The crooked kind

di Luinloth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La notte di sangue ***
Capitolo 2: *** Come il gatto col topo ***
Capitolo 3: *** Azzurro ***
Capitolo 4: *** Preludio ***
Capitolo 5: *** Punti deboli ***
Capitolo 6: *** La luna ***
Capitolo 7: *** La Corte ***
Capitolo 8: *** Una seconda possibilità ***
Capitolo 9: *** Qualcosa per cui valga la pena ***
Capitolo 10: *** Piano ottantaquattro ***
Capitolo 11: *** Incastrato ***
Capitolo 12: *** Imbarazzante. Irragionevole. Strano. ***
Capitolo 13: *** Claude Monet ***
Capitolo 14: *** Giocattoli ***
Capitolo 15: *** Nessun diritto ***
Capitolo 16: *** Vicino ***
Capitolo 17: *** Redenzione ***
Capitolo 18: *** Ciò che si ama — O, dello spezzarsi in due ***
Capitolo 19: *** Ciò che si ama — O, di Bay Ridge, 95esima strada ***
Capitolo 20: *** Welcome to Brooklyn (Where New York City begins!) ***
Capitolo 21: *** Spegnere la luce ***
Capitolo 22: *** La calma prima della tempesta ***
Capitolo 23: *** Parte della famiglia ***
Capitolo 24: *** Tradimento ***
Capitolo 25: *** Nero ***
Capitolo 26: *** Quello che siamo stati ***
Capitolo 27: *** Cocci ***
Capitolo 28: *** Corrente a favore ***
Capitolo 29: *** Acciaio ***
Capitolo 30: *** Aria ***
Capitolo 31: *** Nel suo volo ***
Capitolo 32: *** Due soli ***
Capitolo 33: *** Esseri umani ***
Capitolo 34: *** Scelte ***
Capitolo 35: *** Simile al cielo ***



Capitolo 1
*** La notte di sangue ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene




1. La notte di sangue



Gli umani la chiamavano ancora la notte di sangue ma era vietato usare quel nome. Il primo ordine che avevano ricevuto era che quella notte venisse ricordata come notte della rinascita, o notte della purificazione.

Il secondo ordine era stato quello di sottomettersi.

Dean aveva quattro anni quando gli angeli erano discesi sulla terra e l’avevano rasa al suolo in dodici ore. I vetri della finestra della sua cameretta vibravano come se dovessero esplodere da un momento all’altro; le urla, dalla strada, gli facevano girare la testa; la mamma aveva provato a difendersi, a difenderli – che stupida – ed era bruciata assieme alla loro casa e al resto di Lawrence.

All’alba l’America non esisteva più.



16 ottobre 2008

È una fortuna che il marmo pesi cinque volte meno del piombo.

Glielo aveva detto il vecchio Caleb quando lui aveva compiuto dodici anni, al suo primo giorno nella cava.

Un buon diavolo il vecchio Caleb: a sentirlo parlare lo si sarebbe detto il più felice degli uomini. Raccontava barzellette e palpava il culo alle ragazze, e nessuno l’aveva mai sentito lamentarsi, nemmeno quando le funi della pietra che stava trasportando cedettero facendogli precipitare addosso quasi un quintale di roccia, sbriciolandogli le gambe.

Perciò, da allora, quando si preannunciava una giornata particolarmente di merda, Dean pensava al vecchio Caleb.

Una giornata come quella, per esempio.

«Dannatissimo marmo del cazzo!»

Il sudore scendeva giù a rivoli lungo la sua schiena. A ottobre, in Colorado, faceva decisamente troppo caldo. I cunei che avrebbe dovuto piantare in quella fottutissima crepa della roccia gli scivolavano tra le mani, aveva rischiato due volte di mozzarsi un dito e, come se tutto ciò non fosse già stato sufficiente a farlo bestemmiare, quella mattina Pamela era stata convocata da Uriel.

Il che poteva significare o che il bastardo piumato avesse improvvisamente deciso di concedersi un momento di svago con la donna più provocante del campo, (e considerando che Uriel avrebbe preferito strapparsi i genitali piuttosto che giacere con un’umana la cosa risultava piuttosto improbabile) o che si prospettavano guai. Guai grossi, a giudicare dal passo marziale degli angeli che l’avevano portata via.

Dean si fermò ad asciugarsi la fronte mentre Garth, pochi metri più avanti, ultimava il distacco del suo blocco.

«Ti serve aiuto?»

«Lascia stare» Garth era così magro che gli si contavano tutte le costole sotto i vestiti sudici «Se ti vedono te la fanno pagare»

«Come vuoi. Ci vediamo alla torre»

Svariate imprecazioni dopo, Dean terminò il suo lavoro. Assicurò la pietra a quella specie di carretto che gli consentiva di trasportarla, e si avviò grugnendo verso l’uscita della cava.

Nessuno sapeva perché mai gli angeli avessero deciso di giocare ai piccoli ingegneri nel bel mezzo del nulla, ma una cosa era certa: si trattava, a memoria d’ uomo, della costruzione più spaventosa mai vista. Più minacciosa di una piramide, più inquietante di Chichén Itzà, la torre proiettava la sua ombra cupa su tutta la pianura circostante innalzandosi per metri e metri, e non si sapeva ancora quale sarebbe stata la sua altezza definitiva.

Ogni giorno, tutti i giorni, 364 giorni all’anno, gli schiavi della cava dovevano estrarre dalla montagna almeno tre blocchi di marmo candido, trascinarli fino alla torre e infine imbracarli per poterli sollevare a cinquanta metri dal suolo, dove un altro gruppo di poveracci aveva il compito di lavorarli ed incastrarli perfettamente con gli altri.

Anche la parola schiavo era stata vietata. Servitori del cielo, così era stato ordinato che si chiamassero. Dean odiava l’ipocrisia degli angeli molto più di quanto non odiasse in quel momento il peso della roccia marezzata che gli spaccava la schiena.

All’ingresso del cantiere, Zaccaria lo aspettava con l’immancabile registro bianco tra le mani.

«Brutta giornata eh, Winchester?» lo apostrofò «A quest’ora eri già al secondo giro. Credo proprio che qualcuno dei tuoi protetti andrà a dormire con la pancia vuota stasera»

Dean strinse i denti e non rispose. I muscoli già gli bruciavano e di quel passo, al tramonto, sarebbe riuscito appena ad arrivare a quattro blocchi. Superato il numero minimo di tre, che era quello che gli permetteva di non essere puniti alla fine della giornata, ogni blocco in più corrispondeva ad una razione in più di cibo.

Dopo la notte di sangue, gli angeli avevano ucciso il bestiame, distrutto quasi tutti i campi coltivati e monopolizzato e razionalizzato i viveri: d’altronde, loro non avevano nessun bisogno di nutrirsi. Chi lavorava, mangiava. Gli anziani, i bambini, e gli uomini troppo deboli per occuparsi della costruzione alla torre mangiavano meno. Chi era troppo vecchio, o troppo malato, era esentato da ogni tipo di attività ma a quel punto le razioni erano talmente ridotte da non garantire nemmeno la sopravvivenza.

Dean arrivava a estrarre sei blocchi, nelle giornate buone, e se non fosse stato per lui Martin, il pastore Jim e i quattro cavalieri dell’Apocalisse – i quattro gemelli pestiferi che Meg aveva partorito due estati prima – sarebbero morti di fame già da un pezzo.

Zaccaria registrò il suo passaggio senza ulteriori commenti e lui proseguì fino ai piedi della torre, dove finalmente posò il pezzo di marmo, con un rantolo sollevato. Aveva quasi terminato l’imbracatura quando un mormorio concitato spostò la sua attenzione verso il gruppo di angeli che era appena comparso ai margini del cantiere.

Pamela camminava a tentoni, con le mani allungate davanti a sé. I capelli scuri le coprivano parzialmente la faccia, per questo Dean non lo notò subito.

Le avevano bruciato gli occhi. Due voragini nere, incrostate di sangue, avevano sostituito le sue magnetiche iridi chiare.

Il ragazzo dovette reprimere l’impulso di vomitare. Tirò al corda che segnalava agli uomini sulla torre di issare su la pietra, ma si accorse troppo tardi di non aver ultimato i nodi di sicurezza. A neanche cinque metri da terra le funi dell’imbrago si sciolsero, il carico iniziò a dondolare paurosamente e, prima che tentassero di farlo ridiscendere, piombò su alcuni blocchi ancora in attesa di sollevati.

«VIA!»

Lo schianto produsse una nuvola di polvere e schegge. Quando l’aria tornò abbastanza limpida, Dean vide le macerie inutilizzabili di almeno mezza dozzina di blocchi, compreso il suo, che gridavano vendetta. Gli uomini erano rimasti tutti illesi, ma questo agli angeli non era mai importato un granché.

«È la volta buona che finisci scuoiato vivo, ragazzino» gli sibilò qualcuno all’orecchio. Un leggero fruscio, e Alastair e la sua giacca azzurrognola di Collaborazionista entrarono nel campo visivo di Dean.

«Fottiti, traditore»

Alastair rise. Sgobbava anche lui nella cava, fino a qualche anno prima, finché non aveva deciso di abbandonare la Resistenza e di schierarsi con gli angeli. A causa del suo tradimento erano state giustiziate dodici persone ed era stato davanti alle loro pire funebri che Dean aveva giurato di ammazzarlo.

«Chi è stato?»

Il tono di Zaccaria gelò persino il sorrisetto di Alastair. Dean incrociò lo sguardo di Garth che gli faceva segno di no con la testa cercando di non farsi notare.

«Chi è stato?»

Se un colpevole non fosse saltato fuori subito sarebbero stati puniti tutti, era già capitato altre volte. Dean inghiottì un bolo di saliva, si separò dal resto degli uomini e si portò davanti all’angelo, abbassando la testa.

«Winchester. L’avevo detto che oggi era una brutta giornata»

Zaccaria iniziò a girargli intorno come uno squalo con la sua preda.

«Hai letteralmente fatto a pezzi il lavoro dei tuoi compagni, nonché il tuo: si potrebbe sapere il perché?»

Lui non rispose subito. Fu un’esitazione d’un manciata di secondi, ma Zaccaria non aveva mai amato i tentennamenti.

La frustata che gli arrivò sulle gambe lo fece cadere in ginocchio.

«Ti ho fatto una domanda Winchester»

«Mi-mi sono distratto, signore»

«E che cosa ti avrebbe distratto mh?»

Non gli era consentito alzare la testa, ma Dean non riuscì ad impedire al suo sguardo di spostarsi fugacemente verso Pamela. Abbastanza a lungo perché l’angelo se ne accorgesse.

«Capisco… È per la tua amichetta, quindi» commentò sarcastico «Credimi, nessuno di noi ha voglia di rovinare un servitore del cielo, specialmente quando è così…interessante»

Era una fortuna che Dean tenesse gli occhi puntati a terra, perché il solo immaginare l’espressione viscida che Zaccaria stava rivolgendo alla donna gli metteva addosso una rabbia incontenibile.

«Lo sai perché è stata punita?»

«No, signore»

«L’abbiamo sorpresa a leggere» l’irritazione nella sua voce era palpabile «Pensavamo che l’ultimo libro fosse stato bruciato due anni fa ma a quanto pare questo campo cova molte più serpi in seno di quante ci aspettassimo. Tu sai leggere Winchester?»

«No, signore»

«Bene. Bene. Un inaspettato punto a tuo favore. Adesso alzati»

L’angelo si accorse solo allora del resto degli schiavi, che si erano fermati a osservare la scena col fiato sospeso.

«Tornate a lavorare, voialtri! Non c’è niente da guardare qui!» abbaiò. Alastair fu l’unico ad allontanarsi sorridendo, fischiettando a bassa voce.

«Non so di quanti vestiti tu disponga, Winchester, ma ti consiglio di togliere la maglietta»

Dean obbedì. Pamela era ancora lì, immobile ai margini del cantiere, e da quando si conoscevano non gli era mai parsa tanto bella e tanto miserabile. Poi Zaccaria alzò la frusta, e la sua vista si appannò.




Suo padre lo aspettava nella catapecchia di lamiere che ormai chiamavano casa da quando lui aveva cinque anni. Una stanza col pavimento di terra battuta, tre materassi e un mucchio di coperte in un angolo, tre secchi di zinco e un vecchio baule. Proprio un bell’affare, insomma.

«Garth mi ha detto cosa è successo»

Dean avrebbe solo voluto buttarsi su uno dei materassi e dormire fino all’autunno successivo ma un movimento del genere sarebbe stato azzardato e decisamente più doloroso di quanto avrebbe potuto sopportare.

John immerse un panno sorprendentemente pulito nell’acqua di uno dei secchi e lo invitò a sedersi accanto a lui.

«Fammi vedere»

«Papà non…»

«Dean, fammi vedere»

Il ragazzo si sedette, sospirando. Si sfilò la maglia e dovette mordersi il labbro per trattenere un gemito: la stoffa si era attaccata alle ferite. Quando il padre cominciò a lavargli via il sangue e il sudore dalla schiena gli venne quasi da piangere per il sollievo.

«C’era anche Alastair oggi» ironizzò invece, fingendo noncuranza «A giudicare dal colore osceno con cui gli angeli hanno deciso di vestire i Collaborazionisti si direbbe che li detestino più di quanto non detestino noi»

John non colse nelle sue parole il tentativo implicito di cambiare argomento.

«Non devi farti notare, Dean» mormorò cupo «I Collaborazionisti ci tengono il fiato sul collo, hai visto cosa hanno fatto a Pamela. Immagino che la spiassero già da un po’»

John Winchester era a capo della cellula della Resistenza del Colorado. Il movimento di lotta armata contro la tirannide angelica era stato fondato subito dopo la notte di sangue, ad opera di un gruppo di umani riusciti a scampare allo sterminio e all’asservimento. Erano stati soprannominati gli Occulti. Nessuno sapeva chi o quanti fossero, né dove si trovassero, se avessero un quartier generale o agissero in solitaria, si sapeva soltanto che neanche gli Arcangeli erano mai stati in grado di trovarli. Secondo le teorie più accreditate si trattava di sensitivi, e si diceva che fossero capaci di leggere l’enochiano e che conoscessero rune e sigilli capaci persino di uccidere gli angeli.

Ogni gruppo di ribelli faceva riferimento ad un Occulto, di cui solo il leader conosceva il nome e il modo per potercisi mettere in contatto. Suo padre era il depositario di tale segreto praticamente da quando Dean aveva memoria.

Completamente immerso nei propri pensieri, il tocco delicato sul suo braccio lo fece sussultare.

«Aprimi questa per favore» l’uomo gli porse una bottiglietta di vetro scuro.

Gli angeli avevano mozzato la mano destra di John quattro anni prima. Non potendo più lavorare nella cava, e non rientrando esattamente nelle simpatie dei capi, era finito a pulire le latrine. Bobby non smetteva di prenderlo in giro da allora ma a lui non importava. Finché Dean e la Resistenza rimanevano in vita avrebbe accettato anche di lucidare la torre con la lingua.

«Ora ascoltami figliolo» iniziò a spalmargli l’unguento sulla schiena «Da oggi in poi voglio che tu faccia ancora più attenzione del solito. Zaccaria ricorda il tuo nome e questo già basta a farmi preoccupare: se entri nel mirino dei Collaborazionisti sei spacciato. Sono stato abbastanza chiaro?»

«Sì, papà»

Il tono di John si velò di malinconia.

«Oggi si sono presi gli occhi di Pamela, non voglio che domani facciano del male anche a te» la sua voce s’incrinò.

«Non posso perdere un altro figlio»

Dean si sentì pizzicare tutta la faccia. Ricacciò indietro le lacrime mentre suo padre finiva di medicarlo e si puliva le mani nell’acqua del secchio.

Nel vecchio baule c’erano ancora i vestiti di Sam, assieme a quella fotografia sbiadita che né lui né suo padre avevano il coraggio di bruciare.



