Pain - 痛み

di alis_dayo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Avevo sempre avuto la verità davanti ai miei occhi, ma avevo deciso di ignorarla. Questo mondo è crudele.
 
 Il respiro affannato spezzava il silenzio della notte, il sudore le rigava la fronte, le braccia si agitavano convulsive, la mano stretta in un pugno, gemiti di lamento uscivano di tanto dalle sue labbra. Si svegliò di colpo, spalancando gli occhi e portando d'istinto una mano al cielo. Le lacrime riempivano i suoi occhi rendendo la visuale confusa, sfocata. Concentrò il suo sguardo sul soffitto, che le sembrò essere pieno di ombre, col petto sollevato da affannosi sospiri. È solo un incubo, pensò, solo un incubo.

Si mise a sedere sul letto ancora visibilmente scossa cercando di non far rumore per non svegliare le sue compagne di stanza. Volse il suo sguardo alla finestra, era una notte chiara e serena, si lasciò incantare dalla luna pallida, senza nuvole e senza nebbia, libera.

Asciugò le lacrime con le dita fino ad arrivare alla cicatrice sullo zigomo, «Eren..» sussurrò scuotendo la testa cercando di cancellare le immagini dell'incubo che aveva ancora vivide davanti ai suoi occhi.

«Combatti, combatti, combatti!» Le parole di Eren risuonavano nella sua mente come un mantra.

Siamo nati in un mondo in cui solo il più forte sopravvive, un mondo di crudeltà, ma io in questo mondo ho trovato un luogo in cui tornare. Eren, da quando sei con me io sento di poter fare qualsiasi cosa.

Eren era la sua casa, la sua famiglia, la sua certezza e per questo non avrebbe mai potuto lasciarlo andare. Era amore? Era egoismo? Non lo sapeva e, probabilmente, non le interessava neanche, voleva solo restare con lui per sempre, creando un luogo sicuro dove poterlo proteggere da quel mondo crudele in cui erano nati. Eppure Mikasa non capiva che intrappolarlo all'interno di altre mura l'avrebbe condotta lungo una sola possibile strada: l'odio. La ragazza regalò un sorriso debole al buio accarezzando la sciarpa, ormai di un rosso sbiadito, piegata e posata di fianco al cuscino, ripensando a quando Eren l'avvolse intorno al suo collo.

«Ora dove devo andare? Ho freddo e non ho più un posto in cui tornare.»
«Puoi tenere questa, è calda, no?» disse avvolgendo la bambina nella sciarpa.
«Puoi tornare a casa con noi, Mikasa.» parlò infine il Dottor Jaegar.
«Cosa c'è?» chiese Eren notando l'espressione sorpresa della bambina.
«Sbrighiamoci a tornare a casa, la nostra casa.»


Si avvolse la sciarpa intorno al collo lasciandosi avvolgere dal suo calore e si alzò dal letto dando inizio a quella che ormai era diventata la sua routine: vagare senza meta lungo il corridoio illuminato dalla sola luce della luna. Questa sua nuova abitudine non aveva nulla di salutare, al contrario, le aveva donato un pallore finissimo, quasi trasparente, e un paio di occhiaie nero-violacee. Ma la forza di tornare a dormire con ancora addosso la paura di rivedere quelle immagini intrise di sangue non l'aveva.

