No Longer Flawless, but still human

di Eneri_Mess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio - When Dazai says trust me ***
Capitolo 2: *** Falling Camellia Blues ***
Capitolo 3: *** The Lawbringer ***
Capitolo 4: *** A dog with its tail between legs ***
Capitolo 5: *** Divide et Impera ***
Capitolo 6: *** Truth O'Clock (Parte 1) ***
Capitolo 7: *** Truth O'Clock (Parte 2) ***
Capitolo 8: *** The sky is falling apart (Parte 1) ***
Capitolo 9: *** The sky is falling apart (Parte 2) ***
Capitolo 10: *** Untold Story ***
Capitolo 11: *** Crawling in the past ***
Capitolo 12: *** The Room of Madness ***
Capitolo 13: *** For The Tainted Sorrow vs Flawless ***
Capitolo 14: *** Rolling in the deep ***
Capitolo 15: *** Miscalculation ***
Capitolo 16: *** In Vino et Whiskey Veritas ***
Capitolo 17: *** The demons we are made of ***
Capitolo 18: *** When Our Worlds Collide (Parte 1) ***
Capitolo 19: *** When Our Worlds Collide (Parte 2) ***
Capitolo 20: *** When Our Worlds Collide (Parte 3) ***
Capitolo 21: *** Minutes to Midnight ***
Capitolo 22: *** The Darkest Night (parte 1) ***
Capitolo 23: *** The Darkest Night (parte 2) ***
Capitolo 24: *** You can only trust him ***
Capitolo 25: *** Epilogo - Not the last page ***



Capitolo 1
*** Preludio - When Dazai says trust me ***


cover no longer flawless



PRELUDIO

When Dazai says “Trust me”




 

Let me go and I will run, I will not be silent
All this time spent in vain, wasted years, wasted gain
All is lost, hope remains, and this war's not over
There's a light, there's the sun, taking all shattered ones
To the place we belong, and his love will conquer all
[Shattered - Trading Yesterday]





 

Il cuore di Yokohama era avvolto dall’oscurità. 

Sotto il cielo di sole stelle, i palazzi della Port Mafia erano monoliti neri privi di luce. Il blackout in cui erano immersi era stato l’inizio di una fine preannunciata da settimane, che aveva avuto il suo apice nell'esplosione a uno degli ultimi piani, illuminando per un attimo la scena di quel tetro teatro.

Il fragore con cui i pezzi del palazzo piovvero sulla strada sottostante riempirono l’aria notturna, insieme alle urla di chi aveva ancora abbastanza fiato. Tuttavia, lì dove era, Chuuya non sentì nulla. 

Non sentì il panico negli schiamazzi dei suoi uomini, né il dolore in corpo. Era sospeso oltre il bordo del piano esploso, in balia del vento, svenuto. Due mani erano aggrappate ai suoi vestiti, impedendogli di volare nel vuoto privo di coscienza. 

Le dita di Dazai tremavano, come ogni centimetro del suo corpo, mentre si riempiva i polmoni di grandi boccate d’aria e teneva cementata la presa sul partner. Le cose non erano andate esattamente come aveva pianificato, ma, finché erano vivi, il margine di errore era accettabile. Doveva inventarsi qualcosa di nuovo, ora che tutte le sue strategie erano state annullate da quell’esplosione. Mancava poco. Mancava solo di sistemare la Regina

«Da… zai» rantolò Chuuya con uno spasmo. Gli fischiavano le orecchie. Aprendo gli occhi si rese conto del nulla sotto di sé e constatò la situazione con un tch infastidito. Raggiunse le mani dell’altro, registrandone la rigidità. «Dazai... lasciami andare.»

La presa si fece ancora più serrata, strattonandolo appena. Chuuya lo avrebbe allontanato scalciando, ma così il rischio era di sbilanciarli entrambi. Se fosse stato il solo a cadere non ci sarebbero stati problemi, ma se Dazai fosse andato giù con lui le possibilità di sopravvivenza avrebbero rasentato lo zero. 

«Molla la presa!» abbaiò di nuovo, più forte, più incazzato man mano che ricordava cosa fosse appena successo. La rabbia gli stava scaldando il sangue, oscurando il dolore. Poteva sentire la bestia nel suo corpo sobillare per emergere. Aveva bisogno di mettere le mani intorno al collo del responsabile. 

Al contrario, Dazai, facendo appello a ogni briciola di energia e lucidità, lo tirò su con le proprie forze, finché entrambi non furono sul bordo dell’ex ufficio.

Restarono fermi, l’uno ancora aggrappato all’altro, riprendendo fiato. Chuuya aveva perso il conto del tempo che era passato dall’inizio dell’attacco, ma quella esplosione era stata la goccia che aveva fatto traboccare la sua pazienza. Lo sguardo spaziò i detriti che li circondavano, senza trovare nulla di ancora integro. Il pavimento stesso sembrava rimanere saldo per miracolo. Poi si accorse del dettaglio più importante. 

«Merda

Il fautore di quella Notte Nera era dall’altra parte della stanza, riverso anche lui tra le macerie, e dava segni di ripresa. Chuuya scattò per mettersi in piedi e sfruttare il momento, ma le mani di Dazai, ancora una volta, lo trattennero. Erano entrambi esausti; Chuuya non si rese conto di quanto fosse all’estremo se non proprio dalla presa debole con cui Dazai lo rimise seduto in terra, poggiandogli la fronte sulla spalla. «Aspetta… Non puoi ucciderlo.» 

«Non hai ancora capito che quello ucciderà noi! Non mi suiciderò con te!» sbottò di rimando Chuuya, mentre i suoi tentativi di spingerlo via incontravano la sua resistenza e la sua testardaggine.

Dazai scosse la testa, nonostante il movimento gli provocasse delle fitte lancinanti e stesse cercando di concentrarsi. «Fidati di me. Ho ancora un piano.»

«No, Dazai, basta così!»

Il rumore dei detriti dall’altro lato della stanza fecero battere il cuore di Chuuya più velocemente. La gravità dentro di lui era come un accendino bagnato, aveva bisogno che Dazai lo lasciasse andare. 

«Cristo, levati di dosso!»

Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole. 

«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»

«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!» 

Il loro cacciatore li aveva individuati e stava alzando la pistola col braccio prostetico, in parte distrutto ma ancora funzionante. Oltre al senso di urgenza che Chuuya già provava, iniziò a percepire anche una spiacevole e fredda sensazione, simile alla paura, tendergli i muscoli. Aveva riconosciuto il tipo di pistola. Non era quella a proiettili. 

«Hai ragione» convenne Dazai, dopo una lunga pausa in cui aveva regolarizzato il respiro. «Ma, se il mio piano funziona, ti offrirò il miglior vino che conosci.» 

Chuuya era sul punto di tirargli un pugno, ma si irrigidì e un brivido lo percorse dall’alto verso il basso, quando sentì il fiato caldo del partner direttamente nell’orecchio. 

«Ora però ho bisogno di qualche secondo da solo con lui.»

Chuuya realizzò quando lo decise Dazai, ossia troppo tardi per permettergli di reagire. La mano che l’altro gli stava premendo sul petto si circondò di una famigliare luce azzurrognola, per poi spingerlo indietro, sfruttando, ironicamente, la gravità. Il pavimento del palazzo finì e Chuuya fu solo nel vuoto sotto di sé. 

No Longer Human lo avvolse, impedendogli di rilasciare la propria abilità. Dazai sparì alla vista prima che potesse gridargli contro. 

«Concentrare tutto quel potere è sfiancante, ma abbiamo pochi minuti» spiegò Dazai, rimettendosi in piedi a fatica e cercando un appiglio a cui reggersi. Si voltò, dando le spalle alla notte e al bordo del palazzo a pochi centimetri dai suoi tacchi. Sorrise al suo interlocutore come avrebbe sorriso alla morte. «Se ho calcolato bene i tempi, la mia abilità si dissolverà appena prima che tocchi il suolo. Si farà male, ma tornare qui sarà più forte di lui» proseguì, alzando lentamente le mani a resa mentre fissava il nemico. La maschera che portava era ammaccata, ma ancora integra, non lasciando trasparire alcuna espressione. La sua pistola era alta e, se avesse premuto il grilletto, l’ex detective non avrebbe avuto scampo. Dietro di lui c’era un baratro a cui non sarebbe sopravvissuto. 

Dazai stese le labbra in un’espressione da mediatore, rimarcando le proprie buone intenzioni. «Per te sono tornato a sedermi sulla poltrona da Dirigente della Mafia. Ho fatto in modo che potessi agire e infiltrarti a tuo piacere. Probabilmente sei anche riuscito a uccidere Mori-san. E tutto grazie a me.» Le parole di Dazai calarono di un tono, carezzevoli, come un invito, nonostante quella che seguì fosse una richiesta. «Penso di essermi guadagnato il diritto a un’ultima parola, prima di morire. Posso?»

Ricevette un cenno di assenso.

«Ho una proposta per te.»

 

Il sentimento che venò il grido di Chuuya quando volò verso quel piano del palazzo distrutto, circondato da una gravità così vibrante di collera da far tremare le finestre ancora integre, fu indecifrabile. 

Tuttavia, non poté sfogarlo né contro Dazai né contro il loro nemico.

Di entrambi non c’era più traccia. 



 

To be continued. 





 

A Shiroi_11,
madrina di questa storia.

 

A Ode To Joy,
oggi è il tuo compleanno
e rinnovo una tradizione.

 

A Europa91,
per la fame e l’amore
verso ciò che scrivo.

 

Importante,
al gruppo Bungou Stray Doggos.
per il sostegno e l’entusiasmo
dimostrati a questa storia.





 

Spazio autore 

 

Si ricomincia. 

Sono tornata nell’universo di Bungou Stray Dogs da circa un annetto, riscoprendolo interamente. Quest’opera ha davvero tante, tante potenzialità! 

Spenderò più righe man mano nei capitoli, perché sono logorroica e mi piace chiacchierare nello spazio autore. 

Intanto, una avvertenza: la storia conterrà degli SPOILER inerenti sia ai capitoli del manga (almeno fino al volumetto 18 in Italia e anche qualcosa in più), sia sulle Light Novel, con riferimenti sparsi qua è là. Metterò gli avvertimenti mano a mano se servirà! 

Detto questo, le dediche portano i ringraziamenti affettivi a questa fanfic *love* 

Spero che la copertina vi piaccia :D Il mio wannabe lavoro è nel campo della grafica e adoro perdere tempo a pasticciare con Illustrator per cose mie ~

 

Un ultimo ringraziamento ad Hanekoma, compagna di squadra del Cow-t, che ha proposto il titolo per un progetto e che ho potuto usarlo anche per questa fanfiction *love*

 

A presto!

Pagina autore: Nefelibata ~




Prossimo capitolo → Falling Camelia Blues

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Capitolo 2
*** Falling Camellia Blues ***


Capitolo 1

Falling Camellia Blues




 

I feel like throwing up... everything's so out of place in this world!
Not to mention this foolish addiction to fantasy!
Imagine living in this world, free of delusion -
It's boring, isn't it? So how do you like this wild world we have now?
[Trash Candy - Granrodeo]






 

Diverse settimane prima della Notte Nera.

 

Per la seconda volta, la chiamata fu interrotto dalla segreteria telefonica. 

Hirotsu lasciò cadere in terra la sigaretta consumata e la schiacciò con la suola, osservando lo schermo del cellulare oscurarsi. C’erano solo due motivi per cui un agente della Port Mafia non rispondeva al telefono: o aveva tradito, o era morto. 

Accompagnato da un sospiro, Hirotsu fece un cenno a uno dei propri uomini. Un semplice gesto del capo. Questi entrò nel locale chiassoso davanti cui sostavano per avvertire gli altri membri della loro unità. Lo scompiglio provocato da una decina di uomini che si alzavano dai tavoli, lasciando birre e stuzzichini, non passò del tutto inosservato, nonostante fosse un locale appartenente alla mafia con un gran via vai.

«Ohi vecchio, che accidenti succede?» 

Tachihara uscì per ultimo, portandosi dietro il bicchiere di birra, chiudendo la fila di agenti che si rimettevano la giacca e sistemavano la cravatta. 

Hirotsu rimase in silenzio, contemplando il proprio portasigarette, ma lo ripose in tasca invece di accendersene un’altra. Constatò che la propria unità fosse al completo e iniziò ad avviarsi, rispondendo solo all’ultimo. 

«C’è un lavoro che necessita di essere concluso.»

«Eh?» Tachihara non capì e aggrottò la fronte. «Problemi? Serve-»

Hirotsu lo interruppe con il gesto indolente di una mano e il giovane tornò con un Bah nel locale, ordinando a gran voce una porzione di calamari fritti. 



 

La luna piena dominava la volta notturna. Una sera da whiskey e blues, pensò Hirotsu, fermandosi a osservare la porta chiusa della struttura a cui giunsero. Era uno di quei magazzini da cui si poteva godere la vista della baia, e dove la Port Mafia stava concludendo una vendita minore di armi a una seconda organizzazione. Tuttavia, dall’interno non proveniva nessun suono. 

Sempre tramite gesti misurati, Hirotsu fece in modo di disporre i propri uomini, per poi essere lui stesso ad appoggiare la mano sulla porta. Falling Camellia esplose all’istante in una luce violacea. La porta fu divelta e scagliata all’interno con un fracasso metallico. Gli uomini dell’unità della Black Lizard entrarono con le pistole spianate, puntate a coprire a raggiera tutte le direzioni. 

Non c’era nessuno da cui difendersi. L’attenzione dei presenti cadde sulla decina di uomini a terra, morti. Uomini sia della Port Mafia sia dell’organizzazione alleata, con le espressioni congelate dall’inaspettata ombra della morte, e il cui sangue si mescolava sul pavimento senza distinzioni.

La sorpresa di Hirotsu fu percepibile da appena un lampo nello sguardo. Anni in cui scene simili erano all’ordine del giorno gli avevano insegnato a trattenere per sé le emozioni. I suoi occhi si misero in cerca del minimo movimento, il più flebile respiro, ma sapeva bene che i morti non restituivano speranza. 

Un rumore, troppo netto per essere accidentale, attirò la sua attenzione e quella dei suoi uomini; le canne delle pistole scattarono come segugi che scovano la preda, puntate verso la cima di un container in fondo alla stanza. 

C’erano solo un paio di lampadine esauste che gettavano una luce calda nella zona dove sarebbe dovuto avvenire lo scambio e dove si trovavano loro; il resto del magazzino erano spigoli di casse e carcasse di container che sagomavano l’oscurità circostante. Da questo buio emerse la figura di un uomo. 

Ancora una volta, Hirotsu comunicò coi propri uomini con un gesto, ordinando loro di non sparare, ma restare allerta. In pochi passi si portò in testa, osservando il profilo dell’uomo. 

Era alto, fermo in una postura solo all’apparenza rigida, statuaria, in una sorta di riposo militare. Il viso era coperto da una maschera senza tratti che ne caratterizzassero l’espessione. La sua verniciatura vermiglia e opaca era una macchia di colore che si armonizzava con i toni di quella notte. 

«Rivendichi questo massacro?» chiese Hirotsu pacato, con una sorta di educazione nella voce che celava l’intento omicida, promettendo che qualsiasi fosse stata la risposta, quell’uomo mascherato non sarebbe uscito da quel luogo sulle proprie gambe. 

La replica fu un lento assenso col capo. Senza esitazioni o fronzoli, diretto, arrogante, tendente a una beffa. 

Hirotsu assottigliò lo sguardo e la sua mano alta, che teneva pronti i propri sottoposti, calò come una ghigliottina in un verdetto senza appello. Diede ordine di aprire il fuoco e il magazzino assistette all’ennesima sparatoria. 

All’ennesimo massacro. 

In pochi secondi, senza alcuna poesia, sotto una luna che osservava la scena dalle vetrate rotte sul tetto del magazzino, la prima avanguardia della Port Mafia cadde a terra come le tessere di un domino, uno dopo l’altro, avendo appena il tempo di contrarre i muscoli del viso in un’ultima maschera di stupore e terrore. 

Neanche Hirotsu poté nulla. Pochi, inarrestabili istanti, e fu messo in ginocchio, sconfitto, ma consapevole di essere ancora vivo, di non aver ricevuto lo stesso trattamento dei propri sottoposti. L’uomo con la maschera rossa troneggiò davanti davanti a lui, silenzioso quanto rapida e mortale era stata la sua offensiva. 

«Cosa… vuoi?» 

Le parole uscirono con difficoltà da Hirotsu. Non sarebbe morto, non se avesse avvertito qualcuno di lì a manciate di secondi. Osservare il proprio avversario gli fece capire che quello sarebbe stato il suo compito. Consegnare un messaggio.

Muovendosi senza alcun interesse tra i corpi esamini in terra, come fossero stati giocattoli abbandonati da un bambino, l’uomo con la maschera raggiunse una parete del magazzino e raccolse qualcosa da terra: una bomboletta spray che aveva l’aria di essere stata sistemata lì dall’inizio, passata inosservata rispetto ai cadaveri. Sull’intonaco scrostato del muro, usurato dal tempo e da fori di proiettile di altre trattative finite male, lo sconosciuto tracciò due tratti. Una diagonale dall’alto verso il basso e una dal basso verso l’alto. 

Quando si allontanò, uscendo dal magazzino senza voltarsi, Hirotsu mise a fuoco il messaggio che aveva lasciato. Rivoletti di vernice rossa scendevano lenti verso il basso, due tratti formavano una grossa V. Un’unica lettera come spiegazione a due dozzine di morti in terra. 

Hirotsu si portò tremante il cellulare all’orecchio. Non ascoltò chi gli rispose, ma fece solo quello per cui gli era stato lasciato fiato in corpo. 

«Abbiamo un problema.»



 

* * *



 

«Ahiahiahiahiahi

«Smettila di lamentarti!»

«Come posso se mi stai tirando un ore- AHIA!»

Atsushi si sentiva il solito, silenzioso e imbarazzato spettatore dell’ennesimo siparietto tra Dazai e Kunikida. Fermo con le mani a mezz’aria sulla tastiera del portatile, la giovane Tigre Mannara assistette al teatrino con un sorriso di circostanza e la voglia di alzarsi e uscire, ma sapeva che di lì a poco il tutto sarebbe tornato alla calma e avrebbe dovuto concludere il proprio rapporto. 

Kunikida aveva afferrato Dazai per l’orecchio dopo il suo terzo tentativo di fuga. Tentativo di fuga tramite la finestra del quarto piano. La giustificazione di Dazai era stata Guardate che magnifico pomeriggio di inizio primavera! Il sole è caldo, gli uccellini cantano, sarebbe un peccato non tentare di suicidarsi in questa atmosfera paradisiaca! 

Il tutto era finito con Dazai ributtato a sedere sulla sedia della sua scrivania, le mani a tenersi l’orecchio offeso e un labbro inferiore sporto in avanti come un bambino messo in punizione. Nulla mosse a compassione Kunikida; Atsushi lo osservò con un vago senso di turbamento quando abbatté sulla scrivania del partner una pila di fascicoli alta un metro. 

«Lavora.»

Diretto e conciso. 

«Sei un dittatore, Kunikida-kuuuuun!» si lamentò Dazai un’ultima volta, facendo capolino dal lato libero della pila che ostruiva la vista. Kunikida era già rientrato nella modalità lavoro frenetico e non gli prestò alcuna attenzione.

Anche se Atsushi aveva sulla punta della lingua la voglia di dire qualcosa, se la tenne per sé: avrebbe potuto dare un nuovo appiglio a Dazai per distrarsi e Kunikida se la sarebbe presa anche con lui. Fece quindi finta di nulla, anche se gettò un paio di occhiate curiose mentre il mentore iniziava ad aprire i fascicoli, dava loro una letta e poi li buttava di lato. 

La scrivania divenne presto un casino di fogli sparsi, cartelline reimpilate alla peggio, ma da Dazai non si sentì proferire parola per diversi minuti. A parlare sembrava essere il continuo aggrottarsi della sua fronte ogni tot documenti. 

«Atsushi-kuuuun~» esordì allegro col suo tono stucchevole, facendo trasalire il ragazzo. Aveva diviso dalla pila principale una più piccola, che continuava a risfogliare disordinatamente. «Mi porteresti una cartina di Yokohama?» 

Dopo l’iniziale disorientamento, Atsushi assentì e si alzò. 

Con la cartina spianata sulla scrivania, quello che Dazai iniziò a fare attirò più di uno sguardo. Atsushi era tornato seguito da Kyouka e dai Tanizaki. Kunikida non fu da meno a interessarsi alla situazione, anche se il suo cipiglio settico avanzava un chiaro Smettila di perdere tempo.  

«Kunikida-kun non ti impicciare! Sicuramente avrai cose più importanti a cui badare» cantilenò Dazai, pennarello in una mano, mentre con le dita dell’altra prendeva alcuni dei rapporti. Ricevette uno sbuffo alterato, ma questo non distolse il partner dall’osservarlo a braccia conserte e un’occhiata comunque curiosa, per quanto severa.

Il risultato fu una serie di luoghi cerchiati sulla cartina di Yokohama. Tutti in periferia, tutti distanti tra loro, che scendevano dalla parte Nord, passando ai moli a Est, poi a Sud, fino a risalire dalla zona Ovest. L’ultimo tratto che mise Dazai, però, fu la figura che se ne ricavava: tracciò una curva, unendo tra loro tutti quei posti fino a formare un cerchio. 

«Che cosa significa?» 

Kunikida fu il primo a esprimersi nel silenzio contemplativo generale. Dazai fece spallucce. 

«Immagino nulla, se a uno non piacciono le coincidenze.» 

Il guizzo degli occhi chiari di Kunikida lo esortò a continuare. «Che intendi?»

Con uno dei suoi sorrisetti divertiti dalla situazione, Dazai picchiettò con un dito sui fascicoli che aveva estratto dalla pila principale. «Vorrei sottolineare prima di tutto lo spreco di carta. Dovremmo convertire tutto al digitale. Ma prima che ti alteri» riprese, stirando ancora di più le labbra all’espressione contrita del partner. «Sono per lo più segnalazioni innocue.» 

Dazai prese in mano i fogli, si schiarì la voce e iniziò a leggere scimmiottando un tono serio che ricordava vagamente Kunikida, e che fece scappare un inizio di risata agli altri. 

«Appartamento disabitato con porta sfondata, mobili a soqquadro e distrutti, ma non manca nulla. Atto di vandalismo in un magazzino vuoto e principio di incendio sventato prima di danni seri, nessun ferito. Effrazione in un negozio chiuso da qualche anno… eccetera eccetera.»

«Quale dovrebbe essere la coincidenza?» incalzò Kunikida, col tono di qualcuno che pensa di aver perso tempo. 

Dazai sorrise, anche troppo allegro, abbandonando i fogli e puntando il dito su uno dei cerchietti segnati sulla cartina. Il suo tono cambiò in uno più dolce, sporcato di malizia. 

«Casa sicura per i gradi inferiori della Port Mafia, in caso di problemi con organizzazioni minori» iniziò, per poi spostare il dito al cerchietto successivo. «Magazzino con sotterraneo segreto adibito ad armeria. Non ha mai avuto una gran sicurezza perché lo si usa per lo più come deposito temporaneo per lo stoccaggio di armi di basso-medio valore e trattative veloci.» Di nuovo, seguendo la curva del cerchio più grande si spostò su un altro luogo. «Questo negozio è un avamposto di comodo per scambio di merci dal mercato nero, ma sempre di piccoli affari.»

Una serie di fronti aggrottate stavano fissando Dazai e il suo dito muoversi sulla cartina. Kunikida lo interruppe di nuovo, abbandonando lo scetticismo. «Stai dicendo che sono tutti posti legati alla mafia?»

«Aha. Per lo più di poco utilizzo e valore.»

Il partner afferrò i fogli dei fascicoli, dando loro una sfogliata veloce. «La polizia non ha trovato nulla, nessuna rivendicazioni, nessun oggetto mancante, tracce o...»

«La Port Mafia starà insabbiando gli accaduti. Queste rappresaglie non gli fanno una pubblicità positiva.»

«Dobbiamo andare a controllare.»

Dazai sbuffò, buttandosi contro lo schienale della sedia. «Sarebbe inutile, stancante e tremendamente noioso! La Port Mafia starà usando gli Spazzini, la sua unità per la pulizia profonda dopo casini o omicidi… dovresti chiedere alla polizia di prestarti la scientifica… altre scartoffie!»

«Dazai ha ragione.» 

Sorprendendo tutti, a parlare fu Kyouka, gli occhi fissi sui cerchietti della cartina. «Se la Port Mafia usa gli Spazzini non troveremo nulla. La tattica migliore è aspettare che facciano un passo falso, e allora...» 

Il suo discorso si concluse con un gesto secco: estrasse il proprio pugnale e simulò di conficcarlo in qualcosa. Al suo fianco, Atsushi trasalì, per poi pregarla di mettere via l’arma. 

«A volte dimentico che sei stata nella Mafia anche tu» ridacchia Dazai, per poi tornare a fissare il partner. «Dai retta almeno a lei, visto che non ti fidi di me!» e nel dirlo, fece tornare il suo labbro sporto e imbronciato. Durò il tempo di ricevere uno sbuffante «Va bene. Hai qualche idea in merito?» e Dazai si fece serio, contemplando la cartina. «Potrebbero essere atti di intimidazione di una qualche organizzazione periferica, non sarebbe la prima volta. Sono stati scelti tutti punti distanti dal centro dei traffici veri e più fruttuosi. Oppure...»

La frase, lasciata volutamente in sospeso, e l’espressione meditabonda di Dazai fecero cadere il piccolo pubblico di detective nella trappola del volerne sapere di più. «Oppure…?»

«Guardate meglio! È un cerchio! Potrebbe essere l’inizio di un pentacolo e di sacrifici umani!» 

Kunikida lo zittì con un pugno in testa, riprendendo subito dopo il proprio contegno e dando un’altra occhiata ai fascicoli, in cerca di qualcos’altro. 

«Se non ci sono stati morti non sarà nulla di grave, no…?» intervenne Atsushi, guardando gli altri. 

«Lavare il sangue non è facile» asserì Kyouka. 

«Ma fattibile» rincarò Dazai, picchiettandosi il mento col pollice. «Va bene, ho un’idea. Faccio una telefonata.»

«A chi?» Kunikida lo guardò senza capire, mentre Dazai aveva già incastrato la cornetta del telefono tra l’orecchio e la spalla e digitava un numero a memoria. 

«Alla Port Mafia, no? Chiediamo direttamente a loro se è solo una svista tra bande o se si stanno preparando a un rito satanico.»

Come il pomeriggio era iniziato con un siparietto nella norma tra Kunikida e Dazai, così finì allo stesso modo, con le mani del primo strette intorno al collo del secondo. 

«Come ti viene in mente di chiamare la Port Mafia dal telefono dell’Agenzia!?»




 

Dazai uscì dall’Agenzia con un lungo sospiro di stanchezza, stiracchiandosi in più movimenti che lo fecero scricchiolare. Dietro di lui, Atsushi e Kyouka lo seguivano in un silenzio altrettanto provato dalla giornata. 

Il sole era basso sull’orizzonte, irradiando Yokohama con gli ultimi raggi tiepidi e aranciati del giorno. Nell’aria si respirava già la frescura della sera e della notte in arrivo. Era una delle prime giornate primaverili di quell’anno e il tepore aveva coccolato i sensi intorpiditi dall’inverno uscente. Esclusa la parentesi sui casi sospetti scovati da Dazai, la giornata lavorativa era stata estenuante e ripetitiva nel compilare verbali, e il risultato erano due assonnati Atsushi e Kyouka che discutevano sulla cosa più veloce da cucinare per andare poi a dormire. 

«E chi ha voglia di cucinare» mugugnò Dazai, cercando di rilassare i muscoli del collo, muovendo la testa da un lato all’altro. «Il bello di essere adulti è fermarsi a mangiare in un posto qualsiasi e farsi servire tutto quello che non si ha voglia di cucinare!» E nel dirlo, indicò l’insegna di un locale su uno dei palazzi vicini. La sua espressione furba da piano geniale andò a cozzare con il viso statico di Kyouka e il sospiro sconsolato di Atsushi. 

«Quello è un locale dove si beve...» disse smorzato quest’ultimo, abituato anche a quelle uscite di Dazai sulla via del ritorno. «Kyouka non può entrarci.»

«Non è un problema» disse subito lei, alzando lo sguardo impassibile. «Quando ero nella Port Mafia lavoravo in un bordello nei weekend.»

«Che cosa!?» sbottò sconvolto Atsushi, arrossendo furiosamente. «In un… in un...»

Kyouka alzò le spalle con nonchalance. «Aiutavo al bar riempiendo le lavastogli e ritiravo il bucato.»

«Al Golden Pavillion o al Blue Fox?» chiese Dazai, curioso. 

«Al Rouge.»

«Ah, era ancora in costruzione quando me ne sono andato io, ma lo gestiva sempre Ane-san, quindi immagino che i comfort e gli standard siano gli stessi degli altri due. Sempre divani comodi per dormire?» 

Kyouka annuì. 

«Cucina giapponese e francese?»

Kyouka annuì di nuovo. 

«Sigh… mi è quasi venuta voglia di camuffarmi e imbucarmi, magari una delle ragazze vorrà suicidarsi con me, dopo avermi servito sake e granchio...»

«Basta così!» si intromise Atsushi, poggiando le mani sulle spalle di Kyouka e starnazzando come una chioccia, ancora rosso in faccia. «N-non si parla più di bordelli! Andiamo a casa!» E spinse Kyouka finché non superarono Dazai, che li salutò con la mano. 

Appena i due furono spariti alla vista, Dazai tenne fede alla propria idea ed entrò nel locale che aveva indicato. Si scelse un posto tranquillo, con una finestra da cui si vedeva il mare, e ordinò sia sake sia granchio, facendo due moine alla cameriera, che gli schiacciò le dita col vassoio. Quando fu solo tirò fuori il cellulare. 

Digitò di nuovo un numero a memoria, lo stesso che Kunikida gli aveva impedito di fare in Agenzia. Gli squilli si susseguirono tra di loro, ma nessuno rispose e questo insospettì Dazai. Se un agente della mafia non risponde, o ha tradito, o… pensò, fissando la linea dell’orizzonte dove mare e cielo si incontravano. 

Al secondo tentativo, la chiamata fu accettata. 

«Ehi, Hi-» tentò di dire Dazai nel suo tono gioviale, ma il suo interlocutore lo interruppe sul nascere. 

«Non so chi sei o dove tu abbia preso questo numero, ma dimenticalo e non ti succederà niente.»

La perplessità sbocciò sul viso di Dazai prima che il suo cervello elaborasse. 

«… Chuuya?»

«… aha? Dazai!?»

«Cos’è successo a Hirotsu?» 

Se per un attimo Dazai era rimasto interdetto, la sua postura si raddrizzò e il tono si fece più basso e serio. Il numero che aveva chiamato era di Hirotsu. Se non era lui a rispondere, doveva essere successo qualcosa. 

«Non sono affari tuoi» tagliò corto il suo ex partner.

«È vivo?»

«Sì. Non è messo bene, ma vivrà» sbuffò Chuuya in tono spazientito, senza alcuna voglia di sostenere una conversazione del genere. 

Dazai non lo lasciò continuare. «Qualcuno sta attaccando luoghi minori appartenenti alla Port Mafia. Ho contato dieci incursioni, ma probabilmente qualcuna siete riusciti a coprirla prima, ho ragione?»

«...»

Alla mancanza di replica del proprio ex partner, Dazai stirò le labbra, ma con scarsa soddisfazione. «Cosa sta succedendo?»

Dal ricevitore del telefono, Dazai avvertì Chuuya prendere un lungo respiro. «Sai stronzo, a me è chiaro da quattro anni che tu sei fuori dalla Port Mafia. Mi hai fatto saltare per aria la macchina, hai fatto in modo che nessuno potesse anche solo pensare di prendere il tuo posto e ti sei rifatto una vita all’Agenzia. A te invece è chiaro che non. Sono. Più. Affari. Tuoi?»

«Quando inizi a scandire le cose significa che la faccenda ti sta irritando e non ne hai il controllo. Che significa finirà col peggiorare. È uno scontro tra organizzazioni? Un’altra Testa di Drago nell’aria e Hirotsu ne è stato il messaggero?»

«Fottiti Dazai! Ma perché sto ancora parlando con te!?»

«Ci saranno dei morti.»

«Ci sono dei morti.»

Dazai chiuse gli occhi. Come lui e Kyouka avevano ipotizzato. Spazzini

«Capisco. Mi dispiace» disse ed era sincero. 

«Risparmiatelo e falla finita.» 

Chuuya imprecò di nuovo. Da come la sua voce giunse lontana, Dazai non faticò a immaginarlo sul punto di lanciare il cellulare di Hirotsu contro una parete. «Tra qualche giorno sarà tutto dimenticato» aggiunse alla fine, tra i denti. 

Dazai fece due più due. «Avete sguinzagliato Akutagawa.»

Chuuya riattaccò.



 

To be continued



 

Spazio autore 

 

Hello hello hello. 

Meditavo dall’inizio di aggiornare col capitolo uno presto e non aspettare una settimana e oggi è stata una giornatina importante, quindi festeggiamo! 

Questo è in assoluto il primo capitolo della storia che ho scritto - e si sente XD 

Un po’ il C’era una volta… di questa fanfic. Solo il primo pezzo del puzzle. Probabilmente anche uno dei capitoli più lentini perché è l’inizio. La storia in sé avrà dei ritmi abbastanza spediti.

Nota importante, perché me sa che l’altra volta mi sono scordata XD 

Questa fanfiction si svolge dopo la S3, ma è una sorta di alternativa all’arco narrativo attualmente on going. Ci saranno comunque molti dei personaggi spoiler (per chi segue solo l’anime) e riferimenti a quello che sta succedendo ora nel manga. 

 

Poche noie UU/

 

A presto!

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess




Prossimo capitolo → The Lawbringer

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Capitolo 3
*** The Lawbringer ***


Capitolo 2

The Lawbringer






 

«Si tratta di un giustiziere.»

Fu il buongiorno di Kunikida. 

In piedi, di fronte alla scrivania di Dazai, dove quest’ultimo si era appena seduto sbadigliando col caffè in una mano, il collega aveva spianato la prima pagina del Kanagawa Shinbun, puntando il dito alla foto che occupava mezza testata. Dazai assottigliò gli occhi, ancora assonnati; dopo una sorsata di caffè si sentì in grado di affrontare la questione. 

«Diamo retta ai giornali adesso?» commentò dubbioso, riferendosi al titolo dove la parola giustiziere svettava come sottotitolo a Il Robin Hood di Yokohama. Sotto, la foto ritraeva una figura in piedi in mezzo a una strada, circondata dal fumo di un incendio. Si distingueva a malapena il profilo. 

Kunikida picchiettò sulla colonna di testo.

«Con questo saliamo a più di dieci casi possibilmente collegabili tra loro» e nel dirlo afferrò dalla propria scrivania un’altra corposa manciata di fascicoli. «Mi sono fatto mandare tutte le segnalazioni di effrazione, vandalismo o simili degli ultimi giorni. Dobbiamo verificare che siano posti di comodo della Port Mafia. Potrebbe esserci uno schema.»

Dazai sospirò solo alla vista del mucchio di carta. Mandò giù il resto del caffè e prese meglio il giornale per guardare la foto, ma il suo tono scettico non mutò. «Non si vede nulla. Ha giusto una forma umanoide.» 

«Cosa intendono con giustiziere?» chiese Atsushi, chino sulla spalla di Dazai a guardare incuriosito il giornale. 

«È un guardiano della notte!» 

Tanizaki si unì al gruppo apparendo con un gesto plateale, come se si fosse appena tolto un mantello. Dazai alzò un pollice in segno di approvazione, mentre Kunikida lo guardò senza essere rimasto impressionato dalla sua entrata in scena; Atsushi apparve più dubbioso di prima. Ancora elettrizzato, Tanizaki si lanciò in una seconda spiegazione, più dettagliata ed eccitata. «Come nei fumetti americani, quelli con i supereroi! Alcuni di loro all’inizio sono dei giustizieri che vigilano i quartieri, sventano crimini e garantiscono la tranquillità dei cittadini!»

«Non ho mai letto un fumetto…» confidò Atsushi, ammirato e un po’ imbarazzato. Con un sorriso da ragazzino contento di condividere i propri interessi, Tanizaki tirò fuori dal cassetto della scrivania un esempio concreto, un albo di Batman, che iniziò a sfogliare vicino ad Atsushi come fosse l’ora di ricreazione. 

Kunikida si schiarì la gola, riportando l’attenzione su di sé. 

«Decidere di farsi giustizia da soli non porta mai a nulla di buono.»

«Come sei saggio, Kunikida-kun!» celiò Dazai, unendo le mani in una posa ammirata. «Secondo me da piccolo sognavi di fare anche tu il giustiziere della notte e riportare l’ordine a Yokohama!» 

Kunikida tossicchiò, stavolta per nascondere l’imbarazzo. «I casi, Dazai» lo rimbrottò, mettendogli sotto il naso i fascicoli. Dazai sbuffò, ma si riarmò di pennarello e riaprì la cartina di Yokohama dove il giorno prima aveva segnato i luoghi attaccati. 

«Dove è stato fotografato il giustiziere?» chiese, anche se sembrava del tutto concentrato a leggere alla svelta gli indirizzi dei casi, per scartarli o cerchiare i luoghi sulla mappa. 

«Davanti a un ristorante, il Suehiro.»

«Ah-» Dazai si bloccò con il pennarello a mezz’aria. «È stato distrutto? Era un buon posto dove mangiare. Sul retro si tenevano delle bische clandestine davvero tranquille, ci vincevo un sacco di soldi contro i vecchietti del quartiere.»

«...» 

Il resto dei colleghi si astenne dal commentare, per quanto fosse raro che Dazai indugiasse su storie del proprio passato. Si limitarono invece a osservarlo mentre finiva di fare la cernita dei luoghi colpiti e segnarli se li conosceva. Sulla cartina, ne risultò al termine un altro cerchio, inscritto nel precedente, che abbracciava anch’esso Yokohama. 

«La Port Mafia ha un problema» sancì Dazai. Anche se parve dirlo cantilendando, col tono di una battuta, la sua espressione era seria. 

«Ha fatto tutto questo in tre giorni?» domandò Atsushi sorpreso. «Deve essere… forte?»

«La mafia gli avrà fatto qualcosa per cui è, come dire... davvero motivato?» tentò Tanizaki, non più entuasiasta come prima. 

«Entrambe ipotesi valide» approvò Dazai, per poi rivolgersi al proprio partner. «Cos’è successo al Suehiro?»

Kunikida aprì uno dei fascicoli, il più spesso. «Il locale è stato dato alle fiamme verso le tre di mattina. Si contano quattro cadaveri di cui ancora non si conosce l’identità.»

«Sarà un vicolo cieco, a meno che non fossero i proprietari. A quell’ora lì girano solo mafiosi, verranno fuori identità fasulle. Come sono morti?»

«Un colpo di pistola in fronte.»

«… rapido e preciso. Sembra un regolamento di conti. È per questo che lo chiamano giustiziere?»

Kunikida mise giù il fascicolo e riprese il giornale, leggendo un trafiletto. «Prima di sparire nella notte, Red Hood ha lasciato dietro di sé i libri contabili del Suehiro, che inchiodano tutte le attività criminali e le scommesse illegali perpetrate nel locale.» 

«Chi?» fece eco Dazai, perplesso.

«Red Hood?» ripeté Atsushi. 

«Il nome del giustiziere!» esclamò di nuovo Tanizaki, riacquistando la precedente verve. 

Kunikida sospirò pesantemente e le spalle gli si afflosciarono per come quella storia alternasse tratti ridicoli a questioni serie. «Non si capisce dalla foto, ma uno dei testimoni afferma di avergli visto un qualcosa di rosso a coprirgli il volto, una maschera o forse un cappuccio.»

Ci fu un coro di Oh da parte di Dazai, Atsushi e Tanizaki. 

«Andiamo a indagare?» domandò quest’ultimo. 

«La polizia per adesso non ci ha chiesto supporto e la Divisione non si è espressa in merito» replicò Kunikida, scuotendo la testa. Si leggeva chiaro dal suo volto che disapprovava quella situazione, ma non poteva farci nulla. «Finché non sarà accertato l’uso di abilità, il caso non sarà di nostra competenza. Possiamo solo richiedere i fascicoli, farci un’idea e comunicarla come suggerimento esterno...» ma lasciò in sospeso la frase perché neanche lui era convinto. 

«È così preoccupante se c’è qualcuno che si occupa della mafia? Intendo… tutti quei posti sulla cartina, noi non sapevamo neanche che fossero compromessi. Non ci sta facendo un favore?» ragionò Tanizaki, spostando lo sguardo dalla mappa, al giornale e, infine, sugli altri. 

Kunikida si rabbuiò.

«Uccidere non è un favore.»

La sua replica fu concisa, ferma e leggermente alterata. Il suo sguardo era severo e inchiodò il più giovane per aver espresso un pensiero del genere. Tanizaki arrossì. 

«Non intendevo questo. Però-»

«Non sappiamo quante vittime ci siano state finora e, per adesso, questo Red Hood ha colpito solo posti minori. Ma ha mandato un avvertimento» intervenne Dazai, catalizzando tutti gli sguardi su di sé. Le sue dita erano intrecciate tra loro, il mento appoggiato su queste, mentre osserva la cartina di Yokohama stesa sotto di sé. «Invadendo Yokohama, Red Hood sta spezzando un equilibrio, e al Boss della Port Mafia non piace quando gli si tocca la città. Quello di cui dovremmo preoccuparci è la rapidità con cui si muove» e nel dirlo, sciolse una mano per poter tracciare i due cerchi che aveva disegnato sulla cartina, continuando a parlare. «Riesce a entrare, colpire e dileguarsi in troppi posti e in troppo poco tempo. Sa dove andare e come colpire e come non farsi beccare, se non volutamente, come nel caso della foto.» Il suo indice scorse sulla carta simile alla lama di un pattinatore sul ghiaccio, per poi colpire il centro di quello che sembrava a tutti gli effetti un bersaglio. Il centro corrispondeva ai cinque palazzi della mafia. «L’obiettivo finale è chiaro.»

«Ma è da pazzi» commentò Tanizaki con un sorrisetto poco convinto. «Una persona sola contro la Port Mafia intera?»

«Deve per forza avere un’abilità» rincarò Atsushi, cercando l’approvazione nello sguardo degli altri. 

«Un’abilità spiegherebbe come ha fatto in tre giorni ad attaccare più di una dozzina di posti diversi!» assentì l’altro ragazzo, dandogli ragione. «Potrebbe essere come Flash! Ha una super velocità che gli permette di andare da un luogo all’altro in pochissimi secondi!»

La faccia della giovane Tigre Mannara parlava chiaramente di quanto poco capisse il riferimento e quanta poca voglia avesse comunque di incappare in quel giustiziere. 

«Oppure potrebbe volare! Come-» 

«O usare il sistema fognario!» lo interruppe Dazai, con un entusiasmo uguale e contrario, atto a sgonfiare quello del giovane Tanizaki. Il suo sorrisetto era condiscendente, quello di chi ha una spiegazione più concreta e reale. «La maggior parte dei luoghi sicuri della mafia hanno dei condotti extra per assicurare delle vie di fuga rapide» concluse, facendo spallucce, per poi rivolgersi al partner. «Quindi? Che si fa?»

Kunikida scaricò sulla scrivania un’altra pila di documenti. 

«Lavoriamo.» 

 

* * *


«Kunikida-kuuuuuun!» 

Il detective tornò alla realtà quando Dazai gli urlò nell’orecchio. 

«Che diavolo-»

Dazai sospirò, piegandosi sulle ginocchia di fianco al partner. «Sei proprio tra le nuvole questi giorni.» Guardò in basso e individuò l’oggetto per cui Kunikida si era accovacciato e non si era più rialzato, anche dopo i ripetuti tentativi di avere la sua attenzione. «Aaah, ancora» sbuffò stanco. Si trattava di una pagina di giornale, schizzata di sangue, dove si poteva leggere chiaramente un articolo dedicato a Red Hood. «Terra chiama Kunikida, siamo qui per indagare!»

«Lo stavo facendo» rispose il partner di impulso, alzandosi di scatto e guardando altrove. La sua espressione era rigida; essere pizzicato da Dazai era tra le cose che più detestava, perché avrebbe dovuto ammettere che avesse ragione a vederlo distratto. Gli diede le spalle, risistemandosi i guanti con cui doveva analizzare la scena del crimine. 

Si trovavano in una via centrale di Yokohama e non c’era un vetro della gioielleria che non fosse stato distrutto. Il pavimento era un unico tappeto di frammenti che riflettevano la più piccola fonte di luce, come un prato di diamanti. Farsi largo per raggiungere il retro bottega, dove si trovava la vittima, non era stato facile e questo aveva mosso il primo quesito sul crimine: come aveva fatto il colpevole ad andarsene senza lasciare un’impronta del proprio passaggio? Motivo per cui la polizia aveva chiamato l’Agenzia: sospetto uso di abilità. Era ancora tutto da verificare, ma era il primo caso che arrivava alle loro scrivanie senza essere la scia di briciole di pane lasciata da Red Hood. 

Ciononostante, Kunikida aveva ancora tutti i sensi focalizzati sulla questione del giustiziere. 

Nei giorni seguenti il primo articolo con la foto, a ogni nuovo fascicolo portato in Agenzia la tensione era andata in crescendo. Sotto lo sguardo degli altri detective, Dazai aveva scartato le segnalazioni o le aveva segnate sulla cartina di Yokohama, sistemata per praticità su una delle pareti della sala riunione. Se il giorno era appannaggio delle nuove, miti giornate di sole primaverile, durante la notte le vie di Yokohama lasciavano posto a quel giustiziere che i giornali avevano ribattezzato Red Hood, il Cacciatore di Mafiosi

Non ci furono nuovi scatti a ritrarlo, nuove testimonianze rubate a una figura che non lasciava indizi, ma un’altra decina di luoghi furono smascherati come appartenenti alla Port Mafia. L’opinione pubblica aveva cominciato a scaldarsi; i social network si erano riempiti di commenti, di chi gridava che sarebbe stata fatta finalmente giustizia verso quell’organizzazione oscura che aveva da sempre avviluppato la città con mani simili alle radici di una pianta velenosa. 

Kunikida aveva iniziato a spegnere la radio e la tv per non sentire quel dibattito costante, ad abbaiare a chi scorreva i social nelle pause e la sua irritabilità stava raggiungendo nuovi picchi, tanto che gli altri impiegati giocavano a morra cinese per scegliere chi avrebbe dovuto avvicinarsi anche solo per chiedergli la firma su un documento. 

Un’altra persona che aveva dato l’idea di essere fuori dal proprio contesto quotidiano era Dazai. Atsushi aveva continuato a coglierlo in momenti in cui sembrava perso nei propri pensieri, con uno sguardo che pareva viaggiare tra informazioni e possibilità, vagliandole, destrutturandole e poi rimettendole in fila per ottenere un risultato diverso. Qualcosa che ad Atsushi aveva ricordato lo sguardo di Ranpo all’opera su un caso, anche se con una nota più rilassata, quasi Dazai stesse occupando del tempo in avanzo per trovare la soluzione di un rompicapo che nessuno gli aveva chiesto di risolvere. 

Più di una volta, Atsushi si era ritrovato a mordersi la lingua per non lasciarsi scappare un Sei preoccupato?, perché quello della Port Mafia era un pezzo della vita di Dazai che non conosceva davvero. 

Non era una cosa nuova che la mafia fosse nelle mire di qualcuno, ma Atsushi aveva dovuto fare i conti con se stesso: in più di un’occasione, in mezzo agli sconquassi di Yokohama, c’erano finite sia l’Agenzia sia la Port Mafia, e distinguere tra alleati e nemici era stato complicato. Ammettere lui stesso di essere preoccupato era, oltre che strano, forse soltanto la traduzione errata del senso di sospeso che le azioni di quel giustiziere stavano lasciando dietro di sé. Era facile pensare a un regolamento di conti, a una faccenda privata tra Red Hood e la Port Mafia, ma una sorta di fastidio allo stomaco insinuava in Atsushi il sentore che sarebbe potuto succedere altro. 

L’arrivo del caso di omicidio nella gioielleria sarebbe dovuta essere la piega per spezzare quella routine anomala fatta di attesa e senso di impotenza, ma anche con quell’omicidio tra le mani, Kunikida non sembrava in grado di concentrarsi sul lavoro. 

«Allora, ricapitoliamo» provò Dazai, trotterellando dietro a Kunikida tra i cocci di vetro in terra. La documentazione tramite foto era stata fatta, ormai era inevitabile non calpestarli. «L’unico ingresso è la porta che dà sulla strada» e la indicò con un pollice. «Il colpevole è entrato e uscito, presumibilmente, da lì... anche se la porta era chiusa dall’interno quando è arrivata la polizia. Ha poi ucciso la vittima...» Dazai piegò le dita a simulare una pistola verso la sagoma a terra tracciata dalla polizia. «E prima di andarsene ha spaccato ogni vetrina, ma senza rubare nulla.»

«Aha...» assentì Kunikida, guardandosi intorno e poi abbassando lo sguardo sul fascicolo che si era portato dietro. Ci mise più tempo del solito ad elaborare, ma Dazai pazientò. «Il colpo di pistola è stato sparato dal basso verso l’alto...»

Dazai si acquattò di nuovo di fianco al partner, l’indice puntato verso il petto di quest’ultimo, un occhio chiuso per permettere a quello aperto di visualizzare un’immaginaria linea di tiro. «Tipo… così?»

Kunikida lasciò andare un sospiro pesante che non si era accorto di aver trattenuto, portandosi le mani ai fianchi. «Il rapporto è incompleto. Manca ancora la traiettoria esatta e il resto della balistica. Non ha senso...»

«Magari stiamo dando la caccia a un nano» motteggiò Dazai con uno dei suoi sorrisi, per poi alzare lo sguardo verso il soffitto e indicare la grigia di un condotto di aerazione. «Potrebbe essere entrato e uscito da lì. Un’acrobazia et voilà! Vediamo se in città è arrivato il circo!»

Kunikida alzò a sua volta lo sguardo. «Potrebbe essere un’ipotesi...» mormorò piano, aggrottando la fronte. 

Dazai si rialzò, sbalordito. «Tu che dai credito a una mia supposizione… hai la febbre?»

«Stiamo perdendo tempo» tagliò corto l’altro, irritato, chiudendo il fascicolo. «Finché non avremo tutti i risultati dalla scientifica e dall’autopsia è inutile stare qui.»

Sorpreso, Dazai lo seguì nella zona del negozio. I frammenti di vetro scricchiolarono sotto le loro suole, accompagnandoli fino all’ingresso. «Non hai neanche una vaga idea su che tipo di abilità possa avere il nostro colpevole?»

«Non mi metterò a sparare congetture su super velocità o simili» sbottò, togliendosi i guanti e facendo un cenno di saluto ai poliziotti di guardia. 

Da parte di Dazai non ci fu insistenza. Continuò a seguirlo, camminandogli dietro di qualche passo, lo sguardo fisso sulla rigidità delle sue spalle. 

Non era la prima volta che Kunikida si lasciava coinvolgere da un caso, ma era la prima volta che si faceva trascinare più dalle chiacchiere che dall’accaduto in sé. Se poteva fargli onore essere così preso dal voler smentire e non dare alcun sostegno a quelli che rapidamente stavano diventando fan di un uomo senza volto, solo perché il suo intento pareva quello di voler ripulire Yokohama dalla criminalità, dall’altro questo suo accanirsi aveva appena influito negativamente su un’indagine. Non avevano tutti gli indizi, ma non ci avevano neanche provato, sospirò Dazai. 

Non che lui fosse esente. Conscio che Kunikida fosse troppo preso dai propri pensieri per prestargli attenzione, Dazai ne approfittò per dare un’occhiata al proprio cellulare. Era arrivato un messaggio. Lo aprì al volo. Dopo una sequenza di una dozzina di Come sta Hirotsu? da parte sua, finalmente era arrivata la risposta. Un semplice È ancora vivo. Perché tu non muori!? Considerando che fosse da parte di Chuuya, Dazai sapeva che non gli avrebbe mentito, neanche per farlo contento e farlo smettere. Anzi, doveva essergli costato non riempire l’sms di imprecazioni e insulti. 

Poter parlare con Hirotsu sarebbe stata un’opportunità preziosa. Se, come immaginava, era stato messo fuori gioco da Red Hood, avere qualche dettaglio da lui sarebbe risultato utile anche per la loro “non indagine”. Tuttavia, scoprire altro avrebbe dato a Kunikida ancora più margine di distrazione, se alla fine la polizia militare o la Divisione avessero deciso di non passare mai il caso a loro. 

I fattori a cui pensare erano così tanti che anche Dazai si distrasse, finendo con lo sbattere contro la schiena di Kunikida e quasi far cadere a terra entrambi. 

«Guarda dove cammini!» gli abbaiò il biondo, allungando un braccio per rimetterlo in piedi di peso. Dazai non aveva davvero scuse, ma un sacco di lamentele per aver picchiaro il naso. 

«Hai una schiena di pietra» gemette, massaggiandosi il setto a occhi chiusi, due lacrimucce pronte a cadere. «Sei troppo teso!»

Qualsiasi cosa Kunikida stesse per dirgli, gli morì in gola con l’ennesimo sospiro. Si grattò la nuca, guardando altrove. Erano arrivati davanti l’Agenzia. «Mi dispiace.»

Delle scuse da parte sua erano un evento più unico che raro, ma Dazai non ne approfittò. Riaffondò le mani nelle tasche del trench, lo guardò fisso e poi si decise a chiedere quello che gli frullava in testa da un paio di giorni. 

«Andiamo a fare un sopralluogo in uno dei possibili obiettivi di Red Hood.»

Kunikida gli dedicò tutta la propria attenzione, sorpreso. «Cosa hai detto?»

«Considerando come agisce, so quasi con certezza quali saranno i suoi prossimi obiettivi. Non in ordine, ma potremmo essere fortunati e anticiparlo.»

Il partner non replicò, non subito. Ci pensò su e, dalla linea sottile in cui chiuse le labbra, si percepì la lotta interiore. Tirò fuori dalla tasca la propria agenda e la contemplò per un lungo istante. 

«Le azioni sconsiderate finiscono male» disse in tono smorzato, sforzandosi di dare corpo a quel pensiero, per renderlo più concreto. Incrociò lo sguardo di Dazai e scosse la testa. «Non è un caso di nostra competenza. Non per adesso. Intrometterci potrebbe causare dei guai all’Agenzia.»

Dazai fece spallucce con un sorrisetto, incassando la risposta.

«Come vuoi» replicò leggero. Anche se da un lato l’idea di andare a cercare dell’azione con Kunikida lo intrigava, Dazai non rimase deluso dalla sua risposta. Era coerente. Coerente col tipo di persona che Kunikida si sforzava di essere, seguendo quei suoi ideali, a volte troppo affilati per non rimanerne ferito. Aveva fatto una scelta, dopotutto. Avrebbero potuto causare dei guai come Kunikida aveva detto, ma chissà, avrebbero anche potuto mettere fine a quella minaccia travestita da cappuccetto rosso in caccia del lupo cattivo. 

«Allora buonanotte, Kunikida-kun. Cerca di riposare o il problema dell’Agenzia sarà la tua irritabilità sconfinata!» 

Dazai evitò per un soffio un colpo di agenda sulla testa. 


* * *


Dazai non arrivò al dormitorio. Il suo cellulare squillò prima, con un suono breve che annunciava un messaggio.  

 

Al solito posto.
Per favore.
Ango

 

Dazai sospirò, contemplando la richiesta. L’ultima cosa che voleva era incontrare Ango, ma non ci provò neanche a fare i conti con la curiosità che lo spinse a fare dietro-front, fermare un taxi e farsi lasciare all’inizio della via del Bar Lupin. 

Il locale era deserto. Dietro il bancone mancava l’oste, ma un bicchiere di whiskey era sistemato al solito, vecchio posto a sedere di Dazai. Ango era già lì, la fronte accigliata; parve riprendere a respirare nel momento in cui vide il detective scendere le scale. 

«Un’accoglienza sospetta» commentò Dazai, rimanendo in piedi, mani in tasca, di fronte allo sgabello su cui avrebbe dovuto prendere posto, ma restò a fissare Ango con un sorriso provocatorio. «Stai per arrestarmi?» 

Ango non era in vena di battute. Aveva depositato la giacca sul posto libero alla sua sinistra e le maniche della camicia erano sgualcite e arrotolate ai gomiti di malagrazia. Ricambiò lo sguardo dell’ex amico, scuotendo la testa stancamente. «Avevo bisogno di privacy.» 

Alle sue parole seguì un fascicolo che poggiò tra i due bicchieri di whiskey. Dazai iniziava ad avere un po’ la nausea di quei documenti, ma quando l’altro lo aprì, una foto attirò subito la sua attenzione, facendolo sedere. 

Nella polaroid, vecchia di diversi anni, era stata immortalata la gioielleria del caso di cui si erano occupati quel giorno. 

«Le coincidenze non sono mai una buona cosa» esordì il detective, buttando un’occhiata alla parte cartacea del fascicolo, ma i fogli erano stati censurati e non restituivano un discorso sensato o informazioni utili. Dazai aggrottò la fronte. «Hai inviato tu il caso all’Agenzia?»

Ango fece segno di assenso, mandando giù un sorso del drink come a farsi coraggio. 

«Avete trovato qualcosa?» 

Dazai imprecò un po’ tra sé e sé, ripensando a che pessimo lavoro avevano fatto quel giorno per colpa della luna storta di Kunikida, ma più che giustificarsi, rigirò la questione. «Stai per dirmi tu cosa non abbiamo trovato, suppongo.»

«Questa» e nel dirlo, Ango sfilò dal fascicolo una seconda fotografia. Dazai la prese in mano per contemplarla, tuttavia non gli fece accendere alcuna lampadina in mente. 

«Una chiave apre qualcosa, anche quando è così logora. Immagino non sia nulla di buono.»

Nell’immagine era stata immortalata una chiave, lunga, in ferro, sbeccata sulla testa, ma per il resto integra, anche se sembrava avere come minimo un secolo. 

Nel mentre, Ango si tolse gli occhiali, passandosi le mani sul viso. 

«Fino a questa mattina non ne sapevo nulla e...» deglutì, ridandosi un tono per incrociare gli occhi di Dazai. «Sono qui di mia iniziativa.»

Dazai si decise a prestargli la propria completa attenzione, lasciando andare la foto. Ango riprese. 

«La chiave è stata rubata al proprietario della gioielleria, che ne era il custode. La sua identità è falsa, ma non ho idea di chi fosse realmente. Ma questa...» e appoggiò il dito sulla foto. «Serve per arrivare al Libro.»

Dazai riuscì a limitare la propria sorpresa a un guizzo dello sguardo. Un’altra buona notizia. 

«In quanti lo sappiamo?»

«Io, te e il capo Taneda. Anche lui ne è venuto a conoscenza questa mattina. Il numero di serie di questo fascicolo era inesistente finché non è stato immesso il nome della vittima nel sistema. È stata una sorta di password che ha attivato il rilascio di questo documento. Non è neanche bollato come top secret. Ho verificato ed è estraneo a qualsiasi registro o catalogazione.»

«Ce ne saranno altri così?» 

Ango appoggiò la testa alle dita di una mano, massaggiandosi una tempia. Era visibilmente prostrato. Si allentò la cravatta. «L’archivio generale è immenso e suddiviso in più sedi. Questo documento viene dalla quarta sede. Passare al setaccio l’intero archivio richiederebbe un’unità approvata per la segretezza e giorni, forse mesi...»

«Quindi ci accontentiamo di capire qualcosa da questo.» 

«Il capo Taneda sta cercando di fare pressioni sui superiori ed ex dirigenti per venirne a capo. Se esistono altre chiavi… e cosa dovrebbero aprire.»

Dazai tornò a osservare la chiave, in silenzio, concentrato a incrociare le poche informazioni disponibili. Il risultato furono solo un quantitativo di ipotesi non verificabili, non subito. 

«Non intendi coinvolgere l’Agenzia?»

Lo sguardo con cui Ango lo guardò parlava per lui e per quello che stava per dire. «Per adesso è troppo presto. Qualsiasi faccenda relativa al Libro ha dei protocolli di sicurezza vincolanti. Non dovrei essere qui.» Ango era visibilmente al limite, così agitato che non sembrava completamente padrone dei propri movimenti e si passò una mano tra i capelli. «Ti ho chiesto di vederci perché...» scosse la testa. «Forse la mia è presunzione… però credo che dietro ci sia di nuovo Dostoevskij.»

La confessione non sortì reazioni da Dazai e Ango continuò. 

«Ho esaminato per tutto il giorno gli effetti personali del proprietario della gioielleria ed è tutto troppo normale. Troppo perfetto, architettato ad hoc. Gli oggetti in suo possesso erano tutti datati non più di quattordici anni fa, come se l’uomo fosse comparso dal nulla e prima di allora non avesse un passato. Per il resto, ha avuto una vita tranquilla e appartata fino a ieri notte. Nessuna multa, nessun problema. Un cittadino modello inesistente. E poi c’è questo fascicolo, archiviato esattamente quattordici anni fa.»

«Ora capisco perché hai questa faccia cadaverica» lo blandì Dazai, rigirando il bicchiere del whiskey senza bere, ma continuando a processare le informazioni. Quattordici anni prima... «Dostoevskij è stato rinchiuso in una prigione di massima sicurezza e il Libro lo cercano in tanti. Se qualche mese fa ci ha provato la Gilda, questa volta potrebbe essere opera della Torre dell’Orologio.»

Ango scosse la testa ostinatamente. «Lo so che è illogico affidarsi alle sensazioni, ma sottovalutare le possibilità che sia tutto architettato da Dostoevskij, anche se è in custodia-»

«Sarebbe stupido. Lo so. Da quello che mi stai dicendo, l’azione alla gioielleria è stata mirata. Chi ha preso la chiave sapeva cosa stava cercando.»

«Potrebbe essere un altro suo piano. Il caso del Cannibalismo lo ha fermato, ma se avesse previsto tutto?»

Dazai lanciò una lunga occhiata ad Ango. «Sei davvero stressato e mi stai facendo passare la voglia di odiarti...» sospirò, grattandosi la testa. «Troppe coincidenze. Cosa mi sai dire di Red Hood, il giustiziere che cerca di farla pagare alla Port Mafia? Pensi che sia coinvolto?»

Il viso di Ango era smarrito e ci mise qualche attimo a collegare la domanda a una risposta. «Non ne so molto» replicò, afflosciando le spalle. «Non è stato rilevato alcun uso di abilità per adesso, o di un’organizzazione dietro le sue azioni. Sembra un indipendente che non ha ancora reso chiari i propri intenti.»

«È questo che non mi torna» spiegò Dazai, riportando lo sguardo sulle due fotografie. «Non sta attaccando posti così importanti per la Port Mafia, ma allo stesso tempo lo sta facendo meticolosamente, seguendo uno schema a cerchi. Sta solo avanzando, ma senza porre richieste o condizioni. O indizi. O rivendicazioni… sta stringendo un cappio.» Sul viso di Dazai si aprì un ghigno, ma non era divertito. «Non manca di stile. Tuttavia, più si avvicina al centro, più gli obiettivi che colpirà saranno sensibili. Anche se...»

«Anche se?» incalzò Ango. 

«Ho avuto una soffiata. Se ne occuperà Akutagawa. Quindi immagino che capiremo l’entità della minaccia di questo giustiziere dall’esito del loro scontro.»


Tu vedi i cadaveri, vedi il fumo,
ma il grande disegno non ti è ancora chiaro.
[Clyde Shelton - Giustizia Privata]



 

To be continued.




 

Spazio autore 

 

A qualcuno Red Hood suonerà familiare ~

Rivedere il film della DC Under the Red Hood mi ha fatto venire in mente qualche idea per questa storia. Spero che qualche fan non ne sia infastidito, anzi, se vi capita, guardatelo! *love*

Nel mentre, ancora qualche capitolo e si entrerà nel vivo della fanfic. Poche pretese, ma ho tanta voglia di scrivere, me la continuo a figurare in mente con i tempi e lo stile dell’anime e voglio continuare così per parecchio UU/

 

Che altro aggiungere… appariranno un sacco di personaggi di Bungou, perché seriamente ce ne sono giusto 3-4 che non mi piacciono… o che scrivendo rivaluto *fissa un certo clown

Alla prossima!

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess




Prossimo capitolo → A dog with its tail between legs

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Capitolo 4
*** A dog with its tail between legs ***


Capitolo 3

A dog with its tail between legs







 

Le prime gocce di pioggia avevano iniziato a bagnare il terreno verso le quattro di notte. Una pioggerellina leggera, insistente e che aveva riportato una ventata di inverno, spazzando via il sogno primaverile. 

Atsushi si era svegliato all’alba più intontito del solito. Detestava i cambi di stagione perché lo rendevano più sensibile e nervoso, soprattutto quelli repentini che accadevano di notte. La coperta leggera che aveva usato negli ultimi giorni era inutile con il fresco che stava penetrando dalle fessure dell’armadio; si ritrovò a raggomitolarsi in cerca di tepore, in un dormiveglia poco rilassato. 

A svegliarlo definitivamente fu il suo cellulare. 

«Pronto...» biascicò, stropicciandosi il viso. 

«Ohi, Atsushi.» Era Kunikida. «Prima di venire in Agenzia ho bisogno che passi a ritirare un pacco e i fascicoli dei nuovi casi presso la stazione centrale della polizia militare. Vai lì prima che inizi il traffico della giornata. Ti mando l’indirizzo per il pacco a breve. Tutto chiaro?»

«Sì...» assentì il ragazzo con la faccia premuta nel cuscino.

L’uomo riattaccò senza aggiungere altro e Atsushi si rigirò contro la federa ruvida, sospirando pesantemente. A volte succedevano quelle commissioni di prima mattina, nulla di nuovo, ma il tono di Kunikida era già scattante, teso e irritato e questo non preannunciava nulla di buono per il resto della giornata. 

Un leggero bussare lo distrasse. 

«Commissioni?» chiese Kyouka in un mormorio assonnato. Atsushi sorrise intenerito, immaginandola mentre si stropicciava un occhio. 

«Aha. Un pacco e i fascicoli dei nuovi casi. Quale dei due vuoi ritirare?»

Da oltre la porta dell’armadio ci fu solo silenzio, poi la ragazza aprì uno spiraglio. Aveva le dita chiuse a pugno e il cipiglio serio, dimentico del sonno. Atsushi si girò su un lato e alzò a sua volta il proprio pugno. 

«Sasso carta forbici!» dissero all’unisono. 

Kyouka scelse il sasso. Atsushi le forbici. 

Il sorriso spontaneo sul viso della ragazza valse l’aver perso, penso Atsushi con un finto sospiro di sconfitta. 

«Ritiro il pacco» disse Kyouka, alzandosi per andare a prepararsi.

Atsushi si stiracchiò di nuovo, raccogliendo le forze per fare altrettanto, ma i suoi muscoli si ostinarono alla letargia. Sarebbe stata una giornata davvero lunga.



 

* * *



 

Due ore dopo il cielo era rimasto di un grigio bianchiccio spesso e impenetrabile. La pioggia non mutò la propria intensità, rimase sottile e scivolò ovunque, in ogni lembo di stoffa o anfratto, con la propria fastidiosa umidità. Non si distingueva che ora fosse, ma controllando l'orologio Atsushi si accorse di essere in ritardo e ad attenderlo ci sarebbe stata la strigliata di Kunikida. Giustificarsi dicendo che all’ufficio della polizia militare c’era stata confusione per via dei recenti attacchi di Red Hood non lo avrebbe salvato. 

Meno che mai lo avrebbe salvato fare una deviazione, ma il suo istinto lo bloccò a un incrocio, facendogli sollevare il viso. Il fiuto della Tigre Mannara aveva colto qualcosa nell’aria, anche nel persistente odore della pioggia. 

Sangue

Atsushi tornò sui propri passi, incurante di urtare i passanti, scusandosi in modo sbrigativo, ma continuando a seguire la scia nell’aria finché questa non lo portò all’imbocco di un vicolo. Ci si addentrò senza indugiare, stringendo al petto la busta in cui c’erano i documenti e nell’altra mano il manico dell’ombrello. Il suo naso continuava a pizzicare e fremere, man mano che la traccia diventava più forte, mischiata agli odori stagnanti della stretta stradina. 

Per un attimo, la scisa si fece più flebile e Atsushi dovette fermarsi, tornando sui propri passi, guardandosi intorno. Non c’erano ingressi o finestre, solo le pareti dei palazzi su cui correvano cavi e tubi esterni, della street art sbiadita, casse e rifiuti di vario genere. 

Eppure l’odore di sangue proveniva da lì. Era forte.

I suoi occhi prestarono attenzione all’immondizia e il suo sguardo si spalancò. Tra i sacchi neri c’era una mano pallida. 

Ombrello e documenti caddero a terra, mentre Atsushi gettava di lato la spazzatura, portando alla luce un cappotto nero che aveva imparato a riconoscere. 

«A-Aku-» 

Il nome gli morì in gola quando rigirò il corpo inerte ragazzo. La sua camicia non era più bianca, ma umida di sangue. 

Tentando di reprimere il gelo che gli invase le vene, Atsushi cercò di ricordarsi cosa Yosano gli avesse insegnato su come constatare le condizioni di una vittima. Con dita tremanti gli tastò il polso alla ricerca della vena che avrebbe dovuto restituirgli delle pulsazioni. Si accorse a malapena di continuare a chiamare il nome dell’altro ragazzo; era troppo agitato per concentrarsi, così accostò direttamente l’orecchio al petto di Akutagawa, sfruttando i sensi della Tigre Mannara. 

Il battito c’era. Così flebile da essere appena il pigolio di un uccellino, ma c’era. 

I passanti di Yokohama videro sfrecciarsi di fianco un fulmine bianco, l’immagine residua di un giovane con gli occhi di una bestia, che correva con un ragazzo ferito verso l’Agenzia di Detective Armati. 

 

* * *

 

Cosa ti è saltato in mente!? Questi mesi a lavorare con noi non ti hanno insegnato nulla!?

Non potevo lasciarlo lì! 

Hai portato un agente della Port Mafia in Agenzia! Il più violento e sanguinario tra tutti! 

Mi dispiace, davvero, ma lui- 

In pieno giorno! Cosa credi che accadrà se si spargerà la notizia che curiamo esponenti della Port Mafia!? Se succederà qualcosa sarai ritenuto responsabile! Hai messo in pericolo l’incolumità non solo dei tuoi colleghi, ma anche di tutto il personale e di chi abita nel palazzo! 

Io- C’era sangue dappertutto…! Non potevo lasciarlo…! 

Kunikida. Basta così. 

Presidente-

 

Il suono delle voci era abbastanza nitido anche se lontano, ma Akutagawa distinse appena che una delle due fosse della Tigre Mannara; lo irritò sentire quanto esitante e debole fosse nel difendersi, ma il fastidio maggiore fu comprendere di essere stato salvato dalla propria nemesi. 

Tuttavia, qualsiasi reazione Akutagawa tentò di avere, fu solo in grado di muovere appena le dita. Il proprio corpo non gli rispose. Riusciva a respirare, ma solo perché l’aria gli veniva spinta direttamente nel naso da una cannula nasale. 

«Ah. Sei cosciente.»

Akutagawa non riconobbe la voce. Era vicina, di donna, priva di gentilezza, ma non ostile. La sua memoria non associò un volto a quelle poche parole, ma allo stesso tempo non si sentì minacciato, per quanto l’istinto gli stesse urlando di scappare. Di nuovo

Perché era ancora vivo? 

Quando aprì gli occhi, questi vennero feriti da una luce puntata direttamente addosso. Dopo una smorfia e un secondo tentativo, Akutagawa riconobbe la lampada da sala operatoria. Nel suo campo visivo, per quanto sfuocato, entrò anche la figura della donna che aveva parlato. Capelli scuri e qualcosa che brillava d’oro tra questi. 

«Non ti agitare» disse la voce, perentoria e vagamente seccata. 

I muscoli di Akutagawa reagirono facendo l’esatto contrario, irrigidendosi e tentando di muoversi. Non servì a nulla. La consapevolezza arrivava a pezzi, man mano che si sforzava di tornare padrone di sé. Registrò la presenza di cinghie a tenerlo legato al letto. Questo dettaglio fece deragliare qualsiasi parvenza di autocontrollo. Una restrizione e una sconosciuta. 

Akutagawa digrignò i denti, agitandosi ancora. 

«Oh, santo cielo! Stai fermo, ragazzino!» borbottò spazientita la donna, facendo un passo indietro e alzando le mani. Akutagawa non vedeva bene, ma riconobbe le macchie di sangue sulle sue mani dall’odore. La sua reazione si triplicò. 

«Rash… Rashou... Rashoumon…!»

Lo sguardo spalancato e fremente di Akutagawa era fisso nel volto impassibile della donna. 

«Fai il bravo cane. Yosano-sensei non ha neanche cominciato» disse una seconda voce in tono leggero.

Akutagawa voltò la testa di scatto. Non si era accorto di Dazai seduto di fianco al letto, il viso appoggiato a una mano, mentre l’altra tamburellava le dita sul suo braccio, vanificando la sua abilità. 

Nel mentre, Yosano si riavvicinò. «Vorrei finire prima di pranzo e far pulire per la puzza.»

«Non mi... toccare!» ruggì Akutagawa, la voce che raschiava dolorosamente la gola. 

La dottoressa arricciò il naso, infastidita, per poi sollevare un angolo della bocca. Nel suo sguardo cambiò qualcosa e brillò un barlume di follia; si passò la lingua sulle labbra. «Aha, è un po’ di tempo che non mi capita un paziente tanto testardo. Sei ridotto così male che dovrò guarirti almeno quattro o cinque volte...» e rise di gusto. 

Questo ebbe l’effetto solo di far agitare ulteriormente Akutagawa. «Lasciatemi andare!»

Dazai sospirò sconsolato, come un genitore col figlio che fa i capricci. «Basta così» disse perentorio, fissando l’ex pupillo con un’occhiata tagliente. 

Akutagawa reagì come se gli fosse appena stato urlato. Lo sguardo febbrile e il volto pallido restarono immutati, fissi nel guardare il proprio mentore. Si intuiva che i suoi pensieri fossero ridotti al minimo, più istinto che ragionamento. 

«Yosano-sensei deve finire di toglierti i proiettili che hai in corpo. Poi ti guarirà» spiegò Dazai, mentre la dottoressa riprendeva il proprio lavoro. Akutagawa non si mosse, come fosse stato ipnotizzato e Dazai non spostò lo sguardo dal suo. «Quando avrà finito sarai libero di andare.»

«Io… questo non è il posto giusto» farneticò il ragazzo, mentre il suo sguardo scattava intorno, per poi tornare su Dazai come punto di riferimento. «Non dovevo finire qui

Il più grande si lasciò andare a un sorrisetto conciliante, tornando ad appoggiarsi alla mano il cui gomito era puntellato sul letto. L’altra non si era mai mossa dal polso del cane della mafia. «Su questo siamo tutti d’accordo, ma hai sconvolto Atsushi-»

«Sono scappato.»

La fronte di Dazai si corrugò. «Sei scappato da Red Hood?» 

Akutagawa riprese ad agitarsi, la mandibola serrata. «Questo non è il mio posto! Questo non è il mio posto!»

«Dazai, tienilo fermo! Calmalo!» ordinò Yosano irritata.. 

Ci vollero una manciata di minuti, tra azioni di forza e parole, ma anche l’ultimo proiettile tintinnò nella vaschetta di metallo e i due membri dell’Agenzia poterono riprendere fiato per un attimo. Akutagawa, al contrario, sembrava in stato catatonico, lo sguardo spalancato, mentre ripeteva le stesse frasi a litania. 

«L’ultima volta che ho visto qualcuno in questo stato era il precedente Boss della Mafia e non è finita bene» commentò Dazai. 

«Non capisco se sta peggio per i dodici proiettili che si è beccato o lo shock. Quanto è melodrammatico?» sbuffò Yosano, togliendosi i guanti. 

Dazai accennò una risata, per poi fissare i proiettili menzionati nella bacinella il cui fondo ormai era rosso di sangue. «Non sembrava intenzionato a ucciderlo. Non sul momento.»

«I proiettili erano tutti in punti non vitali» spiegò Yosano, sciogliendosi la cravatta. «Ma allo stesso tempo punti troppo accurati. Pochi millimetri di scarto e starei facendo un’autopsia.»

Dazai rimase in silenzio, processando quelle informazioni mentre fissava il suo ex allievo, le cui dita scattavano nervose e le labbra continuavano a muoversi pronunciando parole senza voce. 

«Cosa pensi che volesse fare di lui?» domandò Yosano, che nel mentre si era liberata dei vestiti, restando in intimo nero. Afferrò la propria mannaia, osservando il filo della lama. 

Lo sguardo di Dazai aveva una risposta, ma non gli piacque esternarla. 

«Un messaggero.»

«Aha? Per dirci cosa? Che è forte?»

«Anche.» Dazai chiuse gli occhi, concentrato come cercasse di distinguere delle note in mezzo a una sinfonia caotica, ma senza carpirle. «Mi sfugge qualcosa.» 

Yosano fischiò, appoggiandosi alla mannaia puntata in terra. «Questo è davvero spaventoso. Vuoi chiamare Ranpo e fargli esaminare il ragazzo prima che inizi a curarlo? Abbiamo ancora tempo.»

«No, è più utile farlo tornare a ragionare» spiegò Dazai. «E Ranpo è uscito prima per un caso con i Tanizaki.»

«Ah, ecco perché non c’era il persistente odore di diabete nell’aria» borbottò la donna, agitando la mano. Poi tornò a fissare il collega. «A ogni modo, penso che puoi andare. Ridotto com’è non credo sarà una minaccia.»

«Lo sarà appena si riprenderà un po’» replicò Dazai serio, per poi cambiare completamente espressione in una totalmente opposta, sorridente e ammiccante. «Poi non vorrei perdermi in diretta l’uso del tuo potere! Quale occasione migliore! E stai molto bene in intimo nero. Quindi è per questo che i tuoi vestiti rimangono sempre lindi dopo che operi.»

Yosano accettò i complimenti con un occhiolino, completamente a proprio agio. «A volte fantastico su come sarebbe curarti come faccio con gli altri. È un vero peccato.»

Dazai fece spallucce, sollevando le mani con un sospiro sconsolato. «Concordo. Anche se so già com’è il sapore di quell’attimo prima della morte, ma esserci portato da una bella donna è in sé sempre un piacere a cui non dico di no.»

Yosano era sinceramente divertita. «Ma finiscila. Non sono il tuo tipo.»

Dazai aprì un nuovo sorrisetto. «Questo non toglie che io non abbia gli occhi per apprezzare.»

«Touché» concesse la donna facendo spallucce, prima di risollevare la mannaia. «Abbiamo chiacchierato abbastanza. Ti consiglio di levarti la giacca. Prendi il camice che c’è nell’armadio. Togliere-»

«Le macchie di sangue è una noia.»

Yosano ridacchiò.




 

Essere curato da Yosano Akiko fu tra le esperienze peggiori che Akutagawa sperimentò nella vita. Lo avrebbe ricordato come un incubo, dove il sorriso folle di quella donna - e a tratti quello di Dazai - baluginavano nel suo campo visivo, tra il vibrare delle chiacchiere sulle sue condizioni e la lama della mannaia che gli incideva la carne. 

Per tre volte sperimentò la sensazione di poter toccare con mano la morte. Per altrettante volte fu scaraventato tra le braccia della vita come se le mani di quella donna lo forzassero a riemergere da una vasca di acqua gelata, infrangendo la superficie per riempire i polmoni d’aria. Ogni volta la sofferenza inflittagli spariva come un cerotto strappato, lasciandogli dentro una innaturale sensazione di benessere. A questo, tuttavia, seguiva il dolore dei fori di proiettile, sordo e reminescente di una notte che Akutagawa avrebbe voluto cancellare. 

«Basta

«Aha? Non ti reggi ancora in piedi.»

«Taci donna!» abbaiò Akutagawa, tendendo il collo e tentando di forzare le cinghie, ignorando il dolore. Era tornato abbastanza in sé, senza più la sensazione ovattata di angoscia a imbottirlo di deliri.

Dazai alzò gli occhi al soffitto. «Non ti ho per niente insegnato le buone maniere. Ringrazia Yosano-sensei, ti ha salvato la vita insieme ad Atsushi.»

La risposta di Akutagawa fu un digrignare i denti spaventoso, come se avesse avuto una museruola a impedirgli di mordere, invece della sola mano del suo mentore, e No Longer Human, a fermarlo dal distruggere l’ambulatorio. 

«Sai che ti dico?» riprese Yosano, facendo un passo indietro e poggiando la punta della mannaia in terra. Era lorda di sangue su petto e addome, alcuni schizzi avevano raggiunto anche le cosce, ma da come si muoveva dava solo l’impressione di star indossando un abito da tutti i giorni. «Sei abbastanza in salute per arrivare ai palazzi della mafia, stramazzare all’ingresso e farti curare lì. Io ho finito.» Nel dirlo fece dietro front, alzando una mano. «Vado a farmi una doccia. Per quando torno lo voglio fuori dal mio ufficio o riprenderemo da dove abbiamo interrotto.»

Una volta soli, Akutagawa parve calmarsi, almeno dal dibattersi. Era ancora pallido e tremava leggermente, la mandibola serrata e lo sguardo iniettato di sangue. Dazai lo scrutò a lungo, prima di decidersi a parlare. 

«Vuoi raccontarmi cos’è successo o vuoi prima toglierti di dosso questo tanfo di immondizia?»

Le guance di Akutagawa si colorarono contro la propria volontà. 

«Il bagno è quella porta lì. Troverai asciugamani e un cambio nell’armadietto» disse Dazai, sciogliendo le cinghie. «Su, su» lo incalzò, agitando una mano. «Fai una doccia veloce ed evita di svenire, renderebbe tutto più imbarazzante.»

Dieci minuti dopo, mantenendo un equilibrio solo apparente, Akutagawa riemerse dal bagno. Oltre al dolore che sentiva ancora da ogni muscolo e parte del corpo offesa, c’era anche il peso dell’umiliazione di essere stato salvato da Jinko, curato dalla strega con la farfalla dorata e ora vestire dei pantaloni e una camicia che odoravano di Agenzia. Prima fosse uscito di lì, meglio sarebbe stato, anche se l’idea di tornare alla Port Mafia con un fallimento del genere gli faceva salire la nausea e l’odio verso se stesso. Tossì, e nonostante fosse abituato a quel semplice gesto, tremò di un dolore persistente ovunque, lì dove i proiettili avevano scavato dentro di lui, anche se a vista non appariva più alcun segno.

«Avresti dovuto permettere a Yosano-sensei di guarirti completamente.» Dazai si scostò dalla finestra aperta per arieggiare, malgrado l’umidità e il freddo della pioggia. In pochi passi raggiunse la scrivania di Yosano e recuperò una busta che cacciò in mano ad Akutagawa. «Quello che rimane del tuo cappotto. Mentre eri in bagno ho avvertito Gin che stai bene, tra poco sarà qui.» 

Le dita del ragazzo artigliarono la busta. Nelle sue orecchie c’era brusio e battiti cadenzati. Vergogna. Vergogna. Vergogna. Preferì restare in silenzio. 

Il sorriso accennato di Dazai e il suo sguardo erano qualcosa da cui gli occhi di Akutagawa stavano fuggendo. Avrebbe potuto imboccare l’uscita di quell’infermeria e congedarsi. Il solo pensiero di mettere un piede davanti all’altro lo fece barcollare. La mano di Dazai lo afferrò per il braccio, spingendolo a sedere su un letto libero. 

«Prima di andartene devi pagare l’onere delle cure con qualche informazione» iniziò Dazai, prendendo una sedia, ruotandola al contrario e sedendosi in modo da avere l’ex pupillo davanti a sé. Akutagawa ricambiò l’occhiata con una contrariata e feroce, ma la sua bocca non fiatò. Il detective continuò. «La polizia militare non ci ha dato il caso per ora, ma capisci che siamo tutti curiosi di sapere qualcosa su questo Red Hood che ha preso di mira la più grande organizzazione criminale di Yokohama.»

Il rumore della busta che veniva ciancicata dalle dita di Akutagawa era il principale veicolo delle emozioni del ragazzo. Dazai contò in silenzio i sentimenti che il suo volto pallido e tirato, gli occhi, la piega delle labbra comunicavano. Rabbia e odio. Verso se stesso. E poi, inquietudine. La tensione nelle sue dita era qualcosa di estraneo. 

Sono scappato

Dazai ricordò cosa avesse detto in preda ai deliri per mancanza di sangue. Assottigliò lo sguardo. Scappare non era un’opzione che Akutagawa aveva mai contemplato, se non costretto da terzi.  

«Cos’ha di particolare questo giustiziere? Cos’è successo?»

Akutagawa non aveva idea di che cosa significasse soffrire di vertigini, ma per la prima volta il terreno sotto i suoi piedi sembrò allungarsi e diventare uno strapiombo, dandogli la nausea. Si afferrò la testa con le dita di una mano, stringendo tanto da sentire l’imposizione del proprio cranio sotto la pelle e la voglia di frantumarlo. Flash di quella notte gli rimbalzarono in testa. Una danza fatta di lembi di stoffa che vorticavano a vuoto e proiettili che si conficcavano nel suo corpo cogliendolo impreparato, superando le sue difese come se il suo avversario stesse soffiando su un Dente di Leone. 

«N-Non lo so.»

Avrebbe preferito essere ovunque meno che lì, a rispondere a quelle domande, anche se era con Dazai. Sarebbe dovuto morire, non scappare. Ricordare il se stesso di quella notte riportava a galla sensazioni sbagliate ed estranee. Non si capacitava di cosa avesse fatto. Del perché. Il suo posto era in una tomba.

Dazai, nell’osservarlo in silenzio, sembrava in grado di leggere ognuno di quei passaggi mentali. Si schiarì la voce. 

«Tecnica di combattimento dell’avversario?» 

Il tono fu fermo, basso, netto. Un tipo di impostazione vocale che Dazai rispolverò, ricalcando frasi di quel passato che li aveva visti come maestro e allievo nel cuore dell’oscurità. 

Akutagawa reagì con un guizzo dello sguardo, nonostante i suoi occhi rimasero a fissare il nulla. Non si rilassò, ma nemmeno tornò ad agitarsi. 

«Media distanza e corpo a corpo. Ambidestro. Il braccio sinistro è una protesi in metallo. Una pistola per mano» replicò e la sua voce, per quanto rauca, parve tornare quella usuale. 

«Sfrutta ciò che lo circonda?»

«Sì.»

«Abilità?»

Le spalle di Akutagawa ebbero un sussulto. La sua fronte si corrugò. La risposta uscì pesante. «Nessuna...»

«Ne sei certo?»

Akutagawa non rispose e Dazai continuò. 

«Comparazione con qualcuno che hai già affrontato?»

«...»

«Questo è interessante e preoccupante» concluse Dazai, picchiettandosi il mento con il pollice. «Vi siete trovati un bel nemico.»

Akutagawa tornò a focalizzare l’attenzione sull’uomo, che a propria volta ricambiò l’occhiata con una incuriosita. La busta tra le mani del ragazzo scricchiolò di nuovo, fino a strapparsi e avere dei buchi dove i polpastrelli avevano ecceduto con la forza. 

«Dazai-san...» 

Di nuovo, Akutagawa provò una sensazione serpeggiante che lo paralizzò. Il dolore era lì, batteva di pari passo col suo cuore. La sua mente tentava di districarsi ed elaborare. Era già stato sconfitto in passato. Era già stato ridotto in fin di vita. Sapeva cosa fosse l’umiliazione. Quello che non capiva era perché stesse provando tutto come se non avesse mai sperimentato nessuna emozione simile prima. La sensazione di essere braccato. Di essere un trastullo alla mercé di qualcun altro. Qualsiasi passo era un passo falso. Qualsiasi attacco andava a vuoto. Qualsiasi difesa era vana. C’era solo sangue e morte in attesa. «... è come me.»

«Cosa intendi?» domandò di rimando l’altro, perplesso dall’affermazione. 

Akutagawa rimase in silenzio, contemplando la propria rivelazione con un nuovo senso di calma, più un sipario che si chiudeva su una tragedia che non aveva chiesto di vedere. 

Qualcuno bussò alla porta dell’infermeria. 

«Fine delle confessioni. È arrivata la cavalleria. Aspettano all’uscita di emergenza sul retro» notificò Yosano, senza entrare. «Prima se ne vanno tutti, meglio sarà per le coronarie di Kunikida e i nostri timpani» aggiunse, per poi incamminarsi e borbottare qualcos’altro che si perse nel corridoio dell’Agenzia. 

 

* * *

 

La pioggerellina di quella mattina si era spenta nel primo pomeriggio. Le nubi si erano schiarite e il sole aveva riscaldato l’aria, ma, complice l’umidità, non era stato piacevole. Soprattutto per Atsushi, il cui carico di lavoro quadruplicava di ora in ora ogni volta che passava davanti a Kunikida, il quale non lo aveva ancora perdonato per aver portato Akutagawa morente in Agenzia. Al contrario, Dazai continuava a complimentarsi battendogli pacche sulla schiena, finendo solo col far irritare di più Kunikida, che aggiungeva un’altra mansione, e un’altra ancora, e così via, alla lista di cose che Atsushi avrebbe dovuto fare quel giorno. 

Il risultato fu che a un quarto a mezzanotte, Atsushi finalmente riuscì a chiudere l’Agenzia, tirando un sospiro di sollievo. Era dolorante e sudato, neanche avesse passato la giornata in palestra. Il sogno di una doccia fu la motivazione che lo spinse a mettere un piede davanti all’altro per tornare a casa. Si fermò solo per recuperare dei nikuman per cena, troppo sfiancato per pensare anche di cucinare una volta rientrato. E, in un certo senso, voleva premiarsi. 

Per quanto Kunikida potesse essere arrabbiato, non pensava avesse avuto ragione di prendersela tanto. Akutagawa non aveva finto di essere ferito per fare il “Cavallo di Troia”, come lo aveva appellato Kunikida. Sia Yosano sia Dazai avevano riportato che le ferite erano vere - anche se non mortali - e che Akutagawa, per tutto il tempo, era rimasto in un parziale stato confusionale e di shock, nessuna finzione. Dal breve colloquio su quanto successo, Dazai aveva ricavato poco e niente, solo la conferma che Red Hood non fosse da sottovalutare. 

Atsushi era rimasto molto a pensare a quel particolare. Un uomo senza abilità in grado di ridurre in quello stato Akutagawa era spaventoso. Soprattutto, il modo in cui era riuscito a oltrepassare le difese di Rashoumon e colpirlo coi proiettili. A detta di Dazai non era impossibile, ma per nulla facile. Non era questione di precisione, ma di coglierlo di sorpresa. Superare l’istinto di Akutagawa e metterlo con le spalle al muro. 

Mentre camminava e mangiava la propria cena, Atsushi continuò a pensare e ripensarci. Lui e Akutagawa avevano affrontato avversari molto al di sopra delle loro capacità singole, come Fitzgerald o Ivan Goncharov. Era stato un lavoro di squadra non voluto a portarli a vincere. Ma in quel momento, con un giustiziere che aveva preso di mira solo la mafia, come si sarebbe dovuto comportare? Offrire il proprio aiuto ad Akutagawa? 

L’idea gli mandò quasi di traverso il boccone. Le circostanze contro la Gilda e contro il piano di Dostoevskij erano state straordinarie. E, in entrambi i casi, frutto di richieste di Dazai, ma per un bene superiore, per proteggere Yokohama. Ora, invece, la città aveva un proprio vendicatore, e, per una volta, la mafia era tornata ad avere il suo ruolo principale: essere il nemico. 

Nonostante questo ragionamento, Atsushi non si liberò della sensazione di inquietudine. Una viscida impressione che continuò a salirgli addosso, sussurrandogli fastidiosamente di guardarsi le spalle. 

E a rimarcare il consiglio, il suo sesto senso reagì in ritardo. 

Come quella mattina, la Tigre Mannara gli ruggì di fermarsi, ma il breve preavviso non lo salvò dall’essere trascinato di peso in un vicolo e sbattuto con violenza contro il muro di un palazzo. 

«Non ti dovevi intromettere!»

Atsushi riconobbe l’assalitore dalla voce, mentre lamentava il dolore improvviso alla schiena. Era Akutagawa. 

«Eri più morto che vivo! Prego!» biascicò, rimettendosi in piedi e guardando l’altro ragazzo con uno sguardo furioso. Non si aspettava un Grazie, ma nemmeno di essere tratto in un vicolo e picchiato per avergli salvato la vita. 

«È tutta colpa tua.»

Akutagawa non la pensava alla stessa maniera. Il suo sguardo mandava lampi di collera. Il pallore gli aveva scavato le occhiaie, rendendolo più spettrale e mitigando l’istinto di Atsushi di rispondere fisicamente alla provocazione. A guardarlo meglio, sembrava reggersi in piedi solo per la sua volontà testarda. Questo non sviliva però la frustrazione del più giovane. 

«Dovevo abbandonarti davvero in quel vicolo» si lasciò scappare Atsushi, per poi rincarare. Continuavano a rinfacciargli di aver salvato una vita e lui non lo accettava. «Perché dovrebbe essere colpa mia se qualcuno più forte di te riesce a batterti!?»

Rashoumon scattò intorno al collo di Atsushi, stringendo. In un primo momento, l’istinto gli disse di brandire gli artigli, ma la stretta si rivelò più debole di quel che voleva essere. Non piacevole, ma l’intento omicida era debole. Nel mentre, Akutagawa sembrava in bilico su un precipizio. 

«È colpa tua» rincarò, afferrandosi il viso con una mano, lo sguardo a un passo dalla follia. Era come se qualcuno gli avesse iniettato pensieri non propri e questi stessero vorticando nella sua testa ridendo di lui. «Sei tu che mi hai imposto di non uccidere nessuno! Non posso aspettare sei mesi ed essere un peso per la Port Mafia...» Stava rantolando e una parte di Atsushi si chiedeva che cosa avesse dovuto fare, ma se ne rimase ostaggio di Rashoumon, osservando la propria nemesi a un passo da un crollo psicologico. «Sono inutile così… Devo superarti adesso, Jinko!»

I fendenti di Rashoumon scattarono per trapassargli il petto, ma Atsushi si liberò un attimo prima. Non fu piacevole, ma il breve scontro fu inevitabile. Akutagawa non voleva ascoltare ragioni, non sembrava in grado di processare alcuna frase detta da Atsushi, mentre quest'ultimo salvata qui e lì per evitare i lembi di stoffa letali. 

La lotta fu breve perché il corpo di Akutagawa diede i primi segni di instabilità e cedimento. Atsushi abbassò la guardia quando si accorse che dal naso dell’altro stava colando del sangue. Fu una finestra d’attacco perfetta per il cane della mafia; Atsushi avvertì la famigliare e dolorosa sensazione di essere attraversato da Rashoumon all’altezza del fianco, ma divenne anche la goccia che fece traboccare la sua pazienza. 

Sfruttando uno dei due muri del vicolo e la potenza della Tigre Mannara, Atsushi saltò fulmineo contro l’altro ragazzo, troppo veloce anche per un Akutagawa in condizioni normali. Quest’ultimo non ebbe il tempo di reagire; avvertì una pressione così dolorosa allo stomaco che per un istante la sua testa andò in blackout. 

Quando Akutagawa riaprì gli occhi, una manciata di secondi dopo, si era schiantato contro la parete opposta, finendo seduto scomposto a terra come un giocattolo rotto. 

Atsushi era a pochi passi, ritto in piedi, la camicia sporca di sangue ma la ferita quasi del tutto rimarginata. Non era provato dallo scontro, non fisicamente; al contrario, la sua espressione faceva a botte con se stessa, tra irritazione e senso di colpa. Akutagawa sentiva parole di sdegno e sangue mescolarglisi in bocca, ma non proferì sillaba. Strinse i pugni. Più di questo il suo corpo non gli concesse. Doveva concentrarsi anche solo per rimanere vigile. 

«Tu non sei debole» affermò Atsushi arrabbiato, ma riuscendo a contenersi dall’alzare il tono di voce. «La colpa della tua sconfitta non è della promessa che mi hai fatto! Dazai-san ci ha raccontato cosa gli hai detto...» Dovette sforzarsi, stringendo le dita perché avrebbe voluto inculcare quelle parole nella testa della sua nemesi con veemenza. «Se c’è qualcuno che riesce a ridurti in questo stato è una minaccia seria.»

Akutagawa non riusciva più a distinguere le proprie emozioni. Erano tutte uncini aggrappati alla sua coscienza, intenti a reggere un peso che lo stava portando nell’oblio della stanchezza. «Sono inutile alla Port Mafia in queste condizioni» ripeté e, per la prima volta, suonò come un’affermazione priva di consistenza. 

Atsushi sospirò. «Dovevi farti guarire da Yosano-sensei completamente.»

«Non voglio più essere toccato da quella strega terrificante» mormorò di rimando Akutagawa, lo sguardo tipico di chi aveva sperimentato un giro della morte con contorno di risatine divertite. Al detective dell’Agenzia venne quasi da sorridere, ma si contenne. La tensione dava idea di essersi sciolta un po’. 

«Senti-» ricominciò Atsushi, grattandosi la testa. «Kunikida si è arrabbiato parecchio oggi e mi ha fatto lavorare fino all’ultimo. Sono stanco e tu non ti reggi in piedi, quindi… tregua? Almeno per stasera.» Non credette a quello che gli era appena uscito di bocca, ma era la pura e semplice verità. 

Akutagawa né rispose né lo guardò. Atsushi lo prese per un silenzio-assenso, sospirando. Con i sensi ancora allerta in caso fosse una trappola, tornò sui propri passi per recuperare la borsa e il sacchetto della cena. 

La quiete che era calata nel vicolo si fece un po’ pesante. Atsushi finì lentamente di sistemarsi, cercando di nascondere la macchia di sangue al fianco con la borsa, e nel mentre continuò a lanciare occhiate ad Akutagawa, fermo e immobile nella stessa posizione a terra. 

«Vuoi… che avverta qualcuno? La tua assistente?» tentò esitante, non sapendo come comportarsi. 

«No.»

Atsushi sentì il nervosismo mordicchiargli la nuca. Non voleva voltarsi e andarsene, avrebbe significato vanificare la decisione di salvarlo che aveva preso quella mattina. «Ok… potrei contattare tua sorella Gin?»

Akutagawa lo guardò sorpreso, per poi assottigliare l’occhiata. «Come sai di lei?»

«È una storia lunga...» borbottò Atsushi, frugando nella propria borsa mentre ricordava l’assurdità del pomeriggio in cui aveva conosciuto Katai. «Tieni» disse un attimo dopo, allungandogli un fazzoletto. Ovviamente rifiutato. Atsushi insistette. «Hai la faccia sporca di sangue… non puoi andare in giro così.»

Non c’era barlume di volontà da parte di Akutagawa a rialzarsi, ma alla fine strappò dalle mani del più giovane il fazzoletto, passandoselo sotto il naso e sul mento. Per Atsushi fu un primo passo sufficiente. 

«Ok… io ora andrei e, be’, dovresti andare anche tu… per, ecco, riposarti.» 

Anche se nella sua mente era suonato sensato, per Atsushi rimase un discorso allucinante da avere con Akutagawa. Un lieve imbarazzo lo colse, più simile a disagio, portandolo a schiarirsi la voce. «Devi riprenderti o non starai in piedi per quando quel giustiziere vi riattaccherà.» Era come se Atsushi potesse sentire da un orecchio i rimproveri urlati di Kunikida e dall’altro i complimenti smaliziati di Dazai. Dentro, Atsushi avrebbe solo voluto essere già a casa e chiudere fuori il mondo. 

«Sbagliate a pensare che sia un giustiziere.»

Furono le prime parole ferme che Akutagawa pronunciò quel giorno. Tornò a essere il cane della mafia che era di solito e questo fece scivolare in Atsushi un boccone di inquietudine non richiesto. Lo osservò, mentre a propria volta l’altro stava guardando di fronte a sé, senza vedere nulla. Riprese a parlare, sempre più calmo e composto. 

«Sta attaccando la Port Mafia, ma non è giustizia che cerca. Non fidatevi.»

Atsushi ingoiò di riflesso, sperando di mandare giù la sensazione sgradevole che stava facendo il nido nella sua gola. 

«Spiegati.»

Akutagawa chiuse gli occhi. «Oggi è la mafia, domani potrebbe essere l’Agenzia. O la polizia militare. O chiunque a Yokohama.» Le sue dita si chiusero a pugno, con troppa forza, facendogli tremare il braccio. L’attimo di lucidità fu come neve sotto la pioggia. Quando riaprì gli occhi, questi si spalancarono di nuovo, facendo trasalire Atsushi. «Non cerca giustizia» riprese, flebile e rauco. «È un assassino. Ho avuto paura e… sono scappato

Per la seconda volta, Atsushi sperimentò cosa significasse mettere da parte ogni ostilità e preoccuparsi per qualcuno che sarebbe dovuto essere il nemico. Era un pensiero che gli era ronzato in testa per tutto il giorno, ma che aveva strenuamente ignorato. Aveva salvato Akutagawa, sì, ma preoccuparsi era una parola troppo pesante e che male si incastrava nel loro rapporto. 

Tuttavia, in quel momento di confessione, Atsushi sperimentò di nuovo la stessa emozione. Era Akutagawa, ma era qualcosa di più profondo che stava emergendo. Red Hood aveva aperto una falla nella corazza del cane della mafia, e ora Atsushi si trovava inondato di frammenti troppo intimi e taglienti per poterli gestire così di impatto. E, probabilmente, Akutagawa non si stava neanche rendendo conto di quanta debolezza stesse mettendo a nudo. 

«Quell’uomo non cerca vendetta… non c’è odio, non c’è sforzo, non c’è ambizione» riprese Akutagawa, stringendo il fazzoletto sporco di sangue. «La sua sete di sangue è… È sufficiente a farti-» si interruppe, rifiutandosi di aggiungere un tremare. «Ma è vuota. Non ha volontà… è come se mi avesse visto appena. Dannazione!» esplose, picchiando un pugno in terra. «Ha giocato con me! Attaccarlo è stato inutile, difendersi è stato inutile!»

La frustrazione riecheggiò nel vicolo, spegnendosi con un silenzio grave. 

«Non capisco… perché siete voi il suo obiettivo?» sussurrò Atsushi, dando corpo a un pensiero che iniziò lentamente a scavargli la mente come un tarlo. 

Il sorriso di Akutagawa era guasto e sarcastico, riflettendo i contorni sfocati di quella situazione che non aveva ancora mostrato la bestia che celava. Una piega delle labbra che Atsushi aveva visto raramente, e più sul volto di Dazai che su quello dell’altro ragazzo, lasciandogli una sensazione sgradevole e fuori posto. 

«Ci attacca perché noi siamo i cattivi.»

Con quelle parole Akutagawa ricambiò il pugno allo stomaco ricevuto precedentemente. Atsushi ne sentì l’impatto come fosse stato un colpo fisico, ma non riuscì ad elaborare. Una cosa gli era però più chiara: la situazione era ben più grande di quello che i giornali o i fascicoli della polizia raccontavano. Non riuscì tuttavia ad afferrarla. Ne sentì il peso, come mani invisibili sulle spalle che si deliziavano nel tastarlo, ma che da un momento all’altro avrebbero potuto spingerlo contro il terreno. 

Nel mentre, Akutagawa si tirò in piedi a fatica, affannato, ma abbastanza stabile da riuscire a camminare. 

«O-Ohi!» lo richiamò Atsushi, basito dalla nonchalance con cui l’altro se ne stava andando dalla parte opposta senza aggiungere altro. 

In risposta, un nuovo lembo di Rashoumon scattò nella sua direzione. Atsushi si irrigidì, ma la bocca di stoffa nera si chiuse soltanto sul sacchetto di nikuman, strappandoglielo di mano. 

«Ehi! È la mia cena!» protestò il giovane detective. 

«Se racconti a qualcuno quello che è successo ti ammazzo davvero» lo minacciò Akutagawa, in un tono più stanco che pieno di odio. Tirò fuori un nikuman, per poi lanciarsi dietro le spalle il resto del sacchetto che Atsushi riacchiappò al volo. 

Quando rialzò lo sguardo, Akutagawa era sparito nell’oscurità del vicolo. 




 

Vendetta? Credi che lo faccia per questo motivo, per vendetta?
[Clyde Shelton - Giustizia Privata]




 

To be continued



 

Spazio autore 

 

Ultimo aggiornamento per Settembre ~

Un intero capitolo dedicato ai cuccioli, Atsushi & Akutagawa, che hanno bisogno di crescere il loro rapporto e farlo diventare qualcosa di bello UU/ Sorry not sorry. 

Non aggiungo nient’altro, il capitolo parla abbastanza da sé. Nel prossimo le cose inizieranno a movimentarsi. 

E il prossimo aggiornamento potrebbe avere un po’ di ritardo, o un po’ di anticipo…! 

Il primo Ottobre sarà una data importante- 

 

Lasciate qualche parere!

 

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Prossimo capitolo → Divide et Impera


 

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Capitolo 5
*** Divide et Impera ***


Capitolo 4

Divide et Impera




 

 


“Sottomettere l'esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità.”
Sun Tzu




 

Atsushi era stato l’ultimo a chiudere l’Agenzia la sera prima e fu il primo ad aprirla la mattina seguente. Corse a destra e a sinistra sistemando tutto quello che Kunikida gli ordinava, in un continuo di risposte sbadate che tradivano totalmente il suo avere la testa altrove, mentre pensava e riprensava alla conversazione avuta con Akutagawa la sera precedente. 

Quando Dazai mise piede in Agenzia, con un’ora di ritardo, sbadigliando e con un caffè in mano, fu travolto dall’impazienza di Atsushi. 

«Dazai-san, hai un momento!?»

Cinque minuti dopo erano sul tetto del palazzo e Atsushi non si era ancora calmato. Parlando, e gesticolando senza riprendere fiato, raccontò cosa Akutagawa gli avesse detto, glissando sulle parti di debolezza o come si fossero presi una tregua. Sorseggiando il caffè, Dazai si mostrò particolarmente interessato. 

«La storia del giustiziere va bene per i titoli dei giornali» commentò Dazai, poggiando il bicchiere vuoto in terra e stiracchiandosi. «In questo caso devo dare ragione a Kunikida quando dice che uccidere non è un favore.» 

«Quindi attaccare la Port Mafia è solo una scusa!?» 

Dazai alzò lo sguardo. Non c’era un singolo luogo da cui non si potessero vedere i palazzi della mafia. Erano perfettamente al centro della città, posti lì dove la loro presenza non sarebbe mai potuto essere ignorata. Il cuore nero e pulsante di Yokohama. Il bersaglio finale di quei cerchi di attentati che Red Hood stava collezionando. 

La conversazione avuta con Ango riaffiorò nella sua mente. Non era difficile immaginare che l’ombra di Dostoevskij persistesse ancora sopra le loro teste, ma che quel Red Hood ne fosse il complice era un tassello così ovvio da generare il dubbio. Il modus operandi non combaciava con le macchinazioni del ratto, ma questo non escludeva la loro collaborazione.

«Fino ad adesso Red Hood ha colpito obiettivi minori… anche se, sull’altro lato della bilancia, è riuscito a sconfiggere Akutagawa» riassunse Dazai. «Per quanto sia il primo a pensare che non si possa sconfiggere Akutagawa solo per un colpo di fortuna, questo non significa che Red Hood riuscirà ad avanzare ulteriormente.» Si fece serio, tornando a guardare i palazzi neri. «Quali vantaggi potrebbe avere un singolo individuo nel cercare di annientare un’organizzazione come la Port Mafia, Atsushi-kun?»

Atsushi cercò di trovare una risposta convincente tra tutte le informazioni che avevano raccolto fino a quel momento. Se doveva escludere la vendetta, l’unica altra idea che gli veniva in mente era la brama. «Vuole prendere il posto del Boss?» 

Il sorrisetto di Dazai era indulgente. «Molti pensano che essere a capo della Port Mafia dia un potere incontrastabile, ma come hai saputo dai recenti avvenimenti, esserne il Boss comporta una responsabilità che non tutti possono permettersi. Quel potere deriva da una gestione attenta, non è automatico. Mori-san ha scalato la vetta con un’idea precisa e non lascerà che il primo venuto distrugga quello che ha costruito.»

Da quando Atsushi aveva scoperto chi fosse il boss della mafia, il ricordo di quanto successo la prima volta nella Stanza di Lucy tornava a fargli visita di tanto in tanto. Un uomo che lo aveva spronato a non arrendersi, a non scappare, a usare la testa per uscire da una situazione disperata. Allo stesso tempo, un uomo che era rimasto a guardare, ad apprendere forze e debolezze del nemico. Gli ci era voluto del tempo, ma alla fine aveva capito perché Kyouka fosse rimasta paralizzata e spaventata dalla sua sola presenza. 

«Se Red Hood non vuole il posto da Boss… allora vuole distruggere davvero la Port Mafia? Perché?»

Dazai batté le mani, facendo sussultare Atsushi. L’immediatezza con cui Dazai era capace di mutare espressione da seria a faceta non prometteva nulla di buono. 

«Facciamo un test!» esordì leggero, strizzandogli l’occhiolino. «Immagina di possedere questo immeeeeeenso tesoro inestimabile! Un diamante! Un diamante grandeeeee cosìììì!» e nel dirlo, nell’aria disegnò con gli indici la forma di una gemma spropositata. «Dove lo nasconderesti?»

«… Eh?»

«Avanti! Usa l’immaginazione!» cinguettò Dazai. «Cosa faresti per tenerlo al sicuro?»

Atsushi fece uno sforzo per stare al gioco. 

«Lo metterei in una cassaforte…?»

«Perfetto! Dieci punti!» Le lodi furono strombazzate con un motivetto stile quiz televisivo. «E poi? Se qualcuno lo bramasse?» 

«Lo difenderei… credo.» 

Dazai assentì con una solennità teatrale, ma poi lo fissò dall’alto in basso con lo sguardo severo. «Lo difenderesti da solo? Non chiederesti a nessuno di aiutarti? Anche se eserciti di persone cercassero di sottrartelo? Non lo chiuderesti in un castello, se potessi?»

Il bandolo di quel discorso continuava a sfuggire di mano ad Atsushi. «Sì… sì, credo. Ma non capisco cosa c’entri.»

«Se una delle torri del tuo castello crollasse, cosa succederebbe alle tue difese?»

«Sarebbero più deboli e… ci sarebbe un varco per il tesoro.»

Dazai lo ricompensò della risposta con una pacca sulle spalle, superandolo per avvicinarsi alla ringhiera della terrazza e continuare a tenere lo sguardo fisso sui palazzi neri. «Ultima domanda e vinci! Cosa custodisce Yokohama?»

La comprensione fiorì nitida sul viso di Atsushi e nel suo sguardo sconvolto. «Il Libro!»

«Dlin-dlon, Atsushi-kun!» ridacchiò Dazai, mentre il ragazzo lo affiancava, fissandolo agitato. Il mentore si strinse nelle spalle. «Già. Credo sia ora di parlare con Fukuzawa-san per mettere mano a questo caso.» 

«Ma se Red Hood è qui perché vuole il Libro… perché cominciare dalla Port Mafia? Insomma loro… loro sono tanti e forti. Più di noi.»

«Questa è un’altra ottima osservazione» concordò Dazai, tenendosi una ciocca di capelli contro una folata di vento. «Potrebbe essere un diversivo per l’opinione pubblica? In fondo, da giorni i giornali dipingono Red Hood come un moderno Robin Hood che sta portando giustizia contro i soprusi della Mafia.» Rimase in silenzio, aspettando una contro risposta da Atsushi, ma questi aveva solo la fronte corrugata nel processare le opzioni messe sul tavolo, così Dazai proseguì. «Se però quello che abbiamo appena teorizzato è giusto, sulla linea di fuoco ci siamo anche noi, che a differenza della mafia siamo tutti concentrati in un posto piccolo e accessibile. Basterebbe una sola bomba ben piazzata a dimezzare le nostre capacità di risposta. Forse siamo rimasti a guardare troppo a lungo...» 

Inaspettati e funesti, i boati di tre esplosioni rieccheggiaro per tutta Yokohama.

     

 

* * *

 

La sala riunioni dell’Agenzia fu allestita con rapidità di tutto il necessario. Su tre schermi vennero proiettate le dirette dei giornali appena iniziate sui luoghi delle esplosioni; un portatile fu messo a disposizione per collegarsi con la polizia militare e un altro per monitorare i social network, in attesa di eventuali rivendicazioni o foto degli utenti online che avrebbero potuto catturare indizi inconsapevoli. 

Ranpo si era lasciato cadere su una sedia, finendo l’ultima patatina del sacchetto e iniziando a buttare un occhio alle informazioni, mentre Kunikida era al telefono con il loro referente presso le forze dell’ordine. Scrisse velocemente qualcosa su un foglietto e lo passò a Dazai. Di nuovo al suo fianco, Atsushi lesse tre indirizzi diversi, prima che Dazai li individuasse sulla mappa di Yokohama marcandoli con una X. Coincidevano con il nuovo cerchio di attacchi portato avanti da Red Hood.

«Quindi è opera sua!?» 

Tanizaki diede voce al pensiero che aveva attraversato la mente di ognuno dei detective, bloccandoli per un momento dalle rispettive mansioni. 

«Quattro anni fa erano tre società di facciata per la Port Mafia» spiegò Dazai serio, poggiando il pennarello sulla scrivania. 

«Non è ancora stata accertata l’origine delle esplosioni, se di natura terroristica o accidentale. I vigili del fuoco sono sul posto e si stanno occupando degli incendi» li aggiornò Kunikida, riagganciando il telefono per poi accettare da Haruno l’auricolare per continuare più liberamente. «Le informazioni sono poche, ma tre esplosioni in contemporanea danno addito all’intenzionalità» si interruppe, ascoltando cosa gli veniva comunicato attraverso la cuffietta. Annuì tra sé di riflesso, preso dalla situazione, per poi rivolgersi al Presidente, rimasto in attesa a braccia conserte sulla porta. «Abbiamo il via libera della polizia militare per agire da supporto alle operazioni.»

«Ci divideremo in tre squadre operative e una di comando» ordinò Fukuzawa, scorrendo lo sguardo sui propri sottoposti. «Dazai.»

Dazai ci pensò un’attimo, per poi guardare di rimando il Presidente. «Partecipa anche lei?» 

Fukuzawa annuì. 

«Perfetto» e levò un indice in aria. «Kunikida e Ranpo saranno il fulcro di comando per coordinare le informazioni. Kyouka sarà il loro backup.» Il primo assentì, mentre il secondo sbadigliò, accettando una bottiglietta di ramune da una delle segretarie. La ragazza si affiancò a Kunikida, mentre Dazai si rivolgeva ai restanti detective. «Io e Atsushi ci dirigeremo verso la prima esplosione. Tanizaki e Kenji andranno sul luogo della seconda. Il Presidente e Yosano-sensei sull’ultima.»

Ci fu un consenso unanime e in pochi minuti si divisero per raggiungere le rispettive mete. 


* * *

 

Quando Dazai e Atsushi arrivarono al palazzo della prima esplosione, le fiamme lo stavano ancora lambendo. La zona era trincerata dalle auto della polizia e dai mezzi di soccorso; i curiosi circondavano e riempivano la strada bloccata al traffico, scattando foto e girando video in un generale brusio di sottofondo il cui tono si alzava e abbassava ogni volta che succedeva qualcosa, come un vetro rotto o le urla di qualche persona ancora intrappolata. 

Che la società insediata nel palazzo fosse una facciata della Port Mafia, Atsushi lo aveva già dimenticato. Guardava febbrilmente ogni piano del palazzo; non si era neanche reso conto di come i suoi occhi fossero mutati in quelli della Tigre Mannara e stesse scalpitando per poter aiutare. 

Dazai non fece in tempo a trattenerlo che lo vide saltare con un balzo verso la finestra da cui si era appena sporto un uomo ferito per chiedere aiuto. 

«Sarà un modo per scoprire se guarisce anche dalle ustioni» mormorò tra sé e sé il mentore con un sospiro arreso. Le telecamere dei giornalisti, relegati oltre le transenne, seguirono l’azione di Atsushi e un attimo dopo Kunikida iniziò a sbraitare nell’auricolare. 

- Ohi, Dazai! Hai lasciato che il ragazzino entrasse in quel palazzo in fiamme!? 

«Sa quel che fa» replicò il partner con calma e fiducia. «Sarà più veloce dei pompieri a individuare e salvare le vittime.»

Kunikida incassò senza replicare e cambiò discorso. 

- Hai trovato qualcosa che ci sia utile? Indizi sull’artefice? 

«Per adesso regna ancora il caos.» 

Il cellulare di Dazai iniziò a suonare. Era Ango. 

«Kunikida-kun, chiedi rapporto alle altre squadre» e nel dirlo, si tolse l’auricolare per accettare la chiamata. 

«Ango, non è il momento buono. Sono davanti a uno dei palazzi esplosi.»

Dall’altro capo ci fu un attimo di silenzio, poi un sospiro stanco e costernato. «È successo di nuovo. Un’altra chiave. Per favore, vediamoci stasera al solito posto.» Ango non attese di avere una risposta e riagganciò. 

Dazai rimase con un’imprecazione sospesa in gola, ma gli eventi stavano correndo intorno lui. Atsushi riemerse dal palazzo in fiamme trasportando due persone, in braccio e in spalla, e ne aveva tre al seguito, che si gettarono a terra appena furono lontane dal pericolo. I soccorritori li circondarono per le prime cure, mentre Atsushi chiedeva se erano state avvistate altre vittime ancora intrappolate. 

Prima che potesse avvicinarsi, Dazai sentì il proprio cellulare squillare di nuovo. Era ancora Ango. Si assicurò con un’occhiata che Atsushi stesse bene e rispose. 

«Che altro succede?»

Dall’altro capo non ci furono repliche. Dazai controllò che la chiamata fosse stata accettata e si riportò il telefono all’orecchio. 

«Ango?» 

Concentrandosi, Dazai catturò dei rumori. Erano chiacchiere, basse e confuse, di una folla. Poi iniziò un rumore più acuto, una sirena. 

«Sei Red Hood?» chiese il detective, focalizzandosi per distinguere il minimo rumore che potesse essere il respiro o la voce. Non era stato Ango a richiamarlo, ma chiunque fosse si era agganciato all’identificativo dell’ultima chiamata ricevuta. Si voltò per avere una panoramica della folla, ma non era possibile distinguere nessun volto o individuo in particolare.

Dall’altro capo non ottenne risposte, ma carpì un nuovo rumore, il suono ripetitivo delle eliche di un elicottero. La chiamata fu riagganciata. 

Dazai si rimise al volo l’auricolare. 

«Kunikida!»

- Ohi, Dazai, non sparire! Che succede?

«L’artefice è in mezzo alla folla di una delle esplosioni. Su quale dei tre palazzi sta volando un elicottero?» 

Si intervallarono vari rumori frenetici e in pochi secondi Kunikida ebbe la risposta. 

- Sul luogo della seconda esplosione. È sopra Tanizaki e Kenji.

- Ranpo, cosa ne pensi?, si intromise Fukuzawa.

- Non ho informazioni sufficienti.

«Potrebbe essere una trappola» rincarò Dazai, muovendosi per raggiungere Atsushi. Gli fece cenno con un dito all’orecchio di riattivare l’auricolare per mettersi in ascolto. 

- Non c’è tempo, tagliò corto il Presidente. - L’obiettivo è bloccare l’attentatore o riuscire a identificarlo. 

- Se è in mezzo alla folla sarà senza maschera, fece presente Ranpo. Se da un lato era l’occasione perfetta per stanare Red Hood, dall’altra avevano ancora meno indizi per capire chi potesse essere. 

«Cerchiamo un uomo con una protesi al braccio» ricordò Dazai, rammentando il dettaglio dal resoconto di Akutagawa. 

- Io e Kenji iniziamo a cercarlo!

«Fate attenzione. È più probabile che sarà lui a riconoscere voi. Se estrae la pistola usate Sasame yuki per fuggire. Noi intanto vi raggiungeremo, riducendogli le vie d’uscita.» 

- Ricevuto. 

- Arriviamo, aggiunse Fukuzawa per sé e Yosano. 


* * * 

 

Dazai e Atsushi furono i primi a sopraggiungere sulla scena della seconda esplosione. L’incendio era stato quasi del tutto domato, i feriti trasportati via dalle ambulanze e chi era in grado di parlare stava rilasciando le prime deposizioni alla polizia. La folla si era parzialmente diradata, ma le persone rimaste si accalcavano ancora alle transenne per adocchiare qualche ultimo scoop da postare in rete. In mezzo a questi curiosi, Dazai e Atsushi trovarono Tanizaki e Kenji che si aggiravano guardinghi, scrutando i volti dei presenti tentando di non destare troppi interrogativi. 

«Kunikida-kun, ci sono novità?» chiese Dazai all’auricolare quando i quattro non vennero a capo di nulla. 

- I pompieri hanno gli incendi sotto controllo. Sono stati contati circa quaranta feriti, meno di una decina con lesioni gravi. Dai primi interrogatori nessuno ha notato qualcosa di anomalo. 

I quattro detective si guardarono. 

«Perché attirarci qui?» chiese Tanizaki, rivolgendosi a Dazai. 

«Ci sarà qualcosa nel palazzo?» continuò Atsushi, il volto ancora sporco di fumo, sudore e qualche macchia di sangue. 

Dazai si guardò intorno, misurando con gli occhi la strada, i palazzi, per persone. Si portò una mano all’auricolare per riattivarlo. 

«Presidente, Yosano-sensei, dove siete?»

- Arriviamo.    

Un presentimento attraversò Dazai. 

«State bene?» 

- Arriviamo.

Il dubbio in Dazai diventò un sasso pesante in gola. Fece un gesto affrettato agli altri per farsi seguire e iniziò a correre verso il luogo della terza esplosione. 

«Yosano-sensei, mi ricevi? Dove siete?» provò ancora, ma per l’ennesima volta fu Fukuzawa a rispondere con lo stesso, identico Arriviamo

La distanza tra i palazzi colpiti non era tanta, ma i quattro detective avvertirono ognuno di quei metri come chilometri; il tempo fu uno spiacevole battito nelle orecchie, mentre sentivano Kunikida incalzare la polizia militare per avere informazioni e Ranpo continuare a chiamare sia Fukuzawa sia Yosano. 

Quando arrivarono, l’incendio era spento. Erano rimasti solo pompieri, polizia e un ridotto assembramento di curiosi. Chiedere agli agenti dove fossero il Presidente e la dottoressa non fu fruttuoso: li avevano visti allontanarsi nella direzione da cui erano appena arrivati loro. 

«Atsushi-kun, fiuti qualcosa?» chiese Dazai mortalmente serio, mentre ripercorrevano la stessa strada, squadrando ogni anfratto. 

Fu la domanda giusta da porre, perché il ragazzo, per la seconda volta in due giorni, si ritrovò a seguire una traccia di sangue che conosceva. Il cuore gli balzò in gola e aumentò il passo così repentinamente che gli altri faticarono a stargli dietro. 

Si infilarono in una stradina che si ridusse in breve in un vicolo senza porte o finestre. 

- Li avete trovati!?

Dazai non prestò attenzione se a chiederlo fosse stato Kunikida o Ranpo. 

«Serve un’ambulanza. Subito.»

- Cosa è successo!?

Le suole delle scarpe di Dazai si erano macchiate pestando una pozza di sangue. Intorno a lui, gli altri giovani detective erano nel panico, schiamazzando nel tentativo di fare qualcosa di utile.

Fukuzawa era in terra, privo di sensi. Il suo kimono verde aveva assunto una tinta scura, umida, all’altezza dell’addome. Ciò che invece era rimasto di Yosano era una siringa vuota, che Dazai raccolse per sentirne l’odore. Nulla che riuscisse a identificare di preciso, se non un sentore famigliare di tranquillante. 

«Dazai-san!» 

Atsushi era spaventato. Tanizaki e Kenji erano corsi a chiamare aiuto, mentre lui era inginocchiato di fianco al Presidente, le mani sporche di sangue mentre tamponava la ferita. «Cos’è successo? Come… come è riuscito a sorprenderli? Come...» Il ragazzo non sembrava in grado di dare forma a una possibilità del genere. Lo shock sul suo volto era frenetico, rasentava l’isteria. 

Dazai si mantenne calmo. «Stanno arrivando i soccorsi, continua a premere» disse senza sfumature, mentre dall’imbocco del vicolo si sentiva la sirena di un’ambulanza e delle voci affrettarsi nella loro direzione. Tornò a fissare la siringa che aveva in mano, l’unica traccia di Yosano. La sua fronte si contrasse spiacevolmente.

«Daza-»

«Una delle torri del castello è stata compromessa, Atsushi-kun. Ci hanno giocato una mossa spietata. Divisi e conquistati.» 




 

To be continued.





 

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Probabilmente il giorno di aggiornamento slitterà al weekend da adesso. O appena posso ~

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Prossimo capitolo → Truth O’Clock (Parte 1)

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Capitolo 6
*** Truth O'Clock (Parte 1) ***


Capitolo 5

Truth O’Clock

(Parte 1)




 

 

 

Oh my God
Please help me, neck deep in the river screamin' for relief
He says, it's mine to give, but it's yours to choose
You're gonna sink or swim, you're gonna learn the truth
No matter what you do you're gonna learn the truth sayin'

[Bartholomew - The Silent Comedy]










 

C’era una seconda città riflessa nelle acque della baia. Bagliori che davano forma ai palazzi e alla ruota panoramica, ricreando una Yokohama placida e brillante, il ricordo di un sogno inafferrabile nei dettagli. 

Era l’una passata di notte e Dazai si trovava appoggiato al muro affianco all’ingresso del Lupin. La giornata si era protratta fino a poco prima e il locale aveva già chiuso, lasciando l’uomo a contemplare il punto più oscuro del cielo sopra di sé, uno spiraglio tra i palazzi in cui stava riversando i propri pensieri.  

Un leggero colpo di clacson dirottò la sua attenzione. Ango fece un cenno di saluto dal finestrino abbassato di un’auto scura.

«Novità sul Presidente?» 

Dazai si lasciò andare contro il sedile dell’auto in cerca di una posizione comoda, finché non appoggiò la fronte al finestrino e il tocco freddo gli diede sollievo. 

«L’operazione è andata bene, i medici sono positivi.»

Ango emise un sospiro di sollievo, ma non aggiunse altro. Per qualche minuto rimasero in silenzio, non più avvezzi a condividere tempo e spazio insieme, anche solo per lavoro. Il senso di disagio aveva più la forma spigolosa dei sensi di colpa, dal lato della ex spia, e un muro di vetro da parte dell’ex Dirigente della mafia. Tuttavia, la situazione era pressante sulle loro teste. Ango mise da parte i pensieri pungolatori e riprese la conversazione. 

«Sono emersi indizi sul rapimento di Yosano-sensei?»

Le dita di Dazai si chiusero a pugno, all’interno della tasca del trench. «Nulla.»

«Avete un rapporto su quanto successo?»

Le luci della città si diradarono, rimasero solo quelle dei lampioni; oltre il cono di luce che creavano c’era il buio e la percezione del mare. 

«Tre esplosioni in tre società legate alla Port Mafia. Gli ordigni erano fatti in casa, nulla di complicato, ma efficienti e sistemati nei punti ciechi delle telecamere di sorveglianza. Devono ancora fornirci i badge rilasciati a dipendenti e visitatori per fare controlli incrociati, ma non ne verrà fuori niente.»

«Pensate che sia opera di Red Hood?»

«Le esplosioni si collocano sullo stesso cerchio che ha iniziato due sere fa, anche se l’obiettivo della Port Mafia questa volta era solo una facciata.» 

Nel tono di Dazai, l’apparente indifferenza si mescolava con una rabbia tiepida. Erano caduti nella sua tagliola con una ingenuità imbarazzante. Le ultime parole che aveva rivolto ad Atsushi, quella mattina sul tetto dell’Agenzia, erano state fin troppo veritiere e funeste. 

«Per adesso pensiamo che Yosano sia viva. La sostanza trovata nella siringa era un composto di anestetico e paralizzante, studiato apposta per metterla fuori gioco. Hanno tenuto conto di quanto velocemente il suo corpo smaltisce tutto ciò che le è potenzialmente dannoso.»

Ango annuì, tenendo gli occhi sulla strada. Aveva una maschera di serietà, ma dalla rigidità della fronte corrugata traspariva la preoccupazione per tutte quelle notizie. 

«Ranpo-san non è riuscito a dedurre niente?»

Dazai chiuse gli occhi. «Il Presidente è stato operato d’urgenza e Yosano è stata rapita. Due delle persone più importanti per lui sono state prese di mire. Si è buttato a capofitto nell’indagine ed è stato impossibile trattare con lui. Forse domani avremo qualche novità.»

«Merda...» 

In una diversa circostanza, la sincerità con cui Ango imprecò avrebbe strappato a Dazai un sorrisetto. Il problema era che non riusciva a staccarsi dalla sensazione che la situazione li stesse ingoiando vivi. Il ricordo del Cannibalismo era ancora vivido e un’altra corsa in ospedale per il Presidente aveva messo alla prova il morale dei detective. 

«Ho una conferma però» riprese Dazai, mentre Ango fermava la macchina in uno spiazzo ghiaioso. Erano poco fuori il centro abitato e non c’era un’anima nei dintorni. Il rumore del mare contro la scogliera sostituì quello del motore. Dazai tirò fuori da un taschino interno del trench una fotografia. Ad Ango bastò un’occhiata per comprendere.

«Dopo che mi hai chiamato ho ricevuto una seconda telefonata. Alla luce di questo - Dazai diede una schicchera alla foto - non saprei dire se fosse Red Hood o un ratto. Ma la tecnologia di hackeraggio è la stessa usata sulla Moby Dick. Si sono agganciati al tuo ID nel mio telefono e poi all’auricolare del Presidente per attirarci in trappola.»

Nell’immagine c’era un piccolo microchip con stampata sopra la caricatura di un topo ridacchiante che si faceva beffe dell’osservatore. 

«Durante il caso del Cannibalismo siete riusciti a ottenere una pista facendo analizzare il dispositivo di controllo della Moby Dick.»

Dazai si strinse nelle spalle. «È già nelle mani di Katai-san, ma non freghi due volte la stessa persona, a meno che questa non voglia essere fregata» sentenziò Dazai, aprendo lo sportello dell’auto per scendere. 

Il vento gli scompigliò i capelli e l’odore di salsedine gli invase i polmoni prima che potesse inspirare pienamente. Sullo sfondo, Yokohama era una cartolina di luci arcobaleno, una città dei balocchi che nascondeva bene i propri segreti. Anche Ango scese dalla macchina, occhieggiando il panorama a propria volta; le sue dita si strinsero sullo sportello. 

«Se le bombe sono state messe da Red Hood e ha anche usato questo microchip, significa che-»

«Che Red Hood e Dostoevskij stanno dalla stessa parte» concluse Dazai, muovendosi verso il bordo dello spiazzo, gli occhi fissi sulle onde nere del mare. 

Il silenzio si protrasse il tempo che Ango ci mise a mandare giù l’ennesima, pesante verità. Si tolse gli occhiali, passandosi una mano sul viso tirato, per poi recuperare due fascicoli dal sedile posteriore, chiudere la macchina e avvicinarsi all’ex amico. 

«Red Hood è un diversivo? O è sempre lui a rubare anche le chiavi? Possibile che qualcuno da solo riesca a occuparsi di tutto questo?» 

Dazai iniziò la risposta alle domande di Ango con un’alzata di spalle. 

«Non sappiamo ancora quale abilità abbia Red Hood o se ne possieda una, ma escludo siano la stessa persona.» Nel dirlo, Dazai levò un indice, picchiettandosi la punta del naso. «Nell’omicidio della gioielleria siamo quasi certi che sia stato impiegato un qualche tipo di potere che il nostro finto giustiziere non ha ancora dimostrato di avere. Il calibro della pistola usata non corrisponde ai proiettili estratti da Akutagawa e Fukuzawa-san. In più, i modus operandi sono all’opposto: Red Hood è rapido e pulito, mentre l’assassino della gioielleria sembra essersi divertito

Ango porse a Dazai il primo dei due fascicoli che aveva portato con sé. Il documento era vetusto e consunto quanto il primo della sera al Lupin, senza alcun segno di riconoscimento immediato che lo classificasse come top secret. Dentro, la metà del rapporto era censurato e inutile. Questa volta, la prima fotografia ritraeva una galleria d’arte privata, mentre la seconda era stata strappata, e della chiave si vedeva solo l’impugnatura con delle decorazioni a foglia. 

