Wahnsinn

di KyraPottered22years
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** .1 ***
Capitolo 3: *** .2 ***
Capitolo 4: *** .3 ***
Capitolo 5: *** .4 ***
Capitolo 6: *** .5 ***
Capitolo 7: *** .6 ***
Capitolo 8: *** .7 ***
Capitolo 9: *** .8 ***
Capitolo 10: *** .9 ***
Capitolo 11: *** .10 ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


Wahnsinn



    
PROLOGUE
 
                                                                                                     Edimburgo,  13 - 02 - 99

Dr. Steve McWood,

con rancore, le informo che i problemi psichici di mia figlia Amelia sono ritornati: e la cosa più preoccupante è che sono assolutamente sicura che non si tratti più della sua immaginazione (cosa che tutti i bambini di otto anni hanno), ma afferma di essere davvero stata in quel popolo di déi/alieni o
Dio-solo-sa-cosa! Non fa altro che disegnare paesaggi sconosciuti, salta i pasti, non fa i compiti, se ne sta sempre a fissare quel vecchio quadro. Spera di ritornare in quella terra, ma soprattutto, di ritornare da una persona che chiama Principe Loki, definendolo un amico.
Questa volta ho davvero un brutto presentimento.
La prego di contattarmi al più presto, 

Amaya Helbinger






N.d.a.

Salve a tutti e rieccomi qui con una nuova storia.
Intanto vi ringrazio se avete letto e se state leggendo anche queste righe. Ammetto che come Prologo è molto piccolo, ma spero di avervi lasciato il tarlo della curiosità.
In questa nota dell'autore vi lascerò alcune curiosità e alcune premesse, spero che possano esservi utili.

Per prima cosa, le premesse:
1. No Mary Sue, questa non è assolutamente una storia in cui la protagonista è tutto e sta al centro di tutto, dato che
2. questa storia è un intreccio (ci saranno vari salti nel tempo), è piena di misteri e fili logici un po' ingarbugliati, quindi
3. non è una storia banale, se cercate una storia piena di cliché, siete nel posto sbagliato.
4. E' una storia abbastanza complessa, la più complessa che io abbia scritto in verità, quindi è una lettura che ha bisogno di essere capita, poiché anche la cosa più piccola ha un'importanza fondamentale e sconvolgente.
5. E' una storia destinata ad evolversi. I primi capitoli saranno solo un presequel di quello che dovrà accadere davvero. Farò il tutto con molta calma, ma giuro, senza annoiarvi, anzi, in modo tale da farvi prendere familiarità con i personaggi e le situazioni.

Adesso le curiosità:
1. Il titolo della storia, Wahnssin, è una parola tedesca e sta a significare pazzia, follia, insanità mentale.
2. Il cognome della famiglia della protagonista, Amelia Helbinger, proviene dalla Slovacchia. L'antentata più antica di questa famiglia è la figlia della Contessa Erzsébet (o Elizabeth) Bathory. 
3. Se non conoscete Erzsébet, ho preso da Wikipedia queste righe: "Erzsébet Báthory, conosciuta anche come Elizabeth Bathory o Elisabetta Bathory, soprannominata la Contessa Dracula o Contessa Sanguinaria, fu una leggendaria serial killer ungherese, considerata la più famosa assassina seriale sia in Slovacchia che in Ungheria."
4. Nella mia storia, la famiglia attuale degli Helbinger si trova a Edimburgo,  Scozia, e non in Slovacchia a causa di un'emigrazione.

Spero di esserti stata d'aiuto e di averti incuriosito, caro lettore.
Se ti va, lascia una recensione, mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensassi.


Alla prossima ;)

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Capitolo 2
*** .1 ***


 Wahnsinn


 
 
THE LANDSCAPE
 
                                             
“Coraggio e follia sono cugini.”

 
                                                 cit. George R. Martin
              
 
                                                                                                                                                           Edimburgo, 01 - 02 - 96


 
Stringeva la lunga gonna della madre e studiava con aria indagatoria zia Katie.
Sapeva quanto infantile potesse essere nascondersi dietro le gambe della propria mamma all'età di otto anni, ma era fatta così. Amelia non era come gli altri bambini pronti ad osservare da vicino qualcunque cosa. Lei preferiva studiare con attenzione per poi avvicinarsi e magari prendere confidenza, ma mai agiva per istinto, aveva troppa paura per farlo. Gli altri bambini si meravigliavano di qualcosa di nuovo, a lei invece il nuovo la terrorizza a morte. 
Non ha mai capito da dove provenisse tutta quell'insicurezza che tutt'oggi si porta dietro. 
Sua madre, Amaya, era troppo vigile per essere insicura, tantomeno suo padre e il suo imprevedibile coraggio, cosa che naturalmente hanno tutti i poliziotti.
“Vieni qui,  Amelia cara, dai un bacio alla zietta!” Zia Katie si chinò in modo tale da avere la stessa statura della bambina. Si avvicinava spaventosamente e lei, da piccola codarda, nascose il volto sul soffice tessuto della gonna. Le due donne accennarono delle risatine divertite e improvvisamente Amelia non mi sentì al sicuro nemmeno dietro le lunghe gambe della madre.
“Amelia, non essere maleducata!” La richiamò, facendo sussultare la figlia. Amelia uscì allo scoperto e si avvicinò alla zia, indecisa sul da farsi allungò la mano, la donna gliela strinse con fare divertito e la bambina rise, trovandola buffa.
“Arrivederci, allora!” Lasciò la presa e si congendò, attraversando il portone di casa.
Fu incredibile come Amelia si riprese in fretta, e non appena la madre chiuse la porta, la seguì in cucina. “Mamma!”
“Cosa c'è?”
“Posso andare di sopra?” Chiese, nella speranza che le visite fossero terminate.
“Sei libera, puoi andare a giocare.” Quelle parole furono musica per le orecchie di Amelia. Fece le scale di corsa, recuperando dalla sua stanzetta il cappotto, i guanti e il cappellino di lana e dopo di ché li indossò. 
Fuori era tutto pieno di neve e non vedeva l'ora di andare a giocare. Mentre percorreva il piccolo corridoio che portava alle scale, il suo piede inciampò sul tappeto e finì a terra, sbattendo la testa contro il muro. Inizialmente le venne da piangere, ma la curiosità sostituì il dolore: all'impatto, un vecchio quadro finì a terra. Amelia si inginocchiò, sistemò l'oggetto appoggiandolo sul muro, ma prima di alzarsi in piedi, indugiò ad osservare il paesaggio ritratto nel quadro. 
C'era un vasto giardino ricco di vegetazione, un ruscello e in lontananza si notava un castello dalla strana conformazione del colore dell'oro, ma la cosa più insolita di quel paesaggio era il cielo: azzurro, con un sole e due pianeti leggermente sbiaditi sulla tela. 
La bambina ammirò quel quadro con stupore, domandandosi perché non lo avesse mai notato prima d'ora. Allungò un dito sulla tela, precisamente sul cielo azzurro. 
 
 
Indietreggiò terrorizzata, gettando un urlo.
“Amelia!” La voce della madre la svegliò da quello che forse poteva essere un sogno.
“Tutto bene!” Ebbe la forse di gridare in risposta. 
Fu come immergere il dito nell'acqua: era completamente sparito, come se fosse entrato dentro il quadro. 
Ma era impossibile! 
Si avvicinò al quadro gattonando, e ci si sedette davanti. 
Se lo era solo immaginato? Intenta a darsi una risposta certa, tolse un guanto e allungò un'altra volta il dito sulla tela, questa volta verso il ruscello. 
Ottenne lo stesso risultato di prima, solo che questa volta indugiò un paio di secondi, divorata dallo stupore. Ritirò lentamente la mano e la sua bocca si spalancò: delle gocce d'acqua le rigavano il dito, fino a scivolare per tutto il palmo, arrivando al polso. 
Che doveva fare? Dirlo alla mamma? 
 
 
“Hai mangiato più di tre biscotti, non è così?” Amaya piegò le labbra in una smorfia, incredula a quello che le avesse raccontato la figlia e rimise il quadro al suo posto.
“Ne ho mangiato solo uno!” Ribatté Amelia in sua difesa. 
Quello che era successo era reale, il suo dito era bagnato, non poteva esserselo solo immaginato! 
“Comunque vada,” Amaya poggiò un dito sulla tela del quadro, “questo quadro non è vivo.” Non sapeva che pensare: come diamine aveva fatto ad immaginarsi una cosa così assurda? Amelia era sempre stata una bambina piena di fantasia, ma quella volta stava esagerando. Da madre, Amaya poteva percepire l'insistenza negli occhi della figlia, e questo la preoccupava. Non l'aveva mai vista così.
“Ma con me l'ha fatto!” La bambina cercò di ribattere ancora una volta, mostradole la mano. “Guarda, il dito è...” Ma non continuò la frase. 
Il dito, il palmo e il polso erano completamente asciutti.
“Cosa stavi dicendo?” Amaya teneva le mani sui fianchi, attendendo una risposta. 
Cadde così un lungo silenzio. 
Adesso come avrebbe potuto dimostrare a sua madre che stava dicendo il vero? Non poteva esserselo immaginato, era reale, non era diventata matta. 
Amaya fu scossa da un brivido di empatia; nello sguardo della figlia leggeva una forte delusione, e gli occhi lucidi erano un cattivo presagio. 
“C'è Violet che ti sta aspettando. Va a giocare, dai.” Amaya porse il guanto ad Amelia, e la prese per mano, interrompendo quello che sembrava l'inizio di una cascata di lacrime. Scesero le scale insieme, ma prima, la piccola rivolse un ultimo sguardo a quel quadro, che portò nei suoi pensieri per tutto giorno.
 
 
Si rigirò per la millionesima volta fra le coperte, ma era tutto inutile. 
Non aveva sonno e basta. 
In quel momento una forza più grande di lei stessa stringeva il suo cuore in una morsa pungente e soffocante. Una forza che le imponeva di andare ancora una volta da quel quadro. Amelia si liberò dalle coperte, mise pantofoline e vestaglia, e, stando attenta a non farsi sentire, andò nel corridoio. L'orologio segnava le dieci di sera in punto. Con rancore si accorse che il quadro era molto più in alto di lei, così andò alla ricerca di una sedia e salì sul sedile. Era davanti a quel dannato quadro che aveva popolato i suoi pensieri per tutto il giorno. 
Indecisa, allungò un dito verso il giardino e come sperò - anche se con timore -, il suo dito entrò dentro il paesaggio.  Non era più terrorizzata, ma felice: aveva dimostrato a sé stessa di non essersi immaginata tutto. 
All'improvviso una strana sensazione di umido invase tutto il suo braccio e troppo tardi si accorse di averne inserito una buona parte all'interno del quadro. Con il cuore che le batteva a mille cercò di ritirare l'arto, ma non ci riuscì, era rimasto bloccato. Voleva piangere e urlare aiuto, ma non sarebbe servito a nulla: sua madre avrebbe pensato un'altra volta che fosse diventata pazza. 
Doveva liberarsi da sola, senza l'aiuto di nessuno.
Riprovò a ritirarsi, ma ebbe il risultato contrario: doveva stare in punta di piedi sulla sedia dato che anche la spalla era stata risucchiata. 
Con il terrore che le mozzava il respiro nei polmoni fece un ultimo tentativo. 
 
 
Fu come essere inghiottita dalla bocca in un mostro, trasportata via con violenza dal vento, e dopo sputata via, schiacciata conto la solida terra. 
 
 
Amelia tremava così tanto che non riusciva più a controllarsi. Aveva paura di aprire gli occhi, ma percepì ugualmente la soffice erbetta sotto di se. Si alzò in piedi e schiuse le palpebre, molto lentamente. Si guardò intorno con occhi sgranati, tremando così tanto che un brivido poteva essere paragonato ad un sussulto. 
Era giorno, davanti ai suoi occhi un giardino vasto e ricco di vegetazione, nel cielo splendeva il sole e si riuscivano ad intravedere un paio di pianeti sbiaditi sul manto azzurro. 
Gettò un urlo, così acuto da sentire le corde vocali spezzarsi nella gola. 
Adesso voleva essermelo davvero immaginato, voleva che quello fosse solo un sogno.
Ma non era così.
 
Amelia Helbinger era davvero entrata all'interno del quadro.





 
 
N.d.a
 
Here I am with the first chapter!
 
Scusate se ci ho messo tanto, ma ho dovuto cambiare il narratore (da interno ad esterno) e quindi controllare più e più volte il capitolo e gli altri.
Questo capitolo è l'inizio di tutto, conosciamo un po' Amelia e la sua ingenuità, ma specialmente, viviamo il suo primo viaggio ^-^
Che ne pensate? Vi incuriosisce? Voglio sapere cosa ne pensate e vi prego, non siate silenziosi e timidoni u.u
 
Grazie per aver letto,
 
alla prossima. ;)

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Capitolo 3
*** .2 ***


Wahnsinn




 AN UNUSUAL DRESSING GOWN

 
                                                                                             Asgard



Era sempre fastidioso vedere il fratello al centro dell'attenzione; lo irritava quel suo sorriso pieno di soddisfazione, lo faceva sentire solo ed insignificante anche se era un principe proprio come lui. 
Ridicoli, si ritrovò a pensare mentre se ne stava seduto su un robusto ramo con le gambe distese.
Quello non era proprio uno dei suoi giorni più belli.
Quando quella mattina Thor aveva deciso di passare la giornata fuori dal Palazzo Reale, Lady Sif e i Tre Guerrieri decisero di seguirlo senza obiettare. Loki sarebbe rimasto nelle sue stanze a leggere un bel libro o ad esercitarsi nelle arti magiche, ma l'insistenza del fratello stravolse i programmi di quel giorno, rendendolo il più noioso di tutti. 
Per intrattenersi, Loki muoveva le dita della mano davanti a sé, disegnando nell'aria linee luminescenti di colore verde; era un po' divertente perché dopo un paio di secondi le linee tendevano a dissolversi e quindi doveva sbrigarsi a disegnarne altre per mantenerle sempre in vigore. Suonava penoso come passatempo, ma cosa avrebbe dovuto fare su un ramo a cinque metri dal suolo, senza alcuna voglia di stare con i suoi compagni? A giudicare dalla posizione del Sole sarebbero dovute passare due ore e mezza prima del ritorno al Palazzo, quindi era indispensabile cercare uno svago per far scorrere il tempo più velocemente. Continuò con quel gioco, ma dopo cinque minuti fece scivolare la mano sulla gamba. Sbuffò: ormai la noia si era impossessata di lui e pregò che qualcosa di interessante accadesse all'istante...
E le sue preghiere vennero ascoltate.


         
                                                             
Iniziò a camminare - con le gambe che le tremavano come due gracili ramoscelli - senza nessuna idea di dove stesse andando. Si stringeva le braccia e impugnò il soffice tessuto della vestaglia, era più o meno un modo per consolarsi, o addirittura per farsi forza. 
I passi di Amelia erano piccoli e le pantofoline schiacciavano l'erbetta con insicurezza; dopo minuti iniziò a camminare con più sicurezza, ciò non toglieva il fatto che - da piccola codarda che era - stava morendo di paura.
Non c'era sensazione più brutta del disorientamento. 
Le suole di gomma rimasero incollate al terreno quando la bambina udì delle voci in lontananza. 
"Allora questo posto è abitato!" , pensò con un pizzico di speranza. Magari l'avrebbero potuta aiutare a ritrovare la via di casa, o un modo per ritornare nel suo mondo, se quello era un altro pianeta. Si scollò dal suo posto quando vide una figura avanzare davanti a sé. Corse verso un cespuglio e ci si nascose dietro, rincuorandosi del frastuono che aveva creato. 
Da dietro le foglie, osservò quella che doveva essere una donna: era alta, i capelli corvini erano legati in una coda di cavallo, aveva un portamento abbastanza maschile, tanto che portava pure una strana armatura completa di corazza e braccioli; i lineamenti erano severi, ma il naso all'insù e le labbra a cuoricino tradivano la sua aria mascolina. Nei suoi occhi si leggeva preoccupazione e di come essi scrutassero d'ovunque si deduceva che stesse cercando qualcosa, o qualcuno
E se l'avesse sentita? Oh, era nei guai fino al collo. Cosa avrebbe pensato della bambina? L'avrebbe uccisa? 
Nella visuale entrarono due uomini, uno incredibilmente grosso e forzuto, aveva la capigliatura e la lunghissima barba spettinate e del colore di una carota; l'altro era biondo, decisamente più in forma del primo, il suo era un portamento elegante e fiero, come quello dei cavalieri della Tavola Rotonda (Amelia amava quei racconti, ne leggeva a bizzeffe). Anche loro portavano l'armatura.
"Hai sentito qualcosa?" Domandò l'uomo dalla folta barba alla guerriera.
"Mi pare di aver udito qualcosa." 
Okay, almeno riusciva a comprenderli. Un'ottima cosa, no?
Si guardarono intorno, ma dopo qualche istante le loro attenzioni furono rivolte ad un uomo alto, terribilmente muscoloso e dalla chioma bionda, lo affiancava un uomo bruno dai caratteri somatici asiatici.
"Lo avete trovato?" Domandò il nuovo arrivato, che pareva essere il leader del gruppo.
"No." Rispose quello dal portamento cavalleresco.
Allora non stavano cercando Amelia, ma qualcun'altro. 
La bambina gettò fuori un silenzioso sospiro di sollievo, tranquillizandosi almeno un po'. 
"Thor, secondo me è ritornato al palazzo." Fu l'uomo dalla barba ispida e rossa a farsi avanti.
Thor? Che razza di nome era Thor?!
Palazzo? In che anno si trovava?
La vista le si annebbiò di lacrime. Era stata catapultata nel passato! E sicuramente la mamma non era ancora nata! 
"Voglio ritornare a casa!", pensò iniziando a piagnucolare, ma sempre con la premura di non essere sentita. Si asciugò le lacrime con la manica della vestaglia e avanzò a gattoni fra i cespugli. 
Dopo vari metri e minuti, si mise a sedere, appoggiando la schiena sul tronco di un albero. Tirò su il moccio dal naso, promettendosi di non piangere più e di essere forte.
Cosa avrebbe potuto fare? Sarebbe rimasta bloccata in quell'epoca per sempre? Dove avrebbe vissuto? Le mancava la mamma, la sua casa, la vita ad Edimburgo. 
Portò le ginocchia al petto e si strinse le gambe, sotterrando il volto fra gambe e, tradendo la sua promessa, pianse nuovamente.
Non sarebbe mai ritornata indietro, doveva rassegnarsi e basta, sperare l'avrebbe solo illusa. 
Passò vari minuti così, poi decise di farsi coraggio e andare a cercare quei strani tizi. Se avrebbe dovuto vivere lì per il resto dei suoi miseri giorni tanto valeva cercare un accampamento. Amelia asciugò le lacrime col dorso della mano e, sostenendosi dal tronco, si alzò in piedi. 
Urlò terrorizzata e dei brividi di freddo le percorsero la schiena fino ad arrivare ai capelli. Il suo urlo lo fece spaventare così tanto che cadde dal ramo su cui se ne stava gaiamente rilassato. 



