La targa ricomparsa - NO SCAMBI

di ONLYKORINE
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La targa ricomparsa ***
Capitolo 2: *** Rupert Rootweet ***
Capitolo 3: *** Susan Price ***
Capitolo 4: *** Nora Bayls ***
Capitolo 5: *** Aaron Myers ***
Capitolo 6: *** Agenti White e Moore ***
Capitolo 7: *** Emma Carter ***
Capitolo 8: *** Le diavolesse ***
Capitolo 9: *** Candice e Tom Smith ***
Capitolo 10: *** Rupert e Nora ***
Capitolo 11: *** Jason Duvrè e Nonna Jo ***
Capitolo 12: *** Che la festa inizi! ***
Capitolo 13: *** E il vincitore è... ***



Capitolo 1
*** Prologo - La targa ricomparsa ***


00-Prologo

Scritto in collaborazione con ChaBlackCat 

Prologo

Patience entrò, trafelata e piuttosto agitata, nella stazione di polizia di Maple Town una soleggiata mattina di aprile. Si diresse decisa verso l'agente White e gli si parò davanti, in attesa che l'uomo in divisa azzurra e maniche corte si accorgesse della sua presenza.

Quando l'uomo alzò gli occhi su di lei, Patience non gli diede tempo di parlare e disse concitata: «Loris, ho trovato una cosa. Devi assolutamente vederla!»

«Quante volte le devo dire di rivolgersi a me come l'agente White, miss Stealer...»

«Loris, ti conosco da quando portavi i pantaloni corti, non diciamo sciocchezze!»

L'uomo calvo sbuffò, era stato qualche anno in California e lì aveva visto di tutto, ma nessuno era come la signora Stealer. White, comunque, non insistette.

«Se ha trovato ancora qualcosa a casa che non è sua, chiami il suo proprietario e gli dica di venirsela a riprendere...» iniziò l'agente White. A Maple Town sapevano tutti che la povera Patience Stealer, un'anziana zitella che non si era mai spostata dalla cittadina nemmeno di pochi passi, aveva qualche piccola difficoltà con le cose degli altri: non si accorgeva neanche di allungare le mani e, in men che non si dica, nelle sue tasche apparivano oggetti non suoi. Di solito se ne rendeva conto quando tornava a casa e, ritrovandosi le tasche piene, telefonava alle persone che aveva visitato per dir loro che avrebbe lasciato i vari oggetti fuori dalla porta così che potessero riappropriarsene. Ormai lo sapevano tutti e nessuno pensava più che fosse così strano.

«No, questa volta non ho... Non sono stata io. Oh, Loris, devi venire, devi vedere!» insistette Patience.

«Guardi, miss Stealer, magari passo nel pomeriggio, sto aspettando Mr. Cook e...»

«Il sindaco! Sì, la deve vedere anche lui!»

«Cos'è che devo vedere anch'io?» chiese un uomo sulla quarantina, entrando nell'ufficio proprio in quel momento . «Buongiorno, miss Stealer. Buongiorno, agente White» disse ancora quando i due si girarono di scatto verso di lui.

«Ho trovato la...» ricominciò a spiegare Patience a entrambi gli uomini quella volta, interrompendosi vedendo passare una donna davanti alla porta dell'ufficio. «Non è il caso di parlarne qui, seguitemi!»

I due uomini, più per educazione che per reale interesse, seguirono la signora anziana fuori dalla stazione di polizia, girando intorno all'edificio e fermandosi davanti alla bicicletta a tre ruote che la donna usava per spostarsi. Il cestone di metallo, situato fra le ruote posteriori, era coperto da uno spesso panno di lana, che ne celava il contenuto. Patience si guardò intorno furtiva, poi alzò la coperta e una vecchia cassa di legno fece la sua comparsa.

L'agente White sbuffò.

«È una vecchia cassa. Cos'ha di così...»

«Loris, aprila e capirai» disse la donna, interrompendolo.

Quando l'agente fece scattare la serratura e aprì il coperchio, spalancò gli occhi e una smorfia gli si disegnò sulle labbra.

«Ma... È la...» farfugliò il sindaco.

Patience richiuse velocemente il coperchio della cassa annuendo e, con uno sguardo solenne, confermò: «Sì, è lei. Ma non l'ho rubata io».

***

«Grazie a tutti per essere venuti a questa riunione, nonostante il breve preavviso.»

Il sindaco iniziò il suo discorso con sicurezza, ma senza sapere bene come intavolare l'argomento. Erano due giorni che la storia del ritrovamento della cassa veniva discussa fra lui, l'agente White e miss Steale, alla fine, avevano deciso di informare tutta la comunità, perché avevano capito che era la cosa migliore da fare: in fin dei conti riguardava tutti.

Quando Loris White portò di peso la cassa di legno al centro del piccolo palco da dove stava parlando Simon Cook, il vecchio fienile dove si radunava la popolazione di Maple Town si riempì del brusio dei partecipanti. Tutti si erano incuriositi e allungavano il collo per vedere meglio, condividendo i propri dubbi con il vicino di seggiola.

L'agente fece scattare la serratura, cosa che negli ultimi due giorni aveva fatto un centinaio di volte, e aprì il coperchio, spostando un lembo di stoffa e prendendo l'oggetto di bronzo fra le mani e mostrandolo a tutti.

Patience, dal suo posto in terza fila, non si rese conto di aver trattenuto il respiro nell'attesa della reazione dei suoi concittadini e a quel punto tutti tacevano osservando il rettangolo di bronzo inciso e datato.

«Ma quella è la famosa targa della 'Gara dello sciroppo d'acero' della contea?» chiese Meredith Bluelight sorpresa, portandosi le piccole mani alla bocca.

«Così sembra, Meredith. C'è scritto: 'Maple Syrup Feast'. C'è anche la data: 1885» gli rispose Rupert Rootweet, burbero.

«La targa che ci hanno rubato quelli di SapVille?» domandò Stephanie Long.

«Evidentemente no, Stephanie. Altrimenti non sarebbe qui.» Rupert sbuffò e poi si rivolse direttamente al sindaco. «Dove l'avete trovata?»

«Potrebbero averla trovata a SapVille!» la difese Nathan Parker, guardando in cagnesco Rupert, portando le mani sui fianchi.

«Ehm, no, a dir la verità è stata trovata qui a Maple Town» confessò il sindaco, alzando la voce per attirare l'attenzione

«Chi l'ha trovata?» chiese Aaron Myers, un atletico ragazzone sulla trentina.

«Ehm... Chi ha trovato la targa preferisce non farlo sapere» rispose l'agente White, schiarendo prima la gola.

«Allora qual è lo scopo di questa riunione?» chiese Parker.

Il sindaco si voltò verso l'agente White e i due si scambiarono un'occhiata complice.

«Volevamo mettervi al corrente del fatto che, in occasione del 130° anniversario della fondazione della città, inviteremo il sindaco di SapVille e informeremo la cittadina di aver ritrovato la targa, quindi anche che non li consideriamo più... Eh, sì, ecco... Colpevoli.»

«AVETE INTENZIONE DI CHIEDERE SCUSA?» esclamò, concitato Rupert.

Il sindaco aprì le braccia in un gesto rassegnato. «Sono 130 anni che va avanti questa storia: quando Maple Town battè SapVille nella gara del miglior sciroppo d'acero e la targa sparì subito dopo la premiazione, William, il nostro fondatore, accusò, a questo punto invano, Ethan Wyatt di SapVille, che per ripicca distrusse il ponte sullo Small River che collegava le nostre città... Ora dovremmo far finire questa faida. Sono passati tanti anni e abbiamo appena scoperto che non è stata colpa loro» spiegò.

«E chi lo dice che non è colpa loro? Come facciamo a saperlo se non ci dite dove è stata trovata?»

La piccola folla si agitava sulle sedie di legno, anche i pochi in piedi, appoggiati alle balle di fieno, si muovevano per confrontarsi. Il sindaco e l'agente White stavano prendendo il controllo della situazione, ma su una cosa aveva ragione Sam Ritter, proprietario del bar sulla strada principale, non potevano essere certi di come fosse andata e quindi nemmeno discolpare i vicini di SapVille.

«Allora, possiamo dire solo questo: era in un posto da quando era stata nascosta e pensiamo sia avvenuto proprio nel fatidico giorno della premiazione, perché insieme alla targa è stato trovato questo.»

L'agente White si piegò sulla cassa e tirò fuori un vasetto: un vasetto di vetro, con il tappo rivestito da un pezzo di stoffa e un'etichetta ingiallita e impolverata che recava la scritta a mano: "Sciroppo d'acero 5-5-1885".

«Se non dovesse bastare per farvelo credere, abbiamo anche una copia della carta di fondazione che riporta la data in cui è nata Maple Town» continuò il poliziotto. «C'è anche la firma di William O'Moore...» Alzò la pergamena in alto, indicando con il dito la firma del fondatore della città.

Tutti i presenti si zittirono: Emma Carter smise di fare la maglia e la sua vicina si portò una mano alla bocca, spalancando gli occhi.

«Forse, allora, c'è stato un malinteso» disse Judith Fear, strizzando gli occhi, per guardare meglio.

Rupert si alzò e, pestando i piedi a chi gli era vicino, si fece strada fino al piccolo palco. Salì i tre gradini e si avvicinò al sindaco con aria solenne. Si chinò sulla carta, vecchia e giallastra, tirò fuori gli occhiali da lavoro ed esaminò la firma.

Si tirò su e fece una brutta smorfia verso la platea. «Sembra proprio originale» confermò.

«E come fai a dirlo, tu?» chiese Omar Green.

«Vorrei ricordarti, lattaio dei miei stivali, che sono l'antiquario del paese e che a casa mia ho parecchie carte recanti la firma di William O'Moore. Ti dico che è la sua.»

Di nuovo nel fienile tornò il silenzio.

Patience non riusciva a stare zitta, così chiese ad alta voce: «Come faremo a farlo sapere a quelli di SapVille?»

«Beh, per me non dobbiamo mica informarli» dichiarò Rupert.

«Non sarebbe giusto!» esclamò Charlotte Adams, la commessa della panetteria, scioccata.

«E poi, se non glielo diciamo, non possiamo appendere la targa: loro la vedrebbero e capirebbero che ce l'abbiamo noi» disse Rachel Roger, una deliziosa donnina di mezz'età, agitandosi.

«Potremmo fingere di trovarla.»

«L'abbiamo trovata!» ripeté Rupert.

«Dobbiamo dire la verità.»

«E ammettere di esserci sbagliati?»

«Silenzio!» esclamò Simon, mentre ognuno dei presenti tentava di far valere la propria opinione. «Non abbiamo ancora deciso cosa dire, ma... Lo diremo». Il sindaco si voltò verso l'agente White e questi, annuendo, mise la targa e il resto dentro nella cassa.

«E se facessimo una targa anche per SapVille? Potremmo scriverci qualcosa per una nuova... come dite voi? Fratellanza? Gemellaggio?» Patience aveva alzato la mano e timidamente aveva espresso il suo pensiero.

«Grazie, miss Stealer, potrebbe essere un'idea.» Il sindaco sorrise paziente, poi continuò: «Decideremo il da farsi, ma io e l'agente White dobbiamo prima scoprire da dove arriva questa cassa e chi l'ha rubata. Dopo di che indiremo una nuova riunione.»

Appena il sindaco ebbe finito di parlare, l'agente Loris White si voltò per andarsene, segno che la riunione era finita e che il brusio tra concittadini poteva cominciare senza di lui. Anche il sindaco lo seguì fuori mentre Patience si girava da ogni lato per ascoltare i commenti dei vicini. C'era chi voleva trovare il colpevole e mettere tutto a tacere, chi invece guardava al futuro e a una nuova collaborazione con la cittadina vicina. Altri speravano di accusare gli abitanti di SapVille un'altra volta e alcuni, più taciturni, scrutavano gli amici nell'intento di studiare un eventuale comportamento che li tradisse. Insomma, la caccia alla verità era cominciata e non sarebbe stato solo l'agente White a cercare il bandolo della matassa.

«Potremmo anche fare una gara di sciroppo d'acero, come è stato 130 anni fa...» Patience aveva iniziato e non riusciva più a fermare i pensieri. Né le parole.

«Ormai lo sciroppo d'acero è superato. Chiunque può farlo» precisò Emma, mettendo via il lavoro a maglia.

«Allora una gara in cui ci sia una ricetta, dolce o salata, con sciroppo d'acero. E lo sciroppo deve essere quello prodotto qui a Maple Town. La ricetta più buona vincerà la gara. Potremmo mettere in palio un premio in denaro, tipo... Non so... 2500 dollari? Potremmo fare come due anni fa, che abbiamo cercato gli sponsor per pagare il premio della maratona. E potremmo chiamare quelli di SapVille per fare da giuria» disse Raul Johnson.

La cosa stava iniziando a prendere piede. A Maple Town non si faceva una vera gara da anni. Una gara di cucina, poi. Una gara di cucina in cui si vincevano soldi. A chiunque avrebbero fatto comodo.

Il proprietario della caffetteria, Tom Smith, guardò la moglie, Candice, e lei annuì: a lei piaceva molto cucinare e i suoi pancake erano venerati nella cittadina. Avrebbero potuto aggiustare quella parte del tetto che perdeva dall'inverno scorso.

Susan Price, che aveva quasi raggiunto Patience alla riva dei settantacinque anni, sussurrò alla sua vicina che aveva in cucina una vecchia ricetta di sua nonna per un arrosto speziato con sciroppo d'acero.

Poco dopo il fienile si svuotò e la gente tornò verso le proprie case parlando di ricette, di progetti e, naturalmente, di sciroppo d'acero.

A nessuno venne più in mente di chiedere dove fosse stata trovata la targa. O chi l'avesse trovata.

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***Eccoci qui con una nuova storia, ma non sarà la solita storia perché... non è solo mia. Ogni capitolo è scritto da qualcuno di diverso ed è pubblicata su wattpad, però, visto che sta diventando veramente una bella storia ho deciso, con il permesso degli autori, di pubblicarla anche qui. A ogni capitolo troverete il link del profilo wattpad della persona che ha scritto. Buon inizio avventura!!!

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Capitolo 2
*** Rupert Rootweet ***


Cap. 1 - Rupert Rootweet

In una soleggiata mattina d'aprile, dove il caldo e il freddo sono ancora in contesa su chi debba avere il predominio sul resto della giornata, Rupert aprì gli occhi: si ritrovò nel letto della sua piccola casa in collina. I raggi solari colpivano in pieno il suo viso non più tanto giovane ma nemmeno tanto vecchio. Le rughe iniziavano a farsi strada accanto ai suoi occhi, sulle guance e un po' sulla fronte. Ma a pensarci bene, in realtà, molte di quelle rughe erano causa del suo carattere non propriamente piacevole. Forse perché lui non era nato in quel paese come tutti gli altri: ma a Maple nessuno, almeno secondo lui, sapeva di questa verità. Quella mattina, Rupert si svegliò di cattivo umore: aveva avuto una piccola discussione con una signora del paese, Judith.

«Accidenti al suo stupidissimo tic!» brontolò alzandosi dal letto, in un tono che non faceva presagire niente di amichevole.

Rupert si alzò dal letto, aprì le finestre, in modo da far circolare l'aria nella sua stanza, e abbassò leggermente l'avvolgibile. Infilò i piedi nelle ciabatte e trascinò il suo corpo in bagno: non amava particolarmente quella fase della giornata, era il momento in cui doveva lavarsi e vestirsi. Non che odiasse il proprio aspetto, ma quelle piccole azioni di routine lo distraevano da ciò che, per lui, era particolarmente importante: il suo lavoro. Rupert aveva un negozio d'antiquariato situato al primo piano della sua casa, gli era stato lasciato in eredità dal  padre e non aveva nessuna intenzione di venderlo o di cambiarlo in alcun modo. Rupert era fatto così: un bastardo, burbero e per di più tradizionalista. Amava quella parte del suo carattere? Sì. Avrebbe voluto cambiarlo? Forse. Ma non per i paesani di Maple Town, ma per una persona in particolare. Rupert sorrise al quel pensiero, poi osservò il suo viso allo specchio e iniziò a mettere in ordine la sua folta barba nera. Si lavò il viso, con un prodotto consigliato dall'unica donna che gli facesse battere il cuore e poi si pettinò i capelli. Dopo aver terminato quella fastidiosissima fase della giornata, scese in cucina deciso a prepararsi una colazione con i fiocchi. Adorava mangiare, ma amava anche fare un po' di movimento fisico per iniziare al meglio la giornata. Per un uomo della sua età, tenersi in forma era una delle cose che lo avrebbe salvato da una vecchiaia rapida e pungente. Preparò cinque fette biscottate con una copiosa dose di sciroppo d'acero, una bella tazza di caffè, che lui considerava la fonte della giovinezza, e poi si sedette a tavola per mangiare; successivamente avrebbe fatto i suoi esercizi di ginnastica.

Qualche ora dopo, Rupert era finalmente pronto ad aprire il negozio al pubblico. L'orario d'apertura era dalle dieci di mattina fino alle sette di sera, il suo poteva dirsi uno dei pochi negozi che non risentiva della crisi dello stato. «Colpa del Governo» rispondeva Rupert alle solite domande dei clienti quando gli domandavano  di chi fosse la colpa dell'incessante crisi economica. In realtà, a Rupert non importava  affatto della politica, era una parte della vita che non si era mai preoccupato di considerare. A Rupert interessavano poche cose: il suo negozio, i vecchi orologi che amava restaurare e la tranquillità della sua casa in collina. Non era il tipo di persona che si isolava dagli altri, aveva anche una ristretta cerchia di amici, ma conosceva il suo carattere e sapeva bene che non era facile da sopportare. Proprio per quel motivo, quasi tutte le sere dopo il lavoro, ordinava d'asporto dal suo locale vegetariano preferito, si sedeva davanti alla tv e guardava una delle sue serie preferite.

Quando Rupert aprì le porte del suo negozio, respirò la fresca aria mattutina del paese. Le foglie degli alberi, accanto al negozio, dondolavano tranquille in balia della leggera brezza primaverile. I suoi capelli castani, con qualche sprazzo di grigio, iniziarono a imitare il placido movimento delle foglie. Rupert sorrise e riempì i polmoni d'aria fresca, amava la primavera a Maple, ma adorava ancor di più l'avvicinarsi della stagione estiva. L'uomo alzò gli occhi al cielo e colse le varie sfumature d'azzurro. I suoi occhi color nocciola indagarono il vasto manto celeste per alcuni minuti: le nuvole correvano in cielo sospinte dal vento e Rupert pensò che la vita, così come le nuvole, corre inevitabilmente verso qualcosa, sospinta da una forza alla quale non ci si può opporre. L'unica differenza era solo una: il vento, prima o poi, si placa, ma il tempo non ha mai fine. Ma Rupert non si fece rattristare da quel pensiero, abbassò gli occhi sul paese e cominciò a coglierne i movimenti: troppi, per gli standard giornalieri. Mentre richiudeva le porte del suo negozio, Rupert tentò di ricordare qualche evento particolare avvenuto nel corso della settimana, ma non gli sovvenne in mente nulla di particolare.

Non passarono nemmeno dieci minuti che Rupert, dimentico di ciò che aveva visto dall'alto della sua collina, cominciò a passare in rassegna le riparazioni richieste dai suoi clienti. Ricurvo sul piano da lavoro, con gli occhiali ben posizionati sul naso, Rupert lucidava il preferito tra gli aggeggi che aveva in consegna: un bellissimo orologio da tavolo risalente all'epoca di Napoleone III. Rupert stava incerando con attenzione il bronzo e gli intarsi in boulle, ne revisionò con attenzione il meccanismo e pulì con precisione  le lancette della scocca anteriore. Ma, mentre stava per ultimare la riparazione, la fastidiosissima presenza di Judith invase l'ingresso della bottega. Rupert si girò e tentò in tutti i modi di non concentrarsi su quel dannatissimo movimento degli occhi. "Vorrei riempirti il viso di scotch, almeno riusciresti a stare ferma per più di trenta fottutissimi secondi" pensò Rupert, mentre tentava di nascondere la voglia di cacciarla a pedate.

«Buongiorno, Judith» disse Rupert, con tutta la gentilezza che riusciva a mostrare.

«B-buongiorno Rupert. Vedo che sei già indaffarato di prima mattina» esclamò Judith, indicando gli orologi sul banco da lavoro.

«Sì, cosa ti porta al mio negozio?» Rupert avrebbe voluto sbatterla fuori, ma Judith poteva essere una potenziale acquirente, quindi era meglio trattenere i bollenti spiriti.

«Quindi mi stai dicendo che non sai nulla?»

«No... saresti così gentile da illuminarmi?» Rupert iniziò a sudare, non riusciva a distogliere lo sguardo dal viso della donna. Avrebbe voluto concentrarsi su qualsiasi altra cosa, ma non ci riusciva. Avrebbe potuto fissare il bancone e analizzare la polvere che non toglieva da almeno quattro giorni, avrebbe anche potuto girarsi di schiena, fingere di lavorare e ascoltare la conversazione. Ma non lo fece, restò fisso e immobile davanti agli occhi della donna che continuavano a strizzarsi come vestiti ricolmi d'acqua.

