Metallo Puro

di SilverDoesNotKnow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giorno libero ***
Capitolo 2: *** ... giorno libero? ***
Capitolo 3: *** Semplici parole ***
Capitolo 4: *** Intermezzo ***
Capitolo 5: *** Il salvagente ***
Capitolo 6: *** Il sapore del sangue ***
Capitolo 7: *** Avanzi ***
Capitolo 8: *** Novità ***



Capitolo 1
*** Giorno libero ***


Tutto sta girando... è un gran giramento di palle. Sento la mia mente intorpidita e leggera. C’è un sacco di gente, musica brutta ad alto volume e così tanta noia... il momento perfetto per una sigaretta. Esco dal Locale con precauzione: il pavimento sembra inclinarsi da una parte, come se un gigante lo stesse muovendo per divertirsi ad osservare tutti quegli esserini capitombolare là sopra.
Dopo tre... forse quattro shottini stare in piedi diventa faticoso perciò decido di sedermi su uno scalino portandomi alle labbra una Lucky Strike, una vecchia marca non più in commercio ma per fortuna abbondante al mercato nero; prima o poi tutte le Luckies si estingueranno, che tristezza...
 L’accendino, cazzo. L’accendino ha l’abilità di sparire quando serve e magicamente riaffiorare nei momenti più scomodi. Mi guardo attorno: appoggiata ad un muretto che divide la strada dal fiume c’è una ragazza dai capelli verdi che gioca con una fiammella scoppiettante tra le sue dita. Cercando di non apparire troppo ubriaco -sarebbe poco elegante vomitarle sulle scarpe- mi avvicino a lei, un piede dopo l’altro. «Ciao, posso... ?», accenno alle sue mani con la sigaretta tra le labbra. Lei non sembra troppo turbata dal mio aspetto e avvicina la lingua di fuoco al tabacco. «Serata noiosa, non credi? Là dentro non c’è un cazzo da fare, la musica è troppo alta per parlare», dico per rompere il ghiaccio.
«Perché, sei venuta qua per parlare?», risponde lei. Appare diffidente, ma spero capisca che non ho alcuna intenzione di saltarle addosso.
«No, solo per bere: il rum costa poco.» La ringrazio con un mezzo sorriso e scavalco, non senza difficoltà, il muretto pericolante per trovare un posto comodo lungo l’argine.
«Aspetta!»
I suoi passi leggeri mi seguono e me la ritrovo a fianco, con quelle belle labbra rosa bagnate dai raggi della luna... ah no, è la luce del lampione. “Smettila, stupido”, mi dico scuotendo la testa nel vano tentativo di scacciare la nebbia dalla mia mente.
«I miei amici mi hanno trascinato qui. “È divertente!” ripetevano, ma apparentemente ho un concetto di “serata piacevole” molto diverso dal loro», sospira, mi fa un piccolo sorriso e decido che non è il caso di essere brusco; anche questa povera ragazza sta scappando dall’inferno dentro il locale.
«Qual è il tuo nome?», chiedo dopo un breve silenzio.
«Lora. Già, come Lorax ma senza X, non sono il Guardiano della Foresta.»
Con la sua risata riesce a farmi abbandonare l’idea di scappare a gambe levate. In fondo è piacevole scambiare due parole a mezzanotte e l’aria fresca raffredda il mio corpo in fiamme.
«Mi piace il colore dei tuoi capelli, non è comune. Ah, e grazie per...» sollevo la sigaretta tra le mie dita accorgendomi di essere arrivato al filtro e lo spengo nella sabbia. «La sigaretta è una metafora della vita: è squisita e lascia insoddisfatti.»
«E queste frasi filosofiche da dove le peschi?»
«Sciocchezze da prendere sul serio, del caro Oscar.»
«Chi è Oscar?»
«Un vecchio amico», sorrido in modo non troppo convincente e mi alzo, fissando il flusso continuo dell’acqua a mezzo metro dai miei vecchi stivali. «È stato un piacere, Lora. Bei... capelli», dico a bassa voce indicando vagamente la sua testa con la mano. “Perfetto, ottima figura di merda, stai ripetendo ciò che dici come un vecchio che racconta le avventure di guerra ai nipoti.”
Mi avvio per la strada a grandi passi con lo sguardo sul pietrisco che scricchiola sotto le suole e mi tuffo nel buio senza luna.
All’inizio le tenebre nascondono tutto ciò che si trova a più di qualche centimetro dal mio naso, ma presto i lampioni della città cominciano a illuminare la via.
Il Locale, situato fuori dalla città vera e propria, era un edificio non molto esteso in larghezza ma verso il cielo si allungava per quattro piani, più il bar nella cantina. Si diceva in giro che avesse origini talmente antiche che la gente si era dimenticata il suo vero nome: infatti era chiamato semplicemente Locale o Tana. Caso più unico che raro, era circondato da campi incolti e poteva essere raggiunto solo tramite una strada sterrata. La città non aveva ancora divorato quella zona perché il terreno era troppo instabile per la costruzione, o almeno così dicevano gli esperti.
La strada che porta al Locale si immette in una via asfaltata che segna l’inizio delle abitazioni: il mio quartiere è al confine della città e con un quarto d’ora di cammino si può respirare l’aria pulita della campagna.
Trovo miracolosamente le chiavi nella tasca dei jeans, apro il portone del condominio e arranco per quattro rampe di scale. Domani starò da schifo, ma non importa. Almeno in questo momento mi sento così confortevolmente intorpidito. Una volta entrato nell’appartamento collasso sul divano a peso morto. Immagini veloci attraversano la mia mente: il -o la, non l’ho capito- dj del Locale, un bicchiere di rum con ghiaccio, capelli verdi, quel fottuto accendino... Lentamente mi sento scivolare nel sonno, come l’acqua che scorre nel fiume.