2 novembre 2008

Nel giorno della Celebrazione tutti gli uomini venivano esentati dal lavoro. Paradossalmente, quella era l’unica occasione in cui Dean avrebbe preferito trasportare blocchi fino a farsi scoppiare i polmoni piuttosto che doversene stare lì, in piedi, ad aspettare che gli Arcangeli e il loro seguito di galline celesti si degnassero di fare la loro comparsa.

Il 2 novembre ricorreva l’anniversario della notte di sangue e ogni anno, in quella data, la Corte faceva visita al cantiere per controllare l’andamento dei lavori. L’ispezione sarebbe stata forse anche tollerabile se non fosse stata preceduta dall’inquietante, e quantomai repellente, sfilata degli Arcangeli.

L’intero campo era stato ordinatamente schierato a sinistra della torre. Il corteo sarebbe passato affianco a loro, abbastanza lontano da scongiurare un possibile attacco diretto alla Corte, abbastanza vicino perché i volti degli Arcangeli fossero ben riconoscibili.

Dean era finito proprio in prima fila. Poco più dietro Garth, nei suoi vestiti migliori. Per la Celebrazione erano obbligati ad indossare abiti puliti, preferibilmente senza toppe o rammendi, ma nessun accorgimento sarebbe bastato a nascondere il fatto che i loro non fossero altro che stracci.

Una nebbiolina luminosa si levò sull’orizzonte.

Gli angeli marciavano in un silenzio di cimitero. Il respiro scomposto degli uomini era un frastuono da mercato al confronto.

Giacca bianca, pantaloni bianchi, camicie di seta: nemmeno la polvere osava sfiorare quei corpi immacolati, così assurdamente uguali a quelli umani, eppure così diversi.

Gli Arcangeli camminavano a metà del corteo. Michael era il primo, dopo di lui Gabriel. Raphael non c’era.

A differenza dei suoi fratelli, Lucifer si guardava attorno con un sorrisetto beffardo, appena dietro di loro. Si muoveva molleggiando, le mani nelle tasche dei pantaloni, e non condivideva l’atteggiamento tronfio ed impettito degli altri angeli. Sembrava piuttosto un bambino particolarmente monello al seguito di due genitori noiosi.

Dean strinse i pugni dietro la schiena e sperò che suo padre, nelle ultime file, fosse finito sufficientemente lontano da non riuscire a distinguere Lucifer dal resto della Corte. Se avesse perso anche la mano sinistra non avrebbe più potuto lavorare nemmeno nelle latrine.

Gli Arcangeli passarono davanti a lui senza un fruscio; soltanto quando lo ebbero superato, Dean tornò a respirare.

Alto, moro, il volto contratto in un’espressione corrucciata che gli increspava la fronte e gli angoli degli occhi, procedeva con sicurezza, lo sguardo fisso davanti a sé, eppure sembrava non vedesse l’ora di andarsene.

Il ragazzo non ricordava con esattezza tutti i volti degli angeli della Corte, ma quello era più che sicuro di non averlo mai visto: il suo aspetto era troppo appariscente per non averlo mai notato prima.

Non fece in tempo a domandarsi chi fosse, perché, in quel preciso istante, l’angelo girò la testa e lo guardò. I suoi occhi erano due brandelli di notte stellata, ed erano di un blu così intenso e profondo che temette di annegarci dentro.

Dean sentì un brivido scorrergli su e giù lungo la spina dorsale.

Pericolo.





Ciao a tutti e ben arrivati.
Questa strana trama mi frulla in testa da un bel po’. Come avrete visto dalla descrizione non so bene come definire questa storia, qui non ci sono cacciatori né mostri e l’unica presenza soprannaturale sono i nostri tanto amati(?) angeli. A me piace considerarla una AU ma temevo di essere troppo pretenziosa xD, mi rendo conto che nello scrivere non riesco ancora a staccarmi completamente dall’universo originale.
Spero però di avervi incuriosito almeno un pochino. La storia è divisa in tre parti e stavolta mi impegnerò nell’essere puntuale negli aggiornamenti, che saranno ogni sabato.

README: Nel corso della storia ci saranno svariati riferimenti ad argomenti delicati e un buon numero di episodi di violenza più o meno gratuita. Non ci sarà mai niente di dettagliato o di morbosamente descrittivo, ma mi sembrava giusto avvisarvi.

Se questo primo capitolo vi è piaciuto e vorrete lasciarmi una recensione piccina piccina ne sarò taaaanto felice.
Ci vediamo sabato prossimo, stay safe!

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Capitolo 2
*** Come il gatto col topo ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene





2. Come il gatto col topo



2 novembre 2008

Gli Arcangeli avevano fatto il giro del cantiere, controllato l’andamento dei lavori, discusso per svariati minuti con Zaccaria e poi con Uriel, e nel frattempo gli uomini erano rimasti lì fermi, in piedi, senza il permesso di allontanarsi o di sedersi.

Era ormai quasi il tramonto quando Michael aveva preso la parola. Anche quell’anno, come ogni anno, l’Arcangelo aveva attaccato il solito discorso trito e ritrito – più ipocrita d’un Collaborazionista – in cui ringraziava gli umani per il loro lavoro, la loro dedizione e la loro fedeltà agli angeli, discorso del quale solitamente Dean non percepiva altro che qualche bla bla indistinto.

Inoltre dopo tutto quel tempo in piedi si sentiva le gambe indolenzite e non vedeva l’ora che quello schifosissimo sermone finisse per potersene tornare alla sua baracca.

«…ma come purtroppo accade, anche nella migliore delle cucciolate è possibile trovare un piccolo storpio»

Tra le fila degli uomini qualcuno iniziò a darsi di gomito: era la prima volta che Michael apportava modifiche alla sua predica.

«La nostra società, il nostro perfetto ordine è minacciato da individui privi di scrupoli che non desiderano altro che far precipitare nuovamente questo mondo nel caos. Purtroppo abbiamo motivo di credere che alcuni di loro siano tra voi, forse anche in questo momento»

Qualcuno accanto a Dean imprecò a mezza bocca. Che gli angeli conoscessero la Resistenza non era un mistero, ma parole del genere sulla bocca di un Arcangelo minacciavano ben più di due occhi bruciati.

Sei mesi prima gli angeli avevano raso al suolo il cantiere di Phoenix, dopo aver scoperto che uno degli Occulti si nascondeva lì. Non c’erano stati sopravvissuti.

«Ma non temete, umani, non temete. Non sarete lasciati soli a fronteggiare questo pericolo: Castiel, vieni avanti per favore»

Dal candido gruppo della Corte si staccò una figura allampanata.

Castiel, quindi. Era quello il suo nome.

«Castiel avrà il compito di sorvegliare questo cantiere, in modo da evitare che qualsiasi fanatico possa arrecare danno alla torre e a chi vi lavora. Mi aspetto da voi la massima collaborazione»

Ad un cenno di Michael, l’intera colonna di angeli si rimise in marcia; soltanto Castiel rimase fermo, a vagare con quello sguardo di zaffiro attraverso la marea di uomini e donne che lentamente s’incamminavano verso la propria misera abitazione.


14 novembre 2008

Nei giorni seguenti l’angelo iniziò a gironzolare per il cantiere, apparentemente senza uno scopo ben preciso e Dean si sorprese, con suo grande disappunto, a non riuscire a togliergli gli occhi di dosso.

I loro sguardi finivano per incrociarsi fin troppo spesso (se John l’avesse saputo l’avrebbe preso a calci) e per un simile atto di impudenza Zaccaria avrebbe potuto farlo frustare fino a farlo urlare: ai servitori del cielo non era permesso fissare un angelo in quel modo.

Invece Castiel si limitava a ricambiare quelle occhiate fugaci senza sollevare un sopracciglio e anzi, una volta gli era parso addirittura di vedergli accennare un sorriso.

Quella mattina si era alzato un venticello fresco, quasi piacevole. Dean aveva finito di imbragare il suo secondo blocco e stava ritornando alla cava massaggiandosi il collo indolenzito, quando vide Abaddon attraversare il campo a grandi falcate, trascinando per un braccio una ragazzina in lacrime.

«Ho appena sorpreso questo piccola delinquente a tagliare marmo al posto del fratello!»

Il Collaborazionista scaraventò la ragazzina ai piedi di Zaccaria. Dean non ricordava il suo nome ma l’aveva vista spesso a lavoro nella cava: non le avrebbe dato più di quindici anni.

L’angelo ripose la penna nel taschino della giacca, sospirando.

«Più sono giovani e più sono riottosi» si sfilò la frusta dalla cintura «Tirati su, umana, e smettila di frignare: dopo toccherà anche a tuo fratello»

«Io non credo sia il caso»

Castiel era comparso alle spalle di Zaccaria e Dean si rese conto che quella era la prima volta in cui ascoltava la sua voce: bassa, grave, della stessa profondità abissale che avevano i suoi occhi.

«Come ti chiami ragazza?» le domandò.

«A-Alicia, signore»

«Alicia, potresti spiegarmi perché stavi lavorando anche per tuo fratello?»

«Max…Max è al suo primo giorno nella cava, signore. È nato con il cordone intorno al collo ed è sempre stato più debole degli altri bambini, io…io volevo soltanto che non venisse punito» tirò su col naso «…signore» si affrettò ad aggiungere.

Dean incrociò le braccia al petto. Lui aveva fatto la stessa cosa con Sam, al primo giorno di suo fratello nella cava, e l’angelo che all’epoca sorvegliava il campo al posto di Zaccaria gliene aveva date tante che John era andato su tutte le furie ed era uscito dalla loro baracca sbattendo la porta. Bobby ci aveva messo una serata intera per calmare tutti e tre.

«A compatire ogni loro disgrazia faremmo prima a sperare che le torri si costruiscano da sole» commentò acido Zaccaria.

«Bisogna essere pazienti con gli umani. Sono creature fragili, poco capaci e terribilmente lente nell’apprendere»

Castiel si rivolse ad Alicia.

«Dì a tuo fratello di imparare alla svelta, io non concedo seconde possibilità. Adesso torna al lavoro»

La ragazzina rimase talmente scioccata da quelle parole che per poco non si lanciò ad abbracciarlo.

«Vi ringrazio infinitamente, signore! Infinitamente!» si voltò e corse via, incurante dei borbottii indignati di Abbadon.

«Anche tu. Torna pure alle tue mansioni»

Il Collaborazionista si allontanò imprecando silenziosamente, spintonando gli uomini che incrociava.

«Sei troppo indulgente con loro»

Zaccaria aveva ripreso a scrivere sul suo registro, ma l’espressione corrucciata sul suo viso era più che eloquente.

«Forse. Ma finché Michael mi darà carta bianca io la userò come meglio credo e tu faresti bene ad abituartici»

«Ti stai rovinando con le tue stesse mani Castiel. Prendilo come il consiglio di un amico»

A quel punto Dean decise di allontanarsi.

Era arrivato all’entrata della cava quando, improvvisamente, Castiel gli comparve davanti.

Lo spavento fu tale da farlo incespicare nei detriti sparsi sul terreno; quando si accorse di essersi quasi caduto addosso all’angelo arrossì violentemente, chinando la testa.

«Non sono qui per punirti, se è quello che temi»

Dalla sua prospettiva, Dean non vedeva altro che le scarpe bianche di Castiel. Scarpe che non erano minimamente impolverate e persino quelle sembravano intimargli obbedienza.

«Vorrei venire a parlare con tuo padre, stasera. Dopo la distribuzione dei pasti»

«Si, signore»

Castiel lo oltrepassò senza sfiorarlo; un fruscio di seta e un lievissimo spostamento d’aria fu tutto ciò che i suoi sensi riuscirono a percepire.

Gli venne la pelle d’oca.




Gli angeli non entravano nella baraccopoli degli schiavi. Le rare volte in cui succedeva, buttavano direttamente giù la porta e ne trascinavano fuori il malcapitato.

Sicuramente, non bussavano prima di entrare.

Castiel se ne stava in piedi, al centro della stanza: la luce delle candele si rifletteva sui suoi abiti candidi facendolo brillare di luce propria, e in sua presenza la loro catapecchia appariva ancora più spoglia e sporca del solito.

«Sono desolato ma non abbiamo a disposizione sedie per farvi accomodare, signore»

John aveva messo su l’aria più fintamente remissiva che un uomo nelle sue condizioni avrebbe potuto assumere. Dean si chiedeva spesso come facesse suo padre a contenere tutta quella rabbia e quel dolore senza esplodere: lui non ne sarebbe stato in grado.

«Non importa, non ho intenzione di trattenermi a lungo. E non chiamatemi signore, non amo i formalismi» l’angelo si slacciò il colletto della sua camicia immacolata. Sotto, la sua pelle appariva ancora più incredibilmente perfetta dei suoi vestiti.

«Immagino conosciate i motivi per i quali Michael mi ha incaricato di sorvegliare il cantiere, spero che la mia visita non vi abbia messo in agitazione»

«Né io né mio figlio abbiamo motivo di temere nulla» rispose John in tono pacato. Per essere un angelo – rifletté Dean, con una punta d’inquietudine – Castiel si comportava in maniera fin troppo gentile.

«Ne sono consapevole. Per questo sono venuto da te John, per chiedere il tuo aiuto. Il mio aspetto mi rende troppo riconoscibile: gli uomini abbassano la voce quando passo loro accanto, in queste condizioni il mio lavoro qui è del tutto inefficace. Ho bisogno di occhi ed orecchie migliori e tu sei uno dei pochi in grado di fornirmeli entrambi»

Nella baracca calò un silenzio glaciale.

«Con il dovuto rispetto, Castiel» e quel nome, sulla bocca di John, suonava come avvelenato «Io non sono un Collaborazionista: non farò la spia a danno della mia gente, se è ciò che mi stai chiedendo. Ma Alastair o Abaddon saranno ben lieti di venire incontro alle tue richieste»

Castiel socchiuse gli occhi e per un po’ rimase in silenzio, visibilmente seccato.

Dean trattenne il fiato: un rifiuto del genere avrebbe potuto far saltare la testa di suo padre, e anche la sua.

I secondi parevano scorrere lentissimi, viscosi come gocce di pece.

«Non ho mai avuto l’intenzione di usarti come spia, John»

Il sospiro di sollievo che il ragazzo tirò fu così rumoroso che l’angelo si girò per un attimo a guardarlo.

«Ti chiedo soltanto di rispondere a qualcuna delle domande che ti farò. Domande…innocenti: non mi interessa sapere come vi procuriate i libri, né quale Collaborazionista abbiate corrotto per farvi aumentare le razioni di cibo. Questo, lo so già» sorrise, ferino, e con la coda dell’occhio Dean vide distintamente l’unica mano di suo padre tremare.

Adesso aveva la sgradevole sensazione che Castiel stesse giocando con loro come il gatto col topo.

«Ma mi piacerebbe piuttosto sapere come stanno i gemelli di Meg, che mestiere faceva Bobby prima della notte della rinascita, domande innocenti, appunto. Pensi di potermi aiutare adesso, John

E il tono con cui l’angelo aveva pronunciato quelle quattro lettere lasciava intendere che stavolta sì, disobbedire a quella richiesta, avrebbe avuto conseguenze.

«Penso di poterlo fare, signore»

L’angelo si lasciò sfuggire un sorrisetto beffardo.

«Ne sono felice» si compiacque «Ti assicuro che non avrai modo di pentirtene, ti procurerò anche un paio di sedie, per cominciare»

Castiel era ormai sulla porta — l’adrenalina che pompava nelle vene di Dean stava già iniziando a scemare — quando qualcosa sembrò attirare nuovamente la sua attenzione.

«Ci sono tre letti in questa stanza» osservò «Vive qualcun’ altro con voi?»

La mascella di John si contrasse.

«Il mio secondogenito viveva con noi fino a qualche anno fa» mormorò a testa bassa.