«Il sindaco Cook ci vuole tutti riuniti nel fienile, adesso.»

Gli occhi di Judith iniziarono ad accelerare notevolmente il loro movimento. Evidentemente doveva trovarsi in uno stato d'eccitazione particolare.

«Ok, vorrà dire che verrò con te. Ma, ti prego, metti un freno ai tuoi occhi. Mi stai facendo venire il mal di mare... e ci troviamo in collina.»

«Scusa...» ammise Judith sorridendo.

Qualche minuto dopo, entrambi si ritrovarono nel fienile della città. Sul palco del piccolo fienile Simon e Mr. White stavano discutendo del ritrovamento dell'antica targa della città. Erano più di cento anni che quella targa era scomparsa e ora, chissà come mai, era magicamente ricomparsa. Rupert sapeva che l'argomento "Targa Scomparsa" era strettamente collegato allla cittadina di Sapville: cittadina che lui odiava profondamente. Bloccato insieme a quell'inutile ammasso di gentaglia, Rupert sentì la rabbia crescere all'interno del suo corpo: voleva scappare via da quel luogo e tornare ai suoi orologi. Poi, all'improvviso e approfittando di un attimo di silenzio da parte del sindaco, Rupert si sentì in dovere di alzarsi e salire sul palco: qualcosa aveva attirato la sua attenzione. L'uomo si fece strada calpestando i piedi e divincolandosi tra la gente che gli si parava davanti. Quando arrivò sul palco, afferrò il pezzo di pergamena ingiallito, indossò gli occhiali e iniziò ad analizzare le scritture. Non c'era alcun dubbio, quella era la firma originale di William O' Moore. Ne era più che sicuro, a casa aveva centinaia di carte che riportavano quella stessa identica firma. Purtroppo Omar, il lattaio del paese si permise di dissentire davanti a tutti la precedente affermazione di Rupert. Se c'era una cosa che Rupert odiava, ancor più di Sapville, era chi metteva in dubbio le sue doti. "Stupido venditore ambulante, come osa mettermi in dubbio?" pensò Rupert, mentre camminava per le vie del paese. La riunione era terminata dopo esser durata qualche ora e, a quanto pareva, di lì a poco ci sarebbe stata una gara di cucina. Rupert non ne capiva l'utilità. Avrebbero dovuto trovare il ladro  della targa, in fine restituirla a chi  aveva il diritto di possederla e terminare la questione. Era l'unico modo per mettere fine a tutta la faccenda. Niente inutili gare di cucina e niente convenevoli forzati, almeno da parte sua, con quei rubagalline di Sapville.

«Stupido lattaio da quattro soldi. Torna dalle tue stupide mucche.» Rupert stava risalendo la collina che l'avrebbe riportato a casa, e ci sarebbe tornato davvero se solo non avesse incontrato l'unica donna capace di allietare le sue giornate.

«Ehi, Rupert» salutò una donna, timidamente.

«Buonasera, Rachel.»

«Cosa ci fai qui, tutto solo?» domandò lei, avvicinandosi.

«Stavo tornando a casa.»

«Ancora arrabbiato per le parole di Omar?»

Rupert rimase scioccato dalle parole della donna, non sapeva come, ma ogni volta riusciva a comprendere il suo stato d'animo. Agli occhi del paese, Rupert poteva sembrare il solito burbero senza peli sulla lingua, ma sapeva che Rachel non lo vedeva così.

«Sì... e no.»

«Ti va di andare a prendere qualcosa da bere?» domandò la donna, avvicinandosi in maniera sinuosa ed elegante.

«Ma il mio nego...» Rachel poggiò un dito sulla bocca di Rupert che si zittì immediatamente ammaliato dal profumo e dal morbido tocco della donna.

«Per oggi, può aspettare» Rachel sorrise e sfiorò la guancia dell'uomo con un bacio.  «Vieni, ti faccio strada.»

Rupert batté gli occhi per mettere a fuoco l'immagine di Rachel, poi la seguì. Immediatamente si rilassò e abbandonò tutti i pensieri della giornata. Dimenticò l'affronto di Omar e si concentrò su Rachel. Non sapeva in che maniera avrebbe potuto contribuire a quella specie di competizione, a pensarci bene, lui non avrebbe nemmeno voluto parteciparvi. Ma non era il momento di pensarci. Si lasciò trascinare dal desiderio di passare un paio d'ore di tranquillità in compagnia di una cara e vecchia conoscente.

*** Grazie a P4rziv4l97 per questo bellissimo capitolo! Allora, vi ha sorpreso il nostro Rupert o lo immaginavate proprio così?


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Capitolo 3
*** Susan Price ***


Cap. 2 - Susan Price
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Capitolo scritto dalla nostra GildaBellavita  

Maple Town era una tranquillissima cittadina americana, con tanto passato alle spalle, e molto mistero. Il più grande era forse quello che tutti stavano vivendo in quei giorni.

Tutti gli abitanti ormai erano a conoscenza della targa ricomparsa e ognuno di loro diceva la sua a tal proposito; tutti, tranne l'amante della cucina, difatti Susan era in trepidazione per la gara a colpi di pietanze. Certo, anche lei voleva sapere chi avesse ritrovato l'oggetto, perché proprio in quel momento? Dopo più di cent'anni.

Susan Pierce quella mattina si svegliò presto. La donna ormai in pensione si dilettava tra i fornelli e lo sciroppo d'acero: la sua città era famosa per quell'ingrediente.

L'anziana scese dal suo letto e, fissando la sua immagine allo specchio, sorrise. La vecchiaia non la spaventava, aveva vissuto bene, era stata felice, anche l'amore aveva riempito la sua vita con il marito, ormai defunto. Lei non aveva mai smesso di amarlo, nemmeno dopo la sua morte.

Si focalizzò sull'evento che era sulla bocca di tutti in quei giorni e ripensò alle parole di sua madre, e alle tante storie raccontate sulla sparizione della targa: rubata dai rivali della cittadina vicina. «Adesso ricomparsa» disse mentre infilò le ciabatte e si diresse verso la cucina.

Susan viveva in una casa piccola: un bagno, una camera da letto e poi il suo posto preferito, dove si dilettava tra farine, sciroppo d'acero, polli, tacchini e arrosti. Era stata sua nonna a trasmetterle tale passione, da piccola passava i pomeriggi a leggere le ricette della madre della progenitrice.

"Farò quella, speriamo che la memoria mi aiuti..." pensò mentre cercava di ricordare dove avesse riposto il ricettario. Scrutò ogni angolo della dimora. Storse il naso quando vide l'intonaco delle pareti rovinato. Doveva vincere quei soldi, le avrebbero fatto comodo per i lavori di ristrutturazione. «Ma sì, devo averlo messo lì... insieme alle foto di famiglia» si disse mentre ispezionava gli ambienti.

Con un caldo sorriso si avvicinò a un vecchio mobile in legno, fece girare la chiave e inspirò quel profumo familiare. Vi erano stipate vecchie foto. Susan sapeva bene cosa stava cercando, e infatti la trovò: Aprì una foto ripiegata su se stessa: era un'istantanea di lei da piccola davanti a un arrosto speziato. Era la ricetta che voleva presentare, la data incombeva e lei avrebbe dovuto creare un piatto sopraffino degno delle tradizioni di famiglia.

Insieme a tutto il resto c'era il ricettario, lo prese e diede un bacio al volto della madre, prima di riporlo al sicuro. "Pollo all'arancia, misto fritto, torta di mele..." Sbuffando proseguì tra le tante pagine. 
«Eccola: arrosto speziato allo sciroppo d'acero!» esultò felice come una bambina il giorno di Natale.

Poggiando la ricetta sul tavolo, ispezionò la credenza: doveva controllare di avere tutti gli ingredienti. La donna andava spesso a fare la spesa e quando non poteva per via della sua età chiedeva a qualche bambino di andarci al posto suo, in cambio di qualche mancia e di una gustosissima torta da mangiare con la famiglia. Era ben voluta in città. Certo come tutte le persone anziane bisognava avere pazienza con lei alcune volte

Susan si commosse nel leggere quella ricetta, i tanti ricordi le riaffiorarono alla mente 
Era una calda mattina primaverile, quel giorno di tanti anni prima, lei si trovava in cucina e sua nonna, ormai sull'ottantina, le stava spiegando come preparare l'arrosto. La piccola Susan ascoltava in silenzio e, sperimentando, ogni tanto sbagliava le dosi. Versò così tanto sciroppo d'acero, che la carne ormai era sparita sotto quell'ingrediente, la madre la rimproverò, ma la progenitrice rise e disse che non contava sbagliare, l'importante era tentare e sorridere degli errori, perché erano proprio gli errori a farci crescere.
La Susan adulta prese uno strofinaccio e si asciugò le lacrime, prendendo la carne dal frigo.

Cominciò a fare dei piccoli tagli sulla superficie, per poi spalmare sopra di essa quattro cucchiai di sciroppo d'acero. In seguito usò la stessa quantità di aceto di mele, un cucchiaino di peperoncino e uno di paprika dolce, immerse il filetto di maiale in una ciotola e lo lasciò riposare per qualche ora nel frigo, coperto con uno strato di pellicola.

Si dedicò alle pulizie, ascoltando la radio: anche lì parlavano della targa ritrovata. Tutti avevano sempre accusato la cittadina vicina, i loro rivali, gli abitanti di SapVille. Ma forse si erano sbagliati: l'oggetto lo avevano ritrovato a Maple. Non sapevano né come, né da chi, ma volevano saperlo e lo dimostrò anche la riunione di qualche giorno prima, dove ognuno disse la sua.

Certo abitavano lì e interessava tutti loro, infatti ogni volta che usciva per le vie della città si parlava solo della riapparizione dell'oggetto e della gara di cucina. Da piccola aveva ascoltato tante storie su quella targa, e ognuno menzionava gli stessi rivali. «Chissà qual è la verità?» 
Sistemò i vestiti dopo averli stirati e riprese la carne del frigo: i centoventi minuti erano trascorsi e poteva portare avanti la ricetta.

Quando tolse la pellicola, l'odore si espanse in tutta la cucina. "Sembra stia venendo bene, nonostante siano passati sette anni dall'ultima volta che l'ho preparata." 
Prese la carne e la tolse dalla ciotola poggiandola nel lavandino, mettendo un po' di acqua, e sapone: odiava il disordine. Poggiò il maiale su un piatto di ceramica bianca con decorazione floreali gialle e preparò la teglia da infornare.

Con un pennello da cucina e dell'olio mischiato con l'ingrediente principale bagnò la teglia e mise al suo interno l'arrosto. Accese il forno, dedicandosi ad altro mentre aspettava che l'elettrodomestico suonasse.

Si sedette sopra il divano, era bianco, in contrasto con la mobilia marrone scura, le pareti dipinte di grigio, ormai rovinate. 
Susan si appisolò qualche minuto, mentre altri ricordi invasero la sua mente. 
"Mia madre mi raccontò della scomparsa della targa, erano passati tanti anni, e nessuno ne seppe più nulla. Dov'era prima? Chi la teneva?" L'anziana ricordò che nella sua infanzia molti bambini giocavano a cercare il colpevole e sempre un povero malcapitato doveva fingere di essere della frazione opposta, veniva rincorso e doveva riconsegnare l'oggetto, ma non poteva farlo, perché il ladro non c'era mai. I suoinonni, e quelli dei suoi amici, narravano di liti con quelli di SapVille, di tante gare e sfide fatte con i rivali. Purtroppo nessuno sapeva come fosse andata veramente e adesso, a distanza di molti anni, la targa era ricomparsa, così, quasi per magia.

Susan però, non credeva alla magia, dietro doveva esserci una spiegazione logica, per forza, il problema era un altro: cercare la verità. Nessuno la conosceva solo il vero colpevole del misfatto. 
Il timer fece sobbalzare l'anziana che si alzò dal divano, si grattò i capelli bianchi e lavò le mani, asciugandole con un tovagliolo prima di spegnere il forno; indossò un guanto da cucina e prese l'arrosto. Sorrise quando lo mise sopra il tavolo: una deliziosa crosticina vi si era formata in superficie e l'odore le fece brontolare lo stomaco. Ne tagliò un pezzo e controllò quindi la cottura. «Sì, è pronto» confermò prima di assaggiarne una porzione, che le fece anche la pranzo. Il sapore le mandò in estasi le papille gustative. 
Fissò la sua immagine nello specchio posto di fronte il tavolo, nei pressi dell'ingresso. «Parteciperò a quella gara di cucina e il mio arrosto speziato allo sciroppo d'acero... vincerà! Parola di Susan Pierce.» Finì di mangiare e rassettò la dimora.

Nel pomeriggio indossò il suo capello preferito, una veste idonea alla sua età abbinata al copricapo, tutto giallo, e dei sandali neri. Uscì di casa per recarsi al parco e prendere un po' d'aria fresca, ma prima andò a registrarsi alla gara di cucina, che di lì a poco avrebbe forse messo fine alla faida tra Maple Town e SapVille.

Susan era pronta per dare battaglia a colpi di fornelli e soprattutto di sciroppo d'acero, era determinata anche a scoprire tutta la verità sulla targa finalmente ricomparsa.

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Eccoci con un nuovo capitolo!!! Scopriremo cosa sta succedendo in questa cittadina? Leggete leggete...

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Capitolo 4
*** Nora Bayls ***



Cap. 3 Nora Bayls

Scritto da AgneseM89 


Lo zaino da trekking che portava in spalla era così pesante da segarle le spalle. Qualcosa di puntuto, messo in modo scorretto verso lo schienale, le premeva sulla colonna vertebrale, facendole deformare il viso in una smorfia di dolore a ogni passo.

«Mi scusi, a che ora dovrebbe partire il prossimo autobus per Maple Town?» 

«Oh, sei fin troppo in anticipo, mia cara ragazza. Mancano più di quaranta minuti!» rispose un uomo in divisa, la giacca tesa sull'addome rigonfio.

Nora si sfilò il pesante zaino dalle spalle, lo posò sulla panchina deserta e si lasciò cadere alla sua destra.

Quel viaggio non iniziava con i migliori auspici. 
Del resto, non era certo una vacanza quella che si apprestava ad affrontare. La sua vita stava per cambiare radicalmente, di nuovo. 

Già pochi anni prima, Nora aveva dovuto affrontare la morte della madre. Un dannato camion l'aveva travolta mentre tornava dal lavoro, in una maledettissima sera di pioggia. 
Adesso, la ruota tornava a girare, e sempre a suo sfavore. Quello smidollato del padre si era fatto fregare. Dalla morte della moglie, aveva iniziato a bere e a giocare d'azzardo, perdendo di volta in volta ingenti somme di denaro. 
L'ultima sera, doveva aver strafatto. Probabilmente aveva puntato qualcosa che ormai non possedeva più. 

Il fischio acuto dei freni dell'autobus di ritorno dalla corsa, la destò dal suo rimuginare. Era una vettura datata, i fianchi scrostati dalle intemperie e l'aria malconcia. 
Nora sospirò senza dir nulla, osservando l'autista baffuto abbandonare la vettura, diretto all'area ristoro riservata ai dipendenti.

"Sì, ok fatti la pausa caffè ma datti una mossa. Sto mettendo le ragnatele qui."

Un nugolo di viaggiatori scendeva lentamente dalle scalette della vettura; un bimbo paffuto diede la mano a una donna alta. Doveva esser la madre. Poi si girò, passando davanti a Nora. Si voltò e le sorrise. 
La ragazzina increspò le labbra intenerita, ricambiando un sorrisetto sghembo e accennato. 
Era stata così felice anche lei un tempo? Non lo ricordava. Tutto ciò che di bello era stato, nel suo passato, sembrava svanito.  
A soli dodici anni Nora aveva dovuto smetter di essere bambina, abbandonare ogni segno di spensieratezza, e imparare a gestire la casa e tutte le incombenze che suo padre non era in grado di portare a termine. Adesso che ne aveva appena compiuti sedici, si sentiva già una piccola donna.

Le porte si aprirono, con uno sbuffo sottile. 
Nora si poggiò lo zaino in spalla e si trascinò su per le scale, rivestite da una moquette scura, tra le cui righe era evidente la polvere accumulata nel tempo. 
L'autobus era deserto, poteva scegliere il sedile che preferiva. 
Si lasciò cadere accanto al finestrino, poggiando lo zaino, alto quanto lei, al proprio fianco: se qualcuno le avesse chiesto di sedersi, lo avrebbe spostato. Nel frattempo, sperava di scoraggiare un qualsiasi altro essere umano a sederle accanto. Non sopportava l'idea di condividere quello squallido viaggio con uno sconosciuto. 
Tuttavia, spostare il bagaglio non fu necessario. Quando la vettura mise in moto il motore, vi erano solo altri quattro passeggeri, sparsi qua e là, quasi invisibili dietro i poggiatesta color magenta.

"In effetti... chi vuoi che ci vada in quel buco dimenticato da Dio?"

Non era stato facile per lei, piccola nerd incallita, approdare a quel piccolo centro di periferia. Del resto, il suo splendido padre non si era curato neanche di lasciarle un indirizzo. 
Una mattina, invece del russare scomposto e dei calzini sporchi in cucina, Nora aveva trovato difatti un biglietto abbandonato tra i piatti sporchi della sera precedente. Un foglietto strappato, su cui ondeggiava la scrittura sghemba di un uomo ancora in preda ai fumi dell'alcool. 
«Devi andartene. Io devo stare lontano da qui per un po'. Ho perso la casa a carte. Va' da tuo zio.» 
Nora l'aveva riletto più volte, incredula.

Suo padre aveva perso tutti i soldi, la macchina, perfino alcuni mobili di pregio. Ma non avrebbe mai immaginato arrivasse a tanto.  
Adesso, le spalle sprofondate nella ciniglia morbida del sedile di quell'autobus, rigirava tra le mani quello stesso brandello di carta che le aveva stravolto la vita. Era tutto vero, lo aveva compreso qualche giorno dopo. Al di sotto della calligrafia storta del padre, una scritta più fresca, riportava l'indirizzo esatto a cui recarsi. Lo aveva aggiunto pochi giorni prima lei stessa, quando finalmente era riuscita a risalire all'indirizzo dello zio.

Suo padre, non si era neanche scomodato di specificare a quale zio si riferisse, né tantomeno di fornirle qualche dettaglio. Tuttavia, per Nora non fu difficile comprendere di quale essere umano avrebbe dovuto essere il peso, da ora in poi. Aveva solo due zii di sesso maschile. Il fratello del padre era in galera da qualche anno per truffa aggravata. Restava solo il fratello della sua povera mamma. Ricordava di averlo visto, una, forse due volte, in quei sedici anni.

Non che le due famiglie avessero mai litigato, né vi fossero stati conflitti di sorta; semplicemente, le loro vite erano troppo distanti, e il carattere di quell'uomo era, se ben ricordava, sfuggente e introverso.

Tuttavia, non aveva scelta. Se voleva evitare di finire in un qualche centro per disagiati, seguita dai servizi sociali, doveva tentare. Non poteva permettersi di rovinare tutti i propri sforzi, lo studio, le referenze, per colpa di quel becero di suo padre. Stava dando tutta se stessa per essere ammessa al college, e solo vivendo una vita "ordinata", da qualsiasi parte, avrebbe potuto avere una chance di ottenere una borsa di studio.

Smanettando tra gli archivi digitali dell'anagrafe, in modo non proprio legale, Nora era risalita al paese, poi all'indirizzo di suo zio. Bene. Un piccolo centro abitato svettava dai vetri lerci della vettura. Doveva essere quasi arrivata.

Dopo alcuni minuti, il pullman si fermò. Nora attese che i pochi passeggeri presenti la precedessero; poi, imbracciato ancora una volta lo zaino ingombrante, abbandonò quello spazio angusto e malconcio.

L'aria era fresca, figlia di un Aprile coerente. Il paese era proprio come se lo era immaginato, complice la sua ricerca spasmodica di indicazioni su maps. Osservandosi intorno, con l'aria da turista e il cuore gonfio di apprensione, si incamminò verso la periferia. C'era da percorrere un po' di strada, ma non aveva alternative.

Eccolo lì. Il negozio di cui aveva letto. Un mucchio di roba antica spiccava dalla vetrina, linda e luminosa. Quel contrasto la stupì. Non era tempo di perdersi in elucubrazioni. 
Respirò il profumo di un autunno incipiente, ascoltando lo scricchiolio delle foglie morte sotto i propri passi; poggiò la mano sulla maniglia lucida. Senza indugiare oltre, entrò.

«Fa attenzione con quell'elefante sulle spalle!» la accolse la voce imponente e severa del negoziante. «Posso aiutarti? Cerchi qualcosa?» si corresse poi l'uomo. Doveva aver compreso che non era un buon modo per approcciarsi a una potenziale cliente.

«Ciao...» Esitò Nora, fattasi d'un tratto timorosa, di fronte a quella figura alta e possente, che la folta barba nera rendeva ancor più autoritaria. «Sei... sei Rupert Rootweet, non è vero?»