«Non c’è stata effrazione» spiegò Ango. «La proprietaria abitava in un appartamento al piano superiore. Ci sono segni di trascinamento dalla camera da letto dove dormiva alla galleria, dove è stata uccisa.» Aprì il secondo fascicolo, nuovo e di un rosso mattone bollato in nero con un Confidential. Da questo estestrasse la foto di un cadavere di donna in camicia da notte, appeso al soffitto tramite dei cavi, come fosse stata un’installazione della mostra stessa. Dazai non si scompose, fissando la grottesca immagine con l’aria consumata di chi cose simili le ha già viste e riviste. 

«Identità fittizia?»

«Nome falso e vita costruita ad hoc» confermò Ango, richiudendo il file e consegnandoglielo con una rabbia impotente costretta a malapena sotto il tono serio. «Tornato in ufficio riprenderò ad analizzare gli effetti personali.»

«Il prossimo obiettivo potreste essere voi della Divisione. Il terzo tassello della struttura trilaterale di Natsume-sensei» meditò Dazai a bassa voce, le braccia in parte incrociate. La metà inferiore del suo viso era nascosta dietro i due fascicoli che stava inconsciamente tamburellando contro le labbra. Il suo sguardo stava vagliando le possibilità di un futuro prossimo. Un’espressione meditabonda che Ango aveva conosciuto ai tempi della Port Mafia, da cui era impossibile sfuggire, ma che gli anni avevano ammorbidito. 

«Se venissimo attaccati, forse il governo realizzerebbe l’entità della minaccia e la smetterebbe di tenere la testa sotto la sabbia...» commentò con sincerità e acredine Ango, serrando le dita a pugno. 

«Andiamo, Ango. Dov’è la fiducia verso i tuoi superiori? Hanno solo permesso a un’organizzazione americana di invadere Yokohama e quasi distruggerla» ridacchiò Dazai con un retrogusto cattivo. «Puoi sempre licenziarti e ricominciare in Agenzia. Kunikida-kun ti accoglierebbe a braccia aperte e potreste ammazzarvi di lavoro insieme.» Si fermò, ripensando a una cosa che aveva appena detto. «Abbiamo merce di scambio da offrire a Fitzgerald per utilizzare di nuovo Eyes of God?»

Ango scosse la testa. «Dalle ultime indiscrezioni che ho ricevuto, Fitzgerald è tornato in America. Sembra ci siano problemi interni alla Gilda.»

Le spalle di Dazai si sollevarono in un lungo respiro, per poi abbassarsi brutalmente nel rilasciarlo. «La conferma che non puoi fregare due volte la stessa persona con lo stesso metodo. Perché non c’è mai nulla di semplice?» si lamentò, il viso piegato da un lato con la prima espressione non contratta, anche se sconsolata, della giornata. 

Il suo cellulare iniziò a squillare. Sul display comparve l’identificativo di Kunikida. «Tch. Parli del dittatore… Ehilà, Kunikida-kun! A quanti caffé sei arrivato?»

«Dove sei?»

«A distrarmi con una donna, ma ha solo rimorsi da offrirmi» cincischiò Dazai, strizzando l’occhiolino ad Ango, che si massaggiò una tempia ingoiando la frecciatina. 

«Il Presidente ha lasciato l’ospedale.» 

«Se non fosse per il tuo tono lugubre direi che è una buona notizia» replicò il partner, più attento a come Kunikida avesse glissato completamente la sua battuta. La sua voce era pesante, al limite. 

«È sparito. Non ha lasciato detto a nessuno dove fosse diretto. Le sue condizioni non erano ancora stabili.»

Dazai si fece attento. «Non c’era nessuno con lui? Ha riferito qualcosa su quello che è successo oggi?»

«No.»

«Quindi sa effettivamente qualcosa...» constatò l’altro, assottigliando lo sguardo. 

«Non ho idea di dove potrebbe essere andato. Se si sentisse male...» 

Iniziava a esserci una sfumatura di panico nella voce di Kunikida, inquinata da uno sconforto spossato che si addiceva male al detective più ligio e retto dell’Agenzia. 

«Ranpo è quello che lo conosce meglio di tutti. Cerca di farlo ragionare. Io scarico la mia accompagnatrice e arrivo» e Dazai riattaccò. 

«Preferirei non ti riferissi a me così...» nicchiò Ango, ma il cellulare dell’ex Dirigente ricominciò a trillare. 

«Atsushi-kun, dammi buone notizie» sospirò melodrammatico Dazai, mentre si avviava alla macchina. 

«Ecco...» il ragazzo tentennò e, anche questa volta, non fu un buon segno. «Akutagawa pensa di sapere chi sia Red Hood.»

 

* * *

 

Qualche ora prima.

 

I segreti di Yokohama si snodavano tra le vie dove le luci magnetiche e brillanti non arrivavano. La notte stava scendendo lì col proprio manto e faceva sentire protetti nell’ombra quanti volevano muoversi indisturbati. 

All’interno della vecchia clinica medica, con una mano premuta sull’addome dove era stato ferito e operato, Fukuzawa stava misurando il proprio respiro, concentrandosi nel mantenerlo stabile. L’attesa stava scorrendo con un ticchettio indefinito, secondi troppo lunghi che l’uomo tentava di non contare. 

La prima voce che udì a spezzare la quiete fu di una bambina. Squillante e lamentosa del compito ingrato, si aggirò per le stanze della clinica, controllandole una a una. Fukuzawa ne seguì l’aurea violacea che emanava attraverso il vetro smerigliato dello studio, finché questa non si palesò sull’uscio. 

Il bagliore intorno alla sua figura sparì. Elise squadrò da capo a piedi il Presidente con uno sguardo sorpreso e, al contempo, più intelligente di una ragazzina della sua età. Gonfiò le guance. 

«Rintarou! Sei lento!» sgridò a piena voce nel corridoio vuoto, rivolta verso l’ingresso. Poi tornò a rivolgere la propria attenzione a Fukuzawa, le mani piantate sui fianchi. «Se stai male non dovresti andartene in giro così! Qualcuno si preoccuperà! Voi adulti siete tutti degli irresponsabili!»

Il Presidente chinò appena la testa in un assenso, seguito da un sospiro in cui liberò parte del dolore. «Hai ragione.»

«Via via, sii più gentile. Il nostro paziente è chiaramente provato.»

Mori Ougai apparve sulla soglia con un sorriso di sussiego. Aveva il suo camice bianco, i vestiti stazzonati, i capelli sciolti sulle spalle e una borsa da medico nera. Per la vista affaticata di Fukuzawa, vederlo conciato in quel modo tra quelle mura, fu un viaggio indietro nel tempo. 

«Su, Elise-chan, perché non vai a vedere se ci sono ancora dei pastelli in giro? Gli adulti devono parlare» esortò Mori, spingendo la bambina in corridoio con un’espressione instupidita. «Se mi fai un bel disegno dopo ti compro il gelato!» Elise lo guardò disgustata, ma fece lo stesso dietro-front, borbottando qualcosa che suonò come vecchio pervertito

«Non nascondo che la chiamata sia arrivata inaspettata» esordì Mori, addentrandosi nello studio e poggiando la borsa sulla sua vecchia scrivania. Nonostante il luogo fosse inutilizzato da anni, non sembrava aver patito troppo l’abbandono. Dava l’idea di essere stato messo in standby, con qualche telo bianco qui e lì, gli scaffali vuoti, ma non c’erano segni di vandalismo o di ricoveri occasionali per la notte. «È stata una giornata intensa per tutti.»

Fukuzawa fece per alzarsi dal lettino cui era appoggiato, ma Mori gli andò incontro rapidamente. «No, no, Fukuzawa-dono, niente sforzi inutili.» E con fermezza, lo costrinse a sedersi di nuovo. «Qualsiasi cosa voglia riferirmi, non riuscirà ad arrivare in fondo in queste condizioni. Mi faccia dare un’occhiata.»

Lo sguardo del presidente avrebbe voluto imporsi, ma le fitte di dolore gli toglievano il fiato. Restio, scostò la mano irrigiditasi nel tenere la ferita, lasciando campo libero al medicastro. 

«Lo sa che c’è una ragione se i pazienti vengono dimessi dopo l’autorizzazione del medico curante, sì?» sospirò Mori con quei suoi modi che facevano dimenticare che si trattasse del Boss della Port Mafia. Nel mentre, scostò i lembi del kimono per raggiungere i bendaggi macchiati di sangue fresco. «Non avrebbe dovuto lasciare l’ospedale in queste condizioni.»

La mano di Fukuzawa si aggrappò al suo bavero, in una stretta che nelle intenzioni era ferma, ma il tremolio dovuto alla sua salute la fece vacillare. Come anche il suo sguardo. 

«Yosano-sensei è stata portata via.»

Mori non si scompose. Sostenne lo sguardo dell’altro uomo, mentre con la mano scioglieva la stretta sul proprio camice. «Non faccia sforzi inutili e risparmi le forze» replicò, alzandosi per prendere quello che gli serviva dalla borsa e tornare verso il lettino; regolò un vecchio sgabello in modo da sedersi all’altezza giusta. «Avevo immaginato che le fosse successo qualcosa quando mi è arrivata notizia che la stessero operando» riprese il Boss della Mafia, sedendosi di fronte all’altro e mettendosi i guanti. «Ma le sorti della piccola Akiko non mi riguardano più da tempo, dico bene? È una donna adulta che sa a quali rischi va incontro.»

Per un istante, Mori poté sentire la rabbia di Fukuzawa investirlo, ma il sentimento non si evolse in azione a causa di una fitta di dolore provocata casualmente. 

«Ops, devo stare più attento a dove la tocco» si scusò leggero il medicastro, finendo di liberare la ferita dalle bende. «Lei però non si agiti. La situazione è ancora sotto controllo. Perdere un po’ di sangue fa parte di ogni guerra, dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro» proseguì ambiguo, mantenendo la stessa aria sorniona, lo sguardo fisso sull’operazione. «Anche se, devo ammettere, il fatto che lei sia stato messo così velocemente fuori dai giochi un po’ di preoccupazione la solleva. L’hanno presa di sorpresa? O è l’età che avanza?» insinuò con un cenno di derisione smaliziata. 

Fukuzawa non abboccò. La sua mascella era serrata nel mantenere stabile la percezione del dolore. Respirava dal naso profondamente, così concentrato che Mori gli lanciò un’occhiata, chiedendosi se lo avesse ascoltato. Dato che il silenzio si protrasse e da parte del Presidente non sembrò esserci volontà di replicare, Mori riprese. 

«Ho fatto un po’ di ricerche, anche se la conclusione è stata inutile. Questo giustiziere osannato dalla stampa non ha un passato. Precedenti in altre città, affiliazioni a organizzazioni, motivi di vendetta… nulla. Un fantasma sbucato dalla notte. Persino l’amichetto russo di Dazai che ci ha dato tanto filo da torcere ha più tracce sporche di lui.» 

«Mi sono già scontrato con Red Hood in passato.»

Mori interruppe il proprio lavoro, fissando dal basso verso l’alto Fukuzawa. «Prego?»

«Quando… ero una guardia del corpo.» 

«Quindi è davvero qualcuno che abbiamo già incontrato?» 

Mori riprese a lavorare sulla ferita, ma continuando a lanciare occhiate all’altro, per non perdersi i dettagli. Fukuzawa scosse la testa. 

«È stato prima che Natsume-sensei mi incaricasse di proteggerla.»

Il sospiro di Mori fu sconsolato, così simile a quelli di Dazai. 

«Trovo ingiusto che per colpe di altri ci rimetta la Port Mafia. Se avete un conto in sospeso, sarebbe gentile da parte vostra risolverlo senza distruggere il lavoro che ho fatto negli ultimi otto anni. Ridare stabilità e credibilità alla mafia mi ha portato via il sonno e non sempre ho potuto svagarmi.» 

Le sue lamentele riempirono il nuovo silenzio, senza ricevere repliche. Il lavoro alla ferita era concluso e Mori si alzò per svolgere delle bende nuove intorno all’addome del Presidente, adocchiandolo in cerca di altre rivelazioni, ma l’uomo sembrava aver raggiunto il limite fisico. 

«Qui abbiamo finito» riprese il Boss, rimettendosi seduto sullo sgabello, analizzando i movimenti dell’ex guardia del corpo. Era pallido, teneva le palpebre serrate, nel probabile tentativo di racimolare le forze residue. Non sarebbe andato lontano, constatò. «Mi piacerebbe approfondire la questione sul giustiziere, ma prima vorrei che non vanificasse il mio operato. Si prenda dei giorni per riposa-»

Neppure Mori fu in grado di prevedere, o vedere, il gesto fulmineo con cui Fukuzawa lo riafferrò per il bavero, strattonandolo verso di sé. Le dita del medicastro si chiusero istintivamente sulle forbici che aveva appena finito di usare, ma non ci fu motivo di usarle. Il Presidente dell’Agenzia stava ansando pesantemente e il suo sguardo era vacuo, prossimo a perdere i sensi, ma sembrava impellente che dovesse aggiungere altro alla conversazione. 

«Il suo obiettivo… sei tu

Mori sondò il suo sguardo, mentre con le dita della mano libera tentava di allentare la presa sul proprio camice. Non riuscì a interpretare cosa si agitasse nello sguardo del Presidente dell’Agenzia, ma era qualcosa che lo stava facendo impensierire più di quanto fosse disposto a concedere. 

«Ogni tanto va di moda prendere la testa di un Boss della Mafia. Nulla di ingestibile» sdrammatizzò, nella speranza che questo smorzasse la tensione. 

Fukuzawa scosse la testa. La sua presa si stava indebolendo, ma le sue parole rimasero ineccepibili e vibranti di una verità scomoda. 

«Tu hai già ucciso Red Hood.»

E si accasciò contro Mori.

 

* * *

 

Di nuovo, qualche ora prima.

 

Le ultime punte di rosso del tramonto stavano scivolando via dalle facciate dei palazzi. Un fresco pungente, che nulla aveva a che fare con la giornata calda appena passata, aveva invaso le strade. Atsushi non fece attenzione né al buio che stava calando, né ai refoli che gli carezzavano le zone di pelle scoperta. 

Aveva la sensazione che fosse la giornata più lunga della sua vita e, allo stesso tempo, quella che gli era scivolata via dalle dita più rapidamente, come sabbia, senza possibilità di afferrare qualcosa. Kunikida gli aveva ordinato di tornare a casa e riposare perché le indagini erano a un punto morto. Il Presidente era stato operato d’urgenza, Yosano era stata rapita. Due realtà così pesanti da sfiorare quel lato della sua mente pronto a negare tutto. 

Nel giro di poche ore, l’Agenzia era stata messa con un ginocchio a terra e tutta la storia del giustiziere li aveva schiaffeggiati, facendosi beffe di loro. Avevano sottovalutato il pericolo. Erano scivolati nella sua trappola con le loro stesse mani. Nonostante gli avvertimenti di Akutagawa, non si erano svegliati in tempo dall’illusione creata da Red Hood nel far credere che il suo scopo principale fosse la Port Mafia. Ora non avevano idea di dove fosse Yosano, delle sue condizioni, se fosse viva. 

Atsushi era così rigido che dovette fermarsi sulla via del ritorno. Sentiva di non aver fatto abbastanza. La voce martellante nella sua testa gli diceva di tornare indietro e insistere nel trovare degli indizi, ci fosse voluta tutta la notte, tutto il giorno dopo. Qualsiasi momento sarebbe dovuto essere importante. 

Se non sei in grado di aiutare gli altri non meriti quello che hai

Non importava che il direttore fosse morto, la sua voce gli scivolò nella mente e chiuse una mano invisibile intorno al suo respiro, facendolo soffocare interiormente. Yosano-sensei era più di qualcuno. Era una di quelle persone a cui dava il buongiorno la mattina, che gli ricordava di bere di più e prendersi cura di sé. Non era solo una collega. Era un’amica.  

Atsushi si sentiva responsabile e in colpa di essere lì, per strada, sulla via di casa, mentre lei era da qualche parte, strappata alla sua vita quotidiana. Era consapevole che facendo quel tipo di lavoro rischiavano momenti del genere, ma quel sapere conscio non lo aveva preparato al trovarsi in una situazione sospesa.  

Fu in quella parentesi di pensieri stagnanti che le grida improvvise dei passanti lo destarono. Sconosciuti gli corsero di fianco. Qualcuno urlava di chiamare la polizia. Atsushi andò nella direzione da cui provenivano, veloce, il battito in gola per l’improvviso limbo spezzato. 

In una delle vie che portavano al mare, ora svuotata di gente, Rashoumon attraversò il suo campo visivo, inseguendo e attaccando Red Hood. 

Fu tutto improvviso e inaspettato. Il bisogno di fare qualcosa, iniettato di una rabbia sottile, dettata dall’impotenza, esplosero dentro Atsushi. I poteri della tigre lo pervasero e si lanciò al pieno della velocità contro il giustiziere. 

Red Hood stava sparando ai lembi neri e famelici di Akutagawa, ma questo non gli impedì di spostare una delle pistole contro Atsushi e aprirgli il fuoco dritto in faccia. 

L’effetto sorpresa di Atsushi rischiò di trasformarsi in un rapido k.o. se non fosse stato per il sesto senso della Tigre Mannara e la fulminea rapidità con cui evitò il proiettile. 

«Levati dai piedi, Jinko! Lui è mio!» gli gridò Akutagawa ansante, senza spostare l’attenzione da Red Hood. Ogni secondo era fatale, comprese Atsushi, ma si riprese velocemente, troppo nervoso e ostinato per mettersi da parte. Il pensiero martellante del Presidente e di Yosano mossero le sue gambe, buttandolo nello scontro. 

Gli attacchi di tutti e tre finirono col distruggere la fiancata di un palazzo e parte della strada. Nessuno prevalse e nessuno arretrò, nonostante Akutagawa si stesse spingendo oltre i propri limiti e avesse diminuito gli attacchi per proteggersi ed evitare di finire di nuovo con dodici proiettili in corpo. Dal canto suo, Atsushi non prestò attenzione alle ferite, tutte di striscio. La sua foga aumentava a ogni pugno o presa che andava a vuoto. Red Hood stava evitando gli affondi della Tigre con scioltezza, ma allo stesso tempo non pareva in grado di sfruttare la vicinanza per sparargli nelle zone scoperte. Erano troppo veloci, entrambi bloccati in una impasse. 

Una impasse che si risolse quando Red Hood, con la sua maschera senza tratti somatici a riflettere la sua percezione della battaglia, affondò a sorpresa  un calcio nello stomaco di Atsushi, direzionandolo contro Akutagawa e facendoli schiantare entrambi a metri di distanza contro un muro. Senza fermarsi, scaricò loro addosso una dozzina di proiettili. 

Nonostante il fiato mozzato per l’impatto, Akutagawa fu in grado di usare Rashoumon come scudo per entrambi. Questo però gli impedì di vedere la granata che seguì la sparatoria. L’esplosione coinvolse il palazzo contro cui erano finiti, seppellendoli tra i calcinacci. 



 

Dopo frenetici minuti di colpi di pistola e distruzioni, per lunghi minuti il silenzio calò vuoto, come se l’aria fosse stata risucchiata via. 

«Dov’è andato!?» sbottò Atsushi, riemergendo dal cumulo di macerie. Gli occhi della tigre spaziarono la strada deserta mentre il cuore gli martellava nelle orecchie. 

«Non dovevi metterti in mezzo!» gli abbaiò contro Akutagawa, ma senza rappresaglie, piegato in due dal dolore dell’ultimo impatto. Era pallido, col sangue a sporcargli il mento. Era un fascio unico di nervi e rabbia, ma, allo stesso tempo, sul suo viso si stava facendo strada una sgradevole sensazione. Atsushi non gli prestò attenzione. Anzi, lo ignorò, balzando fuori dai detriti come fossero stati trucioli, continuando a frugare il circondario. Di Red Hood non c’era traccia. 

«Non può essere andato lontano!» esplose in uno sfogo frustato, avvertendò la totale vanità di quello scontro diventare concreta. Pochi minuti, un’occasione, e questa si era volatilizzata. Non era cambiato nulla per Fukuzawa e Yosano. Deluso da se stesso, Atsushi picchiò i pugni a terra, ranicchiandosi per la stanchezza che prese il posto dell’adrenalina. 

Né lui né l’altro ragazzo si mossero, ognuno trincerato a fare i conti coi propri demoni del fallimento, finché non avvertirono l’arrivo delle prime sirene della polizia e dei soccorsi in lontananza. 

Senza fiatare, Akutagawa si alzò per andarsene. 

«È stato più veloce della tigre… come ci riesce!?» imprecò Atsushi, ma con meno mordente di prima. «È un’abilità!? Non ho percepito niente! Era troppo… troppo fluido nei movimenti! Come se sapesse! Come se...»

«Come se prevedesse l’attacco» concluse Akutagawa. Si era fermato, nonostante il suo intento di allontanarsi. 

Atsushi alzò lo sguardo stupito sulla sua schiena, per poi mettersi in piedi e avvicinarsi. Anche se le sirene erano sempre più vicine, lui le ignorò. 

«È possibile prevedere gli attachi? Quindi Red Hood ha davvero un’abilità?» insistette, portandosi davanti all’altro ragazzo e tagliandogli la via d’uscita. Si accorse che sul viso di Akutagawa c’era una lotta di emozioni che di rado aveva visto, come se i suoi pensieri fossero impegnati a combattere contro qualcosa di irreale, convincendolo che non fosse possibile. «Sai qualcosa!?» si accanì Atsushi. 

Akutagawa non negò, ma non verbalizzò neanche i propri pensieri. Fece per superare Atsushi e andarsene, ma questi lo afferrò per il cappotto con fin troppa forza e irruenza. 

«Se sai qualcosa devi dirmelo! Devo sapere dov’è andato! Dov’è la sua base!» gli urlò in faccia. Stava sragionando, ma non gli importava. Non se, di nuovo, un’occasione gli era a portata di mano. Non poteva sprecarne ancora. 

Per quanto Akutagawa fosse furioso di quelle mani addosso, digrignò solo i denti, piantando le dita nelle braccia del detective, ma senza reagire ulteriormente. Quell’idea martellante che gli si era formata in testa, quell’ipotesi che lo stava scavando dentro, era sufficiente a farlo desistere, a togliergli le energie residue con il solo pensiero delle implicazioni. Del rovesciamento che avrebbe significato. 

«Akutagawa!» lo strattonò Atsushi, frustrato dall’inseguire i pensieri che si riflettevano sul suo viso. «Rispondi! Sai chi è!?»

«È un fantasma» sussurrò gelido il cane della mafia. Sostenne lo sguardo collerico che gli era stato puntato addosso con uno granitico. Ciò che li lasciò in silenzio fu percepire la reciproca, sottile e infida angoscia. 

«Cosa intendi?» continuò Atsushi, allentando la presa e lasciandolo andare. 

Akutagawa non rispose, ma prese una decisione. 

«Devi portarmi dall’amico di Dazai-san.»







 

La temperatura era calata in modo drastico, ma Atsushi non era certo di avvertire gli spiacevoli brividi addosso per via del freddo. Il cancello che avevano di fronte era chiuso, tuttavia Akutagawa non si pose il problema, scavalcandolo con l’aiuto di Rashoumon

«Muoviti» ordinò secco, incamminandosi per il viale di pietra bianca. 

Atsushi imprecò a denti stretti. Non c’era nessuno in giro; da un lato un fattore positivo visto che si stavano introfulando in un luogo oltre l’orario di chiusura, dall’altro sarebbe stata una scusa per evitare quella gita sinistra. In entrambi i casi, Atsushi dovette mettere da parte il pensiero e saltare la cancellata. 

Raggiunse Akutagawa e questi lo giudicò con un’occhiata tagliente, le mani in tasca e ancora le tracce del recente scontro nel sangue rappresso agli angoli della bocca. La determinazione ad andare in fondo a quella storia era il motivo per cui sembrava non intenzionato a cercare un nuovo scontro, nonostante ogni fibra del suo essere emanasse agognasse di distruggere qualcosa. 

«Fai strada» ordinò ancora, con un cenno del mento in direzione del pendio discendente della collina. 

Non dovremmo essere qui. Non sono il tuo cagnolino. Ci cacceremo nei guai

Atsushi avrebbe voluto trovare la forza di rispondergli, ma ogni possibile replica gli si bloccò sulla lingua. Riuscì solo a scuotere la testa e superare l’altro ragazzo.  

L’odore dei fiori era pungente al suo naso, per nulla piacevole mescolato all’umidità tetra della sera. I colori erano smorti e l’unico che risaltava era il bianco dei marmi, spettrali contro il terreno scuro. 

Atsushi era stato lì poche volte e tutte per ripescare Dazai. Sapeva dove andare, ma la fastidiosa sensazione di star profanando un luogo importante senza la presenza del suo mentore gli stava rosicchiando la coscienza. Prima che potesse trovare una soluzione a quel disagio, arrivarono lì dove Akutagawa gli aveva chiesto di essere accompagnato. Non poté fare altro che ingoiare il groppo e lanciare un’occhiataccia al cane della mafia. 

«Contento?»

Akutagawa lo ignorò come non fosse neanche stato presente. I suoi occhi si fissarono per lunghi istanti sulla pietra davanti ai suoi occhi. 

S. Oda.

«Lo conoscevi anche tu?» Atsushi tentò la domanda interpretando l’espressione dell’altro ragazzo. Non sapeva dire con esattezza cosa stesse pensando, ma tutto gli stava dicendo che sapeva qualcosa. «Pensi sia collegato a Red Hood?» incalzò.

Akutagawa prese un respiro più lungo dei precedenti, chiudendo gli occhi. 

«Taci, Jinko. Fatti da parte.»

«Cosa-»

Rashoumon fendette l’aria e il terreno ai loro piedi. Prima che Atsushi riuscisse a processare cosa stesse accadendo, zolle di terra gli rotolarono addosso e la lapide perse la propria stabilità, inclinandosi all’indietro. L’odore di terra umida impregnò l’ambiente, man mano che la bara, stretta dai lembi di Rashoumon, emergeva. Il rumore con cui fu posata sul terreno fu sordo, attutito dall’erba. 

«Perché lo hai fatto!?» strillò Atsushi, dimentico completamente di essere in un cimitero. 

Ancora una volta, Akutagawa non stette a sentirlo. Circumnavigò la cassa per studiare come aprirla. Atsushi si frappose tra lui e la bara, spintonandolo con l’intento di fermare quella follia. 

«Ti ha dato di volta il cervello!?»

«Non hai neanche idea di chi ci sia qua dentro. Levati.»

«No!» Atsushi non demorse, dandogli una seconda spinta. «Se Dazai-san scopre cosa stiamo facendo-»

Akutagawa non lo stava più ascoltando. Che fosse vicino o lontano dalla bara non era importante. Quattro fendenti di Rashoumon superarono Atsushi, scivolando nella fessura sotto il coperchio. Pochi secondi e questo fu divelto, ricadendo nel nella buca del terreno da cui era stato estratto. 

Il verdetto, che lasciò senza parole entrambi i ragazzi, fu una cassa vuota. 

«Dazai-san deve saperlo» sentenziò Akutagawa e, col cuore in gola, Atsushi recuperò il cellulare. 





 

To be continued. 




 

Spazio autore 

 

Fremevo per postare questo capitolo. Amo Ango, come si capirà pian piano dalla storia. È un personaggio che mi ha sempre affascinato. Amo tanto metterlo nelle stesse scene di Dazai, per questo loro rapporto “non siamo più amici” che è sottile e profondo quanto uno strapiombo.
Fukuzawa e Mori sono quella Soukoku senior che il mio cuore non regge. Una scena con loro e addio.
I cuccioli stanno iniziando a cuccioleggiare (cit. socia), e lo faranno sempre di più UU Sorry not sorry. 

Non sto dicendo davvero cose utili, però sono contenta =)) 

Plus, siamo arrivati al primo clou della storia e, manco a farlo davvero apposta, ho giusto ricevuto ieri dal senpai Akai (@akai-koutei su tumblr) questo sprite dlkjfòlkgjdsfòlkgkldsjfgòsd 

 

red hood odasaku

 

Quindi niente, I’m in love. Spero che questa storia vi piaccia. 

Ringrazio il gruppetto di Bungou Stray DOGGOS su Discord e il loro sostegno, soprattutto quello di Europa91 che non mi fa desistere :°) 

 

Al prossimo weekend ~

 

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Prossimo capitolo → Truth O’Clock (Parte 2)

 

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Capitolo 7
*** Truth O'Clock (Parte 2) ***


 

Capitolo 6

Truth O’Clock

(Parte 2)






 

Say goodbye, as we dance with the devil tonight
Don't you dare look at him in the eyes
As we dance with the devil tonight
Hold on, hold on
Goodbye

[Dancing with the devil - Breaking Benjamin]





 

 

Erano le due di notte e le luci dell’Agenzia erano accese. 

Kunikida tornò dall’ufficio di Fukuzawa con un’espressione funerea. Il suo umore si era incrinato quando Atsushi era arrivato seguito da Akutagawa, ma se la sua prima reazione era stata quella di apostrofare il “cane della mafia” come ospite non gradito, ora sembrava più scioccato che propenso a sbraitare. 

«Il Presidente sta bene» disse, ma con un tono che trasmetteva quanto fosse lui il primo a non crederci, impostato come un telegramma. Nonostante nessuno dei presenti accolse la notizia con entusiasmo, o una qualche reazione, proseguì. «Non tornerà prima di domani. Al telefono era... il Boss della Port Mafia. Ha detto che si accerterà personalmente delle sue condizioni e che sia al… sicuro.» 

Di nuovo, nessuno sembrò impressionato dalla notizia. Kunikida continuò a parlare, sentendolo come un dovere rassicurante per non metabolizzare davvero quello che si era concretizzato con la sua stessa voce. 

«Ho chiamato Tanizaki e l’ho mandato a prendere Ranpo, verranno qui per esaminare le nuove prove.» 

Nel terminare la frase allungò la mano per riprendere la propria agenda dalle mani di Dazai, intento a giocherellarci. Davanti a quest’ultimo, seduto alla scrivania del partner, erano sparpagliate le foto che erano state fatte al cimitero dai due ragazzi.   

Il silenzio perdurò con l’astensione volontaria a interagire. L’atmosfera era densa, in attesa di una scintilla per scoppiare. Atsushi era vicino alla propria scrivania, troppo nervoso per sedersi; continuava a dividere le occhiate tra Akutagawa, in piedi a pochi passi da lui, a sua volta intento a guardare fuori dalla finestra come fosse stato un semplice cliente in attesa, e Dazai, in silenzio dall’ultima chiamata al cellulare e fisso sulle fotografie che avevano riportato. Appoggiato al muro dietro il posto solitamente di Ranpo, Ango era a braccia conserte, inquieto, le dita a stringere in una morsa le maniche del completo. 

Kunikida buttò fuori un respiro con cui sperava di distendere i nervi. I suoi timori si erano rivelati esatti su come quella storia del giustiziere si sarebbe presto ritorta contro di loro. Non aveva immaginato a quei livelli. Livelli che faticava ancora a comprendere dal primo rapporto ricevuto.

Era ora delle domande. 

«Questo Oda… chi è?»

Dazai non rispose. La sua espressione predicava una distrazione che Kunikida conosceva abbastanza bene da affermare che fosse intenzionalmente sviante. Fu Ango a prendere la parola. 

«Era un agente della Port Mafia, del rango più basso. Un tuttofare. Era…» lanciò un’occhiata a Dazai. «Era nostro amico, quando Dazai era Dirigente e io una spia infiltrata. È morto durante lo scontro tra la Port Mafia e la Mimic, un’organizzazione straniera.»

Lo sguardo di Kunikida cadde sulle fotografie sparse sopra la propria scrivania, sotto le dita del suo partner. «Quanto eravate certi che fosse morto?» chiese piano, ma ragionevole. 

«Ha esalato il suo ultimo respiro tra le mie braccia.»

La voce di Dazai vibrò nell’aria e arrivò a tutti come il piccolo impulso di una scarica elettrica. Atsushi lo guardò di sottecchi, sentendosi di troppo; Akutagawa gli lanciò invece un’occhiata da sopra la spalla. Ango aveva un’espressione indecifrabile in viso, mentre Kunikida rimase in attesa del seguito. 

«Lo scontro con la Mimic fu tutta una sceneggiata orchestrata da Mori-san per riuscire a ottenere il Permesso per l’uso delle abilità. Odasaku è stata la pedina sacrificale fin dall’inizio e io l’ho capito troppo tardi.» 

Non c’era alcuna inflessione particolare nel tono di Dazai. Dava l’idea che stesse leggendo gli appunti di un caso appena arrivato, qualcosa di neutro. Kunikida non commentò, ma registrò ognuna delle informazioni. Si rivolse poi ad Atsushi e Akutagawa. 

«Voi due…» Non riusciva a farsi andare giù il fatto che Akutagawa fosse in piedi nel loro ufficio come se stesse aspettando il tè. «Siete certi che Red Hood abbia un’abilità che gli permetta di anticipare le mosse dell’avversario?» 

Atsushi si torturò le mani, lanciando prima un’occhiata all’altro ragazzo, ma questo continuava a fissare poco velatamente il proprio ex mentore, ignorando Kunikida. Toccò a lui rispondere. «Lo abbiamo attaccato in due, in tutti i modi. Ho cercato di coglierlo di sorpresa… ma non sono riuscito a fargli neanche un graffio. Ha tenuto testa alla velocità della Tigre come se nulla fosse...»

Kunikida tornò a rivolgersi a Dazai. «Questa preveggenza... era l’abilità di Oda, giusto?» 

Dazai non replicò. Di nuovo, fu Ango a confermare con un cenno di assenso. 

«E ora scopriamo che la sua tomba è vuota» continuò Kunikida. Anche se cercava di mantenere un tono saldo e ragionevole, la stanchezza, le energie risucchiate da quella realtà surreale, che andava complicandosi, iniziava a mangiare terreno dentro di lui. «Com’è possibile? Se sotto la maschera di Red Hood c’è veramente questo Oda, in teoria morto, allora si sta davvero vendicando della Port Mafia?»

«Avrebbe più di una ragione per farlo» spiegò Dazai, riprendendo la parola di punto in bianco. «Quattro anni fa Mori-san passò alla Mimic l’informazione sul luogo in cui avevo nascosto gli orfani di cui Odasaku si occupava. Sono morti cinque bambini, saltando in aria davanti a lui senza che potesse fare qualcosa.» 

La professionalità sul viso di Kunikida si incrinò, colpito nel personale. La bambina che non era riuscito a salvare durante il caso del Cannibalismo era ancora un’ombra vivida nella sua memoria. 

«Dopo quanto successo stamattina, siamo ragionevolmente certi che dietro le azioni di Red Hood ci sia la macchinazione di Dostoevskij» intervenne Ango, riportando la conversazione sul piano dell’indagine. «Non posso scendere nei dettagli ora, ma siamo sicuri che Dostoevskij stia cercando di mettere di nuovo le mani sul Libro.»

Tra tutte le notizie, non fu la più allarmante per Kunikida. Incrociò le braccia, guardando seriamente Ango. «Se questo è lo scopo, l’identità di Red Hood passa in secondo piano. Anche se il tipo di abilità lo rende un avversario difficile. Potrebbe trattarsi di qualcuno con lo stesso potere? Anche se non spiegherebbe la tomba vuota...»

«Sì… ci sarebbe la possibilità che sia un individuo con la stessa abilità. André Gide, il capo della Mimic, era uguale a Odasaku, ma è morto scontrandosi con lui...» 

Ango fu interrotto da un sospiro rumoroso di Dazai. Si alzò dalla sedia, muovendo il collo irrigidito e stiracchiandosi in generale. «Prendo in prestito una cosa» disse con distacco, aprendo il cassetto della scrivania di Kunikida. 

Un secondo dopo, tre colpi di pistola esplosero nell’ufficio dell’Agenzia. 

Un bagliore rosso si irradiò per la stanza. Akutagawa, sconvolto, bloccò i proiettili con l’uso di Rashoumon. Il resto dei presenti si era pietrificato sul posto. 

«Te lo ricordi?» 

Se si fosse potuto attribuire un colore al tono di voce di Dazai, questo sarebbe stato il nero. Fermo, privo di vibrazioni o pietà. Nel suo angolo, Atsushi avvertì un brivido che lo fece trasalire, ma l’istinto gli impose di restare immobile, come una preda che si è accorta del cacciatore. 

«Te lo ricordi adesso?» incalzò Dazai, il sentore della minaccia che avrebbe potuto sparare di nuovo riecheggiò nelle sue parole. «So che all’epoca vi siete scontrati. Odasaku è venuto a salvarti e tu l’hai attaccato. Sforzati e dammi una risposta. È lui?»

I proiettili sospesi in aria caddero in terra con un tintinnio che rimbombò amplificato dal silenzio. Rashoumon sparì, nonostante la posizione difensiva del suo padrone. 

Akutagawa, rigidamente, annuì, confermando il dubbio. 

Dazai abbassò il braccio e poggiò la pistola sulla scrivania. «Visto? Non ci voleva tanto.»

Fu come se qualcuno avesse premuto play al resto dei presenti. Tornarono a respirare. 

«CHE COSA SIGNIFICA!?» urlò Kunikida, tremando di indignazione e dimentico di tutto. Dimentico di essere in Agenzia e che fossero le due di notte. Era livido. «È UN RAGAZZINO! CHE COSA TI SALTA IN MENTE!?»

Dazai sventolò una mano a scacciare l’accusa, incamminandosi verso l’uscita. Il suo sguardo era altrove. «Calmati. Ha solo due anni meno di noi e l’ho cresciuto così. Sì, non è il massimo. Odasaku avrebbe fatto di meglio.»

«Dove credi andare!? Non abbiamo finito!»

«Ho bisogno di schiarirmi i pensieri. Del resto si può occupare Ranpo. Buonanotte» e Dazai uscì dall’ufficio.

La tensione si frantumò del tutto come se i proiettili avessero infranto l’invisibile muro tra di loro. Kunikida rimase un blocco di nervi a fior di pelle. Sbraitò che Akutagawa dovesse andarsene immediatamente, poi anche lui sparì in corridoio, senza aggiungere altro. Ango si tolse gli occhiali, passandosi una mano sul viso mentre si appoggiava di peso contro il muro alle proprie spalle. 

«Non lo vedevo così da quattro anni...» mormorò a nessuno in particolare, con un iniziale sorriso amaro e stanco. Non disse più nulla e rimase dov’era, perso nei propri pensieri.  

Atsushi non sentì tornare il cuore battergli finché non avvertì la presenza di Akutagawa a un soffio dalla propria spalla.

«Capisci ora perché dico che tu sei stato fortunato?»

Atsushi non trovò nulla con cui replicare. 



 

* * *




 

«Kunikida-kun, hai un momento?»

Ango apparve dalla porta che dava sul tetto del palazzo dell’Agenzia. La notte era trascorsa fin troppo veloce e la mattinata era stata infruttuosa, pretendendo che ognuno tornasse a vestire i propri panni e riprendesse il lavoro. Dazai non si era presentato, ma nessuno aveva commentato la sua assenza dopo essere stato aggiornato su quanto fosse emerso, per quanto si trattasse di un puzzle con troppi pezzi mancanti. 

Era ora di pranzo, eppure la fame stentava a esserci. Kunikida era salito sul tetto per schiarirsi le idee e accettò con un cenno del capo la presenza di Ango, ringraziandolo dell’onigiri preconfezionato che gli allungò. Si conoscevano prettamente di nome, da firme su documenti, all’incidente con Shibusawa di qualche mese prima, ma non erano in confidenza. Tuttavia, quello che era accaduto la sera prima li aveva costretti sulla stessa barca. 

«Ho sempre avuto la curiosità di sapere come si lavorasse in Agenzia, ma speravo di scoprirlo per un caso meno...» Ango lasciò la frase in sospeso, non trovando un aggettivo che riuscisse a racchiudere in sé la minaccia e la pesantezza di emozioni che quella situazione creava al contempo. Preferì continuare. «Mi sono state raccontate grandi cose di Ranpo-san, ma presumo non sia al suo meglio.»

Il silenzio di Kunikida e il suo sguardo contratto avvalorarono quella constatazione, mentre ingoiava un boccone senza reale appetito. 

Ango si era ripresentato quella mattina con le informazioni che aveva potuto recuperare circa la morte di Odasaku: certificati vari tra obitorio e cimitero, documentazione del medico legale sull’autopsia e scartoffie delle pompe funebri. Il verdetto di Ranpo, dopo un’analisi di una manciata di secondi, era stato un semplice e lapidario «Sono falsi». Così veri da essere falsi, come era accaduto con i file del Cannibalismo su Puškin. 

Ango non pensava di poter sentir scendere nello stomaco un secondo peso del genere, ma non aveva ottenuto altre risposte da Ranpo, tornato a occuparsi del caso di rapimento di Yosano senza prestare orecchio a obiezioni. Erano passate ventiquattr’ore. Red Hood aveva attaccato due nuovi luoghi nella notte e il vicolo cieco era sempre più profondo.

«Appena avremo delle prove andrà meglio» commentò Kunikida piatto. Poteva essere convinto dell’affermazione, ma il suo tono non fu rassicurante. 

Ango assentì, senza alternative. «Vorrei parlare con te di Dazai. Della storia che è emersa questa notte.»

La plastica vuota dove era avvolto l’onigiri scricchiolò tra le dita di Kunikida. Il suo sguardo era rivolto verso l’orizzonte, anche se questo significava fissare quei palazzi neri irremovibili. 

«Prima o poi avrei dovuto chiederlo per le indagini. Ti ascolto.»

Per quanto Ango fosse conscio che si trattasse di una chiacchierata informale con una persona vicina a Dazai, che non aveva secondi scopi se non venire a capo di quella faccenda, si sentì lo stesso in difetto a parlare di quella vita che si era conclusa bruscamente quattro anni prima. 

«Non conosco tutti i dettagli» iniziò, non con la migliore delle premesse, ma con onestà. «Probabilmente nessuno, tranne loro, sa tutta la storia. Forse soltanto l’ex partner di Dazai, Nakahara Chuuya, ma per ovvie ragioni non possiamo parlargli.»

Un nome sospeso a cui Kunikida aveva pensato spesso da quando aveva saputo quale fosse l’impiego precedente di Dazai e gli altarini erano saltati fuori. 

«Non so di preciso quando si siano conosciuti. Dazai non era ancora Dirigente, mentre Odasaku era un tuttofare. Il legame tra di loro era molto forte. Odasaku aveva questa influenza su Dazai che… lo calmava. Non saprei come spiegarlo. Riusciva a tirare fuori da lui atteggiamenti che altrove non mostrava.»

La sua mano si frugò nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori una copia della foto di quell’ultima serata al bar Lupin. La passò a Kunikida, per poi tornare al proprio resoconto. 

«Il loro legame è diventato più profondo, anche se hanno sempre mantenuto un’apparenza distante. Erano pur sempre un Dirigente della Mafia e un tuttofare. Non che a Dazai questo interessasse, ma conoscendoli credo che… neanche loro si fossero soffermati su cosa quel rapporto fosse.»

Kunikida aveva una domanda ferma in gola, ma la tenne per sé. Non pensava di potersi sentire così mentalmente stanco da non poter neanche fare il proprio lavoro e chiedere dettagli, ma preferì ascoltare. 

«Su Odasaku, col senno di poi, non so quasi nulla.» Ango si spinse gli occhiali sul naso, guardando oltre il bordo del palazzo, sulla strada brulicante di gente. «Ho fatto delle ricerche per conto mio, ma sono risalito davvero a poco. Aveva un passato di cui non parlava mai. La sua caratteristica più assurda era che non uccideva. Anche se era un membro della mafia, non ha mai ucciso se non all’ultimo, nello scontro contro la Mimic.» Fece un sorriso triste tra sé. «Aveva iniziato a occuparsi di questi bambini orfani. Ogni sua entrata finiva per loro. L’unico desiderio che aveva per sé era diventare uno scrittore.»

«La persona che mi stai descrivendo è l’antitesi di Red Hood» fu il primo commento, e anche il primo pensiero, di Kunikida. Riconsegnò la fotografia e si stropicciò gli occhi con le dita, senza preoccuparsi di togliersi gli occhiali. Anche se Dazai era in quella fotografia, per il detective quel diciottenne che vedeva era un estraneo. «Non mi fido di Akutagawa, ma di Atsushi sì. Quello che ha raccontato è vero. E Dazai ieri...» 

La scenata di Dazai della sera precedente non aveva ancora lasciato la sua mente. Aveva avuto davanti un’altra persona con le stesse fattezze di quello che credeva essere il proprio partner. Kunikida non aveva mai nascosto di faticare ad accettare Dazai e la sua indole, ma ora si chiedeva chi ci fosse sotto quei panni, sotto quegli strati di bende. Chi fosse davvero Dazai. 

«Ci sono cose di Dazai che ignoro e che non vorrei neanche conoscere» continuò, seguendo il flusso dei propri pensieri. «Già sapere che fosse nella mafia, per di più un Dirigente, lui che non riesce a scrivere mezzo rapporto in un pomeriggio perché non ha voglia e fa il ragazzino...» Scosse la testa e buttò fuori l’aria di un ennesimo sospiro, che però non alleviò il peso sulle sue spalle. «Sono preoccupato. Se da quello che dici Dazai è così coinvolto emotivamente, non avrà la lucidità per affrontare questa situazione.»

Quello di Ango fu un silenzio-assenso, anche se i suoi pensieri continuavano a vorticare. 

«Ho un immenso debito con Dazai e Odasaku. Ho mentito a entrambi quando loro mi hanno accettato come amico.» Strinse la ringhiera del palazzo tra le dita, insieme alla foto. «La loro amicizia per me valeva più di quanto potessi permettermi. Non ho mai capito quando Mori avesse scoperto che fossi una spia del governo, o se l’avesse sempre saputo, ma per colpa di questo, Odasaku… ha perso tutto. E Dazai ha perso Odasaku.» 

Anche se Kunikida non lo stava guardando apertamente, Ango percepì la sua coda dell’occhio fissarlo. Era la prima volta che metteva a nudo quelle verità. La prima volta, da quattro anni, che riapriva quella porta dentro di sé e lasciava parlare quanto aveva accatastato e nascosto sotto il peso del dovere e della quotidianità. Preferì essere sincero, nonostante Kunikida fosse poco più di un conoscente. 

«Sono vivo solo perché la mia incolumità è stata una delle condizioni nell’accordo tra la Port Mafia e il Governo. Non credo mi basterà una vita a ricevere il perdono che vorrei, ma su una cosa sono certo. Se ora Dazai è qui, e lavora dalla parte dell’Agenzia, è soltanto merito di Odasaku. E temo che questo sia alla base del piano di Dostoevskij. Non so come abbia fatto, ma Odasaku vivo è un asso nella manica che non potevamo in alcun modo prevedere.»

Ango tenne per sé un ultimo pensiero. Fugace, più con la forma di un sentimento che sarebbe dovuto essere bello, ma che la situazione gli stava ritorcendo contro. Dopo lo shock iniziale avuto nel sapere della tomba vuota, in lui si era fatto strada il sollievo. Un sollievo nella veste di una timida speranza, di una possibilità, riassunta in tre parole che non guardavano alla situazione in cui erano immersi. 

Odasaku è vivo

«Cosa dovrei fare?» Kunikida lo distrasse. Dopo la breve pausa riflessiva e stanca, stava tornando a rivestire i panni del detective intransigente. Si fece scivolare le mani nelle tasche dei pantaloni, dove tuttavia le dita artigliarono l’interno, perché gli strascichi di quella conversazione non programmata non lo avrebbero abbandonato facilmente. «Se non posso fidarmi di Dazai...»

«Non so come la situazione evolverà» cominciò un’ultima volta Ango, lasciando andare la ringhiera. «E, detto da una ex-spia che ha rischiato la vita, risulterà come un consiglio poco raccomandabile, ma credo che il culmine di un atto di fede stia proprio qui. Fidarsi quando tutto il resto ti dice di non farlo.»



 

* * *



 

La giornata era andata spegnendosi, lasciando di sé una percezione informe. Ogni minuto era stato infinito, ogni ora era durata troppo poco. Nessuna novità. 

Dazai non si era fatto vivo e il sentore che potesse essere successo qualcosa (o avesse potuto fare qualcosa di stupido), aveva spinto Kunikida a prendere il telefono e chiamarlo. Il suo cellulare era spento. 

Atsushi era saltato su a molla e si era proposto per andare a cercarlo, spinto dal senso di colpa per essere stato l’ambasciatore della scomoda verità sulla tomba vuota di Oda Sakunosuke. 

«Penso di sapere dove potrebbe essere» si era intromesso Ango. Aveva un’idea chiara e, ammise tra sé, la stessa che lui aveva intenzione di realizzare quella sera. Lasciò l’Agenzia lasciando detto che, nel caso si fosse sbagliato e non avesse trovato Dazai, avrebbe chiamato Kunikida per informarlo. 



 

Il bar Lupin diede credito alla sua intuizione. Dazai era seduto al solito posto, con l’eccezione che sul bancone non ci fosse solo il bicchiere del whiskey, ma l’intera bottiglia. 

«Ehi, Ango» mormorò il detective, accennando un saluto che spinse l’altro a prendere posto. 

Un secondo bicchiere di whiskey apparve sul bancone, prima che l’oste si congedasse, lasciandoli soli. L’odore che si respirava nel locale riportò alla mente di Ango sensazioni che in quattro anni aveva piegato e messo via. Anche se non era la prima volta che tornava al Lupin, l’atmosfera permise alla mente di correre e soggiogargli le percezioni, fondendo insieme presente e passato, facendola diventare una di quelle serate

Di fianco a lui, Dazai si riempì il bicchiere da solo, osservando come il ghiaccio mezzo sciolto si capovolgesse, perdendo il proprio equilibrio. 

«Ho passato la giornata a ipotizzare tutti i possibili scenari in cui Odasaku poteva essere vivo. Ho pensato a come fosse possibile, a come avessero fatto.» 

Dazai mandò giù un sorso corposo, poco elegante, e si leccò le labbra per togliere i residui. Il suo sguardo non era vacuo, ma distante. 

«Sono… ero certo di aver registrato ogni secondo di quello che era successo. I miei ricordi confusi iniziano dopo, nelle due settimane che hanno seguito la sua… non morte.» C’era una nota stonata, divertita, ma di una gioia finta che graffiava nell’essere ascoltata. «Ho abbassato la guardia. Dostoevskij, chiunque ci sia dietro, è riuscito a farmi piangere per quattro anni su una tomba vuota.»

L’ammissione penetrò in Ango come un’iniezione indesiderata. Era una confessione aperta, sincera, per quanto il tono avesse il retrogusto del sarcasmo verso se stessi. La bottiglia di whiskey era agli sgoccioli; Ango aveva già visto, in passato, Dazai ubriaco. Tuttavia, la soglia, in quel momento, era quella dei pensieri personali, qualcosa che Dazai raramente avrebbe ammesso senza giri di parole o doppi sensi sibillini. 

La tensione salì e annegò nell’odore dell’alcool e del tabacco stantio, in un ciclo continuo. Ango abbandonò subito i precari tentativi della sua mente di pensare in maniera logica al caso, a risposte concrete a quei come e perché rimasti a pungolarlo dalla sera precedente. 

Con un dito, Dazai percorse il bordo del bicchiere, il viso appoggiato all’altra mano. Il suo sguardo era per lo sgabello vuoto alla sua destra.

«Eravamo qualcosa senza il bisogno di definirci. Anche adesso non saprei dire cosa fossimo, ma… eravamo. Insieme.» 

Le sue parole erano come scarpe che camminavano sui cocci di qualcosa che non avrebbe dovuto rompersi. 

«Ci siamo adagiati su quella ingenuità acerba di chi condivide qualcosa e pensa di avere il tempo per dipanarla. Un errore stupido, considerando che ogni giorno nella mafia può essere l’ultimo.» I suoi occhi tornarono sul bicchiere e prese un altro sorso; il suo capo rimase inclinato, guardando un punto sulla parete del bar. «Forse il problema era che con Odasaku smettevo di pensare.»

Ango non aveva ancora toccato il proprio whiskey. Aveva continuato a fissare Dazai come uno spettatore la cui voce in gola moriva a ogni nuova battuta sentita. Il dolore di Dazai era tangibile, una presenza piena e reale che aveva ingombrato l’intero ambiente, dando a ogni particolare un ruolo, un ricordo legato a quattro anni prima. 

Prima ancora di rendersene conto, Ango sollevò una mano e la posò sulla spalla di Dazai. Non era pratico di gesti d’affetto. Gli unici che conosceva li aveva imparati proprio da Dazai e Odasaku, registrandoli distrattamente, ritenendoli un’estensione che non lo riguardava. Almeno, fino a quell’amicizia che aveva spezzato troppe convinzioni prive di esperienza. Un’amicizia che non sarebbe dovuta cominciare e che li aveva portati lì, con il filo tranciato del presente e gli spifferi di un passato che si stava insinuando nelle loro ossa. 

Rimasero così, senza dire o fare nulla. Dazai non scostò Ango, ma i suoi occhi vedevano solo lo sgabello vuoto affianco a sé. 

«Dazai...»

Le dita di Ango strinsero più forte. Si irrigidirono, piantandosi nella sua spalla. Dazai non capì finché non alzò lo sguardo.

Sull’ultimo gradino del Lupin, la pistola puntata contro di loro, c’era Odasaku.

 

To be continued.

 





 

Spazio autore 

 

Non so come, non so quando, ma a questo capitolo ne verrà collegato uno extra dedicato alla giornata che Dazai ha passato coi propri pensieri e il bisogno di parlarne con qualcuno

Nel mentre, una lettura che aiuta a capire i sentimenti dietro le sue parole, e che è un po’ il prequel di questa storia è una one shot che ho scritto qualche mese fa: 

» Dazai, please. 

 

Al prossimo weekend ~

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Prossimo capitolo → The sky is falling apart [Parte 1]

 

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Capitolo 8
*** The sky is falling apart (Parte 1) ***


 

Capitolo 7

The sky is falling apart 

(Parte 1)








 

Sometimes there's things a man cannot know
Gears won't turn and the leaves won't grow
There's no place to run and no gasoline
Engine won't turn
And the train won't leave

[Stay Alive - José González]





 

All’interno del Lupin era calato un silenzio così vuoto che il ticchettio dell’orologio di Ango risuonava come i rintocchi di un campanile. Per ognuno di questi, Dazai osservò un dettaglio nuovo su un volto che assomigliava a un ricordo. 

Odasaku era cambiato. 

Erano passati quattro anni anche per lui e avevano lasciato segni tangibili. Era cresciuto e il suo fisico lo rispecchiava. I suoi capelli erano più lunghi, raccolti sulla nuca. Una cicatrice gli attraversava l’occhio, ma non sembrava aver intaccato la sua vista. L’inespressività dei suoi sentimenti era rimasta, ma c’era una durezza di fondo che non trasmetteva più sicurezza. 

«Oda- Odasaku» chiamarlo fu più forte di Ango. 

Nessuna emozione si accese a quel nome, a malapena un battito di ciglia. Nessun sussulto, anche minimo o rassicurante. Niente. 

«Quando quella finta tomba fosse stata aperta, sarei dovuto venire qui e prendere la spia del governo e la spia della mafia» disse Odasaku di punto in bianco. La voce era rimasta la stessa, bassa, lenta, scivolò dalle orecchie al cuore in un veleno paralizzante. 

Odasaku era vivo

«Odasaku! Siamo noi! Siamo-»

«Sakaguchi Ango» lo interruppe lui, secco, interrompendo il suo slancio. «E Dazai Osamu. Due spie doppiogiochiste.» 

«Siamo-»

«Ango, lascia perdere» lo fermò Dazai. «Non si ricorda di noi.»

Le pareti del Lupin erano sfocate alla sua vista. L’uomo che aveva conosciuto come Odasaku era la parte più veritiera di quello che vedeva, ma allo stesso tempo anche la menzogna più crudele. Cominciava a capire le mosse sulla scacchiera, ma accantonò l’idea. Mise da parte la logica, anche se questa avrebbe potuto mitigare il dolore che sentiva all’altezza del petto. Un dolore che lo mantenne vigile. Una paura che si pose come filtro a una realtà ribaltata. 

Odasaku era vivo, ma non era Odasaku. 

Quegli occhi non gli stavano mentendo. Non stavano nascondendo qualcosa. Erano lo sguardo di una persona che Dazai non conosceva.   

«È pericoloso abbassare la guardia» riprese, riuscendo a mantenere la voce ferma. «È l’Odasaku che non abbiamo mai conosciuto, quello capace di uccidere senza pentimento.»

L’uomo non mosse un muscolo, imperturbabile, e Dazai tentò di fare lo stesso, svuotato di ogni pensiero o intenzione. 

La situazione si sbloccò, e peggiorò, quando Oda fece scattare il braccio con cui impugnava la pistola. Un proiettile lasciò la canna e riecheggiò nell’aria densa, sfiorando la guancia di Dazai. 

Sullo sgabello dietro di lui, Ango si lasciò sfuggire un gemito tra sorpresa e dolore. 

«Niente scherzi» commentò Odasaku, impassibile. «L’arma che hai nella fondina è inutile.»

Dazai lanciò un’occhiata sgranata ad Ango da sopra la propria spalla. L’ex spia era piegata su se stessa, le dita, macchiate di sangue, premute sulla parte alta del braccio destro. Digrignava i denti, a occhi chiusi. 

«Flawless» mormorò Dazai. Tornò a fissare il loro nemico. «L’abilità di vedere cinque secondi nel futuro.»

Fu impercettibile, ma un angolo della bocca di Odasaku ebbe un guizzo verso l’alto, simile a una nota stonata in una sinfonia. «Nove secondi» lo corresse. «Quasi dieci.»

L’accenno d’orgoglio fu così fuori luogo che, per un istante, la paura di Dazai assaggiò l’acre sapore del panico, il sentore che il baratro dell’amnesia fosse più oscuro e pieno di trappole di quanto stesse ipotizzando. Nell’autocontrollo che ostentava, Dazai avvertì tendersi ogni muscolo del proprio corpo, un elastico tirato all’estremo. Non mostrò nulla, continuò con la commedia. 

«Quindi è vero che le abilità possono evolvere.»

Era, tuttavia, un discorso che Odasaku aveva già deciso di accantonare. 

«Scegliete: potete venire via con me, senza opporre resistenza, o morire nel tentativo di scappare.»

Dazai sollevò le mani, i palmi bene in vista. Imbastì un sorrisetto. Doveva pensare. E guadagnare tempo. 

«Mi vanno bene entrambe le opzioni.» 

In risposta ricevette un’occhiata sottile, forse la prima vera reazione, a cui seguì un nuovo scatto della mano armata. Non sparò. Dazai stava abbassando un braccio, lentamente, verso la tasca del proprio trench. 

«Calma» disse il detective con una pacatezza lungi dal provare, ma registrando ogni reazione sul viso di Odasaku. Pensa. Pensa. Pensa. «Voglio prendere un fazzoletto. Se dobbiamo seguirti, Ango non può farlo in queste condizioni, seminando sangue in giro.» Suonò ragionevole persino alle proprie orecchie. Poi osò per tastare il terreno. «Se fossi una minaccia lo vedresti

Furono secondi che durarono il tempo di una marcia al patibolo. Un’ennesima scommessa. Dazai non aveva mentito sull’accettare entrambe le possibilità. Odasaku avrebbe potuto ucciderlo e tutto sarebbe finito. Non riusciva a percepire la scintilla a reagire, soffocata sotto gli strati di quella strategia montata nei suoi confronti.  

Dazai continuò il suo gesto con lentezza. Infilò la mano in tasca e tirò fuori un lembo del fazzoletto come prova. 

«Visto?» si concesse. Poteva ballare con la morte, se questa aveva la maschera di Odasaku. Forse, alla fine, sopravvivere era un’opzione a cui una parte del suo essere tendeva. 

Sempre sotto lo sguardo attento di Odasaku, Dazai si voltò, dandogli le spalle, per assistere Ango. 

«Lasciatelo dire da un aspirante suicida» sussurrò, premendo il fazzoletto sulla ferita, indifferente al sangue che gli imbrattò le dita o al sussultò di Ango per la sua poca delicatezza. «Il tuo istinto di sopravvivenza fa schifo.»

Il fatto che Odasaku non stesse in alcun modo reagendo, assistendo passivamente al tutto, diede una conferma a Dazai. Una conferma che sfruttò a proprio vantaggio, facendo scivolare nella mano di Ango un piccolo foglietto piegato in quattro. Questo sparì stretto nel palmo dell’agente del governo a una nuova fitta di dolore. Non si scambiarono sguardi per non destare sospetti, ma il detective sfruttò la propria posizione di spalle per mormorare una cosa. Due parole che avrebbero aumentato le loro possibilità di uscirne.

«Andiamo» ordinò Odasaku, accennando alle scale. 

Dazai non si staccò da Ango. Lo aiutò ad alzarsi dallo sgabello e lo sostenne, passo dopo passo. Superarono Odasaku e Dazai si concentrò solo su ciò che della realtà poteva controllare. Salire i gradini, uscire nell’aria pungente di un inverno che faticava ad andarsene, osservare il minivan dai vetri oscurati verso cui Odasaku li spinse a camminare e come la stradina, dalla parte opposta, fosse sgombra. Non c’erano persone in giro. Nessuno da coinvolgere. 

«Ango, ora

Dazai non lo gridò. Fu un segnale semplice, diretto. I suoi movimenti furono altrettanto precisi, nonostante il sangue gli rimbombasse nelle orecchie. Si staccò dall’ex amico e usò entrambe le mani per forzare Odasaku ad abbassare il braccio con cui teneva la pistola. Avvertì la protesi di metallo, ma non ci pensò. Odasaku era forte e Dazai dovette usare tutto il proprio peso per direzionare il colpo che partì verso l’asfalto. 

Nello stesso momento, Ango aveva aperto il foglietto con dita tremanti e sporche di sangue. 

«Granata accecante!»

I kanji vergati a penna ci misero un istante di troppo, ma reagirono. Una luce verde trasformò quanto descritto. 

Il bang risuonò tra i palazzi, il flash di luce fu breve, ma il fumo si alzò in una voluta grigiastra che inghiottì i tre in pochi istanti.

 

 

* * * 


«DOPPO GINKAKU!»

Kunikida era scattato in piedi, rovesciando la sedia. Era tardi ed era nella sala riunioni dell’Agenzia. Dall’altra parte del grande tavolo, Tanizaki sussultò, mentre Ranpo, dopo un’iniziale sorpresa, lo osservò al microscopio.  

Passato lo sbigottimento, Kunikida frugò in mezzo ai fogli e alle cartelline del caso, trovando la propria agenda verde. La sfogliò con dita rapide fino alle ultime pagine, dove aveva appuntato le “scorte in caso di emergenza”: pagine già segnate dalla sua calligrafia, con vari oggetti utili se non avesse avuto a portata di mano una penna. 

Vicino ai resti di una pagina strappata c’era un messaggio a matita. 

La prendo in prestito! 

Era la scrittura di Dazai, corredata anche di una sua caricatura minuscola che faceva la linguaccia. Una freccia che indicava la pagina mancante. 

«Maledizione a quell’idiota!» ringhiò Kunikida tra sé, richiudendo l’agenda con un colpo secco. 

«Non può averla attivata da solo» fece presente Ranpo, silenzioso e attento. 

«Sakaguchi deve averlo trovato.»

«Che cosa c’era scritto sulla pagina?» chiese piano Tanizaki. 

Kunikida si prese un momento per fare mente locale. «Una granata accecante.»

Il più giovane lanciò un doppio sguardo agli altri due. «Questo significa che qualcuno li ha attaccati!?»

«Red Hood.» 

«Ranpo-san, ne sei sicuro?» 

Nel tono di Kunikida non c’era reale scetticismo, più il desiderio che non fosse così. Iniziavano a esserci nuove ombre sul suo viso, ombre che rimarcavano una preoccupazione altrimenti repressa. 

«Dostoevskij è ossessionato da Dazai» disse Ranpo senza girarci intorno. «È il suo principale avversario. Possiamo continuare a revisionare tutti questi rapporti per ore, ma qualcuno sta cancellando le prove, mentre Dostoevskij usa la carta di Oda per abbattere Dazai. Perdere anche lui significa fine dei giochi per noi.»

Kunikida imprecò. Gli servì per buttare fuori il veleno che era diventato ogni pensiero relativo a quell’indagine. La situazione stava andando fuori controllo. Raddrizzò le spalle e si impose di tornare a essere il detective che era. 

«Non possiamo farci cogliere di nuovo in difetto» le sue parole suonarono ferme, più un’ancora per se stesso che un discorso rivolto agli altri due compagni. «Siamo in inferiorità numerica e non possiamo perdere nessun altro membro dell’Agenzia» e non sembrò mai essere stato più serio come in quel momento. 

«Tanizaki» chiamò e il ragazzo si alzò di scatto, pronto a eseguire le istruzioni. «Rimani qui con Ranpo e chiama Kenji. Avvisate la polizia militare se notate qualcosa di sospetto.»

«Ricevuto

«Io mi farò raggiungere da Atsushi e Kyouka e andremo a cercare Dazai e Sakaguchi.»

Ranpo approvò il piano con un assenso del capo e Kunikida andò a recuperare una fondina ascellare, la propria pistola e la giacca, dove sistemò l’agenda. Quando fu sulla porta, Ranpo lo fermò, allungandogli un post-it. 

«Vai a questo indirizzo. Troverai un posto chiamato Bar Lupin. Dazai sarà lì, o da lì potrai iniziare a cercarlo.»


* * *


Dazai aveva afferrato Ango e lo aveva trascinato via. Erano scappati sfruttando il diversivo della granata, ma Dazai era conscio che era stato dato loro solo del vantaggio. Quella non era altro che una caccia selvaggia. Loro erano le prede di quella notte e Odasaku era il loro cacciatore. 

Zigzagarono per varie stradine e vicoletti, in una delle parti meno affollate della città. I loro passi erano febbrili, come gli sguardi che continuavano a lanciare sopra le spalle. 

«Da-Dazai...»

Ango era senza fiato e incespicò. Il detective lo afferrò per il braccio sano, passandoselo dietro il collo, e svoltò di nuovo, in un vicolo più stretto e appartato. 

Dazai fece appoggiare Ango contro il muro e controllò la ferita. Continuava a perdere sangue e, con un’occhiata al terreno, si accorse che la perdita stava giocando a loro svantaggio, in una macabra scia di Pollicino. Si sfilò la cintura del trench e la legò alla spalla. L’occhio gli cadde poi sulla fondina di Ango e recuperò la pistola, sganciando il caricatore e contanto i colpi. 

«Vuoi... sparare a Odasaku?» 

L’occhiata che Ango ricevette per la domanda fu tagliente e piena di biasimo. 

«Tu non ti stavi facendo problemi al Lupin» replicò Dazai velenoso, rammentando l’intenzionalità stroncata sul nascere da Flawless. Con un colpo di palmo risistemò il caricatore e continuò a fissare solo l’arma. I secondi scorrevano a velocità raddoppiata e lui faceva ancora fatica a pensare. 

«Non gli sparerò se non sarò costretto» spiegò. Era una mezza verità, più il bisogno di fare il punto con se stesso. «Non è Odasaku. Non ho idea di cosa ricordi o che lavaggio del cervello gli abbiano fatto. Hai visto anche tu che è cambiato.» 

Nel dirlo, fissò negli occhi Ango, per leggerci i propri stessi timori, le sue stesse conclusioni. Erano davvero passati quattro anni anche per Odasaku. Dove e come erano domande per cui non avevano né tempo né energie.

«Comunque» riprese, alzando la pistola. «Questa è più utile se la uso io. La mia abilità mi rende invisibile alla sua. Non può prevedere quello che farò.» 

Era una magra consolazione, un’ennesima beffa in un teatrino di marionette di seconda mano. Dazai provava la sensazione di avere dei fili a direzionarlo - un sentore che aveva avuto anche durante lo scontro con la Mimic finché Mori non gli aveva sbattuto in faccia la verità. Ripromettersi di non cadere più nella tela di un ragno non era servito. Il problema era che Odasaku era l’unica variabile che andava oltre ogni sua previsione. 

«Che cosa facciamo?» 

Ango lo riportò alla realtà.

«Scappiamo e cerchiamo di seminarlo finché non ci viene un’idea migliore. E tu hai bisogno di andare in un ospedale, non svenire.» 

Dazai afferrò di nuovo Ango dal braccio sano per sostenerlo. Avevano sostato troppo.

Un proiettile gli sfiorò la testa. Un istinto che Dazai aveva ignorato per anni prese possesso dei suoi riflessi, facendogli rispondere al fuoco. Come predetto, l’invisibilità data da No Longer Human giocò a loro favore, facendo guadagnare una manciata di secondi al detective per riprendere a correre. Individuò un’insegna spenta e pericolante. Con due colpi mirati cadde alle loro spalle, spingendo Odasaku a balzare indietro. 

Prima di svoltare all’ennesimo angolo, Dazai incrociò lo sguardo con quello di Odasaku. Si era rimesso la maschera integrale vermiglia che gli valeva il nome di giustiziere e da cui non trasparivano emozioni. Il nulla totale, salvo l’avvertimento che il vantaggio stava per finire, come i granelli di sabbia in una clessidra. Dazai non aveva spazio anche per il timore.




 

Ricordi accantonati aiutarono Dazai a riconoscere, svoltare e correre per una serie di strade che il se stesso del passato aveva percorso per anni. Le luci erano poche, i locali avevano già chiuso, ma Dazai si accorse di uno spiraglio. 

Bloccandosi senza preavviso, con la conseguenza di trattenere Ango dal rovinare a terra, lo trascinò davanti a una porta di servizio. La spalancò con un calcio, puntando l’arma. Davanti a lui si aprì una cucina e lo sguardo sgranato di due sguatteri che interruppero l’opera di pulizia e le chiacchiere, pietrificandosi nel vedere la canna della pistola. A Dazai non passò inosservato come entrambi lanciarono uno sguardo sotto a uno dei banconi, dove dovevano aver lasciato le proprie armi.

«La parola d’ordine è Il sole si spegne. Non direte a nessuno di averci visto. Quando uscite andate a sinistra e non guardatevi indietro. Ora sparite» ordinò Dazai e i due ragazzi mollarono scopa e straccio senza una parola e si precipitarono fuori, passando loro a fianco. 

«Dove… siamo?» domandò Ango, reggendosi malamente in piedi. 

«Uno dei tanti locali facciata della mafia. È una fortuna che la mia parola d’ordine ancora funzioni» spiegò sbrigativo Dazai. Recuperò una pezza pulita e la lanciò ad Ango, per poi dedicarsi a sigillare la porta di servizio. 

«Questo non lo fermerà, ma dovremmo riuscire a guadagnare tempo. Se non ci ha visti.» 

Spinse poi Ango verso l’ingresso della cucina, guardandosi intorno. Era un locale piccolo, modesto, per una bevuta dopo il lavoro. La vetrina dava sulla strada principale, anche se in quel momento la saracinesca era calata ed entrava solo qualche sprazzo di luce. Dazai non si soffermò e imboccò una seconda porta, su cui era affisso il cartello bagno rotto

Non si trovarono in un vero gabinetto, ma in una seconda stanza, un ex magazzino rimesso totalmente a nuovo e lungi dall’avere l’aspetto dimesso del locale. Era, in una scala ridotta, la sala di un night club, con pareti insonorizzate, divanetti di lusso e una pedana centrale con un palo da pole dance. 

Dopo aver fatto sedere l’ex spia vicino al bancone del bar, il detective ispezionò velocemente la sua ferita. 

«Hai ancora il cellulare?» 

Ango scosse la testa. 

«È rimasto nella mia borsa al Lupin. Ma ho ancora...» 

Con la mano tentò di raggiungere una delle tasche del suo completo, ma le fitte di dolore lo bloccarono. Dazai fu più sbrigativo e frugò per conto proprio. 

«Fantastico» commentò, svuotato di entusiasmo ma colmo di disprezzo, rigirandosi un cercapersone tra le dita. «A voi del governo questi giocattoli retrò piacciono parecchio. Spero tu abbia il numero dell’esercito qui dentro, perché non basterà un’unità d’assalto contro Odasaku.»

Ango piegò la testa all’indietro in cerca di aria. Il suo viso sofferente si faceva sempre più pallido, ma tentò di trovare il fiato per spiegarsi. 

«Ha un raggio d’azione che copre tutta Yokohama e indica la nostra posizione al centimetro. Attiverà il cellulare scelto anche se è spento. Non si può ignorare. Seleziona il terzo contatto.»

Anche se dubbioso, Dazai non esitò a farlo. Avevano bisogno di aiuto per uscire da quella situazione, per quanto la richiesta avrebbe portato qualcuno di poco attento a lasciarci la pelle. Pensare a Odasaku con le mani sporche di sangue era un altro argomento che finì in fondo alla lista di cose di cui preoccuparsi in quel momento. Prima sarebbero dovuti sopravvivere alla sua caccia.

Il silenzio prolungato in cui la sala del night club si immerse lo portò ad alzare lo sguardo su Ango. Gli diede uno schiaffo leggero, per prendergli poi la testa tra le mani. 

«Rimani sveglio. Se svieni è la fine» e stanotte non posso perdere qualcun altro

Dazai si odiò per averlo pensato. Si sentiva emotivamente uno schifo e solo la tensione della situazione gli stava impedendo di fare i conti col reale significato di quanto stava succedendo. 

«Sarebbe ironico se morissi per mano di Odasaku» sussurrò Ango con voce rotta. «La giusta punizione da parte del karma.»

Dazai gli raddrizzò gli occhiali sul naso con un sospiro. Poteva concedersi di allentare un po’ la pressione, se questo fosse servito a mantenerli vigili. 

«Non lo dirò per farti stare bene. Prendila per una constatazione.» 

Abbassò lo sguardo sulla sua ferita. Alla fine, il sangue era indistinguibile. Rosso e caldo per ognuno di loro. La sua mano si era sporcata del sangue di Ango come quattro anni prima era successo con Odasaku. 

«Tu non c’entri con la morte di Odasaku. O quella che abbiamo creduto fosse la sua fine. Il fatto che tu fossi una spia non è stata una mossa leale, ma nel quadro generale degli eventi… sei stato solo la pedina giusta al momento giusto nelle mani di Mori-san.»

Forse avrebbe dovuto sentire quelle parole alleggerirgli la coscienza, ma riusciva solo a pensare ai ricordi di Odasaku seduto di fianco a lui al Lupin. Chiuse gli occhi. 

«Non hai nessun debito verso di lui, se non quello di avergli mentito. Ma ti avrebbe perdonato.»

Ango trattenne la commozione a fatica, scuotendo la testa, ignorando le fitte di dolore. 

«Ho capito troppo tardi che mi ero affezionato a voi due quando non avrei dovuto...»

Dazai non rispose, guardando altrove. Il devasto fisico ed emotivo di Ango scorreva quanto il sangue dalla sua ferita. Probabilmente quella conversazione sarebbe stata diversa in un altro frangente. O avevano avuto bisogno di trovarsi in una situazione del genere per aprire la porta su quattro anni prima. 

Il concetto di perdono era estraneo a Dazai, anche dopo anni in quel lato dove lo aveva spinto Odasaku. Come l’odio non era che un fastidio che lo portava a fare del male a chi lo provocava. La naturalezza con cui i suoi pensieri trovavano i punti deboli dove colpire era un processo che non gli aveva mai provocato troppi scrupoli. In fondo, Ango stesso era stato una sua vittima, nonostante una parte di lui continuasse a considerarlo importante. Ciò che Dazai realizzò in quel momento di confessione, fu come la presenza dell’ex spia stesse riaffiorando nei suoi ricordi legati al Lupin. 

Il rumore violento di una porta scardinata li colse nel momento di debolezza. Entrambi sussultarono, ma Dazai premette la mano sulla bocca di Ango, tirandolo in piedi per portarlo dietro il bancone del bar e nasconderlo. Impugnò di nuovo la pistola, contando mentalmente i colpi rimasti, e scelse l’angolatura migliore con cui tenere d’occhio la porta della sala. 

Era una stanza dove l’ingresso coincideva con l’uscita. Le probabilità che ne uscissero vivi erano minime e il pensiero gli provocò una sensazione che aveva sperimentato di rado, quella di voler sopravvivere. Odasaku era vivo e lui… non voleva morire.

L’uscio del night club segreto fu abbattuto con un calcio, volando addosso ai divani più vicini. 

«Dove cazzo sei quattrocchi!? Vieni fuori! Il mio cellulare non smette più di suonare per il tuo allarme di merda!»

Chuuya apparve sulla porta, mani in tasca ed espressione al limite dell’intento omicida. Sentimento che si stemperò quando incrociò gli occhi con quelli senza parole di Dazai. Di fianco a lui, Ango riuscì a mettersi in piedi a fatica. 

«Che cazzo significa?» sbottò Chuuya, marciando verso di loro con l’aria di qualcuno che non si sarebbe accontento delle spiegazioni. «Che cosa ci fate voi due qui!?»

Dazai lo ignorò, voltandosi verso il suo - un po’ meno - ex amico. 

«Perché Chuuya è nel tuo cercapersone?»

Ango riuscì ad abbozzare un sorriso di sollievo. 

«Volevi l’esercito…» e nel dirlo si accasciò contro il bancone. «Il resto è una storia lunga, non è il momento...»  

Chuuya annullò il resto della distanza in poche falcate, gli occhi fissi sulla ferita al braccio di Ango. 

«Che cazzo è successo!?»

«Red Hood ci sta inseguendo» replicò secco Dazai. Dare spiegazioni a Chuuya era complicato e non ne avevano il tempo. «Dobbiamo andarcene da qui. Subito. Ango non resisterà ancora a lungo.» Nel dirlo, lo sorresse per cercare di avviarsi verso l’uscita, ma Chuuya gli si parò davanti, premendogli una mano sul petto per fermarlo.

«Aspetta un momento. Quello stronzo è qui in giro!? È stato lui a sparargli!?»

«Dobbiamo andarcene» insistette Dazai, serrando le dita intorno al polso di Ango, che non protestò ma, anzi, comprese il gesto, la difficoltà a esprimersi. 

«Nakahara-kun, Dazai ha ragione… è meglio andare.»

«Col cazzo!» li liquidò Chuuya. «Dove diavolo è!? Così la finiamo una volta per tutte!»

Sottolineò la frase colpendosi un palmo con il pugno, il famigliare bagliore della gravità a circondarlo. 

Dazai liberò una mano per afferrare Chuuya e annullare l’abilità. 

«Non puoi ucciderlo.»

«Guardami farlo» ribatté il Dirigente, sostenendo il suo sguardo.

La dita di Dazai si conficcarono nel polso dell’ex partner. 

«Red Hood è Odasaku. È il mio amico

Le intenzioni di Chuuya persero di intensità. Dopo un iniziale momento di smarrimento, certo di aver capito male il nome, Chuuya si liberò con uno strattone e spostò lo sguardo dall’uno all’altro. Ango annuì debolmente, confermando le parole di Dazai. 

«Non è possibile» buttò fuori Chuuya, sconvolto. Un sentimento che fu presto inquinato dall’incazzatura. Anche se era la verità si sentiva preso in giro. «È morto. Cazzo, hai mollato la mafia per la sua morte!» 

Fissare in faccia l’ex partner, e ricevere solo silenzio in risposta, gli restituì un boccone più amaro. Dazai era concentrato sulla situazione, ma a Chuuya non era passato inosservato quello che si annidava nel suo sguardo. Scosse la testa. 

«Com’è possibile che sia vivo?»

«Dostoevskij.»

Un nome che ebbe il potere di aumentare il malumore di Chuuya. 

«’fanculo. Quel ratto di merda dovevate ucciderlo quando lo avete fregato.» 

«Ti assicuro che non andrà lontano la prossima volta» promise Dazai. «Adesso dobbiamo andarcene.» 

Chuuya non fu d’accordo. Non si spostò, nonostante l’occhiata combattuta che gli rivolse. 

«Non posso lasciare...» Imprecò. «Non posso lasciare che il tuo amico se ne vada in giro come se nulla fosse. Non con quello che ha combinato fino a ora. Degli agenti sono morti.»

Lo sguardo di Dazai promise una tempesta, ma non ebbe modo di discutere ulteriormente. L’ultimo granello di sabbia si era appena depositato nella parte bassa della clessidra. Il tempo a loro disposizione, il loro vantaggio, era finito. 

Ango fu il primo ad accorgersi dell’entrata silenziosa e distaccata con cui Odasaku mise piede nella sala. La sua espressione sconvolta fu l’allarme che fece scattare Chuuya. La prontezza con cui attivò la gravità li salvò dalla prima pioggia di proiettili e servì a Dazai e Ango per tuffarsi di nuovo dietro al bancone. 

«Non attaccarlo!» gridò il detective all’ex partner. «La sua abilità può vedere fino a dieci secondi nel futuro!»

«Figlio di puttana» digrignò tra i denti Chuuya, continuando a collezionare proiettili finché entrambe le pistole di Red Hood finirono i colpi. Fu il momento del contrattacco, ma Odasaku lo aveva già previsto e scartò dietro a una fila di divanetti, prima che i proiettili tornassero indietro potenziati dalla gravità. 

«Usa la Muraglia Cinese!» urlò Dazai, sovrastando il rumore frastornante. 

«Lo so!» replicò furioso Chuuya, sbattendo le mani sul pavimento. 

Dopo un secondo di puro silenzio, seguì un fracasso tale che difficilmente i muri insonorizzati arginarono. L’intera sala tremò e tutto quello che non era inchiodato alle pareti o a terra volò davanti a Chuuya, iniziando ad accatastarsi in un muro fatto di mobilio, bottiglie, elettrodomestici, tendaggi e qualsiasi cosa il richiamo della gravità riuscisse a trascinare con sé. 

Sforzandosi, Chuuya mantenne attivo il potere abbastanza da correre verso il bancone del bar, scivolarci sopra e atterrare davanti a Dazai e Ango. Senza perdere un secondo di quel nuovo vantaggio, colpì la parete con un pugno e aprì un varco. 

«Via! Ora!» urlò.

Lui e Dazai afferrarono Ango e scapparono via.  


To be continued.





 

Spazio autore 

 

Due settimane di pausa, ma ce l’ho fatta a correggere e postare ;) 

Il capitolo è dedicato a Europa91 che lo aspettava con tutta la passione che riesce a urlarmi in chat e che mi aiuta ad andare avanti con questa storia :°) Grazie! 

 

Al prossimo weekend col seguito ~

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess


Prossimo capitolo → The sky is falling apart [Parte 2]

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Capitolo 9
*** The sky is falling apart (Parte 2) ***


Capitolo 8

The sky is falling apart 
(Parte 2)








 

La fuga tra i vicoli fu serrata. 

Chuuya era finito a sorreggere Ango, mentre Dazai rallentava l’inevitabile esito di quella fuga, rimanendo l’unico punto cieco di Flawless. Tuttavia, i suoi non erano che proiettili di avvertimento e Odasaku lo aveva capito. Imprecando, Chuuya sfruttò di nuovo la gravità e accatastò tutto quello che poteva toccare e raggiungere, sbarrando l’ingresso della strada in cui stavano scappando e guadagnando del tempo prezioso. 

«’fanculo, Dazai!» 

Chuuya era fuori di sé. «Hai dimenticato come si mira!?»

«Non ho intenzione di fargli male.»

«Quello ci vuole ammazzare! Se almeno lo ferissi, potremmo prenderlo!»

«E poi cosa, Chuuya? La mafia se ne prenderà cura come l’ultima volta?» 

La frustrazione di Chuuya era densa e palpabile. Per avere le mani libere, scaricò Ango senza troppa premura contro il muro dell’anfratto che avevano trovato. Aveva bisogno di stringere le dita intorno al collo di Dazai, se fosse stato necessario.

«Il tuo amico si diverte a far saltare per aria gli uffici della mafia e ammazzare gente! Ha rapito uno dei vostri, ferito il vostro capo e in generale non mi sembra si preoccupi che tu sia vivo o morto! Non so che cazzo hanno fatto per incasinargli la testa, ma non è il tuo amico! Fattene una ragione!»

Se Chuuya era frustrato, Dazai era così saturo di emozioni che perdere il controllo non era più una scelta così criticabile. Si sfogò spintonando l’ex partner e inchiodandolo al muro con entrambe le mani. Per la prima volta da quando si conoscevano, si permise di sovrastarlo senza alcuna derisione o divertimento. Lo fece perché poteva, perché aveva bisogno che Chuuya avvertisse la soggezione, che sentisse la differenza tra loro. La dipendenza. 

«Ascoltami bene» sussurrò a un soffio dal suo viso. Lo fissò negli occhi carico di tutto quello che stava provando. Una parte di lui voleva esplodere. 

«Se fai qualcosa di irreversibile a Odasaku io non ci sarò più per annullare la Corruzione, hai capito?» 

Suonò cattivo al proprio udito e non se ne pentì.

«Potrai resistere, ma il giorno che dovrai cedere, io non ti aiuterò. Rimarrò a guardare finché non ti avrà consumato fino alle ossa.»

Lo shock sul viso di Chuuya durò qualche secondo di troppo. La sua mandibola era così serrata da tremare. Il suo sguardo cercò tracce di tentennamenti in quello di Dazai, nella sua minaccia, in quella promessa. Aveva di fronte di nuovo il Dazai quindicenne. Quello che avvertiva i nemici della fine che avrebbero fatto di lì a breve. Era appena stato posto dall’altro lato della barricata e fece male. Era così surreale che Chuuya faticò a realizzarlo. 

«Dazai...» 

Ango richiamò l’attenzione, interrompendo la tensione, il muro che si era creato tra i due. Faticava a tenere gli occhi aperti, ma si sforzò si mettersi dritto contro la parete, una mano stretta sulla ferita al braccio. 

«Dobbiamo fermare Odasaku. Pensare… a un modo per superare quei dieci secondi.»

Chuuya sfruttò il momento di distrazione per allontanare Dazai con uno spintone. Le mani gli tremarono e le serrò a pugno. Si concentrò su Ango per impedirsi di menare l’ex partner, di urlargli, anche se si trovò svuotato di insulti. 

«Che cosa intendi, quattrocchi?»

Ango si umettò le labbra. «L’abilità di Odasaku ha dei limiti… se il tempo tra l’innesco della trappola e la realizzazione di essere in pericolo è più lungo di dieci secondi, allora Odasaku non sarà il grado di sfuggire alla trappola...» Si fermò per riprende fiato. «Il problema è che… già con cinque, sei secondi era complicato elaborare qualcosa… ora che la sua abilità è evoluta a dieci… è un tempo infinito.»

«Niente più palla avvelenata» commentò Dazai con una sopita vena di scherno, ricordando come, quattro anni prima, Ango avesse fregato Odasaku. 

Chuuya non accolse quella spiegazione con positività. 

«Che cazzo di abilità ha che lo rende Dio!? Facciamo prima a continuare a scappare.»

«Dovresti seriamente portare via Ango» intervenne Dazai, le mani in tasca e un’aura di apparente calma. «Non potrà andare avanti ancora a lungo.»

Chuuya gli lanciò un’occhiata al vetriolo, ma distolse subito lo sguardo. La minaccia ancora scottava. 

«Sì, certo, ti lascio qui così puoi goderti la tua tragedia shakespeariana con il tuo amico redivivo. Non ci sperare minimamente. Taci e usa quel cazzo di cervello, non abbiamo più tempo.»

Dazai fece scena muta e questo diede tempo al suo ex partner di scrutarlo per qualche secondo. Dopo Ango, era quello messo peggio. I suoi nervi a fior di pelle si sentivano a distanza. Con sette anni di conoscenza alle spalle, Chuuya lo sapeva che non riusciva a pensare lucidamente. Come ogni volta che il suo amico era tirato in mezzo. 

«Un palazzo abbandonato...»

Ango parlò di nuovo, anche se più flebilmente, un mormorio come se fosse prossimo ad addormentarsi.  

«No» fu la replica secca di Dazai. 

«Cosa?» Chuuya spostò lo sguardo dall'uno all’altro, senza cogliere. «Che diavolo state blaterando!?»

Ango alzò una mano a mezz’aria, di piatto, per poi farla cadere in terra. Simulò un crollo. 

«Oh!» realizzò il Dirigente della Port Mafia. «Sì, posso farlo, è uno scherzo da ragazzi.»

Dazai si mise in mezzo. «No. Non rischieremo di ammazzarlo.»

«Senti, quello stronzo ha già dimostrato di avere più di una vita e quella sua abilità è una spina nel fianco» lo zittì Chuuya, calcando le parole, per poi buttare fuori un respiro pesante e ammorbidire il tono, per quanto restò scocciato. «Si farà male, ma scommetto quello che vuoi che domani ce lo ritroveremo di nuovo tra capo e collo. Per ora dobbiamo levarcelo di torno.»

«Starà bene» contribuì Ango, ma il suo tentativo di risultare incoraggiante si perse in una nuova fitta di dolore. 

Avevano di nuovo i minuti contati. La clessidra era stata capovolta una seconda volta e la sabbia stava scivolando via veloce, esaurendo quell’opportunità di scamparla che era arrivata insieme a Chuuya. 

«Va bene, ma alle mie condizioni.» 

Dazai tornò a fissare Chuuya dritto negli occhi. 

«Farai tutto quello che ti dirò e nei tempi che deciderò, intesi?»

Dal canto suo, Chuuya, col mento alto, sostenne il suo sguardo con freddezza. 

«Hai già specificato che cosa farai altrimenti.»

«Perfetto. Troviamo un posto dove nascondere Ango.»








 

«Un palazzo in costruzione!»

«...»

Chuuya ignorò il silenzio di Dazai e continuò a guardarsi in giro, piroettando su se stesso.

«È perfetto!» Guardò in alto, dove i pavimenti dei piani non erano ancora stati completati e si vedeva il cielo notturno. «Verrà giù in modo facile e veloce.»

«Prima di innescare il crollo devi contare almeno dieci secondi dal suo ingresso» gli ricordò Dazai, che, al contrario, stava fissando la parte da cui Odasaku sarebbe dovuto arrivare, se il piano fosse andato a buon fine. «Non un secondo di più.»

«Rilassati. Non so com’era prima, ma ora il tuo amico sembra una macchina da guerra. Avremo più problemi noi» e nel dirlo, si voltò a fissare l’ex partner con uno sguardo che avrebbe voluto scavargli dentro. 

«Niente colpi di testa o voglie improvvise di suicidio, chiaro? Le opzioni sono due: o ti trascino fuori di peso, o controllo il crollo. E per tutti e tre - ci tenne a specificare - è meglio che mi occupi dell’ultima. Poi dopo vedrai di spiegarmi che cazzo sta succedendo.»

Il sorrisetto di Dazai era una brutta copia del suo ghigno di finta intesa. 

«Potrebbe spararmi appena entra» fece presente con un’alzata di spalle. «O non seguirti qui. O ancora meglio, fiutare la trappola.» Si guardò in giro con aria critica. «È abbastanza palese.»

Chuuya ingoiò più di una rispostaccia insieme al vago senso di ansia che Dazai stava instillando. Anche un bambino avrebbe capito che era un piano fallace, ma l’altro non ci stava neanche provando. Il tempo, tuttavia, scarseggiava di nuovo. 

«Vedi di ricordarti che stiamo cercando di salvare la pellaccia dell’altro tuo amico» sbottò, riferito ad Ango, che avevano lasciato in condizioni pessime poco distante. Nel mentre, Chuuya si era avvicinato all’ingresso da cui la trappola sarebbe dovuta scattare. 

Dazai non replicò. Era rimasto fermo nella zona scelta come suo palcoscenico, fissando un punto imprecisato della struttura. Chuuya, dopo un sonoro tch, uscì dal palazzo per attuare la prima parte del piano. 




 

Il gatto e la carpa era una delle prime strategie che avevano ideato a quindici anni. Era un gioco elementare dove Chuuya, il gatto, ingaggiando brevi scontri, doveva attirare l’avversario, la carpa, in un punto preciso. Chuuya aveva l’agilità, la prontezza e le difese per giocare un ruolo del genere. Il suo problema con quel piano era sempre stata la frustrazione da fuga continua, ma quella notte la rogna era un senso di angoscia che gli stava stringendo la bocca dello stomaco. 

Senza Dazai a calamitare l’attenzione, i suoi pensieri ebbero finalmente il via libera per fluire e ed elaborare quanto aveva saputo in quella manciata di minuti frenetici. Realizzazioni che sembravano frutto del racconto di un ubriaco. 

Un uomo morto in realtà vivo. Tra tutti quelli che potevano emergere dal loro passato, proprio la persona per cui Dazai aveva cambiato vita. Quell’amico a cui Chuuya non aveva dato un volto e un nome se non quando aveva letto il resoconto dello scontro con la Mimic, cercando delle risposte alla scomparsa del proprio partner. 

Ed eccolo lì a sparargli dall’angolo del vicolo, il volto coperto da una maschera vermiglia per cui, nei giorni precedenti, Chuuya aveva bestemmiato per i danni che stava provocando. Quell’Odasaku

La rabbia deconcentrò Chuuya e due proiettili si fermarono uno all’altezza della gola e l’altro della fronte. Sarebbe morto se non avesse avuto dalla sua la gravità. Imprecò, facendo cadere i bossoli mentre si librava in aria, imboccando la stradina che li avrebbe portati al palazzo in costruzione. 

Non attaccarlo, è inutile. Tieni la gravità costante o ti ucciderà prima che tu abbia il tempo di realizzarlo.

«’fanculo» imprecò Chuuya, odiando la voce di Dazai echeggiargli nella testa. Odiando di trovarsi lì, invischiato in quel circo grottesco dove stava facendo la lepre invece del gatto, per un piano che li avrebbe seppelliti vivi. 

Il recinto edilizio apparve davanti a lui e accelerò, balzando oltre la rete. Sentì la pressione di un proiettile fermarsi all’altezza della caviglia, ma oltre a una bestemmia ingoiò la volontà di girarsi e far volare Red Hood nel quartiere vicino. 

Se succede qualcosa a Odasaku io non ci sarò più per annullare la Corruzione, hai capito?

«Vedi di far funzionare questa trappola o vi ammazzerò entrambi» ringhiò Chuuya in un sussurro contro le spalle di Dazai. 

Aveva coperto il resto della distanza con un ultimo sprint, sparendo alla vista di Oda per prendere posto in attesa di innescare la seconda parte del piano. Era in piedi, schiena contro schiena con Dazai, nascosto dalla sua figura e dal trench. Il semplice contatto tra di loro aveva annullato le sue intenzioni tramite No Longer Human

Dazai non diede segno di averlo sentito. Era una statua in attesa del proprio scultore. 

Non ci volle molto. Guardingo, le pistole alte, Red Hood entrò nel palazzo. Dopo una panoramica generale, la sua maschera puntò Dazai. 

Andiamo, muoviti!, pensò intensamente Chuuya, stringendo i pugni in attesa di sentire il rumore dei passi per iniziare a contare i secondi. Ogni attimo che scorreva a vuoto si rendeva conto di quanto quel piano fosse uno schifo. Stando immobile alle spalle di Dazai non poteva vedere nulla. Non poteva vedere se l’altro avrebbe sparato. Poteva solo sperare che qualcosa gli dicesse di non farlo. 

Oda fece un passo in avanti, e poi un altro. Chuuya, irrigidendosi, iniziò a contare. 

«Che cosa ti hanno detto di me?»

La domanda di Dazai riempì il silenzio. Red Hood non rispose; continuò a camminare, lanciando brevi occhiate intorno, in cerca di Chuuya. 

«Mi hai chiamato spia della mafia» riprovò Dazai. «Sarei una spia della mafia infiltrata nell’Agenzia di Detective? È questo che ti ha raccontato Dostoevskij?»

Al sentire nominare il russo, Odasaku si fermò, ricambiando l’attenzione del detective. Chuuya, al contrario, artigliò l’aria. C’erano quasi. Il suo livello di impotenza nella situazione lo stava saturando, soprattutto nel sentire No Longer Human addosso come una catena fredda e limitante. 

«Dostoevskij ti ha mandato a prelevarmi e non ti ha neanche parlato della mia abilità?»

Dazai non si arrese, anche di fronte a quel silenzio ronzante di pessimi auspici. 

«Cosa ti ha raccontato? O ha scelto di darti poche informazioni per non confonderti? Senza sapere tutta la storia, uccidermi è più facile? Ma non ti ha detto della mia abilità. Fyodor non è un capo che tiene molto ai propri sottoposti.»

«Non è il mio capo. Non prendo ordini da lui.» 

La voce profonda di Odasaku fu asciutta di ogni emozione, chiara anche attraverso la maschera. Eppure, penetrò dove faceva più male. Fece un altro passo, ora entrambe le pistole puntate su Dazai, e continuò.

«Siamo compagni.»

Chuuya avvertì la schiena di Dazai contrarsi. Rimanere fermo era sempre più un atto di volontà, ma sentire lo scricchiolio del terreno sotto i piedi di Red Hood lo riportò al proprio compito. Prima avesse compiuto quegli ultimi passi, prima quella nottata sarebbe finita. 

«Mi fido di Fyodor, non ho motivi per non farlo» proseguì Odasaku. «Mi ha raccontato di te. Stima molto la tua intelligenza e siete simili. A entrambi piace giocare e manipolare.» 

Un altro passo, un altro e un altro ancora. 

«Qualsiasi sia la tua abilità, Dazai Osamu, non mi spaventi. Non mi hanno addestrato per avere paura delle abilità. E, se dovessi ucciderti, non sarebbe un problema. Non sei indispensabile alla nostra causa.» 

«Dostoevskij è un figlio di puttana.»

A riempire il silenzio fu Chuuya, in un tono così vibrante di rabbia che fu un sollievo poter parlare. 

«Ma tu, amico, hai appena fatto la più grande cazzata del mondo non considerando Dazai una minaccia.»

Finalmente, anche Chuuya fece un passo, quello che servì per lasciare il freddo abbraccio di No Longer Human. Quando la sua suola toccò terra, la gravità si propagò come la scossa di un terremoto. Era così sovraccarico di incazzatura, di insulti ed emozioni sgradevoli che poteva sentire l’Arahabaki fremere per spezzare la sua gabbia. 

«Muoviti» lo minacciò Chuuya, apparendo da dietro a Dazai circondato da un alone rosso così denso da adombrargli il volto. Gli scricchiolii della struttura si trasformarono in tonfi rumorosi. «Corri veloce, se non vuoi che questo errore ti costi l’osso del collo» sibilò, mentre, ancora una volta, tutti gli oggetti, i laterizi, i tubi di metallo e quello che c’era in giro volavano tra Dazai e Odasaku, anche addosso a quest’ultimo per impedirgli di prendere la mira.

Ci furono degli spari, ma il palazzo iniziò a crollare su se stesso. Potevano solo andarsene il più velocemente possibile. 

Quando Dazai non diede segni di muoversi, nonostante di fronte a sé non ci fosse che una catasta informe e ovunque piovessero detriti, Chuuya dovette afferrarlo e portarlo via a mascella serrata. 






 

Il rumore del palazzo che crollava si riverberò per l’intera Yokohama col favore della quiete notturna. 

Per Dazai e Chuuya la fuga da Red Hood era conclusa, ma non quella per uscirne vivi. Chuuya corse il più rapidamente possibile dove avevano lasciato Ango senza mai lasciare Dazai e col sangue a rombargli nelle orecchie. Spinse il detective oltre il muro del nascondiglio per poi voltarsi e bloccare con la propria abilità tutte le schegge e i pezzi che piovvero addosso a loro come un’onda. 

Fu un disastro. 

La notte si riempì di allarmi, di vetri spaccati, di gente nelle abitazioni che urlava dalle finestre. La strada fu sommersa, ma questo impedì a Oda di raggiungerli. 

Chuuya non seppe se ci vollero manciate di secondi o minuti perché tutto si quietasse. Aveva il fiatone, era madido di sudore e ancora teso in ogni fibra di sé. Quando l’alone rosso sbiadì fino a sparire, si voltò verso Dazai. Era appoggiato al muro, la testa bassa e i capelli a oscurargli il viso. 

«… Odasaku?»

Il filo di voce di Ango palesò la sua coscienza ancora presente.

«Si è ritirato come previsto» replicò Chuuya, a pugni stretti, senza distogliere l’attenzione dall’ex partner. 

«Siete riusciti a parlarci…? A capire… qualcosa?» continuò Ango, spostando gli occhi su Dazai. 

Non ci furono risposte da nessuno dei due. In compenso, si iniziarono a sentire le sirene dei soccorsi avvicinarsi. Fu quasi un sollievo. 

«Il resto delle chiacchiere è rimandato a quando saremo al sicuro» sbottò Chuuya, chinandosi per tirare su Ango. 

«Dazai, cammina» ordinò secco, senza indugi nel tono. Aveva bisogno di vedere l’altro reagire. Anche solo camminare in automatico fu sufficiente. 

Una volta fuori dal vicolo, trovarono la strada principale bloccata dalle transenne e le luci delle sirene colorare di rosso e blu i palazzi limitrofi. La gente si era riversata sui marciapiedi, cellulari alla mano, fotografando qualsiasi cosa.

«Dazai-san!»

Atsushi fu il primo a individuarli. A seguirlo, Kunikida e Kyouka sopraggiunsero con due paramedici, una barella e un agente del governo, Murakoso. Nessuno disse nulla sulla presenza di Nakahara, la priorità fu sistemare Ango sul lettino mobile e portarlo all’ambulanza. 

Quando furono rimasti solo i membri dell’Agenzia, le domande furono inevitabili. Kunikida fece un passo verso il partner, ignorando il Dirigente.

«Che cosa è successo, Dazai!? Perché è crollato un palazzo!? È stato Red Hood?»

«È scappato» tagliò corto Chuuya, ignorando a propria volta il detective e occhieggiando Dazai e il mutismo in cui si era trincerato. La pessima sensazione che qualcosa non andasse gli stava stringendo la bocca dello stomaco. «Ha tentato di ucciderci e gli abbiamo fatto crollare addosso il palazzo. Avrete il resto della storia dopo che saremo in un posto non esposto e che abbia del buon vino.»

Kunikida pareva pronto a ribattere, forse anche a litigare col Dirigente della Port Mafia, ma Atsushi gli passò davanti. Si avvicinò al mentore, alzando una mano ma incerto se toccarlo. 

«Sei ferito, Dazai-san?»

Senza alcuna avvisaglia, Dazai si piegò su se stesso e vomitò. 

«Merda» imprecò Chuuya. 

Scattò per sorreggerlo, ma l’ex partner lo allontanò con un manrovescio. Gesto inutile quando un secondo conato lo colse, togliendogli l’equilibrio. Atsushi e Chuuya lo afferrarono da entrambe le braccia. 

Dal tremore violento, Dazai non diede segni di potersi reggere da solo, o che fosse anche solo conscio della situazione. Ciò che allarmò i due al suo fianco, prima che un terzo rigurgito scuotesse il suo corpo, fu vedere le lacrime rigargli le guance. 

Dazai stava piangendo. 






 

Now please don't go
Most nights I hardly sleep when I'm alone
Now please don't go, oh no
I think of you whenever I'm alone
So please don't go

[Please don’t go - Joel Adams]




 

To be continued. 


Prossimo capitolo → Untold Story

 

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Capitolo 10
*** Untold Story ***


Nota: questo capitolo contiene riferimenti alla terza Light Novel di Bungou Stray Dogs "The Untold Origins of the Detective Agency". La trovate su Amazon tradotta in inglese.


 

Capitolo 9

Untold Story








 

Honey, when I’m above the trees
I see this for what it is
But now I’m right down in it, all the years I’ve given
Is just shit we’re dividin’ up
Showed you all of my hiding spots
I was dancing when the music stopped
And in the disbelief, I can’t face reinvention
I haven’t met the new me yet...

[Happiness - Tylor Swift]





 

Atsushi rammentava il loro rientro in Agenzia come il momento in cui le cose avevano iniziato ad andare davvero male. 

Il telefono aveva continuato a squillare nonostante fosse l’una passata e non aveva dato segni di voler smettere, tanto che Kunikida stesso lo aveva staccato per ritrovare un barlume di tranquillità e riuscire a fare il punto della situazione. 

La ricostruzione degli eventi da parte di Dazai e Chuuya sulla fuga da Red Hood aveva portato diversi dettagli, ma nulla di davvero utile. Erano per lo più informazioni personali e la conferma che il nemico stava giocando con loro, senza alcuna paura di affrontarli. 

Chuuya stesso non aveva aggiunto nulla di nuovo. Era stato conciso nel proprio resoconto, limitandosi a definire quello che era successo una caccia in cui avevano dovuto salvarsi la pelle. Il perché Red Hood volesse catturare Dazai e Ango - o ucciderli - lo aveva liquidato come il passatempo sadico di un manipolatore qual era Dostoevskij. 

Altri particolari erano stati presto trascurati a causa del cozzare dei caratteri di Chuuya e Kunikida, che avevano scaldato l’ambiente iniziando a scontrarsi verbalmente. Avevano ostentato entrambi un menefreghismo che malamente nascondeva l’astio reciproco. Atsushi si era presto reso conto che il culmine dei loro sguardi, e dei loro discorsi, era riferito a Dazai. 

Quest’ultimo, tuttavia, era con la mente altrove, in uno stato che la Tigre Mannara non aveva mai visto: spento sulla sedia della propria scrivania, l’unica azione che aveva compiuto era stato andarsi a sciacquare la bocca dal sapore amaro del vomito, per poi lasciare che la discussione gli scivolasse addosso. 

Alla fine, era stato Atsushi stesso a mettere un fermo con un sonoro «Basta» a quelle che erano diventate chiacchiere sterili, insistendo sul portare a casa Dazai. Chuuya gli aveva piantato addosso una lunga e occhiata indecifrabile, per poi prendere la porta d’uscita e sbatterla con abbastanza violenza da far temere l’incrinatura del vetro. 

La mattina che era seguita, ad appena cinque ore scarse di distanza, stava dando loro il colpo di grazia. 

 

I giornali furono superflui nel far girare la notizia di quanto accaduto. Sui social network non si stava parlando d’altro dal momento in cui il palazzo era crollato: polemiche, ricostruzioni fittizie, testimonianze fantasiose. 

Tra le parole in rilievo rimaneva Red Hood, accompagnato da Ability Users e Port Mafia. Alle persone interessava continuare a seguire e dare per ovvia l’idea del Giustiziere che la faceva pagare alla mafia, ignorando qualsiasi altra possibilità. Il coinvolgimento dell’Agenzia o della Divisione non fu neanche preso in considerazione, nonostante la presenza di Ango e Dazai in alcune foto sul web. 

Atsushi, dopo aver raccolto l’ennesima deposizione, appoggiò il telefono con un sospiro, guardando con stanchezza il file che aveva appena compilato. Non faceva altro che rispondere al primo squillo, ascoltare discorsi sconnessi, prendere appunti, essere gentile e riattaccare. Poche manciate di secondi dopo il telefono ricominciava a trillare.

Era un continuo da quando era arrivato quella mattina, con alle spalle una notte passata sostanzialmente in bianco, dopo che Kunikida li aveva riaccompagnati in macchina al dormitorio intorno alle tre. Fino all’alba il suo cervello si era impegnato in elucubrazioni che si mordevano la coda. 

Non era il solo incastrato in quel loop di telefonate che stavano mettendo alla prova la pazienza e i nervi dei detective e del personale dell’Agenzia. Questo mentre ognuno di loro continuava a lanciare occhiate di sottecchi a Dazai, fermo immobile appoggiato a una delle finestre a guardare fuori, apparentemente refrattario alla confusione circostante. 

Il tempo si fermò quando a varcare la soglia dell’Agenzia fu il Presidente. 

Non guardò nessuno e non disse nulla, limitandosi a un cenno della testa quando il personale e la maggior parte dei detective scattò in piedi. Tralasciando Dazai, che dava l’idea ostinata di non essersi neanche accorto di quell’ingresso, chi non si sprecò in convenevoli fu Ranpo.

La sua occhiata perforatrice e ostile fu ricambiata da Fukuzawa con una consapevole, ma che non si scusava del proprio comportamento, dell’aver lasciato l’ospedale senza una parola e dell’essere sparito per quasi due giorni, con la sola rassicurazione da parte del Boss della Mafia che fosse in buone mani

«Dazai, una parola.»

Fu tutto ciò che ordinò, avviandosi verso il proprio ufficio con un’andatura più lenta del solito e indice delle sue condizioni ancora non stabili. Scivolando giù dalla cornice della finestra dov’era seduto, mettendosi le mani in tasca, Dazai lo seguì. 

Nel caos generale che riprese dopo quell’apparizione, perché nessun telefono diede loro tregua, anche il cellulare di Atsushi iniziò a suonare. 

«Pronto?» rispose distrattamente il giovane detective, incastrando il telefono tra orecchio e spalla, mentre raccoglieva una manciata di fascicoli e si chiedeva se le cose sarebbero potute peggiorare. 

«Jinko

Atsushi sussultò. Le sue dita sgualcirono i fogli nel riconoscere la voce di Akutagawa. Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno gli stesse prestando attenzione, per poi spostarsi in un angolino in disparte. 

«Perché hai il mio numero!? Che cosa vuoi!?» 

Akutagawa non commentò la sua agitazione e andò al punto. 

«Esci dall’Agenzia, svolta a sinistra e vieni in fondo alla strada. Adesso. Cerca di usare un po’ di discrezione.»

Atsushi rimase senza parole. 

«Sto lavorando!» tentò, poco convinto da quell’assurdità, ma la curiosità lo pungolò rendendolo meno incisivo. 

Dall’altro capo del telefono, Akutagawa rimase statico nel tono. 

«Riguarda Dazai-san.»

Un brivido risalì la schiena di Atsushi. Si guardò di nuovo intorno, constatando che la confusione regnava sovrana. Gettò uno sguardo all’orologio: la pausa pranzo sarebbe iniziata di lì a pochi minuti. Poteva assentarsi il tempo di sapere di cosa si trattasse. 

«Va bene. Arrivo.»

 

  

 

Akutagawa era dove aveva indicato ad Atsushi.

In borghese, con gli occhiali da sole e le braccia incrociate, il giovane detective lo riconobbe solo per le punte bianche inconfondibili dei capelli. Vestito sempre di scuro, indossava vestiti molto diversi che lo rendevano irriconoscibile: una giacca più corta e dal taglio elegante, una camicia grigia e dei jeans scuri. 

«Sei imbarazzante, Jinko.» 

Il cane della mafia si staccò dal muro contro cui stava aspettando. Il suo tono e il suo atteggiamento confermarono oltre ogni dubbio che fosse Akutagawa. 

«Smettila di guardarmi come se non mi conoscessi. Non vi insegnano a passare inosservati all’Agenzia?» commentò disgustato, per poi prodursi in un cenno del capo nell’indicare la direzione in cui incamminarsi.

Atsushi si riprese dall’iniziale momento di confusione, piantandoglisi alle costole. 

«Dove stai andando? Cosa devi dirmi su Dazai-san!?»

Con un gesto del tutto naturale, mentre passavano davanti a un negozio di souvenir, Akutagawa prese con nonchalance un cappellino da baseball e lo infilò in testa ad Atsushi, senza fermarsi. 

«E-Ehi!»

«Passerai a pagarlo dopo. Ora zitto e seguimi.»

Atsushi era rosso di imbarazzo e disagio. Lanciò un’occhiata al negozio, ma Akutagawa lo stava lasciando indietro. 

«Hai detto che si tratta di Dazai-san... dove stiamo andando?»

«Vuoi metterti a discutere di una situazione delicata in mezzo alla strada?»

Atsushi si morse un labbro. 

«No, però...»

Akutagawa entrò in uno dei palazzi-centri commerciali di zona. C’era un via vai rumoroso, ma nessuno prestò loro particolare attenzione, nonostante il palese imbarazzo della Tigre Mannara. 

Salirono in ascensore con almeno altre dieci persone e Atsushi si sentì un pesce fuor d’acqua, mentre Akutagawa pareva a proprio agio, come se non fosse uno dei criminali più pericolosi della città.

Rimasero in quattro e l’ultima coppia scese al penultimo piano. Atsushi fece per seguirli, ma l’altro ragazzo lo fermò per il braccio con uno sbuffo al limite della pazienza. Le porte dell’ascensore si richiusero e salirono ancora, nonostante una voce continuasse ad annunciare che l’ultimo piano fosse chiuso per lavori. 

Quando le porte si riaprirono, davanti a loro comparve un uomo in livrea ad accoglierli. 

«Benvenuti. Il vostro ospite vi attende al tavolo.» 

Atsushi si ritrovò nella hall di un ristorante in stile europeo. Senza preavviso fu immerso in una realtà fatta di eleganza, cristalli, pareti affrescate e decorazioni preziose. Non aveva neanche idea che esistesse un posto del genere lì.

Titubante e incerto se potesse effettivamente calpestare il pavimento fatto di grandi piastrelle dipinte, il giovane detective seguì il cameriere fino all’unico tavolo apparecchiato, vicino alla parete in vetro da cui si poteva rimirare la città e il mare. 

Lì, seduto su una sedia a poltrona, Atsushi scoprì chi fosse l’ospite che li stava aspettando: l’ex partner di Dazai, Chuuya Nakahara. 

Allo stesso modo di Akutagawa - che nel mentre aveva preso posto a sedere - Chuuya era vestito per un pomeriggio pigro, con una felpa lasca, una giacca di pelle e dei jeans strappati che costavano quanto uno stipendio del giovane detective. Aveva tra le dita un calice di vino ancora intatto e osservava il panorama con l’espressione di qualcuno immerso in qualcosa di lontano. 

Quando si accorse di non essere più solo, i suoi occhi si posarono su Atsushi. 

«Jinko, giusto?»

Era molto diversa dall’occhiata che gli aveva rivolto la notte precedente, prima di sbattere la porta dell’Agenzia e andarsene.

«N-Nakajima Atsushi.»

Le situazioni di tensioni continuavano a essere una costante novità per Atsushi, che fosse il primo giorno di lavoro in Agenzia, il faccia a faccia col capo della Gilda, o il ritrovarsi da solo in un posto sconosciuto, con da un lato la propria nemesi, il ragazzo che cercava costantemente di ucciderlo, e dall’altra un Dirigente della Port Mafia, uno degli uomini più forti di tutta Yokohama. Dubitava che persino la Tigre Mannara potesse qualcosa contro la gravità

«Siediti» lo invitò Chuuya con un distacco che Atsushi fraintese, interpretandolo alla stregua di un ordine. Si sedette di botto, in automatico. 

«Cosa volete?»

Atsushi non capì la richiesta finché Akutagawa non prese in mano il menù. Si affrettò a imitarlo, ma frastornato dalla situazione non riuscì a tenere a mente un singolo piatto tra quelli in elenco, continuando a lanciare occhiate ovunque, ai due mafiosi, al locale, alle vetrate, indeciso se alzarsi e andarsene o aspettare che accadesse un inevitabile non ben definito. 

«Sei allergico a qualcosa? Sai usare le posate occidentali?» chiese Chuuya, richiamando con un cenno il cameriere. 

«Io… ecco...» farfugliò Atsushi, ricacciando il naso nel menù ma senza successo. Allo sguardo interrogativo di Chuuya fece un frettoloso segno di diniego. 

«Il menù del giorno per tre» concluse il Dirigente, rivolto al cameriere. «Porti delle bacchette.»

Una volta che furono di nuovo soli calò il silenzio. 

Il giovane detective si stava torturando le dita sotto il tavolo, senza più sapere dove guardare o cosa fare. La voce di Kunikida lo stava sgridando ripetutamente in testa, ma si sentiva bloccato sul posto. Al suo fianco, Akutagawa dava l’idea di essere infastidito dalla situazione, di essere stato sfruttato come tramite, ma se ne stava composto in attesa. 

Chi invece non dimostrava la solita verve - per quanto Atsushi lo avesse visto si e no mezza volta - era Chuuya. Il suo sguardo, la sua espressione tesa, erano di chi era ovunque meno nel luogo dove fisicamente si trovava. 

Per Atsushi era tutto così fuori dalla propria realtà che era in attesa del minimo rumore per saltare in aria come un gatto spaventato. 

«Dazai è in Agenzia?» chiese Chuuya di punto in bianco. 

Atsushi assentì prima di realizzare quante possibilità implicasse quella domanda. Mise su un’espressione guardinga e, vagamente, negli intenti, minacciosa. 

«Bene» continuò il Dirigente, con una mano a sorreggergli il mento mentre guardava fuori dalla vetrata, senza accorgersi dello sguardo ostile della Tigre Mannara. 

«Non perderlo d’occhio. Questa situazione lo porterà a fare qualche cazzata.»

Atsushi aggrottò la fronte.

«Intendi… provare a suicidarsi?» 

Ricevette un sogghigno ironico impastato con un velo di compassione. 

«Non hai mai trovato Dazai a tentare un suicidio vero, eh?»   

Il ragazzo abbassò lo sguardo di lato, sentendo l’imbarazzo lambirgli la base del collo e le orecchie. Ripensò alla volta in cui il suo mentore si era infilato in un bidone. Scosse la testa. 

«Prega che non succeda mai» proseguì Chuuya, riprendendo il calice e buttando giù il vino in un sorso per annegare pezzi indesiderati del proprio passato. 

«Un minuto prima ti sta prendendo per il culo al telefono, quello dopo lo trovi cianotico e appeso a una trave con un cappio al collo.» 

Piantò lo sguardo in quello del giovane detective, incidendogli nella mente ciò che seguì.

«Non pensare mai in quei momenti, Jinko. Agisci e basta.»

Il brivido che corse lungo la schiena di Atsushi fu spiacevole, ma lo tenne fermo dove si trovava. Da un momento all’altro era stato tratto via dalla propria routine, già messa a dura prova dagli eventi recenti, per ritrovarsi sulla soglia di ricordi e avvenimenti legati a Dazai. 

Voleva saperne di più.

«Comunque» riprese Chuuya, risistemandosi contro lo schienale della poltrona. «Suicidarsi adesso è l’ultimo dei suoi pensieri.» 

Se voleva suonare rassicurante, non funzionò, ma le intenzioni del Dirigente non sembravano avere come scopo tranquillizzarlo, né illuderlo con un andrà tutto bene

«Volevo parlare con te perché sembri l’unico in grado di ascoltare se si tratta di Dazai» e nel dirlo, Chuuya tornò a incrociare gli occhi col giovane detective, ponendo l’accento su ascoltare. «Devi tenerlo d’occhio, se non vuoi perdere il Dazai che conoscete ora.»

Nel suo angolo di silenzio attento, Akutagawa fu il primo a reagire, serrando la mandibola e voltando la testa di scatto, come se si fosse appena morso la lingua dal dire qualcosa. 

Atsushi passò lo sguardo dall’uno all’altro. La sensazione di essere tra due fuochi si era attenuata nel momento in cui era stato effettivamente nominato Dazai, quindi tornò a concentrarsi sul Dirigente. Aveva fame di informazioni. 

Sulla punta della lingua aveva un cosa intendi? pronto a essere tradotto a parole, ma la sua mente realizzò in quel momento che era davanti alla persona che più di tutte conosceva Dazai.   

«Tu eri il suo partner» disse, modulando male il tono tanto che non si capì se si trattasse di una domanda o un’affermazione. Voleva capire e l’opportunità di farlo era incarnata davanti a lui. 

«Quando Dazai-san era nella mafia... voi due eravate partner?»

Al giovane detective non passò inosservato il guizzo nello sguardo del Dirigente, anche se furono interrotti dall’arrivo degli antipasti. Quando il cameriere si congedò, Chuuya squadrò il ragazzo. 

«Cosa ti ha raccontato del suo periodo nella mafia?»

La sensazione sgradevole e imbarazzante di non possedere una risposta serpeggiò addosso ad Atsushi. 

«Niente...»

«E tu cosa sai di tuo?» incalzò Chuuya. 

Con la coda dell’occhio Atsushi adocchiò Akutagawa, ripensando a quanto il ragazzo lo odiasse per essere il nuovo pupillo di Dazai. Un secondo pensiero, prepotente, gli balenò in mente, portandolo a intraprendere un’altra direzione. 

«Quella tomba… Dazai-san ci andava spesso.»    

Chuuya sbuffò. Invece di rispondere subito si cacciò in bocca un boccone di antipasto, meditandoci su. 

«Vai dritto al sodo» commentò, puntandolo con la forchetta. «Ma prima di parlare di questo, mangiate» e sottolineò la cosa con un’occhiataccia ad Akutagawa. 

Il sapore delizioso del cibo non servì a distrarre del tutto Atsushi, anche se pulì il piatto come se non avesse toccato cibo per una settimana. Davanti a lui, Chuuya si riaccomodò sulla poltrona, piegando una gamba contro il bordo del tavolo, il calice di nuovo in mano. 

«Non so molto del passato di Dazai prima di conoscerlo. So che qualcuno lo portò da Mori-san il giorno in cui lui è diventato il nuovo Boss della Port Mafia. Aveva quattordici anni. È successo un anno prima che entrassi io.» 

Chuuya passò l’attenzione dall’uno all’altro ragazzo. 

«Voi due conoscete delle versioni di Dazai, come dire… tranquille» fece una smorfia alla definizione. «Non mi crederete, ma direi che avete avuto entrambi a che fare con un Dazai quasi ragionevole. Il Dazai di quindici anni era un demone che aveva perso le corna. Senza alcuna volontà di tracciare dei confini nelle proprie azioni. Giusto e sbagliato? Vita e morte? Erano la stessa cosa.»    

Akutagawa non fu minimamente d’accordo e il suo pugno chiuso sul tavolo, insieme a uno sguardo che mandava lampi, non passarono inosservati. 

Atsushi restò in silenzio, incuriosito dal vedere la propria nemesi rapportarsi con un superiore che non fosse il suo mentore, anche se non poté più permettersi di considerare quella descrizione come estranea, non dopo aver visto un frammento del Dazai del passato appena due giorni prima, e averne avuto paura. 

Chuuya, dal canto proprio, si concesse un sospiro pesante, riempiendo per metà di vino il bicchiere di Akutagawa. 

«Va bene, va bene. Credo che Jinko, qui, sia realmente il più fortunato e abbia conosciuto la versione migliore di Dazai.» 

Ci ripensò un attimo, con una seconda smorfia. 

«Anche se, a prescindere, non si è per nulla fortunati a conoscere Dazai. A ogni modo, non ti scaldare, Ryuu. Avrai passato un girone infernale - e la tua testardaggine non ha reso le cose più facili - ma Dazai ti ha tirato su al meglio delle sue possibilità dell’epoca, quando poteva distruggere la psiche di una persona in dieci parole.»

Ancora marchiati a fuoco, il ricordo di Dazai con la pistola in mano, i colpi sparati contro Akutagawa, il suo sguardo e le sue parole ripresero vita nella mente di Atsushi. Aveva la sensazione che quell’istinto di voler fuggire fosse ancora lì, presente, dita invisibili all’altezza dello sterno in attesa di scattare come una morsa. Persino l’espressione di dolore di Akutagawa non smetteva di balenargli davanti, lasciandolo esitante nei suoi confronti. 

Il cameriere tornò per sparecchiare e lasciare i primi.

«Se oggi Dazai si è messo a fare il diavolo con la maschera da buon samaritano è merito dell’uomo che avreste dovuto trovare in quella tomba vuota» raccontò Chuuya, ignorando la prima portata e di nuovo schiavo dei propri ricordi, che inasprirono il suo tono nonostante cercasse di mantenere la calma. 

«Oda Sakunosuke… Odasaku.»

«Che tipo era?» chiese Atsushi a bruciapelo, preso dalla discussione. 

Le dita del Dirigente strinsero il calice. Sbuffare fino a svuotarsi i polmoni non sarebbe bastato a togliere ossigeno al vortice di pensieri. 

«Non l’ho mai conosciuto» ammise e suonò come uno smacco. 

«Non direttamente. Dazai si è premurò di-» si morse la lingua prima di partire con le volgarità. «Rendermi partecipe dell’esistenza del suo amico a ogni ora del giorno e della notte.» 

Scosse la testa come se il gesto potesse liberarlo di quelle vecchie e scomode verità gratuite di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Cercò di tornare serio. 

«Doveva essere un tipo dalla pazienza di ferro per sopportare di avere intorno Dazai. E doveva avere qualche...» 

Chuuya fece un gesto come ad afferrare qualcosa, non trovando le parole. 

«Hai presente le falene con una fiamma? Dazai era insopportabile quando attaccava col suo amico qui, il suo amico lì.»

«Dazai-san era… innamorato?»

Atsushi arrossì un secondo dopo essersi accorto di aver dato voce al pensiero che gli si era formato in mente, sgranando gli occhi. Akutagawa lo fissò sconvolto da dietro gli occhiali finti. 

«Cristo» disse tra i denti Chuuya, appoggiando il bicchiere del vino con un po’ troppa forza. Si frugò in tasca e recuperò il pacchetto delle sigarette. Se ne accese una e tirò una boccata senza guardare nessuno se non il fumo. Quella situazione lo stava portando fuori dai binari. 

«Cristo» ripeté, strofinandosi la fronte con la stessa mano impegnata dalla sigaretta, prima di riallacciarsi al discorso, inchiodando Atsushi con uno sguardo. Uno di quelli che voleva dire le cose come stavano, mentre la bocca cercava soluzioni alternative. 

«Accostare l’idea di amore a Dazai innesca una bomba. Finché si parla di vita e di morte puoi ancora ragionarci, districarti tra le sue filosofie insensate e machiavelliche. Ma l’amore...» 

Gli salì un risolino come se gli fosse appena stato detto che gli rimanevano tre giorni di vita, il che era un po’ nelle probabilità che quell’affermazione comportava. Tirò una seconda boccata di fumo. 

«So che scopavano.»

Entrambi i ragazzi trasalirono con le guance colorate da un pudore ingenuo. Chuuya li ignorò e continuò. 

«È un altro di quei dettagli con cui avrei vissuto bene senza, ma parliamo di Dazai, tormentare il prossimo è essenziale per mantenerlo in vita.» 

Poi imprecò, senza preavviso. 

«’fanculo. Sentire Dazai parlare di sesso ti fa riconsiderare ogni singola scelta di vita.» 

Nel mentre, con la mano libera si frugò in una tasca interna della giacca, tirando fuori una fotografia che, dopo una lunga occhiata a tu per tu, piantò di malagrazia al centro del tavolo. 

«Questo è Odasaku.»

Atsushi poté finalmente dare un volto a quel nome che in quei giorni era come un falco sopra le loro teste. 

«Non era nessuno nella mafia» puntualizzò Chuuya. «Era l’agente di più basso rango che potevi trovare. Un tuttofare, quello a cui scaricare i compiti più disparati. Da quello che so, non ha neanche mai aspirato a salire di posizione.» 

Si portò la sigaretta alle labbra e le sue sopracciglia si contrassero.

«E girava voce che non uccidesse.»

Atsushi era sorpreso, mentre Akutagawa sembrava aver appena masticato qualcosa di andato a male, nonostante nessuno dei tre avesse ancora messo mano al primo. 

«Di lui si diceva che fosse un agente inutile perché premeva il grilletto solo per intimidire e a volte neanche quello» sbuffò con stizza Chuuya, ciccando nel posacenere. Fissò la foto con una sorta di astio, di quelli nervosi che si rivolgono ai rompicapi di cui non si sta trovando la soluzione. 

«Immagino sia uno dei motivi che hanno affascinato Dazai.» 

«Dazai-san...» iniziò Akutagawa, prendendo la parola per la prima volta. Gli altri due gli dedicarono la propria attenzione, nonostante lui stesse fissando il piatto senza vederlo, le dita strette a pugno sul tavolo, come se si stesse trattenendo dall’esplodere usando Rashoumon.

«Dazai-san una volta disse di non farlo mai arrabbiare, per nessuna ragione. Se fosse successo… se si fosse veramente arrabbiato, chiunque dei presenti sarebbe morto prima di poter anche solo estrarre la propria arma.»

Atsushi si irrigidì sulla sedia a pensare a quel Dazai. Man mano che la conversazione andava avanti, sempre più elementi andavano a comporlo, restituendogli una persona per cui provare timore e la sensazione non gli piacque per niente. Davanti a lui, Chuuya soppesò quelle parole con fastidio. 

«Del passato di Odasaku non non sono venuto a capo praticamente di niente» rifletté, massaggiandosi una tempia. 

«Ho ascoltato le voci più allucinanti, ma dopo ieri notte do credito a quelle che dicono fosse un assassino su commissione. Se avessi dovuto giudicarlo quattro anni fa, dai racconti di quel cerebroleso di Dazai, avrei optato per un disgraziato che doveva sbarcare il lunario… ora sappiamo di cosa è capace quello stronzo.» 

Scegliere quale domanda porre tra le mille che aveva in testa non fu facile per Atsushi. 

«Lo credevate tutti morto… Dazai-san stesso… com’è possibile?»

«Ce lo stiamo chiedendo tutti, Jinko» sbuffò Chuuya, spegnendo la sigaretta e iniziando finalmente a spizzicare il primo. 

«Quattro anni fa a Yokohama arrivò un’organizzazione europea a rompere il cazzo. Si chiamava Mimic. Per farla breve, erano mercenari, ex soldati addestrati.» 

Prese un secondo boccone, portando lo sguardo verso il soffitto, sovrappensiero. 

«Io ero fuori città per altri cazzi, ma questi hanno fatto casino per qualche giorno e il tutto si è concluso con un regolamento di conti tra il capo della Mimic e Odasaku.» 

Il giovane Dirigente fece una smorfia, pulendosi la bocca col tovagliolo. 

«Quando sono tornato, Dazai era sparito e alla mafia era stato accordato il Permesso governativo per l’uso delle abilità. Puoi farti i conti da solo di cosa abbia significato.» 

Nella mente di Atsushi il discorso si ricollegò a quello che aveva ascoltato pronunciato da Dazai e da Ango. La morsa al petto si strinse di più e il giovane detective si sentì trascinato verso il basso, in un pantano sempre più oscuro. 

«Il Boss della Mafia passò alla Mimic l’informazione sugli orfani di cui si occupava Oda...» rammentò sovrappensiero, realizzando realmente cosa significasse. 

Chuuya sostenne il suo sguardo con durezza. 

«Detta in maniera spicciola, li ha venduti. Erano merce di scambio.»

Lo disse abbandonando di nuovo la forchetta e recuperando una seconda sigaretta, mascherando maldestramente il proprio disappunto. 

«Non starò qui né a spiegare né a giustificare le azioni del mio Boss. All’epoca Odasaku era ciò che il capo della Mimic desiderava ed era anche l’unico in grado di fermarlo, che invece  era ciò che voleva il governo. La Port Mafia ha condotto gli affari. Tutti si sono sporcati le mani e chi ne è uscito è andato avanti. Non avresti il tuo prezioso Dazai-san, ora, se non fosse successo ciò che è successo.»

Tuttavia, ogni parola fu venata di una pesantezza estranea al discorso in sé. Riaprire quella parentesi, a cui Chuuya non aveva partecipato neanche in prima persona, ma che aveva lasciato strascichi tali per cui ancora ne risentiva, era una sensazione con cui tornava a fare i conti ora che il passato sembrava riversarsi nel presente come un fiume che rompe gli argini.

Ci aveva riflettuto un miliardo di volte. Il conflitto con la Mimic sarebbe potuto finire in molti modi diversi, ma l’idea che in ogni possibile finale Dazai non sarebbe più stato il suo partner era un’idea conficcata a fondo. 

«Sentite, l’unica certezza che ho è che se quel bastardo di Dazai avesse avuto anche soltanto il sospetto che Odasaku fosse vivo, le cose sarebbero andate diversamente. Più che probabile non saremmo neanche qui a parlarne.» 

Il tiro di sigaretta successivo fu lungo e usato per soppesare i pensieri. 

«Non è andato all’Agenzia perché aveva bisogno di cambiare. Il sangue di Dazai è nero. Il cambiamento per lui è solo una pagina qualsiasi di un libro che sfoglia come gli pare. Se e quando ne avrà voglia, tornerà al capitolo della mafia, o si inventerà qualcos’altro.» 

