di babysitting sulla punta della lingua, vedendo i propri piani andare in fumo quando la piccola siberiana aveva allungato le mani in direzione della foto di Stryker saltando i convenevoli e chiedendo per quanto fosse prevista la loro partenza – James ci aveva seriamente provato a dissuaderla, ma perfino Kobik non poteva dare torto alla zia quando affermava di essersi guadagnata la partecipazione alla disputa già per via del suo viaggetto in orbita per conto di Hill, riordinando i documenti ceduti da Fury e recapitati nell'ufficio del cognato quella mattina stessa. Yelena voleva partecipare alla caccia e James non poteva portargliela via, la consapevolezza di avere il proprio sangue sul tavolo delle trattative e il dovere di badare all'incolumità della sorella, che in quel preciso istante si trovava in Illinois a risolvere gli errori dell'idiota che si trovava di fronte, erano dei meri incentivi. 

«Tu non conosci Stryker, Yelena.» rincara la dose James, ancora intestardito a non cedere di nemmeno un millimetro dalla propria posizione. 

«Ma conosco Logan, Natasha e te… e dei tre mi sembra che solo il primo sia passato per il suo tavolo operatorio, o sbaglio?» ribadisce piccata la donna, sottolineando la propria posizione paritaria nella disputa, armandosi di pazienza per indurre l'uomo a scendere a patti con lei. «Ragioniamo per ipotesi, vuoi? Arrivi a Chicago e che fai, Barnes? Aiuti Nat a far sparire i campioni, e poi?» 

«Cancelliamo i dati dai server e troviamo Stryker - -... che ci conosce e sa come evitarci.» deduce James controvoglia, fulminandola con lo sguardo ed incrociando le braccia al petto con aria scontrosa per essersi lasciato sfuggire quel "piccolo" dettaglio non poi così trascurabile. «Fammi indovinare, tu sai come rintracciare Stryker senza far scattare trappole od aprirgli vie di fuga…» 

«Io, a differenza tua Barnes, ho contatti. Non debiti.» replica Yelena con una punta di cattiveria latente, sorridendo tronfia con l'espressione di chi sapeva di aver vinto e a cui non importava se l'esultanza avrebbe potuto farle rischiare l'osso del collo – a detta di sua madre, James digeriva a fatica chiunque osasse sbattergli in faccia le proprie contraddizioni e punti deboli, reagendo con lo stesso temperamento di un lupo capobranco sfidato… e Kobik, che ormai contava i minuti per poter udire delle urla rassicuranti, non era dell'umore adatto per assistere allo scontro, sparendo in un glitch e riassemblandosi al piano superiore in sala riunioni dall'unico uomo in grado di sedare la Guerra Fredda prima che i due "adulti" appena lasciati soli la scatenassero a tutti gli effetti. 

«Cristo-... Kobik.» la saluta zio Steve aprendosi in un sorriso dopo un breve microinfarto, allungando le mani per prenderla in braccio e farla scendere dal tavolo riunioni, mettendo in pausa qualunque domanda sui motivi della sua apparizione precipitosa per congedare il branco di ragazzini a ridosso della soglia. «Voglio un rapporto completo entro sera e fatemi il favore di spartirvi da soli le zone di ronda, per il resto avete il weekend relativamente libero.»

«Va bene, Cap… dato che siano tutti qui, pizza e Netflix stasera?» asserisce Kate spingendo il corteo fuori dalla porta invogliando i compagni a fermarsi per cena – principalmente per non mangiare da soli, concetto che si estendeva alla maggior parte di loro –, sgombrando la stanza in un battibaleno appendendosi alla maniglia di peso per chiudersela alle spalle, isolandoli dal baccano che filtrava dal piano di sotto. 

«Fammi indovinare K, è scoppiata la Guerra Fredda giù in cucina.» ipotizza Steve tornando a prestare la propria completa attenzione alla piccola, sospirando rassegnato quando la bimba annuisce e sollevando lo sguardo al soffitto per accorciare la tiritera in atto. «FRIDAY? Potresti convocare qui Barnes e Belova, per favore?» 