Loki si alzò in piedi e quando i suoi occhi si posarono su di lei per la prima volta, Amelia percepì la sua rabbia, ma essa sparì proprio nel momento in cui i loro sguardi si congiunsero in uno. 
La studiò velocemente: capelli rossi, viso paffuto, incarnato pallido, esageratamente bassa. Si suffermò molto sulla sua strana (stranissima) toga e proprio da quella capì da dove quell'esserino provenisse.
"E tu chi saresti?" Le domandò, ricomponendosi del tutto. Prima di rispondere, Amelia si accertò se potesse essere pericoloso o meno. Era simile agli altri che aveva visto fino a qualche momento prima: i suoi capelli neri come la pece erano pettinati ordinatamente all'indietro, aveva la pelle chiara come il latte, le labbra rosee e sottili, gli zigomi leggermente pronunciati e la linea della mascella ben delineata; a differenza degli altri indossava una semplice tunica dai colori verde e nero.
Forse era lui che quelle persone stavano cercando.
"Amelia Helbinger." Rispose fissando le sue pantofole rosa confetto.
"E da dove sei saltata fuori, Amelia Helbinger?" Il mento della bambina iniziò a tremare e gli occhi le si riempirono di lacrime.
"Questa mattina ho battuto la testa contro il muro ed è caduto questo quadro - da qui, iniziò a gesticolare come una matta -, ci ho pensato per tutto il giorno visto che la mia mano ci era completamente entrata dentro! Fino a un quarto d'ora fa ci ho dato un'occhiata un'altra volta e.. e.." Parlò tutto d'un fiato, tanto che diventò viola in volto, e dopo di ché iniziò a frignare come un neonato.
Loki strinse le palpebre fra di loro e riaprì gli occhi, cercando di mantenere la calma e di essere paziente. 
Se quella mocciosa non era pazza e stava raccontando la verità, allora c'era un problema: era riuscita ad entrare ad Asgard senza l'uso del Bifrost, nonché unico modo con cui viaggiare da un Regno all'altro.
"Sei midgardiana?" Domandò Loki, anche se era completamente sicuro che si trattasse di una di Midgard. Amelia Helbinger placò il suo pianto per parlare.
"I-io sono c-cosa?" Quale abitante dei Nove Regni non sapeva cosa volesse dire midgardiano/a
Loki sbuffò, era decisamente midgardiana. Solo loro erano così ignari di ciò che erano davvero.
"Midgard.. Pianeta Terra?" Aprì le braccia, protese la testa in avanti con un'aria da Più-Ovvio-Di-Così-Non-Si-Può. "Ti dice qualcosa?"
"Beh... se per Mitgad intendi la Terra: sì, sono una terrestre." Tirò su col naso, fissando Loki con i suoi occhioni blu. 
Perfetto, sorrise Loki. Aveva appena trovato una bambina midgardiana vagare per Asgard, in più affermava di essere passata senza l'uso del Bifrost. 
"Finalmente un modo per rendere fiero Padre di me!", e improvvisamente, assunse un'aria felice. 
"T-tu chi sei?" Domandò la bambina con un moto di curiosità, risvegliando lo stregone dai suoi pensieri. 
"Sono Loki." Si presentò con fare orgoglioso.
"Perché tutti questi nomi così strani? Loki, Mitgat, Tort?" Domandò più a sé stessa che a lui, tuttavia, lui le rispose.
"E' Midgard, non Mitgat." La corresse. "E dove hai sentito il nome Tort?" Ridacchiò, ma quel sorriso sparì quando intuì dove Amelia Helbinger avesse potuto udire quel nome. 
"Non lo so se è giusto, forse era Troll..." Assunse un'aria concentrata. "Stavano cercando te." Disse dopo. Loki doveva sbrigarsi a portarla al palazzo, o Thor lo avrebbe fastidiosamente preceduto, come sempre.
"Seguimi." Le ordinò dandole le spalle, iniziando a camminare; ma a nemmeno quattro passi fatti, Loki si volto verso di lei: se ne stava immobile dov'era, con quella sua toga rosa dai disegni informi. "Che fai ancora ferma lì?" 
"Chi mi dice che non vuoi uccidermi?" Gli chiese, asciugandosi le lacrime con la manica della vestaglia. Improvvisamente, la piccola assunse una posizione eretta e guardò gli occhi scintillanti di Loki, anche se con insicurezza e timore. Il Principe emise un colpo di tosse che poteva essere benissimamente paragonato ad una risata.
"Non è nei miei piani ucciderti." Scosse la testa, continuando a camminare. "Adesso seguimi."
Mentre prese un bel respiro profondo, le sue gambe tremarono e dalla sua bocca uscì fuori un "No." 
Loki stava perdendo la pazienza. Si voltò e si avvicinò a lei, cercando di apparire il più amichevole possibile.
"Amelia Helbinger," Disse, e lei rabbrividì all'udire la voce graffiante e profonda di Loki pronunciare il suo nome. "penso che siamo partiti con il piede sbagliato." E si inginocchiò, in modo tale da raggiungere più o meno la sua stessa altezza. 
"Hai ragione." Si affrettò subito a dire. Quel giovane gli metteva paura, sì, ma alla fine non gli sembrava così pericoloso. Anzi, per qualche strana ragione, ogni volta che guardava dentro quegli occhi verdi si sentiva stranamente sollevata. Amelia prese un bel respiro profondo. Non aveva altra scelta: si sarebbe dovuta fidare di lui se avrebbe voluto sopravvivere in quello strano pianeta.
"Mi chiamo Amelia e ho otto anni, vengo da Edimburgo e sono mittgadiana." Allungò la mano verso di lui, attendendo che gliela stringesse. Ma non lo fece, rimase immobile con un'espressione curiosa e stranita in volto.
"Perché hai allungato la mano?"
"Dovresti stringerla." Gli disse lei sorridendo. Loki, un po' titubante, fece come gli aveva detto: allungò la mano e gliela strinse.
"Da noi quando ci si incontra per la prima volta si fa così." E fece spallucce, mentre Loki le rivolgeva per la prima volta un sorriso. 
"Non è poi così scema", pensò Loki prima di presentarsi una seconda volta.
"Mi chiamo Loki, ho milletrentadue anni e sono un principe di Asgard." Amelia strabuzzò gli occhi.
"Milletrentadue anni? Ma sei vecchissimo!" 











Nda.


E' finita la scuola. Non ci posso beliv. Capitemi. *piage pensando a quante serie tv e libri potrà recuperare* Dobby è feliiiiice!

Va bene, passiamo alle cose serie: chiedo scusa se ci ho messo tanto, ma adesso che la scuola (aka casa di satana) è finita, potrò aggiornare quanto mi pare e piace, quindi adesso dipende tutto da voi.

Più siete interessati, più gli aggiornamenti saranno frequenti, quindi...


Lasciate una bella recensione e fatemi sapere ;)

Alla prossima ^_^











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Capitolo 4
*** .3 ***


Wahnsinn







Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.
cit.


 
03 - 02 - 2005, Bethlem Royal Hospital, Londra


«Miss Helbinger, perché non risponde?» Ma era tutto inutile, lei continuava a guardare fuori dalla finestra. Le risate lontane dei bambini, la neve candida, il sole distante ma luminoso: erano elementi futili, ma altrettanto interessanti per Amelia.
Quella seduta stava superando le due ore quotidiane, ma ormai non ne sentiva la pesantezza. Col tempo aveva imparato a non considerare nulla, d'altronde era quello che le avevano detto di fare gli psichiatri; non c'era da stupirsi se Loki non l'aveva riconosciuta nemmeno, e non si riferiva all'aspetto: alla fine Amelia era facilmente riconoscibile grazie ai suoi capelli rosso carota e ai suoi occhi blu. Era passato un anno dall'ultima volta che era stata ad Asgard e sapeva che quell'ultima volta sarebbe stata l'ultima volta in generale.
«Miss Helbinger!» Sussultò sulla poltrona e si voltò verso lo psichiatra che la guardava con fare infastidito. «Se vuole guarire deve rispondere alle mie domande.» Suonava come una minaccia, ma Amelia gli sorrise lievemente e si alzò in piedi.
«Vorrei ritornare in camera mia.»
«Non abbiamo ancora finito, si sieda.» Le ordinò l'uomo calvo, ma lei continuò a fare come se quello le avesse dato il permesso di potersene andare via. «Miss Helbinger!» La chiamò, ma lei era già uscita dalla saletta e si stava avviando verso la numero 12. Ironia della sorte aveva deciso che la sua stanza doveva proprio avere il numero della data in cui era andata per la prima volta ad Asgard, 1 Febbraio, nel lontano 1996.
Asgard, Asgard, Asgard. Non faceva altro che pensare a quel posto.
Loki, Loki, Loki. Non faceva altro che pensare al suo dio alieno.
Gli mancavano, e quel posto in cui l'avevano rinchiusa i suoi genitori pareva ricordarle ancor di più le curve perfette delle colline, il verdeggiare degli infiniti prati su cui aveva corso a perdifiato, il castello d'oro e il sorriso del dio degli inganni.
Chiuse la porta alle sue spalle, scivolò a terra e con gli occhi ricolmi di lacrime osservò i muri bianchi, il soffitto bianco, il pavimento bianco, il letto dalle lenzuola bianche.
Bianco, bianco, bianco.
Era tutto dannatamente bianco.
Si sentiva in carcere, ma cosa aveva fatto di male?
Ma perché si trovava in quel posto?
Iniziò a picchiarsi la testa con i pugni chiusi e a singhiozzare come una bambina, si sfogò facendo attenzione a non farsi sentire, o le avrebbero aumentato la dose di antidepressivi, Amelia odiava quelle pillole che le obbligavano a prendere: la stordivano e la facevano dormire più del dovuto.
Senza rendersene conto si alzò in piedi, si mise a cercare freneticamente qualcosa con cui disegnare, trovò una penna blu e se la fece bastare. Andò verso il muro e poggiando la punta della penna sulla superfice fredda e bianca iniziò a tracciare delle linee.
Continuò a disegnare per tutta la notte, fino a quando l'intero muro non divenne una copia del quadro che c'era in casa sua. Verso le sette di mattina si distese sul letto, addormentandosi stremata.

 
*
 

Asgard, 1996 (anno midgardiano)

 
Odino sospirò e si sedette sul trono. Chiuse gli occhi e con un cenno della mano fece segno alle guardie di andar via. Con le dita si massaggiò le tempie e non osò aprire occhi, sapeva che sarebbero iniziate le vertigini e per la millionesima volta avrebbe dovuto combattere contro il Sonno. Negli ultimi decenni la stanchezza lo opprimeva con costanza, ma non poteva lasciarsi andare, sapeva che la prossima volta in cui si sarebbe lasciato andare al Sonno di Odino non ci sarebbe stato un risveglio. Non era da fraintendere però il fatto che non fosse pronto, ma certo che lo era! Erano gli asgardiani che non lo erano, specialmente il suo primogenito Thor, ancora non era abbastanza maturo per poter diventare il Re.
C'erano troppe faccende da chiudere, troppe domande che aspettavano una risposta...
Si lasciò sfuggire due colpi di tosse, e inaspettatamente ne seguirono altri più violenti. Un servitore gli si avvicinò con un calice d'acqua, ma Odino non respirava nemmeno. Il servitore gli sollevò le braccia verso l'alto, dicendogli che in questo modo i suoi polmoni si sarebbero aperti e avrebbero respirato meglio. E così fu.
Quando si riprese, Odino garantì a quel servitore che gli sarebbero state distribuite due monete d'argento in più.
Non solo il Sonno lo stordiva e lo indeboliva, ma lo ammalava pure. Si perse nei suoi pensieri, ad osservare quella gocciolina di sangue sul suo palmo, che era la testimonianza della sua malattia imminente.
«Chiamate la Regina!» Ordinò con un po' d'affanno. Per quel giorno aveva fatto abbastanza, era stanco e quasi non si reggeva in piedi, sua moglie Frigga avrebbe preso il suo posto. Ma proprio quando stava per congedarsi, delle guardie vennero a lui e, per qualche strano motivo, Odino percepì che era accaduto qualcosa di stranamente insolito...


 
*

 
«Ma quanto è alta questa porta?» Quella era la sessantaduesima domanda che la piccola Amelia poneva a Loki, i poveri nervi del dio erano arrivati al limite, ma strinse i denti e ringraziò di essere arrivato incolume davanti alle porte della sala del trono.
«Sono molto alte.» Rispose semplicemente.
«Sì, ma-»
«Amelia,» la interruppe prima che potesse fare qualche altra domanda e si chinò alla sua altezza. «Adesso le guardie mi stanno annunciando al Re, - e in quel momento la bocca della bambina diventò una O, e anche se aveva l'irrefrenabile impulso di zittirla con una delle sue magie, Loki non riuscì a non trovala un po' tenera - mi devi promettere di non dire nulla, di non muoverti e di restare immobile,» Amelia aggrottò la fronte con fare dubbioso, ma poi la sua espressione si rilassò e sorrise al Principe. «intesi?» Le chiese conferma, scompigliandole i capelli con fare fraterno.
«Intesi, signore.» Ripeté, congiunse i piedi e contemporanemente si portò una mano alla fronte. Loki ritornò alla sua altezza e la guardò dal basso, stranito da quelle mosse.
«E questo che significa?»
«Oh, da me quando i soldati prendono degli ordini fanno così!» E rifece lo strano gesto, ma più lentamente. Il dio degli inganni si lasciò scappare una risata divertita, era pronto a ribattere qualcosa, ma senza preavviso le porte si spalancarono e si ricompose assumendo un'aria severa, Amelia lo osservò un attimo e decise di imitarlo. 
La sala del trono era enorme, una fila di colonne la attraversavano come per introdurre una serie di scalini che, luccicando solo come l'oro poteva fare, portavano a un trono scolpito su una miscela di marmo bianco e oro, dalle forme regali, quasi imponenti.
Bello sì, ma chissà come doveva essere scomodo!, pensò Amelia, cercando di stare al passo di Loki.
Seduto sul trono ci stava un uomo con un occhio bendato, aveva i capelli grigi e lunghi, il viso pieno di rughe e un'aria stanca; Amelia non badò nemmeno ai suoi abiti prestigiosi, si concentrò su quell'espressione, che le parve il primo segno di umanità che scorgeva in un dio.
Si fermarono a un metro dagli scalini, Loki si inchinò al cospetto del padre ed Amelia lo imitò, alzando lo sguardo una volta ritornata alla sua altezza.
«Padre, vengo qui da voi per comunicarvi qualcosa di estremamente importante-» Iniziò così Loki, ma fu subito interrotto.
«Come mai una midgardiana, per giunta una bambina, è qui ad Asgard?» Odino non riusciva a distogliere gli occhi da quella piccola figura, gli ricordava tanto... «Cosa avete combinato tu e tuo fratello questa volta?»
«Questa volta noi non c'entriamo.» Loki si avvicinò, salendo due scalini, forse per dare più enfasi alle sue parole. Amelia ricordò la promessa che aveva fatto al principe e rimase immobile dov'era. «Padre, questa bambina afferma di essere entrata nel nostro Regno senza l'uso del Bifrost.» A queste parole a Odino parve fermarsi il fiato a metà strada. Sgranò l'occhio e guardò la bambina con uno sguardo indecifrabile: arrabbiato o commosso? Tranquillo o agitato?
Il Re si alzò in piedi e si avvicinò agli scalini.
«Come...» Il cuore era agitato nel suo petto. «Com'è possibile?» Domandò per non apparire troppo enigmatico.
«L'ho portata qui perché foste voi a rispondere a questa domanda.»
«Solo tu sei a conoscenza dei passaggi segreti, Loki.» Ma non è possibile, perché proprio adesso?, pensò, torturandosi la coscienza. «Se è un altro dei tuoi inganni, figlio mio, questa volta non la passerai liscia.» Tentò di minacciare il secondogenito, cercando di estrapolare una qualunque possibiltà.
«Padre, questa volta non c'entro niente, e lo posso garantire anche per Thor.»
«Cosa succede qui?» Tre paia di occhi furono sulla Regina che era appena entrata nella sala del trono. «Mi hai mandata a chiamare, Odino?» Ma non ricevette alcuna risposta.
Loki aveva imparato ad usare la magia dalla madre, Frigga, così quest'ultima leggendo nella mente del marito capì cosa stava succedendo, e capì anche troppo. Guardò la bambina dai capelli rossi con occhi fiammeggianti; Amelia, che stava osservando la Regina, distolse subito lo sguardo, interrogandosi sul perché quella signora l'avesse guardata così male.
«Ritornando sulla nostra questione,» disse Odino dopo un lungo silenzio, consapevole che la moglie era al corrente di tutto. «Se questa bambina è riuscita ad entrare nel nostro Regno, perché non hai letto nella sua mente?» Chiese a Loki.
«Non ne sono ancora capace.» Rispose, abbassando lo sguardo.
«Ci penso io.» La voce limpida di Frigga risuonò per tutta la sala del trono e prima che Odino la potesse fermare, la dea si mise a frugare nella mente della bambina.
Amelia, terrorizzata, si avvicinò a Loki, stringendogli la casacca fra le mani. La Regina la guardava insistentemente e molto probabilmente le stava leggendo nella mente, eppure non faceva così male come aveva pensato a primo impatto.
«Com'è poss...»
«Cosa hai scoperto?» Chiese Odino alla moglie, e quella lo guardò ancora più furente di prima.
«Non riesco a leggerle nella mente.» Calò il silenzio.
«Bene, cosa consigliate di fare?» Il cuore di Amelia batteva come non mai, si stingeva alla casacca di Loki come alle gonne della madre. Cosa avrebbero deciso? Ucciderla? Tagliuzzarla in mille pezzetti e analizzarla? Le lacrime le salirono agli occhi e iniziò a vedere appannato.
«Gettala nelle celle.» Propose Frigga, guardando gli scalini davanti a lei, questa volta con uno sguardo quasi deluso, affranto.
«E' una bambina, madre!» Ribatté Loki in difesa della piccola.
«Sono d'accordo...» Disse Odino, interrompendosi un attimo. «Con Loki.» Amelia gettò fuori un sospiro, questo parve catturare l'attenzione di Frigga e per evitare di farsi incenerire un'altra volta da una sua occhiata, la testolina rossa si nascose dietro Loki, alla ricerca di protezione. «La terrai nelle tue stanze fino a quando io ed Heimdall non avremo deciso cosa fare.»

 
*


«Tu me lo avevi garantito, Odino!» Tuonò la dea, continuando ad andare avanti ed indietro davanti all'enorme letto matrimoniale.
«Lo so, Frigga, ma non è colpa mia se quel quadro si è risvegliato.»
«Avevi detto di averlo distrutto!» Una vena pulsava nella tempia della regina.
«Evidentemente è indistruttibile.»
«Odino, Padre degli Dèi, non è stato capace di distruggere un misero quadro!»
«Protetto da un sigillo che mio padre ha istillato!» Gridò esausto e la moglie smise di camminare.
Calò un silenzio lungo, quasi interminabile, pieno di dubbi e pensieri, ma fu comunque spezzato.
«Lei è la prescelta.» Soffiò fra le labbra il Re, con una mano che gli copriva la fronte piegata in varie rughe.
«Ma se è solo una bambina?» E rimasero a guardarsi senza aprir bocca.