«E adesso?»

«L’ultima volta che l’abbiamo visto era diretto a New York: Lucifer desiderava la sua compagnia»

Compagnia, che eufemismo del cazzo.

Quattro anni prima, durante la sfilata della Corte in occasione dell’anniversario della notte di sangue, Lucifer aveva visto Sam e aveva deciso di portarselo via.

Quando John aveva cercato di impedirglielo – in barba a tutti i suoi stessi accorgimenti di discrezione – l’Arcangelo l’aveva schiacciato a terra e si era preso anche la sua mano destra. Da allora non avevano più avuto sue notizie: non sapevano neanche se Sam fosse ancora vivo o se Lucifer l’avesse fatto a pezzi dopo la prima notte.

«Deve mancarvi molto»

«Come se tu potessi capire cosa si prova»

Perso nei suoi ricordi, Dean non si era accorto di aver espresso i propri pensieri ad alta voce: fu l’occhiata furente che gli rivolse suo padre a riportarlo bruscamente con i piedi per terra.

«Mi-mi dispiace, signore. Io non intendevo assolutamente…»

«Sappiamo entrambi benissimo cosa intendevi, Dean» le iridi di Castiel si erano riempite di ombre «E probabilmente hai ragione, noi angeli abbiamo ancora molto da imparare sulla vostra specie»

Dean – lo sguardo puntato al pavimento – vedeva l’ombra di Castiel avvicinarglisi sempre di più.

«Ma non credo che tu possa arrogarti la presunzione di conoscere la nostra»

John era sul punto di intervenire ma l’angelo lo zittì con un cenno.

Il ragazzo inghiottì un bolo di saliva amara mentre le cicatrici sulla sua schiena ricominciavano a bruciare, a ricordargli che non era mai saggio, far irritare un angelo.

«Rifletti su questo, prima di esprimere giudizi affrettati»

Castiel aveva parlato a un centimetro dal suo orecchio, e quella voce profonda, morbida come il velluto, era scivolata direttamente dal suo apparato uditivo alle sue ginocchia, che adesso erano diventate molli come gelatina.

Non lo aveva neanche sfiorato.

«Sì, signore»

«Chiamami pure Castiel»

L’angelo si accomiatò con la stessa inquietante gentilezza con la quale era arrivato; strinse perfino la mano a suo padre, nonostante l’uomo avesse l’espressione di chi avrebbe preferito, piuttosto, tagliarsi anche quella.

«Idiota»

Fu l’unico commento di John, dopo che Castiel si fu richiuso la porta alle spalle. Dean non riuscì a capire se si stesse riferendo all’angelo oppure a lui ma nel dubbio preferì mantenere un dignitoso silenzio: per quel giorno aveva già parlato abbastanza.

«Devi andare da Ketch» suo padre spense tra due dita l’ultimo mozzicone di candela ancora acceso «Devi dirgli di Castiel, di quanto è successo stasera: dovremo rallentare le operazioni, almeno per un po’, finché non capisco le intenzioni di quell’angelo. E digli di far sparire tutti i libri, in fretta»

«Adesso?»

Arthur Ketch era un ex-soldato di quarantanove anni, dal carattere dio-solo-sapeva-quanto difficile, ed era il secondo in comando all’interno della cellula della Resistenza del Colorado. Gli uomini si riferivano a lui come la “mano destra” di John: ad eccezione del nome dell’Occulto infatti, lui e suo padre non avevano segreti, il che per Dean risultava estremamente seccante, specialmente quando Ketch tirava fuori aneddoti della sua infanzia che lui neanche ricordava ma che – a quanto pareva – suo padre aveva ben pensato di raccontargli.

«Adesso, ragazzo»

Perciò Dean non fece neanche finta di mascherare il suo disappunto: a lui Ketch non piaceva e non sarebbe probabilmente mai piaciuto, oltretutto andarsene in giro di notte – con tutti quei Collaborazionisti in giro che sembravano non vedere l’ora di farti tagliare una falange o un orecchio per violazione del coprifuoco – era decisamente rischioso.

Ad ogni modo, se John ordinava lui eseguiva: su questo non c’erano mai stati molti margini di trattativa.

«Figliolo, prima che tu vada, lascia che ti dica una cosa»

Il ragazzo, già sulla porta, si girò a guardare suo padre.

«Non fidarti mai degli angeli» le iridi scure di John erano puntate dritte su di lui e Dean si sentì come quando aveva dieci anni e papà sorprendeva lui e Sam che rubacchiavano cibo ai Collaborazionisti, nonostante avesse più volte vietato loro di farlo.

«Soprattutto, non fidarti di Castiel»






Ciao a tutti!
Comincio subito col ringraziarvi per le splendide recensioni che avete lasciato al primo capitolo. Speravo che la storia potesse incuriosirvi ma non mi aspettavo affatto una ricezione così entusiasta, mi avete reso felicissima. Grazie.
Grazie a chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferite e grazie per tutte le vostre osservazioni e i vostri commenti, sono stati davvero preziosi.
Dopo aver seminato il panico nel primo capitolo, qui viene chiarita in parte la questione Sam. Spero di non avervi fatto sorgere ancora più domande (o invece si?)
Ora mettetevi comodi perché dal prossimo capitolo inizieremo a entrare nel vivo della storia e presto ne vedremo delle belle (?)
Vi invito a lasciarmi una recensione se vi va e se il capitolo vi è piaciuto (ma anche se non vi è piaciuto, le critiche sono sempre ben accette alla mia tavola! ).
Vi mando un grande abbraccio e non vedo l’ora di farvi leggere i prossimi capitoli!

Stay safe!

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Capitolo 3
*** Azzurro ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene





3. Azzurro


7 dicembre 2008

Che dall’arrivo di Castiel le cose al cantiere andassero meglio era un fatto innegabile. Tutti gli uomini convenivano sul fatto che le razioni di cibo fossero – seppur di poco – aumentate, Zaccaria usava la sua frusta meno spesso e persino Uriel pareva meno minaccioso del solito.

Ciò che metteva Dean più di buonumore, tuttavia, era il fatto che Castiel sembrasse detestare i Collaborazionisti almeno quanto lui. Non che la cosa non fosse reciproca: Alastair lo aveva ribattezzato “signor palo-nel-culo”, nonostante si guardasse bene dall’usare un simile epiteto quando l’angelo si trovava nelle vicinanze.

Gli “incontri” tra lui e John si tenevano due volte a settimana, subito dopo lo scattare del coprifuoco, nella loro baracca. Castiel si rivolgeva a suo padre sempre molto educatamente e non si tratteneva mai più di mezz’ora; spesso aveva anche chiesto a Dean – stanco morto, accoccolato sul materasso nel tentativo di prendere sonno – come fosse andata la giornata nella cava.

«Mi mette i brividi»

Castiel se n'era appena andato. Quella sera aveva voluto sapere di Ketch: John gli aveva raccontato per sommi capi la sua vita, finché l’angelo non aveva incrociato le dita in grembo e gli aveva domandato, con una gentilezza disarmante, se l’ex-soldato avesse mai avuto contatti con la Resistenza. Dean, sepolto sotto uno strato di coperte cenciose – le notti potevano essere terribilmente fredde in Colorado – si era quasi assopito, quando il nome di Ketch lo aveva catapultato di nuovo nella realtà.

Ovviamente, suo padre aveva mentito.

«Sono passate tre settimane e ancora non capisco a cosa cazzo gli serva sapere se il pastore Jim era un pastore protestante o un pastore battista!»

Dean rispose con un mugugno assonnato. John continuò a camminare per un po’ avanti e indietro, parlottando tra se e sé: non l’aveva mai visto così nervoso.

Dopodiché suo padre spense la candela, socchiuse la porta quel tanto che bastava per sgattaiolarne fuori e sparì silenziosamente nella notte.


13 dicembre 2008

L’asma di Bobby si ripresentava puntuale all’inizio di ogni inverno. Forse era l’aria secca, forse i primi freddi ai quali il suo corpo aveva bisogno sempre di più tempo per abituarsi, di fatto le sue crisi respiratorie facevano venire un coccolone a mezzo cantiere e per fortuna duravano solo qualche minuto.

Tuttavia negli ultimi giorni la situazione era peggiorata; lentamente ma inesorabilmente peggiorata.

Dean non gli aveva staccato gli occhi di dosso per tutto il giorno. Bobby si muoveva a passi lenti nella cava, ogni tanto si fermava e tossiva e annaspava in cerca d’aria. Aveva anche dovuto aiutarlo ad imbracare i blocchi, le mani dell’uomo tremavano visibilmente e il tremore aumentava di ora in ora.

Il ragazzo stava finendo di staccare dalla roccia il suo quarto blocco di marmo quando lo vide crollare a terra. All’ingresso della cava, a poco meno di una cinquantina di metri da lui, Bobby si era accasciato e non si era più rialzato.

«Vai! Finisco io al posto tuo» gli aveva bisbigliato Garth all’orecchio, con una certa concitazione, e il ragazzo stavolta non aveva mosso obiezioni.

Purtroppo qualcuno aveva raggiunto Bobby prima di lui.

«Alzati vecchio!»

Alastair aveva iniziato a sbraitare da lontano e, non avendo le sue urla sortito alcun effetto, si era avvicinato e aveva iniziato a punzecchiare l’uomo in un fianco con la punta della scarpa.

«Dobbiamo portarlo in infermeria, Alastair» Dean aveva cercato di utilizzare il suo tono più conciliante per evitare di far innervosire il Collaborazionista, ma l’apprensione gli rendeva la voce più acuta del solito.

«Sta solo facendo finta» rispose Alastair con noncuranza «Torna al lavoro Winchester, nessuno ti ha chiesto di intervenire»

In quel momento Bobby riprese conoscenza. Rantolò un paio di parole incomprensibili e svenne di nuovo: la pelle del suo volto iniziò a tingersi di rosso, come se stesse lentamente soffocando.

«Vedi?» esclamò il Collaborazionista, continuando a colpirlo con il piede, adesso un po’ più forte di prima «Finge! E ora vattene, se non vuoi finire male» minacciò.

Il ragazzo finse di non sentirlo e si inginocchiò accanto a Bobby cercando di caricarselo sulle spalle. Alastair non sembrava minimamente intenzionato a collaborare.

«Vattene Winchester» ripetè, allontanando Dean con un spintone.

«Alastair, morirà!»

Il Collaborazionista mise su un sorrisetto beffardo e si piazzò a braccia conserte tra lui e Bobby.

«Che cosa credi che me ne importi?»

Le orecchie di Dean iniziarono a ronzare e per qualche istante il cantiere, Alastair, Bobby riverso sul terreno, sfocarono. Non avrebbe saputo dire cosa avesse fatto, o detto, in quella manciata di secondi.

Fu solo quando i contorni delle cose ritornarono definiti che Dean percepì chiaramente la sensazione — molto piacevole a dirla tutta — del setto nasale del Collaborazionista che si frantumava contro le sue nocche.

Cazzo.

Colpire un Collaborazionista era pressappoco come colpire un angelo, e a chi colpiva un angelo non veniva lasciata la possibilità di farlo di nuovo. Se quel giorno Uriel fosse stato di buon umore probabilmente gli avrebbe tagliato soltanto tre o quattro dita: in ogni caso non avrebbe più potuto lavorare nella cava. Molto più probabilmente, non avrebbe più potuto guardare in faccia suo padre.

«Cosa sta succedendo qui?»

Dean non si era mai sentito così sollevato nell’udire quella voce.

«Quest’uomo!» biascicò Alastair attraverso il sangue «Quest’uomo ha osato colpirmi mentre…»

«Sta male, Castiel!»

Dopo aver preso a pugni Alastair, interromperlo di fronte ad un angelo non sembrava nemmeno un reato così terribile. Il Collaborazionista lanciò a Dean uno sguardo a metà tra l’incredulo e l’omicida ma prima che potesse aprir bocca un fiotto di sangue particolarmente doloroso gli sgorgò dalla narice sinistra, impedendogli di replicare. Il suo completo azzurro si era riempito di macchie cremisi.

Bobby aveva perso definitivamente i sensi e la sua faccia, da paonazza, era diventata pallidissima e fredda. Sembrava non stesse nemmeno respirando.

Dean si inginocchiò accanto a lui e gli tastò il polso.

«Castiel…»

Il battito era debolissimo, appena percettibile.

«Castiel, ti prego…»

Poi Alastair lo afferrò per i capelli e lo spinse via.

Castiel non sembrava particolarmente interessato a nessuno di loro. Teneva la testa leggermente inclinata da un lato e li guardava tutti e tre con aria quasi curiosa. Guardava Dean, poi Bobby, poi Alastair che si premeva un grosso fazzoletto di stoffa sulla faccia, poi di nuovo Dean.

Un gruppetto di uomini si era fermato ad osservare la scena, cercando di non farsi notare. L’angelo ne chiamò per nome un paio, ordinandogli di avvicinarsi.

«Portatelo in infermeria» ordinò senza scomporsi.

Uno dei due uomini prese delicatamente Bobby sotto le ascelle, sollevandolo, mentre l’altro gli afferrò le caviglie. Si incamminarono silenziosamente verso l’infermeria, Dean li seguì con lo sguardo finché non sparirono dietro una fila di blocchi di marmo.

«Signore, mi permetta di dire che tutto questo è inaccettabile!»

Adesso Alastair al posto del naso aveva una specie di grosso tubero viola, incrostato di sangue secco, e i suoi piccoli occhietti neri erano colmi di disprezzo.

«Ti permetto di dirlo ma non sta a voi Collaborazionisti discernere tra cosa sia accettabile e cosa no»

Alastair incassò il colpo come se fosse stato un altro pugno e abbassò la testa «Chiedo scusa signore. Non era mia intenzione mancarvi di rispetto»

Castiel lo ignorò: i suoi occhi erano solo per Dean.

«Dean perché lo hai colpito?» il suo tono, più che arrabbiato, pareva enormemente seccato.

Il ragazzo si voltò verso Alastair con lo sguardo carico di veleno «Perché altrimenti lo avrebbe lasciato morire» sputò.

Il Collaborazionista strinse i pugni ma non osò controbattere.

«Dovrei farti tagliare la mano per questo»

Stavolta fu Dean a dover abbassare la testa. Gli veniva da piangere, ma non avrebbe mai dato ad Alastair la soddisfazione di vederlo scoppiare in lacrime.

«Tuttavia, data la singolarità della situazione, per stavolta potremo soprassedere»

Alastair si strozzò con la sua stessa saliva.

Dean aveva gli occhi così spalancati che li sentiva in procinto di schizzargli fuori dalle orbite. Gli sembrava impossibile che un angelo decidesse di soprassedere su qualcosa, soprattutto se quel qualcosa era la punizione di un umano.

«In ogni caso…» continuò Castiel, piatto «Non posso permettere che tu rimanga impunito, dopo un atto del genere: sarà Zaccaria ad occuparsi di te» concluse.

Si rivolse ad Alastair «Va a farti sistemare la faccia. Qui i tuoi servigi non sono più necessari»

Il Collaborazionista fece una mezza riverenza che assomigliava più ad un gesto di scherno che ad un inchino e si allontanò, non prima di aver lanciato a Dean un’occhiata infuriata che non lasciava presagire nulla di buono.

«Ti sei comportato da stupido» le parole di Castiel erano state secche come una fucilata. Dean arrossì violentemente e aprì la bocca ma l’angelo lo interruppe prima che potesse proferire parola.

«Non occorre che mi ringrazi» articolò a denti stretti «Risparmia il fiato per quando sarai tra le mani di Zaccaria»




Dean si fermò a riprendere fiato, nonostante stesse semplicemente camminando. La distanza che separava il cantiere dalla sua baracca gli sembrava allungarsi ad ogni passo anziché diminuire.