L'A.I. esegue il richiesto, lasciando poi libero accesso manuale alla banca dati al Capitano Rogers, il quale trasferisce il più dei documenti scansionati da James quella mattina al proprio server, aprendo una finestra olografica laterale dove appare automaticamente la mappatura GPS di Natasha delle ultime dodici ore. 

«Perché stanno litigando di preciso?» chiede l'uomo continuando a cullare la bambina addossata al proprio fianco, inducendola a perdersi nella calma rassicurante che si sforzava di emanare per distrarla dal maremoto che si stava scatenando al piano inferiore. 

«Holt ha assunto Stryker… o almeno, è quello che mi è sembrato di capire. Poi papà ha chiamato la zia e si sono messi a litigare.» lo aggiorna spiccia Kobik, stringendo più saldamente la presa alle spalle dello zio per reggersi, studiando diffidente le schermate colorate che le stavano scorrendo davanti. «Mamma ha appuntamento con Holt domani pomeriggio, papà non vuole che Talia ci vada da sola… e non vuole nemmeno zia Yelena tra i piedi. Non l'ha detto, ma io l'ho capito lo stesso.»

Se Steve voleva aggiungere qualcosa per rassicurarla non ne aveva avuto il tempo, la porta della sala riunioni viene quasi scardinata dall'impeto furioso con cui James fa irruzione, alimentato dal nervosismo mentre Yelena lo tallona e non molla l'osso cercando di guadagnarsi voce in capitolo. Si erano bloccati entrambi alla vista degli schermi luminosi, la piccola siberiana per prendere ordini dal "capo" in carica, il Sergente per sentirsi ribadire dal proprio Capitano che una strategia senza tattica era una battaglia persa in partenza, orgoglio testardo da difendere o meno. 

«Se avete finito di urlarvi addosso, direi che possiamo studiare un piano d'attacco senza causare un incidente internazionale, che dite?» li placa Steve inchiodandoli con lo sguardo dando loro il profilo, aspettando un cenno affermativo del capo da parte di entrambi prima di depositare Kobik a terra e sorriderle sereno, assicurandole di avere la situazione sotto controllo. «Mi fai un favore, K? Scendi giù nell'hangar, cerca Piper e chiedile se può preparare un Quinjet impostato con le coordinate di volo per Chicago.»

«Altro?» domanda la bambina molleggiando sui talloni, notando di sfuggita come Steve e James avessero appena racchiuso un'intera conversazione in uno sguardo, raggiungendo la porta dopo una leggera virata incontro alla mano di suo padre, il quale si era sporto a scompigliarle i capelli in un gesto di scuse. 

«C'è il menù del thailandese appeso al frigo, portalo a Kate e dille di ordinare a domicilio per tre.» afferma l'uomo con una scrollata di spalle, mentre la piccola deduce su due piedi di dover trascorrere le notti a venire a Brooklyn fino a quando i suoi genitori non fossero tornati a casa – sperava fossero poche, il letto degli ospiti di zio Steve era scomodo. «Ti piace il thailandese, vero? Possiamo ordinare altro, se vuoi.»

«Il thailandese va benissimo, zio.» lo rassicura la piccola, muovendo un passo nel nulla attraversando il pavimento, lasciandosi alle spalle un alone azzurro. 

Kobik aveva salutato James sulla rampa di decollo due ore più tardi, sforzandosi di non palesare la paura del distacco che le rodeva lo stomaco in sordina, illudendosi delle promesse fatte da suo padre che le assicurava un rientro in tempi brevi senza alcun tipo di incidente – Yelena, a tal proposito, si era strozzata nel tentativo di trattenere una risata, chinandosi a posare un bacio sulla fronte della nipote e trascinando James per le orecchie fino ai comandi ribadendo la mancanza di tempo da perdere, mentre Sharon si affrettava a raggiungere la bimba per portarla via dalla pista di decollo. 