«Sì, sono io. Chi mi cerca?»

«Sono Nora. Tua nipote.»


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Capitolo 5
*** Aaron Myers ***





Cap.4 - Aaron Myers



Capitolo scritto da Cometa1975 

Erano passati già diversi giorni da quando la targa era stata ritrovata e, dopo l'iniziale clamore, nessuno ancora aveva idea di chi l'avesse scovata né in quali circostanze. Inoltre, nessuno sapeva come comportarsi in merito a un ritrovamento tanto eccezionale.

Aaron non aveva prestato molta attenzione a tutta quella vicenda. Oltre al lavoro di meccanico che lo teneva occupato per buona parte delle sue giornate, aveva ben altri pensieri per la testa.

Uno in particolare tormentava i giorni e soprattutto le notti dell'aitante meccanico trentenne. Nessuno in paese era a conoscenza del suo segreto e, come la targa scomparsa e ora riapparsa, la sua vita amorosa restava un mistero per la gran parte dei suoi concittadini.

Aaron era un ragazzone biondo, gioviale, con degli occhioni come due laghi di montagna e ricci simili a quelli di un cherubino.
Era sempre stato corteggiato sia da donne che uomini, e non gli era stato ben chiaro quale fosse la sua indole finché non aveva conosciuto Jason Druvè, attraente giornalista conosciuto a Portland. Avevano iniziato una relazione da diversi mesi, ma Aaron non se la sentiva ancora di dichiararsi alla città. Per quel motivo settimane prima avevano litigato in maniera molto brutta e non si vedevano né sentivano da allora.

Il giovane scese dalla sua Moto: una Indian four appartenuta a suo nonno Alan che l'aveva comprata prima di andare in guerra e mai usata perché dal conflitto era ritornato senza una gamba. L'uomo però non aveva mai rinunciato alla sua moto e aveva passato questa passione al nipote che, da quando era solo un bambino, aveva amato alla follia quel bestione di metallo con i quattro cilindri in linea longitudinale e un rombo pauroso.

Aaron scese con calma da Indy e si tolse il casco che imprigionava i suoi riccioli biondi.
Appena mise a fuoco la scena di fronte a sé, per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Seduto sui gradini di casa sua, un tempo appartenuta ai nonni paterni Alan e Merion, situata appena fuori dal centro del paese, era seduto Jason.

Il suo amante, se ancora così poteva definirlo, era bello da togliere il fiato, come sempre. Non aveva il classico fascino statuario, ma un carisma e uno charme che lo rendeva irresistibile agli occhi del giovane meccanico. Il reporter era alto e snello con le gambe lunghe e i muscoli tonici, i capelli scuri portati sempre elegantemente in disordine e due occhi neri profondi come una notte senza luna.

Il reporter, appena lo vide, fece uno di quei suoi sorrisi timidi che riservava solo a lui. Aaron era rimasto fermo vicino alla moto con il casco in mano e non sapeva se andargli vicino oppure risalire in sella e fuggire lontano da lì. Strinse più forte il casco tra le mani e si fece coraggio avanzando di qualche passo verso il proprio amante. Nel frattempo Jason si era alzato dagli scalini del portico, scuotendosi i pantaloni di jeans slavati calzati perfettamente e sistemandosi quasi d'istinto la camicia bianca che portava.

«Cosa ci fai qui?» chiese Aaron con un tono più brusco di quello che avrebbe voluto.

«Non sei felice di vedermi?» rispose di rimando Jason avvicinandosi ancora.

«Le cose fra noi non sono cambiate da quando ci siamo parlati l'ultima volta. Ti ricordi? Però è meglio entrare, non è buona cosa restare qui fuori» disse sbrigativo il meccanico aprendo in fretta e furia la porta di casa.

Non appena fu entrato, seguito da Jason, non fece in tempo a posare il casco che l'altro si avventò sulle sue labbra. Il bacio era veloce e disperato, come quando un naufrago riesce a riconquistare l'aria dopo essere stato immerso nell'acqua per diverso tempo.

Aaron riuscì, facendosi forza, a scostare l'uomo da sé.

«Jason, non fare così...»

Il reporter si staccò malvolentieri dal corpo caldo del giovane e si mise seduto su una delle poltrone di pelle chiara che erano presenti nel salottino della casa.

«Speravo che in questi giorni durante i quali non ci siamo sentiti avessi avuto modo di riflettere» iniziò a dire il giornalista «ma non sono qui per questo, o meglio non solo.»

Aaron lo guardò incuriosito, cercando di capire cosa avesse portato il giornalista in quel piccolo paesino.

«Nonna Jo mi ha chiamato l'altro giorno dicendomi che è stata ritrovata la targa della Gara dello Sciroppo d'acero del 1885.» Sganciò la bomba così all'improvviso e Aaron sentì un dolore alla bocca dello stomaco. Anche se solo inconsciamente aveva desiderato tanto che l'amante fosse venuto a reclamarlo.

Dopo l'accesa discussione che avevano avuto settimane prima, nessuno dei due aveva mosso passo verso l'altro. Entrambi erano testardi e orgogliosi, inoltre erano persone da tutto e subito. Per loro non c'erano via di mezzo né mezze misure. Anche per Maple Town e SapVille era così, da quando nel 1885 avevano litigato per la questione della targa scomparsa, nessuno più si era parlato con i vicini. Nessuno, tranne nonna Jo. Jo, Josephine Druvè, era nata e cresciuta a Maple Town ma era una ragazza ribelle e in una delle sue fughe in bicicletta aveva incontrato Derek Druvè. I due si erano innamorati e la donna, dopo il matrimonio, sotto gli occhi sconvolti di amici e parenti, si era trasferita a SapVille insieme al suo amato.

«Sì, è vero, e allora?»

«Cookie, è una storia bellissima non ti rendi conto? Potrebbe venire fuori un articolo coi fiocchi. Sono qui per indagare sulla targa scomparsa.»

Aaron, frastornato dal nomignolo che l'altro usava per chiamarlo, si era allontanato ancora di qualche passo da Jason. «Okay, ma allora che ci facevi davanti casa mia?»

«Te l'ho detto, Cookie, non sono qui solo per quella fottuta targa. Tesoro vorrei solo che tu facessi un passo verso di me, anche piccolo...» disse con tono flebile il giornalista.

Nelle questioni lavorative Jason era molto scrupoloso e se necessario spietato, ma in quelle amorose era fragile e da quando aveva conosciuto Aaron lo era diventato ancora di più. Lui si era dichiarato bisessuale a quindici anni e gay a ventuno. Sapeva perfettamente quale fosse la sua indole e cosa volesse in una relazione. A casa sua tutti sapevano e non aveva mai avuto molti problemi al riguardo, ma doversi nascondere e vivere quella storia che per lui era davvero importante non potendolo dire a nessuno, era una tortura psicologica incredibile. Lo faceva sentire come se lui non fosse necessario, come se per Aaron fosse più importante il giudizio dei suoi compaesani che quello del suo amante.

«Jason, te l'ho detto fino allo sfinimento, io non posso dichiararmi gay. Non adesso, non qui, io...»

Jason decise di abbattere le distanze tra di loro, aveva una paura folle che Aaron gli sfuggisse fra le mani, voleva stringerlo di nuovo a sé.

«Cookie, ti prego, ho bisogno che tu faccia un piccolo passo verso di me: fosse solo anche farmi conoscere il tuo migliore amico, non ha importanza, qualsiasi cosa...»

Aaron scosse la testa: aveva pensato molto spesso come dire a Mark, il suo migliore amico da sempre, quello che gli stava succedendo.

In quelle settimane era stato più schivo e scontroso del solito con tutti: amici, clienti e semplici conoscenti. Nessuno in città riusciva a capirne il motivo. Aaron ormai era orfano, non aveva nessuno. I suoi genitori erano morti quando era molto giovane ed era stato cresciuto dai nonni paterni e per lui deludere le aspettative di nonno Alan, anche se ormai non c'era più, era un dilemma che lo dilaniava dentro. Suo nonno era una brava persona, ma di vecchio stampo. Un uomo rigido, tutto d'un pezzo, che non avrebbe capito le scelte sentimentali del nipote. Sua nonna Merion invece sapeva, o almeno aveva intuito che ad Aaron non piacessero in particolar modo le donne, non aveva mai accennato nulla a tal proposito, però poco tempo prima di morire gli aveva detto: «Vivi la tua vita piccolo e sii felice, con chiunque tu voglia...»

Non aveva aggiunto altro anche se era chiaro che si riferisse al fatto che il suo piccolo angelo con i ricci si nascondesse in amore, forse ancor più della targa scomparsa.

«Credo tu debba andare adesso, Jason» disse il meccanico riscosso dal suono del suo cellulare. Si era completamente scordato che i suoi amici lo aspettavano da Trixe per festeggiare il compleanno di Steven, il cugino di Mark.

«Cookie» provò a insistere l'altro, ma intanto si era già alzato per dirigersi verso la porta. In fondo sapeva che quello era un tentativo disperato. Forse addirittura un addio.

Aaron infatti si era voltato, se l'avesse guardato in faccia l'avrebbe di sicuro raggiunto e abbracciato, ma non poteva. Nonno Alan non avrebbe mai approvato.

La mattina seguente Aaron si svegliò con un mal di testa da manuale.
La sera prima aveva bevuto troppo e i suoi amici l'avevano dovuto riaccompagnare casa. Durante la serata il nuovo ufficiale, che affiancava da qualche settimana l'agente White, aveva detto alla comitiva che il giorno seguente sarebbe andato in centrale un forestiero, un giornalista, per un articolo sulla faccenda della targa e che successivamente sarebbe andato dal Sindaco. I ragazzi avevano esposto con vivacità le loro opinioni in merito: c'era stato chi era d'accordo, chi non lo era e chi, come Aaron, aveva dribblato la questione bevendo più del dovuto. E non solo per la questione della targa. A un certo punto Mark gli aveva chiesto cosa avesse, lui stava quasi per vuotare il sacco, quando aveva sentito di sfuggita un commento cattivo e si era accorto essere rivolto proprio a Jason, che nel frattempo era entrato nel locale dove si trovavano. Uno dei ragazzi lo aveva definito "fradicio" nel senso di finocchio. Le budella di Aaron si erano contorte fino all'inverosimile. Aveva quindi deciso di bere per dimenticare, ma il suo cuore non era d'accordo. Il bacio del pomeriggio aveva risvegliato in lui un desiderio ancestrale di averlo. Per Aaron il giornalista era stato il primo e si sentiva mancare l'aria al pensiero di perderlo, ma proprio non riusciva a superare lo scoglio della vergogna.

In fondo cosa gli aveva chiesto Jason? Nulla, voleva solo che fosse il suo +1 al matrimonio della sorella. E lui non avrebbe avuto nulla in contrario se solo non ci fosse stata nonna Jo che, pur avendo lasciato SapVille e vivendo da anni a Miami, era nata e cresciuta a Maple Town e, Jason lo aveva detto a Aaron, era ancora in contatto con Patience. Patty aveva fatto le scuole con nonna Jo e si dava anche il caso che fosse la pettegola del paese, insomma, non era nota per la sua discrezione. Andare a quel matrimonio equivaleva a fare coming out e lui non se la sentiva.

Sospirò di fronte allo specchio e si vide un completo disastro. Aveva i capelli sparati in ogni direzione, come se nella notte li avesse tirati ripetutamente, e due occhiaie violacee sotto gli occhi celesti.

Si sciacquò la faccia e dopo un caffè al volo si diresse all'officina. Era in ritardo.

Per tutto il giorno non fece altro che pensare a Jason, tanto che anche il suo nuovo apprendista, un ragazzino di nemmeno diciotto anni, richiamò spesso la sua attenzione. Durante la pausa pranzo alla caffetteria locale decise di telefonare al reporter. Poteva propinargli la scusa di sapere come fosse andata con l'agente White e con il Sindaco Cook.

Compose il numero. La scritta Sunflower campeggiava sullo schermo. I loro soprannomi: Cookie e Sunflower. Lo stomaco gli si chiuse, non aveva più fame nonostante il polpettone fosse la specialità della casa.

L'utente non era disponibile.

Un senso di nervosismo iniziò a serpeggiare nelle sue vene.

Per il resto del pomeriggio fu intrattabile, se ne rendeva conto da solo. Sempre attaccato al telefono per vedere se Jason l'avesse richiamato, ma niente di niente. Erano quasi le sette di sera quando Steven arrivò in officina dicendogli che qualcuno in paese aveva avvistato una macchina in panne fuori città, al confine con SapVille. Il ragazzo non fece neanche finire l'amico che chiuse in fretta e furia l'officina e inforcò Indy.

La moto si accese col suo rombo sordo, tipico del motore a quattro cilindri in linea, e con uno scatto poderoso volò in strada. Steven gli aveva detto pochissimi particolari, ma da quanto aveva compreso l'auto in panne non era della città e quindi non poteva essere che di Jason ed era nei guai. Ma perché allora non l'aveva chiamato? Era davvero finita?

Percorse nervoso le strade che portavano fuori città e quando arrivò al confine iniziò a perlustrare il perimetro del paese, spingendosi prima nord e poi a sud. Niente, nessuna traccia. Il cellulare era ancora spento. Aaron imprecò fra sé e decise di fare un ultimo tentativo andando verso il ponte distrutto, quello che collegava un tempo le due cittadine. Vicino al ponte c'erano dei terreni che erano appartenuti al bisnonno di Aaron e poi abbandonati.

Arrivato quasi al ponte notò un bagliore fioco, non molto lontano da lui. Era aprile e non faceva molto freddo, ma le temperature notturne non erano ancora piacevoli. Percorse quei metri di sterrato col cuore in gola e poi lo vide: Jason era seduto sul cofano della sua auto, stretto in una giacca di jeans troppo leggera e stava maneggiando il suo cellulare.

Quando sentì il rombo del motore della moto, che conosceva molto bene perché il meccanico quando andava a trovarlo arrivava sempre con la sua fidata Indy, alzò lo sguardo e Aaron spense il veicolo il prima possibile per correre lui. Gli era mancato, gli era mancato tantissimo.

«Cookie, sei qui» disse il giornalista non appena ebbe il ragazzo vicino, scendendo dal cofano.

«Sunflower» soffiò Aaron stringendolo in un abbraccio. Jason si sciolse subito e nascose il viso nell'incavo del collo del biondo che lo stringeva possessivo, con il casco ancora in mano. «Mi dispiace...»

«Shh, sei qui, non importa, sei qui per me!»

«Sì, ma esattamente dove siamo?» chiese allora Aaron staccandosi appena dal giornalista.

«Ma come dove, Cookie? Nel luogo del ritrovamento della targa!»

Aaron sgranò gli occhi e si guardò attorno. C'era molto buio e non si rendeva ben conto di dove si trovassero. Sicuramente erano al confine nord di Maple Town, vicino al vecchio ponte oramai distrutto.

«Sunflower, ma come sei arrivato fino qui?»

Jason rise e strinse di nuovo a sé l'amante, era venuto a cercarlo, era da lui e non aveva importanza il lungo giro che l'aveva portato fino a lì. Né le occhiate sospettose dei concittadini del suo amato. Avrebbero avuto tempo a casa, più tardi, per parlarsi. Voleva solo stringerlo, saggiare le sue labbra e far sprofondare le mani nei suoi morbidi ricci. Gli era mancato così tanto, come l'aria.
Tuttavia tornò a pensare alla targa: era stata nonna Jo a chiamarlo, due giorni prima, per dirgli che aveva saputo da Patience del ritrovamento della targa. In qualche modo, Jason aveva ipotizzato che la targa potesse essere stata nascosta tra le due cittadine in guerra, al confine tra Maple Town e SapVille. Quindi Jason aveva setacciato i confini del territorio cittadino fino a trovare quel luogo dove c'era ancora una grossa buca scoperta, ma quando si era deciso a chiamare Aaron il telefono era scarico e la macchina si era messa a fare i capricci. Non sperava proprio che il giovane lo cercasse. Non dopo che la sera prima, quando al locale gli amici di Aaron lo avevano apostrofato in modo poco gentile, lui l'aveva ignorato, fingendo di non conoscerlo. Aveva capito, in quel preciso momento, quanto poco Aaron fosse incline a dichiararsi. La mentalità di una cittadina come Maple Town non era come quella di città. Aveva accettato la cosa, anche se pensava che la questione fosse più profonda e radicata nella famiglia del ragazzone che amava, forse per il fatto che nonna Jo avesse deciso, anni prima, di trasferissi a SapVille e quello faceva di Jason un forestiero nemico.

«Ti porto a casa, Sunflower, penseremo domani alla macchina e a tutto il resto» disse Aaron passando il casco al suo amore e facendolo salire con lui sulla moto.

Indy riprese la stradina sconnessa con sopra il suo proprietario e il giornalista avvinghiato alle sue spalle. Aaron guardava il paesaggio scorrere davanti a sé col cuore più leggero. Il rombo del motore cullava i suoi pensieri. Nonno Alan avrebbe capito, o almeno lo sperava, ma in quel momento il calore confortevole di Jason dietro di lui bastava a calmare tutti i suoi dubbi.

Aveva anche trovato il luogo dov'era nascosta la targa, forse. Cos'altro sarebbe successo nei prossimi giorni?

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Capitolo 6
*** Agenti White e Moore ***


05.Agenti White e Moore

Agenti White e Moore

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Capitolo scritto da ChaBlackCat

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Era un'altra giornata soleggiata a Maple Town. Nell'ora della siesta, si sentivano vociare solo gli uccellini, da tempo volati oltre la protezione dei rami dei loro alberi, spinti alla scoperta della città e dei suoi curiosi abitanti.
L'agente White chiuse la porta del comando di polizia locale, dando un solo giro di chiave alla vecchia serratura. Era convinto, sin dal primo giorno che si era trasferito lì dalla California, che quella toppa non avrebbe retto ancora per molto. Ma si sbagliava, era lì da tempo e ancora non si era bloccata. Loris White trovava anche abbastanza inutile chiudere a chiave qualcosa in quella cittadina, si conoscevano tutti e tutti erano amici, tuttavia lui era ancora legato alle abitudini che aveva a Los Angeles. Nemmeno vivere a San Simeon, ultima residenza dell'uomo, nonché luogo anche più tranquillo di Maple Town, era servito per rilassarsi e fidarsi di più del prossimo. Ne aveva viste troppe in vita sua.
Quella mattina comunque, l'agente White aveva ricevuto una visita inaspettata: un forestiero di nome Jason Druvè. Aveva detto di essere un reporter e che stava seguendo il caso della targa ricomparsa. Certo che era strano. Come aveva fatto un reporter di Portland a sapere della targa? E che interesse poteva trarne? Un articolo? Sembrava banale e inutile. Un libro forse; se uno sa ricamarci sopra, sicuramente ogni storia è quella buona. Stava di fatto che il tizio aveva posto un sacco di domande sulla targa e su chi l'aveva ritrovata. La cosa strana era stata che aveva nominato Patty e nessuno in città sapeva che era stata Patience a portare la targa al comando. Aveva anche altre domande da fare, ma Loris White gli aveva detto di parlare con il sindaco perché lui viveva lì da troppo poco tempo per poter raccontare qualsiasi cosa.

