Altrove

di FairyCleo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due diverse primavere ***
Capitolo 2: *** Dagli occhi dei bambini ***
Capitolo 3: *** Felicità negata ***
Capitolo 4: *** Solitudine ***
Capitolo 5: *** Quello spaventoso potere ***
Capitolo 6: *** Mancanze ***
Capitolo 7: *** I timori di una madre ***
Capitolo 8: *** Le bizzarre idee di Bulma ***
Capitolo 9: *** Tra ieri e oggi ***
Capitolo 10: *** Il compleanno di Goten ***
Capitolo 11: *** Ciao... Goku ***
Capitolo 12: *** Allo specchio ***
Capitolo 13: *** In famiglia ***
Capitolo 14: *** Ho avuto paura ***
Capitolo 15: *** Come sei veramente ***
Capitolo 16: *** L'odioso saiyan cresciuto sulla Terra ***
Capitolo 17: *** L'uomo dei desideri ***
Capitolo 18: *** La confusione ***
Capitolo 19: *** Bisogna prestare attenzione ***
Capitolo 20: *** Come finirono in quel posto ***
Capitolo 21: *** Quando ha aperto gli occhi ***
Capitolo 22: *** Un bambino e il suo cane ***
Capitolo 23: *** Le due G ***
Capitolo 24: *** Alla Capsule Corporation ***
Capitolo 25: *** I Son ***
Capitolo 26: *** L'accusa ***
Capitolo 27: *** Non può essere vero ***
Capitolo 28: *** Il maledetto ***
Capitolo 29: *** Via dalla Capsule Corporation ***
Capitolo 30: *** Sull'aereo ***
Capitolo 31: *** Nessuno resti indietro ***
Capitolo 32: *** Stringimi forte ***
Capitolo 33: *** Nell'Altrove ***
Capitolo 34: *** In corsa verso l'ignoto ***
Capitolo 35: *** Sulle loro tracce ***
Capitolo 36: *** Le spire del male ***
Capitolo 37: *** Per strada ***
Capitolo 38: *** In attesa ***
Capitolo 39: *** Costretto a volare basso ***
Capitolo 40: *** Vite parallele ***
Capitolo 41: *** In fondo al mar ***
Capitolo 42: *** Nell'abisso ***
Capitolo 43: *** Punti di vista ***
Capitolo 44: *** Quello che ne venne fuori ***
Capitolo 45: *** La storia del mostro che abitava nel quaderno ***
Capitolo 46: *** La nebbia nel cuore ***
Capitolo 47: *** Invasi dalle ombre ***
Capitolo 48: *** Zitti e Buoni ***
Capitolo 49: *** Ambasciator non porta pena? ***
Capitolo 50: *** Un nuovo proprietario ***
Capitolo 51: *** Un salto in avanti ***
Capitolo 52: *** Ti racconto una storia ***
Capitolo 53: *** L'inganno ***
Capitolo 54: *** Nightmare ***
Capitolo 55: *** L'errore più grande ***
Capitolo 56: *** L'unione ***
Capitolo 57: *** Il sacrificio più grande ***
Capitolo 58: *** Verso il Paradiso ***
Capitolo 59: *** L'ultima Onda Energetica ***
Capitolo 60: *** Tre padri ***
Capitolo 61: *** Akio ***
Capitolo 62: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Due diverse primavere ***


Disclaimer: i personaggi non mi appartengono e non scrivo a scopo di lucro. Se Vegeta fosse stato mio, state pur certi che avrebbe percorso l’intero universo pur di trovarmi e porre fine alla mia vita.
 
Due diverse primavere

Erano le prime luci dell’alba quando, con fatica, aveva dischiuso gli occhi stanchi e pesanti, ancora gonfi di sonno, scendendo dal letto senza fare troppo rumore. Come sempre, si era alzato prima di tutti gli altri, stiracchiandosi con poca grazia e cercando di non causare troppo trambusto, per quanto il pavimento scricchiolante di quella vecchia casa glielo permettesse. La bella stagione, se così poteva ancora essere considerata da qualcuno, era ormai alle porte, ma sembrava che non avesse alcuna intenzione di affrettare la sua venuta. Il sole sembrava brillare a fatica e il vento, quel maledetto vento incessante, era sempre freddo e pungente come il primo giorno. Persino le stagioni, ormai, si rifiutavano di alternarsi, si rifiutavano di portare a compimento il loro ciclo. L’inverno non voleva saperne di lasciar posto alle tiepide giornate, al profumo dei fiori appena sbocciati e al canto gioioso degli uccelli migratori.
Faceva ancora tanto, troppo freddo, e aveva cominciato a pensare che fossero state le sue stesse ossa ad averlo immagazzinato fino al midollo, ma la rassegnazione gli aveva insegnato a non lamentarsi. Certo, i rimedi per evitare il congelamento erano sempre gli stessi: avrebbe solo dovuto tenere il fuoco acceso più a lungo, comprare vestiti più caldi, isolare meglio le finestre e fare dei pasti degni di questo nome, ma le sue finanze esigue gli avevano insegnato a fare a meno di quelli che erano ormai diventati dei veri e propri lussi, mentre l’esperienza gli aveva mostrato quanto potesse essere pericoloso addormentarsi davanti al fuoco scoppiettante: la tosse che lo tormentava costantemente era per lui un monito quotidiano.
Il momento in cui doveva spogliarsi per detergersi era uno tra i peggiori: scrollarsi le coperte di dosso e poggiare i piedi nudi sul pavimento rozzo e dalle assi sconnesse non era abbastanza traumatico, ma non poteva farci proprio niente. Non in quel momento. Forse domani le cose sarebbero potuto cambiare. O forse, non sarebbero cambiate mai e poi mai.
Per cui, dopo aver scosso la testa a occhi chiusi nel tentativo di scacciare quei pensieri, aveva sbadigliato in silenzio e si era guardato attorno per qualche secondo, questo prima di iniziare i suoi rituali giornalieri.
Le assi dell’imposta che serrava la finestrella di quella stanza stavano in piedi per miracolo, e quelle mancanti lasciavano filtrare la gelida luce mattutina.

“Tsk… Un’altra allegra giornata!” – aveva detto tra sé e sé, affacciandosi circospetto con aria accigliata, sbriciando oltre i vetri sporchi e opachi a occhi quasi strizzati, in modo da non lasciarsi accecare da quei lividi raggi taglienti come lame. Quello che rimaneva dei suoi sensi sovrumani non era abbastanza per percepire la presenza di eventuali pericoli nascosti. Per questo, si sentiva costretto a compiere quel ridicolo e inutile gesto ogni mattina. Guardando da quella finestrella, e concentrandosi profondamente, immaginava di poter gettare uno sguardo sul mondo, di osservarlo nella sua selvaggia bellezza, come faceva quando la sua vita non era ancora precipitata nel baratro in meno di un istante, forse perché, ignobile e vile com’era, aveva osato desiderare troppo ritrovandosi ad avere niente.
Aveva chiuso gli occhi e tirato un respiro profondo prima di dirigersi verso quel tavolino sghembo che gli faceva da comodino, scrivania e anche da lavabo, se così poteva definirlo. Sempre con estrema meticolosità e accuratezza, si era sfilato il largo e sgualcito camicione con cui dormiva, aveva afferrato la brocca di ceramica dal bordo sbeccato e l’aveva inclinata quanto bastava per farne così cadere il contenuto in una bacinella con cui avrebbe potuto fare coppia, se solo le decorazioni fossero state ancora visibili. E qui, come ogni mattina, gli era occorso raccogliere tutto il suo coraggio per immergere le mani in quell’acqua gelida e lavarsi così viso, collo, torace, ascelle e ogni punto raggiungibile senza l’ausilio di una spazzola o una spugna. Il sapone che usava non aveva nessun odore particolare, ma era perfettamente funzionale al raggiungimento del suo scopo: evitare di puzzare come i maiali con cui aveva a che fare ed evitare di prendere qualche brutta malattia perché, di quei tempi, si moriva più di raffreddore che di vecchiaia.

Mai avrebbe pensato che, un giorno, gli sarebbero mancati i saponi e gli shampoo profumati che lei era solita fargli trovare lì, accanto alla doccia, quasi per magia, che avrebbe rimpianto l’acqua bollente e i sali da bagno, gli accappatoi caldi e morbidi e quel balsamo per il corpo che era solita compare apposta per lui. E il deodorante… Solo gli dei potevano sapere quanto gli mancasse il deodorante. All’epoca, tutte queste cose gli erano parse ninnoli per mammolette, mentre oggi… Oggi, la gente rubava il sapone, litigava per un telo usato ma dall’aspetto ancora accettabile, causava delle vere e proprie risse pur di entrare in possesso di una spugna o di qualcosa che le assomigliasse.

 
“Per favore… Signore… Per favore… Abbia pietà…” – aveva detto lei, stringendo ancora al petto il suo prezioso, preziosissimo bottino – “Pietà” – il terrore nei suoi occhi era visibile, si era impossessato di quella figura che un tempo avrebbe anche potuto dirsi attraente, mentre ora non era che un ammasso informe di capelli unti e abiti luridi e sgualciti.
“Stai zitta! Verrai punita per quello che hai fatto, sporca ladra!”.
“NO!”.
La folla lì riunita sembrava come pietrificata. Era terrore quello che stavano provando? Non lo avrebbe mai saputo con certezza perché non c’era più niente di certo, al mondo, ormai. Non era certo neppure di se stesso. Perché egli, per primo, non aveva fatto nulla quando aveva visto la mano del boia levarsi sul corpo di quella ragazza indifesa.

 
L’arrivo improvviso di quel ricordo lo aveva costretto ad aggrapparsi al bordo della bacinella con forza. Un tempo, sarebbe bastato un tocco meno pesante per far sì che si infrangesse in centinaia di piccoli pezzi, ma ora… Ora… Mordendosi il labbro con tanta forza da farlo sanguinare, aveva preso l’ennesimo respiro, cercando di calmare la rabbia che ribolliva nel suo sangue e , velocemente, si era asciugato, vestito, aveva sistemato meglio che poteva la grezza biancheria del suo letto ed era uscito, ma non senza aver prima aver gettato uno sguardo proprio lì, all’angolo destro di quella spoglia e fredda stanza. E poi, sorprendendosi ancora una volta per quel gesto che non gli apparteneva, aveva sorriso, seppur con mestizia, alla vista di chi ancora era in grado di fornirgli una ragione per continuare a vivere, per andare avanti in quel mondo che aveva rinnegato chiunque, re, principi, cavalieri e popolani.
 
*

Aveva trattenuto il respiro fino a quando non aveva sentito la porta chiudersi alla sue spalle. Per quanto avesse cercato di non fare rumore, era impossibile evitare di sentire i tristi cigolii di quei cardini consunti. Non appena aveva sentito la serratura scattare, si era messo seduto, scostandosi le coperte di dosso in modo da non infastidire suo fratello maggiore: guai se lo avesse svegliato. Non sarebbe riuscito a perdonarselo. Scavalcandolo con attenzione, si era precipitato alla finestra, noncurante del freddo avvertito a contatto con il pavimento prima, e con il vetro dell’imposta, poi. L’importante era che avesse fatto in tempo, che fosse riuscito a scorgerlo mentre si allontanava, piegato in due dalla fatica e dal dolore, ma non ancora spezzato del tutto. Non aveva dovuto sudare troppo per portare a termine quel compito, per convincersi che, nonostante tutto, stava bene e che presto sarebbe tornato. Eppure, ogni volta che lo vedeva così, smagrito, stanco, non poteva evitare che i suoi occhi si riempissero di lacrime. Sembrava così lontano il tempo in cui quella figura, seppur piccola di statura, si ergeva maestosa, così brillante da offuscare chiunque gli si trovasse accanto. Ricordava con amarezza le sue spalle forti, i capelli scuri, folti e brillanti, le braccia possenti e le gambe agili e scattanti, chiedendosi se tutto quello, un giorno, sarebbe finalmente potuto essere di nuovo la loro realtà, la sua realtà.
 
“Sta zitto! Zitto… O vuoi che loro vedano? Eh? È questo quello che vuoi? Che vedano?”.

Aveva scosso la testa, cercando di ricacciare indietro quei pensieri, nonostante fosse estremamente difficile. Quel ricordo faceva male. Faceva talmente male da provocargli fitte al petto. Aveva cercato per tanto tempo di rispondere alle sue mille domande, di darsi una spiegazione al come potessero essersi trovati in quella situazione, ma non ci era riuscito. Le cose non erano più quelle di un tempo, e forse non sarebbero mai tornare come prima, ma non poteva farci niente. O forse non voleva farci niente. Ma questa era un’altra storia, una storia che non avrebbe mai raccontato a qualcuno.

La primavera di Ieri…

“Mi chiedo perché dobbiamo indossare questi vestiti…” – si lamentava il piccolo Son nel goffo tentativo di allacciare il papillon – “Mi fanno sentire così stupido!”.
“Non sei stupido, Goten…” – lo aveva rincuorato suo fratello maggiore – “Lo sai che alla mamma fa piacere vederci eleganti e ordinati… E poi, è un giorno speciale… Non vuoi fare bella figura?”.
“Sì, ma…”.
“Ma cosa?”.
“Io non so allacciarlo, ecco!” – si era arreso, ormai sul punto di piangere dall’esasperazione.
“Vieni qui, piccolo…” – gli aveva sorriso suo fratello, inginocchiandosi accanto a lui e cominciando ad armeggiare con quell’accessorio infernale – “Devi portare pazienza e devi continuare a provare. Solo così, alla fine, le cose verranno da sole”.
“Lo so…” – aveva detto, osservando attentamente le mani esperte intente a fare una magia – “Me lo ripeti sempre, ma lo sai che non fanno per me, queste cose…”.
“Quali cose?” – davvero non riusciva a credere di parlare con il suo fratellino. Da quando era diventato così permaloso?
“Ecco… Queste cose… Le feste, i vestiti… Lo sai che non mi piacciono!”.
“Non ti piacciono? Ma se per il tuo ultimo compleanno non hai fatto altro che lamentarti perché la mamma non aveva comprato i palloncini “giusti”!”.
“Sì, ma le persone cambiano, no?”.
“Ah sì? E tu quando saresti cambiato, giovanotto?” – lo aveva bonariamente preso in giro, facendo l’ultimo giro a quella stoffa rossa che aveva così assunto la forma di un papillon.
“Tsk… Lascia stare” – e gli aveva praticamente voltato le spalle, specchiandosi vanitoso e attento, alla ricerca di qualche imperfezione.
Era rimasto in ginocchio, con le mani ancora sollevate a mezz’aria e un’espressione indecifrabile in volto. “Tsk”? Gohan aveva davvero sentito pronunciare a suo fratello quel tipico intercalare infastidito? Quello “tsk”? Se non lo avesse avuto davanti agli occhi, avrebbe fatto fatica a riconoscere in quel buffo ometto identico a suo padre il suo fratellino.
“Gohan? Sei tra noi?”.
“Emm… Sì… Va bene, dai… È il caso di andare, o la mamma si arrabbierà…”.
“D’accordo… Anche se, a essere sincero, avrei preferito che questo vestito fosse blu”.

Continua…


E rieccomi qui, dopo un bel po’ di tempo e dopo la lunga pausa che ho trovato necessario prendere in vista della discussione della tesi di laurea.
Ora, luglio è passato, mi sono laureata, sono ufficialmente in cerca di lavoro e – forse – ho un po’ di tempo da dedicare a due delle mie grandi passioni: Dragon Ball e la scrittura! Ergo, ho come l’impressione che mi vedrete più spesso qui su Efp, nel tentativo di raccontare questa storia che ho in testa da un po’ ma che trovo difficile da scrivere.
Come avrete potuto notare, la narrazione si svilupperà in due differenti momenti: ieri e oggi. Questa scelta non è stata semplice, e non sempre è di facile realizzazione, ma penso che sia la più adeguata per narrarvi la storia del principe e di chi si trova attualmente con lui in questo Altrove che non ha niente a che fare con il mondo a cui siamo abituati.
Ho una vera e propria passione nei confronti delle situazioni disperate, lo avrete notato, vero?
Vi anticipo che sarà una storia senza fronzoli e che si svilupperà insieme a voi di settimana in settimana, una storia in cui i ricordi dei personaggi torneranno spesso a tormentarli con il loro peso e la loro prepotenza. Chi ha già letto altre mie fic, ormai sa bene il mio metodo di lavoro, chi non lo conosce… lo scoprirà!
Mi auguro che questo primo capitolo vi abbia incuriosito e vi sproni a leggere anche ciò che verrà in seguito.
Per ora, ringrazio chiunque mi abbia dedicato il suo tempo.
A presto!
Un bacino
Cleo
 

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Capitolo 2
*** Dagli occhi dei bambini ***


Dagli occhi dei bambini
 
La scuola elementare della Città del Nord era affollatissima, quel giorno. La consegna dei premi per il concorso di scienze era un evento molto sentito dai membri della popolazione, e tutti erano entusiasti ed eccitati. Ovunque si guardasse, si potevano ammirare genitori in tiro e vistosamente in ansia, pronti a catturare con fotocamere e cellulari di ultima generazione, i momenti salienti dell’esperienza della loro prodigiosa prole.
Per l’occasione, l’edificio era stato tirato a lucido. Il premio di scienze era la manifestazione principale organizzata dalla scuola insieme al premio d’arte e a quello di letteratura, e sarebbero stati presenti importanti personalità nel mondo della ricerca, nonché il principale finanziatore del progetto che, per altro, era strettamente imparentato con uno dei giovani partecipanti. È forse superficiale sottolineare come questo avesse creato un po’di risentimento tra i genitori degli altri bambini, ma la totale imparzialità della benefattrice aggiunta alla cospicua borsa di studio che sarebbe stata elargita, avevano messo a tacere le malelingue. Del resto, che motivo avrebbe avuto di far vincere qualcuno solo per il suo personale piacere?
“Oh, so benissimo che sono in tanti, qui, a parlare alle mie spalle” – aveva detto, sfoggiando il suo sguardo determinato e sorridendo con malizia – “Ma non ho intenzione di lasciare che il loro blaterare mi possa ferire o, peggio ancora, che possa ferire lui. Ha lavorato duramente per ottenere questi risultati, e sono certa che la giuria non si lascerà influenzare dalla nostra parentela. Il fatto che io stia finanziando il tutto non deve scoraggiare nessuno. Vincerà il candidato che presenterà il progetto più innovativo, originale e fantasioso, anche se dovesse trattarsi del figlio del mio peggior nemico”.
Aveva messo in chiaro le cose con chiunque le si avvicinasse facendole qualche poco velata allusione. Non era un’esperta di freccette, né di tiro con l’arco, ma sapeva benissimo cosa doveva fare per non diventare un bersaglio, e sapeva anche come evitare che lo diventassero i membri della sua famiglia.
“Ma quindi, sarai davvero imparziale?” –aveva rincarato la dose una sua amica, ammiccando come se avesse già la risposta a quella domanda.
“Assolutamente. E, per evitare che sorgano dubbi in gente che non ha niente di meglio da fare che malignare su me e sui miei cari, ho deciso di non far parte della giuria”.
“Ah sì?”.
“Sì. Dovrà vincere il migliore” – e, così dicendo, aveva lasciato quella pettegola dietro di sé, certa di essere uscita vincitrice da quello scontro.
“L’hai fatta secca” – aveva detto Crilin, invitato lì per l’occasione. Il terrestre aveva da poco vinto il concorso per entrare in polizia, e in quella circostanza rivestiva un ruolo molto particolare: dopo l’attacco dei saiyan, la venuta sulla Terra di Freezer e di suo padre, l’arrivo dei cyborg e il Cell Game, il re aveva deciso di triplicare le forze dell’ordine, decidendo di assumere veri e propri soldati che fossero in grado di battersi quasi ad armi pari con quelle che aveva definito minacce nucleari. Certo, Crilin non si sentiva potente come uno dei cyborg, per fare un esempio, ma forse aveva trovato il modo di tenergli testa, considerando che ne aveva sposato una.
“Non ci giurerei” – aveva risposto la donna dai capelli turchini mentre sistemava il colletto della camicetta di seta bianca che aveva indossato – “Quando si tratta di manifestazioni come queste, i genitori tirano fuori il peggio di sé. Sono tutti convinti che ci sia sotto qualche complotto e che nessuno sia migliore del loro adorato pargoletto. Marron è ancora troppo piccola, ma aspetta di iscriverla a scuola e vedrai cosa può accadere alla recita di fine anno”.
“In che senso?” – il tono della sua amica non gli piaceva affatto.
“Fidati, meglio che tu ancora non lo sappia” – aveva risposto, dopo aver provato a reprimere il ricordo di quei decerebrati che amavano definirsi genitori intenti ad azzuffarsi per ottenere un posto in prima fila e scattare così foto ai propri figli senza essere realmente presenti lo spettacolo.
“Ma dimmi… Lui… Lui verrà?” – aveva poi chiesto con voce tremante.
Lui? Crilin, mio marito ha un nome, per grazia divina, e penso che non ci sia più bisogno di pronunciarlo tremando”.
“Ehi, no, cosa hai capito?”.
“Tranquillo, non mi sto scaldando… Dico solo che ormai dovresti aver capito che Vegeta non è più una reale minaccia per noi, non credi?”.
“Be’, sì… Però…”.
“Crilin, facciamo così: quando la manifestazione sarà finita e smonterai dal turno di lavoro, chiamerai tua moglie e la tua bellissima bambina e verrete tutti e tre a cenare a casa mia”.
“Co-cosa?”.
“Non accetterò un no come risposta”.
“Ma, Bulma… Con così poco preavviso… Sai, C 18 potrebbe…”.
“Oh, sono certa che accetterà…”.
“Cosa te lo fa pensare?” – sinceramente, non era così ottimista come la sua amica. Sua moglie era un tipo particolare, non amava stare al centro dell’attenzione ed era veramente di poche parole oltre ad avere un’indole un po’ aggressiva… Ma come avrebbe fatto a dire di no a una donna caparbia come Bulma? Poi, era stata così gentile…”.
“Perché, nonostante i suoi modi schivi e la sua apparente freddezza, lei tiene a te da morire e accetterà di sopportare questa piccola tortura, sapendo che a te fa piacere, esattamente come qualcuno di cui hai ancora tanto timore…”.
Ancora una volta, Crilin era rimasto di sasso davanti alla sagacia e alla scaltrezza di quella donna. Come avrebbe potuto darle torto? Sua moglie e Vegeta erano più simili che mai.
“Be’, allora, ci vediamo più tardi. Grazie dell’invito, Bulma!”.
“A più tardi, agente! E mi raccomando, sorvegli bene questo posto. Per una volta, vorrei che le cose filassero lisce come l’olio”.

 
*

Era agitato come mai lo era stato prima di allora. Suo padre aveva trascorso ore a prepararlo sul come affrontare le difficoltà a testa alta, insegnandogli a vivere momenti come quello al pari di una sfida, ma con se stesso più che con gli altri. E si era esercitato, ripetendo il discorso fino allo sfinimento e facendosi supportare e correggere dal suo esperto nonnino che, con estrema pazienza e infinito orgoglio, aveva sottratto tempo al suo prezioso lavoro pur di dedicargli la sua attenzione. Era fortunato ad avere una famiglia del degenere, particolare – a dir poco – ma unita. I suoi genitori erano per lui degli autentici eroi: vedeva in sua madre un misto di caparbietà, forza, intelligenza sconfinata e anche immensa dolcezza, caratteristica questa che veniva fuori solo in momenti speciali. Lei era sempre sorridente, e anche quando metteva il broncio, a fine giornata spariva, per diventare il tenero e sicuro sorriso che tanto gli riempiva il cuore di gioia. Sapeva di essere amato immensamente da lei: la sua presenza lo faceva sentire protetto ma non soffocato, e non avrebbe mai potuto immaginare una vita senza quella figura così importante. Era una scienziata straordinaria, poi, una studiosa capace non solo di inventare ma anche di costruire ciò che progettava, e il solo pensiero di doverle mostrare il suo lavoro scatenava in lui un’ansia mai provata sino ad allora. Poi, c’era suo padre. Un uomo taciturno e forte, desideroso di migliorare se stesso per superare i suoi stessi limiti, una persona schiva, che sorrideva raramente, ma che era capace di dimostrare amore in modo unico e speciale. Non ricordava da parte sua baci o abbracci, non ricordava auguri fatti per i compleanni o durante importanti ricorrenze che continuava a definire “sciocchezze da terrestri”, ma percepiva la sua presenza e il suo affetto in un modo molto più profondo e particolare. Suo padre era quello che lo accompagnava tutti i giorni a scuola, alle lezioni di musica, era quello che lo portava al parco giochi spronandolo a giocare con gli altri bambini senza vergognarsi di essere se stesso. Era quello con cui mangiava i dolci di nascosto dalla mamma, che gli raccontava di galassie lontane e di pianeti straordinari, ed era anche l’uomo che trascurava i suoi allenamenti per dedicarsi alla sua preparazione da guerriero e che, alla sera, quando la mamma era ancora in laboratorio a causa di un progetto da ultimare, lo metteva a letto rimboccandogli le coperte, ma solo dopo che pensava si fosse ormai addormentato. Suo padre era speciale, proprio come sua madre, ed erano i suoi eroi perché nonostante le continue liti, nonostante i continui battibecchi, erano sempre uniti. Era fortunato, Trunks, lo sapeva benissimo, e non perché il fato aveva voluto destinarlo a una famiglia benestante, ma perché aveva tutto l’amore di cui aveva bisogno.
Per questo, quel giorno avrebbe dovuto fare bella figura. Certo, ottenere la vittoria sarebbe stata la realizzazione di un sogno, ma sapeva perfettamente quanto alto fosse il livello di quella competizione, e anche solo riuscire a presentare il suo lavoro senza balbettare o incepparsi e fare brutta figura sarebbe stata una vittoria. Era il più piccolo dei partecipanti, quello era il suo primo concorso, ma avrebbe dato il meglio di sé. Lo avrebbe fatto per se stesso, per la sua famiglia e per i suoi amici che sarebbero presto giunti a sostenerlo.
“GOTEN!” – lo aveva visto arrivare, impettito ed elegantissimo, insieme a sua madre e a suo fratello e non aveva resistito, urlando il suo nome in mezzo alla folla, nonostante non fosse un comportamento professionale – “Siete venuti!”.
“Non potevamo mancare!” – gli aveva stretto la mano con forza, cercando di mostrarsi composto ed educato come gli aveva insegnato la sua mamma. Non avrebbe mai voluto che lui, Trunks o la sua famiglia facessero cattiva figura – “Mamma quante persone… Come ti senti?” – c’era eccitazione nella voce del piccolo Son, ma c’erano anche timore e ammirazione.
“Sincero? Me la sto facendo sotto dalla paura!” – glielo aveva bisbigliato all’orecchio, cercando di non farsi sentire da orecchie indiscrete – “Spero di non fare brutta figura” – avrebbe potuto mentire con tutti gli altri, ma non con il suo migliore amico, non con chi considerava suo fratello minore. Trunks adorava il piccolo Son, come avrebbe potuto essere altrimenti? Goten era sempre allegro e gentile, sorrideva e si entusiasmava per qualsiasi cosa, non sapeva cosa fosse l’invidia e gli voleva bene sinceramente, senza mirare ad altro. Erano stati sulla stessa lunghezza d’onda sin dal primo istante, lo amava sino al punto di aver chiesto a sua mamma e a suo papà, tempo addietro, di adottarlo. Ricordava come se fosse accaduto qualche istante prima la faccia fatta da entrambi, soprattutto considerando che suo padre aveva rischiato di terminare la sua prodigiosa carriera da guerriero strozzandosi con una fetta di pane tostato.
“Andrai benissimo!” – lo aveva incitato Gohan – “Facciamo tutti il tifo per te!”.
“Grazie Gohan, grazie zia Chichi… E grazie anche a te, Goten!”.
“I partecipanti al concorso sono pregati di raggiungere le postazioni a loro assegnate. Le dimostrazioni e le conseguenti premiazioni inizieranno tra quindici minuti”.
“Devo andare” – aveva detto, inghiottendo rumorosamente un grumo di saliva diventato improvvisamente troppo vischioso.
“Andrà benissimo” – Goten aveva sorriso e lo aveva abbracciato, stringendolo forte – “Comunque vada, sarò fiero di te”.
E. dopo aver dato un ultimo sguardo nella folla per assicurarsi che i suoi genitori fossero presenti, aveva salutato la famiglia Son e si era recato nel posto indicato dalla voce all’altoparlante. La resa dei conti era ormai prossima.

Oggi…

“Trunks… Trunks… Devi alzarti… Andiamo… Dobbiamo andare a scuola”.
“Mmm… Lasciami stare”.
“Ma dobbiamo andare… Il maestro si arrabbierà se faremo di nuovo tardi… E non solo lui…”.
“Lasciami stare, Goten! Non voglio uscire… Fa troppo freddo…”.
Come se non lo avesse notato. Come se non avesse dovuto raccogliere tutto il coraggio di cui disponeva per trovare la forza di lasciare il calore delle coperte. Come se non sapesse quanto male potesse fare il petto a chi, forse, non avrebbe mai più respirato senza sentire dolore.
“Trunks… Per favore… Alzati…”.
Una lunga pausa di silenzio aveva seguito quella specie di supplica. L’aria, in quella stanza, sembrava essersi ghiacciata, e i suoni che prima non si sarebbero percepiti si erano come amplificati.
“Goten… Ho detto di no” – Trunks era stato completamente asettico nel pronunciare quella frase. Era rimasto immobile, continuando a dare le spalle al suo amico, sepolto dalle coperte.
Sconfitto, il saiyan dalla curiosa capigliatura aveva preso un profondo respiro e aveva cominciato a vestirsi, cercando di non scoppiare in lacrime. Perché doveva comportarsi così? Perché doveva farlo soffrire?
“Sei ingiusto”.
Affranto, inascoltato, aveva afferrato la sciarpa di lana grezza, la vecchia giacca consunta ma perfettamente pulita che gli faceva da cappotto, i quaderni, il pranzo ed era uscito da casa con il cuore pesante e gli occhi gonfi di lacrime. Perché doveva fare così? Perché non poteva chiudere col passato, accettare la nuova situazione come avevano fatto tutti e guardare avanti? Era difficile anche per lui, o pensava fosse il contrario? Le cose non erano andate come aveva creduto… Per niente.
Ancora una volta, aveva imboccato il sentiero sterrato che lo avrebbe condotto a scuola da solo. Ancora una volta, avrebbe affrontato quella lunga giornata in silenzio, facendo il proprio dovere e comportandosi da bravo bambino, proprio come aveva sempre fatto. Proprio come il mondo si aspettava da lui.

Continua…


Ciao a tutti!
Eccomi qui, in perfetto orario, con il secondo capitolo di questa storia che, tra continui salti temporali, prende forma ogni istante sempre più.
Non voglio aggiungere altro… Non mi va di diventare prolissa senza alcun motivo, ma ci tenevo tanto a ringraziare tutti voi che avete letto e recensito.
A presto!
Un abbraccio
Cleo

 

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Capitolo 3
*** Felicità negata ***


Felicità negata
 
Ogni giorno si ripeteva uguale al precedente, imponendogli gli stessi ritmi, la stessa spossatezza, la stessa fatica.
Vegeta era abituato alla routine. Sin da bambino, gli era stata impartita una rigida educazione militare: sveglia presto, colazione frugale, ore e ore di allenamento ed esercitazione, partire in missione, rientrare alla base, subire ingiustizie e punizioni immeritate, vedersi la paga dimezzata, farsi il sangue amaro, cenare e provare a dormire, sapendo già che il giorno dopo sarebbe ricominciato tutto dall’inizio. C’era da dire, però, che la volontà di cambiare lo aveva spinto a non lasciarsi sopraffare: il suo piano di ribellione e rivalsa contro Freezer lo aveva convinto ad alzarsi dal letto ogni giorno, così come lo aveva spinto ad andare avanti la voglia di superare Kaharot e di diventare il numero uno dell’intero universo.
Ora, purtroppo, era tutto diverso. Quel giorno proprio non sapeva come avrebbe fatto a mantenere quella sua aria imperturbabile e assente, non sapeva come avrebbe fatto a mantenere la calma.
Lavorava in quella fattoria da quasi sei mesi, ed era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Il capomastro gli affidava puntualmente i compiti più pesanti senza dargli una moneta in più sul salario. Per di più, si divertiva a punirlo e a deriderlo per la sua statura e le sue numerose cicatrici. Era un bastardo, il peggiore della sua specie, e gli ricordava sin troppo quella viscida lucertola che lo aveva schiavizzato quando era un ragazzo ma, al contrario di allora, non si era mai ribellato. Aveva un disperato bisogno di mantenere quel lavoro, nonostante la paga fosse da fame.
Già, la fame… L’aveva provata, e questa triste sorte non era toccata solo a lui. Mentre chiudeva i sacchi di foraggio da portare in spalla nel magazzino, le immagini di quei giorni trascorsi all’addiaccio scorrevano davanti ai suoi occhi talmente veloci da stordirlo. Mai avrebbe potuto dimenticare le sofferenze patite, mille volte peggiori di quanto non stesse vivendo attualmente e mille volte peggiori di quanto avesse vissuto in passato.
Certo, le privazioni erano sempre tante ma almeno, a colazione, a pranzo e a cena, un piatto caldo non mancava mai alla sua modesta tavola, e seppur la sua porzione fosse sempre la più piccola, o fosse lo scarto, o fosse quella più annacquata, mangiava sempre con gusto e senza lamentarsi, perché i sorrisi di chi aveva preso posto accanto a lui erano – ancora stentava a crederci – la ricompensa più grande che potesse sperare di ottenere.
Quel giorno, però, le cose stavano andando in maniera del tutto differente: Herman e il suo gruppetto di scansafatiche avevano iniziato a lamentarsi del lavoro ancor prima di iniziare a svolgerlo, e per tutto il turno mattutino non avevano fatto altro che borbottare, sbuffare, dire di avere le ossa a pezzi e affermare che non potevano continuare a spaccarsi la schiena per quella miseria. Era certo di avergli sentito dire la parola “sindacato”, se questa poteva ancora significare qualcosa (o se avesse mai significato qualcosa), e aveva scosso il capo impercettibilmente, indeciso se ridere o piangere. Qualcuno ancora credeva di avere dei diritti? Erano stupidi o cosa? Solo lui sapeva cosa sarebbe accaduto se li avessero scoperti a parlare ad alta voce di simili argomenti? Trovandosi lì, anche lui sarebbe stato coinvolto in quella faccenda e punito, e non poteva minimamente permettersi di non ricevere la paga. Meglio le frustate. E la sua schiena dimostrava quante ne avesse prese fino ad allora.
“Vogliamo smetterla di blaterare, animali? Il vostro compito è quello di lavorare, nullità! FATE SILENZIO!”.
Il capomastro aveva fatto roteare platealmente la frusta sulla testa formando degli ampi cerchi prima di farla scioccare sonoramente sul lercio terreno che osavano definire pavimento. Se non avessero ripreso a lavorare, presto uno di quegli imbecilli si sarebbe ritrovato con la faccia spiaccicata a terra e la pelle distrutta dal passatempo preferito di quella bestia. Leon, si chiamava. La prima volta che lo aveva sentito, aveva creduto che fosse una specie di scherzo. Un nome del genere non si addiceva a una bestiolina di quelle dimensioni: era piccolo e smilzo, il suo viso era talmente scavato e butterato da farlo apparire alle stregue di un malato terminale. Era talmente sottile da sembrare trasparente, ma i suoi occhi gialli simili a quelli di un serpente chiarivano la sua vera natura.
Bene, Leon non poteva essere definito un essere umano. Quel mostro si divertiva a fare del male alle persone. Le sue vittime preferite erano gli uomini di stazza e corporatura possenti, quelli che avevano sulle spalle il peso della famiglia, quelli dalle cui azioni dipendeva la sopravvivenza di altri esseri che si ostinavano ancora a definirsi viventi. Il capomastro si divertiva a torturare, punire e spezzare chiunque gli capitasse a tiro, chiunque non gli somigliasse, e Vegeta sapeva di essere la sua vittima prediletta. Lo aveva odiato sin dal primo istante in cui lo aveva visto, e non perché il moro avesse fatto qualcosa in particolare, ma semplicemente per aver commesso la grande colpa di esistere. Come non avrebbe potuto paragonarlo a Freezer? Ogni scusa era buona per punirlo, per umiliarlo, per ferirlo, ma quello che un tempo era stato l’essere più orgoglioso dell’intero universo, quello che andava in giro vantandosi di essere il cinico principe dei saiyan, aveva imparato a non badarci più. Sopravvivere era la cosa più importante, portare il salario a casa lo era ancora di più. Pazienza se, la sera, tornava in quella modesta dimora distrutto, con mani e piedi dolenti e la schiena sanguinante: l’importante era che i bambini avessero di che mangiare.
“Se non la smettete di ciarlare farò in modo che non parliate mai più! HO DETTO CHE DOVETE LAVORATE, BESTIE!”.
La frusta aveva schioccato di nuovo e, a quell’intimidazione, ogni genere di sentimento di ribellione sembrava essere stato sedato. Per quanto ognuno di loro volesse ritornare alla sua precedente vita, per quanto ognuno volesse indietro la propria libertà, la propria dignità, attuare questi propositi concretamente era solo un’utopia. Il malessere generale aveva reso tutti schiavi, automi, vittime di un terrore mai provato, un terrore costante e viscido che si insinuava dentro come un’ombra spaventosa, un terrore denso come nebbia e soffocante come fumo, un terrore bruciante come le fiamme dell’inferno e gelido come il ghiaccio dei due Poli.
Per questa ragione, tutti avevano ripreso a lavorare, spaccandosi la schiena proprio come gli era stato ordinato. Perché non c’era via di scampo, e potevano solo sperare di sopravvivere.

Ieri…
“Per un voto! Per un solo voto di differenza! Non riesco ancora a crederci!”.
Eh già, proprio come Crilin, nessuno riusciva a credere che Trunks non ce l’avesse fatta a vincere il primo premio per un solo, misero voto.
Tutti sapevano quanto valido fosse il progetto scientifico di Trunks, ma il suo compagno Ranma era stato superiore a lui nella presentazione, meritando così il primo premio. Il piccolo Brief aveva dovuto “accontentarsi” di un secondo posto, ma per essere la sua prima partecipazione a un concorso di scienze si era distinto egregiamente. Bulma, i suoi nonni, Chichi, Gohan, persino suo padre, tutti avevano fatto i complimenti al piccolo che, nonostante la delusione, era comunque contento di aver ottenuto quel risultato. Tutti tranne Goten.
Il piccolo Son era strano. Nervoso e agitato più che mai, al momento della proclamazione del vincitore era scattato in piedi dal suo comodo posto a sedere, stringendo forte i pugni davanti al viso in segno di protesta e accasciandosi sul sedile poco dopo, atterrito dagli sguardi increduli della sua famiglia e dei suoi amici. L’esatto opposto di Trunks, che aveva sorriso e aveva accettato di buon grado quel riconoscimento.
“Non avresti dovuto perdere” – gli aveva detto Goten non appena aveva avuto modo di parlargli.
“Goten… Capita, quando si gareggia… Sono contento anche così”.
“Sì, ma tu sei più bravo di lui! E se il concorso fosse stato truccato?”.
“Ma dai! Non puoi saperlo…”.
“Ah, no?” – per un attimo, Trunks aveva creduto di vedere i suoi occhi lampeggiare, tanto grande era la rabbia che provava. Perché stava reagendo in quello strano modo? Proprio non capiva.
“Goten… Andiamo, va bene così… Sapevo che sarebbe stato difficile. Certo, sono un po’ deluso, ma sono ugualmente orgoglioso di me stesso. Diciamoci la verità: so a cosa ti riferisci. So che pensi che la giuria mi sia venuta contro perché sono il figlio della principale finanziatrice della manifestazione, ma sono certo che non sia andata in questo modo. Ranma meritava davvero il primo premio. È stato brillante! E io, un giorno, vorrei essere come lui”.
Erano parole sincere, quelle del piccolo Trunks. Sin dal pomeriggio, aveva avuto il sentore che le cose non sarebbero andate come sperava, un po’ per le troppe voci di corridoio che aveva udito, un po’ perché Ranma era veramente un ragazzo geniale. Non era di certo la fine del mondo il non aver ottenuto il primo premio. Anzi! Questo poteva essere solo motivo di orgoglio: aveva la certezza di essere secondo dopo un ragazzo che poteva considerarsi un’eccellenza. E poi, Ranma aveva bisogno molto più di lui del premio in denaro: era lo studente migliore della scuola e meritava di ottenere una borsa di studio per poter frequentare le migliori scuole del paese. Trunks sospettava che, un giorno, sua madre avrebbe chiesto a Ranma di lavorare per la Capsule Corporation, e chi lo sa, magari avrebbe potuto fondare un’azienda tutta sua! Aveva tutte le carte in regole per farlo, e ci sarebbe riuscito con le sue sole forze. Trunks voleva dimostrare esattamente la stessa cosa, a se stesso e agli altri.
Tutto questo ragionamento aveva fatto rimanere Goten di stucco. Era per questo che amava e ammirava tanto Trunks. Sapeva sempre cosa fare, sapeva come reagire alle situazioni. C’era da imparare, da lui. E voleva che questo non cambiasse mai.
“Hai ragione, Trunks… Scusami” – le sue erano scuse sincere. Era veramente mortificato per aver detto quelle cose.
“Ma dai… Smettila…”.
E Goten, senza alcun preavviso, lo aveva abbracciato forte, stringendolo con imbarazzo e tenerezza allo stesso tempo – “Ti voglio bene. Sei mio fratello… Lo sai, vero?”.
“Sì, Goten lo so… E ti voglio tanto bene anche io”.
I piccoli saiyan non potevano sapere che qualcuno avesse osservato tutta la scena da lontano, cercando di non farsi notare e cercando di decifrare quanto avesse appena visto. Non che gli venisse difficile azzerare la propria aura, ma nascondersi non gli si addiceva. Stava ammattendo, non c’erano dubbi, perché quella che aveva provato era stata una cosa che Bulma chiamava preoccupazione, e non voleva che si sapesse in giro, soprattutto se la suddetta preoccupazione era indirizzata verso il figlio del decerebrato.
Non aveva avuto modo di ascoltare la conversazione dei piccoli, c’era troppa confusione, ma era certo di aver visto suo figlio consolare Goten, cosa che lo aveva lasciato basito e riempito di orgoglio allo stesso tempo. Certo, l’abbraccio era stato eccessivo – Goten era sempre la progenie dell’imbecille di terza classe – ma sapere che suo figlio avesse stretto un legame così forte con un altro saiyan lo rendeva orgoglioso.
Eppure, quel bambino lo aveva seriamente fatto preoccupare. Aveva chiaramente sentito la sua aura aumentare, nel momento della proclamazione. Quella rabbia… Mai prima di allora aveva visto un sentimento del genere albergare nel cuore di un bambino, neppure in un cucciolo di saiyan.
“Che ti succede… Goten?”.

Oggi…
Aveva preso l’abitudine di tirare calci ai sassi che trovava sulla strada sterrata, mentre camminava. Questo lo aiutava a non pensare, a distrarsi da ciò che lo circondava e a ricordare cosa volesse dire essere felice.
Non provava quel sentimento da tanto tempo e finiva col pensare, a volte, che non lo avesse mai provato. Ormai si era convinto che sarebbe stato meglio così, visto che ricordava benissimo quanto perfetta fosse la sua vita, ieri. Ricordava i sorrisi di sua mamma, la dolcezza dei suoi nonni, i giochi con i compagni e la spensieratezza propria di un bambino di otto anni.
Aveva pregato, Trunks, aveva sperato e lottato per far sì che le cose tornassero come prima, si era impegnato con tutto se stesso, facendo il bravo bambino, ubbidendo ciecamente a suo padre e proteggendo il suo fratellino, ma non era cambiato niente.
Quel bellissimo bambino dagli occhi color del mare non aveva più uno scopo. Viveva alla giornata, non si interessava più a niente, faceva ogni cosa di testa sua, ribellandosi alle nuove regole imposte da quella società malata in cui si era ritrovato a vivere e, allo stesso tempo, cercava di rendersi invisibile agli occhi di suo padre, un po’ per non deluderlo, un po’ per non dargli ulteriori grattacapi, un po’ per non dover subire ulteriori umiliazioni.
“’Devi venire a scuola, Trunks! Fai questo, Trunks! Fai quello!’. Certo! Devo fare quello che dice lui perché è il figlio perfetto, no? Perché è il cocco di papà? Non esiste! E andasse al diavolo!”.
Sì, Goten doveva proprio andare al diavolo! Non sopportava quel suo modo di fare. Non sopportava quella sua aria da angioletto sceso in terra! Non sopportava più lui! Aveva provato a reprimere quei sentimenti così sbagliati, aveva cercato in ogni modo di starsene buono, ma non aveva resistito. Non dopo che i suoi sospetti erano diventati certezza.
Continuava a camminare senza meta, Trunks, stringendosi nella giacca sgualcita per non risentire del freddo mattutino. Peccato che freddo fosse il suo cuore, ormai.
Ricordava quel giorno con estrema chiarezza, e a nulla erano valsi i tentativi di offuscare quei momenti spaventosi: le urla strazianti dei presenti, il pianto disperato di sua madre, la voce rotta dal pianto di sua zia Chichi si erano sommati, persi tra milioni di altre voci, questo mentre una mano dalla presa salda lo aveva afferrato, impedendogli di precipitare nell’abisso.
Oh dei, certo che lo ricordava! Aveva creduto di morire! Di non vedere più i suoi cari, di perdere tutto quello che amava! La paura si era impossessata di lui, una paura mai provata prima di allora, viscerale, incontrollabile, che gli aveva mozzato il respiro. Non aveva potuto fare niente, Trunks, non aveva potuto aiutare nessuno. Era solo stato in grado di aggrapparsi terrorizzato al collo di suo padre che, livido, lo aveva tenuto stretto come si farebbe col più prezioso dei tesori. Quando aveva riaperto gli occhi, inizialmente aveva gioito nel constatare che fosse ancora vivo. Quando si era reso conto di quello che aveva perso, aveva iniziato a pensare che sarebbe stato meglio chiudere gli occhi per sempre.
“Dovresti smetterla di ripensare a quel giorno” – la voce di Goten lo aveva raggiunto all’improvviso, scuotendolo dai suoi pensieri – “Ti rende cupo e triste. E non possiamo farci niente”.
“Non stavo pensando a quello che credi tu…” – aveva imparato a mettersi sulla difensiva da parecchio tempo, ormai. Non gli piaceva che le persone gli dicessero cosa doveva fare. Voleva solo starsene in pace, tranquillo. Invece, Goten era il primo a ossessionarlo con i suoi “non dovresti”. Cosa ne sapeva, lui? Cosa poteva capire?
“Pensi davvero che io sia stupido? Ti conosco… Non ci sono mai stati segreti tra di noi… Ma tu… Sei cambiato. Sei diverso”.
“Cambiato?” – il piccolo dai capelli lilla si era fermato di colpo, sgranando gli occhi sino a fare impressione.
Goten si era fermato a sua volta, osservandolo con attenzione per la prima volta dopo tanto tempo.
Davvero, non si era accorto che lui, gli altri, tutti, tutto fosse cambiato? Trunks aveva osservato il suo riflesso nel vetro della finestra: era dimagrito, e i capelli gli erano cresciuti sino alle spalle. Sul viso, portava segni ben noti, e quello che leggeva nei suoi occhi era… Era… In verità, non sapeva cosa fosse. Rabbia? Delusione? Angoscia? Paura? Forse, era un misto di tutto ciò. Che poteva saperne, Goten?
“Davvero pensi che io sia cambiato? SUL SERIO? Guardati attorno! Non sono io a essere cambiato, ma tutto quello che ci circonda! E forse sì, questo schifo ha cambiato anche me, e con ciò? Non si torna indietro. Non si può. Ci abbiamo provato fino allo sfinimento. E, francamente, non ho più voglia di fallire”.
“Non possiamo esserne certi. Noi…”.
“Non possiamo esserne certi? No, ma dico, ti senti quando parli o no? Sei diventato stupido all’improvviso? NON POSSIAMO FARE NIENTE! Rassegnati! E cresci, una buona volta!” – lo aveva superato di nuovo, lasciandoselo alle spalle. Non lo sopportava più! Possibile che gli dei avessero deciso di punirlo in quel modo? Cosa aveva fatto di così atroce da meritarsi un castigo simile? Aveva ucciso qualcuno quando era ancora in fasce? Lo aveva fatto in una vita precedente? Davvero non riusciva a spiegarselo!
“Sei uno stupido!” – gli aveva urlato Goten, in lacrime – “Papà si arrabbierebbe da morire nel sentirti…”.
“MA LUI NON È TUO PADRE, È IL MIO! LO VUOI CAPIRE O NO?!”.
“Come… Come ti…”.
“Stai zitto, Goten! ZITTO! Tutto questo è colpa tua. E io non voglio e non posso perdonarti”.
Trunks sapeva perfettamente che se gli avesse dato un pugno in pieno petto, gli avrebbe causato meno dolore. Stravolto da quella reazione improvvisa, travolto da un dolore e da un tormento che cercava puntualmente di ricacciare indietro, che tentava disperatamente di ignorare, Goten non aveva osato ribattere.
Era finito il tempo in cui i due ragazzini si volevano bene come fratelli. Era finito il tempo in cui andavano d’accordo su tutto, in cui le liti si limitavano sull’ottenere a ogni costo l’ultimo boccone di sushi da ingurgitare. Tutto quello non esisteva più.
 
Trunks aveva sospirato rumorosamente, annientato da quell’ennesimo ricordo neanche troppo lontano nel tempo. Avrebbe voluto piangere, ma si era trattenuto. Non era più un bambino, ormai, ma un uomo, e non poteva permettersi di vivere soffocato dai sensi di colpa. Le cose erano cambiate, era necessario andare avanti, accettare la realtà e guadagnarsi il pane. Niente sarebbe stato mai più come prima, come quando, nonostante il dolore e le sofferenze, nonostante la fame e il freddo, poteva ancora definirsi una persona felice.
Continua…


Ciao ragazze!
Come state? Spero bene! =)
Passato un buon week-end? Spero di sì! Orbene, eccoci al terzo capitolo di questa storia bizzarra e imprevedibile.
Finalmente, abbiamo avuto modo di vedere in azione (più o meno) il Vegeta di ieri e quello di oggi… Il principe è cambiato, e non poco, proprio come Trunks e Goten che non sono più come erano a quei tempi. Chissà perché il piccolo Brief ha accusato il suo migliore amico (ammesso che ancora sia tale) di essere la causa di tutti i loro mali. Che cosa potrà mai essere accaduto?
Lo scopriremo nei prossimi capitolo.
Grazie di tutto!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 4
*** Solitudine ***


Solitudine
“Devo parlarti”.
Si era rivolta a lei con un tono di voce così grave da renderle impossibile una qualsiasi parvenza di rifiuto. Quando lo aveva sentito sopraggiungere, aveva roteato gli occhi al cielo. Per quanto la presenza di suo marito nel suo laboratorio la riempisse di gioia – e anche di pensieri peccaminosi su canottiere sudate e ormai trasparenti ridotte a brandelli e di attrezzi sparsi in giro per il laboratorio a causa della foga – quello non era il momento più adatto per lamentarsi del presunto malfunzionamento dell’ultimo gioiellino ultratecnologico che lei e suo padre avevano progettato per permettergli di allenarsi, né per chiederle nuove assurde modifiche a quella trappola infernale che le aveva costretto a costruire. Aveva un progetto importante da ultimare ed era in ritardo, un po’ perché ultimamente era sommersa di lavoro, un po’ perché si portava dietro i postumi della festa di tre giorni fa. Non era più una ragazzina, purtroppo, e non reggeva più l’alcol come un tempo, ma si rifiutava categoricamente di mostrarsi debole davanti ai suoi amici. Lei era la scienziata festaiola, e non voleva assolutamente perdere quel primato. Per cui, suo marito avrebbe prima sbraitato e poi aspettato. Del resto, era lei a portare il pane in tavola.
“Non ho tempo, Vegeta” – aveva detto senza neanche degnarlo di uno sguardo. Quello stupido dado la stava facendo dannare. Possibile che non ne volesse sapere di farsi stringere al punto giusto? Eppure, la filettatura di quella vite era perfetta! Cosa stava sbagliando? – “Devo consegnare il progetto entro domani sera e sono in alto mare. Ma perché questo stupido affare non si avvita? Se hai rotto qualcosa lasciala sul bancone e provvederò appena possibile”.
Inizialmente, non si era accorta che le cose non stessero andando come di consueto: arrivati a quel punto, suo marito avrebbe dovuto afferrarla per una spalla con la delicatezza che era solita contraddistinguerlo e avrebbe dovuto lamentarsi del fatto che quel giocattolo difettoso gli servisse in quel preciso istante, questo dopo averla chiamata “donna” e averle ormai provocato un embolo con conseguente scatto d’ira, rossore in viso, iperventilazione e imprecazioni incorporate che si sarebbero concluse con un perché ho sposato uno scimmione come te? A cosa cavolo gli serviva, poi, allenarsi tanto, data la decisione che aveva preso ormai diversi anni fa? Invece, niente di tutto ciò era avvenuto. Vegeta era semplicemente rimasto in silenzio, aspettando che lei si girasse verso di lui e lo guardasse. Solo quando la curiosità e l’ansia crescente avevano vinto la sua voglia di terminare quel lavoro il prima possibile Bulma lo aveva guardato scoprendo che i suoi timori erano fondati.
Vegeta se ne stava davanti alla porta, apparentemente immobile, con le braccia dritte lungo i fianchi e la mente impegnata in chissà quale ragionamento. Non aveva mai visto quello sguardo sul suo viso, prima di allora, mai. Le sembrava… Sì, le sembrava preoccupato, preoccupato e in difficoltà, ipotesi avallata dal suo aprire e chiudere i pugni senza convinzione e con fare convulso.
“Tesoro… Tutto bene?”.
“Bulma, come ti ho detto, devo parlarti”.
Bulma… L’aveva chiamata con il suo nome. Non “donna”, non “vipera”, non “donna volgare”, non “moglie”. Bulma. Quello stupido dado aveva completamente perso il suo interesse.

 
*
 
Sentire un discorso di quella portata venire fuori dalle regali labbra del cinico e inarrestabile principe dei saiyan aveva avuto un certo effetto sulla turchina. Bulma, che aveva perfettamente intuito le difficoltà del marito, aveva preferito invitarlo a sedersi, incoraggiandolo a parlare senza essere troppo pressante. Era in difficoltà, Vegeta, talmente in difficoltà da farle pensare il peggio. Cosa voleva dirle? Aveva trovato un nuovo avversario e aveva deciso di partire per uno di quei viaggi assurdi lasciandola completamente sola con suo figlio? Improbabile. Un po’ per la decisione che aveva preso tempo addietro, un po’ perché, in quel caso, sarebbe partito e basta, senza tutti quei convenevoli. Aveva scoperto di avere una malattia incurabile? Ma certo che no, i saiyan non si ammalano come i terrestri, e c’erano Dende e le sfere del drago che avrebbero risolto le cose – o almeno così sperava. Aveva ucciso qualcuno e voleva il radar per cercare le sfere e riportarlo in vita? No, questo mai. Aveva un’amante? Oddio, Vegeta aveva un’amante, solo questo poteva giustificare quel suo sguardo così evasivo. Il principe aveva trovato una donna più giovane e più carina di lei, una che lo serviva e riveriva ogni momento ed era andato lì per dirle che la loro relazione era finita e voleva chiederle il divorzio. Sì, non poteva essere altrimenti.
“Tu…” – aveva tuonato – “Tu, scimmione traditore…”.
“Eh?” – che stava blaterando quella terrestre?
“Come si chiama?” – stava per esplodere.
“Ma di cosa stai parlando?” – certo che era davvero strana.
“Di lei!”.
“Lei? Lei chi? Donna, se fossi un normale terrestre ti direi che mi stai spaventando. Si può sapere che ti passa per la testa?”.
“Mi hai tradita!” – si era alzata di scatto, tremante di rabbia – “Sì, tu mi hai tradita e sei venuto qui per chiedermi il divorzio. Oh, ma se credi che ti passerò gli alimenti e ti permetterò di vedere nostro figlio ti sbagli di grosso! Lurido scimmione…”.
“Pensi veramente che potrei farti questo?”.
Per quanto stesse cercando di non far trasparire eccessivamente le proprie emozioni, lo sguardo riservatole da Vegeta diceva chiaramente quanto lui fosse ferito da quell’affermazione. Lei, una minuscola terrestre che sarebbe potuta morire per via di un suo abbraccio troppo appassionato, lo aveva appena ferito a morte.
Bulma non aveva risposto, e aveva poi distolto lo sguardo da quegli occhi così penetranti. Era confusa, aveva mal di testa, era stanca e forse, ma solo forse, era saltata a conclusioni affrettate.
“Bulma…”.
“Sono un’idiota”.
“Tsk! Questo lo stai dicendo tu” – guai a cogliere la palla al balzo. Glielo avrebbe rinfacciato per tutta la vita – “Ora, potresti smetterla con questa scenetta da filmetto romantico di serie Z e ascoltarmi? Tsk! Già è difficile così…”.
Aveva obbedito, suo malgrado. Si era sentita una sciocca, ma quel mistero aveva fatto sì che perdesse il lume della ragione. Vegeta era uno diretto, uno che non aveva paura di niente e non usava mezzi termini, mai, cosa poteva esserci di così difficile per lui da dirle?
“Sono preoccupato per il figlio di Chichi”.
Aveva sentito quelle parole di sfuggita, tanto era concentrata sui suoi pensieri, per questo aveva avuto modo di elaborarle solo dopo qualche secondo.
Sono-preoccupato-per-il-figlio-di-Chichi.
Punto primo: Vegeta era preoccupato per qualcuno. Per un breve istante, aveva creduto di aver sentito male. Punto secondo: questo qualcuno era il figlio di Chichi. E di Goku o, come lo chiamava lui, di Kaharot, ma questo Vegeta lo aveva omesso appositamente. Il principe dei saiyan era preoccupato per il figlio del suo acerrimo nemico, del suo rivale numero uno, della nullità che lo aveva portato al punto di non voler più combattere. Stava per venire giù il cielo, non c’erano dubbi.
“Bulma… Ma, mi stai ascoltando? Tsk! Mi hai fatto pentire di essere venuto qui…” – aveva detto, alzandosi.
“No, fermo, dove vai” – lo aveva afferrato per un braccio, costringendolo a sedersi di nuovo. Era in imbarazzo e lei stava peggiorando le cose – “Scusami tesoro, è che… Cioè… Non voglio essere sgarbata, ma tu… Voglio dire…”.
“Tsk, lo so, donna, ho capito. Grazie per rendermi le cose sempre più facili” – lo aveva fatto arrossire.
“Tesoro, è una cosa bellissima, da parte tua. Mi rendi orgogliosa” – gli aveva preso la mano, facendolo diventare ancora più bordeaux di prima, se possibile – “Vuoi spiegarmi perché hai avuto questa sensazione? Se ci riesci… Sfogati con me…”.
Vegeta aveva guardato in un punto impreciso del caotico laboratorio, prima di spiegarle di quale dei due figli di Chichi stesse parlando.
“Ti preoccupa Goten, tesoro?” – Bulma, facendo mente locale, pensava di aver cominciato a capire a cosa si stesse riferendo suo marito.
“I figli di quel decerebrato non si sono mai comportati così… Tutta quella rabbia… Quel rancore che prova… Non sono normali. Neanche per un saiyan”.
Goten era sempre in giro per casa sua, lei conosceva i suoi genitori da sempre, eppure, era stato Vegeta ad accorgersi di quel cambiamento prima di lei. Bulma era sempre presente fisicamente alla Capsule Corporation, ma ultimamente usciva di rado dal suo laboratorio se non per cene di lavoro, conferenze e consegne di premi. Quello che stava con i bambini a tempo pieno era proprio Vegeta, ma sembrava che ne avesse preso piena coscienza solo in quel momento: lui svegliava Trunks e anche il piccolo Goten quando dormiva da loro, li accompagnava a scuola, al cinema, li allenava, li portava al parco e la sera, quando Chichi decideva che Goten dovesse proprio rincasare, accompagnava a casa il figlio del suo peggior rivale. Che cosa diamine era successo in quei cinque lunghi anni? Quando era successo? Si sentiva in colpa, Bulma. In colpa per aver trascurato la sua famiglia e per aver fatto di Vegeta una specie di “mammo”. Ma lui non sembrava soffrirne. Da quando aveva deciso di smettere di lottare, aveva evidentemente impegnato il suo tempo in quel modo un po’ bizzarro ma che gli faceva tanto onore. Era cambiato, Vegeta, e forse, oltre a lei, non se n’era accorto neanche lui. Per la prima volta dopo tanto tempo, si era commossa sino alle lacrime per quell’uomo che tanto l’aveva fatta penare in passato.
“Tsk, e ora perché piangi?”.
“Perché sono una sciocca, ecco perché!” – si era asciugata gli occhi col dorso della mano destra, ma il grasso del congegno che stava ultimando le aveva sporcato il viso, dandole un aspetto buffo. Vegeta aveva sorriso impercettibilmente e aveva lasciato che lo abbracciasse senza protestare eccessivamente. Cosa gli avesse fatto quella donna non era ancora stato in grado di capirlo, ma erano lì, insieme, e questo lo faceva sentire a casa per la prima volta in vita sua – “Andremo a parlare con Chichi stasera stesso, tesoro”.
“Pensi che sia la soluzione migliore? Quella donna non mi sembra propensa al dialogo…”.
“Oh, senti chi parla!”.
“Piantala”.
Lei gli aveva fatto la linguaccia, ricomponendosi. Era determinatissima, Bulma: Goten doveva essere aiutato. E, forse, anche Gohan avrebbe avuto bisogno di una mano, e pensava di aver avuto una buona idea a riguardo. Purtroppo, dall’altra parte, c’era una donna caparbia almeno quanto lei, e il loro sarebbe stato uno scontro interessante. Se fossero state due saiyan, lei e Chichi, sarebbero state le più forti guerriere dell’universo, ne era sicura.
“Tsk! Donna, questo sguardo non mi piace…” – aveva detto lui, incrociando le braccia al petto.
“Fidati di me, Vegeta. Penso che quel bambino si senta solo, sai? E il primo ad averlo fatto notare sei stato proprio tu”.
Solo? Sì… Solo era il termine più adatto. E, purtroppo, lui ne sapeva veramente fin troppo di cosa fosse la solitudine.
“Tsk… Ho paura di sapere quello a cui stai pensando…” – e aveva girato il capo dall’altra parte, cercando di mascherare il suo evidente rossore. Odiava quella donna quando lo rendeva così… Così… Umano – “Vado ad allenarmi”.
“Vai, tesoro, io torno a litigare con sto’ coso…”.
“Tsk! Donna, credo che tu debba arrenderti, prendere coscienza della tua età e prendere provvedimenti” – aveva commentato Vegeta, sarcastico, questo dopo aver preso qualcosa dalla sua cassetta degli attrezzi e avergliela portata – “Alla fine, sarebbe anche divertente chiamarti quattr’occhi”.
Colta alla sprovvista, non si era resa veramente conto di quello che aveva detto e fatto suo marito. Non in un primo momento, almeno.
“MALEDETTO SCIMMIONE! IO TI UCCIDO!” – aveva urlato, diventando rossa di rabbia, ma era troppo tardi, ormai: Vegeta era già sparito dietro la porta scorrevole e la chiave inglese che gli aveva lanciato contro aveva colpito le due estremità ormai serrate.
Non si sarebbe mai arresa all’evidenza, Bulma: lei non stava invecchiando e non aveva bisogno degli occhiali da vista. Aveva preso il dado sbagliato per puro, purissimo caso.

Oggi…

Lo rigirava tra le mani distrattamente, mentre rientrava dal lavoro stanco, sfinito, con tanta voglia di addormentarsi e non pensare più a niente. Avrebbe voluto spegnere il cervello, ricaricare completamente le pile ma, tanto per cambiare, non poteva permetterselo.
Le due pesti, ormai rincasate da ore, lo stavano aspettando per la cena, e non avrebbe potuto lasciarli morire di fame. Doveva passare dal fornaio, prendere il pane e preparare la minestra. Non era mai stato un cuoco provetto, ma né Trunks né Goten si erano mai lamentati delle sue doti culinarie. Avevano patito la fame, la fame vera, e qualsiasi cosa portava in tavola finiva con l’essere divorata da quei due marmocchi in meno di un istante.
Avrebbe dovuto comprare del riso… E una gallina. Le uova non costavano molto, ma perché comprarle, se si potevano avere fresche tutti i giorni? Quanto gli mancavano quelle zuppe di ramen, con l’uovo dal tuorlo ancora cremoso e quel sapore inconfondibile… Quella sensazione di calore che irradiava, quella sensazione di casa.
“Devi smetterla di fare questi pensieri… Finiscila”.
Cercava di ammonirsi quotidianamente, ma gli riusciva sempre più difficile. Non riusciva a slegarsi dal passato. Si sfiancava pur di far sì che la mente smettesse di percorrere quel cammino a ritroso. Ma, purtroppo, mentre tornava a casa, mentre aspettava che la zuppa cuocesse, mentre si recava al mercato, continuava a rigirare quel pezzo di ferraglia ormai arrugginito tra le dita.
“Alla fine, sarebbe anche divertente chiamarti quattr’occhi”.
Sì… Sarebbe stato divertente, pensava, mentre osservava con malinconia quel vecchio, ammaccatissimo dado.

Continua…


Ciao a tutti!
Eccoci qui con il quarto capitolo di questa bizzarra storia. Oggi abbiamo fatto un autentico tuffo nel passato ma che riporta tragicamente al presente. Oh, lo so: volete uccidermi. Non riesco proprio a togliermi il vizio di seminare briciole sparse qui e là, ma questa storia si compone di tanti piccoli tasselli che viaggiano tra passato e presente, e spero che questo vi stia piacendo.
Il momento di tenerezza Vegeta/Bulma era doveroso. Lei, la scienziata, presa dal suo lavoro e dalle sue creazioni e lui, l’ex-guerriero sterminatore di pianeti intento a fare il “mammo”. Che coppia… A dir poco surreale! Speriamo possano tornare felicemente insieme.
Non aggiungo altro, se non che mi auguro possiate perdonarmi per questo Vegeta “leggermente” OOC (ma proprio leggermente, eh) e che vi ringrazio con tutto il cuore per la passione e la pazienza.
A presto!

Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 5
*** Quello spaventoso potere ***


Quello spaventoso potere
 
Non era uno spione… Si sarebbe molto offeso se qualcuno lo avesse definito in quel modo. Era solo curioso! Ma non riusciva a non pensare alle circostanze che lo avevano portato a origliare le conversazioni dei “grandi”. Era un bambino buono, lui, un bambino educato. Certo, come tutti i maschietti della sua età, ogni tanto ne combinava una delle sue, ma se l’era sempre cavata con non più di un rimprovero o qualche blanda punizione, a riprova che le sue colpe non fossero poi così gravi. Però, se proprio doveva essere sincero, in quell’occasione si era sentito estremamente a disagio, un po’ per il gesto in sé, scortese e subdolo, un po’ per l’argomento in questione: i suoi genitori avevano parlato di Goten.
Se ne stava seduto in riva al laghetto del grande giardino della Capsule Corporation, Trunks, e fissava distrattamente alcune carpe avvicinatesi per banchettare con i bocconcini di pane che continuava a lanciargli a intervalli piuttosto regolari.
La sua mente vagava a ritroso, alla ricerca di eventi che potessero in qualche modo confermare i timori di suo padre perché sì, suo padre – e anche sua madre – aveva proprio ragione: Goten era diverso. Il bambino allegro, sorridente e spensierato non esisteva più da un po’, e lui se n’era accorto perfettamente.
Era molto confuso e amareggiato. Era stato preso dal suo progetto di scienze, dall’esperienza del primo anno di scuola, dai compagni di classe appena conosciuti, ma non aveva messo da parte Goten, anzi! Non aveva perso un solo appuntamento, non aveva saltato gli allenamenti, i film al cinema, né aveva ignorato i suoi progressi scolastici. Aveva persino convinto sua madre a lasciarlo dormire a casa sua più volte del solito, però… Però, in Goten, qualcosa non era più come prima… Eppure, non riusciva a non pensare al fatto che non avesse la benché minima idea di quello che potesse essergli capitato.
Era diventato tutto strano e complicato, tutto furtivo e misterioso… E cercando una soluzione a quel dilemma, una risposta a quegli enigmi, non si era neanche reso conto di aver ripescato un ricordo antico. Un ricordo di un periodo estremamente felice.

15 mesi prima…

“Il figlio di Kaharot… Tu vuoi allenarti insieme al figlio di Kaharot”.
Aveva raccolto tutto il coraggio a sua disposizione per presentarsi da suo padre e sottoporgli quella proposta, cercando di assumere l’aria più determinata e convincente che potesse assumere, per l’appunto, un bambino di appena cinque anni. Quell’idea, per alcuni versi rischiosa e malsana, aveva preso forma nella sua mente dopo un racconto che gli aveva fatto sua madre: non appena il suo intelletto gli aveva consentito di notare che all’altezza del coccige ci fosse qualcosa che solo lui e suo padre possedevano (quella che aveva definito una specie di piccola “bua” scura che gli procurava uno strano fastidio se sfregata) si era rivolto alla sua mamma, cercando da lei un qualche tipo di spiegazione. Ricordava chiaramente le parole di sua madre, pronunciate con tanta ingenuità da farlo sentire un piccolo idiota.
“Certo che tu e papà avete quella particolarità, tesoro… Tu sei per metà appartenente a una razza di guerrieri chiamati saiyan”.
Da quel momento, davanti ai suoi occhi di bambino si era aperto un mondo di cui non avrebbe neanche sospettato l’esistenza. Certo, possedeva una forza notevole, ma lo stesso valeva per suo padre, per Gohan e per Goten, e questo non gli era sembrato così straordinario, almeno finché non aveva scoperto che tutti loro fossero stati in possesso di una coda che gli permetteva, durante le notti di luna piena, di trasformarsi in un gigantesco scimmione dotato di una forza bestiale ma privo di autocontrollo chiamato Oozaru, e che il primo di loro ad arrivare sulla Terra era stato il padre dei due Son, il famoso Goku, anch’egli appartenente a una delle razze guerriere più forti dell’intero universo.
Quanto aveva fantasticato, Trunks, dopo aver appreso quella verità! La sua fantasia lo aveva trasformato in un generale potentissimo capace di guidare un esercito, gli aveva permesso di conquistare pianeti e sposare la bambina più bella della galassia, dotata di occhi blu e capelli scuri come la notte. E, in tutte quelle battaglie, Goten era sempre stato al suo fianco come suo pari, il compagno più fidato che si potesse trovare, il fratello che aveva sempre desiderato. Aveva immediatamente rivelato tutto quello che aveva scoperto al suo migliore amico, lasciandolo a dir poco senza parole.
Seppure avesse un anno meno di lui, Goten era dotato di una forza straordinaria, era sveglio e intelligente, e aveva praticamente costretto Trunks a seguirlo nel perseguitare Gohan con mille domande. E lui, da bravo fratello maggiore, aveva raccontato loro una storia bellissima e avvincente, la storia di come avevano scoperto di essere, seppure per metà, dei guerrieri saiyan.
Trunks lo aveva ascoltato attentamente, in estasi: dato che Goku era morto durante il Cell Game, suo padre era l’ultimo guerriero saiyan purosangue rimasto e, a detta di Gohan, era forte oltre ogni immaginazione. Certo, il piccolo mezzosangue lo aveva visto tante volte sferrare calci e pugni per aria, lo aveva visto allenarsi e meditare, ma non gli aveva mai visto fare quelle cose di cui parlava Gohan. Diceva che sapeva volare, sapeva concentrare l’energia nei palmi delle mani, sapeva trasformarsi in quello che veniva chiamato super saiyan, e che anche lui e il defunto Goku sapevano farlo! Ma allora, perché loro non ne sapevano niente di tutta quella storia? Perché non gli avevano mai raccontato niente prima di allora? Perché suo papà non gli aveva detto nulla delle sue origini e delle sue predisposizioni? Che non lo ritenesse degno di allenarsi con lui?
Era stato Goten a dare voce a quel pensiero. “Io non ho un papà” – aveva detto, triste – “Ma, se lo avessi, vorrei che lui mi insegnasse tutto quello che sa”.
Dopo tutti quei racconti, per altro resi da Gohan meno cruenti possibile, Trunks aveva smesso di dormire, e lo stesso era stato per Goten. In loro si era materializzato il desiderio di allenarsi, di lottare, ma Gohan era stato categorico: non li avrebbe incoraggiati né istruiti, questo perché sua madre non lo avrebbe permesso. Chichi era la donna più strana del mondo, Trunks ne era sempre più convinto. Come avrebbero fatto a difendere la Terra se qualche nemico fosse comparso con l’intenzione di attaccarla? Non potevano stare con le mani in mano! Ne andava del loro essere saiyan!
Da qui, aveva preso la decisione di provare ad allenarsi insieme a Goten senza l’ausilio di un maestro. Del resto, esistevano i libri anche per quello. Purtroppo, però, le cose non erano andate esattamente come avevano sperato. Certo, avevano imparato a eseguire correttamente tutti gli esercizi che in palestra si effettuano in sala, scoprendosi più forti di molti body builder e power lifter famosi, avevano appreso le basi delle arti marziali, ma questo non aveva permesso loro di volare o di concentrare nei palmi delle mani sfere di energia, per non parlare neppure della fatidica trasformazione in super saiyan. La verità era una: avevano un disperato bisogno di trovare un maestro, ed erano certi che non ci fosse nessuno più adatto di Vegeta.
“Di questo passo non faremo molti progressi” – si era lamentato Goten, lasciandosi cadere sull’erba, a pancia in su, accanto a Trunks. Si erano impegnati sino allo sfinimento nel tentativo di imparare a volare, ma proprio non ne erano stati capaci. Aveva provato a spiccare il volo da terra col risultato di compiere lunghi salti in alto. Avevano allora provato a lanciarsi a vicenda in aria, ma non aveva sortito alcun effetto. A quel punto, avevano deciso di giocare il tutto per tutto lanciandosi da un pino, credendo che l’istinto di sopravvivenza sarebbe in qualche modo comparso e avrebbe fatto sì che iniziassero a volare, ma neanche questo era servito. Quest’ultima trovata geniale aveva solo fatto in modo di procurare loro escoriazioni e lividi, nonché di peggiorare il loro malumore.
“È troppo difficile… Sto cominciando a pensare che sia praticamente impossibile!” – Goten era oltremodo scoraggiato. Aveva provato a insistere con suo fratello nel tentativo di convincerlo a cambiare idea (tanto, Chichi non lo avrebbe mai saputo), ma non aveva ottenuto nulla. Gohan era irremovibile: non gli avrebbe insegnato a volare né a combattere nemmeno per tutto l’oro del mondo. A essere sincero, non capivano proprio il perché quella presa di posizione così salda. Che non li ritenesse capaci neanche lui, forse?
“Trunks… Tu sai cosa dovremmo fare, vero?”.
“Goten…” – non voleva sentirselo dire.
“Uffa, io non capisco perché tu sia così prevenuto… Non hai neanche voluto provare a chiederglielo!”.
Trunks aveva chiuso gli occhi, coprendosi il viso con le mani. Si vergognava molto di essere così codardo, ma proprio non era stato in grado di trovare il coraggio necessario a chiedere a suo padre di insegnargli prima a volare e poi a combattere, e non riusciva a farlo capire al piccolo Son.
Aveva un rapporto strano con lui. Lo rispettava e lo ammirava al punto di averne timore. Suo padre era talmente serio e impostato, così impassibile da sembrare una statua di marmo. Era certo di non averlo mai visto sorridere, e gli sembrava… Sì, gli sembrava sempre triste. Per carità, con lui si dimostrava disponibile – questo dopo aver almeno sbuffato un paio di volte in maniera impercettibile e aver alzato gli occhi al cielo – ma non gli si era mai avvicinato fisicamente. Lo aveva preso pochissime volte in braccio, ed era sicuro che non lo avesse mai abbracciato, il che era piuttosto bizzarro, visto che i papà dei suoi amichetti non facevano altro. Non sapeva neanche come fare a chiedergli una cosa così seria e importante, una cosa che, forse, avrebbe anche potuto infastidirlo.
“Trunks, dai…”.
“Sì, Goten, ho capito… Però…”.
“Oh Trunks! Però cosa? È tuo papà! E a quanto detto da tua mamma e da Gohan, è un guerriero fortissimo! Perché mai dovrebbe dirti di no, scusa? E poi, anche se fosse, ci avresti provato!”.
“Vedi, Goten…” – aveva preso un respiro profondo prima di pronunciare quella verità – “Io vorrei meritarmelo”.
“Meritarlo?”.
Capiva che quel discorso potesse essere poco sensato per chi lo stava ascoltando, ma con lui sapeva di poter essere sincero in ogni circostanza. La verità era proprio quella: sentiva di doversi meritare le attenzioni di suo padre, sentiva che niente gli fosse dovuto.
Goten era diventato serio. Molto serio.
“Sai, Trunks, posso capirlo… Ma posso dirti che, se mio padre fosse qui, e se avessi deciso di farmi allenare da lui o di chiedergli di fare per me un’altra cosa della massima importanza, bè, allora avrei fatto di tutto per rendermi degno!”.
La determinazione nella voce e nello sguardo di Goten era perfettamente leggibile anche da quella scomoda posizione. Gli occhi del suo migliore amico la dicevano lunga su quanto soffrisse per la mancanza di suo padre, e Trunks si era sentito un verme. Non aveva mai riflettuto su come dovesse essere non avere un padre. Seppure il suo fosse silenzioso e mai invadente, Vegeta era lì. Il solo fatto di vederlo ogni mattina al suo risveglio, di poter sentire il suo odore, era rassicurante. Invece, Goten non avrebbe mai saputo cosa si provava, ed era stato quello il momento in cui a Trunks era balenata in mente un’idea bislacca. Forse, se suo papà li avesse allenati, Goten si sarebbe sentito meno solo. Forse, avrebbe capito cosa significava avere un padre.
“Rimettiamoci in piedi!” – aveva detto, eseguendo per primo quel suo stesso ordine.
“Che cosa vuoi fare?” – gli occhi di Goten brillavano per l’eccitazione: il suo migliore amico aveva in mente qualcosa.
“Voglio che ci rendiamo meritevoli”.
*

Suo padre continuava a guardarlo con un misto tra interesse e disappunto. Se ne stava lì, immobile, con quelle sue sopracciglia aggrottate e la fronte ampia costellata di vene a fior di pelle, respirando in maniera così regolare da sembrare in qualche modo programmato.
Si era limitato a ripetere la frase che lui aveva sottoposto alla sua attenzione, scrutandolo da capo a piedi come se fosse un alieno – cosa che, a onor del vero, non era del tutto inesatta. Perché non diceva niente? Perché quell’attesa? Che stesse riflettendo su come declinare quella sua proposta o peggio? Gohan era stato evasivo quando gli aveva chiesto di parlargli delle sue imprese, e lo stesso aveva fatto sua madre. “Saprai tutto a tempo debito”, gli aveva detto, ma cosa voleva dire? In quel momento interminabile, si era quasi pentito di essersi presentato lì, solo, senza il supporto di Goten. Aveva voluto fare l’eroe, comportarsi da adulto meritevole e invece se ne stava lì a tremare come una foglia davanti all’uomo che più di tutti era in grado di metterlo in soggezione. Ma non c’erano alternative: se non lo avesse fatto in quel momento, non lo avrebbe fatto mai più.
“Trunks…”.
“Ho preso questo!” – aveva interrotto suo padre urlando, mentre tirava fuori dalla tasca della sua tuta uno strano oggetto avorio costellato di puntini neri. Era un uovo. Un uovo ben più grande di quello che avrebbe potuto fare una gallina.
Vegeta lo aveva fissato, incerto sul da farsi, nell’attesa che suo figlio gli fornisse una spiegazione.
“Lo abbiamo preso, in realtà… È un uovo…”.
“Sì, questo lo vedo anche io”.
“Lo so, ma non è un uovo comune…” – senza neanche rendersene conto, gli si era avvicinato e gli aveva poggiato una mano sulla coscia destra, appoggiandosi a lui con tutto il peso e avvicinando l’uovo al suo viso – “Sai, papà, questo è l’uovo di una specie di dinosauro che ha fatto il nido sul punto più alto del monte Paoz… È un dinosauro particolarmente aggressivo che protegge i suoi piccoli con ferocia. Ma io e Goten, collaborando insieme, lo abbiamo preso. Però non abbiamo fatto del male al dinosauro… Voglio dire, già mi sento in colpa per aver rubato un uovo, però ce l’abbiamo fatta. E lo abbiamo fatto da soli, scalando la montagna al freddo, a mani nude! È stato difficile ma ci siamo riusciti! Dunque, mi chiedevo se… Volevo sapre se… Insomma, pensi che meritiamo di diventare tuoi allievi, papà?”.
Aveva fatto quel discorso tutto d’un fiato, ricordandosi di respirare solo alla fine. Vegeta aveva continuato a rimanere in silenzio, prendendo l’uovo tra le mani e osservandolo con grande attenzione. Trunks non era certo di quello che stesse facendo ma, per un attimo, aveva avuto come l’impressione che una strana luce avesse iniziato a propagarsi dall’uovo. Forse, lo aveva sognato! Dopodiché, era stato lui stesso a passare sotto l’esame di suo padre. Era stato attento a fasciare bene le escoriazioni che si era provocato, ma a Vegeta non erano sfuggite. A Vegeta non sfuggiva nulla.
“Quindi, lo avete preso senza utilizzare particolari abilità?”.
“Lo abbiamo recuperato a mani nude, papà…”.
“E avete scalato la montagna…”.
“Sì…”.
“Trunks…” – si era alzato in piedi, continuando a fissare l’uovo che aveva tra le dita – “E anche tu, Goten…”.
“Oh Kami, mi ha scoperto!” – Goten era nascosto dietro la porta – “Ma come ha fatto a capire che…”.
“Vieni qui…”.
Stava per punirli. Stava per punirli e se lo avesse fatto, sarebbe stato terribilmente doloroso e umiliante. Ma non avevano scelta. Goten aveva preso un bel respiro ed era entrato nella stanza.
Erano lì, lui e Trunks, erano insieme, ed erano pronti a tutto, ma Vegeta non aveva detto loro niente. Che stesse pensando di dire tutto alle loro madri?
“Tsk… Se la mettete così, a questo punto…”.
I loro cuori stavano battendo all’impazzata. Cosa stava per dirgli?
“Toccate l’uovo. Dovete prendere una decisione”.
Trunks aveva guardato Goten, Goten aveva guardato lui, poi avevano guardato l’uovo e infine, timidi e interrogativi, avevano puntato i loro occhietti sul viso di Vegeta, scorgendovi la più interrogativa delle espressioni. Alla fine, i piccoli saiyan avevano obbedito, mettendo le loro manine sul guscio poroso del loro trofeo.
Vegeta non aveva staccato gli occhi da loro due neanche per un istante e li aveva invitati a concentrarsi. Aveva detto loro che dovevano pensare solo all’uovo, che dovevano isolarsi da tutto quello che c’era all’esterno e provare a capire, a vedere, a sentire.
Inizialmente, non avevano capito cosa volesse dire quell’uomo così imperscrutabile. Concentrarsi per fare cosa? Era un uovo! Goten era rimasto per un attimo interdetto. Non sapeva bene cosa fare. Se avesse deluso Vegeta? Avevano faticato tanto per prendere quell’uovo, per diventare degni di essere suoi allievi, avevano dimostrato di essere forti, in gamba, di saper collaborare, ma quello non si era dimostrato abbastanza. Era in ansia. E non lo era solo per quello. L’uovo si trovava in mano al padre del suo migliore amico, era stretto con gentilezza tra le dita di Vegeta. Toccarlo, significava entrare in contatto con quella mano possente e callosa, voleva dire entrare in contatto con la mano di un “papà”. Cosa avrebbe provato?
“Concentratevi!” – aveva detto loro, serio. Era un tipo impaziente, lui – “E non esitate. In battaglia, potrebbe esservi fatale”.
Col cuore in gola, avevano obbedito. Trunks aveva chiuso gli occhi, Goten, invece, si era concentrato su qualcosa di diverso, di più interessante. E, dopo qualche istante, lo avevano visto. Trunks era stato il primo a staccare la mano con enfasi, spaventato da ciò che aveva percepito.
“Ma… Ma… È vivo! Nell’uovo c’è un… Un piccolino! Ed è vivo! Tu lo hai visto? Voglio dire, lo hai sentito, Goten? Lo hai sentito?” – era su di giri.
“Sì! Il suo cuore batte! Che emozione… Ho sentito la sua… La sua presenza! Per questo sapevi che ero dietro la porta, Vegeta, non è vero? Hai sentito… Me?”:
Il saiyan aveva sorriso impercettibilmente, fiero e soddisfatto.
“E c’è dell’altro… Vero papà?”.
Trunks aveva capito quanto fosse importante quel primo insegnamento che suo padre aveva dato loro. Certo, prendere l’uovo senza sfruttare nessuna particolare abilità era stato un autentico atto di coraggio, ma non avevano pensato al fatto che in quell’uovo vi fosse una vita. Erano stati coraggiosi, ma anche egoisti. Avevano rischiato di distruggere una creatura che ancora doveva venire al mondo e questo era sbagliato.
“Dobbiamo riportare subito l’uovo nel suo nido prima che il piccolo muoia per colpa nostra! Non voglio avere questo peso sulla coscienza! Non è così, papà?”.
Vegeta era diventato serio: i suoi tratti si erano induriti. A cosa pensava quel saiyan così imperscrutabile e magnetico?
“La vita, ragazzini… Sarà la vita degli individui contro cui vi scontrerete che stringerete tra le mani, nel momento in cui scenderete sul campo di battaglia, e il vostro nemico stringerà tra le sue mani la vostra. Volete che vi insegni a volare perché è bello? Tsk! Posso farlo… Volete che vi insegni qualcosa sui saiyan… Posso fare anche questo… Ma la lotta… Per quanto scorra nelle vostre vene il desiderio di battervi, non so se fa per voi… Diamine, quello che mi state chiedendo non è un gioco. Lo capite?”.
Erano stati colti alla sprovvista. Non avevano pensato a quello, non lo avevano fatto neanche per un secondo, neppure dopo che Gohan aveva raccontato loro di come fosse morto Goku.
“Tsk! Vi ho fatto una domanda!”.
“Noi… Noi vogliamo diventare forti…” – aveva detto Trunks.
“Quindi è solo questo…” – sembrava che si aspettasse una risposta del genere.
“Vegeta, noi… Noi vogliamo essere preparati a proteggere il mondo come avete fatto voi!” – la sentita risposta di Goten aveva colto il saiyan alla sprovvista – “Gohan ci ha raccontato qualcosa, anche Bulma lo ha fatto! Vogliamo diventare dei guerrieri! È nel nostro sangue! Non la pensi anche tu così, Trunks?”.
“Sì. Vogliamo questo”.
Di lì a poco, sarebbe accaduta una cosa che non avrebbero mai potuto dimenticare: Vegeta aveva adagiato in grembo l’uovo e aveva afferrato con veemenza i polsi dei due bambini, spaventandoli a morte. Quella volta, non avevano avuto bisogno di concentrarsi per sentirla. Era lì, chiara, imponente, spaventosa e immensa, e si contorceva come una bestia feroce messa in gabbia, come una sfera di energia pronta a esplodere. Era la potenza vitale del principe dei saiyan.
“No… No….” – aveva bisbigliato Trunks, terrorizzato. Goten non aveva proferito parola. Era affascinato e atterrito da quella potenza e aveva capito una cosa: che la desiderava ardentemente.
Era cessato tutto solo nell’istante in cui Vegeta li aveva lasciati andare, bruscamente.
“Avete capito, ora?”.
Li guardava quasi con disprezzo. Perché si stava rivolgendo a loro in quel modo?
“Tsk! Riportate quest’uovo nel suo nido. Dovrete essere qui entro tre ore”.
“Tre - Tre ore? Ma papà, è impossibile!” – Trunks non sapeva dove avesse trovato il coraggio di parlare di nuovo a suo padre. Non lo riconosceva più. Chi era la creatura che aveva avuto davanti pochi istanti prima?
“No che non lo è” – aveva asserito sua maestà, alzandosi in piedi e dirigendosi verso l’uscita – “Vi aspetterò nella Gravity Room. Allo scoccare delle tre ore, la porta per voi due si chiuderà e dovrete cercare qualcun altro che abbia voglia di dedicarvi il suo tempo. Buona fortuna”.
Li aveva lasciati lì, imbambolati.
“Goten…” – Trunks si teneva il polso dolente – “Che cosa… Che cosa è…”.
“Non lo so, Trunks, ma è stato fantastico”.
Sì… Per quanto avesse fatto paura, Goten aveva ragione: era stato fantastico.
“Ce la faremo” – aveva asserito Goten, continuando a guardare il polso che poco prima era entrata in contatto con la mano di Vegeta – “Ce la dobbiamo fare, Trunks. Io voglio essere… Voglio diventare come lui”.

Continua…


Ed eccomi qui, puntuale anche oggi!
Quasi non ci credo!
Per prima cosa, vorrei ringraziare chiunque abbia letto e recensito in precedenza. Vi adoro! Siete preziosi! <3
Ora, come di consueto, passerei al capitolo…
Oggi abbiamo fatto un altro tuffo nel passato. Questo episodio è singolare, ma importante: i piccoli scoprono di essere per metà saiyan e cercano un maestro. E non uno qualsiasi, ma il più temibile. Vegeta è… Bè, è Vegeta! Non avrei potuto immaginare il tutto in maniera diversa.
Seppur spaventati, i bambini non potevano non ammirarlo, soprattutto Goten, che ha esplicitamente espresso il desiderio di diventare come lui. Questo desiderio si realizzerà? Lo scopriremo in futuro!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 6
*** Mancanze ***


Mancanze
 
La scuola non era affatto come quella che frequentavano prima. Era un luogo lugubre in cui le lezioni erano esclusivamente frontali. Il maestro era severo, quasi crudele, e si divertiva a creare nuove punizioni umilianti senza alcun motivo. Le classi erano piene fino a scoppiare: i banchi e le sedie, malandati e scricchiolanti, non erano mai a sufficienza, e questo aveva fatto sì che fossero stati creati dei turni per stare seduti o in piedi. Le pareti erano fatiscenti e ricoperte di muffa, i vetri infanti, tenuti insieme da un po’ di nastro e schermati da sottili fogli di compensato non proteggevano affatto dal freddo, e tra quelle quattro mura ce n’era da vendere. Ciclicamente, i piccoli allievi finivano per ammalarsi e, come i più fortunati avevano avuto modo di constatare ormai diverso tempo addietro, alcuni non avevano più fatto ritorno. I quaderni scarseggiavano. Lo stesso valeva per i testi e per altro materiale scolastico. Trunks e Goten dividevano gli stessi libri di testo, ma ognuno aveva a disposizione un set personale di quaderni e di penne, nonché diverse matite, un temperino, una gomma e un album da disegno, il pezzo forte, quello più invidiato dai compagni di classe. Vegeta aveva risparmiato fino all’osso per far sì che i piccoli potessero frequentare la scuola e, soprattutto, che potessero farlo nella maniera più dignitosa possibile, privandosi di qualsiasi cosa pur di far quadrare i conti. I piccoli avevano imparato a gestirsi, si erano impegnati molto per ottenere buoni voti e per far sì che il maestro non li prendesse mai di mira, fin quando… Bè, fin quando le cose erano cambiate. Da quel giorno, da quel maledettissimo giorno, Trunks aveva iniziato a marinare le lezioni, si era rifiutato di fare i compiti e aveva preso l’abitudine di sparire per ore e ore, avendo la premura di rientrare poco prima di suo padre, in modo che non si accorgesse di nulla. Goten aveva provato a parlargli, ad accostarsi a lui con dolcezza e gentilezza, ma era stato tutto inutile. La prima volta che aveva osato fargli notare che stesse prendendo una brutta piega, Trunks lo aveva semplicemente ignorato. Lo stesso aveva fatto la seconda. La terza volta, lo aveva spinto talmente forte da farlo cadere, sfoderando uno sguardo così truce da metterlo in soggezione. “Ti odio”, gli aveva detto, velenoso e, da quel momento, le cose non avevano fatto altro che peggiorare. E ora, Goten se ne stava lì, seduto al suo posto, a fissare distrattamente un punto imprecisato di quel muro crepato, completamente assente, totalmente assorbito da quel senso di colpa che lo stava lentamente logorando.
“Hai qualcosa di meglio da fare che prestare attenzione?”.
La voce tonante del maestro lo aveva fatto sobbalzare, riportandolo alla realtà. Non aveva saputo cosa dire Goten, e aveva cominciato a tormentarsi le mani, balbettando una serie di parole sconnesse.
Lo sguardo agghiacciante di quell’uomo basso, grasso e pelato, lo aveva trafitto, rendendolo nervoso e preoccupato.
“Sei peggio di quel nullafacente di tuo fratello! IN PIEDI, SUBITO!” – e aveva agitato la sua verga con veemenza, prima di farla schioccare sul banco scheggiato.
“Io… Mi dispiace…”.
“Devo forse avvisare tuo padre?”.
“Oh! No!”.
“Bene! Allora vieni qui o ti dispiacerà ancora di più” – lusingato dal terrore dipinto negli occhi dei suoi allievi, il maestro aveva afferrato Goten per un orecchio, lo aveva costretto a girarsi e lo aveva ripetutamente colpito sul sedere, gridando improperi di ogni tipo decisamente non consoni al suo ruolo – “Hai imparato la lezione, adesso? Razza di maleducato fannullone e buono a nulla! SEDUTO!” – lo aveva spinto al suo posto, costringendolo a obbedire. Goten era stato coraggioso. Non aveva urlato, non aveva pianto, non si era neanche lamentato, ma il dolore provato era forte, così forte da avergli fatto mordere il labbro. I lacrimoni si erano addensati agli angoli dei grandi occhi scuri, ma non gli avrebbe permesso di sgorgare. Non avrebbe dato a quell’uomo così cattivo la soddisfazione di vederlo piangere.
“Ora, starai più attento, ragazzo?”.
“Sì…”.
“Sì, cosa?”.
“Sì, signore”.
“Bene… Vai a pagina dodici e comincia a leggere. E vedi di non singhiozzare se non vuoi che si ripeta… Stavolta, a braghe calate, ovviamente”.
Aveva ingoiato il rospo e aveva obbedito, cercando la pagina indicatagli e cominciando a leggere, imponendosi di mantenere un tono di voce accettabile. Prima o poi, tutto quello sarebbe finito. Prima o poi, le cose sarebbero tornate come un tempo.

Ieri…

Non riusciva a smettere di pensarci. Si era girata e rigirata nel letto per tutta la notte, cercando di trovare tempi e modi giusti per aprire un simile argomento, ma era difficile, terribilmente difficile. Da quando Vegeta si era aperto con lei, il giorno precedente, esprimendo timori e preoccupazioni, non era più stata in grado di pensare ad altro. La scadenza imminente per la quale stava lavorando senza sosta? Dimenticata. Il cocktail a bordo piscina organizzato dalla sua socia Izumi? Aveva elegantemente declinato. La riunione delle 23:00 prima dell’ultimo collaudo? Potevano benissimo farla senza di lei. C’era una cosa più importante a cui pensare, anzi, una persona. E, questa persona, le aveva fatto perdere il sonno.
Si era girata nel letto per l’ennesima volta, cercando di non disturbare suo marito, profondamente addormentato accanto a lei. Le era sempre piaciuto guardarlo dormire. Le dava un senso di pace, tranquillità e protezione, le permetteva di osservarlo senza metterlo in imbarazzo, di memorizzare ogni vena, ogni piega delle pelle, ogni cicatrice. Dopo sette lunghi anni trascorsi a dormire accanto a quello che un tempo era stato uno sterminatore di pianeti, era stata in grado di conoscere mille diverse sfaccettature di lui. Sapeva che era sempre vigile, anche quando sembrava più che mai rilassato, e sapeva che Vegeta non aveva mai russato. Ma sapeva anche che, di tanto in tanto, qualche incubo spaventoso rovinava l’espressione serena e distesa che era in grado di assumere solo mentre dormiva, e questo le spezzava il cuore. Sì, in quei sette lunghi anni aveva imparato a conoscerlo e a capirlo e, cosa ancora più importante, aveva imparato ad amarlo sempre di più, rispettando i suoi tempi, i suoi malumori e le sue timide e inaspettate dimostrazioni di affetto. Vegeta era stato un'autentica sfida, per lei. Non sapeva neppure quale fosse stato il momento esatto in cui aveva smesso di averne timore, quando avesse smesso di odiarlo per averli quasi uccisi ed esposti al pericolo di Freezer e dei suoi scagnozzi, a essere sincera. Sapeva solo di averlo guardato, quel lontano giorno, di aver appreso che fosse tornato in vita da pochi minuti, e di aver letto nei suoi occhi qualcosa che andava oltre l’odio, oltre il rancore, oltre la sua sete di potere e di morte. Lo squarcio che aveva la sua armor suite, e non quello di dimensioni maggiori all’altezza dello stomaco, quel minuscolo forellino in direzione del cuore le aveva come suggerito qualcosa, e la conferma dei suoi sospetti avuta poco dopo dal piccolo Gohan avevano fatto sì che il rancore nei suoi confronti si dipanasse. Quegli occhi scuri e minacciosi nascondevano un dolore inimmaginabile, veicolavano tristezza, paura, e aveva sentito l’irrefrenabile impulso di aiutarlo, di salvarlo, se proprio doveva essere sincera con se stessa.
Non era stato facile. Sapeva benissimo di aver rischiato il tutto per tutto, così come sapeva di essersi attirata addosso le critiche di amici e conoscenti. Solo i suoi l’avevano sostenuta in questa sua folle decisione, e per questo non gliene sarebbe mai stata grata abbastanza. Alla fine, non sapeva se l’avesse salvato o meno, ma una cosa era certa: lui aveva salvato lei, facendola finalmente crescere. Da quel loro amore così feroce era nato Trunks. Quell’uomo così minaccioso l’aveva fatta diventare madre, l’aveva resa felice e, nonostante fosse andato via diverse volte, alla fine era sempre tornato da lei, da loro, ed era rimasto. Nonostante tutto, Vegeta era rimasto.
Incapace di rimanere ancora a letto, si era prima girata nella sua direzione, sorridendo teneramente, poi, cercando di fare piano, si era alzata, aveva infilato le morbide pantofole di pile a forma di coniglio, la sua calda e vecchia vestaglia di lana rosa (prima o poi avrebbe dovuto disfarsene) e si era diretta in salotto, sedendosi distrattamente sul divano in attesa che il bollitore fischiasse per avvertirla che l’acqua fosse al punto giusto e preparare così la sua tisana preferita.
Stava fissando il vuoto, Bulma, cercando di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che lo aveva visto… Di certo, era stato prima di quello stupido torneo che tutti si ostinavano a chiamare il “Cell Game”. Sì, lo aveva visto prima che compisse quel gesto idiota, quello stupido sacrificio di cui si sentiva artefice e responsabile. Lo aveva accusato di essere una calamita per guai galattici, per farla breve. Lei, Bulma Brief, aveva detto al suo migliore amico che sarebbero stati tutti più al sicuro in sua assenza. O meglio, non lo aveva proprio detto apertamente, ma quello era il senso di quella frase pronunciata senza pensarci due volte. La schiettezza era il suo forte, certo, ma che conseguenze aveva avuto il suo dire in faccia alle persone tutto quello che pensa? Goku non era tornato da loro. Col sorriso, aveva detto loro di non voler più tornare in vita, che sarebbero stati più al sicuro così, lasciando Gohan senza un padre, Chichi senza un marito e, cosa sicuramente meno grave ma non priva di verità, Vegeta senza uno scopo.
Quella decisione aveva stravolto le loro vite, aveva cambiato le cose per sempre. Ancora ricordava il pianto disperato di Chichi, il giorno in cui aveva scoperto di essere incinta. Si era presentata alla sua porta senza preavviso un mese e mezzo dopo la morte di Goku. Era bianca come un lenzuolo, aveva profonde occhiaie scure e gli occhi arrossati dal pianto, e stringeva tra le mani una scatolina, tremando. Non le aveva neanche chiesto cosa fosse successo, Bulma. L’aveva solo invitata a entrare nel suo studio, l’aveva fatta sedere e l’aveva abbracciata, lasciandosi stringere e stringendola a sua volta.
“Insegnami… Insegnami a usarlo…” – le aveva detto, tirando su col naso – “E aiutami a essere forte come te, perché io non so più come si fa”.
Avevano fatto il test di gravidanza insieme. Non le importava di dover assistere a una scena che alcuni avrebbero considerato ripugnante, non avrebbe lasciato sola la sua amica per nessuna ragione al mondo. Ricordava chiaramente di aver sentito il cuore di Chichi rimbombare, amplificato nel silenzio del bagno della sua casa. Aveva paura, la mora, e come avrebbe potuto darle torto? Aveva un bambino a cui badare, una casa, non aveva un lavoro che le permetteva di avere un ingresso stabile e suo padre, non più giovanissimo, nonostante avesse perso ogni ricchezza, cercava di non farle mancare niente e di aiutarla come meglio poteva, ma questo non poteva bastare… Non con la prospettiva di un altro figlio in arrivo.
Aveva letto sul suo viso ansia ed emozione insieme, agitazione e gioia. Quale era stato l’esito, lo sapevano tutti. Ma nessuno sapeva che Chichi aveva vomitato e pianto, che era praticamente svenuta tra le sue braccia. Nessuno sapeva che era stato Vegeta a trovarle in bagno, insieme, e che era stato lui a soccorrere la moglie del più acerrimo rivale, sollevandola tra le braccia con delicatezza e adagiandola sul divano in attesa dell’arrivo del medico. Nessuno sapeva che lui aveva avuto pietà di lei.
Il fischio del bollitore aveva ricondotto Bulma nel presente, costringendola ad alzarsi da quel posticino che aveva assunto la sua forma. Avrebbe dovuto inventare qualche robot da cucina ultra-intelligente che avrebbe fatto il lavoro al suo posto, o assumere una domestica a tempo pieno, prima o poi, ma per ora, le andava bene così. Sicura, aveva aperto l’anta del mobiletto prendendo la confezione di latta con all’interno la sua tisana alla malva, ne aveva estratto una bustina, l’aveva messa nella tazza e aveva versato l’acqua bollente, cercando di non farla cadere direttamente sopra la bustina per “evitare in naturale rigonfiamento”, come indicavano le istruzioni sulla confezione.
Già… Rigonfiamento… La pancia di Chichi era cresciuta prima ancora che tutti avessero cominciato a porsi domande sul quando fosse rimasta incinta di Goku. Aveva sentito le cose più strane, doveva essere sincera. Una volta, mentre l’aveva accompagnata dal medico, aveva sentito due pettegole commentare sul fatto che il figlio non fosse del povero marito defunto ma di un qualsivoglia amante segreto che si intrufolava di notte in casa di quel “poveretto morto cornuto”. Dire che aveva messo sottosopra lo studio facendo scappare quelle due oche a gambe levate sarebbe stato riduttivo. Chichi aveva detto che non le importava, che c’era abituata, ma lei no, non c’era abituata, e aveva subito le stesse angherie quando le partorienti che si erano rivolte al suo stesso medico avevano scoperto che fosse rimasta incinta senza essere sposata. Le donne sono le prime nemiche delle donne, si era detta, e si era ripromessa che né lei né una delle sue amiche avrebbe sofferto per queste sciocchezze da comari del paese.
Al contrario, i loro amici erano rimasti entusiasti nell’apprendere che presto avrebbero avuto un altro piccolo Son da viziare e coccolare. Crilin aveva quasi pianto quando lo aveva scoperto, ed era svenuto nello scoprire che sarebbe stato il padrino del nascituro. Genio, Tenshing, Dende e gli altri avevano sommerso Chichi di attenzioni e regali, cercando di non farle mancare mai niente. Persino C 18 che, nel frattempo, aveva sposato Crilin, si era dimostrata incuriosita e intenerita dall’idea di una nuova vita che stava per affacciarsi al mondo, tant’è che, poco dopo la nascita di Goten, aveva scoperto di essere incinta a sua volta.
Chichi non era mai stata sola in tutto quel periodo. Era circondata dall’affetto di chi la amava, dal calore dei suoi amici e del suo splendido primogenito che fremeva all’idea di tenere fra le braccia il suo fratellino. Ma questo non poteva bastarle, e Bulma lo sapeva benissimo. Per quanto lei facesse in modo di non farlo notare, l’assenza del marito la stava logorando. Solo chi aveva dovuto affrontare una gravidanza da sola sapeva quanto fosse brutto girarsi nel letto un tempo occupato da due persone, la notte, e rendersi conto che le cose non sarebbero più state come prima, domandarsi a chi potrebbe somigliare il proprio bambino per poi capire che se avesse avuto il suo stesso aspetto, l’aspetto di lui, sarebbe stato un dolore insopportabile anche solo fargli un sorriso. Loro non lo sapevano, ma lei sì, lo sapeva eccome. E chissà se Goku lo sapeva. Chissà se sapeva di aver contribuito a mettere al mondo una vita, invece di toglierla.
Erano quelle le cose a cui stava pensando Bulma poco prima dell’alba. A quello, e anche a come, in un modo nell’altro, tutto si era sistemato. Goten era nato sano e forte, ed era cresciuto con determinati valori, diventando un bambino buono e amato da tutti. Solo che qualcosa… Sì, qualcosa mancava a quella creaturina dai buffi capelli, ed era certa di sapere cosa fosse questo qualcosa. A quel bambino mancava suo padre.

Continua…


Ciao a tutti!
Stranamente, continuo a essere puntuale. XD
Capitolo breve ma ricco di spunti di riflessione, a mio avviso. Ho sempre provato a immaginare come si sia sentita Chichi nel dover affrontare una gravidanza completamente sola, e questo è quello che ho voluto immaginare per lei in questo mio “universo parallelo”. In realtà, per come spesso capita di vedere in Dragon Ball, sembra che ognuno si faccia gli affari propri per decenni e che sia solo per “merito” di Goku se i protagonisti si ritrovano, ma non mi sembra poi così verosimile. O, almeno, non lo è per me. =)
Spero non mi lanciate i pomodori!
Per ritornare alla prima parte, Goten non se la passa proprio bene… Ma il maestro ha detto delle cose precise… “Sei peggio di tuo fratello!”. “Devo forse avvisare tuo padre?”. Suo padre… Chi? Come? Quando?
Ovviamente, non posso dirvi niente.
Vi ringrazio per la pazienza e l’affetto.
Siete preziosi!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 7
*** I timori di una madre ***


I timori di una madre
 
Aveva lasciato che Bulma finisse di parlare prima di essere certa di aver capito dove volesse andare a parare. Quando la sua amica l’aveva telefonata, il giorno prima, la sua insistenza e la fretta di vederla l’avevano insospettita, rendendola nervosa e ansiosa. Conosceva benissimo le abitudini della turchina: aveva imparato che il suo lavoro le imponeva delle scadenze a cui non poteva sottrarsi, che improvvisare e procrastinare in periodi così delicati non erano due opzioni per lei valide. Ricordava benissimo, poi, di averle sentito affermare con veemenza che nulla avrebbe mai potuto distrarla dai suoi impegni lavorativi, eppure eccola lì, ansiosa di incontrarla per “mangiare un boccone insieme”.
Partendo dal presupposto che lei non amava farsi invitare a cena fuori da Bulma – non aveva mai nulla di veramente appropriato da indossare e per di più si vergognava come una ladra a farsi offrire un pasto in uno di quei ristoranti costosi in cui era solita prenotare – e che non era una cosa che le si addiceva lasciare i suoi figli a casa da soli, l’ansia malcelata che aveva percepito dal tono affettato della sua amica non le avevano concesso di declinare. E poi, per quanto ella stesse improvvisando, era sempre Bulma Brief la scienziata, e le aveva comunicato di aver già scelto il ristorante, di aver predisposto una macchina con autista che sarebbe passata a prenderla per le 20:00 e che Gohan e Goten non sarebbero rimasti a casa da soli ma sarebbero stati ospiti a casa sua, dove un severissimo Vegeta in veste di baby-sitter li avrebbe tenuti d’occhio impedendo qualsiasi tipo di bravata, marachella o monelleria varia ed eventuale. Aveva persino pensato a suo padre, Juma, dicendole di aver contattato un cuoco e una domestica che avrebbero cucinato e servito la cena direttamente nel suo salotto, con l’obbligo di riordinare e lavare ogni singola posata utilizzata. Aveva calcolato tutto, Bulma, persino la sua risposta affermativa. Del resto, cosa avrebbe mai potuto dirle?
Quando aveva avvertito i figli che per quella sera sarebbero stati ospiti di Vegeta alla Capsule Corporation, le reazioni erano state contrastanti ed estremamente divertenti, a modo loro. Gohan era rimasto quasi pietrificato. Era cresciuto, ormai, e non capiva perché sua madre si ostinasse a non volergli affidare il fratellino. Aveva salvato il mondo, frequentava il liceo, faceva sempre il suo dovere sia a scuola che nei campi, riordinava in casa, sapeva cacciare e pescare, ergo: perché doveva farsi controllare da Vegeta? Non aveva niente contro il principe dei saiyan, e aveva imparato a rispettarlo e ad apprezzarlo, col tempo, ma pensare di trascorrere un’intera serata in sua compagnia mentre né Chichi né Bulma erano presenti lo metteva profondamente a disagio. Cosa avrebbero dovuto fare, lui a Vegeta? Si ostinava a rimanere in silenzio, era sempre imbronciato, ed era certo di non averlo mai sentito dire nulla all’infuori dei nomi dei suoi attacchi e di qualche “ciao” detto sbuffando. Non gli aveva mai neanche chiesto come stava… C’era da dire, poi, che entrambi avevano praticamente smesso di combattere, per quanto ne sapeva, e anche quell’argomento era bello che andato! Sì, c’erano i bambini, ma era sicuro che si sarebbero rintanati nella cameretta di Trunks e avrebbero cominciato a giocare ai videogames. Che avrebbe fatto, lui, povero adolescente in crisi scavallato dalla madre, dalla zia acquisita, da suo fratello e dal migliore amico di quest’ultimo? Forse, l’unica speranza potevano essere il padre e la madre di Bulma, ma anche quel barlume di speranza si era spento inesorabilmente nell’attimo in cui aveva appreso che erano partiti per una specie di vacanza-collaudo dell’ultima nave da crociera progettata dallo scienziato. E tanti cari saluti all’ultima ancora di salvezza che gli era rimasta!
Sbuffare era stato del tutto inutile, anche perché, a questa sua reazione fin troppo patetica, aveva fatto da contraltare l’entusiasmo per nulla celato del suo fratellino.
Chichi lo aveva notato immediatamente, e lo stesso aveva fatto Gohan: non appena la mora aveva pronunciato il nome “Vegeta”, gli occhi del piccolo Son si erano come illuminati, e il resto del discorso fatto da sua madre non aveva neanche lontanamente sfiorato i padiglioni auricolari del saiyan mezzosangue.
“Staremo a casa con Vegeta! Ma ci pensi? Chissà a cosa avrà pensato, stavolta! Non vedo l’ora!” – era balzato in piedi dalla sedia con tanta rapidità da farla cadere a terra. Sua madre, scuotendo il capo, l’aveva rimessa al suo posto, cercando di frenare quel suo slancio emotivo.
“Tesoro, non penso che le cose andranno proprio come credi tu… Ma c’è Trunks… Sono sicura che…”.
“Ti sbagli, mamma” – l’aveva interrotta. Quel piccolo monello l’aveva interrotta, e questo, oltre alla sorpresa di vedere sul visino un cipiglio fino a quel momento a lei sconosciuto, l’avevano lasciata senza parole.
“Goten! Non si fa… Chiedi scusa alla mamma!” – non avrebbe voluto rimproverarlo, ma suo fratello doveva imparare le buone maniere.
“Non volevo interromperti, e ti chiedo scusa, ma stai dicendo cose che non sono vere e non lo posso sopportare!”.
“Ma, Goten… Non capisco…”.
“Lui non è come pensate che sia” – aveva detto, stringendo i piccoli pugni e portandoli davanti al viso per osservarli – “Lui è… È fantastico! E non vedo l’ora di andare alla Capsule Corporation, stasera”.
Era rimasta in silenzio, dando un ultimo colpetto alla sedia per rimetterla esattamente dietro Goten, invitandolo a sedervisi sopra. Fingere di non capire stava diventando sempre più difficile, e questo era iniziato da quando Goten aveva smesso di celare i suoi veri sentimenti. Chichi aveva provato a limitare le visite del figlio alla Capsule Corporation, si era persino opposta agli allenamenti a cui lui aveva deciso di sottoporli una volta a settimana, ma non era bastato. Non dopo che si era presentato a casa sua per parlarle di persona.
“Sarà, ma io non ci trovo niente di così entusiasmante…”.
“Perché non sai di chi parli, fratellone… Tu non sai di chi stai parlando”.
Ma Chichi non li ascoltava più: la sua mente era volata indietro nel tempo, a quel lontano giorno, quando le cose avevano preso quella, strana, forse irrimediabile piega.

15 mesi prima…

Era comparso all’improvviso mentre stava stendendo il bucato, facendola sobbalzare di terrore. Non aveva mai avuto l’opportunità di trovarselo così vicino, non senza la presenza di qualcun altro, e quell’apparizione improvvisa l’aveva così tanto spaventata da farla cadere all’indietro e farle lanciare per aria il cesto vuoto della biancheria con un urlo non propriamente femminile e raffinato. Lui era lì, ed era venuto da solo. Cosa poteva volere da lei quell’essere così spaventoso’
“Tsk… Non pensavo di essere talmente brutto da fare questo effetto, donna…”.
Aveva fatto una battuta. Aveva davvero fatto una battuta?
“Che… Che… Che cosa ci fai qui?”.
Non lo aveva neanche salutato. Non si era neanche messa in piedi. Era rimasta lì, sull’erba, immobile, in una posizione sconveniente e con il terrore che la stava dilaniando. I suoi figli non erano in casa, per fortuna, quindi, se avesse deciso di farle del male, non avrebbero assistito a quella scena o non sarebbero morti nel tentativo di difenderla. Perché lui era lì per farle del male, ne era certa. Che altro motivo avrebbe potuto avere per recarsi lì, considerando che il suo Goku non era più in vita ormai da tempo immemore?
Non aveva fiatato, non si era neanche mosso. Vestito da semplice essere umano, con un jeans nero attillato, le scarpe di tela bianche e una semplice maglietta a mezze maniche, per un attimo non era sembrato neanche lui. Eppure, non ci si poteva sbagliare, quello era proprio Vegeta, nonostante i suoi abiti e la sua espressione fossero così diversi, quello era proprio il principe dei saiyan.
“E pensare che tutti millantavano la tua accoglienza…” – aveva proseguito lui, dirigendosi verso casa.
“Ma cosa…”.
“So benissimo come si prepara un caffè, Chichi… Posso provvedere da solo… Soprattutto considerando che tu hai deciso di mettere radici lì sul prato, a quanto sembra…” – e si era diretto verso la porta di casa sua, lasciandola dietro di sé.
Non era possibile. Non era minimamente possibile: era seduta al tavolo di casa sua, imbambolata, e un uomo di statura media che non aveva mai messo piede in quelle mura, un uomo che aveva quasi ucciso suo marito e suo figlio e che aveva deciso di invadere il pianeta, stava trafficando con la sua moka come un esperto intenditore di caffè, mentre sceglieva con cura le tazzine spesse che aveva persino riscaldato prima di riempire di liquido scuro e profumato.
“Tsk! Allora, donna? Vuoi che ci metta lo zucchero o no?”.
“Co-come?”.
Lo sguardo da ma questa è scema o ci fa se lo era meritato tutto, Chichi, per questo non aveva potuto evitare di arrossire. Non sapeva bene perché, ma Vegeta stava cercando di essere gentile, anche se il solo pensiero di accostare le due parole Vegeta e gentile nella stessa frase le faceva quasi impressione, e lei stava reagendo come una perfetta idiota.
“Sì… Lo prendo zuccherato… Due… Due cucchiaini per favore”.
“Tsk! Vedo che, almeno tu, non sei fissata con questa stupida storia della linea…”.
Se fosse un complimento o meno, Chichi questo non lo avrebbe mai saputo, ma non era quella la cosa importante, al momento. La cosa importante era capire perché lui fosse lì, in quanto la mora non era poi più così certa che volesse farle del male o ucciderla. Sempre se non avesse deciso di avvelenare il suo caffè.
“Tieni…” – aveva detto lui, porgendole la tazzina con tanto di piattino e prendendo posto esattamente di fronte a lei.
Sembrava incuriosito, Vegeta. Si guardava attorno, cercando di celare il nervosismo, perché sì, adesso che era così vicino, poteva vederlo chiaro e tondo: il principe dei saiyan era lievemente nervoso.
“Questo caffè… è molto buono” – lo era veramente. Era sempre così indaffarata da non riuscire mai a godersi neppure una tazzina di caffè. Non riusciva a credere di essere finalmente seduta e di sorseggiarne una, per di più, in compagnia di un pericolosissimo alieno che gliel’aveva addirittura preparata!
“Devo dire che è stato…bravo… Forse Bulma non ci aveva visto così male, alla fine… Mah… Forse sono stata affrettata a…”.
“Sono qui per parlarti dei ragazzi”.
Il caffè le era andato di traverso.
“Dei ragazzi? VUOI DIRE DEI BAMBINI? Oh Kami! Vegeta, è successo qualcosa al mio piccolo Goten e a Trunks? Sono in ospedale? Stanno bene?”.
Stava per avere una crisi isterica e mettersi a piangere. Ecco perché Vegeta era così nervoso, si trattava di loro! Ma cosa poteva essere successo di così terribile da giustificare quella sua visita?
“Tsk! Conoscendoti, pensi che te lo direi così, donna? Cerca di stare calma!”.
“E allora cosa? Parla, ti prego!” – ormai, aveva iniziato a piangere e non credeva di potersi fermare così in fretta.
Vegeta aveva preso il suo caffè, godendoselo sorso dopo sorso, non curante delle lacrime e dell’apprensione di lei. Sembrava piuttosto seccato da quel comportamento.
“Dovresti imparare a gestire le tue crisi, donna… A ogni modo, i ragazzi mi hanno chiesto di allenarli. E se per mio figlio non ci sono problemi in quanto sua madre si è mostrata più che propensa, mi chiedevo cosa volessi tu per Goten”.
“Mi chiedevo cosa volessi tu per Goten”.
“NON SE NE PARLA!” – aveva battuto entrambe la mani sul tavolo, lampeggiando furore dagli occhi neri come la notte – “GOTEN NON SEGUIRÁ LE ORME DI SUO PADRE! NON FARÁ LA SUA STESSA FINE! Lui è un bambino piccolo, è buono e gentile, non ha bisogno di conoscere gli orrori della lotta! NO, NO E POI NO! Trunks può fare quello che vuole, ma non il mio Goten! Lo impedirò con ogni mezzo a mia disposizione, Vegeta! Mio figlio non diventerà un guerriero!”.
La seconda volta che aveva sbattuto i pugni sul tavolo aveva fatto cadere la sua tazzina, sprecandone il prezioso contenuto. La mora aveva dimostrato coraggio imponendosi con tanta veemenza davanti a un guerriero della levatura di Vegeta, e non si sarebbe tirata indietro: niente e nessuno al mondo avrebbe mai potuto farle cambiare idea.
Vegeta, dal canto suo, non si era minimamente scomposto. Impassibile, freddo come una statua di marmo, aveva continuato a guardarla con quei suoi penetranti occhi scuri, attendendo pazientemente che si tranquillizzasse.
“Ero perfettamente consapevole che avresti reagito così…”.
“Allora perché sei venuto a chiedermelo?”.
“Il permesso, dici?” – altro sarcasmo.
Stava giocando con il fuoco, lo sapeva, ma non le importava. Si trattava del suo piccolo, del suo bambino dolce e innocente. Nessuno glielo avrebbe portato via.
“Chichi, non so per quale strana ragione, ma vorrei farti notare una cosa” – continuava a essere calmo e pacato, così calmo da incutere timore – “I nostri figli sono uniti, stranamente… Come direste voi terrestri, si vogliono bene… Allenarli separatamente potrebbe essere controproducente, soprattutto per Goten”.
“Perc…”.
“Perché, separato da Trunks, proverebbe ad allenarsi da solo, Chichi, rischiando di farsi del male. Sai che entrambi, per mostrarsi meritevoli ai miei occhi, hanno scalato a mani nude i monti Paoz per portarmi un uovo di dinosauro rubato da un nido?”.
“CHE COSA HANNO FATTO?” – stava per venirle un infarto.
“Tsk… Vuoi chiamarla una prova di coraggio, Chichi? Io la chiamo forza di volontà ferrea, spirito guerriero. Ma anche spreco di energie positive, visto che avrebbero potuto volare e recuperare l’uovo in tutta sicurezza evitando di correre il rischio di finire sfracellati al suolo”.
L’immagine di suo figlio immobile, in una pozza di sangue, le aveva fatto gelare il sangue. Adesso aveva capito dove e come quel piccolo monello avesse strappato la sua tuta nuova, adesso aveva capito come mai fosse finito un intero flacone di acqua ossigenata e dove fossero finiti i cerotti. Oh, ma gliele avrebbe suonate di santa ragione! Lo avrebbe messo in punizione da quella sera fino alla fine della sua vita! Altro che lotta! Lei… Lui…
“Non impedire a tuo figli di seguire la loro strada, donna. Non farli sentire diversi da quelli che sono”.
Come osava fargli quel discorso? Come?
“Goten è un bambino, se non lo avessi notato! Anche il tuo Trunks lo è! O non ti importa di lui?”.
Non avrebbe mai potuto dimenticare lo sguardo riservatole dal principe dei saiyan. Si era spinta troppo in là, affermando che non gli importasse di suo figlio. Cosa ne sarebbe stato di lei?
“Proprio per questo, devono restare insieme. Proprio per questo, ho parlato con te e con Bulma di quanto accaduto. In loro c’è qualcosa di diverso, donna… Ma mi rendo conto che per te è impossibile capirlo”.
Continuava a guardarla in silenzio. Ancora quel maledettissimo, pesantissimo silenzio. Quello che stava accadendo in quel momento era surreale. Vegeta era lì, davanti a lei, e le stava chiedendo il permesso per allenare suo figlio, il suo Goten, e stava suggerendo qualcosa che non osava rivelarle. Cosa poteva significare?
“Non se ne parla. Non ho altro da dire”.
Chichi, ma non era riuscita a trattenersi: non era una donna che usava mezze misure, e da quando era morto il marito, questo suo lato era venuto fuori in maniera ancor più vivida e preponderante. Non avrebbe mai cambiato idea sulla pericolosità della lotta, né su Vegeta: per lei, quell’uomo dai profondi occhi neri rimaneva un assassino. Poteva essere il marito di una delle sue più care amiche e il padre del migliore amico del suo piccolo, ma rimaneva pur sempre uno spietato, dannato assassino.
“Tsk! Fa come ti pare” – Vegeta si era alzato senza troppe cerimonie, dandole le spalle e dirigendosi verso la porta. Nessuna sfuriata, nessuna minaccia di morte, nessun aumento dell’aura. Solo una presa di consapevolezza di aver fallito in quella sua missione tutt’altro che improvvisata.
La mora era rimasta di stucco, cercando di fare chiarezza tra i suoi pensieri confusi. Cosa era appena accaduto in casa sua? Cosa aveva fatto? Cosa avrebbe comportato tutto quello?
“Aspetta!” – aveva urlato senza neanche rendersene conto. Da quando era entrato, non vedeva l’ora che uscisse da casa sua, perché mai lo aveva bloccato?
Sorprendendola di nuovo, Vegeta si era davvero bloccato, girandosi nella sua direzione senza fare troppe cerimonie.
“Aspetta, Vegeta, siediti… Per favore…”.
“Tsk! Posso anche sedermi, Chichi… Ma a che pro?”.
Non era riuscita a sostenere il suo sguardo.
“Non puoi convincermi che sia la cosa giusta da fare…”.
“Infatti non voglio farti cambiare idea su questo punto” – Vegeta aveva assunto un’espressione che la diceva lunga sulla sua, e quello sguardo l’aveva fatta sentire tremendamente piccola e stupida. Come faceva Bulma a sopportare quelle pupille indagatrici tutti i giorni? La stava mettendo a disagio, e non le piaceva sentirsi così impotente – “Sai benissimo anche tu come andranno le cose: prima o poi, il potenziale sopito di Goten verrà fuori esattamente come è successo a Gohan. I tuoi figli, anzi, i nostri figli, hanno per metà geni saiyan, e questa natura non si può reprimere. Pensi sul serio che i nostri siano bambini come tutti gli altri? Sbagli… Non capisco perché non vuoi permettere a Goten di essere se stesso”.
“Perché combattere è pericoloso, e lo dovresti sapere! Trunks del futuro era un guerriero esperto, eppure quel mostro di Cell gli ha aperto un buco nel torace! Non è stato in grado di difendersi! Io non voglio che mio figlio si trovi su un campo di battaglia credendo di essere al massimo della preparazione per poi farsi uccidere! Non lo posso accettare… Ne morirei, possibile che non lo capisci?”.
Ricordava benissimo quale fosse stata la reazione di Vegeta davanti a quello strazio. Ea stato l’unico, tra i presenti, a perdere un figlio, e aveva sofferto al punto di perdere la ragione, perché si ostinava a non capire il suo punto di vista?
“Donna…” – le si era avvicinato, prendendo un lungo sospiro. Dio mio, perché continuava a guardarla in quel modo? Gli occhi di Vegeta erano due pozze nere traboccanti odio e disperazione, in quel momento. Come, come si faceva a non lasciarsi inghiottire? – “I ragazzi devono avere l’opportunità di scegliere, di crescere e camminare sulle loro gambe. Sono stati loro a venire da me, dopo il rifiuto di Gohan… Non sono stato io a offrimi loro… Mi vedi tagliato nei panni del maestro, Chichi? Tsk! Andiamo…” – aveva sorriso divertito, facendola sentire ancora più a disagio.
“Se la tua preoccupazione riguarda la lotta in generale, sappi che è un errore farsi trovare impreparati. Se la tua preoccupazione riguarda me… Tsk! Sei un’idiota”.
“Co-come?”.
“Non farei mai loro del male. Mai… E non permetterei che qualcuno ne facesse a loro. Ma per evitarlo devo fornire loro i mezzi adeguati. Me lo hanno chiesto insieme… Sono venuti da me, insieme… Capisci il valore di questo gesto?”.
Sì… Lo capiva benissimo.
“Mi prometti… Mi GIURI che impedirai loro di cacciarsi in qualche guaio?”:
Vegeta aveva trattenuto a stento il sorriso di trionfo che era affiorato sul suo volto.
“Oh, smettila di guardarmi in questo modo! Mi fai imbestialire!” – aveva detto lei, scattando in piedi e dirigendosi con fretta verso il lavandino per celare il rossore comparso sulle sue gote – “Sei odioso! Come fa Bulma a sopportarti?”.
“Allo stesso modo in cui tu sopportavi l’idiota” – aveva asserito con una naturalezza disarmante.
Già… Allo stesso modo in cui lei sopportava il suo povero, coraggioso Goku.
“Dovranno prima fare i compiti. O almeno, Goten dovrà farli”.
“Pensi che voglia che mio figlio diventi un ignorante?”.
“Oh, bè, allora siamo davvero sulla stessa lunghezza d’onda…” – aveva ironizzato lei mentre lavava la caffettiera e le tazzine.
“Tsk! Chi lo avrebbe mai detto, no?” – e si era allontanato di nuovo, stavolta per andare via definitivamente.
“Vegeta…” – non lo aveva accompagnato fino alla porta, sarebbe stato troppo per lei, per lui, per loro.
“Mpf… Che c’è ancora?”.
“Grazie… Credo…”.
Di nuovo quello sguardo divertito e ironico insieme.
Era andato via senza salutare. Lo aveva visto volare lontano, sentendosi per la prima volta… diversa. Più tranquilla, forse.
“Chi lo avrebbe mai detto…” – aveva esclamato, continuando a lavare le tazzine – “Ho appena affidato mio figlio al più spietato dei saiyan”.

15 mesi dopo…

Proprio a questo stava pensando Chichi, mentre si lasciava condurre al ristorante scelto da Bulma. Le cose erano cambiate, nel corso del tempo. Si erano assestate, in un certo senso. Aveva visto Gohan diventare un ometto, e Goten… Goten era cambiato, e tanto. La verità era che, in cuor suo, Chichi sapeva esattamente cosa volesse dirle Bulma.
Aveva visto come lo guardava. Aveva notato come gli occhi di suo figlio si illuminassero solo a sentir pronunciare il suo nome, aveva visto come cercasse un continuo contatto fisico con lui, come cercasse la sua approvazione, come ne avesse assunto persino le movenze. E aveva notato come gioisse e soffrisse insieme per quello che desiderava e che non avrebbe mai potuto avere.
E lei lo sapeva, sapeva che Goten piangeva, a volte, e solo gli dei sapevano quanto quello le avesse spezzato il cuore. Il suo piccolo soffriva di un male incurabile: piangeva perché non poteva chiamare Vegeta papà.

 
*
 
Bulma era bellissima come sempre, più del solito, forse, in quell’occasione. Non indossava niente di particolarmente sgargiante o vistoso, ma era proprio questo a esaltarla. Il semplice tailleur nero la rendeva alta e slanciata, e la camicetta bianca strategicamente sbottonata quanto bastava le conferiva un’aria sensuale e femminile insieme, senza però rasentare la volgarità. Chichi l’ammirava molto. Non era mai stata gelosa di lei: sapeva di essere una bella donna, ma l’essere madre era un aspetto che aveva preso il sopravvento nella sua vita, e non aveva né il tempo, né il denaro, né le occasioni per mettersi tanto in tiro. Cosa avrebbe dovuto fare, le pulizie sui tacchi a spillo color rosso fuoco? Doveva ammettere, però, che da quando Vegeta le aveva fatto quella specie di agguato, aveva deciso di non farsi più cogliere di sorpresa, e aveva cominciato a curare di più il suo aspetto, cercando di mostrarsi al meglio. Lo faceva per vanità, certo, ma anche per rispetto verso se stessa e verso i suoi figli. Che pro poteva portare loro avere una madre sciatta e poco attraente? Così, ecco che aveva affrontato quell’occasione per mettersi in tiro e per sfoggiare le sue bellissime gambe diafane sempre nascoste sotto quel kimono informe.
Bulma la stava aspettando al tavolo che aveva prenotato per loro, sorseggiando quello che aveva tutta l’aria di essere un Martini. Cercava di sembrare disinvolta e allegra come sempre, ma qualcosa nel suo sguardo lasciava trasparire il suo evidente nervosismo.
“Chichi! Ben arrivata tesoro! Sei meravigliosa, stasera! Dovresti mostrare di più le tue belle forme, te lo dico sempre!” – l’aveva stretta forte, baciandola su entrambe le guance in modo da non lasciarle alcuna traccia di rossetto.
“Ciao Bulma… Stai benissimo anche tu, ma questo lo sai già…”.
Sorridendo, realmente felici di essersi incontrate e di avere un momento tutto per loro, le due donne avevano preso posto e Bulma aveva ordinato un Martini anche per Chichi, solitamente non avvezza al consumo di alcool.
“Hai proprio deciso di farmi ubriacare, insomma…”.
“Certo che sì! Cavolo, stasera voglio proprio rilassarmi e divertirmi!”.
“Sicura di voler fare solo questo, Bulma?”.
Era andata subito al sodo, Chichi. Era una donna risoluta, pragmatica, e ansiosa. Non sarebbe stata in grado di godersi al meglio la serata se non avessero affrontato l’argomento nell’immediato. Proprio in quel momento, il cameriere aveva servito a Chichi la sua ordinazione, e Bulma ne aveva approfittato per ordinare un altro Martini per sé, consegnandogli il bicchiere. L’agitazione la stava divorando, ma sapeva bene che l’alcool non sarebbe stato realmente d’aiuto, in quel caso. Doveva solo stare calma e prendere coraggio. Chichi avrebbe capito, alla fine dei conti.
“Si tratta di Goten, non è vero?”.
“Prego?” – a momenti, l’oliva che stava masticando le sarebbe andata di traverso – “Ma tu… Tu, come…”.
“Oh, Bulma, andiamo… Si tratta di mio figlio, no?”.
“Bè…”.
“È diventato… strano. Lo so. Ultimamente, il mio piccolino non è più lui”.
Aveva colto nel segno, la mora, sfoderando uno sguardo affranto e preoccupato.
“Diciamo che lo vedo… Nervoso… Irascibile… Non saprei come altro spiegartelo. Non vorrei che gli fosse capitato qualcosa e che…”.
“Oh, ma gli è capitato qualcosa, Bulma…”.
“Che vuoi dire?”.
“Ha capito di non avere un padre”.
La naturalezza con cui aveva pronunciato quella frase l’aveva fatta sentire piccola come una formica. Chichi sapeva tutto per davvero, allora… A cosa era servita quella cena se non per farla stare ancora più in pensiero? In quel frangente, Bulma si era sentita veramente una sciocca.
“Chichi…”.
“Ascolta, Bulma, quando ho scoperto di essere incinta di Goten, sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato. Nel periodo in cui Goku s trovava sul pianeta di re Kaioh nell’attesa dell’arrivo dei saiyan, Gohan non si è reso conto più di tanto della sua assenza grazie a Junior. Sai benissimo che non ero affatto d’accordo sul permettere al figlio di Al Satan di allenare il mio bambino, ma col senno di poi, mi sono resa conto che quella è stata la decisione più giusta. Grazie ai suoi insegnamenti, Gohan è cresciuto, è diventato forte e responsabile e non si è sentito solo…”.
Lo sguardo di Chichi era perso in quei ricordi lontani. Bulma era felice di non sapere come si sentisse una madre costretta a stare lontana dal suo unico figlio. La mora era stata coraggiosa… Al tempo, Junior non aveva un’ottima reputazione, eppure si era fidata di lui, traendone beneficio.
“Goku non è mai stato un marito normale, se così vogliamo definirlo… Ci siamo sposati giovani, Bulma… Pensavo che, col tempo, la sua ingenuità sarebbe scemata, che sarebbe maturato, ma alla fine, l’unica ingenua sono stata io…”.
“Non dire così… Tu lo amavi… E lo ami ancora!”.
“Certo che lo amo, Bulma… Non mi sono mai lasciata corteggiare da nessun uomo proprio perché amo ancora il mio defunto marito, oltre che per non fare un torto ai miei bambini. Ma, a oggi, sono arrivata alla conclusione che Goku non mi amasse così tanto come credevo. Almeno, non mi ama così tanto da restare con me e con i bambini”.
“Oh, Chichi…”.
“Non fare quella faccia, Bulma… Sono adulta, ormai… E non credo di essere stata la sola ad aver formulato questo pensiero”.
Bulma si era portata una mano alla bocca, cercando di trattenere un singhiozzo. Chichi aveva detto una verità dietro l’altra, dimostrando di essere consapevole di ogni cosa.
Non osava immaginare come si sentisse riguardo a Goku. Nessuno di loro aveva creduto che Goku fosse rimasto nell’Aldilà solo per proteggerli: buona parte di questa sua decisione era stata presa perché il saiyan sapeva che avrebbe potuto continuare ad allenarsi indisturbato, sfidando guerrieri potentissimi selezionati appositamente dai quattro re Kaioh. E poi, Bulma non aveva creduto neanche per un istante che il suo migliore amico non avesse saputo di aver contribuito a mettere al mondo una nuova vita. Sapeva perfettamente che re Kaioh fosse in grado di vedere tutto e che la stessa Baba, presente alla nascita del bambino, avesse comunicato a Goku il lieto evento. Semplicemente, a Goku non importava. Altrimenti, avrebbe potuto chiedere quello che la maga aveva chiamato un permesso speciale e conoscere così il figlio. Aveva tenuto queste riflessioni per sé, ovviamente, e avrebbe continuato a farlo anche in futuro. Voleva bene a Chichi e non avrebbe fatto niente per farla soffrire.
 “Ti invidio, Bulma…” – aveva detto, sorseggiado il Martini.
“Mi invidi?”.
“Non fraintendermi: la mia è un’invidia positiva. Tu hai Vegeta al tuo fianco… Quel ragazzo ha sorpreso tutti, alla fine… Si è preso cura di te, di vostro figlio… E del mio”.
“Tesoro…” – ormai era in lacrime.
“Vegeta ci ha sorpreso tutti, Bulma… E Goten lo adora. E vorrei brindare alla sua salute. Che ne dici?”.
Si erano sorrise a vicenda, levando in alto i bicchieri e brindando silenziosamente alla salute del principe che, in quel momento, aveva avvertito uno strano fischio alle orecchie e uno strano prurito al naso.
“Brindo all’uomo che ha cercato di invaderci. Alla salute della creatura che ha quasi ucciso mio figlio Gohan e mio marito. Alla salute dell’unico padre che Goten avrebbe mai voluto avere”.
Bulma si era come gelata. Chichi era stata dura, brutale, mandando giù il suo Martini d’un fiato, cominciando a ridere in maniera irrefrenabile.
“Cameriere! Un altro per favore!” – aveva quasi urlato, già visibilmente alticcia.
“Chi-Chichi…”.
“Ti prego, Bulma… Ho bisogno di staccare, oggi. Ho bisogno di pensare che mio figlio starà bene, un giorno, nonostante pianga ininterrottamente perché si è praticamente innamorato di tuo marito. Ho bisogno di non pensare al fatto che non posso evitare che trascorrano del tempo insieme. Ho bisogno di non pensare a quanto odi Goku in questo momento. E ho bisogno di farlo adesso. Perché mi sembra di impazzire”.

Continua…


Salve a tutti!
Stranamente, continuo a essere puntuale. La cosa sconvolge me in prima persona. XD
Bene bene, altro tuffo “nel passato”. I ricordi abbondano, in questa mia storia.
Ma procediamo con ordine: Vegeta. Quanto è figo il nostro principe? L’imbarazzo lo rende autonomo oltre ogni immaginazione, a quanto sembra! Così autonomo da renderlo “diverso”. Affrontare Chichi senza pensare di ucciderla richiede un atto di estremo coraggio e di estrema pazienza. Si merita un applauso, no?
Chichi e Bulma al ristorante… Basta qualche sorso di Martini, ed ecco che si passa dalla presa di consapevolezza/rassegnazione verso le azioni di Goku all’odio più totale verso quest’ultimo. Mi sembra giusto, no?
Bah… In tutto questo, come siamo arrivati ad Altrove? Lo scopriremo nelle “prossime puntate”!
Grazie a chiunque abbia letto e recensito!
A presto!
Un bacino
Cleo
 

 

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Capitolo 8
*** Le bizzarre idee di Bulma ***


Le bizzarre idee di Bulma
 
Bulma non aveva fiatato per tutto il resto della serata. Dopo la reazione di Chichi, non aveva osato aprire con lei ulteriori argomenti “scomodi”. Aveva visto la sua amica distrutta ma pienamente consapevole di quanto avesse patito e sofferto per colpa di una delle persone più buone e gentili che la turchina avesse mai conosciuto. Bulma aveva pagato da bere per lei tutta la sera, noncurante degli sguardi stupiti del cameriere che faceva la spola dal loro tavolo al bancone e viceversa. Voleva che la sua amica si sfogasse, che tirasse fuori tutte le sue preoccupazioni e le sue frustrazioni, che si sentisse finalmente libera.
Pazienza se aveva dovuto chiedere aiuto al cameriere per farla salire in auto. Non le importava di averle retto la fronte mentre vomitava in maniera poco elegante sul marciapiedi davanti casa. E pazienza se suo marito l’aveva guardata con disappunto e sconcerto: Chichi aveva sentito il bisogno di sfogarsi e, per una volta, andava bene in quel modo.
“Tsk! Diciamo che non era quello che avevi immaginato, vero?” – le aveva detto Vegeta, sarcastico, mente la metteva a letto completamente vestita. Non era la prima volta che si ritrovava in quella situazione: mettere a letto una Chichi sfinita come se fosse stata una bambina di cinque anni non era una novità, ma vederla così sfatta, con ii capelli unticci di sudore e l’abito sporco di vomito non era il massimo. Come poteva essersi ridotta in quel modo per un decerebrato come Kaharot non riusciva a capirlo. O, forse, lo capiva sin troppo bene.
“Oh, lascia stare! Mi si è stretto il cuore nel vederla in queste condizioni… Povera cara… Non se lo merita!”.
“Tsk… Ancora convinta che Kaharot sia un santo?”.
“Vegeta…” – non le piaceva il tono ironico usato dal marito, ma non poteva dargli tutti i torti: Goku non si era comportato bene con la sua famiglia, e continuava a farsi i fatti suoi chissà dove e con chi! Ma che aveva in testa quello zuccone?
Lui aveva fatto finta di non sentire il tono canzonatorio con cui lo aveva chiamato sua moglie, anche perché sapeva benissimo di aver perfettamente ragione, così come sapeva che lei non lo avrebbe ammesso mai e poi mai, neanche sotto tortura.
“I ragazzi sono a letto” – aveva cambiato discorso lui – “TUTTI. E dovresti andarci anche tu”.
“Sì, ma Chichi…”.
“Lasciala risposare, donna… Non la rapirà nessuno. Fidati, la rispedirebbero indietro dopo meno di dieci minuti ammettendo di essersi sbagliati. Anzi, offrirebbero a noi del denaro pur di farcela riprendere!”.
“MA SEI UN MOSTRO!” – aveva urlato lei, dandogli un pugno su un pettorale.
“Sì…” – aveva risposto lui, prendendole i polsi e fissandola intensamente negli occhi – “Sono un mostro”.
Non c’era rancore nella sua voce, non c’era risentimento. E Bulma si era pentita di aver detto una cosa del genere, nonostante stesse scherzando. Con mestizia, aveva posato la guancia su quel petto poderoso, spingendolo a stringerla con forza e tenerezza allo stesso tempo, inspirando il suo odore e lasciando che lui facesse lo stesso, con fermezza e timidezza allo stesso tempo.
Un lungo silenzio era calato tra loro due. Sembrava che fossero lì, da soli, che Chichi non fosse lì, sdraiata sul letto con ancora i vestiti addosso, che nell’altra stanza dormissero Gohan, Goten e Trunks, che lì vi fossero anche i genitori di Bulma.
Esistevano solo loro due, e niente avrebbe potuto separarli.
“Tesoro…”.
“Mmm?”.
“Sai che non mi arrendo, vero?”.
“Pensi davvero che io ti conosca così poco?” – aveva detto lui, tra il seccato e il divertito, mentre alzava lo sguardo al cielo.
“E ho una mezza idea…”.
“Un’altra?” – non che la prima (il voler parlare con Chichi) avesse sortito l’effetto sperato.
“Penso che debba conoscerlo, tesoro”.
“Tsk! Non so a cosa tu ti stia riferendo” – in realtà temeva di saperlo, ma non aveva osato pensare che lei potesse arrivare a tanto”.
Invece lo sai… Hai detto di conoscermi” – lo aveva preso in giro, guardandolo negli occhi.
Lui sembrava improvvisamente teso. Era certa che avesse capito quali fossero le sue intenzioni. Avrebbe approvato?
“Donna… Stai attenta a quello che fai. Non è una cosa che riguarda solo noi. Anzi, non ci riguarda affatto”.
Avrebbe voluto chiedergli se ne era sicuro, ma aveva preferito tacere. Sì, Bulma era certa che avrebbe fatto la cosa giusta. Per Gohan, Goten, Chichi e anche per suo marito.
“Sta' tranquillo, tesoro, ho tutto sotto controllo come sempre.  E sappi che, qui a casa, ho già tre sfere del drago pronte l’occasione”.

 
*

Il mattino seguente, Bulma aveva aspettato che Chichi si riprendesse, le aveva preparato qualcosa da mangiare, le aveva dato due pastiglie per il mal di testa (non era abituata alle sbronze) e le aveva esposto il suo piano senza esitazioni, chiedendole di non infuriarsi e di ponderare bene quanto le aveva detto.
“Ho intenzione di chiedere a re Kaioh un permesso speciale per far venire Goku qui sulla Terra per un po’ di tempo”.
La mora non si era strozzata con il beverone post-sbornia preparatole da Bulma per pochissimo. Ma era impazzita? E tutti i discorsi che aveva fatto la sera precedente – e che ricordava benissimo – erano finiti alle ortiche?
“Tu sei pazza”.
“No, io voglio che quello scellerato capisca cosa si sta perdendo. Senti, Chichi, questa non è una situazione normale. Niente di quello che ci è capitato, ci capita e ci capiterà, è normale! Siamo sposate con degli alieni! Dunque, perché lasciare che Goku se ne stia nell’Aldilà come farebbe un defunto normale? Abbiamo salvato le chiappe degli dei centinaia di volte, ci devono un favore! E Goku non può sottrarsi”.
“Tecnicamente può…”.
“Sì, ma non lo farà. O lo riporterò in vita senza il suo permesso e poi lo ucciderò con del ramen avvelenato, farò in modo che lui non possa mantenere il suo corpo nell’Aldilà così, nonostante la sua permanenza in Paradiso, patirà le pene dell’Inferno perché non potrà allenarsi con i più forti guerrieri di un tempo. Pensi che per lui sia abbastanza infernale, questa cosa, Chichi?”.
Doveva ammettere che fosse un piano abbastanza diabolico. Ma faceva acqua da tutte le parti. Perché re Kaioh avrebbe dovuto acconsentire a una sua richiesta e per giunta a una così singolare? Perché Goku avrebbe dovuto acconsentire a tornare sulla Terra, poi? Giusto per fargli piacere? Sarebbe stato orribile forzarlo… E poi, lei non era certa di volerlo vedere. Pensava davvero quelle cose che aveva detto la sera prima su di lui, e non aveva intenzione di affrontarlo. Non era pronta. Ma capiva il punto di vista di Bulma: la sua amica voleva che Goku capisse cosa si stava perdendo, che riflettesse e che conoscesse Goten. Ma se fosse stato peggio? Se il suo bambino avesse sofferto ancora di più, dopo, nel rendersi conto cosa aveva affettivamente perso?
“Chichi, ascolta… So che sei arrabbiata, che hai paura e che pensi sia una cattiva idea, ma io voglio parlargli. Voglio dirgliene quattro e penso che voglia farlo anche tu. So che non è la stessa cosa, ma non pensare che per me sia facile. Lo conosco da sempre… E mi manca… Ma vorrei anche prenderlo a schiaffi, e non mi farò sfuggire questa occasione! Deve conoscere suo figlio, poi! Goten se lo merita! Deve sapere chi lo ha messo al mondo. Forse, a quel punto, si sentirà meno solo”.
“Io… Bulma…” – non era convinta. Goten era pazzo di Vegeta, sempre presente e sempre attento, perché avrebbe dovuto accettare suo padre, Goku, ammesso che avesse deciso di tornare? Perché i geni erano gli stessi? Avrebbe voluto dirgli questa e tante altre cose, ma il fuoco che ardeva nelle pupille della turchina sembrava indomabile. A quel punto, la mora aveva ceduto. Forse, alla fine dei conti, mettere un punto a quella storia sarebbe stato meglio per tutti.
“E sia…”.
“SAPEVO CHE AVRESTI CAPITO! FORZA! Chiamiamo Baba! Sono certa che, alla fine, ogni cosa andrà al suo posto!”.
“Sì…” – aveva sussurrato lei, seduta al tavolo della cucina, mentre Bulma si accingeva a recuperare qualcosa dalla sua borsetta, in corridoio – “Andrà tutto… bene”.

 
*

Avevano deciso di non dire niente a Goten: avrebbero fatto tutto da sole e avrebbero fatto in modo che Goku arrivasse sulla Terra il giorno del compleanno del piccolo che, tra l’altro, sarebbe stato tra una settimana. In più, avrebbero cercato le sfere del drago mancanti e le avrebbero tenute da parte per l’occasione: Goku avrebbe potuto ripensare alla sua decisione e restare così sulla Terra, e volevano essere pronte a ogni evenienza.
Le due donne erano più decise che mai a far sì che tutto funzionasse al meglio, o quasi. Perché, se Bulma era sempre più determinata a portare a termine la sua missione, Chichi non era altrettanto entusiasta, ma ormai non poteva farci proprio niente. Secondo la turchina, non potevano aspettare che, un bel giorno, Goku mettesse la testa a posto e decidesse di farsi resuscitare. Affatto! Certo, qualcuno avrebbe potuto obiettare dicendo che erano tanti i bambini a essere cresciuti senza il padre, ma c’era da dire che, a differenza loro, Goten e Gohan avevano l’opportunità di riaverlo indietro e che lo strano modo di ragionare di Goku stava facendo in modo che i suoi figli non sfruttassero quel colpo di fortuna.
Chichi sperava che suo marito si convincesse a tornare sui suoi passi e si assumesse definitivamente le proprie responsabilità? Forse, ma non voleva ammetterlo neanche a se stessa. Del resto, aveva detto ad alta voce di odiarlo. Però, quando Bulma le aveva detto di aver parlato con re Kaioh e di aver avuto esito positivo si era sentita venir meno.
“Bisogna che Goku sia d’accordo” – aveva aggiunto, e le aveva suggerito di scrivergli qualche riga, in modo da convincerlo a tornare. Lei non aveva esitato e aveva preso carta e penna per spiegargli il motivo di quella richiesta, infilando nella busta le foto dei due figli, sottolineando che tutti loro aspettavano con impazienza che lui facesse ritorno a casa.
Quando si erano incontrare con Baba, la sera dopo, sulla terrazza di casa Brief – Bulma aveva convinto Chichi e famiglia a trasferirsi da lei per tutto il resto della settimana – la mora aveva creduto di impazzire per colpa dell’ansia. E se Baba avesse perso la lettera? Se non avesse potuto consegnarla? O, peggio ancora, se a Goku non fosse importato niente delle sue parole?
“Stai calma, amica mia… Andrà tutto bene!”.
Ed era andata bene per davvero. Bulma, da gran ruffiana, aveva riempito la strega Baba di complimenti e regali, blandendola con i suoi sorrisi e con un rispetto che era dimostrare a pochi. Diciamo che, per quanto aveva potuto capire Chichi, l’anziana donna si era convinta a consegnare la lettera dopo che la turchina le aveva donato una settimana di villeggiatura in un esclusivo villaggio riservato a pochi eletti, con tanto di Spa, vista mare e una sfilza di giovanissimi e avvenenti camerieri che avrebbero fatto perdere la testa anche alla donna più fedele e timorata del pianeta.
“Consegnerò la lettera” – aveva detto, assaporando già il momento in cui avrebbe sorseggiato cocktail a bordo piscina – “Ma non aspettatevi troppo da me… Oltre alla risposta di Goku, ovviamente. Purtroppo, mie care, sapete meglio di me quanto sia difficile far ragionare quello zuccone”.
“Lo spero tanto!” – aveva esclamato Bulma, speranzosa.
“Dimmi una cosa, Baba…” – aveva detto Chichi, seria – “Tu frequenti Goku, non è vero?”.
“Bè, sì, di tanto in tanto ci vediamo…”.
“E lui… Ti ha mai chiesto di noi?”.
Il silenzio seguito a quella domanda era valso più di mille parole. Come avrebbe fatto, Baba, a confessare a quella donna che non era mai stata nei pensieri del suo uomo?
“Goku è molto impegnato, Chichi…”.
“Capisco…”.
“Consegnerò la lettera, ragazza mia. E incrocerò le dita per te”.
Non restava altro che attendere con pazienza la risposta del Son, arrivate a quel punto, ma la risposta di Baba alla domanda di Chichi aveva lasciato le due terrestri con una spiacevole sensazione di angoscia sulla pelle.
“Andiamo a casa, Chichi…” – Bulma le aveva messo una mano sulla spalla, cercando di trasmetterle forza – “Sono sicura che andrà tutto bene”.


Continua…
 
Eccomi qui, ragazzi!
Come avete trascorso il fine settimana? Io ho già montato albero, presepe e decorazioni varie ed eventuali: adoro il Natale, LO ADORO!!
Ma torniamo alla storia: altro tuffo nel passato. Mmm… Bulma è proprio convinta di quello che sta facendo, Chichi un po’ meno. Io sono d’accordo con la mora, ma chi lo sa? Alla fine, Bulma potrebbe anche avere ragione…
Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 9
*** Tra ieri e oggi ***


Tra ieri e oggi
Ieri…

Baba era stata più che mai efficiente, e lo stesso discorso era valso per Bulma e Chichi, decise più che mai a rintracciare le restanti sfere del drago in tempi brevissimi.
Goten, Gohan e Trunks non sospettavano niente. Con la silente complicità di Vegeta, che si era rinchiuso in un ostinato mutismo, le due donne avevano agito praticamente indisturbate, riuscendo a trovate sei sfere su sette due giorni prima del compleanno del piccolo Son.
Chichi era frastornata dalla vorticosità con cui gli eventi si stavano susseguendo. Presto avrebbe rivisto Goku, e l’atteggiamento di Bulma le aveva confermato ancora di più che persona speciale fosse. E poi, c’era Vegeta. E Vegeta si era rivelato straordinario. Dopo aver iniziato a viverlo quotidianamente, aveva cominciato a capire il perché dell’affetto che il suo secondogenito provava verso il marito della sua amica. Vegeta poteva anche essere un po’ burbero e sgarbato, ma era attento, preciso, fiscale, impassibile su alcune regole, ma sapeva anche essere comprensivo e premuroso, in un certo qual modo. Certo, non aveva mai abbracciato i piccoli, non li aveva mai coccolati, non aveva mai fatto loro una carezza, ma quello che faceva dimostrava chiaramente l’affetto provato nei loro riguardi. Da un uomo così rude, cresciuto come un militare e da dei militari, non poteva aspettarsi altro, del resto, e doveva ammettere che questo suo modo di fare le piacesse molto, alla fine dei conti. Grazie a tutto ciò, Goten era diventato responsabile, e aveva notato un avvicinamento a lui anche da parte di Gohan.
“Avevi ragione, sai?” – gli aveva sentito dire un giorno – “Vegeta non è affatto come sembra!”.
Ed era vero: Vegeta non era come sembrava. Vegeta li allenava, li portava a scuola, si assicurava che facessero i compiti e li portava al parco o al cinema. Faceva quello che ogni padre sensato avrebbe dovuto fare, insomma. Peccato che lei e Gohan, avendo avuto a che fare solo con Goku, non se ne fossero mai resi conto.
Il legame tra suo figlio e Trunks, poi, l’aveva commossa sino alle lacrime. Quei due bambini erano in simbiosi perfetta. Nonostante Bulma avesse allestito una cameretta per ciascuno di loro con tanto di libri, giochi, vestiti e comfort di ogni genere, i due piccoli finivano sempre per addormentarsi l’uno accanto all’altro, sorridendo felici.
Tutto questo le aveva dato modo di riflettere molto, nelle ultime sere. Forse, avrebbe dovuto accettare la proposta di Bulma. Forse, avrebbero dovuto trasferirsi lì in città, dove i tre piccoli mezzi saiyan potevano stare insieme come una vera famiglia, dove anche lei avrebbe potuto trovarsi un lavoro e rifarsi una vita. Aveva da poco passato la trentina, Chichi, era ancora affascinante, lo sapeva bene, ma la sua ostinazione nel non voler dare fastidio e nel sentirsi ancora legata a Goku glielo avevano impedito, nonostante tutto. E poi, si sarebbe sentita di troppo, perché era certa di una cosa: anche se Bulma avesse donato loro degli appartamenti privati, avrebbero trascorso molto tempo insieme, e non voleva assolutamente intaccare il rapporto che c’era tra lei e Vegeta.
Li invidiava molto, se doveva essere sincera. Esattamente come Gohan, aveva avuto modo di scoprire un lato di Vegeta che non conosceva, un lato umano che lo rendeva speciale. Non aveva certamente cambiato del tutto opinione su di lui, ma essa era decisamente migliorata. Forse, da un lato, avrebbe anche voluto che Goku gli assomigliasse un po’… Che fosse stato presente come lo era Vegeta, almeno. Che fosse stato più presente e più sincero con lei e con i suoi figli.
A tal proposito, stava davvero iniziando a perdere le speranze per quanto riguardava una possibile risposta alla sua lettera da parte di Goku. Possibile che a suo marito non importasse più niente della famiglia che aveva formato con lei? Le sembrava impossibile che un uomo così buono fosse così irresponsabile e che, di rimando, una specie di mostro fosse un padre quasi perfetto. Cosa era andato storto? Che fosse lei, il problema?
Erano queste le cose a cui stava pensando Chichi quando Baba era comparsa all’improvviso, facendola sobbalzare.
“Ti ho spaventata, cara?”.
“Ba- Baba!” – stava tremando. Che modi erano, quelli? Comparire senza nessun avvertimento mentre stava cercando di riposare era da villani! Ma questo, evidentemente, non doveva avere alcun valore per una strega, abituata ad andare avanti e indietro da un mondo all’altro senza troppe remore.
“Scusami cara! Sono appena tornata dall’Aldilà dopo aver incontrato Goku e non ho perso tempo a venire da te per comunicarti la sua decisione! Non ho proprio pensato ad annunciare il mio arrivo, sono stata veramente maleducata!”.
“Ma no… Non pensarci…” – aveva ancora una mano sul petto, ma non la teneva lì per via dello spavento che le aveva fatto prendere la strega. O almeno, non solo per quello. Aveva davvero detto di aver parlato con Goku? E aveva aggiunto di avere un suo messaggio da darle? A quelle parole, la mora aveva iniziato a tremare senza sosta, non più così tanto certa di voler veramente sapere cosa lui le avesse da dire. Se avesse appreso che suo marito non aveva la benché minima intenzione di tornare, cosa avrebbe fatto?
“Tesoro… Stai bene? Mi sembri pallida”.
“Sì, Baba, scusa… Sono solo un po’ agitata”.
“Posso capirlo, tesoro” – aveva sorriso teneramente, facendo piegare la fitta rete di rughe del suo viso – “Ma ho buone notizie”.
“Veramente?”.
“Bè, almeno secondo me, lo sono”.
Non avrebbe potuto farcela a sopportare ancora, ma non voleva essere sola quando Baba le avrebbe detto le cose come stavano. Per questa ragione le aveva chiesto qualche secondo e aveva composto il numero dell’ufficio di Bulma, ufficio dove la turchina si era rintanata non appena erano rientrate a casa, chiedendole di raggiungerla. Inutile dire che si era precipitata nella sua stanza in meno di un istante, con il cuore in gola e il fiato corto dall’emozione.
“Chichi! Baba! Raccontatemi tutto, o potrei anche morire d’infarto!”.
“Nessuno morirà, quest’oggi, mia cara… Ho delle cose da raccontarvi”.
Così dicendo, aveva raccontato loro di aver incontrato Goku un paio di giorni dopo aver parlato con loro due. Prima, era stata costretta a informare re Yammer delle loro intenzioni per sincerarsi che il saiyan potesse effettivamente ottenere un permesso speciale per tornare temporaneamente sulla Terra e che potesse tornare in vita nonostante fosse trascorso più tempo del dovuto.
“Già… Non avevo tenuto in considerazione questa cosa… Non deve trascorrere più di un anno per poter riportare in vita una persona con le sfere del drago…” – Bulma si era data dell’imbecille. Come aveva potuto non ragionarci su? – “Chichi, mi spiace così tanto!” – stava per scoppiare a piangere.
“Tranquilla, Bulma… Re Yammer ha trovato una scappatoia di cui al momento non posso parlarvi. Per cui, dopo essermi accertata che Goku potesse effettivamente tornare in vita, l’ho raggiunto sul pianeta di re Kaioh dell’Ovest, parlandogli della vostra proposta e consegnandogli la lettera di Chichi”.
“Eh?” – avevano detto entrambe le donne in coro, al culmine dell’agitazione.
“E mi ha proposto di venire sulla Terra per una settimana e trascorrere del tempo col piccolo Goten”.
Il sangue si era gelato nelle vene di entrambe.
“Solo… solo questo? Ha detto solo questo?”.
“E mi ha fatto attendere un’ora e un quarto per poi consegnarmi questa. Ecco Chichi, è per te”.
Una lettera? No, la cintura della sua divisa arancione. Goku le aveva mandato la cintura blu che teneva stretti in vita i pantaloni della sua divisa arancione. Con questo gesto apparentemente così insignificante, Goku aveva riportato sua moglie indietro di tanti, tantissimi anni sino a quel giorno, a quell’episodio così lontano ma che ora le sembrava fosse successo solo pochi minuti prima.
Avevano quindici anni lui e quattordici lei. Era poco più che una bambina, ma era forte, coraggiosa, ed era stata allenata per diventare una guerriera. Si erano rivisti da poco, lei e Goku, e lui non ricordava niente di quella bambina con cui aveva vissuto quell’intensa avventura. Non ricordava né lei, né la promessa che le aveva fatto, quella più importante: la promessa di prenderla in moglie. Dopo la sua delusione iniziale, avevano ricominciato a vedersi piuttosto regolarmente per allenarsi. Goku era incuriosito dalle tecniche conosciute dalla sua giovane amica, e pensare di aver incontrato una donna così tenace e forte lo stuzzicava, anche se non aveva ancora compreso in quale misura. Chichi era giovane, bella, ma non era affatto un’ingenua. Sapeva esattamente quello che voleva e avrebbe fatto di tutto pur di ottenerlo. Sarebbe diventata la moglie perfetta per Goku, lo avrebbe coccolato e amato come nessun’altra avrebbe mai potuto fare perché lei lo avrebbe capito fino in fondo. Proprio per questo aveva deciso di perfezionarsi nella lotta, per allenarsi insieme all’uomo che voleva sposare a ogni costo. Quel giorno faceva caldo. L’afa era praticamente insopportabile, ma loro non avevano cessato gli allenamenti neanche per via del clima avverso. Era troppo stimolante giocare a inseguirsi lungo la riva del fiume, e gli schizzi prodotti dal loro correre senza sosta erano piacevolmente rinfrescanti. Ridevano, nonostante la serietà del momento. Ridevano perché erano felici. Chichi era migliorata tantissimo e lo stesso era valso per Goku, ma sotto un aspetto diverso da quello del combattimento. Il saiyan, seppur tonto e un po’ goffo, aveva imparato a voler bene a quella ragazza dai lunghi capelli neri. Lei cucinava per lui i piatti migliori, lo lasciava riposare sulle sue gambe, la sera, e condivideva la sua passione per la lotta, il suo desiderio di diventare sempre più forte. E poi, Chichi era carina, per quanto lui non fosse il massimo esperto in fatto di ragazze. Certo, non era come Bulma, ma gli piaceva. E gli piaceva più di quanto volesse dare a vedere. Si stavano rincorrendo in riva al fiume quando Chichi, improvvisamente, aveva urlato e si era accasciata, toccandosi la caviglia. In un primo momento, Goku non ne aveva compreso la ragione, ma era bastato avvicinarsi a lei per capire che un grosso serpente, forse calpestato inavvertitamente, l’aveva morsa.
Prontamente, proprio come il più temerario degli eroi, Goku si era chinato su di lei, succhiando il liquido velenoso con la bocca e fasciando la parte lesa con la cinta blu della sua tuta, facendo sì che i suoi pantaloni cadessero irrimediabilmente, causando nella mora un improvviso rossore, non causato certamente dall’effetto del veleno.
“Go-Goku… I tuoi pantaloni…”.
“Urca!!” – aveva detto lui, calciandoli lontano
“Ma Goku… Cosa fai?” – lei era diventata viola dall’imbarazzo. Che voleva fare quello sciocchino?
“Devo portarti subito dal Supremo” – aveva detto lui, serio, noncurante delle mutande in bella vista e dell’imbarazzo di lei.
Quella era stata la prima volta che Chichi si era trovata tra le sue braccia e , poco dopo, si sarebbe tramutata nella prima volta in cui lei, emozionata e felice, lo aveva baciato sulle labbra.
Con le lacrime agli occhi, Chichi era tornata al presente, cercando di trattenere l’emozione.
“Cara… Ti senti bene?”.
“Benissimo, Baba. Mi senti benissimo”.
“Molto bene, cara…” – aveva sorriso come solo lei sapeva fare – “Quindi, Goku sarà il benvenuto?”.
Bulma, che era rimasta in silenzio fino a quel momento cercando di decifrare l’atteggiamento della sua amica, era intervenuta, mostrandosi più entusiasta che mai.
“Certo, Baba. Sarà il regalo più grande che potremo fare a quel bambino, e non solo”.
Non si erano accorte che qualcuno, imbarazzato e incredulo, le stava ascoltando, nascosto dietro la porta della stanza. Era diventata una specie di abitudine, la sua, avrebbe di certo avuto una splendida carriera come investigatore privato.
Stava tremando, mentre cercava di mantenere un certo contegno. Non avrebbe mai creduto che quel momento potesse arrivare.
“E così, hai ceduto, razza di imbecille… Tornerai qui”.
Sì, sarebbe tornato lì, sulla Terra, da loro. E Vegeta non sapeva se fosse stato pronto.

