Sangue sitisti, e io di sangue t'empio.

di Giuda_Ballerino
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** Trenta Minuti ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***



Capitolo 1
*** 1 ***




Esistono nodi difficili da districare.        

Quello di Gordio era una matassa talmente aggrovigliata che nessuno era mai riuscito a scioglierlo. La leggenda narra che Alessandro Magno lo tagliò di netto in due parti. Così, senza perder tempo in inutili indugi.
Da qui la tipica frase “diamoci un taglio”.          

Riflettendoci, esistono due tipi di persone: i risolutori drastici come “Alessandro Magno” e chi si arrovella una vita intera nel tentativo di sciogliere quei benedetti nodi, mandando in malora tutto il resto.

Edward non era mai stato un Alessandro Magno.         

Trovava ci fosse qualcosa di maledettamente attraente nei nodi.           

Era stato cresciuto con l’idea che ci fosse sempre una soluzione ad ogni problema e questa idea, ormai, era la sua: un’ossessione, un pensiero compulsivo che lo tratteneva ad esitare oltremodo su qualsiasi questione gli si parasse avanti fintanto che non riuscisse a trovarne la stramaledetta soluzione.

Nessuno gli aveva mai detto, né lui stesso aveva mai contemplato l’idea di poter lasciar perdere. Chissà, magari la risposta di questa ossessione si sarebbe potuta trovare in qualche scorcio della sua infanzia. In qualche angolo rabbuiato della sua stanza di bambino, dove relegava gli inutili giocattoli che non avrebbe mai più utilizzato ma ai quali era troppo legato per potersene disfare.  

“Legato”.                     

Come già detto, esistono nodi difficili da districare.       

Nella periferia “bene” di Gotham, in un’ampia stanza di un’imponente villa in stile ottocentesco, la luce calda di un’abat jour illuminava lo scenario di lui seduto ricurvo su di una sedia di legno scuro, poco ergonomica.
D’avanti a sé una grossa scrivania in legno antico, di quelle composte da vari scaffali e mensole sulle quali era solito depositare libri, perlopiù di chimica e fisica, quaderni, appunti e fogli sparsi qua e là. Qualche strano congegno si nascondeva nel marasma confuso di quei fogli svolazzanti.       

Non era tipico di lui.     

Era ordinato al limite del maniacale. Un ordine necessario per una persona tanto metodica quanto pragmatica come lui.
Quest’ordine pareva essergli sfuggito di mano dopo aver compiuto la sua ultima vendetta su quella banchina del molo. Aveva sparato al suo più caro amico.

Oswald Cobblepot, il famigerato Pinguino.

Quest’ultimo di certo non era stato uno stinco di santo.
Gli aveva praticamente ammazzato la donna per una mera questione di “gelosia”.
 
Cosa avrebbe potuto fare se non vendicarsi nel peggiore dei modi?

1. distruggergli l'impero finanziario e politico che aveva creato;
2. distruggergli gli affetti a cui era legato;
3. distruggere lui stesso.
 

Tuttavia, ben presto diventò conscio che questa vendetta altro non aveva portato che confusione e malessere nella sua debole psiche.       

Batteva, in maniera compulsiva, la penna che aveva tra le dita sul foglio bianco.

Il resto era buio e solitudine.    

In realtà, lui stesso si sarebbe definito come la rappresentazione vivifica della solitudine. Ed ora, questa si riversava inesorabilmente su quel maledetto foglio bianco, vuoto. Doveva mettere giù qualcosa, doveva pianificare qualche geniale impresa per far ricordare al mondo lui chi fosse:

“L’ Enigmista”. 

Se il nome proprio alle persone, generalmente, viene dato prima ancora di nascere e mostrare al mondo le proprie peculiarità, Edward aveva deciso di attribuirsene uno lui stesso. Un nome che realmente lo rappresentasse, affinché le persone, prima ancora di averlo veduto, lo avrebbero potuto riconoscere ed identificare.

Non che lui assegnasse una qualche valenza significativa al giudizio altrui; non era di certo interessato ad essere classificato nella dicotomica distinzione tra bene e male.           

Il suo unico interesse era quello di essere riconosciuto per quello che era poiché è risaputo che “il peccato più sciocco del diavolo è la vanità”. 

Sollevò, con il pollice e l’indice della mano sinistra, gli occhiali dal setto nasale ed iniziò a massaggiarsi in maniera circolare le palpebre affaticate. Una lacrima, probabilmente dovuta alla stanchezza, fece debolmente capolino dall’occhio destro e restò ferma fino al suo completo assorbimento.

Cosa gli stava prendendo? Aveva sicuramente dovuto riconoscere negli ultimi anni di essere affetto da un grave disturbo della personalità, ma non gli era mai capitato di avere difficoltà nel mantenere la sua attenzione focalizzata sui suoi impegni.          

Sarà forse la dose quotidiana di psicofarmaci, che si era costretto ad ingerire, a fargli perdere colpi?
Eppure, la ragione per cui aveva deciso di assumerli era proprio quella di far dissolvere nel buio dell’oblio quella ridicola vocina posizionata in qualche sezione del suo complesso cervello. Era diventata, ormai, un’ossessione, un nodo che non riusciva né a scogliere né a tagliare di netto, come tempo addietro aveva consigliato al suo amico più caro.       

Ma lui lo aveva ucciso il suo amico più caro. Ed ora quei suoi maledetti occhi tristi erano diventati il suo nodo personale. Il nodo cruciale la cui risoluzione non poteva essere logica, perché non c’era nulla di logico in tutto ciò che quegli occhi rappresentavano.         

Lui non ci capiva niente di quelle cose; tanto intelligente quanto stupido nelle emozioni. Questo era Ed: un miserabile sociopatico, incapace di portare avanti relazioni sane con altri esseri umani.      

Strinse in un forte pugno la penna che aveva in mano fino a spezzarla. Il liquido contenuto in essa schizzò fuori violentemente andando a macchiare in maniera irregolare tutto ciò che era presente in quell’angolo di stanza illuminato dalla calda e tenue luce dell’abat jour: libri, appunti, progetti. Lui stesso fu macchiato, i suoi occhiali, la sua camicia.      

Girò lo sguardo verso il piccolo specchio antico appeso al muro alla destra dello scrittoio e ci ritrovò dentro un suo pallido riflesso: i capelli tirati a lucido all’indietro, la bocca tesa in un ghigno nevrotico, gli occhi inespressivi ricoperti dalla tradizionale montatura d’occhiali rettangolare poggiata sul suo naso greco.       

Iniziò a focalizzarsi su quest’ultimo, probabilmente, coadiuvato dalla sostanza psicoattiva che circolava nel suo organismo e gli rimbalzò alla mente un insulso ricordo.      

In un noioso pomeriggio di lavoro, quando ancora prestava servizio alla Stazione Centrale di Polizia a Gotham, gli capitò di ascoltare i discorsi di due colleghe mentre, ad alta voce, leggevano uno sciocco articolo nella sezione della cronaca rosa del giornale.         
Tale articolo suggeriva la possibilità di definire le caratteristiche della personalità di un individuo in base alla forma del suo naso.
Rifacendosi alla propria memoria, che era il suo punto forte, l’articolo recitava più o meno così:
“pare che le persone con il naso greco siano brillanti e determinate, ma un po’ timide. Non sono neanche inclini a confidarsi, a meno che non si fidino ciecamente dell’altra persona. Infine, sono i più leali”.         

A pensarci bene, l’analisi gli sembrava abbastanza fedele. Se non fosse per quel piccolo dettaglio, la lealtà.
“Lo sai bene tu, amico mio, vero? Chissà cosa direbbero del tuo naso aquilino.” 

Da poco era venuto a conoscenza della sua incapacità a mantenere la promessa fatta al suo unico amico: rimanergli sempre fedele.
Solo qualche settimana prima aveva messo a repentaglio la sua stessa vita, dichiarando che sarebbe stato capace di fare qualunque cosa per lui.     

E su quel molo si era trovato ad infrangere quelle promesse, non solo al suo amico ma soprattutto a sé stesso.

Ecco cosa rappresentavano per lui quegli occhi tristi. Quegli occhi cerulei e sempre umidi che lentamente annegavano nelle acque del molo andandosi a mescolare tra lacrime e sale. In essi c’era disegnata la delusione e il disgusto di una mancata promessa.     

“In fondo, se l’è meritato! Quel viscido uccellaccio! Come ha osato privarmi dell’amore autentico?”         

La parte più “razionale” di sé prese vita sotto le sembianze di Oswald dando il via ad un dialogo interno. La voce isterica del corvino tuonò nella sua mente:        

“amore autentico? Tsk! Una donna che conoscevi a malapena da una settimana?         
Sei Patetico Ed! Hai ucciso l’unica persona ti sia mai stata amica e guida nella tua inutile vita per vendicare la morte di una deludente fotocopia della signorina Kringle che un tempo avevi amato e la cui vita avevi già spezzato tra le tue dita.
Non ti bastava distruggere il mio impero?”.
        

Sul molo, mentre teneva la pistola puntata alla bocca dello stomaco di Oswald, quest’ultimo gli confessò definitivamente di amarlo; le parole successive furono una supplica:     

<< mi stai ascoltando? Dì qualcosa Ed, ti prego!  >>     

<< Ti sto ascoltando >> rispose Edward abbassando lo sguardo ed aggiustandosi gli occhiali sul naso. 

Ma da quel preciso momento dentro di lui si innescò un dialogo eterno che stava ancora avendo luogo nella sua testa, di fronte a quel piccolo specchio antico appeso al muro alla destra dello scrittoio. 

Aveva fatto ciò che andava fatto. Di questo ne era sicuro. Non avrebbe dovuto vendicare il torto subito? Non solo gli era stato negato un amore, ma egli stesso era stato tradito, raggirato. Che figura avrebbe fatto? Con quale immagine ne sarebbe uscito dinnanzi agli altri? Soggiogato e manipolato.     

In realtà, soltanto più tardi avrebbe scoperto che sparando all’uomo che lo fissava tremante sul molo ne sarebbe uscito distrutto ed irrimediabilmente pentito. Avrebbe voluto ammazzarlo per poi riportarlo in vita innumerevoli volte. Gli mancava, questo era chiaro. Ciò che non gli era chiaro erano le emozioni legate a tutto ciò.

Dov’era finita la sensazione di gratificazione tipica di cui si inebriava dopo ogni colpo andato a buon fine? Forse era stato persuaso dalle parole di Oswald che lo intimavano non sarebbe valso nulla senza di lui.

“Non dirti sciocchezze, Ed. Sii onesto con te stesso, almeno una volta. Riconosci ciò che provi”. Di nuovo, la voce della coscienza.       

Ma lui non ci riusciva ad essere onesto. Non era capace di tirar fuori una definizione al concetto che andava formulandosi nella sua testa. Le emozioni che provava gli risultavano come delle variabili impazzite, impossibili da inserire nelle classificazioni ben definite della sua mente. “Non ha senso. Non è logico”.        

Questo era il nodo principale sul quale era rimasto a rimuginare da minuti interminabili anziché mettersi all’opera affinché si potesse leggere nuovamente sui giornali che l’Enigmista, la mente geniale di Gotham, era riuscito a fare scacco matto alla GCPD ancora una volta.    

Allontanò di scatto il volto dallo specchio e posò nuovamente gli occhi sul foglio che, ormai, non era più bianco. Una grossa chiazza di inchiostro aveva preso forma su di esso ed era già secca.     

Da quanto tempo stava indugiando su quei pensieri? Quanto tempo ancora gli rubava Pinguino in inutili battibecchi con la sua inesistente proiezione, nonostante fosse morto stecchito nel fondale del porto?

                                            

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Capitolo 2
*** 2 ***



Si dice che quando stai per morire ripercorri a ritroso tutti i momenti più significativi della tua vita.
 
In realtà non c’era niente di romantico nella morte; questo percorso a ritroso non era mai avvenuto.
 
L’unica cosa di cui Oswald era conscio al suo risveglio erano le intense e dolorose fitte che gli avvolgevano il capo ed il torace. Dov’era non lo sapeva. Neanche il quando ed il come gli sembravano essere chiari.
 
L’unica cosa che gli era limpida come l’acqua era il “cosa”.
 
Cosa gli era accaduto, era una domanda alla quale sapeva rispondere perfettamente.
 
Difatti, il primo ricordo, non appena fu capace di formulare un pensiero consapevole, fu la frase di Edward:
 
<< Hai ucciso Isabella, quindi tu muori! >>
 
Il rumore di uno sparo. Oswald che porta le mani legate in una corda all’altezza della ferita, non tanto al fine di arginarla nella speranza di rimediare alla morte, quanto più per verificare se ciò che i suoi occhi avevano visto e le sue orecchie udito corrispondesse al vero. La mano di Edward che lo strattona per la cravatta e lo spinge giù, in fondo alle acque. Un ultimo sguardo intenso tra i due: “cosa hai fatto, Ed? Come hai potuto farlo veramente?” suggeriscono i suoi occhi.
 
<< Vendetta! >> invece, era la prima parola che riusciva a formulare ad alta voce mentre riapriva di scatto gli occhi iniettati di sangue.
 
<< Vendettaaaa! >> strillava agitandosi rumorosamente nel letto, con la fronte madida di sudore
 
<< Ridurrò quella patetica simulazione di essere umano in poltiglia! Gli strapperò il cuore dal petto con le mie stesse mani e lo darò in pasto ai cani! >>
 
Sollevò in aria un pugno stretto come a voler rafforzare il concetto appena espresso e lo sbatté sul letto con la tipica teatralità che lo contraddistingueva da sempre. Subito lo colpì una fitta alla bocca dello stomaco e dovette prendere, amaramente, consapevolezza della condizione fisica in cui versava.
 
Ora lo raggiungevano le domande più classiche che una persona dotata di senno poteva porsi nella situazione in cui si ritrovava: “dove sono? Come sono arrivato qui?”.
 
Portandosi la mano destra alla tempia, scrollò leggermente il capo e cercò, facendo perno sul materasso con il braccio opposto, di rialzare il busto per poggiarlo alla tastiera del letto. Il tutto avvenne non senza dolore. Ogni movimento che faceva era una piccola stilettata nel cuore e nell’anima che andava a ricordargli quanto accaduto, come il gioco perverso di un sadico che va a stuzzicare una ferita non ancora rimarginata.
 
Iniziò a guardarsi intorno. Si trovava in una specie di capannone composto da diverse aree separate tra loro da sottilissime mura a soffietto. Tavole di legno consumato riversate per terra, fogli ingialliti sparsi ovunque e cianfrusaglie; tante cianfrusaglie. Poco più avanti, alla destra del suo letto, v’era un vecchio ed arrugginito laboratorio ricoperto da piante rampicanti. Strane ampolle ribollivano liquidi dai colori evanescenti esalando fumi che riproducevano giochi psichedelici. Seguì con lo sguardo quei fumi che si muovevano verso l’alto e trovò sopra di sé un tetto in vetro a quadri dal quale era possibile osservare il cielo stellato. Era buio, non sapeva che orario fosse precisamente, ma fuori impazzava la notte.
 
Ciò che osservava gli suggeriva di trovarsi all’interno di una vecchia serra abbandonata in un mondo post-apocalittico, dove la natura, con tutta la tavola dei suoi colori, pareva sovrastare l’opera dell’uomo, vincendo finalmente l’eterno duello
 
Si bloccò al centro del letto muovendo lentamente le iridi a destra e sinistra. Socchiuse leggermente la bocca:
 
 << Non può essere! >> sussurrò.
 
<< Che sia stato quel maledetto Hugo Strange a farmi qualche brutto scherzo ed a risvegliarmi in un futuro dopoguerra? >> come era suo solito fare, scosse la testa roteando gli occhi al cielo, come per scacciare via un pensiero folle e poco probabile.
 
<< Hey, ti sei svegliato, finalmente! >> affermò con fare malizioso una voce femminile nella stanza. Si materializzò dinnanzi a lui una donna che portava su di sé i colori di quella stanza. Folta chioma rossa, occhi verdi…
 
<< C<< chi sei? >> domandò un Oswald confuso e leggermente sollevato rispetto alle sconcertanti deduzioni che pochi secondi prima aveva fatto e che adesso lo facevano sentire addirittura un po' ridicolo.
 
<< Ivy, Ivy Pepper! >> rispose la ragazza con tono quasi sorpreso, come a dire “possibile che tu non mi abbia riconosciuta?” << la persona che ti ha salvato la vita e ti sta curando da ben due settimane >> continuò.
 
<< Oh, impressionante! E dimmi un po’, di grazia, con quale interesse lo staresti facendo? >> rispose subito dubbioso Oswald. Di certo le esperienze che aveva vissuto, compresa quest’ultima, lo avevano reso riluttante alle manifestazioni di altruismo gratuito.
 
Egli stesso si sarebbe ripromesso di non fare più niente per niente. Il suo prodigarsi a favore di qualcuno, in passato, nasceva da un profondo desiderio di essere amato. Solo che non gli era ben chiaro come funzionasse il meccanismo. Aveva fatto tanto per Edward e lui non lo aveva ricambiato, anzi; quell’insulso ed asettico fascio di nervi aveva osato addirittura sparargli col chiaro intento di ucciderlo.
<< Nessuno >> la voce della donna di fronte a lui lo distolse dai suoi pensieri << Sono rimasta sola ed abbandonata da tutti, proprio come te. Vorrei solo essere tua amica >> continuò, semplicemente.
<< mpf! >> fu l’unico suono che Oswald fu capace di emettere.
 
 
La superficialità con la quale questa sconosciuta aveva pronunciato la parola “amica” dopo tutto ciò che lui si era trovato a vivere lo disgustò quasi. “Amicizia” che diavolo significava questa parola? Era da tempo che al caro poliziotto di quartiere Jim Gordon ed al capo del suo staff ed amico fidato Edward Nygma cercava di offrire favori in cambio di un’alleanza. E cosa aveva ottenuto? Uno lo sbatteva ripetutamente nel manicomio criminale di Arkam e l’altro gli piantava una pallottola nel petto.
E per cosa, poi? Al primo lo aveva “semplicemente” aiutato a ripulire la città da criminali incalliti. Certo, i suoi metodi erano poco ortodossi, ma sicuramente più efficaci.
 