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Capitolo 2
*** ... giorno libero? ***


Il latte freddo si mescola al caffè quasi bollente in vortici agitati, prima che io interrompa lo spettacolo girandolo con il cucchiaino.
«Non importa Acca, ti ho già detto che non stavo bene.»
«Si certo, dicono tutti così», mi risponde Arryah sorseggiando il suo cappuccino mentre posa disinvoltamente lo sguardo sul culo del cameriere. I suoi capelli viola pettinati all’indietro mi distraggono: si vede la ricrescita nera ma non è altro che il colore precedente. Nessuno ha mai visto la sua chioma al naturale, solo ombre della vecchia tinta e di quella prima, e di quella prima ancora.
Alzo il bavero della giacca quando una folata di vento freddo mi spettina i capelli; forse non è stata una buona idea sedersi ai tavolini fuori dal bar.
«Il grande capo vuole licenziarti Silver, anche se tecnicamente non ti ha ancora assunto», dice Arryah cercando di mantenere un tono disinteressato; in fondo so che si preoccupa per me.
«Faccia pure, lo sai che era una questione di giorni. Ha deciso di sbarazzarsi di me nell’istante in cui mi ha visto e lo ha dato fin troppo a vedere.»
Arryah aveva deciso di trovarmi un impiego nel luogo in cui lavora, un negozio di indumenti di alta moda in cui un paio di guanti costava tanto quanto il mio appartamento e gestito da un piccolo uomo grasso con idee molto... conservatrici. Il primo giorno ero entrato dall’ingresso principale e, fatti tre passi, la security mi aveva buttato fuori a calci su ordine del grande capo, pensando fossi un artista di strada. Io per contraccambiare il favore non mi ero presentato al lavoro il giorno successivo.
«Acca senti mi dispiace, sai che non riesco a stare in situazioni del genere. So che ti sei impegnato e apprezzo il tuo sforzo ma quel posto non fa assolutamente per me.»
“Sono sincero, lo giuro”, penso sperando che il mio amico mi creda.
«Come vuoi tu, Loki», mugola lui mentre un ghigno distorce la sua strana bocca asimmetrica.
«Ancora? Devi proprio esserti innamorato del Dio dell’Inganno.»
Con un mezzo sorriso gli faccio l’occhiolino. Mi aveva affibbiato quel soprannome dopo una maratona di tutti i film Marvel di Thor e degli Avengers senza interruzioni, dicendo in giro che fossi il sosia di Loki. Non aveva completamente torto: i miei capelli neri e ondulati, lunghezza spalle, erano uguali a quelli dello Jothun tranne che per i riflessi argentei dovuti ai miei primi capelli bianchi. A ventuno anni, una sfortuna. Aveva poi continuato a sostenere la sua tesi elogiando i miei lineamenti affilati e la pelle chiara, ma in realtà era solo un modo per vendicarsi del bruttissimo nomignolo che io gli avevo dato, Acca. «Scommetto che te lo porteresti volentieri a letto, Arryahhh.»
“Acca” mi era venuto in mente la prima volta che ci incontrammo a causa di quella buffa lettera aspirata alla fine del suo nome che gli conferiva un tocco snob.
«Perché no», dice Acca sfoggiando la sua espressione arrogante, «una notte con lui e una con la Vedova Nera!»
Ridiamo insieme mentre la gente per bene seduta intorno a noi ci scocca occhiate di rimprovero per la nostra irriverenza. È piacevole passare del tempo con Arryah, troviamo sempre il modo di tirarci su il morale a vicenda quando il pessimismo in noi si fa sentire e la nostra anima si incupisce.

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Capitolo 3
*** Semplici parole ***