«Perché non posso andarci anch'io a Chicago?» sbotta Kobik quando le porte dell'ascensore si chiudono, cercando lo sguardo azzurro della donna per ricevere delle rassicurazioni fini a sé stesse. «Mi manca Mamma… e Papà non sta davvero bene, doveva lasciare tutto in mano alla zia almeno per stavolta.»

«Sai che Bucky non ragiona così… e Nat manca anche a lui, per questo è corso a tirarla fuori dai guai.» spiega Sharon puntellandosi alle pareti a specchio dell'abitacolo, mordendosi le labbra lasciando trasparire involontariamente un'ondata di sollievo all'idea che grazie al ritiro e la promozione, Steve non aveva più motivo di lanciarsi in picchiata nelle peggiori battaglie. «Ce li vedi Buck e Natasha a gestire il branco di ragazzini a tempo pieno? Senza il permesso di andare in escandescenza e condannarli ai lavori forzati quando non si applicano?» 

Kobik sghignazza, immaginando i propri genitori alle prese con gli adolescenti che in quel preciso istante stavano affollando il divano con i cartoni delle pizze in grembo ed il catalogo Netflix aperto, al come di norma li evitassero e cercassero le due spie di loro sponte solo per avere in cambio una sessione di allenamento più divertente di quella a cui li sottoponevano gli altri Avengers – la piccola ricordava ancora quanto si fosse divertita a far nevicare in palestra quando James si era intestardito a voler testare la bravura sul terreno impervio e la resistenza dei ragazzi alle basse temperature, addestramento conclusosi con una battaglia di palle di neve all'ultimo sangue che vedeva moglie e marito a sfidarsi dal fronte opposto. Kobik sapeva che il "divertimento" non poteva trasformarsi in una routine, che un allenamento "serio" nel senso stretto del termine prevedeva una costanza ed una serietà che i ragazzi ancora non avevano, al contrario di James che la imponeva in modo autoritario e Natasha che la cercava maniacalmente… in quell'ambito i suoi genitori adottivi erano fantastici solamente se assunti a piccole dosi, probabilmente con loro al comando avrebbero finito per distruggere i ragazzi uno ad uno – Billy era troppo sensibile, Elijah decisamente orgoglioso e Kate assurdamente indolente per permettere loro di girare alla larga dall'esaurimento nervoso che con ogni probabilità James sarebbe finito per causare loro e Natasha avrebbe fatto in modo di alimentare di riflesso… dopotutto al Dipartimento chi non si piegava veniva spezzato, e certe abitudini erano dure da abbandonare da parte di entrambi. Se il dilemma veniva visto da una certa prospettiva, bisognava ammettere che c'era più di un buon motivo se era Steve quello al comando, lasciando a James e Natasha il lavoro sporco dal quale Kobik e i ragazzini andavano protetti ad ogni costo. 

«Kobik, va tutto bene?» chiede Sharon titubante, spaventata dall'improvviso sguardo cupo che aveva distorto i lineamenti della bambina per una frazione di secondo, cambiando velocemente discorso ad un suo cenno affermativo della testa. «Hai fame? Credo che il fattorino sia arrivato ormai.»

La piccola si era tuffata sul divano a cena conclusa, Steve e Sharon si erano messi di impegno a pulire la cucina prima di contattare James, si erano portati avanti con il lavoro per l'indomani ed avevano ripassato per l'ennesima volta il piano – Kobik, d'altro canto, si era appisolata in grembo a Peter, schiacciata tra Elijah e Cassie con il chiacchiericcio della quinta stagione di "Stranger Things" a conciliarle il sonno, le dita a fessura di Parker a schermarle lo sguardo quando appariva il Mind Flayers sullo schermo per spaventarla. Zio Steve l'aveva raccolta dal divano ad un orario imprecisato della sera, Kobik aveva percepito appena il ding dell'ascensore che portava in garage, il "occhio alla testa" di zia Sharon quando l'uomo si era chinato a stenderla sui sedili posteriori dell'auto e le dita della donna che si erano mosse pigre tra i suoi capelli per tutta la durata del viaggio fino a Brooklyn. La bambina aveva spalancato gli occhi di colpo quando Sharon l'aveva adagiata sul letto degli ospiti, placando i suoi timori porgendole Baloo e facendosi spazio sul materasso, allargando le braccia ed ordinando un "accoccolati" che prometteva sogni sereni fino al mattino dopo – Kobik a volte si chiedeva se la donna fosse in grado di leggere nel pensiero, se ci fosse una spiegazione mistica per la sua efficienza nel soddisfare sempre all'istante i bisogni di chi la circondava quotidianamente, o se banalmente l'Agente Carter era una spia particolarmente empatica per carattere. 