 
Al secondo aveva solo fatto fuori una sconosciuta che credeva di amare da poco più di una settimana, evitandogli il dolore che avrebbe provato quando, in un futuro prossimo, si fosse trovato nuovamente a mettere le mani al collo della donna amata.
 
Doveva ammettere che forse non era andata proprio così nel secondo caso.
 
Dopo essersi erroneamente convito di essere innamorato di Edward Nygma, aveva fatto di tutto per evitare di perderlo. Persino uccidere la donna di cui quest’ultimo s’era innamorato, inscenando un incidente. Ma l’astuto Edward, fanatico risolutore di enigmi, era riuscito a fiutare l’inganno architettando in risposta una vendetta crudele: depredarlo del suo impero da Sindaco di Gotham fino alla morte.
 
Neanche quel “ti amo” sussurrato tra le lacrime era riuscito a distogliere l’ormai vecchio amico dalla volontà di porre fine alla sua vita. Probabilmente, a quell’amore Edward non ci aveva mai creduto. E a giusta ragione. Oswald si trovò a riflettere sulle parole vecchio amico “Non sei capace di amare. Se davvero tu mi amassi, avresti sacrificato la tua felicità per la mia”.
 
Era così. Non l’aveva fatto.
 
<< E dimmi un po', dov’è che siamo? >> ritornò alla realtà Oswald.
 
<<  Siamo nella mia casa, una vecchia serra abbandonata nella periferia ovest di Gotham, che ho arredato con le mie amate creature terrene >> rispose con un’espressione ovvia la sconosciuta, mentre gli offriva una tazza contenete un maleodorante liquido caldo di colore verdastro. << Bevi! Ti aiuterà a rimetterti in sesto >> gli disse dolcemente mentre portava la mistura sotto il naso di Oswald.
 
<< Cos’è? Ha un odore tremendo! Starai mica tentando di drogarmi? >> domandò scettico quest’ultimo, mentre con la mano allontanava la tazza da sé.
 
I suoi modi di fare erano sempre così aciduli e dubbiosi. Anche quando si sforzava di essere gentile non riusciva a celare lo scherno insito nelle sue azioni.
 
<< È soltanto una miscela ricavata da una sapiente combinazione dei principi attivi delle mie adorate piante. E poi se avessi voluto drogarti o ucciderti non avrei fatto meglio a somministrartelo nel sonno? Che sciocco! >> prese a ridere la ragazza ingenuamente.
 
<< Dà qua! >> Oswald le strappò la tazza dalle mani e, guardandola di sbieco con un sopracciglio alzato e la bocca ricurva in un ghigno di disgusto, riversò lentamente il contenuto della tazza per terra.
 
Capriccioso, dispettoso, permaloso, dubbioso. Questi erano sicuramente gli aggettivi che meglio di altri avrebbero potuto descrivere la sua personalità.
 
 
Tirò un lungo respiro dalle sue larghe narici per recuperare una parvenza di dignità e si rivolse con fare tronfio in direzione della ragazza:
 
 
<< Ti ringrazio per le tue cure >> disse falsamente gentile <<  ma adesso sparisci! Nel caso in cui non te ne fossi ancora accorta, io sono Oswald Cobblepot, ex sindaco e re della malavita a Gotham. Di recente, sono stato spogliato di tutto quanto avevo magistralmente realizzato ed ora ho da organizzare la mia vendetta. Il responsabile di ciò non può credere di poter tranquillamente continuare a passeggiare per le strade di Gotham rimanendo impunito. Sono spiacente ma non posso perdere tempo dietro i tuoi esperimenti omeopatici >>.
 
Con l’indice della mano destra indicò alla ragazza la direzione che avrebbe voluto farle prendere.
 
 
Ivy si limitò a fare spallucce continuando a mantenere sul suo volto uno sguardo alquanto stupido e, senza protestare, s’incamminò al di là della porta a soffietto, lasciandolo solo con le sue paturnie.
 
Oswald sollevò la coperta di pile che gli ricopriva, ormai, solo le gambe. Con sofferenza cercò di portare i piedi a terra. Il suo handicap alla caviglia destra cominciava a farsi sentire, probabilmente a causa dell’umidità che aveva preso cadendo nell’acqua del molo. Prese un lungo respiro e si alzò in piedi. Un forte capogiro lo fece ricadere rovinosamente disteso sul letto.
 
Si fermò un minuto per respirare cercando di ricaricare le forze per un secondo tentativo.
 
Con fatica provò a sedersi sul letto sostenendosi con una mano la schiena. Il movimento del braccio fece tendere la camicia del pigiama che gli era stato infilato fino ad aprire un bottone e il suo sguardo si posò sulla fasciatura al petto ben visibile. Una piccola macchia di sangue secco la ricopriva al centro. Fortunatamente, nonostante qualche plausibile fitta, sembrava che la ferita si stesse sanando precocemente e senza infezioni. Il colpo ricevuto al cuore pareva non essere stato mortale per il corpo. Era sulla sua anima che potevano vedersi le ripercussioni.
 
Senza perdersi d’animo, Oswald provò nuovamente a rialzarsi. Una volta in piedi, reggendosi con entrambe le mani al muro, iniziò a muovere i primi passi per prendere di nuovo confidenza con il moto. In fondo, se era vero quello che diceva “la ragazza delle piante”, era stato fermo in quel letto per ben due settimane.
 
Come un bambino che aveva appena imparato a camminare, muoveva i piedi uno davanti l’altro acquistando man mano sempre più equilibrio. Si mosse in direzione della parete a soffietto con l’intento di raggiungere qualche altra area della serra, ma durante il suo cammino s’imbatté in un vecchio specchio sporco e crepato in alcuni punti, appeso alla sinistra del muro. Non riusciva a resistere, doveva specchiarsi.
 
E così si trovò a guardare il suo riflesso: i capelli, che solitamente erano fissati all’insù in un’acconciatura vampiresca che sfidava le leggi gravitazionali, erano arruffati e spalmati in modo irregolare sul suo viso. Gli occhi erano lucidi ed arrossati, probabilmente a causa dell’infiltrazione della luce dopo la lunga degenza. L’unica cosa che gli sembrava essere rimasta la stessa era il pallore cadaverico del suo viso rotto al centro dal suo imponente naso aquilino. Aveva indosso un pigiama ingiallito, più grande di lui di circa due misure che gli ricordava la mise tipica a strisce bianche e nere di Arkam. Si avvicinò di più e con i polpastrelli delle dita toccò delicatamente lo specchio in corrispondenza del riflesso della sua ferita. Lì, proprio in quel punto, nello specchio v’era una crepa.
 
“Con te ho permesso all’amore di rendermi debole”. Questa frase pulsò nella sua testa come un cuore che riprende a battere dopo un arresto cardiaco.
 
Quei pochi affetti che aveva avuto nella sua vita avevano rappresentato per lui solo delle pesanti catene legate ai suoi arti; abbastanza lunghe da regalargli l’illusione di potersi muovere, ma lo spazio, in realtà, era ben circoscritto. Un passo più in là e la morsa delle catene si faceva sentire ben stretta alle caviglie e ai polsi. Esse erano impiantane nel suo corpo come le radici di un albero e si legavano al cuore. Sradicandole avrebbe rischiato di tirar fuori il suo stesso cuore e, purtroppo, è risaputo che senza di esso non è possibile vivere.
Edward aveva rappresentato per lui le catene che non riusciva né a togliere né a spezzare.
 
Questo era quello in cui aveva creduto fino a quel momento. Ma ben presto avrebbe dovuto ravvedersene poiché aveva deciso che senza quelle catene e senza quel cuore sarebbe finalmente riuscito ad essere il Re di Gotham.
 
La luce del mattino con i suoi potenti raggi lo distolse dai suoi pensieri. Era già mattino? Da quanto tempo stava indugiando su quei pensieri? Quanto tempo ancora gli rubava Nygma in inutili riflessioni sentimentali, quando invece dovrebbe star lì a pianificare la sua vendetta?

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Capitolo 3
*** 3 ***




Sole e luna correvano l’uno dietro l’altra nel vano tentativo d’incontrarsi, scandendo velocemente la fine dei giorni.
 
Edward Nygma era disteso flaccidamente sul divanetto in pelle marrone al centro dell’enorme soggiorno di villa Van Dahl. Di fronte a lui il quadro che il giovane Oswald aveva commissionato poco prima della sua dipartita che lo ritraeva fiero ed impettito nel suo lucido frac nero: “un vero e proprio Pinguino” pensò.
 
Nygma, forse per sfregio, lo aveva deturpato piazzando sul suo viso un enorme punto interrogativo fatto con una bomboletta spray verde.
 
Quel punto interrogativo stava lì a simboleggiare una profonda crisi esistenziale che aveva preso forma nella sua psiche dopo il tragico evento al molo. Il forte trauma di aver perso la donna che amava, unito all’omicidio del suo migliore amico, avevano innescato in lui una completa destrutturazione della sua identità, catapultandolo in una forte depressione.
 
Aveva provato a curarsi con una sorta di auto medicamento che consisteva in un mix di psicofarmaci, alcool e droghe, al fine di stordire la sua coscienza. Ma ciò non aveva fatto altro che trasferirlo in un limbo in cui giorno e notte si mescolavano tra disturbi del sonno, apatia e disturbi alimentari. Neanche ricordava più l’ultima volta che avesse dormito o fatto un buon pasto.
 
Non ci volle molto prima che tutto ciò conducesse la sua debole psiche a sviluppare nuove forme di psicosi in cui una parte di sé si materializzava di fronte a lui sotto le spoglie di Oswald e con la quale innescava lunghissime sedute terapeutiche.
 
Nei momenti immediatamente successivi la morte di Cobblepot, Edward credeva di essere rinato come criminale sotto il nome dell’Enigmista; e, seguendo questa falsa riga, il suo cervello era riuscito a pianificare colpi e furti in giro per Gotham incarnando, per un breve periodo, il terrore della GCPD. Era riuscito persino a racimolare una significativa fortuna che gli consentiva uno stile di vita agiato.
 
Ma in realtà nulla lo stimolava.
 
Dalle “sedute terapeutiche” che aveva intrapreso con sé stesso ne era uscito fuori che il nodo principale di questo suo malessere fosse la mancanza di uno scopo. Non c’era alcun disegno dietro le sue azioni. Le sue malefatte non celavano nessuna nobile aspirazione. Anche se partoriti da una mente geniale, i suoi crimini andavano a mescolarsi tra quelli dei numerosissimi delinquenti che si aggiravano per le strade di Gotham.
 
Penzolava lentamente il braccio al di fuori del divano mentre con sguardo vacuo fissava il tetto sopra di lui. Nella sua mente prese a farsi spazio l’immagine di un’Enigmista depresso, come un banalissimo uomo qualunque, rannicchiato a terra con le ginocchia strette al petto dalle sue braccia. Le proiezioni di Isabella e Oswald lo schernivano accompagnati da grasse risate.
 
<< ahahah! Non vali niente Enigmista! Senza di noi sei solo un miserabile! Cosa credevi di fare? >> gridavano le loro voci all’unisono.
 
Una scena non tanto lontana dalle sue esperienze di vita di bambino, adolescente ed adulto affermato. Le sue difficoltà nella socializzazione lo avevano spesso portato ad essere vittima di prese in giro da parte dei suoi pari. Nessuno che lo confortasse, nessuno che gli credesse.
 
 “Papà…”
 
Edward, nella sua mente, era improvvisamente tornato bambino.
 
La luce verdognola della lampada presente sul comodino della sua cameretta illuminava la scena di lui che fieramente porgeva un foglietto di carta al padre << Guarda papà! Guarda! Ho preso il voto più alto di tutti al compito di fisica! >> disse con orgoglio. Il padre strappò con uno scatto fulmineo il foglietto dalle mani del figlio e si mise a guardarlo con sdegno << Non è possibile! A chi vuoi darla a bere? Tu sei un completo imbecille! Sei un inetto, un fallito! Tu non sarai mai nessuno nella vita! Ti insegno io a non dire più fesserie a tuo padre! >>. In pochi secondi Edward si ritrovò catapultato violentemente sul pavimento: pugni, schiaffi, calci.
 
Vecchio e nuovo iniziarono a farsi largo come tanti rapidi flash di una macchina fotografica nel buio pesto della sua mente, la quale pareva lentamente deframmentarsi sparendo nel bavero della sua camicia bianca.
Le orecchie presero a fischiare un suono acuto, tipico delle interferenze su una stazione radio.
 
<< Basta! >>
 
Edward portò di scatto le mani alle orecchie e strinse fortemente gli occhi agitando la testa.
 
<< Basta! Silenzio! >> gridò
 
<< per favore! >> disse debolmente, come una supplica.
 
Ed in un momento fu silenzio.
 
Rilassò le palpebre lasciando che la luce iniziasse ad infiltrarsi delicatamente nei suoi occhi fino a riaprirli completamente. Allontanò le mani dalle orecchie e rimase disteso immobile su quel divano per alcuni secondi non pensando a niente, concentrandosi unicamente sul suo respiro. Ad un tratto tutto gli fu chiaro.
 
“Il tuo defunto amico aveva ragione. Non sei altro che una patetica imitazione di ciò che potresti essere e non hai la minima idea di come e cosa fare per esserlo! Datti pace, Edward” pronunciò dolcemente nella sua testa la voce di Isabella. “Se non sei stato in grado di avere una vita degna, almeno fai in modo di non avere una morte indegna” proferì solennemente la proiezione di Oswald.
 
Tutto iniziava a diventare sempre più chiaro e logico agli occhi di Edward. Il cuore nel petto gli sembrava essersi già fermato: non voleva morire, il solo pensiero lo terrorizzava. Tuttavia, quella sembrava essere l’unica soluzione, se non per risolvere i suoi problemi, quanto meno per non dover essere più costretto a sentir quelle voci nella sua testa.
 
L’idea fu semplice e di rapida esecuzione: una corda legata al lussuoso lampadario di murano appeso al centro del soggiorno.
 
Un’immagine solenne ed elegante al fine di non smentire l’operato rigoroso ed esteticamente accurato che aveva da sempre contraddistinto l’Enigmista. Si, perché una mente come la sua restava concentrata fino al momento della sua morte sull’effetto che le sue azioni avrebbero ottenuto sugli altri: sbigottimento, stupore, ammirazione, orrore.
 
Come un abile sceneggiatore si apprestò, rapidamente, a mettere in atto la scenografia del suo ultimo teatrino.
 
Spostò il divano e tutto il resto dell’arredamento presente nel soggiorno verso le mura adiacenti e lasciò al centro della stanza soltanto il grosso e rotondo tappeto persiano perpendicolare al lampadario. A dividere i due, una Luigi XVI in legno di faggio con la sua imbottitura sfarzosa e molleggiante. Prese uno scaletto dallo stanzino della cucina e si adoperò per legare la corda all’ampio lampadario. La tirò con forza per testarne la resistenza e si lasciò cadere dallo scaletto appeso ad essa come una scimmia attaccata alla sua liana. Raggiunto il pavimento, iniziò ad annodare il cappio. Una volta terminato il nodo andò a posare lo scaletto, dopodiché si indirizzò verso l’ampia finestra presente nella stanza che affacciava sul giardino della villa e tirò lievemente le tende ai lati per permettere ad un fascio di luce di illuminare la scena che si era appena designato nella mente.
 
Sino a quel momento le sue azioni erano state meccaniche e i suoi occhi non avevano tradito alcuna emozione. Sembrava concentrato unicamente sull’esecuzione del suo piano, come era solito fare quando progettava una rapina in una banca o qualsiasi altro genere di malefatta.
 
Ma affacciandosi alla finestra gli vennero alla mente i giorni della candidatura di Oswald a sindaco. Ebbe come la sensazione di vedere qualcuno nel giardino che con fare claudicante impartiva ordini a destra e a manca.
 
Quel ricordo scaturì in lui emozioni e sentimenti ormai assopiti da tempo: la frenesia, l’eccitazione ed il timore che tutto potesse andare in malora in un istante. A scaldargli il cuore la soddisfazione negli occhi di Oswald quando Edward decise di fargli uno dei regali più belli che avesse mai ricevuto: l’amore incondizionato dei suoi elettori. Gli occhi di Oswald che, inumiditi per l’emozione, brillavano riflessi nei suoi. Quegli occhi cerulei che ora, lentamente, annegavano nelle acque del molo.
 
Tornò presente nel suo tempo. Non c’era nessuno in giardino. Non c’era nessuno nella villa. A tenergli compagnia c’era solo la voce tormentata del suo inconscio.
 
In un istante la sua mente era di nuovo concentrata sul da farsi. Di lì a poco sarebbe stato il tramonto e lui aveva deciso che sarebbe stata quella la luce adatta ad illuminare il suo ultimo gesto.
 
Si avvicinò al grande specchio presente all’entrata del soggiorno ed iniziò ad abbottonarsi la camicia completamente, godendosi il suo riflesso. Si aggiustò vigorosamente il nodo della cravatta e infilò la giacca del suo classico completo verde. Prese la bombetta e con un gioco di mano veloce la indossò elegantemente sul capo. Guardò il suo riflesso allo specchio:
 
<<  Mio caro, è il tramonto! È l’ora di andare in scena! Che lo spettacolo abbia inizio! >> La vanità non lo avrebbe abbandonato finché non avesse esalato il suo ultimo respiro.
 
Si avviò con incedere teatrale verso la sedia e salì con entrambe le sue stringate classiche sulla seduta. Afferrò la corda con le due mani e la portò al collo stringendo il cappio. Sollevò il piede destro e lo portò allo schienale della sedia al fine di spingerla per terra. Così l’aveva immaginata la sua morte: lui fluttuante al centro della stanza con la corda al collo e la sedia riversa all’indietro sul tappeto che, grazie alla luce filtrata dalla finestra, avrebbe disegnato un’estensione della sua ombra.
 
