Il cigno blu

di Artemide12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'impostora ***
Capitolo 2: *** La volatrice ***
Capitolo 3: *** L'autolesionista ***
Capitolo 4: *** La solitaria ***
Capitolo 5: *** La resiliente ***



Capitolo 1
*** L'impostora ***


IL CIGNO BLU capitolo 1

Si chiude la porta del camerino alle spalle e vi rimane appoggiata, la mano ancora stretta intorno alla maniglia. Le luci sul soffitto e intorno allo specchio sono troppo forti rispetto a quelle del palcoscenico.

Può sentire le voci delle ballerine che affollano il corridoio. E la musica dell’orchestra, costante e quasi ininterrotta, come sangue che scorre nelle pareti stesse del teatro.

È inebriante. È uno dei pochi momenti in cui mente e corpo sono un tutt’uno, fusi in uno stato onirico e incostante in cui spazio e movimento esistono senza tempo né ricordi. In cui il dolore dei muscoli non esiste, e nemmeno le emozioni. In cui i suoi pensieri si riducono a suoni e colori e milioni di interpretazioni diverse.

Si sgranchisce le caviglie. Una alla volta.

Qualche frammento di realtà torna al proprio posto. Ha poco tempo, deve cambiarsi.

È la prima ballerina. È cigno, drago e fenice. Principessa e impostora.

Si contorce finché il costume non le scivola di dosso e diventa una macchia scura sul pavimento. Lo scavalca e raggiunge la toletta. La ballerina dall’altra parte dello specchio la fissa con occhi da uccello.

Afferra un panno imbevuto di struccante e se lo strofina con forza sul volto finché pelle arrossata non emerge da sotto strati e strati di colore.

Un ginocchio le balla a tempo con la musica. Si sforza di controllare il tic. Fa un paio di passi nel camerino, poi un paio di piroette. Si sgranchisce di nuovo le caviglie.

La ballerina nello specchio è così magra che lo stomaco è incavato rispetto al torace e le ossa del bacino minacciano di bucarle la pelle dei fianchi.

Si guarda intorno in cerca della trousse dei trucchi. È sicura di averla lasciata sulla toletta. Mentre rovista nei cassetti piega la testa da una parte e dall’altra per far scrocchiare il collo.

Una forcina cade a terra.

Mentre si piega per raccoglierla, un dolore improvviso le attraversa la schiena.

Con un gemito straziante, Mina cade in ginocchio. Afferra il piano della toletta con le mani per avere stabilità e stringe i denti aspettando che l’ondata passi.

Il dolore si affievolisce, ma non scompare. È lì, in mezzo alle scapole, vivo e pulsante.

«Non è reale» sussurra a se stessa. «Non è reale non è reale nonèreale.»

Ma le parole perdono di significato e il dolore esige di essere sentito. Si porta una mano alla nuca e l’altra alla base della schiena. Le sue dita si incontrano tra le scapole e premono, massaggiano e grattano. Ma il dolore non è lì. È… è più su, più dietro, più esterno.

Sono le sue ali. Sono piegate male, come braccia incastrate in una posizione scomoda da troppo tempo. Sono semiaddormentate, ma fanno male.

Deve – solo – riuscire – a – massaggiare – il punto – giusto.

Per un momento il dolore raggiunge un altro picco, poi scivola di nuovo verso il sopportabile.

Mina stringe i denti fino a farli slittare e ricaccia indietro le lacrime.

Deve truccarsi. Deve cambiarsi. Deve cambiare posizione alle sue al--

Si costringe ad alzarsi in piedi.

«Non è reale. Non. È. Reale.»

È questo che si ripetono gli amputati quando i loro arti fantasmi pretendono di essere ricordati, sentiti, curati?

Non è reale. Ma era reale. Era una parte del suo corpo, intrecciata alla meccanica di ogni movimento insieme a tutto il resto. Le ali sono sparite, ma le parti del cervello che una volta le controllavano rimangono. Rimarranno per sempre.

Deve truccarsi. Deve cambiarsi.

Afferra la trousse dal fondo del cassetto, ma il braccio muove la scapola che muove l’ala di destra e una nuova scarica di dolore le attraversa la schiena.

La trousse si rovescia a terra, vomitando il proprio contenuto sul pavimento. Mina si china a raccogliere i trucchi quasi alla cieca e ritrae di scatto la mano quando qualcosa di affilato le taglia un dito.

Deve truccarsi. Deve cambiarsi. Il balletto è quasi finito.

Un rasoio si è rotto cadendo e le lame si sono sfilate. Ne raccoglie una e ne studia il riflesso.

Il cigno nero ha fatto la sua parte. L’ultimo atto è tutto per il cigno bianco. Le resta solo l’ultimo atto. Deve solo morire.

È una lama piccola.

Ma anche quella dell’ultima volta era piccola e ha fatto il proprio lavoro. Peccato non aver saputo che per dissanguarsi abbastanza in fretta bisogna tagliare verticalmente invece che orizzontalmente.

Deve truccarsi.

Il fondotinta è sparso sul pavimento.

Deve cambiarsi.

Dov’è il costume bianco?, dove l’ha lasciato?

Usa lo sgabello della toletta come appoggio per alzarsi di nuovo. Quante volte ancora dovrà inginocchiarsi a raccogliere qualche pezzo?

Le spalle, le scapole, le vertebre. Cerca di fare circonduzioni, di far scrocchiare le cartilagini, di rilassare i muscoli. Di ricordare al suo corpo che le ali non esistono.

Ha letto da qualche parte che visualizzare l’arto mancante aiuta.

Dà le spalle allo specchio, poi volta la testa per poter vedersi la schiena nel riflesso. La ballerina nello specchio ha la pelle liscia, priva di cicatrici o di qualsiasi altro indizio di ali.

Eppure sono proprio lì. Può sentire l’attaccatura. Cerca di tracciarne i contorni e due cerchi rossi compaiono a tra le scapole e la colonna.

