Ahead on our way

di purpleblow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Purrrfection! [Wedge] ***
Capitolo 2: *** Pure heart [Aerith] ***



Capitolo 1
*** Purrrfection! [Wedge] ***


Ahead on our way

 

01. Purrrfection [Wedge]

 

 

La prima cosa che colpiva di Wedge era il suo sorriso: sorrideva sempre, ma la verità è che non aveva sempre sorriso.

Vivere nei bassifondi per un bambino non era semplice, soprattutto se eri cicciottello e impacciato come lo era lui: prima di diventare il ragazzone dalla battuta pronta ma coraggioso e forte come tanti si sognavano, non era altri che un bimbo pauroso e timido, ergo, il bersaglio perfetto per gli stupidi bulletti che popolavano le strade del Settore 7.

Lui, che in cuor suo era comunque buono, non si era mai sognato di ribellarsi e il motivo era soprattutto uno: aveva il terrore di perdere anche quella poca — sbagliata — considerazione che riceveva. Cosa che, in fondo, sapeva sarebbe stato meglio non avere.

C’erano alcuni momenti in cui la tristezza prendeva il sopravvento e siccome non amava farsi vedere triste agli occhi degli altri, finiva per andare a rifugiarsi nei pressi della discarica. Aveva scoperto un piccolo angolino di paradiso — sempre se così si poteva definire trattandosi di un qualunque posto delle slums — per caso, camminando un giorno senza e meta e senza possibilità di vedere realmente dove stava andando a causa delle lacrime che gli appannavano gli occhi; si era fermato solamente quando, capendo di esser uscito dal centro abitato, si era leggermente allarmato non sapendo come poter tornare indietro, ma alla fine, convinto dal fatto che nessuno si sarebbe disperato nel non vederlo tornare si era fatto coraggio e si era intrufolato in quello che pareva un vecchio recinto disabitato, passando a fatica da un’apertura della rete.

Andò poi a sedersi su un vecchio e sporco materasso abbandonato in un casottino, dove Wedge rimase a singhiozzare con il viso affondato sulle ginocchia a lungo, perdendo completamente la cognizione del tempo e persino del luogo, estraniandosi del tutto da ciò che lo circondava.

E nel silenzio, in quel momento quasi surreale, si ritrovò a schizzare in aria a causa di un qualcosa di ruvido e umido che gli aveva solleticato la caviglia: nel momento stesso in cui, dopo aver indietreggiato di almeno un metro cadendo dal materasso, aveva sollevato coraggiosamente il viso per capire cosa fosse accaduto, si ritrovò a fissare gli occhioni gialli e leggermente opachi di quello che era un gattone apparentemente anziano.

Wedge e il micio rimasero per un bel po’ a fissarsi, poi il bambino prese coraggio e mettendosi in ginocchio, cominciò a gattonare verso il felino, allungando una mano per permettergli di annusarlo e conoscerlo: fu divertente vedere l’animale da prima ingobbirsi in un evidente avvertimento, probabilmente per paura che Wedge scattasse nuovamente, dopodiché, capendo che le intenzioni erano ben altre si calmò, avvicinando il musetto al dito dell’umano.

 

« Se sapevo che ti avrei incontrato mi sarei portato dietro un pezzo di formaggio. O del prosciutto. Sì, forse il prosciutto ti piace di più. » disse Wedge, ridacchiando quando il gatto cominciò a leccargli la punta del dito. Se non fosse stato assurdo avrebbe pensato che la bestiola avesse apprezzato quelle parole e, chissà, magari stava cercando di farsi prendere in simpatia per ottenere la volta successiva il suo meritato prosciutto. « Se fai il bravo e prometti di tornare domani te lo porto, che ne pensi? » 

 

E così fu. Il giorno successivo il bambino tornò nello stesso luogo con ciò che aveva promesso e, per la prima volta forse, si lasciò sfuggire un grande sorriso nel vedere che il gattone lo stava aspettando composto al centro del materasso.

Era… incredibile. E meraviglioso. 

Non solo aveva incontrato qualcuno che non lo avesse ignorato, ma addirittura questo era tornato per incontrarlo e… per giunta gli stava andando incontro con quella codina dritta che muoveva leggermente, un po’ come se volesse mostrare contentezza nel vederlo.