<< Le tue ultime parole, Enigmista? >>
 
<< Esisto fino a quando hai vita. Ma se mi perdi essa non c’è più. Cosa sono?  >>
 
<<  La speran… >>
 
Mentre Edward si apprestava a fornire la risposta di questo suo ultimo indovinello, in procinto di spingere all’indietro la sedia con il piede, un fragoroso rumore di vetri lo fece sobbalzare: una piccola scatolina da regalo viola con il nastro verde era stata lanciata dalla finestra, ormai in frantumi, assieme ad un grosso sasso e ora riversavano, entrambi, ai suoi piedi in tutta la loro misteriosità.
 
Istintivamente, sgranò gli occhi e iniziò a boccheggiare come un annegato che è appena riemerso dall’acqua, facendo cadere la bombetta al suolo. Ritrasse il piede e portò le mani al collo allentando la corda.
 
<< Cosa diav…cosa diavolo è questo? Che significa? >> pronunciò con la gola secca.
 
La curiosità iniziò a divorarlo e in un secondo si ritrovò a liberarsi del cappio e a saltare giù dalla sedia, lanciandosi su quella scatola come un assetato nel deserto dinnanzi ad una sorgente d’acqua.
 
La afferrò tra le mani e rimase in silenzio a fissarla per secondi indefiniti. Sulla scatola c’era attaccata una targhetta che riportava la seguente scritta:
 
“To: Edward Nygma”. Nient’altro.
 
Raggiunto dalla ragione, dopo lo shock iniziale, si chiese con sospetto se potesse trattarsi di qualche ordigno esplosivo, ma la scatola era troppo leggera per poter contenere qualsiasi tipo di marchingegno. Iniziò a scuoterla per cercare di capire la natura di ciò che poteva esservi dentro, ma sembrava vuota.
 
“Che ci fosse una qualche sostanza gassosa all’interno?” si chiese dubbioso ma, anche in quel caso, dovette immediatamente abbandonare l’idea in quanto la scatola era fatta di semplice cartone traspirante. Pertanto, qualsiasi sostanza aeriforme contenuta al suo interno sarebbe evaporata nello stesso momento in cui avessero provato ad inserirla.
 
Altro non gli restava che aprirla.
 
Sfilò lentamente il nastro verde, come per prolungare quanto più possibile la situazione enigmatica che stava vivendo. Non era sicuro di quando gli sarebbe potuta capitare un’altra occasione come quella. Alzò il coperchio della scatola ed all’interno c’era un piccolo biglietto. Lo afferrò con mano tremante, indice del fatto che stava fremendo per scoprirne l’arcano, ma su di esso era semplicemente riportata una frase di tre parole, battuta a macchina e senza alcuna firma: “Verrò a prenderti”.
 
Nient’altro. Nessun indizio sul mittente. Nessuna informazione chiara sulle intenzioni di chi lo aveva spedito. Niente.
 
In quella scatola non c’era nulla oltre a quello che poteva sembrare un avvertimento? Una minaccia? Una promessa?
 
Un niente che però gli stava fornendo tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno: un mistero, un enigma da risolvere. La dimostrazione che c’era ancora qualcuno al mondo che riversava le proprie attenzioni sulla sua persona.
 
Fino a pochi istanti prima stava rinunciando alla vita ed ora si ritrovava tra le mani la speranza, consegnata espressamente ai suoi piedi e volata da una finestra che fino a pochi istanti prima aveva il solo compito di illuminare la sua morte.
 
<< Chi sei? >>
 
 

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Capitolo 4
*** 4 ***


 
In una vecchia serra abbandonata nella periferia ovest di Gotham, Oswald se ne stava solitario riposato su di una poltroncina in vimini. Di fronte a lui un enorme finestrone gli offriva la vista di un grigio cielo annuvolato. Con la mano sinistra massaggiava riservatamente la caviglia dolorante, mentre i suoi pensieri restavano concentrati sul da farsi.
 
Aveva indugiato a lungo su che tipo di vendetta avrebbe voluto architettare contro Edward Nygma. Inizialmente, pensava di infliggergli un tremendo dolore fisico. Non desiderava altro che vederlo tumefatto e lacerato a terra, galleggiante in una pozza del suo stesso sangue. Ma col passare del tempo, l’irascibilità iniziale andava dileguandosi, lasciando spazio ad un dolore lucido e bruciante.
 
Come molte persone al mondo, non aveva avuto una vita facile.
 
Veniva dal basso lui. Era figlio di un’immigrata ungherese che da sempre aveva vissuto onestamente, facendo da cuoca presso famiglie benestanti.
 
Il mero denaro non era mai stato veramente importante per lui. Non era questo ciò a cui bramava.
 
Ciò che da sempre smaniava di possedere era il potere, il riscatto. Ardeva all’idea di tessere le fila della città che da sempre l’aveva disprezzato trattandolo come uno scarto umano. E ci era riuscito.
 
L’unica cosa che gli mancava era qualcuno con cui condividerlo. Da qui la maturazione della folle idea di innamorarsi. Un bisogno che pulsava giorno dopo giorno nel suo petto solitario.
 
Ma lui non era una persona comune. Non avrebbe saputo amare in modo banale una persona qualsiasi. No.
Il suo amore non avrebbe potuto essere altro che un amore straziantemente folle e sfortunato.
 
Si era innamorato di quello psicotico lentamente, ma se ne accorse solo quando non fu più possibile negarlo.
 
In fin dei conti, Edward fu l’unico a stargli vicino nel periodo più buio della sua vita, dopo la perdita di sua madre. E fu l’unica persona che desiderava avere accanto nel momento più trionfale della sua grande vittoria alle elezioni.
 
Condividere la vita nella buona e nella cattiva sorte. Non era forse questo che significava amare?
 
Non aveva considerato quanto l’amore possa rendere ciechi ed assoggettati alla propria volontà. Era stato spinto ad agire irrazionalmente fino a perdere tutto: potere e amore.
 
E ora lo odiava. Odiava Edward con ogni fibra del suo essere.
 
Eppure…c’era ancora un “eppure”, che ogni tanto vibrava nel cuore.
 
Era pronto a giurare sulla tomba di sua madre che lo detestava, ma in certi momenti, mentre si trovava a riflettere, guardando un punto indefinito nel cielo, si domandava come sarebbe andata se non avesse ucciso quella maledetta Isabella. Se avesse lasciato che quell’inutile relazione andasse avanti distruggendosi da sola.
 
E fu proprio su questo pensiero che andarono pian piano a gettarsi le basi della sua vendetta.
 
Come Nygma, anche lui non si sarebbe limitato ad ucciderlo. Prima lo avrebbe distrutto, spogliandolo di tutto ciò di cui fosse certo. Gli avrebbe dimostrato che neanche lui era in grado di amare nessuno. Dopo lo avrebbe portato sul molto e gli avrebbe piantato una pallottola in testa. Cuore e mente. Di Edward non doveva restare più nulla.
 
Il piano che stava tessendo con la sua abile mente non era di facile realizzazione. Gli serviva una persona con delle abilità particolari. Tuttavia, a Gotham nulla è come sembra. Nemmeno la morte riesce ad essere una certezza.
 
Una delle abilità che vanno sicuramente riconosciute al piccolo Pinguino è quella di saper ricavare informazioni utili da mettere in campo al momento più opportuno. Quando ancora era un sindaco stimato, durante una cena organizzata tra la gente ai vertici di Gotham, gli capitò di origliare una conversazione tra una donna che affermava di chiamarsi Kathryn ed un tale di cui non ricordava nemmeno il nome. Parlavano di un certo chirurgo dal nome ambiguo, un tale dottor Hicks, particolarmente abile ad effettuare ricostruzioni facciali complete. Incuriosito da ciò, Oswald fece diverse indagini su quest’ultimo e ne venne fuori che fosse specializzato anche in psicoanalisi, condizionamento comportamentale ed altre discipline di natura psicologica. Apprese che spesse volte il suo operato venisse richiesto dalla malavita di Gotham al fine di ricostruire totalmente l’identità sia fisica che mentale delle persone. La persona ideale per implementare il suo diabolico piano.
 
L’unico ostacolo è che pareva essere estremamente costoso. Ed Oswald, al momento, non aveva modo di far fondo ai propri averi, essendo impossibilitato a raggiungere la propria villa.
 
Ma la provvidenza aiuta sempre gli audaci e non si rimane soli e indifesi a lungo quando ti chiami Oswald Cobblepot. La sua capacità di reclutare mercenari e lacchè che si prostravano indecentemente ai suoi piedi era unica.
 
Durante la fase di convalescenza decise di non rivelarsi al mondo. Voleva far credere al resto dell’umanità che Oswald Cobblepot fosse morto; pensò che gli sarebbe potuto tornare utile nell’implementazione della sua vendetta. Tenne, però, al suo fianco Ivy Pepper, una strana creatura sognante che pareva desiderare ardentemente prendersi cura della sua salute ed aiutarlo nella progettazione della sua vendetta.
 
Probabilmente la sua disponibilità era dovuta alla profonda solitudine a cui anch’essa era costretta. Lei parlava, parlava, parlava. Oswald fingeva di non prestarle ascolto. Ma il suo cuore, ancora troppo umano, gli impediva di offrirle una totale indifferenza. Nonostante tutto, poteva facilmente rispecchiarsi in quella ragazza-bambina abbandonata da tutti. Anche lei era uno scarto, un’emarginata.
 
Ma bisognava riconoscerlo: a differenza sua era una vera tonta.
 
Inizialmente, fu tentato anche lui di abbandonarla al suo destino. Ma la stramba gli aveva rivelato di possedere una particolare abilità. E il modo in cui aveva dimostrato questa sua peculiarità fu a dir poco imbarazzante per il Pinguino.
 
<< Baciami! >> ordinò improvvisamente Ivy, con fare perentorio.
 
Oswald, che era immerso nei suoi pensieri, si destò velocemente sgranando gli occhi come se avesse appena visto un fantasma. Si voltò lentamente verso la ragazza con uno sguardo interrogativo.
 
<< credo di non avere bene inteso le tue ultime parole, tra il tuo tanto farneticare >> le disse.
 
<< Beh, immaginavo non avessi tanti spasimanti al tuo seguito, ma possibile tu abbia dimenticato cosa significhi baciare una persona? Forse non l’hai mai fatto? >> Ripeté Ivy, sfidandolo con gli occhi fissi nei suoi.
 
<<  T-ti sei forse bevuta il cervello, donna? Ti pare che io sia nelle condizioni di scherzare in questo momento? Cosa c’è? La vita ti ha stancato e cerchi un modo di farla finita? >> iniziò ad incalzare Oswald, incredulo delle parole che le sue orecchie stessero udendo.
 
Non che fosse refrattario a qualunque tipo di affettuosità, in fondo avrebbe potuto essere una maldestra lusinga. Ma la cosa gli sembrava suonare come uno scherno, una presa in giro.
 
Ivy prese ad avvicinarsi ad Oswald con incedere lento e sensuale, continuando a mantenere lo sguardo fisso nei suoi occhi.
 
Quest’ultimo rimase imbambolato con la bocca socchiusa ed i piedi ben piantati al suolo mentre osservava Ivy muoversi verso di lui. Non ebbe nemmeno la prontezza di affrontarla con qualche frase pungente, come al suo solito.
 
Ivy avvicinò il suo viso a quello di Oswald. Quest’ultimo, prendendo coscienza del suo corpo, indietreggiò di un passo << cosa pensi di fare? Sei un’illusa se credi di potermi ammaliare come un omuncolo qualsiasi >> prese a ringhiargli contro.
 
<< Lo credi davvero? >> lo sfidò Ivy.
 
<<  Sto cominciando a perdere la pazienza! >> ma prima che lui potesse dire o fare un’ulteriore mossa, Ivy avvicinò il polso sotto il naso di Oswald, costringendolo di inalare il suo arcano profumo.
 
In un lampo, Oswald fu completamente soggiogato dalla volontà della rossa. Mezza Gotham avrebbe versato milioni di dollari per poterlo vedere in quelle condizioni: un tenero Pinguino, con gli occhioni supplichevoli, smanioso di poter soddisfare i desideri di quella idiota dai capelli rossi.
 
<< Oh, mia dea! Sei meravigliosa! Cosa vuoi che faccia per te? >> le parole fuoriuscivano dalla bocca di Oswald donandogli una nuova voce. Era irriconoscibile.
 
<< Ti ho detto di baciarmi! Sei forse sordo? >> ripeté decisa Ivy.
 
Senza esitare un secondo, Oswald prese il viso della donna tra le sue mani e le stampò delicatamente un bacio sulle labbra. In quel preciso momento Ivy schioccò le dita ed in un istante Oswald riprese coscienza trovandosi con le labbra appicciate a quelle della rossa. Si allontanò di scatto come se fossero state infuocate ed afferrò una bottiglia di vetro spaccandone i bordi sul tavolino sulla quale era poggiata. La avvicinò pericolosamente alla gola di Ivy.
 
<< Che diavolo di stregoneria hai osato praticare su di me? >> abbaiò rabbioso.

 

Questo fu il modo in cui Oswald venne a conoscenza delle doti persuasive di Ivy. Queste ultime furono la ragione per cui lei era ancora viva e al fianco del Pinguino. Avrebbe avuto modo di sfruttare in maniera ingegnosa quelle capacità. E l’occasione non era tardata ad arrivare. La tonta, infatti, era stata prontamente inviata da Oswald a mettersi in contatto con il dottor Hicks al fine di convincerlo “gentilmente” a prestare i suoi servigi per signor Cobblepot.
 
 
 
-Sbam! - il rumore metallico di una porta che sbatteva contro il muro lo fece sobbalzare dalla posa statica che manteneva da ore sul divanetto di vimini. Si voltò di scatto ancora seduto per verificare se si trattasse effettivamente della porta d’ingresso.
 
<<  Hai forse battuto la testa per terra quando sei nata? Questa sottospecie di dimora è fatta praticamente di cartone, che bisogno c’è di fare queste entrate in scena teatrali? >> Disse Oswald stizzito.
 
Un’ affaticata ed ansimante Ivy sostava sull’uscio della porta con il corpo minuto d’un uomo esanime sulle sue spalle.
 
<< Mi scusi signor Pinguino, ma non avevo le mani libere per poter aprire delicatamente la porta. Mi dispiace averla spaventata. Sarebbe troppo chiederle di aiutarmi a trascinare il suo prezioso dottor Hicks in casa? >> Fece la rossa ironica.
 
Oswald sollevò gli occhi al cielo e decise finalmente di issare le sue pesanti natiche dalla poltroncina facendo perno con entrambe le mani sui braccioli << mai che riuscissi a terminare autonomamente un compito che ti è stato assegnato >> disse canzonatorio.
 
Raggiunse Ivy all’uscio mentre quest’ultima rilasciò il corpo del povero dottor Hicks, il quale cadde a terra a peso morto.
 
<< M-ma è…? >> farfugliò preoccupato Oswald.
 
<< …stordito! >> Continuò la frase Ivy << Non temere, Pingui, non l’ho ucciso. Sono stata costretta a tramortirlo per tenere a bada le sue avances. Non so se ricordi l’effetto che ha il mio profumo sulle pers… >>.
 
<< Ti ho detto mille volte che non devi più chiamarmi con quel ridicolo nome >> la zittì Oswald, non consentendole di rivangare l’imbarazzante ricordo << piuttosto, trova un modo per far riprendere velocemente il nostro caro amico. Abbiamo molte cose di cui discutere. >>
 
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Il lungo fischio della teiera irruppe nella stanza spezzandone il glaciale silenzio. Ivy si mosse prontamente per spegnere il fuoco del fornello portando con sé il servizio da tè che aveva ricostruito, raccattandone i pezzi negli angoli sperduti di quella casa abbandonata.
 
Il dottor Hicks se ne stava seduto tremante su di una scomoda sedia al centro della stanza, con gli arti legati ad essa da una corda. L’effetto ammaliante del profumo di Ivy era ormai svanito ed ora iniziava a chiedersi disorientato dove fosse e cosa stesse accadendo. Vide la rossa avvicinarsi con un vassoio in mano con incedere insicuro. Stupidamente, la prima cosa che pensò fu che il contenuto di quelle tazzine gli sarebbe presto finito rovinosamente addosso. Ma il flusso dei suoi pensieri fu subitamente interrotto.
 
<< mmm… >> Oswald, posizionato alle spalle dello sciagurato dottore, si schiarì la gola sbattendo i palmi di entrambe le mani sulle spalle di Hicks << Gradisce un po’ di tè dottor Hicks? Sono sicuro che avrà una gran sete! >> proferì con un tono apparentemente gentile.
 
Il “povero” dottore sobbalzò dalla sedia, impaurito dalla presenza di Oswald alle sue spalle << A d-dire il v-vero preferirei sapere c-cosa sta accadendo >> disse con una voce flebile e tremolante girando il capo in direzione di Cobblepot.
 
<< Oh, adoro le persone che vogliono arrivare subito al dunque senza perdersi in inutili giri di parole. Lei è una persona pragmatica e per questa ragione l’accontenterò immediatamente >> continuò Oswald, posizionandosi dinnanzi ad Hicks, mentre quest’ultimo lo seguiva con lo sguardo.
 
Fece un cenno ad Ivy con la testa, come per darle un comando ed Ivy posò il vassoio del tè sul fatiscente tavolino adiacente al fornelletto e fuoriuscì dalla stanza.
 
Oswald si avviò verso il tavolino per versarsi del tè e con molta flemma avvicinò la tazzina alla bocca per fare un breve sorso. Inalò profondamente l’odore della bevanda <<  mmm… adoro il tè, la mia cara madre me lo preparava sempre nelle giornate particolarmente fredde. >> Con la tazzina ancora fumante in mano si girò verso Hicks <<  vede, il motivo per cui l’ho fatta venire fin qui è molto semplice: ho bisogno delle sue abilità. >>  
 
In quel preciso momento Ivy fece ritorno nella stanza con una ragazza sotto il braccio. Quest’ultima aveva il volto e parte del corpo completamente sfigurati e fissava tutti in silenzio con uno sguardo vacuo.
 