La musica scema. Per un istante l’interno teatro rimane avvolto dal silenzio.

E Mina realizza di avere ancora in mano la lama del rasoio rotto. La mano inizia a tremarle incontrollabilmente, ma deve sforzarsi per allentare la presa delle dita e posare la lama sulla toletta.

Recupera un panno pulito e se lo preme sulla schiena. Quando lo ritira è sporco di sangue.

«Dannazione!» geme, sull’orlo delle lacrime, tornando a tamponarsi la schiena.

Qualcuno bussa alla sua porta. «Mina? Ti voglio fuori tra esattamente 2 minuti e 10 secondi» ordina il suo istruttore prima di allontanarsi.

I trucchi sono ancora sparsi a terra.

Perché proprio in adesso? Perché proprio oggi? Perché proprio durante questo balletto? Perché dopo così tanti mesi in cui non aveva più pensato a nulla che non avesse a che fare con la danza?

Perché?

Per quanto tempo ha desiderato ogni giorno di sentirsi dire che sarebbe potuta tornare alla sua vita normale? Perché invece ora, ad anni di distanza, spera di scoprire che la guerra con gli alieni non sia finita affatto?

Sta cercando un costume diverso da quello del cigno bianco. Vuole un chimero diverso dal pubblico. Un chimero vero e delle ali vere.

Perché proprio adesso?

Ha visto Kyle nel pubblico. È stato solo un attimo, solo un caso, ma ne è sicura. Le torna alla mente come se lo avesse avuto davanti a sé lì nel camerino. Un volto visto per un nanosecondo ha scatenato qualcosa che il suo inconscio credeva di aver ingoiato del tutto.

Non può.

Non può tornare sul palcoscenico.

Non può tornare ad essere la principessa, o morirà con lei.

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Capitolo 2
*** La volatrice ***


 

IL CIGNO BLU capitolo 2

Si getta in mezzo alla strada pur di fermare il taxi. Ignora i clacson di protesta mentre sale a bordo del veicolo. Si lascia cadere sul sedile posteriore e le sue ali fantasma si schiacciano contro lo schienale.

Forse non troverà mai più una posizione comoda. Forse non avrà mai più riposo. Il suo intero corpo si sta caricando di energia repressa e ogni minuto che passava è più vicino a esplodere.

«Dove vi porto?» domanda il tassista mentre si mette in fila ad un semaforo.

Mina lo sente a mala pena. Il suo autista privato non le ha mai chiesto nulla del genere. Non le ha mai davvero rivolto la parola, ora che ci pensa.

Quale posto è abbastanza lontano da tutto?

Oltre il finestrino scuro, il cielo è scuro e carico di pioggia. È pericoloso volare con questo tempo.

«Devo volare» sussurra Mina.

«Capisco.» L’affermazione del tassista è così genuina che Mina sobbalza, stupita, e per la prima volta incontra il suo sguardo nello specchietto retrovisore. «Conosco un paio di scorciatoie, arriveremo in un attimo.»

Arrivare dove? Quest’uomo sa dove andare? Come fa a…

Non lo sa. Quest’uomo non sa nulla. Sta solo facendo delle supposizioni. Nessuno sa nulla. Milioni di umani su questo pianeta non sanno di essere vivi solo grazie a cinque adolescenti, che alieni venuti da un altro pianeta erano pronti a sterminarli.

Quest’uomo non sa nulla di lei se non quello che vede.

Mina ritrova il proprio contegno. Si raddrizza, si allaccia la cintura e accavalla le gambe – il piede automaticamente tenuto a punta. Si limita a guardar fuori dal finestrino e a farsi trasportare.

Ha con sé solo una piccola borsa che si può indossare come uno zaino. Ne passa mentalmente in rassegna il contenuto: il suo telefono, il portafogli, un pacchetto di fazzoletti.

Forse è impazzita definitivamente. Forse dovrebbe fermarsi ora e tornare indietro.

Indietro. Indietro dove? Al teatro? Al camerino e alle lame rotte? Ai fili di bon-ton che la facevano muovere come una marionetta?

Il tassista la lascia all’aeroporto e Mina gli consegna quasi tutti i contanti che ha con sé. Pagare di tasca propria non è una novità per lei, ma guardar passare i soldi di mano in mano è una strana sensazione. Sono solo carta stampata. Sono tutti uguali.

Fuori fa freddo. Sotto la gonna corta indossa ancora le calze del costume da cigno. Dentro le scarpe i piedi le fanno ancora male. È stanca di camminare. È stanca di sentirsi tirare a terra con tutta la forza del proprio peso.

Si aggira per i terminal finché non trova uno sportello prenotazioni. Si mette in fila, ma poi si rende conto di non voler parlare con l’operatore e va in cerca di qualche macchinetta automatica. Ha una delle carte di credito cointestata con i suoi genitori – il che significa più soldi di quanto una persona comune potrebbe spendere in dieci anni di vita.

Guarda solo gli orari, non le destinazioni. Prenota un posto su un aereo che decollerà in meno di un’ora, poi si va a chiudere in un bagno per disabili.

Si sfila la giacca, il vestito e infine il reggiseno. Il sollievo è immediato, ma non completo. Vorrebbe slacciarsi anche la pelle, anche le ossa, liberare le articolazioni immaginarie.

Le ferite hanno smesso di sanguinare, ma la schiena le prude, le pizzica e le pulsa. Non c’è movimento, pressione o posizione che allevi il fastidio.

Il vestito si è macchiato dall’interno, ma con la giacca sopra nessuno noterà nulla. Infila il reggiseno nello zaino e si riveste.

L’apertura del gate del suo volo viene annunciata proprio mentre esce dal bagno. Segue le indicazioni come un automa fino al punto d’imbarco. Quando arriva il momento di mostrare un documento tira fuori dallo zaino il cellulare insieme al portafogli.

