La targa ricomparsa - NO SCAMBI di ONLYKORINE (/viewuser.php?uid=1040879)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La targa ricomparsa ***
Capitolo 2: *** Rupert Rootweet ***
Capitolo 3: *** Susan Price ***
Capitolo 4: *** Nora Bayls ***
Capitolo 5: *** Aaron Myers ***
Capitolo 6: *** Agenti White e Moore ***
Capitolo 7: *** Emma Carter ***
Capitolo 8: *** Le diavolesse ***
Capitolo 9: *** Candice e Tom Smith ***
Capitolo 10: *** Rupert e Nora ***
Capitolo 11: *** Jason Duvrè e Nonna Jo ***
Capitolo 12: *** Che la festa inizi! ***
Capitolo 13: *** E il vincitore è... ***
Capitolo 1 *** Prologo - La targa ricomparsa ***
00-Prologo
Scritto
in collaborazione con ChaBlackCat
Prologo
Patience
entrò, trafelata e piuttosto agitata, nella stazione di
polizia di Maple Town una soleggiata mattina di aprile. Si diresse
decisa verso l'agente White e gli si parò davanti, in attesa
che l'uomo in divisa azzurra e maniche corte si accorgesse della sua
presenza.
Quando
l'uomo alzò gli occhi su di lei, Patience non gli diede
tempo di parlare e disse concitata: «Loris, ho trovato una
cosa. Devi assolutamente vederla!»
«Quante
volte le devo dire di rivolgersi a me come l'agente White, miss
Stealer...»
«Loris,
ti conosco da quando portavi i pantaloni corti, non diciamo
sciocchezze!»
L'uomo
calvo sbuffò, era stato qualche anno in California e
lì aveva visto di tutto, ma nessuno era come la signora
Stealer. White, comunque, non insistette.
«Se
ha trovato ancora qualcosa a casa che non è sua, chiami il
suo proprietario e gli dica di venirsela a riprendere...»
iniziò l'agente White. A Maple Town sapevano tutti che la
povera Patience Stealer, un'anziana zitella che non si era mai spostata
dalla cittadina nemmeno di pochi passi, aveva qualche piccola
difficoltà con le cose degli altri: non si accorgeva neanche
di allungare le mani e, in men che non si dica, nelle sue tasche
apparivano oggetti non suoi. Di solito se ne rendeva conto quando
tornava a casa e, ritrovandosi le tasche piene, telefonava alle persone
che aveva visitato per dir loro che avrebbe lasciato i vari oggetti
fuori dalla porta così che potessero riappropriarsene. Ormai
lo sapevano tutti e nessuno pensava più che fosse
così strano.
«No,
questa volta non ho... Non sono stata io. Oh, Loris, devi venire, devi
vedere!» insistette Patience.
«Guardi,
miss Stealer, magari passo nel pomeriggio, sto aspettando Mr. Cook
e...»
«Il
sindaco! Sì, la deve vedere anche lui!»
«Cos'è
che devo vedere anch'io?» chiese un uomo sulla quarantina,
entrando nell'ufficio proprio in quel momento . «Buongiorno,
miss Stealer. Buongiorno, agente White» disse ancora quando i
due si girarono di scatto verso di lui.
«Ho
trovato la...» ricominciò a spiegare Patience a
entrambi gli uomini quella volta, interrompendosi vedendo passare una
donna davanti alla porta dell'ufficio. «Non è il
caso di parlarne qui, seguitemi!»
I
due uomini, più per educazione che per reale interesse,
seguirono la signora anziana fuori dalla stazione di polizia, girando
intorno all'edificio e fermandosi davanti alla bicicletta a tre ruote
che la donna usava per spostarsi. Il cestone di metallo, situato fra le
ruote posteriori, era coperto da uno spesso panno di lana, che ne
celava il contenuto. Patience si guardò intorno furtiva, poi
alzò la coperta e una vecchia cassa di legno fece la sua
comparsa.
L'agente
White sbuffò.
«È
una vecchia cassa. Cos'ha di così...»
«Loris,
aprila e capirai» disse la donna, interrompendolo.
Quando
l'agente fece scattare la serratura e aprì il coperchio,
spalancò gli occhi e una smorfia gli si disegnò
sulle labbra.
«Ma...
È la...» farfugliò il sindaco.
Patience
richiuse velocemente il coperchio della cassa annuendo e, con uno
sguardo solenne, confermò: «Sì,
è lei. Ma non l'ho rubata io».
***
«Grazie
a tutti per essere venuti a questa riunione, nonostante il breve
preavviso.»
Il
sindaco iniziò il suo discorso con sicurezza, ma senza
sapere bene come intavolare l'argomento. Erano due giorni che la storia
del ritrovamento della cassa veniva discussa fra lui, l'agente White e
miss Steale, alla fine, avevano deciso di informare tutta la
comunità, perché avevano capito che era la cosa
migliore da fare: in fin dei conti riguardava tutti.
Quando
Loris White portò di peso la cassa di legno al centro del
piccolo palco da dove stava parlando Simon Cook, il vecchio fienile
dove si radunava la popolazione di Maple Town si riempì del
brusio dei partecipanti. Tutti si erano incuriositi e allungavano il
collo per vedere meglio, condividendo i propri dubbi con il vicino di
seggiola.
L'agente
fece scattare la serratura, cosa che negli ultimi due giorni aveva
fatto un centinaio di volte, e aprì il coperchio, spostando
un lembo di stoffa e prendendo l'oggetto di bronzo fra le mani e
mostrandolo a tutti.
Patience,
dal suo posto in terza fila, non si rese conto di aver trattenuto il
respiro nell'attesa della reazione dei suoi concittadini e a quel punto
tutti tacevano osservando il rettangolo di bronzo inciso e datato.
«Ma
quella è la famosa targa della 'Gara dello sciroppo d'acero'
della contea?» chiese Meredith Bluelight sorpresa, portandosi
le piccole mani alla bocca.
«Così
sembra, Meredith. C'è scritto: 'Maple Syrup Feast'.
C'è anche la data: 1885» gli rispose Rupert
Rootweet, burbero.
«La
targa che ci hanno rubato quelli di SapVille?»
domandò Stephanie Long.
«Evidentemente
no, Stephanie. Altrimenti non sarebbe qui.» Rupert
sbuffò e poi si rivolse direttamente al sindaco.
«Dove l'avete trovata?»
«Potrebbero
averla trovata a SapVille!» la difese Nathan Parker,
guardando in cagnesco Rupert, portando le mani sui fianchi.
«Ehm,
no, a dir la verità è stata trovata qui a Maple
Town» confessò il sindaco, alzando la voce per
attirare l'attenzione
«Chi
l'ha trovata?» chiese Aaron Myers, un atletico ragazzone
sulla trentina.
«Ehm...
Chi ha trovato la targa preferisce non farlo sapere» rispose
l'agente White, schiarendo prima la gola.
«Allora
qual è lo scopo di questa riunione?» chiese Parker.
Il
sindaco si voltò verso l'agente White e i due si scambiarono
un'occhiata complice.
«Volevamo
mettervi al corrente del fatto che, in occasione del 130°
anniversario della fondazione della città, inviteremo il
sindaco di SapVille e informeremo la cittadina di aver ritrovato la
targa, quindi anche che non li consideriamo più... Eh,
sì, ecco... Colpevoli.»
«AVETE
INTENZIONE DI CHIEDERE SCUSA?» esclamò, concitato
Rupert.
Il
sindaco aprì le braccia in un gesto rassegnato.
«Sono 130 anni che va avanti questa storia: quando Maple Town
battè SapVille nella gara del miglior sciroppo d'acero e la
targa sparì subito dopo la premiazione, William, il nostro
fondatore, accusò, a questo punto invano, Ethan Wyatt di
SapVille, che per ripicca distrusse il ponte sullo Small River che
collegava le nostre città... Ora dovremmo far finire questa
faida. Sono passati tanti anni e abbiamo appena scoperto che non
è stata colpa loro» spiegò.
«E
chi lo dice che non è colpa loro? Come facciamo a saperlo se
non ci dite dove è stata trovata?»
La
piccola folla si agitava sulle sedie di legno, anche i pochi in piedi,
appoggiati alle balle di fieno, si muovevano per confrontarsi. Il
sindaco e l'agente White stavano prendendo il controllo della
situazione, ma su una cosa aveva ragione Sam Ritter, proprietario del
bar sulla strada principale, non potevano essere certi di come fosse
andata e quindi nemmeno discolpare i vicini di SapVille.
«Allora,
possiamo dire solo questo: era in un posto da quando era stata nascosta
e pensiamo sia avvenuto proprio nel fatidico giorno della premiazione,
perché insieme alla targa è stato trovato
questo.»
L'agente
White si piegò sulla cassa e tirò fuori un
vasetto: un vasetto di vetro, con il tappo rivestito da un pezzo di
stoffa e un'etichetta ingiallita e impolverata che recava la scritta a
mano: "Sciroppo d'acero 5-5-1885".
«Se
non dovesse bastare per farvelo credere, abbiamo anche una copia della
carta di fondazione che riporta la data in cui è nata Maple
Town» continuò il poliziotto.
«C'è anche la firma di William
O'Moore...» Alzò la pergamena in alto, indicando
con il dito la firma del fondatore della città.
Tutti
i presenti si zittirono: Emma Carter smise di fare la maglia e la sua
vicina si portò una mano alla bocca, spalancando gli occhi.
«Forse,
allora, c'è stato un malinteso» disse Judith Fear,
strizzando gli occhi, per guardare meglio.
Rupert
si alzò e, pestando i piedi a chi gli era vicino, si fece
strada fino al piccolo palco. Salì i tre gradini e si
avvicinò al sindaco con aria solenne. Si chinò
sulla carta, vecchia e giallastra, tirò fuori gli occhiali
da lavoro ed esaminò la firma.
Si
tirò su e fece una brutta smorfia verso la platea.
«Sembra proprio originale» confermò.
«E
come fai a dirlo, tu?» chiese Omar Green.
«Vorrei
ricordarti, lattaio dei miei stivali, che sono l'antiquario del paese e
che a casa mia ho parecchie carte recanti la firma di William O'Moore.
Ti dico che è la sua.»
Di
nuovo nel fienile tornò il silenzio.
Patience
non riusciva a stare zitta, così chiese ad alta voce:
«Come faremo a farlo sapere a quelli di SapVille?»
«Beh,
per me non dobbiamo mica informarli» dichiarò
Rupert.
«Non
sarebbe giusto!» esclamò Charlotte Adams, la
commessa della panetteria, scioccata.
«E
poi, se non glielo diciamo, non possiamo appendere la targa: loro la
vedrebbero e capirebbero che ce l'abbiamo noi» disse Rachel
Roger, una deliziosa donnina di mezz'età, agitandosi.
«Potremmo
fingere di trovarla.»
«L'abbiamo
trovata!» ripeté Rupert.
«Dobbiamo
dire la verità.»
«E
ammettere di esserci sbagliati?»
«Silenzio!»
esclamò Simon, mentre ognuno dei presenti tentava di far
valere la propria opinione. «Non abbiamo ancora deciso cosa
dire, ma... Lo diremo». Il sindaco si voltò verso
l'agente White e questi, annuendo, mise la targa e il resto dentro
nella cassa.
«E
se facessimo una targa anche per SapVille? Potremmo scriverci qualcosa
per una nuova... come dite voi? Fratellanza? Gemellaggio?»
Patience aveva alzato la mano e timidamente aveva espresso il suo
pensiero.
«Grazie,
miss Stealer, potrebbe essere un'idea.» Il sindaco sorrise
paziente, poi continuò: «Decideremo il da farsi,
ma io e l'agente White dobbiamo prima scoprire da dove arriva questa
cassa e chi l'ha rubata. Dopo di che indiremo una nuova
riunione.»
Appena
il sindaco ebbe finito di parlare, l'agente Loris White si
voltò per andarsene, segno che la riunione era finita e che
il brusio tra concittadini poteva cominciare senza di lui. Anche il
sindaco lo seguì fuori mentre Patience si girava da ogni
lato per ascoltare i commenti dei vicini. C'era chi voleva trovare il
colpevole e mettere tutto a tacere, chi invece guardava al futuro e a
una nuova collaborazione con la cittadina vicina. Altri speravano di
accusare gli abitanti di SapVille un'altra volta e alcuni,
più taciturni, scrutavano gli amici nell'intento di studiare
un eventuale comportamento che li tradisse. Insomma, la caccia alla
verità era cominciata e non sarebbe stato solo l'agente
White a cercare il bandolo della matassa.
«Potremmo
anche fare una gara di sciroppo d'acero, come è stato 130
anni fa...» Patience aveva iniziato e non riusciva
più a fermare i pensieri. Né le parole.
«Ormai
lo sciroppo d'acero è superato. Chiunque può
farlo» precisò Emma, mettendo via il lavoro a
maglia.
«Allora
una gara in cui ci sia una ricetta, dolce o salata, con sciroppo
d'acero. E lo sciroppo deve essere quello prodotto qui a Maple Town. La
ricetta più buona vincerà la gara. Potremmo
mettere in palio un premio in denaro, tipo... Non so... 2500 dollari?
Potremmo fare come due anni fa, che abbiamo cercato gli sponsor per
pagare il premio della maratona. E potremmo chiamare quelli di SapVille
per fare da giuria» disse Raul Johnson.
La
cosa stava iniziando a prendere piede. A Maple Town non si faceva una
vera gara da anni. Una gara di cucina, poi. Una gara di cucina in cui
si vincevano soldi. A chiunque avrebbero fatto comodo.
Il
proprietario della caffetteria, Tom Smith, guardò la moglie,
Candice, e lei annuì: a lei piaceva molto cucinare e i suoi
pancake erano venerati nella cittadina. Avrebbero potuto aggiustare
quella parte del tetto che perdeva dall'inverno scorso.
Susan
Price, che aveva quasi raggiunto Patience alla riva dei settantacinque
anni, sussurrò alla sua vicina che aveva in cucina una
vecchia ricetta di sua nonna per un arrosto speziato con sciroppo
d'acero.
Poco
dopo il fienile si svuotò e la gente tornò verso
le proprie case parlando di ricette, di progetti e, naturalmente, di
sciroppo d'acero.
A
nessuno venne più in mente di chiedere dove fosse stata
trovata la targa. O chi l'avesse trovata.
-
-
-
***Eccoci
qui con una nuova storia, ma non sarà la solita storia
perché... non è solo mia. Ogni capitolo
è scritto da qualcuno di diverso ed è pubblicata
su wattpad, però, visto che sta diventando veramente una
bella storia ho deciso, con il permesso degli autori, di pubblicarla
anche qui. A ogni capitolo troverete il link del profilo wattpad della
persona che ha scritto. Buon inizio avventura!!!
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Capitolo 2 *** Rupert Rootweet ***
Cap.
1 - Rupert Rootweet
In
una soleggiata mattina d'aprile, dove il caldo e il freddo sono ancora
in contesa su chi debba avere il predominio sul resto della giornata,
Rupert aprì gli occhi: si ritrovò nel letto della
sua piccola casa in collina. I raggi solari colpivano in pieno il suo
viso non più tanto giovane ma nemmeno tanto vecchio. Le
rughe iniziavano a farsi strada accanto ai suoi occhi, sulle guance e
un po' sulla fronte. Ma a pensarci bene, in realtà, molte di
quelle rughe erano causa del suo carattere non propriamente piacevole.
Forse perché lui non era nato in quel paese come tutti gli
altri: ma a Maple nessuno, almeno secondo lui, sapeva di questa
verità. Quella mattina, Rupert si svegliò di
cattivo umore: aveva avuto una piccola discussione con una signora del
paese, Judith.
«Accidenti
al suo stupidissimo tic!» brontolò alzandosi dal
letto, in un tono che non faceva presagire niente di amichevole.
Rupert
si alzò dal letto, aprì le finestre, in modo da
far circolare l'aria nella sua stanza, e abbassò leggermente
l'avvolgibile. Infilò i piedi nelle ciabatte e
trascinò il suo corpo in bagno: non amava particolarmente
quella fase della giornata, era il momento in cui doveva lavarsi e
vestirsi. Non che odiasse il proprio aspetto, ma quelle piccole azioni
di routine lo distraevano da ciò che, per lui, era
particolarmente importante: il suo lavoro. Rupert aveva un negozio
d'antiquariato situato al primo piano della sua casa, gli era stato
lasciato in eredità dal padre e non aveva nessuna
intenzione di venderlo o di cambiarlo in alcun modo. Rupert era fatto
così: un bastardo, burbero e per di più
tradizionalista. Amava quella parte del suo carattere? Sì.
Avrebbe voluto cambiarlo? Forse. Ma non per i paesani di Maple Town, ma
per una persona in particolare. Rupert sorrise al quel pensiero, poi
osservò il suo viso allo specchio e iniziò a
mettere in ordine la sua folta barba nera. Si lavò il viso,
con un prodotto consigliato dall'unica donna che gli facesse battere il
cuore e poi si pettinò i capelli. Dopo aver terminato quella
fastidiosissima fase della giornata, scese in cucina deciso a
prepararsi una colazione con i fiocchi. Adorava mangiare, ma amava
anche fare un po' di movimento fisico per iniziare al meglio la
giornata. Per un uomo della sua età, tenersi in forma era
una delle cose che lo avrebbe salvato da una vecchiaia rapida e
pungente. Preparò cinque fette biscottate con una copiosa
dose di sciroppo d'acero, una bella tazza di caffè, che lui
considerava la fonte della giovinezza, e poi si sedette a tavola per
mangiare; successivamente avrebbe fatto i suoi esercizi di ginnastica.
Qualche
ora dopo, Rupert era finalmente pronto ad aprire il negozio al
pubblico. L'orario d'apertura era dalle dieci di mattina fino alle
sette di sera, il suo poteva dirsi uno dei pochi negozi che non
risentiva della crisi dello stato. «Colpa del
Governo» rispondeva Rupert alle solite domande dei clienti
quando gli domandavano di chi fosse la colpa dell'incessante
crisi economica. In realtà, a Rupert non importava
affatto della politica, era una parte della vita che non si era mai
preoccupato di considerare. A Rupert interessavano poche cose: il suo
negozio, i vecchi orologi che amava restaurare e la
tranquillità della sua casa in collina. Non era il tipo di
persona che si isolava dagli altri, aveva anche una ristretta cerchia
di amici, ma conosceva il suo carattere e sapeva bene che non era
facile da sopportare. Proprio per quel motivo, quasi tutte le sere dopo
il lavoro, ordinava d'asporto dal suo locale vegetariano preferito, si
sedeva davanti alla tv e guardava una delle sue serie preferite.
Quando
Rupert aprì le porte del suo negozio, respirò la
fresca aria mattutina del paese. Le foglie degli alberi, accanto al
negozio, dondolavano tranquille in balia della leggera brezza
primaverile. I suoi capelli castani, con qualche sprazzo di grigio,
iniziarono a imitare il placido movimento delle foglie. Rupert sorrise
e riempì i polmoni d'aria fresca, amava la primavera a
Maple, ma adorava ancor di più l'avvicinarsi della stagione
estiva. L'uomo alzò gli occhi al cielo e colse le varie
sfumature d'azzurro. I suoi occhi color nocciola indagarono il vasto
manto celeste per alcuni minuti: le nuvole correvano in cielo sospinte
dal vento e Rupert pensò che la vita, così come
le nuvole, corre inevitabilmente verso qualcosa, sospinta da una forza
alla quale non ci si può opporre. L'unica differenza era
solo una: il vento, prima o poi, si placa, ma il tempo non ha mai fine.
Ma Rupert non si fece rattristare da quel pensiero, abbassò
gli occhi sul paese e cominciò a coglierne i movimenti:
troppi, per gli standard giornalieri. Mentre richiudeva le porte del
suo negozio, Rupert tentò di ricordare qualche evento
particolare avvenuto nel corso della settimana, ma non gli sovvenne in
mente nulla di particolare.
Non
passarono nemmeno dieci minuti che Rupert, dimentico di ciò
che aveva visto dall'alto della sua collina, cominciò a
passare in rassegna le riparazioni richieste dai suoi clienti. Ricurvo
sul piano da lavoro, con gli occhiali ben posizionati sul naso, Rupert
lucidava il preferito tra gli aggeggi che aveva in consegna: un
bellissimo orologio da tavolo risalente all'epoca di Napoleone III.
Rupert stava incerando con attenzione il bronzo e gli intarsi in
boulle, ne revisionò con attenzione il meccanismo e
pulì con precisione le lancette della scocca
anteriore. Ma, mentre stava per ultimare la riparazione, la
fastidiosissima presenza di Judith invase l'ingresso della bottega.
Rupert si girò e tentò in tutti i modi di non
concentrarsi su quel dannatissimo movimento degli occhi. "Vorrei
riempirti il viso di scotch, almeno riusciresti a stare ferma per
più di trenta fottutissimi secondi" pensò Rupert,
mentre tentava di nascondere la voglia di cacciarla a pedate.
«Buongiorno,
Judith» disse Rupert, con tutta la gentilezza che riusciva a
mostrare.
«B-buongiorno
Rupert. Vedo che sei già indaffarato di prima
mattina» esclamò Judith, indicando gli orologi sul
banco da lavoro.
«Sì,
cosa ti porta al mio negozio?» Rupert avrebbe voluto
sbatterla fuori, ma Judith poteva essere una potenziale acquirente,
quindi era meglio trattenere i bollenti spiriti.
«Quindi
mi stai dicendo che non sai nulla?»
«No...
saresti così gentile da illuminarmi?» Rupert
iniziò a sudare, non riusciva a distogliere lo sguardo dal
viso della donna. Avrebbe voluto concentrarsi su qualsiasi altra cosa,
ma non ci riusciva. Avrebbe potuto fissare il bancone e analizzare la
polvere che non toglieva da almeno quattro giorni, avrebbe anche potuto
girarsi di schiena, fingere di lavorare e ascoltare la conversazione.