Sul viso del giovane Dirigente si aprì una smorfia schifata. 

«Potevo pensare a un paragone migliore, maledetti libri.»

Atsushi si conficcò le unghie nel palmo, sopprimendo l’urgenza di ribattere a quella spiegazione. 

Dazai non era così. Nonostante a lui mancassero enormi pezzi della sua storia personale, l’uomo che lo aveva salvato dalla strada e da se stesso non era più la persona che Chuuya stava descrivendo. Ingoiò, in favore del discorso.

«Ango-san dice che dietro Red Hood c’è Dostoevskij. Dopo quello che è successo con Shibusawa...» e lo disse stringendo così forte i pugni da sbiancare le nocche. «È capace di tutto.»

«Non perderti nei dettagli, Jinko. Sapere come Dostoevskij sia riuscito a ingannare tutti sulla morte di Odasaku al momento è un trucchetto di magia che non ci interessa. È vivo, ma il punto è che non ricorda un cazzo. È solo una fottuta macchina da guerra fin troppo bene addestrata.» 

Le parole della sera prima, quelle con cui Odasaku aveva ferito Dazai, erano ancora impresse nella mente di Chuuya. Quel compagni riverberava nelle sue orecchie, facendolo incazzare per come tutta quella sceneggiata fosse stata costruita ad hoc, con l’intento di destabilizzare il suo ex partner. L’impulso di voler piantare la suola della scarpa in faccia a Dostoevskij stava salendo in cima alla lista delle sue priorità.

«Concentrati a impedire che Odasaku diventi lo strumento con cui quel ratto manipolatore riuscirà a ottenere il Libro. Saremo tutti fottuti se ci riusciranno.» 

Senza preavviso, Chuuya sbatté il pugno sul tavolo con frustrazione, per poi spegnere anche la seconda sigaretta con fin troppo trasporto. 

«Cazzo. Cazzo. Dazai è appena diventato una mina vagante. Farà sicuramente una cazzata e il tutto starà nel capire chi tirerà in mezzo. Chi deciderà di sacrificare.»

«No.»

Atsushi parlò di pancia, con altrettanta veemenza, tanto che persino Akutagawa, così silenzioso da aver quasi fatto dimenticare la propria presenza, alzò lo sguardo su di lui. Il giovane detective sostenne le loro occhiate con una probabilmente fin troppo testarda, come un bimbo capriccioso, ma non arretrò sulla propria decisione. 

«Dazai-san non sacrificherà nessuno. Lui...» 

Tento di pensare alla svelta come tradurre ciò che sentiva per suonare convincente, ma si rese conto di quanto fosse complicato a fronte di tutti quei pezzi mancanti e degli ultimi avvenimenti. 

«Penserà a un piano folle. Calcolerà i rischi e saprà che qualcuno si farà male… ma non sacrificherà nessuno.»

Lo sguardo del giovane Dirigente gli si piantò addosso, tanto che il detective si chiuse impercettibilmente nelle spalle, pronto a scattare nel caso le cose si fossero messe male. Chuuya allungò una mano e afferrò la bottiglia del vino, ma invece di versarlo nel proprio calice, riempì quello di Atsushi. Sul suo viso si aprì un ghigno divertito. 

«Questo si chiama scommettere, Jinko» disse, prendendo il proprio bicchiere e alzandolo.

«Se ne usciremo vivi, sapremo chi ha avuto ragione su quell’ingrato di Dazai. Per come la vedo, si comporterà da Re dispotico, disposto a rinunciare sia a pezzi bianchi che neri senza fare distinzioni. Spera di non essere tra questi.»

Atsushi prese coraggio e mantenne lo sguardo fermo, contratto, nonostante il cuore gli battesse forte nelle orecchie e tentennare fosse più facile che convincersi che tutto sarebbe andato bene. Afferrò il calice a propria volta e lo spostò in avanti, incontrando quello di Chuuya per siglare la scommessa. 

«Sai, sei più interessante di quello che descrive Akutagawa» rise il Dirigente della Port Mafia, facendo arrossire il proprio sottoposto. «Anche se, alla fine, sei stato incastrato da Dazai come tutti noi, quindi non sei molto intelligente.»

Prima di rimangiarsi quello che aveva appena detto, includendo anche se stesso, Chuuya buttò giù il resto del vino e intimò agli altri due di finire il pasto che stava offrendo loro.

 

 

 

«Listen, I’m telling you guys this for your own good.
Do not make Odasaku angry—no matter what you do.
If you were to anger him—truly, deeply upset him—
then all five people in this room would be dead
before anyone could even draw their guns.»

[Dazai Osamu and the Dark Era, Bungou Stray Dogs 2° Light Novel]



 

* * *



 

Dazai aveva seguito Fukuzawa nel suo ufficio e si era seduto sul divano, appoggiato tra schienale e bracciolo in una posa che avrebbe voluto essere annoiata, per celare quanto si agitava sotto pelle. Aveva le palpebre socchiuse, mentre le dita di una mano si gingillavano nell’arricciare ciocche di capelli.

«Non ci facciamo portare neanche un tè?» buttò lì, senza reale interesse. Non sapeva neanche che ore fossero. 

Il Presidente fece un cenno di diniego con la testa. L’atmosfera era immobile, anche con un leggero venticello che spirava dalla finestra. L’argomento che dovevano trattare era sospeso tra di loro, una lama invisibile che minacciava di intaccare un rapporto di fiducia maturato negli anni. 

Un fascicolo fu appoggiato sul tavolino da Fukuzawa. Non aveva il colore tipico di quelli appartenenti all’Agenzia: era di un grigio scuro, tanto che le scritte stampate sopra si potevano leggere solo da vicino. Dazai ebbe bisogno di appena un’occhiata per riconoscerlo. Era uno dei documenti archiviati della Port Mafia. 

«Come sta Mori-san? Sente il fiato sul collo?» insinuò Dazai con una cadenza maliziosa, pregna di veleno, mentre si sporgeva in avanti e sollevava la copertina del fascicolo. Era il resoconto dello scontro con la Mimic. Non aveva bisogno di sfogliarlo. 

«Se voleva sapere il passato di Red Hood bastava chiederlo a me» continuò, premendosi contro lo schienale e guardando altrove, il mento poggiato su un palmo, l’altro chiuso con troppa forza sopra il ginocchio. Non voleva stare lì

«Mori-san immagino trasudi orgoglio nel raccontare di come ha macchinato l’ingresso della Mimic in Giappone per piegare il governo alle proprie richieste. In pochi giorni ha ottenuto il Permesso per le Abilità, si è sbarazzato della minaccia che costituivo per il ruolo di Boss e si è divertito a fare il marionettista. Ha sulla coscienza due dozzine di agenti, un’intera organizzazione estera e cinque bambini. Normale amministrazione» riassunse con una piega così guasta delle labbra che avrebbe messo angoscia a chiunque, nonostante non stesse prestando attenzione neanche all’unico interlocutore nella stanza. 

«Sembra proprio una mossa del karma quella di riportare sulla sua strada l’uomo che più di tutti è stata la pedina sacrificale nella sua scalata alla vetta.»

«Oda» concluse Fukuzawa, fermo e senza essere intaccato dal tono del detective. «Oda Sakunosuke.»

«Sì. Lo chiamavamo Odasaku.»

«Ho conosciuto Oda. Tredici anni fa.»

Qualcosa nella maschera di Dazai si incrinò. 

«Cosa…?» 

La sua bocca parlò prima che la sua mente potesse processare l’informazione. Fece un calcolo veloce. Si parlava di prima della fondazione dell’Agenzia. Prima di… tutto.

«Odasaku aveva...»

«Quattordici anni» rispose il Presidente, senza smettere di fissarlo negli occhi, intuendo il suo ragionamento. 

«All’epoca lavoravo come guardia del corpo. Avevo un incarico presso una società qui a Yokohama, ma la persona che dovevo proteggere fu uccisa mentre non ero in servizio.»

Le dita strette a pugno di Dazai espressero i suoi timori. Non si sentì realmente pronto ad ascoltare, non un’altra faccia della verità da Fukuzawa, ma sapere era un istinto che non riuscì a mettere a tacere. 

«Cos’è successo?»

«Quando arrivai sul posto, l’assassino era stato catturato. Gli avevano legato i polsi, calato un cappuccio sulla testa e l’avevano costretto su una sedia al centro di una stanza, in attesa della scorta della polizia.» 

Fukuzawa chiuse gli occhi, rivedendo la scena nella propria mente e la sensazione di essere escluso da un ricordo simile creò un nodo di sentimenti dentro Dazai che non aveva mai provato. Tutto l’amaro gli si riversò in bocca, annegando quel e poi? che avrebbe voluto dire. 

«Era stata tesa una trappola a Oda per addossargli l’omicidio. Anche se giovane, era già un assassino famoso, chiunque avrebbe creduto che fosse il colpevole. Fu il primo caso risolto da Ranpo, tuttavia...» 

Fukuzawa incrociò lo sguardo con quello di Dazai. 

«Quando fu smascherato il vero fautore, io non riuscii a fermare Oda dall’ucciderlo per vendicarsi.»

Il silenzio echeggiò coi residui di quelle parole, come dopo un colpo di pistola. 

«Era un assassino capace, abilità o meno. Nonostante lo avessi bloccato con la schiena a una parete, fu in grado di sparare due colpi contro il vero colpevole. Due colpi precisi, al petto, senza poter vedere e con le mani legate.»

Più che ascoltare, Dazai avvertiva quel resoconto venirgli cucito addosso, sillaba dopo sillaba.

Le ultime parole che Odasaku gli aveva rivolto prima di morire - «Le persone vivono per salvare loro stesse» - per la prima volta vacillarono, senza restituirgli il conforto con cui le aveva ricordate negli anni e per cui ancora cercava un significato. 

Non si accorse di avere la mandibola serrata. Un no gli martellava in testa, tentando di arginare quel passato di cui aveva sempre sospettato, senza mai chiedere in merito.  

«Oda aveva quattordici anni ed era un assassino senza emozioni e rimorsi» riprese Fukuzawa, come un treno senza tappe. 

«L’ho guardato negli occhi e non ho visto nulla.»

Dazai trovò sconfortevole persino appoggiarsi allo schienale del divano. Scosse la testa, brevemente, senza controllarsi. Sentiva le proprie sicurezze venirgli strappate e il vuoto a cui cercava una risposta da tutta la vita tornare ad allargarsi dentro di sé.

«Odasaku era cambiato. Era diventato una persona diversa, anche se era nella Port Mafia» disse, ma senza riconoscere la propria voce. Era un tentativo patetico di giustificazione e, alle sue stesse orecchie, suonò come lo stridore delle unghie sulla lavagna. 

«Si prendeva cura degli orfani. Aveva smesso di fumare. Voleva diventare uno scrittore. Non uccideva.» 

Dazai si ritrovò con un sorriso sghembo a tirargli le labbra, come se avesse farfugliato una pessima battuta. 

«Odasaku era una barzelletta per gli agenti della Port Mafia. Il mafioso che non uccide… eppure era capace di risolvere qualsiasi conflitto senza che qualcuno si facesse male, a discapito di se stesso.»

I suoi occhi tornarono a focalizzarsi sul fascicolo scuro della Mimic e una rabbia gelida gli si riversò nelle vene, senza sbocchi. Odiare Mori era facile, troppo facile, e non portava ad alcun risultato. Odiare se stesso andava contro contro il lascito di Odasaku.  

«Entrambe le nostri visioni di Oda appartengono al passato» replicò Fukuzawa, chiudendo il discorso di Dazai. 

«Quello che ci troviamo ad affrontare oggi è un uomo di cui non sappiamo nulla e che non serba il ricordo di sé. O che ha deciso di abbracciare la causa del nemico, non è da escludere.»

Dazai tacque. Il solo menzionare quella possibilità gli spense i sensi. 

«Avete dovuto provocare il crollo di un palazzo per sfuggirgli. Di Yosano-sensei non abbiamo ancora nessuna certezza e Yokohama è diventata di nuovo un campo di battaglia in troppo poco tempo. Le azioni di Dostoevskij sono ancora fresche e averlo rinchiuso in prigione non sembra sia servito a fermarlo. Ricorrere ora a Oda-»

«Basta.»

Dazai si era preso la testa tra le mani. Il peso sulle sue spalle aveva vinto. Nella sua mente continuava a ripetersi l’immagine della morte di Odasaku, ancora e ancora, e ogni volta era una ferita che si riapriva e diventava più profonda. 

Quattro anni per avere la vita in cui Odasaku lo aveva spinto con le sue ultime parole, una vita che ora sentiva pericolante su una base non più stabile. 

Aveva rivisto Odasaku. Aveva sentito la sua voce. Per un breve istante lo aveva sentito reale

Era cambiato, ma era Odasaku. Era quel mondo, quella promessa mai pronunciata che gli si era spenta tra le braccia. 

Ci vollero diversi minuti perché la tempesta dentro di lui si quietasse. Fukuzawa fu paziente, rispettò il momento finché Dazai non si rimise seduto composto, per quanto sembrasse un giocattolo abbandonato. 

«Che cosa vuole che faccia?»

«Quanto sei coinvolto emotivamente?»

Dazai parlò con lo sguardo. Un’occhiata densa e pesante, che raccontava una storia che nessuno conosceva, ma che esisteva, sepolta, tra strati di realtà passati e presenti. 

Fukuzawa sospirò piano, controllato, annuendo. 

«Non posso toglierti dal caso. Sei una delle nostre risorse più preziose quando si tratta di Dostoevskij, ma questa volta sei anche la più fragile. Sono consapevole che se ti estromettessi continueresti l’indagine per conto tuo.» 

Dazai rimase a fissarlo, ascoltando, ma senza reagire o dissentire. Il Presidente riprese la parola. 

«Ho bisogno che aiuti Ranpo a trovare Yosano-sensei. È la nostra priorità.»

«Lo farò.»

«Fermerai Oda se l’occasione si presentasse?»

Il reale significato di quella frase rimase sospeso tra di loro. 

«Non posso prometterlo.»

«Ti metterai in mezzo se qualcuno cercasse di fermarlo?»

«Sì.»

«Capisco» concluse Fukuzawa, scrutandolo. 

Dazai spostò l’attenzione su qualsiasi altra cosa, per quanto tutto avesse perso di forma e consistenza. Riprese a parlare, senza sentire di avere controllo sulla propria bocca.

«Non so cosa Dostoevskij abbia fatto a Odasaku, ma so quanto lui tenesse alla vita che aveva. Alla vita che desiderava.»

«Se Oda continua a uccidere, i ricordi non basteranno a salvarlo.»

Dazai aveva bisogno di uscire da quella stanza, dall’Agenzia. Aveva bisogno di aria, di uno spazio dove non ci fosse nessuno per poter annegare nei ricordi che aveva avuto con Odasaku, fissi in un loop che continuava a graffiargli la mente. Tuttavia, il suo corpo non si mosse. Rimase fermo lì, a fissare Fukuzawa e a sovrapporci l’immagine di Mori. 

Era conscio che non fosse lui il nemico, ma il fascicolo della Mimic ancora aperto sembrava avere il potere di distorcere il velo della realtà. Quella morsa di ingiustizia che si era sempre fatta beffe di lui, che della giustizia non aveva mai saputo cosa farsene. Aveva visto altro però. Aveva visto come il cambiamento potesse essere uno schiaffo a un percorso già incasellato, più dell’attendere che la vita desse il resto. 

«Lo sforzo di cambiare...» 

Dazai parlò con una voce che stava raschiando il fondo, che prendeva forza dal centro del suo petto, scavando verso la superficie. 

«Lo sforzo di cambiare la strada in cui ci siamo ritrovati, o siamo stati costretti, non ha davvero alcun peso?»

Lo sguardo di Fukuzawa ebbe un guizzo. Comprese la vibrazione profonda che legava ogni sillaba. Lui stesso non era stato diverso da Odasaku, un tempo, o da Dazai, da quel poco che conosceva di lui. Ed entrambi, lì in quel momento, erano la prova vivente di una vittoria sul cambiamento. 

Le sue dita si strinsero involontarie sulle maniche del kimono, ma non ebbe tempo di elaborare una risposta che Dazai lasciò l’ufficio. 




 

«There’s no true forgiveness in this world. Only revenge. Revenge for betrayal.»

[The Untold Origins of the Detective Agency, Bungou Stray Dogs 3° Light Novel]






 

Il tempo passò senza che Dazai lo misurasse. Non aveva idea dell’orario, ma il cielo fuori dall’Agenzia restò pressoché lo stesso. Intorno a lui c’era un via vai di forme umane, un brusio costante che la sua mente stava associando alle cicale estive. Scrisse in automatico qualcosa su dei rapporti, ne scorse di altri, non capì nulla di quello che Kunikida gli disse, annuì e passò ad altro. 

Sempre in un orario imprecisato, Dazai si chiese da quanto tempo fosse sdraiato sul divano, e fu quando alcuni degli altri detective si affacciarono chiamando il suo nome.  

«Ti abbiamo portato la merenda» annunciò Naomi in un tono squillante e dolce, di quelli che avrebbero provocato tenerezza di riflesso. Dazai scostò l’attenzione dal panorama, ma fece fatica anche solo a distinguere le facce. Abbozzò qualcosa sul proprio viso, ricordandosi di tirare su gli angoli della bocca. 

Sul tavolo davanti a lui fu appoggiato un vassoio con tè e dolcetti vari. Molti dolcetti, dall’odore invadente. Non era cattivo o nauseante, ma Dazai lo avvertì fastidiosamente. 

«Non sappiamo dove sia finito Atsushi e Kunikida sta tardando con una chiamata, ma ha finanziato i dolci più costosi» spiegò sempre Naomi, mentre riempiva una tazza di tè. 

Dazai si ricordò di dire grazie, sempre con quelle labbra tirate che dovevano reggere il disfacimento del suo io. 

«Noi ci siamo.»

A parlare per il resto del gruppo fu Tanizaki, con un’occhiata convinta, ma che nascondeva quanto la sua sensibilità silenziosa comprendesse la situazione. Al suo fianco, Kenji fu concorde, annuendo con entusiasmo. Kyouka assentì senza distogliere lo sguardo da Dazai, porgendogli un dolcetto a forma di coniglio. Ranpo, trascinato dagli altri, non disse nulla, ma il suo sguardo era già molto più avanti di tutti loro. 

Dazai ringraziò, di nuovo. Era una parola facile da usare. Chiuse le mani intorno alla tazza di tè per avere una sensazione reale, diversa, anche se nel concreto quel calore cozzò contro il vetro dietro cui stava arginando la tempesta.  

Il momento durò qualche chiacchiera sparsa, finché le segretarie non arrivarono a interromperli. 

A uno a uno, gli altri detective salutarono Dazai e tornarono al lavoro. 

L’ultimo che rimase, trincerato in un silenzio interiore rumoroso non dissimile da quello di Dazai, fu Ranpo. 

«Aiutami a riportare a casa Yosano» disse secco, fissandolo con gli occhi verdi cupi. 

«E io ti aiuterò a riavere Oda e a fermare Dostoevskij. Una volta per tutte, se necessario.»

 

To be continued.





 

Spazio autore 

 

Ci ho messo davvero tanto, mi ero persa un po’ d’animo perché questo capitolo è stato molto ostico e l’ho dovuto in buona parte riscrivere. 

Grazie infinitamente a quanti hanno iniziato a commentare e seguire questa storia =) Il vostro sostegno è davvero una spinta ad andare avanti e progettare la seconda parte della storia *love* 

In questo capitolo di nuovo potrebbe essere utile la lettura di Dazai, please per comprendere un po’ i sentimenti di Dazai verso Odasaku =) 

Per quanto riguarda invece il riferimento di Chuuya a Dazai che tenta un suicidio vero, mi sono rifatta a un’altra storiella: I'll kill you if you don't kill yourself

 

Al prossimo weekend ~

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess



 

Prossimo capitolo → Crawling in the past

 
 

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Capitolo 11
*** Crawling in the past ***


Capitolo 10

Crawling in the past







 

Show me what it's for
Make me understand it
'Cause I've been crawling in the dark
Looking for the answer
Is there something more
Than what I've been handed?
'Cause I've been crawling in the dark
Looking for the answer

[Crawling in the dark - Hoobastank]





 

Haruno si chiuse la porta della sala riunioni alle spalle, dopo aver distribuito acqua e tè per tutti i presenti. La stanza era piena. 

Fukuzawa era seduto a capotavola, dal lato della porta, braccia conserte ed espressione attenta. Alla sua destra e alla sua sinistra erano distribuiti i detective ancora operativi, mentre all’altro capo, con un braccio fasciato al collo, Ango non era al meglio della propria forma. Le cattive notizie gli si leggevano in faccia. 

«Sono qui in via ufficiale per esporvi un caso della massima urgenza.»

Ai due fascicoli del caso delle chiavi se ne era aggiunto un terzo, durante la notte in cui lui, Dazai e Chuuya fuggivano da Odasaku. 

«Perdonate la brevità» iniziò, spingendosi gli occhiali sul naso. 

«Escluso il microchip che avete recuperato, non abbiamo altre prove del coinvolgimento di Dostoevskij in questi casi, ma tutto ci porta a credere che le azioni di Red Hood e questi omicidi siano collegati e abbiano come scopo ultimo impadronirsi del Libro.»

I detective si allungarono a prendere le copie dei fascicoli. Tanizaki, Kenji e Kyouka sfogliarono il primo, quello della gioielleria, con la foto della prima chiave rubata e della vittima. Di fianco a loro, Ranpo restò indifferente, lo stecco di un lecca lecca gli spuntava dalle labbra ma non dava l’idea di goderselo. Dall’altro lato del tavolo, Kunikida prese il secondo file, della galleria d’arte, e Atsushi si accostò a lui per guardare, anche se entrambi, con la coda dell’occhio, registrarono l’indifferenza di Dazai al loro fianco. Il caso più recente fu aperto da Fukuzawa. 

«A ogni omicidio corrisponde il furto di una chiave. Due sere fa è stato ucciso un impiegato di banca. Quando il suo nome è stato immesso nei nostri sistemi, quel fascicolo» e con un cenno si riferì al caso tra le mani del Presidente, «è arrivato sulla mia scrivania. Ancora non abbiamo capito lo schema con cui questi file sono stati archiviati e quanti altri ce ne siano» continuò con la frustrazione di chi si sente preso in giro. 

«Non abbiamo idea di quante chiavi esistano, né cosa aprano, ma sono connesse al Libro. Sono un modo per entrarne in posseso.»

«Cosa avete scoperto su questi» iniziò Kunikida, fermandosi a cercare la parola giusta per definirli. «Custodi di chiavi?»

L’espressione stanca di Ango mostrava pienamente il conflitto che aveva con quella domanda. 

«L’unica certezza che li accomuna è il loro passato inesistente. Sembra che la loro identità precedente ai quindici anni sia stata completamente cancellata. Nessuno di loro aveva un oggetto di infanzia, o riconducibile a un momento precedente. Quello che posso ricostruire con la mia abilità non porta comunque a nulla. È come se facessero tutti parte di un programma di protezione di cui non troviamo traccia in alcun archivio o database.»

«Possibile che nessuno al governo sappia o faccia qualcosa?» commentò Tanizaki sovrappensiero, in uno sfogo spontaneo che attirò più di uno sguardo, compreso quello di Ango. 

«Senza offesa» aggiunse imbarazzato, rivolto a quest’ultimo, incalzato da un'occhiata fulminante di Kunikida.  

«Compartimentazione» replicò Ango, appoggiandosi allo schienale e massaggiandosi il braccio bloccato. 

«Questa è la linea del governo. Nessuno condivide i segreti perché nessuno li conosce tutti. Non ho idea di chi sappia qualcosa di questa storia. Se è ancora vivo. Il Capo Taneda stesso non ha tutti i pezzi.» 

«Come è possibile?» 

La confusione di Atsushi era condivisa dalla maggior parte dei suoi colleghi. 

«Una questione così importante come quella del Libro è lasciata al caso?»

«È una scommessa» lo corresse Ango, per niente contento di spiegarsi. 

«Basata sui segreti. È scommettere sul fatto che questi terroristi non riusciranno a mettere mano a tutti gli indizi.»

«Ma se ci riuscissero, allora…?»

«Se loro sono in grado di farlo, lo saremo anche noi.»

Nessuno si aspettò che a recidere il discorso fosse Fukuzawa. Fermo e deciso, chiuse il fascicolo che aveva davanti, infilandosi le mani nelle maniche del kimono. 

«I cittadini di Yokohama si trovano di nuovo coinvolti in uno scontro che metterà a rischio le loro vite. Trovare il nemico e fermarlo è nostro dovere, anche se significherà cercare queste chiavi.» 

«Yosano-sensei ha la priorità.»

L’affermazione di Ranpo fu altrettanto secca e gelida. Seguì un silenzio denso e uno scambio di sguardi tra lui e il Presidente che mise sulle spine quasi tutti i presenti. 

«La vita di Yosano-sensei è la nostra priorità» concordò Fukuzawa, chiudendo gli occhi. 

«Ma per salvarla dovremo conoscere ogni dettaglio del nostro avversario ed essere pronti a fermarlo.» 

«Ciò che deve rimanere segreta è l’esistenza del Libro» sospirò Ango, intromettendosi. 

«La gente comune ha iniziato ad accettare la presenza di persone dotate di potere, ma siamo ancora lontani dall’equilibrio. Quelli come noi sono sempre stati visti come individui pericolosi, portatori di sciagura e morte, motivo per cui le organizzazioni segrete e criminali hanno proliferato, nutrendo le proprie schiere.» 

Il discorso toccò dei tasti che Atsushi non credeva di possedere, ma prima che potesse chiedere qualcosa, Ango riprese a parlare. 

«Non è facile cambiare una visione ancora oggi così consolidata, ma in questo l’Agenzia ha contribuito alla causa in larga scala, dimostrando che possono esistere utilizzatori di abilità capaci di agire per il benessere del prossimo. Portare alla luce un oggetto come il Libro creerebbe il panico e distruggerebbe tutto il lavoro fatto in questi anni.»

«Quindi torniamo al punto di partenza» sospirò Kunikida, incrociando le braccia. 

«Come facciamo a fermare sia Red Hood che il Ladro di Chiavi?»

«Interroghiamo Dostoevskij?» tentò Tanizaki, cercando consensi con lo sguardo. «Ci sarà un modo per farsi dire la verità.»

Sebbene Ango rivolse uno sguardo a Dazai, quest’ultimo rimase a fissare un punto imprecisato del muro, con l’attenzione annoiata di chi si fa scivolare i discorsi addosso. 

«L’unico che potrebbe parlare con Dostoevskij è Dazai.» 

Anche nominarlo non sortì alcun effetto, ma Ango continuò. 

«Non sappiamo quale sia la sua abilità, ma fino ad adesso si è dimostrata letale per chiunque. Tentativi di interrogatorio fino ad adesso non hanno portato da nessuna parte.»

L’ex spia si tolse gli occhiali, stropicciandosi gli occhi stanchi. 

«C’è anche da considerare che non è facile ottenere il permesso di incontrare un prigioniero rinchiuso a Mersault. È una prigione gestita da più nazioni e l’argomento Libro è un tabù. Rischieremmo di scatenare una guerra fredda.» 

Sul suo viso si aprì un’espressione ironica, mentre scuoteva la testa. 

«Paradossalmente, sarebbe più facile far arrestare Dazai e farlo chiudere nella cella davanti a Dostoevskij.»

«Non abbiamo neanche modo di capire come faccia a comunicare con l’esterno e coordinare Red Hood e il Ladro di Chiavi?» chiese Kunikida, anche lui rivolgendo uno sguardo di fianco a sé, a Dazai, ma senza aspettarsi una risposta. 

«Vi siete fatti un’idea di che abilità possieda?» domandò Ango, riferendosi al ladro e assassino. Si arrischiò a lanciare un’occhiata a Ranpo, ma come Dazai, anche lui non pareva interessato alla conversazione, come un bambino imbronciato in attesa della fine della punizione. 

«Ancora nulla» replicò Kunikida. 

«Il suo modus operandi è caotico, ma abbiamo escluso un complice per adesso. Anche se sono stati usati più tipi di armi, sembra che ad agire sia sempre la stessa persona. Ma è un vicolo cieco… le prove continuano a sparire.»

Ango guardò un’altra volta in direzione di Dazai, ma desistette subito, stringendo le dita a pugno. 

«Come facciamo a trovare Yosano-sensei?» chiese Atsushi. Avvertiva ancora sottopelle la sensazione di non star facendo abbastanza, che, come aveva sottolineato Ranpo, la dottoressa dovesse rimanere il loro primo pensiero. 

Con un po’ di difficoltà per colpa del braccio bloccato, Ango depositò sul tavolo un altro fascicolo. Era più spesso degli altri, con più di un rattoppo e qualche macchia. Ango lo fissò con un’occhiata combattuta, come se cedere quella manciata di fogli fosse qualcosa di molto importante. 

«Per chi di voi ancora non ne fosse a conoscenza, più di quattro anni fa mi fu chiesto di infiltrarmi all’interno della Port Mafia. Il mio obiettivo principale era riuscire a schedare gli utilizzatori di abilità ancora sconosciuti al governo. In quel periodo, durante il conflitto della Testa di Drago, ho conosciuto Dazai e Odasaku.»

Dover rimanere nei binari e rilegare le emozioni in fondo all’anima era qualcosa di cui Ango era capace, eppure non riusciva a distogliere gli occhi e le dita da quel fascicolo, da quell’Odasaku che aveva scritto a penna quattro anni prima sulla copertina. 

«Dopo che la mia copertura è saltata e sono tornato alla Divisione, ho sistemato tutte le informazioni ricavate. Quelle su Odasaku...» deglutì, avvertendo delle spine in gola. 

«Il report su di lui non era più indispensabile, ma avevo bisogno che non fosse solo un numero su un fascicolo.»

Aprì il plico. Una copia tagliata della fotografia scattata al bar Lupin era appuntata con una graffetta, ritraendo solo Oda. 

«Ho raccolto tutte le informazioni possibili, anche se in realtà sono davvero poche. Non sono riuscito a fare luce su interi pezzi della sua vita, del suo passato. E non so che utilità potrà avere...» 

Di nuovo, le sue dita di chiusero a pugno. 

«L’Odasaku che stiamo affrontando è una persona totalmente diversa da quella che ricordo. Ed è sfuggente. Non c’è nulla che attesti come sia sopravvissuto quattro anni fa, dove sia stato, cosa abbia fatto… cosa gli abbiano fatto. Il lavoro è stato meticoloso.»

«Il quadro non è incoraggiante, ma esamineremo la documentazione finché non troveremo qualcosa» ribatté Kunikida, accettando il fascicolo di Oda. 

Con la coda dell’occhio, Atsushi si accorse della rigidità nelle spalle di Dazai. Il suo senso di disagio si rimescolò nello stomaco. Se fosse stato nei panni del proprio mentore, sapere che la vita di una persona tanto importante stava per essere passata al microscopio gli avrebbe dato la nausea. 

«Se invece seguissimo la pista dei luoghi appartenenti alla mafia?» propose a bruciapelo, sperando di cambiare qualcosa. 

«Sono troppi» disse Kunikida, spegnendo le sue speranze. 

«Troppi per mobilitare pattuglie o agenti, e attaccare Red Hood in solitaria si è già rivelato rischioso.»

«Ma se… se...» 

Atsushi tentò di pensare in fretta, spinto dal bisogno di riempire quei vuoti in cui le sue mani continuavano ad affondare senza stringere nulla. 

«Se riuscissimo a seguirlo e… e capire dove si nasconde, dove sia il quartier generale dei terroristi, troveremmo anche Yosano-sensei...»

«E se Red Hood sfruttasse il posto dove viveva prima?» lo seguì Tanizaki con fervore. 

Il silenzio della risposta cadde addosso a Dazai, come tutti gli sguardi. Si apprestò a replicare, ma non senza un sorriso cattivo e amaro. 

«Odasaku teneva i bambini al piano superiore di un ristorante. Il proprietario è morto ed è abbandonato da allora» e nel dirlo si strinse brevemente nelle spalle. 

«Non è lì, ho già controllato.»

L’espressione allarmata che Kunikida gli lanciò parlava chiaramente per un Come ti viene in mente di andare in un posto del genere da solo!? 

«Lo stesso vale per casa sua» riprese l’ex Dirigente della Port Mafia, giocherellando con una penna. 

«Era in affitto. Il proprietario ha venduto l’appartamento un mese dopo la… be’, quella cosa che fino a due giorni fa era la sua morte» e accennò una risata che non divertì nessuno, prima di appoggiare i gomiti sul tavolo, intrecciare le dita e poggiarci sopra il mento con un’aria fintamente pensierosa. 

«Poi non sono dell’idea che mettere una base in un luogo che io conosco sia una mossa utile. A meno che lo scopo di Dostoevskij non sia prendere me? Ma Odasaku ha fatto intendere che non sono indispensabile al loro piano, quindi...» 

Lasciò la frase in sospeso, tornando a concentrarsi sulla parete di fronte. 

«Penso abbiano un quartier generale non facilmente riconducibile ai ricordi di Odasaku. Anzi, da come operano, direi che i nascondigli siano almeno due. Che ne pensi, Ranpo-san?»

L’atmosfera era una corda di violino. 

«Concordo con Dazai.»

Quest’ultimo fece un gesto vago, a sottolineare la validità della propria tesi appena approvata dal loro detective di punta. Finì poi con lo stiracchiarsi, continuando a esibire una presenza che cozzava del tutto con le vibrazioni che emanava. 

«Non sono davvero così utile. Ora avete anche il fascicolo di Ango, quindi penso che andrò a farmi una dormita.»

«Dazai» lo richiamò Kunikida, prima che potesse mettere la mano sulla maniglia. Il partner ci mise qualche istante di troppo a voltarsi, con un sorriso solo all’apparenza cordiale. 

«Sì, Kunikida-kun?»

«Come dovremmo muoverci?»

Era palese che a Dazai non importasse, ma finse di sì, picchiettandosi il mento con un dito e l’aria di chi sta vagliando delle opzioni. 

«Se fossi in Dostoevskij credo che avrei già raggiunto il mio scopo: far credere a tutti che ci sia un giustiziere in città, arrivare poi al colpo di scena in cui si scopre la verità e lasciare a brancolare nel buio i miei nemici, perché il mio campione non solo è forte, ma intacca anche la loro armonia.»

Le sue parole non erano che un altro vicolo cieco, stretto, soffocante e senza fondo. 

«Non penso che siamo neanche vicini al climax di questa storia. Probabilmente sarà quando Red Hood attaccherà e distruggerà del tutto una delle torri di difesa.»

Atsushi colse la metafora, memore della loro chiacchierata sul tetto. Il riferimento alla Port Mafia gli fece battere il cuore di una nota stonata. 

«Sappiamo chi è il campione, ma solo di nome, essendo una persona completamente diversa» proseguì Dazai, facendo scivolare le mani in tasca. 

«Sappiamo chi c’è dietro. Sappiamo che c’è un’altra pedina in gioco che sfrutta sia il diversivo, sia la testardaggine del governo nel non fornirci informazioni. Sappiamo qual è il loro scopo.» 

Ancora una volta, il sorriso di Dazai fu intriso di un veleno dolciastro. 

«In effetti, conosciamo davvero tutto il quadro generale, eppure è inutile e frustrante. Forse dovremmo solo aspettare e sperare di trovarci al posto giusto nel momento giusto? Oppure aprire delle trattative con la Port Mafia e collaborare, salvo che in quel caso il coltello dalla parte del manico ce l’avrebbero i nostri nemici, perché così porterebbero l’equilibrio dalla loro parte: un passo falso e, se saltasse fuori un nostro accordo con la mafia, dopo quello del Cannibalismo che siamo riusciti a insabbiare, manderemmo all’aria anni di reputazione… oh, potrebbe essere un altro tassello nella strategia del nemico.» 

I suoi occhi si fissarono su Fukuzawa per un momento, come un guanto di sfida che il Presidente non raccolse, restando impassibile. 

«Anche se ufficialmente chi ha il piede nella fossa è Mori-san, sono sicuro che, in un eventuale accordo, non si lascerebbe sfuggire l'occasione per calcare la mano e ottenere qualcosa da noi… o qualcuno, chissà?» e Dazai lo disse poggiandosi teatralmente la mano sul petto, in un gesto che ricordava l’uomo in questione. 

«In definitiva, penso che siano riusciti a incastrarci e a metterci in panchina in sole due mosse. Non c’è veramente qualcosa che possiamo fare. Insomma, Kunikida-kun!» vociò esasperato, ma ancora con uno sguardo troppo cupo per essere in linea con quell’allegria che millantava. 

«È davvero una domanda difficile a cui rispondere, dovrei proprio dormirci su.»

Con quelle ultime parole, Dazai abbandonò la sala riunioni, lasciando dietro di sé un’atmosfera pesante e sfiduciata. 

 

* * *

 

Dazai dormì davvero, crollando così profondamente sul divano degli ospiti che non ebbe neanche il sentore degli sguardi e della presenza degli altri quando passarono a fine riunione. La stanchezza accumulata negli ultimi giorni fu un insieme di dita strette intorno alla sua mente, in grado di soffocare la sua coscienza. 

Tra tutti, Atsushi fu quello più vigile, tendendo il proprio udito soprannaturale di tanto in tanto per ascoltare le variazioni di respiro e farsi trovare pronto quando Dazai si fosse svegliato. 

Questo nonostante la sua mente fosse occupata dalla discussione appena conclusasi. Non sapeva da quale punto iniziare, mentre sistemava fogli di segnalazioni e presunti indizi, ma era stata una delle riunioni più pesanti da digerire. E sentire Dazai dormire di un sonno così sincero gli diede un miscuglio di emozioni complicate tra cui scegliere. Si sentiva in una zona così sicura da poter riposare tranquillamente? Oppure era davvero così al limite che ogni posto andava bene? 

Quale delle due fosse l’opzione giusta, in entrambi i casi Kunikida non brontolò mai a un tono alto nemmeno una volta. Di contro, Atsushi lo aveva invece notato a fissare a più riprese la scrivania vuota del suo partner, mentre tra le mani aveva il fascicolo di Oda. 

Fu intorno all’ora di pranzo che Dazai riprese coscienza. L’Agenzia era immersa in un silenzio un po’ fuori luogo, ma, quando aprì gli occhi, Atsushi fu lì con un bicchiere d’acqua in mano. 

«Dazai-san» salutò, risparmiandogli qualsiasi convenevole che fosse un hai dormito bene? colmo di disagio. 

«Andiamo a prendere il pranzo insieme?»

 



 

Dazai rovesciò con le bacchette ul gyoza nel piattino, non mostrando alcuna intenzione di volerlo mangiare. Era seduto a uno dei tavolini del locale, in attesa che Atsushi finisse di comunicare gli ordini da asporto. Il proprietario - un uomo che avevano aiutato a uscire da un problema con la mafia - li aveva accolti con un gran vociare allegro, offrendo loro stuzzichini e sakè per ingannare l’attesa. 

Un’attesa incorniciata da un’altra giornata mite, dall’aria primaverile, che non aiutava i pensieri di Dazai a rimanere quieti e lontani dall’idea che Odasaku fosse in un raggio di appena qualche chilometro, senza memoria e compagno di Dostoevskij. 

«… dice che ci vorranno venti o trenta minuti.»

Atsushi scostò la sedia e si sedette, guardando per un istante il proprio piattino coi gyoza intonsi ed esprimendo una voracità che non avrebbe risparmiato neanche la ceramica, per poi accorgersi del proprio mentore e del raviolo rovesciato su un lato. 

«Non hai fame, Dazai-san?»

«Non adesso» fu la replica pacata e onesta, con un accenno di sorriso. Prendere una boccata d’aria non gli stava dispiacendo, e la presenza di Atsushi era lenitiva. 

«Quando sentirai i profumini buoni del pranzo ti verrà!» affermò il ragazzo con una genuinità spontanea che strappò una risatina a Dazai, mentre tornava a torturare il gyoza.   

«Chissà. Cosa avete ordinato?»

«Aspetta...» 

Atsushi si frugò in tasca, ritirando fuori il fogliettino stropicciato. 

«Del gyūdon, tempura di verdure, e poi… donburi, del curry...»

«Chi ha ordinato il curry?» lo interruppe Dazai. 

«Uhm… non ho segnato i nomi...»

«Capisco.»

«Dazai-san?»

«Era il piatto preferito di Odasaku.»

Atsushi continuò a guardarlo, impacciato, anche quando Dazai distolse gli occhi e fissò fuori dalla vetrata del ristorante con aria assente. 

«Io...» ricominciò il giovane detective dopo un po’, stropicciando nervosamente il foglietto con gli ordini. 

«Io non ho mai mangiato il curry.»

Sembrò essere la frase giusta da dire al momento giusto. Dazai riportò l’attenzione su di lui con una faccia incredula. 

«Scherzi? Mai mai mai?»

Le guance di Atsushi si colorarono di un rosa acceso. 

«In orfanotrofio mangiare era sempre una lotta e… uhm… non c’è stata mai occasione dopo.»

Dazai si alzò di scatto, spaventandolo, e si rivolse direttamente al proprietario, che spuntava dalla cucina a vista. 

«Ossan! Aggiunga una porzione extra di curry!» e non si preoccupò del tono di voce che attirò gli altri commensali. Atsushi si fece piccolo piccolo per l’imbarazzo. 

«Da-Dazai-san non c’è bisogno.»

«Sì, invece. Non sarà il curry preferito di Odasaku, ma da qualche parte bisogna iniziare» spiegò rimettendosi seduto, più leggero di prima, tanto da dare il colpo di grazia al gyoza con un unico boccone. 

«Terribile! Terribile!» cincischiò melodrammatico, masticando. 

«Com’è possibile che non hai mai mangiato del curry!? Devo prendermi meglio cura di te.»

Atsushi aveva la fronte corrugata, non sapendo da quale domanda iniziare. Nel mentre, l’espressione di Dazai tornò ad ammorbidirsi, con qualche punta di malinconia. Intinse un secondo raviolo nella soia, ma lo tenne sospeso a sgocciolare. 

«Una delle ultime cose che mi disse Odasaku era di prendermi cura degli orfani. Stare dal lato delle persone che aiutano gli altri significa anche questo, no? Un po’ quello che tu hai fatto con Kyouka-chan, senza battere ciglio.» 

La sua voce si fece più bassa, come a voler parlare di un segreto, di un desiderio fragile da mettere a parole. 

«Penso che tu e Odasaku sareste andati d’accordo.»

Dopo i discorsi sentiti quella mattina, e la discussione avuta con Chuuya, Atsushi avvertì uno spiacevole groppo in gola a sentire quanto fosse diverso il tono con cui Dazai parlava di Oda. 

«Sembra che lui fosse davvero… una brava persona» commentò la Tigre Mannara un po’ a disagio. 

I racconti di Chuuya del giorno prima ancora vibravano nella sua mente, ma riuscire a immaginare il rapporto di Dazai con quell’uomo che Atsushi aveva visto solo in foto, e che indossando una maschera rossa aveva tentato di ucciderlo, non era facile. Non era facile in generale pensare al suo mentore come Dirigente della Port Mafia. L’idea gli provocava in testa uno stridore fastidioso, totalmente sbagliato. 

Immaginare poi Dazai coinvolto in una relazione con qualcun altro aveva solo il potere di farlo morire di imbarazzo.

«Vuoi chiedermi qualcosa su Odasaku?»

Atsushi alzò di scatto le mani, scuotendo la testa, sentendosi colto in flagrante. 

«No! No, cioè… penso che, ecco, questa mattina sia bastato… con quel fascicolo.»

Avere un segreto da nascondere a Dazai era strano, soprattutto se questo riguardava una scommessa proprio su di lui. Tuttavia, per una volta, l’ex Dirigente della Port Mafia sembrava troppo distratto per subodorare che qualcosa gli veniva omesso. 

«Ce l’ho con Ango, ma per altri motivi» spiegò Dazai, riferendosi ai discorsi che aveva finto di ignorare per tutta la mattina. 

«Raccogliere e catalogare informazioni è il suo lavoro e una parte di me sapeva che doveva avere un fascicolo su Odasaku. L’ironia è che non pensavo che un giorno sarebbe servito… se servirà davvero a qualcosa.» 

Accompagnò la fine della della frase con un sorso secco di sakè

«Scavare nel passato sarà una perdita di tempo. L’Odasaku che conoscevamo noi… quello riportato nel report, non è lo stesso che ora ci spara addosso. Red Hood è un’altra persona.»

Il racconto del Presidente gli graffiò ancora una volta quel sentimento all’altezza del petto che aveva riposto quattro anni prima, e che ogni tanto si era sentito di toccare, per pochi istanti, solo nei momenti che passava al cimitero. Ripensare alla tomba su cui aveva trovato conforto anche interi pomeriggi gli faceva solo salire la nausea. 

«Lo salveremo, giusto?»

Dazai alzò gli occhi su Atsushi, senza capire la domanda. 

«Penserai a un piano per fermare Dostoevskij e per… ecco, fare in modo di allontanare Oda-san da lui, vero?»

Se la fiducia avesse potuto manifestarsi in un volto, avrebbe scelto quello di Atsushi. Fu quasi abbagliante, tanto che per un istante Dazai sentì il petto irrigidirsi, ma più per contenere un sentimento bislacco come la speranza. 

Ignaro, il proprietario arrivò a interromperli, lasciando che la risposta di Dazai si perdesse tra le chiacchiere.



 

* * *

 

L’apparente calma che l’Agenzia stava dimostrando nel gestire il caso delle chiavi, il rapimento di Yosano e l’avanzata di Red Hood subì un violento scossone circa due giorni dopo, quando la voce di Ranpo riecheggiò dall’ufficio di Fukuzawa per ogni stanza. Ignorarlo fu impossibile, persino per Kunikida che perseverò nel lavoro finché le sue dita non smisero di digitare sul computer. 

Stavano fallendo

Ranpo aveva ragione. 

Il suo sfogo stava dando corpo ai pensieri che fino a quel momento avevano cercato di mettere a tacere. Era passata troppi giorni dalle tre esplosioni nelle società di comodo della Port Mafia e dal conseguente rapimento di Yosano. Non avevano indizi, non avevano piste, non avevano niente, e nel mentre Red Hood aveva chiuso un altro cerchio di attacchi, guadagnando terreno. 

Kunikida aveva ormai imparato a memoria il fascicolo di Oda, ma nulla di ciò che c’era scritto si stava rivelando utile. Interpellare Dazai sulla questione era un campo minato. La tensione tra loro due si era dilatata, tanto che Atsushi era continuamente presente, pronto a mitigare l’una o l’altra parte, un groppo soffocante in gola nel sentirli discutere sfiorando la litigata. 

Nell’aria si respirava la cosiddetta calma prima della tempesta

Gli sguardi inseguivano le lancette degli orologi, aspettando che si manifestasse sotto qualsiasi forma la “prossima mossa”. Un’attesa inevitabile e sfibrante, deteriorata dalla mancanza di risultati.

Era una di quelle sere in cui non avevano stretto nulla. A mano a mano tutti stavano lasciando l’Agenzia, a cominciare da Naomi che si era impuntata per portare via il fratello, dopo che questo si era addormentato sul centesimo rapporto inutile della giornata. A loro erano seguiti Kyouka e Kenji, accompagnati da un Dazai che aveva appena accennato un saluto con la mano. 

Per quanto Atsushi avesse sentito forte l’impulso di alzarsi e seguirli, dando retta a quella sensazione nello stomaco che gli diceva di non perdere d’occhio il proprio mentore, era rimasto per finire di controllare i fascicoli che gli mancavano. 

Lui e Kunikida lavorarono in un silenzio privo di interazione, come due impiegati qualsiasi che condividevano le scrivanie per caso.

I segni della stanchezza erano ben visibili anche sul detective più retto dell’Agenzia. Il breakdown di Ranpo, insieme al sentire anche Fukuzawa alzare la voce, lo avevano scosso abbastanza da fargli fare errori di distrazione continui durante tutta la giornata. Unito all’aspetto più disordinato, con i capelli scarmigliati, senza gilet e con le maniche della camicia arrotolate ad altezze diverse, non restituiva la solita aura di sicurezza. 

La goccia colmò la misura quando prese la tazza di tè abbandonata vicina al pc. Ne sorbì un sorso, ma dall’espressione disgustata si accorse delle ore che erano passate da quando gli era stato portato caldo. 

«Atsushi, puoi andare a casa.»

Il ragazzo alzò di scatto la testa neanche fosse stato un ordine. 

«Ho quasi finito» assicurò, riprendendo a digitare più velocemente. 

Kunikida lo fissò con i suoi occhi segnati dal poco sonno, per poi spostare lo sguardo sulla scrivania vuota del proprio partner. 

«Ehi, ragazzo… come sta Dazai?»

Atsushi fu preso in contropiede dalla domanda. Ci mise qualche istante a elaborarla, per poi posare a propria un’occhiata alla sedia che ormai Dazai usava di rado. 

«Starà bene.»

Non seppe dire se fu una bugia detta con le migliori intenzioni, o solo la traduzione di un desiderio che sentiva dentro. 

Kunikida chiuse lo schermo del portatile, rabbuiato. 

«Non abbiamo nulla tra le mani e non sappiamo come e quando attaccheranno di nuovo… Dazai non-» si interruppe, stringendo le dita sul computer, lo sguardo fisso sulla miseria del loro stato attuale. Avrebbe potuto continuare la frase in cento modi diversi, dando sfogo alla frustrazione, alla rabbia, alla preoccupazione, ma nessuna di quelle emozione gli poteva restituire una risposta che valesse più di uno sfogo. Ranpo era crollato, Dazai non era più Dazai, Yosano poteva essere perduta, e lui- 

«Kunikida-kun» lo fermò Atsushi, privo di tentennamenti. Prese un lungo respiro.

«Troveremo una soluzione. Dazai-san penserà a qualcosa. Lo starà facendo anche ora, solo che… ecco, ha bisogno di più tempo questa volta, per capire come affrontare il suo amico senza che qualcuno...» 

Le parole di Chuuya riecheggiarono nella sua mente, ma lo aiutarono solo a essere più deciso in quello che voleva dire. 

«Senza che qualcuno si faccia male sul serio.»

L’espressione di Kunikida si ammorbidì per via della sorpresa. Si concesse qualche istante per riflettere, finché non buttò fuori una boccata d’aria che gli alleggerì il petto. 

«Come mai quando si tratta degli altri hai tutta questa fiducia, ma non per te stesso?» 

Atsushi restò interdetto e imbarazzato, non aspettandosi una replica del genere. 

«Io-» 

«Spegni tutto» lo interruppe il detective senior di nuovo, mentre si sistemava la camicia e recuperava il gilet. 

«Finirai domani, hai bisogno di riposare anche tu.»

«Davvero, mi manca-»

«In piedi e fuori di qui, ora.» 

Era tornato il vecchio Kunikida che non ammetteva repliche. 



 

* * *

 

L’aria pungente della sera non smorzò le energie di Atsushi. Si incamminò verso casa, ma senza la reale motivazione di tornarci. Sentiva di poter fare altro, di poter continuare a lavorare, ma Kunikida rimase fermo davanti all’ingresso dell’Agenzia, gli occhi fissi sulla sua nuca per assicurarsi che non tornasse in ufficio. Un comportamento paradossale dal più stacanovista dell’Agenzia, ma Atsushi poteva percepire la sua stanchezza come un oggetto fisico. 

Per questo procedette un piede davanti all’altro, per quanto la testa rimase a rimuginare come in ogni secondo libero in cui non si stava adoperando per riportare Yosano a casa. Le possibilità, le teorie, le piste. 

Aveva iniziato a sperimentare i mal di testa da stanchezza, lievi ma martellanti, la deconcentrazione quando si ritrovava a leggere lo stesso appunto tre volte senza riuscire a memorizzarlo. Era frustante quanto le ore che passavano senza risultati. Più accumulava pesi nella testa, più questi incrinavano le sue certezze, già poche di partenza, che si riducevano a spiragli da cui poi gli spifferi penetravano portando con sé la voce del Direttore dell’orfanotrofio. 

Era sovrappensiero e non si accorse della persona che aveva davanti e con cui finì a scontrarsi. 

«Mi dispiace!» esordì, massaggiandosi di riflesso il braccio. Sbarrò gli occhi quando si accorse chi avesse davanti. 

«Non fare casino.»

C’era poca gente per strada, ed erano così vicini che nessuno prestò attenzione ai lembi di stoffa nera che si avvinghiarono intorno ai polsi della Tigre Mannara e si strinsero sulla sua bocca, imbavagliandolo. 

Del tutto imperturbabile all’occhiata allarmata e poi combattiva del detective, Akutagawa iniziò a camminare verso un vicolo, mani in tasca. Atsushi fu costretto a seguirlo, tirato da Rashoumon

La stradina che stavano percorrendo era stretta, lunga e vuota, ma nessun tentativo fu sufficiente per liberarsi. Quando le mura dei palazzi finirono, davanti a loro si aprì uno spiazzo e una porzione di porto poco illuminata, ma da cui le luci della costa si vedevano nitidamente. Una visione appagante, se non fosse stato per i modi bruschi con cui Akutagawa lo aveva appena rapito. Senza smentirsi, per liberarlo usò la stessa delicatezza, sbattendo il giovane detective contro una parete. 

«Era necessario!?» 

Atsushi si massaggiò il retro della testa dolorante, sentendo le vene ribollire di frustrazione. 

«Nakahara-san mi ha detto di andarci leggero con te» spiegò il cane della mafia, guardandolo fisso e assottigliando lo sguardo. 

«Finché la vostra scommessa sarà valida.» 

Il famigliare tono disgustato e indignato si fece strada tra le sue parole, come se l’altro ragazzo gli avesse rubato qualcosa. 

«Perché mi hai portato qui?»

Il dubbio era lecito. Non c’era anima viva intorno a loro e sembrava il posto perfetto per ammazzarlo e buttarlo in mare. Non rispecchiava minimamente quell’andarci piano

La risposta tardò ad arrivare. Akutagawa si voltò verso il mare, ma senza dare l’impressione di riflettere su cosa potesse dire per giustificarsi. Le spiegazioni non erano il suo forte. Gli attacchi feroci e improvvisi sì, e Atsushi sentiva di essersi quasi abituato ad aspettarsi uno scontro. Così, quando vide Rashoumon animarsi, tese i muscoli e si preparò a parare, ma il fendente si piantò nel terreno, in un moto di frustrazione accompagnato da un vago ringhiare. 

«Devi annullare la promessa!» abbaiò Akutagawa, perdendo del tutto la compostezza e voltandosi con una minaccia precisa in faccia. 

«Oppure affrontami qui e ora!» 

Il sussulto di Atsushi si spense in fretta. 

«Ancora questa storia della promessa?» 

Il suo commento innescò la furia di Akutagawa. Due fendenti scattarono, ma la Tigre Mannara li evitò con un balzo, per poi bloccarli con le mani quando puntarono a inseguirlo. 

«Finché non potrò uccidere sarò inutile alla mafia!» 

Akutagawa non sembrava in sé, come ogni volta che l’argomento veniva fuori. Questo gli costò la concentrazione per mantenere l’attacco e permise ad Atsushi di liberarsi di Rashoumon

«Te l’ho già detto! La promessa che mi hai fatto non è una debolezza!» 

I lembi di stoffa si moltiplicarono e attaccarono alla rinfusa, ma anche se imprevedibili e scoordinati, Atsushi riuscì a vederli ed evitarli tutti, finché quel bisticcio insensato non li portò a separarsi col fiato corto. 

«Red Hood… Oda-san… è su un altro livello!» perseverò il giovane detective. 

«Non lo fermeremo solo scontrandoci con lui! E non possiamo ucciderlo! Dazai-san...» 

Atsushi avrebbe voluto imprecare e scrollare Akutagawa per fargli entrare in testa il concetto. 

Quest’ultimo imprecò davvero, tirando un pugno a una parete. 

«Tu non c’eri… tu non sai nulla!» disse con acredine, come se un vecchio veleno sopito nel suo corpo si fosse risvegliato per risalirgli fino alla bocca. 

«L’umiliazione di essere paragonato a un tuttofare… al grado più basso della mafia… sentirsi dire di poter essere ucciso solo facendolo arrabbiare come se fosse un dio sceso in terra...» 

Atsushi ingoiò quella confessione, ma mantenne la lucidità. 

«Ti ostini a usare la tua forza solo per passare sopra agli altri!»

«Cosa credi di sapere, Jinko? Credi di conoscere Dazai-san?»

«Lui è cambiato!»

L’uno sostenne lo sguardo dell’altro, in una situazione in cui il divario di pensiero tra loro sembrò concretizzarsi in un muro denso e invalicabile, per quanto invisibile. 

«Cambiato?» 

Akutagawa esibì un sorrisetto macabro, al limite del sarcastico. 

«Sputa la verità, Jinko: cosa hai provato vedendo Dazai-san spararmi addosso? Perché io ti ho sentito trasalire. Ho visto il tuo sguardo. Ho fiutato la tua paura. Volevi scappare, ma sei rimasto pietrificato.» 

Il suo tono si smorzò e perse di intensità, lasciando intendere che alla fine quel discorso non lo divertisse. 

«Pensavo avessi capito, ma è evidente che mi sia sbagliato.» 

Atsushi scrollò la testa per allontanare il pensiero. 

«Dazai-san mi ha salvato. Si è preoccupato per me quando nessun altro lo avrebbe fatto.»

Akutagawa fu imperturbabile, sentendosi alle prese con un bambino incapace di cogliere il messaggio. 

«Sai come sono entrato nella mafia, Jinko?»

Fu inaspettato e Atsushi rimase immobile, senza fiatare, come se il solo respirare avesse potuto intaccare quell’inaspettato momento di confessione. 

Il pensiero che Akutagawa potesse avere un passato da raccontare non lo aveva mai sfiorato. Osservò la propria nemesi come se per la prima volta qualcuno avesse acceso una luce nuova sopra di lui. Il suo sguardo era diverso, occhi che stavano guardando nei propri ricordi, ma la Tigre Mannara non avrebbe saputo descrivere il sentimento che vi si rifletteva. 

Akutagawa osservò una manica del proprio cappotto nero.

«Io e mia sorella siamo stati abbandonati dopo che ho trasformato per la prima volta una parte dei miei vestiti.»

Bastò quell’incipit a far chiudere lo stomaco ad Atsushi. 

«Non ricordo nemmeno che volto avessero i nostri genitori. Si sbarazzarono di entrambi come immondizia.» 

Nel raccontarlo, le dita della sua mano si strinsero a pugno così forte da farlo tremare. 

«Se mia sorella è cresciuta per strada e non in una casa, vivendo una vita normale, la colpa è mia. Per paura che anche lei fosse come me è stata buttata via.»

Nelle parole di Akutagawa non c’era rimorso o rabbia, ma il senso di una constatazione fredda, ponderata, come se la sua colpa, il possedere un’abilità, nel tempo fosse diventata un dato di fatto certo, indubbio. 

«È successo una notte» riprese l’altro ragazzo, infilandosi le mani in tasca. 

«Gli altri orfani con cui condividevamo tutto furono sterminati da alcuni contrabbandieri. Ho cercato vendetta… e ho trovato Dazai-san ad aspettarmi.»

Le parole continuavano a morire sulle labbra di Atsushi a ogni dettaglio. La sua mente cercava di figurarsi un Akutagawa bambino, orfano, calpestato dalla vita, di fronte a un Dazai della Port Mafia. 

Le sue dita strinsero la stoffa dei pantaloni e se ne accorse solo quando le unghie graffiarono la pelle sottostante. C’era uno strano sentimento che si agitava in lui, qualcosa che cominciava con la compassione e finiva nella comprensione per un passato di cui poteva intuire gli incubi. 

«Dazai-san uccise i contrabbandieri come dono per me» riprese Akutagawa, ignorando cosa si agitasse nella mente della Tigre Mannara. 

«Fu la sua offerta per chiedermi di entrare nella mafia. Quella o la libertà di vivere senza più pensieri.»

«Cosa...?»

«Se avessi rifiutato la sua proposta mi avrebbe dato il necessario per fare vivere me e Gin senza bisogni, promettendo di non cercarmi più. Se invece avessi accettato, mi avrebbe dato qualcosa da cercare…» 

Akutagawa lasciò in sospeso la frase come sembrava essere rimasta anche dentro di lui, incerto ancora di quale dovesse essere la risposta. 

«Dazai-san fu chiaro. Accettare avrebbe significato avere una vita più infernale di quella che già vivevo per le strade di Yokohama. È stato di parola.»

Un sorriso sarcastico, eppure sincero, spuntò sulle sue labbra. 

«Rifarei tutto da capo probabilmente.»

«Perché… ti ha dato una ragione per vivere» mormorò Atsushi, plasmando finalmente uno dei centinaia di pensieri che gli graffiavano la mente. 

Akutagawa gli lanciò un’occhiata penetrante, ma entrambi rimasero in silenzio, sempre più consapevoli di quante sfaccettature delle loro vite si stessero mescolando. 

«Non annullerò la promessa.»

Atsushi aveva bisogno di buttare fuori il caos che gli stava urlando in testa. Non riusciva a guardare Akutagawa, perché qualcosa era cambiato e non riusciva ad avere lo stesso appiglio di odio nei suoi confronti. Si sentiva pesante, come se la presenza dell’altro gli stesse gravando addosso ignorando i metri che li separavano. La parte peggiore era che, nonostante quella pesantezza, una parte di lui spuntò con il proposito malsano di sostenerlo. Di dirgli che il peggio, l’abbandono, la vita da orfano, appartenevano al passato. 

Non seppe come interpretare quel pensiero, se non affrontandolo girando i tacchi e andandosene. Si sforzò di essere ragionevole, di rimanere sui binari della coerenza. 

«Non si tratta di essere utili alla mafia o fermare Red Hood… ma riguarda Dazai-san.» 

Guardò Akutagawa negli occhi, anche se brevemente, troppo per riuscire a cogliere il sentimento che li animava. 

«Se Red Hood dovesse morire per mano tua non dimostreresti di essere forte… non dimostreresti proprio niente. Dazai-san ne soffrirebbe.»

Da quando aveva parlato con Chuuya, Atsushi si era ritrovato a doversi ripetere quelle frasi più e più volte, cercando la convinzione per continuare a sostenere il cambiamento di Dazai nonostante tutto il resto urlasse il contrario. Tuttavia, in quel momento, era Akutagawa il fulcro del discorso. 

«Hai fatto delle cose orribili» ricominciò, con un sapore in bocca che sapeva di falso. 

«Hai usato Kyouka-chan, l’hai manipolata e l’hai mandata a morire… hai quasi ucciso Tanizaki e Naomi… Tu fai male alle persone per dimostrare di essere forte.» 

Avvertì Akutagawa irrigidirsi, mettersi sulla difensiva, eppure Atsushi non riusciva a pensare di attaccarlo, non per quella sera, non dopo le parole che stava per dire. 

«… ma hai anche dimostrato di saper proteggere.»

Si fissò la mano, la stessa che, durante il Cannibalismo, era stata avvolta da Rashoumon

«Hai protetto Yokohama dalla Gilda. Hai fermato il piano di Dostoevskij… hai collaborato con me più volte e mi hai detto che le parole del mio passato non hanno nulla a che vedere con ciò che sono ora...»

«Dove vuoi arrivare, Jinko?»

Atsushi scosse la testa per scrollarsi quell’interruzione, anche se lecita. 

«Non lo so, ma Dazai-san è cambiato. Ha scelto un’altra strada.»

«Dovrei farlo anche io? Dovrei cambiare?»

La voce di Akutagawa era di un’amarezza pungente, fatalista, con un odio sordo meccanico. Più un riflesso condizionato. 

«Vuoi dimostrare che se non uccido posso essere diverso?»

Atsushi chiuse a pugno la mano che aveva continuato a fissare. Aveva provato cosa volesse dire avere Rashoumon ad avvolgerlo. Si era sentito protetto. Si era sentito forte. Aveva ribaltato le carte in tavola in uno scontro che aveva visto lui e Akutagawa perdenti, ma che insieme li aveva resi vincitori. 

«Non annullerò la promessa» ripeté Atsushi in tono definitivo, stanco. 

«Se tra sei mesi vorrai affrontarmi come hai detto e… andare oltre, allora non ucciderai Red Hood. Lo affronteremo e lo fermeremo, ma senza ucciderlo.» 

Abbassò lo sguardo ancora una volta. 

«Dazai-san te ne sarà grato, perché sa quanto per te sarà difficile non cedere.»

Furono le sue ultime parole, mormorate più a se stesso, a quel pezzo di vita che stava imparando a conoscere e a sostenere per non esserne travolto. 

Si voltò e tornò a casa. 



 

To be continued.




 

Spazio autore 

 

Ultimo capitolo per quest’anno =) Totally a random di Martedì XD 
Lascio queste due righe per ringraziare chi sta commentando *love* e chi sta leggendo, augurandovi che l’anno prossimo sia decisamente più positivo di questo!

Riguardo a questo capitolo, volevo lasciare una nota al discorso di Ango che inizia con “Compartimentazione” perché è una citazione a Nick Fury dell’MCU, anche se la verve è decisamente diversa XD Ma rivedere The Winter Soldier mi ha dato diversi spunti. 

Detto questo, siamo quasi alla metà della prima parte =) 

E sono sempre più presa dal voler andare avanti *fight*!  

 

Ci si rivede dall’altra parte ~

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess




Prossimo capitolo → The Room of Madness

 

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Capitolo 12
*** The Room of Madness ***


Nota: questo capitolo contiene riferimenti alla terza Light Novel di Bungou Stray Dogs "The Untold Origins of the Detective Agency". La trovate su Amazon tradotta in inglese.



 

Capitolo 11

The Room of Madness



 

Dedico questo capitolo a Rota,
perché ama Ranpo
e i suoi commenti sono linfa vitale.
Grazie!




 

Nella matassa incolore della vita scorre il filo rosso del delitto.
Il nostro compito sta nel dipanarlo, nell'isolarlo, nell'esporne ogni pollice.

[Sherlock Holmes - Arthur Conan Doyle]






 

Era pieno pomeriggio e Kunikida si spinse gli occhiali sul naso, accogliendo i due ospiti appena entrati in Agenzia con uno sguardo stanco e poco incline al dialogo. 

«Cosa vi serve?» tagliò corto, ma accorgendosi subito di quanto il proprio tono non suonasse cordiale. Aggiustò il tiro cercando di spiegarsi. 

«Siamo pieni al momento, non abbiamo molto tempo.» 

«Ho delle informazioni per Ranpo-san.»

«Ranpo mi ha chiesto dei rapporti.»

Ango e Minoura si squadrarono con un’occhiata dopo essersi parlati sopra a vicenda. Era la prima volta che si incontravano. 

Kunikida sbuffò inconsciamente, come se gli fosse appena stato chiesto di fare l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto. 

«Seguitemi.»

Erano passati diversi giorni da quando l’Agenzia aveva formalmente preso in carico il caso delle chiavi rubate, ma, a parte il tempo che scorreva inesorabile, il resto era rimasto invariato. 

Red Hood continuava ad apparire e sparire in luoghi legati alla Port Mafia in maniera più o meno grave, aprendo e chiudendo i suoi cerchi di attacchi. I toni dell’opinione pubblica erano altalenanti, dividendosi tra chi inneggiava al giustiziere e chi ne teorizzava il complotto; di Yosano non c’erano state notizie. 

Il cambiamento più radicale era avvenuto proprio in seno all’Agenzia: Ranpo aveva smesso di indagare sugli eventi che stavano avvinghiando le proprie spire intorno a Yokohama e aveva abbandonato i colleghi a loro stessi. 

Nonostante Kunikida avesse sollevato un’allarmata protesta, Fukuzawa aveva appoggiato la decisione di Ranpo, anche se questo aveva significato decurtare ulteriormente le possibilità dell’Agenzia di stare dietro a ciò che stava succedendo. Erano senza Yosano, senza Ranpo e, a stringere, anche senza Dazai, una mera presenza in ufficio che si limitava a confermare o smentire tutto ciò che veniva fuori riguardo Red Hood. 

Ranpo non se ne era fisicamente andato, ma era impossibile parlare con lui. Aveva requisito una delle stanze dell’Agenzia e ne aveva fatto il proprio regno, come constatarono Ango e Minoura quando Kunikida li accompagnò e aprì la porta di quella che una volta era stata una sala riunioni. 

C’erano fogli, documenti e foto ovunque. Articoli di giornali, rapporti, post-it colorati, biglietti scritti di fretta erano appesi ai muri da puntine intorno a cui si dipanavano fili rossi da parete a parete, formando una ragnatela a mezz’aria. 

«È impazzito?» chiese Minoura a mezza voce, incapace di distogliere l’attenzione da quell’intrico senza né capo né coda. 

Kunikida non commentò. Si limitò a una panoramica generale, come a constatare i progressi, per poi avviarsi alla propria scrivania, chiedendo la cortesia di non essere disturbato se non per questioni estremamente urgenti. 

Una volta soli, Ango e Minoura fecero per entrare. 

«AH! Fermi!» 

Se Ranpo si fosse o meno già accorto della loro presenza, lo diede a intendere solo in quel momento, ma senza neanche girarsi dal suo appuntare gli ennesimi post-it sulla parete. Parlò di spalle, con un tono sbrigativo di chi ha altro a cui pensare. 

«I documenti che stavate per calpestare lì davanti a voi valgono più di qualsiasi vostra chiacchiera.»

Con lì davanti intendeva quelli per terra, in piccole montagnole che formavano una specie di basso labirinto per tutta la stanza. 

«È tutto ordinato seguendo una logica che non capireste neanche tra cento anni. Se fate cadere qualcosa dovrò ricominciare da capo.» 

Lo disse muovendosi proprio tra quelle fila come un roditore addestrato, percorrendo svelto l’unica porzione di pavimento ancora visibile fino all’ingresso della stanza. Una volta arrivato lì, senza saluti o convenevoli, strappò di mano a Minoura la pila di rapporti richiesti, per poi fissare Ango in attesa. 

«Erano troppi e troppo pesanti» si giustificò quest’ultimo, riferendosi ai documenti che avrebbe dovuto portare con sé, il braccio ancora fasciato al collo. Estrasse una pennetta USB per cui Ranpo sbuffò sonoramente. 

«Naomi!» urlò, affacciandosi dalla porta senza preoccuparsi di urtare Minoura. La ragazza apparve pochi secondi dopo, prendendo al volo la pennetta USB che Ranpo le lanciò.

«Stampami tutto quello che c’è qui sopra! Subito! Massima urgenza! E portami dei dango!» e nel finire l’ultima frase sparì, rientrando nella stanza.    

Al contrario, Naomi rimase lì, sospirando con lentezza per mitigare l’evidente voglia di tirargli qualcosa in testa. 

«Non lasciatevi coinvolgere da questa follia» disse di punto in bianco, fissando i due ancora sulla porta. 

«Ha dato completamente di matto e nessuno riesce a farlo ragionare. Buona fortuna.» 

«Ma su che diavolo lavori?» chiese Minoura quando furono di nuovo soli. Stava osservando Ranpo - che evidentemente continuava a ignorarli nonostante la domanda - e il suo sfogliare veloce i fascicoli che gli aveva portato, strappando e appallottolando tutto quello che c’era di inutile. 

«Mi hai chiesto roba di più di dieci anni fa… che cosa ha a che fare con Red Hood?»

«Red Hood non mi interessa. Non ora» ribatté sbrigativo Ranpo, ritagliando parti dei rapporti per andarli ad appicciare sul muro. «È un vicolo cieco. Sappiamo già tutto e non ci serve a niente.»

Minoura rimase interdetto a bocca aperta. 

«Cosa? Sapete chi è?»

Ranpo agitò una mano in aria come a scacciare una mosca. 

«Oda Sakunosuke. Ex assassino su commissione, ex membro della Port Mafia. Si pensava fosse morto quattro anni fa.»

L’espressione di Minoura era oltre l’incredulità. Al suo fianco, Ango si schiarì la voce con un colpetto di tosse, per poi tirare fuori il proprio identificativo del governo. 

«Le informazioni su Red Hood sono strettamente confidenziali. Il caso è sotto la giurisdizione della Divisione governativa per l’uso delle abilità. Qualsiasi informazione sentirà qui non dovrà essere divulgata. In caso contrario, la sua carriera, o quella di chi verrà a conoscenza dei fatti tramite lei, sarà finita e sarà passibile di arresto. Perdoni la minaccia, ma è un caso che richiede estrema cautela.»

Minoura lo guardò sbattendo le palpebre, senza capire. 

«Fermi un attimo. C’è un pazzo omicida che semina il caos da settimane e voi sapete chi è!? E non lo state fermando!?»

Il commento di Ranpo fu un sonoro sbuffo infastidito e nient’altro. 

«Ci stiamo provando» replicò Ango, perdendo in parte la serietà per un tono più frustrato e impotente. 

«Ma è come tentare di afferrare un fantasma.»

«Se non state cercando di fermare lui, allora a che diavolo lavorate?» insistette il detective della polizia con aria più seria e accusatoria, anche se con Ranpo fu come sbattere contro un muro. 

«Devo capire dove, come e quando tutto questo è iniziato» mormorò, fermando i suoi gesti frenetici. 

«Sto seguendo il consiglio di un’amica che mi suggerì di indagare alla vecchia maniera, se fossi stato bloccato...» 

Nonostante la pesantezza in quanto appena detto, Ranpo socchiuse gli occhi, fissando la parete di fronte a sé.

«Dostoevskij deve sentirsi in trappola come il ratto che è, anche se lui è soltanto parte di qualcosa di più grande.»

«Hai trovato informazioni che possono esserci utili?» domandò Ango attento, ignorando l’espressione confusa di Minoura. 

Ranpo finì di appuntare le ultime informazioni che aveva in mano e fece un passo indietro, calibrato, senza sfiorare né le pile di carta in terra né i fili rossi sospesi intorno a lui. La prima cosa che fece fu puntare il dito verso l’unica porzione di parete meno incasinata. Sul muro era stata disegnata una sagoma con sopra un punto di domanda e sotto l’appunto utilizzatore di abilità. Intorno al profilo anonimo era pieno di post it scritti a mano e sopra, a troneggiare su tutto come un titolo, la scritta le prove distrutte

«È dal caso del Cannibalismo che Dostoevskij utilizza qualcuno in grado di far sparire le informazioni. Per questo Puškin era sempre una persona diversa. Lo ha usato anche per cancellare qualsiasi documentazione relativa a Oda e non ho alcuna prova a dimostrarlo...» lo disse serrando le dita a pugno. La sua espressione era molto lontana anche solo dal sarcasmo. 

«Però ho idea che Dostoevskij stia usando il potere di questa persona solo da poco. So a grandi linee quali documenti e informazioni mancano e non sono ancora state distrutte, quindi ho iniziato a cercare intorno alle briciole che ha lasciato.» 

Girò su se stesso, facendo una panoramica della stanza.

«Dostoevskij sfrutta per molti dei propri crimini la propria organizzazione, I Ratti della Casa dei Morti, composta da orfani, senzatetto e disperati. Gente senza un passato e prospettive, niente da perdere, ma che lascia tracce e impronte disordinate.»

Finito di dirlo, Ranpo recuperò dal caos sul tavolo un foglio spiegazzato con un elenco di luoghi, nomi e altri indizi, mettendolo in mano a Minoura. 

«Per tenervi occupati» esordì, ma con una verve dimezzata rispetto al suo solito modo di fare egocentrico. 

«Ho risolto alcuni casi minori che erano rimasti incompiuti e sono tutti opera dei Ratti.»

Ancora una volta, Minoura rimase senza parole, fissando il foglio con almeno una quindicina di punti. 

«Per quello che sta succedendo ora i Ratti sono da escludere, almeno finché non servirà la forza numerica» riprese Ranpo. 

«C’è un’altra organizzazione dietro, più strutturata. Più vecchia.»

Le sue dita sfiorarono alcuni degli appunti. 

«Tredici anni fa mi proposero di farne parte. La persona che me lo chiese lavorava nella polizia.»

«Ohi.» 

Minoura scattò prima ancora di rendersene conto, il tono esacerbato da quella cascata confusionaria di informazioni. 

«Stai dicendo che ci sono delle mele marce tra i miei colleghi!?»

Ranpo fece spallucce. 

«Più che probabile. Il caso dell’agente Sugimoto poteva solo essere il primo, ma al momento non ho prove che ci sia qualcuno infiltrato nella polizia.» 

Ango si schiarì di nuovo la voce, riportando l’attenzione sull’argomento principale. 

«Di che organizzazione si trattava?»

Ranpo camminò nel suo labirinto di carta fino a un’altra parete, quella più incasinata e da cui partivano la maggior parte dei fili rossi. Al centro troneggiava una grande V e sotto, in stampatello ben leggibile, seguiva una frase: 

L’angelo consegnerà l’artista alla sua morte, in un senso reale. 

«Tredici anni fa, io e il Presidente siamo stati coinvolti in un caso di omicidio in un teatro.» 

Ranpo fissò la frase con intensità, lasciando riemergere i ricordi. 

«Per farla breve, tutto partì da una minaccia tramite questo messaggio. Il caso si rivelò diviso in due, una parte insignificante e vanagloriosa, solo uno specchietto per allodole per il vero piano, quello di rapire un utilizzatore di abilità durante la confusione generata dal crimine.» 

Gli uscì un sospiro infastidito e incrociò le braccia, spiegazzando ulteriormente la camicia già stazzonata. 

«Ovviamente sono riuscito a impedirlo» eppure la sua espressione non era d’orgoglio personale. 

«Non smascherai il vero colpevole… quello che tirava le file, ma misi alle strette Jun Mitamura» disse il nome voltandosi verso Minoura. 

«Era il poliziotto che finse di scortarmi in centrale per la deposizione. Mi portò in uno dei covi dell’organizzazione V per convincermi a unirmi alla loro causa: lo sterminio di utilizzatori di abilità.» 

Il detective della polizia ingoiò pesantemente, ma non abbassò lo sguardo. Il sangue gli ribolliva nelle vene al pensiero di trovare tra le proprie file dei colleghi corrotti. Al suo fianco, Ango mantenne la professionalità del proprio ruolo, per quanto tutte quelle informazioni fossero un bombardamento. 

«Avevo sentito parlare dell’esistenza di un’organizzazione con questo scopo, ma non ci sono mai state tracce convincenti per riconoscerla e schedarla. Alla Divisione fu archiviata come una minaccia poco attendibile e nel tempo non abbiamo riscontrato altre attività. Più il mito morente di una società segreta troppo ambiziosa e grottesca...»

Ranpo esibì un sorrisetto che gli si addiceva poco, più simile a quelli inquietanti di Dazai, che annunciavano scomode verità. 

«Un mito quanto le storie folkloristiche sugli utilizzatori di abilità? La realtà colpisce più forte quando si raccontano favole invece della verità.»

Ango incassò, senza sapere cosa replicare. 

«Credi che dietro a quello che sta succedendo ci sia questa organizzazione?»

Le dita di Ranpo fecero vibrare uno dei fili rossi che attraversava la stanza. 

«Ci sto ancora lavorando, ma l’organizzazione V era una versione beta… un’organizzazione capace di agire nell’ombra, eppure molto acerba. Mitamura era nella polizia, ma gli altri uomini con lui erano solo mercenari, non seguaci devoti alla causa. Lui stesso non era un pezzo importante, fu ucciso la notte stessa dell’arresto e il suo omicidio è ancora insoluto.»

Ranpo non fece caso al silenzio che calò, ma percorse la stanza seguendo con le dita lo stesso filo che aveva pizzicato, fino ad arrivare a un’altra porzione di parete. 

Una fotografia ritraeva Dostoevskij. Di fianco c’era una seconda foto, di Odasaku, corredata dalla didascalia Red Hood, a cui seguiva una sagoma anonima con scritto sotto Ladro di chiavi. Sopra di loro, un’altra silhouette corredata della scritta Capo

«Arriviamo quindi a Dostoevskij, a Oda, al Ladro omicida e a un capo. Ai nuovi vertici dell’organizzazione V.»

«Aspetta un attimo» lo interruppe Minoura, tendendosi a guardare le fotografie. 

«C’è qualcun altro oltre a Red Hood? Cos’è questa storia? Dostoevskij non è l’uomo che avete arrestato qualche tempo fa?»

«Detective Minoura, quando è informato?» chiese Ango con uno sguardo serio e sospettoso. «Sono informazioni confidenziali.»

«Minoura è un tipo a posto» garantì Ranpo con uno sbuffo. «Non è un genio, ma quasi nessuno di voi lo è. Dostoevskij ci si avvicina ed è irritante quanto Dazai.» 

Con le nocche, Ranpo batté sulla fotografia di Oda. 

«Red Hood è solo un enorme diversivo. O almeno, lo era. La sua opera contro la Port Mafia andrà avanti finché non verrà fermato… o non abbatterà la torre più grande.»

«Torre…?» ripeté Minoura, senza capire. «Di che diavolo stai parlando?»

«Ranpo-san.»

Il tono di Ango fu di avvertimento, serio e corredato di un’espressione incisiva. Ranpo fece spallucce. 

«Lo so, lo so» replicò, agitando la mano. 

«Non si deve parlare della struttura trilaterale voluta da Natsume-sensei, o peggio, parlare del Libro, quell’oggetto capace di sovrascrivere la realtà… ops

Ranpo sembrò del tutto deliziato dalla propria nonchalance, facendo brevemente spallucce con un sorrisetto in bilico sul cattivo. Ango scosse la testa, arrendendosi e prendendosi il volto con la mano sana. Ribadì a Minoura con più fermezza che nessuna informazione avrebbe dovuto lasciare l’Agenzia, ma quest’ultimo pareva aver appena ricevuto una botta in testa. 

«Tornando a Dostoevskij, non ha mai nascosto i propri intenti sul voler distruggere la realtà e creare un mondo senza abilità. Lo stesso obiettivo dell’organizzazione V.»

«Non è possibile che Dostoevskij fosse coinvolto già tredici anni fa. Era… troppo giovane» tentò Ango, ma non così sicuro come avrebbe voluto. 

«Se non lo era, lo è diventato. I suoi intenti erano palesi già nello sfruttare Shibusawa» tagliò corto Ranpo. 

«Comunque, qualsiasi sia il nome o il volto dell’organizzazione V oggi, Dostoevskij non è il tipo da giocare a fare il capo. Si celerebbe dietro a una facciata. È quindi più probabile» e sembrò mordersi la lingua nel pronunciare quella parola tanto insicura, «che lui gestisca i complici e qualcun altro sia a monte di tutto.»

«L’idea del Cannibalismo e ora quello che sta succedendo, non sono opera sua? È solo un… vice?» domandò Ango, come se gli avessero tolto improvvisamente il pavimento da sotto i piedi.  

Ranpo ingoiò la frustrazione di non poter dare una risposta certa a causa delle informazioni che continuavano a sparire.

«Agire da secondo, ma tenere le fila, può rivelarsi una posizione anche superiore a quella di un capo» spiegò Ranpo, fissando con astio la fotografia dell’uomo in questione, per poi spostarsi su quella a fianco. 

«Secondo ciò che ha riferito Bel Cappello, Oda ha dichiarato di essere compagno di Dostoevskij e di conoscerlo bene, di fidarsi» continuò, voltandosi verso l’uscio per fissare in faccia gli altri due, soprattutto Ango. 

«Non ho le prove e non sono neanche un esperto, queste cose non fanno per me, ma pensate a come si costruisce un rapporto di fiducia.»

«… in anni» rispose Ango con un’amarezza che contribuì solo ad affogare ulteriormente le sue poche speranze. 

«C’è più di un’ipotesi che può spiegare come siano riusciti a far sopravvivere Oda, o come siano riusciti a riportarlo indietro. Ma il metodo ora è una variante inutile. Quel che possiamo affermare è che, negli ultimi quattro anni, Oda ha passato il proprio tempo a contatto con Dostoevskij.»

«… ma perché Odasaku?» 

Ango si era appoggiato allo stipite della porta, guardando un punto imprecisato del pavimento.

«Per la sua abilità? Per le sue potenzialità?»

«Anche» assentì Ranpo con un gesto del capo, per poi raccogliere lo sguardo di Ango col proprio. 

«Ma il suo compito principale è quello di ostruire Dazai. Forse anche di ucciderlo. L’abilità di Oda non può prevedere Dazai, ma Dazai non poteva prevedere che Oda fosse vivo. L’hanno studiata bene.»  

«...»

«Perché avete così a cuore questo Oda se era già un assassino e un membro della mafia?» scattò Minoura bruscamente, allibito e preoccupato da quello scambio di battute. 

«Perché» si intromise una quarta voce, cogliendoli di sorpresa. 

«A volte gli amici non te li scegli, ti capitano e basta! E allora fai di tutto per loro!» 

Tornata con le braccia ingombre di fogli stampati, Naomi li scaricò a un Minoura ancora più interdetto. Alle sue spalle, la sorpresa di Ango per quell’uscita si trasformò in un piccolo sorriso nostalgico. 

«Le cose complicate alla fine hanno sempre radici semplici, dico bene? Il tutto sta nel districare la matassa e la nostra Agenzia è la migliore in questo campo!» riprese la ragazza. La positività nel suo tono brillava come la vista di un porto sicuro. 

«Volete del tè insieme ai dango?» cambiò improvvisamente discorso. «Ango-san, le faccio portare subito una sedia da mio fratello, non dovrebbe starsene in piedi nelle sue condizioni!»

Si rivelò essere una breve pausa necessaria, in cui le pesanti informazioni ricevuto poterono iniziare a depositarsi e mettere radici. 

Ranpo passò il successivo quarto d’ora spazzolando con una mano, uno dopo l’altro, una montagna di dango, mentre l’altra era impegnata a sfogliare, reimpilare o appallottolare i fogli stampati. La sua espressione annoiata non fu addolcita né dai dolcetti né da quello che i documenti avevano da dirgli. Pagina dopo pagina, i suoi lineamenti si oscurarono. 

«Si trovano più informazioni nei rapporti compilati male dalla polizia che nei file governativi» sbottò, buttando in terra l’ennesimo foglio pieno di frasi annerite. 

«Cosa sono tutte queste censure!?» 

Il sospiro di Ango suonò patetico alle sue stesse orecchie. 

«Ho fatto quello che ho potuto, ma ho già spiegato la situazione. Il governo-»

«Devo venire a incontrare qualcuno dei tuoi capi» lo interruppe Ranpo, calcando nel tono la propria frustrazione. 

«Mi basterebbe un’occhiata per sapere su quale sporco segreto fare leva per avere ciò che ci serve.»

L’ex spia non ebbe nulla da ridire. 

«Questo Libro che avete menzionato» riprese Minoura sovrappensiero, stringendo la tazza di tè come un naufrago salvato dalla tempesta. 

«Fa davvero quello che avete detto? Uno ci scrive dentro e… e la realtà viene cambiata?»

«In parole semplici sì, ma sembra ci siano delle modalità specifiche per usarlo, anche se non ne conosco la natura» spiegò Ango con una smorfia. Le lacune affliggevano anche lui, nonostante lo desse a vedere meno di Ranpo. 

«E questo Libro si trova qui, a Yokohama?» 

«Sì. per quanto la sua ubicazione sia sconosciuta anche alla sezione speciale.»

«Servono delle chiavi per raggiungere il Libro» si mise in mezzo Ranpo, punzecchiando un altro dei fili che passavano sopra la sua testa. Questo partiva dalla sagoma anonima denominata Ladro di chiavi, vicino a Oda. 

«Recuperarle è il compito del terzo complice di Dostoevskij.»

Minoura seguì con lo sguardo dove il filo finiva, in una porzione di parete dove erano state affisse le foto di tre omicidi. 

«Chi sono le vittime?»

«Persone sconosciute.» 

Non sembrava esserci un argomento che risparmiasse il logorio, parola dopo parola, al tono di Ango. 

«Il governo ha cancellato qualsiasi informazione su di loro, così che potessero nascondere le chiavi. Una sorta di protezione testimoni estrema.» 

Si guardò la mano, come un pezzo inutile di sé. 

«Con la mia abilità sono riuscito a ricostruire solo in parte il loro passato. È tutto troppo normale e perfetto. Cittadini modello senza alcuna ombra, ma in possesso di queste chiavi per il Libro.» 

«E come diavolo fanno questi a sapere dove trovarli?» continuò Minoura, sentendosi sempre più piccolo di fronte alla situazione. 

«Una domanda così ovvia da essere stupida» commentò Ranpo, liberandosi del resto dei fogli stampati. 

«Ce lo siamo già chiesto, ma Mr Impiegato del Governo non riesce ad avere neanche le informazioni più basilari. Che perdita di tempo.»

«Sto facendo il possibile...» tentò Ango. 

«Sì, ed è inutile!» 

La voce di Ranpo si alzò all’improvviso, facendosi più mordace, scottante. 

«Come potete aspettarvi che risolva questo casino se il governo è il primo a nascondere i fatti e il resto delle prove viene distrutto!?»

Ango tacque, senza sapere cosa replicare. Minoura, al suo fianco, gli lanciò un’occhiata incerta, concorde con lo sfogo, ma sapendo cosa significasse avere a che fare con i modi lunatici del detective. 

«Se i file della polizia sono più utili, posso procurarmene altri» iniziò a dire, nel voler placare gli animi, ma Ranpo sbatté un palmo sulla scrivania, mettendoci tutta la propria frustrazione. 

«Fare il lavoro al posto della polizia, tanto mi bastano solo sessanta secondi, no!? Così a voi risolvo casi abbandonati perché siete degli incompetenti, eh? E voi mi darete qualcosa che sia meno di niente per capire dov’è tenuta Yosano!» 

«Ranpo.»

L’atmosfera si bloccò in quell’unico richiamo. 

La voce venne dalle loro spalle. Fukuzawa era arrivato in silenzio e fece trasalire i due ospiti. Ango stava per alzarsi in segno di rispetto e saluto, ma il Presidente lo invitò con un cenno a restare seduto. 

«È tutto inutile» sbottò Ranpo, rosso di rabbia, strappando uno dei fili e comportandosi come un bambino alle prese con le verità scomode del mondo. 

Fukuzawa varcò la soglia, entrando nel labirinto di carta. 

«Yosano-sensei sa che la salveremo» disse piano, fissando intensamente il detective. 

«Lo sa che non la abbandoneremo e che stai facendo tutto quello che puoi per riportarla a casa.»

I loro sguardi si incrociarono e il Presidente continuò, serio e temperato nel tono. 

«Se le fosse successo qualcosa di irreparabile lo saprei.»

Nonostante Fukuzawa avesse appena menzionato tra le righe la propria abilità, sottolineando che Yosano fosse viva, Ranpo scoppiò in una risata amarissima che fece venire la pelle d’oca ad Ango e Minoura. 

«Che sia viva non significa che sia bene! Potrebbero averla torturata tutti i giorni! O costringendo a usare il suo potere come Angelo della Morte

La sua esplosione emotiva si trasformò di nuovo, vibrando di collera nel tirare una seconda manata, questa volta contro il muro, lì dove aveva appuntato le odiose congetture sulle prove mancanti. Diversi post it si staccarono e caddero a terra. 

«Non sappiamo niente! Hanno cancellato ogni traccia! È tutto inutile! Ogni cosa che mi portate è inutile! Sono solo briciole inutili!» 

La calma di Fukuzawa rasentava la freddezza di fronte a quell’ondata bollente di tensione e delusione. Né Ango né Minoura sentirono di dover intervenire, o avere anche solo la possibilità di farlo. Erano rimasti muti nel loro angolo oltre la soglia della stanza, quasi in una sorta di territorio grigio, lontano dal campo di battaglia. 

Senza replicare all’escalation di Ranpo, il Presidente lo superò, camminando in mezzo alle pile di fogli senza sfiorarne nessuno, con una cura disinteressata nei gesti. Arrivò di fronte alla finestra e guardò fuori. 

«La soluzione è qui da qualche parte.»

Che si stesse riferendo a Ranpo, o fosse un pensiero slegato, nessuno ebbe tempo di capirlo. Fukuzawa aprì il vetro della finestra e una prima folata di vento lo investì, facendo sventolare le maniche del suo kimono. Quando si scostò, l’aria entrò con più vigore e i primi fogli iniziarono a vibrare, che fossero appuntati ai muri o nel marasma a terra. In una manciata di secondi si scatenò il caos. 

Folata dopo folata, il vento spostò tutti i documenti, i ritagli di giornale, le fotografie, facendoli volteggiare in aria in mulinelli scoordinati, mandando questo o quel foglio da un lato all’altro della stanza. 

Ango e Minoura restarono a bocca aperta. Ranpo sembrò essere stato congelato sul posto. 

Fukuzawa richiuse la finestra e tutti i fogli si depositarono in terra. 

Ci fu un lungo momento di stasi e fiato sospeso, nel capire cosa sarebbe dovuto succedere dopo. Ranpo non proferì parola. Si stava mordendo un labbro, ma fu ignorato dal Presidente, che lo superò di nuovo. Raggiunto il tavolo, Fukuzawa recuperò gli occhiali che aveva dato a Ranpo tredici anni primi, riemersi dal disordine di documenti grazie al vento. 

«Il piano di Dostoevskij è la tela di un ragno» disse, porgendo gli occhiali a Ranpo. Lo fissò negli occhi così intensamente che chiunque altro, non abituato, si sarebbe sentito in soggezione. 

«Ti ha messo di fronte a una sfida difficile, ma non impossibile. Tutti commettono degli errori, anche se lui li sta cancellando. Ma emergerà un punto debole. Devi solo capire qual è e ci riporterai Yosano-sensei. La salveremo. Chiaro?» 

Il suo tono si ammorbidì sul finale, in una sfumatura tiepida. 

«Ho fiducia in te, Ranpo.»

Le spalle del detective erano rigide, ma il peso invisibile che gravava su di loro parve alleggerirsi. Ranpo prese gli occhiali dalle dita del Presidente e li indossò. Diede l’idea di essere del tutto un’altra persona. Sul suo viso si aprì un mezzo sorriso, molto simile a un ghigno. 

«Smonterò il suo castello prima che lui distrugga il nostro.» 

Fukuzawa annuì, sottolineando il proprio consenso. Tornò sui propri passi e uscì dalla stanza, chiedendo ad Ango un breve colloquio nel proprio ufficio. 

Ranpo si affacciò dalla sua Stanza della Follia, ignorando l’ancora ammutolito Minoura per mettersi a urlare verso le scrivanie dei detective dell’Agenzia. 

«Ohi, Naomi! Servono altri dango! Due montagne di altri dango! E chiama Poe! Digli che è urgente e che in cambio leggerò un paio dei suoi racconti!» 

Con la stessa nonchalance, in uno scatto, si voltò verso l’ignaro detective della polizia. 

«Spero che abbia il pomeriggio libero, Minoura-keibu, perché qui c’è da sistemare questo casino! Ora che sai tutta la storia, renditi utile!» 



 

This is true in the case of other crimes as well, but the key to deceiving one’s enemy is to suppress one’s own emotions and to act entirely contrary to ordinary human nature. Because humans tend to judge the thoughts of others against their own, once they make a mistaken judgment, they do not notice their own error. 

[The Early Cases of Akechi Kogorō - Edogawa Ranpo]



 

* * *



 

Dazai riprese coscienza quando la voce venata di rabbia di Ranpo raggiunse il divano dove stava sonnecchiando. Tutto intorno, nella zona ufficio, calò il silenzio, come le rare volte in cui i toni dell’uomo per cui l’Agenzia era stata fondata si alzavano. 

Stiracchiandosi appena, più un assestamento di posizione, Dazai finse di essere ancora addormentato. Non era infastidito, aveva sentito urla peggiori nella propria vita, ma la mancanza di sonno stava diventando più ingestibile di giorno in giorno. 

Dormire in Agenzia si era rivelato il tacito compromesso che andava bene a tutti: lui riusciva a recuperare qualche ora di riposo, mentre i suoi colleghi potevano sapere dove fosse. Non che Dazai pensasse davvero di andarsene a spasso, o avvertisse la loro preoccupazione come una limitazione. Aveva già controllato tutti i possibili luoghi dove sarebbe potuto essere Odasaku secondo i propri ricordi, ma era chiaro che la strategia di Dostoevskij non prevedeva un loro incontro casuale

Dazai aprì gli occhi, senza più la pretesa di fingersi addormentato. Dalla sala riunioni i toni si erano abbassati e diventarono un ronzio per quei pensieri che da giorni non lo abbandonavano. 

Il nuovo sguardo di Odasaku era impresso nella sua memoria, senza essere più quello pacato, così poco avvezzo a trasmettere emozioni come era stato un tempo. Gli occhi che lo avevano inchiodato, puntandogli una pistola addosso, erano stati pietra. Impassibili di fronte alla persona con cui un tempo aveva annullato spazi ed esitazioni. 

Dazai giocherellò sovrappensiero con i ciuffi della propria frangia. Le immagini di un Odasaku morente tra le sue braccia si distaccavano sempre di più dall’Odasaku con cui avevano a che fare in quel countdown verso il Libro. Erano tutte e due versioni reali, ma i contorni di entrambe erano slavate nella menzogna. 

Era un circolo di pensieri senza uscita. Dostoevskij lo aveva messo sotto scacco, incastrandolo in una spirale vorticante tra presente e passato. Era un piano per fermarlo, o spingerlo a commettere un passo falso nello scegliere tra la logica e le emozioni. Doveva dargli atto che era riuscito a metterlo fuori gioco. Il suo cervello era in una impasse senza scelte. 

Leggere il fascicolo che Ango aveva redatto su Odasaku non gli aveva raccontato nulla che già non sapesse, e lo aveva solo spinto a rivivere momenti di quattro anni prima. 

Le prove che l’Agenzia stava cercando come pepite d’oro in un fiume di fango erano inutili. Anche farsi un giro nella Stanza della Follia di Ranpo - in un momento in cui questi era crollato dalla stanchezza - non aveva prodotto in lui che un senso di nausea alla bocca dello stomaco. 

Articoli di giornale, foto, appunti, stralci di rapporti ufficiali: una miscellanea di informazioni che avevano soltanto concretizzato la profondità di quanto le radici di quel male che aveva inglobato Odasaku fossero radicate e potessero strozzarlo da un momento all’altro, Flawless o meno. L’urgenza di fare qualcosa ticchettava nelle sue tempie, nonostante il suo cervello non riuscisse a incrociare gli indizi e trovare una soluzione.  

La sua mente continuava a restituirgli l’immagine di quell’Odasaku cresciuto. Quattro anni lo avevano definito come uomo e avevano lasciato segni indelebili, come la cicatrice sul suo volto o il braccio artificiale. Dazai avrebbe preferito essere preda di un’illusione, invece di dover dare credito alla realtà. 

Reale era stato l’Odasaku con cui aveva voluto condividere l’intimità, permettendogli di spogliarlo dei vestiti quanto dei filtri con cui si interfacciava con la vita, lasciandosi guidare nel piacere dei sensi, fisico ed emotivo, nello smettere di pensare e scoprire il tepore dato da un gesto di affetto sincero. 

Tuttavia, reale era anche l’Odasaku che lo aveva braccato, che lo aveva chiamato spia doppiogiochista, che aveva definito Dostoevskij un compagno. 

L’idea di pensarlo ancora morto, sepolto lì dove per quattro anni aveva creduto di andare a fargli visita, fu un’idea tanto fugace quanto egoisticamente confortevole. 

«Dazai.»

Dazai puntò uno sguardo indecifrabile verso la voce che lo aveva chiamato. La riconobbe come quella di Kunikida solo dopo che lo guardò in faccia. Si accorse che l’ambiente intorno a loro era silenzioso quando la pressione del sangue nelle sue orecchie defluì. Tornando padrone di sé, avvertì la rigidità delle dita, rimaste aggrappate alla stoffa del trench così a lungo da fargli male. 

«Dovresti dormire anche tu» buttò lì Dazai, registrando l’espressione tirata e pallida del partner. Non ebbe alcuna inclinazione derisoria, per quanto sarebbe stata un’occasione perfetta. Preferì non pensare a quanto poco sentisse di riempire i propri panni e si tirò su a sedere, stiracchiandosi. 

«Ti lascio il posto. In un paio di orette dovresti tornare a essere abbastanza attraente per le donne» e lo disse alzandosi e fermandosi di fianco a Kunikida, sull’ingresso della zona ufficio, osservando come non ci fosse praticamente nessuno. 

Kunikida non replicò. La rigidità della sua postura cozzava con un’espressione arresa, in parte sofferente. Dazai se ne rese conto anche senza guardarlo apertamente. 

«Allora, c’è qualcosa di utile che devo fare?» 

«Dazai...»

«Spero nessuna scartoffia o mi verrà sonno di nuovo.»

Il sospiro che lasciò andare Kunikida fu in bilico tra una scelta rivalutata cento volte e un atto di coraggio. 

«Io ci sono.»

Dazai lo guardò apertamente smarrito. 

«… eh?»

Kunikida non ricambiò lo sguardo, ma impresse fermezza al proprio tono. 

«Come tuo partner, ci sono. Come tuo… amico. Se ne avessi bisogno. Posso ascoltarti.» 

Abbassò lo sguardo. 

«Mi dispiace dover ficcanasare così nella vita di una persona per te importante, anche se si tratta di lavoro.»

Dazai restò spiazzato. Ammutolito da quelle uscite, si ritrovò alle prese con un grazie sulla punta della lingua, ma il bisogno di un po’ di normalità vinse. 

«Così mi metti a disagio, Kunikida-kun» cincischiò, stirando un sorrisetto sincero per quanto malizioso. 

«Significa che ora non ti arrabbierai più se giocherello con la tua agenda?»

L’altro represse un verso di gola in un colpo di tosse. 

«Gradirei che non lo facessi.»

«Quindi non ti sono piaciuti i disegnini che ho lasciato qui e lì?»

«Sei stato tu!?» 

Ogni parvenza di buon senso si eclissò e Kunikida perse la tranquillità zen esibita fino a quel momento. 

«Tu hai disegnato quelle… quelle volgarità nella mia agenda!?»

«Era troppo seria! Poi chissà cosa potrebbe succedere se attivassi quelle pagine…!»

Kunikida lo afferrò per il bavero, scuotendolo come suo solito. Dazai riuscì a ridacchiare con una parvenza di onestà. 

«Sei impossibile.»

«Non c’è bisogno di farmi complimenti! Allora, per cosa ti servivo?»

Kunikida incrociò le braccia, tornando pensieroso. 

«Ci sono da controllare gli ultimi report arrivati oggi.» 

«… evviva.»

Fu il turno di Dazai di sospirare, seguendolo per sedersi alla scrivania. Non guardò l’ora, ma dal cielo fuori il turno doveva essere quasi finito. Le giornate si stavano lentamente allungando, nonostante il buio della sera continuasse a richiedere le ultime ore pomeridiane per sé. 

Con uno sbuffo ben udibile, Dazai tirò a sé la piccola pila di casi delle ultime settantadue ore. Odasaku aveva già chiuso quasi cinque cerchi intorno ai palazzi della Port Mafia.

Pennarello in mano, una seconda cartina più piccola di Yokohama dove segnare gli attacchi - per poi riportarli su quella principale nella stanza di Ranpo - Dazai si rese conto di quanto gli eventi stessero scorrendo velocemente. Di quel passo, il giorno in cui l’ultimo cerchio si fosse chiuso sarebbe arrivato prima che l’Agenzia fosse stata in grado di fare qualcosa di concreto. 

Concentrandosi nel proprio compito, iniziò a cerchiare i posti corrispondenti ai report e che sapeva collegati alla mafia. Come i pezzi di un puzzle, ognuno di questi andò al proprio posto su una curva immaginaria, in un modo tanto prevedibile quanto angosciante. 

Questo fino a un fascicolo che catturò l’attenzione di Dazai, facendogli abbandonare il pennarello e la cartina. Il luogo attaccato non aveva un indirizzo che si incastrava in uno dei cerchi ed era slegato dalla mafia. Era stato dato alle fiamme, un incendio doloso durante la notte che aveva devastato la struttura. Sarebbe potuto essere un crimine qualsiasi, se Dazai non avesse riconosciuto il posto come il Wine Bar preferito del proprio ex partner, la sua tana chic di decompressione dopo le giornate di scartoffie. 

Era un messaggio di sfida da Odasaku a Chuuya. 

«Dazai, che succede?» chiese Kunikida, osservando la sua fronte corrugata. «Hai trovato qualcosa?»

«Io...» Dazai gli lanciò un’occhiata. «… devo andare in bagno! Mi scappa da morire!»

Dazai si dileguò dall’ufficio senza lasciare spazio a richiami, fiondandosi verso i bagni. Una volta accertatosi di essere solo, chiuse la porta a chiave e digitò a memoria il numero di Chuuya. Non ottenne risposta. 

Escludendo un secondo tentativo, Dazai provò a chiamare Hirotsu. 

«Dazai-san.»

La voce era più strascicata del solito, ma era la sua. 

«Non muori neanche se ti ammazzano, vero Hirotsu?» scherzò il detective, schiena contro la parete, avvertendo il sollievo sottopelle. 

«Ho saputo di essere stato fortunato, sapendo in chi mi sono imbattuto» replicò l’anziano, senza sbilanciarsi nel tono, ma lasciando intendere di avere un quadro della situazione. 

«Ci stiamo abituando a vedere tornare in vita chi dovrebbe essere morto, eh?»

Dazai si fissò nello specchio del bagno di fronte a sé, osservando il proprio volto tirato. Paragonato a quello del se stesso quindicenne, alle prese con il ritorno del Boss precedente, si sentiva messo molto peggio. 

«Speravo di averne già sentite e viste abbastanza alla mia età» sospirò Hirotsu, convenendo con l’affermazione del detective. «Per cosa mi ha cercato, Dazai-san?»

Il velo di leggerezza cadde, lasciando la scena alla questione seria. 

«Dov’è Chuuya?»

Hirotsu si prese qualche secondo. 

«Immagino abbia saputo dell’esplosione del Wine Bar.»

«Hirotsu, dov’è Chuuya?»

«Lo fermerà?»

Dazai si staccò dal muro e abbandonò il proprio riflesso nello specchio, voltandosi verso la finestrella da cui si poteva vedere una porzione di Yokohama e il tramonto. 

«Se Chuuya non lo ammazza, si farà ammazzare. E se lo ammazza, io ucciderò lui.»

Hirotsu tacque per qualche secondo ancora. Dazai strinse le dita a pugno, dentro la tasca del trench, attendendo. 

«Ai moli del Porto Vecchio.»

«Grazie.» 

Senza indulgiare, Dazai riaprì la porta del bagno. 

«Sono contento di sapere che non ti abbia ucciso» aggiunse all’ultimo, piano, sgattaiolando verso le scale dell’Agenzia senza incontrare nessuno. 

«Lieto della sua preoccupazione. Faccia attenzione.»

Dazai non replicò, chiudendo la chiamata. 

Una volta fuori, fermò un taxi per andare a un appuntamento a cui non era stato invitato. 




 

To be continued




 

Spazio autore 

 

Buon anno nuovo lettori!

Questo è un capitolo un po’ particolare dove ho infuso tutta la mia ossessione per le bacheche piene di indizi, i fili rossi che li collegano tra loro, il mystery in generale e soprattutto Ranpo, uno dei personaggi di BSD che più mi affascina! 

Come nel capitolo scorso è pieno di riferimenti alla terza Light Novel (e anche similitudini diciamo?), tra cui mi sono presa la libertà di tradurre un pezzo, l’indizio che Ranpo ha scritto sul muro sotto la “V”, ossia: “The angel will deliver the performer to his death, in a real sense”. Mi baso sulla traduzione inglese, sperando sia attendibile…! 

Plus, a fine capitolo c’è un’anticipazione del prossimo, che possiamo considerare la “fine prima parte della prima parte” X°D Insomma, siamo a metà della prima parte di questa storia. 

Grazie di seguirmi nonostante gli aggiornamenti traballini. Il vostro sostegno significa davvero molto *love*

 

Alla prossima!

 

Pagina autore su FB: Nefelibata ~ @EneriMess



 

Prossimo capitolo → For The Tainted Sorrow vs Flawless

 

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Capitolo 13
*** For The Tainted Sorrow vs Flawless ***


Nota: scusate l’assenza prolungata!

COW-T 11, settima settimana, M5
Prompt: Messiness
Numero parole: 6007




 

Capitolo 12

For The Tainted Sorrow vs Flawless



 

A Europa91,
grande sostenitrice
sempre in attesa.
Grazie!



 

I will dedicate and sacrifice my everything
For just a seconds worth of how my story's ending
And I wish I could know if the directions that I take
And all the choices that I make won't end up all for nothing

[Crawling in the dark - Hoobastank]







 

Dazai si fece lasciare dal taxi nelle vicinanze del Porto Vecchio. Ignorò con un sorrisetto di circostanza le raccomandazioni del tassista sulla pericolosità della zona e lo congedò sventolando la mano. 

L’odore di mare era più forte che altrove; umido e pungente, si mescolava a quello slavato dei ricordi. L’area del Porto Vecchio era nota per essere appannaggio della Port Mafia da prima ancora della successione a Mori. Non c’era il via vai solito di gente tipica degli altri moli. Chi girava da quelle parti erano mafiosi con qualche affare da sistemare o addetti ai lavori ingaggiati tramite mazzette. Più di un cartello indicava proprietà private fittizie o lavori in corso per scoraggiare gli ignari a entrare nella zona. 

Mani in tasca, il detective si avviò, attraversando le stradine che costeggiavano i grandi magazzini industriali. Non incontrò nessuno, immaginando fosse stato dato l’ordine di sgomberare. 

Nonostante il degrado a vista, ogni capannone era dotato di un sistema di videosorveglianza all’avanguardia. Dazai non si preoccupò di essere ripreso, ma anzi guardò dritto in uno degli obiettivi e fece un gesto di saluto, togliendosi un invisibile cappello dalla testa. 

«Perché non sono sorpreso?» 

Una voce lo raggiunse alle spalle, dopo pochi minuti, sovrastando i rumori naturali del porto e quelli più distanti delle imbarcazioni in transito nella baia. 

«Per un istante, uno, mi devo essere illuso che non avrei trovato la tua faccia da schiaffi qui.»

Dall’angolo della strada si palesò Chuuya. Camminava in un modo che sapeva di passeggiata occasionale, ma che non nascose a Dazai i suoi nervi a fior di pelle. Stava fumando a lenti e ampi tiri la sigaretta, ma il suo nervosismo investì l’ex partner come una folata calda. Il detective lo ricambiò con un’espressione pacata, come a voler avvalorare le proprie finte buone intenzioni. Sapeva mascherare meglio la tensione. 

«Lo sai che mi piace imbucarmi alle tue feste. Questa volta però niente vino, eh?» 

Il terreno sotto le suole di Chuuya scricchiolò. 

«Non lo ammazzerò» avvertì, riferendosi a Odasaku mentre incrociava gli occhi con quelli di Dazai. «Ma gli spaccherò tante di quelle ossa che gli ci vorranno mesi per rimettersi in piedi.»

«Stai rispondendo a un guanto di sfida davvero infantile. Non devi sottovalutarlo.» 

«Hai già fatto venire i complessi ad Akutagawa con questa storia» lo rimbeccò l’altro. «Io però non sono lui.» 

Chuuya soffiò una lunga boccata di fumo in faccia all’ex partner, che non si scompose, e ci tenne a continuare e sottolineare la situazione. 

«Lo sappiamo entrambi che il tuo amico può prevedere gli attacchi quanto gli pare, ma non potrà sfuggire in eterno alla gravità.» 

Dazai si astenne dal replicare, spostando lo sguardo altrove, ma senza focalizzarsi su nulla.

Aveva la spiacevole sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, di non calcolato, una trappola dietro l’angolo ad attenderli. La sua mente continuava a non stare al passo con gli eventi, non importava il numero di informazioni che aveva e che potevano aiutarlo a prevedere cosa sarebbe accaduto. Anche in quel momento in cui era certo che Odasaku sarebbe apparso di lì a breve, il pensiero fisso e martellante tornava a quel compagni pronunciato con tanta familiarità e riferito a Dostoevskij. 

«Non voglio interferenze.»

Chuuya lo distrasse riprendendo a parlare. Spense la sigaretta nel portacenere portatile sfoggiando una concentrazione invidiabile sull’obiettivo, nonostante il desiderio lampante di voler strangolare il suo ex partner. 

«E non voglio altre morti inutili tra i miei uomini. Già il fatto che tu sia qui è una seccatura. Non starmi tra i piedi o un proiettile te lo beccherai sicuro.» 

«Prima o poi dovrà succedere» replicò Dazai facendo spallucce. 

Chuuya lo afferrò per la camicia, strattonandolo verso di sé. 

«Non sotto i miei occhi.»

Lo lasciò andare di colpo dandogli una lunga occhiata che avrebbe voluto scavargli dentro, ma che non gli restituì nulla. 

«Non per mano sua

«Geloso?» 

Chuuya bestemmiò, artigliando l’aria. 

«Saresti così deficiente da farti ammazzare dalla trappola che quel ratto del cazzo ha costruito apposta per te. Ti si è inceppato il cervello, Dazai? Sono riusciti a metterti in un angolo!?»

Il silenzio di Dazai e la sua fronte contratta confermarono a Chuuya di aver fatto centro. L’espressione del Dirigente si distese per la sorpresa, ma la situazione non era dalla sua in quel momento. 

«Dopo che avrò impacchettato il tuo amico, io e te ci faremo una chiacchierata. Sei troppo incasinato da questa faccenda e ci stiamo andando di mezzo tutti» affermò, piantandogli il dito indice nel petto abbastanza da fargli emettere un ouch

«Sei sempre così delicato» brontolò sarcastico Dazai, evitando di replicare a quella frecciatina ben mirata. «Il tuo aspetto è proprio ingannevole.»

Un click arrivò alle loro orecchie. 

Il click di una sicura, a cui seguì il rumore secco di uno sparo. Circondandolo di un bagliore rosso, il proiettile che tagliò l’aria si fermò a contatto con la gola di Chuuya. Il Dirigente assottigliò lo sguardo, osservando il nemico. 

Odasaku si stagliava davanti al mare e all’orizzonte baciati dalle prime sfumature della notte. Contro le striature rosse del tramonto, sfoggiava la stessa maschera vermiglia con cui continuava a celare la propria identità, insieme a quella sua mise da giustiziere che ricordava le tute da supereroi dei fumetti di Tanizaki. Entrambe le sue pistole erano alte e puntate contro il Duo Nero. Era arrivato in silenzio e, ancora una volta, aveva volutamente palesato la propria presenza lasciando loro il tempo minimo per reagire, in un atto di spudorata sicurezza. 

Chuuya afferrò con la mano il proiettile, accartocciandolo con la gravità prima di farlo cadere in terra. Si liberò poi di giacca e cappello, lanciandoli a Dazai. 

«Fatti da parte» ringhiò, col terreno che ricominciò a scricchiolare. 

Riluttante, con gli occhi fissi su Odasaku, Dazai arretrò. Il senso di sbagliato era così forte che gli aveva creato un nodo all’altezza dello sterno. Non riusciva a vedere al di là dell’apparenza di quella sfida, del perché attirare così platealmente l’attenzione del rosso e rischiare contro la sua abilità. La trappola era lì, da qualche parte, doveva solo capirne la natura. 

Nel mentre, né Chuuya né Odasaku avevano preso l’iniziativa di attaccare l'altro. Si squadravano nella rinnovata quiete dei moli abbandonati, pronti ma in attesa di un cenno di inizio. 

Fu Oda a rompere il ghiaccio, lasciando come obiettivo Dazai e puntando entrambe le pistole contro il Dirigente. 

«Sei serio?» 

Chuuya schioccò la lingua con un verso impaziente e irritato. 

«Non hai ancora capito che con me quelle non funzionano?»

Dopo un attimo, Odasaku ritirò le braccia, in una posa che motteggiava la resa di fronte all’evidenza, per poi risistemare le armi nelle fondine. A mani libere, assunse una seconda posizione d’attacco, da scontro corpo a corpo. Le sue dita invitarono Chuuya a farsi avanti. 

«Mi stai prendendo per il culo!?» 

Chuuya attivò del tutto la gravità e si gettò in avanti con un urlo. 

Il primo impatto fu devastante. Odasaku non si scansò, non evitò il pugno di Chuuya, lo parò con entrambi gli avambracci uniti insieme. Si tese al massimo e strisciò sul terreno per diversi metri, ma prima che Chuuya potesse estendere la gravità su di lui, reagì. 

Il vero scontro iniziò e non ci fu un attimo di respiro. 



 

Gli occhi di Dazai seguirono ogni azione, rincorrendole con i pensieri per trovare un modo efficace di mettere fine a quella lotta prima che il presentimento che smorzava la sua sicurezza si concretizzasse. La clessidra del tempo aveva ricominciato a scorrere e i granelli non attesero che lui realizzasse in cosa si erano infilati. 

Chuuya e Odasaku non stavano risparmiando un colpo l’uno all’altro, in un misurarsi continuo di abilità marziali. Nessuno dei due stava prevalendo. 

Per compensare la disparità fisica - non poca sia in altezza che in massa muscolare - Chuuya stava facendo totale affidamento sulla gravità. Agli occhi di Dazai, tuttavia, qualcosa non stava funzionando come avrebbe dovuto. 

Odasaku giocava d’anticipo grazie a Flawless. Nonostante potesse vedere con quasi nove secondi nel futuro come sarebbe stato colpito, la velocità e le abilità del Dirigente sembravano compensare lo squilibrio. Odasaku si stava principalmente difendendo, riducendo il contatto fisico al minimo.

Quel tassello fu il primo che Dazai raccolse. Il dubbio che gli fece intuire cosa osservare per capire. Il toccare l’avversario avrebbe dovuto permettere al suo ex partner di estendere la propria abilità e inglobare Odasaku, Flawless o meno. Eppure non stava funzionando. 

Odasaku replicò il pugno iniziale e Chuuya lo parò alla stessa maniera, unendo le braccia tra loro, ma trovandosi lo stesso a strisciare indietro per l’urto. Aveva il fiato corto. Il rosso vibrante del suo potere vacillò per un istante. 

«Chuuya!» lo richiamò Dazai, sporgendosi dal riparo che aveva trovato. «C’è-»

Odasaku fu fulmineo e sparò un colpo nella sua direzione. Lo sparo non lo raggiunse soltanto grazie all’intervento del Dirigente, che si frappose bloccandolo. 

«Sta zitto e resta dove sei!» gli intimò ringhiando l’ex partner, rimandando il proiettile contro Red Hood, ma anche quel gesto era già stato previsto e fu schivato. 

L’incazzatura di Chuuya si abbatté contro il terreno, creando un cratere tutto intorno. Odasaku si irrigidì alla pressione della gravità, ma il suo fu un mero sforzo di resistenza, non ne fu oppresso. 

«Figlio di puttana» digrignò tra i denti Chuuya, sputando un misto di saliva e sangue. Aveva ricevuto un un pugno in volto e questo aveva acceso anche in lui il campanello d’allarme che qualcosa non stesse funzionando come al solito. Tuttavia, la rabbia che gli ribolliva dentro lo spinse a ributtarsi all’attacco con più foga. 

Sapeva di non poter sorprendere l’avversario. Era uno scontro che aveva il sapore di un film già visto. Caricò di intensità ogni colpo, quadruplicando il proprio potere, dandoci dentro di forza bruta. 

La vocina di Dazai nella sua testa gli stava dicendo di fermarsi, di ragionare sul perché il suo potere non stava avendo presa, ma il ruggito dentro di sé la sovrastò. Avrebbe schiacciato a terra Red Hood e chiuso quella storia. Non aveva tempo di fermarsi a pensare. Non poteva sorprenderlo in nessuna maniera, poteva solo avanzare, prevalere e buttarlo giù come lui stava facendo con la Port Mafia. 

A Dazai non passò inosservato di come la gravità stesse andando fuori controllo. La pavimentazione in cemento cedeva a ogni passo, ma intorno c’erano frammenti sospesi a mezz’aria che circondavano i due opponenti. Per il detective non era nulla di nuovo, solo l’ennesimo segnale di squilibrio: quando Chuuya iniziava ad agire di puro istinto, la sua abilità si propagandava a fisarmonica, alternando maggiore o minore forza. 

Non era buono. Non era buono per niente. 

Lo stallo della situazione raggiunse un nuovo picco quando un pugno di Chuuya fu chiuso e bloccato dalla mano di Odasaku. La tensione esplose dal corpo del Dirigente in un urlo e in un’onda d’urto. 

Rilasciò completamente il carico di gravità, sbaragliando tutto ciò che si trovava intorno a loro. Schegge e frammenti schizzarono in ogni direzioni non diversi da proiettili, costringendo Dazai a ranicchiarsi nel suo riparo per non subire ferite. 

In pochi istanti tornò tutto alla calma. 

E Odasaku era ancora in piedi. 

Era stato investito in pieno, ma era rimasto saldo nella stessa posizione, la mano ancora stretta sul pugno del Dirigente.

Chuuya e Dazai lo fissarono a occhi sgranati, esterrefatti, e, in modo neanche troppo malcelato, con una punta di terrore. Non era mai successo che qualcuno resistesse così a un’ondata di gravità pura, capace di crepare o far crollare i muri dei magazzini limitrofi. 

Il primo a comprendere fu Dazai, con un nuovo fiotto di angoscia nelle vene. Aveva intuito la trappola. Uno scontro impari e a svantaggio totale di Chuuya fin da principio. 

«È la sua tuta!» gridò Dazai. «Allontanati!»

Anche se distante, la analizzò cercando qualcosa, qualsiasi cosa che gli spiegasse come riuscisse a essere refrattaria alla gravità, a dissiparla, impedendo all’abilità di Chuuya di attecchire. Fu una realizzazione inutile, non quando il capovolgimento dello scontro successe in un secondo sotto i suoi occhi. 

Odasaku strattonò Chuuya verso di sé all’improvviso, troppo veloce, e lo colpì all’addome con una ginocchiata, lasciandolo senza fiato il tempo necessario a buttarlo a terra di schiena. Gli piantò un piede sul torace e lo tenne fermo, sfilandosi una delle pistole dalla fondina. Gliela puntò alla fronte e rimase così, fissandolo attraverso la maschera. 

Chuuya digrignò i denti, circondandosi una seconda volta della propria abilità e tentando di fare forza contro il piede per levarselo di dosso, ma la gravità continuò a essere deflessa.

«Allora sei sordo» bofonchiò il Dirigente in un rantolo, per poi risucchiare più aria possibile.

«Sparami quanto vuoi! Non so che cazzo hai addosso che annulla la gravità, ma i proiettili continuano a essere inutili!»

Dazai ebbe un brivido lungo la schiena. Una scena rara, perché si contavano sulla punta delle dita le volte che Chuuya era stato messo schiena a terra e minacciato in quel modo, e mai nessuna delle occasioni precedenti era finita bene per chi aveva avuto l’ardire di sfidarlo. Il caso ora era diverso. Le probabilità erano tutte contro il suo ex partner. A cominciare dalla pistola in mano a Odasaku, che non era una di quelle sfoderate al loro arrivo. 

Il movimento istintivo di Dazai verso i due per intervenire fu stroncato di nuovo da due proiettili di Odasaku. Non di avvertimento.

Estratta una seconda pistola, il giustiziere mancò il detective solo perché il Dirigente sotto di lui continuò ad agitarsi e gli impedì di mirare. Dazai fu costretto a mettersi al riparo dietro alcune casse, crollate le une sulle altre per via dell’ondata di gravità. 

Ci fu un attimo di quiete, di impasse. Il vento della sera spazzò con un alito gelido il molo, mentre le luci dei lampioni lampeggiarono nell’accendersi. 

Odasaku tornò a concentrarsi sul Dirigente. 

«Secondo quello che dice Fyodor, nascondi una bestia di rara bellezza» disse in tono piatto, il timbro vocale alterato leggermente dalla presenza della maschera. 

Lo sguardo di Chuuya era confuso. Non stava neanche più tentando di liberarsi, fissando l’avversario oltre la canna della pistola. 

«Sempre secondo lui» riprese Odasaku. «Tenere un’entità come Arahabaki segregata è uno spreco. Eliminandoti sarà libera.»

Chuuya sgranò gli occhi e Odasaku sparò. 

La pistola non emise un rumore normale. Fu quasi impercettibile, più uno spostamento d’aria, dando l’impressione che il colpo non fosse partito. 

Tuttavia, l’urlo di Chuuya infranse l’illusione quanto la quiete. Fu sovrumano. Pietrificò Dazai nel guardare come il corpo dell’ex partner tentasse di inarcarsi e le dita artigliassero il terreno. Lo sparo fu invisibile, ma dalle orecchie e dal naso del Dirigente iniziò a colare del sangue. 

Quando l’urlo si esaurì, Chuuya impiegò qualche istante a tornare padrone di sé e mettere ogni briciolo di forza nel tentativo di levare il piede di Odasaku dal proprio torace e liberarsi. Se anche riuscì a spostarlo di poco, l’altro lo ripiantò lì dov’era, facendo pressione per togliergli il fiato, sfruttando l’intermittenza dell’abilità. 

«Che cosa… cosa mi hai fatto...»

«È una pistola a risonanza direzionale, pensata per contrastare chi è dotato di abilità. Le onde sonore fanno vibrare direttamente il tuo cervello» spiegò l’uomo con la maschera, tornando a puntare l’arma. 

«Puoi essere immune ai proiettili normali, ma sei vulnerabile a questi.»

Imperturbabile, Odasaku sparò altre due volte e Chuuya si contorse sotto di lui. Lacrime di sangue gli rigarono le guance mentre le urla gli prosciugarono la gola. 

«Dieci colpi è il limite massimo che un dotato di abilità può sopportare» lo informò il falso giustiziere, ma se anche Chuuya lo sentì, le parole erano un fischio privo di significato. Il quarto colpo lasciò la canna, infierendo e riducendolo a un tremolio incontrollato di spasmi involontari. 

Un presentimento che non aveva nulla a che fare con Flawless bloccò Odasaku dal premere il grilletto per un quinto sparo. Il suo sguardo scattò dove avrebbe dovuto trovarsi Dazai. Individuò un lembo della sua giacca, ma si accorse che questa era semplicemente appuntata sulle casse e smossa dalla lieve brezza del mare. Il detective non era lì dove sarebbe duvuto essere. 

Se fossi una minaccia lo vedresti

Dazai apparve alle spalle di Odasaku prima che quest’ultimo potesse prepararsi. Lo assalì da dietro, passandogli un braccio intorno al collo e facendogli perdere l’equilibrio quel tanto che bastò per liberare Chuuya dalla pressione del suo piede. 

Prima che Odasaku potesse reagire e disarcionarlo, Dazai strinse i denti e giocò l’ultima possibilità di rallentarlo e avere un vantaggio: gli piantò nella spalla sana il pugnale che aveva recuperato dalla giacca dell’ex partner. 

«Chuuya!» gridò Dazai. Strinse la presa quando Red Hood lo afferrò per toglierselo di dosso e spinse la lama più a fondo, strappandogli un gemito che sentì in prima persona. 

A terra, l’ex partner non sembrava in grado di muoversi, ma ebbe un fremito nel sentirsi chiamare.  

«Chuuya! Ti fermerò! Ma devi farlo ora!»

Dazai serrò la mascella quando le dita di Odasaku gli artigliarono il fianco e riuscirono a scaraventarlo a terra. 

Nonostante il sangue che colava dalla ferita alla spalla lungo un braccio che non sembrava più in grado di muovere a piacimento, Red Hood non diede l’idea di voler desistere dalla propria missione. 

Puntò di nuovo la pistola a risonanza direzionale, ma questa volta la rivolse contro Dazai, troppo vicino perché potesse evitare il colpo. 

«Non saresti dovuto venire.» 

Il flash di incredulità che passò nello sguardo di Dazai, poco prima che il grilletto venisse premuto, non sortì alcuna esitazione. 

A differenza di Chuuya, l’urlo del detective si strozzò in gola. 

Dazai si portò le mani alle orecchie, graffiandosi con le unghie nel tenersi la testa. L’unico pensiero lucido che riuscì a razionalizzare, prima che il dolore diventasse insostenibile, fu di aver già provato una sensazione simile, ma meno intensa e devastante. Era come rimanere coinvolti dall’esplosione di una bomba. Fu una sofferenza simile soltanto alla base, perché si rivelò cento volte peggiore. 

I suoni si fecero ovattati e indistinti. L’odore del sangue, insieme al suo sapore sulle labbra, si mescolarono al bisogno di vomitare. Dazai crollò su un fianco, conscio di essere alla mercé di Odasaku, una macchia sfocata rossa e scura che lo sovrastava. 

Il giustiziere però non sparò una seconda volta. La presenza di Chuuya alle sue spalle lo distrasse quando il pavimento ricominciò a cedere sotto i loro piedi. 

La pelle visibile del Dirigente della Port Mafia era attraversata dal potere della Corruzione. Stava serpeggiando verso al viso, dove si mescolò col colore delle ferite e del sangue.

Chuuya era in piedi, ma in una posizione più scomposta del solito, come una marionetta a cui si erano rotti alcuni fili. Il suo sguardo era vacuo, ma si fissò sul nemico con l’ultimo barlume di consapevolezza. 

Red Hood scattò indietro prima che una bomba gravitazionale lo centrasse, andando a creare un buco sul terreno dove era fino a un secondo prima. Seguì anche una nuova onda d’urto che spazzò il cemento, trovando come unico impedimento No Longer Human, una sorta di scudo dal riverbero azzurrognolo intorno a Dazai. 

Un sorriso deforme e ampio si aprì sul viso di Chuuya. Nelle sue mani si caricarono altre due bolle nere di gravità compressa. Non parlò, non minacciò nessuno. La sua testa si piegò all’indietro come se pesasse troppo e iniziò a ridere. A ridere cattivo, scagliando le sue armi più potenti. 

Odasaku le evitò per un soffio, ma gli attacchi da due divennero quattro, e poi sei e, nonostante i movimento scoordinati del corpo di Chuuya, iniziò una caccia-fuga serrata. 

I colpi della pistola a risonanza furono inutile contro la gravità concentrata, che li inglobò come un sasso lanciato nel mare. A quel ritmo, non ci sarebbe più stato un Porto Vecchio sulla cartina di Yokohama. 


Dazai strinse le dita a pugno finché le unghie non si conficcarono nella carne del palmo e gli restituirono un diverso tipo di dolore, breve, ma anche nuovo e in grado di distrarlo. Il proiettile invisibile sparatogli in testa conservava il proprio eco, ma si era quietato abbastanza da fargli riottenere il senso della realtà. Il piccolo dolore che si inflisse servì a smuoverlo. 

Aveva la sensazione di cento emicranie tutte insieme, ma riuscì nell’impresa di tirarsi su e capire se c’era ancora qualcosa o qualcuno da salvare. 

Aveva detto a Chuuya di usare la Corruzione conscio che sarebbe potuto accadere il peggiore degli scenari. Farsi sparare da un’arma anti-abilità non era nel suo piano, ma neanche pugnalare Odasaku lo era stato. 

I minuti erano contati e stavano continuando a fluire inesorabili. Se voleva sperare di rimediare prima di perdere due persone importanti doveva alzarsi.

Nonostante i suoni continuassero ad arrivargli in picchi fastidiosi o vuoti, e dal naso il sangue colasse fino alla bocca, mettersi in piedi fu la parte facile. Difficile fu mantenere l’equilibrio. 

La prima cosa che riuscì a registrare fu la distruzione che percorreva tutti i moli vecchi, rendendoli irriconoscibili. Non c’era più una pavimentazione regolare, le macerie erano ovunque e una parte era crollata in mare. 

La situazione si era poi capovolta a vantaggio di Chuuya, ma Red Hood non stava cedendo. Il braccio ferito era inutile, tuttavia Flawless stava facendo il proprio dovere, dandogli il vantaggio necessario a salvarsi la pelle di pochi secondi. 

Le bombe gravitazionali del Dirigente stavano diminuendo di volume, ma la velocità con cui venivano scagliata rimase costante, fagocitando tutto quello con cui si incontravano. Erano disordinate, caotiche, imprevedibili. 

Non aiutò ascoltare come la risata di Chuuya fosse sempre meno umana, grottesca, anche ai sensi disorientati dell’ex partner. Era da troppo tempo in quello stato e presto la Corruzione avrebbe davvero raggiunto le sue ossa prima che Dazai trovasse il modo di intervenire. 

L’occasione si presentò a Dazai con, di nuovo, una pistola puntata contro. 

Sorrise a Odasaku come avrebbe fatto con un becchino. Stanco, frastornato e con un freddo dentro che non provava da molto tempo. La malinconia era solo il recipiente in cui quelle emozioni stavano affogando.