I suoi pensieri e il suo cammino furono interrotti improvvisamente da una debole luce proveniente da una stanza, la cui porta era socchiusa. Curiosa si avvicinò per vedere chi ci fosse. Sussultò appena scorgendo quel profilo severo, la fronte alta incoronata da ciocche nere lucenti, l'occhio stretto e profondo, la bocca tenue socchiusa. Lo sguardo freddo dell'uomo si posò sulla figura della ragazza, facendola indietreggiare. «Capitano Levi!» lo salutò abbassando subito lo sguardo e maledicendo la sua curiosità. «Cosa ci fai qui?» domandò, non realmente interessato, con il suo solito tono severo, spostando lo sguardo da Mikasa alla tazza di tè fumante poggiata sulla scrivania di legno piena di documenti. «Non riuscivo a dormire, così ho pensato di camminare.» rispose omettendo deliberatamente il dettaglio degli incubi che ormai infestavano il suo sonno permettendole di dormire soltanto poche ore. La corvina rimase qualche secondo a fissare il profilo del Capitano, soffermandosi soprattutto sull'espressione avvilita che da diversi mesi aveva stampata sul volto e sugli occhi vitrei di un colore tra il grigio e il blu segnati dalle solite occhiaie scure che, dalla morte del comandante Erwin, sembravano essere diventate ancora più profonde. Mikasa abbassò nuovamente lo sguardo e strinse i pugni ricordando gli istanti in cui si scagliò sul corpo del Capitano puntandogli la spada alla gola e intimandogli di darle il siero. Aveva di nuovo perso il controllo, eppure quella volta era diverso, poteva perdere Armin, anch'esso parte della sua famiglia, ma allo stesso tempo poteva ancora salvarlo e avrebbe fatto di tutto per portare a compimento quella che da sei anni a questa parte era diventata la sua "missione": proteggere la sua famiglia. Aveva dato un limite al numero di vite a cui dare valore, e quel giorno di sei anni fa decise quali. Mikasa non aveva né il cuore, né il tempo di impietosirsi di fronte alle altre vite. Eppure, in quel momento scatto qualcosa dentro di lei, chiudendo gli occhi riusciva ancora a sentire lo sguardo che le rivolse Levi, era un misto di rabbia e pietà.

Il rapporto tra Levi e Mikasa non era iniziato con il piede giusto, eppure, man mano che il tempo passava si iniziò a creare un rapporto di fiducia. Mikasa credeva nel giudizio e negli ordini di Levi, e lui, d'altro canto, nonostante fosse stato più volte infastidito dall'impulsività della ragazza, riponeva fiducia in lei e nella sua forza, considerandola l'unica capace di poter arrivare al suo livello. La scoperta, poi, di appartenere allo stesso clan aveva contribuito a rendere ancora più saldo quel rapporto ancora acerbo. Un rapporto basato non su dei sentimenti, non sulla fisicità, ma sul dolore. Il dolore nel perdere le persone amate, il dolore di nuove cicatrici nel cuore. In modi e in tempi diversi, senza sapere l'uno dell'esistenza dell'altra, avevano un patito un dolore simile risvegliando quel mostruoso potere che caratterizzava gli Ackerman. Mikasa non capiva, o forse semplicemente ignorava il fatto che l'unica persona che potesse realmente capirla fosse Levi.

«Voi due, avete idea di quello che state facendo?» lo sguardo di Levi si spostava nervoso da Eren a Mikasa. «Volete che guardi Erwin, il comandante della legione esplorativa, mentre muore? Non c'è più tempo, toglietevi di mezzo».

Successe tutto troppo velocemente, Levi colpì Eren violentemente e Mikasa, senza pensarci due volte, si gettò sul corpo del Capitano notandolo visibilmente indebolito. Non aveva intenzione di ucciderlo, ma allo stesso tempo non voleva di nuovo provare il dolore di perdere la propria famiglia, di dover ricominciare tutto d'accapo.

«Credevo che anche dei mocciosi come voi capissero che senza Erwin l'umanità finirà per essere sterminata dai giganti»
«Dammi il siero»
«Voi credete di essere i soli a soffrire! Forse ancora non lo sapere ma dall'altro lato di quel muro non è rimasto nemmeno un soldato. Il gigante bestia li ha ammazzati tutti. Pensavo non ci fosse alcun superstite. Il comandante Erwin è il solo. Nonostante la situazione è riuscito a formulare un piano per prendere il gigante bestia e l'ha realizzato. Ha usato le vite di noi cadetti come esca affinché il capitano Levi potesse attaccarlo a sorpresa. Come da copione, ciascuno è stato fatto a pezzi. Tutti pensavamo che, giunto il momento della morte, si sarebbero sentiti orgogliosi, ma non ne hanno avuto nemmeno il tempo. Nei loro ultimi momenti non hanno provato di certo questi sentimenti. Solo..paura. Quando ho visto che il comandante stava ancora respirando volevo mettere fine alle sue sofferenze. Tuttavia, ho pensato che dovesse vivere ancora, che dovesse vivere ancora in questo inferno. È allora che ho capito che l'unico in grado di eliminare i titani è un demone e riportarlo in vita è la mia missione!»