 
*
 
Oggi…

Stavano cenando in silenzio, cercando di non sprecare neanche una briciola di pane e sorseggiando con entusiasmo il brodo caldo ricco di verdure fresche di giornata. Vegeta si era superato, quella sera, e i bambini ne erano pienamente soddisfatti, anche se, entrambi, cercavano di evitare lo sguardo del saiyan.
“Com’è andata a scuola, oggi?”.
Lo aveva chiesto distrattamente, senza sapere quello che avrebbe potuto scatenare facendo quella domanda che qualsiasi altro genitore avrebbe potuto fare.
Goten aveva chinato il capo, continuando a mangiare e rispondendo un bene tra i denti. Non aveva il coraggio di raccontare che Trunks aveva marinato la scuola e che il maestro lo aveva punito e umiliato.
Non voleva dare un’altra preoccupazione all’uomo che adorava. Avrebbe tenuto tutto dentro di sé, come faceva sempre.
Trunks non aveva risposto, continuando a mangiare e fissando con insistenza il piatto ormai quasi vuoto.
Vegeta sapeva che qualcosa non andava, tra quei due. Lo aveva capito da tempo, ormai. Se fosse stato un bravo genitore, sarebbe dovuto intervenire, cercare di capire cosa fosse accaduto tra quei due e prendere i dovuti provvedimenti, magari sostenuto da sua moglie. Ma era stanco, Vegeta. Gli faceva male il petto e la schiena bruciava irrimediabilmente. Doveva ancora lavare i piatti, pensare al bucato e capire cosa avrebbero potuto mangiare domani. Doveva ancora capire come andare avanti un altro giorno, da solo, in quel mondo che lo aveva schiacciato.
Per questo, aveva scelto consapevolmente di comportarsi da codardo, aveva scelto di comportarsi da vigliacco. E, la cosa peggiore, era che non riusciva neanche più a odiarsi per questo.
Distrattamente, Vegeta, aveva guardato fuori, cercando una risposta nel buio della notte. C’erano pochissime stelle in cielo, quella sera, e la sua mente aveva cominciato a vagare.
Chissà dov’era lei… Chissà dov’erano tutti. Chissà se pensavano a loro o se li avevano dimenticati. Chissà se, un giorno, avrebbero potuto ricongiungersi. Chissà se, nonostante tutto, Bulma avrebbe potuto accettarlo, anche se non era più la persona di cui si era innamorata tanto, troppo tempo fa.

Continua…


Ciao a tutti!
Buon inizio del periodo di festa, ragazze/i!
Natale è il mio periodo dell’anno preferito: le luci, i dolci, le canzoni, la famiglia… Dovrebbe essere Natale per tutto l’anno! <3
Ma torniamo a noi e a questo piccolo, piccolissimo tuffo nel passato. Povero Vegeta… Sono cambiate tanto le cose, eh? Poverino… Mi fa pena, tanta. E mi fa pena anche Chichi… Stranamente, perché io la odio e lo sapete.
=)
Vi ringrazio per la pazienza. Grazie per essere qui ogni settimana a leggere e recensire.
<3
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 10
*** Il compleanno di Goten ***


Il compleanno di Goten
 
Bulma e Chichi avevano raccolto tutte e sette le sfere del drago, facendo attenzione a nasconderle in modo che la loro luminosità non potesse essere in alcun modo notata. Erano state veloci ed estremamente efficienti, e avevano avuto anche il tempo di iniziare a pensare seriamente all’organizzazione della festa di compleanno di Goten. C’erano da stampare e distribuire gli inviti, comprare palloncini e festoni, decidere il menù, fare una scaletta con musica adatta alla loro età, pensare a dei giochi – e qui Bulma aveva proposto a Chichi di assumere degli animatori che facessero divertire i bambini – ordinare la torta e pensare anche a dei regalini per gli invitati. La mora aveva scoperto che il suo secondogenito era riuscito a farsi una folta schiera di amici, nei suoi pomeriggi trascorsi in città insieme a Trunks e Vegeta, e non aveva esitato neanche per un attimo prima di decidere di invitarli. Suo figlio avrebbe avuto la festa più bella del mondo e avrebbe ricevuto un regalo inaspettato e insperato. Sperava solo che le cose andassero per il meglio.
Aveva il cuore in gola, Chichi. Da quando Baba le aveva consegnato il dono inviatole da Goku non se n’era mai separata. Aveva fatto in modo di adattare la cintura a nastro per i capelli che, da qualche tempo, portava legati in uno stretto chignon. Non sapeva bene perché lo avesse fatto. Aveva ammesso di odiare quello che era stato suo marito proprio davanti a Bulma, eppure non era riuscita a separarsi da quel logoro accessorio.
Che aspetto avrebbe avuto, Goku? Era forse invecchiato? Del resto, aveva mantenuto il suo corpo anche nel regno dei morti… O avrebbe avuto lo stesso aspetto di cinque anni addietro? Come sarebbe stato rivedersi? Cosa le avrebbe detto? E cosa avrebbe dovuto fare lei, soprattutto? Era talmente arrabbiata con lui… Ma temeva che qualsiasi barriera avesse alzato sarebbe crollata al suo primo sorriso. E, a quel punto, Chichi avrebbe iniziato a odiare anche se stessa.
Ma non esisteva solo lei, ne era ben consapevole. Così come sapeva che aveva acconsentito a mettere in atto quel piano folle solo per i suoi figli. Aveva accettato solo per il bene di Gohan e Goten.
Non vedeva l’ora di vedere la reazione dei suoi figli. Gohan sarebbe scoppiato a piangere di gioia, già lo sapeva. Quel ragazzo adorava suo padre, lo stimava profondamente, ed era certa che non vedesse l’ora di rivederlo. Ma Goten? Lo aveva solo visto in fotografia, aveva solo sentito parlare di lui. Come avrebbe reagito? Bulma le aveva detto di non preoccuparsi, che ne sarebbe stato pienamente felice, ma se così non fosse stato? O se, peggio ancora, si fosse attaccato a lui e Goku avesse deciso di andare via? Se, cercare le sfere del drago fosse stata fatica sprecata? Troppi dubbi attanagliavano la sua mente, troppi pensieri negativi.
Doveva solo stare calma e pensare alla festa di suo figlio. E, come più volte aveva sottolineato Bulma, sarebbe andato tutto bene.
Tutto bene.
Ci sarebbero stati tutti, ma proprio tutti gli amici di un tempo. Le due donne non avevano comunicato loro dell’arrivo di Goku sperando di fare una sorpresa a tutta la squadra riunita. Crilin e Genio sarebbero stati felici sino alle lacrime, già lo sapevano. Chissà cosa avrebbe detto Goku del suo migliore amico e di C18? Di certo, ne sarebbe rimasto molto sorpreso, ma sarebbe stato contento per lui.
E chissà che reazione avrebbe avuto la persona che, dopo i membri della sua famiglia, aveva subito più di tutte le conseguenze dell’assenza di Goku… Che reazione avrebbe avuto, Vegeta, a riguardo?
Tutti sapevano che il principe dei saiyan aveva smesso di combattere dopo la morte di Goku. Certo, non aveva mai smesso di allenarsi, ma non aveva più girovagato nello spazio alla ricerca di qualche nuova tecnica da apprendere e sfoggiare contro il suo più acerrimo rivale. E nessuno, ma proprio nessuno, gli aveva mai più sentito dire di voler diventare il guerriero più forte dell’intero universo. Non si era neanche mai più trasformato in super saiyan, nonostante le continue richieste da parte dei bambini. Era completamente cambiato. Se in meglio o in peggio, sotto quel punto di vista, Chichi non sapeva dirlo. In quei giorni trascorsi alla Capsule Corporation, il loro incontri si erano limitati alla colazione, al pranzo e alla cena, oltre a qualche fortuito momento di passaggio in ambienti quali salotto e corridoi. Era sempre così… Così serio. Credeva di averlo visto sorridere solo un paio di volte. C’era da dire che era più educato di Goku, sedeva a tavola in maniera più composta e non faceva grugniti insopportabili mentre mangiava, ma si limitava a salutare appena, a volte solo con un cenno del capo. Dove era finito il Vegeta chiacchierone che aveva praticamente fatto irruzione a casa sua qualche tempo addietro?
Però, con i ragazzi era tutta un’altra storia. Vegeta li esortava a impegnarsi, a studiare, ad allenarsi con dedizione e a ubbidire agli adulti, senza però soffocare le loro predisposizioni e i loro interessi. Da quando si erano trasferiti lì, persino Gohan aveva ricominciato ad allenarsi. Chich, suo malgrado, aveva dovuto ammettere che vedere suo figlio in azione la riempiva di orgoglio. Gohan era diverso, era più solare. Nonostante quelli con Vegeta fossero movimenti basilari, quasi un riscaldamento per due guerrieri del loro calibro, la mora aveva visto nei suoi occhi lo stesso sguardo ardente che aveva Goku durante gli scontri mortali che aveva intrapreso in passato. Un giorno, passando dalla serra per raccogliere il bucato, aveva sentito suo figlio ringraziare il saiyan più anziano per l’aiuto datogli durante lo scontro con Cell.
“Se non fosse stato per te, per quel colpo con cui lo hai distratto, non credo che ce l’avrei fatta”.
Se fosse vero o meno, Chichi non poteva saperlo, mentre sapeva benissimo quanto fosse cresciuta la stima di Gohan nei riguardi del burbero principe dei saiyan, così come sapeva benissimo che Goten, il suo piccolo, adorabile Goten, pendesse dalle sue labbra.
Quel bambino lo amava. Lo amava di un amore naturale solo tra padre e figlio. Goten lo rispettava, seguiva ogni suo consiglio, anche il più piccolo, cercava di renderlo orgoglioso e, cosa che a Chichi faceva più male di tutte, cercava disperatamente un contatto fisico con lui. Il suo piccolo voleva essere abbracciato da qualcuno che non fosse lei. Il suo piccolo voleva essere abbracciato dall’uomo che considerava suo padre.
La mora era pervasa dai dubbi. Il sonno, la sera, tardava ad arrivare. Stava veramente facendo la cosa giusta? Goku era morto da tanto tempo, ormai, le cose erano molto cambiate… Gohan non era più un bambino, ma un ometto responsabile che trascorreva la maggior parte del suo tempo a studiare e che sgattaiolava via di tanto in tanto per fare del bene, o almeno così diceva lui (a tal proposito, Chichi lo aveva visto bisbigliare un paio di volte insieme a Bulma in merito a un certo Great qualcosa, ma non era certa né di aver capito il nome giusto né di voler davvero sapere di cosa si trattasse). Goten era un bambino amato, ma evidentemente incompleto per la mancanza della figura paterna che aveva trovato in Vegeta e lei… Bè, lei era invecchiata tanto… Certo, era sempre in forma, ma se Goku non l’avesse più trovata attraente? Se avesse deciso di non rimanere insieme a loro anche per questa ragione? Cielo, a cosa andava a pensare? Lei lo odiava, no?
Tutto questo pensare di continuo faceva sì che Chichi avesse una perenne emicrania che la portava a massaggiarsi con decisione le tempie. Odiava stare male, soprattutto in vista di eventi tanto importanti. Doveva solo mantenere la calma e sarebbe andato tutto bene, questa era le verità. Doveva solo respirare e attendere. Il resto sarebbe venuto da sé.

 
*

“Le sedie rosse vanno in fondo a destra mentre quelle gialle vanno dal lato opposto! I dolci sul tavolo lungo, per piacere, mentre i regalini per i bambini e la finta torta per le foto vanno sul tavolo rotondo. Le pietanze salate sul tavolo con il dinosauro e la pignatta… Sì, la pignatta va appesa tra quei due pini accanto al laghetto! Forza signori! Siamo già in ritardo e tutto deve essere perfetto!”.
Il fatidico giorno era arrivato e Bulma non aveva smesso di dare ordini sin da quando aveva messo i piedi per terra. Il primo malcapitato era stato proprio il povero Vegeta, costretto dalla moglie a vestirsi immediatamente e a portare i bambini fuori da casa. “Ovunque ma non qui”, aveva detto, causando al povero principe una serie di spasmi misti a minacce di morte in quanto nessuno poteva permettersi di dargli ordini. La turchina aveva notato che erano anni che non si rivolgeva a se stesso con il titolo altisonante di “principe dei saiyan”, ma quello non era il momento più adatto per farglielo notare. Ci sarebbe stata una festa, quella sera, e un incontro perfettamente congeniato tra un padre e un figlio che non si erano mai conosciuti e tutto, ma proprio tutto, doveva risultare PERFETTO. Guai se fosse stato fatto il minimo errore. Bulma avrebbe ucciso tutti i presenti, poi Chichi li avrebbe fatti resuscitare (dando così un senso all’aver trovato le sfere del drago) e li avrebbe uccisi nuovamente, stavolta lasciandoli aleggiare nel mondo dei morti.
A proposito di morti, a che ora sarebbe arrivato di preciso Goku non lo sapeva nessuno. Baba era stata estremamente vaga, ed era stato impossibile entrare in contatto con il saiyan tramite re Kaioh. Sapevano perfettamente che il sovrano dell’ovest fosse in grado di sentirle e non riuscivano a spiegarsi il perché le stesse ignorando. Per quanto ciò costituisse un serio problema, di comune accordo avevano deciso di non pensarci troppo. Da lì a poche ore, il giardino della Capsule Corporation sarebbe stato invaso da bambini, genitori che non conoscevano e amici di un tempo, riunitisi per festeggiare Goten. Alla fine del party, quando tutti i bambini sarebbero ritornati a casa, sarebbero rimasti solo gli amici intimi di Chichi per una sorta di party intimo dopo la festa, come lo aveva chiamato Bulma e lì – si sperava – sarebbe arrivato Goku.
Si sperava, appunto.
Incapace di trattenersi ulteriormente, la mora si era rintanata in bagno, scoppiando in un pianto incontrollabile. Non aveva intenzione di farsi vedere o sentire da qualcuno. Aveva solo bisogno di un momento per se stessa, per riordinare i suoi pensieri, ma i suoi singhiozzi non erano sfuggiti a una persona che, per caso, passava davanti la porta di quel bagno proprio in quel momento.
“Smettila di piangere e vieni fuori da qui”.
Com’era possibile che, tra tanti, proprio Vegeta fosse passato da lì in quel preciso istante.
“Ve-Vegeta… Non è il momento”.
“Tsk. Pensi che io abbia tutto il giorno? Devo tornare da quei due marmocchi prima che combinino qualche guaio. Vuoi aprire questa porta o no?”.
Già: perché Vegeta non si trovava con i bambini? Che ci faceva a casa a quell’ora? Che fosse successo qualcosa? Allarmata più che mai, aveva aperto di scatto la porta del bagno, e lo aveva fatto talmente in fretta da non asciugarsi nemmeno il viso segnato dalle lacrime e da un’inondazione di mascara nero come la notte.
“Tsk! Finalmente! Dovresti darti una sistemata, sai?” – rude come non mai, Vegeta era entrato in bagno, imprecando sottovoce. Chichi era avvampata. Che significava quel gesto? Che cosa voleva fare?
“Tsk! Senti, se ancora non lo avessi notato, tuo figlio e il mio hanno deciso di macchiarmi con il gelato e dato che non ho intenzione di andare in giro sporco come un maiale sono venuto a cambiarmi. Ora, si dà il caso che questo sia il mio bagno personale, quindi…”.
Improvvisamente, Chichi sembrava essere rinsavita, e aveva iniziato a guardarsi attorno scoprendo che sì, i prodotti maschili sulle mensole e gli asciugamani bianchi con sopra ricamata una “V” non potevano fare altro se non attestare che quello fosse il bagno privato del principe dei saiyan.
“Oddio… Vegeta, scusami, sono mortificata. Io non volevo… E neanche Goten… Cielo che imbarazzo”.
Era diventata ancora più rossa di prima, la mora, e mai come in quel momento avrebbe desiderato di conoscere la tecnica del teletrasporto per andare via da lì e non farsi vedere mai più.
“Tsk. Non farò uno spogliarello qui davanti, se è questo che stai aspettando, e non sentirò le tue lagne se i nostri figli si cacceranno in qualche guaio. Mi stai facendo fare tardi”.
I nostri figli. Quanto le aveva fatto strano sentire una frase del genere? A volte le sembrava impossibile che Vegeta fosse padre, e non uno qualunque, ma uno che sapeva esattamente il fatto suo.
“Vado… Vado…” – mite come un agnellino, la mora aveva chinato il capo per uscire da quella stanza quando la voce imperiosa del principe dei saiyan l’aveva fatta tornare sui suoi passi.
“Chichi” – erano poche le volte in cui la chiamava per nome – “Pulisciti il viso. Non vorrai che l’imbecille di veda in questo stato pietoso, spero”.
No che non voleva. Ed era certa che neanche Vegeta avesse intenzione di farla sorridere, eppure, nonostante tutto, c’era riuscito.

 
*
 
La festa era stata un autentico successo. I bambini avevano giocato e mangiato, le animatrici erano state formidabili e Goten, che non si aspettava minimamente un simile regalo da parte di sua madre e di Bulma e Vegeta ne era rimasto estremamente entusiasta. Trunks, complice degli adulti, aveva mantenuto il segreto per tutto il tempo e aveva chiesto a suo nonno di costruire un regalo speciale per il suo migliore amico, regalo che era stato scartato da Goten per ultimo, subito dopo aver divorato non meno di cinque porzioni della gigantesca torta a sei piani a forma di dinosauro che Bulma aveva fatto confezionare per lui.
“Ma questo è… Trunks, ma è bellissimo!”.
“Davvero ti piace? Non sai quanto sono contento, Goten! Adesso potrai divertirti a scorrazzare quanto vuoi!”.
“Sei il migliore amico del mondo!” – aveva detto, saltandogli letteralmente al collo.
In effetti, il regalo pensato dal bimbo dai capelli lilla e realizzato dal suo geniale nonnino aveva attirato l’attenzione di grandi e piccini. Non si incontrava tutti i giorni una macchina volante in miniatura super accessoriata color blu notte.
Certo, era un regalo piuttosto singolare, considerando che entrambi i piccoli mezzi-saiyan avessero ormai imparato a padroneggiare la tecnica del volo, ma Goten aveva un’autentica fissazione per le automobiline di ogni specie, e Trunks non voleva fargli un regalo banale come una macchinina radiocomandata o una macchinina da collezione. Immediatamente, tutti si erano radunati attorno a quell’autentico gioiellino per ammirarlo e poterci fare così un giro. Era a dir poco straordinaria, ma aveva suscitato qualche preoccupazione in Chichi, convinta che per guidarla fosse necessario avere una specie di patentino.
“Ma mammina, è solo un giocattolo! Ti prometto che la userò solo davanti casa e che andrò sempre piano! LA ADORO!”.
Dopo aver distribuito i regalini ai bambini, omaggiato i genitori con porzioni esorbitanti di dolci da portare a casa e distribuire tra i parenti, solo pochi intimi erano rimasti alla Capsule Corporation.
Che colpo avevano avuto quando avevano visto entrare nella struttura Crilin accompagnato dalla bionda cyborg che rispondeva al nome di C 18, nonostante sapessero perfettamente di loro due. Non riuscivano a spiegarsi come fosse possibile che Crilin fosse riuscito a fare breccia nei circuiti di quella donna fredda come il ghiaccio.
Genio, Puar, Oscar e Yanco avevano fatto, ovviamente, svariate allusioni al fatto che C 18 potesse avere circuiti e ferraglia al posto dei tipici attributi femminili, ma era bastato uno sguardo glaciale della cyborg per metterli tutti a tacere. Gli unici diffidenti rispetto a quella che un tempo era stata una loro nemica, paradossalmente, erano stati Junior e Vegeta, nonostante si trovassero nella sua stessa situazione. Anche loro, un tempo, erano venuti sulla terra per conquistarla o distruggerla, ma per fortuna quello era ormai un brutto e lontano ricordo.
Anche Dende e Popo avevano deciso di partecipare alla festa del bambino, e Gohan, con grande sorpresa da parte di tutti, si era presentato accompagnato da una giovane fanciulla di nome Videl che per giunta era la figlia di quello strano figuro che rispondeva al nome di mister Satan. Per poco, Chichi non era morta di infarto nel vedere suo figlio, il suo primogenito, in compagnia di una ragazza. Quando era successo? Perché non si era accorta di niente? Per fortuna c’era Bulma accanto a lei, pronta a sostenerla nell’accettare la realtà dei fatti.
Tenshing e Riff avevano portato a Goten un dono bellissimo. Dopo aver chiesto il permesso a Chichi, avevano regalato al saiyan il cucciolo di una particolare razza di cane che si allevava tra i monti in cui dimoravano. Dal manto color argento e gli occhi dorati, si diceva che fosse la discendenza di un antico demone-cane chiamato Inuyasha, una creatura che proteggeva le persone amate dalla cattiveria degli altri esseri demoniaci. Era stato amore a prima vista tra Goten e quel cucciolo un po’ troppo grande per essere di soli tre mesi.
“Ma è bellissimo!” – sembrava che Goten non sapesse dire altro, quel giorno – “Vieni qui, bello! Vieni!”.
“Mamma! Ne voglio uno anche io! Ti prego! Magari ha un fratellino o una sorellina! Papà, lo voglio, per favore! Così staranno insieme!”.
“Trunks… Non fare i capricci”.
“Ti prego, mamma!”.
“Obbedisci a tua madre!”.
“Ma papà…”.
“Sarebbe bello, in effetti…” – era intervenuto Gohan – “Sarebbero un po’ come voi due che vi volete così bene, non trovate?”.
“Ci penseremo…” – aveva concluso Bulma, seguita da uno “Tsk” appena soffiato dal marito. Tanto, già sapeva che sua moglie stava facendo solo scena e che entro sera suo figlio ne avrebbe avuti dieci, di quei cani.
“Sai già come chiamarlo?” – aveva chiesto timidamente la giovane Videl. Quella ragazza era veramente carina e a modo. Gohan aveva scelto bene.
“Sì…” – aveva detto il bimbo, arrossendo improvvisamente e abbassando lo sguardo verso il cane.
“E come?” – gli aveva chiesto Trunks, curioso.
“Ecco… Io… Io voglio chiamarlo Ouji” – aveva sussurrato, e aveva guardato, emozionato e agitato, un altro ouji, quello vero, quello che amava con tutto il suo cuore.
Vegeta non era stato in grado di mascherare lo stupore affiorato sul suo viso. Si era sempre ben guardato dal raccontare ai bambini quale fosse la sua vera origine, ma non aveva preso questa decisione per vergogna. Si era convinto che meno i bambini avrebbero saputo, meno lui avrebbero fatto domande e meno lui avrebbe sofferto per qualcosa in cui aveva sperato così a lungo e che non sarebbe mai stata possibile. Lui non era più quella persona. Non era più un principe. Forse, non lo era mai stato. Il desiderio di combattere e di diventare sempre più potente era un qualcosa che aveva represso con fatica, e quel duro lavoro che aveva fatto su se stesso aveva finalmente dato i suoi frutti. Ma poi, Goten aveva pronunciato quella parola e… E il mondo, per un attimo, sembrava essergli crollato addosso. D’istinto, si era guardato attorno, cercando con lo sguardo il colpevole di quella confessione. Che fosse stata Bulma? No, lei sembrava stupita quanto lui. E poi, gli aveva fatto una promessa solenne, non sarebbe mai venuta meno alla parola data. Chichi non avrebbe avuto motivo di parlare con suo figlio di una cosa del genere. Che fosse stato Gohan? No… Non poteva essere. Ma allora, chi poteva aver…
“Sono stato io, Vegeta” – la voce del vecchietto delle tartarughe lo aveva fatto trasalire. Dalla posizione in cui erano, nessuno avrebbe potuto udirli.
Il principe dei saiyan era rimasto interdetto. Subito, la vena sulla sua fronte si era inspessita, sintomo della sua rabbia crescente. Che cosa era venuto in mente a quel vecchio pervertito? Perché non si era fatto gli affari suoi?
“Tu… Vecchio…”.
“Puoi arrabbiarti quanto vuoi, ragazzo. I bambini dovevano sapere”.
I bambini. Dunque, anche Trunks sapeva la verità. Ma per quale motivo non aveva tenuto la bocca chiusa? E, soprattutto, cos’altro aveva raccontato loro?
“Non tormentarti, principe dei saiyan. I tuoi figli sanno ogni cosa... Sii fiero di loro. Nonostante tutto, hanno rispettato il tuo dolore e la tua volontà”.
“I… I miei figli?”.
Stravolto, confuso più che mai, Vegeta aveva puntato gli occhi scuri come la notte sui due bambini che aveva davanti, incurante di tutto ciò che aveva attorno. Perché il vecchiaccio aveva parlato al plurale? Lui aveva un solo figlio, e di certo non considerava il moccioso di Kaharot come se fosse suo. Stava per venirgli un embolo, se lo sentiva.
“Puoi negarlo quanto vuoi, Vegeta. Vuoi bene a quel bambino come se fosse tuo. Lo stai crescendo, ti stai curando di lui più di chiunque altro. Lo hai accolto in casa tua e nel tuo cuore… E lui ha fatto lo stesso con te”.
“Tsk! Tu vaneggi, vecchio rimbambito!” – lo aveva detto tra i denti, cercando di nascondere l’orgoglio ferito. Lui non era un uomo dal cuore tenero. Lui non amava nessuno, lui non…
“Guarda, Vegeta. Guarda come ti osservano. Sono rapiti da te. Vogliono compiacerti a ogni costo, onorarti. Dimostrarti di essere degni di te, delle tue attenzioni, del tuo affetto. Vogliono dimostrarti di volerti bene, ma senza invadere eccessivamente i tuoi spazi. Quei due bambini ti hanno letto sin dentro l’anima, ragazzo… E ti sono entrati dentro, che ti piaccia o meno”.
Se non avesse chiuso il becco lo avrebbe ammazzato da lì a un secondo. Ma, proprio nell’istante in cui si era girato, furibondo, nella sua direzione, si era reso conto che accanto a lui non ci fosse proprio nessuno e che il Genio non si era mai mosso da dove era stato sin dall’inizio, accanto a Oscar e Tartaruga.
Che avesse sognato? No, era praticamente impossibile. Lui era certo di averci parlato. Non era uno stupido, e non era un pazzo che soffriva di allucinazioni. Vegeta sapeva benissimo che il Genio delle Tartarughe nascondesse poteri e tecniche inimmaginabili, e non era il solo ad avere questa consapevolezza, tra i presenti. Senza neanche rendersene conto, aveva cercato con lo sguardo Dende e Junior: sapeva che gli unici esseri in grado di udire suoni a debita distanza erano proprio i due alieni dalla pelle verde. I loro visi, però, sembravano perfettamente normali, sempre se non si teneva in considerazione della sorpresa provata nell’udire il nome che Goten avesse scelto per il suo nuovo cucciolo.
“Quindi avrò il mio cane, papà? Veramente?” – Trunks gli era comparso davanti all’improvviso e si era aggrappato alle tasche dei suoi jeans, speranzoso. E aveva tremato. Vegeta aveva tremato. Un brivido aveva percorso la sua robusta e scolpita schiena, lasciandolo interdetto. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Lui non avrebbe dovuto trovarsi lì, lui non avrebbe dovuto riceve l’amore di due bambini, non avrebbe dovuto essere amato da una donna e soprattutto non avrebbe dovuto ricambiare. Perché sì: per quanto Vegeta lo stesse capendo realmente solo in quel frangente, lui ricambiava profondamente i sentimenti che i bambini provavano per lui.
Panico. Il più immenso, totale, devastante panico lo aveva assalito, soffocandolo.
“Ti senti bene, papà?”.
La voce di Trunks gli era giunta come ovattata. Tutto attorno a lui aveva cominciato a girare vorticosamente e non aveva potuto evitare di sudare copiosamente, scosso da un sentimento che non era sicuro di aver compreso.
“Papà… Mi stai facendo male”.
Senza rendersene neanche conto, Vegeta aveva afferrato con forza i polsi di suo figlio. Li aveva stretti con tanta veemenza da causare dolore al sangue del suo stesso sangue, da causare turbamento su quel viso di bambino, in quegli occhi sempre allegri e amorevoli.
“Vegeta… Tesoro… Lascialo andare”.
Un silenzio tombale era piombato in quella serra, prima rallegrata dalle risate e dal vociare dei presenti. Tutti, ma proprio tutti avevano iniziato a fissarlo, incapaci di capire quanto stesse accadendo sotto i loro occhi.
Inghiottendo rumorosamente, Vegeta aveva lasciato andare Trunks, incredulo. Il piccolo saiyan mezzosangue aveva iniziato a massaggiarsi i polsi, ma non era spaventato o arrabbiato con suo padre. Era solo molto confuso. Confuso e amareggiato.
“Stai bene?” – Goten si era avvicinato, preoccupato.
“Sì… Va tutto bene” – ma Trunks non sembrava molto convinto.
“Vegeta… Tu stai bene?”.
“Sì, papà… Stai bene?”.
Erano preoccupati per lui.
Impassibile, immobile come una statua di marmo, Vegeta non aveva saputo cosa dire. Quel silenzio, quella tensione sarebbe potuta durare in eterno se un’aura improvvisa non avesse fatto capolino, attirando l’attenzione di tutti e annunciando quel momento così atteso da Chichi e da Bulma.
“Ehilà! Amici! Da quanto tempo! Vi sono mancato? Urca! Ci siete proprio tutti! Non ci posso credere! Vi trovo bene! Non sapete che gioia poter trascorrere un po’ di tempo qui voi”.

Continua…


Ciao a tutti!
Capitolo un po’ lungo e pubblicato con un pochino di ritardo.
Scusatemi, ma dovete sapere che la vostra autrice è un autentico disastro. Spero che possiate perdonare mie eventuali distrazioni: non riesco a ricordare se Bulma aveva detto ai bambini che Vegeta fosse il principe dei saiyan. Ho riletto velocemente i capitoli già pubblicati (ho iniziato a imbastire il racconto un anno fa) ma proprio non sono riuscita a venirne a capo. In caso, le cose dovevano andare come avete letto oggi. XD
È la vecchiaia che gioca brutti scherzi, vi chiedo scusa.
Orbene. Direi che i colpi di scena sono stati più di uno. XD
Lascio a voi la parola, a questo punto. ;) Ho già fatto abbastanza danni!
Grazie di tutto!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 11
*** Ciao... Goku ***


Ciao... Goku

“Sei tu… SEI VERAMENTE TU!”.
L’urlo di gioia di Crilin aveva dato concretezza a quello che in tanti avevano pensato fosse solo un sogno o un’allucinazione collettiva. In un primo momento, scossi dal violento e inaspettato gesto di Vegeta nei confronti di Trunks, i presenti non si erano accorti della presenza di una loro vecchia conoscenza, ma poi avevano avvertito quell’aura familiare, girandosi tutti, contemporaneamente, nel punto in cui era comparsa. Ed eccolo lì, gioioso e frizzante come sempre, eccolo lì, giovane e allegro come un tempo, l’amico che nessuno avrebbe mai più sperato di rivedere: Son Goku.
Crilin gli era letteralmente saltato al collo, mandando alle ortiche tutta la fatica fatta negli anni per cercare di apparire come un vero duro agli occhi della sua bella. Era scoppiato a piangere, tanto forte era stata l’emozione provata, perché era lui. Era davvero lui, il suo migliore amico. Poteva vederlo, sentirlo, toccarlo perché era Goku, il Goku con cui era cresciuto e con cui aveva vissuto mille avventure, il Goku che si era sacrificato per il bene dell’umanità e non solo.
“URCA! Ciao Crilin! Anche io sono contento di vederti, ma stai attento a non soffocarmi! Non voglio morire definitivamente!”.
I presenti avevano fatto a gara per abbracciarlo e salutarlo, accogliendolo con gli onori che gli spettavano. Era stupefacente quello a cui stavano assistendo, quello che stavano vivendo. Era un autentico miracolo! Goku non era invecchiato di un giorno, ma era rimasto esattamente come lo avevano visto l’ultima volta, prima che si teletrasportasse sul pianeta di re Kaioh e si facesse esplodere insieme a Cell. Era giovane, in forma smagliante, ed era felice.
“Ma che cosa ci fai qui, amico? Come hai fatto a tornare?” – aveva domandato Yanco, con gli occhi lucidi dall’emozione.
“Bella domanda!” – aveva trillato lui, euforico – “È una lunga storia! Ve la racconterò a breve, ma prima devo fare una cosa…” – sì, Goku doveva fare una cosa. Anzi, doveva farne diverse, perché in quel marasma, i membri della sua famiglia e quelli della sua migliore amica erano rimasti indietro, un po’ per lo shock, un po’ per permettere al saiyan di riorganizzare le idee e prepararsi al momento per cui era stato convocato sulla Terra.
“Ciao Chichi…” – lo aveva detto col tono di voce più dolce che fosse in grado di usare. La mora, nell’udire il proprio nome pronunciato dalle labbra del marito, si era sciolta in lacrime, e per poco non era caduta a terra, se Goku non l’avesse sorretta. Si era odiata, per essersi mostrata così debole e vulnerabile ai suoi occhi. Lei lo odiava, giusto? Lei non sopportava di essere stata vittima del suo egoismo, no? E allora, perché non riusciva a trattenere l’emozione? Perché l’unica cosa che voleva era sentirsi stingere da lui e piangere contro il suo petto, inspirando forte il suo odore?
“Go-Goku!” – aveva singhiozzato, aggrappandosi alla sua solita tuta arancione.
“Su, tesoro, non fare così… Non piangere… Sappi che sono molto contento di vederti”.
Era sincero, Goku. L’aveva abbracciata teneramente, lasciando che piangesse sul suo ampio petto. Avrebbe voluto baciarla, ma sapeva che sua moglie non era solita praticare effusioni in pubblico. Era strano vederli lì, insieme, in quel contesto così strano e in atteggiamenti così intimi. Goku non aveva mai avuto slanci d’affetto nei suoi riguardi, e lo stesso valeva per lei, sempre così attenta a mostrarsi come una massaia perfetta e come una madre severa ma giusta. Ma quello… Bè, quello era diverso. Era diverso e perfetto, e Chichi avrebbe voluto che durasse per sempre.
“Mi sei-sei mancato an-che… tu” – nonostante i singhiozzi, era riuscita a dirglielo. E non le era pesato, al contrario di quello che aveva creduto. Era stato tutto così spontaneo, così sincero, così vero.
Sorrideva felice, il Son. E, mentre stringeva la sua consorte sotto gli sguardi commossi dei presenti, un’altra voce aveva attirato la sua attenzione.
“Pa-pà!” – aveva balbettato Gohan, lasciando la mano di Videl, scosso dall’emozione. Le sue ginocchia tremavano proprio come la sua voce, rotta dal pianto che non era riuscito a trattenere. Quello era lui. Era il suo papà! Che regalo meraviglioso gli avevano fatto gli dei, quel giorno!
“Gohan! Ma sei tu? Urca come sei cresciuto! Sarai diventato fortissimo! Vieni qui, figliolo, fatti abbracciare!”.
Non se lo era fatto ripetere due volte, correndo da suo padre per farsi stritolare in quell’abbraccio dove sua madre era ancora coinvolta.
Erano bellissimi, tutti e tre. Sembrava che, per loro, il tempo si fosse fermato. Sembrava che fossero la famiglia perfetta.
“Ce ne hai messo di tempo ad arrivare!” – lo aveva ammonito teneramente una Bulma al limite della commozione – “Sei sempre il solito!”. La turchina aveva gli occhi lucidi, ma aveva fatto di tutto per trattenersi. Era così contenta per Chichi e per Gohan. Alla fine, aveva avuto ragione su Chichi e Goku: la sua amica non avrebbe resistito nel vedere suo marito e avrebbe cambiato idea. Non era dovuto alle circostanze, poteva leggerglielo negli occhi. Vedeva la sua commozione, la sua dedizione e il suo amore. Quel momento era perfetto, e la turchina sperava potesse durare per sempre – “Bentornato a casa, Son Goku”.
“Così quello lì… Goku. Oh Dende, Goten è davvero identico a lui”.
Trunks, ancora un po’ scosso per quanto accaduto poco prima con suo padre, si era completamente ammutolito alla vista del famigerato Son Goku, non sapendo bene cosa fare. Il papà del suo migliore amico era piombato lì, nel giorno del compleanno di suo figlio e se ne stava seduto a terra, con stretti addosso la moglie e il primogenito. E poi, sorrideva sereno. Gli sembrava felice. No, non gli sembrava: lui era davvero felice.
Si era guardato attorno, osservano con attenzione le reazioni dei presenti: sua madre tratteneva appena le lacrime, così come la maggior parte dei loro amici. Non pensava di poter vedere Gohan piangere, e persino Junior era visibilmente emozionato. Solo C18 sembrava essere immune a quella presenza, e non era difficile immaginare il perché.
Poi, lo sguardo di Trunks si era soffermato su due persone, preoccupato e ansioso nello scoprire come avevano reagito. Ed eccoli lì, Goten e suo padre. Eccole lì, le persone che più di tutte avevano cercato di trattenere sentimenti ed emozione. Trunks continuava a guardare Goten, Goku e poi suo padre, per poi ricominciare il giro dall’inizio. Che tensione. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Era come se Vegeta avesse smesso di respirare, come se qualcuno lo avesse trasformato in una splendida scultura iperrealista. Trunks poteva avvertire chiaramente gli scompensi della sua aura, e questo gli aveva spezzato il cuore. Aveva ormai capito che suo padre non fosse l’uomo imperturbabile che voleva far credere di essere (ne aveva avuto una dimostrazione poco prima), ma quello che stava percependo con gli occhi e con la mente era inspiegabile. Non gli sembrava neanche più lui. E Trunks non riusciva a spiegarsi il perché, come mai suo padre fosse così sensibile alla vista di un ragazzo dall’aspetto così innocuo e bonario. E, la cosa peggiore, era che Goku non si era neppure accorto della presenza di suo padre. Per la prima volta, Trunks, aveva capito cosa volesse dire essere invisibile.
E Goten? Goten era l’unico a non aver partecipato a quel tenero abbraccio di famiglia. Il suo migliore amico, il suo fratellino era rimasto lì, con il piccolo Ouji in braccio, imbambolato esattamente come Vegeta alla vista di quella scena così intima e inaspettata. Lo stavano escludendo, in quel momento. La sua famiglia lo aveva messo da parte. Possibile che Gohan e zia Chichi si fossero dimenticati di lui?
“Ma che combinate?”.
“Goten…” – lo aveva chiamato, avvicinandosi a lui con attenzione e garbo. Voleva essere d’aiuto, ma avrebbe anche potuto rovinare ogni cosa – “Perché non vai a salutarlo anche tu? Quello è tuo padre, no? Vai a dirgli ‘ciao’ e fagli vedere quanto sei diventato forte! Sono sicuro che ti troverà fantastico!”.
Aveva cercato di essere incoraggiante ma non invadente, sebbene fosse praticamente impossibile. C’erano sorpresa, indecisione e timore in Goten. Glielo aveva letto nell’anima.
“Che posso fare per te, amico mio?”:
“Ma quanto sono sciocca!”.
L’esclamazione di Chichi lo aveva riportato alla realtà. La mora si era staccata improvvisamente dalla stretta del marito, asciugandosi poi le lacrime col dorso della mano destra – “C’è qualcuno che muore dalla voglia di conoscerti! Non è così, tesoro?” – e si era girata verso Goten, sorridendo felice – “Avanti! Vieni ad abbracciare il tuo papà!”.
Tutti si sarebbero aspettati una scena idilliaca, da romanzo a lieto fine. Commossi sino allo spasimo, i presenti non attendevano altro che l’esatto istante in cui Goku avrebbe detto a Goten “Ciao, tesoro! Sono il tuo papà!”, per poi vedere il bimbo tremante per la commozione. A quel punto, Goku l’avrebbe abbracciato e la famiglia Son si sarebbe finalmente riunita.
Non era accaduto niente del genere.
Goten, dal suo metro e dieci di altezza, aveva semplicemente iniziato a fissare suo padre, rimanendo immobile, con in braccio il suo cucciolo di cane, esattamente come la persona che stava lì, a pochissimi passi da lui.
“Tesoro… Dai! Vieni” – lo aveva esortato nuovamente sua madre, sorridendo come poche volte prima di allora – “Vieni a conoscere il tuo papà”.
Ma aveva avuto bisogno di un po’ di tempo per pensarci, evidentemente, perché aveva continuato a fissarlo da lontano. Era una scena surreale, sembrava che quel bambino non fosse neppure vivo.
“Ma che ti prende, tesoro? Andiamo, Goten. Vieni qui…”.
Il tono di voce di Chichi era mutato, diventando meno gentile e comprensivo. Capiva la timidezza di Goten, ma stava rasentando la maleducazione. Preoccupata, si era scambiata un’occhiata fugace con Bulma, incredula.
E poi, era accaduto. E quando era successo, Chichi aveva creduto di morire di crepacuore. Come aveva potuto essere così ingenua? Come aveva potuto sperare che accadesse così tanto in così poco tempo?
Di certo, nessuno avrebbe mai potuto dimenticare quel tono di voce così freddo e distaccato, quel disinteresse così totale.
“Ciao… Goku”.
In quel momento, il compleanno di Goten era veramente diventato memorabile.

Continua…


Ragazze/i, buone feste passate!!
Scusate per il ritardo, ma pubblicare il giorno della Vigilia è stato impossibile!
Come avete trascorso questo periodo di festa? Io non voglio più vedere cibo in vita mia, credetemi! Spero che abbiate ricevuto tanti bei regali e abbiate rivisto parenti venuti da lontano. <3
Ma spero che le cose non siano andate come per Goten e Goku. Cielo, ma Chichi e Bulma cosa si aspettavano? Ho citato il più possibile l’anime, mentre descrivevo le fantasie di Chichi, distruggendo tutto un istante dopo. Non odiatemi per questo, mi raccomando!
Scappo in palestra! Vado a smaltire i peccati di gola e ad alleviare i sensi di colpa!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 12
*** Allo specchio ***


Allo specchio
 
Oggi…

Goten ricordava quel momento come se fosse accaduto pochi istanti prima. Sua madre e Gohan erano talmente contenti di rivedere Goku che pensava sarebbero svenuti dalla gioia. Crilin e Bulma avevano gli occhi lucidi, e gli amici di sempre lo avevano accolto facendogli una gran festa. Lui, Son Goku, era improvvisamente tornato a essere il centro del mondo. I suoi cari gli avevano tanto parlato di lui che quasi gli era parso di conoscerlo già. Erano praticamente identici nell’aspetto, e questo lo aveva fatto sentire profondamente… strano, quasi come se fosse stato un “Goku in miniatura” e non un individuo a sé stante. Si era reso perfettamente conto anche da solo di quanto fosse strano quel pensiero, ma i fatti erano quelli. E, le cose, nel corso del tempo, non erano affatto cambiate. Erano solo peggiorate, a dirla tutta.
Non sapeva perché quel pensiero fosse riaffiorato. Era assurdo che un bambino così piccolo fosse così malinconico e profondo. Ma quelli erano i fatti e, ormai, sapeva che nessuno avrebbe potuto cancellare gli eventi passati.

Ieri…

Goku.
Si era rivolto a lui chiamandolo per nome. Suo figlio, il suo secondogenito, sangue del suo sangue, lo aveva chiamato per nome. Non papà, non padre. No. Non gli aveva neanche augurato il bentornato, solo un freddo, glaciale ciao seguito dal suo nome.
I presenti erano rimasti di stucco, incapaci di comprendere la scena a cui stavano assistendo. Goku, però, non si era arrabbiato, anche se quella era una cosa da escludere a priori, e non poteva neanche biasimare suo figlio per non averlo accolto come aveva desiderato e come sua madre avrebbe sperato. Lui non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto con quel bambino in cui vedeva il proprio riflesso. Non lo aveva mai visto, non sapeva neppure che suono avesse la sua voce. Perché avrebbe dovuto saltargli addosso e baciarlo come se lo avesse conosciuto da sempre?
“Goten! Ma che modi sono?” – Chichi avrebbe voluto usare un tono di voce più autoritario ma non le era stato possibile. La verità era che il suo cuore era andato in frantumi. La mora si era resa conto di aver preteso troppo dal piccolo Goten, trasformando quella che doveva essere una piacevole sorpresa in un’enorme delusione. Avrebbe potuto rimediare? Non lo sapeva ancora. Di certo, in quel momento aveva bisogno di tutto il sostegno che Bulma e Gohan potessero darle.
“Lascialo stare, tesoro…” – era intervenuto Goku – “Lo capisco… Non sa chi sono. Ma avremo modo di conoscerci, in questi giorni. Non è così, piccolo?”.
“Piccolo… Ma con chi credere di parlare, questo qui?” – Goten era veramente irritato. Se si aspettava che moine del genere lo rendessero più avvezzo a venirgli incontro si sbagliava di grosso. Non aveva intenzione di cedere a lusinghe e smancerie. Poteva anche essere un bambino, ma non era di certo piccolo.
Non aveva neanche risposto, Goten. Forse, avrebbe dovuto comportarsi da adulto e chiarire immediatamente le cose: a lui non importava assolutissimamente niente della persona che era comparsa lì davanti. Per di più, c’era un cerchio fluttuante sul suo capo, e questo poteva significare solo una cosa: pur trovandosi lì, Goku era effettivamente un abitante del Regno dell’Aldilà e sarebbe dovuto tornare indietro, prima o poi. Egli stesso aveva parlato di conoscersi nei prossimi giorni, e questo gli aveva subito fatto pensare che sarebbe dovuto tornare da dove era venuto.
“Goten…” – sua madre aveva ormai le lacrime agli occhi.
“Lascialo stare, Chichi… Dagli il tempo di metabolizzare e capire… Le cose verranno da sé”.
E, per una volta, aveva deciso di dare ascolto a suo marito. Cos’altro avrebbe potuto o dovuto fare, dopotutto? Prendere Goten per un braccio e costringerlo a dimostrare affetto nei confronti di un perfetto sconosciuto? Costringerlo a chiamarlo papà? No… Sarebbe stato un errore imperdonabile. Avrebbe dovuto avere pazienza e aspettare. Alla fine, forse, tutto si sarebbe sistemato.
“Ciao, Vegeta…”.
Un saluto freddo, imbarazzato, carico di tensione. Sembrava che Goku non si fosse neppure accorto della presenza del suo principe, sembrava che non lo avesse neppure degnato di uno sguardo. E invece, eccoli lì, a fronteggiarsi di nuovo come un tempo, a squadrarsi e studiarsi come durante il loro primo incontro. Che cosa avrebbe fatto, a quel punto, Vegeta?
Nessuno aveva osato fiatare. Persino Bulma, solitamente bravissima a tirare fuori le persone dai momenti di imbarazzo, non aveva saputo cosa dire.
I due saiyan purosangue continuavano a guardarsi. Goku sorrideva, incerto, e Vegeta… Bè, Vegeta…Era Vegeta e basta, anche se era diventato meno bravo a nascondere le proprie emozioni.
“Sei tornato” – aveva detto il principe, sussurrandolo appena. Vegeta era stato a conoscenza sin dal primo momento di quello che avevano progettato Chichi e Bulma, ne aveva silenziosamente preso parte, a dire il vero, cercando di mostrarsi piuttosto indifferente, ma ora che Goku, che Kaharot, era lì, davanti a lui, le cose erano improvvisamente cambiate. E solo gli dei potevano sapere quanto.
“Ti vedo in forma” – aveva detto Goku, cercando un modo delicato per rompere il ghiaccio.
Lo vedeva in forma. Peccato che no, Vegeta non fosse affatto in forma. Peccato che avesse trascorso gli ultimi cinque anni ad autocommiserarsi, a privarsi dell’unica cosa che lo facesse sentire vivo. Peccato che si fosse punito, che si fosse ridotto a essere niente, a essere nessuno. E Goku… Kaharot, non lo sapeva. Quell’imbecille non aveva la benché minima idea di quanto fosse accaduto sulla Terra durante tutto quel tempo. Era così chiaro, così palese. Perché lo avevano riportato lì? Per quale assurdo motivo?
Stava cercando di mantenersi calmo, ma era impossibile. Aveva cercato sua moglie con lo sguardo, aveva cercato suo figlio e poi… E poi Goten. E lì, guardando gli occhi scuri e penetranti di quel bambino, la corazza che si era costruito addosso era esplosa per lasciare il posto a un’altra, molto più resistente: quella dell’indifferenza, seppur finta, seppur costruita ad arte.
“Sei un idiota. Perché soffrire per uno del genere? Perché? Sei un saiyan purosangue… L’ultimo erede de trono saiyan. Non lo dimenticare… Tu, per lui, sei niente, e lui non deve essere niente per te”.
Se a quel debosciato non era importato niente di suo figlio, perché avrebbe dovuto importargli qualcosa di lui?
“Ma che cos’è questo silenzio? Che vi prende? Vi siete forse dimenticati che questa è una festa? Goten oggi compie gli anni e non ho ancora sentito nessuno di voi cantargli tanti auguri! Che ne dite se prendo l’altra torta e tiriamo a turno le orecchie a questo birbantello?” – alla fine, Bulma aveva ripreso padronanza di se stessa, scacciando via quell’aria tetra e pesante che aveva rovinato quella riunione di famiglia. Le cose non erano andate esattamente come avevano sperato lei e Chichi? Pazienza. Avrebbero dovuto tenerlo in conto, e comunque, c’era tempo per rimediare, anche se poco. Goten avrebbe imparato a conoscere e ad apprezzare suo padre, aveva solo bisogno di conoscerlo un po’ e, per cominciare, avrebbe visto quanto sapeva essere matto e divertente durante una festa – “Sentirete com’è buona la mia torta!”.
Ed era buona per davvero, quella torta al triplo cioccolato e pistacchio con granella di nocciola e pistacchi. L’avevano apprezzata tutti, a cominciare da Goku che aveva asserito di non aver mai mangiato un dolce più buono di quello in tutta la sua vita. Tutti, tranne qualcuno, che, incupitosi come non mai, aveva lasciato il trambusto della festa per ritirarsi nella sua stanza, da solo, a pensare.
Vegeta era scosso. E, se non voleva darlo a vedere agli altri, non poteva negare ancora quella verità a se stesso.
Si era tolto quella maglia scomoda, osservando il suo riflesso nello specchio: la sua pelle olivastra era un tappeto di cicatrici, memorie di un passato non troppo remoto e che aveva disperatamente cercato di reprimere. Il suo viso non era mutato. Non vi erano rughe, quasi come se il tempo non avesse avuto effetto sul suo aspetto. Di certo, lo aveva avuto sul suo animo, sul suo spirito, sul suo cuore.
Chi era diventato? Non era più un guerriero, Vegeta. Aveva represso quel suo lato, con fatica, ogni singolo giorno, convincendosi di non poter più tornare indietro. Era un uomo. Era solo un uomo che – chi lo avrebbe mai detto? – teneva alla sua famiglia e al figlio di un decerebrato che aveva rinunciato a tutto ciò che c’era di terreno solo per suo tornaconto personale, per quanto avesse dichiarato più volte il contrario. Quella scenetta a cui aveva assistito, prima, lo aveva nauseato. Baci, abbracci, svenimenti… A chi voleva darla a bere, Goku? Non gli importava niente di nessuno. Kaharot era un saiyan purosangue, non c’era da meravigliarsi nel sapere che preferisse la lotta e il combattimento al di sopra ogni altra cosa, anche più della sua stessa famiglia. Ma perché, allora, lui, Vegeta, il grande e cinico principe dei saiyan, non c’era riuscito? Perché lui aveva messo da parte quel suo lato alieno, la sua stessa essenza, ed era rimasto su un pianeta che non gli apparteneva, rimanendo accanto a Bulma e al loro bambino? Lui era stato un temibile assassino, uno spietato soldato, eppure lo aveva fatto. Perché Kaharot non c’era riuscito? E con quale faccia tosta assumeva l’atteggiamento da padre premuroso e marito perfetto a cui erano mancati i suoi cari? L’odio e il risentimento provato nei suoi confronti continuavano a montare… Quella corazza che si era creato non serviva proprio a un bel niente, purtroppo.
Vegeta ricordava perfettamente i primi periodi trascorsi senza entrare nella Gravity Room. In quei giorni lontani, aveva smesso non solo di allenarsi, ma anche di mangiare e dormire. Trascorreva tutto il tempo nel piccolo letto che gli era stato assegnato (all’epoca non dormiva ancora accanto a Bulma) alzandosi solo perché costretto da sempre più rari bisogni fisiologici. Si stava lasciando morire, questa era la verità, e lo stava facendo consapevolmente. Niente, per lui, aveva più alcun senso. Kaharot non c’era più e la sua stessa esistenza aveva perduto significato. Lo aveva scelto quale metro di misura, quale punto da dover raggiungere e superare per poter superare se stesso. Ma lui non c’era. Se n’era andato, lasciando moglie, figli, amici, il pianeta che tanto aveva amato e protetto e, anche se inconsciamente, se n’era andato lasciando anche lui.
La mente del principe dei saiyan continuava a viaggiare a ritroso, cadendo nel tunnel dei ricordi a una velocità inarrestabile. Vegeta era l’ultimo saiyan purosangue: alla sua morte, la stirpe di guerrieri da cui discendevano si sarebbe definitivamente estinta, e nessuno avrebbe più saputo che cosa o chi era un saiyan. Né il drago della Terra né quello di Namecc avevano i poteri sufficienti per riportare in vita esseri scomparsi da più un anno e, quando aveva scoperto dell’esistenza delle sfere, aveva pensato che se lui, Nappa e Radish – per quanto non li ritenesse meritevoli – avessero ottenuto l’immortalità, le cose sarebbero andate diversamente. Una stirpe immortale avrebbe comandato l’intero universo per sempre. Cosa poteva esserci di meglio? Certo, qualcuno avrebbe potuto obiettare che nemici potenti sarebbero potuti sopraggiungere da ogni dove, però non si poteva non tenere conto del fatto che avrebbero avuto l’eternità per accrescere le loro doti e sconfiggerli definitivamente. E poi, previdente come sempre, Vegeta aveva anche pensato che avrebbe custodito gelosamente le sfere del drago pur di evitare che qualcuno le cercasse e potesse rendere reversibile quella loro mutazione. Alla fine, sarebbero potute risultare utili anche per altro. Ma poi, da quando aveva affrontato Kaharot e da quado avevano fronteggiato Freezer sul vecchio pianeta Namecc, le cose erano cambiate, per lui e per tutti. Già dalla sua prima venuta sulla Terra aveva intuito che le cose avrebbero preso una piega molto differente da quello che aveva desiderato.
Quel saiyan, quel Kaharot, un guerriero di infimo livello, lo aveva quasi battuto, lo aveva umiliato, e questo aveva fatto sì che diventasse la sua ossessione.
Ricordava ancora con vergogna il momento in cui si era mostrato a lui in lacrime, fragile, sconfitto, in punto di morte. Gli aveva persino chiesto di vendicarlo. Che idiota! Era consapevole che all’epoca non avrebbe mai potuto pensare di poter tornare nuovamente in vita, ma non avrebbe dovuto cedere ugualmente davanti a un suo misero e insignificante suddito, per quanto avesse dovuto digerire l’idea che Kaharot fosse tutto fuorché insignificante. Quell’ammissione era stata per lui più dolorosa del corpo mortale che gli era stato inferto da Freezer. Aveva effettuato una sorta di passaggio del testimone, se questo poteva avere senso. Vegeta aveva affidato a Kaharot il compito di distruggere Freezer, di vendicare lui e tutta la loro razza ormai estinta, quello che avrebbe voluto e dovuto fare lui. E c’era riuscita, quella maledetta terza classe. Aveva sconfitto Freezer e si era trasformato nella leggenda vivente, in senso metaforico e tangibile. Vegeta lo aveva odiato, ne era stato estremamente invidioso e aveva cercato di fare di tutto pur di eguagliarlo e superarlo. Si era sottoposto ad allenamenti durissimi, si era sfinito, raggiungendo con lacrime e sangue il suo obiettivo. Anche lui possedeva il potere della leggenda, anche lui era un guerriero dai capelli d’oro. Erano uguali, no? Poteva essergli persino superiore! Purtroppo, gli eventi gli avevano dimostrato che non era così. Aveva scoperto di non essere mai stato così forte come pensava, e questo Goku lo aveva capito perfettamente, ai tempi del Cell Game. Per questo, non gli aveva passato il testimone, preferendo lasciare il destino del pianeta nelle mani del figlio. Certo, non che gli importasse qualcosa di quegli stupidi esseri umani, ma era stato messo in secondo piano, di nuovo, e questa volta dal primogenito di quello che considerava il suo più acerrimo rivale. Aveva potuto fare una sola cosa, Vegeta, e lo ricordava benissimo: aveva distratto Cell per consentire a Gohan di scagliare il colpo finale. Solo quello. Aveva potuto solo fare da esca per quel bastardo schifoso. A tal punto era stato umiliato e declassato. E poi, come se non fosse abbastanza, Goku era sparito. Kaharot aveva deciso di non fare più ritorno sulla Terra, portandogli via ogni ambizione.
Era stato sconfitto dal padre, era stato sconfitto dal figlio ed era stato sconfitto da se stesso. E, paradossalmente, si era reso conto solo qualche tempo addietro che il secondogenito della sua ossessione era, inspiegabilmente, ossessionato da lui. Aveva sorriso amaramente, Vegeta, pensato a quanto beffardo fosse stato con lui il destino. Quel bambino era identico a suo padre nell’aspetto e, in parte, anche nel carattere. Goten era vivace, allegro, buono, ma era… malinconico. Persino triste, a volte. Seppure non ne avesse mai discusso con nessuno, Vegeta sapeva perfettamente cosa significasse vivere schiacciati dal peso di un dolore che si porta dell’anima. I mali fisici possono essere curati dalle moderne pratiche mediche, ma lo stesso non poteva dirsi per il resto.
Nel suo caso, si trattava di un qualcosa che si trascinava dietro dal giorno della distruzione del suo pianeta, nonostante avesse detto a tutti che non gli importava. Chi poteva credere realmente a quelle parole? Certo, non era mai stato un bambino come gli altri. Lui, più di tutti i suoi coetanei, era stato addestrato per diventare una macchina da guerra, un essere spietato e senza scrupoli. Un giorno, sarebbe toccato a lui guidare le armate che avrebbero conquistato l’intero universo, un giorno, sarebbe toccato a lui guidare la ribellione contro quel verme schifoso di Freezer, e per questo era stato preparato, addestrato, forzato a credersi una specie di divinità, finendo con l’essere ossessionato dal desiderio di diventare il super saiyan di cui parlava la leggenda. Vegeta aveva nutrito quel desiderio sin dalla più tenera età, sin da quando sua madre gli narrava le storie del guerriero più forte di tutti i tempi, del più meritevole e inarrestabile essere che potesse mai aver visto la luce. Nella sua fantasia di bambino-guerriero, quale vetta più alta poteva esistere? Col passare del tempo, con la distruzione del suo pianeta d’origine, lo sterminio della sua razza e la schiavitù sotto Freezer, quel sogno era stato dimenticato. Erano stati anni duri, e cercava costantemente di scacciarne il ricordo, fallendo miseramente a ogni tentativo. Si era sentito meno di niente, un oggetto usato a piacimento, ma mai una sola volta aveva mostrato debolezza davanti a Nappa e Radish. Era un bambino rispetto a loro, un bambino cresciuto troppo in fretta, senza una vera guida, e soprattutto senza affetti… Questo non avrebbe mai potuto cambiarlo nessuno al mondo.
Era sempre stato solo, alla fine dei conti. E aveva creduto che quello sarebbe stato il suo destino. Inutile dire che, dopo essere approdato sulla Terra, tutto era mutato, e il cambiamento era stato inaspettato e anche abbastanza repentino, ed era cominciato tutto per colpa di quell’infima terza classe. Kaharot aveva minato le sue certezze di guerriero. Certo, era ben consapevole che Freezer appartenesse a una specie più potente della sua, ma era convinto di essere il saiyan più forte rimasto in vita, che nessuno avrebbe potuto superare un membro della famiglia reale. Non aveva potuto fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe accaduto se la reale forza di Kaharot fosse emersa quando il loro pianeta era ancora intatto. Probabilmente, avrebbero costretto lui e quel decerebrato a battersi, e Vegeta temeva di sapere quale sarebbe stato l’esito di quello scontro, rabbrividendo solo al pensiero. Kaharot gli avrebbe portato via il suo titolo, il suo trono, il suo orgoglio, anche se… lo aveva già fatto. Poi, era toccato a quella donna terrestre. Quegli occhi, quel profumo, quel suo modo di fare così sgarbato lo avevano reso quasi uno schiavo, di nuovo, ma in maniera più piacevole. Nonostante i suoi tentativi di resistere al suo fascino, al suo carattere, alle sue attenzioni, alla fine aveva ceduto, rimanendo sulla Terra, diventando marito prima, padre poi. Inizialmente, si era odiato per aver preso quella decisione. Certo, c’era anche stato un periodo in cui aveva creduto che lei lo avesse incastrato, ma in cuor suo sapeva che non era così: quel bambino lo avevano voluto, entrambi, solo che lui, da guerriero coraggioso e impavido, se l’era fatta addosso nell’istante in cui aveva ricevuto la notizia della sua imminente paternità. Era piombato in un silenzio a dir poco imbarazzante. Si era isolato, completamente, rifiutandosi di rivolgere a quella donna diventata enorme a causa del peso che portava, qualsiasi tipo di attenzione. Quando il bambino aveva visto la luce, non si era presentato in ospedale con palloncini e fiori, ma si era allenato tutto il giorno, intrufolandosi in quella stanza decorata e profumata di rose solo a tarda sera, quando mamma e figlio stavano dormendo. Sgomento, ambizione e qualcosa a cui si era rifiutato di dare un nome si erano insinuati nel suo cuore, e lui aveva deciso che avrebbe dovuto reprimere ogni cosa, perché amare è una debolezza, e provare sentimenti nobili non era da principe saiyan. La venuta di Trunks del futuro aveva cambiato tutto. Quel coraggio, quella grinta, gli avevano aperto il cuore. Era cambiato profondamente, Vegeta, grazie a Bulma, grazie a Trunks del futuro, grazie al bambino che gli si arrampicava sulla schiena. E la vicinanza della sua famiglia, di quelle persone che non lo avevano allontanato nonostante tutto, lo aveva salvato da quel limbo in cui era piombato dopo la partenza definitiva di Kaharot.
E Goten? Goten era stato… Non sapeva come e cosa era stato, non sapeva cosa sarebbe diventato. Sapeva che c’era… E che, maledizione, non voleva rinunciarci. Si era ritrovato, suo malgrado, a fare da padre a suo figlio e alla prole di quel decerebrato che lo aveva spinto a non voler combattere mai più. Quanto era strana la vita? Vegeta, che odiava Kaharot, voleva bene a suo figlio. Kami, aveva subito un colpo mortale nell’istante in cui i suoi occhi si erano posati su di lui per la prima volta. Goten era identico, uguale a suo padre.
Eppure, aveva imparato a volergli bene, a rispettarlo come persona e come guerriero. Erano coraggiosi, quei bambini. Coraggiosi e forti. E viaggiavano insieme, sullo stesso binario, alla stessa velocità, in totale, perfetta sincronia.
Che cosa voleva Kaharot, adesso? Cosa volevano Bulma e Chichi? Pretendevano davvero che Goten riconoscesse Goku come suo padre e dimostrasse affetto nei suoi riguardi nonostante tutto? Avrebbe dovuto chiamarlo papà? Ma non scherziamo… Persino suo padre, re Vegeta, gli era stato accanto sino a che aveva potuto, e non poteva dirsi un genitore modello (almeno non per i canoni terrestri).
“Tsk… Certo…Padre. Quando mai lo ha fatto lui, il padre?”.
Si era guardato bene nel parlare male di Kaharot ai bambini. A onor del vero, non lo aveva mai neppure nominato. Che avrebbe dovuto dirgli? Se avesse sbagliato o meno, non poteva saperlo. Sapeva, però, che Goten aveva bisogno di tempo per ricucire quella ferita aperta, una ferita che, in un certo senso, quel bambino aveva condiviso e condivideva tutt’ora con lui. E pensare qualcuno, ancora, ostinatamente, continuava a definire Goku un eroe.
“Che sarebbe accaduto se fossi stato diverso, Kaharot?” – aveva detto ad alta voce, poggiando una mano sullo specchio.
Vegeta, purtroppo, sapeva che non sarebbe mai stato in grado di saperlo.

Continua…


Buon anno, ragazze/i!!!
Sono così contenta di aggiornare il secondo giorno dell’anno! Spero che questo lungo capitolo molto introspettivo vi sia piaciuto. Ormai lo sapete che piego le cose alla mia volontà, quindi non vi meravigliate se i ricordi di Vegeta non corrispondono perfettamente all’anime. =)
Si vede che sono arrabbiata con Goku, vero? Tutto quello che avete letto corrisponde a quello che penso di lui. Sarà Vegeta a essere simile a me o io sono simile a lui? Boh! ;)
Vi auguro ancora un buon inizio e spero di sentirvi presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 13
*** In famiglia ***


In famiglia
 
I giorni trascorsi da Goten dopo il provvisorio ritorno di suo padre sulla Terra erano stati di certo i più difficili della sua giovane, giovanissima vita.
Stava vivendo in un clima a dir poco surreale, accanto a persone che conosceva da sempre ma che sembravano provenire da un altro pianeta, ed era sempre più convinto che qualcosa proprio non stesse funzionando come avrebbe dovuto (o voluto, ma questo era un altro paio di maniche).
Le cose avevano iniziato a prendere una piega a dir poco discutibile sin dal giorno del suo compleanno: pochi istanti dopo averlo costretto a distribuire fette di torta a tutti i presenti (compreso suo “padre”) Chichi aveva preso la decisione di ritornare a vivere a casa loro, sui monti Paoz, affinché potessero trascorrere un po’ di tempo in famiglia. Lui adorava la sua piccola casetta a cupola, l’aria pulita, i verdi prati e il cielo terso, amava il suo lettino e i suoi giocattoli, la cucina della sua mamma e i momenti trascorsi insieme a Gohan, ma non aveva intenzione di lasciare la Capsule Corporation, non aveva intenzione di lasciare Trunks e Bulma, e non voleva lasciare lui, Vegeta! E poi, se Ouji si fosse perso nei boschi? Se non avesse più ritrovato la strada di casa? Sarebbe stato un dramma! Quindi, avrebbero potuto trascorrere dell’altro tempo lì, con gli altri, in modo da far ambientare il suo nuovo amico e, soprattutto, per far ambientare lui a quella nuova situazione. La Capsule Corporation era talmente grande da potercisi perdere, mentre casa sua, piccola, piccolissima, avrebbe fatto in modo che a ogni passo avrebbe incrociato suo padre, cosa che voleva evitare a ogni costo. Ovviamente, non aveva potuto confessare a sua madre e a suo fratello quei pensieri, ma proprio non riusciva a capire come non potessero ragionare sul fatto che Goku per lui fosse un estraneo, e che pensare di dormire con uno sconosciuto in casa non era una cosa affatto facile se non, addirittura, improponibile.  
Lui voleva stare lì, con la famiglia Brief, e voleva che anche la sua famiglia rimanesse lì! Non potevano stare tutti insieme, lì, come nel giorno del suo compleanno?
Purtroppo, le sue richieste erano rimaste inascoltate: Chichi era stata irremovibile. Aveva ringraziato Bulma, salutato Trunks e Vegeta, e li aveva invitati a cena a casa loro la settimana successiva, decidendo poi di tornare immediatamente a casa. Il suo viso era raggiante, sembrava la donna più felice dell’intero universo, e lo stesso valeva per Gohan. Goku appariva felice a sua volta, ma sembrava stesse cercando di mostrarsi più disinvolto di quanto fosse in verità. Forse, per una volta poteva dirsi che ci fosse più di una semplice somiglianza fisica tra lui e Goten.
Stava di fatto che, a prescindere da imbarazzi e incomprensioni, la decisione era stata presa e non era stato possibile discuterne. Ergo, si erano ritrovati in quattro in una casa che per tanto tempo era stata abitata solo da tre persone.
Goten aveva aiutato sua madre a portare in casa i bagagli, e poi aveva dovuto lottare con lei per quasi mezz’ora pur di convincerla a lasciar entrare in casa Ouji. Non voleva saperne di lasciarlo fuori, al sole, al freddo, alle intemperie e, soprattutto, in preda alla solitudine. Lui sapeva fin troppo bene cosa voleva dire sentirsi soli, e non voleva che il suo piccolino pensasse di essere stato abbandonato. Era riuscito a spuntarla solo grazie all’intervento di Goku che, con un’aria sbarazzina e un po’ svampita, aveva chiesto a sua moglie di chiudere un occhio, per una volta.
Il bambino non se l’era fatto ripetere due volte: aveva ringraziato alla svelta il Son senior e aveva immediatamente portato Ouji nella sua cameretta, chiudendosi subito dopo la porta marrone alle spalle.
Il piccolo e morbido batuffolo aveva cominciato a guardarsi intorno, annusando curioso gli angoli delle pareti e afferrando con i piccoli denti i lembi delle coperte.
“Ouji! Questo non va bene! Se ti vedesse la mamma…”.
Già, se lo avesse visto la sua mamma si sarebbe arrabbiata. E se lo avesse visto… Lui?
Aveva provato a non pensarci, aveva provato a concentrarsi su qualcosa di diverso, ma tutto lo riconduceva a Vegeta. Gli mancava così tanto che quasi gli faceva male il petto. Non riusciva ad accettare di non trovarsi più in casa sua. Certo, era stato consapevole sin dal suo arrivo a casa Brief che avrebbe dovuto lasciarlo e tornare alla sua quotidianità, ma non pensava che avrebbe fatto talmente male. Era abituato a trascorrere la maggior parte del suo tempo in sua compagnia, a essere sorvegliato dai suoi occhi vigili e severi, alla sua presenza, alla sua protezione. Si sentiva al sicuro, quando era al suo fianco, e ora che erano così lontani, provava un vuoto incolmabile. Non aveva sperato che Vegeta potesse dire o fare qualcosa, alla sua partenza. Sapeva perfettamente che il principe dei saiyan non dispensava quel genere di attenzioni, ma ci aveva sperato, in cuor suo, sino all’ultimo. Avrebbe tanto voluto che Vegeta lo avesse abbracciato, almeno quella volta, che lo avesse stretto per dimostrargli il suo amore in maniera più tangibile, perché se aveva una certezza, era quella che Vegeta gli volesse bene. Solo che aveva uno strano, stranissimo modo di dimostrarlo. Però, allo stesso tempo, Goten si rendeva perfettamente conto di pretendere qualcosa di impossibile. Aveva tante volte parlato con Trunks, e questi gli aveva confessato che mai una volta nella vita suo padre lo avesse abbracciato, o baciato, o stretto. Mai. Neanche una volta. Quindi, chi poteva essere lui per pretendere una cosa del genere?
Avrebbe dovuto accontentarsi di quello che poteva dargli e che, per altro, non era affatto poco.
“Mi prometti che diventerai forte e fiero come lui, Ouji?” – aveva detto al suo piccolo amico peloso, mentre lo osservava rotolarsi sul tappeto, felice.
“Sono sicuro di sì”.
*

“Certo che è proprio un tipo strano, questo Goku! E non mi sembra neanche così forte come dite tu e Gohan, mamma… Che nasconda qualche segreto?”.
Trunks non aveva smesso di fare domande a Bulma sin dal momento in cui Goku era ricomparso, seppur momentaneamente, nelle loro vite. Per prima cosa, non aveva minimamente accettato il fatto di vedere il suo migliore amico tornare a casa propria. Aveva protestato con veemenza, ma non era servito proprio a niente, e da quel momento, la sua simpatia nei confronti di Goku non era affatto cresciuta. Non che gli avesse fatto un’ottima impressione, ma da quando era rimasto solo, proprio non lo tollerava! Goten non aveva voglia di trascorrere del tempo da solo con lui, poteva scommetterci la sua stessa casa! Era un perfetto estraneo, come potevano pretendere il contrario? Non gli avevano neanche dato il tempo di abituarsi all’idea che fosse tornato che lo avevano costretto a vivere insieme a lui, a dormire sotto il suo stesso tetto e a mangiare accanto a lui. Ma poi, mangiava e dormiva? Caspita, veniva dal mondo dei morti e aveva un’aureola in testa! A lui avrebbe fatto impressione il solo pensiero di averlo accanto, figurarsi viverci insieme! E poi, che voleva dire che sarebbe stato lì solo per poco? Che stava facendo? Una “prova”? Era in rodaggio, come i marchingegni costruiti da sua mamma? Proprio non gli andava giù quella situazione. Suo padre gli aveva insegnato che non era opportuno stare con un piede dentro e uno fuori, ma che era necessario mostrarsi decisi e sicuri di sé!
Peccato che Trunks non sapesse ancora quanto fosse difficile, per un adulto, mantenere i suoi buoni propositi.
Doveva ammettere che fosse stato ancora più inquietante il momento in cui Goku gli aveva detto di averlo già conosciuto in passato, anche se veniva dal futuro, e che aveva conosciuto anche il se stesso passato che poi era il se stesso di adesso. Ma che aveva nel cervello? Nuvole? Lo aveva reso confuso e agitato, e quello non lo faceva stare tranquillo in merito alla sua permanenza a casa Son (seppure fosse – appunto – casa di Goku). Era morto, no? Perché non era rimasto nel mondo dei morti? Avevano vissuto benissimo anche senza di lui, giusto? A cosa serviva, lì, Son Goku?
Bulma non conosceva le preoccupazioni di suo figlio una per una, ma aveva ben intuito il suo stato d’animo. Poteva capire l’apprensione, ma si trattava sempre del padre di Goten! Cosa c’era da temere?
“Nessun segreto, Trunks… Goku non è tipo da segreti! Non è in grado di mantenerli… Più che altro, perché finisce col dimenticare quello che uno che gli confida. Ah! Che soggetto!”.
“Non capisco, davvero, cosa ci vediate di così speciale, in lui… Bah!”.
“Oh, tesoro, dagli tempo… Lo stai condannando senza neanche avergli permesso di difendersi dalle tue accuse. Non è un comportamento che ti si addice, sai?”.
“Lo so, mamma, hai ragione… Scusa…”.
“Va bene, tesoro… Sai, non è che le cose siano andate esattamente come avevamo sperato io e Chichi” – aveva ammesso candidamente – “Ma bisogna dare tempo al tempo. Goten deve avere l’occasione di conoscere suo padre di persona, di sapere chi è, di capirlo”.
“Sì, mamma, lo so… Però poi, dopo?”.
“In che senso dopo, tesoro?” – temeva già di sapere cosa intendesse suo figlio. Aveva visto la stessa identica espressione comparire sul viso di Vegeta, la scorsa notte, e aveva come l’impressione che presto le avrebbe posto lo stesso, identico quesito.
“E se Goku non avesse intenzione di restare? Non sarebbe peggio, se Goten si affezionasse a lui e lo perdesse definitivamente?”.
Aveva usato le stesse, precise identiche parole di suo padre. Solo che questi, al suo incerto balbettio aveva aggiunto un falsissimo: “Tsk! A me non importa niente di quel moccioso e della sua famiglia, alla fine dei conti. Sempre se di famiglia si può parlare, del resto! Cazzi vostri: gestite questa boiata da soli”.
Certo, come no! Vegeta pensava davvero che avesse abboccato? Era stato crudele senza motivo, aveva detto delle cose senza senso! E perché? Per non mostrare quanto l’arrivo di Goku e il ritorno a casa di Goten lo avessero turbato? Dopo tutto quel tempo e nonostante la decisione presa, Vegeta non riusciva proprio a rinunciare all’idea di passare come il cinico menefreghista incapace di affezionarsi a qualcuno. Ma perché? Perché così avrebbe sofferto di meno? Era troppo intelligente per essersi convinto di una simile sciocchezza! Eppure, lei non lo aveva fermato, non aveva ribattuto, non aveva fatto proprio un bel niente, rimanendo lì, a fissare la sua schiena mentre andava via. E ora, le era toccato sentirsi ripetere le stesse cose da suo figlio. È proprio vero che la mela non cade mai troppo lontana dall’albero!
“Tesoro, io voglio sperare il contrario… Del resto, si tratta di Goku…”.
“Sai, mamma, sto cominciando a pensare che il problema sia proprio questo”.
“In che senso?”.
“Che sperate in qualcosa di positivo perché si tratta di Goku…”.
“Cioè?” – da quando era diventato così bravo a mantenere alta la suspance, quel monello?
“Credo che voi tutti, spesso, pensiate che Goku possa fare il padre proprio come lo fa papà”.

 
*

“Che possa fare il padre proprio come lo fa papà”.
Bulma aveva smesso di dormire la notte, da quando suo figlio aveva espresso questa convinzione. Era agitata, nervosa, incapace di concentrarsi sul lavoro e sulla famiglia. Vegeta, poi, era praticamente intrattabile. Trunks era triste e non faceva altro che chiedere di Goten. Che cosa diamine stava succedendo in quella casa? Tra l’altro, sua madre non faceva altro che ossessionarla con mille domande su Goku. E “quando torna a trovarci, Goku?”. E “quando andrete a cena da Goku?”. E “come va il rapporto tra Goten e Goku?”. E. “quando torna nell’Aldilà, Goku?”. E “alla fine deciderà di restare?”. Cosa poteva saperne lei, povera donna, madre e lavoratrice, sull’orlo di una crisi di nervi, di quello che voleva fare Son Goku?
Porca miseria! Non sentiva Chichi da quasi sei giorni, Goku era – come sempre – irreperibile, e di Gohan e Goten non c’era nemmeno l’ombra! Aveva provato a telefonare a casa Son ma aveva potuto soltanto ascoltare la voce registrata della segreteria telefonica, e lo stesso era accaduto a casa di Giuma! Aveva persino pensato di piombare a casa loro all’improvviso o di consultarsi con re Kaioh, ma sarebbe stato sconveniente. Che poteva fare? Si sentiva sola e scoraggiata. Se suo figlio e suo marito avessero avuto ragione? Se Goku avesse deciso di non restare sulla Terra, Goten, Chichi e Gohan, che avrebbero fatto?
“Cosa hai combinato, Bulma?”  - si era detta.
Presa da un momento di profondo sconforto, aveva nascosto il viso tra le mani, soffocando un urlo sui palmi sporchi di grasso e olio di motore. Le veniva da piangere. Al diavolo il lavoro, al diavolo tutto! DOVEVA assolutamente sapere cosa stesse accadendo a casa Son, e doveva saperlo ADESSO.
Ma come?
Improvvisamente, una strana idea aveva cominciato a baluginarle in testa... Loro erano ancora lì, no? Erano nella cassaforte di casa sua, vero? Quindi, avrebbe potuto usarle, giusto?
“Bulma… Attenta a quello che fai…”.
Ma, come accadeva da un po’ di tempo a quella parte, Bulma aveva imparato a darsi ottimi consigli, senza però seguirli neanche una volta.
“Del resto, che potrebbe succedere di brutto? Niente, vero?” – si era detta, mentre raggiungeva di gran fretta la stanza in cui era nascosta la cassaforte con il suo preziosissimo contenuto.
“Basterà un attimo, solo un attimo e tutto si sistemerà! Il cielo si oscurerà come di consueto, ma io farò tutto qui nello studio. Non c’è nessuno, in casa, e nessuno potrebbe tornare così in fretta da impedirmi di chiedergli quanto devo… Sì… Shenron sistemerà tutto come sempre. Del resto, a cosa dovrebbe servire un drago che esaudisce desideri, se non a esaudirli?”.
In quella specie di stato di ubriachezza dato dall’eccitazione del momento, Bulma si era come estraniata dalla realtà. Aveva solo un obiettivo, e la sua caparbietà le avrebbe permesso di portarlo a termine.
“Sì, Shenron ci aiuterà. Ci aiuterà, e poi…”.
“Ciao Bulma! Dove te ne vai così di fretta?”.
“ODDENDEEEEE!!!”.
Era comparso dal nulla, sorridente e ingenuo come sempre, ed era stato tutto talmente improvviso da farle quasi venire un infarto.
“URKA! Bulma, stai bene?” – aveva detto lui, vedendola diventare viola dallo spavento.
“Tu-tu-tu…” – aveva il cuore in gola.
“Io?”.
“TU SEI UN CRIMINALE!” – aveva urlato, sull’orlo di una crisi di nervi – “COME TI SALTA IN TESTA DI COMPARIRE DAVANTI ALLE PERSONE IN QUESTO MODO? POSSIBILE CHE TU NON ABBIA ANCORA IMPARATO DOPO TUTTO QUESTO TEMPO?”.
“Urka! Bulma, hai ragione, ma non ti arrabbiare, su! Capisco che, alla tua età, sia più facile farsi venire un infarto, però…”.
“Come, prego?” – l’aria era diventata bollente all’improvviso – “Hai detto alla mia età? Quale età, Goku?”.
Era caduto dalla padella nella brace in poche, pochissime mosse. Non c’era niente da fare, non sarebbe mai maturato.
“Sono morto”.
Sì, sarebbe morto. Bulma lo avrebbe eliminato sul serio se non fosse stato un gesto completamente opposto a quello che avrebbe voluto compiere prima del suo arrivo. Che quella fosse stata la provvidenza? Improvvisamente, si era sentita molto ingenua e stupida.
“Perché sei venuto qui, Goku?” – cielo, quanto era strano pronunciare il suo nome. Quanto era strano averlo lì. Era sempre lo stesso, sempre così sorridente e affabile, sempre così sereno. Se non fosse stato per quella sua aureola, avrebbe pensato che sarebbe potuto rimanere lì per sempre.
“Io… Ecco, sì… Vorrei parlarti un minuto”.
“Va bene… Vieni con me…” – dal tono che aveva usato, sembrava che volesse dirle qualcosa di veramente importante. Che fosse successo qualcosa con la sua famiglia? No, Chichi l’avrebbe chiamata immediatamente, in quel caso. Che stava succedendo?
Avevano preso posto in cucina, dove Bulma si era versata una generosa dose di vodka.
“Urka, Bulma! Bevi a quest’ora?”.
“Mi serve. E non giudicarmi. Non me lo merito. O forse sì. Ma non siamo qui per parlare di me” – aveva detto, accendendosi una sigaretta da cui aveva tirato una lunga boccata di fumo – “Che dovevi dirmi?”.
“Ecco… Eh-eh-eh…”.
“Goku?” – stava temporeggiando. Non poteva temporeggiare. Non in quel momento.
“Sì, scusa…”.
“Sputa il rospo”.
Era in preda all’imbarazzo. Possibile che dovesse dirle una cosa così tanto difficile da metterlo tanto a disagio? Allora era successo veramente qualcosa con gli altri!
“Ecco, volevo sapere se, per caso, potrei venire un pochino qui a stare con Vegeta”.
“Che cosa?” – non diceva sul serio. O meglio, doveva aver capito male. Aveva un permesso di tempo limitatissimo e lui, invece di stare con i suoi cari, voleva stare con Vegeta? Questa era bella. Era proprio bella – “Tu non stai bene”.
“Lo so…”.
“Come sarebbe a dire che lo sai?”.
“Bulma, non voglio girarci attorno… Ho bisogno di Vegeta perché… Perché… Perché non so come si fa a stare insieme a Goten”.

Continua…


Ciao a tutte/i!
Come va? Come state? Spero che la fine delle vacanze di Natale non vi abbia messo addosso la stessa tristezza che provo io. Ho smontato oggi l’albero e riposto nel box tutte le decorazioni, e non avete idea di quanto questo mi abbia distrutta! =(
Ma torniamo a noi!
Bulma stava PER FARE QUALCOSA. Ma cosa? *Si accettano scommesse*. Poi, però, se n’è pentita. E credo che sia stato meglio così. Avete udito bene, Goku vuole parlare con Vegeta per sapere qualcosa in più su suo figlio. Lo trovo assurdo, ma pertinente a questo mio personaggio.
Ah, so che alcuni di voi sono curiosissimi di sapere come si sono trovati ad “Altrove”, ma sapete quanto sono lenta e prolissa… Ci arriveremo entro pochi capitoli, promesso!
Bene bene, ciò detto, io vi saluto.
A presto!
Un bacino
Cleo

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Capitolo 14
*** Ho avuto paura ***


Ho avuto paura
 
“Perché devi sempre comportarti in questo modo? Mi fai male! LASCIAMI!”.
“TI HO DETTO CHE NON DEVI TOCCARE LE MIE COSE! LO VUOI CAPIRE O NO?”.
“Ma io non ho fatto niente! Mi stai facendo male! Ahia! LASCIAMI HO DETTO!”.
“GIURO CHE STAVOLTA TI FACCIO MALE SUL SERIO! SMETTILA DI PRENDERE CIÓ CHE È MIO! SMETTILA!”.
“CHE DIAMINE STA SUCCENDO QUI DENTRO?!”.
Era appena rientrato dopo una giornata di lavoro. Era stanco, spossato, aveva anche dovuto fare la spesa al mercato, e quello che l’aveva accolto una volta varcata la soglia di casa era stato uno spettacolo a dir poco penoso. Aveva sentito le urla dei bambini sin dal cancello che separava il suo orto e la sua abitazione dal resto del mondo, e aveva gettato tutto quello che reggeva tra le braccia a terra, senza pensare che il prezioso bottino guadagnato con sudore e fatica si sarebbe rovinato.
Aveva percorso gli ultimi metri che lo separavano dalla porta della sua casa correndo, prospettandosi il peggio.
Che li avessero trovati? Che avessero provato a fare del male al bambini per sapere dove fosse lui? Per la miseria, quante volte avrebbe dovuto urlare a squarciagola di non sapere dove fosse? Che, se lo avesse saputo, lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani?
Era talmente agitato da aver aperto la porta con una spallata, rompendo quella povera e sgangherata serratura, già consapevole che quel gesto gli avrebbe causato dolori lancinanti. Non era più il fiero guerriero di un tempo. Non era più fatto di marmo. Era umano. Era un semplice essere umano, come tutti, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di proteggere i suoi bambini.
“CHE COSA STA SUCCEDENDO QUI DENTRO?”.
Lo aveva urlato senza pensare, tanto grandi erano i suoi timori. Aveva pensato che, una volta varcata la soglia di casa, si sarebbe trovato davanti a una scena inenarrabile, che sarebbe stato aggredito a sua volta proprio come era accaduto ai suoi bambini. Si era preparato al peggio, insomma, per poi rendersi conto solo in seguito di quello che si era effettivamente presentato davanti ai suoi occhi stanchi.
Trunks aveva atterrato Goten, e lo stava schiacciando con il proprio peso, tenendolo stretto per i capelli. Era livido di rabbia, sembrava avere gli occhi iniettati di sangue, e aveva tirato fuori un vigore che non mostrava da tempo (anzi, che forse non aveva mai mostrato). Goten, al contrario, giaceva sotto di lui, in lacrime, con il principio di un livido sotto l’occhio destro e il segno di un morso sulla guancia sinistra. Accanto a loro, sul pavimento, c’era un quaderno, aperto, sgualcito e scarabocchiato in più punti. Non c’era voluto molto affinché Vegeta capisse quale fosse il reale motivo di quegli schiamazzi.
“Snif!” – Goten aveva tirato su col naso, cercando di non mostrare le lacrime a un Vegeta apparentemente impassibile ma visibilmente scosso per l’accaduto. Trunks, orgoglioso e caparbio, aveva continuato a sottomettere Goten, guardandolo con odio.
“Lascia andare Goten. Adesso”.
Non aveva obbedito immediatamente, mostrando apertamente l’animo ribelle che aveva tirato fuori con tutti, nell’ultimo periodo, tranne che con suo padre.
“Trunks: ubbidisci”.
Il tono imperativo di Vegeta, però, non gli aveva lasciato molta scelta, obbligandolo a mollare la presa sul mezzo-saiyan più piccolo che, dolorante e scosso, si era rimesso in piedi a fatica, massaggiandosi la guancia con delicatezza e abbassando lo sguardo per non lasciar trasparire la vergogna che provava in quel momento.
Dopo averli osservati a lungo senza muovere un muscolo, Vegeta si era incamminato verso la cucina. Quel suo repentino scatto aveva fatto tremare il piccolo Goten, ma non Trunks, che se ne stava lì in piedi, tremante di rabbia, con gli occhi fissi sull’oggetto causa di quello spropositato litigio.
Il principe aveva lasciato che le sue grandi mani callose scorressero sulla spalliera rovinata della sedia di paglia, prima di scostarla dal suo posto accanto al tavolo quanto bastava per lasciarvisi cadere sopra. Aveva poggiato i gomiti sulle cosce e nascosto il viso tra le mani. Solo in quel momento i due bambini si erano resi conto che la porta fosse ancora aperta, che l’aria gelida della sera avesse spento la candela che avevano acceso sulla credenza e che sul battente di legno e sulla spalla di Vegeta vi fosse una vistosa traccia di sangue fresco.
“Ve-Vege…”.
Goten non aveva osato proseguire. Il saiyan era scosso da tremiti incontrollabili, e solo quando aveva gettato il capo all’indietro per prendere aria si erano effettivamente resi conto che stesse trattenendo a fatica lacrime bollenti di rabbia, delusione, ma anche di sollievo.
“Pensavo che vi stessero facendo del male” – aveva detto, con voce tremante – “Pensavo che fossero venuti qui a prendervi”.
Trunks aveva abbassato la testa e aveva infilato le mani in tasca, continuando a mantenere un’aria sprezzante. Non era colpa sua se Goten lo aveva fatto andare su tutte le furie, no? Che voleva, suo padre, adesso? Fargli una ramanzina? Voleva punirlo? Perché quella spia di Goten avrebbe fatto ricadere tutte le colpe su di lui, ne era sicuro! Quel mocciosetto lo avrebbe accusato e avrebbe dovuto scontare una pena che non gli toccava! Oh, ma lo avrebbe beccato in un altro momento… E poi sì che sarebbero stati dolori! Quell’arrogante l’avrebbe pagata, parola d’onore.
Goten aveva nascosto il viso tra le mani, scoppiando a piangere dalla vergogna e dal dispiacere. I suoi singhiozzi avevano riempito la stanza, coprendo il sibilo incessante del vento. Era colpa sua! Era tutta colpa sua! Se fosse riuscito a difendersi contro Trunks e i suoi soprusi, se fosse stato più forte, tutto quello non sarebbe accaduto! Vegeta non si sarebbe mai preoccupato e non sarebbe stato lì, a fissarli con le lacrime agli occhi e il cuore in gola, con una ferita al braccio e la mente chissà dove! Era distrutto… E loro stavano solo contribuendo a peggiorare le cose.
“Mi-mi dispiace… Tanto… Ti chiedo scusa” – glielo aveva detto tra un singhiozzo e un altro, accasciandosi sul pavimento e rifiutandosi di mostrargli il viso. Era tutto così imbarazzante, così umiliante, così assurdo. Voleva solo tornare indietro, Goten, voleva solo che tutto quello finisse. Ma le cose stavano solo andando avanti, e lo stavano facendo nel peggiore dei modi.
Nessuno sembrava gradire la sua presenza, ormai ne era certo. Il maestro lo maltrattava, i suoi compagni di classe lo scansavano, Trunks lo odiava, e forse, forse anche Vegeta aveva iniziato a provare sentimenti di repulsione nei suoi riguardi. La cosa peggiore, però, era che ne aveva tutto il diritto, perché era colpa sua. ERA SOLO COLPA SUA.
Vegeta aveva tratto un lungo respiro, si era strofinato gli occhi col dorso della mano e aveva ingoiato un grumo di densa saliva rumorosamente, girandosi di spalle per non lasciarsi guardare ulteriormente in faccia. Non avrebbe dovuto mostrarsi così, a loro. Così debole, così provato, così sensibile e preoccupato. Lui non era in quel modo. Era un saiyan, porca miseria!
Avrebbe dovuto punirli, piuttosto, e dargli così una lezione. Ma non ne aveva le forze, Vegeta… Non ne aveva le forze e non ne aveva la voglia.
“Che non si ripeta mai più” – aveva detto, con fermezza. La sua voce, apparentemente, era tornata quella di sempre – “Tsk! Non avrei mai pensato di vedervi litigare così… Non voi due. Ora, Trunks, raccogli le tue cose e va' fuori a prendere le provviste. Tu, Goten, asciugati il viso e vai a prendere la legna per il fuoco”.
“Ma papà! Perché devo andare io fuori! Si gela! Non ho intenzione di…”.
“UBBIDISCI!”.
Aveva urlato così tanto da aver fatto tremare i vetri della stanza, e Trunks non se l’era fatto ripetere due volte, scattando fuori a una tale velocità da sembrare una molla.
Osservando dall’uscio suo figlio che raccoglieva la verdura di malavoglia dal polveroso viottolo, la sua mente aveva cominciato a vagare, tornando indietro di qualche tempo. Prima, avrebbe dovuto trattenere la sua aura per evitare che la casa e tutto il suo contenuto potesse esplodere; prima, avrebbe dovuto prendere un lungo respiro e trattenersi; prima, avrebbe controllato il vento freddo che sferzava la sue pelle e faceva mutare direzione al sangue che lento e inesorabile scendeva giù dalla ferita che si era procurato sulla spalla, mentre adesso...

Ieri…

Era una pessima idea. Era davvero una pessima idea.
Bulma pensava di non aver capito bene le intenzioni di Goku. Forse, a causa dello spavento, le sue orecchie avevano fatto sì che fraintendesse le parole del Son, o forse la troppa agitazione aveva compromesso le sue sinapsi. Stava di fatto che non poteva essere vero, che Goku non poteva averle realmente chiesto di aiutarlo a parlare con Vegeta di Goten per scoprire come fare a stare al suo fianco.
Era a dir poco assurdo! La morte gli aveva fatto male al cervello!
Eppure, nonostante le sue remore, alla fine aveva acconsentito ad accompagnarlo da suo marito.
“Dici che Vegeta si starà allenando, adesso? Urca! Chissà quali macchine avrai costruito per lui! Sarà diventato fortissimo, in tutti questi anni! Goten mi ha detto che ha allenato lui e Trunks! Chi lo avrebbe mai detto? Ha fatto un ottimo lavoro, comunque… Mio figlio è forte… Volevo ringraziarlo”.
Le ci era voluto un po’ di tempo per metabolizzare tutte quelle informazioni. Allora era vero che Goku non sapeva proprio niente di quello che era accaduto sulla Terra dalla sua dipartita. Quella notizia l’aveva resa triste e cupa. Era assurdo. Come poteva non interessargli dei suoi cari? Di Chichi… Di lei? Era la sua migliore amica…
“Che delusione”.
Non aveva detto niente, Bulma. Non aveva avuto il coraggio di rivelargli la verità. Era una cosa che riguardava suo marito, quindi sarebbe stato Vegeta a dirgli le cose come stavano, se ne avesse avuto voglia.
Per questo, lo aveva condotto alla Gravity Room senza fiatare. Suo marito trascorreva le giornate lì dentro a preparare nuovi allenamenti per i ragazzi, e quel giorno stava mettendo a punto una nuova combinazione di laser lanciati dai robot piuttosto complicata. I bambini avrebbero dovuto evitare i raggi senza ferirsi, senza urtarsi e senza distruggere i marchingegni pensati da suo padre.
Ma, quando qualcuno aveva fatto capolino a casa sua, si era bloccato di colpo, diventando nervoso e irrequieto. Avrebbe riconosciuto la sua aura tra un milione.
Che ci faceva lì, l’imbecille? Era pure da solo, per giunta…
Bulma lo stava accompagnando proprio lì, da lui.
“Perché, donna… Perché?”.
E, per la prima volta dopo tanto tempo, Vegeta aveva avuto paura di se stesso e di come avrebbe reagito alla vista di Kaharot.
Si era girato di scatto nello stesso istante in cui sua moglie aveva premuto il pulsante di apertura della stanza da lei progettata, trovandoseli davanti: lei preoccupata e dispiaciuta, lui sorridente e irritante come sempre.
“Ehilà! Spero di non averti interrotto! Ti ho già detto che ti trovo proprio bene, Vegeta?”.

Continua…


Ciao a tutti!
Come state? Come avete trascorso queste prime settimane di rientro dalle vacanze di Natale? Io mi sono rimessa a dieta, ho ripreso ad allenarmi con il giusto ritmo e ho ricominciato a studiare, oltre a giocare di ruolo e a preparare un cosplay per il mio fidanzato! E ho ricominciato anche a scrivere, ovviamente!
;)
Vegeta è in preda ai tormenti. I bambini non gli stanno rendendo le cose facili, oggi, e Goku non gliele stava rendendo facili, ieri.
Che situazione!
Ma che avrà voluto dire il principe? Pensava che li avessero trovati… A chi si riferiva?
Prima o poi lo scopriremo…
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 15
*** Come sei veramente ***


Come sei veramente
 
Aveva fatto finta di niente, dopo quell’episodio, cercando di far sì che le loro umili vite continuassero senza scalpore alcuno. Doveva essere prudente. Se lo era ripetuto sin dall’istante in cui le cose erano precipitate, ma mai come allora aveva avuto paura.
Le difficoltà che avevano dovuto affrontare erano state innumerevoli: tante volte aveva pensato di essere giunto al capolinea o, peggio ancora, di gettare la spugna, ma alla fine non l’aveva mai fatto. C’era troppo, in ballo, e non poteva perdere gli unici tesori che gli fossero rimasti.
Da quella fatidica sera, a ogni modo, Vegeta non li aveva più visti litigare. A dire il vero, non li aveva visti neanche più rivolgersi la parola. I due bambini si comportavano come degli estranei, e se qualcuno che li aveva conosciuti in precedenza li avesse visti in quel preciso istante, non avrebbe mai potuto neanche lontanamente pensare che non fossero più uniti come due fratelli.
Trunks era così scostante e adirato con Goten da aver deciso di non dormire più accanto a lui. Testardo come un mulo e noncurante del gelo, aveva letteralmente requisito una vecchia coperta, un cuscino sgualcito che tenevano sulla sedia di paglia che stava davanti al camino e aveva cominciato a dormire sul pavimento, sistemandosi come un bruco nel suo bozzolo. Vegeta aveva provato a dirgli qualcosa, a farlo riflettere, aveva persino provato a imporgli di dormire nel letto perché si sarebbe ammalato e perché quello che stava facendo era veramente stupido, ma alla fine aveva desistito, lasciando che suo figlio facesse ciò che aveva deciso.
“Non puoi costringermi a dormire dove vuoi tu, papà. Almeno questo, non puoi costringermi a farlo”.
Se gli avessero chiesto qual era, secondo lui, il momento esatto in cui aveva fallito come genitore, Vegeta avrebbe sicuramente indicato quello in cui suo figlio gli aveva rivolto quelle parole così taglienti e dure.
Non era più stato in grado di addormentarsi immediatamente, la sera, dopo quello che era accaduto.
Tornare a casa sfinito e dolorante non era più sufficiente a conciliare il sonno, arrivati a quel punto.
Suo figlio era perduto? Forse sì. E non era stato capace di accorgersene prima. Il ragazzino spensierato e allegro che prendeva la vita alla leggera non esisteva più da un pezzo, ormai, ma Vegeta, prima che accadesse quello spiacevole episodio, si era rifiutato di vedere come stessero realmente le cose.
Ma come si potrebbe biasimarlo? Aveva fatto del suo meglio per cercare di far vivere a quelle due pesti una vita il più possibile normale, dandogli un tetto, delle regole, iscrivendoli a scuola, lavorando e portando il pane a casa con fatica, cercando di fargli pesare il meno possibile quella nuova e difficile condizione, quella nuova sistemazione così assurda e inimmaginabile, ed era proprio certo di esserci riuscito. Era certo che i bambini si fossero adattati, e che quel loro inspiegabile rapporto fraterno avesse reso le cose più semplici e accettabili.
Invece, si era sbagliato di grosso. Il principe dei saiyan, così preso a far funzionare le cose, così oberato di lavoro, di faccende umane, aveva smesso di ascoltare, di vedere, di sentire, aveva smesso, paradossalmente, di esse umano, rintanandosi in un mondo fatto di problemi da adulti sfruttati e infelici, tagliando fuori le uniche persone che gli erano rimaste accanto, le persone che componevano quella bizzarra, anomala famiglia.
Quando era successo? Quando era capitato che quei due marmocchi iniziassero a disprezzarsi?
A essere precisi, tuttavia, era stato Trunks a esprimere sentimenti di avversione verso Goten. Il modo in cui lo guardava, con gli occhi che sembravano incupirsi dall’odio, era quasi impossibile da associate a un bambino come suo figlio.
Gli ricordava il se stesso di un tempo, e continuava a riportarlo a quando aveva odiato con ogni singola fibra del suo corpo il suo antagonista principale, il suo unico vero nemico, la ragione della sua vergogna, l’unico che mai lo avesse veramente umiliato. Era paradossale sapere che questo individuo fosse proprio il padre biologico di Goten. L’odio che aveva provato verso di lui, verso Kaharot, era… Naturale. Sì, per uno come lui, per il guerriero spietato che era stato, per l’orgoglio che gli aveva fatto gonfiare il petto come un pollo nell’aia, quei sentimenti erano la naturale conseguenza all’affronto che una misera terza classe aveva osato perpetrare ai suoi danni.
Ma su Trunks… Su Trunks, l’ombra di quel sentimento che incupiva il suo sguardo lo rendeva… Brutto. E si era chiesto, Vegeta, se anche lui fosse stato così brutto, all’epoca, quando nella sua vita c’era spazio per sciocchezze come l’odio o l’invidia dettata dalla consapevolezza di non essere più il primo. Di che cosa volesse essere il primo, poi, neanche se lo ricordava più, ormai.
Ricordava distintamente due cose, invece, al mattino, quando apriva gli occhi stanchi e cerchiati di nero a causa dell’insonnia, e le portava con sé per tutto il giorno, per quello successivo, per quello dopo ancora, e via discorrendo… Quando lavorava la terra, quando chiudeva i sacchi, quando si feriva le mani, Vegeta non solo viveva con il ricordo di quei fantasmi, ma li aveva fissi davanti a sé, come se fossero stati lì presenti, e a nulla valevano i tentativi di soffocarli, anche solo per cinque minuti, anche solo per prendersi il tempo necessario per respirare e provare a sopravvivere ancora un giorno. Nessun pensiero positivo avrebbe potuto scacciarli via. Nessun tentativo di rivalsa.
Loro erano lì, i fantasmi, e lo avrebbero accompagnato finché non fosse riuscito a trovare una soluzione.
Per quanto ancora avrebbe dovuto vedere l’odio negli occhi di suo figlio e le lacrime in quelli di Goten?
Temeva che non avrebbe mai ottenuto una risposta.

Ieri…

Continuava a parlare come se fosse tutto normale. Continuava a ridere, a incalzare una sillaba dietro l’altra come se il tempo non fosse mai passato, come se fossero stati ancora lì, su quella montagna, in compagnia degli altri, in attesa della prossima mossa di Cell, come se non si fosse mai teletrasportato sul pianeta di re Kaioh con quel mostro rivoltante in procinto di esplodere, come se non fosse mai saltato in aria, come se non fosse mai andato via.
Era lì, Goku, ma non era lì per davvero. Nonostante respirasse come qualunque essere vivente, nonostante il suo cuore battesse, l’aureola che portava sul capo dichiarava costantemente la sua non appartenenza al mondo dei vivi. Quando sarebbe tornato indietro? Quando avrebbe raggiunto il Paradiso, lasciando i suoi cari nella desolazione dell’Inferno in Terra?
Forse tra un minuto, forse tra un mese, forse il giorno dopo, perché il mai, in quella circostanza, non poteva essere contemplato.
Stava di fatto che lui non apparteneva più a quel mondo e qualsiasi cosa facesse era una cosa contro natura. Mai come allora, Vegeta avrebbe voluto vederlo sparire. Eppure, glielo aveva detto! Aveva detto a quelle due donne scellerate che la sua presenza avrebbe potuto generare confusione, dolore e tormento! Perché non avevano voluto ascoltarlo? Perché?
“Allora? Che mi mostrerai, di nuovo, Vegeta?”.
Continuava a sorridergli, quella sottospecie di debosciato. Ma il suo era un sorriso nervoso, non del tutto sincero.
“Che hai in mente, Kaharot? Che cosa vuoi da me?”.
“Bene” – era intervenuta Bulma, interrompendo il monologo di Goku – “Io vi lascio soli… Se avete bisogno di me, sono in laboratorio… Devo mettere a punto una macchina, sapete… Le consegne… Il lavoro… ADDIO”.
Era sgattaiolata via farfugliando il resto della frase, agendo da codarda nei riguardi dell’uomo che amava e anche nei confronti di quello a cui voleva più bene al mondo. Cielo, non avrebbe retto un altro minuto, davanti a quella porta, schiacciata da un lato dallo sguardo accusatorio di suo marito e dall’altro da quello ingenuo e imbarazzato del suo migliore amico.
E poi aveva fatto di peggio, perché dopo essersi nascosta dietro l’angolo, nel corridoio, e aver lasciato che il suo cuore in tumulto si calmasse, si era collegata con il suo smartphone alla stanza, facendo una cosa che si era ripromessa di non fare mai più in vita sua: spiare Vegeta.
“Sei una vigliacca, Bulma Brief… Una vera vigliacca!”.
Rimproverarsi non avrebbe comunque fatto sì che Bulma cambiasse idea. Ormai, la turchina si era recata nel suo laboratorio, si era chiusa dentro a chiave, aveva indossato i suoi microscopici auricolari wireless e si era messa comoda davanti allo schermo del suo telefono di ultimissima generazione, attenta a non perdersi neanche un istante del discorso che stava per avere luogo lì, nella Gravity Room.
“Mi raccomando, Vegeta, non essere troppo duro con Goku… E mi raccomando, Goku… tu non fare l’idiota”.
Sapeva perfettamente che quelle raccomandazioni, anche se fossero state pronunciate, non sarebbero servite a niente. Chissà se ripetendole dentro la sua testa, come un mantra, sarebbero giunte a una qualche divinità che li osservava silenziosamente dall’alto.
“Oh, re Kaioh… Vorrei che le cose si risolvessero, per una volta… Per Gohan, per Goten, per Chichi… E anche per Vegeta”.

 
*

Il principe di tutti i saiyan aveva continuato a squadrarlo dall’alto al basso, rimanendo nel più totale silenzio.
“Cavolo, Vegeta, perché devi guardarmi così? Mi fai sentire così… Così…”.
“Sarebbe opportuno che tu dicessi qualcosa, adesso”.
Lo aveva colto di sorpresa, soprattutto perché aveva cominciato a parlare mentre si era girato di nuovo verso la consolle su cui aveva adagiato i robottini, continuando a digitare sulle tastierine interne le sequenze di combattimento che aveva deciso per il prossimo allenamento dei bambini.
Però – tanto per cambiare – Vegeta aveva ragione: avrebbe dovuto dire qualcosa. E qualcosa di sbrigativo e sensato, possibilmente, non una sciocchezza delle sue.
“Urca che nervosismo… Perché devi essere sempre così rude, Vegeta?”.
“Tsk! Ti muovi o no? Non ho tutta l’eternità, davanti, a differenza tua”.
Touché. Ed erano solo al primo round. Ne sarebbe uscito vivo? Forse, sì, forse no. Se fosse sopravvissuto, ciò sarebbe avvenuto solo per il bene di Goten.
“Che cosa stai facendo?” – aveva detto, avvicinandosi a lui con circospezione. Era chiaro che stesse armeggiando con dei robot, ma perché?
“Tsk. Preparo l’allenamento per i ragazzi”.
I ragazzi. Non si era rivolto a Trunks chiamandolo mio figlio e a Goten con l’appellativo di tuo figlio, ma aveva chiamato entrambi i ragazzi, e non c’era stato bisogno che sottolineasse che fossero suoi, per farglielo capire. Era veramente strano sentirlo dire da lui, così attento alle differenze di classe, così predisposto a diversificare titoli e ruoli.
Ora che lo guardava bene, Vegeta era così… Così diverso. Era pacato, alla fine dei conti, estremamente controllato. Il suo sguardo sembrava meno accigliato del solito nonostante la sua presenza. Cosa poteva essere successo di così straordinario da determinare quel cambiamento così radicale? Lo avvertiva nel profondo della sua aura, oltre che dal suo comportamento. Questo, nonostante Vegeta stesse cercando di celarla, di trattenerla. Per Goku, quella era una novità assoluta. Il principe dei saiyan aveva sempre cercato di mostrarsi per quello che era, non aveva mai nascosto la sua forza o la sua natura. Eppure, se ne stava lì, seduto su uno sgabello girevole, a trafficare con dei marchingegni che servivano per far diventare più forti i loro figli, due bambini che si volevano bene come due fratelli, che stavano crescendo insieme come guerrieri e come persone, un po’ come era successo a lui e a Crilin tanto tempo fa, forse in un’altra vita, alla fine dei conti. Ma perché, poi, uno come Vegeta stava usando dei robot per allenare i bambini? Perché non stava provvedendo lui stesso a mostrare come usare il proprio Ki e le proprie abilità?
“Mi stai alitando addosso, Kaharot. E mi stai irritando”.
Poteva vedere la vena sulla sua fronte pulsare. La giugulare del principe sembrava fosse sul punto di esplodere, a dispetto della calma che palesava. Se lui fosse stato un vampiro, Vegeta sarebbe stato una preda perfetta, un pasto molto invitante. Ma Goku non era un vampiro: Goku era un saiyan (morto) cresciuto sulla Terra, un saiyan che aveva mantenuto il suo corpo anche nell’Aldilà e che aveva ottenuto un permesso speciale per trascorrere un po’ di tempo sul pianeta che gli aveva fatto da casa in modo da stare accanto ai suoi cari e che, adesso, stava cercando di comunicare con l’unico saiyan purosangue rimasto ancora in vita per capire come comportarsi con il suo secondogenito. Niente di anormale, no?
“Urca… Scusami…”.
“Tsk. Sei irritante anche da morto, Kaharot. Che diavolo vuoi?”.
Ancora quel tono così sprezzante. Continuava a odiarlo dopo tutti quegli anni? Allora non era davvero cambiato così tanto, Vegeta.
“Ecco… Sì, insomma… Vorrei parlarti di Goten”.
Le spalle di Vegeta avevano fatto come uno scatto e il suo volto sembrava essersi scurito.
“Mpf” – si era limitato a bofonchiare, evitando lo sguardo di Goku e continuando a inserire codici apparentemente incomprensibili in quei mini-computer.
“È fantastico… È un bambino ubbidiente e molto educato… Ma è sempre così… Così scontroso… Ed è distante. Sembra quasi che la mia presenza gli dia fastidio…”.
“Sembra, razza di cretino?”.
Si era morso la lingua quasi a sangue pur di non dire niente. Non voleva mostrarsi interessato. Non voleva che Goku sapesse quello che avrebbe voluto dirgli veramente, perché lo avrebbe fatto tornare di corsa nel suo fantastico Paradiso con la coda tra le gambe, e anche se questo gli avrebbe generato un piacere infinito, sapeva che non sarebbe stato compito suo.
“E poi, parla sempre di te e… Bè, mi sono convinto che vorrebbe che ti somigliassi, Vegeta!”.
Lo aveva detto con una tale spontaneità da non essersi neppure reso conto che la sua lingua aveva galoppato molto più velocemente del suo cervello.
A quel punto, gli occhi di Vegeta, due pozze nere di sentimenti indecifrabili, si erano incatenati a quelli di Goku, facendolo sentire violato, quasi, di certo, indagato sin dentro l’anima.
Non aveva retto. Senza rendersene conto, si era girato dall’altra parte, incapace di affrontare ancora quelle ossidiane. Forse, era quello lo sguardo del monarca, del principe condottiero che ammoniva un soldato macchiatosi di insubordinazione. E, in effetti, lo erano. Ma erano anche quelli di un padre ferito. Solo che Goku non lo aveva capito.
“A volte parlo troppo” – aveva ammesso, guardando imbarazzato le punte dei suoi piedi.
“Forse”.
Ancora silenzio. Cielo, le cose non dovevano andare in quel modo. Affatto.
“Porca miseria, Goku. Che caspita ti aspettavi?”.
A quanto sembrava, anche Vegeta, a volte, parlava senza pensare.
Lo aveva spiazzato. Il principe aveva sollevato il capo di scatto, poggiando con forza entrambe le mani sul tavolo di lavoro, facendo cadere a terra tutto quello che c’era sopra. Il lavoro di un intero pomeriggio, forse, era andato in frantumi, proprio come la sua pazienza. Era evidente che avesse preso Goku alla sprovvista. Il suo sguardo stupefatto diceva tutto, anche troppo, ma ormai l’argine si era rotto, e un fiume in piena stava per investire il saiyan più giovane.
“Davvero credevate che le cose sarebbero andate come avevate pensato? Davvero pensavate che Goten ti sarebbe saltato al collo chiamandoti papà? Bè, dovete essere dei perfetti idioti per aver pensato una cazzata simile! E io sono stato più idiota di voi a non aver fatto niente per impedirvelo!”.
“Vegeta… Dai…”.
“Dai un bel niente, razza di cretino!” – gli si era parato davanti, afferrandolo per il bavero e tirandolo così vicino a sé da avergli permesso di sentire l’odore della mentina che aveva mangiato poco prima, di vedere le piccole rughe formatesi attorno agli angoli della bocca e degli occhi. Ed erano proprio gli occhi a essere cambiati repentinamente, a essersi accessi in più punti di azzurro, mentre un altro argine, più radicato e profondo, faticava a stare in piedi, faticava a proteggere quella parte di sé che non voleva più mostrare, quella parte di sé che aveva tenuto sepolta tanto a lungo.
“Ca-calmati…”.
“Mi calmerò quando questa farsa sarà finita” – aveva detto – “Non puoi giocare con le persone, Kaharot. Non puoi andare e venire a tuo piacimento! Non puoi fare le visite di cortesia, le vacanze sulla Terra, e poi pensare di andare via come se niente fosse!”.
“Ma… Io… Io…”.
“Hai mai chiesto di Goten a re Kaioh, Kaharot? Hai mai chiesto al tuo mentore se la tua famiglia stava bene? Se avevano freddo, fame, se erano in pericolo? Ti sei mai chiesto se i tuoi figli se la stessero cavando? Hai mai chiesto se Bulma fosse ancora viva? RISPONDI!”.
Ma lui non aveva risposto. Goku era rimasto in silenzio, attonito, incapace di proferire parola, di tentare di giustificarsi, di provare a spiegarsi.
“Tsk! Per l’appunto!” – aveva tuonato, stringendo ancora più forte quella dannata stoffa arancione, quel simbolo di odio e disprezzo estremi – “Tu non sai cosa significhi essere padre. TU NON SAI COSA SIGNIFCHI ESSERE UMANO”.
E, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, Vegeta aveva creduto di aver visto gli occhi del suo rivale diventare lucidi.
Prendendo un lungo respiro, il principe dei saiyan si era placato, lasciando che il suo respiro e il colore dei suoi occhi tornassero alla normalità.
“Torna ai tuoi allenamenti, Kaharot. Torna alle tue sfide, ai tuoi maestri, ai tuoi guerrieri. La Terra non è più la tua casa… Quella non è più la tua famiglia. E Goten non sarà mai davvero tuo figlio. Sono cambiate troppe cose da quando sei andato via, e tu non ti sei mai preoccupato di conoscerle. Altrimenti, non saresti venuto qui. Tornatene da dove sei venuto, e restaci”.
Avanzando come un zombie, con la coda tra le gambe e l’orgoglio ferito, Goku si era diretto verso la porta, incapace di aggiungere altro. Aveva sbagliato tutto, tutto. Aveva commesso un errore dietro l’altro, aveva frainteso ogni cosa. E cosa poteva fare, adesso, Goku? Cosa?
“Su una cosa avevi ragione” – lo aveva intercettato Vegeta, evidentemente ancora non pienamente soddisfatto di quello che aveva vomitato addosso alla sua nemesi. Goku si era fermato ma non aveva osato girarsi nella sua direzione. I due saiyan se ne stavano così, schiena a schiena, ma non per difendere le spalle l’uno dell’altro – “Stiamo meglio senza di te”.
Forse, aveva ragione. Stavano meglio senza di lui.

Continua…


Ciao ragazze/i!
Voi non avete la benché minima idea della settimana d’inferno che ho appena trascorso. Sono stata a letto tutto il tempo per colpa dell’influenza. Assurdo! Non mi era mai capitata una cosa del genere, prima!
Orbene, tutto questo tempo trascorso a deprimermi mi ha dato modo di continuare a ragionare su questo mio scritto, ed ecco qui il nuovo capitolo, pronto per voi che, ancora, siete in attesa di sapere come diamine sono finiti in questo posto tormentato a cui voi stessi avete dato un nome.
Però, in questo caso, mi concentrerei di più sul passato, nello specifico su Goku e Vegeta. Che cosa si aspettava, il primo? Veramente pensava che Vegeta avesse elargito perle e consigli? È veramente così idiota?
Ai posteri l’ardua sentenza!
A presto!
Un bacino
Cleo
 Ps: ovviamente, il titolo del capitolo è ispirato al brano di Giovanni Allevi!

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Capitolo 16
*** L'odioso saiyan cresciuto sulla Terra ***


Disclimer: Noterete un “leggero” OOC di un personaggio principale.
 
L’odioso saiyan cresciuto sulla Terra

 
Un disastro.
Era stato un terribile, tremendo disastro.
Bulma aveva sperato in un atteggiamento diverso da parte di suo marito, aveva creduto in una sua possibile collaborazione, nel suo essere accomodante, ma si era resa conto che sarebbe stato come chiedere al gelato di non essere dolce.
Si era sbagliata. Di nuovo.
E stavolta temeva che non ci sarebbe stato modo di rimediare.
Così, Bulma Brief si era accasciata a terra, nel suo laboratorio, lasciando che la schiena strisciasse lungo la fredda parete di metallo, mentre davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini in diretta della scena più cruda a cui avesse mai assistito fino ad allora.
Vegeta aveva dato sfogo ai suoi sentimenti, vomitando addosso a Goku quello che pensava veramente di lui. Tutta la rabbia, la frustrazione di quei cinque anni erano venute inesorabilmente a galla, e avevano tirato fuori un Vegeta diverso, un Vegeta stanco di sentirsi moralmente inferiore, un Vegeta stanco di soffrire a causa di una persona che considerava egoista, un Vegeta stanco di apparire sempre perfetto e glaciale quando invece, probabilmente, era quello tra tutti loro a soffrire maggiormente.
Bulma aveva sempre saputo che quel momento, prima o poi, sarebbe arrivato, che suo marito, l’uomo della sua vita, sarebbe esploso e che, a quel punto, niente avrebbe potuto più sistemare le cose.
Bulma lo sentiva e lo sapeva: sapeva che quell’incontro sarebbe stato la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso, che lasciarli soli in quella stanza avrebbe potuto scatenare la terza guerra mondiale, e in cuor suo, segretamente, aveva sperato che ciò avvenisse. Solo che Bulma aveva pianificato mentalmente uno scenario ben diverso, ben più cruento, violento, brutale, ma decisamente meno triste e desolante.
La donna dai capelli turchini avrebbe voluto che suo marito tirasse fuori il suo vero io, che esplodesse in un impeto di rabbia furente e si scagliasse contro Goku a suon di pugni, che sfogasse la propria forza, la propria rabbia, la propria frustrazione, il proprio dolore e ritornasse indietro sui suoi passi, sciogliendo così quello sciocco voto che lo vincolava a non combattere mai più e a vivere, di conseguenza, una vita a metà, una vita fatta di rinunce e di mancanze, una vita che non si addiceva al principe dei guerrieri saiyan. Bulma era certa che lo avrebbe visto finalmente felice, a quel punto. O, se non felice, sicuramente lo avrebbe visto con il cuore più leggero.
Non era successo niente del genere.
Vegeta aveva avuto una reazione? Certo che sì. Non era uno che si mordeva troppo spesso la lingua. Solo che aveva reagito nel modo più imprevedibile, più inaspettato.
Perché Vegeta, al contrario di quello che tutti avrebbero creduto o pensato, aveva reagito nel modo più umano possibile. Tagliente, feroce, ma giusto, irrimediabilmente giusto, aveva detto a Goku, alla sua nemesi, quello che nessuno avrebbe mai neanche osato pensare.
Il cinico principe dei saiyan aveva urlato in faccia all’eroe del pianeta Terra di non sapere cosa volesse dire essere umani, facendolo scappare via con la coda fra le gambe. Chi avrebbe mai creduto in un simile epilogo? Goku era andato via da lì mortificato, incapace di reagire, di rispondere a tono, incapace di discolparsi.
Vegeta aveva emesso la sentenza e aveva provveduto all’esecuzione. E – Oh Dende – quello sì che aveva fatto male. Era stato il colpo più forte mai scagliato dal principe, una stoccata violenta, micidiale, e ne avrebbe subito le conseguenze.
“Abbiamo davvero sbagliato tutto?” – si era chiesta ad alta voce, con gli occhi pieni di lacrime. Il velo liquido era diventato talmente spesso da impedirle di scorgere chiaramente i contorni di suo marito nel monitor.
Le faceva male la testa e sentiva un peso sul petto, proprio all’altezza del cuore.
“Abbiamo rovinato ogni cosa?”.
Avrebbe continuato a chiederselo per sempre, Bulma, vagando con la mente verso luoghi lontani, se non avesse sentito un urlo, uno spaventoso urlo di rabbia e frustrazione provenire contemporaneamente dal monitor e dalla Gravity Room, un urlo che l’aveva ricondotta alla realtà.
Era stato lui, a urlare.
Era stato il principe dei saiyan.
Anche se lei si era convinta che mai più sarebbe tornato a essere tale.
 
*
 
Era scappato via come un codardo, rinunciando persino a passare a salutare Bulma e Trunks.
Aveva lasciato la Capsule Corporation librandosi in volo, noncurante che qualcuno dei passanti avrebbe potuto vedere un uomo adulto munito di aureola fluttuare sui giardini dello stabilimento più famoso della città.
Era troppo sconvolto per pensare di utilizzare il teletrasporto. Chissà dove sarebbe andato, dove si sarebbe ritrovato. Se avesse davvero avuto scelta, avrebbe lasciato che le sabbie mobili del deserto dell’est lo inghiottissero, che il denso e disgustoso fango delle paludi del sud lo trascinasse nei meandri più profondi del pianeta, anche se, forse, neanche laggiù sarebbe stato al sicuro, perché neanche laggiù l’eco delle parole di Vegeta avrebbe smesso di rimbombare nelle sue orecchie e nella sua mente. Purtroppo, in una zucca vuota come la sua, creare un’eco, un rimbombo, non era poi così difficile, e ora ne aveva la certezza.
Era un idiota.
Vegeta era stato duro, crudele, ma era stato sincero. Fra tutti quelli che conosceva, il principe era stato l’unico a dirgli in faccia quello che pensava di lui, era stato l’unico a non avere timore di ferirlo, era stato l’unico, suo malgrado, a smuovergli dentro qualcosa.
Quando mai si era fermato a riflettere sulla sua esistenza? Quando mai aveva pensato realmente alle conseguenze delle sue azioni? A chi sarebbe andato, a chi sarebbe venuto, a chi sarebbe rimasto, per sempre o anche solo per un momento?
Solo dopo essere stato annientato dalle parole di Vegeta si era reso conto di non essersi mai neanche posto quelle domande e, di conseguenza, di non aver mai potuto darsi prima una risposta.
Il tagliente vento della sera sferzava sul suo viso da non-morto, mentre le immagini della città scorrevano veloci davanti ai suoi occhi, veloci come la vita di chi si era lasciato indietro.
“Sono un idiota” – si era detto, cercando di ricacciare indietro le lacrime – “Sono un perfetto idiota!”.
Lacrime.
Da quanto tempo non piangeva, Goku? Da quando Radish, suo fratello, aveva portato via Gohan, da quando aveva scoperto di essere un saiyan e non un terrestre, da quando aveva capito veramente perché era talmente diverso da tutti quelli che lo circondavano.
Nessuno lo aveva mai capito veramente. Nessuno si era mai soffermato a chiedere come quella scoperta lo avesse fatto sentire, come questo avesse cambiato il suo modo di vedere le cose.
Scoprire di essere un alieno, scoprire di appartenere a una crudele razza di guerrieri aveva acceso qualcosa in lui, aveva risvegliato un sentimento sopito da tanto, troppo tempo. Certo, non era un sanguinario sterminatore come Vegeta, non era un violento e crudele assassino come Radish e Nappa, ma la voglia di battersi, di migliorarsi, di diventare sempre più forte lo aveva spinto oltre l’immaginabile, lo aveva condotto al livello supremo, a diventare la leggenda, a diventare quello di cui non avrebbe mai saputo niente se un principe senza reame e senza sudditi non si fosse presentato alla sua porta.
Aveva tenuto tutto dentro di sé, Goku. Aveva nascosto i suoi timori, il suo stato d’animo, il suo vero, autentico io, finché non aveva avuto l’occasione di trovare in parte se stesso in giro per l’universo, dopo aver sconfitto, su Namecc, quella lucertola schifosa di Freezer.
Era arrivato alla conclusione di non essere né umano né saiyan e questo, da un lato, gli andava bene così. Aveva capito di essere diverso da tutto e tutti, di essere unico nel suo genere e, volente o nolente, avrebbe vissuto come desiderava. Non come voleva Chichi, ovvero come un umano, non come avrebbe forse voluto Vegeta, ovvero da saiyan. Lui era… Lui! E che emozione aveva provato quando aveva rimesso l’imperatore della Galassia al suo posto. Quanti sentimenti contrastanti lo avevano attraversato: la rabbia per la morte di Crilin, il disgusto verso Freezer e lo strano sentimento provato nei riguardi di Vegeta. Quando il principe aveva chiuso gli occhi per sempre si era ritrovato a essere lui l’unico, il solo, l’ultimo saiyan purosangue in tutto l’universo. Prima di quel momento, prima di quegli indimenticabili incontri, non aveva mai saputo dare una spiegazione a quel richiamo, a quella voglia di lotta e di miglioramento che montavano in lui fino a consumarlo. Adesso sapeva di volersi battere, di voler diventare sempre più forte, ma non più forte degli altri, bensì di se stesso.
All’epoca, sentiva di volerlo fare per far sì che nessuno potesse mai più venire sulla Terra e prendersi suo figlio, per far sì che i suoi occhi non piangessero mai più lacrime di frustrazione, rabbia e dolore, per far sì che nessuno minacciasse la sua casa.
Ma questo era il Goku di un tempo, il Goku di prima.
Perché, alla fine, se n’era andato. Di nuovo. Definitivamente, lasciandosi dietro i pezzi di chi lo amava incondizionatamente.
E si era chiesto, Goku, se avesse mai amato per davvero. Aveva mai davvero voluto bene a qualcuno con quell’ardore che aveva visto nello sguardo di Vegeta?
Sì. Amava i suoi figli, tutti e due, e amava anche sua moglie, nel suo strano modo forse per molti incomprensibile. E amava i suoi amici. Tutti. Forse, Bulma, Genio e Crilin un po’ più degli altri.
E odiava qualcuno?
Sì, certo. Non era mica perfetto, lui!
In quel momento, odiava Vegeta sin dal profondo del cuore. Lui, l’uomo più buono, più ingenuo e sincero dell’universo, odiava il principe dei saiyan, e lo odiava perché Vegeta lo aveva portato, con il suo cambiamento, con il suo modo di fare, a odiare un pochino se stesso.
 
*
 
“Che fine ha fatto tuo padre? Possibile che sia sempre in ritardo per la cena? Certe abitudini sono proprio dure a morire!”.
“Andiamo, mamma… Non ti agitare! Ho percepito la sua presenza vicino alla Capsule Corporation! Forse è andato a salutare Bulma o a parlare con Vegeta! Quel giorno, quando è tornato, non si sono praticamente rivolti la parola… Arriverà presto, fidati!”.
Gohan aveva cercato di tranquillizzare sua madre, sebbene egli stesso fosse leggermente in apprensione per il ritardo del suo papà.
Goku era uscito nel tardo pomeriggio, dopo che aveva testato la preparazione atletica sua e di Goten. Le cose non erano né migliorate sensibilmente né peggiorate, dal ritorno di suo padre sulla Terra, ma almeno suo fratello gli rivolgeva la parola e si lasciava avvicinare da lui. Non che fosse un gran traguardo, ma almeno era qualcosa! Per Gohan, invece, era stato tutto strano e meraviglioso allo stesso tempo. Averlo in giro per casa era un sogno divenuto realtà, poter sentire la sua risata era un dono prezioso. Non era invecchiato di un giorno e la permanenza nel regno dell’Aldilà non aveva intaccato minimamente il suo carattere allegro e gioviale. Goku era semplicemente Goku! Il loro Goku! E se avesse potuto esaudire un desiderio, sarebbe di certo stato quello di riportarlo indietro e far sì che rimanesse con loro per sempre.
Goten, al contrario, era ancora estremamente diffidente, ma sembrava aver deciso di dare una piccola, piccolissima opportunità al loro papà (sebbene non lo avesse mai chiamato in questo modo).
Aveva accettato di allenarsi insieme a loro e aveva risposto con calma e precisione a ogni domanda che Goku gli aveva fatto ma, dal canto suo, non aveva dimostrato la minima curiosità nei suoi riguardi.
Gohan lo aveva letteralmente sommerso di domande: era ansioso di sapere come trascorresse le sue giornate, se dormisse, se mangiasse, con chi si stesse allenando, chi lo stesse allenando e se ci fossero guerrieri più o meno forti di lui nel regno dell’Aldilà.
Chichi non era stata da meno, ma a queste domande ne erano seguite altre riguardanti la presenza o meno di giovani e avvenenti guerriere passate a miglior vita troppo presto. Guai se qualcuna di loro avesse posato gli occhi su di lui! Anche in quella circostanza, Chichi si era rivelata estremamente gelosa di suo marito. E pensare che aveva detto di odiarlo, di non amarlo più, di disprezzarlo! I suoi occhi brillavano da quando Goku era tornato. Era più serena, era più allegra, era più viva. E questo, i suoi figli lo avevano notato. La loro mamma era un’altra da quando l’uomo che aveva sposato era tornato al suo fianco. Ma, quando rincasava con un pochino di ritardo, o quando, al mattino, non sempre lo trovava al suo fianco, il suo volto si incupiva, e un velo di disperazione scendeva sui suoi profondi occhi scuri. Cosa sarebbe stato di lei quando Goku sarebbe tornato nel regno dell’Aldilà? Chichi era perfettamente consapevole che quella del marito sarebbe stata una breve permanenza, una sorta di “vacanza premio”, ma sembrava averlo dimenticato. O almeno, era bravissima a fingere che non le importasse.
“La cena si raffredderà… Che peccato!”.
“Sì, mamma… Hai ragione… Ma aspettiamolo lo stesso” – aveva detto Gohan, cercando di essere accomodante.
Mentre in cucina si svolgeva quel casalingo siparietto, Goten se ne stava sul pavimento, in salotto, a giocare con il piccolo Ouji. Il dolce cagnolino diventava ogni giorno sempre più grande e imparava cose nuove. Sin da subito si era dimostrato intelligente e curioso e, proprio come lui, diffidente verso Goku. Era come se avesse capito che il saiyan non apparteneva a quel mondo, come se sapesse che il piccolo Goten provasse sentimenti contrastanti nei suoi riguardi.
“Vieni qui, Ouji… Portami la palla!” – gli aveva chiesto, con voce ferma ma dolce allo stesso tempo.
E il cucciolo, con quella buffa aria un pochino goffa, aveva recuperato la piccola palla di gomma a colori, portandola al proprietario che lo aveva premiato con un biscotto.
Goten era concentrato su di lui e questo lo aiutava a non pensare troppo a quello che gli stava accadendo attorno, sebbene le sue orecchie fossero puntate in direzione della cucina. Sentiva ogni cosa, Goten, capiva ogni cosa. Forse, capiva meglio di tutti loro messi insieme.
Goku era andato via senza dire niente? Improbabile, in quel caso…
“É sempre in ritardo, era sempre così… Così…”.
“Papà è fatto così, mamma… Ormai dovresti saperlo!”.
Già… Almeno lei avrebbe dovuto saperlo.
“Bè, Ouji” – aveva bisbigliato al cagnolino – “Goku è fatto davvero male!” – aveva esclamato, prendendolo in braccio e grattandolo dietro le orecchie – “Lui non lo avrebbe mai fatto, lo sai?” – aveva proseguito, serio, girandolo con il muso verso di sé e guadandolo negli occhi – “Lui sarebbe arrivato in tempo, e tutti gli avremmo portato rispetto”.
A quelle parole, Ouji aveva abbaiato, quasi come se avesse capito quello che il suo padroncino gli aveva detto e avesse espresso approvazione.
“Lo so, Ouji, lo so. Anche io vorrei che… che Goku non fosse mio padre”.
Lo aveva bisbigliato piano, pianissimo. Guai se qualcuno dei presenti lo avesse sentito. Per fortuna, erano rimasti in cucina a chiacchierare. Goten, però, non poteva sapere che qualcuno lo stesse ascoltando. Non poteva sapere che, presto, quella preghiera pronunciata a fior di labbra in una sera qualunque, sarebbe stata esaudita.

Continua

Ragazze/i,
vi chiedo immensamente scusa per aver saltato l’aggiornamento della settimana passata.
Ho avuto degli impegni improrogabili e ho dovuto per forza mettere da parte la mia storia, ma oggi sono di nuovo qui!
Non so ancora se tornerò ad aggiornare di martedì o di venerdì! Oggi è appunto un giorno “spurio”, ma non volevo tardare ancora!
Ciò detto (spero davvero che possiate perdonarmi), che ne pensate di questo capitolo?
Goku, alla fine dei conti, ha dimostrato di non essere sempre così spensierato come tutti credono. Questo mio Goku (lasciatemelo dire, un pochino OOC ma pertinente al mio racconto) è tormentato perché non si sente capito da chi lo circonda.
Ma questo basta a giustificare le sue azioni? Fatemi sapere cosa ne pensate!
Per quanto riguarda i luoghi – deserto e isole – sono di mia invenzione!
;)
Ogni tanto è bello prendersi delle libertà!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 17
*** L'uomo dei desideri ***


L’uomo dei desideri
 
La prima volta che aveva sentito parlare delle sfere del drago, Trunks Brief aveva appena tre anni.
In molti avrebbero pensato che un bambino così piccolo non sarebbe stato in grado di seguire per filo e per segno i complicati discorsi degli adulti, ma non era sicuramente il suo caso. Già a quella tenera età, aveva dimostrato di essere in grado di fare quello che i suoi coetanei neppure immaginavano, aveva ampiamente provato di possedere una capacità di ascolto non indifferente, per non parlare delle sue doti di ragionamento che avrebbero fatto invidia a qualsiasi adulto. Era degno figlio dei suoi genitori, del resto, ma questi due, per quando sagaci e geniali che fossero, non si erano resi conto che, oltre all’intelligenza, il cervello del loro unico e bellissimo figlio era animato da una fantasia galoppante che lo aveva spinto a percorrere terreni a volte un po’ sdrucciolevoli.
L’idea che un essere mitologico esistesse per davvero, che un enorme drago verde fluttuante e parlante in grado di esaudire qualsiasi desiderio si era insinuata nella sua mente sin nel profondo, diventando per un po’ di tempo una specie di ossessione.
Trunks aveva trascorso notti intere a domandarsi che effetto facesse trovarsi al cospetto di una creatura del genere: gli avrebbe sicuramente fatto un po’ di paura, ma lui, in fondo era coraggioso, e non avrebbe esitato a chiedere al drago di esaudire i suoi tre desideri.
Eppure, quando si era soffermato a pensare a cosa avrebbe desiderato con tanto ardore, Trunks Brief non era mai riuscito a darsi una risposta concreta. Avrebbe potuto chiedere dei nuovi giocattoli? Certamente, ma suo nonno avrebbe provveduto a costruirne di magnifici seduta stante, se solo glielo avesse chiesto. Avrebbe potuto chiedere una casa più grande? E a cosa gli sarebbe servita, visto che casa sua era talmente imponente che neanche lui conosceva il numero esatto di tutte le stanze? Avrebbe potuto chiedere una montagna di dolci, ma gli sarebbe bastato fare una telefonata alla pasticceria in centro e avrebbe ottenuto tutti dolci che avrebbe desiderato.
No, sarebbe stato uno spreco di fatica, tempo e desideri. Avrebbe dovuto chiedere il radar cerca-sfere a sua madre o avrebbe dovuto rubarlo per evitare le mille domande che – giustamente – Bulma avrebbe posto a un bambino di quell’età. Avrebbe dovuto convincere qualcuno ad aiutarlo a cercarle e poi avrebbe dovuto dire la formula segreta, quella che sua madre aveva pronunciato la volta in cui si era messa a raccontare a suo marito, mentre Trunks giocava sul tappeto del salotto con la sua macchinina preferita, l’episodio della prima invocazione del drago dei desideri. A quel punto, dopo aver pronunciato la formula, il cielo si sarebbe oscurato e Shenron – che Trunks aveva scoperto di aver visto dopo il Cell-Game ma di cui non ricordava niente* – sarebbe apparso in tutta la sua magnificenza. E dopo? Dopo lo avrebbe lasciato fluttuare lì, a mezz’aria, prima di pronunciare tre stupidi desideri? No… Non voleva fare la figura dello stupido davanti al drago… Lui non voleva chiedere “una montagna di fragole” come avrebbe voluto fare sua madre, da ragazza. Lui voleva che i suoi desideri servissero davvero, che fossero davvero irrealizzabili mediante mezzi umani, voleva che i suoi desideri avessero un valore.
Trunks ci aveva pensato e ripensato, ci aveva riflettuto, ragionato, fantasticando sul momento opportuno e schizzando sul suo album da disegno il fatidico momento dell’evocazione. Se qualcuno avesse trovato quei vecchi album già un po’ ingialliti e stropicciati, avrebbe visto decine e decine di disegni raffiguranti diversi momenti di Trunks in compagnia del lungo e verde drago prodotto dalla fantasia del bambino dai capelli lilla – in verità non troppo difforme dal drago originale – scoprendo che il più bello era quello in cui il bambino cavalcava la creatura fantastica, un po’ come il protagonista de La storia infinita.
Però, come ben sappiamo, il tempo a volte può essere crudele, a volte giusto, ma fa sempre il proprio dovere e, alla fine, aveva fatto sì che il piccolo pensasse sempre meno a quella fantasia, fino a rimuoverla definitivamente dalla sua mente e dal suo cuore. Il suo sogno di bambino non era diventato altro che foglio immacolato. Neppure quando sua madre aveva annunciato di averle ritrovate tutte e sette per il compleanno di Goten era riaffiorato alla sua mente.
Forse, quelli non erano tempi maturi.
Però, come dicevo poc’anzi, il tempo sa fare il proprio dovere, esattamente come il destino. Entrambi avevano collaborato per far sì che una serie di eventi si incastrassero gli uni con gli altri e conducessero a un epilogo non del tutto prevedibile. O forse, a ben vedere, prevedibilissimo.
Trunks non lo aveva confessato mai a nessuno, ma se c’era una cosa che desiderava ardentemente, e si trattava di qualcosa che non poteva acquistare neppure con tutti i soldi del mondo, era rendere felice Goten.
Nonostante regalasse al suo migliore amico giocattoli e vestiti nuovi, lo portasse al cinema e alle feste, al parco divertimenti, gli comprasse tutto quello che desiderava a lo facesse sentire uno di casa, uno di famiglia, non era mai abbastanza. Trunks sentiva che Goten non fosse davvero felice. Neppure al suo fianco lo era per davvero, perché era una realtà fugace, effimera, che durava il tempo di un gioco o una merenda. E questo lo faceva soffrire, perché mai e poi mai avrebbe voluto che suo fratello soffrisse.
Per lui, Goten era tale, era il fratellino che non aveva mai avuto e che desiderava con tutto il cuore. E, nonostante Goten avesse già un fratello – un fratello fantastico, tra l’altro – lo stesso valeva per lui. Quante volte si era ritrovato a pensare a come avrebbero potuto fare per far sì che potessero diventare davvero due fratelli? Un’infinità. Suo padre avrebbe dovuto sposare Chichi? In quel modo sarebbe diventato il papà adottivo di Goten, ma sua mamma, Bulma, che fine avrebbe fatto? E Chichi, a quel punto, sarebbe stata sempre sua zia o una seconda mamma? No, così non poteva andare… Era troppo, troppo complicato! Era però convinto che un modo ci fosse… Ma quale?!
 
A questo punto, possiamo affermare che Trunks era intelligente, era scaltro, ed era furbo. Ma, sicuramente, Trunks non era un bambino cattivo. Né un bambino impiccione o, peggio ancora, spione. Aveva – esattamente come suo padre – la capacità di trovarsi al posto giusto al momento giusto.
 
Quella sera non voleva mettersi a spiare Goten, Gohan e Chichi a casa loro, eppure era successo.
Era uscito, nel pomeriggio, ed era passato in centro a comprare un vassoio gigantesco di bignè alla crema per il suo migliore amico, contento di poterlo condividere con lui e di poterlo spartire anche con gli altri, un po’ meno con Goku che, purtroppo, continuava per lui a non essere particolarmente simpatico. Nonostante le mille raccomandazioni di sua madre sul non essere prevenuto inutilmente con chi non conosceva, era a causa sua se Goten non viveva più insieme a lui e se erano giorni che non godeva più della sua compagnia. Va bene, non doveva essere egoista e doveva consentire a un padre di trascorrere del tempo con il proprio figlio, ma così si stava esagerando! Lui c’era sempre stato per Goten, e proprio come suo padre – che non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura – il piccolo dai buffi capelli a palma gli mancava tantissimo.
Li avevano divisi, questa era la verità. Avevano diviso due bambini che si adoravano e si consideravano fratelli nonostante non avessero neppure una goccia di sangue in comune, e questo, Trunks, non riusciva proprio a sopportarlo.
Però, nonostante l’astio e il risentimento, aveva deciso di comportarsi da adulto maturo e di dare una chance a Goku. Del resto, non lo conosceva. Del resto, sua madre poteva anche aver ragione.
Quando era atterrato sul morbido manto erboso che circondava la piccola casa in cui vivevano i Son non aveva potuto fare a meno di notare subito una cosa: l’assenza dell’aura di Goku. Possibile che non fosse in casa? Era sicuro di non essersi sbagliato: suo padre aveva fatto esercitare lui e Goten fino allo sfinimento e questo aveva fatto sì che diventasse bravissimo nella percezione dello spirito altrui. Per questo, poteva dire con certezza che Son Goku, in quel momento, non solo non fosse in casa, ma non fosse neppure nei paraggi.
Avrebbe avuto tante cose spiacevoli da dire, al riguardo, ma poteva anche essere che Goku fosse uscito per recarsi in città e fare la spesa. Certo, non era molto sensato farsi vedere in giro con un’aureola in testa, ma se aveva capito qualcosa del Son senior era che non badava mai ai convenevoli, MAI.
Scuotendo la testa, incerto, Trunks si era avvicinato all’uscio, quando la voce preoccupata di Chichi aveva oltrepassato la porta chiusa, giungendo chiara e inequivocabile: sua zia lamentava l’assenza prolungata del marito in vista della cena. In effetti, non si era reso conto di che ora fosse. Doveva tornare presto anche lui o la mamma lo avrebbe sgridato, e non voleva affatto essere sgridato. Però, non voleva tornare a casa con il vassoio di dolci: quelli erano per Goten, e Goten li avrebbe avuti, anche se in quel momento si sentiva un tantino fuori luogo.
“Andiamo, mamma…” – la voce di Gohan aveva seguito quella di sua madre. Il ragazzo cercava di tranquillizzarla, seppure lui le sembrasse tutto fuorché calmo. Nonostante ci fosse la presenza dalla porta a dividerli, Trunks aveva sentito un lieve tremore nella sua voce. Era incredibile pensare che un genitore potesse portare tanta apprensione nella vita dei suoi figli.
Improvvisamente, gli era passata tutta la voglia di bussare, entrare in casa e spiegare perché si trovava lì: zia Chichi l’avrebbe accolto con un sorriso forzato che tentava di nascondere la sua apprensione, e forse gli avrebbe chiesto di rimanere solo per gentilezza, perché di certo non aveva né l’umore né la volontà di ospitare qualcuno data la situazione con suo marito.
“Non ho avuto una buona idea… Porca miseria… E ora che faccio?”.
Doveva andare via da lì senza farsi notare. Per fortuna, aveva azzerato la propria aura e nessuno dei presenti in casa si era reso conto della sua presenza, ma Goku sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro e scoprirlo. Che avrebbe dovuto fare, a quel punto?
“Che guaio…”.
Sì, era un guaio. Ma ormai aveva deciso: sarebbe andato via. Pazienza, avrebbe portato i dolci a casa e buonanotte. Del resto, piacevano molto anche a sua madre e a suo padre. Odiava scoprirsi volubile, ma che altro poteva fare?
Stava per spiccare il volo e andare via quando si era reso conto, suo malgrado, che Goten non stesse partecipando a quella conversazione. Chissà dov’era il suo migliore amico.
Furtivamente, si era avvicinato alla finestra che dava sul salotto: conosceva benissimo la disposizione di casa Son, e sapeva che Goten era solito giocare lì. In effetti, non appena aveva poggiato il naso sulla finestra linda e pinta, l’immagine del bambino steso sul pavimento che giocava col suo Ouji era apparso davanti ai suoi occhi.
“Goten…” – aveva sussurrato, osservando la scena con un misto di apprensione e gioia. Il suo migliore amico si divertiva a lanciare piccoli oggetti al suo cagnolino che, prontamente, li riportava indietro. Sembravano felici, dopotutto, ma il suo occhio era troppo allenato e sapeva perfettamente cosa si nascondeva dietro a quel sorriso. Quello che aveva letto sulle labbra di Goten, poco dopo, ne era stato la conferma.
E, dopo tanto tempo, Trunks si era ricordato del drago, delle sfere e dei desideri. Dopo tanto tempo, Trunks Brief aveva deciso che uno di essi dovesse essere esaudito. Dopo tanto tempo, Trunks aveva scelto di prendere una decisione da adulti e di essere un vero uomo, l’uomo dei desideri.

Continua…


Ciao a tutte/i!
Come state?
Sì, lo so, sono in ritardo… Mi dovete scusare, ma sto avendo qualche piccolo problemino e sto facendo della fisioterapia. Questa mi impegna più del dovuto e non riesco a trovare il tempo per scrivere. Però, alla fine, torno sempre da voi.
Rieccoci qui, con un nuovo capitolo di questo mio scritto, stavolta tutto incentrato sul piccolo saiyan. A quanto pare, era lui a spiare Goten, era lui ad aver ascoltato la preghiera del piccolo saiyan. Sembra quasi un vizio di famiglia, non trovate?
Aspetto di sapere cosa ne pensiate!
Grazie per la pazienza e la dedizione!
 
A presto,
Un bacino
 
Cleo
 
*In verità, non ricordo se Trunks fosse presente, in quell’occasione. Fingiamo che sia così! ;)

 

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Capitolo 18
*** La confusione ***


La confusione
 
Trunks Brief rivangava con ossessione lo svolgersi degli eventi che lo avevano condotto a prendere quella decisione. Sentiva di ricordare ogni cosa con nitore, quasi come se tutto fosse accaduto ieri. Però, Trunks Brief non avrebbe mai ammesso che si era imposto di dimenticare il lavoro che aveva fatto per far sì che qualche particolare di quel ricordo cambiasse. Aveva fatto un lavoro talmente meticoloso da essere riuscito a distorcere le fondamenta di quel ricordo, convincendosi, alla fine, che le cose fossero andate esattamente come le ripeteva a se stesso quotidianamente.
A causa di quel duro lavoro, di quella lenta levigatura che aveva smussato le parti salienti di quella vicenda, Trunks aveva imparato a odiarsi un po’ di meno, alleggerendosi la coscienza. Ma quella finzione, quella falsità, lo aveva segretamente logorato al punto di farlo indurire.
Aveva spesso dei momenti di lucidità, momenti in cui tornava a essere perfettamente consapevole di quello che aveva fatto, momenti in cui precipitava alla velocità della luce in uno spazio indefinito, in un pozzo di disperazione e odio che un bambino della sua età non avrebbe dovuto conoscere. In quelle occasioni, il peso del mondo tornava a ricadere sulle sue spalle. In quelle occasioni, avrebbe semplicemente voluto non essere mai venuto al mondo.
 
Dopo quegli eventi fuori dall’ordinario, aveva dovuto crescere in fretta. Da bambino felice e coccolato, si era dovuto trasformare in un piccolo uomo capace di badare a se stesso. Non c’erano giochi, in quella nuova realtà, non c’erano svaghi o divertimenti, non c’erano grandi case, gelati o dolci. C’erano solo miseria e disperazione, le bestie nere che vedeva quotidianamente sulle guance scavate di suo padre.
L’uomo di un tempo, quello tutto d’un pezzo, quello aitante e vigoroso, quello che doveva domare il suo reale potenziale, non esisteva più, e Trunks si era convinto che non ci sarebbe mai più stata la possibilità di riportarlo indietro.
Avevano perso tutto.
Avevano perso la famiglia, gli affetti, i loro oggetti, la loro stessa vita.
In quello strano posto, in quello strano, fin troppo familiare Altrove, ci si limitava a sopravvivere. In quel mondo senza dei, o imparavi a vivere da lupo o accettavi di morire come un agnello, e lui, Trunks Brief, aveva deciso che sarebbe stato il più famelico tra i lupi.
 
Ieri…
Era determinato più che mai a far sì che le cose andassero come le aveva immaginate. Quel Goku non era degno di essere il padre di Goten, ormai ne era certo. Sua madre avrebbe potuto dire tutto quello che le pareva su quel tizio, ormai non gli importava più del suo parere. Finalmente, aveva raccolto le prove che gli bastavano per sapere che non si era affatto sbagliato sul suo conto.
Prima di agire – e per dare credito alle sue idee – aveva fatto le sue ricerche. Da bravo piccolo investigatore (per non dire da inquietante baby-stalker), aveva seguito i movimenti di Goku per giorni, studiando ogni sua mossa, cercando di entrare nella mente di quel sempliciotto che doveva nascondere qualche terribile segreto. Trunks si era convinto che Goku nascondesse qualcosa, che dovesse esserci un motivo più grande del semplice “non tornando in vita posso proteggervi” che aveva loro propinato, ma non aveva la più pallida idea di quale fosse questo segreto. In un primo momento, aveva pensato di chiedere consiglio a suo padre. Sentire il parere di un altro adulto poteva essere positivo, ma poi, alla fine, aveva desistito. Sembrava che Vegeta fosse terribilmente insofferente all’arrivo del saiyan, e questo gli era parso sufficiente a convincersi che la pensasse esattamente come lui. Goku doveva tornarsene da dove era sbucato, punto e basta.
Nel pedinarlo, aveva scoperto dove andava ad allenarsi quando era da solo, dove andava a meditare, da chi andava a piagnucolare, quali erano i suoi piatti preferiti e aveva scoperto che amava fare il bagno nudo. Completamente nudo.
In buona sostanza, non aveva appreso niente di particolarmente sospetto. In sintesi, Goku gli faceva pensare più a un bambino troppo cresciuto che a un adulto. Non aveva niente a che fare con suo padre. Proprio niente. Come facevano a venerarlo, tutti quanti? Come facevano a trovare in lui qualcosa di speciale? Era così… Così…
 
“Lasciamo perdere”.
 
Una sera, aveva visto come Goku si comportava con Goten, e lì non aveva avuto alcun dubbio. Faceva davvero tanto freddo, ma Gohan aveva insistito per allenarsi con lui dopo la scuola e avevano deciso di coinvolgere anche il piccolo Son. Trunks lo aveva saputo da quest’ultimo e non aveva perso tempo: si era infilato la tuta ed era praticamente fuggito via da casa di nascosto, raggiungendo gli altri saiyan e nascondendosi dietro un enorme albero per non farsi vedere.
Goku e Gohan si stavano battendo come due furie, lasciando Trunks a bocca aperta. Non aveva mai visto uno scontro del genere, MAI. Padre e figlio brillavano nell’oscurità come due fiamme dorate, accendendo la notte con il loro bagliore furente. I colpi erano micidiali, e per un attimo Trunks aveva creduto che si sarebbero uccisi a vicenda. Di tanto in tanto, Goku urlava al figlio di alzare la guardia e stare attento, ma non aveva intenzione di rallentare. Goten, invece, se ne stava in disparte a guardarli. Era come se non esistesse, come se non fosse neppure lì.
Quella era una cosa tra padre e figli, no? Goten era figlio di Goku tanto quanto Gohan, allora perché non era stato incluso? Nonostante lo stupore apparso sul suo viso per via dello spettacolo che stava osservando, il suo migliore amico si sentiva di troppo. Trunks lo conosceva benissimo ed era in grado di leggere ogni sua espressione, anche la più impercettibile. Goten si sentiva di troppo e si sentiva solo e infelice. Questo, con lui e suo padre non sarebbe mai successo. Goten meritava di essere finalmente felice, e lui sapeva esattamente come fare.

 
*

“È permesso?”.
La domanda era giunta all’improvviso, dopo che aveva sentito bussare sulla porta che aveva lasciato socchiusa.
Non sentiva quella vocina inconfondibile da giorni. Era talmente perso nei suoi pensieri da non essersi reso conto dell’avvicinamento della sua aura e del suo imminente arrivo.
Non aveva risposto immediatamente. Che cosa ci faceva lì? Perché non se ne stava con lui a conoscerlo meglio?
Aveva i nervi a fior di pelle. In verità, aveva sempre i nervi a fior di pelle, ma in quell’occasione un misto di sentimenti contrastanti e incontrollabili si agitavano in lui. Era arrabbiato, Vegeta, e non sapeva neanche lui perché. Era arrabbiato con Goku? Sicuramente. Quel decerebrato era capace di farlo arrabbiare sia da morto che da vivo. Anzi, forse più da morto che da vivo. Era anche sollevato, però, e contento, se quel sentimento poteva definirsi tale. Goten era tornato a trovarlo nonostante lì, sulla Terra, ci fosse suo padre.
Suo padre. Come se Goku fosse davvero tale.
 