«Devo correggere Dostoevskij su un punto» mormorò il detective, osservando con la coda dell’occhio che Chuuya fosse ancora distante, intento a buttare all’aria un altro pezzo di porto. 

«Non è l’Arahabaki a essere una bestia di rara bellezza. È Chuuya stesso.»

Le sue labbra continuarono a sorridere, ma il sentimento che le venò cambiò da uno nostalgico a uno consapevole di come tutto si stesse riducendo a niente. 

«Ha un che di poetico sapere che in un corpo tanto minuto abbia dimora il seme della distruzione più pura e indiscriminata, impossibile da domare...»

«Tranne che da te» tagliò corto Odasaku. 

Fu nuovo sentire un tono affaticato, seppure sempre apatico, ma con qualcosa di più, di chi sta mettendo insieme i pezzi. Pezzi che nessuno sembrava essersi preso la briga di spiegargli. Dazai lo trovò interessante, ma allo stesso tempo rimase sul filo del discorso.

«No Longer Human è il nome della mia abilità» sospirò, quasi ringraziando di avere ancora il dolore alla testa a colmarlo abbastanza da non sentire quello nelle viscere. Odasaku era di nuovo a un passo da lui e non poteva raggiungerlo. 

«Posso annullare le altre abilità, come la tua Flawless. Abbiamo entrambi due poteri fastidiosi e guastafeste, non trovi?»

«...» 

Dazai dette di nuovo uno sguardo a Chuuya. Si era allontanato di un poco, senza mai smettere, ma andando nella direzione della città. Sembrava essersi dimenticato del suo obiettivo, ora che non gli era più davanti, ma Dazai sapeva che era solo perché il limite umano di Chuuya stava per esaurirsi. 

La vera domanda era: quanto ne sapeva Odasaku? Quanto gli era stato raccontato? Sebbene persino Dazai non avesse idea di cosa sarebbe successo all’Arahabaki una volta che il suo ospite umano fosse morto, non aveva alcuna intenzione di scoprirlo. 

«Non rimane più molto tempo. Mi sparerai, Odasaku?» tentò, giocandosi il tutto per tutto, ma senza guardarlo, avendo il ribrezzo per quella maschera cremisi. 

«Lascerai che Chuuya raggiunga Yokohama in questo stato? A giudicare da come stavi cercando di colpirlo, non era così che le cose dovevano andare, dico bene? Se Chuuya rade al suolo la città, anche il resto delle chiavi verranno distrutte.»

Per la seconda volta, il silenzio fu la replica a una conversazione a senso unico. 

«… tic tac, Odasaku, pochi secondi...»

L’uomo abbassò la pistola, rinfoderandola. Fu la sua decisione e la sua risposta, ma non l’ultima parola. 

«Non chiamarmi Odasaku» disse, voltandosi, ma lanciandogli un’ultima occhiata. 

«Sei un mio nemico.» 


Fermare Chuuya ebbe la precedenza, ma il vuoto che Dazai aveva dentro non attese e fagocitò la flebile luce che aveva resistito fino a quel momento. 


* * *


Per la seconda volta in meno di due settimane, le sirene della polizia e dei soccorsi invasero in massa le strade di Yokohama fino al Porto Vecchio. Non ne era rimasto molto, non della zona dei moli. Una delle ultime bombe gravitazionali di Chuuya si era schiantata contro un deposito di armi e l’incendio che ne era scaturtito stava tenendo impegnati i pompieri da un’ora. 

Lo sguardo di Dazai era ipnotizzato dalle fiamme. 

Era seduto sul vecchio divano di un ufficio non più in uso poco lontano. Chuuya era sdraiato con la testa sulle sue gambe, inerme e scomposto, privo di sensi. Con una tempia poggiata contro l’infisso freddo di una finestra al secondo piano di uno dei pochi magazzini rimasti in piedi, Dazai osservava la notte bruciata dall’incendio. 

Facendo appello alle poche forze rimaste, aveva trascinato l’ex partner nel primo luogo sicuro che aveva individuato, la testa ronzante, il corpo al limite. Era sicuro di aver perso i sensi per qualche decina di minuti, per essere poi svegliato dalle sirene e dagli ordini urlati del personale di emergenza accorso sul posto. 

Non aveva più niente a cui pensare ed era rimasto a guardare come la zona venisse transennata per i primi rilievi della polizia, il transennamento e l’individuazione delle prove che si erano lasciati alle spalle. C’era una delle pistole normali di Odasaku abbandonata in terra, diversi bossoli, tracce di sangue. 

Lo sguardo di Dazai si assottigliarono nel notare l’arrivo di Kunikida. Non pensò a nulla, ma lo seguì nei movimenti, nel vederlo parlare con i detective della polizia, con il capo dei pompieri, e poi guardarsi intorno, fino a correre in un punto in cui nessuno si era ancora spinto. Tra le macerie di un muro e i pezzi di legno di casse distrutte, Kunikida recuperò il suo trench, strappato e distrutto come tutto il resto. 

Dazai chiuse gli occhi quando il cellulare nella sua tasca iniziò a vibrare. Con lentezza, estrasse il telefono, osservando sul display il nome del suo attuale partner. Rimase così, immobile, finché la chiamata non si esaurì. Dieci secondi dopo ripartì e Dazai continuò a non rispondere, tornando a guardare fuori. 

Il rumore di passi di più persone, oltre la porta dell’ufficio abbandonato, lo irrigidirono. Fissò l’uscio, piantando le dita nella spalla di Chuuya mentre l’altra mano era ancora stretta intorno al cellulare, il pollice sospeso sopra l’icona per accettare la chiamata. 

Lo scalpiccio si bloccò di colpo e regnò il silenzio qualche istante, spezzato poi dal bussare deciso di due nocche. 

«Dazai-san, sono Hirotsu.»

L’aria lasciò i polmoni del detective in un involontario sospiro di sollievo. 

«Entra.»

All’apertura della porta, Dazai trovò l’anziano mafioso seguito a breve distanza da quattro agenti in nero. Con occhiate rapide controllarono la sicurezza dell’ambiente e due di loro si spostarono di nuovo all’esterno a sorvegliare il corridoio. Esclusi Dazai e Chuuya, e qualche mobilio sfondato, c’era solo il riflesso rosso dell’incendio ad agitarsi sulle pareti di quel rifugio improvvisato. 

Hirotsu concentrò lo sguardo sul proprio superiore, per porre poi una muta domanda a Dazai. 

«Ha la pelle dura, ma è messo peggio del solito. Ha bisogno di una TAC... potrebbe avere danni al cervello.»

C’era appena una traccia di macabro umorismo nel tono di Dazai. Il resto era il residuo pesante della situazione, di ciò che si era consumato un’ora prima e che aveva lasciato altri segni addosso al detective, visibili e invisibili. 

«Avrà subito le cure necessarie» assicurò l’anziano, facendo un cenno a due dei propri uomini di occuparsi di Chuuya, portandolo via. 

Con un nuovo vuoto affianco a sé, Dazai tornò a guardare fuori dalla finestra diroccata. Il suo cellulare riprese incessantemente a vibrare. A Hirotsu non sfuggì come l’ex Dirigente lo stesse stringendo e, allo stesso tempo, ignorando. 

«Posso scortarla da qualche parte, Dazai-san?» domandò con una gentilezza che era stato solito usare quando ancora erano dalla stessa parte. 

All’ennesimo inizio di chiamata da parte di Kunikida, Dazai spense il telefono, osservando il proprio riflesso nello schermo nero e immobile. 

«Sì» rispose, tentando di mettersi in piedi nonostante l’instabilità. 

«Portami alla Port Mafia.»



 

* * *



 

Il cellulare di Atsushi squillò appena una volta, prima che il ragazzo ci si avventasse sopra come fosse cibo e lui stesse morendo di fame. Il numero era sconosciuto, ma dopo tre giorni non gli importava di farsi domande. 

«Pronto!? Dazai-san!?»

«… ti ho davvero fatto preoccupare?»

Atsushi trattenne il respiro per un attimo, il corpo teso in un blocco unico, per poi lasciarlo andare in un sospiro liberatorio. 

«Meno male» disse piano, stringendo il cellulare con entrambe le mani. «Dove sei? Eravamo tutti in pensiero.»

«In effetti sono stato k.o. per quasi due giorni, ma sto bene.»

Kunikida apparve di fronte ad Atsushi, guardandolo con l’occhiata che di solito rivolgeva alle prove di un caso particolarmente ostico. 

«Sei al telefono con quell’idiota?» chiese, in un tono quasi normale, ma che durò davvero troppo poco e si trasformò nel classico abbaiare contro il suo partner. «Sta bene!? Passamelo! Mi ha chiuso la chiamata in faccia!» 

«Ugh» mugugnò Dazai all’altro capo. «Atsushi-kun, se mi passi Kunikida riattacco.»

Il giovane detective tentò di svincolarsi, ma Kunikida gli rimase alle calcagne. 

«Dazai-san è impossibilitato a parlarti» spiegò, facendo il giro delle scrivanie ma senza risultati, se non quello di attirare gli altri colleghi. 

«Che diavolo significa!? Passamelo! Giuro che lo ammazzo per telefono!»

«Non posso davvero» continuò a dire Atsushi sfuggente. 

«Che succede?» domandò Naomi, seguita dal fratello, Kenji e Kyouka. 

Atsushi si illuminò nel dare la notizia. 

«È Dazai-san! Sta bene!»

Nel dirlo dovette però saltare sulla scrivania per evitare l’agguato di Kunikida. 

«Andiamo, non c’è bisogno di essere così allegri» riprese Dazai. «Vi siete preoccupati che mi fosse successo davvero qualcosa di brutto? Non ho neanche il tempo di pensare al suicidio in questi giorni!»

Sulle labbra di Atsushi si aprì un sorriso in parte divertito dal tono, anche se il suo sesto senso lo avvertì di una nota stonata. 

Nel mentre, Kenji aveva afferrato Kunikida per la camicia, limitandogli i movimenti a uno sbracciarsi disordinato e inframmezzato di insulti verso il partner. 

«Passami quell’idiota!» 

«Sento Kunikida-kun pieno di energie» scherzò Dazai. «Ne avrà bisogno per esaminare i file che vi dovrebbero arrivare a breve

«File?» ripeté la giovane Tigre Mannara, più attenta. Era ancora in piedi sulle scrivanie, senza preoccuparsi di scendere. 

«Sì. Sono emerse delle informazioni interessanti da quello che è successo al Porto Vecchio. Non voglio rovinarvi la sorpresa, ma credo che dovreste dargli un’occhiata per bene tutti. Potrebbe essere una nuova pista e aiuterebbe Ranpo a capirci qualcosa.»

«Si tratta sempre di Red… Oda-san?»

Dazai si prese un momento per pensare alla risposta. 

«… In parte, ma relativamente. Ascoltami, Ranpo aveva ragione. Concentrarsi su Odasaku è inutile. Dostoevskij e l’organizzazione che hanno alle spalle sono il vero problema. Insieme alle chiavi.»

«Sì, ma-»

«Ne dubiti? Ho mai sbagliato

Anche se era una frase retorica, che più volte aveva infuso in Atsushi un senso di sicurezza e familiarità, il ragazzo continuò a sentire qualcosa fuori luogo, ma senza riuscire a concretizzarlo. Erano giorni, settimane, che Dazai non era più lo stesso, addetto da quella situazione.

«Dazai-san, è successo qualcosa di grave? Dove sei? Ti veniamo a prendere!»

«Aaah, Atsushi-kun, te l’ho detto, sto bene. Ho riposato e mangiato. Odasaku non c’è andato leggero, non è stato facile, ma alla fine nulla lo è.»

Il mentore sospirò, stiracchiandosi con un lieve verso rassegnato. 

«Davvero, era più semplice scegliere da quale ponte buttarsi, sigh. Ma non parliamo di me. Mi devi fare un paio di favori, ok?»

«Certo...»

«Dovresti dare ad Ango il mio libro sui suicidi. Penso che prima della fine di questa storia ne avrà bisogno!»

«… Dazai-san...» mugugnò sconsolato e rassegnato Atsushi, non trovandola un’argomentazione seria. 

«E poi… una cosa terribile. Davvero...» proseguì melodrammatico l’altro. «Ho lasciato del granchio in scatola aperto a casa. Ormai avrà appestato tutto! Hai ancora la mia chiave di scorta?»

«Sì, ma… dove sei, Dazai-san?»

Di nuovo, una pausa. Una pausa in cui Atsushi fu consapevole del proprio battito accellerato. 

«Che domande! Sono nel mio ufficio!»

Automaticamente, lo sguardo del ragazzo si posò sulla sedia vuota di fianco alla propria scrivania. Strinse il cellulare. 

«Qui la vista è mozzafiato. La apprezzavo anche anni fa, ma ora la trovo davvero appagante.»

«Non capisco...»

«Non importa. Va bene così.»

Se anche suonò consolatorio, Dazai si lasciò sfuggire una nota malinconica. 

«C’è un’unica cosa che mi dispiace. Questa sarà la nostra ultima chiacchierata.» 

Atsushi si rannicchiò sulle gambe, sul piano della scrivania, per mitigare la fitta allo stomaco che lo colse impreparato. Registrò appena la presenza degli altri intorno a sé, ma non cosa gli stessero chiedendo. 

«Cosa… cosa significa, Dazai-san?»

«Non è fattibile per un Detective dell’Agenzia parlare al telefono con un Dirigente della Port Mafia. Lo capisci?»

«No… non è possibile.»

«Mi dispiace se…» Dazai esitò. Atsushi era Atsushi, non qualcuno da prendere in giro. «Mi dispiace se ti sentirai deluso. Il mio obiettivo è Odasaku, ma io non sono il suo. Non finché rimarrò in Agenzia e potrò solo raccogliere le briciole che lascia.» 

Anche se suonava ragionevole e usò un tono delicato, la fitta colse Atsushi anche al petto, portandolo a stringersi in se stesso ancora di più. Dazai riprese a parlare e il ragazzo ascoltò ogni singola sillaba, cercando qualcosa che rendesse meno reale quello che stava succedendo. 

«Non posso promettere di giocare secondo le regole quando ci troveremo di nuovo di fronte a Odasaku. Non posso stare dalla vostra stessa parte. Ho vissuto per quattro anni una menzogna. Piacevole, ma pur sempre un inganno. Sai, non sono mai stato bravo a seguire la morale o a fare distinzioni tra giusto e sbagliato. A detta di Chuuya, il mio sangue è nero. Credo che abbia ragione.»

«No!» 

Atsushi scattò di nuovo in piedi, facendo trasalire tutti gli altri. Sentiva le guance bagnate, ma provò una rabbia impotente sconquassare il timore che gli si era appena radicato dentro. 

«No! Non è vero! Non è così!» ripeté, scuotendo la testa. «Non sei così!»

Dopo un momento in cui nessuno dei due parlò, Dazai rise brevemente, con un’allegria sincera, anche se macchiata di tristezza. 

«Sei una brava persona, Atsushi-kun. L’ho capito appena ti ho visto quel giorno al fiume

La fitta al petto tornò e il ragazzo si sgonfiò di ogni emozione. 

«Dazai-san...»

«Cerchiamo di non incontrarci sul lavoro, ok? Non sarebbe piacevole.»

Il giovane detective non replicò, aggrappato a quel silenzio, nero come una stanza in cui era appena stata spenta la luce. 

«Questo è un addio, Atsushi-kun.»

Dazai attaccò. 

Negli uffici dell’Agenzia l’aria era immobile. Tutti gli sguardi erano puntati sulla figura della giovane Tigre Mannara, ma nessuno disse niente. I rumori vennero da fuori, dalla strada trafficata, dalla mite giornata di sole, dalla vita che non si era fermata. 

«Ohi, ragazzino… cos’è successo? Dov’è quell’idiota?» chiese Kunikida, rigido, stringendo i pugni. 

Atsushi abbassò la mano in cui aveva stretto il cellulare, facendolo cadere sulla scrivania con un tonfo che echeggiò brevemente. 

«Dazai-san… è tornato alla Port Mafia.»


To be continued.



Cucù...!
Coff... forse ritorno? Il COWT sta per finire e dovrei tornare a scrivere principalmente questa storia...!
Intanto, noticina al capitolo: le pistole a risonanza direzionale sono le stesse che appaiono nel manga nel casinò di Sigma ~ 
Grazie a chi ha continuato a leggere questa storia anche in mia assenza =) 
Mi manca un sacco scriverla *love* 
Spero che il capitolo vi piaccia! 

Nene

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Capitolo 14
*** Rolling in the deep ***


SPOILER!! Attenzione! In questo capitolo sono contenuti S P O I L E R dalla più recente light novel di BSD: Stormbringer. 



 

Capitolo 13

Rolling in the deep






 

I was looking for a breath of life
A little touch of heavenly light
But all the choirs in my head sang no
To get a dream of life again
A little of vision of the start and the end
But all the choirs in my head sang no

[Breath of Life - Florence and the Machine]






 

Pioveva. 

Kyouka bussò per la terza volta alla porta dell’armadio dove Atsushi dormiva. L’ora per uscire e arrivare in orario di Agenzia era passata, ma anche a quel nuovo tentativo il ragazzo tigre non accennò una risposta. Con un sospiro rassegnato, Kyouka si decise a intervenire. 

«Permesso» mormorò con fermezza, facendo scorrere l’anta. 

Tutto era grigio e buio. Atsushi si era stipato in uno degli angoli dell’armadio, rannicchiato con le gambe al petto e la fronte sulle ginocchia, circondato da un futon e una coperta arrese all’inutilizzo. Non si mosse, non proferì una sillaba. 

«La colazione è fredda» provò Kyouka per riempire il silenzio, osservando l’amico con tristezza. Ritirò la mano che aveva allungato per sfiorarlo, incerta se toccarlo. 

«Mi dispiace.»

Fu un sussurro flebile, coperto dal rumoreggiare di un tuono lontano. Non sembrò neanche provenire da Atsushi, data la sua immobilità, come se si fosse fuso con la parete alle sue spalle. 

Le dita di Kyouka si strinsero sulla stoffa del kimono. Non sapeva quali parole rivolgergli, ma avvertiva la sua tristezza sulla propria pelle.  

«Posso chiamare l’Agenzia e dire che oggi non ti senti bene.»

Atsushi si irrigidì. 

«Mi dispiace.»

«Non è colpa tua» tentò Kyouka con un fervore che avrebbe voluto scacciare la pesantezza nell’aria. Se avesse potuto tagliarla con il Demone Biancaneve, avrebbe reciso qualsiasi sofferenza stesse costringendo Atsushi in quello stato. Tuttavia, sapeva che non poteva raccontarsi favole e che c’era un’unica persona in grado di poter smuovere il ragazzo. La stessa che lo aveva abbandonato. 

«Dazai-san ha i suoi motivi» iniziò, tentando di non far trasparire il lieve e ingiustificato livore che provava per l’uomo. Non seppe però cos’altro aggiungere. Non era indifferente alla posizione in cui l’Agenzia era scivolata, perdendo tre membri, ma al contempo, ancora, sentiva quella sensazione di non far del tutto parte di loro e avere il diritto di sentirsi abbattuta. Avvertiva il bisogno di fare qualcosa, fosse stato anche fare male a qualcuno per avere delle risposte, e aveva timore di quel proprio atteggiamento.

La sensazione peggiore con cui si trovava a fare i conti era però il pensiero che Atsushi desistesse dalla battaglia. Il pensiero che crollasse, che non trovasse più motivo per andare avanti, spaventava Kyouka più dell’idea che i loro nemici mettessero mano al Libro. 

Non ci furono altre repliche da parte di Atsushi, ma l’attenzione della ragazza fu catalizzata dal suo cellulare, abbandonato tra le coperte. Lo schermo si era acceso per una chiamata in arrivo, anche se non stava né suonando né vibrando. Sul display c’era il nome di Akutagawa. 

Il tentativo si esaurì sotto lo sguardo spaesato e guardingo di Kyouka, per poi riprendere quasi immediatamente. 

Non sicura della propria decisione, ma determinata a fare qualcosa per cambiare il corso della situazione, Kyouka prese il cellulare. 

«Pronto.»

Dall’altro capo, Akutagawa tacque qualche secondo. 

«Passami Jinko.»

La ragazza ingoiò il groppo nel ricordare come quella stessa voce, in un passato ancora troppo recente, gli avesse ordinato di uccidere. Nonostante la nuova Kyouka avesse tracciato una linea di confine per tenere quelle schegge lontane, fu fissando Atsushi che trovò il coraggio di credere di essere cambiata. 

«No» replicò, piano, senza cattiveria, ma imprimendo fermezza nella risposta. «Non vuole parlarti.»

Non vuole parlare con nessuno, se non con Dazai, omise

«Capisco

Akutagawa attaccò. 

Kyouka guardò lo schermo di nuovo scuro senza riuscire a elaborare davvero quella chiamata. Riappoggiò il cellulare sul futon, tornando a concentrarsi su Atsushi e pensando a cosa avrebbe potuto fare. 

Conoscendo un po’ gli altri dell’Agenzia, presto qualcuno sarebbe venuto a controllare la situazione. Una parte di lei si convinse che forse aspettare sostegno poteva essere l’opzione migliore. Kunikida sarebbe stato brusco, ma Kyouka sapeva quanto fosse importante per Atsushi, e il ragazzo gli avrebbe dato retta. Naomi avrebbe trovato qualcosa di gentile con cui farlo schiudere. 

Bussarono alla porta mentre aveva ancora quelle idee che le ronzavano in testa; Kyouka si affrettò ad andare ad aprire, dopo un ultimo sguardo ad Atsushi. 

Sulla soglia si trovò davanti l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento. Akutagawa. 

L’istinto prevalse sulla sorpresa. Kyouka fece un balzo indietro e il Demone Biancaneve apparve in posizione di attacco. 

Di fronte a lei, incorniciato dalla porta, il cane della Port Mafia restò impassibile, anche se la sua occhiata fu penetrante. 

«Spostati. Non sono qui per scontrarmi.»

Kyouka irrigidì la propria posa difensiva, le dita strette sul pugnale. Akutagawa sbuffò dal naso con una pazienza snervata per non essere preso sul serio. 

«Mi ha mandato Dazai-san. Devo recuperare una cosa dal suo appartamento. Ha detto che Jinko ha la chiave.»

Fidarsi era l’ultima cosa al mondo che Kyouka voleva fare, soprattutto se il nome di Dazai, pronunciato da Akutagawa, le suonava distintamente come quello di un traditore. La sua priorità era la sicurezza di Atsushi, che in quel momento non dava l’impressione di poter reagire. Tuttavia, era conscia che Akutagawa non avrebbe mai cercato sotterfugi per attaccarli. Lo avrebbe fatto e basta. 

«Rimani qui» decise, non intenzionata a farlo entrare, ma d’accordo nell’avallare la richiesta della chiave. Ritirò il Demone Biancaneve e si voltò, ma tanto bastò perché Akutagawa non la ascoltasse e mettesse piede dentro casa. 

«Dov’è Jinko?» chiese, compiendo una panoramica del modesto appartamento. Lo sguardo si fermò sull’armadio aperto, dove rispose alla propria domanda notando Atsushi. Kyouka gli ostruì la vista, parandoglisi di fronte con le braccia larghe, in un ultimo tentativo a ostacolargli il passaggio. I suoi occhi gelidi non promettevano pietà. 

«Lascialo in pace

«Che diavolo fa nell’armadio?»

«… ci dorme.»

Akutagawa chiuse gli occhi per qualche secondo, processando la risposta. 

«Perché vengo costantemente paragonato a lui?»

Il tono disgustato fu smorzato dall'esasperazione. Fu un pensiero a voce alta, retorico, a cui non aggiunse altro. Nel silenzio, Rashoumon scattò. Come serpenti, i lembi colsero di sorpresa e bloccarono le azioni della ragazza, e del Demone Biancaneve riapparso, in una ragnatela di stoffa nera. Poi superarono entrambe e tirarono fuori Atsushi prima che le due potessero reagire. 

«Non sono qui per scontrarmi» ripeté Akutagawa, più incisivo, e con un leggero colpo di tosse, mentre, al centro della stanza, aveva il controllo su tutto e gli sarebbe bastato poco per spezzare loro il collo. 

Reso forzatamente parte della scena, Atsushi emise appena un pigolio di sofferenza, ma non sollevò neanche la testa, mentre Rashoumon lo teneva legato e sollevato da terra. 

«Essere abbandonati dal proprio mentore fa schifo, non trovi, Jinko?»

Akutagawa andò dritto al punto, senza risparmiare una cattiveria amara, pregna della propria esperienza. 

Il giovane detective non replicò, anche quando fu trascinato faccia a faccia con la propria nemesi. Kyouka tentò di liberarsi, ma Rashoumon raddoppiò le proprie spire mentre il suo padrone la ignorava. Vedeva solo la Tigre Mannara di fronte a sé. 

Akutagawa afferrò Atsushi per i capelli, strattonandolo per alzargli il viso. Osservò gli occhi e le guance arrossate e il pallore lasciato dalla notte in bianco, ma registrò anche l’apatia in uno sguardo che non sembrava neanche vederlo.

«Un addio ti riduce in questo stato, Jinko?» 

Atsushi schiuse le labbra secche e screpolate. 

«Mi dispiace.»

La rabbia si riversò nei lineamenti di Akutagawa dopo solo un attimo di stupore. 

«Di cosa ti dispiace?!» tuonò, stringendo la presa abbastanza da strappargli un gemito di dolore, ma nessun’altra reazione. «Credi che risolverai qualcosa addossandoti la colpa?» sibilò, ma si odiò per aver dato voce a un sentimento che bruciava nel suo stomaco. 

La pioggia pervase l’atmosfera con il suo rumore, il suo odore e la sua umidità, rimpiendo l’impasse tra i tre, bloccati in un circolo di azioni e parole che non trovarono reale sbocco. 

Akutagawa allentò la presa sulla più giovane, senza spiegazioni, e continuando solo a fissare in faccia il ragazzo tigre per cui stava perdendo il controllo della propria vita. 

«Non devi andare al lavoro, Kyouka?» chiese alterato, con un tono inquinato da emozioni troppo vivide, e tentando di farlo suonare come un chiaro, ma educato, invito a togliersi dai piedi. 

«Non lo lascio da solo con te.» 

Ryuunosuke non si sarebbe potuto aspettare una risposta diversa. Era irritato, ma controllò i propri nervi. 

«Non lo ammazzerò, hai la mia parola. Voglio affrontarlo quando è capace di tenere la testa alta e crede nei suoi ideali di salvare il prossimo per essere accettato. Non in questo stato patetico.»

Kyouka fu irremovibile e costrinse Akutagawa a prestarle attenzione. I suoi occhi brillavano di una convinzione che gli avrebbe strappato la voglia di misurarsi con lei, ma in quel momento esisteva solo Atsushi nel suo campo emotivo. 

«È una questione tra me e Jinko» continuò, ma non bastò a far demordere la ragazza. Un’idea gli balenò in mente, anche se non gli piacque. Buttò un’occhiata alla Tigre, soppesando quanto stava per dire. 

«Ho un messaggio da parte di Dazai-san per lui.» 

Era una bugia e l’ex assassina non ci cascò, ma non era rivolta a lei. 

«Kyouka-chan, vai… starò bene.»

La voce di Atsushi era rauca, debole, ma più sveglia e consapevole di prima. Il nome di Dazai era stato un lasciapassare troppo facile. 

«Avverti Kunikida-san che arriverò più tardi.»

Non bastò per convincere la giovane, ma dopo che Akutagawa lo lasciò andare, Atsushi fu più insistente nel chiederle di avviarsi verso l’Agenzia. 

Sulla porta di casa, lo sguardo di avvertimento di Kyouka per Akutagawa fu la promessa di andarlo a cercare se Atsushi non ne fosse uscito intero. Alla fine l’uscio fu chiuso.

Quando furono soli, Atsushi incespicò nei propri piedi ma afferrò Akutagawa per un braccio, rischiando di perdere l’equilibrio. 

«Qual è il messaggio di Dazai-san?» chiese con una disperazione nella voce che toccò corde profonde nel cane della mafia. Corde del passato, seppellite sotto odio, frustrazione e quello stesso smarrimento provato anni prima. Il disgusto che provò per se stesso, ritrovandosi nei sentimenti di Jinko, lo portarono a un passo dal prenderlo a pugni. 

«Non c’è nessun messaggio» ringhiò, trattenendosi a stento. Stava sperimentando una rabbia tale per quella versione spenta di Jinko, che arginare l’impulso di scrollarlo e urlargli puoi stare in piedi anche da solo si stava rivelando una tentazione troppo facile. Non era lì per insegnargli nulla, meno che mai per consolarlo, si ripeté. Lui lo avrebbe battuto e superato, un giorno

Si concentrò sul motivo per cui era lì e lo usò come appiglio per restare lucido. 

«Sono venuto per conto di Dazai-san. Devo recuperare una scatola dal suo appartamento.»

La delusione nel viso di Atsushi durò il tempo della realizzazione di essere uno stupido, facendolo tornare il fantasma di se stesso. Indicò un mobiletto con indolenza. 

«La chiave del suo appartamento è nel primo cassetto.»

Akutagawa fece scivolare le mani in tasca, artigliando la stoffa interna. Fissò Atsushi restarsene in piedi come un androide a cui era finita la batteria. Non riusciva ad accettarlo. Era un lato di Jinko che non voleva. Non aveva niente di quel ragazzino sbucato dal nulla, con una forza incredibile e degli ideali ingenui quanto nauseanti. Non conservava quella scintilla con cui cercava una ragione di vivere. Accettare quell’Atsushi passivo, a cui era bastato l’addio di una sola persona per ridurlo in quello stato, era fuori discussione. 

«Datti una sistemata» ringhiò. «Non frugherò da solo nelle tue cose o in quelle di Dazai-san.»

La sola, velata minaccia non sortì reazioni. Akutagawa si ritrovò ad afferrare Atsushi per un braccio e a buttarlo in bagno. 

«Se non sei pronto in dieci minuti, Kyouka non avrà più un appartamento in cui tornare.»



 

La pazienza di Akutagawa durò qualche minuto in più di quei dieci che aveva abbaiato. Quando Atsushi gli si presentò davanti era per lo meno decente. Nel suo sguardo continuò a non esserci alcun barlume pulsante, neanche un malcelato odio verso di lui, e questo fece risalire tutta l’irritazione di Akutagawa per non essere considerato

La giovane Tigre Mannara si mosse in automatica e, senza un fiato, recuperò la chiave di Dazai. Uscì di casa e Akutagawa gli fu dietro, seguendone ogni movimento.

L’appartamento di Dazai era la porta a fianco. Il bordo e la balaustra del ballatoio erano fradici di pioggia e l’aria fredda era pungente sulle zone di pelle scoperta. Anche se il cane della mafia tossì, Atsushi fissò soltanto la serratura da aprire, la chiave sospesa a mezz’aria. 

Mi devi fare un paio di favori, ok?

Ripensare all’ultima richiesta del suo mentore gli provocò un leggero fremito, ma si decide ad aprire l’appartamento. 

Un odore pungente fu la prima cosa che colpì i due. Akutagawa arricciò il naso. 

«Che cos’è?»

«Dazai-san ha lasciato una scatoletta di granchio aperta.» 

Atsushi non fu immune all’odoraccio, che gli provocò una smorfia, la prima vera espressione delle ultime ore. Si mosse in automatico per prendere l’avanzo e buttarlo, chiudere il sacco dell’immondizia e poggiarlo di fianco alla porta. Sempre in silenzio, e ignorando Akutagawa, si spostò verso la finestra e la spalancò, facendo entrare l’aria fredda della giornata per smorzare il tanfo persistente. Fu quando misurò con lo sguardo la stanza, riconoscendo le cose di Dazai, che realizzò davvero di essere nel suo appartamento. Un appartamento in cui l’uomo che gli aveva salvato la vita non sarebbe tornato. 

«Come sta Dazai-san?» domandò, ma chiedendo a se stesso se sarebbe stato in grado di digerire la risposta. 

Akutagawa spostò lo sguardo di lato contro la propria volontà.

Non ne ho idea, ma non lo espresse a parole.

Dazai era tornato da quattro giorni e si erano incontrati brevemente solo la sera prima, quando gli era stato chiesto di andare a recuperare quella scatola dal suo appartamento. Era stato un incontro fugace, quasi più simile a un’apparizione in quel corridoio di vetrate e rosoni colorati, tanto che Akutagawa aveva a stento realizzato che il suo maestro, l’uomo per cui era sceso all’inferno, gli era passato in carne e ossa di fianco, con nonchalance, chiedendogli quel favore. Ricordava il rumore dei passi avvicinarsi e allontanarsi, ma se avesse dovuto dargli una forma sarebbe stata quella di un fantasma.

Se una parte di Akutagawa aveva vanamente sperato nel ritorno di Dazai per anni, le emozioni confuse che aveva provato alla notizia che fosse davvero successo avevano eradicato quella speranza. Non provava alcuna soddisfazione, alcun finalmente o è giusto così.

L’unica certezza che riusciva a stringere era il disagio dell’immaginarsi nella stessa stanza con Dazai. Erano passati quattro anni, ma qualcuno aveva appena riavvolto il tempo, soltanto che lui non era pronto come aveva ricamato nei suoi desideri. 

«Non lo so» disse alla fine, con una sincerità provata e di cui si pentì a saggiarne la consistenza sulla lingua. Lanciò un’occhiata ad Atsushi, ancora perso con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra. Se Jinko fosse stato più attento e interessato, Akutagawa si sarebbe trovato a fornire spiegazioni che non sapeva dare a se stesso. 

«Nakahara-san non si è ancora svegliato dallo scontro al Porto Vecchio» proseguì, cambiando discorso. 

Nominare Chuuya scosse un po’ il ragazzo tigre. 

«Mi… dispiace» replicò, più onesto e meno automatico, voltandosi a guardarlo. La realtà oltre le proprie fragilità, oltre quell’abbandono, cominciava a riprendere consistenza. Il tempo non si sarebbe fermato per il suo dolore. Si ricordò perché fossero lì. Per Dazai.

«Dov’è la scatola che devi portargli?»

Akutagawa fu grato per dover tornare a pensare al dovere. 

«Nel suo armadio. È rossa.»

Atsushi fece scorrere l’anta e diede una prima occhiata generale. I ripiani erano stipati di cose, per la maggior parte libri, seguiti da coperte, vestiti, bottiglie nuove di sakè, pacchi e pacchi di bende. Il ragazzo tentò di ignorare il tutto, soprattutto l’odore di Dazai che aleggiava ovunque e che l’olfatto della Tigre Mannara amplificava. Si mise alla ricerca della scatola, spostando ognuno di quegli oggetti, ma nulla di rosso gli saltò all’occhio. 

Scostando le bottiglie di sakè notò sul fondo una piccola fessura. Con la punta delle dita tentò di fare forza e sollevare la parte mobile, ma l’apertura era troppo stretta per trovare un appiglio. 

«Akutagawa...»

In piedi alle sue spalle, l’altro ragazzo si era già accorto dei suoi tentativi. Un lembo di Rashoumon gli passò a fianco, ma con meno irruenza del solito. Insinuandosi nella fessura fece leva, alzando il coperchio di quel nascondiglio e rivelando la presenza di una scatola rossa perfettamente incassata. Sempre Rashoumon la avvolse e la tirò fuori, facendola cadere tra le mani di Atsushi. 

Il giovane detective la osservò in lungo e in largo, senza notare nulla, né decori né incisioni. Il coperchio era solo appoggiato, non c’era una chiusura e Atsushi lo aprì. Sgranò gli occhi.

«Due… pistole?»

Non sapeva cosa si sarebbe dovuto aspettare, ma non aveva pensato a delle armi. Non erano qualcosa che avrebbe associato a Dazai. Non era un esperto, ma le trovò vecchie e logorate a giudicare dai graffi. Lo sguardo gli cadde però su quello che stava sul fondo e si intravedeva dallo spazio dei grilletti. Erano delle fotografie. Il cuore saltò un battito nel tenerle tra le mani. 

In una c’era Dazai, seduto su uno sgabello con una gamba piegata e l’aria di qualcuno che si stava mettendo in posa per farsi immortalare al meglio. Le altre due ritraevano ancora Dazai, ma una in compagnia di Ango e una con Odasaku. Sullo sfondo intuì si trattasse di un locale, dai bicchieri e dalle bottiglie, ma il suo focus tornò subito sui soggetti e su come Dazai stesse sorridendo. Felice non era il termine adeguato, ma era qualcosa che si avvicinava, un sentimento che, seppur fosse solo un sentore, ad Atsushi fece capire che quello che stava osservando era molto importante.  

Aveva di fronte il Dazai della Port Mafia. Lo stesso Dazai affiorato dai racconti di Chuuya e che aveva sparato ad Akutagawa. Il Dazai che ora era tornato a sedere al proprio posto come Dirigente. 

«Sono di quattro anni fa. Prima della questione della Mimic» disse Akutagawa, sicuro che nella testa dell’altro ragazzo stessero ronzando mille domande. 

«Tu c’eri» constatò Atsushi sovrappensiero, alzando gli occhi su di lui. 

«Non che facesse differenza. Dazai-san vedeva solo il suo amico. Come adesso.»

La stoccata prese in pieno Atsushi che non trovò nulla con cui obiettare. Tornò con lo sguardo sulle fotografie, ipnotizzato dall’espressione di Dazai, a suo agio in quel posto, con quelle due persone, come se tutto, in quel momento immortalato, fosse giusto per lui. 

«Pensi che la mafia sia il luogo a cui Dazai-san appartiene davvero?»

Akutagawa chiuse gli occhi con stanchezza. Il nervosismo si era attenuato, trasformandosi in una sensazione di rassegnazione. Stavano succedendo troppe cose tutte insieme, tenere il filo di tutte lo avrebbe fatto impazzire, e quella era una domanda che, da quattro giorni, sentiva bisbigliata nell’orecchio in continuazione, a mettere in dubbio la propria lealtà. Non aveva una risposta. O, più probabilmente, si stava rifiutando di accettare quello che sentiva.

Si piegò in avanti, raccogliendo la scatola rossa e le pistole al suo interno. Non le ricordava in mano a Dazai. Non aveva mai posseduto armi proprie, era sempre stato il tipo da farsele prestare dai suoi sottoposti. Intuire chi fosse il reale proprietario gli tolse la voglia di porsi altre domande. 

«Le foto» disse, guardando Atsushi. «Rimettile qui dentro.»

Il ragazzo lo fece dopo un’ultima occhiata a quel Dazai, imprimendosi nella mente che da quel momento avrebbe dovuto considerare il suo ex mentore con quelle sembianze.

Chiuso il coperchio della scatola, Akutagawa si voltò e si avviò alla porta. Atsushi si alzò di scatto, seguendolo. La mano che aveva teso per afferrarlo si fermò a mezz’aria, ritirandosi per il terrore del gesto che stava per compiere.  

«Te ne vai?»

«Sono venuto per questa scatola. Ho finito.» 

Atsushi lo seguì fino all’ingresso, le dita nervose che non sapevano se stringersi tra loro o aggrapparsi alla stoffa dei pantaloni. Un nuovo pensiero si stava agitando nel suo petto, spingendo per emergere. 

«Aspetta! Tu… Non sei più arrabbiato con me?»

La domanda lasciò Akutagawa spiazzato. Recuperò in fretta un’espressione contratta, ma tentando di capire a cosa Jinko si riferisse. Il ritorno di Dazai aveva fatto tabula rasa della maggior parte dei suoi pensieri, come se una manata si fosse liberata dei pezzi vecchi su una scacchiera, per poi iniziare a metterne a piacere di nuovi; pezzi che lui non era in grado di muovere con sicurezza. 

L’espressione da bambino lasciato indietro che aveva Atsushi non migliorò la situazione. Akutagawa non trovò davvero un motivo che giustificasse il suo restare, nonostante il suo corpo non stesse ricevendo l’impulso ad andarsene. Stava veramente impazzendo. 

«Hai intenzione di annullare la promessa?» chiese come via di fuga. 

Atsushi sembrò rimanerci male per la domanda. Guardò altrove. 

«… No.»

«Allora non abbiamo altro da dirci.» 




 

* * *

 

Dazai osservò le gocce di pioggia infrangersi contro la parete a vetro della stanza, un sottofondo continuo unito ai bip costanti dei macchinari medici alle sue spalle. Ai suoi piedi, oltre la vetrata del palazzo centrale della Port Mafia, uno scorcio di Yokohama riluceva scolorita, una tela su cui un pennello bagnato era passato a slavare i colori. Di fianco a sé, a completare il quadro, c’era un fantasma. Un altro fantasma che non vedeva da sei anni. 

Paul Verlaine dava le spalle a Yokohama, ignorandola come aveva sempre fatto. Un teatro dove la vita succedeva nelle sue forme più varie, come in ogni altro dove e che non scalfiva la sua attenzione. L’interesse di Verlaine era sempre rimasto uno, anche da quando la sua esistenza si protraeva nei sotterranei di quello stesso edificio e quasi nessuno era a conoscenza del suo essere ancora vivo.  

Gli occhi dell’ex Re degli Assassini, resi scuri dalla consapevolezza di una vita che aveva avuto ragione di essere solo per capriccio, erano fissi su Chuuya. Non si svegliava da quattro giorni e questo aveva spinto anche l’ultimo, sconosciuto, Dirigente della Port Mafia, a controllare la situazione di persona. 

Dazai osservò la scena dal riflesso della vetrata. Era rimasto sorpreso di trovare Verlaine lì, di constatare come un altro tassello del passato si fosse rimesso apparentemente in gioco. Non che il quinto Dirigente avesse dichiarato di prendere a cuore quanto stesse scuotendo la città, ma era una possibilità che ora Dazai avrebbe dovuto aggiungere a quelle che già si agitavano nella sua mente. 

Sospirò, chiedendosi cosa stesse facendo lì se neanche stava scambiando mezza parola con Verlaine. Sarebbe potuto succedere per forza di cose se Chuuya avesse schiuso gli occhi in quell’istante.

Fu invece la porta alle sue spalle ad aprirsi. 

«Oh, Dazai-sama, è di nuovo qui?» 

A fare capolino fu una donna in camice bianco e nero, come il personale che popolava la clinica privata della Port Mafia. Si chiuse l’uscio alle spalle, reggendo in una mano un tablet e squadrando Verlaine con palese curiosità. 

«E… lei è? Mori-sensei è stato categorico nel precludere le visite di questa stanza.»

Dazai sospirò con tutta la poca voglia che aveva di interessarsi alla questione. L’altro Dirigente non diede adito a voler interagire. 

«Le basta rivolgersi a lui con rispetto. Mori-san non le dirà niente» spiegò con mollezza l’ex detective, grattandosi la testa e avvicinandosi al letto dove Chuuya non dava alcun segno di coscienza. Lanciò un’occhiata a Verlaine e questo la ricambiò brevemente, con una supponenza che Dazai trovò controproducente e ulteriormente stancante. 

«Capisco...» si adeguò la donna, mantenendo il proprio scetticismo e tornando a rivolgersi solo a Dazai. «Se mi avvisa di quando intende passare, le posso far trovare i risultati delle analisi del suo partner. Se lo desidera» aggiunse all’ultimo, come se si fosse ricordata solo in quel momento di avere di fronte un superiore. 

Dazai le lanciò un’occhiata altrettanto studiata per poi dedicarle un sorriso finto. Uno di quelli leziosi, collaudati con gli estranei e riflesso delle maniere usate con lui. 

«Se la avvertissi non sarebbe più una sorpresa per nessuno, Kagemori-sensei

Kagemori Aoi, primaria della clinica, ricercatrice e facciata di comodo per la Mori Corporation in ambito medico, fece spallucce, accettando quella battuta senza darle seguito. Accese il tablet e sistemò gli occhiali sul naso. I suoi occhi scorsero la sfilza di dati con un mmmh compiaciuto di fondo. 

«Le condizioni di Nakahara-sama sono stabili» esordì, avvicinandosi al letto e buttando un’occhiata veloce ai valori dei macchinari collegati in flebo ed elettrodi al giovane uomo. Toccò con dita rapide il display, annotando gli ultimi parametri della giornata. 

«Le analisi si stanno aggiustando. Non ci sono avvisaglie di possibili peggioramenti improvvisi, né di crisi che possano richiedere il suo intervento» proseguì, occhieggiando Dazai da oltre il bordo del tablet. «Sto inviando a Mori-sensei la cartella clinica aggiornata, vuole che la metta in copia?» 

Dazai non le stava più prestando la minima attenzione, gli occhi fissi sul viso di Chuuya. Aveva la faccia pallida e tirata, il colore dei suoi capelli era altrettanto spento e le curve delle ciocche sgraziate. Il suo umore sarebbe stato pessimo una volta sveglio; non sarebbe stato contento di guardarsi allo specchio. 

«Danni permanenti?» 

Verlaine parlò per la prima volta, tradendo un accento francese vaghissimo, ma due parole erano troppe poche per riflettere qualcosa di più. Almeno agli estranei. L’ex detective fu invece investito da tutto il carico nascosto di quella domanda. 

Sei anni prima, il Re degli Assassini era quasi morto nell’aver rilasciato completamente la bestia dentro di sé; come fosse sopravvissuto era un quesito aperto, ma il prezzo da pagare era stato quasi la totale deprivazione del suo potere, rimasto in quantità sufficienti a incutere il giusto timore in quanti osavano alzare lo sguardo su di lui. 

Nel caso di Chuuya, lui aveva oltrepassato di poco il limite massimo di sopportazione durante lo scontro contro Odasaku, ma era anche stato messo alla prova dai colpi della pistola a risonanza. Dazai aveva ancora il riverbero del dolore provato a propria volta. Finché Chuuya non si fosse ripreso, non avrebbero potuto constatare le reali condizioni della sua abilità. 

Verlaine aveva dato consistenza a una domanda che Dazai stava rimandando, sentendo gli scricchiolii di una frana che non sarebbe stato in grado di evitare. Parte della colpa era sua. Probabilmente tutta, in realtà. 

Dando l’idea di non soppesare gli stessi timori, la dottoressa sfogliò le pagine del tablet in cerca di qualcosa per rispondere alla richiesta. 

«Dall’ultima TAC la situazione è in miglioramento. Le lesioni si stanno rimarginando all’usuale e sorprendente velocità con cui Nakahara-sama riacquista la propria salute. Ci metterà solo più tempo del solito, ma l’Arahabaki non sembra intenzionato a perdere il proprio contenitore.»

Nella voce della dottoressa Kagemori c’era la delizia di uno scienziato alle prese con un fenomeno affascinante, fuori dalle scale di valore, in grado di assorbirla al punto di non farle intuire il pericolo dell’affermazione. 

Dazai le dedicò appena uno sguardo privo di attrito. Quello che le rivolse invece Verlaine fu una minaccia per nulla velata. L’ex detective si schiarì la voce prima di dover intervenire fisicamente.  

«Non è una novità che Chuuya si riduca in questo stato. Questa volta è solo peggio. Ha la cattiva abitudine di non lasciarci mai le penne» disse blando, dimentico di aggiungere della verve. Stava ripensando ai loro quindici, sedici e diciassette anni, in cui di occasioni per abituarsi a vederlo costretto a letto ne aveva avute diverse. Variavano i numeri di tubi ed elettrodi, i giorni che passava inconscio, ma nel peggiore dei casi mai più di tre. No, Chuuya non aveva ancora dimostrato la minima intenzione di crepare veramente. 

Nel mentre, la dottoressa Kagemori, presa dalla foga accademica, aveva iniziato a snocciolare alcuni parametri e processi che nessuno ascoltò. Verlaine non aveva nascosto del nuovo, muto, sdegno, pregno di un rancore mai eradicato verso la schiera dei camici bianchi. Dazai, nel suo spazio vitale fatto a pezzi, era semplicemente stanco di avere gente intorno. 

Non c’era solo la pioggia e i bip dei macchinari a riempire la stanza buia che era attualmente la mente dell’ex detective. C’era il silenzio, rappresentante del vuoto. Era come se, tornando alla Port Mafia, Dazai avesse traslocato, ma senza essersi portato dietro tutto quello che in quattro anni aveva vissuto, e allo stesso tempo non ritrovando ciò che aveva lasciato. 

Aveva addosso dei vestiti famigliari, un completo nero e una cravatta fastidiosa che avrebbe potuto annodare ovunque per poi lasciarsi andare. Non aveva il peso di un giaccone nero sulle spalle ad accompagnarlo in ogni passo, non c’era una benda sul suo occhio a risparmiargli metà della realtà. C’era Odasaku, da qualche parte, ma non dove credeva di averlo sepolto. 

Trovare Chuuya nel letto della clinica della Port Mafia era forse la visione più nostalgica e autentica che quella svolta improvvisa gli stesse restituendo come àncora. Non che Dazai avesse mai avuto bisogno di ancore nella vita, non quando la sua aspirazione massima era riuscire ad annegare. 

Eppure, i pensieri di Dazai si appoggiarono a quella realtà solida, per quanto attualmente inconscia, per ripartire e ricostruire l’ennesima palafitta di stabilità sulle acque della propria vita. 

«… ci sono così tante possibilità tra le fila della Port Mafia, basti pensare a quale rarità siano riusciti a incastrare nel corpo di Nakahara-sama...»

Dazai rialzò lo sguardo, prestando attenzione al medico che non aveva smesso di parlare a briglia sciolta. Ad ascoltarla c’era anche Verlaine, insieme a un intento omicida che solo alla donna stava sfuggendo. 

«… oppure nelle potenzialità di Elise-chan, che sembra in tutto e per tutto una tenera bambina. O sarebbe affascinante studiare come il potere si mantenga costante nonostante l’avanzare dell’età, nel caso di Hirotsu-san.» 

La dottoressa Kagemori aveva appoggiato il tablet su un tavolino e si era tolta gli occhiali per pulirli con il camice, alzandoli poi contro la luce della stanza in cerca di macchie sulle lenti. 

«Se dovessi trovare una pecca nell’amministrazione di Mori-sensei sarebbe il suo rifiuto costante nell’investire nella ricerca sui dotati di abilità, ecco. Sono anni che propongo il progetto, ma trova sempre un motivo per non darmi una risposta concreta.»

Un angolo della bocca di Dazai si sollevò, insieme allo sguardo che posò sulla donna. Non dovette sforzarsi a trasformare il disgusto in un tono serafico, una lama alla gola invisibile. Verlaine ne fu consapevole e fece un metaforico passo indietro, concedendogli l’ultima parola. 

Per Dazai fu come reinfilarsi un guanto dimenticato in un cassetto. Calzava ancora, nonostante fossero passati quattro anni. Forse, pensò, quella del sangue nero è una favola con un fondo di verità

«Lei la chiama pecca, a me invece sembra l’unico pregio di Mori-san. Ma se lui non la ascolta, potrebbe proporre il progetto a Chuuya, quando sarà di nuovo conscio. È pur sempre un Dirigente e ha un discreto rapporto con l’argomento riguardante gli esperimenti. Si faccia raccontare cosa è successo sei anni fa.»

Perfino Verlaine sorrise tra sé a quella risposta, per la prima volta interessato davvero, sfiorando il divertito. Lo sguardo di Dazai si fece sottile e tagliente, quanto la piega sulle sue labbra, mentre la voce si sfumava di un compiacimento a senso unico.

«Chuuya finisce con l’essere irruento, ma metterei la mano sul fuoco che una risposta concreta gliela darà di sicuro, Kagemori-sensei.» 


* * *

 

Akutagawa era fermo di fronte a una porta che conosceva ma che, in fondo all’essere, non credeva avrebbe più varcato. Una porta chiusa e che un desiderio fuori posto voleva che rimanesse tale. 

L’ufficio di Dazai era un luogo in cui, in adolescenza, non aveva passato tutto il tempo che avrebbe voluto. Erano più le probabilità di camminarci davanti, alzare gli occhi sullo spiraglio socchiuso, una finestra su un mondo in cui agognava mettere piede, che le possibilità di passarci del tempo dentro col proprio maestro

Quando Dazai lo aveva tratto dalla strada, tra le cose che aveva preteso da lui, oltre a un’ubbidienza immediata, c’era stata la volontà che leggesse dei libri, che si facesse una cultura. Libri che gli erano stati lasciati sulla scrivania della camera, lanciati in mano al volo prima di una missione, titoli da comprare scritti su ritagli di rapporti top secret. Ma le volte che aveva potuto leggere quelle pagine caldamente imposte nell’ufficio con lui erano state più rare e deludenti, invece che uniche. 

I tetti di qualche palazzo al crepuscolo, di rado dei luoghi al chiuso e la strada avevano continuato a essere il suo territorio. Non sondava più la città alla ricerca di anfratti dove passare la notte o dove derubare qualche passante distratto; il suo compito ora era mantenere e ribadire la territorialità della Port Mafia. Ciò che prima era la sua cuccia, ora era il suo cortile dei giochi. Sempre un misero cane era rimasto, ma era bastata una mano tesa per addomesticarlo. 

Di fronte all’uscio chiuso da quattro anni, sigillato per volere del Boss, come la poltrona da Dirigente di Dazai era rimasta vuota e irraggiungibile per chiunque, Akutagawa era in lotta con emozioni sgradevoli. 

Limitandosi a macerare nel proprio rancore sordo, il cane della Port Mafia non aveva mai approfondito il motivo per cui aveva odiato e, al contempo, desiderato che le cose tornassero com’erano. La speranza era morta con la mancanza di notizie su Dazai, per poi trasformarsi nel bisogno di misurarsi con lui, di ucciderlo - e uccidere tutto il dolore che era una poltiglia in fondo al suo essere - nel momento in cui era rispuntato come detective dell’Agenzia. Era un traditore su troppi livelli e la sua ira senza più freni, ma affilata negli anni di ubbidienza, reclamava di mordere a morte. 

Le persone, per Akutagawa, si dividevano in poche manciate di categorie. Gli invisibili, quelli che popolavano il suo campo visivo come ombre di cui non annotare nemmeno il volto. I deboli, quelli che ci provavano e che perdevano tutto in manciate di miseria. Gli inestimabili, quelle pochissime persone per cui nutriva, per volontà o dovere, del rispetto, come il Boss o gli altri vertici della Port Mafia. Seguiva, esclusa sua sorella, una categoria dedicata esclusivamente a Dazai. Un luogo di conflitto interiore che lo travolgeva come una tempesta di rispetto caotico, dove lui stesso rischiava di affondare ogni volta che le sue azioni, le sue decisioni, erano state riprese, criticate, minacciate. 

Fissando l’uscio chiuso, la scatola rossa tenuta appoggiata a un fianco con una mano per avere l’altra libera di bussare, Akutagawa si chiese quanto le cose fossero cambiate. Perché nella burrasca in cui aveva creduto di buttare Dazai ora fosse rimasto solo lui, un naufrago sperduto in mezzo al mare; e perché di recente, quel posto di esclusivo appannaggio del suo maestro, ora fosse occupato da un ragazzo poco più piccolo di lui, il cui sguardo condannava tutta la sua persona e riusciva, senza sforzo, a farlo sentire sbagliato. 

Akutagawa aveva provato dell’odio autentico, lucido come argento, per Jinko. Un’iniezione così venefica l’aveva sperimentata solo una volta, quando era stato paragonato all’amico di Dazai, quando era stato messo da parte senza neanche avere il tempo di dimostrare di poter essere superiore. 

Un odio la cui intensità si era slavata, realizzò lì fermo davanti a quella porta. L’immagine che gli era rimasta del ragazzo tigre di quella mattina, fermo sulla porta a chiedergli Te ne vai? si stava sovrapponendo a tutto il loro vissuto fino a quel momento, diradando la tempesta che aveva dentro. Non capiva perché, ma quella sua espressione abbandonata, quelle sue spalle deboli, incapaci di sostenere la mancanza di Dazai, invece che provocargli altro ribrezzo, gli stavano facendo riconsiderare la scelta di essersi chiuso la porta alle spalle e averlo lasciato solo. 

«Oh, sei qui.»

Akutagawa si voltò di scatto, colto alla sprovvista, il corpo così teso che poteva avvertire Rashoumon ruggirgli contro la pelle per essere liberato, anche solo per restituirgli una parvenza di sicurezza. 

Dazai stava camminando indolente verso di lui e Akutagawa ebbe di nuovo difficoltà a riconoscerlo vestito di nero. Dazai aveva le mani in tasca, come le avrebbe tenute se avesse avuto il trench chiaro. Ostentava un’espressione scocciata, ma più viva di qualcuno che aveva l’inferno tra le tempie. Non era il Dazai che lo aveva salvato dalla strada, eppure era sempre lui. Era tornato

«Pensavo ci avresti messo di più, ma immagino che Atsushi-kun non fosse in vena di parlare» ipotizzò Dazai, fermandosi a qualche passo. Gli occhi gli caddero sulla scatola rossa che Akutagawa teneva ancora contro il fianco. Non ci furono forti emozioni sul suo viso nell’osservarla, ma la linea delle labbra si fece più morbida. Così disarmonica per i ricordi di Akutagawa

«Avete dato un’occhiata al contenuto?» 

La sua mano era tesa, ma il ragazzo ebbe difficoltà a collegare il gesto a un’azione. Ci mise qualche attimo di troppo nel consegnarla, imponendosi di riacquistare il controllo di sé, ma senza rispondere.

A Dazai bastò alzare il coperchio e vedere le fotografie sopra le pistole per comprendere da sé. Akutagawa persistette nel silenzio assenso, facendosi scivolare le mani in tasca per poterle stringere a pugno senza che fossero notate. Non voleva discutere. Voleva correre e andarsene

«Chuuya non si è ancora svegliato e qui è una noia» esordì di nuovo Dazai, richiudendo la scatola e coronando tutto con uno sbuffò drammatico. «Non mi sembra sia cambiato niente dall’ultima volta. Stesse formalità, stessi musi lunghi...»

Akutagawa non gli diede corda. Non annuì, non lo fissò, non commentò, ma questo suo cercare di passare inosservato sortì l’effetto contrario, attirando maggiormente la curiosità del suo ex mentore. 

«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»

A salvare il ragazzo dal replicare, dal dover affrontare un sentimento informe, ingombrante e pieno di spine, fu il telefono dell’ufficio di Dazai, il cui squillare arrivò anche attraverso la porta chiusa. 

Dazai sbuffò con fin troppo fervore. 

«Proprio non mi va» si lagnò, ma abbassò la maniglia ed entrò per andare a rispondere. 

Akutagawa girò i tacchi, rimandando quel confronto per cui non aveva ancora le armi. 


* * *

 

Sigma aveva la costante sensazione che le ombre di Yokohama bisbigliassero. 

Nascosto in un angolo del negozio di ferramenta, quello dove né la luce dei lampioni né quella della luna lo raggiungevano, era appostato a vigilare sulla strada oltre la vetrina, nonostante continuasse a distrarsi guardandosi intorno e cedendo a ogni minimo rumore con la tensione di un animale in trappola. 

Odiava dal profondo quelle uscite notturne. Detestava l’umidità della notte, l’avventurarsi tra i vicoli evitando sguardi e telecamere, tenere costantemente tirato il fastidioso cappuccio della giacca per nascondere il più possibile il viso e i suoi capelli particolari. Uscire di notte in quel modo significava passare le ore successive a stretto contatto con Gogol’ e i suoi modi folli. 

Erano apparsi quasi un’ora prima nel vicolo di fronte. Sigma non aveva avuto il tempo di osservare la zona, che Gogol’ lo aveva riavvolto nel proprio mantello e teletrasportato all’interno del negozio, rischiando di allertare il loro obiettivo finendo a un passo da uno scaffale stipato di viti. Era già successo la prima volta in gioielleria, anche se allora Gogol’ aveva spaccato tutte le vetrinette per puro divertimento personale. 

Quella notte, Sigma si era appostato nell’angolo più lontano del negozio, convincendosi che il suo ruolo fosse quello di tenere d’occhio la situazione fuori e poter ignorare i tafferugli che sentiva provenire dal retrobottega. 

Il quartiere era così silenzioso da essere immobile. Non era passata una singola auto, non c’era la minima fonte di vita a nessuna finestra visibile. I lampioni erano statici, con coni di luce dipinti contro le facciate dei palazzi. Sigma era affascinato e inquietato da Yokohama al tempo stesso, per questo suo duplice aspetto: una città brulicante di giorno, e una in cui la notte aveva poche facce e nessuna di cui fidarsi. 

Vivendoci da qualche tempo, Sigma aveva iniziato a preferire il suo terzo aspetto, il più breve, quello che iniziava nel basso pomeriggio e si concludeva con l’ultimo raggio di sole oltre l’orizzonte. 

Il crepuscolo. Il numero delle persone diminuiva, il chiacchiericcio sembrava farsi più morbido, il caldo diventava tepore, e il tepore diventava il colore principale, in una miscela di rosa, arancione e giallo con punte di blu qui e lì che a volte restituivano il lilla. 

Si potevano avere delle viste bellissime al tramonto e Sigma cercava di godersele tutte, come unico e vero momento di pace nelle sue giornate e in quel piano che aveva in sé più buchi neri che sprazzi di luce. 

Tuttavia, il crepuscolo era solo un battito di ciglia e così erano gli attimi di tregua di Sigma. Quella notte non faceva eccezioni. 

Se c’era una condizione di quel piano che Sigma detestava con tutto se stesso, era sottostare alla personalità variabile di Gogol’. Era come vivere con più persone contemporaneamente, concentrate tutte in una con gli stessi tratti del volto. 

Quella sera, Sigma era uscito con il Gogol’ dalla risatina costante, sfacciata e impietosa, con i modi di fare sicuri di chi ti afferra e con la sola presenza inibisce ogni tuo pensiero, mettendoti i brividi al pensiero di protestare. Se all’inizio della loro conoscenza Sigma era pronto a scommettere che quella fosse la sua personalità predominante, dopo mesi di convivenza forzata non era più certo di nulla. 

Aveva conosciuto talmente tanti Gogol’ diversi da perdere il conto, e ne aveva conosciuti abbastanza da dover rivedere il proprio giudizio su quella persona - o mostro - che il destino gli aveva messo sulla strada. 

Se c’era qualcosa di cui però poteva essere certo, era che odiava quelle notti in cui il suo unico compito era restarsene in disparte a fare da palo, ascoltando l’esistenza di uno sconosciuto venir recisa tra i trastulli folli di Gogol’. 

Il suo compito non era aspettare che il clown spegnesse la vita del custode di turno, con drammaticità e divertimento tali da dare il voltastomaco. Perché il problema principale stava nell’inevitabilità di sentire quell’omicidio in essere, lento e torturato, e avere l’immaginazione che vagava quando i toni erano soffocati e i rumori stroncati all’improvviso. 

Non essendoci niente e nessuno su cui concentrarsi esternamente, Sigma finiva col fissare un punto tentando di distrarsi, mentre il suo udito fedifrago captava ogni suono, regalandolo alla sua fantasia con dei colori che gli chiudevano la bocca dello stomaco. 

Sigma avvertì un ultimo principio di grido, strozzato sul nascere, e serrò gli occhi, ingoiandolo in una parte di sé buia e con la speranza di dimenticare. Seguì una pausa menzognera nel dire è finita, un silenzio freddo, e poi scoppiò nell’aria raggelata una risata. 

Anche quella notte si era tinta di una viscosità che avrebbe fatto parlare di sé il giorno dopo. Ma si era conclusa. O così avrebbe voluto credere. 

Quando Sigma riaprì gli occhi, nel suo campo visivo, oltre la vetrina, in strada, nell’ombra tra due lampioni, una figura aveva fatto la propria apparizione. Qualcuno che guardava nella sua direzione, che guardava lui

Un brivido di panico attraversò Sigma, spingendolo ad arretrare e ignorare la pressione dello scaffale nella schiena e il cigolio che ne seguì. 

Si rilassò solo quando i suoi occhi delinearono meglio il profilo della persona apparsa dall'altra parte della strada. Era Red Hood. Oda.

Un'intuizione si fece strada in Sigma, portandolo a capire perché Gogol’ lo avesse trascinato con lui quella sera. 

«London Bridge is falling down, falling down, falling down....»

Il clown riemerse dal retrobottega. Camminò per le corsie della ferramenta canticchiando e facendosi sempre più vicino finché Sigma non lo vide svoltare da dietro uno degli scaffali. Il suo atteggiamento era infantile, quasi innocente, ma il suo volto era schizzato di sangue e i suoi occhi incarnavano la follia più silenziosa e feroce. Stava lanciando e riacchiappando un oggetto con una delle mani. Era una piccola chiave metallica che riluceva alla poca luce dei lampioni esterni, come una stella baluginante in mezzo alle nuvole della notte. 

«London Bridge is falling down, my fair Lady...»

Sigma si sentì preso tra due fuochi. Avvertiva ancora lo sguardo di Oda su di sé, nonostante fosse oltre la vetrina e dall’altra parte della strada, ma bastava quello per fargli avvertire la presenza incombente. Dall’altra c’era Gogol’, che lo fissava con quegli occhi imprevedibili, muovendosi in una danza macabra e indossando quelle macchie di sangue con disinvoltura. 

«Iron and steel will bend and bow, bend and bow, bend and bow, iron and steel will bend and bow...» sussurrò Gogol’ davanti a Sigma, mentre gli afferrava la mano e ci depositava la chiave calda di sangue. «My fair Lady.»

Sigma era conscio di non poter scappare da nessuna parte. Non voleva guardare Gogol’ in faccia, ma allo stesso tempo neanche distogliere lo sguardo per il timore di venir attaccato abbassando la guardia, per quanto certo che reagire e scamparla da lui fosse utopistico. 

«Mon ami, la affido a te» continuò soave Gogol’, chiudendo le dita del compagno sulla chiave, con una delicatezza che poteva far dimenticare per un attimo la macabra realtà dietro il gesto. La sua commedia romantica durò il tempo di percepire quella stessa occhiata che Sigma sentiva premergli tra le scapole dall’altro lato della strada. Le sue labbra persero la piega stucchevole, mentre i suoi occhi si assottigliavano con disgusto. 

«Il fantasma rosso è già arrivato.»

In Sigma scoppiò parte della sua agitazione e si rianimò. 

«Ti avevo detto di tenermi aggiornato se ci fosse stata una riunione!» sbottò risentito, senza contenere il tono frustrato. 

«Oooh!» Gogol’ tornò a prestargli attenzione. «Dove sarebbe la sorpresa se ti dicessi tutto? Hai delle reazioni così umane quando scopri le cose!»

Sigma sperava che prima o poi si sarebbe abituato alla risata di Gogol’, a quel suo modo di comunicare non verbalmente la sua intenzione di piantarti un coltello tra le costole. In quel momento, avrebbe però voluto essere ovunque meno che così vicino al clown. 

Il suo desiderio fu interpretato al contrario: un braccio di Gogol’ gli cinse la vita e, com’erano entrati nella ferramenta, così ne uscirono, svanendo nel mantello.

 

 

Riapparvero in strada, vicino a Oda. Il quartiere restò silenzioso e deserto, anche quando Sigma desiderò con ogni fibra del proprio essere che qualcuno li scorgesse, che si allarmasse a vedere tre figure sospette aggirarsi tra le ombre. Oda si era fatto una nomea, sarebbe bastato così poco perché- 

Sigma deglutì, stringendo le dita della mano libera per poi rilassarle di colpo. Aveva appena desiderato che il loro piano andasse all’aria, compresi i propri sforzi, pur di ottenere cosa? Per quanto avesse il terrore di rimanerci secco in quella storia, finire in custodia alla polizia militare o alla Divisione Speciale non sarebbe stato un destino migliore. 

«Dove...» iniziò, ma con così scarsa convinzione che la parola fu meno di un granello in una clessidra. Strinse le labbra, accigliandosi per trovare il coraggio. «Dove dobbiamo andare?»

Fissò entrambi i suoi compagni con un’ostilità solo superficiale, sfrontata per quanto il cuore gli battesse all’impazzata. Si sentiva in mezzo a due colossi inarrivabili. A entrambi sarebbe bastato un gesto della mano - che Sigma neanche avrebbe avuto tempo di cogliere - per farlo fuori. Li chiamava compagni, come faceva Dostoevskij, eppure non si sentiva più in alto di uno dei tanti topi sacrificabili. 

Né Gogol’ né Oda gli risposero, ma anche se quest’ultimo portava la maschera cremisi, Sigma si accorse di come l’ex mafioso fissasse il clown. Strinse di nuovo i pugni, spazientito e al limite del nervosismo. 

«Dove dobbiamo andare, Gogol’?» riformulò, intriso di un acredine saturo di nervosismo.

Il trasecolare del clown non sorprese nessuno degli altri due. Gogol’ si espresse in una sequenza di espressioni teatrali e inutili, per poi piroettare su se stesso e improvvisamente lanciare uno stiletto nella direzione di Oda. Sigma registrò l’azione solo quando riverberò il rumore della lama piantatasi nel muro, lì dove poco prima c’era la testa del finto vigilante. Un foglietto era infilzato dalla punta. 

«Quello è l’indirizzo, Fantasma Rosso» disse Gogol’ in russo, con un tono che aveva perso qualsiasi traccia di letizia, anche simulata. «L’appuntamento è tra dieci minuti. Se ritardi, ti ucciderò.»

Il fiato che Sigma stava trattenendo gli uscì di colpo di bocca quando un braccio del clown gli cinse la vita, un’azione déjà vu di cui quella notte non si sarebbe liberato. La sua imprecazione fu ignorata, mentre il mantello e l’abilità di Gogol’ faceva sparire entrambi, lasciando Oda da solo. 



 

Il luogo dove avevano appuntamento era un ufficio sito in un palazzo non lontano dal centro città. La vista notturna che si godeva era piacevole, con le luci del porto da un lato e quelle della città dall’altro. Al centro troneggiavano i palazzi della Port Mafia, con i suoi bagliori rossi accentuati dal nero della struttura. 

Sigma aveva scostato una sedia da una delle scrivanie e ora aspettava in una posizione troppo rigida per dare l’impressione di sentirsi a proprio agio. Tra le dita strette sulle ginocchia spuntava la chiave recuperata quella notte, pulita parzialmente dal sangue. 

«Sei in ritardo.»

Gogol’ mise fine al silenzio incidendolo di nuovo col proprio russo. Le parole furono per Oda che varcò la soglia anticipato dal rumore dei propri passi, rimbombanti nel corridoio vuoto. Il vigilantes macchiato di sangue non disse nulla e Gogol’ seguitò a ignorarlo, lanciando in aria una bomboletta spray e riachciappandola al volo, restandosene seduto su una delle scrivanie vicine alla parete. Su quest’ultima, con la pittura nera che ancora colava in rivoletti verso il pavimento, si poteva leggere qualcosa, ma solo guardando per intero la parete. 

Angels have fallen

Uno smile storto e grottesco chiudeva la frase. Lo stesso sorriso si aprì sul viso di Gogol’ e Sigma si irrigidì, rammentando la minaccia e la tensione tra i due compagni. Oda non andava a genio al clown per una serie di motivi che iniziavano dal rapporto che aveva con Dostoevskij, fino all’essere stato etichettato un “guastafeste”, con quella sua abilità così perfetta da rovinare ogni sorpresa - ossia i tentativi di Gogol’ di ucciderlo. 

A dispetto di quanto minacciato fuori dalla ferramenta, Gogol’ non fece nulla di avventato. Fece sparire la bomboletta nel proprio mantello e ne tirò fuori due chiavette USB completamente nere, senza alcun marchio sopra. Iniziando a fischiettare un motivetto da cartone animato, Gogol’ saltò giù dalla scrivania e avviò un paio di computer portatili, inserendo in ognuno i due dispositivi. 

Il logo de I Ratti della Casa dei Morti rise muto dallo schermo, glitchando, per poi essere sostituito da alcune righe di codice e infine dal loading di un video su ciascun dispositivo. 

Sul computer di sinistra apparve l’inquadratura di una telecamera di sorveglianza. Dostoevskij era seduto sul letto della propria cella a Meursault, circondato di libri. Sullo schermo di destra, quando il video si avviò, non si vide nulla per qualche secondo. Poi una semplice lampada da scrivania fu accesa. La luce che emanava era fioca, insufficiente per lasciar intravedere la stanza. Bastava a delinare la sagoma di una persona con le dita intrecciate tra loro davanti a un volto coperto da una maschera a gas. 

A lato di entrambi i video comparvero delle chat e poche informazioni in testa. 

Dostoevskij - Ore 18:32 (Francia) 

Kamui - Ore 01:32 (Giappone) 

I tre astanti nell’ufficio rimasero in attesa, attratti principalmente dallo schermo di Dostoevskij, il quale continuò a sfogliare con nonchalance il libro che aveva in mano. 

Alcune lettere in russo iniziarono a comparire nella chat. 

18:33:22 ─ Compagni.

Fu un semplice saluto. Nulla della sua figura attraverso la telecamera di sorveglianza diede a intendere che stesse dialogando o digitando su qualcosa. 

«Ehilà, Dos!» salutò allegro Gogol’, sventolando una mano come se il compagno avesse potuto vederlo. «Che fai? Ti annoi?»

Dostoevskij fece spallucce in un movimento così sintetico che non avrebbe potuto suggerire nulla ai propri carcerieri. Riprese a passare le dita tra le pagine e altre scritte comparvero nella chat. 

18:33:59 ─  Mi riposo, ho molto da leggere. Avete recuperato la quarta chiave? 

Ci fu un attimo in cui gli sguardi, anche di chi sembrava fare solo presenza, come Kamui e Oda, si fissarono su Sigma. Quest’ultimo si impose di tenere la testa alta e annuire - una vocina nella testa gli ripeteva che faceva parte di quel gruppo, non doveva provare timore. La chiave nelle sue mani pesava quanto un mattone. 

«Oh, sì! Il custode ha annaspato favolosamente! È stato divertente!» se ne uscì esuberante Gogol’, lanciando per aria anche una manciata di coriandoli recuperati da una tasca del mantello. Sulla chat di Dostoevskij apparve scritto un Clap Clap e il clown fece un inchino, per poi alzarsi e roteare in aria un indice. 

«Indovinello! Qual è il colmo per una chiave segreta? Eh? Eh, Sigma, lo sai? Daaaai! È facile: trovarsi in una ferramenta! Ah ah!»

Nessuno rise della battuta scadente tranne Gogol’ stesso. Sigma si massaggiò una tempia con le dita, dimenticandosi per un secondo di tutto il proprio nervosismo e pensando soltanto a quanto il compagno fosse idiota. 

18:34:42 ─ Ottimo. 

Dostoevskij si limitò a esibire un breve sorrisino, più rivolto alla completezza della missione che al teatrino del clown. 

01:34:48 ─ Il numero delle chiavi 

Kamui scrisse per la prima volta, mettendo a tacere ogni frivolezza. Come per Dostoevskij, non ci furono chiari segnali che avesse scritto di persona quel messaggio, rimanendo nella stessa posa inflessibile. 

Sigma avvertì di nuovo gli sguardi su di sé, persino quello di Dostoevskij che, per un attimo brevissimo, guardò verso la telecamera della cella. La pressione addosso fu dolorosa quanto l’essere punto da troppi aghi in contemporanea. 

«Ecco… nessuna delle persone da cui ho estratto le informazioni sapeva di preciso quante fossero...» 

Il silenzio di Kamui e la sua immobilità espressero senza bisogno di parole la delusione per quella risposta. Le spalle di Sigma si irrigidirono ancora di più. Il cuore gli batteva così forte per l’angoscia che il respiro gli tremava. 

Sull’altro schermo, Dostoevskij fece un gesto vago come a scacciare un insetto, insieme a un sorriso immobile. Le sue dita si distesero per tornare poi alle pagine del libro. 

18:36:03 ─ Non importa per adesso, c’è ancora un po’ di tempo. Non molto, ma saprai sfruttarlo, Sigma.

Il ragazzo non riuscì a percepire nessuna genuina fiducia o rassicurazione in quelle parole, ma assentì più di una volta. 

18:36:41 ─ Avete già individuato il prossimo obiettivo?

«Sì… anche se l’informazione era più vaga delle ultime...»

18:37:04 ─ Farai un buon lavoro. Gogol’ ti aiuterà.  

Il clown, perso a fissarsi le unghie, restò in un apparente stato di disinteresse. Sigma non ci sperò di avere dell’appoggio da lui; la consapevolezza non lo rassicurò, lo fece sentire soltanto più solo. Riguardo Dostoevskij, poteva essere dall’altra parte del mondo, eppure avvertiva il suo sorrisetto demoniaco solleticargli il collo. Avrebbe voluto essere lui a starsene lontano mille miglia. 

«Non-» iniziò a dire, con una spinta di coraggio che non possedeva realmente. «Non potremmo passare al piano b? Perché dobbiamo continuare con questi sotterfugi? Perché… perché non proviamo a prendere la pagina del Libro?»

Il suo tono era cresciuto a ogni parola, più col bisogno di sfogarsi, che nel credere realmente in un piano fallace e autodistruttivo quanto quello che stavano già attuando. 

«Wow!» 

Gogol’ uscì dal proprio torpore, battendo le mani e fissando Sigma. 

«Guarda come ti agiti! Come un bambino vero!»

«Smettila di trattarmi… così» borbottò l’altro, sgonfio della sfrontatezza appena dimostrata e senza trovare le parole giuste. Non capiva la metà delle cose che sottintendeva Gogol’ quando si riferiva a lui. In realtà, non capiva Gogol’ e basta. 

18:39:17 ─ Se falliremo su questa linea, passeremo al prossimo step come d’accordo. 

Kamui fece il primo cenno di quella riunione, assentendo alle parole di Dostoevskij. 

Gogol’ rise apertamente e di gusto in faccia a Sigma. 

«Ti hanno praticamente detto che il piano b si chiama b per un motivo!» 

L’imbarazzo si impossessò delle gote di Sigma, finendo con l’alimentare la propria frustrazione con l’umiliazione. Strinse la chiave che aveva in mano come se avesse dovuto brandirla, odiando tutto dal profondo più cupo di sé che riusciva a raggiungere. Si voltò verso l’unica persona che in quella stanza era forse ancora non intaccata dalla follia.

«Tu non hai niente da dire? Ti va bene così? Stai facendo il lavoro più rischioso di tutti e potresti morire da un momento all’altro! Se… se stessimo attuando l’altro piano dovresti solo attendere il tuo turno di agire, prendere l’ostaggio che ci serve e finirla lì!»

Oda lo osservò senza raccogliere nessuna di quelle provocazioni. Con o senza maschera, non c’era differenza: i suoi lineamenti rimasero inespressivi. Se rivolse lo sguardo su Sigma fu solo per cortesia o perché aveva fatto rumore. Un istante dopo tornò a fissare lo schermo dove Dostoevskij sfoggiava un sorrisino in parte nascosto dai capelli sciolti. 

«Ehi, Fantasma Rosso, perché non dici niente?» lo dileggiò Gogol’, ma senza l’intenzione di perorare la causa del compagno. La sua espressione era tornata cattiva, quella maniaca per cui avrebbe potuto scattare e uccidere da un istante all’altro. «Perché non racconti a Dos-kun e al capo i tuoi fallimenti?» 

Sigma fu dimenticato da una parte, perché l’attenzione sia di Dostoevskij che di Kamui, per quanto entrambi si mossero impercettibilmente, si focalizzò su Oda.

18:42:33 ─ Cos’è successo, Oda-kun?

«Non sono riuscito a uccidere Nakahara» rispose asciutto, in un russo sicuro, ma privo di accento. «La Spia della Mafia si è messa in mezzo.»

Le dita di Dostoevskij si fermarono sulla pagina che stava leggendo. Non rispose subito, ma chiuse il libro e lo tenne sospeso a mezz’aria con entrambe le mani, fissando un punto fuori dalla propria cella. Poi un sorriso, più simile allo squarcio di una ferita inferta per goduria, si aprì sul suo volto pallido. Raccolse un’altra lettura e la aprì al capitolo uno. 

18:43:24 ─ Dazai ha ordinato al suo cagnolino di scatenare la bestia contro di te? 

«Sì.»

18:43:38 ─ Sublime. Sei ferito?

 «No.»

18:43:50 ─ Hai potuto sperimentare il potere dell’Arahabaki e del Duo Nero. Separare Dazai e Nakahara significa ridurre a un terzo la potenza d’attacco e gli assi nella manica dei nostri avversari. 

Gogol’ riprese a ridacchiare, coprendosi la bocca con le dita e affilando lo sguardo. 

«Allora Dos dovresti sentire cos’altro è successo!»

La stanza si fece silenziosa di attesa, ma fu poco più di qualche attimo. La voce di Odasaku non riferì alcuna intonazione, né di ammissioni né di scuse. 

«Dazai Osamu è tornato alla Port Mafia.»

Dallo schermo, Dostoevskij incurvò le labbra in maniera divertita, picchiettando un dito su una delle pagine, come se avesse appena letto qualcosa di estremamente buffo. 

18:45:05 ─ Molto interessante. Molto. Così Dazai ha deciso per questa mossa. 

Sigma spostò gli occhi su tutti, presenti e non, disorientato e svuotato della speranza di capire. Si sentiva un bambino alle prese con un gioco da grandi che nessuno aveva premura di spiegargli. Al contrario, Gogol’ mise su il broncio, sempre alla stregua di un moccioso, ma con un coltello in mano che avrebbe presto brandito. 

Dato che nessuno sembrava intenzionato a fare la domanda necessaria, Sigma ci provò, tentennando. 

«Non... hai appena detto che tenere la spia e il dirigente insieme è un problema?»

Il breve sospiro di Dostoevskij rifletté una pazienza annoiata.

18:46:27 ─ Guarda il quadro generale: l’Agenzia non è più solida. È una torre che sta crollando da sola. Abbiamo infiacchito il loro umore e le loro difese portando via il medico. Abbiamo gettato nel caos la loro punta di diamante cancellando le prove dei casi. Ora Dazai, la mente nell’ombra, li ha abbandonati: il loro flebile spirito è piegato. Sono vulnerabili e spaesati.  

Sigma annuì, seguendo il ragionamento e sentendolo come se tutto quello fosse accaduto a lui, provando persino della pena che non si spiegò. 

18:46:53 ─ Che Dazai sia tornato alla Port Mafia non cambia i nostri piani. Non lo fa per preservare ed essere utile all’unica torre rimasta ancora in piedi. Vuole soltanto inseguire il nostro Fantasma Rosso.

Per un lungo istante, gli occhi di Dostoevskij abbandonarono la pagina del libro e guardarono in alto verso la telecamera, come se avesse potuto vedere i suoi compagni - uno in particolare - direttamente in faccia. La sua espressione mostrava una serenità fuori luogo. 

18:47:01 ─ Se siamo fortunati, Dazai ha sottovalutato questo ritorno nel covo delle vipere. Fino ad adesso abbiamo fatto un ottimo lavoro a destabilizzare il suo spirito. Ci penseranno i suoi ex compagni a inquinare ciò che resta della sua volontà.  

Se c’era da ridere, nessuno lo fece, ma l’espressione di Dostoevskij, tornato a fissare il proprio libro, era compiaciuta al limite della decenza. Gogol’ sbuffò di nuovo, mentre Sigma si umettava le labbra in procinto di continuare sul filo del discorso. 

«Se l’Agenzia è fuori gioco… possiamo anticipare l’ultima fase?»

18:47:49 ─ Non è ancora tempo. Gestire un ostaggio problematico come il nostro prossimo obiettivo richiede prima di sfiancarlo e, al contempo, essere prossimi al Libro. Oda-kun deve concludere i suoi cerchi per aprirci la strada. Dobbiamo assicurarci di essere vicini al numero di chiavi necessarie, Sigma-kun. 

Anche se il nome fu solo un insieme di lettere in cirillico su un schermo, Sigma rabbrividì sentendo nella propria testa il tono con cui sarebbe stato pronunciato dal vivo. Il fatto che ci fosse un continente a separarli gli diede la spinta per esternare la propria frustrazione, ancora una volta. 

«Potrebbero esserci dieci chiavi, come potrebbero essere cinquanta! Cento! Sono davvero tutte così importanti?»

18:48:35 ─ Puoi porgere le tue rimostranze direttamente al capo, se il compito ti sembra inadeguato. 

Sigma si congelò sul posto, spostando lo sguardo sullo schermo di Kamui e alla sua totale immobilità, capace di essere più minacciosa di un riprovero. Che portasse una maschera rendeva più facile al terrore insinuarsi nel subconscio di Sigma. 

«N-No… T-Troverò tutte le chiavi necessarie...» balbettò umiliato, abbassando lo sguardo su quella che teneva ancora stretta tra le mani.  

Dostoevskij si stiracchiò come un gatto pigro, sbadigliando. 

18:49:13 ─ Non disperarti. Fai quel che devi e avrai la tua ricompensa a tempo debito. 

Il rossore pervase le gote del diretto interessato un’altra volta. Si schiarì la voce, annuendo e tornando a guardare i compagni con occhiate veloci. Gogol’ non si smentì, mimando di tagliarsi la testa e cadere morto, lasciando intendere quale sarebbe stato il destino di Sigma nel caso avesse fallito. Pur di non fissarlo, Sigma si concentrò su Oda.

«La tua facciata come giustiziere sta crollando, anche se continui ad attaccare la Port Mafia… La gente è divisa e c’è chi non ti considera più un eroe...»

Oda ricambiò lo sguardo per un secondo, chiudendo poi gli occhi. 

«Il mio obiettivo non è mai stato diventare un eroe. Più la Port Mafia sarà debole, più semplice sarà arrivare al Libro. E poi...»

Quando il suo sguardo tornò su Sigma, questi ringraziò tra sé di non essere suo nemico.

«Ucciderò il Boss della Port Mafia.»

Per la prima volta il tono di Oda fu invaso da un sentimento molto vicino alla rabbia. Basso, roco, una promessa scalfita nel muro dal calcio di una pistola. 

Sigma ne rimase spaventato quanto affascinato, chiedendosi ancora una volta come Oda potesse suonare così deciso e determinato anche senza avere memoria del proprio passato. Una volta aveva pensato che Oda fosse la persona che avrebbe potuto capirlo di più, ma ormai era una consolazione che aveva abbandonato in favore di una solitudine capace solo di affondare di giorno in giorno sempre un po’ di più. Quello sbagliato evidentemente era lui. Cambiò domanda per non pensarci. 

«Il fatto che quel Dazai sia tornato alla Mafia non sarà un problema?»

Dal video, Dostoevskij sospirò con la stessa pazienza di prima, poggiandosi una mano sul petto. 

18:53:31 ─ Sarà un problema, Oda-kun?

«Non lo sarà.»

Gogol’ gli fece il verso, scimmiottandolo anche con un gesto militare della mano. Nessuno gli prestò attenzione, tutti concentrati su Oda. 

«Separerò Dazai e Nakahara. Non finirà come l’ultima volta.»

18:54:12 ─ Lieto di sentirlo. Ricorda quello che ti ho detto di Dazai. È tornato alla Port Mafia per starti addosso, fai attenzione. 

Dostoevskij arrivò all’ultima pagina del libro, facendo sostare le dita sulle parole che lo concludevano. 

18:54:42 ─ C’è altro?

Calò il sipario su quella riunione.

La prima connessione a interrompersi fu quella di Kamui. Lo schermo iniziò a glitchare, riempiendosi di parole e numeri che scorrevano a una velocità impossibile da leggere, finché il computer si sovraccaricò e si spense da solo con il rumore di un corto circuito. Lo stesso accadde a quello dove era apparso Dostoevskij. 

Gogol’ recuperò entrambe le chiavette USB e le fece sparire nel proprio mantello. 

«Ho voglia di un gelato!» iniziò melodrammatico, risistemandosi guanti e cappello. «Ho voglia di sparare a qualcuno!» 

Si posizionò davanti alla scrivania, prese gli angoli del proprio mantello e iniziò a scuoterlo, continuando a lamentarsi, mentre da questo cadevano le più svariate cose: una spazzola, un cuscino, delle cesoie, la bomboletta spray usata sul muro, dei fiammiferi, penne, elastici, delle tazzine da tè giocattolo, libri, cibo per cani. Andò avanti così finché non si sentì anche un tonfo netto seguito dal rollio di un liquido. Una tanica di benzina era appena piombata in terra, iniziando a gocciolare dal tappo chiuso male. 

Sigma lanciò un’occhiata a Oda, un’occhiata implorante che variava dal non lasciarmi di nuovo solo con lui a un labile ti prego, ammazzalo. Oda non raccolse la supplica, o non la comprese per ciò che era, rimettendosi la maschera da vigilante e voltandosi per andarsene. 

«Ohi, Fantasma! Il barbeque spetta a te!» vociò Gogol’, per poi stirare le labbra in un sorrisino che prometteva solo guai. «O vuoi dare le dimissioni?»

Nel dirlo, la sua mano sparì nel mantello, per riapparire un istante dopo dietro la testa di Oda. Ci fu un click e poi seguirono diversi spari, ma Oda aveva già inclinato il capo, evitando i colpi. Si spostò prima ancora che la mano potesse orientarsi per seguirlo. La vetrata non andò in frantumi, ma il quartiere iniziò subito ad animarsi al rumore dei proiettili esplosi. 

Gogol’ ritirò la mano e iniziò a ridere e poi a cantare in un tono più forte e sprezzante. 

«Silver and gold will be stolen away! Stolen away! stolen away!»

Il suo braccio si strinse nuovamente intorno a un Sigma che protestò animatamente. 

«Silver and gold will be stolen away! My. Fair. Lady!» 

Sull’ultima sillaba, entrambi furono inghiottiti dall’abilità del mantello, lasciando l'ufficio. 

Non tornò alcuna quiete, nonostante l’assenza del clown. La gente dai palazzi limitrofi stava schiamazzando dalle finestre, cercando di inquadrare la situazione. 

Imperturbabile, Oda raccolse la tanica e sparse la benzina sui computer, la sedia e il resto dell’ufficio fino a svuotarla dell’ultima goccia. La abbandonò insieme al resto delle cianfrusaglie in terra e raccolse senza alcuna fretta i fiammiferi. La fiammella baluginò piccola e con l’innocenza propria delle prime gocce d’acqua di un nubifragio. Oda lanciò il cerino all’interno della stanza e le fiamme si animarono, mangiandosi centimetro dopo centimetro tutto il combustibile. Le urla del quartiere si moltiplicarono insieme alle prime sirene.  

Sostando sull’ingresso dell’ufficio, Oda osservò la distruzione incedere come una storia già vista, ma che non gli stava provocando alcun sentimento. 

Dalla parete dove Gogol’ aveva scritto Angels have fallen, lo smile pianse e rise di quella miseria. 


To be continued


È da marzo che non mi si vede qui. Qualcuno si è unito alla lettura della storia (grazie grazie grazie per i commenti, sono lifa, nutrono quel poco di stima che ho nei miei confronti), qualcun altro l’ha riletta e son contenta di sapere, da entrambi i fronti, che No Longer Flawless ancora piace. 

Parliamo del piatto forte. [SPOILER]
Durante la mia assenza, Asagiri-sensei e Harukawa-sensei hanno finalmente dato alla luce Stormbringer. Mi aspettavo un sacco di cose, più o meno ce n’è stata solo una, il resto è stato un WTF continuo e l’epilogo mi ha stesa. 

Verlaine si è attaccato a me come un gatto con un divano. Mi sono fatta due conti, oltre che almeno cinque-sei scene nate da sole con lui e che si potevano intrecciare a No Longer Flawless. Ho visto dove mi ero fermata e quindi niente, eccolo entrare in scena, anche se di poche parole, in questo capitolo, abbastanza perfetto per presentarlo e subito lanciare gli spoiler più succulenti in tipo poco più di 1k (?) di scena. 

Con lui entra in scena anche l’unico OC di tutta questa vicenda (tolte le comparse), ossia la dottoressa Kagemori Aoi. Se No Longer Flawless vedrà una fine, vedrete questo personaggio nella terza parte. 

Detto questo, è stato un capitolo abbastanza intenso da finire e ricontrollare. Ci sono parti abbastanza corpose, e il fatto che nel mentre sono usciti anche i capitoli del manga con nuove info a volte mi destabilizza, perché non so se alcune cose le dovrei cambiare… alla fine questo è un immenso What If di tutto quello che sta attualmente succedendo.

Però la cosa più bella ora è pensare che finalmente sia stata annunciata la S4 di Bungou Stray Dogs e che quindi, presto (?), vedremo animato quel bimbo di Sigma (quanto l’ho maltrattato qui) e quel folle di Gogol’.

Direi che ho cianciato abbastanza.  

Lasciate qualche commento, fatemi sapere che ci siete, cosa vi piace di questa storia, quale personaggio vi sta intrigando *love* 

Ogni tanto spunto anche nella mia pagina autrice su fb, se volete raggiungermi lì: Nefelibata ~ Eneri Mess 

 

Ci vediamo al Capitolo 14: Miscalculation

 

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Capitolo 15
*** Miscalculation ***


 

Capitolo 14

Miscalculation





 

There's a whisper in my bones
Keeping me restless and whole
There's a whisper in my bones
Bones, bones, bones

[Bones - Wens]






 

«Ohi, deve rimanere tra noi, sono informazioni di cui è meglio non spettegolare in giro… ma sì, hai capito bene, è stato il più giovane dirigente della Port Mafia.»

«Allora era vero… e perché se ne è andato?»

«Eh, tu sei nuovo e non c’eri, ma gira voce che abbia tradito quattro anni fa, dopo lo scontro con dei mercenari stranieri che ci hanno dato filo da torcere.»

«Ha tradito?! E il Boss lo ha ripreso e lo ha fatto dirigente di nuovo?»

«Ho sentito dire che è il pupillo del Boss, quel posto vacante non sarebbe mai stato di nessun altro. Pare anche che fosse l’unico testimone presente alla morte del Boss precedente.»

«Aspetta, aspetta! Il suo nome! Ora ricordo! Non è quello che lavorava per l’Agenzia di Detective?»

«Già… come ci si può fidare di uno così?»

Nel silenzio permeante il corridoio isolato, entrambi i mafiosi a guardia dell’ascensore non la sentirono arrivare. Fu rapida come una folata autunnale e silenziosa come poteva essere solo un’assassina d’élite addestrata nella Port Mafia. 

Gin apparve tra i due uomini, uno stiletto per ogni mano puntato alle loro gole e uno sguardo che non lasciò altro margine di esitazione. Nessuno si mosse, in un’istantanea di terrore disorientato.

«Lascia stare» esortò una voce alle sue spalle, sospirando in modo frustrato. «Siamo a corto di personale.» 

La figura di Dazai emerse dal fondo del corridoio scuro preceduto solo dal rumore dei propri passi. La fioca luce lo profilò schiarendo le ombre che lo vestivano, ma senza raggiungere l’abito scuro ed elegante che indossava. Non degnò nessuno dei presenti di uno sguardo, avendo l’attenzione impegnata su uno dei propri polsini, la fronte corrugata mentre cercava di sistemare un bottone impertinente sfuggito all’asola. 

All’ordine, per quanto blando, l’assassina eseguì all’istante, abbandonando l’inflessibilità della propria posa e facendo un passo indietro, abbassando le armi. 

I due uomini non dimostrarono di aver capito cosa fosse appena accaduto, o chi fosse appena arrivato. Fissarono straniti i due, per poi abbozzare delle espressioni da cani da guardia. 

«Questo corridoio è riservato ai Dirigenti!» 

Dazai si fermò di fianco a Gin e lasciò perdere il bottone. Mormorò un flebile Te lo restituisco subito e, sfilandole uno stiletto, in un movimento fluido neanche troppo rapido, ma imprevedibile, spinse il mafioso che aveva parlato contro la parete. La lama del pugnale catturò la luce soffusa dell’ambiente, poco sotto il suo pomo d’Adamo. 

«Anni fa ho imparato che uno schizzo di sangue sul muro può essere più efficace di un avvertimento… o forse voleva essere un’opera d’arte, ho il dubbio» sussurrò Dazai con un accenno di risata che fece rabbrividire tutti, Gin compresa. La guardia rimase immobile, raggelata, persa nello sguardo dell’ex detective. Dal balbettio con cui tentò di parlare e scusarsi diede a intendere di averlo riconosciuto, ma Dazai non gli concesse altro. 

«Un tappeto viene calpestato e dopo un po’ va lavato, ma il sangue su un muro può essere un monito per il futuro. Come vuoi raccontare ai tuoi colleghi il mio ritorno nella Port Mafia? Di persona o lasciando il segno?»

«M-Mi dispiace, signore! T-Terrò la bocca chiusa!»

Dazai si tirò indietro e gli diede una pacca sulla spalla. 

«Ottima scelta!» approvò allegro, riconsegnando il pugnale all’assassina. 

Alle loro spalle, l’ascensore annunciò l’apertura delle porte e un rettangolo di luce più intensa illuminò il corridoio. Sulla soglia c’era Kouyou. Il suo sguardo indolente si tinse di perplessità nel cogliere la tensione che aleggiava nell’aria. 

«Cosa succede qui?»

I due mafiosi a guardia dell’ascensore si inchinarono profondamente, le braccia rigide incollate al corpo. Gin stessa abbassò brevemente il capo. Solo Dazai alzò una mano. 

«Yo, Ane-san. Le voci sul mio ritorno si sono sparse.»

Kouyou lo fissò fin troppo consapevole delle magagne insite in una semplice affermazione. Lasciando andare un respiro più paziente, si avvicinò a Dazai e gli prese il polso tra le mani, finendo di aggiustare il bottone fuori posto. 

«Avrò tempo di abituarmi a vederti qui in giro?» chiese in una chiara frecciatina, per quanto in tono leggero. 

Dazai si portò al petto il palmo libero. 

«Dubiti anche tu di me?»

I sorrisetti sfacciati che si scambiarono furono entrambi due risposte più che eloquenti. 

«Mori-san ti aspetta» tagliò corto la donna. 

«Aha? Non era un incontro tra Dirigenti?» 

Se Kouyou colse la tensione dissimulata nel tono di Dazai non lo diede a intendere. Cercò nel suo sguardo, ma i pozzi oscuri che aveva conosciuto un tempo, benché fossero rimasti profondi, erano preclusi alla vista.  

«Chuuya si è svegliato e sta facendo il diavolo a quattro perché qualcuno gli ha scritto in faccia con un pennarello indelebile.»

Dazai non fece nulla per nascondere l’espressione colpevole e Kouyou sospirò, la prima reazione genuina a ricordo di un passato che stava tornando di prepotenza. 

«Vado a vedere come sta e se è in grado di partecipare.»

Mani in tasca, Dazai la superò ed entrò da solo nell’ascensore, premendo il tasto per salire. 

«Ci vediamo per il tè, Ane-san.» 

Se l’ultimo sguardo di Kouyou all’uomo avesse potuto esprimersi a parole, queste sarebbero state di avvertimento. 

Ma il temporale imperversava già su di loro. 



 

“Un demone da per scontato
che gli altri demoni siano come lui.”

[Dazai Osamu - BSD Volume 8]



 

Il cielo stava rumoreggiando oltre gli spessi vetri dell’ufficio all’ultimo piano, un borbottio costante che coprì l’arrivo di Dazai. Era la prima volta che rimetteva piede nell’ufficio di Mori da quattro anni, nonostante fosse lì alla Port Mafia da quasi una settimana. 

Dopo lo scontro con Odasaku, Hirotsu lo aveva scortato al cuore nero di Yokohama; era rimasto a vegliare un passo dietro di lui quando aveva varcato la soglia di un luogo che non era più casa, ma che diversamente sarebbe stato troppo lungo da definire.

Non lo aveva accolto alcuna guarnigione armata. Mori era stato avvertito del suo arrivo e ad affiancarlo c’era stata solo la desolazione di un ambiente sgombrato molto in fretta. Nessun comitato di benvenuto, nessuno occhio, per quanto discreto, solo loro tre, per circoscrivere le voci di corridoio, qualsiasi cosa fosse successa. Non di meno, l’atrio era saturo di aspettative che Dazai non aveva tardato a confermare, ma le aveva rese meno eclatanti del previsto. 

Accetto l’invito a tornare, Boss, aveva detto, mani in tasca, passo incerto e dolorante, il sorrisetto di qualcuno che ha appena bussato alla porta del diavolo. Era svenuto un attimo dopo, lungo di faccia per terra, di fronte a Mori.

Bentornato, Dazai

Aveva fatto in tempo a udirlo, o forse l’ex detective lo aveva immaginato così troppo a lungo che gli era sembrato vibrare di realtà.  

Svegliarsi nel proprio vecchio appartamento con un completo nero pronto da indossare, la chiave del suo ufficio e un plico di fogli da firmare, lo aveva reimmerso all’istante in quella vita dipinta unicamente di due inchiostri, il nero pece e il rosso denso. 

Tuttavia, le interazioni tra lui e Mori erano state minime. Dazai aveva continuato a tenersi occupato nel sistemare vecchie faccende, nel prendere visione di quelle in corso, chiudendosi nel proprio ufficio con blandi Ho da fare che Kunikida si sognava. Il massimo che aveva fatto era stato controllare le condizioni di Chuuya, in orari in cui fosse certo di non imbattersi in nessuno. Verlaine era stato un imprevisto ingestibile. 

Suo malgrado, era tornato a fissare Yokohama dall’alto in basso, a non vedere più da vicino quelle formiche che la abitavano e che per quattro anni era riuscito a chiamare persone. Erano di nuovo troppo piccole e insignificanti da lassù e questo da solo bastava a fargli andare di traverso il panorama. Alzare lo sguardo a un cielo vuoto, per quanto tranquillo, aveva invece l’effetto di distaccarlo dai problemi, atteggiamento che non si poteva permettere. 

La parte facile era ricalcare i movimenti di una volta, come riavviare un vecchio motore impolverato che attende solo di carburare. Quella difficile era continuare a dormire, a non passare le notti a pensare, a schematizzare, talvolta scivolare sulla stanchezza e permettere alla fantasia di ricordargli come fosse avere Odasaku di fianco a sé. Vivere un’illusione, fradicia di realtà, che a volte gli faceva credere di poterlo ritrovare solo alzando lo sguardo. Si era abituato alla sua assenza con fatica. Allo stesso modo, doveva reingoiare la consapevolezza che esistesse in una forma diversa da quella che era stato un tempo.

Le poche ore di sonno confortevole che era riuscito a concedersi nei giorni precedenti le doveva all’atmosfera dell’Agenzia. Alla voce di Kunikida che sbraitava, ad Atsushi e ai suoi striduli versi mentre correva di qua e di là, a Naomi che flirtava spudoratamente col fratello o Ranpo che ciancicava parole tra una caramella e un dango. Poi ricordava che Yosano non era tra quelle voci da diverso tempo; la coscienza inciampava di nuovo e si rimetteva all’inseguimento di quel cappuccio rosso sotto cui Odasaku si celava. 

Non saresti dovuto venire

Odasaku gli aveva sparato senza esitazioni. Faceva male, ma faceva meno male di saperlo morto. I tentennamenti si stavano quietando, lasciando spazio alla consapevolezza nuda e cruda, l’unica di cui aveva bisogno ora che era tornato al punto di partenza, nella pancia della creatura più nera e insaziabile di Yokohama. Aveva ripreso possesso di alcune di quelle redini che guidavano la Port Mafia, maldicenze e sfiducia permettendo. C’era solo spazio per un’ironia che non faceva ridere nessuno. 

Odasaku era stato la ragione per cui se ne era andato, e sempre Odasaku era la ragione per cui era tornato. Doveva compatirsi, o darsi al cinismo senza freni. 

«Ci sono pensieri che ti turbano?»

Mori stava osservando l’orizzonte dalle vetrate del proprio ufficio, ma senza guardare veramente. Le mani a riposo dietro la schiena, in un angolazione che tradiva volontariamente il suo passato militare; lo sguardo era insondabile, ma più vero degli angoli della bocca flessi in qualcosa di bonario. 

Dazai rientrò nei propri panni con un’alzata di spalle. 

«Mi turba che ci siano sempre scartoffie da compilare. Sul serio, in quattro anni non siamo riusciti a passare al digitale?» 

Mori rise, con una sincerità che risuonò come i tuoni in agguato sopra di loro. 

«Non mi risulta che Fukuzawa-dono sia meno incline a usarle. O quel tuo collega così ligio ai propri ideali.»

Le frecciatine. Dazai non ebbe bisogno di incassarle; se le fece scivolare addosso. Stranamente, pensare alla reazione di Kunikida nel sentirsi riconoscere come ligio dal Boss della Port Mafia attenuò la sensazione di essere nella tana del lupo. 

«Voglio una segretaria. O un segretario. Entrambi è meglio.»

«Provvederò affinché Hirotsu vagli dei validi candidati.»

«E non mi avete neanche fatto una festa di bentornato! Voglio un catering a base di granchio e sakè! E funghi, non sono male.»

Le spalle di Mori diedero l’impressione di piegarsi come quelle di un padre accondiscendente, ma con i conti in tasca. Il panorama temporalesco aveva aperto le gabbie e i fulmini ruggivano uno dietro l’altro. La pioggia batté un tempo iniziale, per poi rovesciarsi priva di ritmo e grazia. 

Affogate, sembrava dire, con l’arroganza di un Dio passeggero. 

«Il tuo ritorno mi sta causando qualche problema e dissenso tra gli uomini.»

Dazai si era seduto su una delle poltrone al centro dell’ufficio, occhieggiando con un interesse posticcio il tavolino di fianco, senza scorgere nulla di attraente, solo del caffè tiepido e qualche tartina. Non avvertiva di avere più uno stomaco in grado di provare appetito oltre alla iniqua necessità di nutrimenti. 

«Ho solo accettato un invito che mi è stato fatto» mormorò seguendo il copione. 

«Prima mi caccia, poi mi rivuole indietro. Non è che io faccia molto, Mori-san.»

L’umore nell’ufficio era una copia asciutta di quanto imperversava fuori. Si stavano muovendo in un pantano di taciuti, in una fanghiglia color sangue che odorava in maniera nauseante di condizionali e passati remoti fragili e zuppi di illazioni. 

Come non sarebbe stato saggio uscire con un tempo del genere, così non lo era affrontare le lapidi del passato. Tuttavia, avere paura di un pericolo avrebbe inibito l’evoluzione stessa e non era nello stile di Mori. 

«Dazai...» iniziò, concedendosi solo quel minimo tentennamento nel pronunciare con debolezza il suo nome. 

«Quanto valore daresti se ti assicurassi che quattro anni fa non ho avuto alcuna intenzione di cacciarti dalla Port Mafia? Bada, non mi pento delle mie scelte e del piano elaborato. Ma nel tuo caso...»

Tacque, perché era giusto. Perché il bordo era appena stato sfondato e bisognava guardare giù per constatare i danni. E poi avvalersi di una giustificazione. 

«È stato un errore di calcolo.»

Qualsiasi parvenza di finzione Dazai si stesse infliggendo sparì strattonata come un tappeto da sotto i piedi. Si alzò dalla poltroncina e raggiunse Mori alla vetrata, con una meccanica basilare dei movimenti. Se c’erano delle formiche ai piedi dell’Olimpio della Port Mafia, il temporale le stava certamente affogando. Se c’era ancora qualcosa da salvare, a Dazai non interessava. 

«Errore di calcolo

Lo ripetè col bisogno di farlo suonare per quello che era ora. Una sentenza. 

Quattro anni prima avrebbe potuto conservare la probabilità illusoria ed errata di cui si faceva effige nel significato, ma in quel momento, dilatato da un tempo che non si sarebbe fermato per concedere un beneficio del dubbio, per Dazai quell’errore di calcolo era un pasto insipido prima dell’esecuzione. 

Scoppiò un fulmine che accecò l’ufficio. 

Dazai estrasse una pistola dalla fondina sotto la giacca. Era fastidiosa da portare, un peso piantato a lato del costato, ma rappresentava anche il suo cordone ombelicale con la realtà. O il suo strumento per affrontarla. 

Nella tacca di mira c’era la gola di Mori. Se doveva essere, sarebbe stato un colpo sofferente, non definitivo. 

Mori concesse un’occhiata alla pistola. L’aveva riconosciuta anche lui per ciò che significava e a chi era appartenuta. Un nome così bisbigliato dalle ombre del suo regno nelle ultime settimane che continuare a ignorarlo avrebbe portato via il sonno anche a lui. Tornò a guardare fuori, alla misura del tempo che stava scandendo il giudizio.

«In questi giorni ho cercato di capire il motivo del tuo ritorno» iniziò, non senza sospirare, come per avallare l’idea che fosse un rompicapo molto complicato. 

«Oda mi sembra ancora la risposta più sensata: mettersi sulla sua linea di fuoco significa assicurarsi di incontrarlo. Chuuya non si è risparmiato in dettagli circa il vostro incontro di qualche sera fa, prima del crollo del palazzo. Mi è parso di capire che Oda non conservi alcun ricordo.» 

Dazai non replicò e non mosse il braccio, ma a Mori non sfuggì il suo rinsaldare la presa sull’impugnatura. 

«Tuttavia, dopo quanto successo al Porto Vecchio, ho avuto dei dubbi. Chuuya è tornato ridotto così male che persino Verlaine ha interrotto la sua clausura per venire a prendersi un tè e chiedermi cosa stia succedendo. Non fatico a intuire che sia stato tu a scatenare l’Arahabaki contro lo stesso Oda. Comprendo non sia stata una posizione comoda, ma mi fa intendere che non stai perdendo di vista la questione su quanto Oda non sia Oda

L’intensità della pioggia che si abbatteva contro la vetrata era pari al sangue che Dazai sentiva pulsare nel petto e nelle orecchie. 

«Non posso neanche escludere che tu sia qui perché l’obiettivo di Oda è la Port Mafia, ed eliminarmi possa essere una mossa favorevole nei suoi confronti. Onestamente, Dazai, sono confuso. Ma ho ragione di credere che il primo a esserlo sia tu.» 

Voltò il capo quel tanto che bastava per fissare l’ex detective. Era lampante e disorientante rendersi conto di quanto le occhiaie avessero scavato il volto del Boss della Mafia. 

«Questa situazione deve essere pesante. Quattro anni di menzogne su quella tomba-»

Il rimbombo del colpo di pistola si mescolò a un tuono violento. Il proiettile sfiorò soltanto i capelli e la spalla di Mori, mettendolo a tacere.  

Gli occhi di Dazai erano dilatati, pozzi tornati così scuri da risucchiare il calore del viso stesso. 

«Sono quattro anni che fantastico su come ucciderla, Mori-san» esalò, deformando la bocca in qualcosa di grottesco che diede fondo alle radici lasciate crescere al buio. «Ho cambiato molte abitudini e mi sono divertito a stare dalla parte di chi aiuta le persone… ma questo pensiero è rimasto un tarlo nella mia testa.»

Lo stesso veleno che per anni aveva sentito scorrergli nelle vene, alimentando il sé del passato che impiegava il tempo libero ad annodare cappi, aveva cominciato a insozzare qualsiasi cosa Odasaku fosse stato in grado di cambiare, riempiendo quel vuoto, goccia dopo goccia. Era un male soffocante

Oltre la porta dello studio, le guardie bussarono con insistenza, chiamando a gran voce il capo, tentando di forzare la chiusura. Entrambi li ignorarono. 

«Un errore di calcolo» ripeté ancora Dazai, provocandosi un sentimento di rabbia a cui non era abituato. Una frustrazione salata sulle ferite mai chiuse. Dei se e dei ma che erano acido nel cervello. 

«Se voleva il Permesso per le Abilità Speciali c’erano mille altre maniere.»

Non serviva a niente. Era passato. Faceva davvero troppo male.

«Dazai… mi stai rimproverando per aver elaborato un piano che mi ha assicurato la vittoria? Se avessi coinvolto qualcun altro, e non Oda e Sakaguchi, a quest’ora saremmo qui a berci un tè e a capire come arginare l’ennesima minaccia alla nostra integrità, non trovi?»

Il tuo sangue è nero

L’ennesimo sottotesto. L’ennesima volta che Dazai trovò quell’affermazione cucita addosso. 

E una distrazione lampante. 

Mori era il demone medico, quello che con una mano ti curava e con l’altra ti avvelenava. Quella sua stessa mano, la dominante, la più veloce, scattò e ferì Dazai al polso con un bisturi. La pistola cadde tra i due, ma non fu l’essere disarmato che rese il Demone Prodigio pericoloso. Fu la rabbia. E lo rese imprevedibile anche al capo dei demoni. 

Dazai attaccò frontalmente Mori, a mani nude. Finirono in un corpo a corpo disordinato, nessuno dei due abituato a contatti così diretti. Il pupillo riuscì a sottrarre il bisturi al maestro, ma si trattò di una conquista labile, considerando quanti artigli di metallo potevano celarsi in quel cappotto nero. 

«Non aveva paura che un giorno gli riservassi la stessa fine che lei ha dato al precedente Boss!?» ansò Dazai, vomitando veleno, conscio solo in parte di non avere più controllo sul proprio tono di voce. 

Se si fosse riuscito a calmare si sarebbe accorto di quanto patetici dovevano sembrare entrambi. Lui col sangue a colargli dal naso, Mori da una tempia. 

«Un timore che ogni tanto serbo ancora.» 

Una confessione lenta, di una sincerità che stava stretta all’ex detective. 

«Ma onestamente, Dazai, non sei tagliato per il potere e le responsabilità. Non sono queste che colmeranno il tuo vuoto.»

Che Mori fosse pienamente consapevole di tutto quello che gli stava uscendo di bocca o no, non aveva importanza. Come al suo ex pupillo suicida non interessava scoprire cosa sarebbe successo nel cedere le redini del proprio corpo all’istinto dell’ira, al peccato più cieco e incontrollabile.  

Il tavolino al centro dell’ufficio finì ribaltato, la porcellana si infranse al suolo, i cocci si conficcarono con dolore in schiene e braccia, in una confusione primordiale di lotta e di sfoghi. 

«Avrei dovuto tenerti d’occhio di più» rantolò Mori, dopo essere riuscito a guadagnare della distanza e un appoggio solido nella propria scrivania. «Ho sottovalutato il fatto che potessi provare qualcosa per qualcuno...» 

Accennò un risolino di compatimento verso se stesso, verso quel fallimento, all’errore di calcolo, così ingenuo. Quel granello di sabbia da cui avrebbe potuto osservare il mondo, se non se lo fosse fatto sfuggire dalle dita. Le cose sarebbero state più semplici con Dazai al proprio fianco, ma ammettere due volte lo stesso desiderio non lo avrebbe reso più possibile.

«Avevi drasticamente ridotto i tentativi di suicidio da quando ti eri imbattuto in Chuuya, ma è stato con Oda che hai annientato anche quelli seri. Quel balsamo per l’anima avrebbe dovuto dirmi di più.»

«E avrebbe davvero fermato i suoi piani per me!?»

L’aria si scaraventò fuori dai polmoni di Dazai con un’irruenza dolorosa. Si lanciò di nuovo contro Mori, ma questi estrasse la propria pistola, specchiando la situazione iniziale. Dazai si fermò dando retta alla ragione, nonostante stringesse il bisturi come un pugnale, privo di eleganza. 

«Anche adesso» riprese Mori, inchiodandolo con lo sguardo. «La sola idea che Oda sia vivo ti blocca dal cercare la morte.»

C’era qualcosa di nuovo sul viso del Boss della Mafia, ma si fosse anche trattato di sincero rimorso, o un sentimento che attingeva da una parte così nascosta del suo essere che forse neanche lui ne conosceva l’esistenza o l’ubicazione, non importava. A Dazai non interessava essere considerato un figlio, e non voleva un padre nelle vesti di Mori. 

«Per rispondere alla tua domanda, forse sì.»

Ci fu una pausa, breve, ma per dare tempo al tempo stesso di incidere quella possibilità nella memoria. 

«Probabilmente no. Non mi sarei fermato. La Port Mafia viene prima di chiunque altro, compreso me.»

«Crede ancora nella favola con cui ha addomesticato Chuuya?»

«Sì, Dazai. Ci credo. per questo, se hai intenzione di farmela pagare per quanto successo quattro anni fa, non esiterò a ucciderti.»

La rabbia voleva che Dazai urlasse. Lo facesse per Odasaku che pensava morto tra le proprie braccia; per i bambini che era sicuro di aver messo in salvo; per la stupidità con cui si era fidato di Mori all’epoca, finendo a fare la marionetta nelle sue mani. 

Dazai non urlò. Si sentì patetico e inutile contro la risolutezza di Mori. Voleva solo fargli male e sperare di sentirsi meglio. 

Iniziò a diminuire la distanza tra di loro, fissando negli occhi il Boss. La pistola non venne abbassata, anche quando la volata dell’arma entrò in contatto con la fronte dell’ex detective. 

La situazione era in stallo e la tensione così pressante che il dito di Mori dava l’idea che avrebbe ceduto, pur di chiudere una questione che si trascinava da quattro anni. 

«Sono così arrabbiato.»

Dazai finalmente parlò. 

Appena un mormorio, e poi tutto successe velocemente, sulla scia dell’ennesimo fulmine. 

Il bisturi brillò e Dazai lo piantò con violenza nel braccio del Boss della Mafia. La pistola sibilò e Mori slittò la mira all’ultimo, prendendo di striscio il volto di quel Demone Prodigio ormai scarico. 

La porta dello studio fu sfondata e divelta in un colpo solo, con un boato che superò il temporale.

«Che cazzo sta succedendo.» 

Non fu una domanda. 

Fu una testa rossa che scattò in mezzo ai due, bloccando i polsi di entrambi prima che potessero colpirsi di nuovo. 

Il volto di Chuuya era trasfigurato da qualcosa che era furia, collera, ma anche paura insieme, che scottava e penetrava solo a guardarlo. L’impasse durò pochi secondi, il tempo che Kouyou impiegò a intervenire in un turbinio di stoffa colorata e decisione. Afferrò Mori per il braccio sano e lo tirò indietro. 

Libero da un lato, Chuuya si rovesciò verso Dazai, mollandogli il polso. Era al colmo delle emozioni e non attese di sentire neanche una sillaba. Assestò un calcio nell’addome del partner, buttandolo a terra senza fiato. Le guardie spianarono le bocche delle pistole contro l’ex detective, rantolante mentre tentava di non strozzarsi con la saliva che stava tossendo. 

«Fuori di qui.»

Mori tornò padrone di se stesso. Le sue parole erano rivolte a quegli agenti superflui che stavano facendo il loro lavoro, ma non avevano compreso la pesantezza che ancora rigurgitava sentimenti putrescenti nell’atmosfera della stanza. 

«Avete sentito l’ordine del Boss!» rincarò Kouyou. «Fuori!»

Nel mentre, Chuuya afferrò Dazai per il bavero, tirandolo su. 

«Mi strozz-»

«Stai. Zitto.» 

E lo trascinò verso l’uscita e il corridoio buio, senza voltarsi indietro. 

«Devo fermarli?» chiese piano Kouyou, trovando inevitabile sovrapporre ai due giovani uomini Dirigenti i ricordi di due ragazzini marciti dalla speranza, ma con la tenacia di sopravvivere. 

Mori si tastò con una smorfia la zona dove Dazai aveva conficcato il suo bisturi, fissandoli a propria volta. Il dolore era vivo quanto lo erano loro.  

«No, lasciali andare. Per ora va bene così. Aiutami con questo.»




 

Chuuya sbatté Dazai nell’ascensore come un sacco dell’immondizia. Premette con irruenza e col bordo del palmo la loro destinazione, per poi passare il tempo della discesa ad artigliare l’aria e a regolarizzare il respiro per non intaccare la cabina con la gravità, che lo avviluppava come una seconda pelle di un bagliore rossastro. 

La voce registrata annunciò l’arrivo al piano e l’apertura delle porte. Senza avere il tempo di realizzare, o che le sue proteste venissero accolte, Dazai fu di nuovo afferrato con forza e trascinato fuori. 

Anche lì dove erano scesi si poteva ancora ammirare il temporale esplodere su Yokohama con tutta la propria ferocia. Tuttavia, nessuno dei due era interessato al tempo o a come questo fosse un sottofondo calzante a ciò che stava succedendo. 

Dazai fu sollevato di peso. Ebbe il tempo di un mezzo verso di sorpresa prima di essere scaraventato nella piscina al centro dell'enorme stanza relax. 

Annaspando, riemerse tossendo e cercando di spostarsi dove avrebbe toccato, per riuscire almeno a togliersi dalla faccia le ciocche fradice. L’acqua era fredda e non fu piacevole. 

«Chuuya-»

«Cristo, Dazai! Cosa. Credi. Di. Fare!?»

Ancora una volta, la sua voce sovrastò il rombo del tuono. Dazai tentò di avvicinarsi alla scaletta, ma l’intera piscina tremò e scricchiolò. 

«Prova a uscire e giuro, giuro, Dazai, ti ammazzo.»

Nonostante il miliardo di promesse identiche raccolte negli anni, l’ex detective ebbe la bontà di retrocedere e non commentare neanche sarcasticamente. Aveva fatto incazzare Chuuya altrettante volte da meritarsi quelle ingiurie, ma capiva dalla furia con cui si tratteneva a stento di aver sforato il limite. Il pavimento si stava crepando e far crollare il piano non sarebbe stata un’idea brillante. 

Dazai prese il primo respiro profondo da quella mattina. La sua cassa toracica protestò, ancora contratta dai sentimenti che c’erano scoppiati dentro senza controllo appena dieci minuti prima. 

«Io e Mori-san avevamo dei conti in sospeso» iniziò piano, tastandosi il sangue che ancora colava dal naso. La ferita al polso non era poi così allarmante. 

«Che cazzo significa che sei tornato nella Port Mafia!?» 

Il ruggito di Chuuya riverberò per tutta la grande sala, facendo scoppiare più di un bicchiere nella zona bar. Dazai fu preso in contropiede dal cambio di discorso. 

«Ah» esordì, ripercorrendo mentalmente tutti gli ultimi giorni e rammentando che no, Chuuya non sapeva niente. 

«Sì, giusto, tu dormivi» e c’era dell’allegria fuori posto, considerando quanto stesse rischiando di finire seppellito da un intero piano del palazzo a seconda di quello che avrebbe detto. 

«Ho accettato l’invito che Mori-san mi aveva fatto il giorno che abbiamo recuperato Q dalla Gilda. Siamo di nuovo partner.»

Il bagliore della gravità si spense e lasciò solo un’espressione di shock. A questo seguì un verso non articolato e le mani di Chuuya - la mattinata doveva essere stata molto caotica essendo prive di guanti - si chiusero sul suo viso, interferendo con le imprecazioni che la sua bocca stava vomitando fuori. 

«Che cos’è successo?» chiese, per poi specificare. «Dopo che ho attivato la Corruzione.»

Dazai si appoggiò di spalle al bordo della piscina, osservando il partner fare avanti e indietro sul posto. 

«Cosa ricordi?»

«Che mi scoppiava la testa dal dolore. Che cazzo era quella pistola!?»

«Non lo so» replicò Dazai con onestà, rivedendo tra sé il momento in cui Odasaku lo aveva preso di mira. «Ho mandato le informazioni all’Agenzia nella speranza che Ranpo-san trovi una pista. Comunque, dopo che hai innescato la Corruzione, Odasaku mi ha sparato. Per questo ci ho messo parecchio a fermarti. Sei quasi morto.»

Chuuya lo fissò dritto negli occhi, appurando quella verità.

«Non hai permesso alla Corruzione di consumarmi fino alle ossa

Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, ma non aggiunse altro. Dazai scostò l’attenzione verso una delle vetrate, ammorbidendo il tono, ma non si soffermò su quel dettaglio, fingendo di non averlo sentito. Di non ricordare la propria minaccia.  

«Hirotsu è venuto a prenderti. Gli ho chiesto un passaggio e, arrivati alla Port Mafia, ho detto a Mori-san Certo che accetto di tornare a essere un Dirigente! ed eccoci qui. Nient’altro di particolare» e fece spallucce, schizzando un po’ d’acqua in giro. «Poi tu non ti svegliavi e io mi sono annoiato a dover compilare il resoconto del Porto Vecchio tutto da solo.»

«Perché sei tornato?» 

Dazai chiuse gli occhi per ignorare quanto quella domanda pesasse. Stava facendo un torto a entrambi, ma era una considerazione che scavava davvero troppo a fondo e lui quel giorno aveva già estirpato carcasse a sufficienza nell’interludio con Mori. 

«Mi avevi detto che dovevamo parlare, ricordi? Eccomi qui!»

L’affermazione riuscì a fare assumere a Chuuya una faccia così spaesata da meritare una foto, se Dazai non avesse avuto il cellulare a galleggiare nella tasca dei pantaloni. Poi il ricordo di una vaga conversazione prima dello scontro con Odasaku affiorò nella mente del rosso. 

Dopo che avrò impacchettato il tuo amico, io e te ci faremo una chiacchierata. Sei troppo incasinato da questa faccenda e ci stiamo andando di mezzo tutti.

«Perché pensi di poter fare come ti pare!?» abbaiò tornando padrone della propria collera.

«Cosa avevi intenzione di fare a Mori-san!? Vuoi che l’intera Mafia ti dia la caccia!?» 

Dazai pensò intensamente che ci sarebbe stata molto bene una battuta a spezzare quel sali e scendi di tensione. Era stanco. Era stanco da giorni. Così stanco da essere ironicamente stanco di esserlo. Aveva voglia di lasciarsi andare in acqua e galleggiare per il resto del pomeriggio, senza pensare a niente. 

«Mori-san un tempo andava in giro a dire che un giorno lo avrei ucciso e avrei preso il suo posto. Pensi che sia così assurdo? Se diventassi il nuovo Boss della Mafia non mi saresti fedele?»

Il bordo della piscina in corrispondenza dei piedi di Chuuya si crepò, facendo fuoriuscire un po’ d’acqua. 

Dazai sospirò, per nulla sorpreso. 

«Stai calmo. Non ho alcuna voglia di accollarmi la Mafia.»

Ma onestamente, Dazai, non sei tagliato per il potere e le responsabilità. Non sono queste che colmeranno il tuo vuoto.

Era snervante sentire le persone parlargli in testa. 

«Troppi compromessi» tagliò corto blandamente, gestiscolando e finendo con schizzare di nuovo tutto intorno. «Troppa pianificazione di omicidi, estorsioni e ricatti. Aggiungici gli incontri diplomatici dove vorresti solo cavare gli occhi al tuo interlocutore… Ormai ho una certa età.»

Si guardò le mani attraverso il pelo dell’acqua. 

«Ma ho un piano.»

Chuuya non trattenne una bestemmia e un verso di sprezzo. 

«Che novità! Dazai ha un piano!»

Il partner non gli diede torto, ma rimase serio. 

«Finché resto in Agenzia sono limitato.»

L’amarezza era autentica e bloccò sul nascere i rimbrotti di Chuuya. 

«Guardiamo in faccia la realtà: l’Agenzia è già stata tolta dallo schema di questa partita. Dostoevskij lo sa e ha colpito dove poteva crepare la sua integrità. Il vero baluardo ai suoi scopi rimane la Mafia. L’organizzazione più forte, numerosa e radicata in città… e la sta facendo fuori un pezzo alla volta.»

I loro occhi si incrociarono. Il tono di Dazai si abbassò e le sue labbra si piegarono a raccogliere tutta l’ironia scontata che si preparava a servire.  

«Quindi... per evitare che il mondo come lo conosciamo venga riformato da dei mitomani, Odasaku va fermato prima che consegni a Yokohama la testa di Mori-san su un piatto d’argento.»

Lo sguardo di Chuuya si affilò insieme alla sua voce. 

«Quando intendi fermare...»

Alla fine, si tornava sempre lì. Cosa hai in mente, Dazai?

«Mori-san poteva dirmi di no, ma sa che avermi dalla sua parte gli darà un enorme vantaggio. Così abbiamo stretto un accordo.»

Non aggiunse altro, se non un sorriso più simile alla firma in calce sul contratto per svendere l’anima. Anche i demoni stessi non erano esenti dal fare patti tra loro.  

Chuuya ebbe bisogno di un momento. Si prese il viso con una mano, borbottando tra sé nel tentativo di diminuire la pressione che aveva nel cranio per come gli eventi erano precipitati in sua assenza. La nota positiva, constatò il partner, era l’attenuazione dell’intento omicida nei suoi confronti. 

Dazai lasciò il bordo della piscina dove toccava e si spinse, nuotando indolente, verso la parte opposta, proprio sotto Chuuya, guardandolo con un’espressione innocente e da schiaffi. 

«Stammi lontano» sbottò il rosso in un ringhio. «Non voglio avere niente a che fare con te. Se ti avvicini a meno di tre metri ti faccio volare dall’altra parte della stanza.»

L’ex detective si crucciò, sporgendo il labbro. 

«Mi fai sembrare un molestatore!»

Chuuya bestemmiò, sottolineando che sì, lo fosse. Tuttavia, la pantomima si esaurì lì. Non c’era più spazio per siparietti comici nello sfinimento che emanava. Anche se non c’era stato tempo per soffermarcisi, a Dazai non erano sfuggite le condizioni fisiche e come i vestiti stessero un po’ più larghi addosso al partner. Quasi una settimana di incoscienza aveva lasciato il segno. 

«Non mi fido di te.»

Non era una stoccata nuova da incassare, ma complice tutta la situazione, Dazai la sentì come uno schiaffo in faccia a cui dovette abbozzare. 

«Non mi fiderò finché non mi dirai il reale motivo per cui sei qui.» 

Qualcosa si incrinò sul viso di Chuuya e lo costrinse ad alzare lo sguardo. Anche con la mascella rigida, l’ennesima imprecazione gli sfuggì lo stesso. 

«Cazzo! Non penso che mi fiderò di te neanche dopo. Non dovevi tornare

Dato fondo all’ultimo, schietto sentimento che aveva dentro, Chuuya girò i tacchi e se ne andò. 



 

* * *


Atsushi era assorto a contemplare il cielo fuori dalle finestre dell’Agenzia. 

Le giornate si stavano allungando, ma il blu di quella sera rimarcava quanto ancora mancasse all’estate. La cognizione del tempo era scivolata via dalle mani del Ragazzo Tigre dopo un’altra giornata passata a setacciare Yokohama in cerca di informazioni. Il problema era principalmente come il suo sguardo continuasse a soffermarsi sui palazzi della Port Mafia e a immaginare Dazai, a chiedersi in quale di quel centinaio di stanze e uffici si trovasse, cosa stesse facendo. 

Tornato in Agenzia aveva aperto il portatile, fissato lo schermo e non aveva concluso niente. La voce di Kunikida non lo aveva raggiunto se non vagamente ogni tanto come eco nei propri pensieri; la sua assenza quel pomeriggio aveva reso tutto più silenzioso e ancora una volta lontano dalla loro routine classica.   

«… ohi, ragazzino! Ma mi senti!? Ho bisogno di una mano!»

Atsushi saltò sulla sedia. La bolla ovattata in cui si era chiuso scoppiò facendolo tornare al presente. Voltandosi, notò sulla porta il detective Minoura, sovraccarico di buste e una pila di vaschette di alluminio tra le mani. L’odore di cibo investì il naso del ragazzo, facendogli intuire che ore fossero.

«Di qua» continuò Minoura con un cenno del capo verso il corridoio, dopo essersi alleggerito le braccia. Con parte della cena a carico, Atsushi lo seguì fino alla Stanza della Follia di Ranpo. Dall’ultima volta che ci aveva buttato un occhio il caos era triplicato. 

«Oh! Finalmente la cena!» 

Il Ragazzo Tigre si era ormai abituato a trovarsi di fronte Edgar Allan Poe, a vederlo gironzolare e interagire con gli altri dell’Agenzia come ne avesse sempre fatto parte. Se il procione Karl non era sulla sua testa - come in quel momento, col naso vibrante a sniffare l’aria profumata di cibo - lo si trovava rapito per una sessione di coccole da Naomi o da Kyouka. 

«Dov’è Ranpo-san?» 

Atsushi si guardò intorno, chiedendosi se non fosse rimasto seppellito dalla carta, ma Poe indicò il proprio libro - Black Cat in the Rue Morgue - poggiato sulla scrivania. 

«Sta cercando di risolvere alcuni punti oscuri di questi crimini rivivendoli tramite la mia abilità...» spiegò con tono combattuto. «Sono contento quando Ranpo-kun mi chiama perché ha bisogno di me… ma per uno scrittore di gialli è degradante dover solo rielaborare degli stupidi verbali della polizia...» sospirò sconsolato. «Dovrebbe comunque finire tra poco… Poggiate pure le cose lì, sono file inutili.»

Quando Atsushi si apprestò a sistemare alcune delle vaschette di alluminio, i file inutili si mossero, facendolo sobbalzare e cacciare un urletto. Dalla pila, con aria smarrita e di chi ha solo in parte recuperato una settimana di insonnia, emerse Ango. 