Le parole di Floch colpirono come un fulmine a ciel sereno gli animi dei presenti. Si scagliò contro Mikasa cercando di sbloccare la presa che teneva fermo il Capitano. Ma Mikasa non riusciva a ragionare, non era più mossa dalla ragione, ma dalla rabbia.

Se in quel momento Hanji non l'avesse afferrata cosa sarebbe successo? Più volte le capito di pensare a quell'evenienza, senza arrivare mai ad una vera e propria risposta. Fu probabilmente in quel momento che il legame creatosi tra Levi e Mikasa si frantumò. Dopo quel giorno ogni volta che incontrava il suo sguardo gelido sentiva un senso di oppressione mista a vergogna farsi strada all'interno del suo cuore. Anche in quel momento, osservandolo mentre sorseggiava del tè seduto alla sua scrivania, sentì una sensazione di disagio. «Con permesso» disse infine congedandosi da quel breve e inaspettato incontro. Gli occhi di Levi si posarono di nuovo sulla figura slanciata di Mikasa, ormai girata di spalle, facendola rabbrividire. La corvina camminò a passo veloce fino a raggiungere l'esterno dell'edificio. Appoggiò la schiena al tronco di un albero e si portò la mano al petto cercando di calmare il suo respiro affannato e il battito accelerato del cuore. Cosa mi sta succedendo? pensò.





Note dell'autrice
È la prima volta dopo anni di assenza (e di profili cambiati) che pubblico qualcosa su EFP e sono un po' in ansia. Immagino di dovermi presentare. Sono Alis e ho 21 anni, studio giapponese e coreano all'università e per il resto nulla, sono una persona abbastanza noiosa.
Dato che ho iniziato a scrivere questa storia in preda ad uno dei tanti mental break-down pre-esame non ho idea cosa nè verrà fuori.  Però spero che vi abbia incuriosito.
Se vi va lasciate un commento, alla prossima, またねー🖤

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Non importa quale criterio ti porterà a decidere, nessuno può sapere il risultato di quella decisione. L'unica cosa che ci è permessa è credere che non rimpiangeremo quella scelta.

 
Era notte fonda, la camera, spoglia, adornata soltanto da una scrivania ingombra di documenti, e un letto che, probabilmente, non aveva mai avuto l'onore di ospitare neanche l'ombra di un essere umano, era illuminata dalla luce di alcune candele e dai raggi della luna che si intrufolavano timidi dalla finestra socchiusa. Con la schiena ancorata allo schienale della sedia e i piedi appoggiati alla scrivania Levi sorseggiava del tè nero, il suo preferito, mentre i suoi occhi, che illuminati dalla luce della candela acquistavano una tonalità più calda, si posarono sul distintivo della Legione Esplorativa presente sulla sua scrivania. Le sue dita si avventarono sulla stoffa ormai ruvida e consumata di quelle ali che dovevano essere il simbolo della libertà ma che in realtà non erano altro che sinonimo di una morte dolorosa e precoce.

Levi lasciò che i ricordi dolorosi prendessero il sopravvento.

«I miei amici hanno buttato via le lori vite per niente. Ci hai trascinati dento le tue insulse macchinazioni..» Levi era arrabbiato, il dolore gli impediva di pensare lucidamente «..ma ora io eliminerò te» disse infine puntando la spada alla gola dell'uomo a pochi passi da lui.

Erwin fermò la spada di Levi con una mano. Un'insolita espressione di rabbia pervase il suo volto «Insulse macchinazioni, dici?», strinse la spada con più forza. «Chi è stato ad uccidere i tuoi amici e i miei sottoposti? Io per caso? O forse tu?». Il sangue di Erwin iniziò a scivolare sulla lama argentea. «Anche se foste riusciti a tendermi un'imboscata, pensi che ne sarebbero usciti illesi?» I suoi occhi erano fissi nello sguardo opaco di Levi, «Hai ragione, la mia arroganza..il mio fottuto orgoglio..», la voce del corvino suonava come un sibilo.