Mentre cammino lungo una delle strade principali della città affondo le mani nelle tasche del mio capotto nero, le code che svolazzano attorno alle caviglie a causa del vento. La colazione con Acca è stata piacevole, il caffè mi ha aiutato a smaltire la sbornia di ieri sera. Cazzo, adesso devo trovarmi un lavoro, di nuovo... Mi passo una mano sulla faccia e allungo il passo con troppi pensieri che affollano la mia testa.
Scorgo tra la gente alcuni volti che mi fissano e senza pensarci pianto freddamente il mio sguardo su di loro giusto per tenerli alla larga. Le persone comuni di solito si sentono a disagio intorno a me e non riescono a sostenere il contatto visivo; ho un’iride verde, o blu qualche volta, la sinistra, e l’altra color nocciola. Sembra qualcosa di affascinante e particolare ma è soltanto una rarità che tende a dare l’impressione di essere strabici; una delle tante “stravaganti” caratteristiche che contribuiscono ad aggiudicarmi l’attenzione di tutti nei luoghi affollati.
«Mi scusi, signora! Un attimo del suo tempo per poterle spiegare quanto la nostra associazione bisogni di nuovi fedeli!», mi urla in faccia una donna che distribuisce volantini davanti ad una bancarella. Con una spallata riesco a scappare e a voltare l’angolo senza incappare in altri religiosi o venditori di oggetti inutili. Nel vicolo in cui mi ritrovo un bambino con un palloncino giallo tira la manica della signora che lo sta trascinando per la mano e sussurra:
«Mamma, ma quello è un ragazzo o una ragazza?»
«Vieni via, Paolo! È solo una persona malata, deve essere aiutata a ritrovare la giusta strada. Dai che facciamo tardi!», risponde la madre passandomi a fianco. Sento i suoi tacchi pugnalare ritmicamente l’asfalto seguiti dai passetti irregolari del bambino.
Abbasso lo sguardo e mi affretto, ho le dita serrate attorno alla fodera interna del cappotto, percepisco i bisbigli delle persone intorno a me, le occhiate confuse, anche chi fa finta di niente e poi mi scruta quando volto le spalle. Ognuno di questi dettagli è una stilettata, la sento nelle viscere, mi buca lo stomaco e mi svuota il petto. “Respira...”, mi ripeto in continuazione, lo dico sempre a tutti: “Respira”.
Ma non è abbastanza, una lacrima scende lungo la mia guancia e viene strappata via dal vento gelido. Quando alzo di nuovo gli occhi dal marciapiede sporco vedo i vecchi palazzi del mio quartiere e cerco affannosamente casa, la salvezza, il rifugio.
Una volta dentro apro e chiudo le mie dita arrossate per il freddo e per aver stretto l’interno delle tasche con troppa forza.
«Respira», sussurro al silenzio del salotto e lascio scivolare a terra il cappotto. Con un movimento incerto prendo un sorso del whiskey che ho dimenticato sul tavolo due o tre giorni fa. “Uno soltanto, due al massimo. Non cadrò di nuovo nell’abisso”, penso e ripongo la bottiglia al suo posto nell’armadietto dei liquori. Dovrei parlare con qualcuno, sfogarmi, sputare fuori il veleno che le persone mi iniettano dentro, ma sono debole e indifeso e la fredda indifferenza che mi protegge si è sgretolata come una zolla di terra secca.
Sono solo parole, onde che si disperdono nell’aria, sillabe messe in fila, suoni intangibili. Lo dico spesso tra me e me ma sento comunque un dolore fisico, un colpo al cuore quando i commenti arrivano alle mie orecchie e le occhiate mi pungono la pelle. Si chiedono tutti cosa io sia: un maschio? Una ragazza? Un mostro? La risposta è una parola, androgino. Il mio corpo biologicamente è quello di una donna, il mio volto e il mio modo di vestire sono maschili. Il nodo della questione sta tutto in questo bisogno ossessivo che gli umani sentono di catalogare ogni maledetta cosa o forma di vita sotto etichette prefissate. Il problema è che non rientro nelle loro categorie: maschio E femmina, yin e yang convivono pacificamente in me.
L’unica soddisfazione che mi rimane è giocare con il mio abbigliamento aggiungendo elementi tipicamente “da donna” e “da uomo” in un unico look che, grazie al mio volto magro dai lineamenti affilati e la cascata di capelli neri che lo circonda, ha il magnifico effetto di confondere chi mi guarda e mandare in tilt il suo sistema di catalogazione portando l’individuo in una situazione di scomodo imbarazzo.
Riemergo dai miei pensieri e sento gli occhi bruciare a causa delle lacrime. Sono seduto sul divano con una sigaretta e il posacenere sulle ginocchia. Prendo un tiro e appoggio la testa all’indietro, chiudendo i miei occhi diversi.

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Capitolo 4
*** Intermezzo ***


Il nome della città era Salogern ed era composta sostanzialmente da due strati di popolazione: c’erano i ricchi, e poi c’erano quelli senza un soldo, la maggior parte dei quali era sfruttata per il lavoro duro. La famosa borghesia, famiglie non milionarie ma benestanti, viveva fuori dal caos di intricati palazzi, dove si potevano trovare prati verdi e silenzio. In città il quartiere più costoso circondava il centro storico con un’accozzaglia di cupe costruzioni, con almeno un centinaio di anni sulle fondamenta, e moderne ville rivestite di metallo lucido dotate di piscina, tv satellitare e un ragazzo addetto a portare il cane a pisciare. Il rimanente della popolazione aveva a disposizione tutto il resto degli edifici abitabili con cantine allagate e impianto di riscaldamento rotto in omaggio. L’economia si trascinava avanti a forza di industrie siderurgiche e corruzione: sulla carta il numero di incidenti sul lavoro era il più basso del paese, anche se era impossibile non notare il sovraffollamento dei cimiteri. Si mormorava nei bassifondi di un’organizzazione al soldo dei potenti la quale, in nome di una religione non ben definita, “ripuliva” le strade dalla gente che aveva smarrito la retta via.
Ma non tutto faceva schifo: cercando bene si potevano scovare alcune cose positive. Ad esempio, nei luoghi lontani dalle PI (“Persone importanti”, così erano chiamati i ricconi dal popolino) i marciapiedi e i locali brulicavano di vita: artisti di strada, musicisti, botteghe di pittori e scuole di circo. A volte qualcuno riusciva a fare carriera nel mondo dello spettacolo, ma dopo qualche anno ritornava in basso imbottito di droghe e vuoto nello spirito. L’arte era nata tra i poveri per semplice necessità in quanto era l’unica attività rimasta esclusa dal mondo dei grandi magazzini; questi ultimi erano letteralmente enormi capannoni in cui si vendeva di tutto, dal cibo ai vestiti, a prezzi relativamente bassi. Gli articoli di lusso erano un’esclusiva delle boutique nella parte ricca della città.
Tornando all’arte, era appunto l’unica “merce” che richiedeva lavoro e dedizione e fantasia, e i businessmen non avevano certo il tempo di diventare sentimentali per guadagnarsi da vivere.
A Salogern tutto era perfetto e niente funzionava e il malessere ribolliva sotto la superficie pronto a eruttare.