Non ci sono chiamate perse.

Nessuno l’ha cercata – ancora.

Nessuno l’ha cercata mai. Non per sapere che fine abbia fatto. O come sta.

Sale sull’aereo senza degnare le hostess di un saluto. Si siede dalla parte del finestrino anche se non è il suo posto e all’uomo che cerca di farla spostare rivolge uno sguardo gelido.

Torna a fissare il proprio telefono. L’ultima chiamata nel registro risale a quasi una settima fa ed è della segreteria dell’accademia.

Digita il numero di suo fratello a memoria. Quante volte lo ha composto ma poi non ha chiamato?

Blocca il telefono. Studia i passeggeri che si stanno ancora sistemando, chiassosi e impacciati come non mai. Sblocca il telefono.

Cos’ha effettivamente da dire? Sergio sapeva del suo lavoro da MewMew, della minaccia aliena. Sergio l’aveva dimenticato prima ancora che la guerra si fosse conclusa.

Mentre una voce registrata comincia a dire di spegnere tutti i dispositivi elettronici, Mina si porta il telefono all’orecchio.

Dopo una decina di squilli parte la segreteria. Attacca e richiama. Attacca e richiama.

Al terzo o quarto tentativo finalmente suo fratello risponde.

«Mina?»

Il suo nome suona sempre estremamente insignificante sulla bocca degli altri. Breve, noioso, infantile.

«Come va? Immagino sarai molto impegnata. Scusa, ho un appuntamento tra venti minuti con il mi--»

«Non sei venuto.»

Un momento di silenzio.

«Io… sono a Mosca. C’era uno spettacolo?»

«Un balletto. C’era un balletto.» Credeva di suonare arrabbiata, invece sente solo stanchezza nella propria voce. La mano libera è abbandonata in grembo.

«Mi spiace, non lo sapevo.» Sempre così accondiscendente. «Sicuramente sarà stato spettacolare comunque.»

«Non lo sapevi» ripete Mina. «Non lo sai mai. Ormai mi dimentico di avere un fratello da invitare.»

«Lo so, è il brutto di essere cresciuti. Quando abbiamo smesso di invitarci agli eventi importanti?»

«Mi sono stancata.»

«Di ballare?»

«Di volerti bene.» Mina reclina la testa all’indietro e strofina le spalle contro lo schienale perché le ferite le prudono. «È estenuante, Sergio.»

«Mina… Non avevo idea che stessi passando un brutto periodo. Mi dispiace.»

Una hostess passa per il corridoio e la fa segno spegnere il cellulare. Mina annuisce e poi la ignora. «Devo lasciarti ora.» Fa una pausa, sperando che Sergio colga un significato più profondo. «Sono invidiosa.»

«Invidiosa?»

«Ti ammiro perché riesci a cavartela da solo.» L’aereo comincia a muoversi. «Invidio tutte le persone che hanno un fratello. Ho desiderato che tu fossi morto» la sua voce è così bassa che non è sicura che Sergio riesca a sentirla «così avrei avuto un vero motivo per sentire la tua mancanza.» Tutti avrebbero sentito la sua mancanza. Tutti avrebbero avuto un aneddoto profondo da raccontare ogni volta che Sergio fosse spuntato nella conversazione. Chi avrebbe sentito la mancanza di Mina?

«Mina, se non stai bene non esitare a chiedere aiuto. La tua tutrice è lì con te?»

Mina non aveva una tutrice da cinque anni.

«Sei sola?»

L’aereo sta prendendo velocità rapidamente. Il rombo dei motori è sempre più intenso. La pressione sulle sue spalle sta vagamente diminuendo.

«Sempre» abbozza, prima di chiudere la telefonata con un gesto frustrato. Se si era illusa di poter trovare soddisfazione in uno sfogo, ora si sente più vuota e più dolente di prima. Questo è un dolore sordo però, che si appiattisce sullo sfondo.

Spegne il cellulare prima che Sergio possa richiamarla – nel remoto caso in cui ci provi davvero. E in quell'attimo di distrazione, l’aereo si solleva da terra. Il suo stomaco fa una capriola, i suoi polmoni perdono il ritmo per un momento.

Mina alza lo sguardo di scatto, il fiato sospeso. Per qualche secondo le ali si dispiegano in tutta la loro apertura e smettono di farle male.

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Capitolo 3
*** L'autolesionista ***


IL CIGNO BLU capitolo 3

Il neon azzurro dell’insegna crea una pozza di luce blu sul marciapiede. Lo shop è l’unico della strada ad essere aperto.

L’interno è un collage di sgargiante arte moderna, musica trap e odori chimici sepolti da fragranze per ambienti. È l’ultimo posto in cui Mina riesce a immaginare se stessa. È il primo posto da tempo in cui c’è qualcosa di nuovo.

Un uomo con la testa rasata e una folta barba bionda – un vichingo mascherato in abiti moderni – ammicca da dietro il bancone. «Cosa posso fare per te uccellino?»

Mina stringe le bretelle dello zaino. Lascia che la porta a vetri si chiuda alle sue spalle, ma rimane a qualche passo di distanza dal bancone. «Ho appuntamento con Ebony Loo.»

L’uomo solleva le sopracciglia, squadrandola con aria scettica. Quando distoglie lo sguardo scrolla le spalle e si mette a frugare sotto al bancone. «Arriverà a momenti.» Le porge dei fogli stampati. «Intanto puoi compilare queste liberatorie. Posso avere un documento?»

Mina gli consegna la carta d’identità e si guarda intorno in cerca di una penna mentre l’uomo inserisce dati in un computer.

«Sette ore

Mina si trattiene dall’alzare gli occhi al cielo. «Posso pagare» si limita ad assicurargli. I suoi genitori non le hanno ancora bloccato la carta di credito. Si sono resi conto che manca da casa da tre settimane? Forse sfruttano le transazioni bancarie per sapere cosa fa e dove si trova. Forse prestano attenzione solo alle spese più ingenti. Forse noteranno questa. Forse no.