Zaccaria c’era andato giù pesante, sebbene non più dell’ultima volta. Lui era a pezzi, ma paragonato alla prospettiva di avere una mano mozzata il bruciore della sua schiena si trasformava in un sopportabile prurito. Senza contare che doveva ancora affrontare suo padre: stavolta John non si sarebbe limitato ad un rimprovero preoccupato. In alcune occasioni suo padre gli incuteva più timore degli angeli, seppur per motivi del tutto diversi.

Era quasi il tramonto. Si chiese se Bobby fosse fuori pericolo, forse sarebbe riuscito a passare in infermeria prima dello scattare del coprifuoco.

«Winchester!»

Dean si voltò in direzione della voce e il destro di Alastair lo colpì in pieno viso.

Barcollò all’indietro, mentre il sangue iniziava a colargli sul collo e sulla maglietta. Due braccia fasciate d’azzurro gli impedirono di cadere, serrandosi intorno al suo corpo e bloccandolo come in una morsa: Abbadon. Si riconosceva dalla puzza.

Il cantiere era quasi deserto; i pochi uomini che ancora si trascinavano sotto la torre gli passavano davanti e facevano finta di non vedere. Era un comportamento saggio, Dean lo capiva.

Alle spalle di Alastair comparvero altre due figure incravattate; riconobbe Asmodeus e un altro Collaborazionista di cui non ricordava il nome.

«Sono tre settimane che mi chiedo cosa venga a fare Castiel nella vostra topaia»

Il ragazzo ringhiò.

«Evidentemente, a “signor-palo-nel-culo” piace farselo succhiare dai Winchester»

Dean scattò in avanti, strattonando Abbadon che lo teneva fermo per le braccia, ma la presa del Collaborazionista era ben stretta e tutto ciò che lui ottenne fu una ginocchiata nella schiena.

Alastair rise «Chissà se gli piacerai ancora, dopo stasera»

Abbadon lo gettò a terra con un calcio.

Dean si chiese che cosa avrebbe fatto suo padre, in una situazione del genere, sicuramente non si sarebbe lasciato massacrare. Ma dopo una giornata come quella – e Alastair lo sapeva – il suo corpo non rispondeva più. Fece in tempo a ripararsi la testa con le braccia poi tutto divenne sangue, nero, e stoffa azzurra.




Il crepuscolo si era fuso in una notte grigiastra, senza stelle.

«Spero che tu abbia imparato la lezione, Winchester. La prossima volta non saremo così gentili»

Alastair parlava ad un centimetro dalla sua faccia, eppure Dean non lo vedeva.

«Prova soltanto ad andare a frignare dal tuo angioletto, adesso, e ti giuro che renderò la vita di tuo padre, di quel vecchio decrepito al quale oggi hai salvato il culo, e di tutti quelli che per te abbiano mai contato qualcosa un inferno. Sono stato abbastanza chiaro?»

Dean avrebbe voluto rispondergli ma dalla sua gola usciva soltanto un raccapricciante gorgogliare. Alastair gli sputò addosso e se ne andò. Lui rimase immobile nella polvere, con gli occhi pesti rivolti a quel cielo infame, che sembrava fatto di piombo.

Doveva rimanere sveglio.

Qualcuno prima o poi lo avrebbe trovato, lui doveva soltanto rimanere sveglio. Il suo braccio destro era spezzato in tre punti: il solo pensiero di provare a muoverlo lo spingeva sull’orlo di un attacco di panico.

Si concentrò sul suo respiro.
Inspira, espira.

Il sibilo dell’aria che attraversava i suoi polmoni semi-collassati era nauseante.
Inspira, espira.

Inspira, espira.

D’un tratto il cielo sopra la sua testa divenne tutto bianco.

Forse era morto.

«Avrei dovuto immaginarlo»

No, non era morto.

C’era Castiel chino su di lui. La sua giacca immacolata e la camicia di seta perfettamente stirata sembrava brillassero nell’oscurità. Le dita fresche, pulite dell’angelo si posarono sulle sue tempie insanguinate.

Dean sussultò.

«Non avere paura»

Dalle mani dell’angelo iniziò a sprigionarsi un tepore dolcissimo che dalla sua fronte si diffuse alle braccia, alle gambe, finché tutto il suo corpo si ritrovò avvolto in una bolla tiepida e rassicurante. Il dolore venne sostituito da un piacevole formicolio, poi la bolla cominciò lentamente a ritrarsi e raffreddarsi, finché Castiel non tolse le dita dalle sue tempie e Dean si rese conto, con immenso stupore, che le sue ossa spezzate erano di nuovo intere, e che tutte le ferite infertegli dai Collaborazionisti erano state guarite.

Si rimise in piedi traballando.

«Chi è stato a farti questo? Oltre ad Alastair, ovviamente»
C’era una certa durezza nella voce dell'angelo.

Lui non rispose.

«Capisco» Castiel sospirò debolmente; continuava a squadrarlo dall’alto in basso come temesse di aver dimenticato di sistemargli qualche osso e il suo sguardo affilato metteva Dean in imbarazzo come se fosse stato nudo.

«Adesso vai. Il coprifuoco è scattato ore fa: conosci le regole, non farti vedere»

«Castiel…io…»

«Vai»

L’angelo scomparve senza attendere una seconda replica, teletrasportatosi chissà dove, e Dean sgattaiolò tra le baracche come un animale selvatico.

Suo padre era scattato in piedi al solo cigolio della porta che si apriva, rovesciando la sedia sulla quale era seduto. Dean non ebbe bisogno di spiegargli nulla perché lo schiaffo che gli arrivò in pieno viso e che lo lasciò senza fiato fu una prova più che evidente del fatto che John fosse già a conoscenza di tutto.

Non si sarebbe aspettato una reazione diversa, in fondo.

Poi suo padre lo abbracciò e quello, decisamente, non se lo aspettava.

L’ultima volta che le braccia di suo padre si erano strette in quel modo intorno alle sue spalle era stato quattro anni prima, la prima sera senza Sam. Quella era stata anche l’unica volta in cui aveva visto delle lacrime luccicare sul fondo degli occhi di John Winchester.

«Mi dispiace» sussurrò Dean.

Suo padre lo strinse un po’ più forte.

«Stai bene. Va tutto bene ora» poi sciolse l’abbraccio.

«Martha mi ha detto cosa hai fatto» continuò «Bobby è arrivato in infermeria appena in tempo: adesso sta meglio, le sue condizioni sembrano stabili»

Dean tirò un sospiro di sollievo, ma non riuscì comunque ad alzare lo sguardo su suo padre: si sarebbe sentito responsabile della minima sfumatura di dispiacere o di inquietudine che avrebbe potuto trovarci dentro.

«Che cosa è successo figliolo? Temevo… temevo che non saresti più tornato» gli confessò l’uomo d’un fiato «Che Alastair ti avesse ucciso»

«E’ stato…» Dean esitava «E’ stato Castiel a salvarmi»

«Che cosa significa?» la voce di John era tornata dura.

«Che Alastair e i Collaborazionisti si sono davvero vendicati» spiegò il ragazzo «Quando hanno finito mi hanno lasciato a terra, nel cantiere, ed è lì che Castiel mi ha trovato»

Solo allora sollevò il viso, a cercare gli occhi di John.

Suo padre aveva la fronte aggrottata e un’aria parecchio scettica.

In effetti, rifletté Dean, era improbabile che l’angelo l’avesse trovato per caso, in mezzo al cantiere deserto. L’unica possibilità era che avesse previsto la reazione violenta di Alastair e che lo stesse cercando di proposito, per assicurarsi che fosse vivo.

«Gli angeli non hanno mai usato i loro poteri per guarire un umano, che io sappia» commentò l'uomo con freddezza «Se Castiel ha deciso di salvarti la vita significa che tu gli servi, per qualche motivo che al momento nessuno di noi conosce»

Ora davanti a lui c'era di nuovo il capo della Resistenza. John aveva ricominciato a camminare su e giù per la stanza, come faceva quando qualcosa lo preoccupava.

Dean si sedette sul suo materasso: quell’andirivieni così agitato gli faceva girare la testa.

«Devo dirti una cosa figliolo» John si sedette accanto a lui.

«Ormai è da un po’ di mesi che ne parliamo. Con Ketch e… l’altro»

Suo padre usava sempre questo tipo di epiteti per riferirsi all’Occulto. Non lo nominava mai direttamente.

«Crediamo tutti che i tempi siano maturi ormai. Non possiamo aspettare oltre, sarebbe troppo rischioso e siamo già stati rallentati dall’arrivo di Castiel»

Si passò una mano sul viso.

«Dean, abbiamo intenzione di far saltare in aria il cantiere. Prima della fine del mese lasceremo per sempre questo campo»

L'uomo non riusciva a decifrare l’espressione di suo figlio in quell’oscurità ma sentì il suo respiro — abbastanza regolare fino a un secondo prima — farsi più rapido.

«Ci sono ancora dei posti sicuri in Colorado» continuò abbassando ancora la voce, sussurrava così piano che ormai Dean riusciva a malapena a sentirlo «Passeremo attraverso i condotti dell’acqua in disuso. L’imboccatura più vicina è a meno di mezzo miglio da qui»

«Chi altri è a conoscenza di questo piano?» chiese il ragazzo.

«Per ora noi due e Ketch, e un altro paio di persone. Ma iniziamo a fare sul serio adesso. Abbiamo esplosivi, armi, munizioni» esitò un istante «…abbiamo armi che possono ammazzare gli angeli» confessò d’un fiato.

Dean sussultò.

«Non è possibile…»

«L’altro ce le ha procurate. Con una buona mira e un po’ di fortuna ne abbiamo abbastanza per sterminare ogni singolo bastardo sovrannaturale che infesta questo campo. E se Dio davvero esiste, là fuori, sa che aspetto da una vita il momento in cui potrò piantare una pallottola nel cranio di uno di quegli esseri schifosi»

Dean soffocò un esclamazione incredula: era una prospettiva talmente assurda che non gli sembrava vera. Non ricordava nemmeno più cosa significasse dormire in un letto, mangiare del cibo vero, camminare a testa alta.

Fuggire. Essere finalmente liberi.

John tacque, spostandosi silenziosamente sul proprio materasso: non c’era più nulla da dire, per quella notte.

Dean non riuscì ad addormentarsi subito. Di solito sprofondava in un sonno privo di sogni un minuto dopo aver chiuso gli occhi ma adesso gli accadimenti della giornata e le ultime parole di suo padre non la smettevano di vorticargli nella testa.

Inoltre conosceva abbastanza bene John da capire che, quella sera, le sue intenzioni iniziali non prevedevano affatto il renderlo partecipe del piano che la Resistenza stava organizzando.

Si rigirò tra le coperte.

Suo padre aveva deciso di rivelargli tutto soltanto dopo aver saputo cosa Castiel avesse fatto per lui, e il sottinteso — nemmeno troppo velato — che il ragazzo aveva indovinato tra le sue ultime parole era facilmente riassumibile in un’unica frase.

Quando la rivolta sarebbe scoppiata, Dean non avrebbe dovuto avere nessuna pietà.

Nemmeno per l’angelo che quella notte gli aveva salvato la vita.






Ciao a tutti!
Mi scuso per il capitolo chilometrico e mi scuso già ora anche per il prossimo capitolo che invece sarà decisamente più corto. Questa settimana mi sono dedicata ad una grossa revisione di una parte della trama e alla fine, aggiusta di qua, taglia di là, la regolarità della lunghezza dei capitoli è andata a farsi friggere. Spero mi perdonerete. Ne approfitto però per dirvi che siamo esattamente a metà della prima parte di questa storia ^^
Vi ringrazio tantissimo per le recensioni che mi avete lasciato la scorsa settimana, e un enorme grazie di cuore anche a chi ha messo la storia tra le seguite.
Spero che questo capitolo, anche se piuttosto denso, vi sia piaciuto e sono davvero curiosissima di sapere cosa ne pensiate.
Un grandissimo abbraccio e a presto!

Stay safe!

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Capitolo 4
*** Preludio ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene





4. Preludio




20 dicembre 2008

Da quando Castiel aveva preso le difese di suo figlio di fronte ad Alastair e gli aveva poi rimesso a posto le ossa, sparendo senza nemmeno attendere un ringraziamento, John Winchester si era trasformato da inflessibile e rigoroso leader della Resistenza, a uomo che stesse lentamente arrostendo su una graticola.

L’angelo continuava a fargli visita, bussando sempre molto educatamente e ponendogli le più implausibili domande con quell’ingenuo garbo che, anziché tranquillizzarlo, finiva per togliere a John quel poco di sonno di cui ancora riusciva a godere la notte.

Inoltre, sebbene Castiel non sembrasse minimamente intenzionato a tirar fuori l’argomento, né tantomeno Dean o suo padre si fossero arrischiati a chiedere, il suo sguardo blu saettava fin troppo spesso in direzione del ragazzo, con una rapacità che torturava i ricordi dell’uomo come un pungolo.

Lucifer.

Lucifer aveva la stessa luce avida negli occhi, quando si era preso Sam.

Ma ciò che preoccupava maggiormente suo padre — e Dean lo sapeva, lo sapeva, eppure per quanto si sforzasse ormai non riusciva più ad evitarlo — era il fatto che lui, quegli sguardi, li ricambiava.



23 dicembre 2008

Quella foto l’aveva scattata la mamma.

Erano andati a pescare al lago Clinton, la prima vera gita domenicale da quando era nato Sam. Dean aveva il compito di passare le esche a John, dei vermoni grossi quanto un suo dito, non particolarmente felici all’idea di stare per essere infilzati su un amo. Uno di loro l’aveva addirittura morsicato.

Dopo pranzo, Mary aveva estratto la vecchia polaroid dalla borsa e gli aveva detto di andarsi a mettere vicino al papà, che voleva una foto da appendere sopra il camino, al posto di quell’orribile campo di girasoli a olio che gli aveva regalato suo zio.

Dean passò il dito sopra l’istantanea sbiadita, sopra la testolina bionda di suo fratello: Sam all’epoca aveva quattro mesi e, ovviamente, non guardava verso l’obiettivo. Sembrava piuttosto molto interessato ad uno dei bottoni della camicia di Dean, che lo teneva in braccio neanche fosse un trofeo, con un sorriso raggiante che gli si allungava da un orecchio all’altro e il braccio di John a circondargli le spalle.

Il ragazzo si stropicciò gli occhi umidi. Suo padre non era ancora rientrato, ormai era diventato incredibilmente schivo, parlava a monosillabi e andava via tutte le notti. Dean sapeva che si stava incontrando con l’Occulto.

Qualcuno bussò alla porta.

Castiel teneva le braccia lungo i fianchi e l’aria composta di un chierichetto in Chiesa. Se non fosse stato per quello sguardo onirico, lo si sarebbe facilmente scambiato per una statua di gesso.

«John c’è?»

«Arriverà tra poco, credo sia andato da Bobby: lo hanno dimesso dall’infermeria stamattina»

«Ti dà fastidio se lo aspetto qui?»

«No, signore»

«Ti ho già chiesto di chiamarmi Castiel»

«Chiedo scusa… Castiel»

Le labbra dell’angelo s’incurvarono appena verso l’altro, mentre Dean si faceva da parte per lasciarlo entrare.

Si rese conto troppo tardi di aver lasciato la fotografia sul tavolo, in bella mostra; non provò neppure a cercare di nasconderla, Castiel l’aveva notata nell’istante in cui aveva messo piede all’interno della baracca. Dovevano avere una specie di radar per queste cose, i bastardi.

«Sai che non è permesso conservare immagini precedenti alla notte della rinascita, Dean?»

«Lo so»

Il ragazzo si morse l’interno della guancia, fissando il pavimento.

Forse era meglio così.

Se Castiel avesse bruciato una volte per tutte l’ultimo ricordo di Sam che gli era rimasto, forse anche quel dolore martellante, che lo teneva sveglio la notte, si sarebbe trasformato in cenere.