Poe si lasciò sfuggire un Ops colpevole, dimenticatosi completamente della presenza di Sakaguchi mentre catalogava le pile di fogli. 

«Accidenti, quanto ho dormito?» borbottò l’agente del governo, passandosi le mani sulla faccia senza togliersi gli occhiali. 

«Quattro ore, forse di più. Non ci stavo facendo caso» fu la risposta anche troppo allegra di Poe, controllando l’orologio. 

Ango recuperò il cellulare con gesti frettolosi, ma lo trovò scarico. Imprecò prendendosi le tempie tra le dita e pensando a tutto il tempo perso. 

«È passata una sua collega di fretta a lasciarle dei fascicoli. È entrata come un tornado chiedendo scusa per il ritardo, ma è stata felice di vederla dormire. Mi ha pregato di non svegliarla.»

Tirando fuori i documenti, Ango notò un post-it celeste e spiegazzato con un elenco delle informazioni spuntate e in calce la firma frettolosa di Tsujimura Mizuki. Sospirare per il tempo speso a dormire, invece di vagliare quelle pagine, fu inutile. Ci avrebbe pensato dopo cena. 

«Oh! Mi stavo dimenticando...»

Atsushi attirò l’attenzione su di sé, per poi sparire oltre la porta e tornare poco dopo con un libro in mano. Lo allungò all’agente del governo. 

«Dazai-san mi aveva chiesto di darle questo...»

Ango passò le dita sulla copertina, più logora di quel che appariva, e su quel titolo bislacco che innegiava al Suicidio Completo

«Immagino sia il suo modo di dirmi addio» sospirò. «Ti ringrazio, Atsushi-kun.»

Nonostante lo sguardo scettico lanciato da Minoura, che ogni volta scopriva qualche bizzarria in più di quel gruppo stranamente assortito, tra gli altri calò il silenzio. Il peso della situazione che stavano vivendo era senza tregua sulle loro spalle. 

Poe batté le mani, incrinando l’aleggiante tensione. 

«È ora di riempirsi lo stomaco!»

Quando finirono di aprire tutte le confezioni col cibo d’asporto, neanche fosse stato richiamato anche lui dall’odore, Ranpo riapparve. Il libro di Poe si spalancò e iniziò a sfogliarsi da solo fino all’ultima pagina, facendo tremare i fili rossi sopra le loro teste. In un materializzarsi di parole e flash gialli, il principale detective dell’Agenzia emerse col cipiglio increspato e ancora una posa meditativa. 

«Bentornato» disse piano Poe, con un sorriso piccolo, rispettando l’aria pensierosa. Tuttavia, non mancò di passargli la sua ramune. «Com’è andata?»

Ranpo fece prima una panoramica di tutti gli occhi che lo stavano fissando - e che avevano le bacchette ferme a mezz’aria con un boccone ciascuno. Senza rispondere, buttò il cappello da una parte, afferrò la bevanda, le diede due sorsate e poi si sfregò le mani, attaccando una delle pareti. Strappò senza indugio buona parte delle note, degli articoli e dei ritagli di documenti. 

«Un vicolo cieco. Mancano ancora diverse informazioni» riferì, ma non senza restituire l’idea di essere deluso o arrabbiato. Vagliò ogni parete, togliendo il superfluo e staccando anche qualche filo - che finì nella porzione di cena di Minoura con suo poco gradimento - finché non si parò di fronte alla foto di Dostoevskij, Oda, la sagoma che avevano soprannominato Ladro di Chiavi e quella del Capo

«Il pennarello» ordinò, allungando la mano. Poe si affrettò a cercarlo in mezzo ai fogli e a passarglielo. 

Tutti lo fissarono attenti, incuranti che la cena si raffreddasse. La mano di Ranpo rimase sospesa a mezz’aria, stringendo il pennarello, ma dalla sua espressione trasparì la lotta di ragionamenti che la sua testa stava portando avanti. Si morse il labbro in un atteggiamento non suo, risultato di tutto quel cancellare prove su prove, lasciandolo a brancolare tra le ipotesi. 

Quando poggiò la punta, la sua mano scarabocchiò una sola parola, di fianco a quella di Capo

Informatore

E lo corredò con un punto di domanda che gli strappò uno schiocco di lingua esausto.  

«Credi che anche il Capo sia in campo?» parlò Poe curioso, non senza una punta di sorpresa per quella deduzione. 

«Quindi ad agire fisicamente sono in quattro?» rincarò anche Minoura, battendo inconsciamente le punte delle bacchette tra loro. 

«È solo una...» 

Una smorfia disgustata, neanche avesse mandato già una caramella amara, gli piegò la bocca. 

«È una supposizione. Hanno un uomo all’esterno che cancella le prove e questo lo sappiamo già. Ma in qualche maniera devono riuscire a ottenere le informazioni sulle chiavi. Ho analizzato troppe possibilità per credere si tratti solo di una questione di indagini. Neanche Dostoevskij è così analitico come il sottoscritto. Deve essere un’abilità e potrebbe essere quella del capo...» 

«Tipo… lettura della mente?» provò Atsushi, passando la soia ad Ango, mentre quest’ultimo, con una mano, si buttava la cravatta sulla spalla per non intingerla per sbaglio nella vaschetta. Tuttavia, la sua concentrazione era focalizzata sul discorso e la sua faccia era quella di chi stava assimilando altre belle notizie. Fu il Ragazzo Tigre a proseguire, seguendo il filo dei propri pensieri. 

«Se fosse un’abilità che coinvolge la mente sarebbe terrificante… come quella di Q.» 

Ranpo fece spallucce, lanciando il pennarello sul tavolo, la bottiglia di ramune nel cestino e agguantò dalle mani di Poe la sua porzione di cena. Per qualche lungo minuto rimasero in silenzio a mangiare, ma il bisogno di sapere e sciogliere qualche nodo era troppo prominente. 

«Quanti tipi di abilità ci sono in giro? Esiste una classificazione? O una specie di registro da consultare per capire chi potrebbero essere queste persone e i loro poteri?» chiese Minoura, dopo essere rimasto a fissare le foto di Dostoevskij e Oda. 

Ai due lati del tavolo, sia Ango sia Poe si irrigidirono, mettendo giù la cena. 

«Registro e abilità non sono due parole da usare insieme con leggerezza...» iniziò Poe con tono serio e basso, cauto, allungando poi da mangiare a Karl. 

«La questione censimento è molto delicata» continuò Ango, sforzandosi di mandare giù un altro boccone. «È un tema ricorrente e costantemente dibattuto in più o meno tutti i governi che riconoscono di avere utilizzatori di abilità tra i loro cittadini.»

Guardò dritto in faccia il detective della polizia, spingendosi sul naso gli occhiali. 

«Il problema è che, ancora oggi, la gente fatica ad accettare qualcuno con un’abilità, o anche solo a riconoscerne realmente l’esistenza. Purtroppo poi, nella maggior parte dei casi, questi fanno parte di organizzazioni malavitose o segrete.»

Un lungo sospiro lo svuotò, ammorbidendogli la postura. 

«L’Agenzia fondata da Fukuzawa-san è una rara eccezione. Esistono poche altre organizzazioni come questa, tutte modeste e tutte nate in tempi recenti dopo l’ultima guerra. Sono realtà che permettono a individui dotati di lavorare alla luce del giorno e dimostrare che gli utilizzatori non sono tutti pericolosi e che possono condurre una vita normale.»

Si massaggiò la radice del naso, chiudendo gli occhi e pensando a quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva affrontato l’argomento. 

«Tuttavia, in politica ci sono partiti che premono per un censimento pubblico e questo, capite da voi, rischia di stigmatizzare chiunque sia in possesso di un potere innato. Io, o Atsushi-kun, o Poe-san saremmo posti sullo stesso piano di individui del calibro di Dostoevskij. Anche cercando di fare dei distinguo, finiremmo tutti per essere considerati criminali o complici, pubblicamente.»

Il Ragazzo Tigre rabbrividì, immaginandosi in una pubblica piazza, con gli occhi di sconosciuti addosso a screditarlo e additarlo come pericoloso. Avrebbe avuto difficoltà a non dare loro torto. A volte non sentiva di avere ancora il pieno controllo della Tigre Mannara, considerando che l’influenza del Presidente la tenesse al guinzaglio. 

«Io… sono stato cacciato dall'orfanotrofio perché mi trasformavo senza accorgermene...» mormorò senza neanche volerlo davvero. La voce di Akutagawa risuonò nella sua mente, rammentandogli che lui e sua sorella erano stati buttati via proprio per colpa di Rashoumon

Ranpo ci tenne a far rumore, cestinando la proprio vaschetta di cibo con una certa irruenza. 

«Meglio così, Atsushi. Diversamente, non ti avremmo mai trovato» spiegò, mentre si apriva un secondo ramune. 

Ango riprese il filo del proprio discorso, dopo aver osservato il pupillo di Dazai.

«Esistono abilità con livelli di pericolosità differenti, ma il problema è che molte persone non capirebbero, anche quando l’abilità è pressoché innocua, come quella di Fukuzawa-san. I poteri sono visti unicamente come qualcosa di innaturale, violento e legato alla guerra.» 

Fissò Minoura, rispondendo in fine alla sua domanda. 

«Un registro renderebbe persone innocenti bersagli di un odio ingiustificato.»

Ranpo interruppe di nuovo la tensione con un verso derisorio, inchiodando Ango con un’occhiata penetrante. 

«Però voi della Divisione la vostra lista l’avete, no?» sottolineò, per poi stiracchiarsi, sbadigliare e piantare i piedi sulla scrivania per una posizione più comoda. «Stilarla è stato parte del tuo lavoro da infiltrato nella Port Mafia, quattro anni fa.» 

Le occhiate rimbalzarono dal detective dell’Agenzia all’agente del governo. 

«La Divisione Speciale ha una propria lista dovuta al lavoro che svolgiamo. Tuttavia, l’archivio è secretato e con un livello di accesso minimo. Sono il vice supervisore e i permessi devono essere approvati sia da me, sia dal Capo Taneda. Però sì, esiste» ammise riluttante, ma anche conscio dell’utilità. «Abbiamo stimato che la nostra lista copre circa l’80% degli individui residenti in Giappone.»

Un vago senso di angoscia trasparì dallo sguardo spalancato, tradito, di Atsushi. Dall’altra parte del tavolo, anche se Poe era rimasto in silenzio ad ascoltare, anche uno dei suoi occhi fece capolino dalla frangia, trasmettendo il proprio parere contrario.

Ango tentò di rassicurare almeno Atsushi, avvertendo un senso di colpa fastidioso a cui dover porre rimedio. 

«I file sono identificati tramite codice e non nominativo. Le informazioni sono tutte su un server protetto dai migliori algoritmi di sicurezza e ci teniamo ad aggiornarli di frequente. Anche se un hacker cercasse di bucare i firewall, il sistema farebbe rimbalzare i tentativi in altri database fittizi. E se anche riuscissero ad arrivare al server principale, necessiterebbero ugualmente di una conferma mia o del Capo Taneda entro pochi secondi. Diversamente, il mio lavoro di una vita si autodistruggerebbe» e lo disse con un sorrisetto di compatimento verso di sé, rassegnato all’eventuale perdita. «Abbiamo preso tutte le precauzioni necessarie perché sappiamo quanto siano sensibili queste informazioni.»

Nonostante la lunga spiegazione, Atsushi aveva una sola domanda a premergli contro le labbra. 

«Quindi… sono stato schedato?»

Ango assentì. 

«L’intera Agenzia lo è. Anche la Port Mafia.» 

«E anche parte della Gilda, suppongo» si intromise Poe, senza farla risuonare come una domanda. 

Ango ne sostenne lo sguardo e confermò con un cenno calibrato, ritrovando parte del proprio aplomb da agente governativo. 

«Attualmente, Giappone e Inghilterra, per conto dell’Europa, possiedono le banche dati più ricche a livello di censimento codificato e sicurezza. Avevo saputo che qualche anno fa l’archivio cartaceo americano è andato distrutto...»

Poe sorrise come avrebbe fatto un nemico, facendo trapelare la propria appartenenza a quella stessa organizzazione che qualche tempo prima aveva quasi distrutto Yokohama. Anche se era acqua passata e lui attivamente aveva contribuito poco. Bastò però a far condensare spiacevolmente l’aria nella stanza e a a rimarcare quel confine. 

«Fitzgerald è molte cose. Non è una persona facile e mi è difficile avere a che fare con lui… Ma ha dei principi su cui raramente transige» cominciò, senza smettere di fissare Ango. «I nomi dei suoi sottoposti non possono essere catalogati, col rischio di essere resi pubblici e quindi vulnerabili. Per questo, quando è diventato capo della Gilda, ha acquistato il terreno dove era l’archivio e gli ha dato fuoco.»

«Potevo immaginarlo...» commentò Ango, scuotendo la testa più per darsi dello sciocco che commentare l’azione. 

«Da quello che ho capito» si intromise Minoura, che se anche aveva delle riserve su quei discorsi le tenne per sé, avendo intuito il terreno minato su cui rischiava di muoversi. «Non abbiamo possibilità di individuare facilmente quei due tipi lì» e lo disse indicando con le bacchette gli appellativi privi di foto che avevano scatenato la discussione. 

Ango lanciò a propria volta un’espressione desolata a quelle supposizioni scritte sul muro che tanto irritavano Ranpo. 

«Potrebbero essere di origine straniera come Dostoevskij. In Russia e nell’Est Europa la situazione abilità è anche più estrema. Gli utilizzatori vengono emarginati e in alcuni luoghi è considerato un crimine avere un’abilità. Cercano di nascondere per tutta la vita i loro poteri per non finire arrestati o catturati da organizzazioni criminali. Nel migliore dei casi ne diventano soldati o membri attivi, come nella Port Mafia. Nel peggiore… vengono venduti, resi schiavi o costretti a combattere per la propria vita.» 

Atsushi sentì il bisogno di coprirsi la bocca con una mano, mentre la sua testa elaborava quegli scenari macabri. Per un solo istante, ma tanto bastò a rivoltargli lo stomaco, realizzò quanto, quanto fosse stato fortunato ad aver trascinato fuori dal fiume Dazai e aver accettato di rimanere in Agenzia. 

«È molto probabile che almeno uno dei due sia di origini russe» ricominciò Poe pensieroso, allungando gli avanzi della cena al proprio procione. «Dai file sul Divorarsi a vicenda che mi avete fatto visionare, la maggior parte dei mercenari e degli uomini impiegati da Dostoevskij erano russi, come Ivan Gončarov o Puškin.»

«Bah! Odio le supposizioni!» sbuffò Ranpo, incrociando ostinatamente le braccia. «L’unica eccezione lì in mezzo è l’amico di Dazai, ma sappiamo già che è lì apposta per fermare o uccidere Dazai stesso.»

«Se uno dei complici commettesse anche solo un errore, potremmo-» ma il tentativo di Poe fu stroncato da un altro sbuffo frustrato di Ranpo. 

«Quando parlate di Dazai» li interruppe Minoura cupo, sempre concentrato a trattenere il filo dell’indagine. «Intendete il detective che ha mollato e si è unito alla Port Mafia?» 

Ranpo indicò una delle pareti dove erano state attaccate altre foto. C’erano i vertici della mafia, tra cui Mori, Chuuya, Kouyou, una quinta sagoma che però era stata segnata come Re degli Assassini, e poi due fotografie di Dazai. Una recente e una copia di quattro anni prima, ritagliata dagli scatti al Bar Lupin. 

«Dazai lo hai conosciuto durante il caso Sugimoto, era il tizio ripescato dal fiume. E non ha mollato, è solo tornato al suo lavoro precedente.» 

A Minoura gli si lesse in faccia il bisogno di porre domande - Perché un ex Dirigente della Port Mafia è stato assunto in questa Agenzia!? - ma altrettanto si capì che non volesse sentire risposte che gli avrebbero fatto probabilmente venire l'orticaria. 

«A che pro tornare nella mafia?» scelse quindi di chiedere, restando sui binari del caso. 

Atsushi guardò il suo detective senpai con la speranza di ricevere una risposta in grado di restituirgli il sonno. 

«Per stare sulla linea di fuoco di Red Hood» rispose asciutto e convinto Ranpo, riacquistando la sicurezza che l’intera situazione tentava di strappargli. «Dazai e Oda hanno dei trascorsi, ma ormai l’Agenzia non è più una minaccia, quindi Dazai è andato dove potrà incontrarlo.»

«Ma-» Minoura era senza parole. «È un suicidio!»

La tensione si sciolse all’improvviso. 

Ranpo rise neanche fosse stata una barzelletta gustosa. Ango scosse la testa, per poi massaggiarsi le palpebre, avvertendo una leggerezza che non sentiva da settimane. Persino Atsushi abbozzò un sorriso. 

«Nulla di nuovo per Dazai» concluse Ranpo. «E allo stato attuale delle cose, probabilmente è più utile alla Port Mafia che qui. Ha una discreta percentuale di possibilità di fermare Red Hood, se la mafia non inghiottirà sia lui sia il suo amico. Ci sono troppe variabili in gioco» e gesticolò per aria, come se avesse potuto riassumere quelle probabilità. 

«Se ci riuscirà, sarà un altro modo per sapere dov’è tenuta Yosano. Ma le azioni dettate dai sentimenti sono sempre un disastro» terminò, mentre con gli occhi percorreva il filo rosso con cui la foto di Odasaku era stata collegata a quella di Dazai. La sua espressione si crucciò, sovrappensiero. 

«Spero che Bel Cappello gli dia una mano. Dazai non ha altri alleati lì.»  

Ango smise definitivamente di provare a mangiare, di nuovo percorso dal senso di colpa che in quattro anni aveva posto radici dentro di lui. Anche se Dazai sembrava aver teso una mano verso di lui, la notte che erano scappati da Odasaku, era ancora riluttante a sentirsi con la coscienza pulita. 

«Si sarà ripreso Chuuya-san?» chiese invece Atsushi. 

Poe lo guardò dubbioso. 

«Intendi Nakahara? Dopo lo scontro con quell’arma a risonanza direzionale?» e nel chiederlo si rivolse di nuovo a Ranpo, che fece spallucce. 

«Bel Cappello ha più assi nella manica di un utilizzatore di abilità normale, per quanto quell’arma sia insidiosa e pericolosa, secondo il rapporto di Dazai.»

«Mi stavo dimenticando!» saltò su Minoura, letteralmente, rovesciando la sedia. Si frugò nelle tasche interne della giacca, mentre riprendeva a parlare per spiegarsi. 

«Qualche anno fa il dipartimento si occupò di un traffico di armi di origini straniere. Mettemmo agli arresti un trafficante e artigiano russo, ma prima che l’ambasciata completasse l’estradizione, il sospetto fu ucciso. Il caso è ancora aperto perché non si sono trovate prove né si è capito la possibile arma del delitto, ma da quello che avete detto potrebbe esserci un collegamento!» e finalmente recuperò i fogli, piegati malamente, del rapporto. 

«Dall’autopsia risultò che il cervello avesse subito gravi danni, senza che ci fossero però ferite esterne. L’ipotesi accreditata fu quella di un sospetto uso di abilità, però il medico legale annotò anche la rottura di uno solo dei timpani, dall’esterno verso l’interno, come se delle violente vibrazioni lo avessero investito.» 

«Potrebbe davvero essere una pista» affermò Poe speranzoso, occhieggiando il compare di sfide. 

Dopo aver finito di sfogliare rapidamente i documenti, Ranpo puntò il dito contro Ango. 

«Ehi, uomo del governo, mi serve che mi procuri nomi e dettagli di tutte le società che forniscono servizi di difesa privata, sia legali sia illegali. Puoi farlo?»

«S-Sì» annuì Ango, senza aver davvero afferrato il fondo della richiesta. Prese il cellulare per mandare un messaggio, ma si ricordò fosse scarico solo quando tentò di accenderlo. Atsushi corse nella zona uffici a recuperare un caricabatterie. 

Ranpo apparve soddisfatto, dondolandosi sulle sulle zampe posteriori della sedia, un sorriso finalmente contento sul viso nel fissare il rapporto spiegazzato. 

«Bravo, Minoura-keibu. Potrei quasi chiamarti detective seriamente.»

Minoura roteò gli occhi, ma si trattenne dal commentare. La tensione pareva essersi sciolta del tutto. 

«Aaah, ho bisogno di dormire» esclamò Ranpo, stiracchiandosi e battendosi i pugni sulle spalle intorpidite. 

Atsushi scattò di nuovo, come fosse stato dato un segnale preciso. 

«Kunikida-kun voleva che fossero visionati i casi dell’ultima settimana per sapere cosa scartare, cosa posticipare e cosa-» 

Ranpo soffiò l’aria fuori dalla bocca come un bambino a cui era stato negato qualcosa, piombando di nuovo sul pavimento con tutte e quattro le zampe della sedia. 

«Sono staaaanco!»

«Sono pochi, davvero...» tentò Atsushi, già sulla porta della stanza, mentre Poe rabboniva Ranpo con alcuni dolcetti confezionati. 

Il Ragazzo Tigre tornò con una bracciata di cartelline e le appoggiò sul macello che regnava sopra la scrivania. 

«E quelli sarebbero pochi?» commentò scettico Minoura, vedendo la pila alta almeno trenta centimetri. 

«Be’, per Ranpo-san lo sono» e nel tempo di quel breve dubbio, il detective numero uno dell’Agenzia aveva già scartato due file con un Che perdita di tempo

Nei successivi dieci minuti, le cartelline furono divise in Questioni inutili, Casini di Red Hood e Magari un giorno gli darò un occhio. Gli altri quattro presenti si distrassero con gli stessi dolcetti confezionati offerti da Poe, per poi iniziare a sistemarsi per tornare alle rispettive case. Questo finché, all’ultimo caso, Ranpo scattò in piedi di botto, facendo trasalire tutti. 

«C-Che succede?» domandò Poe titubante, con un Karl spaventato sulla testa aggrappato alle ciocche di capelli. 

Il ghigno che si aprì sul viso di Ranpo era di chi aveva appena fatto centro. 

«Beccati.»



 

To be continued.



 

Heilà! Grazie a chi segue e commenta! Davvero, almeno voi mi fate piangere di gioia. 
C’è il pezzo della discussione tra Dazai e Mori che non vedevo l’ora di scrivere da quando ho buttato giù gli appunti di questa storia. Ho voluto seguire l’interpretazione secondo cui davvero Mori ha sottovalutato la portata del suo piano e il sacrificio di Odasaku (quel balsamo per l'anima risuona nelle mie ossa). Ho un cuore debole, adoro Mori, e per quanto sappia e legga di continuo di lui come solo un calcolatore freddo senza sentimenti, una parte di me invece qualche traccia di tepore qui e lì ce la vede. Da qui l’errore di calcolo. 

E insomma, per il resto, Dazai è tornato alla Port Mafia. Ci stiamo avvicinando agli sgoccioli della prima parte e io sono impaziente. 

Ho buttato giù lo scheletro degli appunti della seconda parte di No Longer Flawless e non vedo l’ora di iniziare a scrivere le scene, nella speranza mi venga anche in mente un finale XD Cosa molto strana per me, dato che di solito io inizio le storie che so già dove voglio andare a parare… 

Al prossimo aggiornamento, penso per Natale! O forse è più in tema Capodanno…

 

Nene

(Su FB sono Nefelibata ~ Eneri Mess)


Prossimo CapitoloIn Vino et Whiskey Veritas

 

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Capitolo 16
*** In Vino et Whiskey Veritas ***


Capitolo 15

In Vino et Whiskey Veritas





 

You've been fighting the memory, all on your own
Nothing worsens, nothing grows
I know how it feels being by yourself in the rain
We all need someone to stay
We all need someone to stay

[Someone to stay - Vancouver Sleep Clinic]





 

L’auto di Minoura si fermò davanti a uno dei palazzi della periferia di Yokohama mentre la notte stava raggiungendo il suo culmine più oscuro. Sul sedile del passeggero, Ranpo si sporse dal finestrino per dare una lunga occhiata all’edificio; su quello posteriore, Poe, Atsushi e Ango fecero altrettanto, stipandosi dietro il vetro con la curiosità dei bambini di fronte a un paesaggio nuovo. 

Di insolito non c’era però nulla, se non un cartello della polizia che avvertiva la chiusura di uno dei piani per indagine. 



 

Mentre Minoura continuava a borbottare della lavata di capo che si sarebbe preso per averli portati lì e aver rotto i sigilli della polizia senza avvertire nessuno, dalla porta sbucò Kunikida, seguito a breve distanza, con un incedere più misurato, da Fukuzawa. Entrambi erano in tenuta casalinga, ma dalle loro facce erano pronti a mettersi subito al lavoro. 

«Che sta succedendo?» 

La domanda di Kunikida somigliò molto all’abbaiare di un cane, accentuata dalla sua figura stanca e lungi dall’essere impeccabile come al solito. Da quando Dazai era tornato tra le file della Port Mafia il suo carattere aveva raggiunto picchi di intrattabilità inimmaginabili, anche se dal suo sguardo si capiva che non avrebbe voluto essere così irascibile. 

«Avete scoperto qualcosa?» mitigò Fukuzawa, avvicinandosi al gruppetto e adocchiando, con un presentimento fastidioso, l’enorme murales Angels have fallen

Poe si portò l’indice alle labbra, segnalando di fare silenzio, mentre Atsushi indicò Ranpo. Gli occhiali sul naso catturavano gli sparsi bagliori che entravano dall’esterno, affilando il viso del detective intento a fare quello che gli riusciva meglio: mettere a nudo la verità. 

«Perché siamo qui?» insistette Kunikida. 

«Non ci ha ancora spiegato molto...» iniziò Atsushi piano, assorto nel seguire ogni movimento di Ranpo, come stesse apprendendo una nuova tecnica di indagine. 

«Pensa che qui si siano incontrati Odasaku e il Ladro di Chiavi» intervenne Ango asciutto, ma altrettanto attento, abituato a trovarsi in contesti del genere. 

«Non solo loro.»

L’affermazione li raggiunse dal fondo della stanza, dove Ranpo stava esaminando i fori di proiettile inflitti all’ampia vetrata che abbracciava per intero uno dei lati. Quando si tirò su, il suo riflesso restituì un ghigno da Ho trovato qualcosa di interessante

«Spiegati» incalzò Fukuzawa. Il suo presentimento stava acquisendo i connotati di una rivelazione fastidiosa che necessitava di conferme. 

Ranpo si voltò su se stesso, si prese del tempo per risistemarsi gli occhiali sul naso e poi allargò teatralmente le braccia. 

«Ora sono sicuro di sapere con quanti nemici abbiamo a che fare!» 

Alzò una mano e un primo dito, a cui ne seguì subito un secondo. Se ne aggiunsero in rapida successione un terzo e un quarto. In ultimo, il suo sogghigno si estese insieme al palmo ben spianato. 

Poe incrociò le braccia con stizza, per poi sciogliersi in un lamento di rassegnata frustrazione. 

«Ne avevo contati quattro.»

«Quindi c’è un quinto uomo!?» gli parlarono sopra sia Atsushi sia Minoura, mentre Ango accoglieva la notizia massaggiandosi le palpebre e sentendo il mal di testa incedere. 

Ranpo non regalò alcuna risposta. Si mosse tra i resti bruciati dell’ufficio con un sorriso da volpe, facendo attenzione a non calpestare nessuna prova rilevante. Piazzatosi davanti al gruppetto, come fosse stato di fronte alla vetrina di un negozio, li vagliò tutti prendendosi il mento con una mano. 

«Iniziamo dal più facile!» esordì con l’allegria maniacale con cui piegava la ragione altrui ai propri capricci. Afferrò Poe per una manica - non senza che questi iniziasse ad agitarsi - e lo trascinò in un punto preciso, oltre l’ingresso principale e davanti alle prime scrivanie. 

«Oh» capì il romanziere un attimo dopo. Tese un braccio di fronte a sé, raccogliendo mignolo e anulare per permettere alle altre dita di formare una pistola. Tuttavia, la sua espressione non fu soddisfatta nell’adocchiare la traiettoria. 

«Non ha sparato lui, giusto...?»

«Esatto! Il calibro non corrisponde a quello usato da Red Hood, ma ai proiettili del Ladro di Chiavi. Oda si è limitato a evitare i colpi grazie alla propria abilità.» 

Mentre lo spiegava, Ranpo afferrò un riluttante Atsushi per trascinarlo a sedere su una delle sedie da scrivania bruciate.   

«Dovrebbe reggere ancora!» esclamò giulivo di fronte alle preoccupazioni della Tigre Mannara. «E siamo a due.»

«Si tratta del Ladro di Chiavi?» avanzò Kunikida, così concentrato a fissare Atsushi da farlo sentire colpevole. 

Anche Ranpo si focalizzò sul ragazzo, aumentandone la soggezione, nonostante il suo sguardo andasse oltre la sua mera visione. Attraverso di lui pareva poter osservare chi realmente si fosse seduto lì. 

«No, non è lui» concluse sbrigativo, andando avanti per non guastarsi l’umore a sottolineare altre supposizioni. Si avvicinò alla scrivania adiacente e ne saggiò la consistenza con entrambe le mani, prima di saltarci sopra a sedere. 

«E tre!» 

Il suo sorriso soddisfatto per quella abbuffata di prove abbagliò la stanza. Gli astanti passarono lo sguardo da Poe, ad Atsushi a Ranpo. 

«I restanti complici…?» Ango tradusse a parole il dubbio serpeggiante. 

Ranpo indicò di fianco a sé due resti carbonizzati. Non fu chiaro a prima vista che si trattasse di computer portatili. 

«Dostoevskij e il Capo» esplicò il detective, per poi estrarre dalla mantella i fogli del caso che li aveva portati lì. 

«Stando al verbale, l’incendio è avvenuto tre notti fa.»

«Lo stesso giorno in cui è stata rubata la quarta chiave» rammentò a voce alta Ango. 

«Si sono riuniti dopo il colpo, quindi?» continuò sullo stesso filo Minoura, prendendo appunti, e Poe confermò annuendo. 

«E come avrebbero fatto a parlare con Dostoevskij? È rinchiuso in una prigione di massima sicurezza… giusto?» Atsushi diede corpo a una domanda spinosa con un’ingenuità titubante, che rese arduo ai più grandi ingoiare quel boccone amaro al sapore di fallimento.

«Precisamente. Una prigione di massima sicurezza in Europa» ci tenne a specificare Ango, con un astio nutrito dai dubbi sul sistema che continuavano a scavare sempre più a fondo nelle sue sicurezze. 

«È monitorato a ogni ora del giorno. Non gli sono permesse visite o interazioni con terzi. La prigione è automatizzata anche per i pasti… Non c’è modo che possa comunicare con l’esterno o partecipare a una riunione. Come può esserci riuscito?»

«Questo dovresti indagarlo tu, uomo del governo» sottolineò Ranpo impietoso. «Sei l’unico che può avere accesso alla situazione di Dostoevskij. Procurati i filmati dell’ultima settimana e ci darò un’occhiata.»

Ango scosse la testa a negare la possibilità, per poi sospirare e, infine, annuire. 

«Ranpo-san» Kunikida si fece avanti. «Fino a ora avevi contato quattro persone» e nel rammentarlo iniziò a elencarle, puntando il dito contro le rispettive controparti, a iniziare da Poe. 

«Oda, ossia Red Hood. Dostoevskij e il loro Capo.» 

Il dito indicò i due computer, per poi spostarsi a metà tra Atsushi e Ranpo. 

«Uno di voi è il Ladro di Chiavi, ma l’altro...» ancora una volta, lo sguardo si fece penetrante, posandosi sul povero Ragazzo Tigre. «Chi è?»

«L’Informatore!» esordì Minoura, battendosi il pugno contro il palmo. 

«Bravo detective!» si congratulò Ranpo, applaudendo. La serietà calò sul suo viso come un sipario l’istante successivo.

«Del Ladro di Chiavi sappiamo che uccide le vittime con più divertimento del necessario e gli piace rendere gli omicidi spettacolari» riassunse, per poi indicarsi. 

«Sono io. Da questo posto poteva dominare la scena e» roteò gli occhi con disappunto personale, «credo che sia il terzo in comando, dopo Dostoevskij. O abbia molta libertà di azione e scelta. Nonostante le prove cancellate, sporca un po’ troppo e non ci sono state variazioni dal primo caso all’ultimo di tre notti fa. Riguardo a Red Hood, lui continua a essere sia il diversivo sia l’ariete, ma in sostanza è solo un soldato. Non gli manca molto a colpire la Port Mafia al cuore e lo farà da solo.»

Più che un sunto della situazione, suonò come una sentenza. Nessuno ebbe nulla da commentare, così Ranpo continuò, spostando l’attenzione su Atsushi.  

«L’Informatore agisce nell’ombra, senza esporsi. C’era qualcosa che non mi tornava nel primo caso della gioielleria e che l’ultimo nella ferramenta mi ha confermato: la presenza di un’altra persona. L’Informatore si muove insieme al Ladro di Chiavi» sancì, per poi tornare a fissare gli altri. «Venire qui mi ha chiarito che Capo e Informatore sono due persone distinte» nel dirlo, passò a osservare uno dei pc bruciati. «E il Capo non si è ancora messo in gioco. Non sul campo, al momento.»

«Se accreditiamo come possibile che l’Informatore abbia un’abilità legata alla mente, poteri di questo genere finiscono stigmatizzati anche tra gli utilizzatori stessi» fece presente Poe, rivolgendosi a sua volta ad Atsushi, che incassò la testa tra le spalle come se il soggetto del discorso fosse stato lui. 

«Ranpo» lo richiamò il Presidente, solenne sia nella voce sia nei pochi passi che lo portarono a superare l’americano e a guardare direttamente in viso il suo protégé. La sua occhiata fu penetrante.

«Sei sicuro di queste deduzioni?»

Il detective numero uno dell’Agenzia incrociò le braccia stizzito, gonfiando le guance. 

«Sto avendo difficoltà come durante il caso del Divorarsi a vicenda, che è ancora oscuro su certi punti perché non ho risolto il mistero di chi sia il Distruttore di Prove...» borbottò annoiato, ma nel mentre una linea più sicura, quasi di sfida, gli stirò le labbra. 

«Quindi sì, sono certo di quel che ho dedotto!» esclamò balzando giù dalla scrivania e guardando dal basso verso l’alto il Presidente. I suoi occhi verdi furono limpidi e duri come diamanti.

«Devo esserne certo. Yosano-san conta sul fatto che io la trovi.»

Fukuzawa assentì con un sorriso impercettibile. 

«In più!» riattaccò Ranpo con un rinnovato entusiasmo, superando il Presidente e rivolgendosi a tutti gli altri, ma principalmente a Poe. «Ho capito anche l’abilità del Ladro di Chiavi! O, almeno, quello che è in grado di fare.»

Il suo sogghignò tornò con una risatina dai risvolti quasi maniacali. Si posizionò in un punto specifico, afferrò i lembi della propria mantella e li aprì all’improvviso, in un gesto che ricordò ad Atsushi e Kunikida lo stesso eseguito da Tanizaki nell’imitazione del suo eroe dei fumetti. 

Dinanzi alle espressioni disorientate dei presenti, Ranpo non fece nulla per rendere più comprensibile i suoi gesti. Agitò la propria mantellina e fece solo raggiungere ai colleghi la conclusione che fosse impazzito del tutto. 

Il primo ad arrivarci fu Poe, strozzandosi con il proprio verso sorpreso. Iniziò a ragionarci su un attimo dopo, prendendosi il mento tra le dita e inclinando la testa. 

«Possibile che…! È così che entra ed esce dove vuole!?»

«Esatto!»

«Allora quegli oggetti bruciati sul pavimento...»

«Mh mh!»

«È un’abilità di alto livello! Che portata avrà? Metri? Chilometri?»

«Ranpo, sii chiaro» lo riprese Fukuzawa con una lieve vena spazientita che parlava anche per quanti erano confusi da quello scambio. 

«Il Ladro di Chiavi ha un’abilità che gli permette di manipolare lo spazio e renderlo accessibile, in entrata e in uscita, come un portale» spiegò il detective, risistemandosi gli occhiali. 

«È così che riesce a simulare gli omicidi a porte chiuse, come quelli della gioielleria e della ferramenta, e a far apparire paccottiglie di oggetti» completò Poe, indicando l’accumulo di roba bruciata per terra, fuori luogo per l’ufficio in cui si trovavano. Poi si fece serio, lasciando intravedere uno dei propri occhi per rimarcare la gravità della minaccia.

«Non è da affrontare senza un piano. Potrebbe essere in grado di dislocare solo una parte di una persona… con conseguenze irreversibili.»

«Però questo… questo è veramente utile.»

Per la prima volta da giorni, Ango riuscì ad avere un tono positivo, per quanto la sua fronte fosse contratta dal correre dei pensieri. Si sfilò di tasca il cellulare e iniziò a digitare un messaggio. 

«Cercherò di capire chi può essere questo utilizzatore, iniziando dai residenti in Giappone con abilità e chiedendo qualche favore all’estero, se necessario.» 

«Così mi piaci, uomo del governo!» approvò Ranpo, alzando il pollice. 

Anche Fukuzawa apparve soddisfatto, tanto da appoggiare una mano sulla spalla del suo protetto ed esprimere un Ben fatto che lo fece esultare come un bambino, ridendo fragorosamente e ribadendo di essere il numero uno. 

«Ci resta da capire il livello di pericolosità dell’Informatore e del Capo...» riprese Minoura, sfogliando il proprio taccuino degli appunti. «Perché siamo sicuri che l’Informatore e il Distruttore di prove non siano la stessa persona, giusto?»

L’allegria di Ranpo si dissipò di nuovo, guardando gli altri negli occhi. 

«Sono due pedine molto preziose in questo gioco. Due cavalli di razza che, se finissero azzoppati, sarebbe meglio eliminare per non farli finire in mani nemiche.»

L’atmosfera si fece pesante. Più di uno sguardo si indirizzò al murales, ricordando con chi avessero a che fare. 

«Ma tra i due» riprese Ranpo, «il più utile in campo è chi può trovare le informazioni, e non distruggerle. È così che stanno rintracciando i possessori delle chiavi. È un tipo di potere di cui non hanno avuto bisogno prima. E tutto quello che sta succedendo,» nel dirlo allargò le braccia, «non è un semplice piano b, ma la diretta conseguenza del Divorarsi a vicenda

«Non vi siete auto-distrutti contro la Port Mafia, quindi ora ci penseranno loro a fagocitarvi» romanzò Poe, ricevendo un assenso da Ranpo.

«Certo, se ci fossimo divorati secondo l’intenzione iniziale di Dostoevskij, questo piano non si sarebbe concretizzato con l’uso di Red Hood… ma era già tutto previsto ugualmente. Quello che doveva essere un cannibalismo è stato la prova generale, questa è la prima. Ed è tutto pianificato da almeno quattro anni.»

L’implicazione di quella affermazione colpì a fondo, soprattutto Ango. Per l’ennesima volta, si trovò costretto a rammentare di come le ombre al tempo della Mimic fossero state più profonde e osservatrici di quanto avesse potuto immaginare. Di come, ancora una volta, ci fosse qualcosa di così sbagliato nei loro ricordi. 

«Che cosa facciamo ora?» chiese piano Atsushi, rimettendosi in piedi e abbandonando il ruolo dell’Informatore. Guardò la sedia distrutta dal fuoco con sentimenti contrastanti, rivolti a qualcuno che non conosceva, un nemico, ma che non invidiava per essere una pedina di Dostoevskij. Ripensò anche a Dazai e per un momento ebbe l’impulso di prendere il cellulare e telefonargli. La mano si chiuse a pugno, impotente. 

«Non fare domande stupide, kozou. Continuiamo a indagare.»

La risposta secca di Kunikida mise un punto ai dubbi che stavano vagando per la stanza. La sua voce conservava ancora tutta la stanchezza e la demotivazione che da giorni si erano appese al suo essere, ma c’era una rinnovata fermezza a contrastarle. 

«Grazie a Ranpo-san ora siamo più consapevoli di chi dobbiamo trovare e affrontare. È un passo avanti.» 

Si riaggiustò gli occhiali, spingendoli sul naso con un dito. 

«Il nemico potrà considerare l’Agenzia in panchina, ma questo non deve fermarci. Porterò subito i computer a Katai. Se c’è un minimo indizio dobbiamo sfruttarlo per tornare in partita.» 

«E io che mi lamentavo di quanto fosse stressante fare il detective della polizia» sospirò Minoura, ma con un sorriso incoraggiante. «Le vostre gatte da pelare hanno degli artigli davvero affilati.» 

Kunikida fece per ribattere piccato, ma Ranpo rise così forte da farlo desistere. 

«Continua a impegnarti, Minoura-kun! Metterò una buona parola quando deciderai di farmi da assistente in Agenzia!»  

«Neanche se mi raddoppiaste lo stipendio» ribatté l’altro, scuotendo la testa. «Ci tengo alla pelle e non ho più vent’anni. Non potrei affrontare giornalmente qualcuno che può far sparire cose o persone, o manipolare la mente… Sul serio, avete la mia stima.» 

Toccarono di nuovo un argomento spinoso, ma nessuno dei presenti se la prese, nonostante il rimarcare la diversità che serpeggiava tra l’unica persona senza abilità in quella stanza e ognuno dei restanti. Ranpo era un’eccezione che faceva da collante tra le due realtà, con le sue capacità in grado di superare l’umana normalità e stare anche una spanna sopra ad alcuni poteri. 

«Riflettevo su una cosa» intervenne Poe pensieroso, un dito sul mento e il capo rivolto verso l’alto, dove Karl lo guardava interrogativo, aggrappato ai suoi capelli. 

«Se sono cinque membri operativi, allora quella V potrebbe assumere un altro significato…?»

«Cinque in numeri romani» convenne Ranpo, togliendosi gli occhiali e riponendoli con cura nella propria mantella. 

«Ciò significa che anche dopo più di dieci anni, gli scopi dell’organizzazione V sono rimasti invariati?» continuò a ragionare a voce alta l’americano. 

«Un’organizzazione che agisce per avere giustizia. Una giustizia personale. Utilizzatori di abilità il cui scopo è liberarsi di altri utilizzatori di abilità...» mormorò Fukuzawa, aggrottando la fronte all’affiorare di un ricordo invecchiato di tredici anni. 

«Vogliono creare un nuovo mondo, senza peccati… senza individui dotati di potere» finì Atsushi, rammentando le parole che Dostoevskij aveva detto a Dazai. 

Ancora una volta, lo smile disegnato alla fine della scritta Angels have fallen pianse e rise di loro. 



 

* * *



 

Era la sera del giorno delle scartoffie e i tentativi di Chuuya di annegare i pensieri si erano arrestati nel contemplare il calice di vino colmo e intonso che aveva davanti. 

Intorno a lui c’era una discreta confusione, fatta di agenti della mafia di vari ranghi, ridotti a semplici uomini e donne da qualche bicchiere di troppo. Anche se infastidito, il Dirigente non si sentì di zittirli con qualche breve emanazione di gravità. Quello non era il Nine. Non era il suo Wine Bar preferito, con un posto riservato da più di un anno e una bottiglia ad aspettarlo ogni Martedì sera, e che Red Hood aveva distrutto più di una settimana prima.

Un sospiro infastidito gli rotolò fuori senza freni, risultato di tutte quelle cose su cui aveva perso il controllo. I cerchi continuavano a stringersi, i loro posti sicuri non lo erano più, Dazai era tornato e doveva sentire il suo nome rimbalzare costantemente in ogni stanza della Port Mafia in cui metteva piede. O peggio, doveva ritrovarselo davanti e resistere all’impulso di qualsiasi azione. Urlargli, appiccicarlo al muro, ignorarlo, tirargli un calcio, sfogarsi. 

Perché non puoi tornare dopo quattro anni e fare come ti pare!

Ormai suonava ripetitivo alle proprie orecchie. Inutile e ripetitivo. Dazai avrebbe continuato a seguire i propri capricci fino all’ultimo istante di respiro, mentre lui sarebbe rimasto ad afferrare motivi al buio. 

Come cercare di capire perché Dazai prima lo avesse minacciato di lasciarlo morire corroso dalla Corruzione, se avesse torto un capello a Odasaku, per poi permettergli di scatenare l’Arahabaki contro lo stesso amico

Il sibilo della sofferenza per quei colpi di pistola ancora riverberava nel suo cranio. Scatenare la bestia era equivalso a scacciare il dolore con altro dolore, ma uno più conosciuto e gestibile. C’era quasi rimasto secco - e svegliarsi con accanto Verlaine non era stato piacevole - per poi ricevere la notizia che il peggio era solo iniziato. 

Chuuya si sentì pervadere da un nuovo livello di incazzatura. Una che non provava da tempo. Esatta a quella di quattro anni prima. Anche allora non c’era stato nessun convenevole. Dazai non aveva idea di cosa fosse la decenza, probabilmente la reputava un paradigma utilizzabile solo da quelli che camminavano in file ordinate nelle proprie vite. 

Dazai doveva entrare a passo teso, o fingere di guardarsi in giro con noncuranza quando le sue trappole erano già piazzate. E Chuuya ci cadeva. Ci cadeva sempre. 

Eppure, non era solo incazzato. Era anche deluso, consapevole però che la delusione fosse l’alibi meschino di qualcosa che preferiva fare la tana negli angoli bui delle mezze verità, delle frasi tronche e dei perché soffocati in culla. 

Un nuovo, ribelle sospiro si prese la libertà di esprimersi fuori dalle sue labbra e il vino rimase un’altra volta intoccato. Intoccato e specchio di una realtà a cui Chuuya reagì d’istinto, facendo attraversare il locale al proprio pugnale, in un lancio che vibrò conficcandosi nel legno dell’ingresso. 

La sala ammutolì al gesto. Se il silenzio si fosse potuto azzittire, probabilmente si sarebbe sentito del gelo pervadere l’ambiente. Gli occhi passarono dal Dirigente incapace di bere un calice di vino e mettere a tacere la mente, al Dirigente che ignorava gli avvertimenti ed entrava nel territorio del leone. 

«Ehilà, Chuuya» salutò Dazai, levando la mano libera e non impicciata dalla busta di carta pregiata che si teneva contro il petto. Usò la stessa per afferrare il manico del pugnale ed estrarlo con una certa fatica. Una volta al bancone, lo offrì al partner in un gesto così normale che convinse gli altri avventori a tornare cautamente agli affari loro. 

«Non è serata» sibilò Chuuya tra i denti, reinfilandosi il pugnale nella giacca e recuperando sbrigativamente anche cellulare e sigarette, pronto ad andarsene. Rammentava di aver avvertito Dazai di stargli alla larga, ma si sentiva stanco anche di ribadire un confine che continuava a tracciare nella sabbia. 

Sordo come solo chi non ascolta può essere, Dazai gli si parò davanti, bloccandogli la ritirata. Sollevò con allegria la busta che aveva con sé. 

«Per dimenticare la giornata delle scartoffie» disse affabile, per poi fare una smorfia. «Non mi era mancata per nulla.»

L’incarto elegante, nero e oro, ebbe il merito di attirare l’attenzione di Chuuya per più di un istante, prima che i suoi occhi incrociassero quelli innocenti del - non voleva tronare a considerarlo tale - partner. 

«Tu vuoi davvero un pugno sul naso?»

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. Sempre più innocente

«No, per niente. Chi vorrebbe un pugno sul naso?» celiò, ma ammorbidì tono ed espressione. «Abbiamo ricominciato col piede sbagliato, però siamo di nuovo sulla stessa barca. Ti ho portato un segno di pace.»

Chuuya frugò il viso dell’ex detective in cerca di quella virgola fuori posto che avrebbe reso visibile la maschera e l’inganno. 

«Che vuoi, Dazai? Sputa il rospo e finiamola qui. Non so cosa speri di ottenere, ma ci trascinerai tutti a fondo, se non peggio. Quindi, se non ti levi di torno tu, me ne andrò io.» 

Non scappò lontano. Non con le dita di Dazai strette intorno al braccio a bloccare fisicamente la sua fuga. 

Chuuya si irrigidì lanciandogli un’occhiataccia, ma non servì a far demordere il Demone Prodigio. La malizia che Chuuya pensava di incontrare nello sguardo del partner era assente. 

«Scusa» mormorò l’ex detective con una sincerità così genuina da sbaragliare momentaneamente la fronte aggrottata dell’altro. 

«Non volevo metterti nella scomoda posizione tra me e Mori-san. È stata una discussione troppo sfibrante per prospettare un seguito. E anzi...»

Dazai lo lasciò andare, perché il gesto di trattenere qualcuno non poteva coabitare con delle parole altrettanto intime. 

«Grazie di avermi fermato e portato via.»

Chuuya soffocò l’impulso di afferrargli il volto e guardarlo dritto negli occhi per assicurarsi che fosse realmente Dazai. 

«Hai battuto la testa?» 

La sua lingua non ebbe lo stesso tempismo. 

«Ah, sì, in verità. Stamattina mi è caduta la penna sotto la scrivania più volte e l’altezza è diversa da quella che avevo in Agenzia, così continuavo a calcolare male le distanze e sbam...» raccontò allegramente l’ex detective, gesticolando con la mano libera per dare enfasi e dettagli. 

Chuuya non lo stava davvero ascoltando. Lanciò un’occhiata all’ingresso del locale, alla via d’uscita. 

È la decisione giusta

Ma Chuuya era abituato a cadere in quelle trappole a occhi chiusi. 

«Che vino è?» chiese, uccidendo anche l’ultimo barlume di ragionevolezza. 

«Una versione di Pinot Nero, se ho capito bene. Si chiama Les Amoureuses

Convincersi che fosse solo la gola a condurre la serata fu la giustificazione che si diede quando seguì Dazai in uno dei privè del locale. 



 

Il primo bicchiere di vino scivolò via con una facilità che infastidì Chuuya. Il sapore era buono, ottimo, ma la poltiglia amarognola di sentimenti che stava tentando di diluire lo insaporì con un retrogusto di aspettative. 

Si erano seduti uno di fronte all’altro; Dazai aveva ordinato del whiskey e non aveva accennato a niente e Chuuya non aveva intenzione di dare il la. Prese a studiare l’etichetta del vino, elegante e fedele nel promettere un’esperienza che valeva il costo. Come ogni vino che il suo partner gli aveva offerto in armistizio. 

Chuuya non ricordava situazioni in passato in cui si erano intrattenuti insieme volontariamente. Nessuna uscita programmata, ma solo segmenti di tempo in cui erano stati costretti a stare confinati nello stesso spazio, ad aspettare di intervenire in qualche missione, o troppo stanchi e malandati dopo una retata. Aggrottò la fronte, fingendo soltanto di interessarsi alle scritte in francese, ma continuando a scavare nei propri ricordi. 

Si era convinto di aver già realizzato il passare di quei quattro anni quando aveva trovato Dazai ammanettato nei sotterranei della Port Mafia, con quei vestiti nuovi così chiari, ma sempre la stessa faccia da schiaffi. La verità si infilava in quel momento, lì, seduti al tavolo, con alle spalle diversi giorni di Sì, sono tornato, e di nuovo gli abiti scuri addosso e un viso che aveva affilato i lineamenti da adolescente. Chuuya quantizzò tutte quelle sensazioni, come un dito premuto con insistenza nel fianco.

«Cos’è successo con Mori-san?» chiese, appoggiando il vino dopo essersi versato un altro bicchiere. 

Per quanto si ripetesse di non voler sapere, la realtà era ben lungi dal coincidere con la sua fuga emozionale. Se un tempo, troppo tardi, capiva Dazai tra le righe, non conservava più quel lusso. Non erano più solo loro e la Port Mafia. Le lancette avevano assunto la forma di una lama che avrebbe finito col tagliare loro la testa. Prima avesse afferrato cosa si agitava dentro il suo partner, prima avrebbe potuto arginare la minaccia. 

Ripensò alla scommessa tra lui e il Ragazzo Tigre. Ciò che aveva messo in palio non sarebbe stata una vittoria.     

«È Chuuya che me lo chiede o uno dei Dirigenti della Port Mafia?» rilanciò Dazai, sorbendo un sorso del proprio drink. 

Lo sguardo esasperato di Chuuya bastò a farlo rigare dritto. Aveva ridotto la sua pazienza ai minimi storici. 

«Alcune divergenze di operato riguardo alla questione della Mimic» spiegò laconico. «Quattro anni fa non ho avuto il tempo di appuntare le mie rimostranze prima di andarmene.»

«Non hai avuto il tempo per un cazzo» si lasciò scappare Chuuya. 

Detestava avere quell’argomento ancora incastrato tra petto e gola a scottarlo, ma se negli ultimi giorni aveva capito qualcosa, era l’essere stufo di fingere che tutto appartenesse al passato.

Mandò giù un’altra sorsata di vino più generosa che elegante, quasi felice di sentire l’ebbrezza iniziare a muovere i primi passi sottopelle. 

«Prendi e scarichi la gente come ti pare. Lo hai fatto anche ora con i tuoi nuovi compagni, no? Con quel ragazzino che pende dalle tue labbra. Stessa storia di Akutagawa, quindi niente di nuovo. Non ti fai un po’ schifo a volte, Dazai? Fingi almeno di averla una coscienza per queste cose.»

L’imitazione di un sorriso divertito affiorò sulle labbra dell’ex detective. Il resto della sua faccia preferì la penombra data dalle luci soffuse del locale. C’erano dei fantasmi a muoversi nel suo sguardo e a renderlo cupo. Scelse di bere anche lui. 

«Quanto ti piace dirmi queste cose?»

«Non mi piace per un cazzo e non sviare l’argomento!» ringhiò Chuuya, appoggiando con troppa violenza il calice sul tavolo, per poi piegarsi in avanti verso l’altro. 

«Prima pretendi… vuoi parlare con me, mi offri del vino, un segno di pace, e poi basta? Io e te non ci siamo mai fatti compagnia. Cosa vuoi? Vuoi discutere di qualcosa? Va bene, spara l’argomento, ma che cazzo, smettila di girare intorno alle cose!» 

Fece centro. E se ne pentì un istante dopo. A Dazai bastò pronunciare un nome per invadergli la bocca di un sapore sgradevole. 

«Odasaku.»

Chuuya tornò nei ranghi, risistemandosi contro il divano. Non riuscì a impedirsi di guardare altrove e incrociare le braccia. Non si tirò indietro solo perché non era nel suo stile. Aveva messo lui la ghigliottina al centro del tavolo per tagliare la testa a quell’argomento che aleggiava su di loro da un tempo umanamente troppo lungo da sopportare.

«Quindi vuoi parlare di Oda.»   

«Tu non vuoi parlarne?»

Gli occhi di Chuuya compirono trecentosessanta gradi di frustrazione per quel rispondere alle domande con altre domande. 

«Se mi devi raccontare di come ti scopava, no.»

Si frugò in tasca e recuperò le sigarette, accendendone una per dare qualcosa in pasto ai nervi. La famigliare sensazione di essere già finito incastrato in una discussione del genere lo pervase insieme all’odore acre del tabacco. Ricordò fosse successo dopo una missione all’estero e le cose erano andate esattamente allo stesso modo. Vino per rabbonirlo, chiacchiere sul fantomatico amico, escalation. 

«Secondo te come avrei dovuto reagire nel sapere che fosse vivo?» chiese Dazai, giocherellando con il ghiaccio nel proprio bicchiere, in viso una curiosità distante, a fingere che nulla implicasse davvero il significato della domanda. 

«Mi è stato fatto notare come io abbia continuato a far visita a una tomba vuota. Mi hanno proprio fregato.»

Chuuya ebbe bisogno di ingollare l’intero contenuto del calice e riempirsene un altro subito dopo. Sbuffò dalle narici. 

«’Sti cazzi» mormorò con enfasi, incredulo di se stesso, ma lasciando parlare il brio del vino. Dazai lo fissò stupito e il partner soffiò una nuvola di fumo di lato, puntandogli addosso la stessa mano con cui reggeva la sigaretta. 

«Che diavolo ne potevi sapere che fosse una tomba vuota!? Io odio il tuo riuscire a prevedere e architettare ogni follia in cui ci butti, ma ‘sta situazione di merda… è diverso.» 

Riprese fiato, ciccando nel posacenere, e calmandosi un poco. 

«Se tu avessi saputo che il tuo amico era ancora vivo non saremo qui. Non ho idea di dove saresti tu, ma so che avresti tirato giù le montagne per riprendertelo ed evitare che lo trasformassero in questa specie di super soldato senza memoria.»

«Un bel problema...» convenne Dazai, sorseggiando il whiskey come se dovesse tenersi occupato. 

«Sì, ma sappi che almeno le gambe gliele romperò per quello che mi ha fatto» ruggì Chuuya, schioccando le dita a un cameriere di passaggio per farsi portare dell’altro vino. Una bottiglia da più di trecento euro era bastata solo ad accendergli il sangue. Dal nulla, un pensiero lo raggiunse. 

«Hai detto che ti ha sparato.»

Gli occhi di Dazai preferirono vagare sul resto della sala del privè. 

«Anche io sono il nemico.»

Chuuya congedò con un gesto frettoloso l’uomo in livrea, facendosi lasciare l’apribottiglie. 

«Quindi non ricorda proprio un cazzo… come possono aver fatto a incasinargli così la memoria?»

«Una delle cento domande che troverà risposta solo e se Odasaku riavrà i suoi ricordi» fu la risposta asciutta di Dazai, tornato al suo drink e buttando giù un generoso sorso per bruciarsi la gola. 

«Sto pensando a quale delle nostre passate strategie potremmo usare contro la sua abilità, ma mi sto convincendo che sarà necessario inventarsi qualcosa di nuovo.»

La mano di Chuuya si alzò a mezz’aria di piatto, per poi colpire il tavolo con irruenza e far vibrare tutto. Un sorriso un po’ brillo e un po’ diabolico accompagnò lo sguardo intenso con cui inchiodò il proprio partner. 

«L’idea del palazzo non era male e ha funzionato. Scommetto che l’avevi pensata anche prima del Quattrocchi.»

L’ex detective svicolò dall’occhiata e dal raccogliere la provocazione, rilanciando. 

«A proposito, non abbiamo più parlato di come conosci Ango.»

Dazai era abituato a giocare partite di scacchi mentali continuamente, ma con Chuuya era diverso. Il loro gioco era la Dama. Poche regole, mosse veloci, dritte al punto. Il suo partner si lamentava del suo essere sfuggevole, ma Dazai si trovava troppo spesso circondato dalle sue pedine e non aveva alcuna intenzione di lasciargli vincere la partita. 

Chuuya replicò agitando una mano in modo scoordinato e scuotendo la testa. 

«Roba di anni fa, gli dovevo un maledetto favore. Ho ripagato il mio debito venendo a salvare te e lanciando un palazzo nella bocca di quel drago metafisico del cazzo. Ma il Quattrocchi continua a tenermi in rubrica come se fossi al suo servizio. Me ne occuperò dopo questo casino.»

Dazai ridacchiò sinceramente divertito. 

«Perché io non conosco questi retroscena? Siete un’accoppiata buffa da immaginare.»

«Ti affogo nel bicchiere» minacciò l’altro. «Non c’è bisogno che vieni sempre a sapere tutto.»

«Oh, oh! Chuuya ha dei segreti? Non posso vivere senza conoscerli!»

«E allora torna ai tuoi tentativi di suicidio.»

Era stato un battibecco come un altro, uno dei mille che erano intercorsi in passato, e come già avvenuto in altre circostanze, terminò con Dazai a stirare le labbra in una linea sottile ma ampia, sinonimo di sventura. Di trappola. 

«Scommetto la prossima bottiglia di vino che indovino almeno tre cose su di te che non mi hai mai detto apertamente.»

La linea divenne un ghigno degno del suo se stesso sedicenne e Chuuya ebbe un fremito. Un fremito che ignorò.

«Voglio un Romanée-Conti» accettò, prima che il buon senso potesse dialogare con l’ebbrezza dell’alcool in circolo e impedire sul nascere quella débâcle.  

«Prevedibile» commentò Dazai ridendo, vagamente accaldato sulle guance. Era stato come lanciare un osso a un cane e vedere l’impulso irrefrenabile agire e farlo correre. 

«Prima cosa» e si schiarì la voce, assottigliando poi lo sguardo nella palese caricatura di qualcuno che studia un esemplare raro. 

«Ti piace leggere poesie. Se frugo bene in camera tua sono sicuro che ne troverò anche qualcuna scritta da te.»

Per effetto del vino, la capacità di Chuuya di controllare i propri muscoli facciali era rallentata, e questo gli impedì di mascherare per bene il colpito e affondato. Il rossore ubriaco contribuì a nascondere almeno l’imbarazzo. 

«Tch, lo so che ti sei introdotto nel mio appartamento senza chiedermelo.»

Dazai si strinse nelle spalle.

«Ho sempre saputo che di base sei un’anima romantica. Ti piacciono anche i romanzi sentimentali e gli young adult pieni di pathos?»

«Va’ al diavolo!»

«Lo prendo per un sì!» e prima che Chuuya potesse rompergli la bottiglia del vino in testa, Dazai alzò un secondo dito. 

«Ti fa schifo il viola.»

Il Dirigente sbuffò. 

«Be’, questo non è un mistero.»

«… ma perché non si abbia ai tuoi capelli.» 

Chuuya annuì di malavoglia con una faccia scocciatissima e annegò una bestemmia nel calice. 

«Ehi, se indovino ti devo comprare il vino, dovresti essere contento.»

«Spara la terza e facciamola finita.»

Dazai mandò giù alla goccia ciò che rimaneva del suo whiskey e si passò il pollice sulle labbra per togliere i residui. Poi alzò il terzo dito. Il suo sorrisetto era in parte schermato dalla mano, ma si intravedeva ancora. 

«Questa è una mera constatazione» iniziò e Chuuya avvertì una fitta allo stomaco per la sensazione familiare di qualcosa di aspro e spigoloso in arrivo. 

«Entrare nella Port Mafia, anche se circuito, è la cosa migliore che ti sia mai capitata nella vita. Hai trovato il tuo posto. Hai trovato una famiglia. Ami la posizione che ricopri e ti preoccupi dei tuoi sottoposti, arrivando a vendicarli, anche se sembra non ti stiano simpatici. Il motivo per cui non temi di sporcarti le mani non è perché sei un mafioso, ma perché non vuoi perdere ciò che hai. E...» 

Dazai fece vibrare una risata di gola, roca, intima. 

«È anche il motivo per cui non ti sei arreso con me. Il tuo atteggiamento nei miei confronti non è mai cambiato di fondo. Mi hai portato via dall’ufficio di Mori-san senza concedergli il tempo di darti ordini, perché se ti avesse detto di uccidermi non lo avresti fatto. Mi consideri parte del tuo mondo.» 

I bicchieri si rovesciarono e uno cadde in terra spaccandosi, quando Chuuya salì con un ginocchio sul tavolo e la sua mano volò ad afferrare Dazai per la cravatta, costringendolo in avanti. La rabbia lampeggiò nel suo sguardo, bruciando di un’autocombustione che lasciava il dubbio se fosse rivolta contro il partner o verso se stesso. 

L’atmosfera fu asciugata da qualsiasi umorismo o emozione. Restò la tensione di camminare su un filo così sottile da dare per scontato che nessuno sarebbe sopravvissuto. 

Dazai non era più divertito, ma neanche serio. I suoi lineamenti erano calmi, distesi, quasi in attesa del verdetto. Quello che aveva da dire lo lasciò allo sguardo, ma senza malizia. Come aveva cominciato, finì allo stesso modo, con una constatazione: sappiamo entrambi che è così

Chuuya non sciolse la presa su Dazai, anche quando uno dei camerieri si affacciò attirato dal rumore. Capita l’aria che tirava, il ragazzo tentò di fare dietro-fronte. 

«Fermo» intimò Nakahara, ringhiando e facendo trasalire il poveretto. 

«Manda qualcuno a trovare un Romanée-Conti e mettilo sul conto di questo Sgombro del cazzo. E poi porta un altro giro a entrambi. Le bottiglie» specificò, senza mai sottrarre gli occhi da quelli del partner, anche dopo che il cameriere si defilò. 

«Gli hai fatto paura, Chuuya. Ti sognerà urlargli che è licenziato e che la mafia lo perseguiterà.»

Il tentativo di sdrammatizzare andò a vuoto. 

«Mi lasci andare?» 

In risposta, Chuuya lo strattonò di più, costringendolo a inarcare la schiena con dolore, mentre con l’altra mano lo afferrava per la nuca, facendo presa nei capelli. Dazai si ritrovò a piegare con fastidio la testa da un lato, ma non si lamentò, come non sbatté le palpebre. L’Arahabaki era un mostro, ma il suo vessillo non era mai stato da sottovalutare. 

«Mi fai male» sussurrò Dazai, senza sprecare lagne, ma appurando solo la sgradevole sensazione. 

«Non hai neanche la minima idea di quanto vorrei fartene» e non posso, disse e pensò tra sé Chuuya. «Dovevo ammazzarti a quindici anni.»

«Hai perso l’occasione» celiò Dazai con un sorrisetto strafottente, ma onesto. «Ci saremmo risparmiati un sacco di problemi entrambi.»

Chuuya lo lasciò andare, ributtandosi contro lo schienale del divano a braccia incrociare. Non parlò più per tutto il tempo in cui i camerieri tornarono per portare le nuove ordinazioni e pulire i cocci di vetro. 

Dazai si risistemò la camicia bianca sgualcita e allentò il nodo della cravatta, massaggiandosi la gola. Dall’altro lato del tavolo, Chuuya si liberò della giacchetta a mezzo busto e slacciò il gilet, sentendo una costrizione al petto che sapeva non avere nulla a che fare con i vestiti. 

Di nuovo soli, Chuuya si attaccò alla bottiglia del vino, ignorando il calice. Dazai non gli risparmiò un angolo di bocca sollevato a sottolineare che la sua mossa gli avesse concesso di promuovere una delle sue pedine a Dama. Non che Chuuya avesse idea di come Dazai si figurasse parte del loro rapporto come una partita. 

Per tutta risposta, il rosso alzò invece un dito medio. 

«Bevi, stronzo» gli intimò, riprendendo fiato da una sorsata così lunga che un terzo del contenuto era sparito. 

«Non voglio sentire un fiato da te finché non ti reggerai più in piedi.» 

Dazai gli accordò la richiesta in un cin cin solitario, riprendendo a sorseggiare il whiskey. 



 

«… tu hai una memoria di merda. Eravamo a Budapest e siamo stati inseguiti da quel tizio sanguisuga.»

Un tempo indefinito più tardi, i due erano scivolati sotto al tavolo insieme alle bottiglie. Chuuya stava fumando l’ennesima sigaretta, seduto a gambe incrociate e sfiorando appena l’altezza del tavolo. Al contrario, Dazai era mezzo sdraiato, appoggiato al bordo del divano in equilibrio precario, retto più dall’attrito dei vestiti, con ancora il bicchiere in mano e un dito di whiskey che ballava a ogni scroscio di risatine insensate. 

«Vampiro» lo corresse l’ex detective. «Ti ha morso un polpaccio e sei andato in paranoia blaterando ti avesse infettato. È successo a Bucarest.»

La vacuità dello sguardo con cui Chuuya replicò fu sinonimo della sua poca convinzione. 

«Tu non sei abbastanza ubriaco» e nel dirlo, afferrò la bottiglia di whiskey quasi finita e rovesciò tutto ciò che rimaneva nel bicchiere di Dazai, centrandolo per miracolo. 

«È la prima volta che beviamo così insieme, che ne sai che io da brillo non sia...» 

Dazai indicò tutto se stesso con un sorrisetto brillante, neanche avesse dovuto vendersi. 

«Se manco l’alcool ti spegne il cervello, non hai speranze» commentò Chuuya, sbuffando una voluta di fumo. 

Con un altro sorso, Dazai abbandonò le forze con cui si reggeva malamente al divano e scivolò di lato, finendo contro la spalla di Chuuya. Chiuse gli occhi. Non era un’altra posizione comoda, ma nessuno dei due se ne lamentò. 

«C’è una cosa che riesce a non farmi pensare.»

«Te ne compro mille» borbottò Chuuya, agitando la propria bottiglia di vino per stimare quanto ancora ce ne fosse. 

Dazai cedette all’impulso di ridere per la battuta, ma si zittì un istante dopo. 

«… Odasaku.»

«E ti pareva...»

Chuuya roteò gli occhi e scelse di riattaccarsi alla bottiglia, finendo le ultime gocce. 

«Non dirmelo» brontolò con una smorfia. «Riusciva a scoparti fino a spegnerti il cervello.»

Non fu una domanda, ma Dazai scosse la testa, ma infine annuì, fissando il bicchiere come se avesse potuto guardare in un pozzo oscuro e vederci quello che era stato un tempo. 

«Anche. Ma...» 

Il sapore del whiskey di quella sera era diverso da quello servito al Lupin. Gli sembrò una brutta copia, ma stava funzionando come veicolo per i ricordi. 

«Bastava lui.»

«Ok» convenne Chuuya diplomaticamente. «Sono io a non essere abbastanza ubriaco.»

Mise da parte il vino e fregò a Dazai il suo bicchiere, prendendo un sorso che però gli andò di traverso per il sapore disgustoso. Tossì e glielo ricacciò in mano. 

«Che schifo. E comunque… sai quanto picchia forte il tuo amico, porca puttana!?»

Dazai fece spallucce, passando l’indice sul bordo del bicchiere per poi leccarselo. 

«Presumo che negli ultimi quattro anni lo abbiano addestrato per questo. La sua abilità arrivava a prevedere cinque, massimo sei secondi, prima.»

«Cristo. Non addestri qualcuno al corpo a corpo così da zero.»

Dazai lo fissò dal basso verso l’alto, strusciando la guancia sulla sua spalla, mentre Chuuya controllava che il vino fosse finito davvero. 

«Prima di entrare nella mafia era un assassino su commissione. A quattordici anni ha tenuto testa a Fukuzawa-san.»

«… quindi è vero» sbuffò il rosso, arrendendosi e spegnendo anche il mozzicone della sigaretta. Appoggiò la testa contro la seduta del divano con stanchezza. 

«Ne avevo sentite di cotte e di crude, mentre indagavo su di lui. Qualcuno lo descriveva come un filantropo, altri come un mostro sotto al letto… merda

«Alla salute!» ridacchiò senza gioia Dazai, ingollando finalmente l’ultimo goccio. «Domani morirò di mal di testa e ulcera tra atroci sofferenze. La vita fa schifo.»

Chuuya ritrovò la propria vena incazzosa, incrociando le braccia, incurante del peso e della presenza di Dazai contro il fianco.

«Sai cosa fa schifo? Che da mesi non ci sia più un cazzo di giorno tranquillo! Succede sempre qualcosa, in continuazione! E non roba per cui ti porti una dozzina di uomini e risolvi. No, vaffanculo...» 

Allungò una mano sul tavolo, tastandolo alla cieca alla ricerca delle sigarette e dell’accendino. Trovate, si accorse che il pacchetto era vuoto e bestemmiò, rincarando la dose nel continuare il proprio sfogo. 

«Prima tutto il casino con quella cazzo di taglia sulla vostra Tigre Mannara. Poi si scopre che dietro c’è la Gilda che vuole radere al suolo la città. A questo segue quello stronzo russo amico tuo che quasi ci fa secchi. Ora risorge dalla morte quell’altro amico tuo...»

Non avendo né vino né sigarette a portata di mano, Chuuya si ritrovò a fissare il partner e il suo sorrisino pacifico da aspirante suicida. 

«Sei una fottuta calamita per i disastri e i casi umani.»

Dazai si umettò le labbra, ricambiando l’occhiata. 

«Già, tu sei stato il primo.»

Non c’era un modo per smontare e ribattere a quella affermazione. 

Chuuya artigliò l’aria sconfitto, sbuffò e si espresse in un verso disarticolato, per poi vociare verso l’ingresso del privè. 

«Ohi, cameriere! Un altro giro!»



 

Hirotsu e Akutagawa arrivarono all’ingresso del privè circa due ore più tardi, chiamati dal proprietario che non sapeva come disfarsi dei Dirigenti ubriachi. 

L’odore dolciastro di alcool languiva nell’atmosfera della saletta e fece arricciare il naso al più giovane, poco avvezzo. A prima occhiata non scorsero nessuno, salvo poi accorgersi di due piedi nudi che spuntavano da sotto il tavolo. Inequivocabilmente di Dazai, dalle bende intorno alle caviglie. 

I due mafiosi si scambiarono uno sguardo, prima di abbassarsi a constatare la situazione sotto il tavolo. 

«Oh, Chuuya, guarda! È arrivato il barboncino!» ridacchiò Dazai, alzando un dito per indicare, ma il braccio gli tremava troppo per rimanere fermo. 

Akutagawa aggrottò la fronte. Al suo fianco, Hirotsu mascherò uno slancio di risata con un colpo di tosse. Si schiarì la gola, porgendo la mano all’ex detective. 

«È la prima volta che la vedo davvero ubriaco, Dazai-san.»

Quest’ultimo ridacchiò. Chuuya non diede segni di interazione, russando e blaterando sillabe disarticolate nel sonno. 

«Stavamo… come si dice… recuperando!»

Quando Dazai riuscì ad afferrare la mano di Hirotsu al quinto tentativo, diede una spallata al partner, facendolo scivolare di lato, ma neanche questo lo svegliò. 

«Sai Hirotsu… penso che a Odasaku piacerebbe Chuuya… non in quel senso! Credo… forse sì.»

«Naturalmente» convenne l’anziano. Il sorrisetto che aveva sulle labbra era una linea divertita che, ancora una volta, pescava dall’esperienza, ma che allo stesso tempo non si stava davvero curando della conversazione. 

Mentre Hirotsu si occupava dell’ex detective, ad Akutagawa toccò infilarsi sotto il tavolo per recuperare l’altro Dirigente. Memore di essere stato minacciato in passato da Chuuya stesso di non sfiorarlo mai, per nessuna ragione, con Rashoumon, Ryuunosuke gattonò fino ad afferrare il superiore e trascinarlo fuori. L’operazione non fu facile, oltre che sgradevole per l’appestante odore di tabacco. 

Entrambi i mafiosi riuscirono a mettere i due Dirigenti seduti sui divani, ma l’equilibrio durò poco e sia Chuuya sia Dazai scivolarono all’indietro. Il primo continuando a dormire come un bambino, il secondo esibendo un’espressione nauseata. 

«Credo che i miei organi… vogliano scappare.»

«Disgustoso» commentò Akutagawa con una mano davanti a naso e bocca. Neanche la visione di un magazzino pieno di corpi maciullati gli avrebbe rivoltato lo stomaco come osservare due delle persone che più stimava, e a cui doveva portare rispetto, ridotte a spugne zuppe di alcool e pessimo umorismo. 

Dazai era troppo andato per uscirsene con qualcosa di sagace e brillante, così ridacchiò di nuovo, per poi pentirsene e coprirsi la faccia con i palmi. 

«Sì… fa tutto schifo» convenne, bloccando un conato sul nascere.

Akutagawa decise che poteva concedersi di ignorarlo e fissò il più anziano. 

«Come li riportiamo indietro?»

«Aspettiamo che si addormenti anche Dazai-san. Non ci vorrà molto» e Hirotsu lo disse tirando fuori il portasigarette e avviandosi all’uscita. Si fermò solo per un’ultima raccomandazione, una sigaretta già tra le labbra e l’accendino in mano. 

«Fa attenzione che non ti vomitino addosso. L’odore non se ne andrà più.»

Akutagawa considerò seriamente di disertare. 

 

To be continued.



 

Buon anno lettori! 

Speriamo sia pieno degli ultimi capitoli di No Longer Flawless (Prima Parte UU)... dobbiamo resistere fino al 22! 23 massimo…! 

Nel mentre, stanno succedendo tante cose! Non so se avete letto il capitolo nuovo di BSD oggi? Ecco, c’è un riferimento non voluto qui, una cosa che avevo appuntato quasi due anni fa, e che ora sembra la parodia di quello che sta succedendo, ahah. 

Ma oltre a questo, c’è qualche novità! 

Ho aperto un profilo instagram ( https://www.instagram.com/nolongerflawless.fanfic/ ) dedicato a NLF e alle storie che andranno a comporre la raccolta “No one knows all the story”. È un modo per sfogare un po’ di grafica :D 

In più, sto lavorando all’adattamento cartaceo di Dazai, please. (prequel di questa storia) e che penso di rendere disponibile verso fine Gennaio/Febbraio, vediamo come procede. Sto revisionando la storia e vorrei aggiungere un pezzo nuovo!
Se siete interessati, scrivetemi :D
Lascio il link per aggiornamenti (che farò anche su Instagram nelle stories!) https://dazaiplz.carrd.co/ 

Voglio impaginare anche NLF appena finirò la prima parte. Nel mentre, ho trovato penso il finale (o quasi) dell’intera storia. Ringraziate BEAST e-- *spoiler* 

 

Per finireeee chi vuole un po’ di Odasaku con l’aspetto che avrebbe in questa storia?
Ho fatto un “redraw”/edit di uno screenshot dalla Dark Era dopo il rewatch dell’altro giorno: 

 

(Oggi ho l’entusiasmo di Ranpo)

 

Noticine al capitolo (che me le scordo sempre)

kozou: vuol dire “ragazzino” (brat!) ed è come spesso Kunikida appella Atsushi!
Les Amoureuses: significa “gli amanti” *wink* Giuro che quando lo scelsi non lo sapevo.
Barboncino: nota dedicata alla Socia, che per prima lo chiamò così XD 

 

A presto!

 

Prossimo capitoloThe demons we're made of

 

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Capitolo 17
*** The demons we are made of ***


Capitolo 16

The demons we are made of





 

Loving and fighting, accusing, denying
I can't imagine a world with you gone
The joy and the chaos, the demons we're made of
I'd be so lost if you left me alone

[Hold On - Chord Overstreet]







 

Più tardi devo parlarti.

Un messaggio di quattro parole ricevuto all’alba di quella giornata. 

«… gawa.»

Il punto che stava fissando sulla parete era indefinito, come gli orli dei propri pensieri. Jinko non aveva scritto un luogo o un orario e questo lo faceva incazzare. Non era il suo cane, non rispondeva ai suoi comandi. 

«Akutagawa

Strinse più forte il pugno dentro la tasca del cappotto, imbruttendo l’angolo di quadro che i suoi occhi si erano ritrovati a guardare. Ci proiettò gli insulti con cui avrebbe seppellito il Ragazzo Tigre appena ce lo avesse avuto davanti. 

«Ryuu!»

Questa volta Akutagawa elaborò il rumore di fondo per quello che era. Si voltò e si ritrovò a guardare Chuuya dall’alto in basso, seduto alla scrivania del suo ufficio. Gli ci volle però un secondo di più per abbassare la testa in segno di scuse, tempo che usò per riallacciarsi alla realtà e a quello che stava facendo. Aveva delle cartelline in mano. 

«I documenti sulle ultime incursioni e i danni di… Red Hood» spiegò, ritrovando il sapore astioso che quel nomignolo gli provocava. 

Chuuya dedicò ai fascicoli uno sguardo sottile e disgustato, tornando poi a mescolare l’aspirina effervescente nel bicchiere. Sentiva la pelle del viso tirargli fastidiosamente e si era svegliato di un colorito cadaverico. Almeno i capelli erano in ordine. 

Tuttavia, il ricordo della sera prima a ubriacarsi con lo Sgombro persisteva in sovraimpressione su ogni cosa su cui posava lo sguardo, vanificando gli sforzi per riprendersi. 

«Senti» iniziò il rosso, dopo aver ingollato l’aspirina come aveva fatto con tutto il vino che ora probabilmente gli sostituiva almeno la metà del sangue. «Questa situazione non piace a nessuno.» 

Akutagawa si irrigidì, troppo visibilmente per passare inosservato anche al Dirigente con i peggiori postumi da sbornia mai avuti prima. Non replicò e questo lo rese solo più vulnerabile. Chuuya sospirò, massaggiandosi la faccia. 

«Hai rotto le scatole per quattro anni con Dazai-san qui e Dazai-san lì. Cogli l’occasione e chiarisciti con lui.» 

«Non voglio chiarirmi» replicò secco Ryuunosuke prima di mordersi la lingua. 

Chuuya lo osservò con una pazienza lungi dall’essere reale. 

«Non intendevo verbalmente. Non so neanche se sei capace di mettere insieme un discorso di senso compiuto quando lui è nella stessa stanza con te.»

Akutagawa lo guardò malissimo, pronto a ribattere, incurante che fosse un superiore, ma l’altro agitò una mano per aria a minimizzare la tensione, per poi premere le dita su una tempia per una fitta. 

«Cristo» si lamentò, ignorando la rabbia che il Mastino della Mafia emanava. 

«Ti do un consiglio spassionato: non lasciarlo parlare, se non vuoi che ti sotterri con i tuoi stessi pensieri. Colpiscilo e basta, più forte che puoi. Se lo merita. Se lo meriterà sempre.»

Non fare come me. Guarda come mi ha ridotto, era sottointeso. 

Se Chuuya non avesse avuto un mal di testa a spaccargli il cranio, probabilmente si sarebbe accorto della tempesta che si stava annidando nello sguardo del più giovane. Era il conflitto tra il voler evitare Dazai come la peggiore pestilenza al mondo e il bisogno di confrontarsi con lui, ma senza stringere la traduzione delle emozioni che continuavano a dimenarsi dentro di lui. 

«Dio, ho bisogno di un caffè» riprese Chuuya, buttandosi completamente all’indietro sulla poltrona della scrivania. Fu la palla al balzo che Ryuunosuke stava aspettando per troncare e andarsene. 

«Ordinerò di farglielo portare in Sala Riunioni» disse pacato, formale, con un mezzo inchino. 

«Merda.»

Chuuya si ricordò in quel momento del meeting con gli altri Dirigenti. Cercò con lo sguardo le lancette dell’orologio e saltò in piedi a molla. 

«’Fanculo. Vedi, anche questo è colpa di quello stronzo di uno Sgombro. Si fotta lui, il suo amico e tutta questa storia del cazzo.»

Akutagawa gli aprì la porta dell’ufficio per permettergli di uscire come un uragano, in un turbinio di maniche di cappotto e cappello infilato al volo. Si prese anche del tempo per assicurarsi di aver richiuso bene l’uscio, tutto pur di non dare adito ad altre discussioni con al centro Dazai.  

«Il caffè lo voglio doppio! Niente zucchero!» 

Fu l’ultima cosa che urlò Nakahara dal fondo del corridoio, mentre Akutagawa camminava rigido verso la parte opposta, ignorandolo. La sua attenzione era di nuovo rivolta a Jinko e a quel messaggio inconcludente. 



 

* * *



 

Più che di una Riunione dei Dirigenti della Port Mafia, l’atmosfera restituiva i connotati di una rimpatriata in famiglia mal assortita. 

Chuuya incrociò brevemente lo sguardo di Verlaine, seduto di fianco a Kouyou, alla destra di Mori. Non si dissero nulla. Non si erano detti nulla neanche quando il più giovane aveva ripreso i sensi, ma erano state più le volte che Chuuya lo aveva avvistato di recente che tutti gli incontri negli ultimi sei anni. Averlo presente a una riunione era una rarità tanto quanto riavere Dazai nella Port Mafia. Una combinazione di casi, in quel momento, che stava mettendo alla prova i nervi di Chuuya. 

I sospesi tra di loro avevano vita propria come fantasmi; a volte gridavano nella notte e l’unico desiderio era soffocare chi li aveva creati, ma il tempo, le circostanze, uno strato di conscio solidificatosi come una crosta su una ferita, non rendevano l’azione perpetrabile. Se c’era un modo per perdonare l’uno all’altro le mani sporche delle vite di persone a loro care, nessuno dei due ci aveva mai provato. L’unica cosa che si erano concessi, nei silenzi di una routine che sottostava alle occasioni, era uno scambio di letture. 

Quei libri di poesie che lo Sgombro, la sera prima, aveva inserito nel suo elenco di stronzate, gli erano arrivati da Verlaine. Mai consegnati direttamente, sempre attraverso le mani - spesso lorde di sangue - di qualcuno dei suoi allievi, di Gin, o di Kyouka, come li mandasse a comprarli dopo qualche missione, in un velato monito a ricordare il filo spinato che recintava quella pace condizionata ai ruoli. 

Chuuya aveva fatto fatica solo la prima volta ad accettare uno di quei libri, ancora mezzo accartocciato nella sua libreria. Purtroppo c’erano leggi di naturale a lui ignote per cui non riusciva a odiarlo nella misura in cui desiderava farlo. Il lamento di un animale morente, straziato dalla vita, era qualcosa che conosceva sulla propria pelle, e quando finisci col farti infettare dall’intimità di una persona, le scale di valori crollano. 

Un colpetto di tosse da parte di Kouyou lo fece riemergere al presente. 

Anche con lei ci fu un incontro d’occhi, cadenzato da un So cosa avete combinato ieri sera, spolverato della malizia di chi è abituata ad affilare le parole come le lame. Prima che Chuuya potesse chiedere pietà, almeno per quel giorno, per il suo mal di testa, le pupille della sua Maestra scivolarono di lato, rammentandogli che i poli in quella stanza, quel giorno, erano due. Alla sinistra del rosso, al capotavola dirimpetto a Mori, sedeva annoiato Dazai. 

Dazai che sbadigliò tra una parola e l’altra, sottolineando quanto la situazione per lui fosse mortalmente soporifera, ma che per il resto sembrava lungi dall’essere qualcuno uscito da un locale alle quattro di notte con un coma etilico ad aleggiare sulla testa. 

«… tra i prossimi obiettivi è sicuro che ci saranno anche i bordelli principali di Ane-san: il Golden Pavillion, il Blue Fox e il Rouge.»

Nella cartina olografica proiettata al centro del tavolo si illuminarono tre puntini, a cui seguirono due linee tratteggiate che unirono diversi altri punti insieme, formando dei cerchi intorno al centro nero di Yokohama. Gli obiettivi già colpiti erano raffigurati da x su quelle che sembravano scie di sangue e non semplici forme geometriche. 

Seguendo la stima dei tratteggi, i cerchi che mancavano a Red Hood per completare la sua opera si contavano sulle dita di una mano. 

«I registri sono già stati messi al sicuro e sostituiti con dei falsi» replicò Kouyou, la voce carica dello sdegno per quella situazione. «Alla polizia militare sta piacendo ficcare il naso un po’ troppo.»

«Ma le mazzette ancora funzionano» la blandì Mori bonario, con un’espressione placida sul viso appoggiato alle mani intrecciate. 

«Da questi attacchi abbiamo avuto diverse seccature, ma il problema maggiore sono i rallentamenti negli affari o la loro quasi estinzione» sospirò costernato, massaggiandosi le palpebre, con una familiarità che riservava solo ai propri strettissimi. «Molti gruppi non si fidano più a stringere accordi con noi col timore di essere i prossimi nel mirino di Red Hood.»

«Ho qualche soluzione in merito» ribatté asciutto Dazai, sistemando alcuni fogli. «Prima, però, bisogna occuparsi degli ultimi luoghi che potrebbero essere colpiti.»

«Hai in mente una trappola?» chiese Kouyou, ma il giovane uomo scosse la testa. 

«Rischieremmo altre vite dei nostri agenti contro l’abilità di Red Hood.»

«Non voglio che le mie ragazze e i miei ragazzi siano in pericolo. Chiuderemo.»

Non ci fu spaziò per mezzi termini sul viso della Dirigente. Dazai sorrise sornione, fissandola compiaciuto della risposta. 

«Quasi» e nel dirlo, passò i fogli che aveva in mano agli altri presenti. 

«Perdere i clienti dei bordelli e riconquistarne la fiducia in seguito è più faticoso di fare affari per droga o per armi. Se ci fosse anche solo il barlume di possibilità che i segreti delle loro fantasie perverse vengano a galla, sarebbe un danno prima di immagine, e poi economico, inestimabile. Per questo penso che la cosa migliore sia ridurre al minimo il personale, tenere sgombre le vie di fuga e simulare degli incendi in caso di incursione.»

Il suo sguardo si abbassò sui documenti che aveva davanti, con una noncuranza tale da lasciar intendere che per lui quel problema era difficile quanto risolvere un cruciverba. 

«L’abilità di Red Hood lo rende temibile anche contro cinquanta uomini tutti insieme, ma se non c’è intenzione di attaccarlo, allora il gioco si semplifica ed è più facile sorprenderlo.»

«Simulare degli incendi?» riecheggiò Chuuya, cercando di ignorare la sgradevole sensazione che lo attraversava ogni volta che sulle labbra di Dazai spuntava quel soprannome. Aveva dato una veloce occhiata ai fogli con i dettagli, ma col cerchio alla testa faticava a mettere in fila le parole. 

«Giocare d’anticipo, fingendo di perdere di proposito?» si inserì Mori, rispecchiando il sorriso del Demone Prodigio

Dazai assentì, una bambola nelle emozioni sul viso. 

«Nel frattempo sposteremo le attività dei clienti fissi e importanti in altre strutture sicure al di fuori del raggio d’azione di Red Hood. Ci costerà nel fornire un trasferimento lussuoso e guardie del corpo aggiuntive, ma ci farà apparire in buona fede e sarà un modo per scusarci dell’inconveniente.»

«E per dimostrare che ci stiamo occupando del problema.» 

«Senza risultarne oppressi.»

Chuuya faticò nel sopprimere il brivido che lo percorse nel seguire il botta e risposta con cui il Boss e il più giovane Dirigente si erano appena completati le frasi a vicenda come ai vecchi tempi.

L’angolo della bocca di Mori era sollevato in una curva tagliente quanto la lama dei suoi bisturi. L’espressione di Dazai non era molto diversa. La discussione di qualche giorno prima, dove si erano sparati e feriti a vicenda, non sembrava essere mai avvenuta. 

«Ho cercato tra i vecchi clienti della Port Mafia chi ci doveva dei favori e avesse degli appartamenti con le condizioni che potessero soddisfare le nostre attuali esigenze. In una, massimo due giornate possono essere riallestiti e resi sicuri» riprese l’ex detective, sistemandosi contro lo schienale della poltrona come se avesse appena esaurito il proprio incarico e i dettagli fossero sciocchi convenevoli. 

«Nei bordelli è meglio che rimangano principalmente uomini con addestramento da guardia del corpo o di difesa. Se non vogliono morire in maniera stupida dovranno seguire l’ordine di non ingaggiare il nemico per nessuna ragione. Il loro unico scopo dovrà essere, se necessario, proteggere i nostri dipendenti e i nostri clienti occasionali.»

Dazai si grattò la testa nel ribadire per l’ennesima volta un concetto che era difficile spiegare a gente abituata prima alla violenza e poi a pensare. E non aveva davanti neanche i diretti interessati. 

«È fondamentale, per non avere altre vittime, che nessuno abbia l’impulso di colpire Red Hood. Dovranno agire per una protezione passiva totale. Se avvistato, la priorità sarà innescare l’allarme anti incendio e occuparsi di uscire il più rapidamente possibile» ridacchiò leggermente, senza alcun divertimento, ma con una sfumatura di cattiveria accentuata dalle luci rossi della sala. «Sarà facile come le evacuazioni scolastiche, anche se metà di loro non ha neanche idea di come sia fatta una scuola.»

«Perfetto» approvò Mori, voltandosi verso Kouyou. «Cosa ne pensi?»

Kouyou sorrise da dietro la manica alzata e si rifletté tutto nei suoi occhi, anche più penetranti e graffianti di quanto sarebbe apparsa la bella bocca delineata dal rossetto. 

«È bello riaverti qui, Dazai.»

«Chuuya-kun, hai qualcosa da esprimere o sei d’accordo?» lo incoraggiò Mori, con un divertimento malcelato che pizzicò in flagrante l’altro giovane Dirigente. 

«Certo. Sono d’accordo» masticò quest’ultimo, perforando il partner con un’occhiata a cui Dazai rimase imperturbabile. 

Il Boss si rivolse all’ultimo Dirigente, che lo liquidò con poco e con una noia che aveva esaurito l’interesse quasi subito, lasciando intendere di essersi pentito ad accordare la propria presenza. 

«C’est bon.»

«Ottimo. Direi che questo piano d’azione può partire immediatamente» sancì Mori, cliccando un pulsante sul tastierino davanti a sé. Pochi secondi e la porta della Sala Riunioni si aprì, permettendo a Hirotsu di entrare e ricevere i fogli con gli ordini. 

«Voglio un rapporto per stasera.» 

«Come desidera, Boss.»

Quando l’uscio si richiuse, Mori tornò a fissare famelico il proprio pupillo.

«Ora, Dazai-kun, avevi anche delle idee su come farci rimettere in affari con le altre organizzazioni?»



 

* * *



 

Un’ora più tardi, Chuuya sbatté a sedere Dazai sul divano del proprio ufficio. Piantò un piede sull’imbottitura della seduta al suo fianco e si piegò in avanti, guardandolo in cagnesco.

«Che cazzo di intenzioni hai!?»

Dazai proferì appena un lamento infastidito.

«Cos’erano tutti quei maledetti piani!?»

«Non urlare, ho un mal di testa atroce grazie alla tua idea di farmi bere fino allo schifo» brontolò l’ex detective, massaggiandosi le tempie con una smorfia. 

La riunione si era conclusa da neanche dieci minuti e Chuuya aveva trascinato lo Sgombro dove potevano discutere, lontano dalle orecchie degli altri Dirigenti. Far esplodere la tensione accumulata non lo aiutò a mitigare la voglia di colpirlo, ma si trattenne per il bene della conversazione. Avrebbe potuto sempre prenderlo a calci più tardi. 

«Rispondi» intimò a denti stretti. 

Lo sbuffo di Dazai gli arrivò sul viso, prima che questi reclinasse la testa sulla spalliera. 

«Come Dirigente della Port Mafia do il mio apporto all’organizzazione. Sto portando delle soluzioni semplici e indolori per arginare i danni di Red Hood.»

Il divano fu spinto indietro di qualche centimetro dalla pressione che Chuuya scaricò sul piede ancora puntellato sul bordo. Lo stridore non fu felice, ma accurato nel rispecchiare le sue minacce e il suo malumore.

«Oda» sibilò. «Chiamalo col suo cazzo di nome e non fingere che non ti interessi.»

Dazai gli concesse di nuovo la sua totale attenzione, ritirando su la testa. Tuttavia lo occhieggiò con un’espressione lungi dalla serietà. 

«Devo ancora abituarmi a sentirlo pronunciato da te» mormorò, accennando un sorrisetto e un’inflessione vagamente incuriosita. «Potresti chiamarlo anche tu Odasaku.»

Chuuya artigliò l’aria a monito e Dazai vocalizzò il sospiro di gola, roteando gli occhi per tutto quel dramma. 

«La Port Mafia non può fermare Odasaku e chi sta con lui senza rischiare gravi perdite o danni. Hai provato sulla pelle di cosa è capace e non sappiamo quanti piani alternativi possa avere in mente Dostoevskij in caso decidessimo di agire contro. Non vogliamo un altro Conflitto della Testa di Drago, no?»

Il suo sguardo scivolò di lato, senza guardare qualcosa di definito, soltanto le buie prospettive nella propria mente. 

«La soluzione migliore per tutti al momento è retrocedere e lasciare il campo libero. L’opinione pubblica potrà continuare a puntare il dito contro la Port Mafia, respirando il proprio polverone, mentre Odasaku avanzerà. Ma ci saranno meno vite sulla linea di fuoco.» 

Chuuya aveva davvero troppo mal di testa per capire cosa stesse dicendo. L’istinto gli stava urlando qualcosa, eppure non lo afferrava. Così preferì afferrare lo Sgombro per la camicia e riavvicinarlo al proprio viso. Quanto sarebbe facile picchiarlo, pensò, ma ingoiando il proprio stesso disgusto per quella opzione. 

«Stai facilitando l’arrivo di Oda qui» accusò, rammentando quanto poco mancasse al cerchio finale, a quel cappio di sangue ormai inevitabilmente stretto intorno alla gola della Port Mafia. C’era però qualcosa che lo stava disturbando molto di più di quell’inevitabile destino. 

«Mori-san non sembra preoccupato... che cazzo c’è sotto!?»

In passato, non era stato raro pensare che il Boss della Mafia e il Demone Prodigio potessero condividere un legame anche genetico, da padre e figlio. Un medico dalla dubbia moralità spuntato dal nulla e un quattordicenne che viveva nella sua ombra. A Chuuya quella possibilità era sempre risultata un dettaglio superfluo.

I legami familiari erano l’ultimo vincolo che poteva unirli in una vita dove le promesse avevano valore nella misura in cui l’opportunità vinceva sulla fragilità dell’idealismo. Ciò che era successo quattro anni prima con la Mimic era stato l’esame per quell’ipotesi strampalata, qualsiasi fossero stati i risvolti. 

Nonostante questo, Chuuya non poteva ignorare come la pasta che modellava Dazai contenesse gli stessi ingredienti con cui Mori piegava le proprie labbra per mettere in guardia il mondo, prima di muovere un pezzo sulla scacchiera. E questo era un tratto del suo partner che gli dava il voltastomaco.

Il suo sangue è nero

Si stava creando un divario, una spaccatura profonda, tra l'affermarlo a parole e il sentirlo sottopelle.

«… ti avevo accennato che abbiamo un accordo. Ora sei curioso?»

Chuuya irrigidì la mascella. Era inutile continuare a ignorare i serpenti che sibilavano ai suoi piedi. 

«Parla.»

Dazai ammorbidì le labbra, ma non ci si affacciò alcun sorriso. 

«Quando Odasaku arriverà qui, l’ordine sarà di catturarlo vivo. Dopo mi occuperò io di lui.»

Non ci volle un genio per fare due più due. 

«Hai preso il posto di Ane-san a capo della squadra torture?»

«Hai unito i puntini, Lumaca?»

Chuuya lo lasciò andare, tirandosi in piedi, senza mai smettere di guardarlo anche se la sua mente aveva iniziato a pensare a quei possibili scenari.

«Credi che riusciremo semplicemente a catturarlo?»

Dazai fece spallucce, risistemandosi comodo. 

«Sto pensando a un centinaio di alternative diverse. Allo stato attuale, Flawless è come un terzo occhio sempre vigile sul futuro. La sola intenzione di attaccarlo lo fa scattare, ma ci sono vari modi per aggirare quei dieci secondi senza per forza fargli crollare un palazzo addosso.»

I pugni stretti del rosso parlarono per come stesse prendendo l’intento di Dazai di gestire la questione, ma la sua concentrazione continuò a vacillare tra le ipotesi, come quella dell’ex detective nel vagliare i dati in loro possesso. 

«In più ora c’è da tenere conto di quell’arma a risonanza direzionale e la tuta di Odasaku, che non sappiamo fino a che punto è in grado di difenderlo dalle abilità. E di che tipo? Solo offensive e brutali come la tua?»

Dazai lo disse picchiettandosi il labbro inferiore con un dito, meditandoci sopra seriamente. 

«Io sono rimasto invisibile, anche quando l’ho attaccato, quindi presumo abbia una portata molto ravvicinata. O forse è un modello ancora incompleto? Ma anche fosse un esperimento, quante altre armi anti-abilità potrebbero avere dalla loro? Dovremmo scoprirne l’origine, prima di tutto…»

Non ricevendo neanche un verso frustrato in risposta, Dazai si accorse che il partner non lo stava calcolando. L’opportunità fu ghiotta. Si sporse in avanti, le dita sul mento in una posa spregiudicata e da volpe. 

«Potremmo giocare la carta della distrazione! Ricordo di un certo vestito rosso fuoco di Capodanno che ti stava così bene. Ane-san penserebbe al trucco e potremmo urlare che c’è una damigella in difficoltà. Ti viene così facile imitare le ragazze! Non sei d’accordo?»

«Cosa?» sfuggì a Chuuya, che si rese conto di aver perso metà del presunto ragionamento su Red Hood. Ciò che lo riportò coi piedi per terra fu lo sguardo furbo dello Sgombro che non la raccontava giusta sulla discussione che avevano cominciato. 

«Tu di sì» lo incoraggiò Dazai con troppa finta innocenza per farci cascare il partner. 

Chuuya si passò una mano sulla faccia. L’aspirina di quella mattina sembrava aver dato solo due pacche sulla schiena al suo malessere post sbronza. 

«Vai fuori di qui. Voglio dormire.»

Dazai sporse il labbro in protesta, spingendosi con fermezza contro lo schienale del divano. 

«Voglio restare qua! È così comodo! Io non ho un divano così comodo!» 

La lagna era l’ultima cosa che serviva alla sua emicrania. Chuuya afferrò Dazai per un braccio o lo trascinò in piedi e fino all’ingresso con poca fatica, anche a fronte della sua ritrosia. 

«Compratelo. Vai a importunare un interior designer e levati dai piedi.» 

«Ma-» 

La porta gli fu sbattuta sul naso dell’ex detective e vibrò sui cardini, chiudendo fisicamente e metaforicamente la discussione. 



 

* * *



 

Sono qui fuori

Atsushi lasciò cadere la spugna dei piatti per terra, adocchiando il mittente e l’anteprima dell’sms sullo schermo del cellulare. Gli sfuggì anche un EHH che represse in un palmo, salvo ricordarsi all’ultimo di avere i guanti sporchi di sapone. 

«Tutto bene?» domandò Kyouka con uno sbadiglio dal futon che aveva già steso. 

Atsushi tossichiò il sapore pungente del detersivo per poi vedere l’arrivo di un secondo messaggio. 

Muoviti o entro

Sapeva che non ci sarebbe stato un altro avvertimento. 

«S-Sì, tutto bene» farfugliò il Ragazzo Tigre, levandosi di fretta i guanti di gomma e guardandosi in giro per trovare una scusa valida. Il sacchetto nell’angolo fu la salvezza. 

«Vado a portare fuori la spazzatura e faccio un salto al konbini! Non abbiamo abbastanza zuppa di miso! Tu non aspettarmi alzata!» e afferrata l’immondizia si catapultò fuori.

Non dovette neanche fare un passo per trovarsi di fronte il Mastino della Port Mafia. 

«Che accidenti ci fai qui!?» sbottò Atsushi, buttando due occhiate laterali e moderando di colpo il tono per non farsi sentire dai vicini. Erano pur sempre nel complesso abitativo dell’Agenzia. 

L’occhiataccia risentita con cui Akutagawa lo ricambiò per Atsushi fu ingiustificata, e mettergli sotto al naso il cellulare con il suo messaggio di quella mattina - Più tardi devo parlarti - lo confuse solo di più. 

«Non hai specificato dove e quando» chiarì spazientito il mafioso. «Sei un incompetente.»

Atsushi incassò, arrossendo vagamente per l’imbarazzo. 

«Avevo la testa altrove, sono successe un po’ di cose.»

Akutagawa lo giudicò solo un istante, ma poi ripose il cellulare nella giacca. 

«Allora? Parla.»

«Non qui» sospirò Atsushi. Mollò il sacchetto della spazzatura a lato della porta e si frugò nelle tasche, contento di non averle svuotate. Dal mazzo di chiavi ne scelse una, anche se la contemplò con titubanza. 

«… vieni con me.»


L’appartamento di Dazai presentava l’ordine di una casa abbandonata. 

Atsushi aveva voluto dare una sistemata, nella speranza di una gradita sorpresa, ma la presenza di un po’ di polvere non rese giustizia a quel desiderio. Andò ad aprire la finestra per arieggiare un po’ e tenere le mani occupate. 

«Di cosa vuoi parlare, Jinko?» incalzò di nuovo Akutagawa sentendo il silenzio prolungarsi troppo. Non gli stava dando fastidio, ma se si fermava a pensare di stare da solo con il Ragazzo Tigre senza uno scopo sentiva qualcosa fargli pressione sulla nuca. Era il nemico. Ed era arrivato al punto di doverlo ripetere per ricordarselo. 

«Come sta Dazai-san?»

Akutagawa ebbe l’impulso, per l’ennesima volta, di scappare. Stava evitando quel problema, che portava il nome del suo Maestro, in modo troppo ostentato per riuscire a passare ancora inosservato. Atsushi però era distratto dal guardare fuori dalla finestra per accorgersi della ritrosia che emanava. 

«Non devi più preoccuparti di lui» replicò piatto, grattando un fondo che non gli stava lasciando altre possibilità di fuga. «È tornato a essere quel che era.»

Fu un’aggiunta illusoria. Le parole suonarono stonate alle sue stesse orecchie. Aveva visto Dazai così poco - una delle volte talmente ubriaco da non riconoscerlo - che era una frase priva di fondamento. 

Un uomo con l’identico nome e aspetto di Dazai Osamu siede lì nel posto occupato un tempo dal più giovane Dirigente della Port Mafia, ma non è lui.

«La mafia non è il suo posto…» mormorò Atsushi, dando voce a quel pensiero martellante a cui si aggrappava con convinzione, anche se non riusciva mai a infonderne nel tono quanto avrebbe voluto. 

«Credi a quello che ti fa stare meglio, Jinko, ma Dazai-san è nato per stare nella mafia.»

Era come sentire qualcun altro parlare. Akutagawa non stava esitando nell’esprimere quella che chiunque altro avrebbe etichettato come realtà dei fatti. Tuttavia, tentennava nella fermezza con cui credeva a quella voce che era la sua. 

Atsushi abbassò lo sguardo dal cielo per portarlo sul mafioso. Anche se Akutagawa sostenne con ostinazione la sua occhiata, non poté non notarci del tradimento che non seppe ricollocare. 

«Quindi sono davvero uno stupido a pensare che il passato non c’entri nulla con quello che una persona può diventare» sussurrò, in qualcosa che forse nell’intento sarebbe voluta essere un’accusa a ciò che gli era stato detto sulla Moby Dick, ma che uscì fuori come una sconfitta amara. 

Akutagawa si sentì punto sul vivo, ma sopportò in silenzio. Loro due non parlavano, tentavano di uccidersi. Le discussioni tra di loro erano accese e si esaurivano nel colpirsi a vicenda, quindi non capì perché gli stesse importando restare calmo e chiarirsi.

«Dazai-san non è una persona qualsiasi. Lui non ha niente a che vedere con quello che ti dissi» replicò alla fine, con una stizza di fondo fastidiosa per la banalità con cui stava cercando di rimediare.

Atsushi si prese qualche momento, ma alla fine non proseguì con l’argomento. Si mosse verso la libreria e fece scorrere lo sguardo sui libri finché non si fermò sull’ultimo, più voluminoso, e lo tirò fuori. 

«Mentre riordinavo la stanza l’ho fatto cadere per sbaglio» spiegò, aprendo la copertina. Mostrò all’altro ragazzo come le pagine fossero state incollate e ritagliate all’interno, creando un vano nascosto, una sorta di scatola. «Dazai-san lo aveva riempito di bollette scadute… e una scatoletta di granchio.» 

Akutagawa scelse di non esprimersi in merito, preferendo concentrarsi sul contenuto attuale che Atsushi riversò sul basso tavolino al centro della stanza. Ci piovvero sopra un paio di matite, una gomma consumata, una manciata di fotografie tenute da un elastico e alcuni fogli piegati in quattro. 

Il Ragazzo Tigre riprese a parlare, concentrato sul riordinare le varie cose. 

«Ranpo-san ha scoperto che c’è un’organizzazione di cinque persone dietro quello che sta succedendo.»

I fogli che spianò sulla superficie del tavolo avvalorarono le sue parole, tra schemi e nomi, fittizi e non. 

«Oda-san e Dostoevskij sono due… più altri tre individui. Uno si sta occupando di rubare delle chiavi, un altro procura informazioni e poi c’è il loro capo. Queste sono le persone che stanno agendo sul campo.»

«Jinko» lo fermò Akutagawa, aggrottando la fronte. «Perché mi stai dicendo tutto questo?»

Atsushi strinse un foglio, sgualcendolo. Con un respiro profondo si calmò. 

«Dazai-san mi ha detto che era un addio. Non posso chiamarlo per riferirgli quello che abbiamo scoperto.»

Quella che stava diventando di prepotenza una sensazione familiare - che non era pietà, ma era più il bisogno di tendere la mano verso quel Ragazzo Tigre sciocco e traboccante di speranze - si arrampicò dentro Akutagawa, dallo stomaco al petto, stringendo lì dove ci sarebbero dovuti essere solo i suoi polmoni marciti da un’infanzia troppo umida. 

«Pensi gli interessi? Credi che si metterà a fermare i cattivi?» 

Akutagawa era conscio di star calcando la mano, ma avrebbe voluto - di nuovo, per colpa di quell’annidarsi di sentimenti che pulsavano senza permesso nella sua cassa toracica - vedere Atsushi recidere il cordone ombelicale con Dazai. 

«Se riuscissimo a trovare un modo per… per ostacolarli nel loro piano, Dazai-san potrebbe aiutare Oda-san e salvarlo…»

«Vuoi impedire a Dazai-san di compromettersi» tradusse Akutagawa, privo di inflessione. «Prima che le sue mani si sporchino di nuovo di sangue e non possa più tornare da voi.» 

Atsushi lo guardò negli occhi con ostinazione.

«È così sbagliato volerlo?»

Fu uno sguardo pesante da reggere, ma il mafioso aveva cominciato da tempo a distinguere quei sentimenti che lo animavano e non più a trovarli nidi insensati di illusioni. Respirò pesantemente, stupendosi del proprio equilibrio tra pensieri e sensazioni. 

«Continui a voler salvare tutti.»

Neanche Akutagawa capì perché lo avesse detto, perché sentisse di appartenere a quell’insieme senza recinti netti. Pensò alla loro promessa e si diede dell’idiota. 

«Credi che Dazai-san voglia essere salvato?»

Credi che io voglia essere salvato?

«Oda-san una volta lo ha fatto. Ha salvato Dazai-san. Lo ha cambiato.»

Akutagawa scosse la testa con biasimo, cercando di non farsi entrare quelle stupidaggini in testa. 

«Non parlare di cose di cui non sai niente.»

«Devo provarci!» insistette Atsushi con un piccolo scatto, per poi tornare seduto per terra, guardando da un lato.    

«Voglio… provarci.» 

Provarci.

Era da quando si era imbattuto per la prima volta nel Ragazzo Tigre che Akutagawa assisteva a quei tentativi. Provare a salvare le persone per acquisire una ragione per vivere, un diritto a vivere. Provare a essere una persona migliore per avere il proprio posto nel mondo. Provare a proteggere ciò che gli era caro. 

Era un concetto che Akutagawa non poteva stringere. Nella malavita, i tentativi ti uccidevano o rimanevano cicatrici sul tuo corpo. Esisteva solo il riuscire, il portare a termine un obiettivo. O la morte, perché la vergogna era un fardello pesante. 

Jinko viveva di speranze e baratri di solitudine. Akutagawa conosceva solo questi ultimi, ma quella dannata luce nello sguardo del Ragazzo Tigre era diventata impossibile da non osservare anche per lui, sempre vissuto in un posto così oscuro da non avere ombre. 

«Quindi mi hai chiamato per farti da ambasciatore?» 

Atsushi cercò di non tradire il momento, esprimendosi solo in un assenso del capo. 

«Sai, Jinko…» cominciò il mafioso, sospirando con pazienza. Le sue mani scivolarono fuori dalle tasche del cappotto per permettergli di sedersi a terra. Sospettava sarebbe stata una cosa lunga. 

«Fai sembrare tutti i tuoi discorsi altruistici, ma è soltanto egoismo.»

La bocca di Atsushi aveva la replica sulla punta della lingua, ma qualcosa nella sua testa riuscì a fermarlo prima che rovinasse la tregua che si respirava nell’aria. Si limitò ad accigliarsi un poco. 

«Vorrei che questa storia finisse bene…» borbottò, tornando a guardare i fogli sul tavolino. 

Anche lo sguardo di Akutagawa si focalizzò su questi, un modo come un altro per non pensare alla situazione che si era creata. 

«C’è di mezzo quel Libro… non ci sarà mai pace finché qualcuno lo vorrà.»

Entrambi assorbirono la verità di quelle parole in un silenzio riflessivo quanto spinoso, ma che non li avrebbe portati a qualche risposta. 

«Allora… cosa devo riferire a Dazai-san delle vostre scoperte?»



 

Akutagawa non si accorse di essersi addormentato fino a quando non si svegliò intorpidito e dolorante. La posizione era scomoda, piegato sul tavolino con la testa su un braccio che non sentiva più. 

Non volle muoversi subito. Osservò l’oscurità, facendo mente locale e ricordando di trovarsi insieme a Jinko nell’appartamento che era stato del Dazai detective. Avevano passato delle ore a parlare di quello che l’Agenzia aveva scoperto e il tempo li aveva lasciati a loro stessi. 

Quando Akutagawa si alzò non lo fece per dovere o perché dovesse andarsene. Un verso soffocato, più simile a singhiozzo, attirò la sua attenzione. Alzò la testa di scatto, lo sguardo a perlustrare l’appartamento buio finché un secondo suono, di parole soffocate, gli diede la direzione da seguire. 

Non fu davvero sorpreso di trovare Atsushi nell’armadio. Memore di quanto era avvenuto una settimana prima, fece scorrere l’anta senza esitazioni. 

Tra il futon e gli altri oggetti che Dazai teneva stipati, il Ragazzo Tigre si era ritagliato una nicchia nell’angolo. La luce era poca per distinguere i dettagli, ma il mafioso delineò la sua figura con le ginocchia raccolte al petto e la fronte affondata su queste. A fargli aggrottare la fronte fu il mormorio, di cui fece fatica a cogliere il filo. 

«… Non è giusto… non le avevo rubate… le avevano gettate via…»  

«Jinko…» 

Atsushi si irrigidì e così fece di riflesso Akutagawa, quasi sul chi vive. Il suo inconscio era pronto a qualche rappresaglia, uno scatto improvviso, ma il Cane della Mafia si accorse invece di come l’altro ragazzo si stesse conficcando le unghie nelle gambe con forza.  

«Jinko!» 

Un lampione e una fetta di Luna rendevano la notte in quella stanza meno cieca e aiutarono Akutagawa a scrutare il viso del Ragazzo Tigre, a renderlo consapevole del rossore agli occhi e delle lacrime che aveva pianto. Lo sgomento non era qualcosa a cui era abituato e che sapeva gestire, così rimase a fissare quello sguardo offuscato che stava sovrapponendo realtà e incubo. 

«Non voglio provare di nuovo dolore» sussurrò flebile Atsushi. «Non avevo rubato le caramelle… stavo facendo quello che mi avevano chiesto… stavo pulendo e le ho solo trovate… quel bambino ha mentito… non è giusto… sono stato punito, ma non avevo fatto nulla… come potevo conficcarmi quel chiodo nel piede da solo…» 

Un singulto spezzato lo fece tremare. 

«Non voglio più provare quel dolore…»

Ryuunosuke restò in silenzio e immobile. La consapevolezza arrivò insieme a un vago senso di disgusto per come nella sua testa quelle parole stessero prendendo delle sembianze realistiche, delle rappresentazioni infuse di sentimenti non così lontani e che poteva sentire alla stregua di unghie sulla pelle. 

Erano i ricordi di Jinko sull’orfanotrofio, autentici e ancora così vividi da scivolare dentro Akutagawa, negli anfratti sigillati dal tempo e dalla volontà, andando a solleticare una vita passata che il mafioso non aveva mai negato, ma che non aveva alcuna intenzione di riportare a galla. 

Sentì il dolore del Ragazzo Tigre come qualcosa che, in forma diversa, era appartenuta anche a lui. Questo lo spinse ad abbassarsi, a inginocchiarsi davanti ad Atsushi. 

«Il Direttore del tuo orfanotrofio è morto» gli ricordò, con una fermezza nella voce che suonò di una nota consolatoria, quasi gentile, che Akutagawa non immaginava di possedere. «Non può più farti del male.»

Atsushi scosse la testa, stringendo gli occhi. 

«Lui è sempre con me! Non se ne va!»

Gli occhi di Akutagawa lo guardarono come avrebbero fatto le mani se lo avessero toccato, ossia senza irruenza o esasperazione. Con comprensione.  

«È un fantasma che scomparirà.»

Nella risata amara che risuonò nell’appartamento abbandonato Atsushi stava affogando qualsiasi speranza. 

«Perché dovrebbe scomparire?»

Il silenzio fu lungo, inevitabile. 

Akutagawa non si sentì in una posizione stabile per capire lui stesso quanto il suo cervello stesse elaborando. Si umettò le labbra. 

Dazai lo aveva cresciuto per affrontare il nemico, per non temere l’avversario, per eseguire ordini. Non c’era stata alcuna parte dedicata alla condivisione con gli altri. Al gestire sentimenti che si mischiavano nello spazio vitale di due persone. Nessuna lezione, solo i dubbi nell’osservare chi lo aveva sempre circondato e tentare di imparare da sé. Ma non era mai stato il primo dei suoi pensieri. Non era mai stata un’abilità che aveva ritenuto utile.  

Pensò a se stesso, e poi a tutto quello che aveva sempre trovato sbagliato in Jinko. 

«Quel fantasma scomparirà perché tu stai andando avanti. Non ti sei fermato. Vuoi salvare Dazai-san. Vuoi salvare la città.»

Prese fiato, artigliando l’aria per sfogare la difficoltà. Nessuno gli stava chiedendo di farlo. Che senso aveva? 

«Hai scelto cosa vuoi, Jinko, e il Direttore non è parte di questa scelta. Hai avuto un incubo, nulla di più. Sei…» 

Varrà anche per me? 

«Sei più forte di un ricordo doloroso.» 

Atsushi smise di tremare e infliggersi dolore. Non alzò la testa, non subito. Prese un respiro profondo per spingere giù, dentro di sé, quelle parole. Le ripeté, piano, ma non trovò la forza di alzare il viso, di rendere ancora più reale quello che era stato solo un suono confortevole nello spazio di qualche secondo. 

Fu una sensazione di protezione e invincibilità, già provata in un passato recente, a fargli cercare lo sguardo di Akutagawa. 

Rashoumon lo aveva appena avvolto. Non stretto per smuoverlo, per trascinarlo contro la propria volontà. Lo aveva vestito, come era accaduto nello scontro contro Ivan Gončarov. 

«Conosco meglio di chiunque altro di cosa sei capace, Jinko. Per questo voglio superarti.»

Non c’era rabbia, non c’era negatività, non c’era odio in quello che disse Akutagawa. Se quelle parole avessero avuto una forma, sarebbero state una mano tesa per rialzarsi. 

«So anche di cosa siamo capaci insieme» continuò il mafioso, osservando i lembi di stoffa della propria giacca calzare addosso a Jinko. Non si sentì vulnerabile senza ed era un’emozione a cui ancora non sapeva dare forma o nome. 

«Se questa città… se Dazai-san ne avrà bisogno, dovrai ricordarti di questo

Nel dirlo, Rashoumon si strinse addosso ad Atsushi. Non fu una morsa o un avvertimento. Era sicurezza. Una certezza fondata sull’esperienza, coronata da un’informe fiducia, ancora traballante nello stare in piedi, ma con un peso specifico reale. 

«Qualsiasi dolore del tuo passato tornerà, se gli permetterai di avere ragione. Non puoi cancellare i ricordi, ti troveranno sempre… ma questo non significa che non potrai essere diverso. Impara ad affrontarli per quello che sono: una parte di te, ma non il tuo presente.»

Mentre Akutagawa si alzava, Rashoumon tornò serpeggiando addosso a lui. Insieme alla sua abilità, qualcos’altro lo raggiunge, da dentro. Era il baluginare di una fiammella che rischiarò una consapevolezza nuova. 

Si ricordò perché fosse andato lì e si voltò per andare a raccogliere dal tavolino i fogli scarabocchiati da Atsushi. 

Li avrebbe portati a Dazai e sarebbero stati la scusa per affrontarlo, senza scappare. 

«Akutagawa.»

Atsushi era in piedi. Aveva un profilo completamente diverso rispetto alla persona che aveva cercato di sparire nell’antro dell’armadio. Le scie delle lacrime sul suo viso non erano più solchi di dolore, ma strade percorse e lasciate alle spalle. 

Si guardarono negli occhi e Ryuunosuke ci vide ancora ombre a dibattersi. Non si cambiava per delle parole, non subito. Tuttavia, la nebbia si era diradata. Trovare le proprie debolezze e scenderci a patti era un percorso personale. Lui - ammise tra sé - ne sapeva qualcosa, col senno di poi. 

«Akurtagawa, senti… se… se tu…»

«Smettila di tentennare.»

Atsushi si zittì, ma senza mai abbassare la testa. Prese un respiro con cui raddrizzò le spalle. 

«Se tu fossi cresciuto in quell’orfanotrofio, ecco… non avresti permesso agli altri bambini di metterti sotto…»

Non avresti permesso agli altri di farti del male

Akutagawa non si aspettò quel discorso, ma lo accolse con un sorrisetto raro, perspicace, un lascito inconsapevole di Dazai. 

«Certo che non glielo avrei permesso, Jinko. Avrebbero avuto paura di me.» 

Atsushi fece un passo in avanti. 

Un passo che in un altro momento della loro esistenza, fuori da quella stanza, lo avrebbe portato a sanguinare dolorosamente, a chiedersi cosa ci fosse che non andasse in quel ragazzo poco più grande, allievo anche lui della persona che lo aveva salvato, ma così sbagliato

Eppure, in quel nero che lo vestiva ma non sembrava più ammantarlo di ferocia e morte, Atsushi stava vedendo gli altri colori che appartenevano ad Akutagawa. 

«Se tu fossi cresciuto in quell’orfanotrofio…» ripeté, con una malinconia che non aveva prove per esistere, ma che gli scivolò fuori dalle labbra con il sollievo di una verità confortante. 

«Tu non mi avresti mai denunciato al Direttore.»

Tu… forse… mi avresti visto in maniera diversa, a modo tuo. 

L’imbarazzo lo colse nell’assenza di risposte e nel realizzare appieno cosa avesse ipotizzato. Qualcosa che non sarebbe mai potuto essere, ma che aveva sentito il bisogno di rendere reale almeno a parole. Si sentì sciocco, ma anche bene. 

Nello spazio di qualche minuto aveva immaginato come sarebbe stato un passato in cui lui e Akutagawa crescevano insieme. Sebbene fosse pura fantasia, non riuscì a vedere lui e il mafioso come amici, ma neanche come nemici, e questo fu il punto di conforto.

Il rumore della porta che si apriva lo riportò alla realtà. Akutagawa non era più davanti a lui e ne vide solo le spalle, incorniciate dall’uscio. 

«Ah-» si lasciò sfuggire il Ragazzo Tigre, la mente in blackout. «Io… intendevo…»

«Lo so.»

Nello stomaco, e poi un po’ più su nel petto, Atsushi avvertì una pressione diversa, che non fece male, ma che lo fece stringere in se stesso per la scarica calda che lo attraversò. 

Guardami… 

Ma Akutagawa si infilò le mani in tasca, avviandosi. 

«Vai a riposarti, Jinko.» 


Senza che Atsushi se ne accorgesse, l’ultimo sguardo, prima di scendere le scalette e andarsene, il mafioso lo scambiò con Kyouka. 

La ragazza era in tenuta da notte, addossata al muro di fianco alla porta dell’appartamento da cui era appena uscito. Il pugnale nella sua mano brillò minaccioso, ma da parte dell’ex assassina non ci fu nessuna intenzione di ingaggiare battaglia. 

Non si dissero nulla. Non ce ne fu bisogno e non vollero attirare l'attenzione del Ragazzo Tigre. Però l’espressione di Kyouka lo raggiunse a parole ugualmente. 

I tuoi occhi non sono più quelli di quando ti ho conosciuto. 

Un tempo l’avrebbe uccisa soltanto per quella insinuazione non verbale. 

Quella notte, Akutagawa fece i conti col significato intrinseco.



 

To be continued



 

Grazie delle letture che regalate a questa storia *love*
Fatemi sapere cosa ne pensate! 

Continuo a ripetere ai quattro venti che siamo vicini al finale. Si può dire che dal prossimo capitolo entriamo nelle fasi finali? Non saprei, ma inizia una serie di parti che amo moltissimo e mi sta prendendo bene scrivere. 

Non scrivo altro qui che ho appena avuto una piccola crisi emotiva/esistenziale delle mie e sono a corto di pensieri, quindi vi ricordo soltanto che ho aperto un IG dedicato a questa storia (e le collaterali, e BSD in generale): NoLongerFlawless.fanfic

Al presto! 

Nene


Prossimo capitolo → When our worlds collide (parte 1) 

 

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Capitolo 18
*** When Our Worlds Collide (Parte 1) ***


NOTA: SPOILER! Questo capitolo contiene spoiler sulla light novel STORMBRINGER!

Capitolo 17

When Our Worlds Collide (Parte 1)





 

Watching the flames fill up the sky
When the world is on fire, we need to remember who we are
We're losing grip bit by bit, is it worth fighting for it?
Losing time day by day, are you gonna leave or stay?

[Our Worlds Collide - Dead by April]






 

Chuuya ansava nella fredda aria mattutina. 

Yokohama era al suo risveglio, in un’alba pallida e annuvolata, umida, dove il rosa all’orizzonte faticava a destarsi. 

Il Dirigente continuò a correre, il viso rivolto al cielo invece che al percorso nel parco. Il suo corpo non gli stava ancora dietro come avrebbe voluto; la stanchezza aveva cominciato a mordergli i muscoli da diversi minuti, ma il rosso aveva bisogno di sfogare ogni residuo di quel torpore dovuto alla degenza. 

Erano quattro anni che non si sentiva così allo stremo. Ancora una volta, Dazai era la parte fondante del problema, ma il resto - era inutile mentire - risiedeva nei suoi pensieri. 

Cacciò un mezzo insulto al nulla e fece sobbalzare il corridore che incrociò. Ignorando lui e lo squittio di voci che aveva in testa, aumentò il passo e calcò il terreno con sempre maggiore impulsività. 

 

Dopo un’ora, Chuuya ne guadagnò una stanchezza sufficiente a farlo crollare su una panchina, prendendo enormi boccate d’aria. Il cappuccio della felpa gli scivolò dal capo, liberando il fuoco pallido dei capelli sudaticci. Quando aprì gli occhi, a sorridergli non fu l’alba, ma una mitezza che nascondeva intenti ben affilati. 

«Tu ne sens pas très bon (Il tuo odore non è gradevole).»

«Ta tête aussi (Come la tua faccia).» rimbeccò Chuuya, tirandosi a sedere composto e massaggiandosi il petto. 

Verlaine fece il giro della panchina in un’assenza di rumore che solo un assassino come lui era in grado di produrre. Il più giovane lo seguì con lo sguardo e un muso lungo per l’inizio di giornata sbagliato. 

«Ta prononciation est meilleure (La tua pronuncia è migliorata).»

Chuuya sbuffò, alzandosi in piedi e piantandosi le mani nel tascone della felpa. 

«Seh, contento? Che vuoi? Sono occupato.» 

Il modo con cui Verlaine regalava la sua presenza al mondo aveva qualcosa di affascinante. Chuuya detestava ammetterlo - lo detestava punto, non poteva amare la persona che aveva devastato una parte importante della sua famiglia - ma esteticamente parlando, si sentiva sfigurare ogni volta che lo aveva di fianco. 

Non contava che in quel momento fosse in tenuta sportiva e bisognoso di una doccia. Era la sua presenza magnetica, da cui non si riusciva a staccare lo sguardo, probabilmente sapendo che, se avesse guardato altrove per un attimo, si sarebbe ritrovato con una lama piantata in gola. 

Era un po’ la sensazione che aveva anche con Dazai e questo gli fece contorcere ulteriormente l’umore. Non voleva pensare allo Sgombro o si sarebbe aperto un Vaso di Pandora in cui la speranza non era entrata neanche per sbaglio. 

«Allora?» incalzò Chuuya. 

Verlaine alzò lo sguardo verso l’orizzonte, parandosi dai raggi mattutini con una mano. Il pallore di una persona che viveva di propria volontà relegata sottoterra, in una bara di cemento ad addestrare la Morte, risplendette come alabastro. 

Paul Verlaine era morto sei anni prima. Quella presenza che ogni tanto si muoveva priva di peso all’interno della Port Mafia era la statua che avrebbe adornato la sua tomba, se ce ne fosse stata una. 

«On va déjeuner petit frère (Andiamo a fare colazione, fratellino).»



 

«Non sei felice del ritorno di Dazai.»

Dritto al punto. Chuuya girò lo zucchero nel caffé come se avesse potuto prendere a pugni la faccia dello Sgombro. Avrebbe pestato anche Verlaine, se questo non avesse sottolineato ulteriormente quanto avesse ragione. 

La cameriera del bistrot poggiò il resto della colazione ordinata sul tavolo e augurò loro una lieta permanenza. Chuuya ascoltò di striscio, ma l’odore del burro caldo ebbe un effetto calmante. 

«Quello stronzo-»

«Linguaggio.»

«.. pezzo di merda» Chuuya lo fulminò con lo sguardo. «Pensa di entrare e uscire dalla Port Mafia come fosse un centro commerciale.» 

Verlaine sorbì il proprio tè con una lentezza volutamente studiata, esasperante. Il tintinnio della ceramica sembrò necessario prima di replicare. 

«Mori dimostra di avere un cuore quando si tratta della sua creatura più riuscita.»

La fronte di Chuuya si contrasse spaesata, ma l’espressione non incontrò alcuna spiegazione da parte del francese, scivolandogli addosso.  

«Vale anche per te. Dazai ha la capacità di gettarti in una impasse per cui-» 

«Non voglio distruggere questo posto, ma se hai intenzione di continuare su questa linea andiamo fuori» sibilò il più giovane, con il coltello per il burro che spuntava buffamente minaccioso tra le sue dita serrate.  

L’uomo parve risentito per l’interruzione, ma un attimo dopo si strinse nelle spalle e sorseggiò un altro po’ di tè, modulando il tempo a proprio piacere. Quando depose di nuovo la tazzina e il suono si alzò limpido tra loro, in mezzo alle dozzine di tintinnii simili, continuò. 

«Cosa c’è di male nel provare dei sentimenti per il proprio partner?» 

L’espressione astiosa di Chuuya si smontò buffamente, per riprendere l’attimo seguente. 

«Io non provo un cazzo per quello Sgombro di merda!»

Qualche avventore si voltò nella loro direzione, ma gli sguardi furono rispediti indietro dall’aura scottante di Chuuya. Verlaine imburrò un pezzo di pane e ci depositò mezzo cucchiaino di marmellata, per poi lasciare tutto lì e appoggiarsi allo schienale, fissando il giovane con noncuranza. 

«Ti sei mai chiesto come sono sopravvissuto? Non lo troverai scritto in nessun rapporto.»

Chuuya serrò la mascella. Tutto quello che riguardava Verlaine era un tabù a cui aveva deciso di sottostare per amor di non belligeranza. Scoprire che fosse vivo e che il Boss lo avesse fatto Dirigente erano state due verità scomodo per cui un mezzo pensiero di piantare tutto e tutti l’aveva fatto. 

Tornare con la mente a sei anni prima significava infilare le dita sotto un coperchio di pietra, rischiare di farsi male nel sollevarlo e poi guardare in una poltiglia nera di lutti e verità. Aveva accettato la sua presenza tra di loro come fosse stato l’ordine peggiore di sempre, ma se ne era fatto una ragione. 

Aggiungere a questo contratto di coabitazione forzatamente pacifica delle verità in più non gli era mai interessato, per quanto la curiosità lo pungolasse. 

Verlaine non attese una sua risposta, non con le labbra piegate nel sorrisetto menefreghista, all’apparenza gentile, di qualcuno che ti frega un libro dalle mani per buttarlo via. 

«Sono stato salvato da Rimbaud.» 

Prima che la mandibola di Chuuya toccasse livelli troppo imbarazzanti, Verlaine precisò i dettagli. 

«Da quello che era rimasto di lui e della singolarità del suo potere. La mia abilità è quasi del tutto sparita, ma lo sarei anche io se non mi avesse fatto un ultimo dono.» 

Dare un morso al pane fragrante e farcito, osservando il colore ambrato e cupo del tè, fu per Verlaine un modo per mitigare un sapore amaro in bocca che da sei anni non lo abbandonava. 

«F-Frena» farfugliò Chuuya, dimenticandosi di odio e rabbia per l’incredulità, e lasciando che la marmellata scivolasse dal suo cucchiaino. 

«Non fare domande stupide» lo anticipò Verlaine, giudicandolo con un’occhiata. 

Il più giovane serrò la bocca, ma questo non impedì di intuire che si fosse appena rimangiato un Com’è possibile!? per lui più che legittimo. 