Oswald riportò la tazzina sul vassoio e tirò la ragazza delicatamente verso di sé cingendole la vita con un braccio come per dare sostegno alla sua camminata a tratti manchevole. Continuò il suo siparietto compassionevole << vede, io e la mia amica abbiamo trovato questa povera anima mentre vagava per le strade di Gotham. La sua casa è andata in fiamme dopo un grave incendio e lei, forse per il trauma, non ha più ricordi della sua vita precedente. >>
 
La poveretta portò le mani al volto per asciugare le lacrime che iniziarono a caderle copiose sul viso.
 
Hicks osservava tutto quanto stesse accadendo con sconcerto. E pian piano la sua mente iniziò ad elaborare le informazioni che gli venivano offerte così subdolamente. Cominciò a capire dove volessero andare a parare.
 
<< Dal suo sguardo mi pare di intendere che la lampadina le si sia accesa! >> fece sardonico Oswald. Prese la ragazza e la gettò letteralmente tra le braccia di Ivy che la riportò fuori dalla stanza. << Bene, la mia richiesta è che lei ricucia il viso di questa ragazza… >> fece Oswald con un tono improvvisamente perentorio.
 
<< Sig. Cobblepot, ma… >> Cercò di obiettare Hicks.
 
<< Non ho ancora finito! >> gridò Oswald dando un pugno sul tavolino dov’era poggiato il vassoio che cadde rovinosamente a terra facendo in mille pezzi il servizio da tè.
 
Fece un lungo respiro per recuperare una calma che non gli apparteneva. Si ricompose allentando con il dito indice della mano destra il colletto della sua camicia e tirando all’ingiù i margini della giacca per stirarla.
 
<< non sopporto quando mi si interrompe! Come le stavo dicendo, la mia richiesta è che lei ricucia il viso di questa ragazza secondo l’immagine riportata in questa fotografia. Inoltre, dovrà impiantarle nella mente i ricordi che io le fornirò. Dovrà ricreare ex novo l’identità di questa ragazza. Inutile dirle che non accetterò un rifiuto. >>
 
Prese la mazza da baseball poggiata al muro e, usandola come bastone da passeggio, si avvicinò lentamente al dottor Hicks. Si chinò lievemente per portare i suoi occhi di fronte a quelli dello sciagurato dottore << In fondo, non credo lei abbia bisogno delle gambe per fare un’operazione. >>

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Capitolo 5
*** 5 ***


 
-Tic-toc, tic-toc- le lancette continuavano la loro infinita corsa sul quadrante dell’antico orologio a pendolo presente nel grande soggiorno di villa Van Dhal. Il tempo ed il resto del mondo parevano non essersi accorti dell’intricato mistero che improvvisamente aveva travolto e stravolto l’esistenza di Edward.
 
Ancora inginocchiato a terra con quella piccola scatola della speranza tra le mani, l’Enigmista iniziava a porsi infinite domande: chi era il mittente? Qual era lo scopo della frase “verrò a prenderti”? Perché inviare quell’avvertimento e non presentarsi direttamente? Perché non lasciare traccia alcuna?
 
Troppi “perché” gli frullavano per la testa. Dunque, decise di soffermarsi proprio su quest’ultimo quesito per dare il via alle sue indagini.
 
Probabilmente, la fretta con la quale si era avventato su quell’ arcana novità non gli aveva concesso di ispezionare attentamente il contenuto della scatola. Le emozioni che aveva provato nel vedere quella piccola fonte di speranza, mentre era intento ad ammazzarsi definitivamente, lo avevano tradito.
 
Riacquistò così, la tipica la flemma dell’Enigmista.
 
Lasciando tutto in sospeso, si sollevò dal pavimento e si mosse in direzione dello studio al fine di recuperare il suo kit investigativo. Sicuramente, le sue dita avevano già lasciato tracce ovunque, ma per non coprire ulteriormente eventuali altre impronte, preferì continuare con cautela il suo sopralluogo.
 
Tornato sulla “scena del crimine”, proprio come faceva quando ancora lavorava alla GCPD, poggiò il kit per terra ed indossò i guanti in lattice contenuti in esso. Prese la penna ed il taccuino ed iniziò ad elencare tutti gli elementi presenti al fine di esaminarli e riportarvi rispettivamente le note una volta trovato qualche indizio.
 
Posò il taccuino nel taschino interno della giacca verde e cominciò ad analizzare la scatola assieme al suo coperchio. Osservò minuziosamente ogni angolo, controllò se fosse presente un segno o un’etichetta che potessero ricondurlo al negozio dalla quale era stata acquistata ma non c’era nulla. Provò anche a tagliuzzarla per verificare se in qualche strato interno potesse esserci nascosto qualche messaggio. Ma anche in questo caso niente. Era completamente pulita. Una banalissima scatola di cartone vuota senza scompartimenti segreti.
 
A quel punto, decise di focalizzare la sua attenzione sul fogliettino contenuto in essa per ispezionarne la qualità della carta, ma pareva essere stato ritagliato da un banalissimo foglio A4 per stampanti. Difficile poter risalire alla risma di fogli dalla quale era stato pescato e, anche in quel caso, a cosa sarebbe servito?
 
Passò poi ad esaminare il sasso che era stato lanciato assieme alla scatola. Lo osservò attentamente, si trattava di un ciottolo bianco, di quelli presenti anche nel giardino della villa. Probabilmente, era stato preso proprio da lì al fine di creare un varco nella finestra per lanciarvi la scatola. Sarebbe andato più avanti a verificare se avessero lasciato qualche traccia fuori. Per il momento voleva restare concentrato sugli elementi presenti nella stanza.
 
L’unica speranza che gli restava era che il mittente avesse lasciato qualche impronta digitale, anche se in quel caso avrebbe dovuto penare non poco per fare qualche controllo incrociato con le impronte presenti nei database dell’ala forense della GCPD.
 
Senza demoralizzarsi troppo, prese la polverina nera contenuta in una scatolina del kit e la riversò con minuzia sulla superficie degli oggetti sotto esame. Con il pennellino iniziò a spolverare via la quantità in eccesso nella speranza che si sviluppasse un’impronta, ma anche in questo caso niente.
 
Quel maledetto figlio di una buona donna pareva non esistere. Finora, non era riuscito a ricavare niente sull’identità del mittente eccetto la scrupolosità che aveva adoperato per non rilasciare tracce di alcun genere.
 
Con l’indice della mano destra fissò meglio la presa degli occhiali sul setto nasale e si alzò muovendosi in direzione della porta d’ingresso, al fine di fare qualche ricerca all’esterno.
 
In quel momento però, la sua attenzione fu catturata dal piccolo nastrino verde che era finito sotto lo stipite della porta, quando maldestramente l’aveva lanciato via mentre apriva frettolosamente la scatola.
 
Lo raccolse da terra per esaminarlo: Eureka!
 
Mettendo il nastro in controluce era possibile visualizzare una frase stampata con un colore verde, di una tonalità leggermente più chiara, che difficilmente sarebbe stata notata da un occhio meno attento.
 
La frase recitava le seguenti parole: “Porosi ridiventiamo, flagellando ironie”.
 
<< Porosi ridiventiamo, flagellando ironie >> ripeté Edward ad alta voce.
 
Apparentemente la frase non aveva molto senso.
 
<< Porosi ridiventiamo, flagellando ironie >> ripeté ancora una volta.
 
“Non si tratta di un indovinello. Queste parole accostate tra loro non mi danno nessun suggerimento su una soluzione univoca. Questa frase senza senso dev’essere per forza l’anagramma di qualcosa” rifletté astutamente Nygma.
 
Prese il taccuino che aveva riposto nel taschino e vi ricopiò la frase appena citata. La scompose riportandone le lettere in ordine alfabetico:
 
“A A A D D E E E F G I I I I I I L L L M N N N O O O O O P R R R S T V”.
 
Un enigma di face risoluzione per la geniale mente dell’Enigmista, il quale non impiegò più di dieci secondi nel riportare le lettere nella posizione corretta.
 
La frase che ne venne fuori fu: “dove riposano i morti, alla fine del giorno”.
 
“Un indovinello alquanto semplice” pensò con aria arrogante.
 
Con gli occhi puntati verso l’alto, iniziò a librare per aria il dito indice per accompagnare la formulazione di un pensiero logico.
 
Disse ad alta voce << Chiaramente, con “dove riposano i morti” fa riferimento ad un cimitero e con “alla fine del giorno” intende la mezzanotte. Verrà a prendermi al cimitero a mezzanotte? È un appuntamento! >> concluse dando un pugno al palmo della sua mano.
 
La cosa stava iniziando a diventare eccitante. Una persona ignota, che sembrava avere un intelletto sviluppato, lo stuzzicava con misteriosi enigmi ed aveva intenzione di vederlo a mezzanotte nel cimitero di Gotham. Che ci fosse ancora qualcuno in quella città capace di tenergli testa e di stimolare il suo ingegno? Quali erano le sue intenzioni? Cosa poteva mai volere da lui?
 
Che si trattasse di una trappola di Jimbo? Quel poliziotto era sicuramente molto intelligente, ma questo tipo di azioni non rientravano propriamente nell’identikit dell’uomo.
 
Colpito da una scarica adrenalinica, Edward si voltò velocemente verso l’orologio a pendolo per controllare che ore fossero.
 
<< le 22:35. Per raggiungere il cimitero non impiegherò più di mezz’ora. Chi mi ha proposto questo enigma mi ha sottovalutato notevolmente. Peggio per lui, vorrà dire che mi anticiperò per perlustrare la zona >> disse gongolando all’invisibile interlocutore nella stanza, mentre rinfilava nuovamente il taccuino nel taschino interno della giacca e liberava le mani dai guanti in lattice.
 
Chiunque fosse e qualunque fossero le sue intenzioni, Edward era motivato a scoprirne il mistero. Era troppo tempo che non viveva una situazione così stimolante e aveva voglia di godersela fino all’ultimo.
 
Con la mano destra fece pressione sul proprio petto per auscultare il battito accelerato del proprio cuore. Aveva una strana ma piacevole sensazione che gli formicolava in tutto il corpo. Si sentiva esaltato come un adolescente al primo appuntamento con la ragazza più popolare della scuola.
 
Con la mano tremante per l’eccitazione, afferrò la bombetta che era caduta per terra nel trambusto precedente e la indossò sul capo. Aprì la porta d’ingresso, calò l’interruttore della luce ed uscì dalla casa, lasciando dietro di sé il buio delle ombre che fino a quel giorno avevano ottenebrato la sua mente.
 
Qualunque cosa stesse per accadere, non avrebbe più pensato a procurarsi la morte. Voleva vivere con tutte le sue forze.
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Il riflesso pallido della luna era l’unica fonte di luce ad illuminare il malinconico cimitero di Gotham. Il suono dei rametti e dei fili d’erba calpestati dalle scarpe di Edward spezzavano il riverente silenzio che sovrastava quel luogo di pace.
 
Si muoveva con cautela accovacciato tra le lapidi tenendo nella mano destra la sua automatica. Osservava con molta attenzione tutto quanto gli si parasse dinnanzi agli occhi: “Il cimitero è immenso! Dove diavolo dovrei incontrare questo signor nessuno? Dovrà esserci qualcosa, un segnale che mi farà capire qual è il luogo dell’incontro” rifletté Edward.
 
Mentre inseguiva, come un ossesso tra le lapidi, la presenza di una traccia che potesse suggerirgli quale fosse questo luogo, s’imbatté in una piccola ed elegante lastra di pietra sulla quale era stato riposto un mazzo di mughetti fresco ed una candela accesa.
 
Dalla lunghezza della candela si poteva dedurre che qualcuno fosse passato di lì da poco e questo era davvero molto strano, essendo il cimitero chiuso ormai da ore. Scostò i fiori che erano posizionati dinnanzi al nome inciso di chi giaceva lì.
 
Il cuore di Edward perse un battito.
 
Sulla lapide era riportato il nome completo di Isabella con la sua data di nascita e quella della sua morte.
 
Rimase pietrificato per alcuni secondi. La tomba di Isabella scintillava riflettendo la luce della luna negli occhi di Edward. Ne cercò istintivamente l’immagine ma nello spazio ovale riservato, generalmente, alle foto dei defunti non v’era nulla.
 
Edward sgranò gli occhi. Quello doveva essere sicuramente un segnale, ma non riusciva ad immaginarne il significato. “Tutto ciò che riguarda Isabella è morto. È morta lei ed è morto il colpevole del suo omicidio. Cosa c’entra in questa storia?” iniziò a chiedersi Edward raggiunto da una forte ansia. “Devo stare calmo, devo respirare” si disse, ancora accovacciato, mentre posò l’automatica per terra e poggiò entrambi i palmi delle mani sulla lapide per sostenersi.
 
Chinò il capo ed inspirò profondamente.
 
L’aria fresca della notte penetrò nei suoi polmoni e, grazie all’ausilio dell’ossigeno ritornato in circolo nel suo sangue, il cuore riprese un battito moderato.
 
Aggiustò gli occhiali sul naso che erano leggermente scivolati a causa del capo chino e sollevò la manica sinistra della sua camicia per osservare il quadrante dell’orologio da polso: “le 23:45. Ho ancora 15 minuti prima dell’incontro. Ho ancora tempo per riflettere. Ho ancora tempo per indagare. Ho ancora tempo”.
 
Afferrò la pistola da terra e si sedette a peso morto di fianco alla lapide poggiando le braccia sulle ginocchia piegate all’insù. I pensieri iniziarono ad arrivare alla sua mente senza che gli fu concesso di opporsi. Per tutto quel tempo in cui millantava il suo grande amore per Isabella, fino a vendicarne la morte con l’uccisione del suo più caro amico, nemmeno una volta aveva sentito il bisogno di fare visita alla sua lapide.
 
Al contrario, più e più volte, si era recato al molo per parlare con il fantasma di Oswald.
 
Alzò il viso in direzione della luna che con i suoi crateri pareva fare un gioco di chiaroscuri che la facevano sembrare un’enorme e luminosa iride cerulea. Chiuse gli occhi e respirò profondamente come per inebriarsi della luce che lo colpiva e, debolmente, con voce roca sussurrò un nome:
 
<< Oswald… >>
 
Lo scandì bene acuendo le orecchie per meglio sentire il suono del nome appena pronunciato sulle sue labbra:
 
<< Oswald! >>
 
Un brivido lo percorse in tutto il corpo accelerando nuovamente i suoi battiti cardiaci.
 
<< Cosa ho fatto? >>
 
Fu la prima volta, dalla morte del suo amico, che lasciò liberi i suoi pensieri e le sue parole arrendendosi alle emozioni. Con un gesto liberatorio, lanciò via la bombetta che aveva ancora in testa ed abbassò nuovamente il capo per massaggiarsi i capelli.
 
Gli occhi gli si fecero lucidi, ma non consentì ad una sola lacrima il lusso di cadere. Voleva tenerle lì ferme per sentirne il bruciore agli angoli degli occhi, come una piccola penitenza.
 
Aveva vissuto tutta una vita isolato. Gli altri lo vedevano come uno strambo e lui stesso non riusciva a trovare nessuno che ritenesse alla sua altezza. Ma ad un certo punto della sua vita era arrivato quel maledetto pennuto che lo aveva compreso, che lo aveva tenuto accanto sé e che, addirittura, si era sobbarcato l’onere di amarlo. Amare uno come lui. Un povero pazzo perseguitato da mille voci nel suo cervello. E lui, in compenso, lo aveva ucciso. Vilipeso e ucciso mentre lui gli dichiarava il suo amore.
 
Su quella lapide che avrebbe dovuto risvegliare il dolore per la sua amata Isabella, si ritrovò a scoprire emozioni profonde che aveva sempre taciuto. Un sentimento che aveva provato ad uccidere con un colpo di pistola.
 
Indirizzò il suo sguardo alla luna come se fosse il suo interlocutore e, stringendo i pugni, socchiuse leggermente le labbra:
 
<< Oswald, io… >>

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Capitolo 6
*** 6 ***


 
-Track! –
 
Il rumore di un rametto spezzato lo destò immediatamente dai suoi pensieri. Girò velocemente il capo in direzione del suono appena udito.
 
L’immagine che gli occhi suggerivano al cervello non poteva essere reale. “Un’altra allucinazione” era l’unica spiegazione razionale che cercò di darsi.
 
Si alzò in piedi di scatto portando le mani in avanti << t-tu non sei reale! >>
 
Con le gambe tremanti, indietreggiò lentamente << Va’ via! Smettila di tormentarmi! Tu non sei reale! Tu non sei reale! >> iniziò a gridare compulsivamente.
 
La figura sottile e fluttuante di una donna avanzava a passo lento in sua direzione adombrata dalle foglie di un grosso ramo. Nessuna parola accompagnava quell’andatura solenne. Solo l’incertezza che, labirintica, andava formulandosi nel cervello scombussolato dell’Enigmista.
 
Di tutti gli indovinelli, quesiti e problemi affrontati nella sua patetica esistenza quello sfidava ogni senso di logica.
 
Ancora convinto che il suo cervello gli stesse giocando l’ennesima burla, si chinò a terra per raccogliere un qualsiasi oggetto da lanciarle addosso al fine di tastarne l’evanescenza. Si ritrovò tra le mani la bombetta scaraventata poco prima per aria e la gettò senza esitazione come un frisbee in direzione della donna.
 
Il cappello cozzò violentemente contro una gamba della donna sfilandole i collant.
 
<< Oh mio Dio, Isabella! Sei proprio tu? >> esclamò Edward portandosi entrambe le mani al volto. << T-tu sei viva? >>
 
La donna avanzò ancora di un passo fuoriuscendo dalla zona d’ombra. Il suo viso ora era direttamente illuminato dalla luce della luna. Non c’era più alcun dubbio. Quella era Isabella.
 
Il suo sguardo austero era fisso su Edward, ma nessuna parola ancora accompagnava la sua falcata.
 
<< Isabella? >> Esclamò mentre con mano tremante infilava la pistola che aveva ancora tra le mani nella cinghia dei pantaloni << tu sei viva? Com’è possibile? Io stesso ho visto il tuo corpo all’obitorio della GCPD. T-tu eri lì, tu eri morta! >>
 
<<  Come hai potuto? >> Finalmente la donna proferì parola. << Io ti amavo con tutta me stessa! Come hai potuto farlo? Dovevo dar conto alle parole del sindaco Cobblepot! Mi aveva avvertita che eri un lurido assassino! >> Continuò ad inveirgli contro.
 
