ombrelli sotto la pioggia

di hirondelle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** one ***
Capitolo 2: *** two ***
Capitolo 3: *** three ***
Capitolo 4: *** four ***
Capitolo 5: *** five ***
Capitolo 6: *** six ***
Capitolo 7: *** seven ***
Capitolo 8: *** eight ***
Capitolo 9: *** nine ***
Capitolo 10: *** ten ***
Capitolo 11: *** eleven ***
Capitolo 12: *** twelve ***
Capitolo 13: *** thirteen ***
Capitolo 14: *** fourteen ***
Capitolo 15: *** fifteen ***
Capitolo 16: *** sixteen ***
Capitolo 17: *** seventeen ***
Capitolo 18: *** eighteen ***
Capitolo 19: *** nineteen ***
Capitolo 20: *** twenty ***
Capitolo 21: *** twentyone ***
Capitolo 22: *** special - one ***
Capitolo 23: *** twentytwo ***
Capitolo 24: *** twentythree ***
Capitolo 25: *** twentyfour ***
Capitolo 26: *** twentyfive ***
Capitolo 27: *** twentysix ***
Capitolo 28: *** twentyseven ***
Capitolo 29: *** twentyeight ***
Capitolo 30: *** twentynine ***
Capitolo 31: *** thirty ***
Capitolo 32: *** thirtyone ***
Capitolo 33: *** thirtytwo ***
Capitolo 34: *** thirtythree ***
Capitolo 35: *** thirtyfour ***
Capitolo 36: *** thirtyfive ***
Capitolo 37: *** thirtysix ***
Capitolo 38: *** thirtyseven ***
Capitolo 39: *** thirtyeight ***
Capitolo 40: *** thirtynine - END ***



Capitolo 1
*** one ***


 
ombrelli sotto la pioggia
Poche gocce tamburellavano leggere sul vetro del finestrino, s'infrangevano sulla superficie vitrea e scendevano trasparenti lasciando una scia che Kariya aveva imparato a percorrere con le dita come un rito di passaggio. Alla radio passavano canzoni occidentali delle quali il ragazzo non intendeva comprenderne il significato, e che il suo tutore, seduto al suo fianco con le dita a picchiettare sul volante in attesa che si smuovesse il traffico, teneva a volume bassissimo, soffocato dai rumori della strada.
C'era un silenzio teso che separava il sedile del passeggero da quello dell'autista, quasi come la lama di un tagliacarte atto a separare le vite le une dalle altre. Masaki si era accorto da tempo che il padre cercava invano di scacciare quella tensione con regolari e distratti colpi di tosse, a loro volta coperti dal rumore dei clacson nella Tokyo notturna.
E si osservavano, poi, con la stessa diffidenza data a un estraneo. Quando entrambi sapevano benissimo che non avrebbe dovuto esserci una situazione del genere, e che erano padre e figlio da ancora prima che si imbottigliassero in quel stramaledettissimo traffico perché "Maledizione", aveva sbottato Ryuuji battendo invano i palmi sul volante, "Questi spargisale non servono a niente, guarda che disastro… basta una lastra di ghiaccio e si blocca tutto quanto".
Kariya non aveva replicato, nemmeno quando il tutore gli aveva rivolto quella domanda fatidica che in genere accompagnava quel genere di situazioni, o almeno nei film. "Cosa ti va di mangiare stasera?" Masaki non avrebbe saputo dire se avesse fame o meno, e in verità non gli importava granché. Desiderava, in realtà, coricarsi tra le coperte e aspettare il mattino, silenziosamente e senza pensieri, come risvegliandosi da un brutto sogno. E non bastavano le occhiate e i sorrisi tirati di Ryuuji che volevano essere rassicuranti: non ce la faceva proprio a guardarlo in viso, a pensare a una vita che doveva essere normale dopo che un pirata della strada, lo stesso che poteva essere davanti, dietro, di fianco alla loro auto, gli aveva rubato la realtà precedente.
Chiedere il passato era forse troppo.
Un sospiro di sollievo e Ryuuji riaccese ancora il motore della sua Smart, sorridendo in sua direzione e riprendendo, seppur lentamente, la guida. "Quando è così, credo proprio opterò per una buona minestra!" lo stuzzicò allegramente, non ricevendo chiaramente risposta.
Masaki chiuse gli occhi e sorrise appena, lasciandosi cullare dal rumore insistente della pioggia che, furiosa, aveva iniziato a sciogliere la neve.
 
L'appartamento di Midorikawa era quanto più accogliente si potesse immaginare, e tuttavia provocava uno strano senso di vuoto che lo confuse un poco, lasciandolo sbigottito sulla soglia. "Non hai un compagno?"
Ryuuji gli rivolse un'occhiata interrogativa ma divertita, sfilandosi le scarpe e lasciando la valigia di Masaki accanto alla parete. "No, non ce l'ho. Me ne sono liberato prima che arrivassi tu, contento?"
"Non scherzare…" borbottò il ragazzo guardandosi attorno. Per essere un appartamento vicino al centro era parecchio spazioso, ma forse era dovuto al fatto che Ryuuji avesse fatto le pulizie prima del suo arrivo. La cucina e il salotto formavano un'unica stanza, tre porte segnalavano l'esistenza di un bagno e probabilmente due camere da letto. La cucina dava su un terrazzino minuscolo.
"Pensavo lo avessi e mi avessi adottato per soddisfare il desiderio comune di avere un figlio, cose così" commentò gelidamente Kariya fissandolo. Ancora non si era mosso dalla soglia.
"Uh, beh, non credo sarei stato così egoista da fare qualcosa del genere a tua insaputa" gli sorrise candidamente l'adulto che già si era messo davanti ai fornelli. "Siediti Kariya, mi metti ansia…"
"Non ho molta fame." commentò quindi il più giovane. Forse era stanco, forse semplicemente non aveva voglia di parlare. "Posso sapere qual è la mia stanza?"
Ryuuji si bloccò di colpo, abbandonando per un attimo la pentola sul fuoco e guardandolo con intensità disarmante. Kariya si ritrovò a fissarlo a sua volta, sostenendo il suo sguardo interlocutore per attimi che gli parvero interminabili. Era un uomo indubbiamente bello, con quegli occhi enormi da cerbiatto e i capelli lasciati lunghi a formare una crocchia a dir poco femminile, la pelle color caffellatte in completo contrasto con la camicetta bianca e fin troppo formale. Fisico asciutto e gambe da far invidia, tanto che si chiese come avesse fatto a mantenere un simile aspetto per tutto quel tempo, come la fotocopia di una fotografia nota e sbiadita di dieci anni prima.
Lo odiò.
Quel momento di tensione scemò appena il padre gli sorrise candidamente, avvicinandosi alla terza porta e aprendola con un gesto elegante della mano. Masaki lo seguì trascinando la valigia, fremente.
Si stupì nel trovare la sua camera esattamente come se l'era aspettato. In realtà sembrava del tutto identica a come l'aveva lasciata. Sentì una sensazione del tutto spiacevole all'altezza dello stomaco, un groppo alla gola che proprio non voleva saperne di scendere. Lasciò la valigia all'ingresso senza aprire la luce e mosse pochi passi, incredulo, guardandosi attorno del tutto spaesato e incosciente. Ryuuji lo osservava appoggiato a uno stipite, come se riflettesse. "Quando tu e tua madre ve ne siete andati, ho preferito non toccare nulla. Se guardi in quel baule laggiù ci sono ancora tutti i giocattoli che avevi lasciato qui…"
"Sei stato tu a cacciarci!" esclamò a quel punto rabbrividendo, i pugni chiusi e il respiro rotto.
Midorikawa a quel punto fece un sorrisetto strano, come di accondiscendenza. A Masaki fece quasi paura, quella sua espressione indecifrabile, per il semplice fatto che non gliel'aveva mai vista prima.  "Ah, sì, giusto… vi ho cacciati io. Che distratto." commentò gelido suo padre, con uno strano bagliore negli occhi.
Seguì un silenzio atroce, decisamente diverso da quello che li aveva accompagnati durante il viaggio in macchina. Tetro, forse, e malinconico. Talmente carico di sentimenti e cose non dette che, se fosse stato rotto, sarebbe sfociato nella tempesta.
Tuttavia quando Ryuuji riprese a parlare non successe assolutamente nulla. Il che lo inquietò ancora di più, considerando il sorriso piacevole e dolce che era riaffiorato sulle labbra dell'uomo al posto di quello precedente. "Comunque sia, se muori di fame non fare complimenti e raggiungimi. Vuoi una mano a sistemare la valigia?"
Kariya lo fissò. Sembrava del tutto indifeso lì, al centro della stanza, con quell'uomo che in fondo era suo padre ma che gli era del tutto estraneo. Si rese conto tutt'a un tratto di non volerlo. Di non volere un padre gay, e forse era per quello che un po' si ostinava a restare il più distante possibile da lui.
"Uhm" Quel suono lo riportò letteralmente alla realtà, costringendolo a distogliere lo sguardo. "Lo prendo per un no. Buonanotte!"
Un sorriso, un'occhiata e la porta che si chiudeva. Poi un colpo di tosse. Imbarazzo.
"Bentornato a casa".
 
Buonanotte.
Quel "Buonanotte" gli rimase in testa per ore. Gli ricordava vagamente un qualcosa di indefinito che davvero non riusciva a cogliere. Quand'era stata, precisamente, l'ultima volta che aveva sentito suo padre augurargli la buonanotte? Il ricordo si perdeva, come sempre, negli spazi immensi della sua memoria senza che lui ne riuscisse a recuperarne il senso. Eppure era sicuro di averla già sentita, una voce simile, tanto tempo prima, forse in un altro contesto o in un'altra vita. Non gli procurava nessun senso di nostalgia, a dire la verità, solo un curioso pensiero inaspettato. Era come se la sua intera esistenza avesse aspettato fino a quel momento che Ryuuji Midorikawa -padre biologico, commesso, cameriere, scapolo- gli augurasse semplicemente la buonanotte.
Non sognò nulla, se non la voce di sua madre, che si sovrapponeva rassicurante a quella nuova di una persona che, a ben pensarci, altri non era che un'ombra sbiadita da tempo, ricomparsa alla ricerca di memorie perdute.
 
Angolino di mademoiselle hirondelle
Mi rendo conto che il capitolo è piuttosto corto, ma saranno più o meno tutti di questa lunghezza temo---
Inizio questa mini-long di capitoli indefiniti sperando di distrarmi un po' da questa snervante assenza di autostima :")
Hiroto e Midorikawa non si conoscono, e come avrete capito quest'ultimo e Masaki sono padre e figlio anche se con una brutta cicatrice ancora parzialmente se non del tutto aperta…
Se qualcuno sa meglio di me come funzionano gli ideogrammi giapponesi mi avvisi se ho sbagliato qualcosa nel titolo! Affidarsi a internet può essere pericoloso ^^"
Ringrazio Alicchan per il supporto c: Spero che la fic vi possa piacere!
Un bacio!
 
Fay

modificato: 21/07/20

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Capitolo 2
*** two ***


ombrelli sotto la pioggia
Nella sala insegnanti era calato da tempo un silenzio innaturale, e infatti si era concluso il solito orario lavorativo. Ben pochi si trattenevano fino a quell'ora tarda, in inverno specialmente, quando il sole calava ancora prima di cena.
Tra questi, un giovane insegnante sulla trentina si rimirava scocciato la camicia intrisa di caffè, tentando in tutti i modi di nascondere la macchia sotto l'elegante giacca d'ufficio.
"Ancora quello nuovo?" aveva commentato una collega, ridendo. Il che non lo aveva rassicurato particolarmente. Aveva aspettato che quella se ne andasse prima di nascondersi nel bagno degli insegnanti tentando di ripulirsi alla bell'e meglio: se c'era qualcosa che Hiroto Kira odiava particolarmente, era la consistenza appiccicosa che soleva assumere il caffè sulle sue costose camicie.
Sobbalzò trafelato appena la porta si aprì alle sue spalle, e alzando gli occhi allo specchio poté vedere, dietro di sé, l'espressione accigliata e cinica del fratello adottivo. "È stato quel ragazzo vero?"
Kira sbuffò contrariato, passando il sapone sulla stoffa un tempo immacolata. Meglio bagnati che appiccicaticci, sebbene la stagione non fosse delle più adatte. Quasi non sentì Fuusuke che gli si affiancava e si dava appena uno sguardo allo specchio, rimirando con vanità celata i capelli lasciati ora lunghi sulle spalle. "Dovresti importi con quei mocciosi, è inammissibile che ti ritrovi ogni sera in questo stato."
Hiroto sospirò tristemente, pensando a quali soluzioni poteva prendere. Forse avrebbe dovuto portare al lavoro qualche camicia di ricambio, anche se poteva suonare decisamente ridicolo. "Non intendo usare il tuo metodo, Suzuno. Ho chiesto un macchiato e me l'ha portato, nulla di più-"
"Stando al gioco finirai solo per essere preso in giro. Altri studenti potrebbero seguire il suo esempio" fece notare il fratellastro, guardandolo bieco. "Dura disciplina, questo devi fargli intendere. In ogni caso ti consiglierei di parlare coi suoi genitori, questa situazione potrebbe portarlo all'espulsione. Anche se dubito che gli farebbe male"
"Credo sia ironico abbia una media così alta" commentò tristemente l'uomo, rinunciando e abbandonando il bagno per prendere la sua cartella. "Dovrò fare un salto a casa, arriverò un po' tardi"
"Non preoccuparti. Ti consiglierei di inviare una mail al padre, l'indirizzo dovrebbe essere nel registro."
Hiroto fece un gesto equivoco con la mano e accennò a un sorriso, prima di sparire da dietro la porta. Non adocchiò nemmeno di striscio il registro degli studenti: non intendeva affatto risolvere la questione in un simile modo. Ma Fuusuke odiava essere contraddetto: infatti, la maggior parte delle volte, aveva ragione.
 
Quarantacinque minuti di traffico dopo Hiroto Kira era già nel suo appartamento a godersi una sola quanto sconsolata cena, rinunciando per l'ennesima volta a un buon aperitivo con i colleghi più stretti. Uno degli svantaggi di abitare al di fuori di Inazuma-chō consisteva proprio in quel tipo di evenienze, le quali in un certo senso non avrebbero dovuto esistere.
Sospirando, trasse dalla cartella gli ultimi compiti da correggere: l'indomani, se i kami avessero voluto, li avrebbe consegnati alla classe indicata in alto a sinistra. Classe nella quale si trovava anche l'assassino di molte camicie.
Aveva lasciato il suo test per ultimo, forse nella speranza di trovare del buono anche in quel maledetto teppista. E infatti si ritrovò come al solito a scrivere con la penna rossa il risultato più alto di tutti: 84. Fissò quel numero con tanta insistenza che pensò fosse crudelmente ironico  avere un simile alunno nel suo corso di scienze.
Finì di appuntare le ultime correzioni e, sbattendo la pila di fogli sul banco per allinearle, si sorprese nel veder scivolare fuori un pezzo di carta, stropicciato e macchiato inevitabilmente di caffè… e conosceva solo una donna talmente dipendente da quella bevanda da macchiare interi registri.
Sul bigliettino erano segnati un numero di telefono e un nome scritto nella sua calligrafia inconfondibile. Una raccomandazione che somigliava a una minaccia, come se l'avesse seguito in ogni suo movimento. Tipico di Hitomiko.
 
Midorikawa Ryuuji.
È il padre di Masaki Kariya.
08567778465
 
Chiamalo tu o lo farò io per te.
 
 
Hiroto sospirò, si abbandonò per qualche secondo sulla poltrona e chiuse un attimo gli occhi, sfilandosi gli occhiali. Non si sentiva del tutto a suo agio nell'essere il rappresentante del corpo docenti, carica che all'inizio gli era stata molto gradita ma che con il tempo e l'esperienza aveva imparato a odiare.
Il telefono iniziò a squillare come un avviso premonitore. L'insegnante lo guardò per qualche attimo sconsolato: tutto ciò che voleva, e la sua pigrizia abituale di certo non aiutava, era un buon bagno rilassante e infine una bella dormita. Era tardi per i suoi standard, sebbene il giorno seguente non ci sarebbero state lezioni. Rispose solo per galanteria…
Dall'altra parte udì parole strascicate e un vociare diffuso, coperti dalla tipica musica a discoteca. Hiroto riconobbe la voce di Nagumo ed iniziò leggermente a preoccuparsi quando lo sentì piangere a dirotto contro il suo orecchio.
"Haruya, non dirmi…"
"Voglio sposarmi! Scusa cara per non avertelo detto prima! Ero solo..."
Kira sospirò nell'udire quel discorso insensato che gli veniva rivolto dal fratellastro ogni volta che si ritrovava in quel genere di situazioni. "Eri solo un po' ubriaco?"
"Esatto sì… aspetta, no!"
"Vengo a prenderti tra cinque minuti… cerca di non battere la testa come l'altra volta".
Con un profondo respiro esasperato l'uomo chiuse la chiamata e fece in tempo a indossare il cappotto che era già fuori dall'appartamento, il biglietto di Hitomiko stretto casualmente nel pugno.
 
Entrò nel locale che Haruya era già svenuto, soccorso da una piccola folla di ragazzi e qualche spogliarellista. Rassegnato, si diresse verso il gruppo e scostò delicatamente un paio di giovani ubriachi chiedendo di spostarsi. Mezzo intontito, il fratellastro lo guardò con stupore, evidentemente non aspettandosi di vederlo lì. Uno dei camerieri gli sorreggeva la testa nella mano scura e poche ciocche di capelli verdognoli sfioravano il viso paonazzo di Nagumo.
"Di nuovo eh?" commentò acido ma sollevato Kira prima di metterlo seduto. Non rivolse lo sguardo a nessuno dei presenti, troppo occupato a formulare una ramanzina da bravo fratello maggiore. Se lo caricò sulle spalle senza che lui opponesse resistenza e in un attimo fu già fuori dal locale, borbottando qualcosa sulla stupidità del più piccolo.
Una volta in macchina accese il motore e gli rivolse un'occhiata di rimprovero. "Tu in quel locale non ci devi andare…"
"Che noioso che sei…" mormorò Haruya cercando di tenere gli occhi aperti e scivolando goffamente sul sedile del passeggero.  "Avrò pure il diritto di divertirmi come voglio"
"Non in un locale gay, e possibilmente senza uscirne pieno come una botte!"
Nagumo stette in silenzio. Si passò una mano sul ciuffo a forma di fiamma che aveva mantenuto orgogliosamente per tutti quegli anni, e Kira quasi si aspettò che la sua mano scivolasse sulle altre fiammelle che spuntavano come tulipani su tutta la lunghezza di quei capelli scarlatti. Forse i capelli lunghi erano una debolezza presa da Suzuno… non lo avrebbe scoperto mai.
"Prega che non cambi idea e non lo dica a Maki…" concluse parcheggiando l'auto davanti alla casa del minore. Si chiese se fosse il caso di aiutarlo a prendere l'ascensore ed evitare di andarlo a recuperare nei sotterranei della città, ma Haruya sembrava già piuttosto stabile sulle gambe.
Il fratello si volse verso di lui e fece una smorfia buffa, poi girò su se stesso. "Anche tu dovresti divertirti, ogni tanto".
Hiroto lo guardò con disapprovazione, ma arrossendo vistosamente. Abbassò lo sguardo, non osando scontrarsi con quello di Haruya.
Perdeva tempo… e lo sapeva.
Strinse il nome di Midorikawa Ryuuji nel pugno e poi ripartì, non prima di aver sentito la porta del condominio di Nagumo chiudersi poco distante.
 Angolino di mademoiselle hirondelle
Salve c:
Grazie per essere arrivati fino a qui! Ringrazio chi mi ha recensita e chi ha inserito questa storia nelle preferite e nelle ricordate, e ovviamente a chi la segue. Spero di non deludervi e di scrivere qualcosa di rispettabile!
Ringrazio anche chi ha lasciato una critica costruttiva. Non ti conosco ma... grazie. Graziegraziegrazie di tutto cvc
Spero di migliorare sempre di più nei prossimi capitoli!

Fay
 
modificato: 21/07/20

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Capitolo 3
*** three ***


ombrelli sotto la pioggia
Quel giorno non pioveva, ma le nuvole già iniziavano ad accumularsi sopra le loro teste. Kariya rivolse lo sguardo verso il cielo di piombo e sospirò affranto, mormorando appena un'imprecazione tra sé e sé e ignorando che nel rumore assordante di studenti che procedevano incuranti verso l'edificio lui era semplicemente solo.
Aveva dimenticato la sensazione piacevole di braccia amiche che si stringevano attorno alle spalle pronte a travolgerlo, risa sguaiate di vecchi amici d'infanzia e il vociare chiassoso di battute improponibili.
Era passato solo un mese da quando aveva varcato quei cancelli, e già Masaki si era rassegnato a tre lunghi anni nella completa e amorfa solitudine. Non che gli dispiacesse, semplicemente aveva sperato di trovare qualche amico in più. Certo, Kyosuke era un tipo a posto, nulla da dire. Però qualche tipo strano nella sua classe poteva fargli ben comodo.
Perso nelle sue farneticazioni, quasi inciampò sui suoi stessi piedi quando si sentì spingere da dietro. In realtà fu un colpetto da niente, ma di certo inaspettato, e del resto anche irragionevole. Quindi Kariya si voltò maldestramente, il volto in fiamme, pronto a sfoderare la sua perenne e immatura stronzaggine sul malcapitato, ma si fermò con la bocca semi-aperta e il pugno a mezz'aria.
Un ragazzino. Un ragazzino minuscolo e mortificato lo guardava dal basso dei suoi centocinquantacinque centimetri, con lo sguardo più dolce e smarrito che Madre Natura avesse avuto il piacere di creare. Una zazzera di capelli bluetti incorniciava quello che gli sembrava in tutto e per tutto un viso da bambola, che stonava con il suo andare un po' goffo e le spalle curve e miti.
Il piccolo si dondolò sulle punte in modo fastidioso e petulante, ma senza cattiveria. Evidentemente, era anche un tipo molto nervoso. "Scusami, senpai!" balbettò arricciando il labbro superiore e stringendosi al petto pochi libri consumati, probabilmente di seconda mano. "Sono nuovo e non so muovermi bene qui", lo disse come un pulcino uscito da poco dall'uovo. "Sapresti indicarmi dove si trova la 1^D?"
Kariya lo fissò con finto disinteresse. In realtà quel buffo bambinetto aveva un che di curiosamente comico e di certo attirava la sua attenzione. Gli avrebbe volentieri replicato che avrebbe potuto benissimo arrangiarsi come aveva fatto lui -il fatto che Tsurugi lo avesse ripescato nello sgabuzzino delle scope dove si era chiuso di certo non contava-, ma di certo non sarebbe stato carino e un po' gli faceva pena.
"Se proprio ci tieni" sbuffò fintamente contrariato, e gli diede le spalle per poi farsi largo tra la folla. Il ragazzetto lo seguì senza una parola, ma appena riuscirono a seminare gran parte degli studenti ammassati all'entrata il piccolo si presentò e affrettò il passo per trotterellargli allegramente affianco. "Io sono Hikaru Kageyama!"
"Non mi interessa"
"Tu come ti chiami?"
"Non ti interessa"
"Sei del primo anno come me?"
"Non deve interessarti"
Kageyama arricciò un po' il naso, ma gli sorrise candidamente come se non gli importasse. "In realtà ti trovo molto interessante, senpai"
Kariya sospirò affranto rivolgendogli un'occhiata bieca. "Buon per te…" bofonchiò passandosi una mano tra i capelli turchesi, che come ogni mattina si era dimenticato di pettinare. Davvero non capiva cosa avrebbe dovuto fare con quel buffo ragazzetto, e sperava che non sarebbero finiti nella stessa classe, per quanto potesse essere un tipo insolito.
"Ohi, Kariya…"
Masaki alzò gli occhi sul ragazzo appollaiato sulle scale di emergenza. Un pungente odore di sigaretta gli impregnò le narici, facendolo starnutire. "Ohi"
"Cos'hai lì?"
Sotto quei penetranti occhi da gatto il piccolo Kageyama si nascose dietro le spalle del nuovo senpai, guardandolo di sottecchi con espressione indecifrabile. La sua presenza lo intimoriva, era lampante, ma per il momento Kariya non vi diede peso. "È uno nuovo. L'entrata è aperta?"
"Come ogni mattina." gli sorrise l'altro accarezzandosi i capelli bluastri. "Mi devi un favore"
"Solo perché conosci il tipo giusto, Tsurugi" borbottò leggermente irritato, proseguendo verso l'uscita d'emergenza appena socchiusa. Sentì appena la risata di Kyosuke dietro di sé, e il peso morto di un certo ragazzetto appeso al suo braccio.
Sarebbe stata una lunga giornata.
 
"Che fortuna essere capitati vicini di banco, neh senpai?" commentava allegramente Hikaru al suo fianco, facendo dondolare la cartella tra le mani goffe.
"Una vera fortuna" grugnì l'altro cercando di seminarlo con il suo passo spedito. Era snervante: neanche una mattinata e stava già per avere una crisi isterica. Impossibile.
Il cielo era terso. Era una giornata limpida, ed erano diversi i club che praticavano le loro attività all'aperto: dalla scherma al tennis, solo il club di nuoto aveva deciso di restare al coperto. Il freddo era pungente, ma del tutto normale in una giornata invernale come quella: il sentore della primavera sembrava ancora del tutto lontano, tra quegli alberi spogli e raggrinziti. Tuttavia, il sole seppur lontano splendeva placido e indifferente, una promessa dopo tanti giorni di maltempo.
"Sai, vorrei tanto entrare a far parte del club di calcio! Alle medie mi piaceva molto!" cinguettò il bluetto facendo dondolare la cartellina e rischiando di rovesciarne il contenuto sull'acciottolato. "Magari potremmo passare di lì, ti va?"
"Non posso" replicò Masaki, guardando l'oggetto tra le mani di Hikaru volteggiare pericolosamente sferzando l'aria gelida. "Devo andare a casa presto, mio papà mi starà aspettando" mentì.
"Ah, quindi hai il papà? Io ho solo la nonna"
Kariya lo guardò di sottecchi, borbottando che alcune volte era meglio non desiderare certe fortune, ma Kageyama sembrò non aver sentito. "Accompagnami almeno fino al campo, in fondo è vicino all'entrata! La squadra si starà sicuramente allenando lì!"
Masaki si chiese come facesse il suo nuovo kohai a rimanere sempre così tranquillo e sereno. Sembrava che le cose non avessero motivo di andare storte… in qualche modo, era un atteggiamento che un po' gli mancava. "Va bene, va bene… ti mollo lì e me ne vado" Si finse scocciato, ma non riuscì a trattenere il sorriso.
Chiacchierando del più e del meno arrivarono nei pressi del campo in men che non si dica. Hikaru si fermò a fissare meravigliato i giocatori della prima squadra passarsi il pallone a un ritmo incalzante. "È come li ho sempre immaginati! Non ci credo!"
Masaki si limitò a portarsi le mani dietro la nuca e sbuffare, annoiato. "Uh, sì, molto interessante. Ci vediamo domani!"
Si lasciò il saluto di Hikaru alle proprie spalle, tuttavia non poté evitare che il suo sguardo cadesse sul pallone: calciato da quello che doveva essere il capitano, proseguì il suo corso verso la porta… e prese la traversa.
In una situazione normale si sarebbe messo a ridere, se non fosse stato per il fatto che la traiettoria del tiro avesse cambiato del tutto obiettivo…  per la precisione il pallone stava per andare a frantumare la povera e fragile testa del Kageyama.
 
Risvegliarsi nell'infermeria scolastica non era decisamente uno degli impegni che aveva preso per il pomeriggio. Imprecando, si mise seduto nello scomodo lettino massaggiandosi la testa dolorante.
"Masaki senpai! Masaki senpai?"
Ebbe la sensazione di essersi appena catapultato in un incubo. "Oh, buongiorno cara. Che ore sono? Mi prepareresti un caffè?" ironizzò, massaggiandosi le tempie, ma aprendo piano gli occhi e vedendo la sua espressione preoccupata se ne pentì. Si guardò attorno, come accertandosi che fosse davvero l'infermeria scolastica: "Come ho fatto a finire qui?"
"Mi hai salvato da quella pallonata, mi hai protetto con il tuo corpo!" replicò prontamente il ragazzino, trafelato. Nonostante fosse seduto sulla sedia, accennò un piccolo inchino. "Ti sono infinitamente riconoscente senpai!"
Masaki sospirò, amareggiato. Era stato un imbecille.
"Per fortuna il professor Kira si trovava nei paraggi! Anche l'allenatore Endou si è preoccupato tantissimo!"
Una frase del genere non preannunciava nulla di buono.
"Ha detto che saresti un ottimo difensore con quella rete rosa come tecnica!"
 
Era. Fottuto.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 4
*** four ***


ombrelli sotto la pioggia
Aveva iniziato ad osservarlo quasi con insistenza, al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo da lui.
Era stata fin da subito un'azione automatica e involontaria, ma frustrante. Perché per quanto lo continuasse a fissare come se dovesse corroderlo con l'acido del suo sguardo, quei capelli rosa lo tormentavano e lo turbavano profondamente. Tutto ciò che Kirino Ranmaru faceva, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni contatto troppo ravvicinato con il capitano, lo mandava fuori di sé.
Pure i baci innocenti sulla guancia, quelli che scambiava con Shindou di tanto in tanto, gli facevano provare un lontano senso di disgusto. Amici di infanzia, li chiamavano. Kariya non riusciva a crederci.
Per questo, quello sgambetto che era stato in realtà un incidente si era rivelato per lui estremamente gratificante. Vedere quei lividi all'altezza del mento del proprio senpai non avrebbe potuto renderlo più felice. Se ne rese conto, però, solo dopo averlo aiutato ad alzarsi. Un sorriso finto all'angolo della bocca e l'espressione subdolamente gioviale, innocente. Masaki in quel momento ricordò bene la risata di sua madre, così amabile, mentre gli spiegava uno dei concetti più semplici che avesse potuto insegnargli: "Sii felice."
Perciò gli incidenti capitarono sempre più di frequente. Perché semplicemente intuì che il solo umiliare o ferire Kirino Ranmaru lo rendeva più sereno: dai piccoli ai grandi dispetti.
"Scusami, sono sempre così goffo!" gli sorrise per l'ennesima volta anche quel giorno, porgendogli la mano. Kirino era caduto, stavolta, in una pozzanghera: bagnato dalla testa ai piedi, la divisa sporca di fango, lo fissò truce per qualche secondo. Poi digrignò i denti e disse, semplicemente: "Vaffanculo. Lo fai apposta."
Era stata la prima reazione di quel tipo da parte del ragazzo dai capelli rosa. Masaki lo fissò fintamente sconcertato, in realtà consapevole che d'ora in poi le cose non sarebbero filate così lisce.
E infatti, subito dopo che lo zaino di Kirino Ranmaru venne misteriosamente riempito di appiccicosa marmellata, il ragazzino venne richiamato dal vicepreside.
 
Era uno studio non molto ampio e, per la verità, molto semplice. La scrivania, al centro della stanza, era ricoperta per lo più di carte scritte fittamente: dietro il computer stava, invece, quello che avrebbe dovuto essere il vicepreside. Che, nonostante la capigliatura rossa, Kariya non riconobbe subito.
"Kira sensei!" esclamò allucinato a un certo punto, imporporandosi. L'insegnante alzò gli occhi dallo schermo e si sistemò gli occhiali sul naso, sorridendo in sua direzione.
Kariya fino a quel momento si era aspettato un'atmosfera del tutto formale, lui in piedi vicino alla porta e uno sconosciuto a guardarlo con occhi serissimi e quasi accusatori. Qualche ramanzina, una lettera ai genitori, e la questione che mano a mano andava dissolvendosi in una nuvola di fumo.
Non aveva calcolato, però, che il vicepreside sarebbe stato proprio Kira Hiroto. Ecco, a ben pensarci, le cose sembrava sarebbero andate diversamente.
"Siediti pure, Kariya-kun!"
Sì, sarebbe andato tutto diversamente. Con un brivido Masaki fece quanto richiesto, irrigidendosi poi quando l'insegnante chiuse il portatile e si sistemò meglio sulla sedia. "Un caffè? Ho la macchinetta proprio laggiù."
"Non si preoccupi" sussurrò a denti stretti facendo vagare nervosamente lo sguardo da un capo all'altro della stanza. I muri biancastri erano a malapena illuminati dalla luce mattutina che entrava dalle enormi finestre. Erano al terzo piano, e si aveva una visuale abbastanza accettabile dell'orizzonte: case modeste di periferia non lasciavano intendere che, al di là di modeste colline, ci fosse un'intera città brulicante di esseri indaffarati e incoscienti.
"Non preoccuparti, Masaki-kun: vedi, in questo ufficio non valgo proprio nulla. Al momento sia il preside che il vicepreside sono impegnati, capisci? Tuttavia intendevo parlarti seriamente. Immagino tu sappia il motivo per il quale sei qui"
Masaki ripensò automaticamente a quegli sguardi involontari che ogni tanto si erano scambiati nelle prime settimane dal suo trasferimento. Era stato strano, incredibilmente tra loro si era creata una sorta di complicità che aveva ben poco di normale. Durante le lezioni di scienze non solo era diventato incredibilmente bravo, ma addirittura si perdeva ad ascoltarlo, bramando solo di prendere appunti e di seguire i movimenti di quel professore che aveva catturato la sua attenzione fin dall'inizio.
Era stato il professor Kira a spronarlo a entrare nel club di calcio. Lui gli offriva sempre qualche caffè sporadico dopo le lezioni. E anche se la maggior parte delle volte aveva rovesciato il suo bicchiere sulle sue camicie immacolate non poteva dire con certezza di averlo fatto apposta, all'inizio in realtà si era trattata di casualità…
In qualche modo, per farla breve, in quell'ufficio sentì di averlo profondamente deluso. Era probabile che quel qualcosa che avevano costruito, quel rapporto di fiducia che avevano inconsapevolmente creato fra di loro, si sarebbe sgretolato davanti ai suoi occhi nei seguenti cinque minuti.
Hiroto sembrava estremamente calmo. Non vi era una ruga a tradire la sua espressione apparentemente pacifica, il che gli fece pensare che ci fosse qualcosa sotto. "Credo tu sappia perché sei qui!" esordì a un certo punto, infatti, pacatamente. "Mi sono stati confermati diversi comportamenti scorretti da parte tua negli ultimi giorni. So che per te non è stato facile ambientarti in questa scuola, fin dall'inizio."
Kariya rimase in silenzio, osservando i suoi occhi cerulei dietro le lenti.
"Sono sicuro che non avessi cattive intenzioni. Gli incidenti accaduti non sono gravi, tuttavia intendo invitarti a seguire il regolamento scolastico" proseguì l'uomo, allungandogli tre fogli uniti da una graffetta, scritti fittamente. "Ovviamente non parlo solo degli ultimi avvenimenti, in generale ritengo che il tuo comportamento sia scorretto nei confronti di molti insegnanti. La prossima volta sarò molto più intrasigente."
Aveva perso il sorriso. Ora sembrava studiarlo, profondamente assorto nei suoi pensieri. "Non serve solo la media, Kariya." concluse atono, abbandonandosi sulla sedia.
Masaki sentì il suo volto diventare paonazzo per la vergogna e l'orgoglio ferito. Perché il mondo doveva essere così dannatamente cieco?
"Hai qualche dichiarazione da fare, in merito? "
Si sentì ribollire il sangue nelle vene. Strinse i pugni, alzando il mento in un moto di profonda e infantile testardaggine. "È frocio." replicò solo. Con tanta rabbia e tanto disprezzo da far rabbrividire l'insegnante, il quale si alzò dalla sedia di scatto ancora prima che lo facesse il ragazzino.
Non una parola. Non ce ne fu affatto bisogno.
Kariya si alzò e lentamente dalla sedia. Percorse con passi misurati la stanza fino alla porta, che si richiuse alle proprie spalle con un tonfo sordo.
Kira rabbrividì, con addosso ancora il suo sguardo glaciale.
Non poteva togliersi dalla testa quelle iridi cerulee.
 
Ryuuji sentì lo sbattere violento della porta fin dalla cucina.
Si sporse appena in tempo per seguirlo con lo sguardo e vederlo sparire in camera sua, l'espressione contrita e i passi pesanti. Un giro di chiave, e già il ragazzo si era chiuso nella sua bolla di incomprensioni: poca la speranza di vederlo uscire da quella stanza prima dell'alba.
Midorikawa sentì comunque qualcosa di strano nell'aria. Era sicuro che ci fosse qualcosa di diverso nel suo atteggiamento, un fruscio scontroso di vestiti e, forse, qualche oggetto scaraventato a terra nella furia.
Si avvicinò alla porta, mordendosi il labbro. Allungò quindi la mano, le nocche rivolte verso la superficie di legno, incerto. Piccoli colpi, forse troppo affrettati.
"Tutto bene?" regolò il tono di voce, armonizzò il respiro. "È successo qualcosa?"
Nessuna risposta da parte di Kariya, nessun commento. Il silenzio piombò nell'appartamento, come sempre da settimane. Ryuuji era abituato, ma ne soffriva.
"Ti lascio la cena davanti alla porta. Per favore, mangia tutto…" mormorò appena, sperando invano in una sua replica.
Fu allora, in quell'esatto momento di quiete in tempesta, che il cellulare di Ryuuji squillò

modificato: 21/07/20

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Capitolo 5
*** five ***


ombrelli sotto la pioggia
Nevicava, di nuovo.
Annoiato, lo sconsolato insegnate guardava al di fuori delle vetrate appannate picchiettando la penna sul ripiano della scrivania. Un bicchiere di disgustoso caffè stemperava pigramente davanti ai suoi occhi stanchi, offuscandogli in parte la vista già impedita dagli occhiali inservibili.
La sera calava su quella parte della capitale, e un cielo di piombo ormai sostava da diversigiorni sul quartiere di Inazuma-Cho.
Era in quell'ufficio da almeno mezz'ora e, per quanto fosse stato informato sul possibile ritardo dalla voce calma e vellutata dall'altra parte del cellulare, iniziava leggermente a spazientirsi.
In realtà dalla voce non gli era sembrata una cattiva persona. Addirittura, l'aveva trovata estremamente gentile. Ancora non aveva ben capito con chi aveva a che fare, per la verità non era nemmeno sicuro che a rispondere alla chiamata fosse stato proprio Midorikawa Ryuuji o magari la consorte... Certo, le chiamate alteravano sempre i suoni delle voci. Era risaputo. Di certo non gli era parsa una voce femminile, eppure estremamente delicata... Insomma, non sapeva bene cosa aspettarsi. Ed era pure piuttosto curioso.
Ma la scuola iniziava a farsi spaventosamente deserta, e gli ultimi rumori di passi si affrettavano verso gli uffici. La chioma blu di Reina fece capolino dalla porta scorrevole. "Hiroto! Sei ancora qui? Posso lasciarti le chiavi della scuola?"
Gli sorrise di rimando, annuendo gentilmente. "Certo! Aspetto ancora un po'. Poi vado a casa."
Si salutarono distrattamente, prima di riprendere entrambi la propria strada: lei verso casa, lui nei suoi pensieri. Come sempre, come ogni volta. Da quando avevano interrotto la loro relazione, a Hiroto sembrava sempre più distante e meno concreta.
Perduta.
Scosse la testa quasi automaticamente: non doveva pensare a simili cose. Erano colleghi e avevano un rapporto formale, ma pur sempre amichevole. La sua solitudine non doveva influire su simili pensieri, o non sarebbe più stato in grado di controllare i suoi sentimenti...
Fissò ancora i fiocchi di neve che scendevano in massa davanti ai suoi occhi cerulei. Si tolse gli occhiali massaggiandosi la fronte, colta da una leggera emicrania. A ben pensarci, non era sicuro che la caffeina gli facesse bene in quella situazione.
Non si accorse subito del rumore della porta che sia apriva nuovamente, nemmeno della voce candida e interrogativa che voleva essere solo gentile. Hiroto si accorse di Midorikawa Ryuuji solo alzando gli occhi: e ne rimase totalmente folgorato.
Aveva un aspetto ambiguo, ma non androgino. Portava i capelli lunghi, raccolti un po' frettolosamente sulla nuca da un considerevole spillone dai colori sgargianti; la pelle bruna e abbronzata sembrava naturalmente giovane, tanto da fargli dubitare che avesse effettivamente l'età che poteva avere... Quanti? Kariya non aveva più di quindici anni... Quarant'anni, almeno! Non era possibile. Non era assolutamente possibile.
Si presentò subito, imbarazzato forse dal ritardo e dalle sue condizioni: era ovvio che fosse appena tornato dal lavoro, probabilmente ancora in divisa, a giudicare dalla formale giacca candida in completo contrasto con la sua pelle. Sotto, un maglioncino lilla a collo alto pulito. Kira non poteva assolutamente crederci. Mai individuo gli era parso più enigmatico.
"Tutto bene?" tossicchiò imbarazzato, la tensione palpabile. La sua voce era appena roca, non acuta e quasi melodiosa... E... E lui era rimasto a fissarlo per cinque minuti buoni senza dire niente! Si diede mentalmente dell'idiota.
"Certo, certo, mi scusi!" balbettò come un ragazzino. Si alzò in piedi in modo inconcepibilmente impacciato. "Lei deve essere il... Padre di Kariya!"
"È quello che ho detto, sì" gli sorrise dolcemente, quasi comprensivo. "Deve essere stata una giornata dura! Sembra stravolto, signor Kira!"
Hiroto sentì uno strano calore rassicurante all'altezza del petto. Era infatuato. "Non si preoccupi!" gli sorrise inchinandosi leggermente. "Mi scusi se le sono sembrato scortese!"
"Spero sarà lei, semmai, a perdonarmi!" Continuò a sorridere. Si sedette sulla sedia davanti a lui, accavallando le gambe lunghe e fasciate dai jeans. "Purtroppo lavoro piuttosto lontano da qui!"
Non c'era ombra di dubbio, quell'uomo gli ispirava fiducia e comprensione. Una cosa che in genere soprattutto per quanto riguardava i genitori era più unica che rara: non si riusciva mai a comunicare, specialmente se le idee di educazione cozzavano irrimediabilmente tra di loro. In pochi anni di esperienza, aveva capito che un genitore non andava contraddetto, ma deviato.
Con Midorikawa Ryuuji questo non sarebbe stato necessario. Era un vero sollievo. Addirittura era stupito che un tale angelo avesse potuto crescere un figlio così problematico.
Quando infatti accennò alla cosa -"Non si preoccupi, signor Midorikawa, suo figlio ha davvero ottimi voti, un vero genio, ma..."- scorse sulla fronte dell'uomo una ruga di preoccupazione. Quando poi gli raccontò l'incontro avuto nella presidenza, un sospiro (forse di rassegnazione?) uscì dalle sue morbide labbra e scosse appena la testa. "Speravo che questo problema riguardasse soltanto me. Ma è vero, quindi. Mio figlio è omofobo."
Kira rimase in silenzio, scrutando attentamente la sua espressione turbata. Non gli era mai capitato di avere a che fare con una situazione simile: era abituato a genitori prepotenti pronti a difendere a spada tratta i figli viziati. Guardandolo negli occhi, tuttavia, capì che la questione era decisamente più complicata.
"La prego di comunicarmi tutto ciò che possa aiutarci a risolvere questa situazione" disse austero, ammorbidendo il tono subito dopo. "Certo, se non le dispiace troppo".
Un sorriso tirato, meno dolce e sereno di quello che era stato in precedenza. "Sarà una storia piuttosto lunga, mi 'spiace."
Hiroto guardò fuori dalla finestra, fissando attentamente la neve che continuava a scendere impressionante. Non aveva mai visto tanta neve in vita sua: era come se l'inverno avesse voluto sfogarsi.
Pensò, nonostante l'orario, che stare in un ufficio polveroso sorseggiando un bicchiere di scadente caffè con la compagnia di un totale sconosciuto non fosse poi così male. "Mi racconti di lui".

modificato: 21/07/20

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Capitolo 6
*** six ***


ombrelli sotto la pioggia
I ricordi di Kariya si perdevano sempre in un punto preciso: una sorta di vuoto, di spazio incompleto, là dove avrebbe dovuto esserci l’immagine della sua famiglia prima che i suoi genitori si separassero. E c’era anche, in realtà: solo non aveva mai avuto l’intenzione di portarsela con sé nell’appartamento di Ryuuji e aveva finito per lasciarla in un angolo dell’orfanotrofio, chissà dove.
Ricordava poche cose di quel periodo: la voce dolce di sua madre che gli raccontava una fiaba della buonanotte, il bacio che suo padre gli scoccava quando aveva paura del buio e le sue ninnenanne; ma anche le grida, il rumore di cocci rotti, e il pianto di mamma quando papà le aveva rivelato, nella stanza di fianco alla sua, che gli piacevano gli uomini.
Al tempo non aveva capito cosa significasse: l’aveva solo trovato molto strano. Ricordava la presa ferrea di sua madre sul suo sottile braccio da bambino che lo trascinava giù per le scale con i pochi giocattoli che gli era stato consentito di portare, e dall’altra parte la stretta fiacca e disperata di Ryuuji che li implorava di restare. Ricordava che si era voltato appena verso di lui e lo aveva fissato per l’ultima volta, imprimendo nella sua testa quell’espressione sbigottita e piangente e quei capelli corti e arruffati a coprirgli il viso bruno. E quegli occhi neri, sbarrati, gonfi di lacrime.
Sua madre aveva preso la metropolitana, la valigia gonfia e traboccante e la camicia un po’ sbottonata, i capelli scompigliati lasciati cadere sulle spalle, e lo aveva lasciato sedere sull’unico posto disponibile, rimanendo in piedi. “Dove andiamo?” le aveva chiesto, quando l’aveva vista un po’ calmarsi, e lei non aveva risposto subito, aveva lasciato che i suoi occhi di tigre si sciogliessero per un po’ e poi aveva detto: “Non lo so. Lontano da qui.”
“Papà non viene?”
“Papà non c’è più.”
Kariya aveva posato gli occhi sulle scarpe ancora slacciate che faticavano a posarsi sul pavimento e aveva deciso che da quel momento non avrebbe più parlato di suo padre. Non voleva che sua madre soffrisse.
 