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Capitolo 5
*** .4 ***


Wahnssin
 

 
 
HOMECOMING
 
 
                                                          05-02-2005, Bethlem Royal Hospital, Londra
 
 
L'avevano isolata in un'altra stanza, imbottita di psicofarmaci e la liberavano dalla camicia di forza solo tre volte al giorno.
Stava seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro. Le pareti e le mattonelle erano rivestite da mattonelle simili a cuscini color panna, nella stanza non vi era nulla di abbastanza duro, sicuramente per evitare che il paziente in isolamento si autoinfliggesse. C'era solamente un orologio, messo così in alto che nemmeno in punta di piedi o saltando lo si poteva raggiungere.
Il tic-tac era l'unica cosa che spezzava il silenzio, ma era diventato così assordante che Amelia avrebbe dato volentieri un rene in cambio di una radio. Erano le dodici in punto e a momenti le infermiere sarebbero venute a liberarla per venti minuti, il tempo calcolato per pranzare e andare in bagno. 
Non credeva che queste "pratiche psichiatriche" esistessero ancora, eppure era in isolamento già da due giorni. Tutto perché aveva disegnato quel murales nella parete della sua stanza. Ma non era colpa sua se quel posto dov'era rinchiusa le faceva ricordare ossessivamente Asgard e lui... lui e i suoi occhi di smeraldo.
Lo sognava ogni notte e il giorno lo sentiva sempre accanto a sé, così forte era la sua presenza che a volte Amelia si ritrovava a parlargli ad alta voce, solo che un eco era l'unica risposta che riceveva.
Il rumore delle chiavi inserite dentro la serratura la risvegliò e quattro infermiere, con camice e cappellino bianco, entrarono. Due di loro si occuparono a slacciarle la camicia, le altre le posarono un vassoio sulle ginocchia con sopra il suo pranzo: un brodino giallastro e una bottiglietta d'acqua. Amelia fece una smorfia, non avrebbe mai ingerito quella roba che puzzava di pollo marcio. A lei bastava poter muovere le braccia e il busto senza impedimenti.
«Devi mangiare, o non potrai prendere le medicine.» Prendeva nove psicofarmaci al giorno, tre dopo la colazione, tre dopo il pranzo e tre dopo la cena. 
«Non ho fame.» La voce le uscì rauca, in un fieble sussurro.
«Se vuoi uscire dall'isolamento, devi fare quello che ti viene richiesto.» Amelia guardò la donna con uno sguardo inespressivo. Dopo un attimo di silenzio, le rispose:
«Lui verrà.» Nemmeno Amelia comprese il significato di quelle parole fino a quando non lo ripeté di nuovo, con più coscienza. «Lui verrà.»
Le infermiere si guardarono smarrite, mentre lei continuava a dire: «Lui mi porterà via di qui. Lui... lui...» Ma non riuscì a continuare, perché iniziò a tremare. Quando tremò così forte che quasi sobbalzava, rovesciò il suo pranzo nel pavimento a cuscini. 
«Lui verrà! Deve venire!» Urlò più forte mentre si alzava in piedi. Due infermiere la bloccarono per le braccia, ma la Amelia era più forte, con poche gomitate se le scrollò di dosso, scappando via dalla stanza. Corse a perdi fiato, imboccò  vari corridoi fino a quando raggiunse la sua stanza. Entrò dando un calcio alla porta. Quando fu dentro, Amelia constatò che il murales era stato coperto da una carta parati bianca, ancora fresca, così fresca che c'era un cartellino che ordinava di non toccare.
Si avvicinò all'angolo della parete e strappò via la carta parati in un colpo solo.
Il murales era ancora lì, ricoperto di un sottile strato di colla, ma era ancora perfetto, come una fotografia bianco e nero della bellissima Asgard. Chiuse gli occhi e quelle cascate divennero reali, il castello d'orato splendeva davvero sotto i raggi del sole e la luce degli arcobaleni. Immaginò di correre a perdifiato sui prati, di osservare con sguardo da bambina la flora e la fauna asgardiana. Poi lo vide... Loki. Era davanti a lei e la guardava con un'espressione seria. 
«Arrivano», le disse avvicinandosi a lei. «Arrivano.»
Amelia non sentì più il pavimento sotto i piedi, perché un uomo l'aveva sollevata, portandola fuori dalla stanza.
«No!» Urlò continuamente e atrocemente, annaspando come una dannata.
Varie infermiere la tenevano per le gambe, mentre una cercava di inserirle un ago nel braccio. Ma Amelia si divincolava troppo, così il sonnifero venne inserito dietro la spalla.
Le sue forze vennero a scemare, di più, di più, sempre di più, fino a quando non fu distesa sul pavimento. Con l'ultima riserva di energie sussurrò: «Loki... Perdonami.»
 
 
 
                                                                                  1996, Asgard (anno midgardiano)
 
 
«Allora quelli erano i tuoi genitori?» Stavano sull'enorme letto delle stanze di Loki, uno guardava il soffito, l'altra saltava sul materasso.
«Esattamente.» 
«Sono antipatici.» Sbuffò Amelia, sistemandosi una ciocca di capelli. Non aveva paura della reazione di Loki a quella sua affermazione e non sapeva nemmeno lei perché non aveva più timore di lui. Dopo l'udienza con il Re, il principe aveva dato ad Amelia l'impressione di una persona affidabile e non così tanto cattiva come aveva immaginato.
«Come mai?» Le chiese, «E per favore, potresti smettere di saltare?» La bambina si sedette di fianco a lui e sospirò, cercando di formulare una spiegazione plausibile a quell'accusa. 
«Non hai visto come mi guardavano?» A quelle parole, Loki si issò a sedere, la guardò con uno sguardo inespressivo e continuò a chiederle:
«Sono solo preoccupati.» Ma lei non fece nemmeno caso a quelle parole che suonarono come un incoraggiamento.
«Tua madre poi mi guardava come se avessi provato ad ucciderla!» Amelia gesticolava in un modo così buffo che Loki non riuscì a prendere sul serio quelle parole.
«Questo è vero.» Ammise in risposta, con tono metà divertito e metà comprensivo, eppure, ragionandoci un po' su, l'argomento divenne serio anche per lui. «Aveva un'espressione indecifrabile in volto.» Sussurrò appena, guardando davanti a sé.
Loki si voltò a guardarla non appena gli chiese: «Secondo te era solo per preoccupazione?» 
«Vado a chiederglielo.» Detto questo, si alzò in piedi e in due passi arrivò davanti alla porta.
«Aspetta, voglio venire con te!» Amelia saltò giù dal materasso e affiancò Loki in una corsa. «Forse lei sa se c'è un modo per farmi ritornare a Midgard.» Aggiunse ancora guardando il principe dal basso, mentre quello le rivolgeva un largo sorriso. Amelia aggrotto le sopracciglia. «Come mai sorridi?»
«E' la prima volta che pronunci bene Midgard.» Per un attimo la bambina assunse un'aria concentrata, per poi aprire la bocca in una grande O.
«Faccio progressi!» Esultò sorridendogli, e a Loki venne spontaneo strofinarle la nuca, scompigliandole così i capelli.
«Oh, odio quando lo fai!» Sbraitò quella, risistemandosi la corta chioma rossa.
«E comunque un modo per riportarti nel tuo pianeta c'è di sicuro, quindi...» Loki stava per abbassare la maniglia quando qualcuno bussò da dietro la porta. Un po' titubante, la aprì e dentro la stanza entrò Odino accompagnato da un uomo alto e di colore, vestito da un'armatura d'oro. Il principe si inchinò al cospetto del Re e così fece Amelia, rischiando di inciampare sui suoi piedi.
«Questa è la bambina?» 
E adesso chi è quest'omone? Vuole uccidermi? E con questi pensieri, si nascose dietro la veste di Loki.
«Sì.» Rispose il Padre degli Dei. Lo sconosciuto si avvicinò e questo impaurì ancor di più la piccola midgardiana.
«Non avere paura.» L'uomo cercò di essere il più delicato possibile nel parlare, ma la sua voce rauca e possente  non glielo rese possibile, tanto che quella rassicurazione parve più una minaccia. 
«Chi è?» Quella domanda uscì fuori in un piccolo sussurro e Loki sapeva che era rivolta a lui.
«Questo è Heimdall, è un dio ed è il guardiano del Bifrost.» Ci fu una leggera sfumatura di fastidio nella sua voce, cosa che forse comprese solamente Amelia.
«Il Bifrost è l'unico modo per viaggare da un mondo ad un altro,» continuò Heimdall, che non parve più così minaccioso come qualche attimo prima. «sono qui per capire come hai fatto ad arrivare fin qui.» Amelia e Loki si scambiarono una breve occhiata. 
«E' una storia un po' confusa.» La bambina di staccò dalla toga e si avvicinò al guardiano, lo sguardo di quest'ultimo parve incitarla a continuare. «Penso di essere entrata dentro il quadro del piano di sopra, tutto qui...» Tutti quegli occhi su di lei la mettevano in suggezione e cercare di formulare un racconto omogeneo divenne la cosa più difficile da fare.
«Puoi descrivere questo quadro?» Questa volta fu Odino a parlare e nella sua voce era stranamente teso.
«Hem...» Amelia guardò ancora Loki e nei suoi occhi trovò quel poco di coraggio che le serviva. «E' grande così,» Disse, mimando le dimensioni, «raffigura un grande prato e un fiume, in lontananza c'è il castello, mentre nel cielo ci sono due pianeti, e...»
«E' lui.» Heimdall interruppe Amelia, rivolgendosi al Re. «E' il quadro di Borr.»
Calò un apparente silenzio, mentre nelle menti di ognuno dei presenti scorrevano dubbi di diverso genere.
«Allora?» Domandò con insistenza Odino.
«Il quadro ha compiuto il suo dovere, ovvero quello di teletrasportare un'ultima volta.»
«Quindi non ci sono più possibilità che questa bambina ritorni?» Ad Amelia fece paura il modo in cui il Padre degli Dei l'aveva chiamata, tanto che ritornò a nascondersi dietro Loki. Quest'ultimo guardava i due con un'espressione più che confusa, chiedendosi che cosa stesse succedendo e che c'entrasse in tutta quella faccenda suo nonno, Re Borr. Loki non era ancora capace di leggere nelle menti, ma dagli sguardi capì che fra quei due si stava avviando una conversazione mentale.
- Non ci sono possibilità che ritorni servendosi del quadro, ma se lei è quella che noi crediamo, riuscirà a ritornare, in un modo o nell'altro.
- Come si può evitare?
- Non si può sfuggire alla volontà delle antiche scritture.
«Ma se è necessario, io, Odino, Padre degli Dei, protettore dei Regni, ci riuscirò!» Urlò improvvisamente, spaventando Amelia al tal punto da farla urlare.
«Come volete, sire.» Disse quello, inchinandosi. «Aspetto il vostro prossimo ordine.» Il Re si voltò verso la bambina e rivolgendole un'occhiata indecifrabile, disse:
«Riportala nel suo Regno.» 
«Sarà fatto, sire.» Non appena Odino uscì dalle stanze, due guardie entrarono e una di loro prese in braccio la bambina.
«No!» Annaspò lei, a quella visione Loki avanzò verso Heimdall e con aria decisa disse:
«Verrò con voi.»
«Come volete.» Detto questo, si avviarono verso il Bifrost, ma prima di avanzare, Loki strappò dalle braccia della guardia Amelia, mettendola giù.
«Dove mi portano? Non capisco...»
«Stai per ritornare a casa.»
Ci misero quasi mezz'ora ad arrivare a cavallo e non appena arrivarono nell'enorme e prestigiosa stanza vuota, venne il tempo di salutarsi. Loki piegò le giocchia abbassandosi all'altezza di Amelia.
«Adesso non so se essere triste o felice.» Ammise, piegando le labbra in una smorfia.
«Era quello che volevi fin dall'inizio, ritornare a casa, no?» Loki le diede un piccolo pizzicotto sotto il mento.
«Ahio...» Si lamentò lei, massaggiandosi il punto dolente, tuttavia con un sorriso sulle labbra.
«Adesso vai.» Le strofinò un'ultima volta la nuca e si alzò in piedi. Amelia gli sorrise prima di voltarsi e di andare dove Heimdall le aveva indicato.
Il guardiano sollevò la sua spada in alto e una luce fuoriuscì dalla lama.
«Loki!» Urlò Amelia. «A presto!» E agitando la mano in aria in segno di congedo Heimdall la colpì con la luce dai colori dell'arcobaleno.
Quando il fascio di luce svanì di colpo, della piccola midgardiana non ne era rimasta traccia. Improvvisamente una strana sensazione si impadronì di Loki. Era forse mancanza per quella bestiolina?
«A presto.» Sussurrò il dio con un mezzo sorriso.
 
 
 
Amelia cadde sul parquet, ma l'impatto non fu violento, o almeno, lei non se ne rese nemmeno conto dato che si alzò immediatamente in piedi, correndo verso la camera da letto dei propri genitori.
«Mamma, papà! Mamma!» Aprì la porta ed entrò accendendo la luce. I due coniugi si erano svegliati di colpo, preoccupati fino alle punte dei capelli.
«Amelia! Cosa c'è?!» Strillò Amaya Helbinger.
«Sono tornata! Sono qua!» Byron Helbinger guardò la moglie con gli occhi ancora semichiusi dal sonno, poi si rivolse alla figlia:
«Amelia, hai fatto un altro dei tuoi sogni?»
«No! Non era un sogno!» Gli occhi brillanti di felicità della bambina cambiarono aspetto di colpo, tramutando la sua espressione in una maschera di confusione. «Ma.. sono mancata per delle ore.» Calò un breve silenzio.
«Amelia, sei andata a dormire solo tre quarti d'ora fa. Era solo un sogno, tesoro. Torna a dormire.»




NDA.

Buonsalve, 

come va? I'm back with another chapteeeeeeeeeeeeeeeeeeer...... yeah! (?)

Cosa ne pensate? Se fa schifo è perché l'ho scritto sotto l'influenza, quindi... perdonatemiihh >.<

Spero di leggere varie recensioni questa volta! Vi ringrazio per aver letto questo capitolo e di aver messo questa storia nelle seguite o nelle preferite, veseama.

Un bacione e 


ALLA PROSSIMA;)

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Capitolo 6
*** .5 ***


Wahnssin

 
       
                                        "La memoria è come il mare:
                           può restituire brandelli di rottami a distanza di anni."
                                                                    -Primo Levi.
                                          
2012, New York


Aprì gli occhi lentamente, fu la luce soffusa che traspirava dalle finestre a svegliarla.
Erano le sei di mattina e il quartiere iniziava a diventare rumoroso e caotico come sempre. Amelia si alzò a sedere, prese la solita pillola dal barattolino e la ingoiò senza aver bisogno di un sorso d’acqua.

Si preparò in fretta e corse via da quell’appartamento sudicio e sporco che chiamava casa.
Imprecò quando dopo i primi passi verso la metropolitana iniziò a piovere. Negli ultimi giorni non faceva altro che piovere.

Legò più stretto il cinturino del cappotto, si strinse la borsa tracolla al fianco e ringraziò di aver indossato le scarpe da ginnastica e non le inutilissime Converse.

Arrivò alla centrale con cinque minuti di ritardo. Passando inosservata, si sedette sulla sua sedia e accese il computer e gli altri apparecchi elettronici intorno a lei.

Iniziò a continuare il suo lavoro di ricerca e calcoli che aveva interrotto il giorno prima.

*

Dopo aver finito la scuola superiore, aveva preso una laurea triennale in fisica, riuscendo a laurearsi con i migliori voti. Aveva trovato lavoro come assistente in uno studio di ricerche a Londra, ma Amelia voleva andare via dalla Gran Bretagna, voleva dimenticare quella terra. Era riuscita a riprendersi perfettamente (e anche fin troppo velocemente) dalla sua depressione, non appena uscì dall’Ospedale Psichiatrico si rimboccò le maniche per recuperare i mesi di scuola persi, riuscendo a ritornare a cavallo con gli studi.

Dopo tante difficoltà e problemi, aveva finalmente reso i suoi genitori fieri di lei.

Due mesi dopo aver abbandonato il suo posto di lavoro si trasferì negli Stati Uniti, New York.
Fu difficile trovare lavoro, ma una sera in un pub, dopo varie settimane di ricerche e fallimenti, Amelia si stava concedendo un bicchierino di bourbon quando un uomo si sedette accanto a lei per scambiare quattro chiacchere.

«Che ci fai qui tutta sola?» Le aveva chiesto con un bel sorriso stampato sulle labbra. L’uomo era affascinante, ma Amelia non era una persona che si lasciava abbindolare facilmente.

«Potrei chiedere la stessa cosa a te.» Era di sicuro sulla soglia dei trenta o trentacinque anni.

«Io sto festeggiando.»

«Da solo? Mmh, abbastanza triste.» Commentò piano, prendendo un sorso.

L’uomo rise divertito, nella sua mente stava cercando di capire le origini della ragazza dal suo accento molto marcato. «Beh, meglio soli che male accompagnati, no?»

«Concordo pienamente.» Sperò che se ne andasse via, ma quello continuava a fissarla e Amelia desiderò di affogare negli ultimi sorsi di whiskey.

«Qualcosa mi dice che non sei felice.»

«Tu come fai a sapere se lo sono o no?» Lo guardò mentre posava il bicchiere rumorosamente, non fu una cosa voluta, la condensa le fece scivolare il vetro dalle dita.

«E’ da quando sei entrata qui che non sorridi.»

«Forse non mi piace sorridere.»

«A chi non piace sorridere?»

Fece spallucce e ordinò un altro bourbon. Mentre il barista riempiva di whiskey il bicchiere, salutò in modo molto amichevole e confidenziale l’uomo vicino ad Amelia.
«Dan, non importunare le mie clienti.»

«Dovresti congratularti con me, Pete.»

«Congratulazioni per cosa? Per essere un coglione?»

Amelia non riuscì a trattenere un piccolo sorriso divertito.

«Mi hanno preso, Pete. Hanno accettato la mia domanda di lavoro!»

Il barista posò la bottiglia in un tonfo e guardò l’amico con gli occhi fuori dalle orbite. «Mi stai prendendo per il culo?! Ti hanno preso nello S.H.I.E.L.D?»

Amelia, che stava disegnando figure sul vetro del bicchiere, guardò sorpresa l’uomo che sedeva accanto a lei.

Aveva sentito parlare dello S.H.I.E.L.D, le sembrò impossibile quello che aveva appena sentito.

Dan imprecò contro il suo amico, insultandolo per aver urlato ai quattro venti una cosa privata. Meno si parlava di quell’organizzazione, meglio era.
L’uomo raccontò cosa c’era scritto nella e-mail che gli avevano mandato quel pomeriggio e quando a Pete, il barista, toccò servire altri clienti, Dan continuò il suo racconto esclusivamente ad Amelia, che ascoltava con attenzione.

«Congratulazioni, allora. Piacerebbe anche a me festeggiare per un posto di lavoro del genere.» Commentò con una punta di tristezza che Dan riuscì a cogliere.

«Tu dove lavori?»

«Ho abbandonato il mio posto da assistente per trovare lavoro qui, ma…» Si rese conto che quella era la prima volta da quando si era trasferita che parlava così liberamente con qualcuno.

«Non hai trovato niente?»

«Gli stipendi sono troppo bassi e se sono alti pretendono ore extra che non mi posso permettere per motivi di salute.»

Dan restò un attimo in silenzio, comportamento strano dato che Amelia gli aveva attribuito l’appellativo di logorroico. Si guardò in giro senza darlo troppo a vedere e si avvicinò a lei, così vicino che le guance pallide di lei presero una tonalità rosata.

«Domani mattina potrei passare a prenderti a casa tua e potremmo andare insieme alla centrale dello S.H.I.E.L.D. Sai, lì stravedono per giovani neolaureati con voti alti.»

Amelia sgranò gli occhi, incredula a quella proposta. «Ma non mi conosci nemmeno.»

«Voglio aiutarti e io sono una persona generosa.» Si allontanò da lei per prendere un sorso di vodka.

«Lo faresti davvero?»

«Solo se stasera sorriderai più spesso e anche domani mattina… e gli altri giorni.»

Le scappò un sorriso, si morse l’interno del labbro inferiore e scosse la testa come per constatare se stesse vivendo in un sogno o nella realtà.

«Solo questo?»