Ma non lo fece, restò fisso e immobile davanti agli occhi
della donna che continuavano a strizzarsi come vestiti ricolmi d'acqua.
«Il
sindaco Cook ci vuole tutti riuniti nel fienile, adesso.»
Gli
occhi di Judith iniziarono ad accelerare notevolmente il loro
movimento. Evidentemente doveva trovarsi in uno stato d'eccitazione
particolare.
«Ok,
vorrà dire che verrò con te. Ma, ti prego, metti
un freno ai tuoi occhi. Mi stai facendo venire il mal di mare... e ci
troviamo in collina.»
«Scusa...»
ammise Judith sorridendo.
Qualche
minuto dopo, entrambi si ritrovarono nel fienile della
città. Sul palco del piccolo fienile Simon e Mr. White
stavano discutendo del ritrovamento dell'antica targa della
città. Erano più di cento anni che quella targa
era scomparsa e ora, chissà come mai, era magicamente
ricomparsa. Rupert sapeva che l'argomento "Targa Scomparsa" era
strettamente collegato allla cittadina di Sapville: cittadina che lui
odiava profondamente. Bloccato insieme a quell'inutile ammasso di
gentaglia, Rupert sentì la rabbia crescere all'interno del
suo corpo: voleva scappare via da quel luogo e tornare ai suoi orologi.
Poi, all'improvviso e approfittando di un attimo di silenzio da parte
del sindaco, Rupert si sentì in dovere di alzarsi e salire
sul palco: qualcosa aveva attirato la sua attenzione. L'uomo si fece
strada calpestando i piedi e divincolandosi tra la gente che gli si
parava davanti. Quando arrivò sul palco, afferrò
il pezzo di pergamena ingiallito, indossò gli occhiali e
iniziò ad analizzare le scritture. Non c'era alcun dubbio,
quella era la firma originale di William O' Moore. Ne era
più che sicuro, a casa aveva centinaia di carte che
riportavano quella stessa identica firma. Purtroppo Omar, il lattaio
del paese si permise di dissentire davanti a tutti la precedente
affermazione di Rupert. Se c'era una cosa che Rupert odiava, ancor
più di Sapville, era chi metteva in dubbio le sue doti.
"Stupido venditore ambulante, come osa mettermi in dubbio?"
pensò Rupert, mentre camminava per le vie del paese. La
riunione era terminata dopo esser durata qualche ora e, a quanto
pareva, di lì a poco ci sarebbe stata una gara di cucina.
Rupert non ne capiva l'utilità. Avrebbero dovuto trovare il
ladro della targa, in fine restituirla a chi aveva
il diritto di possederla e terminare la questione. Era l'unico modo per
mettere fine a tutta la faccenda. Niente inutili gare di cucina e
niente convenevoli forzati, almeno da parte sua, con quei rubagalline
di Sapville.
«Stupido
lattaio da quattro soldi. Torna dalle tue stupide mucche.»
Rupert stava risalendo la collina che l'avrebbe riportato a casa, e ci
sarebbe tornato davvero se solo non avesse incontrato l'unica donna
capace di allietare le sue giornate.
«Ehi,
Rupert» salutò una donna, timidamente.
«Buonasera,
Rachel.»
«Cosa
ci fai qui, tutto solo?» domandò lei,
avvicinandosi.
«Stavo
tornando a casa.»
«Ancora
arrabbiato per le parole di Omar?»
Rupert
rimase scioccato dalle parole della donna, non sapeva come, ma ogni
volta riusciva a comprendere il suo stato d'animo. Agli occhi del
paese, Rupert poteva sembrare il solito burbero senza peli sulla
lingua, ma sapeva che Rachel non lo vedeva così.
«Sì...
e no.»
«Ti
va di andare a prendere qualcosa da bere?» domandò
la donna, avvicinandosi in maniera sinuosa ed elegante.
«Ma
il mio nego...» Rachel poggiò un dito sulla bocca
di Rupert che si zittì immediatamente ammaliato dal profumo
e dal morbido tocco della donna.
«Per
oggi, può aspettare» Rachel sorrise e
sfiorò la guancia dell'uomo con un bacio.
«Vieni, ti faccio strada.»
Rupert
batté gli occhi per mettere a fuoco l'immagine di Rachel,
poi la seguì. Immediatamente si rilassò e
abbandonò tutti i pensieri della giornata.
Dimenticò l'affronto di Omar e si concentrò su
Rachel. Non sapeva in che maniera avrebbe potuto contribuire a quella
specie di competizione, a pensarci bene, lui non avrebbe nemmeno voluto
parteciparvi. Ma non era il momento di pensarci. Si lasciò
trascinare dal desiderio di passare un paio d'ore di
tranquillità in compagnia di una cara e vecchia conoscente.
***
Grazie a P4rziv4l97 per
questo bellissimo capitolo! Allora, vi ha sorpreso il nostro Rupert o
lo immaginavate proprio così?
|
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Capitolo 3 *** Susan Price ***
Cap.
2 - Susan Price
-
-
Capitolo
scritto dalla nostra GildaBellavita
Maple
Town era una tranquillissima cittadina americana, con tanto passato
alle spalle, e molto mistero. Il più grande era forse quello
che tutti stavano vivendo in quei giorni.
Tutti
gli abitanti ormai erano a conoscenza della targa ricomparsa e ognuno
di loro diceva la sua a tal proposito; tutti, tranne l'amante della
cucina, difatti Susan era in trepidazione per la gara a colpi di
pietanze. Certo, anche lei voleva sapere chi avesse ritrovato
l'oggetto, perché proprio in quel momento? Dopo
più di cent'anni.
Susan
Pierce quella mattina si svegliò presto. La donna ormai in
pensione si dilettava tra i fornelli e lo sciroppo d'acero: la sua
città era famosa per quell'ingrediente.
L'anziana
scese dal suo letto e, fissando la sua immagine allo specchio, sorrise.
La vecchiaia non la spaventava, aveva vissuto bene, era stata felice,
anche l'amore aveva riempito la sua vita con il marito, ormai defunto.
Lei non aveva mai smesso di amarlo, nemmeno dopo la sua morte.
Si
focalizzò sull'evento che era sulla bocca di tutti in quei
giorni e ripensò alle parole di sua madre, e alle tante
storie raccontate sulla sparizione della targa: rubata dai rivali della
cittadina vicina. «Adesso ricomparsa» disse mentre
infilò le ciabatte e si diresse verso la cucina.
Susan
viveva in una casa piccola: un bagno, una camera da letto e poi il suo
posto preferito, dove si dilettava tra farine, sciroppo d'acero, polli,
tacchini e arrosti. Era stata sua nonna a trasmetterle tale passione,
da piccola passava i pomeriggi a leggere le ricette della madre della
progenitrice.
"Farò
quella, speriamo che la memoria mi aiuti..." pensò mentre
cercava di ricordare dove avesse riposto il ricettario.
Scrutò ogni angolo della dimora. Storse il naso quando vide
l'intonaco delle pareti rovinato. Doveva vincere quei soldi, le
avrebbero fatto comodo per i lavori di ristrutturazione. «Ma
sì, devo averlo messo lì... insieme alle foto di
famiglia» si disse mentre ispezionava gli ambienti.
Con
un caldo sorriso si avvicinò a un vecchio mobile in legno,
fece girare la chiave e inspirò quel profumo familiare. Vi
erano stipate vecchie foto. Susan sapeva bene cosa stava cercando, e
infatti la trovò: Aprì una foto ripiegata su se
stessa: era un'istantanea di lei da piccola davanti a un arrosto
speziato. Era la ricetta che voleva presentare, la data incombeva e lei
avrebbe dovuto creare un piatto sopraffino degno delle tradizioni di
famiglia.
Insieme
a tutto il resto c'era il ricettario, lo prese e diede un bacio al
volto della madre, prima di riporlo al sicuro. "Pollo all'arancia,
misto fritto, torta di mele..." Sbuffando proseguì tra le
tante pagine.
«Eccola: arrosto speziato allo sciroppo d'acero!»
esultò felice come una bambina il giorno di Natale.
Poggiando
la ricetta sul tavolo, ispezionò la credenza: doveva
controllare di avere tutti gli ingredienti. La donna andava spesso a
fare la spesa e quando non poteva per via della sua età
chiedeva a qualche bambino di andarci al posto suo, in cambio di
qualche mancia e di una gustosissima torta da mangiare con la famiglia.
Era ben voluta in città. Certo come tutte le persone anziane
bisognava avere pazienza con lei alcune volte
Susan
si commosse nel leggere quella ricetta, i tanti ricordi le
riaffiorarono alla mente
Era una calda mattina primaverile, quel giorno di tanti anni prima, lei
si trovava in cucina e sua nonna, ormai sull'ottantina, le stava
spiegando come preparare l'arrosto. La piccola Susan ascoltava in
silenzio e, sperimentando, ogni tanto sbagliava le dosi.
Versò così tanto sciroppo d'acero, che la carne
ormai era sparita sotto quell'ingrediente, la madre la
rimproverò, ma la progenitrice rise e disse che non contava
sbagliare, l'importante era tentare e sorridere degli errori,
perché erano proprio gli errori a farci crescere.
La Susan adulta prese uno strofinaccio e si asciugò le
lacrime, prendendo la carne dal frigo.
Cominciò
a fare dei piccoli tagli sulla superficie, per poi spalmare sopra di
essa quattro cucchiai di sciroppo d'acero. In seguito usò la
stessa quantità di aceto di mele, un cucchiaino di
peperoncino e uno di paprika dolce, immerse il filetto di maiale in una
ciotola e lo lasciò riposare per qualche ora nel frigo,
coperto con uno strato di pellicola.
Si
dedicò alle pulizie, ascoltando la radio: anche
lì parlavano della targa ritrovata. Tutti avevano sempre
accusato la cittadina vicina, i loro rivali, gli abitanti di SapVille.
Ma forse si erano sbagliati: l'oggetto lo avevano ritrovato a Maple.
Non sapevano né come, né da chi, ma volevano
saperlo e lo dimostrò anche la riunione di qualche giorno
prima, dove ognuno disse la sua.
Certo
abitavano lì e interessava tutti loro, infatti ogni volta
che usciva per le vie della città si parlava solo della
riapparizione dell'oggetto e della gara di cucina. Da piccola aveva
ascoltato tante storie su quella targa, e ognuno menzionava gli stessi
rivali. «Chissà qual è la
verità?»
Sistemò i vestiti dopo averli stirati e riprese la carne del
frigo: i centoventi minuti erano trascorsi e poteva portare avanti la
ricetta.
Quando
tolse la pellicola, l'odore si espanse in tutta la cucina. "Sembra stia
venendo bene, nonostante siano passati sette anni dall'ultima volta che
l'ho preparata."
Prese la carne e la tolse dalla ciotola poggiandola nel lavandino,
mettendo un po' di acqua, e sapone: odiava il disordine.
Poggiò il maiale su un piatto di ceramica bianca con
decorazione floreali gialle e preparò la teglia da infornare.
Con
un pennello da cucina e dell'olio mischiato con l'ingrediente
principale bagnò la teglia e mise al suo interno l'arrosto.
Accese il forno, dedicandosi ad altro mentre aspettava che
l'elettrodomestico suonasse.
Si
sedette sopra il divano, era bianco, in contrasto con la mobilia
marrone scura, le pareti dipinte di grigio, ormai rovinate.
Susan si appisolò qualche minuto, mentre altri ricordi
invasero la sua mente.
"Mia madre mi raccontò della scomparsa della targa, erano
passati tanti anni, e nessuno ne seppe più nulla. Dov'era
prima? Chi la teneva?" L'anziana ricordò che nella sua
infanzia molti bambini giocavano a cercare il colpevole e sempre un
povero malcapitato doveva fingere di essere della frazione opposta,
veniva rincorso e doveva riconsegnare l'oggetto, ma non poteva farlo,
perché il ladro non c'era mai. I suoinonni, e quelli dei
suoi amici, narravano di liti con quelli di SapVille, di tante gare e
sfide fatte con i rivali. Purtroppo nessuno sapeva come fosse andata
veramente e adesso, a distanza di molti anni, la targa era ricomparsa,
così, quasi per magia.
Susan
però, non credeva alla magia, dietro doveva esserci una
spiegazione logica, per forza, il problema era un altro: cercare la
verità. Nessuno la conosceva solo il vero colpevole del
misfatto.
Il timer fece sobbalzare l'anziana che si alzò dal divano,
si grattò i capelli bianchi e lavò le mani,
asciugandole con un tovagliolo prima di spegnere il forno;
indossò un guanto da cucina e prese l'arrosto. Sorrise
quando lo mise sopra il tavolo: una deliziosa crosticina vi si era
formata in superficie e l'odore le fece brontolare lo stomaco. Ne
tagliò un pezzo e controllò quindi la cottura.
«Sì, è pronto»
confermò prima di assaggiarne una porzione, che le fece
anche la pranzo. Il sapore le mandò in estasi le papille
gustative.
Fissò la sua immagine nello specchio posto di fronte il
tavolo, nei pressi dell'ingresso. «Parteciperò a
quella gara di cucina e il mio arrosto speziato allo sciroppo
d'acero... vincerà! Parola di Susan Pierce.»
Finì di mangiare e rassettò la dimora.
Nel
pomeriggio indossò il suo capello preferito, una veste
idonea alla sua età abbinata al copricapo, tutto giallo, e
dei sandali neri. Uscì di casa per recarsi al parco e
prendere un po' d'aria fresca, ma prima andò a registrarsi
alla gara di cucina, che di lì a poco avrebbe forse messo
fine alla faida tra Maple Town e SapVille.
Susan
era pronta per dare battaglia a colpi di fornelli e soprattutto di
sciroppo d'acero, era determinata anche a scoprire tutta la
verità sulla targa finalmente ricomparsa.
-
-
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Eccoci
con un nuovo capitolo!!! Scopriremo cosa sta succedendo in questa
cittadina? Leggete leggete...
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Capitolo 4 *** Nora Bayls ***
Cap.
3 Nora Bayls
Scritto
da AgneseM89
Lo
zaino da trekking che portava in spalla era così pesante da
segarle le spalle. Qualcosa di puntuto, messo in modo scorretto verso
lo schienale, le premeva sulla colonna vertebrale, facendole deformare
il viso in una smorfia di dolore a ogni passo.
«Mi
scusi, a che ora dovrebbe partire il prossimo autobus per Maple
Town?»
«Oh,
sei fin troppo in anticipo, mia cara ragazza. Mancano più di
quaranta minuti!» rispose un uomo in divisa, la giacca tesa
sull'addome rigonfio.
Nora
si sfilò il pesante zaino dalle spalle, lo posò
sulla panchina deserta e si lasciò cadere alla sua destra.
Quel
viaggio non iniziava con i migliori auspici.
Del resto, non era certo una vacanza quella che si apprestava ad
affrontare. La sua vita stava per cambiare radicalmente, di
nuovo.
Già
pochi anni prima, Nora aveva dovuto affrontare la morte della madre. Un
dannato camion l'aveva travolta mentre tornava dal lavoro, in una
maledettissima sera di pioggia.
Adesso, la ruota tornava a girare, e sempre a suo sfavore. Quello
smidollato del padre si era fatto fregare. Dalla morte della moglie,
aveva iniziato a bere e a giocare d'azzardo, perdendo di volta in volta
ingenti somme di denaro.
L'ultima sera, doveva aver strafatto. Probabilmente aveva puntato
qualcosa che ormai non possedeva più.
Il
fischio acuto dei freni dell'autobus di ritorno dalla corsa, la
destò dal suo rimuginare. Era una vettura datata, i fianchi
scrostati dalle intemperie e l'aria malconcia.
Nora sospirò senza dir nulla, osservando l'autista baffuto
abbandonare la vettura, diretto all'area ristoro riservata ai
dipendenti.
"Sì,
ok fatti la pausa caffè ma datti una mossa. Sto mettendo le
ragnatele qui."
Un
nugolo di viaggiatori scendeva lentamente dalle scalette della vettura;
un bimbo paffuto diede la mano a una donna alta. Doveva esser la madre.
Poi si girò, passando davanti a Nora. Si voltò e
le sorrise.
La ragazzina increspò le labbra intenerita, ricambiando un
sorrisetto sghembo e accennato.
Era stata così felice anche lei un tempo? Non lo ricordava.
Tutto ciò che di bello era stato, nel suo passato, sembrava
svanito.
A soli dodici anni Nora aveva dovuto smetter di essere bambina,
abbandonare ogni segno di spensieratezza, e imparare a gestire la casa
e tutte le incombenze che suo padre non era in grado di portare a
termine. Adesso che ne aveva appena compiuti sedici, si sentiva
già una piccola donna.
Le
porte si aprirono, con uno sbuffo sottile.
Nora si poggiò lo zaino in spalla e si trascinò
su per le scale, rivestite da una moquette scura, tra le cui righe era
evidente la polvere accumulata nel tempo.
L'autobus era deserto, poteva scegliere il sedile che preferiva.
Si lasciò cadere accanto al finestrino, poggiando lo zaino,
alto quanto lei, al proprio fianco: se qualcuno le avesse chiesto di
sedersi, lo avrebbe spostato. Nel frattempo, sperava di scoraggiare un
qualsiasi altro essere umano a sederle accanto. Non sopportava l'idea
di condividere quello squallido viaggio con uno sconosciuto.
Tuttavia, spostare il bagaglio non fu necessario. Quando la vettura
mise in moto il motore, vi erano solo altri quattro passeggeri, sparsi
qua e là, quasi invisibili dietro i poggiatesta color
magenta.
"In
effetti... chi vuoi che ci vada in quel buco dimenticato da Dio?"
Non
era stato facile per lei, piccola nerd incallita, approdare a quel
piccolo centro di periferia. Del resto, il suo splendido padre non si
era curato neanche di lasciarle un indirizzo.
Una mattina, invece del russare scomposto e dei calzini sporchi in
cucina, Nora aveva trovato difatti un biglietto abbandonato tra i
piatti sporchi della sera precedente. Un foglietto strappato, su cui
ondeggiava la scrittura sghemba di un uomo ancora in preda ai fumi
dell'alcool.
«Devi andartene. Io devo stare lontano da qui per un po'. Ho
perso la casa a carte. Va' da tuo zio.»
Nora l'aveva riletto più volte, incredula.
Suo
padre aveva perso tutti i soldi, la macchina, perfino alcuni mobili di
pregio. Ma non avrebbe mai immaginato arrivasse a tanto.
Adesso, le spalle sprofondate nella ciniglia morbida del sedile di
quell'autobus, rigirava tra le mani quello stesso brandello di carta
che le aveva stravolto la vita. Era tutto vero, lo aveva compreso
qualche giorno dopo. Al di sotto della calligrafia storta del padre,
una scritta più fresca, riportava l'indirizzo esatto a cui
recarsi. Lo aveva aggiunto pochi giorni prima lei stessa, quando
finalmente era riuscita a risalire all'indirizzo dello zio.
Suo
padre, non si era neanche scomodato di specificare a quale zio si
riferisse, né tantomeno di fornirle qualche dettaglio.
Tuttavia, per Nora non fu difficile comprendere di quale essere umano
avrebbe dovuto essere il peso, da ora in poi. Aveva solo due zii di
sesso maschile. Il fratello del padre era in galera da qualche anno per
truffa aggravata. Restava solo il fratello della sua povera mamma.
Ricordava di averlo visto, una, forse due volte, in quei sedici anni.
Non
che le due famiglie avessero mai litigato, né vi fossero
stati conflitti di sorta; semplicemente, le loro vite erano troppo
distanti, e il carattere di quell'uomo era, se ben ricordava, sfuggente
e introverso.
Tuttavia,
non aveva scelta. Se voleva evitare di finire in un qualche centro per
disagiati, seguita dai servizi sociali, doveva tentare. Non poteva
permettersi di rovinare tutti i propri sforzi, lo studio, le referenze,
per colpa di quel becero di suo padre. Stava dando tutta se stessa per
essere ammessa al college, e solo vivendo una vita "ordinata", da
qualsiasi parte, avrebbe potuto avere una chance di ottenere una borsa
di studio.
Smanettando
tra gli archivi digitali dell'anagrafe, in modo non proprio legale,
Nora era risalita al paese, poi all'indirizzo di suo zio. Bene. Un
piccolo centro abitato svettava dai vetri lerci della vettura. Doveva
essere quasi arrivata.
Dopo
alcuni minuti, il pullman si fermò. Nora attese che i pochi
passeggeri presenti la precedessero; poi, imbracciato ancora una volta
lo zaino ingombrante, abbandonò quello spazio angusto e
malconcio.
L'aria
era fresca, figlia di un Aprile coerente. Il paese era proprio come se
lo era immaginato, complice la sua ricerca spasmodica di indicazioni su
maps. Osservandosi intorno, con l'aria da turista e il cuore gonfio di
apprensione, si incamminò verso la periferia. C'era da
percorrere un po' di strada, ma non aveva alternative.
Eccolo
lì. Il negozio di cui aveva letto. Un mucchio di roba antica
spiccava dalla vetrina, linda e luminosa. Quel contrasto la
stupì. Non era tempo di perdersi in elucubrazioni.
Respirò il profumo di un autunno incipiente, ascoltando lo
scricchiolio delle foglie morte sotto i propri passi; poggiò
la mano sulla maniglia lucida. Senza indugiare oltre, entrò.
«Fa
attenzione con quell'elefante sulle spalle!» la accolse la
voce imponente e severa del negoziante. «Posso aiutarti?
Cerchi qualcosa?» si corresse poi l'uomo. Doveva aver
compreso che non era un buon modo per approcciarsi a una potenziale
cliente.
«Ciao...»
Esitò Nora, fattasi d'un tratto timorosa, di fronte a quella
figura alta e possente, che la folta barba nera rendeva ancor
più autoritaria. «Sei... sei Rupert Rootweet, non
è vero?»
«Sì,
sono io. Chi mi cerca?»
«Sono
Nora. Tua nipote.»