«Lo dico per te!» continua intanto l’uomo, rivolgendole per la prima volta un sorriso più rilassato. «Devi essere più tosta di quello che sembri.»

Mina ha la vaga consapevolezza di aver perso ulteriormente peso. Senza gli allenamenti per il balletto è sparita persino quel poco di fame dovuta alla stanchezza che le era rimasta.

«Diciotto anni di danza classica» commenta, e dal tono è chiaro che la conversazione deve chiudersi qui. Finisce di compilare la liberatoria, poi attende di riavere indietro la carta d’identità.

Si va a sedere su una poltroncina proprio accanto all’entrata. Le vecchie abitudini sono così radicate nei suoi movimenti che inevitabilmente accavalla le gambe, giunge le mani in grembo e raddrizza la schiena.

Contro il rosso fuoco della pelle sintetica, Mina non è che un’unica macchia nera – impermeabile nero, capelli neri, gonna nera, calze nere, scarpe nere, occhi neri, occhiaie. Ha dovuto ricomprare i collant perché quelli del balletto si sono strappati. Quelli nuovi sono più pesanti ma hanno delle cuciture micidiali.

Dall’altra parte della vetrina, la notte è buia e sconfinata.

Un orologio da parete ticchetta ogni secondo.

«Wilhelmina Aizawa?»

Mina trattiene un sussulto e solleva lo sguardo senza tradire la sorpresa. La ragazza davanti a lei è un pugno in un occhio – con guance e naso ricoperti di lentiggini disegnate, lunghissimi dreadlocks scuri annodati in una specie di coda, insetti tatuati praticamente a casaccio sulle braccia e una canottiera arancione accecante accostata a dei pantaloni mimetici.

«Sono io.» La sua voce suona più altezzosa di quanto volesse. Si alza in piedi con un secondo di ritardo. Ebony Loo è più alta di lei solo di qualche centimetro, ma la sua presenza è estremamente più imponente, come una tigre pimpante in confronto a un fantasma evanescente.

La segue in una delle stanze sul retro dello shop, oltre una porta con il nome “Bonnie” scarabocchiato sopra. Dentro, l’odore di candeggina impregna l’aria, bozze di disegni e illustrazioni di cartoni animati tappezzano le pareti e uno specchio è stato montato sul soffitto.

«Non ricordavo quale dei due design avessimo scelto alla fine quindi li ho stampati entrambi.»

Mina si issa sul lettino pieghevole al centro della stanza. I suoi piedi non toccano terra.

Ebony le mostra due stencil e lei indica quello più grande.

«Bene! A occhio direi che la dimensione è quella giusta, spogliati e cominciamo.»

Sotto l’impermeabile e lo scaldacuore, Mina non indossa nulla. Li piega velocemente, poi si stende a pancia in giù sul lettino.

Le mani di Ebony la fanno trasalire. Le strofina qualcosa di umido sulla schiena. Le fa cambiare leggermente posizione e applica lo stencil con estrema minuzia.

«Cercherò di procedere in modo simmetrico così se decidiamo di fermarci prima avrai comunque qualcosa di decente.» Mina odia che parli al plurale. «Sicura di non voler passare la crema anestetizzante?»

«Sicura.»

«Bene.» Ebony avvicina un carrello al lettino. Sopra ci sono delle garze pulite e una decina di bisturi diversi. «Cominceremo dalle incisioni e lasceremo le sezioni da rimuovere alla fine. Ti senti pronta?»

Tutto ciò che Mina sente è un’opprimente nostalgia. Di casa, del passato. Della lotta e di emozioni vere. Di uno scopo.

«Sono pronta.»

Segue il rumore di plastica stirata mentre Ebony indossa guanti di lattice, poi di metallo che urta altro metallo. Una mano si poggia sulla sua schiena.

«Allora ci siamo.»

La lama è fredda e sottile. La prima incisione è appena sotto la spalla, rapida e precisa come il taglio di un foglio di carta. Non causa che un brivido.

La seconda è più fastidiosa. Si protrae per un secondo di troppo e Mina si ritrova a contrarre i muscoli. Gira la testa di lato, appoggia la guancia sulle mani e si impone di rilassarsi.

La terza incisione è più profonda. La lama si trascina dietro una linea di fuoco.

«È sopportabile? Vuoi qualcosa da mordere o--»

«Continua e basta.» Mina solleva la testa quanto basta per rivolgere alla tatuatrice un’occhiataccia.

Ebony sta per risponderle a tono, quando lo sguardo le cade sui suoi polsi e sulle cicatrici esposte. Nessuna è fresca ma tutte sono profonde. Mina riabbassa la testa in modo da coprirle e chiude gli occhi.

Un momento più tardi, le incisioni riprendono. Ebony non riapre bocca per quasi tutto il processo e i suoi gesti si fanno via via più ravvicinati e più decisi.

Il disegno è fatto di tratti semplici, quasi stilizzati sulle scapole e poi sempre più allungati e incurvati via via che scendono su tutta la schiena.

Sotto la pressione delle lame, la sua pelle si piega prima di spaccarsi. Da alcune ferite sgorgano brevi rivoli di sangue, caldi e umidi come lacrime. La maggior parte delle incisioni si limita a esporre carne viva.

È strano – sentirsi aprire così, sentire l’aria infiltrarsi nel suo corpo attraverso tante piccole crepe.

Ebony alterna lato su cui lavora, coprendo l’altro con della plastica.

Mina rimane perfettamente immobile. Anche quando le gambe cominciano a protestare per aver mantenuto la stessa posizione troppo a lungo, le braccia le si intorpidiscono e la sua schiena è così in fiamme che deve mordersi la lingua e le guance e le labbra e si sente girare la testa.

Il dolore è qualcosa a cui aggrapparsi. Reale, tangibile. I fantasmi non soffrono.