 

« Ciao! Vedi che sono bravo a mantenere le promesse? » trillò Wedge, inginocchiandosi a terra e togliendo dalla tasca il fazzoletto avvolto attorno al cibo destinato all’animaletto. « Anche tu sei stato bravo però, sai? » 

 

Wedge rimase a osservare il micio che in quattro e quattr’otto aveva trangugiato le due fette di prosciutto, senza mai abbandonare quel sorriso che raramente piegava le sue labbra.

 

« Ma tu ce l’hai un nome? Immagino di sì, ma… uhm, non conoscendo il gattese forse sarà il caso che te ne dia uno io, no? » domandò il bambino, vedendo l’animale sollevare lo sguardo per un solo, breve istante, come a volergli dare il consenso — o qualcosa più come “Fai come ti pare, umano!”. « Ho trovato! Ti chiamerò Ham! » 

 

E non importava affatto se quel nome era forse il più banale e stupido del mondo, perché per Wedge aveva eccome un significato, esattamente come lo avevano quelle due misere fettine di prosciutto che ormai risiedevano nello stomaco del gatto ma che erano state il simbolo di una nuova e presto importante amicizia.

Per la prima da quando aveva ricordo, Wedge aveva trovato un amico e quell’essere peloso dall’aria scorbutica non lo allontanava, né lo guardava dall’alto in basso per il fatto che avesse qualche chilo di troppo, semplicemente lo accettava per ciò che era e no, non era perché gli aveva portato del cibo, ma c’era qualcosa che andava oltre a quello e anche se ancora non sapeva cosa fosse quel qualcosa, il bambino era sicuro che lo avrebbe presto scoperto.

Infatti, pochi giorni più tardi ebbe la sua risposta: nel mentre stava percorrendo la solita strada che ormai faceva ogni giorno, nel mentre oltrepassava la recinzione Wedge si ritrovò a fronteggiare un gruppo di ratti per nulla amichevoli e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu quella di gettarsi a terra e coprirsi la testa con le mani, come se potesse proteggersi in qualche assurdo modo.

A proteggerlo però fu un Ham volante che, con un grido disumano si avventò sui quattro topi attaccandoli senza fermarsi fino a che non li ebbe tramortiti; la piccola rissa ovviamente lasciò alcuni strascichi e non appena il bambino si rese conto che il suo amichetto si era ferito a una zampa non esitò un solo istante a medicarlo, per quanto poteva ovviamente.

 

« Oh, Ham! Tu… non dovevi preoccuparti per me. » borbottò Wedge mentre armeggiava con la zampina ferita che, dopo averla bagnata con dell’acqua l’avvolse in un pezzo di stoffa strappato dalla propria maglietta. « Insomma io… sono abituato a cavarmela da solo, sai? » 

 

Per quanto tentasse di utilizzare un tono di rimprovero — degno di sua madre quando lo vedeva tornare con una caterva di lividi in più del solito — gli uscì un qualcosa di indefinito, molto più simile a un rantolo piagnucoloso: come poteva nascondere la commozione per il fatto che qualcuno una volta tanto, non solo si era preoccupato per lui, ma addirittura aveva rischiato la pelle pur di proteggerlo? Dunque… anche lui aveva un valore per qualcuno? Ham si sarebbe dispiaciuto se lui un giorno fosse sparito?

Ma non era tanto quello il punto, quanto la consapevolezza che anche se si è dei gattoni goffi, anziani e smunti si può fronteggiare un branco di ratti famelici uscendone vincitori, seppur con qualche misero graffio.

Wedge quel giorno aveva compreso una cosa importantissima, ovvero, che doveva cacciare fuori il carattere come aveva fatto il suo amico e chissà che questo non lo avesse fatto con l’intento di donargli un insegnamento. 

 

Erano passati diversi anni da quel giorno, sedici all’incirca, ma nonostante il tempo Wedge non aveva mai dimenticato il suo amico Ham. Da allora si era preso cura forse di ogni gatto presente nel Settore 7, divenendo al contempo un membro importantissimo di Avalanche: ora tutti lo rispettavano, nessuno osava più mettergli i piedi in testa e questo status lo aveva ottenuto con le sue sole forze.

Adesso Wedge non era più il bambino impacciato e bersagliato da tutti, ma il ragazzone forte e dal cuore grande su cui chiunque faceva affidamento: se c’era un problema tutti, nessuno escluso, si rivolgevano a lui — anche se gran parte della gente avesse saputo che era un AVALANCHE probabilmente avrebbe avuto qualche riserva, perlomeno coloro che non provavano odio nei confronti della ShinRa, nonostante giù nei bassifondi ce ne fossero ben pochi.