Sollevò leggermente lo sguardo, quel tanto che bastava ad incrociare gli occhi di un se stesso un po’ più bambino – un po’ più felice – che gli sorridevano da una fotografia sfocata di vent’anni prima.

«Una volta mi hai chiesto se mi mancasse mio fratello» esordì d’un tratto. Castiel inarcò un sopracciglio, ma non disse nulla.

«Non è che mi manchi: mi manca la sensazione di calore del camino acceso in una sera d’inverno, mi manca la torta di mele che cucinava la mamma, il figlio dei vicini con cui giocavo a pallone la domenica mattina»

Adesso sentiva lo sguardo dell’angelo su di lui, talmente intenso da risultare quasi bruciante.

«Sam non mi manca: lui era una parte di me, e mi è stata strappata via. È come se mi avessero tagliato un braccio, una gamba, come se mi avessero fatto a pezzi e poi ricucito male» concluse d’un fiato.

Non aveva idea del perché avesse detto quelle cose: sentiva soltanto le guance roventi e il cuore accelerato come se avesse corso.

Castiel non disse nulla; prese la fotografia con due dita e rimase per un po’ ad osservarla con espressione curiosa. Poi si avvicinò a Dean e gliela porse.

Il ragazzo tese la mano, sulla difensiva.

Afferrò la fotografia e se la mise in tasca, ancora non del tutto convinto delle intenzioni dell’angelo. Dopotutto Castiel avrebbe ancora potuto raggiungerlo in due passi, afferrarlo per i capelli e trascinarlo direttamente da Uriel, insieme alla prova del reato.

Invece, l’angelo girò intorno al tavolo e andò a sedersi sul vecchio baule polveroso, con la stessa regalità con la quale si sarebbe seduto sopra un trono.

«Avevo una sorella, tempo fa» gli rivelò sommessamente «Un giorno decise di abbandonarci, e da quel giorno non l’ho mai più rivista»

«Io non… non lo sapevo» balbettò Dean.

Si sentiva molto confuso.

Una parte di lui continuava a odiare a morte Castiel e tutta la sua specie, per quello che avevano fatto all’umanità intera e per quello che avevano fatto alla sua famiglia, a lui, a Sam. Eppure, da giorni, non poteva fare a meno di pensare che forse, forse, suo padre si sbagliava e che gli angeli non erano tutti uguali, forse alcuni di loro erano in grado di provare empatia, compassione, amore.

Forse Castiel era diverso.

«La memoria degli angeli è perfetta» proseguì l’angelo «Ricordo ogni dettaglio di lei, il riflesso del sole nei suoi capelli, ogni sfumatura della sua voce. Tuttavia…»

In quel momento la porta della baracca si spalancò e apparve la faccia tirata di John seguita dal suo corpo nervoso, troppo magro per un uomo della sua altezza.

«Castiel!» esclamò con una punta di agitazione «Avresti dovuto farmi chiamare»

«Non preoccuparti John» la nuvola di malinconia, che per qualche istante aveva oscurato il volto dell’angelo si era già dissolta «Sono arrivato un po’ in anticipo oggi. Io e Dean stavamo discutendo delle… mancanze, nelle nostre rispettive famiglie»

Poi, con un movimento fluido, come se fosse la cosa più naturale di questo (e dell’altro) mondo, si alzò e posò una mano sulla spalla del ragazzo, sorridendo amabilmente.

«Non è vero Dean?»

Quella era la seconda volta che Castiel lo toccava, e in venticinque anni di vita Dean non era mai stato toccato da un angelo.

Non in quel modo, almeno.

Durante quella manciata di secondi in cui le dita di Castiel rimasero a contatto con il suo corpo, si rese conto che tutte le volte che si era trovato così vicino ad un individuo biancovestito era poi finito riverso nella polvere, a tossire e a sputare un dolore – un occhio pesto, un polso spezzato, una schiena martoriata – che non aveva fatto niente per meritare.

Invece la mano di Castiel se ne stava lì ferma, senza peso, come il preludio di una carezza.

«S-sì» riuscì appena a rispondere. Lo sguardo di suo padre sembrava fosse sul punto di perforargli il cranio.

«Nessuno perderà nessun altro qui» il tono di John adesso era secco, gelido «Fosse l’ultima cosa che faccio»

Il blu degli occhi di Castiel, improvvisamente, si accese.

Fu poco più che una frazione di secondo ma Dean non potè fare a meno di chiedersi se fosse stato un caso o se l’angelo avesse intuito qualcosa.

Scosse la testa sospirando: la sola presenza di Castiel bastava a renderlo teso come una corda di violino.

L’angelo fece scivolare via la mano dalla sua spalla. Dean si rese conto solo allora di quanto fosse calda, poteva sentirne il tepore fin sotto la maglietta.

«Devo andare ora»

«Ma… sei appena arrivato» si accigliò John.

«Sì lo so. Tuttavia mi sono appena ricordato di una cosa»

Castiel scivolò elegantemente tra i due uomini e scomparve tra le baracche. Per quanto possibile, aveva un’aria ancora più strana del solito.

«Se ti tocca di nuovo in quel modo giuro che non risponderò più di me stesso» ringhiò John, in direzione della porta che si era appena chiusa.

Dean si strinse nelle spalle. La consapevolezza che di lì a poco Castiel avrebbe trovato la morte per mano di suo padre o di Ketch ormai era diventata intollerabile.

«Non mi ha fatto del male. Stavamo solo parlando»

John si lasciò cadere sul materasso facendone cigolare tutte le molle.

«Beh meglio che se ne sia andato in ogni caso» mormorò «Non avevo le forze per sostenere un’altra delle sue strambe conversazioni»

«Come sta Bobby?»

«Meglio di ieri, anche se sotto sforzo ha ancora un po’ difficoltà a respirare: non so per quanto ancora potrà continuare ad estrarre blocchi dalla cava. Ah, e Martha ti ringrazia per il cibo, come al solito»

Martha era la moglie di Bobby; da quasi due anni non era più in grado di lavorare, così Dean si occupava anche di lei quando poteva. Era sempre stata gentile con lui e Sam.

«Tu hai mangiato?»

Il ragazzo annuì.

«Puoi prendere anche la mia razione, io non ho fame»

«Papà non…»

«Mangia e basta Dean, non voglio discutere anche con te. Bobby ha un pessimo carattere quando è sano, figuriamoci ora che non riesce a mettere tre passi di seguito senza ansimare»

Dean non ribatté; trangugiò i quattro cucchiai di zuppa collosa che sarebbero toccati a suo padre e ripulì la ciotola col dito.

«Va a dormire figliolo» gli ordinò stancamente John «Io ho bisogno di controllare un paio di cose, per assicurarmi che sia tutto pronto. Qualunque cosa voglia fare Castiel con te, adesso non ha più importanza: tra due giorni questa fogna esploderà e lui brucerà insieme a tutto il resto della truppa angelica»

Il cuore di Dean iniziò a battere a un ritmo frenetico.

Due giorni.

Ormai tutti gli uomini della Resistenza erano a conoscenza del piano. Si stavano preparando da settimane e gli era stato detto di tenersi pronti ma, per prudenza, il giorno esatto dell’operazione non era mai stato rivelato.

«Avevo una sorella, tempo fa»

La figura luminosa di Castiel si intromise prepotentemente tra i suoi pensieri.

Mancavano solo due giorni.







Hola!
Grazie per le recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo *.* siete delle lettrici meravigliose <3
Vi avevo già accennato la scorsa settimana che questo capitolo sarebbe stato particolarmente corto. Rileggendolo, però, mi sono resa conto che è davvero troppo corto. Perciò, non potendo rimediare in alcun modo e visto che ormai avete aspettato anche abbastanza xD ho deciso (rullo di tamburi) che la prossima settimana ci saranno due aggiornamenti anziché uno (olè).
Il primo sarà mercoledì e il secondo sabato, come al solito.
Preparatevi perché il prossimo sarà IL capitolo (che tra l’altro mi ha indotto ad aggiungere il tag ‘contenuti forti’ alla storia) e sono francamente un po’ agitata anch’io T.T
A mercoledì!

P.S. Anche se non sembra, questo capitolo è importante. Mooolto importante...

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Capitolo 5
*** Punti deboli ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene





5. Punti deboli




25 dicembre 2008

«Dean, mi stai ascoltando?»

Suo padre picchiettò con le dita sul tavolo. A dieci centimetri dalla sua mano c’era una calibro 22 tirata a lucido, con il calcio di madreperla; sette proiettili perfettamente allineati lì accanto attendevano soltanto di essere sistemati nel caricatore.

Era da poco calata la notte.

«Sì papà»

«Bene. Non manca molto»

L’esplosione si prevedeva a minuti. John era uno dei pochi al cantiere che possedeva un orologio, e il suo sguardo altalenava ossessivamente tra le lancette dorate e Dean.

Il ragazzo caricò la pistola e controllò per la quarta volta che i meccanismi non si fossero inceppati. O forse era la quinta volta, aveva perso il conto.

Assicurate sotto gli abiti aveva ancora due semiautomatiche e un coltellaccio da cucina con la lama grossa tre dita, ma un solo proiettile di quella calibro 22 valeva più di tutto quell’armamentario da assalto.

I simboli enochiani che John aveva preteso che tutti gli uomini del cantiere si disegnassero sotto i vestiti, direttamente sulla pelle, erano invece l’unica armatura che aveva potuto permettersi.

Ma almeno quei bastardi non avrebbero percepito la sua presenza già a un chilometro di distanza. Era tutto ciò su cui contavano, quella notte: l’effetto sorpresa.

«In tutto ci sono sei angeli qui al cantiere: dobbiamo evitare che allarmino la Corte prima che gli uomini abbiano raggiunto l’acquedotto. Non abbiamo armi a sufficienza per fronteggiare una squadra di angeli al completo»

Dean annuì. Suo padre gli aveva ripetuto le stesse identiche parole neanche due minuti prima.

«Ho un ottima mira»

John gli mise una mano sulla spalla.

«Ho fiducia in te, figliolo. Sono… sono fiero di te» mormorò con gli occhi lucidi «Lo sarebbe anche la mamma»

Dean sentiva il proprio cuore pulsare così forte da credere che stesse per sfuggirgli dal petto.

«Sì. Lo sarebbe anche la mamma»

Un boato fece tremare le pareti della baracca; Dean afferrò la calibro 22 e seguì di corsa John all’esterno.

Qualsiasi cosa gli uomini della Resistenza fossero riusciti a incastrare tra un blocco e l’altro, si era rivelato dannatamente efficace.

La torre bruciava. Un’immensa pira funebre di marmo e di legno.

Una colonna di fumo iniziò ad alzarsi dal punto dell’esplosione, mentre i frammenti che la dinamite aveva sparato verso il cielo ricadevano infuocati al suolo come una pioggia di meteoriti.

Simili ad un’onda di straccioni, gli uomini e le donne del cantiere si lanciarono all’assalto.

Dean perse suo padre di vista quasi subito. Con il trascorrere dei minuti l’aria diventava via via più calda e opaca, e i frammenti di roccia incandescente sfrigolavano sul terreno, come residui esausti sputati dalle viscere di una stella morta.

Si mosse verso gli alloggi dei Collaborazionisti. Era molto probabile che gli angeli si trovassero lì, per gestire la controffensiva insieme al resto degli umani loro fedeli.

Si sentivano i primi spari. Un proiettile fischiò sopra la sua testa e lui fu costretto a ripararsi a terra. In lontananza, riusciva a vedere le luci accese nelle abitazioni dei Collaborazionisti e svariati completi azzurri e bianchi che si allontanavano in direzione della torre.

Scattò in avanti, la calibro 22 già in pugno.

Zaccaria sbraitava ordini ad un confusissimo e lacero Abbadon, e non lo vide arrivare.

Il primo proiettile lo colpì alla spalla. Abbadon estrasse la sua pistola e la puntò contro Dean ma non riuscì a premere il grilletto: si sentì l’esplosione di un secondo colpo e il Collaborazionista cadde all’indietro con un buco grosso quanto un pugno nel cranio.

Dean imprecò: aveva appena sprecato uno dei proiettili destinati agli angeli per un bastardo ed inutilissimo umano.

Zaccaria ruggì di dolore e si avventò su di lui; non riusciva più a muovere il braccio destro, e forse solo per questo il ragazzo riuscì a schivarlo. Rotolò sul terreno e si nascose dietro una fila di container metallici, dove i Collaborazionisti tenevano parte delle provviste di cibo.

«Winchester ti caverò il cuore dal petto!»

Il passo pesante dell’angelo faceva tremare la terra.

Dean prese un profondo respiro e rinsaldò la presa sulla pistola. Gli fischiavano le orecchie.

L’ombra di Zaccaria comparve sul muro di lamiera del container, a mezzo metro da lui.

«Dì le tue ultime preghiere Winchester»

Dean uscì allo scoperto e sparò.

Il proiettile ebbe sull’angelo l’effetto di una scarica di fulmini.

Zaccaria non cadde all’indietro come Abbadon ma si accasciò da un lato, mentre tutto il suo corpo sussultava e si dibatteva. Dall’interno, come se qualcuno avesse acceso nel suo stomaco una potentissima lampadina, iniziò a diffondersi una forte luce che aumentò d’intensità, finché l’ultimo fremito non abbandonò le membra di Zaccaria e Dean non si accorse — con sommo orrore — che, al posto degli occhi dell’angelo, lui stava fissando due insanguinate orbite nere.

Lo shock fu tale che per poco la pistola non gli cadde di mano.

Un angelo era appena morto.

E l’aveva ucciso lui.

Un altro boato lo fece sobbalzare: la torre, o quel che ne restava, stava collassando su se stessa.

Iniziò a camminare senza una meta intorno al perimetro del cantiere. L’unico obiettivo che aveva era quello di mettere quanto più spazio possibile tra lui e il cadavere di Zaccaria.

Qualcuno d’un tratto piombò sopra di lui. La calibro 22 gli sfuggì dalle mani e scivolò sul terreno, lontano.

Il corpo asciutto di Alastair lo bloccava al suolo. La pelle dell’uomo scottava come se avesse la febbre, e un rivolo di sangue gli scendeva da una brutta ferita alla testa e gocciolava sui suoi vestiti e su quelli di Dean.

Le dita del Collaborazionista si strinsero intorno alla sua gola.

«Avrei dovuto spezzarti il collo…» ruggì Alastair «…molto tempo fa»

Dean boccheggiava.

Globi di luce nera gli esplodevano davanti alla faccia, e per quanto si sforzasse non riusciva a raggiungere nessuna delle due semiautomatiche che aveva legate alla cintura.

Si spinse su un fianco facendo leva sui gomiti e lui e il Collaborazionista rotolarono nella polvere. Le schegge di marmo gli graffiavano le braccia e la schiena.

La presa dell’uomo si indebolì e lui ne approfittò per sgusciare fuori dalla sua portata. Si portò una mano alla cintura e le sue dita incontrarono il profilo gelida di una una lama di tre dita.

Sentì lo schiocco di una sicura e alzò lo sguardo appena un istante prima che Alastair premesse il grilletto.

La sua calibro 22.

Si tuffò di lato. Il proiettile lo ferì di striscio, al fianco, e il dolore lo colpì come una rasoiata di ghiaccio.

Il Collaborazionista afferrò la pistola con due mani e avanzò verso di lui.

«Stavolta non sbaglierò la mira, Winchester»

Poi il coltello di Dean gli si piantò in mezzo al petto e l’uomo crollò in ginocchio.

«Nemmeno io, bastardo»

Fu sorpreso da un eccesso di tosse; la polvere di marmo gli si infilava direttamente nei polmoni.

Alastair era caduto a faccia in giù.

Dean lo rovesciò supino e si riprese il coltello; le viscere dell’uomo produssero un risucchio gorgogliante e lui non riuscì a trattenere una smorfia. Si sentiva enormemente disgustato e allegro allo stesso tempo.