Nota dell'autore: siamo a metà storia, pubblicare dopo aver speso così tanto tempo a scrivere e correggere è emozionante. Nei prossimi capitoli introdurrò nuovi personaggi, buoni e cattivi, guidatemi nel mio percorso e lasciate un commento!
P.S.: ho notato che il primo e l'ultimo capitolo hanno la maggior parte delle visualizzazioni. Per comprendere meglio la storia è necessario leggere tutti i capitoli, ma siete liberi di sceglierne anche solo uno. Buona lettura!

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Capitolo 5
*** Il salvagente ***


Mi ero addormentato sopra le coperte del letto con un sapore amaro sulle labbra e le lacrime salate ormai asciutte sulla faccia. Dopo essermi rintanato in casa avevo mangiato degli avanzi per poi passare la serata suonando il violino, o meglio lamentandomi con il violino: i suoni bruttissimi che riusciva ad emettere quello strumento diabolico mi riempivano la mente senza farmi pensare ad altro. Era un valido sostituto dell’alcol. Sentivo un’ombra nera gravare sulla mia anima che nascondeva ogni spiraglio di luce e di speranza. “Ci risiamo”, pensavo. “Caliamo giù a picco nell’abisso.”
Avevo passato due giorni nella mia tana mangiando pochissimo e parlando con gli oggetti, i miei capelli ridotti a un ammasso nero che mi solleticava le spalle. Questa sorta di depressione mi riduceva a questo; cercavo sempre di lasciar passare tutto, ma alla fine arrivavo al punto di rottura e la situazione precipitava.

Il terzo giorno arrivò il salvagente. Sentii bussare ma feci finta di niente finché la persona sulla soglia prese a tirare calci alla porta.
«Non c’è nessuno!», urlai e una voce tranquilla mi rispose: «Ah si? E quando torni?»
Spalancai la porta e abbracciai goffamente la magra figura nella penombra del pianerottolo.
«Ho bisogno di te», dissi senza rendermene conto.
«Mi ha chiamato Arryah, ha detto che non ti vede da più di due giorni. A giudicare dal tuo stato nessuno ti ha visto per due giorni, a parte il tuo riflesso nello specchio.»
«Lo sai che sono come Cristo, il terzo giorno resuscito». Mi scappò una leggera risata per l’assurdità di cosa avevo appena detto e mi feci da parte per far entrare l’ospite.
«Solito motivo, Silver?», chiese Valesir osservandomi con le mani in tasca.
«Si, tesoro», sospirai facendo finta di riordinare la zona cucina. Valesir si avvicinò fino ad arrivare ad un niente dalle mie spalle e parlò con calma giocherellando con una ciocca dei suoi lunghi capelli neri.
«Lo sai che sono solo persone», abbassò il suo tono di voce.
«Si, persone stronze», strinsi l’impugnatura di un coltello ma lui non si mosse di un soffio.
«Shhh non essere così diretto, non è elegante.»
Il suono di quell’aggettivo coniugato al maschile mi attraversò come una scarica elettrica e subito dopo i miei muscoli si rilassarono permettendo alle mie mani di appoggiarsi al banco allargando le dita.
«Posso Sil? Posso mandare a quel paese quella gente e farti diventare più bello?»
Mi girai e trovai i suoi occhi, così scuri che si distingueva a malapena l’iride dalla pupilla, a distanza di un battito d’ali di farfalla dal mio viso. Lo guardai per un momento: i suoi capelli corvini con dei meravigliosi riflessi blu gli arrivavano a metà schiena e nel suo elegante viso la sottile bocca rosea dava un accenno di calore alla pelle molto chiara. Scivolai via verso il bagno e attraversando la camera lasciai ad uno ad uno i miei indumenti dietro di me. Entrai nella doccia e lasciai scorrere l’acqua caldissima sul mio corpo stanco; sentivo frugare tra le varie boccette colorate sopra il lavandino, un’imprecazione sussurrata e la porta che si chiudeva.
Uscendo dal bagno indossai una veste leggera, probabilmente lino, e vidi Valesir che mi aspettava in piedi dietro ad una sedia.
«Finalmente, pensavo tu fossi affogato.»
Mi fece l’occhiolino e appoggiò le mani sullo schienale. Mi sedetti pesantemente e lo guardai rovesciando la testa all’indietro. «Hai trovato ciò che cercavi o hai soltanto distrutto i miei smalti?», chiesi alzando un sopracciglio. «Perché odi così tanto il bordeaux?»
«Perché odi il fatto che io odi il bordeaux?», rispose a tono e versò qualche goccia di olio profumato sui miei capelli ancora bagnati per poi pettinarli con le sue dita. «Guarda che casino, sembri Bob Dylan, non Loki.»
«Non è possibile», mugugnai. «Acca ha convinto anche te? Questo incubo non finirà mai.»
«Devi ammettere che le sue ipotesi sono soddisfacenti», ridacchiò lui tirando leggermente una ciocca per districare un nodo. Una volta pettinata la chioma ribelle le sue mani scivolarono sulle mie spalle lavorando con le dita per sciogliere i muscoli. Chiusi gli occhi e respirai lentamente ma un grugnito sfuggì dalle mie labbra quando Valesir insistette su un punto particolarmente contratto.
«Tesoro non smontarmi le scapole non- hey!», scattai in avanti per il dolore.
«Silver piantala di lamentarti come un bambino. Ho finito, ok?», disse con la sua infinita pazienza. «Posso intrecciarti i capelli?»
«Impiegherò sette minuti a rovinare l’acconciatura e sette giorni a disfarla del tutto», risposi appoggiandomi allo schienale di nuovo.
«Dai, sai quanto mi diverte. Qualcosa di semplice, solo due trecce che partono dalle tempie per contenere questa cascata nera che ti ricade sulle spalle.»
Sorrisi e alzai le mani in segno di resa: «Va bene, va bene, ma niente nastri oggi.»
In realtà adoravo quando qualcuno curava i miei capelli, era una sensazione calmante. Non poteva farlo chiunque, praticamente nessuno a parte lui: una volta avevo morso Arryah perché voleva farmi una coda di cavallo con un elastico fucsia e si notò il segno rosso dei denti sul suo avambraccio per quasi una settimana.
«Ho finito», constatò Valesir accarezzandomi la nuca e circondandomi con le braccia posò le dita sul mio petto fieramente piatto e con un accenno delle linee dei pettorali. Alcune gocce di sangue spiccavano sulla veste di lino come delle coccinelle.
«Ti fanno male, Sil?», sussurrò gentilmente.
«Non ti preoccupare, stanno migliorando molto. Tra qualche mese avrò solo cicatrici»
Le ferite dell’intervento chirurgico per la rimozione del seno facevano male ogni tanto, ma era sopportabile. Avrei fatto di tutto pur di essere veramente in armonia con il mio corpo e apparire come mi sentivo dentro.
«Devo dire che hanno fatto un lavoro grandioso», disse. «La farfalla finalmente è uscita dal bozzolo. Usciamo dalla tua tana adesso, hai bisogno di stare all’aperto.»
«Beviamo un goccio all’angolo?» lo guardai di nuovo a testa in giù con occhi imploranti, in modo molto più drammatico del necessario.
Valesir grugnì ma non riuscì a nascondere del tutto un sorriso. «Ti aspetto fuori, muoviti.»
Balzai verso l’armadio per prendere una camicia di seta nera e dei jeans scuri e, una volta indossati, afferrai il mio cappotto. Scendendo le scale mi infilai un paio di mezzi guanti di pelle e per poco non volai oltre la soglia a causa di uno stivaletto slacciato: il risultato fu uno spintone alla schiena di Valesir che fortunatamente non cadde in mezzo alla strada.
«Adori le entrate a effetto, vero? O meglio le uscite. Non puoi farne a meno», mi guardò divertito nonostante il rischio appena passato di finire sotto un camion. «Sei una primadonna!»