“Entra” – aveva detto, alla fine.
Era stato perentorio. Fin troppo duro. Era la rabbia a muovere le sue azioni. Forse era arrabbiato anche con Goten. Era una cosa infantile, una cosa sciocca, ma era innervosito anche dall’atteggiamento del bambino.
Da quando era entrato nella sua vita, Vegeta gli aveva dato tutto. Aveva dato a Trunks e al figlio di Goku tutto se stesso. Aveva votato la sua esistenza al figlio del suo peggior rivale. E Goten cosa aveva fatto? Lo aveva considerato una seconda scelta. Perché diamine doveva essere il secondo in tutto e per tutti? Perché?
Quella storia doveva finire, e doveva finire nell’immediato. Basta avere aspettative sugli altri. Basta. Doveva tagliare i ponti, scrivere la parola fine, tornare a essere se stesso, qualsiasi cosa volesse dire. Doveva farlo, ma ci sarebbe riuscito?
 
“Ciao, Vegeta. Stai bene?”.
 
Goten era rimasto in prossimità della porta che aveva aperto con emozione e cautela. Indossava il vestito buono che gli aveva comprato sua madre, quello delle grandi occasioni, e aveva con sé il cagnolino, quello che gli avevano regalato per il suo compleanno. Lo stava stringendo con attenzione tra le braccia, col risultato di aver cosparso di peli il completo costoso che tanto era piaciuto a sua madre ma che lo faceva sembrare un damerino impettito. I gusti di quella donna era discutibili, a volte. Vegeta non aveva potuto fare a meno di pensare che quella palla di peli fosse cresciuta. Era trascorso davvero poco tempo dal compleanno del bambino, ma era sicuro che Ouji fosse diventato più grande.
 
“Ouji”.
 
Era palese che Goten avesse un discutibile senso dell’umorismo. Aveva chiamato quel cane principe, e non era difficile immaginare che lo avesse fatto per far piacere proprio a lui.
 
“Che idiozia”.
 
Eppure, Vegeta si era sentito in ogni modo fuorché offeso. Eppure, segretamente, Vegeta sentiva che quella scelta fosse quasi piacevole.
 
“Ti piace, Ouji, Vegeta? Non è bellissimo? Vorresti tenerlo in braccio?”.
 
Ignorando completamente il silenzio e l’impassibilità dell’uomo che aveva davanti, Goten si era avvicinato, porgendogli il tenero batuffolo di pelo. La scena aveva fatto tornare in mente al principe la sequenza di quello strano lungometraggio animato che gli avevano fatto vedere i bambini tempo addietro, quello con i leoni. Solo che proprio non riusciva a ricordarne il titolo.
Si era concentrato sull’animale per non incrociare gli occhi di Goten. Quelle pozze scure identiche a quelle di suo padre stavano brillando dall’emozione, e un ampio sorriso un po’ imbarazzato si era fatto strada su quel visino così pulito e innocente.
 
“Perché devi essere così tanto uguale a lui? Perché?”.
 
Per tanti anni aveva finto che quella somiglianza non esistesse, sin dal primo istante si era raccontato una bugia dietro l’altra, perché non voleva ammettere a se stesso che un viso fosse in grado di turbarlo, che il demone del suo peggior rivale lo tormentasse ogni secondo della sua vita. E c’era riuscito, Vegeta. Aveva fatto un duro lavoro su se stesso fino a vedere le cose per quelle che erano: Goten non era suo padre, Goten non era Kaharot. Allora, perché adesso non riusciva più a distinguerli?
Una rabbia incontrollabile stava montando in lui.
 
“Vattene via… Ragazzino. Vattene”.
 
“Dai, Vegeta: prendilo!”.
 
Goten sorrideva e il cane scodinzolava con vigore. Il cane scodinzolava e Goten sorrideva.
 
“Ragazzino…” – non era riuscito a dire altro. Non era riuscito nemmeno a muovere un muscolo. Sentiva solo di essere sul punto di perdere il controllo, di impazzire. E questo non doveva assolutamente accadere. Dopo aver preso un lungo respiro, aveva allungato la mano, facendola affondare nel pelo folto e morbido di quella creaturina indifesa e scodinzolante, e un ricordo lontano aveva fatto capolino, raggelandolo. Era un ricordo di sangue e di morte, un ricordo di vite spezzate, di dolore e tormenti inflitti senza pietà.
 
“Mi sei mancato, in questi giorni…” – aveva ammesso Goten, arrossendo, rompendo così il filo dei suoi pensieri – “Sono contento di vederti”.
 
Ancora silenzio.
Perché Goten non se ne andava? E perché lui non aveva il coraggio di mandarlo via? Avrebbe dovuto dirgli di tornarsene da suo padre, che una famiglia l’aveva e che lui avrebbe dovuto odiarlo perché era la progenie di colui che si era divertito a incasinargli la testa e a rovinargli l’esistenza! Invece, era rimasto in silenzio. Invece, si era lasciato sconfiggere, annientare, annullare.
In quella stanza cominciava a mancare l’aria. Tra di loro, ormai, non vi era più alcuna distanza.
 
“Però, sai, non sono qui per Ouji… So che forse non dovrei dire queste cose, Vegeta… So che un padre ce l’ho già, e lui non è tanto male, alla fine ma… Ecco… Vorrei che lo sapessi… Vorrei che sapessi che sei fantastico… E che io… Io… Ti voglio bene”.
 
Inconsapevolmente, con quella coraggiosa confessione, quel bambino dagli occhi di ossidiana aveva superato un confine a cui neanche Trunks aveva mai pensato di avvicinarsi.
Vegeta, nuovamente, era rimasto inerme, immobile, senza parole.
 
“Che cosa devo fare?”.
 
Per la prima volta nella sua vita, avrebbe davvero voluto che qualcuno lo consigliasse e lo guidasse, che gli dicesse cosa fare. Aveva già sperimentato il senso di colpa, ma non era mai stato forte come in quell’occasione. Mente e cuore del principe dei saiyan avevano iniziato a galoppare, producendo pensieri confusi e disordinati. Aveva sottratto qualcosa a Trunks dandola a Goten? Aveva sbagliato con suo figlio? Aveva sbagliato nei confronti di Goten? Aveva offeso Bulma?
Era nel panico. Non sapeva cosa fare, come agire, mentre invece, quel bambino, quel piccolo mezzosangue innocente e puro come l’acqua, sembrava possedere tutta la conoscenza e la consapevolezza del mondo.
Avrebbe voluto avere più tempo per respirare, Vegeta, per calmarsi e capire cosa fare ma, presto, troppo presto, avrebbe scoperto che il tempo a sua disposizione sarebbe scaduto. Presto, troppo presto, lui e Goten avrebbero scoperto che, a volte, sarebbe meglio se i desideri non diventassero realtà.
 
Continua…


Ragazze/i, SCUSATE DI NUOVO PER IL RITARDO!
Sono davvero imperdonabile. Non starò qui ad annoiarvi con mille spiegazioni, voglio solo che sappiate che ci siamo. Ormai, stiamo per scoprire come sono arrivati ad Altrove!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 19
*** Bisogna prestare attenzione ***


Bisognerebbe prestare attenzione
 
“Ti ho detto di levarti dai piedi, sporco verme!”.
“No! Non me ne vado finché non mi darete ciò che è mio!”.
“Ciò che è tuo? Ma se hai avuto fin troppo!”.
“Dannazione, capomastro! Manca metà della mia paga! Non me ne vado! Ho moglie e figli a casa! Non posso sfamarli con la miseria che mi avete dato! Mi sono rotto la schiena per voi e per il padrone!”.
“Ah ah ah! Non è un mio problema, nullità! Avresti dovuto pensarci prima di mettere incinta quella vacca che ti ritrovi per moglie. Ora sparisci! O preferisci tornare da lei senza niente? Perché potrei decidere di tenere tutto per me e mandarti a chiedere l’elemosina”.
“Sono certo che guadagnerei di più” –aveva sussurrato appena. Non poteva farsi sentire dalla bestia che aveva davanti perché avrebbe fatto realmente quello che aveva minacciato. Per questo, aveva preso le quattro monete che la suddetta bestia gli stava porgendo con quelle dita giallastre da arpia e se n’era andato, livido di rabbia e con gli occhi rossi dalla vergogna e dalle lacrime trattenute a fatica.
Quelle scene erano all’ordine del giorno.
Il capomastro era un farabutto: faceva la cresta sul salario – già abbastanza misero – dei suoi lavoranti e li maltrattava senza alcuno scrupolo. Una volta a settimana, sceglieva a turno un poveretto da mandare a casa con la metà di quanto gli spettava, e a nulla valevano i tentativi di ribellione. In quel posto i diritti umani non esistevano più, ma qualcuno ancora faticava ad accettarlo.
Era un incubo. Era un autentico incubo. Uomini e donne lavoravano anche diciotto ore al giorno come degli schiavi, in pessime condizioni igienico-sanitarie, senza curarsi se ci fosse vento, pioggia, neve o un sole cocente: loro dovevano lavorare, a capo chino, dovevano lavorare sino a perdere i sensi, sino a spaccarsi le nocche e la schiena, sino a sanguinare e sudare, mantenendo una regola infrangibile: tacere. Qualsiasi cosa capitasse, loro dovevano tacere.
Quella prerogativa valeva per tutti, anche per il principe dei saiyan.
Vegeta aveva imparato a eseguire gli ordini senza battere ciglio. Che senso avrebbe avuto? Aveva due piccole pesti da sfamare, aveva una casa da mantenere e un orto da curare. Non aveva né tempo né voglia di lasciarsi coinvolgere in stupide rivoluzioni, per quanto essere potessero essere giuste. Aveva abbastanza problemi e non voleva di certo aggiungerne degli altri. Per cui, aveva preso quanto gli spettava – una miseria, per il duro lavoro che svolgeva quotidianamente – e si era diretto sfinito verso il villaggio, sperando che il pane non fosse aumentato ancora.
Eppure, quel giorno, proprio non riusciva a non pensare allo sguardo di quell’uomo dai capelli rossi che aveva provato a farsi valere, che aveva tentato, in un estremo sforzo solitario, di far sentire la propria voce.
Era stato coraggioso, anche se aveva dovuto cedere all’evidenza dei fatti. Però, aveva fatto qualcosa che lui non era più in grado di fare da tempo, credere in se stesso.
Ma lui, Vegeta, a cosa o in chi credeva più?
Attraversare quelle strade era ogni volta uno strazio. Erano quelle della città in cui abitava da tantissimi anni, eppure non erano più le stesse: nessuna automobile sfrecciava veloce non rispettando i segnali stradali, nessun pedone si lamentava in maniera poco elegante, sbraitando e agitando il telefono cellulare di ultima generazione a cui era attaccato come una cozza al suo scoglio, nessun rumore di clacson, di cartelloni pubblicitari, di vigili urbani e sparatorie. Niente. Era rimasto solo il brusio della gente, ma il tono era sommesso e gli argomenti di cui discutevano erano ben diversi: non si parlava più di cene di lavoro e serate al cinema, di pranzi al ristorante e gite fuori porta. Gli argomenti erano l’aumento del prezzo della carne – Kami, non ne mangiava di decente da mesi – la scarsità di acqua pulita, il clima rigido che aveva rovinato parte dei raccolti, l’epidemia di influenza e l’impossibilità di sfamare le famiglie, sempre più povere, sempre più tristi, sempre più malate.
Dopo quel lontano giorno, Vegeta non aveva mai smesso di chiedersi se qualcuno, lì, avesse continuato a vivere la sua vita precedente. Non era stato più in grado di mettersi in contatto con le divinità – ammesso che qualcuna decidesse di rispondere a uno come lui – e i mezzi di comunicazione più comuni non funzionavano da tantissimo tempo. Internet, l’elettricità, il gas, erano diventati quasi leggendari. In quel tempo, ormai, si viaggiava in carrozza se si era di famiglia benestante, a dorso di un mulo o a piedi se si era un semplice contadino, si comunicava verbalmente o mediante carta e penna e si rischiarava il buio della notte con la flebile luce di una candela. Chissà, però, se qualcuno poteva ancora usufruire di quei piccoli lussi.
La sua vita e quella dei bambini era stata come spazzata, annullata, interrotta, e ricordare era come trafiggersi da soli il ventre con una lama poco affilata e arrugginita: non ti avrebbe ucciso immediatamente, ma ti avrebbe fatto morire di una lenta e logorante agonia. Perché cavolo continuava a farsi del male? Lui non le aveva mai voluto tutte quelle cose, poi!
Passando davanti alla vetrina di un negozio dismesso e abbandonato, aveva scorto la fotografia di quella che un tempo doveva essere una famiglia molto unita. L’insegna era ormai diventata illeggibile, ma sforzandosi un pochino si poteva ancora intravedere la scritta “e figli”. Doveva essere un negozio a conduzione familiare e quelli immortalati dovevano essere il proprietario e i suoi cari. Evidentemente, non avevano fatto in tempo a recuperare quel prezioso ricordo. Peccato. Col senno di poi, ora che il viso di lei stava a poco a poco svanendo, avrebbe tanto voluto avere una sua foto.
 
“Tsk! Smettila di pensare a queste cose”.
 
Non c’era una famiglia a non aver subito una perdita. In tanti erano rimasti orfani, gli anziani si erano ritrovati soli e spaesati a piangere i parenti che non sarebbero mai più tornati, ad attendere che la morte facesse loro visita, riconducendoli finalmente a chi, in vita, avevano tanto amato.
Lui, una volta morto, l’avrebbe raggiunta di nuovo? Aveva scontato il suo Purgatorio in Terra o quello non sarebbe stato abbastanza? Forse, i suoi peccati non sarebbero mai stati perdonati. Non aveva mai pensato alla redenzione, ma lei gli mancava… Dei quanto gli mancava.
 
“Faresti meglio a smetterla, Vegeta… Così facendo, ti fai solo del male”.
 
Aveva provato a recuperare dignità mediante il lavoro, di mantenere la casa in ordine, di far fruttare il suo piccolo orto e di fare economia, cercando di non far mancare niente a quelle due pesti, costringendoli a frequentare la scuola. Mai avrebbe creduto di fare la fine del decerebrato, anche se Goku era stato costretto dalla moglie a fare il contadino. Già, Goku… Perché continuava a pensare a lui?
 
“Tsk! Cerca di finirla”.
 
Aveva messo abbastanza soldi da parte da permettersi di comprare due galline. Generose come poche altre, Lola e Nola – così le avevano chiamate i bambini – davano loro un uovo al giorno. Avrebbe voluto prenderne una terza, ma doveva risparmiare ancora un po’. Per ora, l’importante era che Trunks e Goten assumessero un numero adeguato di grassi e proteine. Dovevano crescere, e dovevano farlo al meglio. Lui, al contrario, aveva imparato a provarsi di tutto. Era dimagrito da fare impressione, ma la tonicità muscolare non era venuta a mancare: il duro lavoro dava i suoi frutti, anche se non c’era paragone con quello che aveva fatto in precedenza. Ma, per l’appunto, quella era la sua vita di prima. Doveva smetterla di rivangare il passato.
Aveva provato a cacciare, qualche volta, ma aveva perso il suo smalto: le premure di lei lo avevano rammollito. Molto più produttivo si era rivelato il piccolo Goten: era un pescatore nato, e appena poteva si recava al fiume per procurare la cena, operazione che si rivelava spesso fruttuosa. Vegeta gli aveva più volte raccomandato di non recarsi al fiume quando le giornate erano rigide, ma Goten aveva spesso aggirato quel divieto. Sapeva davvero farlo preoccupare, quando ci si metteva d’impegno.
Era diventato quello che si diceva un padre di famiglia. Si aspettava solo che, un giorno, Goten lo chiamasse “papà”.
Ma perché, se era così devoto alla causa, proprio non riusciva a far funzionare le cose tra i ragazzi? Perché diamine non si parlavano più? Perché Trunks attaccava briga con Goten appena ne aveva l’occasione?
 
“Devi parlare con loro, Vegeta… Fallo”.
 
Si era bloccato di colpo, mentre pensava al quaderno nero che era stato motivo di conflitto tra i bambini. Era certo di aver sentito la sua voce. Ne era talmente sicuro da aver sentito i peli drizzarsi sulla nuca.
Che lei fosse veramente lì?
 
“Ma non-non può essere…”.
 
Doveva aver sognato. Lei non era lì. Non più.
E allora, perché era certo di averla sentita? E, soprattutto, perché cavolo continuava a sperare?
 
*
 
“Fatti da parte, pivello! Stai al tuo posto!”.
“Sì, moscerino! Stai fermo lì! Non vali niente! Che vorresti fare contro di noi, eh?”.
Goten non era riuscito a rimanere indifferente davanti agli ennesimi soprusi perpetrati da quel gruppo di teppistelli. Si era stancato di vedere la piccola Yzumi piangere perché le veniva quotidianamente sottratto il tozzo di pane raffermo che la sua mamma aveva faticosamente messo da parte per non farle sentire i morsi della fame durante le lezioni. Quei perfidi bambini le sottraevano costantemente la sua dignità di persona, di essere umano, e lui si era veramente stancato. Yzumi era la bimba più piccola tra i suoi compagni di classe, ed era anche quella più sfortunata. Quando era diventata vittima dei bulli, si era sempre comportata con estremo coraggio, cercando di non piangere di fronte a tanta cattiveria, ma quel giorno era stato troppo. Persino Goten, che le aveva sempre detto di non badarci, dividendo il suo frugale pasto con lei, non ce l’aveva più fatta. Fino a poco prima di vedere con i suoi occhi la cattiveria nei gesti di quei teppisti, aveva creduto che le loro angherie si limitassero appunto alla sottrazione di quei pochi viveri, ma non era affatto così: quei vermiciattoli si divertivano a strattonarla, a spingerla e a strapparle gli abiti, umiliandola con frasi ingiuriose rivolte a lei e alla sua povera mamma.
Figlia di puttana, le avevano detto e tutti, nonostante la giovane età, sapevano cosa ciò volesse dire.
Yzumi aveva provato a difendersi, a lottare, ma non ce la faceva più. Lei era troppo piccola, troppo affamata, troppo indifesa e troppo stanca.
Goten aveva perso la ragione alla vista dei graffi sulle braccia bianche della sua nuova amica, e aveva attaccato quei quattro farabutti senza pensarci due volte. Erano grandi il doppio di lui, ma erano lenti, goffi e non avevano metodo, soprattutto. Per questo, dopo le iniziali ingiurie, il piccolo li aveva messi in fuga, prendendosi cura della bambina, ammaliata dalla forza e dal coraggio del suo nuovo eroe.
 
“Ma dove hai imparato a difenderti così?” – gli aveva chiesto, dopo averlo ringraziato innumerevoli volte.
“Mi ha insegnato una persona…”.
“E chi?” – gli occhi di lei brillavano di curiosità e gratitudine.
“Mi ha insegnato… il mio papà”.
 
Goten lo aveva detto con una semplicità disarmante. Non gli importava di dire bugie. O meglio, quella bugia, nello specifico, non lo faceva sentire in colpa perché, alla fine dei conti, quella era una mezza verità. Vegeta era suo padre, che gli piacesse o no. Certo, non possedeva i suoi stessi geni, non portava il suo cognome, ma era stato il principe a essersi preso cura di lui, ad avergli insegnato tutto quello che sapeva, ad avergli fatto da padre e, da un po’ di tempo a quella parte, anche da fratello maggiore e da madre. Lo adorava. Lo venerava. Lo amava. E avrebbe detto con orgoglio di essere suo figlio a chiunque glielo avesse chiesto.
Yzumi, però, a sentire quella confessione, era diventata scura in viso. Sembrava essersi agitata all’improvviso e sentiva come il bisogno di andare via da lì, e di farlo subito.
“Qualcosa non va?” – Goten era troppo attento e sensibile per non essersi accorto immediatamente di quel cambiamento di umore così repentino. Aveva forse detto qualcosa di sbagliato?
 
“Io… No. Devo andare. Scusa”.
 
Era corsa via veloce come il vento, dandogli le spalle, incurante dello sgomento causato a colui che poco prima aveva chiamato eroe.
 
“Ma cosa… Cosa ho detto?” – non si dava pace. Lei era diventata piccola, sempre più piccola mentre le lacrime di Goten diventavano sempre più grandi e amare. Lo odiavano tutti, e lui non riusciva più a sopportarlo.
 
“GOTEN!”.
“Mmmm?”.
 
Inizialmente, non era certo di aver sentito per davvero la sua voce. Che senso avrebbe avuto fuggire via in quel modo e poi chiamarlo da lontano? Però, era stata proprio lei a chiamarlo: Yzumi aveva portato entrambe le mani ai lati della bocca nella speranza che il suono della sua voce potesse essere così amplificato, e stava parlando a gran velocità, col fiato rotto a causa della corsa.
 
“NON DIVENTARE COME LUI!”.
“COSA?” – Goten non riusciva proprio a capire di cosa stesse parlando, a cosa si riferisse.
“NON DIVENTARE COME TUO PADRE!”.
 
Ieri…
Aveva preso le sfere del drago di nascosto. Sua madre le aveva conservate con cura nella cassaforte del suo studio, ma lui aveva scoperto il codice di sicurezza e le aveva rubate con destrezza – forse fin troppa destrezza – nascondendole nel suo zainetto verde con la zip e portandole nel bel mezzo del deserto. Doveva ammettere di essere rimasto piuttosto colpito nel trovarsele davanti tutte e sette. Erano splendide e brillanti di una luce mai vista prima di allora. Stentava quasi a credere che degli oggetti così semplici potessero nascondere un potere così grande, un potere magico, per giunta! Non vedeva l’ora di evocare il drago e portare tutto a compimento. A quel punto, ogni cosa sarebbe stata come doveva essere e non avrebbe più visto il suo amico soffrire. Mai più.
Trunks aveva scelto il luogo in cui evocare il drago con grande cura, preferendolo ad altri per la totale assenza di esseri viventi, umani e non solo. Da quella latitudine, i suoi non avrebbero potuto accorgersi che il mitico drago era stato evocato. Certo, non sapeva ancora come avrebbe giustificato la futura inattività delle sfere, ma ci avrebbe pensato in seguito, magari dopo aver chiesto consiglio allo stesso Shenron.
Era emozionatissimo. Emozionatissimo e determinato.
 
“Stai per ottenere tutto quello che vuoi, Goten”.
 
C’era, ormai.
Era nel deserto, le sfere brillavano, in attesa della formula magica che avrebbe evocato Shenron e l’attesa stava per svanire.
 
“Ci siamo”.
 
Ma, proprio mentre stava per evocare il drago, qualcuno aveva fatto in modo di farsi notare mediante l’aumento della sua aura, mandando in fumo i suo propositi.
 
“Non lo fare”.
 
Era certo che il sangue gli si fosse gelato nelle vene. Non poteva essere stato tanto sfortunato. Non voleva crederci. Ma lui era lì, e non aveva avuto bisogno di sentire la sua voce per sapere chi fosse.
 
“Ascoltami, non lo fare”.
“Che ci fai qui, Junior?”.
 
Il namecciano, statuario, impassibile, si ergeva dritto davanti a lui. Abbigliato come un beduino del deserto, sembrava essere nel suo ambiente naturale. Peccato che non fosse neppure il suo pianeta, quello. C’erano troppi alieni sulla Terra, ne era sempre più convinto. Lo scrutava con quei sui occhietti dal taglio trasversale. Era severo, ma anche preoccupato per quello che avrebbe potuto fare. Quanto era stato sfortunato e idiota per non essersi accorto di essere stato seguito?
 
“Fermo un ragazzino che pensa di sapere troppo”.
“Cazzo… Allora lo sa per davvero!”.
“MODERA IL LINGUAGGIO, RAGAZZO!”.
Trunks era interdetto: da quando aveva imparato a leggere nel pensiero?
“Oh, Junior!”.
“È inutile che provi a fare il capriccioso con me, Trunks. Stai sbagliando e lo sai alla perfezione. Non è questo quello che Goten vuole”.
“Che ne sai tu di quello che vuole Goten?”.
“Non rispondere in questo modo piccato, ragazzino. Porta rispetto a chi è più anziano di te”.
 
Sembrava che stesse facendo di tutto per rendersi odioso.
 
“Pensi davvero che non mi sia accorto di quello che stavi architettando? Che non abbia parlato con il Supremo, con Goku e anche con Goten, Trunks?”.
 
I pensieri del piccolo Brief si stavano accavallando. Non poteva pensare di essere stato scoperto praticamente da chiunque! Non riusciva ad accettarlo! Era stato così attento, così cauto! Dove aveva sbagliato?
 
“Con il tempo, abbiamo imparato che le sfere devono esser protette. Non tutti hanno buone intenzioni e le tue, adesso, non lo sono, Trunks. Fidati di me”.
“MA COSA NE SAI TU DI QUELLO CHE VUOLE GOTEN? COSA NE SAI? Io sto con lui tutti i giorni e me lo hanno portato via! Lui non vuole stare con Goku! Vuole stare con me e papà! Se Goku lo ha abbandonato non è colpa sua!”.
“E tu che cosa vorresti fare, Trunks? Come vorresti risolvere questa situazione? Vorresti far tornare in vita Goku e farlo diventare uguale a tuo padre? O vorresti che Goku tornasse nell’Aldilà e tutti si dimenticassero di lui?”.
“Io… Io…”.
 
Non sapeva cosa rispondere. Era furioso e agitato. Tutto stava andando nel modo sbagliato. E Junior era così severo… Così, così…
 
“Non puoi cambiare le cose, Trunks. Non sarebbe giusto”.
“Non è giusto neanche che se ne sia andato e lo abbia lasciato. Goten non ha chiesto di rimanere solo, Junior”.
“No, ragazzo, non lo ha chiesto… Ma quanti altri bambini e bambine vivono la sua stessa condizione? Guardati attorno, Trunks… Quanti?”.
 
Non aveva saputo ribattere. Era vero, nella sua classe c’erano due bambine orfane di mamma e un bambino era orfano di padre, però...
 
“Non è la stessa cosa… Goku potrebbe tornare… E non lo vuole fare”.
“L’errore che commettono alcune persone è quello di credere di sapere ogni cosa”.
“Oh, dannazione! Si può sapere che vuoi dire?”.
 
Junior sembrava restio a rispondergli, ma Trunks non avrebbe ceduto. Si era accesa come una lampadina in lui. Cosa non voleva dirgli?
 
“Ci sono cose che non sai, Trunks. C’è una ragione se Goku non può tornare. Una ragione più che valida. Solo che non posso spiegartelo. Sappi solo che, se non torna, è per il bene di Goten, di Gohan, di Chichi e di noi tutti”.
“Continuo a non capire…”.
“Prima o poi capirai…” – aveva detto, dirigendosi presso le sfere.
“Che vuoi fare?”.
“Prenderle in custodia, Trunks”.
“NON PUOI FARLO!”.
“Sì, devo farlo… Per il bene di tutti”.
 
Non avrebbe potuto fermarlo neanche volendo. Junior era un guerriero esperto e lui non aveva mai avuto un vero scontro. Non avrebbe potuto spuntarla in nessun modo. Era stato sconfitto, annientato, battuto. Sentiva la rabbia crescere, montare fino al punto di esplodere. Era assurdo quello che stava succedendo! Dopo tutte le ricerche che aveva fatto, arrivava un namecciano e mandava tutto a monte! Proprio non riusciva ad accettarlo.
 
“Farai del male a Goten… E ne farai tanto anche a me e a papà, Junior…”.
 
Ma, noncurante di quella supplica, aveva preso tutte le luminose sfere, stringendole tra le braccia possenti.
 
“Restate insieme, Trunks. E nessuno potrà farvi mai del male. Ma, forzando le cose, vi dividerete. E, a quel punto, tornare indietro sarà impossibile”.
 
Junior era volato via, portando via con sé i desideri e le speranze di Trunks che, in lacrime, si era lasciato cadere in ginocchio sulla rovente sabbia del deserto.
 
“Non è giusto” – aveva sussurrato – “NON LO ACCETTO!” – aveva urlato, tirando un pugno sul manto fatto di minuscoli granelli.
 
Era stato allora che lo aveva visto per la prima volta, trovandolo per puro caso. Il pugno che aveva dato aveva aperto una voragine nella sabbia, che lo aveva inghiottito senza possibilità di appello. Non aveva avuto neppure il tempo di urlare, Trunks: sapeva che sarebbe morto lì, inghiottito tra le sabbie mobili che lui stesso aveva provocato.
 
“AIUTAMI JUNIOR… AIUTAMI!”.
 
Ma Junior non lo stava ascoltando, né avrebbe potuto farlo. Nessuno, forse, avrebbe potuto sentirlo mai più.
 
Continua…


Ragazze/i,
Eccomi qui! Ebbene sì, il mistero si infittisce! XD Oggi ho scritto come una forsennata! Non vedevo l’ora di postare questo capitolo. Vegeta continua a struggersi e Trunks è stato ostacolato da Junior che, udite udite, è stato quasi profetico. Così, Goku non può tornare per un motivo. A quanto sembra, custodiva davvero un segreto! E ora che non ci sono più le sfere, come farà Trunks a dare un padre a Goten?
VEDREMO!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 20
*** Come finirono in quel posto ***


Come finirono in quel posto
 
Aveva fatto un volo di almeno trenta metri ed era caduto su una duna bollente, sbattendo forte la pancia e il viso. Non aveva sentito un dolore insopportabile, ma era accaduto tutto talmente all’improvviso da averlo stordito, e i microscopici granelli di sabbia del deserto si erano infilati praticamente ovunque, impedendogli di respirare a dovere e di tenere gli occhi ben aperti. Le orecchie gli prudevano e la saliva, impastata e densa come calce, faceva fatica a scendere e gli grattava la gola.
Gli era servito qualche istante prima di ritrovare la lucidità e il coraggio di riaprire gli occhi. Come gli aveva insegnato suo padre, era rimasto immobile per qualche istante, un po’ per adattarsi all’illuminazione di quel posto, un po’ per avere il tempo di percepire eventuali presenze di qualcuno lì in agguato.
 
“Ma dove… Dove sono finito?”.
 
In un primo momento, aveva pensato di vivere in un’allucinazione. Era certo che le sabbie mobili lo avrebbero condotto alla morte, invece si era ritrovato in uno strano posto, una specie di caverna dalle altissime pareti color rosa con venature gialle e bianche e illuminata da luci che provenivano dall’alto. E, nel rendersi conto di quali fossero le fonti di luce, per un attimo aveva dimenticato di riprendere fiato.
 
“Che spettacolo”.
 
Lo era per davvero, uno spettacolo. Sopra la sua testa, a distanza di diversi chilometri le une dalle altre si trovavano tre laghetti, sicuramente appartenenti a delle oasi, il cui fondo non era costituito da sabbia e sassi, ma sembrava non esistere affatto. Curioso, anche se un po’ incerto, Trunks si era librato in volo sino a raggiungere lo specchio d’acqua più vicino a lui e scoprire così che il liquido trasparente era sospeso nel vuoto, quasi come se ci fosse stata una pellicola invisibile a mantenerne la forma semi-sferica.
 
“Incredibile! Sembra un’enorme goccia d’acqua! Che forza… Quando lo dirò alla mamma impazzirà!”.
 
Era veramente incredibile: l’acqua era talmente limpida da far filtrare i raggi del sole e da permettergli di vedere chiaramente il cielo e le nuvole bianchissime. Aveva intravisto persino dei pesci nuotare indisturbati come se fossero stati sul fondo di un comune laghetto. Davvero affascinante. Era un posto incredibile, così come era incredibile che, dall’alto, sulla superficie terrestre, non si fosse reso conto della vicinanza di quelle oasi. Evidentemente, lì sotto, in quella strana caverna, lo spazio era diverso da quel del piano di sopra, e questo aveva fatto sì che il giovane saiyan cominciasse a fantasticare sul chi e sul cosa avesse creato quel posto così magico e singolare, e sul perché lo avesse scoperto proprio lui.
Trepidante, Trunks aveva allungato una mano per toccare con le dita la misteriosa pellicola e svelarne il mistero, ma all’ultimo secondo aveva desistito: e se fosse precipitata inondando la caverna e lui non sarebbe stato più in grado di uscire? E poi, non lo aveva fatto perché un altro particolare aveva attirato la sua attenzione: la luce del sole che filtrava dalle chiare acque aveva illuminato qualcosa che si trovava esattamente sotto di lui, qualcosa che era poggiata su una sorta di altare di pietra rosa sbozzato grossolanamente.
 
“E quello cos’è?”.
 
Nel planare verso il basso aveva continuato a guardarsi attorno, notando che, sotto gli altri due laghetti, c’erano gli stessi blocchi di pietra. Chissà se anche lì sopra c’era appoggiato qualcosa di così misterioso e intrigante!
 
“Sono proprio curioso di sapere di cosa si tratta”.
 
Non c’era voluto molto per scoprirlo. Su quel blocco, su quell’altare, si trovava una specie di scatola di legno dipinta di un vivido blu, una scatola a forma di bauletto come quella in cui sua mamma riponeva i gioielli. E, parlando di gioielli, sul coperchio erano state posate sette piccole sfere rosse che avevano tutta l’aria di essere dei rubini intagliati a dovere.
 
“Strano… Di solito i gioielli stanno dentro alle scatole come questa… Che cosa bizzarra!”.
 
Eccitato e perplesso allo stesso tempo, Trunks aveva proseguito oltre, decidendo di giungere alla stazione successiva. Sul secondo altare, anch’esso illuminato dalla luce filtrata del laghetto sospeso, si trovava una statuina di porcellana finissima raffigurante un drago cinese. Era splendida, bellissima, e rappresentava l’idea che si era fatto del drago Shenron.
 
“Ma guarda tu… Prima le sfere, ora il drago… Sembra che qualcuno mi stia prendendo in giro!”.
 
A quel punto, era troppo curioso di sapere cosa ci fosse sul terzo blocco di pietra. Se i primi due offrivano alla sua vista tali meraviglie, cosa poteva mai giacere su quell’ultimo altare?
Con il cuore in gola, guidato da una forza che non riusciva a comprendere e che lo aveva convito che fosse piombato lì per una ragione ben precisa, Trunks aveva fatto quell’ultimo tratto in pochissimi secondi, atterrando con entrambi i piedi davanti all’oggetto che aveva immaginato, restandone profondamente deluso.
 
“E questo che roba è?”.
 
Niente oro, niente gioielli, niente materiali preziosi. Quello che gli si trovava davanti era un comunissimo, banalissimo quaderno dalla copertina nera, un oggetto brutto e privo di qualsiasi interesse. Confrontato a quelli che aveva visto in precedenza, poi, era veramente fuori luogo e orribile. Perché mai si trovava lì?
Aveva cominciato ad agitarsi. Quel posto era stupendo, avrebbe raccontato cose magnifiche (magari omettendo la parte in cui era morto di paura) agli altri, ma era arrivato il momento di andare via, di tornare dai suoi genitori e da Goten.
 
“Emmm… Mi sentite?” – aveva urlato – “Divinità? Dei – o come cavolo devo chiamarvi – siete in ascolto? Sono io, Trunks, e sono quaggiù! Sentite, mi dispiace se vi ho fatto arrabbiare, ho capito di aver sbagliato, però la punizione è durata anche troppo, no? Non so perché abbiate scelto di spedirmi proprio qui, ma ora vorrei tornare a casa, se è possibile… Mi sentite! Re Kaioh? Dende?”.
 
Si era convinto che quella fosse una prova a cui lo stavano sottoponendo le divinità. Forse, avevano deciso di punirlo per aver provato a cambiare il destino, e li ringraziava per avergli mostrato che perdendo la retta via sia rischiava di morire, li ringraziava per avergli fatto scoprire quel posto così affascinante, ma ora voleva tornare a casa. L’aria lì si era fatta pesante e aveva cominciato ad avvertire una strana smania, un tremore alle mani che non riusciva a spiegarsi.
 
“Andiamo… Mi dispiace… Non voglio stare qui dentro in eterno… Mi dispiace”.
 
Il dispiacere si era frammisto all’ansia, alla paura, al desiderio di fuggire via. Da quanto tempo era laggiù? Se fosse scesa la notte si sarebbe trovato al buio, da solo. Aveva troppa paura.
Eppure… Eppure, qualcosa lo spingeva a stare lì, accanto a quei tesori. Sembrava che quegli strani oggetti esercitassero una sorta di influenza su di lui, che lo stessero chiamando.
 
“Oddio, sto impazzendo!”.
 
Stava impazzendo? Forse sì, perché era certo di aver visto, anche a quella distanza, il bauletto e il drago tremare. Solo il quaderno continuava a stare lì, immobile, inanimato come ogni oggetto dovrebbe essere.
 
“Voglio andare via” – aveva sentenziato, quasi con le lacrime agli occhi – “FATEMI ANDARE VIA!”.
 
Non sapeva perché lo aveva fatto, ma lo aveva fatto e basta. Mentre gli oggetti preziosi si erano librati in volo puntando dritto su di lui, Trunks aveva afferrato il quaderno con entrambe le mani ed era partito veloce come un razzo, chiudendo gli occhi e trattenendo il fiato nell’istante in cui la sua pelle era entrata in contatto con la misteriosa pellicola di acqua, infrangendola. Aveva lottato contro il suo peso opprimente, contro la sua forza dirompente che lo teneva a fondo ed era riaffiorato in superficie, respirando finalmente l’aria pura e la libertà, mentre stringeva al petto qualcosa che non ricordava neppure di aver preso.
 
*
 
Si era svegliato sul pavimento della propria stanza, incapace di capire come fosse arrivato sino a lì. Era stanco, aveva i vestiti appiccicati addosso, ancora umidi e sporchi in parte di sabbia. Gli doleva ogni singolo muscolo, e aveva l’impressione di essersi svegliato dopo un sonno lungo mesi.
 
“Mmmm… Come sono arrivato qui?”.
 
Si era messo seduto sul pavimento, facendo attenzione a non scivolare e a non fare eccessiva forza sui muscoli. Non capiva perché gli facessero così male, non capiva perché si sentisse così… Così… Strano. Come se fosse in una bolla.
Era davvero la sua stanza, quella. Non era un’illusione. Quello davanti a sé era il suo letto, accanto c’era il comodino e quella in fondo era la scrivania con la console e tutti i suoi videogiochi. Quelle erano le pareti della sua stanza, e quello che se ne stava lì, immobile e appeso, era il lampadario blu a forma di aeroplano che tanto aveva voluto tre anni fa.
Ogni cosa era al suo posto. Ogni cosa era come doveva essere.
 
“Come sono arrivato qui… Ero nella grotta… C’erano quegli oggetti… E poi… Poi, sono uscito… L’avrò sognato? No, me lo ricordo chiaramente. Sono ancora bagnato, infatti… Ma come ho fatto ad arrivare fino a qui? E che cosa… Ma quando l’ho preso?”.
 
Non si era reso conto neppure di aver continuato a stringerlo tra le braccia, accanto al petto, come se fosse il più prezioso dei tesori.
Era lì, perfettamente intatto e perfettamente asciutto, come se non avesse attraversato al volo un lago sospeso, come se non lo avesse trasportato per chissà quanti chilometri in volo prima di stramazzare al suolo, sfinito, talmente sfinito da non ricordare neppure di aver fatto quella traversata epocale. Com’era possibile?
 
“Allucinante”.
 
Aveva preso un lungo respiro e si era rimesso in piedi. Doveva lavarsi e cambiarsi. Non poteva farsi trovare in quelle condizioni dai suoi, gli avrebbe dato ulteriore motivo di preoccuparsi. Sapeva perfettamente che Junior avrebbe parlato con i suoi e che presto sarebbe arrivato il momento della ramanzina/punizione e voleva evitare di gettare benzina sul fuoco.
Svelto e sicuro di sé, aveva preso il misterioso oggetto e lo aveva nascosto tra i suoi libri di scuola. In quel modo, avrebbe dato sicuramente meno nell’occhio che metterlo sotto il materasso e, subito dopo, si era recato in bagno, facendo attenzione a non fare troppo rumore. Doveva lavarsi e schiarirsi le idee, ed era certo che il getto bollente lo avrebbe aiutato. O, almeno, così sperava.
 
*
 
Una volta uscito dal bagno si era sentito rigenerato, talmente rigenerato da aver avvertito i morsi della fame.
Era sceso in cucina quasi senza pensarci, imbattendosi prima in sua nonna e poi in sua madre.
 
“Ciao tesoro! Dove sei stato? Ti sei fatto la doccia? Profumi di bagnoschiuma!”.
“Emmm… Ciao nonna! Sì, sì… Perché?”.
“Oh, non c’è un motivo nello specifico! Chiedevo tanto per chiedere!” – aveva trillato, tagliando una generosa fetta di torta alle fragole – “Tieni! L’ho appena tirata fuori dal frigo! Sono certo che ti piacerà!”.
 
Era difficile che una prelibatezza del genere non gli piacesse. E poi, la torta panna e fragole di sua nonna era insuperabile! Si era gettato su quella leccornia senza pensarci troppo, trangugiandone metà in un sol boccone col risultato di imbrattarsi completamente di panna.
Sua madre lo osservava in silenzio, assorta, mentre fumava una sigaretta. Quella calma era quasi inquietante. Cosa sapeva e cosa non stava dicendo?
Una fragola era appena andata di traverso al piccolo saiyan.
 
“Tesoro, non devi mangiare così… Tu e Vegeta non imparerete mai!”.
 
Gli aveva passato un bicchiere d’acqua, battendogli forte sulle spalle.
 
“Allora… Che hai da dire?” – aveva detto, poi, avvicinandosi a sua madre.
“In che senso, mammina?”.
Mammina… Tu non me la racconti giusta…” – aveva detto, guardandolo di sottecchi.
“Ma che dici?” – perché sua madre doveva avere l’istinto del tenente Colombo?
“Dico che mio figlio è un monello e che non dovrebbe andarsene in giro da solo. Ecco cosa dico. E che dovrebbe avvisare su dove va”.
“Emmm… Sì mamma, scusa… Hai ragione”.
 
Aveva ragione sul serio. Era stato incauto. Però, se quello era tutto, ciò voleva dire che Junior non era ancora passato da lì, il che era un bene: avrebbe potuto raggiungerlo e pregarlo di non dire niente ai suoi. Si sarebbe scusato. Anche se avrebbe dovuto fare la stessa cosa con Goku, e non ne aveva del tutto l’intenzione. E poi, non c’era traccia di suo padre, il che non era un bene. Solo che ora aveva altro a cui pensare, al momento, e questo altro si trovava nella sua cameretta, e non vedeva l’ora di scoprire che cosa fosse.
 
*
 
Lo aveva guardato e riguardato, rigirandolo tra le mani mille volte, soppesandolo, scrutandolo in ogni dettaglio, annusandolo persino, ma non aveva scoperto niente di entusiasmante.
Quello che aveva trovato era un quaderno. Un comunissimo quaderno dalla copertina di pelle nera, proprio come aveva avuto modo di constatare in precedenza.
Le pagine erano di uno strano colore grigiastro e non avevano righe o quadrettature. Erano delle semplici pagine intonse.
 
“Bah, forse avrei dovuto prendere il cofanetto… Almeno, avrei avuto un bel regalo per mamma!”.
 
Era deluso, stanco, e voleva vedere Goten, ma non poteva e questo lo faceva sentire frustrato.
 
“Non ne va bene una…” – senza rendersene conto, aveva preso la penna dal suo astuccio – “Oggi è stata una giornata infernale…” – aveva tolto il tappo – “Vorrei che non fosse mai sorto il sole…” – aveva aperto il quaderno e aveva posato sul primo foglio la punta della sua penna blu, iniziando a vergare con la sua calligrafia da scolaro – “Alla fine, volevo solo che Goten fosse felice e che diventasse mio fratello”.
 
Continua…


Ciao a tutte/i!
Come ve la passate? Spero che il Coronavirus non abbia colpito nessuno di voi o dei vostri cari e che l’emergenza rientri presto. Vi sono vicina! <3
Finalmente, con questo capitolo tutto incentrato su Trunks, abbiamo capito – FORSE – come sono finiti lì, ad Altrove.
Ve lo immaginavate?
Sono proprio curiosa di sapere cosa ne pensate!
Vi ringrazio per la pazienza e per la dedizione!
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 21
*** Quando ha aperto gli occhi ***


Quando ha aperto gli occhi
 
Si era addormentato sulle pagine appena vergate senza essersene reso conto. L’avventura vissuta, il volo fino a casa che non ricordava di aver fatto, la ramanzina di Junior e i sospetti di sua madre lo avevano sfinito e lui, seppur per metà saiyan, non aveva retto ulteriormente a quello stress, crollando con il viso sul tesoro che aveva estratto dalla grotta.
Aveva avuto bisogno di qualche istante per rendersi conto di che ore fossero.
Il quadrante della sveglia segnava le 23.40.
 
“Ma quanto ho dormito?”.
 
Aveva cercato di spazzare via la sonnolenza stiracchiandosi con poca grazia e sbadigliando senza preoccuparsi di coprirsi la bocca con le mani. Era ancora stanco, nonostante avesse dormito tantissimo, e la posizione che aveva assunto gli aveva procurato un terribile torcicollo.
 
“Ah, se mi vedesse papà… Mi direbbe che sono peggio di… Ehi! Ma…”.
 
Ma. Di ma, Trunks, ne aveva di diversi, in quel momento.
Ma perché non sono venuti a svegliarmi? Era sicuramente il primo.
Ma perché non mi hanno portato la cena in camera? Era il secondo.
Ma perché nessuno è venuto a vedere come stavo?
 
Preoccupato, Trunks aveva acuito i sensi per cercare di individuare la presenza dei suoi genitori e dei suoi nonni. Era giunto alla conclusione che Junior fosse andato a parlare con loro spifferandogli ogni cosa e che avessero deciso di punirlo rinchiudendolo nella sua stanza senza viveri per chissà quanto tempo.
Ansioso, si era precipitato giù dalla sedia e aveva girato la maniglia per farla scattare, convinto che non avrebbe avuto alcun riscontro positivo. Al contrario, Trunks aveva scoperto che nessuno lo aveva segregato mentre giaceva addormentato sulla scrivania.
 
“Fiuuu… Meno male… Forse Junior non è passato, dopotutto”.
 
Con cautela, il saiyan dai capelli lilla aveva sporto il capo oltre la soglia guardandosi prima a destra e poi a sinistra, cercando di capire se ci fossero pericoli in agguato.
 
“Sembra tutto tranquillo” – aveva sussurrato – “Fin troppo tranquillo, in effetti”.
 
Cercando di non produrre alcun rumore, aveva aperto maggiormente la porta fino al punto di poter passare e, camminando in punta di piedi, si era diretto in cucina. A giudicare dall’assenza delle loro aure, i suoi non dovevano trovarsi in casa.
 
“Caspita, sono talmente lontani da non riuscire a percepirli… Non riesco a sentire neppure le aure dei nonni… Ma che fine hanno fatto tutti?”.
 
Forse, sua madre e suo nonno avevano avuto un imprevisto a lavoro ed erano dovuti partire d’urgenza. Quando era tornato alla Capsule Corporation, suo padre non era ancora tornato, quindi poteva anche darsi che non fosse rincasato, ma sua nonna? Che fine aveva fatto la sua dolce nonnina?
 
“Bah! Lo scoprirò sicuramente dopo aver messo qualcosa sotto i denti. Sto letteralmente morendo di fame!”.
 
Aveva davvero una fame da lupi. Aveva mangiato solo quella misera fetta di torta, al suo rientro, e non vedeva l’ora di mettere sotto i denti qualcosa di più sostanzioso. Sua madre lasciava sempre in frigo enormi quantità di cibo già cotto per lui e suo padre: gli sarebbe bastato metterlo a scaldare e finalmente si sarebbe rifocillato.
Effettivamente, una volta giunto in cucina e dopo aver aperto il frigo, aveva trovato dell’arrosto di tacchino già affettato e un enorme barattolo di salsa d’accompagnamento. Non aveva dovuto fare altro se non tagliare a metà un panino e infilarci dentro tutta la carne che era in grado di ingoiare, condendo il tutto con una dose di salsa talmente generosa da aver rischiato di imbrattare le pareti nell’istante in cui aveva richiuso i due lembi di pane.
Ciò fatto, aveva aperto una lattina di cola e si era diretto nuovamente nella sua stanza, decidendo che nessun posto sarebbe stato più sicuro di quello nell’attesa che i suoi rientrassero.
 
“Può anche essere che il nonno e la nonna siano usciti a cena e che mamma e papà… Be’, magari staranno facendo qualcosa da genitori” – qualsiasi fossero le cose che facevano i genitori.
 
La verità era che Trunks aveva in mente di telefonarli, ma prima voleva mettere al sicuro il tesoro che aveva portato via dalla caverna. Non voleva rischiare che qualcuno lo trovasse, e si era dato anche dello stupido per averlo lasciato lì, sulla scrivania, senza custodirlo. Era pur vero che in casa non c’era nessuno, ma non era stato saggio ugualmente.
Era arrivato davanti la porta della sua camera in fretta, ma estremamente soddisfatto: aveva divorato l’interno panino a metà tragitto, e in più, aveva trangugiato metà della sua cola, emettendo un suono non propriamente regale.
 
“Se mi avessero sentito i miei” – aveva detto, ridacchiando sotto i baffi.
 
Si era chiuso la porta alle spalle, facendo girare per ben tre volte la chiave. Voleva solo un pochino di privacy, dopotutto.
Svelto ed emozionato, dopo aver bevuto l’ultimo sorso dalla sua lattina, era corso verso la scrivania e aveva preso il quaderno con l’intenzione di chiuderlo e riporlo nel suo nascondiglio in bella vista quando qualcosa aveva attirato la sua attenzione.
 
“Devo aver visto male!” – aveva esclamato – “Forse, sto ancora dormendo”.
 
Era certo di aver visto qualcosa, sul quaderno. Una frase, uno scarabocchio, non ne era sicuro. Quello di cui era sicuro, era che non lo avesse fatto lui. Per quanto potesse essere mezzo addormentato, quella non era la sua calligrafia, e ne aveva avuto conferma nel momento in cui aveva aperto meglio la pagina e l’aveva avvicinata al naso.
Sotto il resoconto dettagliato che aveva fatto di quanto gli era accaduto e di quello che desiderava, c’era un scritta, in rosso, vergata con un carattere un po’ tremolante e di dimensioni maggiori a quelle che aveva usato lui.
 
ANCORA NON MI HAI DETTO IL TUO NOME.
 
Aveva lasciato cadere il quaderno, tanto era sconvolto. Era uno scherzo? Doveva per forza essere uno scherzo! Qualcuno doveva essere entrato nella sua stanza quando era sceso in cucina per prepararsi il panino e aveva scritto quella frase inquietante in quella calligrafia orribile, non poteva essere altrimenti!
 
“Chi… chi c’è? Chi ha fatto questo scherzo idiota? Rispondimi, o non te la faccio passare liscia!”.
 
Aveva il cuore in gola e stava tremando. Chi poteva essersi introdotto lì senza che ne accorgesse? E perché non percepiva la sua presenza?
 
“Papà… Dove sei?”.
Senza che qualcuno lo sfiorasse, il quaderno, da chiuso e immobile qual era, aveva iniziato a tremare e poi a spaginarsi con furia, per aprirsi esattamente dove erano state vergate le ultime parole.
 
“OH PORCA…”.
 
Senza che potesse darsi una spiegazione logica, Trunks aveva osservato il tragitto che il quaderno aveva compiuto sino a dove era caduta la penna e lo aveva visto toccarla due volte, quasi come se stesse invitando Trunks a usarla. Il piccolo aveva accettato di affrontare quella prova di coraggio.
 
“Chi sei?” – aveva scritto, ripetendo a se stesso che doveva essere impazzito.
 
Scioccato, aveva visto comparire una a una nuove lettere, sempre più grandi, sempre più rosse, sempre più inquietanti.
 
NON AVERE PAURA.
SONO UN AMICO
.
 
“PORCA MISERIA!! QUESTO COSO È MALEDETTO! PORCA MISERIAAAA”.
 
Gli aveva dato un calcione ancor prima di aver pensato di farlo, spedendo il quaderno contro la parete. Quello, però, era caduto e si era riaperto esattamente allo stesso punto di prima, e nuove parole avevano cominciato a prendere forma.
 
SONO UN AMICO.
ANDRÁ TUTTO BENE.
FIDATI DI ME.
 
Aveva le lacrime agli occhi. Che cosa doveva fare? Aveva una paura folle! Che cosa aveva portato a casa? Un quaderno maledetto? E ora? Era maledetto anche lui?
Deglutendo a fatica, Trunks aveva preso coraggio, prendendo la penna che aveva fatto cadere sul pavimento insieme al quaderno e dirigendosi verso il punto in cui aveva lanciato quel maledetto coso.
Se aveva capito bene, il quaderno rispondeva a ciò che scriveva. Il quaderno era vivo. VIVO.
 
“Porca miseria!”.
 
Eccitato e spaventato allo stesso tempo, Trunks aveva preso penna e quaderno ed era corso alla scrivania, aveva acceso la lampada da tavolo e aveva preso un profondo respiro, cercando di schiarirsi le idee.
 
“Allora… Sono stato nel deserto per cercare di evocare il drago ma Junior mi ha fermato e sono finito in un posto assurdo (che non ho ancora capito che cavolo era) dove ho trovato questo quaderno… E non so perché ho cominciato a scriverci sopra quello che pensavo e volevo e… Porca miseria, mi ha risposto!”.
 
Aveva fatto questo monologo ad alta voce, cercando così di trovare un senso a quello che aveva appena detto e che, alla fine dei conti, gli era capitato per davvero. A essere del tutto sincero con se stesso, Trunks aveva creduto che stesse ancora dormendo e, di conseguenza, stesse sognando, ma un bel pizzicotto autoinflitto sulla guancia destra aveva fugato ogni dubbio. Era sveglio. Ed era vero. Tutto quello che era accaduto e stava accadendo era vero.
Dopo aver preso un ennesimo respiro e dopo aver preso coraggio, Trunks aveva afferrato di nuovo la penna e si era seduto più comodamente, pensando bene a cosa scrivere su quel quaderno così singolare.
 
“Chi sei?”.
 
Semplice, diretto, quasi pragmatico.
Chissà quale sarebbe stata la risposta che avrebbe ricevuto.
 
TE L’HO GIÁ DETTO…
SONO UN AMICO.
UN CARO AMICO.
 
“Certo!” – aveva esclamato – “Ma pensa te… Pure il quaderno dei misteri mi doveva capitare”.
Trunks lo sapeva: era troppo intelligente e sensibile per non capire che ci fosse qualcosa di assurdo in quello che stava succedendo, che ci fosse qualcosa di inspiegabile e di sinistro in quell’oggetto apparentemente così insignificante. Eppure, il piccolo saiyan non riusciva proprio a seguire la retta via. Il quaderno lo incuriosiva troppo. Voleva saperne di più e non si sarebbe fermato. Del resto, avrebbe potuto buttarlo via in qualsiasi momento, no?
 
“Io ho già un caro amico…” – aveva scritto, stizzito.
 
LO SO.
GOTEN.
 
“CAZZO!”.
 
Non avrebbe dovuto dire parole come quella. Sua madre lo avrebbe ucciso, e suo padre… Bè, lo avrebbe ucciso, lo avrebbe fatto resuscitare e lo avrebbe ucciso di nuovo. Però, i suoi non erano in casa. Nessuno sembrava essere in casa, ma Trunks aveva completamente dimenticato il buon proposito di telefonare a sua madre. Trunks sembrava aver dimenticato tutto. O quasi.
 
“Sì… Goten…”.
 
VOLEVI CHE FOSSE TUO FRAELLO.
GIUSTO?
 
“Sì”.
 
Perché negarlo? Lui desiderava ardentemente che il piccolo Son diventasse veramente suo fratello. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Qualsiasi.
 
A QUALSIASI COSTO VORRESTI CHE LUI FOSSE FELICE.
NO?
 
“Sì…”.
 
CON TE E TUO PADRE.
SENZA GOKU.
DICO BENE?
 
“Assolutamente”.
Il quaderno aveva assimilato ogni cosa che aveva scritto, dimostrando capacità di apprendimento e ragionamento. Chissà se questo amico era qualcosa che stava possedendo il quaderno o se era il quaderno stesso ad avere capacità di discernimento e non solo.
Avrebbe voluto chiederglielo, Trunks, ma non ne aveva avuto il tempo. Di nuovo, gli eventi lo avevano colto di sorpresa, facendolo sentire sopraffatto.
 
TI DIVERTIRAI MOLTO,
DA OGGI IN POI.
E NON DIRMI GRAZIE.
È STATO UN DOVERE E UN PIACERE.

 
*
 
Quando aveva aperto gli occhi, Trunks si era ritrovato nella sua stanza, quasi completamente al buio, sotto le coperte, mentre qualcuno lo scuoteva senza premura.
Quando aveva aperto gli occhi, Trunks si era sentito stanco, privato di ogni energia vitale.
Quando aveva aperto gli occhi, Trunks aveva visto le pupille di ossidiana di Vegeta brillare alla luce della luna, aveva visto il suo viso sconvolto da qualcosa che non poteva immaginare.
Quando aveva aperto gli occhi, Trunks aveva pensato di stare ancora sognando.
Quando aveva aperto gli occhi, aveva capito che niente sarebbe stato più come prima.
 
Continua…


Ragazze/i, buona sera.
Perdonatemi per il mio consueto ritardo, ma con questa storia del COVID-19 sono diventata ancora più paranoica di prima e ho cominciato a pulire casa in maniera ossessiva, e questo sta facendo sì che la sera crollo nel letto distrutta e durante il giorno non ho un momento libero per mettermi a scrivere. Voi come ve la state passando? Qui in Calabria c’è bel tempo, per fortuna, e riesco a godermi il sole mentre porto fuori Nerino. Sebbene si tratti di brevi passeggiate vicino casa, questo mi sta impedendo di sentire troppo la pressione della vita casalinga.
Ma torniamo a noi.
Il quaderno PARLA.
O meglio, scrive.
XD
È educato, risponde alle domande di Trunks! Perché, dico io, i miei quaderni non lo hanno mai fatto? Avrei vissuto anni universitari più semplici. O forse no, dato il risvolto della situazione.
Che dire?
NULLA.
Lascio questo arduo compito a voi, se vi va!
Vi ringrazio per l’attenzione e vi saluto!
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 22
*** Un bambino e il suo cane ***


Un bambino e il suo cane

 
Era accaduto tutto in fretta, ed era stato quasi indolore.
Goten era a letto quando quell’immensa energia sconosciuta si era propagata tutt’intorno. Il boato che aveva udito lo aveva destato dal suo sonno, e il piccolo aveva fatto in tempo a vedere quella folgorante luce dorata prima di ricadere nell’oblio.
Al suo risveglio, non era certo di quello che fosse accaduto, né di quanto tempo fosse effettivamente trascorso. Ormai era mattina, il sole filtrava dalle tende della sua camera e il piccolo Ouji, delicato e anche un po’ timoroso, leccava dolcemente la sua mano.
 
“Ehi…” – aveva detto, con la voce ancora impastata dal sonno – “Che stai facendo, piccolo? Perché piangi? No…”.
 
Ouji, uggiolando, si era sollevato sulle zampe posteriori, lasciando così che Goten lo prendesse in braccio e lo mettesse sotto le coperte, proprio accanto a lui.
 
“Se ci vedesse la mamma…” – gli aveva detto, accarezzandolo dolcemente sul capo – “Ma che hai, piccolo mio? Perché fai così… Mi fai spaventare…”.
 
Lo aveva stretto a sé, e il piccolo aveva nascosto il musetto sotto l’ascella del suo piccolo padroncino, continuando a uggiolare.
Goten non capiva cosa gli fosse accaduto, cosa potesse averlo spaventato fino a quel punto. Poi, all’improvviso, si era ricordato del boato e del bagliore che lo aveva svegliato nel cuore della notte e aveva collegato l’episodio allo spavento che stava palesando il suo cagnolino.
 
“Ouji… Mi dispiace tanto… Non mi sono reso conto di quello che stava succedendo… Scusami tanto piccolo mio… Scusami…”.
 
Si era messo seduto e aveva preso Ouji tra le braccia, stringendolo forte e cercando così di consolarlo.
 
“Poverino… Avrai pianto per tutta la notte… Possibile che nessuno ti abbia sentito? La mamma sente qualsiasi cosa…”.
 
Con cautela, Goten aveva afferrato più saldamente il cagnolino e aveva posato entrambi i piedi sul freddo pavimento, alzandosi.
 
“Mio Dio! Ouji! Ma quanto pesi? Sembra che tu abbia ingoiato un sasso! Che hai combinato, stanotte?”.
 
Era pesante. Era estremamente, terribilmente pesante. Ma com’era possibile? Aveva sempre sollevato Ouji con facilità, ed era impossibile che il suo amico a quattro zampe avesse messo tutto quel peso in circa nove ore. Eppure, stava facendo così tanta fatica da aver iniziato a sudare e da aver avvertito forti dolori alle braccia, alle spalle e alla schiena.
 
“Proprio non riesco a capire”.
 
Nonostante le difficoltà, era giunto finalmente alla finestra, lasciando che Ouji si posizionasse al meglio sul davanzale. Tremava ancora, anche se con minor vigore, ma era ancora irrequieto. Goten pensava davvero che volesse invitarlo a guardare fuori dalla finestra, ma poteva anche essere che tutte quelle stranezze fossero una conseguenza del fatto che non fosse ancora del tutto perfettamente sveglio.
 
“Dovrei prendermi a schiaffi, forse…”.
 
E, nel dirlo, aveva scostato di poco la tendina gialla della sua camera, lasciando che la luce del sole penetrasse all’interno.
Sembrava tutto tranquillo: il prato davanti al giardino era ben tosato come sempre, il bucato si stava asciugando al sole e la porta di casa (che da quell’angolazione vedeva alla perfezione) era chiusa, proprio come avrebbe dovuto essere.
Eppure, Goten doveva proprio essere ancora assonnato per non essersi reso conto della mancanza di due elementi fondamentali in quel paesaggio idilliaco: non si udiva né il canto degli uccellini, né la voce di sua madre che intonava alla meno peggio la solita vecchia canzoncina.
 
“Scendiamo al piano di sotto… Ho una fame… La mamma avrà sicuramente preparato qualcosa di buono!”.
 
Ma no, la mamma non aveva preparato niente di buono. La mamma non aveva neanche pulito il piano cottura e lavato i piatti della sera precedente, che campeggiavano trionfanti dalla vaschetta dell’acquaio.
 
“Ma-mamma?”.
 
L’aveva chiamata quasi sottovoce, come se avesse avuto paura si svegliare qualcuno, o di disturbarla. Ouji stava attaccato al suo polpaccio sinistro, tremante e timoroso. Perché Chichi non si trovava lì? Perché la cucina era un disastro e perché sembrava che in casa, non ci fosse nessuno? Aveva come l’impressione che tutti – tranne lui – avessero abbandonato casa all’improvviso, lasciando tutto così come si trovava in seguito a una catastrofe o a un bombardamento, e la quiete che regnava lì dentro non faceva altro che rendere la situazione ancora più sinistra e surreale.
 
“Eppure, dovranno pur essere da qualche parte… Vediamo un po’…”.
 
E si era concentrato, ma inutilmente. Solo in quel momento si era reso conto di non riuscire ad avvertire le aure dei presenti. Si era sforzato, aveva preso un profondo respiro, ma niente: in quella casa non c’era nessuno, e sembrava che non ci fosse nessuno neanche lì fuori.
 
“Ma dove… dove sono, Ouji?”.
 
Preso dal panico, il piccolo saiyan aveva percorso le scale a ritroso, aprendo con foga la porta della stanza dei suoi genitori, scoprendola vuota.
 
“Oddio…”.
 
Poi, aveva fatto la stessa cosa con quella della camera di Gohan, scoprendo la stessa, identica realtà. Era da solo, in casa, solo con Ouji, e non aveva la più pallida idea di dove fossero finiti tutti quanti.
 
*
 
Era sconvolto, Goten. Aveva cercato tanto tutti quanti, li aveva chiamati a gran voce, ma non erano venuti allo scoperto. Aveva cercato meglio in tutte le stanze, aveva guardato nella dispensa, nel granaio*, ma di loro non c’era alcuna traccia finché, sconvolto ed esausto, non aveva provato a librarsi in volo per cercare di scorgerli dall’altro, ed era rimasto paralizzato dalla paura.
Ouji se ne stava lì accanto a lui e uggiolava, abbaiava e ululava, cercando di dirgli chissà che cosa, ma Goten non riusciva a udire i suoi lamenti.
 
“Non ci riesco…” – aveva detto, incredulo – “Non riesco a volare!”.
 
Quasi in trance, aveva sollevato la mano destra dritta davanti a sé, preparandosi a lanciare una piccola sfera di energia. Si era sforzato nuovamente, ma il solido luminoso e scintillante non si era formato all’interno del suo palmo, lasciandolo lì, immobile come una statua di sale e spaventato a morte.
Allora, Goten aveva provato a dare un pugno al muro, ma quell’insano gesto non aveva avuto l’esito sperato: un dolore accecante aveva attraversato la mano e tutta la lunghezza del braccio sino a raggiungere la spina dorsale. Il piccolo, svegliatosi da quella sorta di ipnosi, aveva urlato, ritraendo la mano al petto e stringendola forte con l’altra, scoprendo, poi, di aver lasciato una chiazza rossa sul muro.
Nell’udire quelle urla strazianti, Ouji aveva rizzato il pelo, cominciando ad abbaiare e a ringhiare con ferocia: chi aveva osato fare dal male al suo padroncino?
 
“Ma che cosa sta succedendo qui? Perché non riesco più a volare? Perché ho perso la mia forza? Gohan, mamma… dove siete?”.
 
Terrorizzato, in preda al panico e al dolore, Gohan era corso in casa, si era chiuso la porta alle spalle e si era accasciato sul pavimento, in lacrime, lasciando che Ouji gli leccasse le gocce salate dalle guance. La mano ferita pulsava e doleva immensamente, ma a dolere più di tutti erano il suo cuore e il suo spirito.
 
“Dove siete?”.
 
Piangeva a dirotto, Goten, sperando che qualcuno lo sentisse, sperando che qualcuno venisse lì, lo consolasse e lo rassicurasse, ma l’idea che sarebbe rimasto da solo, per sempre, ormai si era impossessata di lui. Disperato, aveva preso Ouji con la mano buona, lo aveva avvicinato a sé il più possibile, affondando affondato il viso nel suo folto e morbido manto, cercando conforto dal suo calore e dal suo respiro.
Chissà che fine avevano fatto, tutti…
Chissà che fino avevano fatto anche Trunks e Vegeta?
 
“Figliolo… Perché sei nascosto qui? Che ti succede?”.
 
Era la voce di Goku quella che lo aveva destato da quei tristi pensieri. Suo padre, quello vero, quello che aveva contribuito a metterlo al mondo, quella che Gohan e sua madre amavano incondizionatamente, quello venerato dagli amici di sempre, quello che aveva rifiutato ma che, in quel momento, avrebbe quasi voluto abbracciare, era piombato lì nell’istante in cui lui aveva cominciato a pensare a Vegeta. Era un caso, era sicuramente un caso, ma era sinceramente contento di vederlo, talmente contento da non essersi reso conto di aver smesso improvvisamente di piangere.
Goku se ne stava lì, seduto sui talloni, con le mani penzolanti e uno strano sorriso stampato sul viso gentile.
Come aveva fatto ad arrivare senza che lui lo sentisse? D’accordo, non aveva più le sue doti da guerriero, ma le sue orecchie funzionavano ancora… Possibile che non avesse minimamente avvertito il suo arrivo?
 
“Io… Io…”.
 
Non aveva idea di cosa dire. Come avrebbe potuto averla? Goten soffriva per il dolore alla mano e per la paura, voleva un abbraccio, ma non era ancora pronto ad aprire il suo cuore a quell’uomo, non era pronto a lasciarsi stringere da lui. Non lo conosceva bene, continuava a essere un perfetto estraneo ai suoi occhi, e non gli interessava nemmeno che si stesse preoccupando per lui, in quanto la persona che avrebbe voluto vedere, in quel momento, era un’altra. Ma non era così credulone da pensare che Vegeta sarebbe realmente comparso da quella porta e lo avrebbe portato via con sé. Il principe non lo avrebbe mai raggiunto, non lo avrebbe mai protetto come si fa con i neonati. Lo aveva addestrato per cavarsela da solo, per essere coraggioso, e lui che stava facendo? Stava piangendo come un lattante e si autocommiserava come un perdente.
 
“Come-Come sei entrato?”.
 
Glielo aveva chiesto a fatica, tirando su col naso e mettendosi a sedere.
Goku aveva continuato a sorridergli per tutto il tempo, tendendogli la mano. Voleva aiutarlo, voleva proteggerlo, e sua madre e suo fratello sarebbero stati contenti nel vedere un loro avvicinamento, ma lui proprio non riusciva a fidarsi. Cosa sarebbe accaduto se avesse preso la sua mano e se fosse sparito all’improvviso, come aveva già fatto in passato, come avevano fatto tutti, adesso?
Era troppo facile comportarsi in quel modo. Dov’era stato, lui, quando aveva pianto, quando si era sentito meno degli altri bambini, quando aveva capito cosa significasse essere orfano di padre? Goku non era stato lì. Al suo posto, c’erano stati nonno Giuma, sua madre, Gohan e lui, Vegeta, l’unico padre che avesse mai desiderato avere. E sì, in quei giorni trascorsi insieme avevano creato qualcosa, si erano in qualche modo capiti, ma non voleva che lui fosse lì. O forse, almeno in parte, lo voleva, ma era troppo confuso e orgoglioso per ammetterlo.
 
“Goten… Non devi avere paura”.
 
Ouji ringhiava. Il cucciolo era talmente inferocito da fare impressione, e Goten non riusciva a capire che cosa avesse.
 
“Ouji… Ma cosa fai?”.
 
Solo ora che lo guardava meglio, Goten si era reso conto che Goku fosse diverso. O meglio, che avesse qualcosa di diverso.
 
“Ma tu… tu…”.
 
Tremando, aveva indicato con la mano incolume la sommità del capo di suo padre, svelando più a se stesso che al diretto interessato la mancanza di un elemento fondamentale, di quell’elemento che indicava la sua non appartenenza al mondo dei vivi: Goten aveva notato la mancanza dell’aureola dorata.
 
“Ah, questo…”.
 
Aveva una strana espressione, Goku, mentre fingeva di aver notato solo allora quel singolare cambiamento, e poi aveva cambiato argomento.
 
“Devi venire con me, Goten” – aveva proseguito, diventando serio all’improvviso – “Ti medicherò la mano e ti porterò al sicuro”.
“Al sicuro? Ma, allora, è successo qualcosa! Dio mio… Tu sai che cosa è capitato! Sai perché non posso più usare i miei poteri, sai che…”.
“Io non so niente, figliolo… So solo che qui, da solo, non sei al sicuro”.
“Ma che significa da solo? Dove sono la mamma e Gohan? Dimmelo se lo sai! Dimmelo!”.
“Non lo so, ma tu non puoi più stare qui… Le cose sono cambiate, e devo sistemarle prima che sia troppo tardi… Lo capisci, Goten? Ho solo bisogno che tu faccia una cosa…
Ho bisogno che tu, per la prima volta, possa fidarti di me”.
 
Continua…

 
Ciao a tutte/i!
Scusatemi per il solito ritardo… Ho perso la cognizione del tempo… Non ci capisco più niente, purtroppo.
Non voglio tediarvi con la vita reale, voglio solo parlarvi del capitolo.
Anzi, voglio che me ne parliate voi, se vi va, voglio che mi diciate cosa pensate della confusione di Goten e della novità che riguarda Goku.
Vi adoro, lo sapete?
Restiamo uniti e teniamoci in contatto con ogni mezzo.
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 23
*** Le due G ***


Le due “G”
 
Goku aveva iniziato a parlare a raffica non dando a Goten il tempo di riflettere su quello che gli stava dicendo e su cosa avrebbe, eventualmente, dovuto rispondergli.
Il piccolo aveva quasi le lacrime agli occhi. Quello che gli aveva detto il suo papà biologico non aveva senso. Il fatto che non possedesse più la sua aureola ne aveva ancora di meno.
Era confuso, non stupido. C’era arrivato da solo a capire che non ci fosse più il fluttuante anello dorato perché Goku era definitivamente tornato in vita, ma proprio non riusciva a immaginare come ciò potesse essere accaduto. Era confuso, sì, ed era anche indeciso sul da farsi. Non gli aveva fornito alcuna spiegazione utile, era stato vago e non era stato bravo a celare quanto fosse preoccupato. Poteva fidarsi di lui? Poteva seguirlo senza alcuna paura? Goku era forte, lo sapeva, lo avrebbe sicuramente protetto. Ma era anche inaffidabile… Che cosa doveva fare?
Era stato Ouji a scegliere per lui: il cucciolo aveva smesso di ringhiare e si era diretto verso Goku, sollevandosi sulle zampe posteriori per lasciarsi prendere in braccio.
 
“Ouji… Ma che fai? Vieni qui…”.
 
Goten proprio non riusciva a capire il comportamento del suo amico peloso. Che stava combinando quella piccola peste?
 
“Non sgridarlo, Goten… Vedi? Lui si fida… Ti fiderai anche tu?”.
 
Era stato un colpo basso, quello. Non gli era piaciuta quella frase, ma il cambiamento repentino del suo cane lo aveva veramente spronato a fidarsi del suo genitore biologico. Dopotutto, che cosa poteva fare in quelle condizioni? Non riusciva a volare, non era più in grado di percepire l’aura altrui e non sapeva guidare nessun mezzo di trasporto (come avrebbe potuto? Era solo un bambino, dopotutto!).
 
“Forza, Goten. Andiamo. Ti porterò io. Vi porterò entrambi, ma prima… Aspetta”.
 
Goku era sparito al di là della porta della sua camera, lasciandolo in compagnia di un Ouji tremendamente incuriosito, ed era tornato poco dopo con garze, cotone e disinfettante.
 
“Pensavi davvero che ti avrei lasciato con la mano ridotta così?”.
 
Se n’era accorto. Goten quasi non ci credeva, ma suo padre si era veramente reso conto che si fosse ferito alla mano e adesso lo stava curando amorevolmente.
Era arrossito. Non aveva proprio potuto fare a meno di evitarlo, purtroppo. Il tocco di Goku era delicato e sapiente proprio come lo aveva immaginato di tanto in tanto. Gohan gli aveva raccontato tante volte di quando suo padre lo curava con i suoi intingoli e lo consolava dopo essersi procurato una brutta ferita. Ora, per la prima volta, toccava a lui.
Avevano trascorso del tempo insieme, si erano allenati, ma quello era il loro primo vero e proprio contatto fisico da quando era venuto a fargli visita. Era una cosa intima, una cosa vera, una cosa da padre e figlio. E lui, Goten, ne era tremendamente emozionato. Il cuore gli batteva così forte che, per un istante, aveva avuto paura che Goku potesse aver sentito quel frastuono. Poi, però, quel sentimento aveva lasciato il posto al senso di colpa. Non poteva provare quei sentimenti verso di lui… No, non era giusto per chi c’era sempre stato. Non era giusto verso Vegeta.
 
“Va meglio, ora?”.
“Sì… Grazie” – aveva detto, cercando di non pensare a quelle spiacevoli sensazioni.
“Ora dobbiamo proprio andare. Metti le scarpe… Coraggio”.
 
E, così dicendo, aveva richiuso la confezione del disinfettante, poggiando tutto quello che gli era servito per medicarlo sul comodino.
Goten aveva osservato ogni sua singola mossa mentre indossava qualcosa di caldo oltre alle scarpe. I movimenti di suo padre erano attenti ma un po’ frettolosi, e i muscoli erano tesi. Era allerta, era così evidente, ed era terrorizzato all’idea che potesse accadere qualcosa da un momento all’altro.
Pensieri cupi si erano affacciati nella sua giovane mente, e uno primeggiava su tutti: perché non aveva più alcuna abilità mentre Goku sembrava essere più in forma che mai?
 
“Hai scelto un nome bellissimo, comunque…”.
“Come?” – aveva chiesto, infilandosi lo stivaletto. A cosa si stava riferendo?
“Il nome… Il suo…” – aveva detto, indicando il piccolo Ouji e prendendo con l’altra mano il guinzaglio blu – “E… Bè, capisco perché tu lo abbia fatto”.
 
Non ci credeva neanche un po’. Come poteva sapere, Goku, perché lo avesse chiamato così? Come poteva sapere le reali motivazioni?
 
“Non sono stupido, figliolo…”.
 
Lo sguardo di Goku sembrava così triste, nonostante il sorriso, e Goten si sentiva così, così…
 
“Ora dobbiamo andare” – aveva sentenziato, attaccando il guinzaglio al collare di Ouji – “Prendilo in braccio e tienilo stretto. Non commettere l’errore di lasciare andare chi ami”.
 
Era certo che quell’ultima cosa non fosse riferita al suo cane, ma aveva preferito tacere. Era ovvio che non avrebbe lasciato andare chi amava. Per questo, avrebbe cercato la mamma, Gohan, Vegeta e Trunks anche da solo, se fosse stato necessario, e lo avrebbe fatto a qualsiasi costo.
Timoroso ma deciso, aveva preso Ouji in braccio e aveva afferrato la mano che suo padre gli stava tendendo, guardandosi attorno con una strana sensazione in corpo. Goten non poteva sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto il luogo in cui era nato.
 
Oggi…
 
Pensare alla loro condizione attuale gli faceva sempre uno strano effetto.
Vegeta non si dava pace, mai. Era capace di ripetersi fino alla nausea che non aveva fatto niente per provare a risolvere le cose tra i ragazzi. Purtroppo, sentiva di aver tradito la fiducia di chi lo amava, sentiva di aver perso la loro stima, sentiva di essere la causa non solo del loro allontanamento, ma anche di quello di suo figlio nei suoi confronti, e questo lo disgustava.
E quella era la cosa più strana, quella a cui non si sarebbe mai abituato: a lui importava davvero di quelle due pesti, gli importava più di qualsiasi altra cosa. Ma perché, poi?
 
Quella notte proprio non riusciva a prendere sonno. Si era girato e rigirato nel letto, tormentato dal ricordo di chi lo aveva tradito molto tempo addietro, cedendolo al miglior offerente.
Suo padre non era mai stato particolarmente affettuoso nei suoi confronti, ma per questo non lo aveva mai biasimato: erano saiyan, perché avrebbero dovuto elargire baci e carezze? Però, per quanto fosse stato un diversivo, un modo per prendere tempo, non era mai riuscito a perdonargli il fatto di averlo consegnato a Freezer quasi come un dono. Certo, si erano ribellati poco dopo, e forse quel gesto gli aveva salvato la vita, ma avrebbe preferito morire combattendo da eroe insieme al resto della sua specie invece di diventare lo schiavo di quella lucertola schifosa. Sì, aveva odiato suo padre, e ora Trunks odiava lui per una ragione che non gli era del tutto chiara,e lui ne soffriva tremendamente.
Quando suo figlio era in fasce aveva continuato a mantenere un comportamento violento e meschino, e la cosa che più gli faceva ribrezzo era che, qualche anno addietro, avrebbe goduto nel vedere la paura dipinta sul viso di quello che avrebbe definito uno stupido moccioso.
Bulma, suo figlio, poi Goten… tutto quelle persone avevano assunto un peso non indifferente nella sua vita, e tutto aveva avuto inizio per via della decisione di Radish di venire sulla Terra alla ricerca del fratellino perduto. Che razza di idea aveva avuto quel debosciato! E che imprevedibili conseguenze aveva avuto quella decisione su di lui che, dopo essere sopravvissuto all’attacco riservatogli dai terrestri, dopo essere stato addirittura riportato in vita dalle miracolose sfere del drago, si era ritrovato a mescolarsi con gli abitanti di quel piccolissimo seppur spettacolare pianeta. Pensare che fosse successo tutto per colpa di due membri di terza classe troppo stupidi per poter realmente fare qualcosa di buono era quasi esilarante.
 
Anche se non avrebbe voluto ammetterlo, continuava a pensare a lui.
Kaharot era stato la sua ossessione sin da subito. Dopo aver constatato quanto fosse forte, aveva deciso che avrebbe fatto di tutto pur di superarlo. Lui, il fiero principe dei saiyan, non poteva essere inferiore a nessuno della sua specie, anzi, non poteva essere inferiore proprio a nessuno! Eppure, i fatti lo avevano sempre smentito: ogni volta che raggiungeva un livello di combattimento degno di nota, Goku subentrava con qualche nuova e mirabolante trasformazione, facendolo piombare nel ridicolo e nella disperazione.
Il fiume dei ricordi lo aveva portato a ripensare all’ultimo compleanno di Goten, quando quel decerebrato era apparso davanti a tutti come se niente fosse. Gli era mancato il fiato per un istante lunghissimo. La sua nemesi era comparsa senza troppe cerimonie, come era solito fare, e lui sapeva che sarebbe successo, ma non aveva saputo reagire come avrebbe dovuto.
Lo aveva odiato profondamente, e aveva odiato se stesso. Che cosa sarebbe successo quando lo avrebbe rivisto se lo era chiesto tante volte, ma quando era capitato veramente non era stato in grado di fare niente. Avrebbe dovuto gioire per Goten secondo i più puri sentimenti terrestri? Avrebbe dovuto tirare un sospiro di sollievo per Gohan e Chichi? Forse sì. Ma lui non era buono ed era stato… geloso. Per la miseria, aveva davvero provato gelosia verso quel decerebrato, e non perché fosse diventato forte, ma perché avrebbe potuto prendersi quello che era suo. Non era capace di mostrare felicità incondizionata e aveva reagito nell’unico modo che conosceva: allontanando tutti. Per giorni e giorni, si era comportato come un idiota. Sì, era stato un perfetto idiota.
Non si sarebbe mai abituato all’idea di fare affidamento su qualcuno, né che qualcuno potesse veramente fare affidamento su di lui. Sapeva che questo era già avvenuto, ma era come se non volesse accettarlo. Era stato il primo a essersi preso la responsabilità e l’onore di occuparsi di quei due ragazzi, ma non voleva ammetterlo. E aveva vissuto in un limbo, Vegeta, un limbo in cui lo aveva trascinato Goku.
Lui decideva di andare, di tornare, di entrare e uscire dalla vita delle persone come se niente fosse, come se questo non lo riguardasse. Perché aveva permesso a Chichi e a Bulma di farlo tornare? Perché aveva assecondato quella sciocchezza? Perché credeva che, alla fine, Goku sarebbe rimasto e tutto sarebbe tornato come prima. Davvero aveva nutrito questo stupido pensiero? Sì, e doveva essere veramente impazzito per averlo formulato.
Una folata di vento aveva aperto la porta d’ingresso, distogliendolo dai suoi pensieri e facendolo piombare nuovamente nel mondo reale. Si era alzato di malavoglia, cercando di fare piano e alla svelta. L’aria della notte era gelida e non voleva che i bambini prendessero un raffreddore. Però, nonostante il gelo e la spossatezza, era uscito sul portico, facendosi investire dal freddo e dal buio della notte. L’aria pungente lo aveva paralizzato per un istante, bloccandogli il respiro. Non aveva più il fisico per reggere certe bravate, ma non aveva proprio voglia di rientrare in casa. Dentro si sentiva soffocare. Il fiato si condensava davanti al suo viso in dense nuvole bianche. Nell’aria c’era odore di neve, e la sua spalla malandata ne aveva dato conferma: la mattina dopo avrebbe trovato un coltre bianca al suo risveglio, ne era certo.
 
“Questo farà benissimo alle mie ossa…” – aveva detto, ridendo, lasciandosi scivolare sul muro sino a sedersi sul pavimento. Già… Gli avrebbe fatto benissimo. Aveva solo voglia di piangere.
Come si faceva a riavvolgere il tempo? Come si faceva a riportare indietro i minuti, i secondi, le ore?
E come si faceva a smettere di pensare? Come?
In lontananza, un cane abbaiava, forse per chiamare i membri del suo branco, forse nella speranza che qualcuno gli offrisse un riparo per la notte.
 
“Spero che Goten non lo senta…”.
 
Non avrebbe potuto sopportare di vederlo di nuovo in piedi, al freddo, a chiamare a gran voce “Ouji”. Sentiva di non essere in grado di consolarlo ulteriormente.
 
“Che fine hai fatto, Ouji? Che fine avete fatto, tutti?”.
 
Se lo chiedeva ora, Vegeta, se l’era chiesto quella fatidica notte, quando quel bagliore improvviso aveva accecato i suoi occhi e se lo sarebbe chiesto in eterno, pur sapendo che non avrebbe mai ottenuto risposta.
 
Ieri…
 
Lo aveva teletrasportato sino al Palazzo del Supremo. Era stata un’esperienza stranissima: un istante prima era nella sua stanza, quello dopo era nella grande piazza bianca antistante la dimora del namecciano che proteggeva il loro pianeta.
Non era mai stato lì, e il candore dei marmi lo aveva affascinato. Sembrava la dimora di un sultano, un luogo magico e pacifico sospeso tra le nuvole, al di là del tempo e dello spazio. Ne era rapito.
 
“Statemi vicini e non avvicinatevi al bordo. Rischiereste di cadere giù e… Lo sai”.
 
Terrorizzato all’idea di morire in quel modo orribile, Goten aveva preso Ouji in braccio, stringendolo forte e raccomandandogli di non separarsi mai da lui.
 
“DENDE!” – aveva chiamato Goku – “POPO! JUNIOR! SONO GOKU! DOVE SIETE?”.
 
Al piccolo non era sembrata una cosa molto elegante, ma evidentemente era un’usanza del luogo.
Solo che non era arrivato nessuno.
 
“Non ci voglio credere…” – aveva esclamato Goku, irritato.
Aveva cambiato espressione e sembrava simile… Sì, aveva lo stesso cipiglio di Vegeta.
 
“Ma dove sono tutti? Dov’è la mamma?”.
“Non lo so, figliolo…”.
“Cosa?”.
“Pensavo si stessero nascondendo… Non percepivo le loro aure, eppure pensavo di trovarli qui… Maledizione!”.
 
Era arrabbiato, deluso, e a Goten faceva paura. Non lo conosceva abbastanza per sapere cosa avrebbe potuto fare e non voleva stare lì con lui. Dov’erano tutti? Dov’era Vegeta?
 
“Io… Io voglio sapere dove sono Gohan e la mamma… Voglio sapere dove sono Trunks e...”.
“Tesoro, ascoltami. Non so come dirtelo, ma non riesco a vederli. Non riesco a vedere nessuno di loro. Sembra che siano spariti nel nulla… Urca che situazione…”.
“Sì, ma…”.
“Goten…” – si era seduto sui talloni, portandosi di nuovo alla sua altezza. Era serio e scuro in viso, e la sua ansia era stata colta immediatamente da Ouji, che aveva cominciato ad agitarsi.
“Ouji…”.
“Neanche lui riesce a capire, vero?”.
“E come potrebbe?”.
 
Goku gli aveva sorriso, e Goten aveva capito che sapeva molto più di quello che dava a vedere.
 
“Come vorrei sapere a cosa pensi, Goku…”.
“Andiamo alla Capsule Corporation”.
“Davvero?”.
“Magari Bulma e Vegeta ci aiuteranno a capire qualcosa… Non vedo soluzioni…”.
“Che bella idea!” – non era stato in grado di frenare l’entusiasmo – “Ma il tuo amico…” – aveva aggiunto, correggendo il tiro – “Re qualcosa, non sa cosa sia accaduto?”.
“Parli di re Kaioh, figliolo?”.
“Sì!”.
“Purtroppo neanche lui sa quello che sta succedendo…”.
“Ma come può essere? Non avevate detto che lui può vedere tutto, da lassù?”.
 
Goku era pensieroso e turbato, e Goten se n’era accorto immediatamente. Che gli stesse mentendo?
 
“Andiamo da Bulma. Lei saprà che cosa fare”.
 
Non aveva idea del perché suo padre fosse talmente convinto che la turchina avesse una soluzione a quell’assurdo problema. E se Bulma non fosse stata lì? Se fosse sparita come la sua mamma e Gohan? Se fossero spariti tutti? Cosa avrebbero fatto? Sarebbe rimasto sulla Terra, da solo con Goku, per sempre? Mai come in quel momento ringraziava di avere al suo fianco Ouji.
 
“Senti, Goten… Devo chiederti una cosa…”.
 
Che voleva, ancora? Perché girava tanto attorno alle cose? Non lo sopportava!
 
“Sì?”.
“Tu non hai mai preso in considerazione l’idea di evocare Shenron, vero?”.
“E perché avrei dovuto farlo?”.
 
Schietto, sincero, quasi brutale. Goku, però, ormai non aveva più alcun dubbio: non era stato il sangue del suo sangue a riportarlo in vita.
 
Continua…

 
Ragazze/i, buongiorno!
Scusate tanto per il ritardo.
Come state? Spero bene! Questo è un capitolo di passaggio, spero vi sia piaciuto ugualmente questo momento di intimità tra Goku e Goten e questo ulteriore tuffo nei ricordi di un tormentato principe. Il saiyan ci prova, ma Goten preferisce sempre Vegeta. E voi? Chi preferite? Troveranno gli altri? Lo scopriremo nei prossimi capitoli!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 24
*** Alla Capsule Corporation ***


Alla Capsule Corporation
 
Era sera, ormai, e aveva cercato nella bellezza di quel tramonto rosato un po’ di sollievo. Eppure, sapeva che non sarebbe potuto fuggire per sempre. Prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti con quello che era successo. Prima o poi, avrebbe dovuto raccontare a se stesso la verità.
 
“Vegeta… Eri qui”.
 
Sì, era lì, e lei lo sapeva perfettamente. Sapeva che quello era il suo posto speciale, il solo in cui cercare pace. Aveva lasciato che si sfogasse. Aveva lasciato che potesse riflettere, ma era evidente che lei sapesse tutto quello che era capitato. Come avrebbe potuto essere il contrario? Lo spaventava, a volte: il suo sesto senso era infallibile e lo rendeva fragile, a volte insicuro, e lui odiava mostrarsi in quelle condizioni, anche e soprattutto davanti a lei.
 
“Posso?”.
 
Era singolare che glielo avesse chiesto: non era una di quelle persone che facevano troppi complimenti, men che meno con lui.
Si era preso qualche istante per osservarla: era bellissima, nonostante le pesanti borse sotto gli occhi ne evidenziassero la stanchezza. I terrestri tendevano a perdere le forze con estrema facilità, ma le donne che abitavano su quel pianeta erano capaci di cose straordinarie, cose che i membri del sesso opposto non potevano neanche immaginare.
La sua compagna era una degna rappresentante del suo genere. Tenace, forte, testarda e intelligente da mettere in soggezione, Bulma era piombata nella sua esistenza come un terremoto, sconvolgendolo nel profondo. Si era rivolta a lui, la prima volta, con una sfacciataggine che non aveva mai visto sul volto di nessuna. Le donne, solitamente, lo imploravano di non fare loro del male, di risparmiarle, ma lei no. Lei aveva persino osato dargli degli ordini, lo aveva chiamato davanti a tutti bel fusto (e al solo pensiero le gambe tornavano a tremargli), stregandolo con quel suo modo di fare che la rendeva la sfidante perfetta, quella contro cui non si potrebbe mai smettere di combattere.
Vegeta non aveva risposto, limitandosi a fare un cenno col capo. Lei gli si era avvicinata senza essere invadente. Non era il momento, e lei lo sapeva. Bulma sapeva sempre tutto. E il principe si sentiva strano, nonostante fosse trascorso tutto quel tempo. Sì, per Vegeta era strano sapere che al mondo esistesse qualcuno in grado di leggergli dentro in quel modo, di capire ogni suo stato d’animo, ogni sua gioia e ogni suo turbamento, era strano per lui sapere che ci fosse qualcuno che lo facesse sentire amato. E cavolo, percepire l’amore era qualcosa di straordinario.
 
“Alla fine dei conti, è stata una bella festa, non trovi?”.
“Tsk! Non sono un esperto di feste per bambini”.
“Neanche di feste per adulti, se è per questo!”.
“E come fai ad averne la certezza, donna?”.
 
Lei faceva uscire questo suo lato un po’ stizzito e provocatorio. Lo sfidava di continuo, e lui non poteva non accettare il guanto che continuava a lanciargli.
 
“Sappi che nella mia mente stanno passando una serie di immagini non appropriate a un pubblico minore di diciott’anni”.
“Tks! Devi sempre essere volgare” – aveva detto lui, arrossendo. Come cavolo facesse a vincere sempre lei, non riusciva proprio a capirlo.
“Goten non l’ha presa proprio benissimo…”.
 
Lo aveva detto con estrema naturalezza, posando gli avambracci sulla ringhiera. Il suo sguardo era fisso su un punto lontano, all’orizzonte. Era splendida.
 
“Tsk… Dici?” – il sarcasmo era diventato il suo forte.
“Alla fine, le tue preoccupazioni erano fondate… Come possa tu avere sempre ragione, riguardo a queste cose, non lo so proprio”.
 
Già… Non lo sapeva neppure lui.
 
“Abbiamo fatto proprio un bel casino, Vegeta”.
“Tsk! Abbiamo? Abbiamo chi?”.
“Uffa! Sei proprio pesante, lo sai?”.
 
Forse, quella sfida l’aveva vinta lui. Uno a uno e palla al centro, Bulma Brief.
 
“Si è legato a te in modo viscerale, Vegeta…”.
“Bulma… No”.
 
L’aveva interrotta bruscamente. Non poteva mettercisi anche lei. Non poteva aprire quell’argomento come se niente fosse, come se stessero parlando del tempo. Non poteva e basta.
 
“Sì, tesoro, lo so che non ne vuoi parlare. Ma la realtà dei fatti è questa… Genitore non è chi ti mette al mondo, ma chi ti cresce…”.
 
Il principe dei saiyan aveva stretto e aperto i pugni ritmicamente, cercando di mantenersi lucido. Aveva trattenuto il respiro molto a lungo, temendo ciò che sua moglie gli avrebbe detto. Da quando era diventato così codardo? Il punto era che non voleva sentire ciò che voleva dirgli, non voleva darle ragione. Perché darle ragione non avrebbe cambiato la realtà dei fatti, e lui non voleva che cambiasse. No? Non era il padre di Goten, e non lo sarebbe mai stato. Il padre di Goten era Kaharot. L’ebete. L’idiota di terza classe. La sua nemesi. Lui era solo il padre del suo migliore amico. Lui era solo un effetto collaterale dell’assenza di quell’ebete. Se Goku fosse rimasto sulla Terra, se fosse tornato in vita, Goten lo avrebbe trattato come un perfetto estraneo. Era così, perché prendersi in giro?
 
“Senti, tesoro…”.
“Bulma, ti prego, basta”.
 
L’aveva interrotta di nuovo in maniera indelicata, provando un immenso rimorso, dopo. Non se lo meritava. Era lì per aiutarlo, per confortarlo, se possibile, e lui stava rovinando tutto, come al solito.
 
“Ok, ho capito. Torno di là”.
 
Avrebbe dovuto fermarla. Avrebbe dovuto prenderla per un braccio e dirle qualcosa, avrebbe dovuto stringerla, almeno.
Invece, non lo aveva fatto. Lei non era arrabbiata con lui, non era neanche delusa. Era stanca, Bulma. Era stanca e amareggiata perché sapeva di aver peggiorato la situazione, sapeva di essere colpevole e non sapeva più dove trovare conforto. E lui cosa aveva fatto? Niente. L’aveva lasciata sparire dietro le porte della stanza e si era rintanato in se stesso, come faceva sempre e come avrebbe fatto per sempre, probabilmente.
 
Vegeta non sapeva perché stava pensando proprio a quella cosa, in quel momento. Vegeta non sapeva perché stava pensando a lei, a quando era sparita dietro la porta, a quando aveva visto i suoi capelli turchini, a quando aveva sentito la scia del suo profumo disperdersi man mano. O forse sapeva perché stava pensando a quel preciso momento, ma non voleva ammetterlo.
 
Era nel deserto a schiarirsi le idee quando aveva sentito quello spaventoso boato e, poco dopo, era caduto a terra, con le mani a coprirgli le orecchie e gli occhi chiusi con tanta forza da essersi provocato un mal di testa non indifferente. Era successo tutto in fretta, troppo in fretta, e la consapevolezza di aver più o meno individuato l’origine del boato glia aveva fatto tremare le gambe.
 
“Trunks”.
 
La Capsule Corporation sembrava così lontana. Raggiungerla era stata un’impresa, per lui. Stordito com’era, aveva perso il senso dell’orientamento due o tre volte, mentre il freddo della notte penetrava sin dentro le sue ossa.
 
Quando era arrivato, aveva chiamato tutti a gran voce, inutilmente. Quella casa era deserta. Ma che fine avevano fatto?
 
“BULMA! DOTTOR BRIEF! BUNNY! TRUNKS! DOVE SIETE?”.
 
Aveva urlato i loro nomi con tutto il fiato che aveva in gola, e li aveva cercati senza cavarne un ragno dal buco. Poi, incapace di mantenere ancora la calma, aveva cercato meglio e aveva spalancato la porta della stanza di suo figlio, trovandolo addormentato.
 
“Trunks!” – lo aveva chiamato, scuotendolo – “TRUNKS!”.
 
Il piccolo saiyan mezzosangue aveva aperto gli occhi a fatica, incrociando le sue iridi azzurre con quelle di ossidiana di suo padre. Vegeta era stravolto.
 
“Pa-papà?”.
 
Era stordito. Perché suo padre gli stava urlando contro? Perché lo aveva svegliato così bruscamente? E perché aveva quell’espressione?
 
“Alzati Trunks, sbrigati”.
“Va bene, va bene… Ma che… che hai?”.
 
Vegeta non aveva risposto immediatamente. Anzi, non aveva proprio risposto. Si era diretto alla finestra e aveva scostato le tende, guardando fuori. C’era troppa calma, troppo silenzio.
 
“Che cazzo sta succedendo?”.
 
“Pa…”.
“Trunks, prendi il giubbotto: usciamo”.
“Ma papà, è piena notte! Sei impazzito?”.
“Ubbidisci”.
 
Non se l’era fatto ripetere due volte. Aveva messo le scarpe e si era infilato il giubbotto, dando una rapida occhiata al quaderno che, stranamente, si trovava al suo posto nella libreria.
 
“Che cavolo sta succedendo? Io non lo avevo messo da parte… Ne sono sicuro. Stavo scrivendo quando mi sono addormentato. O mi stava rispondendo il quaderno, non ricordo bene. Ma, di certo, non avevo messo quel coso a posto! Perché papà è tanto agitato, poi? Proprio non capisco e…”.
 
“Mmmm…”.
 
Era stato poco più di un lamento, ma era stato abbastanza da far girare Trunks e fargli scoprire che Vegeta era caduto in ginocchio, ansimante.
 
“Papà! Ma che hai?”.
 
Stava respirando a fatica e si era aggrappato alla tendina, staccandola dal bastone che, rovinosamente, era caduto sul pavimento.
 
“Stai-stai male?”.
 
Aveva fatto una domanda stupida, lo sapeva, ma non sapeva cosa fare. Sin da quando era venuto al mondo non ricordava neanche una volta in cui suo padre si era ammalato, mai. Che cosa gli stava succedendo?
 
“Papà!”.
“STO BENE!” – aveva tuonato Vegeta, rimettendosi in piedi a fatica – “Sto bene” – aveva cercato di ricomporsi – “Sbrigati”.
 
Non avrebbe voluto essere così duro con Trunks, ma non aveva la più pallida idea di quello che fosse era capitato e si era lasciato prendere dal panico. Gli era mancato il fiato e aveva sentito un forte dolore al petto. Era durato tutto meno di un secondo e si era sentito stanco, dopo, veramente stanco.
 
“Sono pronto” – aveva detto Trunks, chiudendo la zip del giubbotto nero – “Possiamo andare” – non sapeva dove, ma non avrebbe più ribattuto.
“Forza. Non abbiamo tempo da perdere. Concentrati e cerca di trovare tua madre, tua nonna e tuo nonno. Concentrati solo sulle loro auree. Isolale”.
 
Avrebbe voluto chiedergli perché non lo aveva fatto lui ma aveva preferito tacere. Suo padre doveva avere qualche buon motivo per non aver fatto le cose da solo.
 
“Tsk! Stiamo perdendo tempo”.
 
Senza esitare oltre, Vegeta aveva aperto la finestra e si era librato in volo, aspettando che Trunks facesse lo stesso. Il piccolo non si era fatto attendere oltre e si era diretto presso la finestra, afferrando le ante con le mani e posando un piede sul davanzale per darsi la spinta ma, nel momento di spiccare il volo, qualcosa non era andata come avrebbe dovuto, perché Trunks era caduto nel vuoto, incapace di levitare in aria.
 
“AIUTO!”.
“Ma che ca… TRUNKS!”.
 
Lo aveva afferrato per la manica del giubbotto che si era sfilata, ma con uno strattone era riuscito a portarlo in alto e a stringerlo tra le braccia con forza, per non lasciarlo più cadere.
Trunks si era trovato stretto, al sicuro, tra le braccia di suo padre. Poteva sentire il suo odore, il suo cuore battere forte. Non gli era mai successo, prima di allora, di ricevere un abbraccio da parte di suo padre. Perché sì, nonostante tutto, quello era un vero e proprio abbraccio.
 
“Ma che hai fatto?”.
 
Vegeta lo aveva allontanato da sé di colpo, guardandolo negli occhi allibito. Ma quando lo aveva spostato da sé si era reso conto che suo figlio fosse un peso morto. Perché cavolo non levitava come stava facendo lui?
 
“Papà, non ci riesco! Non lo so perché! Non riesco a volare!”.
“Che significa che non ci riesci?”.
“NON RIESCO!”.
 
Stava per avere una crisi di nervi e per scoppiare a piangere. Suo padre lo aveva accompagnato a terra, lasciandolo andare. Lo guardava con occhi sgranati, stranito. Com’era possibile che Trunks avesse perso l’abilità del volo?
 
“Dammi un pugno” – gli aveva detto, serio.
“Eh?”.
“Colpiscimi allo stomaco. Fallo senza fare domande. E sbrigati”.
 
Era sotto shock, ma aveva obbedito. Senza convinzione, aveva caricato il pugno e aveva cercato di colpire suo padre dove gli aveva ordinato, ma era stato bloccato da Vegeta.
 
“Papà… Ma che…”.
“Zitto”.
 
Aveva lasciato che suo padre gli afferrasse il polso, severo ma gentile, e lo aveva osservato con ansia mentre lo vedeva concentrarsi e sgranare gli occhi, furente.
 
“Dannazione. DANNAZIONE”.
“Ma che succede, papà?”.
“La tua forza… Trunks, non percepisco la tua forza! DANNAZIONE!”.
 
Non era vero. Non poteva essere vero. Aveva deglutito a fatica, guardandosi le mani. Suo padre non sentiva la sua aura. Non sentiva più la sua forza spirituale.
Aveva preso un bel respiro e si era concentrato, cercando di percepire il Ki di suo padre, senza risultato. Non sentiva niente, non percepiva nessuno.
 
“Ma che-che mi succede?”.
 
Avrebbe voluto rispondere a suo figlio, ma non c’erano risposte a quella domanda. O, almeno, lui non le possedeva. Non sapeva dove fossero gli altri e non sapeva perché non percepisse la forza di suo figlio. Che cosa stava succedendo? E perché l’unico che percepiva era lui? Dannazione, non poteva crederci! Lo percepiva con tanta chiarezza da sembrare quasi uno scherzo.
 
“Papà… Dimmi qualcosa, ti prego…”.
“Rientra in casa. Aspettiamo che sia mattina”.
“Ma, la mamma...”.
“Non so dove sia, Trunks! Non chiedermelo più. E non posso portarti con me al buio, né lasciarti solo. Entra in casa e vieni con me”.
 
Aveva deciso di passare in rassegna le telecamere di sorveglianza e, alla fine, aveva avuto una buona idea perché, una di esse, gli aveva mostrato quello che era capitato alla sua Bulma.
 
Sembrava che le cose fossero successe seguendo il copione di un film, uno di quelli in cui gli alieni rapiscono gli umani per fare degli esperimenti, o quelli in cui uno spirito errante trova finalmente pace e vede aperte per sé le porte del Paradiso dopo una lunga e faticosa attesa. Bulma era nel suo laboratorio quando tutto era successo, ed era con sua madre. Parlavano di qualcosa, ma non sapeva leggere il labiale e non c’era l’audio in quelle stupide registrazioni. Lei era lì. Stupenda. Il sorriso era rimasto sulle sue labbra sino all’ultimo istante.
Non c’era stato alcun segno di paura su quel viso così liscio e morbido. Era coraggiosa, la sua Bulma, ma in quel momento era certo che fosse soprattutto ignara. La turchina non si era resa conto di nulla, Vegeta ne era certo, perché lei, proprio come sua madre, era scomparsa prima del boato, non lasciando alcuna traccia di sé, se non il congegno su cui stava lavorando ancora acceso.
 
Trunks aveva avuto una crisi di pianto, nel vedere quelle immagini. Si era gettato a terra, in preda ai singhiozzi, e aveva chiamato sua mamma, sua nonna e suo nonno. Vegeta lo aveva lasciato fare. Non se l’era sentita di sgridarlo e non era stato in grado di consolarlo. Non era stato in grado di fare niente, se non guardare e riguardare il video della sparizione di sua moglie sino a rovinare il file, sino a distruggere la tastiera del PC con un pugno.
 
“Che cazzo ti è successo? Dove sei, Bulma?”.
 
Aveva visto Trunks addormentarsi, sfinito. Lo aveva vegliato fino al mattino, seduto sul pavimento, immobile e in silenzio, fin quando non aveva avvertito chiaramente la presenza della sua aura. Non era solo: era con Goten. Per fortuna, il piccolo stava bene.
Erano comparsi all’improvviso, e Vegeta aveva guardato la sa nemesi con sospetto, con odio, con rancore, perché la forza spirituale di Goku cresceva mentre la sua si spegneva come una candela al vento.
Perché, ne era certo, era tutta colpa di Kaharot.
 
Continua…


Ragazze/i,
Buon pomeriggio! Come state? Mi auguro bene… Gli effetti della quarantena iniziano a farsi sentire. Mi manca molto il mio fidanzato… =(
Voi come ve la state passando?
Abbiamo visto cosa è successo a principe e figlio. Vegeta inizia a sentirsi stanco, e i ricordi – anche se non troppo lontani nel tempo – cominciano ad assalirlo sin da subito.
Lui sente Goku. Lui crede che sia colpa sua. Che farà?
CHE ANSIA!!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 25
*** I Son ***


I Son
 
“Urca! Siete qui! Meno male! Per un attimo, avevo creduto di essermi sbagliato!”.
 
La voce squillante e agitata di Goku aveva trapassato i timpani di sua maestà, provocandogli un attacco di isteria. Se non avesse mantenuto la calma per il bene dei bambini – perché sì, Goten era lì con lui e sembrava in salute – probabilmente avrebbe provato a spaccare la testa alla sua nemesi ancor prima che finisse di parlare.
Si era preso un momento per respirare a fondo e calmarsi, deciso più che mai a non fare mosse avventate.
Senza compiere gesti buschi, Vegeta si era alzato con grazia ed eleganza. Prima, però, aveva svegliato suo figlio che, non appena era stato in grado di mettere a fuoco chi gli stava davanti, aveva reagito come ci si sarebbe di certo aspettati da parte di un bambino della sua età che ha avuto modo di accertarsi delle condizioni del suo migliore amico.
 
“GOTEN! GOTEN! STAI BENE! OH, COME SONO CONTENTO AMICO MIO! SONO COSì CONTENTO!”.
 
Aveva cercato di trattenersi, ma non c’era riuscito. Era saltato al collo di Goten che, prontamente, lo aveva cinto con le braccia, ed entrambi si erano sciolti in lacrime di gioia, tanto forte era la contentezza di aver ritrovato una parte del proprio cuore.
 
“Sono stato così in pena, Trunks… Mi sono svegliato e in casa non c’era nessuno! Non riusciamo a trovare né la mamma, né Gohan, nessuno!”.
“Stessa cosa io! Non ho la più pallida idea di dove siano finiti la mamma e i nonni! Ero completamente solo, e poi papà e arrivato e mi ha svegliato e… E… Io… Io…” – avrebbe voluto dirgli che non aveva più alcuna abilità, ma gli era mancato il coraggio. Al piccolo, spensierato Trunks Brief era mancato il coraggio di confessare la verità al suo migliore amico.
“Io non ho più i miei poteri, Trunks”.
 
La sincerità di Goten aveva fatto sentire il piccolo saiyan dai capelli lilla un perfetto idiota. Perché avrebbe dovuto vergognarsi? Perché avrebbe dovuto tenerlo nascosto proprio a lui? Era stato codardo e immaturo, al contrario del suo migliore amico che si era dimostrato leale e sincero.
 
“Non riesco a capire cosa sia successo… Tutto è così strano… E io ho paura… Ho davvero tanta paura”.
“Ne ho anche io, Goten… Ne ho davvero tanta. E, purtroppo, non ho più la mia forza e le mie abilità”.
“DAVVERO?”.
“Sì… Non ti mentirei mai”.
 
“Anche Goten ha perso i poteri… Che diamine succede qui?”.
 
Vegeta aveva sentito ogni singola parola. Avrebbe voluto chiedere di persona a Goten come stava, ma la presenza di Kaharot lo irritava, e non voleva mostrarsi troppo interessato davanti a lui, non voleva mostrarsi debole.
 
“Vegeta… Stai bene?”.
 
Da quando gli importava della sua salute? Da quando, a quell’idiota egoista, importava realmente di qualcuno?
 
“Vedo che sei in piena forma” – aveva asserito, senza rispondere alla domanda che gli era stata fatta. Lo stava squadrando dalla testa ai piedi, cercando di placare il disgusto che provava. Si sentiva affaticato e non aveva voglia di sentire le idiozie di quella stupida terza classe – “E che sei di nuovo fra noi. Definitivamente”.
 
Non aveva potuto non notare l’assenza del disco dorato che fino a poco tempo prima aleggiava sui capelli palmati di Goku.
 
“Questo imbecille è ritornato in vita. Ma come avrà fatto? Non ho avvertito la presenza di Shenron… Che sia finito su Neo-Namecc e abbia invocato Polunga per tornare a vivere?”.
 
“Che ti ho fatto per farmi trattare così?”.
 
Glielo aveva chiesto con schiettezza, e sembrava essere realmente turbato dallo sguardo severo e inquisitorio del principe. Si sentiva giudicato, Goku, più del solito, ma aveva deciso di affrontare Vegeta e convincerlo a collaborare, se fosse stato necessario, e non aveva intenzione di arrendersi.
 
“Tsk! Possibile che tu non lo abbia ancora capito, Kaharot? ESISTI. Questo è il problema”.
 
Si stava scaldando, avrebbe voluto reagire, ma era stanco… E cavolo, da quando era arrivato quell’ebete la spossatezza era peggiorata.
Ma come potevano essere correlate, le due cose?
 
“Papà… Possiamo andare a prendere qualcosa da mangiare? Goten e io abbiamo fame…”.
 
Trunks, senza rendersene conto, aveva evitato uno spiacevole e alquanto inutile teatrino da cui, probabilmente, suo padre sarebbe uscito facendo una brutta figura.
 
“Per me va bene… Ma Goten…” – non poteva più ragionare come se anche Goten aspettasse il suo permesso o la sua benedizione. Non poteva, e la cosa lo faceva sentire frustrato e con le mani legate.
 
“Certo che può andare... Però dovete stare attenti… Anzi, verremo con voi”.
 
Forse, quella era la prima cose sensata che aveva sentito dire da quel decerebrato da quando lo aveva conosciuto.

 
*
 
I bambini avevano mangiucchiato qualcosa presa a caso dal frigo, scoprendo che neppure l’appetito era più quello di prima. Erano stravolti, a dir poco senza parole. In meno di una notte, le loro esistenze erano state capovolte, e sembrava che niente attorno a loro fosse anche solo lontanamente riconoscibile.
La cosa peggiore era vedere l’astio che regnava tra gli unici due adulti lì presenti. Vegeta non aveva degnato Goku di uno sguardo ed era estremamente nervoso. I bambini erano piccoli, non stupidi, e si erano accorti immediatamente che qualcosa non andava tra i loro padri. Sembrava che Vegeta stesse cercando di uccidere Goku solo con lo sguardo. D’accordo, non lo aveva mai tollerato molto, questo ormai lo avevano capito perfettamente, ma comportarsi in quel modo proprio in quel momento poteva essere vantaggioso?
 
“Sembra che mio padre voglia sbranare il tuo…” – aveva sussurrato Trunks all’orecchio di Goten, cercando di non dare nell’occhio.
“Lo so… Mi fa impressione… Non l’ho mai visto tanto arrabbiato”.
“Già… Ma che cavolo sarà successo tra questi due, all’epoca?”.
“Non ne ho la più pallida idea, so quello che sai tu. Ma hai visto? Goku è ritornato in vita”.
“Sì, lo avevo notato” – così come aveva notato che non si fosse rivolto a lui come “suo padre”, ma lo aveva chiamato per nome. Le cose non erano affatto cambiate, dunque.
“Non ti ha detto nulla a riguardo? Non ha accennato a niente di niente?”.
“No… E la cosa non mi quadra… Siamo stati al Palazzo del Supremo, ma non c’era nessuno. Non sappiamo neanche dove sia Gohan… Non riusciamo a percepirlo…”.
“Caspita! Sei stato al Palazzo in cima all’obelisco! Io ne ho solo sentito parlare! Com’è? E comunque, mi dispiace per Gohan… Capisco benissimo la tua frustrazione”.
E Goten aveva sorriso, cominciando a descrivere al suo amico le meraviglie dell’ampia piazza bianca e la frescura di quel luogo circondato da un alone di magia e mistero.
Fortuna che i bambini riuscivano a essere se stessi nonostante stessero attraversando quel brutto momento. Magari gli adulti fossero stati in grado di fare lo stesso.
 
Vegeta non si dava pace. Continuava a pensare al boato che lo aveva fatto tremare, al suo malore improvviso, alla frustrazione provata durante la visione di quel maledetto filmato che aveva fatto riempire di lacrime i suoi occhi d’ossidiana, facendolo naufragare in quella disperazione che solo chi ama e perde l’oggetto del suo amore può provare. Si sentiva sconfitto senza aver mai combattuto. Se ne stava lì, immobile, in attesa che accadesse qualcosa o che avesse una sorta di rivelazione capace di portarlo a sbrogliare quell’intricata matassa.
Aveva provato a fare un passo indietro, riordinando i pensieri. Non aveva percepito alcuna aura malvagia, non aveva sentito alcuna vibrazione negativa. Si era semplicemente trovato da solo, in una situazione apparentemente impensabile, a trattenere il respiro per un lasso di tempo interminabile.
Una volta tornato a casa si era reso conto che lì, nei paraggi, non c’era più nessuno. Non percepiva alcuna forza spirituale, non percepiva l’aura di nessuno dei terrestri, e questo era a dir poco impensabile. L’intera popolazione della città non poteva essere sparita in meno di un secondo e in seguito a quel maledetto boato. Sicuramente, le due cose erano correlate, ma in che modo?
Per fortuna, almeno in bambini erano lì, con lui, ma c’era anche quel decerebrato di Goku, che per altro era tornato in vita, e la cosa non gli piaceva. Percepiva la sua ingombrante presenza spirituale fino a sentirsi sopraffatto. Era impressionante, e non stava facendo niente né per incrementarla, né per nasconderla. Per un attimo, alla fine dello spaventoso boato, Vegeta aveva creduto di essere passato a miglior vita e che non riuscisse a vedere gli altri perché si trovava già nell’Aldilà, all’Inferno, intrappolato in un gioco perverso inventato appositamente per lui da re Yammer. Poi, però, aveva recuperato un briciolo di lucidità, rendendosi conto di aver detto una sciocchezza: era stato all’Inferno, e non era affatto in quel modo. Per niente.
 
“Vegeta… Io non so che stia succedendo. Ma stare qui non ci aiuterà a scoprirlo… Mi puoi ascoltare un attimo, per favore? O, almeno, degnami di uno sguardo!”.
 
Goku era esasperato. Possibile che dopo tutti quegli anni non si fosse ammorbidito neanche un pochino? Era rimasto il solito zuccone testardo, lo aveva capito, ma non era il momento di fare i capricci. Era una situazione surreale, nessuno di loro si era mai trovato ad affrontare qualcosa di simile, ne era certo, e non potevano permettersi errori. Se solo avessero collaborato, forse avrebbero capito almeno in parte cosa fosse capitato. Forse.
 
“Vegeta…”.
“Ci sento, maledizione. Fin troppo bene”.
“E allora?”.
“Tsk! Pensi davvero che ti starò a sentire?”.
“E che vuoi fare, allora, razza di zuccone?”.
“Non ti permettere…” – era rosso di rabbia. Dio, lo avrebbe preso a pugni e gli avrebbe rotto il naso se solo non avesse giurato di non combattere mai più. Non doveva permettersi di dargli ordini!
“Vegeta, non ne caviamo un ragno dal buco se continuano a litigare”.
Purtroppo aveva ragione, e la cosa lo faceva andare in bestia ancora più di prima. Perché doveva mettere da parte il proprio orgoglio in quel modo? Perché doveva sottomettersi al volere di quella stupida terza classe?
 
“Perché sai che ha ragione”.
 
Era stato un attimo, ed era stato talmente rapido da averlo immaginato, eppure era certo di aver sentito la voce di lei, di Bulma, che lo rimproverava. Era certo di essere sbiancato, perché i bambini gli avessero chiesto se si sentiva bene e lo stesso aveva fatto il decerebrato.
 
“Tsk! Sì. Smettetela di fare le mammine apprensive. Che cosa dovremmo fare, sentiamo! Anzi no! Vuoi fare la prima cosa buona della tua miserabile vita? Chiedi al tuo amico re Kaioh che cavolo è successo!”.
“Come se non lo avessi già fatto” – aveva risposto Goku, piccato.
“E dunque?”.
“E dunque niente… Non è stato d’aiuto”.
“Figurati! Frequenti solo buoni a nulla!”.
 
Goku aveva sospirato, incapace di replicare ancora. Non voleva aggiungere altro a quella conversazione.
 
“Stando qui dentro non ne sapremo molto, comunque. Dobbiamo spostarci. Uscire in perlustrazione. Solo così potremmo provare a capire che cosa è successo e scoprire che fine hanno fatto gli altri”.
“Sì, ma come facciamo con i bambini? Anche Trunks ha perso i poteri, no? Non possiamo portarli in spalla… Se accadesse loro qualcosa? Se qualche nemico ci attaccasse alle spalle, come potremo proteggerli?”.
“Tsk! E vorresti lasciarli qui, da soli?”.
“No, ma…”.
“Idiota! Dobbiamo prendere un aereo…”.
“Urca! Buona idea! Ah, senti… Siamo stati da Dende… Ma neanche lì c’era qualcuno… Io proprio non capisco, Vegeta. Mi stavo allenando nei boschi, ho sentito un boato e poi mi sono ritrovato senza l’aureola. Qualcuno deve avermi riportato in vita, ma non so chi, o cosa… E la cosa mi ha spaventato molto, e….”.
“Cosa pensi che mi riguardi sapere se sei spaventato o meno, Kaharot? Sei adulto, nel pieno delle forze e sei vivo. Puoi proteggerti da solo”.
“Oh, papà…” – Trunks lo aveva sussurrato appena ma Vegeta lo aveva sentito perfettamente, fulminandolo con lo sguardo.
“Forza, prendiamo un aereo e usciamo. Non voglio perdere altro tempo”.
 
*
 
“Siamo qui!” – aveva sentito – “Siamo qui!”.
 
Era sceso in picchiata, atterrando leggiadro e proseguendo verso il luogo da cui aveva sentito provenire quella voce inconfondibile.
 
“Gohan! Ragazzo! Dove sei?”.
“Qui, sono qui!”.
Aveva fermato il velivolo a mezz’aria e aveva aperto il portellone, lasciando che Goku si precipitasse a recuperarli sotto lo guardo attento dei bambini. Aveva scoperto con gioia che non era solo Gohan a trovarsi lì, ma c’era anche sua madre.
“Chichi!” – c’era apprensione nella sua voce, e non si era neppure sforzato di nasconderla.
“Sta bene, papà… Siamo solo stanchi…”.
“Ma che diamine è successo?”.
“Non ne ho la più pallida idea…”.
“Ce la fai ad alzarti?” – gli aveva chiesto Goku, prendendo sua moglie in braccio.
“Credo di sì… Ma mi sento così stanco…”.
In effetti, Gohan non aveva proprio un bell’aspetto. Era bianco come un lenzuolo, sembrava che avesse perso di colpo dieci chili e che non fosse in grado di fare più di qualche passo.
“Forza! Raggiungiamo l’aereo. I bambini saranno contentissimi di vedervi!”.
 
E così era stato: Trunks e Goten erano letteralmente piombati addosso a Gohan, che aveva volato aggrappato a suo padre, e si erano sincerati delle condizioni di Chichi, che era pallida, fredda e ancora priva di sensi tra le braccia forti e possenti del marito.
Li avevano trovati nel bel mezzo di una radura dopo essersi concentrati a lungo. Era stato Vegeta a individuarli, ma quello sforzo lo aveva privato di molte energie, provocandogli spossatezza e sonnolenza.
 
“Tsk! Ma si può sapere che diamine è successo?” – aveva tuonato, cercando di rimanere vigile.
 
Chichi respirava serenamente, sembrava solo addormentata.
 
“Non lo so, Vegeta… Mi sento solo tanto, tanto stanco… Ricordo di aver sentito un boato. Poi, nient’altro. Eravamo usciti per fare la spesa e stavo portando mamma in braccio. Dobbiamo essere precipitati, ma è tutto molto confuso”.
 
Gohan era realmente provato e Vegeta non gli aveva chiesto altro. Era convinto che se avesse insistito eccessivamente avrebbe solo peggiorato le cose. Dovevano solo calmarsi e fare mente locale. Prima o poi ne sarebbero venuti a capo.
 
“Ehi ma… Dove sono tutti? Non percepisco nessuna forza spirituale. Neanche la vostra, a dire il vero”.
“Porca miseria” – aveva urlato Trunks – “Anche tu hai perso i poteri, non è vero?”.
“Come sarebbe a dire perso i poteri? Sì… È come se avessi corso per una settimana di fila senza mai fermarmi… Mi fa male tutto… Ma… Io non posso aver perso i miei poteri”.
 
Gohan si era concentrato, cercando di calmarsi e di richiamare a sé la sua forza spirituale. E, alla fine c’era riuscito, ma subito si era accorto di essere come una pila quasi del tutto esaurita, e il fiatone era stato la conseguenza meno grave di quel vano tentativo, visto che un fiotto di sangue improvviso aveva iniziato a colare dal suo naso.
 
“Gohan!” – Goten era accorso a salvare suo fratello, spaventato a morte e incapace di fare altro se non tamponargli il naso con la manica del suo giubbotto.
“Porca miseria! Questo sangue è un fiume in piena! Sembra una cascata!”.
 
Trunks non aveva perso tempo e aveva estratto il fazzoletto dalla tasca, sostituendolo alla manica ormai zuppa di Goten.
 
“Grazie ragazzi… Mi gira da morire la testa”.
“Figliolo, resta sdraiato! Vegeta, torniamo indietro, per favore”.
“Tsk. Non darmi ordini. E guarda dietro il sedile della quinta fila… Dovrebbe esserci una cassetta del pronto soccorso!”.
 
 
“Che diamine sta succedendo? Prima sembravano essere tutti spariti, poi abbiamo avuto questo colpo di fortuna e ora il ragazzo si sente male. E poi perché Bulma è sparita e Chichi è ancora qui? Non è giusto… Bulma… Dove sei?”.
 
“Papà… Dobbiamo fare presto. Ti prego. Non voglio che succedano cose brutte, e poi… Chichi non mi sembra molto in forma”.
 
Il piccolo si era avvicinato al padre e aveva pronunciato quelle parole sottovoce. Aveva preferito concedere alla famiglia Son un momento di intimità, ma quello di cui si era accorto non gli era piaciuto affatto. Chichi era sempre più pallida e Gohan non la smetteva di sanguinare. Ora che lo guardava bene, neanche Goten gli sembrava in salute.
 
“Non capisco che cosa stia succedendo”.
 
Avrebbe voluto dare a suo figlio parole di conforto, dirgli che sarebbe andato tutto bene, che presto sarebbe tornato tutto come prima. Avrebbe voluto urlargli contro dicendogli che avrebbe dovuto provare ancora una volta a volare, avrebbe dovuto imporlo a lui e a Goten, ma che ne avrebbe ricavato? Niente. Lui non sapeva niente, non poteva fare niente se non pilotare quello stupido coso come un comune essere umano e sperare di non aver fatto troppo tardi. Perché cavolo, l’unica cosa che voleva era perdere qualcun altro. E proprio non capiva perché gli stessero tutti così tanto a cuore.
Cercando di mostrarsi fiero e vigoroso come sempre, Vegeta aveva mantenuto il suo ostinato silenzio, continuando imperterrito a puntare verso la Capsule Corporation. Dovevano salvare Chichi, dovevano curare Gohan e dovevano fare in fretta.
Il principe temeva, in cuor suo, che il peggio dovesse ancora arrivare.
 
Oggi…

Gli faceva male la testa per quanto aveva pianto. Si era svegliato di colpo, non ricordando neppure di essersi addormentato e scoprendo di essere rimasto da solo in casa. Aveva provato a chiamare per nome gli abitanti di quella casa, aveva urlato disperatamente, chiamando Trunks e Vegeta così tante volte e con tanta intensità da rimanere senza voce e, paradossalmente, anche senza energie. Non aveva idea di cosa fosse successo: sapeva solo di essersi addormentato, a un certo punto, e di essersi destato con addosso una stanchezza che aveva provato una sola volta, prima di allora. Perché era solo? Perché lo avevano lasciato in casa nel bel mezzo della notte ed erano andati via? Perché nessuno gli voleva più bene?
Aveva pianto quando la porta d’ingresso si era aperta. Aveva singhiozzato ancora più forte quando quella sagoma familiare era riaffiorata. Il terrore lo aveva paralizzato quando si era reso conto che quello alla porta fosse proprio lui.
 
“NOOOOOO! NON FARMI DEL MALE! NOOOOO!”.
“SVEGLIATI, RAGAZZO! SVEGLIATI!”.
 
Solo quando aveva aperto gli occhi e si era ritrovato accanto un Vegeta allarmato si era reso conto di aver fatto un sogno terrificante. Si era messo seduto e senza neanche riflettere si era lanciato al collo dell’unico padre che avesse mai avuto per davvero, stringendolo e piangendo a dirotto nell’incavo della sua spalla.
Vegeta aveva esitato, spiazzato, ma poi aveva chiuso gli occhi e aveva lasciato che una mano viaggiasse da sola sino al capo del piccolo che aveva accolto nella sua casa e nella sua vita, consolandolo come solo un padre era capace di fare.
 
Continua…


Chiedo umilmente perdono per il ritardo. Non so voi, ma sto avendo più cose da fare ora che sono in quarantena rispetto a prima. Sto seguendo dei corsi on-line, organizzo giochi di ruolo tramite Skype e tramite Zoom sto allenando alcuni amici! Per di più, con mio padre e mia sorella ci siamo messi a restaurare una vecchia cassapanca e non vi dico. XD
Ma torniamo a noi!
Hanno trovato Chichi e Gohan! Meno male… Però “qualquadra non cosa”. E quando mai? XD
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 26
*** L'accusa ***


L’accusa
 
Goten non si dava pace. L’aver trovato sua madre e suo fratello era stato un vero sollievo, ma questo non aveva per nulla attenuato il timore che qualcosa di terribile fosse accaduto e che qualcosa di ancora più brutto dovesse sopraggiungere. Sin da quando suo padre era piombato in casa e lo aveva portato con sé, il piccolo saiyan mezzosangue dai capelli a forma di palma aveva creduto che il fondo del baratro in cui erano precipitati fosse molto più lontano di quanto potesse immaginare.
Dopo aver fatto un giro di perlustrazione della zona, si erano resi conto che la popolazione sembrava essere stata decimata da qualcuno o, peggio ancora, da qualcosa. Le pochissime persone che erano ancora in giro si spostavano con aria furtiva, e a nulla era valso il tentativo di Goku di provare a parlare con qualcuno di loro. Nel vederselo piombare dall’alto, come un falco su una preda, tutti avevano reagito fuggendo a gambe levate. A nulla era servito provare a rincorrerli, a spiegare loro che non aveva intenzione di fargli del male: uomini e donne, indistintamente, si erano rifugiati in casa, barricandosi dietro porte che non avrebbero potuto proteggerli in alcun modo da uno come Goku. Questo, però, loro non potevano saperlo.
L’altra cosa che avevano notato (anzi, che Vegeta aveva notato) consisteva nella superiorità di numero di presenze maschili rispetto a quelle femminili. C’erano più uomini che donne, in giro, e questo era sicuramente sintomo di qualcosa. O, almeno, questo era ciò di cui si era convinto il principe dei saiyan.
Proprio per far riposare Gohan – che per altro era diventato pallido e smagrito nel giro di qualche ora – e per dare riparo a Chichi, il gruppo di guerrieri si era diretto presso la Capsule Corporation.
Lì, un Ouji festante era corso prima verso il suo padroncino, leccandolo e facendogli mille moine, poi si era accostato a Gohan e a Chichi che, portata in braccio dal marito, era sempre più debole.
Vegeta, attento a non mostrare a nessuno il suo reale stato di salute, aveva concesso a Goku di usare la sua camera da letto. Chichi doveva essere assistita e doveva stare comoda, almeno fino a quando non si fosse ripresa del tutto o fino a quando non avessero scoperto cosa diamine fosse capitato sulla Terra.
 
Goten e Trunks erano rimasti nella camera di quest’ultimo, cercando di fare mente locale e di non caricarsi di un peso troppo grande per la loro giovane età. In un primo momento, il lilla aveva faticato e non poco nel convincere il suo migliore amico a lasciare il capezzale di sua madre, ma poi era riuscito nel suo intento. Chichi doveva riposare, e dovevano farlo anche loro. Non possedevano più le loro caratteristiche saiyan, e la fatica si faceva sentire a gran voce e dopo lassi di tempo brevissimi.
Che cosa poteva essere successo? Loro avevano perso i poteri e le persone delle città limitrofe erano state decimate. Chichi era ridotta a uno straccio e lo stesso valeva per Gohan. Quale catastrofe incombeva su di loro? O, peggio ancora, quale nemico era dotato di simili abilità?
 
“Goten… Ti ricordi della storia di Cell?” – aveva chiesto Trunks al suo amico, mentre grattava Ouji dietro le orecchie.
“Sì, certo… Gohan me ne ha parlato. E anche la tua mamma… Perché ci stavi pensando?”.
“Perché mi è tornato in mente il fatto che assorbisse le persone fino a farle completamente sparire… Non è che ci sia rimasta molta gente, in giro, se ci pensi bene…”.
“Ma lui è stato sconfitto da Gohan tantissimi anni fa. Pensa che io non era neanche nato e tu eri solo un neonato”.
“Sì, lo so… Ma siamo certi che non possa essere sopravvissuta una microscopica parte di lui, qualche sua cellula, che so, e che si sia rigenerato? Andiamo, Goten, le persone non spariscono nel nulla in questo modo!”.
“No, certo che no, ma non voglio pensare che si tratti di lui… Cioè, mi vengono i brividi solo a pensarci! E comunque, questo non spiega perché noi abbiamo perso i poteri…”.
“Sì, questo sì… Ma… Posso fare una cosa?”.
“Cosa?”.
“Mi fai vedere una cosa? “.
“Quello che vuoi, Trunks!”.
“Va bene…”.
“EHI! MA CHE FAI?”.
 
Senza dargli il tempo di reagire veramente e senza ascoltare le sue proteste, Trunks aveva tirato giù i pantaloni di Goten quanto bastava per mettere a nudo la parte bassa della sua schiena, quella dove si trovava la testimonianza più palese del suo essere per metà saiyan.
 
“TRUNKS! MA CHE VERGOGNA! SMETTILA!”.
“Oh, ma piantala! Come se non ti avessi mai visto nudo quando facciamo il bagno al lago!”.
“Ho capito, però… Hai visto qualcosa di strano?”.
“No… La cicatrice è lì. Quindi, siamo ancora dei mezzi saiyan!” – aveva detto, abbassandosi i pantaloni a sua volta e mostrando a Goten lo stesso identico segno sulla pelle.
“Credevi che fossimo diventati degli esseri umani completi?” – gli aveva chiesto, mentre si ricomponeva.
“Già… Ma non è così… Meglio, da un lato. Forse, c’è la possibilità di recuperare i nostri poteri. Quello che non capisco, però, è come sia possibile che siamo tutti nelle stesse condizioni eccetto tuo padre e il mio. O meglio, Goku mi sembra in splendida forma, mentre papà…”.
“Sì… Anche a me è parso che Vegeta non fosse come al solito”.
“Ho provato a chiedergli come si sentisse, ma sai com’è fatto…”.
“Non prendertela…. Non vuole farci preoccupare, lo sai”.
 
Sì, lo sapeva, ma quel suo atteggiamento non faceva altro che peggiorare la preoccupazione di Trunks, e neanche Goten sembrava essere pienamente convinto di quello che stava dicendo. Vegeta, però, era forte. Era il più forte di tutti, ne era sicuro, e avrebbe sconfitto qualsiasi nemico, anche uno che non erano in grado di vedere.
 
“Adesso cerchiamo di dormire un pochino… Vieni accanto a me, Goten… E vieni anche tu, piccolo!” – aveva detto Trunks a Ouji, mentre si infilava il pigiama – “Nessuno resterà solo, da questo momento in poi. Almeno, non voi due”.
 
*
 
Aveva dovuto reggersi al lavandino per non cadere in avanti e finire rovinosamente al suolo. Forse, l’impatto con le fredde piastrelle del bagno lo avrebbe aiutato a rimanere sveglio, ma non poteva permettersi di subire danni, di nessun genere. Vegeta non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo. Era sudato ma in preda a forti tremori, probabilmente a causa della febbre che, arrivata all’improvviso mentre era ancora sull’aereo, lo stava letteralmente divorando.
Aveva lasciato Gohan, Goku e Chichi nella sua camera da letto e si era diretto nel bagno dalla parte opposta del corridoio dove, con grande fatica ma con estrema lucidità, si era chiuso dentro, cercando un posto dove potersi sentire solo e al sicuro. Purtroppo per lui, però, lo sforzo era stato eccessivo e, anche se stentava a crederci, il suo corpo aveva ceduto.
 
“Ma che sta succedendo? Perché mi sento in questo modo? Porca miseria… Non posso morire sul pavimento del bagno come un qualsiasi terrestre! Mi rifiuto!”.
 
Si era trascinato sin dentro la doccia con tutti i vestiti, accovacciandosi in un angolo e trattenendo un gemito nel momento in cui l’acqua gelida lo aveva investito direttamente dall’alto, inzuppandogli capelli e vestiti. L’impatto con quel getto gelato avrebbe dovuto fargli abbassare la temperatura, o almeno così sperava. Perché gli stava capitando una cosa del genere proprio non riusciva a capirlo. Gli sembrava tutto così assurdo e, in parte, spaventoso. Lui, un ex soldato, uno che aveva sempre pensato di essere tutto d’un pezzo, avvertiva lo smarrimento e la paura che quella situazione aveva generato.
Aveva sperato che l’acqua, oltre a portare via la febbre che lo stava divorando, lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee, ma non era servito a niente. Sentiva di avere bisogno di dormire, di recuperare le energie, di sentirsi di nuovo bene, in pace. Ma sarebbe arrivata, questa pace tanto agognata? Forse sì, perché nonostante il fastidio dei vestiti appiccicati addosso, le palpebre stavano diventando sempre più pesanti e tutto quello che aveva attorno sembrava diventato lontano, irraggiungibile, così ovattato da non avergli permesso di sentire la voce di qualcuno che lo chiamava dal corridoio.
 
*
 
“Ma perché non apri la porta? Vegeta! Apri questa porta! VEGETA!”.
 
L’aveva buttata giù facendo una pressione minima. Se ci fosse stata Bulma – o se Chichi non fosse stata priva di sensi – di certo avrebbe urlato come una matta, o forse no, considerando lo shock provato nel trovarsi davanti Vegeta in quelle condizioni.
 
“Urca!”.
 
Aveva sentito chiaramente l’aura del principe indebolirsi di colpo, ma non pensava di vederlo ridotto in quello stato: Vegeta era svenuto nella doccia da seduto, con il capo poggiato su una parete e un braccio in grembo. L’acqua fredda aveva inzuppato completamente i suoi vestiti e aveva allagato il pavimento, rendendolo lucido e scivoloso.
Goku aveva fatto un balzo ed era atterrato sul piatto doccia, bagnandosi a sua volta e rabbrividendo al contatto con quella pioggia gelata. Senza perdere tempo aveva girato la manopola in senso opposto, aveva afferrato il telo da bagno che si trovava accanto alla doccia e lo aveva usato per avvolgere il principe, prima di sollevarlo con cautela e portarlo fuori da quella trappola tirata a lucido.
 
“Papà, ma che cosa succede?”.
 
Gohan aveva sentito suo padre chiamare più volte Vegeta e, anche se a fatica, lo aveva raggiunto, credendo di essere completamente ammattito. Era la seconda volta in vita sua che si trovava davanti a quella scena, e gli era sembrato di vivere un déjà-vu.
 
“Non credo che stia bene, Gohan… Brucia di febbre ed è zuppo fino al midollo”.
“Portiamolo nella stanza accanto a quella dov’è la mamma”.
“Sì, vado. Ma tu prendi dei vestiti asciutti. Urca, mi ammazzerà per questo, ma non voglio che gli prenda una polmonite”.
 
Sì, probabilmente lo avrebbe ucciso veramente se avesse aperto gli occhi mentre gli sfilava la maglietta e gli sbottonava i pantaloni. Goku non era uno che si imbarazzava per le nudità, né aveva un senso del pudore particolarmente sviluppato, ma qualcosa era diverso dal solito, e non aveva avuto il coraggio di privarlo anche della sua biancheria. Non poteva fare un affronto del genere a un guerriero che portava sul suo corpo i segni delle battaglie vinte e di quelle che, purtroppo, aveva perso. Vedere il segno perfettamente rotondo che spiccava all’altezza del cuore era stato strano. Strano in senso negativo e non poteva andare oltre.
 
“Papà, ecco i vestiti asciutti… Ho preso un maglione e… Aspetta, ti aiuto”.
“No, Gohan, non preoccuparti. Grazie, ma riesco a farcela da solo”.
 
Continuava a frizionarlo con il telo da bagno, ma purtroppo era troppo bagnato affinché potesse assorbire altra acqua da quella fiamma di capelli fradici. I movimenti di Goku sembravano quelli di un padre alle prese con il primo bagnetto di suo figlio: era goffo, impacciato. Ma Vegeta non era un neonato, e non era suo figlio. Vegeta era un guerriero esperto, era stato un assassino crudele, uno dei nemici che gli aveva dato più filo da torcere e, forse, l’unico che non aveva mai davvero sconfitto.
 
“Papà…”.
“Torna a letto, figliolo. Vai da tua mamma… Qui va tutto bene”.
“Sei sicuro?”.
“Sì, tranquillo… Appena avrò finito qui cercherò qualcosa da dargli. Questa febbre non si abbasserà da sola”.
“Va bene, papà, ma se avessi bisogno…”.
“Ti chiamerei subito, tranquillo. Vai a riposarti”.
 
Era rimasto solo con lui, in quella stanza spoglia e troppo grande per una persona sola. Una persona sola e gravemente ammalata.
 
“Urca, Vegeta, non puoi farmi questo… Non tu… Non in un momento come questo. Si può sapere che hai combinato?”.
 
Non si aspettava davvero una risposta da parte sua, ma Vegeta aveva parlato, seppur a bassissima voce, e quello che aveva detto non aveva lasciato a Goku nessun dubbio.
 
“È colpa tua” – aveva detto, chiaro seppur sussurrato – “È tutta colpa tua”.
 
Lo aveva guardato con odio, e le pupille dilatate rendevano ancora più spaventosi quei pozzi neri che il principe aveva al posto degli occhi. Lo aveva accusato chiaramente, senza mezzi termini, dicendo che fosse lui la causa di tutto quello sfacelo.
“Ma… io… Vegeta, devi riposare… Sei malato, e…”.
“Sono-malato-per-colpa-tua. Lasciami!”.
 
Lo aveva spinto con forza, ma aveva perso l’equilibrio ed era caduto indietro, sul materasso, per poi girarsi a pancia in giù e provare a gattonare lontano da colui che aveva accusato di essere la fonte di ogni male.
 
“Non stai bene! Non sai quello che dici!”.
 
Non poteva davvero averlo accusato. Non aveva alcuna prova di ciò che stava dicendo. Che cosa gli era preso? Aveva le allucinazioni per via della febbre? Sicuramente.
 
“Sono spariti tutti per colpa tua…” – aveva continuato, imperterrito – “Ora ho capito… È così chiaro… Come ho fatto a non capirlo prima?”.
 
Lo guardava dall’angolo del letto, semi-nudo e bagnato, vulnerabile ma rabbioso, esasperato ma consapevole.
 
“Vattene, Kaharot”.
“No, non vado da nessuna parte, io…”.
“VATTENE!”.
 
“Papà, vieni subito! CORRI! LA MAMMA STA… LEI…. LEI… CORRI!”.
 
Aveva lasciato Vegeta ed era entrato nella stanza accanto con il cuore in gola e il terrore dipinto sul volto. A quelle grida, anche Goten e Trunks, svegliati di soprassalto, erano sopraggiunti, ma sarebbe stato meglio se non avessero assistito a quanto stava avvenendo sotto i loro occhi.
Atterriti, impotenti, avevano visto il corpo di Chichi diventare trasparente sino a dissolversi. Le coperte che fino a poco prima erano sollevate dalle sue forme, giacevano spiegazzate sul materasso ancora caldo e lì, su quel morbido giaciglio, la forma lasciata dal peso del suo corpo minuto era ancora visibile.
 
“MAMMA!” – avevano urlato i suoi figli.
“Chichi…” – aveva sussurrato Trunks
 
E Goku… Lui era rimasto lì, inerme, terrorizzato, spiazzato. Perché, proprio in quello stesso momento, nel momento in cui lei si era dissolta, si era reso conto di essersi sentito più forte e vigoroso di prima.
 
Continua…

 
Eccomi qui!
Di nuovo in assoluto, estremo ritardo. XD
Non ce la posso fare, è inutile.
Dunque: che avete capito dalle ultime battute di questo capitolo? Sono curiosa!
 
Spero che stiate tutti bene!
A presto!
Un bacino
Cleo
 
Ps: lo so che rompo le balle con la storia della cicatrice di Vegeta dovuta al colpo mortale inferto da Freezer, ma che volete: sono un tipo romantico. XD

 

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Capitolo 27
*** Non può essere vero ***


Non può essere vero

 
Non poteva essere vero.
Non poteva.
Non poteva accettare che quella fosse la realtà, che le cose fossero davvero come aveva indicato Vegeta, che l’accusa pronunciata dalle labbra di un uomo delirante per la febbre corrispondesse a verità.
Eppure, lo aveva visto con i suoi occhi e lo aveva sentito nelle ossa e nei muscoli: nello stesso istante in cui la madre dei suoi figli aveva cessato di esistere, nel momento in cui l’unica donna della sua vita era svanita nel nulla, la sua forza e il suo vigore erano aumentati, e le due cose non potevano non essere correlate.
 
“Ma cosa… Cosa è successo a Chichi? Lei non… Lei… Lei…”.
 
Trunks non riusciva a proferire una frase di senso compiuto. Il suo cervello di bambino non era in grado di darsi una spiegazione. Chichi non stava bene, era gravemente malata, ma era lì davanti a lui, c’era stata fino a qualche minuto prima, e poi era sparita. Eppure, razionalmente, sapeva perfettamente che le persone sparissero nel nulla.
Aveva paura, il piccolo mezzo-saiyan dai capelli color lillà: se fosse sparito anche lui? O, peggio ancora, se fosse sparito il suo papà e si fosse ritrovato lì, completamente solo e sperduto? Non voleva stare accanto a Goku, non poteva farlo. Quell’uomo gli piaceva sempre meno, quell’uomo gli faceva paura. E sapeva che la sua era una paura irrazionale, ma era vera e tangibile. Vera come il fatto che una donna fatta di carne e ossa, una donna che chiamava “zia” fosse sparita davanti ai suoi occhi, esattamente come era successo alla sua mamma.
 
“Ma-mammina! Dove sei? Mammina, DOVE SEI?”.
 
Goten urlava disperato mentre cercava, invano, sua madre sotto le coperte ancora calde. Gli occhi velati dalle lacrime gli impedivano di vedere chiaramente quello che aveva davanti, e poteva anche essere che lei – per una ragione sconosciuta e inspiegabile – si fosse rimpicciolita e che lui non fosse in grado di vederla.
 
“Mamma… Dove sei? Le persone non spariscono in questo modo! Dove ti sei nascosta, mammina, dove?”.
 
“Goten, smettila…” – Goku si era avvicinato a suo figlio, poggiandogli una mano sulla spalla – “Tua madre non è più qui…”.
“MAMMINA!” – continuava a chiamare lui, scavando tra le coltri.
“Goten… Ti prego…”.
“MAMMA!”.
“Figliolo…”.
“SMETTILA! LASCIAMI STARE! IO DEVO TROVARLA! DEVO TROVARE LA MIA MAMMA!”.
“ORA BASTA, GOTEN! BASTA”.
 
Lo aveva preso per le spalle, scuotendolo con una forza fin troppo eccessiva. Sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, sentiva di essere sul punto di perdere il controllo di se stesso: perché suo figlio si rifiutava di ascoltarlo?
Goten lo guardava con gli occhi colmi di terrore, incapace di muovere anche solo un muscolo.
Suo padre aveva gli occhi iniettati di sangue e lo stringeva forte, troppo forte, così forte che le sue piccole spalle avevano cambiato colore, diventando bianche per via della pressione di quelle forti mani.
 
“Ora smettila. Stai buono”.
“Papà…” – era intervenuto Gohan, ripresosi dallo shock di aver visto sua madre scomparire – “Papà… Gli stai facendo male”.
“Goten, tua madre non c’è più! Devi accettarlo! Smettila di comportarti in questo modo!” – sembrava che non lo avesse neanche sentito.
“Papà… Ti prego…”.
“Mi stai facendo male…”.
“Lascialo andare. Adesso”.
 
Ansimante, divorato dalla febbre, Vegeta non si era lasciato sconfiggere dalla fatica e li aveva raggiunti, intimando a Goku di lasciar andare suo figlio.
Aveva gli occhi lucidi, la fronte imperlata di sudore, e il fatto di essere solo in biancheria intima aveva evidenziato la sua innaturale magrezza, ma il principe dei saiyan non aveva perso neanche un briciolo della grinta che lo contraddistingueva. Aveva il fuoco negli occhi, il fuoco di chi era disposto a tutto pur di difendere qualcosa di suo. E Goku, in quel momento, aveva messo addosso le zampe a qualcosa che per lui aveva un valore inestimabile.
 
“Lascialo. Immediatamente”.
 
Era come se si fosse appena svegliato da un incubo, Goku. La voce ferma e tonante di Vegeta lo aveva fatto uscire dallo stato in cui era piombato e sembrava che solo in quel momento si fosse accorto di quello che aveva fatto: spaventare a morte suo figlio.
 
“URCA! Goten… Figliolo… Mi dispiace tanto”.
 
Il suo dispiacere era sincero, e vedere il terrore e la delusione negli occhi del suo bambino era stata l’esperienza più dolorosa che avesse vissuto sino a quel momento.
 
“Come ho potuto perdere il controllo in questo modo? Ho terrorizzato a morte mio figlio, e dopo che aveva assistito alla sparizione di sua madre. Chichi… Mi dispiace tanto”.
 
“Vattene” – gli aveva intimato Vegeta, questo mentre Goten e Trunks gli si avvicinavano, spaventati e in apprensione per lui – “Lasciaci in pace, Kaharot”.
 
Aveva cercato appiglio nello sguardo di Gohan, ma suo figlio era troppo confuso e smarrito per poterlo sostenere.
Goten lo aveva ripudiato, scegliendo di rifugiarsi all’ombra di Vegeta e Trunks… Cosa avrebbe potuto aspettarsi da lui, se non che corresse da suo padre? Quello che era appena capitato era perfettamente naturale, era giusto. Lui era di troppo. Lui era l’intruso, lui era il nemico. E, purtroppo, non poteva non essere vero.
 
“Papà… Ascolta, non ti puoi comportare così. Che cosa ti è preso?” – Gohan sembrava aver riacquistato un minimo di lucidità e, con essa, la volontà ferrea di non schierarsi dalla sua parte. O, almeno, così era parso a Goku.
“Io… Non lo so, figliolo. Mi dispiace”.
“Va bene, non importa… Ma dobbiamo mantenere la lucidità… Non è il momento di perdere il senno… Anche se la mamma… Se lei…” - Non aveva potuto continuare a causa del nodo che gli si era formato in gola. Gohan non era stato in grado di proteggerla, di tenerla lì con loro, e il senso di colpa lo stava divorando – “Ma non possiamo dividerci, Vegeta. Non è giusto”.
“Possibile che tu non abbia ancora capito?” – gli aveva detto il principe, ansimando, cercando di rimanere sveglio, vigile – “Lui ci sta prosciugando… Lui ci sta… Ci sta facendo questo… AH!”.
 
Non aveva retto ulteriormente, ed era caduto faccia a terra, impattando violentemente contro il pavimento.
 
“Papà!”.
“Vegeta!”.
 
Quella volta, Goku si era rifiutato di soccorrerlo. Quella volta, Goku era rimasto indietro, immobile, a osservare Trunks e i suoi due figli che si prendevano cura di chi li aveva accuditi sino ad allora.
Era di troppo. Ed era una minaccia. Vegeta aveva ragione, doveva sparire, andare via, raggiungere un pianeta al limite del sistema solare e lasciarsi morire di fame e di sete. Lui lo aveva detto, tempo addietro, lo aveva detto a tutti, ma nessuno gli aveva creduto: aveva detto che la Terra, senza di lui, sarebbe stato un luogo più sicuro. Aveva detto a gran voce che, se fosse tornato in vita, terribili sciagure si sarebbero abbattute sul loro mondo. L’indovina glielo aveva detto chiaramente, quella volta, tanto tempo fa: lui poteva essere la salvezza e la rovina di quel sasso rotondo che amava così immensamente.
 
“Io… Io devo andare via…” – aveva sussurrato, tremando – “È meglio così…”.
“Papà! Papà! Mi stai ascoltando? Vieni qui! Non riusciamo a sollevarlo! Vegeta è troppo pesante per noi… Papà… Ti prego…”.
 
Ma Goku sembrava non averlo neanche ascoltato. Era deciso ad andare via, a liberarli della sua presenza ingombrante, di tenerli al sicuro.
 
“Papà… Ti prego…” – Gohan gli era comparso davanti all’improvviso e gli aveva poggiato entrambe le mani sulle spalle. Quel gesto era così sconsiderato! Che cosa voleva? Fare la fine di sua madre? Era forse impazzito?
“La-lasciami figliolo… Lasciami… Ti prego”.
“Papà… Ti prego, calmati… E guardami: non è colpa tua. Non può essere vero. E, anche se fosse, abbiamo bisogno di te”.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
eccomi qui con questo capitolo di passaggio. Goku comincia ad avere mille dubbi. Vegeta lo odia sempre di più accusandolo di essere la causa di tutte le loro sofferenze, e i ragazzi… Be’, li avete visti. ;)
Chi sarà mai questa indovina? E perché pensa questo di Goku?
Lo scopriremo, prima o poi.
Buona fase 2 (mi raccomando, fate le/i brave/i) e a presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 28
*** Il maledetto ***


Il maledetto
 
Ricordava bene quel giorno terrificante, l’esatto momento in cui aveva preso coscienza di quello che stesse accadendo realmente. Era stato agghiacciante, spaventoso, e non aveva fatto niente per nascondere le sue sensazioni, i suoi sentimenti. I bambini avevano chiesto silenziosamente la sua protezione e Gohan, alla fine, gli aveva dato il suo appoggio, per quanto questo lo avesse umiliato e ferito.
Non sapeva neppure perché quell’episodio fosse riaffiorato così all’improvviso. La notte si divertiva a tormentarlo con ricordi, memorie, e a nulla valeva la stanchezza di una giornata trascorsa a spaccarsi la schiena per il padrone. Sembrava che la sua vita dovesse essere vissuta solo per servire. Che si trattasse di una lucertola galattica con manie da megalomane o un essere umano disgustoso e approfittatore, sembrava che fosse destinato a inginocchiarsi davanti a qualcuno.
Si era inginocchiato, quel giorno? No. Non lo aveva fatto. Certo, era caduto per terra, si era sentito sopraffare da quel potere crescente e spaventoso, ma non aveva ceduto. Aveva fatto sentire a gran voce i suoi pensieri, aveva detto ciò che credeva con veemenza e convinzione, ma non era servito a niente. Non avrebbe potuto fermarlo neanche volendo, lo aveva capito sin da subito, ma il senso di responsabilità verso chi era palesemente dipendente da lui lo aveva spinto a fare l’impensabile. Adesso, dopo più di un anno, si chiedeva che fine avesse fatto la sua forza di volontà, dove avesse nascosto la grinta che lo aveva da sempre contraddistinto, si chiedeva dove fosse finito il principe dei saiyan.
 
Ieri…
Continuava a urlargli contro.
Continuava ad accusarlo di essere la causa di tutto quel trambusto, continuava a dirgli di andarsene, che se non lo avesse fatto sarebbero svaniti tutti nel nulla, che avrebbero fatto la stessa fine di tutti gli altri, ma proprio non riusciva a capire. Non aveva mai brillato per la sua intelligenza, ma non era neanche così stupido come voleva far credere. Ma Goku non poteva davvero credere che la scomparsa di tutte quelle persone e il suo ritorno in vita fossero due cose collegate. Non poteva essersi trasformato in una specie di mostro succhia-vita. Non poteva essere diventato esattamente come Cell!
 
“Papà, che vuoi fare?”.
 
Sembrava che la voce di Gohan non lo avesse minimamente raggiunto. Aveva paura, Goku? Sicuramente. Sapeva che sarebbe stato odiato da tutti, persino dal suo primogenito, forse. Ma non poteva lasciarli e scappare via come un codardo. Se lo avesse fatto, e se fosse capitato loro qualcosa di peggio che perdere i propri poteri, non se lo sarebbe mai perdonato. Del resto, era l’unico in grado di proteggerli. Tutti. Persino Vegeta.
Incurante delle parole del principe, Goku aveva ripetuto i gesti di poco prima, ma stavolta non lo aveva condotto nella stanza accanto: lo aveva adagiato sul letto ove poco prima giaceva la sua sposa. Non avrebbe permesso a Vegeta di opporsi. Non avrebbe permesso a nessuno di mandarlo via. Anche se fosse stato vero ciò di cui lo aveva accusato, non li avrebbe lasciati. Mai, per nessuna ragione al mondo.
 
“Fai piano…”.
 
Trunks aveva supplicato il saiyan dai capelli a palma di trattare con le dovute accortezze il suo papà. Il bambino aveva perso sua madre, i suoi nonni, sua zia Chichi. Gli restavano solo suo padre, Gohan, Goten e – purtroppo per lui – Goku. In un’altra circostanza avrebbe fatto ferro e fuoco per difendere il suo adorato papà, per evitare che Kaharot posasse le sue zampacce su di lui. Era certo che Vegeta sarebbe stato allo stesso tempo orgoglioso e restio nel vedere qualcuno lottare per lui, ma non gli sarebbe importato. Avrebbe tirato fuori le unghie, mostrano al nemico di essere un autentico leone. Purtroppo, però, in quel momento Trunks non si sentiva altro se non un gattino indifeso e anche un po’ malaticcio. Come avrebbe potuto ruggire quando era appena in grado di miagolare?
 
“Non voglio fargli del male, Trunks… Non voglio farne a nessuno di voi”.
 
Goku era sincero. Potevano percepirlo tutti chiaramente, e nonostante avesse cercato di divincolarsi, Vegeta non era stato in grado di opporre resistenza alcuna: Goku avrebbe potuto fare di lui quello che voleva, avrebbe potuto fare di chiunque quello che voleva.
 
“Perché questo imbecille non capisce? Perché ha deciso di tormentarci in questo modo? Che hai in quella zucca, Kaharot? Il criceto che cammina su quella ruota cigolante si è suicidato? Tsk!”.
 
Sua altezza reale aveva accennato una specie di smorfia simile a uno dei suoi sorrisi sadici prima di svenire nuovamente, e Gohan non aveva potuto fare a meno di notarlo. Chissà a cosa stava pensando, Vegeta… E se la febbre lo avesse fatto uscire di senno? Se stesse delirando? Poteva davvero essere che suo padre fosse la causa della sparizione della maggior parte della popolazione limitrofa? Forse, effettivamente, era un po’ azzardata come ipotesi… Sicuramente, come accusa era gravissima, ma quando mai Vegeta si era posto problemi nel rivolgere alla sua nemesi le peggiori accuse?
Era pur vero che non lo avesse mai infangato con menzogne e illazioni né da vivo né da morto, ma quello era un caso del tutto eccezionale. Erano fragili e indifesi, e quante volte aveva sentito ripetere al principe dei saiyan che odiava Goku per avergli risparmiato la vita durante il loro primo scontro sulla Terra? Che non gli avesse ancora perdonato la gentilezza che aveva percepito come un disonore?
 
“Gohan, devo andare da re Kaioh”.
“Eh? Ma papà, hai detto che non ti è stato di nessun aiuto, prima…”.
“Sì, lo so. Ma hai visto quello che è successo a tua madre, no? E hai sentito ciò che ha detto Vegeta…”.
“Sì, ma…”.
“Senti, figliolo, non sto dicendo che abbia ragione, ma devo capire che sta succedendo, o devo almeno provarci. Non vorrei lasciarvi qui, da soli. So che siete completamente incapaci di difendervi, se il nemico dovesse palesarsi. Solo gli dei possono sapere quanto mi pianga il cuore nel dovervi lasciare qui, ma non ho alternative. Non sono in grado di capire da solo quello che mi sta succedendo e…”.
“E…?”.
“Niente”.
 
Avrebbe voluto dirgli: “e se Vegeta avesse ragione, per voi rappresenterei la minaccia più grande”, ma aveva preferito tacere.
 
“Te ne andrai di nuovo, quindi?”.
 
Era stato Goten a porre quella domanda apparentemente così innocente ma traboccante di pesanti implicazioni. Il mezzo-saiyan identico a Goku lo aveva guardato con tanta intensità da metterlo a disagio. Non lo stava accusando, non stava pretendendo da lui qualcosa che non poteva dargli, no. Aveva semplicemente sottolineato quello che sarebbe avvenuto di lì a poco. Purtroppo però, inspiegabilmente, Goku aveva avvertito come una fitta al cuore, una fitta così dolorosa da togliergli il respiro.
 