«Facciamo che se ti danno un lavoro, dovrai andare a cena con me.»

Amelia scoppiò in una risata.
«Grazie, io… non so come… grazie.»

Ma quello rispose solo dopo un po’, perché rimase a guardarla come solo un’amante dell’arte guarda il suo dipinto preferito.

«Sei bellissima.»

Adesso il rosa nelle sue guance divenne rosso come la sua chioma.

«Il tuo nome è Dan e basta?»

«Daniel Jones, trentadue anni, Kentuky, laureato in ingegneria aereo spaziale.» Si strinsero la mano e quel gesto le ricordò tanto qualcosa che non ricordava da tanto tempo.

«Amelia Helbinger, ventiquattro anni, Scozia, laureata in fisica.»

«Oh mio Dio, sei scozzese?»

«Lo sono.» Confermò in una risata.

«Okay, Pete! Fai un altro bicchiere alla nostra amica scozzese.»

«Senz’altro, fratello!» Gli rispose dall’altra parte del bancone. Quando l’uomo di colore arrivò da loro, disse: «Non ti fare offrire altri drink, ragazza, questo è un maniaco seriale.»

«Figlio di puttana.»

«Hai appena insultato tua zia, sai?»

Quella sera Dan insistette per accompagnarla a casa con la scusa di imparare la strada per andare a prenderla l’indomani mattina.
Amelia andò a letto brilla e finalmente felice.



Le dita stringevano fin troppo forte la cartella dove teneva il suo curriculum. I piedi poggiavano il suolo dell’auto con le punte, le caviglie tremavano e le ginocchia si muovevano su e giù convulsamente.

Se Dan non avesse saputo che quello era un tic nervoso, avrebbe giurato che Amelia aveva urgenza di andare al bagno.

Posteggiò e si mise le chiavi in tasca.

«Sai, non sei l’unica ad essere ansiosa.»

«Ansiosa? Sto per avere un infarto precoce.» Aveva preso una doppia dose di ansiolitici quel giorno, ma a quanto pareva non erano serviti a nulla, avrebbe potuto prendere una boccetta intera di pillole e non le avrebbe fatto comunque nessun effetto.

«Hey» la chiamò con un tono dolce e le prese inaspettatamente la mano, staccandogliela dalla cartella. «sei grande, ce la farai.» Amelia rimase stupita da quel gesto, così tanto che senza sembrare maleducata o antipatica sfilò la mano dalla sua presa con un mezzo sorriso.

Uscirono dall’auto e si avviarono verso l’enorme struttura della centrale S.H.I.E.L.D.
Amelia non aveva mai visto niente di così maestoso e moderno. O… forse sì.

Entrarono dalle porte automatiche, superarono dei controlli per la sicurezza e si recarono da una delle tante segretarie del bancone di informazioni.

Prima di parlare alla donna, Dan rivolse un piccolo sorriso di incoraggiamento ad Amelia.

«Buongiorno,» con questo saluto riuscì a catturare l’attenzione della segretaria, che gli rivolse un sorriso a trentadue denti, così tirato e perfetto che Amelia si chiese per quanti anni aveva portato l’apparecchio alle superiori e se i suoi vecchi compagni di scuola la prendevano in giro. «il mio nome è Daniel Jones, oggi dovrebbe essere il mio primo giorno di lavoro e…»

«Aspetti un secondo, cerco subito il suo settore.» Non appena rivolse lo sguardo al computer quel sorriso svanì dalle sue labbra alla velocità della luce. Chissà se era di copione sorridere così tanto, sembrava stancante. «Settore otto del dodicesimo piano.» Disse scandendo le parole, come per mettersi sul sicuro di non doverlo ripetere più.

«Perfetto, grazie.»

Ma i due rimasero ancora lì e quella li guardò con il suo sorriso isterico. «Cos’altro posso fare per voi?»

«Ecco, questa è una mia amica, vorrebbe avere un colloquio per…»

«Posso avere il suo curriculum?»

I due guardarono Amelia.

Respirò affondo, aprì la cartella con dento il fascicoletto e glielo porse.

«Mh… fisica. L’agente Maria Hill si occupa delle richieste di lavoro su questo settore.»

«E…» uscì dalla bocca di Amelia, parlando per la prima volta. «la signora Hill è qui?»

«I colloqui inizieranno tra un minuto, se la signorina è velocissima può riprendere il curriculum, fare una firma e salire al settimo piano settore due senza perdersi.» Quelle parole sembravano intrise di ironia.

L’insicurezza sparì e fu sostituita dalla determinazione alla velata provocazione della segretaria dai capelli biondi.

«Mi dia il curriculum e mi faccia firmare.»

E così fu, la segretaria diede ad Amelia una card con il suo nome sopra da mettere sul petto a sinistra, come una spilla.

Congedarono la segretaria e si avviarono velocemente verso il primo ascensore. Dan spiegò velocemente dove si trovava il secondo settore e all’ultimo secondo le diede una piccola cartina orientativa della centrale.

«Mancano quindici secondi.»

«Buona fortuna.» Le augurò mentre le porte dell’ascensore si aprivano e lei scappava urlando un: «Grazie, Daniel!»

Corse velocemente verso il settore due e fortuna volle che a tre secondi di tempo rimasti, lei si trovava ancora al cinque.

Arrivò nella vasta sala e si precipitò (letteralmente) sul bancone dell’ennesima segretaria in quella struttura.

«Salve, sono Amelia Helbinger, sono qui per il colloquio di lavoro.» Disse così velocemente e così ad alta voce che quella sussultò sulla sedia e tutte le persone lì vicine si voltarono rivolgendole occhiate infastidite.
«Il colloquio è iniziato trenta secondi fa, puoi ritornare domani.»

«Ma sono trenta secondi, non un minuto!» Sbottò in protesta Amelia, che aveva ancora il fiato corto per la corsa. «Per favore, signora, ho bisogno di questo lavoro, non succederà nulla di male se lascerà passare, infondo sono trenta secondi non trenta minuti, per favore, per favore,  io…»

«Dio, ragazza, sembri mio figlio quando vuole le caramelle mou al supermercato!» Sbuffò quella, mentre firmava un foglietto che consegnò ad Amelia. «Compilalo e presentalo all’agente Hill durante il colloquio.»

Sulle sue labbra si dipinse un sorriso così largo che per un attimo si sentì come la segretaria bionda di prima. «Grazie mille, signora! Se passerò domani, le porterò uno Starbucks!» Bene, adesso aveva due promesse da mantenere.

Wow, la mia vita sociale sta migliorando notevolmente.

«Te lo dico io, ragazza, c’è un posto libero da due settimane e Maria Hill manda gente a casa da due settimane.» Il cuore di Amelia si frantumò. «E gente intelligente non è di certo mancata, quindi: buona fortuna.»

Rimase a guardare la donna con occhi spenti, privi della luce di cui si erano illuminati poco prima. Si voltò e andò verso il salottino d’attesa davanti all’ufficio di Agente Hill, si sedette e compilò il suo foglietto, mentre iniziava a cuocere nella sua ansia.

Un pezzo grosso dello S.H.I.E.L.D, si racconta che lei abbia anche avuto a che fare in prima persona con personaggi come Iron Man, Bruce Banner (meglio noto come Hulk, il mostro verde) e addirittura Captain America dopo il suo ritrovo nei ghiacciai.

Chissà come sarebbe stato incontrarli, o solamente lavorare in un posto dove anche (alcuni di) questi investivano o lavoravano.

Ma smettila di sognare, Amelia, non ti prenderanno mai. Dan ha avuto una sontuosa botta di culo e sicuramente la sorte non deciderà di regalarla anche a te.

Passarono due ore, in cui ogni donna o uomo che usciva da quell’ufficio faceva una di queste tre cose: piangere, bestemmiare, andare via con lo sguardo basso.

Quando venne il turno di Amelia, la ragazza prima di lei uscì correndo via in lacrime.

Imprecò e si alzò in piedi, camminò lentamente verso la porta e bussò.

Una voce soave, ma tirata e fredda la invitò ad entrare. Prima di abbassare la maniglia, Amelia guardò dietro di sé. Era l’ultima.

«C’è qualcuno, sì o no?»

Si diede della stupida mille volte nell’arco di un secondo. Aprì la porta ed entrò velocemente.

La donna che le si presentò davanti stava seduta con la mano a massaggiarsi la fronte, aveva la faccia di una che alle undici di mattina era già esausta. Aveva capelli scuri legati in uno chignon, un volto acqua e sapone e i lineamenti delicati, ma pieni di stanchezza e di rabbia.

«Tu sei l’ultima?» Le chiese e Amelia annuì. Si avvicinò alla scrivania e si sedette sulla sedia davanti. Maria Hill allungò la mano e le fece segno di darle qualcosa. Si sbrigò ad aprire la cartella e a darle il curriculum.
Ci furono due minuti di silenzio in cui l’agente leggeva velocemente il tutto con aria disinteressata e infastidita.

Amelia non aveva mai provato così tanta ansia, forse solo durante l’esame finale di laurea. Il cuore le batteva così forte che i battiti rimbombavano fino alla testa che pulsava all’unisono con il muscolo striato. L’aria le sembrava pesante e irrespirabile, la vista era offuscata, le dita tremavano sulle ginocchia.

«Che me ne dovrei fare di una ventiquattrenne laureata in fisica senza alcuna specializzazione, che parla il tedesco e che ha una sola e piccola esperienza di lavoro?» Con quelle parole pronunciate in modo così sprezzante e provocatorio, Amelia si sentì inutile, eppure, una strana sensazione di rabbia stava crescendo dentro il suo petto. «Assolutamente niente.» Gettò il curriculum sulla scrivania e girò la sedia verso il muro, dando le spalle.


«Chi diamine si crede di essere?» Le uscì di bocca e non ebbe tempo di pentirsene perché quando Maria Hill si voltò a guardarla con sorpresa, Amelia riprese a parlare: se doveva andarsene, tanto ne valeva andare via di lì a testa alta. «Può avere tutti i suoi motivi per essere stanca, ma questo non le permette di trattare chi sta seduto qui con i piedi, perché sa, anche io ho avuto delle brutte giornate e sono stanca e arrabbiata. E voglio un dannato lavoro… e se non è qui, bene. Troverò altro.» Riprese il curriculum e si alzò dalla sedia. «Buona giornata.» Camminò velocemente verso la porta, ma quando stava per toccare la maniglia l’agente Maria Hill la chiamò per il cognome.

Bene, ora me ne dice quattro pure lei.

«Siediti.»

Rimase a guardarla in piedi, solo dopo alcuni secondi andò a sedersi nuovamente.


L’agente la guardava con occhi inespressivi, ma carichi di un qualcosa che Amelia non riuscì ad identificare subito. «E’ da quattordici dannatissimi giorni che da quella porta entrano cervelloni super intelligenti, talenti della matematica e della fisica, pieni di specializzazioni e esperienze di lavoro fino al collo.» Era soddisfazione quella che aveva illuminato il volto antipatico della donna? Oppure Amelia se lo stava immaginando? «Li ho rifiutati tutti, e tutti sono andati via con la coda fra le gambe senza dire nulla. Solo tu hai tirato fuori le palle.»

Poco scurrile, eh. Amelia non capiva più nulla. «E’ un discorso di ammissione o di presa per il fondoschiena?» Domandò ormai al limite della sopportazione.

Maria Hill si alzò in piedi e andò verso la porta. «Seguimi, Helbinger.»

Amelia fece come le chiese e la seguì nei corridoi e in una sala piena di persone intente a lavorare ai computer o addirittura a trafficare su degli schermi olografici. L’odore di disinfettante diffuso in quella sala era piacevole.

«In questo posto ho bisogno di gente sveglia e intelligente, ma cosa più importante: determinata e spietata.» Camminarono fino a una scrivania vuota, con gli apparecchi elettronici spenti. «Qui non voglio secchioni che pensano che il cervello sia l’unica cosa che serve per lavorare bene.»

Maria la guardò come se Amelia dovesse dire qualcosa in risposta, così lei si limitò ad annuire e a mormorare un “certo, certo.”

«Oggi voglio vedere come lavori, per domani, si vedrà.» Si voltò senza nemmeno salutarla, ma prima di andare via, Amelia la vide parlare con una donna che a momenti sarebbe andata da lei per spiegarle cosa doveva fare.

Quel giorno di prova andò bene, almeno, così doveva essere dato che erano passati otto mesi e ancora stava seduta su quella sedia.

*

Era ora di cena e dopo la pausa avrebbero staccato alle dieci, valeva a dire circa due ore. Doveva essere in mensa insieme ai suoi colleghi, o in un fast food con Melissa o Dan, ma una strana e familiare sensazione l’aveva costretta a starsene da sola.

La stessa sensazione che aveva provato per tre volte, solo tre volte, in tutta la sua vita.

Quelle tre volte.

Lo stomaco sotto sopra, il cuore che faceva male e la testa in fiamme.

Poi tutto iniziò a tremare e un botto fece tremare i muri in un rumore tuonante e prorompente.

Il codice rosso fu annunciato per tutta la centrale e Amelia si ritrovò a raccogliere tutte le sue cose in fretta e a correre con una Beretta 92 carica nelle mani. Fortuna che le era stata affidata il giorno della sua seconda promozione o si sarebbe sentita più insicura di com’era già.

Scese per le scale e due piani più giù tantissimi agenti correvano ai depositi di auto o di armi e gli impiegati scappavano verso le uscite di sicurezza.

Da che parte doveva andare?

«Helbinger! Helbinger, mi ricevi?!» La chiamò Maria Hill attraverso il walkie-talkie.

«Agente Hill, cosa diamine sta succedendo?» Amelia si appoggiò ad un angolino, aspettando che la folla scemasse un po’.

«Un essere di provenienza extraterrestre ha usato il Tesseract come portale dal suo mondo per passare al nostro.» Dalla voce ansante sembrava ferita.

Quelle informazioni iniziarono a rimbombare nella sua testa in un climax terrificante, che pian piano le gelava le vene.

«Dove sei?»

«Non provare a raggiungermi, Helbinger! La centrale sta collassando! Vai via, mi senti?! Scappa!» Urlò.

Un sesto senso miscelato alla strana sensazione e al terrore le fornivano la risposta che tutto il suo corpo cercava di respingere.

Non esiste. Non può essere. Asgard non esiste. Lui non esiste.

«Ricevuto. Passo e chiudo.» Altre scosse fecero tremare l’intera base, i muri si riempivano di crepe e i vetri si rompevano scoppiando in mille pezzi. Alcuni frammenti finirono sulla sua guancia, ferendola.
Doveva andare via di lì. Subito.

Corse verso l’uscita di sicurezza, via dalla centrale.

Anche a metri di distanza l’asfalto tremava.

Corse più veloce che poteva verso un jet d’inseguimento, non aveva altra scelta se non salire senza alcun permesso.

Ignorò il rumore insopportabile del motore e saltò su prima che il mezzo potesse levarsi un altro metro da terra.

Colse di sprovvista i tre agenti, ma non le importava: era salva.

«Ragazza, che ci fai qui?!» Urlò un uomo non appena le porte del jet si chiusero. Quando si voltò, vide che si trattava proprio di Phil Coulson. «Non dovresti essere qui, non è il tuo posto.»

«Signore, o saltavo o morivo.» Parlò lentamente, il fiatone era ancora troppo affannoso e le gambe le dolevano malamente.

«Qual è il tuo nome?» Domandò Coulson, che tese una mano verso di lei in segno di aiuto. Afferrò la mano dell’agente e, tra alcune smorfie di dolore, si mise su in piedi.

«Amelia Helbinger, lavoro da otto mesi nello S.H.I.E.L.D e da poco-»

«Da poco frequenti il corso per diventare un’agente, lo so. Sei nella lista.»

Rimasero a guardarsi mentre Amelia riprendeva fiato. «E’ vietato sapere cosa sta succedendo?»

«Stiamo inseguendo il pazzo che ha rubato il Tesseract.»

Aveva lavorato giorni, come tutti gli altri scienziati e fisici, su quell’energia extraterrestre. Amelia, insieme ad altri del suo settore, si occupava degli sbalzi di temperatura del cubo azzurro.

«Chi è?» Fece quella domanda con una punta di paura presente nella voce.

«Dice di chiamarsi-» ma quello non riuscì a completare la frase che le orecchie di Amelia iniziarono a fischiare. Si accasciò al terra, si coprì le orecchie con i palmi delle mani e urlò.

Nella sua testa sentì una voce che aveva creduto fosse andata via da molto tempo.

Una voce graffiante, soave, ghiacciata, intensa sussurrò con stupore: «Amelia.»

 

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Capitolo 7
*** .6 ***


Wahnsinn

                                                                                  

“I ricordi battono dentro di me come un secondo cuore.”
                             - John Banville






L’istinto le portò le braccia a proteggersi la testa al momento dell’impatto contro il pavimento. Si voltò verso lo specchio e si alzò in piedi. «Riportami indietro! NO! NO!» Prese a pugni il suo riflesso con tutta la forza che aveva nelle braccia, fino a quando il vetro non si crepò e si spezzò in mille pezzi.

Sangue colava dalle sue ferite alla moquette di quella sala abbandonata del museo.

Doveva correre. Doveva andare a casa e provare a ritornare dal dipinto, non aveva altra scelta. Doveva sapere di più. Doveva salvarli.

Corse via, verso l’uscita, incurante di tutti gli sguardi preoccupati rivolti verso la camicia della divisa piena di macchie scarlatte e dei richiami degli addetti alla sicurezza.

Non prese alcun mezzo di trasporto pubblico, continuò a correre fino a casa, rischiando più volte di essere investita, mentre i battiti cardiaci aumentavano insieme ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni.

La sua testa era affollata, ma ogni cosa si ricollegava a una singola domanda: “Perché lo ha fatto?” Non si sapeva spiegare il perché. Aveva notato giorni prima come fosse cambiato, ci aveva dato importanza fino a quando lui stesso si era seccato dei suoi tentativi di capire cosa fosse andato storto durante il suo periodo di assenza.

Fece un volo di circa due metri quando attraversò senza guardare, investendo una bicicletta. Altre ferite, l’asfalto le aveva sbucciato via la pelle, altro sangue. Ma non aveva il tempo di sentire dolore, o di scusarsi con il ciclista.


Non c’era tempo da perdere.

Arrivò davanti alla porta di casa, ci vollero più secondi del dovuto per aprire la porta, la mano insanguinata e piena di frammenti di vetri era così tremante che fu un miracolo quando la chiave entrò nella serratura.

Chiuse la porta con un calcio, provocando un colpo così potente da far tremare i muri dell’ingresso. Dalla cucina arrivò la voce spaventata della madre, ma Amelia era già al piano di sopra.

Amaya salì le scale in fretta con un coltello da cucina ben affilato in mano. Trovò la figlia in ginocchio, con il quadro, quel maledetto quadro, a terra sotto di lei.

Il cuore da madre le si strinse in una morsa soffocante quando vide tutto quel sangue.

«AMELIA!» Urlò Amaya, ma quella non le prestava attenzione. Agitava il quadro, imprecava e poggiava le mani sulla tela, sporcando anche quella di sangue ancora fresco. Buttò il coltello a terra e prese la figlia dalle spalle, la spinse via con violenza e gettò il quadro giù dalle scale.

«NO!» Urlò Amelia con tutto il fiato presente nei suoi polmoni. Si precipitò alla ringhiera e con terrore constatò che il quadro si era spezzato in tre parti al momento dell’impatto, la tela colorata che raffigurava il bel paesaggio era strappata in vari punti.