White continuò a camminare, immerso nei suoi pensieri, nell'intento di raggiungere casa sua per pranzo. La piccola villetta dell'agente si trovava dall'altro lato del centro città, a pochi minuti a piedi dal suo lavoro. Passeggiando vide da lontano Rupert Rootweet chiudere la porta della sua attività. Con lui c'era una ragazzina dai capelli castani che l'agente non aveva mai visto.
«È Nora, la nipote di Rupert!»
Loris White trasalì. Voltandosi vide Patty accanto a lui. Forse non l'aveva sentita arrivare perché non portava a spasso il suo solito, ridicolo carrellino.
«Miss Stealer, mi ha fatto spaventare.»
«Sembra strano che un burbero come Rupert possa avere parenti» aggiunse Patty, senza badare alle parole dell'uomo.
«Non saprei...»
«È la figlia del fratello a quanto dicono» continuò la donna. «È arrivata da poco in pullman. Cosa ci fa qui? E chi lo sa. Direi che è sospetto però.» Sembrava parlare tra sé e sé.
«Cos'è sospetto... esattamente?» chiese White curioso di sapere quali bizzarre idee si fosse messa in testa la pettegola di Maple Town.
«Ancora non lo so» concluse lei stringendo gli occhi come se fosse uno di quei segugi dei cartoni animati.
White sorrise.
«Miss Stealer...» cominciò l'agente.
«Patty!»
«Cosa?»
«Chiamami 'Patty'»
«Va bene, Patty... lei conosce un certo Jason Druvè?» L'agente andò al punto.
«Jason, certo! È il nipote di Jo Druvè.» Poi la donna prese il braccio dell'agente e si guardò intorno come per controllare che nessuno la stesse osservando e che nemmeno gli uccellini potessero sentirla. «Josephine ha sposato uno di SapVille, all'epoca, e si è trasferita lì. Ora abita a Miami, ma qui nessuno lo ha scordato.»
Loris White avrebbe voluto dirle che secondo lui non importava a nessuno, ma non ne era certo. La rivalità con SapVille non era certo cosa dimenticata e quella targa ricomparsa aveva riportato alla luce vecchi rancori. Forse Patience intendeva proprio quello.
«Come mai, secondo lei, questo ragazzo è venuto qui?» chiese poi l'uomo, deciso a sfruttare la lingua lunga della donna.
«Jason è qui?» Patty aveva portato entrambe le mani davanti alla bocca.
«Sì!»
Udito ciò, Patience Stealer si voltò e andò via a passo svelto. Loris pensò che avrebbe usato il nome di Jason Druvè ogni volta che avrebbe voluto liberarsi della donna, ma non si aspettava certo che Patty non sapesse qualcosa.
L'agente White tornò a camminare, ancor più pensieroso. Cosa aveva messo Patty in fuga? Come mai tutti quei visitatori proprio in quel periodo? Doveva essere una casualità. Poi, passando davanti a una villetta dal giardino fiorito, scorse qualcuno che lo spiava dalla finestra. Appena White si fermò per guardarla, la donna, sicuramente Susan Price, si stava nascondendo dietro le tendine di pizzo.
«Buon pomeriggio signora Price» strillò l'agente, divertito, alzando una mano in segno di saluto. La donna tuttavia, si stava comportando in modo strano. Susan non era certo una donna timida. Era solita preparare torte per ogni occasione e molto spesso decideva di venderle al solo scopo di raccogliere fondi per la scuola, per curare i giardini cittadini e cose simili.
In quel momento l'uomo fu distratto da un rombo.
Due uomini in sella a una moto stavano solcando la desolata strada principale, diretti a nord. Fu a quel punto che l'agente sentì la serratura della porta di casa di Susan Price scattare. La donna uscì di casa e trotterellò per il vialetto, verso di lui.
«Quello chi è?» chiese Susan all'agente che stava ancora seguendo la moto con lo sguardo e trasalì per la seconda volta in un giorno.
«Signora Price!»
«Lei lo sa chi è quello con Aaron?»
«Aaron... il meccanico? Ah, mi pareva che fosse lui!»
«Lo so chi è Aaron Myers, non so chi sia il giovane con lui» brontolò lei.
«Io... non esattamente.» L'agente White sospettava che l'uomo insieme al giovane meccanico fosse proprio il reporter che si era presentato a lui quella mattina, ma non disse nulla alla donna. Aveva come l'impressione che da lei avrebbe saputo altro.
«Io so solo che un giovane aspettava Aaron sui gradini di casa ieri» confessò Susan.
«Forse un vecchio amico?»
«Sicuramente un forestiero» azzardò lei.
«Forse!»
«Agente White... ma a lei non sembra strano che ci siano così tanti visitatori, proprio in questo periodo? Dopo la scoperta del ritrovamento della targa?»
«Assolutamente, signora Price. È sicuramente un caso, non si preoccupi.»
La donna però, dopo un breve saluto, rientrò in casa borbottando e l'agente cominciò a pensare che i pettegolezzi non si sbagliassero. Il fatto che un giornalista arrivasse fin lì solo per una targa, era curioso. Ma forse era amico di Aaron Myers e aveva unito l'utile a una visita piacevole. Quello che White non capiva, era perché le donne, la Price e la Stealer, facessero riferimento anche alla nipote di Rupert, l'antiquario, per instillare il sospetto di una situazione curiosa. Da quando una nipote in visita era una cosa strana?
White riprese a camminare. Lo stomaco aveva cominciato a brontolare dalla fame, così accelerò il passo verso casa, quando un trillo, seguito da una vibrazione nel taschino della camicia della divisa, lo fece fermare e sbuffare. L'uomo prese il cellulare dalla tasca, il numero era del collega. L'agente guardò lo schermo lampeggiante, esitando. Temeva che non sarebbe mai arrivato a casa per pranzo quel giorno.
«Non risponde?»
Dietro l'uomo si era materializzata una donna, non molto alta, sulla settantina. Appesa al braccio aveva una borsa di vimini aperta dal quale sbucavano dei gomitoli di lana e tre ferri per il lavoro a maglia.
«Signora Carter!» Il telefono, intanto, continuava a suonare.
«Risponda!» insisté lei.
White decise di darle retta, ma si allontanò di un paio di passi per rispondere.
«White!»
«Agente White, sono Moore.»
«Lo so, mi appare il tuo numero sullo schermo, dimmi!»
Benjamin Moore era figlio di Alicia e John Moore. Erano due cittadini modello, specialmente Alicia. Erano il tipo di persone che pagavano le bollette in anticipo, non parcheggiavano mai fuori posto e portavano in strada la spazzatura sempre all'ora esatta. Lei era una casalinga. Teneva il giardino in modo impeccabile e i suoi fiori profumavano tutta la via di casa sua. Quando in paese si organizzava una festa, lei era sempre la prima ad aiutare. Il figlio, Benjamin Moore, era stato spinto dalla madre a fare l'agente in polizia e, dopo una breve gavetta fuori città, aveva fatto richiesta per tornare a Maple Town. Era un bravo ragazzo, forse un po' tonto, ma sempre buono e corretto.
«White, stavo passando per la statale in auto con mia madre, e mamma ha notato un  auto parcheggiata male.» L'agente White alzò gli occhi al cielo.
«Ben, goditi il giorno libero...»
«Sì, ma... Io e mamma ci siamo fermati perché la macchina era a lato della strada e lì intorno non ci sono case, sa, è al confine con SapVille.»
«Continua pure.» White fece un cenno alla signora Carter per congedarsi, lasciandola sul marciapiede a osservarlo andare via. Le diede le spalle e andò verso casa.
«E quindi abbiamo accostato e siamo scesi entrambi perché temevano che qualche poverino si fosse sentito male. Solo che non c'era nessuno e, peggio, abbiamo notato che nel campo, non distante, è stata scavata una buca» concluse Benjamin.
«Ben, vieni al punto perché sto per arrivare a casa e ho fame.»
«Mamma ha chiamato Charlotte della panetteria e lei le ha detto che Emma Carter le ha detto che al parco ha incontrato Susan Price...»
«Moore, arriva al punto!»
«Gira un forestiero in città» parlò finalmente.
«Va bene, va bene. Senti dammi mezz'ora, poi vieni a prendermi a casa. So chi è il forestiero e forse so anche dov'è adesso.»
«E la buca?»
«Gli chiediamo anche della buca, ma prima fammi mangiare.»
Attaccò.

Dopo pranzo la macchina di Ben Moore si fermò davanti a casa dell'agente White. Loris White salì in auto.
«Salve, mangiato bene?»
«No, comunque... Andiamo dal meccanico, Aaron Myers.»
«Perché?» chiese Moore.
«Qualcosa mi dice che troveremo lì il forestiero.»
«Intuito?» Benjamin Moore era rapito dalla bravura di White, ma quest'ultimo sorrise.
«Ben, li ho visti passare in moto, insieme.» Risero entrambi e si diressero all'officina Myers.

«Aaron!»
Il ragazzone dai capelli biondi, un po' sporchi di grasso, uscì da sotto un'auto: era sdraiato su un carrellino da meccanico.
«Ben, agente White, che piacere! Cosa vi porta qui?»
«Stiamo cercando un uomo, un reporter di Providence di nome Jason Druvè. È qui da te?»
Aaron guardò entrambi cambiando espressione. Il sorriso con il quale li aveva accolti si incurvò e il suo sguardo diventò serio.
«Sì» sospirò.
Riluttante, Aaron disse loro che Jason era un vecchio amico e che l'avrebbero trovato a casa sua. Avevano intenzione di andare a prendere la macchina entro il giorno dopo per portarla da lui, in officina.
«Allora, se non è un problema, andiamo a casa tua a parlare con lui» lo informò White.
«Cosa volete sapere?» chiese Aaron sospettoso.
«Solo della sua auto» rispose secco White che non capiva perché il ragazzo fosse tanto curioso e protettivo. «Noi andiamo, grazie mille.»
I due andarono a casa di Aaron Mayers, provarono a suonare ma non rispose nessuno. Suonarono ancora, poi, mentre Moore stava tirando fuori il cellulare, White girò attorno alla casa.
«Ben!» White chiamò il collega sottovoce e gli fece segno di raggiungerlo. Entrambi si accostarono alla porta sul retro e White provò a girare la maniglia, l'uscio si aprì.
«C'è nessuno?» urlò White.
«Jason Druvè... è in casa? Ci ha detto il suo amico Aaron che l'avremmo trovata qui» aggiunse Roger.
Nessuno rispose. I due agenti fecero pochi passi all'interno della casa, nella cucina, e dal passaggio che portava in salotto videro un paio di gambe per terra. Corsero verso il corpo dell'uomo disteso sul pavimento. Era Jason Druvè. White si inginocchiò accanto all'uomo e, mentre Moore si guardava intorno, l'agente più adulto sentì il polso dell'uomo.
«È vivo! Ben, perlustra la casa, magari chi lo ha ridotto così è ancora qui.»
White slacciò il fodero della pistola, prese il cellulare e chiamò l'ambulanza. Sentì Moore perlustrare il piano superiore e quando posò ancora lo sguardo su Druvè, questo stava pian piano riaprendo gli occhi.
«Jason Druvè?»
«Cosa... Cosa è successo?» Druvè cercò di alzarsi, ma portò d'istinto una mano alla testa soffrendo visibilmente.
«Sente dolore?»
«La testa» biascicò.
«Stia giù, abbiamo chiamato l'ambulanza.»
Moore tornò al piano inferiore.
«Non c'è nessuno» annunciò.

Quando arrivò l'ambulanza, Aaron Myers era appena tornato a casa, chiamato da Ben.
«Jason, cos'è successo?» Il giovane Mayers era seriamente preoccupato.
«Non lo so. Ho sentito qualcuno entrare dalla cucina, dalla porta sul retro. Credevo fossi tu e ho salutato, ma mi stavo dirigendo in bagno e non ho visto chi fosse, finché non ho sentito un dolore lancinante alla testa e mi sono svegliato poco fa, a terra.
«Quindi lei non ha visto l'aggressore?»
«No, mi spiace. Ma voi come mai siete venuti qui?» chiese Jason.
«Volevamo chiederle se la macchina abbandonata vicino al vecchio ponte fosse sua.»
«È mia! Non si accende più.»
«E come mai era lì?» domandò White.
Aaron e Jason si guardarono, poi Jason alzò le spalle.
«Agente, lei sa che io sto scrivendo un articolo per il giornale di Portland. Ero lì per vedere il vecchio ponte che collegava le due città e ho notato quel buco. Ho pensato che la targa potesse essere stata ritrovata lì e secondo me ha senso se è stato qualcuno di SapVille a rubarla.»
«Ho chiamato il giornale di Providence, questa mattina, appena ci siamo salutati. Lei non lavora per quel giornale.» White era serio e gli occhi di Aaron erano spalancati, lo sguardo diretto all'amico.
«Jason... È vero?»
Jason guardò Aaron, poi abbassò gli occhi e alzò le spalle.
«L'articolo voglio scriverlo, è la verità, ma volevo poi proporlo a qualche giornale. Sono freelance adesso, ho perso il lavoro... Aaron, te lo avrei detto.»

White e Moore uscirono dalla casa.
«Ben, chi ha dato una botta in testa a quel ragazzo lo ha fatto perché sta investigando sul ritrovamento della targa. Il fatto che questo Jason abbia intuito che quella buca contenesse la targa rubata, ci fa pensare che forse ha ragione.»
«Ma sia lei che io sappiamo che è stata Patience Stealer a portarci la targa e...»
«Non credo che la Staler sia andata fin lì, né che abbia scavato buche.» White si guardava intorno. Non c'erano curiosi in strada, eppure sapeva che gli abitanti di Maple Town, nascosti dietro le tendine delle loro finestre, sapevano già tutto.
«Ma forse chi ha fatto trovare la targa a Patty, l'ha trovata lì.»
«Sì, e sapeva che la Stealer ha la lingua lunga. Magari sa anche chi l'ha rubata all'epoca e dove l'avrebbe trovata» tentò White. «Ben, chiama il sindaco.»

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Capitolo 7
*** Emma Carter ***


Emma Carter

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 Capitolo scritto da AnthophoraMannara 

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Il parco di Maple Town era il punto focale del paese. Da questo, scegliendo con cura le panchine, si poteva osservare il viavai dei paesani.

Emma, Patience, Susan, Meredith, ognuna di loro aveva il proprio angolo preferito.

Quello di Emma era davanti l'area  giochi per bambini. Aveva avuto un solo figlio e un solo nipote, però aveva aiutato a far nascere tanti bambini e da sempre vederli giocare la rasserenava.

Sedette su una delle panchine sotto i pini e sistemò la sua borsa col lavoro a maglia da un lato per poterlo continuare. I ferri, nelle mani di Emma, annodavano, snodavano, intrecciavano, ticchettavano; i pochi centimetri di manica divennero presto diverse decine. Mentre le mani lavoravano senza sosta, gli occhi di Emma si fermarono sull'uscio del negozio di Rupert: lui era impegnato in una discussione con Nora, sua nipote e ospite. Nella memoria confusa di Emma quella ragazza si chiamava Ann e la scena a cui credette di assistere era invece un ricordo di diversi decenni prima con protagonisti altre persone.

Presa dalle sue fantasticherie, Emma non si accorse che  Meredith  si  era seduta accanto a lei, fino a che le piccole manine della nuova venuta non la scossero chiedendole: «Visto? Una nipote segreta. Chissà cos'altro nasconde».

A quel punto Emma tornò alla realtà coi sensi, ma non con la memoria, e stava per rispondere alla sua interlocutrice, quando vide Susan uscire dalla panetteria e, distraendosi,  le fece un cenno di saluto e un sorriso. La settantacinquenne non la vide, ci pensò Meredith a richiamare la sua attenzione.

«Susan!» urlò, e l'altra si voltò sistemandosi gli occhiali. Non riconobbe la voce che la stava chiamando, ma la raggiunse ugualmente.

Susan avvicinandosi e riconoscendo le due donne anticipò la conversazione.«Ho appena parlato con Charlotte che ha sentito Alicia che ha sentito il figlio parlare con White...»

Emma a sentire nominare Benjamin si intromise per dire: «Quel bravo ragazzo, sempre così disponibile».

Meredith posò una mano sul braccio di Emma per farla tacere e incitò Susan a continuare facendole un segno con il mento.

Così Susan proseguì: «Beh! Ricordate quel ragazzo che vedemmo la volta scorsa?»

Meredith annuì impaziente ed Emma lo fece poco convinta, comunque Susan continuò: «É un giornalista, amico  di Aaron!»

Detto questo la donna si rialzò gli occhiali sul naso a mascella tesa, visibilmente contrariata.

Meredith, strinse il braccio di Emma e spalancò la bocca.

Emma lasciò uno dei ferri per liberarsi della presa di Meredith e, tornando definitivamente nella sua epoca, chiese: «Susan, io non ho capito, anche mia nuora è giornalista».

«Emma! Quello vuole rubare le ricette!» concluse l'altra, spazientita.

A questa inconfutabile verità Meredith aggiunse: «Ecco spiegato tutto!»

«Spiegato cosa?» Un giovanotto in skate, che le tre donne conoscevano bene, si avvicinò al gruppetto, sorrise a tutte e si sistemò davanti a Emma dandole un bacio sulla guancia. «Nonna oggi vengo io a casa con te, papà è in ritardo.»

Le mani di Emma creavano trecce variopinte mentre le chiacchiere continuavano anche in presenza del curioso nipote.

«Un giornalista vuole rubare la ricetta segreta di Susan» concluse Emma seria, prima di cambiare completamente espressione e rivolgendosi al giovane. «Sean come mai non sei a scuola?» gli chiese.

«Avevamo uno dei test per scegliere il college, hanno annullato le lezioni del pomeriggio.»

Emma, rivolta alle amiche aggiunse con orgoglio: «Sean vuole diventare avvocato».

Le altre due fecero gesti di approvazione e Susan convenne: «Serve sempre un avvocato in famiglia»

«Due settimane fa non volevi diventare poliziotto per aiutare a cercare la targa? Un mese fa, invece, volevi arruolarti nei marines se non ricordo male...» chiese Meredith ricordando le parole del giovane.

Posando entrambe le mani e  tenendo il lavoro a maglia in grembo, Emma si rivolse  a Meredith, ferma: «Sean vuole diventare  utile per la comunità. Quando gli ho raccontato della targa, Sean ha subito capito che una situazione simile avrebbe avuto bisogno di buoni avvocati».

Con un gesto frettoloso Meredith osservò: «Sì, sì. Per la gara di ricette vorrai diventare chef?»

Ma il ragazzo aveva smesso di seguire le donne, rapito dalla presenza di una ragazza mai vista prima che, dall'uscio del negozio di antichità, gesticolava animatamente con qualcuno all'interno.

«Sean?» Le piccole manine di Meredith lo colpirono ripetutamente sulla spalla a lei più vicina. Poi, voltando lo sguardo verso quello di lui, capì e lo aggiornò: «Lei è Nora. Pare sia una nipote segreta di Rupert».

Il ragazzo divenne rosso, essendo stato scoperto, così si affrettò a chiarire: «No, ma... Solo, ecco. Non è che capitano spesso nuovi adolescenti in città». Sean si passò una mano tra i capelli.

Emma guardò il nipote che le ricordava così tanto il marito, e sospirò.

Per distogliere l'attenzione su di sé, Sean alimentò la discussione che negli ultimi giorni animava gli animi dei cittadini di Maple Town: la gara di ricette a base di sciroppo d'acero.

«Gara di ricette! Giusto: Susan, hai scelto la tua per la gara? Meredith, partecipi? Ricordo che al barbecue di primavera dai Moore portasti un pasticcio davvero delizioso. Nonna, per questa edizione posso aiutarti anche io, per il giornalino della scuola abbiamo intervistato i cuochi noti della regione.»

Tra una chiacchiera e l'altra arrivò l'ora di tornare a casa: il ragazzo raccolse lo skate, tenendolo sotto un braccio, ed Emma ripose il suo lavoro nella borsa e se la mise a tracolla, aggrappandosi al braccio del nipote. Per strada Emma si perse confondendo i ricordi con la realtà. «Vedi dovremmo uscire più spesso, dovremmo tornare in crociera.»

Il ragazzo sorrise e decise di non correggere la memoria della nonna, non era la prima volta che lo confondeva col nonno.

Attraversando la strada buttò l'occhio verso le vetrine del negozio di Rupert, ma la ragazza non era più sulla porta.

Emma era in grado di vivere sola, girava sola per la città e gestiva la casa in autonomia, ma da quando gli episodi di confusione nella sua mente erano diventati più numerosi, figlio e nipote cercavano di passare quanto più tempo con lei.

Avendo lavorato per oltre quarant'anni in ospedale, avendo visto nascere mezza Maple Town e Sapville,  aveva sempre molti aneddoti divertenti sui suoi abitanti in fasce. Nei mesi, padre e figlio, si erano accorti che la memoria di Emma a volte  confondeva eventi presenti con altri passati, che loro non conoscevano, probabilmente risalenti a quando lei era bambina.

In casa Carter il pranzo veniva servito alle dodici e trenta, chiunque era il benvenuto a tavola, purché fosse puntuale, quindi quel giorno erano Sean ed Emma seduti a tavola. «Nonna, vuoi che la cerchiamo oggi una ricetta per la gara? Pensavo a quelle  polpette di salmone con lo sciroppo d'acero, le hai fatte per il compleanno del papà, ricordi gli ingredienti?» Questi erano i test che Sean aveva trovato su internet per rallentare la perdita di memoria della nonna e ogni giorno tirava fuori un ricordo. Avevano il valore scientifico di qualsiasi altra cosa trovata sul web, ma era comunque un pensiero carino.

«Ah! Quella ricetta... Era di mia nonna, dovrei cercare nel suo ricettario.» Così dicendo Emma, non ancora arrivata a fine pasto, si diresse all'antica credenza, che come tutto il suo soggiorno era appartenuta ai Benson, nome da nubile di Emma, fin dal 1790. Aprì le ante: il vetro non era mai stato sostituito e presentava imperfezioni ma anche il tipico bordo smussato dei vecchi mobili. Sul ripiano più basso vi erano quaderni, libri, album fotografici e il ricettario, dal quale spuntavano diversi foglietti come segnalibro.

«Eccolo. Vediamo un po'» disse iniziando a sfogliare.

Il campanile suonò la una del pomeriggio, nonna e nipote si avvicinarono alla finestra confusi dallo sfrecciare dell'auto di servizio dell'ispettore White, che videro girare l'angolo verso la parte sud di Maple Town.

Spostandosi fecero cadere due foto dal ricettario.

Immagini antiche, ingiallite, di quelle in cui il nero era divenuto viola e stropicciate ai bordi. Una raffigurava una torta di compleanno con due candeline e una donna, dietro questa teneva in braccio una bambina; erano entrambe sorridenti, le loro figure coprivano in parte una mensola di bottiglie di vetro piene. Una didascalia scritta a mano su un angolo riportava: Maple Town 1945, buon compleanno Emma.