Quando all’età di dieci anni le aveva confessato il suo desiderio di unirsi al club di calcio della sua scuola, non gli era mai sembrata mai più felice. Sua madre lo aveva abbracciato, baciandolo sui capelli, sulle guance e lasciando che le sue lacrime cadessero sulla divisa scolastica. Piangeva sempre. “Il mio campione” aveva mormorato, stringendolo forte. “Il mio campione...”
Quel pomeriggio erano subito andati a fare compere, lei aveva chiesto il giorno libero solo per lui, e si era divertita molto: lui non poteva sopportare i centri commerciali e aveva lagnato tutto il tempo, ma sua madre sembrava solo più felice.
Erano tornati a casa carichi di cose, utili e inutili: scarpini e borracce, scaldamuscoli, sciarpe e magliette di ogni tipo: sua madre sembrava aver speso un sacco, presa dall’euforia, ma non importava. Quella sera si erano seduti l’uno accanto all’altra davanti a una tazza di tè fumante e avevano iniziato senza accorgersene a fantasticare, a progettare, a farsi domande. “Diventerai un attaccante bravissimo!” aveva esclamato sua madre con gli occhi che le brillavano. “Farai vincere un sacco di partite alla squadra!”
Kariya ci credeva: ma presto iniziò a capire che per certe cose non bastava poter credere. Ben presto si ritrovò in difesa, più portato per bloccare piuttosto che attaccare, ma anche in quella circostanza sua madre sembrò felicissima. “Ma come, Kariya!” lo guardava sorpresa quando lui si lamentava di quell’ingiusto destino. “Non lo sai che è la difesa a stabilire il vero esito della partita?”
Kariya l’aveva guardata e aveva sorriso appena, per la verità un po’ dubbioso sulle sue parole. Si chiedeva se in realtà non la stesse deludendo: la sua peggiore paura. Ma la sua espressione gli sembrò del tutto normale, non vi era traccia di ciò che era stato pochi anni prima.
Continuò ad assistere alle sue partite: a fare il tifo, eccitata per ogni singola palla che riusciva a bloccare, ansiosa di vedere prima o poi una tecnica speciale come quella che utilizzavano i suoi compagni più grandi. Kariya la rimproverava per quegli atteggiamenti, imbarazzato per ogni singola scenata per attirare l’attenzione su di lui. “Mi piace troppo vederti giocare.” gli aveva confessato, gli occhi che brillavano di luce nuova. “Sei il mio piccolo campione.”
Fu un periodo nel quale la vide sorridere spesso. Non stracciava più le lettere che le venivano recapitate, non sfasciava sedie nel delirio che la colpiva di tanto in tanto, se troppo presa dall’alcool. Kariya si sentì felice per lei: era orgoglioso di portare il suo nome, sostituito solo pochi anni prima in una battaglia legale di cui lui non era stato diretto partecipe.
Le cose però sparivano. Anche i sorrisi, pensò quella volta Kariya, quando durante un’amichevole con una squadra di cui stentava a ricordare il nome la sua tecnica si rivelò ai suoi occhi sgranati e a quelli degli spettatori attoniti. Quella volta aveva guardato sua madre, lì sugli spalti, e i suoi occhi che si erano riempiti di lacrime di rabbia.
“Mi dispiace” le aveva detto una volta a casa, abbassando il capo.
“Non importa.” gli aveva risposto fredda, sorridendo gelida. “Ne troverai una di ancora migliore”.
Ma alle cose non bastava credere. Kariya non riuscì a trovare un’altra tecnica, né poté evitare di usare quella corrente. E fu proprio tra le trame di una rete rosa fluo che Kariya Masaki vide sua madre alzarsi dagli spalti e andarsene.
 
Rivide suo padre dopo anni una notte di terrore.
Aveva sedici anni quando sua madre era uscita una sera nell’euforia dell’ubriacatezza, farfugliando frasi sconnesse senza un senso preciso. “Quel frocio.” gemeva, ridendo e piangendo. “Quel fottuto frocio... Lo ammazzo... Lo ammazzo...”
Kariya aveva sentito la porta sbattere dietro di lei, ma non ci aveva fatto caso: era abituato alle crisi che si susseguivano frequenti da anni, ma non ne era mai rimasto troppo coinvolto, e aveva imparato con il tempo a darsi un’autonomia. Anche quella sera quindi finì i compiti e iniziò a preparare una magra ma soddisfacente cena, ricordando un momento in particolare in cui era stato scoperto da sua madre e le aveva prese senza ragione. Ma lei non sarebbe tornata prima del primo mattino, era venerdì sera ed era tardi, quindi Kariya non si preoccupò nel mettersi ai fornelli e iniziare a cucinare la prima ricetta che gli veniva in mente.
Poi, dopo mangiato, si mise a mettere a posto ciò che la furia della madre aveva distrutto: sedie rovesciate, vasi rotti, bicchieri lasciati per la casa senza che lui potesse impedirlo. Aveva lasciato che sua madre prendesse possesso di quella casa a furia di spezzare, rovesciare e spaccare, e lui non poteva far altro che raccogliere i cocci e aspettare il suo ritorno.
Eppure... Eppure l’amava. “È colpa di papà.” si era sempre detto, mentre poche lacrime impaurite scivolavano lungo le sue guance. “Se non fosse stato per papà lei starebbe bene.”
E fu ciò che si mise a pensare anche quella sera, quando si sedette sul divano e aspettò con sguardo perso il ritorno della madre.  Accese la televisione, guardò un film, si abbandonò al sonno stretto nella coperta di pile è aspettò che la notte scendesse su Tokyo, cullandosi nel sonno turbato e infelice a cui era costretto da anni.
Solo il suono del campanello lo strappò dalle grinfie dei suoi incubi: Kariya si svegliò e insonnolito portò lo sguardo all’orologio appeso alla parete che segnava le tre di notte. Andò ad aprire ancora insonnolito, perso in un mondo terribile e buio: solo la televisione emanava un fascio di luce e l’unica voce che riempiva l’appartamento era quello della giornalista che annunciava la morte di un paio di persone in un incidente automobilistico.
Aprì la porta: sulla soglia sua madre non c’era. Masaki sbatté le palpebre, guardando confuso e preoccupato le quattro figure allampanate che salivano le scale. Quando uno di loro alzò gli occhi su di lui Kariya si sentì gelare.
Li lasciò entrare in silenzio, senza una parola, ancora in pigiama. Nessuno di loro diede segno di saluto, solo suo padre accennò a un sorriso triste e volle rimanere nell’atrio, non osando avvicinarsi. “Ti ricordi di me, Kariya?”
Il ragazzo annuì piano, osservando il suo viso giovane e stanco che credeva aver dimenticato e i capelli verdognoli lasciati crescere lungo le spalle. Aveva solo una sua immagine nella mente.
“Bene.” mormorò roco l’uomo, cautamente, scambiandosi un’occhiata con gli altri uomini. “Devo dirti una cosa terribile.”
Kariya chiuse gli occhi, sentendo un tuffo al cuore a quelle parole. La giornalista, dal salotto, pronunciava il nome di sua madre.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 7
*** seven ***


ombrelli sotto la pioggia
Hikaru notò immediatamente la schiena del suo senpai irrigidirsi, non appena uscirono dalla scuola. Lo studiò per un po’, corrugando la fronte e assottigliando lo sguardo: “Qualcosa non va?” chiese piano, quasi sussurrando.
Kariya non replicò e riprese a camminare, silenzioso. Fu allora che Hikaru vide per la prima volta Midorikawa Ryuuji.
Sembrava aspettare proprio Kariya, appoggiato a una buffa e minuscola Smart, tanto che si chiese come potesse un uomo di quella statura entrare in qualcosa di così piccolo: aveva gambe lunghe e snelle, e in generale il suo corpo sembrava piuttosto flessibile per un adulto. I capelli verdi erano raccolti sulla nuca, così da lasciare scoperto un vistoso orecchino pendulo, viola come la sfumatura dei suoi occhi grandi e neri.
A Hikaru piacque subito tantissimo. Quando l’uomo si voltò verso di loro e sorrise, seppe che avrebbe voluto davvero fare la sua conoscenza: il senpai non gli aveva mai parlato di un fratello maggiore. Eppure Masaki finse platealmente di non riconoscerlo e, ingobbito sotto il peso della cartella che si ostinava a portare sulle spalle, passò oltre.
“Kariya kun, aspetta!” si lamentò l’uomo in sua direzione, ma il richiamo non fece il minimo effetto e il ragazzo continuò a camminare verso la stazione dei tram.
Hikaru non comprendeva il perché di quel suo comportamento. In generale, il suo senpai si comportava sempre in modo molto strano. Sorrise all’adulto come per scusarsi lui stesso di quella mancanza di educazione, e quando Ryuuji ricambiò si sentì immediatamente a suo agio.
“Sei un amico di Kariya, giusto? È strano, non mi ha mai parlato di te. Sono felice che abbia fatto amicizia!”
“In realtà non è proprio così!” si ritrovò a replicare, imbarazzato. “È il mio senpai, sono io a seguirlo sempre!”
Midorikawa sorrise argentino. Tutto in lui dimostrava delicatezza e cortesia. “È un piacere conoscerti. Io sono il padre di Kariya.”
Tentò di dissimulare lo stupore, in un primo momento, ma davvero era impossibile. Sgranò gli occhi e lo fissò attonito: “N-non sembra!” esclamò stupidamente, paonazzo in viso. “Cr-credevo che--- mi scusi, Signor Padre di Kariya!” E si profuse in un inchino fin troppo accentuato. Risollevò lo sguardo solo quando sentì la mano del giovane uomo accarezzargli i capelli. Fu un gesto che riaccese in lui un sentore antico e dimenticato, ammuffito in qualche angolo della sua mente. Era a casa.
“Tienilo d’occhio, d’accordo?” gli ridacchiò, forse più imbarazzato di lui. C’era una nota di malinconia nella sua voce. Sembrava volersi raccomandare che facesse qualcosa che solo lui sarebbe stato in grado di fare.
Si sentiva un kohai designato direttamente da una forza divina. E al solo pensarci arrossì ancora di più.
Quando salutandolo l’uomo rientrò nella smart, piegando forse un po’ troppo le gambe, lui non si era ancora ripreso.
 
“Sembra un così bravo ragazzo!” lo sentì cinguettare dal sedile di guida. Il ragazzo schiacciato nell’altro sedile, paonazzo in viso, non replicò subito. “Perché non mi hai mai parlato di lui? Potresti invitarlo per cena qualche volta, sai che non avrei problemi e mi piace cucinare.”
Kariya per tutta risposta grugnì qualcosa di a malapena comprensibile, immerso nella sciarpa blu che gli aveva regalato sua madre appena qualche anno prima, per il compleanno.
“Scusa? Non ho capito...”
“Non volevo che ti conoscesse.”
Il sorriso di Ryuuji si affievolì con quelle parole, ma non si spense. “Ah” replicò solo, immergendosi nella tangenziale. Ne seguì un silenzio di soliti, accompagnato dal rumore di sottofondo della radio. E a Kariya sarebbe anche andato bene, se solo a un certo punto (erano a metà strada e stavano per incappare nel solito traffico post-lavorativo) l’uomo la spense e gli gettò un’occhiata. “Kariya?”
“Mh?”
“Penso dovremmo parlare.”
Kariya si irrigidì sul sedile, sprofondando a disagio e immergendo ancora di più il viso nella sciarpa. Cazzo, non era il momento. Non poteva scappare da nessuna parte, nemmeno in strada. Si impose di non ascoltare e di rimanere nel mutismo.
“Sai, sono stato convocato dal tuo professore ieri sera. Mi ha informato del tuo comportamento e...”
“Se pensi che ascolterò la tua ramanzina del cazzo tienitela pure!” sbottò Kariya a quelle parole, incapace di contenersi: aveva già slacciato la cintura.
“Non voglio farti nessuna ramanzina, solo...”
Masaki afferrò la maniglia della portella, pronto a tirarla. “Un’altra parola e mi butto fuori! Mi butto, ok?” gridò fuori di sé, e questo bastò a far ammutolire l’uomo, che strinse le labbra e continuò a guardare dritto davanti a sé. Non disse niente per i seguenti minuti, al che il ragazzo si acquietò e si ricompose sul sedile senza una parola. Passò un tempo snervante nel silenzio più assoluto, prima che il ragazzo sfilasse dallo zaino le cuffie e l’iPod e voltasse la testa dall’altra parte, isolandosi dal mondo.
Uscirono dalla tangenziale e si immersero in una delle strade secondarie, diretti verso il loro quartiere. Fu quello il momento in cui Masaki si girò, quasi distrattamente, e fu raggelato da un sentimento di colpevolezza quando vide le lacrime scivolare a dirotto sulle guance del padre, da chissà quanto tempo. Si tolse le cuffie sgranando gli occhi, incapace di evitare di sentirsi anche solo un po’ mortificato. Improvvisamente, riaffiorò nella sua mente l’immagine di suo padre di tanti, troppi anni prima, quando sulle scale aveva cercato... Aveva cercato di trattenerlo con quella poca forza che gli era rimasta, affievolita in parte da un dolore che in quel momento non aveva compreso e non aveva mai provato a comprendere...
Gli si spezzò il cuore. E fu come se quello strappo avesse provocato un rumore udibile non solo nella sua testa, ma anche nella macchina: Ryuuji si accorse che lo stava guardando e distolse appena lo sguardo dalla strada, nervoso, coprendosi il viso con una mano. Scacciò le lacrime che non la volevano smettere di scendere copiosamente, cercando di trattenere i singhiozzi con l’unico risultato di accentuarli. “Oh... Oh, dei.” balbettò in imbarazzo. “T-ti prego non guardarmi così... Puoi... Puoi passarmi un pacchetto di fazzoletti? È nel cruscotto...”
In silenzio, Kariya fece quanto chiesto. A Ryuuji servì appena per ricomporsi e asciugarsi il viso. Aveva già gli occhi gonfi e lucidi, e nonostante dopo un paio di minuti riuscì a calmarsi e a smettere di piangere, non smise di singhiozzare. Parcheggiò male, ma non ebbe modo di ritentare una posizione migliore di quella. Con uno scatto che lo fece sussultare, uscì velocemente dalla macchina e aspettò appena che lui uscisse prima di chiudere a chiave. A passo spedito si allontanò verso le scale del condominio, in silenzio, con tutte le intenzioni di seminarlo. E Kariya restò indietro.
 
“Fumi?”
A quel tono sorpreso Ryuuji rispose appena con un cenno della testa, rigirandosi il pacchettino che aveva sfilato da un cassetto della cucina. Aveva rovistato per troppo tempo alla ricerca dell’accendino, poi si era ricordato che l’aveva lasciato nei jeans da lavoro. “Qualche volta” rispose, il tubicino di carta e tabacco già tra le labbra.
“Non lo sapevo...”
L’adulto fece spallucce, poi senza neanche rivolgergli lo sguardo si diresse verso la veranda. “Quando hai finito metti i piatti nel lavello, poi mi arrangio.” E detto questo chiuse la porta di vetro alle sue spalle. Kariya lo guardò per attimi interminabili appoggiarsi alla ringhiera del terrazzo e guardare giù, le spalle rigide e il peso abbandonato sulle braccia.
Non toccò cibo.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 8
*** eight ***


ombrelli sotto la pioggia
Non c’era nulla che lo irritasse più del sorriso di Kirino Ranmaru. Il problema era che non poteva evitarlo tanto facilmente, soprattutto se le attività del club di calcio lo costringevano a trovarselo davanti praticamente sempre.
Sapeva di essere tenuto d’occhio. Sapeva che lo sguardo inquisitore dell’allenatore lo osservava ovunque e in qualsiasi momento. Sapeva che se anche si fosse azzardato a fare qualche gesto avventato sarebbe stato condotto di nuovo nell’ufficio del preside, e non era sicuro che ci sarebbe stato ancora il suo insegnante a salvarlo momentaneamente dall’espulsione.
Distolse lo sguardo appena in tempo per concentrarsi sul suo compagno di allenamenti. “Hikaru, devi tenere gli occhi sulla palla!” lo rimproverò all’ennesimo sbaglio dell’inesperto Kageyama. Per essere il nipote di uno dei più noti (e corrotti) presidenti calcistici, se la cavava piuttosto male.
“Ho capito, senpai!” gli rispose trafelato il ragazzo, raggiungendolo dopo aver intrapreso un’eroica corsa alla ricerca del pallone. “Mi è molto difficile però, come faccio a vedere dove vado?”
“Fai quello che ti dico e il resto verrà da sé.” tagliò corto il ragazzo, sedendosi per terra.
Aveva preso l’abitudine di allenare personalmente il compagno di squadra, e ne aveva fatto la motivazione per la quale era entrato inspiegabilmente nel club di calcio.
“Non è meglio se andiamo con gli altri?” chiese il protetto, tra l’intimorito e il preoccupato, osservando il resto della squadra dall’altra parte del campo. “Stai mancando a molti allenamenti senpai.”
Kariya si stese sull’erba e sbuffò, stizzito. “Non ne ho bisogno. Finisco con te e poi me ne vado: l’allenatore è d’accordo.”
Hikaru gli si sedette accanto, pensieroso. “Dici sul serio? Lo fai solo per me?”
Masaki gli rivolse un’occhiata di traverso, venendo accecato in parte dal sole che si trovava alle sue spalle e rendeva il suo viso livido di aspettativa e stupore ancora più luminoso. “Sì, anatroccolo. Devo prepararti come si deve, o ti faranno tutti il culo.”
“Tu dici?” Hikaru scoppiò in una risata cristallina. “Allora ti ringrazio.”
Kariya sorrise bieco. “Sembri di buon umore.”
Il ragazzino arrossì, timoroso. Si morse il labbro e pronunciò: “Tu non tanto.”
Il viso di Masaki si rabbuiò un poco a quelle parole, al che Hikaru si alzò nell’esatto momento in cui lo fece anche lui, paonazzo e imbarazzato. “Scusami senpai, è che non mi sembri in forma in questi giorni! Sono preoccupato.” spiegò, sincero, cercando di sostenere il suo sguardo irritato più che poteva. Non era molto abile in certe cose, e per questo in breve tempo si ritrovò a fissarsi le scarpe farfugliando qualcosa di incomprensibile.
“Non c’è niente di cui ti dovresti preoccupare.” ringhiò per contro Masaki. Poi, non appena comprese di aver spaventato il ragazzino, la sua voce si addolcì. “Davvero, Hikaru.”
Kageyama non appena avvertì che il suo atteggiamento nei suoi confronti era cambiato alzò il volto, continuando a scrutandolo preoccupato. “Quando tutto sarà finito me lo racconterai?”
Kariya annuì distrattamente. “Dai, facciamo qualche giro del campo.”
Hikaru gli sorrise e lo seguì.
 
A Hikaru Kyosuke non era mai piaciuto, e non faceva nulla per nasconderlo. E a Kariya, ovviamente, non era sfuggito: a vederlo, il kohai iniziava a tremare incontrollabile e sembrava volersi stringere nelle spalle nello sforzo disumano di diventare ancora più piccolo di quanto già non fosse.
“È un tipo a posto.” Lo rassicurò per l’ennesima volta, accigliato. “Non capisco cosa ti preoccupa.”
Kageyama iniziò a nascondersi dietro le sue spalle man mano che il ragazzo si avvicinava, prendendo le dovute distanze. “Non mi piace e basta, non deve esserci un motivo.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, sospirando. “Va bene, ho capito. Lascia almeno che ti accompagniamo fino alla stazione.”
“Kyosuke potrebbe aspettarti qui...” provò a suggerire Hikaru, ma Tsurugi si era già avvicinato e tanto bastò per zittirlo completamente.
Salutò Kariya con fare affabile, come se si conoscessero da sempre. “Ohi, come va?”
“Alla grande.” rispose Masaki, e a Hikaru non sfuggì il cambio repentino di atteggiamento: sul suo volto era comparso un sorriso sfottente, ridicolo. “Andiamo?”
“Viene con noi anche il moccioso?” chiese il nuovo arrivato, scrutando Hikaru da capo ai piedi e godendo della sua espressione intimorita.
“Lo accompagniamo fino alla stazione, poi andiamo dove vuoi.”
A quel punto Kageyama si fece coraggio e si issò sulla spalla del senpai per guardare in volto Kyosuke. “Veramente non serve, posso andare benissimo senza di voi.”
“Hikaru” lo ammonì Kariya, guardandolo torvo. “Non mi piace che tu vada da solo.”
“Me la cavo benissimo!”
Kariya lo rimbeccò prontamente, sbuffando. “Non mi sembra che te la stessi passando bene quando sei stato circondato da quella banda, l’altro giorno.”
Hikaru arrossì al pensiero. Era infastidito non solo da quelle parole, ma anche dallo sguardo divertito di Kyosuke. Era troppo persino per lui: si divincolò dalla presa e si avviò verso l’uscita, stringendo la borsa sportiva al petto; quando si volse verso Kariya, si ritrovò a provare un vago senso di rimorso nell’accorgersi della sua espressione sbigottita. “Ci vediamo domani...” lo rassicurò timidamente, e corse verso i cancelli della scuola.
 
“Che dici, ce la fai?”
Masaki fissò la sigaretta per lunghi attimi prima di portarsela alle labbra. Alzò lo sguardo verso Tsurugi e, pallido, cercò di sostenerla con due dita nel tentativo disperato di afferrare l’accendino che gli stava porgendo. A ben pensarci, da fuori doveva sembrare una scena piuttosto patetica; ma Tsurugi non fece nessun tipo di commento.
Furono attimi piuttosto imbarazzanti anche quelli che lo accompagnarono nella goffa impresa di produrre un qualche tipo di fiammella: probabilmente avrebbe ottenuto un risultato migliore con i raggi solari e una lente di ingrandimento. Più o meno.
“È difficile.” borbottò irritato, e Kyosuke proruppe in una risatina, azionando l’accendino con facilità. Non ricevette nessun tipo di ringraziamento per tale gesto.
Appena riuscì a portarsi la sigaretta accesa alle labbra gli lanciò un’altra occhiata e inspirò delicatamente: ma appena il sapore acre del tabacco gli invase la bocca fu costretto a tossire rumorosamente.
“Ti pareva.” sghignazzò Kyosuke, e prima che avesse tempo di riprendersi gli strappò la sigaretta dalle mani. “Non sei capace.”
“Fammi... Fammi almeno provare!” protestò Masaki, ma la sua prima sigaretta aveva già cambiato proprietario.
“Hai appena provato: ti basti di lezione.”
Kariya si appoggiò al muretto del vicolo con espressione torva, incrociando le braccia al petto. Kyosuke finse di non vederlo e rimise filtri e accendino in tasca. “Senti, lo so che ti piacerebbe molto ma il fumo non fa bene. Ho acconsentito a farti provare, non a rovinarti la vita.”
“Sei un pezzo di merda. Perché tu fumi allora?”
“Perché mi rilassa.” replicò indifferente Tsurugi, e si avviò verso l’uscita. “Buona serata.”
Kariya impallidì: intese che Kyosuke lo stava piantando in asso e la cosa lo faceva innervosire, se non altro perché da quella zona non aveva la minima idea di come tornare a casa. “Sei stato tu a trascinarmi qui!” protestò raggiungendolo, irritato. “Almeno spiegami come arrivare alla stazione!”
Fu in quel momento che Tsurugi fece una cosa inaspettata: iniziò a correre per seminarlo. Masaki stava già per inventare qualche espressione colorita da affibbiargli quando, in fondo alla strada principale, il ragazzo si voltò: “Non seguirmi. Percorri questa strada fino alla macelleria, poi gira a destra. Sarai a casa per un’ora.”
Kariya rimase in mezzo alla strada, istupidito, guardandolo sparire tra le file di case a schiera di quel quartiere malfamato. Alzò lo sguardo al cielo e lo vide plumbeo: presto si sarebbe messo a piovere.
Imprecò.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 9
*** nine ***


ombrelli sotto la pioggia
“Le ha chiesto mio padre di accompagnarmi?”
Hiroto non si voltò verso di lui, avendo gli occhi sulla strada. Aggrottò appena le sopracciglia, stranito per quella domanda: “No, perché avrebbe dovuto? Ho semplicemente pensato che sarebbe stato meglio darti un passaggio dato che hai perso l’ultima corsa del tram.
Kariya abbassò gli occhi, colpevole, e affondò nel sedile. Quell’auto, una decappottabile dal colore rosso fiammante, era decisamente troppo costosa per essere quella di un normale insegnante. “Il fatto è che ieri sera sono tornato tardi...”
“Si sarà preoccupato” osservò l’adulto, scoccandogli un’occhiata attenta.
Kariya in un primo momento non seppe cosa rispondere. Nella sua mente scorrevano distratte delle immagini frettolose: lui che si rifugiava in camera, il buio al di fuori del terrazzo grigio, la voce di Ryuuji oltre la porta, distante. “Sì.” mormorò infine, a disagio. “Sì, un po’”
“Mh, ho capito. Sarà meglio avvisarlo allora.”
Kariya alzò gli occhi sull’uomo, poi si mise pigramente alla ricerca del cellulare nella cartella nuova. Non aveva il numero di suo padre. “Uhm, credo sia scarico.” mentì.
“Non importa. Dovresti trovare il numero dentro la mia agenda: riesci a sporgerti fino ai sedili posteriori?”
Il ragazzo lo fissò per lunghi attimi, non sapendo cosa pensare.
“Sai, sei stato fortunato che oggi ci fossero i consigli di classe! Probabilmente sarebbe dovuto venire a prenderti.”
“Oggi è in turno al bar, pare. Sarei dovuto andare a piedi.” precisò Kariya, dopo essersi slacciato la cintura di sicurezza. Si sporse verso i sedili posteriori e afferrò l’agenda che sostava spiegazzata vicino alla cartella. L’auto era in parte bloccata nel traffico cittadino, quindi non andava a velocità sostenuta.
“Uh... Credevo facesse il commesso, era venuto al colloquio ancora in divisa...”
“Ha due lavori, Kira-sama.” spiegò educatamente il ragazzino, ma non volle aggiungere altro: un po’ perché lui stesso non ne sapeva molto, un po’ perché non ci teneva a parlare troppo del suo tutore.
“Ho capito.” gli sorrise l’insegnante, e come sperò non chiese nulla di più sul conto di suo padre. Si mise invece a chiacchierare del più e del meno, con il semplice intento di far passare in fretta il tempo per strada. “Sai, non dovremmo abitare molto lontani. In quale quartiere sei?”
“Nishigahara, distretto 3” rispose il ragazzo, e osservò muto il biglietto spiegazzato che si ritrovò tra le mani. Midorikawa Ryuuji. È il padre di Masaki Kariya. “Come lo ha ottenuto?”
“Uh beh...” mormorò imbarazzato il professore, prima di guardarsi attorno a un incrocio per controllare che non ci fossero altre automobili. “Che coincidenza, anche io abito da quelle parti.”
Intuendo che l’insegnante era del tutto intenzionato a sviare il discorso, Masaki non volle chiedere null’altro e passò il biglietto all’uomo, che sorrise in modo strano.
 
“È stato davvero gentile a dare un passaggio a Kariya.”
Il parcheggio del condominio era affollato e gli era risultato impossibile parcheggiare: così si era limitato a sostare in un luogo sicuramente poco congeniale, ma almeno sarebbe riuscito a uscire più agevolmente. Era indeciso: avrebbe dovuto scendere o rimanere nell’auto? Già il fatto che avesse accompagnato uno studente a casa senza autorizzazione doveva essere per lui motivo di auto-commiserazione... Se poi a questo si fosse aggiunta anche la scusante di vedere il padre...
“Nessun problema!” sorrise in sua direzione, scrutando il suo alunno mentre spariva dietro la porta: non gli aveva più rivolto la parola nemmeno per salutare.
“Mi scuso per la sua maleducazione.” si inchinò Ryuuji non appena si accorse del suo sguardo: sembrava in effetti davvero mortificato, non solo per il comportamento del figlio ma anche per la situazione in generale, che evidentemente lo stava mettendo in imbarazzo.
Hiroto fece un gesto vago con la mano, continuando a sorridere. Midorikawa vestiva un maglione molto simile a quello che gli aveva visto indossare al colloquio, solo che era rosso, e i capelli erano al solito raccolti sulla testa. Aveva l’aria un po’ stanca e stranita, probabilmente aveva appena finito di lavorare: a suggerirlo, la giacca bianca un po’ spiegazzata che portava sul braccio.
“Sa, sono dovuto tornare adesso dal turno: ho fatto un po’ di straordinari.” si giustificò infatti poco dopo, facendo un altro piccolo inchino. “Di solito mio figlio prende il tram... Non credevo però che potesse fare così tardi.”
“Non si preoccupi, probabilmente sarà stato con qualche amico. Gli studenti si intrattengono spesso all’interno della scuola anche dopo le attività dei club.” cercò di tranquillizzarlo, anche se in effetti le parole che Kariya gli aveva rivolto in auto qualche minuto prima non lo convincevano affatto. Inoltre, le attività del club di calcio si concludevano ben prima di quegli orari.
“Mi dispiace abbia dovuto fare tutta questa strada...” mormorò l’uomo. “Le offrirei un caffè se solo non dovessi uscire e la casa fosse un disastro...”
La sua cortesia tentennò a quelle parole. “Ho scoperto che abitiamo vicini: sono di Sugamo” proclamò. Kariya aveva ragione, l’uomo sarebbe uscito lasciando il figlio a casa da solo.
“È una vera fortuna!” osservò Ryuuji, e gli sorrise nervosamente.
Hiroto non poté evitare di notare il suo atteggiamento teso. “Una vera fortuna, già.” mormorò, notando che un’altra automobile era entrata nel parcheggio. “Stavo pensando, infatti, che non sarebbe male organizzarci per qualche colloquio informale. Mi piacerebbe che mi parlasse ancora di Kariya: magari potrei essere d’aiuto.”
Midorikawa alzò lo sguardo verso il condominiale e gli fece un cenno di saluto. Poi portò lo sguardo verso l’insegnante prima che accendesse il motore. “Credevo fosse un semplice insegnante di scienze: lei è pieno di sorprese.” replicò abbastanza allegramente, e l’uomo gli sorrise di rimando.
Lo seguì con lo sguardo anche dopo che uscì dal parcheggio, e lo osservò rientrare con il vicino, senza però che si scambiassero una parola. Non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero che la faccenda avesse un qualcosa di davvero insolito.
 
Appena sentì la porta aprirsi voltò il capo nella sua direzione ma lo abbassò immediatamente, continuando imperterrito la sua operazione sui fornelli.
“Stai cucinando!” esclamò sorpreso Ryuuji, rimanendo sulla porta con fare sbigottito. Kariya fece spallucce, controllando con un’occhiata fugace che il ramen in scatola si fosse un po’ scongelato. “Sto solo facendo bollire l’acqua”.
Ryuuji appoggiò la divisa su una sedia e gli sorrise, arrivandogli appena vicino. Prese la seconda confezione di ramen surgelato e la ripose nel freezer. “Mi dispiace, non ho molto tempo per mangiare: grazie comunque per il pensiero. Sono dispiaciuto, non sono riuscito ad arrivare prima...”
“Non c’è problema.” mormorò assente il ragazzo, realizzando che era effettivamente inusuale per loro avere una conversazione del genere. “Sono abituato.”
Il viso di suo padre si incupì e nella stanza calò il silenzio. Kariya lo sentì avvicinarsi ma non si mosse. “Masaki... Sei sicuro che non ci siano problemi? Posso restare a casa se...”
“Fa’ quello che vuoi.” rispose sgarbatamente, al che seguì un altro lungo istante di silenzio. Suo padre sospirò, scostandosi nuovamente e raggiungendo il bagno. Kariya lo sentì aprire la doccia e buttarcisi dentro, non volle guardarlo quando ne uscì e si rifugiò in camera per vestirsi. L’acqua bollì in quel frangente: tolse il pentolino dal fuoco e versò il contenuto sulla coppetta aperta di ramen. Prese le bacchette da un cassetto accanto al lavello e si mise comodo sul divano, accendendo la televisione.
“Io vado.” lo avvisò suo padre passandogli di fianco. “Passa una bella serata, invita qualche amico se vuoi.”
Masaki non si voltò nemmeno. “Mhmh.”
“Non aspettarmi alzato! A domani.” Ryuuji indossò il giaccone, prese il solito borsone da ginnastica, se lo mise a tracolla e uscì. I passi sulle scale si confondevano con il vociare del reality show al quale aveva avuto la bizzarra idea di affezionarsi.
Pensava a quante volte sua madre gli aveva detto qualcosa di simile. Non aspettarmi alzato.
Sembrava non dovesse tornare mai, mai mai...

modificato: 21/07/20

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Capitolo 10
*** ten ***


ombrelli sotto la pioggia
“Come hai fatto ad entrare?” si accigliò l’uomo, appoggiando la valigetta sulla sedia.
Poco distante, i piedi appoggiati sul tavolo e una cicca tra le labbra, il suo fratellastro sorrise. “Papà mi aveva dato le chiavi: era sempre molto preoccupato per te e mi voleva mandare a controllare che non fossi morto.” gracchiò sorridendo.
“Non l’hai mai fatto, però.” Con un sospiro Hiroto scrutò dentro il frigorifero: non faceva la spesa da settimane ma era troppo pigro per muoversi. “Avanti, tira fuori il rospo. E non azzardarti a fumare qui dentro.”
“Ebbene!” esclamò Nagumo, togliendo le scarpe dal tavolo e appoggiando la sigaretta sul tavolo, sebbene fosse spenta. Hiroto alzò gli occhi al cielo: non preannunciava nulla di buono. “Ho programmato una serata fantastica solo per te!”
“Lo sapevo.” Tirò fuori dal frigorifero ciò che rimaneva del take-away della sera prima. “Un’altra volta!”
“Non fare il drammatico, voglio solo portarti fuori di qui!” rispose Nagumo seguendolo in salotto. Quasi gli bloccò la strada verso il divano. “Tu hai bisogno di uscire!”
“Non credo.” replicò stizzito Hiroto scoccandogli un’occhiata bieca. Ignorandolo, si sedette sulla poltrona e accese la televisione. “Oh, ti prego.” aggiunse poi non appena il fratello gli si parò davanti: nonostante fosse rimasto il più basso dei tre, era facile per lui bloccargli la visuale della televisione. “Non ne ho bisogno!”
“Hiroto, guardati.” Nagumo incrociò le braccia con fare stizzito. “È da quando hai rotto con Reina che ti ritrovi in questo stato! Non ti sembra anormale?”
Hiroto spense la televisione e alzò un sopracciglio. “È anormale per te.”
“Dovresti trovarti qualcun altro... Qualcuno che sappia cucinare se non altro.”
Hiroto nascose il take-away allo sguardo di Nagumo.
“Che sappia lavare le camicie sporche”
Impallidì guardandosi il colletto, su cui era rimasto un alone pressoché indelebile.
E che ti porti a letto soprattutto.”
Sentì il volto andare a fuoco. “HARUYA!” strillò imbarazzato, poi si alzò e dichiarò: “Va bene. Uscirò con te. Ma solo per questa sera.”
L’eterno ragazzino quasi saltò sul posto e fece un verso che doveva essere di esultanza. “Perfetto! Fuusuke ci aspetta giù.”
Hiroto non avrebbe saputo dire di che colore fosse la sua faccia. “P-perché non l’ho visto quando sono entrato?”
Nagumo lo ignorò e, dopo averlo trascinato per tutto l’appartamento, lo sbatté in camera. “Vestiti, veloce!”
 
Hiroto scrutò apprensivo la serie di night club affacciati su quel viale affollato e rumoroso: non passava volentieri per quella parte del distretto. A dire il vero stentav a credere che potesse essere ad appena venti minuti da casa. Lanciò un’occhiata ai sedili anteriori, affidandosi alla guida sicura e rilassata di Fuusuke e alle chiacchiere che Nagumo stava scambiando continuamente a Maki, seduta di fianco a lui. “Ragazzi, ditemi che avete sbagliato strada.”
“Affatto.” risposero in coro tutti quanti, e Suzuno avviò l’auto verso un parcheggio interno. Erano appena le nove di sera e il locale non sembrava granché affollato, ma di certo i clienti che Hiroto riusciva ad intravedere dal finestrino avevano un aspetto piuttosto particolare. “Questo... Questo è un Gay Club-“ realizzò sbigottito, fissando incredulo la faccia di Maki che era contorta in una smorfia trattenuta di derisione. “Vorrete scherzare.”
“Assolutamente no!” replicò Nagumo girandosi e lanciandogli un’occhiata mortalmente seria. “Vedi, abbiamo studiato a lungo i tuoi comportamenti e ci siamo chiesti se tu...”
“Se tu non fossi gay.” concluse per lui Fuusuke: non aveva parlato fino a quel momento mantenendo un atteggiamento indifferente, ma ormai era chiaro che in mezzo ci fosse anche lui.
“Mi sembra decisamente assurdo.” Hiroto avrebbe voluto perdere le staffe se solo ne fosse stato capace: non poteva credere al fatto che i suoi fratellastri gli avessero rigirato un tiro simile! Smontò dall’auto, indignato, e sospirò: ormai sarebbe stato inutile tentare una via di fuga.
“Hiroto, guarda che essere omosessuali è una cosa perfettamente normale. Guarda noi.” gli spiegò Maki “Io sono pansessuale. Questo spiega perché...” cominciò battendosi una mano sul petto. “Riesca ancora a stare con Nagumo.” continuò poi indicando con un gesto eloquente della mano il suddetto. “E Suzuno è asessuale.”
Quando lo sguardo di Kira si soffermò sull’espressione pacata di Fuusuke si sentì morire dentro. “Mi state prendendo in giro, io lo so.”
Nagumo lo colpì sulla schiena, spingendolo verso l’entrata del locale. “Ci siamo passati tutti! Dai, se non ti piace sei libero di uscire quando ti pare.”
Hiroto non ne era così sicuro ma non poté far altro che avanzare mestamente verso il bar, sospinto da tre paia di mani che fino a qualche ora prima avrebbe definito amichevoli.
Il primo impatto non fu però così disastroso: certo, c’era davvero tantissima gente decisamente più giovane di lui a bloccargli la visuale praticamente su tutto, le luci psichedeliche rischiarono di accecarlo al primo impatto e la musica minacciava quasi di spaccargli i timpani... Ma non appena trovarono un tavolino libero al quale sedersi, per giunta all’aperto, tirò un sospiro di sollievo.
“Visto? Nulla di cui preoccuparsi.” esclamò Haruya, e si stravaccò sulla sedia. “Sugar how you get so fly?” prese a canticchiare poi, sogghignando per la bravata.
In effetti dal palco si disperdeva a volume sostenuto le parole di quella canzone che tanto aveva ascoltato per radio, cantata da una voce effettivamente diversa... ma non sgradevole. Hiroto non ebbe modo di capire chi fosse il cantante dato che si sedette di spalle. Si guardò nuovamente attorno, osservando nervosamente i clienti del locale: a parte qualche stravagante soggetto sembravano tutti dei normalissimi ragazzi in vena di divertimento.
Si sentì ancora più a disagio quando la canzone finì e dall’interno si levò un boato assordante.
Maki gli sorrise furba: “Ha una voce meravigliosa vero? È la star del venerdì! L’ottava Musa!”
“L’ottava Musa? Credevo che fosse un uomo a cantare...” osservò istupidito Kiyama, ma la sua attenzione venne distratta da Nagumo che pretendeva a gran voce un Bloody Mary.
“Che schifo.” commentò soltanto Gazeru, che non si era ancora seduto. “Tu Maki cosa vuoi?”
La ragazza ridacchiò. “Prendimi una sangria. Anche per Hiroto.”
Kira tentò invano di protestare: “Io veramente non bevo.”
“I guidatori non bevono e questa sera tocca a Fuusuke! Ringrazialo.” replicò Maki sorridendo civettuola. Hiroto provò a rivolgersi nuovamente a Suzuno, ma il fratello era sparito nella folla. A lui non rimase altro che appiattirsi contro la sedia e aspettare che la serata passasse velocemente. “Comunque sono quasi sicuro di non essere gay, grazie per la preoccupazione.”
Maki sembrò totalmente ignorarlo e si rivolse direttamente a Nagumo, che si stava accendendo una sigaretta: “Ora che ci penso, potremmo presentargli l’ottava Musa! Sono sicura che è il suo tipo!”
Haruya sembrò illuminarsi. “Ottima intuizione! Dovremmo provarci, Dyson!” sghignazzò scompigliandole i capelli, in realtà il più delle volte sciolti. Incredibile come quei due potessero andare sempre d’accordo su tutto, nonostante fossero troppo esuberanti e impulsivi... e narcisistici.
Il cantante sembrava essersi preso una pausa: al suo posto aveva preso piede un sottofondo da atmosfera e la serata sembrava aver preso una direzione piuttosto tranquilla.
“Guardate un po’ chi ho trovato!” sopraggiunse la voce monotona di Fuusuke alle sue spalle. Hiroto non si girò, deciso a consumare quei momenti nell’assoluta inerzia. All’improvviso però un’altra voce famigliare seguì quella del fratello. “È da un po’ che non ci si vede!”
Si girò lentamente, sgranando gli occhi alla visione.
“Oh, arrivi giusto in tempo! Hiroto, questa non è altro che l’ottava Musa!”
Il nuovo arrivato aggirò il tavolo. Vestiva un singolare completo di pelle che evidenziava le curve delle sue gambe, mentre una camicia bianca appena aperta sul petto glabro risaltava il colore caffellatte della sua pelle.
“Ti presento Hiroto: è nostro fratello.”
Fuusuke si sedette con calma sulla poltroncina, la star si sedette sul bracciolo e gli avvolse un braccio attorno al collo come se nulla fosse: aveva un atteggiamento del tutto casuale e disinteressato, quasi malizioso. “Non me ne avevate mai parlato!” sorrise ammaliante accavallando le gambe snelle. Puntò gli occhi neri su di lui come se effettivamente non si fossero mai visti prima.
“Questo perché ci eravamo separati negli anni dell’università e ci siamo riuniti solo da qualche anno!” spiegò Maki, decisamente a suo agio nel spettegolare su qualsiasi affare li riguardasse.
“Curioso!” ridacchiò Ryuuji, rivolgendogli un sorrisetto. Aveva occhi solo per lui e Hiroto si sentì sbiancare. “Ci sono momenti in cui le stelle semplicemente si allineano.”
Perse un battito.


Angolino di Fay
Ok, questo capitolo è decisamente più lungo e forse anche più corposo perché MORIVO dalla voglia di scrivere questa scena, fin dall’inizio. Ecco che finalmente dopo aver tanto parlato di Masaki ci avviciniamo di più al passato di Ryuuji e Hiroto e approfondiamo le figure di Nagumo, Suzuno (e Maki). Sono a dir poco eccitata. Spero di non aver ridicolizzato nulla. Spero che questo piccolo colpo di scena vi sia piaciuto esattamente come piace a me- a proposito, grazie per le vostre recensioni! Siete persone meravigliose~
Approfondirò meglio il ruolo dell’”ottava Musa” nei prossimi capitoli: attualmente esiste anche una fanart disegnata dalla gentilissima Bloody Alice e ho pure una fotografia che possa mostrare precisamente l’outfit di Ryuuji in questa deliziosa veste~ ma vi mostrerò tutto in seguito. 
Grazie mille per tutto il vostro supporto aw~ spero di fare un bel lavoro con questa fic! Siamo praticamente a metà. 
Un bacio!