«Cosa diamine sta succedendo?!» Non si era nemmeno accorta che suo padre era arrivato in casa dopo il turno di lavoro e aveva salito le scale, affiancando la moglie in preda al panico, spaventata fino al midollo delle ossa.

Amelia si voltò verso di lei e guardò la madre con gli occhi sgranati, tremanti e lucidi.

Gli occhi di una folle.

«Che cosa hai fatto?!» Aveva gridato forte, mentre le ginocchia cedevano a terra. «Come farò a tornare adesso?» La schiena era scossa dai singhiozzi, mentre le schiene dei due coniugi erano scosse da brividi di freddo.

Dovevano fare qualcosa.

«Amelia, ma di che cosa stai parlando?»

«Loro hanno bisogno di me! Devo salvarli o moriranno tutti! Moriremo tutti! L’universo collasserà se lui prenderà il potere, lo vuoi capire?! DEVO TORNARE!» Si avventò verso il padre scuotendolo dalle braccia, urlando come una dannata.

Cercò di prenderla alle buone per calmarla, anche se ci volle tempo. Padre e figlia si accasciarono a terra, mentre quest’ultima ululava nel  pianto, con il nodo alla gola sempre più stretto. «Amaya, chiama subito un’ambulanza.»

Quel giorno si avverò la loro più grande paura.

 
*


Si svegliò pian piano. Prima le sue pupille saettarono dietro le palpebre, poi aprì lentamente gli occhi e infine si abituò alla luce forte delle lampade a neon dell’ospedale.

Sono in un ospedale?

Si tirò su a sedere, o almeno, ci provò. «Non ti sforzare.» Una voce femminile che conosceva bene parlò, invitandola a sdraiarsi di nuovo. Aprì nuovamente gli occhi.

«Agente Hill, cosa-» le faceva male la gola e la voce era limitata ad appena un filo. Sicuramente era a causa dell’urlo che aveva gettato via prima di svenire. «cosa ci fai qui?» Decise di parlare sussurrando, fare delle domande era inevitabile.

«Un’ottima domanda da porre più tardi.»

«Che… perché sono qui?» Non esitò a chiedere altro.

«Hai avuto un trauma cranico, dormi da due giorni a partire dalla distruzione della centrale.»

Il cuore di Amelia si scosse in un tumulto di angoscia. «Distruzione?»

«L’energia che ha rilasciato il Tesseract era troppo forte da poter essere controllata, così non abbiamo potuto fare niente.»

Restarono un attimo in silenzio.

Ricordava ogni minima cosa: la sensazione strana, l’allarme di evacuazione, la pistola carica sulle mani, la corsa, le orecchie che fischiavano e la voce.

Quella voce.

Rabbrividì.

Maria aspettò che Amelia si riprendesse del tutto prima di rispondere alla prima domanda. Perché la risposta l’avrebbe scossa, e molto.

«Trauma cranico?» Domandò con voce più alta, pian piano le corde vocali iniziavano a riscaldarsi. «Non ricordo di aver sbattuto la testa.»

Bene, è arrivato il momento di aprire l’argomento. Pensò l’agente prima di proferire parola. «Sono qui perché una persona molto, molto speciale mi ha fatto il tuo nome e data la situazione e la richiesta da questa persona, ho fatto più ricerche sulla tua vita, ricerche personali.» Fece una pausa.

Amelia si mise a sedere, incurante del dolore alle gambe e della flebo che le punzecchiava fastidiosamente il braccio. Il suo cuore batteva fortissimo e solo in quel momento si rese conto di aver saltato due dosi giornaliere di ansiolitici. «Chi è la persona che ti ha fatto il mio nome?»

«Dobbiamo procedere con calma, Helbinger.» Sperò che la ragazza l’ascoltasse e per miracolo si zittì. «Negli archivi ho scoperto che in passato hai avuto problemi psicologici e che tutt’ora continui a prendere degli antidepressivi.»

«Perché?» La interruppe Amelia, le dita che tremavano erano un chiaro segno di autocontrollo. «Cosa c’entra tutto questo con me e con cose che mi sono voluta lasciare alle spalle?» La sua voce divenne aggressiva per cercare di trattenere i singhiozzi.

«C’entra eccome. Lasciami finire.»

«No. Questa conversazione finisce qua, Agente Hill. Non ho intenzione-»

Maria sapeva che avrebbe dovuto fare in fretta e non rigirarci troppo intorno. «E’ stato crudele ciò che ti hanno costretto a fare: dimenticare qualcosa di vero.»

Amelia scoppiò.

Iniziò a tremare e a piangere rumorosamente (incurante di avere davanti il suo capo) quando l’agente Hill ebbe finito di parlare. «Co-?» Non riusciva nemmeno a parlare. Respirò affondo, recuperando un po’ di fiato.

Questo non è reale.

Sto sognando.

E’ tutto nella mia testa, non è reale. Non è reale. Non è reale. Non è reale.


Si portò le ginocchia al petto e iniziò a darsi colpi alla testa. «Svegliati!» Si ordinò.

«Helbinger!»

Ma continuava a darsi colpi alla testa, a piangere a dirotto e a singhiozzare.

«Amelia!» Cercò di afferrarla dalle braccia, di trattenerla, perché si stava facendo del male. In quel momento sembrava così diversa da quella che le era apparsa in quei mesi che l’aveva conosciuta. Il punto era che in quel momento Amelia appariva ciò che era davvero: una piccola donna, fragile e piena di demoni. Una vittima che si nascondeva dietro una maschera per evitare che gli altri potessero vedere ciò che era davvero. Debole.

Fuori dalla stanza due infermiere si fecero avanti per entrare e verificare la situazione.
«Non c’è problema, ci penso io.» Con un solo braccio prostrato davanti alle due, riuscì a bloccarle.

«E’ il nostro lavoro, noi-»

«Sta bene, ho detto che ci penso io.»

Le infermiere andarono via con un po’ di titubanza, ma lui si trovava lì perché Maria Hill gli aveva chiesto quel favore.

«La ragazza ci serve.»

E lui voleva fare di tutto per aiutare lo S.H.I.E.L.D.

Entrò nella stanza quando Maria si allontanò da lei con l’impreparazione e l’impotenza negli occhi.

Andò verso la ragazza e le afferrò i polsi senza troppe cerimonie, non era sua abitudine essere maleducato, ma quella situazione non gli lasciava altre opzioni.

«Hey, va tutto bene.» Non fu molto convincente, ma quando la vide in viso per la prima volta, qualcosa dentro di lui si sciolse e allentò la presa su quei piccoli polsi, senza lasciarli andare.

Amelia non poteva credere ai suoi occhi. Quella persona, lì davanti a lei, avrebbe potuto alimentare di più l’idea che tutto quello che stava succedendo non era altro che un sogno, eppure, in quegli occhi azzurri trovò tranquillità e verità.

«Sai chi sono?» Le domandò e, mentre lei si dibatteva sempre di meno nella sua stretta, gli rispose di sì annuendo. «E’ tutto apposto, Amelia. Va tutto bene.»

Maria sapeva che non sarebbe stato semplice.

Come ci si potrebbe sentire quando una verità così irreale, che è stata depistata dalla vita di una ragazzina per tutta la sua adolescenza, diventasse una realtà così raccapricciante che metterebbe a rischio l'intero pianeta Terra?

Passò un quarto d’ora di silenzio in cui Amelia si distese sul lettino e Steve Rogers affiancò Maria Hill.

Respirò, si ripeté una decina di volte il suo nome nella mente e si ordinò di tranquillizzarsi.

Indossò la sua maschera.

E’ reale. Tutto questo è reale. Si disse nella mente, rielaborando ogni ricordo che aveva oppresso e considerato falso, frutto della sua immaginazione da ragazzina.

«Chi è la persona che ha fatto il mio nome?»

Maria Hill pescò dalla sua borsa tracolla un tablet, con pochi tocchi avviò un video. Si avvicinò ad Amelia e gli diede l’apparecchio fra le mani.

«Lui.»

Era un breve filmato ambientato nel New Mexico, raffigurava un robot altissimo, violento, che avanzava pericolosamente verso un uomo alto, muscoloso, biondo, con un’armatura impossibile da non riconoscere.

«Thor.» Accarezzò lievemente lo schermo del tablet con i polpastrelli.

Steve sospirò.

Era davvero così, allora.

Quella ragazza conosceva il dio e il suo mondo.

«Lo conosci?» Chiese gentilmente Maria.

«Il… giorno del compleanno della regina Frigga diedero un ballo. Fu Thor a regalarmi l’abito più bello di tutti, cucito dalle mani dei nani donna più esperte, fatto di smeraldi e filamenti d’oro.» Quei ricordi vennero a galla dopo tanto, tanto tempo. Come se la sua memoria li avesse annullati e ripristinati solo in quel momento. Diede il tablet all’agente Hill e guardò, un’occhiata di sfuggita, Steve. «Eppure ciò che causò più stupore nella sala del trono non fu l’abito, ma il cavaliere.» Altre lacrime scivolavano dai suoi occhi. «Non sono mai stata piena di attenzioni nella mia vita, ma ad Asgard era diverso…»

«Allora non conosci solo Thor?» Chiese Steve piano, con la paura di svegliarla da quella piacevole trance di ricordi. Amelia lo guardò e continuò il suo racconto guardandolo negli occhi.

«Io e Thor non passavamo tanto tempo quanto lo passavo con…»

«Con?» Domandò Maria. Solo in quel momento Amelia notò che l’agente teneva qualcosa di estremamente piccolo nella mano, un piccolo bottoncino nero che produceva una lucina rossa.

Un registratore.

«E’ davvero tutto reale?»

«Riguarda quel video, guarda il notiziario, guarda Steve Rogers stesso.» Alzò gli occhi su di lui, che avanzava verso il lettino, verso di lei.

Con l’indice e il pollice si tolse via la flebo, si alzò in piedi e andò verso un tavolino dov’era adagiato il telecomando.

Accese la TV, ignorando ancora una volta il dolore alle gambe.

“[…] Non si sa ancora niente dell’uomo che ha attaccato oggi il laboratorio del Dottor Pyne. Egli era armato e seguito da più uomini. Forze dell’ordine e FBI cercano di indagare. Questo è un video che una telecamera di sorveglianza è riuscita a registrare, se qualcuno di voi dovesse vedere quest’uomo, contattare subito la polizia è obbligatorio.”

Sullo schermo apparve lo zoom di un video nitido, in bianco e nero. Uno zoom su una figura che Amelia riconobbe subito.

Alto, spalle larghe, un corpo tonico sotto lunghe casacche verdi e nere. Capelli neri, più lunghi e incolti di come li ricordava. Il volto era irriconoscibile per chiunque lo avesse visto solo una volta nella sua vita, ma lei… lei lo conosceva benissimo.

Fece cadere il telecomando a terra per portarsi le mani a coprirsi la bocca.


 
*


Amaya lasciò perdere il proprio lavoro su quel maglione di lana quando il telefono squillò una quarta volta.

Al quinto squillo, rispose: «Pronto?»

«Ciao, mamma.»

«Oh, Amelia!» Il suo cuore si riempì un po’ di gioia alla voce della figlia. «Come mai non hai chiamato più? Io e tuo padre abbiamo aspettato, ma-»

«Sono stata due giorni in ospedale.»

Il petto di Amaya si strinse in una morsa. «Che cosa?»

«La centrale dello S.H.I.E.L.D è collassata a causa di un incidente nel laboratorio principale.» Attraverso l’apparecchio, la voce della figlia era fredda e distaccata, arrabbiata.

«Cos’hai? Stai bene adesso? Vuoi venire qui per un po’ oppure… vengo io lì a New York?»

«Oh, non ti scomodare» disse con un’ironia sprezzante. «adesso sono più impegnata che mai con il mio lavoro. Sai perché?»

Amaya indugiò a rispondere. «Amelia, mi dici cos’hai? Sembri arrabbiata dalla voce.»

«Accendi la televisione e vai nel canale delle notizie.» Le ordinò ancor più rigida di prima.

La donna si avviò in soggiorno con il cellulare e stranamente trovò subito il telecomando, non guardavano mai la TV. La accese nel canale che aveva detto Amelia.

«Stanno parlando di un furto a Londra.»

«Aspetta giusto in minuto. Il servizio che mi interessa lo ripetono ogni mezz’ora. Strano che tu e papà non ne abbiate sentito parlare.»

In effetti era da un paio di giorni che il marito era silenzioso, con una permanente faccia triste stampata in viso.

Il cuore di Amaya perse un battito.

Intuì cosa stesse succedendo e sperò con tutta se stessa che non si trattasse di…

“[…] Non si sa ancora niente dell’uomo che ha attaccato oggi il laboratorio del Dottor Pyne. Egli era armato e seguito da più uomini. Forze dell’ordine e FBI cercano di indagare. Questo è un video che una telecamera di sorveglianza è riuscita a registrare, se qualcuno di voi dovesse vedere quest’uomo, contattare subito la polizia è obbligatorio.”


Sullo schermo della televisione comparve il video di un uomo che, con un curioso oggetto in mano, irrompeva all’interno di un edificio insieme ad altri uomini.

Capelli neri, alto, corporatura tonica.

Amaya ricordò tutto in un flash.

«Amore, cos’è questo disegno?»

«E’ il mio migliore amico.»

«Non è troppo grande per essere il tuo migliore amico?» Domandò, aggrottando le sopracciglia, curiosa e preoccupata.

«In effetti ha più di milletrentadue anni, ma ne dimostra molto di meno.»

Amaya non sapeva se ridere o preoccuparsi ancora di più. «E’ l’uomo che hai sognato l’altra sera?»

La bambina abbandonò i suoi colori a cera e guardò la madre con la delusione e la rabbia negli occhi. «Non l’ho sognato! Io sono stata ad Asgard! E Loki è reale!»


«Allora, mamma?» La chiamò, mentre il viso della donna si riempiva di lacrime. La giornalista continuava a dare informazioni sull’uomo, su ciò che aveva fatto alla base dello S.H.I.E.L.D. Improvvisamente l’immagine iniziò a sgranarsi e ad annebbiarsi, fino a sparire del tutto. Sullo schermo partì un video di pessima qualità.  Amelia cliccò il tasto invio e dall’altra parte del telefono riuscì a sentire che il filmato di Thor nel New Mexico era appena partito. «Sai chi è quell’altro uomo, mamma?»

«Sì.» Rispose piano.

«Non ho sentito.» E invece aveva sentito, e molto bene.

«SI’!» Urlò Amaya, sedendosi sul divano.

«Sai, l’unica cosa che mi dispiace sono tutti i soldi che avete speso per quell’ospedale, per farmi imbottigliare di psicofarmaci, per farmi credere di essere diventata pazza quando invece quelli che avevano bisogno di una mano da passare nella coscienza eravate proprio voi.»

Maria Hill stava seduta nel suo ufficio temporale di quell’Helicarrier, guardava Amelia parlare al telefono. Era così stupita che si era anche dimenticata della fretta che aveva di presentare la nuova agente a Nick Fury.

«Amelia, posso spiega-»

«So tutto.» Dal suo volto privo di emozioni fuoriuscì una lacrima. «Tutto.»

E con tutto, intendeva il passato che Amaya e il marito avevano cercato di nasconderle.

«Non è come sembra.»

«E invece sì. Lavoravi nello S.H.I.E.L.D. Eri a conoscenza dei segreti dell’universo, di entità extraterrestri, di Asgard e altri mondi. Quando hai scoperto che quella era tutta roba con cui non volevi avere niente a che fare hai abbandonato il lavoro. Hai messo su famiglia. E quando tua figlia ti pregava di crederle su qualcosa con cui tu stessa avevi avuto a che fare, l’hai spedita da psichiatri e psicologi, per poi scaricarla in un fottuto manicomio.»

«Amelia, ti prego, ascoltami,» la implorò in singhiozzi. «non è come sembra, c’è un motivo se ti ho protetta da quella verità. Tu non capisci, loro sono-»

«Non voglio stare a sentire la tua voce un secondo di più.» Quel pianto non la scuoteva nemmeno di un po’, anzi, la faceva arrabbiare ancor di più. La odiava ancor di più. «In ventiquattro anni non hai fatto altro che mentirmi. Adesso, negli anni a venire non voglio nemmeno osare a respirare la stessa aria che respiri tu.»

«A-amelia, p-per-favore!» Urlò.

«Continuerò il lavoro che tu da codarda hai lasciato perdere. Addio, mamma.» Staccò la chiamata, si infilò il cellulare in tasca e rimase a guardare il vuoto, con le mani poggiate ai fianchi.

«Agente Helbinger?» Alzò lo sguardo e si asciugò velocemente quelle lacrime che nemmeno si era accorta di aver pianto.

«Possiamo andare.»

«Ne sei sicura?»

No.

«Sì.»

«Psicologicamente, intendo.»

Sono confusa. Voglio urlare. Non so nemmeno se sto continuando a sognare.

«Sono pronta a incontrare gli Avengers.» E ad escogitare con loro un piano di cattura per il mio migliore amico che adesso è diventato un pazzo assassino seriale.







 

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Capitolo 8
*** .7 ***


                     
Wahnsinn



 “Il tempo è spesso puntuale nel farci capire molte cose in ritardo.”
                                                                                                                                         - Guido Rojetti




Ricordava benissimo com’era immergersi in una vasca da bagno, piena di acqua e ghiaccio. Le urla strappate, soffocate a metà strada tra la gola e la lingua. La obbligavano ad immergersi lì dentro quando confondeva la realtà con i sogni, così da farle capire quali erano le vere sensazioni, qual era il vero dolore. Nuda. Solo il ghiaccio a coprire le sue intimità.

Quando uscì dall’ufficio dell’agente Hill, ebbe la sensazione di avere due infermiere dietro di lei che la stessero portando nei bagni del secondo piano.

Camminarono fino a quando arrivarono nella vasta sala di controllo, il cuore dell’Helicarrier. Percorsero un piccolo sentiero che attraversava tutti gli impiegati, scienziati e tecnici, per arrivare in un grande tavolo di vetro circolare in fondo alla sala. Erano arrivate a metà strada quando Amelia individuò Tony Stark, Bruce Banner, Steve Rogers, Nick Fury e una donna dai capelli rossi che Amelia identificò come Natasha Romanoff, una degli agenti più forti e spietati dello S.H.I.E.L.D. Il cuore iniziò a batterle forte per l’ansia. Si sentiva così insignificante vicino a quelle persone così potenti.

Si fermò a due metri dalla meta quando da una porta aperta entrarono Phil Coulson accompagnato dalla causa della paralisi momentanea di Amelia.

Maria Hill affiancò Coulson, solo in quel momento si accorse che la nuova agente era rimasta indietro, con i piedi serrati al pavimento del terzo piano dell’Helicarrier.

Inizialmente non la riconobbe, ma fu la sua chioma rosso carota a catturare la sua attenzione, richiamandogli a mente una persona di vecchia conoscenza, di cui aveva fatto il nome proprio il giorno prima… non poté credere ai suoi occhi, ma le sorrise comunque. Ormai quella scena aveva interessato tutti i presenti vicino a quel tavolo.

«Thor.»

Era proprio lì, davanti a lei.

Avanzò prima piano, senza mai distogliere lo sguardo da lui. Non riusciva a sentire nulla, ogni suono era ovattato. I suoi timpani parvero ricominciare a funzionare solo quando il dio del tuono la chiamò per nome, ridendo di gioia subito dopo.

Ad un tratto si sentì una bambina e non le importò più nulla di nessuno, dimenticò di trovarsi in una sala insieme alle persone più forti dell’intero pianeta terra. Corse verso di lui e in uno slancio gli saltò al collo, cosa notevole dato che Thor era alto circa due metri.
Il dio continuò a ridere felice, stringendo l’amica alla vita.