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Capitolo 5 *** Aaron Myers ***
Cap.4
- Aaron Myers
Capitolo
scritto da Cometa1975
Erano
passati già diversi giorni da quando la targa era stata
ritrovata e, dopo l'iniziale clamore, nessuno ancora aveva idea di chi
l'avesse scovata né in quali circostanze. Inoltre, nessuno
sapeva come comportarsi in merito a un ritrovamento tanto eccezionale.
Aaron
non aveva prestato molta attenzione a tutta quella vicenda. Oltre al
lavoro di meccanico che lo teneva occupato per buona parte delle sue
giornate, aveva ben altri pensieri per la testa.
Uno
in particolare tormentava i giorni e soprattutto le notti dell'aitante
meccanico trentenne. Nessuno in paese era a conoscenza del suo segreto
e, come la targa scomparsa e ora riapparsa, la sua vita amorosa restava
un mistero per la gran parte dei suoi concittadini.
Aaron
era un ragazzone biondo, gioviale, con degli occhioni come due laghi di
montagna e ricci simili a quelli di un cherubino.
Era sempre stato corteggiato sia da donne che uomini, e non gli era
stato ben chiaro quale fosse la sua indole finché non aveva
conosciuto Jason Druvè, attraente giornalista conosciuto a
Portland. Avevano iniziato una relazione da diversi mesi, ma Aaron non
se la sentiva ancora di dichiararsi alla città. Per quel
motivo settimane prima avevano litigato in maniera molto brutta e non
si vedevano né sentivano da allora.
Il
giovane scese dalla sua Moto: una Indian four appartenuta a suo nonno
Alan che l'aveva comprata prima di andare in guerra e mai usata
perché dal conflitto era ritornato senza una gamba. L'uomo
però non aveva mai rinunciato alla sua moto e aveva passato
questa passione al nipote che, da quando era solo un bambino, aveva
amato alla follia quel bestione di metallo con i quattro cilindri in
linea longitudinale e un rombo pauroso.
Aaron
scese con calma da Indy e si tolse il casco che imprigionava i suoi
riccioli biondi.
Appena mise a fuoco la scena di fronte a sé, per poco non si
strozzò con la sua stessa saliva. Seduto sui gradini di casa
sua, un tempo appartenuta ai nonni paterni Alan e Merion, situata
appena fuori dal centro del paese, era seduto Jason.
Il
suo amante, se ancora così poteva definirlo, era bello da
togliere il fiato, come sempre. Non aveva il classico fascino
statuario, ma un carisma e uno charme che lo rendeva irresistibile agli
occhi del giovane meccanico. Il reporter era alto e snello con le gambe
lunghe e i muscoli tonici, i capelli scuri portati sempre elegantemente
in disordine e due occhi neri profondi come una notte senza luna.
Il
reporter, appena lo vide, fece uno di quei suoi sorrisi timidi che
riservava solo a lui. Aaron era rimasto fermo vicino alla moto con il
casco in mano e non sapeva se andargli vicino oppure risalire in sella
e fuggire lontano da lì. Strinse più forte il
casco tra le mani e si fece coraggio avanzando di qualche passo verso
il proprio amante. Nel frattempo Jason si era alzato dagli scalini del
portico, scuotendosi i pantaloni di jeans slavati calzati perfettamente
e sistemandosi quasi d'istinto la camicia bianca che portava.
«Cosa
ci fai qui?» chiese Aaron con un tono più brusco
di quello che avrebbe voluto.
«Non
sei felice di vedermi?» rispose di rimando Jason
avvicinandosi ancora.
«Le
cose fra noi non sono cambiate da quando ci siamo parlati l'ultima
volta. Ti ricordi? Però è meglio entrare, non
è buona cosa restare qui fuori» disse sbrigativo
il meccanico aprendo in fretta e furia la porta di casa.
Non
appena fu entrato, seguito da Jason, non fece in tempo a posare il
casco che l'altro si avventò sulle sue labbra. Il bacio era
veloce e disperato, come quando un naufrago riesce a riconquistare
l'aria dopo essere stato immerso nell'acqua per diverso tempo.
Aaron
riuscì, facendosi forza, a scostare l'uomo da sé.
«Jason,
non fare così...»
Il
reporter si staccò malvolentieri dal corpo caldo del giovane
e si mise seduto su una delle poltrone di pelle chiara che erano
presenti nel salottino della casa.
«Speravo
che in questi giorni durante i quali non ci siamo sentiti avessi avuto
modo di riflettere» iniziò a dire il giornalista
«ma non sono qui per questo, o meglio non solo.»
Aaron
lo guardò incuriosito, cercando di capire cosa avesse
portato il giornalista in quel piccolo paesino.
«Nonna
Jo mi ha chiamato l'altro giorno dicendomi che è stata
ritrovata la targa della Gara dello Sciroppo d'acero del
1885.» Sganciò la bomba così
all'improvviso e Aaron sentì un dolore alla bocca dello
stomaco. Anche se solo inconsciamente aveva desiderato tanto che
l'amante fosse venuto a reclamarlo.
Dopo
l'accesa discussione che avevano avuto settimane prima, nessuno dei due
aveva mosso passo verso l'altro. Entrambi erano testardi e orgogliosi,
inoltre erano persone da tutto e subito. Per loro non c'erano via di
mezzo né mezze misure. Anche per Maple Town e SapVille era
così, da quando nel 1885 avevano litigato per la questione
della targa scomparsa, nessuno più si era parlato con i
vicini. Nessuno, tranne nonna Jo. Jo, Josephine Druvè, era
nata e cresciuta a Maple Town ma era una ragazza ribelle e in una delle
sue fughe in bicicletta aveva incontrato Derek Druvè. I due
si erano innamorati e la donna, dopo il matrimonio, sotto gli occhi
sconvolti di amici e parenti, si era trasferita a SapVille insieme al
suo amato.
«Sì,
è vero, e allora?»
«Cookie,
è una storia bellissima non ti rendi conto? Potrebbe venire
fuori un articolo coi fiocchi. Sono qui per indagare sulla targa
scomparsa.»
Aaron,
frastornato dal nomignolo che l'altro usava per chiamarlo, si era
allontanato ancora di qualche passo da Jason. «Okay, ma
allora che ci facevi davanti casa mia?»
«Te
l'ho detto, Cookie, non sono qui solo per quella fottuta targa. Tesoro
vorrei solo che tu facessi un passo verso di me, anche
piccolo...» disse con tono flebile il giornalista.
Nelle
questioni lavorative Jason era molto scrupoloso e se necessario
spietato, ma in quelle amorose era fragile e da quando aveva conosciuto
Aaron lo era diventato ancora di più. Lui si era dichiarato
bisessuale a quindici anni e gay a ventuno. Sapeva perfettamente quale
fosse la sua indole e cosa volesse in una relazione. A casa sua tutti
sapevano e non aveva mai avuto molti problemi al riguardo, ma doversi
nascondere e vivere quella storia che per lui era davvero importante
non potendolo dire a nessuno, era una tortura psicologica incredibile.
Lo faceva sentire come se lui non fosse necessario, come se per Aaron
fosse più importante il giudizio dei suoi compaesani che
quello del suo amante.
«Jason,
te l'ho detto fino allo sfinimento, io non posso dichiararmi gay. Non
adesso, non qui, io...»
Jason
decise di abbattere le distanze tra di loro, aveva una paura folle che
Aaron gli sfuggisse fra le mani, voleva stringerlo di nuovo a
sé.
«Cookie,
ti prego, ho bisogno che tu faccia un piccolo passo verso di me: fosse
solo anche farmi conoscere il tuo migliore amico, non ha importanza,
qualsiasi cosa...»
Aaron
scosse la testa: aveva pensato molto spesso come dire a Mark, il suo
migliore amico da sempre, quello che gli stava succedendo.
In
quelle settimane era stato più schivo e scontroso del solito
con tutti: amici, clienti e semplici conoscenti. Nessuno in
città riusciva a capirne il motivo. Aaron ormai era orfano,
non aveva nessuno. I suoi genitori erano morti quando era molto giovane
ed era stato cresciuto dai nonni paterni e per lui deludere le
aspettative di nonno Alan, anche se ormai non c'era più, era
un dilemma che lo dilaniava dentro. Suo nonno era una brava persona, ma
di vecchio stampo. Un uomo rigido, tutto d'un pezzo, che non avrebbe
capito le scelte sentimentali del nipote. Sua nonna Merion invece
sapeva, o almeno aveva intuito che ad Aaron non piacessero in
particolar modo le donne, non aveva mai accennato nulla a tal
proposito, però poco tempo prima di morire gli aveva detto:
«Vivi la tua vita piccolo e sii felice, con chiunque tu
voglia...»
Non
aveva aggiunto altro anche se era chiaro che si riferisse al fatto che
il suo piccolo angelo con i ricci si nascondesse in amore, forse ancor
più della targa scomparsa.
«Credo
tu debba andare adesso, Jason» disse il meccanico riscosso
dal suono del suo cellulare. Si era completamente scordato che i suoi
amici lo aspettavano da Trixe per festeggiare il compleanno di Steven,
il cugino di Mark.
«Cookie»
provò a insistere l'altro, ma intanto si era già
alzato per dirigersi verso la porta. In fondo sapeva che quello era un
tentativo disperato. Forse addirittura un addio.
Aaron
infatti si era voltato, se l'avesse guardato in faccia l'avrebbe di
sicuro raggiunto e abbracciato, ma non poteva. Nonno Alan non avrebbe
mai approvato.
La
mattina seguente Aaron si svegliò con un mal di testa da
manuale.
La sera prima aveva bevuto troppo e i suoi amici l'avevano dovuto
riaccompagnare casa. Durante la serata il nuovo ufficiale, che
affiancava da qualche settimana l'agente White, aveva detto alla
comitiva che il giorno seguente sarebbe andato in centrale un
forestiero, un giornalista, per un articolo sulla faccenda della targa
e che successivamente sarebbe andato dal Sindaco. I ragazzi avevano
esposto con vivacità le loro opinioni in merito: c'era stato
chi era d'accordo, chi non lo era e chi, come Aaron, aveva dribblato la
questione bevendo più del dovuto. E non solo per la
questione della targa. A un certo punto Mark gli aveva chiesto cosa
avesse, lui stava quasi per vuotare il sacco, quando aveva sentito di
sfuggita un commento cattivo e si era accorto essere rivolto proprio a
Jason, che nel frattempo era entrato nel locale dove si trovavano. Uno
dei ragazzi lo aveva definito "fradicio" nel senso di finocchio. Le
budella di Aaron si erano contorte fino all'inverosimile. Aveva quindi
deciso di bere per dimenticare, ma il suo cuore non era d'accordo. Il
bacio del pomeriggio aveva risvegliato in lui un desiderio ancestrale
di averlo. Per Aaron il giornalista era stato il primo e si sentiva
mancare l'aria al pensiero di perderlo, ma proprio non riusciva a
superare lo scoglio della vergogna.
In
fondo cosa gli aveva chiesto Jason? Nulla, voleva solo che fosse il suo
+1 al matrimonio della sorella. E lui non avrebbe avuto nulla in
contrario se solo non ci fosse stata nonna Jo che, pur avendo lasciato
SapVille e vivendo da anni a Miami, era nata e cresciuta a Maple Town
e, Jason lo aveva detto a Aaron, era ancora in contatto con Patience.
Patty aveva fatto le scuole con nonna Jo e si dava anche il caso che
fosse la pettegola del paese, insomma, non era nota per la sua
discrezione. Andare a quel matrimonio equivaleva a fare coming out e
lui non se la sentiva.
Sospirò
di fronte allo specchio e si vide un completo disastro. Aveva i capelli
sparati in ogni direzione, come se nella notte li avesse tirati
ripetutamente, e due occhiaie violacee sotto gli occhi celesti.
Si
sciacquò la faccia e dopo un caffè al volo si
diresse all'officina. Era in ritardo.
Per
tutto il giorno non fece altro che pensare a Jason, tanto che anche il
suo nuovo apprendista, un ragazzino di nemmeno diciotto anni,
richiamò spesso la sua attenzione. Durante la pausa pranzo
alla caffetteria locale decise di telefonare al reporter. Poteva
propinargli la scusa di sapere come fosse andata con l'agente White e
con il Sindaco Cook.
Compose
il numero. La scritta Sunflower campeggiava sullo schermo. I loro
soprannomi: Cookie e Sunflower. Lo stomaco gli si chiuse, non aveva
più fame nonostante il polpettone fosse la
specialità della casa.
L'utente
non era disponibile.
Un
senso di nervosismo iniziò a serpeggiare nelle sue vene.
Per
il resto del pomeriggio fu intrattabile, se ne rendeva conto da solo.
Sempre attaccato al telefono per vedere se Jason l'avesse richiamato,
ma niente di niente. Erano quasi le sette di sera quando Steven
arrivò in officina dicendogli che qualcuno in paese aveva
avvistato una macchina in panne fuori città, al confine con
SapVille. Il ragazzo non fece neanche finire l'amico che chiuse in
fretta e furia l'officina e inforcò Indy.
La
moto si accese col suo rombo sordo, tipico del motore a quattro
cilindri in linea, e con uno scatto poderoso volò in strada.
Steven gli aveva detto pochissimi particolari, ma da quanto aveva
compreso l'auto in panne non era della città e quindi non
poteva essere che di Jason ed era nei guai. Ma perché allora
non l'aveva chiamato? Era davvero finita?
Percorse
nervoso le strade che portavano fuori città e quando
arrivò al confine iniziò a perlustrare il
perimetro del paese, spingendosi prima nord e poi a sud. Niente,
nessuna traccia. Il cellulare era ancora spento. Aaron
imprecò fra sé e decise di fare un ultimo
tentativo andando verso il ponte distrutto, quello che collegava un
tempo le due cittadine. Vicino al ponte c'erano dei terreni che erano
appartenuti al bisnonno di Aaron e poi abbandonati.
Arrivato
quasi al ponte notò un bagliore fioco, non molto lontano da
lui. Era aprile e non faceva molto freddo, ma le temperature notturne
non erano ancora piacevoli. Percorse quei metri di sterrato col cuore
in gola e poi lo vide: Jason era seduto sul cofano della sua auto,
stretto in una giacca di jeans troppo leggera e stava maneggiando il
suo cellulare.
Quando
sentì il rombo del motore della moto, che conosceva molto
bene perché il meccanico quando andava a trovarlo arrivava
sempre con la sua fidata Indy, alzò lo sguardo e Aaron
spense il veicolo il prima possibile per correre lui. Gli era mancato,
gli era mancato tantissimo.
«Cookie,
sei qui» disse il giornalista non appena ebbe il ragazzo
vicino, scendendo dal cofano.
«Sunflower»
soffiò Aaron stringendolo in un abbraccio. Jason si sciolse
subito e nascose il viso nell'incavo del collo del biondo che lo
stringeva possessivo, con il casco ancora in mano. «Mi
dispiace...»
«Shh,
sei qui, non importa, sei qui per me!»
«Sì,
ma esattamente dove siamo?» chiese allora Aaron staccandosi
appena dal giornalista.
«Ma
come dove, Cookie? Nel luogo del ritrovamento della targa!»
Aaron
sgranò gli occhi e si guardò attorno. C'era molto
buio e non si rendeva ben conto di dove si trovassero. Sicuramente
erano al confine nord di Maple Town, vicino al vecchio ponte oramai
distrutto.
«Sunflower,
ma come sei arrivato fino qui?»
Jason
rise e strinse di nuovo a sé l'amante, era venuto a
cercarlo, era da lui e non aveva importanza il lungo giro che l'aveva
portato fino a lì. Né le occhiate sospettose dei
concittadini del suo amato. Avrebbero avuto tempo a casa,
più tardi, per parlarsi. Voleva solo stringerlo, saggiare le
sue labbra e far sprofondare le mani nei suoi morbidi ricci. Gli era
mancato così tanto, come l'aria.
Tuttavia tornò a pensare alla targa: era stata nonna Jo a
chiamarlo, due giorni prima, per dirgli che aveva saputo da Patience
del ritrovamento della targa. In qualche modo, Jason aveva ipotizzato
che la targa potesse essere stata nascosta tra le due cittadine in
guerra, al confine tra Maple Town e SapVille. Quindi Jason aveva
setacciato i confini del territorio cittadino fino a trovare quel luogo
dove c'era ancora una grossa buca scoperta, ma quando si era deciso a
chiamare Aaron il telefono era scarico e la macchina si era messa a
fare i capricci. Non sperava proprio che il giovane lo cercasse. Non
dopo che la sera prima, quando al locale gli amici di Aaron lo avevano
apostrofato in modo poco gentile, lui l'aveva ignorato, fingendo di non
conoscerlo. Aveva capito, in quel preciso momento, quanto poco Aaron
fosse incline a dichiararsi. La mentalità di una cittadina
come Maple Town non era come quella di città. Aveva
accettato la cosa, anche se pensava che la questione fosse
più profonda e radicata nella famiglia del ragazzone che
amava, forse per il fatto che nonna Jo avesse deciso, anni prima, di
trasferissi a SapVille e quello faceva di Jason un forestiero nemico.
«Ti
porto a casa, Sunflower, penseremo domani alla macchina e a tutto il
resto» disse Aaron passando il casco al suo amore e facendolo
salire con lui sulla moto.
Indy
riprese la stradina sconnessa con sopra il suo proprietario e il
giornalista avvinghiato alle sue spalle. Aaron guardava il paesaggio
scorrere davanti a sé col cuore più leggero. Il
rombo del motore cullava i suoi pensieri. Nonno Alan avrebbe capito, o
almeno lo sperava, ma in quel momento il calore confortevole di Jason
dietro di lui bastava a calmare tutti i suoi dubbi.
Aveva
anche trovato il luogo dov'era nascosta la targa, forse. Cos'altro
sarebbe successo nei prossimi giorni?
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Capitolo 6 *** Agenti White e Moore ***
05.Agenti White e Moore
Agenti
White e Moore
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Capitolo
scritto da ChaBlackCat
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Era
un'altra giornata soleggiata a Maple Town. Nell'ora della siesta, si
sentivano vociare solo gli uccellini, da tempo volati oltre la
protezione dei rami dei loro alberi, spinti alla scoperta della
città e dei suoi curiosi abitanti.
L'agente White chiuse la porta del comando di polizia locale, dando un
solo giro di chiave alla vecchia serratura. Era convinto, sin dal primo
giorno che si era trasferito lì dalla California, che quella
toppa non avrebbe retto ancora per molto. Ma si sbagliava, era
lì da tempo e ancora non si era bloccata. Loris White
trovava anche abbastanza inutile chiudere a chiave qualcosa in quella
cittadina, si conoscevano tutti e tutti erano amici, tuttavia lui era
ancora legato alle abitudini che aveva a Los Angeles. Nemmeno vivere a
San Simeon, ultima residenza dell'uomo, nonché luogo anche
più tranquillo di Maple Town, era servito per rilassarsi e
fidarsi di più del prossimo. Ne aveva viste troppe in vita
sua.
Quella mattina comunque, l'agente White aveva ricevuto una visita
inaspettata: un forestiero di nome Jason Druvè. Aveva detto
di essere un reporter e che stava seguendo il caso della targa
ricomparsa. Certo che era strano. Come aveva fatto un reporter di
Portland a sapere della targa? E che interesse poteva trarne? Un
articolo? Sembrava banale e inutile. Un libro forse; se uno sa
ricamarci sopra, sicuramente ogni storia è quella buona.
Stava di fatto che il tizio aveva posto un sacco di domande sulla targa
e su chi l'aveva ritrovata. La cosa strana era stata che aveva nominato
Patty e nessuno in città sapeva che era stata Patience a
portare la targa al comando. Aveva anche altre domande da fare, ma
Loris White gli aveva detto di parlare con il sindaco perché
lui viveva lì da troppo poco tempo per poter raccontare
qualsiasi cosa.
White
continuò a camminare, immerso nei suoi pensieri,
nell'intento di raggiungere casa sua per pranzo. La piccola villetta
dell'agente si trovava dall'altro lato del centro città, a
pochi minuti a piedi dal suo lavoro. Passeggiando vide da lontano
Rupert Rootweet chiudere la porta della sua attività. Con
lui c'era una ragazzina dai capelli castani che l'agente non aveva mai
visto.
«È Nora, la nipote di Rupert!»
Loris White trasalì. Voltandosi vide Patty accanto a lui.
Forse non l'aveva sentita arrivare perché non portava a
spasso il suo solito, ridicolo carrellino.
«Miss Stealer, mi ha fatto spaventare.»
«Sembra strano che un burbero come Rupert possa avere
parenti» aggiunse Patty, senza badare alle parole dell'uomo.
«Non saprei...»
«È la figlia del fratello a quanto
dicono» continuò la donna. «È
arrivata da poco in pullman. Cosa ci fa qui? E chi lo sa. Direi che
è sospetto però.» Sembrava parlare tra
sé e sé.
«Cos'è sospetto... esattamente?» chiese
White curioso di sapere quali bizzarre idee si fosse messa in testa la
pettegola di Maple Town.
«Ancora non lo so» concluse lei stringendo gli
occhi come se fosse uno di quei segugi dei cartoni animati.
White sorrise.
«Miss Stealer...» cominciò l'agente.
«Patty!»
«Cosa?»
«Chiamami 'Patty'»
«Va bene, Patty... lei conosce un certo Jason
Druvè?» L'agente andò al punto.
«Jason, certo! È il nipote di Jo
Druvè.» Poi la donna prese il braccio dell'agente
e si guardò intorno come per controllare che nessuno la
stesse osservando e che nemmeno gli uccellini potessero sentirla.
«Josephine ha sposato uno di SapVille, all'epoca, e si
è trasferita lì. Ora abita a Miami, ma qui
nessuno lo ha scordato.»
Loris White avrebbe voluto dirle che secondo lui non importava a
nessuno, ma non ne era certo. La rivalità con SapVille non
era certo cosa dimenticata e quella targa ricomparsa aveva riportato
alla luce vecchi rancori. Forse Patience intendeva proprio quello.