“Tornerò presto. Ve lo prometto”
 
“Fidatevi di me” – avrebbe voluto aggiungere, ma si era morso la lingua pur di non dire qualcosa che avrebbe potuto torcerglisi contro e aveva posato due dita sulla fronte, prima di sparire verso la meta che si era prefissato.
 
Quella volta, Son Goku aveva fatto una promessa che avrebbe mantenuto a costo della sua stessa vita. Quella volta, Son Goku sarebbe tornato da chi amava più di ogni altra cosa al mondo.
 
*
 
Era arrivato a destinazione in meno di un battito di ciglia. Conosceva talmente bene la posizione del minuscolo pianeta di re Kaioh da non avere neanche più bisogno di percepire l’aura di quest’ultimo. Goku avvertiva quel pianeta come vivo, come suo, e gli era bastato concentrarsi sull’energia emanata dal nucleo per potersi materializzare sul fresco prato sempre perfetto.
 
“Sei arrivato, figliolo. Bentornato”.
 
Il buffo sovrano che regnava su quella porzione di Aldilà non aveva tardato a mostrarsi. Certo, quel pianeta era talmente piccolo da rendere impossibile qualsiasi tentativo di celarsi, ma sembrava che lo stesse aspettando.
Goku, dal canto suo, non era stato in grado di celare il sorriso: si sentiva bene, quando si trovava lì, si sentiva a casa, e la presa di coscienza di ciò aveva tramutato quel timido sorriso in sconforto. Forse, alla fine, era vero che per tutto quel tempo non aveva avuto intenzione di tornare sulla Terra.
 
“Re Kaioh, la prego, mi dia una mano. Ho bisogno che mi aiuti a capire, che mi dica che cosa sta succedendo sulla Terra. Sono tutti spariti, soprattutto donne e bambini! La gente ha paura! Chichi si è dissolta davanti ai miei occhi, i ragazzi sono stati privati delle loro doti e della loro forza e Vegeta… Sì, lui, ecco…”.
“Calmati figliolo. Prendi un respiro o finirai per rimanerci secco un’altra volta”.
“Urca! Sì, è vero. Non so perché sono vivo! Non l’ho chiesto io… Mi dispiace”.
“Lo so… Ma vieni qui, stai calmo… Proveremo a capire cosa sta succedendo”.
“Va bene, ci proverò, ma dobbiamo fare presto! Vegeta sta male, re Kaioh. Molto male”.
“Figliolo… Vieni con me. Sono certo che una buona tazza di tè ti farà bene… Su…”.
“ma… Re Kaioh… Io avrei un pochino di fretta, e…”.
“Insisto…”.
 
Come avrebbe potuto dirgli di no?
 
“Vieni in casa… Ti prometto che proveremo a venirne a capo”.
 
Sperava davvero che ci sarebbero riusciti.
E se il suo maestro gli avesse detto che i sospetti di Vegeta erano fondati? Se il principe avesse avuto ragione, che avrebbe dovuto fare?
 
“Chissà che staranno facendo sulla Terra… Urca! Spero che stiano bene”.
 
*
 
“Credete che papà scoprirà qualcosa di utile?”.
 
Gohan era irrequieto. Da quando Goku era andato via, Vegeta sembrava essersi tranquillizzato. Non si era più lamentato durante il sonno, e anche la temperatura sembrava essersi abbassata di colpo.
Trunks e Goten non avevano abbandonato il suo capezzale neanche per un istante, asciugandogli la fronte imperlata di sudore e sistemandogli le coperte in modo da non fargli prendere freddo.
Era talmente magro e pallido… Abituati a vederlo sempre al meglio, forte e vigoroso, impassibile e forse incapace di ammalarsi, era stato motivo di sgomento e sconforto, per loro, vederlo così fragile, vederlo così umano.
 
“Sembra che stia un pochino meglio” – aveva detto Goten a mezza voce, temendo di pronunciare le ultime parole famose.
“Sì, anche a me…” – Trunks aveva preso coraggio e si era sdraiato al suo fianco a pancia in giù. Non gli aveva staccato gli occhi di dosso neanche per un istante, si era persino rifiutato di sbattere le palpebre con il solito ritmo, temendo che in quel brevissimo istante sarebbe potuto accadere il peggio. Sì, sembrava che suo padre stesse meglio e, se doveva proprio essere sincero, anche lui sentiva di essere un po’ meno stanco di prima.
 
“Che pensate che stia facendo, papà?” – aveva chiesto Gohan. Da quando Goku era andato via, il maggiore dei suoi figli aveva fissato un punto imperscrutabile nel bel mezzo della volta celeste. Si era sempre domandato dove fosse, esattamente, l’Aldilà e come fosse fatto. Non aveva mai osato chiedere a suo padre di descriverlo, e quando era più piccolo aveva sempre immaginato un luogo meraviglioso immerso nel bianco dove i defunti avevano grandissime ali candide e potevano spostarsi da una parte all’altra senza fatica. Aveva immaginato montagne di dolci e altre delizie, prati dall’erba sempre verde e fiori dai colori e dal profumo inimmaginabile. Per non parlare della gioia: Gohan aveva sempre creduto fermamente che le persone si sarebbero rincontrate lì, una volta passate a miglior vita, e che avrebbe finalmente potuto conoscere nonno Gohan, quando anche lui avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Sarebbero stati tutti giovani e in salute, e sarebbero stati insieme, a trascorrere il resto dell’eternità a ridere e a essere felici.
Col tempo, però, aveva smesso di credere a quella favola che amava raccontarsi la sera, quando da bambino immaginava la vita svolta da suo padre. Goku non aveva le ali, e non gli aveva mai parlato delle persone che aveva incontrato. Mai. E anche se lui non aveva osato chiedergli niente, era certo che quelle fossero solo le fantasie di un moccioso a cui mancava suo padre. Nell’Aldilà nessuno si sarebbe ritrovato. Soprattutto se questo qualcuno aveva vissuto la propria vita nel peccato.
 
“Non lo so, ma spero possa cavarne un ragno dal buco. Non abbiamo la più pallida idea di quello che stia succedendo, fratellone…”.
“Già… Ma…”.
“Ma?” – gli aveva chiesto suo fratello. Già, ma. Goten – proprio come Gohan – aveva tanti di quei ma da poter riempire pagine e pagine di quaderni. Avrebbe mai avuto risposta a questi suoi ma? Temeva che ciò fosse ormai impossibile.
Il piccolo Son era completamente sfiduciato. Verso le persone, verso il destino, verso il mondo, persino verso gli dei. La sua mamma gli aveva detto che non lo avrebbe mai abbandonato e che gli dei lo avrebbero vegliato dall’alto ogni singolo istante, ma le cose erano andate esattamente in direzione opposta: lei era sparita nel nulla, lo stesso era accaduto a Dende e questo famoso re Kaioh… Bè, lui sembrava più inutile di tutti loro messi assieme.
 
“Insomma… Credete davvero che quello che ha detto Vegeta possa essere… Possibile?”.
 
Gohan non riusciva a credere di aver dato voce ai suoi pensieri davanti ai bambini. Fomentare quell’accusa infondata significava aumentare in loro il dubbio, e lui sarebbe dovuto essere quello che avrebbe dovuto dissiparli! Che gli era preso? Esitare in quel modo davanti ai bambini, accusare – anche se indirettamente – suo padre… Quella situazione doveva averlo per forza fatto uscire di senno.
 
Il silenzio dei piccoli aveva contribuito solo ad accrescere il suo disagio. Perché né Goten né Trunks si erano espressi a riguardo? Che stessero vivendo il suo stesso tormento?
 
“Papà non ha mai detto una cosa tanto per dirla, Gohan… Dovresti saperlo” – aveva detto Trunks senza neanche voltarsi dalla sua parte: guai se avesse perso anche solo un respiro di suo padre.
“Sì, ma non siamo infallibili… Vegeta si è sbagliato tante volte…”.
“Sì… Lo so. Nessuno di noi lo è”.
“Per questo chiedevo… Io… Voglio dire…”.
“Sai cosa stavo per fare, ieri, Gohan? Stavo per evocare Shenron e stavo per chiedergli di esaudire il più grande desiderio di Goten… Tu sai qual è, non è vero?”.
 
Entrambi i Son avevano trattenuto il respiro. A cosa si stava riferendo Trunks?
 
“Che volevi fare, Trunks? E che stai dicendo? So che lo sai, lo so. Ma ti prego, non tradirmi davanti a Gohan… Non farlo. Lui non capirebbe. Ti prego, amico mio… Ti prego, fratello. Ti prego”.
 
“Ma poi mi hanno fatto capire che stavo sbagliando. O forse, l’ho capito da solo… E non ho fatto più niente. Solo che papà ha detto più volte la stessa cosa. Ne è fermamente convinto… E non credo che si stia sbagliando, ragazzi… Voi… Non vi sentite un pochino meglio?”.
 
Non era stato del tutto sincero con loro, ma il suo discorso aveva fatto presa sulle menti provate di entrambi i fratelli Son. Goten aveva tirato un respiro di sollievo nell’aver udito le parole di Trunks: grazie al cielo non aveva tradito la sua fiducia. E poi, doveva ammettere che avesse ragione. Da quando Goku era andato via, si sentiva meno stanco. Quella era certamente una prova che remava a favore di Vegeta, ma poteva essere abbastanza per incriminare Goku?
 
“Io… Io… Devo ammettere che hai ragione… Oddio. Hai proprio ragione”.
 
Perso com’era nei suoi pensieri, Gohan non si era neppure reso conto di aver smesso di sanguinare dal naso e che la spossatezza che provava si fosse attenuata.
 
“Pensi che sia un segno, fratellone?”.
“Purtroppo non sono in grado di rispondervi, ma se fosse così… Se fosse vero che papà, in qualche modo, ci abbia privato dei nostri poteri e delle nostre energie, questo vorrebbe dire che…”.
“Che non-non potrebbe più avvicinarsi a noi”.
 
Lo aveva detto con un filo di voce, a occhi chiusi, ma era stato abbastanza per far sì che i ragazzi potessero sentirlo.
 
“Papà! Stai bene, papà? Oh, che bello!”.
 
Trunks aveva le lacrime agli occhi, e lo stesso valeva per Goten. Vegeta aveva finalmente ripreso conoscenza, era di nuovo lì con loro.
 
“Tsk! Pensavi davvero che un Kaharot succhia-energia-vitale avrebbe potuto uccidermi, Trunks?”.
 
Aveva aperto gli occhi, ancora un po’ dilatati, e dopo averli strizzati per il forte impatto con la luce artificiale che inondava la stanza lo aveva rifatto, abituatosi finalmente a quel repentino cambiamento.
 
“Vegeta, stai meglio? Vuoi dell’acqua? Tieni… Bevi”.
 
Goten non aveva esitato neanche per un istante e aveva preso il bicchiere ancora pieno mai toccato da sua madre per porgerlo al saiyan appena rinvenuto. Senza farselo ripetere due volte, Vegeta aveva afferrato il contenitore cilindrico e ne aveva bevuto il contenuto tutto d’un fiato, prendendo poi un lungo respiro prima di posare i piedi a terra.
 
“Vegeta, forse non è il caso di alzarsi subito…”.
“Tsk! Ti preoccupi per me, Gohan? Non pensi che bastino già loro due?”.
“Ma, papà…”.
“Piantatela. E vestitevi. Anzi, preparate degli zaini. Azzererò quello che resta della mia aura, così non potrà localizzarci”.
“Prego?” – aveva detto Gohan, incredulo.
“Dobbiamo andare via prima che lui faccia ritorno”.
“Cosa dici, papà?” – Trunks era certo di aver sentito male.
“Obbedite, subito. O rimarrete qui”.
“Ma, Vegeta… Non possiamo! Che ti salta in mente? Papà non è un mostro! Tu continui ad accusarlo ma non hai le prove e…”.
“Tsk! Quale altra prova ti serve, ragazzo? Quale? Tua madre è sparita davanti ai nostri occhi! Vuoi che capiti anche a noi?”.
“Ma…”.
“Possibile che non lo abbiate ancora capito? Lui è tornato in vita e nello stesso tempo noi abbiamo perso i poteri e metà delle persone che vivono in questo stato sono sparite! E si trattava soprattutto di donne e bambini! Siete capaci di fare due più due o no?”.
“Che stai dicendo, Vegeta? Cosa?”.
 
Avevano tutti il cuore in gola, e questo perché si erano resi perfettamente conto che il discorso del principe fosse più che sensato.
 
“Tsk! Sono consapevole da tempo di non avere i mezzi per sconfiggere tuo padre. In tutti questi anni non ho fatto altro che rimanere fermo, immobile. Ho costretto me stesso a essere chi non ero, ma quando l’ho visto tornare, in me si era riacceso qualcosa. Per un breve istante, avevo creduto di poter tornare a combattere. Ero andato nel deserto perché… Non lo so neanche io. Forse per schiarirmi le idee, forse perché l’istinto mi stava portando da quel decerebrato per spaccargli le ossa. Ma poi… Poi è successo quello che sappiamo. E porca miseria, Gohan, da quando si è avvicinato a noi, a me, le cose non hanno fatto altro che peggiorare. Possibile che ti rifiuti di vederlo?”.
“Ma… Io… Io non posso credere che papà lo abbia fatto di proposito, laddove fosse vero. Non posso e basta”.
“Allora resta qui, Gohan. E prenditi la responsabilità di quello che stai facendo. Aspetta che tuo padre torni, e lasciati uccidere da lui. Hai un fratello a cui badare, ma sembra che tu abbia deciso di trascinarlo nelle sabbie mobili con te. Trunks, prendi le tue cose e sbrigati. Noi andremo via, adesso. Kaharot si è preso tutto ciò che era mio. Quel maledetto lo ha sempre fatto! Si è preso il mio orgoglio, la mia leggenda, la mia Bulma. Non permetterò che si prenda anche Trunks”.
 
Lo aveva detto ad alta voce. Lo aveva ammesso con un candore che non credeva di possedere. Aveva sempre pensato che se avesse espresso i suoi sentimenti si sarebbe sentito debole, vulnerabile, ma aveva capito di essersi completamente sbagliato. Vegeta si era sentito forte come mai prima di allora. E, stranamente, si era sentito sereno.
 
“Papà… Io non voglio lasciare Goten”.
“Deve lasciar decidere lui, Trunks. Se venire con noi, o aspettare qui che quel maledetto ritorni”.
 
Vegeta non poteva sapere che, in quello stesso istante, sul piccolo, minuscolo pianeta di re Kaioh, la strega Baba fosse appena giunta a bordo della sua sfera. Non poteva sapere che avesse obbligato il sovrano e i suoi compagni a farsi scudo dietro di lei per proteggerli dall’ultimo che avrebbe voluto fare loro del male.
 
“Stai indietro, Goku, te ne prego!”.
“Baba, ma perché? Perché avete tutti paura di me?”.
“Perché, tu, figliolo, sei stato maledetto”.
 
Continua…


 
Ragazze/i,
Sono di nuovo in super-mega ritardo!
Perdonatemi, ma la fase 2 mi ha completamente scombussolata. La scorsa settimana sono saltate tutte le cose che avevo in programma. Che allegria!
Spero di essermi fatta perdonare, a ogni modo!
A presto!
Un bacino
Cleo

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Capitolo 29
*** Via dalla Capsule Corporation ***


Via dalla Capsule Corporation
 
Suo malgrado, alla fine, Gohan era stato convinto a cedere. Era ancora certo che suo padre non stesse facendo niente di sua spontanea volontà, che fosse vittima di qualcuno intenzionato a usare quella specie di abilità come diversivo, ma non aveva potuto esitare ulteriormente. Come aveva sottolineato più volte Vegeta, suo padre sarebbe potuto tornare da un momento all’altro e non potevano farsi trovare lì se volevano sopravvivere. Che fosse colpa sua o meno, Goku poteva sottrarre loro non solo l’energia, ma la stessa vita. E loro, di morire, non ne avevano la benché minima intenzione.
 
“Fate presto! Forza!”.
 
Vegeta aveva preso in mano le redini della situazione, cercando di mantenere i nervi saldi e diventare così, suo malgrado, la guida di suo figlio e di quei due ragazzi.
 
“Tsk! Non riesco a credere di aver fatto questa fine. Davvero, non ci riesco. Mio padre si sarebbe rivoltato nella tomba, se ne avesse avuta una! Noi saiyan non abbiamo mai avuto bisogno di essere protetti, guidati… Sin da bambini, siamo sottoposti a prove durissime, prove che mettono a repentaglio le nostre vite. Io, in qualità di membro della stirpe reale, ho ricevuto un addestramento diverso da quello dei guerrieri appartenenti alla terza classe, ma questo non vuol dire che mio padre sia venuto con me durante la mia prima missione! Se non fossi sopravvissuto, sarebbe stata colpa mia. Credevo che non avrei mai avuto figli, ma che se ne avessi avuto uno avrebbe vissuto le mie stesse esperienze, che sarebbe cresciuto come me! Invece, adesso, mi ritrovo a fare da guardia del corpo non solo alla mia progenie, ma anche a quella di quel decerebrato, idiota portatore di sciagure! Sono diventato… Non so neanche io che sono diventato! Ripeto, mio padre si rivolterebbe nella tomba… Tsk! Come mi sono ridotto…
Ma non posso lasciarli… Non potrei mai mettere a rischio la vita di mio figlio, mai. Soprattutto adesso che non è capace di difendersi. E Goten… Lui… Lui non merita di essere lasciato da solo. Non merita che io faccia la stessa cosa di quella stupida terza classe. No. Fortuna che quel damerino di suo fratello si è deciso a seguire i miei ordini! Se non lo avesse fatto, temo che Goten non mi avrebbe seguito. E poi, che avrei dovuto fare?
Tsk! Questa cosa che ci è capitata, questa maledizione, sembra quasi uno scherzo. Sì, qualcuno deve avermi punito per la decisione che ho preso alla morte dell’idiota. Non ho voluto più combattere? Ho tenuto a freno i miei poteri? Ecco che me li hanno tolti. Ed ecco che quell’ameba diventa sempre più forte. Se dovesse avvicinarsi troppo, se dovesse impazzire e rivoltarsi contro di me, contro Trunks e i suoi stessi figli, cosa potrei fare? Come potrei proteggerli? Come mi sono ridotto… Tsk! E so anche di chi è la colpa! Lo sai anche tu, donna, non è vero?”.
 
“Vegeta? Mi stai ascoltando?”.
“Mmm?”.
 
Era talmente perso nei suoi pensieri da non essersi reso conto che Gohan lo stesse chiamando. Lui e i bambini erano in piedi, davanti alla porta, con gli zaini in spalla e un borsone pieno di capsule al seguito.
 
“Noi siamo pronti… Trunks ha dato a Goten alcuni dei suoi vestiti, abbiamo preso le capsule contenenti acqua, cibo e medicine, una con una casa e… Ti confesso che ho riempito uno zaino con vestiti che ti appartengono… Purtroppo, o passiamo da casa mia, sui monti Paoz, o dovrai prestarmi qualcosa, mi dispiace…”.
“Tsk! Alla buon’ora!” – aveva risposto lui, irritato da quanto aveva appreso – “Andiamo in garage e cerchiamo di sbrigarci. Non voglio stare in questa casa un minuto di più”.
 
Non voleva stare in quella casa perché restare lì era diventato troppo doloroso. L’assenza di lei rendeva quel luogo un semplice susseguirsi di mattoni e cemento, una fredda armatura senz’anima che sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro, soffocandolo, schiacciandolo sotto il suo peso opprimente.
 
“Non sono stato in grado di salvarti. Non ero qui a proteggerti. Non commetterò due volte lo stesso errore.
 
*
 
“Ma co-cosa… Che significa che sono stato maledetto?”.
 
Aveva balbettato quella frase insieme a tutta una serie di parole sconnesse che non sapeva neppure da dove fossero venute fuori. La rivelazione di Baba era stata come una doccia fredda, come un pugno nello stomaco, come un treno in corsa che lo aveva investito in pieno, riducendolo a brandelli.
 
Era stato maledetto.
 
Ma cosa significava, esattamente? Che un mago o una strega gli avevano fatto un incantesimo? Che il nemico di turno desideroso di entrare in possesso delle sfere del drago aveva deciso di non attaccarlo frontalmente ma di usare l’astuzia? E che maledizione gli era toccata? Certo, almeno questo credeva di saperlo, ma proprio si rifiutava di accettare che una cosa del genere potesse essere vera.
 
“Siediti, figliolo, per favore… Ma non avvicinarti troppo. Ti prego, ne va delle nostre vite. O meglio, ne va della mia…”.
 
Baba, la vecchia strega che tante volte era venuta in suo soccorso elargendo preziosi e saggi consigli, aveva in viso un’espressione tutt’altro che rassicurante. Era preoccupata, scossa, forse anche un po’ incredula. Re Kaioh si era seduto al suo fianco, e osservava Goku con stupore, proprio come i suoi bizzarri assistenti.
 
“Oh, figliolo… Che tragedia! È una vera, una vera tragedia!”.
“Qualcuno mi dica che cosa sta succedendo, per favore. Qualcuno me lo dica, perché sto per impazzire!”.
“Stai calmo, figliolo, e rilassati… Ti racconterò tutto”.
 
Con voce tremante – come avrebbe potuto essere il contrario? – Baba aveva iniziato a raccontare, a spiegare, a fare luce su quella situazione così oscura. Non era stato facile, per lei, scegliere le parole più giuste, ma doveva riuscirci. Quel ragazzo meritava una spiegazione e una soluzione al guaio che gli era capitato.
 
“Sembra che tu sia una vera e propria calamita per i guai. Non so perché capitino tutte a te, le sciagure, ma questo è un grattacapo non indifferente. Non capita a tutti di essere maledetti! Ah! Che guaio! Che guaio!”.
 
Ciò detto, aveva preso un bel respiro e aveva cominciato dal principio. O, almeno, da dove pensava che le cose fossero cominciate.
 
“Non sappiamo bene come sia potuto accadere, ma la maledizione che ti ha colpito è stata lanciata da qualcuno che credevamo sepolto nel dimenticatoio. A quanto sembra, invece, questo qualcuno aveva creato una dimora sicura, un luogo in cui poter riposare in attesa di essere risvegliato. E, questo qualcuno, ha puntato te, purtroppo”.
“Sì, Baba… Ma chi è questo qualcuno?”.
“Se n’è persa la memoria, purtroppo Goku. Si tratta di un’entità così antica che si è perso persino il suo nome. Vedi, non è dotato di un corpo… Lui ne sta cercando uno e temo che, purtroppo, abbia deciso di prendere il tuo. Però eri debole, purtroppo, troppo debole… Per questa ragione, hai finito col sottrarre l’energia vitale a chi ti stava attorno per via del sortilegio che ti è stato inflitto”.
“Baba… Non può essere! È terribile! Terribile!”.
“Ne sono consapevole, re Kaioh… Purtroppo, il nostro ragazzo non è particolarmente fortunato. Ma non devi colpevolizzarti, Goku. Non hai chiesto tu, tutto questo. Purtroppo, sapevamo che se fossi tornato permanentemente sulla Terra sarebbe capitato qualcosa di terribile. Lo sapevamo tutti… Ma saperlo non è bastato a evitarlo”.
“Non ha chiesto lui di tornare in vita, Baba! Lo so di per certo!”.
“Sì, lo so… Purtroppo, però, quando ha iniziato ad assorbire l’energia vitale della prima persona che si trovava accanto a lui…”.
“È questo il modo in cui sono tornato in vita?” – aveva chiesto Goku, rimasto in silenzio sino a quel momento a causa dello shock.
“Purtroppo sì… Ma non è colpa tua, ripeto… Non lo hai fatto consapevolmente”.
“Una persona è morta affinché io potessi tornare in vita, Baba… Una persona è morta… E io sono tornato in vita”.
 
Baba avrebbe giurato sulla sua sfera di cristallo di aver visto gli occhi di Goku riempirsi di lacrime. Le si spezzava il cuore nel vedere quel povero ragazzo in quello stato. Non meritava niente di quello che gli era capitato. Lui aveva deciso di sacrificare ogni cosa per il bene comune, di rinunciare alla sua stessa vita pur di tenere al sicuro chi amava, e ora si trovava dalla parte opposta, a interpretare il ruolo dell’involontario carnefice, della marionetta che sarebbe stata manovrata da un terribile nemico incorporeo.
 
“Donne, anziani e bambini sono stati tra i primi a dissolversi, Goku, perché troppo deboli. Gli uomini si sono sentiti privati della loro forza fisica, ma solo pochi di loro sono spariti, se così vogliamo dire. I tuoi figli, Trunks e Vegeta… Loro non sono come tutti gli altri, e questo gli ha evitato di subire la stessa sorte. Ma quando hai provato ad aiutare Vegeta… Sì, quando lo hai soccorso, persino lui ha rischiato di… Lo sai, purtroppo. Anche io sto mettendo a repentaglio la mia vita, Goku… Ma non ti lascerò, figliolo…”.
“Neanche io. Puoi contare su di noi, Goku”.
 
Non aveva proferito parola. Cosa avrebbe potuto o dovuto dire?
 
“Ma come possiamo fare, adesso, per togliere via questa cosa? Questa maledizione? Magari, Shenron potrebbe esserci d’aiuto, e…”.
“Figliolo… Dende non c’è più… Lui… Non era abbastanza forte”.
 
Re Kaioh aveva pronunciato quella frase con una stretta al cuore. Il fantomatico drago non avrebbe potuto andare in loro soccorso.
 
“E allora Polunga? Lui potrebbe… Potrebbe …”.
“Polunga è stato evocato dai namecciani meno di una settimana fa… Le sfere, su quel pianeta, sono inattive”.
“Sta scherzando, re Kaioh, non è vero?”.
“Mi dispiace da morire…”.
“È un incubo… Questo è un incubo”.
 
E lo era realmente.
 
“Che cosa devo fare? Se torno sulla Terra, rischio di uccidere chi amo, lo stesso se resto qui. Non so dove sia questo nemico, perché non ha una faccia, ma so che vuole il mio corpo per fare i suoi comodi. Non posso stare accanto ai miei figli e… E…”.
“Dai, su… Calmati…”.
“Sì, re Kaioh… Sono calmo… Ma Baba… Dove sono tutti gli altri? Crilin, Genio…”.
“Non lo so, figliolo… Purtroppo, non riusciamo a percepirli”.
“Volete dire che sono morti? Ho ucciso anche loro?” – il panico aveva assalito il saiyan dai capelli a forma di palma. Non poteva credere di aver fatto una cosa del genere. Non poteva credere di aver ucciso chi voleva proteggere a ogni costo. Che cosa gli aveva fatto? E, soprattutto, chi era stato a farlo? Chi poteva essere talmente subdolo e crudele da architettare un simile piano? Usarlo come mezzo di trasporto privato, usarlo come marionetta! Destino peggiore non poteva capitargli.
“Non è detto… Potresti aver semplicemente assorbito la loro energia e per questo non riusciamo a capire dove siano… Mi dispiace ragazzo… Mi dispiace tanto… Ma proprio non posso dirti di più”.
 
Credeva ciecamente alle parole di Baba, così come non poteva non credere alle parole di re Kaioh. Perché avrebbero dovuto mentirgli, poi? Non erano persone crudeli e non gli avevano mai raccontato bugie prima di allora. Ma quella consapevolezza avrebbe potuto essergli d’aiuto in qualche modo? Quella scoperta cosa poteva significare, per lui? Che non sarebbe potuto tornare sulla Terra nonostante fosse nuovamente in vita? Significava che questo nemico avrebbe scelto un altro corpo o che avrebbe atteso lui in eterno, magari compiendo altri atti immondi e maledicendo chiunque gli capitasse a tiro? Aveva troppe domande da porre e sentiva che il tempo era suo nemico.
 
“Che cosa devo fare?”.
 
“Baba, che cosa suggerisci di fare?” – aveva chiesto re Kaioh, stravolto almeno quanto i suoi assistenti e quanto l’anziana maga. Non riusciva a farsene una ragione: sembrava che tutte le sciagure capitassero a Goku. Anzi, a essere precisi, sembrava che i saiyan, in generale, le attirassero come delle calamite. Che fosse proprio quello il problema, maledizioni secondarie a parte?
“Credo che sia opportuno per te restare qui, figliolo…”.
“Come?” – aveva urlato un Gregory alquanto allarmato.
“No, Baba! Non posso farlo!”.
 
Era scattato in piedi, incapace di accettare quella verità. Era stato il primo a formulare quel pensiero, ma si era rifiutato di pensare che potesse essere una soluzione applicabile. Non potevano chiedergli di stare lontano dai suoi figli, di lasciarli in preda al nemico.
 
“Baba, non si possono difendere. Non puoi chiedermi di stare qui con le mani in mano, di aspettare che succeda qualcosa e di non fare niente. Non è da me fare lo spettatore. Non inizierò di certo adesso”.
“Figliolo, capisco la tua frustrazione, ma in questo momento rappresenti il pericolo più grande, per loro. Potresti ucciderli nel tentativo di proteggerli. Lo capisci, vero?”.
“Non puoi chiedermelo, Baba… E poi, come hai detto, sono un pericolo anche per voi, no? Sono un pericolo per chiunque! Quindi, perché non tornare sul mio pianeta e provare a risolvere le cose? Perché non posso provare a capire dove si trova questo coso, di chiunque o qualunque cosa si tratti? Del resto, vuole me, no? Quale esca migliore per farlo venire allo scoperto?”.
“Figliolo…”.
“No, Baba, il mio piano non fa una piega! Te ne rendi conto, vero? Io lo stanerò e lui sarà costretto a…”.
“Calmati, ora”.
 
Re Kaioh era stato quasi brutale nei confronti del suo pupillo, ma era stato costretto a farlo. Goku non voleva sentire ragione. Voleva salvare chi amava.
 
“Devi calmarti, Goku. O non ne verremo a capo. Baba…”.
“Sì, re Kaioh, grazie. Come ti stavo suggerendo, figliolo, la soluzione migliore sarebbe che tu non tornassi sulla Terra. Ma…”.
“Ma?”.
“Ma potrebbe anche essere che il tuo ragionamento non sia del tutto errato”.
“Cosa, Baba?”.
“URCA! Davvero?”.
“Sì… Capisco il tuo sconcerto, re Kaioh, ma credo che Goku sia l’unico in grado di sconfiggere il nemico. Deve solo essere preparato adeguatamente e dovrà evitare di cadere nella sua trappola, oltre a dover stare alla larga da Vegeta e dai ragazzi”.
“Ehi, ma…”.
“Niente ma, Goku. Queste sono le nostre condizioni. O meglio, le MIE condizioni. Stai lontano dalla Capsule Corporation. Se non farai come ti dico, ti impedirò di tornare sulla Terra con ogni mezzo. Sai benissimo che posso farlo, senza toglierti la vita, per altro”.
“Baba…” – re Kaioh sembrava molto allarmato – “Possibile che tu abbia davvero pensato di uccidere il nostro Goku?”.
Era rabbrividito nel momento in cui si era reso conto che lei non avesse risposto.
“Allora: affare fatto, Goku?”.
“Non sarà facile, ma ci sto. Questo e altro pur di sconfiggere questo mostro! Ma pensa te, è talmente codardo da impossessarsi dei corpi altrui. Che schifo di creatura può fare una cosa del… Ehi! Ma questo che cos’è?” – aveva esclamato, prendendo tra le mani lo strano oggetto che Baba gli stava mostrando.
“Questo è un sigillo, Goku. O un amuleto, se preferisci. Spero tanto che possa proteggerti da questo invisibile nemico”.
“Urca! Grazie Baba! Sono sicuro che mi proteggerà!” – aveva detto, sparendo con il teletrasporto alla volta della Terra.
Lo sperava davvero. Lo speravano sia lei che il povero re Kaioh, incapace di salutarlo a parole. Lo speravano perché, purtroppo, non potevano fare nient’altro.
 
Continua…
 


Ed eccomi qui!
Di nuovo in super-mega ritardo! =(
Perdonatemi, ormai è diventata una prassi. Mi spiace molto, ma sto studiando e sono più incasinata di prima.
Bando alle ciance, Goku non ne vuole proprio sapere di tenersi lontano dalla Terra, eh? Si sente responsabile e, in parte, lo è.
Che dite, eviterà la catastrofe o no? In base a ciò che sappiamo sul futuro, che ne pensate?
Fatemi sapere!
A presto!
Un bacino
Cleo
 
Ps: come avete notato, ho una passione per spille, amuleti, ecc. ecc.… XD

 

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Capitolo 30
*** Sull'aereo ***


Sull’aereo
 
Muoversi come dei semplici esseri umani era snervante, per loro che avevano l’abitudine di librarsi in aria come aquile possenti.
Vegeta continuava a ripetere a se stesso di non fare storie, che poteva benissimo immaginare di essere sulla sua capsula spaziale e di viaggiare nel bel mezzo dell’universo, dove il gelo e il buio regnavano indiscussi.
I bambini sarebbero stati molto più irrequieti se con loro, sul velivolo marchiato Capsule Corporation, non ci fosse stato il piccolo Ouji. Il principe non riusciva proprio a capire cosa ci trovassero di così confortante in quella palla di pelo rumorosa, ma l’importante era che non stessero pensando al fatto che le loro madri non fossero più lì, che non avevano più i loro poteri e che le loro vite erano state totalmente stravolte.
Per quanto riguardava l’argomento “padri non pervenuti”, l’unico a sembrare sofferente era solo il fratello Son più grande. Goten non era affatto turbato dall’assenza di Goku, e questo aveva fatto tirare un respiro di sollievo al principe dei saiyan, insieme a fargli provare una punta di soddisfazione.
Certo, non poteva fingere che, se solo avesse voluto, Kaharot non li avrebbe trovati esattamente come aveva fatto la prima volta. Per quanto potesse saperne, poteva anche essere che il cane possedesse una sua forza spirituale*, e questo avrebbe potuto rappresentare un guaio per loro che cercavano di sfuggirgli e di trovare, contemporaneamente, una soluzione alla sciagura che gli era capitata, perché sì, si trattava proprio di una sciagura.
 
“Che cosa pensi di fare, adesso, Vegeta?”.
 
Gohan gli si era avvicinato con esitazione. Non aveva mai trascorso del tempo solo con Vegeta (completamente solo con Vegeta), e pensare che fosse l’unico adulto lì nei paraggi non era proprio una cosa che lo rassicurava. Il principe aveva ampiamente dimostrato di non essere più l’uomo di un tempo, ma si trattava pur sempre di un perfetto estraneo. Doveva ammettere di averlo conosciuto un pochino di più nei giorni trascorsi insieme alla sua famiglia alla Capsule Corporation, ma era – per l’appunto – in compagnia di chi lo aveva messo al mondo e del suo fratellino. Ora, invece, erano soli. Entrambi avevano perso la madre e avevano rinnegato il padre, e potevano contare solo l’uno sull’altro, su Trunks e su un uomo dalla dubbia moralità e dall’onore – secondo alcuni parametri – abbastanza discutibile.
Per essere chiari, non provava rancore nei riguardi di Vegeta: le cattive azioni commesse in passato appartenevano a un periodo che non esisteva più, ed era grazie a lui se aveva sconfitto Cell, ma non aveva dimenticato la volta in cui aveva lasciato suo padre indietro a combattere contro i membri della squadra Ginew, né di quando lo aveva pestato a sangue al loro rientro da Namecc. Non aveva dimenticato neppure la strana proposta di alleanza che gli aveva fatto quando ancora cercavano le sfere di Polunga, ma non poteva fare altro, attualmente, se non seguirlo e cercare di non farlo innervosire. Lui non era più il ragazzo che aveva sconfitto Cell e Vegeta non era più il mostro di una volta. Era strano, in parte sembrava inaccettabile, ma era reale. E poi, aveva già vissuto il cambiamento di un’altra persona che in quel momento gli mancava immensamente… Perché con Vegeta sarebbe dovuto essere poi così diverso?
 
“Tsk! Non è che io abbia proprio un piano preciso… So che dobbiamo andare lontano, far perdere a Kaharot le nostre tracce e rimanere nascosti. Penso che sia già un inizio”.
 
Gohan aveva molto apprezzato il fatto che Vegeta non avesse pronunciato le parole tuo padre. Non lo avrebbe sopportato. Non in quel momento, almeno.
 
“Hai qualche idea, ragazzino? Pare che tu sia diventato una specie di piccolo genio, dato che passi tutto il tempo a studiare trascurando completamente gli allenamenti…”.
“Dai, Vegeta… Non dire così!”.
 
Era arrossito. A quanto sembrava, Vegeta sapeva molte più cose su di lui di quanto potesse immaginare. Questa doveva essere tutta opera di sua madre che non faceva altro che vantarsi di lui. O. chissà, poteva anche essere stato Goten. Stava di fatto che era diventato bordeaux. Non era abituato a ricevere simili attenzioni o complimenti da parte di un uomo che non fosse suo nonno, e questo lo aveva momentaneamente destabilizzato.
 
“Tsk!” – si era limitato a sibilare il principe, notando l’imbarazzo del giovanotto seduto accanto a lui.
 
“Vegeta… Pensi che Junior… Sì, ecco… Insomma, pensi che lui possa essere ancora vivo?”.
 
Non sapeva neanche perché avesse tirato fuori l’argomento, ma ormai era tardi per piangere sul latte versato e avere ripensamenti. Aspettava, trepidante, una risposta da parte del principe dei saiyan.
Forse, vivo non era la parola più adatta, considerando che non avevano ancora idea di cosa accadesse a chi, probabilmente, veniva assorbito da suo padre, ma aveva bisogno di un parere altrui. Era orribile, per Gohan, non sapere che fine avesse fatto il suo mentore, il suo migliore amico.
Junior aveva fatto per lui molto più di qualsiasi altra persona al mondo. Sotto alcuni aspetti, aveva fatto molto di più anche di sua madre e di suo padre, se doveva essere sincero. In effetti non era molto difficile capire il punto di vista di suo fratello, ripensando a Junior e a tutto quello che avevano vissuto insieme. Il namecciano lo aveva allenato, allevato e protetto come se fosse stato suo figlio. Gli era stato accanto nei momenti più difficili, soprattutto quelli che erano venuti dopo la morte di suo padre, e non lo aveva mai fatto sentire solo. Gohan aveva avuto modo di vivere parte della sua giovane vita con Goku, a differenza del fratellino che, purtroppo, era stato concepito poco prima della dipartita del genitore, ma questo non era stato un deterrente, sebbene non avesse mai fatto un paragone tra lui e Junior.
Era combattuto. Combattuto perché non avrebbe voluto lasciare indietro suo padre, combattuto perché non voleva lasciare indietro Junior, laddove fosse stato ancora lì, sulla Terra, nascosto chissà dove e spaventato a morte per non essersi reso conto di quello che stava succedendo.
 
“Che ti passa, per la testa, Gohan?”.
 
Vegeta gli aveva posto quella domanda a bruciapelo, guardandolo per un attimo con quei suoi grandi occhi neri e penetranti. Non era stato capace di sopportare quello sguardo a lungo. Sembrava che fosse in grado di leggergli dentro, che sapesse molto più di quanto volesse dare a vedere.
Bulma e Trunks avevano fatto un lavoro immenso, con lui. La loro presenza, il loro amore, avevano reso un assassino umano, forse più umano di molte delle persone che aveva conosciuto fino ad allora, però, nei suoi occhi, aveva letto anche altro, qualcosa di oscuro e indecifrabile, qualcosa che gli aveva fatto accapponare la pelle.
 
“È tutto così assurdo, Vegeta… Non riesco a credere che papà sia stato vittima di una cosa simile… Non riesco proprio a capire che cosa possa essere capitato. Davvero, non riesco a farmene una ragione…”.
“Tsk… Pensavo che avessi capito che a noi saiyan non possono capitare cose normali, Gohan…”.
“Credo che tu abbia ragione, purtroppo… Ma se non capiamo da dove partire, non penso che troveremo una soluzione tanto presto…”.
“Tsk… Come se fosse facile capire da dove è iniziato tutto… Sembra che c’entri qualcosa quel bagliore che abbiamo visto… Anzi, c’entra di sicuro. Ma cosa può averlo generato? Tsk…”.
“Ma tu stai meglio, adesso?”.
“Tsk! Sei preoccupato per me, Gohan? Pensavo che l’unica tua preoccupazione fosse se scegliere tra tuo padre e Junior!”.
 
Era rimasto di sasso, pietrificato, incapace di respirare.
Perché dire una cosa come quella? E perché dirla in modo tanto acido e crudele?
 
“Non è divertente, Vegeta. Ti prego di smetterla”.
“No, Gohan. Non è affatto divertente quando si è costretti a scegliere. Ma bisogna pur schierarsi, non pensi?”.
“Ma che stai dicendo? Schierarsi? A cosa ti stai riferendo? Io non devo scegliere tra Junior e papà! So perfettamente chi è chi. Non pensare il contrario! Anche perché non sai di cosa parli e…”.
“GOHAN! MI STAI ASCOLTANDO O NO?”.
 
Vegeta era seduto accanto a lui, al posto del pilota, intento a mantenere ad alta quota il velivolo. Aveva in viso un’espressione interrogativa, e aveva alzato la voce al punto di attirare anche l’attenzione dei bambini e di Ouji, oltre che quella del diretto interessato che, tra l’altro, sembrava essere caduto dalle nuvole.
 
“GOHAN!” – lo aveva sgridato, cercando di risvegliarlo da quella specie di torpore – “Sei qui con noi?”.
“Io… Io non lo so… Sono così… Mi sento così confuso…
“Fratellone, ti senti bene?” – era intervenuto Goten, preoccupato – “Vuoi sdraiarti? Ti porto dell’acqua? Che dici?”.
“Io… Forse è meglio… Ma prima devo sapere cosa… Sì, di che stavamo parlando?”.
 
Sapeva benissimo di cosa stavano parlando, eppure non era così certo di averne parlato per davvero. Era come se una parte di quella conversazione fosse avvenuta altrove, non su quel velivolo, non con quel Vegeta.
 
“Ti ho chiesto se davvero pensavi che a noi saiyan potessero capitare cose normali, Gohan”.
 
Il maggiore dei figli di Goku aveva iniziato a sudare freddo. Era come se l’ultima parte della loro conversazione non fosse mai avvenuta. Come se Vegeta non avesse mai fatto quella crudele osservazione sui sentimenti che provava per Junior e Goku. Che l’avesse totalmente immaginata?
Eppure, non poteva essere… Lui aveva sentito chiaramente la voce di Vegeta pronunciare quelle parole sprezzanti, aveva vissuto realmente quel momento. O no?
 
“Non ho idea di cosa stia succedendo. Sono un pochino confuso, mi dispiace…”.
“Vieni a sdraiarti, Gohan, dai… Ti ho preparato un futon…”.
 
Trunks non era rimasto con le mani in mano: aveva visto il fratello del suo migliore amico sbiancare e si era immediatamente prodigato per fare in modo che potesse stare meglio. Non aveva intenzione di perdere qualcun altro, e se anche Gohan fosse improvvisamente sparito, questo poteva voler dire che suo padre si era sbagliato, e che non fosse Goku la fonte principale di pericolo e che, di conseguenza, fossero di nuovo al punto di partenza. Certo, se così fosse stato, avrebbero potuto permettere a Goku di trovarli e di proteggerli, però…
 
“Vieni qui, fratellone, dai…”.
 
Gohan non aveva protestato. Era troppo confuso per farlo. Per questo, aveva assecondato i bambini e si era sdraiato, chiudendo gli occhi un attimo dopo nella speranza di fare chiarezza.
 
“Che cosa mi è successo? Non riesco a capire… Non l’ho sognato, ne sono sicuro… Ma che cavolo può essere successo? Io non capisco… Non…”.
 
Aveva chiuso gli occhi un attimo prima di sentire il boato e l’esplosione che li aveva investiti. L’aereo della Capsule Corporation aveva cominciato a tremare come scosso dal terremoto, aveva cominciato a perder quota e ad avvitarsi su se stesso, cadendo con una velocità che non sembrava possibile.
 
“PAPA’! AIUTO!”.
“VEGETA! CHE STA SUCCEDENDO? OUJI! VIENI QUI PICCOLO! AIUTO”.
“DANNAZIONE! CI HANNO COLPITI! CI HANNO COLPITI!”.
 
Vegeta stava cercando disperatamente di mantenere i nervi saldi, ma non aveva idea di come fare per evitare lo schianto. I comandi non rispondevano e non riusciva a prendere quota nonostante lo sforzo. Non riusciva neanche a stabilizzare il velivolo. Aveva solo una certezza: che sarebbero morti lì, per colpa dello schianto. Li aveva salvati da Kaharot e li aveva condotti a una morte altrettanto spaventosa. Il terreno era sempre più vicino.
 
“Dannazione…” – aveva sussurrato appena, iper-ventilando, incapace di staccare le mani dai comandi – “Dannazione”.
 
*
 
Lo schianto era stato spaventoso. L’areo, nell’impatto, si era spezzato a metà, e Vegeta, che si trovava ai posto di comando, aveva subito gravi lesioni.
La cintura gli aveva impedito di sbalzare via, ma gli aveva sicuramente fratturato due costole. I vetri degli oblò erano andati in mille pezzi e un frammento lungo più di venti centimetri gli si era conficcato nella spalla sinistra, mentre altri, più piccoli, gli avevano provocato profondi tagli sul viso e sulle cosce. Aveva anche sbattuto con violenza il collo e la nuca contro la poltrona, e questo gli aveva provocato capogiri e sanguinamento dal naso e dalle orecchie.
Stava male. Male come non era mai stato prima di allora, ma non era a ste stesso che stava pensando.
 
“T-Trunks… Go-Goten… Gohan!”.
 
Era riuscito a togliere la cintura nonostante il dolore e lo stordimento, ma non appena aveva provato a mettersi in piedi era caduto in avanti, cercando riparo con le mani e provocandosi un dolore lancinante alla spalla ferita.
Aveva le lacrime agli occhi. Mai, neanche quando stava per morire, aveva provato sensazioni simili. Non era solo il dolore fisico, era il terrore e la preoccupazione provata verso i ragazzi che lo stavano lacerando.
 
“Dove siete?” – aveva chiesto, con un filo di voce – “Dove siete?”.
 
A fatica, si era rimesso in piedi. La spalla gli doleva immensamente, ma non aveva il coraggio né il tempo di togliere quell’enorme scheggia di vetro: doveva trovare i ragazzi, doveva sapere che stavano bene.
 
Solo dopo un pochino di tempo, quando era riuscito a mettere di nuovo a fuoco quello che aveva attorno, si era reso conto che l’aereo si fosse spezzato a metà. Le sue peggiori paure avevano preso corpo, purtroppo, perché si era reso conto che i ragazzi si trovavano proprio in quel punto, prima che di schiantarsi al suolo.
Di loro non vi era alcuna traccia. Ovunque c’erano detriti, ferraglie accartocciate, e sembrava che ci fosse un principio di incendio nei pressi del serbatoio. Presto, l’aereo sarebbe saltato in aria.
Due erano le opzioni che si potevano palesare: che i ragazzi fossero stati sbalzati fuori, o che fossero sepolti sotto le macerie.
 
“Dove siete? MALEDIZIONE, DOVE SIETE?”.
 
“Cai… Cai… Bau!”.
 
Ouji. Ouji stava mugolando, e non era molto lontano. Forse, quello poteva essere un colpo di fortuna.
 
“Palla di pelo! Dove sei? Dove sei?”.
 
Senza pensarci troppo, aveva cercato di individuare la posizione di Ouji, nonostante il suo richiamo fosse flebile e coperto dai rumori di quel rottame in procinto di autodistruzione.
Aveva dovuto fare ricorso a tutte le sue energie e alla sua concentrazione per evitare di perdere i sensi e di destinare tutti a morte certa.
Poteva anche essere che il cane non fosse vicino ai bambini, ma poteva anche essere che non avesse lasciato il suo adorato padroncino, e sapeva che Goten non si sarebbe separato da Trunks e da Gohan. Vegeta sperava davvero che fosse così perché non c’era più tempo e doveva trovare i ragazzi, doveva trovarli assolutamente.
 
“DOVE SIETE?”.
 
Stava scavando a mani nude tra le macerie. Le lastre di metallo erano roventi e Vegeta si era ustionato i palmi, ma non aveva smesso di cercare suo figlio e i ragazzi neanche per un istante. Non avrebbe permesso che morissero.
 
“Non vi ho portato via da lì per farvi morire in questo modo! Dove cavolo siete finiti? DOVE SIETE?”.
 
Non c’era più tempo: l’odore di benzina era sempre più forte. Sarebbero saltati in aria di lì a poco.
 
Credeva che non ce l’avrebbe più fatta quando, all’improvviso, dopo aver spostato un sedile divelto, aveva finalmente trovato Ouji, e con esso Goten e il piccolo Trunks.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Buon pomeriggio!
Forse, per la prima volta dopo settimane, non sono così in ritardo come al solito. Come potete vedere, non gliene va bene una a sti poveri saiyan.
Mah!
Chi li avrà attaccati? E cosa sarà accaduto a Gohan? Perché aveva sentito Vegeta dirgli quelle cose quando, invece, quel momento non era mai accaduto?
Attendo vostri commenti!
 
A presto!
Un bacino
Cleo
 
 
*Non ho idea se quello degli animali possa definirsi Ki. Ho lo stesso dubbio del principe. XD

 

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Capitolo 31
*** Nessuno resti indietro ***


Nessuno resti indietro
 
Un attimo di esitazione, e di loro non sarebbe rimasto più nulla.
Un attimo di esitazione, e né suo figlio, né i figli del decerebrato sarebbero usciti vivi dall’esplosione del mezzo che avrebbe dovuto condurli in salvo.
Era stato Vegeta a estrarli dal velivolo, scavando a mani nude tra le lamiere, ma se non fosse stato per il piccolo Ouji (sì, se non fosse stato per quella palla di pelo petulante), nessuno dei ragazzi sarebbe sopravvissuto.
Il principe dei saiyan, nonostante fosse ferito ed esausto, aveva condotto i tre sventurati a riparo dalla violenta esplosione che aveva spazzato via non solo i resti del velivolo della Capsule Corporation, ma gran parte della vegetazione che vi era tutt’intorno.
Non aveva idea di come avesse fatto a trovare le energie per trasportare i ragazzi lontano da lì, ma c’era riuscito.
Ignorando il dolore lancinante causatogli dal frammento di vetro conficcato nella carne viva della sua spalla, aveva trovato per primi Goten e Trunks.
I piccoli erano ricoperti di escoriazioni e bruciature, ma nessun frammento sembrava essere penetrato nei loro corpicini. Non aveva avuto il tempo di constatare se avessero riportato fratture di qualche tipo, e non aveva avuto neppure il tempo di scuoterli nella speranza di vederli camminare sulle proprie gambe.
Spinto dalla forza di volontà dimostrata dal temerario Ouji – che continuava a strattonare Goten con i suoi dentini nella speranza di spostarlo da quel luogo tanto pericoloso – aveva preso tra le braccia entrambi i ragazzi, incurante della scarica violenta di dolore provata nel sollevarli. Non aveva scelto il modo più comodo o più sicuro per trasportarli – i bambini penzolavano a testa in giù sotto le sue braccia, neanche fossero stati due angurie mature con il picciolo ancora attaccato – ma di sicuro era stato il più veloce.
Vegeta avanzava alla cieca, guidato dall’istinto di sopravvivenza: in natura, il compito di salvare i cuccioli di leone spettava alle leonesse, ma non c’erano madri, lì. C’era solo lui, ferito, spaventato, ma desideroso di trarre in salvo chi lo amava incondizionatamente e chissà per quale motivo.
Li aveva lasciati sotto un albero, nascosti nei pressi di una felce, sperando che le verdi e tenere fronde potessero celare la loro presenza al nemico, ed era tornato indietro, perché nessuno di loro – proprio nessuno – sarebbe rimasto indietro.
Si era accorto della presenza di Gohan solo dopo aver sollevato i bambini da terra. Il maggiore dei fratelli Son era stato letteralmente schiacciato dal peso di Trunks e Goten e dalle macerie che li avevano sovrastati fino a qualche minuto prima. Aveva una profonda ferita alla tempia che continuava a sanguinare, ma Vegeta era stato in grado di rendersi conto dell’entità del danno solo quando era tornato indietro, dopo aver sperato invano che riaprisse gli occhi e si mettesse in piedi sulle proprie gambe.
 
“Tsk! Ci mancava solo questa, dannazione!”.
 
Avrebbe quasi riso di gusto se la situazione non fosse stata così grave. Il piede destro di Gohan era bloccato da una lamiera troppo pesante affinché Vegeta potesse spostarla a mani nude. Aveva provato e riprovato, caricando il peso sulle gambe e ignorando il dolore alla spalla, ma era stato tutto inutile: era diventato viola, in viso, a causa dello sforzo, e la pressione che aveva sentito sui timpani aveva contribuito a peggiorare i capogiri avvertiti in precedenza.
 
“CAZZO GOHAN! DEVI SVEGLIARTI! MI DEVI AIUTARE!”.
 
Imprecare e incitare il ragazzo era stato del tutto inutile, e le fiamme erano sempre più vicine a ciò che rimaneva del serbatoio di benzina. Presto, sarebbero saltati in aria. Aveva già sperimentato la morte, una morte lenta e dolorosa, e sperava che quella seconda morte sarebbe stata diversa. Sperava di non accorgersi nemmeno di essere passato a miglior vita, di chiudere gli occhi, riaprirli e trovarsi al cospetto di re Yammer, che con il suo vocione, perfettamente concorde alla sua stazza, gli avrebbe detto di averlo – ovviamente –  destinato al Regno degli Inferi.
 
“Tsk! Dannazione…”.
 
Sarebbe potuto andare via.
Avrebbe potuto lasciare lì Gohan e tornare dai bambini. Aveva tutto il diritto di farlo. Quel moccioso non significava niente per lui, del resto.
Non avevano mai trascorso molto tempo insieme e, proprio come suo padre, aveva osato superare il suo principe. Durante lo scontro con Cell lo aveva umiliato, quindi perché avrebbe dovuto salvarlo?
Nel momento in cui Goten gli avesse chiesto di lui, gli avrebbe raccontato che non lo aveva trovato nei pressi dell’aereo. Come avrebbe mai potuto scoprire il contrario? Come avrebbe mai fatto a sapere che lo aveva lasciato lì, svenuto, incastrato tra le lamiere di quel rottame schifoso, ed era scappato con la coda tra le gambe per mettersi in salvo?
Già… Come?
Erano queste le cose a cui stava pensando mentre, non sapeva neanche lui come e perché, stava usando una sbarra di metallo come leva per sollevare la lamiera dal piede di Gohan. Non si era reso conto di quello che aveva fatto finché non aveva sentito i muscoli scoppiare a causa dello sforzo, fino a che non aveva visto la lamiera spostarsi di lato e il piede di Gohan mostrarsi alla luce del sole.
Quello che aveva fatto in seguito, lo aveva fatto realmente con le ultime forze rimaste. Non sapeva più da dove attingere energia, ed era certo che presto sarebbe crollato.
Prima, però, avrebbe condotto in salvo anche Gohan, quel Gohan che, per seguirlo, aveva praticamente rinnegato suo padre.
Con uno sforzo disumano, aveva afferrato il ragazzo per il colletto della maglia ridotta a brandelli e lo aveva trascinato. Sapeva che lo avrebbe ferito sulla schiena, sapeva che così facendo avrebbe impiegato il doppio del tempo, ma non poteva fare altro. Non sarebbe stato in grado di prenderlo tra le braccia come aveva fatto con i bambini.
Doveva portarlo via da lì, e subito. Per questo aveva preso un respiro profondo, incurante del fumo che gli attanagliava la gola e gli faceva lacrimare gli occhi, e aveva iniziato a tirare. Ma, prima di andare via da lì, lo sguardo di Vegeta era caduto su qualcosa che si trovava accanto al ragazzo: lo zainetto di Trunks era sopravvissuto a quel cataclisma e se ne stava lì, intatto, in attesa che qualcuno lo recuperasse.
A quanto sembrava, questo qualcuno doveva proprio essere Vegeta.
 
*
 
Si era svegliato perché qualcuno lo stava chiamando.
Aveva sentito una voce lontana, come un suono ovattato, ma aveva riconosciuto chiaramente la voce dei bambini, i primi che aveva visto dopo aver aperto gli occhi.
 
“PA’… Stai bene?” – Trunks aveva la voce rotta dal pianto. Il piccolo Brief aveva il visino sporco di grasso, fuliggine e sangue, aveva i capelli tutti arruffati e il cuore in gola a causa dell’emozione e dello spavento, ma in quei grandi occhi blu si poteva leggere il sollievo di un bambino che aveva appena ritrovato suo padre.
 
Vegeta non aveva risposto immediatamente. Era stordito, confuso, aveva l’impressione di non essere del tutto presente a se stesso, e aveva avuto bisogno di qualche istante per riordinare i pensieri e ritrovare la coordinazione fisica.
Di certo, una cosa che non era sfuggita al suo risveglio – e come avrebbe potuto farlo – era stato il pezzo di vetro che ancora era conficcato nella sua spalla. La cosa che lo aveva turbato maggiormente era stata questa: egli credeva di aver raggiunto il livello massimo di sopportazione del dolore, invece si era reso conto di non sentire quasi più niente, questo perché la sensibilità dell’intero arto stava venendo meno.
 
“Papà, stai attento, ti prego… Non fare gesti buschi… Ti aiuto ad alzarti, dai…”.
 
Doveva aver perso i sensi dopo aver tratto Gohan in salvo. Era caduto faccia in giù, e doveva essere caduto nel fango, considerando che sentiva una cosa fredda e vischiosa sul viso e sul collo.
 
“Go-Gohan… Dov’è?” – aveva chiesto, mettendosi seduto a fatica mentre il figlio cercava in qualche modo di sorreggerlo. Stava pensando a Gohan per cercare di non pensare alla vergogna che quel gesto comportava: lui, il principe dei saiyan, che si faceva aiutare da un bambino. Ma anche quello che stava facendo era assurdo: lui, il principe dei saiyan, che si preoccupava per il primogenito della sua nemesi.
“È con Goten… Ha un brutto taglio in fronte e un piede un pochino ammaccato, ma credo che stia bene…”.
 
Almeno, quell’atto di pura incoscienza che aveva compiuto era servito a qualcosa.
 
“Aa-ah... Mmm…”.
 
Aveva cercato di trattenere gemiti e lamenti, ma mettersi seduto con le spalle contro il possente tronco dell’abete vicino a cui era svenuto era stato troppo. Trunks era in preda al panico, e lo stesso valeva per Goten.
 
Se Vegeta aveva ripreso i sensi, lo stesso non si poteva dire del maggiore dei figli di Goku, che se ne stava svenuto, con accanto il fratellino intento a vegliarlo e a prendersi cura di lui.
Goten aveva gli occhi lucidi e tremava dalla paura e dall’ansia. Era uscito miracolosamente illeso dall’incidente aereo proprio come Trunks, e non riusciva a spiegarsene la ragione. Vedere Gohan e Vegeta in quello stato era stato a dir poco spaventoso, più spaventoso del pensiero della morte in sé.
Non avevano più niente, lì con loro: non avevano vestiti, cibo, medicine. Non avevano niente all’infuori di quello che indossavano. Come avrebbero mai potuto estrarre il vetro dalla spalla di Vegeta senza lasciarlo morire dissanguato?
Come avrebbero fatto a far rinvenire Gohan e a stabilizzarlo? Non avevano neanche più un mezzo di trasporto e non erano in grado di volare.
Sarebbero morti lì, in quel bosco, nel tentativo di scappare da Goku? Già, Goku. Se non fosse mai tornato, niente di tutto quello che avevano subito sarebbe capitato.
Se Goku non fosse tornato sulla Terra, non ci sarebbe mai stata l’esplosione, sua madre e Bulma non sarebbero mai scomparse, i loro poteri non sarebbero spariti nel nulla e non sarebbero stati costretti a fuggire come pecore spaventate dai lupi.
Era tutta colpa sua. Era solo colpa sua, e Goten, per la prima volta nella vita, credeva di aver capito per davvero cosa significasse provare il sentimento chiamato odio.
 
“Come sta?” – gli aveva chiesto Trunks, allarmato.
“Male… Molto male…”.
 
Ouji se ne stava lì, incerto sul da farsi. Il piccolo era confuso, non sapeva da quale coppia dirigersi. Era come se stesse cercando una spiegazione a quanto gli era capitato, come se stesse cercando di risolvere almeno quel tassello dello strano e incomprensibile puzzle di cui erano diventati i pezzi.
 
“Ouji… Vieni qui, piccolo, dai…”.
 
Goten non si era dimenticato del suo amico, e Ouji non se l’era fatto ripetere due volte. Con passo deciso aveva raggiunto il suo padroncino, scodinzolando con gioia. Lui lo aveva accarezzato dietro le orecchie, contento di vedere che almeno lui – oltre a Trunks – non aveva riportato alcuna ferita.
 
“Ma che cosa è successo?”.
“Ci hanno… Ci hanno colpiti” – aveva biascicato Vegeta, mandando giù un denso grumo di sangue – “Qualcuno ci ha colpiti…”.
“Papà, non ti affaticare, ti prego…”.
“Ma perché? Chi può essere stato?”.
“Non ne ho idea, Goten… Tsk! Maledizione… Dovete togliermi questo affare!”.
“Papà, non se ne parla!”.
“Vegeta, non possiamo farlo… Non siamo in grado e non possiamo ricucirti la ferita, e…”.
“CHIUDETE IL BECCO E FATE COME VI DICO”.
 
Non avrebbe voluto alzare la voce, un po’ perché non voleva sgridarli, un po’ perché, facendolo, aveva consumato più energia del dovuto. Sapeva benissimo quello che avrebbe passato, lo sapeva eccome. Sperava solo di riuscire a non perdere i sensi. Non poteva lasciare i bambini da soli, considerando che Gohan non era ancora rinvenuto. Se avesse avuto un trauma cranico, se fosse entrato in coma, come avrebbero potuto soccorrerlo? Come avrebbero potuto aiutarlo? Avrebbe dovuto pensarci lui. Di nuovo. E questa cosa lo mandava in bestia.
 
“Ragazzino, cerca di non farmi scherzi…”.
 
“Forza, Trunks… Non abbiamo tutto il giorno…”.
“Papà… Non lo posso fare…”.
“Tsk! Sbrigati”.
“Non costringermi… Ti prego…”.
“Non abbiamo tempo da perdere… Non ho intenzione di perdere l’uso del braccio”.
“Non ne ho il coraggio, papà… Davvero, credimi…”.
 
Vegeta non aveva risposto. Avrebbe voluto sgridare suo figlio, dirgli che lo aveva tremendamente deluso, ma non ne aveva né la forza, né la voglia.
 
“Tsk! Benissimo. Fatti da parte”.
“Che-che vuoi fare?”.
 
Non gli aveva dato il tempo di porre seriamente la domanda: Vegeta aveva strappato un lembo della maglia che aveva addosso, lo aveva avvolto attorno alla lastra di vetro e aveva tirato con forza, urlando dal dolore e dalla disperazione.
 
“Che hai fatto?!”.
“Oddende!”.
 
Aveva lasciato cadere il vetro sul terreno e aveva cercato di tamponare la ferita con l’atra mano, inutilmente: il vetro non faceva più da “tappo” e il sangue, passando tra la dita, si era accumulato sul jeans, creando una pozza scura e appiccicosa.
 
“Sei impazzito?”.
 
Trunks si era gettato sul padre, premendo sulla ferita con entrambe le mani, poggiandole su quella grande e callosa di suo padre. Il suo sangue era denso, caldo,e scendeva copioso come se fosse stato l’acqua di una cascata. Era spaventoso.
 
“Non avresti dovuto farlo!”.
“Premi forte… Tsk! Premi…”.
 
Era diventato ancora più pallido e aveva lasciato cadere la mano in grembo e la testa di lato, come se avesse perso i sensi.
 
“Papà, non farmi qualche scherzo stupido! Apri gli occhi!”.
“Vegeta! Resta qui con noi! Non svenire!”.
 
Goten aveva le lacrime agli occhi. Non poteva soccorrere Vegeta, non poteva abbandonare Gohan, non poteva fare niente, NIENTE.
Era in preda al panico. Vedeva il sangue sgorgare a fiotti dalla spalla dell’uomo che lo aveva cresciuto, vedeva il suo colorito spegnersi, il suo respiro diventare sempre più affannoso e non poteva fare niente.
 
“Dobbiamo cercare aiuto!” – aveva urlato Trunks – “Goten, ti prego, vai a cercare aiuto!”.
“Non posso lasciare Gohan da solo!”.
“Papà sta morendo dissanguato, Goten! Ti prego! Non possiamo lasciarlo morire!”.
“Sì, lo so, ma… Come faccio?”.
“Ti prego… Se non vuoi andare tu, vieni qui e tieni premuto! Ma fai in fretta! Non c’è rimasto molto tempo!”.
 
Aveva agito senza pensare, scattando in piedi e mettendosi a correre all’impazzata, urlando disperatamente alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarli.
Chi li aveva abbattuti avrebbe potuto scovarli e finire il lavoro che aveva iniziato, era vero, ma magari, capendo che non erano una minaccia, avrebbe potuto persino decidere di soccorrerli. O, in alternativa, avrebbe potuto incontrare in quel posto sperduto qualcuno disposto ad aiutarli. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvarli, qualsiasi. Vegeta e Gohan dovevano essere aiutati, e subito.
Doveva solo sperare in un colpo di fortuna.
 
Continua…


Ciao a tutti!
Penso che, ormai, sia anche diventato inutile scusarmi per questi continui ritardi. Certo è che avete una pazienza infinita!
Spero che questo capitolo – di passaggio – vi sia piaciuto.
Le disavventure di “Ouji” e dei quattro saiyan non si smentiscono mai. Avrei apprezzato un pochino di coraggio in più nel piccolo Trunks, ma posso capire perché abbia deciso di non eseguire gli ordini del padre. Povero, povero Vegeta… Prima o poi mi troverà e mi punirà.
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 32
*** Stringimi forte ***


Stringimi forte
 
Aveva corso veloce come il vento.
Aveva corso tanto, in fretta, sempre più in fretta.
Aveva corso sino a rimanere senza fiato.
Aveva corso perché le persone che amava avevano disperatamente bisogno di aiuto.
Goten non aveva idea di dove si stesse dirigendo. Le sue gambette di bambino tremavano per la fatica. Erano diventate pesanti e dolenti, ma questo non gli aveva impedito di andare avanti e tentare di portare a termine quello che si era prefissato, quello che per Vegeta e Gohan avrebbe potuto rappresentare la salvezza.
 
“AIUTO!”.
 
Urlava disperatamente nel bel mezzo del bosco.
 
“PER FAVORE! QUALCUNO CI AIUTI! AIUTO!”.
 
Era convinto che, se avesse insistito, prima o poi avrebbe incontrato qualcuno anche in quel bosco popolato da animali e piante.
Lui stesso viveva con la sua famiglia sulle montagne, perché non avrebbe dovuto trovare qualcuno che aveva deciso di trascorrere la propria vita in santa pace nel bel mezzo della natura?
Si rifiutava di credere che sarebbero stati tanto sfortunati.
Di nuovo.
 
“PER FAVORE! AIUTO!”.
 
Correre e chiedere aiuto a squarciagola si era rivelato più complesso del previsto. Se avesse mantenuto le sue abilità avrebbe sorvolato il cielo con Vegeta e Gohan in groppa pur di trovare riparo e qualcuno che potesse curare le loro ferite.
Se avesse avuto ancora i suoi poteri, avrebbe raggiunto il famoso obelisco di Balzar e avrebbe chiesto al fantomatico gatto di cui parlava Gohan di consegnarli i suoi fagioli speciali, quelli in grado di curare ogni genere di ferita.
 
“Sì, se solo potessi ancora volare, andrei a prendere i fagioli e…”.
“Ma… Ma… ODDENDE!”,
 
Era stato assalito dal panico a tal punto da non essersi reso conto che, molto probabilmente, avevano la soluzione a portata di mano e non erano stati in grado di vederla.
 
“Che idiota! SONO UN PERFETTO IDIOTA!”.
 
Aveva riso e pianto contemporaneamente, Goten. Aveva riso perché, alla fine, era riuscito a far funzionare il cervello, e aveva pianto perché se lo avesse fatto prima, forse la sua famiglia avrebbe sofferto di meno e per meno tempo.
 
“Era lì, sotto i nostri occhi e non lo abbiamo visto! Era proprio accanto a Vegeta e non me ne sono accorto! Oh Dende! Ti prego, ovunque tu sia, fai che non sia troppo tardi!”.
 
Sì, Goten aveva ragione: quello che probabilmente avrebbe potuto aiutarli era sempre stato a un passo da loro, ma non se n’erano accorti a causa della disperazione in cui erano piombati, la stessa che non aveva permesso a Trunks di mantenere il sangue freddo necessario ad aiutare suo padre.
Eppure era lì, lo zainetto di Trunks, era proprio lì, per terra, ed era quasi certo che Gohan, prima di partire, avesse chiesto al suo amico di prendere tutto quello che aveva trovato nell’armadietto dei farmaci di Bulma, compreso un sacchetto di pelle chiaro chiuso da un laccio nero, un sacchetto che all’interno sembrava contenere piccoli oggettino oblunghi e ricurvi.
Goten non aveva la certezza che lì ci fossero i fagioli magici, ma poteva anche darsi che ci fossero!
 
“Devo tornare indietro! Non mi sono allontanato molto, per fortuna, e Trunks potrebbe non aver visto lo zaino. Oh, Dende, ti prego, fa che torni indietro in fretta! Ti prego, ti…”.
 
Si era fermato di colpo, confuso. Era certo di essere passato di lì un paio di minuti prima. D’accordo, i suoi sensi non erano più quelli di un tempo, ma non aveva dubbi sull’integrità del suo senso dell’orientamento.
 
“Sono già passato da qui…” – aveva sussurrato, ansimando per lo sforzo della corsa – “Ne sono sicuro… Riconosco quell’albero… Sono passato da qui pochi minuti fa…”.
 
Sentiva l’ansia montare. Sentiva altra ansia montare. Come se quella provata in precedenza non fosse sufficiente.
 
“Devo stare calmo… Avanti, Goten, stai calmo… Sei perfettamente capace di tornare indietro… Adesso calmati e vedrai che li troverai… Sono qui, sono vicini… Coraggio”.
 
Aveva cercato prendere fiato e tranquillizzare i nervi, perché sapeva che se si fosse abbandonato al panico non sarebbe mai stato capace di tornare indietro.
 
Aveva riconosciuto dei particolari di quel posto: il sasso a due punte coperto di muschio era unico nel suo genere, non poteva essere che ne esistesse un altro uguale nei paraggi. Ma, se era già passato da lì e se lo aveva visto anche adesso che stava tornando indietro, perché aveva avuto l’impressione di aver girato in tondo? Perché aveva avuto l’impressione di essersi perso?
 
“Basta, Goten. Vai avanti, Muoviti!”.
 
Era certo che se ci fosse stato Vegeta gli avrebbe detto qualcosa di molto simile. E lui, allora, si era mosso, lasciando che un piede andasse davanti all’altro con ritmo sempre più frenetico, fino a portarlo a correre a una velocità maggiore di quella raggiunta in precedenza.
 
“Devo raggiungerli. Devo raggiungerli assolutamente! Sono certo che quelli nel sacchetto siano i fagioli! Non posso lasciare che muoiano perché non sono stato capace di tornare indietro, non posso!”.
 
Correva a un ritmo sempre più forsennato, ed era certo di aver individuato la direzione da cui era venuto, ma più andava avanti meno aveva la sensazione di avvicinarsi alla meta.
Aveva rivisto il sasso a due punte altre tre volte. Con quelle di prima facevano cinque. Era passato da lì ben cinque volte. Cinque. Stava realmente girando in tondo.
 
“Ma che succede? Non capisco… Io non capisco… Perché non riesco a tornare indietro? Perché? TRUNKS! TRUUUUUNKSSSS!!!!”.
 
Aveva portato entrambe le mani alla bocca e aveva urlato a squarciagola il nome del suo migliore amico. Se Trunks lo avesse udito, se lo avesse sentito, avrebbe risposto alla sua chiamata e lui sarebbe stato in grado di individuarlo e tornare indietro.
Ma la sua voce non sembrava aver raggiunto Trunks, né nessuno nei paraggi.
 
“Possibile che tu non mi senta?” – aveva sussurrato, cercando di ricacciare indietro le lacrime? – “Possibile?”.
 
Stanco e spaventato, si era lasciato cadere sull’erba, in ginocchio, in preda ai singhiozzi. Aveva fallito su tutta la linea. Aveva fallito e non aveva idea di come fare per non morire di crepacuore.
 
*
 
Per un istante, Trunks aveva avuto l’impressione che qualcuno lo stesse chiamando per nome. E, forse, ci aveva pure sperato, data la situazione terribile e spaventosa in cui si trovava. Se Goten non avesse immediatamente trovato qualcuno disposto a soccorrerli, suo padre sarebbe morto e Gohan, probabilmente, non sarebbe più uscito dal coma. Avrebbe voluto imprecare a piena voce come facevano i grandi, ma era sicuro che suo padre lo avrebbe sentito anche in quella circostanza e lo avrebbe sgridato a pieni polmoni, una volta guarito, e non ci teneva proprio a ricevere una ramanzina da Vegeta. O forse sì, ci teneva immensamente, perché avrebbe significato che era vivo e stava bene, che gli sarebbe stato accanto e lo avrebbe protetto e guidato come solo lui sapeva fare.
 
“Andiamo papà… Non puoi lasciarmi in questo modo… Non puoi…”.
 
Vegeta era sempre più pallido. Per quanto Trunks stesse fingendo che le cose fossero diverse, si era reso conto immediatamente che il colorito di suo padre stava cambiando a una velocità proporzionale alla fuoriuscita di sangue dalla ferita. Erano stati inutili i tentativi di fare pressione su quello squarcio grondante: il sangue continuava a sgorgare copiosamente, e se Goten non avesse trovato aiuto al più presto, di lì a poco sarebbe morto.
 
“Deve esserci un modo più rapido… Deve esserci per forza! Nonni… Mamma… Se mi sentite… Che fareste voi? Come aiutereste papà?”.
 
Aveva gli occhi velati dalle lacrime al punto da non riuscire più a distinguere nettamente i contorni di chi aveva davanti. Il bosco, Gohan, suo padre, erano una massa di colori indefiniti. Però, per quanto le cose non fossero più nitide, Trunks non aveva potuto fare a meno di notare che sul prato, accanto a loro, proprio non poteva esserci una macchia blu così netta rispetto al verde dell’erba, e aveva scosso il capo con violenza, cercando così di rimuovere le gocce salate che gli riempivano gli occhi e di dare a questi ultimi un po’ di sollievo dallo sforzo del pianto.
 
“Il mio-il mio zaino! Quello è il mio zaino!”.
 
Trunks aspettava che giungesse un colpo di fortuna? Bene, forse, per la prima volta da quando tutta quella storia aveva avuto inizio, la dea bendata aveva deciso di accorrere in suo soccorso, perché di sicuro aveva preso una bella botta in testa durante la caduta dell’aereo, ma quello era certamente il suo zaino, e ricordava benissimo del sacchetto di velluto che vi si trovava all’interno. Come e perché si trovasse lì non lo sapeva, ma sapeva che, se il sacchetto misterioso avesse contenuto quello che sperava, suo padre e Gohan sarebbero guariti in meno di un minuto.
 
“Che cavolo faccio? Se tolgo la mano dalla ferita, papà si dissanguerà ancora più in fretta, ma se non lo faccio… Uff… Spero solo che quegli stupidi fagioli siano lì dentro!”.
 
Aveva agito senza neanche rendersene conto, ed era stato molto più rapido di quanto gli fosse sembrato. Si era praticamente gettato con un balzo sgraziato sullo zaino, insozzandolo di sangue con le piccole manine imbrattate e stringendolo con forza per un secondo prima di aprire, tremante, la zip.
Nello stesso istante in cui lo aveva fatto, la ferita di suo padre aveva cominciato a sanguinare con maggior vigore. Non c’era più tempo: o trovava i fagioli, o aveva appena condannato suo padre a morte.
 
“PORCA MISERIA! STUPIDO SACCHETTO, DOVE SEI? DOVE SE-TROVATO!!”.
 
Nel sentire il morbido velluto sotto le dita aveva urlato di gioia: non si era sbagliato, il sacchetto era lì, e a giudicare dalla sensazione percepita, c’erano dei piccoli corpicini ricurvi all’interno.
 
“Fa'' che siano loro, fa che siano loro…” – continuava a ripetere come un mantra mentre slacciava con rapidità il laccio ben stretto – “Fa' che… Sì!!! Sì, sì, sì!”.
 
Aveva strofinato forte la mano destra sulla maglia prima di infilare le dita nel sacchetto ed estrarre quello che aveva visto: i leggendari fagioli di Balzar. Erano quattro, quattro piccoli fagioli dall’aspetto comunissimo ma, a quanto ne sapeva, dalle doti curative imparagonabili. Temeva che il sangue potesse annullarne gli effetti, ma non era riuscito a rimuoverlo tutto per quanto ci avesse provato in ogni modo, e poi non c’era più tempo: suo padre stava per esalare il suo ultimo respiro.
 
Senza esitare ulteriormente aveva gattonato fino a raggiungerlo e aveva estratto un prezioso fagiolo dal sacchetto, avvicinandolo alle labbra di suo padre. A quel punto, però, un dubbio atroce lo aveva assalito: Vegeta non era in grado di ingoiare perché aveva perso i sensi, come avrebbe fatto a fargli mangiare il fagiolo?
 
“Ma porca… Papà! Papà, svegliati! Non c’è più tempo! PAPÀ, APRI GLI OCCHI, E CHE CAZZO!”.
 
Esasperato, sull’orlo di una crisi di pianto, aveva aperto di forza la bocca del padre e vi aveva cacciato dentro il fagiolo a forza, spingendolo fino alla gola e massaggiandola nel tentativo di far scendere giù quel maledetto coso magico.
 
“Ecco! Dai, papà, mandalo giù! MANDALO GIÙ!”.
 
La fortuna continuava a girare dalla sua padre perché nello zaino aveva trovato anche una borraccia con dell’acqua, e non aveva esitato a svuotarne quasi metà nella gola secca e incrostata di sangue del principe dei saiyan che, sentendosi strozzare, aveva aperto gli occhi sgranandoli sino all’inverosimile, tossendo e deglutendo in sequenza.
 
“Sì!”.
“Coff! Coff! TSK! Ma ti sei bevuto il cervello? SEI-SEI IMPAZZITO?”.
 
I fagioli erano davvero magici, e Trunks non aveva potuto fare a meno di osservare a bocca aperta lo spettacolo delle ferite che si richiudevano senza alcuna fatica lasciando come segno della loro presenza non una cicatrice, perché neanche quella era presente, ma gli abiti laceri e sporchi di sangue.
 
“Sei guarito!” – aveva urlato, stavolta piangendo dalla gioia – “Sei guarito per davvero!”.
 
Aveva agito senza pensare: preso dall’euforia del momento, si era letteralmente gettato tra le braccia di suo padre, affondando il viso nel suo petto e stringendogli la vita con tutta l’attuale forza di cui disponeva.
Piangeva, Trunks. Piangeva dalla gioia, per il sollievo, per il colpo di fortuna che aveva avuto. Piangeva e si stringeva sempre più al petto del padre che, immobile, quasi fosse diventato di pietra, osservava con occhi sbarrati quella dimostrazione di affetto così improvvisa e spontanea.
Prima di allora, suo figlio non lo aveva mai abbracciato o viceversa. Mai. E Vegeta aveva scoperto che non aveva la più pallida idea di cosa fare, e di certo sarebbe morto di vergogna se avesse visto le sue guance imporporarsi all’improvviso.
Eppure, senza che se ne rendesse conto, l’istinto paterno stava conducendo la sua mano destra verso il capo del figlio, in un gesto di puro affetto e di tenerezza, ma Trunks, resosi conto d’un tratto di quello che aveva fatto, si era spostato di colpo neanche si fosse scottato contro una piastra arroventata, facendo un balzo all’indietro e osservando suo padre con profonda vergogna.
La mano di Vegeta era rimasta a mezz’aria, e la delusione per la carezza mancata si era dipinta sul suo viso. Purtroppo, però, Trunks aveva male interpretato quell’espressione, dandosi dello stupido e dell’ingenuo.
 
“Mi dispiace…” – aveva balbettato – “Io…”.
“Tua madre si sarebbe inviperita nell’averti sentito dire parolacce del genere” – aveva tuonato Vegeta, rimettendosi in piedi – “Prendi un fagiolo, dallo al fratello del tuo amico e non ripeterle mai più”.
 
*
 
Gohan aveva aperto gli occhi poco dopo. Vegeta aveva fatto capire a suo figlio che non c’era bisogno di ficcare con la forza il fagiolo nella gola di qualcuno, ma che bastava spremerne il contenuto all’interno, evitando così spiacevoli e dolorose morti per soffocamento da corpo estraneo.
Il maggiore dei fratelli Son stava bene, era lucido e arzillo, anche se ancora un pochino scosso e preoccupato per l’accaduto. E poi, che fine aveva fatto Goten?
 
“Hai ragione! GOTEN!”.
 
Trunks si era portato una mano alla fronte, dandosi dello stupido per essersi completamente dimenticato di lui e per averlo mandato da solo in una missione suicida.
 
“Lui cosa ha fatto?” – aveva tuonato Vegeta, furioso – “TSK! VI AVEVO DETTO DI NON SEPARARVI! Trunks, mi meraviglio di te!”.
“Hai ragione, papà… Hai perfettamente ragione, ma pensavamo che sareste morti e…”.
“Non fa alcuna differenza, dovevate restare insieme! Tsk! Dove si sarà cacciato? Spero che non abbia preso da quell’imbecille di suo padre o…”.
“GOTEEEEN! GOTEN! DOVE SEI? VIENI FUORI!”.
 
Gohan non aveva partecipato al battibecco e aveva cominciato a chiamare il fratellino a gran voce, sperando di ritrovarlo al più presto.
 
“Non può essere andato molto lontano… Che gli sarà successo? GOTEN! GOTEN!”.
 
Trunks si sentiva tremendamente in colpa. Aveva ragione suo padre, non avrebbero dovuto separarsi per nessuna ragione al mondo. Era stato uno stupido, un ingenuo, e forse per causa sua era accaduto qualcosa di terribile al suo migliore amico. Come aveva potuto essere talmente sciocco?
 
“GOTEN!”.
 
Ancora una volta, proprio come qualche ore prima, era stato Ouji a comparire all’improvviso, abbaiando e latrando a gran voce.
 
“OUJI! Ouji! Piccolo… Cos’hai? Sai dov’è Goten? Eh? Portaci da lui! FORZA!”.
 
Vegeta non riteneva possibile che il cane capisse le parole di Gohan, ma aveva dovuto ricredersi perché aveva messo un pochino di distanza tra loro e poi si era voltato, abbaiando nervoso verso i presenti come se li stesse sgridando per aver continuato a esitare invece di seguirlo.
 
“Andiamo! Ci porterà da Goten!”.
 
Nonostante la cosa continuasse a sembrargli assurda, Vegeta non aveva protestato e aveva seguito Ouji, Gohan e Trunks, scoprendo che il secondo aveva ragione: Goten si trovava a un centinaio di metri da loro.
 
“Eccolo! Meno male! Goten, siamo qui! Aspettaci!”.
 
Il piccolo saiyan mezzo sangue doveva aver pianto a dirotto. Era sconvolto, e in un primo momento sembrava che non li avesse sentiti. Vagava in tondo nella radura lì accanto, sperduto e solo, in attesa che qualcuno lo trovasse. Nell’udire la voce del fratello si era girato di scatto, speranzoso e felice di essere stato ritrovato.
 
“GOHAN! OH, GOHAN! STAI BENE! Sono così contento di vederti!”.
 
Era veramente felice, così felice da essersi messo a correre nella sua direzione. Stava bene, stava benissimo. Forse Trunks aveva trovato i fagioli e lo aveva guarito! Allora voleva dire che anche Vegeta stava bene! Infatti eccolo lì, il principe dei saiyan, in forma smagliante e bello come il sole! Eccolo lì, l’adulto maschio che venerava quasi come un dio. Era lì, con Trunks e Gohan e Ouji. Stavano tutti bene, e lui era uscito da quell’incubo. Finalmente, aveva abbracciato chi lo amava e… E…
 
Non aveva idea di come fosse capitato, ma improvvisamente, Goten e Gohan avevano sentito la terra cedere sotto i loro piedi e la forza di gravità trascinarli verso il basso, nelle profondità di una gola buia e fredda, dove gli unici suoni presenti erano quelli delle loro voci terrorizzate e dell’acqua. Tanta, tantissima acqua che scorreva impetuosa sotto di loro.
 
“GOHAN! GOTEN!”.
“Stai indietro, Trunks!”.
 
Vegeta era riuscito ad afferrare suo figlio prima che cadesse nella voragine a sua volta. Stavolta era stato lui a stringerlo al petto con ferocia, incapace di comprendere quello che stava accadendo sotto i loro occhi.
Ouji abbaiava disperatamente puntando pericolosamente il muso verso il basso: se avesse continuato, presto sarebbe precipitato anche lui in quel buco maledetto.
 
“VIENI QUI, STUPIDO CANE! OUJI, SMETTILA E VIENI QUI! Trunks, presto! Dobbiamo andare!”.
“Ma dove papà? Non possiamo lasciarli… Noi non…”.
“Sono caduti nel fiume, non la senti l’acqua? Sono sicuro di aver visto un torrente più avanti sbucare da una grotta. Dobbiamo correre. ADESSO! E fai in modo che quel cane ti ubbidisca o giuro che lo butto di sotto!”.
 
In men che non si dica, padre, figlio e un cagnolino riluttante stavano correndo a perdifiato verso il luogo che aveva visto Vegeta. Il principe dei saiyan non riusciva a credere che potessero essere allo stesso tempo così sfortunati e fortunati. Che razza di maledizione gravava su di loro? Poteva capire che lo stessero punendo per le sue malefatte passate, ma che c’entravano i ragazzi? Gli dei gli dovevano più di una spiegazione, e aveva appena giurato sulla propria vita che gliel’avrebbero data, prima o poi, a costo di doverli pestare a sangue.
 
“Guada, pà! La grotta!”.
 
Trunks non ce la faceva quasi più a correre, ma non si sarebbe fermato proprio ora che erano così vicini. Eccoli lì, Gohan e Goten, esattamente nel punto in cui aveva detto Vegeta, ma presso la riva opposta, ovviamente.
Il più grande dei fratelli Son reggeva a fatica Goten con un braccio, mentre con la mano destra, rossa per lo sforzo, si teneva saldamente ancorato alla radice di un albero cresciuta al punto di fuoriuscire dal letto del fiume.
 
“TSK! Ma pensa tu…”.
“Oddende… Non ce la fa più”.
 
Era vero: Gohan non avrebbe resistito un secondo di più. Faceva fatica a stare a galla, la corrente era fortissima e trascinava con sé detriti di ogni tipo, e quasi non riusciva ad aiutare Goten a tenere la testa fuori dall’acqua. Se non fossero intervenuti, sarebbero morti annegati nel giro di qualche minuto.
 
“Resta qui”.
 
Con un balzo, sfidando la corrente e l’umidità, Vegeta aveva raggiunto la sommità di una roccia che si trovata a qualche metro dalla riva. Si era aggrappato in tempo e con una presa salda, evitando di cadere nel fiume. Se avesse agito lucidamente non lo avrebbe mai fatto, ma non era il momento adatto. Doveva seguire l’istinto, o sarebbero morti tutti e tre.
 
“Ve-Vege…ta… Ai-u-to!”.
“Resta a galla ragazzo! Non mollare!”.
 
Stava raggiungendo l’altra sponda spostandosi di pietra in pietra. I sassi diventavano sempre più viscidi e scivolosi e l’acqua sempre più alta e violenta. Doveva sbrigarsi e doveva stare attento a non ammazzarsi, cosa non del tutto improbabile.
Ouji abbaiava disperatamente e Trunks incitava suo padre dalla riva quando si era reso conto che un grosso tronco secco era appena fuoriuscito dalla caverna dirigendosi a velocità folle verso i due fratelli, proprio quando Vegeta era ormai a un passo da loro.
 
“SBRIGATI PAPÀ! PER FAVORE!”.
 
Se gli avessero chiesto com’erano andate le cose, non avrebbe saputo spiegarlo con esattezza. Era accaduto tutto troppo in fretta e non aveva modo di rendersene conto. Sapeva solo che, nello stesso istante in cui aveva raggiunto il sasso più vicino e aveva afferrato Goten per il bavero della giacchetta traendolo in salvo da quelle acque maledette, il tronco era sopraggiunto con tutto quello che il suo arrivo comportava.
Aveva teso la mano verso Gohan, gli aveva urlato di afferrarla, di stringersi a lui perché lo avrebbe retto, lo avrebbe preso, ma non aveva fatto in tempo: il tronco aveva travolto in pieno il giovane saiyan, trascinandolo con sé in quelle profondità spaventose.
L’ultima cosa che aveva visto, era stato il sorriso sincero di quel ragazzo dal cuore d’oro. Poi, di Gohan, non aveva saputo più nulla.
 
Continua…


Emmm…
Salve! XD
Non so come esordire senza che mi uccidiate.
Il team “mainagioia” ha perso il primo membro. Probabilmente sarebbe meglio per me tacere, non trovate? Lascerò parlare voi, sperando che abbiate qualcosa da dirmi a riguardo.
Ci tenevo solo a dirvi che questo capitolo si è praticamente scritto da solo, e questa cosa non mi capitava da molto… Ho avuto un periodo un pochino buio riguardo la scrittura… Era come se avessi perso un po’ la mia “verve”, ma mi sento di nuovo piena di energie! Speriamo che duri!
XD
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 33
*** Nell'Altrove ***


Nell’Altrove
 
Lo aveva visto andare via, trascinato dalla forza impetuosa della corrente e dal tronco che lo aveva travolto.
Lo aveva quasi preso, lo aveva sfiorato con le dita, lo aveva quasi toccato, ma non ce l’aveva fatta.
Non si era allungato a sufficienza, non si era sforzato abbastanza per aiutarlo a sollevarsi, per dargli l’opportunità di salvarsi, per riportarlo con loro sulle rive sicure che lo stavano aspettando.
Non era riemerso più, Gohan. Avevano aspettato, immobili, sperando che riaffiorasse, sano e salvo, da quel turbinio di acque e detriti. Lo avevano chiamato a gran voce, attendendo un qualsiasi segno di vita, e lo avevano fatto finché non era stato chiaro che fosse inutile aspettare, perché la corrente, letale e vorace, non avrebbe restituito loro neppure un corpo su cui piangere.
Goten non aveva proferito parola. Il piccolo saiyan dai buffi capelli a palma aveva visto suo fratello sparire, inghiottito dalle onde, e sembrava quasi che fosse sparito insieme a lui, e che quello fosse solo un involucro vuoto, privo di vita.
Era rimasto seduto, immobile, accanto a Vegeta per un tempo che al principe era parso lunghissimo. Non aveva versato una lacrima, non aveva emesso un singhiozzo, niente. Non aveva avuto nessun tipo di reazione. O forse, aveva avuto l’unica reazione che ci si potesse aspettare da qualcuno che aveva subito un trauma simile.
Lui stesso non aveva saputo cosa dire. La loro fuga si era rivelata più pericolosa di quanto si sarebbe mai aspettato. Avevano lasciato la Capsule Corporation per sentirsi al sicuro da Kaharot, per sfuggire a quel suo potere devastante, ed erano stati prima attaccati da qualcuno e ora beffati dal destino.
Ancora non riusciva a credere di esserselo fatto sfuggire come sabbia tra le dita, e una sensazione sgradevolissima, un peso ingombrante e insopportabile si era fatto spazio nel suo petto. Per la prima volta, Vegeta cominciava a capire cosa fosse veramente il senso di colpa.
 
“Papà. Goten, venite via da lì, vi prego! Non voglio perdere anche voi!”.
 
Trunks in lacrime, li stava supplicando dalla riva di mettersi al riparo. Non avrebbe sopportato di perdere anche loro, di veder morire suo padre e il suo migliore amico e di restare da solo. Era stato scioccante vedere Gohan sparire davanti ai suoi occhi in quel modo. La corrente doveva averlo trascinato a valle, ormai, e il pensiero di non sapere che fine avesse fatto il suo corpo lo stava dilaniando. Come doveva sentirsi Goten? Aveva perso sua madre e suo fratello nel giro di poche ore, e ora non aveva nessuno all’infuori di lui e Vegeta. Stava male per il suo amico, Trunks, ma non poteva permettere a se stesso di darlo a vedere. Avrebbe dovuto rassicurarlo, confortarlo, lasciarlo sfogare. Era questo che facevano gli amici, che facevano i fratelli. E lui, adesso, era l’unico fratello che Goten avesse.
 
“Vieni… Vieni qui… Dobbiamo andare”.
 
Vegeta si muoveva con una cautela che non gli apparteneva. In una situazione diversa, avrebbe sgridato Goten, lo avrebbe strattonato, forse gli avrebbe dato un sonoro ceffone per farlo tornare in sé. Ma quella situazione non era come le altre. Quella situazione era spaventosa e lui non poteva renderla peggiore.
Per questo, con decisione e delicatezza insieme, aveva preso Goten tra le braccia, lasciando che il piccolo poggiasse il capo sul suo petto. Aveva fatto in modo che gli cingesse i fianchi con le gambe, ma Goten non era lì con lui e non si era aggrappato al suo corpo come avrebbe dovuto fare. Teneva gli occhi aperti, fissi chissà su chi o su cosa, e quegli occhi erano spaventosi perché erano vuoti e spenti.
 
Tornare indietro in quelle condizioni non era stato facile, ma era riuscito a riportarlo a riva. Trunks gli era corso incontro, abbracciandolo, e lo stesso aveva fatto Ouji, che si era arrampicato con le zampine sul fianco di Vegeta, abbaiando verso il suo padroncino.
Il principe era rimasto in quella posizione per un tempo incalcolabile. Sentiva sulle proprie spalle non solo il peso fisico di Goten, ma il peso del suo dolore e quello di Trunks, persino quello di quell’ammasso di peli. Sentiva che l’angoscia lo stava schiacciando, che le ginocchia e la mente avrebbero ceduto sotto quel peso insopportabile. E se fosse caduto anche lui? Se, a poche ore da quando quella faccenda aveva avuto inizio, avesse stabilito che non ci fosse più niente da fare? Che ne sarebbe stato dei ragazzi? Che ne sarebbe stato di Trunks e Goten?
Sì, era vero, Vegeta avrebbe potuto lasciarsi andare. Ma non lo avrebbe fatto. Non lo avrebbe fatto per se stesso, per i bambini, e perché moriva dalla voglia di dare una lezione a quell’imbecille di Kaharot.
 
“Smettila di piangere, Trunks. Dobbiamo andare…”.
“Do-dove?” – aveva chiesto lui, tirando su con il naso.
“Dobbiamo trovare un riparo. Presto calerà la notte… Dobbiamo recuperare il tuo zaino e permettere a Goten di asciugarsi… Non può prendersi il lusso di ammalarsi. Forza, prendi Ouji e vieni con me. Basta perdere tempo”.
 
Aveva obbedito senza fiatare, seguendo il padre che stringeva tra le braccia il peso morto del suo migliore amico.
Si era preoccupato di eseguire gli ordini alla perfezione, prendendo Ouji in braccio e portandolo di peso verso il luogo in cui si trovava il suo zainetto.
Suo padre aveva ragione: erano accadute così tante cose che non si era accorto di quanto tempo fosse trascorso in realtà. La notte era vicina e non potevano trascorrerla all’addiaccio. Avrebbero dovuto trovare un riparo e qualcosa da mangiare, e avrebbero dovuto prendersi cura di Goten, cercando di farlo uscire da quello stato. Vegeta era forte e Trunks lo sapeva, ma non sarebbe stato in grado di portare in braccio il suo amico per sempre. Non aveva più i suoi poteri, la sua forza saiyan, e stancarsi eccessivamente era un qualcosa fuori discussione. Goten, poi, doveva stare meglio. Doveva guarire. Peccato che non sapesse che tipo di medicina servisse.
 
“Papà, non ci sono cambi d’abito nello zainetto, mi dispiace… Ci sono solo medicine, dei biscotti, delle gallette – cavolo, sono del tutto sbriciolati – e qualche merendina… Ah, ci sono dei soldi… E i fagioli di Balzar, ovviamente… Pensi che potrebbero servire a Goten? Magari, mangiandone uno, tornerebbe normale…”.
“Tsk. Non è così facile come credi, Trunks”.
 
Mentre stava parlando, il principe dei saiyan aveva spogliato il bambino dagli abiti zuppi di acqua, preoccupandosi di coprirlo con il suo maglioncino e il suo giubbotto di pelle.
 
“Così ti ammalerai tu, però…” – aveva commentato il bambino a bassa voce nel vedere il padre rimanere con una t-shirt nera. Capiva perché lo aveva fatto, ma che senso aveva salvaguardare Goten o lui a proprio discapito? Non voleva che suo padre si ammalasse per colpa loro.
“Prendi la mia maglia, papà, ti prego… A Goten calzerà a pennello e tu non prenderai freddo… Aspetta”.
“Non osare spogliarti. Vuoi ammalarti anche tu, forse?”.
“Ma… Io…”.
“Tsk! Pensi che sia una mammoletta, Trunks? E questa l’opinione che hai di tuo padre? Spero vivamente che non sia così…”.
“Non volevo offenderti, scusa…”.
“Tsk! Prendi i vestiti bagnati di Goten e mettili da qualche parte nello zaino. Sbrighiamoci a metterci in marcia… La notte sta calando troppo in fretta”.
 
Aveva preso i vestiti senza fiatare, mortificato per ciò che gli aveva detto suo padre e desideroso di compiacerlo e di rendersi utile. Gli abiti del suo migliore amico erano zuppi, e prima di metterli nello zaino li aveva strizzati con forza, cercando di ridurre al minimo il quantitativo di liquido che avevano assorbito. Chissà quanto bagnati dovevano essere i capelli di Goten. Poi, però, Trunks si era ricordato di aver visto da qualche parte, in una tasca interna, una busta di plastica verde.
 
“Sono certo di averla vista!” - aveva esclamato, cercando come un forsennato all’interno di quello spazio ristretto. E, in effetti, l’aveva trovata. Ma non era solo la busta ad aver scovato: lì, nella tasca interna, riposava sereno il quaderno che aveva dimenticato di aver portato con sé.
 
*
 
Camminare per chilometri con in braccio un peso morto non era di certo in programma, ma lamentarsi sarebbe stato inutile, considerando che non aveva il potere di cambiare le cose. Goten non voleva saperne di riprendersi, e lui non poteva permettersi di perdere le staffe, ma il tragitto sembrava infinito e le articolazioni del gomito e del polso cominciavano a non rispondere più ai suoi comandi. Le braccia gli dolevano sino alle lacrime e più di una volta il piccolo aveva rischiato di scivolare. Dopo più di un’ora di cammino tra felci e radici, aveva spostato Goten sulla schiena, potendo finalmente abbassare le braccia e lasciare che il sangue ricominciasse a scorrere. La testa di Goten, ora, giaceva abbandonata fra le sue scapole, e quella posizione lo costringeva a stare leggermente flesso in avanti e, anche se sentiva il mal di schiena montare alla velocità della luce, almeno avrebbe potuto vedere con chiarezza doveva mettere i piedi. Aveva freddo, Vegeta, e i rami spinosi gli avevano graffiato la pelle in più punti. Era spossato, sfinito, ma nessun luogo sembrava idoneo a fargli da riparo e non poteva permettere che il loro gruppo subisse ulteriori perdite.
Aveva ancora negli occhi l’immagine di Gohan che veniva colpito dal tronco, non avrebbe potuto sopportare che qualcosa di simile potesse capitare ai ragazzi.
Trunks arrancava dietro di lui, seguito dal piccolo Ouji, esausto come loro. Il saiyan dai capelli lilla non si stava lamentando per non sembrare debole agli occhi del padre, ma era certo di avere le bolle sotto i piedi e, per il dolore, era sul punto di scoppiare a piangere. Per di più, aveva fame e sete, e se la prima poteva essere placata da qualcuno degli snack che aveva portato con sé, lo stesso non si poteva dire per la seconda. Purtroppo, aveva consumato quasi tutta l’acqua per far prendere il fagiolo a suo padre, e quella che gli restava era preziosa come l’oro. Per questo non aveva osato poggiare le labbra sul bordo della bottiglia, anche se, a onor del vero, avrebbe voluto svuotarne il contenuto tutto d’un fiato.
Ouji non avrebbe continuato a camminare molto a lungo. Già due volte si era fermato. Alla terza, Trunks sarebbe stato costretto a prenderlo in braccio e non aveva intenzione di camminare con il cucciolo spalmato addosso. Era goffo e pesante, e lui era stanco e malandato. Non avrebbe resistito a lungo. Perché non riuscivano a trovare una caverna, una baiata abbandonata o un qualsiasi posto dove passare la notte?
Proprio mentre stava formulando quel pensiero, suo padre si era arrestato di colpo, volgendo il capo verso la sua destra. Colto di sorpresa, incuriosito dal gesto e speranzoso di aver finalmente trovato ciò che stavano tanto cercando, aveva fatto lo stesso, scoprendo che a poche centinaia di metri da loro, nascosta nel folto del bosco, c’era una piccola casa di legno che, a giudicare dal fumo che usciva dal camino, doveva essere abitata.
 
“Ora mi metto a piangere” – era stato il commento spassionato del bambino.
“Tsk. Non cantare vittoria troppo presto… Non è detto che ci aiutino…”.
“Sì, lo so, però…”.
“Tanto vale provare, no? Andiamo… Ma stammi vicino e fai esattamente quello che ti dico”.
“Lo farò. Te lo prometto”.
 
Si erano incamminati immediatamente, sperando che, per una volta, la buona sorte volgesse a loro favore.
Non potevano sapere che qualcuno, da lontano, li stesse osservando. E si trattava di qualcuno appena tornato dal regno dei morti.
 
*
 
Sarebbe stato inutile rimuginare ancora sul da farsi. Era sfinito, presto sarebbe caduto per terra dalla stanchezza, e lo stesso sarebbe accaduto a Trunks. Non era uno sprovveduto e non poteva fidarsi di chiunque, ma continuare a osservare la baita da fuori non sarebbe stato d’aiuto.
Nell’avvicinarsi di più alla casa si era reso conto che vi fosse accanto una stalla, e dentro dovevano esserci almeno un paio di cavalli e una capra. Sbirciando – per quanto aveva potuto – dalla finestra, si era accorto che in casa ci fosse una persona, una donna, a giudicare dalla sagoma che aveva visto.
 
“Restami accanto e non dire nulla, Trunks, mi raccomando… Stiamo per fare una cosa tremendamente umiliante e… Seguimi e basta”.
 
Aveva percorso il patio dopo aver salito i tre gradini che separavano la casa dal giardino e aveva deglutito rumorosamente prima di bussare, per tre volte, con le nocche della mano sinistra.
I passi che aveva sentito dietro la porta avevano confermato che aveva ragione: la casa era abitata da qualcuno. La figura che era comparsa davanti ai suoi occhi era quella di una donna di mezza età con i capelli che viravano verso il grigio raccolti uno chignon alto. Aveva addosso un abito viola accollato e dalle maniche lunghe che aveva qualcosa di estremamente antico. Lo sguardo di lei era duro, severo, e aveva indugiato a lungo su Vegeta e sui bambini, prima di rivolgergli la parola.
 
“Chi sei? E cosa vuoi?”.
“Abbiamo avuto un incidente nel bosco… Abbiamo perso ogni cosa. Ci siamo allontanati troppo da casa e non sappiamo dove andare” – stava facendo un discorso un po’ confuso, lo sapeva bene, ma non era bravo in quelle cose e non sapeva come riuscire a convincere quella donna a farlo entrare in casa – “Fa freddo… I bambini sono stanchi e lui… Credo abbia la febbre” – non stava scherzando: Goten scottava. Se n’era accorto da un po’ di tempo ma aveva preferito tacere per non far allarmare Trunks. “Non so dove portarli… Quindi, volevo chiederle se…”.
“Non ti lascerò entrare in casa” – era stata rude, incapace di provare empatia verso Vegeta e i bambini – “Perciò, vattene”.
“Signora…” – stava cercando di mantenere la calma e di non sembrare aggressivo – “Non ho cattive intenzioni. Mi reggo appena in piedi… Non pretendo di entrare in casa sua…” – forse, l’avrebbe convinta almeno a dargli un riparo – “Ma ci faccia stare almeno nella stalla. Non le daremo fastidio… Non toccheremo nulla, e domattina, con il levare del sole, partiremo. Sarà come se non ci fossimo mai stati”.
 
Trunks si era stretto alla gamba del padre, sconvolto: era la prima volta che lo sentiva supplicare e aveva avvertito come una stretta al cuore. Quanto doveva costare, a suo padre, comportarsi in quel modo, per giunta davanti a lui?
La donna si era presa qualche istante per scrutarli più a fondo. Si era soffermata a lungo su Goten, su Trunks e su Ouji prima di indugiare sulle braccia e sul viso di Vegeta.
 
“Vedo molto sangue su di te, ma nessuna ferita” – aveva asserito, sagace – “Chi hai ucciso?”.
“Ucciso? Non ho ucciso nessuno! Abbiamo avuto un incidente, gliel’ho detto… Senta, io posso stare fuori, ma dia almeno un ricovero ai bambini. Loro…”.
“Vedo benissimo le condizioni in cui versano i bambini. Che sfortuna hanno avuto nell’avere un padre come te!”.
“Ma non è vero!” – Trunks aveva disubbidito, sbottando indignato per quell’affermazione così falsa – “Papà è fantastico, se non fosse stato per lui saremmo morti! Non dica queste cose cattive, lei non lo conosce e…”.
“Smettila”.
 
Vegeta non lo aveva sgridato. Non c’era rabbia nella sua voce, né frustrazione. Aveva appena sussurrato quell’ordine, quasi a dargli un consiglio. Era sinceramente commosso dall’affetto che il figlio nutriva verso di lui, ma non era il momento più adatto per accorrere in sua difesa: anche se quella donna sembrava del tutto innocua, non sapevano chi fosse realmente. Avevano subito troppo, dovevano stare all’erta, per quanto fossero vulnerabili e soli.
Il bambino non aveva protestato e si era di nuovo nascosto dietro le gambe di suo padre, chinando il capo per non mostrare le lacrime. Perché ce l’avevano tutti con loro?
 
“Ce ne andremo… Se l’ho disturbata…”.
“Che cos’è tutto questo chiasso, Marylin?”.
 
Era talmente stanco da non averlo notato immediatamente, ma avrebbe dovuto pensare al fatto che nessuna donna avrebbe mai accettato di vivere da sola in un posto sperduto come quello. Dietro di lei era comparso un uomo sulla sessantina, non troppo alto, con i capelli grigi lunghi sino alle spalle, il viso sporco e il ventre prominente. Era vestito come un contadino d’altri tempi, e anche questo era sembrato estremamente fuori luogo a Vegeta, che continuava a capirci sempre meno.
 
“Niente. Il signore e i suoi bambini hanno sbagliato strada e stavano andando via dopo aver chiesto un’informazione. Mi stavo congedando…”.
“Un’informazione, eh? Ma dove dovrebbero andare nel cuore della notte? Con questo freddo, poi… Non posso farvi entrare in casa, ma posso darvi ricovero nella stalla. Ci sono coperte pulite di sopra, vero Marylin? Vai a prenderle… Io accompagno il signore e i suoi figli nella stalla… Saranno stanchi, non è vero?”.
“Io… Sì… Vado…”.
“Perdonate i modo bruschi di mia sorella… Quella sciocca donna non sa quello che si deve fare. Vieni, ragazzo… Posso darti del tu, vero? Vieni… Ti porterò anche un buon bicchiere di latte munto stamattina…”.
 
In un’altra circostanza, avrebbe intuito immediatamente che qualcosa, in quelle due persone, non quadrava, ma in quel frangente era troppo stanco per mettersi a far funzionare il cervello. Aveva bisogno di riposare, anche solo per un paio di ore, e sarebbe stato sempre e comunque pronto a scappare, se la situazione si fosse complicata.
 
“Mia sorella arriverà presto con latte e coperte” – aveva detto il contadino, sorridendo con una strana luce negli occhi – “Passate una buona notte”.
 
*
 
“Sono così stanco, papà…”.
 
Le coperte e il latte erano arrivati pochi minuti dopo. Marylin, la sorella del contadino, aveva portato quanto promesso senza degnarli di uno sguardo. Per Vegeta era stato meglio così, e non si era preso neanche la briga di ringraziarla.
Ora, dopo aver aiutato Goten a bere il latte, dopo aver dato dei biscotti che si trovavano nello zaino a Ouji e dopo aver rimboccato le coperte al Son e Trunks, si era steso accanto a loro, poggiando la testa sul suo avambraccio, sfinito.
 
“Dormi…”.
 
Non aveva le forze di aggiungere altro. Voleva solo chiudere gli occhi e riposare, in modo da poter ripartire, il giorno dopo, e cercare di trovare una soluzione.
 
Dormiva da almeno un paio d’ore quando qualcuno lo aveva scosso per le spalle, svegliandolo di colpo.
Era scattato in piedi più in fretta che aveva potuto, pronto a scagliarsi contro chiunque avesse provato a fare del male a lui o ai bambini, e avrebbe veramente sferrato un potente gancio destro a chi aveva davanti se la luce della lampada a olio non avesse illuminato il volto del contadino.
 
“Ma che…”.
“Ti ho spaventato, ragazzo, mi dispiace… Vieni con me… Avrai fame, e vorrai qualcosa da bere… Dai…”.
“No… Io… Non lascio i bambini, e…”.
“Resterà con loro mia sorella, giusto, Marylin?”.
“Sì…”.
 
C’era lì anche quella strana donna… Aveva un’espressione indecifrabile in viso, e si rifiutava di guardarlo negli occhi. Qualcosa non andava, e non capiva cosa. Si sentiva confuso, stanco, come se non fosse del tutto sveglio.
 
“No, io…”.
“Insisto… Non si rifiutano le cortesie del padrone di casa… Vieni”.
 
Solo a quel punto si era accorto che lo tenesse stretto. La grande mano callosa del contadino era serrata attorno al suo polso, e lui aveva provato a opporre resistenza, ma era così stanco, così confuso
 
“Che-che sta succedendo…”.
 
Aveva la nausea. Era certo che avrebbe vomitato, che sarebbe caduto a terra, faccia in giù, per l’ennesima volta.
 
“Avanti… Non vorrai che ti porti a casa in braccio… Forza, principessa…”.
 
Si era girato verso i bambini, cercando di chiamarli, inutilmente. La donna se ne stava lì, seduta in mezzo a loro, e continuava a tenere lo sguardo fisso altrove. Che cosa stava per accadere? Cosa?
 
“La-lasciami… Lasciami…”.
“Tra poco… E dopo che mi avrai dato quello che mi devi”.
 
*
 
Lo aveva praticamente trascinato sul patio, spingendolo oltre la soglia con tanta forza da farlo cadere per terra. Vegeta aveva fatto in tempo a puntarsi in avanti con le mani in modo da non sbattere il viso, ma il calcio ricevuto al fianco poco dopo lo aveva costretto a rannicchiarsi, accecato dal dolore improvviso.
Non riusciva a respirare, né a rimettersi in piedi. Non aveva la più pallida idea di cosa volesse quell’uomo da lui, ma doveva uscire, doveva uscire subito.
Aveva avuto come un deja-vu, Vegeta, la stessa sensazione provata quando quello sporco bastardo di Freezer lo mandava a chiamare nel bel mezzo della notte, per punirlo, umiliarlo, sottometterlo.
Incamerare aria non era facile, dato il dolore acuto, ma doveva riprendere a respirare regolarmente se voleva provare a snebbiare la mente e fuggire da quella situazione di pericolo.
 
“Dove pensi di andare?”.
 
Lo aveva colpito di nuovo, stavolta in mezzo alle scapole, schiacciandolo contro il pavimento con il suo considerevole peso.
Poco dopo, si era seduto su di lui e gli aveva torto un braccio dietro la schiena, mentre con l’altro gli aveva tirato indietro il capo, prendendolo per i capelli.
 
“Mmmm… La-lasciami!”.
“Chiudi la bocca. Non vuoi che i tuoi figli ti sentano, vero?” – si era avvicinato al suo viso al punto che Vegeta poteva sentire l’odore del suo alito che sapeva di vino e formaggio. Che diamine voleva da lui, quell’essere?
“Che mi hai dato?” – aveva biascicato, ancora più intontito di prima.
“Qualcosa per farti star buono… Ora dimmi… Chi cavolo sei e che cos’era quel coso volante. Perché è da lì che vieni, vero? Sei uno stregone o qualcosa di simile, no?”.
 
Il coso volante? Uno stregone? Ma che stava blaterando? Doveva essere ubriaco o forse drogato. E poi, che voleva dire? Che fosse stato lui a… a …
 
“Sì, secondo me è stato lui!”.
“Fallo parlare! Fallo parlare!”.
 
Le voci di due uomini più giovani erano giunte alle orecchie di Vegeta, ma erano dietro di lui e non era stato in grado di vederli.
 
“Pensavo che il cavaliere ti avesse abbattuto con la catapulta, ma quando sono andato a vedere i resti di quel mostro volante, ho visto che c’erano tracce di passaggio di qualche essere… Eri tu… Eri tu che sei piombato dal cielo con quei tuoi figli, i figli del demonio! Ammettilo! AMMETTILO!”.
 
Gli aveva sbattuto la fronte contro il pavimento, provocandogli un brutto taglio. Il sangue gli era colato negli occhi, peggiorando la situazione. Doveva scappare da lì, ma era stravolto e stanco, ed era indifeso. Per la prima volta, dopo tanto tempo, Vegeta si sentiva indifeso.
 
“Avanti, mostro, faccele vedere!”.
“Sì, vogliamo vederle!”.
“Spoglialo, avanti! Se lo portiamo a palazzo, lui ci premierà… Avanti!”.
“Voi siete pazzi… Siete pazzi… NO!”.
 
Gli aveva strappato la maglia di dosso con un coltello. Vegeta aveva sentito la lama scivolare sulla carne e poi aveva udito un taglio netto. Poco dopo era rimasto con la schiena nuda, esposta alla mercé di quei tre squilibrati. Era terrorizzato, incapace di muoversi, di reagire. Avrebbero potuto fargli qualsiasi cosa. Ma la mente del principe, o almeno quella parte che era ancora vigile, era volata subito ai bambini, soli in balia di quella strana donna.
 
“Cazzo. Questo tizio è pieno di cicatrici, ma non ci sono ali da demonio!”.
“Non c’è niente!”.
“Niente… Cazzo…”.
“Spoglialo, cazzo! Deve esserci qualcosa che non va… DEVE!”.
 
Vegeta aveva scalciato e si era dimenato nel momento in cui le mani di quel bastardo avevano afferrato la cinta dei suoi pantaloni, strattonandoli verso il basso: non gli avrebbe permesso di denudarlo completamente, nonostante lo sforzo di rimanere vigile, ma quel gesto non aveva fatto altro se non peggiorare la situazione, lasciando scoperto il suo segreto, il suo punto vulnerabile: quello che restava della sua coda saiyan.
 
“Porca puttana, avevi ragione! Guarda! Questa è la sua coda da demonio!”.
“Sì, è lei! Dobbiamo portalo a palazzo! Ci daranno una ricompensa! Lo sapevo, lo sapevo!”.
“Sapevo che le erbe avrebbero fatto effetto… Nessun demonio può resistere a quell’intruglio… I figli devono essere come lui! Presto! Portateli qui! Ne ricaveremo un bel gruzzolo”.
 
Lo avevano drogato. Quei bastardi avevano drogato lui e i bambini, e prima avevano cercato di abbatterli perché li credevano demoni o qualcosa di simile. Ma dov’erano finiti, indietro nel tempo, in quel periodo di cui aveva parlato Bulma, dove uomini e donne venivano bruciati sul rogo perché ritenuti seguaci del demonio?
 
“Lasciate stare i ragazzi” – aveva biascicato – “Lasciateli stare!”.
 
Aveva provato a ribellarsi, ma lo avevano pestato a sangue e lo avevano incaprettato, cospargendolo di un liquido che poteva essere acqua o qualcosa di simile.
Sentiva di non avere scampo. Sentiva che sarebbe morto, e forse sarebbe successo se non avesse sentito uno sparo, due, e poi tre, e non fosse sopraggiunto qualcuno a slegarlo, dicendogli di andare via.
Qualcuno che aveva l’aspetto di una donna.
 
Continua…

 
Bel posto, l’Altrove, vero?
Meraviglioso! Superstizione e cattiveria regnano. Devo dire che non potevano capitare meglio.
La situazione peggiorerà, vi avviso.
A presto!
Un bacino
Cleo

Ps.: ogni riferimento a nomi o persone è PURAMENTE CASUALE. XD

 

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Capitolo 34
*** In corsa verso l'ignoto ***


In corsa verso l’ignoto
 
Era stata quella donna a permettergli di fuggire.
Vegeta lo aveva ricordato con chiarezza solo dopo essersi risvegliato dal lungo sonno dovuto alla droga che gli era stata somministrata con l’inganno.
Aveva agito come un automa, come un robot o una macchina a cui era stato inserito il pilota automatico, dopo aver sentito gli spari. In un primo momento non si era reso conto di quello che fosse capitato realmente, ma poi aveva cominciato a ricordare.
Marilyn, la donna austera, aveva sparato a suo fratello e agli uomini che erano con lui, permettendogli di prende i bambini e di fuggire.
Probabilmente, era stato per metterli in guardia che si era comportata in maniera così sgarbata e ostile: era stato il suo modo per avvisarli del pericolo, per tenerli al sicuro, lontani da quella casa e dai pazzi che vi abitavano. Ma lui, invece, che aveva fatto? Preso dalla disperazione, si era convinto di non essere desiderato, di dover insistere e farsi accettare a ogni costo. E, per essere così ostinato, ci aveva quasi rimesso non solo la sua vita, ma che quella dei ragazzi.
Non aveva idea di come avesse fatto a correre per chilometri, al buio, con entrambi i bambini tra le braccia, praticamente nudo e senza una meta precisa. Era inciampato, era finito tra i rovi, era scivolato sul fango, e alla fine, sfinito, stravolto, si era accasciato nei pressi di una caverna, pregando gli dei che almeno per quella volta fossero magnanimi.
Lo aveva svegliato Trunks, scuotendolo con la sua calda manina. Il contatto con un corpo diverso lo aveva fatto agitare, e Vegeta si era ritratto di scatto, convinto, per un attimo, di essere ancora tra le grinfie di quei pazzi invasati. Appena aveva messo a fuoco ciò che aveva attorno, si era reso conto immediatamente di avere accanto non degli assassini, ma Trunks, Goten e il piccolo Ouji.
 
“Finalmente ti sei svegliato…”.
 
Trunks aveva una vocina dolce e delicata. Aveva avuto tanta paura per suo padre e per tutto quello che era successo.
Non ricordava il tutto per filo e per segno, ma da quando aveva riaperto gli occhi e aveva scoperto di essere il solo ad essersi svegliato, le cose erano pian piano andate al proprio posto e, per non dimenticare, le aveva annotate sul quaderno nero che aveva portato con sé. Forse, lui sapeva qualcosa che loro ancora non sapevano, dato che aveva dimostrato di essere animato da una qualche magia e di essere al corrente di qualsiasi cosa. Eppure, lo strano oggetto non aveva risposto ai suoi quesiti. Forse, e non sapeva perché, non era più così tanto interessato a lui.
 
“Tsk! Stai bene?”.
 
Vegeta aveva la testa pesante e sentiva di non essere del tutto in sé, ma suo figlio gli aveva parlato, era lì con lui e voleva solo sincerarsi delle sue condizioni.
 
“Sì, papà… Adesso sì. Anche Goten sta bene, più o meno, e sta ancora dormendo. Guarda: c’è anche Ouji!”.
“TSK! VEDO!” – aveva commentato acido il principe nel momento in cui il cagnolino gli si era accostato per lasciargli una leccata sulla mano destra.
“Ce la siamo vista brutta” – Trunks non era stato capace di trattenersi e aveva preferito esprimere la sua opinione in merito a quello che avevano subito. Cavoli, era scosso, ma era felice di essere stato aiutato da quella donna e di essere andato via da lì.
“Che cosa vi è successo, Trunks?”.
“Ci ha aiutati quella donna… La signorina Marilyn… Se non fosse stato per lei, non penso che saremmo ancora qui…”.
“Smettila di fare il misterioso e spiegati meglio. Non sopporto i giri di parole inutili!”.
 
Era stato sgarbato, ma era necessario. Erano all’addiaccio, senza cibo, senza una meta, e aveva bisogno di tutte le informazioni che poteva ricevere per ricostruire gli eventi e capire cosa fare in seguito. Vegeta era partito dalla Capsule Corporation per far perdere a Goku le loro tracce, ma sin troppa gente sapeva dove fossero. E poi, perché diamine erano stati attaccati?
 
“La signorina è venuta a svegliarci, papà… Eravamo intontiti, credo che sia stato il latte perché ci ha chiesto scusa, ma è riuscita a metterci in piedi. Ci ha detto che dovevamo prendere quello che aveva messo nel fagotto – ho messo tutto nello zaino – e dovevamo aspettarti perché saresti venuto a prenderci all’uscita della stalla. Ha detto che dovevamo rimanere svegli anche se era difficile e che non dovevamo avere troppa paura. Goten, però, proprio non ci è riuscito e mi è quasi caduto addosso. Poi abbiamo sentito gli spari provenire dalla casa, dopo che lei è entrata, e tu sei uscito correndo… Ci hai presi e siamo andati via… Penso di essermi addormentato di nuovo mentre mi stringevi, papà, perché non ricordo altro finché non mi sono svegliato qui e… E ho svegliato anche te”.
 
Dunque, le cose erano andate in quel modo: Marilyn li aveva aiutati a fuggire per davvero. Ma perché, quella donna, si era messa contro il suo stesso fratello? Possibile che fosse solo per uno spiccato senso di giustizia?
 
“Perché hai i vestiti tutti strappati, papà? Che ti hanno fatto?”.
 
La domanda era lecita, ma Vegeta aveva quasi dimenticato quel dettaglio e, un po’ per la vergogna, un po’ per verificare che ciò fosse veramente accaduto, aveva cinto il suo busto incrociando le braccia, quasi si fosse stretto in un abbraccio.
 
“Guarda come sono conciato! TSK!”.
“Sì, lo vedo… Ma perché?”.
“Perché eravamo capitati in una covo di matti, ecco perché! Credevano nell’esistenza di qualche creatura demoniaca o qualcosa del genere…”.
“Demoni?”.
“Sì, Trunks. Demoni. Esseri mostruosi e crudeli che abitano nel Regno degli Inferi”.
“Sì, ma non ho ancora capito…”.
“Pensavano che fossimo noi, dei demoni, Trunks. Perché… Perché volavamo in cielo”.
“Che cosa? Papà, ma non ha senso! Va bene che ci troviamo tra le montagne, ma da qui a pensare che la gente non sappia cosa sia un aereo ne passa di acqua sotto i ponti…”.
“Non fare il saputello con me, Trunks! Non so che abbiano nel cervello! Parlavano di un palazzo e di qualcuno che sarebbe stato fiero di loro. Ma sai com’è, ero drogato e non posso fare un resoconto esatto di quello che è accaduto. Per cui, dobbiamo farci bastare le informazioni che abbiamo e cercare di ricostruire questo complicatissimo puzzle!”.
 
Ancora una volta era stato veramente pessimo con il figlio e, ancora una volta, il senso di colpa aveva fatto capolino.
 
“Papà…”.
“Lascia perdere… Cerchiamo di trovare un altro posto, piuttosto… Dai…”.
 
Non lo aveva neanche guardato in viso, Vegeta, e aveva preferito fissare un punto impreciso davanti a sé nel tentativo di non mostrare al figlio il rimorso che stava provando.
Si sentiva tremendamente a disagio, vulnerabile, e questo era dovuto anche al fatto che stesse andando in giro in quello stato, con gli abiti strappati e il sangue di quei bastardi che lo imbrattava da capo a piedi. Quel contadino gli aveva strappato la maglietta che, purtroppo, penzolava lungo i suoi fianchi come avrebbero fatto delle ali malandate. Gli aveva persino abbassato i pantaloni, quel grandissimo bastardo, mettendolo a nudo. Come aveva osato? E lui, il principe dei saiyan, come aveva potuto permetterlo?
Stava ripensando al giuramento che aveva fatto, alla promessa di non combattere mai più, maledicendosi. Se ne avesse avuto l’opportunità, sarebbe tornato indietro e avrebbe polverizzato lui e i suoi compari con il semplice sguardo. Sarebbe stato tremendamente soddisfacente vederli tremare, sentirli frignare e implorare di risparmiarli. Li avrebbe assecondati? No di sicuro. O, almeno, non prima di averli strapazzati per un bel po’, ricambiando così il trattamento di favore che avevano avuto nei suoi riguardi e in quelli dei suoi figli.
I suoi figli.
Solo in quel momento si era freso conto di aver realmente pensato a Goten come a suo figlio, e i suoi occhi si erano posati su di lui, quasi a completare quel gesto inconscio.
 
“Sono ammattito del tutto… Sì, sono ammattito…”.
 
Il piccolo Son giaceva al suolo, addormentato, con accanto il suo angelo peloso. Era così buffo, Goten, così carino… Oh, dei! Aveva appena pensato che quel bambino fosse carino. Doveva esserci qualcosa di più di un semplice sonnifero in quel latte che gli avevano servito, perché quello che stava partorendo in quei minuti andava al di là del semplice attaccamento. Che si fosse affezionato al bambino era palese, che in fondo – forse neanche troppo in fondo – lo considerasse suo, lo era in egual modo, ma che attribuisse a lui o a Trunks sentimenti che avrebbe potuto esternare solo una donna o un uomo estremamente sensibile, proprio non poteva accettarlo.
 
“Papà… Forse, nello zaino, potrebbero esserci ago e filo… Magari possiamo sistemare la tua maglietta…”.
“Lo zaino… Non hai detto che lei ti ha dato un fagotto e che lo hai messo lì? E comunque, da quando avresti imparato a cucire?”.
 
Trunsk aveva completamente dimenticato il fagotto fino a quando non ne aveva parlato con suo padre.
 
“In effetti non l’ho mai fatto, ma ho guardato spesso la nonna rammendare calzini e attaccare bottoni alle camicie… Non dovrebbe essere impossibile… Anche se ci vorrà tanto, tanto filo, e non so bene cosa ho afferrato quando eravamo ancora a casa…”.
“Tsk! Trunks, ti ho chiesto del fagotto…”.
“Sì, scusa papà…”.
 
Nella speranza di non farsi sgridare mai più. Trunks aveva aperto lo zaino e aveva estratto lo strano contenuto, porgendolo al genitore.
Quello che Vegeta aveva in mano era davvero un fagotto, per la precisione, si trattava di un lenzuolo – o quello che restava – bianco con all’interno qualcosa di pesante e rigido.
 
“Ma che diamine è?”.
“Non ne ho idea, papà…”.
 
Vegeta stava per aprirlo quando, improvvisamente, aveva cambiato idea.
 
“Ne discuteremo dopo, dai… Ora…” – aveva detto, rimettendo il fagotto nello zaino e prendendo Goten tra le braccia in maniera sin troppo rude – “Proviamo a capire se questa grotta è sicura. Mi sono stancato delle sorprese”.
“Va bene, papà, ti starò accanto. E non fiaterò, promesso. Ho imparato la lezione”.
 
Il principe non aveva proferito parola e si era limitato a fissarlo con uno sguardo indecifrabile.
Quanto avrebbe voluto sapere cosa si celava nella mente e nel cuore di suo padre. Sperava che, un giorno non troppo lontano, lo avrebbe capito. Per ora, si sarebbe limitato a seguirlo senza fare troppe domande. Si sarebbe fidato di lui, ciecamente, in ogni istante, sempre e comunque, anche se non fosse stato l’unico adulto ancora in vita che aveva accanto.
 
*
 
Per fortuna, la caverna si era rivelata disabitata. Certo, sul soffitto, nella parte più interna, dormivano appesi a testa in giù un nutrito gruppo di pipistrelli, ma se non avessero fatto troppo rumore non avrebbero avuto grande da parte loro. L’importante era che non ci fossero lupi, orsi o qualche altro feroce carnivoro. Se avessero avuto ancora i loro poteri, gli sarebbe bastato un colpo neanche troppo forte per metterli al tappeto, ma ora erano dei semplici esseri umani che conoscevano i rudimenti della lotta, che erano disarmati e che non avevano la più pallida idea di dove stessero andando.
Trunks aveva aspettato che suo padre si sistemasse prima di capire cosa fare. Si sentiva un pochino a disagio, era stanco e privo di energie.
Avrebbe solo voluto coricarsi nel suo letto, al caldo, dopo aver fatto una doccia bollente ed essersi riempito la pancia con qualche bontà preparata dalla sua mamma. Invece, di lei non vi era più alcuna traccia. Per quanto cercasse di non pensarci troppo, la mente vagava sino a raggiungere sempre la stessa meta. Gli veniva da piangere per la rabbia, per la frustrazione, ma non voleva mostrarsi debole agli occhi di suo padre. Per quanto fosse piccolo e spaventato, voleva disperatamente che il genitore si fidasse di lui, che sapesse di poter contare sulla sua presenza. Voleva che Vegeta lo vedesse come un piccolo adulto e che lo rispettasse, ma voleva anche che lo stringesse e lo facesse sentire protetto. Doveva davvero essere impazzito.
 
“Trunks…”.
 
Il piccolo stava pensando a poche ore addietro, al momento in cui si era lanciato tra le braccia di Vegeta, quando la voce di suo padre, stanca ma decisa, lo aveva ricondotto alla realtà.
 
“Sì?” – aveva domandato, girandosi nella sua direzione e trovandolo sdraiato a terra contro la nuda roccia, e Goten stretto tra le braccia. Aveva deglutito rumorosamente, cercando di non pensare alla punta di gelosia che si era fatta spazio nel suo cuore.
Perché gli stava facendo una cosa del genere?
“Vieni qui…” – gli aveva detto, tendendogli la mano.
 
Incredulo e tremante, Trunks aveva stretto forte a sé lo zaino prima di lasciarlo cadere al suolo e di dirigersi a grandi passi verso suo padre, per poi inginocchiarsi e lasciarsi avvolgere dal braccio nudo e possente. Il suo desiderio si era avverato: forse gli dei avevano ascoltato le sue preghiere, perché finalmente si trovava tra le braccia di suo padre, con il visino nascosto nello spazio tra il pettorale e la spalla. Un posto in cui poteva sentir battere il suo cuore.
Vegeta lo aveva stretto con forza, evitando di guardarlo negli occhi per l’imbarazzo. Sentiva il respiro dei bambini sulla sua pelle: quello di Goten regolare a testimonianza del sonno profondo in cui era piombato, quello di Trunks affannato, forse dovuto all’agitazione che stava provando, un’agitazione non troppo diversa dalla sua.
Il principe aveva chiuso gli occhi, pensieroso e stanco, scuotendo leggermente il capo e increspando le labbra in uno strano sorriso sghembo nell’accorgersi che anche la piccola palla di pelo aveva preso posto su di lui, precisamente sulle sue gambe.
 
“Tsk! Ma prego! Fai pure…”.
 
Si era lamentato, ma era rimasto immobile e Trunks aveva riso, divertito. Dopo tutto quello che avevano passato, quello era il primo momento veramente felice. Non avrebbe permesso a nessuno di rovinarglielo.
 
Continua…


Ciao a tutti!
Avevamo bisogno di un capitolo di passaggio, non trovate?
Respirare è fondamentale, dopo le tragedie che si sono accumulate nelle pagine precedenti.
Finalmente, il burbero principe ha ceduto e ha mostrato ai bambini quello che alberga nel suo cuore. Ma quanto è tenero?
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 35
*** Sulle loro tracce ***


Sulle loro tracce
 
La traccia di fumo levatasi dopo lo scoppio era visibile da diversi chilometri, e per Goku non era stato affatto difficoltoso raggiungere il luogo dell’incidente aereo.
Al suo rientro sulla Terra, Goku aveva azzerato la sua aura e aveva disobbedito a Baba, apparendo esattamente lì da dove era partito, ovvero alla Capsule Corporation. Si era sentito un verme per essere venuto meno alla promessa fatta poco prima, ma voleva solo osservare da lontano chi aveva dovuto lasciare tanto in fratta, scoprendo, suo malgrado, ché né Vegeta, né Trunks né i suoi figli fossero rimasti lì ad aspettarlo.
 
“No-non ci credo”.
 
Era stato un colpo, per lui, scoprire che fossero fuggiti. Si capiva chiaramente da ciò che si erano lasciati alle spalle e da come lo avevano fatto: c’era confusione ovunque, quasi come se in casa avessero rovistato i ladri, e non si erano neppure preoccupati di chiudere a chiave la porta e di serrare le finestre. Erano partiti alla svelta, portando con sé lo stretto necessario, e si erano diretti chissà dove nella speranza di mettere tra loro ulteriore distanza, quella dettata dal non sapere dove si fossero diretti.
Rintracciarli mediante la percezione delle aure era praticamente impossibile. Anche Vegeta doveva aver perso completamente i suoi poteri, a quel punto, e non sapeva come altro fare per capire dove fossero.
E la colpa di tutto ciò, come gli era stato spiegato e come aveva intuito sin da subito Vegeta, non era di altri se non sua.
 
Goku capiva perfettamente perché nutrissero tanta paura nei suoi riguardi: l’idea di sparire per sempre, di essere assorbiti completamente in lui sino a svanire, era sicuramente un deterrente sufficiente e far scegliere loro di stare a debita distanza. Ma, allo stesso tempo, Goku pensava che avrebbero dovuto sapere che non voleva fare loro del male. Poteva capire l’astio e la diffidenza di Vegeta, anche quella di Trunks, ma quella dei suoi figli era inspiegabile. Persino Gohan e Goten avevano deciso di voltargli le spalle? Dubitava che Vegeta li avesse costretti a seguirlo con la forza. Piuttosto, li avrebbe lasciati indietro.
 
Si era preso qualche minuto per riflettere, prima di sorvolare il pianeta nella speranza di ritrovarli. Dove sarebbero potuti andare, un uomo adulto, un adolescente e due bambini? Che direzione avrebbero potuto prendere? Cercavano un posto lontano dai suoi occhi, un posto sicuro, un posto in cui potersi organizzare e in cui cercare di capire come venire a capo di quella faccenda.
Baba e re Kaioh gli avevano detto tutto ciò che sapevano in merito alla maledizione che lo aveva colpito, ma non era stato molto utile. In buona sostanza, Goku ne sapeva quanto prima. Aveva solo ricevuto conferma di quanto Vegeta aveva sospettato, e aveva deciso di tornare sulla Terra, da loro, per assumersi le sue colpe e le conseguenze di quella maledizione così atroce. Tutte le persone che amava, tutti coloro che si trovavano entro un determinato raggio dalla sua presenza, erano diventati parte della sua essenza, e lui, purtroppo, non si era mai sentito così potente come allora. Sentiva scorrere in sé la linfa vitale di ognuna delle sue vittime, sentiva le loro essenze, e sentiva che quel potere sarebbe potuto crescere sino all’infinito. Era come avere in sé un potere simile a quello dell’onda energetica, qualcosa di infinitamente pericoloso. Teoricamente, avrebbe potuto assorbire ogni singolo abitante di ogni singolo pianeta dell’universo. E, a quel punto, una volta ottenuta tutta quell’energia, cosa gli sarebbe capitato? Purtroppo, non lo aveva ancora capito, e né Baba né re Kaioh erano stati d’aiuto, in questo.
Ma Goku era tornato sulla Terra, conscio dei rischi che avrebbe fatto correre ai terrestri, proprio nel tentativo di trovare una soluzione, di porre rimedio a quella sciagura. Ed era tornato alla Capsule Corporation proprio per informare Vegeta, Gohan, Trunks e Goten di questo suo piano. Aveva deciso di iniziare da qui e di ripartire da dove tutto era iniziato: dal cercare il presunto punto da cui si erano propagati il boato e la luce accecante.
 
Ricordava ogni singola parola pronunciata dalla sua amica Baba poche ore addietro, la risposta alla domanda che aveva posto riguardo a chi fosse l’essere che lo aveva maledetto: “Se n’è persa la memoria, purtroppo Goku. Si tratta di un’entità così antica che si è perso persino il suo nome. Vedi, non è dotato di un corpo… Lui ne sta cercando uno e temo che, purtroppo, abbia deciso di prendere il tuo. Però eri debole, purtroppo, troppo debole… Per questa ragione, hai finito col sottrarre l’energia vitale a chi ti stava attorno per via del sortilegio che ti è stato inflitto”.
 
Era un pericolo. Son Goku, l’eroe della Terra, colui che aveva sconfitto Freezer e che aveva in qualche modo aiutato suo figlio a battere Cell, era diventato la più grande minaccia che l’universo avesse mai visto. Ma avrebbe impedito in qualsiasi modo che quell’abominio – chiunque o qualunque cosa fosse – raggiungesse i suoi loschi propositi. Sarebbe arrivato al punto di togliersi la vita, se fosse stato necessario. A quel punto, come avrebbe fatto a compiere il suo piano? Sarebbe rimasto fregato! Forse, in effetti, avrebbe dovuto pensare sin da subito all’eventualità di tornare nel Regno dei Morti da morto, per l’appunto. Ma se il tizio, una volta libero, avesse cercato un altro corpo in cui trasferirsi, in sua mancanza? Se avesse attaccato Gohan, o Goten o Vegeta?
Non poteva permetterlo.
 
Per questo, Goku si era dato un sonoro ceffone in viso, si era lamentato per il dolore e si era librato in volo, deciso a non perdere più tempo, a non mettere più a rischio nessuno e a trovare immediatamente la fonte di quel disastro.
Eppure, dopo aver percorso una cinquantina di chilometri cercando di individuare ciò che cercava, si era imbattuto in quella densa coltre di fumo nero, e aveva deciso di scoprire cosa stesse andando a fuoco.
 
“Deve esserci stato un incidente… Non sono alberi che bruciano… O, almeno, non sono solo quelli”.
 
Era arrivato nei pressi dell’incendio in pochissimi istanti, ed era stato costretto a coprirsi naso e bocca sollevando la maglia per evitare di inalare fumo e svenire. Il calore emanato dalle fiamme era insopportabile e gli occhi avevano cominciato a bruciare e lacrimare. Prima di chiuderli, aveva visto chiaramente i resti di un velivolo, in basso, e non aveva avuto alcun dubbio: quelli erano i resti di un aereo della Capsule Corporation.
 
“Oddende! Oddende! Fai che abbia visto male, ti prego, ti prego!”.
 
Nell’Aldilà, Goku aveva imparato nuove e straordinarie tecniche, tra cui quella di riuscire a controllare – seppure per poco – alcuni eventi atmosferici*. Gli era bastato concentrarsi appena per far sì che un denso cumulo di nuvole minacciose si formasse proprio sull’incendio, e che la pioggia, una pioggia scrosciante e fitta, si abbattesse sul relitto infuocato. In pochissimi minuti il temporale aveva dissipato le fiamme, e Goku, col cuore in gola, si era precipitato verso il basso, sperando con tutte le sue forze di non imbattersi nei resti carbonizzati dei suoi cari.
 
“Sono sicuro che sia il loro aereo!” – aveva urlato in direzione dei rottami – “Ne sono assolutamente certo! Questo era il preferito di Bulma! Mi ha fatto salire qui sopra innumerevoli volte! Perché non sono rimasti alla Capsule Corporation? Perché?”.
 
Goku stava perdendo la calma. Non riusciva più a pensare lucidamente. Gohan e Goten potevano essere lì, sotto la macerie, potevano essere morti per l’impatto, per le esalazioni di fumo o, nel peggiore dei casi, potevano essere rimasti bloccati sotto una di quelle pesantissime lastre ed essere morti per le ustioni. I suoi figli potevano essere stati arsi vivi, e questo per sfuggire a lui, l’unico da cui avrebbero dovuto sentirsi protetti.
 
“Urca! Perché doveva succedermi una cosa del genere? Perché?”.
 
Gli occhi bruciavano per il fumo e per le lacrime di frustrazione e paura. Se i suoi bambini fossero morti, che avrebbe fatto? Che cosa?
 
“Ti prego… Fa’ che loro non siano qui sotto!”.
 
Si era ustionato in più punti nello spostare le lamiere ancora roventi. Il dolore era insopportabile, ma così come era arrivato, era andato via, solo che non se n’era reso conto immediatamente. Le ferite di Goku guarivano all’istante: era troppo l’energia vitale che aveva accumulato, era così tanta da aver fatto brillare le sue ferite e averle richiuse in pochissimi secondi.
Eppure, Son Goku non se n’era reso conto fino a quando non si era tranquillizzato: lì non c’erano resti umani, dunque, i ragazzi erano sopravvissuti all’incidente. Ma dove si trovavano? Se avevano avuto la fortuna e la tempra di sopravvivere a uno schianto simile, dovevano essere da qualche parte lì attorno, magari debolissimi a causa delle ferite riportate. E se lui li avesse raggiunti, a quel punto li avrebbe uccisi.
 
“I più deboli sono i primi a essere assorbiti”, re Kaioh e Baba avevano detto una cosa del genere.
 
“Urca! Finirò per ucciderli io stesso. Come faccio ad andare via, però? Potrebbero essere qui attorno, potrebbero avere delle ferite gravissime. Non posso andare via… Non posso!”.
 
L’ira e la frustrazione crescevano in lui a una velocità spropositata. Se avesse continuato su quella rotta, presto avrebbe perso il controllo di sé, lo sentiva. C’era troppa energia che ribolliva in lui, e questo sarebbe potuto diventare un propulsore per la trasformazione in super saiyan. Che ne sarebbe stato di lui se non fosse stato più in grado di controllare quello stadio?
 
“Urca… Mi devo calmare. Questo non sono io. Io non agisco così… Devo calmarmi e pensare al bene dei ragazzi e della Terra. C’è Vegeta con loro. E gli vuole bene, per quanto stenti a dimostrarlo. Forse… Forse sono più al sicuro con lui che con me… Sì… Sì… Deve essere proprio così. Io ora devo andare e…”.
“MANI IN ALTO O GIURO CHE TI SPARO!”.
 
La voce di una donna e il rumore di un fucile che veniva caricato lo avevano raggiunto alle spalle, pietrificandolo. Qualcuno voleva spararlo? Sul serio?
 
“Urca! Ehi…”.
“FERMO E MANI IN ALTO! MI HAI SENTITA O NO?”.
“Sì… Sì, ti ho sentita, ma…”.
“DEVI ALZARE LE MANI E RIMANERE FERMO FINO A QUANDO NON TI DICO DI VOLTARTI. HAI CAPITO?”.
“URCA! Sì, ho capito!”.
 
Non che Goku avesse davvero paura di lei o del suo fucile. Se avesse voluto, si sarebbe teletrasportato in un attimo dietro di lei e l’avrebbe disarmata e resa inoffensiva. Ma se si fosse avvicinato, forse l’avrebbe assorbita, e lui non voleva ucciderla. Se lei avesse sparato e lui avesse deviato le pallottole, forse l’avrebbe spaventata ancora di più e avrebbe attirato lì altre persone, altre potenziali vittime. Per questo si era preso qualche istante per pensare, decidendo di rimanere lì, buono e zitto, in attesa di capire che cosa volesse da lui quella donna.
 
“GIRATI. Molto lentamente, o ti faccio saltare il cervello”.
“Sì… Va bene… Ma non sparare”.
 
Le cose erano andate esattamente come aveva detto lei, almeno fino a quando non aveva visto Goku in faccia e si era letteralmente pietrificata.
 
“Ma tu… Tu sei uguale a quel bambino!”.
“Che cosa hai detto?” – Goku si era incamminato verso di lei.
“FERMO TI HO DETTO! GIURO CHE TI SPARO!”.
“Non ti voglio fare del male. Vedi, sono disarmato! Che potrei farti? Voglio solo sapere di quale bambino stai parlando. Ti prego: dimmelo”.
“Se resti lì”.
“Sì, resto qui. Va bene. Ma dimmi del bambino”.
 
Lei non aveva risposto immediatamente e non aveva abbassato il fucile. Era dubbiosa e spaventata, ma voleva mostrarsi fiera e coraggiosa ai suoi occhi.
 
“Chi sei tu?”.
“Mi chiamo Son Goku… Il bambino di cui parli si chiama Goten, vero? Se è lui ti prego di credermi: io sono suo padre”.
“Sì, gli somigli tantissimo. Siete due gocce d’acqua. Ma pensavo che suo padre fosse quell’altro… Lui li stava proteggendo”.
“Urca! Hai incontrato anche Vegeta, Trunks e Gohan? Lo sapevo, sono vivi!”.
“Non c’era nessun Gohan, con loro… C’era un cane. Un cane di nome Ouji”.
“Gohan… Non era con loro? Ma come… Perché?”.
“Senti, non lo so! E le domande qui le faccio io! Sono venuti a casa mia, ma li ho aiutati a fuggire. E faresti meglio a scappare pure tu se vuoi sopravvivere! Tu sei sceso dal cielo su uno di quei cosi, vero? Non è posto per quelli come te, questo qui”.
 
“Tu sei sceso dal cielo su uno di quei cosi”.
 
“Eh? Emmmm… Io non capisco. Davvero, ti prego, devi credermi. Io non sto capendo niente. Senti, come ti chiami?”.
“Che ti importa?”.
“Voglio solo sapere come ti chiami. Tu sai il mio nome… Vorrei sapere il tuo”.
“Marilyn”.
“Ok… Marilyn. Piacere. Adesso che ci siamo conosciuti, per piacere, puoi dirmi dove sono andati? Ti prego”.
 
Ora che la stava guardando meglio, Goku si era reso conto che il suo abito fosse macchiato di sangue.
 
“Li ho mandati via da casa mia, per proteggerli. Ti ho detto che questo non è posto per quelli come voi. Qui uccidono quelli come voi perché non ne hanno memoria!”.
“Emmm… Ok, io non sono molto intelligente, ma proprio non capisco”.
“Oddio, ma sei veramente ottuso! Hai sentito il boato, no? Hai visto la luce, vero? Ecco, da lì, le cose sono cambiate! È stato come se il tempo si fosse riavvolto, come se secoli di evoluzione fossero finiti alle ortiche… Quelli come te sono percepiti come creature del demonio e vengono venduti o bruciati al rogo. Tuo figlio e i tuoi amici stavano per fare questa fine. Ma io… Io ho ucciso la mia famiglia e li ho salvati… Quei poveri bambini… Chissà che gli avrebbero fatto. E quel ragazzo… Era così stanco, ma li ha protetti a tutti i costi. Spero che siano lontani e che stiano bene, adesso”.
“Ma è… Assurdo”.
“No. Non lo è. Questa è la realtà. Le cose vanno così. Siamo decimati. E qualcuno ha detto che è stata colpa di un demonio. La gente ha paura e ci crede. Se si sparge la voce che ci sono persone come voi, qui attorno, manderanno i soldati. Dio solo saprà cosa vi faranno. Non voglio neanche pensarci. Tutto è cambiato in un istante. È come se fosse calata una notte perenne sulla Terra. Come se fossimo di nuovo nei Secoli Bui”.
 
Continua…

 
E così, Goku ha incontrato Marilyn.
Complimentiamoci con lui per aver tenuto fede alla promessa fatta a Baba e a re Kaioh, comunque. Bravo, Goku, BRAVO.
Che altro dire? HO CALDO. Ma penso di non essere la sola. XD
Scherzi a parte, spero che questo capitolo non vi abbia annoiati. Ho preferito lasciar “riposare” Vegeta & Co. Dopo tutto quello che hanno passato, se lo meritano.
Colgo l’occasione per ringraziare chi continua a seguirmi e chi ha scoperto questa mia storia da poco!
Vi adoro!
 
A presto!
Un bacino
Cleo
 
*Ovviamente si tratta di una cosa inventata sul momento.

 

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Capitolo 36
*** Le spire del male ***


La stretta del male
 
Vegeta era stato il primo a svegliarsi.
Era stravolto. Il sonno non lo aveva aiutato a rigenerarsi, e l’aver dormito con i bambini stretti a sé aveva contribuito solo a farlo sentire ancora più anchilosato di prima. Ma averli accanto per così tanto tempo, sentirli così vicini, era stato a suo modo un’esperienza unica. Goten e Trunks dormivano beatamente, quasi come se il suo petto fosse il posto più confortevole dell’universo. Vedeva le loro schiene alzarsi e abbassarsi ritmicamente, i loro volti rilassati a tal punto da lasciare le labbra leggermente schiuse. Trunks aveva persino sbavato un po’ sulla sua camicia ridotta a brandelli, e lui, il fiero principe dei saiyan, non aveva battuto ciglio, anzi, aveva quasi sorriso nel vedere suo figlio così vulnerabile e così disposto a fidarsi di lui.
Goten, invece, non aveva perso quella strana espressione di smarrimento. Persino nel sonno, il piccolo Son sembrava non essere più quello di un tempo. Lo shock subito a causa della perdita di Gohan era stato più che giustificabile, ma Vegeta sperava di vederlo tornare in sé al più presto. Non poteva permettersi di girovagare ancora con il bambino in braccio: aveva spalle e schiena a pezzi, ma non era solo la stanchezza fisica a fargli desiderare che Goten riacquisisse padronanza di se stesso. I bambini avevano necessità di imparare a proteggersi, a difendersi da qualsiasi tipo di pericolo nascondesse quella nuova realtà, e per farlo, avrebbero dovuto essere perfettamente lucidi. L’aver perso l’istinto saiyan e le loro abilità da guerrieri non significava necessariamente che non fossero minimamente in grado di difendersi. Erano dei comuni esseri umani, e questo li rendeva di certo più vulnerabili di un tempo, ma anche capacissimi di sopravvivere a ogni evenienza.
Vegeta aveva visto tante volte gli esseri umani rialzarsi dopo una brutta caduta. Li considerava, suo malgrado, una razza forte e prosperosa, e i bambini avevano per metà sangue terrestre che scorreva nelle loro vene, quindi questo avrebbe dovuto farli sentite in qualche modo avvantaggiati. Non potevano più permettersi di vivere una situazione simile a quella in cui si erano imbattuti il giorno prima. Avrebbero dovuto capire sin da subito che non ci si poteva fidare di nessuno e che, probabilmente, avrebbero dovuto prestare attenzione persino alla propria ombra.
Purtroppo, il non sapere cosa fosse realmente accaduto dopo il bagliore, rendeva il tutto misterioso e spaventoso allo stesso tempo. In un’altra circostanza, Vegeta avrebbe incoraggiato i bambini a vivere quell’esperienza come un momento di formazione e di crescita personale. Quella volta non era veramente il caso.
Cercando di prestare attenzione a non svegliargli, il principe aveva fatto in modo di spostare sulla nuda roccia sia Trunks che Goten. Aveva necessità di espletare bisogni fisiologici e di scoprire se lì attorno ci fosse almeno una fonte di acqua potabile. Non credeva di essere talmente fortunato da trovare frutta commestibile, e non pensava neanche lontanamente di mettersi a cacciare o a pescare. Nello zainetto di Trunks poteva anche esserci un taglierino, ma non sarebbe stato in grado di usarlo per sgozzare e scuoiare una lepre o qualcosa di simile, là dove avesse avuto la fortuna di catturarlo. Avrebbe potuto pensare di costruire una trappola, ma gli occorrevano tempo e mezzi. E se il primo di certo non gli mancava, lo stesso non si poteva dire del secondo.
 
Dopo essersi svuotato la vescica e aver cercato di allungare i muscoli doloranti, il principe dei saiyan si era incamminato con circospezione fuori dall’antro che li aveva protetti durante la notte. L’idea di dover lasciare da soli i bambini non lo allettava, ma sarebbe stato peggio permettere che morissero di fame e sete.
Si trattava di separarsi da loro per qualche minuto. Si sarebbe allontanato di poco, e se non avesse trovato quello che cercava sarebbe tornato indietro per svegliarli e portarli con sé, perché oro erano tutto quello che gli restava della sua vita sulla Terra, loro rappresentavano tutto ciò che contasse veramente qualcosa.
 
Vegeta non era un tipo sentimentale. Non amava smancerie, effusioni indesiderate e piagnistei. Era un uomo pratico, rude, burbero, ma aveva imparato la differenza tra l’essere completamente abbandonato a se stesso e l’avere qualcuno che non solo lo apprezzava e lo proteggeva, ma qualcuno che desiderava a sua volta proteggere e che apprezzava e amava senza volere nulla in cambio. Quello era ciò che provava nei confronti di quelle due pesti che dormivano nella grotta. Sarebbe morto per loro, avrebbe ucciso chiunque a mani nude, pur di proteggerli. E non perché gli volevano bene e perché lo rispettavano, ma perché era lui ad aver perso il senno per loro.
 
“Tsk… Guarda tu in che razza di situazione mi sono cacciato!”.
 
A questo pensava mentre avanzava con cautela, nascondendosi dietro gli spessi tronchi dei castagni.
Odiava dover giocare la parte del codardo. Era stato addestrato alle missioni stealth, ma era un tipo aggressivo che amava gli ingressi spettacolari e devastanti. Non aveva lo spirito del samurai e non l’avrebbe mai avuto. Per sua fortuna, però, non era così stupido da rendersi un bersaglio facile: avrebbe continuato ad avanzare in quel modo fino a quando non si sarebbe sentito al sicuro, e sperava che ciò avvenisse al più presto. Odiava sentirti così vulnerabile e potente, ma l’unica cosa sensata da fare era ricacciare indietro i sentimenti negativi e provare a incanalarli in modo del tutto differente. Non che credesse alle stronzate di cui parlavano ogni tanto il vecchio maniaco delle Tartarughe e quel decerebrato di terza classe, ma doveva pur trovare il modo di calmarsi.
 
“Già, il vecchio maniaco… Chissà che situazione c’è lì, da lui. Forse, in un posto così lontano, la situazione è quella di sempre… Se solo sapessi come arrivare su quella dannata isola! Forse, lì i bambini sarebbero al sicuro”.
 
In un primo momento, aveva sperato che la lontananza di Kaharot avrebbe permesso loro di recuperare i poteri perduti. Purtroppo, si era reso conto dopo pochi minuti dalla partenza di Goku che quella fosse una sciocca fantasia più che una speranza, ma l’idea che Junior o qualche altro guerriero terrestre potesse essere ancora tra loro seppur privo di poteri non lo aveva abbandonato. Peccato che non avesse la benché minima idea di come fare a rintracciarli.
 
Perso nei suoi ragionamenti, Vegeta non si era del tutto reso conto di essersi allontanato dall’ingresso della caverna a tal punto da non vederlo quasi più, e si era fermato di colpo. Non c’era ancora la benché minima traccia di una fonte di acqua, e lui cominciava ad avvertire sempre più duramente l’arsura e i morsi della fame.
 
“TSK! Dannazione! Se non risolvo subito almeno questo problema i ragazzi non ce la faranno. Se solo avessi la forza di uccidere a mani nude… Se solo fossi abbastanza veloce da prendere almeno uno stupido pesce… Maledizione…”.
 
Si guardava attorno spaesato. Non riusciva a orientarsi, a muoversi con sicurezza. Si sentiva sperduto, Vegeta. Si sentiva piccolo. Piccolo e del tutto inutile.
Dalla rabbia, aveva dato un pugno contro la corteccia del castagno dietro cui si stava nascondendo con il semplice risultato di sbucciarsi le nocche e sentire il dolore montare a una velocità straordinaria.
 
“TSK!”.
 
Era un idiota. Un idiota con la mano sanguinante ma sicuramente non fratturata, che lo stava facendo soffrire fino alle lacrime.
Non avrebbe pianto. Non era nelle condizioni di potersi permettere di sprecare liquidi o mostrarsi debole, né a se stesso né agli altri. Per questo aveva nascosto il dorso ferito in un brandello della sua maglia, e aveva ricacciato indietro le lacrime.
Avrebbe lasciato le crisi di nervi a un altro momento. In quel momento, avrebbe solo dovuto mantenere i nervi saldi e la lucidità che gli aveva consentito di sfuggire a innumerevoli situazioni spiacevoli.
 
“Pensa, Vegeta… Avanti. Non è la prima volta che ti trovi nella situazione di dover pensare al tuo sostentamento. Pensa! Non diventare il rammollito che temevi di essere!”.
 
Se nei paraggi ci fosse stato qualcuno ad assistere alla scena, Vegeta non avrebbe più avuto il coraggio di mostrare la sua faccia in pubblico. Era talmente assorto nei suoi pensieri da non essersi reso conto che qualcosa si fosse avvicinata finché non si era effettivamente avvicinata.
Nel sentire il tocco di qualcosa di umido sulla caviglia scoperta, Vegeta era sobbalzato, sbilanciandosi di lato e sbattendo il gomito contro il tronco.
Questa volta, il dolore era stato mille volte più intenso di quello che si era provocato poco prima sulla nocche, ed era stato sul punto di vomitare e perdere i sensi, ma si era fatto forza, resistendo a quell’impulso incontrollabile e pensando al modo più veloce di scappare da chi aveva provato ad aggredirlo.
Aveva deciso di non fuggire in direzione della grotta: non avrebbe mai condotto il nemico dai ragazzi. Anzi, lo avrebbe depistato, cercando di trascinarlo fino al fiume e gettarlo nella corrente. Nessuno doveva avvicinarsi a Goten e Trunks.
Stava per mettere in atto il suo piano quando, improvvisamente, gli occhi velati di lacrime di dolore erano stati capaci di mettere a fuoco chi lo aveva attaccato, sentendosi il più grande degli idioti.
 
“Tu! TU! Maledetta palla di pelo… Maledetta, stupidissima palla di pelo!”.
 
Per poco non era morto di infarto perché credeva di essere stato scoperto, quando invece si trattava di Ouji, che festante si era avvicinato a lui scodinzolando senza freni.
 
“TSK! Se non troverò niente da mangiare darò te in pasto ai ragazzi! Stupida palla di pelo! Che ci fai qui, si può sapere?”.
 
Si sentiva un perfetto imbecille a parlare con quel cane. Goten avrebbe dovuto chiamarlo Kaharot, non Ouji, considerando la sua attitudine a fare cose stupide e senza senso.
Ma quando era uscito dalla grotta? E, soprattutto, perché? A ben pensarci, non lo aveva visto accanto ai ragazzi, al suo risveglio, né in nessun altro anfratto, solo che non ci aveva proprio fatto caso.
 
“Razza di bestiaccia, vedi di non allontanarti! Non ho intenzione di sentire i piagnistei di quei due. Cerca di non perderti!”.
 
Il cagnolino lo guardava, stranito. Vegeta aveva seriamente l’impressione che lo stesse ascoltando, che capisse quello che diceva, ma si era convinto che le cose non potessero essere in quel modo per nessuna ragione al mondo.
Sconcertato e dolorante, Vegeta si era rimesso in posizione eretta, massaggiandosi il gomito con la mano ferita. Capitavano proprio tutte a lui.
 