E in quell’abbraccio lei ne fu consapevole: quello non era un sogno.

Solo Bruce Banner parve avere una reazione alla battuta di Tony Stark, una reazione tutt’altro che divertita.

«Non ci posso credere,» la mise giù e poggiò le mani sulle sue spalle, sempre piccole e ossute, come ricordava. «sei diventata una splendida donna. Gli Æsir affronterebbero le peggiori sfide per chiederti la mano.»

Le guance di Amelia, tra l’emozione e l’imbarazzo, diventarono più rosse dei suoi capelli.
«Come stanno i guerrieri?» Chiese impaziente di sapere, pazza di gioia. «Heimdall?»

«Stanno tutti molto bene, ti ringrazio per averlo chiesto.»

«Va bene così con i convenevoli.» La pesantezza di tutti quegli occhi addosso svanì quando Nick Fury parlò.

Amelia e Thor si guardarono furtivamente negli occhi, con un piccolo sorriso nelle bocche di entrambi, i loro sguardi parevano dire la stessa cosa: “parleremo meglio più tardi.”

Si sedettero tutti al grande tavolo e Amelia si ritrovò accanto a Steve Rogers e a Natasha Romanoff. Si voltò verso quest’ultima per una stretta di mano e una presentazione, ma riuscì solo a schiudere le labbra senza emettere alcun suono quando la vide con uno sguardo tormentato e perso nel vuoto, preoccupato. Poi ricordò il perché.

«Prima riusciamo a catturarlo, meglio è.» Iniziò Fury, proiettando uno schermo olografico davanti al tavolo.

«Fin qui ci eravamo arrivati.» Commentò Tony Stark, che dal mento appoggiato sulla mano pareva essere annoiato a morte. Amelia aggrottò le sopracciglia a quella scena, non  trovò affatto educato quel comportamento, anche se una persona ricca e potente come lui poteva permetterselo, non era comunque giusto nei confronti della gente che era stata rapita e ferita.

Gente rapita e ferita.

Pensare che lui, il suo migliore amico, fosse capace di fare ciò, la fece rabbrividire. Eppure, doveva realizzarlo, perché lo aveva fatto. Ingoiò un fiotto di saliva e si decise a prestare attenzione.

«E’ stato avvistato a Stoccarda, in Germania, non si sa ancora il motivo, ma sappiamo precisamente le coordinate del luogo.»

«Ma perché mettersi in mostra così se ha dei poteri che potrebbero renderlo invisibile a tutti?» Domandò Bruce Banner, una domanda che fece riflettere in molti su questo punto.

«Come ho già detto, non sappiamo perché si trova lì.» Fury fece scorrere le immagini, fermandosi su una foto di un edificio. «Entro il tardo pomeriggio arriveremo lì e ognuno di voi avrà un compito da svolgere. Appena vi dirò cosa fare, voglio che alziate i vostri bei fondoschiena da quelle sedie e iniziate ad organizzarvi. Intesi?» Guardò tutti loro con quel solo occhio, riuscendo a intimidire Amelia anche se non l’aveva ancora guardata. Solo Rogers rispose di sì, e Tony Stark roteò gli occhi al cielo, apparendo infastidito dalla semplicissima risposta del compagno di squadra.

«Banner, tu rimarrai nell’Helicarrier per completare quel lavoro sulla cella.»

«Va bene.» Si alzò dalla sedia, sistemò meglio i suoi occhiali e congedò gentilmente tutti.

E pensare che quell’uomo così pacato è capace di trasformarsi in un enorme mostro verde.

«Stark e Romanoff, voglio un’entrata a sorpresa, mentre Rogers gliene darà di santa ragione-»

«Come fai a sapere se riuscirà a picchiarlo molto forte?» Chiese Tony, con l’evidente intenzione di punzecchiare Steve. «Insomma, è stato Captain Ghiacciolo per un  bel po’.»

«Se vuoi posso darti una dimostrazione di quanto riuscirò a riempirlo di pugni.»

«E’ mio fratello, voglio riportarlo a casa incolume.» Thor riuscì ad intervenire prima che quel battibecco inutile andasse avanti.

«Non c’è di che preoccuparsi,» disse Fury al dio. Fu lì, in quel momento, che guardò Amelia. «il ruolo dell’agente Helbinger è quello di distrarlo al punto di evitare… incidenti.»

«Distrarlo?» Le uscì dalla bocca, imbarazzandosi subito dopo.

«Il tuo compito è quello di indossare un bel vestito, confonderti fra gli invitati dell’evento e distrarlo, onde evitare che Steve pensi a lui prima che la Romanoff riesca ad ingabbiarlo.»

Amelia deglutì. «Okay.» Rispose dopo, senza riuscire nemmeno a dire grazie per la spiegazione in più.

«Il mio compito, invece?» Domadò Thor quando si alzarono tutti in piedi.

«Tu sarai nel jet insieme alla Romanoff e a Stark. Mi serve un altro impatto psicologico.»

Un altro? Perché, il primo quale sarebbe?

Fatti una domanda, datti una risposta, Amelia.


«E se le cose dovessero degenerare?» Chiese Natasha, parlando per la prima volta.

«Attaccherete tutti.»

*

«Dovresti indossare quel bel vestito invece di stare qui.» Steve parlò forte, così che potesse sentirlo anche se aveva le cuffie.

Amelia tolse la protezione dalle orecchie e gli occhiali, posò la pistola. «Scusami, sono stata maleducata prima ad andarmene via senza consultarti.»

«Non c’è problema.» Si avvicinò a lei, fermandosi nella cabina accanto alla sua. Steve guardò gli obiettivi e osservò dove ogni pallottola andò a centrare. «Sei brava.»

«Adesso.» Sospirò, evitando il suo sguardo. Quegli occhi chiari le facevano ricordare la prima volta che li aveva visti, ma nello specifico lo stato d’animo e la situazione che ci fu in quel momento. Le creava imbarazzo pensare a ciò che aveva fatto per lei anche se non la conosceva nemmeno. «Ma quando lo avrò davanti a me, non riuscirò nemmeno a respirare, mi conosco bene.» Perché stava dicendo quelle cose così personali a lui?

«Gli hai voluto bene, non è vero?»

«Gliene voglio tutt’ora, gliene ho sempre voluto.» Le sembrò di parlare più a se stessa che a Captain America (solo in quel momento aveva notato che indossava la divisa).

«Non gli sarà fatto alcun male se faremo bene il nostro lavoro.» Parlava a toni di voce bassi, gentili.

«Allora devo proprio andare ad indossare quel dannato vestito.» Sorrise, contagiando pure lui.

Ha un bel sorriso, si ritrovarono a pensare entrambi.

Avanzarono verso l’uscita, ma prima che potessero andare via da quella sala di allenamento, Amelia si sentì in dovere di farlo una volta per tutte.

«Ti ringrazio per quello che hai fatto per me in ospedale.» Si fermò e, a qualche passo più avanti, anche Steve smise di camminare. «Non hai idea dell’aiuto che mi hai dato in quel momento.»

Ma lui non disse niente, rimase a guardarla con un mezzo sorriso stampato sulle labbra. Ricominciò a camminare e Amelia lo seguì fuori da quel posto.

«Al fronte, quando molte persone perdevano la vita in atroci agonie, io restavo a guardarli senza fare niente. Il mio compito era quello di fare propaganda. Io ero il guerriero tipo mentre i veri guerrieri morivano in battaglia.» Richiamare quei ricordi alla memoria faceva malissimo. Da quando si era risvegliato, non facevano altro che tormentarlo. Ma, in quel momento, scoprì che parlarne ad alta voce con qualcuno, lasciava una piacevole sensazione di vuoto, di liberazione. Amelia lo ascoltava con attenzione, studiando le sue parole e la sua espressione di pietra. «Era come vivere in un incubo e a un certo punto non capivo più cosa fosse giusto o cosa fosse sbagliato, cosa fosse reale o cosa non lo fosse.» Scesero al piano di sotto con le scale, proseguirono fino a una saracinesca.

«E’ per questo motivo che sei diventato Captain America? Quello vero, intendo. Non il modello delle figurine vintage.»

Steve compose un codice e la grande porta di metallo iniziò a scorrere da sopra, dando il libero accesso a una stanza dove vi era un lettino, uno specchio e un alto piedistallo di vetro.

«O restavo a crogiolarmi nella mia confusione, o mi rimboccavo le maniche per rendere il mondo un posto migliore.» Quando arrivarono al centro della stanza, Amelia notò che sul letto era adagiato un abito da cerimonia color oro, senza spalline, molto elegante e raffinato. «Tu mi hai ricordato un po’ me» prima la affiancò, poi si mise davanti a lei, cercando di dare più enfasi alle sue parole guardandola negli occhi. Amelia si sentì le gote bruciare a quella vicinanza. «e detto tutto questo voglio farti capire che se deciderai di aiutarci davvero, ogni cosa risulterà più chiara ai tuoi occhi. Devi solo decidere da che parte stare.»

«Dici questo anche perché non ti fidi abbastanza.» Parlò secondo l’istinto. Improvvisamente non provava più imbarazzo a stargli così vicino.

Steve non si sarebbe mai aspettato quella risposta, ci mise un po’ di più a rispondere. «E’ probabile che sia così. Tu e Thor tenete molto a questo nostro nemico, abbiamo tutti paura che uno di voi due potrebbe tradirci.»

Assunse un’espressione quasi offesa, con le sopracciglia leggermente increspate verso gli occhi. «Non succederà.» Si avvicinò ancor di più e le parve che il suo metro e settanta fosse diventato improvvisamente un metro e trenta. «Dopo anni di aver creduto che tutto questo fosse frutto della mia mente, capisco finalmente che non è così. Una sola cosa non riesco ancora a mandare giù: che quella persona gentile e buona che io ho creduto di conoscere da sempre, adesso sia capace di fare cose così orribili da lasciarmi senza parole.» I suoi occhi caddero un attimo sulle labbra sottili di lui, un po’ per vedere se aveva intenzione di rispondere, un po’ perché non sapeva il perché. «Ma fidati quando ti dico che so da che parte sto e questo posso garantirlo anche per Thor.»

«Bene, allora.» Era quello che voleva sentirsi dire. Si allontanò da lei e per un attimo ebbe una lieve sensazione di vuoto d’aria, come se si fosse piacevolmente abituato a quella vicinanza e a quei grandi occhi blu osservati da più vicino. «Lì c’è tutto quello che ti serve. Tra mezz’ora arriveremo in Germania.»

L’aria divenne finalmente respirabile quando lui andò via. La saracinesca scivolava lentamente verso il basso e il suo cuore batté più forte quando, ripensando a tutte quelle parole ascoltate e dette, si rese conto del perché prima i suoi occhi erano scivolati sulle labbra di lui.

Scosse la testa, scacciò via quel pensiero. Non era il momento di fantasticare su cose inesistenti. Andò verso il lettino e prese il vestito fra le mani. Sospirò e sperò che la taglia fosse giusta.

*

Si fermò ad ascoltare il silenzio. L’unico rumore che si sentiva erano le goccioline d’acqua che dai tubi, finivano per terra. Se evitava di prestare troppa attenzione all’odore di muffa e di umido, poteva anche dire di essere rilassato.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì si svegliò dalla visione.

L’esercito dei chitauri era pronto, attendevano solo che lui completasse il portale, e per farlo aveva bisogno di tempo.

«Abbiate pazienza.» Aveva detto all’alieno dalla pelle blu scura, ma quello si era arrabbiato, rinfacciandogli la minaccia, la collera e l’impazienza del suo signore.

Sorrise nel buio. Dopo quella sera, ogni cosa sarebbe finalmente andata secondo il verso giusto, secondo il suo verso. Avrebbe avuto vendetta per ogni menzogna di cui era stato nutrito fin da bambino, la sua vita millenaria non avrebbe più vissuto di altre bugie se non delle sue. D'altronde, lui era il dio delle malefatte e degli inganni. Abile manipolatore di menti, padre del caos, padrone dell’odio.

Strinse lo scettro d’oro fino a quando le sue nocche divennero completamente bianche. Finalmente avrebbe rivendicato il suo diritto di nascita, finalmente sarebbe diventato Re. Governare i midgardiani non era quello che aveva sperato fin dall’inizio, ma l’idea di prendere il possesso del popolo e del pianeta preferito del fratellastro lo faceva ridere di gusto.

Vendetta. Era tutto ciò che chiedeva e tutto ciò che aveva chiesto ai chitauri quando era finito nel loro mondo, dopo essere caduto giù dal Bifrost.

Aveva pianificato ogni cosa: la sua sconfitta, la falsa morte, manipolare la mente di quello scienziato, Erik Selvig, fin dall’inizio. Niente era andato storto fino a quel momento. Secondo i suoi studiatissimi calcoli, sarebbe stato davvero improbabile anche un piccolo fallimento.

Niente gli avrebbe fatto abbassare la guardia.

Vendetta.

*

«Wir ankamen, Fräulein.» La avviso l’uomo non appena posteggiò.

Amelia scosse la testa e distolse lo sguardo da quel magnifico edificio. «Ja, vielen Dank.» Aprì la piccola borsa per prendere il portafogli, ma l’autista interruppe quell’azione.

«Es gibt keine Notwendigkeit, sie haben mich bereits bezahlt.»

«Dann wünsche ich Ihnen einen guten Abend.» Chiuse la borsetta e gli rivolse un piccolo sorriso di cortesia prima di aprire la portiera.

«Guten Abend zu Ihnen auch.»

Quando la macchina partì e andò via, Amelia avanzò verso il tappeto rosso. Doveva ancora abituarsi a camminare con quei tacchi alti, era la prima volta in tutta la sua vita che ne indossava un paio. Respirando affondo, impugnò il lungo abito con entrambe le mani e si fermò davanti a un uomo con una lista in mano.

«Wie heißen Sie, bitte?» Le chiese non appena la vide.

«Amelia Helbinger.» Phil Coulson era riuscito ad inserirla nella lista degli invitati bypassando le impostazioni del tablet.

L’uomo alto e vestito in nero si spostò per farla accomodare, augurandole una buona serata.

Come se a furia di augurarmi una buona serata questa possa esserlo davvero.

L’eleganza che vi era in quell’edificio lussuoso era stupenda, da togliere il fiato. Due file di colonne color panna riempivano i lati dell’enorme salone. Nell’angolo a destra, vi era una piccola orchestra composta da soli violini e violoncelli, lì vicino si ergeva un piccolo e basso palchetto, munito di microfoni e di un pianoforte a coda bianco. Avanzando ancora verso destra, iniziava una larga e alta rampa di scale in marmo che veniva presentata all’entrata dalla prospettiva delle colonne. Amelia guardò in alto e notò la presenza di un secondo piano, perlopiù un grande balcone interno con delle balaustre, anch’esse in marmo, ricche di dettagli molto raffinati. Sul tetto, un enorme lampadario pendente, pieno di swarovski e pietre preziose. Al centro del salone, vi era una scultura che rappresentava due tori uniti dalla parte inferiore dei loro corpi, i dorsi fusi degli animali di pietra erano placcati in oro.
Era un evento di élite, riservato solo alle famiglie tedesche più fiorenti in economia. Se Amelia aveva pensato che il suo abito e la sua acconciatura sarebbero stati troppo vistosi, si era sbagliata di grosso. Lì il budget dell’abito più economico era minimo trentamila euro.

Si avviò verso il buffet anche se non aveva alcuna intenzione di mangiare, stando attenta a non inciampare sui tacchi. Le cinture che aveva legato alle cosce per nascondere le due ruger lc9 stringevano quasi a bloccarle la circolazione. Si sentiva a disagio.

Ma riusciva a sentire anche qualcos’altro.

Una nuova e strana sensazione: era come se delle piccole particelle esercitassero una forza sulla sua pelle, spingendola verso le scale, verso il secondo piano. Non era l’istinto. Era qualcosa di più.

Si appoggiò alla colonna e ascoltò la rilassante musica cessare per lasciar parlare al microfono quello che doveva essere un imprenditore.

In quello stesso istante, il dio degli inganni, camuffato come un essere umano grazie all’aiuto di un raffinato abito da cerimonia, sentì la stessa sensazione di Amelia, solo che quella strana forza agiva verso il salone e non verso il secondo piano, dove si trovava lui in quel momento, anche se non per poco: stava scendendo le scale perché era arrivato il momento di fungere da diversivo.

Amelia aprì di scatto gli occhi quando un colpo secco, come un pugno su una faccia, e un paio di urla di sgomento risuonarono nella sala. Improvvisamente i presenti in quella sala fecero spazio a qualcuno che stava passando fra di loro. Sollevò l’abito da terra e si avvicinò, mischiandosi nella folla, facendosi spazio sgomitando qua e la. Più si avvicinava alla scultura dei tori, più quella sensazione di attrazione dentro di lei cresceva.

E poi, d’un tratto, svanì, come se quella avesse appena portato a termine il suo compito.

Davanti a lei, l’uomo che prima aveva parlato al microfono era steso sul tavolo/scultura placcato in oro, accanto a lui…

«Loki.» Sussurrò in un moto di sgomento, incredulità e timore, trattenendosi dal ripetere di nuovo quel nome in un urlo.

Poi, il dio degli inganni, finalmente libero da quella forza attrattiva che lo aveva oppresso fino a qualche secondo prima, tirò fuori dalla propria giacca un apparecchio delle stesse dimensioni di una penna, ma con una piccola centrifuga a lame all’estremità. Azionò l’affare e lo infilzò nell’occhio sinistro del povero uomo.

Il panico si seminò in ogni persona presente in quell’edificio e il dio godé di ogni urlo, ogni espressione di terrore. Era ciò che voleva: essere temuto. Come un vero Re.
Solo una figura rimase immobile mentre la folla correva verso l’uscita, ma non ci fece molto caso inizialmente. Man a mano che la sala si svuotava, più quella donna si faceva fastidiosa.

La osservò meglio e… accadde.

La guardò negli occhi.

Quelle iridi blu, piene di pagliuzze castane vicino alla pupilla.

Intensi, grandi, profondi.

Li avrebbe riconosciuti fra tutti i sette miliardi di abitanti midgardiani.

«Amelia?»

Rimosse velocemente l’arma dal bulbo oculare dell’uomo privo di sensi e quando alzò lo sguardo la donna era scomparsa.






NDA.

Traduzione delle frasi in Tedesco:

-Siamo arrivati, Signorina.
-Sì, grazie.
-Non c'è di bisogno, mi hanno già pagato.
-Allora le uguro una buona serata.
-Buona serata anche a lei.

-Qual è il suo nome?


Studio Tedesco a scuola, spero di non aver fatto errori, se magari li ho fatti, dei consigli sono accettati :)

 

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Capitolo 9
*** .8 ***


Wahnssin

                                                                       

                                “Il diavolo può sempre cambiare. Una volta era un angelo ed è ancora in una fase di evoluzione.”                                                                                -  Laurence J. Peter.



Fu come se il mondo avesse improvvisamente smesso di girare. Ogni legge della fisica, scomparsa. Come se la gente in preda al panico dietro di lei si fosse dissolta nel nulla. Dimenticò ogni cosa. Come se nel mondo intero quei pochi secondi fossero stati creati soltanto per loro, per quello scontro di occhi, quella collisione di sguardi, quella pioggia di meteoriti  di emozioni. E loro non poterono fare altro che guardarsi l’un l’altra, mentre le loro anime si sfioravano dopo così tanto tempo.