 

Quel giorno, uno come tanti, Wedge si era recato al suo vecchio nascondiglio di quando era bambino, laddove andava per regalarsi pace e tranquillità in compagnia del suo vecchio amico che non c’era più: perdere Ham era stato un duro colpo per il ragazzo, ma mai aveva smesso di recarsi in quel luogo.

Seppur soffriva la sua assenza, per Wedge passare il tempo lì significava lasciarsi andare ai ricordi e non c’era una singola volta in cui non si ritrovava a sorridere ripensando al carattere un po’ burbero del vecchio Ham, l’unico che davvero lo avesse trattato come un amico e, al contempo, un compagno di avventure dal quale prendersi coccole e qualche pranzetto extra.

 

« Ehi, Apple Pie, ci sei? » chiamò a un certo punto, una volta infiltratosi nel suo posto preferito ed essersi guardato intorno in cerca dell’attuale abitante della discarica; aguzzò le orecchie fino a che non udì un affettuoso miagolio seguito da altri più acuti ed esigenti che fecero sorridere di cuore il ragazzo. « Ti ho portato un regalino, signorina! » 

 

Facendosi strada tra le lamiere abbandonate al suolo, raggiunse la gatta che lo salutò strusciandosi alle sue caviglie e che lui ricambiò facendole i grattini dietro le orecchie: anche lei la conosceva da diverso tempo e non poteva fare a meno di ritrovare la felicità quando la vedeva, perché non solo l’aveva praticamente cresciuta ma era una delle nipoti di quel dongiovanni instancabile di Ham e solo per questo se la portava nel cuore. Lei, a differenza dei suoi fratellini e sorelline nate nel corso del tempo, aveva deciso di rimanere ancorata a quel luogo per niente intenzionata ad abbandonarlo per avventurarsi fra gli umani.

Dopo averle lasciato della carne macinata nella ciotola e aver riempito quella dell’acqua, passò a salutare le tre piccole pesti: due femmine identiche al padre — che era una sorta di piccola pantera nera — e il maschio che invece era un mix dei genitori, quindi uno scricciolo a macchie bianche e nere.

 

« Ho portato della pappa anche per voi, sapete? » disse ridendo mentre le bestiole gli si arrampicavano sulle gambe reclamando il cibo. « Per essere così piccoli siete tremendi, sapete? Ora, da bravi: Muffin, Cupcake, Pudding, sareste così carini da scendere e mettervi buoni a mangiare? » 

 

Fu lui stesso a staccarli dai pantaloni, poggiandoli al suolo dove giaceva un piattino che riempì di una succulenta cremina di pesce su cui i cuccioli affamati si avventarono senza neppure aspettare un secondo.

Nell’osservarli, Wedge andò a sedersi poco distante, accogliendo la micia che subito gli si piazzò sulle gambe.

Per Wedge prenderei cura di loro — e di tutti i gatti dei bassifondi — era diventata la normalità e quasi soffriva quando doveva stargli lontano a causa delle missioni di AVALANCHE. Certo, grazie al gruppo di resistenza aveva trovato degli amici per cui avrebbe dato la vita, ma mai avrebbe dimenticato l’amore che quei randagi gli avevano sempre dimostrato, per cui appena aveva un momento libero piuttosto che riposarsi preferiva passarlo accudendoli e facendo loro compagnia.

E gli andava benissimo così perché finalmente poteva dire di sentirsi vivo e felice e la stanchezza gli faceva solamente guardare a quel passato di solitudine con gioia: adesso aveva degli amici, adesso non era più invisibile agli occhi del mondo.

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Capitolo 2
*** Pure heart [Aerith] ***


Pure heart

 

 

Aerith sedeva sui freddi scalini in pietra dell’Inn di Kalm Town, tenendo gli occhi fissi in un punto imprecisato mentre lasciava che la mente vagasse libera, senza premurarsi di mascherare il costante senso di oppressione che le attanagliava lo stomaco.

Ora che era sola, con gli altri che dormivano nella loro camera in vista dell’impegnativo viaggio che avrebbero dovuto affrontare, si era concessa un attimo di stacco da tutto quanto e, soprattutto, si era permessa di lasciar cadere la maschera che portava indosso continuamente.