Natasha aveva telefonato a colazione, Kobik era riuscita a sentire la zia e il suo papà bisticciare in sottofondo come da copione prima che la rossa abbaiasse loro l'ordine di fare silenzio, per poi chiederle candida e con tutt'altro tono di voce se erano più buoni i pancake che le aveva preparato Steve per colazione o i propri, che nel caso doveva farsi passare la ricetta insieme a quella del tiramisù di zia Sharon. Il resto della mattinata era trascorsa con calma elettrica, gli zii l'avevano portata a scuola ed aveva trovato la Mini Cooper di Kate ad attenderla all'uscita come il giorno prima – nessuno l'aveva detto, ma quando le due ragazze avevano raggiunto il Complesso gli zii le avevano fatto capire che non volevano che Kobik assistesse al collegamento radio con i suoi genitori, affermando che il Centro Operativo diventava un luogo caotico che trasudava tensione quando tutti i membri collegati erano in azione… ma alla fin fine era stata la bambina a spuntare la disputa accesa, scatenando "casualmente" un mezzo uragano capriccioso all'interno della stanza pur di farsi dare ascolto. 

Kobik non aveva mai partecipato ad una missione sul campo, ignorava come funzionasse di preciso, ma le faceva uno strano effetto sentire le voci di Natasha, James e Yelena mentre osservava i rispettivi puntini in movimento su una mappa digitalizzata, affiancata dalle riprese del circuito stradale fuori dalle Holt Industries e la visione via satellite dell'intero isolato. Evidentemente, come i suoi genitori e gli zii avevano fatto ricerche sul conto di Allan Holt, il multimiliardario doveva aver fatto ricerche su sua madre perché quando Natasha aveva messo piede nella hall della struttura a braccetto con James, il caldo comitato di benvenuto era stata una segretaria temeraria armata di mitragliatrice riparata dal bancone della reception. Il Chicago PD era stato avvisato di un possibile scontro armato quel mattino stesso da Capitan America in persona, quindi le volanti a sirene spiegate avevano occupato il perimetro dell'edificio in tempi record, portando in salvo ed allontanando i civili mentre James e Natasha davano spettacolo, un'intera armeria addosso da scaricare e l'obiettivo di creare un diversivo rumoroso per distogliere l'attenzione da Yelena, che nel frattempo si era data all'arrampicata su vetro risalendo la facciata del palazzo fino all'attico dove sapevano si sarebbe barricato Holt, pronto a darsi alla fuga con il suo miglior ricercatore a bordo dell'elicottero parcheggiato sul tetto della struttura. 

Era strano offrire assistenza da remoto, quando l'unico modo per avere un quadro generale dello scontro era lavorare di fantasia, basandosi su riprese frammentarie di circuiti di telecamere e voci concitate che gridavano contro un pericolo che la piccola non poteva vedere – la privazione della vista la disorientava, e principalmente per questo motivo gli allarmi, le luci e le proiezioni l'avevano soverchiata, instillandole una punta di panico che era velocemente cresciuta ed esplosa in una crisi travolgente. 