Quando lui aveva alzato gli occhi su di lei, fu come se lei avesse visto il suo viso per la prima volta, ma non perché non lo aveva riconosciuto (eccome se lo aveva fatto), ma perché quegli occhi verde smeraldo erano più scuri, tetri, intrisi di sofferenza. E Amelia aveva assorbito tutto quel dolore in un solo secondo, mentre lui l’aveva guardata pronunciando il suo nome con confusione.

Aveva approfittato di quell’attimo in cui lui aveva riportato la sua attenzione nell’uomo sdraiato sulla scultura per svanire via dal suo campo visivo. Con uno scatto si era nascosta dietro una colonna, fortunatamente abbastanza ampia da eclissare completamente la sua figura esile. Si portò una mano alla bocca quando si accorse che il suo respiro era troppo affannoso, quando sentì i passi di lui avvicinarsi all’uscita.

Camminava piano, fermandosi di tanto in tanto.

Mi sta cercando.

Iniziò a piangere silenziosamente, reprimendo dei furiosi singhiozzi infondo alla gola, ma questi si accumulavano, costruendo e allacciando un nodo opprimente alle corde vocali. La paura e lo shock le scuotevano la schiena in brividi congelati. Pregò un qualunque dio di darle la forza di non urlare, di non piangere forte, di rimanere zitta ancora per altri pochi secondi.

Lo vide camminare verso l’uscita con una lentezza felina e notò che non indossava più gli abiti di prima, ma la sua armatura verde, nera e oro da asgardiano, completa di elmo e scettro.

Quando fu abbastanza sicura che se ne fosse completamente andato, tolse la mano dalla bocca e gemette forte, cercò di respirare, ma il nodo era troppo duro e opprimente. Così urlò per liberarsene. Si sfogò, si sfogò fino a farsi del male. Si accasciò a terra e provò a regolarizzare il cuore e il respiro, ma l’aria era rarefatta e pesante per i suoi fragili polmoni.

«Perché sto piangendo?» Domandò a se stessa in un sussurro. Scosse la testa e aggrottò le sopracciglia, guardando il vuoto. Pensieri, ragionamenti, emozioni e sentimenti iniziarono a scorrere davanti a lei come una vecchia pellicola consumata dal tempo.

Il dolore che aveva letto in quegli occhi verdi scorreva nelle vene di Amelia come se fosse suo.

Pianse le ultime lacrime mentre si alzava in piedi, ascoltando con ribrezzo le grida di terrore che provenivano da fuori. Poi udì la sua voce, quel timbro leggero e intenso, ordinare con rabbia a tutti i presenti di inginocchiarsi al suo cospetto.

Non poteva credere alle sue orecchie.

Non poteva credere ai suoi occhi, anche se si era appena avvicinata all’uscita e vedeva ogni cosa.

Stava utilizzando la magia, stava riproducendo una decina di cloni al fine di circondare la piazza piena di uomini e donne in ginocchio, mentre il vero lui avanzava tra la folla impaurita.

«Questo non sei tu…» sussurrò, e alcune ciocche fulve sfuggirono dall’acconciatura.

«Non vi sembra semplice?» Iniziò a parlare e Amelia perse il respiro all’udire un’altra volta la sua voce. «Non è questo il vostro stato naturale? È la verità taciuta dell'umanità: voi bramate l'asservimento, il luminoso richiamo della libertà riduce la gioia della vostra vita ad un folle combattimento per il potere, per un'identità. Voi siete nati per essere governati. Alla fine vi inginocchierete sempre.»

Quelle parole la delusero, non la stupirono, non la confusero: la delusero immensamente. Si sentì offesa, ferita, nel profondo della sua anima.

«O restavo a crogiolarmi nella mia confusione, o mi rimboccavo le maniche per rendere il mondo un posto migliore.»

Pensò alle parole di Steve Rogers e dentro di lei cominciò a crescere una determinazione e una rabbia che non sapeva di avere.

«Se deciderai di aiutarci davvero, ogni cosa risulterà più chiara ai tuoi occhi. Devi solo decidere da che parte stare.»

E lei sapeva da che parte stare.

Si sciolse i capelli velocemente, lasciandoli incolti e gonfi, ma non le importava, aveva bisogno delle forcine. Utilizzò i piccoli ferretti per tagliuzzare il vestito a metà coscia e avere la possibilità di muoversi liberamente. Quando strappò via la stoffa pregiata non ebbe nemmeno il tempo per sentirsi un po’ in colpa: sfilò le piccole pistole dalle cinture e con il cuore che palpitava a mille e con il vestito malamente strappato, corse a piedi nudi verso la piazza.

Durante la sua breve corsa, mise a fuoco la terribile scena che vi era in corso: un anziano si era alzato in piedi, rammentando al dio che uomini  forti, potenti e crudeli come lui ci sono sempre stati e ci saranno sempre, e che non si sarebbe mai inginocchiato. Per risposta, il dio aveva riso e gli aveva puntato lo scettro contro. «La voce saggia del popolo,» disse, quando Amelia era quasi arrivata. «che lui sia d’esempio.»

Non arriverò mai in tempo.

Improvvisa, Amelia, improvvisa!


«Scappate!» Urlò, sparando in aria più volte. Richiamò così l’attenzione di tutti e solo una decina ebbe il coraggio di alzarsi e correre via.

Loki si voltò verso dove provenivano quegli spari e rimase sbigottito da ciò che vide.

Allora non se l’era immaginato.

L’aveva vista davvero.

Dopo anni, che parevano secoli, Loki perse un battito.

Non riuscì a fare niente se non restare immobile ad osservarla.

Amelia arrivò nella piazza e sparò con entrambe le pistole, urlando ancora più forte di scappare via, sia in tedesco che in inglese.

Quando anche l’ultima persona era andata via di lì, si guardò intorno lentamente e notò che i cloni magici erano scomparsi.  Sentiva lo sguardo di lui bruciare sulla schiena.

Si voltò.

Occhi contro occhi.

Viso contro viso, in due sguardi che si fondevano in uno un’altra volta.

Solo che stavolta Amelia gli puntava entrambe le pistole e nel suo viso vi era stampata un’espressione che esprimeva tutta la sua rabbia e la sua delusione.

«Amelia Helbinger.» Pronunciò il suo nome con una sprezzante ironia. «La bambina che attraversò il quadro,» fece una pausa, avvicinandosi di più a lei a ogni passo. «è adesso una donna.» Le si fermò davanti, le pistole sfioravano quasi il suo petto. Amelia non riusciva ad indietreggiare, non riusciva a parlare, solo a guardarlo negli occhi. Le braccia iniziavano a farle male, tremavano, sentiva sui gomiti due pesi opprimenti. «Me lo sarei dovuto aspettare da parte tua: tradirmi un’altra volta

«Non ti ho mai tradito.» Parlò per la prima volta e Loki rimase  meravigliato della voce che lei aveva maturato durante i suoi anni di crescita e formazione fisica. Era una bella voce, soave, candida, dolce, anche se intrisa di rabbia.

«Hai anche la faccia tosta di negarlo?»

«Sì, perché non l’ho mai fatto.»

Loki serrò la mascella e in un semplice movimento la disarmò da entrambe le pistole, la afferrò dal braccio e la avvicinò a sé con uno strattone rude. Lo scettro si illuminò improvvisamente di blu e Amelia, tra lacrime silenziose a una debolezza psicologica e fisica che le appesantiva tutto il corpo, non cercò minimamente di liberarsi dal suo tocco, che, se tempo fa lo aveva definito dolce e delicato, in quel momento era terribilmente stretto e possessivo. «Avanti,» gli disse in un sussurro, mentre la rabbia svaniva, rivelando tutto lo sconforto che sgorgava via dal suo sguardo spento che non aveva abbandonato quello smeraldo del dio nemmeno un secondo. «metti quell’affare sul mio petto. Diventa un parassita della mia testa, trasformami in una schiava, privami della libertà, ma sappi che a me non importa più di tanto. Niente riuscirà a peggiorare le cose.» Quando Loki schiuse le labbra per parlare, trafitto da quelle parole, Amelia lo precedette, continuando: «Dire che mi hai deluso è un eufemismo, non potrei mai spiegare a parole come io mi senta.»

Come lei aveva avuto empatia di lui qualche minuto fa dentro quell’edificio, adesso era lui che stava per essere investito dall’uragano dentro di lei.

«Facciamo come mi hai insegnato tu, allora. Giusto per darti un assaggio.» Scrollò la spalla e si liberò dalla sua presa che si era allentata notevolmente. Non la guardava più con rabbia e scherno, ma con amarezza e confusione, per la prima volta dopo tanto tempo, incapace di dire qualcosa. Amelia si avvicinò ancora di più a lui e gli posò con delicatezza una mano sulla sua guancia destra. Dal palmo della sua mano, fuoriuscì una tiepida luce verdognola.

«Sai, a volte ho come la sensazione che nessuno mi possa capire.» Se ne stava sdraiata sull’enorme letto mentre Loki si esercitava con semplici trucchi di magia. Si bloccò, però, a quelle parole. La guardò e lei sentì la pesantezza del suo sguardo sulla pelle. Si mise a sedere sul materasso mentre lui le si avvicinava.

«Anch’io a volte, sai?» Piegò le gambe per raggiungere la sua altezza da seduta e le prese con due dita la carne sotto il mento, dandole un pizzicotto affettuoso. Amelia ridacchiò e si allontanò un po’ da lui, massaggiandosi la parte dolorante. «Ma ti svelo un segreto, o meglio un trucchetto.»

«Di magia?»

«Sì, è una base del mentalismo.»

«Okay, fammi vedere.»

Loki le sorrise. «Basta poggiare una mano sulla guancia di qualcuno con cui tu hai un rapporto di vera intesa e pensare a tutte quelle emozioni che non riesci a spiegare a parole. Se si è veramente bravi, si può anche trasmettere un suono o addirittura un ricordo.»

«Intesa nel senso di affetto?»

«Devi tenere a quella persona, perché aprire il proprio cuore a qualcuno, fargli leggere ogni tua minima preoccupazione, è un gesto molto intimo per chi pratica l’arte della magia.»

«Posso provare adesso?» Gli chiese un po’ titubante, allungando la mano.

«Certo, anche se non penso ci riuscirai subito.»

«Vedremo.»



Quando quel ricordo finì, rivide di nuovo i suoi occhi blu e il suo petto venne percosso da molte emozioni, opprimenti, forti, confuse, intrise di delusione, collera, paura, ma, c’era qualcos’altro: una scintilla, un sentimento puro e dolce… era…?

Ma Amelia tolse la mano dalla sua guancia, si allontanò da lui e inciampando sui suoi piedi, cadde a terra.

Loki barcollò, si portò una mano al petto, proprio sopra il cuore e gemette di dolore.

Come ci era riuscita?

Le palpebre le si chiudevano quasi da sole. Del sangue le colò da una narice, scivolando sulle labbra.

Perché si sentivano entrambi così?

Il dio aggrottò le sopracciglia e un’apprensione che non provava da tanto tempo, ritornò a bruciare dentro di lui. Mollò lo scettro, che scivolò a terra in un tonfo, e si avvicinò a lei, ma quando le fu abbastanza vicino da sfiorarla, una voce sconosciuta gli ordinò in lontananza di non toccarla.

Poi Amelia si sdraiò involontariamente a terra, cadendo in un sonno profondo.

*
Asgard


“Dall'unione del sangue delle due mezzerazze
sarà sbaragliato il nemico,
ma la sua lama non sarà mai scalfita
se il sacrificio del giusto non avverrà.
Allora la pace persevererà.”

Odino preferì non aver mai aperto il libro dell’Oracolo. Era al corrente della leggenda e anche della profezia, aveva chiesto consiglio alla saggezza dell’Oracolo per trovare conforto, ma tutto ciò che quello gli aveva mostrato, fu quella dannata profezia.

Si sedette sugli scalini e si portò le dita a massaggiarsi le tempie.

Non appena suo figlio sarebbe ritornato con Loki, avrebbe dovuto rivelare tutto a tutti, persino a Frigga, anche se lei sapeva già qualcosa, giusto quel poco da renderla gelosa, ma niente di importante a livello universale.

Perché non vi sarebbe stato uno dei Nove Regni al sicuro.

La vera minaccia doveva ancora arrivare.

E sarebbe arrivata molto, molto presto.

 

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Capitolo 10
*** .9 ***


Wahnsinn

                                                                        
 
“Il ricordo è un poco di eternità.”
                   - Antonio Porchia.


 

La adagiò sui sedili e si preoccupò che fosse coricata in modo tale da non cadere in caso di turbolenze. Quando Loki era stato legato al suo sedile e il jet si era levato da terra, Captain America rimosse il suo caschetto e prima di alzarsi in piedi gli venne spontaneo liberare il volto di Amelia da quelle ciocche rosse. Fu strano. Sfiorare la sua pelle. Ci mise più del dovuto a sistemarle i capelli. Attraverso i guanti sentiva delle piccole scosse partire dai polpastrelli per poi terminare nei gomiti. Era una sensazione che aveva già provato in passato e che si era ripromesso di non provare più.

«Sei stata brava.» Le sussurrò non appena lei aprì gli occhi improvvisamente. E lo era stata davvero: aveva distratto così tanto il dio che non c’era stato nemmeno il bisogno dell’intervento successivo di Thor.

«Do- dove…?» Dov’è lui? La faccia di Amelia si era tinta di confusione e panico, emozioni che scemarono, svanendo via, quando Steve le ripeté di nuovo:

«E’ tutto apposto, sei stata brava.» E allora si lasciò andare a quella bella voce e quelle parole rassicuranti. L’ultima cosa che vide prima di abbandonarsi alla piacevole sonnolenza fu l’espressione furente di Loki.

Steve si alzò e si volto per raggiungere Tony Stark. Intraprese una breve conversazione con quest’ultimo, ma nulla di che, l’uno disprezzava l’altro e se qualche volta si scambiavano due parole era per una pura formalità che partiva da Steve. Ciò che occupò i suoi pensieri e la sua attenzione per tutto il tragitto furono gli occhi di quel dio su Amelia.

La guardava con uno sguardo così carico di emozioni che per interpretarlo del tutto ci voleva una laurea in psicologia, ma ciò che si riusciva a cogliere senza problemi da quegli occhi ridotti a due fessure era la rabbia, la delusione e… qualcos’altro, qualcosa di molto profondo, forse apprensione, forse affetto.

Amelia gli aveva confessato senza vergogna quanto ancora volesse del bene a quel pazzo, ma dopo aver assistito alla scena di un’ora fa, Steve era convinto che l’opinione di Amelia non sarebbe stata più così confusa come ammetteva lei. Ha visto con i suoi occhi di cos’era capace e qualsiasi opera benevola abbia fatto in passato non poteva mai creare un equilibrio con le cose orribili che aveva fatto in meno di una settimana.

Arrivò un momento in cui gli occhi aguzzi di Loki scrutarono attentamente e velocemente la figura di Captain America. Adesso che poteva osservarlo senza la maschera, gli avrebbe potuto assegnare nuovi vezzeggiativi sprezzanti, come ad esempio: biondino o sguardo da cerbiatto, ma quello che gli piaceva di più rimaneva sempre il soldatino. IronMan lo aveva battezzato come uomo di ferraglia e la donna alla guida del veicolo (che aveva intuito fosse la famosa Vedova Nera, di cui Barton gli aveva tanto parlato): sgualdrina rossa. Anche se non sapeva più chi definire con quell’insulto fra le due donne fulve in quel jet. Una aveva un passato da spia russa, il suo registro era pieno di note rosse, era stata la causa di moltissimi omicidi e tragedie prima di redimersi. L’altra era diventata una doppiogiochista, gli aveva mentito, lo aveva illuso e deluso. E tradito.

Stava occupando quel tempo a cercare un giusto nomignolo/insulto per lei, che se ne stava sdraiata su quei sedili, bella ancor più di quando aveva sedici anni, un angelo dalla pelle diafana e delicata, le gambe toniche e flessuose, il corpo snello, le labbra carnose e di ciliegia, i capelli dell’Inferno.

Serrò la mascella quando fu costretto a ricordare alla sua coscienza che doveva cercare un insulto adatto con cui chiamarla, non ammirarla.

Ammirarla
, già. Gli fu difficile ammettere a se stesso che era quello che stava facendo.

Eppure, poteva sforzarsi mille volte, ma per lui, rimaneva sempre la bambina che attraversò il quadro, solo che adesso nella sua testa suonava con un tono distaccato e sarcastico.

Un fuoco bruciò nel suo petto quando il soldatino slegò Amelia dalle cinture di sicurezza e la prese fra le sue braccia. Era una sensazione opprimente, gli faceva montare la rabbia sui polmoni, faticando a respirare, nulla in paragone con l’invidia che provava per il fratellastro.

L’uomo di ferraglia venne a liberarlo e quando le porte del jet si aprirono, Captain America uscì fuori con Amelia in braccio, e una scorta di soldati arrivo per portare Loki nella sua cella, dove già Nick Fury e Thor lo stavano aspettando.

*

I capelli rosso fuoco sudati erano sparsi a ventaglio sui vari cuscini che tenevano la sua testa e il busto inclinato. La pancia pesava come non aveva mai pesato nei nove mesi trascorsi. Un dolore lacerante le attraversava il ventre e tutte le ossa del corpo.

Respirò ancora una volta e spinse forte, con rabbia, in un urlo.

Quel fastidio nella sua intimità dolorante andò improvvisamente via e una stanchezza accompagnata da un senso di libertà si impadronì di lei in una sonnolenza estranea e soddisfacente.

Respirò l’aria che ora le sembrava più leggera e iniziò a singhiozzare quando sentì il pianto del suo bambino invadere la stanza. La serva le si avvicinò e le porse un piccolo fagottino ancora un po’ sporco di sangue. Con la vista appannata di lacrime  copiose, si sforzò di osservare quella piccola creatura che aveva tenuto in grembo per nove mesi.

«E’ un maschietto, mia Signora.»

Ma lei lo sapeva già, lo aveva sempre saputo.

«Thanos.» Sussurrò, accarezzandogli una guancetta paffuta. «Il suo nome è Thanos.» E quando pronunciò nuovamente quel nome, il bambino aprì gli occhi, rivelando delle iridi di un azzurro malato e una sclera completamente nera.



Amaya si svegliò di colpo e si mise subito a sedere per prendere aria.

Da lì era iniziato tutto.

Da lì era iniziata quella maledizione.

Ma perché lo aveva sognato?

Solo quando si voltò verso la finestra notò la presenza di un uomo che non era suo marito. Non poteva essere suo marito, lui era andato via ieri, l’aveva abbandonata, le aveva detto che tutta quella situazione non la reggeva più. Non ci era rimasta male di niente, non lo aveva mai amato, tecnicamente non era nemmeno suo marito, perché Amaya continuava a portare il suo cognome da nubile e non si erano mai sposati. Il povero e ingenuo uomo era stato solo una copertura per tenere al sicuro Amelia.

Accese la luce.

Una parte di lei aveva saputo che era lui.

«Che vuoi?» Domandò brusca, con la voce di una donna che non aveva fatto altro che piangere.

«Mi saluti così dopo più di due decenni che non ci vediamo?»

«Beh, sei invecchiato.» Osservò lei, giusto per accontentarlo e dire qualcos’altro. «E adesso vattene. Tu sei la ragione del mio dolore.»

Quelle parole lo ferirono al cuore. «Sarò veloce, allora.»

«Fai bene, perché non ho alcuna intenzione di parlarti.»

«Si tratta di tua figlia e di mio figlio.»
Amaya ebbe la forza di volontà di guardarlo solo in quel momento.