Confuso Edward provò a difendersi << Isabella, ma di cosa stai parlando? >> disse mentre cercava di avvicinarsi a lei.
 
<< Sta’ fermo! Non ti avvicinare! >> gridò la donna mentre con mano tremante sfilava una pistola dal taschino interno del soprabito per puntarla in direzione di Edward.
 
Quest’ultimo rimase inchiodato al terreno che pareva stesse venendo meno sotto i suoi piedi.
 
Sin dall’inizio di tutta questa storia non era certo di cosa gli sarebbe potuto capitare, ma mai avrebbe lontanamente immaginato una situazione del genere.
 
Era terribilmente confuso. La donna, che lui era certo aver visto priva di vita su quel lettino d’obitorio nella stazione centrale di polizia, era lì in piedi avanti ai suoi occhi ed ora teneva puntata una pistola contro di lui. Com’era possibile? Perché?
 
Cercò di riacquistare il controllo delle proprie emozioni che avevano generato un intricato guazzabuglio al centro del suo stomaco. Continuò ad avvicinarsi lentamente alla donna, sollevando entrambe le mani nel tentativo di sedare l’aggressività nei suoi confronti.
 
<< Calmati Isabella! Vedi? Ho posato la pistola, non voglio farti del male! Adesso abbassala anche tu e parliamone. Non capisco di cosa tu mi stia accusando. Io credevo fossi morta in quell’incidente d’au… >>
 
-Bang! –
 
Un colpo di pistola assestato a pochi millimetri dalla sua gamba destra frenò di botto l’incedere moderato di Edward.
 
Quest’ultimo, incredulo di quel gesto, osservò ad occhi sgranati il solco che la pallottola aveva lasciato nel terreno. Si girò di scatto verso la donna << Cavolo, Isabella! Avresti potuto bucarmi una gamba! Si può sapere che diavolo sta succedendo? Parla! >> gridò Edward << dimmi di cosa diavolo mi stai accusando! >>
 
A quel punto la donna cacciò fuori dalla sua borsa una cartelletta ocra e la lanciò violentemente ai piedi di Edward << Ecco cosa! Ne ho le prove! >>
 
Il contenuto della cartelletta si riversò in modo confuso al suolo svelandone il contenuto: fotografie e documenti di varia natura. Nygma si apprestò immediatamente a raccoglierli.
 
Quelle fotografie lo ritraevano mentre era intento a tagliare i freni dell’automobile di Isabella. I documenti riportavano i referti delle indagini effettuate alla GCPD che lo accusavano del suo omicidio.
 
Ancora accucciato a terra, Edward guardava sgomento tutto quel materiale e rivolgendosi verso la donna, partì con la sua arringa << È un falso, Isabella!  Non sono stato io, qualcuno sta cercando di incastrarmi, non ti avrei mai fatto del male, io ti amavo >> disse disperato.
 
<< Ah ah! Questa è bella! Come se l’amore che dicevi di provare nei miei confronti potesse scagionarti da un’azione simile! Amavi anche Kristen o mi sbaglio? E che fine ha fatto quella poveretta? >> lo accusò la donna.
 
Quelle parole furono una stilettata al cuore di Edward. Un boccone difficile da digerire alla luce del grande sacrificio che aveva dovuto compiere per vendicarla.
 
<< Tu preferisci credere a delle… >> tentò di domandare Edward.
 
<< …a delle fotografie ed ai referti della GCPD piuttosto che alle parole di un maniaco omicida che è stato rinchiuso ad Arkham? Sarei io la pazza se credessi alle tue parole >> Incalzò la donna, senza consentirgli di terminare la frase.
 
<< Ti prego Isabella, non parlarmi in questo modo >> disse amaramente deluso Edward.
 
Cercò di appigliarsi a tutto il suo autocontrollo per non sbroccare. Le accuse di Isabella lo avevano ferito profondamente, ma cercò di comprenderla, “chi sano di mente non avrebbe pensato le stesse cose?”.
 
C’erano molteplici questioni che non riusciva a spiegarsi in questa storia: il fatto che Isabella fosse viva, chi stava cercando di incastrarlo e per quale motivo architettare tutta quella messa in scena.
 
Tuttavia, in quel momento l’unica cosa che poteva fare era cercare di discolparsi in qualche modo, altrimenti da quella situazione ne sarebbe uscito dentro una bara.
 
Si risollevò da terra sistemandosi la giacca con entrambe le mani e, puntando i suoi occhi in quelli della donna, le chiese << Quale sarebbe stato il movente? Perché mai avrei dovuto ucciderti Isabella? Tra noi andava tutto bene! >>
 
<< Continui a farmi sorridere con queste tue domande >> disse la donna con sorriso beffardo << Potrei risponderti che non hai bisogno di un movente per uccidere qualcuno >> Strinse gli occhi fino a ridurli in due sottilissime fessure cariche di disprezzo << Edward, tu sei pazzo! >> proferì scandendo lentamente ogni parola. << Ma non sarebbe una risposta esaustiva >> continuò riacquistando lo sguardo algido di prima << È evidente che il destino ti ha riproposto uno scenario, se non uguale, molto simile a quello che hai vissuto con la povera signorina Kringle. Io lo avevo scoperto Edward. Lo sapevo che stavi tramando un piano contro il sindaco Cobblepot. E quando l’hai capito hai trovato subito il modo di togliermi di mezzo, come hai fatto con la Kringle quando ti aveva smascherato per l’uccisione dell’agente Dougherty >> Strinse più forte il calcio della pistola e la puntò al petto di Edward << Sei ripetitivo Sig. Nygma. Sei un viscido verme prevedibile! >>
 
<< Ma di cosa diavolo stai parlando Isabella? >> Edward sgranò gli occhi incredulo delle parole appena proferite. Oltre ad essere profondamente offeso e deluso dagli epiteti che la donna gli stava affibbiando, ciò che stava insinuando non aveva senso alcuno. << Stai farneticando, Isabella! Abbassa la pistola! >> terminò Edward, mentre iniziava a perdere il controllo << Io non ho fatto proprio nulla! Non ho né provato ad ucciderti, né stavo complottando contro Oswald! Semmai è stato lui a farti del male! E adesso basta! Abbassa immediatamente quella maledetta pistola ti ho detto! >> Terminò ormai furioso.
 
Poteva ben comprendere lo smarrimento della donna, ma se l’amore che lei aveva provato nei suoi riguardi fosse stato anche in minima parte vero, l’onore del dubbio avrebbe potuto almeno concederglielo. Invece si ostinava a non farlo parlare e ad aggredirlo con parole offensive.
 
Era lì con una pistola puntata al suo petto a rinfacciargli antichi dolori che già gli avevano ampiamente lacerato il cuore e che con difficoltà era riuscito a ricucire, anche grazie all’aiuto di Isabella stessa.
 
Ma, adesso, venendo a mancare completamente anche il più piccolo barlume di fiducia si sentiva sopraffatto ed indifeso.
 
Era rimasto per tanto tempo aggrappato alla magra consolazione dell’amore che Isabella provava per lui. E adesso anche quest’ultimo appiglio andava sgretolandosi avanti ai suoi piedi. Era di nuovo solo.
 
Che tutto ciò che lui vivesse non fosse altro che il frutto della sua malata immaginazione?
 
Preso dall’impeto di questo pensiero, in uno scatto fulmineo si avventò addosso alla donna nel tentativo di strapparle la pistola dalle mani, ma quest’ultima, forse spaventata dalla reazione dell’uomo, premette il grilletto e nel trambusto una pallottola andò a conficcarsi nella gamba sinistra di Edward, a pochi centimetri dal suo ginocchio.
 
Un urlo sommesso fuoriuscì dalla bocca dell’Enigmista, il quale, colpito dal forte dolore, calò subito lo sguardo sulla ferita che gli era stata inferta << Che cosa diavolo hai fatto, Isabella! Sei impazzita! >> Gridò.
 
Il sangue copioso fuoriusciva dal piccolo foro che si era creato nei suoi pantaloni e, velocemente, una chiazza vermiglia prese ad espandersi su tutta la coscia. Istintivamente, tentò di bloccarne il flusso stringendo la ferita con entrambe le mani ma l’unico effetto che ottenne fu di macchiare di sangue anche le sue mani.
 
In preda all’ansia la donna iniziò a balbettare << T-ti avevo detto di non avvicinarti Edward! Non mi credevi capace di farlo? >> e con mano tremante si mosse nell’intento di ricaricare la pistola.
 
Ma questa volta Edward fu più rapido: si lanciò su di lei scaraventandola a terra. Si mise a cavalcioni sul suo grembo per tenerle bloccate le gambe e le afferrò il polso dove teneva la pistola, sbattendolo ripetutamente in terra fin quando la sua mano non si arrese a mollare l’osso.
 
La donna si agitava sotto il corpo pesante dell’uomo provando, maldestramente, a divincolarsi dalla sua stretta morsa, ma Edward prese adesso a bloccarle entrambe le braccia.
 
<< Lasciami verme! Lasciami! >> Iniziò ad urlare a squarciagola la donna.
 
Edward le coprì la bocca con una mano per non permetterle di urlare << Isabella, Basta! Ascoltami! Tu mi devi credere, non ho mai fatto nulla per farti del male! Io ti ho sempre amata… >> le parole di discolpa fuoriuscivano dalla sua bocca incontrollate per secondi, minuti indefiniti fino a diventare alle sue stesse orecchie un suono ovattato, una cantilena.
 
Catatonico in quella posizione, le parole rimasero incastrate in gola.
 
Non era più lì, era altrove.
 
Era nel suo appartamento con le mani al collo della Kringle.
 
Era sul molo con in mano la pistola fumante con la quale aveva ucciso Oswald.
 
Era nella sua cameretta da bambino, in lacrime nascosto sotto il letto.
 
Non era facile essere Edward. Sentì di botto tutto il peso di essere sé stesso sulle proprie spalle. Il fardello di portare avanti un’esistenza patetica come la sua. La solitudine alla quale era sempre destinato.
 
Ed ora quella solitudine prese nuovamente vita sotto il suo sguardo, negli occhi spenti della donna che aveva di fronte.
 
Quando ritornò presente nel suo tempo era ormai troppo tardi. Isabella giaceva esamine sotto il suo peso, soffocata dalla sua mano che aveva il solo intento di farla tacere per qualche secondo.
 
Ogni volta che tentava di spiegarsi al mondo, qualcuno moriva. Destinato ad essere un eterno incompreso.
 
La consapevolezza di quanto fosse accaduto lo colpì come uno schiaffo feroce sul viso. Il volto di Isabella, imbrattato del suo sangue, gli si stampò negli occhi proiettandogli un’immagine che non gli era nuova.
 
Già conosceva le emozioni che avrebbe provato. Ci aveva combattuto per lungo tempo. Lo avevano condotto ad Arkham.
 
Staccò la mano dalla bocca della donna e silenzioso si rimise in piedi. Controllò la ferita alla sua gamba che, seppur non rimarginata, pareva aver smesso anch’essa di piangere copiose lacrime color rubino. 
 
Stracciò violentemente un pezzo della sua camicia al fine di utilizzarla come fasciatura per arginare l’emorragia.
 
Incurante, pulì le mani sporche di sangue sulla sua giacca e senza troppe esitazioni ricompose velocemente tutto il trambusto che si era creato in quella che orami era diventata la sua ennesima scena del crimine.
 
Documenti, fotografie, pistola. Tutto fu rapidamente riposizionato nella borsetta di Isabella.
 
Non aveva tempo di pensare. Aveva già deciso di posticipare a data da destinarsi il momento del pianto e del rimpianto. Ora doveva solo sgomberare velocemente quel luogo prima che qualcuno, attirato dalle urla della donna, si fosse avvicinato.
 
Adagiò il corpo della donna con tutti gli effetti personali all’ombra di un albero, nell’intento di nasconderlo e si avviò velocemente all’uscita secondaria del cimitero, dove aveva già spezzato il ridicolo lucchetto che la teneva sigillata. L’obiettivo era quello di trovare un autoveicolo da rubare per portar via il cadavere.
 
Lungo il breve tragitto il suo sguardò si posò sul cappello che era stato lanciato pochi minuti prima sulle gambe della donna per verificarne l’esistenza della carne. Si trovò a riflettere superficialmente sulla caducità della vita “questa bombetta poco fa mi ha aiutato a comprendere se Isabella fosse viva” si ripeté tristemente in mente. Lo infilò amaramente sul capo e si diresse verso l’uscita del cimitero.
 
Non impiegò molto ad individuare un vecchio catorcio di cui, con tutta probabilità, nessuno ne avrebbe reclamato la proprietà nell’immediato.
 
Si muoveva lesto nell’oscurità che da sempre aveva caratterizzato quella città nefasta. Nessuno in giro. O, almeno, nessuno che se ne infischiasse di tutti torti che potevano colpire gli altri.
 
Omertà, corruzione, delinquenza era quello che più amava e più odiava di Gotham.
 
Rapidamente attraversò la strada per raggiungere il veicolo. Tolse il cappello e lo poggiò sul finestrino dello sportello del passeggero e con una potente gomitata ne spaccò il vetro, nella speranza che non partisse un antifurto.
 
L’adrenalina in corpo non gli consentiva di accusare nessun dolore. Gamba, gomito, cuore. Al più tardi possibile le emozioni.
 
Aprì lo sportello e gettò il cappello sul sedile del passeggero.
 
Con la tipica confidenza che ciascun essere umano ha nel compiere un semplice gesto quotidiano, come il bere un bicchier d’acqua, collegò i cavi d’accensione e l’automobile si mise immediatamente in moto.
 
Sterzò rapidamente in direzione del cimitero e parcheggiò l’auto presso l’entrata secondaria di prima. La lasciò ancora in moto. Doveva recuperare il cadavere di Isabella e ripartire in tutta fretta.
 
Rientrato al cimitero, la trovò distesa placidamente dove l’aveva lasciata. Pareva quasi che dormisse. L’afferrò delicatamente posizionando un braccio sotto le ginocchia e con l’altro braccio le cinse dolcemente le spalle e la sollevò in aria come si suole fare con una sposa, dinnanzi all’uscio di casa.
 
Solo che non la stava portando nel loro piccolo nido d’amore. La stava spedendo nella sua dimora eterna.
 
Adagiò il corpo della donna dietro il cofano posizionando accanto a lei la sua borsetta, con tutto ciò che potesse provare che loro fossero stati lì, quella notte, vivi e poi morti.
 
Si diresse verso l’unico luogo che sapeva non lo avrebbe tradito.
 
Il molo distava circa trenta minuti dal cimitero. Trenta minuti in cui sarebbe rimasto da solo con i suoi pensieri, con le sue voci, con le sue paturnie. Trenta minuti per fare la resa dei conti con sé stesso.

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Capitolo 7
*** Trenta Minuti ***


 
Può esserci un momento, nella vita di un uomo, in cui tutto ciò che lo tiene legato alla realtà va liquefacendosi come un panetto di burro su di una padella rovente.
 
Il costante lampeggiare della spia rossa della benzina era l’unico segnale che gli confermasse che il tempo stava continuando a scorrere regolarmente.
 
Edward aveva scelto di intraprendere una strada fuori mano poco illuminata che, attraverso una via dritta, lo avrebbe condotto al molo.
 
Il buio della notte ingoiava tutto lo spazio che non veniva direttamente colpito dalla luce dei fari della macchina da poco rubata.
 
Di tanto in tanto, il paesaggio gli offriva la vista di qualche sparuta macchia di verde contornata dal vuoto più assoluto. In lontananza, i grandi palazzoni della città con le loro luci vive e sfrenate raccontavano di grandi divertimenti.
 
Cercava di tenere lo sguardo attento sulla strada nonostante il vetro del finestrino rotto, il quale dava spazio a grandi folate di vento che lo schiaffeggiavano violentemente in viso.
 
I capelli scompigliati danzavano ritmicamente all’indietro cavalcando le gelide e costanti ondate di freddo.
 
Con la mano destra, iniziò distrattamente ad armeggiare con i tasti della vecchia radio incastrata nel cruscotto, nel tentativo di individuare un brano che potesse accompagnarlo durante il funesto viaggio.
 
Dopo svariati tentativi, riuscì ad individuarne il tasto d’accensione. Un Brano di Mitch Miller, “I’ m Looking over a four leaf clover”, prese vita dalle vecchie casse dello stereo. Erano talmente usurate che parevano riprodurre il tipico suono della testina del giradischi quando attraversa i solchi di un disco.
 
La musica allegra e spensierata cozzava malamente con l’aria greve che si respirava in quell’auto. Ma Edward adorava quella canzone. Un brano che aveva conosciuto grazie ad Oswald, il quale spesso lo canticchiava stralunato tra i denti, mentre era indaffarato a compiere qualche indicibile azione.
 
Chiuse gli occhi per qualche secondo, inclinando il capo all’indietro, e tirò faticosamente un lungo respiro dalle narici per assaporare il vento fin dentro i polmoni. Una boccata d’aria fresca nell’inferno che gli era capitato. Una testimonianza di vita nella morte che lo circondava.
 
Le mani erano aggrappate allo sterzo che, da classico strumento di manovra, diventò un appiglio al quale restare saldo.
 
È possibile essere consapevoli del proprio percorso ed essere disorientati allo stesso tempo? Questo Edward lo avrebbe definito un paradosso.
 
Durante i pochissimi istanti in cui tenne gli occhi chiusi gli venne naturale lasciarsi andare alle sue emozioni. Si sentiva completamente perso, mai come in quel momento. Sapeva benissimo dov’era diretto. Sapeva benissimo quali sarebbero state le sue prossime mosse. Ma aveva perso il senso delle cose.
 
Isabella era stata per lui una persona sicuramente importante. E scoprirsi capace di ucciderla gli aveva completamente spazzato via quel briciolo di umanità che lo faceva sentire ancora parte integrante del genere umano.
 
Non tanto la perdita della donna un tempo amata, quanto questa consapevolezza lo stava ferocemente spezzando dall’interno.
 