Fay


modificato: 21/07/20

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Capitolo 11
*** eleven ***


ombrelli sotto la pioggia
“Non dirmi che si droga”
Masaki fissò a lungo la scatoletta bianca che aveva reperito da un cassetto della cucina. Si sedette su una sedia, evitando di contemplare il disordine che avevano provocato attorno a loro. “Non è droga. Sono... sonniferi.” mormorò, quasi sorpreso. “Li usava spesso anche mia madre. Molto spesso.”
Era successo quando ancora era molto piccolo. Ricordava a malapena i tentativi vani di svegliare quel corpo apparentemente senza vita e le sue grida disperate, ignorate dai vicini. Il pensiero riprodusse in lui un brivido, come se non fosse passato un solo minuto da quel giorno.
Kyosuke sembrò accorgersi del suo smarrimento e gli strappò la confezione dalle mani, gettandola al suo posto, lì dove sostavano silenti altre scatolette bianche di quel tipo. A Kariya sembrava assurdo che suo padre potesse fare uso di quelle sostanze: soffriva semplicemente di insonnia o di depressione, come sua madre? E perché?
“Mi sono stancato di questo posto: passiamo alla camera”
Kariya sbiancò a quelle parole e rivolse lo sguardo verso Kyosuke. Non aveva mai osato entrare nella stanza del padre e mai avrebbe pensato che la serata sarebbe arrivata fino a quel punto. “Sei sicuro?”
Kyosuke gli rivolse un sorriso beffardo. “Hai paura, per caso?”
“Certo che no!” rispose prontamente, ma dentro di sé si sentiva gelare. Si alzò piano, fissandolo. “Dopo mettiamo a posto, no?”
Kyosuke fece un gesto vago con la mano. “Sì, sì, dopo” disse. “Avanti, dov’è?”
Masaki indicò la porta e Kyosuke si avvicinò ad essa a passo spedito, dopo aver superato il bancone della cucina senza battere ciglio. Il più piccolo si aspettò che fosse chiusa a chiave, quasi suo padre gli stesse nascondendo qualcosa- in realtà la stanza era del tutto accessibile. Avrebbe potuto entrarvi in qualsiasi occasione.
Corse immediatamente alle spalle di Kyosuke, che aveva già spalancato la porta. Esitò ad aprire la luce, come se Ryuuji potesse tornare da un momento all’altro, come se nella camera vi fosse qualcosa di misterioso e inaccessibile... Quando però la luce artificiale della lampada illuminò l’ambiente, scoprì che si trattava di una camera del tutto ordinaria: sulla parete sinistra sostava un letto matrimoniale, dalla parte opposta si notava una specchiera, mentre in fondo l’armadio era ancora aperto e quello che doveva essere stato contenuto all’interno era sparpagliato per il pavimento e sul letto. Avrebbe giurato che suo padre fosse un uomo abbastanza ordinato, ma ora non ne era più così sicuro: il letto era sfatto e sulla specchiera, oltre a varie cornici, erano state lasciate numerose scartoffie e documenti; persino il davanzale dell’enorme finestra che dava sull’esterno era disseminata di vestiti e libri.
“Si tratta bene: è più grande della tua” fischiò Tsurugi ghignando, e si addentrò in quel luogo fino a qualche minuto prima proibito, per prima cosa sedendosi comodamente sul letto e balzellando per sentire la consistenza del materasso. Kariya lo ignorò e si avviò verso un angolo della stanza, osservando incuriosito una sorta di palo fissato sia sul soffitto che sul pavimento. Non era molto spesso, ma sembrava di acciaio, e gli ricordava un po’ quelli che si vedevano nei telefilm sui vigli del fuoco. “A cosa gli servirà?”
“Cosa?”
“Questo.”
Tsurugi si voltò e anche lui puntò lo sguardo su quell’oggetto insolito. “Non dirmi che non sei mai stato in un night club.”
Kariya gli rivolse un’occhiataccia. “Ho quindici anni, ovvio che non ci sono mai stato. E comunque cosa c’entra?”
L’altro fece spallucce, sorridendo enigmatico. “Nulla. Mi ricorda i pali delle cubiste.”
Quella risposta lo ferì più di qualsiasi altra cosa. Non aveva una grande considerazione di suo padre, ma di certo non poteva essere una prostituta o qualcosa di simile: gli sembrava quasi impossibile che potesse affrontare una conversazione normale senza emozionarsi inutilmente, figurarsi le esibizioni di quel genere. “Non lo farebbe mai” disse, sicuro.
“È frocio, no?” obiettò Kyosuke, e lui non ebbe la forza di replicare. Il più grande si alzò dal letto e avanzò verso la specchiera, quindi prese fra le mani una di quelle cornici e gliela mostrò quasi a voler sottolineare il concetto. Kariya gli ringhiò contro, furente: ne aveva avuto abbastanza. “Mettila giù.” Lo ammonì, nervoso. Tsurugi fece spallucce, guardando di nuovo la foto incorniciata. “Che vuoi che sia, qui è già un casino. Ma... questo qui non insegna nella nostra scuola?”
Masaki si avvicinò, vinto dalla curiosità ma soprattutto deciso a riporre al suo posto la fotografia e cacciare Tsurugi da quella stanza. Ma l’immagine all’interno della cornice argentea lo spiazzò del tutto e lo rese incapace di qualsiasi movimento.
Non era una foto recente, e di certo nemmeno fatta con uno strumento professionale: era in realtà già un po’ sbiadita e da questo ne dedusse che doveva avere almeno dieci anni, anche per il fatto che suo padre aveva ancora i capelli piuttosto corti. A sorprenderlo fu la figura al suo fianco- un uomo alto, smilzo, i capelli bianchi spettinati e gli occhi azzurro ghiaccio. Entrambi sorridevano timidamente alla fotocamera, spensierati, e si tenevano per mano; dietro di loro, gli alberi di un parco sconosciuto, spoglio, autunnale.
“Fuusuke-sama...” mormorò, sbigottito. “Come... Come fa a conoscerlo?”
 
Fuu-chan, già te ne vai?” esclamò una voce alle loro spalle. Hiroto trasalì, voltandosi, e incrociò gli occhi splendenti di Ryuuji. Ancora non poteva credere a quanto era successo e il solo vederlo gli procurava la pelle d’oca: probabilmente non si sarebbe mai abituato a quella nuova scoperta.
Suzuno si alzò sorreggendo Nagumo, già completamente sbronzo, affiancato da Maki, anche lei non esattamente lucida ma almeno in grado di reggersi in piedi. Di comune accordo, avevano deciso che li avrebbero accompagnati a casa e poi avrebbero deciso sul da farsi. Quando lo spiegarono anche all’ottava musa, questa sembrò dispiacersi.
“Un vero peccato!” esclamò, sedendosi e accavallando le gambe in modo seducente. “Ho giusto un’altra pausa prima della mezzanotte e speravo di passare un po’ di tempo con voi! Perché non vi trattenete ancora per un po’?”
Kira tentò di fulminarlo con lo sguardo e rivolse un’occhiata disperata anche a Fuusuke, che non colse il suo allarme. Il fratellastro si limitò a fissare Ryuuji negli occhi, incerto, poi guardò il ragazzo accasciato sulla sua spalla. “Va bene, non c’è problema. Cerco di trascinarlo in bagno, credo che stia per vomitare.”
“Vengo anche io!” squittì Maki con una voce insolitamente acuta. Hiroto tentò di aggregarsi nel tentativo disperato di non rimanere da solo con l’ottava musa, ma le sue parole furono coperte dall’urlo biascicato di Nagumo che lo invitava a “darci dentro”, qualunque cosa significasse. I tre si allontanarono immergendosi nella folla sempre più pressante e Hiroto sprofondò nei cuscini della poltrona accanto all’uomo. Se solo avessero saputo che lui e Midorikawa si conoscevano già, e per ben altri motivi... Era quasi sorpreso che Suzuno non si fosse ancora accorto della sua agitazione.
“Fuusuke non mi aveva mai parlato di te!” cinguettò allegramente l’uomo al suo fianco, e Kira si voltò per guardarlo tra il furente e l’imbarazzato. Non aveva bevuto una sola goccia di alcolico, ma si sentiva andare a fuoco. “Cosa sta facendo, esattamente?” chiese, disperato e scioccato da quel suo comportamento.
Ryuuji sorrise e gli rivolse uno sguardo enigmatico. “Il mio lavoro: intrattengo i clienti.”
“Intrattenere i clienti significa anche non staccare gli occhi di dosso dal sottoscritto per l’intera serata? Non sa quante battute ho dovuto sopportare!” protestò. “Si contenga!”
Midorikawa sospirò. Prese il suo bicchiere ancora pieno e se lo portò alle labbra con nonchalance, per inghiottire un sorso di alcool. “E chi ti dice che stavo guardando proprio te? Rilassati.”
Al suo sguardo affilato e al suo sorrisetto sfottente Hiroto non seppe cosa rispondere: sembrava una persona completamente diversa da quella che aveva conosciuto, e il pensiero lo ammutolì. Rimase a fissarlo mentre beveva la sua sangria, assieme ad ogni sua certezza.
Ryuuji appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolino e sembrò riscuotersi, lanciandogli un’occhiata seria. “Risponderò ad ogni tua domanda. Ma non qui, mentre sto lavorando. Ti va di incontrarci dopo?”
Hiroto lo studiò attentamente: era la prima volta in tutta la serata che lo vedeva così, e seppe che non stava scherzando. “Mi daresti un passaggio fino a casa?” chiese.

 

modificato: 21/07/20

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Capitolo 12
*** twelve ***


ombrelli sotto la pioggia
Anche dopo che gli ultimi clienti se ne furono andati, nel locale ci fu comunque un grande via vai di gente. Hiroto si era spostato in un tavolo più vicino al calore dei termosifoni, per sfuggire al freddo delle tre di notte attutito appena dallo smog cittadino. Da quella posizione poté scrutare apprensivo un sacco di camerieri che si adoperavano per sistemare gli ultimi tavoli e dare una sistemata all’ambiente; i ragazzi che si erano esibiti fino a poco tempo prima li aiutarono, nonostante fossero esausti. Anche lui aveva tentato un po’ goffamente di rendersi utile, portando i bicchieri lasciati sui tavolini fino al bancone, dove un uomo dalla pelle cadaverica e il naso aquilino stava dando una passata alla superficie sporca; si era solo sentito ancora più fuori posto, perché tutti sembravano conoscersi molto bene e si rivolgevano tra di loro con schiamazzi e risate, ma nessuno faceva troppo caso a lui.
Ryuuji gli si avvicinò solo quando il locale fu sistemato e lo invitò silenziosamente a seguirlo nel retro: quando Hiroto aprì la porta, scoprì che era stato adibito a camerino per le star del locale. Oltre a Ryuuji vi erano altri due uomini di poco più giovani, entrambi vestiti in modo inusuale e dai lunghi capelli tinti e lasciati sciolti sulle spalle. Uno di loro, il chitarrista, doveva chiamarsi Afuro: lo aveva sentito più volte nominare da Ryuuji nell’arco della serata. Non avevano fatto altro che cantare e suonare e in particolare Midorikawa sembrava senza forze; i suoi colleghi si lanciarono immediatamente in direzione delle docce, lui si sedette su uno sgabello e davanti allo specchio iniziò a struccarsi. Inizialmente Hiroto rimase sullo stipite, in piedi, poi preferì sedersi su una panca di legno posta vicino all’entrata e lontana dagli spogliatoi.
“Dannazione!” imprecò d’un tratto il chitarrista, e Hiroto scorse la sua chioma platino fare capolino da una delle docce. Era ancora parzialmente vestito e si stava portando freneticamente le mani dietro la schiena. “La cerniera si è inceppata! Sakuma mi dai una mano?”
“No” rispose secco il compagno, e quasi a volerlo sottolineare azionò la doccia e lo scroscio d’acqua coprì le sue parole. Midorikawa, per tutta risposta, scosse appena la testa: era evidentemente concentrato nel rimuovere del trucco ostinato e aveva le mani impiastricciate di detergente. Hiroto si alzò automaticamente e appena Afuro lo notò si precipitò verso di lui. “Grazie, Salvezza!” lo nominò, girandosi e alzando i capelli per aiutarlo nell’azione. “Si è impigliata una ciocca, la vedi?”
Hiroto armeggiò con la lampo di quello che sembrava a tutti gli effetti un corsetto, le dita tremanti per l’imbarazzo. Era la prima volta che si trovava a un contatto così stretto con una persona di quel tipo. E con un uomo in generale. Ammesso che un uomo potesse portare un corsetto.
“Sia ringraziato il cielo!” esclamò la star, prendendo a respirare con sollievo. “Non ci credo, devo essere ingrassato!”
Midorikawa si lasciò scappare una risata, tra lo scherno e il divertito. “Trattieni il respiro, forse ci stai”
Afuro fece un gesto distratto di noncuranza, poi si rivolse a Hiroto. I suoi occhi erano di un colore scarlatto fuso, probabilmente dato da delle lenti a contatto. “E tu chi saresti? La nuova conquista di Ryuuji-chan?~”
Hiroto arrossì fino alla punta dei capelli. “N-non sono nulla del genere!”
“Non lo è” confermò in suo aiuto Midorikawa, portandosi l’ultimo ciuffo di cotone agli occhi. Tuttavia Afuro non demorse e scoccò un’occhiata furba ad entrambi. Stava giusto per aggiungere qualcosa quando l’altro lo batté sul tempo. “Vai a farti la doccia, non ho tutta la notte.”
“Se vuoi la mia è libera” sospirò una voce dai camerini. Midorikawa si alzò e prese la sua borsa, appoggiata in un angolo. Rivolse appena un’occhiata ad Hiroto, poi andò verso le docce con Afuro, che per ultimo gli ammiccò sorridendo.
Rimase solo per breve tempo, poi un personaggio smilzo e silenzioso comparve da uno dei camerini e gli rivolse un’occhiata incuriosita, prima di avviarsi verso la porta. Hiroto non poté fare a meno di notare che dove prima sostava una benda nera da pirata, ora c’era un semplice cerotto sormontato da un paio di occhiali da vista. “Ci becchiamo in giro!”
Dagli altri due, sotto la doccia, provenne un saluto smorzato dallo scrosciare dell’acqua.
 
Quell’atmosfera rilassata se ne andò del tutto nel momento in cui salirono in macchina: improvvisamente, seppur assonnato, Hiroto ricordò il motivo per il quale era rimasto fino alla fine e la ragione per la quale aveva voluto farsi portare a casa. Ma prima che potesse formulare un pensiero coerente, Midorikawa sbuffò sonoramente facendolo sussultare.
Sembrava che senza tutti quegli strati di trucco l’uomo avesse ritrovato la personalità con la quale l’aveva conosciuto: pareva incredibilmente stressato e assonnato, ma soprattutto imbarazzato. Di certo non era la situazione nella quale lui stesso avrebbe voluto trovarsi, quindi in parte poteva capirlo. Voltò lo sguardo da un’altra parte, stringendosi nel piccolo spazio della Smart senza una parola. Pensò distrattamente che anche senza quel rossetto viola e i brillantini attorno agli occhi era particolarmente bello.
“Lei che ci fa qui?” si chiesero infine all’unisono, e Hiroto si sentì avvampare. Ryuuji ebbe più o meno la stessa reazione, ma continuò comunque a fissarlo e quando il silenzio si fece più pesante accese il motore. Esso produsse un rombo rassicurante e buffo, che in qualche modo smorzò l’atmosfera tesa.
“Sono stato costretto dai miei fratelli.”
“Li conosco bene, ma non mi avevano mai parlato di te.”
“Questo perché ci siamo incontrati solo di recente dopo tanto tempo.”
Ryuuji annuì: con una manovra fluida uscì dal parcheggio e si immise nella strada deserta. Un gruppetto di persone sostava ancora davanti al bar, probabilmente i camerieri che si erano ritrovati per una sigaretta, e tra loro c’era anche Afuro: li salutò sventolando un braccio allegramente. Midorikawa ricambiò con i fanali.
“Io faccio parte di una band e ci esibiamo in questo locale tutte le sere. Saremmo in otto in realtà.” spiegò. “Ci piace fare covers, ma a volte ci esibiamo anche come ballerini. Io sono il vocalist, Afuro è il chitarrista e Sakuma si occupa della tastiera. Ci siamo dovuti dividere in due gruppi perché siamo molto richiesti nella zona.”
Hiroto ascoltò in silenzio, scrutandolo di tanto in tanto: parlava con calma, perfettamente lucido. Si chiese se avesse bevuto altro oltre alla sua sangria, ma in ogni caso sembrava reggere molto bene il tasso alcolico. Sperò che nessun poliziotto li fermasse. “Da quanto tempo lo fai?”
“Tredici anni, credo. Oddio.” Ryuuji sbarrò leggermente gli occhi, come se l’idea lo avesse sfiorato solo in quel momento. “Sto invecchiando!”
A Kira sfuggì un sorriso. “Non dimostra affatto la sua età, anche se posso solo immaginarla.”
Ryuuji ricambiò con una ghignetto innocente. Aveva mantenuto l’orecchino pendulo, una pietra viola impreziosita da una bordatura dorata: probabilmente non era solo un accessorio di scena. “Che età pensi che io abbia? Sono curioso.”
Hiroto avvampò: non avrebbe voluto risultare scortese, ma doveva ammettere che il dialogo stava prendendo una piega rilassata e la cosa non gli dispiaceva. “Ecco... Uh... Kariya ha quindici anni giusto? Quindi... pensavo... Una quarantina? Qualcosa di simile?”
E in quel momento il baluginino nei suoi occhi lo interruppe e lo ammutolì. Osservò le sue labbra incresparsi in un sorriso furbo, ma addolcito e in un certo senso malinconico. Non aveva mai visto su nessun altro un sorriso simile: quel fatto lo spiazzò e poté sentire distintamente il suo cuore battere forsennatamente nel petto. Avvertì una specie di contrazione al di sopra dello stomaco e si contrasse appena. “Trentaquattro. Ho trentaquattro anni.”
Trentaquattro. Hiroto passò dal rosso intenso al pallido cinereo. Non avevano una grande differenza di età, lui stesso era piuttosto giovane per essere un insegnante plurilaureato... Ma avere una laurea era molto diverso dall’avere un figlio. Si sentì incredibilmente a disagio a pensarci e preferì rimanere in silenzio. Alcuni pezzi di puzzle iniziarono a disporsi nella sua mente.
“Ha detto di aver divorziato quando Kariya aveva cinque anni...” rifletté, cauto. “Ha iniziato quest’attività prima o dopo quel momento?”
Midorikawa aveva perso il sorriso, ma continuò a guardare la strada davanti a sé. “Credo che tu ci sia arrivato da solo.” rispose soltanto, e Hiroto capì.
Per tutti i Kami, pensò soltanto. “Perché?” chiese invece, alla fine.
“Perché sapevo di essere omosessuale e mi piaceva,” replicò lentamente l’uomo “ma soprattutto perché avevo un disperato bisogno di soldi. E le cose non sono cambiate.”

 

modificato: 21/07/20

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Capitolo 13
*** thirteen ***


tw: attacco di panico
ombrelli sotto la pioggia
Si svegliò appena avvertì la porta chiudersi e il buio lo avvolse con la terribile semplicità della morte.
Sua madre era appena tornata a casa.
Tese l’orecchio, i muscoli in tensione e pietrificati. Si mise seduto e, appena avvertì il rumore delle chiavi appoggiate sulla credenza nell’atrio, si mise a tremare. Avrebbe dovuto nascondersi, ma le gambe si rifiutavano di obbedirgli. Avrebbe dovuto chiamare qualcuno, ma non riusciva a muoversi in qualsiasi modo. “Mamma?” chiamò una voce piagnucolante, la sua, e aspettò una risposta che non arrivò mai.
Le prime lacrime iniziarono ad irrompere e a sgorgare lungo le sue guance pallide e il primo lamento fuoriuscì dalla sua bocca. “Mamma, non farmi del male, mamma...”
Si accese una luce al di là della porta e Kariya smise di respirare. Quando l’apnea iniziò a farsi insopportabile iniziò a singhiozzare violentemente, il corpo scosso dai brividi di freddo, gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto. Deciso a non fare nessun rumore, si raggomitolò stringendosi forte la pancia e la bocca, per evitare che qualsiasi suono fuoriuscisse dalle sue labbra. La paura gli aveva afferrato le gambe e le aveva strette nella sua morsa distruttrice.
“Masaki-kun?” chiamò una voce indefinita, e un’ombra coprì il fascio di luce che spirava da sotto la porta. “Masaki, sei lì dentro?”
La porta ebbe un sussulto, come se qualcuno avesse cercato di aprirla dall’esterno. Poi un’altro scossone più violento che gli strappò un gemito di paura. “Masaki... apri la porta...” La voce era tremula e acuta. “Masaki, ti sento piangere... apri la porta...”
Kariya si infilò sotto le coperte, tremando. Avrebbe voluto urlare di andarsene, ma era sua madre, si sarebbe arrabbiata... Si nascose in fondo al letto e pregò che il momento passasse, così come era arrivato.
“Masaki, m-mi stai facendo preoccupare...” Sua madre era sull’orlo del pianto. Succedeva sempre quando era ubriaca.
Non avrebbe permesso a nessuna supplica di scalfirlo, non avrebbe mai aperto la porta. “Vai via” iniziò a sussurrare. “Vai via” Una cantilena inudibile, uno scongiuro, una preghiera. “Vai via, vai via, vai via...”
Sentì dei passi allontanarsi velocemente e ci fu un attimo di silenzio in cui tutto si ristabilì e lui riuscì lentamente ad uscire dal suo nascondiglio, all’erta. Poi un giro di chiavi lo avvertì che la porta stava per essere aperta e cacciò un urlo, coprendosi istintivamente con le braccia. Sua madre premette l’interruttore e una luce opaca si diffuse nella stanza.
“M-Masaki!” esclamò la voce di prima, già più famigliare ma estranea. Kariya abbassò con lentezza le braccia e si accorse che in piedi sulla soglia c’era suo padre. Che quella camera gli apparteneva da solo qualche settimana, ed era diversa. Che non era a casa. Che nessuno avrebbe alzato le mani su di lui.
Si guardarono sconvolti per qualche istante: Ryuuji tenne lo sguardo fisso su di lui per tutto il tempo, gli occhi e la bocca sbarrati per lo shock, e anche lui non dovette avere un’espressione dissimile in viso, ma forse per un altro motivo. Poi, passato il momento di sconcerto, Kariya riprese a tremare e a piangere, e i suoi tentativi di soffocare il tutto peggiorarono soltanto le cose. Come sempre. Non imparava mai.
Suo padre fece qualche passo nella stanza. Era restato esattamente identico a quando era uscito qualche ora prima, aveva solo i capelli sciolti, un po’ scompigliati e umidi di pioggia, ma gli era del tutto estraneo. Istintivamente si ritrasse, ma non scese dal letto e lasciò che si sedette accanto a lui.
“M-Masaki...” chiamò suo padre, ma lui non rispose. Era ancora tra le fauci del panico. Si limitò a fissarlo e a singhiozzare e a rabbrividire senza riuscire a fermarsi.
“Masaki... non... non chiuderti più dentro, per favore.” sussurrò suo padre, sconvolto. “Hai capito?”
Gli ci volle uno sforzo enorme per annuire: era come se il suo corpo fosse del tutto paralizzato. Ryuuji allungò una mano verso di lui e non riuscì a impedire che lo toccasse e lo accarezzasse: incredibilmente, fu un tocco dolce e benefico. Con la mano premuta sulla sua guancia, Kariya iniziò per istinto a inspirare ed espirare pesantemente, con calma, cercando di regolarizzare il respiro. “Così, bravo” lo incitò suo padre con voce calda. “Stai andando benissimo”.
Andò avanti così per minuti interi. Ryuuji non fece altro che tenergli una mano appoggiata sulla guancia per tutto il tempo e a mormorargli parole di conforto: piano piano, Masaki riuscì ad acquisire il controllo del proprio corpo e della propria mente, e piano piano non rimasero altro che deboli singhiozzi a testimoniare quello che era appena successo.
“Va meglio?’ sussurrò suo padre. “Vuoi che vada via?”
Masaki non rispose. Chiuse gli occhi e si rilassò contro il cuscino, desiderando soltanto che il momento passasse in fretta. Non rivolse un solo sguardo a suo padre, ma percepì i suoi occhi preoccupati su di sé. Avrebbe voluto ringraziarlo, ma non ne trovava il coraggio.
“Adesso vado di là a fare una tisana... ne vuoi una?” domandò gentilmente l’adulto, allontanando delicatamente la mano da sé. Nonostante l’iniziale sensazione di vuoto, Masaki gli fu silenziosamente grato. Scosse piano la testa e si girò dall’altra parte, concentrandosi solo sul suo respiro.
Non si addormentò subito, così come suo padre non uscì immediatamente dalla stanza: rimase seduto sul suo letto per un po’, forse per controllare che andasse tutto bene. Kariya lo trovava fastidioso e rassicurante insieme, ma non lo avrebbe mai ammesso. Poi l’uomo abbandonò la stanza e dopo un tempo indefinito e silenzioso si addormentò inconsapevolmente.
 
Fu svegliato da dei rumori di stoviglie provenienti dalla cucina, ma non volle alzarsi subito dal letto. Ascoltò a orecchie tese la voce intonata di Ryuuji canticchiare uno stupido motivetto natalizio, e il leggero rumore delle porte delle credenze che venivano aperte e chiuse. Riuscì a percepire persino il rombo della moca lasciata sul gas, e lo sciacquio della lavastoviglie in azione.
Uscì in pigiama, insonnolito e serio in viso. Sul tavolo era stata imbandita la colazione del sabato mattina, un insulto alla dieta e alla decenza. “Buongiorno...” mormorò in direzione di suo padre, chinato (incastrato?) all’interno di una credenza posta in basso. Sembrava stesse cercando qualcosa.
“Buongiorno!” cinguettò con eccessiva allegria l’adulto. “Sto cercando la piastra per le frittelle, scusami.”
“Fai pure...”  Kariya fece spallucce e si avvicinò alla porta-finestra del terrazzo. “Ma sta nevicando di nuovo?”
“Ci credi? Sembra che quest’inverno sarà da record, non avevo mai visto tanta neve!”
Ok, stavano iniziando a conversare troppo per i loro standard. Masaki decise di chiudersi nel mutismo e si sedette sulla sedia, iniziando a sgranocchiare qualche biscotto. Strano, non aveva visto suo padre cucinare... non era nemmeno sicuro ne avesse avuto il tempo. Eppure sembravano fatti in casa.
Ryuuji emerse dal caos della credenza e gli sorrise in maniera smagliante. “Dormito bene?” domandò, ma senza superficialità. Ebbe la sensazione che fosse davvero interessato.
Kariya alzò le spalle e affondò lo sguardo nel suo piattino di ceramica. “Sì. Uhm, credo. Non... non lo so.” farfugliò in maniera quasi incomprensibile. “Io... ecco... non so cosa mi sia preso. Cioè, in realtà lo so ma... vorrei che tu dimenticassi quello che è successo.”
Ci fu un attimo di silenzio in cui Kariya sperò che non ci sarebbero state altre domande.
“In realtà credo sarà un po’ difficile per me...” confessò l’adulto, e Masaki non poté trattenersi dal lanciargli un’occhiata di sfuggita: aveva appoggiato la piastra sul tavolo, ma gli stava rivolgendo la sua completa attenzione. Una cosa che non gli capitava di frequente. “Insomma... non riesco a non sentirmi vagamente in colpa per quello che ti sta succedendo e... veramente vorrei farti una proposta.”
Kariya raccolse tutto il coraggio che aveva per guardarlo negli occhi. Per un attimo, gli parve che stesse succedendo qualcosa di surreale.
“Hai... programmi, per stasera?”

modificato: 21/07/20

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Capitolo 14
*** fourteen ***


ombrelli sotto la pioggia
Suo padre era spaventosamente intonato, tanto che Kariya non aprì bocca per tutto il viaggio: interiormente avrebbe canticchiato volentieri, se solo non si fosse sentito in tremendo imbarazzo. Era la prima volta che salivano in macchina insieme senza che lui avesse la minima idea di dove stessero andando... terrorizzato, si chiese se almeno Ryuuji ne fosse a conoscenza.
Sugar how you get so fly~” canticchiò l’uomo tamburellando le dita sul volante a tempo.
Masaki preferì sprofondare nel sedile e osservare le sporadiche goccette di pioggia che ogni tanto disturbavano in modo innocuo la visuale.
“Troveremo un po’ di traffico quando passeremo per il centro, ma credo ci vorranno un paio di ore” gli aveva detto caricando i sacchi a pelo nello stretto spazio dietro i sedili. “Non te ne pentirai!”
In realtà Masaki iniziava già a pentirsi, e in un certo qual modo ad inquietarsi. Quando, dopo almeno un’ora di viaggio, iniziarono ad allontanarsi dalla città verso sud, iniziò a lanciargli occhiate nervose: tutto quello che avevano era due sacchi a pelo, un cambio di vestiti e tre bottigliette d’acqua. E Masaki non era mai uscito da Tokyo, ma a questo punto gli sembrava superfluo chiedergli la loro destinazione. “Ci vorrà molto?” riuscì a domandare soltanto, e l’adulto gli rivolse uno sguardo rassicurante. “No, non molto. Faremo alcune tappe, comunque.”
“Mh” replicò soltanto il ragazzino sprofondando nel sedile. Quell’auto era così piccola... non gli dava un gran senso di sicurezza, sebbene suo padre avesse una guida prudente anche se non erano imbottigliati nel confortante traffico cittadino. Quando da dietro una curva un tir venne loro incontro si appiattì bruscamente, avvertendo con vergogna che era terrorizzato.
“Io guarderei fuori dal finestrino fossi in te: ti trovi dalla parte giusta!” In qualche modo le parole di suo padre lo sollevarono un poco: per distrarsi fece quanto consigliato e la distesa dell’oceano, ingrigita dal cielo, sembrò tranquillizzarlo. Non si era ancora ripreso dall’attacco della sera precedente, e tutto attorno a lui gli sembrava sinistro e ostile: aveva sempre combattuto quel sentimento con una buona dose di arroganza e cattiveria, eppure in quel momento si trovava del tutto impotente nelle mani di suo padre. Non si sentiva al sicuro.
Percorsero la strada panoramica fino a quando i grattacieli grigi e il porto non scomparvero dietro gli alberi della boscaglia rada. Non era un posto esattamente isolato, ma di certo completamente differente rispetto alla metropoli in cui era vissuto: di tanto in tanto, piccoli centri abitati facevano la loro comparsa.
“Io provengo da queste parti” spiegò Ryuuji. “I miei mi cacciarono di casa appena feci coming out e mi trasferii a Tokyo.”
Masaki non si voltò per non dare segno di aver ascoltato: in realtà sentiva distintamente un groppo all’altezza della gola e tornò a premere la schiena contro il sedile. Tuttavia Ryuuji non aggiunse null’altro, limitandosi ad annunciare ad alta voce la loro entrata nel distretto Shizuoka dopo quasi due ore di viaggio. Poi, improvvisamente, accostò in una zona piana appena fuori dalla strada e spense il motore. “Eccoci qui!”
“Siamo... Nel bel mezzo del nulla” osservò sbigottito Masaki, senza riuscire a trattenersi.
“Non proprio, pensavo di fare una piccola tappa!” spiegò Ryuuji sorridendogli e uscendo dall’auto. Kariya slacciò la cintura e cautamente scese a sua volta. Poteva sentire il rumore pigro e borbottante dell’acqua infrangersi sugli scogli, ma questo non lo invogliò affatto a fare un bagno: il freddo era pungente e il cielo plumbeo minacciava solo pioggia. Suo padre, tuttavia, prese una coperta e scavalcò il cavalcavia.
“Di’ un po’, sei impazzito per caso?” sbottò il ragazzo, non riuscendo in nessun modo a risultare comprensivo. “Vieni e taci!” si sentì rispondere quasi a tono, e questo bastò ad ammutolirlo.
Come sospettava, il mare mosso aveva disseminato gli scogli di detriti di tutti i generi, dai comuni ceppi sradicati ai tristi rifiuti di plastica. Nemmeno Ryuuji sembrò troppo sorpreso, ma trovò un po’ di difficoltà a trovare un posto adatto per stendere la coperta. Il vento, inoltre, non sembrava proprio aiutare le loro condizioni.
“Vieni!” lo invitò a stendersi l’uomo, stretto nel suo cappotto bianco. “Ho portato un po’ di tè, non ci congeleremo.”
Masaki rimase in silenzio. Poi, lentamente, gli si avvicinò e si sedette sulla coperta che aveva più volte visto appoggiata sul divano. “Che facciamo?”
“Niente. Guardiamo il mare. E io ti racconto qualcosa di me e tua madre.”
“Mi sembra un piano schifoso” non poté fare a meno di notare Kariya, prendendo un po’ di distanza da lui ma accogliendo fra le mani il thermos caldo che aveva sfilato dalla borsa.
Midorikawa gli sorrise inaspettatamente. “Almeno qui non potrai scappare.”
Il ragazzo a quelle parole non poté fare a meno di irrigidirsi e si strinse nelle spalle, avvertendo un freddo improvviso. La distesa burrascosa e grigia si estendeva davanti ai loro occhi con vivace e insolita innaturalezza. Eppure il cielo sembrava immobile, sospeso placidamente al di sopra delle loro teste, pronto a piombare su di loro.
Suo padre iniziò a raccontare, e Masaki si sorprese quando capì che stava spettando questo momento.  “Io conobbi tua madre all’università. Non era una cattiva ragazza, solo... beh... Era convinta che fossimo fatti per stare insieme. E quella notte io...” La prima interruzione arrivò a bloccare i primi pensieri. Ecco, non si era preparato un discorso: quella volta avrebbe parlato semplicemente con il cuore. “No, non voglio parlarne. Sappi solo che quando mi disse di essere incinta, rimasi spiazzato. Ero... così giovane! Non sapevo niente del mondo, avevo solo diciannove anni! Avevo già il lavoro da commesso, ma non era sufficiente.”
Masaki ci pensò. Era stato un errore, dunque? Di certo non aveva mai pensato che fosse frutto di un rapporto sano, tantomeno affettivo. Tuttavia... quella confessione faceva più male delle semplici ipotesi. Strinse le ginocchia al petto e si impose di non ascoltare.
“Decisi di abbandonare totalmente gli studi e di trovare lavoro, per permettere a tutti di vivere serenamente. Trovammo la stabilità economica solo quando tu fosti già nato. Ma io... Io non ero felice con lei. Per questo feci coming out anche con lei, sperando che potesse comprendere... Il resto lo sai.”
Aveva rovinato la vita ai suoi genitori: era sempre stato convinto che fosse suo padre la causa del disfacimento della loro famiglia, ma in fondo lo erano mai stati? Per la prima volta in vita sua non trovava così improbabile la possibilità che anche sua madre avesse avuto una parte di colpa in tutto questo. “Lei mi aveva detto che la stavi tradendo. Immagino che...”
“È vero.”
Quelle parole lo paralizzarono e bloccarono ogni suo pensiero. Kariya sbarrò gli occhi e gli rivolse uno sguardo di sorpresa e timore.
“Io l’ho sempre tradita. Avevo un amante.”
Masaki fece per alzarsi, indignato e inferocito assieme. “Tu...!” iniziò, ma non avrebbe saputo cosa dire. Ryuuji non lo fermò, né lo guardò. Si limitò ad osservare il mare, in silenzio. Sembrava assorto nei suoi pensieri, e questo inspiegabilmente lo fece desistere dall’andarsene.
“Kariya...” mormorò infine suo padre. “Io ero un uomo molto diverso allora: timido, gentile, insicuro... Tua madre se ne approfittò, e non fu l’unica. Non voglio parlare di questo soltanto perché lo troverei irrispettoso nei tuoi confronti e nei confronti di un morto in generale.”
Lo sciabordio delle onde aveva un che di ipnotico. Masaki rabbrividì e rimase ad ascoltarlo.
“Io... ero molto, molto felice che tu esistessi. Ti amavo tanto, Kariya, e ti amo anche ora. Ma ieri sera... ho realizzato che non posso pretendere nulla da te, non dopo tutto quello che ti è successo. Vi ho abbandonati entrambi a voi stessi. E di questo non mi perdonerò mai.”
Masaki trattenne a stento un singhiozzo e suo padre si accese una sigaretta.

 

Angolino di Fay
DOVEVA ESSERE PIÙ LUNGO ma mi sa che lo taglierò in due c:
Questa fanfiction si sta rivelando più lunga del previsto, ma non mi dispiace alla fine! Quello che un po’ mi preme è di raccontare i fatti per quanto possibile, e che voi non facciate confusione... del resto è tantissima roba :(( Non preoccupatevi, ci sarà modo di sapere di più in seguito... Poi starà a voi rimettere a posto i pezzi! Ditemi se fino a qui è abbastanza chiaro...

modificato: 21/07/20

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Capitolo 15
*** fifteen ***


ombrelli sotto la pioggia
Il piccolo bar della scuola era gremito di studenti, al punto che non era possibile passarci attraverso. Hiroto sperò vivamente che Suzuno fosse soltanto in ritardo e non fosse stato inghiottito dalla folla di alunni che si accalcavano l’uno sull’altro per conoscere la nuova barista, ma appena vide la sua chioma bianca sbucare al di sopra della testa di Hamagi, un suo alunno della 2^B, si rassicurò.
“Decisamente un luogo e un momento perfetto per una chiacchierata, mi complimento con te” osservò con sarcasmo il nuovo venuto, sedendosi su uno degli stretti sgabelli: almeno era riuscito a trovare un posto abbastanza appartato. “Di cosa devi parlarmi? Vuoi ancora consigli su come eliminare le macchie di caffè dalle camicie?
Hiroto sorrise imbarazzato e si mise comodo per quanto possibile. “In realtà volevo parlarti di una cosa abbastanza personale, spero non ti dispiaccia”.
Suzuno gli lanciò un’occhiata di rimprovero e leggero astio. “Sul serio, ma hai visto dove siamo?” chiese irritato, facendo un gesto eloquente. “Un caffè, grazie. Senza niente.” ordinò poi alla studentessa che si era avvicinata per prendere le loro ordinazioni. Non era per caso la ragazza che si era presa una cotta per lui l’anno prima? Dal rossore che le imporporò inevitabilmente le guance paffute avrebbe giurato di sì.
“Per me un succo di frutta, grazie Haru” le sorrise candidamente il suo fratellastro, prima che questa se ne andasse con il suo taccuino. Poi si rivolse nuovamente a lui: “Due domande veloci su una conoscenza che abbiamo in comune, non ci metterò molto.”
Fuusuke sospirò fremente: sembrava di pessimo umore. Hiroto non avrebbe invidiato mai gli studenti che lo avrebbero dovuto sopportare nella prossima ora, e in un certo senso si sentiva in colpa perché causa di tale nervosismo probabilmente sarebbe stato anche lui. “Parla, ti ascolto” borbottò l’insegnante di matematica, sfilando dalla borsa alcune cartelline di compiti. Per chiunque sarebbe risultato un gesto maleducato, ma Hiroto lo conosceva abbastanza bene da capire che lo avrebbe davvero ascoltato. A Suzuno, incredibilmente, riusciva naturale correggere i compiti con la confusione.
“Si tratta di Ryuuji.”
La reazione di Fuusuke fu sorprendentemente immediata e sconcertante: alzò il capo, lo fissò senza dire nulla e infine, dopo lunghissimi secondi, si decise a sbattere convulsamente le palpebre. “Ah”.
Hiroto cercò di non dare peso a quella curiosa reazione, anche se in qualche modo lo inquietò: quell’uomo, in genere così pacato e impassibile, sembrava essere stato colto di sorpresa. “Già. La scorsa sera mi è sembrato che voi due andaste molto d’accordo, quindi volevo chieder-“
“Siamo stati compagni di stanza all’università.” tagliò corto il collega in maniera del tutto sbrigativa. La notizia bastò a lasciarlo basito ancora di più.
Hiroto rimase in silenzio. “U-università?” chiese, sbigottito e un po’ confuso. “Mi ha detto che fa il commesso...”
Suzuno parve tornare in sé, quindi chinò il capo su una verifica consegnata praticamente in bianco. Non c’era molto da correggere dunque, ma da insegnante metodico qual era ci mise comunque il suo tempo. “Sì, beh, sono successe molte cose e non è andata bene” mormorò. “Altro?”
“Che facoltà frequentava? Matematica come te?” non poté fare a meno di domandare Hiroto.
Altro segno rosso. “No, astrofisica.”
Silenzio.
“Beh in realtà non era di questo che volevo parlare, ma grazie per l’informazione-bomba...” sussurrò a un fil di voce l’insegnante di scienze. Non sapeva bene cosa pensare.
Suzuno alzò appena gli occhi cerulei al di sopra degli occhiali sottili. “Mi auguro che tu non sia uno stalker di pessima categoria!”
Hiroto arrossì leggermente e scoppiò in una risatina che aveva un che di isterico. “È solo curiosità!” disse. Fuusuke era quasi certo che non avrebbe mai compreso suo fratello appieno, perciò spesso e volentieri si lasciava trasportare dalle sue idee balzane con rassegnazione. E così avrebbe fatto.
“Se intendi provarci con lui sappi che è stato sposato e ha un figlio... Cioè, è gay ma ha un figlio, questo dovrebbe suggerirti qualcosa. Ti conviene stare alla larga da una situazione simile” commentò soltanto, abbassando nuovamente il capo sul foglio. Decise di mettere un 15 per pietà.
Hiroto sembrò calmarsi e sul suo viso non rimase nient’altro che un’espressione dolcemente malinconica. Tenne gli occhi bassi sul succo di frutta che Haru gli mise sotto il naso.  “Lo so... ma è divorziato e... sua moglie è morta. Vorrei aiutarlo a ristabilire un rapporto con suo figlio... lo sai come sono fatto, l’empatia e quelle cose lì.” mormorò.
Anche Suzuno preferì affondare lo sguardo nel denso liquido scuro nella tazzina. Lo bevve in un sorso, bollente e amaro com’era, senza battere ciglio. “Non sapevo della morte di sua moglie. Mi dispiace.”
Non gli dispiaceva.
Rimasero per un momento in silenzio, senza fare nulla. Suzuno lasciò la penna rossa sul tavolo e Hiroto non sfiorò il bicchiere.
“Fuu...” sussurrò ad un certo punto l’insegnante di scienze, alzando lievemente il capo. Non lo chiamava così da anni: anche Suzuno al richiamo alzò la testa. “Fuu... Ha degli occhi meravigliosi. Non li hai notati anche tu?”
C’era un sorriso sulle labbra di Hiroto. Suzuno non era sicuro di averne mai visti di così, sul suo volto di solito pallido e delicato: sembrava stonare con la sua bellezza diafana, tanto sembrava triste e inconsolabile. Si chiese quanto volte avesse avuto quella stessa espressione da idiota e sorrise a sua volta con malinconia. Abbassò lo sguardo sul compito in bianco dell’ennesimo alunno e pensò agli occhi di Ryuuji... gli occhi di Ryuuji. La sua risata. Il suo corpo rovente contro il suo.
“Suzuno, ho bisogno di sapere se c’è stato altro tra di voi.”
“Ti interesserebbe così tanto?”
Alla sua risposta Fuusuke si concentrò sul vociare attorno a loro, sul profumo del caffè, sul tocco delle sue mani lisce contro il tavolino freddo, sul gusto amaro della sua lingua... e chiuse gli occhi.
Hiroto lo fissò in attesa per attimi che parvero interminabili. “Sì” gli aveva detto semplicemente.
Per un attimo solo, attorno a loro non ci fu nient’altro che il vuoto.
Suzuno fece passare troppo tempo. Poi si alzò con tutta calma e prese il pacco di compiti per riporlo nuovamente nella cartella. “Hiroto... Ti confesserò una cosa” esordì con gelida pacatezza. “Non mi è mai piaciuto che tu ti interessassi troppo dei miei affari.”
Kira seppe in quell’attimo esatto che Fuusuke stava per ferirlo. Si alzò in piedi, tentando di afferrarlo e trattenerlo, ma il fratello scostò il braccio per divincolarsi dalla presa. E all’uomo non rimase altro che sorbirsi la freccia scura che stava per trapassargli il costato.
“Quando morì nostro padre non ti facesti vedere per dodici anni. Come credi che abbiamo vissuto, eh? Io e Nagumo. E Maki...” mormorò in fretta l’albino, senza guardarlo. “Pensi davvero di intrometterti nella mia vita in questo modo?”
A Hiroto non rimase altro che restare inerme: ricordi dolorosi e inaspettati riaffiorarono dall’abisso di un passato incosciente e oscuro.  “Io non...” tentò di dire, ma la sua lingua sembrò bloccarsi. No. Suzuno non aveva torto, e lui lo sapeva.
“Hai ragione, tu non hai fatto nulla. Nemmeno per cercarci.”
Se ne andò semplicemente, riuscendo ad immergersi nella folla soltanto per pagare e uscire di fretta.
Non pensava tutte quelle cose. Non davvero.
 