Sbuffò, cercando di elaborare in fretta. Avere a che fare con Verlaine era come con Dazai. Un costante correre dietro ai loro pensieri. E si odiò per il paragone, sentendosi ancora di più un idiota. 

«Perché me lo stai raccontando ora?» 

Chuuya cercò di ignorare la malinconia che si irradiava dall’ex Re degli Assassini e che lo faceva sembrare così terribilmente umano. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era empatizzare con i sentimenti di Verlaine. 

«Da prima di venire in missione in Giappone mi sentivo incompreso da Rimbaud, credevo che il suo comportamento nei miei confronti fosse un modo per manipolarmi. La notte che ti liberammo e lo tradii mi sono sentito libero. Libero e solo col peso della mia esistenza per quasi nove anni, finché non sono tornato per te.»

Non importava quanto tempo fosse passato, i ricordi di cosa Chuuya avesse perduto davano ancora schicchere violente alla sua coscienza e a quella parte di petto che tendeva ad ammassare dolore fino a ingrossarsi e premere contro la cassa toracica. C’erano persone nella sua vita che avevano la tendenza a incidersi nella sua pelle con violenza e, all’alba dell’ennesima cicatrice che si riapriva, col ritorno di Dazai, Chuuya si chiese perché non riuscisse a sbarrare quelle porte una volta per tutte. 

Perché mi consideri parte del tuo mondo. 

Di certo, l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era la voce dello Sgombro a premere come tasti di un pianoforte le sue debolezze. 

«Rimbaud ha usato la propria abilità su se stesso e questo lo ha reso un fantasma. Un fantasma in attesa del mio arrivo» proseguì Verlaine, le dita intrecciate tra loro e lo sguardo perso in un punto del passato visibile solo a lui. 

L’espressione di Chuuya tradiva tutta la sua riluttanza verso quel racconto, ma se ne rimase zitto ad ascoltare con i propri demoni nella testa.  

«Arthur mi ha aspettato per chiedermi scusa. E salvarmi.» 

Verlaine si portò una mano sul gilet e le sue dita strinsero lì, alla stessa altezza in cui Chuuya stava accumulando, goccia dopo goccia, la propria rassegnazione. Tuttavia, sul viso di Verlaine non c’era alcuna speranza. Per un solo, triste istante, Chuuya si lasciò pungere da quella malinconia indelebile, quella di aver perso qualcuno di troppo vicino per riuscire a dimenticarlo anche solo per un giorno. 

Pensò a Dazai e Odasaku e la bocca del suo stomaco si chiuse. 

«… cazzo

Il sorriso di Verlaine - un pellegrino che certe strade le aveva percorse e le raccontava con la tristezza di chi le aveva viste crollare - sembrò ridere della sua reazione, come se avesse ben chiaro cosa passasse per la mente del più giovane. I suoi occhi però erano privi di sentimenti, ma anche di oscurità. Erano un cielo troppo terso ed esteso, senza più confini o punti di riferimento, in attesa di quella tempesta di cui andava raccontando ogni tanto. 

«Arthur ha chiamato il proprio gesto un regalo di compleanno alternativo. Non avevo capito l’importanza del primo» e nel dirlo, si tastò i capelli con un dito, a indicare la mancanza di un capello che non gli apparteneva più. 

«Perché» iniziò Chuuya, a mandibola serrata, le dita strette sulla tavola. «Perché mi racconti questo ora?» 

Niente domande stupide. Quella era l’unica per cui avesse bisogno di una risposta concreta.

Afferrò il pane che si era preparato e gli diede un morso, col bisogno fisico di ingoiare il groppo in gola. L’intento di quella mattina di correre e spompare i muscoli non sembrava essere servito, se si ritrovava a pensare con più intensità a Dazai, al suo amico e a una gamma di emozioni che non gli appartenevano, ma che stavano forzando i suoi pensieri. 

Verlaine si prese di nuovo del tempo prima di concedere una risposta, delineando pigramente con un dito il profilo della forchetta intonsa vicino al piatto. C’erano diverse parole nel suo sguardo, righe di poemi sussurrati o che non avevano mai avuto la consistenza di un fiato trasformato in suono. Rimorsi

«Risolvi i tuoi sospesi con Dazai. È un consiglio da chi non ne ha più la possibilità.»

C’era un motivo per cui Chuuya preferiva menare invece di perdersi in chiacchiere. 

Il dolore fisico era gestibile. Si guariva dai lividi. Si guariva dalle ossa rotte. Si sopravviveva a una bestia che aveva dimora nel buio dell’anima e della carne e che portava ogni fibra dell’essere a spezzarsi. 

Ma per le parole non c’era una prognosi certa. Per le promesse. Per i significati nascosti tra le righe. Per il valore di un insieme di sillabe che, quattro anni prima, aveva perso di importanza con l’assopirsi del sole al tramonto e il giorno successivo non sussistevano più.

Partner

«Vaffanculo

Chuuya non ci provò neanche a elaborare. Fu sincero come lo sarebbe stato con i pugni serrati. Sapeva che non avrebbe risolto la situazione, ma non aveva chiesto lui quella conversazione, quel peso in più sulla sua coscienza già portata all’estremo. 

Dazai, Dazai, Dazai.

Sarebbe impazzito. Sembrava la conclusione quasi più auspicabile che fermarsi anche solo a pensare alla forma di quei sospesi e a come risolverli. 

Dazai non si risolveva. Dazai era al mondo per creare problemi al prossimo e Chuuya non era che una delle sue vittime preferite. 

«Mi hai fatto passare l’appetito» sbottò con voce schifata, maledicendo con lo sguardo Verlaine. «Sei uno stronzo.» 

Fu come fargli un complimento, dall’espressione serafica che il maggiore si dipinse in viso. 

Con un gesto della mano, elegante nella sua semplicità, il francese attirò l’attenzione di una delle cameriere dall’aspetto straniero. Questa si avvicinò con le guance simili a due pesche mature e un sorriso timido. 

«Oui Monsieur?» 

«Nous boirons du vin, si vous plaît (Ci porti del vino, per favore).»



 

* * *



 

A Chuuya erano servite ventiquattro ore per tornare di un umore in grado di sopportare un’altra presenza intorno a sé. Tuttavia, era chiaro che con gli inizi di giornata non aveva una gran fortuna. 

Caffè d’asporto alla mano per viziarsi e documenti sottobraccio, l’ingresso nel suo ufficio se lo immaginò molto diverso. Per cominciare, Dazai non si sarebbe dovuto trovare seduto alla sua scrivania a salutarlo con uno sbadiglio. 

Ci provò sul serio a contare fino a dieci prima di rispondergli, ma fallì al tre. 

«Scegli se vuoi uscire dalla porta o dalla finestra.»

«Non ho tempo per queste cose. Sto lavorando.»

Risolvi i tuoi sospesi con Dazai.

Chuuya sbuffò a bocca larga. 

Era impossibile risolvere qualcosa se ogni volta che vedeva la faccia dello Sgombro la prima reazione era afferrarlo e lanciarlo da qualche parte. Escluso quello, un’intera giornata ad arrovellarsi la mente non lo aveva aiutato a capire quali dovessero essere quei sospesi

Dazai era uno stronzo egoista e menefreghista, un giorno se ne era andato e un altro era tornato e tutto per la medesima ragione. Chuuya non faceva parte - e non voleva far parte - di quell’equazione. Aveva solo avuto la sfortuna di doverci lavorare insieme e subirne le conseguenze. Per il resto non erano affari suoi. 

Si avvicinò alla propria scrivania e notò come la superficie fosse stata costellata di fogli, cartelline, un paio di faldoni, planimetrie e diverso materiale da cancelleria in un disordine che, in effetti, gridava lavoro. Dazai stava sul serio lavorando

«Vattene nel tuo ufficio» sbottò, cercando di rimanere concentrato sulla propria linea di pensiero.

Dazai sbadigliò di nuovo, occhieggiando il bicchiere in carta che la Lumaca stringeva in mano e da cui arrivava un invitante odore di caffeina.

«Non posso. È in ristrutturazione.» 

«Che?» 

Dazai si stiracchiò e la risposta ne restò coinvolta. 

«Mi hai detto tuuu di interpellare un interior designer. È stato un ooottimo consiglio! Dopo quattro anni, il mio ufficio aveva bisogno di una svecchiata.»

La bocca di Chuuya era aperta e senza parole da suggerire, se non qualche verso quasi muto dato dalla confusione. Dazai ne approfittò, allungandosi per tentare di conquistare il caffè, ma il partner si tirò indietro. 

«Ci sono mille altre stanze dove puoi lavorare!» abbaiò e pensò seriamente di morderlo.

«Non sei per niente ospitale! Ti ho anche portato delle camelie per vivacizzare l’ambiente!» lagnò l’ex detective col muso, indicando il vaso scuro contenente un cespuglio di fiori rossi. 

Questo contribuì solo a confondere maggiormente Chuuya e gettarlo di nuovo nella posizione in cui non aveva controllo di quello che succedeva quando era implicato Dazai. 

«Sarà comunque questione di qualche giorno, una settimana al massimo» continuò lo Sgombro, riprendendo a scribacchiare su uno dei suoi fogli. «Ho cercato nella tua agenda e ho trovato il nome di questa designer… Yukiko? No, Yumiko-chan! Quando ho fatto il tuo nome mi ha raccontato un sacco di cose interessanti!» 

Dazai stava ridendo con leggerezza, fissando con la sua aria furbetta Chuuya, le cui guance pizzicarono di un rosa più intenso, impossibile da non notare.

«Ad ogni modo, penso che farà un gran bel lavoro! Mi ha fatto avere le bozze del progetto in meno di due ore e mi ha chiesto di salutarti! Dice che il suo cellulare è sempre acceso.»

Chuuya detestava battere in ritirata, ma non aveva più quindici anni e l’innocenza di qualcuno cresciuto a piccoli furti e scaramucce. Aveva imparato, proprio con Dazai, che c’erano momenti in cui dichiarare la resa e girare i tacchi per preservare il fegato. 

Abbandonò l’idea di riconquistare la propria scrivania e si diresse verso i divani dall’altra parte dell’ufficio, buttandosi a sedere con l’esasperazione che avrebbe dovuto provare alle sei di pomeriggio e non alle nove di mattina. Lanciò i documenti sul tavolino di fronte a sé e cercò di bersi il caffè e ignorare quel succhia-pazienza del suo partner. Lo avrebbe buttato fuori di peso dopo l’ultimo sorso. 

«Yumiko-chan è davvero molto carina e ha un seno enooooorme! Anche se è rifatto! Non pensavo ti potesse piacere.»

Chuuya quasi si strozzò per non averlo sentito arrivargli alle spalle. Dazai e il suo maledetto passo felino. 

«Scordati che ti dia corda in questa discussione» ringhiò, abbandonando il caffè sul tavolino per non accartocciare il bicchiere e macchiarsi il completo. Si accese una sigaretta e recuperò i documenti, nel tentativo di distrarsi. 

Dazai le antifone le capiva perfettamente e le ignorava con l’intensità di un gatto che miagola per avere attenzioni. Fece il giro del divano e si lasciò cadere di fianco al partner, stravaccandosi con le gambe lunghe e la schiena a metà della spalliera. Il sorrisetto stampato sulle sue labbra diceva Non mi scappi.

«Sai, ieri mentre parlavamo mi chiedevo come potessero risultare al tatto delle tette rifatte» riprese allegro, gesticolando a mezz’aria. «Insomma…» e imitò una palpata al nulla. «Cosa si sente? Sembrano vere o hai la sensazione di qualcosa che fa… squish?»

Metà della sigaretta finì fumata in un unico tiro. Chuuya si impose di non scattare ma fingere, fingere che meno corda gli avesse dato, prima l’avrebbe piantata. 

«Invitala a cena e poi a letto» borbottò, cambiando foglio per dare l’idea almeno a se stesso di star combinando qualcosa. 

Dazai sbatté le palpebre un paio di volte e si portò un indice al mento, tamburellandoci sopra. 

«Posso davvero? Non farai scenate di gelosia?»

«Fottiti chi ti pare» sbuffò Chuuya, allungandosi per riafferrare il caffè, ma non trovandolo. Dazai stava ingurgitando già l’ultimo sorso. 

«Ma porca puttana!»

«Non ti dispiace se invito anche il suo assistente? Quel… mmh… Heiji?» 

«Eichi» lo corresse Chuuya sovrappensiero, per realizzare l’istante successivo la trappola. Stavolta nulla lo salvò da diventare dello stesso colore della camicia che aveva quel giorno. 

Dazai si passò la lingua sulle labbra, gustandosi la vittoria insieme al sapore di caffè.

«Quando dico che sono il tuo partner scopro un sacco di altarini interessanti! Sarà perché la gente fraintende?» ridacchiò, abbandonando il bicchiere del caffè e mettendosi di nuovo comodo con le braccia dietro la testa. «Non sapevo che ti dedicassi alle cose a tre! Chi stava sopra? O vi siete dati il cambio? O… oh! Oppure Yumiko-chan aveva uno strap-on?» 

Chuuya non aveva più quindici anni e non era più incazzato col mondo. Le sue prospettive si erano ampliate come le sue esperienze, ma se lo scenario che si prefigurava era di passare una settimana con Dazai e sentire scoperchiati tutti i propri trascorsi sessuali degli ultimi quattro anni, allora qualcuno sarebbe davvero uscito dalla finestra. Con quell’andazzo, probabilmente sarebbe stato lui stesso. 



 

* * *



 

Nei seguenti tre giorni, Chuuya riprese possesso della propria scrivania e Dazai dovette preferire il divano, portando il suo caos con sé e rendendo il piccolo salottino un campo di guerra di appunti, documenti e qualche romanzo fregato a ignoti. 

Si punzecchiarono inevitabilmente, ma il rosso dovette ammettere che aleggiava più silenzio che discorsi futili. Pensava di trovare Dazai a dormire il più delle volte, ma le occhiate che gli lanciava si imbattevano nel Demone Prodigio chino sui propri fogli con un’espressione concentrata, resa però più matura dai lineamenti affilatisi negli anni. 

Alle nove del mattino lo trovava già lì e la sera doveva cacciarlo a pedate. Se nelle ore in cui Chuuya era chiamato a sistemare qualche faccenda Dazai usciva, non ne aveva idea, ma l’impressione non era quella. 

C’era qualcosa che non quadrava, ma ogni volta che il rosso era sul punto di aprire bocca e indagare, più di un pensiero lo pungolava per frenarlo. 

Primo, quella pace surreale era piacevole. Non esisteva un singolo ricordo di Chuuya dove lui e lo Sgombro erano riusciti a condividere lo stesso spazio per più di mezz’ora senza arrivare alle mani, neanche agli incontri ufficiali che richiedevano un aplomb per evitare lo scatenare di conflitti. Mori, Kouyou e Hirotsu serbavano ricordi piuttosto imbarazzanti di guerre sfiorate. 

Secondo, una vocina ricordava a Chuuya che per quattro anni Dazai aveva vissuto un’altra vita, di cui due anni in Agenzia con persone nuove e un partner che non era lui. Per quanto il Prof - ricordava si chiamasse Kunikida - gli avesse dato solo l’impressione di un palo in culo, non aveva idea se dietro la scrivania fosse riuscito a dare a Dazai abitudini diverse. Lo dubitava fortemente, ma non aveva prove per smentirsi. 

Per finire, un’ultima vocina rideva di tutto questo e gli ricordava che Dazai era Dazai, ogni cosa aveva un significato nascosto e che lui se ne sarebbe accorto troppo tardi. 

Chuuya era talmente incastrato dai propri pensieri - ed era colpa dello Sgombro come ogni volta - che essere mandato a pestare una gang minore per sconfinamento territoriale fu il tipo di incarico che gli ci voleva per sfogare la frustrazione. 



 

* * *



 

Qualcuno bussò alla porta a metà pomeriggio e Dazai, riconquistata la comoda poltrona alla scrivania di Chuuya, strascicò un blando Avanti, senza togliere gli occhi da ciò che stava leggendo. 

Ci fu un colpo di tosse inequivocabile, seguito da un «Dazai-san» tutto sommato rispettoso.

Akutagawa fissò il mentore finché il suo sguardo non fu ricambiato, per quanto brevemente, ma senza noia. 

«Se stai cercando Chuuya è fuori a picchiare qualcuno che si è approfittato dell’attuale debolezza della Port Mafia. Penso tornerà per cena, era parecchio di malumore» spiegò Dazai, stendendo un braccio per stirare la schiena e scricchiolare tutto. 

Akutagawa si avvicinò alla scrivania, impassibile e con le mani dietro la schiena in segno di rispetto. 

«Cercavo te» disse, diretto e calmo. Si poteva avvertire una placidità quasi estranea al suo essere, capace di sorprendere persino Dazai. 

L’ex detective lo scrutò per qualche secondo, ma non trovando accenni visibili della possibile conversazione, lo invitò a sedersi. Akutagawa rifiutò. 

«Allora, come posso aiutarti?» domandò affabile e incuriosito il Dirigente, intrecciando le dita. Una scena che non si sarebbe mai vista al tempo della loro vita precedente. Akutagawa conservava vividi ricordi di un sé inascoltato che si scontrava costantemente con un muro di noia. 

«Jinko mi ha chiesto di consegnarti questi» e nel dirlo, estrasse dal cappotto i fogli piegati in quattro con il report di Atsushi.

Da parte di Dazai ci fu stupore nel fissare per un attimo quell’insieme di carta non diversa dai centinaia di fogli sparsi intorno a lui, ma con insito un significato molto diverso. Li raccolse e si prese qualche momento per dispiegarli e studiarli, aggrottando le sopracciglia con attenzione. 

«Ranpo-san è riuscito a fare dei passi avanti» concluse tra sé, soddisfatto. 

Akutagawa era rimasto in silenzio. Percepiva l’ambiente intorno a sé diversamente. Nessuna irruenza, nessun bisogno di cercare attenzioni da quegli occhi che gli avevano dato una ragione per stare in piedi. Non si fece domande. Non aveva bisogno di distrazioni, non quando, per la prima volta da settimane, si sentiva padrone di sé. 

«Jinko spera che avere queste informazioni ti convinta a tornare in Agenzia» spiegò il Cane della Mafia, fissando apertamente il proprio Maestro. «Prima che sia troppo tardi.» 

Non abbassare lo sguardo permise ad Akutagawa di scorgere il cambio di emozioni sul viso di Dazai. 

Fu una percezione diversa, strana. Aveva conosciuto tutti gli spigoli che quel volto poteva assumere, dal sadismo al rimprovero, da un’ira gelida al sentimento più simile alla vendetta con disinteresse. La nostalgia - che Ryuunosuke conosceva più come una parola scritta che come un sentimento reale - si dipinse come un acquarello delicato nella linea degli occhi del Dirigente. 

«Sembri fin troppo collaborativo nel portarmi queste informazioni, quando so che hai eletto Atsushi-kun a tua nemesi» celiò Dazai, mentre quella sfumatura blu svaniva con la leggerezza di un sogno. 

Akutagawa sapeva cosa doveva dire e lo fece senza sentire alcun dubbio ansargli sulla nuca. 

«Jinko non ha ancora realizzato che può stare in piedi sulle proprie gambe senza che tu sia vicino a lui» mormorò con fermezza, quasi lapidario, ma non cattivo. 

Non si era mai negato nel dire quel che pensava, anche se aveva significato beccarsi dei proiettili addosso. In quel momento, sentì di essere nel giusto, ma la vera differenza fu nel non avvertire alcuna inferiorità morderlo da dentro. 

Se Dazai si sentì colpito da quella affermazione, dissimulò bene nel sistemarsi contro lo schienale della poltrona. 

«Mi distraggo un attimo e succedono queste cose alle mie spalle?» domandò con un accenno di risata, sincero nell’essere divertito. «Da quand’è che hai tutta questa stima per Atsushi-kun? Pensavo lo volessi uccidere.»

Akutagawa ascoltò un’eco nella propria testa urlare proprio quell’intenzione e aggrottò la fronte nel sentirla interrompersi come una radio a cui veniva cambiata sintonizzazione. 

«Intendo superarlo. Lui è forte.» 

«Sì, lo è molto» confermò Dazai, con un sorriso morbido sulle labbra. 

«Ma è anche estremamente insicuro» continuò Ryuunosuke senza tentennamenti. 

Il più grande sospirò, rivolgendo lo sguardo al soffitto per raccogliere i pensieri e riordinarli. 

«Insicuro, eh?» ripeté, saggiando la consistenza di cosa significasse. «Direi che Atsushi-kun ha una sensibilità che io e te ci sognamo.»

Lo sguardo di Dazai continuò a vagare, come se lui stesso non fosse seduto ma stesse girovagando nel proprio palazzo mentale cercando di ricordarsi dove avesse messo gli appunti sulla Tigre Mannara. 

«Credo sia una questione di indole. Forse qualcosa derivato dai soprusi che ha ricevuto per anni all’orfanotrofio. Non che io e te siamo esenti da un’infanzia di traumi e orrori» mormorò una constatazione dietro l’altra, vagliandole sul momento con una mano sotto il mento. Poi ridacchiò tra sé, avendo afferrato un pensiero evidentemente buffo. 

«Potrebbero anche essere i sensi più sviluppati della Tigre a renderlo così. Non l’ho mai colto in flagrante, ma sono sicuro che faccia le fusa quando è molto contento.»

Akutagawa rimase in silenzio, senza raccogliere, ma aspettando che Dazai tornasse sui binari. 

«Atsushi-kun sente il mondo circostante in maniera diversa. Ciò che tu identifichi come insicurezza è solo una strada più tortuosa rispetto a quella che io e te abbiamo scelto.»

L’ex detective fissò lo sguardo in quello di Akutagawa, senza volerlo mettere in soggezione, ma restituendogli una verità condivisa. 

«Noi premiamo il grilletto. Atsushi-kun cerca un modo per non farlo.»

Le sue parole non ebbero un significato particolare, se non quello di un dato di fatto. 

Akutagawa assottigliò lo sguardo. Aveva capito cosa intendesse Dazai, ma non riuscì a pensare che non fosse stupido. Significava esitare. Perdere tempo quando, nelle situazioni in cui si trovavano spesso coinvolti, questo avrebbe portato il nemico in vantaggio, o ferite troppo profonde da cui guarire. 

«Si ostina a voler salvare tutti» fu la conclusione a cui il Cane della Mafia arrivò, ripercorrendo un film di ricordi in cui ogni reazione di Jinko si era posta con quell’intento. E lui non capiva. Guardò di nuovo in faccia Dazai. 

«Jinko è convinto che questa storia finirà bene.»

Oda-san una volta lo ha fatto. Ha salvato Dazai-san. Lo ha cambiato.

«E se così fosse?» lo stuzzicò Dazai. «Dopo che salvi la vita a una persona è difficile ignorare tutte le altre. Farne a meno. È una sensazione che ti si radica dentro, inebriante, totalizzante, a tratti egoistica. Ti fa sentire meglio. Ti fa sentire migliore. E che ne vale la pena. Perché biasimare Atsushi-kun per questo?»

Nonostante il soggetto fosse la Tigre Mannara, Dazai non aveva più lo sguardo fisso in quello dell’ex allievo e gli diede l’impressione che stesse dando voce a qualcosa di più intimo e personale. Akutagawa lo ascoltò, ma accettarlo, sovrapporre definitivamente quel Dazai al Demone Prodigio, assiso su un trono nella sua memoria, era un passo che richiedeva del tempo. 

«È irrealistico» ribatté il più giovane, sentendosi ragionevole. 

«Era irrealistica anche una collaborazione tra te e Atsushi-kun fino a qualche mese fa. Ora mi porti informazioni da parte sua. Le cose cambiano, eh?»

Akutagawa lo guardò malissimo, difendendo con la sola presenza corrucciata la propria posizione. Dazai replicò tirando su le spalle.

«Per rendere questa speranza di Atsushi-kun reale dovremmo muoverci molto bene. Per il bene di tutti.» 

Quello del Cane della Mafia non fu un silenzio assenso, scelse volontariamente di non ribattere. Non ne trovò l’utilità, non avendo idea di chi comprendesse quel tutti. La Port Mafia? Era inevitabile che qualcuno si facesse male, era nella loro natura. Se si trattava dell’Agenzia, loro erano i loro nemici naturali, quindi non sarebbero dovuti rientrare nell’insieme. I cittadini di Yokohama avevano l’importanza delle comparse sullo sfondo, al cambio scena tutti se ne sarebbero dimenticati. 

Akutagawa non capiva, eppure non percepì la famigliare frustrazione di quei momenti. La sensazione che aveva provato dopo l’ultima conversazione avuta con Jinko ancora persisteva, come uno strato sottile impermeabile che lo stava distaccando dal proprio cieco rancore, creandogli una bolla in cui riflettere. 

Dazai fissò incuriosito il proprio ex allievo, lasciando che i secondi di silenzio si trasformassero in minuti. 

«Sei particolarmente docile oggi» constatò dopo un po’, colpito da quell’atteggiamento. «Ho notato come hai continuato a evitarmi da quando sono tornato, ma oggi sembri una persona completamente diversa. Non vuoi chiedermi di misurarmi con te? Non vuoi provare a uccidermi?» continuò con più foga e teatralità, allungandosi sulla scrivania osservandolo come avrebbe fatto con una qualche creatura del circo. La messinscena invasiva si placò così com’era iniziata, per lasciare spazio a un ghignetto che invece la sapeva lunga.

«Azzarderei a dire che ormai è solo da Atsushi-kun che vuoi ricevere attenzioni, vero?»

Akutagawa aggrottò la fronte e sentì un vago calore alla base del collo. 

«Non voglio le attenzioni di Jinko» disse come fosse un’ovvietà, ma non servì a cancellare la soddisfazione dalla faccia di Dazai. Tossì appena e gli servì per schiarirsi la gola e anche la mente. Le sue nuove consapevolezze premevano dietro le labbra sottili.   

«Le nostre strade di sono separate, Dazai-san.»

«Oh.» 

Risultò anche troppo facile da dire, ma Akutagawa non ebbe ripensamenti. Dazai sembrò sinceramente colpito, ma recuperò l’istante successivo il proprio savoir-faire, poggiandosi una mano sul petto. 

«Hai spiccato il volo dal nido mentre non c’ero?»

Ancora una volta, con un accenno in più di frustrazione in un broncio tuttavia nuovo, più elastico, Akutagawa fissò Dazai senza capire a cosa si riferisse. 

Il Dirigente appoggiò il mento sulle dita intrecciate con un risolino a labbra chiuse. 

«Arrivati a questo punto, non mi stupirei se anche i muri sapessero i dettagli della mia storia con Odasaku. E tu, in fondo, c’eri, anche se all’epoca non vedevi oltre le tue convinzioni. Mi hai perdonato per averti abbandonato?»

«No» fu una risposta precipitosa ma ferma. Akutagawa prese un respiro a labbra schiuse, cercando la sicurezza per parlare. 

«Sei il mio Maestro. Mi hai dato una ragione per vivere, ma mi hai voltato le spalle lasciandomi con l’idea di essere debole, di non essere all’altezza. Odio ancora ogni singolo momento di quei giorni.» 

Aveva i pugni serrati in piena vista, ma non si sentì vulnerabile, non più. Una certa durezza venava il suo tono e cercò di rilassarsi, di lasciarla scorrere per diventare un terreno sicuro su cui appoggiare quei piccoli germogli a cui voleva dare voce. 

«Ho capito che non posso riavere quello che c’era un tempo. Che… non voglio riaverlo. Non voglio più sentirmi inferiore o paragonato a qualcuno. Voglio… qualcos’altro.» 

Dazai restò senza parole. Realizzare il distacco fu come voltarsi e notare solo la schiena della persona che pensava di avere al seguito, non vederne più gli occhi, rivolti in un’altra direzione. 

Akutagawa non attese una risposta. Aveva bisogno di prendere una boccata d’aria che siglasse come vero quanto avesse appena affermato. 

Si inchinò in maniera rispettosa, ma sbrigativa. Non indugiò sul viso dell’ex detective - non si accorse delle incrinature nel suo sguardo - e si avviò verso la porta. 

Con la mano sulla maniglia, un ultimo pensiero emerse per essere ascoltato. 

«Dazai-san» pronunciò, con un sapore nuovo. Libero. Si umettò le labbra, ma non si voltò indietro, parlando forte, ma fissando l’uscio. 

«Non so perché Mori-san ti abbia riaccolto… ma credo sappia anche lui che non sei davvero tornato alla Port Mafia.»

Aprì la porta e se ne andò. 



 

* * *



 

Chuuya rientrò più tardi di quanto avesse previsto. Lavare via il sangue era sempre una seccatura e aveva dovuto calcare la mano per rimettere in riga gli arroganti bambocci che pensavano di banchettare dei problemi della Port Mafia. 

Tirare qualche sano pugno al minimo della gravità lo aveva aiutato a livellare la pressione dei pensieri. Una doccia calda aveva sciolto più del sangue e della stanchezza. Si sentiva rinvigorito e pronto a tornare su quell’ottovolante che era diventata la sua vita nell’ultimo periodo. 

La luce spenta che trovò nel proprio ufficio lo lasciò pensieroso il tempo di osservare l’orologio e constatare che fossero le nove. Anche se negli ultimi tre giorni aveva dovuto scollare Dazai dal divano per farlo uscire, per un attimo pensò che la fame avesse vinto e se ne fosse andato di propria sponte. 

Sulla scrivania c’era il marasma di appunti e documenti che di solito erano nella zona del salottino, ma Chuuya non si stupì più di tanto. Ciò che attirò la sua attenzione fu il cellulare dello Sgombro abbandonato in un angolo, sotto un foglio. 

«Che cazzo» imprecò al nulla, sentendo la prima vena di irritazione mascherare la preoccupazione. Ributtò il cellulare sui fogli e marciò senza pensarci verso la porta. 

Dazai poteva essersene andato a dormire e aver dimenticato il cellulare, se dimenticare non fosse stato un termine estraneo all’ex detective. 

In tempi record Chuuya fu all’appartamento di comodo dello Sgombro, lì nel palazzo principale della Port Mafia, e si attaccò al citofono. Il risultato fu sentirsi uno scemo nel continuare a pigiare a vuoto e ad avere ipotesi nel cervello che scoppiavano come l’acqua in ebollizione. 

Tornando sui propri passi, interrogò le guardie di turno finché una non si ricordò di aver visto Dazai prendere l’ascensore che portava al tetto. Chuuya premette incazzato la stessa destinazione, ma appena le porte si chiusero gli fu inevitabile addizionare Dazai più tetto e trarre conclusioni affrettate. 

Col cuore che non la smetteva di rimbalzargli nel petto, il rosso quasi sfondò il pulsante dell’ultimo piano con frustrazione, sapendo benissimo che non avrebbe accelerato la corsa. Tentò di calmarsi, pensando che non fosse il momento delle cazzate. Con Odasaku in giro vivo e vegeto, Dazai non aveva più certe intenzioni.  

 

La notte di Yokohama lo accolse con un alito fresco, scompigliandogli i capelli. Le luci della città erano un tappeto di colori fino al mare, ma per quanto Chuuya amasse guardarle, il suo sguardo frugò lo spazio circostante del tetto. Con una lunga occhiata, camminando e girando su se stesso, cercò una figura nera in piedi sul cornicione. Non trovò nulla. 

Quando abbassò lo sguardo ebbe risposta ai suoi timori. 

Dazai era lì, per terra, a pochi passi da lui. 

Il cuore di Chuuya decelerò di colpo e si prese un attimo per passarsi una mano sulla faccia. 

Cosa, esattamente, non andava nella sua testa? Se lo chiese mentre si avvicinava senza togliere gli occhi di dosso allo Sgombro. 

Si era fatto prendere dal panico senza alcuna ragione. I tentativi di suicidio di Dazai non avevano mai previsto tetti di palazzi. Si sarebbe dovuto trattare dell’ultimo tentativo, il definitivo. Un biglietto di sola andata. Da quell’altezza non voleva immaginare cosa avrebbero raschiato dal marciapiede. 

Nonostante Chuuya non stesse facendo nulla per celare la propria presenza, l’ex detective non diede segni di averlo sentito. Arrivato vicino, la Lumaca gli diede un colpetto con la punta della scarpa. 

«Ohi» aggiunse, avvertendo improvvisamente tutta la stanchezza della giornata sulle spalle. 

Dazai mugugnò, svegliandosi. Sbatté le palpebre più di una volta mettendo a fuoco la testa rossa sopra di sé. 

«Ehi» ricambiò, stirando un sorrisetto e allungandosi per bene come il gatto che era. «Wow, mi sono addormentato. Che ore sono?» 

«Le nove passate. Da quant’è che sei qua sopra?»

Dazai ci pensò un attimo. «Cinque ore.»

Chuuya corrugò la fronte, mani sui fianchi. 

«Si può sapere che diavolo sei venuto a fare qui?» 

Lo Sgombro agitò la mano in un gesto vago. 

«Contemplavo l’infinito» e lo disse saltando in piedi e abbassando gli occhi su Yokohama. «Da qui è molto bello.»

C’era una nota disarmonica da qualche parte che mantenne l’attenzione del rosso fissa sul partner. 

«È successo qualcosa?»

«Eh?» la sorpresa di Dazai si abbozzò in un sorriso sagace. «Ti preoccupi?» 

Chuuya non scordò mai come fosse bastata una domanda tanto stupida a dare inizio a tutto. 

«Sì.»

E una risposta altrettanto sciocca.

Anche se fu una replica semplice e ammissiva, Chuuya non la ritrattò. Sapeva che fosse un terreno minato. Aveva appena ammesso qualcosa per cui il suo fegato ne avrebbe risentito nei giorni successivi probabilmente, ma decise di rimanere su quella strada. 

Mori dimostra di avere un cuore quando si tratta della sua creatura più riuscita. Vale anche per te.

Quella doveva essere la maledizione del Demone Prodigio. Potevi odiarlo, ma sembrava che nessuno di loro fosse in grado di voltargli davvero le spalle. 

Dazai si lasciò scappare un sospiro che lo sgonfiò di tutto l’entusiasmo. Inclinò la testa, fissando Chuuya con un broncio. 

«Vi siete messi d’accordo per farmi provare forti emozioni oggi?» lagnò. «Dove sono finiti gli uomini sanguinari della mafia che risolvono tutto a pugni?»

«Ma che diavolo stai dicendo? Cos’è successo?!» 

«Niente, niente» cincischiò Dazai, facendo qualche passo verso il bordo del palazzo. 

Chuuya lo seguì solo con lo sguardo, in attesa di una spiegazione, ma misurando ognuna di quelle brevi falcate con attenzione. 

«Oggi pomeriggio è passato Akutagawa. Abbiamo avuto uno scambio di opinioni» raccontò l’ex detective. Si fermò oltre la linea di sicurezza, ma restò semplicemente lì, mani in tasca. 

Chuuya lo raggiunse, spinto più dal bisogno di guardarlo in faccia per sincerarsi di quelle parole, che da altri timori su tentativi suicidi. 

«Akutagawa è in grado di esprimere delle opinioni? Con te?»

Dazai rise di gola. 

«Per un sacco di tempo ho avuto lo stesso dubbio, ma a quanto pare ne è capace. Sembra che il mio intento di spingere Akutagawa a collaborare con Atsushi-kun stia evolvendo meglio del previsto.»

Il commento di Chuuya fu un verso esasperato. 

«Perchè ti metti a manipolare dei ragazzini?»

«Cosa pensi che abbia fatto Mori-san con noi?»

Quello della Lumaca fu un silenzio frustrato ma che non contestava la realtà. Il suo sguardo aveva le tracce di un risentimento che nel tempo si era andato mitigando. Sette anni prima era stato incastrato, ma sarebbe stata una bugia negare che, se avesse avuto modo di scegliere, avrebbe rifatto gli stessi passi da capo senza esitazioni - più con l’idea di mettere nel sacco lo Sgombro in qualche maniera. Ma sarebbe stata un’altra storia.  

«Sapeva che combinati saremo stati inarrestabili» replicò, frugandosi in tasca e recuperando una sigaretta.  

«Mi rubi le battute?» lo pizzicò Dazai, ma il suo tono fu sporcato di malinconia. «Il Duo Nero…»

«Hai pensato di fare la stessa cosa con Akutagawa e la Tigre Mannara?» indagò Chuuya, anche se ne era già certo. L’improbabilità era una delle carte di Dazai, quindi più una situazione era surreale più lo zampino era il suo. Il bagliore dell’accendino brillò illuminandogli il viso e la prima boccata di fumo fu inebriante. 

«Dal primo momento in cui ho incontrato Atsushi» confessò l’ex detective, con la fermezza e la serietà con cui si confessano i segreti quando è il momento giusto. L’odore del tabacco smorzò di riflesso anche i suoi nervi, facendolo continuare. 

«Sapevo che la rivalità avrebbe spronato entrambi e che insieme sarebbero stati… inarrestabili» e scoccò un’occhiata eloquente a Chuuya. «Anche se non ho ancora capito chi dei due sia la mente e il chi il braccio.»

«Potrebbero rivelarsi migliori di noi» replicò pacato Chuuya, osservando la città che si estendeva ad appena due passi da lui. Sarebbe stato un caleidoscopico salto nel baratro, ma non ebbe alcuna tentazione ad affascinarlo. Allungò il braccio e diede un colpo al filtro della sigaretta nel vuoto. La cenere non cadde mai, ma fu portata via dal lieve vento onnipresente a quell’altezza. 

«Wow Chuuya, questa sembra proprio la frase che direbbe un papà!»

Dazai finse di emozionarsi, congiungendo le mani con ammirazione. 

«È l’orologio biologico a chiamarti o senti l’ora di andare in pensione?»

«Ma piantala, deficiente» sbottò il partner, tirandogli una gomitata nel fianco. 

Lo Sgombro incassò lamentadosi sonoramente e massaggiandosi la parte lesa. 

«Sei il solito bruto… ma penso che Atsushi-kun potrebbe piacerti» aggiunse con una parvenza di dolcezza. 

Non si aspettò un ghigno in risposta, insieme a un’occhiata che la diceva lunga. Chuuya gli soffiò del fumo in faccia. 

«Oh, ma lui mi piace molto. Abbiamo fatto una scommessa qualche tempo fa.»

«Cosa!? Ma vi siete visti a malapena una volta!»

«Questo lo dici tu. Mica devi sempre sapere tutto.»

«Invece sì! Stiamo parlando di un mio protetto! Che gli hai fatto!?»  

«Tenerti all’oscuro di qualcosa è troppo appagante. Non te lo direi neanche se ti mettessi in ginocchio.»

«Solo per sentirti più alto! Speraci! Te lo farò sputare, o andrò direttamente a parlare con Atsushi!» 

Dazai sembrava tornato il ragazzino della mafia che tormentava il suo cane rabbioso bipede, ma Chuuya aveva quell’asso nella manica e non lo avrebbe mollato tanto facilmente. 

Bisticciarono per diversi minuti, ma fu la discussione più leggera che avessero mai avuto. Gli angoli delle bocche di entrambi ebbero guizzi continui verso l’alto e i loro toni furono imitazioni di quelli coloriti con cui si insultavano di solito. 

Quando la sigaretta di Chuuya emanò un ultimo bagliore rossastro, anche quelle chiacchiere insensate cessarono. 

«Rientriamo? Devo ancora cenare» propose Chuuya, visibilmente più rilassato. 

L’ex detective non rispose, perso a fissare il panorama con un’espressione che non restituiva alcuna emozione riconoscibile. Era pensieroso, ma senza una direzione chiara da esprimere. 

«C’è una cosa che vorrei provare.»

«Mh?»

Dazai mosse un passo verso il bordo del palazzo e Chuuya si tese di riflesso. Non tentò gesti avventati, ma non ci furono neanche più centimetri di cemento a dividere l’ex detective dal vuoto. 

Con lentezza, Dazai si volse, dando le spalle alla città e guardando Chuuya negli occhi. Sollevò entrambe le mani e gli porse i palmi. 

Era chiaro che il rosso avesse il cuore a battergli in gola. Ci mise manciate di secondi ad abbassare lo sguardo dal viso rilassato del partner alle sue dita lunghe, senza cogliere la richiesta. 

«Andrà bene» mormorò Dazai. «Qualsiasi scelta farai.»

Il vento, leggero, sembrò sospingere con una carezza le spalle di Dazai verso l’abisso di luci. Il silenzio si trasformò in tempo rallentato e i secondi divennero frazioni di brividi. 

Chuuya realizzò cosa stesse per succedere vedendo quelle dita allontanarsi da lui. Il suo corpo si mosse prima della mente. 

Lo afferrò

Per un lunghissimo, dilatato istante, il peso di Dazai parve vincere e fare dono alla gravità reale - quella di cui nessuno poteva essere il padrone in quel momento - di un doppio tributo. 

Chuuya non lo permise. Puntò i piedi e scaricò in terra tutta la propria forza per ricalibrare la bilancia di follia. Erano sette anni che si allenava sapendo che Dazai poteva renderlo un fuscello con un tocco. Sette anni che culminarono in quell’esatto secondo in cui le cose andarono come volle lui. Dazai gli aveva dato una scelta e lui l’aveva fatta.

 

 

Il mondo tornò ad avere dei suoni e il rosso avvertì l’ansito del proprio respiro. Stava sciogliendo il nervosismo in lente boccate d’aria. 

Escluso lo spavento iniziale, la tensione si trasformò in un’ulteriore presa salda, nella sicurezza che Dazai non sarebbe caduto. 

In un silenzio fatto di sussurri che echeggiavano nella propria testa, l’ex detective restò con la testa reclinata all’indietro a contemplare l’inversione di cielo e terra. 

«Non cambia quasi per niente» commentò in un mormorio di velluto, che trasmise alle orecchie della Lumaca il sorriso in cui erano piegate le sue labbra. 

«Potrei quasi viverci in un mondo sottosopra.»

Chuuya restò taciturno. Non era arrabbiato e ne fu così sorpreso da sentirsi defraudato di una certezza. 

Se lo Sgombro avesse compiuto un gesto del genere quattro, cinque, sei anni prima, il se stesso di allora lo avrebbe acchiappato e lanciato verso l’interno del tetto, urlando e bestemmiando, pestandolo a suon di calci per scaricare la botta di adrenalina. 

Non fece nulla del genere in quel momento. La presa era salda, l’equilibrio lo gestiva, era sicuro. Sicuro di tutto meno dell’incrinatura del confine tra sé e Dazai. 

C’era sempre stata una muraglia tra di loro, un fosso, una linea a dividerli e, per finire, il tempo che la Terra ci aveva messo a ruotare intorno al Sole per quattro volte aveva sancito un confine spazio-temporale definitivo. 

Quattro anni di silenzio, nel loro mondo, dove un giorno eri vivo e quello dopo no, erano una vita intera. Chuuya quella vita l’aveva passata a trascinare nell’ombra tutti i perché, a posizionare una verità volubile al centro del tavolo e andare avanti. Si era interrogato su Dazai fino a farsi venire la nausea e gli era stata restituita solo la notizia che lui si fosse creato un’altra vita. 

Chuuya aveva capito cosa fossero i legami quando questi si erano stretti intorno al suo collo come i cappi che tanto piacevano allo Sgombro. I suoi compagni delle Pecore gli avevano graffiato la pelle lasciandolo sanguinante; le Bandiere avevano piantato le proprie lapidi nel suo petto, vivendo come fantasmi nelle sue vene; Dazai, invece, aveva stretto la corda, ma mai abbastanza da ucciderlo. Il problema era quello. Aveva lasciato il gesto incompiuto. L’aveva lasciato in sospeso

Quella di essere tornato era un'illusione che si erano creati insieme. Il ritorno di Dazai era una pellicola che continuava un film finito con la sconfitta della Mimic e che non teneva conto dei quattro anni successivi. Chi era rimasto indietro aveva scritto una storia nella propria testa, dove le cose sarebbero dovute andare seguendo un certo copione. 

Tuttavia, il Dazai che aveva varcato la soglia della Port Mafia a ventidue anni era un altro attore. Era bravo. Imitava i propri stessi passi, ma la sua ombra raccontava una commedia diversa. 

«Ehi, Chuuya… penso di avere un po’ fame!»

Dazai tirò su la testa con i capelli completamente scompigliati e la faccia di un ragazzino contento. 

Senza strattoni, la Lumaca lo tirò verso di sé, lontano dal bordo, come fosse stato un gesto abituale. Il sipario calò su quella follia e Chuuya dimenticò i propri pensieri. 

«Andiamo?» propose il rosso, fissando la porta d’accesso al tetto, ma senza metterla realmente a fuoco. Fu il primo a incamminarsi, mani in tasca, la chiara sensazione, da qualche parte sottopelle, che il giorno seguente si sarebbe svegliato diverso. 

Dietro di lui, Dazai lo seguì in silenzio, ma solo per alcuni passi. 

Chuuya sbuffò. 

«Cos’altro c’è, Sgombro?»

«C’è una cosa che non abbiamo mai fatto!» esordì l’ex detective, per poi prendersi il mento con una mano e riflettere meglio. «Cioè, tecnicamente sì, ma non fu il massimo.» 

Le spalle del rosso si abbassarono esasperate mentre buttava fuori uno sbuffo, tornando davanti al partner. 

«Cosa vuoi fare? Le capriole? Bungee jumping?»

Dazai si chinò su Chuuya e lo baciò. 

Un contatto leggero, breve, semplice. 

L’ex detective si rimise dritto e si umettò le labbra di fronte a un Chuuya che sembrava stesse sperimentando per la prima volta cosa significasse realmente la parola sconvolto

«Che cosa significa questo?» 

Il rosso non fu certo che la propria voce avesse davvero funzionato. Dazai lo superò andando verso la porta e gesticolando in movimenti che non avevano senso. 

«Un bacio è un bacio.» 

Si voltò con un sorrisetto che nelle intenzioni, probabilmente, sarebbe voluto essere canzonatorio, ma che fu inquinato da qualcosa di più tiepido. 

«Sono parole tue, te le ricordi? E aggiungerei che quella volta hai detto anche, cito testualmente: non regalo baci. Bacio chi mi interessa. Se ne ho voglia. Se ha valore.» 

Chuuya non era mai apparso così smarrito in vita sua. 

«Andiamo, Lumaca! È farina del tuo sacco! Mi hai dato qualcosa su cui riflettere all’epoca» confessò lo Sgombro ridacchiando. «Vorrei non aver lasciato il cellulare nel tuo ufficio perché hai una faccia che batte tutte le figuracce del tuo repertorio. Dai Chuuya, non volevo sconvolgerti. Ti offro la cena se chiudi almeno la bocca.»

Con due falcate, all’improvviso, e con un’urgenza fatta di pura irruenza, il rosso fu nello spazio vitale di Dazai, che alzò le braccia a difesa. 

«Lo sapevo, ti sei incazzato.»

Chuuya gli afferrò i polsi e li strattonò verso il basso. Costrinse tutti i suoi ventuno centimetri di troppo ad abbassarsi verso di lui e ricambiò il bacio. 

Ricambiò e approfondì come se qualcuno, tastando dentro di lui, avesse trovato l’interruttore giusto e avesse acceso una lampadina di cui aveva ignorato l’esistenza. Il nodo che Dazai gli aveva messo intorno al collo andandosene, Chuuya lo sciolse in quel bacio, tornando a toccare il presente. 

Gli lasciò andare i polsi e portò le mani sul suo viso. Si staccò dalle sue labbra, ma Col cazzo che ti lascio scappare di nuovo

«Ascensore. Appartamento. Il mio. Adesso

   



 

To be continued

 

Saranno le note più veloci del west. È tardissimo, ma dovevo postarlo, per me e per voi che negli ultimi giorni, con i vostri commenti e le chiacchiere, mi avete davvero dato un boost di autostima. 

Ebbene, eccolo, il capito della scena del tetto, per chi ha conosciuto prima questa storia. 

Ed ecco la Soukoku che prende le redini di questo e soprattutto del prossimo capitolo. Trattateli bene, soprattutto Chuuya, che sta per passare l’interno e la sua guida è Dazai, quindi meglio solo che male accompagnato. 

NOTA importantissima: a parte i tanti spoiler a Stormbringer dovuti a Verlaine, in questo capitolo ci sono riferimenti a Dazai, please. il prequel di questa storia! “Un bacio è un bacio ecc”. Consiglio la lettura per capire la base sentimentale di No Longer Flawless! 

Che altro aggiungere… Akutagawa ha spiccato il volo, la sua parabola è iniziata. Atterrerà in piedi? 

Un infinito GRAZIE a Europa91 per la traduzione dei dialoghi in francese! 

E di nuovo un GRAZIE a tutti voi che state seguendo e a chi commenta çWç Mi date davvero tanta forza e soddisfazione! 

Alla prossima!

Vi ricordo che sono su IG come @NoLongerFlawless.fanfic

 

Prossimo capitolo → When Our Worlds Collide (Parte 2) 

 

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Capitolo 19
*** When Our Worlds Collide (Parte 2) ***


Capitolo 18

When Our Worlds Collide (Parte 2)





 

Just like a supernova exploding
Our two worlds are colliding,

we are endlessly falling
Just like a photograph ageing, fading
The cracks are slowly breaking, 
and we are slowly changing

[Our Worlds Collide - Dead by April]








 

Non proferirono parola per non rompere niente di tutto ciò che stava avvenendo. 

Si conoscevano; la soglia che avevano appena varcato era ancora troppo vicina, una sola sillaba avrebbe potuto innescare una reazione e quella bolla sarebbe scoppiata. 

Nello spazio tra il tetto e l’appartamento di Chuuya capirono che stavano correndo su un precipizio. Nessuno dei due tirò il freno o ci ripensò; non se lo dissero, ma lo volevano entrambi. Si lessero senza problemi.

Accompagnarono i movimenti l’uno dell’altro. Si frugarono nei pensieri, non distinsero a chi appartenessero sospiri e gemiti e assaggiarono le porzioni di segreti che i vestiti avevano sempre nascosto. 

Chuuya sciolse le bende di Dazai con dita ferme e Dazai tolse il collarino a Chuuya un bacio alla volta. 

Rimasero solo ciò che erano, ma non si guardarono mai negli occhi. Era un gioco di corpi e di ossimori. Il timore che l’anima potesse avere un colore diverso li spinse a non scrutare quelle profondità. 

Si volevano. Tratteggiarono il confine al più basilare degli istinti. Era anche troppo per il vissuto che stavano accantonando alle spalle. Ciò che importò a entrambi, in quel momento, fu tutto quello che le loro dita riuscirono a raggiungere. 



 

Dopo una prima volta, la morsa del desiderio lì trascinò come cani affamati verso un secondo orgasmo, togliendo loro il fiato nel buio della camera da letto.

Dazai era riverso su un fianco, il viso affondato nel cuscino, e ansimava a grandi boccate, i polmoni in fiamme. Il respiro di Chuuya era più contenuto, ma non meno affaticato, gli occhi che scivolavano dal viso lucido e arrossato del partner alla pelle che aveva appena finito di divorare. 

«Perché non abbiamo mai fatto sesso invece di picchiarci? Che spreco di occasioni» biascicò Dazai, stirando un ghignò che si deformò presto in un nuovo respiro e nei sobbalzi del petto madido. 

Chuuya rise senza rumore, passandosi le dita tra le ciocche disordinate sulla fronte. Si sentiva leggero.

«Al tempo avrei vomitato soltanto al pensiero.»

Anche Dazai rise sincero e il rosso strinse il lenzuolo con la mano non in vista, con quelle note così inconsuete a entrargli dentro senza permesso, rimbombandogli nel torace. 

«Ho voglia di rifarlo, Lumaca. Ma non adesso…»

«Non hai un cazzo di fiato, Dazai! Ogni tanto provaci ad allenarti un po’.»

L’ex detective esibì una smorfia schifata, recuperando il lenzuolo. 

«Odio lo sport» e nel dirlo, si girò sullo stomaco, abbracciando il cuscino e strusciandoci la guancia. «Ora… ho proprio voglia di dormire.»

Fu il suo ultimo mormorio sommesso, prima che il sonno calasse su di lui. 



 

Chuuya rimase sveglio. 

Osservare Dazai dormire di fianco a lui non gli conciliò il sonno. L’esatto opposto. 

C’erano domande che aveva lanciato via nel momento in cui aveva sentito l’impulso di ricambiare il bacio di Dazai e avere di più, e che ora stavano tornando come formiche operaie nei cunicoli della sua mente.  

Non si stava pentendo. Nonostante non avesse un fottuto indizio su come si sentisse, la sensazione più stabile era di aver finalmente fatto qualcosa che rimandava da troppo. Ed era l’idea che, più di tutte, non sapeva dove ricollocare. 

Quando erano nati certi impulsi verso Dazai? E chiamarli impulsi fu un modo scientifico per prendere le distanze. 

Il desiderio era stato una sofferenza fino al primo orgasmo; il secondo aveva portato la devastazione di una mareggiata, lasciando dietro di sé non solo il torpore fisico, ma anche la consapevolezza di quanto la chimica tra di loro fosse stata appagante. Entrambi avevano saputo cosa e come l’altro volesse il piacere e non si erano messe in mezzo minacce o ritrattazioni. 

Chuuya si passò le mani sulla faccia, fissando il soffitto oscuro della camera. Avevano scelto il buio per consumarsi a vicenda. Yokohama era ancora un insieme di punti luminosi oltre i vetri oscurati che formavano una delle pareti della camera e il rosso si perse per un po’ a guardarle. Questo gli portò alla mente un’altra questione spinta via con tutto il resto. La principale. 

Oda. 

Si stupì di come il pensiero non lo stesse pungolando con più insistenza e fastidio, ma Chuuya non avvertì sapori amari sulla coscienza o di aver fatto qualcosa per cui chiedere scusa. 

Tuttavia, nascose volutamente quella bomba a orologeria. Credere di aver fatto un torto a Oda - o, peggio, sentirsi geloso della sua presenza trasparente che non abbandonava mai Dazai - era l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento. 

Non c’era una parola con la “a” tra lui e lo Sgombro. Faceva già abbastanza fatica ad accettare quello che era successo, insieme alle affermazioni del cazzo che Dazai gli aveva messo in bocca la sera che si erano ubriacati. 

Il piacere ancora languiva in tutti i suoi muscoli e di farsi venire il voltastomaco con implicazioni che non stavano né in cielo né in terra, men che meno tra loro due, era dichiarare guerra a se stesso. 

Poteva - doveva - accettare che sì, ci fosse della fiducia tra di loro. Era il massimo a cui era disposto ad arrivare per giustificare cazzate passate come quella di abbattere un drago in stato di Corruzione senza avere la certezza che Dazai fosse vivo per fermarlo. 

Quella parentesi tra di loro sarebbe stata una scopata occasionale, decise. O più di una, se dava retta a quello che gli si agitava nello stomaco come una fame ancora non del tutto appagata. Poteva ammetterlo. Gli era già capitato di rivedersi con amanti occasionali più di una volta e non aveva implicato altro. Qualcosa di transitorio per l’ebbrezza fisica. 

Con quell’ultima certezza, Chuuya respirò a fondo e si concesse di quietarsi col sonno. 



 

* * *



 

«…zai. Ohi, Dazai!»

Chuuya scrollò lo Sgombro per la spalla aumentando l’insistenza, ma ottenne soltanto mugolii scoordinati e che la faccia del partner affondasse ancora di più nel cuscino che stava abbracciando. Sbuffò con sonorità dalla bocca. Certe cose non sarebbero cambiate neanche in quel mondo sottosopra. 

«Che cazzo, Dazai, alzati! Devi farti una doccia!»

Quello che l’ex detective disse non fu intelligibile, ma neanche propositivo. Chuuya se lo caricò di peso con tutto il lenzuolo scuro e lo scaricò di malagrazia in bagno, chiudendosi la porta alle spalle prima che le lamentele gli piombassero addosso. 

«Azzardati a fare casino con i miei prodotti e ti ammazzo!» ci tenne a urlare per farsi sentire quando avvertì l’acqua iniziare a scorrere. Anche se, quel ti ammazzo, suonò bugiardo alle proprie orecchie. 

Un tempo infinito più tardi, Dazai riemerse dal bagno con un asciugamano avvolto sui fianchi, mentre con un altro si stava frizionando i capelli. 

«Lumaca, il tuo accappatoio è troppo piccolo.»

Chuuya gli regalò un’occhiata obliqua, tornando a sfogliare una rivista e rispondendogli con un dito medio. Aveva la bocca occupata a masticare un pezzo di quello che ormai era considerabile più un brunch che una colazione, e non si rovinò il sapore mandandolo a quel paese. 

Dazai si buttò a sedere ai piedi del letto rifatto e qualcosa cadde in terra per effetto del rimbalzo. Di fianco all’ex detective c’era un cambio di vestiti e un esagerato numero di rotolini di bende. 

Il Duo Nero si scambiò un’occhiata cauta e silenziosa. 

Era una situazione che si sarebbe scritta da sola. Dazai avrebbe esordito con una battuta delle sue sulle premure di Chuuya e quest’ultimo avrebbe permesso alla prima vena rabbiosa di esplodere per essere stato preso in giro.

Nessuno dei due disse nulla. Il che, a lungo andare, sarebbe stato più problematico che rompere la bolla in cui stavano galleggiando. 

Chuuya si sforzò di trovare qualcos’altro. Camminare sui carboni ardenti non faceva per lui.

«Ohi» e indicò la seconda poltrona di fianco al tavolino e al carrello con la colazione che si era fatto portare. «Mangia qualcosa.» 

Suonò molto patetico. Dazai risaltellò in piedi, ma per dargli le spalle, frugare tra i vestiti e mettersi solo l’intimo. Non prese in considerazione il resto degli indumenti e si buttò invece di pancia sulle coperte. 

«Questo letto è troppo comodo» sospirò soddisfatto, dondolando come un bambino. «Anche questo te lo ha consigliato Yumiko-chan?» 

L’insinuazione immusonì Chuuya, che non replicò, dando terreno a Dazai per continuare. 

«È enormeeeee! Ci fai dei festini? Hai organizzato delle orge? Perché non ne sapevo proprio niente!»

Tu hai scelto di andarci a letto ed è troppo tardi per lamentarsi, lo rimbeccò il suo cervello prima che Chuuya si mettesse a urlare al vento. Di nuovo, l’asticella stava per raggiungere quel picco in cui sarebbe stato più facile buttare tutto all’aria. 

«Mi piace stare comodo, idiota.»

«Comodo con quante persone? Perché qui in quattro ci si dorme alla grande! Se poi sono persone alte come te anche di più…»

La voce di Kouyou che gli chiedeva di contare fino a dieci sembrò ridere di lui e delle sue disgrazie. 

«Sono un Dirigente della Port Mafia, non mi porto nessuno in camera da letto! Le basi Dazai, cazzo!»

Il rosso sembrò aver affermato qualcosa di ragionevole, perché lo Sgombro restò in silenzio più del dovuto, per poi mettersi seduto e fissare il partner con troppa serietà per risultare naturale. 

«Vuol dire che abbiamo sverginato il tuo letto stanotte?» 

«… cosa?» 

La domanda rimbalzò tra le tempie di Chuuya un paio di volte prima che il rosso accettasse di averla sentita davvero. Si massaggiò la faccia con una mano tentando di impedire l’assalto di una nevrosi alle dodici del giorno più catastrofico della sua esistenza. 

Cosa gli era saltato in mente di scoparsi Dazai? Che diavolo era successo la notte prima su quel tetto per cui il suo istinto, il suo corpo, la sua mente, tutto di lui, avevano creduto fosse una buona idea appoggiare una decisione così… così… 

Non trovò la parola adatta. Se ne ripeté un quantitativo esagerato e nessuna era un complimento o aveva una connotazione positiva nascosta da qualche parte. 

Neanche dirsi che fosse stata la libido funzionò. Se c’era stata da qualche parte della tensione sessuale mascherata era nei guai da molto più tempo di quel che credeva. Non poteva essere stato attratto da Dazai, andava oltre ogni ragionevole senso di autoconservazione. E se sì, quando aveva battuto la testa ed era successo? Ci doveva essere una spiegazione logica che gli sfuggiva. 

«Ehi, Lumaca, Lumacaaaaa! Voglio la colazione a letto!» si lamentò l’ex detective, tornato a dimenarsi sulle coperte. 

«Scordatelo!» Chuuya letteralmente abbaiò, calpestando i buoni propositi di non belligeranza. Se la cosa tra di loro doveva iniziare e finire subito i suoi nervi avrebbero solo potuto ringraziarlo.

Dazai sbuffò annoiato. 

«Allora non c’è niente per cui rimanere svegli. Torno a dormire» brontolò, gattonando fino alla testata del letto e iniziando a disfare le coperte. 

«Cristo, ma cos’hai, cinque anni!?» 

I passi di Chuuya calcarono così tanto sul pavimento che dal piano inferiore qualcuno dovette sentirlo nonostante l’insonorizzazione generale del palazzo. Affondate le dita nel piumone, diede uno strattone pieno della frustrazione per essersi cacciato in quella situazione. 

Dazai artigliò la coperta come un gatto, tirando dall’altra parte. 

«Siamo già alla violenza domestica!?» e dato che il rosso era in vantaggio a livello di forza, agguantò un cuscino, tirandologlielo in faccia. 

Fu una dichiarazione di guerra e Chuuya balzò con un grido sul proprio letto, usando lo stesso cuscino con cui era appena stato colpito. Rotolarono e scompigliarono il poco ordine che c’era, rischiando più volte di finire sul pavimento, finché Dazai non si impegnò il minimo indispensabile a fregarlo e salirgli a cavalcioni sulla schiena, tenendogli fermi i polsi sopra la testa. 

Sarebbe bastato un attimo per liberarsi, ma Chuuya restò immobilizzato dal sentire l’affanno dello Sgombro nell’orecchio. Lo ricollegò in un battito alla alla notte appena trascorsa e scelse di prolungare quella sconfitta. Dazai gli faceva effetto e negarlo sarebbe stato insensato. 

«Ti è piaciuto stanotte?» 

Per quanto fosse la voce di Dazai, quel tono caldo, curioso, al di là del provocatorio o del capriccio, non lo aveva mai sentito. Il rosso ghermì le lenzuola e gli scoccò un’occhiata con la coda dell’occhio. 

«Sì.» 

Poteva incazzarsi quanto gli pareva, con Dazai o con la propria stupidità, ma restava il fatto che una scelta l’aveva fatta e intendeva rimanere coerente con se stesso. 

Lo Sgombro stirò un sorrisino così sincero da lasciare disarmati, spostando poi l’attenzione alla nuca del partner e leccandosi le labbra. 

«Non sono abituato a sentirti dire tanti sì nei miei confronti.»

Chuuya non era abituato a quell’intimità senza maschere, quindi erano in due. Ma per il bene di entrambi, roteò gli occhi con esasperazione. 

«Hai intenzione di combinare qualcosa di utile oggi?»

L’espressione dello Sgombro prese una piega da cui straripò la malizia. Chinandosi, lasciò un lungo bacio sul collo, sospirandogli vicino all’orecchio.

«Stavo pensando di farti un pompino.»

Non c’era modo per Chuuya di mascherare il fremito che lo attraversò per interno, non con Dazai sedutogli sopra. 

«Ti faccio emozionare con poco.» 

Un pompino da quel bastardo di Dazai Osamu sarebbe merce di scambio

Il pensiero scappò a Chuuya mentre si muovevano in sincrono. Lui si slacciò la fibbia della cintura e i pantaloni e l’ex-detective glieli sfilò insieme all’intimo. L’idea sempre più chiara che non ne sarebbe uscito per intero da quella storia fu l’ultima coerenza che il cervello concesse alla Lumaca. Almeno, avrebbe fatto di tutto per godersela. Il rosso si sistemò contro la testiera del letto e lasciò al partner campo libero. 

La sera prima, anche se ci fosse stato il tempo per i preliminari, non sarebbero riusciti a distillarne il giusto piacere. Troppo coinvolti e con l’urgenza di consumarsi prima che l’incanto potesse finire, avevano scelto strade più rapide per raggiungere l’apice. Niente pensieri, niente ripensamenti, soltanto l’istinto grezzo, a tratti animalesco. 

Ed è stato un bene, pensò Chuuya, perché essere cosciente e vedere la bocca di Dazai schiudersi sulla propria eccitazione lo scosse più di quanto avesse mai potuto scommettere. 

«Cristo…» esalò, portandosi una mano sugli occhi. 

Merda, aggiunse tra sé, perché da quella situazione non si sarebbe più tirato fuori. Avrebbe potuto dare un calcio allo Sgombro e allontanarlo da sé, raccogliere le quattro cose sparse per terra che erano i suoi vestiti e sbatterlo fuori dall’appartamento. Forse quella era davvero l’ultima chance all’orizzonte per avere salva la sanità mentale. 

Ma il gemito che si lasciò sfuggire, insieme al brivido che gli irrigidì il bacino, raccontarono un’altra storia. Lanciare un’occhiata al viso di Dazai e incrociarne gli occhi lo eccitarono ancora di più, e di più, e di più, senza lasciargli lo spazio di concentrazione necessario a valutare se stesse almeno facendo un lavoro decente. 

Aveva le sinapsi completamente andate al solo pensiero che la bocca di Dazai fosse sul proprio- 

«Cazzo…» gemette, e l’imprecazione gli uscì sghemba. Non voleva afferrargli la testa, ma il pensiero era già in ritardo sull’azione mentre le dita trovavano un appiglio nelle ciocche ancora umide dalla doccia. Il ritmo della lingua e della bocca di Dazai non variarono e Chuuya sospirò in quello che suonò come un singhiozzo. 

Il rosso non teneva davvero conto della durata delle proprie performance. Dipendevano da troppi fattori e variabili - serate programmate e sveltine in missione, quindi non gli era mai interessato soffermarcisi o preoccuparsene. Quella volta seppe di essere durato davvero poco per i propri standard. 

«Fanculo…» bofonchiò dopo che l’orgasmo lo coinvolse di prepotenza. Dazai non si spostò e Chuuya gli strinse di più i capelli, per riflesso alla consapevolezza che stesse ingoiando. Non si sentì padrone delle proprie palpitazioni e continuò a imprecare. 

Non aveva nulla, ma proprio nulla da recriminare alla propria vita sessuale. Aveva fatto i suoi errori, le cazzate e le figuracce come tutti e non si era fatto mancare esperienze e piaceri diversi anche solo per togliersi delle curiosità, ma in quel momento, quella parentesi con Dazai - deglutì il vuoto - lo stava mettendo alla prova. 

Il miglior sesso di sempre. Dirlo a voce alta era fuori discussione, perché solo pensarlo, per una cazzo di notte di cui aveva solo flash e sapori e gemiti confusi come ricordo, e per un maledetto singolo pompino, era assurdo. Ciononostante, non riuscì a trovare niente a cui paragonare il piacere totalizzante che gli stava languendo in ogni fibra, materiale o mentale. Trovarsi ad associare il tutto a Dazai era una blasfemia. E ne voleva ancora. 

Quando però abbassò lo sguardo, lucido e reduce dal collasso, l’ex detective era sparito. 

Seguì un attimo di smarrimento frastornato, utile a fargli riprendere i contatti con la realtà e rendersi conto che lo Sgombro si era abbozzolato tra lenzuola e coperte, l’espressione beata di chi ha conquistato un forte. 

«Dazai, il pranzo» sospirò Chuuya, recuperando l’intimo. «Non mangi da ieri a pranzo.» 

In risposta, Dazai si accoccolò ancora meglio nel suo nuovo e morbido sarcofago da cui spuntava solo la sua faccia da schiaffi.

«Puoi imboccarmi» mormora, finendo con lo sbadigliare. 

Tempo di rimettersi i pantaloni e il rosso si accorse che stava imprecando da solo. L’ex detective era già nel mondo dei sogni. 


* * *



 

«Sto morendo di fame.»

Dazai neanche aprì gli occhi. Era ancora un involtino informe di lenzuola scure, con un muso lungo insofferente. 

Dalla poltrona su cui era stravaccato, lo sguardo di Chuuya abbandonò la lettura per osservarlo muoversi come una larva appena nata. Sospirò. L’ora di cena era passata da un pezzo e l’idiota aveva tirato a dormire come un sasso anche quando aveva provato a svegliarlo. 

Era stata una giornata slavata per Chuuya. Cominciata tardi, era passata con suoni ovattati, azioni a metà e la testa da un’altra parte. Qualcuno gli aveva chiesto dove fosse finito Dazai e lui se l’era cavata con una mezza verità - Starà dormendo da qualche parte - e gesti fintamente irritati. 

La cosa buona era che i riflessi condizionati al nominare il partner non erano stati ancora inquinati come i suoi pensieri. Al sentire il nome di Dazai, era in grado di usare un tono scocciato e gesticolare in maniera violenta, mascherando il pantano mentale in cui era affondato fino alla gola. 

Lo Sgombro iniziò a districarsi dall’involto, senza mancare di sbadigliare e lagnarsi di essere ancora più stanco di prima.

Dai due conti che si era fatto Chuuya, era quasi certo che l’ex detective non chiudesse occhio da un paio di settimane - a essere generosi. Non serbava ricordi di un Dazai particolarmente dormiglione, più pigro o capace di fingere di riposare in maniera molto efficace. Non si mise a questionare e prese il cellulare. Sapeva riconoscere la vera stanchezza quando la vedeva. 

«Venti minuti e la cena sarà qui» borbottò, tornando al proprio libro. Fu inutile. Vedere Dazai muoversi nel suo campo visivo lo distrasse in continuazione. Il suo stomaco brontolò così forte che Chuuya gli lanciò un’occhiata impietosita. 

«Venti minuti sono un’infinità di tempo e io morirò di fame. È atroce» biascicò Dazai, tenendosi l’addome come se lo avessero ferito mortalmente. Alzò il viso contrito da cucciolo bastonato sul partner. «Tu stai fermo lì a permetterlo!»

«Va’ a sciacquarti la faccia, magari ti svegli» fu il commento laconico del rosso, schermadosi col libro. 

«Senza cibo non ne ho le forze… il bagno è troppo lontanooo!» 

La porta del bagno si affacciava su uno dei lati del letto, quello di Dazai. 

«Buona dipartita allora.» 

Dazai crucciò la fronte e cambiò lamentela. 

«Voglio mangiare a letto.»

Bastò a far riabbandonare la lettura a Chuuya. 

«Scordatelo nella maniera più assoluta. Non lo riempirai di briciole. Non ho intenzione di cambiarlo di nuovo prima di domani.»

Lo Sgombro sbatté le ciglia con la sua inconsumata innocenza. 

«Quindi stanotte facciamo il bis?»

«Se non hai intenzione di risprofondare a dormire» replicò Chuuya senza pensarci. Rifletté in ritardo su come avesse accettato senza indugi. Guardò le righe del libro come scusa e intanto cercò un motivo valido, senza trovarlo, ma non si sentì un idiota nel non avere una ragione per cui dire di no. 

«Allora non devo neanche vestirmi!» trillò allegro l’ex detective, alzandosi finalmente dal letto e incespicando, tra uno stiracchiarsi e l’altro, verso il bagno. 

Prima fu l’acqua che scorreva in bagno, poi ascoltare Dazai canticchiare leggero, infine la percezione di un certo tepore languido nel basso ventre; alla fine Chuuya non riuscì a leggere più di due righe e trovarne senso compiuto. 

Sbuffò tutta l’aria che aveva nei polmoni e si abbadonò completamente contro lo schienale della poltrona, reclinando la testa e poggiandosi sulla faccia il libro aperto. Chiuse gli occhi e pensò alla voglia di gridare e tirare qualche pugno a un sacco da boxing. 

Aveva in loop da quella mattina gli avvenimenti delle ultime ventiquattro ore, come un film la cui pellicola era stata tagliata e reincollata più volte, dandogli flash di momenti precisi, ma incoerenti tra loro. Quando questi finivano, prima che si riavvolgessero per ricominciare,  c’era lo spazio dedicato a quelle domande in sospeso buttate via frettolosamente. 

E lì sarebbero rimaste. Stavano per replicare la notte precedente, ma con cognizione di causa e non un altro rush confuso e sbrigativo, in cui il mondo aveva smesso di pesare sulle loro spalle con confini, pregressi e annessi. Non poteva negare di esserne già eccitato. 

«Une Saison en Enfer, mmh… Suona come un regalo di Verlaine-san.»

Chuuya percepì la presenza di Dazai solo una volta che ebbe parlato. Non trasalì né scattò, lasciando che l’ex detective raccogliesse il libro dal suo viso e lo girasse per leggerlo. 

«Eri serio col francese» commentò con una smorfia, sfogliando le pagine. «Ti si addice. Sei così teatrale e melodrammatico, per questo sapevo che leggi e scrivi poesie» e lo disse riconsegnandogli il libro e andando a sedersi, ranicchiandosi con le gambe al petto, sulla seconda poltrona. 

Chuuya schioccò la lingua, stizzito. 

«Lo so che frugavi tra le mie cose in passato.»

«Un paio di volte ho mandato Akutagawa a farlo. Mi ci sono voluti giorni a farmi obbedire, ma alla fine l’ho convinto che fosse un’esercitazione.»

«Tu sei proprio uno stronzo. Non mi stupisco che quel ragazzino abbia così tanti complessi.»

Dazai sospirò esasperato. 

«Perché lo trattate tutti come un moccioso? Ha vent’anni.»

«Disse l’adulto con la mania dei suicidi.»

«Aaah… non ricordo neanche quando ho tentato l’ultima volta, ci sono troppi casini» si lamentò lo Sgombro alzando le mani e poi lasciandole ricadere con fare drammatico. 

Suonarono al citofono dell’appartamento e Chuuya fu contento di distendere le gambe nell’andare ad aprire. Era decisamente su di giri come non si sentiva da qualche tempo. 

Tornò con il carrello della cena e trovò Dazai seduto sulla sua poltrona, di nuovo intento a sfogliare il libricino di Verlaine. 

«Qui è più caldo» di giustificò e la Lumaca roteò gli occhi, lasciando perdere in partenza. 

Chuuya restò a guardare il partner sbaffarsi la cena di gusto in silenzio, facendo scivolare lo sguardo più volte sui movimenti delle lunghe dita mentre si portava le diverse porzioni del piatto sushi alla bocca, ignorando totalmente le bacchette. A volte si leccava i polpastrelli, altre recuperava un chicco di riso con la lingua. 

Il rosso rammentò di nuovo gli ansimi di quella stessa bocca riempire il buio della stanza e dei suoi sensi, le stesse mani che si erano aggrappate alle sue spalle - lasciandogli anche qualche graffio - e le labbra che qualche ora prima erano avvolte intorno alla sua erezione. 

Si risistemò in poltrona, passandosi una mano sulla faccia e scoccando un’occhiata all’orologio, come se il loro fosse davvero un appuntamento. Non erano neanche le undici. Avevano l’intera notte. 

«La qualità del cibo qui mi era mancata» sospirò soddisfatto Dazai, concludendo con un ultimo sorso di sakè che gli lasciò le labbra umide. Il tempo di mettere giù l’ochoko e il suo sguardo incontrò quello della Lumaca. Aveva un sorriso furbo, ma poco serio. 

«Secondo round?»

Chuuya lo guardò sconsolato come avrebbe fissato una macchia sul muro. 

«Non ti sforzi neanche di creare l’atmosfera.»

La faccia dell’ex detective assunse un’espressione pensosa. Si guardò in giro, finché gli occhi non gli caddero sul vaso di cristallo del carrello portavivande con dentro un’unica rosa rossa decorativa. 

«Potrei-»

«No!» lo fermò secco Chuuya, disgustato e con un morso di imbarazzo ad accendergli le gote. Gli era bastato solo immaginare quell’idiota di Dazai con la rosa in bocca a fare qualche scenata pietosa. Si sentì fisicamente obbligato a togliere il vaso dal raggio d’azione dello Sgombro, perché non c’era da fidarsi. 

«Insomma, Chuuya, che atmosfera vuoi?» sbuffò Dazai, incrociando le braccia. «Ieri non hai fatto tante storie.»

«Ieri a malapena abbiamo realizzato quello che stava succedendo!»

«Mmh, touché» concesse il partner, esibendo poi un altro ghigno dei suoi. «Però siamo bravi a improvvisare.»

Il rosso non replicò. Meditò su quell’affermazione, guardandolo apertamente in faccia. 

Cosa abbiamo improvvisato di preciso?

«Cosa significa questo per te?» chiese, traducendo il proprio pensiero con la sensazione di un prurito fastidioso tra le scapole che non riusciva a raggiungere con le dita. 

«Be’, che anche quando non sappiamo cosa fare-»

«Non quello, idiota» sospirò Chuuya, stringendosi il ponte del naso tra le dita. Riaprì la mano e iniziò a indicare se stesso e poi Dazai, in gesti poco chiari anche a lui e che tradivano quella tensione pruriginosa al centro della schiena. Sapeva solo che tra lui e lo Sgombro mettere le cose in luce era impossibile, ma avevano appena ribaltato sette anni di odio

«Voglio capire questa cosa. Di io e te, io e te, che facciamo sesso.»

L’ex detective prese a picchiettarsi il mento con un dito, osservando il soffitto in cerca di ispirazione. 

«Se la metti così…» iniziò a formulare, mugugnando a mezza bocca. «Dall’esterno potremmo sembrare un racconto gotico, per chi ci conosce.»

La sola idea che qualcuno di loro conoscenza li beccasse in quel frangente fece fremere la Lumaca. 

«Riguardo noi…» riprese lo Sgombro. «Ti senti a disagio?»

«No.»

Chuuya seppe di aver risposto troppo velocemente. Scosse la testa. 

«Non è disagio, ma io ti detesto.»

Dazai separò le gambe e si indicò una coscia. 

«Ti assicuro che dai tuoi morsi di ieri» e puntò poi anche un fianco e la spalla, «il tuo detestarmi è cristallino.» 

C’era del divertimento nel suo ghigno, ma anche della soddisfazione che non rese facile a Chuuya l’autocontrollo. Avvertì la saliva invadergli la bocca e le sue papille rielaborarono il ricordo del sapore che aveva quella pelle piena di cicatrici. Era questione di minuti riottenere un assaggio, porzioni intere, per sé. I suoi dubbi non avevano poi così tanto valore in quel momento.

Il rosso si alzò e si piantò davanti a Dazai, fissandolo con l’intensità con cui gli avrebbe tirato un pugno. 

L’ex detective ricambiò, in attesa, e con una domanda indistinta nell’espressione.  

Chuuya rinunciò. 

La verità era che non aveva idea di cos’altro dire senza mordersi la coda.

Sapeva di chi avrebbe dovuto chiedere - Oda - ma, per la seconda volta, scelse di non farlo. Nella maniera più infantile, non ne aveva voglia. Era eccitato - era visibilmente impossibile da nascondere, ma in quel momento Dazai non gli restituì un appiglio per dipanare il dilemma, nonostante quel fantasma fosse proprio lì accanto a loro. 

Sembravano invece d’accordo nel continuare il discorso della sera prima. 

Chuuya usò lo schienale della poltrona come punto di appoggio e si abbassò a baciare Dazai. 

Niente più scambi confusi. Chuuya volle assaggiare le labbra di Dazai per ciò che erano. Non così sottili, morbide il giusto, al sapore amaro di alcool e di qualcosa che non sarebbe mai rimasto uguale per troppo tempo. Il sapore del suo partner. 

Gli afferrò la mascella, non con irruenza ma con la voglia di sapere, spingendo la lingua a conoscere la bocca allo stesso modo. Si ripeté di non cedere all’urgenza, di calibrare e assaporare. 

Dazai lo seguì con lo stesso ritmo. Con le dita sciolse dalle asole i bottoni della sua camicia, con una cadenza dettata dai loro baci, dalle labbra stuzzicate e dagli occhi che ogni tanto si guardavano, registrando per la prima volta quella nota dissonante in un rapporto fatto di Ti odio

Quando la camicia del rosso scivolò in terra, il passo successivo fu verso il letto. 



 

Si concessero più tempo, più battibecchi mescolati a baci e morsi, meno fretta, più attimi in cui espandere il piacere. 

Chuuya amò avere il controllo. 

Affondò i denti, le dita e la propria eccitazione in Dazai, con la sensazione di poterlo tenere fermo, di averlo catturato, anche soltanto per pochi minuti, di avere la sua sfuggevole presenza in trappola sotto di sé.

La frenesia del fuoco d’artificio che avevano consumato la sera prima aveva avuto l’impatto di due forze della natura che avevano finalmente trovato il giusto terreno in cui combinarsi. Chuuya aveva ricevuto piacere, ne aveva dato e ne aveva preso con avarizia, gola e lussuria. 

Dazai aveva rallentato insieme al partner. Era stato più vocale, i suoi gemiti si erano fatti più lunghi e meno confusi dal bisogno. Chuuya li aveva ascoltati, li aveva assecondati, li aveva stimolati con avidità. 

La prima volta di quella notte li lasciò più stanchi e più soddisfatti della sera precedente. Lo Sgombro ansava di nuovo contro il cuscino e con molto meno fiato della Lumaca. Chuuya ghignò. 

«Sei un disastro» commentò, riavvicinandosi all’ex detective con senza alcuna buona intenziona. 

Prima che Dazai potesse articolare una risposta, il rosso gli si mise a cavalcioni sopra, immerse le dita nella morbidezza dei suoi capelli e lo strattonò per avere accesso alla sua spalla e morderlo. Il gemito vibrò per tutto il suo corpo e Chuuya ne fu deliziato. 

«Tu sei un bruto» mugugnò l’ex detective, ma con un sospiro lungi dall’essere contrario mentre la Lumaca lo riempiva di succhiotti dove ancora non ne aveva lasciati. 

Dazai era più alto, ma prono com’era in quel momento, Chuuya non lo considerò più insormontabile o così inarrivabile. Sapeva di avere una certa preferenza nel dominare a letto, gli piaceva, ma ancora una volta, con Dazai, la sensazione fu diversa. Toccò corde più profonde, come l’idea di poterlo tenere vicino a sé più di quanto era mai stato, di stuzzicarlo, di portarlo allo stremo e poi assaggiare il suo vero sapore. 

«Vuoi continuare a torturarmi?» sussurrò Dazai, scoccandogli un’occhiata sottile corredata di un sorrisetto altrettanto infingardo. Non c’era alcuna lamentela nel suo tono, semmai una nota di fame, la stessa che ancora fluiva nelle vene del partner. 

«Non ti sta dispiacendo» ribatté Chuuya, raddrizzandosi per far scorrere le dita lungo la schiena di Dazai in una carezza che lo fece rabbrividire per il solletico leggero. 

«Non ti preoccupi più di io e te una volta che abbiamo cominciato.»

Eccolo là, pensò Chuuya sbuffando dal naso. Doveva ancora aspettarsele le stoccate di Dazai. Avere l’orgasmo piacevolmente sospeso in sé gli consentì di non provare subito l’istinto di incazzarsi e prendere le distanze. 

«Tentare di capire che ti gira per la testa è questione di sopravvivenza personale» borbottò, tirandogli di nuovo i capelli e abbassandosi a mordergli la base del collo. Il giorno dopo avrebbe messo sicuramente le bende e lui poteva divertirsi a lasciare segni dove non era lecito, trasgredendo qualche regola. 

La risata di Dazai assomigliò a un gorgoglio canzonatorio. 

«Sono tanto pericoloso?»

Chuuya non rispose, perché la replica che aveva in mente avrebbe portato il discorso su Odasaku e la bloccò in gola, cercando un’alternativa. 

«Non voglio ritrovarmi incastrato con te in qualcosa di-» 

Prese un respiro troppo rumoroso per non palesare la propria difficoltà nel trovare un termine adeguato. Non sapeva neanche lui di cosa stesse parlando, ma aveva l’urgenza di non restare appeso in quel modo. 

«Pretenzioso.»

Dazai fu scosso da una risata sincera e che non provò neanche a mascherare. 

«Pretenzioso?» ripeté e c’era della goduria che non aveva niente a che fare con i sensi. 

Chuuya cacciò un insulto. Dazai sapeva che non aveva idea di che pesci prendere, ma poté almeno nascondere il rossore in faccia restando alle sue spalle. 

«Stai già pensando al futuro, Chuuya?»

«Cristo, no! Devo ancora metabolizzare di essere a letto con te.» 

«Hai ragione» convenne Dazai, riassumendo quella sua espressione anticipatrice di qualche cavolata. 

«Ho fatto sesso con te Lumaca: che schifo!» 

Chuuya gli tirò i capelli. 

«Senti un po’, Sgombro! Hai dato tu il la!»

«Il mio era solo un bacio estetico. Un biglietto di ringraziamento.»

Il rosso ebbe l’impulso si spingergli la faccia nel cuscino e soffocarcelo. 

«Non vai in giro a baciare la gente così per ringraziarla!» abbaiò, mentre la sua mente si chiedeva anche di cosa Dazai volesse ringraziarlo visto che non aveva fatto niente. Ma il punto della discussione era un altro e il pensiero sfumò. 

«Un bacio è un bacio! Vedi? Sei stato tu a iniziare, anni fa! Cosa dovrebbe significare!?»

Il rosso restò a corto di risposte. In tutta onestà, era stupito del fatto che una propria affermazione fosse rimasta così impressa a Dazai. Se doveva ritenerlo un vanto, anche quell’idea fu accantonata. 

Chuuya voltò Dazai e prese la sua bocca, scaricando tutta la frustrazione per quel discorso senza senso. 

Non regalo baci. Bacio chi mi interessa. Se lo voglio. Se ha valore.

Era succube delle proprie stesse parole, ma preferì riprendere col sesso e reprimere le domande che gli avrebbero portato mal di testa. 



 

Finirono di nuovo a corto di fiato. Mentre il petto si alzava cercando più aria possibile, l’ex detective biascicò qualcosa sul fatto che Chuuya lo volesse uccidere. Il rosso non replicò - ansante anche lui e contento così. Gli tirò però un pizzicotto nel fianco e godette nel vedere lo Sgombro rannicchiarsi contro di lui e quasi mordersi la lingua. Rise di gola. 

Quattro anni fa non sarebbe mai successa una cosa del genere, pensò in un battito rubato a una consapevolezza ancora priva di forma. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul proprio respiro. 

«Come funziona questa cosa ora?» chiese Dazai quando ne fu in grado, posando gli occhi sulla testa rossa. «Iniziamo a litigare e poi ci saltiamo addosso? Perché io sono sfinito. Mi arrendo.»

«Anche io» concesse Chuuya, lanciandogli un’occhiata a propria volta, per poi tornare a fissare il soffitto. 

La calma che calò iniziò presto a pizzicare di aspettative. Erano entrambi fin troppo svegli, senza alcuna traccia di sonno e la Lumava avvertì distintamente la curiosità dello Sgombro addosso. 

Con una smorfia e una scrollata della testa, Chuuya finalmente si arrese. 

«Oda… saku» si limitò a dire, calzando involontariamente le ultime sillabe. 

«Stavi per convincermi che non me lo avresti più chiesto.» 

Il rosso si ostinò a imbruttire la penombra del soffitto. Sentì che, pur di non parlarne, avrebbe potuto davvero andare al terzo round e rimandare ancora. Era una possibilità che stava prendendo seriamente forma nella sua mente. Avere Dazai gli stava dando l’ebbrezza di un vino raro e costoso ed era già successo in passato che era arrivato a farsi fregare pur di berne uno. 

Di fianco a lui, l’ex detective non proferì nulla e Chuuya espirò tutta la propria poca pazienza. 

«Allora? Devo cavarti le parole di bocca?»

Dazai si stiracchiò, abbracciando un cuscino e affondandoci il mento. 

«Dimmi tu cosa vuoi sapere.»

L’occhiataccia che gli lanciò il partner cozzò contro l’innocenza disonesta delle sue ciglia sbattute con noncuranza.

«Che vuol dire cosa voglio sapere!?» 

Chuuya si sentì un cretino nei ripetere la frase, ma fu più forte di lui. 

«Il tuo amico è vivo. Il tizio per cui mi hai rintronato la testa per mesi e per cui te ne sei andato! Stai sconvolgendo la vita di tutti pur di-»

Non sapeva come continuare. Pur di Riaverlo? Fargli ricordare che esisti? Cosa eravate? Cambiò discorso. 

«E ora scopi con me! Che cazzo Dazai, voi due andavate a letto insieme! Lui non era un qualcuno random!»

«Neanche tu lo sei» rilanciò lo Sgombro con un’ovvietà fuori luogo, stropicciandosi un occhio col dorso della mano. 

Chuuya si sforzò di ricacciare indietro il fremito che lo colse. La domanda Che cazzo intendi!? gli salì alle labbra con la velocità di un treno, ma si bloccò dall’esternarla. C’era una parte di lui che non voleva compromettere quella linea su cui stavano camminando con irruenza e che, come un vicolo troppo stretto, attraversava ingombranti questioni di tutta una vita di conoscenza. 

Stava in silenzio da troppo tempo e si ritrovò a fissare negli occhi Dazai. Aveva i pensieri scoperti, nudi, di fronte al Demone Prodigio, ma non trovò un filo del discorso da continuare che non fosse tagliente. 

«Non stare sulle spine, Chuuya» mormorò Dazai con un sospirò pieno di sottesi che morirono nella federa del cuscino. Chiuse gli occhi e si mise più comodo. La sua voce fu una carezza pacata. 

«Tu e Odasaku siete due strade molto diverse, ma le ho scelte entrambe. Non è complicato.»

Il desiderio di alzarsi e andare a sbattere la testa contro il muro fu una tentazione forte per il rosso. 

«A te il concetto di normale non ti sfiora neanche per sbaglio» commentò stizzito, conscio di suonare davvero squallido. 

Le labbra di Dazai si piegarono in una smorfia contrariata. 

«Normale rispetto a chi? Al giudizio di un certo numero di persone? Se molte di loro agiscono in un modo, allora normale diventa assoluto per tutti?»

Era una constatazione semplice e incisiva quanto un chiodo che entrava perfetto al primo colpo di martello. Chuuya si passò le mani sulla faccia non avendo una replica degna da esprimere.

Lui sentiva uno standard e Dazai ci metteva meno di uno sbadiglio a confutarglielo e farglielo sentire alieno. Non erano discorsi nuovi ed erano sempre stati limiti tra di loro, ponti sospesi con le travi di legno non del tutto sicure. L’ex detective aveva sempre ragionato per tangenti per cui lui aveva avuto difficoltà a stargli dietro, non era un mistero e non era cambiato. 

«Anche per Odasaku è così?» se ne uscì, cercando di spostare il tiro e la prospettiva. I labirinti di Dazai rischiavano di scottare, oltre a far sentire stupidi, però lì in ballo c’era qualcosa di delicato. 

«Non si sentirà-» 

Geloso? Abbandonato? Arrabbiato? 

Chuuya odiava scegliere le parole. 

«Non si sentirà deluso per questo?» e indicò loro, il letto, la stanza. C’era tanto e, improvvisamente, c’era molto poco pensò. Quattro scopate nel buio e nel silenzio di un segreto. Più probabilmente uno sfogo allo stress. 

Dazai ridacchiò di quella titubanza e Chuuya lo detestò intensamente. Lui non ci trovava proprio nulla da ridere. 

«Se Odasaku non riacquista la memoria non ci sarà niente per cui farlo soffrire. Ma dubito ne rimarrebbe deluso» aggiunse e, nel dirlo, si girò supino, continuando a stringere il cuscino contro il petto e raccogliendo i pensieri fissando il soffitto. 

«Odasaku è…»

Fece un gesto per aria, come ad afferrare qualcosa con malinconia. 

«Ha questa indole per cui, in qualsiasi modo sei fatto, lui finirà con l’accettarti. Prova stupore per le cose più insignificanti o strane. Non parla molto, sai? E a volte dice delle cose davvero buffe. Cerca sempre di capire, come se ogni cosa per lui fosse nuova… Una volta mi raccontò che fu leggendo un libro che decise di cambiare vita.»

Chuuya restò ad ascoltare la voce di Dazai come fosse stata uno strumento musicale. Suonava giocoso, ma ogni corda vibrava sbiadita, in ricordo di qualche colore più tiepido, ma senza riuscire realmente a imitarne il calore ormai spento. Gli sembrò di osservare un paesaggio lavato dalla pioggia, dove il panorama era bello, eppure era un ricordo annacquato dal grigiore. 

«Un altro tipo particolare» commentò il rosso, iniziando a capire cosa dovesse aver attirato Dazai a interessarsi a Odasaku. «Vi siete trovati.»

«Quando ancora non sapevamo chi ci fosse dietro al Conflitto della Testa di Drago, Odasaku fu mandato a controllare un posto dopo l’ennesima carneficina. Lì è incappato in Shibusawa.»

«Cosa!?»

«Non aveva capito che fosse l’arteficie del massacro» ridacchiò Dazai, scuotendo la testa. «Pensò si trattasse di un detective della polizia e si comportò di conseguenza.»

«… ma è un idiota» scappò alla Lumaca, mentre si passava una mano sulla faccia. 

«È… Odasaku. Se lo è ancora.»

Chuuya non guardò più verso lo Sgombro, sentendosi in dovere di lasciare dello spazio a quella tristezza non mascherata tanto bene. Si concesse di restare lì. Non si sentiva di troppo e non voleva neanche andarsene, desiderando, forse egoisticamente, di sapere cosa quel sentimento significasse per il proprio partner. 

Il silenzio fu lungo, ma non teso. Riflessivo. 

C’erano tante domande a fluttuare nella mente del rosso. Sarebbero potuti andare avanti fino all’alba probabilmente, ma tra queste, una continuava a rimanere al centro della folla e a fissarlo come uno sconosciuto che lo conosceva. 

«Quindi… cosa siamo?» si sforzò di chiedere. Se qualcuno, quattro anni prima, gli avesse profetizzato una cosa simile gli avrebbe riso in faccia. «Siamo due che scopano occasionalmente?»

Dazai voltò il viso verso di lui, sospirando con pazienza. 

«È così importante definire cosa siamo?»

«Sì.»

Chuuya non ci pensò due volte ad ammetterlo, senza vergogna. Con lo Sgombro non si aveva il tempo di realizzare un cazzo che alle spalle si avevano già delle macerie. Una parte di lui, la più conservatrice e che ancora lo biasimava per le scelte delle ultime ventiquattro ore, continuava a battere l’idea che tutto sarebbe finito come sempre: in cenere. E il rosso non trovava come dare torto a se stesso, senza qualcosa di concreto da stringere. Per quanto a parole. 

«Che ne dici di scopa-partner?» replicò Dazai, prendendosi il mento tra pollice e indice per sottolineare la trovata geniale. 

La Lumaca schioccò la lingua, disgustato e pentito. 

«Lasciamo perdere.»

«Suona davvero così terribile? Proviamo! Dai, scopa-partner, chiudiamoci nello sgabuzzino!» cincischiò lo Sgombro, punzecchiandolo con un dito sulla guancia. «L’importante è non farsi beccare in flagranti, no?»

«Scordati che fuori da questa stanza combineremo qualcosa» ringhiò Chuuya, tentando poi di mordergli la mano per farlo smettere. «Non ho intenzione di dare spiegazioni a nessuno.»

Anche perché non so spiegarlo a me stesso, cazzo, aggiunse tra sé. 

«Oh, non è così difficile Chuuya! Devi dire: Dazai è troppo bello e irresistibile, sono caduto ai suoi piedi!»

«Seh, contaci.»

L’ex detective stava sorridendo come un ragazzino. 

«Insisto a dire che sei tu che hai cominciato, fraintendendo le mie intenzioni.»

«Continua a raccontartela così, Sgombro.»

«Aaah, vedi? Mi fai pentire» sospirò acuto Dazai, con il dorso della mano appoggiato alla fronte, preso dalla propria tragedia. «Dovevo solo stringerti virilmente la mano e basta. Potevo limitarmi ad amare Odasaku, invece eccomi qui, coinvolto mio malgrado con te, Lumaca.»

Chuuya si irrigidì e scattò a fissarlo a occhi spalancati. 

Il silenzio batté tre secondi e Dazai realizzò.

«Merda.»

«… cazzo» esalò il rosso, scattando a sedere. 

«No, no, noo!» lagnò l’ex detective, nascondendo la faccia nel cuscino. 

«CAZZO!» 

Chuuya stavolta non si trattenne, quasi saltando sul posto. 

«Lo hai ammesso!»

Qualsiasi cosa Dazai stesse dicendo uscì senza senso, soffocata dalla federa. Tentò di rotolare verso il bordo del letto e darsi alla fuga, ma il partner lo inchiodò dov’era, cercando al contempo di strappargli il cuscino.

«Ripetilo!»

«No!»

«Hai detto amare! Lo ami! Lo hai ammesso! Tu. Lo. Ami!»

Dazai desistette dalla lotta e rimase fermo, fingendosi morto, col cuscino saldamente ancorato alla faccia. Dopo quasi un minuto in cui Chuuya non si fece abbindolare da quella tattica insulsa e disperata, lo Sgombro capitolò, rilassando le spalle. 

«… Atsushi è stato il primo a capirlo» mormorò, ripensando alla visita fatta alla tomba di Odasaku prima del casino con Shibusawa. 

Chuuya ghignò come fosse stata una vittoria personale. 

«Ribadisco: mi piace molto quel ragazzino.»

Il nuovo sospiro di Dazai somigliò molto a uno sbuffo sconfitto, mentre abbandonava la protezione della federa e si passava le mani sulla faccia, lasciandoci i palmi ben schiacciati a imprimere la vergogna per essersi scoperto. Chuuya, di nuovo sopra di lui, era tronfio come un conquistatore. 

«Non c’è proprio motivo per esaltarsi così» mormorò lo Sgombro non trovandoci nulla di interessante. Era una ghigliottina sulla sua testa e, per una volta, non voleva sapere cosa si provasse a morire in quel modo. Erano quattro anni che quella lama gli si incideva nella pelle, languendo invece di dargli il colpo di grazia. 

«Oh, oh! Tu che ammetti di amare qualcuno!» ribadì Chuuya, sordo alla supplica. Era euforico. 

Si alzò dal letto in un balzo e recuperò la propria vestaglia, uscendo dalla stanza ma lasciando la porta aperta per farsi sentire mentre urlava dall’altra parte dell’appartamento. 

«È ora di festeggiare! Cazzo, ti sei incastrato da solo! Tutto questo è magnifico!»

«Chuuuuuuya!» lagnò Dazai senza forze. «Sei un essere minuscolo e orribile!»

La Lumaca non diede segno di aver sentito gli ultimi appellativi. Tornò armato di due calici e una bottiglia. 

Dazai lo fissò malissimo. 

«Hai preso seriamente dello champagne?»

«Oh sì» esultò il partner, liberando la bottiglia dal sigillo e sparando il tappo contro il muro dietro a Dazai come un colpo di pistola, facendolo trasalire. 

«Auguri, stronzo! Che l’amore sia con te!»

Tutta la faccia di Dazai era stanca e avvilita. 

«Stai sbrodolando ovunque» fece presente, ma fu una constatazione che cozzò contro l’ingiustificato buon umore del rosso. Si ritrovò con un calice cacciato in mano, mentre il partner riempiva il secondo oltre la misura consona all’eleganza. 

Il cin cin di Chuuya fu a senso unico, visto lo zero entusiasmo di Dazai a prestarsi alla propria sconfitta. 

«Ho bisogno di godermi questo momento» commentò la Lumaca dopo essersi scolato il primo giro. I suoi occhi scintillavano di trionfo. «Il momento in cui Dazai Osamu, l’essere più infame sulla faccia della Terra, è stato piegato dal sentimento più normale che esista. Un brindisi a Odasaku per averti reso umano!» 

«Credo mi stai venendo mal di testa» brontolò Dazai col muso, tentando di tirarsi fuori da quella pantomima. 

Chuuya non abboccò. C’era della malizia sinistra nel suo sguardo. 

«Dormirai altri venti ore appena avremo finito. Ho un’idea su come usare il resto dello champagne» e nel dirlo, scosse la bottiglia davanti alla faccia di Dazai, per poi piegarsi in avanti e rubargli un bacio con un sorrisetto gongolante. 

«Ti odio.»

«Anche io.»




To be continued.



SCUSATE SE NON HO ANCORA RISPOSTO AI COMMENTI T___T
Non ci abituiamo a questi aggiornamenti (anche perché ora inizia il cowt), ma anche oggi (e domani) avevo bisogno di gioie. Cercherò di rifarmi appena possibile e risponde al vostro affetto. 
È tipo tardissimo e io devo volare a dormire, ma questo capitolo è stato un parto ed è davvero tanto importante per gettare le basi del futuro. 
Probabilmente vi aspettavate più rating rosso ma non ne scrivo da tempo ;; sono solo un sacco di pensieri dal POV del povero Chuuya (in cosa ti sei cacciato, sul serio?). 
Ci sono di nuovo riferimenti a Dazai, please (devo cambiare una battuta) e alcune cose prese dal prequel di Dead Apple (uscito su Bungou Mayoi; la parte dove si dice che Odasaku ha incontrato Shibusawa!). 
Altro al momentoi non ricordo... magari scriverò qualcosa sulle stories di instagram (ehi, venite a parlarmi lì UU mi trovate su @nolongerflawless.fanfic!) 
Buonanotte!


Prossimo capitolo → When our worlds collide (Parte 3) 

 

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Capitolo 20
*** When Our Worlds Collide (Parte 3) ***


COW-T 12, seconda settimana, M1
Prompt: Punto di non ritorno
Numero parole: 10378

 

 

Capitolo 19

When our worlds collide (Parte 3)





 

If the choices we make define who we are
Then this is who I am, I'll never let go
When our worlds collide, when our worlds collide
I will never let go when our worlds collide

[Our Worlds Collide - Dead by April]






 

La quiete nella stanza era avvolgente e delicata. 

Alle quattro di notte passate, con solo una lampada da comodino accesa a gettare una luce chiara sulle ombre addormentate, Chuuya sistemò Dazai su una delle poltrone con un’insolita gentilezza. 

Alle loro spalle, il letto era un reduce consumato dai loro amplessi. Mentre lo disfaceva e si procurava la biancheria nuova, il rosso accantonò di nuovo troppe domande, troppi dettagli spigolosi a cui non voleva andare incontro in quel momento. Era stanco e provato dalla quantità di piacere che aveva preso e ricevuto, il tutto depositato dentro di lui come una brace confortevole, su cui non aveva intenzione di versare l’acqua fredda dellla consapevolezza. 

Rifece il letto alla bell’e meglio per le sue capacità di quel momento, poi si voltò a fissare Dazai che si era accoccolato nello spazio risicato della poltrona, tenendo stretto il lenzuolo come un profugo. 

Concedendosi qualche momento per osservarlo, Chuuya si domandò se, in maniera minima, meno dell’un percento di probabilità, anche Dazai fosse sorpreso di quella chimica tra loro. 

Al pensiero successivo, avvicinandosi allo Sgombro, l’idea scivolò tra le spire della stanchezza. Scostò un lembo da sopra la sua testa, passandogli le dita sulla guancia ancora calda di sonno e sesso. Fu tardi per recriminarsi quel gesto affettivo. Fu tardi per qualsiasi passo indietro. 

«Siamo ridotti uno schifo… e non torneremo a letto conciati così» borbottò con una smorfia, cercando di essere ruvido, ma era inutile nascondere quel tepore che lo pervadeva. 

Ad ogni ora che passava - ormai si poteva quasi parlare di giorni - gli era sempre più chiaro come non sarebbero più stati quelli di prima. Avevano superato un punto di non ritorno su quel tetto. Ciò che avevano davanti era una materia grezza e informe, che tuttavia il rosso lasciò lì dov’era, nel proprio stomaco e nella parte di torace dove i dubbi, le incoerenze e le scelte stupide facevano il nido. Non l’avrebbe affrontata senza una dose generosa di riposo. 

Dal canto proprio, Dazai non si smentì, mugugnando qualcosa di contrariato quando il partner tentò di scrollarlo. Chuuya lo mise in piedi e lo trascinò in bagno con qualche Seh, seh di risposta. Se stava ridendo, lo avrebbe negato più tardi. 



 

* * *



 

Le ore di sonno che dormì furono poche ed erano rimaste impresse sulla sua faccia.

Stringendosi il ponte del naso per cercare un qualche vano equilibrio mentale, e gettando di malumore un’occhiata all’orologio, Chuuya sbuffò inutilmente contro il mondo che continuava a girare. 

Se prima aveva bisogno di una pausa perché i casini di Yokohama gli stavano succhiando l’esistenza, dopo un giorno e più a letto con Dazai sentiva la necessità di chiudersi altrettanto tempo in una spa per riprendere le energie. 

Il sesso era stato grandioso e ora era in ritardo, due verità inconfutabili e che dovevano coesistere nel residuo di forze che gli erano rimaste. 

Terminò di prepararsi continuando a lanciare qualche occhiata obliqua a Dazai, ma senza trovare un motivo per svegliarlo di nuovo. Rettificando, di motivi ne aveva in avanzo, dal dargli fastidio al dovere, ma l’ultima goccia che serviva al suo mal di testa in agguato era mettersi a discutere con lo Sgombro. 

Questo non gli impedì di restare a fissarlo dal bordo del letto, soffermandosi su dettagli che aveva da sempre avuto sotto gli occhi, ma che aveva deciso di ignorare per quieto vivere personale. Doveva darsi qualche credito: avere vicino l’ex detective significava affrontare l’esistenza in modalità difficile e questo implicava tenere le distanze. Dopo le ultime, scarse trentasei ore gli argini erano crollati e c’erano stati momenti, quelle due notti, dove Chuuya aveva perso percezione dei propri confini, trovando invece Dazai. 

Da quel punto in poi i suoi pensieri si fecero confusi e passandosi una mano sulla guancia la sentì tiepida. Imprecò senza voce. Aveva bisogno di mettere i guanti e andare a tenere occupata la mente con le incombenze del giorno. Disintossicarsi da Dazai diventò una necessità fisiologica. 

Fuori dalla camera lo attese una sorpresa. 

Un fuori programma che gli fece chiudere la porta con un colpo secco, in un gesto involontario e irruento che tradì l’improvviso nervosismo. 

«Ane-san» salutò, la tensione a pizzicarlo sul collo. Non era ancora mentalmente preparato a tenere separato il mondo esterno dal suo scivolone con lo Sgombro. Non quando la collisione era ancora in atto.

Nel sorriso di Kouyou sostavano già tutte le risposte con cui i suoi occhi - sleali - incisero le domande in quelli del suo ex allievo.

«Chuuya» ricambiò lei con lo zucchero nel tono. Due note rubate a qualche usignolo, prima che la caccia cominciasse. «Ieri hai mandato uno dei tuoi invece di venire tu di persona. Mi sono preoccupata.»

Un senso di déjà vu non aiutò il rosso a tenere i nervi saldi. Era già successo qualcosa di simile, dopo la sua prima volta. Gli era bastato mettere piede in una stanza per essere sgamato da un risolino altrettanto soave. 

«Ero impegnato» masticò Chuuya, camminando sulla fune della mezza onestà, mentre faceva quello che tutti consigliavano sempre di non fare: guardare giù e immaginare il disastro. «Ci sono stati problemi?»

«Nessuno. Tutto va secondo i piani di Dazai.»

Tentare di risultare indifferente e non suscettibile al suono del nome del suo partner costò al rosso una discreta dose di autocontrollo mentre si infilava i guanti. Borbottò un Fantastico scarno di entusiasmo, convincendosi che fosse una risposta esaustiva.

Kouyou stirò le labbra come la volpe rossa che era. 

«Parlando di Dazai» e sostò sulle sillabe più del necessario, rendendole tanti piccoli spilli. «È da qualche giorno che non lo vedo in giro. So che sta ristrutturando il proprio ufficio. Ha chiesto a Yumiko-chan di farlo?»

«Aha.»

Non riuscì a non imprimere della frustrazione nella risposta. Sembrava che tutti trovassero divertente nominare la sua arredatrice di fiducia e punzecchiarlo per esserci andato a letto come fosse stato l’ultimo degli adolescenti. Aggiunto questo all’insistenza della Dirigente nel ricordargli dell’esistenza di Dazai, Chuuya capì che non avrebbe retto altro. 

Calcato il capello in testa con una imprecazione interiore, marciò verso la porta, deciso ad allontanarsi fisicamente dalle rogne di quella situazione. 

Le dita della sua ex maestra si strinsero con delicatezza sulla sua spalla, arrestando la sua fuga.

«Non vorrai uscire in queste condizioni» fu amorevole quanto maliziosa nel dirlo, nascondendosi dietro la propria manica. Fu un modo blando per dire Vedo il tuo gioco

Chuuya non comprese, boccheggiando come un pesce. 

«Pensavo di averti insegnato bene» continuò lei, guidandolo gentilmente verso lo specchio a figura intera vicino all’ingresso dell’appartamento. Come stesse toccando il petalo di un fiore, la donna scostò il colletto della camicia di Chuuya, rivelando l’onta. 

«Ricordi? Niente succhiotti dove possono essere visti» e lasciò andare una risatina sottile quanto trattenuta troppo a lungo. 

Chuuya divenne più rosso dei propri capelli, ma ebbe ancora abbastanza controllo per non lasciarsi sfuggire un inequivocabile Figlio di…

Anche se lo avesse detto, ormai il danno era fatto e quando si trattava di questioni di letto non c’era detective che reggesse il confronto con Ozaki Kouyou. 

«È una coincidenza adorabile che tu sia impegnato, o con la testa altrove, gli stessi giorni in cui Dazai sparisce» iniziò, e fu come essere spogliato dei vestiti con le sole parole. Gli occhi di lei guardarono verso la porta della camera e furono più efficaci di una chiave nell’aprirla e rivelarne i segreti. «Considerando la tua regola d’oro di non far entrare nel tuo letto personale sottoposti o qualcuno che non sia di grado pari al tuo…» 

Non spiattellò la risposta cruda, ma continuò a girarci intorno punzecchiando il pudore boccheggiante del rosso. 

«Non c’è bisogno di infierire» gracchiò Chuuya, allontanandosi come un automa e andando a frugare nel mobile vicino per recuperare dei cerotti color carne. Il bordo dello specchio continuò a restituirgli il riflesso del disonore e l’idea che l’immagine residua sarebbe rimasta impressa sulla superficie per molto, molto tempo. Come le risatine della sua ex Maestra. 

«Forse, allora…» riprese Kouyou, dandosi un po’ di contegno e voltandosi completamente verso l’uscio chiuso della camera da letto. «Dovrei rispiegare certe cose al tuo partner.»

Il tono fu volutamente più alto e le parole scandite. Riecheggiarono sulle pareti e si esaurirono nelle mani che Chuuya si premette sulla faccia con frustrazione, sentendosi un adolescente pizzicato con le mani nelle mutande. Avrebbe soffocato Dazai con un cuscino quella notte e poi avrebbe dimenticato tutto. 

Hai superato il punto di non ritorno. Rimbombò di nuovo nella sua testa, ma non era una verità che in quel momento fosse in grado di assimilare. Si limitò a ingoiarla. 

Tuttavia, sentire la voce dello Sgombro da oltre la porta chiusa della propria camera gli ricordò che non si tornava più indietro. 

«Ricevuto, Ane-san. Niente più succhiotti in zone compromettenti!» e Dazai lo disse con la leggerezza di chi aveva già in mente di fare il contrario. 

Era scattata una nuova era per il Duo Nero e Chuuya aveva firmato il contratto senza leggere le clausole. Il desiderio di sbattere la testa contro lo spigolo del mobile fu intenso. 

«Andiamo» pregò a denti stretti, avviandosi di nuovo verso l’ingresso dell’appartamento con un passo così marziale da dare l’impressione che ci sarebbe passato attraverso senza aprirlo. Kouyou, soddisfatta da quella colazione fuori programma a base di pettegolezzi imbarazzanti, lo seguì senza nulla in contrario. 

Una volta fuori, appena ci fu un’altra porta chiusa e orecchie meno indiscrete ad ascoltare, la sua mano bloccò di nuovo l’ex allievo, meno gentile, meno incline a cedere allo scherzo. 

Chuuya recepì il messaggio come la doccia fredda che era. Indurì l’espressione di fronte alla muta insinuazione che trovò sul volto della sua ex Maestra. 

«La mia fedeltà è alla Port Mafia.»

Non scandì alcuna lettera. Non doveva dimostrare o ribadire proprio niente, ma impresse ogni parola di una minaccia che non intendeva risparmiare malintesi. Era un terreno esplosivo su cui camminare nei suoi confronti e non avrebbe fatto eccezioni. 

Le labbra di Kouyou si piegarono senza allegria, rendendola quasi una persona diversa da quella appena uscita dall’appartamento con la vittoria di aver pizzicato in flagrante i due giovani Dirigenti. 

«Oh, Chuuya, non dubito di questo» spiegò con una tranquillità atona. Alzò una mano e il suo dito indice si posò sul petto del rosso come la punta di un pugnale. 

«È la fedeltà del tuo cuore che mi preoccupa» e nel dirlo, il suo sguardo si assottigliò. Questo è un avvertimento, mio caro, aggiunse senza parole.  

Chuuya si scostò di un passo, scoppiando a ridere come fosse stata una battuta divertente. Scosse la testa, voltandosi e incamminandosi. 

«Non preoccuparti, Ane-san. C’è un limite al masochismo che posso avere nei confronti di Dazai.»

Il sospiro di Kouyou espresse un parere molto diverso. 



 

* * *



 

Chuuya appoggiò la fronte alla porta del proprio appartamento con un sospiro esausto. 

Era stata una mattinata distratta. Non c’era stato un singolo momento in cui la sua testa non fosse stata tirata da una parte o dall’altra, vagando di propria iniziativa e senza una logica. O meglio, la logica base c’era - Dazai, tanto per cambiare - ma i pensieri erano fluttuati dai più recenti a momenti della loro adolescenza a cui non credeva avrebbe più ripensato, per quanto serbasse un ricordo vivissimo.

Non si stava neanche più chiedendo perché le sue sinapsi gli stessero muovendo guerra in quel modo, finendo col farlo richiamare all’ordine più di una volta. Kouyou non si era risparmiata nessuna delicatezza nei suoi confronti, punzecchiandolo sia blandamente, sia con discorsi ad alto grado di imbarazzo. Non si era mai fatto eccessivi problemi a parlare di sesso, ma con Kouyou, quando ogni sillaba nascondeva Dazai tra le proprie spire, era esasperante oltre che un argomento spinoso.

Avrebbe potuto raccontare per filo e per segno quello che lui e lo Sgombro avevano combinato in quelle ore tra le lenzuola, ma non voleva. Il vanto non c’entrava nulla. C’era dell’intimità che lo fermava anche solo dal prendere alla leggera qualche dettaglio. 

Buttando fuori l’aria dalla bocca in uno sbuffo non risolutivo, ma liberatorio, Chuuya si decise a entrare in casa e concedersi le due ore di sonno post pranzo con cui prevedeva di affrontare il pomeriggio. 

Nel percorso dall’ingresso alla camera lasciò cadere tutto ciò che di superfluo aveva, dal capello, alla giacca, il gilet e le scarpe. Lasciò fluire anche i pensieri in uno sbadiglio sonoro, e si buttò sul letto ancora sfatto senza più sciami pungolanti per la testa. 

Il relax dei sensi fu stroncato sul nascere da un Ahi! soffocato. 

Chuuya saltò a molla a quel gemito, per poi afferrare le coperte e scostarle in un unico gesto. 

«Dazai! Ma che cazzo!» imprecò in una botta di adrenalina che lo aveva colto alla sprovvista. «Che diavolo fai ancora qui!?» 

La risposta fu un’incomprensibile sequela di mugugni e movimenti scoordinati mentre l’ex detective rotolava da un fianco a un altro, per aprire poi un occhio, fissare il rosso brevemente, e poi tornare a stringere il cuscino che aveva contro il petto. 

«… riposino post pranzo.»

«Hai un appartamento» gli fece presente la Lumaca, senza smettere di fissarlo. 

Dazai fece di sì con la testa a confermare l’ovvietà, ma non aggiunse altro. Il partner non ci provò nemmeno a insistere. Si mise di nuovo comodo, passando lo sguardo dallo Sgombro al soffitto, senza decidersi a chiudere gli occhi anche lui. 

«Hai combinato qualcosa almeno?» chiese dopo un po’, in un’imitazione molto pallida di un rimprovero. «Ane-san sa di noi perché si è accorta della tua assenza.»

E perché lei fiuta queste cose a chilometri di distanza, aggiunse tra sé con frustrazione. 

Dazai grugnì qualcosa e Chuuya lo scosse come un vecchio Juke Box difettoso per avere una risposta di senso compiuto. 

«… scritto documenti» e nel dirlo, lo Sgombro alzò un braccio a indicare qualcosa, che Chuuya intercettò come il tavolo della propria camera. Lo trovò pieno di fogli, cartelline e tutto il casino che di solito stava nel suo ufficio. 

«Hai lavorato da qui!? Stai almeno tenendo d’occhio la ristrutturazione del tuo ufficio!?»

Dazai scosse la mano in un gesto vago. 

«Yumiko-chan farà un ottimo lavoro…» 

Chuuya non distolse lo sguardo da quel gatto pigro capace solo di girarsi sulla pancia, stiracchiarsi e neanche fare la fatica di tornare composto. Che quella fosse una facciata o la sua vera essenza, averlo di nuovo alla Port Mafia continuava ad avere un sapore molto diverso dal passato. 

«Dazai» chiamò, prima di rendersene conto. «Perché sei tornato?» 

Ci fu un guizzo rapidissimo agli angoli degli occhi dello Sgombro che non passò inosservato al rosso. Seguì un sospiro a labbra chiuse, assimilabile a un lamento. Dazai si portò una mano alla faccia, iniziando a stropicciarsi gli occhi. 

Per Chuuya fu strano realizzare che il partner stesse davvero dormendo. Era una sensazione inconsueta e anomala trovarsi davanti un Dazai così genuino. Nessun atteggiamento ostentato, poche bugie nelle chiacchiere - le mezze verità non contavano - e quell’autenticità nei gesti. Era tutto così fuori dagli schemi da lasciarlo disorientato e affascinato - ma il fascino tipico delle falene che rischiavano di cadere a terra bruciate. 

Dazai sbadigliò, stirando il collo e guardando in faccia Chuuya. Era corrucciato, ma c’era anche qualcosa di morbido nel suo sguardo che lo rese magnetico. 

«Sono più utile qui che in Agenzia, riguardo al Libro» mormorò, aggiungendo un leggero sbuffo esasperato. «Avete continuato a ripetere quanto il mio posto fosse nella Port Mafia, ma ora che sono qui ve ne lamentate.»

Stropicciò il cuscino che aveva tra le braccia, ma stancandosi subito. 

«L’ultima cosa che voglio è che Dostoevskij riesca a mettere le mani sul Libro.»

Chuuya si imbronciò a propria volta. 

«Vuoi farmi credere che non sei tornato per trovarti davanti a Odasaku?»

«Non hai bisogno che te lo dica se già lo sai.»

Prima che il rosso potesse ribattere irritato, Dazai si voltò supino, lasciando vagare lo sguardo sul soffitto. 

«Non voglio che Odasaku si suicidi scontrandosi con il pieno potere della Port Mafia» spiega piano, dando alle parole un suono fragile e infuso dall’esperienza di troppe cose andate per il verso sbagliato. 

«Ti ha quasi ammazzato l’ultima volta, e non sei così stupido da lasciarglielo fare di nuovo. Ma questa volta non ci saresti solo tu… e dubito che il suo modus operandi di attaccare da solo cambierà.»

«Credi che abbia l’ordine di andare avanti fino a… morire?» 

Dazai non rispose. Non fu un assenso, ma un pensiero che si sfaldava lentamente, come i m’ama non m’ama inflitti a una margherita. 

«Sì, lo credo. In fondo, lo scopo di Dostoevskij è un mondo privo di peccati, di abilità. Odasaku non fa eccezione, anche se sono…» 

Compagni

Chuuya lo capì senza bisogno di sentire la fine della frase. Una smorfia disgustata prese possesso delle sue labbra. 

«Possiamo sempre irrompere nella prigione dove tengono quel ratto schifoso e frantumargli le ossa una volta per tutte» propose, schioccando la lingua mentre incrociava le braccia con stizza e il desiderio di spaccare la faccia al Demone Russo in via definitiva. 

Non capì cosa fece ridacchiare il suo partner, ma per quanto l’allegria fosse scarsa, fu un suono leggero e piacevole. 

«Ti piacerebbe Meursault, è pieno di aziende vinicole.»

«Seh» sbuffò Chuuya. «Finita questa storia mi farò un viaggio in Francia» sancì, chiudendo gli occhi e ricordandosi che era tornato in camera per dormire e recuperare le energie che lo Sgombro stesso gli aveva risucchiato.

«Non voglio più sentire di Libri che possono stravolgere il mondo, di gente che risorge dalla tomba e tenta di ammazzarti, o qualsiasi altra cazzata formato problema.» 

«Stai pensando a un’utopia, lo sai, sì?»

Ridacchiando ancora, Dazai si spostò più vicino al partner, fino ad appoggiare la fronte sulla sua spalla. Fu un tocco lieve che Chuuya accolse però con un gran respiro di pace. 

Perché tornare indietro?

«No, Sgombro. Sto pensando a delle fottute vacanze. E ora dormi.»



 

* * *



 

Kouyou entrò nell’ufficio di Mori senza aspettare un permesso esplicito. 

Il tappeto era disseminato di pastelli, matite, pennarelli e fogli pieni dei più grotteschi disegni, ma non c’era alcuna Elise a giocarci. La donna dedicò loro appena uno sguardo, quello che serviva a evitare di pestarli. 

Il Boss della Port Mafia non la stava calcolando. Indaffarato a trafficare coi cassetti della propria scrivania, borbottava tra sé e sé come un vecchio bollitore esausto dal riscaldare l’acqua. La Dirigente seguì con gli occhi il suo affaccendarsi, restandosene in piedi in un’attesa composta, che non avrebbe mosso sillaba per palesare la propria presenza. 

Nel mettersi la cravatta sulla camicia color uva scura, Mori si focalizzò finalmente su di lei. La sua espressione stupita trasudava una sincerità quasi apprezzabile. 

«Kouyou-kun! Non ti ho sentita entrare.»

Lei non si scompose, regalandogli la stessa sobria onestà che solitamente entrambi usavano agli incontri ufficiali, tra una stretta di mano e una pugnalata alle spalle. 

«Potremmo avere un problema» fu il suo modo di salutarlo, con un sollucchero che la fece ridacchiare appena. 

Sulla faccia di Mori fu evidente il disappunto per il contrasto tra le parole e il tono. Non si fermò dallo stringersi il nodo alla cravatta, ma sospirò in maniera fin troppo rumorosa. 

«Sono troppo stressato da questa situazione» esordì, passandosi una mano sulla faccia con una spossatezza lungi dall’essere una finzione. Tuttavia, con lui, distinguere cosa fosse realmente sentito e cosa una messinscena faceva parte del suo gioco. 

«Ho bisogno di andare a fare shopping con Elise-chan e schiarirmi le idee» aggiunse in fine, recuperando il proprio camice bianco dalla spalliera della poltrona su cui era solito comandare da quel punto tra cielo e terra.  

«Manda Chuuya a risolvere qualsiasi cosa sia. Non si preoccupi per i danni, pagheremo.»

Il sorrisino compiaciuto di Kouyou disse a Mori che era appena inciampato sulla casellina del gioco dell’oca che lei desiderava. Era stato così prevedibile che non trattenne alcuna risata, sempre schermata da una delle sue eleganti maniche. 

«Chuuya è parte del problema.»

Non era impossibile fare scacco a Mori - non a lei che tanto bene viveva nella sua ombra e conosceva i suoi spigoli meglio di lui - ma vederlo smarrito di fronte a un palese tranello del destino era il sapore inebriante di un liquore invecchiato al punto giusto e che si pensava andato perso. 

La richiesta di spiegazioni fu implicita nelle sopracciglia aggrottate del Boss. Kouyou si passò appena la lingua sulle labbra, chiudendo gli occhi e godendosi il momento. 

«Quello che sospettavamo sette anni fa è… sbocciato.»

Un fulmine a ciel sereno attraversò la mente di Mori, riflettendosi nel suo sguardo. 

«Oh» fu tutto ciò che riuscì a esprimere in prima battuta. Se fu necessario o teatrale appoggiarsi allo schienale della propria poltrona, lui lo fece comunque. 

Se ci fossero stati estranei presenti in quel momento si sarebbero sbalorditi nel constatare quanto umano potesse apparire il Boss della Port Mafia di fronte a una notizia chiara solo a lui e alla Dirigente. 

Kouyou sapeva, invece, quanto quella notizia stesse già muovendo i pezzi sulla scacchiera. Le mosse sarebbero potute essere le più intelligenti e sleali - e queste ultime lei le avrebbe respinte con disgusto, sempre di un suo ex protetto si parlava - ma erano soprattutto un nuovo vantaggio per il burattinaio che Mori impersonava. 

Tuttavia, il Boss scelse di accogliere quell’informazione con un terribile sospiro. 

«Ne sei sicura, mia cara?»

Kouyou si strinse nelle spalle. 

«Dazai non è più tornato nel suo appartamento o nel suo ufficio. Conoscendo i gusti di Chuuya in fatto di comodità, avrà fatto il nido nel suo letto. Comunque sia andata, era lì stamattina e Chuuya ne portava i segni sul collo.»

Il medicastro si portò le mani al volto e soffocò un lungo e inclassificabile gemito di cui Kouyou rise senza indulgenze. 

Non era qualcosa che pioveva dal cielo inaspettatamente. Entrambi, all’inizio di tutto, avevano visto il seme depositarsi a terra. Ci aveva impiegato sette anni a germogliare e, nonostante le intemperie di quattro anni di aridità, le foglie erano spuntate inconfondibili come i succhiotti che Kouyou aveva constatato di persona. 

«Ho davvero bisogno di una pausa» mormorò Mori sfinito, tirandosi indietro i capelli. 

«Melodrammatico» commentò lei serafica, ricevendo un muso imbronciato che non restituiva minimamente l’età reale del Boss. 

«Sii gentile, come pensi che dovrei gestire questa seconda adolescenza? Già la prima è stata terrificante» e rabbrividì per conto suo, riaprendo i propri cassetti della memoria. 

Kouyou roteò gli occhi al soffitto, scevra di pazienza. 

«Scendi dal piedistallo e renditi conto che sono cambiati entrambi. Non sono più i ragazzini che comandavi a bacchetta con un giro di parole. Meno che mai Dazai.»

Un attimo dopo la serietà si incise nei suoi lineamenti in maniera così dura che avrebbe potuto ferire con uno sguardo. 

«Riguardo a Chuuya, fai attenzione a tirare il suo guinzaglio. Potresti accorgerti che si è sciolto. Non fare cazzate.»

Mori deglutì, questa volta senza alcuna finzione e sbattendo due volte le palpebre per assicurarsi di avere la vera Ozaki Kouyou di fronte. In anni di conoscenza, era la prima volta che la sentiva usare una parola di quel calibro e con una minaccia insita così cristallina che si sarebbe potuto gridare all’insubordinazione. 

Tuttavia, nel giro di un tic tac di orologio, perfino quell’intimidazione divenne un pedone sulla sua scacchiera mentale. 

«Vado a schiarirmi le idee» sospirò infine Mori, mentre dall’ingresso della stanza arrivò una risatina infantile. 

Kouyou scoccò un’occhiata di striscio a Elise, ferma sulla porta con un cappottino rosso adorabile. La sua espressione era celata dalla frangetta ordinata, o più probabilmente era solo ciò che appariva, un’oscurità così profonda e infingarda come delle sabbie mobili. L’ombra dove la Dirigente era solita muoversi non era così nera come quella coscienza brillante solo nell’aspetto ingannevole che assumeva. 

«Non comprare altri vestiti di cattivo gusto» lo salutò lei senza alcuna enfasi. 

Le spalle di Mori si smontarono per quell’osservazione che riteneva immeritata, ma ricambiò cordiale, sparendo oltre l’uscio e lasciandola sola. 

Kouyou era entrata in quell’ufficio consapevole di essere in possesso di un’informazione deliziosa al palato quanto delicata come un veleno. Se ne fosse caduta anche solo una goccia ne sarebbero rimasti tutti avvelenati, senza distinzioni. 

Non uscì dalla stanza con lo stesso umore, ma chiedendosi quanto le cose fossero cambiate senza che nessuno di loro prendesse le dovute precauzioni. 



 

* * *



 

Chuuya non aveva voluto sentire ragioni e nel pomeriggio aveva portato Dazai e il suo culo fuori dall’appartamento. Erano però finiti nel proprio ufficio. Non esattamente dalla padella nella brace, ma la sensazione restava quella. 

Come l’idea degli sguardi addosso, con una patina nuova che il rosso stava cercando di ingoiare. Non avevano assunto atteggiamenti equivoci davanti ad agenti e impiegati che avevano incrociato, non che a Chuuya sembrasse. Tuttavia, chiudersi l’ennesima porta alle spalle e il mondo fuori lo fece respirare.

Un po’ meno quando Dazai si chinò su di lui, intrappolandolo pigramente contro l’uscio con le labbra, le mani e la sua - fottuta - altezza. 

Scordati che fuori da questa stanza combineremo qualcosa

Chuuya mugugnò di frustrazione alle proprie vane minacce, mentre lo afferrava per la giacca scura e se lo premeva di più addosso. Frenare le mani fu come chiedere alle loro bocche di farlo, ma il rosso pizzicò le dita di Dazai, fermandolo dallo smanettare con la fibbia della sua cintura. 

Non ci provare. 

Noioso.

Se lo dissero con gli occhi, per poi scaricare entrambi la frustrazione per quella proibizione - l’ennesimo preliminare - in un nuovo assalto di labbra che durò un tempo vergognosamente lungo. 

«Sei uno stronzo, Sgombro» sbuffò Chuuya, quando Dazai si staccò per riprendere fiato. Tuttavia, con la mano gli afferrò la cravatta per non farlo allontanare troppo. 

«Per fortuna che ci sei tu a ricordarmelo, Lumaca» celiò il partner, giocando distrattamente con una delle sue ciocche di capelli boccolose. «Non avevi detto niente al di fuori della tua camera da letto?» e sorrise mellifluo come il demone che era. 

«Sei. Uno. Stronzo» scandì di nuovo Chuuya, stringendo la cravatta con tutta la propria indecisione tra il mandarlo a quel paese e tirarselo di nuovo addosso. L’ultima cosa che voleva era finire nel cliché del sesso sulla scrivania, cosa che invece era abbastanza chiara desiderasse lo sguardo denso dell’ex detective. 

A scegliere per loro fu un bussare alla porta. 

Il rosso si irrigidì all’istante, allontanando il partner con una manata e schiarendosi la gola. 

«Chi è?» borbottò, tastandosi per assicurarsi di avere tutto in ordine. Dazai gli era di nuovo troppo vicino, a braccia conserte, curioso anche lui, ma il rosso percepiva solo la sua presenza come la forza magnetica che era. 

«Chuuya-san, sono Hibana Yumiko! Mi hanno detto che potevo trovare Dazai-san nel suo ufficio. Ho alcune carte da sottoporgli.» 

Nel tempo che il rosso sprecò a imprecare tra sé, lo Sgombro aveva già aperto la porta, quasi sbattendogliela sul naso. 

«Yumiko-chan!» trillò allegro l’ex detective, tutto galante nel farla entrare. «Venire abbagliati dal suo bel sorriso è un onore! Prego, prego.»

Chuuya trattenne l’ugh di gola che avrebbe voluto esprimere a quel complimento da diabete. Non era decisamente pronto a quella combo, avendo capito da subito che Dazai stava per mettere su un teatrino dei suoi.  

«Lei è troppo lusinghiero, Dazai-san. Sono venuta a portarle le ultime carte da firmare per finalizzare i lavori» spiegò pacata e professionale, ma non senza un atteggiamento civettuolo, il cui ondeggiare del seno era l’indiscusso protagonista. I suoi occhi incrociarono poi quelli di Chuuya, scaldandosi leggermente. 

«Quanto tempo, Chuuya-san. La trovo bene. Speravo di risentirla prima…» iniziò, mordendosi leggermente il labbro e ravviandosi i capelli dietro l’orecchio. Alle spalle di lei, ma pienamente in vista al rosso, Dazai gli mostrò la lingua e non fu in segno di burla. 

Ti è piaciuto stanotte? Stavo pensando di farti un pompino.

«Ho avuto diversi impegni» tagliò corto Chuuya con un gesto vago della mano, cercando di non risultare troppo sgarbato, ma optando anche per la ritirata, avviandosi verso il mobiletto dove teneva il vino. Diversamente, avrebbe sbattuto Dazai contro il muro, ma, di nuovo, l’azione successiva sarebbe stata incerta. 