L'altra foto riprendeva lo stesso angolo, ma le figure non erano centrate, la donna aveva la testa rivolta da un lato e ne era rimasta immortalata la sola nuca, la bambina tra le sue braccia aveva la smorfia del pianto mentre le braccine creavano scie confuse: segno che si era mossa durante lo scatto.

Della torta era rimasto nell'inquadratura solo il bordo. Lo scaffale sullo sfondo si vedeva per intero ma storto e le bottiglie erano più numerose, quella all'estremità opposta alla donna, era l'unica completa di etichetta e si leggeva chiaramente "Sciroppo d'acero 5-5-1885" e sul tappo un pezzo di stoffa tenuto da uno spago.

Le figure finite sul lato della scena lasciavano libera la visuale del muro sotto lo scaffale, dietro il tavolo con la torta, tra ceste di vimini e ceppi di legno, appoggiata a terra, senza alcuna copertura: la targa in bronzo della 'gara dello sciroppo d'acero della contea'.

Lo scompiglio delle auto sulla strada durò pochi secondi. La porta della veranda si aprì, l'aria spostò quest'ultima foto sotto il divano e la prima nel centro della stanza. Il padre di Sean entrò trafelato e affamato, dopo aver lasciato le scarpe nella veranda, poi salutò la madre con un bacio sulla guancia e  notò la foto con la didascalia caduta a terra.

"Ti è caduta questa!" disse, appoggiando la foto sul tavolo e dirigendosi verso il bagno.

Quando aprì la porta lo spostamento d'aria fece scivolare nuovamente l'altra fotografia fuori dal suo nascondiglio e la fece ondeggiare verso la veranda e poi via, grazie a un altro soffio di vento, fuori dall'uscio rimasto aperto.

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Capitolo 8
*** Le diavolesse ***


Le diavolesse

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 (capitolo scritto da me, ma se volete curiosare il mio profilo su wattpad, è questo qui)

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L'anziana donna percorse il corridoio dell'ospedale fino all'uscita. Sbirciò fuori e valutò il tempo: era sereno. Piegò il cappotto e lo appoggiò sul braccio mentre usciva sul viale alberato.

Mentre la gonna le batteva contro i polpacci guardò di nuovo il cielo: mancava dalla contea da tre anni e tutte le volte si stupiva di quanto facesse caldo. Era sempre convinta di trovare temperature rigide anche in piena primavera, invece la sua vecchia cittadina natale la stupiva tutte le volte.

Sospirò e si passò una mano sulla camicetta bianca per distendere eventuali pieghe e sospirò soddisfatta: Jason stava bene. Era stato aggredito due giorni prima a casa di Aaron Myers e ora si trovava ancora in ospedale, ma più per precauzione che per reale necessità.

Con passo veloce percorse tutto il viale fino ad arrivare all'inizio del paese ma, invece di passare attraverso il centro, dove la vita di Maple Town era più frenetica e decise di passare dalle strade secondarie. Prima di far sapere a tutto il paese che fosse tornata aveva bisogno di parlare con Patience.

Quando Patience le aveva telefonato, due giorni prima, dicendo che Jason era stato aggredito, si era spaventata tantissimo: lei lo aveva mandato a Maple Town per l'articolo sulla targa e lo aveva messo nei guai.

Quando era scesa dall'aereo, tre ore prima, aveva preso un taxi velocemente e si era fatta portare in ospedale subito, per assicurarsi delle condizioni del nipote. Jason per fortuna stava bene, ma quello che gli era successo non era da sottovalutare. L'unica cosa che la tranquillizzava in quella storia era che la targa non c'entrava niente.

Girò a sinistra, lungo un sentiero ormai poco battuto, attraversò un prato e aprì il cancelletto di una staccionata vecchio stile, di quelle che non si vedevano quasi più. Con pochi passi raggiunse la porta della cucina e bussò guardandosi intorno.

Quando la porta si aprì, la donna dall'altra parte sorrise e sospirò insieme. «Jo!» Josephine Druvé, nata Stealer, sorrise alla cugina. «Patty, come stai?»

Le due donne si abbracciarono e Jo entrò in casa. «Come sta Jason?»

«Sta bene. Non so come ringraziarti: mio figlio e sua moglie non sapevano niente. Non l'ho detto neanche ad Arthur, pensa che sia uno dei soliti viaggi per venire a trovarti...»

Patty alzò le spalle, per mitigare la cosa, anche se effettivamente capiva perché non avesse raccontato alla sua famiglia cosa fosse successo. «Figurati se non ti avvisavo! Gira voce che Jason sia stato aggredito a causa della storia della targa e... Ma come ha fatto a sapere della targa?»

Jo si sedette e sistemò cappotto e borsetta sulla sedia accanto a sé, nel piccolo salottino, prima di guardarsi intorno: il vecchio divano verde militare, di quel tessuto orrendo e consumato, era ancora lì, mentre il tavolo da pranzo doveva essere nuovo, perché era quadrato, mentre l'ultima volta che era stata lì, Patty aveva un tavolo rotondo, di quelli vecchi. Le foto alle pareti mostravano il paese negli anni passati e i pazienti che la donna aveva avuto nel corso della sua vita: Patty lavorava come infermiera nell'ospedale di Maple Town e tutti se la ricordavano per la sua disponibilità e gentilezza. La carta da parati, invece, era ancora quella di sempre. Per fortuna le tende erano graziose e non rovinate.

«Gliel'ho detto io» rispose Jo, dopo aver controllato anche tutto il resto del mobilio: mobili vecchi e antichi. Stava per sgridare la cugina per non fare mai cambiamenti, quando sulla mensola del camino vide una vecchia foto di famiglia e non ebbe cuore di rimproverarla. A volte le cose vecchie portano serenità nella vita delle persone.

«Perché glielo hai detto?» La voce di Patty si fece stridula e incredula.

«Aveva bisogno di una scusa per tornare qui. Dio solo sa se quel ragazzo ha bisogno di spintarelle!»

«Perché?» Patty si alzò e andò in cucina e mise sul fuoco il bollitore, prima di tornare in salotto e sedersi accanto all'amica.

«È innamorato di Aaron, ma da quando si sono lasciati non aveva fatto niente per provare a riprenderselo. Quando si tratta di lavoro riesce a smuovere mari e monti, quando invece è la sua vita privata...» Jo sospirò ancora, passandosi una mano sul viso.

«Oh, è vero. Lui è uno di quelli... a cui piacciono... piacciono... sì, i meccanici!» esclamò Patty, ingarbugliando le parole: non riusciva a dire 'omossessuale', anche se non aveva nessun pregiudizio nei loro confronti.

Jo rise divertita e la tensione che l'aveva tenuta in ansia per due giorni lentamente scivolò via lungo la schiena. «Già, i meccanici!»

«Comunque è stato aggredito... È una cosa seria, dannazione! Forse non dovevamo portare la targa...»

Patty si alzò quando il bollitore fischiò e si interruppe. L'amica la seguì in cucina, aprendo uno sportello e tirando fuori due tazze. «Non è stato aggredito per via della targa.»

«No?» La donna, che stava versando il liquido bollente nella teiera, alzò di scatto la testa e l'acqua inondò il piano della cucina. Doveva essere molto agitata.

«Patty, siediti, lo faccio io: sei troppo agitata.» Patty non riuscì a negare e non disse niente, osservò Jo pulire il ripiano e versare il tè nelle tazze. Quando Jo portò in salotto il vassoio con le tazze, lo zucchero e la teiera, la seguì.

«Ho parlato con l'agente White: ha indagato su Jason già da quando è arrivato qui e ha scoperto che ha perso il posto presso Providence perché ha pestato i piedi a un imprenditore locale che ha molto potere. Pensano che sia stato un avvertimento o qualcosa del genere, comunque seguiranno prima quella pista. Ti dirò: pensavo che la notizia della targa lo avrebbe portato qui come scusa per vedere il meccanico, ma non pensavo ci volesse davvero fare un articolo...»

Patty sospirò e mescolò troppo zucchero nel suo tè. Il cucchiaino continuava a tintinnare contro la ceramica bianca della tazza che era appartenuta a sua nonna. «Ho sentito dire che ha trovato una buca e che ha detto in giro che la cassa con la targa sia stata trovata lì.»

Jo ridacchiò. «Già. Sul confine fra Maple e Sap. Se sapessero dove è stata veramente la targa fino all'altro giorno!» Anche Patty rise e si coprì la bocca con la mano, come se si vergognasse.

«Abbiamo fatto un bel casino, eh?» esclamò la padrona di casa, una volta calmata.

«Eh, sì. Ma ti ricordi cosa dicevano di noi? 'Le tre diavolesse' ci chiamavano!»

«Ti ricordi quella volta che il ciabattino aveva avuto da dire perché avevamo accorciato le nostre gonne? Era uscito dal negozio, ci aveva gridato contro e tu sei andata là vicino dicendo che da uno che tradiva la moglie non accettavi prediche! »

«Già, quell'essere viscido... Però poi Emma ha avuto l'idea di cospargergli la macchina di sapone liquido mentre era appartato con la segretaria, ti ricordi? Non ha più detto niente, dopo! »

Tutte e due le donne risero e poi sospirarono, raccontando altri aneddoti e quando una lacrima scese sulla guancia di Patty anche Jo non riuscì più a trattenersi. «Non è giusto...» disse la padrona di casa, guardando fuori dalla finestra, una volta asciugate tutte le lacrime.

«No, Patty, non lo è. Ma è la vita...» Patty annuì.

«Lei... Non mi riconosce sempre... Ieri mi ha chiamato Jenny.»

«Jenny? Come la Jenny che...»

«Sì, penso che mi abbia scambiato per la moglie del vecchio panettiere che aveva il forno nel '69.»

Sospirò e anche l'amica la imitò. «Abbiamo fatto bene?» chiese Patty dopo un po', timorosa di non aver agito nel giusto.

«Certo che abbiamo fatto bene! Ora che in casa sua bazzicano il figlio e il nipote, lei avrebbe potuto lasciarsi scappare qualcosa e loro l'avrebbero potuta trovare. Non è di certo colpa sua se quella squinternata di Harriet la pazza era una sua parente e ha rubato la targa alla gara della contea!»

Patty annuì ancora. Si sentiva come quei cani sul lunotto posteriore delle auto: riusciva solo a muovere la testa su e giù. Per fortuna che Jo sapeva sempre cosa fare. Patty l'aveva chiamata quando la loro amica aveva iniziato ad avere problemi di memoria, preoccupata che la cosa potesse venire a conoscenza di tutti.

«Andiamo da lei» disse Jo, una volta che ebbero sparecchiato.

Le due donne passeggiarono per le vecchie vie di Maple Town, lasciando che i ricordi e le novità della città, riempissero i loro discorsi.

«Chi è quella ragazza?» chiese Jo quando passarono davanti al negozio di Rupert l'antiquario, notando una nuova commessa.

«È sua nipote. È arrivata da poco, nessuno sapeva chi fosse. Non è male ma un po' schiva. Deve aver preso da suo zio, ma almeno è educata.»

Quando arrivarono alla casetta arancione che conoscevano così bene, fu Patty a bussare alla porta.

«Miss Stealer! Che piacere!» la salutò Sean, guardando con curiosità Jo, di cui non si ricordava. Il ragazzo doveva essere veramente felice di vederla, a giudicare dal suo tono di voce. Patty fece le presentazioni e i due si strinsero la mano.

«Jo, Josephine Druvè, certo. Nonna mi ha raccontato un sacco di cose su voi tre! Com'è che vi chiamavano? Le tre... Le tre...» Il ragazzo rise e Patty scambiò uno sguardo preoccupato con Jo: cosa aveva saputo Sean?

«Davvero?» lo interruppe Jo.

«Sì, praticamente parla più spesso della sua gioventù che di quello che è successo la settimana scorsa...» disse il ragazzo un po' sconsolato.

«Se vuoi, rimaniamo noi a farle compagnia per un po'...»

Il volto del ragazzo si illuminò: Jo pensò che effettivamente alla sua età avrebbe preferito passare il pomeriggio diversamente che accudire la vecchia nonna. Ma poi Sean sospirò. «Ho promesso a mio padre che...»

«Oh, noi non racconteremo niente a tuo padre!» Sean guardò le due donne un po' dubbioso: volevano liberarsi di lui? E perché? Ancora indeciso, sentì il suo cellulare vibrare. Lo tirò fuori dalla tasca e vide un sms da parte di Nora. Non si fece scappare l'occasione, afferrò la giacca leggera sull'appendiabiti dell'ingresso e chiese un'ultima volta: «Siete sicure?»

«Vai, vai. Hai una bella ragazza che ti aspetta da qualche parte?» Il ragazzo divenne rosso sulle guance e balbettò una risposta. Patty fu contentissima della cosa, praticamente spinse il ragazzo fuori casa e, una volta chiusa la porta, si avviarono verso il salotto di Emma: conoscevano quella casa a memoria, loro erano cresciute con Emma e lei aveva sempre vissuto lì.

«Jo! Patty!» le salutò la donna, con i lunghi capelli raccolti sulla nuca, seduta in poltrona: una lunga veste da casa indosso e ai piedi un cestino per fare la maglia. Le due donne sorrisero contente quando le riconobbe, ma il loro sorriso sparì quando disse ancora: «Non sapete cosa ho trovato in soffitta! Vi do un indizio: è una cosa che cercano dal 1885!»

 

***

 

Sean entrò in pasticceria e adocchiò subito il tavolo dove era seduta Nora. Si avvicinò e le sorrise, prima di sedersi. «Ciao!»

La ragazza lo guardò con un'occhiata sospettosa e chiese: «Perché tutta questa fretta?»

Lui si sedette, togliendosi la giacca e si sporse verso Nora sul tavolo. «Non sai cosa ho appena saputo da mia nonna...»

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Capitolo 9
*** Candice e Tom Smith ***


Cap. 8 - Candice e Tom Smith

 Capitolo scritto da Viviarmy89 

Un altro giorno era iniziato e i primi raggi di sole illuminavano le vie di Maple Town.

Tom Smith, un omone di un metro e novanta dai folti capelli biondi e occhi azzurri, si era svegliato presto, come ogni mattina e dopo essersi lavato accuratamente il viso e averlo asciugato, scese le scale e si diresse in cucina per preparare il caffè al ginseng per la sua dolce metà.

Per Tom era ormai un'abitudine a cui non poteva rinunciare.

Adorava prendersi cura di Candice, coccolarla e viziarla, soprattutto dopo aver rischiato di perderla per sempre.

Si erano conosciuti quando erano solo dei bambini ma tra loro era scattata subito la simpatia reciproca che con il tempo divenne feeling, che sbocciò in quello che si definirebbe "il vero amore".

Si reincontrarono  all'università di Yale, dove studiavano rispettivamente legge e arte, decisero di finire gli studi per poi tornare a Maple Town e realizzare il sogno che entrambi portavano nel cuore fin da ragazzini: aprire una caffetteria.

Un mese dopo il loro matrimonio, Candice gli aveva annunciato l'arrivo di un piccolo fagottello di gioia che avrebbe riempito le loro vite di felicità, ma esattamente due settimane dopo, a causa di un incidente, Candice perse il bambino e restò per mesi in coma.

Da quel momento per Tom esistette solo la sua bellissima moglie e la sua felicità.

Non che lui non fosse felice, ma essere quasi rimasto senza l'amore della sua vita ed aver perso suo figlio gli fece capire che non c'era nulla di più importante di Candice e che avrebbe messo la sua vita e la sua felicità prima di chiunque altro, anche di se stesso.

Dopo aver fatto il caffè, preparò il vassoio con la tazza, le brioche al cioccolato fondente, un bicchiere di spremuta d'arancia e un rametto di alloro di montagna, i cui delicati fiori bianchi e rosa mettevano sempre di buon umore sua moglie.

Salì le scale e, dopo aver spinto lentamente la porta lasciata socchiusa in precedenza, poggiò il vassoio sul letto e sedendosi spostò con delicatezza una ciocca di capelli rossi di Candice che copriva il suo dolce viso rotondo.

«Dormigliona... sveglia!» Un mugolio incomprensibile fece sorridere Tom che le baciò teneramente una gota paffuta.

«Amore sveglia! Sono le già le sei! Candice aprì gli occhi, che teneramente stropicciò, e

mettendosi seduta, sorrise incrociando lo sguardo color cielo del suo Tom.

«Buongiorno amore!  Il marito le posizionò sulle gambe il vassoio giallo ocra e lei si leccò i baffi vedendo le sue brioche preferite.

«Mi stai viziando lo sai? Di questo passo diventerò una balenottera dai capelli rossi!»

Risero entrambi di gusto, poi Tom si avvicinò a lei e, alzandole il mento, si perse in quegli occhi di ghiaccio.

«Saresti comunque la mia bellissima balenottera dai capelli rossi!!  La baciò dolcemente e, con le gote arrossate, Candice consumò la sua colazione.

Esattamente un'ora dopo, erano già alla caffetteria e, dopo aver sistemato le sedie e i tavoli, Tom voltò il grazioso e colorato cartello con scritto "Open".

La giornata cominciava sempre allo stesso modo: i primi clienti entravano, accomodandosi ai soliti tavoli e ordinando le stesse cose, ma l'arrivo di Rupert e sua nipote Nora lì sorprese, non essendo l'antiquario un uomo propenso al contatto con gli altri esseri umani.

«Buongiorno Tom! Candice!» esclamò con voce atona Rupert; i coniugi si guardarono sbattendo più volte le palpebre, per poi fissare di nuovo lo sguardo sull'uomo e la giovane seduta davanti a lui.

«Bu-buongiorno Rupert!»  li salutò Candice con un sorriso.

«Salve Rupert! Qual buon vento ti porta qui?» chiese Tom servendo un altro cliente.

«Beh mi sembra ovvio! È ormai ora di pranzo, devo pur mangiare! E poi... a Nora non piace molto la mia cucina» disse storcendo la bocca.

«Ammettilo zio... sei una vera schiappa ai fornelli! Mi sorprende ancora come tu abbia fatto a sopravvivere con quella poltiglia che cucini e ti ostini a chiamare cibo!» ribatté ridendo la ragazza.

Candice si avvicinò ai due con una caraffa di caffè bollente e, versandone un po' all'uomo,rivolse un dolce sorriso a Nora.

«È un piacere conoscerti Nora! Spero che ti possa trovare bene qui a Maple Town! Per qualsiasi cosa non esitare a chiedere! Sarò felice di aiutarti!»

«Grazie mille, Signora Smith!»

«Oh su andiamo... mi fai sentire vecchia se mi chiami "Signora"! Chiamami Candice..ok?» La rossa allungò una mano verso la giovane accompagnato da un sorriso amorevole che Nora ricambiò subito, per poi porgerle la sua.

«Va bene... Candice!»

L'ora di pranzo per i coniugi Smith, voleva dire solo una cosa: clienti a raffica.

Il locale si riempiva fino all'ultimo posto e le ordinazioni aumentavano a ogni minuto.

Dopo aver servito anche l'ultimo cliente affamato, Candice asciugò una goccia di sudore dalla sua fronte per poi raggiungere il marito dietro il bancone e sistemare il tutto.

«Hey Mike! Tua moglie cosa ha deciso di cucinare per la gara?» chiese Pit.

«Ah... ti prego non mi parlare di quella gara! Per Margaret sta diventando un ossessione! Non fa altro che spulciare le vecchie ricette di famiglia per scegliere quella che "farà rimanere tutti a bocca aperta.» rispose l'anziano imitando la moglie, scatenando l'ilarità di tutti.

«Come ti capisco amico mio! Anche Mary si comporta così! Ormai la cucina di casa mia è diventata un laboratorio per esperimenti!» ribatté Joe ridendo.

«Nonno, vuoi per caso che vada a raccontare alla nonna cosa dici di lei?» esclamò Tom con il sorriso sulle labbra.

L'anziano dei capelli brizzolati si voltò e guardandolo disse: «Ragazzino! Come osi andare a fare la spia contro di me? E poi devo ricordarti con chi stai

parlando?» Tom scosse la testa e, assumendo la postura da soldato, si mise sull'attenti ed esclamò: «Le chiedo scusa Tenente-Colonnello Smith! Non capiterà più Signore!»

L'uomo era soddisfatto.

«Bravo il mio ragazzo!» Tom sorrise beffardo.

«Ma questa... Nonno, lo dirò alla nonna!» Una risata generale riempì il locale, mentre l'anziano inveiva contro il nipote che ridendo si nascondeva dietro il bancone.

«Hey Candice! E tu cosa preparerai per la gara?» chiese Genevieve, la sarta più brava di MapleTown.

«Non lo so ancora! In realtà, non so nemmeno se parteciperò!» disse sorridendo.

«Ma come? Sei bravissima ai fornelli! Sia con i piatti salati che con i dolci. Non puoi non

partecipare!» ribatté la donna.