Pochi minuti dopo l’insegnante entrò nella classe 2^C e sbatté il plico di fogli sulla cattedra immacolata. C’era un disgustoso odore di patatine e caffè eccessivamente zuccherato, ma il silenzio che era riuscito a stabilire in quel contratto di terrore tra alunni e insegnante era a dir poco accettabile.
“I vostri compiti non sono stati all’altezza delle aspettative.”

modificato: 21/07/20

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Capitolo 16
*** sixteen ***


ombrelli sotto la pioggia
“Venivo spesso qui da studente, probabilmente non si ricordano di me” bisbigliò soltanto suo padre di fronte alla ciotola di ramen. Masaki fece soltanto un cenno distratto con il capo, tenendo lo sguardo basso sul suo piatto: l’arredamento tradizionale di quel posto era decisamente inquietante e gli provocava un vago senso di nausea. Non avrebbe saputo specificare il motivo.
Era piuttosto tardi, ed era stata di certo una fortuna sfacciata quella di trovare un ramen-ya ancora aperto: la piccola cittadina di Izusan per il resto sembrava già immersa in un sonno profondo e silenzioso, e Masaki non avrebbe saputo darle torto. Era esausto, specialmente dopo aver discusso con suo padre in quel modo.
La tensione tra loro era palpabile, ma stranamente non invadente. In un certo senso c’era sempre stato quello spazio a dividerli, semplicemente in quel momento era visibile ai loro occhi. Non restava altro che comportarsi normalmente, come avevano sempre fatto: perfetti estranei in una convivenza forzata.
“È buono? Fai assaggiare” gli sorrise l’adulto allungando le bacchette verso la sua pietanza. Masaki non reagì in nessuna maniera: se si fosse trattato di qualcun altro si sarebbe arrabbiato da morire. Però... però… C’era ancora quel muro invisibile. Un muro fatto di incertezza e rabbia, più che di paura o odio. Fino a quel momento, del resto, suo padre non aveva alzato le mani su di lui nemmeno una volta; era anzi stato piuttosto comprensivo e paziente nei suoi confronti, doveva riconoscerlo. Eppure...
“... buio”.
Masaki scosse la testa per scacciare quei pensieri. “Come scusa?”
“Sarà meglio avviarci, prima che faccia troppo buio.” ripeté suo padre, allungando pochi yen sul bancone. “Staremo da un mio amico, va bene?”
“Ok” rispose solo il ragazzo, finendo l’ultima manciata di spaghetti.
Uscirono con il buio pesto, investiti dal gelo invernale: montarono in macchina avvertendo con sollievo il calore che si era mantenuto un minimo all’interno della vettura. Per precauzione l’adulto azionò il riscaldamento, sfregandosi le mani. “Non ci metteremo molto” lo rassicurò mettendosi poi al volante.
In effetti non ci volle che un quarto d’ora per raggiungere una piccola struttura dall’aria un po’ dimessa: somigliava un complesso di appartamenti immerso completamente nella boscaglia, ma nel buio totale non avrebbe saputo distinguere assolutamente nulla dell’ambiente attorno a sé. Al contrario suo padre sembrava conoscere perfettamente il posto, tanto che subito dopo essere sceso dall’auto e aver recuperato i sacchi a pelo si diresse nel retro: Masaki lo seguì per non perderlo di vista, e in breve tempo raggiunsero l’entrata. Al lato della porta vi era una targa, ma al ragazzo risultò impossibile distinguere cosa vi fosse scritto. Comprese tuttavia che si trattava probabilmente di un dormitorio.
“Non è proprio un appartamento, il suo,” ammise suo padre, e sfilò dalla giacca un mazzo di chiavi. “Cerchiamo di non dare troppo dell’occhio.”
L’interno fortunatamente era parzialmente illuminato e da ciò comprese che non si trattava di una portineria, tuttavia nell’atrio erano piazzate delle poltrone dall’aria dimessa. Da una di queste si alzò una figura allampanata, indistinguibile nella penombra: probabilmente li stava aspettando. Senza dire nulla, si precipitò verso suo padre e lo abbracciò con calore; Masaki trasalì, arrossendo in imbarazzo: quanto potevano essere intimi per scambiarsi un gesto tanto affettuoso e informale?
“Mi stai soffocando” rise Ryuuji in un primo momento, ricambiando teneramente la stretta: avvolse le braccia attorno alla sua vita, come se l’avesse fatto un milione di volte e avesse smesso di farlo eoni addietro.
L’altro uomo si scostò, senza però sollevare le mani dalle sue spalle. “E te ne stupisci?” esclamò. “Non ti vedo dai tempi dell’università!”
Ryuuji cercò di ammonirlo con uno sguardo di rimprovero. “Fai silenzio, o ci scopriranno!”
Nel frattempo Masaki aveva già iniziato a cercare una via di fuga che possibilmente non fosse la porta dal quale erano entrati. Era una situazione del tutto imbarazzante e assolutamente estranea a lui. Probabilmente avrebbe finito con il vomitare.
“Lui è Masaki!” Quando suo padre si decise infine a presentarlo non gli rimase altro che rivolgere allo sconosciuto un sorrisetto nervoso e innocente. L’uomo si scostò finalmente da suo padre e fece qualche passo indietro, permettendo anche alla fioca luce a neon di illuminarlo parzialmente. Sembrava avere la stessa età di suo padre e indubbiamente doveva essere una persona alquanto affascinante: una cascata di riccioli ribelli gli ricadeva scompigliata sul viso pallido e aggraziato, e occhiaie appena accentuate da qualche ruga gli incorniciavano gli occhi azzurri e brillanti. “Puoi chiamarmi Miura” gli sorrise in modo per niente affabile.
“Piacere...” mormorò soltanto Masaki, facendo un piccolo inchino.
L’uomo ignorò semplicemente quel formalismo e si rivolse direttamente a Ryuuji. “Avete intenzione di stare qui per molto?”
Ryuuji prese a camminargli a fianco e lo invitò con lo sguardo a seguirli. “Non molto, solo questa notte. Non vogliamo disturbare.”
Miura per poco non scoppiò ridere. “Vorresti dire che il miglior studente che questa struttura abbia mai visto ha paura di disturbare?”
Suo padre sorrise. “Non esageriamo” disse, ma Miura gli passò un braccio sulle spalle scatenando la sua risata imbarazzata.
Masaki preferì seguirli a pochi passi di distanza: non si ricordava di aver mai visto suo padre così sereno e spensierato, e non sapeva esattamente se la cosa lo infastidisse o meno. Dopo aver salito una rampa di scale imboccarono un corridoio appena illuminato, lungo il quale sostavano file e file di porte. Miura li fece entrare nel suo appartamento e chiuse la porta alle sue spalle. “Il mio coinquilino è via per qualche giorno, come ti ho detto. Non mi piace la solitudine, mi fa molto piacere che tu sia qui!”
Lo spazio era piuttosto piccolo, dava infatti l’impressione che fosse stato ideato per al massimo due persone. Non vi era un atrio e la porta di entrata e di uscita dava direttamente sul cucinino, altre due porte suggerivano che vi fossero altre due stanze, presumibilmente la camera da letto e il bagno. La tavola doveva essere ancora sparecchiata: appena il loro ospite chiesero se avessero bisogno di qualcosa da mangiare, rifiutarono gentilmente.
“Reize, adesso ti siedi e mi racconti dove sei stato per tutti questi anni!” gli impose Miura prendendo una sedia e allontanandola dal tavolo, come a invitarlo. Suo padre sorrise e appoggiò il loro modesto bagaglio vicino all’entrata. “Certo. Prima però ti dispiace se uso il bagno?”
“Non preoccuparti!” gli sorrise l’altro. “Fa’ come se fosse casa tua!”
Quando Ryuuji si diresse con sicurezza verso la seconda porta Masaki si chiese se lo fosse mai stata. Appena se la chiuse alle spalle, però, dovette fare i conti con un silenzio pesante: Miura finse di essere troppo impegnato a spreparare la tavola e mettere le stoviglie sporche nel lavandino per preoccuparsi di interagire con lui; Masaki non seppe se esserne rasserenato o inquietato.
Poi, inaspettatamente, l’uomo parlò. “Non gli somigli per niente” mormorò voltato di schiena, quasi con freddezza, al che Masaki ebbe il dubbio che non si stesse davvero rivolgendo a lui. Non riuscì a replicare, perché suo padre era già uscito dal bagno.
Di nuovo, l’atteggiamento dell’uomo sembrò cambiare: improvvisamente Kariya credette di comprendere l’ostinata freddezza di Miura, e non poté fare a meno di sentirsi vagamente irritato. Mantenendo un distaccato atteggiamento di educazione, chiese di andare a letto: avrebbe lasciato che gli adulti parlassero tra di loro senza la sua ingombrante presenza.
Suo padre sembrò deluso da quella sua decisione, ma non sorpreso. “Sicuro? Miura prepara delle tisane buonissime!”
“Credo di aver bisogno di dormire” mormorò soltanto, e raccolse il suo sacco a pelo da terra.
Detto questo, si chiuse in camera; dopo un attimo di esitazione, nel quale si limitò a scrutare i due letti a castello con preoccupazione e diffidenza, appoggiò il sacco a pelo sul materasso del primo che capitava –non in alto. In alto mai.
Non ascoltò nessuna parola che giungeva dalla cucina.
Non sognò nulla che valesse la pena ricordare.
Eccetto una ninnananna.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 17
*** seventeen ***


ombrelli sotto la pioggia
 Alla fine non era riuscito ad dormire a lungo ed era uscito nella notte gelida. Sentì l’aria secca sferzargli il viso, costringendolo a premere il cappotto contro il petto e a tentoni, aiutandosi solo con la fioca luce del cellulare, cercò l’automobile di suo padre.
Non era riuscito a scorgerlo, nel buio, sebbene fosse abbastanza sicuro che si trovasse nel letto di fianco al suo. Non sapeva dove si trovasse Diam. Era come se non avesse dormito con loro, anche se non poteva esserne certo. In ogni caso, non gli importava: non aveva intenzione di essere scoperto.
Suo padre aveva lasciato la macchina aperta e Masaki vi si infilò sfregandosi le mani e rannicchiandosi come un bambino sul sedile.
Aveva fatto un sogno strano, di cui ricordava davvero poco. Gli era sembrato di ascoltare una nenia appena udibile, e per un attimo si era chiesto se non provenisse dalle stanze adiacenti, ma sembrava fuori questione: quel luogo era totalmente deserto.
Guardandosi attorno, nel buio, non scorse che due automobili parcheggiate accanto all’entrata. Per combattere il senso di inquietudine che quella vista gli procurò accese la luce anteriore e rimase in attesa del minimo rumore. Avrebbe fatto meglio a rientrare, probabilmente, ma non si sarebbe fatto suggestionare per così poco... A meno che...
Il suo sguardo venne catturato da un pacchetto di sigarette e un accendino abbandonati sul cruscotto, assieme a un sacco di cianfrusaglie non ben definite: suo padre doveva averli lasciati ingenuamente lì, in mezzo a quel disordine. E pensare che la casa era solitamente immacolata.
Si guardò attorno, ma non vide davvero nessuno; dopo essersi assicurato di non essere osservato, sfilò una sigaretta dal pacchetto e l’accese con alcuni scatti nervosi. Il fumo impregnò l’aria della vettura in meno di poche boccate e Masaki si ritrovò costretto ad aprire una delle portiere nel momento in cui si rese conto che non riusciva a scorgere nulla dal finestrino.
“Non voglio che si fumi in auto.” proruppe una voce alle sue spalle. Masaki sussultò, ma lo spavento si tramutò in risentimento non appena suo padre fece capolino dal lato del guidatore e gli sorrise. Istintivamente, nascose la sigaretta ormai quasi consumata, anche se a quel punto sarebbe sembrato stupido.
“Posso?” chiese Ryuuji, e in quell’istante suo figlio si rese conto di quanto assurda suonasse quella domanda- beh, era la sua auto. Certo che poteva. Inutile dire poi che quel sorriso gli dava alla testa. “Non sei arrabbiato?” chiese.
Suo padre si sedette accanto a lui e Masaki si decise a lasciar andare il mozzicone e a pestarlo con un piede sull’erba umida. “No, solo stupito: non sapevo che fumassi.”
“Ho iniziato da poco...” borbottò a mezza voce Kariya, abbassando lo sguardo con fare colpevole. “Mi ha insegnato un mio amico.”
Ryuuji ridacchiò piano e si appoggiò al volante. Aveva gli occhi gonfi e stanchi. “Ohlallà. Mi sembra ci tenga molto alla tua salute! Ma detto da me sembra solo ipocrita.”
“Beh, allora che ci fai qui?” non poté trattenersi dal chiedere Masaki, nel momento in cui comprese che non era lì per fargli una sfuriata o qualcosa del genere. “Cioè, se devi sgridarmi fallo.”
“Oh, no, non voglio sgridarti. Ho notato che non riuscivi a prendere sonno e ho pensato che qualcosa ti turbasse.” si giustificò il padre. “E per quanto riguarda questo... beh, anche io fumo. Sarebbe stupido da parte mia fermarti: sappi solo che non è salutare. Ecco, sono solo deluso dal fatto che tu non me l’abbia detto, avrei potuto aiutarti.”
“Mh.” rispose Kariya, dubbioso. “Pensavo ti saresti arrabbiato.” mormorò soltanto, e si stupì nel vedere suo padre sorridere, il viso assonnato afflosciato contro il volante: “Io non mi arrabbio mai. Ricordatelo. Quindi d’ora in poi niente segreti, d’accordo?”
Masaki ci pensò su, prima di rispondere. Gli era ormai chiaro che suo padre fosse del tutto intenzionato ad allacciare un rapporto con lui, se non di sangue almeno di fiducia. Non era sicuro invece che entrambi sarebbero stati in grado di mantenerlo.
“A proposito di segreti, cos’è questo posto?” domandò guardandolo di traverso, ancora in dubbio. “Voglio anche sapere chi è Diam. È il tuo ragazzo?”
Ryuuji si sitemò i capelli e si mise comodo, rivolgendogli un’occhiata sorpresa. “Non ti piace, vero? L’ho notato subito.”
“Più che altro, sono io che non piaccio a lui.” puntualizzò Masaki, sulla difensiva. “Mi guarda sempre storto.”
“Lui guarda storto tutti, in un primo momento, ma poi dopo averlo conosciuto bene si può dire che è una persona alla mano.”
“Allora, è il tuo ragazzo?” insistette Masaki, accorgendosi che suo padre aveva di nuovo cambiato discorso. Iniziava ad irritarlo, quella sua abitudine di cambiare le cose a proprio piacimento: gli sembrava il comportamento di una persona falsa.
“Non proprio,” rispose Ryuuji, facendolo sospirare per l’esasperazione. L’adulto sembrò non accorgersene e riprese a parlare: “siamo cresciuti insieme ed è come se fossimo praticamente fratelli, è stato grazie a lui che ho scoperto di essere gay perché è stata la mia prima cotta. Abbiamo frequentato persino la stessa università, ma poi le nostre strade si sono divise, tra una cosa e l’altra...” mormorò, soprapensiero, come se parlasse di due estranei. “Ogni tanto vengo qui a salutarlo, di solito durante le ferie. Ora che lavora qui, non può spostarsi molto.”
“Qui dove?”
“All’osservatorio.”
Le pupille di Masaki si dilatarono per lo sconcerto. “Un osservatorio? Qui? Cioè, un vero osservatorio astronomico?”
Ryuuji ridacchiò, sfilando un’altra sigaretta dal pacchetto e accendendola a sua volta. “Oh, sì. Questo è il dormitorio. Non c’è molta attività in questa stagione, però posso sempre portartici quest’estate.”
“Oh sì!” esclamò immediatamente, preso dall’euforia, e pentendosene subito dopo. Abbassò lo sguardo borbottando qualcosa renendosi conto di aver espresso con troppa evidenza le sue emozioni. “Cioè, grazie. Sarebbe interessante.”
Non poté trattenere un sorriso quando suo padre gli scompigliò con tenerezza i capelli e iniziò a fumare beatamente di fianco a lui.
 
Nel salutarli Miura fece un inchino: gli rivolse un sorriso mesto e sembrò più gentile della sera precedente. “Ti prego di scusarmi, devo aver esagerato ieri. Non ci so fare con gli sconosciuti!” gli confessò quasi in imbarazzo, e aggiunse un inchino più profondo. Non era esattamente sicuro che quella fosse la vera motivazione del suo comportamento, ma per correttezza si inchinò a sua volta. “Nessun disturbo” mormorò, mascherando la poca convinzione. Probabilemnte suo padre ne aveva parlato con lui, e quel pensiero lo ferì: avrebbe voluto che rimanesse qualcosa tra loro due e basta.
Salì in macchina senza guardarsi troppo in giro, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe nel momento in cui Miura e suo padre si scambiarono un ultimo abbraccio.
Per tutto il viaggio di ritorno, Masaki si perse a contemplare la distesa salata al di là di suo padre e ogni tanto si sorprese a contemplarne i tratti del viso. Sembrava davvero giovane: solo lui poteva sapere davvero quanti anni avesse. Di certo ne dimostrava meno.
Era come una fotografia appena sbiadita.
“Tutto bene?” gli chiese Ryuuji, non appena si rese conto di essere osservato.
Andava tutto bene? Non era sicuro. Annuì piano e chiuse gli occhi, non volendo pensare più a niente.
Arrivarono verso le dieci di mattina e fecero colazione al bar. Ryuuji avrebbe avuto il turno di pomeriggio e dovevano affrettarsi. Non parlarono molto, se non di Diam e dell’osservatorio che suo padre conosceva così bene: scoprì che il padre di Miura era stato un famoso astronomo e per questo fin da ragazzi lui e Ryuuji avevano coltivato la passione per il cielo.
“Senti...” mormorò, sorseggiando il caffè freddo. “Anche Miura è... cioè... lo sai.” Non voleva ammetterlo, ma era sinceramente curioso su questo fatto insignificante.
Ryuuji ridacchiò, appoggiando il proprio tè sul tavolo e lasciando una piccola mancia. Aveva sempre l’abitudine di farlo, prima di uscire da qualsiasi bar. “Ha una moglie e tre figlie. Non credo.”

modificato: 21/07/20

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Capitolo 18
*** eighteen ***


ombrelli sotto la pioggia
Era lo stesso bar, ma agli occhi di Hiroto aveva sempre qualcosa di nuovo. Fosse stato per una nuova cameriera, per una diversa disposizione dei tavolini o per l’abbigliamento di Ryuuji.
Gli era impossibile non notare ogni volta qualcosa di diverso in lui; i suoi capelli erano raccolti dietro la nuca allo stesso modo, i maglioncini variavano appena per la forma o il colore, persino la giacca bianca era piegata alla stessa maniera accurata dietro il sedile. Eppure ogni volta che alzava il viso dal cellulare e si alzava per venirgli educatamente incontro, avvertiva nel suo sorriso qualcosa di unico: sperava che quella sensazione famigliare non cambiasse mai.
“Mi scusi per averla fatta attendere” si scusò subito, stringendogli la mano. Ryuuji continuò a sorridere cortesemente e a scuotere la testa: “Non si preoccupi, la scorsa volta sono stato io ad arrivare in ritardo.”
Si sedettero uno di fronte all’altro e Ryuuji ripose il cellulare nella borsa; Hiroto apprezzò molto quel gesto e fece lo stesso. “Posso offrire io stasera?”
“Accetto volentieri!” rise l’altro uomo. “Purtroppo ho dimenticato il portafoglio al lavoro; spero non se lo sia preso nessuno.”
Kira si dimostrò sinceramente preoccupato: “Vuole rimandare a un’altra sera?” chiese apprensivo, sperando di no, e tuttavia mentì: “Non ci sarebbe nessun problema per me...”
“Ho mandato un messaggio a un mio collega, dovrebbe essere ancora lì: lo recupererà lui” spiegò Ryuuji, calmo. “Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
Hiroto gli rivolse un sorriso rilassato e annuì. Richiamò l’attenzione della cameriera che prese subito le loro ordinazioni, senza evitare di lanciare loro la solita occhiata incuriosita. Non avrebbe potuto biasimarla per quel gesto imprudente: si incontravano in quel bar da un po’ per parlare di Masaki, ma quell’appuntamento che si davano ogni domenica sera aveva un che di romantico. Hiroto si era rassegnato a quegli sguardi incuriositi che non mancava di avvertire anche da altri clienti del bar.
Erano lì per il bene di Masaki, in fondo. “È tutto a posto? Com’è andata?”
Ryuuji gli sorrise quasi grato. “Ho fatto bene a seguire il suo consiglio; credo che abbiamo fatto molti passi avanti.”
“Ne sono felice.” commentò calmo l’insegnante. “Come ha reagito?”
“Credo che per lui sia stato un duro colpo, ma ancora adesso non mi pento della mia scelta-“ si interruppe all’arrivo della cameriera e prese il caffè ringraziando con un lieve cenno del capo. “Non voglio che ci siano barriere tra di noi, quindi ho intenzione di rivelargli tutta la verità.”
Kira non poté trattenersi dal scrutarlo da sopra le lenti con sguardo inquisitore. “Anche quella più scomoda?” domandò, allusivo. Entrambi sapevano a cosa si stava riferendo, e non servivano altre parole. L’espressione di Ryuuji si incupì in pochi istanti. “Vorrei aspettare ancora un po’... ci vorrà del tempo per chiarire quest’aspetto della mia vita.”
Hiroto annuì comprensivo. “È giusto che sia così.”
Ryuuji gli rivolse un altro sorriso, stavolta più timido. Prese la sua tazza di caffellatte a due mani e se la portò alle labbra; indossava due guanti di lana che gli lasciavano scoperte le dita sottili.
Rimasero assorti nei loro pensieri per un po’, ma fu Midorikawa stesso il primo a parlare: “Non ho mai capito perché ci tenesse tanto a me e Masaki.” affermò, scrutandolo e mescolando pigramente il cucchiaino nel caffè.
Hiroto non poté fare a meno che arrossire, imbarazzato. “Diciamo che ho i miei motivi.” mormorò evasivo, e sviò lo sguardo. Quando si decise a riportarlo sull’uomo di fronte a lui, fu accolto da un caldo sorriso: sì, poteva fidarsi di lui. Ryuuji non era una cattiva persona e non lo avrebbe mai ferito, non solo perché si conoscevano appena; chissà perché aveva questa sensazione familiare! “Sono stato un figlio anche io, e forse avrei voluto che mio padre fosse più presente nella mia vita” si confidò, con un sorriso tranquillo e timido. “Mi sono sentito in dovere di aiutare Masaki; è un ottimo studente e mi dispiacerebbe se la sua carriera venisse compromessa.”
Non era vero, quella non poteva essere l’unica motivazione. Hiroto si vergognò di se stesso e tornò a distogliere lo sguardo da Midorikawa... Se solo non fosse stato così difficile ammettere a se stesso che…
Quando la mano di Ryuuji si avvicinò alla sua perse un battito. Non si toccarono, ma rimasero molto vicini dal farlo. Hiroto alzò gli occhi e si sorprese quasi nell’incrociare uno sguardo così calmo, attento e fiducioso. “Sappia che le sono molto, molto grato.” disse l’uomo di fronte a lui, con un sorriso. “Se c’è qualcosa che posso fare per ricambiare, la farò.”
Kira sorrise a sua volta, gli occhi quasi lucidi di commozione. “La sua riconoscenza è più che sufficiente per me.”
Ed era vero.
 
“Quindi ti ha beccato?”
Masaki tirò su col naso e scalciò un sassolino con il piede. Stava attraversando il viale che portava alla scuola: alla sua destra Kyosuke, a sinistra (ma a debita distanza) Hikaru. Masaki non aveva alzato lo sguardo una sola volta ma sapeva che nel volto di quest’ultimo avrebbe trovato la preoccupazione, e in quello dell’altro la stizza più profonda.
“Ma che ti ha detto?” chiese timidamente Hikaru, per compensare il tono rabbioso di Tsurugi.
La risposta di Masaki fu un borbottio sommesso. “Che ha poco da fare la predica visto che fuma anche lui.”
“Oh, dicono tutti così” ringhiò alterato l’altro, stringendo i denti. “Quelli così ti ribaltamo la camera da cima a fondo per scovere ogni singolo pacchetto. Lo sai che hai un debito con me?”
“Non aggredirlo così!” sussultò Hikaru, nervoso. “Sono sicuro che Midorikawa-san non farà nulla di tutto questo, a me sembra a posto...”
“Hai ragione, alla fine è solo frocio.”
Le parole di Kyosuke colpirono quel che dovevano colpire. Kariya si strinse ancora di più nelle spalle e calciò ancora con il piede, fendendo l’aria. “State zitti, tutti e due.”
Accellerò il passo per non sentire più sbraitare l’amico e si immerse nella folla di studenti che si erano ammassati all’entrata.
 
Kyosuke non si fece vedere per tutto il giorno; Kariya d’altra parte permise solo ad Hikaru di stargli vicino. Era nervoso, stordito e intristito da quella situazione: le parole che suo padre gli aveva detto pochi giorni prima erano ancora ben impresse nella sua mente, quasi che un fabbro avesse voluto forgiarle e incatenarle a lui per sempre.
Kageyama rimase in silenzio al suo fianco per tutto il tempo, come al suo solito. Non gli chiese niente per tutta la giornata, anche se Kariya conosceva bene la sua esplosiva curiosità: per qualche ragione, ne fu grato.
Solo negli spogliatoi prima degli allenamenti il ragazzo si decise a parlare. Aspettò che tutti furono usciti e gli si avvicinò, timidamente, chiedendo con lo sguardo di sedersi accanto a lui. Masaki non disse niente e alla fine acconsentì.
“Lo sai che con me puoi parlare, vero?” mormorò Hikaru, chinandosi leggermente verso di lui.
Sì, Kariya lo sapeva: Hikaru non l’avrebbe mai tradito.
Ma non rispose.

modificato: 21/07/20

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Capitolo 19
*** nineteen ***


ombrelli sotto la pioggia
Afuro Terumi non era quel genere di persona che giudicava le persone per le loro azioni, ma non era nemmeno tipo da trattenere per sé certe belle notizie... al punto che l’intero supermercato sapeva ancora prima del diretto interessato che Ryuuji usciva con qualcuno.
In realtà non era poi così difficile far circolare le notizie all’interno di quel magazzino, principalmente per il fatto che si conoscevano tutti e andavano più o meno di buon accordo. Solo Fudou fece notare poco garbatamente che non era minimamente interessato all’argomento. In generale, erano tutti felici per lui, e iniziarono a fargli nei modi più diretti e disparati gli auguri di una relazione duratura.
Ovviamente Ryuuji non apprezzò tantissimo la cosa. “Avrei dovuto fare più attenzione alla tua maledetta boccaccia” brontolò, passando sul nastro l’ennesima confezione di carta igienica. Il collega rise dalla cassa opposta e pure Aki, dietro di lui, emise un rantolo sommesso.
“Lo sai, ultimamente sorridi più spesso.”
Ryuuji fece una smorfia divertita: non poteva essere vero. Lui sorrideva sempre, ed era conosciuto lì dentro soprattutto per la sua disponibilità e gentilezza. Se Hiroto avesse cambiato qualcosa nella sua vita, di certo lui non se ne era accorto. E poi, c’era da considerare il fatto che non era una persona qualsiasi, ma l’insegnante di suo figlio: l’ultima cosa che voleva era entrare in una relazione con lui, e ne era perfettamente consapevole. Gli altri, un po’ meno.
“Lo avete già fatto?”
“Cosa?”
“Dai Reize, non prendermi in giro.”
L’uomo scosse la testa e salutò la cliente seguente. “Buongiorno signora Takeru, come sta?”
Ricevette un colpetto da dietro: Afuro, evidentemente contrariato dal fatto di essere stato ignorato, gli aveva dato un calcetto con lo stivale. Essendo schiena contro schiena, Ryuuji poteva solo immaginare la sua espressione contrita.
“Alti e bassi giovanotto, alti e bassi.” borbottò l’anziana di fronte a lui, appoggiando sul nastro trasportatore un enorme sacco di cibo per gatti. “Non mi lamento.”
Deve aver passato una buona giornata, rifletté Midorikawa, annuendo con un sorriso. Di solito aveva sempre molto di cui lamentarsi e capitava che alla sua cassa si creassero file imbarazzanti, mentre lui era costretto a sorbirsi la storia intera della sua vita per l’ennesima volta. Come si soleva dire, il benessere di un cliente arrivava prima di tutto.
“Come sta sua moglie?” domandò un personaggio allampanato, dalla voce stridula e da un impressionante tic all’occhio destro. “Ancora influenzata?”
No, è morta da quasi un anno, avrebbe voluto rispondere, e non era più mia moglie da dieci, avrebbe aggiunto poi, ma si limitò a sorridere affranto e a scuotere la testa: i vuoti di memoria del signor Kanagawa andavano assecondati, o si sarebbe agitato.
“Meno male!” strillò l’uomo, tossicchiando da sotto la sciarpa. “Mi sembra di averla incontrata un paio di volte all’ospedale, ero preoccupato.”
Sarei preoccupato anche io. “Sta molto meglio ora.” continuò a sorridere Ryuuji.
Sorridere. Sorridere. Sorridere.
“Lo sa Kanagawa-san?” borbottò la signora Takeru. “Lei dovrebbe farsi un po’ di affari suoi, ogni tanto.”
La protesta del poverino fu immediata. “Mi preoccupo solo di un amico!” strillò, forse poco consapevole del fatto che per la volta seguente che avrebbe fatto la spesa si sarebbe già dimenticato di lui.
Amico, come se lo conoscesse!”
“Vi prego signori, non litigate!” provò a dire, conciliante. Su una sola cosa la signora Takeru aveva ragione: per quanto il signor Kanagawa fosse un cliente assiduo di quel supermercato, non poteva assolutamente dire di conoscerlo. Sempre più spesso gli sembrava che pochi potessero avere questa pretesa.
 
“Cosa vuoi sapere?” sospirò. “Se paga la cena? Se mi accompagna a casa? Se bacia bene? Afuro, non è nemmeno gay.”
E allora?” replicò il collega gettando la divisa nel suo armadietto, governato come al solito dalla confusione totale. Sbatté la porta con troppa enfasi e gli si rivolse: “Andiamo Ryuuji, non sarebbe la prima volta.”
L’affermazione colpì Ryuuji sul vivo. Stava piegando con cura la sua camicia per conservarla il più ordinatamente possibile. “Se ti riferisci a Suzuno, non sapevo che fosse asessuale prima di frequentarlo. E nemmeno lui.”
Con quella frase, riuscì nell’impossibile: Afuro si zittì.
Midorikawa chiuse a chiave l’armadietto e pensò che non aveva sempre il piacere di essere così rilassato dopo lavoro: la sua vita da qualche mese a quella parte aveva assunto una piega piuttosto frenetica e capitava che dovesse tornare a casa ancora in divisa.
“Non voglio avere altre relazioni. Mi accontento del sesso occasionale.” mormorò, pensieroso. “Voglio occuparmi di Masaki.”
“Ancora con questa storia?” borbottò l’amico. “Ryuuji, è un adolescente. È normale che si comporti così! Sapessi cosa dicevo io a mio padre prima che me ne andassi di casa.” Si bloccò, colpito da un pensiero. “Ovviamente tu sei molto diverso da mio padre, non sto insinuando che...”
“Il fatto è,” lo interruppe Midorikawa sedendosi sulla panchina. “che lui non si comporta male con me. Non mi insulta, non mi grida contro. Non di frequente, insomma. Ma al di fuori, si comporta da bullo.” Sbatté le palpebre, pensieroso. “A volte mi sembra indifferente... schivo... impaurito.”
Afuro si sedette accanto a lui e ascoltò in silenzio, ad un tratto riflessivo. Era eccentrico, non stupido. Sapeva benissimo quando era il momento di ascoltare un amico.
“Io... credo che lo picchiasse” buttò fuori Ryuuji, abbassò lo sguardo e tremò. “Lo so perché... lo so...” Strinse i pugni e soffocò un singulto: possibile che a distanza di anni facesse ancora così male?
Afuro gli pose una mano sulla spalla e annuì, senza lasciarlo continuare. Sapeva già tutto, non occorreva che gli venisse riferito altro: conosceva i suoi limiti e le sue cicatrici, come se fosse stato un fratello. “Io e gli altri ti siamo vicini,” lo rassicurò serio. “Sappi che puoi contare su di noi.”
“Lo so.” Midorikawa alzò gli occhi su di lui e sorrise. “Non ne dubiterò mai.”
 “Verrai stasera?” chiese il biondo, accennando a un sorriso. “Abbiamo bisogno di te per le prove.”
“Lo sai che devo aspettare che si addormenti, verrò più tardi.” gli ricordò Ryuuji, e si alzò, raccogliendo la borsa da terra. “Ci sono tutti?”
“No, Kidou è impegnato all’Università.”
Midorikawa annuì: il ricercatore era spesso assente per motivi simili, e non si poteva affermare che fosse invidiato per la sua agendina rossa straripante di impegni. “Allora vedo di esserci.”
“Bravo.” Afuro gli batté una mano dietro la schiena, accompagnandolo verso l’uscita dello spogliatoio. “Così mi racconti per bene cosa ci fai con quel damerino la domenica sera, se è vero che non ci vuoi avere nulla a che fare.”
Midorikawa, colto sul fatto, arrossì leggermente. “Ehi!” borbottò, “Non sarai per caso uno stalker?”
“Le voci corrono. Ricordati che siamo pur sempre in nove!”
“Muse ficcanaso!” si lamentò Ryuuji, ma ridacchiò tra sé e sé. “Come ho fatto a non accorgermene?”
Aveva decisamente una strana famiglia.


Angolino di mademoiselle

Finalmente ho introdotto anche il POV di Ryuuji! Non so se l'avete notato, ma l'ho sempre trascurato fino ad adesso!

Come al solito, spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo! Spero di non aver messo troppa carne al fuoco~ 

Au revoir!


Modificato: 21/07/20

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Capitolo 20
*** twenty ***


ombrelli sotto la pioggia
Aveva appena finito di slacciarsi gli scarpini quando la voce di Kirino lo richiamò dall’altra parte degli spogliatoi.
Kariya alzò lo sguardo e vide che la squadra al completo gli stava venendo incontro; Hikaru afferrò d’istinto un lembo della sua maglietta appena se ne accorse, ma il ragazzo si allontanò leggermente: lo faceva per il suo bene, non voleva che sembrasse a tutti gli effetti una femminuccia.
“Dobbiamo parlare,” esordì il capitano ponendosi davanti a lui. “Della squadra.”
Masaki fece una smorfia e ricambiò con uno sguardo di sfida. “Che c’è?” borbottò. “Mi sembra che io abbia già passato abbastanza guai a causa vostra, non vi sembra?”
Ci furono diverse reazioni da parte dei componenti del gruppo, ma tutte abbastanza assimilabili: sulla maggior parte di loro comparve una smorfia di fastidio, qualcuno fece per intervenire in maniera che si prospettava brutale, ma Shindou li fermò con un braccio prima che potessero fare un solo passo avanti. Quanto a Kirino, rimase a fissarlo torvo, ma tranquillo.
“Non siamo partiti col piede giusto, è certo,” disse Takuto. “Apprezzo il fatto che tu abbia smesso di importunare i tuoi compagni di squadra, ma...”
“Arriva al punto, non ho tutto il giorno.” lo interruppe sgarbatamente Masaki. Si alzò e Hikaru fece timidamente lo stesso, portandosi la sacca alle spalle e avvicinandosi all’uscita non appena Subaru si divincolò dal capitano e andò incontro al suo amico a pugni stretti. “Giuro che se non abbassi la cresta, io...”
“Il fatto è,” intervenne Shindou, “che non partecipi a nessuno degli allenamenti proposti dall’allenatore Endou e costringi Kageyama a fare altrettanto. Sei qui da quasi un mese, e mi sembra che sia giunto il momento di allenarti con noi; se non altro in previsione della prossima partita.”
“Io non sto costringendo Hikaru a fare un bel niente. Anzi, se non lo stessi aiutando probabilmente sarebbe già stato buttato fuori da questi stronzi.” Masaki accennò a Subaru e Sangoku che stavano in disparte, con i nervi a fior di pelle.
“Non so in che squadra tu ti sia allenato finora, ma questo non è lo spirito della Raimon.” Il viso di Shindou, di solito austero e rigido, si corrucciò ulteriormente. “Siamo tutti qui per divertirci e imparare l’uno dall’altro.”
“Bene, noi ci stiamo divertendo e stiamo imparando,” replicò secco Kariya prima di voltarsi verso l’amico. “Non è così Hikaru?”
Tuttavia, quando Kariya si voltò, Hikaru era già sgattaiolato al di fuori della stanza. Trattenne un’imprecazione tra i denti e tornò a rivolgersi al resto della squadra. “Non ho niente da spartire con voi.”
“Ti sbagli,” replicò Kirino, superando il capitano. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo che parve eterna. “Abbiamo molto di cui discutere, a cominciare dal tuo comportamento.”
Sangoku lo seguì a muso duro, diffidente come solo lui poteva essere. “Non ti rendi conto? Qui il problema non siamo noi, sei tu!”
“Quand’è così, me ne vado!” gridò a quel punto Kariya, punto sul vivo. Era stato definito troppe volte in quel modo e ne aveva abbastanza. “Vedo proprio che la mia difesa non vi serve più così tanto!”
Kirino lo trattenne per un braccio e nonostante i suoi tentativi di divincolarsi riuscì ad evitare che si allontanasse. “Sangoku è stato poco gentile, ma il concetto è chiaro a tutti: sei bravo, tuttavia non è abbastanza. Serve ben altro per far parte di una squadra.”
Kariya digrignò i denti e finalmente riuscì a liberarsi con uno strattone. “Che ne sapete voialtri?”
Quella domanda non ricevette risposta e per un attimo, ma solo per un attimo, Shindou parve scorgere negli occhi di Masaki qualcosa che finora non aveva minimamente considerato: il dolore.
Fu un rumore a distoglierlo dai suoi pensieri. Tutti si voltarono verso la porta per ricevere con lo sguardo Endou Mamoru, che stava entrando in quel momento con il solito sorriso pacato e serafico. Sembrava essere perfettamente a conoscenza di quello che stava accadendo, tuttavia chiese se stesse per interrompere qualcosa di importante.
“No coach, si figuri,” rispose Hayami, mite. “Stavamo solo discutendo.”
Endou spostò lo sguardo da Kariya, il volto arrossato e gli occhi lucidi di rabbia, alla squadra che aveva deciso di raggrupparsi in mezzo al corridoio in maniera quasi minacciosa. Tuttavia non disse niente: avrebbe avuto modo di parlare loro in un secondo momento. La presenza di Kariya, invece, cadeva a proposito. “Vorrei parlare con te in privato,” gli si rivolse in maniera gentile.
Kariya lo fissò, poi tornò a guardare Kirino: era chiaro che non aveva intenzione di spendere in quel luogo un secondo di più.
 
Non riuscì a scaricare la tensione nemmeno nel momento in cui comprese che era fuori pericolo. Seguì il suo insegnante fino ad arrivare al di fuori, e si fermarono in prossimità del campo da calcio. Lì Endou smise di camminare e rimase a contemplare la vasta area che si estendeva di fronte a lui. Per un attimo sembrò fissare qualcosa di preciso, ma quando Kariya si sporse verso quella direzione non vide nulla di particolare. Faceva freddo e gocciolava; se fossero rimasti lì a lungo avrebbe sicuramente preso il raffreddore. Poiché l’allenatore sembrava fin troppo assorto nei suoi pensieri, Kariya dovette tossicchiare per richiamare l’attenzione.
Il coach si voltò verso di lui sorridendo, come se si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento. “Dimmi, Kariya... come ti trovi alla Raimon?”
Masaki, a disagio, fece spallucce e infilò le mani gelate dentro le tasche. “Non è così male,” rispose evasivo. Sapeva dove sarebbe andato a parare quel discorso, ma ne aveva abbastanza di quell’argomento.
Endou annuì e tornò a fissare l’orizzonte. “Voglio che tu sappia che il professor Kira mi ha parlato della tua situazione. Non intendo tenerti all’oscuro, so che comprenderai.”
Il pensiero lo faceva invece schiumare di rabbia, ma decise di lasciar continuare l’insegnante e tenere per sé quel rancore che non poteva essere rivolto a lui: alla fine si era sempre comportato in maniera gentile nei suoi confronti.
“Mi sono sempre chiesto perché non volessi allenarti con tutti gli altri, e sono giunto alla conclusione che la risposta posso averla solo da te. Credo di non sbagliarmi.”
E invece Masaki rimase in silenzio a lungo, perciò Endou riprese a parlare. “Io credo che sia per via della tua tecnica speciale. La usi poco, solo quando lo senti veramente necessario, giusto? Ad esempio quando hai salvato Kageyama.”
“Non gli piace essere chiamato per cognome,” provò a borbottare Masaki, ma sapeva che non erano le parole che l’allenatore si aspettava da lui. Alla fine, era sempre stata una questione di aspettative: tutti sembravano pretendere da lui cose che non possedeva. “E comunque non so di cosa stia parlando,” aggiunse, caparbio, e pensò che se ne sarebbe andato volentieri da quel posto freddo.
Endou sembrò ignorarlo, ma non per cattiveria. Si volse verso di lui e gli sorrise, come se sapesse perfettamente cosa stesse pensando. “Le hissatsu non puoi sceglierle, solo sentirle. E io credo che tu debba iniziare ad ascoltare la tua. Qualsiasi sia il motivo che ti ha allontanato dal calcio, dovresti imparare a conoscerlo.”
Avrebbe voluto rispondere che lui giocava a calcio da sempre, e che non era stupido; ma sapeva benissimo che sarebbe solo servito a sviare di nuovo l’oggetto del discorso. L’allenatore continuò a osservarlo, rilassato e attento: non era la prima volta che faceva discorsi così strani, e non era la prima volta che lui si attardava ad ascoltarli, anche se non erano mai stati rivolti a lui fino a quel momento.
“Ti va di allenarti con gli altri da domani? Vorrei conoscerti meglio.”
Kariya annuì, quasi assente.

Modificato: 21/07/20

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Capitolo 21
*** twentyone ***


ombrelli sotto la pioggia
Era incredibile come Ryuuji si perdesse nelle note della musica. Afuro l’aveva visto altre volte in quello stato, ma mai come quella sera era conscio di quanto la musica per Ryuuji fosse fondamentale. Vederlo volteggiare attorno al palo della palestra sotto il suo appartamento gli infondeva sempre un senso di straniamento: in un attimo la sua espressione concentrata diventava del tutto apatica e gli occhi socchiusi mostravano un lato di Ryuuji del tutto differente: assorto, riflessivo, sofferente. Nemmeno nelle esibizioni Afuro avvertiva la stessa intensità emotiva che gli lasciava ogni volta quell’immagine.
“È ancora lì?”
Afuro voltò il capo e accolse Gouenji al suo fianco. Aveva evidentemente appena finito di cambiarsi. Annuì con un cenno e riprese ad osservare l’amico issarsi sul palo e stringere i muscoli in una posa quasi delicata: sembrava senza peso. “Ultimamente lo vedo...” Si interruppe, non sapendo nemmeno lui cosa volesse dire. Fu Gouenji a finire la frase: “Perso,” dichiarò, “come se non sapesse bene che direzione prendere.”
Terumi annuì: come sempre, Gouenji dimostrava di essere una delle persone più sagge e attente del gruppo, insieme a Kidou. “È evidente che sia in crisi. Non lo dimostra, ma si capisce.”
“È sempre stato un libro aperto per noi. Mi dispiace che sia così giù.”
Di nuovo, Afuro trovò che avesse ragione. I suoi occhi continuarono a osservare la figura agile di Midorikawa avvolgersi su se stesso e arrampicarsi verso l’alto come se il pavimento fosse fatto di lava scura. “Non me lo vuole dire, ma io so cosa gli prende. Non è più abituato ad esprimere le sue emozioni come una volta.”
“Si è chiuso a riccio,” confermò un’altra voce alla loro destra. Anche Shirou entrò nella stanza e si appoggiò con la schiena contro lo specchio, proprio di fronte a loro. “Allora non sono l’unico ad averlo notato.”
Per un attimo Afuro temette che potessero sentirlo, ma era quasi impossibile. Il volume della musica era sufficientemente alto da coprire i loro bisbigli e comunque lui portava sempre dei tappi per le orecchie: diceva che lo aiutavano a non distrarsi troppo. A volte si chiedeva se non avessero il compito specifico di isolarlo da loro.
“Vorrei poter aiutarlo,” mormorò impensierito, e si limitò a guardare ancora per qualche istante il profilo slanciato del suo amico. Nessuno sapeva la verità che si celava dietro comportamenti come quello, tranne lui. Ogni tanto avrebbe soltanto voluto avere qualcuno al suo fianco per poter trovare la forza di affrontare con lui quel dolore che non era suo...
“Secondo me non c’è nulla di cui preoccuparci.”
Afuro si voltò verso Shirou con sguardo interrogativo. La sua espressione era pacata e serena e gli occhi celesti infondevano tranquillità. “Anche io e Atsuya ogni tanto abbiamo dei periodi no, credo sia normale. Ryuuji sa che può contare su tutti noi ed è anche per questo che è qui. Credo che la danza gli dia forza.”
Gouenji guardò a sua volta il ragazzo e annuì con un sorriso: la quarta musa era, non a caso, quella dall’animo più sensibile. “Hai ragione Shirou-kun,” gli si rivolse con dolcezza. Quello tornò a guardarli e sorrise in maniera quasi timida: “Ovviamente è solo un mio pensiero. Andiamo?”
Afuro annuì. “Sì, si è fatto tardi.” Si sollevò e tornò a fissare Ryuuji, stavolta sbracciandosi per attirare l’attenzione. Non gli fu difficile, dato che le pareti erano tappezzati di specchi. Ryuuji posò finalmente i piedi nudi al suolo e si tolse un tappo. Sorrideva, ma più per circostanza. “Andate?”
Afuro annuì, “Sì, sono le due di notte. Manco da casa da ben sei ore! I miei gatti potrebbero essere soli e affamati!” scherzò, e Shirou ridacchiò: dovevano essere stati molto bene senza qualcuno che li strapazzasse di coccole impedendo loro di dormire. Lo sapeva perché era suo coinquilino.
“Ok, le chiavi sono al solito posto? Chiudo io.”
Afuro si stava già infilando le scarpe per uscire e alzò distrattamente il braccio in segno di saluto. “Sì, ma cerca di dormire! Ti voglio pronto per venerdì.” E chiuse la porta, dopo che furono usciti anche Shirou e Gouenji.
Ryuuji, dopo che fu rimasto solo nella stanza, ridacchiò amaramente. “Oh, Afuro! Lo sai bene che soffro di insonnia.”
 
Non aveva più ricevuto risposta all’unico messaggio che gli aveva inviato da quel pomeriggio e iniziava leggermente a innervosirsi. Non solo era scomparso dalla circolazione senza dirgli nulla ma sembrava intenzionato a non farsi sentire mai più. Era ovviamente preoccupato. Di più, si poteva dire che fosse angosciato. Non era nemmeno sicuro che fosse stato saggio mandargli quel messaggio, ma il problema stava forse nel fatto che ne aveva inviato troppi pochi per mostrarsi preoccupato a sufficienza. A peggiorare il tutto, c’era il fatto che Hikaru fosse nonostante tutto online. Kariya era quasi tentato di chiamare Kyosuke, ma sapeva che l’amico gli avrebbe risposto con le peggiori parole possibili.
Steso sul letto, pensava a una soluzione.
Ryuuji era uscito da un po’ e nonostante fosse passata l’una di notte non era ancora rientrato: lo faceva spesso, specialmente quando andava a servire come cameriere. Ovviamente, le sue erano supposizioni dato che il padre non gli aveva detto nulla al riguardo. Comunque, uscire e andare a casa sua era fuori discussione a quell’ora (e inoltre non sapeva nemmeno dove fosse esattamente casa sua, sebbene fosse sicuro che non li separava che una ventina di isolati di distanza). Chiamarlo sembrava troppo, avrebbe pensato che fosse un tipo agitato e non era nelle sue intenzioni fare scenate. In ogni caso, l’indomani lo avrebbero sentito gridare per tutta Inazuma-cho, questo era sicuro.
Senza contare che si stava letteralmente addormentando sul telefono, ed era finalmente intenzionato ad andare a dormire quando un’improvvisa vibrazione gli fece alzare di scatto il capo. Il messaggio diceva “Scusa,” ma a Kariya non bastò per calmarsi.
“Ti chiamo,” scrisse perentorio, e non aspettò risposta.
Hikaru in realtà ci mise un po’ di tempo per rispondere, ma quando alla fine premette il pulsante verde del cellulare la voce agitata di Kariya arrivò alle sue povere orecchie. “Si può sapere che ti è preso? Mi hai fatto preoccupare! Ti sembra il modo di sparire?”
Dall’altra parte giunse un sospiro, poi anche Hikaru parlò. La sua voce era incerta, forse un po’ assonnata. “Scusa senpai...” mormorò soltanto, ma questo non fece altro che infastidire Kariya ancora di più. “Sul serio, cosa c’è? Non è stato carino abbandonarmi a quel modo. E poi...”
Si interruppe quando gli parve di sentire un singhiozzo mal trattenuto. “Ehi...” mormorò, improvvisamente cauto. “Tutto ok? Cioè, non volevo gridare così, è che mi hai fatto preoccupare cazzo...”
Hikaru rimase in silenzio a lungo. Ci fu un attimo in cui a Kariya parve di aver dimenticato come si respirava. Poi la chiamata si chiuse senza che nessuno di loro dicesse una parola.
Kariya rimase totalmente spiazzato ed era tentato di richiamarlo, ma un nuovo messaggio da parte del ragazzo lo fece desistere.
“Mi dispiace per oggi, sono un disastro. A domani.”
Kariya fissò lo schermo del cellulare senza dire una parola.
Solo i rumori della porta di ingresso lo avvertirono che qualcuno era entrato in casa; ancora turbato per quello che era successo, ma soprattutto remore di esperienze passate, si irrigidì. Quando la porta si socchiuse, però, tutto quello che vide fu suo padre, evidentemente stanco e con occhiaie molto profonde. “Ho visto una luce... che ci fai sveglio a quest’ora?”
Kariya fece spallucce e gli rispose con freddezza. “Potrei farti la stessa domanda.”
Ryuuji sbatté le palpebre, come se non avesse ben compreso. “Ah,” disse solo. “Non sono un padre molto esemplare. Buonanotte.”
I suoi passi si allontanarono.
Nella stanza rimase solo Kariya con i suoi pensieri.