«Come mai, secondo lei, questo ragazzo è venuto
qui?» chiese poi l'uomo, deciso a sfruttare la lingua lunga
della donna.
«Jason è qui?» Patty aveva portato
entrambe le mani davanti alla bocca.
«Sì!»
Udito ciò, Patience Stealer si voltò e
andò via a passo svelto. Loris pensò che avrebbe
usato il nome di Jason Druvè ogni volta che avrebbe voluto
liberarsi della donna, ma non si aspettava certo che Patty non sapesse
qualcosa.
L'agente White tornò a camminare, ancor più
pensieroso. Cosa aveva messo Patty in fuga? Come mai tutti quei
visitatori proprio in quel periodo? Doveva essere una
casualità. Poi, passando davanti a una villetta dal giardino
fiorito, scorse qualcuno che lo spiava dalla finestra. Appena White si
fermò per guardarla, la donna, sicuramente Susan Price, si
stava nascondendo dietro le tendine di pizzo.
«Buon pomeriggio signora Price» strillò
l'agente, divertito, alzando una mano in segno di saluto. La donna
tuttavia, si stava comportando in modo strano. Susan non era certo una
donna timida. Era solita preparare torte per ogni occasione e molto
spesso decideva di venderle al solo scopo di raccogliere fondi per la
scuola, per curare i giardini cittadini e cose simili.
In quel momento l'uomo fu distratto da un rombo.
Due uomini in sella a una moto stavano solcando la desolata strada
principale, diretti a nord. Fu a quel punto che l'agente
sentì la serratura della porta di casa di Susan Price
scattare. La donna uscì di casa e trotterellò per
il vialetto, verso di lui.
«Quello chi è?» chiese Susan all'agente
che stava ancora seguendo la moto con lo sguardo e trasalì
per la seconda volta in un giorno.
«Signora Price!»
«Lei lo sa chi è quello con Aaron?»
«Aaron... il meccanico? Ah, mi pareva che fosse
lui!»
«Lo so chi è Aaron Myers, non so chi sia il
giovane con lui» brontolò lei.
«Io... non esattamente.» L'agente White sospettava
che l'uomo insieme al giovane meccanico fosse proprio il reporter che
si era presentato a lui quella mattina, ma non disse nulla alla donna.
Aveva come l'impressione che da lei avrebbe saputo altro.
«Io so solo che un giovane aspettava Aaron sui gradini di
casa ieri» confessò Susan.
«Forse un vecchio amico?»
«Sicuramente un forestiero» azzardò lei.
«Forse!»
«Agente White... ma a lei non sembra strano che ci siano
così tanti visitatori, proprio in questo periodo? Dopo la
scoperta del ritrovamento della targa?»
«Assolutamente, signora Price. È sicuramente un
caso, non si preoccupi.»
La donna però, dopo un breve saluto, rientrò in
casa borbottando e l'agente cominciò a pensare che i
pettegolezzi non si sbagliassero. Il fatto che un giornalista arrivasse
fin lì solo per una targa, era curioso. Ma forse era amico
di Aaron Myers e aveva unito l'utile a una visita piacevole. Quello che
White non capiva, era perché le donne, la Price e la
Stealer, facessero riferimento anche alla nipote di Rupert,
l'antiquario, per instillare il sospetto di una situazione curiosa. Da
quando una nipote in visita era una cosa strana?
White riprese a camminare. Lo stomaco aveva cominciato a brontolare
dalla fame, così accelerò il passo verso casa,
quando un trillo, seguito da una vibrazione nel taschino della camicia
della divisa, lo fece fermare e sbuffare. L'uomo prese il cellulare
dalla tasca, il numero era del collega. L'agente guardò lo
schermo lampeggiante, esitando. Temeva che non sarebbe mai arrivato a
casa per pranzo quel giorno.
«Non risponde?»
Dietro l'uomo si era materializzata una donna, non molto alta, sulla
settantina. Appesa al braccio aveva una borsa di vimini aperta dal
quale sbucavano dei gomitoli di lana e tre ferri per il lavoro a maglia.
«Signora Carter!» Il telefono, intanto, continuava
a suonare.
«Risponda!» insisté lei.
White decise di darle retta, ma si allontanò di un paio di
passi per rispondere.
«White!»
«Agente White, sono Moore.»
«Lo so, mi appare il tuo numero sullo schermo,
dimmi!»
Benjamin Moore era figlio di Alicia e John Moore. Erano due cittadini
modello, specialmente Alicia. Erano il tipo di persone che pagavano le
bollette in anticipo, non parcheggiavano mai fuori posto e portavano in
strada la spazzatura sempre all'ora esatta. Lei era una casalinga.
Teneva il giardino in modo impeccabile e i suoi fiori profumavano tutta
la via di casa sua. Quando in paese si organizzava una festa, lei era
sempre la prima ad aiutare. Il figlio, Benjamin Moore, era stato spinto
dalla madre a fare l'agente in polizia e, dopo una breve gavetta fuori
città, aveva fatto richiesta per tornare a Maple Town. Era
un bravo ragazzo, forse un po' tonto, ma sempre buono e corretto.
«White, stavo passando per la statale in auto con mia madre,
e mamma ha notato un auto parcheggiata male.»
L'agente White alzò gli occhi al cielo.
«Ben, goditi il giorno libero...»
«Sì, ma... Io e mamma ci siamo fermati
perché la macchina era a lato della strada e lì
intorno non ci sono case, sa, è al confine con
SapVille.»
«Continua pure.» White fece un cenno alla signora
Carter per congedarsi, lasciandola sul marciapiede a osservarlo andare
via. Le diede le spalle e andò verso casa.
«E quindi abbiamo accostato e siamo scesi entrambi
perché temevano che qualche poverino si fosse sentito male.
Solo che non c'era nessuno e, peggio, abbiamo notato che nel campo, non
distante, è stata scavata una buca» concluse
Benjamin.
«Ben, vieni al punto perché sto per arrivare a
casa e ho fame.»
«Mamma ha chiamato Charlotte della panetteria e lei le ha
detto che Emma Carter le ha detto che al parco ha incontrato Susan
Price...»
«Moore, arriva al punto!»
«Gira un forestiero in città»
parlò finalmente.
«Va bene, va bene. Senti dammi mezz'ora, poi vieni a
prendermi a casa. So chi è il forestiero e forse so anche
dov'è adesso.»
«E la buca?»
«Gli chiediamo anche della buca, ma prima fammi
mangiare.»
Attaccò.
Dopo
pranzo la macchina di Ben Moore si fermò davanti a casa
dell'agente White. Loris White salì in auto.
«Salve, mangiato bene?»
«No, comunque... Andiamo dal meccanico, Aaron
Myers.»
«Perché?» chiese Moore.
«Qualcosa mi dice che troveremo lì il
forestiero.»
«Intuito?» Benjamin Moore era rapito dalla bravura
di White, ma quest'ultimo sorrise.
«Ben, li ho visti passare in moto, insieme.» Risero
entrambi e si diressero all'officina Myers.
«Aaron!»
Il ragazzone dai capelli biondi, un po' sporchi di grasso,
uscì da sotto un'auto: era sdraiato su un carrellino da
meccanico.
«Ben, agente White, che piacere! Cosa vi porta qui?»
«Stiamo cercando un uomo, un reporter di Providence di nome
Jason Druvè. È qui da te?»
Aaron guardò entrambi cambiando espressione. Il sorriso con
il quale li aveva accolti si incurvò e il suo sguardo
diventò serio.
«Sì» sospirò.
Riluttante, Aaron disse loro che Jason era un vecchio amico e che
l'avrebbero trovato a casa sua. Avevano intenzione di andare a prendere
la macchina entro il giorno dopo per portarla da lui, in officina.
«Allora, se non è un problema, andiamo a casa tua
a parlare con lui» lo informò White.
«Cosa volete sapere?» chiese Aaron sospettoso.
«Solo della sua auto» rispose secco White che non
capiva perché il ragazzo fosse tanto curioso e protettivo.
«Noi andiamo, grazie mille.»
I due andarono a casa di Aaron Mayers, provarono a suonare ma non
rispose nessuno. Suonarono ancora, poi, mentre Moore stava tirando
fuori il cellulare, White girò attorno alla casa.
«Ben!» White chiamò il collega sottovoce
e gli fece segno di raggiungerlo. Entrambi si accostarono alla porta
sul retro e White provò a girare la maniglia, l'uscio si
aprì.
«C'è nessuno?» urlò White.
«Jason Druvè... è in casa? Ci ha detto
il suo amico Aaron che l'avremmo trovata qui» aggiunse Roger.
Nessuno rispose. I due agenti fecero pochi passi all'interno della
casa, nella cucina, e dal passaggio che portava in salotto videro un
paio di gambe per terra. Corsero verso il corpo dell'uomo disteso sul
pavimento. Era Jason Druvè. White si inginocchiò
accanto all'uomo e, mentre Moore si guardava intorno, l'agente
più adulto sentì il polso dell'uomo.
«È vivo! Ben, perlustra la casa, magari chi lo ha
ridotto così è ancora qui.»
White slacciò il fodero della pistola, prese il cellulare e
chiamò l'ambulanza. Sentì Moore perlustrare il
piano superiore e quando posò ancora lo sguardo su
Druvè, questo stava pian piano riaprendo gli occhi.
«Jason Druvè?»
«Cosa... Cosa è successo?»
Druvè cercò di alzarsi, ma portò
d'istinto una mano alla testa soffrendo visibilmente.
«Sente dolore?»
«La testa» biascicò.
«Stia giù, abbiamo chiamato l'ambulanza.»
Moore tornò al piano inferiore.
«Non c'è nessuno» annunciò.
Quando
arrivò l'ambulanza, Aaron Myers era appena tornato a casa,
chiamato da Ben.
«Jason, cos'è successo?» Il giovane
Mayers era seriamente preoccupato.
«Non lo so. Ho sentito qualcuno entrare dalla cucina, dalla
porta sul retro. Credevo fossi tu e ho salutato, ma mi stavo dirigendo
in bagno e non ho visto chi fosse, finché non ho sentito un
dolore lancinante alla testa e mi sono svegliato poco fa, a terra.
«Quindi lei non ha visto l'aggressore?»
«No, mi spiace. Ma voi come mai siete venuti qui?»
chiese Jason.
«Volevamo chiederle se la macchina abbandonata vicino al
vecchio ponte fosse sua.»
«È mia! Non si accende più.»
«E come mai era lì?» domandò
White.
Aaron e Jason si guardarono, poi Jason alzò le spalle.
«Agente, lei sa che io sto scrivendo un articolo per il
giornale di Portland. Ero lì per vedere il vecchio ponte che
collegava le due città e ho notato quel buco. Ho pensato che
la targa potesse essere stata ritrovata lì e secondo me ha
senso se è stato qualcuno di SapVille a rubarla.»
«Ho chiamato il giornale di Providence, questa mattina,
appena ci siamo salutati. Lei non lavora per quel giornale.»
White era serio e gli occhi di Aaron erano spalancati, lo sguardo
diretto all'amico.
«Jason... È vero?»
Jason guardò Aaron, poi abbassò gli occhi e
alzò le spalle.
«L'articolo voglio scriverlo, è la
verità, ma volevo poi proporlo a qualche giornale. Sono
freelance adesso, ho perso il lavoro... Aaron, te lo avrei
detto.»
White
e Moore uscirono dalla casa.
«Ben, chi ha dato una botta in testa a quel ragazzo lo ha
fatto perché sta investigando sul ritrovamento della targa.
Il fatto che questo Jason abbia intuito che quella buca contenesse la
targa rubata, ci fa pensare che forse ha ragione.»
«Ma sia lei che io sappiamo che è stata Patience
Stealer a portarci la targa e...»
«Non credo che la Staler sia andata fin lì,
né che abbia scavato buche.» White si guardava
intorno. Non c'erano curiosi in strada, eppure sapeva che gli abitanti
di Maple Town, nascosti dietro le tendine delle loro finestre, sapevano
già tutto.
«Ma forse chi ha fatto trovare la targa a Patty, l'ha trovata
lì.»
«Sì, e sapeva che la Stealer ha la lingua lunga.
Magari sa anche chi l'ha rubata all'epoca e dove l'avrebbe
trovata» tentò White. «Ben, chiama il
sindaco.»
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Capitolo 7 *** Emma Carter ***
Il
parco di Maple Town era il punto focale del paese. Da questo,
scegliendo con
cura le panchine, si poteva osservare il viavai dei paesani.
Emma,
Patience, Susan, Meredith, ognuna di loro aveva il proprio angolo
preferito.
Quello
di Emma era davanti l'area giochi per bambini. Aveva avuto un
solo figlio
e un solo nipote, però aveva aiutato a far nascere tanti
bambini e da sempre
vederli giocare la rasserenava.
Sedette
su una delle panchine sotto i pini e sistemò la sua borsa
col lavoro a maglia
da un lato per poterlo continuare. I ferri, nelle mani di Emma,
annodavano,
snodavano, intrecciavano, ticchettavano; i pochi centimetri di manica
divennero
presto diverse decine. Mentre le mani lavoravano senza sosta, gli occhi
di Emma
si fermarono sull'uscio del negozio di Rupert: lui era impegnato in una
discussione con Nora, sua nipote e ospite. Nella memoria confusa di
Emma quella
ragazza si chiamava Ann e la scena a cui credette di assistere era
invece un
ricordo di diversi decenni prima con protagonisti altre persone.
Presa
dalle sue fantasticherie, Emma non si accorse che
Meredith si
era seduta accanto a lei, fino a che le piccole manine della nuova
venuta non
la scossero chiedendole: «Visto? Una nipote segreta.
Chissà cos'altro nasconde».
A
quel punto Emma tornò alla realtà coi sensi, ma
non con la memoria, e stava per
rispondere alla sua interlocutrice, quando vide Susan uscire dalla
panetteria
e, distraendosi, le fece un cenno di saluto e un sorriso. La
settantacinquenne non la vide, ci pensò Meredith a
richiamare la sua
attenzione.
«Susan!»
urlò, e l'altra si voltò sistemandosi gli
occhiali. Non riconobbe la voce che
la stava chiamando, ma la raggiunse ugualmente.
Susan
avvicinandosi e riconoscendo le due donne anticipò la
conversazione.«Ho appena
parlato con Charlotte che ha sentito Alicia che ha sentito il figlio
parlare
con White...»
Emma
a sentire nominare Benjamin si intromise per dire: «Quel
bravo ragazzo, sempre
così disponibile».
Meredith
posò una mano sul braccio di Emma per farla tacere e
incitò Susan a continuare
facendole un segno con il mento.
Così
Susan proseguì: «Beh! Ricordate quel ragazzo che
vedemmo la volta scorsa?»
Meredith
annuì impaziente ed Emma lo fece poco convinta, comunque
Susan continuò: «É un
giornalista, amico di Aaron!»
Detto
questo la donna si rialzò gli occhiali sul naso a mascella
tesa, visibilmente
contrariata.
Meredith,
strinse il braccio di Emma e spalancò la bocca.
Emma
lasciò uno dei ferri per liberarsi della presa di Meredith
e, tornando
definitivamente nella sua epoca, chiese: «Susan, io non ho
capito, anche mia
nuora è giornalista».
«Emma!
Quello vuole rubare le ricette!» concluse l'altra,
spazientita.
A
questa inconfutabile verità Meredith aggiunse:
«Ecco spiegato tutto!»
«Spiegato
cosa?» Un giovanotto in skate, che le tre donne conoscevano
bene, si avvicinò
al gruppetto, sorrise a tutte e si sistemò davanti a Emma
dandole un bacio
sulla guancia. «Nonna oggi vengo io a casa con te,
papà è in ritardo.»
Le
mani di Emma creavano trecce variopinte mentre le chiacchiere
continuavano
anche in presenza del curioso nipote.
«Un
giornalista vuole rubare la ricetta segreta di Susan»
concluse Emma seria,
prima di cambiare completamente espressione e rivolgendosi al giovane.
«Sean
come mai non sei a scuola?» gli chiese.
«Avevamo
uno dei test per scegliere il college, hanno annullato le lezioni del
pomeriggio.»
Emma,
rivolta alle amiche aggiunse con orgoglio: «Sean vuole
diventare avvocato».
Le
altre due fecero gesti di approvazione e Susan convenne:
«Serve sempre un
avvocato in famiglia»
«Due
settimane fa non volevi diventare poliziotto per aiutare a cercare la
targa? Un
mese fa, invece, volevi arruolarti nei marines se non ricordo
male...» chiese
Meredith ricordando le parole del giovane.
Posando
entrambe le mani e tenendo il lavoro a maglia in grembo, Emma
si
rivolse a Meredith, ferma: «Sean vuole
diventare utile per la
comunità. Quando gli ho raccontato della targa, Sean ha
subito capito che una
situazione simile avrebbe avuto bisogno di buoni avvocati».
Con
un gesto frettoloso Meredith osservò:
«Sì, sì. Per la gara di ricette vorrai
diventare chef?»
Ma
il ragazzo aveva smesso di seguire le donne, rapito dalla presenza di
una
ragazza mai vista prima che, dall'uscio del negozio di
antichità, gesticolava
animatamente con qualcuno all'interno.
«Sean?»
Le piccole manine di Meredith lo colpirono ripetutamente sulla spalla a
lei più
vicina. Poi, voltando lo sguardo verso quello di lui, capì e
lo aggiornò: «Lei
è Nora. Pare sia una nipote segreta di Rupert».
Il
ragazzo divenne rosso, essendo stato scoperto, così si
affrettò a chiarire:
«No, ma... Solo, ecco. Non è che capitano spesso
nuovi adolescenti in città».
Sean si passò una mano tra i capelli.
Emma
guardò il nipote che le ricordava così tanto il
marito, e sospirò.
Per
distogliere l'attenzione su di sé, Sean alimentò
la discussione che negli
ultimi giorni animava gli animi dei cittadini di Maple Town: la gara di
ricette
a base di sciroppo d'acero.
«Gara
di ricette! Giusto: Susan, hai scelto la tua per la gara? Meredith,
partecipi?
Ricordo che al barbecue di primavera dai Moore portasti un pasticcio
davvero
delizioso. Nonna, per questa edizione posso aiutarti anche io, per il
giornalino della scuola abbiamo intervistato i cuochi noti della
regione.»
Tra
una chiacchiera e l'altra arrivò l'ora di tornare a casa: il
ragazzo raccolse
lo skate, tenendolo sotto un braccio, ed Emma ripose il suo lavoro
nella borsa
e se la mise a tracolla, aggrappandosi al braccio del nipote. Per
strada Emma
si perse confondendo i ricordi con la realtà.
«Vedi dovremmo uscire più spesso,
dovremmo tornare in crociera.»
Il
ragazzo sorrise e decise di non correggere la memoria della nonna, non
era la
prima volta che lo confondeva col nonno.
Attraversando
la strada buttò l'occhio verso le vetrine del negozio di
Rupert, ma la ragazza
non era più sulla porta.
Emma
era in grado di vivere sola, girava sola per la città e
gestiva la casa in
autonomia, ma da quando gli episodi di confusione nella sua mente erano
diventati più numerosi, figlio e nipote cercavano di passare
quanto più tempo
con lei.
Avendo
lavorato per oltre quarant'anni in ospedale, avendo visto nascere mezza
Maple
Town e Sapville, aveva sempre molti aneddoti divertenti sui
suoi abitanti
in fasce. Nei mesi, padre e figlio, si erano accorti che la memoria di
Emma a
volte confondeva eventi presenti con altri passati, che loro
non
conoscevano, probabilmente risalenti a quando lei era bambina.
In
casa Carter il pranzo veniva servito alle dodici e trenta, chiunque era
il
benvenuto a tavola, purché fosse puntuale, quindi quel
giorno erano Sean ed
Emma seduti a tavola. «Nonna, vuoi che la cerchiamo oggi una
ricetta per la
gara? Pensavo a quelle polpette di salmone con lo sciroppo
d'acero, le
hai fatte per il compleanno del papà, ricordi gli
ingredienti?» Questi erano i
test che Sean aveva trovato su internet per rallentare la perdita di
memoria
della nonna e ogni giorno tirava fuori un ricordo. Avevano il valore
scientifico di qualsiasi altra cosa trovata sul web, ma era comunque un
pensiero
carino.
«Ah!
Quella ricetta... Era di mia nonna, dovrei cercare nel suo
ricettario.» Così
dicendo Emma, non ancora arrivata a fine pasto, si diresse all'antica
credenza,
che come tutto il suo soggiorno era appartenuta ai Benson, nome da
nubile di
Emma, fin dal 1790. Aprì le ante: il vetro non era mai stato
sostituito e
presentava imperfezioni ma anche il tipico bordo smussato dei vecchi
mobili.
Sul ripiano più basso vi erano quaderni, libri, album
fotografici e il
ricettario, dal quale spuntavano diversi foglietti come segnalibro.
«Eccolo.
Vediamo un po'» disse iniziando a sfogliare.
Il
campanile suonò la una del pomeriggio, nonna e nipote si
avvicinarono alla
finestra confusi dallo sfrecciare dell'auto di servizio dell'ispettore
White,
che videro girare l'angolo verso la parte sud di Maple Town.
Spostandosi
fecero cadere due foto dal ricettario.
Immagini
antiche, ingiallite, di quelle in cui il nero era divenuto viola e
stropicciate
ai bordi. Una raffigurava una torta di compleanno con due candeline e
una donna,
dietro questa teneva in braccio una bambina; erano entrambe sorridenti,
le loro
figure coprivano in parte una mensola di bottiglie di vetro piene. Una
didascalia scritta a mano su un angolo riportava: Maple Town 1945, buon
compleanno Emma.
L'altra
foto riprendeva lo stesso angolo, ma le figure non erano centrate, la
donna
aveva la testa rivolta da un lato e ne era rimasta immortalata la sola
nuca, la
bambina tra le sue braccia aveva la smorfia del pianto mentre le
braccine
creavano scie confuse: segno che si era mossa durante lo scatto.