Era stato mentre cercava di riprendere a respirare regolarmente il momento in cui Ouji aveva cominciato a tirargli i lacci della scarpe, facendo forza sulle zampe per cercare di trascinarlo con sé.
 
“Che diavolo stai facendo, palla di pelo? La vuoi piantare? SMETTILA!”.
 
Ma Ouji non aveva ubbidito e aveva continuato a tirarlo. Era chiaro che volesse essere seguito.
 
“TSK! E VA BENE!”.
 
Era ferito, mezzo nudo, assetato, affamato, stanco e stava seguendo un cane. Cosa poteva esserci di più assurdo?
Non avevano percorso neanche un centinaio di metri che Ouji si era fermato, mostrando a Vegeta quello che aveva scoperto.
 
“Tsk! A dir poco assurdo”.
 
E lo era veramente, assurdo, perché Ouji aveva trovato una fonte di acqua che sicuramente era potabile, e per di più, lì vicino c’era un melo. Il cane aveva scoperto quello che avrebbe dovuto scoprire lui, in buona sostanza.
 
“Forse, Goten non aveva tutti i torti quando ti ha chiamato Ouji…” – aveva asserito, chinandosi per bere. L’acqua era gelida, cristallina, aveva un sapore mai provato prima. Aveva bevuto avidamente sino a sentirsi esplodere, e poi, preso dai morsi della fame, aveva ignorato il dolore al gomito e si era allungato quanto bastava per cogliere un pomo maturo. Il frutto era giallo e tondo, profumato a tal punto da fargli venire l’acquolina in bocca, ed era bastato un morso per fargliene desiderare ancora. Per un istante, Vegeta aveva creduto di essere morto e che quello fosse il Paradiso. Ma, se così fosse stato, non avrebbe sentito dolore, non avrebbe continuato a preoccuparsi per i ragazzi, non avrebbe sentito i morsi della fame, né la sete. Purtroppo – o per fortuna – era ancora vivo. E sperava di restarlo abbastanza da trovare una soluzione.
 
“Torniamo dai ragazzi, sbrigati”.
 
Non si era preoccupato di raccogliere i frutti. Quel posto non era molto distante dall’ingresso della grotta e voleva che i ragazzi si idratassero prima di mangiare. Poi, solo dopo essersi rifocillati avrebbero potuto rimettersi in marcia. Vegeta aveva deciso di raggiungere la cittadina più vicina. Era inutile nascondersi nel bosco, non avrebbero cavato un ragno dal buco. Sarebbe stato opportuno studiarne da lontano gli abitanti, capirne usi e costumi e cercare di dare un senso alle parole di quell’individuo sporco e puzzolente che lo aveva quasi ammazzato.
 
“Pensavo che il cavaliere ti avesse abbattuto con la catapulta, ma quando sono andato a vedere i resti di quel mostro volante, ho visto che c’erano tracce di passaggio di qualche essere… Eri tu… Eri tu che sei piombato dal cielo con quei tuoi figli, i figli del demonio! Ammettilo! AMMETTILO!” – gli aveva urlato.
 
I figli del demonio, come no! Lui c’era stato, all’Inferno, e poteva affermare con chiarezza che le cose non stavano come pensavano quegli sciocchi. A dire il vero, cominciava a pensare che l’Inferno fosse piombato in Terra, ma quello era un altro discorso che non voleva affrontare né con se stesso né con i ragazzi.
 
Era stato allora che un guaito spaventoso gli aveva fatto raggelare il sangue, costringendolo a voltarsi.
Quello che aveva visto era stato uno spettacolo spaventoso, così terrificante da fargli sbarrare gli occhi: uno spaventoso, gigantesco serpente nero come la pece aveva stretto Ouji tra le sue spire e lo stava stritolando.
 
“La-lascialo!”.
 
Vegeta avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto correre da quell’odiosa palla di pelo e liberarla dalla stretta, ma era paralizzato dalla paura e dall’orrore. Aveva dimenticato persino come si faceva a respirare.
 
“Lascialo andare!”.
 
Il cagnolino guaiva disperatamente, ormai allo stremo delle forze. Vegeta era caduto a terra, incapace di muovere anche solo un muscolo e allo stesso tempo incapace di allontanarsi da lì. Sentiva la pelle del serpente avvinghiarsi attorno al suo torace, sentiva la sua stretta micidiale e la vita che scivolava via dal suo corpo inesorabilmente. Sentiva su di sé la sofferenza di Ouji, di quel piccolo guerriero coraggioso che tato conforto aveva saputo dare a Goten e a Trunks.
E poi, lo aveva sentito: il rumore delle ossa che si infrangevano, il dolore degli organi che, lacerati, avevano smesso di funzionare, il freddo della morte che sopraggiungeva. Poi, più nulla, se non il buio.
 
*
 
Si era svegliato dopo un tempo incalcolabile. Potevano essere trascorsi secondi, minuti o persino ore, non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che lì dove c’era Ouji, non c’era più niente, e che sul suo corpo potevano vedersi i segni delle spire del serpente che, nascosto nel buio, lo osservava con i suoi occhi spaventosi.
 
Continua…


 
Ciao a tutti!
Come state? Mi scuso sin da ora per non aver aggiornato, la scorsa settimana.
Abbiamo perso anche il piccolo Ouji, e lo abbiamo perso in maniera tragica. Sono addolorata. Scrivere questo capitolo è stato particolarmente complicato, per me, perché ho un cagnolino (Nerino) e non voglio pensare che un giorno non ci sarà più. Ma qui le cose vanno in questo modo, purtroppo. L’Altrove è un posto spaventoso.
Che dirvi di più?
Vi ringrazio per la pazienza e per l’affetto che mi dimostrate!
A presto!
Un bacino
 
Cleo

 

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Capitolo 37
*** Per strada ***


Per strada
 
Aveva aspettato lì, steso per terra, lontano dal nascondiglio di quel mostro strisciante, per un tempo impossibile da quantificare. Quello che lo aveva assalito era stato un attacco di panico in piena regola: le membra si erano irrigidite, la vista si era annebbiata, la bocca e la lingua erano diventate asciutte e un nodo si era formato nella sua gola, impedendogli di respirare e di deglutire correttamente. Quell’orribile creatura avrebbe potuto assalirlo da un momento all’altro, stritolarlo tra le sue spire e divorarlo, ma non lo aveva fatto. Si era limitata a rimanere rintanata nel suo covo, a fissarlo con quegli occhi di rubino ardenti come fiamme dell’Inferno.
Come avrebbe fatto a spiegare ai ragazzi quello che era capitato a Ouji? Cosa avrebbe dovuto dire a Goten, laddove il ragazzo lo avesse ascoltato? Al bambino era stato tolto tutto ciò che più amava. Il destino avverso si era accanito contro il giovane mezzo-saiyan, privandolo degli affetti più cari, dell’amore di sua madre, di suo fratello, e del sentimento incondizionato che Ouji provava per lui. Quella povera bestia aveva solo cercato di aiutarli, dimostrandosi un animale intelligente e fidato, un compagno amorevole, coraggioso e leale. E adesso non c’era più. Ouji non c’era più.
A fatica, quando le pupille fiammeggianti erano sparite dietro il buio di un roveto, Vegeta aveva pian piano riacquistato coscienza di sé, ricominciando a respirare regolarmente e provando a fare chiarezza nella confusione che aveva in testa. Quello stupido cane non c’era più e continuare a pensare a ciò che era successo non avrebbe cambiato quella realtà. Doveva solo alzarsi da lì, prendere i ragazzi e levare le tende al più presto. Al diavolo il bere e il nutrirsi, al diavolo gli animali che popolavano quel dannato bosco, al diavolo tutto.
 
Con una forza che non credeva di avere, si era diretto a grandi passi presso la grotta e aveva svegliato i ragazzi. Prima Trunks e poi Goten. Entrambi avevano sussultato per il modo brusco in cui erano stati scossi dal sonno, e dopo aver sbadigliato sonoramente, Trunks aveva chiesto cosa fosse successo, perché no, Vegeta non era stato in grado di celare il suo disappunto, la sua ansia, dipinti chiaramente sul suo volto provato.
 
“Papà… Ma cosa hai fatto Che ti è capitato? Hai una faccia…”.
“TSK! Non è successo proprio un bel niente! Avanti, prendi il tuo zaino e aiuta Goten a rimettersi in piedi”.
“Va bene, ma…”.
“Ti ho detto di rimetterti in piedi. Lo vuoi capire o no che ce ne dobbiamo andare?”.
“Così però mi fai paura… Ma va bene…”.
 
Non era di certo quello che avrebbe voluto fare, terrorizzare suo figlio, ma non si era ancora del tutto tranquillizzato dopo la bruttissima esperienza di prima, e non poteva permettere che accadesse qualcosa di peggio. Al pensiero di aver trascorso un’intera notte in quella caverna, i peli sulle braccia gli si erano rizzati: e se quell’orribile bestia strisciante avesse stritolato e divorato lui e i bambini durante il sonno? Se avesse dovuto assistere alla morte dei bambini, inerme? Non riusciva a non pensarci, per quanto si sforzasse.
Odiava le cose che strisciano. Le odiava tutte. Era un terrore irrazionale legato alla sua infanzia. Non sapeva ricondurlo a un evento ben preciso, sapeva solo che, a un certo punto della sua giovane vita, aveva iniziato a provare repulsione prima verso i lunghi e grassi lombrichi rosa incontrati durante la conquista di un pianeta lontano e che poi, quella paura, si era estesa a qualsiasi essere privo di zampe. Sapeva che prima o poi sarebbe morto – era già morto e risorto, per essere precisi – ma voleva morire in battaglia, non di certo per la paura o a causa delle spire di uno di quegli esseri rivoltanti. Ma non avrebbe potuto né voluto spiegarlo ai ragazzi. Mica voleva passare per uno sporco codardo che se la faceva sotto dalla paura.
 
“TSK! Muoviti e basta”.
 
Goten non voleva collaborare. Il ragazzino era ancora perso nel suo mondo lontano. Il suo sguardo era assente, la palle era pallida, le membra cadenti. Stava seduto da solo per miracolo, e Trunks stava facendo non poca fatica a rimetterlo in piedi. C’era da dire che avrebbe potuto sfruttare quella situazione a proprio vantaggio: nessuno dei due si era accorto della mancanza del cane, e questo gli avrebbe permesso di tutelare Goten almeno per un altro po’ di tempo. Per quanto, però, non gli era dato saperlo.
 
“Forza. Andiamo”.
 
Aveva preso il bambino in braccio senza alcuna delicatezza, cercando di mostrarsi risoluto, ma la fretta non gli era stata d’aiuto. Trunks era identico a sua madre, talmente attento e intelligente da non farsi sfuggire niente, neanche nelle situazioni di stress. La sua era stata una domanda innocente, priva di qualsiasi malizia e carica di preoccupazione sincera. Come avrebbe potuto sapere che avrebbe causato l’irreparabile?
 
“Ehi… Ma dov’è Ouji?”.
 
Una singola goccia di sudore si era formata sulla nuca di Vegeta ed era scesa, lenta e inesorabile, lungo la schiena nuda, facendolo rabbrividire. Cosa avrebbe dovuto rispondere?
 
“Trunks… Ti ho detto di prendere lo zaino e di sbrigarti”.
“Sì, ho capito. Ma Ouji… Non possiamo andare via senza di lui. Se dovesse tornare e non trovarci? Cosa farebbe?”.
“Trunks…”.
“Papà, dai…”.
“Adesso basta, Ti ho detto di seguirmi e di chiudere il becco!”.
“Ma…”.
“Il cane si è allontanato e non tornerà, Trunks”.
 
Aveva cercato di mantenere un tono neutro, pacato, cercando di non sembrare agitato o spaventato. Doveva mantenere a tutti i costi il controllo di sé e della situazione, non poteva permettersi colpi di testa, o non avrebbe davvero saputo come uscirne.
 
“Ora, non perdiamo altro tempo e…”.
 
Le parole gli erano morte in gola nel momento in cui si era reso conto che Goten, dopo averlo stretto con forza, era scoppiato in lacrime. Il suo pianto disperato aveva scosso profondamente il principe dei saiyan, che si era ritrovato la pelle della schiena stretta dalle manine di un bambino che singhiozzava in maniera incontrollabile.
 
“Non ci voglio credere…” – anche gli occhi di Trunks si erano riempiti di calde gocce salate. Il bimbo aveva cercato di trattenersi, ma era stato impossibile. Ouji era piccolo e indifeso, era un tenero batuffolo e, anche se aveva trascorso con loro pochissimo tempo, era stato praticamente impossibile non amarlo incondizionatamente. Ma non piangeva solo per Ouji: Trunks piangeva anche per Goten, perché sapeva che il suo amico non avrebbe potuto sopportare più di quanto già non stesse facendo.
 
“Trunks… Se hai preso lo zaino possiamo andare…”.
 
Vegeta stava dando le spalle a suo figlio. Non voleva che lo guardasse in faccia. Il principe non stava piangendo, anche se la situazione avrebbe potuto concedere uno sfogo anche a uno come lui. Era stanco di vedere i bambini in quelle condizioni. Era stanco e… dispiaciuto. E non capiva perché. Le perdite temprano i guerrieri, li aiutano a capire che le battaglie non sono commedie o giochi di bambino. Lui stesso aveva visto cadere innumerevoli guerrieri, aveva scoperto la verità su suo padre e sui suoi simili, ma non aveva ceduto al pianto e alla disperazione. Quello che Vegeta non voleva ammettere a se stesso, era che le cose non fossero minimamente paragonabili. Perché, nonostante fosse un bambino quando aveva perso la sua famiglia, il suo regno, il suo mondo, non albergavano nel suo cuore gli stessi sentimenti odierni, quei sentimenti che, seppur in parte repressi, non erano molto dissimili da quelli provati dai bambini.
Ma non poteva cedere. Se, da un lato, mostrarsi solidale nei loro confronti li avrebbe fatti sentire capiti, li avrebbe consolati, dall’altro ciò lo avrebbe reso debole, e lui non poteva permettere che ciò accadesse. Quel nuovo mondo sorto da poco era pieno di insidie, era crudele, e prima lo avrebbero capito, prima sarebbero stati in grado di affrontarlo e cambiarlo. Era la sola opzione che avevano.
 
*
 
Era stato costretto a mettere Goten a terra, alla fine. Le energie tipiche degli umani non gli avevano consentito di portarlo oltre in braccio. A giudicare dalla posizione del sole e dall’orologio – seppur scheggiato – di Trunks, era quasi mezzogiorno, e loro non avevano né mangiato, né bevuto. Se avessero continuato a vagare senza una meta, presto sarebbero morti tutti e tre. I biscotti che il bambino aveva infilato nel proprio zainetto erano ormai finiti, e Vegeta aveva impedito ai ragazzi di bere l’acqua del ruscello. Era convinto che, prima o poi, si sarebbero imbattuti in qualche cittadina, e lì – forse – avrebbero cominciato a capire come rifocillarsi e cosa diamine fosse capitato.
 
“Papà, secondo te, che cosa è successo a casa di quella signora, dopo gli spari?”.
 
Trunks aveva posto quella domanda a bruciapelo, lasciandolo di stucco. Non pensava che suo figlio fosse rimasto tanto impressionato da quella disavventura.
Quella donna li aveva aiutati, alla fine… Poteva pure darsi che sapesse qualche cosa in più in merito alle idiozie pronunciate da quel viscido schifoso di suo fratello.
 
“Francamente, non ne ho la benché minima idea…”.
“Ma, secondo te, lei era una persona cattiva?”.
“Che vuoi dire?”.
“Voglio dire: come si fa a distinguere se uno è buono o cattivo? Se uno merita il perdono o no? Lei ha sparato per aiutarci, quindi ha fatto una cosa buona. Grazie a lei siamo scappati. Però ci ha drogati e ha comunque sparato, e lo ha fatto al fratello… Questa, quindi, è una cosa cattiva. Allora lei era buona o cattiva? Sono molto confuso…”.
 
Quel ragionamento aveva messo in seria difficoltà un Vegeta già sufficientemente provato di suo.
Si era preso un istante per riflettere e cercare di capire quale risposta fosse più giusta quando si era reso conto di non averla. Suo figlio ignorava il suo passato sanguinoso da schiavo al servizio di Freezer, non aveva idea di quanto fosse stato spietato, crudele e sadico. Conosceva un Vegeta diverso, uno addolcito dall’amore di Bulma e dalla conoscenza del suo unico figlio venuto dal futuro. Da quando era terminato il Cell-Game, lui non aveva più compiuto un’azione cattiva. Aveva “rigato dritto”, per citare i poliziotti dei film che guardava in TV. Ma questo faceva di lui un buono o un cattivo?
 
“Probabilmente, non esiste nessuno del tutto buono o del tutto cattivo, tranne alcune persone”.
“Capisco… Spero che la signora Marylin stia bene, comunque”.
 
A lui, della signora Marylin, non importava un fico secco, ma aveva preferito non dire niente all’affermazione di suo figlio e continuare a camminare.
 
Goten sembrava aver pianto tutte le lacrime del mondo. Il bambino era smunto ed emaciato, e sembrava stanco di vivere, ma il suo sguardo non era più perso nel vuoto. Anche se non aveva ancora proferito parola, era più presente rispetto a prima. Vegeta credeva che ciò fosse capitato a causa della morte di Ouji: il primo evento traumatico che aveva subito – la sparizione di Gohan tra le rapide – lo aveva atterrito al punto di condurlo in quella specie di catarsi, mentre lo shock del secondo evento traumatico lo aveva ridestato. Certo, sarebbe stato meglio per il cane se non avesse fatto quella fine orribile (“Tsk! Ma guarda un po’ a cosa vado a pensare!”), però Ouji si era rivelato determinante anche in una circostanza del tutto inaspettata e drammatica.
 
“Comincio ad avere una gran sete…”.
 
Trunks aveva cercato di lamentarsi il meno possibile, ma ormai era arrivato al limite. Era certo che suo padre e Goten stessero soffrendo allo stesso modo, e non avrebbe voluto dire quello che aveva detto ad alta voce, ma ormai era fatta e non poteva più tornare indietro. Si augurava solo di arrivare in un luogo sicuro prima di notte.
 
*
 
Le silenziose preghiere di Trunks erano state ascoltate dalle divinità del cielo, perché neanche a farlo di proposito, dopo una ventina di chilometri percorsi nel fitto del bosco, avevano trovato una strada asfaltata – sebbene essa fosse in rovina, piena di buche ed erbacce – e a giudicare dai rumori in lontananza, non dovevano essere molto distanti da un centro abitato.
 
“Credo che laggiù ci sia qualcuno, papà… O meglio, credo che ci sia una città, o magari un paese…”.
“Sì, potrebbe essere…”.
“Che facciamo… Andiamo?”.
 
L’impazienza del bambino era comprensibile, ma dopo quello che avevano passato in precedenza, Vegeta non avrebbe commesso due volte lo stesso errore. La decisione che stava per comunicare ai ragazzi aveva delle conseguenze, ma era stata ben ponderata durante quell’interminabile tragitto fatto a piedi, e di certo non avrebbe cambiato idea, sicuramente non dopo aver sentito suppliche o piagnistei di qualche tipo.
 
“Andrò in avanscoperta, Trunks, mentre tu e Goten resterete nascosti al limite del bosco”.
“Che? Papà, non ti lascio andare da solo! È troppo pericoloso”.
 
Il principe aveva alzato lo sguardo verso il cielo, conscio che non avrebbe potuto aspettarsi una reazione diversa da parte sua.
 
“Non ho intenzione di discutere con te di questa cosa. Bada a Goten. Se non mi vedete tornare entro quattro ore, non azzardatevi a venire a cercarmi. Fuggite lontano e cercate di contattare in qualche modo quel tizio chiamato re Kaioh. Sono certo che non resterà indifferente alle vostre suppliche”.
“Ma…”.
“Tu vuoi abbandonarci”.
 
Non udivano da così tanto tempo la vocina di Goten che, per un brevissimo istante, quasi non si erano resi conto che fosse stato lui a parlare. Il piccolo stava fissando il saiyan con i suoi penetranti occhi scuri, e lo sguardo di accusa che gli aveva rivolto lo aveva pietrificato.
 
“Sapevo che avreste reagito così, ma non c’è altro modo”.
“Ma io… Io la penso come Goten, papà…”.
“Bene, allora ho cresciuto due sciocchi che si rifiutano di guardare in faccia la realtà!”.
 
Vegeta aveva tuonato quella verità senza porsi troppi scrupoli. Non doveva essere troppo duro con loro, ne era cosciente, ma non poteva evitarlo. Dovevano accettare la realtà dei fatti e dovevano proteggersi l’un l’altro. Era compito di Trunks guardare le spalle a Goten e viceversa, fine della storia. Non li avrebbe portati con sé per nessun motivo, avrebbero dovuto accettarlo e basta.
 
“Sei ingiusto…”.
“Può darsi che io lo sia, Goten… Ma la vita è questa. E fa abbastanza schifo. Sta a noi cercare di non renderla più difficile di quanto non sia. Ora, cercate di aprire le orecchie: non sto andando a divertirmi. I soldati si comportano in questo modo, seguono una strategia ben definita. Uno di loro va in avanscoperta e torna indietro a portare notizie. Solo dopo che ha capito come muoversi ritorna alla base e stila un piano con i suoi commilitoni. Avete visto con i vostri occhi cosa succede se non si rispetta questa regola basilare: si mettono a rischio le vite degli uomini e la missione stessa. Vogliamo ancora comportarci da perfetti idioti o seguire una strategia, a questo punto?”.
 
Li aveva zittiti. O, almeno, così sembrava.
Trunks avrebbe voluto dire tante cose a suo padre, ma proprio non sapeva da che parte cominciare. Il suo discorso era giusto, giustissimo, ma davvero avrebbero avuto la forza di fare quello che gli aveva detto se non fosse tornato indietro? Sarebbero rimasti soli, lui e Goten, definitivamente soli. Non poteva e voleva che ciò capitasse.
Però, allo stesso tempo, sentiva che dare forza e sostegno morale a suo padre sarebbe stata la cosa più giusta da fare. Come comportarsi, allora?
 
“Va bene. Faremo come dici”.
 
Era stato Goten a precederlo e a dare la forza a entrambi. Il suo migliore amico sembrava più determinato che mai, nonostante il suo aspetto simile a quello di un bimbo malato da tempo.
 
“Sì, papà. Va bene. Ma tu vedi di tornare. O non ti perdonerò mai”.
 
Vegeta aveva avuto un sussulto: per la prima volta in vita sua, aveva visto ardere negli occhi di suo figlio la fiamma di un vero principe di razza saiyan.
 
*
 
Si era sistemato meglio che poteva. La maglia non era tornata come nuova, ma non aveva potuto fare altro. Dopo aver dato un’ultima occhiata ai ragazzi era andato via, imboccando la strada che avevano scoperto senza voltarsi indietro. Non doveva avere esitazioni, non doveva mostrarsi debole. Lo stava facendo per se stesso e per i ragazzi, lo stava facendo per la sua Bulma e per Chichi, in un certo senso. Per nessuna ragione al mondo si sarebbe tirato indietro.
 
Aveva impiegato poco meno di venti minuti per raggiungere le porte della città. A primo impatto, sembrava un normalissimo centro abitato, ma ancora una volta si era reso conto che non vi fosse in giro praticamente nessuno e che le strade, le case, i negozi, sembravano essere caduti in disuso da tempo. Come era possibile? Era come se fossero trascorsi decenni da quando qualcuno si era preso la briga di fare lavori di manutenzione. Era stato un po’ come fare un salto in avanti nel tempo. O indietro, considerando quello che aveva visto poco dopo: un carretto di legno trainato da un ciuco, guidato da un uomo dal cappello di paglia. Quell’uomo era… aveva qualcosa di… antico. Di vecchio. Dietro di lui, sul carro, sedeva una giovane donna in abiti da contadina con una cuffietta in testa e un cesto in grembo. Nel vederlo, l’uomo aveva fatto un cenno con il capo e si era fermato, squadrandolo da capo a piedi. Era come se quello strano fosse Vegeta e non lui.
 
“Buonuomo, che ti succede? Hai bisogno di qualcosa?”.
 
“Buonuomo… Meglio ingoiare il rospo”.
 
“Io… Sono di passaggio… Sono nuovo…. Dove siamo?”.
“Questa è l’a città dell’Est, una delle più grandi del Paese! Cosa ti porta qui? Parenti? O la stagione?”.
“La… Stagione?”
“Certo, la stagione! Un ragazzone robusto come te deve per forza essere venuto qui per lavorare! I contadini non bastano mai! Se hai bisogno, ti porto io dal mio padrone! La paga non è un granché, ma si campa bene! Sali, dai!”.
 
Lavoro. Gli stavano offrendo un lavoro. Quell’uomo aveva chiesto a lui, il principe dei saiyan, di lavorare come contadino. C-O-N-T-A-D-I-N-O. Aveva avuto bisogno di un attimo per riprendersi.
 
“Allora? Sali o no?”.
“Tsk”.
 
Ed era salito, prendendo posto accanto a lui. Ci mancava solo che avrebbe dovuto sedersi accanto a quella strana donna in cuffia e sottane sotto la gonna.
 
“Allora! Sei arrivato da poco, hai detto? Da dove vieni? Sei sposato? Cosa sai fare? Sai leggere e scrivere? I ragazzoni come te sono molto apprezzati, qui! Sembri un gran lavoratore! E come ti chiami?”.
 
In un’altra circostanza, se non avesse smesso di parlare all’istante, Vegeta lo avrebbe polverizzato insieme alla tizia che sedeva dietro di loro. Ma quella non era un’altra circostanza, e aveva dovuto ingoiare il rospo. Di nuovo.
 
“Mi chiamo Vegeta. Vengo da un posto lontano e sì, so leggere e scrivere. Sono… Ero sposato. E ho… Ho due figli”.
“Due figli! Che meraviglia! E dove sono adesso?”.
“Mi aspettano”.
 
Aveva preferito mantenersi sul generico. Aveva appena detto che Goten era suo figlio.
 
“Bene, sono certo che se ti traferirai qui, loro saranno contenti di andare a scuola con i nostri ragazzi. Qui i bambini sono felici. Anche se l’inverno è duro… Dovrai trovare una casa. Ma ci sono un sacco di capanne vuote con un pezzetto di terra attorno e potrai sistemarti bene. Sono certo che la lavorerai benissimo. Oh, guarda! Siamo quasi arrivati!”.
 
In lontananza, si vedevano una grande costruzione di legno e pietra e distese interminabili di campi coltivati in cui lavoravano un numero indefinito di individui. Dov’erano finiti i mezzi agricoli? I camion per trasportare i prodotti raccolti? Era tutto così assurdo da non sembrare reale.
 
“Tu e lei da quanto tempo siete qui?” – si era deciso a chiedere.
“Oh, da sempre!”.
“Le cose sono cambiate dopo il bagliore”.
 
Era stata la ragazza a parlare.
 
“Lo avete visto anche voi?”.
“Lo hanno visto tutti”.
“Sì, ma cosa è successo, nello specifico?”.
“Che vuoi dire?”.
“Le cose sono rimaste uguali a prima? Non mi sembra. E…”.
“Non ci sono più macchine. Niente più aerei… Niente più elettricità… Alcune persone sono sparite nel nulla, e…”.
“Smettila” – l’aveva ammonito lui – “Mi dispiace, Vegeta, mia figlia non sta molto bene. Il bagliore deve averle fatto qualcosa… Dice cose senza senso. Se la sentissero le guardie la prenderebbero e… Tu non sei una guardia, vero?”.
 
Ancora una volta, le donne ricordavano cose che gli uomini sembravano ignorare del tutto. Che cavolo poteva significare una cosa del genere?
 
“No. Certo che no”.
“Meglio. Lei è un po’ fuori dalle righe. Ma non è una strega… Che Dio la aiuti!”.
 
Sì… Forse, solo un dio avrebbe potuto aiutarli. Peccato che Vegeta non sapesse più a quale dio rivolgersi.
 
Continua…


Eccomi qui!!
Di nuovo in ritardo. È da mercoledì scorso che lavoro a questo capitolo. Mi ha fatto sudare! Ma eccolo qui, nuovo di zecca tutto per voi.
Orbene, abbiamo capito qualche cosa in più. O no? Attendo un vostro parere a riguardo!
Scappo!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 38
*** In attesa ***


In attesa

 
Trunks era rimasto da solo con Goten, ed entrambi in bambini erano in trepidante attesa del rientro del principe dei saiyan. Era felice di sapere che il suo migliore amico fosse di nuovo tra loro, che fosse vigile, presente, che aveva deciso di farsi coraggio e di tornare a lottare nonostante quello che aveva passato. Lo ammirava molto. E per questo gli voleva un gran bene e provava per lui un enorme rispetto.
 
“Ti senti… Volevo dire… Cioè, sì…”.
“Sto uno schifo, Trunks… Ma grazie”.
 
Goten era stato capace di tirarlo fuori dalla situazione spinosa in cui si era cacciato in meno di un secondo. Perché, a volte, la sua lingua correva più del suo cervello?
 
“Sto davvero morendo di fame… Ma è la sete la cosa che non sopporto più, credimi… Sta diventando un pensiero fisso”.
“Sì, lo capisco bene… Ma sono così stanco… Ho così tanto sonno…”.
“Quanto ti capisco… Senti, Goten, facciamo così. Riposati. Dormi, se vuoi. Io faccio la guardia. Poi, fra due ore, ti sveglio e dormo io. Ti va?”.
“Mi sembra una buona idea!”.
“Allora rilassati e non pensare a niente. Farò io la guardia qui. Può essere pure che papà tornerà prima…”.
“O che non tornerà affatto…”.
“Perché dici queste cose?”.
 
Il bambino dai capelli a palma aveva fatto una lunghissima pausa prima di rispondere. Si era coricato su un fianco, con la testa poggiata su entrambe le mani, giunte, e fissava un punto imprecisato dietro la spalla di Trunks.
Ma poi, dopo quel silenzio che era parso interminabile, Goten aveva parlato, pronunciando parole amare.
 
“Perché comincio ad abituarmi all’idea che tutti se ne andranno”.
 
*
 
Gli aveva dato il permesso di seguirla solo strappandogli la promessa di non avvicinarsi a lei più del necessario. Non aveva un’idea precisa di quanto fosse più del necessario, ma non aveva protestato e aveva accettato quella condizione, per quanto si sentisse un perfetto idiota nel comunicare con qualcuno a quella distanza.
La donna che aveva incontrato Goku, Marylin, era una delle creature più bizzarre che avesse mai visto. Aveva un cipiglio che le ricordava molto quello della sua Chichi, ma la grinta e la caparbietà dimostrare la avvicinavano molto più a Bulma. Era sveglia, intelligente e aveva dimostrato di essere molto risoluta, quasi spaventosa, a tratti. Al nostro eroe dai capelli a palma era risultata subito affidabile, ma Goku sapeva bene di non poter essere sicuro di nessuno, in quella realtà, soprattutto perché non era sicuro per prima cosa di se stesso.
 
Ma, nonostante i dubbi e gli ottimi consigli che aveva provato a darsi, aveva seguito la donna sin dentro la sua casa, cercando di non essere indiscreto e di mantenere le distanze promesse.
 
“Siediti. E non dire una parola se non te lo dico io. Capito, omaccione?”.
“Sissignora!”.
 
Era abituato a ricevere ordini da una donna. Per questa ragione, non si era risentito del tono autoritario di lei e aveva ubbidito, prendendo posto sulla sedia di paglia sistemata accanto all’ingresso.
Il pavimento era stato tirato a lucido da poco: appena entrato nella stanza, Goku aveva avvertito un forte odore di ammoniaca, ma non era stato abbastanza per rimuovere completamente le macchie che si trovavano su alcuni mobili e, data la sua esperienza, Goku era certo che si trattasse di schizzi di sangue.
Cosa diavolo era successo lì dentro? C’erano stati suo figlio, Trunks e Vegeta, lì, in quella casa. Che fosse loro, quel sangue?
Marylin aveva stappato una bottiglia dal contenuto trasparente, l’aveva annusata e aveva versato una generosa dose di liquido in un bicchiere, buttandolo giù tutto d’un fiato. Goku aveva visto la sua amica Bulma fare quello stesso gesto tantissime volte, ma lui non era un amante dei liquori. Ogni tanto gli era capitato di bere qualche bicchierino di sakè, ma non si era mai ubriacato. Bulma, invece, beveva spesso, soprattutto durante le feste e, in quelle situazioni, non dava certo il meglio di sé. Che cosa avrebbe fatto, adesso, quella donna che – per altro – aveva ancora in mano il fucile?
 
“Ne vuoi?”.
 
Glielo aveva chiesto senza alcuna delicatezza, porgendogli direttamente la bottiglia aperta. Lo fissava con quei suoi grandi occhi penetranti, occhi carichi di sospetto e di accusa. Che cosa voleva da lui? E lui, cosa sperava di trovare in lei?
 
“Io? No, grazie. Meglio di no”.
“Ottimo. Ce n’è di più per me”.
 
E, dopo averlo detto, aveva ingurgitato un’altra generosissima dose di liquido trasparente, emettendo, alla fine, un suono non del tutto appropriato a una signora.
 
“I ragazzi sono stati qui, come ti ho già detto. O meglio, l’uomo è stato qui. Poveraccio… Se non fossi intervenuta, lo avrebbero portato in paese, e a quel punto, solo gli dei avrebbero potuto sapere cosa ne sarebbe stato di lui e dei suoi figli…”.
 
Goku aveva detto a quella donna che Goten era suo figlio, glielo aveva ripetuto più volte, ma lei sembrava non aver recepito. O, forse, semplicemente non le importava. Per lei, che Goten fosse figlio suo o di Vegeta non faceva alcuna differenza. Per lui, invece, significava tutto.
 
“Sono caduti dal velivolo…“ – aveva ripreso a parlare, cambiando tono – “Non so come abbiano fatto a sopravvivere allo schianto. Ma quei cretini, bifolchi, ignoranti di mio fratello e dei suoi compari, li hanno additati subito come figli del demonio, o che so io… Ah, è incredibile come ci siamo ridotti in così poco tempo…”.
 
E di nuovo aveva bevuto. Di quel passo, si sarebbe certamente ubriacata, e Goku non era bravo a gestire le donne ubriache, men che meno ora che non poteva avvicinarsi per soccorrerla.
 
“All’inizio, pensavo fossero un problema, lui e i bambini… Qui, nei villaggi accanto, è scomparsa un sacco di gente. Molti dei loro parenti hanno detto che le persone più deboli hanno cominciato a sentirsi stanche e poi sono sparite nel nulla, dissolte come fumo nell’aria. Questa storia mi sembrava una boiata, ma poi l’ho visto con i miei occhi… La mia povera mamma è… Ma lasciamo perdere. Non è di questo che dobbiamo parlare. Sta di fatto che lui mi ha chiesto riparo per sé e per i figli, e io non mi sono sentita male in loro presenza, quindi non poteva di certo essere colpa loro – dico così perché tutti sanno che è colpa di qualcuno nello specifico se le persone stanno sparendo – e mi sono detta che avrei potuto lasciarli entrare. Ma poi ho capito che erano piombati giù dall’aereo, e ho preferito lasciar perdere. Se mio fratello lo avesse saputo, sarebbero stati guai. E io non avevo il permesso di farli entrare in casa. Sono solo una donna… Capisci il disagio? Ma lui mi ha quasi pregata… Stavano tutti male e… E come una stupida mi sono lasciata impietosire. E ho dovuto ubbidire ciecamente a quello che mi ha detto quell’idiota, cafone di mio fratello. Se non fossi intervenuta… Se non gli avessi dato una lezione con il fucile che avevo nascosto, sarebbero morti. Ho sacrificato ciò che rimaneva della mia famiglia per salvare tre perfetti sconosciuti”.
 
La sorsata che aveva dato alla bottiglia era stata così lunga da averla quasi prosciugata. Per questo motivo, le era servito un pochino di tempo per riprendere fiato e rimettere a posto le idee.
 
“Pensava che avessi dimenticato come si usava il fucile, ma non è così… Pensava di avermi sottomessa. Ma si sbagliava! Tutti sbagliano. Se stiamo zitte è perché non sappiano ancora come reagire. Ma noi non siamo deboli e sciocche come credono. Noi ricordiamo, anche se non ricordiamo tutto alla perfezione. E ci riprenderemo quello che è nostro, costi quel che costi.
Però, loro erano diversi. Ho parlato con i bambini per qualche secondo, quando li ho svegliati, e mi hanno fatto capire che il loro papà non era come mio fratello. Per questo, ho pensato che essendo un uomo ed essendo caduto dal cielo fosse la nostra speranza. Se è un uomo e si ricorda di fucili, dell’elettricità, dei veicoli a motore, allora possiamo credere che tutto tornerà come prima, no?”.
 
Il discorso confuso di quella donna agitata e mezza ubriaca aveva gettato Goku nella più profonda disperazione. Non riusciva a seguire il filo dei suoi pensieri, non riusciva a riordinare le cose, a metterle al loro posto.
 
“Scusami… Io sono un pochino lento… Ma perché gli uomini non ricordano la loro vita e le cose moderne? Perché è questo quello che intendi, no?”.
“Ah! Bellissima domanda! HICH!”.
 
Aveva detto, puntandogli addosso il collo della bottiglia.
 
“Io, però, me le ricordo…”.
“Me ne sono resa conto… Ma devi sapere che ci siamo svegliati, un giorno, dopo la luce, e le cose si sono ritrovate così. Bella fortuna, no?”.
 
“Sì, decisamente”.
 
Ma Goku aveva preferito tenersi quel pensiero per sé.
 
“Ti ho lasciato entrare perché so che te lo ricordi, proprio come me. Io ero una professoressa, sai? Ero una donna stimata… Avevo una posizione. E in meno di una notte, mi sono ritrovata a fare la contadina e a servire mio fratello e quel branco di idioti. Non ricordo proprio tutto alla perfezione… Ci sono cose che stanno svanendo piano piano. Ma so che le cose non sono sempre state in questo modo. So che quei velivoli a motore sono frutto dell’ingegno umano e non della crudeltà del demonio. Lo so. E lo sanno anche le donne rimaste al villaggio, quelle forti che non sono svanite. Ma io non posso parlare con loro… In una notte, tutto è cambiato. I deboli sono spariti e questo lo ricordano tutti, e le persone forti si sono trovate svuotate della loro energia. Solo che questo è l’unico argomento di conversazione. Per il resto, per gli uomini, sembra che le cose siano andate da sempre in questo assurdo modo. Come se fossimo di nuovo piombati nel Medioevo, o che so io… Questa non è casa nostra… Non lo sarà mai. Sembra quasi una dimensione parallela, sembra quasi di vivere un incubo. Sin a quando ho aperto gli occhi, quel giorno, io l’aveva capito… Avevo capito di trovarmi altrove”.
 
*
 
Trunks aveva aspettato che Goten si addormentasse prima di aprire il suo zaino e controllare che ogni cosa fosse al suo posto. E, per ogni cosa, Trunks si riferiva al quaderno nero, lo stesso che aveva infilato nello zaino di soppiatto e che non aveva mai perso di vista, neppure durante quelle rocambolesche notti trascorse all’addiaccio o nel capanno di quella famiglia di squilibrati.
Ancora non riusciva a capacitarsi di tutto quello che era successo. Sembrava che il tempo si fosse avvolto su se stesso, che fossero finiti in quell’epoca spaventosa e buia che aveva studiato anche a scuola, un tempo storico in cui la gente finiva sul rogo se creduta in possesso di poteri magici perché considerata adoratrice di Satana. Come si poteva essere tanto sciocchi e superstiziosi?
Trunks non aveva potuto fare a meno di pensare che, da un lato, poteva essere un bene non essere più in grado di volare o di generare sfere di energie, come poteva essere un bene non essere più in grado di trasformarsi in super saiyan. Se avessero visto suo padre diventare biondo e circondato da una luce dorata lo avrebbero accusato di essere un demonio o qualcosa di simile, e poi avrebbero provato a ucciderlo. Certo, sarebbe stato in grado di difendersi da qualsiasi tipo di attacco, ma sarebbero stati un bersaglio facile. E poi, suo padre avrebbe realmente accettato di battersi e di mostrare al mondo le sue reali potenzialità?
Erano queste le cose a cui pensava mentre faceva scorrere velocemente il dito sulle pagine del quaderno, mentre prendeva la penna e ne posava la punta su un foglio bianco, erano queste le cose a cui pensava mentre scriveva parole che non aveva ancora neppure pensato.
 
“Vorrei tanto sapere che sta succedendo”.

 
NON LO HAI ANCORA CAPITO?
 
Al comparire della scritta in rosso, il bambino era trasalito.
 
“Ma quando ho preso la penna e ho… ho scritto? Io non me lo ricordo!”.
 
Le sue manine tremavano. Stava succedendo tutto troppo in fretta e senza che lui ne avesse coscienza. Perché aveva preso quello stupido quaderno? Perché lo aveva aperto? E perché stava scrivendo lì sopra le sue perplessità?
 
I TUOI DESIDERI SONO STATI ESAUDITI.
 
“Esauditi un corno!”.
 
Si era preoccupato di non pronunciare quelle parole a voce eccessivamente alta, ma Goten si era agitato lo stesso, nel sonno, facendogli temere di essere scoperto. Non voleva che qualcuno sapesse del quaderno. O meglio, non lo voleva ancora. Non fino a che non avrebbe scoperto il suo reale funzionamento.
 
“Non era questo quello in cui avevo sperato. Lo sai”.
 
Lo aveva scritto marcando moltissimo le parole, premendo così tanto sulla carta da lesionarla. Era come se volesse infliggere dolore fisico a quel coso diabolico, anche se si rendeva perfettamente conto di quanto stupido fosse quel pensiero.
 
SEI SICURO, PRINCIPINO DEI SAIYAN?
PENSAVO CHE VOLESSI TUO PADRE E GOTEN TUTTI PER TE.
 
“CERTO CHE LO VOLEVO! MA NON IN QUESTO MODO!”.
 
Il senso di colpa aveva travolto il bambino dai capelli lilla. Che cosa voleva insinuare, quel maledettissimo quaderno? Che era stato lui la causa di quella sciagura? Non aveva affatto desiderato la morte di Ouji, la scomparsa di Gohan e il ritorno al Medioevo! Di che stava parlando?
 
IL RISULTATO È L’UNICA COSA CHE CONTA.
ORA SIETE VOI TRE. E SIETE INSIEME.
CREDIMI… SE SARAI BRAVO, POTRETE RIMANERE INSIEME PER SEMPRE.
 
Era certo che, se a pronunciare quelle parole fosse stata una persona, di seguito avrebbero sentito una risata perfida o qualcosa di molto simile.
 
“NON VOLEVO PERDERE MIA MADRE. NON VOLERO RINUNCIARE AI MIEI POTERI… CHE COSA VUOI VERAMENTE? E CHI DIAMINE SEI?”.
 
UN AMICO.
 
“BUGIARDO”.
 
STA SOLO A TE, CREDERLO.
 
“Che stai facendo?”.
 
Era stata la voce di Goten a farlo trasalire, quella volta. Il suo amichetto lo guardava con gli occhi ancora mezzi chiusi e aveva pronunciato quelle parole con la vocina ancora impastata dal sonno, ma la reazione di Trunks lo aveva scosso profondamente.
Il lilla si era raddrizzato di colpo e aveva nascosto il quaderno dietro la schiena, cercando però di apparire disinvolto mentre sfruttava a suo vantaggio il prolungato stordimento di Goten.
 
“Niente… Ti sei svegliato… Hai dormito bene?”.
“Sì… Grazie… Non hai sentito la sveglia suonare? Ora è il mio turno di fare la guardia… Vegeta non è tornato, vero?”.
 
Sembrava che Goten stesse cercando di riempire il vuoto tra di loro con milioni di parole, tutte quelle che non aveva pronunciato per quasi due giorni. Un po’ come se volesse togliersi dall’imbarazzo. Come se avesse colto qualcuno sul fatto con le mani nel barattolo della marmellata e fosse stato considerato da una terza persona colpevole a sua volta.
 
Trunks gli aveva rivolto una lunga occhiata, cercando di darsi un contegno e di non essere troppo sospettoso nei riguardi di Goten. Del resto, non stava facendo nulla di male, e il suo amico gli aveva rivolto solo un’innocente domanda.
 
“No… Papà non è ancora tornato…”.
“Mannaggia”.
 
Avrebbe dovuto accorgersene, ma non lo aveva fatto. Questo contribuiva solo a renderlo più sospetto agli occhi del suo amico.
 
“Spero che faccia presto… E spero che possa tornare… Sarebbe troppo… Troppo…”.
“Tornerà, Goten. Stai tranquillo. Sicuro che riesci a fare il turno?”.
“Sì, certo… Vai a riposare… E, Trunks… Grazie di tutto. Mi dispiace di aver… Lo sai”.
“Non devi dispiacerti. Va tutto bene… Non fare cattivi pensieri”.
“Va bene… Seguirò il tuo consiglio. Ti voglio bene, Trunks…”.
“Te ne voglio tanto anche io”.
 
Continua…

 
Eccomi qui!
Mi sono presa una settimana di pausa. Ne avevo assolutamente bisogno. Voi siete ancora in vacanza? Spero di sì!
Dunque, sappiamo giusto qualcosina in più… Ma tutto è utile per ricomporre il puzzle!
C’è da dire che sto un pochino forzando la mano con questa storia dei “secoli bui”. So perfettamente che, nonostante i suoi “bassi”, il Medioevo non è stato il periodo che tutti tendono a demonizzare. Ha avuto pregi e difetti, e io sto enfatizzando un po’ il tutto per esigenze di trama.
Le donne non sono ben viste, come avete letto. Ma loro ricordano. Sono la “memoria del mondo”. Peccato che non sappiano come agire.
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 39
*** Costretto a volare basso ***


Costretto a volare basso
 
Vegeta stentava a credere ai suoi occhi. Non riusciva a capacitarsi di quello che gli si era presentato davanti: in quel campo sterminato lavoravano a schiena piegata decine e decine di uomini e donne di ogni età, ed era certo di aver visto anche molti bambini piccoli, piccolissimi. Erano sporchi e vestiti di stracci, i loro volti erano bruciati dal sole, e aveva visto molte mani sanguinare a causa degli attrezzi impugnati, a causa di una fatica che li aveva resi simili alle bestie. Le loro espressioni erano assenti, come se i corpi fossero lì ma le menti si trovassero altrove, in un posto diverso, in un posto migliore, in un posto che, probabilmente, rimpiangevano amaramente. Sembrava che quella gente non fosse neanche più umana… Era come se avesse davanti degli automi in grado solo di ripetere gli stessi gesti all’infinito.
A essere del tutto onesto, quello spettacolo non era del tutto nuovo al principe dei saiyan: tante volte, sui pianeti conquistati per quella schifosa lucertola rosa di Freezer, aveva visto gli abitanti ridotti in schiavitù. Lui stesso, spesso, era stato lo schiavista. Quella, però, era la prima volta che gli capitava di imbattersi in una cosa simile sulla Terra. Non che non esistessero anche lì situazioni spiacevoli e degradanti, ma quello era troppo. Era semplicemente troppo, e qualcosa gli suggeriva che, se avesse voluto sovvertire le cose e fare in modo che tutto tornasse come prima, avrebbe dovuto farsi coinvolgere in prima persona. Lui, il fiero principe dei saiyan, avrebbe dovuto abbassarsi a fare quello che facevano dei semplici, inutili esseri umani.
 
Quale forza oscura si era abbattuta su quel pianeta? Quale maleficio aveva potuto causare una cosa del genere? Far sì che gli uomini dimenticassero il presente, che solo le donne, per altro ridotte quasi in schiavitù, avessero memoria della vita vissuta sino a ventiquattro ore addietro, far sì che si regredisse a quello stato primordiale in poco più che un battito di ciglia. Con che razza di nemico avevano a che fare? Se fosse stato il guerriero di un tempo, Vegeta non avrebbe esitato a cercarlo, a stanarlo come una preda e a costringerlo ad affrontarlo in prima persona, senza usare trucchetti o inganni. Ma era anche stupido ripeterselo, dato che aveva fatto a se stesso quel giuramento solenne, un giuramento fatto sul suo onore e a cui non sarebbe mai venuto meno.
 
“Ecco qui! Sei arrivato. Ora, se vuoi scusarmi, devo proprio andare… Il lavoro chiama. La famiglia, pure. Addio, ragazzo. Spero che possa trovare quello che cerchi”.
 
Vegeta si era limitato a fare un cenno del capo e a scendere dal carretto con grazia, ma non aveva potuto fare a meno di rivolgere un ultimo sguardo alla figlia dell’uomo, prima di andare via e vederli sparire dietro l’angolo, proprio dietro la fila di alberi di castagno che costeggiava i campi coltivati.
 
“Tsk! Che razza di soggetto, quell’uomo… E lei, poi… Sembrava sapere molto più di quanto volesse o potesse dire. Diamine, come vorrei sapere che cavolo succede in questo posto… Avrei potuto fare altre domande, ma non posso perdere tempo. I ragazzi sono da soli, e ho detto loro che… Devo muovermi”.
 
Odiava sentirsi tanto in ansia. Non era un tipo a cui piaceva esternare le proprie emozioni, ma per quanto pensasse di essere un maniaco del controllo, finiva puntualmente per perderlo e fare qualcosa di impulsivo e stupido. Molto, molto stupido, a volte. Era quello il suo più grande peccato, forse: l’ira. Insieme alla superbia, a dirla tutta. Ma quella era una situazione del tutto nuova e delicata, non c’era solo in ballo la sua vita e non poteva prendersi il lusso di perdere le staffe e mandare tutto alle ortiche. I bambini contavano su di lui, e per quanto la cosa lo terrorizzasse, non sarebbe cambiata. Era un genitore, e aveva imparato tempo addietro cosa significasse prendersi carico di innumerevoli responsabilità, lo aveva imparato grazie allo scherzo che il destino gli aveva riservato. Chi, al mondo, era stato altrettanto fortunato da avere il privilegio di conoscere il proprio figlio venuto da futuro? Quell’incontro lo aveva cambiato profondamente, e un forte istinto di protezione e di affetto si era fatto largo in lui, ma non lo aveva capito finché quell’altro lucertolone verde non aveva aperto un buco nella pancia di Trunks. Del suo, Trunks. Quella stessa, identica sensazione di rabbia, dolore, odio, quel senso di impotenza, era riaffiorato nell’istante in cui si era ritrovato a casa di quel pazzo furioso, inchiodato al pavimento e umiliato da quegli esseri abominevoli. Era stato talmente ingenuo da perdere di vista i bambini, e se non fosse stato per l’intervento di quella donna, temeva di sapere come sarebbero andate le cose. Come aveva potuto permetterlo? Come aveva potuto lasciare i suoi figli da soli in quel maledetto capanno?
 
“Tsk. I miei figli…”.
 
Proprio non riusciva a non considerare Goten come suo. E questo gli faceva rabbia e tenerezza insieme. A lui, a uno spietato assassino. A un sadico saiyan purosangue, al re dei sadici, spietati, saiyan purosangue, un sentimento come l’affetto faceva tenerezza.
 
“Tsk! Smettila di comportarti da femminuccia e datti un contegno. Risolvi questo mistero e torna alla tua vita di prima”.
“E stai attento! Mi hai urtato, nanerottolo!”.
 
Era talmente sovrappensiero da non essersi reso conto nell’immediato di aver leggermente urato un energumeno in armatura. E, per armatura, non intendeva una all’avanguardia come la sua, ma una in metallo, ingombrante e pesante, completa di elmo con cimiero rosso e cinturone a cui appendere fodero e spada.
 
“Mi hai sentito o no, razza di babbeo? Esigo delle scuse. O vuoi forse che ti dia una lezione?”.
 
Gliel’avrebbe data lui, la lezione, a quell’imbecille nascosto dall’elmo, se avesse avuto ancora la sua forza. Non ci sarebbe stata armatura in grado di placare la sua ira, nessuna spada che avrebbe potuto far sanguinare le sue carni. Lo avrebbe fatto a pezzi e ne avrebbe sparso i resti in giro per il mondo. Forse, solo a quel punto la sua ira si sarebbe placata.
 
“Sati calmo, Vegeta. Stai calmo. Vuoi spappolargli il cervello in quella scatoletta di metallo, ridurlo come una porzione di carne in scatola, ma non puoi. Tsk! Abbassa lo sguardo e non dire niente di stupido… Stai zitto”.
 
Aveva dovuto mordersi il labbro inferiore fino a sentire il sapore ferroso del sangue pur di non perdere le staffe. Non poteva permettersi colpi di testa. Avrebbe dovuto mantenere un profilo basso, per quanto questo gli costasse fatica, e avrebbe dovuto farlo per dare ai bambini la possibilità di salvarsi da quel mondo osceno e ingiusto.
 
“Allora non sei sordo… Sei solo un pochino scemo… Ma non tanto da non sapere che con i soldati non si scherza… Pezzente”.
 
Gli aveva puntato un dito guantato di metallo sulla fronte e aveva spinto con forza per farlo andare indietro, per esercitare controllo su di lui. Solo gli dei sapevano quanto stesse ribollendo il sangue di Vegeta, ma doveva mantenere la calma. Non poteva permettersi errori.
 
“Cos’è? Il topo ti ha mangiato la lingua, pezzente?”.
 
Quel bastardo continuava a infierire, ma lui non avrebbe chiesto scusa. Quello, mai. Mai si sarebbe abbassato a tanto.
 
“Cerchi grane, pezzente?”.
 
Gli aveva afferrato la nuca e aveva stretto con le fredde dita di metallo, sollevando la visiera dell’elmo per guardarlo meglio. Il cigolio del cardine aveva in sé qualcosa di sinistro, e Vegeta era stato costretto a serrare le palpebre per non alzare lo sguardo e puntarlo dritto in quegli occhi da demonio inferocito.
Era rimasto immobile, in attesa di un pugno o di un calcio che, però tardava ad arrivare. Che intenzioni aveva?
 
“Sergente… Ci sono guai?”.
“Eh? No… Nessuno”.
 
Vegeta aveva ripreso a respirare regolarmente nel momento in cui la mano di quel farabutto aveva mollato la presa. Non aveva la più pallida idea di chi avesse parlato, e fino a quando non aveva aperto gli occhi era stato convinto che si trattasse di un superiore di quel buzzurro in armatura, per questo era stato enorme lo sgomento provato nel rendersi conto che avesse davanti agli occhi un campagnolo dallo sguardo tagliente e dalle intenzioni per nulla decifrabili.
 
“È tuo?” – aveva chiesto il sergente, incuriosito.
“Tra poco…”.
“Insegnagli le buone maniere… Credo che non abbia ancora capito come funzionano le cose”.
“Oh, è appena arrivato. Mi è stato comunicato che cerca lavoro e… L’ha trovato. Deve solo seguirmi e tutto andrà a posto. Non è vero, sergente?”.
 
Aveva rivolto al soldato uno sguardo di intesa, come se, dietro a quelle parole apparentemente innocue, si nascondesse chissà quale segreto.
Vegeta non aveva idea di come dovesse comportarsi, ma aveva l’impressione che si stessero prendendo gioco di lui. Che avrebbe dovuto fare? Erano due contro uno, e il nuovo arrivato reggeva una frusta tra le mani… E lui conosceva fin troppo bene la sensazione delle sferzate sulla schiena nuda.
 
“Pensa ai bambini… Pensa ai bambini…”.
 
“Seguimi. Ah, a proposito: io sono Leon”.
 
Leon. Si chiamava Leon. Aveva pensato subito che un nome del genere non si addicesse affatto a uno come lui: era piccolo e smilzo, il suo viso era talmente scavato e butterato da farlo apparire alle stregue di un malato terminale. Era talmente sottile da sembrare trasparente, ma i suoi occhi gialli simili a quelli di un serpente avevano chiarito immediatamente quale fosse la sua vera natura. Vegeta aveva inghiottito rumorosamente prima di decidersi a muovere i primi passi e seguirlo. Aveva puntati su di sé gli occhi del tizio in armatura, se li sentiva sulla schiena. Non aveva potuto fare a meno di rabbrividire, inorridito dall’assurdità di quanto accaduto.
 
“Vedo che sei capace di ubbidire, alla fine… Mi piaci!”.
 
In che senso?
 
“Mi hanno detto che cerchi lavoro… Hai spalle forti, braccia possenti… Possiamo trovarti qualcosa da fare, sicuramente”.
 
Ma in quale istante, nello specifico, aveva detto di essere in cerca di lavoro? E a chi? E chi aveva parlato con lui? Di certo, doveva essere stato il tizio del carro, o sua figlia, non poteva essere altrimenti.
 
“Sembri davvero robusto… E hai dei figli, no? Figli che ti aspettano”.
“Tsk! Gli ha spifferato tutto! Se lo ribecco…”.
“Sono certo che ti troverai bene, in questo nostro mondo… Non lo pensi anche tu?”.
 
Era successo tutto talmente in fretta che gli girava la testa. Era confuso, era anche un po’ agitato, ma doveva mostrarsi sicuro di sé.
 
“Il lavoro è tanto e non abbiamo mai abbastanza braccia… le tue ci faranno comodo. E anche quelle de tuoi f-…”.
“Loro non sono in cerca di impiego”.
 
Lo aveva interrotto bruscamente, mostrandosi realmente indispettito.
 
“Va bene, va bene… Sei uno di quelli, allora… Istruzione per i figli… Diritti dei minori… Buono a sapersi”.
 
No. In realtà non sembrava affatto una cosa buona, stando al tono che aveva usato, ma aveva preferito tacere. Era sempre più nervoso. In cosa stava andando a infilarsi?
Senza rendersene conto, Vegeta lo aveva seguito fino a un enorme casolare di legno posto all’inizio di un campo. Cosa coltivassero lì, lo avrebbe scoperto a breve.
 
“Puoi prendere una vanga e iniziare a lavorare. E stai lontano dal gruppetto di Herman se vuoi fare bella figura. Quelli, non sanno proprio cosa sia il lavoro…”.
 
*
 
“Papà non tornerà…”.
 
Trunks aveva fatto fatica a trattenere le lacrime, mentre pronunciava quelle parole così amare.
Il tempo designato era trascorso da un pezzo e di Vegeta non vi era alcuna traccia. Lui e Goten avrebbero dovuto cavarsela da soli. Forse, avrebbero incontrato qualche altro squilibrato o, forse, avrebbero incontrato Goku e sarebbero diventati parte di lui come tutti quelli con cui era entrato in contatto. O, forse, avrebbero fatto la stessa fine di Gohan e di Ouji, ma una cosa era certa: il suo papà non sarebbe più stato lì per tenerli al sicuro.
 
“Non dirlo… Proprio tu, dici questo, Trunks?”.
 
Dov’erano finite le parole di speranza che gli aveva rivolto il suo amico poco prima? Dov’era andata a finire la cieca fiducia che nutriva nei confronti del padre?
 
“Perché io… Io…”.
“Tsk! Mi sembrava di avervi ordinato di andare via se non fossi tornato entro quanto vi avevo detto o mi sbaglio?”.
 
Vegeta li aveva sorpresi nello stesso identico punto in cui gli aveva imposto di nascondersi in sua assenza, mostrando un’espressione a metà tra il sollevato e il furioso. Era contento di aver trovato i figli ancora vivi, sani e salvi, ma era anche arrabbiato con loro perché avevano disubbidito a un suo ordine. Valeva così poco, la sua autorità, ormai?
 
“PAPINO!”.
“VEGETA!”.
 
Incuranti dei rimproveri e delle condizioni di sporcizia in cui versava il saiyan, i bambini gli erano saltati addosso, emozionati e rincuorati nel vederlo sano e salvo. Vegeta era arrossito ma non li aveva allontanati: era davvero troppo contento di vederli.
 
“Ma cosa ti è successo? Perché hai tardato? E… Perché sei tutto sporco?”.
“Già, Vegeta… Perché?”.
“Tsk! Fate meno domande e seguitemi”.
“Dove?” – avevano chiesto in coro.
“Abbiamo un tetto sulla testa”.
“Cosa? WOW!” – aveva detto in coro. Di nuovo.
“Tsk! Continuerete a farlo? A parlare all’unisono, intendo… È inquietante”.
 
I bambini si erano scambiati un sorriso d’intesa e avevano ubbidito, trattenendosi dal prendere Vegeta per mano.
La gioia di saperlo vivo, insieme a loro, era stata grande, troppo grande, così immensa da non aver fatto percepire loro la presenza di chi, con occhi rossi come tizzoni ardenti, li osservava dal buio della siepe sotto cui si erano nascosti. Dagli occhi di chi, per loro, era il più reale, tangibile, serpeggiante pericolo.
 
Continua…

 
*SONO DIVENTATA UNA PESSIMA PERSONA*
 
Ragazze/i,
Vi prego, vi imploro di perdonarmi per questa lunga assenza. Il progetto che ho presentato per l’ammissione al dottorato mi ha completamente assorbita e non ho avuto tempo da dedicare alla storia, avendo ripreso anche a lavorare in palestra. Non vi nego che sono molto stanca… Ma, finalmente, sono tornata!
 
E Vegeta ha trovato lavoro – beato lui. XD
Che ne pensate di Leon? Lo avevamo incontrato nel terzo capitolo (mi sembra) e lo ritroviamo qui. Vi avviso che si vedrà spesso, purtroppo per Vegeta.
E ora sono dolori.
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 40
*** Vite parallele ***


Vite parallele
 
Era trascorsa una settimana dal giorno in cui avevano messo piede in quella pazza, rumorosa, bizzarra cittadina*, e le cose, per Vegeta, Trunks e il piccolo Goten, sembravano finalmente migliorate.
Il principe dei saiyan aveva dovuto accettare il lavoro per cui era stato scelto. Dire che gli era stato “generosamente offerto” sarebbe stato un autentico eufemismo, considerando che non aveva avuto alcun tipo di scelta: se non avesse lavorato sarebbe dovuto andare via e, per come gli era stato ordinato, avrebbe dovuto farlo senza i ragazzi.
Si era ben guardato dal fare domande. Leon, il tizio che gli aveva dato lavoro, non sembrava un tipo particolarmente affabile: il suo voler essere così ostentatamente melenso e diretto aveva celato un carattere da vero e proprio squalo, degno del nome che gli era stato dato alla nascita. Non perdeva occasione per sferzare la frusta sulla schiena di un suo sottoposto, non la smetteva mai di urlare e rimproverare duramente chi lavorava tutto il giorno per una paga da fame. L’aspetto esteriore si era rivelato un autentico inganno: dietro quelle membra così sottili si nascondeva il peggiore dei mostri.
 
Vegeta aveva già dovuto ingoiare diversi rospi: aveva dovuto accettare il fatto di prendere ordini da uno come Leon, aveva dovuto abbassarsi a lavorare la terra, raccogliere ciò che era stato seminato e stiparlo in pesanti sacchi di iuta che trasportava sulle spalle. In meno di tre giorni, le mani avevano cominciato a sanguinare per colpa della fatica fatta nei campi e di quella fatta a casa, perché sì, almeno avevano trovato un tetto sotto cui vivere, ma dire che una stalla sarebbe stato un rifugio migliore sarebbe stato troppo riduttivo. Così, Vegeta lavorava di giorno nei campi e di notte (chi lo avrebbe mai detto) riparava il tetto, le finestre, tappava gli spifferi, riempiva i materassi, spazzava i pavimenti e cercava di mettere in tavola un pasto decente, tutto sotto la supervisione dei ragazzi che, instancabili nonostante le avversità, avevano deciso di aiutarlo malgrado avessero iniziato la scuola. Su questo, sua altezza non aveva voluto sentire ragioni, sebbene i piccoli avessero protestato con vigore: sarebbero andati a scuola, volenti o nolenti.
 
Goten e Trunks non avrebbero mai dimenticato il momento in cui Vegeta li aveva accompagnati in quello strano edificio a un piano dal tetto di paglia e dalle pareti di pietra. Era così diverso da quello che avevano frequentato fino a poco tempo prima: non c’era una scalinata, non c’era un’uscita di sicurezza, delle tende, un bar, una palestra, non c’era niente. C’erano solo sei immense stanze separate da un lungo corridoio con alla fine l’ufficio del preside, un uomo calvo dagli strani baffi all’insù che aveva osservato il principe dei saiyan con aria a dir poco disgustata.
 
“E così, questi sono figli suoi?” – aveva chiesto, scrutandolo con quegli occhi di ghiaccio.
“Sì”.
 
Vegeta aveva detto una bugia bella e buona, lo sapevano benissimo entrambi i bambini, ma quel giorno avevano imparato che a volte, le bugie, se dette a fin di bene, possono essere bugie buone.
 
“E la madre?”.
“La madre dei ragazzi è… sparita”.
“Mmm… Era sua moglie? No?”.
“Sì”.
“Capisco… Non deve essere facile avere a che fare con ragazzi così piccoli… Avrà sicuramente un bel po’ da fare… Perché non farli lavorare? Sarebbero di maggior aiuto, date le condizioni misere in cui versate, non trova?”.
 
Quella era stata la seconda volta che Vegeta aveva dovuto mordersi la lingua e ingoiare veleno in silenzio. I bambini si erano sentiti giudicati e umiliati come mai prima di allora, ma vedere il loro papà così fiero, impassibile, li aveva confortati nel profondo.
 
“I ragazzi andranno a scuola. E lo faranno proprio perché l’istruzione e la disciplina li aiuteranno a uscire dalle misere condizioni in cui si trovano attualmente. Siamo venuti al mondo, per evolverci, non è quello che insegnate qui dentro?”.
 
Trunks aveva sentito parlare solo un’altra persona in quel modo: sua mamma. Era evidente che Vegeta avesse ascoltato attentamente le sue parole e le avesse profondamente interiorizzate, al punto di convincere il preside che anche dei miserabili pezzenti come loro avevano diritto allo studio, forse più di tutti gli altri.
 
“Inizieranno domani mattina. Spero per loro che saranno pronti. Qui, mio caro signore, non facciamo sconti a nessuno”.
 
Nonostante la durezza di quell’affermazione, Vegeta era sicuro di aver visto qualcosa di diverso nel gelido sguardo di quell’uomo così duro: una reminiscenza lontana, un ricordo sepolto che era stato in grado di riaffiorare per qualche brevissimo istante. Forse, una memoria della sua vita precedente, magari di quando era stato preside nel mondo normale, quello da cui venivano e in cui i ragazzi speravano di tornare al più presto.
 
Così, Vegeta aveva dovuto prendere penne e quaderni (per sua fortuna: se avesse dovuto acquistare Tablet e PC avrebbe dovuto vendersi entrambi i reni) chiedendo un anticipo sul salario settimanale e aveva accompagnato i ragazzi a scuola, con la promessa di tirarli via da quel covo di bambini pallidi che credevano di essere figli di gran signori.
Ai bambini, in un primo momento, quella vita non era sembrata poi tanto male. Certo, non avevano cibo a sufficienza e vedevano pochissimo il loro papà, ma erano una vera famiglia. Finalmente erano insieme, e cosa poteva essere quello se non un sogno divenuto realtà? Trunks e Goten dormivano nello stesso letto, frequentavano la stessa classe, giocavano insieme, aiutavano Vegeta a riparare la loro casetta, erano tutto sommato molto felici. Ed era proprio questo quello che, da un lato, aveva spaventato Trunks così tanto: come poteva essere felice considerando tutto quello che era accaduto? Considerando il segreto che custodiva?
 
Il bambino era diventato quasi paranoico. Cercava in ogni modo di nascondere il suo prezioso bottino da occhi indiscreti, e si sentiva in colpa, considerando che quegli occhi erano di suo padre e di Goten, ma si era ripromesso di non rischiare. Neanche lui sapeva bene come funzionava quello strano oggetto, ma continuava a esserne attratto in maniera ossessiva. Ne era quasi geloso. Si era convinto che il quaderno lo avesse scelto, che lui fosse una sorta di eletto, anche se non ne conosceva la ragione, che qualcuno lo avesse destinato a lui. Per tutte queste ragioni, doveva assolutamente custodirlo, evitare che qualcuno ne scoprisse l’esistenza, e doveva ammettere che non era facile considerando che viveva in due sole stanze a strettissimo contatto con persone che non lo perdevano mai di vista.
 
La prima volta che aveva deciso di tirarlo fuori dallo zaino, si era nascosto sotto il letto. Aveva aspettato che suo padre crollasse per la stanchezza e che Goten si girasse dall’altra parte per scendere in punta di piedi, infilarsi sotto la vecchia rete di metallo e togliere l’asse divelta dal pavimento di legno, estrarre delicatamente lo zaino e da lì prendere il quaderno nero. Avrebbe dovuto prendere una candela e portarla sotto il letto, ma questo avrebbe rischiato di generare un incendio e di mettere tutti in pericolo. Per questo, aveva aspettato la notte di luna piena per posizionarsi esattamente ai piedi del letto, sempre nascosto sotto il pesante materasso, e sfruttare i timidi, pallidi raggi per leggere e scrivere quanto si trovava su quelle pagine magiche. E, con gran sorpresa, si era reso conto di leggere i caratteri alla perfezione, neanche quei raggi fossero stati quelli del sole di mezzogiorno del mese di agosto.
 
“Wow… Tutto questo è straordinario”.
 
E sì, lo era. Era straordinario e spaventoso allo stesso tempo, ma lui non poteva fare a meno di farlo.
 
“Ehi”.
 
Si era limitato a scrivere quello, per cominciare. Cosa avrebbe dovuto dire, del resto?
 
BENTORNATO.
 
“Abbiamo trovato casa. Sto andando a scuola… Per questo manco da un po’ di tempo…”.
LO SO.
E NE SONO FELICE.
 
“Dai, come fai a saperlo? Questa, e tutte le altre cose, come le sai?”.
 
SEI STATO TU A DIRE CHE SONO MAGICO.
O MALEDETTO.
NON LO RICORDI PIÚ?
 
Aveva pensato tante di quelle cose, Trunks, da non averne più memoria. Avrebbe potuto scorrere le pagine a ritroso, ma non gli sembrava un gesto cortese. Non voleva suscitare l’ira di quel coso dentro il quaderno, qualunque cosa fosse.
 
“Ma chi sei? E non dirmi un amico… voglio sapere chi sei veramente. Puoi dirmelo?”
 
SEI MOLTO CURIOSO.
 
“Come tutti i bambini della mia età”.
 
TE LO CONCEDO.
IO SONO DAVVERO UN AMICO, TRUNKS.
UNO MOLTO SPECIALE.
REALIZZO DESIDERI.
 
“Io, però, non ti ho chiesto di far sparire la mamma, Chichi, e di far sparire i nostri poteri. Né di tornare indietro nel tempo, perché sembra che sia successo proprio questo”.
 
NON È ESATTO.
IO NON VI HO FATTO TORNARE INDIETRO NEL TEMPO.
 
“E allora cosa hai fatto?”.
 
MI HAI LIBERATO, TRUNKS.
E HO VOLUTO RINGRAZIARTI.
TUTTO QUI.
 
“Sai che è una bugia”.
 
SEI SCORTESE.
 
“Non era mia intenzione. Ma non capisco. Goku diventa sempre più forte. Noi, invece…”.
 
I DESIDERI HANNO UN PREZZO.
 
“Non volevo pagarne uno così alto. E Shenron non vuole niente in cambio, comunque”.
 
QUESTO LO PENSANO GLI SCIOCCHI.
E TU NON SEI UNO SCIOCCO.
NESSUNO FA NIENTE IN CAMBIIO DI NIENTE,
NEANCHE IL DRAGO.
IMPARALO E VIVRAI MEGLIO.
 
“La mia mamma non voleva niente in cambio. Neanche la zia Chichi. O Gohan. O Ouji”.
 
SUL SERIO?
NON HANNO ORGANIZZARTO QUELLA FESTA
PER RIAVERE GOKU INDIETRO?
 
“Sì, ma…”.
 
IMPARA COME FUNZIONA.
VIVRAI MEGLIO.
 
“Come faccio a sistemare le cose?”.
 
PREGO?
 
“Vorrei tornare indietro. Riavere la mia mamma, tutti quelli che amo. Mi mancano molto”.
 
MA SE HAI QUELLI CHE AMI DI PIÚ.
 
“Eh?”.
 
LO SAI ANCHE TU.
SAI ANCHE TU DI AMARE MAGGIORMENTE
COLORO CHE SONO RIMASTI.
NON SAREBBERO QUI,
ALTRIMENTI.
E SAI DI ODIARE GOKU.
E ORA NE CONOSCI LA RAGIONE.
LUI DISTRUGGE,
NON SALVA.
LUI È UN PARASSITA.
E TUO PADRE…
LUI HA RINUNCIATO ALLA LOTTA.
È VENUTO MENO AL SUO RUOLO DI RE E GUERRIERO.
ORA PUÓ VIVERE SENZA PREOCCUPAZIONI.
 
“Non capisco…”.
 
QUESTO MONDO, ORA È QUASI PERFETTO.
E LO È GRAZIE A TE.
TU SEI SPECIALE.
CREDI DI AVERMI TROVATO PER PURO CASO?
AVANTI...
SAI CHE NON ACCADE MAI NIENTE PER CASO.
 
Sì, lo sapeva, lo sapeva alla perfezione.
 
“Ma perché nessuno ricorda? Solo le donne… Perché?”.
 
LE LORO MENTI SONO DIVERSE.
I LORO SPIRITI SONO… DIVERSI.
SONO AMMIREVOLI PER LA TENACIA,
PER LO SPIRITO DI SOPRAVVIVENZA.
IMPARERAI DA LORO.
 
Lo strano tono di quelle frasi lo aveva stranito.
Sembrava che quello stupido affare sapesse le cose a prescindere da quello che scriveva. Se n’era accorto da un pochino, a dire il vero, ma in un primo momento non vi aveva voluto dare troppo peso. Più passava il tempo, però, più si rendeva conto che i suoi sospetti erano fondati. Ma questo cosa poteva significare? Che la cosa nel quaderno lo stava prendendo in giro? Proprio non riusciva a capire in che modo agisse, quale fosse il suo ruolo in tutta quella faccenda.
E Goku? A quel punto, cosa sapeva di Goku?
 
PUOI CHIEDERMI OGNI COSA.
NON TI MENTIRÓ.


 
“Che ne è stato di Goku? E… Cosa vuoi farne di lui?”.
 
DIMOSTRARE CHE NON È UN EROE.
NON ERA QUESTO QUELLO CHE VOLEVI, TRUNKS?
 
“Continui a travisare ogni cosa, e non sai quanto questo mi faccia male”.
 
Sì. Faceva male. Un male immenso. Perché faceva sentire il bambino tremendamente in colpa.
 
VAI A RIPOSARE.
SEI STANCO.
PARLEREMO DOMANI.
 
Aveva esitato per un breve istante, ma poi, non sapendo neanche perché, aveva ubbidito, aveva riposto in quaderno nello zaino, lo zaino sotto l’asse del pavimento e si era infilato sotto le coperte, appiattendosi il più possibile contro il muro.
In un’altra circostanza, si sarebbe stretto a Goten, ma non in quella. Non dopo aver scoperto quanto profondo e spaventoso potesse essere il senso di colpa. Viveva una vita parallela, Trunks, una vita vissuta nella consapevolezza di essere stato in parte causa di quella trasformazione indesiderata. Una vita vissuta nella menzogna e nel disonore.
 
Continua…


E tanto per cambiare,
Sono di nuovo in ritardo! XD
A mia discolpa, posso solo dire di aver scritto questo capitolo sabato e di averlo potuto revisionare solo oggi!
Abbiamo visto come se la passa questa bizzarra famiglia dopo appena una settimana. Povero Trunks, mi fa pena. Ha mille dubbi, mille pensieri, e si sta lasciando divorare dal senso di colpa. E Vegeta? Che si è scoperto contadino e carpentiere? L’uomo dei miei sogni, in pratica! XD
E voi, che opinioni avete in merito?
 
A presto!
Un bacino
Cleo
*Sì, lo so, sono leggermente fissata con Jojo. XD

 

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Capitolo 41
*** In fondo al mar ***


“In fondo al mar”
 
Aveva trascorso diverso tempo in compagnia di quella donna, prima di rendersi conto di averla pericolosamente condotta sull’orlo di un precipizio. Se non fosse andato via immediatamente, sarebbe stato la causa della sua rovinosa caduta. Eppure, lei aveva insistito nel trattenerlo, convinta che Goku, in qualche maniera, fosse la chiave di volta, la risposta alle domande che l’assillavano da tempo.
Marilyn gli aveva detto di pazientare, di fidarsi di lei, sebbene non sapesse come avrebbe fatto ad ottenere la fiducia di qualcuno di cui non si fidava lei per prima.
Il tempo trascorso in quella sorta di epoca surreale l’aveva portata a credere a cose inspiegabili eppur tangibili, a fare pensieri e supposizioni che prima non avrebbe mai fatto, a credere a cose incredibili e a sperarne in altre ancora più incredibili.
 
“Credo che impazzirò al più presto, se non sono già impazzita del tutto. Di sicuro, sono già diventata un’alcolista. E pensare che ero una donna rispettabilissima”.
 
Goku non aveva osato proferire parola, nei primi tempi. Si era sentito molto stupido, essendo incapace di seguire al meglio tutti i contorti ragionamenti della sua ospite. Era tornato sulla Terra con la convinzione di riuscire a stanare l’essere che aveva scagliato un attacco così subdolo a tutti loro, con la volontà di fare in modo che l’equilibrio fosse ristabilito definitivamente, e forse, in quella donna, aveva trovato un’inaspettata e preziosissima alleata.
 
“Paradossalmente, l’alcol mi aiuta a mantenermi lucida. Pensa tu come vanno le cose in questo posto orribile… Mi raccomando, stammi lontano! Ma non andare da nessuna parte… Ho la certezza che tu, e anche i tuoi amici, siate in qualche modo la causa e la soluzione a questo casino. Per la miseria, siete gli unici uomini che ricordate quello che è stato e che spero sarà di nuovo al più presto!”.
“Emmm… Ok… Ma cosa pensi di fare? Devo trovare Vegeta e i miei figli… Non posso lasciare che…”.
“Senti, Goku – hai detto che ti chiami Goku, no? – penso che i bambini siano al sicuro col tuo amico. Lui è un uomo sensato. E sai che potresti far loro del male, no? Quindi smettila di perdere tempo e dammi una mano, piuttosto!”.
“Urca! Sì, signora, va bene…”.
“Dobbiamo pensare… Tu non devi allontanarti da qui o peggio ancora, farti vedere da qualcuno”.
 
E, ovviamente, Goku non aveva ubbidito. La sera stessa, dopo aver visto Marilyn addormentarsi con la bottiglia in mano mezza vuota, aveva aperto la porta di casa ed era uscito, facendo attenzione nel non fare rumori o gesti avventati.
Aveva promesso di non andare alla ricerca dei suoi figli e non lo avrebbe fatto, ma questo non gli impediva di proseguire le sue ricerche altrove.
Ricordava perfettamente le parole pronunciate dalla vecchia Baba: gli aveva detto che era stato maledetto e che colui che aveva lanciato quella maledizione era un essere incorporeo di cui si era persa la memoria, e che era alla ricerca di un involucro in cui stabilirsi. E, per la precisione, l’involucro era proprio lui.
 
“Non gli permetterò mai di usare il mio corpo… Mai. Come potrei perdonarmi se dovessi lasciare che lui facesse del male a chi amo a causa mia? Già mi sento un mostro per quello che è successo… Chichi, Bulma e le altre persone a cui voglio bene sono… Sono dentro di me. Sembra assurdo, ma è così. Solo che non posso fingere che gli altri non esistano… Così come non posso aspettare che Marilyn faccia le sue deduzioni e capisca… Devo sapere. E non ho più intenzione di aspettare”.
 
Per questa ragione, aveva posato le dita sulla fronte e si era concentrato. Sapeva che non avrebbe percepito le aure dei suoi amici esseri umani, ma se avesse prestato attenzione avrebbe sicuramente individuato quella di qualcuno a loro molto, molto vicino.
Era piombato sull’isolotto senza far rumore, senza sollevare neppure un granello di sabbia. Gli odori e i colori di quel luogo tanto amato lo avevano investito in pieno, rassicurandolo. Il suono delle onde che si infrange con dolcezza sulla spiaggia, il vento che scuote le palme, l’odore di salsedine e il sole cocente sulla pelle leggermente abbronzata avevano riportato Goku indietro nel tempo, a quanto era bambino, a quando si era recato in quel luogo remoto per imparare, per crescere, per diventare finalmente un guerriero e, soprattutto, un uomo.
Si era avvicinato con cautela alla buffa abitazione che per tanto tempo era stata la sua casa, aveva afferrato la maniglia saldamente, prendendo un bel respiro e abbassandola con decisione, ricordando a se stesso di non avvicinarsi troppo, laddove avesse trovato in casa chi sperava di trovare.
 
“Ehi…”.
 
Lo aveva appena sussurrato, e sapeva benissimo che non lo avrebbe potuto sentire proprio nessuno. Per questo motivo, aveva preso un altro respiro profondo e, con esso, aveva preso coraggio, chiamando a gran voce colui che tanto sperava di vedere.
 
“Genio! Genio! Ci sei?”:
 
Il silenzio che regnava in quella stanza non lasciava presagire nulla di buono. Tutto era perfettamente in ordine, a ben vedere: i cuscini del divano erano in giro come al solito, sul basso tavolino si trovavano bicchieri decorati con ombrellini di carta colorati e ovunque erano sparsi i discutibili giornaletti che il Genio delle Tartarughe collezionava da tutta una vita.
Del vecchietto, però, non c’era nessuna traccia, proprio come non c’era traccia né di Oscar, né della simpatica Tartaruga, vecchia almeno quanto il suo padrone di casa. A quanto sembrava, la maledizione che lo aveva colpito era giunta sino a lì.
 
“Che disastro… È un autentico disastro. Ed è colpa mia… È solo colpa mia”.
 
Calde lacrime amare avevano velato gli occhi neri del giovane saiyan. Goku non riusciva ad accettare che un simile destino potesse essere toccato proprio a lui, a lui che aveva messo a repentaglio così tante volte la sua stessa vita per il bene altrui, che aveva rinunciato a essa pur di concedere la salvezza ai propri cari e al resto dell’universo. Dalle sue scelte e dalle sue azioni erano spesso dipesi il destino e l’esistenza del mondo che i nemici avevano tante volte messo a rischio, depredato, distrutto. Adesso, era lui a trovarsi in quella scomoda posizione, seppur non per sua scelta. Goku, come i saiyan da cui discendeva, era diventato causa di morte e distruzione. I suoi cari erano lontani o non c’erano più, lo stesso valeva per i suoi amici di sempre. Credeva che il Genio delle Tartarughe, il suo maestro, fosse scampato a quella tragica fine, che almeno lui, uomo misterioso in possesso di poteri ancora più misteriosi, fosse al sicuro su quella piccola isola sperduta. Invece, ancora una volta, si era sbagliato, ed era di nuovo completamente solo in attesa dell’attacco finale di un nemico di cui non conosceva né il nome né il volto.
 
“È stato tutto inutile… Ho perso solo tempo prezioso… Oh, Genio… Avevo tanto bisogno di te… Ora… Che cosa devo fare? Cosa devo fare?”.
 
Quando aveva chiesto a Baba e a re Kaioh il permesso di tornare sulla Terra nel tentativo di trovare un senso a quella faccenda – e una possibile soluzione, ovviamente – aveva tutt’altre speranze. In quel momento, invece, le emozioni che stava provando erano ben lontane dal concetto di speranza. Si sentiva distrutto, Goku. Per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva impotente, inutile. Non era solito abbattersi, ma quella situazione era diversa da tutto quello che aveva affrontato sino ad allora. Era diversa e surreale. Lui stesso era un mezzo, un tramite per qualcuno che non si era neanche palesato ma che aveva sferrato un attacco micidiale, impossibile da contrastare. E cosa doveva fare, a quel punto? Forse, solo una cosa avrebbe avuto senso. Solo una.
Deciso più che mai a porre fine a quella tragedia, Goku aveva preso la sua decisione. Si sarebbe sacrificato. Di nuovo. Avrebbe posto fine alla sua vita.
Per questa ragione si era recato all’esterno, sulla spiaggia, e aveva osservato per l’ultima volta il mare, chiudendo gli occhi per assaporare al meglio ogni sensazione, ogni odore, ogni suono. Non sarebbe mai più tornato sulla Terra. Basta. Quello non era il posto adatto per i defunti. Niente più permessi speciali, niente più gite fuori porta, niente più sorprese o colpi di testa. I suoi figli sarebbero stati meglio se lui non fosse mai tornato indietro. Baba lo aveva avvisato: non si deve forzare la natura, non si deve tentare in ogni modo di modificare un disegno chiaro e prestabilito. Loro avevano tante volte giocato con il destino riportando in vita amici, parenti e affini, e nel tentativo di riportare l’ordine non avevano fatto altro che seminare ulteriore caos. La sua presenza sulla Terra era eccessiva: il suo era il corpo di un uomo che era vissuto e morto, un corpo che era stato la casa della sua anima in Terra, e che per via di un accordo speciale sarebbe stato la sua casa anche nel mondo dei morti, ma era un corpo con cui non avrebbe dovuto osare ulteriormente. Era vero, il permesso di tornare indietro per poco tempo gli era stato concesso da re Yammer in persona, ma egli stesso sapeva cosa avrebbero potuto scatenare. Aveva fatto a Goku centinaia di raccomandazioni, lo aveva pregato di non attirare possibili nemici, di non cacciarsi in nessun guaio ma, a quanto sembrava, erano i guai a cercare il super saiyan.
Goku era una vera e propria calamita per le sciagure, e lo era per sua stessa ammissione, ma aveva tentato la fortuna, mosso dal desiderio di far felice suo figlio Goten, Chichi e Gohan. Peccato solo che il suo secondogenito non avesse bisogno di lui. Peccato solo che Goten avesse già qualcuno al suo fianco che gli faceva da padre, che lo stava facendo mille volte meglio di come lo avrebbe fatto lui.
Era di troppo e lo aveva capito sin dal primo istante. Lo aveva capito e sarebbe dovuto rientrare immediatamente, ma così facendo avrebbe deluso Chichi, avrebbe deluso il suo Gohan. E avrebbe dovuto lasciare di nuovo la Terra, il posto che amava e in cui si sentiva a casa. Ora, per sistemare le cose, avrebbe dovuto lasciarla per sempre.
 
“Sì… Per sempre”.
 
Non sarebbe andato via con clamore. Lo avrebbe fatto in silenzio, lasciando che fosse la sua stessa energia a consumarlo. Non avrebbe lasciato neanche un residuo di se stesso, sulla Terra, in modo da non consentire a quel subdolo essere di prendere possesso del suo corpo inanimato. Doveva morire, anzi no, doveva sparire, dissolversi come neve al sole, come cenere al vento, come sale nell’acqua.
Era quello il suo destino. Era quello ciò che aveva deciso. E ci sarebbe riuscito se una sua vecchia conoscenza non avesse fatto capolino all’improvviso, fermandolo dal compiere quel folle gesto.
 
“No, amico mio… Non è la soluzione adatta”.
 
Goku aveva aperto gli occhi che teneva serrati con forza e aveva avuto bisogno di qualche istante prima di mettere a fuoco chi aveva di fronte.
 
“Sei… Sei proprio tu!”.
 
Non riusciva proprio a crederci: quello che aveva davanti era proprio lui, il coriaceo, insostituibile Tartaruga.
 
“Sì, sono io. Conosci forse altre tartarughe parlanti, Goku?”.
 
Stavolta, le lacrime affiorate erano lacrime di gioia. Era veramente lui. Il buffo animale parlante, anziano almeno quanto Genio, lo guardava con quella sua aria un po’ assonnata un po’ canzonatoria, aspettando una qualche risposta o un qualche cenno di vita da parte sua.
 
“Urca! Ma tu non dovresti starmi così vicino! Forse non lo sai, ma…”.
“Tu sei maledetto e risucchi l’energia di chi ti sta attorno. Le persone più deboli sono scomparse mentre quelle più in forze si sono praticamente prosciugate, questo mentre tu stai diventando ogni secondo sempre più forte per far sì che il tuo corpo sia pronto ad accogliere quella specie di entità che è stata liberata dal suo sonno eterno”.
“EH? Ma… Tu sai già tutto! Come fai a… A sapere queste cose?”.
 
Goku era interdetto. Tartaruga sapeva ogni cosa, forse più di quello che sapevano re Kaioh e la vecchia Baba! Che non fosse un animale come tutti gli altri lo sapeva da tempo, ma addirittura una cosa del genere… Era troppo, forse, per Tartaruga!
 
“Goku… Noi ci conosciamo da tanto, ma sono ancora molte le cose che non conosci e che forse non conoscerai mai. Ma di me puoi fidarti, proprio come puoi fidarti di Genio”.
“Che vuoi dire, Tartaruga? Lui è sparito come gli altri! O… no?”.
“Seguimi” – aveva detto, dandogli le spalle e cominciando a immergersi in acqua – “E dimmi che hai imparato a trattenere a lungo il respiro”.
 
*
 
Trunks era nervoso. Non aveva dormito bene quella notte. Il pensiero del quaderno che custodiva così gelosamente lo aveva tormentato per tutto il tempo, impedendogli di trascorrere una notte serena.
Aveva sentito suo padre alzarsi ancor prima dell’alba, ma non aveva fiatato. Non voleva dare spiegazioni e non voleva insospettirlo in nessun modo. Stava già rischiando tantissimo nello sgattaiolare furtivamente per poterlo prendere di tanto in tanto durante la notte, sarebbe stato da stupidi osare oltre.
 
Gli dispiaceva per suo padre. In pochissimi giorni, Vegeta aveva perso il vigore di un tempo, era sempre stanco e sembrava aver perso appetito. Era il primo a uscire da casa e l’ultimo a tornare, ed era diventato ancora più taciturno, per quanto sembrasse a dir poco impossibile. Trunks era certo che gli mancasse da morire sua madre, e poteva capirlo benissimo. Mancava tantissimo anche a lui, e per quanto il quaderno si ostinasse a scrivergli che aveva esaudito i suoi desideri più profondi, Trunks si rifiutava di dargli ragione. Lui non aveva chiesto niente del genere. Voleva solo che le cose si sistemassero, che Goten facesse realmente parte della sua famiglia, che fossero dei veri fratelli. Non era un bambino geloso, né capriccioso, né dispettoso, voleva realmente che il suo migliore amico fosse suo fratello di fatto, voleva davvero che Vegeta fosse anche suo padre, ma questo non significava che volesse rinunciare a tutto il resto. Quel cavolo di coso malefico aveva male intrepretato le sue intenzioni, altro che! Avrebbe dovuto buttarlo via… Sì. Avrebbe dovuto disfarsene! O, meglio ancora, avrebbe dovuto riportarlo nel posto in cui lo aveva trovato, in quella strana grotta piena di tesori misteriosi. Peccato solo che non avrebbe mai potuto raggiungere quel posto senza dover raccontare ogni cosa a suo padre e a Goten, senza, dunque, dover ammettere di esse stato causa involontaria di quell’immenso macello.
Terrorizzato all’idea di quelle che sarebbero state le loro reazioni e tormentato dal pensiero delle tragiche morti di Chichi, Gohan e del piccolo Ouji, Trunks si era rintanato sotto le coperte, nascondendo il viso tra il ruvido cuscino, lontano dagli occhi di suo padre e anche da quelli di Goten, che sentiva stranamente lontano nonostante fosse proprio lì, accanto a lui.
 
*
 
Goku aveva preso il respiro più profondo che poteva e si era immerso, poggiando una mano sul dorso rugoso e possente di Tartaruga. L’animale marino nuotava a una velocità impressionante, ma man mano che scendevano verso le profondità marine la pressione e il freddo aumentavano a dismisura così come la sua capacità di trattenere il fiato diminuiva in egual misura. Presto avrebbe avuto bisogno di respirare o sarebbe morto lì e sarebbe diventato cibo per pesci.
 
“Urca! Dove mi sta portando? Mi sento soffocare… Non resisterò ancora per molto tempo… Ho bisogno di respirare, e ho bisogno di farlo subito! Sbrigati Tartaruga, ti prego!”.
 
“Ancora un po’ di pazienza, amico mio… Siamo quasi arrivati a destinazione”.
 
Non aveva mentito: dopo poco meno di due minuti, aveva puntato dritto verso una piccola fessura da cui proveniva una strana luminescenza e l’aveva attraversata senza sforzo, conducendo Goku presso una sorta di piccola grotta dalle pareti ricoperte di cristalli azzurrini. I Son aveva avvertito una strana sensazione, ma non vi aveva badato. La necessità di respirare era diventata troppo impellente per accorgersi pienamente di altro.
 
Prima di proferire parola, Goku aveva cercato di incamerare aria il più possibile, permettendo così all’ossigeno di circolare liberamente nel suo corpo.
 
“Urca! Qualche altro secondo e sarei morto asfissiato… Ma dove mi hai portato? Questo posto è bellissimo ma stranamente inquietante!”.
“Seguimi, Goku. E non distogliere lo sguardo da me. Questo posto sarà anche bello, ma è estremamente pericoloso”.
 
Non se l’era fatto ripetere due volte: aveva afferrato saldamente il carapace di Tartaruga per la seconda volta e aveva puntato gli occhi sulla sua nuca rugosa, lasciando che lo guidasse mentre scivolavano sul pelo dell’acqua. A Goku quel tragitto era parso incredibilmente lungo, soprattutto perché non aveva la più pallida idea di dove stessero andando. A ogni modo, aveva preferito non fare domande. Si fidava ciecamente di lui, non avrebbe mai dubitato delle sue intenzioni.
Stavano attraversando una specie di lungo tunnel: poteva vedere il riflesso di quella luce azzurrina sull’acqua. Quando avrebbe visto, finalmente, la fine?
 
“Mi sono fidato e so di aver fatto bene, ma proprio non riesco a capire, e…”.
 
“Finalmente siete arrivati! Ce ne avete messo di tempo! Com’è, Tartaruga, ti sei rincitrullito e ti eri perso?”.
“Sei sempre gentile. Ho fatto quello che mi aveva detto, non mi aspetto un ringraziamento, ma almeno non sgridarmi!”.
“Non-non ci credo! Genio! SEI TU!”.
“E chi vorresti che fossi? Esci da quell’acqua gelida o morirai assiderato! E non avvicinarti troppo… Ti voglio bene, ma non ho intenzione di venire assorbito come gli altri”.
 
Aveva avuto bisogno di qualche istante prima di capire realmente cosa stesse capitando. Quello che troneggiava sulla riva come se niente fosse, illuminato dalla strana luce azzurra di quello strano posto, era niente di meno che il Genio delle Tartarughe, il suo antico maestro, con tanto di occhiali da sole, camicia hawaiana, bastone e guscio sulle spalle. E sembrava in perfetta salute! Ma cosa ci faceva lì?
 
“Vuoi uscire dall’acqua o no?”.
“Cosa? Sì, sì, esco!”.
 
Aveva preso un bel respiro e si era librato nell’aria, scoprendo che in quel posto c’era un piacevolissimo venticello caldo, un vero toccasana per lui che era gelato fino alle ossa!
Era meraviglioso vederlo. Avrebbe voluto corrergli incontro, abbracciarlo, fargli mille domande, ma aveva preferito rimanere indietro, mantenendo una distanza tale che gli impedisse di essergli nocivo.
 
“Oh! Bravissimo. Ti asciugherai in un baleno. Eh eh eh… Sapevo che saresti venuto a cercarmi. Sono proprio contento di vederti, figliolo! Anche perché abbiamo bisogno di te per riportare le cose alla normalità! Non abbiamo un minuto da perdere, su! Seguimi! Tu, Tartaruga, puoi andare… Grazie per quello che hai fatto. Sei un vero amico”.
 
Goku aveva visto la sua guida fare un cenno col capo e scomparire in quelle acque scure. Chissà dove sarebbe andato. Forse, alla Kame House, forse in una grotta che aveva scelto come sua dimora. Stava di fatto che non l’aveva ringraziato, e avrebbe presto dovuto rimediare. Ora, però, erano altre le cose che voleva fare, ed era certo di non essere il solo.
 
“Sapevo che saresti andato sull’isola. Non mi sbaglio mai!”.
“Lo so… Però non ho ancora capito come fai… Ho sempre pensato che tu fossi molto più di quello che dai a vedere. Sei unico, Genio!”.
“Pensavo che stessi per dirmi che sono un Genio! Eh eh eh!”.
“Emm… Come?”.
“Lascia stare, Goku… Lascia stare”.
 
Non avrebbe mai capito le sue battute, e questo Genio lo sapeva, ma Goku non era stato portato lì per ascoltare le sue freddure. Dovevano fare qualcosa di importante, non potevano indugiare oltre.
 
“Hai una vaga idea del perché ti ho fatto venire qui, figliolo? Non pretendo che tu sappia che posto è questo, ma non lo immagini?”.
“Io… Sento come se fossi già stato qui… Questo luogo mi è stranamente familiare, ma sono piuttosto sicuro di non averci mai messo piede prima”.
 
Genio non aveva commentato le affermazioni del suo pupillo, ma gli occhiali scuri non erano stati sufficienti a celare il suo reale stato d’animo. Era teso e preoccupato, ma la risolutezza che lo contraddistingueva nelle situazioni critiche non lo aveva abbandonato.
 
“Siamo arrivati” – aveva detto a un certo punto, fermandosi di colpo. Quello che aveva da mostrare a Goku era qualcosa che lo aveva lasciato letteralmente a bocca aperta.
“Ma questo posto… Questo posto è fantastico! Guarda lì, Genio! Quei laghi sono… Sono sospesi!”.
 
Il Son non poteva saperlo, ma quello era lo stesso, preciso, identico luogo in cui si era trovato Trunks qualche tempo prima, il luogo in cui il bambino aveva trovato quel suo strano tesoro, lo stesso tesoro che continuava a ripetere al piccolo di aver esaudito ogni suo desiderio.
 
“Genio, è assurdo! Ma come hai fatto a trovare questo posto? Perché mi ci hai portato, poi? E perché mi sembra di conoscerlo? Urca! Che confusione! Sta per scoppiarmi la testa!”.
 
Sembrava che stesse per scoppiargli sul serio. Si sentiva strano, debole, confuso. Aveva la bocca asciutta e le palpebre pesanti. Che cosa stava succedendo?
 
“Genio… Non mi sento molto bene”.
 
Era caduto in ginocchio, stremato. Non riusciva a capire cosa diamine gli stesse accadendo, e non riusciva a capire perché il suo maestro non fosse accorso in suo aiuto.
 
“Ge-Genio… Ma cosa… Che cosa mi stai facendo?”.
 
Il timore che il suo maestro si fosse in qualche modo messo contro di lui era diventato realtà nell’istante in cui aveva finalmente incrociato il suo sguardo.
 
“Perché?” – gli aveva chiesto, anche se credeva di conoscere la risposta.
“Perché sei la creatura più pericolosa che abbia mai messo piede sulla Terra, figliolo. Perché la maledizione che ti hanno inflitto può essere spezzata solo dal proprietario dell’oggetto che hanno portato via da questa camera blindata. Perché se non ti fermo adesso, poi sarà troppo tardi”.
 
Continua…


 
STAVOLTA HO TIRATO FUORI IL PEGGIO DI ME.
Temo che abbiate pensato che non sarei più tornata. Dire che sono mortificata è il minimo. La verità è che mi è venuto il blocco dello scrittore. Sapevo quello che dovevo scrivere, ma non trovavo la forma più adatta. Mi è parso di impazzire, credetemi. Non lo auguro a nessuno!
Non è stato facile, ma con un pochino di pazienza e di impegno ho portato a termine questo capitolo iniziato diverse settimane fa. Spero tanto che vi sia piaciuto! E che possiate perdonare questa scrittrice un po’ disastrata che ama tanto i “suoi” personaggi e i suoi lettori.
A presto!
Un bacino
 
Cleo

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Capitolo 42
*** Nell'abisso ***


Nell’abisso
 
“Perché mi stai facendo questo? Perché?”.
 
Goku era sconvolto: il suo maestro, l’uomo che lo aveva cresciuto, gli stava facendo del male. Ma perché? Lui non era una minaccia per la Terra o per i loro cari, lui non era il nemico. Lui proteggeva, difendeva, non attaccava, non feriva, non metteva in pericolo. Come poteva trattarlo come il peggior criminale mai esistito? Come poteva aver perso completamente la fiducia in lui?
 
“Non-non è colpa mia… Non lo faccio di proposito… Non lo voglio, Genio… Non lo voglio! Non voglio fare del male a chi amo… Né agli altri… E tu, ora, ne stai facendo a me. Ti prego… Smettila… Smettila!”.
 
Goku si sentiva sempre più debole, più stanco, più vulnerabile, ma continuava a lottare, a resistere, per se stesso e per quel mondo che tanto desiderava salvare da quel destino così beffardo.
 
Il suo maestro, dal canto suo, sembrava del tutto indifferente alle parole accorate e sofferte del suo pupillo, ma mai come allora ringraziava di avere con sé i suoi occhiali da sole, perché quelle lenti scure come la notte impedivano a Goku di cogliere emozioni che faticava a celare.
Era terribile quello che era stato costretto a fare. Era ingiusto e crudele, tremendamente ingiusto e crudele, ma non aveva scelta. Di fronte al bene comune, non poteva non fare la cosa giusta. Sacrificare Goku, il ragazzo che considerava come una sorta di figlio adottivo, per il bene dell’universo intero era un qualcosa che lo stava dilaniando nel profondo, che lo stava consumando come cera posta davanti a una fiamma ardente. Perché il fato si accanisse tanto contro quel ragazzo così puro, contro un animo così gentile, proprio non riusciva a comprenderlo. Forse, quel mondo era troppo malvagio per meritare Son Goku. E lui, lui che era stato il suo maestro, era certo che Goku avrebbe capito. Magari non nell’immediato. Avrebbe avuto bisogno di un pochino di tempo per metabolizzare, per accettare che avrebbe dovuto sacrificarsi ancora una volta, anche se in maniera passiva, anche se solo per poco.
 
“Ge-Genio!”.
 
Ormai era carponi, con la fronte imperlata di sudore schiacciata con forza contro il suolo. Era stremato, sfinito. Resistere alla forza di Genio lo stava prosciugando. Che cosa gli stava facendo con esattezza? Voleva realmente ucciderlo?
 
“Non resistermi, figliolo. Non ti opporre. Sarà solo per poco. Te lo prometto. Solo per poco… Abbandonati… Fidati di me come hai sempre fatto… Non rendere le cose più difficili”.
“No… Non posso farlo. Non chiedermelo…”.
“Figliolo… Ti prego… Prolungherai solo le tue sofferenze… Abbandonati… Sarà solo per poco… Solo per un po’ di tempo”.
 
Era certo di aver visto lacrime rigare il viso del suo pupillo prima di essere investito dalla luce abbagliante che annunciava la sua trasformazione nel guerriero leggendario dai capelli color dell’oro. Aveva dovuto far fede alla sua calma interiore e alla forza che continuava a celare per mettere un freno alla potenza dell’essere che aveva di fronte.
 
“SMETTILA FIGLIOLO! LO STO FACENDO PER IL TUO BENE!”.
“AAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!”.
“GOKU… FIDATI DI ME!”.
 
Ma il super saiyan cresciuto sulla Terra non sembrava aver udito le suppliche di colui che lo aveva cresciuto. Era perso in una dimensione tutta sua, pregno di una forza e di un ardore che mai aveva mostrato in precedenza.
Era stato quello il momento in cui Genio aveva capito che non avrebbe avuto alcuna speranza se avesse perseverato nel tentativo di non infliggere eccessivo dolore al ragazzo che tanto amava e rispettava.
 
Le pareti della caverna sotterranea stavano tremando, proprio come l’acqua che sovrastava le loro teste. Se avesse continuato in quel modo, sarebbe potuto crollare tutto da un momento all’altro. Ma non era quello che preoccupava maggiormente il vecchietto delle Tartarughe: le pupille nascoste dalle lenti scure avevano immediatamente catturato le ombre sfuggenti che si erano affacciate dalle loro prigioni secolari. Troppo forte era il richiamo di quel corpo così invitante, di quell’involucro ormai pronto a ricevere quello per cui era stato così accuratamente preparato.
 
“Non posso attendere ancora a lungo… Spero che tu possa perdonarmi… Alla fine, ragazzo mio, sono certo che capirai”.
 
*
 
Due mesi dopo…
 
“Trunks… Trunks… Svegliati… Dobbiamo andare a scuola… Svegliati… Su…”.
 
Erano trascorse otto settimane dal giorno in cui avevano messo piede in quel villaggio, da quando la loro vita aveva preso quella piega così bizzarra e inaspettata.
Goten si era ritrovato diverse volte a dover svegliare il suo fratellino, nell’ultimo periodo. Aveva notato che spesso, durante la notte, Trunks si destava e scendeva giù dal letto per poi infilarsi sotto le coperte dopo un lasso di tempo che gli sembrava interminabile. Non aveva mai fatto domande, però. Probabilmente, aveva solo bisogno di stare un po’ da solo, ma non aveva potuto fare a meno di notare che fosse sempre più stanco e nervoso, e che facesse sempre più fatica a svegliarsi, al mattino, e a seguire con attenzione le lezioni.
Avrebbe voluto parlargli, chiedergli tante cose, ma aveva desistito: se avesse avuto bisogno di parlare, avrebbe saputo dove trovarlo. Lì, accanto a lui, in ogni momento, e non solo fisicamente, ma emotivamente, spiritualmente e mentalmente. Era lì, per lui, e ci sarebbe stato anche in silenzio. Lo amava immensamente e lo rispettava nel profondo. Gli avrebbe lasciato i suoi spazi. Gli avrebbe lasciato tutto il tempo di cui aveva bisogno.
 
“Su… La colazione è in tavola… Sarebbe un peccato farla raffreddare!”.
 
A fatica, Trunks aveva aperto gli occhi, lasciandosi investire dalla gelida luce del mattino. Non aveva intenzione di alzarsi. Aveva freddo, era stanco, e non aveva voglia di andare a scuola. Aveva trascorso la notte sotto il letto, nel suo posto segreto, nella speranza di ottenere spiegazioni da quella sorta di amico di penna che sembrava essersi totalmente impossessato di lui. Il piccolo saiyan dai capelli color lillà era troppo intelligente e sensibile per non capire l’inganno che quell’oggetto stava ordendo a suo danno. Ogni notte, con sempre maggiore frequenza, insinuava in lui dubbi, paure, insicurezze. Sapeva bene che quell’attività clandestina lo stava consumando e in qualche modo cambiando, ma proprio non poteva farne a meno. Era come se le parole vergate come per magia su quelle pagine bianche lo avessero reso schiavo, completamente dipendente e scollegato dalla realtà che lo circondava. Trascorreva gran parte della giornata nell’attesa del silenzio notturno, quando, con la complicità del buio, poteva sgattaiolare indisturbato sotto il letto, l’unico posto in cui si sentiva al sicuro. Era diventato ansioso e spesso era incapace di controllare le proprie reazioni, questo a causa del terrore di poter essere scoperto.
Suo padre non era una minaccia concreta, questo ormai lo aveva capito da diverso tempo: sfinito a causa del lavoro massacrante a cui si dedicava quotidianamente, si addormentava in pochissimi minuti, a volte con i vestiti addosso. Spesso, era Goten a sfilargli le scarpe e a rimboccargli teneramente le coperte logore in modo che non prendesse freddo. Quella casa era fredda come il ghiaccio e i loro abiti non erano abbastanza caldi da poterli proteggere da spifferi e malanni. Trunks sapeva che quel compito sarebbe toccato anche a lui, che avrebbe dovuto prendersi cura di suo padre, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che le cose stavano andando proprio come aveva voluto, che adesso erano una famiglia, che Goten era suo fratello e che quindi avrebbe dovuto farle anche lui, quelle cose. La verità era che Trunks si sentiva sollevato e irritato allo stesso tempo. Ma perché si sentiva così se era quello ciò che aveva tanto desiderato? Non avrebbe dovuto essere geloso, no?
 
“Dai… Faremo tardi!”.
 
Si era morso l’interno della guancia per non sbuffare. Non aveva proprio voglia di ubbidire a Goten, ma sapeva di doversi alzare. Per questa ragione aveva poggiato i piedi nudi per terra, si era lavato, vestito, aveva ingurgitato la colazione ed era uscito da casa, senza però aver gettato un ultimo sguardo al luogo in cui era riposto il suo tesoro, il luogo che nessuno avrebbe mai dovuto scoprire.
 
*
 
Erano solo le dieci del mattino e aveva già perso il conto dei sacchi che aveva caricato sul carro. La schiena gli doleva immensamente e lo stesso valeva per le braccia e le gambe, ma non avrebbe neppure pensato di accennare un lamento. Aveva sopportato di peggio, in passato, e in memoria di quei momenti gloriosi, aveva deciso che non avrebbe neppure lontanamente pensato di lagnarsi.
L’unica cosa positiva di quell’ennesima giornata di lavoro estenuante, era sapere che presto avrebbero avuto una breve pausa per poter bere e mettere qualcosa sotto i denti.
I ragazzi sarebbero tornati a casa da scuola nel pomeriggio, e questa era l’unica cosa che in parte lo consolava: il fatto che vivessero almeno una parvenza di normalità, e che riuscissero a trascorrere quella normalità insieme.
Ancora si sorprendeva, Vegeta, quando formulava quel genere di pensieri. Era sempre stato un lupo solitario, un uomo rude, scostante, e in un primo momento aveva faticato a vedere suo figlio attaccarsi così tanto a qualcuno che, per un motivo o per un altro, un giorno se ne sarebbe andato. Il punto era, però, che, senza accorgersene, anche lui aveva iniziato ad avere bisogno di condividere le sue esperienze con qualcuno. In un certo senso, sentiva Trunks più vicino che mai, e lo stesso valeva per Goten.
Probabilmente non si sarebbe mai abituato a quei nuovi sentimenti, ma erano proprio questi che lo stavano spingendo ad andare avanti.
Non ne parlava mai con i bambini, ma non si era arreso. Ogni giorno, seppur con discrezione, cercava indizi, poneva domande, tentava disperatamente di ricostruire i fatti e dare una spiegazione a quanto accaduto.
I primi tentativi erano stati del tutto fallimentari: era stato estremamente rude e scostante nel chiedere a chi gli stava attorno, e questo aveva generato solo malumori e sospetti nei suoi riguardi.
Non era mai stato bravo a investigare. Era uno stratega, lui, e aveva sempre agito in seguito ai dati ottenuti dopo che altri avevano effettuato le opportune ricognizioni e, in quell’occasione, avrebbe preferito avere accanto a sé un supporto. Se si fosse trattato di qualcuno da comandare a bacchetta sarebbe stato anche meglio.
Chiedere aiuto ai bambini era fuori discussione: date le circostanze, non li avrebbe mai messi in pericolo. Era stato un guerriero, un soldato, non era mai stato uno stupido, e non avrebbe sicuramente iniziato a farlo proprio adesso.
Era decisamente spaesato, però, e decisamente indeciso sul da farsi. Quando aveva scovato per puro caso quel villaggio, non aveva di certo pensato di stabilirsi lì a vita. Aveva pensato di fermarsi giusto il tempo necessario per recuperare le forze e per fare qualche domanda in giro, non di mettersi a lavorare e piantarci le radici! Invece, non sapeva neanche lui come, si era ritrovato con la vanga in mano e una casa mezza diroccata da sistemare, con i bambini da sfamare e mandare a scuola, sommerso dalle responsabilità e da una stanchezza che non credeva potesse mai appartenergli, con un vuoto nel cuore e nell’anima che lo stava portando sull’orlo del baratro.
Il punto era questo: Vegeta si era convinto di essere in qualche misura la causa di quanto fosse capitato alla Terra e ai suoi abitanti. Non che questo gli importasse – quando mai aveva avuto a cuore quello stupido pianeta e quegli stupidi umani? Mica era Kaharot, lui! – ma sentiva di essere diventato una specie di calamita per catastrofi varie ed eventuali, e che quella appena capitata fosse solo l’ultima di una lunga serie di catastrofi appurate e poi sventate. Già. Peccato che non fosse mai stato lui a porvi fine, e questo era il pensiero che più di tutti lo stava ossessionando.
Del decerebrato, poi, sembrava non esserci alcuna traccia. Quell’idiota di Kaharot doveva essere sparito nel nulla, proprio come se fosse stato inghiottito da un buco nero, e Vegeta non aveva ancora capito come reagire a riguardo. Non lo voleva attorno, questo era poco ma sicuro. La sua presenza lo aveva da sempre irritato, ma il non sapere dove fosse lo metteva ancora più a disagio. Forse, avrebbe dovuto pregare quel re Kaioh di cui tutti parlavano tanto, ma non era una pratica che gli si addiceva. Se solo avesse avuto ancora la capacità di percepire le aure altrui, sarebbe stato in grado di individuarlo e… Già… Cosa avrebbe fatto, dopo? Sarebbe scappato da lui all’infinito insieme ai ragazzi?
 
“Se solo riuscissi a capire la causa di tutto questo… Se solo riuscissi a scoprire perché quell’ebete sia diventato una specie di calamita, un vortice risucchia-energia vitale… Tsk! Mi sembra di impazzire! Quello è diventato un’autentica macchina da guerra e io sto qui a chiudere sacchi e a zappare la terr…”.
 
Il colpo di frusta era arrivato con una tale violenza da spezzargli il fiato e farlo cadere in avanti, con il viso nella terra. Non si era accorto della sferzata fino al momento in cui non aveva raggiunto la sua schiena. Provare a respirare era parso impossibile, in un primo momento, così come era parso impossibile restare collegato con la realtà.
 
“Dei scattare quando ti parlo, nullità! SCATTARE!”.
 
Leon.
Era stato lui a colpirlo. Era ovvio, chi altri poteva esserci di così abietto da sfogare la propria frustrazione sugli altri se non quel minuscolo essere schifoso?
 
“Adesso ho la vostra attenzione, maestà?”.
 
Leon lo aveva odiato sin dal primo istante in cui lo aveva conosciuto, e non aveva fatto niente per celarlo. Vegeta era certo di non aver detto o fatto niente che potesse indurre quell’individuo a nutrire nei suoi riguardi sentimenti così gretti, ma questo non aveva cambiato le cose. Certo era che Leon non fosse gentile con nessuno, ma lui era la sua vittima preferita, seppure, prima di allora, non si fosse mai spinto a tanto.
 
A fatica, si era rimesso in piedi, cercando di non mostrare l’intenso dolore provato. Un dolore inflitto più al suo orgoglio che non al suo fisico. Quante volte si era ritrovato a terra, in ginocchio, nell’ultimo periodo?
 
“Hai capito, cane?”.
“Ho capito”.
 
Si era dovuto trattenere dallo sputare veleno o dal fare qualcosa di peggio. Nonostante avesse perso i suoi poteri, era comunque più forte di un essere umano non allenato, e avrebbe certamente avuto la meglio su uno come Leon, ma gonfiarlo come una zampogna avrebbe causato tutta una serie di reazioni a catena che avrebbero condotto lui al patibolo e i bambini per strada. In quel luogo non si adottavano mezze misure, e le azioni considerate rivoltose venivano punite con la pena capitale. Aggredire un superiore gli avrebbe procurato un biglietto di sola andata per un ultimo ballo in coppia con il boia.
 
“Bene. Adesso che ho di nuovo la tua attenzione, stupido idiota, va a scaricare quei sacchi dal carro laggiù! E cerca di sbrigarti se vuoi vedere la paga della settimana… Ah! Luridi cani… Non siete altro che luridi cani!”.
 
Aveva chiuso gli occhi e ingoiato il rospo, cercando di ignorare il sangue che colava sulla schiena e il dolore acuto che quel bastardo aveva provocato al suo corpo e al suo orgoglio.
Prima o poi si sarebbe vendicato, poteva starne certo.
 
*
 
Il tempo era trascorso più in fretta di quanto aveva creduto, e Genio non era ancora riuscito a individuare il possessore dell’oggetto che tanto stava cercando.
Aveva temporaneamente evitato il peggio, sigillando Goku nella grotta di cui nessuno avrebbe dovuto mai sapere l’esistenza. In qualità di custode di quel luogo così antico e pericoloso, si sentiva responsabile di quanto accaduto. Forse, l’età lo aveva portato a essere meno attento, meno vigile, e quello che era capitato ne era la prova più tangibile. Per questa ragione aveva deciso di rimediare. Per questo, e per il fatto che Goku non sarebbe rimasto sotto l’influsso del suo potere per sempre. Ah, se Baba lo avesse scoperto, se avesse saputo! Doveva evitare di essere scoperto a ogni costo. Ne andava della sua dignità di guerriero e di custode della caverna.
 
Continua…

 
E che ve lo dico a fare?
Ormai, provare a scusarsi è praticamente inutile. Vorrei semplicemente ringraziarvi per la pazienza e l’affetto che mi state dimostrando: siete rimasti con me a prescindere dai miei ritardi e dalle mie crisi esistenziali. Siete magnifici. Grazie di vero cuore.
A questo punto, restiamo così: aggiornerò ogni volta che potrò!
Dunque: Goku è stato temporaneamente messo KO da un Genio che sembra custodire segreti inenarrabili, Trunks è sempre più irrequieto, Goten è sospettoso e Vegeta si sente sempre più inutile. Devo dire che le cose stanno veramente migliorando, non trovate?
Poveri i nostri Saiyan… Capitano sempre tutte a loro!
A presto! (Spero).
Un bacino
 
Cleo

 

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Capitolo 43
*** Punti di vista ***


Punti di vista
 
“Giuro su Dio che se lo fa di nuovo, io… Io…”.
“Io che cosa? Eh? Razza di idiota… Cerca di chiudere il becco e stare buono. Non è il caso di mettersi a fare gli eroi… Non abbiamo voce in capitolo, lo sai perfettamente… Smettila di pensare cose che non diventeranno mai realtà”.
 
Nel tornare verso casa, Vegeta aveva deciso di passare dalla piazza del paese. Camminava lento, il principe dei saiyan. I suoi passi erano diventati pesanti e stanchi, e la schiena, prima ben dritta a simboleggiare una fierezza interiore, era stata piegata dal peso della fatica e delle responsabilità che aveva dovuto assumersi. Ma camminava con lentezza anche per un altro motivo, lo stesso per cui aveva deciso di passare dalla piazza: avvicinarsi alle guardie cittadine nella speranza di capire come si organizzassero quegli idioti vestiti di metallo. I gendarmi erano soliti camminare a coppie, armati sino ai denti, sepolti nelle loro armature nere come la notte, ma a viso scoperto, per mostrare gli sguardi minacciosi incorniciati dalla folta barba che sfoggiavano con orgoglio e superbia.
Il principe si era ritrovato a pensare che anche lui doveva aver avuto un aspetto simile, che anche lui aveva dovuto emanare quell’aria di supponenza e strafottenza da padrone indiscusso del mondo. Quel pensiero lo aveva irritato profondamente, ma non riusciva a comprenderne pienamente il motivo. Cosa lo infastidiva? Il fatto che non fosse più simile a loro, o il fatto di essere stato come loro? Non era riuscito a darsi una risposta e di certo non avrebbe provato a trovarne una in quel momento. Era troppo impegnato a seguire le guardie senza dare troppo nell’occhio. Certo era che non avessero delle menti brillanti, ma erano ottimi segugi dotati di un invidiabile istinto, e questo poteva rappresentare per lui un serio problema.
Non era certo che, seguendoli, avrebbe scoperto qualcosa. Purtroppo non aveva una pista precisa da seguire, e non sapere cosa cercare con esattezza gli aveva solo fatto perdere del tempo prezioso. Il punto era che quella sua ricerca si basava sulle parole pronunciate da quelle bestie che avevano cercato di fare dal male a lui e ai ragazzi. Ne aveva un ricordo confuso, frammentario, ma doveva bastargli: era arrivato il momento di fare qualcosa di concreto.
 
“Hai visto la nuova arrivata?”.
“Chi? La rossa con delle tette grosse come meloni?”.
“Mai vista una così…”.
“Perché è dentro?”.
“Stava facendo qualcosa su uno di quegli uccelli di ferro…”.
“No! Un’altra strega? Assurdo… Ma che hanno queste maledette? Sono tutte luride amanti del demonio… Spero che la brucino al più presto!”.
“Credo che ci scalderemo davanti alla sua pira prima di quanto immagini”.
“Non vedo l’ora”.
 
L’ennesima esecuzione. Vegeta non era nuovo a quel tipo di pratica, lui per primo aveva più volte posto fine all’esistenza di innumerevoli essere viventi, ma la tendenza degli umani a spettacolarizzare la morte era qualcosa che proprio non capiva. Le donne erano le vittime predilette: considerate vere e proprie streghe, adoratrici di Satana o di qualcosa che non gli era ancora del tutto chiaro, finivano al rogo con una frequenza spaventosa. Il loro peccato era quello di provare a mantenere i ricordi della loro vita precedente, quelli persi del tutto dagli individui di sesso maschile.
Era un qualcosa che proprio non riusciva a comprendere: per quale ragione si ostinavano a considerare le donne una minaccia, invece che un modo per tornare indietro, per riavere la vita di prima? Era un ragionamento assurdo e incomprensibile. Ed era questo, insieme a tutte le altre cose, che lo rendeva estremamente confuso e anche timoroso. Non amava nascondersi, ma non aveva scelta: era l’unico essere di sesso maschile oltre ai bambini a ricordare quello che era accaduto, cosa sarebbe potuto accadergli se gli altri se ne fossero accorti? Meglio non saperlo, probabilmente. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva raccomandato a quelle due pesti di chiudere il becco, soprattutto durante le ore di lezione. Sarebbe bastato un niente per mettere a repentaglio le loro vite: una parola sbagliata, anche solo un’allusione a qualcosa che il resto della popolazione maschile riteneva “sbagliata”, e sarebbero finiti al rogo. Quella gente non guardava in faccia nessuno. Proprio come aveva fatto lui non troppo tempo addietro.
 
“Vorrei capire che cosa diamine sono queste cose di ferro che spuntano di tanto in tanto dal terreno…”.
“Ehi! Ma che dici? Da quando ti interessa quella roba?”.
“Frena! Non ho detto che mi interessa quella strana roba! Vorrei solo sapere che cosa sono. Sul fatto che siano oggetti maledetti non ho alcun dubbio. Solo gli uccelli volano! Quelle sono creature del demonio!”.
“Già... Davvero non capisco cosa abbiano in testa alcune di loro…”.
“Sono adoratrici di Satana… Dovresti averlo capito, ormai! Pensa a cosa è successo nella casa nel bosco…”.
“Quella pazza avrà quello che si merita. Tutte avranno quello che si meritano. Così, alla fine, capiranno chi comanda”.
“Sì… Alla fine capiranno”.
 
Non si era avvicinato abbastanza per capire ogni singola parola del discorso delle guardie, ma aveva capito quanto bastava per farsi qualche idea. O meglio, per farsi ulteriori domande.
Avevano parlato della casa nel bosco… Non sapeva perché, ma la sua mente aveva rielaborato quell’informazione, riconducendo tutto a quello che aveva vissuto in prima persona diverse settimane addietro. Che stessero parlando della donna che li aveva aiutati a fuggire poteva essere plausibile… Durante la fuga non si erano imbattuti in altre case nascoste nel bosco e, da quello che aveva potuto sentire e intuire, quei bastardi che volevano consegnarlo dovevano aver passato un brutto quarto d’ora. Però, era trascorso diverso tempo da quell’episodio: se fosse stata lei, la donna di cui parlavano, sarebbe stata giustiziata in pubblica piazza senza alcun ripensamento, ed era certo di non aver visto la sua esecuzione, per quanto dovesse ammettere di non aver fissato bene in mente i suoi lineamenti.
Avrebbe tanto voluto fare domande, ma non voleva esporsi. Non con quei brutti ceffi, almeno.
 
“Cerchi rogne, forse?”.
 
Panico. Che lo avessero scoperto a origliare i loro discorsi?
 
“Parlo con te! Guarda che faccia… Vuole farci fessi, eh?”.
“Ma di che cosa…?”.
 
Non aveva fatto niente per farsi scoprire, niente, e loro non sembravano così intelligenti da averlo potuto sorprendere con le mani nel sacco.
Solo dopo qualche istante si era reso conto che non si stavano rivolgendo a lui ma a un povero disgraziato che aveva avuto la sfortuna di incrociare lo sguardo di una delle guardie.
 
“Dite a me, signore?”.
“E a chi dovremmo dire? Eh? Razza di fesso! E tu spostati!” – aveva urlato, scansando bruscamente un Vegeta attonito – “Vieni qui! Che volevi fare, eh? Stavi origliando! Dillo che stavi origliando! DILLO!”.
 
Aveva afferrato quel poveretto pelle e ossa per un braccio e glielo aveva torto dietro la schiena, facendolo piegare in avanti dal dolore.
 
“Per favore… Per favore… Mi fate male… Per favore…”.
 
Forse, per la prima volta in vita sua, il cinico principe dei saiyan aveva avvertito un qualcosa di simile a uno slancio di altruismo, e aveva dovuto placare quel sentimento a lui così estraneo con una generosa dose di autocontrollo: non poteva andare ad aiutarlo. Quello, nel frattempo, veniva strattonato e continuava a lamentarsi per il dolore e per la paura.
 
“Per-per favore, signore… Io… Mi fate male…”.
“E te ne farò ancora di più se non mi dirai perché ci stavi ascoltando!”.
“Ma non vi stavo ascoltando!”.
“Ah no? NO? Ti farò passare la voglia! VIENI! Sono sicuro che una volta arrivato in cella, ti passerà la voglia di fare l’idiota!”.
“I-In cella? Ma perché?! NO! Abbiate pietà! NOOOOO!”.
 
Lo aveva visto andare via, trascinato di forza verso il carcere, mentre si dimenava come un forsennato e volgeva lo sguardo disperato dietro di sé, verso l’angolo della strada, proprio a pochi passi da dove si trovava Vegeta, proprio a pochi passi dal posto in cui due bambini di poco più di cinque anni, sporchi e spaventati, guardavano forse per l’ultima volta il loro papà.
 
*
 
Era tornato a casa con lo stomaco in subbuglio e la testa piena di pensieri. Quello che aveva vissuto per strada lo aveva scosso, non riusciva a negarlo a se stesso, e stava diventando ancor più difficile provare a nasconderlo ai ragazzi.
Nello stesso istante in cui aveva messo piede in casa, Goten aveva notato che qualcosa in lui era diverso, che sembrava “agitato”, e lui aveva cercato di sviare il discorso, imponendo a se stesso di non incrociare lo sguardo dei ragazzi: nei loro occhi continuava a vedere quelli dei bambini rimasti orfani di padre.
Se fosse capitato a loro? Se fossero stati Trunks e Goten a rimanere completamente soli? Cercava di ricacciare indietro quei pensieri con tutte le sue forze, ma di energie credeva di non averne poi più così tante. Dove si trovava la soluzione di quel rebus? Dov’erano le risposte?
Per la prima volta, nella mente del principe dei saiyan, aveva preso forma l’idea che non ci sarebbe stato alcun modo per tornare indietro, alle loro vite precedenti. Goku, ovunque fosse, avrebbe assorbito ogni singola creatura presente nell’universo e sarebbe rimasto da solo, o forse sarebbe esploso, carico di un’energia vitale che non sarebbe stato più capace di contenere.
Il solo pensiero lo disgustava, ma più passava il tempo, più gli sembrava plausibile. Non aveva i mezzi per evitarlo, non aveva gli strumenti. Aveva solo mani callose e sentiva la vitalità che scivolava via da lui a una velocità che non era capace di gestire.
Odiava quegli alti e bassi, odiava passare dall’azione alla disperazione in meno di un battito di ciglia. Era partito con ottime intenzioni, si sentiva carico, pronto a entrare in azione, ma quella scena, la scena maledetta a cui aveva assistito, lo aveva segnato in maniera irrimediabile.
Doveva mollare? Doveva rinunciare a sistemare le cose?
 
“Non vuoi mangiare, stasera, Vegeta?”.
 
Goten non aveva lasciato il suo fianco neanche per un istante. Lo guardava speranzoso, desideroso di compiacerlo, di mostrargli il proprio affetto. Era lì, e Vegeta aveva come l’impressione che ci sarebbe stato per sempre. Come poteva esistere un essere così piccolo eppure così colmo di affetto e devozione? Come poteva, quel bambino, tenere a lui in quel modo? Aveva fatto per Goten molto più di qualsiasi altro uomo, lo sapeva bene, ma non lo riteneva sufficiente per meritarsi un sentimento così puro e sincero. Era qualcosa che andava oltre rispetto al bene che gli dimostrava Trunks. Non che il suo non fosse importante o non fosse un bene che in qualche maniera aveva saputo guadagnarsi, ma con Goten… con lui era diverso. E questo gli metteva addosso paura e un fortissimo senso di responsabilità, più grande di quello che già provava. La lontananza palesata da suo figlio, poi, era un’ulteriore coltellata al petto. Non si aspettava di vedere il sangue del suo sangue diventare improvvisamente schivo, sospettoso e taciturno. Qualcuno avrebbe potuto obiettare che fosse un lato del carattere che aveva ereditato proprio da lui, da Vegeta, ma egli stesso non si era mai comportato in quel modo con le persone in cui aveva riposto un briciolo di fiducia. Cominciava a temere di aver perso completamente quella di suo figlio, che Trunks lo ritenesse un incapace, un buono a nulla, che il mito del “valoroso principe dei saiyan” si fosse sgretolato come una fragile statua di sale. Poteva permettere che ciò accadesse? Poteva lasciare che suo figlio lo considerasse un gigante dai piedi di argilla? Non avrebbe retto a quell’ennesimo colpo… Sapeva perfettamente cosa significava perdere la fiducia nel proprio padre. Lo aveva sperimentato sulla sua pelle quando era molto, molto più piccolo di Trunks, e non riusciva ad accettare di poter far vivere la stessa cosa a quel bambino.
 
“Ceniamo e andare a letto…” – aveva detto, serio – “Domani c’è scuola e non voglio che vi addormentiate sui banchi”.
 
*
 
Quella notte non aveva dormito granché. Aveva continuato a girarsi e rigirarsi nel letto nella speranza che il sonno sopraggiungesse, ma non c’era stato verso di cadere tra le braccia di Morfeo. Un pensiero fisso lo tormentava, ed era stato a causa di quel tarlo che la mattina dopo, di buon ora, si era recato presso la maestosa fortezza, chiedendo di poter far visita alla prigioniera di cui tanto aveva sentito parlare.
Forse era completamente impazzito: quello che stava facendo era terribilmente rischioso, ma aveva studiato a lungo il comportamento che gli uomini assumevano con le donne condannate a morte per stregoneria, e aveva scoperto che potevano far loro visita per deriderle e torturale come preferivano, in modo da poterle umiliare e, perché no, portarle a confessare i presunti crimini commessi.
Non gli andava particolarmente a genio l’idea di comportarsi da farabutto, ma non aveva scelta: o questo, o non avrebbe mai saputo se la donna che avevano arrestato e condannato fosse la stessa che aveva salvato lui e i ragazzi dalla furia omicida di quella famiglia di balordi.
Così, Vegeta aveva indossato la maschera di sadico torturatore e si era incamminato presso l’ingresso di quel luogo infernale. Certo era che l’aspetto e l’odore di quel posto mettevano addosso un’angoscia non indifferente, ma avrebbe dovuto farsi coraggio e fare affidamento alla sua forza di volontà e al buon senso che, saltuariamente, tirava fuori. O quello, o non avrebbe mai saputo la verità.
 
“Che sei venuto a fare qui?”.
 
La guardia che aveva incontrato all’ingresso della prigione non era molto diversa da quelle che pattugliavano la cittadina. Nulla a che vedere con il variopinto esercito di Freezer: sembravano prodotte in serie, quasi come se, oltre alle armi e all’uniforme, venisse offerto loro un trattamento per renderle simili nel volto e nello sguardo spietato. Quell'energumeno puzzava di alcol e formaggio scadente, aveva i denti ingialliti dal tabacco e le mani grandi, callose e dalle unghie sudice. Era disgustoso, ma Vegeta non avrebbe potuto fare lo schizzinoso-
 
“Sono qui per vedere la tizia del bosco… Vorrei… Scambiare due paroline con lei”.
 
Ed eccolo lì, il sorriso sadico che tante volte aveva fatto tremare gli abitanti dei pianeti che aveva dovuto assoggettare. Eccolo lì, lo sguardo da psicopatico bastardo disposto a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere il proprio scopo.
 
“Vuoi pensarci anche tu, eh? Il villaggio è pieno di cittadini ligi al dovere… Ultima cella in fondo al corridoio di destra… Se ti fermano, puoi dire che ti ho fatto passare io. E, mi raccomando… Falla cantare! Quando è in vena, intona melodie dolcissime”.
 
Aveva faticato a mantenere la calma, nell’udire quelle parole così disgustose. Sperava quasi che non si trattasse della donna che lo aveva aiutato. Certo, non che se si fosse trattato di un’altra sarebbe stato meno grave pensare e fare una cosa del genere, ma con lei… Era peggio. Non poteva negarlo. Certamente, nessuno avrebbe potuto considerare Vegeta un sentimentalista, ma quello era eccessivo anche per uno come lui, che aveva commesso orribili crimini, ma non aveva mai osato spingersi fino a quel punto. Lo stomaco gli si era aggrovigliato a causa dello schifo, ma aveva sorriso e aveva proseguito, confuso e incerto, ma sempre desideroso di scoprire la verità.
 
Più si addentrava nelle viscere di quel luogo, più l’odore peggiorava. L’umidità aveva completamente avvolto le pareti e un coro di lamenti sommessi riecheggiava tra le volte e le colonne di pietra nuda.
Quali orrori si nascondevano lì dentro? Quali sofferenze?
Ma non era solo quello ciò a cui Vegeta stava pensando. Era andato lì per sapere se lei fosse la lei che credeva, era andato lì per porre domande e avere risposte, ma quali domande avrebbe dovuto farle, se avesse avuto la conferma sulla sua identità? Non ci aveva davvero pensato, prima di andare lì… Pensava di riuscire a improvvisare, ma ora che stava per accadere il tutto, la lucidità in cui tanto aveva riposto fiducia stava per venire meno… Che avrebbe fatto? Lo avrebbe scoperto subito dopo, perché i pensieri lo avevano distolto dalla realtà facendolo muovere come un automa, conducendolo davanti alla porta della cella che tanto aveva cercato.
 
In un primo momento non aveva avuto veramente coscienza di quello che aveva davanti a sé: sembrava una cosa a metà tra un cumulo di vestiti sporchi e un sacco di patate, ma solo dopo aver osservato attentamente si era reso conto che quell’ammasso informe si muoveva, e quei movimenti indicavano il ritmo di un respiro non troppo regolare.
Era una persona, quella che stava rannicchiata sul pavimento, una persona ridotta a uno scarto umano, un relitto, un fantoccio irriconoscibile, la marionetta di quella che non troppo tempo addietro doveva essere stata una donna, una creatura che respirava, e cantava, e lavorava, e giova, e soffriva e viveva.
Come potevano averla ridotta in quel modo? La cattiveria umana poteva portare a tanto? Ma era davvero solo cattiveria, quella che aveva spinto degli uomini ad abusare così violentemente di un essere quasi del tutto indifesa? Si era quasi sentito venire meno, Vegeta, perché so era immedesimato non solo nei panni del crudele carnefice, ma anche in quelli della povera vittima, dello schiavo umiliato, martoriato, deriso da chi si era sentito superiore in razza e forza.
Era lei? La donna che lo aveva aiutato? Non sarebbe stato capace di capirlo se lei non avesse fatto di tutto per farsi riconoscere.
 
“Sei venuto a riscattare la tua parte?” – aveva detto con un tono di voce molto più deciso di quanto si aspettasse – “O sei venuto a ricambiare il favore che ti ho fatto, nel bosco?”.
“Tsk! Quindi sei davvero tu” – aveva asserito, pacato e calmo anche se solo in apparenza.
“E chi altri dovrebbe essere, sennò?” – era stata la piccata risposta che di lei – “Chi poteva essere così scema da riporre la propria fiducia in un uomo?”.
“Stento a capire cosa vuoi dire”.
 
Quel ragionamento non aveva molto senso: casomai, era stato lui a fidarsi di lei, non viceversa. Che cosa voleva dire?
 
“Vi ho aiutati a scappare, e poi ho fatto in modo di nascondere quello che avevo fatto… È stata la cosa peggiore che io abbia mai fatto, più brutta dell’aver sparato, fidati… Però vedo che stai bene… Quindi, alla fine, non ho commesso un errore nello scegliere di aiutare te e i tuoi figli. O meglio, tuo figlio e il suo amico”.
“TSK! E tu come fai a sapere questa cosa? Maledizione, donna, non farti sentire, o…”.
“Non c’è nessuno qui. Quando venite a trovarci, le guardie vanno via. Sai, vogliono lasciarci un po’ di privacy…”.
 
Come riusciva a ridere di quello che le facevano, Vegeta proprio non riusciva a capirlo. A giudicare dall’aspetto fisico, dalle guance smunte, dal colorito della pelle e dalla sporcizia, doveva trovarsi lì da tempo e doveva averne patite di ogni. Un dolorosissimo nodo aveva preso forma nella sua gola, e deglutire sembrava un gesto impossibile. Per un attimo, aveva immaginato la sua Bulma al posto di quella donna e si era chiesto per quale ragione gli dei risultassero così indifferenti alla sofferenza umana.
 
“Non sono qui per…”.
“Che fai? Arrossisci? Eppure, non mi sembri affatto un ragazzo timido…”.
“Smettila” – aveva detto lui, rosso d’imbarazzo. Non riusciva proprio a giocare a quel gioco, era inutile. Si sentiva profondamente a disagio, ma non poteva lasciare che quel sentimento prevalesse. Doveva riprendere il controllo e fare quello per cui era venuto. Solo allora avrebbe potuto tranquillizzarsi un po’.
 
“Perché sei venuto?”.
 
Il tono di voce della donna che lo aveva aiutato era diventato improvvisamente serio. Zoppicante, si era avvicinata alle sbarre, afferrandole con le dita nere a causa del freddo pungente e dello sporco che le avvolgeva. Il suo sguardo, apparentemente spento, sembrava essersi nuovamente acceso: la curiosità la stava divorando come una bestia affamata.
 
“Come sei finita qui dentro? E come fai a sapere di Goten?”.
 
Diretto, schietto, Vegeta non aveva usato giri di parole.
 
“Mi hanno presa mentre aspettavo che il tuo amico tornasse. Quando dico tuo amico, parlo di quello che assorbe le persone… il padre di Goten: Goku”.
 
La terra si era aperta sotto i piedi di Vegeta e lo aveva inghiottito. Neanche lui sapeva quanto tempo avesse trascorso senza proferire parola. La lingua si era incollata al palato, secca, e aveva cominciato a tremare di rabbia. Come aveva fatto a trovarla, quell’idiota di Kaharot?
 
“Come sarebbe a dire che lui… Che lui… TSK! Maledizione! Spiegati, ragazza. Basta con questi misteri!”.
 
Marylin aveva sfoderato uno sguardo risentito e duro. Non meritava di essere trattata in quel modo e sapeva che il suo interlocutore ne fosse pienamente consapevole. Nei suoi confronti non nutriva rabbia o sentimenti affini. Era consapevole di aver fatto la scelta giusta, quando aveva deciso di rinnegare la sua stessa famiglia e aiutarlo a fuggire con quei bambini, ma proprio non riusciva ad accettare di farsi trattare in quel modo.
 
“Se non ti avessi dato una mano, ora saresti tu da questa parte delle sbarre, e io starei a guardarti dalla tua stessa angolazione. Non mi pento di quello che ho fatto, non è da me, ma ti chiedo di non rivolgerti a me in questo modo. Presto sarò morta, quindi non sarò più un problema per questa società misogina e retrograda, ma pensavo di poter essere ricordata almeno da chi ho avuto a cuore… Invece…”.
 
Punto nel vivo, aveva volto il capo dall’altra parte per non dover affrontare il suo sguardo. Era debole… Uno stupido, debole essere umano.
 
“Puoi raccontarmi quello che ti è successo?” – e aveva esitato, prendendo un lungo respiro – “Per favore”.
 
Con quell’ultima richiesta, tutto quello che era stato un tempo, era stato spazzato definitivamente via. Lui, un principe, uno spietato assassino, si era ritrovato a chiedere “per favore” a una prigioniera, a una debole terrestre.
Ma aveva dovuto ammettere che quel pensiero non fosse esatto, che non le rendeva giustizia. Lei non era debole, affatto- Aveva dimostrato di essere forte come un drago. Lei non gli era inferiore, ma era una sua pari: un essere umano che aveva lottato con le unghie e con i denti per uscire dalla condizione di schiavitù che gli era stata imposta.
 
“Se non avessi fatto quello che ho fatto, tu e i tuoi figli avreste subito una sorte simile alla mia, se non peggiore, come ti ho già detto. Sono tempi bui quelli in cui siamo piombati”.
“Che cosa sai tu, a riguardo?” – aveva detto, avvicinandosi alle sbarre per non farsi sentire da orecchie indiscrete.
“Prendi le chiavi che trovi alla parete alle tue spalle ed entra qui dentro… Non possiamo destare sospetti, dovrai darti da fare. O fingere di farlo, se preferisci”.
 
Eccolo lì, di nuovo, il rossore comparso sulle gote. Perché quella donna era così schietta e spudorata? Suo malgrado, Vegeta aveva ubbidito, eseguendo gli ordini impartiti dalla prigioniera con estrema precisione, trovandosi finalmente faccia a faccia con lei.
 
“Lo sai che non mordo, vero? Denti me ne hanno lasciati davvero pochi… Vieni qui, dai…”.
 
Si era seduto accanto a lei, sul lurido pagliericcio, incurante dell’odore e dei topi che gironzolavano indisturbati. Vista da vicino, oltre le sbarre, aveva notato che fosse messa ancor peggio di come gli era parsa a primo impatto. Eppure, qualsiasi cosa le avessero fatto, non l’avevano spezzata. Piegata forse sì, ma non spezzata, e Vegeta si era sentito estremamente simile a lei.
 
“Io ricordo tutto. Ricordo tutto quello che era stato non troppe settimane addietro, e sono sicura che anche le donne che vivono in questo villaggio lo ricordano. Gli uomini, invece, pensano che gli aerei siano strumenti del demonio e che qualsiasi cosa esuli dalla loro comprensione sia dovuta all’operato di noi streghe, serve sempre del suddetto demonio. Ignoro il perché ciò sia successo, così come ignoro il perché tu, i bambini e Goku non abbiate subito la stessa sorte degli altri”.
“Fidati, non sei la sola ad aver pensato a queste cose”.
“Me ne compiaccio. Ma credo sia giunto il momento di capire il perché. Tu sai qualcosa, no? O, almeno, devi averla intuita… E chi ti ha detto che mi avresti trovata qui? E come siete venuti al villaggio? E sai che fine ha fatto quell’idiota di Goku? Giuro che se lo trovo…”.
“Tsk! Ero venuto a fare domande, ma a quanto vedo, la situazione si è invertita…”.
“Sì, hai ragione…”.
“Ma figurati!” – aveva ironizzato lui, alzando le mani in segno di resa – “Sono abituato queste cose…”.
“Tua moglie?”.
 
Non aveva risposto, si era limitato ad annuire, cercando di non apparire eccessivamente cupo. Parlare di Bulma gli faceva troppo male, non aveva alcuna voglia di aprire con Marylin quell’argomento, e lei sembrava averlo capito perfettamente.
 
“Tu eri come lui? Dimmi la verità…”.
“In che senso?”.
“Lui non è di questo mondo… E neanche tu, vero?”.
“Diciamo che veniamo da lontano…”.
“Oddio… Ma-ma certo! Mi ricordo di te! Ricordo dove ti ho visto la prima volta… Tu sei quello venuto dallo spazio per ucciderci! Sei un alieno! E Goku ti ha sfidato per proteggerci! L’ho visto in TV! E ti ho visto pure nello scontro contro Cell! SEI TU! NON HO ALCUN DUBBIO!”.
“TSK! Ma la smetti di urlare o no? Non c’è pericolo che tu abbia perso la memoria, insomma. Anzi… A quanto vedo, ti sono stato d’aiuto. Dovresti ringraziarmi”.
“Ringraziarti? Ma se volevi sterminarci!”.
“Non è corretto: volevo solo schiavizzarvi e rivendervi al miglior offerente”.
“Certo, perché così suona meglio, no? Sei un… un…”.
“Un mostro? Puoi dirlo… Sono consapevole di quello che ho fatto. Devo dirti che non so se me ne pento o meno, ma quella parte della mia vita è esistita e non si può cancellare. Siamo qui per parlare di questo, adesso?”.
 
Lo sguardo di lei era colmo di sentimenti confusi: un misto tra rabbia, disgusto, ma anche di pietà. Aveva visto che gli occhi dell’uomo che aveva davanti non somigliavano per niente a quelli dell’essere che aveva cercato di invadere e conquistare il pianeta diversi anni addietro. Aveva ragione, non erano lì per parlare di quello, ma di altro, di qualcosa di molto più importante.
 
“Tu sei entrato in contatto con Goku? Se è così, mi spieghi come fai a essere ancora qui? Io l’ho tenuto a debita distanza, pure tu lo hai fatto?”.
“Tsk! Non esattamente… Ma fidati, non ho mai avuto intenzione di avere contatti con quel decerebrato. Anzi…”.
“Posso intuire il perché… Ma senti… Hai pensato al fatto che, forse, tu non sei morto perché hai quelle strane abilità o perché sei un alieno? Oddio, non so se è il termine corretto, ma...”.
“Come hai detto?”.
“Sì, insomma…”.
“Caspita, ragazza, possibile che tu non capisca? Potresti aver ragione almeno su questa parte… Lui ci ha prosciugati ma non ci ha uccisi perché sono un saiyan. E lo stesso vale per i ragazzi, anche se lo sono per metà. Questo ha perfettamente senso… Ma perché gli uomini rimasti hanno perso la memoria? Non sono entrati in contatto con lui e va bene, ma loro sono convinti che le cose siano da sempre andate in questo modo, mentre voi donne sapete che la faccenda è ben diversa… Questo da quando è cominciato? Pensiamo… Subito dopo il bagliore, no?”.
“Sì… Subito dopo quello stupido bagliore, è cambiato tutto… Ma tu sai di cosa si è trattato? Ne hai individuato la fonte?”.
“Sarei qui, altrimenti?”.
“Touché…”.
 
Tra i due era calato il silenzio, un silenzio rotto dall’ennesima domanda del principe.
 
“Come ti ha trovato, Goku?”.
“Stava cercando i suoi figli… E te e Trunks, naturalmente… Trovo impressionante la somiglianza tra lui e il piccolo Goten… Comunque, è rimasto con me per qualche giorno, avremmo dovuto venire a capo di questa faccenda insieme, ma mi ha abbandonata, e poi mi hanno presa… Hanno provato in tutti i modi a farmi dire perché avevo ammazzato quei bastardi, ma non ho ceduto. Non potevo tradire un padre e i suoi ragazzi… Meglio morire”.
“Lo sai che accadrà presto, se non torna tutto come prima, no?”.
“Lo sai che queste domande retoriche ti rendono estremamente sexy, paparino?”.
 
A quel punto, un pomodoro sarebbe parso pallido a confronto delle gote del principe dei saiyan.
 
“Così grosso, così forte, eppure così timido e impacciato… Tua moglie deve essere la donna più fortunata dell’universo, Vegeta… Spero che tu, un giorno, possa riaverla con te”.
 
*
 
Quando il misterioso quaderno, attirato dalla forza vitale di quel giovane così speranzoso e gioioso, aveva deciso di palesarsi, lo aveva fatto dopo aver scelto con estrema cura quale strategia adottare. Il piccolo Trunks era un bambino fuori dal comune: buono e leale, sapeva farsi coraggio nei momenti di difficoltà, ma era capace di scherzi e marachelle degni di un bambino della sua età. La sua vitalità prorompente, unita alla voglia di rendere felice il suo più caro amico, lo avevano scosso dal suo riposo, attirando l’attenzione anche delle altre creature costrette a vivere in quel buio sotterraneo dimenticato dagli dei.
Il destino aveva deciso di regalargli una gioia dopo tanto tempo, perché esso aveva voluto che Trunks si trovasse al posto giusto al momento giusto e che, tra tanti oggetti custoditi lì sotto, scegliesse proprio lui. Sapeva come attirare l’attenzione, nonostante il tempo trascorso, e sapeva come evitare di essere scoperto: doveva guadagnarsi la fiducia del giovane, esaudendo il suo desiderio quando, in realtà, non avrebbe fatto altro che esaudire il suo. Il primo passo sarebbe stato quello di mostrarsi a lui lindo e pinto, proprio come se fosse nuovo. Il secondo passo, sarebbe stato quello di ricreare un mondo a lui congeniale, un posto dove riconoscersi e poter così pensare di vivere liberamente una volta raggiunto il suo obiettivo, e lo aveva fatto. Chi avrebbe mai pensato di trovare lì, a pochi passi, un tramite straordinario come il padre del suo migliore amico?
L’energia sprigionata sotto forma di luce aveva pian piano creato quel mondo perfetto: antico, in rovina, dove gli uomini non erano altro che bestie da lavoro sottomesse alla legge del più forte e le donne… Bè, le donne erano state da sempre un problema, per lui, ma pian piano avrebbe assoggettato anche loro, lasciando che fossero gli stessi uomini a eliminare quelle maggiormente problematiche.
Aveva creato il mondo perfetto, un mondo in cui non esistevano guerrieri e in cui ogni cosa era assoggettata alla paura di un qualche essere demoniaco che sarebbe potuto venir fuori dalle viscere della terra per divorarli tutti e condannarli alla dannazione eterna.
Mancava solo un salvatore, no? Qualcuno che potesse governarli e condurli lungo la retta via.
Avrebbe dovuto aspettare un altro po’ di tempo.
Apprezzava anche l’assenza, nei paraggi, del suo futuro tramite: aveva deciso che il principe sarebbe stato il suo ultimo pasto, ma nelle condizioni attuali, Goku non sarebbe stato in grado di digerirlo, portando tutto al fallimento. Vegeta era il bocconcino più prelibato, la ciliegina sulla torta, e lui voleva che Goku lo assaporasse con calma e con gusto, fino ad arrivare al momento perfetto: quello in cui sarebbe stato lui, a digerire tutti, persino lo stesso Goku.
A quel punto, sarebbe tornato, e nessuno avrebbe potuto contrastarlo.
Neppure quel vecchio pervertito che aveva osato sigillarlo in quella grotta maledetta.
 
Continua…


Ragazze/i,
BUON 2021!!! BUON ANNOOOOO!!!
Non sapete che gioia sapere che quello scempio di 2020 se ne sia andato!! Questi ultimi mesi sono stati un autentico dramma, e non vedo l’ora di lasciarmi tutto alle spalle.
Mi sento carica, piena di energie! E spero che lo stesso valga per voi!
Perciò: auguri, auguri, AUGURI!!!
 
Ma torniamo a noi: questo lungo capitolo ci ha mostrato quanto Vegeta possa tribolare (nelle mie fic, per lui il 2020 non finisce mai) e soffrire, quanto sia dannatamente, meravigliosamente UMANO.
Vedere la sofferenza negli occhi di quei bambini, nel corpo martoriato della donna che lo ha aiutato, sentirsi affine a lei, lo ha reso più simile che mai a quella razza che tanto aveva denigrato.
E l’ultima parte… il punto di vista del Quaderno ve lo aspettavate?
;)
Che altro dire, se non grazie per avermi fatto compagnia per più di un anno? Per non avermi abbandonata nonostante i ritardi e alcuni capitoli un pochino fiacchi? GRAZIE DI VERO CUORE!
A presto!
 
Un bacino
Cleo

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Capitolo 44
*** Quello che ne venne fuori ***


Quello che ne venne fuori
 
Quarantacinque giorni.
Era quello il tempo che era stato concesso di vivere alla donna della casa del bosco. Marylin non avrebbe trascorso un giorno in più sulla Terra.
Era stata condannata a morte pochi giorni dopo il suo incontro con Vegeta. L’esecuzione sarebbe avvenuta in pubblica piazza, di venerdì, alle tre del pomeriggio. Erano state scelte le fiamme per porre fine alla sua vita. Quella era la punizione destinata alle adoratrici del demonio, alle streghe. Peccato che nessuno si rendesse conto che proprio quelle che chiamavano streghe potevano rappresentare la salvezza per quel mondo ormai alla deriva.
 
Vegeta non era più tornato a trovarla, assecondando la richiesta che lei gli aveva rivolto poco prima di congedarlo. Non aveva più molto da raccontargli, e vederlo le avrebbe causato solo ulteriori sofferenze: si sentiva affine a lui, in qualche maniera, e non voleva rischiare di affezionarsi a qualcuno proprio in prossimità della fine. Avrebbe trascorso il tempo che le restava da sola, a pensare, a cercare di capire, o forse a cercare di dimenticare quanto fosse stata infelice in quell’ultimo periodo, a cercare di dimenticare quanto potesse essere pericolosa una luce così abbagliante.
E a cosa avrebbe pensato, Marylin? Al fatto che, se non avesse aiutato Vegeta e i suoi due bambini, non sarebbe stata lì: se non avesse giustiziato gli “uomini di casa”, non sarebbe stata condannata a morte. Al fatto che aveva preferito un perfetto estraneo alla sua famiglia. Per colpa di uno sconosciuto, aveva perso la possibilità di tornare a vivere la sua vita di prima, quella che gli altri avevano dimenticato ma che lei ricordava alla perfezione.
Non avrebbe più avuto l’opportunità di tornare a lavorare, di uscire a mangiare un gelato con le amiche, di guardare un film strappalacrime, di viaggiare, di scoprire sapori nuovi, di innamorarsi perdutamente e di soffrire, per poi rinascere, più forte e sicura che mai.
Ma non avrebbe pianto. No, Marylin non aveva versato neppure una lacrima. Dopotutto, malgrado ci avesse provato e riprovato, proprio non riusciva a pentirsi di ciò che aveva fatto. Era stata crudele, disumana, si era eletta a giudice e a boia allo stesso tempo, aveva compiuto pensieri e gesti che non pensava potessero appartenerle. Lei, così gentile e mite, aveva assassinato la sua stessa famiglia. Ciò che aveva fatto l’aveva lasciata di stucco, in un primo momento: forse non era del tutto vero che quel posto non l’aveva cambiata, che quella nuova realtà non aveva avuto alcun effetto su di lei.
Non si era opposta all’arresto perché, in cuor suo, sentiva di meritare una punizione.
 
“Ho dato a Vegeta un’occasione… Gli ho dato l’unica cosa che io non ho più: il tempo. Ora può scoprire cosa è successo… Può evitare che quello che mi è capitato possa accadere ad altre… Lui può trovare il nesso, la spiegazione, la chiave di volta… Lui potrebbe anche… Si, potrebbe anche fare in tempo, e…”.
 
Ma, ogni volta che quel pensiero prendeva forma nella sua mente provata, Marylin lo ricacciava indietro con tutte le sue forze. Non poteva sperare che facesse in tempo, non poteva sperare di essere salvata. Vegeta non sarebbe tornato da lei, era stata categorica. Perché, allora, in cuor suo continuava a sperare che lui apparisse da un momento all’altro? Quell’uomo dallo sguardo così duro sarebbe stato capace di rischiarare il buio di quella cella, avrebbe portato la luce. E lei aveva capito che, di quella luce, non avrebbe più potuto farne a meno.
 
*
 
Vegeta era passato davanti alle alte mura della prigione ogni singolo giorno, da quando era andato a trovare la donna che lo aveva aiutato a scappare. Non sapeva di preciso perché sentisse il bisogno di farlo, era qualcosa che capitava e basta. Mentre camminava, tornando a casa dal lavoro, passava proprio lì sotto. Quando doveva andare al mercato, si ritrovava lì… Ed era lui stesso il primo a meravigliarsene, perché non ne comprendeva la ragione. Questo suo agire così d’impulso lo straniva, e lo rendeva irrequieto, ma sapeva di non avere alcun mezzo per aiutarla, sapeva che esporsi poteva significare condannare alla sua stessa fine i ragazzi. Si rifiutava di sacrificare tutto quello che gli era rimasto per un’estranea, anche se lei aveva fatto esattamente la stessa cosa per lui. Vegeta aveva capito e accettato, seppur con fatica, di provare nei suoi confronti una sincera riconoscenza: si sentiva in debito con lei. Si sentiva in debito e sapeva di essere un verme per aver deciso di non saldarlo.
Tornare da lei, in prigione, sarebbe stato un atto incauto, anzi, un gesto estremamente pericoloso: che motivo avrebbe avuto? Aveva ottenuto quello che ogni uomo voleva da lei, stando a quello che immaginavano le guardie, e non gli toccava più niente. Recarsi nella sua cella una seconda volta avrebbe potuto destare qualche sospetto. In paese non erano in tanti a conoscerla, ma sapevano perfettamente che non aveva legami sentimentali con qualcuno e che la sua unica famiglia fosse quella che aveva sterminato. Dunque, avrebbero cominciato a chiedersi chi lui fosse, cosa lo portasse ad essere così interessato a lei, e per quanto fossero tutti una massa di imbecilli, Vegeta era sicuro che sarebbero stati capaci di fare un qualche tipo di deduzione. Nessuno doveva scoprire che ci fosse un legame tra loro e l’aereo caduto nel bosco, nessuno doveva scoprire che c’erano legami tra lui e Marylin: lo avrebbero accusato di stregoneria, avrebbero fatto lo stesso con i bambini e sarebbero tutti passati a miglior vita nel peggiore dei modi. Non aveva rischiato il tutto per tutto per condannare i bambini a una morte atroce.
Marylin avrebbe capito, forse, ma non voleva chiedersi nulla riguardo a un suo possibile, ipotetico, perdono.
 
Aveva deciso di parlarne con i ragazzi. Trunks e Goten si erano chiesti spesso che cosa ne fosse stato della donna che li aveva aiutati a scappare, e non se l’era sentita di tenerglielo nascosto. Lo avrebbero scoperto in ogni caso, considerando che per andare a scuola passavano dalla piazza principale del paese, che sapevano leggere alla perfezione e che presto la notizia sarebbe passata di bocca in bocca sino a raggiungerli.
Avrebbe impedito loro di presenziare all’esecuzione, questo era poco ma sicuro, ma non li avrebbe trattati come due stupidi marmocchi: erano piccoli, dovevano essere preservati, ma non dovevano essere trattati come degli idioti privi di intelletto o di sensibilità. Il problema, forse, era proprio l’esatto contrario: Trunks e Goten erano più intelligenti della media, ed erano estremamente sensibili, caratteristica che avrebbe potuto portarli a fare qualcosa di stupido se non guidati da qualcuno che aveva scelto la prudenza come stile di vita. Quel pensiero lo faceva sorridere amaramente: lui, che sin da quando aveva iniziato a camminare era stato istruito per conquistare e distruggere, lui, che si avventava sul nemico come un felino sulla sua preda, era stato costretto a diventare cauto e prudente. Doveva dare l’esempio, doveva mostrarsi deciso, capace di ponderare e raggiungere la meta nel modo più giusto. Eppure… Eppure, forse proprio per questo motivo, per essere stato troppo prudente, si era ritrovato inchiodato lì, a vivere senza vivere, incapace di uscire da quello stallo che lo stava spolpando lentamente e dolorosamente.
 
“Ho trovato Marylin…” – aveva però esordito mentre la sua mente vagava – “Ma non ho buone notizie da darvi…”.
 