Fino ad allora si era convinto che con Kristen si fosse trattato di un errore. Ora si chiedeva se lui non fosse un “mostro”.
 
“Mostro” la parola tuonò nelle sue orecchie dall’interno, come il sangue quando pulsa alla testa a causa della pressione alta. Lo sentì battere nelle orecchie distorcendo ed ovattando a ritmo dei battiti cardiaci i suoni esterni.
 
“Sono un mostro?”
 
A quella domanda riaprì di scatto gli occhi nella speranza di scoprire di essersi appena svegliato da un lungo sonno, magari ancora disteso su quel divano al centro di villa Van Dhal con il braccio a penzoloni.
 
Purtroppo, di fronte a lui ancora l’oscurità avvolgente della notte illuminata dai deboli fari dell’auto.
 
Il corpo della donna se ne stava silenzioso ed immobile nel bagagliaio del cofano, ma pesava come un grosso zaino sulle spalle di Edward, che faticosamente scarrozzava durante la sua traversata fuori dalla città.
 
Gli pareva di trascinare tutto il peso della sua vita dietro quel cofano.
 
“Aveva ragione Oswald. Non sono in grado di amare” si disse “ho ammazzato Isabella, proprio come aveva detto lui”.
 
“Forse è qualcosa nel suo viso, qualche elemento lombrosiano che scaturisce in me una pulsione ad uccidere” continuò cercando una giustificazione qualunque per acquietare il suo animo.
 
Ma improvvisamente…
 
-Tum-Tum! –
 
Un rumore. Due tonfi secchi provenienti dal retro della macchina fecero sobbalzare di scatto il povero cuore martoriato dell’uomo.
 
Edward diede un’occhiata veloce verso il cofano con la coda dell’occhio aguzzando le orecchie per verificare la provenienza del suono.
 
-Tum-Tum!-
 
Di nuovo. Mosse lentamente gli occhi a destra e sinistra trattenendo il respiro per cercare di capire meglio ma il frastuono del vento nelle orecchie non glielo permetteva.
 
Il ticchettio della freccia segnaletica destra ruppe in un istante quella corsa sfrenata verso il molo. Edward accostò la macchina in una specie di piazzola di sosta posta lungo la strada dissestata.
 
Spense l’auto e distese entrambe le braccia poggiando i palmi delle mani sullo sterzo.
 
Riprese a respirare regolarmente e di botto il calore dovuto allo sbalzo termico lo colpì come l’emanazione di una fumarola di un vulcano attivo.
 
Una goccia di sudore prese vita dalla fronte già madida e percorse lentamente il viso, seguendone gli incavi; lascivamente attraversò i lineamenti statuari del suo naso per poi andare a carezzarne le labbra leggermente socchiuse.
 
Finì il suo breve percorso andandosi a schiantare sulla stoffa della camicia imbevuta di sangue che teneva ben stretta sulla ferita alla coscia.
 
Edward ebbe la stessa sensazione di una lacrima impazzita difficile da trattenere.
 
Girò lentamente il capo in direzione del cofano, sistemandosi i capelli all’indietro con la mano e rimase per qualche secondo a fissare in silenzio quella che era la temporanea tomba di Isabella.
“Tum-Tum!”
 
Ora era sicuro di aver sentito quel rumore. Sembrava quasi il battito di un cuore.
 
Aprì violentemente lo sportello e scese dall’auto. Il dolore alla gamba iniziò a farsi sentire con pungenti fitte all’altezza del foro. Pareva che la sua coscia stesse adesso svegliandosi da un tiepido sonno.
 
Zoppicando, raggiunse il retro della macchina e con la mano sinistra afferrò il fermo di sgancio del cofano. Si trattenne qualche istante dall’aprirlo. Il cuore iniziò a pulsare di desiderio. Forse si era sbagliato. Forse non tutto era perduto.
 
Dentro di sé stava accendendosi un flebile lumino di speranza. Un riscatto che gli avrebbe fatto rimangiare a suon di cazzotti le terribili definizioni che si era appena dato.
 
Deglutì un groppone di saliva concentratosi nella sua bocca, si portò una mano al petto come atto consolatorio e magnanimo nei suoi confronti e sollevò il portellone:
 
Isabella era proprio lì, come l’aveva lasciata. Il viso pallido e gli occhi spenti. La borsetta con la sua roba vicino alle sue gambe.
 
Restò per alcuni secondi a fissare silenziosamente il suo volto.
 
Non c’era nulla nel suo viso che non andasse. Lui, semplicemente, non era capace di amare.
 
“Tum-Tum!”
 
Di nuovo quel suono. Questa volta poteva sentirlo nitidamente.
 
Iniziò spasmodicamente a cercarne la provenienza, calandosi verso il cofano fino ad entrarci quasi completamente dentro.
 
Avvicinò l’orecchio al petto di Isabella e…
 
“Tum-Tum! Tum-Tum!”
 
Il suono proveniva da lì. Era il cuore di Isabella che tamburellava.
 
Edward tirò un profondo respiro di sollievo e copiose e calde lacrime iniziarono ad uscire senza controllo dagli angoli degli occhi.
 
Si accasciò dolcemente sul petto della donna esausto.
 
Il battito di quel cuore gli donò la sensazione di rivivere il tepore e la calma di un grembo materno. Il luogo da cui ogni uomo nasce e al quale vuole disperatamente tornare.
 
Restò in quella posizione per secondi indefiniti ad auscultare quel battito. Finché un’amara consapevolezza lo raggiunse: non poteva essere il cuore di Isabella. Non poteva sentirlo da un’auto in corsa con il vento nelle orecchie. Non poteva sentirlo in nessun modo.
 
Edward si alzò di scatto dal petto della donna sbattendo la nuca sul portellone provocandosi un piccolo taglio. Portò la mano destra alla testa per bloccarne il dolore e sentì l’umido del sangue bagnargli la mano.
 
<< Non è possibile. Non può essere il cuore di Isabella >> pronunciò debolmente.
 
Con la mano ancora sporca di sangue afferrò il polso della donna per sentirne il battito.
 
Nulla. Non un movimento era percepito dal polpastrello del suo pollice.
 
Mentre ancora aveva in mano il polso di Isabella si avvicinò di nuovo con l’orecchio al petto ed il suono non c’era più.
 
La fissò intensamente in viso e lentamente percorse il suo corpo con gli occhi.
 
Qualcosa non quadrava.
 
Una nuova consapevolezza lo raggiunse.
 
Abbandonò dolcemente il polso della donna riposizionandolo dov’era prima e lentamente si accasciò a terra poggiando la schiena sul cofano dell’auto.
 
Fissò nel vuoto silenziosamente. Di fronte a lui la strada che aveva percorso finora si presentava come un buio rettilineo illuminato solo dalla luna. Guardò quest’ultima tristemente. Come un lupo destinato alla solitudine, avrebbe voluto ulularle contro. Gridare che non era colpa sua. Che non era ciò che voleva.
 
Con dolenza si sollevò da terra, pulendosi le natiche dai residui di terriccio che erano rimasti attaccati ai suoi pantaloni. Sbatté con forza il portellone del cofano per chiuderlo, sfogando la sua rabbia.
 
Si diresse, sempre zoppicante, verso la portiera della macchina e si risedette al posto del guidatore. Riaccese l’automobile e premette forte il piede sull’acceleratore, inserendo la prima.
 
Scalò velocemente le marce senza mai staccare il piede dall’acceleratore e, in un lampo, il vento gli asciugò tutto il sudore dal viso. L’ asfalto della strada correva velocemente sotto la luce dei fari. Con la stessa rapidità i pensieri fluivano nella sua mente.
 
Nella sua testa stava avendo luogo una marcia funebre delle sue memorie che seguivano un continuum temporale disconnesso, dove i ricordi di bambino innocente andavano mescolandosi con il sangue versato negli ultimi anni da uomo adulto e consapevole.
 
In lontananza poteva già ammirare lo specchio nero dell’acqua, attraversato da piccoli bagliori bianchi che rispecchiavano la luce lunare.
 
Lampi e tuoni presero a mostrarsi trionfanti nel buio pesto del cielo. Le nuvole cominciarono ad addensarsi sopra di lui. Alcune gocce d’acqua iniziarono a cadere sul parabrezza dell’auto, prima lentamente. Poi nel giro di pochi secondi si trasformarono in una feroce tempesta. Vento e pioggia si abbatterono inesorabili sul povero Edward entrando dal finestrino rotto.
 
Lo raggiunse l’idea folle di non abbandonare mai quell’acceleratore. Di gettarsi in acqua assieme a tutti i suoi segreti.
 
Può esserci un momento, nella vita di un uomo, in cui tutto ciò che lo tiene legato alla realtà va liquefacendosi come un panetto di burro su di una padella rovente. E quel momento per Edward era durato 30 minuti.

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Capitolo 8
*** 8 ***



Quando i giochi sono fatti altro non ci resta che stare fermi ad osservare il susseguirsi degli eventi, nella speranza che tutto accada secondo quanto preventivato.
 
Da giorni, Oswald indossava il completo elegante che aveva infilato, inconsapevolmente, come abito funebre il giorno che Edward gli sparò al molo.
 
Era l’unico capo decente che poteva metter su senza apparire come un malconcio spaventapasseri in attesa che le cornacchie lo andassero a punzecchiare.
 
Se ne stava seduto al buio su di uno sgabello sgangherato con il gomito poggiato sul tavolo snack della cucina e la testa posata svogliatamente sulla mano.
 
Con l’altra faceva fluttuare nell’aria la mazza da baseball che, da giorni ormai, fungeva da suo bastone da passeggio.
 
Ad illuminarlo, solo la luce lunare che filtrava dal tetto in vetro.
 
Lo sguardo era fisso nel vuoto. A vederlo da fuori, pareva un ragazzino annoiato in attesa che la madre gli preparasse la cena per poi filare dritto a letto.
 
Lanciò uno sguardo verso l’orologio a cucù appeso al muro. Era quasi ora.
 
Versò un’acquavite bronzea in un’enorme tazza da latte, raccattata nel marasma di cianfrusaglie presenti nella stanza. In qualche posto sperduto di quella terra, avevano avuto il barbaro coraggio di spacciare quella inqualificabile brodaglia come Brandy.
 
D’altronde, questo era ciò che passava il convento. E lui di alcol ne aveva bisogno. Ne aveva sempre avuto un gran bisogno.
 
Ingurgitò la bevanda in un sol sorso, stringendo forte gli occhi e con pesantezza appoggiò la tazza sul tavolo.
 
“Distruggergli la mente. E poi il cuore” pensò fra sé e sé.
 
Che emozioni avrebbe dovuto provare in questo momento? Cosa avrebbe dovuto ricavarci da tutta questa storia?
 
Finalmente, l’uomo che lo aveva spogliato di tutto ed ucciso, buttandolo in quelle gelide acque avrebbe avuto ciò che si meritava.
 
Come sempre Oswald avrebbe vinto, dimostrando al mondo intero che non si gioca con lui, che non si gioca con i suoi sentimenti.
 
Un sorriso di compiacimento fece capolino sul suo volto.
 
L’effetto del Brandy iniziò a manifestarsi giù per le gambe, provocando una sensazione di pesantezza fin giù i piedi.
 
<< distrutto nella mente e nel cuore. È questo quello che voglio! È questo quello che voglio! Che tu possa essere dannato per sempre Edward! >> In un raptus improvviso prese la tazza, ormai vuota, e la scagliò violentemente contro il muro.
 
Le centinaia di schegge si sparpagliarono rovinosamente sul pavimento. Oswald rimase in religioso silenzio ad osservarne il triste epilogo. Si calò lentamente per raccogliere qualche frammento, ma si graffiò leggermente il dito indice della mano destra.
 
Come un bambino preoccupato, infilò innocentemente il dito in bocca, compiendo l’inconscia azione disinfettante con la propria saliva, ed iniziò a suggere assaporando il gusto ferruginoso del proprio sangue.
Si sentì come quella tazza. Frammentato.
 
E come quella tazza, feriva tutti coloro che gli stavano vicino, che avevano l’ardire di toccarlo. Toccarlo fuori. Toccarlo dentro.
 
Edward, a modo suo, lo aveva sempre toccato. Toccato fino in fondo.
 
Lo toccava con i suoi gesti; lo toccava con le sue parole; lo toccava con i suoi pensieri. E a lui piaceva essere toccato da Edward.
 
Un brivido caldo lo percorse lungo il petto arrivando fino alle viscere.
 
Si, era vero che lo desiderava distrutto, ma era pur sempre un modo di desiderarlo.
 
Lo aveva sempre desiderato: ferito, pestato, morto, suo.
 
Sarebbe finalmente riuscito a ferirlo, pestarlo ed ucciderlo.  Ma non a renderlo suo. Non sarebbe mai riuscito a renderlo suo, né da vivo, né da morto.
 
L’Enigmista aveva su di lui lo stesso effetto che ha la luce di un neon per una falena. Attratto a tal punto da schiantarcisi ripetutamente contro, fino a rompersi la testa.
 
Si alzò in piedi in un moto di stizza. Non andava bene così. Non poteva lasciarsi andare a quel filone di pensieri. Non poteva nuovamente farsi drogare da quelle emozioni.
 
A cosa lo avrebbero portato? Quale altro irreparabile danno avrebbe compiuto in nome di quei sentimenti? Come si sarebbe ulteriormente rovinato se avesse dato adito a quella dormiente centrale nucleare che aveva impiantata nel petto e che sarebbe potuta esplodere al primo passo falso?
 
Era tutto così tristemente sbagliato. A cosa sarebbe servito ora riconoscere quei sentimenti non ricambiati? Quanto poteva essere patetica la sua vita? L’unica consolazione che gli era rimasta consisteva nel distruggere la persona che nel suo intimo più profondo aveva sempre, in qualche modo, amato.
 
Come su di una scacchiera, tutte le pedine erano strategicamente posizionate, pronte ad attaccare il Re. Aveva disegnato tutto per bene, ma cosa sarebbe successo una volta che lo avrebbe avuto di fronte? Avrebbe avuto la forza di attaccarlo? Avrebbe avuto la forza di fare la sua ultima mossa? Avrebbe fatto, finalmente, Scacco Matto?
 
Con te ho concesso all’amore di rendermi debole
 
Scosse la testa come per cacciar via una fastidiosa mosca e riprese velocemente il suo cipiglio.
 
Afferrò la mazza da baseball e, con passo claudicante e fiero allo stesso tempo, raggiunse la porta.
 
A quell’ora L’Enigmista aveva sicuramente già intrapreso la via del molo. Lo conosceva come il palmo delle sue mani. Prevedibile nei tempi e nei luoghi. Sapeva che sarebbe andato lì, nel cuore della notte, il più in fretta possibile, a smaltire i suoi rifiuti assieme ai suoi due di picche.

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Capitolo 9
*** 9 ***




Faceva freddo quella notte, un fottuto gelo.
 
Era terminato da poco il temporale lampo che aveva inabissato tutta Gotham in un diluvio universale.
 
Pinguino camminava nervosamente avanti ed indietro lungo il molo da circa un quarto d’ora. Si strinse nelle braccia ed iniziò a frizionarsi vigorosamente le spalle nell’intento di recuperare un po’ di calore. Il naso prese ad arrossarsi relegandogli l’immagine buffa di un piccolo pennuto spaventato.
 
Si sentiva stranamente emozionato. Inconsciamente, prese ad aggiustarsi il colletto della camicia ed a fissare più stretta la cravatta. Stirò la giacca con entrambe le mani e spolverò le spalline con un tocco rapido. Si posizionò al centro del molo e tronfio si mise ad aspettare per circa due minuti.
 
Niente.
 
Si strinse nuovamente nelle braccia e prese ad andare su e giù, di lungo ed in largo, a girare in tondo.
 
Ma che diavolo mi prende?” Si interrogò “e perché ci sta impiegando tutto questo tempo?” si chiese stizzito.
 
Quel tempo dava al povero corvino l’occasione di farsi mille paturnie, di dare sfogo a tutte le sue insicurezze.
 
Sì, doveva ammetterlo, era emozionato. In fondo, sarebbe stato il primo incontro con Edward, dopo il misfatto. E quest’ultimo nemmeno sapeva che lui fosse vivo.
 
Come avrebbe reagito? Oswald non poteva evitare di domandarselo. Che cosa avrebbe detto o fatto? Chissà se si era mai pentito di averlo ucciso? Chissà se aveva pianto…
 
Forse non era stata una buona idea andare da solo al molo. E se Edward non si fosse fatto vivo? Se tutto quanto pianificato fosse andato storto? Si sarebbe ritrovato lì, da solo sul molo. Al buio. Privato della sua vendetta. Ci si sarebbe potuto buttare lui stesso nell’acqua stavolta.
 
<< Ahhrrghhhh, adesso basta! >> si innervosì malamente << non ho nessuna intenzione di continuare in questo modo! >> iniziò ad urlare agitando per aria il dito indice della sua mano destra << Quel patetico mollusco rinsecchito deve strisciare come il verme che è! Io della pietà non me ne faccio un bel niente! Perirà! Quello che ha compiuto oggi sarà stato il suo ultimo omicidio! Che nessuno abbia mai a dire che il Pinguino, il Re di Gotham, abbia avuto pietà di una nullità del gen… >>
 
Mentre proferiva con aria trionfale le sue parole, due bagliori spuntarono da lontano rompendo il buio che lo circondava. Sgranò gli occhi perdendo qualche battito.
 
<< E’…è lui >> disse con un filo di voce che solo lui avrebbe potuto udire.
 
La macchina avanzava rapida verso la fine del molo e Pinguino si trovò costretto ad alzare un braccio davanti ai propri occhi per ripararsi dagli abbaglianti che puntavano dritti sul suo volto.
 
“Ma che diavolo sta facendo? Se non frena subito finirà in acqua!” rifletté sbalordito Oswald.
 
Ma la vettura non accennava a rallentare.
 
Fece un balzo sul lato per non finire travolto e cadde dritto per terra. Rapidamente, girò la testa per seguire il tragitto dell’automobile che, fuori da ogni previsione, si lanciò nel vuoto cadendo in acqua.
 