Della
torta era rimasto nell'inquadratura solo il bordo. Lo scaffale sullo
sfondo si
vedeva per intero ma storto e le bottiglie erano più
numerose, quella
all'estremità opposta alla donna, era l'unica completa di
etichetta e si
leggeva chiaramente "Sciroppo d'acero 5-5-1885" e sul tappo un pezzo
di stoffa tenuto da uno spago.
Le
figure finite sul lato della scena lasciavano libera la visuale del
muro sotto
lo scaffale, dietro il tavolo con la torta, tra ceste di vimini e ceppi
di
legno, appoggiata a terra, senza alcuna copertura: la targa in bronzo
della
'gara dello sciroppo d'acero della contea'.
Lo
scompiglio delle auto sulla strada durò pochi secondi. La
porta della veranda
si aprì, l'aria spostò quest'ultima foto sotto il
divano e la prima nel centro
della stanza. Il padre di Sean entrò trafelato e affamato,
dopo aver lasciato
le scarpe nella veranda, poi salutò la madre con un bacio
sulla guancia e
notò la foto con la didascalia caduta a terra.
"Ti
è caduta questa!" disse, appoggiando la foto sul tavolo e
dirigendosi
verso il bagno.
Quando
aprì la porta lo spostamento d'aria fece scivolare
nuovamente l'altra
fotografia fuori dal suo nascondiglio e la fece ondeggiare verso la
veranda e
poi via, grazie a un altro soffio di vento, fuori dall'uscio rimasto
aperto.
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Capitolo 8 *** Le diavolesse ***
Le
diavolesse
-
(capitolo
scritto da me, ma se volete curiosare il mio profilo su wattpad,
è questo
qui)
-
L'anziana
donna percorse il corridoio dell'ospedale fino
all'uscita. Sbirciò fuori e valutò il tempo: era
sereno. Piegò il cappotto e lo
appoggiò sul braccio mentre usciva sul viale alberato.
Mentre
la gonna le batteva contro i polpacci guardò di nuovo il
cielo: mancava dalla contea da tre anni e tutte le volte si stupiva di
quanto
facesse caldo. Era sempre convinta di trovare temperature rigide anche
in piena
primavera, invece la sua vecchia cittadina natale la stupiva tutte le
volte.
Sospirò
e si passò una mano sulla camicetta bianca per
distendere eventuali pieghe e sospirò soddisfatta: Jason
stava bene. Era stato
aggredito due giorni prima a casa di Aaron Myers e ora si trovava
ancora in
ospedale, ma più per precauzione che per reale
necessità.
Con
passo veloce percorse tutto il viale fino ad arrivare
all'inizio del paese ma, invece di passare attraverso il centro, dove
la vita
di Maple Town era più frenetica e decise di passare dalle
strade secondarie.
Prima di far sapere a tutto il paese che fosse tornata aveva bisogno di
parlare
con Patience.
Quando
Patience le aveva telefonato, due giorni prima, dicendo
che Jason era stato aggredito, si era spaventata tantissimo: lei lo
aveva mandato
a Maple Town per l'articolo sulla targa e lo aveva messo nei guai.
Quando
era scesa dall'aereo, tre ore prima, aveva preso un taxi
velocemente e si era fatta portare in ospedale subito, per assicurarsi
delle
condizioni del nipote. Jason per fortuna stava bene, ma quello che gli
era
successo non era da sottovalutare. L'unica cosa che la tranquillizzava
in
quella storia era che la targa non c'entrava niente.
Girò
a sinistra, lungo un sentiero ormai poco battuto,
attraversò un prato e aprì il cancelletto di una
staccionata vecchio stile, di
quelle che non si vedevano quasi più. Con pochi passi
raggiunse la porta della
cucina e bussò guardandosi intorno.
Quando
la porta si aprì, la donna dall'altra parte sorrise e
sospirò insieme. «Jo!» Josephine
Druvé, nata Stealer, sorrise alla cugina.
«Patty, come stai?»
Le
due donne si abbracciarono e Jo entrò in casa.
«Come sta
Jason?»
«Sta
bene. Non so come ringraziarti: mio figlio e sua moglie non
sapevano niente. Non l'ho detto neanche ad Arthur, pensa che sia uno
dei soliti
viaggi per venire a trovarti...»
Patty
alzò le spalle, per mitigare la cosa, anche se
effettivamente capiva perché non avesse raccontato alla sua
famiglia cosa fosse
successo. «Figurati se non ti avvisavo! Gira voce che Jason
sia stato aggredito
a causa della storia della targa e... Ma come ha fatto a sapere della
targa?»
Jo
si sedette e sistemò cappotto e borsetta sulla sedia accanto
a sé, nel piccolo salottino, prima di guardarsi intorno: il
vecchio divano
verde militare, di quel tessuto orrendo e consumato, era ancora
lì, mentre il
tavolo da pranzo doveva essere nuovo, perché era quadrato,
mentre l'ultima
volta che era stata lì, Patty aveva un tavolo rotondo, di
quelli vecchi. Le
foto alle pareti mostravano il paese negli anni passati e i pazienti
che la
donna aveva avuto nel corso della sua vita: Patty lavorava come
infermiera
nell'ospedale di Maple Town e tutti se la ricordavano per la sua
disponibilità
e gentilezza. La carta da parati, invece, era ancora quella di sempre.
Per
fortuna le tende erano graziose e non rovinate.
«Gliel'ho
detto io» rispose Jo, dopo aver controllato anche
tutto il resto del mobilio: mobili vecchi e antichi. Stava per sgridare
la
cugina per non fare mai cambiamenti, quando sulla mensola del camino
vide una
vecchia foto di famiglia e non ebbe cuore di rimproverarla. A volte le
cose
vecchie portano serenità nella vita delle persone.
«Perché
glielo hai detto?» La voce di Patty si fece stridula e
incredula.
«Aveva
bisogno di una scusa per tornare qui. Dio solo sa se quel
ragazzo ha bisogno di spintarelle!»
«Perché?»
Patty si alzò e andò in cucina e mise sul fuoco
il
bollitore, prima di tornare in salotto e sedersi accanto all'amica.
«È
innamorato di Aaron, ma da quando si sono lasciati non aveva
fatto niente per provare a riprenderselo. Quando si tratta di lavoro
riesce a
smuovere mari e monti, quando invece è la sua vita
privata...» Jo sospirò
ancora, passandosi una mano sul viso.
«Oh,
è vero. Lui è uno di quelli... a cui piacciono...
piacciono... sì, i meccanici!»
esclamò Patty, ingarbugliando le
parole: non riusciva a dire 'omossessuale', anche se
non aveva nessun
pregiudizio nei loro confronti.
Jo
rise divertita e la tensione che l'aveva tenuta in ansia per
due giorni lentamente scivolò via lungo la schiena.
«Già, i meccanici!»
«Comunque
è stato aggredito... È una cosa seria,
dannazione!
Forse non dovevamo portare la targa...»
Patty
si alzò quando il bollitore fischiò e si
interruppe.
L'amica la seguì in cucina, aprendo uno sportello e tirando
fuori due tazze.
«Non è stato aggredito per via della
targa.»
«No?»
La donna, che stava versando il liquido bollente nella
teiera, alzò di scatto la testa e l'acqua inondò
il piano della cucina. Doveva
essere molto agitata.
«Patty,
siediti, lo faccio io: sei troppo agitata.» Patty non
riuscì a negare e non disse niente, osservò Jo
pulire il ripiano e versare il
tè nelle tazze. Quando Jo portò in salotto il
vassoio con le tazze, lo zucchero
e la teiera, la seguì.
«Ho
parlato con l'agente White: ha indagato su Jason già da
quando è arrivato qui e ha scoperto che ha perso il posto
presso Providence
perché ha pestato i piedi a un imprenditore locale che ha
molto potere. Pensano
che sia stato un avvertimento o qualcosa del genere, comunque
seguiranno prima
quella pista. Ti dirò: pensavo che la notizia della targa lo
avrebbe portato
qui come scusa per vedere il meccanico, ma non pensavo ci volesse
davvero fare
un articolo...»
Patty
sospirò e mescolò troppo zucchero nel suo
tè. Il
cucchiaino continuava a tintinnare contro la ceramica bianca della
tazza che
era appartenuta a sua nonna. «Ho sentito dire che ha trovato
una buca e che ha
detto in giro che la cassa con la targa sia stata trovata
lì.»
Jo
ridacchiò. «Già. Sul confine fra Maple
e Sap. Se sapessero
dove è stata veramente la targa fino all'altro
giorno!» Anche Patty rise e si
coprì la bocca con la mano, come se si vergognasse.
«Abbiamo
fatto un bel casino, eh?» esclamò la padrona di
casa,
una volta calmata.
«Eh,
sì. Ma ti ricordi cosa dicevano di noi? 'Le tre diavolesse'
ci chiamavano!»
«Ti
ricordi quella volta che il ciabattino aveva avuto da dire
perché avevamo accorciato le nostre gonne? Era uscito dal
negozio, ci aveva
gridato contro e tu sei andata là vicino dicendo che da uno
che tradiva la
moglie non accettavi prediche! »
«Già,
quell'essere viscido... Però poi Emma ha avuto l'idea di
cospargergli la macchina di sapone liquido mentre era appartato con la
segretaria, ti ricordi? Non ha più detto niente, dopo!
»
Tutte
e due le donne risero e poi sospirarono, raccontando altri
aneddoti e quando una lacrima scese sulla guancia di Patty anche Jo non
riuscì
più a trattenersi. «Non è
giusto...» disse la padrona di casa, guardando fuori
dalla finestra, una volta asciugate tutte le lacrime.
«No,
Patty, non lo è. Ma è la vita...» Patty
annuì.
«Lei...
Non mi riconosce sempre... Ieri mi ha chiamato Jenny.»
«Jenny?
Come la Jenny che...»
«Sì,
penso che mi abbia scambiato per la moglie del vecchio
panettiere che aveva il forno nel '69.»
Sospirò
e anche l'amica la imitò. «Abbiamo fatto
bene?» chiese Patty
dopo un po', timorosa di non aver agito nel giusto.
«Certo
che abbiamo fatto bene! Ora che in casa sua bazzicano il
figlio e il nipote, lei avrebbe potuto lasciarsi scappare qualcosa e
loro
l'avrebbero potuta trovare. Non è di certo colpa sua se
quella squinternata di
Harriet la pazza era una sua parente e ha rubato la targa alla gara
della
contea!»
Patty
annuì ancora. Si sentiva come quei cani sul lunotto
posteriore delle auto: riusciva solo a muovere la testa su e
giù. Per fortuna
che Jo sapeva sempre cosa fare. Patty l'aveva chiamata quando la loro
amica
aveva iniziato ad avere problemi di memoria, preoccupata che la cosa
potesse
venire a conoscenza di tutti.
«Andiamo
da lei» disse Jo, una volta che ebbero sparecchiato.
Le
due donne passeggiarono per le vecchie vie di Maple Town,
lasciando che i ricordi e le novità della città,
riempissero i loro discorsi.
«Chi
è quella ragazza?» chiese Jo quando passarono
davanti al
negozio di Rupert l'antiquario, notando una nuova commessa.
«È
sua nipote. È arrivata da poco, nessuno sapeva chi fosse.
Non
è male ma un po' schiva. Deve aver preso da suo zio, ma
almeno è educata.»
Quando
arrivarono alla casetta arancione che conoscevano così
bene, fu Patty a bussare alla porta.
«Miss
Stealer! Che piacere!» la salutò Sean, guardando
con
curiosità Jo, di cui non si ricordava. Il ragazzo doveva
essere veramente
felice di vederla, a giudicare dal suo tono di voce. Patty fece le
presentazioni e i due si strinsero la mano.
«Jo,
Josephine Druvè, certo. Nonna mi ha raccontato un sacco di
cose su voi tre! Com'è che vi chiamavano? Le tre... Le
tre...» Il ragazzo rise
e Patty scambiò uno sguardo preoccupato con Jo: cosa aveva
saputo Sean?
«Davvero?»
lo interruppe Jo.
«Sì,
praticamente parla più spesso della sua gioventù
che di
quello che è successo la settimana scorsa...»
disse il ragazzo un po'
sconsolato.
«Se
vuoi, rimaniamo noi a farle compagnia per un po'...»
Il
volto del ragazzo si illuminò: Jo pensò che
effettivamente
alla sua età avrebbe preferito passare il pomeriggio
diversamente che accudire
la vecchia nonna. Ma poi Sean sospirò. «Ho
promesso a mio padre che...»
«Oh,
noi non racconteremo niente a tuo padre!» Sean
guardò le
due donne un po' dubbioso: volevano liberarsi di lui? E
perché? Ancora
indeciso, sentì il suo cellulare vibrare. Lo tirò
fuori dalla tasca e vide un
sms da parte di Nora. Non si fece scappare l'occasione,
afferrò la giacca
leggera sull'appendiabiti dell'ingresso e chiese un'ultima volta:
«Siete
sicure?»
«Vai,
vai. Hai una bella ragazza che ti aspetta da qualche
parte?» Il ragazzo divenne rosso sulle guance e
balbettò una risposta. Patty fu
contentissima della cosa, praticamente spinse il ragazzo fuori casa e,
una
volta chiusa la porta, si avviarono verso il salotto di Emma:
conoscevano
quella casa a memoria, loro erano cresciute con Emma e lei aveva sempre
vissuto
lì.
«Jo!
Patty!» le salutò la donna, con i lunghi capelli
raccolti
sulla nuca, seduta in poltrona: una lunga veste da casa indosso e ai
piedi un
cestino per fare la maglia. Le due donne sorrisero contente quando le
riconobbe, ma il loro sorriso sparì quando disse ancora:
«Non sapete cosa ho
trovato in soffitta! Vi do un indizio: è una cosa che
cercano dal 1885!»
***
Sean
entrò in pasticceria e adocchiò subito il tavolo
dove era
seduta Nora. Si avvicinò e le sorrise, prima di sedersi.
«Ciao!»
La
ragazza lo guardò con un'occhiata sospettosa e chiese:
«Perché tutta questa fretta?»
Lui
si sedette, togliendosi la giacca e si sporse verso Nora sul
tavolo. «Non sai cosa ho appena saputo da mia
nonna...»
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Capitolo 9 *** Candice e Tom Smith ***
Un
altro giorno era iniziato e i primi raggi di sole illuminavano le vie
di Maple
Town.
Tom
Smith, un omone di un metro e novanta dai folti capelli biondi e occhi
azzurri,
si era svegliato presto, come ogni mattina e dopo essersi lavato
accuratamente
il viso e averlo asciugato, scese le scale e si diresse in cucina per
preparare
il caffè al ginseng per la sua dolce metà.
Per
Tom era ormai un'abitudine a cui non poteva rinunciare.
Adorava
prendersi cura di Candice, coccolarla e viziarla, soprattutto dopo aver
rischiato di perderla per sempre.
Si
erano conosciuti quando erano solo dei bambini ma tra loro era scattata
subito
la simpatia reciproca che con il tempo divenne feeling, che
sbocciò in quello
che si definirebbe "il vero amore".
Si
reincontrarono all'università di Yale, dove
studiavano rispettivamente
legge e arte, decisero di finire gli studi per poi tornare a Maple Town
e
realizzare il sogno che entrambi portavano nel cuore fin da ragazzini:
aprire
una caffetteria.
Un
mese dopo il loro matrimonio, Candice gli aveva annunciato l'arrivo di
un
piccolo fagottello di gioia che avrebbe riempito le loro vite di
felicità, ma
esattamente due settimane dopo, a causa di un incidente, Candice perse
il
bambino e restò per mesi in coma.
Da
quel momento per Tom esistette solo la sua bellissima moglie e la sua
felicità.
Non
che lui non fosse felice, ma essere quasi rimasto senza l'amore della
sua vita
ed aver perso suo figlio gli fece capire che non c'era nulla di
più importante
di Candice e che avrebbe messo la sua vita e la sua felicità
prima di chiunque
altro, anche di se stesso.
Dopo
aver fatto il caffè, preparò il vassoio con la
tazza, le brioche al cioccolato
fondente, un bicchiere di spremuta d'arancia e un rametto di alloro di
montagna, i cui delicati fiori bianchi e rosa mettevano sempre di buon
umore
sua moglie.
Salì
le scale e, dopo aver spinto lentamente la porta lasciata socchiusa in
precedenza, poggiò il vassoio sul letto e sedendosi
spostò con delicatezza una
ciocca di capelli rossi di Candice che copriva il suo dolce viso
rotondo.
«Dormigliona...
sveglia!» Un mugolio incomprensibile fece sorridere Tom che
le baciò
teneramente una gota paffuta.
«Amore
sveglia! Sono le già le sei! Candice aprì gli
occhi, che teneramente
stropicciò, e
mettendosi
seduta, sorrise incrociando lo sguardo color cielo del suo Tom.
«Buongiorno
amore! Il marito le posizionò sulle gambe il
vassoio giallo ocra e lei si
leccò i baffi vedendo le sue brioche preferite.
«Mi
stai viziando lo sai? Di questo passo diventerò una
balenottera dai capelli
rossi!»
Risero
entrambi di gusto, poi Tom si avvicinò a lei e, alzandole il
mento, si perse in
quegli occhi di ghiaccio.
«Saresti
comunque la mia bellissima balenottera dai capelli rossi!! La
baciò
dolcemente e, con le gote arrossate, Candice consumò la sua
colazione.
Esattamente
un'ora dopo, erano già alla caffetteria e, dopo aver
sistemato le sedie e i
tavoli, Tom voltò il grazioso e colorato cartello con
scritto "Open".
La
giornata cominciava sempre allo stesso modo: i primi clienti entravano,
accomodandosi ai soliti tavoli e ordinando le stesse cose, ma l'arrivo
di
Rupert e sua nipote Nora lì sorprese, non essendo
l'antiquario un uomo propenso
al contatto con gli altri esseri umani.
«Buongiorno
Tom! Candice!» esclamò con voce atona Rupert; i
coniugi si guardarono sbattendo
più volte le palpebre, per poi fissare di nuovo lo sguardo
sull'uomo e la
giovane seduta davanti a lui.
«Bu-buongiorno
Rupert!» li salutò Candice con un
sorriso.
«Salve
Rupert! Qual buon vento ti porta qui?» chiese Tom servendo un
altro cliente.
«Beh
mi sembra ovvio! È ormai ora di pranzo, devo pur mangiare! E
poi... a Nora non
piace molto la mia cucina» disse storcendo la bocca.
«Ammettilo
zio... sei una vera schiappa ai fornelli! Mi sorprende ancora come tu
abbia
fatto a sopravvivere con quella poltiglia che cucini e ti ostini a
chiamare
cibo!» ribatté ridendo la ragazza.
Candice
si avvicinò ai due con una caraffa di caffè
bollente e, versandone un po'
all'uomo,rivolse un dolce sorriso a Nora.
«È
un piacere conoscerti Nora! Spero che ti possa trovare bene qui a Maple
Town!
Per qualsiasi cosa non esitare a chiedere! Sarò felice di
aiutarti!»
«Grazie
mille, Signora Smith!»
«Oh
su andiamo... mi fai sentire vecchia se mi chiami "Signora"! Chiamami
Candice..ok?» La rossa allungò una mano verso la
giovane accompagnato da un
sorriso amorevole che Nora ricambiò subito, per poi porgerle
la sua.
«Va
bene... Candice!»
L'ora
di pranzo per i coniugi Smith, voleva dire solo una cosa: clienti a
raffica.
Il
locale si riempiva fino all'ultimo posto e le ordinazioni aumentavano a
ogni
minuto.
Dopo
aver servito anche l'ultimo cliente affamato, Candice
asciugò una goccia di
sudore dalla sua fronte per poi raggiungere il marito dietro il bancone
e
sistemare il tutto.
«Hey
Mike! Tua moglie cosa ha deciso di cucinare per la gara?»
chiese Pit.
«Ah...
ti prego non mi parlare di quella gara! Per Margaret sta diventando un
ossessione! Non fa altro che spulciare le vecchie ricette di famiglia
per
scegliere quella che "farà rimanere tutti a bocca
aperta.» rispose
l'anziano imitando la moglie, scatenando l'ilarità di tutti.
«Come
ti capisco amico mio! Anche Mary si comporta così! Ormai la
cucina di casa mia
è diventata un laboratorio per esperimenti!»
ribatté Joe ridendo.
«Nonno,
vuoi per caso che vada a raccontare alla nonna cosa dici di
lei?» esclamò Tom
con il sorriso sulle labbra.
L'anziano
dei capelli brizzolati si voltò e guardandolo disse:
«Ragazzino! Come osi
andare a fare la spia contro di me? E poi devo ricordarti con chi stai
parlando?»
Tom scosse la testa e, assumendo la postura da soldato, si mise
sull'attenti ed
esclamò: «Le chiedo scusa Tenente-Colonnello
Smith! Non capiterà più Signore!»
L'uomo
era soddisfatto.
«Bravo
il mio ragazzo!» Tom sorrise beffardo.
«Ma
questa... Nonno, lo dirò alla nonna!» Una risata
generale riempì il locale,
mentre l'anziano inveiva contro il nipote che ridendo si nascondeva
dietro il
bancone.
«Hey
Candice! E tu cosa preparerai per la gara?» chiese Genevieve,
la sarta più
brava di MapleTown.
«Non
lo so ancora! In realtà, non so nemmeno se
parteciperò!» disse sorridendo.
«Ma
come? Sei bravissima ai fornelli! Sia con i piatti salati che con i
dolci. Non
puoi non
partecipare!»
ribatté la donna.
«Infatti
lei parteciperà!» Una voce decisa e molto
somigliante a quella di Candice si
fece spazio nel brusio del locale, che si zittì subito.
«Mamma!
Che ci fai qui? Non eri in Irlanda dai nonni?»
«E
credi che mi sarei persa la gara annuale? Ah! Neanche per
sogno!»
«Salve
Shannon! Com'era l'Irlanda?» La donna sorrise e
baciò Tom sulla guancia.