«Vuoi dire lo stregone, il principino, il gigante di ghiaccio storpio che ha ridotto mia figlia così?» Ringhiò in preda alla collera, mentre si liberava delle coperte e si alzava in piedi. Gli occhi gonfi le facevano male.

«Mio figlio ha commesso molti sbagli, ma non puoi accusarlo di qualcosa che hai commesso tu.» Odino cercò di non andare in iperventilazione e di mantenere la calma.

«Io l’ho solo protetta da te, dai tuoi figli, da quella pazza di tua moglie e da quella maledetta profezia!» Si avvicinò a lui, a ogni passo le parole erano più scandite e il tono di voce più alto.

«Sai che è una cosa che non dipende da noi.» Le disse nel modo più calmo possibile.

«Sì, ma noi l’abbiamo mandata avanti, aggravandola.»

«No, abbiamo fatto in modo che tutto questo possa finire una volta per tutte.»

Gli puntò un dito contro, pungolandogli il petto. «TU hai fatto in modo che tutto questo possa finire una volta per tutte, usando mia figlia per i tuoi scopi.»

«I miei scopi?!» Sbottò, perdendo così le staffe. «Salvare l’intero Universo è un piacere, un mio sporco comodo?»

«Avresti potuto informarmi, invece lo fatto quella feccia di tua moglie, spezzandomi il cuore.» E la rabbia che aveva nei suoi confronti venne a galla dopo anni e anni. «Ma me lo sarei dovuta aspettare da uno come te, pronto a fare di tutto per salvarsi le chiappe.»
«Amaya, basta.»

«Menomale che i tuoi figli erano in missione su un altro Regno, chissà come l’avrebbero presa pure loro, altri due dèi pronti ad odiarmi a morte per qualcosa che ho fatto a mia insaputa.»

«A tua insaputa?» Fu Odino adesso ad avvicinarsi, avanzando con il suo scettro. «Parli come se non ci avessi mai tenuto a me.»

Cadde un silenzio che durò ben cinque minuti.

«Cosa volevi dirmi sui nostri figli?»

Si ricordò improvvisamente perché venne a farle visita. «Solo che si sono ricongiunti, anche se tu ed io ci abbiamo messo tutti i mezzi possibili per evitarlo.» Il cuore di Amaya perse un battito. «E sappiamo entrambi che cosa comporterà il loro ritrovo.»

Se aveva pensato di aver esaurito le lacrime, in quel momento iniziò a piangere silenziosamente, a dirotto, ricredendosi. Con voce spezzata e rassegnata disse: «La profezia si sta avverando.» E lei non avrebbe potuto fare più nulla per proteggere sua figlia.

*

Anche Amelia, dall’altra parte dell’Oceano, si svegliò di colpo dallo stesso sogno della madre. Si mise lentamente a sedere e si guardò intorno ancora un po’ intontita dalla bella dormita. Si rese conto di trovarsi nella stanza dove Steve l’aveva portata per cambiarsi il pomeriggio del giorno prima.

Quando si alzò in piedi, la saracinesca si aprì stridendo, svegliando completamente Amelia. Steve entrò in stanza pensando che lei stesse ancora dormendo, difatti si stupì quando la trovò in piedi, vicino al lettino dove aveva dormito quella notte.

«Buongiorno.» Disse in saluto e lei rispose altrettanto. «Anche se non è proprio giorno.»

Amelia si stropicciò gli occhi e sbadigliò tenendo una mano davanti alla bocca. «Che ore sono?»

«Sono le cinque del pomeriggio.»

Stranamente, a quella risposta, il suo cervello iniziò a rielaborare ogni cosa che era successa la sera prima. Si guardò nel riflesso del piedistallo\capsula di vetro dove Steve teneva la sua divisa e notò di non avere indosso il vestito strappato della sera prima, ma bensì una canotta maschile che non le arrivava nemmeno a metà coscia. Le guance di Amelia si tinsero di rosso e Steve notò il suo imbarazzo, aspettandosi entro tre secondi quella domanda che effettivamente arrivò:

«Come ci sono finita con questa addosso?»

Steve camminò verso il comò e posò gli indumenti che teneva in mano, dandole le spalle per un attimo. «Te l’ho messa io.» Rispose voltandosi verso di lei.

Aggrottò la fronte, accigliata e sorpresa da quel modo spontaneo di rispondere. «Mi hai spogliata e mi hai vestita?»

«Non ho guardato,» ma quell’affermazione affrettata fu tradita da un sorrisetto che fece capolino sulle sue labbra sottili «giuro.» Aggiunse infine.

«Non hai guardato?» Domandò ancora più accigliata.

«Volevi che guardassi?» Accidentalmente i suoi occhi finirono sulle sue gambe pallide e Amelia avvampò.

L’imbarazzo rendeva quella situazione estremamente esilarante.

«Okay, adesso ho bisogno di vestirmi.» Scosse la testa, paonazza in volto, mentre Steve sorrideva divertito, cosa che non aveva avuto occasione di fare da quando si era svegliato dal sonno di settant’anni. Si avvicinò a lui e al comò, intuendo che quegli indumenti che aveva poggiato lì fossero qualcosa di suo, o perlomeno qualcosa della sua taglia. Quella vicinanza la metteva a disagio, tanto che non osava guardarlo in viso. Sentiva il respiro tiepido di lui sulla fronte e i battiti del suo cuore rimbombare d’ovunque.

«Questi me li ha fatti avere Hill.» Impugnò i blue jeans e la t-shirt bianca, porgendoglieli. «Tra cinque minuti Fury ti aspetta nel suo ufficio.»

Amelia perse un battito, mentre l’imbarazzo lasciava spazio all’ansia, che iniziava a scorrere nelle sue vene. «Cosa… cosa vuole Fury da me?»

Steve si allontanò da lei per esigenza, starle accanto lo distraeva. Andò verso la saracinesca ancora aperta. «Sbrigati,» non le rispose, anche se sapeva di cosa voleva parlare Fury. «ti aspetto qui fuori.»

Amelia si infilò la maglietta di una taglia più grande e con difficoltà indossò quei jeans di una taglia più piccola. Si sistemò frettolosamente i capelli e con un po’ di saliva tolse il mascara sbavato. Raggiunse l’ufficio di Fury in compagnia di Steve, solo che arrivati lì, lui restò fuori.

«Il capitano mi ha detto che voleva parlarmi.»

«Siediti ed evita di usare il lei, non siamo a scuola.» Quella frase che poteva suonare gentile, uscì fuori con tono di comando, distaccato e freddo.

Amelia obbedì, si sedette e memorizzò di non usare più il lei formale con Fury.

«Come mai sono qui, allora?» L’ansia era troppo forte e opprimente, d'altronde era la compagna sempre presente fin da quando era una bambina. Voleva sapere subito cosa c’era che non andava.

«Hai svolto magnificamente il tuo lavoro,» c’era qualcosa che non suonava in quella frase. Nick si voltò verso di lei, rivelando un piccolo tablet con un video in corso. «forse anche troppo.» Le porse l’apparecchio e lo schermo rappresentava lei e Loki, la sera scorsa, mentre lei esercitava quel trucco di magia su di lui. «Voglio sapere cosa hai fatto in questo preciso istante.» Amelia aspettò che la se stessa nello schermo si allontanasse e cadesse a terra, e che Loki barcollasse con la mano al petto.

«E’ un trucco che lui mi ha insegnato qualche anno fa.» Rispose dopo aver deglutito.

«Un trucco di magia?» Ripeté quello, più incredulo che stupito.

E adesso? Che succederà? «Penso di sì.»

«Come diamine hai fatto? Sei una strega come lui?» Domandò, mentre lei abbassava lo sguardo sul tablet che ripeteva quel video interrottamente.

Vedeva lo sguardo confuso e perplesso di Loki, gli occhi verdi spenti e pieni di dolore. Ricordò tutte quelle sue emozioni che aveva provato nella propria pelle in un sol secondo, un attimo di empatia che l’aveva distrutta dentro.

Quando il ricordo di quelle sensazioni divenne troppo forte, Amelia spense il tablet, non avrebbe mai più voluto rivedere quel video.

«Non ho idea di come io abbia fatto e no, non sono una strega.» Ebbe il coraggio di rispondere dopo minuti di silenzio, stupendosi, quando lo realizzò, del tempo che le aveva concesso Fury.

«Thor mi ha parlato di te quando eri ricoverata all’ospedale, mi ha detto quanto fossi legata a quel dio.» Si allontanò e posò distrattamente il tablet sulla scrivania, ma non smise di guardarla negli occhi, nella speranza di cogliere qualche mossa falsa, qualche occhiata che gli confermasse che la ragazza stesse facendo il doppio gioco.

«Lo ero.»

«Era il tuo amante?»

Amelia non si era mai sentita così nuda, imbarazzata, piena di vergogna per una domanda. Mai. Nemmeno quando Frigga le faceva gli interrogatori.

«Lui ed io sia… eravamo legati da un affetto fraterno, niente di più. Mi ha vista crescere, nessuno dei due penserebbe all’altro in quel… modo.» Fu difficile parlare del loro bellissimo rapporto al passato, così arduo che le fece male al petto.

«Adesso sei una donna, niente a che vedere con la ragazzina di un tempo.» Amelia non abbassò lo sguardo da quell’occhio scuro, sapeva che quelle parole seguivano qualcos’altro. «Che lui ti veda come un’amante o una sorella, non mi interessa. Mi importa da che parte stai e cosa sei disposta a fare.»

Ancora un’altra persona che le chiedeva da che parte stare. Cos’altro avrebbe dovuto fare per dimostrare a tutti chi era veramente? «Dimmi che cosa devo fare.»

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Capitolo 11
*** .10 ***


Wahnsinn

"Il dolore che sento ora è la felicità che avevo prima. Questa è la storia."
- CS Lewis.




La sentì arrivare. Conosceva il rumore dei suoi passi, l'andatura leggera e un po' goffa. Affinando il suo udito, riuscì a sentire il suo respiro sempre più vicino, fino a quando non percepì la sua presenza all'interno di quella stanza. Adesso riusciva anche ad ascoltare le palpitazioni accelerate del suo cuore, così veloci e frenetiche che parevano vibrazioni che si disperdevano nell'aria, particelle che vibravano sulla pelle ghiacciata di Loki.
«Allora,» iniziò a parlare, mentre Amelia rabbrividì al suono di quella voce così vicina a lei, anche se un po' ovattata dalle pareti di vetro della cella. «pensi ancora che tutto questo sia un sogno?» Si voltò verso di lei, inchiodandole gli occhi in uno sguardo pieno di provocazione.
La rabbia, mista a un dolore acre e sconosciuto, la spinse inizialmente a ribattere a tono, ma dalle sue labbra schiuse in un'espressione offesa, uscì solo un «no.»
«Strano, dicesti così anche quella sera
L'irritazione che aveva tentato di reprimere, riemerse con ardore. Si avvicinò alla cella velocemente, fermandosi proprio davanti al vetro verdastro.
«Non sono qui per parlare di questo. Ti conviene non farmi arrabbiare, sei nelle mani dello S.H.I.E.L.D, adesso.» Nelle mie mani. Lo provocò ai suoi stessi toni di voce e lui ne rimase stranamente compiaciuto e divertito, sorprendendo Amelia.
«Oh, questo è quello che pensa l'uomo da un solo occhio.» Si avvicinò a lei fino a quando rimasero un metro e uno spesso vetro a dividerli. «Ma non tu. Sai che potrei uscire di qui in un batter d'occhio.»
«E allora perché non lo fai?» Sibilò a mascella contratta, con le braccia intrecciate e i pugni stretti si faceva forza per mantenere quel contatto di sguardi.
Sporse il busto in avanti, quasi sfiorando con la fronte il vetro. «Perché non lo voglio.» Sussurrò un po' troppo forte. Si allontanò e si sedette comodamente, proprio come se lui fosse l'unico fra tutti i passeggeri ad essere così felice di trovarsi su quell'Helicarrier.
Amelia ingoiò un fiotto di saliva. Tutta quell'ansia le dava la nausea. «Perché sei qui, allora?»
«Oh, non sono mica scemo, bambina del quadro.» Le fece male quando lui la chiamò in quel modo. Come se lei, per lui, non fosse stata altro che quello: "la bambina che attraversò il dipinto". «So che Fury ti ha mandata qui con l'incarico di farmi l'interrogatorio.»
Le ci volle un momento per articolare una risposta. «Perché non spegni le telecamere, allora?»
«Potresti farlo tu, che ne dici?» Amelia perse un battito. Sapeva a cosa si stava riferendo e lui non tardò a farne parola subito dopo: «Proprio come hai fatto ieri sera, con la mia testa.» Cadde un silenzio in cui lei distolse lo sguardo da lui, mentre Loki restava immobile e inespressivo, privo di quel sorrisetto di qualche momento prima, a studiare la sua reazione. «Cos'hai fatto in questi anni? Ti sei allenata senza di me?»
«Io non mi sono mai allenata con te, Loki.» Pronunciò il suo nome con tono sprezzante, infastidita. Gli diede le spalle, voltandosi. Nick Fury stava ascoltando quella conversazione e sicuramente anche il resto degli Avengers tramite tablet o apparecchi elettronici personali.
«Far levitare oggetti, vaporizzare e congelare l'acqua, leggere nelle menti... queste erano le lezioni che ti piacevano di più, non ricordi?» Fece una pausa, in cui osservò con più attenzione le curve delle sue spalle alzarsi e abbassarsi con più foga. «Oppure in quel manicomio ti hanno resettato la memoria come fanno con i computer?»
Amelia rivelò la sua espressione scioccata a Loki, voltandosi di scatto non appena quelle parole rimbombarono nella sua testa cogliendone finalmente la realtà del significato dopo quattro o cinque rielaborazioni. «Cosa?» Gridò alla seconda sillaba, perché la prima le uscì smorzata in gola, intrappolata nel nodo stretto.
Non era stata sua intenzione tirare in ballo quell'argomento, ma lo aveva fatto e adesso non poteva tirarsi indietro. Aspettò alcuni secondi, si alzò in piedi e divenne di colpo serio, non più provocatorio e maledettamente sarcastico. «Urlavi sempre il mio nome nelle tue crisi isteriche o nei tuoi attacchi di panico.» Amelia sentì le gambe traballare come le fondamenta di una vecchia casa durante un forte terremoto. «Quando cercavi di contattarmi, loro ti infilavano dentro quell'acqua congelata. Ti sedavano ogni qualvolta ritraevi un paesaggio asgardiano.»
«Come fai a saperlo? Perché lo sai?» Domandò col fiato corto, le lacrime salate e calde a impastarle le guance.
Ma lui ignorò quelle domande e continuò a parlare, avvicinandosi nuovamente a lei, stavolta con un passo più lento. «Quando credevi di parlare da sola nei giorni e nelle notti di isolamento, in realtà c'era qualcuno che poteva sentire, qualcuno seduto lì accanto a te, ad ascoltarti, ancora troppo debole nella magia per rivelarsi a te senza il Bifrost.»
«Tu... tu eri lì?»
«A ogni tortura, a ogni umiliazione, a ogni crisi di nervi, qualcosa mi pugnalava al petto. Passavo intere giornate della mia vita a indebolirmi per aprire portali, per starti accanto.» Tutto quell'odio di prima fu sostituito dalla tristezza e dal dolore di quei ricordi. «Una volta riuscii anche a rivelarmi a te.»
E Amelia lo ricordò come in un flash.

Si avvicinò all'angolo della parete e strappò via la carta parati in un colpo solo.
Il murales era ancora lì, ricoperto di un sottile strato di colla, ma era ancora perfetto, come una fotografia bianco e nero della bellissima Asgard. Chiuse gli occhi e quelle cascate divennero reali, il castello d'orato splendeva davvero sotto i raggi del sole e la luce degli arcobaleni. Immaginò di correre a perdifiato sui prati, di osservare con sguardo da bambina la flora e la fauna asgardiana. Poi lo vide... Loki. Era davanti a lei e la guardava con un'espressione seria.
«Arrivano», le disse avvicinandosi a lei. «Arrivano.»

«Ma la magia ha un prezzo e io quel giorno andai oltre le mie capacità. Caddi in un sonno simile a quello di Odino e mi risvegliai mesi dopo, salvandomi da solo dalla morte. Quando aprii gli occhi, il mio primo pensiero fu per te.» Si fermò proprio davanti a lei, ancora più vicini di prima. Solo un vetro a separarli. «Quando fui abbastanza potente da teletrasportare il mio corpo su Midgard, tu non eri più in quell'Ospedale. Eri in camera tua, a studiare per gli esami del diploma.» La sua voce divenne più grave e i suoi lineamenti più tirati. «Eri felice e ammettevi alla tua dottoressa di essere guarita. Che avevi immaginato tutto e che eri un'altra persona.» Se avesse potuto prenderla per la gola e scaraventarla con violenza su una parete, lo avrebbe fatto. «Nulla mi ha mai ferito come quella pugnalata nelle spalle.»
«Loki, lasciami spiegare.» Sussurrò, in preda ai sensi di colpa.
«Allora ho capito che quella bambina, quella ragazza coraggiosa, forte e ribelle che conoscevo, non c'era più, era andata via a causa di un paio di pasticche anti-depressione.» Pronunciò le ultime parole a denti stretti.
«Mettiti nei miei panni, per una volta! Tu non hai idea di come io mi sia sentita! Sola, abbandonata! Come facevo a sapere che tu eri lì?!» Urlò arrabbiata, con la vista appannata dalle lacrime.
Loki diede un pugno così forte al vetro che l'intera cella vacillo e il colpo risuonò rumorosamente per tutta la stanza.
«Tu sentivi che io ero lì! Lo hai sempre saputo che io ero lì accanto a te, mocciosa piagnucolante!» Respirò un attimo, riprendendosi da quel moto di rabbia. «Noi siamo legati.»
Ad Amelia mancò il respiro. Non doveva fargli completare quello che stava dicendo, Fury, Hill e gli altri non avrebbero dovuto saperlo. Si voltò verso l'uscita e corse via. Ma la porta era sbarrata. Lui la stava sbarrando, con il potere della mente.
Lui voleva che loro sentissero.
Lui voleva rovinarle la reputazione.
Non le rimaneva altro che smentire. «Non so di cosa tu stia parlando.»
«Ah, no?» Si leccò i denti, assaporando quel momento ricco di vendetta. «Eppure c'eri, quando hai bevuto il mio sangue.» Bene, è fatta. «Ricordi quando hai deciso di tua spontanea volontà di diventare una strega? C'è il mio sangue nel tuo, siamo un'unica cosa, Amelia Helbinger. Potrai negarlo a te stessa tutte le volte che vuoi, corri dalle braccia di mammina, guardati allo specchio e negalo ancora.» Sogghignò, pieno di un'eccitazione sadica e malvagia. «Tu sei mia
Sentì l'aria scomparire del tutto e provò ad aprire un'altra volta la porta con un risultato finalmente positivo. Corse via più veloce che mai e raggiunto il bagno più vicino, vi entrò e si appoggiò in tempo alla tazza.
Vomitò tutto. Buttò via anche l'anima. E singhiozzò. Singhiozzò forte fino a strapparsi le corde vocali.
Sussultò quando delle mani le afferrarono in una presa gentile i capelli. Si voltò: era Steve. «Butta tutto via, ci sono io ad aiutarti.»
Piena di vergogna di se stessa, si voltò verso la bile disgustosa. Quella vista ripugnante le fece salire un altro conato che gettò via con fatica e stanchezza.
Quando Steve la sollevò da terra e la portò al lavandino per sciacquarle il viso, Amelia si rese conto di non aver mai desiderato così tanto la morte.

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