Accetta di fare una pausa solo per farsi dare uno specchio. Lo angola in modo da poter vedere il proprio riflesso sul soffitto.

Il suo battito accelera all’istante. I colori sono sbagliati – rosso e rosa e marrone invece di blu e nero e azzurro – ma la forma è quella giusta. I contorni combaciano con i suoi ricordi.

Le ali. Le sue ali.

Non le stesse che ha perso, non quelle che vorrebbe, ma di nuovo reali.

A furia di tagliar via la pelle stanno riemergendo.

E si stanno fossilizzando. Queste ali non potranno sollevarla in volo, saranno scolpite sulla sua schiena, ruvide e statiche. Questo è un rito funebre, una mummificazione, non una rinascita. È la liberazione e la rassegnazione di un’idea finalmente messa su carta.

Ebony riprende e Mina segue i suoi movimenti attraverso gli specchi.

Ogni nuova incisione, ogni porzione di pelle rimossa, è un’altra piuma che viene cementata nella sua carne. Questo è il lutto che le è stato negato quando i suoi poteri sono spariti da un giorno all’altro.

Ci sono cicatrici nelle sue cellule, in tutti quei punti in cui il dna animale è stato inserito e poi cancellato?, oppure si sono rigenerate abbastanza da aver dimenticato la mutazione? E se questo è il suo default biologico perché allora la sua mente si aggrappa ai ricordi di un’altra forma?

Probabilmente sviene. Per un po’ tempo e spazio perdono di significato e quando lo riacquistano sono in qualche modo distorti. Sfasati.

Ebony è seduta davanti a lei invece che alle sue spalle. Le porge un bicchiere d’acqua.

Mina allunga immediatamente una mano per prenderlo e tutta la sua schiena urla in protesta, pronta a spaccarsi in mille pezzi. Le sfugge un sibilo, poi si costringe a bere in piccoli sorsi anche se la sua gola è in fiamme. Quando il bicchiere è vuoto, torna a stendersi.

«Possiamo riprendere.»

Ebony ha l’aria esausta. «Abbiamo finito.»

Mina risolleva lentamente la testa, pronta a giurare che stia scherzando. Ebony si sfila i guanti e li getta in un cestino insieme alle garze sporche. Allontana il carrello dal lettino e comincia a mettere via i bisturi.

Mina recupera lo specchio.

Sotto uno strato di plastica, le sue ali giacciono ripiegate sulla sua schiena. Immortalate nella loro posizione di riposo. Per quanto si concentri, non riesce a muoverle neanche un po’. Fanno male, ma è un dolore destinato a morire.

Una lacrima la coglie di sorpresa. Le rotola lungo la guancia prima che possa trattenerla o asciugarla. Poi altre ne seguono la scia.

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Capitolo 4
*** La solitaria ***


IL CIGNO BLU capitolo 4

L’appartamento è quasi completamente vuoto. Oltre al bagno e alla cucina gli unici pezzi di arredamento sono il materasso gonfiabile e una lampada a batterie. Un calendario e un orologio giacciono inermi sul davanzale di una finestra.

Il terrazzo ha il parapetto in muratura, spesso qualche millimetro meno del suo piede.

Mina ne percorre la lunghezza avanti e indietro come una trave da ginnastica artistica, le braccia spalancate e il peso concentrato sulle punte dei piedi. Sopra di lei il cielo si è schiarito velocemente dal blu all’azzurro al grigio perla. Sotto di lei, cinque o sei piani più in basso, le strade si stanno facendo via via più affollate.

Il vento ha l’odore della pioggia. Le frusta i capelli sciolti negli occhi, sulle guance, sul naso. Le gonfia i vestiti come vele.

Cinque settimane. Sono passate quasi cinque settimane da quando ha abbandonato il balletto. La carta di credito continua a funzionare. Nessuno si è presentato alla sua porta per riportarla indietro. Sono le uniche due prove che ha che nessuno la stia cercando o sentendo la sua mancanza.

Raggiunge il centro del parapetto e si ferma. Per l’ennesima volta soppesa il cellulare tra le mani. Una parte di lei sperava di dimenticarlo da qualche parte per sbaglio, o di vederlo scivolarle e precipitare verso il marciapiede sottostante.

È abbastanza leggero da poter essere lanciato facilmente e abbastanza pesante da distruggersi completamente una volta arrivato a terra.

È spento da quando l’aereo è decollato.

È l’unico legame con la sua vita di sempre.

Mina guarda in basso. Al pavimento del terrazzo sulla destra. Ai metri di aria vuota sulla sinistra.

In alto il cielo è schermato da uno strato uniforme di nuvole.

Il pavimento e il marciapiede. Vicini come i gradini di una scala.

Il cellulare nelle sue mani.

Mina chiude gli occhi e sbuffa, frustrata. «Va bene!» esclama, rivolta al nulla. Si accovaccia fino a sedersi sul bordo del terrazzo, le gambe verso l’interno e i piedi che sfiorano il pavimento.

Non riesce a resistere ancora. Niente può essere peggio di questo oblio autoimposto. Non intende concedersi il beneficio del dubbio.

Preme il bottone di accensione con tutta la forza che ha nelle mani, poi quasi le sfugge dalle dita quando si anima con una vibrazione. Prima che abbia finito di avviarsi, però, sullo schermo compare l’icona di una pila vuota e il cellulare di spegne di nuovo.

Mina solleva le sopracciglia, sentendosi presa in giro. Incrocia le braccia, nascondendo il telefono tra gomito e fianco e rimane così per un po’, incredula e vagamente divertita.

Il suono del campanello è così inaspettato che Mina per poco non si rovescia all’indietro. Sembra il verso di un uccello strozzato ed è quasi sicuramente la prima volta che lo sente da quando si è trasferita qui, esattamente un mese fa.

Si muove per raggiungere la porta con un secondo di ritardo. «Chi è?» chiede senza aprirla.