«No! Ti sbagli! Sono stati i giganti! Da dove provengono? Perché esistono? Perché divorano gli umani? Io queste risposte non le ho, nessuno di noi le ha. Limitati dalla nostra ignoranza continueremo ad essere divorati dai giganti! Non riusciremo mai a sfuggire da quest'incubo continuando a rimanere chiusi tra le mura! Guardati attorno! Non importa quanto tu vada lontano, qui non ci sono mura. Ostacolati dalle mura, gli occhi dell'umanità sono stati offuscati. Non riescono a vedere il paesaggio che si trova dall'altra parte. E tu invece cosa farai, Levi? Lascerai che i tuoi occhi continuino ad essere offuscati? Mi ucciderai..e poi tornerai nell'oscurità dei sotterranei? Combatti per la Legione Esplorativa, Levi. L'umanità ha bisogno della tua forza!».

Fu in quel momento che, alzando gli occhi al cielo, Levi capì di non essere più rinchiuso. Che l'unico modo di far rivere i suoi amici era quello di portare avanti il loro sogno.

Quei ricordi proiettavano davanti ai suoi occhi prepotenti e vivide immagini di dolore. Per la prima volta in vita sua aveva provato emozioni forti, terribili. Ed esse, come per vendicarsi, gli facevano sentire tutta la loro forza, agitandolo, opprimendolo, schiacciandolo. Il giorno in cui aveva visto i corpi dei suoi amici senza vita, lo stesso giorno in cui entrò definitivamente a far parte della legione esplorativa, Levi prese una decisione: avrebbe vissuto la sua vita senza alcun rimpianto. Lasciò che il peso dei sogni che risiedevano in tutti i compagni persi si aggrappasse alla sua anima come un fardello facendolo sprofondare in un buio sempre più profondo. Un sogno in particolare, quello di Erwin Smith, era più pesante degli altri. Scoprire la verità su tutto, capire il mondo era per lui più importante della vittoria stessa dell'umanità. Rinuncia al tuo sogno e muori, furono queste le ultime parole che riservò all'uomo che gli aveva permesso di lasciare la città sotterranea, all'uomo che gli aveva mostrato una nuova strada, lontana dal sudiciume dei sotterranei e dalla criminalità. Strinse il distintivo con forza quasi a volerlo stampare sul palmo della mano e digrigno i denti. Era in momenti come quello che tutto l'orribile peso della memoria si addensava, si faceva compatto e duro come una roccia. Ancora una volta aveva perso qualcuno di importante, ancora una volta era rimasto solo a combattere in quell'inferno, quando sarebbe finito tutto ciò?

I pensieri del corvino furono improvvisamente interrotti da cigolii provenienti dall'esterno della stanza. Ripose con cautela il distintivo appartenuto ad Erwin all'interno di uno dei cassetti della sua scrivania e riprese il controllo di sè e dei suoi pensieri adottando la sua solita espressione fredda e severa. I cigolii si facevano sempre più vicini, ma fu solo quando udì un sussulto rumoroso appena fuori la sua porta che lo sguardo di Levi si spostò da un punto indefinito della scrivania alla figura che aveva prodotto quel rumore destandolo dai suoi dolorosi pensieri. Un volto sottile, coronato da un paio di occhiaie nero-violacee molto simile alle sue, incorniciato da una chioma sottile spettinata lo stava scrutando. «Capitano Levi!» Lo sguardo di Mikasa, prima scrutatore, curioso, nell'incontrare gli occhi di ghiaccio del corvino divenne immobile, incerto, quasi spaventato. «Cosa ci fai qui?» domandò con totale disinteresse riprendendo a fissare la sua tazza di tè ancora fumante. «Non riuscivo a dormire, così ho pensato di camminare» e poi, dopo una manciata di secondi che sembrarono non finire mai, «Con permesso» aggiunse congedandosi da quel breve incontro. Lo sguardo di Levi si posò sulla figura alta, esile, coperta da una vestaglia bianca, che passo dopo passo si allontanava nel buio del corridoio sparendo dalla sua traiettoria visiva. Negli ultimi mesi Mikasa aveva perso molto peso, le labbra avevano acquistato una tonalità più scura, un pallore cadaverico si era diffuso per tutto il volto e gli occhi, che erano diventati vitrei, sembrava che non si chiudessero da molto tempo. A quanto pare non sono l'unico a combattere con dei fantasmi, pensò tra il divertito e l'amareggiato mentre si massaggiava le tempie sperando che quel fastidioso mal di testa scomparisse.