Così, con voce ferma e apatica, aveva raccontato ai ragazzi del suo incontro con la donna che li aveva aiutati a fuggire, spiegando loro che purtroppo, a causa di quel gesto, era stata accusata di stregoneria ed era stata condannata al rogo. Aveva riflettuto a lungo anche sull’eventualità di tacere su Goku, ma alla fine aveva deciso di raccontare ogni cosa.
La reazione di Goten gli aveva provocato una ferita nell’anima, l’ennesima: aveva visto i suoi occhi riempirsi di lacrime, ma lo aveva visto trattenersi con tutte le sue forze, nel tentativo di mostrarsi forte e coraggioso. Perché, per cercare di proteggerlo, continuava a ferirlo irrimediabilmente?
Trunks… Trunks lo aveva guardato intensamente, poi aveva fissato un punto impreciso fuori dalla finestra e aveva stretto i pugni, cercando un senso nelle parole di suo padre. Marylin sarebbe morta in modo atroce. Marylin, la donna che li aveva aiutati, sarebbe morta per causa loro.
 
“Non farai niente?” – gli aveva detto, gelido.
 
Vegeta lo aveva fissato intensamente, cercando di trovare una riposta adatta da dare al suo bambino, ma le parole gli erano morte in gola.
Non avrebbe fatto niente per Marylin e non aveva fatto niente per fermarlo: Trunks gli aveva dato le spalle ed era salito sul suo letto, nascondendosi sotto le coperte.
Era evidente che suo figlio lo considerasse un codardo, ma da quel momento in poi, non sarebbe stato il solo ad avere quell’opinione su di lui.
 
*
 
Non aveva voluto trascorrere un minuto di più nella stessa casa in cui si trovava suo padre. Si sentiva un verme, sapeva di essere in qualche modo la causa di tutto, e non aveva alcuna intenzione di trascorrere altro tempo portandosi appresso quel peso, quella verità.
Aveva aspettato che si addormentassero tutti, era sceso dal letto, aveva recuperato il suo tesoro segreto ed era uscito fuori da casa, coprendosi come meglio poteva per evitare di prendere troppo freddo.
Voleva aiutare Marylin. Non poteva accettare passivamente che quella donna così gentile venisse bruciata sul rogo. Lei era stata buona con loro, era stata gentile. Aveva compiuto un gesto terribile nei confronti della sua famiglia, era vero, ma aveva salvato la vita a lui, a Goten e a suo padre, ricambiare il favore era il minimo.
 
Si era preoccupato di non fare rumore. Camminare in punta di piedi era diventata una sua specialità, e sfruttare la stanchezza di suo padre era diventata la prassi. L’unico problema poteva essere rappresentato da Goten, ma anche lui era crollato, sfinito a causa del pianto, e non si sarebbe svegliato in tempi brevi.
Quella era la sua occasione.
 
“Stavolta non gli permetterò di darmi risposte da interpretare. Deve aiutarmi. E subito”.
 
Aveva scelto di ripararsi nella baracca dietro casa. Era un posto freddo, sporco e malandato, ma almeno non sarebbe stato in balia delle intemperie. Il cielo era coperto da nubi nere cariche di pioggia, e non poteva permettere che il quaderno si inzuppasse.
Lo aveva nascosto sotto la coperta di lana che aveva sottratto dal letto e in cui si era avvolto dalla testa ai piedi, portando con sé anche un mozzicone di candela e un preziosissimo cerino.
Trovare un angolo comodo nella baracca maleodorante non era stato possibile, e si era accontentato di una vecchia panca di legno quasi del tutto divorata dalle tarme, cercando di sedersi in un punto che sembrava ancora saldo. Vi si era sistemato sopra a cavalcioni, aveva messo il quaderno davanti a sé e la candela poco sopra, fissandola alle assi con un po’ di cera sciolta.
Era pronto, finalmente. Era arrivato il momento del confronto finale.
 
“Come faccio a salvare Marylin?”.
 
Diretto. Essenziale. Nessun fronzolo, nessun abbellimento, nessuna possibilità di fraintendersi. Voleva solo risposte e le voleva subito. Perché erano in quel casino per colpa sua, e non riusciva più a sopportare di portare quel peso da solo.
 
BUONASERA,
MIO PICCOLO
AMICO.
 
“Non ho tempo da perdere. Dimmi come posso aiutarla”.
 
C’era stata una lunga pausa prima di veder comparire le parole sulla pagina ormai non più bianca. Osava prendersi tutto quel tempo anche in quel momento così disperato? Osava beffarsi di lui ancora una volta?
 
NON PUOI FARLO.
LEI DEVE MORIRE.
 
“COSA?” – lo aveva urlato senza neanche rendersene conto, rischiando di svegliare suo padre e Goten.
Sentiva lo stomaco torcersi per colpa della rabbia, e ne provava così tanta da essere sul punto di distruggere quell’oggetto maledetto. Ma avrebbe avuto senso? Avrebbe risolto qualcosa?
Aveva respirato e aveva stretto con più forza la penna tra le mani, cercando di trovare le parole adatte da vergare su quelle pagine maledette.
 
“Perché no? Qual è il motivo? Perché non può essere salvata?”.
 
PERCHÉ QUESTO È
IL SUO
DESTINO.
 
Non ne poteva più. Non sopportava più le sue parole criptiche, quell’arroganza, quella strafottenza. Lui aveva trovato il quaderno, ciò significava che lui ne era il padrone. D’accordo: lui non era Aladdin, quella non era la lampada ed era certo che quello imprigionato lì dentro non fosse un bravo Genio, ma non gli importava, Marylin non doveva morire.
 
“Perfetto… Sai, sebbene non abbia più i miei poteri, ho conservato il mio senso dell’orientamento. Papà non ha davvero bisogno di quella stupida casa, e con il lavoro ha messo da parte qualcosa. Posso dire tutto di te, possiamo metterci in viaggio e riportarti in quella caverna che ti piaceva tanto, che ne pensi? Sono sicuro che gli altri oggetti, là sotto, non vedono l’ora di vederti. O forse potrei far cadere accidentalmente la candela che è qui… Di certo, sarai più utile per riscaldarmi che non per risolvere i problemi”.
 
OSI MINACCIARMI?
 
“Non oso” – aveva detto, prendendo la candela – “Lo sto facendo”.
 
Era guidato da un sentimento di cui non si faceva capace. Tutto quello che stava succedendo sembrava non avere assolutamente senso, eppure doveva averlo per forza perché era lui che stava sollevando la candela, staccandola dalle assi, era lui che la stava inclinando sino a far cadere la cera bollente sulle pagine, era lui che stava avvicinando la fiamma tremolante all’angolo della copertina, in basso, pronto a farle prendere fuoco. Ed era sempre lui che sentiva di non volerlo fare realmente.
 
Senza capire come ciò potesse essere possibile, Trunks aveva visto comparire all’improvviso una sottile ombra nera, e l’aveva vista avvinghiarsi al braccio che reggeva la cera bollente.
 
FERMATI.
 
Non aveva obbedito alle parole comparse sulla pagina: non le aveva neanche viste, ma aveva lanciato la candela a terra senza riflettere, sbattendo il braccio contro la fragile parete della baracca nel tentativo di scacciare l’ombra comparsa all’improvviso. Un dolore lancinante lo aveva assalito, e questo perché, nell’impatto, aveva urtato contro un grosso chiodo arrugginito, cominciando a sanguinare sulla panca e sulle pagine del quaderno.
 
La candela non si era spenta, per sua fortuna, e questo aveva potuto permettere a Trunks di vedere, nell’angolo più buio di quel misero capanno, una grande ombra raggomitolata su se stessa, una specie di mostro fatto di spire, un serpente che lo fissava con due fessure demoniache.
Avrebbe voluto urlare, Trunks, e chiedere aiuto. Avrebbe voluto allontanarsi da lì, correre da suo padre e da Goten, ma era successo qualcosa mentre tentava di riprendere il controllo di se stesso: le pagine del quaderno avevano cominciato a sfogliarsi da sole a una velocità impressionante, come se ci fosse stato un vento impetuoso a smuoverle. Il quaderno sembrava tremare e, dopo essersi sollevato, si era come acceso di una luce propria, una luce abbagliante non molto dissimile da quella che avevano già visto in precedenza.
Trunks si era sentito male: la testa aveva cominciato a vorticosamente, aveva la nausea e provava un terrore profondo. Che avesse offeso il quaderno e ne avesse scatenato l’ira? Che avesse provocato la fine del mondo invece di salvare una sola vita a cui teneva disperatamente?
Non sapeva darsi una risposta, ma sapeva quello che aveva visto, prima di perdere i sensi e risvegliarsi nel proprio letto: sapeva di aver visto una sagoma uscire dalle pagine e scagliarsi con forza sull’ombra nera a forma di serpente, per poi divorarla con avidità.
 
*
 
“Ti sei mostrato, finalmente… Sapevo che prima o poi lo avresti fatto… Hai trovato chi ti ha dato da bere, alla fine… Ohi, Ohi… Se non dovessi ritrovarti in fretta, per l’intero universo sarebbero dolori… Eh, ma io penso di sapere che fine hai fatto… Penso di aver capito dove ti trovi… Devo solo prendere il sigillo e raggiungerti… Stavolta, non mi sfuggirai”.
 
Continua…


 
Ma buon pomeriggio a tutte/i!
Come state? Come state trascorrendo questo primo mese del nuovo anno? Io tra alti e bassi…
Spero che voi stiate meglio della sottoscritta! <3
Ma torniamo a noi.
 
Marylin è stata condannata a morte. E la dolce e tenace ragazza sembra essersi presa una bella cotta per il nostro principino. Sfido io!!
Vegeta è tormentato dall’idea di non riuscire ad aiutare chi lo ha aiutato, e odia essere passato per codardo agli occhi dei ragazzi, nonostante sia il primo a sentirsi tale.
Trunks… Abbiamo ritrovato la stessa ombra che fece del male al nostro dolce Ouji. Quella mostruosità ha provato a fare del male anche a Trunks! E il quaderno? Ha voluto proteggere Trunks o se stesso? Aiutaci, Genio! Abbiamo bisogno di te!
 
A presto!
Un bacino,
 
Cleo

 

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Capitolo 45
*** La storia del mostro che abitava nel quaderno ***


La storia del mostro che abita nel quaderno
 
L’essere costretto a muoversi utilizzando mezzi umani non giocava a suo vantaggio. Non aveva mai voluto apprendere la tecnica del volo, essendo un tradizionalista, ma mai come in quell’occasione, se n’era pentito.
Se avesse veramente voluto, sarebbe stato capace di concentrare le energie sino a levitare, ma l’esperienza gli aveva insegnato che a quell’età, e in circostanze spaventose come quelle, era fondamentale mantenere la calma e preservare le forze. Il nemico da affrontare non era un nemico comune: Genio sapeva perfettamente contro chi avrebbe dovuto combattere, e data la generosa dose di incazzatura maturata dalla bestiaccia in questione, avrebbe dovuto doppiamente guardarsi le spalle.
Mentre viaggiava lungo i sentieri contorti, mentre cercava di rimanere concentrato per mantenere attivo il sigillo imposto sul suo nuovo pupillo, continuava a pensare a quando, tanto, troppo tempo fa, aveva incontrato quella splendida creatura per la prima volta. Quando, ingenuamente, si era fidato di chi, un giorno, lo avrebbe subdolamente tradito.
 
Tanto, tanto tempo fa…
 
Nessuno sapeva di preciso da dove venisse quel bambino, o chi fossero suo padre e sua madre. Sapevano solo che aveva gli occhi completamente aperti e che non aveva emesso neppure un vagito.
Quando aveva cinque anni, gli avevano raccontato di averlo trovato in una cesta, sotto la pioggia battente di una gelida notte di gennaio, con solo una coperta addosso e nessun altro segno, oggetto o ricordo che potesse in qualche modo ricollegarlo a chi lo aveva messo al mondo.
La sua infanzia era stata segnata dagli stenti e dall’umiliazione: chi lo aveva trovato sotto la pioggia aveva fatto presto a lasciarlo presso il vecchio monastero, diventato ormai da tempo la casa i bambini indesiderati. Non era di certo per puro spirito caritatevole se venivano accolti lì: i bambini, una volta raggiunta un’età idonea, sarebbero stati impiegati nei campi, sui cantieri e sui mercantili, costretti a lavorare sino allo sfinimento, a morire sotto il sole cocente, o per una malattia che li avrebbe consumati dolorosamente.
Lui era cresciuto in una grande stanza dove dormivano ammassati decine e decine di suoi coetanei. Aveva vissuto tra i topi, le feci dei neonati, l’urina dei ragazzi più grandi e tra le lacrime di chi sperava ancora che qualcuno venisse a sottrarlo da quel crudele destino.
Lui, però, non aveva mai pianto, né aveva mai sperato che sua madre e suo padre venissero a prenderlo. Non voleva niente da chi non lo aveva voluto.
In verità, sembrava che non desiderasse affatto: non diceva mai di volere la libertà, di volere un giocattolo, un cibo in particolare. Prendeva tutto quello che gli veniva offerto senza alcuno slancio emotivo: se gli veniva offerto, era un bene, se non gli veniva offerto niente, sembrava andare bene lo stesso.
Aveva vissuto così i primi anni della sua vita, senza desideri, e la cosa più triste era che aveva vissuto senza avere un nome e senza sapere quale fosse il suo aspetto. Non aveva mai avuto modo di osservare il suo riflesso e associare la parola che indicava il colore marrone all’immagine dei suoi capelli e dei suoi occhi.
 
Allo scadere dei suoi cinque anni – conteggiati da chi lo sorvegliava dal giorno in cui aveva messo piede nel monastero – era stato affidato a un uomo enorme, con la pancia cadente, le mani nodose e una lunga barba nera. Non aveva salutato nessuno dei bambini che avevano trascorso quel periodo insieme a lui: sembrava che non avesse sviluppato affetto per nessuno di loro. Non era neppure incuriosito dall’uomo che lo aveva prelevato, né lo aveva emozionato l’idea di iniziare finalmente a vivere. Era come se non gli importasse di niente e definirlo apatico, asociale, sarebbe stato a dir poco riduttivo.
Stava di fatto che quell’energumeno lo aveva portato in una grande fattoria ai piedi di una cascata, gli aveva mostrato la branda su cui avrebbe dormito, la scodella in cui avrebbe ricevuto il suo rancio, gli attrezzi con cui avrebbe dovuto lavorare la terra e lo aveva lasciato in compagnia degli altri contadini, schiavi da lavoro poco più grandi di lui.
Stabilire quanto tempo avesse effettivamente trascorso lì, in quel posto, non era stato possibile.
Le giornate si erano susseguite tutte uguali, segnate dalla fatica e dall’abbrutimento. Mai un momento di pausa, mai un momento di gioia. Neppure sapeva cosa fosse la felicità. Aveva persino dimenticato quale fosse il suono della sua voce. Perché parlare con chi si trovava lì? Cosa aveva da condividere con loro? Niente… Proprio un bel niente.
Poi, un giorno, un violento temporale si era abbattuto sulla fattoria e sulla campagna circostante: la pioggia battente aveva fatto ingrossare il fiume sino a farlo straripare, e l’acqua, gelida, nera come la notte, violenta come un’esplosione, aveva travolto ogni cosa. Lei, che bagnava i campi irrigandoli, che nutriva alberi e fiori, aveva spazzato ogni cosa, divorando tutto ciò che incontrava sul suo cammino come un drago, come uno spaventoso leviatano impossibile da fermare.
Aveva visto l’uomo che lo aveva preso dal monastero annegare: l’acqua lo spingeva giù e poi lo faceva riemergere, lo spingeva giù e lo faceva riemergere, e lo stesso aveva fatto con gli altri, con i compagni di lavoro e con i famigliari dell’uomo, fino a che non erano riemersi più.
Non era mai stato un grande nuotatore, ma era furbo, diabolicamente furbo: per sfuggire a quella furia, era semplicemente salito sul tetto nel momento in cui si era accorto del rumore spaventoso che proveniva dal fiume. Si era arrampicato nonostante gli altri gli avessero ordinato di non uscire dal capanno, nonostante lo avessero maledetto e deriso per la sua idiozia e il suo essere così avventato, sconsiderato, stupido. Ma lui non era né avventato, né sconsiderato, né stupido. Era intelligente. Era scaltro. E, nella sfortuna, continuava a essere sfacciatamente fortunato.
Il mattino dopo, col sorgere del sole, si era lasciato alle spalle i cadaveri gonfi dei compagni e dei padroni. Il mattino dopo, senza alcuna particolare espressione in volto, si era incamminato lungo il sentiero fangoso, deciso nel passo e nelle intenzioni.
 
Aveva dormito nelle tane vuote degli animali che popolavano il bosco, aveva mangiato bacche e radici e aveva bevuto l’acqua di sorgente. Si era lavato nel fiume, aveva pescato a mani nude le trote spinose e aveva divorato le loro carni crude, sputando via le lische che gli raschiavano la gola.
La pioggia, il gelo, il sole, il vento, niente sembrava scalfirlo, nulla sembrava poter arrestare il suo cammino. Lui proseguiva, imperterrito, deciso ad arrivare in un posto che forse non esisteva, perché non sapeva, di preciso, cosa stesse cercando.
Aveva attraversato villaggi, pascoli, boschi, cittadine, aveva mendicato, lavorato, sofferto la fame, ma non si era mai lamentato. Probabilmente, nessuno avrebbe mai udito il suono della sua voce. Nessuno, avrebbe mai potuto chiamarlo per nome, se mai ne avesse avuto uno.
Eppure, dopo un tempo che a qualunque altro essere mortale sarebbe parso interminabile, alla fine si era fermato. Il suo peregrinare sembrava essersi arrestato, e non in un luogo qualsiasi.
Non aveva mai visto una costruzione come quella, prima di allora: era una casa a un solo piano, interamente costruita in legno, con uno strano tetto a spiovente. C’erano tante finestre, e da quello che sembrava essere l’ingresso, si poteva notare uno grande spazio vuoto all’interno, una specie di giardino dove alcuni bambini e alcuni adolescenti vestiti di bianco si muovevano al suono della voce di un uomo dalla lunga treccia candida come la neve.
Ne era rimasto come ipnotizzato: per la prima volta, qualcosa aveva catturato la sua attenzione, sfondando quel muro di apatia che per tanti anni lo aveva contraddistinto e segnato.
Mai prima di allora aveva visto tanto impegno, tanta dedizione. Non aveva la minima idea di cosa stessero facendo quei ragazzi, del perché agitassero in quel modo i pugni, del perché muovessero le gambe e le braccia con decisione ma eleganza, con forza ma con ritmo, quasi come se danzassero, ma gli provocava uno strano sentimento mai provato prima: piacere.
Sarebbe rimasto a guardarli per ore. E per un po’ di tempo, c’era riuscito: furbo come una volpe, si era nascosto al limite del bosco, tanto vicino da poter vedere ma non abbastanza da essere visto.
E, dopo aver osservato, dopo aver udito gli insegnamenti, aveva cominciato a riprodurre meccanicamente quello che aveva appreso da lontano. Si agitava come un ossesso nel tentativo di imitare i ragazzi vestiti di bianco, nella speranza non solo di poter somigliare loro, ma di essere migliore.
Furbo era furbo, ma non abbastanza da poter sfuggire agli occhi – seppur nascosti – di chi si era accorto della sua presenza sin dal primo istante e che, incuriosito, aveva osservato indisturbato l’impegno e la dedizione di quel bambino sporco e denutrito.
Era comparso alle sue spalle senza fare il minimo rumore, impartendo correzioni in merito al movimento che aveva provato a eseguire. A causa dello spavento, era caduto in avanti, e avrebbe sbattuto la fronte se l’uomo che lo aveva spaventato non lo avesse afferrato per il colletto di ciò che rimaneva della sua canotta.
Era sbalordito per la velocità e la precisone con cui lo aveva afferrato. Possibile che quell’uomo dall’aspetto così bizzarro fosse tanto rapido e forte?
 
“Se vuoi imparare puoi farlo. Ma solo una volta varcata quella soglia”.
 
La sua voce era calma, tranquilla, ma anche decisa. Avrebbe dovuto iniziare a divincolarsi, avrebbe dovuto cercare di scappare, avrebbe dovuto tremare di paura, forse, ma non lo aveva fatto: quel buffo uomo non troppo alto, dai capelli neri come la notte aveva sul visto uno strano oggetto nero che gli copriva gli occhi, ma nonostante quelle bizzarrie, gli trasmetteva calma e sicurezza, in qualche maniera, sembrava avergli fatto capire di potersi fidare ciecamente di lui.
 
“Allora è deciso: entrerai nella scuola come mio allievo… Ma prima dimmi… Qual è il tuo nome, figliolo?”.
 
Il bizzarro uomo col viso coperto da quello strano oggetto nero, era stato il primo a scoprire il nome del bambino che credevano non avesse una voce.
 
*
 
Aveva trascorso dieci lunghi anni sotto la sua ala, protetto come un figlio, cresciuto come un soldato, educato come un guerriero. Rivelatosi un prodigio, il bambino sporco e smunto era diventato un adolescente avvenente, impeccabile, dal fisico atletico e delle doti combattive e intellettive ineguagliabili. La persona che lo aveva accolto e allevato aveva lottato ardentemente contro il volere del Sommo maestro, che non vedeva il ragazzo di buon occhio. Continuava a sostenere fermamente di aver percepito in lui qualcosa di estremamente insolito, quasi di inquietante, che quel ragazzo portasse dentro di sé una tempesta, e che essa sarebbe stata devastante. L’uomo che lo aveva accolto, al contrario, sosteneva di aver visto un enorme potenziale in lui, e che l’opinione – seppur rispettabilissima – del suo maestro, era sicuramente infondata. Non era la prima volta che si accettava di formare un ragazzo orfano, quindi perché crearsi remore proprio nei confronti di uno talmente desideroso di apprendere e crescere?
Davanti all’ostinazione del suo allievo prediletto, il maestro non aveva osato insistere oltre: sarebbe stata l’esperienza a temprare chi ancora aveva tanto da apprendere, ed era fermamente convinto del fatto che una caduta, seppur rovinosa, sarebbe stata solo un beneficio per quel giovane ancora così acerbo che aveva preso sulle sue spalle il carico della formazione di quel ragazzino.
 
Il tempo passava, e le azioni non facevano altro che confermare la non troppo velata bizzarria che caratterizzava il bambino diventato uomo. Era schivo, silenzioso, incapace di instaurare un legame con i compagni. Le sue abilità crescevano così come cresceva l’aura di mistero che gli aleggiava attorno. Dopo quel primo impeto provato tanti e tanti anni prima, sembrava essere tornato il ragazzo privo di qualsiasi emozione umana: non provava fame, sete, freddo, gioia, dolore. Era quasi come se fosse un burattino. Trascorreva la maggior parte del suo tempo libero da solo, a meditare, o a provare e riprovare un nuovo esercizio, accrescendo la propria forza spirituale e fisica sino al punto di riuscire a levitare a pochi centimetri dal suolo. Prima di allora, solo il Sommo maestro ne era stato in grado.
 
“Il tuo ragazzo va guidato… Se non ne sarai capace, potrebbe diventare un pericolo molto serio per se stesso, per questa scuola e per l’intero villaggio”.
“Maestro… Non vi fidate di me?”.
“Non è questo, figliolo… È che colui che sembra non desiderare niente, potrebbe in verità desiderare ogni cosa”.
 
*
 
Era accaduto tutto, ancora una volta, in piena notte, durante un violento, improvviso temporale.
Aveva scelto di portare il ragazzo in pellegrinaggio, nella speranza che un maggiore contatto con la natura potesse risvegliare in lui un qualche genere di interesse. Quel giovane uomo era come una missione, per lui. Il Sommo maestro era stato chiaro sul pericolo di nutrire dei sentimenti di affetto nei confronti degli allievi, sull’attaccarsi a loro al punto di considerarli come figli, ma lui non era stato in grado di rispettare quella regola fondamentale, scoprendo, suo malgrado, che reprimere i propri sentimenti non era affatto semplice. Quegli occhi profondi, quella determinazione e quella ricercatezza in gesti e parole rendevano il ragazzo una vera calamita. Con lui, sentiva di poter essere se stesso, e per la prima volta dopo tanto tempo si era lasciato andare a confessioni e confidenze sulle sue avventure intime con il gentil sesso, l’unica sua debolezza.
In sua presenza si sentiva libero, sicuro, ma erano stati questo affetto e questa fiducia a segnare la sua rovina.
Pochi giorni prima di quel rovinoso evento, aveva deciso di rivelargli la reale natura di quegli addestramenti così intensi: nessuno degli allievi della scuola ne era a conoscenza, questo perché quel segreto sarebbe stato confidato solo agli alunni più meritevoli, e lui era di certo uno di essi. Nello stesso momento in cui avevano intrapreso quel pellegrinaggio, lo stesso era successo ad altri tre compagni scelti da altrettanti maestri.
Quattro allievi, quattro maestri, quattro prove, tutto volto a scegliere i futuri custodi, tutto volto a scegliere gli eredi di quella setta millenaria.
I ragazzi non si sarebbero incontrati, e l’auspicio era quello che tutti e quattro superassero la prova e diventassero i custodi del mondo sotterraneo, della prigione dorata che proteggeva il mondo dalla crudeltà di chi aveva intenzione di dominarlo.
Ma la segretezza non era bastata a rendere giustizia a quella pratica millenaria: il suo allievo aveva scoperto che non sarebbe stato il solo a doverla affrontare, e questa scoperta lo aveva reso stranamente irrequieto. Un custode sarebbe bastato. Perché smembrare la conoscenza, il potere di sottomettere i nemici, invece di concentrarlo nelle mani di un’unica persona? Non disconosceva la valenza dei suoi compagni, ma poteva realmente considerarli meritevoli anche solo di essere scelti per affrontare una simile prova?
 
Non aveva posto domande, non si era mostrato incerto, sdegnato. Aveva continuato a seguire gli insegnamenti del suo maestro, obbedendo ciecamente, fino a quando… Fino a quando non era sopraggiunto il giorno della prova finale. Prima di quel momento, aveva appreso tutto ciò che poteva, assorbendo ogni parola, ogni gesto, rendendoli parte di sé, diventando più forte, più scaltro e, sicuramente, molto più determinato.
 
“Sei pronto, finalmente… La prova sarà dura, ma sono certo che sarai in grado di superarla. Hai conosciuto la verità sulla scuola, su quello che rappresenta. Il Sommo maestro è la creatura più antica che questo mondo abbia mai visto nascere. È il suo più vecchio protettore, il suo custode. Neppure lui ricorda quanti anni abbia, da quanto tempo cammina in questo mondo, ma la sua saggezza e il suo senso di giustizia lo hanno condotto a prendere la decisione di condividere con altri esseri umani le sue conoscenze, le sua abilità, la sua forza. L’ordine a cui appartengo dovrà proseguire con voi. Il Sommo maestro ha bisogno del nostro aiuto per proteggere la Terra, per difenderla dalle creature mostruose che la abitano. I demoni sono ovunque… E spesso si nascondono dentro noi stessi. Noi abbiamo gli strumenti che ci hanno reso in grado di combatterli… Li affronterai e li sconfiggerai, prendendo così il posto che ti spetta nel mondo”.
 
E lo avrebbe preso, il posto che gli spettava, ma non era quello che credeva il suo maestro.
L’arte del sotterfugio sembrava essere diventata la sua specialità, così come quella di insinuare nella mente altrui il dubbio, il sospetto, la paura. Esperti maestri erano caduti sotto la sua influenza, un’influenza indiretta, ma letale. Di lì a poco, la prigione sotterranea, la caverna dorata che per tetto aveva l’acqua cristallina di un’oasi, aveva accolto nuovi inquilini, sigillati negli oggetti che avevano usato assiduamente nel quotidiano.
I suoi rivali erano stati così messi fuori gioco da chi li aveva proposti come canditati ideali e lui, proprio come all’epoca, quando aveva visto per la prima volta i ragazzi al di fuori della scuola, quando era un orfano sporco e malnutrito, aveva appreso la tecnica segreta, quella che padroneggiavano i maestri dell’ordine, il Mafuba.
Ma aveva deciso che sigillare i maestri non sarebbe stato saggio: la morte era la via per ottenere il controllo, la morte era la via per ottenere il potere di controllare il mondo e proteggerlo. Così, uno a uno, aveva posto fine alla loro vite, macchiandosi le mani del loro sangue.
 
Lo sgomento e il dolore si erano fatti spazio nel cuore del suo maestro, dilaniandolo. Di quale orrore si era macchiato il suo pupillo, quale nefandezza era stato capace di commettere?
 
“Sei stato cieco…” – aveva detto il Sommo maestro, morente – “E ci hai condannati a morte tutti”.
 
Aveva dato un senso a quelle parole solo dopo aver varcato la soglia della scuola: il suo pupillo aveva sterminato ogni possibile rivale, aveva ucciso tutti i ragazzi, dal più giovane al più anziano, rendendo quel luogo sicuro un cimitero a cielo aperto, un ghiotto banchetto per i crudeli avvoltoi.
La responsabilità di quelle vite spezzate era piombata all’improvviso sulle sue spalle, schiacciandolo, devastandolo sin dentro l’anima. Aveva pianto, dietro quelle lenti scure, aveva pianto tutte le lacrime che aveva in corpo, e poi aveva deciso di reagire, spinto dalla sete di giustizia che albergava in lui sin dalla più tenera età, e lo aveva raggiunto lì, al limitare del bosco, nel punto più alto, il punto da cui egli lo osservava, con le mani sporche di sangue e lo sguardo che brillava di una luce proveniente direttamente dall’inferno. Aveva preso su di sé le abilità del Sommo maestro, la sua forza spirituale e vitale, la sua immortalità, per farne un uso che violava qualsiasi legge scritta e non della casa in cui era stato allevato.
Lo scontro, avvenuto sotto la pioggia battente, era stato lungo, devastante, non veramente alla pari. La nuova potenza di quello che era stato il suo pupillo lo aveva travolto. Aveva scoperto di essere un bersaglio facile.
Era stato ferito gravemente. Nel corpo, nel cuore e nell’orgoglio. Era stato ferito perché sapeva di non essere in grado di fermarlo, perché sapeva di aver creato un mostro, di averlo plasmato con le sue stesse mani, le stesse che non erano in grado di distruggerlo.
Sarebbe morto. La sua vita sarebbe finita quel giorno, se chi lo aveva protetto da sempre non fosse intervenuto: il Sommo maestro, nonostante non fosse più una creatura di questo mondo, era tornato indietro per un breve attimo dando al suo pupillo un’ultima chance, un’ultima occasione.
Ed era stato tra il dolore e le lacrime che aveva reagito: non ci sarebbe stata possibilità di errore, non ci sarebbe stata una seconda occasione.
Guidato dal bene supremo, lui, Muten, non aveva fallito: il quaderno dalla copertina nera che il suo pupillo custodiva come un tesoro, il suo diario dei pensieri, era stato l’oggetto prescelto, la dimora che avrebbe ospitato il male che da sempre aveva albergato nel cuore di quel bambino abbandonato.
Il Mafuba aveva funzionato: proprio come era successo ai suoi compagni, aveva separato l’anima dal corpo, intrappolandola per sempre. Solo dopo tanto, tantissimo tempo, aveva perfezionato l’antica tecnica, riuscendo a imprigionare in qualsiasi tipo di giara o contenitore corpo e anima di chi non era meritevole, inventando un sigillo cartaceo che avrebbe concesso alla bizzarra prigione di fortuna di non doversi trovare necessariamente all’interno della caverna per poter funzionare.
 
Genio era rimasto l’unico e solo custode di quel mondo sotterraneo, di quel luogo, di quella vergogna che lo avrebbe segnato per tutta la vita.
Mai nessuno avrebbe dovuto avere accesso a quella caverna. Mai nessuno avrebbe più saputo dell’ordine, della sua storia. Avrebbe portato il peso di quella colpa da solo, tentando di tenere a bada i demoni che albergavano in lui e che forse, un giorno, sarebbe riuscito a sconfiggere.
 
Adesso che il quaderno era uscito da lì, dalla caverna, lo spirito imprigionato sarebbe potuto uscire indisturbato, ma avrebbe avuto bisogno di tempo per poter recuperare le forze e insinuarsi nel corpo di Goku. A quel punto, sarebbe stato inarrestabile.
 
Continua…


 
Ed eccomi qui,
Sempre in ritardo, ma carica come poche volte!
Voi come state?
E così, abbiamo appreso la storia dell’essere rinchiuso nel quaderno: la storia di un bambino sfortunato plasmato sino a diventare un mostro dall’orrore della vita quotidiana.
Tutto quello che ho scritto su Muten e sul Mafuba è completamente inventato, ovviamente. XD
Ho mantenuto solo gli occhialoni e la sua predilezione per le belle donne. XD
Che dire, la faccenda è complessa… Riuscirà Trunks a evitare di cadere totalmente sotto il controllo di questo nemico di cui non si conosce neppure il nome? E Genio arriverà in tempo e fermerà una volta per tutte il suo allievo prediletto?
Lo scopriremo, prima o poi…
A presto!
Un bacino
Cleo

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Capitolo 46
*** La nebbia nel cuore ***


La nebbia nel cuore
 
Erano trascorse settimane dalla volta in cui lo aveva trovato nel capanno dietro casa. Vegeta non era solito svegliarsi durante la notte, data la stanchezza accumulata a causa del duro lavoro svolto nei campi, ma quella volta era stato diverso. Quella volta, aveva aperto gli occhi di scatto, in preda a un’ansia che non era stato in grado di spiegarsi. Era sudato, talmente sudato da aver inzuppato le lenzuola grezze che lo accoglievano ogni volta che si stendeva. Nel buio di quella casa minuscola si era messo a sedere sul bordo del letto, scalciando via le coltri con i piedi nudi, e in preda al timore crescente aveva diretto le pupille dilatatissime verso il letto su cui dormivano i bambini, scoprendo che la sua apprensione era più che lecita: Trunks non si trovava al suo posto.
Portava ancora i postumi della ferita che si era procurato alla pianta del piede: per la fretta di uscire e ritrovare suo figlio non aveva indossato le scarpe, e un sasso acuminato nascosto tra l’erba gli aveva squarciato la pelle deturpata da calli ed escoriazioni.
Aveva bestemmiato a denti stretti, Vegeta, ed era andato avanti nella sua ricerca forsennata. Il cuore gli batteva all’impazzata e i pensieri avevano cominciato a volare in ogni dove, formando scenari terribili e anche un po’ incoerenti.
Se qualcuno, lì, avesse sospettato che loro non erano come tutti gli altri uomini e come tutti gli altri bambini? Se avessero capito, in qualche modo, che conservavano la memoria di ogni cosa, proprio come era successo alle donne? Se una delle guardie della prigione avesse sentito i discorsi affrontati da Marylin? O se, peggio ancora, se lei lo avesse tradito? Se, per salvarsi la vita, avesse raccontato tutto quello che era successo, se avesse confessato e fossero venuti a prenderli, uno a uno, cominciando da Trunks per farlo impazzire di dolore?
Lo aveva chiamato a squarciagola, infrangendo il silenzio di quella notte fredda e quieta.
Dove potevano aver portato suo figlio? Dove potevano averlo condotto, e in che modo? Aveva dovuto raccogliere tutto il suo coraggio per trovare la forza di far uscire la voce necessaria a farsi sentire da Trunks, ma non aveva sortito alcun effetto. Era uscito di fretta e non aveva portato con sé un lume o qualcosa che potesse rischiarare quel buio denso come petrolio, ma non aveva avuto il tempo di darsi dell’idiota. Era agitato, terrorizzato all’idea di aver perso l’ultimo legame con lei, con la sua Bulma, ma il suo estremo raziocinio e un forte sentimento paterno gli suggerivano che Trunks non fosse poi così lontano. Vegeta aveva perso l’abilità di percepire le presenze spirituali altrui diverso tempo fa, ma era certo di aver avvertito qualcosa, o qualcuno. Non avrebbe saputo definirlo. Zoppicante ma deciso, si era diretto presso la baracca pericolante, continuando a chiamare il figlio a squarciagola.
 
Lo aveva trovato, per fortuna, ma il sollievo era passato nello stesso istante in cui si era accorto della ferita aperta sul suo braccio. Il taglio era visibilmente profondo, ma Trunks non sembrava avvertire dolore. Era chiaro che fosse sotto shock.
Non aveva perso troppo tempo a chiedersi cosa fosse accaduto: Vegeta lo aveva semplicemente preso tra le braccia e, anche se a fatica, lo aveva portato in casa, lasciando dietro di sé non solo una vistosa scia di sangue, ma anche l’oggetto che era stato la causa di quel maledetto incidente.
Era entrato in casa come una furia, sotto lo sguardo di un Goten ancora assonnato e confuso e aveva adagiato Trunks sul tavolo, chiamandolo a gran voce e cercando sul suo corpo i segni dell’attacco subito.
Aveva perso il conto delle volte in cui lo aveva chiamato, in cui lo aveva scosso. Non sembrava che i tagli fossero profondi, ma proprio non capiva perché sanguinasse così copiosamente.
La paura provata in quei momenti era una cosa che non avrebbe mai dimenticato. E se lo avesse perso? Se Trunks non avesse più aperto gli occhi?
Il cuore galoppava così velocemente da fargli dolere il petto e la testa sembrava fosse sul punto di esplodere.
Tra la confusione generale, non si era accorto che Goten si era avvicinato, spaventato, e che aveva provato ad aiutarlo. Non si era accorto di nulla, era come se fosse piombato in una dimensione in cui esistevano solo lui, suo figlio, e il disperato desiderio che aveva di vederlo sveglio, di sapere che stava bene. E, per fortuna, non aveva dovuto attendere ancora a lungo. Era stato solo quando aveva sentito sussurrare il suo nome dalle labbra di suo figlio che aveva ripreso il contatto con la realtà.
Aveva trascorso il resto della notte al capezzale di Trunks, addormentatosi accanto a Goten solo dopo diverse ore.
Trunks era rimasto a casa per diversi giorni, vegliato dal piccolo Son. Vegeta aveva lavorato con l’angoscia nel cuore, ma non era potuto venire meno ai suoi doveri: avrebbe perso il posto di lavoro, e questo significava perdere un tetto sulla testa e la possibilità di comprare il cibo che quotidianamente metteva in tavola.
Ancora non riusciva a spiegarsi perché suo figlio si trovasse in quel posto, perché avesse deciso di uscire da casa nel bel mezzo della notte, di nascondersi in quella stupida baracca che stava in piedi per miracolo. Aveva provato a chiederglielo diverse volte, ma il bambino era stato evasivo, sfuggente, e aveva deciso di non insistere. Lo vedeva stanco, provato, e non aveva intenzione di peggiorare la situazione, seppure fremesse per il desiderio di conoscere la verità. Suo figlio non era uno sprovveduto: era un ragazzino e a volte commetteva azioni avventate, ma aveva capito che non poteva più concedersi il lusso di mettere se stesso in pericolo, Vegeta ne era sicuro. Allora, perché diamine era uscito pur sapendo di non essere in grado di difendersi? E perché era andato proprio lì dietro?
Il giorno dopo, nonostante la stanchezza, era tornato in quella stupida baracca con l’intenzione di capire dove potesse essersi ferito suo figlio e di raderla al suolo poco dopo. Aveva come l’impressione di avere la soluzione sotto il naso ma di non essere in grado di vederla. Stava di fatto che in quel luogo non ci fosse niente di strano, e che le tracce di sangue che aveva ritrovato facessero pensare a una ferita provocata accidentalmente. Magari, con il tempo, Trunks si sarebbe aperto e avrebbe raccontato perché si trovava lì e cosa stava combinando.
Per il momento, sarebbe stato meglio non insistere, seppure bruciasse dalla voglia di conoscere la verità.
 
Goten non aveva lasciato il suo fratellino neppure per un istante. Sapeva di dover andare a scuola, che continuando ad assentarsi sarebbe rimasto indietro rispetto ai suoi compagni, ma non aveva intenzione di allontanarsi dalla loro casa, di allontanarsi da Trunks. Si era dato dell’idiota per non essersi reso conto che fosse sceso dal letto. Come poteva non essersi accorto di essere rimasto da solo? Aveva deciso di rimanere accanto a lui per espiare quella colpa che sentiva su di sé.
Pazienza: i compiti avrebbero aspettato.
 
*
 
I preparativi, in paese, erano quasi al culmine. Presto, molto presto, una nuova esecuzione sarebbe avvenuta in pubblica piazza. La caserma era in fermento, il boia era all’opera da diverso tempo. Aveva deciso che quella sarebbe stata la sua performance migliore: stranamente, in quel caso, avevano preferito rivolgersi a lui e alla sua infallibile lama, piuttosto che utilizzare il fuoco purificatore. Forse, si erano resi conto che le adoratrici di Satana potevano essere abbattute in un modo sicuramente meno spettacolare ma decisamente più remunerativo e sicuro per chi faceva un mestiere come il suo. Non poche volte quelle diavolesse avevano piegato le fiamme a loro piacimento, causando gravissime ustioni a coloro che le avevano appiccate, e poi, per quanto il fuoco fosse un mezzo atto a purificare le anime di quelle empie creature, era convinto che in verità non fosse che una carezza per quelle donne così disgustose, una carezza simile al tocco del mostro che adoravano segretamente.
Non aveva mai creduto alla storia che il Demonio vivesse circondato dai ghiacci, quindi, perché causare a quelle donne un sì perverso piacere e condurle in estasi tra le braccia dell’essere che le aveva corrotte?
Erano questi i pensieri di Akira il Boia, dell’uomo che affilava con pazienza la lama della sua katana sino a renderla talmente affilata da tagliare a metà seta leggiadra: più tagliente sarebbe stata la sua arma, meno fatica avrebbe fatto nel privare della testa le condannate a morte. Più tagliente sarebbe stata la sua arma, più veloce sarebbe stato il trapasso.
Egli non desiderava provocare dolore, ma dare la giusta punizione ai trasgressori. Il suo compito era punire gli assassini, gli stupratori, gli adoratori del Demonio. Non importava che si trattasse di giovani o anziani, di donne o uomini, di neonati o bambini: chi sbagliava, doveva essere punito, doveva essere purificato e condotto così sulla via del Paradiso. Lui doveva solo favorire il trapasso. E per favorire il trapasso doveva prepararsi a dovere.
Erano queste le cose a cui pensava mentre affilava la sottile lama sfavillante, mentre la mano faceva scorrere la pietra con gesto netto e deciso che generava un’infinità di scintille.
La donna dai capelli rossi avrebbe avuto quello per cui era stato chiamato. E dopo di lei, altre avrebbero ricevuto lo stesso trattamento finché il mondo non sarebbe tornato a essere un luogo sicuro, un luogo purificato dal male generato dalla viscere della Terra.
 
La condannata si chiamava Kaori. Kaori aveva ventiquattro anni, la pelle color del latte, gli occhi gialli e i capelli rossi come il fuoco. Era stata arrestata diverso tempo addietro con l’accusa di stregoneria, ed era stata imprigionata e condannata a morte poco tempo dopo. I suoi compaesani sapevano che lei non fosse una strega, un’adoratrice di Satana, ma nessuno aveva fatto niente per difenderla, neppure le donne che aveva aiutato grazie alle sue conoscenze: nella vita di prima, lei era stata la migliore infermiera del suo reparto, ma questo suo prodigarsi per gli altri aveva finito con il farla apparire come una strega agli occhi di chi aveva aiutato con fin troppo zelo.
Ricordava il giorno in cui l’avevano prelevata come se lo avesse visto da lontano, come se fosse stata una spettatrice in mezzo alla folla, e non la protagonista di quell’assurdo e crudele dramma. Non aveva capito immediatamente quello che le stava capitando, ma nell’attimo in cui se n’era resa conto aveva urlato e lottato, professando a gran voce la sua innocenza, arrivando persino a supplicare i suoi compaesani di aiutarla, rimanendo però inascoltata. Aveva tentato di far notare ai suoi accusatori, a quel punto, che se fosse stata una vera adoratrice di Satana, avrebbe usato le sue arti per fuggire da lì e mettere in salvo la sua vita, ma neppure questo sembrava aver convinto quegli uomini ottusi e ignoranti.
In quei giorni di prigionia, non avevano fatto altro se non torturarla, fisicamente e psicologicamente. L’avevano ridotta a un fantoccio, una schiava sessuale, un corpo da usare a proprio piacimento. A nulla erano valse lacrime e suppliche, ancor meno erano serviti insulti e urla. Il suo destino era stato scritto nello stesso istante in cui aveva curato la prima ustione, nel momento in cui aveva ricucito la prima ferita e aveva somministrato il suo primo decotto contro l’influenza.
Lontani erano i tempi in cui si aggirava tra i reparti, in cui le si rivolgevano dandole del lei e la ringraziavano per il lavoro svolto. Lontano era il tempo in cui era stata libera. Adesso, suo malgrado, aveva compreso che solo la morte avrebbe potuto renderla di nuovo tale.
 
La data era stata stabilita, e lo stesso destino sarebbe toccato a colei che si trovava a poca distanza dalla sua cella, dalla donna che aveva ricevuto la visita di quel giovane dai capelli neri e dallo sguardo deciso, l’unico che si era fermato per parlare invece che prendersi quello che volevano tutti gli altri.
Kaori non era un’impicciona, non lo era mai stata, ma le voci sommesse dei due avevano attirato la sua attenzione, e quello che si erano detti l’aveva scossa sin nel profondo.
Marylin ricordava ogni cosa della vita di prima, proprio come lei, proprio come Vegeta – questo era il nome di quel ragazzo – e i suoi figli. Il racconto di come si erano incontrati, di come lei li avesse messi in salvo sacrificando la sua stessa famiglia, di come avesse incontrato poco dopo quello strano uomo di nome Goku e di come, dopo che questi era sparito, fosse stata catturata e imprigionata lì, in attesa di morire in un modo atroce.
Quella storia l’aveva toccata sin nel profondo, non tanto per l’intimità che sembrava essere nata tra i due – non era il momento di pensare a smancerie romantiche – ma perché l’aver compreso che alcuni uomini si erano resi conto del cambiamento che le esistenza umane avevano subito le aveva dato nuovamente speranza. E se quel Vegeta avesse trovato un modo per riportare le cose come erano state un tempo prima della sua esecuzione? Se avesse riportato le cose com’erano prima che le venisse tolta la vita?
Marylin aveva perso la fede, ma lei no. Lei non voleva morire. Lei voleva uscire da lì, voleva trovare chi l’aveva tradita e vendicarsi. Non voleva uccidere nessuno, non avrebbe mai potuto farlo, ma di sicuro avrebbe trovato un modo per far soffrire atrocemente coloro che si erano arrogati il diritto di far soffrire lei. O, forse, una volta uscita da lì, avrebbe deciso di perdonarli… Non era una persona crudele, non era vendicativa o cattiva, e lei per prima era inorridita nel momento in cui si era resa conto dei pensieri che aveva avuto. Forse, allora, era veramente diventata un’adoratrice del Demonio? Sarebbe realmente finita all’Inferno?
Probabilmente sì, ma se Vegeta avesse trovato un modo per risolvere le cose, forse avrebbe avuto modo di rimediare ai pensieri crudeli che aveva formulato, avrebbe avuto modo di espiare e avrebbe avuto accesso alle porte del Paradiso.
 
Da quel giorno, aveva atteso il ritorno del bel ragazzo moro con una smania che non pensava le potesse appartenere. Ma le ore passavano, i minuti, i secondi erano interminabili, non facevano altro se non susseguirsi senza sosta e di lui non c’era alcuna traccia. Gli uomini andavano e venivano, si fermavano e ripartivano, ma nessuno era mai il giovane Vegeta.
Perché lei gli aveva chiesto di non venire più? Perché Marilyn aveva osato tanto?
 
“Sei una stupida” – le aveva urlato una sera, tra le lacrime – “Sei una donna stupida. Lui poteva aiutarci! Perché lo hai mandato via?”.
“Piangi?”.
 
Marylin non le aveva mai rivolto la parola prima di allora. L’aveva più volte sentita urlare e sbraitare contro le guardie e contro gli uomini che entravano nella sua cella, ma mai prima di allora si erano rivolte la parola. Non conosceva neppure il suo nome, né voleva conoscerlo. Perché legarsi a qualcuno e provare pena per lui o lei, se presto dovevano morire?
 
“Certo che piango! Presto morirò! E io non voglio morire!” – aveva urlato, afferrando con forza le sbarre e cercando di sporgersi quanto bastava per poter vedere la donna con cui stava parlando.
 
“Non credi che la morte sia una liberazione?”.
“No… O meglio, sì… Meglio la morte che subire un’altra umiliazione. Ma allo stesso tempo io… Io non voglio morire… Non ho fatto niente di male… Non sono una strega… Io non adoro il Demonio o quello che dicono loro… Io… Io…”.
 
Non aveva finito la frase: piangeva lacrime amare di disperazione, Kaori, e niente avrebbe arrestato quella cascata in piena.
 
“Piangere non ti salverà la vita. E lui non tornerà. Non ha motivo di farlo”.
“Non tornerà perché tu glielo hai impedito! Lui poteva…”.
“Lui non è in grado di aiutarci… Non è in grado di aiutare neppure se stesso, in questo momento… Ha troppa paura di perdere quelli che sono rimasti”.
 
Kaori si era morsa le labbra fino a farle sanguinare. Vegeta non era di certo il principe azzurro senza macchia e senza paura che le avrebbe condotte fuori da lì in groppa al suo bianco destriero, ma il suo cervello aveva fantasticato su ciò e aveva fatto in modo che lei si convincesse che una cosa così assurda potesse essere reale.
 
“Lui poteva aiutarci… Lui è forte… Io lo sento… Lo so…”.
 
Mentre pronunciava quelle parole sconnesse, nella sua mente aveva preso forma la strana visione di Vegeta vestito di blu, con un’armatura bianca, che si librava in aria e attraversava il cielo. Le ore trascorse lì dentro dovevano averla fatta impazzire. Eppure… Eppure…
 
“Ma lui è… Sì… Lui è lui!”.
 
Lo aveva detto talmente piano che Marylin non era stata in grado di sentirla.
 
“Come dici?”.
“Ma sì… Adesso ricordo dove l’ho già visto… Adesso comprendo la sensazione di déjà-vu provata la volta scorsa… La nebbia si sta diradando ed è tutto sempre più chiaro! L’ho visto in tv… Durante la diretta del Cell-Game… Ti ricordi? Lui ha abilità straordinarie! Lui può veramente aiutarci!”.
 
In un primo momento, Marilyn aveva pensato che quelli fossero i deliri di una donna imprigionata da troppo tempo, ma con il trascorrere dei minuti sembrava che l’immagine descritta da Kaori fosse reale.
 
“È lui, ti dico. Ne sono sicura! Lui aveva affrontato Cell insieme ai suoi amici! Come può essere che ora non possa salvarci? Che non possa farci uscire da qui?”.
“No… Sono certa che ti sbagli… Io l’ho visto… Lui ha bussato alla mia porta come il più indifeso degli uomini… I miei fratelli volevano consegnarlo… Avrebbero ucciso lui e i bambini…”.
“Marilyn, non è possibile! Ricordo ogni cosa di quei momenti terribili documentati dai reporter! Certo, non sarà forte come il nostro mr. Satan, ma sa il fatto suo! O non si sarebbe mai presentato allo scontro… Era uno di quei ragazzi arrivati in gruppo. Ne sono sicura!”.
 
Marylin era rimasta spiazzata. Kaori aveva ragione, Vegeta corrispondeva perfettamente all’immagine del guerriero mostrata in Tv. Era lui. Come poteva non averci pensato immediatamente? Eppure, era certa Vegeta non fosse più il guerriero che aveva accettato di partecipare a quel sadico torneo. Se fosse stato in grado di aiutarle, di farle fuggire, lo avrebbe fatto di sicuro.
 
“E se…” – non aveva il coraggio di dirlo – “E se ti avesse presa in giro?”:
“Come?”.
“Se avesse finto, Marylin? Se lui avesse finto di essere debole e lo avesse fatto per incastrarti? Se fosse uno di loro?”.
“MAI! NON OSARE! Non è possibile! Vegeta è un giusto, non è uno di questi pazzi esaltati! Lui ricorda tutto, proprio come Goku! Lui non è malvagio, non...”.
“Eppure… Io sono convinta che… Oddio, sì… Ora ricordo altro… Marilyn… Vegeta… Lui è un alieno”.
“Tu sei completamente folle”.
 
Non sopportava più quei deliri. Perché continuava a tormentarla in quel modo così crudele? Cosa voleva da lei?
 
“Non sono pazza! Ascoltami, tutto diventa più chiaro ogni secondo di più… Vegeta è l’alieno che è atterrato sulla Terra insieme a quell’energumeno pelato quasi dieci anni fa…”.
“Ma cosa stai… Cosa… Tu…”.
“Ne sono sicura… Lui era venuto sulla Terra per sterminarci tutti”.
 
*
 
Marylin aveva perso il sonno da quando aveva avuto quella unica e sola conversazione con Kaori. A nulla erano valse le suppliche della donna di ascoltarla, di crederle. Marylin non l’ascoltava più, e questo perché non si trovava più lì, in quella prigione, ma era in un altro luogo di detenzione: la sua mente.
Vegeta l’aveva imbrogliata. L’immagine dell’uomo giusto, del padre irreprensibile, dedito alla famiglia, si era sgretolata sotto i suoi occhi come una statua di sale al sole.
Adesso, non vedeva altro se non il mostro sanguinario venuto sulla Terra per assoggettarla o, peggio ancora, per distruggerla.
Era stata una sciocca a credere alle sua parole. Era stata una sciocca a fidarsi, e ora la sua vita era distrutta.
Che Kaori avesse ragione? Che fosse lui l’artefice di tutto quello che era capitato? Che fosse lui il mostro?
Ormai, se n’era convinta, e non riusciva a pensare ad altro.
Vegeta aveva interpretato magistralmente una parte che evidentemente non gli si addiceva. Non si sarebbe affatto meravigliata se, il giorno della sua esecuzione, lo avesse visto seduto su un comodo scranno adagiato su un palchetto pensato per rendergli una visione privilegiata. Avrebbe riso di lei, della sua idiozia, della fiducia che aveva riposto in lui e poi avrebbe gioito nel sentirla urlare di dolore, nel vedere un’adoratrice di Satana annientata non dalle fiamme, ma dalla crudeltà dell’uomo che aveva protetto fino alla morte.
Marilyn, che credeva di non avere più lacrime in corpo, aveva pianto amaramente per la sua sorte, e per la sorte di tutte le donne che erano venute prima e sarebbero venute dopo di lei. Era vero, forse: erano tutte adoratrici del Diavolo. Ma non sapevano che quel Diavolo, sulla Terra, rispondesse al nome di Vegeta.

 
*
 
Da quando si era mostrato, dopo aver ricevuto in dono qualche goccia di sangue del giovane Trunks, il mostro dentro il libro aveva deciso di stare zitto e buono, sperando che così nessuno potesse scoprire la sua esistenza.
Sapeva di aver compiuto uno sciocco gesto, sapeva di aver attirato l’attenzione su di lui, ma non poteva permettere a nessuno di attaccarlo. Come aveva fatto a non accorgersi che altre ombre, che altre creature si erano aggrappate a Trunks quando era scappato dalla grotta? Quell’ombra strisciante puzzava di fango e terra, ed era certo di aver sentito un vago odore di cane, lo stesso cane che quel moccioso di Goten portava sempre con sé.
Avrebbe dovuto stare attento e non permettere più che accadesse una cosa tanto pericolosa.
Non era pronto a mostrarsi, e non era il sangue di Trunks che voleva per rimettersi in sesto. No. Lui voleva il corpo di Son Goku, e voleva divorare con calma il principe dei saiyan prima di sedersi su quello che qualcuno, un giorno, aveva definito il Trono del Mondo e rinchiudere nella grotta quel bastardo che aveva osato fare lo stesso con lui centinaia di anni prima.
Sentiva la sua presenza minacciosa a centinaia e centinaia di chilometri. Era invecchiato, poteva sentirlo dal suo Ki, ma era vigoroso almeno quanto lo era un tempo. Se chiudeva gli occhi, riusciva a udire il suono della sua voce, l’odore della sua pelle, riusciva a vedere il proprio riflesso sugli occhiali scuri che portava anche nei giorni di pioggia.
Lo aveva illuso. Quell’uomo non aveva fatto altro se non alimentare in lui false speranze, che il suo duro lavoro sarebbe stato ripagato con il più grande dei trofei. Invece, non era stato così.
Il suo modo di fare gli aveva fatto capire che per lui era uguale a tutti gli altri, seppur avesse dimostrato di potersi distinguere, che non era degno di essere l’unica e sola scelta.
Era stato lui a costringerlo a fare quello che aveva fatto, a portarlo sul punto di doversi ribellare alle regole millenarie dell’ordine in cui era stato accolto. Ed era stato lui a punirlo, sigillandolo lì sotto, tra l’altro in compagnia di coloro che aveva da sempre ritenuto inferiori.
Ma era evidente che Muten lo avesse sottovalutato, che non si aspettasse di vederlo tornare, un giorno, per giunta con un piano ben studiato, e ora non sapeva bene come contrastarlo. Lo sapeva che era così… Lo sentiva.
Lui doveva avere Goku, doveva prendere possesso del suo corpo, e doveva far sì che fosse pronto non solo ad accoglierlo, ma a compiere l’atto finale. In quel periodo trascorso sotto forma di spirito confinato all’interno del suo oggetto più caro, aveva potuto ripercorrere tutto quello che aveva scritto durante l’adolescenza, analizzando le sue debolezze, rispolverando i suoi punti di forza, tentando di colmare con la meditazione i vuoti che gli insegnamenti di Muten non avevano colmato, a lavorare sulla sua mente e a studiare una tecnica per poter dominare quelle altrui.
Trunks era stato il colpo di fortuna che aspettava da tanto tempo, e non avrebbe permesso che gli accadesse alcunché. Sapeva benissimo a che gioco volevano giocare le altre ombre. Volevano provare a distruggere il bambino, in modo che il quaderno fosse dimenticato in un angolo, in modo che il suo piano finisse in un nulla di fatto. Ma non avevano preso in considerazione il fatto che avesse in un certo senso previsto anche quelle mosse così subdole. Non era uno sprovveduto, non lo era mai stato, in verità, ma mai meno di allora.
Il suo piano era perfetto, se non in una piccola parte per cui non aveva ancora trovato una spiegazione: nel mondo ideale che aveva deciso di plasmare, un mondo simile a quello in cui lui aveva vissuto da bambino, uomini e donne vivevano dei prodotti della Terra, erano esseri superstiziosi non capaci di comprendere pienamente i progressi della scienza e della tecnologia, e le donne erano completamente soggiogate al loro volere. Perché, allora, il suo influsso non aveva agito su di loro? Perché, stando a quello che scriveva Trunks sulle sue pagine ingiallite, il sesso debole ricordava ogni cosa così come era sempre stata?
Aveva provato a tergiversare col ragazzo e le sue migliaia di domande, ma proprio non riusciva a trovare una spiegazione. Non aveva sentito nessuna di loro opporre resistenza al suo potere psichico, allora perché era successo quello che era successo?
Per quanto provasse a darsi una spiegazione, proprio non era in grado di rispondere.
Poco male, però… Presto, Goku sarebbe stato pronto a riceverlo, e non sarebbe stato di certo un gruppetto di donne a mettergli i bastoni tra le ruote.
Avrebbe dominato il mondo. E lo avrebbe fatto dopo aver consumato lentamente la portata principale di quel lauto banchetto.
Per questo, aveva deciso di rimanere lì, sotto le assi sconnesse del capanno, aspettando che Trunks tornasse a prenderlo. Perché sapeva che il bambino non avrebbe più potuto fare a meno di lui.
 
*
 
Si era risvegliato dopo un lasso di tempo che gli era parso interminabile, indolenzito per la posizione in cui era stato costretto a stare, e spiazzato per essersi reso conto del perché e del come fosse finito in quella spiacevole situazione.
 
“Genio…”.
 
Lo aveva sussurrato appena, mentre cercava di capire se il corpo rispondeva ai suoi comandi. Purtroppo per lui, si era reso conto molto presto che questo sembrava impossibile. Più Goku provava a concentrarsi e sforzarsi, più otteneva l’effetto opposto, irrigidendosi ulteriormente.
 
“Urca! Genio, perché mi stai facendo questo? Che fine hai fatto, eh? Urca…”.
 
Era stato in quel preciso istante, mentre cercava di darsi una spiegazione, che si era reso conto di non avere la più pallida idea di quanto tempo avesse trascorso in quello strano luogo.
 
“Chissà da quanto sono qui… Chissà come staranno Goten e gli altri! Chissà se hanno paura, sete, fame, e… Ehi… Fa-fame? Urca, ma io non dovrei avere fame, adesso?”.
 
Quel pensiero così semplice e così apparentemente innocuo si era rivelato, in realtà, rivelatore di una verità a cui non aveva fatto caso in precedenza: non avvertiva i morsi della fame. Lui, abituato a mangiare ogni mezz’ora, lui, incapace di alzarsi da tavola prima di arrivare sul punto di scoppiare, non sentiva alcuno stimolo provenire dal suo stomaco, o dal suo cervello.
 
“Ma com’è… Com’è possibile? Perché non avverto né fame, né sete? E, ora che ci penso… Ora che ci penso, non avverto neanche sonno, o stanchezza dovuta al non aver dormito… Sì, mi sento strano per via di quello che mi ha fatto Genio, ma questo è diverso… Già da prima di finire qui non avevo fame o sete, già da prima di finire qui non ero stanco… Che cosa significa? Perché mi succede questo?”.
 
Goku era confuso e agitato. Avrebbe tanto voluto posare le dita sulla fronte e teletrasportarsi da Re Kaioh per chiederglielo, ma proprio non riusciva a muovere neanche un muscolo. Sarebbe rimasto lì dentro in eterno, sino all’arrivo di Genio? E se quest’ultimo non fosse più tornato, che ne sarebbe stato di lui?
 
“Trascorrerò il resto dei miei giorni sigillato qui sotto? No… Non posso crederci… Non ci voglio credere… Non posso stare qui… Non voglio!
Ma se questa… Se questa fosse l’unica soluzione… Sì, se questo fosse il solo modo per farli tornare tutti? Urca! Mi fa male la testa… Io non sono buono a ragionare… Sono stanco di ragionare… Il cervello sembra che stai per esplodermi e io non so come fare per uscire da qui. Non so come fare ad aiutare… Perché? Perché non capisco come posso aiutare?”.
 
*
 
Il giorno era giunto.
Kaori avrebbe perso la vita alle 14.00 in punto di un venerdì pomeriggio. La folla si era riunita attorno al patibolo costruito appositamente per l’occasione, in attesa che il macabro spettacolo prendesse vita. Donne, uomini, giovani, anziani, persino bambine e bambini scalzi e sporchi avevano fatto a gara per prendere un posto in prima fila, per vedere la testa della strega rotolare sulla terra battuta e imbrattarla con il suo sangue denso e caldo.
I carcerieri erano in fermento. Non avevano staccato gli occhi di dosso dalla condannata neppure per un istante, non le avevano risparmiato ulteriori violenze e umiliazioni, e avevano lasciato che fossero i dadi a decidere chi di loro l’avrebbe accompagnata durante il suo ultimo viaggio sino al patibolo.
Kaori non aveva fatto altro che piangere per tutta la notte. I suoi sogni di salvezza si erano infranti alle prime luci del mattino, quando aveva udito il suono dei martelli che inchiodavano le assi destinate a comporre il luogo in cui avrebbe perso la vita.
Le avevano comunicato che sarebbe morta mediante decapitazione. Un vero e proprio trattamento di favore, considerando che la punizione per la stregoneria fosse morire sul rogo.
Marilyn non le aveva più rivolto la parola da quel lontano giorno.
La odiava, Kaori lo aveva capito, ma quell’atteggiamento proprio non riusciva a condividerlo, né a comprenderlo. Non avevano più niente, se non la vicinanza l’una dell’altra, perché lasciarla sola negli ultimi istanti della sua miserabile vita? Perché farla sentire abbandonata proprio in quel momento? Non l’aveva neppure guardata in viso quando l’avevano portata via, eppure era certa di averla vista piangere. Forse, alla fine, Marylin aveva davvero iniziato a provare qualcosa per lei. Kaori non avrebbe mai saputo che le lacrime della sua dirimpettaia fossero per se stessa e per la sua sventurata sorte.
 
Aveva male alle ossa, la testa sembrava sul punto di scoppiarle, e non aveva più la forza neppure di piangere.
Quando i soldati erano giunti a prelevarla, il sole era alto, ma lei non sentiva il suo calore sulla pelle: tremava, di paura e di rabbia, di sconforto e di dolore. Il terrore provato era talmente tanto da averle fatto perdere il controllo sulla vescica, e lei si era ritrovata con la gonna zuppa e le cosce appiccicose, mentre cercava di rifuggire gli sguardi delle persone accorse a vedere la sua morte.
 
Il boia aveva il volto coperto. Indossava un lungo abito nero dotato di cappuccio, e aveva la katana ancora inserita nel suo fodero, nero anch’esso.
Presto, quella lama affilata avrebbe squarciato le sue carni e avrebbe posto fine alla sua breve vita. Presto, sarebbe morta. Forse, a quel punto, avrebbe potuto incontrare i suoi cari che non c’erano più? O forse, avrebbe raggiunto l’Inferno, come aveva creduto?
Improvvisamente, senza sapere perché, Kaori aveva iniziato a ridere in maniera a dir poco sguaiata. Quelle risate avevano fatto accapponare la pelle persino ai soldati, ma non sembravano aver turbato il boia, che con un gesto della mano aveva ordinato ai soldati di farla chinare e di poggiarle la testa sul ceppo.
 
“MORIRETE TUTTI!” – aveva urlato, quasi in preda a una specie di ossessione – “MORIRETE TUTTI! MORIRETE PERCHÉ LUI CAMMINA FRA DI VOI! LUI VI TRADIRÁ DOPO AVERVI OFFERTO IL SUO CONFORTO! E IO LO MALEDICO, PER QUESTO, LO MALEDICO!”.
 
“Ma di chi sta parlando?” – aveva cominciato a chiedersi la gente presente in piazza, preoccupata.
 
“Tu, strega, stai per morire!” – le aveva urlato una della guardie, allontanandosi da lei.
 
“Io morirò, ma voi mi seguirete presto! TUTTI VOI MI SEGUIRETE PRESTO! Perché lui e i suoi figli verranno a trovarvi! E non avrete scampo!”.
 
Un taglio. Era bastato un solo taglio per staccarle la testa di netto. Nessuno spreco di energia, nessuno spreco di tempo. Kaori era morta velocemente, in poco tempo, proprio come aveva vissuto. Nessuno avrebbe mai saputo a chi si stesse riferendo nei suoi ultimi istanti di vita. E nessuno avrebbe saputo perché, in quel momento, un ragazzo che lavorava in un campo si era accasciato al suolo.
 
Continua…


 
Ciao a tutte/i!
Come procede la vita in questo strano déjà-vu?
Spero che voi e vostri cari stiate bene. <3
 
Abbiamo avuto modo di conoscere diversi punti di vista, e abbiamo finalmente visto anche il povero Goku, sempre più incredulo rispetto a quello che gli sta accadendo.
La donna dai capelli rossi ha creduto in qualcosa di impossibile e, alla fine, ha lanciato la più crudele delle maledizioni su chi, per una volta, non ha fatto nulla di male.
Ah, ho inventato praticamente ogni cosa: non ho idea di come i giapponesi portassero a termine le esecuzioni capitali, nel passato.
La prossima a salire sul patibolo sarà Marilyn… Marilyn, che ora è piena di dubbi e ha il cuore doppiamente infranto.
Ma chi sarà il ragazzo svenuto nei campi?
Vedremo…
 
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 47
*** Invasi dalle ombre ***


Invasi dalle ombre
 
Non possedeva più il vigore fisico e l’energia di una volta, ma la sete di giustizia e la ferrea volontà di voler portare a termine qualcosa lasciato a metà in un’altra vita lo avevano spinto a non perdere neppure un briciolo di quel tempo diventato così terribilmente prezioso.
Genio non poteva permettersi alcuna esitazione: era fondamentale, per lui, mantenere i nervi saldi, era necessario pianificare tutto al meglio, capire quale fosse stato il suo errore più grande e tentare, così, di non ripeterlo mai più.
Lui era l’ultimo custode di quel luogo inarrivabile, era l’ultimo guerriero di una casta ormai estinta, ed era venuto meno al suo compito. Nonostante le attenzioni, nonostante il suo continuo vigilare, non era stato capace di fermare i propositi nefasti del suo primo allievo, non era stato in grado di fiutare il pericolo e stroncare sul nascere quel folle piano di rivalsa che aveva causato così tanto dolore in così poco tempo.
Genio aveva viaggiato a lungo, seguendo la scia di quel potere così intenso emanato di colpo in un'unica soluzione. Aveva camminato lungo sentieri impervi, aveva nuotato per mari agitati, aveva corso sul terreno brullo, aveva scalato pareti rocciose ripide come poche, si era arrampicato sugli alberi più alti e aveva affrontato le forze che la natura gli aveva scagliato contro. Durante quel faticoso cammino, metafora della sua espiazione interiore, aveva incontrato desolazione e morte, distruzione e paura, imparando, suo malgrado, che l’essere umano non aveva reagito a quella situazione, ma si era abituato a essa come se fosse stata una cosa del tutto naturale, come se il tempo si fosse fermato in un periodo che al Genio delle Tartarughe era fin troppo familiare: un periodo che lo riconduceva agli anni della sua giovinezza, quando era ancora troppo inesperto in merito alle persone e ai sentimenti che governano questo folle, pazzo mondo.
Durante quel suo pellegrinaggio, si era imbattuto in una famiglia che viveva ancora nei resti di un immenso palazzo ormai caduto in rovina. L’aspetto vissuto dell’edificio era stata la prima cosa ad aver attirato la sua attenzione: era stato costruito in una delle strade principali di quella grande e popolosa città, non era possibile che gli abitanti e il prefetto avessero deciso di lasciarlo in quello stato. Lo stesso valeva per gli edifici che lo circondavano, ma quello aveva catturato in particolare la sua attenzione proprio per la presenza di quella coraggiosa famiglia che aveva deciso di sfidare la sorte scegliendo di continuare ad abitarvi.
Madre, padre e due figlie femmine, dopo un’iniziale diffidenza, lo avevano accolto come se si fosse trattato di una celebrità, questo nonostante non lo avessero mai visto prima di allora.
Aveva scoperto che quelle persone erano le ultime rimaste in città, e che avevano deciso di non spostarsi altrove nella speranza che il figlio maggiore potesse fare ritorno.
 
“Come potrebbe mai trovarci se dovessimo andare via da qui? Non ce ne andremo… Noi non abbiamo niente a che spartire con quei folli… Aspetteremo qui il suo ritorno. Nostro figlio tornerà, ne siamo certi”.
 
La donna era stata irremovibile. Nonostante il suo aspetto trasandato, emanava una forte austerità, un carattere che in tanti non avrebbero saputo mantenere così saldo, date le circostanze. Le sue due figlie, nonostante la giovane età, non erano da meno. Quello che sembrava confuso, quasi assente, era il padre. Dopo aver parlato con la donna Genio aveva scoperto che gli abitanti della città si erano ritirati in campagna, che erano diventati superstiziosi e paurosi, e che le condizioni di vita generali erano peggiorate, per non parlare dei diritti delle donne, se non completamente negati, sicuramente retrocessi a quelli stabiliti in un periodo che si sarebbe potuto definire buio.
Quel pover’uomo era stato profondamente sconvolto dall’improvvisa scomparsa di suo figlio: il ragazzo, un ventenne che godeva di ottima salute, era letteralmente svanito davanti ai suoi occhi nello stesso istante in cui aveva varcato la soglia di casa. Non aveva potuto fare altro se non assistere impotente a quella scena che gli aveva straziato l’anima e lo aveva reso svuotato di ogni energia vitale. Quel padre non aveva retto alla perdita di suo figlio, e a nulla erano valse la presenza e le amorevoli cure della moglie e delle dolci e bellissime figlie. Lui non era più lì, era andato via con il suo ragazzo, e le donne si erano convinte che sarebbe tornato nell’attimo in cui il primogenito avrebbe varcato nuovamente la soglia di casa, nell’attimo in cui la loro famiglia sarebbe tornata a esser quella di un tempo.
 
“Sono state tante le famiglie che hanno subito il nostro stesso destino” – aveva detto la donna dagli occhi stanchi ma dallo sguardo fiero – “Tutti coloro che abitavano qui hanno perso qualcuno. Il tutto è iniziato in modo così strano… Credo di aver visto una luce, o qualcosa di simile. Da quel momento, tutto è cambiato. Chi è rimasto si è convinto di vivere in una specie di epoca primitiva, ma non le donne… Le mie amiche e colleghe, le mie parenti, sapevano che tutto questo è una menzogna, ma hanno preferito seguire i loro mariti, figli e compagni, piuttosto che rimanere indietro e lottare. Non abbiamo idea del perché sia accaduta una cosa simile, ma vedo che voi non ne siete caduto vittima… Come mai? Non che la cosa ci dispiaccia, ma ci stupisce positivamente”.
 
Genio non aveva risposto immediatamente, si era preso qualche minuto per pensare. In un’altra circostanza avrebbe fatto qualche stupida battuta per mettersi al centro dell’attenzione e ricevere un trattamento di favore da quelle giovani donne bellissime, ma la sofferenza dipinta sui loro volti e lo smarrimento del capofamiglia lo avevano portato a desistere dal comportarsi in maniera così sciocca e ad assumersi le sue responsabilità, perché volente o nolente, quello che era successo dipendeva principalmente dalla sua debolezza e dalle decisioni sbagliate che aveva preso da giovane.
 
“Forse è la mia età ad avermi tutelato da questo morbo” – aveva risposto, cercando di apparire per quello che le donne volevano vedere – “Spero che la fortuna vi arrida e che un giorno possiate tornare uniti”.
 
Era andato via da quella città col cuore in tumulto. Proprio non avrebbe potuto reggere ulteriormente il gioco, e la consapevolezza che il giovane fosse diventato parte integrante del suo nuovo pupillo, del suo Goku, lo aveva straziato sin dentro l’anima. Perché gli dei erano stati così crudeli nei suoi riguardi? Perché lo avevano destinato a non potersi legare a nessuno? Aveva scelto di non avere una famiglia sua, di non avere figli per evitare di commettere due volte lo stesso errore, ma non era servito: proprio come il suo primo allievo, Goku era diventato una minaccia per quel mondo che aveva scelto di proteggere quando era solo un ragazzino.
Aveva viaggiato con quel peso nel cuore, Genio, chiedendosi che cosa stesse facendo Goku, se il sigillo che gli aveva imposto fosse ancora attivo o fosse già svanito come neve al sole.
 
“Devi avere pazienza, ragazzo… Devi darmi il tempo di arrivare a destinazione e salvarti… Non lascerò che l’abbia vinta… Non lascerò che le ombre camminino sulla Terra… Questa volta, siamo alla resa dei conti”.
 
*
 
Ancora non riusciva a spiegarsi perché avesse perso i sensi all’improvviso, mentre si stava occupando delle colture che gli erano state assegnate. I suoi compagni gli avevano detto di averlo visto cadere a terra come un sacco di patate, ma lui non ricordava di essersi sentito male o di aver avvertito qualche sensazione in particolare, prima di perdere i sensi. Vegeta sapeva solo che quell’imprevisto gli era costato la paga di metà giornata e una mortificazione con i fiocchi da parte di quel mostriciattolo schifoso del capomastro, essere che prima o poi avrebbe schiacciato come un insetto fastidioso.
I ragazzi non erano stati messi al corrente di quello spiacevole episodio. Non voleva caricarli di ulteriori preoccupazioni proprio adesso che Trunks si era più o meno rimesso in sesto, proprio adesso che era tornato a frequentare le lezioni e che aveva più o meno ripreso a mangiare regolarmente.
Forse, era svenuto per il troppo lavoro, forse era svenuto perché era uno stupido essere umano uguale a tutti gli altri che non reggeva più quei ritmi forsennati. Stava di fatto che era successo e basta e che non poteva farci niente, proprio come non poteva fare niente a tutto quello che gli era capitato ultimamente.
 
*
 
Le settimane si erano susseguite senza troppe novità, senza che nulla cambiasse veramente, senza che si fosse realmente trovato un rimedio a quella verità a cui non si era potuto fare a meno di abituarsi.
Il lavoro nei campi proseguiva senza interruzioni, il mercato si svolgeva regolarmente, così come non si erano stoppati i processi e le esecuzioni degli adoratori e delle adoratrici di quello che veniva chiamato Satana.
Gli avvistamenti di creature demoniache non facevano che aumentare. Qualcuno, in paese, aveva giurato di aver visto un’ombra nera aggirarsi tra i vicoli bui, ma nessuno era stato in grado di fornire una spiegazione che non sfociasse nel macabro rispetto a quanto avvenuto. La superstizione faceva da padrona, e dopo mesi di quella vita così insoddisfacente, persino le donne e le bambine avevano smesso di pensare a quanto le cose fossero state diverse non troppo tempo addietro.
Le condizioni dei popolani peggioravano di giorno in giorno: i turni di lavoro diventavano sempre più massacranti, l’istruzione era sempre più superficiale e sempre meno erano i bambini seduti dietro i banchi, perché i genitori avevano bisogno di braccia per lavorare e sfamare famiglie che diventavano sempre più numerose.
Nessuno, a parte Goten, Trunks e Vegeta, sembravano essersi accorti di come il tempo stesse scorrendo velocemente. Non c’erano orologi nel villaggio in cui abitavano, ma avevano come la sensazione che le ore li stessero rincorrendo e che stessero galoppando a più del doppio della loro normale velocità.
I ragazzi, sorpresi da quanto era avvenuto, si erano ritrovati cresciuti di diversi centimetri in poco tempo, e Vegeta sembrava invecchiato di colpo: la sua forma fisica a dir poco smagliante era quasi del tutto un ricordo, e le borse sotto gli occhi erano la testimonianza più efficace della fatica che sopportava quotidianamente.
Dall’episodio del suo svenimento nei campi e dalla vicenda che aveva visto Trunks ferito nel capanno, non c’erano state più stranezze in quella famiglia composta solo da uomini.
I bambini andavano a scuola, Vegeta andava a lavorare e la sera si riunivano a tavola per consumare un pasto frugale. Nessuno aveva più parlato di Goku e di dove potesse trovarsi, nessuno aveva più parlato delle persone che erano scomparse né di come pensare di agire per far sì che avvenisse un cambiamento.
Le cose erano quelle. Forse erano sempre state quelle. Perché avrebbero dovuto cambiarle? E pensare che fino a poco tempo prima, Vegeta sperava di poter fare qualcosa.
Quello che sapevano, però, era che in paese continuavano a circolare voci sulla misteriosa ombra che compariva all’improvviso.
Vegeta non aveva dato peso a quelle dicerie, ma Goten sembrava particolarmente attratto da quel racconto che aveva qualcosa degno di un film horror.
Sembrava che qualcosa finalmente avesse risvegliato la sua curiosità: dopo i funesti eventi che avevano riguardato Gohan e Ouji, Goten non era stato più se stesso, e l’apatia di Trunks non aveva fatto altro se non alimentare un isolamento da parte del secondogenito di Goku e Chichi.
Quel racconto, però, aveva acceso la sua curiosità, privandolo del sonno. Cosa poteva essere l’ombra di cui parlavano tutti?
 
“Perché non andiamo a vedere di cosa si tratta?”.
 
In un primo momento, Trunks aveva creduto di aver sentito male. Possibile che Goten fosse tanto idiota da decidere di fare una cosa talmente stupida?
 
“Tu sei impazzito…”.
“Dai! Vorrei sapere di cosa si tratta! Tu no?”:
“Non voglio mettermi nei guai” – aveva tagliato corto, freddo come il ghiaccio – “E non voglio far preoccupare papà”.
“Neanche io voglio…” – aveva ammesso Goten. Triste – “Ma mi chiedo se ci sia un legame tra l’ombra che dicono di vedere e quello che è successo!”.
Trunks, infastidito da quel continuo chiacchiericcio, si era girato nel letto, fissandolo con occhi quasi crudeli, occhi che Goten non avrebbe potuto vedere a causa del buio.
“Ancora stai pensando a questa storia? Ma vuoi capirlo o no che non c’è modo di tornare come eravamo prima?”.
 
Ferito dalle dure parole del suo migliore amico, Goten aveva chinato il capo, nascondendo il viso tra il cuscino e le coperte. Odiava quando Trunks si comportava in quel modo. Cosa aveva fatto di male per meritarsi un simile trattamento? Perché sembrava avercela così tanto con lui? Erano così uniti, un tempo… Cosa era cambiato? E proprio adesso che non avevano nessun altro, poi!
 
“Non volevo farti arrabbiare… Io… Pensavo a Marylin… Alla mamma, e...”.
“E?”.
“Lascia stare…”.
 
Trunks era certo che a breve avrebbe visto Goten piangere. Non voleva trattarlo male, ma proprio non riusciva più a reprimere la rabbia che provava. Da quando era stato ferito, poi, le cose erano cambiate ulteriormente: non aveva più preso lo stupido quaderno nero se non per riporlo in un luogo più sicuro di quello scelto in precedenza, un luogo decisamente più lontano dalle mura della loro casa. Non voleva più causare alcun tipo di guaio, dunque perché andare in giro a cercarne di nuovi?
 
“Non voglio far preoccupare papà… Lo sai che non siamo più in grado di difenderci come una volta…” – aveva provato a spiegarsi così, Trunks.
“Lo capisco… Però non possiamo sempre nasconderci dietro al fatto che non abbiamo più le abilità di prima… Gli altri bambini come fanno, altrimenti? Non escono mai di casa per giocare? Non ci credo…”.
“Ma questo non sarebbe un gioco! Che dici? “.
“Trunks, davvero credi che ci sia in giro l’ombra di Satana? Veramente?”.
 
Il tono di Goten non gli era piaciuto, ma doveva ammettere che non aveva tutti i torti: erano cresciuti ascoltando i racconti che Goku aveva fatto agli altri in merito al Paradiso, all’Inferno e alle divinità che abitavano nell’Aldilà, e non si faceva cenno a Satana, o a qualcuno che avesse il suo nome. Però, Trunks alcune ombre le aveva viste per davvero, anche se non lo aveva detto a nessuno, e voleva evitare di imbattersi di nuovo in qualche situazione spiacevole.
 
“Io andrò lo stesso, anche se tu non vuoi venire” – aveva dichiarato Goten, deciso.
“Come sarebbe?”.
“Josuke e Joruno* andranno domani notte a perlustrate le strade della città, e io andrò con loro. Se non vuoi venire non fa niente. Come vedi, non sarò da solo”.
“Jo-Josuke e Joruno? E tu da quando frequenti quei due?”.
 
Trunks non riusciva a capacitarsene: i due cugini, due ragazzotti magrolini ma dal carattere forte e ben delineato, avevano qualche anno in più di loro, erano figli di possidenti terrieri e solitamente non facevano amicizia con bambini appartenenti al loro ceto. Come aveva fatto Goten a entrare in contatto con loro se non frequentavano neppure la stessa classe? Quando era successo?
 
“Sì, Jotaro e Joruno. Ti saresti accorto che sono diventato loro amico se ti degnassi di darmi un po’ di confidenza, quando usciamo da scuola. Sono due ragazzi in gamba, comunque, e sanno il fatto loro!”.
“Ssssh! Parla piano! Non vuoi che papà si svegli, no?”.
“Certo che no! Ma certe volte sei così… Così…”.
“Sì, hai ragione, mi dispiace! Ma spiegami meglio… Jotaro e Joruno: non ci posso pensare!”.
 
Goten aveva trascorso la successiva mezz’ora a spiegare bene a Trunks come avesse stretto amicizia con i due ragazzi. Quella era la prima volta dopo tanto tempo che il suo migliore amico aveva ripreso a dargli confidenza, e non voleva sprecare l’occasione. Alla fine, aveva persino convinto Trunks a seguirli in quella missione esplorativa.
 
“Caspita! Certo che ti sei integrato bene! Bravo Goten!”.
“Ti ringrazio” – aveva balbettato lui, arrossendo nel buio.
“Da quello che mi dici, sembrano ancora più fighi di come appaiono! La loro casa è bellissima, poi… Alemno, lo è vista da fuori. Ah, come sono fortunati!”.
“Magari potrebbero invitarci!”.
“Tu dici? Oddio, sarebbe bellissimo! Ma come faremo ad andare a casa loro conciati così? Non voglio fare brutta figu-“.
“Se non la piantate immediatamente vengo lì e vi faccio passare la voglia di chiacchierare in meno di un minuto”.
 
A quanto sembrava, Vegeta non aveva poi il sonno così pesante come pensavano: il continuo bisbigliare dei ragazzi lo aveva destato, e se in un primo momento aveva quasi gioito nel sentire che i due marmocchi si confidavano ancora segreti e dubbi – strane usanze terrestri a cui lui non si sarebbe mai abituato – dopo un po’ aveva perso la pazienza: doveva andare a lavorare, il giorno dopo, loro dovevano andare a scuola e se avessero avuto sonno non avrebbero cavato un ragno dal buco.
 
“SILENZIO”.
 
E, a quella richiesta così fine e gentile, non avevano potuto fare a meno di obbedire.
 
*
 
Si erano dati appuntamento a casa di Josuke nel tardo pomeriggio, e per far stare tranquillo Vegeta – laddove ce ne fosse stato bisogno – avevano detto che avrebbero dormito a casa sua. Il saiyan, sospettoso per natura, aveva fatto giusto qualche domanda di rito, ma poi aveva scelto di dare fiducia ai ragazzi: Bulma e Chichi sarebbero state contente nel sapere che erano riusciti a farsi degli amici anche in una situazione così anomala e bizzarra.
 
Josuke e Joruno erano due tipi estremamente determinati e carismatici: Josuke, moro con gli occhi blu, era un vero e proprio giocherellone, mentre Joruno, biondo con gli occhi verdi, decisamente più silenzioso, era apparso a Trunks estremamente risoluto.
Era stato un vero onore per il piccolo Brief essere accolto così calorosamente dai due cugini.
 
“Siamo proprio contenti di vedere che siate venuti! Lo dicevo che eravate due tipi coraggiosi!” – aveva trillato Josuke – “Conoscere te, Trunks, è un vero onore! Goten non fa altro che parlare di te e di quanto tu sia fantastico come fratello maggiore! Sei forte, sai? E pensare che da lontano sembravi un musone!”.
 
Josuke non aveva sicuramente peli sulla lingua. Aveva detto a Trunks tutto quello che pensava su di lui senza però apparire sgarbato o maleducato.
 
“Josuke, sei veramente incorreggibile!” – lo aveva sgridato Joruno – “Ti sembrano cose da dire a qualcuno che hai appena conosciuto? Ti prego di perdonare i modi di mio cugino”.
“Oh, ma no, figurati!”.
 
Per la prima volta in vita sua, Trunks era arrossito di vergogna davanti a un altro ragazzo. L’aspetto di Joruno lo metteva a disagio: quel suo fisico così minuto e asciutto, i boccoli d’oro raccolti in una treccia, la pelle di porcellana e gli occhi verdi come smeraldi lo avevano ammaliato. Persino la sua voce era soave come quella di una creatura angelica: possibile che fosse veramente un ragazzo e che, soprattutto, fosse cugino di Josuke? Erano all’opposto! Stava di fatto che non voleva mostrarsi debole o idiota davanti a lui, e aveva cercato di sembrare risoluto e ben educato a sua volta, cercando però di non strafare: guai a fare cattiva figura!
 
“Sei sempre il solito precisino, Jojo!” – lo aveva rimproverato Josuke – “Mettiamoci all’opera! Sono troppo curioso di scoprire se questa storia delle ombre è vera o se è solo una diceria messa in giro dai matti che abitano in paese!”.
 
A quanto avevano raccontato alcuni contadini, la prima apparizione dell’ombra era avvenuta circa due settimane addietro nei pressi della stradina che conduceva alla loro scuola. I due anziani fratelli avevano giurato di aver visto qualcosa di malefico strisciare lungo le pareti dell’edificio, e che questa stessa presenza fosse poi svanita nel nulla, lasciandogli addosso un senso di puro terrore.
Per questo motivo, la loro prima tappa sarebbe stata proprio la scuola.
 
“Non che io ami venire qui, eh!” – aveva ammesso Josuke – “Questo posto mi sta stretto di giorno, figurarsi di notte, ma che dobbiamo fare? Dei veri investigatori non si tirano indietro!”.
 
Goten era a dir poco affascinato dal carisma di Josuke, nonché dalla sua bizzarra e indescrivibile acconciatura. Non avrebbe saputo come definirla, ma di certo non faceva sì che il ragazzo passasse inosservato. Ma, del resto, chi era lui – bambino dai buffi capelli a palma – per prendere in giro un ragazzo così… figo?
 
“Quindi non sappiamo altro? Dell’ombra, dico… Che forma abbia… Dove sia stata vista in seguito…”.
“Sappiamo molto di più, Goten! Sappiamo che non ha una forma ben precisa, e per questo comincio a pensare che – se esiste – prenda la forma di quello che ci spaventa di più, e sappiamo che compare nei posti più bui come vicoli o cantine”.
“Ma ha mai fatto del male a qualcuno? Voglio dire” – aveva chiesto Trunks – “Ci sono state segnalazioni di feriti o di persone scomparse?”.
 
I due cugini si erano guardati a lungo prima di rispondere: la loro espressione non lasciava presagire nulla di buono.
 
“Voi non sapete niente, vero?”.
“Emmm… Sappiamo sicuramente meno di voi” – aveva ammesso Trunks, sincero.
“L’ombra ha portato via il mio gatto”.
 
A giudicare dall’espressione di Goten, quella era un’informazione di cui era già in possesso. Non doveva aver aperto bocca a riguardo perché; evidentemente, quell’episodio gli portava alla mente il ricordo di Ouji. Povero cagnolino, chissà quale sorte gli era toccata. E chissà se la sua morte era in qualche modo correlata alla sparizione del gatto di Joruno.
 
“Sono certo che troveremo qualcosa” – aveva asserito Trunks, deciso – “Se così non fosse, continueremo a cercare… Coraggio!”.
 
Nel vederlo così deciso e risoluto, Goten non aveva potuto non pensare a quanto somigliasse al bambino con cui era cresciuto e con cui si era allenato tanto intensamente. Aveva fatto bene a convincerlo a venire: quello era Trunks, il vero Trunks! Finalmente, lo aveva ritrovato.
 
“Ben detto… Ora, facciamo silenzio e proseguiamo. La notte è lunga e noi non dobbiamo farci scoprire”.
 
*
 
Vegeta non riusciva a darsi pace.
Odiava il fatto di sentirsi tanto in apprensione, odiava il fatto di non sapere cosa stessero facendo i ragazzi, odiava il fatto che non fossero lì con lui.
Alla fine lo aveva dovuto ammettere: i ragazzi gli mancavano e si sentiva tremendamente, completamente solo.
Oh Dei, da quando era diventato una mammoletta in pena per la sua condizione? Da quando si era trasformato in mamma chioccia che trascorreva le notti in ansia per il destino della sua progenie?
Avrebbe voluto staccarsi la lunga a morsi e ingoiarla per morire soffocato pur di non pensare alla vergogna che quei pensieri suscitavano in lui.
Non era più un principe sanguinario? Ok poteva passarci sopra. Non era più un guerriero spietato? Va bene, poteva soprassedere, ma quello era troppo anche per lui. Doveva uscire fuori da quella casa o sarebbe impazzito definitivamente, e non era una cosa che aveva intenzione di fare.
Solo che, una volta varcata la soglia del cancello che lo immetteva sulla via principale, si era reso conto di non avere idea di dove poter andare.
Nonostante il lavoro a stretto contatto con altri uomini e altre donne, si era reso conto di non conoscere nessuno. Aveva imparato qualche nome, qualche faccia, ma niente di più. Era proprio come quando si trovava sotto le grinfie di quel bastardo di Freezer.
 
“Tsk! Ma chi se ne importa!”.
 
Bugia.
Una stupida bugia che non avrebbe potuto raccontarsi ancora a lungo. Ma perché faceva così male, dannazione?
 
Senza rendersene conto, aveva cominciato a incamminarsi per il paese. In un’altra vita, avrebbe cominciato a sferrare pugni a caso per sfogare la rabbia e diventare più forte, ma quella non era “un’altra vita”, ed era troppo stanco per sprecare energie senza motivo.
 
Per qualche strana ragione, si era trovato a bighellonare davanti alla prigione, e il pensiero era andato subito dritto a lei, a Marilyn.
 
“Tsk… Che diamine mi importa di lei? Mi ha cacciato… Non posso farci niente se ha deciso di sprecare la sua vita per salvare me e i ragazzi, che si comportasse come l’imbeccille? Chi le ha chiesto niente, poi? Le donne di questo pianeta sono tutte… Tutte…”.
 
Non era stato capace di trovare una definizione adeguata. Forse, la parola giusta da usare sarebbe stata eroiche, ma era un qualcosa che ancora non era pronto ad ammettere, non fino in fondo, almeno.
Stava di fatto che non era tenuto a fare cose che non voleva fare, no? Allora, perché non andare a trovarla se voleva vederla? Ma voleva davvero vederla dopo che lo aveva praticamente cacciato via? Dopo che gli aveva chiesto di non tornare?
In preda alla confusione, spinto da una qualche ragione sconosciuta, Vegeta si era ritrovato a fare lo stesso percorso di qualche settimana prima, scoprendo con i suoi occhi l’orrore che permeava quei luoghi.
 
“Mettiti in fila, straccione! Aspetta il tuo turno”.
 
Neppure nel suo periodo più sanguinario sarebbe mai stato capace di mettere in atto un crimine tanto atroce. Aveva smembrato, schiavizzato, ucciso, ma mai aveva sottomesso una donna in quel modo, neppure quando erano state loro stesse a offrirsi a lui spontaneamente. E, in quell’attimo, nel momento in cui aveva visto il corpo nudo schiacciato su quello di lei, l’immagine di Bulma si era per un attimo sovrapposta a quella di Marilyn.
Vegeta non era stato più se stesso. O, forse, per un istante, era tornato a esserlo: incurante dell’ordine impartitogli dalla guardia che sorvegliava il cancello della cella, aveva sfondato le sbarre con un calcio e si era avventato sul verme schifoso che grugniva addosso alla donna, rendendosi conto che fosse quel cane del suo capomastro solo dopo che gli aveva rotto naso, mandibola e procurato un trauma cranico.
 
“TI AMMAZZO, LURIDO BASTARDO! TI AMMAZZO!”.
 
C’erano voluti sei uomini per tenerlo a bada, e altri due per trasportare il ferito altrove.
Vegeta sembrava una furia, non sentiva neppure il dolore delle nocche ferite tanto grande era la rabbia che stava provando. Aveva sfogato tutta la sua frustrazione su quel piccolo farabutto, tutto il suo tormento era venuto fuori alla vista di quell’orrore.
 
“NON LA DOVETE TOCCARE, BASTARDI! NON LA DOVETE TOCCARE!”.
 
Lo avevano imprigionato nella cella accanto, incatenandolo per i polsi e per le caviglie. Le guardie presenti avevano giurato di aver visto le pietre cedere sotto i suoi strattoni, ma quelle venute in seguito avevano asserito che fossero state lievemente sconnesse sin dal primo istante.
C’erano voluto ore per calmarsi, ma niente avrebbe placato definitivamente la sua ira.
Forse, aveva fatto una stronzata, mai come allora aveva tratto soddisfazione dall’aver preso a pugni qualcuno, ma come allora, le ombre si erano diradate nel suo cuore.
 
*
 
“Che noia! Possibile che siamo qui da ore e non abbiamo ancora visto niente? Comincio ad avere freddo, poi… Temo che siamo solo perdendo tempo!”.
 
Josuke era profondamente disturbato dall’idea di aver fatto un buco nell’acqua. Erano fuori da un’infinità di tempo e dell’ombra non vi era alcuna traccia. Possibile che i contadini fossero tutti impazziti e avessero raccontato un mucchio di fandonie?
Joruno aveva mantenuto la sua calma e la sua impassibilità: il loro era una sorta di esperimento, non potevano pretendere che riuscisse sin dal primo tentativo.
I piccoli Goten e Trunks non sembravano particolarmente stanchi o preoccupati, anche se l’entusiasmo iniziale si era affievolito anche in loro due, che cominciavano a essere veramente molto infreddoliti.
 
“Che dite, torniamo a casa, per stanotte?”.
“Sì, penso che tu abbia ragione, Joruno… Fa freddo, e non abbiamo visto niente di niente, nonostante abbiamo cercato ovunque… Vi va se ritentiamo un’altra volta?” – aveva detto Goten.
 
I due cugini si erano guardati, prima che Josuke prendesse la parola.
 
“Avete ragione… Andiamo a casa, su… Farò preparare thè e biscotti dalla domestica e dormiremo in salotto, accanto al fuoco. Ci vuole proprio per tirarsi su, non trovi Joruno? Joruno?”.
 
Suo cugino non aveva risposto, e questo non per mancanza di educazione, ma perché, a quanto sembrava, non si trovava più lì con loro.
 
“Joruno?! Ma dove ti sei cacciato?!”.
“Era qui un attimo fa! Era qui, no? Lo avete visto anche voi?”.
“Sì, Goten… Era qui… Non capisco come sia possibile che non ci siamo accorti che si sia incamminato!”.
“Perché non lo ha fatto!” – aveva urlato Josuke, puntando la fiaccola contro il terreno – “Guardate! Le orme di Joruno si fermano qui! Sembra che, che…”.
 
Nessuno di loro aveva avuto il coraggio di dirlo, ma dal punto in cui si trovavano le ultime impronte lasciate da Joruno partiva uno strano segno, come quello di un corpo che veniva trascinato e, poco più avanti, su quel solco era apparsa una grossa chiazza scura e densa.
I tre ragazzi erano rimasti lì, immobili, con il cuore in gola.
 
“Jo-Jojo?” – aveva sibilato appena Josuke, che si era messo davanti ai bambini per fare loro da scudo in caso di pericolo.
 
Nel silenzio, disturbato dai battiti incessanti del loro cuori in tumulto, i ragazzi avevano udito un rumore diverso, un rumore che non avrebbero saputo come descrivere.
 
“Trunks… Oddende…”.
“Goten… Promettimi che starai qui, ok?”.
“Perché? Che vuoi fare?”.
 
Approfittando del buio e della distrazione di Josuke, Trunks si era incamminato, strisciando con le spalle alla parete verso il punto da cui proveniva quel suono spaventoso.
L’orrore che si era palesato davanti ai suoi occhi di bambino nel momento in cui aveva svoltato l’angolo sarebbe stato qualcosa che non avrebbe mai più potuto dimenticare: un’ombra informe si stava bagnando con il sangue di Joruno.
 
*
 
Avevano salvato il ragazzo grazie alla prontezza di spirito di Goten e di Josuke.
Trunks, pietrificato da ciò che aveva visto e dal ricordo di quanto aveva subito nella baracca dietro casa, era andato in iperventilazione ed era caduto per terra, seduto, incapace persino di urlare e di chiedere aiuto.
Se non fosse stato per Josuke che era sopraggiunto e aveva scacciato via l’ombra con il chiarore della sua torcia, forse non sarebbero sopravvissuti.
Eppure, Trunks aveva avuto una strana sensazione, nel trovarsi di fronte a quello strano essere dalla forma umanoide: aveva avuto come l’impressione di sentire un rantolo, una voce in cerca di aiuto.
 
“Attento-a-lui”.
 
Joruno non avrebbe ricordato niente di quanto accaduto. Si era risvegliato poco dopo, aveva chiesto a Josuke perché piangeva in modo così sconveniente e aveva ripreso la conversazione esattamente da dove l’avevano lasciata.
Dell’ ombra non vi era più alcuna traccia, se non quella che aveva lasciato negli animi di Trunks, Goten e Josuke.
 
Continua…


Ragazze/i,
Eccomi qui!
Stranamente, più puntuale del solito!
Come procedono le vostre vite nonostante i divieti? Spero che stiate tutti bene! <3
Ordunque: Genio sta cercando di raggiungere il quaderno e porre fine alla storia iniziata quando era un ragazzo ingenuo.
 
Vegeta ha deciso di non restare a guardare e di trascorrere una notte al fresco. Bella mossa, nostro eroe! Ci saranno conseguenze? Lo scopriremo.
 
Ebbene, qualche attento lettore avrà notato immediatamente che ho preso in prestito due personaggi di un altro anime. Chi saranno mai i nostri fantasmagorici “cugini”? Araki, perdonami, ma dovevo farlo. Non mi sembra il caso di ridefinire come “crossover” la storia per questo motivo: non li vedremo spesso, hanno solo una piccola particina, ma mi faceva piacere citarli e plasmarli a mio piacimento (nel manga, Araki ce li presenta come due adolescenti, qui sono poco più grandi dei nostri piccoli mezzo-sangue).
 
Le ombre continuano ad apparire… Secondo voi, a questo punto, sono buone o cattive? Sono curiosa di sapere cosa ne pensate!
A presto!
Un bacino
Cleo

 

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Capitolo 48
*** Zitti e Buoni ***


Il capitolo contiene un linguaggio scurrile

Zitti e Buoni*

I ragazzi avevano avuto bisogno di un po’ di tempo per riprendersi da ciò che avevano vissuto, soprattutto il giovane Joruno, vittima ignara, suo malgrado, di quell’attacco non del tutto imprevedibile. Non si sarebbero perdonati presto per l’atteggiamento di totale leggerezza che avevano assunto. In cuor loro non pensavano di potersi realmente imbattere in qualcosa di veramente pericoloso – escluso Trunks, ovviamente – e ora non sapevano bene come affrontare e sperare di superare quello che gli era capitato.
Josuke non si era allontanato neppure per un breve attimo dal capezzale del cugino, e lo stesso avevano fatto Trunks e Goten.
Il ragazzo aveva messo a loro completa disposizione la sua camera da letto, chiedendo al personale di servizio di non disturbare se non per portare loro il cibo e le coperte richieste, pregandoli gentilmente di non svegliare i suoi genitori per non impensierirli inutilmente.
Joruno era freddo come il ghiaccio, nonostante non avesse mostrato alcun tipo di sintomo conseguente all’aggressione subita, tant’è che, poco dopo essere arrivati a casa si era profondamente addormentato, lasciando a Trunks, Josuke e Goten l’arduo compito di tirare le somme.
I due piccoli mezzo sangue in un’altra occasione avrebbero divorato senza far troppi complimenti quello che gli era stato offerto, ma avevano perso l’appetito. Era troppo sconvolgente quello a cui avevano assistito, e dire che Trunks e Goten ne avevano viste, di cose, in quello strano periodo.
Il figlio di Vegeta continuava a pensare non solo all’episodio appena vissuto, ma a quello che aveva sentito o creduto di sentire.
 
“Attento-a-lui”.
 
Forse, lo stordimento dovuto alla sorpresa gli aveva fatto avere delle allucinazioni uditive. Più concretamente, però era certo di aver sentito chiaramente una voce che aveva solo lontanamente qualcosa di umano. Continuava a chiedersi se anche gli altri l’avessero sentita, ma non sapeva dove trovare il coraggio per porre loro quel quesito che lo stava tormentando. Era così giunto alla conclusione che, se non avessero aperto loro l’argomento, lui non lo avrebbe fatto. Meglio non essere preso per pazzo!
 
“Che cosa credere che fosse… quel coso? Perché lo abbiamo visto, giusto?”.
 
La timida domanda di Goten sembrava aver scosso tutti da quella sorta di stato catatonico in cui erano piombati.
 
“Io l’ho visto eccome. Great! Questo vuol dire che non sono impazzito!”.
“No, macché impazzito… Lo hai visto anche tu, Trunks, no?”.
“Sì. L’ho visto”.
 
Secco, lapidario, identico a suo padre all’apice del suo cinico e disumano splendore.
Trunks sembrava essere tornato a essere il bambino taciturno delle settimane precedenti, e Goten non aveva potuto fare a meno di notarlo.
 
Great! Ma cosa poteva essere? E perché Joruno non ricorda niente? Non ha neppure un graffio… Non capisco… Ho anche paura a fargli delle domande, sinceramente. E se risvegliassi qualcosa che non dovrei? Se attirassi… Sì, avete capito… Lui?” – aveva detto, facendo un gesto che mimava la presenza di corna sulla testa.
“Oh, andiamo! Josuke, non penserai veramente che possa aver attratto il demonio o qualcosa del genere? Non lo pensi, vero?”.
 
Goten era interdetto. Veramente Josuke poteva pensare una cosa del genere del suo amato cugino? Perché era proprio quello che aveva lasciato intendere!
 
“No… Non lo penso… Ma quella cosa mi ha fatto veramente paura… Non so voi come possiate essere così calmi, sinceramente”.
“A dire il vero, non so come dovrei reagire… Tutto sembra così inverosimile… Pensavo fosse un gioco… Invece… Siamo stati fortunati, però, a cavarcela senza un graffio… O no? Trunks, tu che ne pensi?”.
 
Il saiyan mezzosangue dai capelli color lillà si era preso qualche momento per rispondere. Cosa pensava? Che fosse tutta opera del mostro nascosto nel quaderno. Possibile che non si riuscisse in nessun modo a prevedere cosa avesse in mente? Quale fosse il suo assurdo piano? La verità era che non si sentiva abbastanza intelligente per pensare di poter immaginare cosa stesse pensando quello strano essere incorporeo. Era più furbo di lui, era sempre un maledettissimo passo avanti. Come poteva fare per riuscire a capire quale fosse il suo reale scopo? Cominciava seriamente a pensare di aver completamente sbagliato a cercare in lui conforto, a cercare in lui una sorta di spiegazione.
 
“Ma come ho fatto ad arrivare fino a questo punto? Lui è un nemico… Non mi ha dato quello che volevo. Non ha dato a Goten quello che volevo per lui”.
 
Il suo più grande desiderio era quello di dargli un padre, e non uno qualsiasi, ma il suo, facendolo diventare suo fratello a tutti gli effetti. Adesso, invece di essere vicini, di essere ancora più legati perché diventati effettivamente una cosa sola con Vegeta, erano più lontani che mai, e non perché Goten avesse fatto qualcosa nello specifico, ma perché era stato lo stesso Trunks ad aver capito di aver sbagliato in ogni suo singolo gesto, in ogni singola parola spesa pro e contro quel bambino che aveva tanto a cuore.
 
“Trunks? Sei con noi?”:
“Eh? Sì… Sì, Josuke, sì… Sono qui… E non so se siamo stati fortunati o meno. So solo che non voglio più uscire di notte, anche se dovremmo tornare a casa, Goten… Papà è solo…”.
 
La voce triste del suo migliore amico gli aveva spezzato il cuore, riportandolo alla realtà e facendolo sentire in colpa verso l’uomo che tanto amava e rispettava. Era vero: Vegeta, era solo a casa, non aveva amici, non aveva nessun conoscente che potesse fargli compagnia, e saperlo solo in quella fredda casa, dopo quello che avevano vissuto, dopo lo spavento che avevano provato, gli aveva rabbuiato il cuore.
 
“Sì, è vero… Lo abbiamo lasciato solo… Siamo stati egoisti e… E cattivi”.
“Credo che tu abbia ragione… Torniamo a casa?”.
“Sì”.
 
Josuke li aveva presi entrambi per mano, fissandolo con quei suoi grandi occhi blu. Le pupille erano velate di lacrime, le mani sottili e candide tremavano, e persino la sua strana capigliatura aveva smesso di essere perfetta, simbolo del tumulto interiore che stava provando.
 
“Per favore, non allontanatevi. Non al buio, non dopo quello che abbiamo vissuto. Ho rischiato di perdere Joruno, stanotte, e il solo pensiero mi fa rabbrividire… Non riesco neanche a pensare cosa proverebbe vostro padre se vi perdesse. Non dategli un dispiacere. Si trova in casa, sta bene, ne sono sicuro. Restate qui, dove possiamo stare insieme e proteggerci a vicenda. Domattina presto andremo insieme a casa a salutarlo e poi andremo a scuola. Vi prego, non andate via… Non adesso, non stanotte, non da soli. È troppo pericoloso. Restate qui… Per piacere… Restate qui”.
 
I due piccoli saiyan si erano guardati per un breve attimo, ancora sorpresi da quel gesto così intimo e inaspettato, e Goten era certo di essere arrossito. Come dire di no a quel ragazzo così generoso che stava mostrando tanta preoccupazione nei loro riguardi? Si conoscevano da così poco, eppure Josuke provava un affetto così sincero e genuino da averli spiazzati.
 
“Va bene…”.
Great, Trunks!”.
 
Sì… Per Josuke poteva anche essere fantastico, great, e forse lo sarebbe stato, se fossero stati in un altro luogo, in un altro tempo, in un’altra vita.
 
*
 
Si erano svegliati di buon’ora, e avevano appreso da Josuke che suo cugino era sceso all’alba in giardino per curare le piante. Sembrava che l’evento spiacevole della sera prima non lo avesse minimamente sfiorato, come se non fosse mai avvenuto.
I domestici avevano preparato un’abbondante colazione, e i bambini avevano fatto bella figura prendendo posto in maniera impeccabile e adoperando ogni posata nel modo più corretto: gli insegnamenti di Bulma, alla fine, si erano rivelati utili. Per un attimo, avevano smesso di pensare alla loro misera condizione, avevano smesso di pensare a quanto logori e brutti fossero i loro vestiti ed erano tornati a essere due bambini felici che si godevano un momento di pace con i loro nuovi amici.
 
Josuke aveva mantenuto la promessa: lui e Joruno avevano accompagnato Trunks e Goten fino a casa, e per tutto il tempo non avevano fatto altro se non fare domande su Vegeta. I loro genitori non si erano visti a colazione, e per quello che avevano potuto intendere dai loro racconti, non li avrebbero visti per tutto il resto della giornata: erano troppo impegnati per trascorrere tempo accanto a due ragazzini come loro.
Forse, era per questo che Vegeta sembrava loro così interessante: un uomo che non solo andava a lavorare per sfamare i suoi figli, ma si occupava di loro in tutto e per tutto, senza mai lamentarsi, senza mai far pesare ai bambini la loro stessa esistenza.
Vegeta sembrava una sorta di eroe, di divinità leggendaria, agli occhi dei due cugini, e Goten non aveva nascosto un sorriso di orgoglio e di soddisfazione, perché non poteva non essere più d’accordo con quel pensiero espresso più tramite la mimica che le parole.
Su quegli stessi volti carichi d’entusiasmo, però, si era accesa una punta di delusione nel momento in cui, giunti presso la porta di casa, avevano constatato che Vegeta non fosse in casa.
 
“Papà? Papà? Ma dove sei?”.
 
Trunks era perplesso: era troppo presto affinché potesse pensare che fosse uscito per andare a lavoro, ma la cosa più curiosa era che sembrava che non avesse trascorso la notte in casa. Il letto era intonso e freddo, il cuscino era gonfio e fresco, nell’acquaio non vi erano piatti e le sul tavolo non c’erano i sacchetti con la loro merenda. Era come se Vegeta non fosse stato a casa, la notte scorsa, e se avesse avuto qualche conoscenza o qualche amico la cosa avrebbe potuto avere senso, ma considerando che così non era, dove poteva essere andato?
 
“Trunks… Che gli sarà capitato? Dove sarà, adesso? Non si allontana mai a quest’ora… È davvero troppo presto…”.
“Sì, lo so… Non so che fare… Non so se andare nei campi… Magari c’era un carico da consegnare in anticipo ed è dovuto uscire prima da casa con la scusa della nostra assenza… O magari è andato al mercato…”.
“Andiamo, non agitatevi: è inutile. Andiamo prima nei campi e se non dovesse essere lì andremo al mercato… Chi se ne importa se faremo tardi a scuola: è più importante sapere che fine ha fatto il vostro papà, no?”.
 
Goten e Trunks si erano guardati a lungo dopo aver sentito le parole di Joruno. Quel ragazzo era così sereno, pacato, sembrava essere in grado di dire sempre la cosa giusta al momento giusto.
 
“Allora che dire se ci dividessimo? Io e Trunks potremmo cercare nei campi, mentre Goten e Josuke potrebbero andare al mercato. In questo modo non perderemo tempo e potremo tranquillizzarci. Sono certo che sia tutto a posto, ma se vi fa sentire più tranquilli, è meglio andare a controllare”.
 
Dissentire sarebbe stato controproducente, oltre che da perfetti sciocchi, per questo avevano accettato immediatamente, uscendo da casa contemporaneamente per poi dividersi subito dopo aver superato il cancello.
 
*
 
Trunks e Joruno non avevano pronunciato neppure una parola lungo il tragitto che li aveva condotti nei campi dove lavorava da diversi mesi il principe dei saiyan. Era stato a dir poco inutile fare domande alle poche persone che si erano radunate lì per il lavoro: nessuna di loro aveva rapporti con Vegeta, dunque nessuna di loro poteva sapere dove potesse trovarsi, e questo non aveva fatto altro se non peggiorare l’ansia provata da Trunks. Che fine aveva fatto il suo papà?
Erano andati via poco dopo, delusi, troppo in fretta per poter ascoltare i racconti dei braccianti, per ascoltare le loro perplessità: perché mai, a quell’ora del mattino, non vi era ancora traccia di Leon il capomastro?
 
Non era andata meglio a Goten e Josuke, giunti in piazza mentre i mercanti allestivano le loro bancarelle. Era impossibile che avessero visto Vegeta, e i pochi a cui avevano chiesto non avevano fatto altro se non confermare quel sospetto. Dove avrebbero potuto cercare, allora?
Trunks sperava che Goten avesse buone notizie e viceversa, ma una volta giunti nel luogo in cui si erano dati appuntamento, era bastato guardarsi negli occhi per capire che non ci fosse nessuna novità.
 
“Francamente, inizio ad avere paura… Non vorrei che anche lui fosse sparito come gli altri”.
 
Goten lo aveva detto ad alta voce, incurante della presenza di Joruno e Josuke. Trunks non aveva avuto il coraggio di dare voce a quel pensiero così spaventoso, e aveva provato un moto di risentimento verso Goten, capace di pronunciare quelle parole come se non avessero avuto alcun peso. Una forte sensazione di oppressione all’altezza del petto lo aveva assalito, impedendogli di respirare. Non poteva aver perso anche suo padre, non poteva e basta!
 
“Trunks… Stai bene?”.
 
Aveva avuto bisogno di qualche istante prima di poter rispondere a Joruno, per permettere all’aria di tornare a circolare correttamente nei polmoni e alle sue cellule di ossigenarsi.
 
“Sì… Sto bene… È solo che… Che…”.
 
Le parole gli erano morte di nuovo in gola. Stava per esplodere. Non era più in grado di mostrarsi forte, di tentare di essere ottimista: voleva sapere che fine avesse fatto suo padre, voleva sapere dov’era ciò che restava della sua famiglia.
 
“Avete sentito di quello che stanotte si è fatto sbattere in cella per quella pollastra che devono ammazzare? Che idiota! Solo un contadino solo con due figli poteva fare una cazzata del genere! Ah! Poveri bambini! Non vorrei essere nei loro panni quando scopriranno che razza di violento hanno come padre”.
 
Ancora una volta, era stata una voce di paese ad accendere la scintilla che aveva tramutato coloro che si trovavano lì per caso in coloro che si trovavano al posto giusto al momento giusto.
 
“Trunks. Goten… Non penso assolutamente che il vostro papà sia violento, ma che dite se facciamo un tentativo? La prigione è qui dietro… Alla fine, non abbiamo niente da perdere, se non un giorno di scuola”.
 
*
 
Avevano colto al volto il suggerimento di Josuke, dirigendosi a grandi passi verso quel luogo spaventoso dall’aspetto lugubre e grave. Quell’orribile costruzione li aveva fatti sentire molto più piccoli di quanto fossero in realtà, ma non avevano perso il coraggio, né la voglia di scoprire la verità. Se Vegeta fosse stato veramente lì, avrebbero fatto tutto quello che era in loto potere per tirarlo fuori. Pensiero un po’ sciocco data la tenera età di chi lo aveva formulato, ma perfettamente in linea con lo spirito saiyan che animava Trunks e Goten.
 
Josuke e Joruno avevano insistito per accompagnarli oltre la soglia di quel posto fatto di dolore e sofferenza. Nonostante fossero poco più grandi di loro, si sentivano responsabili, e non volevano per nessuna ragione al mondo lasciarli da soli.
Quando la guardia di turno aveva visto quattro ragazzini andargli incontro, aveva creduto di avere le traveggole, ma quando aveva sentito il più piccolo, un mocciosetto con dei buffi capelli palmati, chiedergli se avessero arrestato un uomo di nome Vegeta, aveva dovuto dissentire: quella mattina ne avrebbe viste delle belle.
 
*
 
Aveva trascorso il resto della notte in catene, nei sotterranei, a tre piani di distanza dalla cella in cui avevano imprigionato Marilyn. L’occhio desto era gonfio a causa del pestaggio subito, e le nocche sbucciate di entrambe le mani continuavano a pulsare e dolere, ma avrebbe sopportato anche di peggio data la soddisfazione provata nell’aver trattato quel bastardo come un sacco da boxe. La soddisfazione era stata doppia quando si era accorto che il bastardo in questione fosse Leon: si era sfogato su di lui per tutto quello che gli aveva fatto subire durante il lavoro nei campi. Lo aveva preso di mira sin dal primo momento, il verme schifoso, e lo aveva fatto senza motivo. Vegeta aveva giurato a se stesso che prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare per tutti i soprusi che aveva subito a causa sua. Il destino aveva voluto che lo stesso maiale che si era accanito su di lui si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato (o nel posto giusto al momento giusto) e avesse avuto quello che si meritava. Finalmente gli aveva levato quel sorriso maligno sempre presente su quella faccia da schiaffi che si ritrovava. Poco gli importava di aver trascorso la notte al fresco: i ragazzi erano a casa di amici, non si sarebbero neppure accorti della sua assenza.
Vegeta sperava solo che lo liberassero prima del loro ritorno a casa: a nessuno importava di una condannata, del resto, ed era certo che l’unica conseguenza di quel suo impeto da eroe sarebbe stata l’aver perso il lavoro. Quello era un problema non indifferente, ma ormai ciò che era fatto era fatto, era inutile piangere sul latte versato.
Se pensava a quella scena orribile, il sangue ricominciava a bollirgli come il magma terrestre.
 
“Tsk! Hai avuto quello che ti meritavi, lurido stronzo!”.
 
Il problema era che la sua resistenza non era più quella di un tempo, e dopo più di sei ore in piedi, in catene, con le braccia alzate, il dolore ai polsi e alle spalle era diventato così acuto da fargli venire la nausea.
 
“TSK! EHI! GUARDIA! GUARDIA, PARLO CON TE! QUANDO FINISCE QUESTA FARSA? DEVO ANDARE A CASA! GUARDIA! PARLO CON TE!”.
 
Sapeva perfettamente che quell’atteggiamento non avrebbe condotto a nulla, ma stava perdendo la pazienza: non avrebbe resistito un minuto di più in quel postaccio.
 
“TSK! LASCIATEMI ANDARE!”.
 
Proprio mentre tentava di strattonare le pesanti catene che lo imprigionavano, un rumore di passi aveva attirato la sua attenzione: era certo che qualcuno si stesse dirigendo verso la sua direzione, che finalmente qualcuno si fosse deciso a liberarlo?
 
“TSK! ERA ORA! BRUTTI PEZZI DI…”.
 
Le parole gli erano morte in gola nel momento in cui si era ritrovato davanti Trunks e Goten accompagnati da due ragazzini mai visti prima di allora e da una delle guardie a cui aveva fatto saltare tre denti.
Aveva provato un misto tra vergogna e panico nel vedere l’espressione di sgomento dipinta sui volti dei suoi figli. Tentare di decodificare quegli occhi smarriti era stato impossibile, così come tentare di mantenere un certo decoro.
 
“Hai visite” – aveva tagliato corto la guardia – “Non so ancora quando potrai uscire”.
 
Il suo tono frettoloso e il terrore nei suoi occhi erano la conseguenza di quello che aveva patito la notte precedente. Mai, nella sua carriera da militare, si era imbattuto in una bestia selvaggia come quella. Sperava di non avere mai più a che fare con un tipo del genere, una bestia indomabile che li aveva atterrati uno a uno come una palla avrebbe fatto con dei birilli. Perché, poi, una palla avrebbe dovuto buttare giù dei birilli? Di preciso, la guardia non lo sapeva, ma davanti ai suoi occhi si era palesata un’immagine precisa: quella di una lunga pista di legno lucido con in fondo dei birilli bianchi messi in piedi in una posizione ben precisa, e una palla, pesante e colorata, che correva veloce verso di loro con l’idea di atterrarli tutti.
 
“La botta in testa deve avermi giocato un brutto scherzo”.
 
Sì, forse gli aveva giocato un brutto scherzo. O forse no.
 
“Avete dieci minuti” – aveva sentenziato, indietreggiando. Che se la sbrigassero i marmocchi che aveva generato con chissà quante donne diverse, considerando il fatto che solo uno – quello coi capelli lilla – sembrava somigliare a lui.
 
Una volta rimasti soli, capire chi avrebbe dovuto rompere il ghiaccio e dire addio allo stallo sembrava più facile a dirsi che a farsi.
Vegeta non aveva smesso di osservarli con quei suoi pozzi neri neppure per un istante. Sembrava che avesse persino dimenticato di sbattere le ciglia, tanto era concentrato. Quel suo atteggiamento autoritario aveva fatto indietreggiare Josuke e Joruno, ma non Trunks e Goten, che erano abituati a quel suo modo di fare.
 
“Tsk! Avete intenzione di dire qualcosa o volete starvene lì impalati per sempre?”.
 
Imperioso, altezzoso, il solito Vegeta. Trunks aveva scosso impercettibilmente il capo prima di aprire bocca e dire qualcosa.
 
“Eravamo in pensiero… Che cosa ti è successo?”.
“Avevo caldo e ho deciso di trascorrere una notte al fresco”.
 
La battuta che aveva fatto non aveva sortito l’effetto sperato: non era riuscito a sdrammatizzare e sorvolare su quella situazione inverosimilmente scomoda.
 
“Loro due chi sono?”.
 
Magari, in quel modo poteva provare a distogliere l’attenzione dai suoi polsi e dal suo occhio nero.
 
“Io mi chiamo Josuke, signor Vegeta, e lui è mio cugino Joruno. Ci siamo permessi di accompagnare Trunks e Goten… Hanno trascorso la notte a casa mia e non volevo che tornassero a casa da soli”.
“Qualcuno che ragiona c’è, allora. Buono a sapersi”.
“Papà, per favore… Non fare così. Cosa ti è successo? Tra poco ti lasciano andare, vero?”.
“Sì, ora chiamo la guardia e gli dico di lasciarti andare, così torniamo a casa e mettiamo qualcosa su quell’occhio e sui polsi. Devono farti tanto male e…”.
“Frenate, ragazzi. Sono io che penso a voi, non il contrario. Diciamo che i miei pugni hanno avuto un incontro ravvicinato con uno che ha fatto la cosa sbagliata al momento sbagliato, e queste sono le conseguenze. Non so quando mi faranno uscire e non penso che sia il caso di farne un dramma. Non possono trattenermi in eterno. Voi andate e non preoccupatevi. A proposito, non dovreste essere già a scuola? Anche voi due: filate a scuola! Tsk! Che pessimo esempio state dando a chi è più giovane di voi!”.
 
Quello era sicuramente il discorso più lungo che i bambini avevano sentito pronunciare da Vegeta, ma quel suo tentativo di distrarli stordendoli di parole era stato vano. Come poteva pretendere che andassero a scuola come se niente fosse? Come se lui non si trovasse in carcere, incatenato, senza sapere quando sarebbe uscito?
 
“Io non ti lascio qui!” – aveva urlato Goten, afferrando le sbarre con le entrambe le mani – “Stai male, sei ferito, non ti lascio!”.
 
In situazioni come quelle, gli occhi del piccolo Son si sarebbero riempiti di calde lacrime salate, ma quella volta, dalle pupille nere come le notte, saettavano fiamme indomabili.
 
“Tu vieni via con noi! Non possono tenerti qui! Non possono e basta! GUARDIA! GUARDIA!!”.
 
Trunks era interdetto: cosa aveva in mente Goten? Era impazzito, forse? Che cosa voleva dimostrare urlando in quel modo? Di avere un qualche potere decisionale? Doveva aver preso una bella botta in testa senza che se ne fosse accorto.
 
“Goten, potremo cacciarci in qualche guaio… Josuke, Joruno, diteglielo anche voi…”.
“Sì, in effetti…”.
“No, ragazzi, no! Joruno, non mettertici anche tu! Vege-papà non resta qui, va bene? Papà viene a casa con noi! SUBITO!”.
 
Se ci fosse stato un fotografo, mai momento sarebbe stato migliore di quello per immortalare l’espressione dell’ex-cinico principe dei saiyan: stupore, orgoglio, ma anche affetto e paura. Mai, prima di allora, il ragazzo si era appellato a lui con quel titolo. Mai. Era davvero così che lo vedeva? Era davvero quello per lui?
 
“Goten… Dovete andare a casa. Adesso. Non tollererò altre sfuriate. Ci vedremo appena possibile. Starò bene. Sono di un’altra razza, io… O forse lo avete dimenticato?”.
 
No, non lo avevano dimenticato. Ma lasciarlo lì faceva veramente un male cane.
 
*
 
“Quel bastardo… Quel farabutto… Quel verme! Guarda cosa ha fatto al mio bellissimo viso! Guarda come mi ha ridotto!”.
 
Leon non aveva fatto altro che lamentarsi per tutto il tempo con la donna che aveva accettato di vivere con lui. La poveretta, una giovane di poco più di vent’anni, aveva trascorso l’intera nottata a vegliare il malcapitato, cercando di alleviarne le sofferenze.
Era arrivata alla conclusione che chi lo aveva ridotto in quello stato fosse alto almeno due metri e pesasse almeno centocinquanta chili, perché nessuno dalle dimensioni comuni avrebbe potuto ridurre una persona in quello stato.
Dal canto suo, Leon non aveva fatto altro se non trattarla male e lamentarsi delle ferite e della brutalità messe in atto dal bastardo che presto l’avrebbe pagata.
La donna continuava a pensare che solo una squadra di uomini addestrati avrebbe potuto dare una lezione al presunto energumeno, e sperava davvero che Leon non scendesse in campo in prima persona.
Arrivati alle prime luci dell’alba, era stravolta, stanca di accudirlo, spaventata nel non sapere cosa avrebbe riservato il futuro. Da quando ne aveva memoria, si era sempre presa cura di qualcuno, ma mai prima di allora aveva avvertito una tale spossatezza, mai prima di allora, aveva avuto così tanta paura per se stessa e per chi la proteggeva dai soprusi degli animali che popolavano quel posto. Era abituata a starsene zitta e buona, lei, aveva imparato a non emergere per non avere problemi. Non voleva finire come una di quelle donne che venivano accusate di essere seguaci del demonio. Non voleva di certo finire sul rogo. Per questo motivo, quando si era recata in cucina per prendere dell’acqua e aveva visto quell’ombra sinistra prendere forma sulla parete e fissarla con i suoi occhi gialli, aveva fatto finta di niente, chiudendo gli occhi sino ad aspettare che sparisse.
 
“Ehi! Donnetta! Portami dell’acqua! SUBITO! Sto male, io!”.
 
Sarebbe stato meglio portargli immediatamente quello che voleva, piuttosto che farsi chiamare un’altra volta.
Del resto, era quello che si era ripromessa di fare: starsene zitta e buona.
 
*
 
Erano trascorsi quattro giorni da quando Vegeta era stato arrestato e imprigionato, e i bambini non avevano fatto altro se non fare la spola tra il carcere e la loro casa, insolitamente vuota e silenziosa.
Non si erano scambiati una parola da quando erano rientrati. Josuke e Joruno avevano tentato di convincerli a trasferirsi per un po’ di tempo a casa loro, ma non ne avevano voluto sapere: se Vegeta fosse uscito, avrebbe dovuto trovarli a casa, avrebbe dovuto sapere che erano rimasti lì ad aspettarlo, e che avevano fatto i bravi, svolgendo le faccende e andando a scuola, per renderlo orgoglioso e fiero, per prendere esempio dal suo carattere forte e indomabile.
Goten aveva deciso di dormire sul letto di Vegeta e Trunks non si era opposto. Aveva sentito più volte il bambino lamentarsi e rigirarsi nel sonno, finché non lo aveva visto scendere dal loro letto e prendere pace solo dopo essere sparito sotto le coperte del letto di suo padre, impregnate ancora del suo odore.
Non si era ingelosito, ma aveva deciso di non seguirlo, lasciandogli lo spazio che gli occorreva per ritrovare un briciolo di fiducia e di forza per andare avanti.
Da quando aveva vissuto la disavventura nel capanno e aveva assistito all’episodio con Joruno, Trunks non aveva avuto pace: il desiderio di riprendere in mano l’oggetto maledetto era aumentato, e sapere che suo padre fosse in catene era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e, alla fine, aveva ceduto.
Quella notte, non si era neppure premunito di nascondersi per sfogliare le pagine che tanta apprensione gli avevano causato nell’ultimo periodo. Quella volta, però, era stato diverso: quella volta, non aveva avuto bisogno di scrivere qualcosa per ottenere una risposta, perché l’inchiostro era comparso da solo, vivido e chiaro più che mai.
 
SEI TORNATO.
RICORDA.
ALLA FINE,
TORNERAI
SEMPRE.
 
Aveva osservato ciò che aveva preso vita sul foglio con il fiato sospeso. Lui sapeva, ormai ne era certo. Sapeva, e non aveva fatto altro che prendersi gioco di lui. Trunks, ormai, non aveva più dubbi: doveva disfarsi di quel quaderno maledetto, doveva riportarlo nel luogo da dove lo aveva tirato fuori. Ma come poteva farlo?
Per la prima volta dopo tanto tempo, il bambino con i capelli color lillà si era inginocchiato e aveva cominciato a pregare gli dei: sperava che loro potessero infondergli il coraggio che forse non aveva mai avuto. Poi, era uscito, dicendo a Goten di avere qualcosa di importante da fare.
 
*
 
Lo avevano spostato di cella, l’ultima notte, svegliandolo con una secchiata d’acqua gelida. Non beveva né mangiava da giorni, e puzzava di sudore e della sua stessa urina, essendo stato costretto a svuotare la vescica nei pantaloni. Grazie agli dei, non aveva avuto altri bisogni corporali, ma ormai si era convinto che non avrebbe più recuperato l’uso delle braccia, ancora sollevate dalle pesanti catene che lo inchiodavano alla parete.
Quando lo avevano tirato giù, era caduto a peso morto, neanche fosse stato un sacco di patate. Non aveva neanche provato a proteggersi il viso con le mani, e aveva preso una bella botta sul naso. Sperava davvero di non aver riportato l’ennesima ferita, perché ne aveva veramente abbastanza di quegli stronzi e di quel posto di merda. Non si era pentito di quello che aveva fatto, ma non aveva neanche intenzione di prolungare quella farsa per le lunghe: non avevano motivo per trattenerlo così a lungo senza un processo, ed era certo che quell’imbecille del capomastro non avesse avuto gli attributi per metterselo contro. Certo, si attendeva qualche ripercussione – prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, ne era certo – ma, più che altro, lo preoccupavano le conseguenze dell’aggressione alle guardie. Non sapeva quante ne avesse colpite, preso dalla furia del momento, ma temeva per il suo destino.
 
“Alzati” – gli era stato comunicato a debita distanza – “E tieni in vista le mani. Se fai qualche scherzo, ti ammazzo”.
“Tsk. Paura, eh?”.
 
Cercava di fare lo spavaldo, non perché avesse timore di loro, ma perché sospettava di averli in pugno e aveva tutte le buone intenzioni di mantenere la sua supremazia. Certo: lo avevano arrestato, avrebbero potuto condannarlo a scontare una pena molto più lunga, considerando in quel posto non facevano sconti a nessuno, ma avrebbero anche potuto pensare che sarebbe stato meglio lasciarlo andare e avere una rogna in meno, no?
Stava di fatto che Vegeta aveva ubbidito e lo aveva seguito senza fare storie. Lo aveva condotto lungo il corridoio buio e tetro, ma aveva fatto in modo di non farlo passare davanti alla cella di Marilyn. Che il suo atteggiamento avesse potuto metterla in pericolo era una cosa a cui aveva pensato costantemente, in quei giorni, ma quel pensiero non lo aveva fatto pentire per niente, anzi! Lo avrebbe sicuramente rifatto senza alcuna esitazione!
 
“Aspetta qui” – gli aveva detto, chiudendosi una porta alle spalle – “Presto torneremo”.
 
Quella minaccia non troppo velata pronunciata una volta che la porta era stata serrata non era piaciuta affatto al principe dei saiyan che, poco dopo, si era ritrovato completamente al buio. Tutti e cinque i sensi erano in allarme, ma il fatto di essere stato ammanettato, di essere stremato e ferito non giocava a suo favore. L’adrenalina non gli scorreva più in corpo come prima, e questo era l’ennesimo svantaggio. Ma cosa potevano fare? Provare a ucciderlo e occultare il suo cadavere? Sul serio sarebbero potuti arrivare a tanto?
Forse, in quel momento, per la prima volta, aveva preso forma nella sua mente il pensiero di non poter uscire mai più da lì e di aver abbandonato i ragazzi al loro destino a causa del colpo di testa che aveva avuto.
 
Nonostante l’attenzione del principe fosse alle stelle, non era stato in grado di rendersi conto da che punto fosse arrivato il colpo finché non aveva sentito un dolore terribile all’altezza del fianco destro. Dovevano averlo preso a sprangate o qualcosa del genere, perché era certo di aver sentito le costole frantumarsi. Era caduto in ginocchio, spuntando sangue, cercando di non gridare, ma questo non era stato abbastanza per chi, da vigliacco, lo stava attaccando in gruppo da diverse angolazioni. Pugni, calci, frustate, un calore esasperante che gli scioglieva la pelle, un dolore nuovo che subentrava a quello causato pochissimi istanti prima, era ciò a cui era stato condannato Vegeta per aver difeso quella donna maltrattata.
Si rendeva conto solo in brevissimi attimi di lucidità di aver sentito gli uomini deriderlo, sputargli addosso, offenderlo, perché troppa era la sofferenza che gli stavano causando.
Se avesse avuto i suoi poteri, li avrebbe inceneriti con la sola intensificazione dell’aura. Se fosse stato ancora un saiyan, li avrebbe scuoiati vivi uno a uno e poi li avrebbe strangolati con la loro stessa pelle, decapitandoli e spargendo le loro budella al vento. Ma lui non era un saiyan. Non più. Era un uomo, ferito, solo, che nonostante fosse per la prima volta in vita sua nel giusto, si era ritrovato a scontare quella pena atroce.
I ricordi avevano continuato a sovrapporsi e a confondersi fino a quando non si era svegliato da solo, al buio, incapace di capire dove si trovasse. Credeva di essere sul punto di morire, anzi, sapeva di esserlo.
Ma i carnefici non erano contenti del loro operato, evidentemente: noncuranti di mostrare il volto – come avrebbe mai potuto scorgerli con gli occhi tumefatti? – lo avevano preso di peso e condotto all’aperto.
Vegeta si era imposto di non emettere un suono, nonostante il dolore lo stesse facendo impazzire: non voleva dargli quella soddisfazione.
Il calore del sole sembrava averlo per un attimo rasserenato, ma era stata un’illusione vana, la sua, perché i suoni, i rumori, gli odori, erano un ammasso confuso e indistricabile che preannunciava morte. Solo che non stava annunciando la sua.
Lo avevano lasciato cadere sul lastricato di pietra, causandogli ulteriore sofferenza. Solo a quel punto, stravolto, aveva provato a capire dove si trovasse, scorgendo, con quel poco di vista che gli restava, i sanpietrini che formavano la pavimentazione della piazza.
 
“Guarda, se ce la fai, bastardo. Guardala”.
 
Le orecchie sanguinavano, ma l’udito gli aveva ancora permesso di sentire perfettamente la voce e riconoscerla. Il bastardo figlio di puttana che lo teneva per i capelli era lo stesso che aveva mandato al tappeto qualche notte addietro. Si era già ristabilito? Ma com’era possibile? Non gliele aveva suonate abbastanza forte, allora?
 
“Allora? Guardi?”.
 
A fatica, Vegeta aveva aperto l’occhio sinistro, quello conciato meno male, e aveva messo a fuoco ciò che gli si parava davanti, inorridendo.
 
“Ba-bastardi!”.
 
Avevano allestito il peggiore degli scenari, decidendo di mettere in atto il più atroce dei crimini: giustiziare una innocente.
La pira era lì, pronta, e Marilyn era stata trascinata dal boia sulla sommità della catasta di legna, pronta per essere legata al palo e arsa viva.
Le persone erano lì attorno, mute, in attesa di prendere parte da spettatori inermi a quel macabro spettacolo di morte. Ora, Vegeta ne aveva avuto la conferma: la sua bravata non aveva fatto altro se non accelerare la sua morte, se non condannarla definitivamente.
 
“Siete dei pezzi di merda!”.
 
Aveva trovato la forza di urlarlo, il principe, ma era servito a poco. La vedeva in maniera confusa, offuscata, mentre veniva condotta tra le braccia della morte. Sentiva sul collo il fiato di quell’essere, la sua mano che lo costringeva a tenere alta la testa mentre lo schiacciava sui sanpietrini con il ginocchio.
 
“E ringrazia che non ho deciso di vendicarmi sui tuoi figli”.
 
Vegeta aveva assistito all’esecuzione in trance: il suo cervello si era spento nell’attimo in cui avevano dato fuoco alla pira. Più in là, aveva pensato di averla vista andare incontro alla morte sorridendo. Ma quello poteva essere stato solo un sogno.
 
“Guardala! Guardala come brucia! E pensaci! Sarebbe stato meglio se fossi stato zitto e buono”.
 
Continua…

 
Carissime/i,
Eccomi di nuovo qui, ancora una volta in ritardo ma con un capitolo ricco di avvenimenti.
Non voglio dilungarmi eccessivamente nelle note, ma vorrei ringraziare chi ha la pazienza di seguirmi nonostante sia trascorso tutto questo tempo. <3
Siete unici!
Dunque: Vegeta si trova in un brutto, bruttissimo pasticcio! E questo per aver provato a fare una buona azione. Ora, sia chiaro: io sono contro ogni tipo di violenza. Per questo, ci tengo a sottolineare che il comportamento del principe non è il alcun modo giustificabile.
Trunks ha deciso di disfarsi del quaderno. Ma come? E perché la “donnetta” a casa di Leon ha visto l’ombra e Leon si è ripreso magicamente?
Prima o poi lo scoprirete!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

*Il titolo è un chiaro riferimento alla canzone dei Maneskin

 

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Capitolo 49
*** Ambasciator non porta pena? ***


Ambasciator non porta pena?

Trunks e Goten avevano supplicato le guardie di far vedere loro Vegeta, ma non c’era stato modo per i bambini di poterlo fare.
Dopo il pestaggio subito e dopo essere stato costretto ad assistere alla tremenda esecuzione della donna che lo aveva salvato, Vegeta era stato riportato nella sua cella, in fin di vita, abbandonato completamente a se stesso.
Goten aveva provato a essere gentile, Trunks aveva mostrato una maggiore decisione, ma non c’era stato verso: nessuno aveva voluto dirgli quale sorte fosse toccata al principe dei saiyan, né il perché si rifiutassero di farglielo vedere. Amareggiati e stanchi, dopo un intera giornata di suppliche, dopo aver visto fallire anche Joruno e Josuke che avevano provato a fare pressione grazie al nome altisonante dei genitori, i bambini erano tornati a casa con la coda tra le gambe, sfiniti, con il cuore rabbuiato e un avvilente senso di sconfitta.
Quello che non avrebbero mai potuto sapere era che dietro quel rifiuto così netto da parte delle guardie non c’era stato un ordine impartito da un giudice o da un loro superiore, ma un misterioso accordo stipulato con qualcuno che aveva fatto loro la promessa di una forza e un vigore che avrebbe fatto tremare qualsiasi altro essere presente sulla faccia della Terra.
Se fosse stata una donna, a fare una simile proposta, state pur certi che si sarebbe trovata a bruciare sul rogo senza possibilità di appello. Ma quelle parole così seducenti non erano uscite dalla bocca di un membro appartenente al gentil sesso, bensì da quelle di un uomo, e non di un uomo qualsiasi, ma di colui che si era miracolosamente ripreso dall’aggressione messa in atto proprio dal poveraccio che se ne stava accovacciato sul pavimento della lurida cella dei sotterranei.
Le cose erano cambiate in maniera sorprendentemente piacevole, per quell’uomo apparentemente così insignificante e debole. Leon aveva detto alle guardie di essere miracolosamente guarito grazie all’intercessione di una creatura divina che aveva avuto pietà di lui, uomo giusto che aveva dovuto subire la violenza di quel pazzo sicuramente guidato da qualche spirito maligno.
Vegeta non ne aveva idea, ma Leon si era goduto la scena del suo pestaggio da spettatore nascosto nell’ombra. In un primo momento, avrebbe voluto partecipare, ma poi aveva scoperto di provare un piacere maggiore nell’osservare tutto da lontano, comodamente seduto con le gambe accavallate mentre beveva un bicchiere di vino sottratto dall’otre che aveva donato alle guardie sue complici.
Era stato splendido: il bastardo che aveva puntato sin dal suo primo giorno di lavoro non aveva neanche provato a difendersi. Era stato estremamente divertente vedere il processo che lo aveva condotto a togliersi dalla faccia quel sorriso impertinente: da spavaldo e spocchioso, era diventato più disgustoso e insignificante di a una larva. E quale gioia aveva provato nel vedere la sua espressione durante l’esecuzione della donnetta per cui era finito in quella situazione! Era stato tutto stupendo! Mai, prima di allora, si era sentito così forte, così sicuro di sé! E dire che, fisicamente, in lui non c’era niente di diverso. Il cambiamento era avvenuto dentro di sé, ed era stato doloroso, seppur rapido, ma ne era valsa sicuramente la pena. Ancora non si era dato una vera e propria spiegazione, ma quello che aveva ottenuto era stato abbastanza da fargli accettare l’idea che non potesse trattarsi di una cosa negativa. Lui era deciso, ora, sicuro di sé, e si sentiva molto più forte adesso rispetto a quando sferzava la sua frusta sulle schiene di quei patetici pezzenti che si spezzavano le ossa per la fatica di lavorare nei campi.
Adesso che aveva testato la fedeltà delle guardie, non restava che dare loro ciò che aveva promesso, e non vedeva l’ora di cominciare a farlo.
 
*
 
Trunks non riusciva a prendere pace. Da quando aveva deciso di provare a disfarsi del quaderno le cose non aveva fatto altro se non precipitare.
Il bambino non aveva messo in atto un piano preciso: aveva deciso di non sfogliare mai più quell’oggetto maledetto e aveva provato a ripensare con esattezza a tutto quello che aveva fatto per aprire quella sorta di portale che lo aveva condotto nella strana caverna delle meraviglie. Dopo una lunga serie di tribolazioni, però, era arrivato alla conclusione che non fosse capace di riaprirlo perché non poteva verificarsi una condizione simile a quella che aveva vissuto in quel preciso istante. Niente sfere sottratte, niente Junior, niente cuore spezzato. O meglio, il cuore infranto c’era eccome, ma non era sufficiente a riaprire quel passaggio in cui avrebbe volentieri gettato quell’abominio.
Si era spremuto le meningi il più possibile per cercare di trovare una soluzione rapida e facilmente applicabile, ma non c’era riuscito, e questo aveva fatto precipitare il ragazzino in una sensazione di sconforto talmente forte da portarlo a credere che, quella volta, non ci sarebbe stata via d’uscita.
Si sentiva solo, Trunks, solo e abbandonato da tutti, e l’ultimo colpo subito dopo l’arresto di suo padre era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Era perfettamente consapevole di avere Goten al suo fianco, sapeva che il suo fratellino acquisito sarebbe stato perfettamente in grado di dargli una parola di conforto, una spalla su cui piangere, che non lo avrebbe lasciato da solo, ma lui proprio non riusciva a pensare di coinvolgerlo in quella situazione che aveva creato, e questo non aveva fatto altro se non portarlo a isolarsi ulteriormente, ad alienarsi da quella realtà così crudele.
La tentazione di aprire il quaderno e sfogliarne le pagine era stata immensa, ma per la prima volta la sua forza di volontà aveva avuto la meglio, e la battaglia contro quel diavolo tentatore l’aveva vinta lui.
Si era deciso a non volerlo più tenere in casa. Si rifiutava di tenere ancora quel coso maledetto sotto il suo letto, si rifiutava di esporre Goten, suo padre – quando sarebbe tornato – Josuke o Joruno all’influsso maligno di quell’immondo oggetto. Era stato uno stupido a non porsi le giuste domande, prima di confidargli i suoi più intimi segreti. Non era stato un caso se si fosse trovato al posto sbagliato al momento sbagliato, se fosse capitato proprio a lui di rintracciarlo e portarlo via da lì. Aveva sempre ricacciato indietro quel pensiero, ma era stato ugualmente sciocco nel pensare di essere stato fortunato come Aladino e aver trovato la lampada magica che, dopo essere stata sfegata, liberava un Genio capace di esaudire tre desideri.
Quel coso non aveva esaudito i suoi desideri, anzi: li aveva manipolati, facendogli credere di avergli dato tutto quello in cui aveva sperato, di averlo reso felice quando la verità era che non era felice, non era felice per niente.
 
“Mi manca la mia mamma. Mi mancano nonno e nonna. Mi mancano zia Chichi e Gohan. Mi manca la mia casa, la mia scuola, i miei giochi. Mi mancano gli allenamenti con papà. Mi manca la mia vita prima. Volevo che Goten diventasse a tutti gli effetti mio fratello, volevo che fossimo una vera famiglia, ma non volevo portargli via tutto per dargli solo me e papà. Non volevo sottrargli i suoi affetti per donargli solo il nostro. Non volevo… Ho rovinato ogni cosa. E adesso, forse, non sono più capace di amare”.
 
Erano state parole dure quello che avevano preso forma nella mente del bambino, ma non c’era scampo. Prendere coscienza di ciò che aveva fatto era stato il primo passo per provare a liberarsi di quel peso che lo schiacciava, ma saperlo non aveva fatto altro che farlo sentire peggio.
 
Alla fine, il bambino aveva scavato una buca a mani nude: aveva camminato tanto prima di scegliere il posto più adatto, un posto che conosceva solo lui e che sarebbe stato facile da riconoscere e raggiungere. Il luogo prescelto era stato uno spiazzo accanto fiume dove crescevano i narcisi gialli. Con estrema attenzione, evitando con cura insetti velenosi e pericoli vari ed eventuali, aveva scavato con le mani, rompendosi le fragili unghie e ferendosi con i piccoli sassolini nascosti nel terreno. Il lavoro era durato parecchi minuti, ma non era stato faticoso. Al contrario, aveva fatto fatica nel lasciar andare quell’oggetto maledetto, nel restituirlo alla terra, in un certo senso.
 
“Non avrai un altare dove essere sfoggiato, ma finalmente avrai un posto dove marcire. Mai nessuno dovrà trovarti, mai nessuno dovrà fare danni usandoti. Nessuno saprà che sei mai esistito”.
 
Aveva ricoperto la buca con attenzione, cercando di ricomporre persino i fiori che vi stavano sopra. Il suo compito era stato portato a termine. Ora, solo lui sapeva dove fosse sepolto quell’affare. Quel segreto sarebbe finito nella tomba con lui. O almeno, questo era quello che sperava Trunks. Ma non sapeva che, persino quella mossa, facesse parte del disegno di quel mostro.
 
*
 
Era stanco di fare la spola tra casa, scuola e la prigione. Gli avevano insegnato a perseverare, che credendo fermamente in quello che faceva, prima o poi avrebbe raggiunto i risultati tanto auspicati. Eppure, nonostante la tenacia, nonostante la voglia di portare a termine ciò che si era prefissato, Goten non era riuscito a vedere i frutti del suo impegno. Non c’era modo di vedere Vegeta, né di sapere dove fosse, né di avere notizie in merito al suo stato di salute.
Aveva tentato innumerevoli volte di convincere le guardie, aveva persino provato a muoverle a pietà, ma i suoi sforzi erano stati vani.
Subito dopo l’arresto di Vegeta, aveva iniziato a contare i giorni e, se avesse potuto, avrebbe contato persino i minuti e i secondi che lo separavano dal principe. Il pensiero della sorte che poteva essergli toccata non faceva altro che tormentarlo, soprattutto dopo aver scoperto quale atroce fine avesse fatto la povera Marilyn. Aveva pianto amaramente per lei. Era sempre più convinto che quel mondo fosse ingiusto e crudele, che le persone buone e generose finissero per scontare pene che non meritavano, mentre chi si comportava male non faceva altro se non continuare a vivere la propria vita con tranquillità.
Goten sentiva di essere alla deriva, perso non in mare, ma nel bel mezzo dell’oceano, e di essere in balia delle onde. Più volte aveva avuto la sensazione di annegare, di non riuscire in nessun modo a venire a galla. Aveva sperato di poter contare sull’aiuto di qualcuno, di poter ricevere al più presto se non una mano, almeno un salvagente, ma non era accaduto niente del genere. Trunks poteva anche essere lì fisicamente, ma la sua mente e il suo cuore si trovavano chissà dove, persi in chissà quale posto spaventoso e a lui completamente inaccessibile. A nulla era valso provare a chiedere un invito, aveva fallito ancora di più nel momento in cui aveva provato a forzare quel portone chiuso a doppia mandata e, a quel punto, aveva perso ogni speranza, capendo di essere completamente solo.
Vegeta era in prigione, mentre il suo migliore amico, anzi no, suo fratello, si trovava in una prigione mentale.
Temeva che non li avrebbe mai più riavuti indietro. Temeva che dopo la sua mamma, dopo Gohan, dopo Bulma, dopo Ouji, avesse perso anche l’unica e sola famiglia che gli era rimasta, quella che aveva desiderato, ma non a discapito di quello che aveva avuto fino a poco tempo prima.
Il punto era che, in qualche misura, Goten aveva cominciato a sentirsi in colpa per tutto ciò che era capitato. Non riusciva a comprenderne il motivo, l’essenziale continuava a sfuggirgli, ma qualcosa, in lui, sussurrava al suo orecchio di essere la causa di quel cambiamento, di quel dolore che sembrava impossibile anche solo da contemplare.
La notte aveva spesso dei terribili incubi che lo facevano svegliare di soprassalto sudato e impaurito, ma non riusciva mai ad averne un ricordo chiaro. La confusione provata durante quei momenti, sommata allo smarrimento vissuto durante le lunghe giornate in cui provava a fingere di vivere una vita normale lo avevano prosciugato. Il momento più difficile era sopraggiunto nell’attimo in cui si era reso conto che non fosse rimato praticamente nulla dei risparmi di Vegeta. A quel punto, come avrebbero fatto a mangiare e andare avanti?
 
“Non abbiamo più denaro” – aveva esordito, cercando di attirare l’attenzione di Trunks – “Sono rimasti solo pochi spiccioli. Non so come fare la spesa, Trunks… Non ho idea di come fare per comprare da mangiare”.
 
Aveva cercato di mantenere un certo contegno, ma non gli era venuto naturale. Si sentiva perso, provava paura e una profonda vergogna per quello che aveva dovuto dire, questo sempre a causa del senso di colpa che lo stava divorando. Avrebbe voluto piangere, Goten. Se ci fosse stata ancora la sua mamma sarebbe corso da lei, lasciandosi cullare e baciare, coccolare e amare come solo lei sapeva fare. Ma la sua mamma non c’era, e non c’era neppure Vegeta. C’erano lui e Trunks, lì, solo loro due. E, in qualche modo, avrebbe fatto in modo di riavere con sé il bambino che lo aveva accompagnato a recuperare quell’uovo, il fratello che lo aveva spinto a superare se stesso e a raggiungere lo stadio di super-saiyan.
 
“Io… Non so che dirti”.
“Come sarebbe?”.
 
Temeva di ricevere una simile risposta, ma doveva smetterla. Trunks non poteva più permettersi di assumere quell’atteggiamento insopportabile! Capiva che avesse alti e bassi, che quella situazione spaventasse anche lui, ma come poteva aiutarlo ad aiutarsi se si rifiutava di comportarsi da persona normale? La voglia di piangere era aumentata.
 
“Trunks… Se non sappiamo come fare ad andare avanti non potremo aiutare papà… Volevo solo una mano… Un consiglio… Non chiudermi la porta in faccia, ti prego”.
 
Il bambino dai capelli color lillà non era stato capace di reggere il suo sguardo e aveva chinato il capo, mostrandosi stanco e pentito, ma soprattutto estremamente vulnerabile.
 
“Che cosa pensi di fare?”.
“Dobbiamo sapere di papà, Trunks… Dobbiamo sapere che fine ha fatto”.
 
Papà. Goten, ormai, si rivolgeva a Vegeta con quell’appellativo, ma Trunks non sarebbe mai stato capace di spiegare a parole come ciò lo facesse sentire. In ogni caso, aveva ragione, di nuovo.
 
“Vorrei tanto che qui con noi ci fosse un adulto, sai?”.
“Sì… Lo vorrei tanto anche io… Ma non credo che riusciremo a trovare qualcuno che possa aiutarci… Anche volendo chiedere un aiutino a Josuke e Joruno, io… Non me la sento, ecco… Stanno già facendo tanto per noi… Non voglio gravare su di loro e sulla loro famiglia. Voglio solo sapere cosa è successo. E voglio riportare a casa papà”.
“Anche io… Ma tornare in prigione a cosa può servire? Non ci dicono niente… Mi sento preso in giro. Anzi, ci prendono in giro. Li odio. Odio questo maledetto posto! Certe volte, vorrei chiudere gli occhi, addormentarmi e…”.
“Svegliarti nel mondo di prima? Posso capirlo benissimo”.
 
Trunks aveva visto una profonda tristezza farsi spazio negli occhi neri di Goten. Era tutto così ingiusto, tutto così sbagliato. Ma non trovava le parole per poterlo consolare. Come avrebbe potuto farlo, se lui era il primo a voler essere consolato da qualcuno? Se lui era il primo ad averne un disperato bisogno?
Ed eccola lì, quella sensazione maledetta, quella voglia di prendere la penna, mettersi nascosto e porre un milione di domande alla creatura nascosta nel quaderno. Perché, se aveva appurato che non volesse aiutarlo, continuava ad avvertire quel dannato bisogno? Perché continuava a fare sempre lo stesso, stramaledetto errore?
 
*
 
Aveva percorso centinaia di chilometri nel tentativo di raggiungere la fonte del potere che tentava di celarsi ai suoi occhi.
Genio era stanco, sfinito a dir poco, ma sapeva di non potersi concedere un minuto di riposo. Sapeva perfettamente che ogni istante perso, ogni ora trascorsa, esponeva il mondo intero a un pericolo inimmaginabile.
Era deciso a porre fine a quella vicenda nata in circostanze così sconvolgenti, anche se, in cuor suo, temeva di non riuscire a trovare la forza necessaria.
Sapeva, però, di non potersi tirare indietro: dal suo successo dipendeva non solo la vita del suo pupillo, ma il destino del mondo intero.
I dubbi continuavano ad assalirlo: la sua schiena curvata dagli anni sarebbe stata capace di sopportare quel peso? Non era in grado di rispondere, ma se fosse caduto sotto il peso di quella responsabilità lo avrebbe fatto solo dopo aver compiuto il suo dovere. Il quaderno, e ciò che conteneva, dovevano essere fermati.
 
“Dove ti nascondi? Chi starai provando a traviare con il tuo animo deviato? Con quei tuoi modi silenziosi ma efficaci, con i tuoi enigmi, con le tue bugie? Vorrei essere in grado di poterti leggere dentro… Forse, se ci riuscissi, potrei provare a salvarti”.
 
Era uno sciocco a pensare di poterlo fare. Era veramente uno sciocco se pensava di poter trarre in salvo quell’anima perduta. La prigionia, l’isolamento, la privazione di un corpo fisico, vitale, non avevano fatto altro se non accrescere la sua ira, il suo desiderio di vendetta. Ma quella era la punizione che gli Antichi avevano stabilito per i traditori dell’Ordine. La morte non era un’opzione contemplabile. Non a quei tempi, non per chi poteva fregiarsi del titolo di Maestro. Ma se la morte, se la liberazione dell’anima, sarebbe stata l’unica soluzione, avrebbe potuto applicarla?
 
“Vorrà dire che, a quel punto, mi sacrificherò: alla fine, io morirò con te”.

 
*
 
Di nuovo.
Gli avevano negato di nuovo la possibilità di vedere il padre.
Quella volta, però, non avevano fatto i “bravi bambini”. Quella volta avevano messo in atto un piano ben congegnato, un piano che prevedeva un diversivo e una vera e propria missione stealth. Non avevano i loro poteri, era un fatto assodato, ma questo non significava che avessero perso la capacità di far funzionare il cervello.
 
“Signore, per favore… Voglio solo vedere il mio papà… Non ho più sue notizie. E non ho più da mangiare. Mi cacceranno di casa e non potrò più andare a scuola… Che fine farò se non saprò leggere e scrivere? Se non imparerò un mestiere?”.
 
Goten aveva sfoderato la sua migliore espressione da angioletto e si era praticamente gettato ai piedi della guardia che presidiava l’ingresso ai sotterranei. L’energumeno, un omone alto almeno un metro e novanta, pelato, con un paio di baffoni che avrebbero fatto invidia ai gangsters messicani, nel vedere il bambino incollarsi ai suoi stinchi si era a dir poco pietrificato. Odiava i marmocchi, e odiava ancor di più quelli che se ne andavano in giro piagnucolando con il moccio al naso. Che poteva farci lui se il padre era un delinquente? Aveva ricevuto disposizioni ben precise da parte dei suoi superiori: nessuno doveva vedere il prigioniero. Neanche lui sapeva in quale cella fosse stato rinchiuso, tra le altre cose, né gli interessava saperlo. Quei bastardi erano tutti uguali per lui. Che marcissero pure lì sotto!
 
“Senti, ragazzino, vedi di levare le tende! Non posso farti vedere tuo padre, ho perso il conto delle volte in cui te l’ho detto, e sto perdendo la pazienza! Sto lavorando, non ho tempo da sprecare dietro a te e a quel mentecatto! SPARISCI!”.
“Ma, signore, come può non avere pietà di me? Morirò di fame se non lo riavrò! Morirò di dolore! Voi non avete figli, signore? Cosa farebbero i vostri figli se non vi vedessero tornare, la sera? Se non sapessero quello che vi è capitato? Vi prego… Ho tanta paura… E ho tanta fame”.
“Che vuoi che mi importi?? Senti moccioso, smamma o giuro che ti… EHI! MA CHE FAI??”.
 
Goten aveva iniziato a strillare e gli si era attaccato alla gamba destra a mo’ di cozza sullo scoglio, provocando nella guardia un moto di disgusto misto a rabbia e senso di impotenza.
 
“TI HO DETTO DI MOLLARMI! MOLLA-LA-PRESA!”.
 