«Ciao
tesoro! Bella umida come la ricordavo!» Il suo tono era
allegro.
«Mamma
se parteciperai tu... perché dovrei farlo anch'io?»
«Stai
scherzando? Beth, la tua nonna paterna, che Dio l'abbia in gloria, era
una
campionessa!Ha vinto otto volte tra gli anni '40 e '50! E tu hai il suo
stesso
talento in cucina! Quindi, tu parteciperai!» disse con
orgoglio; tirò fuori una
scatola dalla propria borsa e la mise sul bancone.
«Qui
ci sono tutte le sue ricette... so che sceglierai con il cuore! Io
vado, devo
ancora disfare le valigie e papà mi aspetta per andare a
cena da amici. A
presto!» Baciò la figlia e il genero e
andò via, ma proprio in quel momento il
suono acuto di un'ambulanza rimbombò nelle vie tranquille
della cittadina e
tutti si affrettarono per andare a dare un'occhiata.
I
coniugi seguirono la folla di curiosi che accerchiò
l'ambulanza e scorsero il
giovane forestiero che avevano visto passare con Aaron proprio quella
mattina.
«Oddio!
Che gli sarà successo?» chiese Candice sconvolta.
«Non
lo so amore, ma mi preoccupa! Da quando è riapparsa quella
targa stanno
succedendo cose davvero molto strane» rispose il marito con
espressione seria;
la moglie annuì poi disse: «Aaron deve essere
informato! Infondo è un suo
amico!»
«Vai
tu! Io chiedo a White cos'è successo.» La donna si
apprestò a raggiungere il
locale, quando intravide un'ombra nera nascondersi in un vicolo buio.
«Chi
c'è lì? Chi sei?» La sagoma
sembrò guardarla e poi sparì.
«Candice,
che c'è? Con chi parlavi?» chiese Tom preoccupato;
la moglie lo guardò
accigliata e disse: «C'era qualcuno lì in quel
vicolo e credo sia la stessa
persona che ha aggredito quel ragazzo!»
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Capitolo 10 *** Rupert e Nora ***
Era
notte fonda quando Rupert aprì gli occhi. Intontito dal
sonno ma con la giusta
dose di rabbia e irritazione, si destò dal caldo tepore del
suo letto e balzò
in piedi. L'intera stanza era immersa nel buio, nemmeno i flebili raggi
lunari
riuscivano ad attraversare le tapparelle abbassate poche ore prima.
L'uomo
infilò i piedi dentro le ciabatte e trascinò il
suo corpo fino in cucina, poi
accese la luce, si versò una tazza di caffè e
risalì nella sua stanza.
Non
era un buon momento per bere un caffè, l'orologio segnava le
tre di notte
quando Rupert guardò l'ora. Ma per lui non era un problema,
non sarebbe stata
una tazza di caffè a privarlo del sonno. Adagio,
poggiò la tazza sul comodino,
alzò lentamente le tapparelle della sua stanza e
aprì le finestre. Una ventata
d'aria fresca riempì l'intera stanza facendo rabbrividire
l'uomo che, con
sguardo affilato e duro, osservava il panorama davanti a sé.
Portò gli occhi
sul paese, ne scrutò alcune vie e passò in
rassegna le poche case che riusciva
a vedere dalla sua finestra: avevano tutte le luci spente.
A
Maple Town regnava il silenzio e la calma: solo i fumi del panificio
correvano
veloci verso il cielo. Rupert seguì con gli occhi la piccola
striscia grigia e
la guardò scomparire sotto l'influsso della luce lunare.
Amava abitare in
collina, era il suo colle: nessuno lo avrebbe mai sradicato da
lì. La sua anima
era legata a quel posto quasi quanto le radici degli alberi lo erano
alla
terra. Gli alberi, proprio gli alberi che avevano reso Maple Town
così famosa
in tutta la nazione. Rupert sorrise, alcuni aceri erano stati piantati
dai suoi
genitori quando lui non era ancora nato. Quella era una delle cose che
lo
faceva sentire veramente parte di quel paese, oltre Rachel ovviamente.
«Rachel»
sussurrò Rupert.
Le
labbra dell'uomo si incresparono in uno dei suoi rari sorrisi poi,
lentamente,
afferrò la tazza del caffè poggiata sul comodino
e iniziò a sorseggiarlo.
Chiuse gli occhi e, accompagnato dal frinire delle cicale,
immaginò il volto
della donna che non vedeva dal giorno precedente. Rachel era abbastanza
indaffarata in quel periodo, cercava disperatamente una ricetta con cui
partecipare a quella stupida gara. Già, la famosa gara di
cui tutti parlavano:
era sulla bocca di ogni paesano, quando non si parlava del ragazzo
aggredito e
portato all'ospedale. Rupert poggiò le braccia sul davanzale
della finestra e
osservò la distesa di alberi davanti a sé.
L'oscurità della notte lo trascinò
in un turbinio di emozioni e pensieri contrastanti. Lui odiava il
fermento
creatosi in città, odiava la gara e quella maledetta targa
ricomparsa. Con
l'amaro in bocca, e nel cuore, Rupert diede un'ultima sorsata al
caffè,
richiuse la finestra e si diresse nell'unico posto dove si sentiva
tranquillo:
il laboratorio in soffitta. Rupert afferrò la maniglia della
porta e uscì dalla
stanza senza accorgersi che c'era qualcuno di fronte a lui. Una figura
non
molto alta, dai capelli lisci e fluenti, si scontrò contro
il suo addome.
«Zio,
sta attento quando cammini!»
«Nora...
Cosa ci fai sveglia a quest'ora?» pronunciò l'uomo
guardando la nipote nei profondi
occhi azzurri.
«Ti
ho sentito quando, pochi minuti fa, sei uscito dalla stanza.»
La voce di Nora
era apprensiva, ma aveva gli occhi persi nel sonno.
«Mi
dispiace di averti svegliato. Torna a dormire, è
tardi» disse Rupert facendo
appello a quel poco di gentilezza che conosceva.
«Va
tutto bene?» chiese Nora strofinandosi gli occhi.
«Non
proprio. Ma ti prego, ora dormi. Ne parleremo domattina.»
«Promesso?»
«Promesso.»
L'uomo scandì quella parola con un leggero imbarazzo. Non si
era mai comportato
con nessuno in quel modo, nemmeno con Rachel. Nora si
avvicinò e avvolse lo zio
in un tenero abbraccio, l'uomo ricambiò con qualche
tentennamento, ma alla fine
si sciolse e accompagnò la nipote nella sua stanza. Le
rimboccò le coperte e le
diede un bacio sulla fronte.
«Buonanotte.»
«Buonanotte,
zietto» disse Nora abbozzando una leggera risata.
Mentre
si dirigeva in soffitta, Rupert pensò a Nora. Lei era
l'unica nipote della
quale avesse un vago ricordo. Era entrata nella sua vita da qualche
settimana,
come un fulmine a ciel sereno, distruggendo la sua intera routine.
Odiava
ammetterlo, ma quella piccola peste aveva portato una boccata d'aria
fresca
all'interno della sua esistenza. Odiava tutto ciò che poteva
mettersi tra lui e
la tranquillità, era una cosa risaputa da tutti, ma, in
fondo, avere una
ragazza in casa lo faceva sorridere. Un pensiero veloce e sfuggente gli
riportò
alla mente il breve passato della ragazza e il cuore di Rupert si
riempì di
rabbia e tristezza a quel pensiero. Sua sorella era morta e il cognato
era uno
sporco ubriacone. Non vedeva la sorella da ben tre anni quando la
notizia della
sua morte lo aveva sconvolto. Rupert provava un amore profondo per
Mary, uno di
quelli che non si rompe mai, un legame di sangue saldo, immune al
passare degli
anni. Ma il destino gli aveva lasciato una nipote, Nora era tutto
ciò che gli
era rimasto della sorella. Ed ecco perché aveva promesso che
avrebbe avuto cura
di lei, anche se significava cambiare la sua vita e parte del suo
carattere.
Assorto
da quei pensieri, Rupert salì le scale che lo avrebbero
condotto alla soffitta.
Quando vi arrivò, facendo attenzione a non far rumore,
aprì la porta. L'odore
stantio della stanza invase le strette narici dell'uomo che, palpando
l'oscura
parete alla ricerca della luce, stava già pregustando il
momento in cui si
sarebbe seduto a visionare i suoi oggetti antichi. La luce
rivelò l'intero
contenuto della stanza dal soffitto basso: pile di vecchi libri e
lettere
ammassati nella libreria e un grande bancone con un lume accanto,
posizionato
accanto alla finestra. Rupert si avvicinò al mobile per
prendere uno dei suoi
cimeli: un orologio risalente al milleottocento. Quell'orologio era uno
dei
lasciti del suo prozio, aveva un valore di circa diciottomila dollari
americani. Avrebbe potuto fare una fortuna, se solo avesse avuto il
cuore di
venderlo. Ma Rupert amava riempirsi di vecchie cianfrusaglie, in
particolare,
di cianfrusaglie mega costose.
Ma
Rupert credeva che quell'orologio avesse qualcosa di particolare, anche
se non
aveva ancora capito cosa fosse. Durante le sue numerose revisioni agli
ingranaggi, aveva notato un piccolo incavo sotto la corona. Non era una
cosa
normale, Rupert se ne era assicurato parecchie volte confrontandosi con
alcuni
suoi colleghi del mestiere. Sapeva che quel particolare non doveva
esserci, ma
non sapeva spiegarsi il perché. Aveva provato a girare la
rotellina parecchie
volte, ma nulla. Non poteva permettersi di smontare quella particolare
parte
dell'orologio, erano necessarie attenzione e precisione. Non avrebbe
rischiato
di rovinare un ricordo della sua famiglia, così aveva
lasciato perdere.
Si
limitò a guardare l'incavo anche quella sera, poi, pose
l'orologio sul tavolo e
continuò a rovistare tra le vecchie chincaglierie.
Riportò alla luce alcune
carte del fondatore di Maple Town: la famosa ricetta vincitrice del
concorso di
cucina del 1889, rubata dal suo prozio, e dei vecchi fogli di giornale.
Rupert
ripose tutto sul tavolo dimenticando di avervi appena poggiato
l'orologio. Tra
un movimento di fogli e una botta al piede del tavolino, l'orologio
capitolò
per terra mandando il cuore di Rupert in aritmia per qualche secondo.
Pregando
ogni divinità esistente, l'uomo riprese l'orologio e lo
esaminò attentamente:
era ancora in perfette condizioni, salvo un piccolo dettaglio che
mandò Rupert
in brodo di giuggiole. Dall'incavo dell'orologio era fuoriuscito un
piccolo
biglietto. In tutti quegli anni, Rupert non era mai riuscito a
scorgerlo. Ma
non poteva mai immaginare che, nonostante le spesse dimensioni
dell'orologio,
qualcuno ci avesse nascosto un biglietto. Rupert posò
l'oggetto sul tavolo e
aprì delicatamente il biglietto.
«Cara
Harriet Carter, ce l'abbiamo fatta. Il piano è riuscito.
Sapville avrà quello
che si merita. Tuo, Fred Rootweet.»
Rupert
lesse tutto ad alta voce e rimase incredulo e sconvolto non appena
lesse la
data che riportava il foglietto.
«Cinque
maggio mille-ottocento-ottantacinque» disse, scandendo ogni
parola. «Ma è il
giorno in cui si svolse la gara... Non è possibile. Cos'ha a
che fare il mio
prozio con quella gara?»
L'uomo
ci pensò un attimo, ma riuscì a riunire solo
pochi pezzi di quel grande puzzle.
La targa era stata vinta dal paese, magari suo zio era andato
lì per
assistervi. Però non riusciva a capire cosa intendesse dire
con "Sapville
avrà quello che merita". Inoltre, che legame c'era tra i
Rootweet e i
Carter? Rupert non capiva, ma di una cosa era certo: per fare chiarezza
sull'accaduto, avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di sua nipote. Quella
roba che
lei chiamava "inter coso" l'avrebbe aiutato.
Le
ore passarono e il buio lasciò spazio alla luce. I caldi
raggi del sole
colpirono gli alberi e ne doravano le foglie, avvolgendo tutto il
paesaggio in
una straordinaria luce calda e viva. Anche Rupert, addormentato con la
schiena
ricurva sul tavolo, venne colpito da quell'esplosione di luce. Il sole
baciò le
sue guance destandolo dal sonno. Rupert alzò il viso, si
scollò dalla fronte
qualche foglio di giornale e poi scese dalla soffitta per raggiungere
la
cucina.
«Buongiorno,
zio» esplose Nora mentre preparava la colazione.
«Buongiorno
anche a te.» Rupert la guardò e per un attimo,
accecato dalla troppa luce
mattutina, rivide il volto della sua amata sorella. Sorrise, dentro di
sé.
Sapeva che era un effetto dovuto ai giochi di luce, ma non era solo
quello.
Nora assomigliava molto a sua madre, sia nell'aspetto che nel
carattere. L'uomo
fece qualche passo, raggiunse la nipote al tavolo e consumò
la colazione.
«Allora,
zio, è arrivato il momento di mantenere la
promessa» disse Nora, scrutando lo
zio e mostrando un leggero sorriso.
«Ah,
giusto. La promessa. A proposito di questo, hai ancora quel tuo strano
aggeggio
portatile? Potrebbe tornarci utile.»
Qualche
ora dopo, l'ufficio di Rupert venne invaso da articoli di giornale,
foto e
notizie riguardanti il 1885. L'orologio trovato in soffitta era legato
alla sua
famiglia, lasciato in eredità dal suo prozio, era chiaro
come il sole che
qualche suo parente fosse invischiato in quella pessima situazione. Fu
Nora,
dopo ore di ricerca, a scovare un indizio importante, l'unico davvero
rilevante. Non riguardava il luogo in cui era stata nascosta la targa,
ma
avrebbe potuto aiutare a scovare il colpevole.
«Fortunatamente,
il comune di Maple Town ha creato un cloud digitale atto a conservare
tutti gli
articoli di giornale più importanti. Ma, sebbene l'evento
dell'ottantacinque
sia abbastanza importante per Maple, questo è l'unico
articolo che ho trovato.»
Nora fece avvicinare lo zio allo schermo del computer portatile e
indicò una
lista di nomi accanto a una fotografia.
«Ma
guarda un po'. Questo è lui, mio prozio Fred. Tua nonna
aveva un album di
fotografie, ogni domenica ci costringeva a sederci sul divano e a
sfogliarlo
insieme. Conosco i volti di tutti i nostri parenti, più o
meno.» Rupert visionò
tutti i cognomi alla portata del suo occhio fino a quando
incontrò quello
appartenente alla sua famiglia. «Ci sono anche alcuni cognomi
a me familiari:
Price, Carter, Bluelight e Stealer.» Rupert rise,
«Guarda, c'è anche una
signora appartenente alla famiglia di quella vecchia pettegola della
Patty.»
«A
quanto pare, il tuo prozio, aveva un bel rapporto con questa signora.
Guarda
attentamente la fotografia.»
Rupert
si avvicinò ulteriormente allo schermo e rimase alquanto
sorpreso da quello che
riuscì a vedere. In quel momento, con tutta la
velocità a disposizione, corse
in soffitta a riprendere il biglietto letto durante la notte. Quando lo
trovò,
lo controllò attentamente scorgendo un nuovo e importante
dettaglio. Nella
parte posteriore del foglietto, scritto con una grafia singolare ed
elegante,
vi era la risposta al messaggio precedente.
«Mio
carissimo Fred» lesse Rupert «Il mio amore non
sarà mai sufficiente a
ricambiare quello che hai fatto per me. Ho nascosto la targa nel luogo
che
conosci. Ti amerò per sempre, Harriet Carter»
Ecco
qual era il legame tra i Rootweet e i Carter: l'amore. Non sapeva se il
suo
prozio fosse veramente innamorato di quella donna, ma lei lo era di
sicuro. In
quel momento, Rupert, ebbe la rivelazione. Sapeva cosa fare, doveva
solo
avvisare Nora.
«Nora,
io esco, torno tra poco» le disse, passando prima dal
soggiorno per prendere
una giacca leggera e poi dalla sala da pranzo.
«Va
bene, a dopo.»
Rupert
percorse il corridoio e, prima di aprire la porta, sentì il
telefono squillare.
Qualche secondo dopo, la voce di Nora esplose in un grosso e sonoro:
"Ciao
Sean". L'uomo sorrise, contento che la nipote avesse trovato buona
compagnia, e uscì di casa. Respirò l'aria
primaverile, si crogiolò nella luce
mattutina e si preparò a percorrere la discesa: aveva la
destinazione ben
chiara in mente. Per completare il puzzle e ricavare le ultime
informazioni
mancanti, doveva andare dall'unica persona che, in paese, sapeva tutto
di
tutti: Patty Stealer. In quella foto, oltre a suo zio, c'era anche un
componente della sua famiglia. La possibilità che la Stealer
fosse a conoscenza
della verità, o parte di essa, era sicura al cento percento.
***
Un
classico "din don" scosse la tranquilla routine mattutina della
donna. Ella si alzò dalla sedia, percorse il corridoio e,
con il suo ampio
sorriso, aprì la porta.
«Ciao,
Patty» disse Rupert mostrando il biglietto trovato durante la
notte «Dobbiamo
parlare.»
La
donna sorrise non appena scorse lo scambio di risposte sul biglietto.
«Tu
sai e io ho bisogno di sapere. Non negarmi questa richiesta, Madame
Stealer» la
stuzzicò lui, con un accenno di pronuncia francese.
Patty
invitò l'uomo ad entrare e raggiunsero la cucina.
«Non
ti nasconderò la verità» disse Patty
mentre offriva a Rupert una tazza di tè.
«Avrai tutte le tue risposte.»
|
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Capitolo 11 *** Jason Duvrè e Nonna Jo ***
Aaron
camminava nervoso nel salotto di casa propria, erano trascorsi
già diversi
giorni da quando Jason era stato dimesso dallʼospedale e lui ancora non
aveva
avuto modo di parlarci da solo. Girò per la stanza
osservando i mobili che
erano appartenuti a sua nonna. Solo il divano in pelle bianca era
nuovo, così
come il televisore a schermo piatto che era stato appeso sopra il
camino.
Quando
bussarono alla porta si riscosse per la sorpresa, quasi da rovesciare
la
lampada del tavolino sul parquet di acero.
Rimise
lʼoggetto a posto e si diresse alla porta dʼingresso che
aprì senza chiedere
chi fosse: di solito a Maple Town non cʼerano forestieri, anche se gli
eventi
degli ultimi giorni suggerivano il contrario.
Aaron
si passò una mano fra i capelli ricci, gesto che faceva
sempre quando era
agitato. Di fronte a lui cʼera Mark, il suo migliore amico,
con una
cassetta di birre in mano, fresche di frigo.
«Posso
entrare, straniero?» chiese lʼaltro facendosi comunque strada
in casa del
meccanico.
«Sì,
certo scusa, fai come fossi a casa tua» rispose il ragazzone
biondo, ma il suo
tono era incerto.
Mark
si guardò intorno come a cercare una conferma dei suoi
sospetti. «Sei solo?»
chiese dopo aver appoggiato le birre sul tavolino basso di fronte al
televisore.
Aaron non gli rispose e per prendere tempo andò in cucina
per recuperare un
cavatappi.
«Vivo
da solo, non ti ricordi?» disse Aaron dalla cucina.
«Questo
non significa che tu debba essere solo sempre, lo sai vero?»
rispose enigmatico
Mark.
Dopo
aver preso il cavatappi e aver stappato due bottiglie ne porse una al
ragazzo
di fronte a lui e si mise a sedere sul divano allungando le gambe sulla
sceslong.
«Ti
ho cercato in officina, ma il tuo apprendista mi ha detto che oggi non
sei
andato al lavoro.»
«Ho
altre cose per la testa» rispose secco.
«Senti,
ci conosciamo fin da quando andavamo alla scuola dellʼinfanzia e penso
anche
prima, ma non ne ho ricordo...» iniziò col dire
lʼamico «ho aspettato per molto
tempo che tu ti confidassi con me, ma ormai ho rinunciato e
quindi...»
«Quindi?»
disse Aaron visibilmente scocciato appoggiando la birra sul tavolino e
muovendosi nervoso verso la finestra.
«È
inutile che ci giriamo intorno, tu sei preoccupato per quel
giornalista, Jason
Duvrè, se non mi sbaglio. Tutti in città sanno
che lo hanno trovato tramortito
in casa tua.»
Aaron sospirò abbassando le spalle come sconfitto, il suo
segreto non era più
tale e sembrava quasi che un macigno gli si fosse spostato dal petto,
forse
confidarsi con Mark poteva essere la soluzione ai suoi problemi.
Trovare
Jason disteso a terra in casa sua era stato un colpo terribile e sapere
così su
due piedi che era stato licenziato e che gli aveva mentito era stato
ancora più
scioccante. La sera precedente allʼaggressione, dopo il ritrovamento
del luogo
della targa, lui e Jason si erano chiariti. Avevano passato la notte
insieme e
si erano promessi di dirsi sempre la verità, ma
così non era stato: lui gli
aveva mentito e Aaron non aveva avuto modo di parlarci nuovamente.
Infatti il
compagno, una volta dimesso dallʼospedale, era andato chissà
dove insieme a sua
nonna Jo.
«Aaron»
lo richiamò al presente Mark avvicinandosi e mettendogli una
mano sulla spalla,
«non devi affrontare tutto da solo, okay? Lo so a volte, sono
un poʼ rozzo e mi
comporto da stupido, ma veramente non ha importanza... Dai non farmelo
dire. Tu
credi sul serio che possa cambiare qualcosa il fatto che tu preferisca
un
ragazzo a una ragazza?»
La
mano dellʼamico era ancora sopra la sua spalla e lʼunica sua reazione
fu quella
di appoggiare la testa contro il vetro della finestra che dava sulla
veranda e
sul giardino del retro della casa. La sua fidata moto era parcheggiata
sotto il
pergolato in attesa che si raffreddasse il motore dopo lʼuscita che
aveva fatto
poco prima.