«Shh Kobik, va tutto bene. Se la stanno cavando bene, tranquilla.» sussurra zio Steve al suo orecchio quando gli oggetti abbandonati sulla scrivania iniziano a tremare, soffocando i gemiti di Kobik contro la stoffa della propria maglietta per impedire ai tre operativi di venirne distratti, precauzione inutile dato che sia Natasha che James sollevano la testa di scatto allarmati al primo respiro rantolante della figlia chiedendo spiegazioni, subito sviata da un Capitano leggermente irritato. «Ve la state cavando bene, vero?!» 

«Potrebbe andare peggio.» li anticipa Yelena con tono di voce asciutto, il respiro corto per la scalata ed il tono agitato per l'elicottero già sul punto di spiccare il volo, visibile anche da New York grazie alle riprese in tempo reale via satellite. «Infatti… le prede stanno scappando, ho un'idea per evitarlo.»

«Questa è la tua idea?!» sbotta Steve spezzando la calma in cui si stava rifugiando Kobik, sollevando la testa di scatto verso gli schermi quando nota la piccola siberiana prendere la rincorsa ed allacciare un rampino al carrello di atterraggio, librandosi in aria risalendo la fiancata del velivolo ed iniziando a scardinarla da fuori. «Yelena…!»

«Se avevi un'idea migliore potevi parlare prima.» ribatte scorbutica la ragazzina, cambiando l'oggetto del suo interesse quando spinge lo sguardo a terra e non vede più la chioma rossa della sorella agitarsi sul marciapiede a fianco di James, i quali erano scomparsi pure dalla visuale delle telecamere stradali ora che Kobik lo notava, agitandosi ulteriormente facendo tremare gli infissi alle finestre. «Dove siete andati a finire?» 

«Siamo dentro.» giunge tempestiva la voce del Soldato d'Inverno, una nota di concentrazione a colorargli il tono di voce, ignorando la ragazzina rivolgendosi direttamente a Steve. «Mi collego al circuito delle Holt, dammi un minuto.»

«Non ce l'abbiamo un minuto, звезда моя.» replica Natasha all'istante, rumori di spari, corpi a terra ed uno schianto di metallo in sottofondo. «Porta del laboratorio aperta, ti muovi?» 

«Ci sono, arrivo.» annuncia James mentre una finestra olografica del Centro Operativo si apre di volontà propria, iniziando a trasmettere il girato dell'edificio prontamente schedato da FRIDAY, la quale analizza ogni clip in default portando in primo piano la telecamera del corridoio in cui si trovavano in due. «Ti ho dato le telecamere. Ora guarda in camera e calmati, Pulce.»

Kobik solleva la testa di scatto, puntando gli occhi sul pannello di trasmissione individuando suo padre che la salutava attraverso l'obiettivo della telecamera, affiancato da una Natasha che gli teneva aperta la porta del laboratorio sorridendo nella stessa direzione, preferendo ignorare i corpi delle sentinelle riversi a terra. 

«Fa un bel respiro profondo, è tutto sotto controllo.» afferma la donna rafforzando il concetto, cambiando atteggiamento nel giro di due secondi netti tornando a concentrarsi sulla missione in corso. «Non possiamo far crollare le fondamenta, vero Steve?» 

Se il Capitano Rogers voleva sottolineare l'ovvio non ne aveva avuto l'occasione, accecati ed assordati tutti dal sibilo ed il successivo boato luminoso scatenato dall'esplosione, mandando in frantumi le vetrate della hall e facendo crollare un paio di pilastri. 

«Un fottuto bazooka.» strepita James allibito, la consapevolezza rassicurante di udire la sua voce che pian piano scioglie i nodi allo stomaco di Kobik dopo aver perso il segnale video. «A chi capita di avere un fottuto bazooka tra le mani?» 

«A te, звезда моя.» replica Natasha repentina, al punto che la bimba riesce quasi ad immaginare il suo sguardo verde demolire l'espressione stupita dipinta sul volto del marito, scatenando un pigro sorriso malizioso come rimpiazzo. 