Sussultò quando, dopo interminabili minuti passati a chiedersi se buttarsi in un’avventura più grande di tutti loro fosse stata la scelta giusta, udì la voce profonda di Cloud interrompere la quiete notturna.

 

« Non riesci a dormire? » si sentì chiedere, non potendo fare a meno di notare la preoccupazione che sporcava il tono di voce dell’altro. 

 

« Sono solo uscita a prendere una boccata d’aria poco fa, non preoccupati. » gli disse, osservandolo mentre le si sedeva di fianco e la fissava con un sopracciglio sollevato in segno di disappunto.

 

« Andiamo, ti ho sentita uscire dalla stanza e non era esattamente poco fa. » esclamò lui, facendole intendere che quella piccola bugia non attaccava. « C’è qualcosa che ti preoccupa? » 

 

A quella domanda Aerith avrebbe tanto voluto rispondere che, effettivamente, niente andava e questo non da ora, ma da che ne aveva ricordo. Non volendo mettere il carico da novanta — visto che il loro viaggio di certo celava in sé un miliardo di preoccupazioni — cercò però di sviare e di mostrare il suo miglior sorriso rassicurante, inconsapevole che Cloud fosse però un buon osservatore e che aveva notato fin dal primo momento l’ombra che permeava nei suoi occhi.

 

« Puoi anche smetterla di nascondere ciò che provi davvero. » disse secco il SOLDIER, in evidente difficoltà visto che raramente mostrava interesse per altri. « Per una volta va bene se non metti gli altri in primo piano. È sbagliato tenersi tutto dentro. » 

 

E lo disse con convinzione, forse proprio perché lui stesso sapeva che cosa significasse trincerarsi dietro al silenzio piuttosto che esternare i propri pensieri per non deprimere chi gli stava attorno. Non era mai stato il tipo adatto a certe conversazioni e anzi, quando poteva tendeva a sfuggire a tali discorsi, ma con Aerith era diverso. Aveva capito quanto la ragazza soffrisse internamente e che, per carattere, preferiva soffocare i pensieri tristi per dedicarsi agli altri: lei era quel tipo di persona che metteva in primo piano il benessere delle persone, preferendo dedicarsi a loro e spronarle col suo modo di fare incredibilmente altruista e propositivo. Ma quali e quanti demoni si celavano dentro la ragazza? Cloud non aveva certo dimenticato il racconto di Elmyra, né aveva smesso di pensare a quella cameretta intrisa di ricordi e impregnati dell’infanzia difficile di una Aerith bambina situata nelle profondità della sezione scientifica della ShinRa.

Cloud sapeva che dietro alla personalità carismatica e sempre sorridente della Cetra si nascondevano un miliardo di ferite che mai era riuscita a cancellare — e che probabilmente erano destinate a rimanere impresse nella sua memoria — e che forse mai aveva avuto l’opportunità di esternare ad anima viva.

Insomma, lei aveva visto la propria madre morire di fronte ai suoi occhi e chissà quali altre atrocità aveva vissuto stando a contatto con quel pazzo di Hojo che di umano non aveva nulla e che pur di portare avanti le sue ricerche era disposto a passare sopra alla vita delle persone? 

 

« Cosa vorresti sapere? » la domanda le uscì un po’ incerta, anche se l’espressione del viso mostrava sincera contentezza per il fatto che Cloud si stesse interessando a lei, ben sapendo come fosse fatto. 

 

« Intanto vorrei capire se ti pesa essere qua. In fin dei conti lasciare Midgar è stato del tutto improvvisato e magari non era ciò che volevi. » 

 

L’avevano salvata, questo era vero. Ma qualcuno le aveva domandato se seguirli era ciò che desiderava realmente? Certo, vederla così convinta nel momento in cui avevano realizzato chi fosse il loro nemico — cosa che, stranamente, Aerith pareva conoscere in qualche assurdo modo — poteva essere una risposta, ma questo era comunque avvenuto dopo che si erano messi in fuga dalla ShinRa. Forse la ragazza avrebbe voluto rimanere a casa con sua madre e la piccola Marlene.

 

« Beh, tornare a casa non sarebbe comunque stata una buona idea. Per fare cosa, aspettare che Tseng— che i Turks tornassero a prendermi? » pose quella domanda retorica al biondo che, semplicemente, annuì, anche se non era comunque la risposta che aspettava dato che nulla lasciava trasparire riguardo ai desideri della Cetra.