<< Nooooooooooorgh! >> Un urlo disumano e disperato fuoriuscì dalla bocca del corvino. Si alzò di scatto e, ignorando completamente il dolore alla caviglia che aveva preso a pulsare a causa della caduta, si diresse claudicante sul ciglio del molo. Si inginocchiò e, poggiando entrambe le mani al bordo della strada, si affacciò sul canale d’acqua.
 
Con occhi sbarrati, osservò l’automobile inglobare acqua al suo interno, mentre bolle e cerchi concentrici iniziarono a disegnarsi intorno alla vettura che lentamente scendeva verso il fondale.
 
Un’ultima bolla e di Edward e della falsa Isabella non rimase più nulla.
 
Le acque del canale tornarono serene, come se nulla fosse mai accaduto ed a Pinguino non rimase che osservare il suo riflesso in quel freddo specchio liquido.
 
Restò paralizzato col corpo e con la mente per un istante indefinito. Non riusciva ad elaborare quanto accaduto. Non lo aveva previsto.
 
L’aria calda, in contrasto con il freddo di quella notte, guizzava dalla sua bocca, tradendo il battito accelerato del suo cuore.
 
<< Vigliacco, torna a galla! È il mio turno ora! Sono io che devo ucciderti! >> Iniziò ad imprecare Oswald.
 
Non sapeva da cosa fossero dettate quelle parole pregne di rancore e delusione. Era sicuramente frustrato di non aver potuto compiere la sua vendetta, ma si dovette riscoprire anche amaramente deluso di non averlo visto. Almeno per l’ultima volta. Un ultimo confronto. La soddisfazione di fargli vedere che lui fosse ancora vivo.
 
Ancora in ginocchio, prese a battere istericamente i pugni sull’asfalto procurandosi delle abrasioni ai lati delle mani. Afferrò furibondo la mazza da baseball che poco prima era rotolata per terra ed iniziò a spaccarla violentemente contro i margini della banchina, lanciandone i brandelli nell’acqua.
 
<< Maledetto vigliacco, non sei altro che un codardo! Questa è la grande mente dell’Enigmista? Non hai avuto nemmeno il coraggio di affro… >>
 
ll resto della frase gli morì in gola non appena sentì il tocco metallico della canna di una pistola puntato dritto sulla sua nuca.
 
<<  Ciao Oswald!  >> pronunciò rocamente l’uomo alle sue spalle.
 
Il volto di Pinguino cambiò mille sfumature di colori e il cuore parve liquefarsi scivolando nelle viscere.
 
Alzò cautamente le mani all’altezza del capo in segno di resa e lentamente tentò di girare il capo per fissare negli occhi il suo interlocutore.
 
<< Non voltarti! Fai un solo movimento e il tuo cervello diverrà uno squisito buffet per pesci. >> minacciò l’altro con tono basso e pacato.

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Capitolo 10
*** 10 ***



<< Non voltarti! Fai un solo movimento e il tuo cervello diverrà uno squisito buffet per pesci. >> minacciò l’altro con tono basso e pacato.
 
<< Sei uno sciocco! Solo uno sciocco come te poteva credere che IO potessi cadere nel tuo stupido tranello >> continuò a proferire beffardo.
 
<< C-cosa vorresti farmi credere, Edward? >> balbettò Oswald ancora chino in terra con le braccia alzate. Cercò di darsi un tono, fallendo miseramente.
 
Quell’infame bastardo non si era lanciato con la macchina in acqua. Quel diavolo aveva capito tutto. Era stato al suo gioco.
 
Come diavolo era possibile? Lo aveva fatto seguire e lui stesso aveva monitorato i suoi movimenti, assicurandosi che il pesce abboccasse all’amo. Ma ora la situazione si era invertita. Era lui a stare lì, in ginocchio; a pregare in cuor suo per aver salva la vita e per potere avere un’ultima occasione di guardarlo negli occhi, con aria di sfida.
 
<< Ahahah! >> una fragorosa risata fuoriuscì dalla bocca dell’Enigmista interrompendo i pensieri del Pinguino << sei incredibile Oswald! Sei lì, in terra, con una pistola puntata alla nuca ed ancora non riesci a comprendere l’evidente? Ancora vuoi fare il tipo tosto? Ti ho battuto, come sempre, come in ogni cosa! >> con la punta della pistola lo spintonò dietro la testa, come per rimarcargli la sua posizione << e ora dovrai fare a meno della tua patetica…cosa? Vendetta? Cos’è questa farsa che hai messo in scena? >>
 
Il pinguino deglutì un grosso groppone di saliva e prese coraggio a parlare:
 
<< Non sei sorpreso nemmeno un po’ di vedermi vivo? >> sibilò con tono sarcastico << Non hai intenzione di regalarmi neanche questa soddisfazione? >>
 
<< … >>
 
Non udendo alcuna risposta, Cobblepot proseguì.
 
<< Bene! Almeno consentimi di morire in piedi con onore, guardandoti in volto. Non vuoi assicurarti che sia realmente io e non una marionetta addestrata per ingannarti? >>
 
Edward immaginò l’espressione sfidante che, sicuramente, il vecchio amico aveva disegnata in volto. Vacillò per qualche secondo. Fece un passo in dietro, allargandosi leggermente il colletto della camicia, che improvvisamente era diventato più stretto. I battiti nel petto iniziarono ad aumentare d’intensità ed Edward si riscoprì stranamente agitato. Perché?
 
Aveva lui il controllo della situazione. Cosa c’era da agitarsi?
 
<< Non sono uno stupido Oswald. Perché mai dovrei darti l’occasione di poterti difendere? Posso sincerarmi dopo la tua morte sulla tua vera natura >> la voce tradì la sua insicurezza.
 
<< Capisco che tu non sia interessato a guardarmi negli occhi per l’ultima volta, ma non hai proprio nulla da dirmi “vecchio amico mio”? >> Oswald scandì lentamente queste ultime parole << almeno raccontami come hai fatto a scoprirmi, che piacere c’è altrimenti? >> Concluse il Pinguino, cercando astutamente di far leva sulla vanità di quel diavolo.
 
Edward rimase piccato. Non era certo uno sciocco, erano chiare le intenzioni di Cobblepot, ma non poteva non riconoscere che avesse proprio ragione. In fondo, tutto ciò che aveva fatto e che continuava a fare nella sua vita serviva solo a nutrire il proprio Ego, fin troppo martoriato da una giovinezza insulsa.
 
Inoltre, contrariamente a quanto aveva affermato Oswald, aveva stranamente voglia di vederlo. Non sapeva il perché, ma era un bisogno che gli partiva dalle viscere, il luogo dove nascono tutte le impulsività.
 
<< Alzati! >> L’ordine partì perentorio dalla bocca dell’Enigmista. Ciò provocò un sorrisetto di sbieco sulle labbra del Pinguino che, seppur Edward non poteva vederlo, lo teneva impresso nella sua immaginazione.
 
Oswald diede seguito al suo ordine, abbassando le braccia per farsi leva.
 
<< Non ti ho detto di abbassare le mani! >> Urlò l’Enigmista tamburellando nuovamente la canna della pistola sulla nuca del Pinguino.
 
Oswald frustrato sollevò nuovamente le braccia e con significativo sforzo, causato dal dolore perenne alla caviglia, si alzò in piedi.
 
Questo suscitò l’ilarità dell’Enigmista che lo accompagnò nel gesto con una risata beffarda.
 
Pinguino incasso l’ennesima umiliazione senza proferire parola. Rimase in religioso silenzio in attesa del nuovo ordine, che non tardò ad arrivare.
 
<< Girati! >> soffiò Edward.
 
Il Pinguino, udito quest’ultimo comando, che pareva più una supplica che un’intimazione, faticò non poco a mantenere la sua solita flemma.
 
Era giunto il momento del confronto. Lo avrebbe visto finalmente in faccia, dopo tutto questo tempo. Dopo averlo lasciato lì al molo con le parole ti amo morte in gola, mentre Edward gli ficcava del piombo nel petto.
 
Il loro cuori tamburellavano ritmicamente all’unisono. Entrambi temevano quasi che l’altro avrebbe potuto sentire e vedere il proprio cuore uscire dal petto.
 
Oswald si mosse lentamente, come per allungare i secondi in minuti ed i minuti in ore in un moto crescente ed infinito.
 
Quando si fu finalmente girato, fissò i suoi occhi cerulei in quelli di Edward e le sue lunghe ciglia fremettero per qualche istante, trattenendo un sospiro bloccato in gola.
 
Eccolo lì.
 
Edward Nygma. L’Enigmista. Con la sua figura statuaria. Un disegno perfetto di un concetto perfetto: intelligenza, sagacia, precisione, affidabilità. Gli occhi seri ed asettici di un elaboratore, che osservano ed analizzano senza tradire alcuna emozione.
 
Il fisco asciutto e slanciato sotto il completo verde da personaggio dei fumetti.
 
Allungando lo sguardo sulla sua figura, poté notare l’abito bistrattato, probabilmente a causa delle disavventure che aveva dovuto affrontare a causa sua. Una ferita secca alla gamba, riparata da un pezzo di stoffa arrabattato. I capelli arruffati incorniciavano in modo anacronistico il suo volto serio e fiero. Una ciocca di capelli del suo ciuffo scendeva innocente su di una guancia.
 
Oswald per un breve istante ne provò invidia.
 
Nonostante lo stato malconcio, riusciva a riflettere un’immagine di perfezione agli occhi del Pinguino. Non c’era nulla fuori posto. Un disegno perfetto di un concetto perfetto.
 
Edward teneva la pistola puntata verso il petto del corvino e con i suoi occhi impenetrabili, nascosti sotto le lenti, lo squadrava da capo a piedi come per accertarsi di quel che aveva di fronte.
 
E quel che aveva di fronte era lui, Oswald Cobblepot, il Pinguino. Mentore e “amico fidato”. Brillante, astuto, e a quanto pare immortale.
 
Stava lì, dinnanzi a lui, con le braccia alzate e quegli occhi d’acqua che lo fissavano in profondità. I capelli leggermente cresciuti cadevano disordinati sul viso, ricordandogli la pettinatura svogliata che aveva durante la sua degenza ad Arkham.
 
Indossava il completo che aveva messo l’ultimo giorno che si erano visti. All’altezza dello stomaco c’era un foro ben visibile procurato dalla pallottola che Edward gli sparò al molo. Si fermò per qualche istante ad osservare quel foro.
 
Oswald lo notò e di rimando abbassò la testa, osservando anch’egli il buco sul suo panciotto. Rialzò lo sguardo verso Edward che, contro ogni immaginazione, sempre con la pistola puntata verso il suo petto, si avvicinò di qualche passo e con la mano sinistra sfiorò delicatamente quel foro.
 
I loro sguardi si incrociarono e le linee austere dei loro volti presero ad addolcirsi lievemente, tradendo l’emozione nel riscoprirsi di nuovo vivi, di nuovo assieme.
 
Restarono in quella posizione per istanti indefiniti finché entrambi, in un moto di imbarazzo, indietreggiarono d’un passo distogliendo lo sguardo.
 
Ad interrompere l’impaccio fu Oswald. Quel flusso di emozioni doveva essere assolutamente troncato sul nascere. Aveva avuto la sensazione di esserci già finito dentro in passato e ne era uscito “morto”.
 
 << mh-mh >> si grattò la gola per buttar giù il NODO che aveva iniziato ad aggrovigliarsi << Allora? >>
 
Completamente distratto da chissà quale turbinio di pensieri, l’Enigmista raddrizzò le spalle stringendo più forte il calcio della pistola e si rivolse a lui con sguardo perso: << Cosa? >>
 
<< Come cosa? Sto aspettando la tua spiegazione. Come hai fatto a capire quello che stava accadendo? >> Continuò Oswald, agitando le braccia alzate << iniziano ad intorpidirsi >> concluse sardonico.
 
<< Beh, di questo non me ne stupisco! La tua forza è paragonabile a quella di un koala. Non ti avrebbe fatto male fare un po’ di esercizio fisico prima di venire qui ad affrontarmi! >> seguitò Edward, indicando con la pistola il corpo di Pinguino dall’alto in basso, facendo riferimento al significativo dimagrimento del vecchio amico.
 
<< Sai com’è, mi accontento di essere ancora vivo >> Oswald fece spallucce con sguardo indifferente, tentando di nascondere quanto l’avesse ferito quell’insulto gratuito e senza riguardo.
 
<< per il momento >> incalzò Edward, inarcando le sopracciglia con fare sardonico.
 
<< come dici tu, per il momento >> Continuò Oswald con sufficienza << beh, dobbiamo aspettare ancora molto? Il grande interprete vuol farsi pregare? >> Sapeva sempre come dissimulare le sue emozioni, gettando di rimando risposte taglienti e sarcastiche.
 
<<  Hai fretta di morire, Oswald? Mi sembri impaziente >> insospettito, iniziò guardingo a girarsi intorno per sincerarsi che non ci fosse nessun’altro << bene, mh-mh >> si schiarì la gola << non c’è molto da raccontare. Devo ammettere che inizialmente, quando ho trovato quel bigliettino, lanciatomi dalla finestra, non avevo la più pallida idea di chi potesse essere. Dopo la tua morte io… >>
 
<< dopo che TU mi hai sparato >> lo corresse Oswald lanciandogli uno sguardo avvelenato.
 
<< Si Oswald, è vero, ti ho sparato. Ma tu rammenti il motivo per cui l’ho fatto, vero? >> Incalzò l’Enigmista << non interrompermi, per favore. Io...io stavo dicendo… dopo la tua morte, dopo che ti ho sparato al molo >> si corresse << non ho trovato nessun’altra persona con la quale potermi misurare. Mi sono dovuto ricostruire da solo. Ho dovuto superare la perdita di Isabella, ho dovuto superare la perdita dell’unico amico fidato che io abbia mai avuto… >>
 
<< mpf… >> Oswald sospirò beffardo alle sue ultime parole.
 
L’Enigmista ignorò la laconica replica di Cobblepot. Sapeva che l’egoismo e l’egocentrismo del suo interlocutore non gli consentissero di comprendere appieno le sue parole. Non poteva minimamente immaginare il baratro nero in cui era affondato dopo la sua scomparsa. Come lo raggiungesse nelle notti più irrequiete, sottoforma di un’allucinazione, ad offenderlo ed umiliarlo. Di quanto si fosse amaramente pentito di non averlo più nella sua vita. Di quali conclusioni avesse raggiunto quella notte al cimitero, seduto sulla tomba di Isabella.
 
Così proseguì con il suo discorso.
 
<< Con la tua morte ho iniziato un lungo lavoro su me stesso che mi ha portato ad una nuova nascita, come Enigmista. Per un breve periodo sono riuscito ad incarnare il terrore di Gotham. Ma purtroppo ho dovuto ben presto fare i conti con la realtà e rendermi conto di quanto fosse effimera questa rinascita. Solo quando ho ricevuto quel misterioso biglietto, dentro di me ha pulsato di nuovo la vita. La speranza di un avversario degno di nota, qualcuno con il quale avrei potuto finalmente rivaleggiare. Ma anche questa speranza si è rivelata effimera >> continuò mestamente Edward.
 
Oswald lo osservava in silenzio confessare limpidamente le sue delusioni ed amarezze. Avrebbe dovuto essere il momento da cui trarre il maggior godimento, eppure...
 
<< Quando ho incontrato Isabella al cimitero, pensavo si trattasse dell’ennesima allucinazione. Ma sfortunatamente non lo era. Non è ironico, Oswald? >>  Edward sorrise con un guizzo di follia negli occhi << in poco tempo mi sono ritrovato su di lei. Con le mani sulla sua bocca e sul suo collo, a recitare un copione già vissuto. L’ho uccisa. Di nuovo mi sono ritrovato ad uccidere la persona che sostenevo di amare. La persona per la cui vendetta ho sacrificato te, il mio migliore amico. Ed è stato lì che ho pensato di non essere in grado di amare. Di essere un mostro, come te! >> proseguì Edward con rabbia.
 
Ecco! Oswald aveva fatto centro! Non era questo il suo obiettivo? Non desiderava ardentemente distruggerlo nella mente e poi nel cuore? Eppure, se ne stava ancora lì ad ascoltare con le braccia alzate, senza trarne alcuna soddisfazione.
 
<< Quando ho deciso di liberarmi del corpo di Isabella portandola al molo, durante il viaggio mi è come parso di sentirla muoversi. Sono sceso dalla macchina. Sono andato ad aprire il cofano e lì mi sono accorto che non era lei. Che quelle non erano le sue mani. Che quello non era il suo corpo. >>
 
Un bagliore infuocato illuminò gli occhi dell’Enigmista.
 
<< Tu, Oswald! Sei tu il mostro! Lo sei sempre stato! Manipoli le persone per i tuoi più vili scopi. Avresti potuto riscattare la tua persona, ed invece hai pianificato la più vile delle vendette. Tu mi hai spezzato più di chiunque altro >> la voce rotta da un pianto asciutto.
 
Prese a ricaricare il colpo nell’arma, pronto a ficcargli una pallottola in quel suo stupido cuore nero.
 
<< Ho pensato di farla finita, Oswald. C’è stato un istante in cui ho desiderato che tutto questo finisse…non dover più lottare con la mia mente… Ma non potevo non vedere chi fosse il mostro che si celava dietro un piano tanto crudele. Di tutte le cose che mi hai fatto passare, Oswald, questa è stata la più crudele >> la voce di Edward si spezzò, costringendolo ad inghiottire un bolo di lacrime ed amarezza << Quali sono le tue ultime parole? >> chiese serio, fissandolo negli occhi.
 
Oswald deglutì. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Lo assalì la consapevolezza di dover affrontare una volta per tutte Edward, ma soprattutto sé stesso.
 
Durante il monologo di quest’ultimo, se n’era stato zitto ad incassare le dure parole del vecchio amico. E dovette amaramente concludere che nulla di tutto quanto fosse successo gli avesse dato la benché minima gratificazione.
 
Vedere Edward distrutto non lo aveva reso felice. No.
 
Lo faceva sentire un vigliacco.
 