«Tu
non capisci Mark, nessuno potrebbe capire, io non sono come voi
ragazzi!»
«E
ci credi così stupidi da non compreso quello che sei?
Nessuno ti ha fatto
pressione, Aaron. Non sei attratto dalle donne e allora? Persino mia
cugina
Kora si è rassegnata al fatto che tu non la consideri in
quel senso.»
Aron
si voltò di scatto e fissò gli occhi azzurri in
quelli nocciola dellʼamico.
«Davvero sei convinto che non avrebbe fatto differenza? Ma se
al liceo ci
sfottevamo per cose molto più stupide.»
«Adesso
non siamo più al liceo, siamo adulti: ognuno ha la propria
vita e può farne ciò
che vuole. Io la penso così.»
«I
ragazzi, lʼaltra sera al bar, quando Jason è entrato lʼhanno
sfottuto solo per
il suo modo di porsi, e nemmeno sapevano se fosse realmente gay! Io non
voglio
tutto questo per me, per noi.»
«Senti,
sai che a volte esagerano, soprattutto se bevono e poi nessuno
può giudicare
gli altri. Tu sei la persona più forte che conosco, un
combattente: hai perso i
genitori da piccolo e sei sopravvissuto al generale,
quindi credo
che tu abbia tutto il diritto di essere felice!»
Aaron non sapeva se piangere, ridere oppure dare qualche capocciata
contro il
vetro della finestra. Il generale, era così che tutti i suoi
amici chiamavano
nonno Alan, anche se in realtà aveva avuto solo il grado di
capitano.
«Non
devi dare dimostrazioni eclatanti a nessuno in paese, oppure andare a
un gay
pride, devi solamente vivere la tua vita. E se ti fa bene stare con
questo
Jason, allora fallo. Lui e sua nonna sono alloggiati alla locanda di
Kora, lo
sai?»
***
La
Locanda di Kora Jones si trovava appena fuori dalla cittadina di Mapple
Town,
immersa nel verde in una delle più antiche piantagioni di
acero della Contea.
Le famiglie di Kora e Mark erano da sempre produttori di sciroppo
dʼacero e la
tradizione familiare adesso era portata avanti dai suoi genitori e da
quelli di
Mark, mentre lei e la cugina Lottie avevano ristrutturato i vecchi
locali di
stoccaggio dello sciroppo e ci avevano creato una Locanda in cui gli
ospiti
potevano partecipare alla produzione e alla raccolta del pregiato succo
se avessero
voluto.
Kora
era di turno alla reception quando sentì il rumore della
moto di Aaron: lo
conosceva molto bene, quel suono per tanti anni aveva stuzzicato la sua
fantasia. Per molto tempo aveva sperato di poter viaggiare su quel
mezzo
insieme al suo proprietario. Però Aaron, benché
fosse gentile e molto
disponibile con tutti in paese, non faceva salire nessuno sulla sua
moto. Il
ragazzo entrò nella Locanda con il casco in mano, dopo aver
parcheggiato la
fidata Indy proprio di fronte allʼingresso. Se poteva non la
perdeva mai
di vista, come se quella moto forse un pezzo della famiglia del ragazzo
ed era
normale dal momento che lui una famiglia non ce lʼaveva più.
«Ciao
Kora, scusa il disturbo» iniziò col dire il biondo
in evidente imbarazzo, dopo
essere entrato allʼinterno del locale.
«Dimmi
Aaron, è successo qualcosa? Cosa ci fai da queste
parti?» chiese la ragazza con
tono curioso.
«Beh,
io... in realtà vorrei sapere... non so se tu me lo vuoi
dire...» farfugliò
passandosi una mano tra i capelli riccioluti sempre più
nervoso.
«Kora,
tesoro, sai mica se è rientrato mio nipote Jason?»
disse la voce ancora
energica di Josephine Duvrè scendendo le scale che portavano
alle camere del
primo piano.
Aaron
colto di sorpresa nel sentire il nome del compagno si voltò
di scatto, sbattendo
il casco contro il bancone della reception.
«Signora
Duvrè» disse con un filo di voce.
«Kora,
chi è questo bel giovanotto che conosce il mio
nome?» chiese con tono furbo la
donna, ben sapendo chi si trovava di fronte. Suo nipote Jason, dopo
essere stato
dimesso dallʼospedale della contea, aveva vuotato il sacco e le aveva
raccontato le sue vicissitudini dʼamore.
Lei
aveva provato più e più volte in quei giorni a
convincerlo ad andare da Aaron e
raccontargli tutta la verità. Cʼerano già troppe
bugie che erano state dette in
quella città e forse era lʼora di cominciare a dire le cose
come stavano. Jason
non era stato licenziato dal giornale per via del della sua inchiesta
sugli
appalti illeciti di Portal, bensì perché non
aveva voluto cedere alle avance del
suo diretto superiore che, oltre ad avergli fatto perdere il lavoro,
avendo
paura che il ragazzo lo denunciasse, lo aveva colpito e mandato in
ospedale.
Josephine voleva che Jason raccontasse tutto al suo ragazzo.
Sì, perché lei era
sicura che poteva considerarlo ancora tale. Inoltre quel ragazzone
biondo che
si trovava di fronte a lei era veramente un bel partito, come si diceva
ai suoi
tempi.
Aveva
convinto però Jason a sporgere denuncia contro lʼaggressore,
sia per quello che
aveva fatto lì a Maple Town sia per quello che gli aveva
fatto a Portland.
Inoltre i coniugi Smith, Candice e Tom, lʼavevano visto ancora in giro
e quindi
era stato facile ripercorrere le sue tracce e trovare testimonianze che
lo
collocassero in città al momento dellʼaggressione di suo
nipote.
Jason
comunque era cocciuto come ogni Duvrè che si rispetti e
siccome aveva mentito
ad Aaron sulla questione del licenziamento e sul vero motivo
perché era
successo, non voleva parlare con lui e dirgli la verità.
Josephine
sorrideva al pensiero di quanto fosse sciocco quello che stavano
facendo, erano
due somari, però adesso sembrava che uno dei due avesse
messo del sale in
zucca.
«Salve,
signora Josephine, io sono Aaron» disse infine il ragazzo.
Kora, che stava
osservando la scena molto interessata, capì ben presto che
forse era il momento
di andare a controllare se le camere fossero a posto.
Quando
furono soli la donna disse: «È andato in
città per delle questioni urgenti, ma
tornerà presto».
Aaron
annuì.
«Se
ti va puoi aspettarlo con me sotto il portico. Prendiamo un
tè, visto che è
proprio lʼora giusta.»
Aaron
seguì in maniera impacciata la vecchietta fino a sotto il
porticato di edera
della locanda, dove erano sistemati alcuni tavolini con delle
poltroncine e sedie,
offrendosi di aiutarla ad accomodarsi. Il pomeriggio era tiepido e un
vento
leggero scuoteva le foglie delle piante di acero presenti nella
piantagione.
«Sai,
ti immaginavo esattamente così!» disse tutto a un
tratto nonna Jo. Aaron non
seppe cosa rispondere, appoggiò solo il casco su una delle
sedie libere e si
lasciò cadere sopra unʼaltra in modo pesante.
«Conoscevo
tuo nonno, il generale, era un tipo molto... inquadrato, sì,
lo definirei così.
Meno male che conobbe tua nonna che mise un poʼ di pepe nella sua vita.
Dopo la
disgrazia avvenuta in guerra lui, però, la voleva
lasciare... ma tua nonna era
una donna tosta e aveva fatto un giuramento, soprattutto era innamorata
persa
di quel burbero di Alan» disse al ragazzo Josephine, come se
ricordasse bene quei
tempi ormai lontani.
«Lei
sa di noi?» chiese quindi a bruciapelo Aaron non resistendo
più.
«Oh
certo che sì, caro mio. Io so tutto di mio nipote, per me
è come un secondo
figlio, sono stata io a consigliargli di venire qui a parlare con te,
ma lui è
cocciuto peggio di suo nonno e certe volte credo che sia anche un poʼ
sciocco... Lʼho convinto a venire qui con la scusa del ritrovamento
della
targa...»
«Ma
la targa è stata ritrovata veramente, e prima che Jason
venisse in città» disse
Aaron. La questione di quella fantomatica targa non gli era mai passata
dalla
mente. Eppure doveva entrarci qualcosa il fatto che Jason sapesse dove
poteva
essere stata rinvenuta, anche se sua nonna era arrivata, da Miami per
giunta,
solo dopo lʼaggressione del nipote, avvisata da Patty. Stava per
aggiungere
qualcosa quando a un tratto sentì una voce ben conosciuta
chiedere: «Nonna, sei
qui?», e vide Jason fermarsi al limitare del pergolato,
osservando sua nonna
seduta di fronte al suo ragazzo.
«Cookie!»
«Sunflower,
io...» iniziò col dire Aaron alzandosi.
«Ragazzi,
vado a prepararmi per la cena, spero proprio tu voglia rimanere con
noi, Aaron.
Nel caso avviso Kora che saremo uno in più al nostro
tavolo.»
«Nonna,
non credo proprio...»
«Grazie
Signora Duvrè, accetto volentieri» rispose il
biondo alzandosi per accompagnare
la nonna di Jason fino alla porta e poi tornare a sedere.
«Ma
Aaron, non è necessario, io...» si lamento Jason,
ancora timoroso del fatto che
il compagno non si fosse ancora dichiarato.
«Preferisci
accomodarti o resti lì in piedi? Ti vorrei parlare prima di
andare a cena con
tua nonna.»
Jason
sospirò ma fece come gli aveva chiesto il ragazzo
accomodandosi di fronte a
lui.
«Non
hai paura che qualcuno lo possa scoprire?»
«Naaaa,
le persone che contano lo sanno, in realtà solo Mark che lo
ha sempre saputo,
il resto si fotta!» esclamò Aaron, prendendo di
scatto le mani del moretto, che
erano nervosamente appoggiate sul tavolino.
Jason
a quellʼaffermazione sgranò gli occhi e cercò di
svicolare le mani dal calore
di quelle di Aaron.
«Sanflower,
mi dici cosa ti spaventa? Non è questo che hai sempre
voluto?» gli chiese
allora il biondo cercando il contatto visivo col compagno che nel
frattempo
aveva abbassato lo sguardo nervoso.
«Sì,
certo... È che tu non sai tutta la verità...
Io... Quello che mi ha aggredito
in casa tua era il mio ex capodirettore. Beh, ci flirtavo un
poʼ in
redazione, ma non sono mai andato oltre; lo sai mi piace essere al
centro
dellʼattenzione...» disse Jason tutto dʼun fiato.
«Quando noi ci siamo lasciati
ha pensato che fosse il momento giusto per provarci sul serio, ma io
gli ho
detto di no e lui ha insistito fisicamente. Lʼho bloccato in malo modo
e gli ho
detto che erano molestie e che lʼavrei detto allʼeditore e lui il
giorno dopo
mi ha fatto licenziare. Poi nonna mi ha convinto a venire qui con la
scusa del
ritrovamento della targa e credo che lui si sia spaventato pensando che
ti
volessi dire tutto e mi ha aggredito a casa tua.»
Il
meccanico lo guardava sbalordito senza proferire parola, troppe
informazioni.
«Scusa
se non ti ho detto subito la verità, io... Mi vergognavo e
avevo paura del tuo
giudizio. Poi noi non ci parlavamo... Io, Cookie...»
A
quel punto Aaron si alzò e si inginocchiò di
fronte a Jason che ormai aveva le
lacrime agli occhi. «Ehi, tesoro, non importa. Non ho
intenzione di perderti,
okay? Solo non mentirmi di nuovo. Io ti amo e non ho più
paura, tutto si
risolve. Se persino una targa perduta quasi un secolo fa è
stata ritrovata, il
resto cosa vuoi che sia.»
|
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Capitolo 12 *** Che la festa inizi! ***
Che
la festa inizi!
Capitolo
scritto da viviarmy89
Il
debole sole, nascosto dalle nuvole, filtrava da esse,
dipingendo il panorama come un quadro di Caravaggio, con la sua luce e
le sue
ombre.
Candice
si sveglió a causa del suono fastidioso della sveglia e,
dopo averla spenta, si stiracchió e stropicció
gli occhi; si voltó,
accoccolandosi sul petto di Tom diventando piccola piccola tra le
grandi
braccia del marito.
«Buongiorno
cucciola...» La sua voce profonda resa roca dal sonno
la fece sorridere.
«Buongiorno orsacchiotto!» La risata cristallina di
Tom riempì la stanza e la
strinse a sé.
«Tutto bene tesoro?» le chiese dolcemente.
«Sì...
Ho solo... Non so... Tutta questa situazione della targa,
quella sagoma che ho visto nascondersi nel vicolo...»
«Lo
so tesoro! Non riesco a capire chi possa essere stato, ma
credo che lo scopriranno presto! Su alziamoci... Si sta facendo
tardi!»
Alle
sette in punto la caffetteria "Home Sweet Home" era
aperta, accogliendo come sempre i cittadini mattinieri di passaggio e i
clienti
abituali.
Candice
stava sistemando la vetrina dei biscotti quando il
campanellino della porta suonò.
«Buongiorno!
Oh! Salve Agente White!»
«Buongiorno
Candice! Tom!»
«Hey,
White tutto bene?»
«Sì...
Ho solo bisogno di un doppio, anzi no, triplo caffè
amaro!»
esclamò l'uomo frustrato.
«Ahahahah...
arriva subito!» La donna dai capelli rossi prese la
caraffa piena di caffè e versò il liquido scuro
nella tazza che, una volta
colma, porse all'agente che la ringraziò con un cenno del
capo. Candice fece
per tornare verso il banco, ma si voltò ancora verso l'uomo.
«Agente
White...»
«Sì?»
«Ecco... Volevo sapere se avevate idea di chi possa essere
stato ad aggredire
quel ragazzo. Avete trovato degli indizi?»
L'uomo
sospirò fissando il liquido nero. «Sì!
Lo abbiamo
individuato prima che potesse lasciare la città! Adesso
è in prigione. Sta’
tranquilla Candice!» Fece un debole sorriso che la donna
ricambió a fatica e
tornó al bancone.
All'ora
di pranzo, come di consuetudine, il locale si riempì e i
ritmi aumentarono; Candice aveva appena finito di servire l'ennesimo
piatto del
giorno, quando il campanello della porta suonò nuovamente.
«Buongiorno!»
I coniugi alzarono lo sguardo in contemporanea e
sorrisero.
«Aaron!
Buongiorno a te!» esclamò Tom.
«Ciao
Aaron tut-aaahhhhhh... Aaron mettimi subito giù!
Mascalzone!» Candice non finí la frase che il
ragazzone la prese in braccio
facendola volteggiare per la sala.
«Aaron!
Si può sapere cos'hai?» Lui la mise giù
e la guardò con un
sorriso a trentadue denti.
«Sono
libero! Candice adesso non ho più paura! » Lei
capí subito a
cosa si stesse riferendo e, come una madre orgogliosa, lo
abbracció forte.
«Sono
fiera di te! Te l'avevo detto... Il mondo è meno buio e
solitario quando hai accanto la persona che ami!» Si
staccó da lui e gli scostó
una ciocca dei suoi biondissimi capelli oro.
«Grazie di cuore! Senza te e Tom non credo avrei mai trovato
il coraggio di
farlo...»
«Non dire sciocchezze! Avevi solo bisogno di qualcuno che ti
facesse notare
quanto sei cocciuto e che rischiare non sempre implica la
sconfitta.»
«Allora?
Che succede?» chiese Tom divertito
«Tesoro,
indovina chi ha deciso di "vivere davvero"?»
Tom guardò Aaron e sorrise.
«Davvero?
È fantastico! Dov'è il tuo ragazzo?»
«Sì,
è vero... dove l'hai lasciato?» Il ragazzo
arrossì a quelle
parole.
«È
con sua nonna alla locanda di Kora... Ceniamo noi tre insieme
stasera! Sono solo venuto per cambiarmi e per ringraziarvi per
l'appoggio che
mi avete dato fin dall'inizio... Io...»
«Aaron
non devi ringraziarci! Lo abbiamo fatto con il cuore. Tutti
meritano di amare ed essere amati!» rispose Tom poggiandogli
la mano sulla
spalla; Candice lo ricambiò, sorridendo alla sua espressione
sognante.
«Hey,
bello addormentato! Cosa fai ancora qui? Va' da loro...
sbrigati!»
«Ah
sì... ok!» Si voltò per andar via ma
tornò indietro.
«Dimenticavo! Tra tre giorni è il compleanno di
Jason... Vorrei preparargli una
festa... ma...»
Candice
prese una scatola dei suoi pasticciotti al cioccolato con
lamponi glassati al brandy e gliela porse. «Ti aiuteremo noi!
Adesso prendi
questi e divertiti! Salutaci Jason.» Aaron sorrise commosso e
con un cenno di
saluto uscì.
Dopo
un programma accurato, la mattina del compleanno, con l'aiuto
di Tom e la complicità di Kora e nonna Jo, Candice
inizió i preparativi per la
festa a sorpresa per Jason.
Dopo
aver dato un'occhiata accurata al giardino posteriore della
locanda, vide un bellissimo albero di ginepro e ne rimase incantata.
«Qui!
Lo faremo qui!» disse eccitata.
«Qui?
Sei sicura, Candice?» chiese perplessa Kora.
«S'.
È al centro del giardino e da qui si ha una visione intera
del resto.»
«Ok!
Allora da dove iniziamo?»
«Prima
le luci! Tesoro, portami le luci!» Così iniziarono
ad
appendere delle luci sui rami per creare un'atmosfera romantica e
gioiosa, come
una cascata luminosa di piccole stelle; posizionarono un tavolo in
legno
piuttosto lungo e delle panche, anch'esse in legno, ai lati; stesero al
centro
del tavolo un lungo coprimacchia arancione e iniziarono a sistemare
piatti e
bicchieri. A lavoro terminato si allontanarono di qualche passo
controllando il
risultato.
«Perfetto!»
«È
stupendo Candice! Ne rimarrà sicuramente colpito!»
esclamò Kora,
sorridendo,.
«Lo
spero! Bene, adesso andiamo a preparare da mangiare!».
Candice,
da ottima cuoca qual era, si occupò minuziosamente anche
delle portate per quella serata così speciale,
dall'aperitivo al dessert. Dopo
aver sistemato i vassoi con le pietanze, accese delle candele formando
un
sentiero che, dall'entrata principale, avrebbe condotto la
coppia
al luogo della cena.
Il
giardino era bellissimo e arricchito dalla presenza di alberi
da frutto, aiuole curate e magnifici fiori colorati; il profumo delle
erbe
aromatiche e dei frutti di bosco, misto al profumo del cibo, riempiva
l'aria e
il tramonto colorava il cielo di un bellissimo rosso-arancio con
sfumature oro.
Tom
e Mark si occuparono del barbecue mentre Candice, Kora e nonna
Jo definirono i dettagli aggiungendo dei piccoli vasi di vetro con dei
rametti
di alloro in fiore e delle piccole candele come centro tavola.
Alle
otto in punto, come un orologio svizzero, videro arrivare i
due giovani e l'espressione
esterrefatta di Jason fece capire loro che avevano fatto centro.
«Tom,
Candice, Mark, vorrei presentarvi Jason, il mio ragazzo!
Jason, loro sono Kora, Mark, il cugino di Kora, Tom e Candice Smith, i
miei
migliori amici!»
«Finalmente
ti conosco!» esclamò Mark abbracciandolo.
«Piacere
di conoscerti, Jason!» esclamó sorridente Candice.
«Ciao
Jason, benvenuto!» ribatté Tom al suo fianco.
«Il
piacere è tutto mio! Grazie per questa
accoglienza!» esclamò
timido. Il ragazzo iniziò a guardarsi intorno e Candice
sorrise intenerita.
«Ti
piace?» chiese curiosa e lo vide arrossire mentre fissava
ogni
particolare con occhi meravigliati e lucidi.
«Sì!
È... è stupendo!»
«Tutto
merito di Candice, è la direttrice dell'impresa...
ahahah...» esclamò ridendo Kora mentre il ragazzo
la guardava sorpreso.
«Davvero?
Ti sei presa il disturbo di organizzare tutto ciò?»
«Nessun
disturbo! Adoro organizzare feste e cene... e poi adesso
sei parte della famiglia!»
«Grazie,sono
senza parole!» sorrise e gli strinsi la mano.
«È
stato un piacere!» La voce roca ma forte di Nonna Jo ruppe il
momento: «Bene! Adesso basta con i convenevoli! A tavola,
sennò si
fredda».
Prese
dunque il giovane sotto braccio e lo fece accomodare al suo
fianco sorridendogli; la mano grande ma delicata di Aaron
afferrò il suo braccio
e si voltò verso l'amica.
«Grazie
di tutto, Candice. Lo hai reso felice e io non so come
ringraziarti.»
«Di
niente! E poi ho davvero una bella sensazione su di lui.»
Sorrisero
e raggiunsero gli altri.
Dopo
aver consumato la prima portata, Aaron si alzò in piedi
accanto a Jason che lo guardò confuso.
«Aaron...
perché ti sei alzato?» Il biondo fece un respiro
profondo e si schiarì la voce.
«Per
tanto tempo mi sono nascosto nell'ombra, vivendo una vita
apparentemente normale ma vuota. Da quando ti ho conosciuto, quel
giorno a Portland,
tutto è cambiato: le mie abitudini, i miei pensieri,
io...» Si inginocchiò e
prese la mano di Jason. «So che è presto, in fondo
ci siamo appena ritrovati
ma, questa è la mia promessa...» Aaron
tirò fuori dalla tasca un piccolo
cofanetto rettangolare che aprì rivelando un bracciale in
caucciù con un
ciondolo a forma di stella; lo prese per poi metterlo al polso di Jason
che con
gli occhi pieni di lacrime continuava a guardarlo esterrefatto.
«Te
lo ricordi? La prima volta che vedemmo le stelle cadenti
insieme...»