«Bonnie!» C’è urgenza nella risposta.

Mina apre la porta, la fronte corrucciata. «Cosa diavolo ci fai qui?»

Ebony Loo, la tatuatrice, la squadra dalla testa ai piedi, poi sbircia oltre la sua spalla dentro l’appartamento. Il suo silenzio innervosisce Mina più che mai.

«Le cicatrici vanno bene.» Ebony è venuta a controllarle dopo una settimana dalla scarificazione, non sarebbe dovuta tornare prima della fine del mese. «Non ho avuto nessun problema, perciò non c’è bisogno--»

«Abito non lontano da qui. Nel bar all’angolo fanno delle ciambelle che sono roba dell’altro mondo.»

Mina solleva un sopracciglio, confusa. «Okay, non ho tempo per queste cose» dichiara mentre richiude la porta.

Ebony infila una mano in mezzo per fermarla. «Ti ho vista» esclama tutto d’un fiato. «Passavo qui sotto e mi ricordavo che abitavi da queste parti.»

Mina appoggia per qualche secondo la fronte alla porta prima di spalancarla di nuovo. Fissa Ebony in silenzio.

«Ti ho vista sul davanzale.» E ha visto le cicatrici sui suoi polsi durante la sessione.

Mina non apre bocca. Raddrizza le spalle. Questa ragazza vista appena due volte pretende di sapere già tutto di lei?

«Posso entrare?»

«Certo che n-- ehi!» Ebony le sguscia di lato e entra nel soggiorno deserto. «Esci subito!»

Ebony si affaccia nel corridoio, poi ispeziona velocemente le altre camere – ci vuole un attimo: bagno e cucina da un lato, camera da letto dall’altro. Le lenzuola sono piegate ordinatamente sul materasso gonfiabile.

«Qualunque cosa tu creda di aver visto, non sono affari tuoi.»

La sfacciataggine con cui Ebony la ignora le ricorda Strawberry. Forse anche un po’ Paddy. Si è tinta i capelli di arancione neon – forse l’associazione deriva solo da questo. Si è anche sciolta i dreadlocks e al momento non ha trucco sugli occhi né lentiggini disegnate. Se non fosse per i tatuaggi che la ricoprono, Mina giurerebbe che si tratti di un’altra persona da quella che ha conosciuto allo shop.

Fa un respiro profondo. «Ebony…»

«Bonnie. Bonnie va bene» la corregge l’altra automaticamente.

«Perché stai frugando in casa mia?!» È la prima volta che di riferisce a questo appartamento in affitto come casa propria. «Se non sei qui per controllarmi allora--»

«Non hai bisogno che qualcuno ti controlli» replica Ebony, come se fosse la cosa più ovvia al mondo. Finalmente smette di guardarsi intorno e si ferma a fronteggiare Mina in mezzo al corridoio.

«Come scusa?»

«Non sei saltata.»

Silenzio.

«Ti ho vista e non sei saltata. Qualunque cosa tu stia passando, pare che tu sappia controllare te stessa quanto basta.»

Ancora silenzio.

«Qui non ci sono aghi, né bottiglie, né lame, né confezioni di farmaci. Non c’è assolutamente niente in realtà, fa paura! Comunque sei sobria e pulita, direi che non è poco.»

«Perché tutto quello che conta è che io sia viva e lucida?»

Ebony scrolla le spalle. «A volte sì.» Fa per andarsene, ma Mina le sia para davanti.

«Ma tu sei salita a controllarmi.»

«Io… » Ebony si gratta il retro di un orecchio. «Sì, suppongo di sì.» Accenna un sorriso di scuse. «Ho una specie di debole per i casi disperati.»

Mina spalanca la bocca.

«Sì insomma, tipo uccelli moribondi, gatti randagi e cani abbandonati. Diavolo, casa mia ha ospitato più animali che amici!»

«Io non sono… » stata abbandonata? Mina ricorda improvvisamente di avere il cellulare ancora in mano. «…un animale» conclude sbrigativamente, abbassando lo sguardo. Va a recuperare il caricabatterie dallo zaino ai piedi del letto.

Le torna in mente Mickey, il pomeriana nano con cui è cresciuta e che il veterinario ha insistito per sopprimere due anni fa perché “sarebbe stato più crudele farlo vivere qualche altro mese con il cuore in quelle condizioni”. Lascia che l’ondata di tristezza la attraversi e poi si ritiri per tornare ad essere un brusio di sottofondo. Quando si rialza Ebony è ancora in corridoio e si sta mordicchiando un’unghia mentre fa oscillare il peso da un piede all’altro.

«Vuoi…» non c’è niente dentro questa casa «un bicchiere d’acqua?»

Ebony sfodera un sorriso di sollievo e annuisce vigorosamente.

In cucina Mina attacca il telefono alla corrente, poi fa scorrere per un po’ l’acqua del rubinetto prima di riempire un bicchiere. «Cosa fai con i tuoi… casi disperati?»

«Mmh» Ebony cerca di parlare troppo presto e l’acqua le va di traverso. «Li faccio bere finché non si strozzano» afferma appena ha smesso di tossire. «Do loro tutto il cibo che non hanno visto nelle ultime settimane e loro lo mangiano tutto anche se è troppo. Quindi dopo di solito si sentono male.»

Suo malgrado, Mina sorride. «Sembra un piano terribile» la rimbecca appoggiandosi al bancone e incrociando di nuovo le braccia al petto, questa volta in modo più teatrale.

«Vero. Ma a loro piace.»

«A loro piace stare male per aver mangiato troppo?»

«Sentirsi voler bene un po’ troppo tutto insieme.»

Ebony si rigira il bicchiere fra le mani. Alla fine manda giù l’ultimo sorso l’acqua e si allunga per posarlo alle spalle di Mina. «Beh sarà… sarà meglio che vada.» Però rimane ferma dov’è. Ha una farfalla tatuata alla base del collo, nera con venature azzurre, così realistica che sembra appollaiata sulla clavicola.