Note dell'autrice

Anche questo è stato un capitolo di introduzione, morivo dalla voglia di descrivere la scena dal punto di vista gelido di Levi. Mi sarebbe piaciuto molto descrive meglio il rapporto che c'era tra lui ed Erwin ma, ahimè, credo di non esserne capace. Ci riproverò sicuramente in futuro!

Detto questo, alla prossima, 
またねー🖤

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


L'alba, pallida e fredda, spaccata qua e là in blocchi rosei, dava il benvenuto alla prime luci del mattino. Mikasa, avvolta nel calore della sciarpa, si lasciò incantare da quell'etereo spettacolo che di tanto in tanto la natura offriva. L'agitazione e lo sconforto della notte insonne appena passata lasciò il posto ad una pace fredda, simile a quel mattino, limpido e muto, col cielo tempestato da pennellate di colori tenui. 

Un eco di voci lontane provenienti da diverse direzioni diede definitivamente inizio alla giornata. La corvina si voltò in direzione di Sasha, sua compagna di stanza, soffocando un sorriso divertito quando vide al lato della sua bocca goccioline di saliva scendere. Passati diversi minuti decise che era arrivato il momento di svegliarla, «Sasha, è mattina, svegliati», l'unica risposta fu un mugolio infastidito. Mikasa indossò i soliti abiti, una camicia bianca e un pantalone del medesimo colore, e, prima di uscire dalla camera, cercò, fallendo ancora una volta, di svegliare Sasha. 

Passo dopo passo ripercorse lo stesso identico e lungo percorso della notte precedente fino ad arrivare ad un bivio. Il suo corpo voltò a destra mentre il suo sguardo, soltanto per pochi secondi, scivolò nella parte opposta, in quel corridoio ancora troppo poco illuminato, lasciando che la mente tornasse al profilo severo e allo sguardo freddo del Capitano posato sulla sua figura. 

Il vociare confuso proveniente dalla mensa la destò dai suoi pensieri, era buffo come fino a qualche settimana prima quella mensa era il ritrovo di sole nove persone, gli unici sopravvissuti agli avvenimenti di Shiganshina, nella battaglia che aveva visto la morte di tutte le reclute, gran parte dei veterani e del comandante della Legione Esplorativa, mentre ora, che quasi tutti i giganti all'interno e all'esterno delle mura erano stati sterminati, si stava pian piano ripopolando di volti giovani e speranzosi. Mikasa si guardò intorno, incontrando, di tanto in tanto, lo sguardo stanco di qualche nuova recluta. Subito scorse, poco lontano da dove si trovava, la sagoma di Connie che le faceva segno invitandola a sedersi al tavolo. «È davvero così difficile svegliare Sasha?» le chiese divertito Jean notando l'assenza della "ragazza patata", Mikasa annuì calma. Poi la sua attenzione ricadde su di Eren, aveva una mano poggiata sotto il mento e lo sguardo puntava in una direzione non definita davanti a lui. Prima di sedersi di fianco a lui, facendolo tornare alla realtà, rimase a guardarlo per qualche secondo. Era ormai da diverso tempo che aveva notato un cambiamento in lui, nel suo sguardo, prima determinato, che ora pareva essere coperto da un velo di malinconia e rassegnazione. 