Recuperò la calibro 22 e controllò la ferita al fianco: era piuttosto superficiale, ma bruciava come un colpo di frusta.

Oltrepassò un cumulo di detriti e riconobbe suo padre a una decina di metri da lui.

Una figura bianca accasciata ai suoi piedi.

«Figliolo! Stai bene?» John gli andò incontro.

«Sì, sì. Io…»

L’angelo riverso sul terreno aveva i cappelli rossicci e le labbra sottilissime. Non era Castiel.

L’uomo accennò al suo fianco sanguinante «Cosa è successo?»

«Alastair mi ha sparato» ammise lui, costringendosi a trattenere un sospiro di sollievo «Ma è stata l’ultima cosa che ha fatto»

L’uomo gli diede una pacca sulla spalla «Ben fatto figliolo! Ben fatto!» esclamò «Abbiamo trovato il cadavere di Zaccaria vicino al deposito dei viveri, e ora con questo qui…» indicò sprezzante il cadavere ai suoi piedi «…siamo a cinque su sei!»

Dean fremette.

«Chi… chi è rimasto?»

Non era sicuro di voler ascoltare la risposta.

John sputò un grumo di terra e saliva «Castiel» sibilò.

«Ketch lo ha quasi preso ma quel mostro è riuscito a dileguarsi prima di ricevere il colpo di grazia. Non abbiamo più tempo: dobbiamo raggiungere l’acquedotto, andrò a controllare se è rimasto qualcun altro alla torre, tu va! Ketch sparerà un razzo di segnalazione, sai già che quello sarà l’ultimo avviso»

Suo padre gli allungò una carezza frettolosa su una guancia e si allontanò.

Dean s’incamminò verso l’acquedotto guardandosi intorno sospettoso: ad ogni passo aveva l’impressione che qualche altro Collaborazionista stesse per tendergli un secondo agguato.

Della torre non rimaneva che un ammasso di pietre affumicate; dei loro anni di schiavitù, poco più che una pioggia di schegge e una distesa di macerie.

Poi qualcosa si mosse, tra due file di blocchi semidistrutti, e Dean si immobilizzò.

La cosa che si muoveva era vestita di bianco.

Castiel era accartocciato su se stesso, piegato in avanti, le mani poggiate sulle ginocchia come se stesse riprendendo fiato; ondeggiava, sembrava fosse sul punto di collassare; il suo completo era stropicciato e sudicio di terra.

Dean si rannicchiò al riparo di alcune casse di legno sfondate e controllò quanti proiettili gli fossero rimasti nella pistola. Ne contò due.

Più che sufficienti ad uccidere un angelo, specie se in quelle condizioni. Sbirciò di nuovo al di sopra delle casse: Castiel si era voltato e si era accasciato contro uno dei blocchi, adesso ne riusciva a scorgere un po’ meglio il volto e il fianco destro.

Inorridì.

Dalla spalla al polso, la manica destra della giacca dell’angelo, una volta candida, era color cremisi, completamente impregnata di sangue scuro. Il braccio destro di Castiel, così come il tessuto, era squarciato in diversi punti, e il sangue gli scorreva lungo la mano e sgocciolava dalla punta della dita, formando piccole pozzanghere sul terreno.

Assomigliava a una colomba, a cui avessero appena strappato un’ala.

Dean tornò a nascondersi dietro le casse. La mano che reggeva la pistola improvvisamente gli sembrava meno salda. Un razzo di segnalazione illuminò in quel momento la coltre di fumo che ricopriva le loro teste al posto del cielo, come una goffa stella cadente.

Doveva fare in fretta.

Fece scattare la sicura della pistola e la puntò al di sopra delle casse; chiuse un occhio per prendere meglio la mira. Castiel aveva alzato il viso all’esplosione del razzo e ora ne seguiva con lo sguardo la lenta traiettoria discendente. Dean lo vide staccarsi dal blocco e arrancare a fatica nell’aria polverosa. Il sangue che gli scorreva lungo il braccio lasciava una traccia macabra dietro di lui.

Impugnò l’arma con due mani. Così vicino… avrebbe potuto centrarlo con facilità in mezzo agli occhi.

Lo stomaco gli si contrasse di colpo e il ragazzo cadde in ginocchio in preda ai conati.

Non sarebbe mai riuscito a premere quel grilletto.

L’immagine delle iridi di Castiel che bruciavano fino a incenerirsi gli dava la nausea.

Rimise la sicura alla pistola. Una volta per uno, pensò Dean: Castiel lo aveva salvato quando Alastair lo aveva pestato quasi a morte. Adesso erano pari.

Si stava facendo tardi: il ragazzo si asciugò con il dorso della mano il sudore gelido che gli imperlava la fronte e sgattaiolò all’ombra delle casse, verso l’imboccatura dell’acquedotto, senza voltarsi indietro.

Dietro di lui, puntati contro la sua schiena come due canne di fucile, due occhi blu lo guardavano allontanarsi, cupi come l’acqua di un pozzo.




Quando furono tutti all’interno del condotto, Ketch ne fece saltare in aria l’ingresso. Dean si sforzò di reprimere un attacco di claustrofobia alla vista dell’ammasso di detriti che sbarrava loro la via d’uscita. Se volevano avere un minimo di vantaggio sugli angeli, quello era l’unico modo. I sigilli enochiani che si erano disegnati sotto i vestiti li rendevano irrintracciabili, ma se gli angeli avessero scoperto il loro punto di partenza avrebbero poi potuto seguirli con facilità.

Nessuno sarebbe riuscito a coprire le tracce di un centinaio di esseri umani, alcuni feriti e ancora sanguinanti, all’interno di un acquedotto in disuso da vent’anni.

Dean camminava poco dietro John. Con la coda dell’occhio riusciva a scorgere Bobby, sorretto da due uomini, avanzare lentamente tenendosi ai margini del gruppo.

C’erano Martha, Meg e i gemelli, Garth che aveva un braccio al collo ma camminava spedito, e un mucchio di altre persone che non si sarebbe aspettato sarebbero riuscite a sopravvivere a quella notte.

Eppure ce l’avevano fatta. Un sorriso spontaneo gli spuntò all’angolo della bocca.

Secondo i calcoli di suo padre ci avrebbero messo poco più d’un paio d’ore per arrivare allo snodo di Pueblo.

L’acquedotto era come un labirinto: ogni dieci metri circa, dalla conduttura che loro seguivano si dipartivano tre o quattro condotti più o meno grandi. Sarebbe stato impossibile prevedere i loro spostamenti, tanto più che John si era premurato di tracciare il percorso meno lineare possibile, passando attraverso canali secondari e deviazioni quasi invisibili sulla mappa. Da Pueblo in poi, sarebbero stati al sicuro. Lì avrebbero trovato degli uomini della Resistenza ad aspettarli e gli angeli e la torre sarebbero diventati solo un brutto ricordo.

Camminavano da un’oretta ormai, quando uno spiffero d’aria fredda s’insinuò sotto la maglietta di Dean facendolo rabbrividire.

«Papà? Ci sono delle condotti che sbucano all’esterno, nelle vicinanze?»

John studiò silenziosamente la mappa per qualche secondo «Lo sbocco esterno più vicino è a mezzo chilometro da qui»

Dean si strinse le braccia al petto: iniziava a fare davvero freddo. Forse era solo la sua ferita al fianco che reclamava attenzione.

«Potrebbero esserci delle crepe nelle tubazioni. In ogni caso meglio muoversi» commentò l’uomo allungando il passo.

Svoltarono a destra, dopo una decina di minuti svoltarono per la seconda volta a destra e arrivarono all’ennesimo incrocio, e lì avrebbero dovuto nuovamente deviare, ma d’un tratto un’espressione sgomenta comparve sul viso di John.

Le due condutture laterali non erano più accessibili.

Nulla ne ostruiva l’imboccatura, non c’erano stati né crolli né frane. Il pavimento si era — semplicemente — accartocciato e fuso con il soffitto, e un’irregolare parete di metallo si innalzava beffarda di fronte a loro: sembrava che una mano gigantesca avesse strozzato i due condotti come tubi di gomma.

Non potevano fare altro che procedere in avanti.

E davanti a loro c’era Castiel.

Immobile, inespressivo, la manica destra ancora insanguinata e lacera. Dean sentì le gambe cedergli.

«E’ finita John»

Le sue parole rimbombarono nel condotto.

«Come avete fatto?» la voce dell’uomo non tremò nemmeno per un attimo. La voce di John non tremava mai.

«Sapevamo già che alcuni di voi avevano legami con la Resistenza»

Castiel parlava senza fretta. Sembrava quasi ci tenesse a spiegare per bene l’accaduto.

«Quando Michael mi ha mandato in questo cantiere, non aveva idea di cosa i ribelli stessero organizzando: nel tempo le varie cellule si sono diversificate così tanto tra loro da non poterne più prevedere le mosse» confessò.

«Non sapevamo nemmeno chi di voi fosse il capo, ma a quanto pare su questo abbiamo avuto fortuna»

Lo sguardo dell’angelo incrociò quello di Dean, che a quel punto non riuscì più a trattenersi.

«Pensavate che fossi… io?»

Castiel abbozzò un sorriso indulgente.

«Non abbiamo mai pensato che fossi tu. Certo, avevamo alcuni candidati: diversi uomini tra cui John, il qui presente Arthur Ketch…» socchiuse gli occhi, invelenito.

Nel sentir pronunciare il suo nome con quel tono, Ketch impallidì.

«…ma se ti interessa sapere perché abbiamo deciso di avvicinarci proprio a tuo padre beh… lui è l’unico che aveva un punto debole ben identificato»

Il ragazzo non ebbe bisogno di sentirlo, per capire a che cosa si stesse riferendo Castiel. Da vent’anni a questa parte, suo padre non aveva che due soli punti deboli.

Che si erano ridotti a uno quando Sam era sparito nella notte al seguito di Lucifer.

«La paura e l’incertezza corrodono la mente umana più efficacemente di qualsiasi tortura» proseguì l’angelo «Quanto a lungo può camminare un uomo sopra un filo, prima di mettere un piede in fallo e cadere?»

Fu solo allora che Dean capì.

I modi gentili, la cortesia, le visite puntuali. Castiel non se ne sarebbe mai fatto nulla di tutte quelle informazioni di poco conto che aveva preteso due volte alla settimana da John.

Voleva soltanto tenerlo sulle spine.

«Alla fine è bastato che io rimanessi da solo con te per cinque minuti e tuo padre si è lasciato sfuggire molto più di quanto avessi potuto sperare»

Il ragazzo ripercorse mentalmente ognuna delle serate in cui l’angelo si era presentato alla porta della loro catapecchia.

L’unica volta in cui si erano ritrovati loro due, soli, era stato appena due sere prima. Castiel era entrato e l’aveva sorpreso con quella vecchia foto tra le mani.

Quando poi John era ritornato alla baracca, l’angelo si era improvvisamente ricordato di dover fare qualcosa, ed era andato via.

Dean si sforzò di ricordare: che cosa era successo in quel paio di minuti? Castiel gli aveva posato una mano sulla spalla, poi suo padre aveva detto qualcosa e…

«Nessuno perderà nessun altro qui. Fosse l’ultima cosa che faccio»

…e gli occhi dell’angelo si erano accesi.

Dean scattò in avanti.

«Come hai potuto?»

Non era vero. Non poteva essere vero.

Castiel l’aveva usato.

L’aveva ingannato, aveva finto di essere interessato a lui soltanto perché sapeva che John non l’avrebbe mai sopportato; aveva teso suo padre come una corda di violino, tra quegli interrogatori inutili e tutte quelle gentilezze mirate nei suoi confronti — e per un lungo, dolorosissimo istante, Dean si rese conto che l’averlo salvato da Alastair rientrava perfettamente nell’elenco.

E alla fine, quando Castiel aveva toccato suo figlio — e il ragazzo aveva permesso che quella mano rimanesse, placida, sulla sua spalla — John Winchester si era spezzato.

Distratto, per una manciata di secondi, ma erano stati più che sufficienti.

John afferrò il polso del ragazzo un attimo prima che lui si scagliasse contro l’angelo. Dean gemette: la presa di suo padre era così salda da fargli male.

«Non sei mai stato diverso, io… io…»

Si era fidato di Castiel, gli aveva risparmiato la vita.

Era stato uno stupido.

John gli torse il braccio costringendolo ad indietreggiare. Il dolore di quella stretta e lo sguardo di pietra di suo padre gridavano un unico ordine: resta dietro di me.

«Sono anni che studio le mosse della Resistenza: ci sono stati altri casi di sparizioni di massa, in diversi cantieri» riprese l’angelo imperturbabile, come se leggesse le domande direttamente nella loro testa «Dopo quelle parole… rimaneva solo da scoprire come avreste attuato la vostra fuga, e a quel punto è bastato controllare le vecchie cartine per capire che sareste scappati attraverso l’acquedotto»

Castiel batté i tacchi sul pavimento e intorno a loro, per l’intera lunghezza del condotto e fin dove riuscivano a spingere la vista, comparvero delle rune enochiane, rosse e brillanti sulle pareti.

«Tutte le condutture sono state segnate da qui fino a Pueblo: è stato inutile far saltare l’ingresso dell’acquedotto, con queste rune avremmo tracciato il vostro percorso in ogni caso. E vi avremmo fermati parecchio tempo prima ma la bomba sotto la torre…» una smorfia di disappunto gli corrugò la fronte «…è stato qualcosa che non ci aspettavamo»

Il braccio destro gli penzolava lungo il corpo come una protesi inerte: aveva smesso di sanguinare ma di tanto in tanto i muscoli dell’avambraccio e delle dita si contraevano a intermittenza.

«Ho avvisato personalmente Michael. Ci sono due angeli di guardia ad ogni bivio dell’acquedotto: non riuscirete a tornare indietro né a disperdervi»

Castiel era tornato a rivolgersi a suo padre.

«John, se accettate di consegnarvi ti prometto che la maggior parte degli uomini e delle donne che sono qui ora sopravviveranno. Se rifiutate, tu sarai l’unico ad uscire vivo da questo condotto»

Una bambina iniziò a singhiozzare, a qualche metro da Dean, e il ragazzo si voltò.

In fondo al gruppo erano comparsi quattro angeli, si riconoscevano dal candore dei loro vestiti. Non li aveva mai visti al cantiere, immaginò che fossero arrivati in gran fretta direttamente dalla Corte.

«Credimi John, la possibilità che ti sto offrendo è molto più misericordiosa di qualsiasi destino Michael avesse originariamente progettato per voi»

Un urlo agghiacciante riempì la conduttura, seguito da un tonfo.

Uno degli angeli aveva trapassato il petto di un uomo da parte a parte, con la sola mano. Il cadavere, sul pavimento, continuava a dibattersi come un pesce sulla sabbia: ci mise quasi un minuto a morire.

Un’onda di panico percorse il gruppo degli uomini fino ad arrivare a Dean. I vestiti, la pelle, le ossa se ne impregnarono come di un veleno. I bambini piangevano, gli adulti gridavano, e la paura era così densa sopra le loro teste da poterne sentire l’odore acre pungere le narici.

«BASTA!»

Il grido di John non riuscì a dissipare del tutto quella nube di terrore, ma fu sufficiente ad ottenere il silenzio.

«Basta così» ripeté, stremato.

Castiel continuava a fissarlo, impassibile. Le sue ciglia avevano avuto un unico - impercettibile - fremito, quando l'altro angelo aveva ammazzato a sangue freddo quell'uomo nelle retrovie.

«Avresti dovuto farlo subito…» sorrise amaramente l’uomo «Tagliarmi anche l’altra mano e strapparmi via quel nome dalla gola»

«Attaccarvi apertamente sarebbe stato troppo rischioso» tagliò corto Castiel «Portarvi a Corte ed interrogarvi… avremmo potuto torturare la persona sbagliata, e a quel punto i ribelli ancora rimasti al cantiere si sarebbero dispersi come topi. Dovevamo lasciarvi un minimo di spazio d’azione, altrimenti non ne avremmo tratto niente di utile»

Lo sguardo affilato dell'angelo pareva volesse trafiggere la sagoma mutilata di suo padre.