Ebony solleva le braccia muovendosi al rallentatore. Le sfiora la mandibola, facendole inclinare leggermente la testa, poi si china e preme le labbra sulle sue.

Mina spalanca gli occhi e rimane immobile, pietrificata.

Ebony si ritrae dopo un momento e studia la sua espressione.

Mina batte le palpebre e prende fiato dalla bocca. Vorrebbe dire qualcosa ma la sua mente si è svuotata. Le fissa le labbra, poi gli occhi, poi di nuovo le labbra. Poi di nuovo gli occhi.

Ebony le prende il viso tra le mani prima di baciarla di nuovo, questa volta con un po’ più di decisione. Mina stringe il bancone e si protende in avanti, sprofondando nell’abbraccio.

Una sensazione di calore sboccia nel suo petto, debole ma regolare, e si espande gradualmente in tutto il corpo. Le loro labbra si schiudono, le loro lingue si incontrano e Mina si sente sciogliere. Un brivido le percorre la schiena, poi le gambe.

Si ritrae. Bonnie la insegue d’istinto, poi fa altrettanto. Dopo un momento le lascia andare il volto. Abbozza un sorriso incerto e mette un passo di distanza fra loro.

«Vuoi che me ne vada?»

Mina solleva il mento. «Sì.»

«Vuoi… vuoi che torni ogni tanto? A… controllare?»

Mina stringe le labbra e fissa lo sguardo in basso a sinistra, su una mattonella del pavimento in particolare. «Se lo ritieni necessario.»

Da dove è stato abbandonato sul bancone, il cellulare comincia a vibrare mentre notifiche di messaggi e chiamate perse affollano la schermata di blocco. Mina lo fissa a bocca aperta.

«Allora ciao!» continua Bonnie mentre esce dalla cucina camminando all’indietro e agitando nervosamente una mano. Mina la saluta con un gesto decisamente più elegante, poi ascolta i suoi passi mentre attraversa il corridoio e il soggiorno – sta saltellando? – e infine il rumore della porta che si apre e si chiude.
 


Nota: quella che segue è una ricostruzione delle notifiche sul telefono di Mina, presumibilmente dalla schermata di blocco, creata da me in modo da avere un minimo di realismo senza perdere del tutto l'utilità. Vanno in ordine decrescente perciò massaggi e chiamate più recenti sono in alto e quelli più vecchi in basso. Per leggerli in ordine cronologico bisogna quindi partire dal basso e risalire. Spero sia stata un'idea carina. Temo anche che efp sgrani tantissimo le immagini, se sono illeggibili segnalatemelo e provvederò a rimediare.


 

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Capitolo 5
*** La resiliente ***


 

Nota
Questo è l'ultimo capitolo. Ho puublicato il primo nel lontano 2013 come one-shot e, siccome questo 2020 non era stato già abbastanza bizzarro, deciso solo di recente di espanderla. Quindi mi correggo: questo è l'ultimo capitolo per adesso. Magari tra altri 7 anni deciderò di resuscitarla, chi può dirlo, ma al momento si chiude qui.
Grazie di avermi fatto compagnia in questo esperimento.
Buona lettura.


 


IL CIGNO BLU capitolo 5

Il bar ha solo un paio di tavolini all’esterno, circondati dalle mura di altri palazzi su due lati e vasi di fiori lungo il terzo. È un angolo così riparato che sembra di trovarsi in uno sperduto paesino di montagna invece che nel mezzo di una metropoli caotica, con tanto di rampicanti che colano dal pergolato.

Mina si appoggia allo schienale e chiude gli occhi. La poltroncina di vimini la avvolge fin quasi a ingoiarla. Sente l’impulso di raggomitolarcisi e addormentarsi. Sono giorni – o meglio notti – che riesce finalmente a dormire profondamente e alzarsi riposata, ma corpo e mente sono comunque esausti per la maggior parte del tempo.

E pensare che fino qualche anno fa lavorava al Café Mew sei giorni a settimana ed era costantemente in allerta e pronta a combattere.

E pensare che fino a qualche settimana fa si allenava quattordici ore al giorno tutti i giorni.

Si è forse spinta oltre il punto di rottura? Il suo corpo ha deciso di arrendersi per sempre?

Si porta le dita alle tempie e massaggia lentamente. Persino pensare le risulta faticoso, come se dovesse concentrarsi per non perdere il filo. Concentrarsi per concentrarsi.

Le voci di passanti la fanno sussultare e riapre gli occhi.

La tazza di tè è ancora sul tavolo davanti a lei, dove il cameriere l’ha lasciata. Accanto, su un piattino abbinato alla tazza, giacciono dei biscotti che Mina non ha ordinato.

Immagina di prenderne uno e di masticarlo. L’idea della poltiglia dolce che si scioglie e impasta nella sua bocca quasi la fa vomitare. Pensare di ingoiare una roba del genere è assolutamente fuori discussione.

Distoglie lo sguardo.

Un gatto randagio accoccolato in un vaso vuoto la fissa con occhi spalancati, sorpreso di essere stato notato. Ha l’aria di un peluche vecchio, con il pelo ispido e gli arti un po’ rinsecchiti ma uno sguardo ancora pimpante.

Mina valuta l’idea di dargli uno dei biscotti, o tutti e tre, prima di rendersi conto che i gatti non mangiano biscotti. E che lei non dà da mangiare ad animali randagi che potrebbero continuare a seguirla per giorni.

Il gatto decide che Mina non rappresenta un pericolo e si rilassa, appoggiando il muso sul bordo del vaso e socchiudendo gli occhi. Solo le orecchie rimangono tese.

Mina torna ad affrontare i biscotti. Spariranno nel giro di secondi appena arriverà Bonnie, ma per ora continuano ad esistere imperterriti.