In meno di un minuto, si era creato un gran trambusto: le guardie avevano cominciato a ridere della sventura capitata al collega, mentre i visitatori avevano assistito alla scena indignati, schierandosi – per quello che potevano – dalla parte del bambino.
Era stato proprio nel momento in cui Goten lo aveva lasciato e aveva provato a correre verso le scale che conducevano al piano superiore che Trunks si era mosso con circospezione e rapidità, imboccando indisturbato il corridoio che lo aveva condotto presso la cella di suo padre qualche tempo addietro.
Doveva fare presto. Per quanto fossero stati attenti a non dare nell’occhio, a non far capire che fossero arrivati insieme, il pericolo di essere fermato da qualcuno era reale.
 
“Spero che tu possa cavartela, Goten. Adesso, devo trovare papà”.
 
Gli alti e bassi che stava vivendo il bambino lo stavano portando a pensare di essere diventato completamente pazzo, talmente pazzo da fare una cosa estremamente rischiosa come quella.
 
“Devo fare presto. Questa potrebbe essere l’unica occasione che ho”.
 
*
 
Lo avevano buttato fuori a calci, letteralmente. Il povero Goten aveva battuto violentemente il deretano sulle pietre dello spiazzale antistante la prigione, ma era convinto che il dolore provato stesse supportando non solo una buona causa, ma una causa vincente! Non erano risuonati allarmi e non aveva sentito ulteriori schiamazzi, il che poteva voler dire solo che Trunks non era ancora stato scoperto. In verità, aveva sperato di poter trattenere le guardie fino a vederlo tornare indietro, ma dopo qualche minuto dalla messa in atto del suo diversivo, si era reso conto di quanto fosse impraticabile quel proposito. Sperava solo che Trunks riuscisse a uscire da lì indenne, e che potesse dargli notizie sul povero Vegeta.
 
“Ahi! Che botta… Mi farà male per una settimana… Che maniere… E ora che faccio? Aspetto Trunks qui fuori? Ma dove? Mi hanno detto che se mi faccio vedere ancora qui attorno arrestano anche me. Che situazione…”.
 
“Ti sei fatto male, piccolo?”.
 
Un uomo mai visto prima lo aveva avvicinato, porgendogli la mano con il preciso intento di aiutarlo ad alzarsi da terra. Il bambino era parso incerto. Sua madre gli aveva raccomandato un’infinità di volte di non dare confidenza agli sconosciuti, ma quel signore sembrava non avere niente di strano. Era stato gentile, dopotutto… Tra tanti, era stato l’unico a farsi avanti e offrirgli un po’ di aiuto.
 
“Io… No, grazie…”.
 
Convinto di essere nel giusto, Goten aveva accettato l’aiuto offerto e aveva afferrato la mano ancora tesa, lasciandosi issare da terra.
 
“Ecco qui, giovanotto! Sei di nuovo in piedi! Allora, perché hai fatto tanto arrabbiare la guardia?”.
 
Goten era trasalito.
 
“Avete visto tutto?”.
“Oh, ti chiedo scusa. Non volevo sembrarti indiscreto. Non sono affari miei, hai ragione…”.
“No, non è questo… Anzi, grazie per aver chiesto”.
“Sono proprio intrattabili, vero? Pensano di avere sempre ragione e di poter fare quello che vogliono…”.
 
Era rimasto di stucco. Quell’uomo era così… Strano. O meglio, il suo aspetto fisico era a dir poco comune, ma il suo modo di fare aveva qualcosa che non riusciva a comprendere pienamente. Era solo gentile, o c’era sotto qualcosa che non riusciva a cogliere? Forse, tutto quel tempo trascorso in solitudine lo aveva reso più sospettoso di quanto non servisse.
 
“Alcune sono prepotenti, è vero…”.
“Spero che tu non sia in guai seri, piccolo… I tuoi genitori non ci sono?”.
“È proprio per questo che mi trovo qui… Papà… Ecco, lui si trova lì dentro…”.
“Hanno arrestato il tuo papà? Deve aver fatto qualcosa di grave per essere stato messo in carcere!”.
“Papà non ha fatto niente di sbagliato, invece! È solo che, in questo maledetto posto, le cose non fanno altro che funzionare al contrario rispetto a come dovrebbero essere!”.
 
Si era pentito di averlo detto un istante dopo. Aveva parlato troppo, ne era sicuro. Se lo avesse insospettito in qualche modo? Se, dicendo quello che aveva detto, gli aveva dato modo di capire che sapesse di più di quello che voleva dare a vedere? Che sapesse la verità su quel posto? La sua fronte si era imperlata di sudore e aveva iniziato a respirare affannosamente. Era certo di aver commesso un errore irreparabile.
 
“Non ti arrabbiare, piccolo… Tuo padre deve essere una brava persona… E tu devi essere molto coraggioso”.
 
Che fare? Mai, prima di allora, avrebbe voluto essere altrove.
 
“Io… Devo andare... Grazie ancora per l’aiuto”.
“Figurati! Spero che tuo padre possa uscire al più presto!”.
“Sì…”.
 
Si era allontanato cercando di mantenere un’andatura non troppo rapida. Non voleva dare nell’occhio, ma non aveva potuto fare a meno se non tirare un respiro di sollievo nel sapere che l’aveva scampata. Ma il sangue gli si era raggelato nelle vene nel momento in cui si era sentito chiamare.
 
“Ehi! Piccolo! Fermati!”.
 
“Oh mio Dende! Mi ha scoperto! Ha scoperto tutto e sono fregato!”.
 
“Sì?” – era madido di sudore e scosso da fremiti incontrollabili. Era certo che presto sarebbe svenuto.
 
“Ti è caduto questo!” – gli aveva detto l’uomo, porgendogli un oggetto che non aveva mai visto prima di allora, un quaderno sgualcito dalla copertina nera come la notte – “Stai più attento…” – gli aveva detto, sorridendo – “Sarebbe un vero peccato se non riuscissi più a trovarlo”.
 
Continua…

 
Ragazzi/e,
Come va? Io sono super raffreddata… Non so che tempo ci sia dalle vostre parti. Qui, in Calabria, è un susseguirsi di tre giorni di caldo africano a tre di gelo polare. Non se ne può proprio più!!
Ma torniamo a noi.
Io non ho molto da aggiungere su questo capitolo, se non CHE PALLE, STO QUADERNO HA ROTTO. XD
E meno male che è un oggetto inanimato, perché se fosse stato altro, ci troveremmo in guai molto seri. Porca zozza… Che succederà, ora che si trova nelle mani di Goten?
GENIO, VUOI DEGNARTI DI ARRIVARE??
 
A presto!
Un bacino,
 
Cleo

 

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Capitolo 50
*** Un nuovo proprietario ***


Un nuovo proprietario
 
Goten non aveva ben capito ciò che gli era capitato in quella piazza: aveva provato a spiegare a quello strano uomo che quel quaderno non gli appartenesse, ma la sua insistenza, e il fatto che nessuna delle altre persone presenti in piazza ne avesse reclamato la proprietà, lo avevano convinto a prenderlo e portarlo con sé.
Aveva ben altro a cui pensare, poi: sembravano che fossero trascorsi eoni da quando Trunks si era addentrato nella prigione, e di lui non c’era alcuna traccia. Cercando di apparire calmo e disinvolto per non attirare l’attenzione di soggetti indesiderati, il piccolo saiyan mezzosangue dai capelli a forma di palma si era seduto all’ombra, sulle gradinate consunte di un palazzo di tre piani, mentre fissava con sconforto il pesante portone che separava il mondo esterno da quell’accozzaglia di pietre e tegole in cui era stato rinchiuso Vegeta.
 
“Perché ci metti tanto? Sappiamo già che non potrai far uscire papà, ma non dirmi che ti sei fatto prendere anche tu! Non potrei sopportarlo. Per questo, Trunks, ti prego di non fare scherzi… Forza, fratellino: metticela tutta e torna da me”.
 
E, nell’appoggiarsi con la schiena contro il portone, il quaderno che reggeva in grembo – neanche avesse avuto vita propria – era caduto per terra, costringendo Goten a interessarsi a lui. Con l’animo pesante e il cuore in tumulto, il bambino lo aveva raccolto, lo aveva posato sulle gambe e ne aveva accarezzato il dorso e la copertina con le dita gentili, prendendo un profondo respiro prima di sfogliarlo: era giunto il momento di scoprire a chi appartenesse quell’oggetto così singolare.
 
*
 
Era riuscito a evitare miracolosamente ogni ostacolo che gli si era parato davanti, scoprendo di essere un autentico portento nell’occultarsi. Avrebbe dovuto sfruttare quella dote inaspettata in futuro, per scoprire dove sua madre nascondeva i regali di compleanno, per esempio. Sarebbe stato veramente utile, ammesso che avesse avuto indietro sua madre, era chiaro!
A ogni modo, non aveva sottovalutato il pericolo che incombeva su di lui. Per quanto fosse molto giovane, non era affatto totalmente sprovveduto, e per questo doveva ringraziare gli insegnamenti di suo padre e in parte il suo naturale talento.
Aveva cercato di mantenere la calma il più possibile, respirando piano ed evitando movimenti buschi. Per un breve istante, aveva temuto che persino il suo cuore stesse facendo troppo rumore, ma si era reso conto di quanto fosse stupido quel pensiero e lo aveva accantonato, scegliendo di essere responsabile e di non dire o fare sciocchezze di alcun tipo.
 
“Ci sono quasi… Ci sono proprio vicino. Devo solo svoltare e la cella di papà sarà la terza. O, almeno, così è stato l’ultima volta… Oddende, e se lo avessero spostato? Non ci voglio neanche pensare…”.
 
Ancora una volta aveva scacciato i brutti pensieri e, cercando di non farsi vincere dall’ansia, aveva guardato prima a destra, poi a sinistra, e alla fine si era incamminato con estrema cautela, strisciando nell’ombra lungo la parete con il preciso intento di non farsi cogliere sul fatto.
 
“Andiamo… Ci sono quasi… Ci sono quasi… ECCOMI!”.
 
Il cuore del bambino batteva all’impazzata. Non vedeva il padre da giorni, e solo gli dei potevano sapere quanto dura e pensate fosse stata la sua assenza. Trepidava, Trunks, in preda all’emozione, ma nello stesso istante in cui i suoi occhi avevano individuato la sagoma raggomitolata sul pavimento, turbamento e dolore si erano impossessati di lui, trascinandolo in un vortice di disperazione che nessun bambino della sua età avrebbe mai dovuto provare.
Non lo aveva chiamato: per quanto avesse provato ad articolare dei suoni, dalla sua bocca spalancata non era uscito niente, neppure un rantolo sconnesso. Stentava a credere che quell’uomo, quell’ammasso di carne ferita e sanguinante fosse ancora in grado di respirare. Proprio non riusciva ad accettare che quello fosse suo padre, il fiero principe dei saiyan, perché di lui non c’era più niente di riconoscibile all’infuori della fiamma che portava in testa.
Voleva piangere, Trunks. Voleva abbandonarsi alle lacrime e al dolore, ma se lo avesse fatto, non avrebbe causato altra sofferenza all’uomo che gli aveva dato la vita e lo aveva protetto fino all’ultimo?
Non avrebbe dovuto farsi vedere da lui in quello stato, anzi! Non avrebbe dovuto proprio farsi vedere! Per questa ragione, il piccolo mezzosangue aveva chiuso gli occhi e aveva preso un profondo respiro, cercando in se stesso la calma e la forza necessarie a fare quello che doveva: chiedere aiuto per aiutare suo padre.
 
*
 
Sfogliare le pagine di quello strano oggetto lo aveva reso dapprima eccitato, poi sconcertato, poi estremamente triste.
Goten non riusciva a capire perché quelle pagine ingiallite esercitassero un così grande fascino su di lui, così come non riusciva a capire perché ne era allo stesso tempo estremamente impaurito. A prima vista, quello sembrava un banalissimo vecchio plico di carta racchiuso in una copertina di pelle nera, ma nel maneggiarlo, nell’annusarlo, nel cercare di carpirne la natura, Goten si era convinto che fosse molto, molto più del comune oggetto che sembrava. In un primo momento, aveva creduto di essere nuovamente tornato in possesso della facoltà di avvertire le presenze altrui, tanto forte era stata la scossa avvertita nello sfiorarne il dorso e le pagine con i paffuti polpastrelli.
 
“Non riesco a capire… Che strana sensazione… Sembra quasi che… Sì… Per un attimo ho creduto che fossi vivo. Che idiozia…La tensione deve avermi proprio fatto male!”.
 
Aveva sorriso, il piccolo saiyan, ma il suo era stato un sorriso stanco e forzato. La verità era che aveva il terrore di perdere anche Trunks e di non avere più alcuna possibilità di riavere indietro la sua vita, di qualunque vita si trattasse.
E, mentre la sua mente vagava in quel bosco di triste pensieri, inavvertitamente si era ferito, tagliandosi il polpastrello del pollice che aveva premuto con troppa forza sul bordo delle pagine.
 
“AHI!”.
 
D’istino, il piccolo aveva portato il dito alla bocca, cercando di succhiare via il sangue caldo e ferroso.
 
“Come ho fatto? E soprattutto, perché fa così male? Si tratta di un taglietto… Ahi… AHI!”.
 
Aveva le lacrime agli occhi. Ma, per quanto il taglio facesse male, le sue non erano lacrime di dolore, ma di sconforto e senso di totale sconfitta. Sentiva di aver perso, Goten, e sentiva di averlo fatto su tutti i fronti. Cosa avrebbe pensato di lui Trunks? Cosa avrebbe pensato di lui Vegeta? E la sua mamma, il suo adorato fratello, sua zia Bulma, che opinione avrebbero avuto di lui?
 
“Penseranno che sono un debole…” – si era detto, incapace di frenare la lacrime raccolte agli angoli dei suoi occhioni scuri – “Penseranno che io… Che io…”.
 
Goten non si era mosso, non aveva posato le mani sulla copertina del quaderno e non l’aveva sollevata sulla prima pagina, così come era certo di non averlo aperto. Eppure, eccolo lì, ecco le pagine ingiallite schiuse al mondo, avide delle sue lacrime e del suo sangue.
 
“Ma che…”.
 
L’incredulità e la confusione erano cresciute nel vedere che il suo sangue avesse assunto una forma ben precisa, quella delle lettere del suo nome.
 
GOTEN.
CIAO.
È UN PIACERE FARE LA TUA CONOSCENZA.
 
“Ma che diavolo succede?”.
 
Il piccolo saiyan aveva fatto un balzo dal gradino su cui era seduto ed era caduto a terra, sbattendo il coccige sui sanpietrini. Terrorizzato, aveva strisciato di lato, cercando di non sfiorare neppure per sbaglio le pagine di quel quaderno che lo aveva appena salutato e gli aveva detto che gli faceva piacere fare la sua conoscenza.
Una serie di pensieri confusi avevano cominciato ad affollare la mente del bambino. Come poteva, un oggetto inanimato, reagire, avere una coscienza e scrivere qualcosa? Forse lo aveva immaginato… Ma sì, doveva per forza averlo immaginato! O no?
 
Non sapeva dove avesse trovato il coraggio – e doveva ammettere di aver cominciato a credere che non fosse stato un caso la presenza di quell’uomo che gli aveva consegnato il quaderno in questione – e si era avvicinato, gattonando, noncurante del sangue che continuava a sgorgare dal polpastrello e imbrattava i sudici sanpietrini e degli sguardi delle persone che lo fissavano, incuriosite.
Aveva deglutito forte, Goten, strizzando gli occhi prima di avere il coraggio di posare lo sguardo sulle pagine aperte.
 
GOTEN.
CIAO.
È UN PIACERE FARE LA TUA CONOSCENZA.
 
Non lo aveva sognato! Non lo aveva sognato per niente! Quel quaderno si era rivolto a lui! Allora non era del tutto impazzito: aveva realmente avvertito la presenza di qualcuno o di qualcosa al suo interno! Ma come era possibile?
 
“N-n-non ca-ca-capisco… N-n-non è po-po-possibile! No, no e poi no!”.
 
Era certo di essere in preda a quella che gli adulti chiamavano una crisi di nervi. Tremava, sudava freddo e lo stomaco aveva cominciato a ballare un improbabile ballo di gruppo estivo. Presto avrebbe vomitato, ne era sicuro.
 
“Stai bene, bambino? Qualcosa non va?”.
 
Una vecchietta dai capelli color d’argento e la pelle candida e rugosa gli si era fermata accanto, preoccupata. I suoi occhi erano gentili, il suo sorriso era rassicurante ma, nel vederla, Goten era arrossito e si era rimesso in piedi, aveva preso il quaderno a gran velocità, lo aveva richiuso e nascosto nella tasca interna della giacca.
 
“Sì, signora, sto bene… Ma grazie per aver chiesto”.
“Sicuro, piccolo? Perché sei qui fuori da solo? Le mie vecchie ossa scricchiolano, sono certa che presto pioverà… Non vorrai prendere freddo, vero? Vai a casa a ripararti!”.
“Sto aspettando una persona, non si preoccupi… Ma grazie per essersi preoccupata, davvero. Lo apprezzo tanto”.
 
Non era una bugia, ma si vergognava lo stesso. Doveva essere stata una scena insolita quella che aveva attirato l’attenzione di quella dolce nonnina. La sua gentilezza era stata una vera benedizione, un evento inaspettato che lo aveva imbarazzato e gli aveva scaldato il cuore. Forse, qualcosa del mondo di prima esisteva ancora.
 
“Allora vado, piccolo… È stato un piacere… Ah! Tieni… E fai il bravo”.
 
La signora aveva preso una profumatissima mela rossa e gliel’aveva offerta, tirandola fuori dal cestino di vimini che aveva con sé.
 
“Oh, ma non doveva…”.
“Prendila… Ne hai bisogno. Devi crescere. E riguardati, va bene?”.
“Lo farò! Grazie ancora”.
 
Mentre la osservava allontanarsi, non aveva potuto fare a meno di sorridere.
Ma cosa avrebbe fatto, adesso? Avrebbe tenuto la mela come aveva tenuto il quaderno? Goten era certo della buona fede della vecchietta, così come era sicuro della malafede dell’uomo che gli aveva consegnato quell’affare. Ormai, però, non poteva più fingere di non aver letto quello che aveva letto. Il polpastrello aveva smesso di sanguinare e aveva iniziato a pulsare fastidiosamente, il respiro era diventato affannoso e il cuore aveva iniziato a palpitare furiosamente.
 
“Goten… Adesso basta. Sei stato istruito e allenato dal principe dei saiyan in persona, e lui non ti ha insegnato ad avere paura senza una ragione. Ora, datti una calmata e ragiona. Questo coso ha qualcosa che non va. Cerca di capire cosa e rispediscilo al mittente”.
 
Deciso più che mai a scoprire la verità, Goten si era seduto nuovamente sulle scale, aveva preso il quaderno, aveva respirato a fondo e poi aveva cercato la pagina incriminata, l’unica vergata tra tante toccate solo dallo scorrere del tempo.
Era inequivocabile: le parole che avevano preso forma all’improvviso su quella tavola bianca erano rivolte proprio a lui. Aveva deglutito, Goten, e mandare giù la saliva non era stato per nulla semplice. Proprio non riusciva a capire come funzionasse quell’affare, in che modo potesse far sì che “gli dicesse qualcosa”.
 
“Pensa, Goten… Pensa… Com’è successo? Pensa… Ce la puoi fare”.
 
E poi, all’improvviso, aveva avuto come una sorta di epifania, capendo che, chissà per quale ragione, era stato il suo sangue a far sì che accadesse quella cosa degna di un libro fantasy dai tratti quasi horror.
Non ci aveva pensato due volte, Goten: aveva fatto pressione con l’unghia del dito medio sul polpastrello e aveva fatto sì che la ferita si riaprisse, poi aveva stimolato la parte affinché fuoriuscisse una maggiore quantità di sangue e aveva poggiato il dito sulla carta, lasciando che questa lo assorbisse e dando inizio a una danza già vista in passato.
 
“Chi sei?”.
 
*
 
Uscire dalla prigione non era stato facile come entrarci. Trunks aveva dovuto dare fondo a tutto il suo sangue freddo e alla sua astuzia, ma alla fine era riuscito a non farsi vedere dalle guardie, sgattaiolando fuori da quel luogo di disperazione attraverso una delle finestrelle del pian terreno che aveva una sbarra allentata: per una volta, la fortuna era dalla sua parte.
Era atterrato a piedi uniti con un tonfo sordo e si era allontanato con passi tranquilli, cercando di non dare troppo nell’occhio. Scosso, ma deciso nei suoi propositi, Trunks era ansioso di incontrare Goten per raccontargli ciò che aveva visto. Era finito il tempo di fare l’idiota o il bambino spaventato. Arrivati a quel punto, era necessario agire.
 
Quando aveva messo piede fuori dalla finestra non aveva avuto modo di guardarsi attorno, ma più si avvicinava alla piazza, più il suo sguardo vagava alla ricerca del suo migliore amico. Non voleva spaventarlo o angosciarlo, ma doveva assolutamente spiegargli qual era la situazione in cui si trovava suo padre e chiedergli consiglio su come agire. Aveva il fiato corto e lo stomaco in subbuglio: aveva compiuto un’azione memorabile, più grande di quella volta in cui aveva recuperato l’uovo di dinosauro per mostrare a Vegeta quanto grande fosse la sua determinazione. Sembrava averla finalmente ritrovata, poi, eppure, se c’era una cosa che il piccolo Trunks non aveva ancora imparato, era che le cose, spesso, troppo spesso, non vanno come erano state progettate.
Ne aveva preso coscienza solo nel momento in cui aveva individuato il punto in cui Goten lo stava aspettando e, in quello stesso istante, aveva capito come tutto stesse per precipitare rovinosamente.
 
“Non è possibile… No… No… NO!”.
 
Goten era lì, seduto sui gradini, chino sulle ginocchia che facevano da appoggio a qualcosa che Trunks conosceva benissimo e che credeva di aver sepolto per sempre.
Come aveva fatto a entrare in possesso di quell’abominio? E perché, perché stava facendo scorrere il dito su quelle pagine tentatrici?
 
“Fe-fermati”.
 
Avrebbe voluto urlarlo, ma le parole gli erano morte in gola. Come poteva essere che il destino si fosse accanito a tal punto contro di loro? Com’era possibile che quel diavolo tentatore fosse sempre un passo avanti a tutti?
Trunks non aveva più dubbi: quello era il demonio. E, in quanto demonio, era sicuramente loro nemico.
Avrebbe voluto correre, ma le gambe erano diventate molli come budino. Lui era fermo lì, immobile, e Goten continuava a far scorrere il dito sul foglio. Stava per scoppiare in lacrime dalla rabbia, dalla paura, dal disgusto verso se stesso e la sua condizione. Gli occhi si erano velati di lacrime amare: l’immagine di Goten era sfocata, ormai, ma era certo di aver visto qualcosa, prima di non capire più dove fosse, in quale tempo, in quale momento: aveva visto un’ombra nera e spaventosa che sovrastava Goten alle spalle.
 
*
 
Un vento impetuoso.
Un dolore lancinante.
Un odore indefinito di carne putrefatta e sangue.
Un lampo accecante.
Una sensazione di vertigine.
Un boato spaventoso.
Poi, improvvisamente, il nulla.
 
*
 
Vegeta aveva dolore al petto, oltre che in ogni singolo punto del suo corpo martoriato. Le orecchie fischiavano incessantemente, ed era quasi sicuro di aver perso l’uso di un occhio. Debole, umano e pure mezzo cieco. Meglio di così non gli poteva proprio andare. Se ne stava accovacciato su quel pavimento sudicio, al buio, immerso nella più totale solitudine, in quanto aveva come unica compagna l’autocommiserazione provata verso se stesso.
Se fosse uscito da lì, e se ne fosse uscito più o meno integro, avrebbe avuto ancora il coraggio di guardarsi allo specchio? Vegeta cercava di ricacciare indietro quei pensieri, di seppellire i ricordi nelle aree più recondite della sua mente, in una delle stanze più lontane, ma i momenti di alcune cose subite bussavano incessantemente, strepitavano fino a uscire, portandolo a sprofondare nella più totale, assoluta vergogna. Era stato incapace di reagire e difendersi. Sarebbe stato capace, una volta uscito fuori da lì, di guardare in faccia chi nutriva tanta stima di lui?
L’ultima cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata scoppiare a piangere, ma se avesse arrestato quel fiume in piena, il suo malessere sarebbe solo accresciuto, portandolo a desiderare la morte.
E così, dopo tutto quel tempo trascorso a mostrarsi forte, Vegeta aveva smesso di esserlo, aveva smesso di fingere con se stesso di essere chi non era più da tanto tempo. Le sue non erano lacrime di frustrazione. Era un pianto di dolore, sintomo di un malessere che gli aveva devastato l’anima.
Era lì, imprigionato in quella topaia, alla mercé di un essere disgustoso che si era dimostrato il peggior mostro mai incontrato, ma la sua mente era altrove, divisa tra l’ansia di non sapere dove fossero i bambini e il desiderio di scoprire dove fosse andato a finire lui, la causa di tutte le sue sciagure, quel decerebrato che compariva sempre nel posto giusto al momento giusto, ma che adesso sembrava intenzionato più che mai a rimanere fuori dai giochi. Non ci sarebbero state entrare a effetto, per lui, evidentemente, nessun salvataggio in extremis. Aveva preferito starsene lontano, aveva preferito lasciarli al loro destino. Che fosse convinto, come aveva fatto con Gohan durante il Cell Game, che fossero in grado di uscire da quella situazione con le loro forze? Era veramente talmente stupido?
 
“Tsk… Certo che è così stupido. E sei ancora più stupido tu se speri in un suo aiuto”.
 
Il Vegeta di un tempo non avrebbe mai accettato di essere salvato da qualcuno, men che meno dal suo più acerrimo nemico. Era proprio quello il motivo per cui odiava così tanto quel decerebrato di terza classe, non solo per il fatto che avesse osato superarlo in potenza, raggiungendo per primo lo stadio di leggendario super saiyan. Kaharot, anzi no, Goku, era sempre un passo avanti a lui. SEMPRE. Tranne quella volta: in quella dannata occasione, quando aveva realmente bisogno di lui – dei, gli veniva il voltastomaco solo a pensarlo – la stupida terza classe aveva pensato bene di mantenere le distanze. Per gli dei, avrebbe preferito farsi assorbire da lui piuttosto che diventare nuovamente il passatempo di quel verme schifoso di Leon.
Leon… Già. Era impossibile che fosse guarito in così poco tempo e che il suo fisico avesse subito un così grande cambiamento. Non era una cosa visibile a occhio nudo, ma lui l’aveva avvertita comunque. Quando gli si era avvicinato, quando gli aveva sfiorato i capelli con le dita, aveva avvertito come una scossa, seguita da una sensazione di gelo e di forte disagio. Per un brevissimo istante aveva creduto di aver recuperato la facoltà di percepire le auree altrui, ma si era reso conto ben presto che quella era solo una sciocca illusione. Forse, lo era tanto quanto l’idea di poter, prima o poi, uscire da lì e tornare a essere l’uomo che era o, magari, una persona migliore.
 
La stanchezza stava prendendo il sopravvento, per quanto si stesse sforzando di restare sveglio. La mente era sempre più annebbiata, il respiro sempre più regolare. Presto si sarebbe addormentato. E chissà quale strano sogno avrebbe fatto, adesso che l’incubo era la realtà che viveva ogni giorno.
 
*
 
Un vento impetuoso.
Un dolore lancinante.
Un odore indefinito di carne putrefatta e sangue.
Un lampo accecante.
Una sensazione di vertigine.
Un boato spaventoso.
Poi, improvvisamente, il nulla.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Eccomi qui!
Pensavate che non sarei più tornata, vero?
E invece no! Scusate se ho impiegato tanto tempo per pubblicare, ma ho preferito prendermi una lunga pausa e terminare (o quasi) tutta la storia prima di pubblicarne un capitolo a settimana!
Proprio così: vin informo che ho quasi terminato di scrivere questo papiro che, tra alti e bassi, tra puntualità e ritardi, va avanti da quasi due anni.
L’intreccio, da questo momento in poi, diventerà ancora più complicato prima di districarsi definitivamente.
Mi auguro che, arrivati a questo punto, rimaniate con me fino alla fine!
A presto!
Un bacino,
 
Cleo

 

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Capitolo 51
*** Un salto in avanti ***


Un salto in avanti
 
Mattina.
Erano le prime luci dell’alba quando Trunks aveva aperto gli occhi. La lama che filtrava dalla finestrella lo aveva investito in pieno, e la sensazione di avere qualcuno accanto, nel letto, lo aveva salvato dallo stato di smarrimento in cui era piombato nell’istante in cui le pupille avevano messo a fuoco l’ambiente circostante: la casetta che condivideva con Goten e suo padre. Non sapeva come fosse arrivato lì, ma era certissimo che non si trattasse di un’illusione, che quello che aveva accanto fosse la copia esatta di Goku – ma in miniatura – e che quello che se ne stava seduto al tavolo della cucina fosse proprio il suo papà, e che fosse tutto intero.
Si era dato un pizzicotto, giusto per essere ancora più sicuro di non essere nel bel mezzo di un sogno, e si era messo seduto sul letto, scuotendo Goten con la mano.
 
“Goten… GOTEN!!”
 
Aveva cercato di sussurrare, ma era finito con l’emettere un suono stridulo e attirare così l’attenzione di Vegeta. Nell’istante in cui gli occhi di ossidiana di suo padre si erano posati su di lui, Trunks non era stato più in grado di trattenere le proprie emozioni e, nonostante volesse mostrarsi a suo padre come un ometto forte e impassibile, era scoppiato in lacrime, correndo verso di lui e stringendolo così forte da soffocarlo.
 
“TSK! MA CHE TI PRENDE?”.
 
Vegeta era arrossito, e per istinto si era fatto indietro, cercando di scollare da sé suo figlio, ma senza troppa convinzione. Era confuso, imbarazzato, felice e ansioso insieme. Che avessero fatto un brutto sogno? Per gli dei, non avrebbe dovuto consolarli, vero?
 
“Vegeta…”.
 
Goten, seduto ancora sul bordo del letto, aveva portando entrambe le mani alla bocca, scoppiando in un pianto disperato prima di precipitarsi verso di lui e imitare in ogni gesto il suo migliore amico. Il cuore sembrava esplodere dalla gioia ed era impossibile per lui controllare le lacrime. Non gli importava di mostrarsi fragile. Gli importava solo di potergli stare accanto, di poterlo stringere e potergli dimostrare tutto il suo amore. Adesso che lo aveva accanto a sé, non lo avrebbe lasciato andare via mai più.
 
“TSK! Ma la volete smettere? Si può sapere che vi prende? PIANTATELA”.
 
Sua maestà era arrossito a tal punto da diventare tutt’uno con la mela che stava sbocconcellando e che aveva ancora nella mano destra. Che cavolo era preso a quei due piccoli mostriciattoli?
 
“Oh, papà, sei qui! Sei qui e stai bene!”.
“Non posso ancora credere che tu sia qui! Sono così contento! Così contento che mi scoppia il cuore!”.
Che io sia qui? Ma che state blaterando, mocciosi? Dove diamine dovrei essere a quest’ora? Per la miseria, va bene che devo andare a lavorare, ma…”.
“Sei certo di non avere nessuna ferita? Stai bene?” – aveva chiesto Trunks.
“Ma come hai fatto a uscire di prigione? Pensavo che non ti avrebbero mai lasciato andare, invece…”.
“Ferite? Prigione? Adesso basta scherzare, voi due! Tsk! Ma pensa tu… Prima fanno sogni assurdi e poi li confondono con la vita reale! Cercate di sbrigare le faccende, piuttosto, e di arrivare in orario a scuola. SBRIGATEVI”.
 
Non con poca fatica – e non senza una generosa dose di imbarazzo – il principe era riuscito a scrollarseli di dosso, dirigendosi verso la porta di casa con grande fretta in modo da sfuggire a qualche altro slancio affettivo. Doveva andare a lavorare, lui, mica aveva tempo da perdere! L’aria fredda del mattino gli avrebbe di certo fatto bene, e magari avrebbe fatto qualcosa anche per lenire i “bollori” dei bambini.
Così, con una buona dose di imbarazzo e una mela mangiucchiata in mano, Vegeta si era diretto presso i campi con largo anticipo. Forse, lì sarebbe stato al sicuro.
 
“Hai visto? Sta bene!”.
“Sì, Goten, lo so!” – aveva risposto Trunks asciugandosi le lacrime – “Ma com’è possibile? Lui era nelle segrete, aveva delle ferite orribili! Io l’ho visto!”.
“Ferite orribili? Ma sta bene! Guardalo! STA BENE!”.
“Lo vedo… Ma comunque, non riesco a capire come sia potuto accadere”.
 
Trunks si era appoggiato alla porta d’ingresso e aveva lasciato che il suo sguardo seguisse la sagoma del padre fino a vederlo sparire dietro l’angolo. Stava bene, era vero. Non aveva neppure una delle tremende ferite che aveva visto quando era in prigione, ma ciò non toglieva il fatto che tutto quello non aveva il benché minimo senso. Era certo di non averlo immaginato: Vegeta era stato imprigionato, lui e Goten erano andati a cercarlo, avevano dovuto inventarsi un piano per poterlo vedere e, alla fine, lui lo aveva trovato mezzo morto sul pavimento di una sudicia cella, e si era ripromesso di salvarlo grazie all’aiuto di qualcuno.
Poi, però, i ricordi si interrompevano bruscamente. L’ultima cosa di cui aveva memoria era di essere uscito da una finestra e di aver cercato Goten in piazza. Come poteva essersi ritrovato nel suo letto, a casa sua, insieme al resto della sua famiglia?
Si era preso un lungo istante prima di parlare, cercando così di schiarirsi le idee e fare mente locale su quanto accaduto.
 
“Goten… Tu ti ricordi che le cose non stavano esattamente così, vero?”.
 
Aveva visto il viso del bambino cambiare espressione: il sorriso si era tramutato in una smorfia di dolore, e dopo essersi asciugato le lacrime, era rientrato in casa e si era arrampicato nuovamente sul letto per poi sedersi con le gambe penzoloni.
 
“Certo che me lo ricordo. Me lo ricordo benissimo” – sembrava essersi indispettito: aveva stretto i pantaloni del pigiama con forza e aveva incassato la testa nelle spalle, assumendo un aspetto rigido e innaturale – “Solo che adesso va tutto bene. Non è meglio così, Trunks?”.
 
Non avrebbe voluto essere tanto sospettoso, e avrebbe voluto ancor meno avere dubbi in merito al suo migliore amico, ma sentiva che Goten gli stava nascondendo qualcosa. Anzi, ne era sicuro. Ma di cosa poteva trattarsi? Il cervello di Trunks stava lavorando all’impazzata alla ricerca di un motivo valido, di una spiegazione non solo rispetto a quanto era accaduto, ma anche rispetto al comportamento di Goten.
Perché si comportava in quel modo?
 
“Che cosa mi stai nascondendo? Cosa?”.
 
Ma, proprio mentre stava per dare voce ai suoi pensieri, l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere aveva fatto capolino da sotto le coperte.
Trunks era sbiancato. Finalmente, ogni pezzo del puzzle era andato al suo posto.
 
“Il quaderno… Tu hai quel maledetto affare! E lo avevi anche prima, sui gradini… Sì, me lo ricordo chiaramente, adesso. Ci hai scritto, sopra, non è vero? E lui ti ha parlato? TU HAI PARLATO CON LUI, NON È VERO?”.
 
Goten era rimasto in silenzio, in quell’assurda posa contratta che lo faceva assomigliare a una strana statua di cera. Quell’atteggiamento parlava da sé, e dire che nel cuore di Trunks si stavano alternando un milione di sentimenti contrastanti sarebbe stato riduttivo. La prima cosa che aveva provato era stata una fortissima rabbia. Rabbia per essersi fatto fregare come un novellino dall’entità nascosta nel quaderno; subito dopo, aveva avvertito una forte delusione nei confronti di Goten, che non si era dimostrato più furbo di lui; poi, era piombato nel panico, perché quell’atteggiamento da parte del suo migliore amico dimostrava che non fosse minimamente pentito né cosciente di quello che aveva fatto; infine, aveva sentito come un forte dolore all’altezza del petto, perché era consapevole che non avrebbe più potuto fare niente per sistemare le cose.
 
“Goten… Rispondimi!”.
 
Era andato verso di lui e lo aveva afferrato per le spalle, scuotendolo con forza nel tentativo di vedere in lui una qualche reazione che però tardava ad arrivare. Gli occhi avevano iniziato a bruciargli per colpa del pianto che cercava di trattenere, e la testa gli doleva immensamente. Che cosa aveva combinato?
 
“Ho fatto quello che avevamo detto! Ho liberato Vegeta dalla prigione! Non sei contento, Trunks?”.
“Oh, Goten… Goten, tu gli hai chiesto aiuto? Hai davvero creduto che lui volesse aiutarti?”.
“Come sarebbe a dire? Papà è libero! Non ricorda niente, sta bene e siamo a casa! Non ti basta?”.
“Tu non sei in grado di capire…”.
“Ah no? Perché, tu lo sei? Ma certo! Tu sai cosa fa questo quaderno! Lo sai benissimo!”.
 
Aveva agitato le braccia a tal punto da far quasi perdere l’equilibrio a Trunks e aveva afferrato il quaderno con entrambe le mani, salendo in piedi sul letto. Da quell’altezza, e in quella posizione, Goten sembrava quasi minaccioso. Trunks si era preso un attimo per riordinare i pensieri: se gli aveva fatto quelle domande, ciò stava a significare che non aveva letto le conversazioni tra lui e quel dannato coso, e questo avvalorava maggiormente la sua tesi: quell’abominio voleva fregarli.
 
“Ascolta, Goten…”.
“No, ascolta tu! Da quando siamo finiti qui è successo l’impossibile! Ho visto sparire la mamma, morire Gohan, ho perso Ouji, e poi, nonostante tu fossi qui fisicamente, ho perso anche te! Ho provato a dare un senso ai tuoi sbalzi di umore, ma credimi, ormai non ce la faccio più! La fortuna ha voluto che questo oggetto finisse nelle mie mani e che un mio desiderio fosse esaudito! Perché ora te la prendi tanto? Siamo insieme! Papà sta bene, e io sono felice! Perché non puoi esserlo anche tu?”.
 
A quel punto, era certo di averlo perso, e di essere rimasto completamente solo in quella battaglia che lo aveva visto fallire inesorabilmente. Trunks si era accasciato sul pavimento, incapace di trattenere il pianto.
 
“Tu non sai quello che hai fatto. E non lo sai perché lui lo ha fatto prima a me. Per questo so di quel maledetto coso! Perché sono stato io a trovarlo! E maledico il giorno in cui questo è successo!”.
“Be’, ora è in mano mia, e credo di saperlo usare meglio di come hai fatto tu!”.
“Non sai quello che dici…”.
“Invece lo so benissimo. Vege-PAPÁ è qui, e non grazie a te”.
 
Ogni parola pronunciata con quella durezza era una coltellata in pieno petto per il piccolo Trunks. Era come se una lama si fosse incastrata tra le costole e gli impedisse di respirare. Lo aveva perso, aveva perso Goten. E lo aveva capito pienamente nel momento in cui quella maledetta mostruosità, quell’ombra nera come la notte, era apparsa nuovamente alle sue spalle, sovrastandolo con la sua aura malvagia che si divertiva a nutrirsi delle speranze di un bambino buono.
Aveva vinto: qualsiasi fosse il suo scopo, qualsiasi cosa volesse da loro, aveva vinto.
 
Papà è qui” – aveva detto Goten, serio – “E io farò di tutto per tenerlo accanto. Non resterò mai più da solo. Mai più”.
 
*
 
Papà.
L’eco di quella voce lontana era rimbombato nella sua mente, destandolo dal sonno in cui era stato costretto.
Papà.
Era una voce chiara, impossibile da confondere con quella di qualcun altro, una voce che lo aveva fatto sussultare, e che gli aveva fatto ritrovare la forza di uscire definitivamente dal torpore in cui era stato costretto.
Goku aveva dato fondo a tutte le sue energie, ma alla fine era riuscito a liberarsi in uno scintillio di energia spirituale palesatosi sotto forma di intenso bagliore dorato e di un urlo che avrebbe fatto rabbrividire il più coraggioso degli uomini. Il vento che aveva sollevato era stato talmente impetuoso da agitare le acque e far tremare le pareti di quell’incantevole prigione. Le gocce che gli erano cadute addosso erano evaporate ancor prima di raggiungere la sua pelle. L’aria attorno a lui era diventata rovente, ma dopo la tempesta, la quiete era tornata a regnare il quel luogo millenario custode di segreti inenarrabili.
 
Goku stava fissando il soffitto: lo sguardo era corrucciato al punto da aver messo in evidenza una profonda ruga sulla fronte spaziosa. Aveva i pugni serrati, le labbra piegate all’ingiù, ed era estremamente concentrato. Stava cercando a tutti i costi di individuare l’aura dei suoi figli perché era sicuro, sicurissimo di aver udito nella sua testa l’eco della voce di Goten che lo chiamava papà. Suo figlio lo aveva chiamato, e forse lo aveva fatto perché aveva bisogno di lui, o forse perché era rimasto solo, o forse perché era disperato e in pericolo.
Ancora una volta, si trovava lontano dai suoi figli. Ancora una volta, non era accanto a loro per proteggerli, guidarli, per spronarli a dare il meglio di loro. Li aveva abbandonati, forse li aveva persino traditi, proprio come Genio aveva tradito lui, relegandolo in quella prigione dorata.
La voce nella sua testa era così preponderante, talmente forte da martellargli le tempie. Mai nella vita gli era capitata una cosa del genere: non riusciva neanche a pensare. Se ci fosse stato Vegeta, avrebbe detto che tanto lui non aveva mai pensato, che il suo cervello non aveva mai funzionato prima, e non avrebbe potuto in alcun modo iniziare a funzionare, né ora, né mai.
 
“Che cosa mi sta succedendo?”.
 
Aveva portato entrambe le mani alle tempie e aveva iniziato a fare pressione, cercando così di attutire il dolore che stava provando.
 
“Papà”.
 
Lo aveva sentito nuovamente, e lo aveva sentito chiaro e forte. Era la voce di Goten, non avrebbe mai potuto sbagliarsi.
 
“Figliolo! Figliolo, dove sei?”.
 
Lo aveva detto ad alta voce, mentre cercava di concentrarsi. Per averla udita con tanta intensità, Goten non doveva essere molto lontano. Aveva cercato di respingere il dolore e si era concentrato sulla voce che sentiva rimbombare nella sua testa. Doveva trovarlo, doveva trovare Goten e raggiungerlo. Ma come, considerando che non sarebbe mai stato in grado di percepire la sua debolissima aura da umano?
 
“Maledizione…”.
 
Gli occhi pizzicavano per il dolore e per le lacrime trattenute a stento. Solo in quel momento – e non sapeva neanche perché – Goku si era però accorto di una cosa: che sul mento e sulle labbra fosse cresciuta una fitta coltre di peli che gli incorniciavano il viso.
 
“Ma cosa… Ma-ma come fanno a essere così lunghi? Quanto… Quanto tempo è passato? Da quanto tempo sono qui?!”.
 
Preso dal panico, guidato dall’estremo bisogno di comprendere anche grazie alla vista quello che aveva capito solo mediante il tatto, Goku aveva raggiunto la riva di quelle acque cristalline, specchiandosi sulla superficie liquida. Non c’era più alcun dubbio: la barba e i baffi esistevano realmente, non erano frutto della sua immaginazione, così come non lo erano i crampi della fame. Da quanto tempo non mangiava? Quante settimane aveva trascorso lì, vittima della prigionia inflittagli dal suo mentore?
La tristezza aveva preso posto del panico. I vivaci occhi neri come la notte erano spenti, irriconoscibili, e non solo loro. D’istino, Goku aveva sollevato una mano e l’aveva portata al mento: la barba era soffice, tanto lunga da inghiottire completamente alcune falangi. Faceva fatica a riconoscersi in quell’immagine. Faceva fatica a riconoscersi e basta.
 
“Chichi non c’è più, Bulma non c’è più, i miei figli sono in pericolo perché lì fuori c’è un pazzo che vuole dominare il mondo con le sue pratiche subdole e io sono stato costretto a stare qui dal mio stesso maestro per chissà quanto tempo. Mi sento così… Così… Urca, non lo so neanche io come mi sento… So solo che fa male… Fa male da morire”.
 
Senza pensarci due volte, aveva distolto lo sguardo da quel riflesso in cui non si riconosceva, cercando di ricacciare indietro i brutti pensieri che si accavallavano nella sua mente. Gli angoli degli occhi continuavano a pizzicare, ma Goku si rifiutava categoricamente di scoppiare a piangere. Per quanto si sentisse tradito, per quanto non fosse pienamente in grado di comprendere la paura che gli altri nutrivano verso di lui, non era nella sua natura provare rabbia o rancore verso coloro che amava. Anzi, a dirla tutta, Goku non era capace di provare sentimenti tanto abbietti nei confronti di nessuno. Questo non toglieva il fatto, però, che il tempo della prigionia dovesse finire, che fosse arrivato per lui il momento di scendere in campo, agire per il bene comune e arrivare così alla verità.
 
Deciso più che mai a uscire da lì, e memore del percorso che aveva fatto in compagnia del vecchio Tartaruga, Goku aveva lasciato che le acque lambissero dapprima i suoi piedi, poi le gambe, poi il torace, sino ad immergersi completamente dopo aver preso un bel respiro profondo. L’eco della voce di Goten continuava a rimbombare nella sua testa sempre più forte, sempre più chiaramente, finché, come in un sogno, non lo aveva visto. Il panico aveva assalito il giovane super saiyan: suo figlio era davanti a sé, privo di sensi, e ondeggiava tra le acqua, con i vestiti gonfi a causa delle correnti sottomarine e i capelli che danzavano una danza macabra. Poi, così com’era arrivata, quella visione era andata via, lasciandogli addosso una sensazione terribile.
Doveva raggiungerlo, e doveva farlo subito.
Non aveva perso tempo, Goku, e aveva raggiunto in meno di un istante lo stadio di super saiyan. In quel modo avrebbe consumato più energie, ne era cosciente, ma sarebbe stato più veloce, e la velocità era l’unica cosa che avrebbe potuto salvare Goten. Lo aveva raggiunto in un attimo e lo aveva afferrato per il colletto della maglia blu che indossava, stringendolo con forza e aumentando ancora la velocità con lui si muoveva tra le acque gelide. Non sapeva quale percorso dovesse seguire, stava agendo d’istinto, ma quello stesso istinto lo aveva guidato alla meta, e nello stesso istante in cui aveva messo la testa fuori dall’acqua, ormai prossimo alla riva dell’isolotto del Genio, aveva gioito con il sorriso che era solito distinguerlo.
 
“Ci siamo! Ce l’abbiamo fatta! Siamo a riva!”.
 
Euforico, Goku aveva fatto qualche passo prima di abbandonarsi sulla spiaggia sabbiosa, felice aver portato in salvo il suo bambino.
 
“Adesso andrà tutto bene! Ci sono io! Ma devi respirare… Devi… Devi…”.
 
Le parole gli erano morte in gola nell’istante in cui aveva abbassato lo sguardo e si era reso conto che non ci fosse quello di Goten pronto ad incrociare il suo. Terrorizzato, Goku aveva cominciato a tremare, confuso più che mai. Tra le sue braccia non vi era suo figlio, bensì un fagotto informe di alghe maleodoranti.
 
“Non è… Non è possibile… Io l’ho visto. Io l’ho visto, l’ho sentito, ne sono sicuro! GOTEN! GOTEN!”.
 
Senza sapere perché lo stesse facendo, Goku aveva iniziato a rovistare in quella massa scura, poi a cercare in acqua, poi sulla terraferma, in casa, tra le palme, persino in cielo, ma di lui non c’era alcuna traccia. Sfinito, affranto, si era accasciato sul bagnasciuga, stavolta incapace di trattenere le lacrime. Doveva essere impazzito. La prigionia doveva averlo fatto uscire fuori di testa. Ammesso che, di testa, ne avesse mai avuta una.
 
Continua…


Ragazze/i,
Buonasera! Mi trovo ad aggiornare a orari improponibili, ma ci tengo a farvi sapere quali altre sciagure stanno capitando ai nostri eroi.
Orbene, qualcosa è cambiato. Ma sarà cambiato in meglio? Vegeta sta bene, o almeno così sembrerebbe, ma a che pro? Qual è il piano della creatura?
Goku si è risvegliato, con tanto di barba e baffi (prendetevela con DBS!)! Si è svegliato e ha letteralmente vissuto un incubo. Cosa farà, adesso?
Lo scopriremo nei prossimi capitoli!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 52
*** Ti racconto una storia ***


Ti racconto una storia
 
Aveva avuto bisogno di prendersi una pausa dal lungo viaggio che aveva intrapreso per capire dove fosse arrivato e, soprattutto, perché non ne avesse memoria.
Genio era confuso, disorientato, e tremendamente preoccupato. L’ultima cosa che ricordava, prima di aver avvertito una delle sensazioni più strane mai provate in vita sua, era di essersi trovato in un bosco, tra alti pini, intento a riposare dopo una camminata che sembrava interminabile. Avvertiva ancora l’odore della resina e la sensazione del fresco che sfiorava la sua pelle, ma attorno a lui non vi erano pini o qualsiasi altra conifera, bensì una distesa di ciliegi prossimi a fiorire. La temperatura era cambiata, e il cielo era attraversato da stormi di uccelli migratori che Genio fissava con curiosità e preoccupazione. C’era una strana energia nell’aria, poi, ma non sapeva riconoscerne la natura. Non avrebbe saputo bene come spiegare ciò che avvertiva, perché era una delle sensazioni più strane che avesse mai provato: era come se qualcosa si fosse alterato, come se l’essenza stessa dell’universo avesse subìto una mutazione improvvisa e apparentemente inspiegabile. Ma Genio, esperto conoscitore delle cose che riguardavano il mondo (e non solo), non aveva impiegato troppo tempo prima di scoprire cosa fosse realmente accaduto. Gli era bastato dare uno sguardo alle sue mani per capire tutto in meno di un istante, per rendersi conto di quanto ben congegnato fosse il piano che il suo allievo aveva messo in atto.
 
“Ragazzo mio, perché ti ostini a voler proseguire con questi terrificanti propositi? Perché non sfrutti questo straordinario potere per il bene comune? Che amarezza…”.
 
Si era lasciato cadere su un sasso, sedendosi a piedi uniti. Aveva entrambe le mani posate sulle ginocchia, Genio, teneva la testa alta, gli occhi chiusi, alla ricerca della massima concentrazione. I suoi sensi erano attenti, pronti a captare ogni minimo spostamento d’aria, ogni singolo cambiamento che avrebbe ulteriormente sconvolto quel mondo, quella realtà. Era vicino alla meta. Lo sapeva, lo sentiva, così come sentiva di aver fallito con Goku. Non aveva certezza della sua evasione, ma sentiva nel profondo del suo cuore che il suo allievo prediletto avesse abbandonato il luogo in cui lo aveva relegato per cadere nella trappola che gli era stata tesa. Il rango che aveva tessuto quella tela era molto, molto esperto, e sicuramente era più furbo delle ingenue prede che aveva puntato.
 
“Sei qui attorno… Lo sento… Hai fatto tutto questo per farci avvicinare a te, questo perché sapevi che ti avremmo trovato. Era tutto scritto, tutto previsto e…”.
 
“Adesso tu mi spieghi che cosa sta succedendo, o giuro sulla mia sfera che ti cambio i connotati”.
 
Dallo spavento, Genio era scivolato dalla roccia su cui si era accomodato e aveva sbattuto con non poca violenza il deretano sulla terra brulla.
 
“Ohi-ohi-ohi! Le mie povere ossa! Ma dico io, che modi sono questi? Far spaventare così un povero vecchio! Non ti vergogni?”.
“Per niente. Soprattutto ora che ho la certezza che il vecchio in questione ha a che fare con tutto quello che è successo fino a ora”.
 
Baba se ne stava lì, inginocchiata sulla sfera di cristallo, intenta a fulminarlo con lo sguardo.
 
“E tu che cosa ci fai qui?”.
 
Genio, che aveva seriamente rischiato di morire di infarto, non credeva ai propri occhi: tutto avrebbe potuto immaginare, fuorché l’arrivo di sua sorella Baba, con tanto di cappello, sfera di cristallo ed espressione da toro imbufalito dipinta sul volto rugoso.
 
“Osi anche farmi una domanda così sciocca, fratellino? Fammi capire cosa state combinando e di chi è la colpa, perché tutti, nell’Aldilà, non fanno che domandarsi come sia possibile una cosa simile”.
“Come dici?”.
“Dico che voglio sapere chi è il mostro che è in grado di controllare lo scorrere del tempo”.
 
Controllare lo scorrere del tempo. Genio non si era scomposto più di tanto nell’udire le parole pronunciate dalla sorella, questo perché aveva già intuito che qualcosa di simile fosse avvenuto: trovarsi in un altro posto senza averne memoria, sentire che qualcosa era profondamente mutato, avvertite con chiarezza lo sconvolgimento delle componenti dell’universo erano stati tutti segnali che portavano a una ovvia conclusione. Solo che, sentirselo dire, faceva un certo effetto. Soprattutto se, a dirlo, era un vecchia e pericolosissima strega incazzata come non mai.
 
“Allora? Che hai da dire? Te ne starai lì seduto a gambe incrociate in eterno? Parla, fratello, perché so che c’entri qualcosa, in tutta questa storia, e c’entri dall’inizio! Ah! Che tragedia! Chi dispone di un potere talmente grande? Chi? Controllare il tempo… Ma, dico io, come?”.
 
Convinto che non sarebbe uscito vivo da quella situazione, Genio si era messo seduto più comodamente in attesa di trovare le parole giuste per dare a Baba le spiegazioni che meritava. Sapeva che avrebbe rischiato di farle venire un infarto, ma non poteva più mentirle. Era giunto il momento di alleggerire il peso che sentiva sul cuore.
 
“Ti conviene portare pazienza, sorella mia… La storia che vuoi sentire è molto più lunga e complessa di quanto tu possa immaginare”.
“Oddei…”.
“Tirare in ballo gli dei non ci aiuterà, purtroppo. Questa, è una faccenda che riguarda solo noi poveri esseri umani, i nostri doveri, i nostri propositi e i nostri sciocchi sentimenti. E che gli dei non me ne vogliano, ma mai potranno comprendere quanto essi possano distruggerci”.
 
Così, con pazienza e non senza un nodo in gola, Genio aveva raccontato a sua sorella tutto, ma proprio tutto quello che era accaduto a lui, ai suoi compagni e al suo primo vero allievo senza omettere alcun dettaglio. Aveva raccontato di come lo aveva trovato, allevato, addestrato, di come gli avesse conferito piena fiducia e di come lui l’avesse gettata alle ortiche, maledicendo se stesso e i suoi compagni. Il Vecchietto delle Tartarughe aveva parlato con tono neutro, distaccato, quasi come se stesse parlando di qualcosa che non lo riguardava da vicino. Ancora una volta, aveva ringraziato i suoi fedeli occhiali scuri, ma era certo che sua sorella non avesse tardato nell’indovinare cosa si celasse dietro quelle spesse lenti inviolabili. Chiunque lo conoscesse almeno un minimo non poteva fingere di non aver notato che quella sua posa rigida, quel suo parlare in maniera così impostata, fossero tutti segnali di un profondo malessere.
Sul viso di Baba, invece, le emozioni erano palesi e desiderose di apparire: stupore, meraviglia, rabbia, sconcerto, odio, orrore, dolore, dispiacere. Suo fratello aveva sofferto le pene dell’Inferno e continuava a patirle, considerando che aveva assunto il peso di quella enorme responsabilità solo su di sé. Se c’era una cosa che Baba, però, proprio non riusciva a capire, era una: come poteva non essersi accorta di niente? Come poteva non averne memoria? Neppure re Kaioh o re Yammer sembravano ricordare quell’episodio… Per quale ragione?
 
“So già cosa ti starai chiedendo…” – aveva parlato Genio, senza guardarla negli occhi – “E sappi che c’è una risposta anche a questo…”.
“Sono ansiosa di ascoltarla…”.
“Oh, lo so bene… Così come so che non ti piacerà la risposta che ti darò…”.
 
E, infatti, non aveva avuto torto. Il racconto che aveva fatto era stato dettagliato, forse anche troppo, e aveva scatenato in Baba dapprima un forte istinto omicida, in seguito un moto di tenerezza seguito nuovamente un fortissimo, irrefrenabile istinto omicida più forte di quello avvertito in precedenza.
 
“Tu cosa hai fatto? Tu… Tu cosa? Tu come…? Ma dico, ti è dato di volta il cervello? Ma a cosa stavi pensando, dico io? A cosa? Ah! Tu vuoi farmi venire un infarto!! Vuoi farmi morire?”.
“Stai calma, sorella, ti prego… Ormai, le cose sono andate in questo modo. E tu, a prescindere, ormai sei a conoscenza della verità”.
“E veramente pensi che questo possa bastare?”.
“So che non è così… Ma non posso più rimediare a ciò che ho fatto quando ero giovane e sprovveduto”.
 
Quello che aveva sconvolto Baba al punto da farle credere di essere prossima alla tomba era stata la rivelazione del terribile segreto che Genio custodiva da tutto quel tempo e di cui lei era stata vittima e causa allo stesso tempo.
Con parole semplici e accorate, Genio le aveva raccontato di come avesse deciso di essere l’unico e solo custode di quel segreto decidendo di compiere un atto vigliacco ma necessario: rubare l’incantesimo che la sua stessa sorella stava progettando per causare l’oblio della mente.
Genio non era uno stregone, ma aveva imparato i rudimenti della magia osservando con attenzione proprio Baba, che sin dalla nascita aveva dimostrato di possedere un talento non indifferente verso la stregoneria e le pozioni. Aveva agito da solo, in un momento in cui sua sorella era lontana, sapendo che si sarebbe infuriata se lo avesse scoperto. L’incantesimo era complicato, ma la sa caparbietà e il suo desiderio di gettarsi tutto alle spalle gli avevano infuso coraggio e determinazione, e lo avevano fatto a tal punto da consentirgli di metterlo in pratica.
Purtroppo, il trambusto che aveva causato il suo allievo era stato tale da aver attirato una serie di curiosi presso le porte della Caverna in cui lo aveva imprigionato, e Genio non poteva permettere a nessuno di liberarlo o – peggio ancora – di entrate in possesso dei segreti della loro congrega. L’incantesimo di Baba avrebbe causato una perdita di memoria a tutti coloro che avevano visto o sentito, e questo lo avrebbe reso l’unico e solo custode di quel luogo e di quel segreto. Non c’era più molto tempo, i nemici e i curiosi continuavano ad arrivare a frotte, incuriositi dai tesori della “caverna delle meraviglie”, e questo aveva giocato un punto a suo sfavore: purtroppo per lui, nello stesso istante in cui stava per lanciare l’incantesimo, sua sorella era giunta per fermarlo e ne era stata investita in pieno, dimenticando completamente non solo l’accaduto, ma anche di aver realizzato quella formula così spaventosamente efficace. Baba, insieme a tutti coloro che si trovavano nei pressi della grotta – e non solo – avevano dimenticato ogni cosa riguardante quel posto, quello spaventoso evento e chi ne era stato protagonista. L’allievo, la scuola e la grotta non esistevano più. C’era solo Genio. Genio e nessun altro.
Quell’incantesimo, però, aveva avuto due effetti, uno uguale e uno contrario: la sfera, collegata al regno dell’Aldilà, aveva permesso al flusso dell’incantesimo di raggiungerne le porte, agendo anche sulle divinità che, però, avevano subito perdita solo di parte della memoria – e qui Baba aveva potuto spiegare il perché re Kaioh le avesse raccontato di un antico nemico di cui si era perso anche il nome; l’effetto contrario, invece, era stato quello avuto dalle donne terrestri, la cui memoria, si era rinforzata, quasi espansa, a discapito di quella degli uomini.
Adesso, finalmente, Baba era a conoscenza di ogni singola cosa riguardante quel cataclisma che aveva sconvolto il mondo: sapeva della grotta, della setta, di Genio, del suo allievo, dell’incantesimo e della condanna che si era inflitto per tenere al sicuro l’umanità da quella minaccia inimmaginabile. Avrebbe dovuto essere furiosa – e in parte lo era – ma proprio non era riuscita non avvicinarsi a lui e a dargli una tenera pacca sulla spalla. Forse da un’altra sorella, ci si sarebbe aspettato di più, ma non da lei, non da Baba, ma Genio aveva avvertito pienamente il calore di quel gesto così lieve eppure così intimo, e si era sentito rincuorato. Forse, alla fine, sua sorella non lo avrebbe ucciso.
 
“Hai sbagliato a non chiedermi di intervenire… Avrei potuto sistemare le cose… Avrei potuto aiutarti”.
“Lo so, ma sapevo anche che ti saresti infuriata, e in quel momento non avevo le energie necessarie per affrontarti. Poi il tempo è trascorso… E questo è quanto… Sono stato un codardo, perdonami se puoi”.
“Oh, ma per favore! Certo che ti perdono… Sei mio fratello, e lo hai fatto per una buona causa. Però sappi che non dovrai aspettarti la stessa clemenza da parte degli dei. Loro saranno furiosi per questa cosa. Prevedo grossi guai!”.
“Lo immaginavo…”.
“Questo, però, non chiarisce ancora bene il perché di questo balzo temporale. Siamo andati avanti di quasi un anno, sai… Come è avvenuto?”.
 
Genio si era preso un momento per pensare.
 
“Non ne sono certo, ma credo che lui sappia già ogni nostra mossa. È molto astuto, sorella mia, e ha avuto tanto tempo per pianificare ogni cosa nel minimo dettaglio. Però, vedi, credo che abbia fretta, smania di raggiungere i suoi obiettivi. Per questo, ha deciso di creare questo sbalzo temporale. O, almeno, questo è quello che credo”.
“Potrebbe avere senso… Ma lui, quindi, vuole impossessarsi del corpo di Goku, no?”.
“Temo proprio di sì, mia cara. Vuole il nostro Goku. Una volta ottenuto il suo corpo e la sua potenza, credo che nessuno di noi potrà fermarlo”.
“Non esiste un guerriero che abbia la sua stessa forza fisica, ne sono certa Sarebbe una catastrofe se mettesse le mani su di lui”.
“Già… E la cosa peggiore è che temo non manchi molto tempo… Purtroppo, credo che il nostro ragazzo raggiungerà il posto in cui si trova il nemico prima del previsto. A quel punto, penso che il primo che verrebbe a cercare sarei proprio io, e non è difficile capire il perché”.
“Oh, fratello…”.
“Stai tranquilla: sto bene. Sono preparato a questo. Lo sono da molto tempo”.
 
Era palesemente una bugia, ma Baba aveva lasciato correre. Non voleva stressare eccessivamente Genio con i suoi dubbi e le sue paure. Adesso era a conoscenza della verità e poteva aiutarlo a fermare quel mostro e sconfiggerlo una volta per tutte.
Era di suo fratello che si trattava – oltre che del destino del mondo, era chiaro – e lei non aveva intenzione di tirarsi indietro. Avrebbe combattuto a testa alta al suo fianco, come avrebbe dovuto fare dall’inizio, e nessuno avrebbe potuto farle cambiare idea.
 
*
 
Vegeta aveva una gran confusione in testa, ma proprio non riusciva a comprenderne il motivo. Avvertiva come una sensazione di vertigine mista a nausea e gli facevano male le ossa, un fastidio non indifferente, purtroppo. Era come se fosse stato investito in pieno da una delle Energie Sferiche del decerebrato – e sì, sapeva benissimo cosa si provava – ma proprio non riusciva ad attribuire quei fastidi a niente in particolare. Aveva lavorato nei campi duramente, era vero, la temperatura era ancora abbastanza rigida nonostante la bella stagione, ma lui sembrava essere uscito come un rottame da una valanga o qualcosa di simile, ma non aveva tempo per pensare a quelle sciocchezze.
Prima di raggiungere i campi, doveva passare dal mercato e comprare l’occorrente per la cena. Doveva avere più fantasia nella scelta delle pietanze, lo sapeva bene, ma i soldi non sempre bastavano e i ragazzi avevano imparato ad adattarsi. Del resto, la sera prima avevano mangiato… Avevano mangiato…
 
“Che diamine ho cucinato, ieri sera?”.
 
Vegeta aveva corrucciato la fronte, incerto e confuso in merito a un argomento così semplice. Non che le opzioni fossero chissà quante, ma più si sforzava meno riusciva a ricordare cosa diavolo avesse preparato per cena solo poche ore prima. Brodo? Riso e verdure? Uova? Proprio non riusciva a fare mente locale. Era come se, sulla giornata precedente, fosse sceso un sipario buio, come se qualcuno avesse cancellato quelle ore per sempre. Magari aveva solo dormito troppo poco ed era troppo stanco, allora aveva provato a ricordare cosa aveva cucinato due giorni prima, ma ancora una volta nessun ricordo era riaffiorato alla sua memoria. E per ricordi, non intendeva solo quelli legati alla cena. Era come se avesse completamente dimenticato un pezzo della propria vita, perché più provava a tornare indietro meno riusciva a trovare la luce in quella scatola nera come la notte.
 
“Tsk! Devo aver mangiato qualcosa di avariato che mi ha fatto andare in pappa cervello e ossa, o non si spiega come io possa essermi tanto rincretinito. Come cazzo è possibile che non riesco a ricordare? Tsk, roba da pazzi degna di quel mentecatto di Kaharot”.
 
Quello, però, non aveva potuto fare a meno di notarlo: era la seconda volta che, volente o nolente, nominava quella testa di rapa di un saiyan di terza classe.
 
“Mi domando dove si sarà cacciato quell’idiota. È quasi un anno che siamo qui e di lui non c’è traccia. Non che me ne freghi qualcosa, è meglio che stia lontano, ma proprio non ce la fa a preoccuparsi per suo figlio, quel babbeo. Tsk! E pensare che è proprio lui l’idiota convinto che ci sia speranza per tutti!”.
 
Solo dopo qualche istante aveva preso veramente coscienza di ciò che aveva detto. Un anno.
Era veramente trascorso un anno da quando le loro vite erano state stravolte? Era veramente passato tutto quel tempo senza lui facesse niente?
 
“Tsk! Devo aver bevuto! Devo aver preso una sbronza epocale, solo quella può spiegare tutto quello che mi sta succedendo! O forse… Bah! Forse un corno!”.
 
Non avrebbe mai espresso quel pensiero ad alta voce, un po’ per pudore, un po’ per non prendersi da solo per pazzo. Lo avrebbe tenuto per sé, così come quella sgradevole sensazione di disagio che non avrebbe mai avuto il coraggio di esternare. Non aveva voglia di andare a lavoro e, soprattutto, non aveva voglia di vedere Leon, ma non riusciva a spiegarsene la ragione. Per questo motivo, avrebbe continuato a camminare senza fermarsi, ma non senza continuare a porsi domande. Dopotutto, solo facendo domande avrebbe potuto ottenere delle risposte.
 
Continua…


Ragazze/i,
Come va? Come state? Spero bene!
La storia prosegue, e tante nuove spiegazioni ci vengono fornite direttamente dai nostri personaggi preferiti! Genio si è caricato di tante, troppe responsabilità ma, così facendo, ha creato un immenso, colossale caos.
Non me la sento di prendermela con lui, però… Del resto, voleva solo tenere tutti al sicuro.
Ora, Baba lo aiuterà, ma come?
E cosa ha intuito Vegeta? Il principe è troppo forte per cedere completamente alla magia di quel mostro o è una sua vittima come tutti gli altri?
Lo scopriremo!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 53
*** L'inganno ***


L'inganno

 
Trunks aveva fatto di tutto per impossessarsi nuovamente del quaderno, ma non aveva avuto modo di eludere la stretta sorveglianza che Goten continuava a praticare per evitare qualsiasi tipo di contatto tra lui e l’oggetto che tanto odio aveva scatenato nel suo cuore. Aveva provato a e riprovato a farsi raccontare per filo e per segno come ne era entrato in possesso e che tipo di conversazione avessero avuto, ma non c’era stato verso di farlo quantomeno collaborare: Goten si era chiuso a riccio, convinto delle sue idee a tal punto da non sembrare neanche più lui.
Trunks era esasperato: si sentiva terribilmente in colpa per non essersi sbarazzato immediatamente di quel coso, per non aver capito sin da subito quanto fosse pericoloso, e si sentiva ancora peggio per non essere stato capace di proteggere Goten dai suoi influssi malefici. Qualsiasi cosa fosse in realtà quell’oggetto, esso era il male, e si stava divertendo a possedere le loro menti e le loro coscienze e piegarli alla sua volontà.
Suo malgrado, comprendeva perfettamente la reazione di Goten, perché era stata identica alla sua. Solo nell’istante in cui aveva iniziato a vivere la situazione dall’esterno era stato in grado di capire la preoccupazione più volte palesata da parte del suo migliore amico, e proprio per questo aveva deciso di intervenire, anche a costo di perderlo per sempre.
Ciò che inquietava maggiormente il piccolo mezzosangue era ciò che quell’affare era stato in grado di fare con lo scorrere del tempo. Ci aveva impiegato un po’ di tempo per capire la situazione – o meglio, per accettarla – ma dopo essersi trovato più alto di qualche centimetro e aver constatato che il clima fosse completamente diverso a quello palesatosi sino a poco prima, aveva logicamente dedotto che ci fosse stato un salto temporale che, in buona sostanza, si trovassero nel futuro.
Aveva trascorso ore e ore a spremersi le meningi e cercare di capire il perché di quella cosa così bizzarra, ma era evidente che qualsiasi spiegazione provasse a darsi non era neanche lontanamente prossima alla verità. Quale diamine poteva essere il suo obiettivo? Quale era il suo fine? Che cosa voleva da loro?
Non lo avrebbe mai scoperto, probabilmente, ma di una cosa era certo: doveva disfarsi di quell’affare prima che Goten cadesse definitivamente sotto il suo controllo.
 
Così, dopo mille peripezie (a dire il vero, neppure lui sapeva come avesse fatto) era finalmente riuscito a evitare Goten, prendere quella mostruosità e tornare nel posto in cui aveva quasi rischiato la vita: il capanno dietro casa.
Aveva il cuore in gola, il piccolo Trunks, le gambe tremolanti e le mani sudate. Odiava fare le cose di sottecchi, odiava far preoccupare suo padre e prendere in giro Goten, ma non aveva alternative.
Trunks era logorato dalla paura. I ricordi tristi lo avevano assalito, così come la smania di sbarazzarsi per sempre di quel coso maledetto. Per questa ragione, aveva deciso di agire nell’immediato, liberandosi di quel coso grazie al fuoco.
Con mani tremanti, si era inginocchiato in quel luogo malandato e pericolante per poi accendere uno degli ultimi fiammiferi rimasti in casa sfregandolo su una pietra: la fiammella ardente sembrava impotente contro quella mostruosità, ma lui non era mai stato così deciso, irremovibile, in quanto era certo che, se lo avesse distrutto, avrebbe riportato le cose com’erano prima.
Le fiamme ardevano nei suoi occhi azzurri, ardevano come il suo animo e la sua sete di giustizia.
 
“Adesso brucia, bastardo. Brucia”.
 
Contrariamente a ogni pronostico, aveva preso fuoco in un attimo, neanche fosse stato il più inutile e inanimato degli oggetti. Trunks lo aveva visto bruciare con i suoi stessi occhi, traendone una soddisfazione immensa. Non si era reso conto del fatto che la luce produce ombre, e che le ombre, di notte, possono confondersi e confondere chi vi è immerso senza precauzione alcuna.
Così, il mezzo-saiyan dai capelli lillà era tornato a casa vittorioso, convinto di aver posto fine a quell’oscenità, convinto che, dopo una bella dormita, tutto si sarebbe sistemato. Non aveva idea che Goten lo avesse seguito, nascondendosi nel buio, perché il quaderno aveva scelto un nuovo e più promettente proprietario.
 
*
 
Aveva spento le fiamme appena in tempo. Non che potessero realmente arrecare danno al suo tesoro, ma non voleva che si rovinasse, né che qualcuno lo utilizzasse a sua insaputa. Trunks non avrebbe dovuto sottrarglielo con l’inganno. Era stato un gesto ignobile e non faceva altro se non dare adito a ciò che gli aveva confidato il suo nuovo amico: di Trunks non ci si poteva fidare.
Goten aveva capito di essere stato uno sciocco, un credulone, di aver riposto totale fiducia nella persona sbagliata. Il suo migliore amico lo aveva tradito, lo aveva raggirato e ingannato. Il suo nuovo confidente non era stato esplicito, ma gli aveva lasciato intendere quanto Trunks fosse egoista e pericoloso, quanto fosse invidioso di lui e di come volesse impedirgli di avere qualsiasi tipo di contatto anche solo con la sua copertina. Quel tentativo di distruggerlo era stato l’esempio più palese di quello che gli era stato raccontato. In quel momento, ogni dubbio era stato fugato: non poteva più contare su Trunks. Anzi, forse non ci aveva mai potuto contare. Per fortuna, però, non era più solo. Adesso, finalmente, aveva aperto gli occhi, e sapeva cosa fare. Adesso, sapeva cosa avrebbe dovuto fare di tutto per tenersi Vegeta vicino.
 
*
 
Vegeta non aveva dormito bene. Continuavano a fargli male la testa e le ossa, e aveva una strana sensazione di oppressione all’altezza del petto. Nei giorni precedenti non aveva fatto altro se non cercare di richiamare alla memoria gli avvenimenti più recenti, ma proprio non c’era riuscito. Era tutto così buio e confuso, e proprio non riusciva a spiegarsi cosa fosse accaduto, così come non era riuscito a comprendere la natura di alcune cicatrici che non aveva mai notato prima. O, almeno, credeva di non averle mai notate prima.
Anche a lavoro c’era qualcosa di strano, e questo qualcosa, o meglio, questo qualcuno, era Leon. Il capomastro era diventato più crudele e bisbetico del solito Avere a che fare con quel bastardo non era mai stato facile, ma il sadismo mostrato negli ultimi giorni era stato eccessivo anche per uno come lui. Era come se fosse furioso per qualcosa. Cosa fosse questo qualcosa, però, rimaneva un mistero. Per essere più chiari, non che a Vegeta importasse dello stato d’animo di quel verme (anzi, non gliene fregava un fico secco), ma purtroppo i suoi malumori si ripercuotevano su di lui, e questo lo riportava indietro nel tempo, a quando era lo schiavo di quel viscido lucertolone di Freezer, a quando non aveva possibilità di scelta, a quando doveva obbedire ciecamente a ogni ordine per avere salva la vita. Sicuramente, Leon non poteva attentare alla sua incolumità fisica, ma avrebbe potuto sbatterlo fuori, e a lui quel lavoro serviva per dare da mangiare ai ragazzi e per mischiarsi tra gli altri e fare domande senza essere notato. Non era un asso nelle missioni stealth – lui preferiva le entrate a effetto, possibilmente anticipate da esplosioni e gente urlante – ma confondersi con i terrestri e fare domande era l’unico modo per passare inosservato. Del resto, ancora non era venuto a capo di quel mistero. Anzi, a dirla tutta, non sapeva neppure a che punto fosse arrivato, e più ci pensava meno riusciva a rimettere a posto i pezzi di quell’intricatissimo puzzle.
 
“Che cosa ti sei perso per strada? Cos’è che non riesci a ricordare? Cos’è che ti sfugge, dannazione!”.
 
In un’altra situazione, avrebbe dato un pungo a muro. In quella, invece, si era limitato a poggiare la testa sul tavolo, sfinito ancor prima di iniziare una nuova giornata, nuova eppure del tutto identica a quelle vissute in precedenza.
 
*
 
Capire cosa fosse accaduto al suo uomo le risultava impossibile.
Era sempre stato irascibile, poco incline alla pace, ma il comportamento che aveva assunto nell’ultimo periodo aveva dell’inspiegabile. Se, in un primo momento, sembrava essere diventato estremamente sicuro di sé, forte e ambizioso, e aveva dato l’impressione di emanare come una strana aura di potere, adesso sembrava essere tornato la creatura mediocre di prima, quella che aveva bisogno dello schiocco della frusta per intimidire i suoi sottoposti e chiunque gli ronzasse intorno.
Aveva paura. Molta più paura di quella che dava a vedere, per questo non era mai stata così servizievole e pronta come in quei giorni.
Quella sera, poi, il suo uomo era di cattivo umore persino più del solito, e sapere perché era un lusso che non le sarebbe stato concesso.
Era andato storto qualcosa sul posto di lavoro? Uno dei braccianti aveva osato contraddirlo? O una donna non aveva assecondato i suoi capricci? Lei non era una sciocca, per quanto volesse apparire come tale a ogni costo: sapeva esattamente con chi aveva a che fare, e proprio perché lo sapeva si era adeguata: lo aveva fatto per sopravvivere.
Con estrema cura, aveva affettato il pane in fette spesse circa un centimetro e le aveva disposte in un cesto ordinatamente, aveva apparecchiato la tavola in modo impeccabile e aveva portato la brace alla temperatura giusta, facendo sì che la griglia fosse pronta per ricevere la generosa bistecca che gli avrebbe servito per cena. Il vino era a temperatura di cantina e l’insalata era stata lavata, spezzettata e condita con abbondante olio, poco sale e aceto, proprio come voleva lui. Tutto era perfetto. O almeno, così sperava. Non avrebbe sopportato un’altra delle sue sfuriate. Non dopo quello che le aveva fatto l’ultima volta. La schiena le doleva ancora per colpa delle violente sferzate che continuavano a sanguinare. Aggiungerne di nuove era fuori discussione. Per questo non poteva commettere errori.
 
“Che giornata di merda! Che casa di merda! DONNA! Dove sei?”.
 
Presa alla sprovvista, aveva fatto cadere la bottiglia dell’olio sul tavolo, e il contenuto si stava miseramente rovesciando sul pavimento appena pulito.
 
“Mi ammazzerà!”.
 
Rapida come poche altre volte, aveva rimesso la bottiglia al suo posto, aveva preso una tovaglia e l’aveva gettata sulla macchia d’olio, affrettandosi a recarsi in salotto con un bicchiere di vino in mano nel tentativo di lusingarlo e distrarlo allo stesso tempo.
Se lo avesse visto, se avesse visto quello che aveva combinato, non l’avrebbe passata liscia. Ma lei doveva stare calma… Sì, doveva solo stare calma e sarebbe andato tutto bene.
 
“Del vino… Forse, la prima cosa veramente decente di questa giornata infernale”.
 
Lo aveva bevuto tutto d’un fiato, facendone cadere gran parte lungo il mento ormai sudicio.
Era disgustoso. Negli ultimi tempi lo era decisamente più del solito.
Era tutto così strano, ma perché? Non riusciva proprio a rendersi conto di quello che fosse capitato, ma qualcosa era capitato per forza. Si sentiva più stanca, si vedeva cambiata, ma non riusciva a capire in che modo. Era come se sentisse su di sé il peso di un intero anno, come se si fosse svegliata una mattina e si fosse resa conto di essere invecchiata. Era un’autentica idiozia, per questo non aveva fatto parola con nessuno di questa sua sensazione, ammesso che qualcuno fosse stato disposto ad ascoltare le ciance di una come lei.
 
“Sei qui con me, donna? Hai di nuovo la testa altrove! Mi chiedo quali preoccupazioni possa avere una come te che campa sulle mie spalle!”.
“Scusami… Ti vedo stanco e mi stavo solo chiedendo perché”.
“Perché? Mi chiedi perché? Perché ho a che fare tutti i giorni con idioti! Ho anche fare per tutto il giorno con imbecilli scansafatiche che si permettono di ribellarsi! Perché non ho più il potere di prima! Ecco perché! E ora servimi il pranzo se non vuoi che ti dia una lezione! E non fare più domande! Non sei altro se non una stupida femmina a cui ho risparmiato la vita!”.
 
Aveva ubbidito senza discutere, cercando di non peggiorare il suo umore. L’ultima cosa che voleva era farlo arrabbiare ulteriormente e patirne ulteriormente le conseguenze. Ma c’era una cosa che voleva anche di più, se questo era possibile: voleva vederlo strozzarsi con una di quelle bellissime fette di pane perfette che aveva tagliato apposta per lui.
 
 
*
 
L’alcol lo aveva annebbiato, ma non fino al punto che desiderava. Continuava a sentire il peso dell’abbandono, il vuoto del potere che gli era stato negato. Sapeva di essere solo un messaggero, un tramite, ma non credeva di poter essere messo da parte con tanta facilità, di poter essere scaricato senza ricevere nulla in cambio.
Era stato raggirato, e una cosa che faceva ribollire il sangue a Leon era la consapevolezza di essere stato usato e gettato via come una marionetta rotta e ormai inutilizzabile. Lui, però, non era rotto: era pieno di vita e desideroso di compiacere, ma del suo presunto benefattore non vi era alcuna traccia. Erano queste le cose che più di tutte lo facevano soffrire, che lo facevano sentire umiliato. Al di sopra di tutte, c’era la consapevolezza che se colui che lo aveva usato e abbandonato gli avesse chiesto un altro favore, lui avrebbe accettato a occhi chiusi, senza neanche sapere di cosa si trattasse.
 
“Sei proprio uno stupido fallito. Un fallito come quei falliti che frusti ogni giorno!”.
 
La gola ardeva a ogni sorso di vino che mandava giù. Aveva afferrato la bottiglia che era sul tavolo e ne aveva bevuto una sorsata che avrebbe mandato al tappeto un comune mortale, ma lui non sentiva di essere tale. Lui non poteva essere come tutti gli altri se era stato scelto da un essere così puro e perfetto, no? Allora, perché era stato abbandonato? Perché gli aveva fatto sentire l’ebbrezza del potere se poi lo aveva fatto tornare al punto di partenza? Non riusciva proprio a immaginare come potesse sentirsi?
Certo che sì… Lo sapeva di sicuro e non gli importava. Non gli importava perché sapeva di averlo in pugno, e perché sapeva che avrebbe acconsentito a qualsiasi altra sua richiesta.
 
“Solo che… Che…”.
 
Non sapeva neanche lui cosa. Sapeva di certo di voler continuare a bere fino a stordirsi, sapeva di voler vomitare e sfogare la sua frustrazione su quella sciocca della sua donna e su quel bastardello che aveva sotto le sue grinfie. Oh dei, ricordava con piacere perverso tutto quello che gli aveva fatto subire, e fremeva all’idea di prendere la frusta e sferzarla di nuovo su quella schiena. Lo avrebbe spezzato, piegato, umiliato, distrutto, se solo glielo avesse chiesto. Questo perché lo odiava. Lo aveva detestato sin dal primo momento in cui lo aveva visto, con quella sua aria da arrogante saputello, e l’odio e il disprezzo nei suoi confronti erano aumentati dopo quello che gli aveva fatto per difendere quella lurida cagna passata a miglior vita. Quanto aveva goduto nel vendicarsi, nel vederlo soffrire fisicamente e mentalmente. Gli aveva tolto quell’espressione da duro che aveva sempre stampata sulla faccia, finalmente. Che soddisfazione!
 
E quando aveva raggirato quello sciocco ragazzino? Non c’era voluto niente, era stato veramente facile come rubare le caramelle a un bambino. Ma quello sbalzo temporale non lo aveva previsto. Non che conoscesse i piani del suo mentore, ma mai avrebbe creduto di ritrovarsi più vecchio quasi di un anno, unico essere umano consapevole che tutto fosse cambiato senza cambiare veramente. Aveva visto scorrere davanti ai suoi occhi, uno a uno, prima i giorni, poi i mesi, aveva visto la pioggia cadere, il sole splendere, gli alberi rinascere e morire, i frutti maturare e marcire, il suo vigore venire a sparire in un attimo. Lo aveva visto e non era riuscito a farsene una ragione, e ora l’orgoglio bruciava, proprio come l’alcol che scendeva in gola.
Ma lui avrebbe atteso, paziente, di tornare in campo. In qualche misura, sentiva che il suo maestro avesse ancora bisogno di lui che, senza esitazione alcuna, avrebbe risposto alla sua chiamata. E lui, da bravo allievo, sarebbe stato più che mai pronto.
 
*
 
Goten doveva stare attento. Non doveva più separarsi dal quaderno, non doveva più lasciare che Trunks lo trovasse e tentasse di distruggerlo. Non ora che aveva finalmente trovato un confidente, un amico. Non ci si poteva fidare del piccolo Brief, l’essere nel quaderno aveva ragione. Gli amici sono rari, rarissimi, e Trunks non era uno di loro. Trunks era solo uno sciocco bambino capriccioso che aveva avuto tutto dalla vita e che era incapace di condividere le gioie con gli altri. Era un capriccioso e un disonesto, un bambino crudele e manipolatore, e lui non voleva più essere manipolato, mai più. Lui voleva una famiglia, un papà, e questo era quello che il suo nuovo amico gli aveva promesso, quindi non aveva più bisogno di sperare nell’affetto o nella sincerità di Trunks, né ora, né mai.
Per questo, aveva deciso di non separarsi mai dal suo tesoro: lo portava con sé a scuola, lo portava con sé a letto, in bagno, ovunque. Non se ne sarebbe separato mai più.
Trunks era tranquillo, perché era certo di essersene sbarazzato grazie al fuoco, e lui era stato attento a non dare segnali che potessero in qualche modo insospettirlo. Tutto doveva rimanere così com’era, soprattutto il suo rapporto con Vegeta, il suo unico e solo papà. Goku non era niente per lui, così aveva pensato sin dall’inizio e così gli aveva confermato il suo nuovo amico. Trunks era solo geloso, invidioso, e voleva il padre tutto per sé. Goten era convinto che Vegeta conoscesse quella verità, che la vedesse con i suoi stessi occhi, solo che non voleva ancora ammetterlo.
 
Eppure, era un’altra la cosa a cui Goten pensava costantemente. Vegeta non stava bene. Se c’era una cosa di cui si era accorto senza bisogno dei suggerimenti di qualcuno, era proprio questa. Da quando avevano fatto quel balzo in avanti, quel balzo necessario a liberare Vegeta dalla prigionia, a curare le sue ferite e fargli dimenticare le sofferenze subite, il principe dei saiyan non era stato più lo stesso. Goten si era accorto del suo dimagrimento improvviso, del suo sguardo assente, della fatica con cui svolgeva le più semplici faccende. La pelle aveva assunto uno strano colorito e le occhiaie lo facevano sembrare più vecchio e malato di quanto non fosse.
Era estremamente preoccupato per lui, non poteva negarlo, e confidava in ogni momento libero le sue preoccupazioni alle pagine ingiallite di quel quaderno magico che esaudiva i desideri. Certo, aveva notato che non fossero proprio come avrebbe voluto, ma importava poco: il suo nuovo amico gli aveva promesso che se avesse fatto tutto quello che gli chiedeva, ogni cosa sarebbe tornata al suo posto e che si sarebbero potuti persino conoscere, alla fine, perché se le cose si fossero sistemate, lui avrebbe potuto esaudire il suo stesso desiderio: quello di essere di nuovo libero.
Goten era un tipo sveglio, ma non aveva capito bene la storia che gli aveva narrato il suo amico. Alcuni passaggi non erano del tutto chiari, ma importava poco: si fidava di lui e la sua parola era oro. Avrebbe fatto di tutto per far tornare indietro la sua mamma, per riavere Gohan, Ouji, Bulma e gli altri, e per tenere Vegeta accanto a sé, avrebbe anche rinunciato a Trunks.
 
Erano quelle le cose a cui stava pensando quando qualcuno era rientrato in casa sbattendo con violenza la porta. Chi poteva essere a quell’ora? Trunks? Impossibile. Che fosse…
 
“Vegeta?”.
 
Il principe dei saiyan era comparso all’improvviso, bianco in viso come un lenzuolo e ansimante come un animale braccato dai lupi. Aveva corso di sicuro. Era agitato, sembrava spaventato, ma da chi?
 
“Stai bene?”.
“Dov’è Trunks?” – aveva chiesto, dopo aver bevuto tutto d’un fiato un bicchiere d’acqua – “Rispondi”.
“Non lo so” – aveva detto, lapidario.
“Dannazione, Goten! Non puoi non saperlo!”.
 
Lo aveva visto dare un colpo sul tavolo e chinare la testa tra le spalle.
Perché era tanto agitato? Cosa stava succedendo?
 
“Goten, non muoverti da qui, ok? Vado a cercarlo”.
“COSA? NO! Non mi lasciare! Dimmi cosa è successo, ti prego!”.
“Devi ubbidire!”.
“Ma…”.
“Senti, ragazzino, fa come ti dico e FORSE non ci saranno guai. Non posso badare a entrambi, adesso. Chiuditi in casa e non aprire a nessuno per nessuna ragione al mondo. Se ci trovano ci mandano al rogo, lo capisci o no? RESTA-IN-CASA”.
 
Ed era uscito sbattendo la porta con violenza, lasciando solo per partire alla ricerca di Trunks.
 
Veloce come non mai, Goten aveva preso una penna e aveva tirato fuori il suo amico, raccontandogli ogni cosa.
 
HA PAURA CHE VI TROVINO.
 
“Ma chi? Non capisco di chi parliate!”.
 
DELLE STESSE PERSONE
CHE HANNO UCCISO
MARILYN.
 
“Ma come sarebbe?”.
 
CI SONO DISORDINI IN CITTÁ.
VEGETA È UN SOSPETTATO.
 
“Ma sospettato di cosa? Non dirmi che ancora pensano alle streghe?”.
 
TEMO DI SÍ
“Ma… Avevi detto che…”.

 
“CHE CI FAI ANCORA CON QUEL COSO? COSA? ORA BASTAAAAAA”.
 
Trunks era entrato in casa così silenziosamente da averlo colto sul fatto e, come una furia, si era gettato su Goten, strappandogli dalle mani il quaderno.
 
“DAMMELO! È MIO!”.
“NO! NON È VERO!”.
“MA LO CAPISCI CHE TI STA MANIPOLANDO O NO?”.
“NO! TU LO FAI!”.
“NO CHE NON LO FACCIO, RAZZA DI CRETINO! LO SO CHE È COSÍ PERCHÉ LO HA FATTO ANCHE CON ME! CI STA USANDO! LO CAPISCI CHE TUTTO QUESTO CASINO È OPERA SUA???”.
“NON È VERO!”.
“ORA BASTA!”.
 
Trunks non sapeva come avesse fatto, ma lo aveva fatto e basta: aveva strappato di mano il quaderno a Goten e lo aveva spinto indietro, facendogli sbattere la testa al muro. Gli occhi di Trunks si erano dipinti di terrore nell’esatto istante in cui si era reso conto che il suo fratellino avesse perso conoscenza e che una striscia di sangue fosse colata lungo il muro.
Nello stesso istante, suo padre aveva aperto la porta, sconvolto da quanto gli stavano mostrando i suoi occhi.
 
“Che cosa… Cosa hai fatto?”.
 
Trunks non era stato capace di proferire parola mentre le pagine che reggeva ancora fra le mani si stavano sparpagliando sul pavimento alla rinfusa. Questo mentre suo padre, pallido e stanco, ne seguiva suo malgrado la scia.
Aveva fallito, e lo aveva fatto nell’attimo in cui credeva di aver vinto.
Il quaderno era stato strappato a metà, era ormai distrutto, ma la stessa sorte l’aveva appena subìta il suo cuore.


Continua…
 
Ragazze/i,
Vi chiedo perdono!
Il mio povero pc è stato per diversi giorni dal tecnico, e solo oggi ho potuto recuperarlo e aggiornare questo papiro con un nuovo capitolo.
Ma torniamo a noi!
Ebbene sì: Goten è ferito, Vegeta è svenuto, il quaderno è stato strappato a metà e Trunks è sull’orlo di un esaurimento nervoso, proprio come la sottoscritta.
XD
Scherzi a parte, MANNAGGIAALLAMISERIAGOTENÉFERITOEVEGETAÉSVENUTO. DI nuovo. Oltre che a farsi dare un’occhiata alla spalla, ho come l’impressione che il principe debba farsi dare una controllata alla pressione! (Ok, giuro che la smetto di fare la scema).
Il mostro nel quaderno sta portando a compimento il suo operato o no? Si paleserà e si farà affrontare ad armi pari, o i nostri amici dovranno ancora subire le conseguenze delle sue azioni becere?
Lo scopriremo (prima o poi)!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 54
*** Nightmare ***


Nightmare
 
Le cose stavano andando proprio come aveva programmato. Certo, aveva dovuto accelerare un po’ i tempi, se così si poteva dire, ma alla fine, quell’espediente aveva fatto in modo di fargli ottenere esattamente quello che desiderava.
Era determinato ad attirare nella sua trappola le sue prede predilette: Goku, il suo tramite, Vegeta, il suo pasto, e Genio, l’essere verso cui avrebbe dovuto vendicarsi per ottenere tutto quello che gli era stato negato in passato.
 
Era incredibile pensare a come il destino avesse posizionato ogni singola pedina al posto giusto nel momento giusto. In tutto quel tempo trascorso in solitudine, recluso all’interno dell’unico bene materiale che avesse mai posseduto, aveva avuto modo di pensare a quanto sarebbe stato meraviglioso vivere la sua vendetta. Egli sapeva che, prima o poi, sarebbe arrivata. Sapeva che, prima o poi, avrebbe preso tutto ciò che era suo non per diritto di nascita, ma perché lo aveva guadagnato, perché era speciale, superiore a chiunque fosse mai venuto al mondo.
 
Manipolare Trunks si era rivelato più facile del previsto, ma con Goten era stata una vera e propria passeggiata di salute. Il bambino era stato così accuratamente preparato dagli atteggiamenti e dai cambiamenti di umore del suo “amichetto” da lasciarsi plasmare come creta. Certo, la sparizione di sua madre, la morte di Gohan e di quello stupido cane avevano iniziato a preparare il terreno, ma la sua opera magistrale era stato il modo in cui aveva portato Trunks a odiarlo. A quel punto, desideroso di avere solo per sé l’amore (se così si poteva definire) e le attenzioni di Vegeta, era stato lo stesso Goten ad allontanarsi definitivamente da Trunks, sperando così di ottenere tutto ciò che gli era stato negato. Non poteva sapere che, così facendo, avrebbe solo fatto sì che Vegeta e Goku si incontrassero di nuovo e che dal loro incontro l’unico a uscirne vittorioso sarebbe stato lui.
Era tutto talmente perfetto da non sembrare neanche vero: Goku era prossimo ad arrivare, lo sentiva chiaramente, Vegeta era talmente provato da non riuscire neanche più a pensare, e ciò avrebbe fatto sì che lui ottenesse tutto il potere che desiderava, bramava, che meritava.
Era stato il peggior errore mai commesso da quell’idiota con gli occhiali da sole scegliere di rinchiuderlo nello stesso posto dei suoi vecchi “amichetti”…. Oh, sì, era stato un errore madornale! A nulla erano valsi i loro innumerevoli sforzi perpetrati nel tentativo di fermarli: comparire a loro sotto forma di ombra o provando a possedere animali e ragazzini non era stata una mossa vincente, ma aveva solo fatto in modo di spedirli nella trappola che aveva ordito. Quell’agire disperato aveva solo fatto sì che si trovassero ancora più sull’orlo dell’abisso, e che riponessero le loro speranze in lui.
Avere Vegeta talmente vicino cominciava a essere un autentico strazio. Il principe dei saiyan era un bocconcino troppo prelibato, e lui voleva divorarlo a ogni costo. Il passare dei mesi lo aveva reso debole, insicuro e pronto per lui. Se avesse avuto ancora in vigore di un tempo, se la sua mente fosse stata lucida, avrebbe di certo già capito ogni cosa, e forse lo avrebbe ridotto a brandelli microscopici. Era uno stratega nato, Vegeta, lo aveva capito sin dal primo momento in cui lo aveva visto tramite i ricordi e gli occhi di Trunks, e proprio per quella ragione aveva deciso di farlo suo per ultimo, dopo aver permesso a Goku di assorbirne forza e poteri. Aveva voluto piegarlo, spezzarlo, distruggerlo, e doveva ammettere di esserci riuscito alla perfezione e in varie occasioni: privandolo della presenza della sua compagna, privandolo dei suoi poteri, facendolo diventare ridicolmente umano e più debole di una formica – forse il peggior affronto da rivolgere al principe dei saiyan – e facendolo deridere e usare da Leon, la peggior feccia presente sulla faccia della Terra. Vedere il mondo tramite i suoi occhi, sentire tutto immerso nella sua pelle era stato strano, ma rigenerante. Aveva fiutato l’odore della paura provata da Vegeta, l’aveva vista nelle sue pupille scure, aveva goduto a ogni gemito di dolore, a ogni osso rotto, a ogni ferita sanguinante. Il dolore era stato il nutrimento più forte che avrebbe mai potuto somministrargli, il più efficace per prepararlo al suo scopo ultimo. Vegeta, a breve, sarebbe stato più che perfetto e, di conseguenza, anche Goku sarebbe stato perfetto, e questo per far sì che lui potesse essere perfetto.
Ancora non riusciva a capacitarsi della fortuna che aveva avuto: le stelle avevano fatto sì che ogni cosa fosse al posto giusto al momento giusto, e non parlava solo di Trunks e della fortuna che aveva avuto nel trovarsi proprio nei pressi della grotta. Mai avrebbe pensato che sulla Terra potessero apparire guerrieri del calibro dei due saiyan puri, che potessero esistere esseri talmente potenti da piegare alla loro volontà le forze stesse della natura, che fossero in grado di incanalare un quantitativo inimmaginabile di energia proveniente da se stessi e dall’esterno. Le tecniche che conoscevano non erano paragonabili a nulla di quello che gli era stato insegnato, ma non era un caso se aveva scelto proprio Goku come sua vittima ultima: quel babbeo tutto muscoli era l’eroe forgiato direttamente dal suo mentore, era il suo pupillo, il suo prediletto. Quale beffa più grande poteva esserci, per Muten, se non passare a miglior vita per mano dei suoi allievi preferiti riuniti in un unico essere?
Nessuna… Proprio nessuna.
 
*
 
Goten sembrava essersi svegliato all’improvviso da un incubo. Non avrebbe saputo descrivere per bene quello che gli era capitato, ma si sentiva come se non avesse veramente vissuto quello che aveva vissuto, come se qualcuno o qualcosa lo avesse pilotato dall’esterno e lo avesse portato a fare quello che aveva fatto. Ma cosa?
 
“Non mi sento molto bene…” – aveva mormorato, cadendo indietro sul letto. Era pallido, sudato, sembrava fosse sul punto di vomitare. Trunks, però, non aveva mosso un muscolo, tanto grande era lo spavento che si era preso. Avevano strappato il quaderno a metà. Avevano ridotto quel coso malefico a un ammasso di pagine sparse e pelle sfilacciata. Aveva trascorso un lunghissimo attimo a fissare i fogli in disordine, a bocca aperta, come se fosse stato ipnotizzato. Poi, però, si era reso conto di quello che era accaduto, e aveva capito di non sapere cosa fare.
Goten si era inginocchiato sul bordo del letto e aveva vomitato schiuma e bile. Emetteva gemiti talmente spaventosi da aver dato l’impressione di essere sul punto di gettare via anche l’anima, questo mentre suo padre si era accasciato al suolo, privo di sensi.
Preso dall’ansia e dallo sconforto, Trunks si era isolato dal mondo circostante, si era inginocchiato e aveva cominciato a prendere le pagine in mano, cercandovi sopra una parola, una frase, qualsiasi cosa potesse spiegare tutto quello che era capitato.
 
*
 
“Tsk… Un’altra allegra giornata!” – aveva detto tra sé e sé, affacciandosi circospetto con aria accigliata, sbriciando oltre i vetri sporchi e opachi a occhi quasi strizzati, in modo da non lasciarsi accecare da quei lividi raggi taglienti come lame.
Aveva chiuso gli occhi e tirato un respiro profondo prima di dirigersi verso quel tavolino sghembo che gli faceva da comodino, scrivania e anche da lavabo, se così poteva definirlo. Sempre con estrema meticolosità e accuratezza, si era sfilato il largo e sgualcito camicione con cui dormiva, aveva afferrato la brocca di ceramica dal bordo sbeccato e l’aveva inclinata quanto bastava per farne così cadere il contenuto in una bacinella con cui avrebbe potuto fare coppia, se solo le decorazioni fossero state ancora visibili. E qui, come ogni mattina, gli era occorso raccogliere tutto il suo coraggio per immergere le mani in quell’acqua gelida e lavarsi così viso, collo, torace, ascelle e ogni punto raggiungibile senza l’ausilio di una spazzola o una spugna.
Era quello il suo destino, ormai, era quello il suo unico scopo. Vegeta lo sapeva, lo aveva capito, interiorizzato, accettato. Doveva sopravvivere per garantire la sopravvivenza dei due piccoli mostriciattoli che aveva accanto. I giorni di gloria che lo avevano visto ergersi al di sopra del mondo intero erano ormai un lontano ricordo. Tutto, ormai, era giunto al termine.
 
*
 
Quando aveva riaperto gli occhi, Goten si era convinto di essere stato travolto da un treno o da qualche altro mezzo meccanico di dimensioni abnormi, in quanto niente avrebbe potuto spiegare il perché si sentisse in quel modo. Avvertiva fortissimi dolori alle ossa, allo stomaco, ai muscoli e alla gola, per non parlare del mal di testa martellante che non accennava a dargli tregua.
Era come se avesse impattato violentemente contro il pavimento da un’altezza vertiginosa e avesse riportato fratture multiple, ma nonostante lo sconvolgimento mentale e fisico si era reso immediatamente conto che non potesse essere colpa né di un treno né di una caduta da altezze notevoli, considerando che nel mondo in cui vivevano non esistevano più da un anno né meraviglie del progresso né tecniche o abilità che potessero far pensare agli uomini di assomigliare agli dei.
Con estrema fatica, tenendo ben salde le mani sullo stomaco in subbuglio, Goten si era messo su un fianco, raggomitolandosi in posizione fetale. Proprio non riusciva a capire come mai stesse così male. Aveva mangiato qualcosa di avariato? Aveva fatto a botte con un ragazzino a scuola? Era caduto dalle scale? Stando al suo mal di testa, poteva trattarsi benissimo di una perdita di memoria conseguente a un trauma, ma quale? Come se ne avesse avuto pochi, ultimamente, del resto.
Testardo come l’uomo che l’aveva cresciuto e resistente come quello che l’aveva messo al mondo, però, Goten si era messo seduto sul bordo del letto e, senza fare troppo rumore, si era messo nella posizione più comoda affinché potesse vedere senza essere visto. Poteva anche avere un mal di testa da manuale, ma le sue orecchie funzionavano benissimo, e gli avevano permesso di sentire la voce di Trunks che si rivolgeva teneramente a suo padre.
 
“Forza, papà… Ce la puoi fare… Forza… Andrà tutto bene, coraggio, andrà bene”.
 
Vegeta era irriconoscibile. Steso supino sul suo letto di fortuna, il principe dei saiyan era di un pallore spettrale, sudava nonostante i brividi di freddo che scuotevano il suo corpo e pronunciava parole senza senso. Le frasi sconnesse fuoriuscivano dalle labbra secche e bianche senza soluzione di continuità, facendolo assomigliare a uno di quei malcapitati che erano vittime di possessioni demoniache.
Trunks gli teneva con fermezza la mano. Il bambino aveva lo sguardo duro di un adulto, di chi è a conoscenza della verità e ne porta il peso con le sue sole forze, deciso più che mai a non coinvolgere nessuno nei loschi affari in cui si era suo malgrado ritrovato.
Si era preso un momento per riflettere, Goten: se avesse agito d’istinto, avrebbe raggiunto Vegeta in meno di un secondo prendendo posto al suo capezzale, dando persino il cambio a Trunks, noncurante delle sue condizioni fisiche, ma avrebbe fatto bene? Sì, perché, comunque la si potesse vedere, Vegeta era l’unico che avesse mai considerato padre, e nessuno gli avrebbe potuto impedire di avvicinarsi a lui.
 
“Forza, papà… Andrà tutto bene… Ne sono sicuro… Devi stare calmo… Non devi fare sforzi… Stiamo bene, e presto starai bene anche tu… Fatti forza… Su”.
“Che cosa gli è successo?”.
 
Goten aveva visto Trunks irrigidirsi. Il suo migliore amico, suo fratello, sembrava essere diventato una statua di sale. Non si era preso neppure la briga di indirizzare lo sguardo verso di lui, e non era stato difficile intuire che fosse furioso e, purtroppo, che lo fosse proprio nei suoi confronti.
 
“Torna a letto”.
“Trunks… Per favore… Sono preoccupato… Voglio sapere che cos’ha!”.
 
Parlare gli causava dolore ai muscoli e alla testa, ma lui voleva assolutamente sapere quale catastrofe si fosse abbattuta sul padre. Trunks glielo doveva, sebbene, per qualche motivo che non capiva, fosse terribilmente irritato a causa sua. Non avrebbe rinunciato a quel diritto per niente al mondo.
 
“È tutta colpa tua” – aveva tuonato, lapidario.
“Eh? Ma che dici? Cosa ho fatto? Io…”.
“Se mi avessi ascoltato quando ancora eravamo in tempo, se avessi fatto come ti avevo detto, lui non starebbe così. È solo colpa tua!”.
 
Aveva provato a capire il significato delle parole del suo amico, del suo fratellino, ci aveva provato per davvero, ma proprio non era stato in grado di farlo. Che cosa poteva aver fatto di così tanto grave da meritarsi un trattamento simile?
 
“Perché mi stai dicendo queste cose orribili? Io non ho fatto niente… Non capisco… Perché fai così? Io…”.
“Torna a letto. Sbrigati. Io e mio padre non abbiamo bisogno di te”.
 
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, ma non pronunciare delle parole così taglienti, così cattive. Mesto, distrutto, Goten aveva ubbidito, tornando a letto senza riuscire a trattenere le lacrime. Sentiva che, proprio ora che aveva tutto, paradossalmente non aveva più niente.
 
*
 
Corri. Incameri aria. Provi a espandere il petto. Cerchi di non avvertire il dolore alla milza, i polmoni bruciare.
Le tempie pulsano, i pensieri volano, i muscoli si contraggono senza sapere come ciò accada.
La fatica è immane, ed è la paura a farti andare avanti, la paura che tu possa aver perso uno di loro, la paura che, ancora una volta, tu sia stato un essere inutile che si muove in un mondo che non ti appartiene.
Sei scalzo, e non ne conosci il motivo. I sassi tagliano le piante dei tuoi piedi, la terra infetta le ferite sanguinanti. Improvvisamente, ti accorgi di essere senza vestiti. Il vento sferza sulla pelle nuda. Rabbrividisci. Vorresti fermarti, rannicchiarti, riscaldare le dita violacee con il calore del tuo fiato, ma non puoi farlo. Ti muovi nel buio con passo svelto ma incerto, incapace di capire in quale direzione devi andare, dove potresti trovare quello che cerchi.
Se solo avessi ancora le tue capacità, se solo potessi sentire la loro presenza, avresti un segnale da seguire, non ti muoveresti più alla cieca, incapace di portare a termine quel compito così semplice eppure così importante.
Continui a correre. Non devi fermarti. Non puoi fermarti. La loro vita dipende da te e la tua vita dipende da loro.
 
Qualcosa nel buio si muove. È dietro di te, lo senti strisciare e sibilare come se fosse un serpente velenoso. Hai paura. Provi disgusto. Vorresti fermarti per capire cosa succede, ma non puoi. Devi correre perché devi trovarli e portarli al sicuro. Devi trovarli e portarli da te perché li ami più di quanto avresti mai potuto immaginare, più di quanto fatichi ad ammettere.
Purtroppo, però, non ti accorgi dell’ostacolo che ti è davanti, forse un sasso, forse una radice, e inciampi, non fai in tempo ad attutire la caduta con le mani, e batti con violenza la fronte. La bocca si riempie di terra umida, gli occhi bruciano, il naso si frattura e, oltre alla saliva, è il sangue a mescolarsi all’impasto informe che imbratta denti e lingua.
La testa gira, ma provi lo stesso ad alzarti. Solo allora ti accorgi che non puoi muoverti, che qualcosa ti avvolge e ti stringe, impedendoti di respirare.
Non puoi vedere le spire, ma è chiaro che ciò che ti ha avvinghiato non ha niente di umano. Per la prima volta da quando sei lì, benedici il buio, benedici la solitudine: non avresti sopportato di sapere che qualcuno ti vedesse così, che qualcuno sapesse che piangi per la paura, per l’orrore di sentirti la preda di qualcosa che striscia e che, lentamente ma inesorabilmente, sta per porre fine alla tua vita.
Sei un vigliacco. Aneli la morte. La invochi. Speri con tutto te stesso che quell’orrore cessi, perché sei stato all’Inferno e sai già cosa ti aspetta e che, questo qualcosa, è mille volte meglio di quello che stai vivendo.
 
“Vieni a prendermi” – ordini alla morte – “Fai in fretta”.
 
Ma lei non è venuta per te. Lei non è venuta affatto. Per quanto tempo ancora dovrai soffrire? Le spire avvolgono la tua gola. Non respiri, non riesci a deglutire. I polmoni bruciano, ma la tua vita non finisce. La vista è ormai compromessa, la mente è annebbiata, eppure… Eppure sei certo di aver visto qualcosa, o meglio, qualcuno.
 
Sì… È lì, è lui, non potresti mai confonderlo con nessun altro. Quei suoi capelli ridicoli, quella sua espressione da idiota non potresti confonderla mai. Ti osserva, immobile, studiando la tua espressione. Tra tanti, proprio lui doveva vederti così? Proprio lui doveva venire per assistere alla tua disfatta? Ti agiti, provi a strattonare via quell’appendice così pesante, ma non fai altro se non provocarti dell’altro dolore. Perché, se è lì per aiutarti, perché, se è sbucato dal nulla dopo tanto tempo, non si avvicina? Perché sorride nel vederti soffrire?
 
Poi, inaspettatamente, lo vedi avanzare. Ti fissa negli occhi, li vedi brillare nel buio nonostante non abbia assunto la forma di super-saiyan, continuando a sorridere.
Solo allora ricordi che lui è pericoloso, che ti eri allontanato per tenere in salvo i ragazzi e capisci che per te e per chi ami non c’è più scampo. Presto, farai parte di lui, e un solo pensiero di rincuora: forse, a quel punto, potrai rivedere la tua Bulma, potrai vivere con lei, seppure prigioniero in un corpo diventato ricettacolo di vite strappate ingiustamente.
E i bambini? I bambini cosa faranno senza di te? Come potranno difendersi? Stare al sicuro?
 
“Staranno bene” – è questo quello che gli senti dire – “Staranno tutti bene. Te lo prometto. Adesso però, devi stare fermo”.
 
Lo vedi afferrare le spire invisibili che ti comprimono le labbra e senti la pressione sparire. Siete uno di fronte all’altro, alla stessa altezza. Puoi guardarlo negli occhi. Lui è Kaharot. Sai che è lui. Eppure… Eppure, sai che non lo è.
Senti il panico crescere mentre lo vedi avvicinare il viso al tuo sempre di più. Respiri male, ma finalmente respiri, e non sai cosa fare per tenerlo lontano. Vuoi allontanarti, ma lui ti afferra il mento tra le dita e blocca ogni tuo movimento.
 
“Ce ne hai messo di tempo ad arrivare ma, alla fine, sei arrivato a me”.
 
Vuoi dire qualcosa, ma la mente è annebbiata e non sei in grado di formulare parole che abbiano un senso. Non capisci chi hai davanti, non capisci cosa voglia da te. Se vuole assorbirti perché non lo fa e basta? Perché gioca con te come il gatto con il topo?
 
“Devi stare tranquillo… Se ti agiti, il tuo sapore cambia e diventa cattivo”.
 
Umido e ruvido. Sono queste le sensazioni che provi quando passa la lingua sulla tua guancia. Il respiro si spezza, chiudi gli occhi perché provi orrore, chiudi gli occhi perché quei momenti ti ricordano qualcosa che senti di avere già vissuto ma di cui non hai memoria.
 
“Andrà tutto bene. Presto, tutto sarà finito. Abbandonati a me e non sentirai alcun dolore. Abbandonati a me… Mi farò carico di tutta la tua angoscia, di tutto il tuo dolore… E, a quel punto, potrai risposare. Tu vuoi riposare, non è vero?”.
 
È troppo vicino, troppo, troppo vicino. Apri gli occhi, guidato da un moto dell’orgoglio che da sempre di caratterizza, ti contraddistingue, ma quando vedi ciò che hai davanti, speri di poter tornare indietro, perché di orrori ne hai visti e vissuti a centinaia, ma qualcosa del genere non avresti mai pensato di poterlo vedere.
Il volto serafico e sorridente non c’è più, gli occhi di ossidiana hanno lasciato posto a due fessure gialle da rettile, e il fetore di morte che fuoriesce dalle labbra demoniache sembra infettare persino la tua anima. Provi a indietreggiare, ma è troppo tardi: ti attira verso di sé e impone il suo marchio sulla tua bocca socchiusa.
 
Piangere non serve ad alleviare il dolore, a cacciare via la vergogna e il ribrezzo, la paura che provi e che dilania la tua anima che da tanto tempo, ormai, non è più così nera come vorresti millantare. Non lotti neanche più. Lo lasci fare perché ormai sai di non avere scampo, sai di essere svanito come neve al sole, perché sai di essere morto.
 
*
 
Quando Vegeta riapre gli occhi prende un respiro talmente profondo e talmente rumoroso da far sussultare i bambini, uno addormentato ai piedi del suo letto, l’altro disteso nel giaciglio disordinato che aveva dovuto condividere da più di un anno.
 
“Papà… Stai bene?”.
 
Si era girato su un fianco, cercando di respirare più a fondo, e poi si era messo seduto, provando a ricacciare indietro la sensazione di nausea che gli faceva bruciare l’esofago.
 
“Ehi… Ma che ti succede?” – aveva chiesto timidamente Goten, sollevato.
 
“A-acqua” – aveva chiesto, a fatica, e il su desiderio era stato presto esaudito dalle amorevoli attenzioni di Trunks.
“Ecco, papà… Bevi…Piano però… Piano… Ecco… Dammi il bicchiere… E sdraiati. Sì, ho detto sdraiati”.
 
Vegeta aveva ripreso a respirare regolarmente. Persino il suo colorito era migliorato, così come il suo caratteraccio.
 
“Non darmi ordini”.
“Scusa…” – aveva detto Trunks, arrossendo – “Ti senti meglio?”:
 
Vegeta non aveva risposto, ma prima di sdraiarsi aveva fatto scorrere lo sguardo su entrambi e aveva tirato un impercettibile sospiro di sollievo: stavano bene, quelle due canaglie. Erano al sicuro, e questo voleva dire che, finalmente, poteva riposare.
 
“Che cosa ti è successo?” – aveva chiesto Goten, arrampicandosi a fatica sul letto sotto lo sguardo truce di Trunks.
“Tsk! Non ne ho idea. Vi stavo cercando… Porca miseria, quei bastardi sono ovunque. Dovete stare attenti quando uscite, avete capito? Per noi questo posto non è più così sicuro”.
 
Senza volerlo, si erano scambiati uno sguardo confuso, ma avevano preferito non dire nulla.
 
“Papà… Dicevi delle cose strane… Hai nominato… Sì, credo che tu abbia chiamato Goku un paio di volte, mentre avevi la febbre, e…”.
“DELIRIO. Non sapevi cosa fosse? Bene, ora lo sai. Adesso, di grazia, filate a letto”.
 
Era incredibile quanta disparità ci fosse tra il suo aspetto e il suo temperamento. Sembrava che quella voce non provenisse dal suo corpo macilento, eppure era proprio la sua.
 
“Ma…”.
“Sentite, sono sfinito. Non ho intenzione di discutere. Andate a letto. Andateci adesso. INSIEME. Non lo ripeterò. Tsk! Perché siete ancora qui?”.
 
Riluttanti, avevano dovuto fare ciò che gli era stato ordinato. Sarebbe stato meglio lasciarlo riposare ancora. Soprattutto, non sarebbe stato saggio farlo arrabbiare.
 
*
 
Erano trascorse tra settimane dal giorno in cui Trunks era rientrato in possesso del quaderno, o di quello che ne rimaneva. Con una pazienza da certosino, il piccolo aveva raccolto le pagine strappate, intimando a Goten di non avvicinarsi mai più a quell’oggetto demoniaco.
Goten sembrava essersi ristabilito, e lo stesso era valso per il principe dei saiyan che, però, sembrava presentare più conseguenze rispetto a quelle del suo figlioletto adottivo. Era sempre più stanco, sempre più irritabile, e sembrava vivesse in un costante terrore apparentemente senza motivo.
 
Trunks aveva completamente iniziato a ignorare Goten. Dopo l’episodio del quaderno, a cui era seguito il malessere di Vegeta, aveva deciso di tenere alla larga il ragazzino da sé e da suo padre. Si era convinto a causa sua, tutto fosse irrimediabilmente precipitato.
Aveva provato a scoprire cosa si fossero detti Goten e il mosto nel quaderno, ma non aveva trovato alcuna traccia della conversazione tra quei due. Era furba, la creatura del quaderno, era veramente troppo furba per lui che era solo un bambino ingenuo. A suo vantaggio, però, c’erano il fatto che lo avesse capito, finalmente, e non avrebbe più commesso errori o leggerezze – come quella di pensare di poterlo distruggere, per esempio. Quello che non aveva ancora capito, però, era il perché avesse deciso di fare quel balzo avanti nel tempo… Qual era il suo fine ultimo? A parte portare il caos nel mondo, ovviamente.
Goten, dal canto suo, non sembrava ricordare un bel niente di quello che aveva fatto. Evidentemente, il suo malessere fisico era una conseguenza di ciò che aveva fatto il mostro nel quaderno, e ne aveva avuto la prova dopo averlo visto migliorare nel momento in cui gli aveva sottratto quelle pagine maledette.
 
Stava passeggiando per il paese, Trunks, quando, passando accanto alla bancarella della verdura, le parole di due passanti avevano attirato la sua attenzione.
 
“Hai sentito? Sono ricominciate le sparizioni!”.
“Già… Purtroppo l’ho saputo… E dire che i soldati stanno arrestando e condannando a morte tutte le streghe ancora in vita… Ma è possibile mai che non ci sia un modo per fermare questo mostro?”.
“E come si fa a fermarlo? Non si sa niente di lui, se non che va in giro alla ricerca della sua progenie mostruosa”.
“Già… Che paura! E se vivessero in mezzo a noi?”.
“Non dirlo neanche per scherzo!”.
“Non scherzo, infatti… Non scherzo per niente”.
 
Sarebbe stato assurdo pensare che potessero riferirsi a quello a cui stava pensando Trunks. Ma, dato il posto in cui si trovavano, tutto poteva essere. Già, poteva benissimo trattarsi de ritorno di qualcuno da cui erano fuggiti più di un anno fa. Peccato solo che di lui non vi fosse più alcuna traccia.
 
*
 
Vegeta non riusciva a darsi pace. Continuava a pensare a quel suo stupido sogno, continuava a pensare a Kaharot, al suo volto che cambiava, alle sue parole spaventose e ai suoi gesti ancor più deprecabili. Aveva smesso di dormire serenamente – non che prima ci riuscisse – ma neppure la stanchezza era in grado di vincere i suoi timori più reconditi. Quel sogno era stato troppo vivido, troppo reale, ma lui non era stato in grado di dargli un significato fino al momento in cui non si era ritrovato nel bel mezzo di una discussione tra alcuni braccianti, terrorizzati dal “mostro che faceva scomparire le persone”.
 
“Vi giuro che l’ho visto con i miei occhi! Si aggira nei boschi al limite della città! Ha un aspetto affabile, ma non è che un mostro! Ci prenderà tutti se non staremo attenti! Ve lo posso assicurare!”.
“Ma che vai blaterando… Non si sente parlare di lui da più di un anno…”.
“Invece ha ragione… Io so che esiste… Si è portato via gran parte della mia famiglia! Sono l’ultimo maschio rimasto!”.
“Oh, che gli dei ci aiutino! Non siamo al sicuro!”.
“Ma cosa cerca?”.
“La sua progenie maledetta!”.
 
Ha un aspetto affabile, ma non è che un mostro. Era rabbrividito, e temeva di sapere perché. Lui non aveva doti divinatorie, e forse tutta quella superstizione gli aveva dato alla testa, ma Vegeta si era quasi del tutto convinto che il suo fosse stato una specie di sogno premonitore e che presto, molto presto, Goku sarebbe venuto a prenderlo.
 
“Tu che ne pensi?” – gli avevano chiesto, preoccupati. Ma lui, impassibile, non aveva risposto, e aveva deciso di tornare a casa prima del solito. Questo prima di vedere quel bastardo di Leon comparire all’orizzonte con alle calcagna due guardie dall’aspetto molto poco socievole.
 
“Brutti bastardi scansafatiche, venite qui! Questi signori hanno qualcosa da chiedervi”.
 
Sarebbe bastato fare loro qualche domanda, ma che gusto ci avrebbero preso se non avessero cominciato a picchiarli e tormentarli senza nessuna ragione? Vegeta aveva visto quei due bastardi frustare gli uomini e molestare le donne che, terrorizzate e mortificate, avrebbero giurato di aver visto qualsiasi cosa pur di essere lasciate in pace.
Quello spettacolo era disgustoso e aveva provocato in lui una sorta di déjà-vu, ma era stato quando era toccato a lui che le cose erano improvvisamente peggiorate, e senza un motivo apparentemente valido.
 
“Ci ritroviamo” – aveva detto uno di loro, sadico – “Vedo che ti sei ripreso bene… Oh, non fare quella faccia! Sono certo che per te sia stato indimenticabile”.
 
Si sentiva stranamente agitato, ma aveva cercato di non darlo a vedere. Perché aveva come la sensazione di aver già avuto a che fare con loro ma di non ricordarlo? Che cosa gli stava succedendo?
 
“Forse, ha bisogno di una rinfrescatina… Non trovate, Leon?”.
“Lasciatelo perdere… Del resto, questo cane ci ha fatto divertire abbastanza, non trovate?”.
 
Era stato come se un peso di centinaia di chili gli avesse schiacciato il petto. Che cosa gli era successo? E perché non ne aveva memoria?
 
“Guarda che sguardo che ha, questo cane… Mi fa proprio pena…”.
“Secondo me, è lo sguardo di uno che sa qualcosa e vuole tenercelo nascosto… Non trovate?”.
“Già… Hai perfettamente ragione”.
 
*
 
Lo avevano interrogato per ore, punzecchiandolo e svilendolo orribilmente. Vegeta, frastornato, a tratti inorridito, li aveva affrontati a testa alta, cercando di convincerli che non sapesse niente della creatura di cui parlavano. Aveva dovuto fare estrema attenzione per non far capire loro che conoscesse la sua identità che, suo malgrado, avesse avuto rapporti con lui. Fortuna che era stato temprato da anni e anni di interrogatori fatti da un verme ben più schifoso di loro due, e che conoscesse vari trucchetti per mentire, perché altrimenti non ne sarebbe uscito indenne. La parte più difficile era stata convincerli che Goten non avesse nulla a che fare con lui, questo dopo che Leon aveva osservato come “i capelli del suo secondogenito corrispondessero alla perfezione alla descrizione fatta da alcuni sopravvissuti”.
Se non fosse stato chi era, se non avesse vissuto ciò che aveva vissuto, avrebbe perso la ragione, ammettendo così di essere a conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere. Eppure, Vegeta era ancora lui, nonostante tutto, ed era riuscito a mantenere buoni quei bastardi asserendo che non ci si poteva fidare completamente di chi vive un forte trauma e che, in ogni caso, si parlasse di un adulto, mentre Goten aveva compiuto da poco sei anni. Per un istante, aveva pensato che fossero sul punto di fare qualche collegamento, ma poi aveva capito di essersela cavata in qualche modo: non erano poi così intelligenti come credeva, alla fine.
 
“Vattene” – gli era stato ordinato, e aveva ubbidito senza fiatare.
Avrebbe preso subito la via di casa, se improvvisamente Leon non lo avesse afferrato per un braccio, avvicinandosi al suo orecchio.
 
“Sai, credo che tu abbia ragione… Non ci si può fidare completamente di chi vive un’esperienza traumatica… O no?”.
 
Aveva avvicinato il volto al suo collo e aveva inspirato forte il suo odore, facendo in modo che lo sentisse, che sentisse il respiro sulla sua pelle nuda. Un brivido di puro orrore aveva attraversato la sua schiena. Sarebbe svenuto se non avesse deciso di resistere per i bambini.
La voce melliflua e l’espressione sadica di Leon lo avrebbero perseguitato per giorni. L’unica cosa di cui sentiva di aver bisogno, era di lavarsi, di grattare via lo sporco che ricopriva non tanto la sua pelle, ma la sua stessa anima, quell’anima nera che aveva imparato, non troppo tempo addietro, a riconoscere la luce.
 
Continua…


Carissimi/e!
Che tempo, oggi! Non ha smesso di piovere neppure per un istante. Sono così triste… =( Odio le giornate grigie e umide. Ma devo ammettere che questo tempaccio mi ha permesso di dedicarmi maggiormente a questo papiro.
Ebbene: Goku è vicino. Così vicino da aver invaso i sogni del principe, ferendolo, umiliandolo, terrorizzandolo.
Dannato mostro nel quaderno, perché non finisci all’inferno? =(
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

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Capitolo 55
*** L'errore più grande ***


 
L'errore più grande

Trunks era terribilmente stanco e irritato. Non ne poteva più delle continue domande di Goten, così come non tollerava più i suoi continui sguardi da cane bastonato. Il dover continuamente guardarsi le spalle, poi, sia dal quaderno che da chi voleva entrarne in possesso, lo aveva sfinito sia mentalmente che fisicamente. Da quando aveva deciso di portarlo sempre con sé, sembrava che chiunque ne venisse irrimediabilmente attratto.
Si sentiva solo, incompreso e spaventato. Era impossibile non notare come gli altri lo guardassero: ai loro occhi – soprattutto a quelli di suo padre – doveva sembrare un alieno o un pazzo fuggito da un manicomio. Sapeva di aver assunto un comportamento indegno, di essere scontroso, intrattabile, ma non sapeva come altro fare per tenere tutti lontano da quella fonte di guai… Non sapeva come altro fare per tenere tutti al sicuro.
In cuor suo, però, sapeva che avrebbe dovuto dare una spiegazione a chi aveva dimostrato più di tutti di volergli stare accanto. Odiava essere così altalenante nelle scelte, di essere diventato uno di quelli che gli adulti definivano “bipolare”, un tipo da manicomio, ma era cosciente di essere un bambino uguale a tutti gli altri, e di non avere alcun potere, né fisico, né decisionale.
Dopo tutto quel tempo, Trunks aveva cominciato a pensare che se avesse spiegato le cose per come stavano, forse avrebbe davvero potuto fare qualcosa per riportare le cose com’erano una volta. Non tanto per se stesso, ma per suo padre… Ammesso che ci fosse ancora qualcosa di Vegeta nell’uomo che li sfamava e li metteva a letto ogni notte.
Dopo aver riflettuto a lungo, dopo aver ponderato il da farsi come solo un bambino della sua età avrebbe – ahimè – potuto fare, aveva colto Goten di sorpresa, scegliendo di metterlo finalmente al corrente del pericolo che avevano corso e continuavano a correre a causa di una serie di decisioni errate compiute da entrambi.
In un primo momento, il piccolo Son si era rallegrato nel vedere che finalmente suo fratello sembrava averlo accolto di nuovo nella sua vita: aveva deciso di confidarsi con lui, di fare luce sulla faccenda e di metterlo al corrente della pericolosità del quaderno, ma poi… Poi, qualcosa non era andata come aveva sperato o creduto, perché Trunks sembrava continuare a incolparlo della situazione in cui si trovavano, e lui proprio non riusciva a capire per quale assurdo motivo lo stesse facendo e perché diamine dovesse dipendere tutto – ma proprio tutto – da lui.
 
“Trunks, se mi avessi parlato prima del quaderno, io avrei capito tante cose… Avrei potuto aiutarti…”.
“Non ne sono tanto sicuro”.
“Sei ingiusto nel dire queste cose… Sai che farei di tutto per voi… Siete la mia famiglia”.
“Oh, Goten, ma per piacere! Ti avevo detto di non fidarti. Doveva essere sufficiente il mio avvertimento, no?”.
“Sì, ma…”.
“Ma il danno ormai è fatto”.
“Secondo me, qualcosa si può ancora fare”.
“Ovvero?”.
 
Ovviamente, non aveva ricevuto alcuna risposta.
 
*
 
“NON DOVETE USCIRE DA CASA”.
Se avessero chiesto ai bambini di descrivere il proprio padre in un tema, nessuno avrebbe avuto dubbi sul fatto che sarebbe stato paragonato a un povero sventurato scappato chissà come da un istituto di igiene mentale. Aveva gli occhi infossati ma terribilmente vigili e l’aria emaciata… Per farla breve, il suo aspetto era a dir poco spettrale.
 
“Da questo momento in poi, dovete uscire solo per andare a scuola e ritornare a casa, intesi? Non fate obiezioni e non fatemi pentire di non avervi incatenato in cantina, chiaro?”.
“Abbiamo una cantina?”.
“TSK! Goten, non è questo il punto! Per qualche strana ragione, qualcuno di nostra conoscenza sembra essere vicino. Molto, molto vicino, per l’esattezza, e so di per certo che non è qui per una visita di piacere”.
“Papà, mi stai spaventando. Ma si può sapere di chi stai parlando?”.
 
Vegeta aveva scostato la tendina dalla finestra e guardava fuori con evidente agitazione. Cosa avrebbe mai potuto scorgere nel buio, proprio non erano riusciti a capirlo, ma la sua agitazione era palpabile e soprattutto era contagiosa.
 
“Pap…”.
“Si tratta di tuo padre” – aveva detto, lapidario, interrompendo un Goten diventato bianco come un cencio – “Goku è tornato dopo tutto questo tempo. E, a questo punto, proprio non capisco perché”.
 
*
 
Prendere sonno era stato impossibile, non dopo ciò che aveva confessato loro Vegeta, non dopo ciò che avevano dovuto, loro malgrado, metabolizzare.
Goten era sconvolto: continuava a rigirarsi nel letto in preda all’ansia, ai sensi di colpa, al timore che tutto potesse precipitare da un momento all’altro. Suo padre, il suo vero padre, era tornato.
Ma perché? E perché proprio adesso? Porre quelle domande a Vegeta non aveva fatto altro se non farlo innervosire e, di rimando, far innervosire anche Trunks che, però, sembrava meno sorpreso di quanto avesse voluto far intendere.
Le sue mani sudavano e il cuore batteva all’impazzata. Il ricordo della perdita di sua madre aveva ricominciato a tormentarlo, e il terrore di rimanere da solo lo aveva definitivamente annientato. Se li avesse trovati, se Goku fosse arrivato fino a lì, che cosa sarebbe accaduto? Non poteva saperlo, ma un’idea malsana aveva cominciato a prendere piede nella sua mente di bambino, quella di interrogare l’unico capace di dare una risposta a quel quesito. Trunks, però, gli aveva fatto giurare di non fare più sciocchezze: gli aveva spiegato che di quell’essere non ci si potesse fidare, che lo aveva ingannato, che era un pericolo, però… Però, se ci pensava bene, alla fine aveva salvato Vegeta. Sì, se non fosse stato per lui, come avrebbero fatto a tirarlo fuori dalla prigione? Aveva esaudito un suo desiderio… E non aveva chiesto nulla in cambio, al contrario di ciò che aveva detto Trunks. Che il suo amico gli avesse mentito? Che lo avesse fatto per essere l’unico a poter usare quel tesoro così prezioso? Ma no, non poteva essere.
Non poteva essere e basta.
 
*
 
Accettare ciò che gli stavano mostrano i suoi occhi era stato più doloroso di cento pugnalate in pieno petto. Lo aveva avvisato il giorno prima, gli aveva chiesto di non mettere mai più neanche gli occhi su quell’affare di cui si era ritrovato unico custode al modo, e lui cosa aveva fatto? Non solo non gli aveva dato ascolto, ma gli aveva spezzato il cuore.
Trunks era impazzito nel vederlo seduto sul pavimento, con in mano una penna, che vergava a grandi lettere parole dal significato inequivocabile. Come aveva potuto farlo? Come aveva potuto venire fede a quel tacito patto in meno di un giorno?
La rabbia e la frustrazione avevano preso il sopravvento e lui, a quel punto, non aveva più avuto alcuna remora e lo aveva aggredito come una furia, neanche avesse recuperato i poteri che gli erano stati sottratti.
Così grande era stata la rabbia provata, però, che non aveva dato a Trunks il tempo di rendersi conto che Goten non fosse veramente in sé, che il suo sguardo fosse vacuo, che i suoi movimenti fossero simili a quelli di un burattino mosso da fili invisibili, fili spezzati nello stesso istante in cui lo aveva atterrato, allontanandolo dall’oggetto dei quel contezioso.
 
“Perché devi sempre comportarti in questo modo? Mi fai male! LASCIAMI!”.
“TI HO DETTO CHE NON DEVI TOCCARE LE MIE COSE! LO VUOI CAPIRE O NO?”.
“Ma io non ho fatto niente! Mi stai facendo male! Ahia! LASCIAMI HO DETTO!”.
“GIURO CHE STAVOLTA TI FACCIO MALE SUL SERIO! SMETTILA DI PRENDERE CIÓ CHE È MIO! SMETTILA!”.
“CHE DIAMINE STA SUCCENDO QUI DENTRO?!”.
 
Era appena rientrato dopo una giornata di lavoro. Era stanco, spossato, aveva anche dovuto fare la spesa al mercato, e quello che l’aveva accolto una volta varcata la soglia di casa era stato uno spettacolo a dir poco penoso. Aveva percorso gli ultimi metri che lo separavano dalla porta della sua casa correndo, prospettandosi il peggio.
Che li avessero trovati? Che avessero provato a fare del male al bambini per sapere dove fosse lui? Per la miseria, quante volte avrebbe dovuto urlare a squarciagola di non sapere dove fosse?
 “CHE COSA STA SUCCEDENDO QUI DENTRO?”.
Lo aveva urlato senza pensare, tanto grandi erano i suoi timori. Aveva pensato che, una volta varcata la soglia di casa, si sarebbe trovato davanti a una scena inenarrabile, che sarebbe stato aggredito a sua volta proprio come era accaduto ai suoi bambini. Si era preparato al peggio, insomma, per poi rendersi conto solo in seguito di quello che si era effettivamente presentato davanti ai suoi occhi stanchi.
Trunks aveva atterrato Goten, e lo stava schiacciando con il proprio peso, tenendolo stretto per i capelli. Era livido di rabbia, sembrava avere gli occhi iniettati di sangue, e aveva tirato fuori un vigore che non mostrava da tempo. Goten, al contrario, giaceva sotto di lui, in lacrime, con il principio di un livido sotto l’occhio destro e il segno di un morso sulla guancia sinistra. Accanto a loro, sul pavimento, c’era un quaderno, aperto, sgualcito e scarabocchiato in più punti. Non c’era voluto molto affinché Vegeta capisse quale fosse il reale motivo di quegli schiamazzi.
“Snif!” – Goten aveva tirato su col naso, cercando di non mostrare le lacrime a un Vegeta apparentemente impassibile ma visibilmente scosso per l’accaduto. Trunks, orgoglioso e caparbio, aveva continuato a sottomettere Goten, guardandolo con odio.
“Lascia andare Goten. Adesso”.
Non aveva obbedito immediatamente, mostrando apertamente l’animo ribelle che aveva tirato fuori con tutti, nell’ultimo periodo, tranne che con suo padre.
“Trunks: ubbidisci”.
Il tono imperativo di Vegeta, però, non gli aveva lasciato molta scelta, obbligandolo a mollare la presa sul mezzo-saiyan più piccolo che, dolorante e scosso, si era rimesso in piedi a fatica, massaggiandosi la guancia con delicatezza e abbassando lo sguardo per non lasciar trasparire la vergogna che provava in quel momento.
 “Ve-Vege…”.
Goten non aveva osato proseguire. Il saiyan era scosso da tremiti incontrollabili, e solo quando aveva gettato il capo all’indietro per prendere aria si erano effettivamente resi conto che stesse trattenendo a fatica lacrime bollenti di rabbia, delusione, ma anche di sollievo.
“Pensavo che vi stessero facendo del male” – aveva detto, con voce tremante – “Pensavo che fossero venuti qui a prendervi”.
Trunks aveva abbassato la testa e aveva infilato le mani in tasca, continuando a mantenere un’aria sprezzante. Non era colpa sua se Goten lo aveva fatto andare su tutte le furie, no?
Goten aveva nascosto il viso tra le mani, scoppiando a piangere dalla vergogna e dal dispiacere.
“Mi-mi dispiace… Tanto… Ti chiedo scusa” – glielo aveva detto tra un singhiozzo e un altro, accasciandosi sul pavimento e rifiutandosi di mostrargli il viso. Era tutto così imbarazzante, così umiliante, così assurdo. Non sapeva perché Trunks lo avesse aggredito. O meglio, lo sapeva, ma non riusciva a spiegarsi il perché delle sue azioni, il perché avesse preso il quaderno e lo avesse usato nonostante le centinaia di raccomandazioni, non capiva perché avesse tradito il suo amato fratellino. Voleva solo tornare indietro, Goten, voleva solo che tutto quello finisse. Ma le cose stavano solo andando avanti, e lo stavano facendo nel peggiore dei modi, perché aveva come il sentore di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato e stupido, di aver solo accelerato l’inizio della fine.
Trunks lo odiava, e forse, forse anche Vegeta aveva iniziato a provare sentimenti di repulsione nei suoi riguardi. La cosa peggiore, però, era che ne aveva tutto il diritto, perché era colpa sua. ERA SOLO COLPA SUA.
 
*
 
Erano trascorsi giorni da quella lite inspiegabile, e la situazione non aveva fatto altro se non peggiorare. Goten scoppiava a piangere senza un motivo apparente, era sempre triste, solo, depresso, e si rifiutava di mangiare. Trunsk, al contrario, era diventato irascibile e sprezzante, era intrattabile, e solo a quel punto Vegeta aveva compreso quanto fosse difficile rapportarsi con una persona che sfoggiava il suo stesso carattere da grandissimo spocchioso pezzo di cretino intergalattico.
Era troppo stanco per pensare alle sciocchezze dei ragazzi, troppo spossato per accollarsi altri problemi, ma proprio non riusciva a farsi andare bene il fatto che non ci fossero l’uno per l’altro.
 
“Cazzo, come sei ridotto male…”.
 
Non aveva potuto non pensarlo, purtroppo per lui. Prima di quell’avventura che durava da un anno, e prima ancora, quando aveva accettato di essere padre e di restare sulla Terra a crescere e allenare quel marmocchio accanto alla madre, non avrebbe mai neanche potuto lontanamente immaginare di potersi un giorno preoccupare per i sentimenti che un moccioso provava verso un altro moccioso, e non uno qualsiasi, ma il secondogenito del suo più acerrimo rivale. Bulma avrebbe sorriso, nel vederlo così seriamente preoccupato, ne era sicuro. Il problema era che si sentiva un inetto: era praticamente impossibile per lui provare a farli riavvicinare, considerando che non sapeva da dove partire per instaurare un rapporto, figurarsi provare a ricucirne uno così pericolosamente incrinato.
Ma perché avevano litigato? Certo, per quanto fosse cieco, aveva notato diversi alti e bassi tra i ragazzi, in quel lungo periodo di cambiamenti, ma litigare per un quaderno… Che poi, da dove sbucava quel maledettissimo coso? Era certo di non aver comprato a Trunks un affare del genere – per la miseria, gli aveva solo dato un’occhiata e gli aveva fatto accapponare la pelle – allora come faceva ad averlo? E, soprattutto, perché era così importante?
Aveva spiegato loro i pericoli che correvano, gli aveva detto che con grande probabilità Goku si aggirava lì attorno e che i soldati e Leon continuavano a fargli strane domande e strane allusioni, come se avessero capito che tra loro c’era un qualche collegamento, quindi perché dividersi quando dovevano stare uniti? Certo, non riteneva quei bastardi abbastanza intelligenti da vedergli fare un serio accostamento tra Goten e il decerebrato di cui portava i geni, ma se fossero arrivati alla verità, a quel punto cosa avrebbe potuto fare per metterli in salvo?
 
“Una cosa alla volta, Vegeta. Pensa a una cosa alla volta”.
 
Si chiedeva se avesse mai potuto perdere quella fastidiosa abitudine di rivolgersi a se stesso in terza persona. Evidentemente, era quello che succedeva a chi trascorreva il proprio tempo in isolamento dal resto del mondo. Ma che dovesse pensare a una cosa per volta era più che mai chiaro.
Senza fare rumore, aveva raggiunto il capezzale dei bambini.
Dormivano dandosi la schiena, facendo ben attenzione a non sfiorarsi neanche per sbaglio. Era strano vederli così distanti. Era… Triste.
 
“TSK! Quanto ti sei rammollito… Vergognati”.
 
E forse, un po’ di vergogna avrebbe dovuto provarla, ma non per quel pensiero, bensì per via di qualcosa che aveva fatto poco dopo. Non sapeva neanche come ci fosse riuscito ma, nonostante il buio, aveva visto dove Trunks custodiva l’oggetto causa di quella lite memorabile.
Aveva provato a ignorare ciò che gli si era palesato, ma avrebbe solo dovuto fare piano, molto piano, e lo avrebbe sfilato da sotto il cuscino senza che ne accorgesse. Sì, doveva solo fare attenzione e lo avrebbe preso, scoprendo perché Trunks si rifiutava di condividerlo o mostrarlo. Ma sarebbe stato giusto? Ne aveva il diritto?
Probabilmente no, ma la mano era stata più veloce della testa, il corpo era stato più rapido del cuore e prima che potesse realmente accorgersene, si era ritrovato con il quaderno in mano.
Non poteva sapere che, nascosto nel buio, Leon lo stesse osservando. Non poteva sapere che, presto, quel gesto così innocente avrebbe causato letteralmente la fine del mondo.
 
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Eccomi qui! Come avere trascorso il fine settimana? Spero bene!
Dunque, CAPITOLO DI PASSAGGIO.
Non so se lo avete notato, ma questo capitolo si lega a uno dei primi, primissimi che compongono questo scritto, quando facevamo avanti e indietro tra i due periodi temporali, tra “ieri” e “oggi”.
Tralasciando il fatto che la casa “reale” sembra essere ormai diventata quella di una sit-com per nulla divertente (porte che si aprono senza l’ausilio di una chiave, gente che entra senza salutare con tanto di battute a effetto), direi che ORA SONO DOLORI.
PORCA MISERIA, VEGETA, MA DOVEVI PROPRIO PRENDERE IL QUADERNO??
Sì, altrimenti non avremmo avuto il resto della storia, XD
Perdonate la pazzia della vostra autrice: l’età avanza e i suoi neuroni non svolgono più le proprie funzioni bene come un tempo.
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 56
*** L'unione ***


L'unione
 
Correre.
Doveva correre più velocemente che mai se voleva raggiungere l’uomo che gli era stato indicato dal suo padrone e signore. Leon doveva correre fino a sentire male alle articolazioni, doveva correre fino allo stremo, e doveva farlo perché, alla fine, aveva avuto ragione: il suo unico e solo benefattore aveva avuto bisogno di lui, era tornato a chiedergli aiuto, e per nessuna ragione al mondo lo avrebbe deluso.
Era avvenuto tutto durante la notte. Stava dormendo accanto alla sua donna, così morbida e profumata di pulito, quando aveva sentito un rumore, quasi una sorta di lamento e, impugnata la sua inseparabile frusta, aveva preso coraggio e si era alzato per scoprirne la causa. Gli occhi dovevano essersi accesi di gioia nel momento in cui aveva udito con chiarezza la sua voce. Era stato, in ordine, il secondo momento migliore della sua vita, un vero e proprio tripudio di gioia mista a un’incontrollabile agitazione, in parte dovuta all’emozione di trovarsi al cospetto di una creatura così potente e perfetta.
 
“Siete tornato”.
 
Nonostante il tremore nella sua voce, aveva cercato di mostrarsi il più possibile sicuro di sé. Non aveva ancora del tutto messo da parte la delusione provata dopo essere stato usato e gettato via, ma la consapevolezza di poter rivivere quei momenti di gloria lo aveva convinto che quella strada fosse l’unica giusta da percorrere.
Aveva dovuto attendere qualche istante prima di sentire la sua voce, stavolta con chiarezza e fermezza. Era delicato e gentile come sempre, e non sembrava arrabbiato con lui per i pensieri che gli aveva dedicato. Forse, non era capace di leggere nelle menti altrui, e questo non poteva essere altro se non un punto a suo favore. Forse, alla fine, avrebbe potuto ricavarne molto di più di quello che aveva pensato all’inizio, quello che, tra l’altro, gli spettavano di diritto.
 
“Sei l’unico di cui possa fidarmi”.
“Ne sono lusingato. È un onore per me poter conversare nuovamente con voi. Posso, umilmente, esservi utile?”.
 
Lo aveva sentito ridere e, se doveva essere sincero, aveva avuto come l’impressione che quella risata provenisse direttamente da un girone dell’Inferno. Aveva fatto fatica a mostrarsi sereno, e sperava con tutto il cuore che i brividi in mostra sulla pelle nuda non lo avessero tradito.
 
“Oh, questo è il momento migliore per rendersi utili. Dovrai fare più di una cosa per me… Attento a rimanere vivo, però, se ci tieni a ricoprire la posizione di prestigio che pensi di meritare”.
 
Quelle parole gli avevano realmente fatto accapponare la pelle. Che si fosse sbagliato e il suo benefattore fosse in grado di carpire ogni singola cosa che la sua mente ambiziosa partoriva?
 
“Ogni cosa a suo tempo… Ora vai, amico mio: da adesso in poi, ogni singolo istante sarà estremamente prezioso” – gli aveva detto, e poi era andato via, all’improvviso, proprio come era arrivato.
 
Non gli piaceva il compito che gli era stato affidato, non gli piaceva affatto. Era rischioso, spaventoso, se qualcosa fosse andato storto ci avrebbe rimesso la vita, e lui non era pronto a morire per un qualcosa che non aveva neppure lontanamente compreso.
Si era ritrovato a formulare qualsiasi tipo di pensiero: che fosse una burla, una prova atta a testare la sua fedeltà, o che fosse un modo per punirlo a causa di ciò che aveva osato pensare in sua presenza.
La strada per la gloria è paragonabile a una scalata, lo sapeva benissimo, ma quella scalata la stava facendo scalzo, senza guanti e senza una corda di sicurezza.
 
“Perché mi trovo sempre in queste situazioni di merda? Perché?”.
 
Avrebbe potuto pensarci fino all’infinito, ma sapeva che non avrebbe trovato soluzione: avrebbe solo dovuto continuare a correre.
 
Il sole era tiepido e tirava un bel venticello, ma Leon sudava e tremava come se stesse attraversando un ghiacciaio secolare in piena notte. Aveva portato con sé la sua fedele frusta, più per trarne coraggio che per utilizzarla, ma doveva ammettere che di coraggio non gliene avesse infuso neppure un pochino. Era pieno di dubbi, incertezze, e temeva di essere diventato bipolare, un pazzo da manicomio. Ma cosa era questo manicomio, poi?
 
“Morirò. Morirò per la mia stupidità e per non aver capito che dovevo farmi i cazzi miei. In questo momento dovrei essere a lavoro a frustare quelle nullità, e invece… Invece…”.
 
Improvvisamente, qualcosa aveva smosso i cespugli e lui, guerriero cuor di leone, si era ritrovato immobilizzato dal terrore. Una goccia di sudore freddo gli aveva attraversato la spina dorsale in tutta la sua lunghezza, e un pallore spettrale si era fatto largo sul brutto viso da topo che si ritrovava.
Stava per morire. Stava per morire, lo sentiva, e nessuno avrebbe mai ritrovato il suo corpo perché non ce ne sarebbe stato uno. Stava per morire e, e…
 
“Ti prego! Non farmi del male!”.
 
Nell’istante in cui aveva avvertito l’estrema vicinanza del nemico – prossimo a porre fine alla sua miserabile vita – si era accovacciato al suolo, coprendosi il viso con le mani e dando prova dell’inesistenza del suo coraggio tramite il completo svuotamento della vescica. Era quello lo spettacolo penoso che avrebbe accolto il suo carnefice: quello di uno scarto umano zuppo della sua stessa urina con accanto un’inutile frusta incastrata per metà tra i rovi.
 
“Urca! Ti senti bene, amico?”.
 
Sentirsi… bene? No, non si sentiva bene, per niente! Ma quella voce cristallina e dal tono così gioviale era bastata a convincerlo che non fosse veramente in pericolo, insieme, ovviamente, al fatto che fosse ancora lì e fosse in possesso di ogni singola parte del suo corpo.
 
“A-amico?”.
 
Quando aveva riaperto gli occhi, ancora accovacciato in quella ridicola posizione, erano stati i capelli a forma di palma ad attirare la sua attenzione. Solo in seguito aveva messo a fuoco il resto di quella figura dall’aspetto così insolito eppure così determinato. E le parole gli erano morte in gola, perché quel tizio – che continuava a mantenere una certa distanza – era veramente identico al figlio più piccolo di quello stronzetto a cui aveva fatto il culo non molto tempo prima.
 
“Ma tu… Tu sei…”.
“Io sono Goku. E sto cercando un uomo più o meno alto così” – e aveva fatto il gesto con la mano – “che ha con sé due bambini, uno con un caschetto lilla e uno con i capelli uguali ai miei. Non è che tu li hai visti, per caso? Voglio solo sapere se li hai visti, non mi voglio avvicinare! Sai com’è, ne succedono di ogni, ultimamente…”.
 
Un idiota. Quel tizio era veramente un idiota. O era un fottuto genio, ancora non aveva deciso. Quello che aveva deciso era stato il voler riacquistare la propria dignità rimettendosi in piedi, e recuperare la frusta con un gesto squisitamente atletico.
 
“Due bambini, eh? E un uomo relativamente basso…”.
“Be’, basso… Non credo che questa definizione gli farebbe piacere, ma se vuoi metterla così… Li conosci?”.
“Forse sì, ma non sai i loro nomi?”.
“Emmm… Sì, certo. Si chiamano Vegeta – l’uomo – e Trunks e Goten. Sono piccoli, e uno ha i capelli come i miei, te l’ho già detto”.
“E tu li stai cercando”.
“Sì… Ho davvero bisogno di parlare con Goten”.
 
Era incredibile. Era andata proprio come gli aveva detto il suo benefattore: un tizio di nome Goku sarebbe apparso e avrebbe detto di voler parlare con Goten, queste erano state le sue parole, e le cose erano andate esattamente in quel modo. Era straordinario! Non avrebbe mai più dubitato di lui, MAI.
 
“Sì, li conoscono”.
“E puoi portarmi da loro?”.
“Certo che posso… Vegeta è un mio caro amico… Seguimi pure”.
“Strano… Vegeta non ha molti amici, ma le cose saranno cambiate dopo tutto il tempo trascorso qui”.
 
Aveva parlato troppo. Cazzo, doveva stare più attento se voleva salvarsi la pelle! Ma possibile che non riusciva a stare attento? Far incazzare un tipo come quello non era saggio! Poteva risucchiarlo in qualsiasi momento, farlo sparire, e…
 
“Ma senti, lo conosci da tanto?”.
“Chi? Vegeta? Sarà un anno…”.
“Un-un anno? È trascorso un anno da quando… Da quando…”.
“Da quando?”.
“Urca! No, no, niente! Senti, avrei un po’ di fretta. Non è che mi puoi portare subito da loro? Io ti vengo dietro, a questa distanza, ok?”.
“Certo, amico mio, molto volentieri…” – forse l’aveva scampata.
“Forse, però, prima dovresti passare da casa” – aveva aggiunto Goku, sorridendo.
“Eh?”.
“Urca, amico. Non so come dirtelo, ma credo che tu te la sia fatta sotto a causa mia”.
 
*
 
Era accaduto tutto proprio come era stato stabilito: dalla posizione in cui si trovava, Leon aveva potuto osservare tutto con estrema chiarezza, ed era stato a dir poco meraviglioso come quel babbeo dai capelli a punta avesse dato il via a tutto proprio con le sue stesse mani. Un semplice tocco, un contatto dei suoi polpastrelli con quella superficie liscia e tac! Tutto aveva avuto inizio.
E questo tutto era talmente perfetto da avergli fatto venire le lacrime agli occhi. Se ci fosse stata quella stupida della sua donna, le avrebbe infilato la lingua sino in gola e le avrebbe dato una bella strizzata proprio sul fondoschiena. Al solo pensiero, Leon aveva dovuto asciugare la bava colata sul suo mento, anche se la sua eccitazione crescente era dovuta a ben altro: chissà cosa avrebbe potuto ottenere una volta ricevuta la sua ricompensa, chissà quante donne ben più giovani e belle della sua sarebbero cadute ai suoi piedi. Pregustava quel momento con grande eccitazione, ma doveva essere bravo a non rovinare ciò che aveva creato con tanta dedizione. Era compito suo far sì che le cose funzionassero, che tutto andasse come deciso, ed era sua intenzione portare quel compito a termine.
Si era nascosto con grande attenzione, facendo in modo di poter vedere senza essere visto. Vegeta era a dir poco patetico. Giocava a fare il paparino premuroso, il difensore delle streghe, ma era un perdente. Un perdente per cui le donne piangevano, però, e che suscitava il rispetto degli uomini. Aveva notato sin dal primo istante come le persone lo guardavano, con un misto tra ammirazione e rispetto, e senza che lui avesse fatto qualcosa per meritarsi tutto ciò. Tranne – ovviamente – finire sulla bocca di tutti dopo averlo messo KO. Dannazione, quanto lo detestava! Era come se emanasse una strana aura, qualcosa che attirava irrimediabilmente chi aveva attorno e lui non lo tollerava. Non riusciva proprio a sopportarlo, e questo perché sapeva che nessuno avrebbe mai potuto avere una simile reazione nei suoi riguardi, sapeva che il massimo che poteva essergli concesso era di incutere timore mediante lo schiocco della sua frusta.
Ma poi, ora che ci faceva caso, da dove veniva fuori quel vezzo della frusta? E come aveva ottenuto il lavoro di capomastro? Aveva ricordi confusi a riguardo, molto, molto confusi. Ma era davvero importante, in quel momento? No, perché aveva avuto un assaggio di quelle sensazioni che tanto bramava nel momento in cui aveva messo KO quel bellimbusto. E pensare che quelle erano solo briciole, un assaggio di ciò che avrebbe potuto fare realmente una volta che avrebbe ottenuto tutto quello che voleva.
Trepidante, si era avvicinato ancora un po’ alla finestra: voleva osservare da vicino lo svolgersi degli eventi, voleva esserne totalmente partecipe, l’artefice, per quanto gli fosse possibile.
 
Non avrebbe saputo descrivere ciò che gli si era palesato davanti neppure se avesse avuto la fantasia di un bravo scrittore. Leon non era certo di aver visto quello che aveva visto, ma la realtà dei fatti era che tutto quello che gli si era palesato davanti era avvenuto eccome, anche se era a dir poco impossibile crederci.
In meno di un attimo, nell’istante in cui quell’imbecille aveva preso tra le mani il quaderno, il sole e la luna si erano alternati un’infinità di volte, rapidi, talmente rapidi da formare un anello luminoso costellato da luce e ombra. Le candele presenti all’interno della modesta abitazione si erano spente, e le pagine avevano preso vita, agitandosi perché smosse da un vento impetuoso che aveva spalancato porte e finestre. I bambini si erano svegliati giusto in tempo per vedere il quaderno cadere sul pavimento, Vegeta indietreggiare e un freddo pungente avvolgere cose e persone.
Centinaia di voci sinistre si stavano sovrapponendo, miliardi di sussurri e sospiri si mescolavano gli uni con gli altri, e occhi… innumerevoli occhi scintillanti erano puntati sul trio di sventurati che da un anno aveva occupato quella catapecchia che chiamavano casa.
 
Leon aveva visto tutto muoversi, tutto cambiare, ma lui era rimasto esattamente dov’era, unico spettatore in grado di vedere ciò che stava accadendo senza però capirlo. Aveva deciso di darsi un pizzicotto, a un certo punto, convinto di essersi addormentato e di essere in preda a un incubo spaventoso, ma il dolore lo aveva avvertito, forte e chiaro come non mai, e aveva avvertito anche altro. Una voce che sovrastava le altre, una voce che non avrebbe mai confuso con quella di nessun altro essere vivente presente sulla faccia del pianeta.
 
“Urca… Come ci sono finito, qui?”.
 
L’energumeno muscoloso con la faccia da ebete era comparso all’improvviso alle sue spalle, ma non aveva idea di come avesse fatto. Non aveva sentito i suoi passi, non aveva avvertito la sua presenza avvicinarsi. Era comparso e basta, come per magia. E Leon sapeva che – se davvero di magia si trattava – era la stessa che presto lo avrebbe reso potente e superiore a qualsiasi essere umano.
 
“Sei-sei arrivato!” – gli aveva detto, iniziando a ridere come se fosse stato posseduto da uno spirito maligno – “FINALMENTE!”.
 
Ma Leon, inetto essere inferiore, feccia dell’umanità che gode della sofferenza altrui, traditore farabutto tra i peggiori mai nati, non aveva capito che le regole del gioco che aveva da sempre giocato con gli altri sarebbero state le stesse che il suo misterioso benefattore avrebbe adoperato con lui.
 
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ora avrò la mia ricompensa! Ah-ah-ah! Ora avrò tutto quello che ho sempre desiderato!”.
 
“Ma cosa dici? Stai bene amico? Mi sembri confuso e… Urca! Che dolore! Mi scoppia la testa!”.
 
Lo aveva visto crollare sulle ginocchia come se fossero state di burro, e lo aveva visto stringersi il cranio a tal punto da pensare che presto sarebbe esploso come un melone maturo. Sudava freddo, quell’ammasso di muscoli senza cervello, e tremava come una foglia al vento. Emetteva rantoli spaventosi, gemeva come se lo stessero lentamente sciogliendo dall’interno. Era il più bello spettacolo a cui avesse mai assistito: un altro idiota tutto muscoli e niente cervello ridotto a uno straccio! Stava godendo come non mai, e questo perché sapeva di aver contribuito a quello spettacolo così soddisfacente con il suo per nulla misero contribuito.
E, come tutto era iniziato, così era finito: il vento, l’alternarsi di giorno e notte, le voci e la presenza inquietante degli occhi che brillavano nel buio, tutto era terminato, lasciando posto a un silenzio ben più inquietante della confusione sovrannaturale che li aveva investiti poco prima.
Persino l’idiota aveva smesso di lamentarsi e, piano piano, si era rimesso dritto.
 
“Ma che-che succede?”.
“Nulla” – era la voce del suo benefattore – “Adesso, avrai il premio che ti sei meritato”.
 
Il Karma segue leggi severe e infrangibili, e neppure in quel caso avrebbe fatto eccezione: l’idiota dai capelli a forma di palma, quel Goku, si era magicamente materializzato a un centimetro dal suo viso e lo aveva afferrato per il collo, sollevandolo di peso con quelle grandi mani callose.
Leon aveva stretto le mani attorno al suo avambraccio e aveva cominciato a scalciare nel tentativo di divincolarsi da quella presa mortale. Ma qualsiasi cosa avrebbe potuto fare, sarebbe stata inutile: la forza vitale stava inesorabilmente scivolando via dal suo corpo mortale, corpo che stava cominciando a diventare sempre più trasparente. Sarebbe scomparso, proprio come era capitato a tutti gli altri. Sarebbe scomparso, e di lui non ci sarebbe stata più traccia.
 