Non sarebbe dovuta andare così. Pareva che la situazione si fosse completamente ribaltata. Dalle parole dell’Enigmista lui ne usciva come il pezzo di sterco della situazione. Il traditore, il diabolico mostro.
 
Ma, fino a prova contraria, era lui che si era preso una pistolettata nello stomaco ed era finito a dar da mangiare ai pesci. Era lui che, mentre si scopriva innamorato, veniva subitamente sostituito da una sgallettata uscita da chissà quale bettola.
 
Si grattò nuovamente la gola e socchiuse leggermente la bocca << E tu? Tu non vuoi sapere com’è che sono ancora vivo? >> Provò ad istigarlo, cambiando il focus del discorso.
 
<< Non m’interessa! >> rispose secco l’Enigmista.
 
Piccato nell’orgoglio Pinguino seguitò nel suo discorso << ho già detto le mie ultime parole una volta su questo molo. Le ricordi, Edward? >> schioccò la lingua con la sua solita espressione esuberante << non ti fecero alcun effetto, allora. Cosa potrei mai dire adesso? >> rimase in silenzio per qualche secondo in attesa di una reazione da parte di Edward.
 
Nulla.
 
<< Si, è vero. Ho ucciso Isabel! >> pronunciò male di proposito il suo nome, aspettandosi la solita correzione da parte di Edward, il quale gli rimandò unicamente un ghigno d’insofferenza.
 
<< Ho esagerato! >> si limitò a dire, come se avesse semplicemente gettato una cartaccia per terra << ma tu mi hai sparato, Ed! Tu mi hai ucciso! Dimmi tu, come avrei dovuto reagire? Avrei potuto superare il fatto che mi hai depredato del mio impero, avrei potuto superare il supplizio che hai inferto alle spoglie del mio defunto padre, avrei potuto anche accettare che l’amore che ti avevo confessato in punto di morte non fosse ricambiato, ma tu mi hai ucciso, Ed. Vuoi che ammetta di aver fatto degli errori? Ok, va bene, lo ammetto! Ma tu… >>
 
<< Non mi interessa! >> lo interruppe con un grido disperato Edward << nulla di queste giustificazioni che mi stai rifilando mi interessa! Voglio che tu ammetta di essere un mostro! Voglio che tu ammetta di non avere un cuore, che sei incapace di amare! >> Gridò Edward.
 
<<  Non posso farlo, non sarebbe la verità. Non sono come te >> rispose come un bambino capriccioso. Un atteggiamento che aveva sempre fatto uscire fuori dai gangheri Edward.
 
<< Bugiardo! >> Urlò nuovamente l’Enigmista, perdendo completamente il controllo.
 
In un guizzo di follia si gettò con tutto il suo peso su di Oswald, sferrandogli un destro nello stomaco.
 
<< Ammettilo che non mi hai mai amato, perché non ne sei capace! >> un altro pugno nello stomaco e fiocchi di sangue presero a zampillare dalla bocca del Pinguino che perse l’equilibrio e cadde rovinosamente a terra trascinando con sé Edward, al quale si era aggrappato per la giacca.
 
Il sapore metallico del sangue fresco risvegliò le papille gustative del corvino, ed una grossa fitta allo stomaco si fece viva pungente. La vecchia ferita, che con lentezza e dolore aveva faticato a rimarginarsi, riprese a sanguinare.
 
Faceva male, si. Ma non era il momento di abbandonarsi alla sofferenza.
 
Dopo i primi istanti di shock, Oswald non si perse d’animo ed approfittò del momento di trambusto posizionandosi a cavalcioni sul busto di Edward. Prese la mano in cui teneva la pistola e la sbatté violentemente in terra.
 
La mano dell’Enigmista si sciolse come burro al sole e la pistola prese a roteare sull’asfalto allontanandosi di qualche metro.
 
Infilò rapidamente la mano nella giacca per recuperare la sua di pistola, ma a quel punto fu Edward ad essere più lesto e con un manrovescio dritto sul volto, Oswald capitolò nuovamente a terra assieme alla sua pistola che volò di qualche metro, andando a finire in acqua.
 
Senza la sua pistola, Pinguino valeva meno di una forchetta in un brodo. Fra la sua gamba zoppa e l’esilità della sua statura, era più che conscio che non avrebbe mai potuto avere la meglio sul suo rivale.
Così prese l’unica scelta che riteneva più saggia: la fuga.
 
Si alzò quanto più rapidamente i suoi arti gli consentissero e goffamente iniziò a correre in direzione della pistola di Edward.
 
Quest’ultimo, comprese le intenzioni del pennuto, seguitò a rincorrerlo e gli si gettò letteralmente addosso, aggredendolo di spalle.
 
Entrambi caddero a terra e Pinguino sbatté la faccia dritta sull’asfalto. Sentì distintamente il suo zigomo destro scricchiolare nell’impatto e rivoli di sangue iniziarono ad imbrattargli il volto pallido.
 
Edward rimase su di lui, bloccandolo saldamente per la schiena. Con la mano destra gli afferrò i capelli, costringendolo ad alzare il capo.
 
<< Ammettilo, vigliacco! Ammettilo anche tu che non sei capace di amare! >> gli sussurrò all’orecchio.
 
L’aria calda del suo alito solleticò il padiglione auricolare del corvino che, frastornato dal dolore, non riusciva a formulare una frase sensata oltre a qualche mugugno.
 
Con uno sforzo sovraumano, liberò una mano bloccata sotto il ginocchio dell’Enigmista nel tentativo di afferrare quella che Edward gli teneva stretta come una tenaglia tra capelli. Ma quest’ultimo l’agguantò rapidamente e gliela torse contro la schiena, facendo scricchiolare le ossa di Pinguino, il quale cacciò un urlo strozzato.
 
<< Cosa c’è Oswald? Non hai nulla da dire? Stai sempre a blaterare continuamente sciocchezze ed ora te nestai in silenzio? >> Incalzò Edward dall’alto della sua posizione << Mi riempivi sempre la testa con le tue stupide ciance, sempre un’opinione su tutto, cos’è la morte ti ha reso più saggio? >> continuava a sussurrargli all’orecchio sprezzante << Dì la verità, dì quello che sei: uno stupido pavone borioso! >>
 
<<  Cough…Cough… >> due colpi di tosse uscirono dalla bocca del Pinguino, assieme ad un fiotto di sangue che colò lungo il suo mento <<  i-io ero pronto a sacrificarmi per te…rammenti? >> le parole uscirono dalla bocca di Oswald graffianti ed insolenti come sempre.
 
Nonostante avesse detto qualcosa che potesse apparire come un atto magnanimo e d’amore, dalla sua bocca pareva uscissero insulti. E come tali arrivavano all’orecchio dell’Enigmista.
 
La mano di Edward si strinse ancora più forte ai capelli del corvino << Sacrificarti? Tu non sai cos’è il sacrificio, sei solo un bambino viziato! >>
 
Oswald non sapeva più che fare. Era letteralmente bloccato nella morsa di un leone.
 
Che stupido era stato a credere di poter averla vinta su Edward in un duello faccia a faccia. In fondo, nei suoi pensieri, mentre disegnava la sua vendetta, si era da sempre insinuato il dubbio di non riuscire a portarla a termine. Di non avere il coraggio di ucciderlo. Nel grande schizzo che aveva abbozzato era sempre rimasta sfocata l’immagine di lui che ne usciva vittorioso. E questo, sentiva sin dall’inizio, era presagio della sua sconfitta.
 
Ma nulla al mondo poteva mettere a freno la sua lingua.
 
<< Sei tu il vanesio della situazione! “L’Enigmista”, ma ti sei sentito quanto sei ridic…  >> le parole gli morirono in bocca ed un nuovo urlo strozzato prese vita direttamente dai suoi polmoni.
 
Edward aveva preso a torcergli ancora più forte il braccio dietro la sua schiena << Ancora non ti arrendi? Dimmi cosa devo fare per toglierti per sempre dalla faccia quest’aria sprezzante? >>
 
Mai domanda fu più incalzante per la personalità da prima donna che apparteneva al Pinguino.
 
Chiunque avrebbe tentato di aver salva la vita, ma…
 
<< Devi uccidermi, Ed. Anche se dubito tu ne sia in grado, visto com’è andata a finire l’ultima volta! >> Rispose Oswald in un completo raptus di follia.
 
“Pazzo! Solo un pazzo può osare pronunciare delle parole simili nella sua posizione”. pensò L’Enigmista.
 
Esasperato dall’insensatezza del suo interlocutore, si sollevò leggermente con le gambe al fine di capovolgere il corpo di Pinguino. Con la mano ancora salda fra i suoi capelli, lo strattonò di lato, costringendolo a girarsi completamente nella sua direzione. Ed infine, gli strinse una mano al collo.
 
Oswald poteva sentire chiaramente le unghia di Edward affondare nella sua carne, solcare la sua pelle grondante sangue e sudore. Il suo viso diventare ancor più pallido, per quanto possibile.
 
Socchiuse la bocca nel vano tentativo di inglobare quanta più aria possibile e con la mano, finalmente libera, afferrò anche lui i capelli di Edward, cercando di tirarne il capo verso il basso.
 
Fu lì che aprì i suoi occhi, finora rimasti chiusi. Si rese conto di essere ad un palmo di distanza da quelli di Edward.
 
Ci si perse.
 
Due pozze nere senza fondo al cui interno Oswald poteva chiaramente leggervi il rancore e la frustrazione di chi si ritrova a fare i conti con le proprie emozioni.
 
Non comprese come, né chi ne fu l’artefice. Ma ad un certo punto avvertì il morbido calore delle labbra del suo più acerrimo nemico sulle proprie.
 
Un bacio lento, straziante ed affamato prese vita senza alcun controllo. Non c’erano pensieri che fluttuavano nelle loro teste. Solo l’istinto che guidava le loro azioni.
 
Lentamente, la mano di Edward allentò la presa sul suo collo, risalendo anch’essa fra i capelli del corvino.
 
A quel punto, anche Oswald allungò le sue mani fra i capelli di Edward, che se ne stava in ginocchio di fronte a lui con le gambe incastonate fra le sue e che, ingordo, continuava ad abbeverarsi come un assetato dinnanzi ad una sorgente d’acqua.
 
Con una mano Edward spinse lentamente il busto di Oswald in terra, ancora attaccato alle sue labbra.
 
Le viscere di quest’ultimo avvamparono in un falò di emozioni che passivo subiva la più piacevole delle torture che gli avessero mai inflitto.
 
Non c’era dolcezza. Le sue labbra sapevano di rancore, umiliazione ed un limpido desiderio di giustizia. Giustizia per la propria carne. Giustizia per il proprio cuore.
 
Così, Oswald decise di capitolare e rispose a quel bacio con più vemenza, stringendo forte la testa di Edward fra le sue mani, dando seguito alle movenze ritmiche del corpo dell’Enigmista che sinuoso si strusciava sempre più avidamente contro quello del corvino.
 
Finalmente si sentì appagato. Quella gratificazione che aveva tanto agognato mentre pianificava la sua vendetta, finalmente trovava riscontro in qualcosa di completamente inaspettato.
 
Edward aveva trovato il modo per togliergli per sempre dalla faccia quell’aria sprezzante, oh se l’aveva trovato!
 
Quest’ultimo non poteva credere a quello che stava accadendo. Non se l’era mai figurato nemmeno lontanamente.
 
Chiuse gli occhi ed il cuore iniziò a pompargli nel ventre, mille battiti al secondo. Una scia di fuoco avvampò l’intero rivestimento della sua carne. Aveva sete, aveva fame ed Oswald era il suo banchetto.
 
Gli torturava i capelli annodando le sue dita attorno ad essi, che ritmicamente strattonava con lente sferzate. Frenetico si muoveva su di lui alternandosi tra strette al collo, graffi in volto, e morsi voraci.
 
Gli stava vomitando addosso tutta la frustrazione che aveva vissuto durante la sua scomparsa. Tutte le offese e le umiliazioni che aveva subito durante i battibecchi inscenati con la sua proiezione.
 
Tutto il suo malessere stava trovando sfogo così. Martoriando le labbra che sotto di lui si sforzavano a seguirne l’andamento.
 
E quelle labbra erano di Oswald. Il corpo febbricitante che stringeva a sé era quello di Oswald.
 
Spalancò improvvisamente gli occhi come raggiunto da un’epifania.
 
Cosa diavolo stava facendo?
 
Il suo corpo pareva non rispondere più ai suoi ordini. L’impulso aveva preso il sopravvento. Come quando uccideva senza pianificare. Come quando compiva le più grandi stronzate della sua vita.
 
A questo pensiero la mente dell’Enigmista si fu come risvegliata da un lungo sonno.
 
Staccò velocemente la sua bocca da quella di Oswald e si allontanò in un balzo, come se quello fosse stato di fuoco.
 
<< Tu! Tu…! >> gridò Edward, fissando il corvino con occhi lividi di rabbia. Ma non riuscì a proseguire la frase.
 
Non gli era possibile farlo. Non aveva la benché minima idea di come portarla avanti.
 
Era furente ed imbarazzato allo stesso tempo. Arrabbiato più con sé stesso che con la persona che aveva di fronte.
 
<< Iiio? >> rispose ancora ansimante Oswald, umiliato nel suo orgoglio da una semplice sillaba. Ancora non era riuscito a riprendersi ed a metabolizzare quello che era accaduto, che quello psicopatico fascio di nervi si era già messo ad insultarlo e ad addossargli tutte le colpe del mondo?
 
<<  Si, tu! Tu mi hai fatto qualcosa…QUALCOSA! >> balbettava Edward senza alcun senso logico. Cercava al di fuori di sé la spiegazione delle sue azioni, come un codardo.
 
E difatti…
 
<< Codardo, vile, meschino pezzo di sterco! >> furono le parole che gli rimandò Oswald, il quale si alzò da terra barcollando << con quale coraggio osi accusarmi? >> terminò, prendendo a pulirsi le natiche dai residui di polvere rimastigli attaccati.
 
Edward, seguendolo nei movimenti, si sollevò anche lui dall’asfalto e rapidamente afferrò la pistola che poco prima era volta via.
 
<< Non ti avvicinare! >> urlò, mentre gli puntò nuovamente la pistola contro.
 
<< Cosa c’è, Edward? Vuoi spararmi adesso? >> gli chiese mellifluo il corvino, mentre col dorso della mano destra pulì la sua bocca ancora imbratta di sangue e di…Edward  << vuoi mettermi a tacere per sempre? Dopo lo farai anche con la tua coscienza? >> lo accusò.
 
<< Non sfidarmi Oswald, potresti pentirtene! >> articolò insicuro l’Enigmista.
 
Edward era quello con la pistola ma sembrava che fosse Oswald a tenere il coltello dalla parte del manico.
 
Non sapeva come affrontare quella nuova situazione ed il vecchio amico ora gli pareva essere più sicuro di lui.
 
<< Io non ho nulla di cui pentirmi, Edward >> proferì cambiando registro << quello pieno di rimorsi sembri essere tu! >> continuò beffardo. Un sorriso di sbieco accompagnava le sue parole << ti fai tronfio, raccontandomi di grandi riflessioni, come se avessi raggiunto chissà quale consapevolezza nella tua patetica esistenza, ma la verità è che tu non sai un bel niente di cosa vuoi, di CHI sei >> gli sputò contro << Io sarò anche uno stupido pavone borioso, ma so perfettamente chi sono e cosa voglio. Tu, tu sei solo un patetico codardo che cerca di crearsi un’identità inventando ridicoli nomignoli. >>
 
Oswald era colpito dalla classica delusione che vive un bambino quando gli si offre il giocattolo che ha desiderato tanto a lungo per poi strapparglielo via dalle mani prima ancora di averlo scartato. Questo sì che era crudele per il povero Pinguino.
 
Un momento prima gli sembrava di aver raggiunto finalmente il nirvana, un momento dopo si era ritrovato a cadere violentemente col culo per terra da un settimo piano, dritto in inferno.
 
Come aveva potuto tirarsi indietro a questo modo? Si sentiva preso in giro. Avrebbe preferito essere sparato di nuovo, piuttosto che essere umiliato e ridicolizzato in questo modo.
 
<< Vattene! Torna da me quando sarai pronto ad affrontarmi. Quando saprai almeno chi sei. È completamente inutile per me infierire sulla carcassa vuota del vecchio Nygma che fu >> concluse infine, con un velo di tristezza calato negli occhi.
 
Dal canto suo Edward rimase in silenzio, profondamente ferito dalle parole di Oswald. Non tanto perché lo avesse offeso senza alcuna remora, ma perché erano le parole più vere che avesse mai sentito.
 
Aveva avuto tempo e modo per riflettere sui suoi sentimenti quando aveva perso il vecchio amico. Lo aveva quasi ammesso quella notte al cimitero, sulla tomba di Isabella. Ed il suo corpo lo aveva acclarato, lì su quel molo, rendendo reale il suo più intimo desiderio di lasciarsi andare a quelle emozioni.
 
Ma la verità è che non aveva le palle di affrontarlo. Di affrontare Oswald, di affrontare sé stesso. Lo aveva addirittura colpevolizzato, rimandano su di lui la responsabilità di quanto accaduto, rimarcando il suo dissenso, prendendone le distanze. Era vero. Non era pronto ad affrontarlo.
 
Era un codardo, vile, meschino pezzo di sterco. Proprio come lo aveva apostrofato lui.
 
Oswald gli lanciò uno sguardo esitante, offrendo ad Edward un’ultima occasione di recupero. Ma questi, non ebbe il coraggio di dire nulla.
 
Così il Pinguino si voltò indietro e con la sua solita falcata claudicante si indirizzò impettito verso la propria auto.
 
L’Enigmista rimase imbambolato ad osservarlo mentre entrava in auto e, con una manovra veloce, lasciare il molo, diventando un puntino sempre più piccolo, fino a scomparire del tutto nell’oscurità della notte.
 
La mente di Edward rimase bloccata in un punto indefinito ed il cuore prese a sanguinare. Oswald aveva vinto. Lo aveva piegato in due.
 
Più di quanto potesse immaginare, Pinguino era riuscito nella sua vendetta.
                                                        

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