La sua mente tornò al giorno in cui, per la prima volta, videro il mare: il cielo aperto, limpido, un sole alto e abbagliante che li costringeva a stare con gli occhi socchiusi. La tiepida brezza che muoveva i capelli e, infine, una distesa infinita di acqua. Il mare era sempre stato il sogno di Armin e pian piano che muovevano piccoli passi verso la verità iniziarono tutti a sognare e fantasticare su quella distesa infinita di acqua salata. Gli animi dei presenti, nel trovarsi davanti uno spettacolo del genere, furono scossi da una forte sensazione di gioia infantile tale da accelerare i battiti del cuore. Poi, l'attenzione di Mikasa si posò sulla figura slanciata di Eren che, più che contemplare l'immensità del mare, aveva lo sguardo fisso sull'orizzonte. La corvina alzò di più lo sguardo cercando di incontrare la profondità dei suoi occhi, di un colore che era un miscuglio tra il verde e l'azzurro, e, prima che potesse dire qualsiasi cosa, Eren puntò l'indice verso l'orizzonte e parlò:

«Al di là delle mura c'è il mare e al di là del mare c'è la libertà. Questo è quello che ho sempre pensato, ma mi sbagliavo. È tutto come nei ricordi di mio padre, al di là del mare c'è il nemico. Se uccidessimo tutti i nemici che ci sono dall'altra parte..noi saremmo finalmente liberi?»

Per un attimo la bellezza e la grandezza di quel tanto agognato e sognato mare si trasformò in un'immensa e terribile incognita nel quale avventurarsi pareva solo una disperata impresa.

«Mikasa, non mangi nulla neanche oggi?», la voce preoccupata di Armin le permise di liberarsi dai ricordi e di tornare al presente. «Mangerò qualcosa più tardi, non ho molta fame ora» spiegò cercando di sembrare il più possibile convincente. Era da quando aveva appreso che la vita di Eren da lì a qualche anno sarebbe finita che il suo appetito era completamente scomparso. Ogni giorno forzava il suo stomaco ad ingerire almeno una piccola porzione di cibo, necessaria alla sopravvivenza. Questo, sommato alle ore di duro allenamento che sosteneva, oltre a farle perdere un considerevole quantitativo di peso, le conferì anche un costante senso di debolezza che cercava di tenere nascosto. 

Senza un motivo ben definito in pochi secondi la fredda pace che sembrava averla pervasa soltanto qualche ora prima lasciò spazio ad un forte senso d'angoscia. Il vociare presente nella mensa divenne sempre più simile ad un rimbombo, non riusciva a concentrarsi, non riusciva a pensare. Il respiro iniziò a farsi irregolare, con una mano si coprì la bocca reprimendo un conato di vomito. Eren, così come tutti gli altri presenti al tavolo, le lanciarono un'occhiata preoccupata. «Ho solo bisogno di un po' d'aria» disse riuscendo a celare l'oppressione che provava dentro di sé, poi si allontanò dalla mensa sotto lo sguardo atterrito dei suoi compagni.

Passo dopo passo il respiro diventava sempre più affannoso, ogni volta che cercava di prendere aria si sentiva soffocare sempre di più. Le gambe diventarono pesanti, le mani iniziarono a sudare e tremare. Nonostante il corridoio fosse ben illuminato dalla luce del sole, la sua visuale era confusa, deforme. Per un attimo le sembrò di essere finita all'interno di uno dei suoi incubi. Non è reale si ripeteva, ma ciò non bastò a farla calmare. Si sentiva immobilizzata, senza forze, debole. Camminò per diversi minuti, senza direzione, senza guardare dove si stesse dirigendo, poi, stanca, si appoggiò una parete e si lasciò scivolare sul pavimento portando le ginocchia al petto e la testa tra le braccia. Aveva la sensazione che stesse tutto per crollare, cadere in frantumi. Voleva urlare per mettere a tacere tutti quei rumorosi pensieri contrastanti che, uno dietro l'altro, si affollavano nella mente, ma non poteva, non doveva farlo. Non poteva permettersi di mostrarsi debole, doveva lasciare qualsiasi appiglio, doveva annegare in quel mare di pensieri, di ricordi, di rimorsi, di paure. Nonostante questo, man mano che sprofondava, le sue braccia continuavano ad agitarsi convulsive nella speranza che qualcuno la vedesse, salvandola da quell'inferno che aveva dentro di sé. Eppure nessuno sembrava vederla, per troppo tempo il suo posto era stato nell'ombra e ora agognare la luce di cui erano ricoperti i suoi compagni le sembrava un desiderio stupido, superficiale. La solitudine che provava era qualcosa che si era creata con le sue stesse mani, mettendo i sentimenti da parte e lasciando che fosse la forza a parlare e ad agire. Probabilmente nessuno, neanche Eren, la sua famiglia, l'avrebbe mai capita.