Così Valesir mi aveva tirato fuori dall’abisso per l’ennesima volta. Prendo un sorso di birra mentre lo osservo flirtare con la cameriera del pub.
«Lo sai che non è una donna, tesoro?», alzo un sopracciglio appoggiando il mento sul mio pugno. «Scusa, mi correggo. Lo sai che prima non era una donna, tesoro?», sogghigno.
«Pensi che mi importi qualcosa dei fatti altrui?», risponde con una nota aspra nella voce prima di accorgersi di essere preso in giro. «Silver, sei resuscitato con tutto il tuo sarcasmo.»
«Niente di più, niente di meno», dico e mi alzo dal tavolo. «Ti accompagno a casa?»
«Ci vuole più di un’ora a piedi, non vorrei lasciarti da solo in piena notte.»
«Ho proprio paura del grande lupo cattivo», scoppio a ridere, ma la faccia seria di Valesir mi spegne il divertimento sulle labbra. Fuori dal pub si accende una sigaretta. «Solo fino a metà strada, ok? Poi te ne torni a raggomitolarti nelle coperte.»
Ci incamminiamo verso il centro della città in silenzio, ognuno immerso nei possibili pensieri dell’altro. Mentre il sole tramonta la luna è già in cielo con un vestito di nubi e qualche stella come dama di compagnia.
«Mi dai un tiro?», gli chiedo con voce roca. Mi offre la sigaretta ma invece di prenderla tra le dita appoggio i miei polpastrelli sotto il suo avambraccio e porto la sua mano alle mie labbra. Dopo aver aspirato una boccata abbasso lo sguardo e cerco di tirare fuori le parole che la paura mi trattiene in gola.
«Valesir, pensi che ci prenderanno prima o poi?»
Mi trema leggermente la voce e sento i palmi delle mani coprirsi di sudore freddo.
«Non lo so. Nessuno lo sa, tesoro», mi imita lui. «Ma analizzando quel poco che sappiamo dell’organizzazione, è più probabile che ci lascino agonizzanti su un marciapiede per poi portare il nostro scalpo al loro padrone, come trofeo.»
Butto fuori il fumo dalle narici strofinandomi la fronte con le dita. Non mi capita spesso di avere paura, non conosco questo sentimento e non so cosa fare quando mi annoda lo stomaco. Giorno dopo giorno semplicemente camminare per le strade diventa sempre più pericoloso e prima o poi saremo costretti a fuggire, non so dove; forse lontano dalle città, nella natura, forse addirittura in un altro pianeta.
Valesir mi fermò con una mano sul petto. «Devi tornare indietro, i lampioni si stanno accendendo», dice cercando i miei occhi con lo sguardo. È sempre così doloroso separasi da lui.
«Torna presto, però», indico le mie trecce. «Devi aiutarmi a disfare l’acconciatura.»
Porto una mano dietro al suo collo, tra i capelli corvini, e poso un leggero bacio sulle sue labbra. Lui mi lancia un ultimo sguardo ed entrambi facciamo dietrofront per tornare a casa.
Ci salutavamo sempre in quel modo, con un bacio. Non c’era mai stato amore tra noi, ma ognuno era necessario all’altro e una immensa amicizia costruita in tanti anni ci teneva insieme con catene di metallo.