 

« Non era ciò che— » 

 

« Però volevo comunque venire con voi. » ammise, abbandonando la testa contro la spalla del biondo che a quel contatto sussultò leggermente, cercando di ignorare la sensazione di benessere che quel semplice gesto gli dava e non tanto perché non era abituato al contatto fisico che normalmente rifuggiva, quanto perché la vicinanza di quella ragazza lo faceva sentire strano in un modo che non riusciva ancora a comprendere. Non si trattava di qualcosa legato alla semplice attrazione, o meglio in parte sì, ma c’era un qualcosa di lei che lo attraeva come una calamita senza che potesse farne a meno. 

 

 

Un giorno capirai. Cerca di mettere a fuoco i tuoi reali pensieri.

 

 

Nella sua testa udì una voce lontana a cui però non dette peso, credendo si trattasse di suggestione. La voce nella sua testa si lasciò sfuggire una risata, ben sapendo che quello non era il momento adatto per cui Cloud si facesse domande esistenziali — esistenziali nel vero senso della parole, tra l’altro.

 

« Sai Cloud, da quando ho incontrato te, Tifa, Barret e Red sento per la prima volta in vita mia di avere degli amici. » gli spiegò, sospirando e osservando il cielo con gli occhi luminosi di una gioia mai provata prima. « Attorno a me recentemente ho avuto persone gentili e che mi hanno fatta sentire ben voluta ma… mi sono comunque sentita sola. Sempre. » 

 

Sorrise a sé stessa quando realizzò che in realtà sola non lo era mai stata del tutto — o almeno, non nel senso letterale del termine — visto che ad accompagnarla c’erano sempre state quelle voci nella testa. Lei percepiva i lamenti del pianeta, a volte lo sentiva soffrire, altre rifiatare, ma il silenzio non sapeva certo cosa fosse. Però… il pianeta oltre che a metterla in allarme e inizialmente, prima di abituarsi, in ansia, non era la stessa cosa che avere degli amici pronti a proteggerla.

Aveva visto Cloud farsi in quattro pur di proteggerla, accompagnandola nei posti più disparati solo per portare a termine le commissioni degli abitanti del Sector 5; Tifa le aveva teso una mano sin dal primo momento, mostrandosi premurosa e dandole il coraggio necessario per affrontare quel cammino difficile e pieno di pericoli che aveva intrapreso; la riconoscenza che le aveva dimostrato Barret, pronto a tutto pur di tirarla fuori dalle grinfie della ShinRa nonostante ancora non avesse avuto modo di conoscerla, proteggendola a spada tratta quando si erano ritrovati a dover fronteggiare quelle creature per nulla amichevoli nel laboratorio del professor Hojo e per finire, aveva trovato in Red XIII una figura saggia e comprensiva, molto simile a lei, forse perché avevano in comune il fatto di essere gli ultimi sopravvissuti della loro specie, anche se ancora, a onor del vero, questo non lo sapeva.

Quel gruppo in pochissimo tempo era diventato molto più che unito e Aerith sentiva che in loro compagnia poteva affrontare veramente qualsiasi cosa, persino quel futuro di cui aveva paura; con loro aveva attraversato il cancello che divideva Midgar dal resto del mondo, laddove non avrebbero avuto più un tetto sulle loro teste ma un azzurro cielo che si disperdeva a vista d’occhio — era felice di averlo potuto fare anche senza la persona che una volta le aveva promesso di tenerla per mano quando l’avrebbe fatto perché significava che era diventata coraggiosa. E comunque, in un certo senso le era parso di sentirla la sua presenza mentre si apprestava a varcare l’ingresso della cupa Midgar, dunque, in qualsiasi luogo fosse, sapeva che anche lui l’aveva accompagnata, di fatto, non spezzando quella famosa promessa.

Si sforzò di non pensare troppo a quel ragazzo ormai appartenente al suo passato e decise di riprendere a confidarsi con Cloud che ora la guardava con espressione dubbiosa, ma senza dire nulla, non sapendo se Aerith avesse semplicemente bisogno di un istante di silenzio per raccogliere i pensieri.