«Touché… ma non mi sono portato dietro un bazooka questa volta, come la mettiamo?» ragiona James in minimi termini, velocizzando l'ultimo paio di sillabe suggerendo uno slancio suicida di Natasha incontro al pericolo, cogliendo di sorpresa gli assalitori con un attacco fisico. «Tasha, non puoi sopravvivere ad una granata in pieno petto, Cristo

«Zitto e dammi una mano, Yasha. Pensi di riuscire a- –…» lo silenzia la donna, la voce che correva di pari passo con i propri piedi, coprendo le sillabe successive con il fragore di una colluttazione. «– –…on ho sentito un no.»

«Non ti ho nemmeno detto sì.» giunge la risposta dell'uomo cristallina, a cosa si riferissero non era dato saperlo, le frasi di entrambi mangiucchiate o coperte dal fragore dei proiettili – era curioso, Kobik riusciva a percepire del sollievo sotto la tensione e la paura di zio Steve e zia Sharon, il primo che continuava a tenersela stretta tra le braccia e scrutava le finestre aspettando di vedere il vetro creparsi, la seconda che evidentemente aveva un collegamento radio privato con la sola Yelena da portare avanti… e la bimba forse riesce a capire da dove scaturiva quel sentimento altisonante e fuori luogo, improvvisamente consapevole che i propri livelli di ansia erano relativamente sotto controllo unicamente perché la carneficina in corso riusciva a sentirla ma, fortunatamente, non poteva vederla, rendendosi un "ostacolo capriccioso" egoista e dannatamente pericoloso. 

«Zio… credo-... credo che me ne andrò giù in… cucina.» afferma Kobik di punto in bianco, l'impellente urgenza di fuggire dal pericolo e togliersi dai piedi, dissolvendosi in un glitch e riassemblandosi in giardino, la traiettoria appositamente errata per limitare i danni della bolla di energia che rilascia, piegando l'erba e scuotendo gli alberi quando non riesce più a trattenerla – si sente vuota ora, mal calibrata, quasi sfasata… scarica

«Kobik!» urla Kate dalla terrazza del loft al terzo piano, corsa fuori ed appesasi alla ringhiera precipitosa appena udito il boato. «Tutto bene?» 

«Ovvio che non sta bene, Kat.» la riprende Billy raggiungendola sul terrazzo, facendo velocemente il punto della situazione e scegliendo di intervenire, finendo per inginocchiarsi ai piedi della bambina nel giro di un paio di secondi. «Ehi K… lo vuoi un abbraccio?» 

La bambina non se lo fa ripetere due volte, gli getta le braccia al collo e scoppia a piangere, scaricando la tensione del tutto – non sapeva che i ragazzi fossero al Complesso ma, tra tutti, Kobik è felice di trovarsi tra le braccia di Billi. Lui le piace, la raccoglie da terra e la porta in cucina, preparandole un sandwich senza croste con cui fare merenda. 

Steve era riemerso dal Centro Operativo quaranta minuti più tardi, ringraziando i ragazzi per essere intervenuti, rilassandosi contro lo schienale dello stesso divano sopra cui Kobik si era raggomitolata abbracciata a Baloo, guadagnando uno sguardo carico di sospetto. 

«Abbiamo finito, giusto perché tu lo sappia. Quando te ne sei andata Yelena aveva appena neutralizzato Stryker e Holt, si stava facendo spiegare da Sharon come pilotare fino a Washington per consegnarli ad Everett Ross.» la aggiorna l'uomo con un mezzo sorriso sulle labbra, anticipando le sue domande. «Nat e Bucky hanno distrutto tutti i campioni, sono un po' ammaccati, ma stanno bene e stanno tornando a casa.»

«Okay.» replica Kobik mesta, una richiesta di scuse che le annoda la lingua in fondo alla gola a renderla poco loquace, cercando timorosa lo sguardo limpido dello zio per fare pace. «Sono ancora troppo piccola per…»

«Restare al Centro Operativo mentre c'è una missione in corso? Sì.» conclude Steve per lei, sporgendosi ad accarezzare una guancia, tradendo un sospiro esausto. «Ma non sei ancora troppo grande per fare a meno dei capricci, quindi per questa volta ti perdono.»