Sentì alle proprie spalle lo Sgombro riprendere a cianciare con energia e con una lunga sequela di complimenti e flirt che gli girarono lo stomaco. Era così falso. Un minuto prima era pronto a farsi scopare sulla prima superficie disponibile. Dazai era sempre Dazai. 

Il rosso stappò una bottiglia di vino e si versò da bere, concedendosi una tregua. 

Poteva contare le ore dal ribaltamento della sua relazione con l’ex detective e di come tutto sembrasse all’apparenza rimasto uguale, ma con quella chiave di lettura diversa. 

Non poteva - e non voleva - ancora parlare di abitudine, era fuori discussione, non con una data di scadenza certa - ossia quando si sarebbero trovati di fronte Odasaku - a tranciare di netto qualsiasi cosa stessero vivendo come due adolescenti. L’unico pensiero sensato rimaneva assecondare quella follia, e questo la diceva lunga. 

Buttando giù un altro sorso di vino, Chuuya ingoiò di nuovo, per l’ennesima volta, tutta la sequenza di dubbi. Per dirla in maniera prosaica, né rimpianti né rimorsi. Non era nel suo stile.

Si voltò appena, tornando a dedicare la propria attenzione ai due che parlavano. Yumiko aveva tirato fuori dalla borsa le carte da firmare, Dazai le stava scarabocchiando con disinteresse mentre continuava a chiacchierare di solo lui sapeva cosa. L’arredatrice non lo stava realmente ascoltando, ma unendo tra loro le mani in un gesto di ringraziamento, la donna mise nuovamente in risalto il proprio seno.  

Chuuya la osservò, vedendola per la prima volta con un’ottica esterna. Hibana Yumiko era una professionista, sia come interior designer sia nell’arte di aprire le gambe agli uomini per cui lavorava. 

Non era per niente stupida. Camminava per la Mori Corporation a proprio agio, perfettamente a conoscenza del fatto che fosse una facciata di comodo per la Port Mafia; questo non l’aveva spaventata o fermata dall’immischiarsi, cosa che il rosso aveva apprezzato. Sapeva ciò che voleva e come viverselo. 

A Chuuya non era dispiaciuto andarci a letto qualche volta, venire coinvolto anche col suo assistente e passare delle nottate di cui conservava la soddisfazione. Tuttavia, oltre a quello, Yumiko non era che una persona segnata nella sua agenda. 

All’ultimo sorso di vino, la Lumaca decretò che la commedia fosse durata abbastanza. 

Non gliene fregava niente che Dazai facesse il totano fritto svenevole con la designer, o che lei stesse facendo passeggiare le sue dita sul suo braccio, sfiorandolo intenzionalmente col proprio seno, troppo vicina per parlare ancora di spazio personale. 

Di per sé, era una scena da film di serie b e non gli interessava restare a guardarli. Era più il concetto di fondo a farlo incazzare, il fatto che negli ultimi due giorni sia lo Sgombro che Kouyou lo avessero preso per il culo nominando Yumiko-chan in giudizi ironici riguardo i suoi gusti sessuali.

Le tette rifatte di Yumiko a lui non erano dispiaciute, non aveva nulla da giustificare o scelte da difendere. Era proprio che non aveva voglia di avere distrazioni intorno, non quando la sua realtà stava tirando le somme delle ultime ore di uragano. 

Appoggiato il calice, si avvicinò ai due con calma. Nonostante le poche ore di sonno e gli sconvolgimenti vari, era abbastanza tranquillo da sapere cosa fare. 

«Yumiko» chiamò, interrompendoli senza chiedere scusa. Fece cenno alla donna di avvicinarsi ed entrambi lo guardarono incuriositi. 

Quando la designer gli fu a un passo, Chuuya fece scivolare la mano sul suo collo, guidandola con una leggera pressione sulla nuca verso di sé e accostandole le labbra all’orecchio. 

Dazai seguì tutta l’azione con del reale interesse, levandosi dalla faccia qualsiasi espressione da attore consumato. Gli occhi dei due Dirigenti si incrociarono per non staccarsi più, mentre Chuuya iniziava a mormorare qualcosa solo per la donna. 

Fu un minuto che parve durarne cinque. Prima le spalle di Yumiko, poi tutto il suo corpo - Dazai ebbe piena visione di come la donna strinse le cosce sotto la gonna - ebbero un guizzo, seguito da un irrigidimento che si sciolse sul finire, quando si ritrasse e restò per un attimo a fissare il rosso. 

Dazai aggrottò la fronte. Non poteva vederla in faccia, mentre Chuuya aveva un sorriso soddisfatto. 

«A-Allora io vado. Avviserò quando i lavori saranno ultimati» balbettò la donna, passando di fianco allo Sgombro senza più la sicurezza iniziale, ma con un rossore profuso per tutto il viso e il décolleté. Raccolse i documenti e la propria borsa e si avviò frettolosamente verso la porta dell’ufficio. Poco prima di abbassare la maniglia, sembrò ricordarsi delle buone maniere. Si voltò per un inchino formale e un ultimo sguardo a Chuuya, per cui si morse il labbro inferiore, ma si dileguò senza aggiungere altro. Erano di nuovo soli. 

«Mi stai dicendo che devo rivalutare le tue doti di persuasione, Lumaca?» sbuffò Dazai. «Che cosa le hai detto per farla scappare via così eccitata?» e guardò la porta come se la scena non fosse realmente avvenuta. «Vuoi essere chiamato demone anche tu?» 

Chuuya tornò alla sua bottiglia di vino e si riempì un altro calice. 

«Fino a prova contraria io sono un Dio» replicò con una punta di arroganza per cui non riuscì a trattenere anche un ghigno. Era la prima volta che scherzava sulla natura dell’Arahabaki e fu una sensazione stranamente leggera. 

«Un Dio basso» precisò Dazai. «Microscopico» aggiunse per stizza, roteando gli occhi e incrociando le braccia, ma la sua espressione giudicante e per nulla convinta si trasformò presto in un muso lungo. 

«Sentiamo, vantati un po’, che le hai sussurrato?»

La curiosità aveva vinto. 

Chuuya riconobbe l’opportunità, una seconda volta, e non se la lasciò sfuggire. 

Probabilmente andare a letto con Dazai, iniziare ad accettare quel veleno, a lungo andare lo avrebbe reso immune agli atteggiamenti doppiogiochisti del suo partner. Fino a quel momento, gli bastò poter godere del vantaggio di poche, mirate parole. 

Tornò di nuovo dallo Sgombro, calice alla mano, e gli fece cenno di abbassarsi, mentre mandava giù un altro sorso. 

«Sai stronzo, a volte basta il tono giusto per toccare certe corde.»

Il sussurrò fu calibrato, roco. 

Era una sfumatura di voce che aveva già sperimentato la notte precedente, ma che aveva fatto parte della confusione dei loro amplessi come un pezzo qualsiasi nella catena del piacere. Però Chuuya aveva consolidato nel tempo la sua efficacia con diversi partner, e il brivido lungo le spalle dell’ex detective gli confermò che aveva fatto centro anche con lui. 

Lo afferrò di nuovo per la cravatta, per assicurarsi che non battesse in ritirata, e lo costrinse ad avvicinarsi di più, premendogli la bocca a lato dell’orecchio. 

«… perché adesso non scegli dove vuoi che ti sbatta? … o preferisci che ricambi il lavoretto di ieri?»



 

* * *



 

Dazai si muoveva all’interno della Port Mafia come uno spettro relegato nel mondo dei vivi e confinato tra quelle mura. 

Avrebbe potuto percorrere i corridoi a occhi chiusi, scivolare negli anfratti che probabilmente neanche l’architetto originale ricordava più, sparire alla vista nello spazio di un respiro semplicemente sapendo quale ombra o angolo sfruttare. 

Era il luogo più simile a una casa che conoscesse, ma i ricordi a guidarlo quella notte furono solo logistici. Aveva rivissuto abbastanza il passato per meritare di concentrarsi solo sul presente. Gli orologi intorno a lui non smettevano di ticchettare, ricordandogli quanto poco mancasse a un futuro che sarebbe giunto senza alcuna carezza. 

Mescolandosi al buio della notte, come un vecchio amico che torna nei luoghi dell’infanzia, raggiunse i sotterranei. 



 

Dazai restò con le spalle contro l’angolo della parete ad ascoltare i passi che si allontanavano, insieme alle chiacchiere, e all’eco che si spense quando le guardie voltarono nel corridoio successivo. 

Contò fino a dieci e poi prese la trasmittente che aveva nel taschino, insieme al cellulare. Sul display di quest’ultimo selezionò uno dei nove video in riproduzione costante e questo prese tutto il campo disponibile, mostrando una sala di monitoraggio e una guardia appollaiata sulla sedia a fare il proprio noioso lavoro di sorveglianza. 

Dopo qualche secondo, uno degli schermi in basso nell’inquadratura si spense e Dazai si portò la trasmittente alla bocca. Si schiarì la gola e pensò al tono da usare.

«Ohi ohi, Sala di Controllo, qui corridoio diciannove! C’è qualcosa che non va nella zona del montacarichi.»

Sul cellulare di Dazai, la guardia trasalì e afferrò il microfono, chinandosi poi verso lo stesso schermo diventato scuro. 

«Qui Sala di Controllo, non ti vedo, è saltata la luce?» 

L’ex detective vide la guardia picchiettare lo schermo oscurato. Reimpostò la voce prima di rispondere. 

«Certo che la luce funziona, non mi vedi?! Ehi, c’è stata una scintilla! Merda amico, qui ci devono essere dei ratti! Cazzo, quegli schifosi portano malattie! Io qui non ci rimango!»

«Stai fermo lì! Mando qualcuno!»

La guardia si dimenò sulla sedia e l’ex detective lo vide digitare più codici sul tastierino del microfono per contattare altre squadre. Dai tentativi che fece e da come la sua figura si agitò, Dazai ebbe conferma che i propri dispositivi di interferenza stessero facendo il loro dovere. 

Attese ancora un po’, appoggiando la testa al muro senza smettere di seguire i movimenti del video, ma la sua mente si estraniò. 

Se Chuuya si svegliasse adesso sarebbe un problema.

Chiuse gli occhi per quietare quella possibilità. Si era già concesso troppi ritardi e una sbandata imprevista fuori strada, ma-

«Ohi! Qui Sala di Controllo! Sei ancora lì!? Ci sono problemi con le comunicazioni, non riesco a mandarti una squadra a controllare-»

Dazai prese un respiro e riattaccò con la recita. 

«’Fanculo amico, io sono venuto a fare una sostituzione, non dovrei manco essere qui! Preferisco farmi sparare per strada che essere morso da un ratto schifoso! Lo sai che portano la peste!? Io me ne vado!»

Nel video, la guardia scattò in piedi allarmata. 

«Che cazzo dici!? Vuoi essere licenziato!? Ohi! Merda-» 

La guardia afferrò la giacca, pistola e torcia, e si precipitò fuori dalla Sala Controllo. 

Poco distante, Dazai sentì proprio quei passi approssimarsi, insieme a un ansare pesante e qualche imprecazione. La guardia gli sfrecciò di fianco, proseguendo nel corridoio senza minimamente fiutare la sua presenza. 

L’ex detective osservò le spalle dell’uomo allontanarsi fino a svoltare in un altro corridoio. Si fece scivolare di nuovo la trasmittente in tasca e ricontrollò sul proprio cellulare la posizione delle altre sentinelle. Aveva campo libero per almeno dieci minuti, contò. 

Staccandosi dal muro con indolenza, canticchiando un motivetto senza inflessione, prese il corridoio in senso contrario alla corsa del sorvegliante, raggiungendo la Sala Controllo incustodita. Prima di accedervi, si spostò di lato e iniziò a tastare il muro con i guanti neri, finché non trovò l’accesso al pannello camuffato. 

Senza gesti inutili, tenendo a mente i minuti che scorrevano, Dazai iniziò a fare quello per cui era lì, cercando di tenere lontani i pensieri intrusivi. Lavorare nel silenzio su qualcosa di delicato, con la pressione di essere scoperto - ma con pronti almeno una dozzina di piani alternativi per giustificare la sua presenza e il proprio operato - era la situazione ideale per pensare. Distrarsi lo aiutava a concentrarsi. 

Se però ora Chuuya si svegliasse...

Quella, tuttavia, non era una distrazione. Era una possibilità che avrebbe mandato tutto a monte.

Le dita di Dazai esitarono e smise di canticchiare. Durò un attimo, ma si portò una mano alla fronte, piegando le labbra in qualcosa che non era abituato a provare. Autocommiserazione. 

«Merda. In che situazione mi hai cacciato, Lumaca?» mormorò tra sé. 

Prese un respiro profondo e relegò il pensiero da una parte, ma questo semplicemente lasciò il posto a un altro. 

Odasaku

Era proprio fregato. 

«Non avevo capito che il mio colore preferito fosse il rosso» rise tra sé con una stilettata di biasimo, tornando a maneggiare i cavi del pannello operativo. 

Tirò fuori dalle tasche della lunga giacca nera che indossava il necessario, tra tronchesine e dei piccoli dispositivi con cui ricollegò tra loro determinati cavi. 

Quattro minuti scarsi ed ebbe finito, richiudendo tutto. Prendendo il cellulare constatò che il sistema installato funzionasse, poi si spostò all’interno della Sala di Controllo e ricominciò, impiegando il resto del tempo a propria disposizione, per poi andarsene com’era arrivato. 

Svoltò in un corridoio deserto l’istante prima di sentire i passi trafelati della guardia che tornava al proprio posto. Alzando gli occhi, vide una telecamera puntata proprio su di sé e riaccese il cellulare, selezionando e osservando il video all’interno della Sala di Controllo. Nello schermo corrispondente alla telecamera lui non appariva, ma il minutaggio scorreva segnando l’orario giusto. Sorrise compiaciuto. 

«Ohi! Tu che eri di guardia nel corridoio diciannove! Rispondi! Dove diavolo sei finito!? Ehi, coglione! Guarda che ti faccio licen-»

Dazai spense la trasmittente, incamminandosi verso la prossima tappa e dando uno sguardo alla planimetria sul cellulare più per impiegare il tempo che per utilità. 

Esclusi i lavori di estetica interna ai diversi piani del palazzo, la parte che aveva ricevuto più modifiche, dopo la presa in gestione di Mori, erano proprio i sotterranei, per essere adeguati alle nuove tecnologie. Esclusi alcuni sistemi di emergenza, da lì passavano e salivano la maggior parte delle arterie che alimentavano il cuore nero di Yokohama. Nei giorni precedenti, finché aveva lavorato, Dazai si era annoiato a imparare a memoria ogni locazione, cavo e interruttore. 

Mentre raggiungeva la propria meta, sistemando un auricolare nell’orecchio e ascoltando gli agenti cianciare di presunti ratti nel corridoio diciannove, tirò fuori dalla tasca anche un grosso pennarello e si fermò a scarabocchiare alcune cose su tubi e muri, ma senza che l’inchiostro lasciasse alcuna traccia visibile. 

Fece visita a diversi pannelli nel giro di un’ora, continuando con quel gioco di indirizzare il personale di sorveglianza dove più gli facesse comodo per avere la tranquillità necessaria a eseguire la propria silenziosa opera chirurgica. 

«… che schifo! Sala di Controllo, ci sono ratti ovunque qui sotto! Il peggior lavoro di sempre!»

Dazai aveva di nuovo la trasmittente in mano, la voce impostata su quel tono a lui totalmente estraneo, mentre la sua espressione rimaneva impassibile. Accovacciato in terra, nella mano libera aveva un piccolo strumento che usava con pollice, indice e medio, e con cui stava rosicchiando dei cavi. 

«Sei di nuovo tu!» sbraitò la guardia della Sala Operativa. «Dove diavolo ti sei cacciato!? Qual è il tuo numero identificativo!?»

«Stai calmo, amico, io sto solo facendo quello che mi è stato detto! Il mio numero è 54695 e sostituisco uno dei vostri che sta male, e ora mi spiego la ragione! Un ratto lo avrà morso!»

«Dove diavolo sei!?» 

«Corridoio quattro! Non mi vedi? Te l’ho detto, sono i ratti!»

Dazai sorrise a sentire la guardia imprecare. La telecamera del corridoio quattro era temporaneamente fuori uso. 

«Io qui non ci rimango, sbrigatevela tra voi! Preferisco mi taglino lo stipendio piuttosto che rimanere in questo posto infestato!» 

«Non ti muovere! Sto-» 

La trasmittente fu spenta una seconda volta e Dazai la mise via, per estrarre dalla tasca qualcos’altro per cui esibì una piccola smorfia. 

«A qualcuno tocca sempre la parte del morto» mormorò tra sé, lasciando scivolare fuori dal sacchetto di plastica, vicino al cavo appena manomesso, un ratto stecchino.

Con quell’ultimo dettaglio, il palcoscenico era pronto per la prima. 



 

* * *



 

Chuuya dormiva ancora. 

Il suo respiro era abbastanza forte da raggiungere il partner, appoggiato di schiena alla porta della camera. 

Dazai si riempì i polmoni lentamente ed espirò allo stesso ritmo. Dai sotterranei all’appartamento il cuore aveva aumentato il ritmo in maniera spiacevole, al martellare di quel pensiero invasivo che non lo aveva abbandonato per tutta la serata. 

Se Chuuya si svegliasse, tutto questo idillio finirebbe miseramente. 

Lo fissò, anche se di lui si percepiva solo il colore dei capelli sbiadito dalle ombre. In pochi passi avrebbe potuto raggiungerlo, ma l’ex detective scelse di restare ancorato all’uscio con quella materia informe nello stomaco che aveva gli stessi dentini accumunati dei ratti usati nella sua messinscena. 

Rimorsi

«Maledetta Lumaca» imprecò con un filo di voce. «Guarda come mi fai sentire.»

Sapeva di non poter e non voler rimanere per sempre appoggiato a quella porta. I granelli del suo tempo stavano continuando a scivolare via e nessuno avrebbe girato una seconda volta la clessidra. Quello che aveva era tutto ciò che gli rimaneva prima dell’inevitabile. 

Era una delle rare volte in vita sua per cui la nebbia stava appestando la sua scacchiera. I pezzi erano quasi del tutto disposti, ricordava dove li avesse messi, ma in quella partita le previsioni non lo avrebbero aiutato finché non fosse stato in grado di vedere oltre la foschia. E per vedere, avrebbe dovuto aspettare il momento giusto, l’ultimo secondo, per muovere quel Pedone o quel Cavallo. 

Fino ad allora, sarebbe rimasto appoggiato alla presenza rassicurante della Regina. 

«Ehi, stai dormendo dormendo?» mormorò Dazai, abbastanza forte da avere quasi un tono normale. Chuuya non replicò né il suo respirò mutò. All’ex detective venne quasi da ridere, mentre si staccava dalla porta e iniziava a spogliarsi di quei vestiti fastidiosi e li appallottolava su una sedia. 

Il letto era ancora caldo di loro. Dazai ci si infilò piano, ritrovando tutte le sensazioni piacevoli che vi aveva lasciato. Gli salì alle labbra un sospiro sconfitto. 

«È la terza notte che passiamo insieme e non mi hai ancora fatto salire la bile» ridacchiò piano lo Sgombro, accoccolandosi come gli piaceva tra quelle coperte. Si portò a un soffio da Chuuya, ma non lo sfiorò, restando a fissarlo. 

La tentazione fu però più forte e con un indice Dazai gli pungolò una guancia. La reazione del rosso fu un riflesso condizionato e, dopo una smorfia nel sonno, con una manata scacciò il gesto molesto, finendo a girarsi a pancia in giù, ma col volto verso il partner, senza svegliarsi. 

Erano faccia a faccia e Dazai percepì nuovamente quei rimorsi rosicchiare le sue interiora. 

Si umettò le labbra - che immaginò di premere su quelle che aveva iniziato a conoscere non più solo per gli insulti - e mitigò la tensione dei nervi in una piccola risata nervosa. 

«Mi avevi chiesto cosa siamo… io un’idea ce l’avrei, ma non ti piacerebbe» scherzò, eppure in quel suono ci fu soltanto il contrario dell’allegria. «E non abbiamo tempo. Ce ne servirebbe parecchio, perché lo so che sei una testa dura e mi detesti.» 

Gli occhi scuri di Dazai si spostarono come una lenta marea sul corpo di Chuuya, parzialmente coperto dal lenzuolo. Poteva percepire il suo calore pervadere il loro piccolo spazio intimo ed era un tepore inebriante, cullante. 

Sulla schiena della Lumaca c’erano i segni freschi del sesso di qualche ora prima. Dazai poteva ancora avvertire la sensazione sui polpastrelli di quella pelle tesa e salda. Ci si era aggrappato senza remore, le sue unghie avevano scalfito la superficie come un naufrago in balia della tempesta. Fu un paragona che costò a Dazai il dover ingoiare un boccone amaro. 

Chuuya l’aveva sentita la sua esitazione quella notte. Non c’era modo di nascondergli qualcosa quando erano privi di bende e collari. Nonostante questo, il rosso aveva fatto la cosa più naturale e distruttiva: lo aveva stretto a sé invece di chiedere. 

Non importava che fossero stati preda delle sensazioni, che l’orgasmo avesse fatto terra bruciata per qualche lungo attimo di coscienza e incertezze. Dazai lo aveva sentito, che Chuuya fosse stato consapevole o istintivo nel gesto, il rosso era arrivato lì, nel punto più oscuro del Demone Prodigio, per un battito di ciglia, con una scintilla che aveva fatto ritrarre ogni ombra o solitudine.

«Se prima ti fossi svegliato… chissà che scusa avrei usato? O quale verità ti avrei raccontato? Iniziano a essere tante.»

Con le dita, ma senza mai davvero sfiorarlo, percorse quei segni rossi scavati su una pelle che sembrava fatta apposta per esibirli. 

«Mi hai fatto ritardare di due giorni sulla mia tabella di marcia, Lumaca. Però…»

Dazai si impresse nella mente quell’espressione addormentata, buffa, con i capelli in disordine, così importante. 

«Sei riuscito a spegnermi i pensieri come faceva Odasaku» e sorrise, affondando un po’ nel cuscino per mitigare e celare quella verità. «Se te lo dicessi, penseresti che ti stia prendendo in giro.» 

Chuuya si mosse, prendendo un respiro più forte e raschiato, facendo irrigidire Dazai. 

«Ehi?» chiamò piano l’ex detective, scrutandolo. 

Il rosso non replicò, se non per un nuovo russare sommesso. 

«Sto per raccontarti tutto quello che mi passa per la testa e tu stai dormendo sul serio?» 

Dazai si avvicinò, finché non incontrò la fronte di Chuuya con la propria. Chiuse gli occhi, perché l’unico senso di cui sentisse il bisogno era quello in grado di incidergli la sensazione di quel momento nella mente.

«Ascolta, Chuuya… anche quando ti volterò le spalle, fidati ancora di me, ok? Avrò bisogno di te.»

Prese un respiro tremulo, sofferto. Quante cose erano cambiate in quattro anni? Quante ne erano cambiate in una manciata di ore rubate al presente?

«Per arrivare in fondo a questa storia… Avrò- Avremo bisogno di tutta l’umanità che io non ho e di cui tu abbondi… Ci perderemo, sarà inevitabile. Atsushi e Akutagawa non ce la faranno da soli… Avranno bisogno di te.» 

Si umettò le labbra. Era tutto così chiaro e sbagliato il futuro nelle sue previsioni. 

«E… avevi ragione, Lumaca. Sarò così stupido da farmi ammazzare dalla trappola che Fyodor ha costruito apposta per me. Se in ballo c’è Odasaku… mi si inceppa il cervello.» 

Quando aprì gli occhi, Dazai sperò di trovare quelli di Chuuya a fissarlo, a urlargli Che cazzo stai blaterando, Sgombro!?

Gli sarebbe bastato scrollarlo appena per svegliarlo, per avere un ascoltatore per quella confessione raccolta dalla vertigine della notte.

Sospirò piano, con le labbra piegate da una triste ironia. 

Se la Lumaca fosse stata sveglia, nessuna di quelle parole sarebbe esistita, non con la sincerità con cui la loro eco si stava dissipando nella stanza. Restò solo una solitudine consapevole, su una scacchiera consumata che non avrebbe dovuto conoscere colori diversi dal bianco e dal nero. 

Tuttavia, quella Regina rossa a cui Dazai sistemò i capelli dietro l’orecchio era diventata un’eccezione. E le eccezioni erano pericolose perché distraevano dal gioco, e l’ex detective non era ancora in grado di assicurare la sua incolumità. Anche se si trattava del pezzo più forte tra le sue dita, gettava su di lui il fardello di essere anche il più prezioso e il meno sacrificabile. 

Oltre la nebbia che gli impediva la sicurezza dei propri calcoli, un’altra Regina rossa - un’altra eccezione, un’altra debolezza - in mano al nemico, rischiava di tingere del colore sbagliato il campo di gioco.  

Dazai quietò quei pensieri annullando l’esigua distanza rimasta tra lui e il partner. 

Premette le labbra sulle sue con decisione e con le dita finalmente lo toccò, aggrappandosi di nuovo a quella schiena. 

Chuuya mugugnò appena, non svegliandosi del tutto, ma la sua bocca accolse quella richiesta silenziosa e lasciò spazio a Dazai per entrarvi. Il rosso cambiò posizione, girandosi supino costretto dall’insistenza del partner nel baciarlo. Aprì gli occhi confusi di sonno quando Dazai nascose il viso nell’incavo del suo collo. 

«Stupido Sgombro…» mormorò in un mezzo sbadiglio, massaggiandogli la collottola. 

«È un insulto blando stavolta, a cosa lo devo, Lumaca?» ridacchiò lui, mordicchiandogli appena la spalla. 

«Stavi sicuramente pensando troppo invece di dormire…»

Dazai si irrigidì saltando un battito, chiedendosi se, in realtà, Chuuya non lo avesse davvero ascoltato

«Ecco, vedi? Avevo ragione. Usa la notte per dormire invece di farti qualche viaggio mentale dei tuoi…» 

Dazai si rilassò buttando fuori il nervoso con una mezza risata. Chuuya fraintese e sbuffò esasperato. 

«Smettila di prendermi in giro o giuro che ti soffoco.» 

«Non abbiamo ancora provato l’asfissia erotica, penso mi potrebbe piacere…»

Fu il turno di Chuuya di irrigidirsi e Dazai ne approfittò per montargli a cavalcioni sul ventre, con un sorrisetto pieno di pessime intenzioni. Non c’era più alcuna scacchiera o nebbia, ma solo il suo partner e quel suo calore piacevole. 

Dopo un attimo di smarrimento, anche sulle labbra del rosso si dipinse un’espressione di riflesso. Le sue dita andarono a solleticare la base del collo dello Sgombro, fissandolo con una certa avidità e senza più tracce di sonno. 

«Cercherò di non ucciderti.» 

«Come se ne fossi davvero capace.»

Chuuya si sollevò per incontrarne le labbra e leccargliele, senza mai baciarlo davvero, mentre la sua mano si stringeva più decisa intorno alla sua gola. 

«Domattina ti ucciderò sicuro per l’ennesima nottata in bianco. Ma ci penserò più tardi.»



 

* * *



 

«Sei proprio sprecato per fare il terrorista…» 

La donna ridacchiò, ma il suono fu sbiadito, singhiozzante, con un fondo di follia sintetica fuori posto. 

«Con quel bel faccino che hai… potremmo andare a berci qualcosa insieme, che dici?… poi io farei cadere il bicchiere, questo si romperebbe… e zac!» rise di nuovo, mentre si contorceva sul letto, i polsi legati e fasce in cuoio a tenerle fermo il corpo. «Ti taglieresti un dito per raccogliere i cocci e io… per dovere morale e professionale… mi sentirei obbligata a curarti…»

Spalancò gli occhi, iniettati di quella stessa pazzia che aveva pizzicato le sillabe delle sue parole. 

«Ma prima di farlo ti farei provare tutto il dolore che un essere umano può sopportare!»

L’effetto della droga tornò nuovamente in circolo attraverso la flebo e Yosano Akiko si rilassò sul materasso contro la propria volontà. 

Di fianco a lei, impassibile nell’osservarla, Oda buttò la siringa nel cestino e accompagnò con lo sguardo il fluttuare delle sue ciglia, l’espandersi delle pupille, le dita che tremavano, si contraevano, per poi distendersi non potendo stringere neanche l’aria. 

«Sono giorni che ci frequentiamo ma ancora non mi hai detto come ti chiami, bel faccino…» riprese la dottoressa, stirando le labbra in un nuovo risolino ebbro. «Tu continui a essere così gentile da farmi dormire… e io non ho idea di cosa dovrò far scrivere sulla tua tomba…»

Oda continuò a ignorarla, controllandole le pulsazioni. Yosano non si diede pace, consapevole che il farmaco l’avrebbe presto intorpidita del tutto.

«E io che volevo provare a fuggire di nuovo…» borbottò con un verso di frustrazione, tentando di stringere i pugni. «Ma a te non si può nascondere niente, vero?… con quella tua abilità perfetta… sai, mi ricordi qualcuno.» 

Lo sguardo di Oda incrociò il suo, anche se le doveva risultare difficile metterlo a fuoco. La dottoressa si leccò le labbra seccate dai giorni di prigionia, ma il deperimento generale non pareva averla privata della sua macabra vena minacciosa. 

«Una volta mi hanno raccontato una storia… eravamo ubriachi, avevamo la testa leggera, ma la sensazione era mille volte più piacevole di questa» e lo disse sbuffando spossata. 

«Il protagonista veniva chiamato amico… era un mafioso di basso rango, un tuttofare che una volta faceva il postino e non uccideva, ci crederesti?… però, sembrava che fosse tanto bello parlarci… così bello da perdercisi per ore… come con le sue carezze… una bella storia, finché il protagonista non è morto… che peccato.» 

Il sorriso sul viso di Yosano era una fastidiosa scucitura che rivelava troppo di quello che l’abito cospriva. 

«Dazai mi raccontò che questo suo amico aveva i capelli rossi come i tuoi… e occhi che desideravano il mare… potresti interpretare la parte del fantasma, lo sai, bel faccino?»

Oda spostò l’attenzione sulle flebo, restando a controllarle per un tempo quasi esasperante. 

«Ehi, ti sei offeso?» lo richiamò Yosano con la voce sempre più fioca e impastata. «Se i fantasmi esistessero, Dazai potrebbe essere… felice…» 

La mano dell’uomo esitò, mentre il suo sguardo si abbassava di nuovo sul viso della dottoressa. Vide le sue palpebre diventare pesanti e osservò la droga arrivare al suo culmine con l’effetto rilassante e narcotico. 

«… ma i fantasmi tormentano… e uccidono… l’ho imparato da un vecchio medico idiota…»

Il respiro di Yosano si fece profondo e regolare. Oda le prese il mento con la mano e le spostò il viso, facendole scivolare i capelli ai lati delle guance. Non ci furono reazioni. La lasciò andare, ma restò a fissarla ancora qualche secondo. Le sue labbra restarono socchiuse, come se avesse voluto aggiungere altro, ma il narcotico l’avrebbe tenuta fuori gioco per molte ore.  

«Dazai…» pronunciò l’uomo, senza che nessuno potesse più ascoltarlo. 

Lasciò la stanza. 



 

Connessione in corso…

Connessione…

Connessione…

 

Dostoevskij - Ore 19:02 (Francia)

 

19:02:34 ─ Ciao Sakunosuke, non dormi?

Nel video, proiettato su un portatile di stampo militare, incassato in una valigetta, Dostoevskij era seduto sul letto della sua cella a Meursault. Alcuni libri erano di fianco a lui, uno in mano. Sorrise alla pagina che aveva davanti come avrebbe fatto a un amico. 

Oda attivò l’auricolare che si era sistemato nell’orecchio, mentre prendeva un sorso di whiskey dal bicchiere. Fuori, dalla piccola finestra alle sue spalle, aleggiava l’aria notturna delle due di notte. 

«Non ho sonno. Più tardi devo uscire» replicò in un russo privo di accento. 

L’uomo imprigionato sembrò trovare la cosa buffa, mentre scorreva le dita sulle righe del libro. La chat a lato del video si riempì di parole in russo in risposta.

19:03:11 ─ Ho saputo che non ti stanno più organizzando grandi comitati di benvenuto come prima. La Port Mafia sta rivalutando le proprie risorse umane, presumo. 

L’uomo rimescolò con decisione il proprio drink osservando il liquido ambrato lambire le pareti di vetro, ma senza mai versarsarne una goccia. 

«Mi stanno lasciando vagire

Nel video, Dostoevskij si premette il libro contro la bocca, soffocando quella che sembrò a tutti gli effetti una risata improvvisa. Oda aggrottò la fronte, per poi ripensare a ciò che aveva detto. 

«Ho sbagliato pronuncia?» e c’era una nota che stonava con la sua impassibilità, suonando vagamente divertita. 

19:04:03 ─ Sei fuori allenamento. Immagino che le conversazioni con Gogol’ si limitino alle minacce. Hai smesso di leggere? 

«Non è la lettura che mi manca.»

Dostoevskij si ricompose, tornando ad avere un’espressione placida, impenetrabile, mentre sfogliava il libro.

19:04:43 ─ Il piano sta procedendo. Ancora un po’ di tempo e potrai venire a prendermi. Ma prima la farsa di Red Hood dovrà raggiungere il suo picco.

«Tra tre giorni attaccherò il palazzo della Port Mafia. So che Dazai Osamu mi sta aspettando.»

Fu una verità scomoda e ingombrante, ma allo stesso tempo inconsistente. Riempì il virtuale spazio tra di loro come un gas inodore e incolore, i cui effetti, tuttavia, perdurarono nel tempo come un prurito sulla pelle. 

Gli occhi del russo si fissarono su una riga, insieme al dito che solitamente scorreva tra le parole. Dopo qualche secondo chiuse il libro, lo appoggiò di lato con delicatezza e ne prese un altro, ma lo lasciò sulle gambe, senza aprirlo. 

«Che genere di trappola dovrò aspettarmi?» continuò Oda, spezzando quel sospeso.

Il prigioniero aprì il libro a una pagina a caso. La sua espressione era imperscrutabile, senza alcun risolino poggiato sopra. 

19:06:23 ─ La Port Mafia è la sua casa. Dazai Osamu avrà preparato trappole per tutti. Per alleati e nemici. 

«Quello che faresti anche tu.»

19:06:39 ─ Quello che farei io, eh?

Le dita del russo si mossero sulla pagina come le zampe di un ragno, senza fretta, ma inesorabili. 

19:06:59 ─ Sakunosuke, cosa provi quando hai davanti Dazai Osamu? 

Oda non rispose, non subito. Abbandonò il bicchiere col whiskey sul tavolino, ma restò a fissarlo. Il sapore era amaro, ammorbidiva i suoi sensi con qualcosa di conosciuto, tuttavia non bastava al suo palato, mancava qualcosa di inafferrabile a fargli da contorno e gustarlo appieno.

«Mi da noia» iniziò, saggiando quelle parole e mischiandole al sapore dell’alcolico. Con una mano, sovrappensiero, si massaggiò la spalla dove l’ex detective l’aveva pugnalato al Porto Vecchio. «Continua a intromettersi e a chiamarmi Odasaku. Ho fallito con l’ucciderlo quando potevo e ora gli ordini sono cambiati. È davvero così importante catturarlo vivo?»

19:07:14 ─ La sua abilità è unica. O meglio, la più simile alla sua è fuggita ai nostri benefattori e ora vogliono Dazai. E noi non vogliamo inimicarceli.   

Oda spostò lo sguardo al video con la fronte corrucciata, come se avesse avuto davanti Dostoevskij stesso. 

«Tu sei d’accordo?»

19:08:09 ─ Pensi che lo sia? Gli affari li conduce Kamui, a me non interessa. 

Le unghie dell’uomo in cella graffiarono la pagina del libro.

19:08:18 ─ Quando avremo il Libro, i desideri puerili degli uomini saranno ridimensionati. L’uomo è servo di se stesso e del proprio egoismo. Dazai Osamu non è diverso, Sakunosuke. Le persone che lo circondano sono i suoi burattini, e lui o li rompe o li abbandona. Hai visto cosa ha fatto fare alla sua Bestia, portandola quasi a morire. O come ha gettato via i suoi compagni dell’Agenzia. 

Le dita di Oda si strinsero a pugno, per poi rilassarsi e afferrare di nuovo il bicchiere di whiskey. 

«Hai detto che il sangue di Dazai Osamu è nero…»

19:09:07 ─ Da prima ancora che Mori Ougai lo raccogliesse come suo protetto e lo plasmasse. Ciò che le mani di Dazai raggiungono finisce perso… come è successo con te, Sakunosuke. 

Oda ci rifletté per qualche lungo secondo. Nella sua mente c’erano solo stanze buie.

«Hai detto che ero importante per lui.» 

19:09:32 ─ Lo eri, sì. Avrebbe potuto salvarti la vita e impedire che Mori Ougai ti usasse come pedina nella propria scalata al potere, ma non l’ha fatto. 

Il resto del discorso era una storia già raccontata. Non ci furono risposte. 

Lì nella sua cella, Dostoevskij sospirò piano, condiscendente - mefistofelico - continuando a guardare le righe del proprio libro. 

19:11:17  ─ Il pensiero di Dazai Osamu ti tormenta? 

«No» replicò secco Oda, terminando il whiskey e passandosi il pollice sulle labbra. «È un lavoro, sono stato addestrato per questo. Chiunque lui conoscesse, io non sono Odasaku.»

Il nome vibrò nella stanza con un suono pieno di speranze, ma morì nell’essere ascoltato dalle uniche due persone a cui non importava niente. 




To be continued. 



Penso sia il capitolo più lungo che abbia mai scritto di questa storia? Non lo so, è interminabile, succede di tutto e tutto in 24 ore praticamente. 
C'è qualche vago accenno/spoilerino alla nuova light novel (The Day I Picked Up Dazai), ma proprio una cosa sola...! Plus FINALMENTE ci sono Dostoevskij e Odasaku. Che ne pensate? Non tiratemi nulla, ahah. 
Ci sarebbero così tante cose da dire, ma è tardi...! T_T 
Fatemi sapere che ne pensate! 
Mi trovate su ig: @nolongerflawless.fanfic! 
Buonanotte!


Prossimo capitolo → Minutes to midnight


 

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Capitolo 21
*** Minutes to Midnight ***


Capitolo 20

Minutes to midnight





 

When my time comes
Forget the wrong that I've done
Help me leave behind some reasons to be missed
And don't resent me
And when you're feeling empty
Keep me in your memory
Leave out all the rest
Leave out all the rest

[Leave out all the rest - Linkin Park]






 

Quel pomeriggio - erano quasi le diciassette - Sigma si trovava in una caffetteria al penultimo piano di un palazzo antistante il quartier generale della Polizia Metropolitana di Tokyo. 

Non si era levato dalla testa il fastidioso cappello da baseball e neanche gli occhiali da sole, e lì nell’angolo dove si era rintanato per avere privacy e tenere d’occhio la situazione era certo che avrebbe restituito l’ideale della persona sospetta. Eppure quella era Tokyo e nessuno aveva sollevato ancora dubbi nei suoi confronti; uno sguardo distratto e qualcuno curioso era tutto ciò che aveva ricevuto. 

Magari credono che io sia un idol in incognito, pensò succhiando rumorosamente il proprio frappè dalla cannuccia. 

La sua attenzione vagò di nuovo sulle strade che si intrecciavano ai piedi dei palazzi e il fiume di persone che le popolavano. C’era qualcosa nelle folle che lo catalizzava e lo respingeva al tempo stesso, eppure non aveva smesso di fissarle nelle due ore che aveva passato lì, in attesa. 

Tokyo era una città che divideva i suoi sentimenti. 

Riusciva a mischiarsi tra i suoi abitanti sembrando un chiunque qualsiasi e camminava lasciandosi trascinare da chi lo circondava, con la parvenza di avere una meta. Quando però si fermava a un angolo e osservava quello stesso flusso continuare a fluire in perpetuo, tornava a essere se stesso e a non sentirsi nessuno. A non essere nessuno.

Sapeva quale fosse il suo lavoro, cosa dovesse fare - e non era perdersi o fare il turista - ma era più forte di lui. Come lo era approfittare di quei momenti di intervallo, di attesa, dove poteva entrare nei negozi e sentirsi una persona normale; oppure riempire le ore spendendo metà del proprio budget in consumazioni al tavolo e assaggiare cibi di cui credeva di conoscere la consistenza, ma che continuavano a essere nuove scoperte. La vaniglia restava tra i suoi gusti preferiti. 

Quando i sapori colpivano le sue papille gustative per la prima volta si sentiva stupido, perché aveva idea di cosa avesse davanti - tramezzini, tartine, una sacher - eppure la sensazione rimaneva quella di assaggiarli per la prima volta. A volte si chiedeva fino a che punto l’amnesia avesse cancellato parti di lui, come se tre anni prima fosse stata fatta tabula rasa di qualsiasi sua esperienza di vita, anche la più banale come quella del sapore di un ingrediente. 

Per quanto ci convivesse da tempo, la tristezza del pensiero lo raggiungeva ugualmente, come la carezza malinconica di una mano a cui non si poteva sottrarre. 

Quello di non ricordare era un peso frustrante che si faceva sentire quando si concentrava sugli altri, li osservava, che fossero passanti distratti, persone impegnate, viaggiatori, commessi, bambini, chi andava, chi tornava… 

Per fare tutte queste cose uno dovrebbe sapere chi è. 

Era un pensiero ricorrente che non lo abbandonava, attaccato come una sanguisuga alle sue emozioni. 

C'erano delle equazioni nella sua mente, teorie su come dovesse essere un individuo che conosceva le proprie origini, che partiva da un punto A e procedeva verso un punto B. Banale, lineare, riduttivo. 

Sigma non aveva una gran esperienza con le persone, eppure pensava che conoscere le proprie radici fosse indispensabile per reggersi sulle proprie gambe. Lui ci riusciva per uno spirito di sopravvivenza a cui non sapeva dare nome. A volte pensava fosse la semplice riconoscenza - e timore, molto timore - nei confronti di Dostoevskij, che si era preso cura di lui e gli aveva promesso di realizzare un desiderio, se li avesse aiutati. Per qualcuno senza passato, senza futuro, e con un presente incerto fatto solo di un biglietto del treno che non sapeva da dove arrivasse o dove portasse, accettare una proposta del genere era avere finalmente uno scopo nella vita. 

Tuttavia, se escludeva quel compito, ciò che gli rimaneva non era sufficiente per avere una ragione per vivere. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. 

Aveva bisogno di zittire il senso di angoscia che gli provocava avere un'amnesia talmente grave da non ricordare il proprio aspetto. Un'angoscia che peggiorava la situazione perché la sentiva forzata, artificiale. Come se pensare di non avere ricordi fosse una cosa normale invece del contrario. 

Non sarebbe voluto tornare e ritornare su quel punto, ma imporsi solo di pensare alla ricompensa che avrebbe ricevuto una volta concluso quel compito. Il Casinò in cielo sarebbe stato l’inizio della sua nuova vita: un luogo senza giurisdizione, dove le regole le avrebbe fatte lui, decidendo chi far entrare o chi buttare fuori.

Il suo sguardo vagò dove in realtà si sarebbe dovuto trovare per tutto il tempo e notò ciò che, da due ore, stava aspettando - anche se ciò significò la fine del suo intervallo di pace. 

Un’auto governativa si era appena fermata davanti all’ingresso riservato della Polizia Metropolitana. Due uomini stavano parlando - o meglio, uno stava gesticolando con fervore mentre quello che lo seguiva continuava a inchinarsi anche troppo profondamente. Sigma riconobbe il Vice Ministro alla Giustizia, Tonan, e il suo segretario. L’intera scena non durò più di tre minuti e il Vice Ministro si infilò in auto, senza neanche un cenno di saluto. 

Lasciato solo, Sigma seguì il segretario con lo sguardo, vedendolo incamminarsi nella direzione opposta e mescolarsi alla folla. 

Un famigliare brivido colse l’Angelo della Decadenza nel suo angolo della caffetteria. Contò i secondi senza volerlo davvero, come ultima distanza all’inevitabile. 

Dopo venti scarsi - un’agonia - la sedia libera al tavolino venne scostata e Nikolaj Gogol’, in vestiti casual molto fuori luogo rispetto al suo stile abituale, con un lungo trench bianco a sopperire al suo mantello, prese posto con un sorriso che sembrava inciso da un bisturi. 

Senza alcun convenevole, il clown appena arrivato afferrò Sigma per il polso e lo costrinse a infilzare un pezzo di dolce con la forchetta che stringeva in mano, e se lo portò alla bocca senza mai lasciarlo andare. Non fu contento del sapore. 

«Mh, marmellata di arance» commentò con la faccia contrariata, in russo. «Voglio un gelato.»

Sigma passò da una faccia che diceva Ordinatelo! a un’altra più circospetta, atta a cercare in giro sguardi indiscreti nella loro direzione. Con Gogol’ in pubblico, in mezzo alle persone normali, non si poteva mai sapere quando le cose sarebbero scoppiate. 

Finì col fissare scoraggiato la forchetta, indeciso se riprendere a usarla dopo che il compagno se l’era infilata in bocca. Il disagio era sempre annidato lì, dentro di lui, a fargli desiderare che Gogol’ fosse un po’ meno fuori di testa, essendo una delle poche persone all’interno del suo mondo e quella con cui passava più tempo.  

C’erano momenti in cui Sigma avrebbe preferito un ruolo in solitaria, anche se avesse significato trovarsi faccia a faccia col pericolo, e prima ancora con l’ansia di non essere all’altezza. Non riusciva a credere che essere accoppiato a Gogol’ fosse il male minore - in quelle settimane, tra il rischiare di essere scoperti o il finire arrestati, i cambi di personalità del clown erano state le situazioni più pericolose a cui era andato incontro. 

Le alternative erano state scartate. Tra i piani elaborati da Dostoevskij non ce n’era nessuno che contemplava l’affiancare Oda - che sarebbe stato come trovarsi in compagnia di un muro. Tra tutti i suoi compagni, era quello che all’apparenza, di primo impatto, ispirava più fiducia, ma Sigma non aveva dimenticato come fosse vederlo in azione e mai avrebbe voluto trovarsi contro di lui. O peggio, con lui e Dostoevskij, perché sarebbe stato ancora più invisibile e insignificante di quanto a volte già si sentisse. 

Nel mentre, una cameriera appoggiò davanti a Gogol’ una coppa gelato esagerata e guarnita di ogni capriccio immaginabile, facendo dimenticare a Sigma i pensieri lugubri e mettendogli di nuovo l’acquolina in bocca. 

«Stanotte il Fantasma Rosso attaccherà i cattivi, ma tu dovresti preoccuparti di Kamui» lo distrasse il clown, osservando l’ordinazione con delizia. «Ti taglierà la testa se non capisci quante chiavi stiamo cercando.»

Nikolaj sapeva sempre cosa dire per chiudere lo stomaco al compagno, anche cianciando con la prima cucchiaiata di dolce in bocca e l’espressione serafica. 

Sigma lanciò occhiate circospette. Per quanto fossero in un angolo abbastanza solitario, aveva sempre l’idea che qualcuno potesse scoprirli da un momento all’altra. 

«Se le persone che troviamo non hanno informazioni utili io non posso farci nulla!» sbottò sottovoce, piccato, e con uno scatto così repentino della testa che gli occhiali da sole gli scivolarono sul naso. 

Aveva spiegato e rispiegato come funzionasse la propria abilità, eppure i suoi compagni continuavano ad aspettarsi sempre troppo da lui. 

Io sono una persona ordinaria, pensò per l’ennesima volta, rabbuiandosi. 

Non era un utilizzatore capace come Gogol’, o intelligente e letale come Dostoevskij. Non possedeva la forza di volontà e la determinazione di Oda, che continuava a evolvere e padroneggiare la propria abilità come un gioco a livelli per bambini. Di Kamui non sapeva praticamente nulla, se non il terrore che gli infondeva, ma era abbastanza certo che anche lui possedesse un’abilità da non sottovalutare. 

Distratto dai propri pensieri, Sigma fu riportato al presente dal rumore netto che fecero quasi dieci centimetri di documenti quando Gogol’ li depositò sul tavolino con nonchalance. Allarmato, Sigma agguantò al volo le cartelline e se le strinse addosso, sperando che nessuno guardasse nella loro direzione. 

«Sei impazzito!?» sibilò, per quanto sapesse che fosse inutile lanciare rimproveri al clown. 

«Ho messo insieme un sacco di altri nomi interessanti grazie agli agganci del Vice Ministro della Giustizia. In settimana avrò anche accesso agli archivi della Difesa e degli Interni. Solo la Divisione rimane inespugnabile, se si è un semplice segretario» cincischiò Gogol’, tra un boccone di gelato e l’altro, come se stesse parlando dei programmi per le vacanze imminenti. «Tonan-chan odia profondamente l’Agenzia, basta alimentare il suo disprezzo e canta come un passerotto, lalalala! Non vedo l’ora di ammazzarlo! Sarà delizioso!» 

Sigma guardò i documenti, incerto anche su come si prendesse un respiro. Lui quell’entusiasmo non lo provava minimamente, tutto il contrario. Sapeva di avere tra le mani l’equivalente di una condanna a morte per i prossimi custodi di chiavi, una volta individuati. Dostoevskij era stato tassativo sulla fine che avrebbero dovuto fare quei guardiani. Nessun testimone e al resto delle prove ci avrebbe pensato il loro cavallo segregato. Sigma aveva dovuto chiedere a Gogol’ per capire perché Dostoevskij chiamasse Mushitarou Oguri in quella maniera. 

Siamo pezzi degli scacchi, tutti quanti! Anche tu! Sei l’altro cavallo!

Non aveva mai capito se fosse un complimenti o cosa implicasse. Non era pratico di scacchi, ma probabilmente non avrebbe seguito il filo logico di Dostoevskij neanche se la similitudine fosse stata con le carte da poker.  

«Il prossimo custode voglio ammazzarlo con un’accetta» borbottò Gogol’, fissando il cucchiaio pieno di crema, prima di cacciarselo in bocca. «Vofhio federe il sangue come sfhiffa

«Potresti non dire cose del genere in pubblico!?» squittì Sigma disperato, stringendo al petto i documenti come se si stesse preparando a una fuga immediata. 

«Hai ragione» concordò Nikolaj. La sua espressione si asciugò di ogni ilarità, rimpiazzata da una serietà che parve rubata a qualcun altro. 

Qualsiasi cosa regolasse le metamorfosi di Gogol’, aveva appena compiuto un altro giro. Sigma aveva imparato a riconoscere quei cambi di atteggiamenti, anche se li accoglieva in egual maniera con lo stesso, spiacevole brivido lungo la schiena. 

Quella era la dicotomia del clown: un momento pazzo, quello dopo una persona normale, e ambo le occasioni avevano sempre una maschera per non lasciar intravedere quale fosse la verità. 

Tuttavia, anche se la avvertiva come l’ennesima presa in giro dell’universo, Sigma si trovava stranamente confortato quando quel Gogol’ serio emergeva. Poteva durare minuti, come ore, o giorni, ma erano gli unici frammenti in cui riusciva a sentirsi meno solo e con davvero un compagno accanto, stabile e stranamente sicuro. Erano i momenti in cui Sigma avrebbe voluto davvero credergli, nella speranza che non se ne andasse.  

«Ti limiti a stringere la mano delle persone che rintraccio e a prendere da solo le informazioni che ci servono come se nulla fosse» riassunse Gogol’, sulla stessa falsariga tranquilla. «Hai mai pensato di improvvisarti detective?»

«… cosa?»

Sigma lo fissò smarrito, pensando che l’illusione del compagno comprensivo fosse già svanita. Per quanto le parole gli suonassero illogiche, non c’era follia o tracce simili. 

«Potresti provare a vedere in prospettiva tutte le informazioni che troviamo. Scoprire la logica per cui sono state scelte certe persone per nascondere le chiavi, come funziona la rete di sicurezza del governo per cui i dipendenti stessi non sanno cosa stia succedendo…» riprese Gogol’, così ragionevole che Sigma non si perse una sillaba del suo discorso, sentendo persino il cuore battere un po’ più forte. 

Nikolaj gli stava chiedendo di provare a essere qualcosa di più, in una prospettiva che sembrava riporre in lui più fiducia. Restò in silenzio, ripetendosi quelle parole con scetticismo e con una punta di imbarazzo. Era come con il sapore delle tartine: sapeva cosa fosse un detective, ma non aveva idea di come funzionasse. 

«C-Cosa dovrei fare?» chiese titubante, osservando la forchettina da dolce che aveva continuato a tenere in mano, sentendosi un bambino. 

Gogol’ abbandonò il cucchiaio nella coppa di vetro ormai vuota e si picchiettò una tempia con aria così pensierosa da risultare credibile. 

«Possiamo prendere una lavagna di sughero, una cartina di Yokohama e tu potresti scrivere su dei foglietti tutte le informazioni che hai avuto finora. Magari scopriresti che sotto c’è uno schema e potremmo arrivare prima ai nostri obiettivi.»

Nella mente di Sigma, l’idea assunse i contorni di uno dei pochi film polizieschi che aveva visto, piazzandolo al centro come protagonista. Non voleva ammettere che fosse una possibilità intrigante - e piena di ansia - ma le guance gli si colorarono contro la sua volontà. 

«Pensi che Fyodor sarà d’accordo?» domandò incerto. «Non sarà una perdita di tempo?»

Gogol’ ridacchiò senza esagerare, più come un amico divertito. 

«A Dos interessa raggiungere lo scopo, non il mezzo. Prima mettiamo le mani sul premio finale, prima…»

Il suo sorriso prese una nota stonata, incrinando l’illusione e riportando a galla il clown. Durò tutto un attimo, come se qualcuno avesse ricucito al volo quello strappo e la menzogna fosse tornata a coprire la verità. O viceversa. 

Sigma assistette impotente come ogni volta che succedeva e tornò a fissare il pezzo di torta abbandonato che non avrebbe mai finito. 

«Se non lo vuoi più, paghiamo e andiamo. Dobbiamo cercare una cartoleria! Voglio vedere la tua faccia di fronte alle matite colorate!» ridacchiò Gogol’, chiedendo il conto. 

Sigma si lasciò trascinare di nuovo dalla corrente, senza opporre resistenza. 




 

* * *



 

«… cosa non è chiaro quando dico che ci servono i rifornimenti dei magazzini cinquantotto e ottantatre? Se non è di tua competenza fa che lo diventi! Hai venti minuti!»

Chuuya riattaccò la telefonata e non lanciò via il cellulare solo perché era il suo e non aveva il tempo materiale per recuperarne e settarne uno nuovo. A squillare di nuovo, però, fu il telefono fisso dell’ufficio, che Dazai scrutò seduto dalla poltrona del partner. 

Il rosso, dall’altra parte della scrivania, afferrò la cornetta con una bestemmia. 

«Che c’è?»

L’ex detective continuò a osservarlo con espressione placida, il mento appoggiato alle dita intrecciate e un’apparente aria curiosa e tediata da Io il mio lavoro l’ho finito

«… sì, sì ho capito. L’ordine è di congelare le operazioni fino all’inizio della prossima settimana, qualsiasi cosa succeda. Contattate l’intelligence, hanno i loro protocolli. Sì. Grazie.»

La Lumaca riagganciò con meno irruenza, ma il suo cellulare stava già risquillando e Dazai ci appoggiò gli occhi e un sorrisetto sornione. 

«Lo sapevamo dall’inizio che saremmo arrivati a questo punto» disse soave. «Pensa se Red Hood ci avesse colto di sorpresa. Andiamo, non sentivo tutti questi telefoni squillare dal Conflitto della Testa di Drago! Non credevo fossero stati quattro anni così tranquilli.» 

«Senza di te si stava una pacchia» borbottò Chuuya, indeciso se rispondere o meno, ma alla fine cedette, sedendosi sulla scrivania e premendosi indice e pollice sulle palpebre chiuse. Aveva recuperato del sonno durante la notte, legando letteralmente Dazai al letto, ma le stava esaurendo tutte appresso a quelle chiamate no-stop.

«… seh, me ne occupo io. Sì. No, frena, a quello squinternato di Motojirou non dovete dare alcuna autorizzazione oltre il livello quattro, fossimo anche in protocollo nero. No, ovvio che ha falsificato la firma se vi ha chiesto di accedere al magazzino dei prodotti chimici classe S, è bandito da quel posto. Mandalo via a calci nel culo e digli che se non sta buono lo pianto nel pavimento dell’ingresso.»

Chuuya chiuse la chiamata e buttò fuori l’aria dalla bocca in un respiro che tradotto a parole sarebbe risultato una bestemmia. 

«Che personaggio quel Kajii» commentò blando Dazai, ma dal modo in cui il rosso si stava massaggiando le tempie non lo stava ascoltando. L’ex detective gli punzecchiò il fianco con un dito. 

«Però, Lumaca, ne hai fatta di strada. Sei un centralino di riferimento per tutti qui dentro. A me non chiama nessuno.»

Chuuya lo fulminò con lo sguardo. 

«Lo so che hai messo la modalità aerea, stronzo.»

«Oops

Il telefono fisso ricominciò di nuovo e Chuuya sembrò sul punto di incenerirlo con lo sguardo. 

«Sei così efficiente che faresti la felicità di Kunikida, se non aveste due caratteri agli antipodi.»

Il partner perseverò in una nuova occhiataccia, mentre rispondeva. 

«Non paragonarmi a quel… Pronto.»

Quasi nello stesso momento bussarono alla porta dell’ufficio. Chuuya fece un gestaccio, incalzando Dazai ad andare ad aprire e lo Sgombro si alzò di malavoglia, per poi rifletterci un attimo e mimare con le labbra Potrebbe essere Yumiko-chan! La Lumaca roteò gli occhi al soffitto. 

Al di là dell'uscio c’era l’antitesi dell’arredatrice. Akutagawa. E non era solo. 

«Chuuya è alquanto oberato in questo momento, sembra un call center» spiegò lo Sgombro, facendosi di lato per far passare la breve delegazione. Insieme al Mastino della Port Mafia c’erano sua sorella Gin e Hirotsu. 

«Dazai-san» salutò con rispetto quest’ultimo, alzando una scatola elegante. «È arrivato il pacco che stava aspettando.»

«Oh, magnifico! Allora è un segno! In tempo per il grande evento» trillò l’ex detective, guidandoli dentro la stanza. 

«… non me ne frega un cazzo! Ma avete capito quello che sta per succedere!? Fai sistemare quella roba entro oggi pomeriggio o vengo a cercarti!» 

E Chuuya riagganciò l’ennesima telefonata, tirando una bestemmia che fece tremare i vetri. 

«Pensavo che l’ultimo grande spiegamento di forze l’avessimo raggiunto qualche mese fa con l’avvelenamento del Boss, ma era da quelle ottantotto giornate di sangue che non vedevo tanto via vai» commentò Hirotsu, adagiando il pacco per Dazai sul tavolino in mezzo ai divani. 

«Oh! È quello che ho detto anche io!» cantilenò Dazai, mentre il cellulare di Chuuya ricominciava un’altra volta, insieme ai suoi insulti. «Se non cambia suoneria non me la leverò più dalla testa» continuò l’ex detective, incrociando le braccia. «Ma perché non ha degli assistenti? Non li ha trovati alla sua altezza

L’anziano fu bravo a dissimulare il divertimento in un colpo di tosse, affiancandosi al Demone Prodigio mentre fissava anche lui il rosso. 

«A Chuuya-san non piace delegare, ma gestire queste cose personalmente.» 

«Per fortuna che la grande notte è stasera, perché un altro giorno così non lo reggo.»

«Dazai-sama.»

Incisiva, anche se fu poco più di un nome sottovoce, Gin si fece avanti chinando la testa. 

«Via le formalità, Gin-chan» replicò lui, accettando i documenti che la ragazza gli stava porgendo. Li sfogliò in rapidi gesti. Al suo fianco, Hirotsu non tradì una certa curiosità. 

«Dunque è nell’ala sud dei sotterranei che ha fatto allestire la prigione per Oda?» 

«Sono quelle con le pareti più spesse e con meno probabilità per il nemico di farlo evadere» spiegò sommariamente Dazai, leggendo le righe del rapporto. «Anche se dubito che i suoi compagni si preoccuperanno della sua incolumità.»

«Verrà veramente da solo, Dazai-san?» 

A intromettersi nel discorso fu Akutagawa, rimasto in disparte fino a quel momento, anche lui con alcuni documenti sottomano. 

«Certo» fu la risposta priva di esitazione dell’ex detective. I suoi occhi vagarono sulle righe del rapporto, prima di chiuderlo e incrocciare le braccia. Portò lo sguardo sul suo (ex) allievo ed esibì un ghigno d’altri tempi, che tuttavia non impensierì il Mastino. 

«Se prima Odasaku era in grado di occuparsi da solo di venti o trenta uomini armati, dopo quattro anni di addestramento scalerà questo palazzo senza battere ciglio.»

L’atmosfera intorno ad Akutagawa, Gin e Hirotsu si fece affilata e grave, mentre l’ex detective scioglieva la propria in una più noncurante, facendo spallucce. 

«Abbiamo così tanti piani e backup che se ce lo lasciamo sfuggire sarà un’onta senza precedenti, o la fine della Port Mafia, chissà.» 

«Dazai-san, la prego» lo riprese Hirotsu in un blando rimprovero. 

«Che cazzo stai blaterando, Sgombro?» sbottò Chuuya. 

Nessuno dei quattro si era accorto dell’improvviso silenzio dato dai telefoni, ma voltandosi videro il cavo staccato dalla base del cordless. 

«Sei in pausa? Vuoi che ti ordini una tisana?» cinguettò l’ex detective, prendendolo in giro. 

«Apri del vino se non hai un cazzo da fare» lo minacciò il rosso, puntandolo col cellulare, il cui display era in realtà ancora luminoso con una chiamata in entrata, ma la suoneria era stata silenziata. Lo stava deliberatamente ignorando. Si rivolse invece ad Akutagawa, allungando la mano verso i documenti. 

«È il resoconto dei sotterranei?» 

«Sì» assentì il Mastino, consegnando la cartellina con un inchino educato. 

Chuuya sbuffò, vedendo quanti fogli fossero. Li sfogliò velocemente, ma da come adocchiava il cellulare - dove intanto era cambiato il mittente - non sembrava intenzionato a leggerli sul serio. 

«Successo qualcosa?» si interessò Dazai, annullando la distanza con il partner e osservando il report da dietro le sue spalle. 

«L’altra notte ci sono stati problemi nei sotterranei» riassunse Chuuya, prima di cacciargli in mano i documenti. «Dei ratti sono morti fulminati rosicchiando alcuni cavi. La squadra di manutenzione ha già ripristinato tutti i sistemi e stamattina hanno eseguito una disinfestazione totale.»

«Mh mh» commentò Dazai, mentre leggeva il resoconto con attenzione. «Qui dice che a dare l’allarme ratti è stata una guardia sostitutiva-»

«Ce ne occuperemo la prossima settimana, come ogni altra cosa che non riguardi l’attacco imminente di stanotte» ringhiò Chuuya, ma era rivolto al cellulare. Accettò la chiamata. 

«Kajii ti avverto, se mi richiamano un’altra volta dal deposito chimico perché hai tentato di…»

E si allontanò nuovamente, andando verso le grandi vetrate in fondo all’ufficio. 

Dazai chiuse il documento con un sospiro. 

Anche questa è andata… 

«Akutagawa!» esordì quindi, cambiando totalmente umore e cogliendo alla sprovvista l’ex protetto. «Ho un regalo per te! Togliti il cappotto!»

A guardarlo spaesato furono tutti, compreso il rosso, che corrugò la fronte rimanendo però al telefono.

Dazai scoperchiò la scatola elegante che aveva recapitato Hirotsu e, una volta scostata la velina, ne tirò fuori quello che sembrava un unico pezzo di stoffa nera pesante.

«Ta-dan! Una mantella drammatica!» nell’esaltarsi da solo, l’ex detective fece fare una mezza ruota in aria al presunto indumento come avrebbe fatto con un lenzuolo, per drappeggiarlo poi sulle spalle di Akutagawa. 

«P-Per che cosa… cosa significa?» chiese confuso il Mastino, le guance leggermente emozionate mentre Dazai continuava a sistemare il colletto e le pieghe del tabarro. 

«Sei cresciuto!» fu la blanda spiegazione dell’ex mentore. 

Akutagawa era ancora più confuso e guardò verso la sorella - che alzò le spalle - e Hirotsu. Quest'ultimo si schiarì la voce, lanciando un'occhiata significativa verso il Demone Prodigio, che se anche se la sentì addosso, non la raccolse.

«Credo che Dazai-san intenda dire quanto riconosca il fatto che è diventato più maturo.» 

C'erano delle cose che solo Hirotsu conosceva - o riconosceva - all'interno della Port Mafia. Segreti che l'intelligence non avrebbe saputo come usare, ma che l'anziano metteva insieme quando serviva tenere unita la famiglia. O spiegare a un giovane adulto che gli venivano riconosciuti i propri sforzi. 

«Hai ancora la mania di ammazzare prima di chiedere e capire la situazione, ma ci stai lavorando» continuò Dazai, per poi abbassarsi in modo che ad ascoltarlo fosse solo lui. «E in questo Atsushi-kun ti potrà aiutare parecchio.» 

Akutagawa fu sul punto di ribattere, ma Dazai gli piazzò un dito sulle labbra, tacitandolo, per poi osservare il proprio operato facendo un passo indietro. 

«Ok, forse deve crescere ancora un po' in altezza, che dite?»

La mantella arrivava alle caviglie di Akutagawa, ricomprendolo interamente. Era elegante, in stoffa pregiata, con degli alamari ricamati in argento sul colletto e altre rifiniture nere che si potevano cogliere solo con l’inclinazione giusta della luce. 

«Sembri un corvo, Ani» scherzò piano Gin, facendosi sentire a malapena in mezzo al blaterare di Chuuya.

Aku abbassò lo sguardo sul regalo e restò in silenzio, nonostante la sua fronte corrugata testimoniasse che ci fossero diverse cose che avrebbe voluto dire, anche contraddittorie. 

«Ohi, qualcuno di voi vada a cercare quel bastardo di Tachihara e capisca dove diavolo si è andato a cacciare!» abbaiò il rosso, richiamandoli all’ordine. 

Sia Hirotsu sia Gin tornarono seri e si congedarono con un inchino. 

Rimasti soli, il Mastino fissò il proprio maestro.

«Dazai-san, per questo regalo…» 

Il grazie che avrebbe dovuto completare la frase Akutagawa lo espresse con un profondo e sentito inchino. Non era una parola che riusciva a lasciare facilmente le sue labbra. 

Si tolse la mantella con estrema cura, ripiegandola su un braccio. Le sue dita carezzarono i ricami come se non fosse in grado di processare che fosse reale e che gli fosse stata davvero regalata da Dazai. 

«Non abbassare la guardia.»

Un brivido corse lungo la schiena del Mastino, facendolo uscire dal limbo onirico dove si stava lasciando fuorviare da quelle strane sensazioni. Quando incrociò gli occhi di Dazai, quest’ultimo era totalmente serio. La mano di Akutagawa tornò a irrigidirsi lungo il fianco, lasciando a intendere che ascoltava. 

«Stanotte Red Hood ci attaccherà. Attieniti alle mie istruzioni, chiaro? Qualsiasi cosa succeda.»

Il più giovane strinse le labbra in una linea sottile, dura, che trattenne delle parole che non era realmente in grado di esprimere, insieme a tutta la propria frustrazione. Dazai, tuttavia, lo spiazzò con un sorriso dalle sfumature malinconiche. 

«Un’ultima cosa. Se mi dovesse succedere qualcosa vorrei fossi tu a dirlo ad Atsushi-kun.»

Akutagawa si irrigidì, ma l’ex detective non gli diede il tempo di replicare. 

«Odasaku non si fermerà di fronte a me. Se le cose dovessero mettersi male, potrebbe esserci la possibilità che mi ammazzi come ha già tentato di fare.»

«Non lo permetterò. Chuuya-san non lo permetterà.»

Akutagawa si espresse confusamente e accorato, lanciando anche un’occhiata all’altro Dirigente, ma si trovava dall’altra parte della stanza, troppo lontano e concentrato per sentirli. Tornò a fissare il mentore con astio, ossia nell’unico modo in cui sapeva esprimere la propria gamma di emozioni. 

«Se Red Hodd dovesse-»

«Qualsiasi cosa dovesse fare, non dovrai farti coinvolgere e non possiamo arrivare al punto di far combattere Chuuya seriamente all’interno dei palazzi della Mafia» lo interruppe Dazai, incrociando le braccia e appoggiandosi allo schienale del divano dietro di sé con un sospiro. «Farlo significherebbe avviare una ristrutturazione totale.» Tuttavia, la battuta non trovò seguito. «Sarebbe un azzardo anche come ultima risorsa.» 

«Dazai-san» riprese Akutagawa, fermo nella propria posizione. «Credi davvero di poterlo catturare vivo?» 

L’ex detective studiò il viso teso del proprio ex allievo, escludendo che fosse una provocazione. Probabilmente in futuro avrebbe imparato a usare il tono giusto per renderla tale, ma in quel momento suonò solo come la più spietata delle realtà possibili. 

E Dazai non amava particolarmente dare ragione agli altri. 

«Stai pensando di ucciderlo? E la tua promessa ad Atsushi-kun?»

Domande in risposta ad altre domande. Se Chuuya li avesse ascoltati, avrebbe smascherato quel bluff con uno dei suoi insulti, ma Akutagawa conservava ancora troppo rispetto nei suoi confronti per azzardarsi a farlo. 

Il riferimento a Jinko colpì quel punto di pelle che il Mastino aveva iniziato a scoprire negli ultimi tempi. Dazai si concentrò sulla sua reazione - brevissimi guizzi intorno agli occhi nel sentire il nome del rivale, una piega delle labbra che parlava di incertezza - e si sentì diviso tra soddisfazione e preoccupazione. Quello che si soleva identificare come lama a doppio taglio

«Stai tranquillo» sospirò prima che il giovane potesse trovare una risposta dal garbuglio che doveva avere dentro. «Ho elaborato abbastanza strategie per cui riusciremo a uscirne tutti, in un modo o nell’altro. Fidati di me.»

Akutagawa ebbe difficoltà a farlo per la prima volta in vita propria. Conosceva l’espressione nota stonata, ma era la prima volta che la sentì sulla pelle come un avvertimento che non sapeva come interpretare. 

«Ohi.»

La voce di Chuuya e il rosso stesso si palesarono tra loro due. Aveva spento il cellulare e fissava Dazai con serietà. 

«Riunione d’emergenza dei Dirigenti. Sembra che qualcosa sia cambiato.»



 

* * *



 

Quando entrarono nella Sala del Concilio, Kouyou li accolse con la sottile beffa che aveva iniziato a sfoggiare da qualche giorno, ma che aveva volutamente effetto solo su Chuuya. Erano come due fratelli, la maggiore che prendeva in giro il minore in un gioco infantile ma efficace nel farlo sbuffare. Anche in quel momento dove si respirava tutta la tensione che li separava all’inevitabile. 

Mori era l’unica altra presenza nella stanza, intento a rileggere alcuni documenti freschi di stampa. Verlaine non era in vista e il rosso guardò malissimo la sua poltrona vuota. Non era una novità la sua assenza alla soglia di un momento tanto critico come quello che stavano per affrontare. Ci avrebbe scommesso che il francese non avrebbe alzato un dito quella notte. 

Dazai prese posto lasciandosi cadere contro lo schienale con totale noia, alzando lo sguardo sui presenti come un principino a cui non interessavano i battibecchi della propria nobiltà. Il fatto che il Boss - il Re - fosse all’altro capo della lunga tavolata non scalfì la sua aria tediata. 

«Sembra che i tuoi piani finora abbiano funzionato. Non che ne dubitassi» si complimentò Mori, lasciando cadere il foglio che aveva in mano e intrecciando le dita per appoggiarci sopra il mento. Le similitudini tra Mori e Dazai iniziavano dai pensieri affini e finivano nei gesti, quello che stava in mezzo era buio pesto, a rimarcare quanto si potesse affondare nelle loro ombre. I sorrisetti che si scambiarono, due pennellate d’artista sulle loro labbra, risultarono elettrici e, come pensò Chuuya, fu odioso trovarcisi immischiato.

«Allora potremmo andare tutti a riposare un po’, visto che sarà una notte nera. Abbiamo bisogno di energie» e lo sottolineò sbadigliando in maniera plateale. 

Chuuya dette di nuovo un’occhiata ai documenti sistemati davanti al proprio posto, gli occhi che coglievano solo le parole più nefaste. 

«Ne sei così sicuro?»

«Assolutamente» borbottò Dazai, piecchiettando un dito sulla scrivania. «Se non ci riposiamo non staremo in piedi.»

Il rosso accartocciò il foglio che aveva in mano, pronto a insultare lo Sgombro, ma il Boss alzò la mano in un gesto per calmarlo. 

«Sono d’accordo con Dazai. Stanotte la Port Mafia si troverà ad affrontare la minaccia di Red Hood. Un po’ di riposo ci aiuterà a restare vigili.»

L’ex detective fece la linguaccia al partner come se avesse avuto di nuovo sedici anni. La Lumaca ricambiò con un dito medio. Dall’altra parte del tavolo, Kouyou alzò gli occhi al soffitto, scegliendo di non esprimersi.

«Abbiamo deciso a quale strategia attenerci?» chiese invece, rivolgendosi al più bambino di tutti lì dentro, il loro Boss, che stava osservando le scaramucce tra i due giovani Dirigenti con un risolino e uno sguardo che guardava lontano. 

«Diverse, mia cara. Dipenderà da come il nostro ospite farà la sua entrata in scena» spiegò Mori, roteando un indice in aria. «Ci atterremo alle disposizioni di cui abbiamo già parlato. Per il resto, i piani di Dazai coprono una vasta gamma di possibilità ed emergenze. Anche se…»

Il Boss intercettò lo sguardo del Demone Prodigio, senza tuttavia far trasparire nulla di quello che stava per aggiungere. 

«Temo che prima di riposarti vorrai - o dovrai - apportare alcune modifiche alle tue strategie.»

L’aria si irrigidì appena. Chuuya passò lo sguardo da Mori al partner, corrugando la fronte. L’ex detective si accigliò a propria volta, cercando di capire senza aspettare la risposta. 

«Il nostro accordo rimane valido» iniziò Mori, gesticolando mentre si appoggiava più comodo allo schienale della propria poltrona. «Ma devo chiederti di considerare una pedina in più per questa notte. Non comporterà grandi stravolgimenti comunque.»

«A chi si riferisce?» domandò Dazai, tagliente sia nel tono che nello sguardo. 

Dal sorriso di Mori non ottenne alcuna replica. Questa venne invece dalle ombre alle sue spalle. 

«A me.»

Gli astanti nella sala sussultarono. Nessuno aveva avuto il minimo sentore della quinta presenza tra loro. L’ex detective la riconobbe dalla voce, prima che una figura si staccasse dall’oscurità e permettesse alla luce rossastra di definirne il profilo. 

Fermo nella propria postura, le braccia incrociate e una spada allacciata al fianco, Fukuzawa Yukichi emerse dal fondo della Sala Riunione dei Dirigenti, portandosi a un passo dalla poltrona del Boss. 

«Che diavolo fa lui qui!?» saltò su il rosso, scostando la propria seduta in maniera irruenta, pronto ad attaccare. 

Alle sue spalle, Dazai restò in silenzio, meditabondo, osservando la situazione.

«Rimani al tuo posto, Chuuya-kun. Fukuzawa-dono e io abbiamo parlato delle spiacevoli vicende che hanno colpito Yokohama nell’ultimo periodo e ci siamo ritrovati concordi in un’azione comune.»

«Ma non mi dire» commentò sprezzante Kouyou, occhieggiandoli entrambi con uno sguardo penetrante, mentre la bella bocca era piegata in una curva contrariata. 

«A seguito del caso del Cannibalismo, che ci ha visti coinvolti e ha minato il lavoro fatto in questi anni, abbiamo stabilito un’alleanza temporanea in favore della protezione del Libro.»

Le parole sciolte di Mori non migliorarono la situazione, furono invece benzina sul fuoco e non si fermò nel continuare a versarne. 

«L’Agenzia è stata pesantemente colpita dalla perdita e dalla limitazione dei suoi membri» qualsiasi nota di malizia ci fosse insita o meno fece contrarre per un secondo lo sguardo sia a Fukuzawa sia a Dazai. «E sorte simile è toccata alla Port Mafia in queste lunghe settimane. Da parte del Governo, oltre all’aiuto di Sakaguchi-kun e sporadicalmente del Capo Taneda, non ci potremmo aspettare di più, quindi…» 

Le sue spalle si rizzarono insieme a un dito indice, il tono sempre più sagace e vagamente parodistico nell’imitare un generale, come se il riassunto di quella lista di sfortunati accadimenti fosse niente meno che un’espressione di matematica particolarmente ostica. 

«A fronte di questo e di una minaccia che ci ha messi alle strette su più livelli, Fukuzawa-dono ha gentilmente accolto la mia proposta di tornare a essere la mia guardia del corpo, come in passato, finché questa crisi non sarà rientrata.»

Kouyou non fu colta di sorpresa dalla notizia. Sapeva e tanto le bastò a fare pace con quella nuova disposizione. Lei e Fukuzawa si scambiarono un’occhiata che equivalse a più di mille e più piccati discorsi inutili da intraprendere in quel momento. Non c’era tempo di rivangare il passato.  

Dall’altro lato, Chuuya fu meno propenso ad accettarlo, ma l’occhiata del suo Boss lo tenne a cuccia. 

«Se Fukuzawa-san ha come compito quello della guardia del corpo non ci saranno grandi cambiamenti da apportare ai miei piani» replicò Dazai mellifluo, massaggiandosi una tempia solo per restituire l’impressione di quanto fosse stanco. Nel passare lo sguardo sui presenti non sembrò però incline a risparmiare nessuno per quel rivolgimento. Si fermò a guardare il suo ex Presidente e i due condivisero una breve occhiata, reciproca nel nascondere i propri scheletri. 

«Ha davvero lasciato le redini dell’Agenzia a Kunikuda? Non pensa che si intrometterà?» 

«Qualsiasi decisione prenderà Kunikida mi fido di lui e degli altri» replicò solenne Fukuzawa, e la sua voce profonda suonò come un rimprovero. L’ex detective se la fece scivolare addosso con un risolino, ma la tensione non subì variazioni.

«Povero Kunikida… sarà interessante metterlo alla prova» commentò con una cattiveria così gratuita, tra le dita premute sul viso, che Chuuya gli lanciò un’occhiata incerta. 

«Spero che Mori-san l’abbia messa al corrente del fatto che Red Hood non sia da uccidere, ma da catturare vivo. In caso, dovrà farsi mettere alle strette una seconda volta, Shachou

Fukuzawa assorbì la frecciatina di Dazai, ma non ne rimase scalfito. 

«So a chi vado incontro, ora. Il mio compito sarà proteggere Mori-sensei» replicò con lo stesso tono monocorde, ma senza mai staccare lo sguardo da quello del suo ex detective. «Il vostro sarà fare in modo che non arrivi a lui.»

Chuuya si trovò costretto a buttare fuori l’aria in uno sbuffò dal naso, stringendo i pugni. L’atmosfera era una cappa tesa e ricolma di faziosità, un pessimo inizio per quella che sarebbe stata una notte lunga ed estenuante. La presenza del Presidente dell’Agenzia aveva dato una piega storta all’umore di Dazai, il rosso poteva sentirlo a pelle. 

«Benissimo» concluse lo Sgombro stesso, alzandosi. «Prima di stanotte voglio davvero farmi una bella dormita. Per i preparativi non mi contate, gli uomini della Black Lizard saranno sufficienti.» 

Era sulla porta, quando si bloccò, girando appena il capo. 

«Ah… visto il problema avuto nei sotterranei, forse sarà il caso di mandare qualcuno a controllare che non ci siano dei ratti anche nel sistema fognario. Sarebbe una brutta sorpresa farsi fregare così.»



 

* * *



 

Chuuya aveva mandato al diavolo le apparenze. La sua pazienza aveva aspettato meno di cinque minuti per spingerlo a defilarsi dalla Sala Riunioni e rincorrere Dazai. 

Tentare di capire che ti gira per la testa è questione di sopravvivenza personale

Un pessimo presentimento gli si era annidato alla bocca dello stomaco, punzecchiandolo con l’idea che non stesse considerando qualcosa, che tutto stesse filando fin troppo liscio. 

Dazai aveva lasciato la giacca del proprio completo sulla poltrona all’ingresso dell’appartamento del rosso, mentre la cravatta era stata abbandonata poco distante. Chuuya lo trovò intento a frugare con lo sguardo la sua libreria, indolente, menefreghista, ma con i muscoli facciali irrigiditi. Avrebbe riconosciuto quella sua espressione stranita anche al buio. 

«Sputa il rospo. Che diavolo ti sta passando per la testa? Ormai ci siamo.» 

Chuuya lo affiancò, cercando il suo sguardo. Dazai non glielo negò, ma tornò a fissare le costine dei libri, un dito che tamburellava su una di queste. La sua bocca non sembrò intenzionata a iniziare un discorso e la Lumaca non riuscì a tollerare quel silenzio.

«Ti ha sconvolto così tanto rivedere il tuo ex Boss? O che Mori-san abbia stretto questa alleanza all’improvviso?» tentò, sapendo fosse la strada sbagliata. Non lasciò il tempo a Dazai di rispondergli. «Che cazzo ti sta innervosendo? Non avevi tutto pronto stamattina!?»

«La cella per Odasaku è stata allestita» iniziò a dire l’ex detective, rammentando il documento che Gin gli aveva consegnato. «Sarà segregato e rimarrà lì tutto il tempo necessario a capire se c’è qualcosa di recuperabile.» 

Il dito smise di battere sul dorso del libro e Dazai lo estrasse, osservandone la copertina con studiato interesse, ma Chuuya non se lo bevve. Respirò più forte e attese che il partner continuasse. 

«Cercherò di fargli tornare la memoria e gli farò confessare il piano di Dostoevskij, questo è parte dell’accordo con Mori-san. Me ne occuperò soltanto io, nessun altro dovrà avvicinarsi.»

Chuuya avvertiva un fastidioso sibilo tra i pensieri, come l’infisso difettoso di una finestra che provocava il fischio del vento. Immaginare la prospettiva di quella situazione non lo aiutò a sciogliere il nodo allo stomaco, ma c’era un maledetto ago nel pagliaio che doveva trovare. 

«E se non riuscissimo a catturarlo?» 

Dare voce alle possibilità era odioso tanto quanto pensare al fallimento. I minuti stavano scorrendo, quel pomeriggio non sarebbe durato in eterno. Era tardi per i dubbi.

«Se il Boss decidesse che Odasaku sia da eliminare?»

Dazai non lo guardò. Alzò lo sguardo sulla libreria, spostandolo sui diversi titoli, come se questi potessero suggerirgli le risposte a quegli interrogativi. C’era un sorriso piegato da più di un’emozione sul suo viso, che non riusciva a reggerle tutte. 

«Abbiamo avuto una conversazione simile quando sono tornato, ricordi? La situazione era più bagnata e tu eri davvero intenzionato a strangolarmi. Non è accaduto neanche un mese fa, vero?»

Chuuya rispose facendosi più vicino, ma Dazai si ritrasse di poco. Un pugno in faccia avrebbe fatto meno male; il rosso avvertì qualcosa di invisibile morderlo e ricordargli chi avesse davanti. 

Quel mondo sottosopra a cui avevano dato origine sul tetto conservava ancora tutti i punti ciechi e gli spigoli che si trascinavano dietro da ciò che erano sempre stati. Anche se c’erano delle incrinature che avevano permesso la collisione dei loro mondi, questo non significava che si fossero fratturati anche i muri con cui il Demone Prodigio si proteggeva. 

«Gli scenari possibili sono pochi…» riprese Dazai. «Ma è sufficiente dire che se Mori-san farà qualcosa di irreparabile a Odasaku, di nuovo, io mi metterò contro di lui.»

Non era una risposta che Chuuya non aveva previsto, ma c’era sempre un divario netto tra l’immaginare una cosa e sentirla reale. 

È la fedeltà del tuo cuore che mi preoccupa.

Rammentare l’avvertimento di Kouyou fu solo l’ennesima stilettata spiacevole. Strinse la mascella, col bisogno fisico di reagire, ma quello era un terreno minato e pieno di fili; in qualsiasi modo cercasse di muoversi, sarebbe rimasto impigliato e avrebbe dovuto subirne le conseguenze. 

«Le possibilità che Mori-san ritratti sono poche» continuò l’ex detective, con qualcosa che sembrava dovesse imitare una rassicurazione. «Esistono, ma non sono vantaggiose, più soggettive, e le scelte personali a discapito della Port Mafia non sono un elemento che piace al Boss. Lo scenario peggiore in realtà resta quello in cui non riusciamo a catturare Odasaku e lui scappa… ma ho davvero cercato di calcolare tutti i margini possibili di errore.» 

«Odasaku è troppo importante per te, Dazai. Sei compromesso.»

Chuuya lo affrontò a viso aperto, pronto ad agguantarlo se fosse stato necessario a non farlo scappare. Non si aspettò di essere finalmente guardato in faccia. A chiedersi se fosse lui quello pronto a un’eventualità divenuta da qualche giorno sempre più sbiadita e remota. 

«Lumaca, rispondi tu a questo: se Mori-san ti chiedesse di uccidermi, lo faresti?»

Il rosso incassò irrigidendo le spalle e sgranando lo sguardo. 

«Il Boss non ti vuole morto» svicolò, ma era inutile tentare di arginare la rottura di una diga a mani nude. «Non sarebbe… conveniente per lui. Per la Port Mafia.»

Per nessuno

Chuuya era consapevole che Dazai Osamu fosse importante per i segreti di quel mondo quanto lui lo era come arma umana. Erano due persone che nessuno avrebbe eliminato con leggerezza o per capriccio. 

Questo non servì però a eradicare il dubbio. Mori aveva sempre un piano per tutto e contava meticolosamente le perdite, riconoscendo a ognuna un vantaggio sul breve o lungo periodo. 

Ma arrivare a sacrificare Dazai…? 

«Mori-san non mi vuole morto finché non sono un pericolo per il suo impero» semplificò lo Sgombro. «Ma se decidessi di passare dalla parte di Odasaku?» 

«Smettila di sparare stronzate!» abbaiò Chuuya. Ciò che vibrò nella sua voce lo tradì con più sfaccettature. Erano quei sentimenti che danzavano con la rabbia, lasciandosi solo intravedere, ma sempre presenti. La rabbia. La delusione. «Non staresti dalla parte di Dostoevskij!»

Dazai lo fissò confuso, divertito quasi. 

«Te lo sei già dimenticato? Eppure è successo pochi mesi fa con Shibu-»

«Avevi già premeditato tutto! Non dire cazzate!» insistette il rosso a denti stretti. «Tu e i tuoi piani folli… ti sei fatto quasi uccidere.»

«Il bello della fiducia è anche questo. Chiudere gli occhi e sapere di poter fare un passo nel vuoto.»

Quelle parole restituirono a Chuuya un’immagine precisa - la loro notte sul tetto del mondo - il momento in cui tra lui e il suo partner le cose erano cambiate. Quel lento scivolare verso l’abisso, tendendogli le mani. La scelta di afferrarlo. Non c’entrava nulla il caso di Shibusawa.

Ma Odasaku sì. Era ovunque in quelle parole. 

«… Cristo, cos’è che non mi stai dicendo!?»

Dazai mise a posto il libro che aveva in mano e iniziò a cercarne un altro.

«C’è una cosa che non compare nel rapporto sulla Mimic» iniziò, senza guardarlo.

«Gide dichiarò che avrebbe fatto comprendere a Odasaku il proprio desiderio di morte. Avevo capito che uno degli obiettivi per farlo fossero gli orfani di cui si occupava.»

L’amarezza tirò gli angoli della sua bocca, mentre fingeva di interessarsi ad alcune raccolte di poesie sugli scaffali. 

«Non ci troverai scritto che a nasconderli fui io. Un posto sicuro, a conoscenza di pochi e sorvegliato… Ma sono stato cieco. Non ho compreso che ero una pedina a mia volta, nelle mani di Mori-san. Non ho immaginato che la minaccia sarebbe arrivata dall’interno. Il resto sai com’è andato.»

«… ti senti responsabile per quello che è successo a Odasaku?»

«Non mi sono neanche posto il dubbio che ci potesse essere un piano più grande dietro. Ho perso tutto quello che avevo.»

Dazai gli lanciò un’occhiata e Chuuya se ne sentì investito. Cercò di dire qualcosa - si domandò stupidamente se quel tutto comprendesse anche lui - ma la sua mandibola non rispose. 

«Ho le mani sporche di sangue di così tante persone che cinque bambini a malapena conosciuti si aggiungono soltanto agli atti di una tragedia di cui so a memoria ogni scena… ma per Odasaku loro erano importanti. Più importanti di… qualsiasi altra cosa.»

Il rosso avvertì vibrare un finale diverso per quella frase, ma lo tenne per sé. Non riusciva a capire dove il discorso volesse andare a parare; tuttavia, non aveva mai sentito dallo Sgombro tanta confidenza, tanta intimità. Non erano discorsi filosofici sulla vita e la morte, o racconti stupidi con pozzi di verità. Quella era la ferita più scoperta e sanguinante che Dazai nascondeva sotto le sue bende. 

«Vuoi sapere cosa mi ha spinto a lasciare la Port Mafia?» 

L’ex detective era retorico, ma Chuuya assentì ugualmente. Dazai tirò fuori un altro libro dallo scaffale e se lo rigirò tra le mani.

«Mentre moriva, Odasaku mi disse una cosa. Più di una in realtà… Mi disse che nulla avrebbe riempito il mio vuoto. Non importava che mi trovassi dalla parte di chi uccide o di chi salva le persone, la solitudine che sentivo dentro non sarebbe mai stata riempita. Mi disse che sono destinato a vagare nell’oscurità per sempre…»

Chuuya aveva creduto di essersi fatto un’idea di chi dovesse essere quell’amico che tanto, tanto, troppo, aveva catturato l’attenzione del suo partner - ormai poteva parlare di come gli avesse invaso il cuore - ma quella confessione gli scivolò dentro come un cubetto di ghiaccio. 

Aveva già avuto modo di capire che tra sé e Odasaku ci fosse della distanza, come tra sé e Dazai. Ma solo in quel momento comprese che si trattava di voragini. 

Ebbe l’impulso di afferrare lo Sgombro, come se temesse di vederlo sparire in un battito di ciglia, ma le sue dita non si mossero. 

«Volevo sapere cosa avrei dovuto fare» riprese Dazai sottovoce, accarezzando la copertina del libro mentre, stanco, appoggiava la fronte contro la libreria. «Per la prima volta in vita mia volevo qualcosa disperatamente… e Odasaku stava morendo tra le mie braccia. L’unica persona che fino a quel momento era riuscita a leggere la mia solitudine, come fosse stata scritta nero su bianco, stava scomparendo… e io non sapevo cosa fare.» 

Chuuya diede retta all’istinto e afferrò Dazai. Lo fece maldestramente, senza pensarci, chiudendo le dita sul suo braccio. Odiava le parole, odiava sentire la bocca arida e la gola chiusa e l’assurdità più grande era quanto gli stesse importando di quella sofferenza. Di quanto gli stesse importando di Dazai. Di quanto stesse sentendo tutto sotto la propria pelle. 

Lo Sgombro non gli diede peso e continuò. Continuò con ciò che fece più male.

«Le persone vivono per salvare loro stesse.» 

L’ex detective lo disse delicatamente. Il rosso lo visse come se lo avessero appena investito. 

«Ho lasciato la Port Mafia perché Odasaku mi disse che dal lato di chi salva le persone è tutto un po’ più bello. Sembra stupido, non trovi? Ma aveva ragione. Ci credo però che tu mi odi per gli ultimi quattro anni.» 

Chuuya lasciò andare il braccio di Dazai. Le sue mani salirono fino al viso del partner, chiudendosi sulle guance e voltandolo verso di sé. 

Dazai non stava piangendo, ma il suo viso ne portava tutti i segni. Mancavano solo le lacrime. 

Ci aveva messo delle settimane, ma il rosso si arrese a quella verità a cui aveva continuato a voltare le spalle, a nascondere dietro una tenda, a spingere via ritenendola impossibile. Folle. Incompatibile e incomprensibile. 

«Cristo…» esalò, guardandolo in quegli occhi che pensava di non aver mai davvero capito, ma che erano sempre stati la parte più sincera di Dazai. 

«Tu… tu sei davvero cambiato.»

Dazai lo fissò senza capire e non ebbe il tempo di comprendere o chiedere. 

Il rosso gli lasciò andare il viso e, senza alcun preavviso, in un gesto deciso, se lo caricò in braccio. 

«Uooah… Ok, Lumaca, che significa? Non pensi siamo un po’ ridicolo?» ridacchiò Dazai, facendo cadere il libro in terra per reggersi alle spalle del partner e tenersi in equilibrio. «Andiamo a riposarci o vuoi consumare di nuovo il letto?»

Chuuya lo ignorò. Lo fissò dal basso con la voglia di parlare, di tirare fuori tutte le emozioni che lo Sgombro gli aveva appena fatto ingoiare. Per la prima volta, voleva ascoltarlo mentre raccontava di sé, voleva sapere tutto, cavarglielo di bocca non con cattiveria, ma con il bisogno primario di conoscerlo

Tuttavia, l’orologio ticchettava. Avevano una tabella di marcia da rispettare. Quella notte si sarebbero giocati tutto. 

«Posso fidarmi di te, Dazai?»

«Alla fine lo farai comunque» e anche se ghignò, Chuuya scorse ugualmente quell’ultimo segreto sul fondo dei suoi occhi. Lo Sgombro aveva ragione. 

Il bello della fiducia è anche questo. Chiudere gli occhi e sapere di poter fare un passo nel vuoto.

Anche se con lui era più un atto di fede. 



 

* * *



 

Haruno Kirako scambiò un ultimo sguardo, e un sorrise triste, con Naomi, prima di chiudersi la porta dell’Agenzia Armata di Detective alle spalle andarsene insieme alle colleghe segretarie. 

Nella Stanza della Follia, Kunikida aveva indetto una riunione per i soli detective rimasti. La presenza mancante di Fukuzawa, Yosano e Dazai intorno al tavolo alimentò il senso generale di sconfitta. 

Nessuno proferì parola, mentre Ranpo chiudeva col pennarello l’ultimo cerchio di Red Hood sulla cartina. Non avendo più Dazai dalla loro non avevano potuto confermare l’effettivo legame tra i luoghi colpiti e la Port Mafia, ma la geometria parlava da sola. 

«Non riesco a credere che la sedia del Presidente sia davvero vuota» esordì Tanizaki, esprimendo quello che era un pensiero comune che nessun altro sembrava in grado di tradurre concretamente. «Se ci avessero avvertiti che l’Agenzia si sarebbe ridotta così, io…» ma non terminò la frase, sgonfio di qualsiasi prospettiva. 

«Non abbiamo nessuna novità di come stia?» domandò Kenji, un’altra questione sospesa sulle loro teste. 

«Ha spento il cellulare» rispose Kunikida, restandosene con le braccia incrociate e contro il muro, incurante di schiacciare foto e appunti affissi. «Le sue disposizioni…» si bloccò, lanciando un’occhiata agli altri detective, per poi fissarsi sul capotavola vuoto. «Le sue disposizioni sono rimaste invariate. Finché Red Hood non terminerà il suo operato ai danni del Boss della Port Mafia, il Presidente rimarrà in congedo dall’Agenzia.»

«E quando-»

«Stanotte.»

Ranpo interruppe e rispose a Kenji, buttando il pennarello in mezzo ai documenti disordinati sulla scrivania. Prese posto, accavallando i piedi sul piano in legno e incrociando le braccia. 

«Odio l’idea che il Presidente sia di nuovo al fianco del Boss della Port Mafia. Odio l’irrazionalità.»

Raccolse su di sé gli sguardi di tutti, ma non c’era nient’altro da aggiungere. La storia che legava Fukuzawa e Mori, o almeno la superficie di quei ricordi, era stata scalfita e raccontata durante il caso del Cannibalismo. Ranpo aveva qualche dettaglio in più, ininfluente per il caso, ma utile per sapere che quella dell’ex medicastro e dell’ex guardia del corpo era una miscela rischiosa da rimescolare insieme dopo tanto tempo. 

Atsushi tornò a fissare il posto vuoto di fianco a sé, dove si sarebbe dovuto trovare Dazai. 

«Dovremmo andare ad aiutarli» disse, voltandosi verso il loro Presidente ad interim. «Non possiamo restare fermi a guardare. Sappiamo cosa sta per succedere. Non possiamo restare qui in attesa e… e basta.»

Kunikida non rispose. Non ricambiò neanche l’occhiata del ragazzo, restandosene a fissare un punto impreciso di fronte a sé, anche se le sue dita strinsero la stoffa della camicia. 

«Davvero Red Hood attaccherà stanotte?» rilanciò Tanizaki, guardandoli tutti e allargando le braccia incredulo. «Cioè stanotte stanotte!?» 

«Sì, stanotte» ripeté Ranpo, lasciando trapelare una vena irritata che rimise al proprio posto il ragazzo. 

«Penso che Atsushi abbia ragione» disse piano Kyouka, ma priva della sua solita incisività, mentre anche lei preferiva fissare qualcosa di poco concreto, e non il vero problema che sedeva sulle sedie vuote dei loro compagni assenti. La loro inutilità.  

«Dobbiamo fare qualcosa!» si impuntò Atsushi, alzandosi in piedi e cercando l’assenso degli altri, ma senza ottenerlo. Strinse i pugni. «Come facciamo a rimanere qui con le mani in mano quando potrebbe succedere qualcosa al Presidente e a Dazai-san mentre-»

«SMETTILA!»

La voce di Kunikida si esaurì lasciando l’eco della sua stanchezza. Il fiato restò bloccato nelle gole di tutti i presenti, esterrefatti da quell’uscita improvvisa e carica di risentimento. 

Atsushi per primo ne restò paralizzato. Nel suo sguardo ferito balenò un sentore di sbagliato che riemerse dagli angoli bui della sua vita in orfanotrofio e servì al maggiore per calmarsi. 

«Scusami» mormorò Kunikida, togliendosi gli occhiali e passandosi una mano sulla faccia. Si prese qualche momento, conscio di avere i nervi a pezzi.  

«Non interverremo» disse in tono più contenuto, nonostante la voce gli fosse uscita priva dell’usuale fermezza. «Se ci avessero voluto lì ce lo avrebbero chiesto.»

Non fece nomi, ma tutti sentirono lo stesso risuonare sia quello di Dazai sia quello di Fukuzawa. 

La verità è che siamo stati lasciati in panchina.

Era ciò che l’espressione di Kunikida comunicava. Era una realtà che Atsushi faticava ad accettare, ma sapeva di non poterla neanche rifiutare. 

«Kunikida ha ragione» intervenne Ranpo con uno sbuffo, stringendo ancora di più le braccia. «Se ci presentassimo adesso diventeremmo solo delle variabili non calcolate nei piani di Dazai, col rischio di mandare all’aria qualsiasi strategia avrà progettato per affrontare questo attacco. Non che io non sarei in grado di capirlo in meno di un minuto» aggiunse, ma sgonfio di entusiasmo, tornando subito serio. «Ora come ora, l’unica cosa che possiamo fare è fidarci di lui.»

«Come faccio a restare qui mentre loro rischiano la vita!?» mormorò Atsushi, stringendosi la testa tra le mani. Kyouka tentò di confortarlo con una mano sulla spalla, ma il momento sfumò rapidamente. 

La porta della stanza si spalancò, facendoli sobbalzare. Naomi entrò trafelata, prendendo a malapena fiato. 

«Dovete vedere una cosa! Adesso!»

In meno di due minuti, il gruppo salì le scale e uscì sul terrazzo del palazzo, nella frescura della notte già iniziata. La prima cosa di cui si accorsero fu il mormorio sommesso che si percepiva nell’aria. Sporgendosi dalla ringhiera, Atsushi notò un sacco di gente per strada. Le auto erano ferme, non per via del traffico, ma perché molti dei guidatori erano scesi. Tutti indicavano in una direzione. 

Alzando lo sguardo, il Ragazzo Tigre frugò nel panorama alla ricerca di quello che stava attirando l’attenzione di tutta Yokohama. Fu accorgersi di cosa mancasse che capì e la pelle d’oca gli morse collo e braccia con un brivido. 

Era come se al centro della città ci fosse un immenso buco nero. 

I cinque palazzi della Port Mafia erano completamente al buio. 

«È iniziata» mormorò Ranpo. 



 

To be continued




 

Sono viva! Il Cowt è finito e anche il Romics è passato! Qualcuno di voi era lì? Magari vi ho venduto una spilla e non lo sapevate! (???) 

Avrei diverse cose da dire su questo capitolo, ma ora non me ne viene nessuna! Viva Sigma (anche se un quarto di capitolo sono le sue seghe mentali), viva Dazai che regala la mantella drammatica (tratta da una storia viera) ad Akutagawa! Viva Chuuya e Dazai che parlano di Odasaku e da dialogo insulso negli appunti è diventato uno dei miei preferiti! Viva Atsushi che non riesce a fare a meno di lamentarsi! 

Mancano i Capitoli 21, 22 e 23, ormai lo sanno anche i muri, siamo alla fine prima parte! 

Poi cosa succederà? 

 

Buonanotte!
Nene 


Prossimo capitolo → The Darkest Night (Prima Parte) 
 

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Capitolo 22
*** The Darkest Night (parte 1) ***


Capitolo 21

The Darkest Night
(Parte 1)





 

In this farewell
There's no blood, there's no alibi
'Cause I've drawn regret
From the truth of a thousand lies
So let mercy come and wash away

[What I’ve done - Linkin Park]




 

Oda attese qualche secondo di troppo, sostando all’angolo del muro, aspettando una visione che non arrivò. Quando fece il passo per superare lo stallo, la pistola bassa, nel corridoio non c’era nessuno. 

Nonostante la tranquillità apparente, una fastidiosa sensazione di tensione per la mancata presenza di un comitato di benvenuto armato lo tenne fermo sul posto, immobile in quella vacuità fuori luogo. 

Alzò gli occhi e fissò dritto nell’obiettivo della telecamera puntata su di sé. La luce lampeggiante suggerì che il sistema fosse ancora in funzione, nonostante il blackout. Eppure non ci furono scalpiccii o urla in lontananza. Solo silenzio. 

Secondo le informazioni acquisite, Oda aveva scelto un punto d’accesso non semplice da raggiungere, ma non impossibile. Non trovare nessuno gli fece tenere la guardia alta per non finire in una trappola in grado di superare Flawless

Camminò senza fretta, piano, ma l’area continuò a risultare spoglia di qualsiasi presenza. I passi rimbombavano sulle pareti. Superò diverse telecamere, fissandole tutte, ma comprese che ci dovesse essere un qualche malfunzionamento di base. 

Riarmò la guardia in prossimità della cabina della sorveglianza, ma anche lì, entrando, trovò solo due guardie riverse sulle sedie, addormentate, le bevande rovesciate che gocciolavano dal piano di controllo. Guardingo, esaminò il passaggio dei cavi dai monitor alla parete, individuando il gabbiotto principale incassato nella parete. Una volta aperto, notò i dispositivi con cui erano state manomesse le ricezioni delle telecamere. 

Ciò che attirò la sua attenzione fu però un mucchietto di fogli ripiegati sul fondo del pannello. 

Alla fine del terzo corridoio alla sinistra di questo troverai una serie di interruttori generali che danno energia ai palazzi. Piazzaci una carica e falli saltare dal numero A1 all’E5. Ignora gli altri. Fai ripartire i generatori ausiliari dal B1 al B7. Ho bypassato il resto dei circuiti, non ti puoi sbagliare. Segui i segni che ti ho lasciato. Le guardie sono state richiamate altrove. E prima di pensare che sia una trappola e accartocciare questi biglietti, ricorda che sono centoquaranta piani a piedi senza dispositivi ausiliari.

PS: nel prossimo gabbiotto troverai altre indicazioni! ;)

Non erano firmati, ma un solo e unico nome balenò nella mente di Oda. Li accartocciò comunque, fissandosi il pugno chiuso, per poi voltarsi nella direzione indicata per proseguire. 

I corridoi rimasero deserti come descritto, eppure l’uomo non si liberò della fastidiosa sensazione di trovarsi al centro di un microscopio. Dazai stava prevedendo le sue mosse come se fosse stato lui il possessore di Flawless

Trovò il secondo gabbiotto e le nuove istruzioni. Non si trattò di una mappa, ma qualcosa di molto simile, qualche disegnino corredato da una sequenza di passaggi brevi da compiere per aggirare trappole o imboscate nel palazzo, fino all’ubicazione esatta del Boss. 

Strinse i nuovi fogli tra le dita, riconoscendone l’utilità con qualcosa di simile alla frustrazione. Il bivio per decidere se fidarsi o meno si assottigliò, facendosi netto come un rasoio. Le cose stavano andando come Dostoevskij aveva ipotizzato e il pensiero lo morse. 

Hai un ascendente particolare su Dazai… 

Probabilmente ti aiuterà o farà qualcosa di stupido per assicurarsi che tu salga indenne. Anche se… non riesco a figurarmi quale potrebbe essere il suo piano principale. Mh. Che seccatura doverlo catturare vivo. 

Oda fissò il pugno dove stringeva le istruzioni e quello del braccio prostetico. Fu soltanto nella sua testa, ma per un secondo sentì delle corde avvolgere entrambi i polsi e tirare in due direzioni differenti. 

Si svuotò la mente con un lungo respiro e passò all’azione. Piazzò le cariche senza spenderci ulteriori rimuginamenti. L'esplosione fu circoscritta, a differenza del buio che calò da un istante all’altro. O almeno così si aspettò Oda. Un brillio fosforescente catturò la sua attenzione. 

Ben fatto!

Era stato scarabocchiato di fianco al gabbiotto esploso, invisibile finché la luce non era andata via. L’uomo fissò la calligrafia leggera, scrollando la testa. Nella sua mente quel complimento era risuonato con una voce specifica, ma si rifiutò di soffermarcisi. Diede le spalle agli interruttori saltati, solo per trovarsi nuove scritte e indicazioni discrete segnate qui e lì con il marcatore luminoso al buio. 

Seguì meccanicamente le istruzioni per riavviare solo un lato specifico del palazzo e ignorò tutto il resto, tendendo invece l’orecchio per individuare scalpiccii o rumori fuori luogo. 

Come scritto nei bigliettini, non incrociò praticamente nessuna guardia nei corridoi che percorse, mentre si accorse di voci affannarsi verso i pannelli che aveva fatto saltare. La sua abilità restò silente, mescolandosi alla quiete quasi tombale che aleggiava tra i corridoi labirintici di quei sotterranei immersi nell’oscurità. Si fermò a un bivio, dando retta a un sesto senso affinato insieme a Flawless

Pacato e indolente, un sospiro lo raggiunse. 

«A sinistra c’è un montacarichi, a destra le scale. Nessuno si è mai preso la briga di specificarlo con un’indicazione. Ma se posso esserti utile...»

Oda si ritrovò teso come se avesse dovuto parare una pugnalata, ma né una visione né alcun fruscio annunciò l’arrivo di un attacco. Voltò di poco le spalle e il capo. Un vago accento, volutamente lasciato trapelare dall’inflessione su sillabe specifiche, fece intuire al giustiziere chi lo avesse raggiunto. 

Verlaine era a una decina di passi da lui. Sopraggiunto con un passo privo di rumore, aveva sul palmo una piccola lampada sferica a illuminare la sua pelle diafana e a creare ombre sul suo viso così nere da sembrare senza fondo. 

«Tu sei la Guivre.»

L’ex spia francese non accennò neanche un guizzo dello sguardo a quell’epiteto. Il suo sorriso si consumò in una linea più affilata. 

«E tu devi essere il Fantasma Rosso. Il tuo operato ha raggiunto perfino la mia cattedrale di solitudine» replicò morbido, così delicato, come l’angelo della morte a cui aveva rubato le vestigia. 

Oda si tese appena, vedendo. Anche quando accadde realmente, e tre stiletti volarono nella sua direzione, la precisione fu così millimetrica e predittiva che una delle lame lo sfiorò nonostante si fosse mosso per evitarle. 

Verlaine inclinò la testa con un sorriso mite quanto interessato. 

«L’uomo con il dono di vedere nel futuro» lo apostrofò, appoggiando la lampada su una delle tante sporgenze del corridoio, sfoggiando la disinvoltura di un anfitrione che si stava preparando per i propri ospiti. «Ricordo un altro uomo con un’abilità simile, un leader e un eroe della Grande Guerra… André Gide. Ho saputo in seguito che ha trovato pace e morte proprio qui, quattro anni fa. Per mano tua.»

La provocazione aleggiò nel silenzio come la polvere di un passato irrequieto. La maschera che l’ex tuttofare indossava non rivelava nulla, ma a Verlaine non parve importare. Fece spallucce. 

«Vedere il futuro è un potere molto utile, se si è un assassino. Direi invidiabile o fastidioso, a seconda della prospettiva. Tuttavia… io ora sono solo l’ombra di me stesso.» 

L’ex spia assunse una posa meno rilassata e lo scintillio di una nuova lama apparve tra le sue dita. 

«… l’unica vita che contava l’ho passata al fianco di Arthur e lui non aveva eguali. Se non me.»

Verlaine ghignò alla pistola che il giustiziere gli puntò addosso con uno scatto repentino e una visione in corso. 

«È molto che non evito un proiettile… ma tu lo hai appena visto con la tua abilità, non è vero?» 

Il futuro cambiò, perché Verlaine abbandonò l’intento di attaccare, osservando l’avversario e la canna dell’arma che rimase quieta. 

«Oh. Quindi li ho evitati tutti, eh?» 

Il silenzio si protrasse, insieme alle visioni e il cambiamento di queste, come un mucchio di lettere che continuavano a essere recapitate al destinatario sbagliato. 

«Dobbiamo trovare il modo di spezzare questa impasse, mon ami.»

Non iniziare uno scontro con Verlaine.

Oda sentì i consigli del Demone Prodigio bruciargli nelle orecchie con la sua voce piana e fastidiosamente ragionevole, un’eco remota e un sussurro che si infilarono come veleno nelle vene.

Per quanto la sua abilità sia latente, potrebbe giocarti brutte sorprese, insieme alla sua esperienza. 

E cosa dovrei fare, Dazai?

Il Fantasma Rosso scosse la testa per scacciare quei mormorii, quello spazio opaco, sfuocato, parole che formarono i colori e gli odori familiari di un pub, dove quei bigliettini scarabocchiati di istruzioni avevano preso le fattezze della spia che non poteva più uccidere e che insisteva nell’aiutarlo. 

Sparò a Verlaine senza pensarci un secondo di troppo. Un proiettile dovuto più al bisogno di disobbedire e rimarcare la propria indipendenza da quell’ausilio insidioso, che una reale volontà di colpire. 

Il francese lo evitò come avrebbe fatto con un insetto, fissando il suo ospite con un’occhiata risentita. 

«Non sei all’altezza della tua fama se ti comporti così, Sakunosuke

Il nome vibrò nell’aria ferma, come un vessillo strappato che lentamente si depositava a terra. Ad Oda arrivò come un’altra nota già sentita.

Ora i tuoi occhi sono esattamente come i miei. Benvenuto nel nostro mondo, Sakunosuke.

Oda-kun… si dice in giro che tu non abbia mai ucciso nessuno con quella pistola. Come mai? 

Un leggero e persistente accento francese e un’insinuazione travestita da domanda, entrambe polvere negli angoli della sua mente che non se ne andava mai. Tenne a bada l’istinto contro le voci frenetiche che stavano plasmando le sue ombre.

«Devi avere un banchetto di demoni chiassosi in testa, dico bene?» mormorò Verlaine, riacquistando i suoi modi suadenti, quasi gentili, mentre faceva scivolare una seconda lama nella mano libera. «Posso sentire i battiti del tuo cuore da qui.»

Oda non replicò, a tratti neanche lo ascoltò. 

Aggiralo. Non batterti con lui. Rendilo impossibilitato a colpirti o seguirti. 

Smettila, Dazai.

«Non sono interessato alle beghe di Mori-san e ai suoi scheletri nell’armadio» riprese l’ex spia europea. «Tuttavia, di sopra ti sta aspettando il mio fratellino e lo hai già ridotto male una volta. Non mi sono rimaste molte ragioni di divertimento al mondo, quindi vorrei evitare di perdere la più importante.» 

Odasaku. So cosa stai pensando. Non farlo. 

Per me è tutto finito.

La voce di Dazai vibrò con un’intensità diversa - disperata, un vinile di un’altra epoca. Lo distrasse, marginalizzando la visione che annunciò l’attacco del francese.

Oda si difese lasciando le redini all’istinto, ma si trovò a faticare nell’impedire a Verlaine di piantargli le sue lame sottili nei punti vitali o negli occhi della maschera. 

Si separarono quando il Fantasma Rosso sfruttò la minima apertura di un fianco scoperto, mancandolo di poco, ma abbastanza da minacciarlo e farlo balzare indietro. 

«Quindi è questa la tuta miracolosa» osservò Verlaine, inclinando la testa. «Manca di buon gusto e si taglia facilmente.»

Si scagliò contro di lui, più forte e veloce, e il giustiziere si trovò costretto a pararsi col braccio di metallo. Verlaine imprecò in francese con un velo di frustrazione. 

«Una seccatura in più.»

Se non trovi il modo di bloccarlo non ti lascerà andare finché non ti avrà sbranato. Tu minacci una delle sue ragioni per vivere. Devi arginarlo.

Non ti riguarda, Dazai.

Cerca i segni che ti ho lasciato.

Oda ringhiò di frustrazione per quella distrazione incorporea, parandosi dai colpi di Verlaine, ma venendo anche preso di striscio dagli stiletti. 

«Continua a perderti nei pensieri, mi renderai più facile ucciderti.»

Qualcosa balenò nel campo visivo dell’ex tuttofare. La sua mente lo ricostruì prima che gli occhi potessero accertarsi di ciò che aveva visto. In una mossa azzardata, Oda respinse Verlaine con un calcio, che non gli impedì un taglio alla gamba, e allargò d’improvviso le braccia verso l’alto. Il tempo della sorpresa durò a sufficienza perché riuscisse, in rapida successione, a puntare le canne delle sue armi a quei segni. Due x piccole e brillanti, fosforescenti, sui tubi del soffitto buio dei sotterranei. 

Però non ucciderlo, Odasaku… tu non sei così. 

Non sono affari tuoi, Dazai.

Bastarono un paio di proiettili e i condotti rilasciarono sfiatate violente di gas, costringendo Verlaine a retrocedere. Una granata completò l’opera. L’aria si incendiò, esplose, e parte del soffitto crollò sul francese. 



 

* * *



 

«Questo era nei piani!?»

«Un blackout totale lo avevo previsto» sospirò Dazai, spostandosi dal centro dell’ascensore verso la parete in vetro da cui si poteva avere una panoramica della città. «Che i generatori di emergenza non ripartissero subito… era una possibilità. Pensavo avremmo avuto ancora un’ora.»

«Merda…» 

«Forse l’infestazione di ratti era più preoccupante del previsto…»

Chuuya si attaccò alla stessa parete trasparente con la fronte e i palmi, tentando di scorgere cosa stesse avvenendo ai piedi del palazzo principale. L’oscurità dabbasso era illuminata da esplosioni a intermittenza irregolare ma costanti. Durò diverse manciate di secondi, prima che calasse una quiete apparente. Alla distanza a cui si trovavano non era possibile stabilire l’entità dei danni. Il rosso strinse i pugni, imprecando. 

Non erano arrivati neanche a metà della discesa quando la mancanza di corrente aveva fermato l’ascensore. I palazzi limitrofi si erano spenti sotto i loro occhi, diventate sagome incombenti, nere e cieche, buchi di trama nella distesa di luci notturne di Yokohama. 

«Cazzo, cazzo, cazzo… sta succedendo qualcosa là sotto!»

Dazai fu più pacato e pratico. Sintonizzò la trasmittente che aveva tenuto in tasca fino a quel momento. 

«Hirotsu, mi senti? Qual è la situazione?»

Il brusio riecheggiò nel piccolo spazio, mentre Chuuya si accostava al partner. 

Prima che il mafioso più anziano rispondesse si avvertì un’altra esplosione. 

… nulla di ingestibile.

Tossì appena.

Molti Red Hood hanno appena attaccato l’ingresso principale, il secondario e il garage.

«Che diavolo significa molti!?» sbraitò il rosso, accostandosi ancora di più senza tenere a bada l’impotenza di non poter agire. Dazai restò calmo per entrambi, quasi impassibile, analizzando quanto sentito. 

Abbiamo l’imbarazzo della scelta, Chuuya-san. Red Hood adulti, ragazzi e anche qualche bambino. Tutti con la maschera cremisi e armati. Per ora i rinforzi del palazzo tengono.

Nel momento in cui lo disse, l’ennesima esplosione accese l’aria. Il flash raggiunse i bordi dell’ascensore, lambendo per un attimo i volti dei due giovani dirigenti. 

⎯ … temo che le mie ultime parole siano state fatidiche. Quali sono gli ordini? 

Senza essere esplicito, fu chiaro che si stesse rivolgendo a Dazai e ai suoi piani. Chuuya stesso ne cercò lo sguardo, incalzandolo a rispondere. 

L’ex detective si prese un momento per riflettere, stringendo la trasmittente. Le possibilità sfrecciarono nel suo sguardo, brillando e morendo alla stregua di meteore. Quando si portò il dispositivo alle labbra, la sua voce fu ferma.

«Il vero Red Hood non è lì in mezzo. Potete ingaggiare il nemico. Sono tutti ratti di Dostoevskij, hanno votato la vita a lui. Non avranno scrupoli» sancì, chiudendo gli occhi. Sentì il respiro di Chuuya rallentare fino quasi a fermarsi in stasi. Non molto dissimile alla loro situazione attuale: lo scontro vero non era ancora cominciato. Quella all’ingresso era solo un’ouverture. Riprese.

«La priorità è impedire che salgano oltre i primi piani. Abbiamo bisogno di campo libero e di non ritrovarci mine vaganti a farci qualche brutta sorpresa.»

Ricevuto.

«E…» aggiunse, fissando il partner negli occhi. «Limitate le morti non necessarie. Salvate i bambini, Hirotsu-san. Ma fate attenzione, potrebbero avere giubbotti imbottiti di esplosivo. Metteteli al sicuro.»

Sarà fatto. 

L’anziano mafioso chiuse la conversazione, ma Dazai non scostò lo sguardo dalla trasmittente. 

«Merda! Che diavolo sta succedendo, Dazai!?» esplose il rosso, perdendo la presa sul proprio autocontrollo. «Cos’è questa pagliacciata dei Red Hood!?»

«Termine curioso e azzeccato» commentò l’altro privo di qualsiasi inflessione, tirando fuori il cellulare e constatando che la linea e l’apparecchio stesso fossero disturbati. «Dostoevskij ha mosso i suoi ratti, mascherandoli per burlarsi di noi.» Ci ripensò un attimo. «Per burlarsi di me. Deve aver previsto che l’ordine sarebbe stato quello di non attaccare Odasaku.»

Chuuya si sfogò contro una delle pareti della loro gabbia di vetro, non tanto da romperla ma abbastanza da incrinarla. 

«E usa dei bambini!?» 

Dazai guardò altrove, lasciando calare le spalle nel svuotarsi il petto con un lungo sospiro. 

«Risparmiati i ringhi. Non è la prima volta che li mette in mezzo per farsene scudo e sviare l’attenzione.» 

«A cosa gli serve questa cazzo di farsa!? Se ti conosce come dici, lo sa benissimo che anche tu lo avrai previsto!»

L’ex detective si appoggiò alla parete di vetro proprio davanti a Chuuya, regalandogli un sorrisetto mentre incrociava le braccia. 

«Hai acceso il cervello, Lumaca?»

«Non scherzare» replicò l’altro tra i denti. «Dov’è Odasaku ora? Lo sai, non è vero?»

Lo sguardo del Demone Prodigio si alzò a scandagliare il cielo privo di luna. 

«Una delle ipotesi era che arrivasse dall’alto con un elicottero schermato o qualcosa di simile, ma non abbiamo ricevuto rapporti dalle nostre sentinelle.»

«Quindi non entrerà dal tetto?»

«Quindi… potrebbe non essere ancora arrivato» lo corresse l’altro, prosciugando ulteriormente la pazienza del rosso, ma proseguì prima di ritrovarsi strattonato per la camicia. «Potrebbe essere già nell’edificio da ore. O chissà, nascosto qui da qualche giorno.»

Chuuya sgranò gli occhi alla possibilità, raddrizzando le spalle. Lo Sgombro scartò l’ipotesi con un gesto della mano. 

«Per quanto la tattica di nascondersi sotto il naso del nemico funzioni, può andare anche molto storta. I sistemi di sicurezza della Port Mafia sono sofisticati e se non sai come aggirarli è un attimo mettere il piede in fallo. Lo avremmo già individuato.»

Il rosso non lo afferrò per i vestiti, per quanto la sua aura minacciosa propendesse in quella direzione. Fece un semplice passo avanti, portandosi così vicino al partner da sfiorarlo, ma diede l’impressione di aver appena sfondato una porta. 

«Stai chiacchierando troppo.»

Dazai accusò il colpo in un guizzo dello sguardo, ma nulla di più. Chuuya non schiodò gli occhi dai suoi. 

«Basta ipotesi. Che diavolo dobbiamo fare noi?» 

Non c’era più spazio per le esitazioni, era un ultimatum

O mi dai un piano concreto o faccio di testa mia

Era un atteggiamento che l’ex detective conosceva da sette anni e che più volte lo aveva costretto a stringere il guinzaglio prima che il rosso si gettasse di testa in qualche casino. 

La sua risposta fu rialzare la trasmittente e sintonizzarla su un altro canale. 

«Boss. È iniziata.»

Ci fu un fruscio appena percettibile in risposta e Dazai continuò. 

«La situazione rientra tra gli scenari novanta e centodieci.»

Chuuya aggrottò la fronte, concentrandosi per seguire il discorso. 

Capisco. Immagino che al momento ci sia molto chiasso al piano terra.

«Precisamente» confermò Dazai, senza bisogno di aggiungere spiegazioni. «Lui però non è lì in mezzo.»

No, non lo è, concordò Mori e si poté percepire la sua calma melliflua anche da quelle brevi risposte.  

Nel mentre, Dazai fece cenno a Chuuya di aprire le porte dell’ascensore. Anche senza capirne il motivo, ma potendo finalmente impiegare le mani pruriginose di azione, Chuuya eseguì. Per lui fu facile come scostare un’anta scorrevole, ma si ritrovò davanti uno spiraglio troppo piccolo persino per lui in cui cercare di sgusciare per uscire. Tuttavia, l’ex detective parve soddisfatto così. 

«Stiamo per raggiungervi» proseguì lo Sgombro. «I generatori di emergenza sono ancora fuori uso e temo lo resteranno per parecchio.»

Un contrattempo fastidioso, ma nulla di imprevisto, commentò il Boss. ⎯ Ci atteniamo alle strategie pari a due cifre, presumo?

«Sì» confermò il Demone Prodigio, mentre si appoggiava in un angolo dell’ascensore quasi con stanchezza. 

Perfetto. Io e Fukuzawa-dono ci spostiamo. 

La linea si interruppe e Dazai ripose nuovamente l’apparecchio, afferrando poi il corrimano dietro di sé e dedicando tutta la propria attenzione al partner. 

Chuuya aveva la faccia di qualcuno che non aveva afferrato la metà della conversazione, ma questo non risparmiò all’ex detective un’occhiataccia e la minaccia di un morso. 

«Io ti mollo qui» sentenziò, adocchiando la botola sul soffitto. Dazai si protese in avanti, afferrandolo per un polso e vanificando qualsiasi iniziativa carica di gravità. 

«Sei pessimo come eroe della situazione» lo canzonò il partner, sospirando pesantemente. «Porta su l’ascensore e fidati, avrai bisogno anche di me.»

Chuuya si liberò con uno strattone. 

«Sei una palla al piede.»

Non ci furono smentite e il rosso imprecò, piegandosi sulle ginocchia per saltare. Scardinò l’apertura del vano con irruenza e approdò sul tetto. L’attivazione della gravità innescò una serie di sinistri cigolii e la rottura dei sistemi che impedivano all’ascensore di precipitare. Con un lieve sobbalzo, restò solo la cabina sospesa nel vuoto dall’abilità della Lumaca. 

«Portami in paradiso, Chuuuuya!» cinguettò Dazai con le mani intorno alla bocca, palesandosi dal buco della botola, per poi tornare nell’angolo e restare ancorato al corrimano. 

La rispostaccia del partner si perse negli stridii con cui cominciarono la salita. 



 

* * *



 

Nello stesso momento.


All’interruzione di corrente, Mori alzò il capo verso il soffitto, in un gesto quasi banale, restando con le dita sospese strette intorno alla tazza di tè. 

Dopo qualche lungo secondo di attesa, ne bevve un sorso, prima di far tintinnare la porcellana nell’oscurità. Di fianco al piattino era stata allineata una pila di documenti, divisi in varie cartelline di colori diversi, più o meno vecchie, ma con quel buio non erano altro che uno dei tanti oggetti informi e spigolosi a cui il Boss diede una schicchera annoiata. 

«Sembra che i generatori ausiliari non ripartiranno subito» commentò, sistemandosi comodo contro lo schienale della poltrona e guardando l'orizzonte oltre le vetrate.  

«Pensavo che avremmo potuto giocare a carte per ingannare l’attesa» continuò in tono sconsolato, ma l’unica altra persona presente che avrebbe potuto rispondergli lo ignorò, come anche Elise, che continuò a colorare fogli con le sue matite fosforescenti. Passarono diversi minuti di silenzio, prima che Mori sospirasse affranto. 

«Potremmo aprire un dibattito sulla filosofia mentre-»

«Cosa sai di queste chiavi?» lo interruppe Fukuzawa. Restò nell’ombra al proprio posto, ma la sua voce bastò a concretizzarne la presenza. 

Il Boss rivolse l’attenzione alle proprie spalle, alle ombre dove la sua guardia del corpo stanziava senza venir delineata da alcun fioco riverbero. Abbozzò un’espressione pensierosa, al limite dell’innocenza. 

«Onestamente, niente.»

Fece spallucce. 

«Potrei essere più utile se potessi visionare i file che Sakaguchi-kun vi ha passato, ma temo di non essere nella posizione per ottenerne l’accesso.»

Fukuzawa non si espresse, lasciando intendere l’insoddisfazione per la risposta. 

«Tuttavia» riprese Mori, avvezzo a quel mutismo. «Ora mi è più chiaro il perché Natsume-sensei tenesse così tanto alla protezione della città. Sebbene l’impressione sia che stiamo miseramente fallendo, non trova, Fukuzawa-dono? Prima l’Agenzia, ora la Port Mafia… la Divisione è stata totalmente inutile, pace agli sforzi di Sakaguchi-kun.»

L’ombra assunse una dimensione e il Presidente acquisì un contorno definito. Si portò alle spalle della poltrona di Mori emanando un intento tutt’altro che amichevole. Il medicastro gli dedicò un’occhiata sfuggente e un sorrisino, alzando la testa verso di lui. 

«Il fatto che Yosano-kun sia ancora loro ostaggio, o che al suo pupillo siano state tarpate le ali, per finire con Dazai che ha fatto ritorno come un figliol prodigo qui non tiene alto il nome della vostra agenzia.»

Ciò che Fukuzawa avrebbe voluto rispondere restò una minaccia priva di parole e Mori accolse quel livore come aveva sempre fatto, crogiolandocisi a proprio agio. 

«D’altra parte, noi della Port Mafia non abbiamo brillato nel riuscire ad arginare l’avanzata di Red Hood. Il crollo del palazzo e la distruzione del Porto Vecchio sono due macchie ostinate da cancellare e hanno riportato alla mente di Yokohama spiacevoli ricordi. Nessuno vuole altri incidenti come quelli che hanno creato Suribachi o portato al Conflitto della Testa di Drago.»

Lanciato nella propria apologia, Mori si fissò le mani, l’oscurità come sua zona di conforto, per poi dedicarsi di nuovo alla città piena di luci spettatrice del loro patibolo. 

«Sarebbe più corretto dire che sia colpa di entrambi, vista l’implicazione di Dazai. In fondo, fino a tre settimane fa era ancora sotto la sua ala.»

La frecciatina non scalfì Fukuzawa, ma servì solo a indurire la sua espressione. Invisibile, ma percepibile e lapidaria. 

«Ti fidi di Dazai?»

Mori si prese qualche secondo nell’intrecciare le dita. 

«Dimmelo tu» replicò diretto e con un tono scontento. «Negli ultimi due anni è stato con te, cosa dovrei aspettarmi? È una creatura nuova.»

Se qualcuno avesse avuto tempo di guardare bene nell’ufficio, i segni della litigata con Dazai erano ancora presenti. Mobili graffiati, fori di proiettili, qualche macchia di sangue. Uno schiocco di dita del Boss avrebbe sistemato tutto in un giorno, ma Mori aveva preferito lasciare intatti i loro scarsi tentativi di dialogo, per poterli fissare come monito o come spunto di riflessione. 

«In questo momento» iniziò Fukuzawa, soffermandosi nel formulare ciò che sarebbe seguito, memore della fragilità restituitagli dalle reazioni dell’ex detective durante il loro ultimo colloquio. «Dazai non è in grado di ricambiare la fiducia degli altri.»

La linea delle labbra di Mori, mascherata da sorrisetto, aveva già la risposta, ma non gradì di guardarla per ciò che era. 

«Temo lei abbia ragione, Fukuzawa-dono» replicò, tornando a quel rispetto lezioso e scivoloso. «Mi pare di capire che ci troviamo in uno spiacevole Zugzwang. Conosce il significato del termine?» 

Negli anni - che non si erano limitati soltanto a quelli precedenti alla carica di Boss della Port Mafia - Mori Ougai aveva imparato a soppesare e analizzare ognuno dei silenzi provenienti dal Ginrou. Che si trattassero di minacce, di assensi o della più blanda ignoranza. 

«L’ho appreso in Germania giocando a scacchi. È un modo di interpretare una situazione in cui si è messi alle strette dall’avversario e ci si trova a compiere una mossa obbligata, sapendo che qualsiasi cosa si farà si perderanno delle pedine o la partita stessa.»

La piega sulle labbra si allargò e sembrò in grado di nutrirsi delle ombre e risucchiare la pochissima luce proveniente dalle vetrate. 

«È un modo subdolo di vincere una partita» concluse, ma senza la reale intenzione di lasciare andare il discorso. «La domanda ora è: da quale parte della scacchiera ci troviamo, Fukuzawa-dono?» 

Alzò lo sguardo verso di lui, sapendo di poterne intercettare gli occhi ancora intenti a osservarlo oltre la spalliera della poltrona. 

«Saremo i vincitori o i vinti?»

La trasmittente sul tavolino si attivò, attirando l’attenzione di entrambi. 

Boss. È iniziata.

Una pausa. La voce era quella di Dazai. 

«Parli del demone…» sussurrò Mori, troppo piano per essere sentito. Prese la trasmittente, attendendo. 

La situazione rientra tra gli scenari novanta e centodieci.

Mori annuì soddisfatto, mentre Fukuzawa aggrottava la fronte. 

«Capisco. Immagino che al momento ci sia molto chiasso al piano terra.»

Precisamente. Lui però non è lì in mezzo.

«No, non lo è» concordò Mori, alzandosi dalla seduta. Si spostò di poco, quanto bastava per ritrovarsi davanti a Fukuzawa, la trasmittente in mezzo a loro. Avvertirono dei fruscii e un’imprecazione appartenente a Chuuya. 

Stiamo per raggiungervi. I generatori di emergenza sono ancora fuori uso e temo lo resteranno per parecchio.

«Un contrattempo fastidioso, ma nulla di imprevisto» replicò Mori facendo spallucce. «Ci atteniamo alle strategie pari a due cifre, presumo?»

Sì.

«Perfetto. Io e Fukuzawa-dono ci spostiamo» e nel dirlo, Mori spense l’apparecchio e piantò gli occhi in quelli della sua guardia del corpo. Non c’era nulla di promettente in quello sguardo, se non la certezza stessa che il gioco fosse ancora in mano sua. 