 

« Quando ero molto piccola, come ormai saprai, c’era solamente la mia mamma a prendersi cura di me e dopo di lei c’è stata Elmyra che considero come una seconda madre. Però… oltre a loro non ho mai avuto nessun amico. » raccontò, prendendo a giocherellare con una ciocca castana dei propri capelli, fissando un punto indefinito in lontananza. « Gli altri bambini mi trovavano strana e in fondo, come dar loro torto? Ero una bambina un po’ solitaria che preferiva stare in mezzo alla natura, ad ascoltare quelle voci che mi parlavano nella testa, piuttosto che giocare a nascondino con loro e questo credo li spaventasse, ma io… seppur ne avessi inizialmente paura, ho capito che quelle voci non mi avrebbero fatto del male e che, se le sentivo, c’era un motivo. » 

 

« Tua mamma— intendo, quella vera, non ti aveva mai spiegato cosa fossero quelle voci? Mi sembrava di aver capito che poteste sentirle solamente voi Antichi. » 

 

« Cetra. » lo corresse la ragazza con un sorriso, andando poi a rispondere alla sua domanda. « Certo che me ne aveva parlato, solo… non avevo mai compreso che cosa intendesse almeno fino a quando non ho potuto udire anche io i lamenti del pianeta. La prima volta per me è stato un trauma, ma poi… beh, quelle voci mi tenevano in un certo senso compagnia nonostante dentro di me non abbia mai smesso di provare quel senso di solitudine. 

Però devo dire che se gli altri bambini mi facevano sentire diversa, quando mi soffermavo ad ascoltare con attenzione quei suoni mi sembrava di avere la sensazione che mescolati ai lamenti ci fossero anche delle voci che cercavano di farmi sentire speciale… compresa. » 

 

Cloud rimase in totale silenzio ad ascoltare la ragazza parlare, notando nei suoi occhi un’ombra malinconica e si sentì persino inutile perché, davvero, non sapeva come riuscire a sollevarle il morale, considerando poi che quelli erano perlopiù pensieri che riguardavano un passato che ormai, se ben aveva capito, lei si stava in parte lasciando alle spalle. Una cosa però promise a se stesso, ovvero, non avrebbe mai lasciato andare la sua mano e mai avrebbe permesso che si sentisse nuovamente sola e persa come aveva provato in passato. 

Non sapeva come, a dire il vero, non era propriamente braivo in certe cose ma era certo che Aerith avrebbe notato tutta la sua buona volontà, dato che la Cetra aveva un’empatia talmente marcata che percepiva qualsiasi minima cosa.

 

E in effetti, dallo sguardo che ora Aerith gli stava rivolgendo e dal sorriso che le illuminava il volto, sembrava persino avergli letto nel pensiero.

 

« Grazie Cloud. » disse solo, abbracciandosi le ginocchia che aveva portato al petto. « Apprezzo davvero quello che fai— quello che fate tutti quanti per me, per farmi sentire parte di voi. » 

 

« Siamo una famiglia. » si lasciò sfuggire, non credendo neppure lui di averlo detto. « …credo. » 

 

E a quell’aggiunta finale, così da lui, Aerith scoppiò a ridere, non potendo poi impedirsi di abbracciarlo in uno slancio d’affetto che, inevitabilmente, ebbe l’effetto di far irrigidire il ragazzo che come reazione si grattò la testa, non sapendo bene come reagire. Il calore che però gli riscaldo il cuore lo portò a sorridere senza quasi rendersene conto talmente era piacevole. Aerith era piacevole.

 

Restarono ancora a lungo in quella posizione, ascoltando in silenzio il rumore dei grilli che cantavano in lontananza mentre si godevano quel momento che per entrambi si era rivelato una piccola parentesi di calma in mezzo alla tempesta che ben presto avrebbero dovuto affrontare. Solo che quella notte non c’era più spazio per preoccupazioni e sarebbe stato così anche in futuro: entrambi in fondo al cuore sapevano che avrebbero dovuto fare il possibile per ritagliarsi quei piccoli attimi perché era probabile che non sarebbero mai più tornati.

Nessuno dei due osò parlare, né si azzardò a far presente che se volevano essere riposati il giorno dopo avrebbero dovuto dormire almeno un po’, perché in fin dei conti che cosa importava un po’ di stanchezza in confronto a quella sensazione di benessere che stavano vivendo? 