«Ma adesso che abbiamo capito chi è qui il capo…»

E le duecento pupille umane che fissavano John Winchester trattenendo il fiato erano una prova ancor più evidente della piantina dell’acquedotto che l'uomo aveva tenuto stretta nella mano sinistra fino a pochi minuti prima.

«… e che nessuno di voi potrà fuggire da questo condotto, ti concedo ancora dieci secondi prima di mettere fine a questa storia»

John si leccò lentamente le labbra.

«Non mi fiderò mai delle parole di un angelo, Castiel» mormorò, i suoi occhi scuri piantati come chiodi contro il blu di due cieli senza stelle.

«Ma se le tue promesse sono sincere mantienile…» la voce gli s’incrinò «…ti prego»

Si girò verso Dean.

Ora suo padre teneva qualcosa tra le mani, qualcosa che luccicava appena.

«Resta vivo, figliolo»

Poi John s’infilò la canna della pistola in bocca e Dean lo sapeva, sapeva che non avrebbe dovuto guardare, che avrebbe dovuto chiudere gli occhi, o voltarsi, correre via, tapparsi le orecchie e urlare, per non sentire lo sparo.

Ma non lo fece.

Non fece niente.









Ehm, ciaaao *scappa a nascondersi dietro il divano*
Ebbene sì, Castiel ha fregato tutti quanti. Spero di aver spiegato bene il suo ‘piano’, temo sempre di rendere le cose troppo cervellotiche in questi casi.
E lo so, lo so che adesso volete la mia testa, per aver fatto crollare in questo modo barbaro tutta la Destiel dei capitoli precedenti (vi chiedo umilmente scusa) ma la storia è ancora lunga e vi prometto che io e Castiel sapremo farci perdonare.
E poi, confesso, il finale di questo capitolo ha fatto malissimo anche a me ma era necessario.
Vi invito, se ancora non mi odiate, a lasciarmi un parere piccino piccino su questo capitolo, il penultimo della prima parte.
Augurandomi di non avervi rovinato la settimana, vi do appuntamento a sabato per un altro po’ di angst (molto meno drammatico di questo, tranquilli!) se ancora vorrete continuare a seguire questa storia.
Vi mando un bacio da dietro il divano (dove penso resterò a nascondermi ancora un po’) e vi ringrazio — come sempre, ma davvero, siete stupende e ve lo meritate ogni singola volta — per le bellissime recensioni che mi avete lasciato fin qui <3

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Capitolo 6
*** La luna ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






6. La luna




25 dicembre 2008 (?)

Raggomitolato su se stesso, Dean aveva pianto la morte di John fino a esaurire le lacrime.

La cella in cui l'avevano rinchiuso assomigliava piuttosto ad una scatola da scarpe: appoggiando la schiena ad una delle pareti, riusciva a sfiorare con i piedi quella opposta. Gli angeli li avevano bendati appena usciti dal condotto, per cui non aveva idea di dove si trovasse; non avevano camminato così a lungo quindi immaginava li avessero riportati al cantiere, ma non poteva esserne sicuro.

Gli avevano legato le braccia dietro la schiena, il che gli impediva di trovare una posizione almeno sopportabile su quel pavimento gelido, e aveva la gola secca e dolorante come se avessero provato ad affogarlo con della sabbia. La ferita al fianco bruciava e mordeva molto più di quanto avrebbe dovuto.

Ricordava di aver gridato, per dei minuti che gli erano sembrati delle ore, ma non aveva realmente idea di quanto tempo fosse passato da quando lo avevano chiuso lì dentro, dall’esterno non arrivava nessun rumore.

Improvvisamente, lo stridore metallico di una porta che si apriva e si chiudeva a un metro da lui lo informò che qualcuno era appena entrato nella cella.

Non aveva la forza di opporsi: si appiattì contro la parete sperando soltanto che la fine arrivasse presto, finché le sue labbra incontrarono il bordo liscio e umido di un bicchiere pieno d’acqua.

«Bevi»

Castiel.

Compì uno sforzo immane per impedirsi di aprire la bocca.

«Porterai da bere anche al resto degli uomini?» mormorò a denti stretti. Aveva talmente tanta sete che gli girava la testa.

«No»

Il ragazzo storse il capo dall’altra parte.

«Allora puoi anche andartene»

Castiel gli tolse la benda dagli occhi e Dean immaginò che in quel momento il proprio aspetto fosse davvero miserabile, perché non aveva mai visto tanta pietà negli occhi di un angelo, ma non gli importava. Non voleva la sua amicizia e ancor meno la sua misericordia.

Voleva soltanto tagliargli la gola, e vederlo lentamente agonizzare e morire.

L'angelo ora aveva indosso dei vestiti puliti. Nessuna macchia di sangue, neppure la minima traccia delle ferite terribili che gli erano state inflitte appena qualche ora prima.

«Bevi» ripetè.

«No, signore»

Castiel sospirò, irritato «Ho solo eseguito gli ordini»

«Immagino sia quello che vi ripetete ogni volta che picchiate, mutilate o ammazzate uno di noi» replicò Dean con asprezza «Ordini»

«Io non ho fatto niente di ciò che dici. Non sono un sadico»

«Il che significa che ciò che dobbiamo subire non ti importa. Che è anche peggio»

La mano di Castiel che reggeva il bicchiere ebbe un fremito. Una grossa goccia d’acqua gli colò lentamente tra le dita, lungo il polso.

«Ora smettila!» sbottò; il suo tono di voce si era fatto stridulo.

«Avrai il tempo di sfogare le tue frustrazioni una volta fuori di qui. Non sono venuto a discolparmi, sono venuto a proporti di collaborare»

Dean rise.

Una risata amara e gutturale che gli stracciò la gola. Ora avrebbe davvero voluto quell’acqua, al diavolo l’orgoglio, probabilmente sarebbe morto entro un’ora.

«Non ho intenzione di tradire i miei compagni» rispose a muso duro «E non ho paura di voi»

«Non hai proprio capito allora» una smorfia beffarda deformò la linea perfetta delle labbra di Castiel «Avete distrutto il cantiere di una torre, non hanno intenzione di processarvi né di farvi arrivare fino alla Corte per interrogarvi: Naomi è arrivata due ore fa e se non hai sentito le urla di Ketch è solo perché la sua cella è stata insonorizzata» gli comunicò con una certa solennità.

«E comunque quell’uomo non ha resistito molto» aggiunse in un soffio.

Dean ammutolì, non riuscendo a trovare nessuna replica sferzante a quella dichiarazione.

Se Ketch aveva parlato, nessuno era più al sicuro: certo, la possibilità che gli angeli scoprissero il nome e il modo per arrivare all’Occulto era definitivamente morta insieme a John, ma quelle erano davvero l’uniche cose di cui Ketch non era al corrente.

Contatti, percorsi, informazioni… tutto. Ketch sapeva davvero tutto. L’intera Resistenza del Colorado sarebbe stata distrutta nel giro di una settimana, forse meno.

Avevano perso.

Mesi e mesi di pianificazione, accortezze, accumulo di armi, ridotti in fumo dalla confessione di un solo uomo. E c’era quella vocina, nella sua testa, che continuava a ripetere che era colpa sua. Se non avesse risparmiato Castiel, probabilmente sarebbero riusciti ad arrivare allo snodo di Pueblo. Se lui non si fosse fidato, probabilmente gli angeli non li avrebbero mai scoperti.

Probabilmente, suo padre sarebbe stato ancora vivo.

Si sentì sopraffare dalla disperazione.

«Come faccio a sapere che stai dicendo la verità?» fu tutto ciò che riuscì ad articolare, con il filo di voce che gli era rimasto.

Castiel strinse le labbra «John non si sarebbe mai suicidato lasciandoti in eredità il nome dell’Occulto»

Dean singhiozzò.

In tempi normali la cosa sarebbe stata umiliante, piagnucolare come un bambino di fronte ad un angelo, ma la sua espressione straziata era talmente evidente che a quel punto sarebbe stato inutile fingere.

Era la prima volta che qualcuno menzionava la morte di John ad alta voce, e al di fuori della sua testa. Il ragazzo aveva l’impressione che qualcosa di molto corrosivo gli stesse scavando un buco dentro il petto.

Era morto. Suo padre era morto ed era tutta colpa sua.

Quasi come a volersi scusare, la voce di Castiel si addolcì «John sapeva che se ti avesse confidato quel nome Naomi avrebbe fatto l’impossibile per cavartelo fuori»

L’angelo si era chinato leggermente in avanti e adesso il suo viso era vicinissimo a quello di Dean.

«Persino lui ha preferito uccidersi piuttosto che farsi torturare» constatò tristemente «Ketch aveva molte più informazioni di te quindi credimi, agli angeli tu non servi molto più di quanto non gli serva un bel piatto di minestra, ma rimani un collaboratore attivo della Resistenza e per questo verrai giustiziato come tale»

Dean non si scompose: non si sarebbe di certo aspettato la grazia dopo quello che aveva fatto al cantiere.

Il solo ricordo del sangue di Alastair sulle sue mani bastava a procurargli minuscole scariche di piacere e di orrore lungo tutta la colonna vertebrale.

Il blu degli occhi di Castiel invece, sull’ultima frase, era virato al nero. Aveva abbassato il braccio e adesso il bicchiere d’acqua che teneva in mano era all’altezza dello sterno di Dean.

«Se accetterai di diventare un Collaborazionista non ti uccideranno»

Il ragazzo si sporse in avanti, cercando di mantenere l’equilibrio come meglio poteva, con i polsi bloccati dietro la schiena, e afferrò con i denti il bordo del bicchiere. Castiel lo inclinò quel tanto che bastava affinché lui riuscisse a bere senza strozzarsi.

Dio, era umiliante. Perché Castiel lo trattava così?

Era finita, aveva vinto, perché continuava a comportarsi come se gliene importasse davvero qualcosa di lui? Perché non gli dava un calcio in faccia e se ne andava?

Dean lo avrebbe preferito di gran lunga.

Il bicchiere si svuotò in fretta, e a lui parve di non aver mai assaporato dell’acqua tanto dolce.

«La nostra Resistenza è stata annientata e mio padre si è suicidato sotto i miei occhi»

La voce del ragazzo si era fatta più limpida. Più ferma. Non c’era più nulla da decidere ora, nulla da perdere.

«Come puoi pensare che io possa schierarmi con gli assassini della mia famiglia? Per avere salva la vita? Piuttosto preferirei morire mille volte»

E mille volte sarebbe morto, se avesse avuto la certezza che alla millesima avrebbe potuto rivederli. La mamma, Sam, suo padre. Anche soltanto per poter dire loro addio.

Castiel si rimise diritto. Dean non era mai riuscito a capire come potessero i suoi abiti, sì bianchi e senza la minima piega, ma pur sempre fatti di normalissima stoffa, emanare un chiarore del genere. Sembrava che l’angelo avesse appeso la luna al soffitto della cella.

«Tuo fratello è vivo, ed è a Corte. Io posso portarti da lui se lo desideri»

Dean si accasciò contro la parete, inerte.

Se avesse avuto ancora delle lacrime, in quel momento le avrebbe versate. Ma era talmente stremato da riuscire appena a parlare e avrebbe desiderato almeno un altro litro di quell’acqua così dolce.

«Non posso fornirti prove di quanto dico» continuò l’angelo, prevenendo la sua domanda «Puoi soltanto fidarti delle mie parole…»

Il ragazzo sbuffò, scettico.

«…o scegliere di non fidarti, e morire. Hai ancora qualche ora per decidere prima che vengano a prenderti»

La luna appesa al soffitto iniziò a tremolare e si offuscò: Castiel gli aveva voltato le spalle. Non gli aveva rimesso la benda sugli occhi, ma si era ripreso il bicchiere.

Dean si accorse solo allora che la porta della cella non aveva nessuna serratura. C’erano solo alcuni simboli enochiani disegnati al centro, simili a quelli che avevano usato per nascondersi alla vista degli angeli durante quel fallito tentativo di fuga. Castiel teneva il palmo aperto su una di quelle rune e sussurrava parole incomprensibili in direzione della parete.

Si sentì uno schiocco e la porta iniziò a ruotare lentamente sui cardini con uno cigolio metallico.

Dall’esterno non arrivava il minimo raggio di luce. L’alba doveva essere ancora lontana, oppure era già trascorso un giorno e si era fatta di nuovo sera, Dean non avrebbe saputo dirlo.

In quel momento si sentiva soltanto tradito e offeso, e abusato, e disperatamente confuso.

«Castiel?»

La luna si girò a guardarlo.

«Perché?»

Perché dovrei fidarmi di te, perché sei venuto a propormi un’alternativa alla pubblica esecuzione, perché ti sei offerto di condurmi da Sam, perché mi hai portato da bere, perché mi stai facendo tutto questo.

Una valanga di interrogativi, nascosti dietro una sola parola che lui aveva bisbigliato così piano che se la cella fosse stata un po’ più grande l’angelo non l’avrebbe nemmeno sentita.

Castiel non chiese a quale degli innumerevoli perché corrispondesse quella domanda.

«Perché ho sempre creduto che non mi importasse» rispose a bassa voce «Ma mi sbagliavo»

La porta si richiuse con un tonfo sordo e Dean si ritrovò di nuovo solo con se stesso.

La luna si era spenta.










Siamo ordunque giunti alla fine della prima parte!
Dal prossimo capitolo avremo un radicale (?) cambio di scenografia, che sperò vi piacerà.
Vi ringrazio tantissimo per le ultime recensioni che mi avete lasciato, siete state fin troppo buone <3. Spero di avervi risollevato un po’ il morale con questo aggiornamento e visto che non sono così cattiva — e non voglio darvi false speranze ^^’ — ve lo dico subito: per Sam dovrete aspettare ancora qualche settimana. Ormai siamo in dirittura d’arrivo, ma manca ancora un po’! (poco, vi assicuro)
A sabato prossimo!

P.S. Se siete ancora qui, dopo l'ultimo capitolo, avete davvero tutta la mia gratitudine *-* love u all.

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Capitolo 7
*** La Corte ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






7. La Corte




2 gennaio 2009

Dall’alto dei suoi quattrocentoquarantatre metri d’altezza, l’Empire State Building dominava i resti di una New York spettrale.

L’intero quartiere di Midtown era stato raso al suolo e intorno al grattacielo si estendeva, per chilometri, un deserto grigio di asfalto e calcinacci. Uffici, negozi, palazzi, intere file di villette a schiera: polverizzati.

Dean si sentiva come se stesse camminando su un altro pianeta.

La Corte, composta dai quattro Arcangeli e da buona parte delle gerarchie angeliche superiori, si era insediata all’Empire State Building subito dopo la notte di sangue.

L’edificio aveva centodue piani, gli aveva spiegato Castiel. Fino all’ottantesimo si era più o meno liberi di circolare, sebbene i corridoi pullulavano di angeli e sarebbe stato meglio evitare di bighellonare troppo in giro senza un valido motivo, pur indossando gli abiti di un Collaborazionista.

Dean si sfilò e si rinfilò per l’ennesima volta la giacca azzurrognola nel tentativo di mettersi un po’ più comodo.

Tutto di quell’abbigliamento lo infastidiva.

La camicia gli dava prurito, i pantaloni erano troppo attillati — davvero, come credevano che lui riuscisse a muoversi con quella morsa di stoffa che gli stringeva il culo? — le scarpe gli scorticavano a sangue i talloni e la cravatta lo stava lentamente soffocando.

Adesso capiva perché i Collaborazionisti camminavano come pinguini.