«Come
potrei dimenticarlo? È stato in quel momento che ci siamo
scambiati il nostro primo vero bacio.» sussurrò
emozionato; Aaron asciugò una
lacrima sfuggita dagli occhi del suo amato e sorrise.
«La
prima di tante cose che faremo insieme, tu e io.» Jason
scoppió in lacrime circondando il collo di Aaron.
«Ti
amo!»
«Ti
amo anch'io, piccolo!»
***
Erano
passate due settimane dal compleanno di Jason e il fatidico
giorno della gara di cucina di Maple Town era arrivato.
Si
respirava un'aria molto gioiosa e festaiola e i profumi delle
mele caramellate, delle frittelle di mirtilli con sciroppo d'acero e
zucchero
filato si spandevano per la città.
Come
previsto, l'evento aveva attirato molti turisti e curiosi e
la città, addobbata per l'occasione, era piena di vita.
La
gara aveva luogo nella piazza principale di fronte al
municipio; un piccolo palco in legno, decorato con i colori della
bandiera
americana e lo stemma di Maple Town, troneggiava sul lungo tavolo su
cui ogni
partecipante aveva poggiato il proprio piatto vincente.
Dopo
aver sistemato il buffet che si sarebbe consumato dopo la
gara, Candice andó a posizionare il piatto che aveva deciso
di presentare.
In
onore di sua nonna Beth, decise di preparare una delle torte
della sua infanzia, a cui era particolarmente affezionata: torta
speziata alle
mele, con crema di formaggio e sciroppo d'acero.
Era
piuttosto soddisfatta del risultato e speró che anche nel
sapore potesse somigliare almeno un po' a quella di sua nonna.
Venne
avvolta dalla nostalgia e dai ricordi, e un sorriso nacque
sulle sue labbra. Ripensó a tutti i pomeriggi passati a casa
della nonna: lei,
seduta al tavolo a fare i compiti, e la nonna, in cucina, mentre
canticchiava
"Cheat to Cheat" di Fred Astaire.
Ricordava
ancora la sua voce melodiosa e i movimenti fluidi del
suo corpo soffice e tondo, mentre ballava. Le tante volte che l'aveva
coinvolta
in quei passi di danza per lei datati e le le risate di sua nonna nel
sentirla
lamentarsi.
Venne
riscossa dai ricordi, dalla voce del sindaco che, dal palco,
iniziò il suo discorso: «Benvenuti! Benvenuti a
tutti cari cittadini e cari
ospiti, alla prima edizione della gara di cucina di Maple Town!
Quest'oggi
celebriamo le nostre care e affezionate tradizioni familiari
presentando le
ricette più importanti per noi, omaggiando uno dei prodotti
a noi più cari, presente
in ogni casa di Maple Town: il nostro sciroppo d'acero!»
L'uomo fece una breve
pausa. «Ma bando ai convenevoli. Vedo nei volti dei
partecipanti la frenesia
del momento, perciò divertitevi e che vinca il cuoco
migliore!» Un caloroso
applauso si levò e una musichetta dai toni allegri
riempì l'aria.
I
giudici, scelti dal sindaco, iniziarono gli assaggi di ogni
piatto, scrivendo poi su ogni scheda un voto da uno a dieci. L'ansia
assalí
Candice appena iniziarono ad assaggiare la sua torta e si
irrigidí.
«Spero
gli piaccia!» esclamó nervosa.
«Piacerà
loro sicuramente, tesoro! Sei una maga dei fornelli, come
tua nonna.» Candice sorrise alle parole di Tom che,
amorevole, l'abbracciava
confortandola.
Due
ore dopo i ventisei piatti presenti erano stati assaggiati e i
voti assegnati.
La
tensione si tagliava con un coltello e ogni partecipante, lei
compresa, pregava di sentir nominare il proprio nome.
Dopo
aver calcolato i voti di ognuno, arrivò la busta con il
vincitore e il sindaco si avvicinò al microfono.
«Bene! Signori e Signore, adesso dichiareremo il vincitore
della prima edizione
della gara di cucina di Maple Town...»
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Capitolo 13 *** E il vincitore è... ***
Maggio, 1885
Fred era disperato. Da giorni
aveva
appreso la notizia che la sua amata Harriet avrebbe sposato un ragazzo
di
SapVille, uno con un lavoro garantito e ben retribuito, uno di buona
stirpe. La
sua era una famiglia semplice, che non aveva molto da offrire a una
ragazza
come Harriet, purtroppo. Fred sapeva di essere ricambiato, tuttavia
aveva visto
la rassegnazione, oltre alle lacrime, negli occhi della sua amata
quando gli
aveva dato la brutta notizia.
«Ma non possiamo fare
nulla» le aveva
detto Fred, sconvolto.
«No, e tu lo
sai.» Lei lo aveva
fissato con lo sguardo di chi non ha più forze per lottare.
Poi era arrivata la festa dello
sciroppo d'acero. Fred non vedeva Harriet da settimane, ma camminando
tra la
folla la scorse, accanto a uno stand. Lui si era mosso velocemente e si
nascose
dietro a una delle siepi che circondavano la piazza, appena lei gli era
stata
vicina e nessuno le parlava, lui l'aveva tirata dal braccio, facendola
sparire
alla vista e cadere tra le sue braccia. Da prima lei si era spaventata,
poi lo
aveva baciato.
«Mi manchi»
gli aveva confessato, con
lo stesso tono arrendevole e di rinuncia.
«Facciamo una
follia» le aveva detto
lui per non pensare a ciò che sarebbe accaduto,
all'inevitabile. E lei aveva
accettato, avrebbe accettato di fare ogni cosa con lui,
perché avrebbe voluto
dirgli di rapirla e che lei glielo avrebbe lasciato fare, ma sapeva che
Fred
non avrebbe potuto.
«Rubiamo la targa, la
nascondiamo e
facciamo girare l'idea che siano stati quelli di SapVille. Lo
farò questa notte
e domani i tuoi genitori non vorranno che tu sposi uno di
loro.» Era un'idea
stupenda che aveva fatto sbocciare un sorriso sulle labbra carnose di
lei.
Fred aveva fatto ciò
che aveva
promesso, quella stessa notte. Harriet la mattina seguente aveva
trovato la
targa appoggiata alla finestra della sua camera, al primo piano della
sua
villa. Fred doveva essersi arrampicato sull'albero e insieme alla targa
aveva
lasciato un piccolissimo biglietto. «Cara Harriet Carter, ce
l'abbiamo fatta.
Il piano è riuscito. Sapville avrà quello che si
merita. Tuo, Fred Rootweet.»
Lei aveva sorriso e nascosto la
targa
sotto il letto.
Fred aveva trovato il medesimo
bigliettino qualche giorno dopo, attaccato alla finestra della sua
camera. Sul
retro lei aveva scritto di aver messo la targa dove lui le aveva detto
di
nasconderla e che lo amava, che lo avrebbe amato per sempre. Lo avrebbe
amato
per sempre. Quella frase voleva dire che avrebbe comunque sposato quel
ragazzo
di SapVille, ne era certo, la conosceva.
I giorni erano passati e Fred,
senza
notizie di Harriet, scalpitava. Un giorno, folle di amore, aveva preso
la porta
e si era diretto da lei, ma appena prima di voltare l'angolo aveva
visto una
carrozza sotto casa Carter. Harriet stava salendo e sua madre le
porgeva una
valigia. Il cuore di Fred era andato in pezzi. Da quel giorno si era
chiuso in
camera finché aveva ricevuto una lettera della ferrovia.
Avrebbe girato gli
stati uniti d'America posando binari, lo avrebbero pagato bene e se ne
sarebbe
andato da quella orribile città.
Ma Fred non sapeva che Harriet
stava
solo andando a trovare una zia malata e che al suo ritorno avrebbe
saputo che
Fred se n'era andato, l'aveva lasciata sola, senza nemmeno una parola
né un
saluto.
Nessuno dei due ebbe un altro
amore.
Fred visse lontano, Harriet rimase sola e impazzì.
***
Rupert Rootweet se ne stava
seduto
davanti alla signora Patience. I due si guardavano in silenzio da circa
dieci
minuti, poi, con uno scatto dovuto alla poca pazienza rimasta, Rupert
parlò:
«Allora, Patty? Non ho tutta la giornata a
disposizione».
«Mi devi promettere di
non farne
parola con nessuno» disse la donna mentre iniziava a
formulare un discorso
nella sua mente.
«Questa faccenda mi ha
già rubato
molto tempo. Non lo dirò a nessuno, ma sbrigati.»
«Sempre docile come un
passerotto, non
sei cambiato affatto.» Patty rise e prese il grugnito di
Rupert come un segno
di assenso.
«È successo
tanto tempo fa, quando ero
ancora giovane. Era un pomeriggio come tanti e, come tutte le volte in
cui
andavo a casa di Emma, mi ritrovai in soffitta a giocare con lei. Non
so per
quale motivo, ma ci divertivamo un mondo a metterla a soqquadro per
scoprire
nuove cose. Quel giorno, però, non lo
dimenticherò mai. Mi ricordo che Emma mi
chiamò e mi chiese se volessi conoscere un segreto e che in
quanto tale non
avrei dovuto rivelarlo a nessuno. Io ero una ragazza, queste cose
facevano
scatenare la mia fantasia. Così, accettai e...»
Rupert la interruppe.
«Tu mi stai
dicendo che sapevate questa cosa da anni e non l'avete mai detta a
nessuno?»
La risposta alla sua domanda
arrivò
dal silenzio della donna e Rupert non insistette.
«Continua»
disse.
«Accettai e da un
piccolo baule in
legno, avente un lucchetto tutto vecchio e arrugginito, Emma
tirò fuori un quadretto
in legno con delle decorazioni abbastanza "antiche". Gli intarsi non
erano ben visibili, capii subito che si trattava di qualcosa di molto
vecchio.
All'interno del quadretto vi una una targa fatta in bronzo.
Sul fondo metallico veniva
riportata
una scritta: "Maple Syrup Festival".
«Ma se siamo stati noi
a vincere,
perché Fred l'ha rubata lasciando un biglietto nel suo
orologio?»
«Orologio? Quale
orologio?» domandò la
donna incuriosita.
«Oh, guarda.
C'è qualcosa che non sai»
Rupert rise di gusto.
«Rupert!» lo
rimproverò la donna.
«Il biglietto che ti ho
mostrato poco
fa lo ha lasciato Fred in un vecchio orologio che ho trovato in
soffitta. È un
lascito della mia famiglia. Magari lo hanno usato per scambiarsi
qualche
messaggio.»
«Questo spiegherebbe
come hanno
mantenuto il segreto» concluse Patty.
«Ma tornando alla
domanda di prima:
che motivo c'era di rubare una cosa che era già nostra di
diritto?» domandò
Rupert ticchettando le dita sul legno del tavolo della cucina.
«Feci più o
meno la stessa domanda a
Emma, quando me la mostrò. Tutti sapevano della scomparsa
della targa, persino
io. Chiesi a Emma come mai fosse in suo possesso e nascosta in un baule
in
soffitta. Lei sorrise e dal baule tirò fuori un diario che
mi invitò a leggere.
Il diario era di Harriet, una sua lontana parente, e raccontava
dettagliatamente come, dove, quando e perché la targa era
stata rubata. A
quanto pare, Fred Rootweet e Harriet Carter si volevano molto bene, ma
a quel
tempo non era sempre possibile sposarsi con la persona scelta: spesso
era la
famiglia a decidere chi dovesse sposare la propria figlia. Il caso
volle che
Harriet fosse già stata promessa a un giovincello benestante
della città
vicina.
Quindi, per farla breve, Fred ha
rubato la targa in modo che la città di Maple pensasse che i
cittadini di Sap
Ville, invidiosi della vittoria, avessero rubato la targa. Secondo
Fred,
l'accaduto avrebbe dovuto provocare dei ripensamenti nella famiglia di
Harriet.»
Rupert spalancò gli
occhi per la
sorpresa e rimase a bocca aperta per qualche minuto. «Un
momento, frena la
corsa. Tu mi stai dicendo che Fred, per amore, ha rubato una targa...
Non è
possibile. Mi stai prendendo in giro, donna.» Rupert
scattò in piedi.
«Sta' seduto dove sei,
Rupert
Rootweet, e non azzardarti a darmi della bugiarda. Si possono dire
tante cose
su di me, ma non che sono una bugiarda» lo ammonì
pesantemente la donna.
«Questa è la verità. Chiedi a Josephine
se non ne sei convinto.»
«Per tutti gli orologi
a pendolo, non
vorrai dirmi che c'entra anche lei in questa storia!»
esclamò Rupert.
«Sì, lei era
venuta a casa di Emma con
me. Eravamo insieme, quel giorno» rispose la donna in tutta
tranquillità.
«Va bene, continua,
prima che perda
altro tempo.»
La donna finì di
raccontare la storia.
Gli disse dove nascosero la targa, di come Fred accettò il
lavoro nelle
ferrovie e di come Harriet, divenuta pazza per tutta la faccenda,
decise di
scrivere il diario. Così, Patty e Jo, preoccupate che la
targa venisse scoperta
in casa di Emma, decisero insieme di portarla da White e tenere la
storia di
Harriet e Fred segreta.
«E così Fred
e Harriet... Va bene,
Patty. Ti ringrazio.» Rupert si alzò e si diresse
verso la porta d'ingresso.
«Non farne mai parola
con nessuno...
Nemmeno con Nora.»
L'uomo annuì e poi
uscì da casa della
donna. Camminó a lungo per metabolizzare tutto quello che
era successo. Quando
alzò la testa per controllare che ora fosse, si
ritrovò al cimitero della
città. Decise che sarebbe stata una buona idea farsi una
passeggiata in quel
clima di silenzio e tranquillità, prima di tornare a casa.
L'uomo non seppe
come accadde ma, camminando, avvolto nei suoi pensieri, si
ritrovò davanti la
tomba in granito della famiglia Carter. L'uomo sorrise ed estrasse il
biglietto
della sua tasca. Lo rilesse e poi andò in direzione della
lapide di Harriet
Carter. La guardò per qualche attimo e respirò a
fondo l'aria primaverile.
«Credo che la
verità debba morire con
te, cara Harriet» Rupert si inginocchiò,
scavó una piccola buca accanto a una
statuina di pietra e vi inserì il bigliettino. Poi
infilò la mano nella giacca
e vi trovò l'accendino che, da giovane, usava per accendere
le sigarette.
«Cenere alla
cenere.» Rupert fece
scattare la rotella dell'accendino e diede fuoco al biglietto.
Aspettò che si
consumasse del tutto e poi ricoprì la buca. Dopo qualche
attimo di silenzio e
concentrazione, Rupert si alzò e si diresse all'uscita.
L'uomo camminò per le
vie del paese
fin quando, giunto in prossimità della collina dove abitava,
non udí una voce
alle sue spalle.
«Ciao,
Rupert.»
L'uomo riconobbe la voce e
ricambió il
saluto.
«Ciao,
Rachel.»
«Torni a casa per il
pranzo?» domandò
la donna guardando l'orologio.
«Sí, mia
nipote Nora mi starà
aspettando» disse l'uomo passandosi una mano dietro la testa.
«Già, la
piccola Nora. Ne parlano
tutti bene, in paese» disse Rachel, sorridendo.
«Ti andrebbe di
conoscerla?» chiese
Rupert leggermente imbarazzato.
Rachel sorrise «Mi
farebbe molto
piacere.»
I due sorrisero, voltarono le
spalle
alla tranquille vie del paese e si incamminarono lungo la salita che li
separava da Nora.
***
Simon Cook si aggiustò
la cravatta,
fece un respiro profondo e si avvicinò al piccolo palco su
cui avrebbe dovuto
annunciare il vincitore.
Sorrise a tutti, prese il
microfono e
fece il soliti ringraziamenti per la riuscita della festa del
130° anniversario
della fondazione di Maple Town.
Il sindaco di SapVille, Tara
Wolman,
di cui Simon si ricordava per aver avuto scontri negli anni passati,
era una
donna di colore sulla quarantina, con una grinta degna del miglior
grizzly ed
era seduta proprio al tavolo dei giudici e lui non riusciva a essere
completamente tranquillo. Aveva dovuto spiegarle cosa sarebbe successo
quel
giorno per riuscire a strapparle il consenso a partecipare alla
celebrazione e
lei, che si era dichiarata golosa di sciroppo d'acero, aveva chiesto di
essere
il presidente della giuria. Simon aveva il terrore che avesse in mente
qualcosa, perché continuava a lanciargli strane occhiate da
quando era iniziata
la gara.
«Ora, so che siete
tutti ansiosi di
scoprire il vincitore della gara di cucina, ma prima, vorrei
ringraziare tutti
i cittadini di SapVille che sono venuti a festeggiare con noi e vorrei
invitare, qui accanto a me, il sindaco di SapVille. Venga, Miss.
Wolman, mi
faccia l'onore di presentarla a tutta Maple Town.»
Simon si prese una pausa e
invitò, con
la mano, la donna a salire sul palco. Il sindaco di Sapville, sorrise
diplomaticamente e si alzò, annuendo e avvicinandosi alla
scaletta del palco
mentre il fruscio di un applauso accompagnava la sua camminata.
«Grazie, Mr.
Cook» disse la donna,
quando prese in mano il microfono. «Essere qui in veste di
rappresentante della
mia cittadina, è un onore per me. E anche aver assaggiato i
vostri buonissimi
piatti!»
Un applauso più
sentito si alzò dalla
platea al suono delle sue parole.
«Bene, bene. Siamo
veramente contenti
che il nostro invito sia stato accettato anche perché alla
luce dei fatti
scoperti di recente, abbiamo capito che la guerra fra due cittadine
come le
nostre, così vicine e simili, non ha più senso di
esistere.
Più di un secolo fa,
la targa per la
vincita del 'Syrup Maple Feast' era stata trafugata e i nostri antenati
hanno
ingiustamente incolpato gli abitanti di SapVille di averla rubata e
nascosta;
ora, che è stato scoperto che era tutto un equivoco, noi
vorremmo
riappacificare gli animi.»
Un altro applauso pilotato
riempì
l'aria mentre Cook indicava cerimoniosamente un gazebo, dove venne
scoperta dal
telo che la copriva la famosa targa di bronzo.
«Ma non è
finita qui. Per lasciarci il
passato alle spalle, abbiamo pensato, io e Miss Wolman, di farvi
sapere, cari
cittadini di Maple Town e SapVille, di ricostruire il ponte che venne
distrutto
e decretò l'inizio degli scontri, così che
possiamo finalmente dichiarare
chiusa per sempre la questione.»
Un altro applauso si
alzò dal
pubblico, anche se durò poco, perché la gente era
ansiosa di avvicinarsi alla
targa per guardarla meglio, ma più che altro era in
agitazione per...
«"Sindaco, bando alle
ciance! Chi
ha vinto la gara?»
Simon rise e si stupì
quando anche
Miss. Wolman lo fece. Lui si fece da parte e indicò la donna
per lasciarle il
centro del palco e la dovuta attenzione.
«Eccoci, giusto, sarete
tutti curiosi
di sapere che la nostra giuria, formata da mangiatori di sciroppo
altamente
esperti, ha deciso che il vincitore è...» Tara si
fermò per riuscire ad aprire
la piccola busta con cui era salita sul palco, dove c'era scritto chi
si
sarebbe vantato del piatto più buono e portato a casa i
2.500 dollari di
premio.
«Il miglior piatto
è stato il 'Salmone
glassato allo sciroppo d'acero con riso e porro! Complimenti!»
«Oh! Ma abbiamo vinto
noi!» Nora
spalancò gli occhi mentre l'applauso festeggiava lei e il
ragazzo che aveva
accanto, verso il quale lei si girò. «Seth,
abbiamo vinto!»
Il ragazzo annuì
sorridendo, come se
lui non avesse mai avuto dubbi. «È stato merito
tuo, Nora. Nessuno aveva
pensato di portare del pesce in gara!»
«Merito nostro, merito
nostro. Hai
fatto la tua parte anche tu, se tua nonna non ti avesse suggerito come
fare la
glassa di sciroppo a parte, non ci sarebbe mai venuto in
mente!» Nora si alzò e
prese per mano il ragazzo, trascinandolo sul palco per ritirare il
premio.
«Ragazzi, è
stata una bella sorpresa,
complimenti! Avremo dei futuri chef a Maple Town?»
«Grazie. E chi lo sa,
signor sindaco.
La vita è tutta da scoprire» rispose Nora,
lanciando un'occhiata a Seth, che
arrossì.
***
Lo spumante venne aperto e i
brindisi
furono tanti, mentre la piccola banda iniziava a suonare, dando il via
ai veri
festeggiamenti della festa di fondazione.
Simon si avvicinò alla
targa con un
bicchiere di vino bianco e si affiancò a Miss. Stealer che
parlava con altre
due signore della stessa età.
«Oh, sindaco! Ha visto
che è andata
bene, poi? Abbiamo risolto tutto!» esclamò lei,
dando una gomitata alla donna
vicino a lei, che sorrise nella sua direzione.
Dopo pochi convenevoli le tre
anziane
si allontanarono e Simon rimase solo davanti alla targa.
«Certo che tutto questo
casino per una
targa così brutta...» Simon si voltò
verso Tara, che era arrivata
silenziosamente.
«Ah, non lo penso solo
io, allora!»
Simon si scoprì a sorridere.
-
-
--
-
***Eccomi
qui, scusate, scusate, scursate! Ho scoperto che non avevo pubblicato
l'ultimo capitolo, così, dopo tantissimo tempo, mi sembra
giusto farlo, almeno per far sapere a tutti come è andata
nel 1885.
Spero
che la storia vi sia piaciuta e, anche se non c'è l'epilogo
(che in teoria sarebbe quasi scritto, ma poi alla fine non è
stato concluso molto...) almeno saprete chi ha vinto la gara di
cucina.
Un grosso grazie a chi ha
letto fino a qui e soprattutto a Milly_Sunshine
che
ha recensito tutti i capitoli.
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