«Mi segua.»

Il Boss raggiunse una delle pareti del proprio ufficio, quella alle spalle della scrivania. Con la visuale libera, Fukuzawa si accorse che Elise era sparita, lasciando in terra una mezza dozzina di disegni luminosi che raccontavano incubi. 

«Che cosa hai in mente, Mori-sensei?»

Era una domanda inutile, quasi più un complimento l’ammettere di non riuscire a vedere lo schema dietro tutta quella affettata tranquillità. Nel mentre, nella parete si era aperto un passaggio, stretto e composto da scale. Lievi bagliori di luci di emergenza indipendenti lo illuminavano fiocamente. 

«Dopo di lei» lo incoraggiò Mori, glissando del tutto quanto chiesto. «Devo sistemare un paio di cose ancora.»

Il Boss si attardò presso la propria scrivania. Recuperò una piccola penna a torcia da uno dei cassetti e tirò fuori una pistola, infilandola nel cappotto come un oggetto qualsiasi. Un motivetto a labbra serrate accompagnava i suoi gesti affaccendati, regalando ancora una volta un quadretto che cozzava con la situazione generale. 

«Per rispondere alla sua domanda» riprese, una volta pronto. «Ho svariati pensieri» e lo disse facendo una panoramica del proprio ufficio. 

«In tutta sincerità, al momento riesco solo a pensare che domani dovrò staccare diversi assegni per la ristrutturazione di questo palazzo.»

Senza spiegarsi ulteriormente, anche a fronte di un nuovo silenzio giudicante da parte di Fukuzawa che lo fece ridacchiare appena, Mori digitò qualcosa sul monitor nell’ombra all’ingresso del passaggio, per poi scendere le scale facendo luce con la piccola penna a torcia. 



 

* * *



 

Oda emerse dai sotterranei del palazzo nella confusione provocata dalle sue controfigure.

Dedicò all’ingresso uno sguardo coinciso per registrare la situazione, restandosene in disparte. Gli agenti della Port Mafia erano tutti occupati e lui si mosse indisturbato verso la zona degli ascensori.

Tuttavia, anche se vide arrivare il fendente, perfino la visione sembrò in ritardo rispetto alla velocità con cui venne attaccato. 

Con uno scatto laterale evitò per un soffio la lama che avrebbe fatto rotolare la sua testa in terra. Più che scorgerlo, sentì un sorriso compiaciuto provenire dalla sua avversaria alle proprie spalle. 

«Ara, allora davvero l’albero non era nascosto nella foresta.»

Kouyou si delineò dalle ombre dello spazioso androne al confine con gli ascensori. Il Golden Demon apparve alle sue spalle come una presenza eterea, la spada ancora sguainata, a guarnire la pericolosità della donna.  

«Dazai ha previsto tutto ancora una volta… Mi chiedo davvero come ci riesca. O sa cosa succederà questa notte, o ti conosce meglio di quanto credi.»

Oda aprì il fuoco nella sua direzione, scaricandole contro quasi un intero caricatore. I proiettili caddero a terra tagliati a metà. La Dirigente si coprì le labbra con la manica, inclinando la testa e ridendo solo con lo sguardo. 

«Mi aspettavo più gentilezza da parte della persona che è stata in grado di cambiare Dazai.» 

Anche se non riprese a sparare, il Fantasma Rosso non abbassò l’arma, continuando a puntarla contro la fronte della donna. Questo disse molto a Kouyou, che non si scompose e preferì logorare l’avversario su altri terreni e divertirsi a modo suo con la propria preda. 

«Lui ti vuole salvare, lo sai?» sussurrò, scandendo le parole perché il suo labiale si leggesse come un segreto sciocco. «È proprio innamorato, povero, dolce Demone Prodigio

L’abilità umanoide ingaggiò di nuovo battaglia. La Dirigente restò in disparte, osservando lo scontro come una spettatrice indolente capitata lì per caso. Le sue parole continuarono a vagare su quel terreno di Non ti scordar di me calpestati. 

«Hai conficcato un bagliore di luce nella creatura più oscura che abbia mai abitato questo reame, Oda Sakunosuke. Sei riuscito a cambiarlo sul serio.» 

Nonostante il giustiziere fosse in grado di difendersi, il Golden Demon era troppo veloce per permettergli di mettere una distanza di vantaggio. Colpirla era inutile e l’uomo dovette indietreggiare e tuffarsi oltre una doppia porta tagliata in due dal demone stesso. Rotolando contro una fila di serie, capì di essere finito in un’ampia sala per conferenze. Ne registrò vagamente il perimetro, spoglio di finestre, prima di trovarsi di nuovo sulla difensiva. Afferrò una delle sedie e la scagliò contro Kouyou. 

La seduta non arrivò neanche a sfiorarla, tagliata in due dalla spada dell’abilità. Il giustiziere sfruttò il momento. Corse incontro alle due, per poi evitare il demone con una scivolata, portandosi più vicino possibile alla Dirigente e puntandole la pistola contro. 

Kouyou non indietreggiò, anche se le sue labbra espressero la sorpresa per quella mossa repentina. Si difese con uno scatto, parandosi con l’ombrello. Questo fu colpito e distrutto, lasciando snudata la spada al suo interno. Prima che Oda potesse ripetersi, il Golden Demon era di nuovo in difesa, lacerando l’aria di fendenti. L’uomo balzò indietro, a debita distanza dalla spada, per riprendere fiato. 

«Non fraintendermi» iniziò Kouyou, senza muoversi dalla soglia della sala, la spada in mano ma in posizione bassa, di riposo, non dando a intendere che l’avrebbe usata. «Non ho la presunzione di fermarti, Odasaku

«Non chiamarmi così.»

La sua voce riecheggiò lì dove non arrivavano i rumori degli scontri all’esterno. La presa sulle pistole si fece più ostinata. Kouyou sorrise maliziosa, come se avesse appena fatto centro. 

«Oh, ma allora una voce ce l’hai. E anche bella» cinguettò con una risatina. «Ogni minuto che passa trovo sempre più motivi che mi spiegano come Dazai sia rimasto abbagliato da te.»

Il suo sguardo si affilò e la lama nella sua mano scattò in posizione, vibrando nell’aria densa. 

«Ora completiamo il quadro… mostrami il tuo volto!» 

Si scagliò con uno slancio violento ma privo di imperfezioni, dimostrando una velocità celata fino a quel momento. Il demone era al suo seguito, raddoppiandone la pericolosità. Oda l’attese come l’aveva prevista e fermò la lama con una delle pistole, sparando con la seconda. Kouyou non si fece cogliere impreparata, danzando sulle punte dei piedi ed evitando il colpo. Volteggiò e lasciò spazio al proprio demone e alla sua lama: la punta della spada sbucò dal nulla, colpendo la maschera cremisi. 

Grazie a Flawless, l’incrinatura fu minima, lasciando volare via soltanto qualche frammento. L’uomo roteò il polso sparando un’ennesima sequenza di colpi che costrinse Kouyou a ricorrere al Golden Demon per non venire raggiunta. 

«Tch» si lasciò sfuggire la donna, mentre guidava la carica del demone con un gesto secco della mano. L’ex tuttofare cercò di distanziarsi, finendo col lanciare sedia dopo sedia per guadagnare spazio. Quando arrivò all’altezza del palco della sala, l’abilità assassina si bloccò e lui poté riprendere fiato. Non abbassò la guardia e la concentrazione trasparì anche dalla maschera scheggiata. 

«Dazai non vuole capire una cosa basilare» sussurrò Kouyou, fissandolo come se avesse potuto parlare direttamente ai suoi occhi, con la confidenza di una persona che desiderava soltanto dare il proprio aiuto alla causa. «L’amore distrugge qualsiasi cosa si costruisca. Non importa che per un periodo funzioni, alla fine… l’amore brucia tutto e lascia solo cenere. O dei fantasmi, come te.» 

Sospirò e, di nuovo, le sue labbra sillabarono solo le parole, come una preghiera affranta e senza la speranza di venire ascoltata. 

«Se Dazai lo accettasse sarebbe tutto più semplice. Ci permetterebbe di ucciderti una volta per tutte.»

Di fronte all’impassibilità di Oda, la Dirigente scosse la testa, scoppiando poi a ridere. Senza timore, si voltò per uscire dalla sala. 

«Non hai neanche idea di cosa io stia dicendo, non è vero?» e gli scoccò uno sguardo crudele, avvolto da una magnanimità pietosa. «Sei solo un burattino in mezzo alla scacchiera di due demoni, ne sei consapevole? Sei venuto qui per morire ed è proprio un peccato.»

Un primo tintinnio. Seguito poi da un secondo, un terzo e così via. 

Oda distolse lo sguardo dalla donna per guardarsi intorno, facendo scattare la testa a ogni lato. Flawless non aveva ancora avvertito un pericolo imminente, ma il suo istinto sì. Alcune canaline si erano aperte nelle pareti e dei limoni gialli in metallo stavano scivolando sul pavimento. 

Una risata sguaiata ed esagitata riempì l’intera sala. Motojirou Kajii fece il suo ingresso con le braccia levate verso l’alto. 

«Finalmente ci conosciamo, fantasma dell’epoca oscura!» dichiarò pieno di folle entusiasmo. «So che è grazie a te se ho potuto progredire la mia scienza alla luce del mondo! Hai sacrificato la tua vita per la nobile causa del comandante in carica dell’universo! Quindi ti farò omaggio rendendoti il soggetto sperimentale delle mie ultime creazioni!»

Oda si lanciò in avanti, verso l’ingresso, ma la figura del demone dorato gli tagliò la strada, ingaggiando un nuovo giogo di fendenti da cui non riuscì a svincolare. 

«Devo però fare una precisazione a carattere scientifico!» proclamò implacabile Kajii, incurante dello scontro e degli spari con cui il giustiziere tentava di colpirlo, la mira sporcata dall’insistenza del Golden Demon

«Ozaki-san è stata troppo romantica su una cosa: l’amore è inconsistente! È soltanto un inganno chimico! Non può bruciare niente di niente! Ma qui abbiamo qualcosa di più efficace!»

Tirò fuori dal camice un innesco e lo attivò senza alcun esitazione.

Oda aveva visto cosa sarebbe successo, ma aumentare l’insistenza contro il demone non fu sufficiente a permettergli di fuggire. Nel momento del click, l’abilità assassina scomparve per riapparire alla porta. Le bombe esplosero una dopo l’altra, rendendo l’aria ardente.

Un boato rivaleggiò con i rumori degli scontri all’esterno, che non cessarono neanche quando si avvertì parte del soffitto e del pavimento della sala cedere. 

Lontana dalla soglia, con le fiamme a divampare e lambire parte dell’atrio della Port Mafia, Kouyou fissò con sdegno quel putiferio. Detriti e pezzi incendiati rotolarono fuori, ma nulla sembrò prossimo a quietarsi. I sistemi antincendio erano stati momentaneamente disabilitati. 

Kajii fischiò ammirato, osservando il proprio operato e battendo le mani compiaciuto dello spettacolo. Raggiunse la donna saltellando. 

«Appena domeremo le fiamme e lo tireremo fuori, quel braccio in metallo lo voglio nel mio laboratorio!»

Kouyou spostò lo sguardo critico dall’incendio allo scienziato. 

«Rammenti che gli ordini di Ougai-dono erano di non ucciderlo, vero?»

Kajii si strinse nelle spalle, alzando le mani. 

«Non ha specificato in quanti pezzi dovevamo catturarlo. Avrà perso forse le gambe o l’altro braccio… O potrebbe avere le vie aeree bruciate, uhm. A quello non avevo pensato.»

Un tintinnio, non dissimile da quello delle bombe a forma di limone. 

Kouyou abbassò lo sguardo e la consapevolezza la fulminò in viso. Kajii riuscì a essere impossibilmente più veloce, gettandosi su di lei.

Fu tardi per qualsiasi tentativo di scamparla indenni.  

Una granata atterrò poco distante dai loro piedi ed esplose con fragore. 



 

Non ci fu del silenzio vero, ma solo l’assenza di voci e respiri deboli mentre il fuoco consumava lentamente ciò che era rimasto di quella parte di ingresso. 

Rintronata dall’esplosione, Kouyou riuscì appena a vedere qualcosa, il sangue a renderla cieca da un occhio. Tastò con circospezione il corpo immobile sopra di sé. Kajii aveva una pulsazione vaga e flebile. Le dita trovarono uno, due fori di proiettile nella sua schiena, colpi sparati e coperti dalla confusione della granata. Strinse la mandibola, per quanto le facesse male, nell’osservare il giustiziere. 

Oda torreggiava su di loro. Kouyou tentò vanamente di evocare il proprio demone, ma riuscì solo a fissare impotente l’uomo. La manica della tuta sul suo braccio prostetico era a brandelli, piccoli pezzi carbonizzati dal fuoco si staccavano, consumandosi nell’aria senza mai raggiungere il suolo. Il metallo era annerito, ma non restituì l’idea di aver perso la propria prestanza. 

La vista della Dirigente si offuscò per lo sforzo di restare vigile. 

«Sei proprio un fantasma» mormorò, raccogliendo le poche forze rimaste. «Dazai non ha capito che ad amare i fantasmi si muore…»

L’uomo non la degnò di una risposta. Le diede le spalle, avviandosi verso l’ascensore. 

«Maledizione…» sibilò la donna, muovendo con dolore la mano fino a raggiungere la trasmittente che sentiva contro il fianco. Avvertì la coscienza scivolare via, ma riuscì a sintonizzare l’apparecchio prima di perdere coscienza. 

«Ha superato l’ingresso… sta salendo…»

«Me ne occupo io.»

La voce del Mastino della Port Mafia risuonò in attesa. 



 

To be continued




 

Avete atteso davvero un sacco, alcuni di voi mi hanno fatto compagnia su instagram ( @nolongerflawless.fanfic ) e fatto il tifo per questo aggiornamento. Iniziano i capitoli finali, densi di azione - sigh, scusate se è scritta da cani - e delle ultime sfaccettature di questa storia. 

Per scrivere questa parte mi sono cercata un po’ di film action e telefilm (Marvel grazie), perché sapevo cosa dovesse accadere, ma a grandi linee. Non pensavo ne sarebbero venuti fuori tre capitoli. Però spero che ve li godiate e che riusciate a immaginarveli con le azioni dell’anime. Io ho un film in testa da mesi con questa Notte Nera! Mi sono permessa qualche evoluzione, soprattutto nel prossimo capitolo. Il bello di scrivere storie lunghe dove i personaggi pian piano “crescono”. 

Tutto quello che non vi è chiaro fatemelo sapere! Sarà utile per una cosa della seconda parte ;) 

Grazie e alla prossima! 


Prossimo capitolo The Darkest Night (parte 2)
 

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Capitolo 23
*** The Darkest Night (parte 2) ***


Capitolo 22

The Darkest Night
(Parte 2)





 

Put to rest
What you thought of me
While I clean this slate
With the hands of uncertainty
So let mercy come and wash away

[What I’ve done - Linkin Park]




 

⎯ Non devi scontrarti con Odasaku.

Dazai era conscio di essere ascoltato, nonostante Akutagawa restasse trincerato in un mutismo ostinato. 

⎯ Se lo fai, questa sarà l’ultima volta.

Il Mastino della Port Mafia tenne la trasmittente in mano senza guardarla. Il suo sguardo era focalizzato sull’ascensore davanti a sé, sul numero dei piani che scorrevano sul display, scandendo i secondi. Era da solo, al sessantesimo piano, in una zona ampia, con una hall d’accoglienza e di snodo, avvolto dall’oscurità del blackout, salvo per quelle uniche, blande luci di cortesia dell’ascensore ancora in funzione. 

Ascoltami. 

Riprese Dazai, col sospiro di un ultimo tentativo. 

Hai già sperimentato di cosa è capace. Prevederà ogni tuo attacco e sarà inutile. Morirai. 

Nessuna replica. 

Dall’altra parte, invece, si sentì un sonoro Ahia da parte dell’ex detective. La voce di Chuuya esplose al suo posto, carica di incazzatura. 

Apri bene le orecchie, Cane Rabbioso! Puoi aver smesso di ascoltare questo stronzo di Dazai, ma se io ti do un ordine, tu lo esegui all’istante! Quindi vedi di portare il tuo-

La trasmittente non toccò il pavimento intera. Un fendente nero la divise in quattro e i pezzi toccarono il suolo con un suono inconsistente.

«Temo di non aver colto gli ordini» mormorò Akutagawa al silenzio tombale, restando a fissare le porte dell’ascensore. 

Mancavano dieci piani e Rashoumon iniziò a vibrare. Diversi lembi di stoffa si staccarono dal cappotto, caricandosi di un bagliore rossastro alle spalle del proprio padrone. Scattarono come una mano quando il display segnò cinquantanove. 

Un enorme trambusto spezzò d’improvviso la quiete. La potenza con cui Akutagawa indirizzò la propria bestia attraversò le pareti come fossero cracker, creando una voragine. Detriti e calcinacci piovvero in strada, mentre Rashoumon tratteneva la cabina che tentava di insistere nella salita con fastidiosi stridori spaccatimpani. 

Prima che l’abilità l’avesse vinta e l’ascensore finisse in parte accartocciato e bloccato nel vano dai freni di emergenza, Oda si aprì un varco e rotolò via dalla struttura. La corrente che lo alimentava scintillò dai cavi recisi, esaurendosi in pochi flash prima di interrompersi anche all’interno dell’abitacolo. 

Tre proiettili attraversarono l’aria, ma Akutagawa si difese con una sferzata nera che tagliò lo spazio. 

La quiete calò irreale, mentre il Fantasma Rosso e il Mastino della Port Mafia si fissavano a una distanza di sicurezza che non avrebbe permesso a nessuno dei due di prevalere in un primo attacco. 

Oda sondò l’oscurità circostante e non rinunciò dal tenere sotto tiro il più giovane, anche senza vedere nulla in arrivo. 

«Siamo solo noi due» ci tenne a specificare Akutagawa indolente, con le mani in tasca.

La sera era fresca e un lieve vento spirò dal buco creato nella parete della tromba dell’ascensore. Nonostante fossero al sessantesimo piano, il tramestio alla base del palazzo arrivò alle loro orecchie in un sottofondo ruggente, ma non conquistò la loro attenzione. 

«Tu vuoi salire e trovare il Boss, ma non succederà.» 

Un colpo di tosse interruppe Akutagawa. L’altro non ne approfittò, attendendo il resto del discorso. Il ragazzo tornò a guardarlo fisso. 

«Dazai-san non vuole che io combatta contro di te.» 

La sua fronte si corrugò. 

«Jinko vorrebbe che tutti si salvassero, compreso te. L’ordine del Boss è di catturarti vivo» il suo tono si venò appena di qualcosa che nemmeno lui seppe definire, tra l’irragionevole e la fermezza. «Tutti vogliono qualcosa.» 

«Tu cosa vuoi?» 

Akutagawa raddrizzò le spalle, facendo scivolare le mani fuori dalle tasche.

«Voglio essere forte.»

Si accigliò e nel suo sguardo non c’era più l’avversario, non quello reale e presente, ma un altro senza più forma, creato da quelle sensazioni nuove che da giorni stavano riempiendo anni di vuoti e odio stantio.  

«Voglio che Jinko la smetta di essere un idealista» sibilò, neanche lo stesse dicendo in faccia all’oggetto dei suoi pensieri. Tornò a fissare il Fantasma Rosso

«Voglio fermarti qui e ora.»

Oda abbassò l’arma. 

«Ma non mi stai attaccando. Perché?»

I secondi scivolarono l’uno dietro l’altro senza alcuna presenza di un futuro imminente. Akutagawa lo ignorò, concentrato su un filo che lo stava portando indietro. 

«Quattro anni fa mi hai salvato la vita» sputò con un astio mai risolto, senza alcuna ombra di gratitudine. «Non te lo avevo chiesto, ma tu lo hai fatto per Dazai-san. Io volevo misurarmi con te e dimostrargli di essere forte.» 

Non ci furono repliche, non subito. Dalla figura dell’ex tuttofare non si riuscì a dedurre sentimenti o pensieri, ma la sua rigida immobilità restituì l’idea che stesse assorbendo quelle parole con lentezza. 

«Sono qui» lo invitò alla fine, così profondo che persino il cremisi della maschera dietro cui si celava parve diventare nero. 

Un movimento colse la sua attenzione e scattò con la testa di lato. Dalle ombre vide qualcosa muoversi, serpeggiare con indolenza e andare a ricoprire le poche zone di penombra. La minaccia andò tessendosi striscia di stoffa dopo striscia di stoffa, ma senza disturbare la veglia di Flawless. 

Non ancora. 

«Rilassanti.»

Akutagawa richiamò il suo sguardo su di sé. 

«Non ti attaccherò a sorpresa.»

Le finestre vennero oscurate come se delle tende pesanti fossero state tirate su di esse. Gli unici punti luce restarono quelli delle insegne di emergenza, a colorare fiocamente i loro profili di verde. 

«Sono molto fortunato» ricominciò il Mastino dopo un breve colpo di tosse, mentre la sua opera continuava. «Ho incontrato diversi utilizzatori di abilità forti, ma tu hai qualcosa di diverso. Se ti battessi… dovrei sentirmi soddisfatto.» Non fece nulla per mascherare il proprio disappunto, accigliandosi. «Ma sarebbe una menzogna.»

«Perché non sono io l’avversario con cui desideri confrontarti.»

Akutagawa distolse l’attenzione, abbassando lo sguardo sul proprio palmo diafano. Sorrise appena, lasciando sbocciare l’ennesima consapevolezza. 

«… se Jinko mettesse da parte i suoi sentimentalismi sarebbe capace di battere anche te. Per questo voglio superarlo.»

Il giustiziere sospirò appena, raddrizzando le spalle. 

«Io sono soltanto una deviazione sulla tua strada.» 

«Tu sei una questione in sospeso» lo corresse Akutagawa, tornando a guardarlo. «Jinko non potrà mai salvare tutti e Dazai-san morirà nel tentativo di salvare te.» Sgranò lo sguardo e serrò i pugni. 

«Tu però non li raggiungerai.»

I lembi di stoffa intorno a loro si arrestarono di colpo, tendendosi e formando un ambiente chiuso, claustrofobico, una caverna nera. L’intera hall ne era ricoperta, senza lasciare spiragli o vie di fuga. Il bagliore verde delle luci di emergenza fu sostituito da quello rosso e innaturale di Rashoumon

Lentamente Oda tornò in posizione di attacco, ma lasciando intendere che il la lo avrebbe avuto il proprio avversario. Tuttavia, Akutagawa non aveva finito. 

Il cappotto nero iniziò a sfaldarsi, attirando l’attenzione del Fantasma Rosso, che ne seguì i movimenti con circospezione. Questo si divise in lunghe fasce, strisciando via dal proprio padrone per riassemblarsi al suo fianco, creando una figura umanoide. 

Tenma Tengai, la sua armatura demoniaca, prese vita propria. 

«Tra qualche secondo la tua abilità scorgerà il mio attacco.»

Akutagawa ruppe il silenzio con voce piana, concentrato e immobile. 

«Sarà qualcosa di nuovo anche per me» ghignò e il tempo si dilatò un ultimo istante. Il bianco candido della sua camicia vittoriana brillò fulgido, leggiadra come una medusa sospesa nelle profondità più oscure del mare. 

Odasaku lo vide attaccare. 


* * *



 

«Quell’imbecille!»

Chuuya scardinò con un calcio una porta tagliafuoco, accedendo alle scale di emergenza. L’insulto riecheggiò per tutta la tromba delle scale, esaurendosi nel vuoto. Dietro di lui, Dazai lo seguì tenendo il passo. 

«Datti una calmata, Lumaca. Stai aggiungendo spese inutili all’ammontare di danni che abbiamo stimato per questa notte.»

«Si fottano i danni!» sbottò il rosso, saltando gli ultimi gradini di una rampa e passando alla successiva. «Quel mollusco senza cervello si farà ammazzare per il suo stupido orgoglio!» 

«Ha parlato quello che si batte per altruismo» lo canzonò Dazai. 

Chuuya lasciò delle crepe sui successivi gradini ringhiando epiteti e costringendo Dazai a superarli con un balzo per non inciamparci. 

Erano quasi giunti al nascondiglio del Boss quando avevano ascoltato la voce flebile e sconfitta di Kouyou comunicare la salita di Oda. La risposta di Akutagawa era stata del tutto imprevista. Il piano originale aveva subito una battuta d’arresto per quel fuori programma, costringendo il Duo Nero a ridiscendere i piani il più in fretta possibile. 

«Perché cazzo hai detto ad Akutagawa di andare al sessantesimo!?»

«Non gliel’ho detto.» 

Chuuya si bloccò di colpo e Dazai andò a sbattergli contro la schiena, rischiando di farli finire entrambi in terra. I riflessi del rosso furono più rapidi. 

«Allora perché diavolo sta lì!?» 

Il viso corrucciato, l’ex detective si massaggiò il petto dove la testa dura del partner aveva battuto. 

«Intuizione? Anche se non sembra un cervello ce l’ha» sbuffò stanco. «Possiamo parlare mentre continuiamo a scendere? Stiamo sprecando tempo e abbiamo ancora venti piani prima di un ascensore funzionante.»

«Merda» replicò Chuuya, ma senza perdere altri secondi preziosi. «Perché sono partiti i generatori ausiliari solo del settore b!?» 

«Ottima domanda» si limitò a rispondere Dazai. Osservò la reazione di Chuuya, i suoi sforzi nel non distruggere altro mentre correvano e tutta la preoccupazione che traspariva dalla sua incazzatura. Nulla fuori posto.    

«Pensi che sia entrato dai sotterranei a questo punto?» continuò il rosso, troppo preso dalla discesa per calcolare quegli occhi che lo squadravano.

«A questo punto sarebbe l’ipotesi più plausibile.»

«Quello stronzo di Verlaine non avrà mosso un dito! Figuriamoci!»

Dazai non gli diede seguito, attirandosi un’occhiata fugace dal partner. 

«Ohi Sgombro, che è quella faccia?»

«Non credo che Verlaine sia rimasto in disparte.»

Chuuya fu sul punto di bloccarsi di nuovo, ma l’altro lo perforò con un’occhiata.

«Continua a scendere» gli intimò. I minuti non erano dalla loro. 

La Lumaca si sfogò di nuovo contro la porta che li separava dal piano che serviva loro, facendola volare nella hall vuota e fino a quel momento silenziosa. Non persero tempo e corsero alla consolle degli ascensori funzionanti. Fu Dazai a prenotare la loro discesa, avvertendo le emanazioni irritate del rosso che non riusciva a fare pace con i propri pensieri. 

«Non farmelo ripetere» mormorò l’ex detective, afferrandolo per un polso. Qualsiasi fremito sottopelle dato dalla gravità sparì come una doccia fredda sarebbe stata in grado di raffreddare la mente.  

«Devo stare calmo» masticò il partner. In un altro momento si sarebbe scrollato la presa di dosso, ma l’effetto calmante, anestetizzante, sulla rabbia amplificata dall’Arahabaki lo aiutò. Prese delle boccate lente, ascoltando i polmoni bisognosi di aria, ma si diede anche uno schiaffo sulla guancia per tornare completamente padrone di sé. 

«Odio quando hanno l’insolenza di entrarci in casa e creare scompiglio.»

Dazai tenne per sé una piccola risata, quasi intenerita, e si concentrò ancora sui numeri. Era un conto alla rovescia e non solo per raggiungere Akutagawa e sperare di trovarlo vivo. 

Odasaku era di nuovo vicino

Era dallo scontro al Porto Vecchio che non si trovavano faccia a faccia. Le cose non sarebbero potute riandare alla stessa maniera. Non ci sarebbero più state altre occasioni. 

Anche se Akutagawa da Cavallo si era evoluto ad Alfiere e aveva fatto di testa sua, il resto della scacchiera avrebbe dovuto continuare a seguire il suo schema. 

Con la coda dell’occhio Dazai adocchiò Chuuya. 

Lo scontro tra Regine era appena stato anticipato, ma che si fosse svolto al sessantesimo piano o al centosettantesimo non avrebbe fatto alcuna differenza. L’esito sarebbe stato solo uno. 

«Verlaine…» 

Chuuya lo tirò via dalla sua scacchiera immaginaria. L’ex detective lo teneva ancora per il polso e nessuno dei due si scostò. 

«E Ane-san. Quel coglione di Kajii e ora anche Akutagawa…» elencò il rosso, la voce carica e incrinata di un nervosismo denso e iracondo. «Tu credi davvero che riusciremo a catturarlo vivo?» 

Perché io ti giuro voglio ammazzarlo, era il sottotesto inespresso. 

Il dubbio di Chuuya era sempre più congruo alla realtà dei fatti. Dazai tacque, mentre i suoi occhi seguivano la linea di luce che, con lentezza, riempì lo spiraglio tra le porte dell’ascensore, annunciandone l’arrivo. 

«Ho un piano.» 

Resisti ancora un po’.

«Fidati di me, partner.» 


* * *



 

I polmoni di Akutagawa erano in fiamme. 

L’enorme teatro di Rashoumon a cui aveva dato vita continuò a risucchiargli ogni briciolo di energia, consumando i suoi sforzi più rapidamente di qualsiasi altro passato attacco. Tuttavia, stava funzionando. 

Il Fantasma Rosso era in difficoltà. Nonostante le visioni, come un film su cui aveva un vantaggio notevole nel vedere le scene prima che arrivassero, Oda non aveva ancora avuto la meglio o un’occasione reale per ucciderlo. 

Tenma Tengai portava pesanti segni dei suoi attacchi, ma si ergeva con una fierezza degna del suo padrone. Intorno a loro, il gomitolo cavo creato da Rashoumon, che ricopriva buona parte della hall, non si era sfaldato di un millimetro, permettendo un raggio d’azione a trecentosessanta gradi. 

Posso batterlo era il martellante pensiero di Akutagawa tra le tempie. 

L’occasione era lì, a portata di dita, a patto che il suo petto non avesse ceduto prima. Aveva la camicia imbrattata, solo in parte dovuta a ferite superficiali. Tossì, si raschiò la gola, lasciò che il sangue gli gocciolasse dai lati della bocca, ignorando il dolore come non fosse suo, ma appartenuto a qualcun altro.  

Fermare Oda era l’unico obiettivo che contava. Sarebbe stato un passo avanti a Jinko. Avrebbe impedito al proprio maestro di compiere gesti avventati. 

Posso batterlo.

Posso batterlo.

Posso batterlo.

Fece un passo traballante, ma al contempo serrò il pugno e una sequenza di fendenti neri si scagliò all’inseguimento di Oda, chiudendogli le vie di fuga. 

L’uomo tentò di mirare a lui. Akutagawa era conscio di essere il punto debole della propria giostra, ma anche con un caricatore di proiettili in corpo avrebbe resistito finché uno dei suoi serpenti neri non avesse raggiunto la gola del suo avversario. 

«Non sottovalutarmi!»

Come zampe di ragno, la stoffa della sua camicia si animò per proteggerlo. Tenma Tengai si lanciò all’attacco e questo diede tempo al Mastino della Port Mafia di riempirsi di nuovo i polmoni con sofferenza. Scosse la testa quando la vista gli si annebbiò e perse la prospettiva della situazione per qualche istante. 

Era una questione di resistenza. 

Nella malavita, i tentativi ti uccidono o rimangono come cicatrici sul tuo corpo. Esiste solo il riuscire, il portare a termine un obiettivo. O la morte, perché la vergogna è un fardello pesante.

Akutagawa ricordò la sensazione di aver pensato quelle parole di fronte ai tentativi di Jinko. Strinse i denti, ringhiando per un pensiero intrusivo ed inutile. 

Se lui fosse qui.

Scagliò Rashoumon senza alcuna riserva. Ruggì, anche senza fiato. 

Non ho più tempo. 

Oda reagì. Si lanciò in avanti sulla scia dello stesso pensiero. 

Senza luce, se non i bagliori rossastri dell’abilità, le ombre inghiottirono i movimenti e tutto fu confuso. 

Akutagawa si mosse, ma la sua debolezza si impose, rallentandolo, impantanandolo. Lo scintillio di una delle pistole assorbì la sua attenzione, lo mise in allarme, osservandone la canna puntare contro il ginocchio. 

Fu una sequenza disastrosa. 

Con la concentrazione provata dalla stanchezza, il Mastino indirizzò ogni energia - insieme al Rashoumon Bianco - soltanto a quel pericolo e l’istinto lo avvertì troppo tardi di un’altra minaccia. 

Una seconda pistola puntò al suo petto e il ragazzo non riuscì a scansare il proiettile così a bruciapelo. Sacrificò la spalla. 

«La tua abilità è forte, ma in un combattimento ravvicinato e duraturo la tua mancanza di forza fisica è uno svantaggio per la resistenza.»

Oda fu lapidario e schietto, come lo fu nel riprendere la mira per terminare ciò che aveva iniziato. 

Il bisogno di rivalsa scoppiò in Akutagawa alimentato dal dolore. Il suo urlo feroce, quello della bestia messa all’angolo, fu un ordine e la sua abilità si scagliò come un torrente nero sul Fantasma Rosso

«Sei… mio» rantolò vittorioso, nonostante fosse lui quello quasi in ginocchio. 

I lembi di Rashoumon deviarono gli spari e attanagliarono gli arti di Oda, creando in pochi secondi una ragnatela tesa e salda.  

La situazione si fermò. 

Come un treno in corsa a cui era stato tirato il freno d’emergenza, l’aria stessa parve oscillare fino a immobilizzarsi e riportare il silenzio. Un silenzio in cui rimbombò l’ansito sfinito di Akutagawa. Il suo sguardo era vacuo, nonostante lo tenesse fisso sull’avversario, diventato una figura sbiadita e senza bordi netti, quasi più un’idea da tenere assoggettata. 

«Sei forte.» Oda glielo riconobbe con uno sforzo dovuto ai polmoni compressi. «Non hai altro da dimostrare.»

«Da… Dazai-san…» sussurrò il Mastino, astratto dalla realtà. Nonostante la sua mente stesse scivolando nelle illusioni dettate dal suo orgoglio, la presa di Rashoumon non ne subì gli effetti. Tenma Tengai, ridotta quasi alla metà, stette al suo fianco, a riposo, come un generale in attesa di ordini. 

Ciò di cui però Akutagawa non si accorse fu come la stoffa nera intorno alla tuta di Odasaku si stesse dissolvendo con lentezza. Senza rumore, senza scintillii. Era come se, millimetro dopo millimetro, stesse scomparendo. 

La presa intorno al petto si allentò, consentendo a Oda di prendere un respiro meno strozzato. Qualche istante ancora e riuscì ad acquisire un minimo di mobilità, anche sotto lo sguardo fisso, ma slavato, del suo opponente. 

«Akutagawa Ryuunosuke» lo chiamò con rispetto, mentre riprendeva la mobilità del braccio e lo portava all’altezza giusta. Quella in cui la canna della pistola era in linea con la fronte del ragazzo. 

«Sei un avversario contro cui non vorrei difendermi di nuovo.» 

Il mafioso fu scosso da un colpo di tosse e versò nuovo sangue, riprendendo i contatti con la realtà, ma troppo lentamente per potersi difendere. 

Fu una visione a farlo. A impedire che Oda facesse pressione sul grilletto. 

Avrebbe potuto sparare, ma i nove secondi di vantaggio gli servirono per districarsi dai lembi che ancora lo trattenevano e poter usare il braccio prostetico come scudo. 

Attraverso gli spiragli non più serrati della barriera creata da Rashoumon, una scarica di proiettili puntò al Fantasma Rosso, cozzando contro il metallo della protesi e prendendolo di striscio dove non riuscì a difendersi. 

«Akutagawa-senpai! Si metta al riparo!»

Tra gli spazi delle fasce di stoffa, prede di spasmi a causa del controllo sempre più fiacco del suo padrone, si intravide Higuchi Ichiyo. Al suo fianco la figura di Gin era in posizione, pronta a scattare.

Sopraggiunsero altri spari a tappeto e Oda si parò ancora, in parte riparato anche grazie a Rashoumon stesso. Il giustiziere puntò l’arma a sua volta, ma Akutagawa strinse i denti e serrò le maglie della propria abilità. 

«Andatevene! Subito!» urlò perentorio, raschiandosi la gola e cercando di tornare padrone di sé, ma il suo demone nero continuò a disfarsi come un castello di carte. 

Gin comprese per prima la gravità e afferrò Higuchi per un braccio, ma non ci fu verso di muoverla. La donna continuò a sparare colpo dopo colpo, ignorando i proiettili di avvertimento che la raggiunsero graffiandole braccia e guance. 

Oda non si lasciò scalfire da quella furia senza giudizio. Vedendo arrivare ognuno di quei colpi con largo anticipo, fece il minimo sforzo per evitarli, mentre la mano libera cambiava pistola. 

Il futuro nella sua mente era silenzioso e scorreva senza sbavature. 

Ancora sei colpi e la donna avrebbe dovuto ricaricare e sarebbe stata vulnerabile.

Akutagawa lo avrebbe attaccato di nuovo, una volta rivestitosi con la sua bestia nera. 

Si accorse anche di un fulmine nero, ma il tempo per per prevedere scadde. 

Gli servì lo spazio di un respiro per agire. 

Le pistole di Higuchi cliccarono due volte a vuoto e lui scattò. Sparò e la colpì a una delle mani, disarmandola, e poi due volte alla coscia, obbligandola a piegarsi e accucciarsi per il dolore. Nello stesso momento, l’ex tuttofare afferrò dalla fondina sulla schiena l’arma a risonanza direzionale e la puntò in faccia ad Akutagawa. 

Non c’era modo per Rashoumon di tagliare lo spazio ed evitargli quel colpo. Il dubbio che funzionasse era un’altra variabile che non aveva tempo per essere anche solo preso in considerazione. 

Il Mastino finì a terra con un urlo animalesco che riverberò nell’intera hall. Qualsiasi residuo della sua abilità cadde a terra, dimenandosi come tanti serpentelli neri e ciechi per poi sparire. 

«Akutagawa-senpai!» gridò Higuchi, incurante di essere ancora nel mirino di Oda, ma quel fulmine nero, ignorato nella visione, la salvò da un colpo fatale. 

Gin scattò con una rapidità che colse alla sprovvista persino Flawless. I sensi del giustiziere erano troppo tesi a seguirla per concentrarsi sulla visione. Il dolore arrivò a intermittenza, fastidioso, per ogni fendente di lama che lei riuscì a infliggergli nel roteargli attorno come il vento ciclico e sferzante di un uragano. 

Ignorando la propria abilità per fronteggiarla, Oda trovò un’apertura quando la lama del pugnale di Gin cozzò contro il braccio metallico, rallentandola nel ritmo. Questo gli concesse uno spiraglio minimo per serrare l’arma e spezzarla con le dita meccaniche. L’esitazione nel tirarsi indietro giocò a sfavore dell’assassina. 

L’uomo la afferrò per il collo rovesciandola schiena a terra e facendole cadere quel che rimaneva del pugnale. Gin lottò contro la presa senza darsi per vinta. Tentò di riarmarsi, ma il giustiziere le limitò i movimenti del busto. Provò a scalciare, ma fu come colpire un tronco. La stretta soffocante si chiuse inesorabile come una morsa idraulica, rendendo i suoi gemiti sempre più versi gorgoglianti nel silenzio graffiato dai rantoli doloranti di suo fratello e Higuchi. 

«Gin-chan, pronta a prendere un bel respiro?»

Oda si paralizzò. Prima di poter reagire alla voce alle sue spalle, il fiato gli si bloccò in gola per un dolore acuto e improvviso al fianco. La sua abilità non rispose, restando uno schermo bianco senza visioni, nonostante la realtà stesse accadendo. La presa sul collo della ragazza si allentò, permettendole di svincolarsi. 

Alle spalle del Fantasma Rosso c’era il Demone Prodigio. Le dita di Dazai insistettero nello spingere più a fondo i pochi centimetri della lama spezzata appartenuta a Gin, raccolta da terra nell’angolo cieco che No Longer Human aveva di nuovo creato in Flawless

Oda scattò con una gomitata per liberarsi di Dazai, ma l’ex detective evitò il colpo avendolo previsto a propria volta. Si portò davanti a lui - rendendo lo spazio a dividerli così poco che il giustiziere si ritrovò di nuovo disorientato. 

Si guardarono negli occhi, nonostante la maschera, finché la mano con cui Dazai aveva continuato a toccarlo per tutto il tempo non si allontanò di colpo. Il Dirigente si tuffò su Gin, costringendola con la testa a terra. 

La visione non fu abbastanza rapida dopo il tocco gelido di No Longer Human

«Questo è per Ane-san, stronzo!»

Chuuya apparve dalle ombre con un calcio alto, baluginando di luce rossastra. Colpì Oda così forte e alla sprovvista che la tuta attutì la gravità per una frazione minima, non risparmiandogli l’essere scagliato dall’altra parte della hall, sfondando il muro e finendo nella stanza adiacente. 

«Tieni la guardia alta, Lumaca» ordinò Dazai, aiutando Gin a rialzarsi e ispezionandole il collo. 

«Non sottolineare l’ovvio!» abbaiò piccato il partner, mantenendo attiva la gravità mentre passava lo sguardo dal punto dove aveva fatto volare Oda alle proprie spalle. «Cazzo» si lasciò sfuggire, quando vide qualcosa che non gli piacque. «Controlla che quell’imbecille di Akutagawa si regga ancora in piedi!»

«Non sottolineare l’ovvio» gli fece il verso Dazai. 

Il Mastino della Port Mafia era piegato su se stesso, un grumo tremante di rantoli, stoffa strappata e sangue. Higuchi, al suo fianco, continuò a chiamarlo tra un singhiozzo e l’altro, cercando di scrollarlo. 

«Non reagisce!» disse con voce rotta, quando Dazai si avvicinò. «Che cosa gli ha fatto!?»

L’ex detective appoggiò una mano in mezzo alle scapole del ragazzo senza fare pressione. 

«Akutagawa, ascoltami» si abbassò su di lui, scrutando le sue ferite e spostando con delicatezza la mano sulla sua spalla. «Ti farò male adesso. Concentrati su questo dolore.»

Nel dirlo, premette senza esitazioni il pollice nel foro lasciato dal proiettile. Il giovane urlò, buttando fuori tutta l’aria residua nei polmoni e facendo sobbalzare il resto del gruppo. 

«Che cazzo gli stai facendo!?» sbraitò Chuuya. 

«Non distrarti» intimò Dazai, ignorandolo mentre permetteva ad Akutagawa di aggrapparsi alle sue braccia per prendere forti boccate d’aria. Il suo sguardo era meno vago, ma non ancora lucido. 

«Continua a concentrarti sul dolore» gli sussurrò serio l’ex detective, infierendo di nuovo contro la ferita. Il ragazzo conficcò le dita nelle braccia del suo maestro e ingoiò un nuovo urlo, digrignando i denti così forte che se li sarebbe potuti spezzare. 

«La smetta! La prego, basta!» strepitò Higuchi disperata, senza badare a Gin, intenta a fasciarle le ferite alla coscia, e tirando invece Dazai per una manica. 

«È l’unico modo per farlo riprendere il prima possibile» spiegò l’ex detective, osservando le reazioni del Mastino. «Appena starà in piedi dovrete andarvene. Subito.»

Come se il monito del Dirigente non fosse stato abbastanza a sottolineare la criticità della situazione, ci pensarono lo scoppio di diversi spari. 

«Merda.» 

Chuuya si lasciò scappare l’imprecazione nonostante fosse pronto, teso per quell’attimo, e non fu colto impreparato. Intercettò ognuno dei proiettili ed evitò che questi andassero a segno contro il partner e gli altri. 

«Dazai! Dovete levare le tende!» 

Rispedì i colpi nella voragine di buio che era la seconda stanza. Non riusciva a vedere nulla e andò alla cieca con la mira. Per lunghi istanti non accadde nulla, facendo nascere il dubbio che un colpo fosse andato a segno. 

Poi qualcosa volò nella loro direzione. La luce proveniente dalle vetrate ne delineò fiocamente il profilo.

«Granata!» avvertì Gin. 

In un secondo, Chuuya constatò di essere fuori portata e che non l’avrebbe mai raggiunta in tempo per limitarne i danni. Si parò il viso con le braccia, ma vide anche Oda emergere dalla stanza con le pistole alte. 

«Sasso sul lago, Sgombro!»

Dazai tirò a sé Gin e Higuchi, accucciandosi su Akutagawa, preparandosi all’impatto. 

Il rosso batté il piede sul pavimento una frazione di secondo prima che la granata toccasse il suolo. Una luce accecante sfondò l’oscurità e la gravità sconquassò il piano, rendendolo instabile. Le onde d’urto si mitigarono scontrandosi con No Longer Human, ma tutto intorno le crepe attraversarono il marmo come le fratture di un terremoto. Il giustiziere si trovò a balzare indietro, di nuovo all’interno della stanza buia.

Per pochi attimi, ciò che successe al sessantesimo si avvertì in tutto il palazzo. Scricchiolii, cigolii, la voce cupa dei materiali che venivano forzati oltre la loro posizione originaria per attutire e assorbire le onde come in un terremoto. Chiunque fosse nella struttura realizzò cosa si stesse consumando.   

«Questo è lo scenario peggiore…» sibilò Dazai, tornando ad alzare la testa. Chuuya era già in movimento, insieme a diversi detriti vorticanti come satelliti intorno a lui. «Pecora bendata, Lumaca!»

«Che cazzo credi stia facendo!?» sbottò il partner, lanciandosi in picchiata contro il muro sfondato della stanza dove aveva fatto retrocere Oda. Le macerie fluttuanti lo seguirono, depositandosi le une sulle altre sul varco, fino a chiuderlo. 

Nella hall calò un silenzio surreale, mentre da oltre il muro si avvertivano soltanto i rumori del nuovo scontro. 

«Che cosa…» Higuchi faticò a mettere insieme le parole, realizzando con lentezza gli avvenimenti dell’ultimo minuto. «… Chuuya-san starà bene?» ebbe timore a chiedere, scossa come se il tremore della struttura non si fosse fermato. 

Dazai restò a fissare quel buco chiuso alla peggio per dividerli dal pericolo ed impedire di trasformarli in bersagli. La gravità baluginava ancora fiocamente come collante. 

«Questa volta siamo preparati» disse atono. «Ma sarà solo un palliativo.» 

Abbassò l’attenzione su Akutagawa. 

«Sei stato colpito una volta sola, ma sei allo stremo. Non può succedere di nuovo o non reggerai» dicendolo, spostò lo sguardo sulle due. «Aiutatelo. Dovete andare.»

Il Mastino ringhiò, barcollando per mettersi in piedi. 

«Perché diavolo… siete salite quassù!?» latrò, conficcandosi poi le dita nelle tempie come se ogni parola fosse appena rimbombata alla stregua di piccole esplosioni. 

«Stava per ucciderla!» si giustificò Higuchi, irremovibile dalle proprie convinzioni. Zoppicò per portarsi al fianco del ragazzo, ma non si azzardò a sfiorarlo. «Se non fossimo arrivate in tempo…!»

«Lo avete salvato» sospirò Dazai, alzandosi e reggendo Akutagawa quando finì col perdere l’equilibrio. «Ma questo non toglie che siate nel torto tutti quanti. Ne discuterete strada facendo. Qui ce ne occupiamo io e Chuuya.»

Ci fu soltanto un grido incomprensibile ad annunciare il nuovo pericolo. Mettersi in guardia non servì. 

Il muro della hall fu sfondato dall’ennesima esplosione, a cui ne seguì una seconda in prossimità del perimetro del palazzo. I frammenti delle vetrate piovvero ovunque, costringendo il quartetto a pararsi testa e viso, limitando la visuale. 

Tra fumo e detriti, Dazai colse un movimento fulmineo approssimarsi. Tutto rallentò. 

Oda venne verso di loro dal nuovo varco nella parete. In mano stringeva la pistola a risonanza. In un battito di cuore, l’ex detective si parò di fronte ad Akutagawa, urtandolo.

Il gesto repentino di Dazai evitò un secondo colpo diretto, ma le vibrazioni dell’arma si fecero sentire anche in mezzo ai calcinacci che continuavano a piovere. L’equilibrio non giocò a loro favore e ruzzolarono entrambi in terra, alla mercé di un secondo attacco. 

Gin tentò di impedirlo. Armata di altri due pugnali, si mosse con la stessa rapidità del vento, mirando audacemente al collo del giustiziere. 

«Bastardo!» sibilò Higuchi, anche lei con un’arma di scorta, puntata per colpirlo all’addome.  

Fu di nuovo un film già visto

Oda si tese in avanti, evitando il fendente dell’assassina che avrebbe dovuto colpirlo alla giugolare, e parando il proiettile destinato al suo fegato con la mano metallica. Questo scalfì appena il palmo e venne deviato verso il pavimento. 

Come se Higuchi fosse stata niente più di un rametto, il giustiziere la afferrò per il braccio e roteò su di sé, mandandola a sbattere contro Gin. L’impatto tolse loro il fiato, ma fu più fastidioso che doloroso, a differenza del calcio che seguì e che le falciò entrambe. Le due vennero proiettate contro le vetrate distrutte, finendo oltre il bordo. 

Nel vuoto. 



 

L’aria smise di riempire i polmoni di Akutagawa. 

I rumori sparirono di colpo, come la distruzione circostante. Se qualcuno urlò, che fosse lui stesso o qualcun altro, non lo distinse. 

Ancora l’uno sopra l’altro per via della caduta, Dazai si scostò da lui rotolando in terra. Rashoumon esplose dalla schiena del Mastino mentre si affannava a raggiungere il bordo e guardava giù, riempiendosi gli occhi di quella caduta. 

Nello stesso battito di ciglia, un lampo rosso sfrecciò fuori dal polverone, sopra le loro teste, per buttarsi poi in picchiata. 

La definizione di secondi si dilatò, bloccando le lancette di qualsiasi orologio stesse ticchettando in quel momento. 

Dazai si mosse in quegli attimi frazionati, strozzato da un presentimento.

Erano scoperti. 

Chuuya era fuori portata. Akutagawa sarebbe morto prima di accorgersi di qualsiasi pericolo, totalmente assorbito dal salvataggio della sorella. 

Oda aveva campo libero. 

L’ex detective lo realizzò nel voltarsi e incespicare nel mettersi in piedi per rincorrerlo. E bloccarsi a metà della hall.  

Nell’aria c’era ancora del pulviscolo bianco dovuto ai muri esplosi; aleggiava, creando una patina sulla scena. La fine di un sogno alle soglie di un bagno di realtà. 

Il Fantasma Rosso era agli ascensori, davanti all’unico rimasto funzionante. Ancora una volta, la pistola fu puntata contro Dazai. Non fu però quella minaccia a far sgranare lo sguardo all’ex detective. 

Le porte della cabina si aprirono e la luce rese il giustiziere un’ombra nera dai contorni rossastri. Una terza granata era nella sua mano libera. 

Smettila, Odasaku. Ci hai già sconfitti.

Io non sono Odasaku.

«Non farlo.»

Il sussurro deluso di Dazai non lo raggiunse. Né per la distanza né per la volontà di essere ascoltato. La sicura metallica tintinnò cadendo a terra. 

Il tempo a disposizione per il sessantesimo piano si era esaurito. 



 

Chuuya appoggiò i piedi in quel che restava della hall. Le gambe gli tremarono per la rabbia, lo sforzo e una vena di panico. Lasciò Higuchi ad accasciarsi per terra e si guardò intorno.  Lo sguardo scattò tra le macerie che coinvolgevano tre piani. 

«… dov’è Dazai?»

Non distante, scostandosi dall’abbraccio con la sorella sotto shock, Akutagawa riacquistò i contatti con la realtà e si mise in piedi barcollante, respirando in maniera così scoordinata da fare male a sentirlo.

«Da… Dazai-san!» tentò, prima di ritrovarsi a tossire violentemente. Questo non gli impedì di avvicinarsi ai resti della stanza, iniziando a spostare i detriti. «… Dazai-san!» 

Tra gravità e Rashoumon si misero a cercare in quel nuovo vuoto di rumori, con la notte alle spalle che si era imposta anche sul chiasso ai piedi del palazzo, mettendo un veto di silenzio sul trambusto dello scontro.

Il suono indistinto di qualcosa di vivo attirò l’attenzione del Dirigente e del Mastino. 

«Cristo… pure la morte ti schifa» commentò Chuuya con sollievo, individuando il punto dove Dazai stava tossendo e sollevando con più rapidità i pezzi di cemento e i calcinacci. 

«Ma non mi risparmia i lividi» bofonchiò l’ex detective. «Usa un po’ di delicatezza Lumaca, è tutto in bilico qui.»

Una volta fuori, Dazai fu il primo a sedersi per riprendere fiato e massaggiarsi con cautela dove aveva sbattuto, constatando i danni. Il rosso gli tastò la testa dove vide i capelli umidi di sangue e il partner fece una smorfia, ritraendosi. Chuuya si incupì.

«Non fare quella faccia» lo riprese il partner, tentando di spolverarsi il completo neto. «Come se non mi avessi mai disseppellito vivo. Sto meglio di altre volte. Non mi sono rotto nulla.»

«Devi-»

Dazai lo interruppe poggiandogli un dito sulle labbra. 

«Odasaku ha preso l’ascensore. Dobbiamo salire.»

Nessuno parlò, come se sertire quel nome rimarcasse nell’orgoglio la sconfitta totale. 

«Merda» sbottò Chuuya, recuperando un po’ di verve, per quanto sbiadita, passandosi una mano tra i capelli con frustrazione. «In cinque non siamo riusciti a fermarlo, cazzo!» 

L’ex detective non vi diede peso, frugandosi in tasca ma uscendone a mani vuote con un’altra smorfia. 

«Ho perso la trasmittente. Non possiamo avvertire Mori-san.» 

Il rosso si mosse nel piccolo spazio circoscritto che era rimasto agibile del sessantesimo piano. Da un lato c’era il baratro, dall’altro solo distruzione. 

«Devo raggiungere il Boss» sancì e provò anche a muoversi verso il bordo per prendere la via più veloce, ma Dazai lo afferrò per il polso. 

«Due piani più su c’è quel vecchio montacarichi del settore b. È lento, ma possiamo prendere quello fino all'ascensore privato d’emergenza. Andiamo?»

Per quanto l’avesse posta come una proposta, Chuuya fu conscio di non potergli dire di no. Tuttavia, restò combattuto. In volo ci avrebbe messo un attimo, ma avrebbe significato lasciare indietro Dazai. L’equilibrio tra di loro era più stabile come non lo era mai stato per sette anni, eppure le decisioni sembravano ancora più macchiate, più stringenti. Lasciare lo Sgombro indietro significava renderlo imprevedibile, perché avrebbe fatto di tutto per arrivare da Odasaku e una parte di lui premeva per tenerlo d’occhio. 

Posso fidarmi di te, Dazai?

Alla fine lo farai comunque.

«Mori-san e Fukuzawa-san resisteranno finché non arriveremo» lo rassicurò Dazai, leggendogli i dubbi in viso. Accennò qualcosa come un ghigno, stringendosi nelle spalle. «Sono un Duo Nero anche loro, con qualche anno di più.»

Chuuya non ebbe spazio per dubitarne, non con la cognizione sempre più pressante che si stessero avvicinando al climax della notte. 

«Direi che puoi spostare questi grossi blocchi crollati e improvvisare una scala, sempre che il peso non ci faccia sprofondare» stava intanto riflettendo l’ex detective a voce alta, constatando la situazione e come poter arrivare al piano superiore. 

«D-Dazai-san…»

Akutagawa ripalesò la propria presenza, rimettendosi in piedi nonostante l’equilibrio non sembrasse più appartenergli. 

«Posso… aiutare…»

L’occhiata che gli rivolse l’ex detective fu indecifrabile. Sospirò piano. 

«Voi tre non farete nulla se non scendere al piano terra, cercare Hirotsu e l’unità medica. Questo è un ordine.» 

«… lo avevo… fermato…»

Il Mastino fece un passo malfermo sui piedi per avvicinarsi, ma Chuuya fu meno accondiscendente. Lo afferrò per il colletto, sfogando un briciolo della propria frustrazione. 

«Scendi. Questo è un ordine» ribadì con una rabbia del tutto personale. «Disubbidisci di nuovo, fa qualche cazzata, e ti spezzo le gambe. E questo vale anche per voi incoscienti. Faremo i conti domani.»

Sia Higuchi sia Gin incassarono in silenzio, abbassando il capo a dimostrazione di aver recepito il messaggio. 



 

«Sai, credo che sotto sotto tu stia sviluppando sul serio dell’autorità paterna» motteggiò Dazai quando Chuuya fu di nuovo al suo fianco e furono rimasti soli. 

«Non iniziare con le cazzate, Sgombro. Che diavolo avrei dovuto dirgli!?» 

L’ex detective si concesse una risata. 

«La tua preoccupazione è lampante, ma maldestra nei modi. Mi ricordi tanto Kunikida-kun.» 

«Vuoi salire o vuoi che ti butti di sotto?» ringhiò la Lumaca. «E non paragonarmi a quel palo in culo.» 

«Un giorno affronteremo anche questo discorso della gelosia da partner» cincischiò l’ex detective, evitando una breve rappresaglia e sedendosi su un blocco di cemento. «Prego. Visto che lo hai detto, vorrei salire. Mettiti al lavoro che non abbiamo tutta la notte!»

Chuuya, ancora una volta, maledì ogni scelta di vita dei suoi ultimi sette anni. 





 

To be continued






 

Prossimo capitoloYou can only trust him

 

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Capitolo 24
*** You can only trust him ***


Capitolo 23

You can only trust him





 

憧れ、抗い、生きる理由探してんだ 
欲した答はもう昨日には無いだろう 
新しい頁は迷う果ての自分自身が 
綴ってく存在理由(レゾンデートル)

 

Desiderando, resistendo, sto cercando una ragione per vivere
La risposta che voglio non si troverà più nel passato, giusto?
Questa nuovissima pagina è la mia ragione d’essere
Che io stesso, non più perduto, comporrò

[Reason Living - SCREEN mode]






 

⎯ Stiamo per raggiungervi.

Mori e Fukuzawa osservarono la trasmittente mentre il segnale tornava statico dopo il messaggio di Dazai. Il Boss riattivò la comunicazione e si portò l’apparecchio alle labbra. 

«È davvero un sollievo sapere che stiate bene» disse leggero, affettato, con un’alzata di spalle all’occhiata affilata che il Presidente dell’Agenzia gli rivolse. 

La risposta arrivò immediata, nel medesimo tono e cadenza. 

⎯ Stiamo per raggiungervi.

«È una trappola.»

Fukuzawa fu astioso nel dirlo, nel ricordare lo stesso trucco usato per depistarli e rapire Yosano. Il sorriso di Mori, al contrario, fu accomodante, con una sfumatura quasi divertita.

«Non ho ancora avuto il piacere di approfondire la conoscenza dell’amichetto russo di Dazai-kun, salvo quel breve e spiacevole episodio in mezzo alla strada dove mi ha pugnalato qualche tempo fa.»

Abbandonò la trasmittente sul tavolo, trovandola inutile. 

«Ha un senso dell’umorismo molto antipatico. Tentare lo stesso inganno due volte solo per aumentare la tensione…» Sospirò, recuperando da un cassetto un elastico per capelli e raccogliendoci la maggior parte delle ciocche. «Ormai ho una certa età e questi giochetti non mi divertono più» concluse, sgranchendosi collo e spalle. 

L’attesa stava scorrendo inesorabile, ma questo non la rese meno tediosa. Il trucchetto con la trasmittente portava con sé scenari con poche alternative, la maggior parte delle quali non li mettevano in una buona posizione. 

Fukuzawa non diede segni di averlo ascoltato. Il suo sguardo restò fisso sulla porta di ingresso collegata alle scale e all’ufficio di Mori. L’ambiente non era spazioso per gli standard della Port Mafia, poco più di uno stanzone corredato di un piccolo bagno. Era arredato come un secondo ufficio non dissimile dal principale, senza restituire l’idea di una panic room completamente isolata, autonoma e costruita per quel genere di situazioni di assedio. 

Il Boss della Port Mafia si portò al suo fianco con uno sguardo incuriosito. 

«Qualcosa la turba, Fukuzawa-dono? Non era così serio per un attentato alla mia vita neanche dodici anni fa. Invecchiare le fa perdere fiducia nelle proprie capacità?»

Lo sguardo con cui il Presidente lo ricambiò non perse il proprio taglio severo e per nulla divertito. Tuttavia, allentò la tensione, buttando fuori l’aria in uno sbuffo dal naso. 

«Perché ci siamo chiusi in una trappola per topi?»

La perplessità che fiorì sul volto di Mori divenne presto una risata, anche abbastanza gustosa, portandolo ad appoggiare una mano sulla spalla della guardia del corpo per bilanciarsi. 

«Una metafora interessante per un amante dei gatti. Si sente in trappola, Fukuzawa-dono?»

Il modo in cui la cadenza calcava le sillabe del nome diede a intendere quanto Mori trovasse lecito, al limite del piacevole, nominarlo. Per un momento, il Presidente ebbe a balenargli in mente il pensiero di quanto intensamente Dazai e il Boss si somigliassero nei modi di fare. 

«Dazai ha in mente qualcosa» proseguì il Ginrou e quel pensiero lo riportò alla realtà. A come quei due demoni avessero sempre in mente qualcosa che, a chi li circondava, fosse precluso conoscere. 

Mori si prese il mento tra le dita, facendosi meditabondo. 

«Dazai ha sicuramente in mente qualcosa» concordò, mentre con la mano libera estraeva un bisturi dal cappotto. Lo esaminò, giocando con l’inclinazione per rubare i bagliori della luce soffusa della stanza. «Dalla prima volta che l’ho visto ho capito che non sarei stato in grado di mettergli un guinzaglio al collo o cogliere il suo essere per intero.» 

Ricordi balenarono nel fondo dei suoi occhi, ma nessuno spettatore fu invitato a venirne a conoscenza. 

«Se siamo in questa situazione» riprese, con garbo, ma con un una nota che suonava dissonante. «È in buona parte colpa mia, devo riconoscerlo.»

L’alzata di spalle con cui accompagnò le parole fu un mea culpa con cui si sciacquò la coscienza per proseguire. 

«Dazai rivuole Oda, questa è l’unica certezza su cui possiamo basare ogni mossa nei suoi confronti.» 

Sottilmente, il demone si intravide nelle parole e nel gesto secco con cui ruotò il bisturi, catturando ogni chiarore presente e illuminandone completamente la superficie. 

«Per quanto sia un desiderio semplice, porta con sé la complicatezza più ingestibile di tutte: i sentimenti.» 

Sospirò attingendo a tutta l’aria nei polmoni per rinnovarla e tornare a fissare il proprio ospite e collega in quella commedia dalle tinte tragiche. 

«Se c’è qualcosa con cui detesto avere a che fare è l’imprevedibilità e l’illogicità che i sentimenti si trascinano dietro. Ci sono già passato una volta con Dazai senza rendermene conto.» 

E ne rise tra sé, tracce di allegria sbiadite in un suono non diverso dal ticchettio che li separava dall’arrivo del Destino. 

«Dazai lo chiamò balsamo per l’anima e io non capii. Sono davvero sciocco, non trovi, Yukichi?»

L’essere chiamato per nome diede a Fukuzawa un nuovo parametro per misurare la dimensione della situazione. 

«Ne sei rimasto ferito?» 

Lo chiese prima di rendersene conto. Mori abbandonò il contatto visivo. 

«Trasmetto questa impressione?»

L’ex samurai non rispose, ma tra di loro aleggiò un Sì. 

«Quando Taneda-san mi presentò Dazai la prima volta, mi decantò tutte le ottime prospettive che una risorsa come lui avrebbe portato all’Agenzia.»

«Senz’altro un ottimo acquisto. Prima Yosano, poi Dazai…» 

C’era dell’antipatia nel tono di Mori, ma non fu una frecciatina delle sue. Avevano già abbandonato ogni formalismo e la distanza tra di loro era rimasta prettamente fisica. Fukuzawa ignorò quel capriccio.

«Più lo guardavo più vedevo te, Ougai.»

Il Presidente si aspettò di ricevere in risposta una risata di scherno. Il silenzio restò inalterato per quei secondi sufficienti a far sottintendere di aver fatto centro. 

«Dovrei prenderlo come un complimento?» 

Il tono faceto uscì manchevole di verve. L’unica barriera che restò, e che Fukuzawa rispettò, fu il modo in cui Mori continuò ostinatamente a dargli le spalle. Il Boss strinse uno dei propri polsi con le dita dell’altra mano, in una rigida posizione di riposo militare. 

«Mi sono occupato di indirizzare Dazai verso alcune letture propedeutiche alla sua formazione strategica, ma non ho mai dovuto calcare la mano nell’insegnargli qualcosa. O meglio, quello che avrei voluto insegnargli lui l’ha rifiutato o ha trovato un modo alternativo per impararlo.» 

«Chi volevi che fosse per te?» 

La spada che portava al fianco non era l’unica arma affilata in possesso del Presidente dell’Agenzia. Fu un pensiero che Mori non esternò, anche se lo avrebbe aiutato a smontare quell’atmosfera densa, una cappa soffocante quanto una coperta sul viso che perdeva la sua funzione di conforto. 

«Mi chiedi chi e non cosa. Sei più subdolo di quel che sembri, Yukichi. Dimmi tu invece se l’impressione di Dazai che hai avuto all’inizio è cambiata» svicolò Mori, anche se suonò a metà tra una domanda e un’affermazione esacerbata. «Chi è tornato qui alla Port Mafia non era il diciottenne che ho lasciato andare. Qualcuno dei tuoi è riuscito ad avere un’influenza particolare su di lui? Magari quel Quattrocchi tanto preciso?» 

Fukuzawa non ribatté a quella sequela di domande con cui il Boss della Port Mafia seppellì la sua. Apprezzò poco il riferimento a Kunikida, ma lo archiviò per quel che era, una provocazione non dissimile da un sasso lanciato troppo vicino. Tuttavia, quel cambio di discorso gliene riportò alla mente un altro. 

Lo sforzo di cambiare la strada in cui ci siamo ritrovati, o siamo stati costretti, non ha davvero alcun peso? 

Dazai era stato sincero nel porre quella domanda, quanto lo era stato lui nel tacere i propri dubbi e non sapere cosa rispondergli. Perché non c’era una risposta logica ai sentimenti, come aveva detto il Boss stesso. 

«Oda è il motivo di Dazai. Di tutto. È troppo importante per lui.» 

Mori sbuffò, stringendosi il ponte del naso con stanchezza. 

«Siamo tornati al punto di partenza senza risolvere nulla.»

A mettere un fermo alla discussione fu lo sfavillare delle luci e il loro conseguente spegnimento. Ancora una volta, Mori alzò il viso al soffitto con espressione perplessa. 

«Questa stanza non ha un sistema autonomo?» indagò Fukuzawa, stringendo il fodero della spada e facendo tremolare appena la lama al suo interno. 

«Pare che Oda conosca casa mia meglio di me.»

Il tono del Boss rasentò lo spazientito, ma non trasparì alcuna reale preoccupazione. Sollevò un palmo in aria e, in un sussurro che suonò come un invito, pronunciò Vita Sexualis, materializzando Elise nel suo completo da infermiera. Il bagliore della bimba-abilità gettò un chiarore ultraterreno sul buio dell’ambiente limitrofo, permettendo a entrambi di scambiarsi un’occhiata di intesa.

Muovendosi con calma, senza perdere d’occhio la situazione, il Boss si portò vicino alla scrivania e accese due piccoli globi a batteria. Il perimetro della stanza fu appena rischiarato, delineando i confini in cui muoversi. Fukuzawa non si mosse dal fissare la porta da cui erano entrati, ma non gli sfuggì come il medicastro stesse tenendo d’occhio un altro punto. 

«Quanti sono gli ingressi a questa stanza?»

«Uno dal mio ufficio e un secondo da un ascensore privato.»

«E quanti lo sanno?»

«Solo i Dirigenti. Non si trova in alcuna planimetria ufficiale o non ufficiale.»

Una risatina riecheggiò tra le mura, tintinnante come le campanelle di una trappola infantile. 

«Qualcuno ha fatto la spia» cantilenò Elise, fluttuando nell’aria e stringendo lo sguardo con malizia. «C’è un traditore tra di noi

«Via, Via, Elise-chan, non è il momento» la ammonì Mori. 

Il silenzio permeò snervante e l’attesa marcì nell’aria, mettendo alla prova i nervi tesi a concentrarsi. 

Quando avvertirono il primo rumore fuori posto, che divenne subito ripetitivo, entrambi puntarono l’attenzione al secondo ingresso. 

Chiedere cosa fosse sarebbe stata la domanda più facile, ma Fukuzawa, memore di momenti simili appartenenti al passato e come gli si fossero ritorti contro con ironia, la tenne per sé, limitandosi a guardare l’espressione pensosa del Boss. 

Quel suono, ormai costante, si sovrappose al ticchettio dell’orologio nella stanza.

«Elise-chan, ti dispiacerebbe andare a controllare?»

La bambina smise di fluttuare e si depositò a terra con grazia e leggerezza, senza perdere la propria violacea patina soprannaturale anche quando sbuffò e marciò indispettita verso la parete. 

«Voglio una torta dopo questo casino! È tutta colpa tua, Rintarou!»

«Certamente, mia cara.»

Elise si piantò davanti al muro fissando ogni centimetro con attenzione, finché non si alzò sulle punte per premere il punto esatto e aprire il passaggio. Le si schiuse davanti un corridoio fiocamente illuminato solo da alcune luci di cortesia. Dall’altro capo c’era l’ascensore e il rumore ritmico provenne indubbiamente da lì. La bambina assottigliò lo sguardo in cerca di trappole, ma il corridoio era stretto e lineare, rendendo impossibile nascondersi da qualche parte. 

«Elise-chan» la incoraggiò Mori. 

«Lo so, lo so!» sbuffò lei. Si slanciò in avanti, senza calpestare il pavimento e puntando direttamente al fondo. 

A sbattere ritmicamente era la porta dell’ascensore, nel tentativo di chiudersi. La luce interna era stata accecata ed Elise fu costretta a usare il proprio bagliore per capire cosa incastrasse il meccanismo. Allungando la mano vide un cilindro metallico. Una flash bang con la sicura ancora inserita. 

Fece per raccoglierla, ma un altro particolare distolse e attirò la sua attenzione. All’interno della cabina vide che mancava buona parte del pavimento. Un buco circolare lo sfondava, irregolare ma dal taglio netto che lasciava intravedere lo strapiombo avvolto nell’oscurità del vano dell’ascensore. 

«Che diavolo…»

I dettagli trasudavano il sentore di una trappola, ma non c’era nessuno. Elise riguardò la granata accecante lasciata a bloccare le porte dell’ascensore e la prese in mano. Queste finalmente si chiusero, eppure non successe nulla. 

«Non capisco! Rintarou!» vociò la bambina, voltandosi. «Non c’è-»

Sbarrò gli occhi e la vide. La trappola. 

Un sensore di movimento lampeggiante. Un timer quasi allo zero. Dell’esplosivo sulla cornice del passaggio. 

«Rintarou!»

Il tempo non bastò e l’esplosione coinvolse lo stretto corridoio e parte della panic room

Nello stesso istante, la porta dell’ingresso principale fu abbattuta. Sulla soglia, Oda alzò le pistole e iniziò a sparare. 



 

Fukuzawa non abbassò mai la guardia.

I suoi gesti furono invisibili. Tagliarono l’aria, il polverone dell’esplosione, i proiettili. 

Oda si preparò a riceverlo. In un gesto preciso sostituì una delle pistole con un pugnale militare. Le lame cozzarono con un rumore spiacevole e la forza di entrambi si misurò e si eguagliò, impedendo all’uno e all’altro di avanzare. 

«Sei stato cattivo!» strillò Elise, apparendo a mezz’aria dalla polvere che si stava depositando, armata della sua siringa gigante. 

Una sequenza di visioni si unirono tra loro, formando un flusso continuo in cui Oda tenne testa all’ex samurai e all’abilità bambina. Nessuno dei due ebbe la meglio, ma neanche il Fantasma Rosso riuscì ad avanzare. Elise stava compensando qualsiasi fianco scoperto del Presidente dell’Agenzia e viceversa, come se entrambi avessero provato una sequenza di passi in vista della battaglia. 

A Oda non sfuggì un terzo sguardo che lo fissava, in disparte e a distanza. Quello che stava orchestrando i movimenti della bambina. Il suo obiettivo. Mori Ougai

Per spezzare l’impasse, il giustiziere si concentrò sul Ginrou, lasciando un fianco scoperto per qualche secondo. Quanto bastò a Elise e alla punta della sua siringa per tentare di trapassarlo. 

Il braccio prostetico di Oda si liberò della pistola, lanciandola in aria, e afferrò l’ago fuori misura; nello stesso momento, caricò il fendente del pugnale verso l’alto, sbilanciando Fukuzawa. 

Con un movimento che richiese un grosso quantitativo di forza e velocità, il Fantasma Rosso trascinò la siringa e la bambina contro lo spadaccino. Elise e la sua arma si dissolsero in scintille viola prima dell’impatto, ma ciò incrinò e offuscò la guardia del Presidente. 

La mano del giustiziere riacchiappò la pistola in caduta e sparò. 

Fukuzawa non arretrò. Digrignò i denti, lasciandosi sfuggire un verso di dolore, ma non si fece intimidire. Dei cinque colpi che gli erano stati rivolti, due erano andati a segno nella gamba. 

Degli spari diversi, provenienti dalle spalle del Presidente - e che gli sfiorarono i capelli - costrinsero l’ex tutto-fare a retrocedere e trovare riparo dietro uno dei divani della sala. 

«Hai volutamente rischiato, anche vedendo il mio attacco» constatò Mori, senza abbassare la propria arma puntata contro la spalliera del divano. Adocchiò gli indumenti del Presidente dell’Agenzia scurirsi per il sangue, ma tornò a concentrarsi sul riparo dietro cui si trovava il loro avversario. 

«Hai l’ordine di uccidermi, Oda-kun?»

Non ci furono repliche. Nulla si mosse. 

«Oppure desideri uccidermi?» riformulò Mori. Nonostante l’occhiata intensa che gli scoccò l’altra metà del loro Duo Nero, il Boss perseverò. «Hai del risentimento nei miei confronti? Sarebbe comprensibile. Sono stato io a distruggerti la vita e a mandarti a morire. Sempre che sia ancora nei tuoi ricordi.»

Mori stava incarnando la parte dell’attore in un teatro desolato, impegnato a recitare una commedia solitaria. L’unico spettatore con diritto a esprimersi si ostinò al silenzio e questo portò Fukuzawa a stringere di nuovo l’elsa della spada, nel tentativo di leggere quell’assenza di suoni e risposte. Le provocazioni finirono consumate dal vuoto, avanzi di ossa scarnificate lasciate a polverizzarsi senza importanza. 

«O forse…» riprese ancora una volta il Boss, ma il rumore netto di un caricatore riallogato lo fece tacere. 

«La mia missione è abbattere il Re del Castello più forte.»

«Complimento apprezzabile, quanto infantile» commentò Mori con un sorrisetto. «La tua voce e la tua calma sono delle costanti gradevoli, Oda-kun. È un peccato che il tuo modo di pensare sia cambiato.»

Ci fu un sospiro costernato sul finire, mentre il medicastro si appoggiava alla scrivania dietro di sé, soppesando con lo sguardo la pistola che aveva in mano. 

«Non ti potrebbe interessare tornare nella Port Mafia? Con una promozione, ben chiaro. Risolveremmo molte incidenze spiacevoli e tu e Dazai-kun potreste ricominciare da dove siete stati interrotti. Che ne pensi?»

Consapevole di aver premuto il tasto giusto, Mori si mosse prima di Oda. Evitò i proiettili che l’ex tuttofare sparò scattando dal retro del divano. Fukuzawa riuscì a occuparsi dei successivi, non senza stringere i denti per il dolore. 

«Lo interpreto come un rifiuto» dedusse ironico il Boss, alzando la mano libera. «Elise-chan, prenditi cura di lui. In maniera gentile.» 

La bambina apparve alle spalle del Fantasma Rosso, armata di un bisturi fuori misura e di un sorriso folle. 

Nonostante la visione dell’imminente attacco, le parole di Mori avevano scavato nella mente di Oda, deconcentrandolo. Parò all’ultimo la lama incombente con la protesi, ma i due metalli non cozzarono. Al ghigno cattivo e vittorioso della bambina, la sua arma mutò di forma, trasformandosi in una cinghia di cuoio, di quelle usate per immobilizzare al letto i pazienti. 

«Preso!» trillò l’abilità, restando immobile anche quando il giustiziere le sparò. I proiettili crearono nella bambina dei buchi come in una stoffa strappata, ma si richiusero dopo qualche secondo. 

Oda non ebbe il tempo di riprovarci. Vide il Presidente dell’Agenzia tornare all’attacco e dovette scansarsi per evitare di venir tagliato insieme al divano. Elise gli impedì movimenti fluidi, strattonandolo e ridendo con la sua vocetta da bambina. Sebbene sapesse dove Fukuzawa lo avrebbe colpito, gli strattoni dell’abilità non gli resero facile sfuggire a tutti gli affondi. Nessuna fu una ferita grave, ma il sangue schizzò comunque sulle pareti, lasciando traccia di quella lotta disordinata.

Oda finì con lo sbattere contro uno dei muri ancora trascinato dalla bambina, puntellata sulla superficie verticale come il fantasma di un horror. In un ferreo tiro alla fune, l’ex tuttofare radunò ogni energia per resistere, vedendo di nuovo arrivare Fukuzawa. Continuò a opporre resistenza fino al momento opportuno. 

Con la coda dell’occhio adocchiò l’arrivo della lama e smise all’improvviso di contrastare Elise. Gli strattoni della ragazzina ebbero la meglio sul vuoto di forza e questo lo spostò bruscamente, permettendogli di eludere il fendente all’ultimo. La katana del Presidente incontrò il muro, e, allo stesso tempo, la bambina perse mordente sulla cinghia. 

Un secondo di tempo per ricalibrarsi e Oda respinse la guardia del corpo con il braccio meccanico, mentre la mano libera volava all’arsenale sulla propria schiena, prendendo una delle armi e puntandola contro la bambina. 

Non ci furono suoni netti al click del grilletto, eppure Elise strillò di dolore, prima di scoppiare in una nuvola di scintille. 

Un gemito inaspettato incrinò l’attenzione di Fukuzawa, spingendolo a voltarsi. Il Boss della Port Mafia era piegato in avanti con le mani alla testa. 

«… sto bene» ansò Mori, ma non aiutò. 

Oda approfittò del vantaggio e si aprì un’opportunità con la protesi. In un movimento a ventaglio allontanò la lama della katana e alzò la pistola verso la faccia del Presidente. 

Schivare il colpo sarebbe stato impossibile, se l’ex samurai, preso in contropiede, non avesse scaricato il peso sulla gamba ferita, cedendo di conseguenza. 

Le onde direzionali dell’arma non lo presero in pieno, ma il riverbero fu come l’esplosione di una bomba nei suoi timpani. Sfasarono il suo equilibrio, facendolo crollare contro il muro. La spada cadde in terra con un suono limpido e di sconfitta, calpestata dall’anfibio del Fantasma Rosso

Oda puntò l’arma per un secondo colpo mirato, ma all’ultimo saltò indietro. Tre bisturi si piantarono nel muro all’altezza della sua testa dove era un istante prima. 

«In piedi, Fukuzawa-dono. Una guardia del corpo morta è inutile» ingiunse Mori con tono marziale. Con la propria pistola in mano, tenne sotto tiro l’ex tuttofare anche quando avvertì dei lamenti da parte del Presidente dell’Agenzia. Esibì una smorfia e le sue dita si strinsero sia sull’impugnatura dell’arma che sui bisturi che aveva nell’altra. 

Oda non si lasciò intimorire. Angolò le braccia e tenne entrambi nel mirino. La pistola a risonanza era rivolta ancora una volta alla guardia del corpo che si stava rialzando a fatica. Il Boss della Port Mafia fissò invece la canna della nove millimetri, ma senza esprimere alcuna emozione.

«È una seccatura dover parlare con un volto coperto» sbuffò Mori come se si stesse rivolgendo a un sottoposto indisciplinato. «Ma sei stupefacente come un tempo, Oda-kun» aggiunse, senza ombra di complimenti nel tono. «Ti stai dimostrando un soldato capace e meticoloso, che tuttavia cammina nella tela di un ragno.» 

«Che cosa intendi?» 

Mori accolse compiaciuto quell’interessamento, ma senza tradire neanche un guizzo nello sguardo. Mentalmente, i pezzi sulla sua scacchiera si mossero ad accerchiare la Regina avversaria. 

«Ho una vaga idea di quelli che potrebbero essere stati i tuoi ultimi quattro anni. È sufficiente osservare come ti muovi, le tue tecniche e le tattiche. Scuola dell’est Europa, per buona parte Russa, con poche sbavature che immagino dipendano dal tuo retaggio precedente e che il tuo nuovo compagno non sembra si sia preoccupato di correggere.»

La voce di Mori si ammorbidì insieme alla sua espressione, con una pietà famelica. 

«Hanno metodi interessanti da quelle parti, ma troppo brutali. Manipolare la psiche di un uomo è vantaggioso, ma è anche un’arma a doppio taglio. I ricordi non svaniscono mai del tutto. Al contrario della fedeltà.»

Non esistettero reazioni da parte di Oda, non con la maschera ad appiattire qualsiasi sentimento. Nulla in lui tremò, né si irrigidì. Le pistole restarono fisse sugli obiettivi. 

«Se questo è tutto quello che hai da dire posso farne a meno.»

«Il ragno…» riprese Mori, impedendo agli indici di premere i rispettivi grilletti. «Il ragno che da quattro anni ti tiene nella sua rete è Fyodor Dostoevskij. Accetti così di buon grado di essere un suo pupazzo? Ho una discreta esperienza in materia di suicidi, ma nulla è più avvilente di vedere un uomo combattere una causa che alla fine lo ucciderà.»

«La causa» ripeté invece Odasaku, alzando solo un po’ il tono, ma senza infonderci nulla. «È avere un mondo privo di peccatori.»

Qualsiasi sfumatura, derisoria o condiscendente, si asciugò dal viso del Boss della Port Mafia. Guardò il proprio nemico con l’occhio clinico del medico che aveva reciso la gola di un folle per ottenere un trono e per un piano più grande di sé. 

«Sei quindi concorde con l’obiettivo di Dostoevskij?»

La sua serietà avrebbe potuto scottare qualsiasi proprio sottoposto, dal più inesperto al più vicino in grado. Oda non lo era più e gli tenne testa. Il suo silenzio fu denso e suonò molto simile a un

«Capisco.»

Mori abbassò la pistola al fianco, guadagnandosi un’occhiata allarmata da parte di Fukuzawa. 

«Questo addolorerà molto Dazai, temo. Per quanto sia la riprova che sarai tu la causa per cui morirà» aggiunse con qualcosa di molto simile a un sussurro intimo, colmo di disappunto. Tornò a guardare le due fessure dietro cui si nascondevano gli occhi di Oda. 

«Un mondo privo di peccatori è una pagina bianca senza alcuna goccia di inchiostro. Il Verbo stesso sarebbe peccato.»

Sul suo viso si aprì un sorrisetto di compatimento che scivolò presto nel sarcasmo. 

«E poi saremmo noi i demoni

La linea delle sue labbra svanì nell’oscurità insieme alla stanza. 

Sulla scrivania, le due lampade autonome che rischiaravano l’ambiente si spensero all’improvviso. Un buio denso, quasi morbido, riempì ogni angolo, senza lasciare alcun punto di riferimento. 

Oda sparò con entrambe le pistole, ma non seguì alcun gemito. Un rumore attirò la sua attenzione e poi un altro, nella direzione opposta. Nessuna visione gli venne incontro, nessun sentore di pericolo. Seguirono suoni attutiti o blandi, come gli scricchiolii notturni di una casa, ma anche a puntare l’arma verso le presunte fonti, Flawless non si destò. 

Poi sobbalzò appena per una voce. 

«Odasaku non ha altri motivi. Ciò che si vede di lui è ciò che è.»

Un bagliore rischiarò fiocamente, come un segreto da custodire, la zona alle spalle del giustiziere. La mano che impugnava la pistola si mosse di propria volontà, ma quando si fermò a pochi centimetri dalla fronte di chi aveva parlato, anche qualcosa nella gola del Fantasma Rosso si bloccò. 

Dazai era davanti a lui. 

Un Dazai più giovane, vestito di scuro salvo per due lembi di camicia bianca e per le bende su occhi, gola e polsi, che spuntavano a dargli una parvenza di umanità. Era il Demone Prodigio al massimo del suo apice, in una luce ultraterrena che, tuttavia, sembrò passare in secondo piano agli occhi dell’ex tuttofare. 

La proiezione consumò un piccolo sorriso, quasi ingenuo e fuori luogo, eppure autentico, prima di parlare di nuovo.

«Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi, ma una volta che ci riesci, Odasaku è come un balsamo per l’anima

Il Fantasma Rosso rimase intrappolato dalla visione reale e ignorò quella di Flawless

Fissò l’occhio non bendato di quel Dazai un po’ più basso, acerbo rispetto a quello incontrato al sessantesimo piano, eppure sempre lui, e non evitò la pugnalata che gli arrivò alle spalle. Emise appena un gemito, serrando i denti, malfermo sulle gambe. 

La proiezione si dissolse come il sogno che era, restituendo l’aspetto a Elise e al suo sguardo di compatimento. 

«Sei sleale, Rintarou.»

«In amore e in guerra, mia cara. La storia più vecchia del mondo. Ti dispiace andare a riaccendere le luci sulla scrivania?»

Mori lasciò andare la mano con cui ancora stringeva il manico del bisturi quando il giustiziere perse definitivamente l’equilibrio, accasciandosi contro il muro. Il Boss recuperò la propria pistola e con indolenza, al ritorno della luce, gliela puntò alla testa, avvicinandosi senza timore di ripercussioni. 

«Ho cosparso la lama di una soluzione a base di vecuronio, un rilassante muscolare, con l’aggiunta di qualche altra sostanza utile a velocizzare il processo e a scioglierti la lingua.»

Fukuzawa si avvicinò zoppicando appena e con una scia di sangue rappreso che colava dall’orecchio colpito di striscio dalla pistola a risonanza. Mori constatò prima lo stato della propria guardia del corpo, poi lo passò sull’arma in terra. 

«Hai dei giocattoli molto interessanti e non sono ancora riuscito a scoprire da dove provengano. È molto frustrante» cincischiò il Boss, per poi tornare a concentrarsi sul suo ospite. «Allora, da quale argomento vogliamo iniziare?»

«Che cosa…» La voce di Oda era strascicata, flebile. Aveva perso sia la propria fermezza che il proprio solito equilibrio. «Che cos’era quello…?»

Il Boss lo studiò per qualche secondo, inclinando la testa. 

«La forma di un rimorso» replicò con un’alzata di spalle per minimizzare il peso delle parole. «Più semplicemente, un mio ricordo. Dazai mi raccontò alcune cose su di te prima dell’incidente con la Mimic. Un tempismo perfetto, sebbene non gli prestai l’adeguata attenzione. Sono fortunato ad avere una memoria che funziona molto bene» spiegò, per poi abbandonare il tono leggero. «Per quanto tu possa ignorarlo, quello che hai visto è il tuo passato.» 

«Mimic…» ripeté Oda, per poi aggiungere altro, ma di incomprensibile. 

«Che sta dicendo?» domandò Fukuzawa. Si era chinato a raccogliere la pistola a risonanza per osservarla più da vicino, ma il mormorio aveva vinto sulla curiosità. 

«Presumo sia russo. Non rientra tra le mie conoscenze» sbuffò Mori, muovendo il collo per sciogliere un po’ della tensione accumulata. «Chuuya e Dazai dovrebbero essere già qui, ma presumo che il nostro ospite gli abbia reso complicato l’arrivo. C’è una cella che lo aspetta e a me un’intera giornata di riposo.»

Il Presidente dell’Agenzia ignorò l’ultima parte, corrugando la fronte. 

«Pensate di farlo rinsavire tenendolo prigioniero?»

«È l’accordo alla base del ritorno di Dazai, ma non nutro particolari risvolti positivi a riguardo.» 

«Dazai

Oda lo mormorò più fermamente, riattirando l’attenzione. 

«Dazai Osamu è la spia della Port Mafia» e il suo tono tornò meccanico, impostato, per quanto indebolito. 

«È questo che ti ha raccontato Dostoevskij?»

Non c’era più alcuna nota accomodante nella voce del Boss della Port Mafia, quasi più un’inflessione rigida e militare. La testa dell’ex tuttofare ciondolò. 

«Avrei dovuto ucciderlo dopo che la mia finta tomba è stata scoperchiata… Lui e Sakaguchi Ango, l’altra spia…»

Quello di Oda suonò come un copione imparato a memoria. Tentò di muoversi, senza ottenere risultati. 

Mori sembrò colto da un’ispirazione a quelle parole. Senza perdere di mira l’obiettivo con la pistola, e sotto l’occhio vigile di Fukuzawa, si chinò e tolse la maschera cremisi al Fantasma Rosso

Gli occhi annebbiati e astiosi di Oda incrociarono quelli vigili del Boss, sebbene dolciastri nel porsi mentre affondavano nello sguardo del giustiziere come fosse una porta spalancata. Mori gli dedicò persino un sorriso, frugandogli dentro. 

«Quattro anni e i tuoi lineamenti si sono ulteriormente definiti, oltre a essersi scheggiati» e le sue dita gli sfiorarono una delle cicatrici sul volto. «Ma sei il tipo di uomo a cui certe ferite donano.» 

Il medicastro si rimise dritto in piedi. 

«Torniamo a noi. Ti è stato ordinato di uccidere le uniche due persone in grado di restituirti il tuo passato.» Una smorfia gli piegò le labbra, come se avesse appena visto sulla scacchiera una mossa infantile e priva di eleganza. «Al tuo compagno russo deve piacere il dramma, ma qualcosa è cambiato nel piano. Perché ora non puoi uccidere Dazai?»

Oda parve fare appello alle proprie forze per tenere la bocca chiusa, arrivando a picchiare la testa contro il muro dietro di sé, sebbene con pochissima forza. Il veleno serpeggiò intorno ai suoi muscoli come ai tuoi pensieri, corrodendo l’autocontrollo. 

«Il contratto è cambiato… il pagamento. La Testa vuole Dazai Osamu vivo insieme alla donna.»

«La donna è Yosano?» scattò Fukuzawa, risvegliato da una rabbia che si riscaldò molto velocemente, facendogli ignorare qualsiasi tipo di dolore. «Dove la tenete!?»

Il Boss lo placò appoggiandogli la mano libera sul braccio. 

«Adagio, Fukuzawa-dono. E con ordine» lo redarguì gentilmente, senza malizia, tornando al loro ospite. «Chi o cos’è la Testa?» 

«Sarà il suo mandante?» intervenne di nuovo la guardia del corpo rivolto al medicastro, cercando risposte in occhi che non lo stavano guardando, ma restituendo una concentrazione che stava passando al vaglio i dettagli. 

«Qualcuno al di sopra di Dostoevskij senza dubbio. C’è del raziocinio lì dove quel ratto avrebbe preferito eliminare gli ostacoli scomodi, come Dazai. Riguardo quest’ultimo…»

Mori soppesò le idee, senza preoccuparsi di prendersi del tempo. Il bandolo della matassa era celato lì da qualche parte. 

«Dazai è una garanzia sul Libro» rifletté a voce alta. «La sua abilità è l’antidoto al veleno, probabilmente. I poteri di quelle pagine sono tremendamente fecondi e nefasti, tuttavia, avere No Longer Human promette la possibilità di un piano b. Mentre avere il controllo dell’abilità di Akiko-kun mette nella posizione di poter schioccare le dita dinanzi alla morte, facendosene beffe. Chiunque sia… o qualsiasi cosa sia La Testa ha fatto i propri conti.»

«Dazai…» ripeté Oda, chinando la testa con pesantezza, le dita intorpidite e ridotte a brevi scatti. «Dazai Osamu… Non doveva mettersi in mezzo…»

«Ascoltami» riprese Mori, cercando la sua attenzione. «Ricordi di essere morto tra le braccia di Dazai?»  

L’ex tuttofare si irrigidì. Alzò lo sguardo e fissò il Boss oltre la canna della pistola. C’era ancora un odio adamantino nel suo sguardo, che tuttavia sfumava nella necessità recondita di sapere. Irrigidì la mascella e il medicastro lo prese come un segno per continuare. 

«Quelle parole che hai sentito prima erano autentiche. Che Dazai lo ammetta o meno, in te ha trovato una ragione per vivere. Tu riempivi il suo vuoto. Hai continuato a farlo anche dopo che per lui, per chiunque ti conoscesse, sei morto.»

«Il suo vuoto…» 

Gli occhi di Oda vagarono alla ricerca di qualcosa che non era fisico e non era lì. 

«Le persone…» sussurrò confusamente, teso a trovare il seguito di quella frase che aveva il suono della sua voce, ma che si perse nelle stanze buie della sua mente. Perfino quel bar dall’odore dolciastro di whiskey restò spento e vuoto. 

«Questo potrebbe essere un buon momento per iniziare a ricordare» lo incoraggiò Mori, senza spenderci davvero del sentimento reale se non un mellifluo suggerimento tattico. «Devono averti addestrato a non dipendere dalle risposte, ma io ne ho di interessanti. Tutti i fascicoli su di te sono nel mio ufficio. E avrai la possibilità di parlare con Dazai stesso, a breve.»

«Dazai… Dazai Osamu…» 

Oda diede l’impressione di non aver ancora del tutto raggiunto un verdetto su quel nome, ma le sue parole si fecero più ferme, come il tremore del suo corpo, quando la voce di Dostoevskij gli tese la mano in quell’oscurità. 

Il pensiero di Dazai Osamu ti tormenta?

«Dazai Osamu è una spia» ripeté ancora una volta come un automa. 

«E Mori Ougai è un peccatore che non può essere redento.»



 

Avevano abbassato la guardia e il Fantasma Rosso approfittò di quella falla. 

Successe in maniera veloce e finì come sarebbe dovuta andare dall’inizio, come i cerchi di sangue lasciati nelle settimane precedenti avevano suggerito.



 

Oda si mosse invisibile per una persona con del paralizzante in circolo. Falciò sia Mori sia Fukuzawa, i cui riflessi erano ancora rallentati. Il Boss sparò, ma Flawless fece il suo dovere mostrando al giustiziere ciò di cui aveva bisogno.

Il polso di Mori finì tra le fauci del braccio prostetico. Trattenne la pistola finché le dita meccaniche non si chiusero a morsa e le ossa del polso si incrinarono. 

«… Elise-»

L’ex tuttofare lo lasciò andare di colpo e raccolse la pistola a risonanza mentre l’ennesima visione affiorava nella sua mente. Il Presidente dell’Agenzia lo avrebbe trafitto al fianco, mentre l’abilità bambina avrebbe attaccato alle spalle. Prima che ci riuscissero, Oda sparò a entrambi i suoi proiettili invisibili. 

L’eco invase la panic room, assorbito poi dalla penombra. 

Solo quando Fukuzawa e Mori furono entrambi a terra, in preda degli spasmi, si concesse un momento per riprendere fiato e appoggiarsi con una spalla al muro. Estrasse il bisturi dalla ferita e lo strinse nel pugno. 

«Hai una resistenza invidiabile…» biascicò il Boss, tenendosi ancora il viso con la mano sana, mentre l’eco del colpo che aveva dissolto la sua abilità rimbombava nella sua mente pungendolo come aghi. «… E seccante.» 

Si mise a sedere a fatica, non senza gemiti per il polso fratturato. Continuò a tenere l’attenzione fissa su Oda, nonostante sentisse l’ex samurai alle proprie spalle contorcersi per il dolore. 

«Quell’errore di calcolo non sembra abbia intenzione di farmela scontare…» celiò Mori, osservando il giustiziere avvicinarsi. Il cremisi della sua tuta non era che un abbellimento all’aura che aleggiava intorno a lui e che, più che mai in quel momento, possedeva la poesia nera della morte. 

Riposta la pistola a risonanza, Oda si chinò e raccolse la propria maschera, appendendola momentaneamente alla cintura. Afferrò quindi il Boss per la camicia e lo costrinse in piedi, anche se l’intero peso dell’uomo fu retto dal solo braccio meccanico. 

«Non ho alcun ricordo di come sono morto» mormorò fissando Mori negli occhi con una rabbia gelida, la prima reale emozione volontaria che lasciò le sue labbra. Il pugno in cui aveva il bisturi scattò una prima volta, piantandosi nello stomaco del medicastro. Seguirono in sequenza, in punti diversi, altre pugnalate. 

«Mi hanno raccontato cos’è successo. So che è stata colpa tua.»

Un altro affondo. Mori gemette e il sangue gli rigò il lato della bocca. 

«So che ho perso quello che avevo per i tuoi scopi, ma non ho memoria di niente.»

La lama tagliò stoffa e carne altre tre, quattro, cinque volte. 

«Non ti odio, Boss della Port Mafia. Sei solo lavoro.»

Un ultimo colpo e Oda lasciò il bisturi dov’era, nell’addome tremante. 

«… ma sei un lavoro irritante e pieno di chiacchiere, come Dazai Osamu.»

Le dita metalliche sciolsero la presa e Mori cadde a terra. 



 

* * *



 

«Boss!»

Dazai e Chuuya sbucarono dal secondo ingresso della panic room. C’era una sorta di filtro surreale apposto alla scena: la luce calda e calmante delle lampade sulla scrivania rischiarava imparziale sia la zona della sala intatta, sia quella dove si era consumata la lotta. 

Una parte del divano divelto giaceva rovesciato in terra, con fori di proiettile e imbottitura sparsa in giro, mentre l’altra parte, illesa, rimaneva appoggiata in obliquo, come se si fosse a malapena accorta di quello che era successo. 

Mori e Fukuzawa erano inerti. 

Li raggiunsero in brevi falcate, calpestandone il sangue. Dazai fu il più pratico dei due. Si accovacciò con un ginocchio in terra e appoggiò indice e medio prima sulla gola di uno e poi dell’altro. Furono solo secondi, ma viaggiarono pesanti come l’aria ferruginosa che si respirava. 

«Sono vivi.»

Chuuya buttò fuori un respiro rabbioso insieme a una bestemmia carica di sollievo. 

«La trasmittente. Sulla scrivania» indicò nel mentre Dazai, afferrando uno dei cuscini del divano e sistemandolo con cautela sotto la testa del Boss. «Contatta Hirotsu per-»

«Ohi! A chiunque sia in ascolto!» gli parlò sopra il rosso, l’apparecchio già a un soffio dalla bocca. «Serve l’équipe della Kagemori nella panic room del Boss immediatamente! Protocollo Nero! Da adesso chi vi intralcia è da abbattere! Non mi importa come arriverete quassù, il Boss ha la priorità

Il fruscio statico che seguì non fu incoraggiante per la pazienza esaurita e frustrata del giovane Dirigente, ma una risposta non tardò troppo. 

⎯ Sono Hirotsu. Arriviamo

Chuuya avrebbe spaccato la trasmittente, o qualsiasi altra cosa, pur di alleviare la pressione che sentiva dentro. Se la fece invece scivolare in tasca per tornare dal partner. 

«Puoi fare qualcosa?» domandò, mentre il suo sguardo non vedeva altro che un rosso troppo scuro e senza fine. 

«L’ho visto medicare centinaia di ferite» replicò Dazai con della tensione fuori posto nella voce. Le sue dita non tremavano, anche se erano in difficoltà nel liberare il torace dai brandelli di stoffa zuppi di sangue. C’era un sorrisetto sghembo sulle sue labbra e non alzò mai gli occhi per incrociare quelli della Lumaca. «Ma se dovessi dirti cosa fare mentirei. Odiavo leggere i libri di medicina che mi propinava.»

«… il tuo metodo si limitava a girarti le bende sulle ferite finché non smettevano di sanguinare…»

I due sobbalzarono alla voce lieve di Mori. 

«Boss!» Chuuya gli si inginocchiò al fianco, entrando nel suo campo visivo. «La Kagemori sta arrivando. Resista!»

«… molto bene» tossì l’uomo e il tremore lo fece contorcere. «C’è… c’è un kit di primo soccorso… nell'armadio a muro…»

Il rosso lo recuperò in un battito di ciglia, passandolo allo Sgombro. 

«Fukuzawa-dono…?» domandò il Boss, reclinando la testa per vedere, ma distinse solo una macchina verde informe e immobile. 

«È svenuto. Dal sangue all’orecchio presumo sia-»

«Quell’arma a risonanza…» completò Mori a fatica, stringendo i denti. 

«Non si sforzi» lo placò subito Chuuya, teso dal non riuscire a fare nulla. Dazai gli mise in mano bruscamente alcuni pacchi di garze sterili. 

«Applicale sulle ferite» istruì, ma il partner esitò, rimbalzando gli occhi da un taglio all’altro. Si riebbe nel vedere Dazai procedere e prese a imitarlo. Le sue mani si tinsero presto di rosso. 

«Cazzo, cazzo, cazzo» ringhiò tra i denti, avendo l’attanagliante sensazione che fosse tutto inutile e processando un pensiero dietro l’altro, senza trovarne nessuno valido. «Credevo che Odasaku sparasse e basta» se ne uscì, imprecando alle parole che avevano preso corpo senza consenso. 

«… non ha gradito le mie chiacchiere» spiegò il Boss con l’ombra di un sorriso di compatimento e ironia. La sua espressione si incrinò di nuovo per il dolore quando afferrò Dazai per un braccio. I suoi occhi risultarono fermi, quasi lucidi. 

«È soltanto… un fantasma…»

L’ex detective si irrigidì e interruppe le medicazioni. 

«Ohi! Che cazzo-»

«Dov’è andato?» 

Dazai ignorò Chuuya e fissò solo il Boss come se il resto non esistesse. 

«… il tuo amichetto russo… ha fatto davvero un buon lavoro con la sua… mente…»

«Dov’è ora?» scandì Dazai. Mori gemette quando il Demone Prodigio premette le dita in una delle ferite, indifferenze al sangue che arrivò al polsino della giacca e alle bende. 

«Che cazzo fai!?» gli urlò Chuuya, afferrandolo e strattonandolo per la camicia, ma anche così non ottenne nulla, se non osservare lo sguardo vacuo e senza fondo del partner. 

«… è bene che i fantasmi scompaiano, Dazai…» esalò Mori con un filo di voce che sembrò arrampicarsi a fatica per uscirgli dalla gola. «… o continueranno a tormentare i vivi…»

Perse conoscenza. 

«Merda!»

Chuuya tentò di scuotere l’uomo da una spalla, ottenendo solo una testa ciondolante. Si abbassò con l’orecchio sulla sua bocca, osservandone il torace. Anche se di poco, si mosse. 

«Ohi, Sgombro! Non è il momento delle cazzate! Dobbiamo fare qualcosa!» 

E nel dirlo, riprese febbrilmente ad apporre le garze sulle ferite e fissarle con lo scotch medico. 

Dazai si stava guardando in giro. I suoi occhi si soffermarono su ogni oggetto, fuori posto o meno, integro o rotto, ricostruendone gli ultimi momenti. Dall’ascensore con il pavimento sfondato che li aveva rallentati, ai due ingressi esplosi, fino alle lampade innocue sulla scrivania e al bisturi ancora conficcato nell’addome di Mori. Comprese le dinamiche e si alzò. 

«Ohi!» 

Chuuya mollò tutto e gli fu dietro in un baleno, afferrandolo per il polso. 

«Tu non vai proprio da nessuna parte! La priorità è il Boss!» 

Non controllò il tono di voce. Gli argini si erano rotti e il rosso mescolò insieme le emozioni. Strinse le dita tanto da lasciare il segno, ma tremò con qualcosa che non era rabbia o urgenza. L’oscurità del primo ingresso davanti cui aveva bloccato Dazai gli apparve come la soglia ultima di quella notte. 

«Mori-san non morirà.»

La voce dell’ex detective fu così atona e flebile che il partner faticò a sintonizzarla.  

«E se morirà, non potremo farci nulla comunque.» 

Nonostante le parole per niente incoraggianti, Chuuya allentò la morsa delle dita, ma non lo lasciò.

«Stai andando da lui

Odasaku, Odasaku, Odasaku. 

Fu una constatazione intrisa di troppi sentimenti diversi e caotici. 

«Che cosa pensi di fare? E smettila di propinarmi piani e strategie. Tu vuoi-»

Dazai lo interruppe liberando il braccio con uno strappone minimo, non irruento. Non si avviò. Restò fermo, senza guardarsi indietro, né a Chuuya né a tutto il resto. 

«Odasaku è nell’ufficio di Mori-san.»

Addolcì il tono, come se tutto quello che si apprestava a fare fosse semplicemente raccontare una favola della buonanotte.

«Se intendi seguirmi, farai ciò che ti dico. Ti fiderai di me.» 

Non sarebbe stata l’ultima volta in cui Chuuya avrebbe dovuto sentirsi dire quella frase, quell’invito che aveva la consistenza di due manette e un bavaglio sulla bocca. Non sarebbe stata l’ultima volta finché lo avesse assecondato. 

«Dannazione…»

Quando Dazai si mosse, il rosso lo seguì. 





 

«Perché dovrebbe andare nell’ufficio del Boss?» 

La Lumaca diede voce al proprio scetticismo e tentò, al contempo, di sciogliere la rigidità generale che provava. Dazai era troppo focalizzato per essere d’aiuto, ma sentirlo parlare era meglio che ascoltare il silenzio dei suoi ragionamenti. 

«Presumo sia l’unica via di fuga rimasta.»

Chuuya non ci spese più dell’ascolto e passò alla successiva - e più urgente - domanda. 

«Cosa vuoi fare una volta che ce lo avremo davanti?» 

Tutte le opzioni che venivano in mente a lui collidevano con un’evoluzione totalmente disastrosa. Non vedeva soluzioni. Non vedeva più possibilità. 

«Ha combattuto contro tutta la prima linea della Port Mafia. Per quanto abbiano fatto di lui un super soldato, è stanco e ferito. Al contrario, tu hai ancora diversa energia, o sbaglio?»

«Seh…»

Cosa Dazai stesse realmente pensando non trasparì dalla sua risposta. Chuuya tentò di non ammetterlo, ma lo sentì scivolare via. 

«La prima cosa da fare sarà disarmarlo» riprese lo Sgombro, soffermandosi per un momento su un gradino per passare le dita su una macchia di sangue sul muro. I suoi occhi elaborarono, ma la sua bocca proseguì col discorso. «Dobbiamo togliere di mezzo la pistola a risonanza.»

«Giuro che la accartoccio…» borbottò Chuuya, per poi stranirsi quando Dazai non riprese a salire le scale. 

«Che hai?»

«Mori-san ha detto… “È bene che i fantasmi scompaiano”» ripeté, continuando a fissare il sangue sulle dita. «Mi sfugge qualcosa…» 

«Credi che-» ma Chuuya fu zittito da un palmo alto. 

Dazai tese l’orecchio e il rosso fece altrettanto. 

Anche se minimo, avvertirono la presenza di una persona da alcuni fruscii provenienti dall’ufficio di Mori. Facendo il meno rumore possibile, salirono gli ultimi gradini e sbirciarono l’ambiente buio. 

Trovare Oda fu la parte più semplice. 

In piedi in mezzo alla stanza, dava la schiena al passaggio. Non aveva armi in mano, perché era impegnato a scartabellare alcuni fogli. 

Dazai e Chuuya si scambiarono uno sguardo. 

Non pensare di attaccarlo.

Guarda che lo so! Cosa diavolo sono quei documenti? 

Tuttavia, l’ex detective aveva spostato la propria attenzione oltre il rosso. Qualcosa lo aveva attirato e si mosse senza distogliere gli occhi, rischiando di produrre qualche suono accidentale e farli scoprire. Chuuya poté solo imprecare mentalmente, senza perdere di vista il loro nemico. 

Intanto, nell'oscurità del corridoio, di fianco all’ingresso, qualcosa lampeggiava debolmente. Dazai riconobbe il pannello di accesso alla stanza, nonostante la luminosità fosse stata ridotta al minimo. 

Apertura porta.

Era il comando che appariva a intermittenza, in verde. 

Fu leggendo le scritte a seguire, ancora più fioche, piccole, all’apparenza innocue, che gli si mozzò il respiro. 

Accesso biometrico non riconosciuto. Soggetto ostile.

Avvio contromisure in

00:00:16… 00:00:15…

È bene che i fantasmi scompaiano…

Dazai comprese. 



 

Non ci furono avvisaglie. Chuuya vide solo il partner scattare al suo fianco e si tese di riflesso. Le sue dita scivolarono sulla stoffa della giacca e della sua spalla, senza trovare un appiglio per fermarlo. 

L’irruzione di Dazai non fu priva di rumori. Non fu pensata. Agì e basta, attirando l’attenzione di Odasaku e facendolo voltare repentinamente, nonostante i fascicoli ancora tra le mani. 

«Sta per esplodere tutto!»

Un attimo a seguire, Flawless diede ragione all’avvertimento dell’ex detective. 

I documenti caddero sul tappeto con un tonfo attutito. In quei rimanenti nove secondi avrebbero potuto tentare qualcosa, ma il Fantasma Rosso diede retta all’istinto e afferrò la pistola quando vide comparire Chuuya alle spalle di Dazai. 

Nonostante non ci fosse ostilità negli occhi del rosso, ma soltanto la caparbietà di tentare un’ultima mossa inutile nel cercare di trascinare il partner nel passaggio segreto, o buttarsi su di lui, Oda sparò lo stesso un colpo, costringendolo a difendersi. 

Gli ultimi secondi si esaurirono. 

Dopo lo zero, fu solo rumore. 



 

* * *



 

Il cuore di Yokohama era avvolto dall’oscurità. 

Sotto il cielo di stelle solitarie, i palazzi della Port Mafia erano monoliti neri privi di luce. Il blackout in cui erano immersi era stato l’inizio di una fine preannunciata da settimane, che aveva avuto il suo apice nell'esplosione a uno degli ultimi piani, illuminando per un attimo la scena di quel tetro teatro.

Il fragore con cui i pezzi del palazzo piovvero sulla strada sottostante riempirono l’aria notturna, insieme alle urla di chi aveva ancora abbastanza fiato. Tuttavia, lì dove era, Chuuya non sentì nulla. 

Non sentì il panico negli schiamazzi dei suoi uomini, né il dolore in corpo. Era sospeso oltre il bordo dell’ufficio appena esploso, in balia del vento, svenuto. Due mani erano aggrappate ai suoi vestiti, impedendogli di volare nel vuoto privo di coscienza. 

Le dita di Dazai tremavano, come ogni centimetro del suo corpo, mentre si riempiva i polmoni di grandi boccate d’aria e teneva cementata la presa sul partner. Le cose non erano andate esattamente come aveva pianificato, ma, finché erano vivi, il margine di errore era accettabile. Doveva inventarsi qualcosa di nuovo, ora che tutte le sue strategie erano state annullate da quell’esplosione. Mancava poco. Mancava solo di sistemare la Regina

«Da… zai» rantolò Chuuya con uno spasmo. Gli fischiavano le orecchie. Aprendo gli occhi si rese conto del nulla sotto di sé e constatò la situazione con un tch infastidito. Raggiunse le mani dell’altro, registrandone la rigidità. «Dazai... lasciami andare.»

La presa si fece ancora più serrata, strattonandolo appena. Chuuya lo avrebbe allontanato scalciando, ma così il rischio era di sbilanciarli entrambi. Se fosse stato il solo a cadere non ci sarebbero stati problemi, ma se Dazai fosse andato giù con lui le possibilità di sopravvivenza avrebbero rasentato lo zero. 

«Molla la presa!» abbaiò di nuovo, più forte, più incazzato man mano che ricordava cosa fosse appena successo. La rabbia gli stava scaldando il sangue, oscurando il dolore. Poteva sentire la bestia nel suo corpo sobillare per emergere. Aveva bisogno di mettere le mani intorno al collo del responsabile. 

Al contrario, Dazai, facendo appello a ogni briciola di energia e lucidità, lo tirò su con le proprie forze, finché entrambi non furono sul bordo dell’ex ufficio.

Restarono fermi, l’uno ancora aggrappato all’altro, riprendendo fiato. Chuuya aveva perso il conto del tempo che era passato dall’inizio dell’attacco, ma quella esplosione era stata la goccia che aveva fatto traboccare la sua pazienza. Lo sguardo spaziò i detriti che li circondavano, senza trovare nulla di ancora integro. Il pavimento stesso sembrava rimanere saldo per miracolo. Poi si accorse del dettaglio più importante. 

«Merda

Il fautore di quella Notte Nera era dall’altra parte della stanza, riverso anche lui tra le macerie, e dava segni di ripresa. Chuuya scattò per mettersi in piedi e sfruttare il momento, ma le mani di Dazai, ancora una volta, lo trattennero. Erano entrambi esausti; Chuuya non si rese conto di quanto fosse all’estremo se non proprio dalla presa debole con cui Dazai lo rimise seduto in terra, poggiandogli la fronte sulla spalla. «Aspetta… Non puoi ucciderlo.» 

«Non hai ancora capito che quello ucciderà noi! Non mi suiciderò con te!» sbottò di rimando Chuuya, mentre i suoi tentativi di spingerlo via incontravano la sua resistenza e la sua testardaggine.

Dazai scosse la testa, nonostante il movimento gli provocasse delle fitte lancinanti e stesse cercando di concentrarsi. «Fidati di me. Ho ancora un piano.»

«No, Dazai, basta!»

Il rumore dei detriti dall’altro lato della stanza fecero battere il cuore di Chuuya più velocemente. La gravità dentro di lui era come un accendino bagnato, aveva bisogno che Dazai lo lasciasse andare per riattivarla. 

«Cristo, levati di dosso!»

Una mano di Dazai gli strinse il braccio, mentre le dita dell’altra si aggrapparono alla sua camicia sgualcita sul petto. Il nemico barcollò, ma si rimise in piedi, recuperando una delle proprie pistole. 

«Chuuya...» ridacchiò Dazai, fuori luogo. «Di nuovo: ho mai sbagliato nel formulare un piano?»

«Smettila!» e la prima nota di supplica si mischiò alla richiesta. «Non sei lucido!» 

Il loro giustiziere li aveva individuati e stava alzando la pistola col braccio prostetico, in parte distrutto ma ancora funzionante. Oltre al senso di urgenza che Chuuya già provava, iniziò a percepire anche una spiacevole e fredda sensazione, simile alla paura, tendergli i muscoli. Aveva riconosciuto il tipo di pistola. Non era quella a proiettili. 

«Hai ragione» convenne Dazai, dopo una lunga pausa in cui aveva regolarizzato il respiro. «Ma, se il mio piano funziona, ti offrirò il miglior vino che conosci.» 

Chuuya era sul punto di tirargli un pugno, ma si irrigidì e un brivido lo percorse dall’alto verso il basso, quando sentì il fiato caldo del partner direttamente nell’orecchio. 

«Ora però ho bisogno di qualche secondo da solo con lui.»

Chuuya realizzò quando lo decise Dazai, ossia troppo tardi per permettergli di reagire. La mano che l’altro gli stava premendo sul petto si circondò di una famigliare luce azzurrognola, per poi spingerlo indietro, sfruttando, ironicamente, la gravità. Il pavimento del palazzo finì e Chuuya fu solo nel vuoto sotto di sé. 

No Longer Human lo avvolse, impedendogli di rilasciare la propria abilità. Dazai sparì alla vista prima che potesse gridargli contro. 

«Concentrare tutto quel potere è sfiancante, abbiamo pochi minuti» spiegò Dazai, rimettendosi in piedi a fatica e cercando un appiglio a cui reggersi. Si voltò, dando le spalle alla notte e al bordo del palazzo a pochi centimetri dai suoi talloni. Sorrise al suo interlocutore come avrebbe sorriso alla morte. 

«Se ho calcolato bene i tempi, la mia abilità si dissolverà appena prima che tocchi il suolo. Si farà male, ma tornare qui sarà più forte di lui» proseguì, alzando lentamente le mani a resa mentre fissava il nemico. La maschera che portava era ammaccata, ma ancora integra, non lasciando trasparire alcuna espressione. La sua pistola era alta e, se avesse premuto il grilletto, l’ex detective non avrebbe avuto scampo. Dietro di lui c’era un baratro a cui non sarebbe sopravvissuto. 

Dazai stese le labbra in un’espressione da mediatore, rimarcando le proprie buone intenzioni. 

«Per te sono tornato a sedermi sulla poltrona da Dirigente della Mafia. Ho fatto in modo che potessi agire e infiltrarti a tuo piacere. Probabilmente sei anche riuscito a uccidere Mori-san. E tutto grazie a me.»

Le parole di Dazai calarono di un tono, carezzevoli, come un invito, nonostante quella che seguì fosse una richiesta. 

«Penso di essermi guadagnato il diritto a un’ultima parola, prima di morire. Posso?»

Ricevette un cenno di assenso.

«Ho una proposta per te, Odasaku.»

 

 

 

Il sentimento che venò il grido di Chuuya quando volò verso l’ufficio distrutto di Mori, circondato da una gravità così vibrante di collera da far tremare e incrinare le finestre ancora integre al suo passaggio, fu indecifrabile. 

Tuttavia, non poté sfogarlo né contro Dazai né contro il loro nemico.

Di entrambi non c’era più traccia. 




 

To be continued 

 

Mi sono fatta attendere con questo (quasi) finale. Manca ancora l’epilogo, domani, o tra un paio di giorni. Ma i giochi sono compiuti. Eh sì, il finale era “già scritto”, il bello dei preludi. Il tutto stava nel capire come c'eravamo arrivati. Al prossimo giro non sarà lo stesso però, perché la seconda parte sarà la fine fine. Qui ho potuto “giocare” un po’, diciamo. Non tiratemi nulla!

Un paio di notarelle veloci: 

1. Quello che dice la proiezione di Dazai a Odasaku è una battuta tradotta dalla light novel della Dark Era. Sì, pagarona Odasaku a un balsamo per l’anima. Come faccio a non essere innamorata di loro?

2. Il potere di Mori lo sto “inventando”. Sappiamo che ha Elise, ma mi piace pensare che Elise non sia solo una figura ‘combattiva’ o qualcosa tipo i demoni di Kouyou e di Kyouka. Elise per me è un’estensione della coscienza di Mori, che lui può modellare (e sappiamo che ha un po’ il carattere di Yosano), motivo per cui quello che dice spesso è una parafrasi infantile dei pensieri di Mori stesso (le sue battute non sono quasi mai a caso in questa storia), o anche la ragione per cui, quando Odasaku la colpisce con la pistola a risonanza, Mori subisce un contraccolpo. Nelle mie idee, sforzandosi (o inconsciamente…) Mori può far acquisire a Elise altri aspetti, tipo, appunto, quello di “Dazai”... che è un “rimorso”. Ho un cuore debole. 

 

Se ci sono cose della Notte Nera che non vi tornano scrivetemi pure! Sarà tutto materiale buono per l’inizio della prossima parte ;) 

Un grazie speciale a Shiroi per la traduzione dal giapponese della strofa di Reason Living *love*

Al solito mi trovate su IG nel profilo @nolongerflawless.fanfic o su twitter come @enerimess o fb se vi va sotto Enerimess ~ Nefelibata =) 
Fatemi sapere cosa ne pensate *love*

 

Prossimo capitoloEpilogo: Not the last page

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Capitolo 25
*** Epilogo - Not the last page ***


Epilogo

Not the last page





 

Yesterday I died,
tomorrow's bleeding

I fall into your sunlight
The future's open wide,
beyond believing
To know why hope dies

[Shattered - Trading Yesterday]




 

La luce dell’alba si approssimò con una tenue sfumatura gialla a stemperare la notte in un celeste pallido. Riottosa, l’aurora si nascose dietro le nuvole all’orizzonte, come un fiore restio a svegliarsi e scoprire quanto lacerata fosse la città. 

Yokohama non aveva dormito. 

Dalle zone dell’entroterra fino ai moli, l’attacco che aveva colpito il suo cuore nero si era riverberato in ogni arteria, tra chiacchiere e sguardi sconcertati. Non c’erano notizie certe, ma i mormorii sgusciavano ancora di vicolo in strada, di casa in telefono, immaginando, presumendo, teorizzando. 

Eppure, in quei lunghi minuti che preannunciavano il nuovo giorno, Paul Verlaine sentiva solo una gran pace. 

Il silenzio che seguiva una strage, quello dove ciò che era stato rotto era anche andato perduto. La quiete di quelli a cui era stata tolta la parola per sempre. L’assenza di emozioni, strappate insieme alle scelte. 

Seduto sul margine dell’ufficio distrutto del Boss della Port Mafia, Verlaine contemplò la città. La studiò, come la vedesse per la prima volta, come se ne respirasse l’aria rantolante che i suoi polmoni stavano emettendo nel momento di maggior debolezza del suo cuore, ridotto a un battito flebile. 

Il vento spazzò a ondate le macerie di quello che era stato un trono tra cielo e terra, non diverse per egemonia dalle rovine di una civiltà crollata. Era il tipo di luogo dove l’ex spia francese si sentiva a proprio agio, per quanto non fosse stata opera sua. I residui di quella notte, su di lui, si contavano nei pochi cerotti sul viso e su qualche benda tirata sotto i vestiti. 

«Dobbiamo aver fatto davvero molto rumore per averti costretto a salire.»

Poche persone avrebbero potuto vantare la capacità di coglierlo alle spalle e impreparato, ma erano tutte morte, o quasi. Quando Verlaine si voltò, l’espressione sul suo volto era così genuina nella sorpresa da strappare un risolino divertito al suo interlocutore. 

«Non intendevo spaventarti.»

Mori Ougai era sul margine dello strapiombo di più di cento piani che fino al giorno prima era stata la sua cabina di comando su Yokohama. Tuttavia, anche se fosse caduto, il francese dubitò che si sarebbe fatto male. 

«È crollato il soffitto della mia camera. Di metà dei sotterranei» precisò Verlaine come stesse recensendo un pessimo alloggio e servizio. Lo stupore era già un ricordo sul suo viso, un errore corretto e archiviato, anche senza chiedere spiegazioni. 

Il Boss annuì, fissando l’orizzonte con le mani a riposo dietro la schiena. Aveva le spalle rilassate, dando l’idea che non ci fosse più nulla a preoccuparlo. 

«Ci vorrà qualche giorno per ripristinare tutto. Credo sia la notte più oscura che questo palazzo abbia mai affrontato. Sono certo che Hirotsu-san stia già provvedendo a una nuova sistemazione.» 

Verlaine lo stava fissando, ascoltando a metà cosa gli stesse dicendo. 

«Quindi questa» e con una mano fece un gesto a indicarlo per intero. «È la vera essenza di Vita Sexualis?» 

Mori si strinse nelle spalle. I suoi bordi tenui erano appena luminosi, contornati di viola, e una luce opalescente smorzava la solidità della sua figura, rendendolo vagamente trasparente. 

«Una delle tante» minimizzò il Boss, sviando la certezza di una risposta affermativa. «L’incoscienza è uno stato che mi si addice poco, soprattutto quella indotta dai farmaci.» 

«Comodo» commentò Verlaine, tornando a fissare il panorama. «Per come si sono messe le cose, essere privati del nostro inestimabile Boss proprio ora potrebbe essere molto problematico.»

Mori glissò sull’ironia del francese, per quanto il proprio tono restò sulla stessa linea.

«Confido che manterrete alto lo stato di confusione in cui inevitabilmente verseremo nelle prossime settimane senza la mia presenza fisica. È una mossa troppo stuzzicante per non essere giocata.» 

«Desidera si scateni una guerra per il suo posto?» Una smorfia rovinò il viso di Verlaine. «Non sono interessato ai giochi di potere.»

La risata del Boss fu solo un velato accenno.

«Questioni di questo tipo lasciamole gestire a Kouyou-kun. Sa già cosa fare in merito ed è la più adatta a tenere le fila in questo momento.»

Anche restando in posizione di riposo, Mori inclinò la testa verso l’ex spia, cercandone lo sguardo. Verlaine lo ricambiò brevemente. 

«Avrà bisogno del tuo appoggio. Avrei chiesto a Chuuya-kun, ma dubito sarà molto presente nei prossimi tempi…» 

«Chuuya…» soppesò Verlaine. «Darà la caccia a Oda e Dazai finché non li avrà stanati.»

«Temo sarà così» concordò Mori con un sospiro, come un padre alle prese con due figli caotici. «Ci eravamo già passati quattro anni fa. Sembra ci siano seccature a cui piace tornare ciclicamente nella mia vita. In più, questa storia non farà bene ai suoi eccessi di rabbia.»

L’ex spia lo ascoltò di nuovo in maniera blanda, inseguendo invece un pensiero appena sbocciato su una parola in particolare. 

«Questa storia…» ripeté, saggiandone la consistenza. «Questa storia è iniziata molto tempo fa.»

Mori gli prestò la propria attenzione. Il vento soffiò di nuovo, ma soltanto le ciocche bionde del francese ne furono influenzate; per il mondo, la figura del Boss della Port Mafia non era che un’anomalia inconsistente. 

«Quattro anni fa venne da me, Mori-san, se lo ricorda?»

I suoi occhi vagarono sui tetti della città, forme poligonali che, da quell’altezza, sembravano i giocattoli di un bambino. 

«Mi illustrò una strategia contro un’organizzazione nemica europea che - secondo le sue fonti - sarebbe presto entrata nel paese a creare scompiglio…»

Verlaine sorrise con qualcosa di simile a un’autocommiserazione fuori luogo. Stava mettendo insieme i pezzi e, anche se quella storia non lo aveva riguardato o sfiorato, se ne ritrovò improvvisamente parte, un pedone al margine della scacchiera. 

«La sua strategia avrebbe contato la perdita di qualche uomo e di un’unica pedina essenziale, a fronte di un immenso guadagno per l’intera Port Mafia.»

Tornò a fissarlo, rendendosi conto di quanto neri fossero gli occhi di quella figura incorporea.

«Per diverso tempo mi sono chiesto perché me ne avesse parlato, ma ora mi domando… Se all’epoca avessi prestato più attenzione, se avessi avanzato delle perplessità, tutto questo» e indicò in un gesto leggero le rovine che li circondavano. «Avrebbe avuto un esito diverso?»

Nonostante fosse solo una proiezione, sul volto di Mori c’erano ombre più profonde di una stanza lasciata al buio, insieme a una stanchezza quasi tangibile. 

«È stata una notte molto lunga…»

«Se avesse voluto essere fermato sarebbe andato a parlarne con Kouyou. Lei avrebbe capito più di quanto interessasse a me.»

La stilettata fu incassata senza un fiato a contraddire o un battito di ciglia a confermare. Tuttavia, Verlaine era l’ex Re degli Assassini, per lui i muri, che fossero fisici o emotivi, non erano mai stati un problema da superare. 

«È venuto da me perché la coscienza la stava mettendo in guardia? Sapendo però che me ne sarei disinteressato.» 

C’era un riso di compatimento su quel volto che tanto ricordava Chuuya, ma i cui lineamenti non conoscevano altro che l'inesorabilità feroce inflitta dalla verità. Continuò. 

«Sa, all’epoca mi ero convinto che quella pedina essenziale da eliminare fosse Dazai.»

«Molte malevoci affermavano che io volessi liberarmi di Dazai prima che mi si rivoltasse contro» replicò piatto Mori, in una difesa tiepida, riportando a galla una scusa ormai dimenticata. 

Verlaine continuò a trovare tutto crudelmente divertente, rendendosi conto, ancora una volta, di come il destino trovasse un modo per svicolare da chi tentava di imbrigliarlo.

«Non conosco tutta la storia, ma ho un’idea di come funzionino queste cose» riprese, osservando l’alba farsi sempre più vivida. «Ho tentato di strappare a Chuuya tutto quello che lo rendeva umano…»

Perché avevo bisogno di renderlo un mostro in grado di capirmi e accettarmi

«Credo che lei volesse eliminare quella parte di Dazai che lo stava cambiando. Quello che lo stava rendendo illogico. Voleva togliere Oda dall’equazione, l’elemento di disturbo. Ho detto bene, Boss?» 

Mori non rispose. Verlaine proseguì calpestando quel silenzio. 

«Eliminare la debolezza sul nascere… ma, come si è dimostrato, era già tardi. Il Dazai contro cui mi sono trovato a scontrarmi sei anni fa era un fondo oscuro senz’anima. Poi però è successo qualcosa, vero? Qualcosa ha iniziato a mutare. Oda ha smosso quell’anima apparentemente inesistente…»

«Un errore di calcolo che mi è quasi costato la vita stanotte.»

«Mauvais calcul (Errore di calcolo)» lo canzonò Verlaine, alzandosi. «Dove qualcuno sbaglia, qualcun altro ci guadagna.»

Il sole si conquistò la scena e rese quasi più triste la devastazione del cuore nero di Yokohama, esposto all’inesorabilità della luce che ne cancellò ogni ombra residua, lasciandolo come una pietra spezzata in balia degli occhi di chiunque alzasse lo sguardo. 

La figura di Mori si fece più tenue, sbiadita. L’ex spia francese continuò a tenere la parola, calcando il proprio accento nel sentirsi appagato da quelle chiacchiere. 

«Pensavo di avere il primato per aver portato il caos qui, ma sembra io debba cedere la corona all’uomo che da solo ha abbattuto tutte le difese di Yokohama in una manciata di settimane.»

Si riempì i polmoni con un respiro profondo, come se la distruzione e la sconfitta avessero un odore particolarmente buono. 

«Deduco sia ora di riordinare di nuovo in fila i pezzi sulla scacchiera, dico bene?»

«Indubbiamente» sospirò Mori un’ultima volta. 

«Ci saranno cambiamenti?»

«Nessuno. La Port Mafia verrà sempre prima di tutto e tutti. Troveremo i responsabili e…» la proiezione concluse con un gesto che avrebbe potuto significare tutto e niente. 

«Come desidera, Boss.»

Verlaine non perse la vena sarcastica neanche nell’incamminarsi verso il cumulo di macerie che una manciate di ore prima era stato l’ingresso dell’ufficio. 

«Un’ultima domanda» lo fermò Mori, o almeno, quello che ne era rimasto. Quando il francese si voltò, il Boss della Port Mafia non era che l’alone di un fiato caldo su uno specchio. 

«Era questa la tempesta?»

Verlaine si strinse nelle spalle. 

«Chissà.»




 

FINE 

(Prima parte)









 

Il primo grazie va a Shiroi. La storia non esisterebbe senza di lei e quel rewatch della Dark Era con la sua amica. “Se Odasaku non muore allora diventa il cattivo!” (cit.) 

Il secondo grazie va alla Socia per infinite ragioni e perché dice che piangerà quando leggerà tutto. O quello o mi tirerà qualcosa? 

Il terzo, immenso grazie va a Europa91. Se avete potuto leggere fino a qui è perché lei ha riempito me e NLF di tanto, tanto affetto. 

Ad Hanekoma per il titolo bellissimo che mi ha permesso di utilizzare. 

A Rota, perché i commenti fanno bene all’anima e tu mi hai regalato lacrimucce ed energia capitolo dopo capitolo. Io devo ancora ricambiare, sono pessima. 

A chibitalia per i commenti e le chiacchierate su IG e anche a D.L. Vitali per i messaggi di conforto in tempi bui, per le osservazioni e il supporto insieme a Flying Lotus

A whitemushroom che mi ha fatto spesso trovare commenti che ho amato tanto *love*

A GintokiSakata, le tue recensioni sono arrivate quando ero molto triste e mi hanno tirata su con poche parole. 

Grazie anche a steno, adieu, parabellum, Emily Granville per le belle parole spese su questa fanfic!

Ai membri di “Bungou Stray Doggos” che hanno ascoltato e incoraggiato questa fanfic per primi. 

A Shichan che è stata dietro le quinte ad ascoltare i miei sproloqui e mandare incoraggiamenti. 

Finally, I would like to spend a heartfelt thanks to Your_Ersa for reading this story by translating it and leaving comments that went straight to the soul. You really left me speechless and I thank you. I want to think of the things you wrote to me as an important treasure for the future: for the sequel of this story and for those that will follow.





 

Ce l’ho fatta. 


PS: Mi trovate su IG @nolongerflawless.fanfic =) Scriverò lì i progressi di NLF 2! 

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