 

« Posso farti una domanda? » lei annuì, sollevando leggermente la testa nel tentativo di capire attraverso i suoi occhi quale fosse la richiesta del biondo, non riuscendo però a percepire altro se non una certa curiosità mista ad apprensione. « Ti manca tua madre? Tu… cosa senti quando pensi a lei, sapendo di non poterla rivedere mai più? » 

 

La Cetra lo guardò incuriosito, percependo che dietro quella domanda ci fosse molto altro e sicuramente personale che avrebbe voluto approfondire poco più tardi, conscia che forse non ci sarebbe stata altra occasione conoscendo quanto fosse chiuso l’ex-SOLDIER.

 

« Mi manca ogni singolo giorno, ovviamente. Però, non sono triste perché so che lei è sempre con me… io la sento la sua presenza e riesco a udire la sua voce mescolata tra le altre mille che mi parlano ogni giorno. » gli disse, sollevando gli occhi verso il cielo e osservando le stelle che costellavano quella notte priva di nuvole. « Certo, tante volte ho desiderato averla fisicamente vicina… mi manca sentire il calore dei suoi abbracci ma cerco di farmi bastare il ricordo e immergermi in quello, visto che è l’unica cosa che mi resta, ma ecco, non è più doloroso come una volta. Mi basta sapere che lei è con me. » 

 

Cloud semplicemente annuì a quelle parole, sospirando subito dopo al pensiero che da un lato Aerith era fortunata, perlomeno riusciva a percepire la presenza della madre defunta, mentre lui non c’era mai riuscito da cinque anni a quella parte. Gli sarebbe piaciuto poter udire nuovamente la voce di Claudia — ricordava alla perfezione il timbro gioviale e sempre allegro di quella donna che, neanche a dirlo, era l’esatto opposto di come era lui — magari parlarci, magari poterle dire ancora una volta con tono esasperato che parlava troppo o che era un po’ troppo ficcanaso per i suoi gusti, ma non ne aveva mai avuta occasione e forse, non avendo poteri speciali come quelli di Aerith non avrebbe mai potuto.

 

« E a te manca tua madre? » gli chiese improvvisamente a bruciapelo, immaginando dall’espressione ora piango cupa dell’altro quale fosse stata la sorte della donna.

 

« Ormai sono passati cinque anni e ci penso sempre meno. » le disse senza però entrare nel dettaglio, sentendo la rabbia montare al pensiero di ciò che aveva perso per mano di Sephiroth. « Però sì, o almeno, mi manca sapere che c’è qualcuno ad aspettarmi a Nibelheim. Lei, assieme a Tifa, erano la mia certezza quando mi sono arruolato, ma adesso non esiste più alcuna Nibelheim a cui tornare e di conseguenza nessuna mamma o Tifa. » 

 

« Tifa? » esclamò la ragazza con un tono piuttosto alto, tanto che Cloud istintivamente le tappò la bocca. « Ma lei è qui con te adesso, non pensi che sia addirittura meglio? Si capisce che lei sia molto importante per te — e onestamente comprendo benissimo il perché, quella ragazza è davvero speciale e unica — quindi non capisco quale sia il tuo problema. Non hai bisogno di tornare da lei, perché siete finalmente insieme e ciò che vi lega vi rende più forti proprio perché siete vicini. La vorresti lontana da te? » 

 

« No, non hai capito il senso. » puntualizzò lui, alzandosi in piedi sentendo un improvviso bisogno di dinamicità — come sempre quando si parlava della sua amica di infanzia — sapendo che se fosse stato fermo e immobile sarebbe tipo impazzito. Gli capita sempre così quando parlava della donna con qualcuno, non sapendo bene il perché gli facesse quell’effetto assurdo. « Sono felice di averla accanto a me adesso, ma… dopo ciò che è successo so che non è più la stessa persona a cui avevo fatto una promessa anni fa. Vorrei tanto che le cose fossero andate diversamente… allora avevo un’idea precisa di ciò che sarebbe stata la mia vita e sapere di avere una casa in cui tornare, dove c’erano persone a me care ad aspettarmi, mi dava un obiettivo da raggiungere e mi rendeva felice. 

Ora invece mi ritrovo con la consapevolezza che Nibelheim non esiste più, così come mia mamma e, appunto, quella Tifa. Ha perso talmente tanto anche lei in quell’incendio che, si può dire, sia bruciata anche lei quel giorno. » 

 

Cloud sapeva di aver affrontato il concetto in maniera particolarmente macabra ma purtroppo quella era la realtà dei fatti e edulcorare la cosa non aveva sicuramente senso. 