Stava cercando di soffocare le lacrime quando sentì un rumore di passi avvicinarsi. Si strinse ancora di più nelle ginocchia sperando di diventare così piccola da sparire. «Oi, mocciosa» quel tono di voce freddo e distaccato poteva appartenere soltanto ad una persona, l'unica, tra tutte, che Mikasa non avrebbe mai voluto scoprisse la sua debolezza. Cerco di regolarizzare il respiro e di apparire calma, dopo un attimo di esitazione si decise ad affrontare lo sguardo del Capitano. Che espressione avrebbe avuto? Un'espressione di scherno? La solita espressione fredda e distaccata? Oppure le avrebbe rivolto ancora una volta quello sguardo pieno di pietà e disprezzo?

Levi, la cui figura era illuminata soltanto in parte dai raggi del sole, era in piedi davanti a lei, le mani in tasca e il suo sguardo posato su di lei. Al di fuori di ogni aspettativa, non c'era né pietà, né freddezza, né disprezzo nei suoi occhi, al contrario, era uno sguardo apprensivo, profondo. «Seguimi, è rimasto del tè» le disse con la solita voce roca, Mikasa non capì se fosse più un invito o un ordine. Si alzò facendo leva sulla parete e lo seguì con lo sguardo mentre le dava le spalle e si avviava a passo lento lungo il corridoio. 




Note dell'autrice
Eccomi tornata con un nuovo capitolo, spero vi sia piaciuto. Non c'è molto da aggiungere, cosa avrà pensato Levi vedendo Mikasa in quelle condizioni?

Ci vediamo al prossimo capitolo, またねー🖤



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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***



Rinchiuso in una diffidenza egoistica, forse giustificata dal fastidio provato, dopo una notte passata nel silenzio totale, nell'ascoltare il vociare confuso che man mano aumentava sempre di più lungo i corridoi, Levi era nella sua camera che sfogliava distrattamente alcuni documenti sorseggiando a tratti la sua solita tazza di tè nero con religiosa cura. 

Fu soltanto quando dal corridoio udì un suono di passi vacillanti, simili a quelli che muoverebbe un condannato a morte che si sta dirigendo verso il patibolo, accompagnati da un respiro ansante frammentato a tratti da suoni indefiniti, che si alzò dalla postazione che aveva occupato per diverse ore per avvicinarsi la porta e aprirla appena. A pochi metri di distanza dalla sua camera scorse una sagoma muovere passi incerti appoggiandosi alla parete. Soltanto quando alcuni raggi di sole colpirono quella figura riuscì a riconoscere in lei Mikasa sgranando appena gli occhi per la sorpresa.

Levi uscì dalla sua camera e, senza mai distogliere lo sguardo da lei, seguì il suo cammino fino a quando non si rannicchiò sul pavimento portando le ginocchia al petto. Un tremore leggero accompagnava tutto il suo corpo, il respiro, invece, sembrava diventare sempre più affannato. Per diversi minuti rimase nella penombra, appoggiato alla parete, chiedendosi che espressione avesse Mikasa in quel preciso momento. Contro chi stai combattendo? Era questa la domanda che avrebbe voluto farle mentre contemplava quella figura che mai, come in quel momento, gli era sembrata così fragile e delicata.

Passo dopo passo si avvicinò a lei, «Oi, mocciosa» le disse rompendo il silenzio. Alle sue parole notò il corpo della ragazza irrigidirsi, ci vollero diversi secondi prima che alzasse lo sguardo nella sua direzione. Levi la osservò notando un piccolo tremito nel suo labbro inferiore. Si scambiarono uno sguardo rapido in cui lui riuscì a leggere un'agitazione simile a quella delle onde colpite dal vento. «Seguimi, è rimasto del tè» le disse prima di voltare le spalle ed incamminarsi sotto lo sguardo confuso e sorpreso di Mikasa. Lei, che nonostante sembrava aver riacquistato un respiro quasi regolare, aveva ancora il corpo scosso da leggeri tremolii, ma, dopo qualche istante di esitazione, lo seguì a passi lenti. Lui, che camminava diversi passi avanti a lei con le mani in tasca e il solito sguardo cupo, la osservava di soppiatto attraverso i riflessi delle finestre assicurandosi che non cadesse. 