“P-perché?” – aveva mugugnato, ormai prossimo all’asfissia.
“Perché cosa?” – la voce dell’uomo era mutata in un’altra che non avrebbe mai potuto confondere – “Questa è la tua ricompensa. Far parte di noi, di me, per sempre!”.
 
L’ultima cosa che Leon aveva sentito prima di scomparire era stata la risata diabolica di colui che lo aveva ingannato. L’ultima cosa che aveva visto, era stata la sagoma di Vegeta, seguito dai bambini, che compariva sulla soglia. L’ultima che aveva pensato, era stata che se ci fosse stato un Dio che aveva visto tutto, doveva sicuramente avere un senso dell’umorismo pessimo. Peccato che non avrebbe avuto modo di dirglielo, perché sapeva che sarebbe marcito per sempre all’Inferno.
 
Continua…


 
Ragazzi/e,
Siamo agli sgoccioli. OH MIO DIO, GOKU È ARRIVATO.
E ha fatto un ingresso col botto. Bene, E MO SONO CAVOLI. Ma cavoli per davvero. Il mostro è entrato nel corpo del nostro eroe preferito, Vegeta e i ragazzi sono usciti e si sono trovati faccia a faccia con lui, e Leon… Il bastardo ha avuto quello che si meritava, lasciatemelo dire.
Almeno una gioia ce la meritiamo, e che caspita!
Orbene, nel prossimo capitolo ne accadranno delle belle.
Si aspettano miracoli per risolvere la situazione.
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 57
*** Il sacrificio più grande ***


Il sacrificio più grande
 
Quello sbalzo temporale li aveva stremati.
Il susseguirsi incessante delle ore, dei minuti, dei secondi, aveva ridotto l’anziano maestro e la veneranda strega in uno stato semi-comatoso da cui non era stato facile ridestarsi.
Baba si era aggrappata con tutte le sue forze alla fedele sfera di cristallo, ma alla fine aveva dovuto cedere, arrendendosi a quella stanchezza che sembrava aver consumato anche l’ultimo brandello della sua stessa essenza. La stessa cosa era capitata a Genio: il bastone non era stato un sufficiente supporto, ed era rovinosamente caduto a terra, vittima di quel sortilegio che sembrava impossibile da infrangere.
Solo dopo un lasso di tempo indeterminabile entrambi erano ritornati in sé, incapaci di comprendere pienamente quello che era capitato di nuovo.
 
“Cosa-cosa è successo?” – Baba aveva un cerchio alla testa e sentiva un forte dolore alla schiena. Come aveva fatto a cadere dalla sua sfera? In centinaia di anni, non era mai capitato prima, e la cosa l’aveva fatta vergognare come una ladra.
“Ohi-ohi-ohi… Che botta… Mi sento come se mi avesse investito in pieno un’Onda Energetica” – aveva commentato il Genio, tenendosi la schiena con entrambe le mani. Era ridotto uno straccio, ma non voleva mostrarsi debole davanti a sua sorella, palesemente più provata di lui – “Ma guarda tu che situazione… Non avrei immaginato di sentirmi allo stesso modo per ben due volte di fila e… E….”.
 
Aveva smesso di proferire parole all’improvviso, così all’improvviso da far pensare a sua sorella che avesse accusato un malore e fosse passato a miglior vita.
 
“Genio?”.
 
Sembrava essersi tramutato in una statua di sale: il suo viso aveva assunto un colore spettrale, e sembrava che avesse smesso di respirare.
 
“Fratello, mi stai mettendo paura, io…”.
“È terribile” – aveva sentenziato, all’improvviso – “È terribile”.
“Ma cosa stai dicendo? Cosa… Co-Oh, no… No! NO!”.
 
Sconvolta, la strega aveva portato entrambe le mani alla bocca, cercando di placare l’urlo disperato che cercava forzatamente di venire fuori.
 
“Devi portarmi lì, devi portamici adesso! Ti prego… Potrebbe essere già troppo tardi”.
 
*
 
Il timore di non essere arrivato in tempo era diventato una certezza nel momento in cui si era trovato davanti a quella scena terrificante. Genio aveva sentito la terra tremare sotto i piedi, il respiro interrompersi, il cuore arrestare la sua corsa e, per la prima volta durante la sua lunga, lunghissima vita, aveva creduto che presto avrebbe raggiunto il posto che gli era stato riservato all’Altro Mondo.
Le parole gli erano morte in gola, era inutile sforzarsi a farle uscire, era inutile provare a emettere qualsiasi tipo di suono.
Erano lì, faccia a faccia dopo secoli. Erano lì, identici ma diversi. Erano lì… E solo gli dei sapevano quanto quell’incontro avesse potuto devastarlo.
Aveva avvertito immediatamente che il sigillo apposto su Goku si era spezzato e che quest’ultimo avesse lasciato il luogo sacro in cui lo aveva costretto a sostare. Purtroppo, aveva capito che il ragazzo si era messo sulle tracce dei suoi cari nonostante gli avvertimenti, nonostante le sue suppliche silenziose, ma non avrebbe potuto immaginare che il loro nemico fosse un giocatore talmente astuto e che la partita fosse già a quel punto, l’unico a cui non sarebbero mai dovuti arrivare.
 
“Ragazzo… Ti prego… Torna in te… Lascialo andare e torna in te”.
 
Il figlio che non aveva mai avuto se ne stava lì, in piedi, impassibile, con gli occhi sbarrati e un’espressione indecifrabile. Aveva un braccio sollevato davanti a sé, la mano stretta attorno al collo del suo secondogenito – che aveva attirato a sé con la sola forza del pensiero – mentre, ai suoi piedi, giacevano il corpo inerme del piccolo Trunks stretto tra le braccia di un Vegeta giunto ormai al culmine della sopportazione.
Goku non aveva subìto una qualche trasformazione evidente: i suoi capelli non erano diventati del colore dell’oro, non avevano cambiato forma, né i suoi occhi si erano tinti di azzurro chiaro, eppure, qualcosa in lui era cambiato, diventando terribilmente diverso e spaventoso. Emanava un’aura impura, malvagia, identica a quella della creatura che aveva preso possesso del suo corpo.
In un primo istante, Genio non era stato in grado di notarlo, ma era stato sufficiente focalizzare l’attenzione su padre e figlio saiyan inginocchiati al suolo per accorgersi che lì, a pochi centimetri dal polpaccio sinistro di Vegeta, si trovasse l’involucro vuoto, l’oggetto che avrebbe dovuto prendere e rinchiudere nel luogo sacro che gli era stato chiesto di custodire in quanto unico e solo scopo della sua esistenza. Ma era arrivato tardi per quello, ormai.
 
“Figliolo, torna in te. So che sei lì dentro, così come so che puoi sentirmi. Ti conosco, e sono perfettamente consapevole di cosa sei in grado di fare. Puoi respingerlo… Devi respingerlo! Ne va della vita delle persone che ami! Ne va del destino del mondo intero! Ti prego… Ascolta la mia voce e lasciati guidare… Fai in modo che io riesca ad aiutarti a uscire dalle tenebre!”.
 
Temeva che tentare di stuzzicare il suo animo sarebbe servito a poco, e così era stato. Genio era arrivato troppo tardi, se n’era reso conto nell’istante in cui il suo sguardo aveva incrociato quello del suo pupillo, nell’attimo in cui aveva preso coscienza del fatto che quello che aveva davanti non fosse più Son Goku, ma il ragazzo che aveva addestrato in una vita precedente, quando ancora credeva che il bene albergasse nel cuore di ogni essere umano.
 
Non riusciva a deglutire, Genio. Sostenere quello sguardo era praticamente impossibile, e ringraziava ancora una volta gli Dei di avere gli occhi celati dai suoi fedeli occhiali scuri. Forse, non era poi così coraggioso come credeva di essere. Forse, non era poi così determinato come aveva sperato. Eppure, sapeva di non avere scelta, sapeva cosa avrebbe dovuto fare per sistemare le cose. La conferma l’aveva avuta nell’attimo in cui aveva iniziato a vedere il piccolo Goten diventare trasparente: la creatura non si sarebbe fermata.
 
“VEGETA! SPOSTATI! IL BAMBINO STA SVANENDO!” – aveva urlato Baba, cercando di avvertire il giovane saiyan stravolto.
 
Non avrebbe potuto fare altro se non attaccare adesso, quando ancora non era completo. Se aveva intuito correttamente il suo piano, l’essere entrato nel corpo di Goku prima di assorbire Vegeta non era stato un intoppo, una sorta di ripiego dovuto alle circostanze. L’esito finale non sarebbe stato del tutto identico, quella decisione avrebbe inciso sulla sua potenza definitiva, ma non aveva avuto scelta: o quello, o soccombere. A quel punto, avrebbe dovuto sigillare insieme contenuto e contenitore, questo prima che assorbissero anche la forza spirituale di Vegeta per poi decidere in un secondo momento di porre fine all’esistenza di entrambi. Ma, per farlo, avrebbe dovuto far sì che Vegeta si allontanasse da lì. Sperava solo che quello zuccone non fosse restio ad eseguire gli ordini e non iniziasse a tirarla troppo per le lunghe.
 
“Figliolo, spero che tu possa perdonarmi… Quando tutto sarà tornato come prima, chiederemo a Polunga di ripristinare le cose. Sono stato un vero sciocco a non voler chiedere prima l’intervento degli Dei, a pensare di poter fare tutto da solo. Adesso, per colpa mia, anche Goten e Trunks rischiano di morire”.
 
Ebbene sì: purtroppo per lui, anche il piccolo mezzosangue dai capelli color lillà aveva iniziato a diventare incorporeo, trasparente. Genio era sicuro che, nel rendersi conto di ciò, Vegeta avrebbe tirato fuori la forza necessaria per spostarsi da lì, ma così non era stato: il principe dei saiyan continuava a starsene immobile, sembrava quasi pietrificato. Ma per quale assurda ragione?
 
“RAGAZZO, TI DEVI SPOSTARE!” – Baba continuava ad urlare ma si rifiutava di avvicinarsi. Troppa era la paura di essere assorbita, di diventare parte di quella creatura spaventosa.
 
“BABA! VAI VIA, SORELLA! METTITI IN SALVO!”.
“Ma… Io…”.
“VAI VIA! È una faccenda che riguarda me e i miei allievi, non devi rischiare la vita anche tu per un mio errore! Mi sarai più utile se resterai viva! Vai via sorella mia! SALVATI! Lascia che sia io a porre rimedio dove ho sbagliato”.
 
E, con le lacrime agli occhi, la strega era scomparsa, lasciando suo fratello solo ad affrontare quella creatura malvagia.
 
“Finalmente siamo soli. Ma ora… Ora, che posso fare? Non posso utilizzare il Mafuba con Vegeta messo lì… Non posso… Rischierei di fare il suo gioco! Perché fai così, ragazzo? Per quale ragione?”.
 
Un fulmine. Una saetta improvvisa aveva spaccato il cielo a metà, illuminandolo con la sua fiamma lampeggiante e un mare di nuvole scure di cui un istante prima non vi era alcuna traccia si era radunato sopra le loro teste, preludio di una pioggia che presto avrebbe bagnato quel campo di battaglia così insolito e triste.
 
“Tu non mi avrai”.
 
La voce di Vegeta era stata appena un sussurro, ma anche se avesse usato solamente il labiale, sarebbe stato impossibile non comprendere quanto aveva detto.
Trunks era una figura sempre più evanescente, e lo stesso valeva per il piccolo Goten, mentre Vegeta… Vegeta era lì, solido, immutabile, praticamente immune all’incantesimo vigliacco di quel mostro che indossava come abito il suo eterno rivale.
 
“Tu non mi puoi avere...” – aveva proseguito, rimettendosi in piedi – “E non puoi avere né Trunks, né Goten…”.
 
Lentamente, con una calma che non gli apparteneva, Vegeta si era rimesso in piedi. Genio era confuso, ma la sua confusione era nulla a confronto di quello che aveva visto sul viso di un Goku che, per un attimo, era parso scosso da sensazioni umane.
Quella che gli si era palesata davanti era una scena che Genio e Baba avrebbero fatto fatica a dimenticare: il principe dei saiyan se ne stava lì, in piedi, con il figlio in braccio e una fierezza che non rispecchiava le condizioni misere del suo corpo martoriato. Un altro fulmine, un rombo di tuono, e la pioggia aveva iniziato a scendere lenta, incerta, per poi diventare un temporale sempre più forte, sempre più simile alla tempesta che stava attraversando il cuore del principe dei saiyan.
 
Era stato in quel preciso istante che Genio aveva capito, nel momento in cui aveva visto il viso di Vegeta distendersi e il sorriso affiorare sulle sua labbra. E, in quel preciso istante, aveva capito che non avrebbe potuto fermarlo in nessuna maniera.
 
*
 
“Re Kaioh, ma cosa sta succedendo? Perché Vegeta non si sposta? Perché non fugge? Che cosa ha in mente quel ragazzo? Non riesco a capire! Ah, se mio fratello mi avesse dato retta e mi avesse spiegato cosa stava facendo, se avesse accettato il nostro aiuto invece di fare di testa sua, non saremmo arrivati a questo punto! Guardi quei poveri bambini… Presto, anche loro entreranno a far parte del corpo di quel mostro! Avrei dovuto prenderli e portarli con me, ma avevo troppo timore di avvicinarmi, io… Io… Sono un mostro!”.
 
Baba, in quel frangente, stava incarnando l’esempio più compiuto dell’agitazione e dell’ansia. Le rughe sul suo viso erano diventate ancora più profonde, e proprio non si spiegava come il suo vecchio cuore non avesse ancora ceduto a tutte quelle emozioni così violente. Aveva odiato suo fratello per quello che le aveva fatto, per averla costretta a dimenticare quell’episodio così triste e spiacevole del suo passato, ma in quel momento non poteva fare a meno di odiare se stessa per non aver capito prima che qualcosa non andava, che il vuoto nei suoi ricordi non era dovuto all’avanzare dell’età ma alla volontà di quel furbacchione che si rifiutava di farsi vedere negli occhi e, soprattutto, per aver ubbidito a quell’ultimo ordine che le aveva impartito.
Era tutto talmente assurdo da non sembrare vero: era stato proprio quell’incantesimo ad aver generato una reazione contraria nel genere femminile. Tanto si era impegnato per farle perdere la memoria di quegli istanti così terribili, tanto le donne avevano preso coscienza di quello che era capitato, risultando immuni al maleficio dello spirito contenuto nel quaderno. Non lo avrebbe mai perdonato per quello che le aveva fatto, per averla ritenuta una debole. Ma non poteva fare a meno di ammirare Genio per il suo coraggio e la sua tenacia, per aver deciso, suo malgrado, di accettare completamente su di sé il peso di quello che era successo e di cui si sentiva così tremendamente responsabile.
Ora, però, non riusciva a comprendere le dinamiche di quello scontro, proprio non riusciva a capire cosa spingesse Vegeta a comportarsi in quel modo.
 
“Io… Io credo di aver capito, invece… Solo che non riesco a credere che possa essere vero”.
 
Re Kaioh era sbiancato – se questo era il modo corretto di definire il suo attuale colorito. Il simpatico sovrano dell’Ovest aveva colto immediatamente gli inequivocabili segnali lanciati dal principe dei guerrieri saiyan, ma ancora non riusciva a credere che proprio lui avesse preso una decisione del genere. Nel tempo lo aveva visto crescere, maturare, cambiare al punto di prendersi cura del figlio del suo peggior nemico, ma mai, mai avrebbe creduto di poter vedere Vegeta spingersi a tanto.
 
I movimenti del principe erano lenti e precisi: aveva dato un ultimo sguardo a suo figlio e lo aveva adagiato con cura sul terreno. Il volto del piccolo Trunks era ormai quasi del tutto trasparente, e solo un esperto avrebbe potuto notare l’impercettibile e fugace tocco che il padre aveva impresso sulla sua guancia. Un tocco che suonava come un addio.
 
“Non capisco, re Kaioh… Non capisco”.
 
Peccato che, purtroppo, a breve avrebbe visto.
 
*
 
Il dramma che aveva avuto per protagonisti due padri e due figli si era consumato in pochissimi istanti, e nessuno tra i presenti era stato in grado di evitarlo. Genio era rimasto immobile, incapace di agire. Trunks e Goten non avrebbero potuto fare niente neanche volendo, mentre Goku, o quello che era diventato, era stato l’unico a tentare uno scatto felino, questo dopo aver lasciato cadere rovinosamente al suolo il corpo ormai quasi completamente trasparente del piccolo Goten.
 
“FERMO”.
 
Capire da dove avesse estratto quel pugnale era stato impossibile: rapido come non lo era mai stato neanche all’apice del proprio splendore, Vegeta aveva sorriso prima di conficcarsi la lama nel collo, proprio lì dove la giugulare pulsava energicamente, quasi gli stesse indicando il punto esatto in cui colpire.
 
“Ragazzo… Che cosa hai fatto?”.
 
Era stato uno spettacolo terribile.
Dove avesse trovato la forza fisica necessaria a trafiggersi le carni, Genio non lo avrebbe mai capito. Dove aveva trovato il coraggio di immolarsi? E soprattutto, perché?
Erano queste le domande che continuava a ripetersi.
Gli schizzi di sangue erano violenti, e Vegeta non aveva neanche provato ad arrestare il fiume in piena che sgorgava dal collo martoriato. Se ne stava lì, il principe dei saiyan, imbrattato del suo stesso sangue schizzato anche addosso al figlio, in procinto di spegnersi per sempre, con il sorriso della vittoria ancora stampato sul viso sempre più pallido.
 
“Non puoi avermi” – aveva sussurrato tra un conato di sangue e un respiro preso a fatica – “Né ora, né mai… Soprattutto, non dopo esserti impossessato del corpo di quell’inutile terza classe”.
 
La risata sadica e nervosa di Vegeta poco si addiceva a quel momento così drammatico: ormai prossimo a spirare, era caduto in ginocchio, con il capo riverso in avanti e la pioggia che diluiva il sangue scarlatto sino a lavarlo via, lasciandolo pulito, lindo, immacolato come in quel frangente era il suo cuore, il cuore di un puro che aveva sacrificato la sua stessa vita per un bene più alto.
 
Nessuno avrebbe mai potuto saperlo, ma in quegli ultimi, drammatici momenti, Vegeta aveva visto scorrere davanti a sé le immagini di tutto ciò che aveva vissuto in quello strano anno che aveva trascorso altrove: aveva visto l’esplosione di luce, aveva rivissuto il tragico momento della scomparsa di sua moglie, seguito dalla scomparsa di Chichi e dalla perdita delle sue abilità; aveva rivissuto il tragico momento della morte di Gohan, quello della morte di Ouji, l’incontro con la donna che lo aveva salvato, la sua esecuzione, la prigionia, aveva visto l’arroganza e lo strapotere di Leon, le liti tra i ragazzi, il senso di impotenza e di frustrazione, il desiderio di arrendersi, sino alla presa di coscienza di quale fosse stato l’evento che aveva scatenato quel susseguirsi incessante di tragedie. Eppure… Eppure, nonostante il dolore, nonostante le sofferenze, nonostante il senso di inadeguatezza e la voglia di tornare indietro, il principe si era scoperto felice per quello che gli era stato offerto: l’amore incondizionato dei bambini, la loro fiducia, la possibilità di scoprirsi non solo un padre migliore, ma un uomo migliore. Ora, però, era arrivato il momento di porre fine alle angherie di quella creatura immonda e frustrata: era arrivato il momento di scrivere la parola fine a quell’avventura che lo aveva cambiato sin dentro l’anima.
 
“Ora tocca a te, vecchio”.
 
Avrebbe voluto dirglielo ad alta voce, ma le forze erano del tutto svanite. Vegeta, il principe dei saiyan, si era spento in un pomeriggio di primavera, sotto la pioggia battente, con la consapevolezza di aver salvato chi amava e con una certezza: quella che il vecchio sarebbe riuscito a sconfiggere il mostro nascosto dentro Son Goku.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Eccoci qui con un nuovo aggiornamento! Scusate per il piccolo ritardo.
Ebbene, siamo proprio agli sgoccioli: Goku è stato posseduto, Genio è arrivato e, udite udite, Vegeta ha passato il testimone a quest’ultimo, immolandosi per un bene superiore. Chi lo avrebbe mai detto?
Sono molto triste per la sua dipartita, ma era necessaria.
Grazie per essere rimasti con me fino a ora: un piccolo sforzo, siamo quasi alla fine!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 58
*** Verso il Paradiso ***



 
Verso il Paradiso

 

“Non ci posso credere… Non piò averlo fatto veramente… No… Non può. No!”.
 
Baba non era più stata capace di pronunciare altre frasi di senso compiuto, tanto grande era stato lo shock provato in seguito alla morte del principe dei saiyan. La donna non aveva mai nutrito particolare simpatia per il distruttore venuto dallo spazio, ma con il tempo aveva cominciato ad accettarne le sfumature, soprattutto dopo aver visto quanto si era prodigato per il benessere dei bambini. Era cambiato, questo era più che evidente, ma nessuno di loro era pronto a credere che fosse capace di porre fine alla sua stessa vita pur di impedire al mostro che aveva preso possesso di Goku di assorbire anche la sua essenza e diventare così la creatura che aveva bramato.
Vegeta era morto.
Vegeta si era suicidato per il bene di tutta l’umanità, era inutile che avesse cercato di non farlo notare pronunciando quelle ultime parole di scherno. Aveva sacrificato se stesso per permettere a chi amava di avere una seconda possibilità e, così facendo, aveva donato un’altra chance al mondo intero.
 
Re Kaioh non aveva proferito parola, in un primo momento: purtroppo per lui, aveva avuto un’intuizione in merito al gesto estremo compiuto da Vegeta, ma vederlo passare dall’idea all’azione era stato un colpo molto più duro di quello che si aspettava.
 
“Baba…” – dopo un silenzio che le era parso interminabile, finalmente re Kaioh le aveva rivolto parola – “Puoi asciugarti le lacrime e fare una cosa per me?”.
 
Era così serio, così determinato, ma il lieve tremore delle sue antenne e l’assenza del tipico sorriso che lo contraddistingueva erano la prova più evidente del suo turbamento.
 
“Cosa, re Kaioh?”.
 
La vecchia strega proprio non capiva cosa ci fosse di così urgente da dover fare in un momento delicato come quello, ma non si sarebbe tirata indietro per nessuna ragione al mondo, qualsiasi fosse stata la sua richiesta.
 
“Voglio che tu vada al cospetto di re Yammer…”.
“Davvero?” – forse, cominciava a capire.
“Non permetterò che questa occasione vada sprecata” – aveva asserito, agguerrito più che mai – “Porta Vegeta da me”.
 
*
 
“AAAAAAAAAAHHHHHH!!!!!”.
 
Dopo un lungo momento in cui sembrava che il mondo intero si fosse fermato, era stato l’urlo disumano della creatura che in parte era Goku e in parte era l’essere nascosto nel libro a far sì che il tempo riprendesse a scorrere.
La potenza che aveva scatenato era stata così devastante da far tremare la terra e da dissipare le nubi, ma quello che si era palesato al di là dei nembi carichi di pioggia non era stato l’azzurro del cielo, bensì una massa nera, densa e mobile, attraversata da improvvise scariche elettriche che la rischiaravano a tratti.
I muscoli del corpo di Goku erano talmente tesi da sembrare sul punto di esplodere, le vene del cranio pulsavano incontrollabilmente, e la bava accumulata agli angoli della bocca aveva cominciato a colare lungo il mento sbarbato, mentre gli occhi si erano rigirati all’indietro, lasciando intravedere un bianco attraversato da strisce rosse come il fuoco.
Aveva completamente perso il controllo La beffa giocatagli da Vegeta era stata per lui una sconfitta, una falla nel suo piano all’apparenza perfetto.
Genio poteva avvertire chiaramente gli sbalzi energetici causati dalle vibrazione della sua aura impura, ma non voleva mostrare a nessuno dei presenti quanto ne avesse timore.
Goku era ancora lì dentro, ne era sicuro, ma in quel momento, piuttosto che provare a far ritornare in sé il suo pupillo, la cosa più importante da fare era portare il più lontano possibile da lì Goten e Trunks che, per qualche strano motivo, avevano smesso di dissolversi poco dopo il suicidio di Vegeta.
Genio aveva dovuto raccogliere tutto il suo coraggio prima di agire. Esitare non gli era più permesso. Per questo motivo, aveva colto l’attimo e si era portato con un balzo rapidissimo prima da Goten, che era quello più vicino alla creatura, e poi da Trunks, dirigendosi poi a gran velocità in un punto più riparato.
 
“Ora o mai più”. “NUVOLA SPEEDY!”.
 
Erano trascorsi decenni dall’ultima volta in cui aveva urlato il nome della sua soffice amica. Lei non gli apparteneva più ma, nonostante ciò, la piccola nube dorata non era rimasta insensibile al suo richiamo e, veloce come il vento, si era palesata in men che non si dica, lasciando dietro di sé una lunghissima scia che attardava a dissolversi.
 
“Forse la fortuna inizia a girare dalla mia parte” – aveva commentato, adagiando sopra i teneri cumuli aurei prima Goten e poi il piccolo Trunks.
Per un breve, brevissimo istante, Genio aveva sorriso teneramente: quella scena non si discostava molto dall’idea che si era fatto di Paradiso, quella di un luogo in cui piccoli Cherubini si addormentavano serenamente su soffici e tiepide nuvole striate d’oro. L’anziano guerriero si era preso un momento per accarezzare i capelli di entrambi come avrebbe fatto un nonno amorevole, questo prima di chiedere alla sua fidata amica di condurre i ragazzi in un luogo lontano dai pericoli.
Mentre l’Inferno sembrava essere giunto in Terra, Genio si era preso un istante per osservare la nuvola e i suoi piccoli passeggeri dileguarsi oltre l’orizzonte. Chissà, magari, se avessero volato abbastanza lontano, avrebbero potuto di nuovo godere della luce del sole, della sua luce e del suo calore. In caso contrario, avrebbe dovuto sudare per scacciare via le tenebre che avevano avvolto il pianeta e restituire ai bambini e agli uomini quello che a torto gli era stato portato via.
Ormai, erano giunti alla resa dei conti, e qualcosa gli suggeriva che presto, molto presto, sarebbe stato in grado di verificare se la sua idea di Paradiso – in cui non potevano mancare sexy giovani angeli con mini costumi da bagno e davanzali in mostra – corrispondeva o meno alla realtà.
 
*
 
“Oh, Genio… Che gesto nobile… Sei riuscito a mettere in salvo i ragazzi. Spero veramente che tu riesca a tenere sotto controllo quel coso e a rispedirlo da dove proviene. Sarebbe terribile se ciò non dovesse accadere, perché a quel punto, nessuno sarebbe più in grado di contrastarlo! Voglio sperare che il non aver assorbito anche Vegeta abbia ritardato in lui il processo di acquisizione e comprensione delle abilità di Goku, e soprattutto, che abbia limitato il suo potere. Se così non fosse, non so proprio quale guerriero potrebbe scendere in campo per difendere il pianeta Terra. Per questo, ti prego, non deconcentrarti. Abbiamo bisogno di te”.
 
Re Kaioh era diventato la personificazione dell’ansia. Ormai era chiaro che quell’essere immondo li avesse beffati, agendo sotto il loro naso senza fare mosse eclatanti, ma quello che stava accadendo in quei minuti era un qualcosa che non avrebbe mai creduto di poter vedere. Goku, il suo pupillo, il suo allievo prediletto, era perso da qualche parte nel suo stesso corpo, prigioniero di un nemico le cui arti sfidavano qualsiasi legge fosse stata scritta, ed era per giunta prossimo a battersi in uno scontro all’ultimo sangue con il suo primo maestro, contro un vecchietto apparentemente innocuo che celava in sé un potere che in pochi potevano vantare.
La tensione sulla Terra era alle stelle, poteva avvertirla chiaramente, e sommata al suo stato d’animo avrebbe potuto causargli un colpo fatale, e lui non aveva intenzione di morire. Tutto era nelle mani di Genio che, forse, avrebbe avuto bisogno di un piccolo aiutino.
 
“In bocca al lupo, grande guerriero. Fatti valere, e riporta indietro il nostro ragazzo”.
 
*
 
Baba stava volando a una velocità che non si confaceva a una signora della sua età. Il vento le tagliava il viso e le scompigliava vesti e capelli. Fortuna che la sua sfera era comodissima, ma era stata costretta a tenere il cappello con una mano e ad aggrapparsi al suo fedele mezzo di trasporto con l’altra per evitare di perdere qualcosa per strada. Doveva fare presto, non aveva un minuto da perdere. Se avesse tardato, Vegeta sarebbe già stato destinato all’Inferno, e a quel punto sarebbe stato praticamente impossibile convincere re Yammer a condurlo nel Regno dei Cieli al cospetto di re Kaioh. Quel ragazzo le aveva messo paura, un tempo, ma dopo quell’ultimo anno, e soprattutto dopo quel gesto così inaspettato, poteva affermare con fermezza che quel sentimento fosse ormai acqua passata, e che al suo posto fosse affiorato un profondo rispetto unito a un moto di tenerezza.
 
“Ah, che amarezza… Mi chiedo perché tu sia dovuto arrivare a questo punto, prima di renderti conto di chi fossi veramente, principe dei saiyan. A quest’ora, forse, non dovrei correre a rompicollo per venire a recuperarti ed evitarti di marcire all’Inferno! Ma guarda tu che situazione… Gli uomini sono proprio degli zucconi, a volte, e i saiyan lo sono ancor di più! Spero solo di riuscire ad arrivare in tempo… In caso contrario, non credo che riuscirei a perdonarmelo”.
 
Non poteva concedersi errori. Se Re Kaioh aveva deciso di convocare Vegeta con tanta urgenza doveva esserci un motivo che ancora non aveva individuato, ne era più che sicura. Forse, il principe, poco prima di morire, aveva intuito qualcosa che a loro era sfuggito e re Kaioh voleva interrogarlo. O, forse, Vegeta era molto più di quello che sembrava e averlo accanto sarebbe stato il modo migliore di proteggerlo.
 
“Che sia questo il motivo o meno, devo fare presto… Lo devo fare per me e per mio fratello. Adesso, è tutto nelle sua mani”.
 
*
 
Il campo di battaglia era ormai sgombro. I bambini erano lontani, al sicuro, i popolani si erano rinchiusi nelle loro case, e non vi era traccia neppure degli animali domestici, probabilmente troppo spaventati dall’esplosione di rabbia del mostro che aveva dato il via a quella che sembrava a tutti gli effetti la fine del mondo.
 
Genio si era preso un momento per osservare meglio l’essere che aveva davanti, per scoprire chi fosse realmente l’ibrido con cui presto avrebbe dovuto ingaggiare lo scontro più importante di tutta la sua vita.
Poteva sentire ogni cosa, il Genio delle Tartarughe. Poteva sentire il battito del suo cuore che rallentava sino a ritornare al suo ritmo normale, poteva sentire il rumore dell’aria che entrava e usciva dalle sue narici, il rumore del sangue che scorreva nelle sue vene, quello dei muscoli che si tendevano in vista dello scontro imminente. Ma Genio non aveva solo una percezione amplificata di ciò che stava accadendo al suo corpo: la sua estrema sensibilità gli aveva concesso di avvertire i cambiamenti che stavano avvenendo nel suo rivale. I muscoli tesissimi, l’aura diventata ormai incontenibile e le pupille nere come la notte fisse sull’obiettivo non lasciavano alcun dubbio sull’imminente inizio dello scontro. A quel punto, bisognava solo capire chi avrebbe fatto la prima mossa.
 
L’oscurità che sostituiva l’azzurro del cielo era illuminata da lampi improvvisi che proiettavano al suolo le ombre degli sfidanti. Il vento aveva sollevato la terra in tanti piccoli mulinelli resi variopinti dai petali dei fiori che aveva strappato sin dalle radici, e faceva ondeggiare i capelli di Goku e le vesti del Genio delle Tartarughe. Un istante sospeso prima dell’inizio della fine. Subito dopo, neppure ci fosse stato un arbitro a decretare con un fischio il via al duello mortale, entrambi gli avversari erano scattati in avanti partendo all’attacco.
 
La volontà di ferirsi mortalmente non si era ancora palesata in nessuno dei due avversari: ogni pugno veniva prontamente parato, ogni calcio veniva schivato, ogni colpo sorto dalla concentrazione dell’aura nel palmo della mano veniva deviato. La Creatura e Genio si stavano studiando, stavano testando le potenzialità di entrambi, e la prova più tangibile di ciò era dovuta alla semplice constatazione che non ci fosse stata alcuna trasformazione fisica da parte di entrambi.
Genio era convinto che il suo allievo non si fosse ancora del tutto abituato a quel nuovo involucro. Le abilità di Goku non erano facili da dominare, a cominciare dalla stessa trasformazione in super saiyan. Dal canto suo, la Creatura non sapeva cosa aspettarsi dal suo maestro, ma non sapeva neppure cosa aspettarsi dal corpo che aveva deciso di fare suo per sempre. Il non essere stato in grado di portare a termine il piano di assorbimento del principe dei saiyan era stato un duro colpo, e anche piuttosto inaspettato. Aveva fatto in modo che ogni cosa fosse al suo posto, che tutto si svolgesse come aveva previsto, eppure, quella larva umana aveva rovinato tutto, facendo l’ultima cosa che avrebbe mai creduto di vedergli fare. Vegeta rappresentava un tassello troppo importante per il completamento del suo contenitore, e la consapevolezza di non poterlo aveva mai più, di non potere più sperare di sentirlo parte di sé lo aveva fatto esplodere di rabbia. Quello era il suo momento, quella era la vendetta che aveva sognato sin dal primo minuto di prigionia, era la sua rivalsa! Ora, invece, avrebbe dovuto accontentarsi di un corpo incompleto, di un corpo a metà. Per quanto il principe dei saiyan fosse cambiato, l’odio che aveva seminato, il male che aveva causato era stato troppo grande, e questo lo avrebbe additato per sempre come essere malvagio, ed era proprio per questo che aveva un disperato bisogno di lui, perché Goku, il guerriero più forte di cui avesse mai preso possesso, colui che rappresentava la luce, la purezza, aveva necessità di una controparte malvagia per poter esprimere al meglio le sue potenzialità. Bene e male dovevano fondersi. Solo così avrebbe potuto raggiungere l’apice della perfezione, solo così avrebbe potuto ottenere tutto ciò che desiderava e, a quel punto, avrebbe potuto smettere di soffrire. Aveva letto i sentimenti oscuri che albergavano nel cuore del principe nello stesso istante in cui Trunks aveva sollevato la copertina del quaderno in cui era stato rinchiuso: Vegeta era una spugna intrisa di dolore, sofferenza, di sete di potere e di vendetta. Era tutto ciò che aveva bramato nei secoli trascorsi a progettare il piano che lo avrebbe condotto non solo a nuova vita, ma a sedersi sul trono del mondo. Ma la presenza costante dei due mocciosi e della donna che lo aveva preso in casa propria, il loro affetto, il loro candore, lo stavano cambiando e, in quel buio pesto come la notte, aveva cominciato ad affiorare una luce che non doveva in nessuna maniera palesarsi. Per questa ragione, aveva fatto di tutto per mettere contro Trunks e Goten. Per questa ragione aveva privato il principe di tutto ciò che lo aveva reso migliore, per questo motivo lo aveva ferito, umiliato, costretto a diventare la pallida ombra di se stesso: per rendere il suo cuore sempre più nero e marcio e poter portare a compimento il suo piano. Arrivati a quel punto, però, era più che evidente che quel suo piano così perfetto non avesse funzionato come aveva creduto. Quel maledetto lo aveva spiazzato, reagendo in maniera diametralmente opposta o quanto si aspettava. Era arrivato a suicidarsi pur di salvare i figli, quando credeva di averlo condotto al punto di donarli in sacrificio pur di salvarsi. Aveva sottovalutato il potere del cambiamento, il potere dell’affetto sincero e dell’amore incondizionato. E lo aveva sottovalutato perché non ci aveva mai creduto. Per quale ragione, altrimenti, il suo antico maestro lo avrebbe segregato in quella grotta maledetta, privandolo del suo corpo? Perché non gli aveva mai voluto bene, esattamente come tutti gli altri prima di lui. Nessuno avrebbe mai potuto amarlo. Allora, lui non avrebbe mai amato nessuno.
 
“Ti prego… Fermati. Sei ancora in tempo”.
“Fermarmi? FERMARMI, DICI?”.
 
La creatura non aveva potuto fare a meno di chiedersi come osasse chiedergli di fermarsi. Quel vecchio dalla testa pelata doveva essere completamente rincretinito! Com’era che si chiamava quella malattia che prendeva ai decrepiti? La demenza. Sì, doveva essere affetto da demenza se non peggio, per pensare che potesse acconsentire a quella richiesta assurda dopo tutta la fatica che aveva fatto. MAI. Era libero, finalmente, ed era fortissimo, anche se incompleto, e non vedeva l’ora di mostrare al mondo intero quello che era in grado di fare.
 
“Lo so che sei arrabbiato…”.
“Taci. Tu non sai niente”.
 
Genio non riusciva a essere del tutto imparziale. Era incredibile sentire la voce del suo antico allievo fuoriuscire dalle labbra arricciate del suo attuale pupillo. Goku non avrebbe mai pronunciato parole tanto sprezzanti, tanto crudeli. Però era vero: sapeva come doveva sentirsi la Creatura.
 
“Lo so perché conosco il tuo cuore”.
 
Quella frase aveva scatenato l’ira del suo sfidante, con la sua conseguente trasformazione in super saiyan di primo livello. Genio non credeva che quel momento sarebbe arrivato tanto presto, ma era evidente che si fosse sbagliato: sembrava che quella forma fosse fatta appositamente per lui, che sapesse perfettamente come controllarla, nonostante si trattasse di un’assoluta novità. Come ci riuscisse, non era ancora stato in grado di capirlo, ma aveva dovuto reagire di conseguenza, scegliendo di non aumentare la sua massa muscolare per mantenere l’agilità necessaria a schivare le onde di energia rapidissime che gli venivano lanciate contro.
 
“TU NON SAI NIENTE!”.
 
I colpi erano micidiali: in pochi attimi, aveva fatto terra bruciata attorno a sé. Se non fosse stato un guerriero esperto, e se non avesse conosciuto alla perfezione le mosse di entrambi i suoi allievi, forse non sarebbe sopravvissuto.
 
“TU NON SAI QUELLO CHE HO PATITO A CAUSA TUA! A CAUSA DI TUTTO VOI! VI DETESTO! VI ODIO! SPERO CHE MORIATE TUTTI! TUTTI!”.
 
Spero che moriate tutti.
Ma chi diamine dovevano essere questi “tutti” a cui aveva augurato la morte? Del loro ordine non era rimasto più in vita nessuno, all’infuori del solo Genio. Che si riferisse agli esseri umani? La sua convinzione di non poter essere amato era talmente radicata da impedirgli di pensare che esistesse anche una sola forma di vita capace di provare per lui dei sentimenti? Poteva anche essere, ma Genio non credeva che le sue parole potessero essere riconducibili a ciò. Doveva ammettere di non riuscire a capire.
 
Nel frattempo, la sua furia distruttiva si era abbattuta tutt’intorno. Sperava vivamente che non ci fossero persone nei paraggi, e che i bambini fossero abbastanza lontani da non aver avvertito la forza d’urto di quella devastazione.
Genio era seriamente preoccupato per la velocità con cui il suo rivale era riuscito a fare sue le tecniche conosciute da Goku. Fino a ora aveva temporeggiato, ma se avesse lasciato trascorrere altro tempo, presto non avrebbe più avuto modo di fermarlo.
Era arrivato il momento di tirare fuori le sue reali abilità e porre fine a quella storia il cui inizio era stato scritto in un’altra epoca. Era arrivato il momento di dire addio al mondo che aveva giurato di proteggere.
 
*
 
“No, no e poi no! Non potete venire qui a fare simili richieste! Mi rifiuto di accettare questa imposizione!”.
“Re Yammer, mi rendo conto che si tratti di una cosa alquanto singolare, ma ambiasciator non porta pena. Re Kaioh mi ha chiesto di venire qui a prelevare il principe dei saiyan e di condurlo da lui, e questo è ciò che intendo fare. Mi rendo conto che si tratta di un grosso strappo alle regole, ma…”.
“UN GROSSO STRAPPO ALLE REGOLE? UNO STRAPPO, DICI? QUESTO NON È UNO STRAPPO, È UNA CATASTROFE! UNA VIOLAZIONE CHE NON HA PRECEDENTI! E NON NE AVRÁ NEPPURE ADESSO! QUINDI SMETTILA CON QUESTE IDIOZIE E LASCIAMI LAVORARE!”.
 
Baba sospettava che re Yammer avrebbe fatto storie, ma non pensava di vederlo reagire così male. Aveva gettato per aria tutti i fascicoli che si trovavano sulla sua scrivania ed era scattato in piedi, terrorizzando i suoi collaboratori e le povere anime appena passate a miglior vita. Il suo caratteraccio era famoso, così come la sua incorruttibilità – ricordava benissimo le sue remore nel far tornare indietro Goku anche se solo per poco tempo – ma quella era una situazione che esulava dalla normalità. Vegeta non poteva andare all’Inferno, non dopo quello che era accaduto.
 
“Re Yammer, se posso permettermi…”.
“Baba, io nutro grande stima nei tuoi riguardi e in quelli di re Kaioh, e credo che la cosa sia reciproca. Non mi metterei mai di sentenziare sul vostro operato, quindi non capisco perché voi veniate a dirmi quello che posso o non posso fare. Ma poi, non si tratta solo di questo! Il mio lavoro non è un gioco, fare delle eccezioni può essere rischioso! Hai visto cosa è successo sulla Terra dopo che ho mandato indietro Goku, sì?”.
“Come dice?”.
“Dico, mia cara, che tutto quello che è successo nell’ultimo anno è successo per via del permesso speciale che ho dato al giovane saiyan! Baba, lascia che ti rinfreschi la memoria: mondo dei vivi e mondo dei morti non devono mai incontrarsi, MAI. Le conseguenze sono nefaste! Aver concesso a Goku quel permesso speciale ha scatenato una serie di conseguenze indicibili! Ti rendi conto del fatto che mancano all’appello centinaia, ma no, che dico, MIGLIAIA di anime, vero? Benissimo, quelle si trovano tutte dentro quel ragazzo! Fortuna che è un saiyan dai poteri leggendari, perché un altro, al suo posto, non sarebbe stato in grado di reggere dentro di sé una simile bomba a tempo! Se dovesse esplodere, sarebbe una catastrofe! E poi, sì che mi ritroverei a dover portare il curriculum altrove e cercare un nuovo lavoro. Per cui no, Baba, non prenderai Vegeta. Lui andrà all’Inferno e lì attenderà che la sua anima venga rigenerata, cosa che potrà accadere, tra un giorno, un anno o un millennio! Fine del discorso”.
 
Non avrebbe osato replicare per nessuna ragione al mondo. Baba era amareggiata, si sentiva tremendamente in colpa, ma non poteva biasimare re Yammer. Aveva perfettamente ragione: le regole di quel mondo esistevano da ancor prima delle divinità stesse. Chi erano loro per pensare di poterle cambiare? Era stata la voglia di far incontrare padre e figlio a scatenare quella serie di sfortunati eventi. La strega si sentiva terribilmente colpevole.
 
“Forza! Fatti avanti! Sì, sto parlando con te, razza di fantasmino prepotente! Vieni qui e facciamola finita una volta per tutte… Ma vedi tu se questo pure qui deve fare casino…”.
 
Sotto lo sguardo stupito di Baba, una piccola anima fluttuante si era fatta avanti: non le era per nulla parso che si trattasse di un fantasmino prepotente, ma re Yammer doveva avere le sue buone ragioni per esprimersi in quei termini.
Quell’aura era inconfondibile: non poteva non trattarsi di Vegeta.
 
“Principe Vegeta” – aveva tuonato, leggendo dal registro che aveva davanti a sé “Ultimo della tua stirpe, servitore del tiranno Freezer, conquistatore di pianeti, spietato assassino, io ti condanno a… a… Ehi, un momento… Ma cosa?”.
 
L’espressione comparsa sul viso del sovrano era mutata: se lo avessero immortalato in una fotografia, il titolo più adatto sarebbe stato l’Allegoria dello Stupore.
 
“Che cosa succede, re Yammer?”.
“Io… Ecco, io… Principe Vegeta…” – aveva ripreso a leggere, confuso più che mai – “Nobile guerriero, padre affettuoso, protettore di innocenti… Il posto in cui sei stato destinato è il Mondo di Mezzo. Lì, la tua anima potrà purificarsi e, se sarà degna, un giorno potrà accedere al Regno dei Cieli. Ti è permesso di mantenere il tuo corpo, affinché anche esso possa purificarsi dalle nefandezze commesse in passato. Così Abbiamo deciso. ABBIAMO DECISO. OH MAMMA MIA”.
 
Neanche lui riusciva a credere a ciò che aveva letto: un decreto del genere non si leggeva da eoni. Possibile che Egli si fosse scomodato proprio per lui?
 
Re Yammer, sudato e sconvolto, in men che non si dica, sotto lo sguardo incredulo di Baba, aveva agitato la mano destra, ridando forma corporea all’anima che poco prima fluttuava davanti a lui. Eccolo lì, sua maestà il principe dei saiyan, anima, corpo e aureola dorata sopra la testa.
 
“Tsk! Ci voleva tanto, dico io?”.
“MA COME OSI? COME… COME TI PERMETTI? Ah, oggi mi verrà un infarto! Se LUI ha deciso che sei degno di ricevere una grazia, chi sei tu per dire certe oscenità? Io… Io… AH! PORTATELO VIA, PRIMA CHE… CHE…”.
“Re Yammer, non ha letto la postilla…” – la voce tremante del suo servitore lo aveva ricondotto alla realtà.
“Cosa? Una postilla? Ma…” – veloce, aveva lasciato che lo sguardo scorresse sul documento, sino a raggiungere l’ultima riga – “Si concede al principe una delega per recarsi sul pianeta di re Kaioh dell’Ovest o ovunque sia necessaria la sua presenza”.
 
“Urrà!”.
 
L’entusiasmo di Baba era incontenibile! Non aveva capito molto di quello che era successo, ma non le importava: poteva condurre Vegeta da re Kaioh, e poteva farlo subito! Non c’era tempo da perdere!
 
“Tsk! Quindi conoscerò il tizio che ha insegnato al decerebrato il Kaioh-ken? Interessante…”.
“Oggi mi verrà veramente un infarto…”.
“Ma no, re Kaioh, ma no… Comunque, noi siamo di fretta! Forza, ragazzo, seguimi! E lei si riguardi, mi raccomando!”.
“Vecchia, io non prendo ordini da te! Ti seguo di mia spontanea volontà, sappilo! Tsk! ADDIO, grassone! Divertiti con tutte quelle scartoffie!”.
“MALEDETTO IMPERTINENTE! IO TI-TI... AH! Morirò di infarto!”.
 
E con un gesto teatrale, si era accasciato sullo schiena della sua comoda sedia, lasciando che la strega e il principe partissero alla volta del Paradiso. Peccato che quello sembrasse lo strano l’incipit di una improbabile favola pensata da un autore completamente folle.
 
Continua…


Carissime/i,
Come state?
Ebbene, lo scontro finale è iniziato. Sembrava che non saremmo mai giunti a questo punto, invece eccoci qui!
Non è stato affatto facile per me scrivere questo capitolo: Genio è un personaggio che non ho mai trattato prima di questa FF, ma meritava di avere il suo spazio in uno dei miei lavori. Così come – ovviamente – lo merita il nostro fantastico Vegeta, la mia vittima sacrificale preferita. Che vorrà re Kaioh da lui? E chi sarà mai EGLI?
Attendo di sapere cosa ne pensate!
Grazie per essere rimaste/i con me!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 59
*** L'ultima Onda Energetica ***


L’ultima Onda Energetica
 
 
Goten era stato il primo a riprendere conoscenza. Il vento freddo gli aveva arrossato la pelle del viso e arruffato i buffi capelli a forma di palma. Erano ancora in volo quando aveva aperto gli occhi, e per puro caso non era caduto di sotto, terrorizzato, in quanto non aveva la più pallida idea di dove si trovasse e cosa diavolo fosse la cosa morbida e tiepida che stava trasportando lui e Trunks a quell’altezza vertiginosa. Istintivamente, si era stretto al suo migliore amico, incapace di comprendere come si fosse trovato lì. Poi, piano piano, la memoria era riaffiorata, e non c’era voluto molto tempo per capire che si trovassero a bordo della fantomatica Nuvola Speedy, ma il perché fossero lì non era ancora riuscito a capirlo.
 
“Che ci facciamo qui? Come ci siamo arrivati? Trunks! Trunks! Svegliati!”.
 
Con cautela, per evitare che a causa dello spavento Trunks potesse precipitare al suolo, Goten aveva scosso il suo amico per il braccio, costringendolo a destarsi dal torpore in cui era precipitato.
Le precauzioni prese da Goten non erano state inutili, data l’espressione affiorata sul viso di Trunks.
 
“Ma che cavolo…? MA CHE CAVOLO! GOTEN!”.
 
Terrorizzato, il bambino si era gettato addosso al suo migliore amico, stringendosi forte a lui. Goten era arrossito: non si aspettava quel contatto così ravvicinato, ma nascondere l’emozione e la gioia che stava provando sarebbe stato un gesto folle. Per questo non lo avrebbe fatto. Non dopo quello che avevano vissuto sino ad allora, non dopo quello che avevano passato. Per questo motivo, aveva ricambiato l’abbraccio in silenzio, sorridendo felice.
 
“Va tutto bene… Siamo al sicuro”.
 
Erano veramente al sicuro? Trunks non lo sapeva, ma era contento di essere lì con Goten. Lentamente, aveva sciolto quell’abbraccio, cercando di non sembrare eccessivamente imbarazzato.
 
“Ma come siamo finiti qui? E cosa diamine è questo coso?”.
“Non ne ho la più pallida idea, ma questa è la nuvola di mio… di Goku. Si chiama Nuvola Speedy”.
“Una nuvola? Forte!” – Trunks sembrava effettivamente molto eccitato, e in un’altra circostanza sarebbe stato tutto molto divertente, se solo non fossero riaffiorati alla memoria improvvisamente gli ultimi minuti che aveva vissuto prima di perdere i sensi – “Ehi, ma dov’è papà? Dove… Dove lo abbiamo lasciato?”.
“Non ne ho idea… Quando mi sono svegliato, qui c’eravamo solo io e te…”.
“Ma non… Non possiamo lasciare papà da solo! Era in pericolo! Ricordi o no quello che è successo?”.
 
Purtroppo ne ricordava ogni singolo istante, e il solo pensiero gli aveva causato un’angoscia interminabile.
 
“Papà non può difendersi… Lui è troppo forte. Cavolo! Mi ha fregato! Ci ha fregati! E ora papà potrebbe essere già morto… Goten, dobbiamo tornare indietro! Come si pilota questa cosa?”.
“Non dire queste cose…”.
“So che non vuoi sentirle, ma non voglio più nascondermi, non voglio più sbagliare! Se ci troviamo in questo casino è perché…”.
“Se ci troviamo in questo casino è perché un mostro senza scrupoli si è preso gioco di noi, Trunks. Perché abbiamo avuto paura di dirci quello che volevamo e provavamo… È questo che ci ha fatto sbagliare ancora, ancora e ancora. Ok?”.
 
Lo pensava realmente? Quelli erano i reali sentimenti provati dal bambino che era arrivato quasi a odiare? Goten non provava alcun tipo di risentimento, nessun tipo di rabbia. Ma non era solo quello… Era arrivato a comprendere pienamente qualcosa che altri avrebbero solo sfiorato superficialmente. E non lo aveva solo capito, lo aveva interiorizzato così profondamente da riuscire a spiegarlo come se fosse stata la più semplice delle circostanze. Così facendo, quel piccolo bambino dai buffi capelli a forma di palma aveva mostrato di essere molto più maturo della sua età, molto più maturo di chiunque altro avesse mai incontrato prima.
 
“Non so come si ferma questa cosa, a ogni modo… Come vorrei sapere come ci siamo finiti sopra…”.
“Pensi che sia opera di Goku?”.
“Non credo… Se così fosse, vorrebbe dire che ha ripreso il controllo del proprio corpo, e a questo punto sarebbe venuto a cercarci, no?”.
“Potresti aver ragione…”.
“Vorrei solo sapere dove ci sta portando… Ehi! Guarda laggiù! Ma quella non è l’isola del Genio delle Tartarughe?”.
“In effetti, mi sembra proprio la casa del Vecchietto delle Tartarughe!”.
“Guarda: Nuvola sta perdendo quota…”.
“Caspita! Ci sta davvero portando lì, allora!”.
 
La nuvola dorata aveva continuato a scendere sino a raggiungere la buffa casetta e, in pochi attimi, i bambini si erano ritrovati a contatto con la tiepida sabbia dorata, intenti a osservare a bocca aperta il luogo in cui abitava il fantomatico Genio delle Tartarughe.
 
“Però… Si tratta bene il vecchietto…”.
“Trunks! Non dire certe cose!”.
“Perché? Mica ho detto qualcosa di male!”.
 
Incurante del silenzio che regnava in quel posto, il figlio di Vegeta si era incamminato con una certa sicurezza verso l’ingresso della casa, desideroso di vedere dove vivesse il Genio. Sua madre lo aveva portato lì quando era molto piccolo e, in seguito, era stato sempre lui a recarsi alla Capsule Corporation, motivo per cui il bambino non aveva un ricordo netto di quel luogo.
 
Goten aveva lasciato che Trunks gli facesse strada, attardandosi ancora qualche istante per salutare la piccola e soffice nuvola.
 
“Grazie mille… Ci hai portati qui per un motivo, vero? Qui siamo al sicuro… Lo sento. Adesso, se vuoi, puoi tornare in cielo dalle tue sorelle”.
 
Scattante come indicato dal suo nome, la Nuvola Speedy aveva preso la via del cielo, confondendosi con le sue compagne accese dal sole del tramonto.
 
“Auguro tutta la fortuna del mondo a chiunque ti abbia mandato da noi. Grazie”.
 
“Goten! Ti vuoi sbrigare? Vieni dentro! Forza! Qui ci sono un sacco di cose fighissime! Mi viene quasi da piangere!”.
“A-arrivo!”.
 
Presi dall’eccitazione di esseri trovati davanti a una serie di tecnologie che avevano quasi dimenticato, i bambini avevano cominciato a saltellare da una parte all’altra, mangiando cioccolata, biscotti, dolci, ascoltando musica ad alto volume e ridendo fino alle lacrime.
 
“Questo posto è fantastico! Non voglio più andare via! Mai più!”.
“Neanche io, Trunks! Si sta divinamen-“.
“Ma si può sapere cosa sta succedendo, qui dentro?”.
 
In un primo momento, avevano creduto di aver avuto le allucinazioni a causa dei troppi zuccheri ingeriti dopo tutto quel tempo, ma poi, dopo aver messo bene a fuoco quello che avevano davanti, non avevano potuto fare a meno di constare che sì, quella che era comparsa dal nulla era un’enorme tartaruga di mare e che, nonostante sembrasse impossibile, avesse proprio aperto bocca per parlare.
 
“Vi sembra modo di comportarvi a casa di chi vi ospita? Se vi vedessero le vostre madri…”.
“Ma-ma-ma-ma tu-tu-tu…”.
“Sì, tu-tu parli!”.
“Guarda un po’ cosa mi tocca sentire! Certo che parlo! Che c’è di strano, mi chiedo!”.
“Co-come sarebbe?” – Trunks era interdetto – “Le tartarughe non parlano!”.
“Già!” – gli aveva fatto eco Goten – “Non parlano!”.
 
Mossa dalla grande pazienza che la contraddistingueva e dalla tenerezza nei confronti dei bambini, Tartaruga aveva prima scosso il capo e poi aveva sorriso, dandogli il benvenuto che si meritavano.
 
“Le altre, magari! Ma io sì. Piacere di conoscervi, Trunks e Goten. Io sono Tartaruga, e questa è la Kame House. Benvenuti!”.
 
I piccoli si erano guardati, stupiti ed eccitati allo stesso tempo.
 
“Siamo venuti qui quando eravamo molto piccoli. O, almeno, io cui sono stato” – aveva detto Trunks – “Ma di te non ho ricordi, perdonami. Sono contento di conoscerti, comunque”.
“Anche io! Piacere!” – Goten era molto emozionato. Mai avrebbe pensato che potesse capitargli di parlare con una Tartaruga!
“Vedo che vi siete già serviti, meglio così… Ora, lasciate che vi spieghi alcune cose. Avete viaggiato comodamente, spero”.
“Siamo arrivati qui a bordo di una nuvola d’oro!”.
“Sì! Abbiamo viaggiato bene, grazie! Ma non ricordiamo niente di quello che è successo prima. In pratica, non sappiamo chi ci ha messi lì, ecco”.
“Capisco…”.
“Tu sai qualcosa vero?” – gli aveva chiesto Trunks.
“Bambini, è stato sicuramente Genio a chiedere alla Nuvola Speedy di portarvi qui. Deve aver pensato che questo, per voi, fosse l’unico luogo sicuro”.
“Genio? Il vecchietto che abita qui?”.
“Ehi! Porta un po’ di rispetto, ragazzino!”.
“Oh, scusa…” – il figlio di Vegeta era arrossito.
“Genio sa tutto quello che è successo, bambini. Sa ogni cosa. Per questo è venuto a cercarvi. Purtroppo, ha impiegato più tempo del previsto, ma alla fine ci è riuscito. Ditemi… Goku è ancora tra noi?”.
 
Un velo di tristezza esca sceso negli occhi di entrambi i bambini.
 
“No. Lui è… Sembrava… Insomma, sì, è diventato un tutt’uno con un mostro”.
“Oh, povero ragazzo… Goten, stai tranquillo. Tuo padre è forte. Sono sicuro che riprenderà il controllo di sé al più presto. Abbi fiducia in lui, va bene?”.
 
“Tuo padre”. Goten proprio non riusciva ad abituarsi all’idea che sì, Goku fosse il suo papà biologico. Gli faceva male sentirlo dire, soprattutto dopo quello che aveva vissuto poco prima. Riusciva ancora a sentire la sua stretta mortale e le forze che scivolavano via dal suo corpo, questo nonostante fosse consapevole che quello non era veramente Goku. O, almeno, questo gli era parso di capire dai ragionamenti fatti poco prima di subire una sua aggressione.
 
“Di’ un po’, ma tu come fai a sapere tutte queste cose?” – Trunks stava cominciando a diventare sospettoso.
“Ragazzo, io ho centinaia di anni… Non meravigliarti se conosco tante cose. Ma questa, nello specifico, ha a che fare direttamente con il proprietario di questa casa. Vi prego di avere un po’ di pazienza e di sedervi, in attesa che vi racconti tutto”.
 
E, i bambini, non solo avevano dimostrato non solo di avere pazienza, ma di avere una sete di conoscenza e una curiosità che sembravano impossibili da appagare. A ogni parola, sui loro visi si accendevano espressioni diverse: stupore, rabbia, tristezza, meraviglia.
 
“Siamo davvero stati fregati, allora!” – aveva esclamato Trunks, in preda alla rabbia – “E io che ho creduto di essere stato la causa di tutto! Poi ho dato la colpa a Goten, poi a Goku quando invece… CHE RABBIA!”.
 
Se non fosse stato un evento già avvenuto, i sentimenti che stava provando avrebbero fatto in modo di attivare la trasformazione in super saiyan. Goten, al contrario, sembrava come imbambolato, quasi come quel racconto lo avesse intontito. Possibile che avessero sofferto tanto per causa di un ragazzino?
 
“Mi dispiace per lui” – aveva detto, serio – “Io… Provo pena per lui, per quello che ha sofferto”.
“Goten, ma che dici?” – Trunks era interdetto. Davvero provava qualcosa del genere – “È solo colpa sua se ci è successo tutto questo! Non lo capisci?”.
“Lo so. Ma non riesco a essere arrabbiato. Vedi, perso che lui volesse solo essere amato… Non sapeva come ciò potesse accadere, però. O meglio, non riusciva a rendersi conto che questo fosse già accaduto, e ha fatto quello che ha fatto. Non lo giustifico, Trunks… Ma, se ci pensi bene, non è successa la stessa cosa a noi tutti?”.
 
Goten aveva le lacrime agli occhi, e Trunks non aveva potuto pensare che, alla fine, avesse ragione. Per questo, consapevole e sincero, lo aveva stretto tra le braccia, affondando il viso nel suo collo.
 
“Ma che fai?”.
“Mi dispiace, Goten. Credimi, mi dispiace dal profondo del cuore. Per tutto! Per non aver capito i tuoi desideri, per aver pensato di avere sempre ragione, per non averti lasciato scegliere, per averti dato la colpa di tutto! Sono uno stupido, un idiota! Un cretino! Forse, non merito il tuo perdono, ma ti prego di credermi quando ti dico che mi dispiace e che per me non sei solo un fratello! Sei molto di più e io… Io… Ti voglio un bene dell’anima”.
 
Tartaruga aveva sorriso con tenerezza davanti a quella dimostrazione di affetto. Finalmente, Trunks aveva aperto il suo cuore. La maturità di Goten era stata disarmante, così come la grandezza del suo cuore.
 
“Trunks… Io… Ti voglio bene, fratello mio”.
 
Tutti i presenti – compreso Tartaruga – non erano stati in grado di trattenere la commozione sfogata in pianto.
 
“Ti vorrò bene per sempre”.
“Anche io, Goten”.
 
Le gote arrossate e gli occhi velati di pianto avevano reso le espressioni dei bambini più dolci che mai.
 
“Ma ora… Che ne sarà di Goku?” – aveva chiesto Trunks – “Genio riuscirà a salvarlo?”.
“Sì, ce la farà? E poi… Non capisco una cosa… Perché Genio ha messo in salvo solo noi?”.
“Già! Dov’è papà?”.
 
Tartaruga aveva deglutito rumorosamente: era arrivato il momento di metterli al corrente degli eventi attuali.
 
“Venite con me”.
 
Ma, proprio mentre stavano per seguirlo, un boato spaventoso seguito da un terremoto violentissimo li aveva bloccati.
 
“Ma che-che-che sta succedendo? Trunks! Che succede?”.
“N-non lo so! OH MIO DIO, STIAMO PER MORIRE!”.
“State-state tranquilli, e seguitemi! Vi mostrerò che succede!”.
 
Terrorizzati, bagnati fino al midollo a causa delle onde altissime che si erano infrante sulla costa a seguito del terremoto, avevano fatto il giro dietro la casa, raggiungendo le palme alla cui base si trovava una piccola pozza di acqua limpidissima e perfettamente immobile.
 
“Ma com’è possibile che l’acqua sia così perfetta?” – aveva commentato Trunks, spaventato a morte.
“Dovete avere fede” – aveva detto loro Tartaruga – “Ora, mi raccomando, osservate bene… E ricordate che qui, voi siete al sicuro” – aveva aggiunto, anche se non sembrava particolarmente convinto neanche lui.
 
Le immagini dello scontro erano apparse loro sulla superficie dello specchio d’acqua nitide come se fossero state trasmesse da un televisore a 8K.
 
“Quello è Goku! E quello è Genio!”.
“Sì… Mio Dio, che scontro micidiale! Devono essere loro gli artefici di tutto questo trambusto! Ma dov’è papà?”.
“Non lo vedo da nessuna parte” – aveva detto il bambino, cercando di aguzzare la vista – “Possibile che sia sparito nel nulla?”.
 
Poi, all’improvviso, un lampo aveva alluminato il cielo, e un fulmine si era abbattuto sull’isola, cadendo proprio in direzione di Goten.
 
“NOOOOOO!”.
 
Pensava di averlo perso per sempre. Anzi, ne era sicuro, fin quando Trunks non aveva ricacciato le lacrime indietro e non lo aveva visto: quello che se ne stava dietro il piccolo Goten svenuto ma illeso, quello che fluttuava a mezz’aria, evanescente, con tanto di aureola in capo, era Vegeta, era proprio il suo papà.
 
*
 
Ce l’aveva fatta.
Vegeta era giunto sul pianeta di re Kaioh da pochissimi minuti e aveva preteso di sapere che cosa fosse successo ai ragazzi. Re Kaioh, gentile ma allo stesso tempo terrorizzato di avere davanti un ragazzo dal temperamento particolare come quello del principe dei saiyan, non aveva perso tempo in chiacchiere, spiegandogli che Genio avesse ordinato alla Nuvola Speedy di condurre Trunks e Goten sulla sua isola, allontanandoli da ogni pericolo e ponendoli sotto la sorveglianza del paziente Tartaruga.
 
“TSK! MA CERTO! Facciamo fare da balia a una tartaruga! Mi pare logico!” – aveva urlato, in preda a una vera e propria crisi di nervi.
 
Era giunto lì con il suo corpo, intatto, perfetto, così in forma da non sembrare neppure passato a miglior vita. In un primo momento, non si era neanche reso conto di essere in forma smagliante, di aver riacquistato il vigore fisico e la massa muscolare che lo contraddistingueva, ma lo sguardo di ammirazione della vecchietta puntato sui suoi pettorali gonfi e scolpiti lo aveva riportato alla realtà.
 
“Questa è bella… Dovevo morire per tornare così? Se lo avessi saputo prima…” – e, senza perdere altro tempo, aveva teso il braccio destro davanti a sé, stendendo bene il palmo della mano. Si stava concentrando al massimo per raccogliere l’energia spirituale e lanciare uno dei suoi potentissimi Ki-Blast, ma qualcosa non era andato come previsto: evidentemente, non era tornato esattamente uguale a prima.
 
“Tsk! Maledizione…”.
“Credo che tu debba avere ancora un po’ di pazienza, ragazzo… Sei tornato ad avere la forma fisica perfetta, ma per quanto riguarda la tua forza spirituale, temo che se Genio non sconfiggerà il nemico, tenderà a non tornare”.
“Tsk! Posso considerarla persa, allora… Lei è re Kaioh, vero?”.
“Sì, giovanotto. Sono proprio io, re Kaioh dell’Ovest”.
“Bene, re Kaioh dell’Ovest… Mi dica come posso fare per vedere i ragazzi e mi spieghi come pensa che quel vecchio decrepito possa sconfiggere il bastardo che ha preso possesso dell’idiota di terza classe”.
 
Era stato in seguito alla cortese richiesta formulata dal principe dei saiyan che re Kaioh aveva spiegato che vedere i ragazzi non sarebbe stato più possibile per lui, ma Vegeta non sembrava particolarmente entusiasta della risposta ottenuta, considerando il pulsare ininterrotto della vena che aveva in fronte. In quella circostanza, re Kaioh non poteva non gioire dell’assenza dei poteri dei saiyan: se ne fosse stato ancora in possesso, avrebbe sicuramente fatto saltare per aria il pianeta e tutti i presenti.
 
“Non accetto un no come risposta. Io DEVO vederli”.
“Sì, ma…”.
“Shhh… Faccia silenzio! Non vede com’è tornato a essere sicuro di sé, il ragazzo? Com’è concentrato?”.
 
Baba doveva avere sviluppato un improvviso debole nei confronti di Vegeta, non c’erano dubbi, perché mai prima di allora si era esposta tanto per qualcuno e, a giudicare dal rossore delle sue anziane gote, doveva proprio essere così.
 
“Baba” – aveva sussurrato il povero sovrano – “Può anche concentrarsi, ma…”.
“Guardi lei stesso! Guardi! Questo ragazzo può tutto, invece!”.
 
La sfera di cristallo di proprietà della vecchia strega aveva mostrato l’immagine dei bambini raccolti attorno alla pozza che gli aveva mostrato tartaruga. Poco dopo, alle spalle di Goten, era comparso Vegeta, lo stesso che si trovava sul piccolo pianeta ubicato in Paradiso, in piedi, ma completamente assente. Era incredibile che ci fosse riuscito – e senza che nessuno glielo insegnasse – ma sua maestà era stato capace di inviare il suo spirito sulla Terra, anche se solo per pochi attimi, e di raggiungere il luogo prefissato, salvando la vita al piccolo Goten. Poi, così com’era arrivato, Vegeta era tornato indietro, stremato.
 
“Porca miseria…” – aveva esclamato, cadendo rumorosamente sul suo regale deretano. La testa girava vorticosamente, e non credeva che sarebbe mai più stato in grado di muovere un passo.
 
“Sei stato formidabile! Un portento!” – lo aveva acclamato Baba.
“Devo farti davvero i miei più sinceri complimenti. Non pensavo fossi in grado di fare una cosa del genere, figliolo”.
“Tsk! Piantatela!” – aveva sussurrato appena, sfinito, prima di sdraiarsi a braccia larghe sul prato perfettamente tosato – “E rispondete alla mia seconda domanda”.
 
*
 
Genio non riusciva a combattere non come avrebbe dovuto, ma come avrebbe voluto. Si sentiva estremamente stanco, e non perché gli mancasse il vigore fisico, ma perché proprio non riusciva ad accettare di dover ferire chi amava così profondamente.
Così facendo, però, non faceva altro se non prolungare l’agonia. Quello che aveva davanti non era chi pensava che fosse. O meglio, lo era. Il problema era proprio questo. Ma non poteva fingere che le cose non fossero com’erano.
 
“Perché non vuoi fermarti? Ascoltami, almeno. Lasciami spiegare!”.
“TACI!”.
 
Goku aveva provato a lanciare qualcosa che ricordava un’Onda Energetica, ma era evidente che ancora non fosse capace di padroneggiare quella tecnica. Quella non era altro se non una benedizione per Genio, ma la velocità con cui il suo primo allievo si stava adattando al nuovo corpo era spaventosa, e non volgeva a suo favore. Doveva agire, e subito, anche se non come avrebbe voluto.
 
“Io lo so che non vorresti farlo… So che non è il tuo volere. Tu non puoi realmente desiderare una cosa del genere”.
“Ti ho detto che devi tacere! Cosa ne sai tu di me? Cosa sai di quello che mi avete fatto passare? Tu mi hai tradito! Lo capisci questo? Avevo fiducia in te, e tu, alla fine, mi hai tradito!”.
 
Era diventato una vera furia. Se Genio avesse atteso ancora, presto il mondo non sarebbe più stato quello che era, ma si sarebbe trasformato in una landa desolata e inospitale su cui avrebbe regnato un ragazzino sadico che aveva preso possesso del corpo del guerriero più potente dell’universo.
 
“Io ti avrei tradito? Perché mi rivolgi parole così dure… Questo tradimento di cui parli non è mai avvenuto. Lo capisci, o no?”.
“Non è avvenuto? NON È AVVENUTO? TI HO DETTO CHE DEVI TACEREEEE!”.
 
Questa volta l’Onda Energetica aveva raggiunto la potenza desiderata e i capelli del nemico avevano ricominciato a splendere d’oro, indice di un brutto, bruttissimo aumento di livello. Fortunatamente, Genio era dotato di ottimi riflessi, perché se così non fosse stato, non avrebbe avuto modo di schivare quel colpo così micidiale.
 
“Si mette male… Non posso più temporeggiare. Perdonami, Goku. Speravo che la mia voce arrivasse dritta al tuo cuore, ma a quanto pare, le mie sono state solo speranze vane”.
 
Non aveva avuto altra scelta se non raccogliere le energie e lasciare che esse defluissero improvvisamente nel suo apparato muscolare, permettendo alla sua massa di crescere a dismisura. L’aspetto minaccioso e vigoroso di quel corpo cozzava fortemente con il volto rugoso e privo di capelli, ma era proprio quella la grande contraddizione che lasciava senza parole i nemici, impedendo loro di agire nell’immediato. E, anche quella volta, l’effetto sorpresa era stato stupefacente. Genio era partito alla carica, sferrando un potentissimo gancio destro sul volto del nemico, catapultandolo a decine di metri di distanza.
Con quel gesto, aveva mostrato di non avere più remore, di aver accantonato definitivamente la scelta di esitare e di voler concludere quello scontro al più presto. Ormai, aveva accettato l’idea di perire insieme ai ragazzi che aveva addestrato: il suo destino si sarebbe compiuto insieme a quelli del suo primo e del suo ultimo allievo. Quale divinità aveva ordito una tale beffa ai danni di un uomo il cui unico scopo era fare del bene? Di certo, doveva trattarsi di una divinità estremamente sadica.
Genio aveva sorriso, a quel pensiero, ma, ancora una volta, gli occhiali scuri avevano fatto da schermo alle pupille velate di lacrime amare.
 
“Non sono stato capace di proteggervi su questo mondo. Non sono stato capace di insegnare a proteggere voi stessi. Adesso, lasciate almeno che vi prenda per mano e vi conduca dove, finalmente, troverete la pace”.
 
Aveva preso un respiro profondo e aveva lasciato che l’energia celata fosse rilasciata in un unico, devastante momento.
Aveva scelto: quella volta, non avrebbe usato il suo Mafuba. Quella volta, non avrebbe punito il suo allievo con la prigionia. Quella volta, avrebbe scritto la parola fine a una storia iniziata centinaia di anni prima e che era semplicemente stata dimenticata in un cassetto della memoria.
 
“CHE PENSI DI FARE, VECCHIO? PENSI DI POTERMI BATTERE CON SIMILI MEZZUCCI? NON PUOI FARLO! NON NE SEI IN GRADO! SEI UN DEBOLE! MENTRE IO SONO UNA CREATURA NUOVA! IO SONO UN SUPER-SAIYAN!”.
 
Nello stesso istante, il nemico aveva liberato un’aura di una potenza spaventosa, un’emanazione talmente violenta da polverizzare tutto ciò che aveva attorno nel raggio di decine e decine di chilometri. Le scariche elettriche non provenivano più solo dalle nubi levate in cielo, ma anche dai due combattenti, intenti a misurarsi non solo a suon di pugni, ma a intimidirsi con l’energia celata. Genio non aveva perso di vista il suo avversario, al contrario di quest’ultimo che sembrava aver perso completamente la ragione. Purtroppo per lui, però, quella condizione di rabbia estrema aveva fatto sì che qualcosa di nuovo si palesasse, qualcosa di mai visto prima e che avrebbe fatto tremare di paura un avversario più sprovveduto: l’aura proveniente dal corpo di Goku si era intensificata, e la forma del viso e la lunghezza dei capelli avevano cominciato a cambiare, dando nuove sembianze alla figura che tutti erano abituati a vedere.
 
“Non ci posso credere… Si sta trasformando ancora! Ma di cosa si tratta? Deve essere un nuovo stadio del super-saiyan, uno stadio di cui nessuno era al corrente! Questo non va bene! Oh, Goku… Ce lo hai tenuto nascosto, oppure è stata la sua rabbia a far sì che avvenisse questa mutazione in questo preciso istante? Devo attaccarlo prima che riesca a raggiungere questa nuova forma! DEVO SBRIGARMI!”.
 
Le mani di Genio avevano preso la posa che tante volte aveva usato anche Goku: polsi uniti, palmi aperti, gomiti indietro, e un piccolo puntino luminoso sempre più grande che aumentava di volume con il passare dei secondi.
 
“QUESTA È LA MIA ULTIMA ONDA ENERGETICA!” – aveva urlato Genio – “E NON SAI QUANTO MI DUOLE IL CUORE NEL DOVERLA USARE SU DI TE”.
 
I muscoli erano tesissimi, l’energia era al massimo, così intesa da far saltare via gli occhiali dal viso di Genio.
Non aveva più schermi che lo proteggessero dalle sue stesse emozioni. Adesso, aveva mostrato l’uomo distrutto che stava per porre fine alla vita dei suo stessi figli.
 
“Perdonatemi… Entrambi. Sappiate solo che vi ho amato più di quanto sia stato capace di mostrarvi”.
 
Ormai non c’era più molto tempo: in pochissimi secondi, il nemico avrebbe raggiunto lo stadio finale di quella forma spaventosa, e forse, se fosse stato capace di controllare i suoi poteri, Genio non avrebbe più potuto fare niente per batterlo.
 
“ONDAAAAAA...” – non era ancora pronto. Aveva bisogno solo di un istante in più, ma il nemico orami era quasi pronto – “ENER...” – ancora un istante- “GEEEEE...” – cominciava a pensare di non farcela – “TI…” – ormai era tardi – “CAAAAA!!!!”.
 
E poi, era accaduto.
Il fascio di energia aveva colpito in pieno il suo avversario ancor prima che si rendesse pienamente conto di quello che stava per succedergli, tanto rapido era stato l’attacco. La sua trasformazione era stata completata, ma se Genio non avesse avuto un piccolo, piccolissimo aiuto inaspettato, forse non sarebbe stato in grado di colpire il nemico. Era stato solo grazie all’intervento di Goku se la trasformazione completa era stata ritardata giusto il tempo necessario per poterlo colpire. Genio aveva visto con chiarezza lo spirito del suo allievo comparire per un brevissimo istante proprio accanto al suo stesso corpo occupato dal nemico, una specie di avvertimento, un modo per fargli capire che, per quello che poteva, lui era lì, presente, e voleva aiutarlo a sconfiggere quel mostro a scapito della sua stessa vita. Quello era Goku, quello era il bambino che aveva cresciuto e tramutato in guerriero, l’unico che avrebbe sacrificato se stesso all’infinito per la sopravvivenza di ogni singolo essere vivente, anche il più piccolo, anche quello che a qualcuno poteva sembrare il più inutile e insignificante.
 
Era durato tutto per un tempo che Genio non avrebbe saputo definire. Dopo aver visto Goku, aveva lasciato che le lacrime sgorgassero senza sosta, ma non aveva perso la concentrazione raggiunta, continuando a rilasciare energia dai palmi in direzione del nemico, colpito in pieno e devastato da quel flusso letale.
Poi, così com’era iniziato, tra le lacrime e un urlo straziante, il tutto era finito, lasciando dietro di sé solo silenzio e un paesaggio colpito da una catastrofe annunciata.
Stremato, Genio era caduto al suolo, in avanti, tornando ad avere il corpo da fragile anziano che tutti avevano imparato a conoscere. Aveva perso i sensi per qualche minuto e, quando si era ridestato, non sapeva dove avrebbe trovato la forza di alzarsi e scoprire se aveva portato a termine o meno il suo compito.
Aveva gli occhi impastati di lacrime e terra, la guancia scorticata, e un senso di ansia che gli attanagliava il cuore. Non avvertiva alcuna aura, né quella di Goku, né quella del suo primo allievo, ma questo non era abbastanza per capire se la parola fine era stata apposta a quella storia così travagliata.
A fatica, aveva fatto leva sui palmi delle mani stanche, mettendosi in ginocchio e sollevando piano il capo. Una vertigine improvvisa e violenta aveva colpito Genio, causandogli un violento conato di vomito. Tutto attorno a lui era diventato confuso, come su una tela dove inavvertitamente i colori avevano finito col mescolarsi a casaccio. Che stesse per morire? Che la sua vita fosse giunta alla fine, ora che il suo compito era stato portato a termine? Forse, era quello il destino che toccava a chi, come lui, aveva osato sfidare le leggi del tempo e della natura. O forse, semplicemente, era solo ciò che lo rendeva umano.
Era caduto di fianco, Genio, privo di forze e con il respiro corto. Era caduto, e non si era più rialzato, questo dopo aver esalato il suo ultimo respiro.
L’era dei Guardiani era finita. E, con essa, era finito il mondo così come l’uomo lo aveva conosciuto.
 
Continua…

 
Ragazze/i,
Come va?
Ho trovato un po’ di tempo per aggiornare prima questa mia storia ormai arrivata alla fine, e spero che questo vi abbia fatto piacere.
“Bene, bene, bene” (cit.). Siamo alla rea dei conti. Genio ha VERAMENTE sconfitto il mostro? Ce l’ha fatta veramente?
Sono tutti passati a miglior vita?
Attendo vostri commenti, opinioni, scleri (ammesso che ce ne siano).
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 60
*** Tre padri ***


Tre padri
 
Era finita?
Era realmente finita?
Vegeta, Re Kaioh e la strega Baba avevano assistito alla scena dalla superficie lucida e nitida della sfera di cristallo: una serie di mosse micidiali avevano trovato il culmine in quell’esplosione di energia che aveva fatto tremare persino il piccolo pianeta su cui si trovavano.
Poi, il nulla.
 
Il principe dei saiyan aveva avuto bisogno di un momento per elaborare passo dopo passo quello che aveva visto come semplice spettatore, e non era certo di essere riuscito a venirne a capo.
Il vecchio pervertito aveva sfoderato una potenza e un’agilità che non pensava potessero appartenergli. Che avesse sempre nascosto qualcosa lo aveva sospettato sin dall’inizio, ma quello era veramente troppo anche per uno come lui. Cosa c’era sotto? Perché non aveva mai mostrato a nessuno le sue reali capacità? Vegeta era certo che neppure la vecchia e il re mentecatto fossero a conoscenza di quello straordinario potere, era sicuro che non ne avesse idea neppure quel decerebrato di Kaharot.
Già… Kaharot. Quanto gli aveva fatto male vederlo spazzare via non avrebbe saputo spiegarlo. Non perché gli importasse qualcosa di lui, ovviamente: il suo astio nei riguardi dell’idiota di terza classe era risaputo, ma in quel caso c’era ben altro a esser entrato in gioco. L’orgoglio saiyan di cui il principe era tronfio gemeva per le ferite riportare. Il decerebrato si era fatto manovrare come un imbecille da qualsiasi cosa si trovasse in quel maledetto quaderno, e non solo non era riuscito a reagire come avrebbe dovuto, facendosi battere in quello scontro mentale, ma si era anche fatto battere fisicamente da un essere umano, anche se non si trattava di un umano comune. Certo, aveva visto benissimo la sagoma evanescente dai capelli a palma comparire all’improvviso accanto alla sua fotocopia in carne e ossa, ma non riusciva ad accettare in ogni caso di aver assistito alla sua sconfitta. Perché sì, anche quello era uno dei problemi: era stato un altro a sconfiggere l’idiota e non lui.
 
“Tsk! So che non dovrei pensare a queste cose, adesso, ma proprio non riesco a non ribollire di rabbia! Sembra sempre che siano tutti un passo avanti a me, dannazione! Il vecchio ha sconfitto Kaharot e non io! Quel vecchio! Io… Io… Bah! Sta di fatto che la cosa mi puzza, e non poco… Quel mostro ha fatto tutto questo casino per poi arrendersi così? Le cose non tornano… Per niente!”.
 
“Non riesco… Non riesco a crederci… Genio ha-ha…”.
“MIO FRATELLO NON C’É PIÚ!”.
 
Il lamento disperato dell’anziana Baba aveva fatto sì che re Kaioh lasciasse in sospeso quel suo ragionamento fin troppo evidente. La donna era disperata, il suo viso si era mutato in una maschera di dolore, un dolore acuto, profondo, incapace di placarsi. Gli occhi grondavano lacrime amare, di delusione, sconfitta, perdita e rabbia, e a niente era servito nascondersi tra le ampie maniche della sua tunica nera. Sembrava che nulla avrebbe mai potuto porre fine a quel tormento.
Perdere suo fratello era stato come perdere un pezzo di sé. Erano cresciuti insieme, avevano vissuto centinaia di anni con la consapevolezza che l’altro ci sarebbe sempre stato, e sapere di non poter più fare affidamento su una parte del proprio cuore era stato devastante anche per lei che, solitamente, stentava a mostrare emozioni e affetto.
Genio si era sacrificato per il bene dell’intero pianeta. Suo fratello aveva pagato con la sua stessa vita lo scotto di un errore compiuto in gioventù e lei non lo avrebbe mai più rivisto. Mai più.
 
“Si è- si è sacrificato per noi! Per salvarci! Non posso credere che non ci sia più! Non posso, non voglio, io…”.
“TSK! MA LA VUOI PIANTARE!” – delicato come al solito, Vegeta aveva interrotto quello che per lui non era altro se non uno strazio per i suoi regali timpani – “Per la miseria! Se ha davvero sconfitto quella mostruosità significa che il Supremo è tornato dove sarebbe sempre dovuto stare e che possiamo usare le sfere del drago per riportare in vita quel vecchio pervertito! Per cui… TSK! Dovrà darmi un po’ d spiegazioni al suo ritorno, o giuro che lo rispedisco da dove è venuto!”.
 
Il lungo momento di silenzio che aveva seguito il trambusto di poco prima sembrava essere servito: a Baba per ritornare in sé e ricordare che c’è una soluzione a tutto – sì, anche alla morte, evidentemente – e a re Kaioh per portare a termine le sue infinite elucubrazioni.
 
“Il punto è proprio questo, ragazzo: ha sconfitto per davvero quella creatura?”.
“Re Kaioh, ma cosa dice? Ha visto con i suoi stessi occhi il momento in cui mio fratello ha posto fine alla sua vita! Perché ha questi dubbi?”.
“Ecco, vedi, Baba, se fosse davvero come pensiamo, a questo punto le cose sarebbero dovute tornare così come sono sempre state, non trovi?”.
“In che senso?”.
“Prova a visualizzare quella che era la città dell’Ovest… Cosa vedi, lì?”.
 
Aveva avuto bisogno di qualche istante per “sintonizzarsi” sul luogo richiesto e far sì che le immagini prendessero forma e vita al di là delle lucidissime pareti della sfera.
Non aveva ancora ben capito dove il sovrano dell’Ovest volesse andare a parare, ma, dopo un paio di minuti trascorsi a ingrandire e rimpicciolire ciò che aveva chiesto di vedere, dopo una vera e propria prospettiva a volo di uccello sul panorama circostante, aveva finalmente raggiunto l’Epifania, comprendendo cosa c’era dietro quella richiesta.
 
“Tutto è identico a prima… Non è cambiato niente… Niente”.
“Proprio così…”.
“TSK! Ma andiamo! Io sono rinvigorito non appena mi sono allontanato dal decerebrato e da quello stupido quaderno ma ancora non ho riacquistato pieni poteri. Volete davvero farmi credere che sarebbe tornato tutto come prima in meno di un minuto? Che Bulma. Chichi e gli altri sarebbero ritornati a esistere immediatamente? Ma che idiozia…”.
“Il punto è proprio questo ragazzo: era quello che doveva succedere, e non è successo. E poi, non dirmi che tu non hai percepito nulla di strano, che anche tu non hai una sensazione, nel profondo del tuo cuore, che non riesci a comprendere, a cui non riesci a dare un nome”.
 
Lo aveva guardato con quei suoi piccoli occhietti, facendolo sentire microscopico e nudo come un verme. Come faceva quel nanerottolo a sapere a cosa stesse pensando, cosa stesse provando?
 
“Tsk!” – si era limitato a dire, incrociando le braccia al petto, indignato. Odiava essere continuamento sotto esame. Odiava tutta quell’empatia, tutto quel mistero. Odiava tutti!
“Ma questo cosa vuol dire?” – aveva chiesto Baba, ingenuamente.
“Temo che non sia finita, amica mia. Temo che quella creatura esista ancora, da qualche parte, e che possa ritornare. E credo che questo, purtroppo, lo temesse anche tuo fratello.
 
*
 
Fluttuava.
Era la prima cosa di cui si era reso conto non appena aveva ripreso conoscenza, questo ancor prima di aver riaperto gli occhi e aver compreso di essere nel bel mezzo del nulla cosmico, un nulla fatto di pece nera e densa che lo circondava.
Aveva provato a sollevare un braccio, ma muoversi all’interno di quell’oscurità sembrava un’impresa titanica anche per lui che, poco prima, aveva sconfitto il suo più antico nemico.
La fine della sua vita era dunque giunta, a quanto sembrava.
Era morto, morto per davvero, e forse – a causa dei mezzucci che aveva usato per mantenersi in vita – era stato punito in quel modo così singolare.
La sua destinazione era stata scelta con cura da chi lo osservava da anni, evidentemente. A chi sarebbe mai venuto in mente di punirlo in quel modo, altrimenti? Lui, che da secoli aveva beffato la morte, adesso si trovava avvolto dal suo manto lugubre e putrido, non di certo il miglior posto dove trascorrere l’eternità.
 
“Mi sta bene” – si era detto, ridendo beffardo – “Mi sta benissimo! Avrei dovuto fare quello che ho fatto all’epoca, non avrei dovuto giocare a ingannare la dea con la falce e non avrei dovuto fare quello che ho fatto al mio povero Goku. Quel ragazzo avrà mai la forza di perdonarmi?”.
 
Era strano sapere di essere morti, di non esistere più come entità fisica fatta di carne, ossa e tutto quello che caratterizza gli esseri viventi. Era strano sapere di non avere più un corpo, di non sentire più lo stimolo della fame, della sete, di non poter più camminare, ridere, di non poter più sentire il tepore del sole sulla pelle, il fresco dell’acqua del mare che sfiora le membra stanche; era strano sapere di non poter più sbirciare sotto le gonne delle generose fanciulle dalle forme procaci, e di non potersi più deliziare con le immagini a colori delle sue riviste per adulti preferite. Era strano sapere di non esistere più.
Eppure, se la sua vita era realmente giunta al capolinea, perché avvertiva quella strana sensazione di dolore che dilaniava membra e anima?
 
“Non hai più un corpo, vecchio volpone… Come fai a sentire le ossa a pezzi?”.
 
Se lo era chiesto più e più volte, ma non era riuscito a darsi una risposta concreta. Sperare sarebbe stato un errore, sarebbe stato come credere all’esistenza degli asini volanti. Ormai, tutto era finito. Tutto. Per sua fortuna, e per quella dell’universo intero.
Ma, ora che aveva tutta l’eternità davanti, ora che aveva davvero tutto il tempo disponibile per potersi fermare a riflettere, Genio si rendeva conto di aver capito veramente molto poco di tutto quello che era successo dal giorno dell’esplosione e, prima ancora, dal giorno del tradimento del suo pupillo.
Perché aveva agito in quel modo? D’accordo le manie di supremazia, d’accordo la ricerca disperata di vendetta, ma cosa aveva realmente spinto un ragazzino prodigio a comportarsi come il peggiore dei criminali? Qual era la vera ragione che lo aveva spinto a portare il mondo sull’orlo della rovina?
Punizione peggiore non poteva essergli assegnata: trascorrere l’eternità a logorarsi, a pensare e ripensare agli errori commessi, ai rimpianti, ai rimorsi. Eppure, Genio sapeva che stava esagerando, perché tutto era finito e la Terra era salva, perché tutto era finito e le cose erano tornate al loro posto. Forse, se non fosse trascorso troppo tempo, i suoi amici sulla Terra avrebbero anche potuto decidersi di radunare le sfere del drago e ridare la vita al povero, ingenuo Goku. Sì, era proprio quello il punto: Genio non desiderava di tornare a camminare da vivo nel mondo dei vivi. Non era questo quello che voleva. Il suo più grande sogno era che il suo miglior allievo potesse avere un’altra possibilità, che Goku tornasse da sua moglie e dai suoi figli, in attesa di avere indietro quell’amore smisurato che meritava e di ricevere tutte le attenzioni che non aveva ancora ricevuto. La Terra aveva bisogno del suo eroe più grande, ma soprattutto, ne aveva bisogno la sua famiglia.
Sì, Goku sarebbe tornato indietro. Goku avrebbe riabbracciato i suoi cari. Se esisteva davvero una giustizia divina, quale momento migliore poteva esserci se non quello per manifestarsi?
 
“Sì… Tornerai a casa, ragazzo mio. Il Paradiso può attenderti. Chi ti ama, invece, no”.
 
Sperava con tutto il suo cuore che la forza di quella preghiera silenziosa raggiungesse chi di dovuto. Il prezzo di quell’errore era già stato sufficientemente ripagato.
 
“Vorrei solo sapere dove sei, adesso… Vorrei vederti sorridere di nuovo e…”.
“Ti odio”.
 
In un primo momento, aveva creduto di aver sognato. Poi, dopo un momento di sgomento, aveva ritrovato la fermezza che lo contraddistingueva e si era concentrato per capire da dove provenisse quella voce fin troppo familiare. Era certo di aver sentito una goccia di sudore freddo colare lungo il collo (com’era possibile, se era morto?). Come poteva essere? Come poteva, se quello era il suo inferno personale? Se quella tortura era stata escogitata appositamente per lui?
 
“Ti odio”.
 
Aveva dovuto raccogliere tutte le energie che aveva in corpo per trovare la forza di “mettersi seduto” e guardare. E, quando lo aveva fatto, avrebbe desiderato di non averlo mai fatto.
Goku, il suo pupillo, giaceva a mezz’aria, addormentato, anch’egli stretto nella morsa di quell’oscurità che li avvolgeva ma in cui riusciva ugualmente a scorgere ciò che non voleva, e lì, su di lui, in piedi, incombeva la figura iraconda di quel fantasma del passato che era tornato per tormentarlo e che continuava a tremare di rabbia.
 
“Tu…” – non riusciva a parlare. Perché stava succedendo tutto quello? Perché Goku non era in Paradiso? E perché “lui” non si trovava all’Inferno?
 
“Io ti odio. Ti odio”.
 
Sembrava un disco rotto. Sembrava incapace di pronunciare altre frasi di senso compiuto, ma non era questo quello che aveva catturato completamente l’attenzione di Genio. Quanto tempo era trascorso da quando lo aveva visto l’ultima volta? Da quanto non si specchiava in quegli occhi capaci di trafiggerlo al primo sguardo? Era come se avesse dimenticato come si fa a respirare. Non sarebbe stato capace di andare oltre, sebbene avesse voluto farlo. Non sarebbe stato capace di raggiungerlo, di parlargli, di chiedergli una spiegazione e di dirgli che non riusciva proprio a capire cosa lo avesse spinto a tanto, quale fosse la ragione che lo aveva portato a ribellarsi a chi gli aveva teso una mano senza volere nulla in cambio.
La gola di Genio era secca, le membra erano diventate pesanti. Perché non riusciva a connettere il cervello alla lingua? Perché non riusciva a dire quello che avrebbe dovuto dire già allora?
 
“Tu non puoi fermarmi” – aveva proseguito con voce ferma, secca, che non ammetteva repliche – “Nessuno può… Men che meno un vecchio stupido e patetico come te”.
 
*
 
Vegeta non aveva staccato gli occhi dalla sfera di cristallo neppure quando avevano cominciato a bruciare per lo sforzo di non battere le ciglia, ma quella dedizione non era servita a individuare chi stava cercando con tanto zelo.
Aveva tentato di concentrarsi e di arrivare con la mente là dove i suoi occhi non riuscivano ad arrivare, ma non aveva ancora recuperato i suoi poteri e, in ogni caso, non credeva che sarebbe riuscito a raggiungere la Terra.
Stava di fatto che il cadavere di Genio era lì, a terra, immobile, e del decerebrato e del parassita che lo aveva posseduto non c’era alcuna traccia.
La strega continuava a singhiozzare, mentre quella sottospecie di mollusco con gli occhiali non faceva altro che sospirare. A cosa servivano le divinità non lo aveva ancora capito, ma stare lì a perdere tempo era fuori discussione, soprattutto ora che i bambini erano soli, su un isolotto sperduto in compagnia di una tartaruga rimbambita.
 
“Voglio tornare indietro”.
“Prego?”.
“Ha sentito bene, re Kaioh. Voglio tornare indietro. Sulla Terra. Devo capire che cosa è successo”.
“Ragazzo, non è così semplice…”.
“Tsk! Figuriamoci! Quando si tratta di un idiota di terza classe che deve partecipare a una stupida festa di compleanno non vi fate problemi a elargire permessi speciali, quando invece si tratta di capire se un pazzoide schizzato che voleva assoggettare il mondo dopo aver preso possesso del corpo del suddetto decerebrato sia passato a miglior vita o meno, dite che non è possibile. Ma certo, non fa una piega, vero?”.
 
La vena sulla fronte del principe aveva cominciato a pulsare inesorabilmente. Se avesse avuto i suoi poteri, probabilmente avrebbe faticato a trattenersi dal far saltare in aria il pianeta e i suoi improbabili abitanti.
 
“Non è un qualcosa che può concederti re Kaioh, principe Vegeta…” – Baba aveva parlato con la voce ancora rotta dal pianto. Era distrutta, e Vegeta non faticava a capirne la ragione.
“Tsk! E quale soluzione c’è? Andrete voi due a controllare? Mi direte voi due se quel bastardo è morto? Sto aspettando…” – e aveva incrociato le braccia, in attesa di ricevere una risposta che non sarebbe arrivata. Non subito, almeno.
“Io… Io… Lui è mio fratello… Era, mio fratello. Forse, dovrei… Sì, insomma…”.
“Oh, ma che damine! Così avremo due cadaveri da seppellire, dopo! Re Kaioh, cerchiamo di non perdere altro tempo! Se le cose non dovessero essere come speriamo, dovremo agire immediatamente, e… e…”.
 
Era stato come se una scossa elettrica lo avesse attraversato da parte a parte, facendogli gelare il sangue. Non aveva ben capito cosa fosse accaduto, ma era stato doloroso, più doloroso del momento in cui aveva perso la vita.
 
“Che ti prende, ragazzo? Stai bene?”.
 
Vegeta non aveva sentito la voce di re Kaioh, e questo perché non si trovava lì, non con la mente, almeno.
 
“Sta per succedere di nuovo” – aveva detto, con la voce un po’ impastata, come se fosse ancora in trance – “Sta per succedere… Fatemi tornare indietro. Devo tornare indietro. E devo farlo adesso, maledizione!”.
 
Continuavano a guardarlo senza capire cosa volesse dire veramente. I suoi timori sembravano infondati, eppure, c’era qualcosa che avvertivano entrambi, una sorta di presentimento in merito a qualcosa di terrificante che sarebbe accaduto di lì a breve.
 
“Per la miseria, a che diamine dovete pensare, ancora? Lo volete capire o no che le cose non sono così come sembrano?”.
“Ti credo” – aveva sentenziato una Baba diversa, apparentemente imperturbabile – “Ti credo, principe dei saiyan. Mi chiedo solo come tu faccia a saperlo”.
 
Un momento di silenzio aveva seguito quella domanda. La strega e il principe si stavano guardando negli occhi, cercando di percepire ognuno cosa albergasse nel cuore dell’altro. C’era come una connessione, tra loro, qualcosa che avrebbero potuto comprendere solo ed esclusivamente loro due e, se per una non era difficile capirne il motivo, lo era un po’ meno per quanto riguardava l’altro.
 
“Tu lo senti ancora… Non è vero?”.
 
Sette parole, pronunciate da re Kaioh con troppa leggerezza, quasi senza pensare, sette parole che, però, avevano sicuramente colpito nel segno, ferendo nell’orgoglio chi avrebbe negato sino alla morte l’evidenza.
Vegeta si era irrigidito. Aveva serrato e rilassato i pugni ritmicamente, deglutito rumorosamente, sbuffato e si era morso le labbra, ma si era rifiutato di chinare il capo e distogliere lo sguardo da quello – seppur celato – del sovrano dell’Ovest.
 
“Tsk!” – aveva sibilato, alla fine, lanciando il più determinato degli sguardi – “Poi non ditemi che non ve lo avevo detto!”.
 
Non aveva neppure fatto in tempo a finire di pronunciare la frase che, grazie alle abilità che Baba aveva sfoderato durante quella sorta di dialogo avvenuto tra Vegeta e re Kaioh, l’immagine di quello che lei e il principe avevano avvertito aveva preso forma.
 
“OH MIO DIO”.
 
L’esclamazione piena di orrore della donna aveva attirato irrimediabilmente l’attenzione dei due che, preoccupati, si erano avvicinati a lei, inorridendo a loro volta davanti a ciò che avevano visto.
 
“Oh… Oh mamma…” – re Kaioh tremava, incapace di proferire ulteriormente parola.
Vegeta, al contrario, aveva digrignato i denti, furioso più che mai.
“Tsk! Adesso che mi dite, vostra maestà? Ho il vostro permesso per tornare sulla Terra o no?”.
 
*
 
“DANNAZIONE! NON DOVETE SPINGERE, AVETE CAPITO? NON SPINGETE! Ma perché diamine hanno tutti fretta! SIETE MORTI, CAPITO? MORTI! Avete tutta l’eternità, davanti, quindi NON SPINGETE? NON… Maledizione, ho bisogno di una vacanza… Ah, se ne ho bisogno! Faccio tutto io, qui! Faccio sempre tutto io! NON SPINGETE! NON-AH!”.
 
Re Yammer avrebbe avuto ben presto l’ennesimo crollo nervoso, e di sicuro era andato vicinissimo all’avere un infarto nel momento in cui si era ritrovato davanti l’ultima persona che avrebbe dovuto vedere.
 
“Ma che cosa ci fai TU qui?”.
 
Si era aggrappato alla scrivania per non cadere in avanti, preso dalla foga del momento. Che cosa ci faceva lui lì? Non era stato riportato in vita? Ah! Tutte quelle regole, tutte quelle eccezioni, lo avrebbero fatto impazzire!
 
“Allora? Vuoi dirmi che ci fai qui, o no?”.
 
Re Yammer stava per perdere la pazienza anche con lui che, da sempre, era il suo preferito. Il suo atteggiamento era così strano, poi… Goku se ne stava lì, in piedi, a guardarsi attorno come se avesse visto il suo ufficio per la prima volta. Aveva una strana espressione, di sorpresa, di curiosità, e il sorrisetto che aveva in viso non sembrava neppure appartenergli. E poi, adesso che lo guardava bene, anche il suo aspetto era diverso… Sembrava quasi che fosse ustionato su metà del viso. Che cosa cavolo gli era successo?
Con estrema lentezza, si era avvicinato alla scrivania, noncurante delle parole di re Yammer e degli schiamazzi delle anime che si trovavano dietro di lui.
 
“Ma cosa… Cosa fai?”.
“Volevo solo chiederle una cosa… Vegeta, è per caso passato da qui?”.
 
*
 
“Goku… Goku… So che mi senti, figliolo. Lo so. Apri gli occhi… Coraggio… Apri gli occhi… Su…”.
 
Genio non si dava pace: un momento prima, il suo antico allievo si trovava lì davanti a lui, poi, un istante dopo, non c’era più, e in quell’ammasso di nera desolazione erano rimasti solo lui, vigile ma distrutto, e Goku, inerme, perso in chissà quale sogno o incubo dal quale faticava a ridestarsi.
Per un istante, Genio aveva perso le speranze. Si era quasi del tutto convinto che Goku non avrebbe mai più dato cenni di vita, ma poi, improvvisamente, lo aveva visto rimettersi in piedi con uno scatto, in cerca di aria, con entrambe le mani alla gola e un’espressione che non avrebbe mai più potuto dimenticare. Il sibilo che aveva emesso gli aveva gelato il sangue nelle vene.
 
“Figliolo… Figliolo… Stai bene?”.
 
A fatica, si era messo in piedi – se così poteva definirsi quel fluttuare indefinito – e aveva cercato di avvicinarsi a lui. Era in ansia. Che avrebbe fatto? Lo avrebbe accettato, avrebbe capito, o lo avrebbe rifiutato, memore del comportamento che aveva avuto nei suoi riguardi?
 
“Ge-Geni-o…” – faceva fatica a parlare, e vederlo così indifeso faceva quasi pena – “Mi-mi disp- mi dispiace”.
“Oh, ragazzo! No! Ma cosa dici? Non è colpa tua… Non è colpa tua”.
 
Per la prima volta da quando aveva memoria, Genio aveva visto il suo allievo prediletto piangere lacrime amare. Goku piangeva per la rabbia e la frustrazione di non essere stato capace di resistere, di non essere stato in grado di impedirgli di prendere possesso del suo corpo, per non essere stato capace di accettare la realtà e fare quello che gli era stato chiesto per il suo bene e per quello di tutti. Si era lasciato manipolare, usare, e alla fine, il suo tentativo di impedire il peggio non era stato sufficiente. Si sentiva una nullità, e non aveva potuto non dare ragione a Vegeta quando lo chiamava “idiota, mentecatto, imbecille” e in altri milioni di modi che lo descrivevano alla perfezione.
Aveva nascosto il viso tra le mani, vergognandosi come un ladro. E sarebbe rimasto in quella posizione per sempre se due mani calde e nodose non avessero preso le sue, allontanandole da quel viso rigato dalle lacrime per fa sì che potesse trovare conforto nel più caldo degli abbracci.
 
“Ge-Genio…”.
 
Non se lo aspettava. Non se lo aspettava affatto. Ma dopo un attimo di esitazione, non aveva potuto fare a meno di abbandonarsi a lui e piangere a dirotto, liberandosi di tutte le tensioni e tutto il dolore che gli attanagliava il petto.
 
Era una situazione nuova anche per Genio, decisamente più avvezzo a mostrare quel genere di attenzioni al gentil sesso, ma a modo suo, piacevole. Per la prima volta nella sua vita, non si sentiva più il maestro, ma un padre intento a consolare il suo pupillo.
 
Era una sensazione piacevolissima per entrambi. Sembrava quasi che avessero trovato finalmente un po’ di pace, quasi come se avessero trovato il loro posto nel mondo, ed era stato in quel momento che, suo malgrado, Genio aveva capito. Tutto il male, tutta la rabbia, tutta la cattiveria e la sete di supremazia dimostrate dal suo vecchio allievo non erano state altro se non un grido di aiuto, un modo per attirare la sua attenzione, per fargli capire che lui esisteva, a prescindere dal suo talento e dagli insegnamenti che gli aveva impartito, mentre lui, cieco e ligio al dovere, non era riuscito ad andare oltre, a sollevare completamente quel velo che aveva appena sfiorato nel momento in cui lo aveva preso sotto la sua ala.
Era stato per quello che aveva scelto Goku come suo tramite: per punirlo, per far sì che morisse di dolore vedendo che il suo pupillo veniva corrotto dalla sua aura malvagia. Voleva fargli del male, voleva vendicarsi per le sue disattenzioni. Ah, se lo avesse capito prima! Se avesse compreso che quel ragazzo aveva bisogno di un padre e non di un maestro, se lo avesse accolto amorevolmente tra le sue braccia come adesso stava facendo con Goku, tutto questo non sarebbe mai accaduto. E, a quel punto, Genio non aveva potuto fare altro se non sentirsi tremendamente in colpa, se non sentirsi responsabile per ogni gesto compiuto in passato e anche nel presente. Era certo di aver provocato altro dolore, altra sofferenza in quell’anima straziata di cui non pronunciava il nome da quel fatidico giorno.
Aveva fatto un giuramento, ma adesso non era poi così convinto di averlo portato a termine nel modo corretto. Adesso capiva anche perché, alla fine, il suo antico allievo voleva che Vegeta fosse il suo ultimo pasto, la sua vittima finale: perché nessuno come lui aveva amato un figlio non suo, arrivando al punto di sacrificare la sua stessa esistenza per salvargli la vita.
E anche Goku aveva avuto modo di comprendere ancora meglio quanto la presenza di un padre fosse fondamentale per la crescita di un figlio. Aveva capito per davvero quanto fosse stato egoista e meschino nei confronti di Gohan e del suo piccolo Goten, che non aveva mai potuto godere di un abbraccio simile a quello che stava ricevendo lui.
 
“È tornato sulla Terra” – aveva detto Goku, tirando su col naso – “Si è ripreso il mio corpo. Lo sento… Sento che è lì! Io, invece, non riesco a raggiungerlo!”.
“Lo so, figliolo, lo so… E tutto questo, tutto quello che è avvenuto, è soltanto colpa mia”.
“No, Genio, non lo è! Abbiamo tutti delle responsabilità in questa storia! Non voglio che ti prendi la colpa per quello che è successo, non sarebbe giusto, tu…”.
“Ehi, ehi! FRENA, ragazzo. Da quando sei diventato talmente ansioso? Lascia quel ruolo a tua moglie!”.
 
Aveva cercato di dirglielo con il sorriso, ma era vero che quell’atteggiamento da parte di Goku era una novità, per lui.
 
“URCA! Hai ragione!” – aveva risposto, grattandosi la nuca con la mano.
“Oh, adesso sì che mi sembri tu! Figliolo, tu sei un ottimista nato! Non sei uno che si butta giù”.
“Hai ragione, Genio… Però, stavolta, la situazione è più grave del solito. Questo non è un nemico che posso battere con la forza, né con l’astuzia – ammesso che io sua abbastanza furbo. Il suo atteggiamento mi spiazza. Non riesco a prevedere nessuna delle sue mosse. Temo che persino Vegeta non sarebbe riuscito a capire che cosa ha in mente un pazzoide del genere, e lui è uno stratega nato! Quando ti ho visto arrivare, mi sono rilassato perché mi sono convinto che ce l’avresti fatta a batterlo, ma poi ho capito che qualcosa non andava. C’è un tale odio, in lui, Genio, un tale sentimento perverso che mi sono sentito male. Ancora ho in brividi…”.
“Oh, figliolo… Non sai quanto mi dispiace…”.
“Non saprei spiegartelo neppure volendo. So solo che se arriva al mio corpo siamo tutti spacciati. TUTTI. I bambini sono sulla Terra, poi, e sono soli… Chi li proteggerà? Urca… Mi viene da piangere…”.
“Ascolta, figliolo, ma fallo per davvero. Disperarsi non serve. Non è mai servito a niente, men che meno adesso”.
Goku aveva tirato su col naso un’altra volta, asciugandosi gli occhi con un lembo della tuta (era strano essere dei fantasmi e avere addosso i vestiti).
“Ora, figliolo, voglio che tu ti concentri, perché il tuo ruolo è molto più importante di quello che pensi”.
“Eh? Dici sul serio?”.
“Certo! FORSE, il destino è dalla nostra parte. Ma adesso ascoltami: chiudi gli occhi, svuota la mente e concentrati sui momenti in cui avete convissuto insieme nel tuo corpo. Lui era più forte di te e ha provato a mandarti a dormire, ma tu ti sei dimostrato altrettanto forte e ha resistito. Io lo sento, anzi, SO che lo hai visto, che lo hai sentito. Per cui ti chiedo, adesso, di provare a riconnetterti con lui, ma non con quello che ci ha mostrato, bensì con la sua parte più vera: quella che desiderava essere te”.
 
*
 
Era arrivato sul minuscolo pianeta di re Kaioh in un battito di ciglia, memore del teletrasporto appreso quando condivideva quel corpo straordinario con il suo vecchio proprietario. Era arrivato lì e aveva trovato ad aspettarlo una strega, un vecchio basso e rotondo con l’aureola in testa e l’oggetto del suo desiderio in forma smagliante, neanche fosse appena uscito da un percorso S.P.A.
Lo guardava con una strana espressione, tra il disprezzo e la rassegnazione, e aveva avuto l’impressione che lo stesse aspettando. Che sapessero del suo arrivo lì? Poteva essere… La strega era la sorella del suo antico maestro, lo sapeva bene, così come sapeva quanto grande fosse il suo potere, ma lui non aveva paura. Era un guerriero esperto, uno sorta di potente stregone e aveva preso possesso del corpo del guerriero più forte mai nato. Cosa poteva volere di più? L’oggetto del suo desiderio, ovviamente. Vegeta era straordinario. Emanava un’aura che non aveva mai sentito provenire da nessun’altro prima, e sebbene avesse già assorbito la maggior parte del suo potere, era proprio la porzione più prelibata quella che desiderava avere tutta per sé. Quel saiyan era spettacolare: gli anni di sofferenze e di soprusi subiti lo avevano reso cinico e spietato, ma quello che aveva fatto per i ragazzini lo aveva reso un pasto perfetto per essere divorato per ultimo, il tassello mancante di quel puzzle che aveva costruito in decenni trascorsi in quell’inferno personale. In quell’anno aveva percepito in lui un cambiamento incredibile, e non c’era stato modo di far sì che il principe arrivasse a odiare i due marmocchi. Aveva fatto di tutto per renderli insopportabili, per far sì che il loro comportamento folle mandasse fuori di testa il principe e lo portasse a compiere qualche gesto estremo, ma nulla era servito. Anzi! Sembrava che quel loro atteggiamento non facesse altro che acuire le sue preoccupazioni, il suo spirito paterno. Quel sentimento che provava diventava ogni giorno sempre più radicato, sempre più forte, e a nulla serviva la consapevolezza che Goten fosse figlio del suo peggior rivale. Amava quel bambino esattamente come amava Trunks, e questo lo aveva reso ancora più appetibile.
Non era riuscito dal trattenersi e aveva passato la lingua sulle labbra, pregustando la vittoria. Dopo aver assorbito Vegeta, avrebbe ucciso quel pallone gonfiato già morto e avrebbe fatto fare la stessa fine a quella vecchia odiosa.
A quel punto, avrebbe avuto campo libero anche nel rendo dell’Aldilà! Chi avrebbe mai osato ostacolare un essere perfetto come lui? Sarebbe finalmente stato chi voleva sempre essere, e vaffanculo a tutto e tutti! Non avrebbe più avuto bisogno di cercare quello che non aveva mai avuto, perché finalmente avrebbe avuto ogni cosa
 
Continua…


 
Ragazze/i,
Come va?
Spero che il clima natalizio vi stia portando un po’ di gioia. E spero che possiate perdonarmi per il ritardo in merito pubblicazione. Era mia intenzione postare un unico lungo capitolo, ma sarebbe stato troppo pesante per chiunque leggere un malloppone infinito, per cui, ecco a voi le “prime 18 pagine” che ci porteranno alla fine. XD
È stato veramente un viaggio lungo, e sapere che siete rimasti con me fino a ora è stato veramente un onore.
Non voglio rubare altro tempo: il capitolo parla da sé!
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 61
*** Akio ***


AKIO
 
“È tutto troppo strano”.
“Già… Io non ci ho capito niente, Trunks. E tu, Tartaruga? Dov’è andato Vegeta? E Genio? E Goku? Che fine hanno fatto tutti?”.
 
C’era apprensione nella voce dei bambini. L’ultima scena che avevano visto nelle acque cristalline dello stagno li aveva confusi e spaventati. Non avevano avuto modo di contattare i genitori, per quanto ci avessero provato telepaticamente, e non c’era stato modo di far tornare indietro la Nuvola Speedy per recarsi nel luogo dello scontro.
Trunks era sull’orlo di una crisi di nervi. Sapeva che suo padre era morto e non aveva la benché minima idea di cosa fare per lasciare quell’isola e cercare di capire che diamine fare: Genio se ne stava lì a terra, immobile, e questo non lasciava ben sperare. Della creatura, invece, non c’era traccia.
 
“Che faremo, adesso?”.
“Non lo so, bambini… Forse, dovremmo solo metterci comodi e aspettare…”.
“Ma come sarebbe?”.
“Io… Io non credo che sia giusto, invece… Senti, Tartaruga, faresti una cosa per noi?”.
“Ovvero?”.
“Per piacere… Portaci alla caverna delle meraviglie”.
 
*
Poco prima…
 
Quando Vegeta era apparso nel nulla, per poco non gli preso un coccolone a entrambi. Come cavolo aveva fatto sua maestà a raggiungerli? E, soprattutto, come gli era venuta in mente un’idea del genere?
Rosso in viso e profondamente contrariato, Vegeta aveva cercato di spiegare senza troppi giri di parole il piano messo a punto da re Kaioh in persona, piano che lo aveva fatto sbraitare, bestemmiare e sputare ogni genere di improperio ma che, alla fine, aveva dovuto accettare passivamente senza ulteriori cerimonie.
 
“Urca! Non cosa dovremmo fare? Cioè, noi, che…?”.
“Senti, razza di babbeo, non pensare che la cosa mi faccia piacere! Fa più schifo a me che a te, ‘sta roba, ma sta di fatto che non abbiamo molte alternative, a quanto sembra. Io ho un corpo privo di poteri, tu sei un’anima senza corpo ma coi poteri. Il vecchio non ha un corpo e la sorella sì. Quindi…”.
“Quindi dovremmo fonderci per creare due esseri composti da un totale di quattro anime, ho ragione?”.
“TSK! Proprio così, vecchio. Pare che il bastardo sia tornato sulla Terra per prendere il corpo di questo imbecille e stia per venire a cercare proprio me. Che fortuna, eh? Dato che non abbiamo ancora capito come diamine fermarlo, contattare voi due sembrava l’unica mossa intelligente da fare”.
“Ma come avete fatto a trovarci? Non capisco!”.
“E quando mai capisci qualcosa, tu! È stata la vecchia. E siete stati voi che, in qualche modo, siete entrati in contatto con noi. Ma pensa tu cosa mi tocca dire!”.
 
Lo avevano guardato in silenzio per un tempo che era sembrato lunghissimo. Il principe dei saiyan, l’essere più orgoglioso mai nato, era venuto a recuperare il suo peggior rivale e a chiedergli di fondersi insieme in un unico corpo per sconfiggere un nemico comune. Chi lo avrebbe mai detto?
 
“L’idea è buona, ma non credo serva la forza bruta contro di lui”.
“TSK! E cosa, allora?”.
“La faccenda è più complicata di quello che credi, Vegeta…”.
“SENTITE, io non ho idea di cosa abbiate in mente, ma so che non abbiamo tempo. Ergo, muovete le chiappe e non fate storie. La faccenda disturba più me che voi, fidatevi”.
 
E si erano fidati, anche perché avrebbero avuto abbastanza tempo per spiegare a Vegeta e Baba quello che avrebbero dovuto fare per sconfiggere la creatura. Forse, per la prima volta nella vita, non avrebbero avuto bisogno della violenza per sconfiggere il nemico.
 
*
 
Il piano era semplice, ma Vegeta (che avrebbe preferito tornare sulla Terra) era ancora un po’ restio ad accettare Goku in sé, e questo aveva complicato il legame mentale che avrebbe dovuto interconnettere i due.
Lo stesso non si era verificato per Genio e Baba che, dopo qualche minuto di imbarazzo provocato dai ricordi osceni del vecchio, si erano perfettamente sincronizzati, ed erano ormai pronti a fare ciò che avevano pattuito.
Vegeta non aveva intenzione di attaccare. Il suo compito – suo e quello di Goku – era quello di distrarre la creatura, far leva sui suoi ricordi, sui suoi sentimenti repressi e aiutare Genio a compiere l’atto finale.
Era assurdo per loro osservare la scena da quell’angolazione così insolita e privilegiata, ma non era quello il momento per fermarsi e porsi domande esistenziali inutili.
Ormai non c’era più tempo, non ci sarebbero state altre occasioni. Vedevano stampato sul suo viso il sorriso della vittoria. Era evidente che il nemico non sospettasse minimamente quello che era accaduto, né quello che sarebbe successo a breve. Speravano solo che le cose non sarebbero degenerate in maniera imprevedibile.  A quel punto, dubitavano che avrebbero avuto altre occasioni.
 
“Sembra che, alla fine, io abbia vinto” – aveva detto con la voce di Goku. Era incredibile vedere come, alcune cose, si ripetevano in maniera quasi ossessiva. Quell’episodio aveva riportato alla mente di entrambi i saiyan il momento in cui Genew aveva preso possesso del corpo di Goku. I “cattivi”, a volte, riproponevano le stesse azioni in maniera abbastanza schematica. Roba da non credersi – “Alla fine, hai deciso di venire a me, principino”.
“Tsk! Se è questo quello che credi, sei completamente fuori strada!”.
“Vegeta, per favore!”.
 
Goku lo aveva redarguito senza troppi convenevoli. Non era il momento di fare sciocchezze, quello. Perché si comportava così?
 
“TSK! Dannazione, quanto odio tutto questo!”.
“Lo so, ma pensa a Trunks e Goten! Pensa a Bulma e Chichi. È per loro che lo stiamo facendo”.
“TSK! Ti odio Kaharot, veramente!”.
 
“Sono fuori strada, Vegeta? Veramente? Non lo avrei mai detto…”.
“Ascolta, figliolo… Qui sei al sicuro. Noi non ti faremo del male” – aveva detto re Kaioh.
“Al sicuro? Del male? Io, quindi, sarei in pericolo? IO? Ma siete seri?”.
 
Era odioso. Insopportabile. E temevano che presto Vegeta avrebbe perso la pazienza.
Se così fosse stato, avrebbe mandato all’aria il loro piano, e quella era l’ultima cosa che doveva accadere.
 
“Non cedere alle sue provocazioni. Non farlo. Per favore”.
 
Avrebbe voluto dirgli di tacere, avrebbe voluto dirgli che nessuno può dargli ordini ma non lo aveva fatto. Vegeta aveva preso un respiro profondo e aveva sorriso, cercando di portare a termine la missione che si era autoassegnato: cercare di resistere all’impulso di uccidersi per fare fuori anche Kaharot.
 
Il nemico aveva messo entrambe le mani sui fianchi e rideva beffardo.
 
“Ho come l’impressione che non abbiate capito. Non sono venuto qui per parlare, ma per prendermi quello che è mio di diritto. E ho deciso di iniziare da dove sono stato interrotto. Purtroppo il tuo sacrificio è stato vano, principe. Ma non preoccuparti. Da questo momento in poi, sarò io a prendermi cura di te”.
 
*
 
Trunks aveva un orribile presentimento, ma forse, per la prima volta, aveva avuto un’intuizione giusta in merito a ciò che era accaduto a causa di quel coso che lo aveva ingannato. Aveva spiegato cosa voleva fare a Goten e a Tartaruga mentre stavano percorrendo gli abissi sulla groppa di quest’ultima, avvolti da una bolla magica che consentiva loro di respirare.
 
“Sentite, io ho come l’impressione che tutte quelle ombre che abbiamo visto in questo periodo non fossero nemici, ma che fossero venute fuori dalla grotta per cercare di avvertirci del pericolo in cui siamo andati incontro”.
“Ma veramente dici?”.
“Sì… Certo, erano spaventose, ma non credo volessero farci del male. Pensaci bene, Goten. Pensa a tutto quello che è successo e rifletti. Avrebbero potuto farci fuori un sacco di volte, se avessero voluto, Invece non è stato così. Hanno provato a metterci in guardia secondo me. Solo che non sapevano come fare”.
“WOW! Non ci aveva riflettuto. Tu che ne pensi, Tartaruga? Potrebbe essere?”.
“Be’, il ragionamento di Trunks non è del tutto insensato… Ma vi informo che andare lì sotto è sempre un rischio. C’è la possibilità che veniate sedotti da altri manufatti e dalle anime corrotte che contengono. Ve la sentite?”.
“Certo che ce la sentiamo! Vero, Goten?”.
“Sicuro. Vogliamo aiutare, Tartaruga, non fare altri danni. Io mi fido di Trunks, ciecamente. Forse, quelle anime potrebbero aiutarci. Ma perché pensi che siano lì?”.
“Perché apparivano solo sporadicamente, quindi penso che non riescano a slegarsi del tutto dalla grotta. Se fossero state in giro come cani sciolti, forse ci avrebbero già contattati di nuovo, no?”.
“Sei un bambino intelligente, piccolo saiyan, Degno figlio di tua madre e tuo padre”.
“Mi fai arrossire, Tartaruga…”.
“Accetta i complimenti e tieniti forte. Stiamo per arrivare a destinazione”.
 
E c’erano arrivati per davvero. La grotta era esattamente come la ricordava: ampia, follemente sottosopra, un mondo alla rovescia in cui ci si poteva perdere. Goten ne era rimasto letteralmente incantato. Quali meraviglie si nascondevano in quei meandri? Quali tesori inestimabili? Ma, dopo un’iniziale sorpresa, era tornato lucido, memore degli avvertimenti di Tartaruga e di quello che avevano subìto.
 
“Come faremo a capire se ci sono?” – aveva chiesto a Trunks.
“A dire il vero, speravo che si facessero vedere loro, ma mi sa che non sarà così…”.
“Temo proprio di no… Quindi?”.
“Quindi non lo so… EHI! C’è qualcuno qui?”.
“Tanto vale… CI SIETE? SIAMO AMICI! CHIEDIAMO IL VOSTRO AIUTO! PER PIACERE! SE CI SIETE, FATEVI VEDERE!”.
“Oh bambini, non credo che urlare serva a molto!”.
“E cosa proponi di fare?” – aveva domandato Trunks, preoccupato.
“Sedetevi, prendete un bel respiro e aprite i vostri cuori a loro. Sapranno ascoltare il vostro richiamo e venire a voi, se avrete la pazienza di aspettarli”.
 
La pazienza l’avevano persa ormai da un pezzo, ma ascoltare il consiglio di Tartaruga era l’unica cosa sensata che potessero fare. Dunque, avevano preso un bel respiro, avevano aperto i loro cuori e avevano atteso.
La prima timida ombra aveva fatto capolino poco dopo, materializzandosi davanti a un Trunks dalle palpebre serrate che non si era neppure accorto che ce l’aveva fatta.
 
“Tu mi hai chiamato… Eccomi… Sono qui”.
“OH PORCA MISERIA!” – era caduto sul piccolo sederino, terrorizzato, sbattendo contro la schiena di Goten.
“Ma che fai? Stai atten-OH MAMMA! SIAMO CIRCONDATI!”.
“State calmi, bambini… Era quello che volevate, no?”.
 
Erano tanti, non tantissimi, ma tanti. Erano attorno a loro, disposti a cerchio, e li osservavano con i loro occhi gialli e le loro movenze sinuose. Erano sinistri e divertenti insieme, spaventosi ma interessanti allo stesso tempo. E li aspettavano, li aspettavano da chissà quanto tempo.
 
“Siete… siete amici, non è vero?”.
“Finalmente lo hai capito, giovane Trunks”.
“Non volete farci del male”.
“Non lo abbiamo mai voluto, Goten”.
“Allora perché vi comportavate in quello strano modo? Ci avete fatto morire di paura!”.
“Ce ne rammarichiamo, ma le nostre scuse serviranno a poco, se non verrà fermato”.
“Lo sappiamo… Ma come?”.
“Nel modo più improbabile”.
“Cioè?”.
“Dimostrandogli che può essere amato”.
 
*
 
Li aveva attaccati quando non erano ancora pronti. Vegeta aveva faticato a lasciare il controllo del proprio corpo a un Goku che, invece, aveva immediatamente preso familiarità con quelle membra non sue.
 
“URCA! Sei fantastico, lo sai? Sei piccolo e leggero, è una bellezza muoversi qui dentro”.
“MA LA SMETTI DI DIRE QUESTE COSE?”.
 
L’imbarazzo del principe era alle stelle, e sarebbe sparito volentieri se solo non fosse stato così determinante in quella fase della battaglia.
Era necessario che non si toccassero. Se fosse avvenuto, si sarebbe accorto della presenza di Goku, avrebbe capito l’inganno e non potevano permetterlo. Per questo, Vegeta non faceva altro che schivare i colpi saltando da una parte all’altra, in attesa di bloccarlo così come gli era stato indicato.
 
“SORELLA, non c’è più tempo”.
“Lo so… Ma non è così facile come sembra. Questo incantesimo è complesso”.
“Me ne rendo conto, ma non possiamo attendere oltre”.
“Non ho abbastanza potere, Genio. I tuoi ricordi non sono sufficienti, temo”.
“Come sarebbe?”.
“Non sarebbe, è come ti ho detto. E fabbricarne di nuovi è una vera impresa, fidati!”.
“Io volevo bene a quel ragazzo, Baba. Gliene volevo per davvero. Sono stato io a trovarlo, accudirlo, educarlo e crescerlo. Non sarò stato l’equivalente di un padre, ma lo amavo. Perché non basta?”.
“Non lo so… Ma non basta. Purtroppo non basta”.
“Siamo destinati a perdere?”.
“Non saprei dire… So solo che abbiamo bisogno di un miracolo”.
“Aspetta…”.
“Cosa?”.
“Non lo senti? Qualcuno mi chiama…”.
“Sì… Hai ragione… Ma chi è?”.
“Questa è la voce di Tartaruga”.
 
*
 
Re Kaioh osservava la scena al riparo, dietro la sua bellissima auto rossa che presto sarebbe stata vittima di quello scontro per ora evitato. Perché era così difficile fare quello stupido incantesimo? E perché Goku non riusciva a connettersi con lui? Il piano era troppo complicato, forse?
 
“Io so che sei buono” – aveva detto Vegeta, a un certo punto.
“Cosa?”.
“Lo so… C’è del buono in tutti. O, almeno, così dicono”.
“Quindi stai ammettendo anche tu di essere uno dei buoni, Vegeta?”.
“Oh, io non so cosa sono da un bel pezzo, sai? Ma non mi dispiace…”.
 
“VUOI RIMETTERTI NEL TUO SANTISSIMO CORPO O NO?”.
“Come se fosse facile. Non mettermi fretta! Sto cercando di combattere pilotando te e nel frattempo sto cercando di ritornare in me. Mica è facile!”.
“Pilotando! Ma sentitelo! Vuoi che ti spacchi la faccia?”.
“In questo caso, credo che tu debba spaccare la tua”.
 
“Ci sono problemi, Vegeta? Mi sembri pensieroso”.
“TSK! Affatto. Pensavo a te… Alla tua infanzia… Sei cresciuto da solo, vero?”.
“Se ti interessa saperlo, sì. Sono cresciuto da solo. Proprio come te”.
“Io ho avuto mio padre accanto sino all’età di cinque anni”.
“Già… E poi sei stato ceduto a Freezer, diventando il suo giocattolino. Non male, vero?”.
 
“Urca. Non cedere alle sue provocazioni, ti prego”.
“TACI”.
 
“È stato tanto tempo fa. Ho perdonato mio padre per questo”.
“Oh, ma davvero? Lo hai perdonato? Perché credo che tu non sia affatto sincero?”.
 
Punto sul vivo, Vegeta aveva distolto lo sguardo, questo mentre Goku aveva evitato un altro pugno. Dannazione, suo padre lo aveva venduto a quella viscida lucertola, era vero, ma che altro avrebbe potuto fare? Aveva pensato e ripensato un altro miliardo di volte a quella decisione che aveva cambiato la sua vita, e sì, lo aveva anche un po’ odiato per quello, ma alla fine, ora che ci pensava, Vegeta si era davvero reso conto che, col tempo, aveva davvero perdonato suo padre, un uomo che era stato vittima del destino e del suo orgoglio pungente.
 
“TSK… Ma pensa tu…”.
“Vedi che ho ragione quando dico che non sei così male?”:
“TACI”.
 
“Sei in torto, invece… Io ho davvero perdonato mio padre. Ha fatto una cazzata, certo. Ma ha cercato di rimediare. Sarei morto comunque, invece mi ha dato un’opportunità. La stessa che è stata offerta a te”.
“Che vuoi dire?” – aveva detto, bloccandosi a mezz’aria e incrociando le braccia.
“Che sei stato accolto, amato ed educato. Peccato che non tu non sia stato capace di vederlo”.
 
Una crepa. Una minuscola, piccolissima crepa. Ma Goku l’aveva vista e ne aveva approfittato, ringraziando Vegeta per quell’opportunità.
 
“MA CHE SUCCEDE? CHE SUCCEDE?” – aveva urlato la creatura, mettendosi una mano sul petto.
 
“TSK! MUOVITI A SLOGGIARE, RAZZA DI PERVERTITO”.
 
E, alla fine, era successo: finalmente, Goku era di nuovo padrone del suo corpo.
 
*
 
“Sì!”.
 
Baba e Genio non avevano potuto fare a meno di esultare. Goku era ritornato nel suo corpo, e quello li avrebbe aiutati a svolgere il loro compito. Adesso, toccava a Genio, e il pizzico di aiuto di cui aveva così disperatamente bisogno non era tardato ad arrivare.
 
Vegeta era stremato, sfinito, ma anche se i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco ciò che aveva davanti, aveva visto quel turbinio di ombre in procinto di schiarirsi provenire dal cielo.
E, come d’incanto, la creatura, Genio e le anime erano sparite, per poi riapparire dentro la sfera di cristallo guidata da una Baba concentratissima nel portare avanti il suo incantesimo.
 
*
 
Nella sfera…
 
Risate, urla, schiamazzi. Rumore di piedi sul parquet, musica, odore di buon cibo. La voce del maestro, le voci dei compagni. Le lezioni, gli abbracci, le confidenze. I premi, le punizioni, gli errori, le conquiste, le sconfitte e le vittorie. Tutto quello aveva preso vita in un secondo, quasi come se si trattasse di un vecchio filmato restaurato, un ricordo reso vivido e immortale dalle meraviglie della magia.
Baba aveva ricreato tutto esattamente com’era. Il tempio, i sapori, gli odori, i rumori. Tutto.
Quella era stata la sua casa. E lì, ad aspettarlo, c’erano un giovane Genio e i suoi compagni resi prigionieri dalle sue macchinazioni.
 
E sì, c’era anche lui, carne e ossa, il ragazzino che era stato e che non avrebbe mai più creduto di poter vedere riflesso nel piccolo specchio che custodiva nella sua camera insieme all’oggetto che per tanto tempo era stato la sua dimora.
Quelli erano i suoi zigomi, i suoi denti, i suoi occhi, quelle erano le sue mani, le sue sopracciglia, la sua pelle. Era lui. Era una persona, non un’entità. E tutti lo guardavano con gli occhi colmi di lacrime e un sorriso disarmante.
 
“Ma cosa… cosa diamine è successo? Che cosa è successo?”.
“Stai tranquillo… Va tutto bene. Sei a casa, adesso. Con tutti noi”.
“STATE INDIETRO!” – aveva provato a usare uno dei suoi incantesimi, ma non c’era riuscito – “Che mi avete fatto? COSA?”.
“Ti abbiamo aspettato, figliolo… E, nel frattempo, abbiamo serbato il tuo ricordo. Quello di chi sei stato veramente, non quello che ci hai voluto lasciare di te”.
“Ma che significa, vecchio? Cosa?”.
“Che sei sempre stato uno di noi” – aveva detto uno dei suoi compagni, avvicinandosi e prendendolo per mano – “Solo che non lo hai mai voluto vedere”.
 
In quel momento, ogni singolo ricordo di ogni singolo momento trascorso nel tempio era riaffiorato alla sua mente, ed era riaffiorato per com’era stato realmente, non per come aveva voluto vederlo, e aveva capito. Aveva capito di essere stato lui a vivere le cose nel modo sbagliato, aveva capito di essere stato lui a fraintendere gesti, parole, attenzioni, e a desiderare quello che in realtà gli era già stato donato ma che non era mai riuscito a vedere. Aveva capito che dietro ogni rimprovero di Genio si nascondeva un profondo affetto, che dietro ogni parola di un compagno si celavano voglia di condivisione e di conoscersi, non invidia o repulsione, come credeva lui. Si era reso conto che, fino a pochi istanti prima, aveva visto tutto solo i suoi occhi, solo dal suo punto di vista di ragazzino emarginato, mentre adesso, finalmente, lo vedeva con quelli degli altri, vedeva le cose attraverso gli occhi di coloro che erano da sempre stati la sua famiglia.
Senza che potesse opporsi – e perché avrebbe dovuto farlo, poi? – uno a uno, i suoi compagni lo avevano stretto, scusandosi con una profonda emozione visibile al primo sguardo.
 
“Scusa se non ti abbiamo amato abbastanza”.
“Scusa se non abbiamo capito”.
“Scusa se ti abbiamo fatto soffrire”.
 
E, a ogni scusa, il suo cuore si riempiva di sentimenti contrastanti perché l’amore cresceva al pari della vergogna che provava per se stesso.
Poi, alla fine, era giunto il turno di Genio.
 
“Puoi scusarmi per non averti dato ciò che volevi?”.
“Oh… Maestro… Maestro… Io… Io…” – i suoi occhi si erano riempiti di lacrime.
“Va tutto bene… Ora, lascia che ti abbracci, Akio”.
 
In quel momento, sulla Terra, le pagine sparse di un quaderno nero come la notte si erano dissolte, sciogliendosi al vento come neve al sole. Questo mentre, all’interno di una sfera, un’anima ne abbracciava un’altra circondata da tante altre che, finalmente, dopo secoli, erano tornate a essere libere. Questo mentre, sul pianeta di re Kaioh, un turbinio di genti ritrovava la libertà dalla prigionia a cui era stata costretta nel corpo di Goku.
 
Continua…

 
Carissimi/e,
Eccoci qui, giunti alle battute finali di questo papiro tanto travagliato.
Mamma mia, che emozione! Abbiamo scoperto qual era il modo per fermare Akio: l’amore. So che qualcuno potrebbe storcere il naso: il suo comportamento sconsiderato ed egoista ha fatto soffrire tantissime persone, ma penso che il perdono – quello vero, quello che viene dal profondo del cuore – sia l’arma più potente, e questo nemico meritava di essere “sconfitto” con la sola cosa che non ha mai voluto, l’amore.
Resta solo da pubblicare l’epilogo (che arriverà la prossima settimana) e poi scriverò la parola fine a questa storia.
Grazie per avermi fatto compagnia sino all’ultimo: siete unici!
Ci rivedremo per i saluti finali tra sette giorni!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo

 

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Capitolo 62
*** Epilogo ***


 
EPILOGO
 
Il vento freddo proveniente dalle montagne portava con sé la prova più palese dell’arrivo dell’inverno. La città dell’Ovest era un turbinio di luci, odori, sapori capaci di travolgere e ammaliare chiunque si trovasse a passare per le vie gremite di bambini e adulti intenti a guardare le meraviglie esposte nelle vetrine dei negozi. Le luminarie scelte quell’anno per celebrare il Natale erano le più sensazionali degli ultimi dieci anni: la grande piazza ospitava tre alberi immensi completamente rivestiti di luci bianche intermittenti, e la via principale era stata decorata con sessanta alberi composti da led luminosi rossi e bianchi. Davanti al centro commerciale era stata sistemata una grande pista di pattinaggio sul ghiaccio costeggiata da bancarelle di dolciumi e oggettini a forma di elfo, pinguino, orsetto e qualsiasi creaturina ricordasse Babbo Natale e il suo operoso staff.
I bambini scorrazzavano allegri da una parte all’altra del parco cittadino, incuranti del vento tagliente che gli arrossava le gote, insensibili al richiamo di genitori eccessivamente apprensivi che temevano un raffreddore o una brutta influenza.
Nonni e zii, amici e conoscenti, non si erano risparmiati nel fare anche solo un piccolo pensiero ai propri cari: quell’anno, il Natale sarebbe stato speciale, sarebbe stato diverso dal solito e, anche se non avrebbero saputo spiegarne la ragione, la voglia di trascorrere del tempo con chi si amava, di strappare un sorriso e allietare anche il più duro dei cuori era un qualcosa che accomunava ogni singolo abitante di quella che, per la prima volta, sembrava più una comunità che non una città costituita da perfetti estranei.
Ma, da bravo extraterrestre che si era male adattato, tra quella moltitudine di gente in tumulto c’era ancora qualcuno che aveva scelto di passeggiare da solo, in attesa di trovare rifugio da quel mondo troppo colorato a cui ancora, suo malgrado, non era riuscito ad adattarsi.
 
“Che bisogno c’è di correre come forsennati da una parte all’altra? E tutto per degli stupidi regali! Che razza di idioti… A cosa serve ricevere in dono orribili paia di calzini verdi decorati con stupidi animali cornuti? E che senso ha continuare ad appendere luci in qualsiasi angolo della casa, del giardino, del terrazzo? Tsk! Quest’anno, per poco non mi costringeva a montare quelle stupide luci anche nella tazza del bagno! Quella donna è fuori di testa, a volte… Quando fa così, mi fa rimpiangere il silenzio che c’è nello spazio”.
 
Sua altezza reale il principe dei saiyan era sgattaiolato via come un ladro nella speranza di potersi sottrarre alla confusione che regnava nella sua casa. Non che solitamente fosse un posto tranquillo, dato il via vai di persone che avveniva quotidianamente, ma nelle ultime settimane la situazione era sfuggita di mano, e Vegeta aveva seriamente pensato di prendere la prima navicella disponibile e partire alla volta dello spazio. In verità, non aveva la benché minima intenzione di partire, ma nonostante il tempo trascorso con la sua famiglia, non era riuscito ad abituarsi all’aria festosa e rumorosa, alle foto di famiglia, ai regali e ai tentativi di stampargli baci sulle labbra per colpa di quello stupidissimo vischio appeso praticamente ovunque. Non che gli dispiacesse avere del contatto fisico con la sua bella moglie, ma non amava mostrare quel genere di effusioni alla folta schiera di persone che avevano messo radici in casa sua.
Da quando il nemico era stato sconfitto e le persone scomparse erano finalmente riapparse dal nulla, la vita di Vegeta non era tornata alla normalità, ma era stata stravolta, di nuovo. Sarebbe stato stupido, da parte sua, sperare che tutto tornasse esattamente com’era prima, ma il principe aveva accusato il colpo, sebbene avesse deciso di continuare a mantenere la sua imperturbabilità ben visibile.
Ricordava l’istante in cui tutto era finito quasi come se fosse stato uno strano sogno da cui si era svegliato di soprassalto. Per la miseria, Kaharot era diventato luminoso come una lampadina e, pian piano, tutti coloro che erano stati assorbiti erano tornati, e non sotto forma di spirito o energia pura, ma come esseri in carne e ossa, circostanza che aveva reso il ridicolmente piccolo pianetucolo di re Kaioh il luogo più affollato della storia.
Cielo, ancora arrossiva al pensiero di sua moglie che si gettava su di lui senza troppi complimenti, si intimoriva al ricordo di Chichi che piangeva disperatamente ringraziando gli dei per la salvezza ottenuta e sorrideva sotto i baffi per la gioia di sapere che tutto, finalmente, era finito.
Le sfere del drago erano state riunite in un batti baleno da Bulma e dal resto della squadra tornata al completo, e i tre desideri erano stati espressi senza troppe cerimonie. Gohan, Vegeta, Ouji erano tornati in vita, tutti erano tornati sulla Terra e coloro che avevano vissuto quell’esperienza traumatizzante avevano dimenticato.
Goku, alla fine, aveva deciso di restare. L’idiota di terza classe sembrava aver accettato di buon grado l’occasione che gli era stata offerta (l’ennesima, a ben vedere) e, dopo un breve periodo trascorso insieme a Chichi, Gohan, Goten e Ouji alla Capsule Corporation, aveva deciso di riportare la sua famiglia in quella casa sperduta tra le montagne, riassumendo – o forse assumendo per la prima volta – il ruolo di marito e padre che per tanto tempo aveva eluso per dedicarsi a questioni sicuramente di vitali importanza, ma che non potevano per nessuna ragione venire meno ad altre.
 
“Tsk! Sto davvero facendo questo tipo di pensiero? VERAMENTE?”.
 
Vegeta si era quasi strozzato con la sua stessa saliva. Non si sarebbe mai del tutto abituato a quel suo lato così affettuoso e umano. Era un qualcosa che lo metteva ancora in imbarazzo, che lo faceva sentire diverso, ma diverso in maniera piacevole, in un modo che gli faceva battere il cuore a un ritmo mai sperimentato prima.
Di spiacevoli situazione ne aveva affrontate tante, ma poche volte aveva sofferto come quando aveva visto Goten andare via dalla sua casa: durante quel lungo anno in cui aveva vissuto con lui e con Trunks, in cui aveva fatto loro da padre e da madre, da educatore e amico, in cui si era dedicato loro anima e corpo, si era legato a lui ancora più di prima. Il distacco era stato doloroso, ma inevitabile: per quanto Goten lo avesse chiamato papà, per quanto lui lo considerasse veramente un secondo figlio, era giusto lasciarlo andare con la sua famiglia di origine. Sarebbe stato felice, in compagnia di quel decerebrato, felice e protetto come la più preziosa delle creature.
E così era stato. Goten aveva dato una seconda possibilità a suo padre, finendo con l’innamorarsi di lui. Era inevitabile. Era giusto. Era umano. E, se così non fosse stato, sarebbe andato a prendere Goku a calci nel didietro.
Alla fine, Goten aveva tutto quello che aveva non solo voluto, ma meritato.
E lui? Lui non era stato messo da parte. Quel bambino dai buffi capelli a forma di palma non lo avrebbe mai fatto sentire la seconda scelta, non avrebbe mai permesso a nessuno di occupare quel posto nel suo cuore che aveva riservato solo a lui. Forse, non lo avrebbe mai più chiamato papà, ma andava bene così. Era felice di essere nella sua vita, di essere importante per lui, e questo gli bastava ad avvertire una sensazione di sollievo mai provata prima di allora.
 
Dopo quegli avvenimenti così sconcertanti, il principe dei saiyan si era ritrovato a fare spesso un pensiero che mai prima di allora aveva bussato alla porta della sua mente (o si era affacciato alla finestra del suo cuore): come sarebbe stata la sua vita se non fosse stato strappato dalle braccia della sua famiglia? Se avesse avuto più tempo da trascorrere insieme a suo padre, che tipo di persona sarebbe diventato? Non era così idiota da pensare che avrebbe avuto una famiglia simile a quella che aveva formato egli stesso sulla Terra, ma magari…
 
“Magari cosa? Non essere idiota… Tuo padre era il re dei saiyan, non ti avrebbe di certo consolato se avessi fatto un brutto sogno. Quando ti hanno pestato devi aver preso una bella botta in testa e… Tsk! Ho cominciato a parlare di me in terza persona… Bene… Devo davvero essere impazzito”.
 
Forse lo era, o forse no, ma andava bene così. Dopotutto, non aveva i mezzi per cambiare il passato, e anche se lo avesse fatto, se avesse avuto modo di avere suo padre accanto, veramente pensava che sarebbe stato non un bambino felice, ma un… un bambino?
 
“Non lo sei mai stato. Nessuno saiyan è mai stato bambino, non come lo intendono qui sulla Terra, e tu lo sei stato meno di tutti gli altri. Tu eri l’erede al trono, tu eri… Eri un assassino. Niente di più, niente di meno. Perciò smettila… Tuo padre è morto e sepolto da trent’anni… Di lui non resta altro se non un fottuto ricordo, e la certezza che rivedrai per sempre i suoi lineamenti nei tuoi”.
 
E, mentre formulava quel pensiero, mentre si rivolgeva a se stesso in terza persona per l’ennesima volta, per un attimo aveva visto sovrapporsi alla sua immagine riflessa in quella vetrina, quella di suo padre, l’altero re dei saiyan.
Affrontare quello sguardo durato il tempo di un battito di ciglia lo aveva reso per un attimo triste, ma sicuro di sé, di quello che era diventato, di chi fosse realmente. Era inutile pensare a come sarebbero potute andare le cose, a come sarebbe stato poter vivere altrove. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era grato per quello che aveva, ed era fiero di quel cambiamento che aveva in parte subìto e in parte voluto. Non era più solo un guerriero: era un uomo, un uomo capace di amare e di essere amato a sua volta.
 
Nel momento in cui l’immagine apparsa nella vetrina era scomparsa, lasciando spazio alla figura in cui si rispecchiava pienamente, per la prima volta da quando era atterrato sulla Terra – e per la prima volta da quando ne aveva memoria – era stato attirato da uno degli oggetti esposti, oggetto che aveva fatto nascere in lui il misterioso impulso di fare un acquisto. Data la natura dell’oggetto, c’era di che meravigliarsi: si trattava di un gioco da tavolo. Ora, non che avesse contezza dei balocchi che possedeva suo figlio – una quantità spropositata persino per il figlio di un principe – ma era certo di non aver visto niente di simile tra la moltitudine di doni scartati e abbandonati per una repentina perdita di entusiasmo da parte della sua prole. Sembrava veramente interessante, data la strategia da dover mettere in atto per conquistare regni e territori, talmente interessante da spingere sua maestà a decidere di entrare, prenderne due confezioni, fare un’interminabile fila alla cassa, pagare, fare una seconda interminabile fila al banco dove lo avrebbero incartato, fare una donazione ad un’associazione che si occupava di cani randagi (maledetto Ouji) e uscire dal negozio innervosito e soddisfatto allo stesso tempo con il pacchetto infiocchettato e profumato sotto il braccio.
 
“Tsk!”.
 
Tutta quella fatica – se di fatica si poteva parlare – era stata fatta senza che neppure se ne rendesse conto: mentre metteva in atto quei gesti così comuni a tutti gli esseri umani, la sua mente era volata altrove, immaginando uno scenario che avrebbe fatto inorridire qualsiasi spietato guerriero sanguinario. Aveva pensato alla sua famiglia, a tutta la sua famiglia, raccolta attorno al tavolo a giocare al gioco che aveva comprato. Aveva pensato alla gratitudine dei bambini, aveva pensato ai visi sorpresi di Bulma e Chichi, alla fatica che avrebbe dovuto fare nel tentativo di spiegarne le regole al decerebrato di Kaharot, e alla sensazione di pace dei sensi provata nel vederli tutti insieme, seduti allo stesso tavolo, al sicuro e felici.
Felici. Il più spietato assassino della Galassia voleva che le persone che aveva attorno, compreso il suo più acerrimo rivale, fossero felici. E questo perché la loro felicità lo avrebbe reso felice.
Era assurdo? No, non lo era più. A dirla tutta, era estremamente confortante e piacevole.
Soddisfatto del suo acquisto, sua maestà aveva deciso di dirigersi verso casa. Avrebbe messo il regalo sotto l’enorme albero che sua moglie gli aveva fatto spostare almeno dodici volte prima di decidere di rimetterlo all’angolo del salotto – ovvero il primo punto in cui lo aveva fatto sistemare – e godersi i manicaretti che aveva preparato per lui. E sì, era proprio un uomo fortunato, e avrebbe tenuto quella fortuna stretta a sé per sempre, anche se questo voleva dire che…
 
Era durato meno di un secondo. Si era trattato di uno sguardo fugace, di uno sguardo ricambiato con un misto tra interesse e vergogna. Inizialmente, aveva creduto di essersi sbagliato, di aver sognato a occhi aperti, ma più la vedeva avanzare verso di sé, più si rendeva conto di non aver sbagliato affatto. La giovane che camminava con passo svelto e spedito non era altri se non lei, la donna che aveva sacrificato la sua vita per salvare la sua: Marilyn.
Se non avesse avuto i riflessi pronti, i pacchi che reggeva tra le braccia sarebbero inevitabilmente caduti al suolo. Era imbarazzante ammetterlo, ma aveva avvertito come una stretta alla bocca dello stomaco dovuta alla forte emozione provata. Ancora una volta, il cinico principe dei saiyan si trovava ad avere a che fare con “quelle stupidissime emozioni umane”.
Stava per dire qualcosa a una persona che neanche si ricordava di lui, stava per fare qualcosa, quando una voce fastidiosa lo aveva colto alla sprovvista, distruggendo ogni suo proposito.
 
“Ehilà! Vegeta! Anche tu intento a fare shopping? Urca! Non ti facevo un tipo a cui fa piacere fare i regali di Natale! Io sono in ritardo come al solito e non so ancora cosa prendere a Chichi e a Gohan! A Goten ho preso una nuova tuta con cui allenarsi! Sono sicuro che gli piacerà tantissimo! Ho preso qualcosina anche a Bulma e Trunks – e lo ammetto, ho preso anche a te un regalo – ma sono proprio indeciso per Chichi e Gohan! Tu hai finito? Ma sì! Sei uno organizzato! URCA CHE IDEA! Se hai finito, puoi darmi una mano, vero? VERO?”.
 
In un altro tempo, in un altro luogo, in un’altra dimensione, doveva esistere un altro Vegeta che, alla prima sillaba fuoriuscita dalla bocca del demente, lo avrebbe polverizzato senza porsi troppe remore, godendo immensamente per il piacere provocato dall’esplosione del suo corpo. Quel Vegeta, invece, si era limitato ad ascoltare in silenzio, grugnire e intimare al decerebrato di seguirlo, prima di accompagnarlo in ogni singolo negozio alla ricerca del regalo perfetto per le persone perfette, le uniche che lo avrebbero amato per sempre, a prescindere da tutto quello che avrebbe potuto fare loro. Goku era non solo l’eroe che avrebbe messo per sempre se stesso davanti agli altri: Goku rappresentava la quint’essenza del bene, della purezza, era l’eterno bambino di cui chiunque si sarebbe innamorato. Chiunque. Tranne Vegeta. O no?
 
Dopo ore di shopping natalizio dell’ultimo minuto, i due saiyan purosangue, i due guerrieri più forti della Galassia, si erano lasciati cadere su una panchina, nel parco, incuranti del freddo e della sera che cominciava a calare. Avevano con sé una quantità di pacchetti e buste che avrebbe fatto invidia a qualsiasi persona affetta da shopping compulsivo (avevano comprato persino un peluche a forma di cane per Ouji), ma una bella cioccolata fumante aveva ristorato entrambi, stremati dalle fatiche dovute agli acquisti.
 
“Urca che bontà! Ci voleva proprio… Sono queste le piccole cose che mi fanno essere contento di essere qui, a te no? La città è bellissima in questo periodo dell’anno… Mi mancava tutto questo, quando ero in Paradiso… Mi mancavano tutto e tutti. Credo che tu possa capirmi, no?”.
 
Non era pronto a quello. Vegeta poteva pensare di sopportare la sua presenza in casa propria, di poterlo accompagnare a fare shopping, ma di diventare suo confidente non ne aveva la benché minima intenzione, non l’aveva in quel momento ed era certo che non l’avrebbe avuta mai.
 
“Deve essere stata dura” – aveva continuato poi Goku, che non si era reso minimamente conto dell’espressione di panico misto a irritazione comparsa sul viso di sua maestà – “Non oso immaginare cosa devi aver passato ma… Ecco… Mi sono reso conto di non averti mai ringraziato, Vegeta. Per quello che hai fatto non solo per Gohan e per Goten, ma per tutti noi. È grazie a te se siamo qui, adesso, tutti insieme. Dobbiamo tutto questo a te. Grazie, Vegeta, grazie di…”.
“Adesso la pianti, Kaharot? Queste smancerie mi danno il voltastomaco”.
 
Ringraziava il cielo che il freddo gli avesse arrossato le gote, perché proprio non ce l’avrebbe fatta a mostrare a Kaharot il suo evidente imbarazzo. Da quando, quel decerebrato, era diventato tanto chiacchierone? La lunga permanenza nell’Aldilà doveva avergli sbloccato la lingua, e anche il cervello, a quanto sembrava, perché era certo di non averlo mai sentito scegliere parole tanto ricercate prima di allora. O, probabilmente, era stata la presenza della sua famiglia a cambiarlo talmente tanto. La vicinanza di Gohan, ma soprattutto quella Goten, doveva aver messo in atto quella specie di piccolo miracolo. Non poteva essere altrimenti. Alla fine dei conti, dopo aver vissuto mille battaglie, Vegeta si era ritrovato a tirare le somme e a comprendere che il vero miracolo non era diventare più forti, non era superare i limiti fisici e raggiungere uno stadio successivo della trasformazione in super saiyan. Il miracolo era quello: saper vedere il mondo con gli occhi di un bambino, arrivare a perdonare chi si aveva accanto e, soprattutto, arrivare a perdonare se stessi.
 
“Urca! Va bene, vostra maestà! Non voglio mica farvi arrabbiare proprio in prossimità del Natale!”.
“Tsk!”.
 
Tra i due, era sceso nuovamente il silenzio. Non potevano saperlo, ma entrambi si erano ritrovati a pensare a come sarebbero state le loro vite in futuro. Si sarebbero sicuramente allenati, avrebbero lottato, sarebbero migliorati, avrebbero mangiato fino a scoppiare, avrebbero visto i propri figli crescere e le proprie mogli invecchiare. E se fosse arrivato un nuovo nemico deciso a conquistare il mondo, avrebbero unito le forze e lo avrebbero sicuramente sconfitto.
 
“Urca! Io e Vegeta siamo un portento, insieme! Nessuno può temerci!”.
“Ho davvero pensato di battermi ancora insieme a questo demente? Ho realmente pensato che insieme funzioniamo alla perfezione? Mi sento male…”.
 
“Vegeta… Ti senti bene?”.
“Benissimo” – aveva detto, inghiottendo una quantità di saliva impressionante facendo un rumore sinistro – “Adesso andiamo. Non ho la benché minima intenzione di sentire strillare quelle due perché abbiamo fatto tardi. Non che me ne importi qualcosa. Ma nessuno può osare sgridare…”.
“Il principe dei saiyan. Andiamo vostra altezza, vi faccio strada!”.
 
Stava per colpirlo in mezzo alla strada. Stava per colpirlo e usarlo come sacco da boxe. E lo avrebbe fatto se la sua attenzione non fosse stata catturata da un qualcosa che non aveva mai visto prima di allora: uno strano petalo di ghiaccio si era posato sul suo pugno sollevato, sciogliendosi a contatto con la pelle.
 
“Ma cosa diavolo…”.
“URCA! Guarda Vegeta! Sta nevicando! È neve! Nevica a Natale!”.
 
Travolto dall’entusiasmo della sua controparte, Vegeta aveva sollevato il capo verso il cielo, scoprendo, con immenso stupore, che la neve scendeva fitta e silenziosa, avvolgendo con il suo candore macchine e animali, passanti e oggetti. Le persone, rapite da quello spettacolo, si erano fermate per un istante ad ammirare la danza dei fiocchi trasportati dal vento, sorridendo di gioia con i nasi rivolti all’insù.
 
“Papà!”.
 
Due voci unite in una sola. Due voci che mai avrebbero potuto confondere con quelle di qualcun altro. Due voce solari e gioiose. Due voci che scaldavano il cuore. I bambini, infagottati come due eschimesi, stavano correndo nella loro direzione con i visetti rossi per il freddo e l’eccitazione del momento.
 
“Trunks, Goten… Che ci fate voi qui?” – aveva chiesto Vegeta.
“Papà! Vi abbiamo trovato! Guardate! Nevica! NEVICA!”.
“Sì, visto??? Io e Trunks non riuscivamo a crederci! Siamo subito venuti a chiamarvi! Non avevamo mai visto la neve in città prima di oggi! Tra poco, tutto diventerà bianco e potremo giocare insieme! Non è vero? Sarà bellissimo! Bellissimo!”.
“Urca! Avete ragione! Non vedo l’ora di fare un pupazzo e di giocare a lanciarci le palle di neve! Vediamo chi le lancia più lontano? Sarà super divertente, non trovi anche tu, Vegeta? ANDIAMOOOO!”.
 
Li aveva visti correre via, insieme, con le braccia piene di pacchetti e il cuore colmo di gioia. Li aveva visti librarsi in volo, insieme, noncuranti della gente che li osservava stupiti e della neve che, vorticosa, continuava a cadere.
E poi, li aveva visti. Aveva visto Goten e Trunks fermarsi e tornare indietro da lui.
 
“Andiamo a casa… Pa’?”.
 
L’immagine di quel momento, di quei visini così emozionati era un’istantanea che il principe avrebbe ricordato per sempre, perché era l’istantanea di un attimo di felicità. La stessa felicità che in un altro mondo, un mondo fatto di nuvole, un vecchio maestro pervertito in licenza speciale, una strega e un buffo re divino stavano provando per la presenza di alcune piccole anime redente che avevano ottenuto un permesso del tutto particolare in occasione del Natale.
 
“Sbrigati a tornare, vecchio… Ci sono delle cosette che devi insegnarmi, capito?”.
 
“Papà? Ci sei?”.
“Tsk! Certo che ci sono… Adesso, possiamo andare a casa”.
 
 
Fine
Carissimi/e,
Eccoci qui, a ridosso del Natale, a scrivere la parola fine a questa storia apparentemente infinita. Stento a credere io stessa che non vi parlerò mai più delle sciagure che hanno afflitto il principe e i bambini. Sentivo di dover dedicare questo lungo capitolo a lui e alle sue riflessioni. Scusate se ho trascurato qualcun altro.
Che dire?
Con immensa emozione non posso fare altro se non ringraziarvi di cuore e augurarvi buone feste!
Che questo 2022 possa essere magico!
 
A presto!
Un bacino,
Cleo
 
 
 
 

 

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