Nota dell'autore: un capitolo piuttosto lungo e difficile a causa dei temi trattati. Aspetto con ansia le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate. Buona lettura!

El

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Capitolo 6
*** Il sapore del sangue ***


Avvertimenti: violenza.



Il pugno arriva da dietro repentinamente, come un mattone lanciato dal secondo piano. Il bastardo indossa degli anelli, li ho sentiti sulla pelle. Il colpo mi fa crollare in avanti spremendo tutta l’aria fuori dai polmoni; l’asfalto è umido e freddo sotto la mia guancia mentre il dolore si diffonde velocemente a tutta la cassa toracica.
Mi aveva avvertito, ero consapevole dell’entità del pericolo, ma quando si gioca con la vita non ci si aspetta mai che queste cose succedano davvero.
Gli anelli che mi hanno lasciato un marchio tra le scapole appartengono a un uomo troppo muscoloso, vestito di nero e con due scagnozzi a fianco; ho fatto in tempo a cogliere le loro facce prima di avere un incontro ravvicinato con il suolo. Riesco a girarmi su un fianco ma ricevo subito un calcio sullo stomaco da un mocassino del valore di 10'000 galeoni. “Merda”, tossisco cercando di guadagnare un po’ di ossigeno, “mi massacreranno.”
Il panico si sta formando nella mia mente ma devo tenerlo a bada per sopravvivere.
«Che fortuna, Bay, ci è capitata tra le mani una gran brutta peccatrice», comincia uno dei due idioti al seguito dell’energumeno.
«Alcol, fumo, travestito», l’altro posa un piede sul mio petto immobilizzandomi e gemo dal dolore quando sento le ferite combattere per non riaprirsi. Il più grosso, probabilmente il capo, nota un filo di sangue impregnare la camicia e la apre bruscamente strappando i bottoni di madreperla. Era una delle preferite di Valesir, l’avevo indossata per lui.
«Una trans, addirittura. Era da molto tempo che non picchiavo una sfigurata», dice e un altro pugno mi colpisce in faccia. «È troppo tardi ormai per raddrizzare questa qua, tanto vale abituarla alle torture dell’inferno.
»
Si mettono a ridere e per un attimo si distraggono a guardare due gatti che si azzuffano rumorosamente tra la spazzatura. Nella disperazione ricorro a una magia elementare evocando una farfalla di carta da un fazzoletto buttato a terra. Soffio tra le sue ali concentrando i miei pensieri su di essa: “Trova aiuto, piccola, non so se resisterò.”
Prendo dei respiri profondi mentre le tre ombre tornano a coprire il mio corpo, ora posso vedere le loro facce. «Ti hanno tagliato la lingua?», sibila sogghignando il più basso, ha una croce tatuata su ciascuna guancia. «Non parla! Bay che facciamo? Jod? Ragazzi?»
«Pol, chiudi la bocca stupido!», urla il suo compare rifilandogli uno scappellotto.
«La voglio per me», ringhia il capo che chiamano Bay. «Avete tutta la notte per andare a picchiare checche. Ora dimmi, tu stesa per terra, dov’è la tua banda di finocchi?»
Come risposta mi porto la mano tremante alla bocca, con l’indice e il medio a formare una V, e ci ficco in mezzo la lingua.
Al contrario delle mie aspettative l’uomo-armadio rimane calmo e fa un gesto secco agli altri due che mi sollevano per le braccia e mi inchiodano al muro. Caccio in gola un grugnito di dolore e alzo il mento in segno di sfida con i capelli sporchi di fango appiccicati alla faccia.
«Agisce da dura, capo», ride follemente Pol. «È una pazza punk!»
«Non per molto, presto questa lunga chioma da depravata farà parte della collezione, e NOI riceveremo la NOSTRA ricompensa», dice Jod passandosi fra le dita il rosario che ha al collo.
Mentre i due conversano amabilmente Bay mi colpisce al fianco e sento le costole scricchiolare, forse ne ha rotta una. Afferra i miei capelli e sbatto la nuca contro il muro.
«Magari sei anche sadomasochista, fottuta miserabile», sussurra tenendomi per il mento con l’altra mano. «Ti piace questo?»
E parte un altro destro dritto allo zigomo. Un labbro si è spaccato e sangue misto a saliva gocciola sull’asfalto mentre varie stelline e scintille colorate mi annebbiano la vista.
«Lasciatela», ordina ai suoi scagnozzi e crollo a terra gemendo mentre il dolore conquista il mio corpo e riempie la mia mente, trasformandomi in un pupazzo tra le loro sporche mani.
Sento di stare per svenire, perdo sangue dal petto e i colpi alla testa non hanno aiutato; circondo debolmente il mio corpo in pezzi con le braccia scivolando giù contro il terreno. Lotto per rimanere cosciente e chiudo gli occhi concentrandomi sul respiro. Inspiro. Espiro.
Sento un urlo di rabbia, è familiare ma non riesco a fare un collegamento logico, è come se avessi bevuto quattro rum doppi. Adesso c’è molto rumore intorno a me, due corpi cadono e uno inciampa, qualcuno colpisce in pieno con un calcio, un altro fugge, un’auto parte sgommando, poi il silenzio: un respiro leggermente affannato dal furore, dei passi quasi zoppicanti.
Delle mani gentili scivolano sotto il mio corpo: vorrei ribellarmi, scalciare e mordere e correre a casa ma il dolore è troppo forte. Quando vengo sollevato una fitta acutissima al fianco sinistro mi dà il colpo di grazia e perdo conoscenza con il sapore metallico del sangue sulla lingua.