 

« Io… mi dispiace davvero Cloud. » ammise Aerith, ripensando anche al racconto che già il biondo e Tifa avevano affrontato quel pomeriggio, mettendo al corrente tutto il gruppo del loro passato collegato a Sephiroth e assumendo un’aria piuttosto provata. Ma ugualmente non era d’accordo con ciò che lui le aveva appena detto ed era decisa più che mai a fargli capire che su alcune cose stava decisamente sbagliando. « Comprendo perfettamente ciò che dici e credo che sia del tutto normale ma… riguardo ciò che hai detto su Tifa non posso accettarlo. » 

 

Seguì un breve silenzio prima che la ragazza spiegasse all’altro ciò che intendeva e lo fece con un tono piuttosto deciso: aveva una certa urgenza di fargli capire ciò che pensava, convinta che se si sarebbe tenuta tutto per sé, l’ex-SOLDIER avrebbe finito per combinare un disastro bello grosso.

 

« Quello che dici è giusto, perché dopo un trauma simile Tifa non può essere la stessa che conoscevi allora dato che non ha più quella spensieratezza che poteva avere prima di perdere tutto quanto, ma è proprio questo il punto… tu devi pensare a ciò che è diventata e devi starle vicino a maggior ragione, Cloud.

La Tifa che conoscevi è ancora lì ed ha bisogno di te. Tu hai bisogno di lei. Sicuramente dovrete affrontare momenti difficili, compreso quel giorno terribile di cinque anni fa visto che a quanto mi pare di aver capito non ne avete mai parlato ma… è qualcosa che fa parte di entrambi e che vi ha costretti a crescere e, sì, vi ha uniti maggiormente. » 

 

Il biondo la guardava come rapito, sentendo il proprio cuore dirgli di ascoltare attentamente quelle parole così vere e che gli avevano fatto capire che fino ad allora lui era solamente fuggito da ciò che desiderava realmente; aveva sempre creduto di aver perduto Tifa quel giorno di cinque anni prima ma la realtà era che quella ragazza era sempre stata lì e che non aspettava altra che una mano tesa per affrontare insieme un trauma che li aveva uniti inevitabilmente.

 

« Però su una cosa hai ragione, sai? » gli disse dopo qualche minuto di silenzio — un lungo momento in cui Cloud stava riflettendo sulle parole della ragazza che era rimasta zitta per dargli tutto il tempo di cui necessitava. « Devi trovare la forza di tornare da lei. Tornare davvero da lei. » 

 

Ancora una volta Cloud ebbe l’impressione che Aerith sapesse più di ciò che avrebbe dovuto sapere, anche se non si capacitava di come fosse possibile. Era davvero vero strano e incredibile, ma era come se quella ragazza conoscesse già ognuno di loro dato che pareva leggerli e comprenderli alla perfezione, in un modo in cui qualcuno incontrato da poco non poteva certo esserne capace, ma di nuovo scacciò quel pensiero assurdo e non tanto per il paradosso della cosa, quanto perché era più che altro concentrato sul reale senso di ciò che lei stava cercando di fargli capire.

Aerith aveva ragione in fin dei conti: lui si era ancorato al passato e non aveva dato peso a come poteva sentirsi realmente Tifa e al fatto che avesse bisogno della sua vicinanza. Forse ancora doveva superare ciò che avevano passato riguardo a Nibelheim e Sephiroth e sentiva la necessità di farlo con lui che lo aveva provato sulla propria pelle. Le aveva mai chiesto come stesse dopo quel giorno? No, non lo aveva fatto. 

Sarebbe sicuramente partito da lì e non solo perché ora si sentiva in colpa per non averlo fatto, anche se in parte era così.

 

« Si è fatto tardi. » mormorò il biondo d’un tratto, che nonostante l’argomento per lui difficile che stavano trattando adesso, non aveva mai sentito venir meno quel senso di pace e tranquillità dato dalla presenza della Cetra.

 

« Dovremmo riposarci, sì. » annuì lei, seppur a malincuore, desiderando invero di prolungare quel momento di confidenze fra loro che, in un tacito accordo, avrebbero riproposto in altri momenti.

 

In silenzio rientrarono nell’Inn, dirigendosi nella loro stanza per riposare in vista del viaggio che sarebbe cominciato davvero il giorno successivo, senza però dimenticare ciò di cui avevano parlato e che li aveva inevitabilmente uniti.

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