Modificato: 21/07/21

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Capitolo 22
*** special - one ***


ombrelli sotto la pioggia - special one

Vide gli occhi neri di Ryuuji aprirsi piano e il suo cuore perse un colpo, quasi spiazzato dalla loro bellezza. Il ragazzo sbatté le palpebre un paio di volte, confuso, poi mosse leggermente una gamba nuda tra le lenzuola. “Che ore sono?” gli chiese con la voce impastata di sonno. Gazeru tolse una mano dalla sua coscia solo per afferrare il cellulare lasciato sul comodino e controllare l'orario: Ryuuji aveva dormito quasi dieci ore consecutive. Poteva considerarlo un record.
Appena lo comunicò a Midorikawa, i suoi occhi si spalancarono rivelandosi ancora più grandi del comune. Era sorpreso. “Ce l'ho fatta allora…” bofonchiò, confuso.
“Sì Reize, ce l'hai fatta.” Annuì Gazeru, riuscendo a nascondere un sorriso di sollievo e commozione. “Cosa vuoi per colazione?”
Gli accarezzò nuovamente i capelli per aiutarlo a svegliarsi con calma. Era un rituale che conoscevano entrambi da diverso tempo e che Gazeru in particolare aveva imparato a mettere in pratica ormai con una certa sicurezza: non doveva fare gesti troppo bruschi o improvvisi con lui, o avrebbe avuto un attacco di panico. Da quando si era sposato ne aveva avuti sempre più di frequente… e molti non avrebbero mai creduto alla motivazione di quei momenti terribili. Gazeru stesso, inizialmente, aveva fatto fatica a comprendere.
Il compagno non rispose, ma gli avvolse le braccia attorno al collo e avvicinò la bocca alla sua. Gazeru si lasciò baciare e poté sentire il corpo nudo dell'altro tendersi contro il suo. Gazeru avrebbe potuto definirla una tortura. Ma sapeva che a Ryuuji quei momenti servivano, nonostante fossero per lui quasi autodistruttivi.
Sentì il ragazzo mormorare qualcosa, ma non capì subito di cosa si trattasse. “Come scusa?”
“Grazie di prenderti cura di me e Masaki” ripeté lui in un sussurro, gli occhi semichiusi. “Ti amo.”
Non rispose, ma in qualche modo non se ne pentì. Ryuuji sapeva che non riusciva a ricambiare, non nel senso in cui lui poteva intendere una relazione. Era confuso, specialmente al suo fianco: qualunque emozione fosse quella che sentiva nel petto, non era amore nella sua forma più accreditata. Forse era semplicemente paura.
“Ha fatto molto chiasso?”
Gazeru buttò lo sguardo oltre la porta, al di là della quale sapeva esserci il salotto. Masaki aveva una culla vicino al divano, dove i suoi istinti primari da pulce di sei mesi potevano sfogarsi in totale libertà. Il ragazzo aveva realizzato solo nell’arco di quella notte tremenda perché odiasse effettivamente i bambini.
“Ha dormito come un angioletto” mentì in tono vagamente sarcastico. Ryuuji lo colse e ridacchiò, separandosi da quella stretta e provando a mettersi seduto. Sembrava incredibilmente sereno, ma in effetti non poteva dirsi molto lucido, quindi Gazeru non lo trovò così strano. Si alzò anche lui e chiese: “Hai bisogno di una mano ad alzarti?”
Ryuuji scosse la testa, stiracchiandosi piano, indolenzito e assonnato. Sembrò accorgersi in quel momento di avere le mani e le braccia ricoperte di bende, e corrugò la fronte come se non capisse esattamente il perché. Prima che Gazeru aprisse bocca, Ryuuji aveva già allontanato il pensiero con un gesto. “Lei potrebbe tornare da un momento all’altro, quindi è meglio che tu non ti faccia trovare qui.”
“Resterò qui finché non sarai in uno stato mentale abbastanza decente,” replicò stizzito l’altro, alzandosi al suo posto. “Vado a farti una tisana.”
Prima che potesse allontanarsi troppo, Ryuuji riuscì a trattenerlo per un polso. Gazeru inizialmente pensò di ignorarlo, ma poi si girò, incontrando i suoi bellissimi occhi neri e la sua espressione seria. “Dico sul serio. Farà del male anche a te. Non voglio che accada.”
In quell’istante, Masaki si mise a piangere.
All’inizio sembrò una situazione ordinaria. Gazeru si diresse semplicemente verso la culla per capire dove fosse il problema: aveva avuto un sonno sorprendentemente agitato, come se avesse capito perfettamente cosa fosse successo. Appena si sporse per vedere quel faccione rubicondo, però, un altro grido lo fece agghiacciare.
Il ragazzo si precipitò nuovamente in camera, dove Ryuuji si era rannicchiato in posizione fetale e abbracciava le coperte come se potesse immergersi in esse. Piangeva e tremava, gridando cose sconnesse, nello stesso stato tremendo in cui lo aveva visto la sera prima, quando si era precipitato da lui. Gazeru realizzò che probabilmente era ancora sotto l’effetto degli psicofarmaci e gli si avvicinò nel panico. Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Non sapeva cosa lo avrebbe fatto stare bene di nuovo. Non sapeva nemmeno se fosse stato possibile.
Rimase al suo fianco per minuti che gli sembrarono interminabili, non osando nemmeno toccarlo, mentre le grida di Masaki nell’altra stanza rischiavano di renderlo pazzo. Era immobile. Ed era impotente.
Una mano sbucò dalle coperte e gli afferrò il polso, senza forze. “Portamelo qui,” biascicò una voce minuta, e Gazeru per un attimo si chiese se avesse dovuto darle retta.
“Ryuuji…”
“Lo faccio smettere, portamelo qui,” ripeté disperato Ryuuji. Era scosso da singhiozzi incontrollabili, non riusciva nemmeno a parlare.
“Se gli fai del male ti uccido,” disse in un soffio, senza pensarci.
“Mi uccido prima io. Mi odio così tanto. Non ce la faccio più.”
Gazeru si pentì immediatamente di quello che gli aveva appena detto: era stato così stupido a pensare una cosa tanto tremenda di lui. Tornò nell’altra stanza per prendere Masaki e quando glielo mise fra le braccia entrambi iniziarono a calmarsi.
Gazeru si sedette sul letto al loro fianco, esausto ma meno irrigidito. Osservò Masaki rilassarsi tra le braccia del padre come se non ci fosse migliore posto al mondo dove stare, e pian piano anche Ryuuji smise di singhiozzare.
“Va meglio?” chiese dopo un po’, e lo vide annuire. Ryuuji si strinse nelle coperte e gli lasciò un po’ di posto perché si stendesse anche lui, senza guardarlo negli occhi. “Scusa” disse solo, quando Gazeru appoggiò la testa di fianco alla sua.
“Non credo dovresti scusarti,” sussurrò. Voleva che lo credesse anche lui, con tutte le sue forze. “È stata una reazione istintiva, in fondo.”
Ryuuji sospirò. Aveva gli occhi rossi e gonfi, ancora assonnati, lo sguardo perso e triste. Gazeru non ricordava più l’ultima volta in cui avesse visto quegli occhi brillare di una luce diversa.
“Vorrei poter scappare, ma non posso.”
Gazeru provò a confortarlo accarezzandogli i capelli corti con leggerezza. “Lo so.”
“Voglio proteggerlo da lei. Voglio essere suo padre.”
Gli occhi di Gazeru si rattristarono: lo aveva sentito fare quel discorso un miliardo di volte, e ognuna faceva male come la prima. “È davvero questo che vuoi?”
Ryuuji non rispose. Osservò suo figlio addormentarsi, lasciando che gli stringesse un dito con una delle sue manine paffute.
“Potremmo essere una famiglia. Ci hai mai pensato?”
Questa volta fu Gazeru a non rispondere, e si girò dall’altro lato, con gli occhi che bruciavano.
 
angolino di mademoiselle hirondelle:
HOLA A TUTTI! Sono tornata, come potete vedere!
Sono stati dei mesi molto intensi, però non voglio escludervi totalmente dalla mia vita! Ho preso la patente, ho affrontato gli Esami di Stato uscendo con l’88 (!!!!!!), poi non ho avuto il tempo di rilassarmi che è iniziato il mio impegno come animatrice al centro estivo della zona (che mi ha preso quasi un mese). E ho lavorato per quasi tutto il mese d’agosto. Di positivo c’è che ora ho una macchina, un computer portatile pagato con i miei sudati soldi, e la speranza di poter dare il massimo alla facoltà di Lettere di Venezia, dove mi sono appena iscritta.
Ho trascurato parecchio questa fanfiction, ma ho deciso di proporvi questo flashback per farmi perdonare! In realtà avrei dovuto scriverlo molto più avanti, ma credo che questo sia il minimo per i miei lettori (anche se, essendo che non scrivo da mesi, sono un po’ fuori forma…)
Non preoccupatevi, ho assolutamente intenzione di completare questa fic. Ci vorrà un po’ di tempo, ma sono abbastanza fiduciosa! Ho un sacco di cose da farvi leggere!
Grazie mille per il supporto e la stima che avete di me! Un bacione!
 
Fay
 
 

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Capitolo 23
*** twentytwo ***


ombrelli sotto la pioggia
Masaki si sentì agitato per tutto il giorno successivo: Hikaru non si presentò a scuola e non diede segno di vita nemmeno per avvisare che non sarebbe andato agli allenamenti. Kariya si sentì totalmente perso senza di lui, e il pensiero non fece altro che renderlo ancora più nervoso: non avrebbe mai ammesso che aveva bisogno di lui al suo fianco, ma si sentiva soltanto peggio a pensarci, e si sentiva stupido per aver dato per scontata la sua presenza.
Sapeva che avrebbe dovuto allenarsi con la squadra almeno per quella giornata, ma aveva dato per partito preso che al suo fianco ci sarebbe stato Hikaru. Non si sarebbe messo di certo a fare a pugni per lui, ma per lo meno gli avrebbe dato la sicurezza di non essere solo; in qualche maniera, si sentì solamente più vulnerabile di prima. E non sapeva bene come gestire la situazione.
Come sempre, si cambiò in un angolo dello spogliatoio: come sempre, lo lasciò per ultimo; come sempre, ascoltò l’allenatore in disparte… e come mai prima d’ora, si unì agli altri negli esercizi.
Gli altri sembrarono sorpresi da quel suo cambiamento, ma non gli dissero nulla: Masaki in qualche modo ne fu contento, perché si aspettava una risposta più feroce a quel suo atteggiamento apparentemente senza senso. Se non fosse stato per il rispetto reverenziale che nutriva per Endou Mamoru, la leggenda del calcio giapponese, probabilmente non si sarebbe fatto nemmeno vedere quel giorno. Qualcosa nelle parole del coach lo avevano spinto ad assecondarlo.
Decise che avrebbe seguito il percorso degli altri in disparte, ma in breve più che una questione di orgoglio diventò una necessità: l’allenamento era molto più duro di quanto pensasse e si trovò in difficoltà più di una volta. I pochi momenti tra un esercizio e l’altro erano di importanza fondamentale per recuperare quel poco di fiato che poteva permettersi, e il suo corpo iniziò presto a dargli segnali allarmanti di un imminente disfacimento delle sue cellule.
A questo si aggiunse il fatto che molti degli esercizi erano da svolgersi in coppia e non tutti i membri della squadra erano propensi ad avvicinarsi a lui più del necessario: ciò gli fece rimpiangere ancora di più la presenza di Hikaru, se non altro perché almeno con lui non avrebbe avuto la sensazione di avere la lebbra. Vollero esercitarsi con lui soltanto Shindou e Tenma: quest’ultimo sembrava essere quello che lo tollerava più di tutti, e anzi sembrava voler fare persino amicizia. Ciò finì per farlo sentire ancora più a disagio.
“Stanco?” gli cinguettò allegramente ad un certo punto. Masaki, nel tentativo di seguire il ritmo degli altri in quella sessione di addominali che sembrava non finire mai, pensò che gli avrebbe spaccato la faccia. Non gli rivolse la parola per quasi tutto il tempo e questo sembrò scoraggiarlo parecchio, al punto che nemmeno lui volle averlo vicino per un po’. E fu a quel punto che lo sostituì Kirino.
Se Shindou e Tenma lo avevano aiutato per una questione morale e civica, Kirino sembrò essere tutt’altro che amichevole con lui. Masaki non poteva dargli torto: si ricordava ogni singolo cattivo scherzo fatto ai suoi danni, e non si sentiva affatto pentito. Non era una cosa nuova per lui, prendere di mira qualcuno, anche se difficilmente poteva spiegare le ragioni dietro i suoi gesti: ogni tanto aveva bisogno di sfogare un po’ di avversità che sentiva dentro se stesso per il mondo in generale.
D’altra parte, non era esattamente sicuro fosse stata una buona idea: Kirino sembrava ben propenso a vendicarsi, e lo dimostrò nella serie di passaggi assurdi che fu costretto a subire in uno dei tanti esercizi che non sembravano finire mai: tante volte si ritrovava costretto a rincorrere il pallone per mezzo campo, o addirittura a recuperarlo con un paio di dolorose testate. In tutto questo, non era ben chiaro se Kirino provasse piacere nella sua crudeltà o meno: il suo volto era totalmente impassibile, e Masaki iniziò a spiegarsi il perché fosse considerato uno dei difensori più temibili. Era imperscrutabile. Nemmeno quando provò a provocarlo con un paio di insulti riuscì a sortire qualche effetto significativo.
“Sei invidioso di me? Ti vedo ribollire di rabbia.”
“Non dire cazzate, Masaki”.
Era giusto quello che la sua mente stava tentando di dirgli da quando aveva messo piede in campo. In effetti, era la prima volta che affrontava Kirino in maniera così diretta. Perciò decise di risparmiare il fiato per un’altra occasione.
 
La stanchezza si riversò nell’irritazione non appena iniziarono la simulazione.
Era giunto il momento di cui Endou gli aveva parlato: avrebbe visto le sue effettive capacità di gioco e forse, come effettivamente sperava, avrebbe visto la sua tecnica speciale.
Masaki non poteva sapere quanto l’allenatore sapesse di lui ma di una cosa era certa: quel giorno non era esattamente dell’umore giusto per sfoggiare la sua hissatsu davanti a mezza scuola. La pima e ultima volta che questa si era manifestata fra le quattro mura del campus era stata contro la sua volontà, per istinto di protezione nei confronti di Hikaru, ed era deciso a non cambiare le cose. Tuttavia in quel momento si sentiva totalmente vulnerabile: non solo Hikaru non era presente, ma si ritrovava a dover giocare con ragazzi abbastanza ostili nei suoi confronti. Anche per questo per tutto il tempo in cui Endou li divise in squadre e prese posizione in difesa, non protestò.
Si sentiva parecchio provato per tutti gli esercizi a cui era stato sottoposto e non si sentiva in grado di affrontare una partita di quel genere: era la prima volta dalle scuole elementari che si ritrovava in un campo da calcio, con persone a lui sconosciute, a un livello nettamente superiore al suo. Le parole di Kirino gli rimbalzarono nella testa: certo, lui era bravo, ma non sarebbe bastato.
Kariya d’un tratto si sentì disgustato al pensiero di far parte di un club simile. Odiava il calcio. Odiava quel campo da calcio. Odiava tutto ciò che comportava lui in quel campo da calcio. Perché diamine aveva accettato di iscriversi? O forse non era stato nemmeno invitato: obbligato forse era la parola più corretta, nel suo caso.
Oltretutto, gli altri membri della squadra non sembravano per nulla affannati come lui, anzi: come ebbe modo di vedere, erano al massimo delle loro energie. Kariya non riusciva a seguire tutte le dinamiche del gioco e spesso non era nemmeno in grado di distinguere la palla in quel groviglio di gambe.
In breve si ritrovò Shindou diretto verso di lui a tutta velocità, e se ne rese conto appena.
L’istinto fu quello di correre, di scansarsi o perlomeno di evitare uno scontro, ma una parte di lui lo obbligò a rimanere fermo sul posto. Forse c’era qualche possibilità di riscatto per lui. Forse avrebbe potuto dimostrare a tutti di che pasta era fatto. Forse…
Forse sarebbe stato accettato per quello che era.
O forse no.
Le circostanze vollero che Shindou lo superasse senza alcun tipo di contrasto e Masaki rimase immobile, inebetito, senza osare voltarsi.
Lo sdegno dei suoi compagni di squadra si fece sentire oltre il turbinio di pensieri sparsi che gli affollavano la testa. Non seppe riconoscere le voci che sovrastavano la sua stessa mente, ma le odiò.
Non era colpa sua. Non aveva fatto niente di sbagliato.
“Fanculo!” sbottò, in preda alla rabbia e all’umiliazione, e abbandonò il campo per dirigersi verso gli spogliatoi, sotto lo sguardo sbigottito di tutti.
 
Stava ancora gettando alla rinfusa i suoi vestiti nella sacca da calcio quando Kirino entrò nella stanza. Subito gli rivolse uno sguardo torvo e seccato, e per un momento si sentì ancora un bambino di cinque anni quando gli disse: “Vai via.”
Kirino alzò le spalle come se le sue parole contassero meno di zero. Aveva sempre dato per scontato che fosse un tipo effemminato, ma in quel momento stava dimostrando più palle di quello sfigato del capitano… o almeno fu questo che pensò Masaki, vedendolo avvicinarsi.
“Ti fa schifo, vero?”
“Ci sono un sacco di cose che mi fanno schifo, sii più preciso.”
Kirino alzò gli occhi al cielo a quel tono impertinente. Poi tentò di proseguire il dialogo. “La tua hissatsu,” spiegò, come se fosse stata una cosa ovvia. “ti fa schifo”.
Kariya non disse niente. Certo che gli faceva schifo. Ma aveva sempre dato per scontato che fosse stato il calcio in sé a disgustarlo.
Kirino sembrò aspettare una risposta, poi continuò a parlare: “Senti, si vede, non puoi negarlo.”
“Non ho aperto bocca,” brontolò Kariya, “Che hai da farmi da maestrina?”
A quel punto il compagno di squadra abbassò lo sguardo, per poi tornare a fissarlo nel suo: aveva uno sguardo penetrante e serio. “Perché voglio aiutarti, se questo può renderti meno arrogante.”
A quell’affermazione Masaki ammutolì, a metà tra l’offeso e il sorpreso, incapace di prendere una posizione fra le due cose. “E come?” chiese poi, in un brontolio sommesso.
“Non so se hai presente in cosa consiste la mia tecnica…” formulò Kirino: avrebbe scoperto in seguito che, come il capitano, aveva una passione per i discorsi lunghi e pieni di retorica.
“No” rispose secco, prima che continuasse. “Spicciati”.
Kirino sospirò, rassegnato: sarebbe stato peggio di quanto si aspettava. “È nebbia, Masaki. E la nebbia nasconde.”
Kariya rifletté su quelle parole, colpito da quello strano atto di solidarietà.
La nebbia nasconde.

 
angolino di mademoiselle hirondelle
Grazie a tutti per non avermi dimenticata e di aver recensito lo spin-off di "ombrelli sotto la pioggia" ≈ 
Finalmente sono riuscita a scrivere anche questo capitolo, e ho approfondito un pochino la questione del calcio che è sembrata troppo marginale fino a questo momento!
Grazie mille del supporto che mi dimostrate!

Fay

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Capitolo 24
*** twentythree ***


ombrelli sotto la pioggia
Fin dal primo istante in cui aveva trascinato Endou Mamoru in quel bar non si era sentito molto sicuro della reazione di Midorikawa: Endou era sempre stato un suo grande amico oltre che collega, ma poteva sembrare decisamente eccentrico per una persona elegante e posata come Ryuuji.
Ancora prima di conoscere la sua reazione, tuttavia, si ricordò del fatto che probabilmente gente simile era all’ordine del giorno per una persona con lavori come i suoi; e ne ebbe la prova quando Midorikawa si alzò dal suo posto per accoglierli e rivolgere loro un inchino e un sorriso radioso.
Hiroto intuì non solo che Endou e Midorikawa sembravano molto aperti l’uno verso l’altro, ma anche che probabilmente sarebbero diventati degli ottimi amici.
“Il suo amore per il calcio è molto forte, ma c’è qualcosa che lo blocca.” spiegò l’allenatore, una volta sedutosi al suo fianco, “Ho avuto modo di osservarlo e ho notato che nutre un senso di disprezzo per la sua hissatsu. Ammetto di non aver mai avuto a che fare con casi del genere, e qualcosa mi dice che c’è effettivamente qualcosa di più dietro.”
Midorikawa colse lo sguardo equivoco di Endou e annuì con aria grave. “Si tratta di sua madre. Credo fosse molto… severa nei suoi confronti.”
“Ho potuto vedere la sua hissatsu solo una volta,” intervenne Kira, rivolto a Endou: se c’era una persona in grado di comprendere certe dinamiche era sicuramente lui. “ma non riesco a capire quale sia il suo problema. Davvero è solo una questione di… colore?”
Endou portò lo sguardo da Midorikawa a Hiroto, da Hiroto a Midorikawa. Alla fine scosse la testa in maniera abbastanza decisa, ma prima di rispondere sorseggiò un po’ dalla sua tazza di ramen. “Credo ci sia qualcosa di ancora più profondo… Un rifiuto molto più radicato. Quando un giocatore non riesce ad usare le sue hissatsu, solitamente è perché nutrono un grande senso di angoscia all’interno del suo cuore. Certamente, non mi è mai capitato che un giocatore arrivasse a rifiutare la propria hissatsu.”
A quelle parole, tutti e tre rimasero in silenzio. Era sicuramente qualcosa che sia Midorikawa che Hiroto avevano intuito da tempo parlando dei suoi comportamenti, ma non si erano mai addentrati totalmente nel discorso: era chiaro che, oltre alla repulsione per gli altri, in lui ci fosse un sentimento di disprezzo nei propri confronti. Il problema era che nessuno di loro aveva idea di cosa fosse, e soprattutto di come aiutare Masaki a risolverlo.
Hiroto vide Midorikawa lasciarsi andare a un profondo sospiro e ad appoggiarsi contro lo schienale della sedia. “Probabilmente dovrei consultare uno psicoterapeuta. Non credo di poter fare molto per lui nelle mie condizioni.”
A quel punto Endou gli rivolse un sorriso serafico e armonioso da sopra la tazza, rivolgendosi a lui in maniera gentile. “Potrebbe essere una soluzione, ma io starei a guardare ancora per un po’. Credo di aver solo iniziato a conoscerlo, chissà che non riesca a capire qualcosa in più su di lui.”
Lo sguardo di Endou talvolta poteva essere tanto deciso e determinato da provocare un misto di sensazioni contrastanti nell’animo di chi lo incrociava: Hiroto conosceva bene questa sensazione, ma Midorikawa ne fu totalmente affascinato e il suo viso si distese in un’espressione sorpresa e confusa allo stesso tempo. Gli occhi parvero farsi un po’ lucidi. “Non c’è bisogno che lei si preoccupi così tanto, Endou-kun…”
“Invece credo sia proprio uno dei miei compiti. Sono un allenatore, è vero, ma prima di tutto sono un educatore. E prima ancora un essere umano. Aiutare Masaki mi sembra una questione di principio.” Per ancora più valore alle sue parole, annuì con convinzione. Ryuuji sorrise, senza sapere come rispondere, ma decisamente riconoscente.
Sì, Endou poteva essere una persona particolarmente strana. Ma Hiroto era felice di averlo introdotto nella vita di Midorikawa esattamente come quel personaggio era entrato nella sua.
 
Quando salutarono Endou e aspettarono che si allontanasse in auto, rimasero al di fuori del bar per un po’, in silenzio, stringendosi nelle loro sciarpe. Midorikawa non distolse lo sguardo dalla strada nemmeno quando Endou ebbe superato l’angolo. Finalmente, dopo attimi che ad Hiroto sembrarono interminabili, tornò a incrociare il suo sguardo. “Ti ringrazio per quello che stai facendo. Endou-kan sembra davvero una brava persona.”
Kira era pronto a rivolgergli la solita espressione che gli rivolgeva quando lo ringraziava per l’ennesima volta: modestia e, all’occorrenza, un po’ di imbarazzo. Ma prima che potesse aprire bocca Ryuuji lo anticipò. “Dico sul serio.”
Si ritrovò a osservarlo con molta più attenzione. Sembrava incredibilmente serio anche se la sua postura suggeriva un senso di rilassamento, forse dettato anche dalla stanchezza. Ancora non conosceva gli orari del suo part-time, ma ogni volta che si incontravano sembrava sempre più stanco di quella precedente. Eppure, anche quella sera, i suoi occhi neri e grandi lo stavano fissando con la stessa vitalità di sempre: Ryuuji era un uomo che era caduto e si era rialzato troppe volte perché potesse mollare.
E Hiroto si era sentito attratto da lui dal primo momento in cui l’aveva visto, forse perché lui stesso aveva mollato senza prima tentare.
Tossicchiò per nascondere l’imbarazzo, ma non parlò subito. Lasciò che il silenzio scivolasse tra di loro come una coperta di neve, mentre il freddo impregnava i loro vestiti pesanti.
“Io… credo di dover essere io a ringraziare te.”
Ryuuji si girò verso di lui completamente, interrogativo. L’orecchino tintinnò leggero a quel movimento e qualche ciocca di capelli avvolta nel berretto di lana iniziava già a sfuggire ribelle al suo controllo. La luce bianca dei lampioni faceva sembrare il colore della sua pelle più latteo di quanto non fosse.
“Non ci conosciamo,” mise subito le mani avanti, “ma credo di aver capito molte cose grazie a te.” confessò. “Vedi, io…”
Una macchina passò al loro fianco, assordando per un attimo i suoi pensieri. Si interruppe, cercando le parole giuste. Non ne sarebbe stato capace, già lo sapeva. “A me piace molto… osservare le persone.” tentò di dire, impacciato. Sul viso di Ryuuji si dipinse una smorfia confusa e divertita assieme, perciò Hiroto si affrettò a continuare: doveva cercare di lasciar parlare più il cuore e meno la testa, per una volta. “Non fraintendere, io…” Si bloccò. Quanto poteva essere difficile?
“Credo di capire.” lo incoraggiò Ryuuji con un sorriso. Era molto diverso da uno di quei sorrisi che rivolgeva a tutti al club: quello lì era solo per lui, e a Hiroto si strinse il cuore.
“Il fatto è… che non ho mai capito molte cose di me stesso, finché non ti ho incontrato…” riformulò, “ho sempre vissuto nell’ombra di molte persone per paura di essere quello che sono. E tu… tu mi hai fatto capire che… nessuno di noi è sbagliato. Perciò…”
Prese fiato. Non avrebbe potuto dirglielo, non così. Sarebbe sembrato strano, del tutto assurdo, oltre che sconveniente. E ad un tratto disse qualcosa che sul momento non ebbe senso nemmeno per lui. “Credo che domani sera offrirò da bere a una persona. E mi dichiarerò.”
Midorikawa sembrò molto colpito da quell’affermazione, e dal suo sguardo capì che si aspettava qualcosa di… diverso? Hiroto chiese se fosse possibile. “D-domani?” balbettò quasi, smarrito, e la sua espressione cambiò: ora più che sorpreso sembrava allarmato. “Cavolo, mi sono quasi dimenticato di dirtelo!”
“Dirmi cosa?” chiese Hiroto, ancora profondamente provato dallo sforzo.
Ryuuji si batté la mano sulla fronte. “Domani mi esibisco con tutte le Muse!”
Hiroto sbatté le palpebre per un attimo. “L-le Muse? Intendi… La band?”
“Sì!” esclamò. “Ci sarà sicuramente un sacco di gente. Mi dispiace così tanto…”
“Di cosa?” chiese Hiroto: non era sicuro di aver afferrato totalmente il filo del discorso. “Di cosa ti dispiace?”
Midorikawa gli prese le mani fra le sue e si inchinò con un gesto di scuse. “Ti auguro tanta fortuna, Hiroto-san. Probabilmente non sarà facile per te fare un gesto simile in mezzo a tante persone… Ma sappi che hai tutto il mio sostegno.”
Kira per un attimo rimase lì, imbambolato, aspettando che qualcosa succedesse. Davvero non si era reso conto delle sue intenzioni? Avrebbe dovuto essere un po’ più specifico? Probabilmente era stato troppo metaforico.
Con un gesto imbarazzato lo invitò ad alzare il capo e gli fece intendere che fosse tutto a posto. Beh, quasi. Non si era mai sentito più scombussolato in vita sua, e forse aveva bisogno di rientrare a casa. “Sono davvero curioso di vedere la vostra esibizione. In… in bocca al lupo!” riuscì a balbettare.

Modificato: 21/07/20

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Capitolo 25
*** twentyfour ***


ombrelli sotto la pioggia
Il ghigno di Tsurugi aveva il potere di provocargli fastidio e, allo stesso tempo, un’incredibile ebbrezza. Sembrava che con quel ragazzo sarebbe potuto diventare invincibile e incontrastabile: dopo tutto quello che aveva passato in quella giornata, passare il tempo in sua compagnia sembrava una delle cose più sensate da fare. Non aveva però considerato la sua curiosità di felino, che lo aveva tempestato di domande tutta la serata.
“E quindi?”
“E quindi cosa?”
“Cosa hai intenzione di fare?”
Masaki tentennò per qualche secondo. Stavano passeggiando lungo il fiume vicino alla scuola: presto avrebbero dovuto prendere strade diverse, visto che Tsurugi abitava ben prima della fermata degli autobus che voleva raggiungere. Forse se avesse esitato abbastanza non avrebbe avuto modo di rispondere né a lui… né a se stesso. Le mani in tasca e gli occhi puntati svogliatamente a terra, aspettò che i suoi pensieri fluissero dalle sue labbra. “Non so… vorrei capire dove abita Hikaru e andare a parlargli,” mormorò. Sapeva che quella era solo una delle cose che avrebbe dovuto fare, ma tanto per cominciare gli sembrava già qualcosa di buono, sebbene fosse un proposito decisamente vago.
Tsurugi fece una smorfia e sorrise sornione. “Che carini, come due ragazze.” Lo sfottò gli fece guadagnare un’occhiataccia di Masaki, però non protestò. “Senti… So che questa cosa ti preoccupa, e lo capisco. Però credo che tu non abbia tentato abbastanza. Voglio dire, gli avrai fatto sì e no due telefonate… Io sarei talmente incazzato a questo punto da non lasciarlo vivere.”
“Che carino, come uno stalker…” borbottò di rimando l’altro, ma in effetti sentiva che l’amico aveva ragione. Come al solito, si stava dimostrando più acuto di quanto mostrasse.
Gli chiese una sigaretta e Tsurugi sbuffò un po’ prima di porgliela. In realtà Masaki si era reso conto che odiava fumare già da un pezzo, ma non voleva sprecare le uniche occasioni che aveva per sottrarle a quel disgraziato. Fumarono insieme, in silenzio, per quelle che parevano ore: si sentiva solo il leggero rimbalzare della palla e i loro volti erano illuminati dai lampioni bianchi del viale. Masaki avrebbe dovuto affrettarsi se voleva prendere in tempo i mezzi, ma qualcosa gli diceva che se avesse continuato di quel passo tutto sarebbe andato comunque bene. Era la stabilità che cercava, forse, dopo giorni in cui tutto aveva acquisito sempre meno senso.
“Il fatto è…” gli disse Tsurugi prima che si separassero. “Che hai bisogno di distrarti un po’ da tutta questa merda. E io so cosa fa al caso tuo. Hai bisogno di sentirti grande.”
Masaki lo guardò bieco ma non obbiettò. Aveva capito che Tsurugi in fondo non era un cattivo ragazzo, e in qualche modo teneva a lui; di certo però lo dimostrava in maniera bizzarra, e nemmeno in quell’occasione Masaki era sicuro di sapere a cosa si riferisse.
 
Masaki chiamò Hikaru un’altra volta. E ancora, e ancora, e ancora, finché non rispose quando era ormai sera tardi. A rispondergli fu come al solito la sua voce incerta, come se non sapesse davvero chi lo stava tartassando di chiamate da ore.
“Si può sapere che c’è?” tagliò corto, esasperato, mandando al diavolo le centinaia e centinaia di congetture che si era creato da qualche giorno. Puttanate. Non aveva la minima idea di come approcciarsi a Hikaru in quel momento, e in ogni caso si sarebbe affidato all’istinto. Tuttavia era quasi più che sicuro che non fosse il metodo adatto, e infatti si aspettava che l’amico gli buttasse il telefono in faccia da un momento all’altro. Ciò non accadde, e per un attimo Masaki si trovò ad essere totalmente impreparato al silenzio che seguì le sue domande.
“Allora?” ripeté con più calma, “Sei arrabbiato con me?”
“No…” si affrettò a dire Hikaru, una risposta troppo automatica per i suoi gusti: “Non ti credo...” borbottò infatti, ma prima che il ragazzino potesse protestare continuò: “… lasciamo stare. Voglio solo capire se stai bene o no.”
La voce di Hikaru sembrava quasi soffocata: forse la linea era leggermente disturbata dal brutto tempo che aveva iniziato a imperversare fuori. “Sì… sto bene.”
“È meglio se torni, qui ci caricano di roba e se continuerai a evitarmi rimarrai indietro,” buttò lì Kariya, aspettando una risposta che tarò ad arrivare.
“Non ti sto… evitando…”
“Si può sapere che c’è allora?”
A Kariya parve quasi di vederlo, steso sul letto o in piedi, a stropicciarsi i piedi a disagio. Quell’immagine avrebbe suscitato in lui tenerezza se solo in quel momento non avesse provato una certa stizza. Lo stava chiaramente evitando, non c’erano altre spiegazioni a quel suo comportamento. Era dall’episodio negli spogliatoi che Hikaru non gli rivolgeva la parola, e sì che aveva detto quelle cose solo per difenderlo, perché mai avrebbe dovuto-
“Mia nonna… sta male.”
Questa volta fu il turno di Kariya di azzittirsi. Pure i suoi pensieri si bloccarono improvvisamente.
Sua nonna. Doveva aver accennato a lei una volta. Hikaru… aveva una nonna.
“Io sarei tornato a scuola… dico sul serio…” proseguì stancamente Hikaru, con una vocina piccola piccola, “ma sono tutto ciò che ha. Non posso lasciarla da sola.”
“P-perché non me l’hai detto prima?” boccheggiò l’altro, confuso. Per tutto quel tempo era sempre stato lui al centro di tutto: lui, lui e lui soltanto. Dal momento che era sempre stato al centro dell’attenzione di tutti, non aveva mai pensato che il suo migliore amico dovesse occuparsi di qualcos’altro… Si rese conto solo in quel momento di quanto fosse stato vergognosamente stupido.
“Io… pensavo non avresti c-capito.” Balbettò Hikaru, “Non volevo pensassi fosse una scusa… O una cosa del g-genere…”
Kariya lo sentì tirare su col naso e anche lui sentiva un certo pizzicorino agli occhi. Era sollevato, certo, e imbarazzato, ma non si sentiva più arrabbiato nei suoi confronti: per la verità, si stava sentendo piuttosto in colpa.
“N-non lo penso… Cazzo, Hikaru- credevo fossi… Credevo fossi arrabbiato con me.”
La voce al di là dello schermo si fece più acuta. “C-credevo fossi t-tu quello arrabbiato… con m-me…”
“Scemo, è il… è solo il mio modo di fare, credevo lo s-sapessi…”
“S-stai piangendo?”
“N-no cazzo, tu stai piangendo!”
La voce di Hikaru si ruppe in un singhiozzo di sollievo e affetto. Anche Kariya proruppe in una mezza risata stanca. Alcune lacrime stavano effettivamente scivolando sul suo viso e il tamburellare della pioggia si infrangeva sui vetri della sua camera, quasi a testimoniare quel suo momento di totale debolezza. Andava bene così, o almeno lo pensò per un attimo, giusto prima che sentisse un altro singhiozzo al di là della linea.
“Hikaru… s-stai bene?”
Dall’altra parte si sentì solo un silenzio ovattato. Kariya pensò che, ingenuo com’era, il ragazzo avesse annuito, dimenticandosi di essere in una conversazione telefonica. “Hikaru…?” ripeté con una pazienza che non gli si addiceva.
Hikaru sembrò capire e disse solo: “S-sì…”
Kariya sospirò. “A-allora… se vuoi… passo domani a casa tua. Ti do i compiti.”
“V-va bene…”
“Però devi dirmi dove abiti, ok?”
“O-ok…”
“E non piangere.”
“Sì senpai.”
Quelle sue ultime parole mandarono il suo cervello in blackout totale. Ecco, ora che si sentiva stupido. Lui, un senpai. Due parole che non sembravano destinate a coesistere nella stessa frase.

 
 
Angolino di hirondelle_
Questo capitolo non mi piace per niente, infatti a scriverlo ci ho messo più del solito—non mi piace descrivere le telefonate, non lo so fare. Spero comunque che abbia suscitato la vostra curiosità. E poi dovevo far riappacificare i miei bimbi. Oddio.
Vi ringrazio come sempre per le vostre recensioni e per il vostro grande supporto! Al prossimo capitolo! ;)
Modificato: 21/07/20

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Capitolo 26
*** twentyfive ***


 
Note straordinarie: 
​Nel capitolo è citata una canzone, "Guy.exe dei Superfruit: potete ascoltarla in sottofondo attraverso questo link. 

ombrelli sotto la pioggia
Quando Ryuuji salì sul palco per la prima volta il cuore di Hiroto accelerò i battiti automaticamente. Arrossì, sperando che nessuno dei suoi fratelli si fosse accorto del suo improvviso cambio di umore.
Le performance di Ryuuji da solista erano sempre molto simili; si esibiva sul palco come cantante, occasionalmente come poledancer, ma il risultato era assicurato: scrosci di applausi e fischi di apprezzamento, banconote che volteggiavano allegramente per aria o venivano sventolate fino a quando non venivano raccolte da Midorikawa stesso. Questa volta prima di iniziare si avvicinò al microfono posizionato di fronte al pubblico per parlare, prima di essere sommerso da uno scroscio di applausi.
“Benvenuti! Siamo onorati di avere con noi stasera un pubblico così vasto!”
La voce melodica di Ryuuji non avrebbe potuto esprimere in maniera tanto eufemistica la folla di gente che si era precipitata nel locale in occasione di quell’evento. Pure Hiroto e i suoi amici avevano dovuto accontentarsi di rimanere in piedi vicino al bancone, sebbene Gazeru fosse amico del barista. Nonostante la posizione sfavorevole, era ancora possibile vedere da lì una buona porzione del palco e in ogni caso ascoltare l’esibizione. Ryuuji, essendo al centro della pedana rialzata, era appena intravedibile.
“Per chi ci è affezionato, sarà un momento speciale quanto lo è per noi. Esattamente quindici anni fa le Nove Muse si sono esibite per voi su questo palco per la prima volta!”
Tutti applaudirono di nuovo e Hiroto si unì allo scrosciare entusiastico. Ryuuji dovette fare una breve pausa per poter riprendere a parlare, cogliendo l’occasione per rivolgere a tutti un caldo e ammaliante sorriso. “Solo questa sera, per voi, le Muse si esibiranno insieme dopo tanto tempo! Ci siamo impegnati parecchio per preparare questo spettacolo, vi auguriamo una serata magica ricca di sorprese! Contiamo sul vostro supporto!”
Gli applausi lo accompagnarono fino a dietro le quinte e Hiroto poté notare meglio che Ryuuji, era vestito da capo ai piedi da un completo in pelle nero, che risaltava le sue forme senza però farlo sembrare volgare. In effetti, gli ricordò piuttosto una tuta da motociclista. Pochi istanti più tardi fecero la loro comparsa sul palco otto figure incappucciate, avvolte da un mantello nero e viola.
Il gruppo sembrava perfettamente assortito e iniziò a muoversi in perfetta sincronia al suono della musica: scandendo il ritmo con i tacchi alcuni avanzarono nello spazio ristretto del palcoscenico e si avvicinarono alla folla, fino a prendere posizione. Una voce che Hiroto non era ancora in grado di distinguere scandì le prime strofe dal centro.
 
Where all the boys at with emotional stability?
Nice car, a CEO, and almost just as smart as me
Where all the boys at with financial security?

A doctor, a model, a man of possibilities
 
“Sono addirittura migliorati, è incredibile!” esclamò Maki elettrizzata, e allacciò le braccia al collo del fidanzato. “Si muovono con in perfetta sintonia!”
Sembrava non essere stata l’unica a notarlo: attorno a loro uomini e donne di tutte le età osservavano il palcoscenico in visibilio, emozionati come bambini.
Iniziarono ad esserci più voci a sostenere il solista e presto fu chiaro che tutte le Muse stavano prendendo coralmente parte alla canzone: Hiroto non riuscì nemmeno a percepirlo, tanto che in un primo momento gli sembrò che la voce appartenesse a un solo uomo.
 
They say, expectations are too high
And you'll never find a guy like that
It's driving you mad, honey
They say that it’s just a waste of time
Get your head out of the sky
But why?

 
A un grido del solista, le Muse si tolsero il mantello nello stesso istante, rivelando i loro volti. Un vociare di approvazione si alzò dalla folla e alcuni applaudirono concitati. Quelli che fino a pochi istanti prima gli erano sembrati immagini speculari della stessa persona mostravano ora i loro volti raggianti ed espressivi. I loro movimenti iniziarono ad essere più veloci e complessi.
 
Oh I, wish I could synthesize
A picture perfect guy
Oh I, oh I
Six feet tall and super strong
We'd always get along
Alright, alright

 
Con passi decisi e invidiabili, considerando i tacchi che Hiroto avrebbe trovato vertiginosi, invertirono le loro posizioni e rivolsero al pubblico uno sguardo ammiccante. Sembravano persone totalmente diverse, eppure allo stesso tempo identiche, come se rappresentassero un aspetto diverso di una stessa entità: iniziò a pensare che il nome di “Muse” fosse estremamente appropriato per un gruppo così disomogeneo ed equilibrato assieme, ma i suoi pensieri furono distratti di nuovo dalla voce di Maki, che si alzò oltre la musica assordante per rivolgersi a Gazeru. “Non trovi che Shirou abbia qualcosa di diverso?”
“Chi è Shirou?” chiese Hiroto incuriosito, quasi gridando per farsi sentire. Maki gli indicò un punto non ben precisato del palco, esclamando: “Quello biondo.”
“Quello con i capelli lunghi?”
“No, l’altro dietro.”
Gazeru per tutta risposta annuì: sembrava l’unico a non sembrare particolarmente entusiasta dello spettacolo, ma Hiroto immaginò fosse parte del suo carattere riservato. “E’ molto dimagrito, spero stia bene,” osservò soltanto. “Non lo vediamo da anni.”
 
Oh, he'd pick me up at eight
And not a minute late
Cause I don't like to wait, no
Kind and ain't afraid to cry
Or treat his momma right
That's right, that's what I like



Hiroto iniziò a capire quanto quella serata fosse speciale non solo per le Muse, ma anche per i loro spettatori: doveva essere la prima volta in anni che si esibivano insieme, e in effetti Ryuuji gli aveva accennato che erano spinti spesso a dividersi. Li osservò uno ad uno, fino a soffermarsi su Midorikawa: iniziò a notare le differenze che li contraddistinguevano, l’ancheggiare ammiccante di uno piuttosto che lo sguardo penetrante dell’altro. Ryuuji non aveva perso il sorriso da quando era iniziata la serata e cantava al microfono come se la danza non rappresentasse nessuno sforzo.
Iniziò a sentire un paio di gomitate bonarie al fianco da parte di Nagumo, ma lui quasi non le percepì concentrato com’era su Ryuuji. Si rese conto troppo tardi che anche lui lo stava fissando: non si sarebbe quasi accorto se non fosse stato per uno sfuggevole occhiolino nella sua direzione.
E ad un tratto capì che Ryuuji non era stupido. Capì che probabilmente era arrivato ben prima di lui alla sua stessa conclusione. Capì che sapeva tutto.
 
I need a man who don't get jealous 'less I want him to
A gentleman to take care of me in the bedroom
Romantic love but keep it rough
Am I asking too much?