Nota dell'autore: è duro e crudo, lo so. L'ho scritto apposta. Penso non ci sia niente da aggiungere.

P.S: si, la farfalla è un omaggio al Signore degli Anelli.

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Capitolo 7
*** Avanzi ***


Due voci irrequiete raggiungono la camera attraverso la parete ricoperta da quadri e disegni vari, ognuno racchiuso in una cornice elegantemente rifinita; qualche mobile antico riempie timidamente lo spazio intorno all’ampio letto, mentre pesanti tende di velluto scuro impediscono alla luce di entrare dalla finestra. Una candela profumata brucia sulla cassapanca, saturando l’aria con un aroma fresco e pungente.
I miei polpastrelli accarezzano il copriletto di velluto cercando un appiglio per mettermi seduto, ma il solo spostarmi su un fianco mi provoca dolori pressoché ovunque. Quando ho aperto gli occhi, qualche minuto fa, non avevo idea né del luogo dove mi trovassi né di cosa fosse successo ma dopo un attimo di panico la memoria è tornata come un’onda che si infrange contro uno scoglio e i vari lividi hanno pulsato al ricordo dei pugni e dei calci.
Non conosco la camera in cui mi trovo ma, considerando lo stile decadente con un sottofondo vittoriano, non può essere che la dimora di Valesir; come conferma, vedo la piccola farfalla di carta appoggiata su un tavolino di legno scuro, decorato con delle pietre dure color acquamarina.
Qualcuno nell’altra stanza sta dando di matto raggiungendo dei toni talmente acuti da poter risvegliare i pipistrelli assopiti negli anfratti di questa vecchia casa.
“Tutto questo dramma per qualche livido, non può che essere Arryah la soprano isterica che mi sta facendo aumentare il mal di testa”, penso, e facendo un respiro più profondo degli altri mi ricordo di avere due costole incrinate.
Sento la morbida voce di Valesir velata di preoccupazione mentre cerca di calmare l’altro che probabilmente sta gesticolando come una scimmia a cui hanno rubato il cibo.
Alla fine si decide a spalancare teatralmente la porta mentre Valesir lo trattiene per la manica:
«Fermati, idiota! Deve riposare, non può agitarsi o la situazione potrebbe peggiorare»
«Non osare toccarmi, razza di ibrido! Si caccia sempre nei guai per colpa tua, sai quanto è fragile!», sibila Arryah fulminandolo con uno sguardo.
Valesir fa un passo indietro come se avesse ricevuto un pugno sul naso, volta bruscamente le spalle e si allontana a grandi passi.
«Arryah, sono sveglio», borbotto.
Mi guarda per un attimo con la bocca aperta, un’espressione simile a quella di un pesce che ha appena visto una stella marina ballare il tiptap. Si precipita in ginocchio a fianco del letto afferrandomi la mano mentre sento il suono ovattato degli stivali di Valesir che scendono le scale.
«Oh tesoro, come ti senti? Fa male? Vuoi dell’acqua? Posso cucinarti qualcosa se vuoi. Andrei a comprare delle medicine ma sai quanto quel…»
«Acca, Acca ti prego», lo interrompo, «sta’ zitto e portami un whiskey con ghiaccio.» dico freddamente.
Il ragazzo serra le labbra e si alza con uno sguardo offeso. “Non resterà arrabbiato per più di cinque minuti”, penso chiudendo gli occhi mentre Arryah esce dalla camera.
“Mi chiedo dove sia scappato Valesir, spero solo che non si allontani troppo… Ah, sembro sua madre. Sa difendersi benissimo da solo.”

La sua era una storia complicata, comune e straordinaria allo stesso tempo. Parte della sua famiglia apparteneva a una lunga stirpe di ricchi e nobili vampiri purosangue le cui origini si perdevano nel tempo. Con rami sparsi ovunque nel globo il loro potere era immenso, costruito attraverso l’inganno e la corruzione. Prosciugavano le loro vittime non dal sangue, ma da ogni loro avere fino all’ultimo centesimo. Agli inizi del 1900 cominciarono a perdere prestigio e soldi, cadendo in rovina; fu in quel periodo che nacque Gavin, il padre di Valesir; cresciuto sulla Terra nella follia delle due Guerre Mondiali era appena un adolescente quando la cortina di ferro calò sull’Europa. Sperperò i pochi soldi rimasti alla famiglia per costruire una lussuosa villa piena di velluti e mobili pregiati, che abbandonò dopo pochi anni per inseguire una donna, umana, di cui si era innamorato. I purosangue non si interessarono molto all’accaduto: conoscendo il carattere impetuoso di Gavin, probabilmente si sarebbe bevuto la ragazza dopo essersi ubriacato in un locale. Contro ogni aspettativa la situazione peggiorò ancora: non solo la ragazza, Eva, era ancora in vita, ma stava pure aspettando un bambino.
Dopo questo ulteriore, orrendo affronto Gavin fu cacciato via dai propri genitori e il suo nome cancellato per sempre dagli alberi genealogici. Lasciò la Terra insieme alla ragazza, rifugiandosi in una colonia abbandonata dove nacque Valesir. Per guadagnare soldi i due amanti fuggiaschi si dedicarono al crimine con rapimenti e omicidi su commissione. Solo quando il piccolo superò il suo primo anno di vita si accorsero di cosa avessero generato. Gavin aveva trasformato Eva in una succhiasangue, ma ciò era successo dopo il concepimento. Valesir aveva la carnagione pallida e cadaverica del padre ma non c’era traccia di zanne. Sì, era forte e scattante come un vampiro, ma le sue guance si coloravano di rosa quando rideva. Valesir aveva una scintilla particolare nei suoi occhi scuri, il suo cuore batteva vigorosamente ed era VIVO.
Così fuabbandonato, costretto a vivere per le strade come un gavroche nella Francia rivoluzionaria. Per sua fortuna i suoi antichi parenti avevano perso interesse per la villa del padre così il giovane ibrido tornò sulla Terra e, buttati fuori a calci i drogati dal piano terra, ristrutturò la casa guadagnando i soldi necessari con furti e piccoli lavori onesti.
Ripudiato due volte, la prima quando non era ancora nato, adesso aveva raggiunto un relativo equilibrio anche grazie al mio supporto. Gli scontri con Arryah erano frequenti: lui proveniva da una famiglia agiata della borghesia e fin da piccolo aveva ascoltato le terribili storie di ibridi e mostri raccontate dalla sua balia; non per questo era giustificabile per gli epiteti coloriti che sputava in faccia a Valesir.