«Infatti lei parteciperà!» Una voce decisa e molto somigliante a quella di Candice si fece spazio nel brusio del locale, che si zittì subito.

«Mamma! Che ci fai qui? Non eri in Irlanda dai nonni?»

«E credi che mi sarei persa la gara annuale? Ah! Neanche per sogno!»

«Salve Shannon! Com'era l'Irlanda?» La donna sorrise e baciò Tom sulla guancia.

«Ciao tesoro! Bella umida come la ricordavo!» Il suo tono era allegro.

«Mamma se parteciperai tu... perché dovrei farlo anch'io?»

«Stai scherzando? Beth, la tua nonna paterna, che Dio l'abbia in gloria, era una campionessa!Ha vinto otto volte tra gli anni '40 e '50! E tu hai il suo stesso talento in cucina! Quindi, tu parteciperai!» disse con orgoglio; tirò fuori una scatola dalla propria borsa e la mise sul bancone.

«Qui ci sono tutte le sue ricette... so che sceglierai con il cuore! Io vado, devo ancora disfare le valigie e papà mi aspetta per andare a cena da amici. A presto!» Baciò la figlia e il genero e andò via, ma proprio in quel momento il suono acuto di un'ambulanza rimbombò nelle vie tranquille della cittadina e tutti si affrettarono per andare a dare un'occhiata.

I coniugi seguirono la folla di curiosi che accerchiò l'ambulanza e scorsero il giovane forestiero che avevano visto passare con Aaron proprio quella mattina.

«Oddio! Che gli sarà successo?» chiese Candice sconvolta.

«Non lo so amore, ma mi preoccupa! Da quando è riapparsa quella targa stanno succedendo cose davvero molto strane» rispose il marito con espressione seria; la moglie annuì poi disse: «Aaron deve essere informato! Infondo è un suo amico!»

«Vai tu! Io chiedo a White cos'è successo.» La donna si apprestò a raggiungere il locale, quando intravide un'ombra nera nascondersi in un vicolo buio.

«Chi c'è lì? Chi sei?» La sagoma sembrò guardarla e poi sparì.

«Candice, che c'è? Con chi parlavi?» chiese Tom preoccupato; la moglie lo guardò accigliata e disse: «C'era qualcuno lì in quel vicolo e credo sia la stessa persona che ha aggredito quel ragazzo!»


 

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Capitolo 10
*** Rupert e Nora ***


Cap. 9 - Rupert Rootweet

 Capitolo scritto da P4rziv4l97 

Era notte fonda quando Rupert aprì gli occhi. Intontito dal sonno ma con la giusta dose di rabbia e irritazione, si destò dal caldo tepore del suo letto e balzò in piedi. L'intera stanza era immersa nel buio, nemmeno i flebili raggi lunari riuscivano ad attraversare le tapparelle abbassate poche ore prima. L'uomo infilò i piedi dentro le ciabatte e trascinò il suo corpo fino in cucina, poi accese la luce, si versò una tazza di caffè e risalì nella sua stanza.

Non era un buon momento per bere un caffè, l'orologio segnava le tre di notte quando Rupert guardò l'ora. Ma per lui non era un problema, non sarebbe stata una tazza di caffè a privarlo del sonno. Adagio, poggiò la tazza sul comodino, alzò lentamente le tapparelle della sua stanza e aprì le finestre. Una ventata d'aria fresca riempì l'intera stanza facendo rabbrividire l'uomo che, con sguardo affilato e duro, osservava il panorama davanti a sé. Portò gli occhi sul paese, ne scrutò alcune vie e passò in rassegna le poche case che riusciva a vedere dalla sua finestra: avevano tutte le luci spente.

A Maple Town regnava il silenzio e la calma: solo i fumi del panificio correvano veloci verso il cielo. Rupert seguì con gli occhi la piccola striscia grigia e la guardò scomparire sotto l'influsso della luce lunare. Amava abitare in collina, era il suo colle: nessuno lo avrebbe mai sradicato da lì. La sua anima era legata a quel posto quasi quanto le radici degli alberi lo erano alla terra. Gli alberi, proprio gli alberi che avevano reso Maple Town così famosa in tutta la nazione. Rupert sorrise, alcuni aceri erano stati piantati dai suoi genitori quando lui non era ancora nato. Quella era una delle cose che lo faceva sentire veramente parte di quel paese, oltre Rachel ovviamente.

«Rachel» sussurrò Rupert.

Le labbra dell'uomo si incresparono in uno dei suoi rari sorrisi poi, lentamente, afferrò la tazza del caffè poggiata sul comodino e iniziò a sorseggiarlo. Chiuse gli occhi e, accompagnato dal frinire delle cicale, immaginò il volto della donna che non vedeva dal giorno precedente. Rachel era abbastanza indaffarata in quel periodo, cercava disperatamente una ricetta con cui partecipare a quella stupida gara. Già, la famosa gara di cui tutti parlavano: era sulla bocca di ogni paesano, quando non si parlava del ragazzo aggredito e portato all'ospedale. Rupert poggiò le braccia sul davanzale della finestra e osservò la distesa di alberi davanti a sé. L'oscurità della notte lo trascinò in un turbinio di emozioni e pensieri contrastanti. Lui odiava il fermento creatosi in città, odiava la gara e quella maledetta targa ricomparsa. Con l'amaro in bocca, e nel cuore, Rupert diede un'ultima sorsata al caffè, richiuse la finestra e si diresse nell'unico posto dove si sentiva tranquillo: il laboratorio in soffitta. Rupert afferrò la maniglia della porta e uscì dalla stanza senza accorgersi che c'era qualcuno di fronte a lui. Una figura non molto alta, dai capelli lisci e fluenti, si scontrò contro il suo addome.

«Zio, sta attento quando cammini!»

«Nora... Cosa ci fai sveglia a quest'ora?» pronunciò l'uomo guardando la nipote nei profondi occhi azzurri.

«Ti ho sentito quando, pochi minuti fa, sei uscito dalla stanza.» La voce di Nora era apprensiva, ma aveva gli occhi persi nel sonno.

«Mi dispiace di averti svegliato. Torna a dormire, è tardi» disse Rupert facendo appello a quel poco di gentilezza che conosceva.

«Va tutto bene?» chiese Nora strofinandosi gli occhi.

«Non proprio. Ma ti prego, ora dormi. Ne parleremo domattina.»

«Promesso?»

«Promesso.» L'uomo scandì quella parola con un leggero imbarazzo. Non si era mai comportato con nessuno in quel modo, nemmeno con Rachel. Nora si avvicinò e avvolse lo zio in un tenero abbraccio, l'uomo ricambiò con qualche tentennamento, ma alla fine si sciolse e accompagnò la nipote nella sua stanza. Le rimboccò le coperte e le diede un bacio sulla fronte.

«Buonanotte.»

«Buonanotte, zietto» disse Nora abbozzando una leggera risata.

Mentre si dirigeva in soffitta, Rupert pensò a Nora. Lei era l'unica nipote della quale avesse un vago ricordo. Era entrata nella sua vita da qualche settimana, come un fulmine a ciel sereno, distruggendo la sua intera routine. Odiava ammetterlo, ma quella piccola peste aveva portato una boccata d'aria fresca all'interno della sua esistenza. Odiava tutto ciò che poteva mettersi tra lui e la tranquillità, era una cosa risaputa da tutti, ma, in fondo, avere una ragazza in casa lo faceva sorridere. Un pensiero veloce e sfuggente gli riportò alla mente il breve passato della ragazza e il cuore di Rupert si riempì di rabbia e tristezza a quel pensiero. Sua sorella era morta e il cognato era uno sporco ubriacone. Non vedeva la sorella da ben tre anni quando la notizia della sua morte lo aveva sconvolto. Rupert provava un amore profondo per Mary, uno di quelli che non si rompe mai, un legame di sangue saldo, immune al passare degli anni. Ma il destino gli aveva lasciato una nipote, Nora era tutto ciò che gli era rimasto della sorella. Ed ecco perché aveva promesso che avrebbe avuto cura di lei, anche se significava cambiare la sua vita e parte del suo carattere.

Assorto da quei pensieri, Rupert salì le scale che lo avrebbero condotto alla soffitta. Quando vi arrivò, facendo attenzione a non far rumore, aprì la porta. L'odore stantio della stanza invase le strette narici dell'uomo che, palpando l'oscura parete alla ricerca della luce, stava già pregustando il momento in cui si sarebbe seduto a visionare i suoi oggetti antichi. La luce rivelò l'intero contenuto della stanza dal soffitto basso: pile di vecchi libri e lettere ammassati nella libreria e un grande bancone con un lume accanto, posizionato accanto alla finestra. Rupert si avvicinò al mobile per prendere uno dei suoi cimeli: un orologio risalente al milleottocento. Quell'orologio era uno dei lasciti del suo prozio, aveva un valore di circa diciottomila dollari americani. Avrebbe potuto fare una fortuna, se solo avesse avuto il cuore di venderlo. Ma Rupert amava riempirsi di vecchie cianfrusaglie, in particolare, di cianfrusaglie mega costose.

Ma Rupert credeva che quell'orologio avesse qualcosa di particolare, anche se non aveva ancora capito cosa fosse. Durante le sue numerose revisioni agli ingranaggi, aveva notato un piccolo incavo sotto la corona. Non era una cosa normale, Rupert se ne era assicurato parecchie volte confrontandosi con alcuni suoi colleghi del mestiere. Sapeva che quel particolare non doveva esserci, ma non sapeva spiegarsi il perché. Aveva provato a girare la rotellina parecchie volte, ma nulla. Non poteva permettersi di smontare quella particolare parte dell'orologio, erano necessarie attenzione e precisione. Non avrebbe rischiato di rovinare un ricordo della sua famiglia, così aveva lasciato perdere.

Si limitò a guardare l'incavo anche quella sera, poi, pose l'orologio sul tavolo e continuò a rovistare tra le vecchie chincaglierie. Riportò alla luce alcune carte del fondatore di Maple Town: la famosa ricetta vincitrice del concorso di cucina del 1889, rubata dal suo prozio, e dei vecchi fogli di giornale. Rupert ripose tutto sul tavolo dimenticando di avervi appena poggiato l'orologio. Tra un movimento di fogli e una botta al piede del tavolino, l'orologio capitolò per terra mandando il cuore di Rupert in aritmia per qualche secondo. Pregando ogni divinità esistente, l'uomo riprese l'orologio e lo esaminò attentamente: era ancora in perfette condizioni, salvo un piccolo dettaglio che mandò Rupert in brodo di giuggiole. Dall'incavo dell'orologio era fuoriuscito un piccolo biglietto. In tutti quegli anni, Rupert non era mai riuscito a scorgerlo. Ma non poteva mai immaginare che, nonostante le spesse dimensioni dell'orologio, qualcuno ci avesse nascosto un biglietto. Rupert posò l'oggetto sul tavolo e aprì delicatamente il biglietto.

«Cara Harriet Carter, ce l'abbiamo fatta. Il piano è riuscito. Sapville avrà quello che si merita. Tuo, Fred Rootweet.»

Rupert lesse tutto ad alta voce e rimase incredulo e sconvolto non appena lesse la data che riportava il foglietto.

«Cinque maggio mille-ottocento-ottantacinque» disse, scandendo ogni parola. «Ma è il giorno in cui si svolse la gara... Non è possibile. Cos'ha a che fare il mio prozio con quella gara?»

L'uomo ci pensò un attimo, ma riuscì a riunire solo pochi pezzi di quel grande puzzle. La targa era stata vinta dal paese, magari suo zio era andato lì per assistervi. Però non riusciva a capire cosa intendesse dire con "Sapville avrà quello che merita". Inoltre, che legame c'era tra i Rootweet e i Carter? Rupert non capiva, ma di una cosa era certo: per fare chiarezza sull'accaduto, avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di sua nipote. Quella roba che lei chiamava "inter coso" l'avrebbe aiutato.

Le ore passarono e il buio lasciò spazio alla luce. I caldi raggi del sole colpirono gli alberi e ne doravano le foglie, avvolgendo tutto il paesaggio in una straordinaria luce calda e viva. Anche Rupert, addormentato con la schiena ricurva sul tavolo, venne colpito da quell'esplosione di luce. Il sole baciò le sue guance destandolo dal sonno. Rupert alzò il viso, si scollò dalla fronte qualche foglio di giornale e poi scese dalla soffitta per raggiungere la cucina.

«Buongiorno, zio» esplose Nora mentre preparava la colazione.

«Buongiorno anche a te.» Rupert la guardò e per un attimo, accecato dalla troppa luce mattutina, rivide il volto della sua amata sorella. Sorrise, dentro di sé. Sapeva che era un effetto dovuto ai giochi di luce, ma non era solo quello. Nora assomigliava molto a sua madre, sia nell'aspetto che nel carattere. L'uomo fece qualche passo, raggiunse la nipote al tavolo e consumò la colazione.

«Allora, zio, è arrivato il momento di mantenere la promessa» disse Nora, scrutando lo zio e mostrando un leggero sorriso.

«Ah, giusto. La promessa. A proposito di questo, hai ancora quel tuo strano aggeggio portatile? Potrebbe tornarci utile.»

Qualche ora dopo, l'ufficio di Rupert venne invaso da articoli di giornale, foto e notizie riguardanti il 1885. L'orologio trovato in soffitta era legato alla sua famiglia, lasciato in eredità dal suo prozio, era chiaro come il sole che qualche suo parente fosse invischiato in quella pessima situazione. Fu Nora, dopo ore di ricerca, a scovare un indizio importante, l'unico davvero rilevante. Non riguardava il luogo in cui era stata nascosta la targa, ma avrebbe potuto aiutare a scovare il colpevole.

«Fortunatamente, il comune di Maple Town ha creato un cloud digitale atto a conservare tutti gli articoli di giornale più importanti. Ma, sebbene l'evento dell'ottantacinque sia abbastanza importante per Maple, questo è l'unico articolo che ho trovato.» Nora fece avvicinare lo zio allo schermo del computer portatile e indicò una lista di nomi accanto a una fotografia.

«Ma guarda un po'. Questo è lui, mio prozio Fred. Tua nonna aveva un album di fotografie, ogni domenica ci costringeva a sederci sul divano e a sfogliarlo insieme. Conosco i volti di tutti i nostri parenti, più o meno.» Rupert visionò tutti i cognomi alla portata del suo occhio fino a quando incontrò quello appartenente alla sua famiglia. «Ci sono anche alcuni cognomi a me familiari: Price, Carter, Bluelight e Stealer.» Rupert rise, «Guarda, c'è anche una signora appartenente alla famiglia di quella vecchia pettegola della Patty.»

«A quanto pare, il tuo prozio, aveva un bel rapporto con questa signora. Guarda attentamente la fotografia.»

Rupert si avvicinò ulteriormente allo schermo e rimase alquanto sorpreso da quello che riuscì a vedere. In quel momento, con tutta la velocità a disposizione, corse in soffitta a riprendere il biglietto letto durante la notte. Quando lo trovò, lo controllò attentamente scorgendo un nuovo e importante dettaglio. Nella parte posteriore del foglietto, scritto con una grafia singolare ed elegante, vi era la risposta al messaggio precedente.

«Mio carissimo Fred» lesse Rupert «Il mio amore non sarà mai sufficiente a ricambiare quello che hai fatto per me. Ho nascosto la targa nel luogo che conosci. Ti amerò per sempre, Harriet Carter»

Ecco qual era il legame tra i Rootweet e i Carter: l'amore. Non sapeva se il suo prozio fosse veramente innamorato di quella donna, ma lei lo era di sicuro. In quel momento, Rupert, ebbe la rivelazione. Sapeva cosa fare, doveva solo avvisare Nora.

«Nora, io esco, torno tra poco» le disse, passando prima dal soggiorno per prendere una giacca leggera e poi dalla sala da pranzo.

«Va bene, a dopo.»

Rupert percorse il corridoio e, prima di aprire la porta, sentì il telefono squillare. Qualche secondo dopo, la voce di Nora esplose in un grosso e sonoro: "Ciao Sean". L'uomo sorrise, contento che la nipote avesse trovato buona compagnia, e uscì di casa. Respirò l'aria primaverile, si crogiolò nella luce mattutina e si preparò a percorrere la discesa: aveva la destinazione ben chiara in mente. Per completare il puzzle e ricavare le ultime informazioni mancanti, doveva andare dall'unica persona che, in paese, sapeva tutto di tutti: Patty Stealer. In quella foto, oltre a suo zio, c'era anche un componente della sua famiglia. La possibilità che la Stealer fosse a conoscenza della verità, o parte di essa, era sicura al cento percento.

 

***

 

Un classico "din don" scosse la tranquilla routine mattutina della donna. Ella si alzò dalla sedia, percorse il corridoio e, con il suo ampio sorriso, aprì la porta.

«Ciao, Patty» disse Rupert mostrando il biglietto trovato durante la notte «Dobbiamo parlare.»

La donna sorrise non appena scorse lo scambio di risposte sul biglietto.

«Tu sai e io ho bisogno di sapere. Non negarmi questa richiesta, Madame Stealer» la stuzzicò lui, con un accenno di pronuncia francese.

Patty invitò l'uomo ad entrare e raggiunsero la cucina.

«Non ti nasconderò la verità» disse Patty mentre offriva a Rupert una tazza di tè. «Avrai tutte le tue risposte.»

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Capitolo 11
*** Jason Duvrè e Nonna Jo ***


Cap. 10 -Jason Duvrè e Nonna Jo

 Capitolo scritto da Cometa1975 

Aaron camminava nervoso nel salotto di casa propria, erano trascorsi già diversi giorni da quando Jason era stato dimesso dallʼospedale e lui ancora non aveva avuto modo di parlarci da solo. Girò per la stanza osservando i mobili che erano appartenuti a sua nonna. Solo il divano in pelle bianca era nuovo, così come il televisore a schermo piatto che era stato appeso sopra il camino.

Quando bussarono alla porta si riscosse per la sorpresa, quasi da rovesciare la lampada del tavolino sul parquet di acero.

Rimise lʼoggetto a posto e si diresse alla porta dʼingresso che aprì senza chiedere chi fosse: di solito a Maple Town non cʼerano forestieri, anche se gli eventi degli ultimi giorni suggerivano il contrario.

Aaron si passò una mano fra i capelli ricci, gesto che faceva sempre quando era agitato. Di fronte a lui cʼera  Mark, il suo migliore amico, con una cassetta di birre in mano, fresche di frigo.

«Posso entrare, straniero?» chiese lʼaltro facendosi comunque strada in casa del meccanico.

«Sì, certo scusa, fai come fossi a casa tua» rispose il ragazzone biondo, ma il suo tono era incerto.

Mark si guardò intorno come a cercare una conferma dei suoi sospetti. «Sei solo?» chiese dopo aver appoggiato le birre sul tavolino basso di fronte al televisore.
Aaron non gli rispose e per prendere tempo andò in cucina per recuperare un cavatappi.

«Vivo da solo, non ti ricordi?» disse Aaron dalla cucina.

 

«Questo non significa che tu debba essere solo sempre, lo sai vero?» rispose enigmatico Mark.

Dopo aver preso il cavatappi e aver stappato due bottiglie ne porse una al ragazzo di fronte a lui e si mise a sedere sul divano allungando le gambe sulla sceslong.

«Ti ho cercato in officina, ma il tuo apprendista mi ha detto che oggi non sei andato al lavoro.»

«Ho altre cose per la testa» rispose secco.

«Senti, ci conosciamo fin da quando andavamo alla scuola dellʼinfanzia e penso anche prima, ma non ne ho ricordo...» iniziò col dire lʼamico «ho aspettato per molto tempo che tu ti confidassi con me, ma ormai ho rinunciato e quindi...»

«Quindi?» disse Aaron visibilmente scocciato appoggiando la birra sul tavolino e muovendosi nervoso verso la finestra.

«È inutile che ci giriamo intorno, tu sei preoccupato per quel giornalista, Jason Duvrè, se non mi sbaglio. Tutti in città sanno che lo hanno trovato tramortito in casa tua.» 
Aaron sospirò abbassando le spalle come sconfitto, il suo segreto non era più tale e sembrava quasi che un macigno gli si fosse spostato dal petto, forse confidarsi con Mark poteva essere la soluzione ai suoi problemi.

Trovare Jason disteso a terra in casa sua era stato un colpo terribile e sapere così su due piedi che era stato licenziato e che gli aveva mentito era stato ancora più scioccante. La sera precedente allʼaggressione, dopo il ritrovamento del luogo della targa, lui e Jason si erano chiariti. Avevano passato la notte insieme e si erano promessi di dirsi sempre la verità, ma così non era stato: lui gli aveva mentito e Aaron non aveva avuto modo di parlarci nuovamente. Infatti il compagno, una volta dimesso dallʼospedale, era andato chissà dove insieme a sua nonna Jo.

«Aaron» lo richiamò al presente Mark avvicinandosi e mettendogli una mano sulla spalla, «non devi affrontare tutto da solo, okay? Lo so a volte, sono un poʼ rozzo e mi comporto da stupido, ma veramente non ha importanza... Dai non farmelo dire. Tu credi sul serio che possa cambiare qualcosa il fatto che tu preferisca un ragazzo a una ragazza?»