La bambina sorride sollevata, sfregando la guancia contro la mano dello zio rispondendo alla coccola, mordicchiandosi le labbra prima di avanzare la richiesta. 

«Mi presti il cellulare? Voglio chiamare mamma e papà per sentire come stanno… e devo chiedere scusa anche a loro per i capricci, li ho distratti. Presumo.» afferma riflessiva la piccola, accettando lo smartphones del Capitano con la stessa importanza con cui si prendeva in mano una reliquia, pigiando il tasto per la chiamata automatica indirizzata al cellulare di James. 

«Visto che ci sei, digli che si sono guadagnati due settimane di ferie.» la informa lo zio alzandosi dal divano con nonchalance, concedendole un sorriso quando la bambina si solleva a carponi tra i cuscini del divano e si allunga lesta a cingergli la vita in un abbraccio. 

«Grazie. Grazie, grazie, grazie!» esclama Kobik mentre la linea elettrostatica crepita un “pronto?”, sciogliendo la presa per recuperare il dispositivo lanciato tra i cuscini. «Papà, zio Steve dice che tu e mamma siete in ferie!»

I due sospiri di sollievo dall’altro lato della linea diventano un chiaro monito di quanto la notizia fosse gradita, avvertendo in sordina la proposta di sua madre di volarsene a Parigi due settimane per staccare la spina e ricaricare le batterie, che una vacanza era esattamente ciò che le serviva.

«Quindi torniamo a casa? Casa, casa?!» chiede euforica la piccola, mentre suo padre brontola un richiamo alla moglie che suonava come un “Tasha, se me la distrai come puoi pretendere che io riesca a farle la ramanzina” e si concludeva con un “chiudi un occhio Yasha, non siamo morti, per stavolta va tutto bene” da parte della moglie, che ribaltava i ruoli dei suoi genitori ed automaticamente scagionava Kobik da ogni tipo di castigo.

«Quando torniamo a New York dobbiamo fare comunque un discorsetto, signorina.» la riprende James smorzando l’entusiasmo collettivo, facendo deglutire sonoramente la piccola. «Però sì, torniamo a casa. Casa, casa.»

Kobik lo sa che davanti a lei si prospetta una lavata di capo indimenticabile da parte di suo padre, che le toccherà preparare la tavola e lavare i piatti a mano per il prossimo mese per ingraziarsi sua madre, che se non prende almeno una B al prossimo compito di grammatica James e Natasha si inventeranno sicuramente una qualche lieve tortura psicologica per farle imprimere bene nel cervello il concetto di non doverli disturbare mentre erano al lavoro… però dopo settimane tornano finalmente a Parigi e di colpo, agli occhi di Kobik, tutto il resto sembra impallidire e perde d’importanza. Tornano a casa per due settimane, come premio di consolazione le basta e le avanza. 








Commento dalla regia:
Se siete arrivati fin qui in fondo vi ringrazio. Il capitolo, e la storia in sè a dire il vero, non hanno molte pretese, ma sono state terapeutiche per me per staccare la spina e chiudere questo ciclo senza aver rimpianti sul aver potuto o meno ampliare determinati argomenti o filoni. Questa è la conclusione migliore che sono riuscita a scrivere per "loro", per il Sergente e la Ballerina che nascondo un buon 90% di me stessa equamente spartito in ogni dialogo, e quel 10% lasciato a Kobik che guarda ancora a Mamma Marvel con profondo affetto ma, come in ogni relazione lunga e travagliata che si rispetti, ha bisogno di una "pausa di riflessione".
Forse rassicuro gli "affezionati" comunicandovi che qualcos'altro bolle in pentola, ma dato che ignoro la mia costanza nel reperire il materiale e la mia volontà nel rimettermi a scrivere, non mi sbilancio in false promesse e mi limito a dirvi "arrivederci".
Per ora è tutto gente!
_T :*

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3927102