 
Angolino di hirondelle_:
​Bonasera a tutti! Come vedete sono tornata con un nuovo capitolo!
​Spero ovviamente sia stato di vostro gradimento, anche se non sono molto brava a descrivere le coreografie che ho nella testa... Per ovviare questo problema vi lascio la reference che ho utilizzato per questa scena! (https://youtu.be/GOFnBEhIFnw) Oltretutto, ho scoperto che facendo partire la coreografia del video e la canzone nello stesso istante, le due cose quasi combaciano (e sono felicissima di questo). 
​Non posseggo i diritti né della canzone né della coreografia: vi invito a conoscere le persone talentuose che vi sono dietro, ossia i Superfruit e quel bonazzo di Yanis Marshall, attraverso i link che vi ho riportato in queste note e in quelle all'inizio. Sappiate comunque che sono tutti gay :(
Che dire, buon anno a tutti! c:

​Fay
Modificato: 21/07/20  

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Capitolo 27
*** twentysix ***


ombrelli sotto la pioggia
Sul suo ombrello picchiettava da ore una pioggerella leggera e fastidiosa, ma sopportabile. A Masaki sarebbe bastato evitare le pozzanghere che puntualmente minacciavano di inzaccherare i suoi stivali per rimanere d’umore quantomeno decente. Peccato che a peggiorare la situazione ci fosse Hikaru.
“Ok, a sinistra?” chiese cercando di contenere l’esasperazione. Guardò per un attimo la via stretta e scura che gli si stava parando davanti: presto sarebbe calato il sole e in quel posto sembrava non esserci l’ombra di un lampione.
“Non lo so, cosa vedi?” chiese Kageyama, intimorito dal suo tono di voce. “Per essere sicuri.”
“C’è un fruttivendolo all’angolo e un tabaccaio più avanti.”
“Ah no, allora è l’altra sinistra.”
Masaki imprecò sottovoce e si girò su se stesso un paio di volte prima di imboccare la strada giusta: non era famoso per il suo senso dell’orientamento, ma Hikaru sembrava del tutto intenzionato a batterlo.
“Ok, quanto devo camminare all’incirca?”
La voce dall’altro capo del cellulare balbettò. “F-fino a metà vicolo”.
Masaki si addentrò nell’oscurità sentendo solo il picchiettare della pioggia sopra la sua testa. Non sembrava esserci anima viva, come se le case attorno a lui fossero disabitate. Solo una casa sembrava dare un minimo segno di vita: a metà strada, come indicato da Hikaru, una piccola a casa a due piani presentava una piccola finestra dalla quale proveniva una flebile luce a neon.
Masaki aggrottò le sopracciglia e si fermò. “Credo di essere arrivato.”
“A-aspetta, non suonare… ti apro io.”
Masaki poteva quasi sentire i passi scendere le scale e dopo pochi istanti la porta di fronte a sé si aprì di uno spiraglio. Un cespuglio di capelli bluastri fece capolino, seguiti da due enormi occhioni neri: per un attimo gli parve che gli fossero mancati. Chiuse l’ombrello e fece pochi passi in avanti. “Ciao.”
Hikaru si scostò appena per farlo entrare e chiuse la porta alle sue spalle. Indossava ancora il pigiama e due adorabili babbucce pelose. Kariya avrebbe voluto commentare, ma alla fine rinunciò e si affrettò semplicemente a togliersi gli stivali umidi all’ingresso. “Aspetta, ti aiuto,” gli disse Hikaru sfilandogli il cappotto; per tutta risposta Masaki si limitò ad arrossire. “I… compiti,” borbottò, porgendogli una cartellina con un plico interminabile di fogli. “Mezzi te li ho fatti io, ma tu dacci un’occhiata lo stesso.”
L’altro lo guardò sorpreso ed emozionato: “Grazie, senpai!” esclamò, gli occhi grandi e lucidi, e Masaki dovette distogliere lo sguardo per non affogare nell’imbarazzo. “Quanto sei ridicolo.”
La casa di Hikaru era grande a malapena un terzo dell’appartamento che condivideva con Midorikawa. Quello che aveva creduto essere un secondo piano era in realtà un angusto soppalco al quale si poteva accedere con una scaletta, mentre il resto dello spazio era occupato da due stanze in tutto. Kariya si ritrovò in cucina non appena mise piede al di fuori del piccolo atrio per le scarpe, e pochi passi su quel tatami rovinato lo avrebbero portato senza problemi in quello che sembrava un piccolo salotto, che tuttavia riuscì a malapena a scorgere di sfuggita. Tutto sommato, però, era un ambiente disordinato e accogliente, esattamente come Hikaru si era sempre mostrato.
Si sedettero al tavolo e Masaki gli riassunse tutto lo studio rimasto arretrato davanti a una tazza di tè. Hikaru sembrava un po’ assonnato, ma rimase attento, e quando ebbe finito di parlare gli sorrise: “Grazie senpai, sei stato gentile.”
“Figurati”, mormorò lui, alzandosi. “Piuttosto, è tutto a posto?”
Il ragazzino si strinse nelle spalle, un sorriso piccolo fra le labbra. “Sì, scusami. Non volevo farti preoccupare.”
Masaki annuì, serio. “Va bene allora. Ci sentiamo.”
Stava per raggiungere la porta d’ingresso quando la mano sottile di Hikaru si avvolse attorno al suo polso, in un timido tentativo di fermarlo. Quando si voltò, lo trovò a fissarlo con il volto paonazzo e l’aria più imbarazzata che gli avesse mai visto fare… e lo trovò adorabile. “N-non… Ti va di restare per cena?” balbettò, a tal punto che all’inizio non capì cosa gli stesse dicendo.
“Io… ecco, mi piacerebbe, ma…” Per un attimo Kariya ebbe l’impressione che fosse arrossito anche lui… improvvisamente sembrava essersi creata un’atmosfera particolare che non avrebbe saputo descrivere. Sapeva solo che lo faceva sentire molto a disagio. “Io… stasera pensavo di uscire con Tsurugi-san.”
Hikaru mollò la presa sul suo polso immediatamente e quella strana sensazione sparì. “Ah…” mormorò solo, come se fosse rimasto deluso. Kariya sapeva che Kyosuke non gli andava affatto a genio, e che se anche l’avesse invitato con loro avrebbe rifiutato. Tuttavia non poté fare a meno di preoccuparsi non appena vide il suo viso incupirsi. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non sapeva bene cosa: così lasciò perdere e, dopo averlo salutato, uscì in strada.
 
L’appartamento era stato lasciato nella penombra, e di Ryuuji non si avvertiva traccia. Solo la divisa bianca abbandonata sulla sedia lo avvisò del fatto che doveva essere rientrato da lavoro non troppo tempo prima, ma doveva essere uscito di nuovo. Un biglietto lasciato sul tavolo, deturpato da una grafia graziosa ma frettolosa, citava: “Mi hanno chiamato a fare alcuni straordinari al bar. La cena è pronta, ti ho lasciato tutto in frigo!”
Il nome “Ryuuji” era accompagnato da un piccolo cuore stilizzato.
Accigliato, Kariya si diresse verso il frigorifero, l’aprì e osservò trasognato la zuppa di miso che Ryuuji aveva preparato per lui in un pentolino e i noodles istantanei che aveva avanzato dalla sera precedente. Accadeva spesso che non riuscissero a vedersi anche per due giorni di fila, e ultimamente era diventata quasi una routine. Tuttavia quando rientrava da scuola c’era sempre qualcosa di pronto per lui, la casa era in condizioni quantomeno accettabili, e non gli era mai capitato che Ryuuji facesse troppo rumore dal rientrare dai suoi turni di notte. Era qualcosa a cui non si era mai totalmente abituato e ogni volta doveva aprire il frigorifero per accertarsi che non fosse solo un’illusione. Nei primi tempi, addirittura, si era ostinato a prepararsi la cena da solo, per orgoglio e imbarazzo, per poi realizzare che la sua non era altro che una battaglia contro i mulini a vento.
Appoggiò sui fornelli il pentolino e mise la zuppa a scaldare. Si sedette a tavola e aspettò con impazienza, controllando di tanto in tanto il cellulare. Erano le otto di sera ormai e Tsurugi gli aveva promesso che lo avrebbe chiamato lui; tuttavia non si era fatto sentire da quando si erano salutati alla fermata del bus e iniziava a sentirsi parecchio impaziente.
In realtà il suo cellulare diede segno di vita più di una volta, ma si trattava semplicemente di Hikaru, che continuava a ringraziarlo per i compiti. Neanche avesse fatto chissà quale opera di carità…
Come accade sempre in momenti come questi, Tsurugi lo chiamò nel momento sbagliato, quando aveva già iniziato a mangiare e il miso stava per raffreddarsi nuovamente.
“Ohi, ti aspetto davanti all’Happy Sugamo,” gli disse Tsurugi, senza salutare.
A Masaki quasi andò di traverso la zuppa. “E cosa sarebbe?” si lamentò, “E comunque, ciao.”
“Ciao,” gli disse Tsurugi di rimando, con un po’ di sarcasmo nella voce. “Non sai davvero cos’è l’Happy Sugamo?”
“Non so nemmeno dove sia.”
Dall’altra parte sentì un sospiro rassegnato: poteva sentirlo scuotere la testa e sorridere derisorio. Iniziò quasi ad irritarsi: sarebbe stato un bel problema se non avesse imparato a conoscerlo almeno un poco.
“Va beh, allora ti vengo a prendere. Dove hai detto che abiti?”
Masaki gli comunicò l’indirizzo con fare secco. “Non suonare, scendo io, chiaro?”
Con un’altra risatina Tsurugi chiuse la chiamata e per Masaki fu l’occasione per fiondarsi su internet e piegarsi alla sua curiosità.
“Un… un locale per adulti…?”

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Capitolo 28
*** twentyseven ***


ombrelli sotto la pioggia
Hiroto non poté far altro che rimanere in silenzio e lasciare che Midorikawa attirasse l’attenzione del barista per ordinare due shottini di gin. “Offro io, Osamu!”
L’insegnante lo fissò per qualche secondo, prima di abbassare il capo e ridacchiare tra l’imbarazzato e lo sconsolato. “Mi sa che me l’hai proprio fatta.”
Ryuuji si volse verso di lui e sorrise, dondolandosi allegramente sullo sgabello da bancone. Era ancora truccato e portava il vestito di scena dell’ultima esibizione, ma le Muse erano tutte in pausa e giravano tranquillamente per il locale, intrattenendo i clienti e chiacchierando sedute su posti che omaccioni bavosi si erano affrettati a liberare. Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, ma quelli di Ryuuji erano fissi, ammalianti e splendenti, soltanto nei suoi. “Diciamo solo che mi hai sottovalutato,” cantilenò, “sono molto più perspicace di quanto non sembri”.
Hiroto arrossì: “Non intendevo questo…” provò a dire, ma fu interrotto dal leggero strusciare del vetro sul bancone. Alzò gli occhi e trovò il barista a rivolgere loro un sorrisetto che poteva solo giustificare il suo perenne muso duro. “Normalmente offrirei io, ma qualcosa mi dice che questa è un’occasione speciale.”
Ryuuji ammiccò. “Grazie,” disse, prima di rivolgersi di nuovo a lui e alzare il bicchierino. L’aroma dell’alcool gli arrivò alle narici e Hiroto si sentì stordito ancora prima di berlo. “Al nostro incontro, Kira-sama.”
Hiroto sbatté per un attimo le palpebre a quel nome, pronunciato con fare scherzoso. Era una situazione surreale: stava davvero uscendo con il padre di Masaki Kariya? Come poteva sembrare ugualmente sbagliato e meraviglioso nella sua testa? Alzò a sua volta il bicchiere e per la prima volta dopo tanto tempo si lasciò sfuggire un sorriso carico di malizia e affilò lo sguardo. Era una parte di sé che non usciva da tempo e che sapeva essere tremendamente sensuale: era dai tempi dell’università che non si sentiva così disinvolto. “A noi,” mormorò con voce appena profonda.
“Oh, mi piace quello sguardo,” sorrise a sua volta Ryuuji, e insieme buttarono giù lo shot, lasciandolo scorrere come lava liquida all’interno dei loro corpi.
Hiroto non era abituato a bere. Per un attimo chiuse gli occhi, sentendo il sapore forte del gin bruciargli le tempie e annebbiargli per un attimo la mente. Quando tornò in sé, si sorprese nell’incontrare almeno una decina di paia di occhi incuriositi dalla scena. “Veh, veh, Urania!” sbraitò una voce offesa. “Perché non offri da bere anche a noi?”
“Già, perché?” ridacchiò una seconda.
In breve Midorikawa venne attorniato da un gruppo di avventori. La musa non sembrò preoccuparsene, anzi continuò a sorridere a tutti in modo cortese. In breve Kira fu escluso dal cerchio che si era creato attorno alla star e dovette addirittura scendere dallo sgabello per far spazio a un tizio che si era fatto largo in modo maleducato. Si voltò verso dove sapeva fossero Gazeru, Maki e Nagumo: erano seduti sulle poltroncine della zona relax a fumarsi una sigaretta, in compagnia di un’altra musa, probabilmente il ragazzo che gli avevano fatto notare all’inizio della serata. Si avvicinò a loro e questi lo salutò con un cenno e un sorriso: sembrava aver assistito a tutta la scena. “Non rimanerci troppo male, è molto popolare in questo locale.”
Hiroto gli sorrise per gentilezza e si fece spazio tra Maki e Gazeru e sedendosi in bilico su un bracciolo. Lo sconosciuto era di fronte a lui e non sembrava essere oggetto di tante attenzioni quanto Ryuuji, ma era sicuramente un uomo singolarmente affascinante. “Come mai non ti stanno dietro? Hai la scabbia per caso?” ghignò Nagumo, seduto di fianco a lui. Shirou scosse i riccioli chiari e alzò le spalle. “No, semplicemente non mi conoscono. Non mi esibisco spesso qui e sono in pochi a conoscere il gruppo al completo,” spiegò con voce soffice.
Hiroto distolse l’attenzione dalla conversazione e tornò a guardare in direzione di Midorikawa. Sembrava essersene andato e con la coda dell’occhio lo vide scomparire dietro la porta dei camerini. Rimase a fissare quel punto per molto, fino a quando non tornò a prestare attenzione agli altri.
Gazeru lo stava studiando con sguardo serio.
 
Il parcheggio era quasi deserto e le luci erano state spente da un pezzo. Non si sentiva più alcun suono, solo quello dei camerieri che si apprestavano a riordinare il locale e della pioggia che batteva leggera sulla tettoia del retro.
Midorikawa era avvolto nel suo cappotto bianco e il suo sguardo era rivolto al cielo scuro. Non si era mai vista una stagione più piovosa di quella… ma l’uomo non stava pensando al tempo, Hiroto poteva intuirlo dal suo fare nervoso e dal leggero rossore sulle guance struccate. Come ogni sera, sembrava essere tornato il grazioso e semplice commesso che aveva conosciuto appena un mese prima.
Sussultò quando Ryuuji posò di nuovo lo sguardo su di lui. Era serio, ma non in maniera intimidatoria. Sembrava più incerto su cosa fare. Hiroto non poteva dargli torto: si sentiva quasi un bambino colto con le mani nella cesta di caramelle. Solo che nel suo caso la questione era un tantino più seria: non si era mai innamorato in cinque anni, tantomeno di un uomo. Un uomo sicuramente affascinante, ma con l’unico difetto di essere il padre di uno dei suoi alunni… e la probabile veccia fiamma di suo fratello. Per un attimo l’insegnante si sentì sporco.
Ryuuji parve avvertire il flusso dei suoi pensieri. Chinò piano la testa e distolse per un momento lo sguardo dal suo, poi sospirò. “Non so se sia giusto.”
Hiroto si lasciò cadere su una delle sedie di plastica riservate al personale: sul tavolino a fianco c’era un posacenere ben riempito. Sospirò: “Se devo essere sincero, nemmeno io.”
Midorikawa si mise la mani in tasca: ora il suo sguardo era distante, profondo. “Se dovessi seguire l’istinto, ti direi che mi farebbe piacere frequentarti. Ma una parte di me sa che non può permetterselo.”
Kira lasciò che il silenzio cadesse fra loro due, come un macigno. La pioggia sembrava essersi fatta più intensa, ma ancora sopportabile. Si perse a osservare le gocce fini che cadevano sul selciato prima di prendere la parola. “Io invece credo che… potremmo farla funzionare.”
“Cosa?” chiese Midorikawa, stupito. Si era voltato verso di lui: sembrava stupito. In altre circostanze non gli avrebbe dato torto. Era lui quello che rischiava di perdere il lavoro se le cose fossero andate in porto, lui quello che stava per buttarsi in una relazione dopo anni, per giunta omosessuale. Tuttavia, era lui stesso quello che si era innamorato per primo: questo non lo avrebbe potuto cambiare. Il resto sembrava invece superabile. La concretezza di quel pensiero lo sconvolgeva più di quanto non sembrasse al di fuori.
“Voglio dire che ci tengo a te. Voglio dire che… sento qualcosa,” mormorò. “Non so di preciso cosa. Ho solo pensato che noi due… potremmo provarci. Non ho mai incontrato nessuno come te. Non ho mai… provato niente di simile per qualcuno. È come se ti stessi cercando da troppo tempo.”
Midorikawa sbatté per qualche secondo le palpebre, confuso da quella dichiarazione. Poi sorrise, e quell’espressione si tramutò in una risata trattenuta. “Dici davvero?” mormorò, arrossendo. Per la prima volta quella sera, sembrava intimidito e in imbarazzo. Stava vedendo il vero Ryuuji: non il padre responsabile e operoso, non la musa sfacciata e ammaliante.
Hiroto se ne innamorò seduta stante.
Si alzò in piedi e mosse un passo verso di lui, serio. “Sì.” disse, deciso. Di nuovo, una parte di lui che aveva imparato a reprimere per troppo tempo si manifestò, seppure in un semplice barlume di coraggio. “Midorikawa Ryuuji, vuoi uscire con me?”
L’uomo si portò una mano alla bocca e nella penombra data dalla flebile lampada da esterni capì che era sopraffatto dall’emozione. Anche lui non sapeva bene come stesse facendo a controllarsi. Si sentiva un ragazzino alla sua prima cotta adolescenziale, e allo stesso tempo era pronto: pronto, per la prima volta, a comportarsi da adulto. Pensò a Reina e a suo padre e il suo cuore si strinse in una morsa di dolore e sollievo.
D’un tratto Midorikawa si mosse verso di lui e lo abbracciò in uno slancio. Non era di molto più basso di lui, ma solo in quel momento Hiroto si rese conto di quanto fosse piccolo. Il suo viso gli era nascosto alla vista, ma le sue braccia lo stavano stringendo forte. Tremante, Hiroto gli passò una mano tra i capelli sciolti. “Lo devo prendere come un sì?”
Le spalle di Ryuuji si mossero tra una risata leggera e piccoli singhiozzi. “Tu che dici?” sorrise nell’allontanarsi dal suo abbraccio.
Fu lui a premere per la prima volta le labbra sulle sue.

Modificato: 21/07/20

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Capitolo 29
*** twentyeight ***


ombrelli sotto la pioggia
Non aveva ancora smesso di piovere e la città sembrava avvolta dalla solita atmosfera pigra e triste. I due ragazzi camminarono impazienti sotto lo stesso ombrello per un lasso di tempo che a Masaki parve eterno, prima che Tsurugi scoppiasse in un grugnito esasperato e iniziasse a setacciare nella sua borsa a tracolla. Quando Masaki lo vide tirare fuori un altro ombrello non poté fare a meno di indignarsi: “Non avevi voglia di tirarlo fuori, vero?” esclamò scocciato, e l’altro alzò le spalle.
Masaki si era trasferito da poco nella zona e non conosceva molto bene la città al di fuori del suo piccolo quartiere e la strada che portava alla Raimon. Tuttavia Kyosuke pareva conoscerla come le sue larghe tasche e al ragazzo sembrava bastare, anche se non riusciva a capire perché ci stessero mettendo tanto. “Non potevamo prendere i mezzi?” borbottò, ricevendo un’occhiataccia dall’amico, che lo rimproverò: “Che hai contro il camminare, eh?”
“Niente, niente…” si affrettò a rispondere Masaki, ricordandosi del pessimo carattere di Kyosuke. Non aveva mai capito il perché ma gli piaceva fin troppo andare in qualsiasi posto a piedi, al massimo in bicicletta, come se mal sopportasse la sola idea di un treno o un autobus. Si chiedeva ogni tanto se fosse per via del suo smisurato orgoglio o per una paura inespressa.
“Piuttosto… perché mi porti in un posto del genere?”
Kyosuke si grattò il naso. ”Allora non sei tutto scemo… beh, te l’ho detto, penso che ti farebbe bene. In ogni caso non ci faranno entrare da nessuna parte, siamo troppo piccoli. Devo solo prendere una commissione.”
Quelle parole suscitarono un certo sospetto da parte di Kariya: aveva capito ormai che il ragazzo non era estraneo a certi ambienti, di conseguenza non doveva essere una sorpresa che fosse in qualche affare losco. Decise comunque di non indagare, non volendo suscitare la mia irritazione.
Arrivarono davanti all’Happy Sugamo che era ormai mezzanotte: da lì, intese, iniziava il quartiere a luci rosse. Si strinse istintivamente nel cappotto fingendo di avere freddo e nascondendo il disagio. Si ricordò che era già stato in quella via, molto tempo prima, quando sua madre non aveva posti dove lasciarlo e lo portava con sé a lavoro. Erano ricordi che sperava fossero stati cancellati.
“Che hai? Forza, andiamo.” si lamentò Kyosuke facendogli cenno e proseguendo oltre il locale. La strada era disseminata di locali con accecanti insegne luminose e musica assordante. Non c’erano vicini che potessero lamentarsi: non era esattamente conosciuta come una zona residenziale. Kariya sospirò e seguì l’amico, all’inizio non sapendo bene dove guardare, poi decidendo di puntare alle sue scarpe. Midorikawa gliene aveva comprato un paio nuovo appena arrivato, ma si ostinava ancora a usare quelle vecchie, che ormai erano tutte sfilacciate.
“Non siete un po’ giovani per gironzolare da queste parti?” gracchiò una voce dall’altra parte della strada. Masaki si girò ma Tsurugi fece come se niente fosse, premendo le mani più a fondo nelle tasche dei pantaloni e camminando ancora più impettito. A questo punto Masaki lasciò che gli facesse strada attraverso i gruppetti di avventori che si appostavano davanti all’entrata dei locali o si intrattenevano con qualche prostituta. Più si addentravano nel quartiere più il suo disagio cresceva, eppure sapeva che doveva nasconderlo in qualche modo a Kyosuke, o non lo avrebbe più preso sul serio. In qualche modo riuscirono a infilarsi dentro un vicolo cieco. Accanto alla porta di servizio di un locale rumoroso, li aspettava un uomo incappucciato.
Kyosuke si avvicinò e lo salutò con un cenno serioso del capo, alzando il mento per darsi un’aria ancora più minacciosa. Masaki pensò comunque che non ci fosse nessun rischio che lo prendessero sottogamba: sembrava uno a cui piaceva farle pagare.
“Yo, Tsurugi.” lo salutò l’altro togliendosi il cappuccio viola, rivelando una zazzera di capelli rosso mattone e un ghigno serafico. “Ti stavo aspettando.”
“Poche chiacchiere, ho fretta” sibilò Kyosuke, allungando un mazzetto di banconote. “Sgancia”.
Masaki non era sicuro che stesse accadendo sul serio di fronte ai suoi occhi: gli sembrava di essere in uno di quei film noiosi, zeppo di stereotipi e cliché vari. L’uomo si intascò i soldi dopo averli contati meticolosamente, si tastò le tasche, poi controllò nel cappuccio, fino a scovare una confezione di plastica sigillata. “Tieni,” disse. “Non fare troppe storie.”
Kyosuke si accigliò. “Prega piuttosto che sia roba decente. Conosci le conseguenze.”
Lui rise, come se trovasse l’idea ridicola. Il suo sguardo si posò su Masaki, rimasto in disparte, mantenendo quel suo ghigno tremendo. “Fai da mamma chioccia stasera?”
La domanda sembrò pungere Kyosuke sul vivo, “Vaffanculo,” sbottò, strappandogli di mano la busta e voltandosi di scatto. Masaki si sentì trapanare da quel suo sguardo improvvisamente irritato e per un attimo ebbe paura.
“Dai, dovresti rilassarti un po’! Ehi!” L’uomo li chiamò con un cenno, senza aver perso la sua agghiacciante allegria. “Ho qua dei biglietti, ti potrebbero interessare.”
Prima che potessero allontanarsi riuscì a ficcargli in mano due pezzi di carta stropicciata. Kyosuke li passò a Masaki con fare scocciato e senza neanche guardarli, per poi avviarsi verso l’uscita del vicolo a pugni stretti.
Solo dopo che si furono allontanati abbastanza, e Masaki riuscì a raggiungerlo nel tentativo disperato di tenere il passo, che gli rivolse la parola. Sembrava quasi fuori di sé, come se Masaki non fosse neanche lì. “Quella merda… lo sa perché lo faccio, lo sa a che cosa serve ‘sta roba. Mi tratta come un bambino.”
Kariya avrebbe voluto replicare, “noi siamo bambini”, ma capì che non era il caso. Kyosuke si stava riferendo a qualcosa che non riusciva a comprendere e che forse non avrebbe mai scoperto: sarebbe stato meglio per lui lasciarlo in pace per un po’. In silenzio, spostò lo sguardo verso i due pezzi di carta che teneva inconsciamente in mano.
E si bloccò.
Le parole di Kyosuke gli arrivarono distanti, probabilmente non si era nemmeno accorto che lo aveva lasciato indietro. “Sai, è stata una pessima idea portarti qui,” stava dicendo, “sei una noia mortale.”
Ma i suoi occhi erano catturati da quell’insignificante pezzo di carta e dalle stampe a colori impresse sopra come sigilli. “Biglietto intero”, c’era scritto, “Un posto in platea, un drink a scelta”. La scritta in caratteri argentati riportava il nome del locale: “Parnaso”. Il gruppo che si esibiva quella sera aveva un nome evocativo, tra il mistico e il pacchiano: “Le Nove Muse”.
E tra i nove uomini fotografati per l’occasione c’era un viso famigliare, anche se era al buio e non poteva distinguerlo bene.
“Ehi, che fai? Ti sei incantato?”
Kariya non alzò neanche lo sguardo e avanzò lentamente, fino a fermarsi sotto la luce del lampione più vicino. Il cuore sembrava volergli saltare via a furia di battere.
E poi lo vide.
Kyosuke gli strappò di mano i biglietti, ma Kariya era quasi certo che li avrebbe fatti cadere tanto gli tremavano le mani. Il ragazzo sembrò visionarli con molta non-chalance. “Ah, quello stronzo. Ci manda pure al gay club. Ehi, ma quello non è-“
Kariya lo anticipò, tremante, non sapeva ancora se per paura, sconcerto o rabbia. “Mio padre. Sì.”
E Tsurugi per la prima volta in quella sera alzò gli occhi su di lui, e lo guardò davvero: restò per un attimo a fissarlo dubbioso, incredulo, quasi non sapesse bene in che tipo di situazione si trovasse: in effetti, nemmeno Masaki poteva dirlo con certezza. Non stava capendo più niente. Gli girava la testa, aveva un freddo tremendo, e non smetteva di tremare.
Per la prima volta sul viso di Kyosuke era comparsa una nota di sincera preoccupazione: “Aspetta, lo sapevi no? Pensavo…”
Ma a quel punto Masaki non voleva più sentire niente. I suoi occhi erano ormai fissi su quell’uomo bello, bellissimo, fasciato elegantemente da una tuta di pelle, i capelli sciolti che cadevano sbarazzini sulle spalle e un violaceo orecchino pendulo. Midorikawa Ryuuji gli sorrideva attraverso la carta e Masaki non avrebbe mai ricordato in vita sua immagine più tremenda.

Modificato: 21/07/20

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Capitolo 30
*** twentynine ***


ombrelli sotto la pioggia
“Sembra stia arrivando una tempesta”
Midorikawa alle sue parole si sporse leggermente verso il parabrezza; sopra la luce dei lampioni e i neon delle insegne, una pioggia scrosciante. Al riparo dell’auto di Hiroto, non sembrava nemmeno così spaventosa; dopotutto erano stati dei mesi piuttosto strani, piovosi e coperti da perenni nuvole grigie, e si erano ormai abituati a quell’anomalia stagionale. “Sarà un normale acquazzone”, biascicò Nagumo dal sedile posteriore, ormai prossimo al collasso. Hiroto sembrava quello più vigile e preoccupato di tutti, forse per l’ansia di guidare con quel minimo di alcol in corpo a cui non era ancora abituato. Si voltò e incontrò lo sguardo rassicurante di Midorikawa: anche lui era rimasto lucido, nonostante fosse visibilmente stanco. “Non preoccuparti troppo, domani mattina sarà già passato.
Kira gli sorrise e buttò un’occhiata allo specchio retrovisore; Maki stava già dormendo sulla spalla di Haruya, che aveva gli occhi semi-chiusi e un’espressione imbambolata dipinta in viso. Fuusuke sembrava del tutto assente, lo sguardo perso chissà dove al di fuori della vettura: Hiroto sapeva che in quello stato non sarebbe stato reperibile per un po’. In un certo senso, era come se fossero solo loro due.
“Gentile da parte di Afuro ubriacarsi di proposito per farti accompagnare da me,” scherzò, riportando lo sguardo sulla strada scivolosa. Midorikawa ridacchiò: “Non sono sicuro che sia stata una cosa intenzionale.”
Hiroto in effetti si chiese se la Musa avesse pianificato tutto nei minimi dettagli per farli avvicinare, o se si fosse candidamente ubriacato dimenticandosi del suo migliore amico. In entrambi i casi, la serata doveva essergli sfuggita di mano. “Credi che se la caverà?” mormorò improvvisamente preoccupato. L’immagine dell’uomo spiattellato sul palco con una bottiglia vuota in mano gli balenò nella mente: forse non avrebbero dovuto lasciarlo lì.
Midorikawa appoggiò un gomito a lato del sedile e sghignazzò: “Lo fa tutte le volte, non devi preoccuparti. Domani se ne pentirà, ma il giorno dopo ricomincerà da capo. Tutto nella norma.”
A Hiroto venne da sorridere: “Devi conoscerlo proprio bene, non è così?”
“Siamo come fratelli,” dichiarò Ryuuji con un sorriso. Il suo sguardo si spostò di nuovo su Nagumo e Maki, per poi posarsi su Suzuno. Sembrava essersi addormentato. “Non avrei mai scommesso un centesimo sul fatto che foste imparentati,” mormorò, quasi triste.
Hiroto sembrò accorgersi del suo improvviso cambio d’umore, ma continuò a guardare la strada. “Infatti non è esattamente vero,”  disse, “Loro sono stati adottati quando eravamo molto piccoli. Per me sono sempre stati come fratelli, certo, ma non abbiamo nessun legame di sangue. E non siamo stati sempre uniti.”
Per un attimo a Ryuuji parve soffermarsi ancora sul viso pallido di Suzuno, ma tornò comunque a portare l’attenzione su di lui. “Ah sì?” disse, senza troppa convinzione. Hiroto gli diede uno sguardo di traverso. “Sì. Vedi… Abbiamo iniziato a frequentarci di nuovo solo da qualche mese, non ci conosciamo bene come sembra.”
Ryuuji sembrò stupito da quella spiegazione. Buttò un’ultima occhiata al trio, per poi tornare a fissarlo in silenzio. Hiroto lo prese come un invito a continuare. “Ci siamo incontrati dopo tanti anni per via di nostro padre. Sembra assurdo, è come se avesse voluto farci incontrare per l’ultima volta, tutti insieme.”
Lasciò che le parole scivolassero fuori dalle sue labbra, come se non gli importasse. Dentro di sé, tuttavia sentiva già salire una malinconia che non aveva ancora imparato a gestire. Non si sentiva triste, non esattamente, ma era da mesi che veniva tormentato da una nostalgia costante, come se ci fosse stato un filo che aveva unito lui e suo padre e che si era teso al massimo nel momento in cui avevano calato il suo corpo nella terra fredda di quell’autunno. Se solo avesse potuto avere delle forbici per liberarsene… se solo…
“Mi… mi dispiace. Per tuo padre, intendo”.
Hiroto scosse la testa, riemergendo dai suoi pensieri, e gli parve di essersi assentato per qualche minuto, come se non fosse stato lui a guidare. Mancavano pochi isolati alla casa di Ryuuji. Si voltò verso di lui sbattendo le palpebre, instupidito, e si sentì in colpa nell’incontrare quegli enormi occhi scuri velati di preoccupazione. Si lasciò sfuggire un sospiro: “Ah, scusami… dovevo per forza rovinare una serata così importante con i miei problemi,” mormorò chinando leggermente il capo. Non sapeva perché ne avesse parlato in un momento simile: non era esattamente di buon auspicio poche ore dopo essersi dichiarati.
Si infilò dentro il cancello della palazzina di Ryuuji, accorgendosi giusto in tempo dal rigare dritto. Ci furono un paio di minuti di silenzio, nei quali Hiroto non fece altro che concentrarsi e fare manovra. Ma a un certo punto, quando ebbe fermato l’auto per far scendere il suo passeggero, una voce lo risvegliò dal suo torpore.
“Non devi.”
Hiroto alzò il capo verso Ryuuji, che non si era ancora alzato. Fissava un punto indeterminato di fronte a sé.
“Non devi scusarti. Mi hai ascoltato per molto tempo, sono felice di ricambiare se questo significa aiutarti a stare meglio.”
Poi si voltò, e gli sorrise. Si sporse per un bacio e uscì dall’auto agitando leggermente una mano. Hiroto si limitò a fissare sorpreso i suoi occhi stanchi.
Ora brillavano solo per lui.
 
“Non vooooglio, mettimi giùùù…”
Hiroto sospirò al lamento di Nagumo, mentre lo trascinava fuori dalla sua macchina e se lo caricava sulle spalle. Forse non era stata una buona idea portarlo a casa, avrebbe anche potuto abbandonarlo lì dov’era insieme ad Afuro. “Muoviti, che piove!” esclamò scocciato, in realtà già totalmente zuppo. Quella pioggia era un vero tormento.
Nagumo si accasciò contro il suo fianco e Hiroto lo prese come un invito a trascinarlo in casa a forza. Dietro di loro Suzuno sorreggeva stancamente l’ombrello, ancora perso nel suo mondo.  Maki li aspettava imbambolata sul pianerottolo, evidentemente incapace di dire qualsiasi cosa al fidanzato.
Hiroto fece appena in tempo ad aprire la porta che il suo cellulare squillò. Chiunque fosse, aveva scelto decisamente un momentaccio. Ignorò lo squillo interminabile e si adoperò in ogni maniera per trasportare Nagumo in salotto. Quasi non ci fece caso quando effettivamente la suoneria si arrestò.
Buttò Nagumo sul divano quasi di peso e sospirò, per poi rivolgersi a Maki: “Potrete stare qui, ma solo per stanotte, intesi?” borbottò severamente. Maki tuttavia non fece altro che sciogliersi in un sorriso dolcissimo e allacciargli le braccia al collo: “Graaaaazie nii-san!” cinguettò assonnata, prima di stampargli un bacino sulla guancia. “Spero tu ti sia divertito, stasera.”
Hiroto non poté trattenersi dal sorriderle: era troppo tenera da ubriaca, e in ogni caso non avrebbe saputo dire di no alla sua sorellina. “Certo.”
Di nuovo il cellulare squillò e Hiroto fu costretto a divincolarsi dall’abbraccio di Maki. Osservò per un attimo la schermata dello smartphone non riuscendo a intravedere bene il nome per via della stanchezza. Poi lesse: “Padre Masaki” e pensò che forse era il momento di cambiare il nome al contatto. Il pensiero lo fece sorridere.
Poi pensò che le circostanze di quella chiamata inattesa non potevano essere delle migliori, se Midorikawa aveva deciso di chiamarlo dopo cinque minuti averlo visto. Accettò la chiamata aggrottando le sopracciglia e il cuore sprofondò nel petto appena sentì un singhiozzo dall’altra parte dello schermo. “… Ryuuji?” chiamò, confuso. Realizzò che stava piangendo: in mezzo alle lacrime farfugliava poche parole, indistinguibili. Pemette più forte il telefono all’orecchio e iniziò a balbettare. Sentì il terrore paralizzarlo. “R-Ryuuji? N-non capisco cosa stai… Ryuuji?”
Dall’altra parte poté sentire solo un ansito disperato prima che il telefono gli venisse strappato di mano. Hiroto fissò Suzuno come se si trovassero di una sorta di sogno e lo vide ricambiare lo sguardo. “Reize, sono io, Fuusuke.” disse con voce ferma portandosi lo smartphone all’orecchio, senza distogliere gli occhi da lui. “Veniamo a prenderti”.

Modificato: 21/07/20

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Capitolo 31
*** thirty ***


ombrelli sotto la pioggia
Suzuno aveva le chiavi.
Ci aveva messo un po’ a trovarle, rovistando tra la serie di mazzi e cianfrusaglie che teneva all’entrata; aveva la fama di essere un perfezionista, ma Hiroto sapeva che nel privato non era troppo diverso da qualsiasi essere umano. E in questo momento glielo stava dimostrando con chiarezza.
Era impallidito e nonostante la sua espressione fosse rimasta invariata la voce tradiva lo sgomento. Quando infilò la chiave nella serratura dell’appartamento di Ryuuji, la sua mano tremava.
Li accolsero il buio e il silenzio. Hiroto non sapeva esattamente cosa si aspettasse, ma forse sperava di trovare un qualcosa di coerente con il disordine nella sua testa. Invece l’appartamento sembrava in ordine. Suzuno chiamò Ryuuji un paio di volte, prima di entrare nell’appartamento e guardarsi attorno con aria circospetta. La televisione era accesa, ma non era sintonizzata su nessun canale. Sul tavolo c’era un sacchetto di patatine e un paio di bicchieri della sera prima. Decise di ignorarli ed avvicinarsi a una delle due parte poste a destra dell’entrata, da dove Hiroto non aveva mosso piede.
Suzuno aprì la porta della camera di Ryuuji e vi entrò senza esitare, quasi seguisse un copione prestabilito. Fu allora che Hiroto decise di seguirlo, realizzando solo in quel momento di aver dimenticato come si respirava. Con un sospiro, attraversò l’atrio con il cuore in gola e raggiunse suo fratellonella stanza.
Ryuuji era steso sul letto, immobile e in una posizione quasi innaturale, come se si fosse addormentato di colpo e fosse caduto. Indossava ancora i vestiti della sera precedente, avvolti ancora nel cappotto bianco, e il trucco aveva annerito il tracciato delle lacrime che si erano infrante sul collo, dandogli un aspetto grottesco dove aveva cercato di asciugarle.
Il suo petto si abbassava e si rialzava impercettibilmente.
Suzuno si era diretto verso il comodino di fianco al letto e ora teneva una scatola di farmaci tra le mani.
“Sta bene?” chiese Hiroto con un filo di voce, pietrificato.
Fuusuke ci mise un po’ a rispondere, concentrato com’era nell’analizzare il blister di un numero non ben identificato di pastiglie. Si girò verso di lui e sembrava stanco, ma sollevato. “Sta solo dormendo. Vai a vedere se Masaki è nella sua stanza.”
Quella frase lo colpì come un fulmine a ciel sereno: Masaki. Nella foga della preoccupazione, il pensiero non lo aveva nemmeno sfiorato: se ne vergognò, ma rimase in silenzio, affacciandosi di nuovo fuori dalla porta. Fuusuke non gli aveva dato nessuna indicazione, ma intuì che la stanza di Masaki fosse quella accanto a quella di Ryuuji.
Non provò nemmeno a bussare: in qualche modo, sapeva già cosa aspettarsi.
La stanza era vuota e la luce era rimasta accesa. Sul letto in ordine erano sparsi vestiti alla rinfusa, quaderni, libri, la cartella scolastica. Di Masaki nessuna traccia.
Quando tornò nella stanza di Ryuuji Suzunosi era già occupato di lui: lo aveva spogliato della giacca e dei vestiti più ingombranti e lo aveva messo a letto, coprendolo con il piumone. Il viso di Ryuuji continuava a mantenere un’espressione imperturbata.
Hiroto gli si avvicinò: la calma del fratello lo stava aiutando a non cedere al panico, ma non riusciva a lenire il senso di angoscia. “Sta bene?” chiese di nuovo, guardandolo con apprensione.
Suzuno sospirò e si sedette sul letto, invitandolo a fare lo stesso. “Sì,” mormorò. “Ha preso dei tranquillanti ma non avrà ingerito più di tre pillole, non credo sia necessario portarlo in ospedale.” La sua voce era roca e tradiva la stanchezza. “Per sicurezza passeremo qui la notte.”
Hiroto si sedette al suo fianco, più vicino a Ryuuji. “Lo ha già fatto in passato?”
Suzuno si passò le mani sul viso. “Sì, è capitato. Prima di farlo però mi avvertiva, o si accertava che fossi nei paraggi. Aveva sempre paura…” fece un gesto con la mano che Hiroto interpretò con chiarezza. Non finì la frase.
Hiroto appoggiò una mano sulla spalla di Ryuuji. Sembrava che avesse preso molto freddo, e che avesse preso pioggia. “Dove pensi che sia Masaki?”
“Non è una nostra priorità in questo momento,” mormorò secco il fratello. “Il ragazzo è immaturo, ma non stupido. Se è scappato, vuol dire che aveva un posto dove andare.”
Hiroto annuì: la pensava allo stesso modo. Quel suo studente ribelle e scontroso era pur sempre uno dei più brillanti tra i suoi studenti: lo conosceva meglio di quanto conoscesse effettivamente Ryuuji e sapeva che se la sarebbe cavata. Non poteva dire lo stesso della persona stesa al suo fianco: quanto conosceva esattamente di lui e della sua condizione? Avrebbe potuto recitare a memoria tutto il suo trascorso con Masaki dei mesi scorsi, ma non avrebbe saputo dire molto di cosa c’era stato prima.
Si voltò verso Suzuno: era lui, in fondo, la chiave di tutto, il ponte tra lui e il passato di Ryuuji, che lo volesse o meno. Quando i loro sguardi si incrociarono, tra di loro si instaurò un tacito consenso.
“All’inizio non ero sicuro di poterti lasciare andare,” gli sussurrò Suzuno. “non con la persona a cui tengo più al mondo, non con Ryuuji. Tuttavia mi dissi… che se ero riuscito a lasciare andare lui, forse con te sarebbe stato lo stesso.”
Hiroto restò ad ascoltarlo in silenzio, la mano appoggiata ancora al corpo rigido di Ryuuji.
Suzuno si incupì e abbassò lo sguardo. “La verità è che è stato più un fratello per me di quanto non lo sia stato tu,” mormorò, ma si affrettò a continuare: “ma so che parte della colpa è mia. So che non sei stato bene dopo la morte di nostro padre e non ti sono stato vicino quanto avrei voluto. Ho passato molto tempo evitando di parlarti. Avevo paura di venire risucchiato nel tuo dolore, come era successo con Ryuuji.”
Hiroto gli appoggiò una mano sulla spalla. “Non ho mai pensato che mi avessi abbandonato.” Tentò di dire. Si ricordava appena di quel periodo, anche se la ferita era molto recente: aveva superato con fatica il lutto, ma non aveva mai pensato che qualcuno gli dovesse qualcosa, nemmeno Nagumo. “So che per te non è facile gestire le emozioni. Non abbiamo passato tanto tempo insieme quanto avremmo voluto, ma credo… credo di capire.”
Ryuuji si mosse leggermente nel sonno e Hiroto gli gettò uno sguardo preoccupato, ma non sembrava essersi ancora svegliato. Quando si volse di nuovo verso Suzuno, gli sorrise. Gli sembrò un po’ scosso, leggermente stupito, e in qualche maniera commosso- anche se non era semplice da capire soltanto guardandolo in viso. “Sei una persona molto importante per Ryuuji, vero?”
A quel punto avvenne qualcosa di inaspettato: Suzuno gli buttò le braccia al collo e si strinse a lui, in un gesto umano e spontaneo che Hiroto non gli aveva mai visto fare. Sorpreso, gli passò le mani sulla schiena, e lo sentì tremare leggermente. “Va tutto bene. Il passato è passato-“ provò a dire. “Non abbiamo più bisogno di soffrire, giusto?”
Lo sentì annuire sulla sua spalla, ma ci mise un po’ prima di rispondere, scostandosi e passandosi un braccio sugli occhi lucidi. Sospirò profondamente e Hiroto capì che doveva dargli il tempo di riprendersi e tornare in sé. Tornò a osservare Ryuuji, immerso in un sonno profondissimo e immobile: era stata una serata intensa, ma l’avrebbero superata insieme. Una parola che per molto tempo aveva perso significato per lui, e che di recente aveva acquisito una veste nuova. Con le dita sfiorò una ciocca di capelli dell’uomo steso al suo fianco, in un gesto famigliare.
Suzuno sembrò riprendersi velocemente. “Ryuuji ti ha chiamato perché sapeva che saresti corso da lui. Si è fidato di te, e anche io penso che questa sia la scelta migliore.”
Quando Hiroto fissò lo sguardo in quello intenso del fratello, ebbe un brivido: gli occhi azzurri, in contrasto con l’azzurro etereo delle sue iridi, lo rendevano ancora più fiero.
“Quando si sveglierà, dovremo essere qui per lui.”
 
Ryuuji si svegliò che non era ancora giorno. La stanza era immersa nella penombra, una flebile luce si irradiava dalle finestre lasciate scoperte dalle tende, e i respiri di Hiroto e Suzuno erano l’unico suono distinguibile oltre a quello della pioggia battente. Infuriava un temporale.
All’inizio non capì nemmeno dove fosse. Si voltò a sinistra e vide le spalle curve di Suzuno coprirgli la visuale della porta; dall’altra parte, il volto addormentato di Hiroto gli sembrò più pallido che mai.
In quei brevi momenti di lucidità non pensò a niente. Si rannicchiò accanto ad Hiroto e lasciò che il sonno lo avvolgesse di nuovo, cullato dai singhiozzi.
Voleva solo dormire.
 