La mano dellʼamico era ancora sopra la sua spalla e lʼunica sua reazione fu quella di appoggiare la testa contro il vetro della finestra che dava sulla veranda e sul giardino del retro della casa. La sua fidata moto era parcheggiata sotto il pergolato in attesa che si raffreddasse il motore dopo lʼuscita che aveva fatto poco prima.

«Tu non capisci Mark, nessuno potrebbe capire, io non sono come voi ragazzi!»

«E ci credi così stupidi da non compreso quello che sei? Nessuno ti ha fatto pressione, Aaron. Non sei attratto dalle donne e allora? Persino mia cugina Kora si è rassegnata al fatto che tu non la consideri in quel senso.»

Aron si voltò di scatto e fissò gli occhi azzurri in quelli nocciola dellʼamico. «Davvero sei convinto che non avrebbe fatto differenza? Ma se al liceo ci sfottevamo per cose molto più stupide.»

«Adesso non siamo più al liceo, siamo adulti: ognuno ha la propria vita e può farne ciò che vuole. Io la penso così.»

«I ragazzi, lʼaltra sera al bar, quando Jason è entrato lʼhanno sfottuto solo per il suo modo di porsi, e nemmeno sapevano se fosse realmente gay! Io non voglio tutto questo per me, per noi.»

«Senti, sai che a volte esagerano, soprattutto se bevono e poi nessuno può giudicare gli altri. Tu sei la persona più forte che conosco, un combattente: hai perso i genitori da piccolo e sei sopravvissuto al generale, quindi credo che tu abbia tutto il diritto di essere felice!»


Aaron non sapeva se piangere, ridere oppure dare qualche capocciata contro il vetro della finestra. Il generale, era così che tutti i suoi amici chiamavano nonno Alan, anche se in realtà aveva avuto solo il grado di capitano.

«Non devi dare dimostrazioni eclatanti a nessuno in paese, oppure andare a un gay pride, devi solamente vivere la tua vita. E se ti fa bene stare con questo Jason, allora fallo. Lui e sua nonna sono alloggiati alla locanda di Kora, lo sai?»

 

***

 

La Locanda di Kora Jones si trovava appena fuori dalla cittadina di Mapple Town, immersa nel verde in una delle più antiche piantagioni di acero della Contea. Le famiglie di Kora e Mark erano da sempre produttori di sciroppo dʼacero e la tradizione familiare adesso era portata avanti dai suoi genitori e da quelli di Mark, mentre lei e la cugina Lottie avevano ristrutturato i vecchi locali di stoccaggio dello sciroppo e ci avevano creato una Locanda in cui gli ospiti potevano partecipare alla produzione e alla raccolta del pregiato succo se avessero voluto.

 

Kora era di turno alla reception quando sentì il rumore della moto di Aaron: lo conosceva molto bene, quel suono per tanti anni aveva stuzzicato la sua fantasia. Per molto tempo aveva sperato di poter viaggiare su quel mezzo insieme al suo proprietario. Però Aaron, benché fosse gentile e molto disponibile con tutti in paese, non faceva salire nessuno sulla sua moto. Il ragazzo entrò nella Locanda con il casco in mano, dopo aver parcheggiato la fidata Indy  proprio di fronte allʼingresso. Se poteva non la perdeva mai di vista, come se quella moto forse un pezzo della famiglia del ragazzo ed era normale dal momento che lui una famiglia non ce lʼaveva più.

«Ciao Kora, scusa il disturbo» iniziò col dire il biondo in evidente imbarazzo, dopo essere entrato allʼinterno del locale.

«Dimmi Aaron, è successo qualcosa? Cosa ci fai da queste parti?» chiese la ragazza con tono curioso.

«Beh, io... in realtà vorrei sapere... non so se tu me lo vuoi dire...» farfugliò passandosi una mano tra i capelli riccioluti sempre più nervoso.

«Kora, tesoro, sai mica se è rientrato mio nipote Jason?» disse la voce ancora energica di Josephine Duvrè scendendo le scale che portavano alle camere del primo piano.

Aaron colto di sorpresa nel sentire il nome del compagno si voltò di scatto, sbattendo il casco contro il bancone della reception.

«Signora Duvrè» disse con un filo di voce.

«Kora, chi è questo bel giovanotto che conosce il mio nome?» chiese con tono furbo la donna, ben sapendo chi si trovava di fronte. Suo nipote Jason, dopo essere stato dimesso dallʼospedale della contea, aveva vuotato il sacco e le aveva raccontato le sue vicissitudini dʼamore.

Lei aveva provato più e più volte in quei giorni a convincerlo ad andare da Aaron e raccontargli tutta la verità. Cʼerano già troppe bugie che erano state dette in quella città e forse era lʼora di cominciare a dire le cose come stavano. Jason non era stato licenziato dal giornale per via del della sua inchiesta sugli appalti illeciti di Portal, bensì perché non aveva voluto cedere alle avance del suo diretto superiore che, oltre ad avergli fatto perdere il lavoro, avendo paura che il ragazzo lo denunciasse, lo aveva colpito e mandato in ospedale. Josephine voleva che Jason raccontasse tutto al suo ragazzo. Sì, perché lei era sicura che poteva considerarlo ancora tale. Inoltre quel ragazzone biondo che si trovava di fronte a lei era veramente un bel partito, come si diceva ai suoi tempi.

Aveva convinto però Jason a sporgere denuncia contro lʼaggressore, sia per quello che aveva fatto lì a Maple Town sia per quello che gli aveva fatto a Portland. Inoltre i coniugi Smith, Candice e Tom, lʼavevano visto ancora in giro e quindi era stato facile ripercorrere le sue tracce e trovare testimonianze che lo collocassero in città al momento dellʼaggressione di suo nipote.

Jason comunque era cocciuto come ogni Duvrè che si rispetti e siccome aveva mentito ad Aaron sulla questione del licenziamento e sul vero motivo perché era successo, non voleva parlare con lui e dirgli la verità.

Josephine sorrideva al pensiero di quanto fosse sciocco quello che stavano facendo, erano due somari, però adesso sembrava che uno dei due avesse messo del sale in zucca.

«Salve, signora Josephine, io sono Aaron» disse infine il ragazzo. Kora, che stava osservando la scena molto interessata, capì ben presto che forse era il momento di andare a controllare se le camere fossero a posto.

Quando furono soli la donna disse: «È andato in città per delle questioni urgenti, ma tornerà presto».

Aaron annuì.

«Se ti va puoi aspettarlo con me sotto il portico. Prendiamo un tè, visto che è proprio lʼora giusta.»

Aaron seguì in maniera impacciata la vecchietta fino a sotto il porticato di edera della locanda, dove erano sistemati alcuni tavolini con delle poltroncine e sedie, offrendosi di aiutarla ad accomodarsi. Il pomeriggio era tiepido e un vento leggero scuoteva le foglie delle piante di acero presenti nella piantagione.

«Sai, ti immaginavo esattamente così!» disse tutto a un tratto nonna Jo. Aaron non seppe cosa rispondere, appoggiò solo il casco su una delle sedie libere e si lasciò cadere sopra unʼaltra in modo pesante.

«Conoscevo tuo nonno, il generale, era un tipo molto... inquadrato, sì, lo definirei così. Meno male che conobbe tua nonna che mise un poʼ di pepe nella sua vita. Dopo la disgrazia avvenuta in guerra lui, però, la voleva lasciare... ma tua nonna era una donna tosta e aveva fatto un giuramento, soprattutto era innamorata persa di quel burbero di Alan» disse al ragazzo Josephine, come se ricordasse bene quei tempi ormai lontani.

«Lei sa di noi?» chiese quindi a bruciapelo Aaron non resistendo più.

«Oh certo che sì, caro mio. Io so tutto di mio nipote, per me è come un secondo figlio, sono stata io a consigliargli di venire qui a parlare con te, ma lui è cocciuto peggio di suo nonno e certe volte credo che sia anche un poʼ sciocco... Lʼho convinto a venire qui con la scusa del ritrovamento della targa...»

«Ma la targa è stata ritrovata veramente, e prima che Jason venisse in città» disse Aaron. La questione di quella fantomatica targa non gli era mai passata dalla mente. Eppure doveva entrarci qualcosa il fatto che Jason sapesse dove poteva essere stata rinvenuta, anche se sua nonna era arrivata, da Miami per giunta, solo dopo lʼaggressione del nipote, avvisata da Patty. Stava per aggiungere qualcosa quando a un tratto sentì una voce ben conosciuta chiedere: «Nonna, sei qui?», e vide Jason fermarsi al limitare del pergolato, osservando sua nonna seduta di fronte al suo ragazzo.

«Cookie!»

«Sunflower, io...» iniziò col dire Aaron alzandosi.

«Ragazzi, vado a prepararmi per la cena, spero proprio tu voglia rimanere con noi, Aaron. Nel caso avviso Kora che saremo uno in più al nostro tavolo.»

«Nonna, non credo proprio...»

«Grazie Signora Duvrè, accetto volentieri» rispose il biondo alzandosi per accompagnare la nonna di Jason fino alla porta e poi tornare a sedere.

«Ma Aaron, non è necessario, io...» si lamento Jason, ancora timoroso del fatto che il compagno non si fosse ancora dichiarato.

«Preferisci accomodarti o resti lì in piedi? Ti vorrei parlare prima di andare a cena con tua nonna.»

Jason sospirò ma fece come gli aveva chiesto il ragazzo accomodandosi di fronte a lui.

«Non hai paura che qualcuno lo possa scoprire?»

«Naaaa, le persone che contano lo sanno, in realtà solo Mark che lo ha sempre saputo, il resto si fotta!» esclamò Aaron, prendendo di scatto le mani del moretto, che erano nervosamente appoggiate sul tavolino.

Jason a quellʼaffermazione sgranò gli occhi e cercò di svicolare le mani dal calore di quelle di Aaron.

«Sanflower, mi dici cosa ti spaventa? Non è questo che hai sempre voluto?» gli chiese allora il biondo cercando il contatto visivo col compagno che nel frattempo aveva abbassato lo sguardo nervoso.

«Sì, certo... È che tu non sai tutta la verità... Io... Quello che mi ha aggredito in casa tua  era il mio ex capodirettore. Beh, ci flirtavo un poʼ in redazione, ma non sono mai andato oltre; lo sai mi piace essere al centro dellʼattenzione...» disse Jason tutto dʼun fiato. «Quando noi ci siamo lasciati ha pensato che fosse il momento giusto per provarci sul serio, ma io gli ho detto di no e lui ha insistito fisicamente. Lʼho bloccato in malo modo e gli ho detto che erano molestie e che lʼavrei detto allʼeditore e lui il giorno dopo mi ha fatto licenziare. Poi nonna mi ha convinto a venire qui con la scusa del ritrovamento della targa e credo che lui si sia spaventato pensando che ti volessi dire tutto e mi ha aggredito a casa tua.»

Il meccanico lo guardava sbalordito senza proferire parola, troppe informazioni.

«Scusa se non ti ho detto subito la verità, io... Mi vergognavo e avevo paura del tuo giudizio. Poi noi non ci parlavamo... Io, Cookie...»

A quel punto Aaron si alzò e si inginocchiò di fronte a Jason che ormai aveva le lacrime agli occhi. «Ehi, tesoro, non importa. Non ho intenzione di perderti, okay? Solo non mentirmi di nuovo. Io ti amo e non ho più paura, tutto si risolve. Se persino una targa perduta quasi un secolo fa è stata ritrovata, il resto cosa vuoi che sia.»


 

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Capitolo 12
*** Che la festa inizi! ***


Che la festa inizi!

 Capitolo scritto da viviarmy89 

 

Il debole sole, nascosto dalle nuvole, filtrava da esse, dipingendo il panorama come un quadro di Caravaggio, con la sua luce e le sue ombre.

Candice si sveglió a causa del suono fastidioso della sveglia e, dopo averla spenta, si stiracchió e stropicció gli occhi; si voltó, accoccolandosi sul petto di Tom diventando piccola piccola tra le grandi braccia del marito.

«Buongiorno cucciola...» La sua voce profonda resa roca dal sonno la fece sorridere.
«Buongiorno orsacchiotto!» La risata cristallina di Tom riempì la stanza e la strinse a sé.
«Tutto bene tesoro?» le chiese dolcemente.

«Sì... Ho solo... Non so... Tutta questa situazione della targa, quella sagoma che ho visto nascondersi nel vicolo...»

«Lo so tesoro! Non riesco a capire chi possa essere stato, ma credo che lo scopriranno presto! Su alziamoci... Si sta facendo tardi!»

Alle sette in punto la caffetteria "Home Sweet Home" era aperta, accogliendo come sempre i cittadini mattinieri di passaggio e i clienti abituali.

Candice stava sistemando la vetrina dei biscotti quando il campanellino della porta suonò.

«Buongiorno! Oh! Salve Agente White!»

«Buongiorno Candice! Tom!»

«Hey, White tutto bene?»

«Sì... Ho solo bisogno di un doppio, anzi no, triplo caffè amaro!» esclamò l'uomo frustrato.

«Ahahahah... arriva subito!» La donna dai capelli rossi prese la caraffa piena di caffè e versò il liquido scuro nella tazza che, una volta colma, porse all'agente che la ringraziò con un cenno del capo. Candice fece per tornare verso il banco, ma si voltò ancora verso l'uomo.

«Agente White...»

«Sì?»
«Ecco... Volevo sapere se avevate idea di chi possa essere stato ad aggredire quel ragazzo. Avete trovato degli indizi?»

L'uomo sospirò fissando il liquido nero. «Sì! Lo abbiamo individuato prima che potesse lasciare la città! Adesso è in prigione. Sta’ tranquilla Candice!» Fece un debole sorriso che la donna ricambió a fatica e tornó al bancone.

All'ora di pranzo, come di consuetudine, il locale si riempì e i ritmi aumentarono; Candice aveva appena finito di servire l'ennesimo piatto del giorno, quando il campanello della porta suonò nuovamente.

«Buongiorno!» I coniugi alzarono lo sguardo in contemporanea e sorrisero.

«Aaron! Buongiorno a te!» esclamò Tom.

«Ciao Aaron tut-aaahhhhhh... Aaron mettimi subito giù! Mascalzone!» Candice non finí la frase che il ragazzone la prese in braccio facendola volteggiare per la sala.

«Aaron! Si può sapere cos'hai?» Lui la mise giù e la guardò con un sorriso a trentadue denti.

«Sono libero! Candice adesso non ho più paura! » Lei capí subito a cosa si stesse riferendo e, come una madre orgogliosa, lo abbracció forte.

«Sono fiera di te! Te l'avevo detto... Il mondo è meno buio e solitario quando hai accanto la persona che ami!» Si staccó da lui e gli scostó una ciocca dei suoi biondissimi capelli oro.
«Grazie di cuore! Senza te e Tom non credo avrei mai trovato il coraggio di farlo...»
«Non dire sciocchezze! Avevi solo bisogno di qualcuno che ti facesse notare quanto sei cocciuto e che rischiare non sempre implica la sconfitta.»

«Allora? Che succede?» chiese Tom divertito

«Tesoro, indovina chi ha deciso di "vivere davvero"?» Tom guardò Aaron e sorrise.

«Davvero? È fantastico! Dov'è il tuo ragazzo?»

«Sì, è vero... dove l'hai lasciato?» Il ragazzo arrossì a quelle parole.

«È con sua nonna alla locanda di Kora... Ceniamo noi tre insieme stasera! Sono solo venuto per cambiarmi e per ringraziarvi per l'appoggio che mi avete dato fin dall'inizio... Io...»

«Aaron non devi ringraziarci! Lo abbiamo fatto con il cuore. Tutti meritano di amare ed essere amati!» rispose Tom poggiandogli la mano sulla spalla; Candice lo ricambiò, sorridendo alla sua espressione sognante.

«Hey, bello addormentato! Cosa fai ancora qui? Va' da loro... sbrigati!»

«Ah sì... ok!» Si voltò per andar via ma tornò indietro. «Dimenticavo! Tra tre giorni è il compleanno di Jason... Vorrei preparargli una festa... ma...»

Candice prese una scatola dei suoi pasticciotti al cioccolato con lamponi glassati al brandy e gliela porse. «Ti aiuteremo noi! Adesso prendi questi e divertiti! Salutaci Jason.» Aaron sorrise commosso e con un cenno di saluto uscì.

Dopo un programma accurato, la mattina del compleanno, con l'aiuto di Tom e la complicità di Kora e nonna Jo, Candice inizió i preparativi per la festa a sorpresa per Jason.

Dopo aver dato un'occhiata accurata al giardino posteriore della locanda, vide un bellissimo albero di ginepro e ne rimase incantata.

«Qui! Lo faremo qui!» disse eccitata.

«Qui? Sei sicura, Candice?» chiese perplessa Kora.

«S'. È al centro del giardino e da qui si ha una visione intera del resto.»

«Ok! Allora da dove iniziamo?»

«Prima le luci! Tesoro, portami le luci!» Così iniziarono ad appendere delle luci sui rami per creare un'atmosfera romantica e gioiosa, come una cascata luminosa di piccole stelle; posizionarono un tavolo in legno piuttosto lungo e delle panche, anch'esse in legno, ai lati; stesero al centro del tavolo un lungo coprimacchia arancione e iniziarono a sistemare piatti e bicchieri. A lavoro terminato si allontanarono di qualche passo controllando il risultato.

«Perfetto!»

«È stupendo Candice! Ne rimarrà sicuramente colpito!» esclamò Kora, sorridendo,.

«Lo spero! Bene, adesso andiamo a preparare da mangiare!».

Candice, da ottima cuoca qual era, si occupò minuziosamente anche delle portate per quella serata così speciale, dall'aperitivo al dessert. Dopo aver sistemato i vassoi con le pietanze, accese delle candele formando un sentiero che, dall'entrata principale, avrebbe condotto la

coppia al luogo della cena.

Il giardino era bellissimo e arricchito dalla presenza di alberi da frutto, aiuole curate e magnifici fiori colorati; il profumo delle erbe aromatiche e dei frutti di bosco, misto al profumo del cibo, riempiva l'aria e il tramonto colorava il cielo di un bellissimo rosso-arancio con sfumature oro.

Tom e Mark si occuparono del barbecue mentre Candice, Kora e nonna Jo definirono i dettagli aggiungendo dei piccoli vasi di vetro con dei rametti di alloro in fiore e delle piccole candele come centro tavola.

Alle otto in punto, come un orologio svizzero, videro arrivare i due giovani e l'espressione
esterrefatta di Jason fece capire loro che avevano fatto centro.

«Tom, Candice, Mark, vorrei presentarvi Jason, il mio ragazzo! Jason, loro sono Kora, Mark, il cugino di Kora, Tom e Candice Smith, i miei migliori amici!»

«Finalmente ti conosco!» esclamò Mark abbracciandolo.

«Piacere di conoscerti, Jason!» esclamó sorridente Candice.

«Ciao Jason, benvenuto!» ribatté Tom al suo fianco.

«Il piacere è tutto mio! Grazie per questa accoglienza!» esclamò timido. Il ragazzo iniziò a guardarsi intorno e Candice sorrise intenerita.

«Ti piace?» chiese curiosa e lo vide arrossire mentre fissava ogni particolare con occhi meravigliati e lucidi.

«Sì! È... è stupendo!»

«Tutto merito di Candice, è la direttrice dell'impresa... ahahah...» esclamò ridendo Kora mentre il ragazzo la guardava sorpreso.

«Davvero? Ti sei presa il disturbo di organizzare tutto ciò?»

«Nessun disturbo! Adoro organizzare feste e cene... e poi adesso sei parte della famiglia!»

«Grazie,sono senza parole!» sorrise e gli strinsi la mano.

«È stato un piacere!» La voce roca ma forte di Nonna Jo ruppe il momento: «Bene! Adesso basta con i convenevoli! A tavola, sennò si fredda». 

Prese dunque il giovane sotto braccio e lo fece accomodare al suo fianco sorridendogli; la mano grande ma delicata di Aaron afferrò il suo braccio e si voltò verso l'amica.

«Grazie di tutto, Candice. Lo hai reso felice e io non so come ringraziarti.»

«Di niente! E poi ho davvero una bella sensazione su di lui.» Sorrisero e raggiunsero gli altri.

Dopo aver consumato la prima portata, Aaron si alzò in piedi accanto a Jason che lo guardò confuso.

«Aaron... perché ti sei alzato?» Il biondo fece un respiro profondo e si schiarì la voce.

«Per tanto tempo mi sono nascosto nell'ombra, vivendo una vita apparentemente normale ma vuota. Da quando ti ho conosciuto, quel giorno a Portland, tutto è cambiato: le mie abitudini, i miei pensieri, io...» Si inginocchiò e prese la mano di Jason. «So che è presto, in fondo ci siamo appena ritrovati ma, questa è la mia promessa...» Aaron tirò fuori dalla tasca un piccolo cofanetto rettangolare che aprì rivelando un bracciale in caucciù con un ciondolo a forma di stella; lo prese per poi metterlo al polso di Jason che con gli occhi pieni di lacrime continuava a guardarlo esterrefatto.