Mi sveglio di nuovo non ricordandomi di essere caduto nel sonno. Il mio corpo protesta ma il dolore è quasi sopportabile; mi alzo un po’ tremante e bevo un sorso di liquore che Valesir ha lasciato amorevolmente accanto al letto. Abbassando la bottiglia il mio riflesso mi lancia uno sguardo pungente dallo specchio: ho la guancia destra coperta da un livido violaceo, il labbro spaccato è abbastanza gonfio e sento la camicia appiccicata alle cicatrici sul mio petto ricoperte di sangue coagulato. Per fortuna le costole non sono rotte ma fanno comunque un male infernale.
Pugno tra le scapole.
Calcio sul fianco.
Piede sul petto.
Pugno sul fianco.
Pugno in faccia.
La sequenza si ripete nella mia mente come una cantilena mentre girovago tra le stanze un po’ stordito: sembra non esserci nessuno.
Pugno tra le scapole.
Calcio sul fianco.
Piede sul petto.
Pugno sul fianco.
Pugno in faccia.
Sento che Valesir è vicino, scendo le scale e nell’atrio trovo i due che stanno litigando ferocemente; volano insulti pensanti.
Arryah urla in faccia a Valesir, il quale sembra che stia per tirare fuori il suo coltellino a serramanico; temo che da un momento all’altro si possa giungere allo scontro ma sono ancora troppo debole per dividere due uomini infuriati che si vogliono uccidere. Mi appoggio al corrimano pensando ad una soluzione per evitare altro sangue ma la mia mente è ancora sotto shock, bloccata in un loop di flashback della notte appena passata.
Alla fine succede: Arryah spinge Valesir il quale reagisce violentemente tirandogli un pugno. Il primo riesce a schivarlo abbassandosi ma l’ibrido bastardo, come ama chiamarlo, gli molla una ginocchiata sul naso. Rosso d’ira e di sangue Arryah sferra un calcio dritto sullo stinco del ragazzo e con una spallata lo blocca contro il muro ma la forza superiore di Valesir lo respinge di nuovo in mezzo alla stanza. Non potendo sopportare più questa rissa inutile corro verso di loro mentre si afferrano a vicenda per il bavero della giacca.
«Basta,» urlo, «basta! Cosa cazzo state facendo?!»
Mi impongo tra i due con prepotenza; entrambi sembrano sorpresi, come se non si fossero accorti del mio arrivo. «Siete degli idioti! Mi hanno quasi ammazzato di botte e voi fate a pugni». La mia voce si rompe mentre sento tutto crollare intorno a me. Arryah lancia uno sguardo bruciante a Valesir, poi a me, poi con disprezzo sputa sul pavimento di marmo roseo e dice: «Siete uguali voi due, carne da macello.»
La sua giacca viola che svolazza mentre esce dalla porta è l’ultima immagine che vedrò di lui.
Le lacrime scendono sui miei lividi: tutti i sentimenti negativi, la tensione, la paura e il terrore concentrati in una notte cadono come un macigno sul mio petto e lascio andare tutto cadendo in ginocchio.
“Siamo soli, sono solo, Acca se n’è andato e non tornerà, ha sputato su di me, eravamo amici e mangiavamo insieme, lui mi portava i vestiti di nascosto e io passavo del tempo con lui, ha sputato sul mio piede” penso annegando nella confusione totale. Sento la mente di Valesir cercare la mia: non dice né pensa una singola parola ma è come una specie di calore soffuso che mi circonda.
Piango seduto sul marmo freddo con le braccia di Valesir che lentamente mi avvolgono.
«Mi dispiace.»



Nota dell'autore: un capitolo lungo e complicato, in cui probabilmente sono ancora presenti degli errori che spero mi perdonerete. La storia è quasi giunta al termine, sto lavorando sugli ultimi capitoli. Se volete condividere cosa ne pensate lasciate un piccolo messaggio o recensione, ne sarei molto felice. Grazie per aver seguito questa avventura, buona lettura!

 

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Capitolo 8
*** Novità ***


Ciao, dopo due anni dalla pubblicazione dei capitoli eccomi di nuovo. Ho lasciato la storia nel mezzo dei fatti per dedicarmi alla mia vita reale, ho troppe cose da fare! Se c'è qualcuno che ha letto la storia di recente o aspetta nuovi capitoli, non disperate che prima o poi li pubblico. Potete scrivere nei commenti di questo capitolo tutto ciò che volete, buona lettura!

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