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Capitolo 32
*** thirtyone ***


ombrelli sotto la pioggia
Hiroto tolse il bollitore dai fornelli e lo appoggiò sul vassoio che lui e Suzuno avevano trovato sulla mensola in salotto, un semplice oggetto di legno raramente utilizzato ma che in quel momento poteva fare solo al caso loro. Appoggiò tre tazze sui rispettivi piattini e aggiunse la zuccheriera, alzando appena il coperchio per assicurarsi che vi avesse zucchero. Non avrebbe saputo dove trovarlo in realtà, ma per sua fortuna ce n’era abbastanza per tutti.
Si guardò attorno, osservando quell’ambiente poco famigliare. Era una cucina comune, con un’apertura su un terrazzino minuscolo. Non si sarebbe azzardato mai ad uscire per osservare la vista sulle case nei dintorni, dato il nubifragio che stava imperversando fuori, ma immaginò che vista l’altezza doveva essere un buon punto panoramico. Si voltò verso il salotto, composto da un semplice divano, un tavolino e una televisione. Vi erano altre tre stanze. Decisamente non era un appartamento adatto a un uomo solo, ma un luogo dove crescere una piccola famiglia. “Si sarebbe potuto trasferire in un posto più economico,” pensò tra sé e sé, “stare lontano dalla sua vita precedente e costruire qualcosa di nuovo.”
Gli ci volle poco per realizzare che se così avesse fatto, lui e Ryuuji non si sarebbero mai potuti incontrare. Lo avrebbero fatto, forse, in un’altra realtà, in un altro tempo. Ricordava di aver letto qualcosa al riguardo. Una teoria per la quale ci sarebbero stati numerosi universi paralleli al suo, e tutti potenzialmente in contatto. Universi alternativi dove il dolore di Ryuuji sarebbe potuto essere lenito, la sua anima salvata da un percorso diverso, un destino differente nel quale lui non sarebbe potuto essere presente.
Nel quale non ci sarebbe stata tutta quella pioggia.
Lentamente, si avvicinò alla stanza di Ryuuji e si mise all’ascolto. Suzuno gli stava parlando con voce calma e misurata, ma le risposte del suo interlocutore erano appena udibili. Spinse piano la porta ed entrò con il vassoio tra le mani. “Non lo so,” stava dicendo Ryuuji, “davvero non lo so.”
Quando lo vide alzò gli occhi dal groviglio di mani che aveva abbandonato tra le lenzuola bianche, ma non era sorpreso. Doveva averlo visto quando si era svegliato, appena prima che uscisse per prendere il tè appena preparato. Hiroto gli rivolse uno sguardo rassicurante e un sorriso debole, ma non disse una parola e si limitò ad appoggiare il vassoio sul comodino al suo fianco. Esitò a sedersi, aspettando un cenno di Ryuuji che non tardò ad arrivare. Si sedette al suo fianco e gli prese una mano fra le sue.
Ryuuji gli rivolse un sorriso timido, poi tornò a rivolgersi a Suzuno. Aveva la voce roca di chi aveva più volte gridato senza essere sentito. “Ieri sono tornato a casa e l’ho trovato ad aspettarmi in cucina. Sembrava volesse dirmi qualcosa ma si è limitato a sbattere sul tavolo il biglietto dello spettacolo. Non so come se lo fosse procurato,” sospirò e un velo d’ansia gli attraversò gli occhi lucidi e contornati di trucco ormai sbavato, “ poi è andato in camera sua e si è chiuso dentro. Io… io ero arrabbiato. Volevo capire. Gli gridavo di uscire, di parlare. Non me l’aspettavo, ero turbato e confuso.”
Suzuno fece segno di assenso. “Non devi giustificarti. Vai avanti.”
Ryuuji si strinse nelle spalle. “Dopo un po’ ho rinunciato e sono andato a dormire. Non avrei dovuto reagire in quella maniera, pensavo di averlo agitato. Perciò pensavo che sarebbe stato meglio parlarne alla luce del giorno. Ma…”
“Ma lui è uscito ed è scappato,” concluse Suzuno per lui. Sembrava un poliziotto con un caso importante tra le mani. “L’hai rincorso?”
“Ci ho provato,” mormorò Ryuuji. “L’ho seguito per le scale, ma l'ho perso di vista nella tormenta. In qualche modo sapeva dove andare. Credo abbia preso al volo un autobus notturno.”
Hiroto si sorprese della lucidità che in quel momento Ryuuji stava dimostrando, al di là di ciò che si aspettava. Non lo aveva mai visto così distrutto, eppure poteva capire perché le persone attorno a lui subissero il suo ascendente: Ryuuji era una persona sensibile, ma sicuramente forte.
“È tutto quello che ci interessa per il momento,” proclamò Suzuno alzandosi dal letto. “Aspetteremo un po’,  vedremo se si presenterà a scuola e allerteremo la polizia.”
Ryuuji annuì e tornò a osservarsi le mani lasciate sul grembo, chiuso in se stesso come se d’un tratto fosse rimpicciolito. Hiroto d’istinto gli cinse le spalle con un braccio e gli sussurrò: “Stai bene?”
Ryuuji annuì e gli lanciò un’occhiata timida. “Mi dispiace di avervi fatto preoccupare.”
“Non devi scusarti. L’importante è che tu stia bene,” gli sorrise Hiroto, “Vedrai, supereremo tutto questo insieme.”
Lo strinse a sé e gli baciò la fronte, vincendo l’imbarazzo. Non erano passate nemmeno ventiquattro ore da quando avevano dichiarato l’un l’altro i propri sentimenti, ma in cuor suo sapeva che ora Ryuuji aveva bisogno di lui e di Suzuno. Non lo sentì opporre resistenza, anzi lasciò che si appoggiasse a lui e lo strinse in un abbraccio di conforto.
Suzuno nel frattempo si era avvicinato alle grandi finestre della stanza e stava guardando fuori con sguardo assorto. La pioggia non sembrava placarsi, nemmeno di fronte al loro sbigottimento. “Questa pioggia è assurda,” commentò. “Sembra quasi che voglia comunicarci qualcosa.”
Hiroto lo guardò sorpreso e stranito: non era da lui fare certe speculazioni, soprattutto considerando il suo cinismo volto ad accantonare qualsiasi superstizione. Su una cosa però non c’erano dubbi: quel clima era assolutamente fuori stagione, come se fossero stati loro il bersaglio di quell’innumerevole stormo di proiettili sottili.
“Dovunque sia Masaki, è al sicuro anche da quella, non c’è dubbio. Niente posta per lui.” sospirò. Ryuuji proruppe in una risata leggera, che gli scaldò il cuore. “Ora beviamo questo tè e diamoci da fare.”
 
Masaki sentì i passi di Kageyama salire la scaletta e tentò di premere ancora di più la schiena contro la parete. Abbracciò il cuscino e tenne il viso ben affondato nella stoffa umida di lacrime, troppo orgoglioso per alzare il viso verso l’amico.
“Non hai proprio voglia di parlare, eh?” mormorò Hikaru accucciandosi di fianco a lui. Masaki rimase in silenzio, non accennando a voler cedere. Per tutta risposta il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro di rassegnazione. “Almeno lo vuoi bere un po’ di tè? L’ho fatto anche per mia nonna. Hai preso un sacco di pioggia, ti farà bene qualcosa di caldo.”
Solo quando l’aria venne pervasa dal profumo del matcha Masaki alzò gli occhi rossi verso Hikaru, senza però muoversi. Il ragazzo gli aveva appoggiato davanti una tazza fumante e la stava spingendo verso di lui come se fosse stato un gatto randagio. “Senpai, non mi aspetto che tu mi dica tutto… però sono preoccupato, sai?” lo sentì dire in tono docile, come se lo stesse accarezzando. “Quando mi hai chiamato non pensavo di trovarti davanti alla porta. Mi hai colto un po’ di sorpresa.”
Masaki rimase in silenzio e si appallottolò nel groviglio di coperte che Hikaru gli aveva preparato. Sapevano ancora di bucato e probabilmente avrebbero dovuto essere lavate di nuovo, sporche com’erano di muco e pioggia. Hikaru sorrise timido a quella reazione. “Sei comodo, almeno?”
Kariya annuì leggermente e si mise seduto lasciando scivolare il bozzolo di lenzuola che si era creato. Afferrò la tazza con entrambe le mani e il contatto con le mani fredde lo prese alla sprovvista. Decise dunque di usare il manico. “Grazie.” bofonchiò infine, e lasciò che il tè scaldasse le sue membra intorpidite.
Questa volta fu Kageyama a non voler rispondere.

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Capitolo 33
*** thirtytwo ***


ombrelli sotto la pioggia
Quando Masaki si riprese dal dormiveglia e aprì gli occhi, trovò Hikaru a studiarlo a braccia conserte, appoggiato alla parete di fronte a lui. Si alzò immediatamente dal futon e si stropicciò gli occhi, trafelato, quasi colpevole. “Che c’è?” disse allarmato, accorgendosi dell’espressione seria che si era formata sul volto dell’amico.
Kageyama rimase in silenzio e Masaki approfittò per mettersi seduto. “Che c’è, hanno scoperto dove sono?”
Hikaru si grattò la nuca, pensieroso. “No,” borbottò, ma non aggiunse altro.
“Allora che c’è, perché mi fissi così?” si lamentò Masaki non appena ebbe riacquisito la lucidità. “Disturbami quando avrai qualcosa di importante da dirmi”.
Hikaru allora gli rivolse un’occhiata che non gli aveva mai visto: torva, quasi seccata, come se per la prima volta lo avesse davvero deluso. Masaki ammutolì, un po’ sgomento, e aspettò che parlasse. Ma Kageyama sembrava piuttosto attendere lui, facendoli piombare involontariamente in un silenzio imbarazzante: quando il ragazzo se ne accorse, sospirò. “Non me lo vuoi dire, vero?” gli chiese, rassegnato.
“Dire cosa?” finse Kariya, intimorito dall’atteggiamento che aveva assunto Hikaru, troppo maturo e inquisitorio perché lo mettesse davvero a suo agio.
“Che cosa diavolo è successo per farti reagire così;” sentenziò finalmente Hikaru, alzando le braccia al cielo. “Perché io non lo capisco.”
“Cosa c’è da capire?” sbottò l’altro, innervosito.
Hikaru si sedette di fronte a lui e gli rubò il cuscino per accomodarsi meglio sul pavimento di legno. “Vorrei solo che mi parlassi, tutto qui,” mormorò esausto.
Kariya lo guardò di sottecchi: sembrava genuinamente stanco. Era la prima volta che vedeva l’amico così privo di energie, abituato com’era a vederselo saltellare attorno e sorridergli di rimando ogni qualvolta si girasse verso di lui. “Dove hai dormito?” chiese cautamente.
Hikaru si passò una mano sugli occhi. “Sul divano”.
“Mi dispiace… non avrei dovuto prendere il tuo letto. Stasera mi sposto,” gli promise Kariya, timidamente.
A quel punto, per la prima volta da quando si erano messi a parlare, Kageyama gli rivolse un sorriso. “Non preoccuparti. Ho scelto io di fare così,” spiegò, “E poi da lì posso tenere meglio d’occhio la nonna”.
Kariya a quelle parole si grattò il naso, imbarazzato: non si era nemmeno presentato all’anziana, per la verità non sapeva nemmeno che aspetto avesse. “Forse dovrei…” mormorò, allusivo. Si sentiva in colpa per aver reso la condizione di Hikaru ancora più difficile. Forse avrebbe davvero fatto meglio a rivolgersi a Kyosuke.
Ma Hikaru scacciò il pensiero con un gesto della mano: “Non avrebbe importanza: non si ricorda niente”.
“Oh,” mormorò Masaki, stupito, ma preferì far cadere la conversazione. In fondo, meglio così: probabilmente la donna non si era nemmeno resa conto che era in casa. Tornò a stendersi nel futon e si accoccolò come un ghiro tra le coperte: non era abituato a dormire su un letto tradizionale, ma si era ambientato molto presto nella stanza di Hikaru, che somigliava più a un piccolo soppalco. Ovunque erano disseminati libri e quaderni e vestiti: in un certo senso, il disordine rispecchiava lo spirito goffo e distratto di Kageyama.
Si sarebbe assopito di nuovo se solo le parole dell’amico non lo avessero disturbato di nuovo. Stavolta Masaki si limitò a grugnire.
“Mi spieghi perché sei scappato di casa?”
“Se non si fosse capito, non mi va di parlarne,” replicò stizzito lui, “Non capiresti”.
Hikaru sospirò, esasperato. Sembrò indeciso per qualche secondo, poi si sporse su di lui e rincarò la dose. “Infatti, non capisco. Non capisco perché tu stia respingendo Midorikawa-sama”.
Masaki gli rivolse un’occhiataccia, per poi riprendersi il cuscino dalle sue mani e iniziare a strapazzarlo un po’. “Non lo conosci, non sai di cosa parli”.
“Forse non lo conosco, è vero. Ma voglio sentirtelo dire da te cosa c’è che non va,” asserì Kageyama, “perché voglio aiutarti”.
Restò zitto per un po’, colpendo il cuscino con meno convinzione. Si stese dandogli le spalle, impensierito, e pensò che questo sarebbe bastato a far desistere Hikaru.
Ovviamente si sbagliava.
“È davvero questo il problema, che è gay?”
Le parole dell’amico lo punsero finalmente sul vivo. Si girò con uno scatto e ringhiò a denti stretti: “No, va bene? Non è questo il punto. Non più almeno”.
Hikaru ebbe una reazione strana, come se non si aspettasse davvero di ricevere una risposta del genere. “Oh,” sussurrò solamente, “è già qualcosa, penso”.
“Credi davvero che avrei fatto questa scenata solo perché gli piacciono gli uomini? Sai quanto me ne frega!” sbottò Masaki, quasi offeso. “Lo sapevo da prima. Quel che non sapevo è…” Ammutolì e abbassò lo sguardo sul futon, con aria contrita.
Kageyama per quella volta non insistette, e si limitò a osservarlo in silenzio. Kariya sospirò, poi si grattò la nuca e lasciò che sul suo volto tornasse il suo solito broncio. Più che arrabbiato, sembrava davvero triste. “Diciamo solo che… Non ha mantenuto una promessa che ci eravamo fatti”.
“Che promessa?” domandò incuriosito l’altro.
Masaki lo guardò di sottecchi, poi proseguì, con poca convinzione: “Ci eravamo detti che non avremmo più avuto segreti”.
Kageyama lo scrutò in silenzio per qualche secondo, poi disse soltanto: “Devi tenerci molto”.
“Non è ovvio? È mio padre, certo che mi ha deluso,” Masaki si strinse nelle spalle e incrociò le braccia, sbuffando. Quando sentì la risatina mesta di Hikaru, alzò lo sguardo, infastidito. “Che c’è?”
“Niente, è solo che…” rispose l’amico, imbarazzato dal suo stesso comportamento. “Non mi hai mai parlato di lui così. Davvero c’era bisogno che litigassi con lui perché lo considerassi tuo padre?”
Era giunto il momento di menarlo. Masaki lo sentiva. Scattò in piedi e strinse i pugni, assumendo la posa più minacciosa che gli venisse in mente. “Ma che cazzo-!!!”
“Ascolta,” lo ammonì soltanto Kageyama. Sembrava intimorito, ma non realmente preoccupato dalla sua reazione. Forse lo conosceva meglio di quanto pensasse: non gli avrebbe davvero fatto del male. “Sto solo dicendo che te la sei presa perché gli vuoi bene. Non c’è nulla di male. E per la verità, mi solleva”.
“Dovresti farti gli affaracci tuoi,” borbottò Masaki, ma lo lasciò parlare.
“Permettimi solo di dire che in queste settimane sei cambiato,” gli sorrise Hikaru, “in meglio”.
Kariya sbuffò ancora una volta, distogliendo lo sguardo. “Questo non risolve la mia situazione”.
“Forse no,” ammise Hikaru, “ma migliora la mia”.
L’amico gli scoccò un’occhiataccia. Hikaru si stava comportando in modo strano, e non era sicuro che gli piacesse quel lato di lui, specialmente se significava esporsi così tanto. “Che intendi?” chiese comunque, odiando il senso di confusione che stava provando in quel momento.
Kageyama gli rivolse un sorrisetto e allargò le gambe per incrociarle sotto il suo busto. Appoggiò un gomito sul ginocchio e lo guardò con uno sguardo indecifrabile. “Non ti sei mai chiesto perché vivo da solo?”
Kariya non era sicuro di voler affrontare l’argomento: “C’è tua nonna, no?” disse piano.
Hikaru lo ignorò. “I miei mi hanno cacciato di casa lo scorso mese. Non volevano avermi tra i piedi, perciò mi hanno mandato qui”.
“Mi dispiace,” mormorò Kariya con sincerità, sentendosi improvvisamente a disagio. Abbassò ancora gli occhi e iniziò a stropicciarsi le dita sentendole rigide e umide di sudore.
“Lo so. Per questo ti dico che sei fortunato ad avere un genitore come Midorikawa,” gli spiegò pazientemente Hikaru, “una persona che ti accetterebbe qualsiasi cosa tu faccia… o sia,” mormorò cauto. Le ultime parole quasi le sussurrò, al punto che Masaki non era nemmeno sicuro di averle sentite. “Papà non è perfetto,” obiettò di rimando.
“No, nessuno lo è,” ammise Hikaru. “Ma ti ama. E l’amore è la cosa più bella che una persona possa cedere a un’altra, in maniera totalmente disinteressata. Io la vedo così”.
Dopo quelle parole, Masaki non riuscì più a replicare: lasciò che il silenzio lo avvolgesse come una coperta e vi si lasciò cullare, annichilito da tutto ciò che Hikaru gli aveva detto. Abbassò il capo a rimirare le vene del pavimento fino a che la vista non iniziò a offuscarsi e le prime lacrime non iniziarono a bagnargli i jeans.
“Stai piangendo… Kariya?”
“No,” si lagnò lui, passandosi una mano sul volto. “Non… non sto p-piangendo”.
Il fruscio di fronte a lui lo costrinse a serrare gli occhi, per non vedere. Le braccia di Hikaru lo avvolsero ancora prima che potesse protestare, ma era sicuro che fosse rimasto senza parole.
angolino di hirondelle_
LO SO. LO SO. ERO ABBASTANZA SICURA CHE NON SAREI MAI RITORNATA SU QUESTA FIC. E invece sono debolissima, quindi ho scritto un altro capitolo. Ho anche revisionato gli altri capitoli, facendo piccole modifiche e sistemando un po' la parte grafica: ora dovrebbe essere tutto più leggibile e pulito. Di tutto questo, devo ringraziare soprattutto l'utente himawarii, che mi ha spronata a continuare con la sua bellissima recensione! Non prometto nulla, perché non mi fido molto di me stessa, ma questo capitolo era piuttosto importante ed era giusto che lo aveste. 
Lettori "anziani": non so se ci siete, ma questa è anche per voi! Battete un colpo se capitate da queste parti, ahah. 
Un bacio, 
Fay

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Capitolo 34
*** thirtythree ***


ombrelli sotto la pioggia
Per la verità, Hikaru non si era preparato per quel discorso, e solo quando fu il momento di ritornare in classe la settimana seguente realizzò cosa fosse successo. Scalciò un altro sassolino dal pietrisco, stringendo forte le bretelle della sua cartella, con tanta voglia di urlare.
Perché non glielo aveva detto?
Perché non aveva osato di più?
Una parte di sé conosceva già la risposta: perché sei un buon amico, Kageyama. Era il suo ruolo primario in fondo, e lo era stato fin dall’inizio, ben prima in realtà del suo primo incontro con il padre di Kariya. Ma a quel pensiero ostinato, il suo cuore accelerava di almeno due battiti. Era difficile ignorarlo.
Aveva appena superato i cancelli della Raimon quando sentì una mano sulla sua spalla, e sussultò. La presa ferrea di Kyosuke lo costrinse a girarsi.
Hikaru gli lanciò un’occhiata impaurita: il ragazzo sembrava visibilmente scocciato. Si chinò su di lui, quasi sovrastandolo, e aggrottò la fronte. Non lo salutò nemmeno. “Perché non è con te?”
“Chi?” chiese Hikaru stupidamente, conoscendo già la risposta.
Non fu una bella mossa, dal momento che Kyosuke si irritò ancora di più: “Masaki! Come chi!” sbottò scocciato, scuotendolo leggermente come se le sue parole potessero fare maggiore presa.
“Non chiamarlo così, non gli piace,” osservò Hikaru, sulla difensiva. “E comunque non sono affari tuoi”.
Tsurugi sembrò agitarsi a quelle parole, e sembrò trattenersi dal dire qualcosa: fu in quel momento che Hikaru comprese che doveva essere seriamente preoccupato. Ma anche sul punto di saltargli addosso e strangolarlo.
“Ti… ti doveva dei soldi, o qualcosa del genere?” balbettò, in tono conciliante. “Posso darteli io, s-se…”
Kyosuke continuò a guardarlo in modo truce. “Ti pare che farei ‘ste scene per due spicci?”
, pensò subito Hikaru, ma non osò rispondere e lasciò che fosse lui a parlare.
“Non si fa sentire né vedere da venerdì sera,” spiegò Tsurugi. Sembrava sul punto di scoppiare. “Eravamo usciti e tutto ad un tratto ha preso e se n’è andato, senza darmi spiegazioni! Ho solo capito che c’entrava suo padre e quel branco di fro-
“Ehi,” lo ammonì Hikaru, riacquisendo un pochino di sicurezza.
“Sì, va beh, hai ragione,” tagliò corto l’altro, non volendo tergiversare in discussioni che avrebbe trovato sicuramente inutili. “Dico solo che sono stato una merda per tutto il weekend per colpa sua, potrebbe almeno degnarsi di dirmi come sta”.
Hikaru intanto spostava il peso da una gamba all’altra, a ripetizione. Era strano per lui vedere Kyosuke così emotivo. “Lui sta bene,” lo rassicurò.
Forse non avrebbe dovuto trattarlo con tanta sufficienza: non cambiava il fatto che anche lui fosse amico di Kariya, e probabilmente meritava più di tutti delle risposte visto il modo in cui era stato trattato. Si chiese se Kariya sarebbe stato d’accordo con lui se gli avesse confidato qualcosa, e provò a dosare le informazioni.
“È a casa mia adesso. Si sta riprendendo, ha solo bisogno di un po’ di tempo. Tutto qui”.
Kyosuke alzò un sopracciglio e lo fissò per un po’, quasi soppesando quelle parole. Quando iniziò a camminare verso l’edificio scolastico, Hikaru intuì che quel che aveva detto era bastato a calmarlo, almeno per il momento. Istintivamente, prese anche lui a camminare e gli si affiancò. Chiunque attorno a loro avrebbe trovato la scena molto strana.
“Vorrei parlargli,” confessò a un certo punto Kyosuke, intrecciando le dita dietro la testa. “Credevo di aver sbagliato qualcosa io”.
Hikaru sporse il collo verso di lui, incuriosito: “Perché dici questo?”
“Non lo so,” ammise l’altro, distogliendo lo sguardo. Sembrava imbarazzato anche solo ad ammetterlo. “Diciamo che non gli ho prestato troppa attenzione, ho pensato che si fosse offeso”.
Hikaru scosse la testa. “Non mi ha detto nulla del genere, non preoccuparti: non c’entri niente”.
Kyosuke tornò a guardarlo con fare quasi accusatorio: “Beh, potrebbe dirmelo di persona, che dici? Ha bisogno della segretaria?”
Hikaru sospirò: cominciava ad irritarsi a sua volta e non era abituato a discutere, se non altro perché gli costava sempre energie preziosissime. Ringraziò mentalmente il suo istinto per non essersi avvicinato a un tipo come Kyosuke, perché non era sicuro che sarebbe riuscito a reggerlo quotidianamente come faceva Kariya.
“Senti, ho recepito il messaggio. Quando torno a casa gli dico di chiamarti, va bene?”
“Sarà meglio,” borbottò lui. Chinò il capo e prese a scalciare anche lui i sassolini del selciato. Hikaru trovò il gesto molto ironico: forse non erano poi così diversi.
 
Qualunque cosa avesse escogitato il corpo docente per scovare Kariya, non gli piacque per niente. Certo, si trattò di compilare dei semplici questionari. Certo, erano tutti anonimi. Ma Hikaru si rese subito conto di due cose. La prima: tutti sapevano che Kariya era sparito; la seconda: quel questionario sembrava solo una formalità, perché era palese dove sarebbero andati a parare prima o poi. Come se lo sguardo penetrante di Kira-sama non fosse già un indizio: sapevano già a chi rivolgersi e probabilmente si aspettavano solo che fosse lui ad uscire allo scoperto. Hikaru iniziò a sentire una leggerissima pressione.
Ne parlò con Kariya quando tornò a casa, e lui si limitò a fare spallucce. Era visibilmenete a disagio per tutta la faccenda, ma troppo testardo per ammetterlo. “Fai quello che credi: non mi devi niente,” borbottò, “Io del resto non potrò stare qui per molto”.
“E dove vai?” gli chiese Hikaru, trattenendo a stento lo scherno.
“Non lo so, lontano da qui. Magari potrei cercare di raggiungere l’osservatorio in qualche modo,” ipotizzò Kariya, senza troppa convinzione. “Non- non sono ancora pronto per tornare a casa, ecco. Scusami se ti sto mettendo in mezzo a tutto questo”.
E Hikaru lo capiva… lo avrebbe appoggiato anche se non avesse capito, in realtà. Ma la situazione iniziò a farsi più pesante per lui quando, nei giorni seguenti, fu Endou-sama il primo ad approcciarlo. Riuscì a coglierlo di sorpresa all’uscita degli spogliatoi, quando tutti gli altri se ne erano andati, senza che se ne accorgesse.
“Qualcosa non va, Kageyama-kun?” gli chiese con la sua solita affabilità, “Ti vedo un po’ teso, ultimamente”.
“Uhm, nessun problema,” si inchinò Hikaru, ma si rese conto che la sua rigidità poteva tradirlo, quindi si raddrizzò immediatamente.
Endou chinò la testa di lato e si appoggiò allo stipite, le braccia incrociate e il busto rilassato come se non avesse nessuna preoccupazione al mondo. Gli sorrise, come se non potesse fare altro in vita sua che sorridere. “Devono essere giornate pesanti per te. Tu e Kariya siete molto legati, non è così?”
Hikaru non poté far altro che annuire. Stava sudando di nuovo e probabilmente avrebbe avuto bisogno di un’altra doccia.
“So cosa starai pensando. Ma non è nel mio stile mettere sotto torchio qualcuno,” ammise candidamente l’allenatore. “A volte penso che alcuni miei colleghi siano troppo severi con i loro studenti, non trovi anche tu?”
È una trappola? pensò Hikaru, ma si ritrovò di nuovo ad annuire, confuso.
La cosa sembrò incoraggiare Endou a proseguire: “Qualsiasi cosa gli sia successa, sono certo che stia bene. Non devi preoccuparti per lui.”
“Grazie, Endou-sama,” mormorò intimidito, avviandosi verso l’uscita. Pensò che l’allenatore lo avrebbe trattenuto appena gli fosse passato di fianco per superarlo e uscire dagli spogliatoi, ma non fu così. Fu quasi sorpreso di ritrovarsi libero di camminare per il corridoio che portava all’uscita e per un momento ne fu quasi felice. Furono le parole di Endou a fermarlo.
“A volte affrontiamo cose che sono più grandi di noi. Non portarti questo peso sulle spalle, Kageyama-kun”.
Il ragazzino si voltò, stupito. Nel volto di Endou persisteva quel suo solito sorriso, ma solo in quegli istanti gli parve di vederlo veramente. C’era una profondità nel suo sguardo paterno che non aveva visto in nessun altro: come se avesse potuto circondarlo e abbracciarlo da metri di distanza. Esitò un momento, poi si strofinò la faccia con entrambe le mani, sentendole umide.
Odiava essere così emotivo.
Odiava quel peso che si portava sulle spalle.
Il fatto era che non odiava Kariya: non lo avrebbe mai odiato. Non sarebbe mai riuscito a odiarlo, nemmeno se lo avesse voluto, nemmeno se ci avesse impiegato tutte le sue forze: lui non era così.
Non era come loro.
Si voltò imbarazzato, per non farsi vedere. Ma Endou non lo seguì.

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Capitolo 35
*** thirtyfour ***


ombrelli sotto la pioggia
Hiroto non ricordava più l’ultima volta in cui aveva passato così tanto tempo fuori casa: forse quando ancora stava con Reina e il loro rapporto aveva ancora senso, almeno nella sua testa. A ripensare a quel periodo, sembrava quasi che molte cose avessero riacquisito un altro significato, soprattutto alla luce dei sentimenti che ora provava per Ryuuji.
Forse i suoi fratelli avevano ragione: quando si trattava di certe cose poteva essere parecchio duro di comprendonio.
Nell’imboccare il parcheggio del condominio, ripensò con un sorriso agli anni che aveva passato nel rifiuto e nell’autocommiserazione, nella preoccupazione costante che la sua natura potesse intaccare il suo futuro come CEO dell’azienda di suo padre… le cose poi erano andate diversamente, ma lui non aveva mai smesso di nascondersi da se stesso, nel tentativo patetico di isolarsi dal mondo e chiudersi nel suo dolore.
Non aveva fatto i conti con la cocciutaggine dei suoi fratellastri.
Non aveva fatto i conti con Midorikawa Ryuuji.
Uscì dalla sua decapottabile sgranchendosi le gambe e dando un’occhiata distratta al sedile del passeggero, controllando di non aver dimenticato nulla. Poi chiuse la portiera e schiacciò il pulsante di blocco, avviandosi verso l’entrata.
Salire fino al piano di Ryuuji aveva iniziato a essere meno problematico dopo il primo paio di volte, soprattutto perché non voleva cedere all’idea che non fosse più un ragazzino. Forse c’entrava l’uomo che lo accoglieva ogni volta sulla porta e che lo faceva sentire di dieci anni più giovane.
“Bentornato,” gli disse Ryuuji con un sorriso accogliente.
“Scusa se ho fatto tardi,” rispose entrando e chiudendosi la porta alle spalle. Prese a togliersi la giacca e si allentò di poco la cravatta. “Endou voleva parlarmi”.
L’uomo incrociò le braccia al petto e si appoggiò con una spalla al muro, l’espressione contrita. “Qualche novità?”
“Non più di quanto già sospettiamo. Hikaru sa sicuramente qualcosa: quel ragazzo è un libro aperto”.
Ryuuji annuì: “È molto probabile che sia con lui. Ammetto che la cosa mi rassicura”.
Hiroto gli sorrise: “Fra qualche giorno si farà vivo, credimi. Mio fratello faceva spesso  certi tiri”.
Midorikawa gli lanciò un’occhiata sorpresa mentre lo anticipava verso la cucina: “Parli di Nagumo-san?”
Per tutta risposta Hiroto scosse il capo, “No, non lui… beh, in realtà è quasi impossibile che tu lo conosca,” rispose, e liquidò la questione con un gesto della mano. “Piuttosto, ho esaminato alcuni questionari, non credo siano informazioni che ci possano tornare utili ma te le dico lo stesso”.
Ryuuji annuì e si sedette al tavolo, attendendo con sguardo assorto che Hiroto tirasse fuori la cartella di plichi.
“Uno studente dice di averlo visto l’ultima volta nel quartiere di Sugamo”.
“In effetti è un po’ vago,” osservò Midorikawa, “c’è dell’altro?”
Il professore scosse il capo, mortificato. “Pare non fosse un tipo di molte parole”.
Ryuuji si stropicciò gli occhi stanchi e scosse i capelli, lasciati sciolti e morbidi sulle spalle curve. Nonostante stesse provando in ogni modo di rassicurarlo, in quei giorni aveva sempre quell’aria afflitta, lontana dal viso radioso e cordiale che aveva conosciuto. “Non c’è niente che possiamo fare, non è così?”
Hiroto non rispose. Conosceva Ryuuji da poco, ma abbastanza da capire che non era tipo da accettare una bugia, nemmeno se a fin di bene.
L’uomo stirò i muscoli, allungandosi sullo schienale della sedia. Quando ritornò composto, sembrò più rilassato. “Forse è stato un errore chiedere la sua custodia. Non sono un granché come genitore”.
“Hai fatto tanto,” osservò Hiroto, “e anche di più. Non essere così duro con te stesso”.
Ryuuji sembrò ignorarlo, lo sguardo fisso sulle vene del tavolo. “Forse dovrei contattare gli assistenti sociali. Trovare un accordo. Dovrà pur esserci qualcun altro disposto ad adottarlo”.
A quelle parole cadde il silenzio e Ryuuji alzò lo sguardo verso Hiroto, che ora teneva le labbra chiuse in una linea sottile. I suoi occhi si allargarono non appena realizzò cosa aveva appena detto, e sulle sue guance comparve un leggero rossore. “Oh… No! Non intendevo…”
“Ascolta,” lo interruppe Hiroto, alzando una mano e usando un tono conciliante, “so che non intendevi nulla di male. Ma voglio ricordarti che la vita in orfanotrofio potrebbe essere molto dura, specialmente per un ragazzo della sua età. È molto probabile che uno come lui riesca a uscirne una volta diventato maggiorenne, piuttosto che adottato”. Ryuuji lo stava ascoltando con molta attenzione, mortificato per quello che aveva appena pensato. “Io e i miei fratelli siamo stati molto fortunati ad aver trovato qualcuno come nostro padre che si prendesse cura di noi, ma non è così per tutti,” continuò, “So che vuoi solo il bene per tuo figlio e forse non riesci a vedere via d’uscita a tutto questo, ma devi pensare con lucidità”.
Ammutolì chiedendosi se non avesse esagerato, ma Midorikawa sembrò riflettere sulle sue parole. Lo vide alzare gli occhi al soffitto, pensieroso. “Fuusuke non mi ha mai parlato dell’orfanotrofio. Ma non lo immagino come un luogo ideale per Kariya. Solo…” sospirò e la sua voce si fece più tremula. “Solo… meglio che qui”.
“La pensi in questo modo perché la situazione ti appare drammatica,” insistette Hiroto, “ma non sai nemmeno il motivo per cui è scappato. Non avete ancora parlato. Non puoi sapere cosa sta passando per la sua testa”.
Ryuuji a quel punto sembrò irritarsi e gli lanciò un’occhiata infastidita. “Mi sembra ovvio il motivo per cui se n’è andato. Non gli deve andare molto a genio un padre come me”.
“O forse,” gli suggerì lui, con fermezza, “è confuso e ha bisogno di tempo per elaborare quello che ha visto. Non siamo stati tutti nei suoi panni?”
Midorikawa a quel punto gli sorrise beffardo, e per un attimo Hiroto si ritrovò davanti all’Ottava Musa. “Non mi importava un cazzo dei miei, o di quello che pensavano. Non mi sono mai fatto intimidire” disse con sicurezza. Poi suoi occhi si fecero lucidi e sembrarono lavare via ogni segno di arroganza. “E forse è per questo che non lo capisco per niente”.
Hiroto gli sorrise e gli appoggiò una mano sulla spalla per rassicurarlo, mentre le prime lacrime tracciavano il volto consumato di Ryuuji. “A volte cose per noi insignificanti, per altri potrebbero essere gigantesche,” gli suggerì. “Quando avrete occasione di parlarne sarà tutto più chiaro”.
Ryuuji si passò le mani sul volto, esausto e travolto da tutte le emozioni che stava provando. “Gli ho nascosto ogni cosa perché pensavo non avrebbe capito,” singhiozzò, “e che mi avrebbe giudicato. E forse non è vero che sono orgoglioso di me. Forse… forse, in fondo, mi vergogno di quello che sono”.
Hiroto si alzò dalla sedia per aggirare il tavolo e continuò a sorridergli. Midorikawa lo guardò dal basso con aria smarrita e lasciò che l’uomo lo stringesse in un abbraccio. Il suo corpo riconobbe la sensazione: Midorikawa portò subito le braccia attorno al suo collo, forse seguendo un istinto che non provava da tantissimo tempo. Si alzò per arrivare alla sua altezza e incrociò lo sguardo con il suo. Hiroto rabbrividì.
Era strano. Era ancora strano, perché da quando avevano iniziato a conoscersi non erano passati che giorni. Ma ogni volta che sentiva le dita gelide di Midorikawa intrecciarsi dietro il suo collo, era più facile per lui percepire il calore che irradiavano i loro petti, l’uno contro l’altro. Era una sensazione che non aveva mai provato con nessuno, nemmeno con Reina.
“Forse dovrei chiederti scusa, allora”.
“Per cosa?” chiese Midorikawa in un soffio, le labbra a pochi centimetri dalle sue.
Hiroto sorrise. “Da quando ti conosco, la vergogna non è più un’opzione. Devo aver assorbito quell’orgoglio per osmosi”.
L’uomo rise piano tra le lacrime, trovando l’idea ridicola. Era la prima volta che lo vedeva sorridere dopo ore: ci voleva sempre un po’, ma farlo sorridere era diventato una conquista ogni giorno più semplice da realizzare.
“Sei… è la tua presenza. Mi fa questo effetto. Non posso farci niente,” ridacchiò, imbarazzato da se stesso. “Non riesco a spiegarlo meglio di così, mi dispiace”.
“Non importa,” sussurrò Midorikawa, rivolgendogli uno sguardo che non avrebbe potuto trovare in nessun altro se non lui.
Così vasto e profondo da potercisi immergere.
Lo baciò piano, accarezzando le sue labbra ruvide per il freddo con una spontaneità che appena pochi mesi prima gli sarebbe sembrata impensabile. Le mani di Ryuuji scivolarono lungo la sua schiena, e quasi poteva sentirlo mentre si abbandonava alla sua stretta ma premeva forte le mani sui suoi fianchi, come se tra le sue dita potesse concentrarsi tutto il potere del mondo.
Hiroto sperava solo di non esserselo preso tutto per sé.

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Capitolo 36
*** thirtyfive ***


tw: mention of physical abuse
ombrelli sotto la pioggia
Kariya poteva avvertire già dallo sguardo colpevole che Hikaru gli stava rivolgendo che qualcosa non andava, perciò le parole che gli rivolse quella sera non furono una sorpresa. Tuttavia, quasi per ripicca verso il suo stesso intuito, la sua reazione fu un urlo di indignazione.
Hai vuotato il sacco?!
“Ti prego non ti arrabbiare,” pigolò Hikaru mettendo le mani avanti, come se si fosse trovato davanti a una tigre e non al suo migliore amico. “Ti giuro che ci ho provato, ma Suzuno-senpai mi fa davvero paura, non posso farci niente!!”
“E piuttosto che lavorarci su hai preferito vendermi!” sibilò l’altro, abbracciando il cuscino come se avesse potuto strozzarlo. “Questa è roba seria, Kageyama!”
“Lo so!” gridò Hikaru con occhi lucidi, “E mi dispiace! Ti prego Kariya! Sei il mio unico amico! Non essere arrabbiato con me!”
Kariya aggrottò le sopracciglia, deluso. “Mi spieghi come farò a fidarmi di te dopo un tiro del genere?”
Hikaru scosse i suoi riccioli ribelli, mortificato, ma aveva un’espressione troppo ridicola per tenergli davvero il muso, quindi Kariya si limitò a sospirare. Un tempo avrebbe agito d’impulso e gli avrebbe tirato un pugno, ma in effetti il danno era già stato fatto e non aveva senso discutere perché con ogni probabilità suo padre si era già mosso per raggiungerlo.
“Quando arrivano?” borbottò soltanto, laconico.
Hikaru si morse il labbro, sentendosi ancora colpevole. “Fra un’ora”.
Kariya rimase in silenzio e rifletté un po’, perdendosi nei suoi pensieri. Strinse il cuscino di Hikaru al petto, tastandolo e affondandoci le dita come a cercare un po’ di sollievo dal suo cuore impazzito. Tenne lo sguardo fisso sul pavimento, mentre le gambe iniziavano a indolenzirsi a forza di stare incrociate in quella posizione scomoda, perciò le stese e si lasciò andare anche con la schiena, finendo bello disteso sul duro legno.
“Mi dispiace, senpai…” tornò a ripetere Hikaru, stavolta però in un tono più calmo. “Ma penso che tu debba davvero risolvere tutta questa faccenda”.
Kariya buttò fuori un rantolio incomprensibile, ma non disse nulla per due minuti buoni, gli occhi rivolti al soffitto, incapace di elaborare quello che stava provando. Non poteva essere davvero arrabbiato con Hikaru, non dopo quello che aveva fatto; di sicuro gli avrebbe dato una lezione, a tempo debito, ma una parte di lui sapeva che il suo amico aveva ragione e incontrare suo padre sarebbe stato inevitabile. Ma era pronto? Non ne era sicuro.
Nella sua testa balenava ancora vivida l’immagine stampata in quel biglietto d’ingresso. Ancora non era del tutto certo se ciò che aveva visto fosse reale, ma tornandoci su aveva capito che non si era trattato di un reale trauma come invece voleva dare a vedere. Sarebbe morto prima di ammetterlo ad alta voce, ma non era stato scoprire che suo padre si esibiva in un gay bar ciò che lo aveva spinto ad agire in modo così assurdo.
“Sei… triste?”
Kariya si voltò verso Hikaru, aggrottando le sopracciglia. Non capì il senso di quella domanda finché non realizzò che era rimasto su quel pavimento a fissare il soffitto per più tempo di quanto fosse realmente accettabile. Ci pensò su. “No, non sono triste,” rispose infine. “Sono ancora arrabbiato, sappilo,” si affrettò a mentire, per mettergli paura. “Però… no, triste non è la parola giusta”.
Hikaru sobbalzò alle sue parole, ma forse aveva già intuito da un pezzo che Kariya era il tipo da abbaiare per un nonnulla… ma non mordere. Perciò rimase lì con lui e anzi si sedette diligentemente al suo fianco. “A cosa stai pensando, allora?” chiese piano.
Kariya tornò a guardare il soffitto. “Mia madre,” rispose semplicemente.
Hikaru sembrò sorpreso. “Non mi hai parlato molto di lei,” osservò.
“Però penso sia la ragione reale per cui sto facendo tutto questo, quindi ti conviene sapere una cosa o due,” gli rispose.
Kageyama, a quel punto, sorrise. “Ti ascolto,” gli disse in tono dolce.
“Stravedi per mio padre, quindi lei ti piacerà un sacco,” borbottò l’altro con sarcasmo, ma non poté impedire che dal suo volto trasparisse un po’ di inquietudine. “Lei era… una escort”.
“U-una cosa?” sobbalzò Hikaru, arrossendo visibilmente.
“Una escort. Una prostituta. Una signorina della buonasera, come vuoi chiamarla,” si agitò Kariya, per poi riprendere il discorso da dove lo aveva interrotto. “Dicevo… era una escort e si portava un uomo sempre diverso a casa, una sera sì e una no, e nella sera no beveva come una spugna per compensare il fatto che le era andata male”.
Hikaru lo stava fissando con uno sguardo che non gli aveva mai visto fare, ma decise di ignorarlo. Avrebbe buttato tutto fuori quella sera stessa e aveva solo un’ora di tempo per raccogliere le idee sulle cose che avrebbe detto a suo padre, quindi voleva sfruttare tutto il tempo a sua disposizione.
“Le volevo bene, perché era mia madre. Ma aveva un serio problema di gestione della rabbia. E aveva un sacco di fissazioni stupide, tipo il fatto che non potevo cucinare ma dovevo farlo comunque perché da ubriaca non era in grado di farsi nemmeno un uovo al tegamino,” disse. “Quando le girava davvero male mi massacrava di botte, ma non è che fosse davvero in sé quindi non ho mai pensato che lo facesse di proposito”.
Sotto le palpebre di Hikaru stavano iniziando a formarsi pericolosi lacrimoni, “K-Kariya-kun…”
“E non so perché io ci sia rimasto così male quando è morta, visto che erano anni che comunicava con me per insulti e spintoni, però pensavo di volerle bene,” mormorò Kariya, a quel punto riflettendo ad alta voce perché non poteva più soffrire la visione di Hikaru in quello stato. Portò lo sguardo verso l’altro e anche lui si ritrovò con la vista annebbiata dalle lacrime. “Però, sapere che Midorikawa-kun fa davvero un lavoro simile… simile a quello che faceva mia madre, suppongo… non mi sta bene”.
Hikaru era già partito a singhiozzare come un disperato, e Kariya dovette girare la testa nella sua direzione per osservarlo nel tentativo patetico e impraticabile di soffocare le lacrime nella stoffa del suo maglioncino.
“Ce l’ho con lui perché è gay? Ma che ne so,” esclamò, “cosa me ne frega a me, in effetti? In un certo senso io… lo, lo ammiro per… per essere quello che è”.
Tastò la tasca posteriore dei suoi jeans perché a quel punto aveva bisogno di un paio di fazzoletti per lui e Hikaru. Non trovandoli, si sporse verso lo zaino che aveva lasciato accanto al futon, ma non smise di parlare a raffica, a quel punto inarrestabile, preda del suo flusso di pensieri. “Ma la verità è che… sono terrorizzato da mia madre al punto che quando… quando l’ho rivista in lui, per un solo secondo… e sapendo che mi aveva nascosto tutto quanto per così tanto tempo… io…”
Sfilò il pacchetto di fazzoletti dalla tasca anteriore e tirò su con il naso, in tempo per portarsene uno al naso e soffiare forte. Con l’altra mano passò un altro fazzoletto a Hikaru, che a quel punto sembrava sul punto di affogare nelle sue stesse lacrime, ma trovò comunque il modo di sorridergli per ringraziarlo.
Kariya piegò il fazzoletto su se stesso fino ad accartocciarlo e poi se lo mise in tasca. Più tardi avrebbe fatto i conti con il senso di vergogna e ripudio che avrebbe provato ricordando quello che stava accadendo, ma una parte di lui ormai poteva dire che si fidava di Hikaru a sufficienza per affidargli qualsiasi cosa, pure l’immagine residua della sua dignità.
“Ma… non è vero che mio padre è simile a mia madre. Lavora sodo per pagare tutto quello di cui ho bisogno. Mi cucina un sacco di cose buone, anche quando è appena rientrato da lavoro ed è stanco. Non ha mai portato a casa nessuno dopo una serata. E… e quella volta che io…”
Non riusciva a dirlo, ma non poté ignorare la stretta al cuore che gli provocò il ricordo del suo abbraccio, nel momento in cui la notte si era fatta più buia e per un secondo aveva pensato che sarebbe morto di asfissia.
“Io lo so… lo so… lo s-so che mi vuole bene… però mi manca il coraggio di lasciare che si prenda cura di me, perché… perché mi fa strano, capisci?” concluse piano, tirando su con il naso per l’ennesima volta.
“Kariya-kun…” si limitò a piagnucolare Hikaru, prima di saltargli addosso e abbracciarlo stretto. Kariya sussultò, ma lo lasciò fare, sentendosi goffo quando gli accarezzò i capelli morbidi con la sua mano appiccicosa.
“Mi stai riempiendo la maglietta di muco,” si lamentò, ma per tutta risposta Hikaru premette più forte il naso contro la sua spalla e Kariya sospirò.
“I-io… io ci sarò sempre per te, Kariya-kun…” balbettò Hikaru. “S-sempre e per sempre!”
Kariya arrossì per l’imbarazzo, anche se non smise di accarezzargli i capelli e dargli pacche leggere sulla schiena. Si chiese chi stesse confortando chi, ma se avesse potuto scegliere, non avrebbe voluto che le cose andassero in nessun’altra maniera che quella.
Kariya strinse Hikaru a sé e si sentì amato.
 