Il tè ha smesso di fumare. Ne manda giù un bel sorso e il liquido caldo le fa realizzare quanto senta freddo. Il suo stomaco era così vuoto che un solo sorso di tè sembra un pasto intero.

Può sentire chiaramente la voce della sua tutrice ricordarle di bere lentamente, tenendo la tazza con una mano e il piattino con l’altra, ma manda giù tutto il resto del tè nel giro di secondi e poi praticamente abbraccia la tazza per assorbirne tutto il calore residuo.

Il gatto randagio continua a tenerla d’occhio dal suo vaso, pronto a balzare via da un momento all’altro ma deciso a godersi la sua postazione il più a lungo possibile.

Mina scioglie le gambe, poi le accavalla nel verso opposto. Posa la tazza e prende uno dei biscotti. Lo tiene solo con la punta delle dita ma la superficie farinosa e la consistenza un po’ molle sono comunque disgustose. Ne stacca un pezzo con l’altra mano e metà del biscotto di disintegra in una cascata di briciole. L’interno ha un orrendo aspetto spugnoso. Probabilmente sa di plastica. Sicuramente si appiccica ai denti e rimane il sapore in bocca per ore.

Il gatto la ignora bellamente e il cameriere non è in vista, ma si sente comunque osservata.

Si infila la frazione di biscotto in bocca e ingoia quasi senza masticare. Per poco non si strozza con le briciole. Tossisce quanto più garbatamente possibile.

Il suo stomaco non sembra essersi neanche accorto di aver ricevuto qualcosa di solido mentre il suo palato protesta arricciandosi su se stesso.

«Wow, sembra che tu ti sia appena scolata il tuo primo shottino.»

Mina fa un salto. Bonnie è in piedi dall’altra parte del tavolo.

«E tu-- tu quando sei arrivata?»

«Proprio adesso. Faceva così schifo?»

«Non so di cosa parli. E non dovresti usare la parola “schifo” riferita al cibo.»

Bonnie accatasta borsa e giacchetto su un’altra sedia e afferra uno dei due biscotti rimasti. «Vado dentro a vedere che cornetti hanno. Ho voglia-- uhm!, ma non ha niente che non va questo. Mmh, forse era solo quello lì il problema.» Si infila dentro al bar senza aspettare una risposta.

Mina si costringe a mangiare il pezzo di biscotto che ha ancora in mano. Questa volta prova a masticarlo e lo zucchero le brucia la lingua. È abbastanza sicura che questa volta però la sua espressione sia impassibile.

È solo un biscotto. Non ha niente che non va. Prende l’ultimo rimasto ed esita, studiandone la superficie a spirale.

Attraverso la vetrina può vedere l’interno del bar, e Bonnie che ispeziona tutti i cornetti esposti in cerca del più pieno. E nel riflesso il gatto che si lecca le punte delle zampe, leggermente più scure del resto del corpo.

Mina si volta a guardarlo. «Credi che sia stupida?»

Il gatto si immobilizza, la zampa ancora premuta contro il muso e le orecchie dritte. Mina nota per la prima volta un collare rosso intorno al suo collo.

Sbuffa dal naso. «Non sei nemmeno un randagio.» Scuote la testa, dandosi mentalmente della stupida, poi dà un morso al biscotto prima di poterci ripensare. Il rumore della masticazione irrita le sue stesse orecchie, ma quando finalmente deglutisce si ritrova a sorridere.

Mangia il resto del biscotto fissando dritto negli occhi il povero felino, che comincia a guardarsi intorno valutando una fuga.

«Adoro questo posto. L’ho già detto?»

Bonnie si siede accanto a lei, un bicchiere di aranciata in una mano e un cornetto senza una punta nell’altra, la faccia già sporca di zucchero a velo.

«Almeno dieci volte.»

«Uhm-uhm, vale la pena ripeterlo.» Bonnie sfila una manciata di tovaglioli di carta dal contenitore al centro del tavolo e li impila davanti a sé. «Vuoi assaggiare?, prima che io lo ingurgiti si intende.»

Mina apre la bocca per rifiutare, ma probabilmente il gatto la sta ancora fissando.

Bonnie sospira. «Puoi mangiare l’altra punta se non vuoi mordere dalla mia parte» afferma mettendole il cornetto in mano e poi leccandosi la punta delle dita. «Tanto la crema mi finisce ovunque lo stesso.»

Mina stacca la punta rimasta con le mani prima di restituirle il cornetto.

«Hai finito i biscotti! Credevo non ti piacessero. Non mi sono goduta il mio.»

«Beh non è il caso di agitarsi, possiamo sempre prenderne altri.»

«Uhm-uhm» Bonnie manda giù il proprio boccone. «Buongiorno, a proposito, ero distratta.»

Mina sorride suo malgrado e Bonnie le stampa un bacio sulle labbra prima di tornare a concentrarsi sul cibo.

Mina si accarezza distrattamente una guancia, consapevole di essere appena arrossita.

Quando torna a guardarsi intorno, di Ryan non c’è più traccia.

Sulla sedia accanto alla sua c’è un borsone con un logo sportivo stampato sopra. Mina rovista nella tasca interna finché non trova il proprio cellulare.

«Anco’a ‘on mi hai ‘etto ‘ome hai ‘atto a ‘arti assumere» commenta Bonnie a bocca piena, accennando al borsone con il mento.

«Ho esperienza nel campo. Sarebbero stati degli sciocchi a non scegliere me.»

Pam l’ha chiamata una sola da stamattina – alle 7 e mezza, così puntale che Mina ha smesso di impostare la sveglia. Chiama tre volte al giorno tutti i giorni, anche se non riceve mai risposta.

Bonnie si strofina il mento con un tovagliolo. Ancora una volta sembra uno strano ibrido di Paddy e Strawberry. «Adesso mi dirai che al liceo hai fatto la cameriera.»

«Magari ho salvato il mondo, al liceo.»

 

screen cellulare
 

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