Lo seguì fino alla porta della sua stanza, dove entrò titubante e, dopo aver ricevuto il permesso, si sedette su una sedia vicina alla scrivania tenendo lo sguardo basso. Levi, dopo aver preso una tazza pulita, tornò ad occupare il suo solito posto e le versò una tazza di tè. Mikasa, con lo sguardo basso, chiusa in un silenzio di vergogna, prese la tazza e iniziò a sorseggiare quella bevanda che tanto piaceva al Capitano facendosi travolgere dal tiepido calore. Con la tazza ancora tra le mani, abbandonò il capo all'indietro. «Mi dispiace» sussurrò poi con una voce tremante, rauca. Levi accavallò le gambe e portò una mano sotto il mento, lo sguardo sempre fisso su di lei, non le rispose, aveva paura che qualsiasi parola l'avrebbe ridotta in frantumi. Rimasero così, in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri in quella stanza ancora troppo buia in cui perfino i raggi del sole sembravano restii ad entrare. Soltanto quando Mikasa ebbe riacquistato un colorito umano e un respiro regolare Levi si decise a rompere quel silenzio che paradossalmente era diventato assordante, «Puoi andare ora», le sue parole, come al solito, si dimostrarono fredde e arroganti, avrebbe aggiunto un gli altri mocciosi si staranno chiedendo dove sei finita, ma le parole gli si fermarono in gola. Mikasa sussultò nel percepire la freddezza delle parole del Capitano, cercò di mantenere un'espressione composta velando il senso di tristezza nel dover lasciare quel luogo che, seppur per poco tempo, le era sembrato sicuro e caldo. Tuttavia, quando si accinse a raggiungere la porta fu nuovamente bloccata dalle parole di Levi «Oi, Mikasa», si girò appena a guardarlo, le gambe accavallate, la schiena dritta, l'espressione seria, lo sguardo gelido e profondo, tutto in lui lasciava intravedere risolutezza e durezza d'animo. «Non c'è bisogno di essere sempre forti», Mikasa non vide più nulla, un velo grigio si estese dinanzi ai suoi occhi, si sentì irrigidita, come se il sangue avesse cessato di scorrere. Quelle parole, che la colpirono come un fulmine a ciel sereno, le invasero il cuore con una strana sensazione, un misto di dolore e rassegnazione. Nonostante cercasse con tutta sé stessa di tenerle a freno, sentì un flusso di calore rigarle il volto, ancora una volta si era dimostrata debole, incapace di vincere le proprie emozioni. Esitò nel rispondergli poi, stringendo i pugni e con voce flebile disse semplicemente «Non posso». Levi, che nel frattempo si era avvicinato a lei, incontrò il suo sguardo arrossato per le lacrime leggendo nei suoi occhi un'emozione insopportabile di amore e di abbandono, egualmente eterni. Soffocò il respiro per qualche secondo quando comprese che ad accomunarli non era soltanto il cognome o la forza sovrumana, ma anche quel senso di solitudine, di dolore, di vuoto con cui ogni giorno dovevano far i conti. 

Per un solo istante, materializzato sotto i suoi occhi, vide la parte più debole di sé, l'immagine di lui bambino, rassegnato e spaventato allo stesso tempo. Quello che seguì fu un gesto quasi spontaneo, portò una mano sulla testa di Mikasa scompigliandole leggermente la chioma corvina. Lei, con ancora gli occhi lucidi, rimase confusa da quel gesto. «Quando senti di non riuscire a sostenere il peso della tua forza ti lascerò del tè, aiuta a distendere i nervi» disse infine. Mikasa uscì dalla camera del Capitano frastornata con una nuova e pura emozione nel petto, per la prima volta si era sentita capita.

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