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Capitolo 37
*** thirtysix ***


ombrelli sotto la pioggia
L’unico rumore a infrangere il silenzio era la pioggia sottile che si infrangeva contro la finestra della stanza di Hikaru, troppo piccola perché potesse filtrare la luce. Nella penombra, i due ragazzi stavano in silenzio l’uno di fianco all’altro, ad aspettare l’arrivo di Midorikawa. Di tanto in tanto, Kariya accendeva il cellulare solo per controllare se fossero arrivati messaggi.
L’attesa era snervante, ma l’appartamento di Hikaru era così placido e silenzioso che Kariya non riusciva davvero a sentirsi agitato. Non con Hikaru steso sul fianco, a tenergli la mano, il respiro soffice di chi sta per addormentarsi ma non vuole. A un certo punto lo sentì sbadigliare e si voltò verso di lui, ad ammirare le guance paffute e i riccioli spettinati dal sonno. “Non serve che rimani sveglio per me, sai?”
“Ho appena detto che ci sarò sempre,” borbottò Hikaru, senza però aprire gli occhi.
“… Non intendevi letteralmente, giusto?”
Il ragazzino schiuse le palpebre e gli sorrise, rivolgendogli uno sguardo mite. “Solo se lo vuoi anche tu”.
Kariya si grattò la testa, imbarazzato. Capiva l’implicazione di quella risposta. Se ci fosse stato un modo per fare ordine nella sua testa e dare a Hikaru la risposta che avrebbe meritato, lo avrebbe fatto. Invece disse: “Beh, ora vorrei che tu dormissi”.
Hikaru borbottò qualcosa e si girò sull’altro lato, dandogli le spalle. Kariya sospirò, dando un’occhiata al di là dei vetri nel tentativo di scorgere i fari dell’auto di Midorikawa.
 
Quando il campanello suonò, Kariya si risvegliò da un torpore in cui non si era reso conto di essere caduto. Scattò in piedi, gli occhi ancora impiastricciati di sonno, scoprendo di essere totalmente al buio. Hikaru stava ancora dormendo, steso al suo fianco, e Kariya cercò di sfilarsi dal futon più discretamente possibile.
La porta si aprì senza che né lui né Hikaru avessero mosso dito.
Stordito, Kariya scese gli scalini del soppalco a due a due: non ricordava assolutamente di aver lasciato la porta aperta, né pensava che Midorikawa sarebbe entrato in casa di Hikaru. Per la verità, non era nemmeno sicuro fosse lui: chiunque fosse entrato, lo aveva fatto senza annunciarsi. Per un attimo credette che fossero i genitori di Hikaru, e sarebbe stata una sorpresa, considerando che non sapeva nemmeno che faccia avessero e soprattutto che vivessero lì. Ma quando si avvicinò all’atrio, tutto ciò che vide fu la figura minuta e tremante della signora Kageyama, la mano sul pomello e il naso schiacciato nella fessura della porta.
“S-signora Kageyama!” esclamò Kariya, sorpreso, se non altro perché non l’aveva mai vista reggersi in piedi, e dentro di sé pensava che non ne fosse nemmeno capace.
Per tutto il tempo in cui era stato lì, era stato Hikaru a curarsi di lei, portandole il cibo a letto e assicurandosi che fosse al caldo, e Kariya si era sempre sentito un po’ a disagio all’idea che non fosse di molto aiuto in una situazione del genere. La nonna di Hikaru gli era sempre apparsa come un essere immobile, silenzioso e incosciente, persino incapace di rendersi conto di cosa le stava accadendo. Il fatto che avesse sentito il campanello e fosse andata ad aprire la porta costituiva un evento di una certa eccezionalità.
“S-signora Kageyama, la prego… prenderà freddo,” si affrettò a dire, incerto. Quando la donna si voltò verso di lui, vide nel suo volto lo smarrimento: evidentemente, non l’aveva nemmeno riconosciuto.
“Kariya? Sei lì?” arrivò una voce dall’altra parte della porta. Kariya riconobbe la voce del suo professore, anche se non riusciva proprio a immaginare che cosa ci facesse a casa di Hikaru.
“Sì, mi dia un minuto,” rispose. Goffamente, prese le mani della signora Kageyama: erano fredde, la pelle flaccida e rugosa in contrasto con il suo palmo. “Signora Kageyama, lasci che l’accompagni”.
Si aspettò che la donna facesse resistenza, invece si fece riaccompagnare a letto senza protestare. Per tutto il tempo, continuò a guardarlo con aria smarrita, come se stesse cercando di ricordare chi fosse. Kariya non ci aveva avuto troppo a che fare, quindi quasi gli dispiaceva di costringerla a quello sforzo inutile.
Quando l’ebbe aiutata a stendersi (era molto leggera, si sorprese a pensare, tanto che avrebbe potuto prenderla in braccio se avesse voluto), si assicurò che avesse le coperte rimboccate fin sul naso. L’anziana chiuse gli occhi e lo lasciò fare.
Dopo essersi assicurato con un’occhiata che fosse tutto a posto e che non si sarebbe alzata di nuovo, tornò verso la porta e tolse il catenaccio. “Eccomi Kira-sama, sono…”
Ma l’uomo che si ritrovò davanti non era Kira-sama.
Da sotto la pioggia, al riparo di un ombrello gigantesco, c’era Midorikawa. Indossava il suo cappotto e una sciarpa lilla, i capelli lasciati sciolti sulle spalle a incorniciargli il viso bruno. Teneva gli occhi fissi sui suoi stivali, che si agitavano nervosi sopra il tappeto dell’ingresso. Le sue labbra erano screpolate e devastate a furia di morderle.
“Papà…” si lasciò sfuggire.
Forse incoraggiato dal suo tono di voce, che gli uscì più morbido di quanto pensasse, Midorikawa alzò gli occhi. E come accadeva ogni singola volta, Kariya venne catturato dalla profondità di quello sguardo, così immenso da risucchiarlo e e avvolgerlo dentro di sé. Kariya glielo invidiava. Invece aveva preso gli occhi di sua madre.
“Masaki…” soffiò fuori Midorikawa, imbarazzato.
Si era figurato dieci diversi scenari per quel momento, e nessuno di essi corrispondeva.
Kariya si limitò a fissarlo, incredulo. Non aveva mia visto suo padre così intimidito, ed era lui stesso a fargli quell’effetto, a dargli quel senso di insicurezza e goffaggine.
Si chiese se in fondo fossero così diversi.
“Masaki… scusa,” mormorò, ma Kariya intuì che non era così che voleva che andassero le cose perché lo vide arrossire. Prese un respiro profondo e continuò: “Io… vorrei solo dirti che… puoi tornare a casa quando vuoi. Ti aspetto. Ti aspetterò tutto il tempo necessario. E poi… parleremo, penso. Di me. Di quello che non ti ho mai detto. Tutto quanto. Potrai farmi tutte le domande che vorrai, io ti risponderò”.
Kariya aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. Annuì, incerto, e il gesto sembrò sollevare Midorikawa abbastanza da farlo sorridere. Aveva come sempre denti bianchissimi e labbra piene. Kariya buttò fuori l’aria che non si era accorto di star trattenendo, un singulto trattenuto all’altezza della gola che sembrava volerlo soffocare di secondo in secondo.
“Senpai?” chiamò una voce timida. Hikaru era al suo fianco, ancora avvolto dalla coperta, gli occhi stropicciati di sonno ma vigili puntati su di lui. Gli appoggiò una mano sul braccio e gli sorrise.
Kariya spostò lo sguardo da Hikaru a suo padre e seppe che sarebbe andato tutto bene.
“Papà,” mormorò, “Lui è Hikaru”.
Il ragazzino al suo fianco arrossì, non essendo abituato a certi convenevoli. “Kariya, noi ci siamo già incontrati…”
“È vero,” annuì Midorikawa, confuso e un po’ preoccupato. “Te… te l’abbiamo detto, vero?”
Kariya puntò lo sguardo su suo padre, serissimo, più serio di quanto fosse mai stato in vita sua. “Sì. Lo so,” disse. “Ma non importa. Lui è Hikaru. Ed è il ragazzo che amo.”
Il suo cuore batteva velocissimo, ma sostenne lo sguardo di suo padre anche quando vide l’ombrello scivolargli dalle mani, anche quando Hikaru strinse le dita attorno al suo braccio con una forza impensabile per un ragazzino della sua statura.
Prese un ultimo respiro. “Papà… m-mi piace Hikaru,” balbettò, e scoppiò in lacrime.
Le braccia di suo padre si strinsero attorno al suo corpo tremante, per il freddo o per l’ansia non avrebbe saputo dirlo, sapeva solo che se non ci fosse stato suo padre a reggerlo sarebbe crollato come gelatina. Sentiva i singhiozzi di Midorikawa contro il suo petto. Anche Hikaru stava piangendo. Kariya cercò la sua mano e la strinse forte.
Premette il naso contro la lana spessa e infeltrita del cappotto, già umido di pioggia. Sapeva di sigaretta, di ramen istantaneo, di infuso alle erbe e di casa. Gli ci volle uno sforzo inumano per uscire dalla trance di quel conforto e sentire di nuovo la voce di Midorikawa che gli chiedeva perdono.
“P-per cosa?” gli chiese, alzando di poco il viso per incrociare i suoi occhi.
Suo padre stava piangendo, ma gli prese il viso tra le mani e sorrise di un sorriso malinconico e disperato. Spostò lo sguardo da lui a Hikaru, poi di nuovo a lui. Masaki non era ancora riuscito a guardare il suo migliore amico negli occhi, ma ci avrebbe provato, lo giurò a se stesso lì e in quell’istante, non appena fosse finito tutto.
“Mi dispiace…” ripeté Midorikawa, le labbra tremanti e la voce spezzata, “per averti trattato come il ragazzino che non sei più”.
Kariya recepì quelle parole, ma non le capì. Non le avrebbe capite per un sacco di tempo ancora. Si tuffò di nuovo tra le sue braccia e stavolta sorrise, sporgendo il viso oltre la sua spalla.
Fermo sotto la pioggia, Hiroto Kira li guardava sereno.
Nella mano destra stringeva il terzo ombrello. 

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Capitolo 38
*** thirtyseven ***


ombrelli sotto la pioggia
Persino in quel momento, con i nervi ancora un po’ tesi per tutto quello che era successo negli ultimi giorni e nelle ultime ore, riconobbe nel sorriso di Midorikawa qualcosa che si era negato per troppo tempo e che anche ora lo stava accogliendo a braccia aperte, senza dubbi o rimpianti. Kariya era al sicuro. E voleva sprofondare in quell’amore, ora più che mai. Ma sapeva anche che una parte di lui ricercava la verità, prima di tutto.
Perciò anche se in quel momento avrebbe tanto preferito andare a dormire rimase ancorato alla sedia, mentre suo padre versava l’acqua del bollitore in entrambe le tazze poste sul tavolo di fronte a loro.
L’appartamento e l’intero condominio erano immersi nel silenzio, perché per quanto fosse ancora presto, tutti sembravano essere piombati nel sonno. In qualche modo, era come se li avessero lasciati opportunatamente soli a parlare, come aveva fatto anche Hiroto-sama nel momento in cui li aveva accompagnati a casa, ma non era sceso dalla macchina. Kariya aveva tante domande.
Ma doveva procedere con ordine.
Quando Midorikawa si sedette di fronte a lui e appoggiò le mani fredde sui lati della tazza, gli rivolse un piccolo cenno con la testa. “Vai, sono pronto”.
Kariya non aveva ancora uno schema preciso, ma decise di partire dalla domanda che gli premeva da più giorni. “Per prima cosa…” borbottò, “esci tutte le sere e dici di essere un cameriere, ma cosa fai di preciso?”
Midorikawa arrossì e gli rivolse un sorriso timido. “Beh, non il cameriere… ma immagino che questo lo avessi già intuito”.
Kariya annuì. L’uomo sospirò e si grattò la nuca, visibilmente in imbarazzo, ma Kariya sapeva che questa volta non si sarebbe tirato indietro… perché gliel’aveva promesso.
“Il venerdì e il sabato mi esibisco, mentre il resto dei giorni solitamente mi alleno”.
Kariya aggrottò le sopracciglia. “Allenarti per cosa? Cioè, cosa fai?”
“Sono un ballerino,” gli rispose suo padre. “E canto pure, anche se in questa stagione è abbastanza difficile mantenere un tono di voce limpido e devo fare un sacco di esercizi anche solo per tenerla in riga”. Per un attimo, sembrò porsi sulla difensiva, forse perché aveva intuito quanto poteva suonare strano. “So che non sembra, ma c’è molto lavoro dietro… perciò gli incontri con gli altri ragazzi sono molto importanti per me”.
Masaki ci pensò. Non ne sapeva tantissimo. Ma di certo le spiegazioni di Midorikawa avrebbero colmato la maggior parte delle sue perplessità. “Chi sono questi altri?” chiese, prendendo un sorso di tè.
A quella domanda, l’uomo sorrise. “Sono i miei colleghi. E la mia famiglia. Alcuni lavorano con me al minimarket”.
“Li ho mai visti?” chiese Kariya, anche se sapeva già la risposta.
Midorikawa infatti scosse la testa. “No,” mormorò.
“Posso incontrarli?” chiese.
L’adulto lo guardò sorpreso, come se non si aspettasse una domanda simile. “Vorresti?”
Kariya fece spallucce. “Hai detto che è la tua famiglia, no? Sono solo curioso”.
Midorikawa annuì. “Lo capisco. Non c’è nessun problema, allora. Un giorno di questi, potrei portarti con me agli allenamenti… ma non puoi avere accesso al locale, spero sia chiaro”.
Masaki annuì lentamente. Sapeva che anche lui aveva qualcosa da confessare, in particolare cosa ci facesse nel quartiere a luci rosse e come fosse arrivato ad ottenere quel volantino, ma suo padre non sembrava intenzionato a mettergli pressione e del resto avrebbero avuto ampio tempo per discuterne più avanti.
Poi un pensiero lo colpì, e arrossì imbarazzato. “Anche Hiroto-sama… insomma…”
Midorikawa scosse la testa. “No, Hiroto-sama da quello che so è solo il tuo insegnante,” gli rispose. A Kariya non sfuggì il modo in cui si morse il labbro, titubante, come se si stesse pentendo amaramente di qualcosa. Poi aggiunse, quasi sottovoce: “Beh, non è solo il tuo insegnante, a essere precisi…”
Kariya sbatté le palpebre. In un certo senso, non era sorpreso: forse aveva capito che c’era qualcosa sotto ben prima che tutto ciò avvenisse. Però... Però
Era proprio necessario?” borbottò, contenendo a stento l’irritazione. “Cioè… davvero? Il mio insegnante di scienze? Tra tutti?”
Midorikawa arrossì, ma non riuscì a contenere una risatina. “Andiamo… una materia in meno per cui preoccuparsi, no?”
“In che sens-… Oh…” Kariya, dopo un attimo di confusione, parve realizzare, ma questo non bastò a contenere la sua indignazione. “Ma io in scienze vado bene! A che mi serve! Come faccio con le altre?!”
Midorikawa incrociò le braccia. “Non puoi davvero aspettarti che ti dica tutto quello che devi fare, dovrai affinare le tue tecniche come tutti quanti,” Fece una pausa, come se si fosse reso conto di qualcosa. “Ok, per prima cosa, studia”.
Kariya sospirò, rassegnato. Passò qualche secondo prima che tornasse a parlare. “Lui sa già tutto, vero?” mormorò. Midorikawa annuì, l’espressione un po’ contrita, forse dal rimorso. “È successo un po’ per caso. Volevamo entrambi aiutarti e abbiamo unito le forze… il resto è venuto da sé. Se non fosse venuto al mio locale quella sera e avesse scoperto tutto quanto... le cose sarebbero andate diversamente, immagino. Beh, non per te… Credo che a quel punto Hiroto avesse preso la questione molto a cuore, nonostante tutto”. Sorrise, come se si fosse ricordato qualcosa. “In un certo senso, siete molto simili…”
Kariya alzò gli occhi al cielo. “Ne parli come se foste insieme da tre anni,” si lamentò. “Ti prego, dimmi che non mi aspetta veramente questa tortura”.
“E invece stiamo insieme,” rise Midorikawa, per poi ammutolire. “Beh, a essere sinceri, è giusto che tu possa esprimerti a riguardo. E se ti crea dei problemi… possiamo trovare una soluzione. Non sei costretto a…”
“Accettarlo? Ti prego,” sbuffò Kariya, con fare lagnoso. “Non sono più un bambino, lo hai detto tu, posso sopportarlo”.
Midorikawa sorrise, stavolta dolcemente. “No, non lo sei”.
Il ragazzino sviò il suo sguardo, imbarazzato. Non si sarebbe mai abituato a tutto quell’affetto e probabilmente non avrebbe mai dimenticato quelle parole. Per quanto si sentisse compiaciuto dal fatto che suo padre riuscisse a riconoscerlo come un suo pari, la cosa lo lasciava ancora un po’ interdetto. Sapeva di non essere un uomo. E forse una parte di lui era ben consapevole di quanto certe sue uscite dovessero suonare ridicole alle orecchie di qualcuno con il doppio dei suoi anni. Arrossì, sentendosi particolarmente sciocco: ci fosse stato Hikaru al suo fianco, probabilmente gli avrebbe tenuto la mano e in qualche maniera sarebbe riuscito ad elaborare meglio ciò che sentiva, ma l’unica cosa che poteva fare in quel momento era… chiedere. “Papà, prima ti ho detto che… mi piace Hikaru. Ma non lo so davvero, non ne sono certo, io… come faccio a capire se sono davvero gay?” mormorò.
“Fossi in te non mi preoccuperei di questo,” gli sorrise suo padre. “Sei molto giovane. Avrai tutto il tempo per farti domande e ottenere le risposte che cerchi”.
Kariya alzò appena gli occhi dalla tazza. “Quindi non sono gay… se mi piace Hikaru?”
“Se ti piace Hikaru, ti piace Hikaru,” gli rispose Midorikawa, serafico.
A quel punto, il ragazzo aggrottò le sopracciglia. “Che risposta sarebbe?”
Midorikawa scosse il capo, come se anche lui stesse cercando le parole giuste da dire. E le trovò. “Quella che ti vorrebbe suggerire che le persone da cui siamo attratti nella nostra vita… non necessariamente si possono far rientrare in compartimenti standard,” spiegò, “Possiamo notare una tendenza, certo, riconoscere delle preferenze, osservare dei tratti in comune… ma tutto ciò che sai, ora, è che ti piace Hikaru, e basta. Non c’è niente di male,” Gli sorrise, portandosi la mano alla testa e picchiettandola leggermente. “Non metterti fretta, Kariya. Dico sul serio. Hai tutte le carte in regola per capire cosa sei e cosa diventerai… tutte qui dentro”.
Quelle parole lo sorpresero. “… Quindi è ok… se ora non ci capisco niente?”
“Mi stupirei del contrario, a essere sinceri,” gli rispose Midorikawa.
“E tu, quando lo hai capito?”
L’uomo fece spallucce, “Non ricordo,” osservò, “In un certo senso, l’ho sempre saputo”.
Kariya aggrottò le sopracciglia, e borbottò: “Questo non mi aiuta”.
Dalle labbra di Midorikawa riaffiorò una risata leggera. “Ti sarà tutto più chiaro quando arriverà il momento. Capirai cosa intendo dire. È così per tutti,” lo rassicurò. “E tutti trovano in quel momento il conforto di cui hanno bisogno. Però, Kariya…”
Il ragazzo alzò lo sguardo e vide che Midorikawa aveva allungato il braccio sul tavolo. Avvicinò la mano e suo padre la prese tra le sue. Era gelida e sottile e il ragazzino rabbrividì a quel contatto. Guardò suo padre negli occhi.
“Nel frattempo, io sarò qui per te… a ricordarti che non sei sbagliato. Non lo sei mai stato. Neanche per un istante”.
Kariya annuì lentamente. Non sapeva se fosse più il sonno o il suo stomaco in subbuglio a fargli vedere Midorikawa sotto una luce strana, sconosciuta ed eterea. A Kariya spaventò la facilità con credette a quelle parole, per la prima volta senza l’ombra del dubbio e della commiserazione.
Kariya aveva tante domande, certo. Ma senza più nessuna parola per esprimerle.
Andava bene così.
Forse per la prima volta, e non sarebbe stata ultima, Kariya si affidò alle braccia di suo padre, tese per lui fin dal primo istante. Non le avrebbe lasciate mai più.

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Capitolo 39
*** thirtyeight ***


ombrelli sotto la pioggia
La loro casa era calda e sapeva di pulito. Kariya avrebbe imparato a riconoscerne il tipico odore di tè alle erbe solo qualche anno più tardi, quando avrebbe iniziato l’università e sarebbe tornato a casa solo nei fine settimana, nostalgico al punto da desiderare quel torpore malinconico e dolceamaro anche nei momenti in cui non ne sentiva davvero il bisogno.
Vedere suo padre di fronte a lui sorridere, con quell’accenno di rughe attorno alle labbra e agli angoli degli occhi, forse rientrava a pieno diritto nelle cose che gli portavano più serenità in assoluto. Kariya arrossì al pensiero e nascose il viso nella sciarpa. “Tutto bene?” gli chiese Hikaru con un sorriso. “Dimenticato niente?”
“No,” borbottò lui evasivo, distogliendo lo sguardo da Midorikawa e Hiroto. Certo, era bello vedere suo padre così felice, ma la presenza del suo insegnante rendeva tutto più imbarazzante. Non si era ancora abituato a vederlo entrare in casa con quel suo sorriso smagliante, salutare Ryuuji con un bacio e stringerlo per la vita con tanta disinvoltura, come se fossero insieme già da anni. Erano rimasti lì per un po’, a dondolare come due stupidi, per poi scoppiare a ridere come bambini e inciampare i piedi sulle rispettive scarpe. Una scena caotica che aveva del paradossale. Hiroto era entrato nelle loro vite da due settimane e Kariya già non ne poteva più.
Si girò verso Hikaru, ancora sulla soglia della porta, lui e il suo ridicolo berretto giallo. Hiroto era stato gentile ad accompagnarlo, se non altro perché almeno lo avrebbe tolto dall’imbarazzo di assistere quella scena. “Andiamo intanto,” si lagnò, superandolo e iniziando a scendere i gradini a due a due. “Non voglio rischiare di perdere il countdown per questi due vecchiacci”.
“È presto,” ridacchiò il ragazzino, seguendolo. “Ma capisco cosa intendi dire”.
“No che non puoi capire, non ci devi avere a che fare tutti i santi giorni”.
Hikaru lo raggiunse e gli prese la mano prima che potesse ruzzolare giù dal pianerottolo. “Sono innamorati,” gli sorrise, “È una cosa bella”.
Kariya lo guardò di sottecchi ma non disse niente, prendendo a camminare più spedito non appena uscirono dal cancello. “Non so se mi conviene presentarlo a Kyosuke, avrà quell’espressione da ebete per tutta la sera”.
Hikaru fece spallucce. “Non penso che a Kyosuke importi davvero qualcosa di tuo padre,” rispose.
Il ragazzino ovviamente aveva ragione e Kariya si sorprese del proprio disappunto, quasi Kyosuke gli stesse facendo un torto personale. “Beh, comunque sia, se avrà qualcosa da dire dovrà prima vedersela con me”.
Hikaru ridacchiò e lo prese sottobraccio. Era felice e spensierato come mai lo aveva visto. “Allora è meglio che si guardi le spalle, dico bene?”
“Non prendermi in giro,” sbuffò Kariya, ma doveva ammettere di sentirsi ridicolo.
Camminarono insieme fino al tempio, Ryuuji e Hiroto appena dietro di loro. In lontananza si potevano già sentire i cori dei festeggiamenti e qualcuno aveva già acceso qualche fuoco d’artificio. Il loro respiro si condensava di fronte ai loro occhi, annebbiandogli la vista.
“Hai già pensato al tuo desiderio?” chiese Hikaru.
“Anche se fosse, non potrei dirtelo,” rispose Kariya. “O non si avvererebbe”.
Il ragazzo lo attirò leggermente verso di sé, le loro braccia ancora intrecciate. Masaki aveva affondato le mani nelle tasche, perché in realtà si era dimenticato i guanti. Poteva quasi sentire il respiro di Hikaru infrangersi leggermente contro la sua pelle della sua guancia. Anche se avevano parlato a lungo, Kariya non riusciva ancora a credere che il loro rapporto si fosse evoluto così tanto in sole due settimane. Hikaru sembrava molto cauto, intimorito quanto lui da un’esperienza per loro nuova e in un certo senso prematura, ma Kariya si era più volte ritrovato a cercare le sue dita con le proprie, a giocare con qualche suo ricciolo ribelle, a spostarglielo dalla fronte con una carezza. Era una sensazione che non aveva mai provato prima d’ora: per quanto a volte si sforzasse di negarlo a se stesso, cercava Hikaru costantemente, perché si era accorto quanto la sua presenza lo stesse cambiando. Quanto lo rendesse felice. E quanto trattenersi con lui fosse difficile, ma doveroso, specialmente quando erano a scuola o davanti ai loro amici.
Distinguere la sagoma di Kyosuke che li attendeva all’entrata del tempio, mano in tasca e occhi sul cellulare, gli fece capire quanto la cosa lo facesse realmente soffrire. Hikaru si divincolò dalla sua stretta con un sorriso mesto, e gli diede una pacca dietro la schiena, intuendo che era arrivato il momento di assecondare le apparenze… Kariya aveva intuito già da tempo che lo faceva soprattutto per lui. Ma non era ancora sicuro se gli stesse bene o meno.
“Ohi,” li accolse Kyosuke non appena gli arrivarono davanti. “Mi spiegate perché sono quello che vive più lontano di tutti ma sono stato il primo ad arrivare?”
Kariya aprì bocca per insultarlo, ma fu preceduto dalla voce allegra di suo padre. Sussultò, perché non si era nemmeno accorto che lui e Kira li avessero raggiunti. “Credo sia colpa mia, eheh”.
Kariya buttò un’occhiataccia in sua direzione. Midorikawa teneva il loro professore per mano con naturalezza disarmante e stava sorridendo a Kyosuke come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo.
Però doveva ammettere che non aveva mai visto Kyosuke fare una faccia simile e persino Hikaru doveva aver pensato a qualcosa del genere, perché si mise a ridacchiare nervosamente.
“Tsurugi-san,” lo salutò Kira in tono affabile.
“Kira-sama…” si inchinò Kyosuke, allibito. Poi si voltò verso Kariya, incerto sul da farsi. “Andiamo,” sbottò a un certo punto, trascinandoselo dietro per il cappuccio.
“Non volete aspettare Endou-san?” chiese Midorikawa e Kyosuke si girò verso di loro con fare interrogativo.
“Chi è Endou-san?” chiese, infatti.
“L’allenatore della Raimon, dovresti saperlo,” rispose Kariya, divincolandosi dalla sua stretta. “Ci eravamo dati appuntamento di fronte al tempio”.
“E perché non è qui?” brontolò l’altro, “Io volevo andare a prendere l’amuleto. C’è già la ressa!”
Kariya sbatté gli occhi, non immaginando che Kyosuke potesse essere il tipo da badare a convenzioni sociali così astruse. Il fatto che indossasse un abito tradizionale avrebbe dovuto essere un indizio più che eloquente: se lo appuntò nella mente per la prossima volta che avrebbe provato a comprendere quello stranissimo ragazzino. Kyosuke sembrò notare la perplessità nel suo volto e arrossì: “Me l’ha chiesto mio fratello, che ti credi?”
“Perché non è qui? Avremmo tanto voluto conoscerlo,” intervenne Hikaru con il tatto che Kariya poteva solo invidiargli.
Kyosuke sembrò vacillare, insicuro su cosa dire. “Beh…”
Furono interrotti da un grido allegro proveniente dalle porte del tempio. Si girarono (e un po’ tutti i presenti con loro) verso la strada, nella direzione da cui stava arrivando Endou-sama, accompagnato da due uomini che Kariya non avevo mai visto. Hikaru lo salutò allegramente, Kariya si limitò a rivolgergli un cenno imbarazzato.
Minna!” ripeté il loro allenatore, sorridendo. “Scusate il ritardo!”
“Ciao Reize,” salutò uno degli sconosciuti che lo accompagnavano, stringendo suo padre in un abbraccio quasi fraterno.
Hiroto si avvicinò ad Endou e gli appoggiò una mano sulla spalla, “Avete trovato traffico?”
Endou arrossì, massaggiandosi la nuca con fare imbarazzato. “Dovevo andare a prendere i miei fidanzati. E la mia smart si è… tipo… kaput. Insomma, sì. Proprio un pa-chooom. Sai com’è”
Kariya non aveva mai visto il suo insegnante tanto confuso. “Kaput…? Pa-choom…? Fidanzati…?”
“È solo che non sa guidare,” borbottò l’uomo alla sua destra, gli enormi occhiali verdi a coprirli gran parte del viso e i capelli raccolti accuratamente in delle trecce spesse quanto il suo polso. “Ma è troppo orgoglioso per ammetterlo, altrimenti saremmo venuti con la mia macchina”.
“La smart è comoda da parcheggiare, con la tua non bastano due piazze,” protestò Endou, cingendogli le spalle in un gesto troppo intimo perché fosse davvero arrabbiato. Kariya ormai aveva capito che era davvero difficile trovare qualcosa che turbasse il loro allenatore, ma qualcosa in quella interazione lo colpì particolarmente. Non aveva idea del perché quelle persone fossero venute dal distretto di Inazuma fin lì, ma suo padre fu presto di aiuto.
“Kariya, avevi detto che avresti voluto incontrare le Muse,” spiegò Midorikawa, “Loro sono Gouenji Shuuya e Kidou Yuuto. Rispettivamente la Quarta e la Quinta Musa. Il loro ragazzo… beh lo conoscete già.”
Kariya avrebbe voluto dire “piacere mio”, ma le sue buone intenzioni vennero facilmente coperte dai gridi di stupore attorno a lui. Kariya si girò verso Hikaru e Hiroto, infastidito. Forse perché Midorikawa gli aveva già anticipato qualcosa, ma non condivideva la loro reazione. “Ma che c’è?” borbottò all’orecchio di Hikaru, che fissava il trio come se avesse visto un fantasma. “Ok, non è una cosa così comune, ma non mi sembra che…”
“Gouenji Shuuya?!” balbettò il ragazzino, interrompendolo, “quel Gouenji Shuuya?!”
Kariya si girò verso l’uomo alla sinistra di Endou, un tipo stravagante dall’accecante cappotto rosso e l’aria pacata. Portava i capelli biondi sciolti lungo le spalle e all’orecchio brillavano due improbabili orecchini, ma il suo aspetto non gli diceva nulla di che.
“Non dirmi che non conosci… Gouenji Shuuya!” sussurrò Hikaru con voce appena tremante dall’emozione.
Lo sconosciuto tossicchiò, imbarazzato ma in qualche modo consapevole di qualunque cosa stesse implicando il ragazzino. “Sì, sono io,” rispose piano, assottigliando gli occhi scuri in un sorriso mesto.
Hikaru strinse i pugnetti, ammirato. “Giochi ancora a calcio?”
Ma chi è?” sibilò Kariya, e fu prontamente ignorato.
“No, mi sono ritirato da diversi anni ormai” gli spiegò Gouenji, “Ho una certa età”.
Endou gli picchiettò sul petto, ghignando orgoglioso. “Non sottovalutatelo, è ancora il bomber di fuoco,” esclamò, “Poi più tardi potremmo fare due tiri”.
!” strillò Hikaru, concitatissimo all’idea di vedere all’azione uno dei suoi idoli.
Kariya non aveva ancora capito chi fosse questo Gouenji Shuuya, ma era contento per lui.
Hiroto si rivolse a Ryuuji: “Quindi conoscevi già Endou Mamoru?” gli domandò, esterrefatto. Lui annuì: “Diciamo di sì, anche se conosco meglio Gouenji e Kidou-san. Sono stati loro a suggerirmi di iscrivere Kariya alla Raimon”.
“Davvero?” chiese Kariya, scoprendo tutto ad un tratto che doveva alle Muse più di quanto pensasse. Se non fosse andato alla Raimon non avrebbe conosciuto Kyosuke, o Endou. Né Kirino. E nemmeno Hikaru.
Kidou si limitò ad annuire e ad osservarli in silenzio. Era difficile capire dove si stesse posando il suo sguardo. “Mi fa piacere abbiate fatto amicizia,” disse solo, e a Kariya sembrò una frase molto strana, ma Hikaru non parve cogliere quanto quelle parole suonassero ambigue.
Invece, si voltò verso Kariya, visibilmente di buon umore di fronte alle ottime prospettive di quella serata particolare. “Andiamo a prendere gli amuleti per il fratello di Tsurugi-san!” esclamò.
“Sì,” mormorò Kariya, confuso. Buttò un’occhiata di sfuggita allo strano trio, per poi seguire Kyosuke e Hikaru e farsi largo tra la folla.
Forse era vero che certe cose non andavano lasciate al caso, perché non avrebbe saputo cosa farne.

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Capitolo 40
*** thirtynine - END ***


Arrivarono alla bancarella quando la maggior parte degli amuleti era già stata venduta. Kariya giocherellò con le monete che Ryuuji gli aveva dato prima di uscire e che ora rotolavano dentro la tasca del suo giubbotto tintinnando appena al suo tocco. I suoi occhi si posarono incerti su quel poco che era rimasto, perlopiù portafortuna per i viaggiatori e nastrini di preghiere per un parto sicuro. Kyosuke brontolò un po’, ma non si perse d’animo e iniziò a cercare con una pazienza che non gli apparteneva realmente.
“Pare che per l’amore non sia rimasto niente, che peccato” osservò Kira al suo fianco. Kariya gli buttò un’occhiata di sbieco, imbarazzato dal fatto che il primo pensiero del suo insegnante fosse stato qualcosa del genere… ma doveva ammettere che era la prima cosa che aveva notato.
“Io prendo questo, per la mia nonnina,” cinguettò Hikaru pescando dal mucchio un auspicio per una pronta guarigione. Kariya osservò i pochi amuleti che erano ancora rimasti e lesse distrattamente le formule, rigirandoli tra le mani nervosamente. Non sapeva se avrebbe preso qualcosa. Per la verità, non gli importava, ma segretamente sperava di poter prendere qualcosa per Hikaru.
Lasciò che Hiroto lo guardasse in silenzio.
 
Quando Afuro passò a distribuire le birre, fresche di minifrigo e tenute precariamente tra le braccia, Kariya pensò che avrebbe voluto dimenticarsi di avere solo quattordici anni. Aveva davvero l’impressione che l’uomo gli avrebbe dato una lattina senza pensarci troppo su se non avesse notato il suo atteggiamento imbarazzato. Gli allungò la lattina, poi la ritrasse, indeciso. Kariya lo guardò negli occhi rossi per attimi interminabili, e capì che era confuso.
Reize,” gridò infine a suo padre, che stava da tutta un’altra parte. “Posso dargli una birra, vero?”
“Certo che no,” fu l’ovvia risposta, “ha quattordici anni”.
Kariya si sporse dal suo posto per scoccare un’occhiata infuriata a Midorikawa, maledicendosi quando lo vide abbarbicato contro il braccio di Hiroto. Si ritrasse subito.
“Non preoccuparti,” gli sussurrò Afuro chinandosi su di lui, i lunghi capelli davanti alla faccia. “Dopo ti faccio avere un sorso lo stesso”.
Kariya decise che il migliore amico di suo padre era proprio un tipo simpatico.
Suo padre non era dello stesso avviso. “Aphrodi,” lo ammonì, perché probabilmente lo aveva sentito pure da laggiù.
“Ma dai, è Capodanno!” protestò la Musa, però continuò con il suo giro senza insistere. Kariya sospirò e Kyosuke gli sorrise beffardo, quasi volesse prendersi gioco della sua disgrazia. Hikaru scosse la testa.
“Allora, siamo pronti?” esclamò la voce di Endou, in piedi davanti a loro e le braccia incrociate. “Posso iniziare a sfoggiare il mio futuro marito come si deve?”
“Ma smettila,” bofonchiò qualcuno, però Kariya non avrebbe saputo dire chi, perché ancora non conosceva quasi nessuna delle Muse. Dopo la cerimonia dei 108 rintocchi, si erano riuniti tutti in un parchetto vicino al tempio e Kariya aveva notato delle facce nuove, ma nessuno si era ancora presentato perché tutti gli occhi erano puntati sul suo allenatore e questo fantomatico Gouenji Shuuya.
Kariya avrebbe potuto cercarlo su internet, ma non aveva voglia. Per la verità lo sguardo sognante che Hikaru gli aveva rivolto per tutta la serata era già abbastanza da dargli sui nervi: nessuno al mondo, per quanto capace, meritava davvero un’adorazione simile, e qualsiasi cosa avesse fatto quella sera non avrebbe reso la situazione meno ridicola.
“Capirai di cosa parlo quando lo vedrai,” lo rassicurò Hikaru, ridotto a quel punto a un fagottino di eccitazione pronto a scoppiare come un petardo.
Kariya si sistemò meglio sugli scalini di cemento che erano diventati gli spalti improvvisati di quell’assurdo teatrino (c’era qualcuno che si era dovuto sedere sull’erba, perciò non poteva realmente lamentarsi). Rimase a guardare mentre Gouenji si sistemava i capelli in una coda bassa e si toglieva il cappotto, rivelando che al di sotto portava un non meno scomodo completo elegante.
“Si strapperà il cavallo dei pantaloni, vedrai,” mormorò Tsurugi al suo orecchio con fare maligno, ma tradendo una nota di curiosità.
Gouenji era un tipo silenzioso, ma fu in quel momento che Kariya realizzò quanto fosse apparentemente imperturbabile. Non gli importava di avere tanti occhi su di sé; non sembrava nemmeno preoccupato di fallire, o fare una figuraccia di fronte a tutti. Kariya dovette ammettere che invidiava quella sicurezza, e in un certo senso lo faceva sentire a disagio, come se non fosse all’altezza di assistere a qualunque cosa stesse succedendo.
Gouenji si allontanò da Endou, tanto da coprire la distanza di una metà campo.
Ci fu uno strano silenzio.
“Quando vuoi!” esclamò Endou, battendo furiosamente le mani.
Gouenji sorrise e aprì le braccia. Kariya fu abbagliato da una luce intensa, e per un attimo si chiese se non fosse un fuoco d’artificio acceso nelle vicinanze; ma sembrava piuttosto provenire da una sfera al di sopra della testa di Gouenji.
Hikaru gli arpionò il braccio e lo scosse leggermente. “Last resort!”
“Che?” gli chiese confuso, temendo il momento in cui si sarebbe girato verso di lui e avrebbe perso anche solo il minimo dettaglio di quella tecnica.
Ora doveva ammetterlo: era curioso. E la curiosità si trasformò in fascinazione quando Gouenji si librò in aria e con la punta del piede diresse la sfera verso terra. Con la gamba sinistra disegnò un ampio arco per fermarla a mezz’aria.
“È come se ci fossero più Gouenji,” osservò Kyosuke, malgrado tutto incantato quanto lui. Ma a colpire Kariya era stata piuttosto la gestualità del tiro, così elegante e senza peso, quasi fosse stato un rituale. Quell’apparente delicatezza, così misurata e armoniosa, lasciò spazio alla potenza di un tiro che non avrebbe definito in altri modi se non draconico: Kariya osservò la traiettoria del pallone e trattenne il respiro anche dopo che andò a scagliarsi contro il muro dal lato opposto del parcheggio. Gli sembrò quasi che il ruggito di un drago stesse morendo con esso.
Endou non aveva mosso dito. Il pallone si sgonfiò istantaneamente e scivolò a terra con un tonfo sordo.
Kariya tornò a respirare, ma non disse una parola, mentre attorno a lui le muse applaudivano. Non era la prima volta che vedevano quella tecnica e sicuramente non sarebbe stata l’ultima. Eppure non aveva lasciato nessuno indifferente: sebbene Hikaru la conoscesse già, sembrava sull’orlo delle lacrime. “È bellissimo,” piagnucolò, “Vederlo dal vivo… non so… è così bello…”
“Sembrava una ballerina,” lo motteggiò Kyosuke.
Kariya si voltò verso di lui e nemmeno si accorse di star parlando. “E allora?”
Kyosuke lo guardò sorpreso, come se non se lo aspettasse, e nemmeno lui avrebbe potuto spiegarsi da dove avesse tirato fuori il coraggio di dire una cosa del genere, ma Hikaru fu pronto a spalleggiarlo. “Già, è proprio per il fatto che si muova in maniera così aggraziata che rende il tiro così bello, e comunque non per questo è meno potente”.
Kyosuke sbatté le palpebre, forse poco abituato a essere punto così sul vivo, ma Kariya capì subito che non era rimasto offeso. “Sì, può darsi,” ammise. “Non ci avevo pensato… e comunque sì, è molto bello”.
Hikaru sembrò sorpreso quanto lui di vedere Kyosuke così remissivo. “Già… bello…” ripeté per l’ennesima volta, come se non concepisse l’esistenza di altri aggettivi.  
“Peccato per la palla,” intervenne Endou. I ragazzini si girarono verso l’allenatore per incontrare ancora una volta il suo sorriso entusiasta, mentre Gouenji alle sue spalle si avvicinava sistemandosi i capelli, quasi imperturbato. “Potevamo fare una partita”.
“È quasi mezzanotte,” osservò serafico Kidou, raggiungendoli. “Non ho rinunciato all’invito di Haruna per vederti giocare a calcio anche a Capodanno”.
Kariya poteva capire dalla risata di Endou che l’uomo non fosse davvero risentito come diceva, ma rimase a guardarli in silenzio mentre si ricongiungevano e tornavano a parlare tra di loro come se niente fosse successo. Anche il resto del gruppo tornò a sorseggiare la birra fredda e a chiacchierare, immersi in conversazioni noiose.
“Tutto bene?” chiese Hikaru, notando come fosse assorto nei suoi pensieri.
“Sì,” rispose onestamente Kariya. “Non… non me l’aspettavo così”.
Hikaru gli sorrise. Kariya si voltò verso di lui imbarazzato, incrociando il suo sguardo gioioso e ottimista. “Sono sicuro che anche tu arriverai a creare una tecnica così, senpai!”
“Io sono un difensore,” borbottò lui, arrossendo. “E non chiamarmi senpai!”
“Non deve essere per forza un tiro,” osservò Hikaru. Lo guardò per qualche istante: “Un momento, questo lo sai già, non serve che te lo dica…”
Kariya si strofinò il naso, borbottando qualcosa di incomprensibile. Quando Hikaru aggrottò le sopracciglia, incuriosito, decise che non se lo sarebbe potuto tenere dentro ancora per molto. “In realtà… ho parlato con Kirino,” confessò, ricordandosi vagamente di una conversazione avuta negli spogliatoi. La nebbia nasconde. Gli era sembrata una promessa valida quanto rassicurante, anche se forse non era più necessaria. “Stiamo cercando di combinare le nostre tecniche”.
Hikaru prese fiato e sgranò gli occhi, sorpreso. “Hai fatto pace con Kirino?! Quando avevi intenzione di dirmelo?!” quasi urlò.
“Non ho fatto pace con Kirino, lo facciamo per esclusivo interesse della squadra,” puntualizzò, quasi solenne. Esitò un po’, quasi imbarazzato. “Però, sì, diciamo che le cose tra di noi stanno andando un po’ meglio”. Lo irritava ancora quel suo modo di fare, così altezzoso e arrogante, quanto segretamente detestava la puntigliosità del loro capitano. Ma aveva deciso che non gli importava, non più perlomeno.
“Questo è lo spirito giusto!” esclamò Hikaru, ridendo, e inaspettatamente gli saltò al collo. Kariya rimase immobile, senza sapere dove appoggiare le mani, se ricambiare l’abbraccio o respingerlo… erano pur sempre di fronte a Kyosuke. Intimidito, lo guardò da dietro la massa informe dei capelli di Hikaru.
Kyosuke stava ridendo, scuotendo la testa. Non era una risata cattiva, né beffarda. Solo una risata. E Kariya seppe da quella che aveva trovato degli amici. Aveva trovato una famiglia.
Sorrise, davvero e forse per la prima volta, sentendo un pizzicore all’altezza degli occhi. Avvolse le braccia attorno al corpo di Hikaru e lo strinse a sé.
Sarebbe iniziato un nuovo anno.
 
 
ombrelli sotto la pioggia
FINE

 
 
 
>>> grazie a tutti per aver letto "ombrelli sotto la pioggia" :) mi rendo conto di aver tralasciato alcune cose, quindi se avete domande, perplessità o qualche curiosità a riguardo, chiedete pure! possiamo parlare con più tranquillità sul mio profilo twitter! in qualsiasi caso, buon anno a tutti voi! vi voglio bene~
fay

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