«Te lo ricordi? La prima volta che vedemmo le stelle cadenti insieme...»

«Come potrei dimenticarlo? È stato in quel momento che ci siamo scambiati il nostro primo vero bacio.» sussurrò emozionato; Aaron asciugò una lacrima sfuggita dagli occhi del suo amato e sorrise.

«La prima di tante cose che faremo insieme, tu e io.» Jason scoppió in lacrime circondando il collo di Aaron.

«Ti amo!»

«Ti amo anch'io, piccolo!»

 

***

 

Erano passate due settimane dal compleanno di Jason e il fatidico giorno della gara di cucina di Maple Town era arrivato.

Si respirava un'aria molto gioiosa e festaiola e i profumi delle mele caramellate, delle frittelle di mirtilli con sciroppo d'acero e zucchero filato si spandevano per la città.

Come previsto, l'evento aveva attirato molti turisti e curiosi e la città, addobbata per l'occasione, era piena di vita.

La gara aveva luogo nella piazza principale di fronte al municipio; un piccolo palco in legno, decorato con i colori della bandiera americana e lo stemma di Maple Town, troneggiava sul lungo tavolo su cui ogni partecipante aveva poggiato il proprio piatto vincente.

Dopo aver sistemato il buffet che si sarebbe consumato dopo la gara, Candice andó a posizionare il piatto che aveva deciso di presentare.

In onore di sua nonna Beth, decise di preparare una delle torte della sua infanzia, a cui era particolarmente affezionata: torta speziata alle mele, con crema di formaggio e sciroppo d'acero.

Era piuttosto soddisfatta del risultato e speró che anche nel sapore potesse somigliare almeno un po' a quella di sua nonna.

Venne avvolta dalla nostalgia e dai ricordi, e un sorriso nacque sulle sue labbra. Ripensó a tutti i pomeriggi passati a casa della nonna: lei, seduta al tavolo a fare i compiti, e la nonna, in cucina, mentre canticchiava "Cheat to Cheat" di Fred Astaire.

Ricordava ancora la sua voce melodiosa e i movimenti fluidi del suo corpo soffice e tondo, mentre ballava. Le tante volte che l'aveva coinvolta in quei passi di danza per lei datati e le le risate di sua nonna nel sentirla lamentarsi.

Venne riscossa dai ricordi, dalla voce del sindaco che, dal palco, iniziò il suo discorso: «Benvenuti! Benvenuti a tutti cari cittadini e cari ospiti, alla prima edizione della gara di cucina di Maple Town! Quest'oggi celebriamo le nostre care e affezionate tradizioni familiari presentando le ricette più importanti per noi, omaggiando uno dei prodotti a noi più cari, presente in ogni casa di Maple Town: il nostro sciroppo d'acero!» L'uomo fece una breve pausa. «Ma bando ai convenevoli. Vedo nei volti dei partecipanti la frenesia del momento, perciò divertitevi e che vinca il cuoco migliore!» Un caloroso applauso si levò e una musichetta dai toni allegri riempì l'aria.

I giudici, scelti dal sindaco, iniziarono gli assaggi di ogni piatto, scrivendo poi su ogni scheda un voto da uno a dieci. L'ansia assalí Candice appena iniziarono ad assaggiare la sua torta e si irrigidí.

«Spero gli piaccia!» esclamó nervosa.

«Piacerà loro sicuramente, tesoro! Sei una maga dei fornelli, come tua nonna.» Candice sorrise alle parole di Tom che, amorevole, l'abbracciava confortandola.

Due ore dopo i ventisei piatti presenti erano stati assaggiati e i voti assegnati.

La tensione si tagliava con un coltello e ogni partecipante, lei compresa, pregava di sentir nominare il proprio nome.

 

Dopo aver calcolato i voti di ognuno, arrivò la busta con il vincitore e il sindaco si avvicinò al microfono.


«Bene! Signori e Signore, adesso dichiareremo il vincitore della prima edizione della gara di cucina di Maple Town...»

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Capitolo 13
*** E il vincitore è... ***


Maggio, 1885

Fred era disperato. Da giorni aveva appreso la notizia che la sua amata Harriet avrebbe sposato un ragazzo di SapVille, uno con un lavoro garantito e ben retribuito, uno di buona stirpe. La sua era una famiglia semplice, che non aveva molto da offrire a una ragazza come Harriet, purtroppo. Fred sapeva di essere ricambiato, tuttavia aveva visto la rassegnazione, oltre alle lacrime, negli occhi della sua amata quando gli aveva dato la brutta notizia.

«Ma non possiamo fare nulla» le aveva detto Fred, sconvolto.

«No, e tu lo sai.» Lei lo aveva fissato con lo sguardo di chi non ha più forze per lottare.

Poi era arrivata la festa dello sciroppo d'acero. Fred non vedeva Harriet da settimane, ma camminando tra la folla la scorse, accanto a uno stand. Lui si era mosso velocemente e si nascose dietro a una delle siepi che circondavano la piazza, appena lei gli era stata vicina e nessuno le parlava, lui l'aveva tirata dal braccio, facendola sparire alla vista e cadere tra le sue braccia. Da prima lei si era spaventata, poi lo aveva baciato.

«Mi manchi» gli aveva confessato, con lo stesso tono arrendevole e di rinuncia.

«Facciamo una follia» le aveva detto lui per non pensare a ciò che sarebbe accaduto, all'inevitabile. E lei aveva accettato, avrebbe accettato di fare ogni cosa con lui, perché avrebbe voluto dirgli di rapirla e che lei glielo avrebbe lasciato fare, ma sapeva che Fred non avrebbe potuto.

«Rubiamo la targa, la nascondiamo e facciamo girare l'idea che siano stati quelli di SapVille. Lo farò questa notte e domani i tuoi genitori non vorranno che tu sposi uno di loro.» Era un'idea stupenda che aveva fatto sbocciare un sorriso sulle labbra carnose di lei.

Fred aveva fatto ciò che aveva promesso, quella stessa notte. Harriet la mattina seguente aveva trovato la targa appoggiata alla finestra della sua camera, al primo piano della sua villa. Fred doveva essersi arrampicato sull'albero e insieme alla targa aveva lasciato un piccolissimo biglietto. «Cara Harriet Carter, ce l'abbiamo fatta. Il piano è riuscito. Sapville avrà quello che si merita. Tuo, Fred Rootweet.»

Lei aveva sorriso e nascosto la targa sotto il letto.

Fred aveva trovato il medesimo bigliettino qualche giorno dopo, attaccato alla finestra della sua camera. Sul retro lei aveva scritto di aver messo la targa dove lui le aveva detto di nasconderla e che lo amava, che lo avrebbe amato per sempre. Lo avrebbe amato per sempre. Quella frase voleva dire che avrebbe comunque sposato quel ragazzo di SapVille, ne era certo, la conosceva.

I giorni erano passati e Fred, senza notizie di Harriet, scalpitava. Un giorno, folle di amore, aveva preso la porta e si era diretto da lei, ma appena prima di voltare l'angolo aveva visto una carrozza sotto casa Carter. Harriet stava salendo e sua madre le porgeva una valigia. Il cuore di Fred era andato in pezzi. Da quel giorno si era chiuso in camera finché aveva ricevuto una lettera della ferrovia. Avrebbe girato gli stati uniti d'America posando binari, lo avrebbero pagato bene e se ne sarebbe andato da quella orribile città.

Ma Fred non sapeva che Harriet stava solo andando a trovare una zia malata e che al suo ritorno avrebbe saputo che Fred se n'era andato, l'aveva lasciata sola, senza nemmeno una parola né un saluto.

Nessuno dei due ebbe un altro amore. Fred visse lontano, Harriet rimase sola e impazzì.

***

Rupert Rootweet se ne stava seduto davanti alla signora Patience. I due si guardavano in silenzio da circa dieci minuti, poi, con uno scatto dovuto alla poca pazienza rimasta, Rupert parlò: «Allora, Patty? Non ho tutta la giornata a disposizione».

«Mi devi promettere di non farne parola con nessuno» disse la donna mentre iniziava a formulare un discorso nella sua mente.

«Questa faccenda mi ha già rubato molto tempo. Non lo dirò a nessuno, ma sbrigati.»

«Sempre docile come un passerotto, non sei cambiato affatto.» Patty rise e prese il grugnito di Rupert come un segno di assenso.

«È successo tanto tempo fa, quando ero ancora giovane. Era un pomeriggio come tanti e, come tutte le volte in cui andavo a casa di Emma, mi ritrovai in soffitta a giocare con lei. Non so per quale motivo, ma ci divertivamo un mondo a metterla a soqquadro per scoprire nuove cose. Quel giorno, però, non lo dimenticherò mai. Mi ricordo che Emma mi chiamò e mi chiese se volessi conoscere un segreto e che in quanto tale non avrei dovuto rivelarlo a nessuno. Io ero una ragazza, queste cose facevano scatenare la mia fantasia. Così, accettai e...»

Rupert la interruppe. «Tu mi stai dicendo che sapevate questa cosa da anni e non l'avete mai detta a nessuno?»

La risposta alla sua domanda arrivò dal silenzio della donna e Rupert non insistette.

«Continua» disse.

«Accettai e da un piccolo baule in legno, avente un lucchetto tutto vecchio e arrugginito, Emma tirò fuori un quadretto in legno con delle decorazioni abbastanza "antiche". Gli intarsi non erano ben visibili, capii subito che si trattava di qualcosa di molto vecchio. All'interno del quadretto vi una una targa fatta in bronzo.

Sul fondo metallico veniva riportata una scritta: "Maple Syrup Festival".

«Ma se siamo stati noi a vincere, perché Fred l'ha rubata lasciando un biglietto nel suo orologio?»

«Orologio? Quale orologio?» domandò la donna incuriosita.

«Oh, guarda. C'è qualcosa che non sai» Rupert rise di gusto.

«Rupert!» lo rimproverò la donna.

«Il biglietto che ti ho mostrato poco fa lo ha lasciato Fred in un vecchio orologio che ho trovato in soffitta. È un lascito della mia famiglia. Magari lo hanno usato per scambiarsi qualche messaggio.»

«Questo spiegherebbe come hanno mantenuto il segreto» concluse Patty.

«Ma tornando alla domanda di prima: che motivo c'era di rubare una cosa che era già nostra di diritto?» domandò Rupert ticchettando le dita sul legno del tavolo della cucina.

«Feci più o meno la stessa domanda a Emma, quando me la mostrò. Tutti sapevano della scomparsa della targa, persino io. Chiesi a Emma come mai fosse in suo possesso e nascosta in un baule in soffitta. Lei sorrise e dal baule tirò fuori un diario che mi invitò a leggere. Il diario era di Harriet, una sua lontana parente, e raccontava dettagliatamente come, dove, quando e perché la targa era stata rubata. A quanto pare, Fred Rootweet e Harriet Carter si volevano molto bene, ma a quel tempo non era sempre possibile sposarsi con la persona scelta: spesso era la famiglia a decidere chi dovesse sposare la propria figlia. Il caso volle che Harriet fosse già stata promessa a un giovincello benestante della città vicina.

Quindi, per farla breve, Fred ha rubato la targa in modo che la città di Maple pensasse che i cittadini di Sap Ville, invidiosi della vittoria, avessero rubato la targa. Secondo Fred, l'accaduto avrebbe dovuto provocare dei ripensamenti nella famiglia di Harriet.»

Rupert spalancò gli occhi per la sorpresa e rimase a bocca aperta per qualche minuto. «Un momento, frena la corsa. Tu mi stai dicendo che Fred, per amore, ha rubato una targa... Non è possibile. Mi stai prendendo in giro, donna.» Rupert scattò in piedi.

«Sta' seduto dove sei, Rupert Rootweet, e non azzardarti a darmi della bugiarda. Si possono dire tante cose su di me, ma non che sono una bugiarda» lo ammonì pesantemente la donna. «Questa è la verità. Chiedi a Josephine se non ne sei convinto.»

«Per tutti gli orologi a pendolo, non vorrai dirmi che c'entra anche lei in questa storia!» esclamò Rupert.

«Sì, lei era venuta a casa di Emma con me. Eravamo insieme, quel giorno» rispose la donna in tutta tranquillità.

«Va bene, continua, prima che perda altro tempo.»

La donna finì di raccontare la storia. Gli disse dove nascosero la targa, di come Fred accettò il lavoro nelle ferrovie e di come Harriet, divenuta pazza per tutta la faccenda, decise di scrivere il diario. Così, Patty e Jo, preoccupate che la targa venisse scoperta in casa di Emma, decisero insieme di portarla da White e tenere la storia di Harriet e Fred segreta.

«E così Fred e Harriet... Va bene, Patty. Ti ringrazio.» Rupert si alzò e si diresse verso la porta d'ingresso.

«Non farne mai parola con nessuno... Nemmeno con Nora.»

L'uomo annuì e poi uscì da casa della donna. Camminó a lungo per metabolizzare tutto quello che era successo. Quando alzò la testa per controllare che ora fosse, si ritrovò al cimitero della città. Decise che sarebbe stata una buona idea farsi una passeggiata in quel clima di silenzio e tranquillità, prima di tornare a casa. L'uomo non seppe come accadde ma, camminando, avvolto nei suoi pensieri, si ritrovò davanti la tomba in granito della famiglia Carter. L'uomo sorrise ed estrasse il biglietto della sua tasca. Lo rilesse e poi andò in direzione della lapide di Harriet Carter. La guardò per qualche attimo e respirò a fondo l'aria primaverile.

«Credo che la verità debba morire con te, cara Harriet» Rupert si inginocchiò, scavó una piccola buca accanto a una statuina di pietra e vi inserì il bigliettino. Poi infilò la mano nella giacca e vi trovò l'accendino che, da giovane, usava per accendere le sigarette.

«Cenere alla cenere.» Rupert fece scattare la rotella dell'accendino e diede fuoco al biglietto. Aspettò che si consumasse del tutto e poi ricoprì la buca. Dopo qualche attimo di silenzio e concentrazione, Rupert si alzò e si diresse all'uscita.

L'uomo camminò per le vie del paese fin quando, giunto in prossimità della collina dove abitava, non udí una voce alle sue spalle.

«Ciao, Rupert.»

L'uomo riconobbe la voce e ricambió il saluto.

«Ciao, Rachel.»

«Torni a casa per il pranzo?» domandò la donna guardando l'orologio.

«Sí, mia nipote Nora mi starà aspettando» disse l'uomo passandosi una mano dietro la testa.

«Già, la piccola Nora. Ne parlano tutti bene, in paese» disse Rachel, sorridendo.

«Ti andrebbe di conoscerla?» chiese Rupert leggermente imbarazzato.

Rachel sorrise «Mi farebbe molto piacere.»

I due sorrisero, voltarono le spalle alla tranquille vie del paese e si incamminarono lungo la salita che li separava da Nora.

***

Simon Cook si aggiustò la cravatta, fece un respiro profondo e si avvicinò al piccolo palco su cui avrebbe dovuto annunciare il vincitore.

Sorrise a tutti, prese il microfono e fece il soliti ringraziamenti per la riuscita della festa del 130° anniversario della fondazione di Maple Town.

Il sindaco di SapVille, Tara Wolman, di cui Simon si ricordava per aver avuto scontri negli anni passati, era una donna di colore sulla quarantina, con una grinta degna del miglior grizzly ed era seduta proprio al tavolo dei giudici e lui non riusciva a essere completamente tranquillo. Aveva dovuto spiegarle cosa sarebbe successo quel giorno per riuscire a strapparle il consenso a partecipare alla celebrazione e lei, che si era dichiarata golosa di sciroppo d'acero, aveva chiesto di essere il presidente della giuria. Simon aveva il terrore che avesse in mente qualcosa, perché continuava a lanciargli strane occhiate da quando era iniziata la gara.

«Ora, so che siete tutti ansiosi di scoprire il vincitore della gara di cucina, ma prima, vorrei ringraziare tutti i cittadini di SapVille che sono venuti a festeggiare con noi e vorrei invitare, qui accanto a me, il sindaco di SapVille. Venga, Miss. Wolman, mi faccia l'onore di presentarla a tutta Maple Town.»

Simon si prese una pausa e invitò, con la mano, la donna a salire sul palco. Il sindaco di Sapville, sorrise diplomaticamente e si alzò, annuendo e avvicinandosi alla scaletta del palco mentre il fruscio di un applauso accompagnava la sua camminata.

«Grazie, Mr. Cook» disse la donna, quando prese in mano il microfono. «Essere qui in veste di rappresentante della mia cittadina, è un onore per me. E anche aver assaggiato i vostri buonissimi piatti!»

Un applauso più sentito si alzò dalla platea al suono delle sue parole.

«Bene, bene. Siamo veramente contenti che il nostro invito sia stato accettato anche perché alla luce dei fatti scoperti di recente, abbiamo capito che la guerra fra due cittadine come le nostre, così vicine e simili, non ha più senso di esistere.

Più di un secolo fa, la targa per la vincita del 'Syrup Maple Feast' era stata trafugata e i nostri antenati hanno ingiustamente incolpato gli abitanti di SapVille di averla rubata e nascosta; ora, che è stato scoperto che era tutto un equivoco, noi vorremmo riappacificare gli animi.»

Un altro applauso pilotato riempì l'aria mentre Cook indicava cerimoniosamente un gazebo, dove venne scoperta dal telo che la copriva la famosa targa di bronzo.

«Ma non è finita qui. Per lasciarci il passato alle spalle, abbiamo pensato, io e Miss Wolman, di farvi sapere, cari cittadini di Maple Town e SapVille, di ricostruire il ponte che venne distrutto e decretò l'inizio degli scontri, così che possiamo finalmente dichiarare chiusa per sempre la questione.»

Un altro applauso si alzò dal pubblico, anche se durò poco, perché la gente era ansiosa di avvicinarsi alla targa per guardarla meglio, ma più che altro era in agitazione per...

«"Sindaco, bando alle ciance! Chi ha vinto la gara?»

Simon rise e si stupì quando anche Miss. Wolman lo fece. Lui si fece da parte e indicò la donna per lasciarle il centro del palco e la dovuta attenzione.

«Eccoci, giusto, sarete tutti curiosi di sapere che la nostra giuria, formata da mangiatori di sciroppo altamente esperti, ha deciso che il vincitore è...» Tara si fermò per riuscire ad aprire la piccola busta con cui era salita sul palco, dove c'era scritto chi si sarebbe vantato del piatto più buono e portato a casa i 2.500 dollari di premio.

«Il miglior piatto è stato il 'Salmone glassato allo sciroppo d'acero con riso e porro! Complimenti!»

«Oh! Ma abbiamo vinto noi!» Nora spalancò gli occhi mentre l'applauso festeggiava lei e il ragazzo che aveva accanto, verso il quale lei si girò. «Seth, abbiamo vinto!»

Il ragazzo annuì sorridendo, come se lui non avesse mai avuto dubbi. «È stato merito tuo, Nora. Nessuno aveva pensato di portare del pesce in gara!»

«Merito nostro, merito nostro. Hai fatto la tua parte anche tu, se tua nonna non ti avesse suggerito come fare la glassa di sciroppo a parte, non ci sarebbe mai venuto in mente!» Nora si alzò e prese per mano il ragazzo, trascinandolo sul palco per ritirare il premio.

«Ragazzi, è stata una bella sorpresa, complimenti! Avremo dei futuri chef a Maple Town?»

«Grazie. E chi lo sa, signor sindaco. La vita è tutta da scoprire» rispose Nora, lanciando un'occhiata a Seth, che arrossì.

 

***

 

Lo spumante venne aperto e i brindisi furono tanti, mentre la piccola banda iniziava a suonare, dando il via ai veri festeggiamenti della festa di fondazione.

Simon si avvicinò alla targa con un bicchiere di vino bianco e si affiancò a Miss. Stealer che parlava con altre due signore della stessa età.

«Oh, sindaco! Ha visto che è andata bene, poi? Abbiamo risolto tutto!» esclamò lei, dando una gomitata alla donna vicino a lei, che sorrise nella sua direzione.

Dopo pochi convenevoli le tre anziane si allontanarono e Simon rimase solo davanti alla targa.

«Certo che tutto questo casino per una targa così brutta...» Simon si voltò verso Tara, che era arrivata silenziosamente.

«Ah, non lo penso solo io, allora!» Simon si scoprì a sorridere.

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***Eccomi qui, scusate, scusate, scursate! Ho scoperto che non avevo pubblicato l'ultimo capitolo, così, dopo tantissimo tempo, mi sembra giusto farlo, almeno per far sapere a tutti come è andata nel 1885.

Spero che la storia vi sia piaciuta e, anche se non c'è l'epilogo (che in teoria sarebbe quasi scritto, ma poi alla fine non è stato concluso molto...) almeno saprete chi ha vinto la gara di cucina. 

Un grosso grazie a chi ha letto fino a qui e soprattutto a Milly_Sunshine  che ha recensito tutti i capitoli.

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