Castiel lo aveva teletrasportato — un’esperienza ancor più sgradevole di quei vestiti — fino a New York, dove lo aveva lasciato a leccarsi le ferite in un vecchio capannone in periferia, insieme ad un pugno di altri derelitti come lui, sotto la sorveglianza di due angeli biondissimi che sembravano gemelli e che non avevano spiccicato una sola parola per tutti e sette i giorni in cui era rimasto lì.

Ketch era stato giustiziato.

Naomi aveva lasciato il suo cadavere in bella vista, in mezzo al cantiere, lì dove fino a qualche giorno prima imbracavano i blocchi di marmo per issarli sulla torre. Dean aveva guardato e se n’era pentito immediatamente: se quello era davvero Ketch, non era più riconoscibile.

Garth aveva piantato un coltello, recuperato chissà dove, nel petto del primo angelo che gli era capitato a tiro, e non era sopravvissuto abbastanza da vedere il bastardo tirarselo via dal petto senza batter ciglio. Il resto degli uomini era stato trasferito in un altro cantiere.

Dean non sapeva se sperare che stessero bene o che morissero presto: lui non avrebbe sopportato di ritornare schiavo, non dopo tutto quello che era successo.

Piuttosto avrebbe preferito fare la fine di Garth.

Castiel camminava spedito, due passi davanti a lui. La comunicazione tra loro si era ridotta all’osso e anzi, Dean il più delle volte non parlava affatto, si limitava ad annuire e a seguire le indicazioni telegrafiche che gli dava l’angelo.

Le grandi porte a vetri del grattacielo erano esplose e non erano mai state sostituite: le schegge appuntite scricchiolavano sotto le loro scarpe.

Quando gli angeli a guardia dell’ingresso si spostarono per farli passare, ciò che sorprese Dean più di tutto fu la luce elettrica, intensa e giallastra, che illuminava l’atrio.

L’ultima lampadina che riusciva a recuperare nei suoi ricordi era quella della sua cameretta a Lawrence, esplosa in un milione di minuscoli frammenti quando, durante la notte di sangue, il primo angelo aveva fatto irruzione nella loro casa.

Per non parlare di quell’incredibile portento tecnologico che gli si parava davanti!

Un anacronistico ‘dlin dlon’ riecheggiò nell’ingresso e le porte scorrevoli di un ascensore scomparirono dolcemente nelle guide della parete, senza un cigolio.

L’anonima cabina metallica gli appariva stupefacente come un’astronave. Esattamente come quando aveva quattro anni.

Castiel — apparentemente senza notare il suo ingenuo stupore — gli fece uno sbrigativo cenno di entrare e schiacciò il pulsante del settantaduesimo piano.

«Una volta entrati, gli umani non possono uscire dal grattacielo senza un permesso o un accompagnatore» principiò «Ti è stata assegnata una stanza personale e nei prossimi giorni ti daremo del lavoro da fare. I pasti potrai ritirarli direttamente alle cucine, al decimo piano. Puoi usare gli ascensori o andare a piedi, ma evita le scale dell’ala est: ci sono dei punti pericolanti»

Il ragazzo annuì, senza guardarlo.

«Cerca di non andartene in giro, non lasciare la tua stanza di notte a meno che non sia strettamente necessario, evita i colpi di testa, obbedisci agli ordini e perfavore» il tono di Castiel si faceva più cattedratico a ogni parola «Non provare a salire da solo oltre l’ottantesimo piano»

«Perché, che cosa succederebbe altrimenti?» sbottò Dean.

L’ascensore gli sembrava lentissimo e la voce dell’angelo che rimbombava in quello spazio ristretto gli montava nel petto una rabbia acida.

Castiel lo spinse bruscamente da una parte e lo bloccò contro la parete metallica dell’ascensore, il gomito e l’avambraccio premuti contro la sua cassa toracica.

Il respiro di Dean si spezzò: con un po’ di pressione in più l’angelo gli avrebbe facilmente spaccato lo sterno.

«Ascoltami bene adesso» sibilò Castiel, a un soffio dalla sua faccia «Gli umani non si svegliano una mattina e si ritrovano Collaborazionisti: gli Arcangeli non si fidano di voi»

Il peso sul petto di Dean si alleggerì un poco.

«Alastair, Abbadon, tutti i Collaborazionisti che conoscevi al cantiere, avevano tradito, e in maniera abbastanza plateale anche» gli rammentò «Cosa che tu non hai fatto. Perciò era necessario che qualcuno ti facesse da garante presso gli Arcangeli»

Castiel mollò definitivamente la presa e il ragazzo fu sopraffatto da una sfilza di colpi di tosse.

«Tu?» gorgogliò con voce strozzata.

L’angelo finì con calma di sistemarsi i polsini della giacca, prima di rispondere.

«Per quanto tu possa detestarmi Dean, sono la cosa più simile ad un amico che tu abbia, qui dentro»

«Oh ma io non ti detesto affatto Castiel» il ragazzo sorrise, sprezzante «Tu semplicemente mi disgusti»

Le porte dell’ascensore si aprirono con un secondo, sonoro ‘dlin dlon’

«Puoi pensare di me quello che vuoi, cerca solo di non ripeterlo davanti ad un altro angelo. Adesso seguimi»

«Non sono il tuo cane»

La mascella di Castiel si contrasse, e per un attimo Dean temette che stesse per sbatterlo di nuovo contro il muro, facendogli male sul serio stavolta.

Invece l’angelo lo spinse fuori, lungo un corridoio asettico dal pavimento piastrellato, e si piantò davanti a lui con le braccia incrociate.

«No, non lo sei» sospirò, stanco.

«Ma questa potrebbe essere l’unica volta in cui almeno fingere di avere un padrone potrebbe salvarti la vita, e non soltanto la tua. In virtù di ciò non diresti, quantomeno, di considerare l’idea di una tregua?»

Poi si incamminò lungo il corridoio senza aspettare una risposta.

Dean gli andò dietro, borbottando.

La camera che gli avevano assegnato era poco più piccola della baracca nella quale viveva fino a una settimana prima e non aveva finestre. Vagamente claustrofobica, ma il ragazzo non se ne accorse nemmeno: la sua attenzione era tutta rivolta verso il letto addossato alla parete.

Era più una branda in realtà, ma aveva una rete, un materasso dall’aria molto più pulita di quello su cui era abituato a dormire, e un cuscino. Delle lenzuola addirittura, impilate assieme ad alcune coperte e asciugamani su una sedia lì accanto.

Di fronte al letto c’erano un tavolaccio di simil-plastica e un attaccapanni.

Una lampadina rotonda pendeva dal soffitto, rischiarando il piccolo ambiente. Dean si mise alla ricerca dell’interruttore ma, non trovandolo, ne dedusse che l’impianto elettrico del settantaduesimo piano doveva essere stato centralizzato, in qualche modo.

Quella stanza era una suite principesca, paragonata al tugurio che aveva in Colorado.

Si sedette sulla branda a riordinarsi i pensieri: non avrebbe rivisto Castiel prima dell’indomani.

Era rimasto solo.

Non avrebbe più trovato suo padre, la sera, ad aspettarlo. Niente più battutine sarcastiche di Meg, commenti burberi di Bobby, facce distrutte, ma conosciute, che lo salutavano con lo sguardo alla fine di una giornata di lavoro. Niente più occhiate complici, informazioni scambiate a bassa voce, commenti sussurrati su quanto sembrasse grasso — e stupido — Zaccaria, cercando di non farsi sentire.

Niente. Niente di niente.

Castiel aveva ragione. Dean non aveva che lui, adesso.

Dopo quell’ultimo, duro, scambio di battute, tra loro era calato di nuovo il silenzio. Ma era un silenzio meno pesante, meno ostinato.

D’un tratto si rese conto che quella mancanza di luce naturale lo confondeva; non aveva la minima idea di che ora fosse e iniziava ad avere fame. Decise di tentare di raggiungere le cucine del decimo piano ma in una manciata di minuti perse completamente l’orientamento.

Quei corridoi gli sembravano tutti uguali.

Di tanto in tanto incrociava un angelo, o un Collaborazionista, e istintivamente si scansava: continuava a dimenticare che ora anche lui stava dalla loro parte. Con quei vestiti addosso, nessuno sembrava preoccuparsi di dove andasse o di cosa facesse.

Continuò a girovagare per un po’, finché non si ritrovò davanti all’ennesima porta chiusa e a quel punto si arrese definitivamente.

Si era perso.

Sbuffò rumorosamente. Fece dietrofront, di scatto, e si scontrò violentemente contro un uomo — o un angelo? — che invece stava andando nella direzione opposta.

«Appena arrivato eh?»

Giacca azzurra.

Dean tirò un sospiro di sollievo. Probabilmente non lo avrebbero punito come sarebbe accaduto se la stessa cosa fosse successa al cantiere, quando era ancora un servitore del cielo, ma lui non aveva certo voglia di far innervosire un angelo durante il suo primo giorno alla Corte.

Il Collaborazionista contro il quale era andato a sbattere era un uomo robusto, non particolarmente grasso ma ben piazzato, sulla sessantina, con occhi e capelli scuri, che gli sorrideva maliziosamente.

«Fidati, ne ho visti a bizzeffe di novellini come te. Te lo si legge chiaro in faccia che ti sei perso»

«Cercavo l’ascensore»

Dean si mise sulla difensiva.

Lo stare — momentaneamente — dalla parte degli angeli non gli rendeva certo gli altri Collaborazionisti più degni della sua fiducia.

«Oh ma ti ci accompagno io!» trillò l’uomo tirandolo per un braccio «A proposito, il mio nome è Crowley»

«D-Dean» balbettò il ragazzo, mentre Crowley lo trascinava su e giù per i corridoi. Ora si sentiva ancora più disorientato di prima.

«Da quanto ti trovi a Corte?»

«Sono arrivato stamattina»

«Carne fresca insomma!» Crowley rise, ma era una risata di circostanza: non sembrava particolarmente interessato a quella conversazione «E dimmi, chi dei tuoi compagni umani hai venduto per comprarti il biglietto per il Paradiso?»

L’espressione di Dean s’indurì «Io non ho tradito proprio nessuno»

A quel punto l’uomo si fermò di botto «Ooooh abbiamo un garante quindi!» chiocciò «No no, non dirmelo, fammi indovinare…»

I suoi piccoli occhi neri adesso erano ben puntati sul ragazzo.

«Non vedo Ezechiel da settimane e tu non mi sembri proprio il tipo di Gabriel perciò…»

Si illuminò «Certo! L’unico angelo che per capire del sarcasmo ha bisogno di un cartello con su scritto ‘sarcasmo’, il nostro bel tenebroso Castiel! Era davvero troppo facile» gongolò compiaciuto.

Dean non credeva che fosse possibile parlare così ad alta voce di un angelo — in quel modo poi — e passarla liscia. Però doveva ammettere che quell’uomo aveva spirito.

«Tu lo conosci?»

Crowley gli lasciò il braccio e lo squadrò dall’alto in basso, gli occhi ridotti a due fessure.

«Io conosco tutti qui dentro, scoiattolino, faresti bene a ricordartelo» mormorò.

L’espressione dell’uomo era cambiata. Dean si sentì di colpo in pericolo.

«Io… io credo che…»

‘Dlin dlon’

Il vano ascensore comparve come un’apparizione divina davanti a loro.

«Bene, ti lascio alle tue avventure, scoiattolino» il Collaborazionista aveva rapidamente ritrovato il sarcasmo irritante di poco prima.

«Se ti serve qualcosa, ricordati di chiamare Crowley»

Appena un secondo prima che le porte si chiudessero, Crowley gli fece l’occhiolino, poi Dean iniziò la discesa verso le cucine.

Arrivò al decimo piano dopo diversi minuti, ma la sensazione stranita che gli aveva messo addosso quell’uomo bizzarro non era ancora passata.

Le cucine erano un inferno di calore e fumo soffocante. Dean era così concentrato a respirare che non vide neanche cosa gli stavano mettendo nel piatto. La donna che lo serviva aveva l’aria esausta di chi dorme troppo poco e i suoi abiti erano grigi e pieni di toppe.

Dean pensò che quella donna doveva odiarlo.

Il cibo scottava ma lui era davvero affamato — era ormai sera, per fortuna al decimo piano c’erano innumerevoli finestre e si riusciva a vedere il cielo — così aveva iniziato a mangiare già in ascensore.

Zuppa di pollo. Deliziosa.

Aveva persino un aspetto appetitoso, mica come quegli agglomerati dal colore indefinito che aveva mangiato per una vita intera. Finì la porzione che ancora non era arrivato al suo piano.

Miracolosamente, riuscì ad arrivare alla sua stanza senza perdersi.

(E per fortuna i bagni erano appena due metri più avanti: vagare alla ricerca di un gabinetto sarebbe stato tremendamente imbarazzante)

Decise di fare il letto e la faccenda si rivelò più complicata di quanto credesse, soprattutto perché non capiva bene dove e come si sistemassero tutte quelle lenzuola. Quando il risultato gli parve accettabile, si spogliò finalmente di quegli strumenti di tortura che erano i suoi vestiti e si stese sulla branda.

Non dormì nemmeno un minuto.

Il volto di suo padre gli compariva davanti appena provava a chiudere gli occhi.

‘Traditore’ gli sussurrava.


3 gennaio 2009

Castiel era improvvisamente comparso ai piedi del suo letto.

«Castiel!»

Dean non si era ancora alzato, né pensava di farlo per il resto della giornata. La notte precedente non aveva chiuso occhio e l’idea di non avere nulla da fare — nessun obbligo, nessun registro col suo nome tra le mani di Zaccaria, nessuno che gli urlasse sopra la testa di essere più veloce, o più attento — era troppo allettante per provare anche solo a uscire dalle coperte.

L’angelo piegò la testa da un lato con espressione incuriosita.

«Sembra che tu non abbia dormito molto stanotte» commentò.

«Qui a Corte non si usa bussare?» protestò il ragazzo, raggomitolandosi sotto le lenzuola «Potevo anche essere nudo!»

Castiel alzò gli occhi al cielo.

«Ti aspetto fuori. E sbrigati che è quasi mezzogiorno: qui a Corte non si usa poltrire così a lungo» lo redarguì prima di richiudersi la porta alle spalle.

Dean si catapultò giù dalla branda e si infilò in fretta e furia i vestiti che aveva abbandonato sulla sedia la sera prima. Litigò per un po’ con la cravatta e alla fine decise che andava bene anche così.

Peccato che Castiel non fosse esattamente della stessa idea.

«Avevo detto di vestirti»

«Sono vestito»

«Non sei nudo. Ma non sei neanche lontanamente presentabile: cosa hai fatto a quei pantaloni per ridurli in quello stato?»

«Ci ho camminato»

Dean avrebbe voluto ribattere che lo stato dei suoi pantaloni era più che presentabile e che le pieghe nei suoi abiti le avrebbe potute notare solo un signor perfettino come lui, ma decise che era meglio tacere.

«Se ti fossi svegliato prima forse avrei potuto farti avere degli indumenti stirati, ma siamo già in ritardo. Vieni»

«Dove andiamo?»

L’angelo si avviò verso l’ascensore «Se vuoi rimanere a Corte non puoi certo startene con le mani in mano, ti è stato assegnato un lavoro da svolgere»

A Dean il lavoro non interessava granché.

«Castiel quando rivedrò Sam?»

L’angelo rallentò il passo.

«Tuo fratello è stato assegnato ad uno dei piani superiori» mormorò «E a quei piani non tutti gli umani possono accedere, anche se Collaborazionisti. Ci vorrà un po’ di tempo prima che gli Arcangeli si fidino abbastanza di te da permetterti di salirci»

Dean strinse i pugni «Quanto tempo?» il sospetto che l'angelo lo stesse ancora ingannando gli avvelenava la voce.

«Non lo so. Una settimana, un mese, non posso dirtelo. Sei appena arrivato, hai gli occhi di tutti puntati addosso, non sarebbe la prima volta che un Collaborazionista fa il doppio gioco»

«E tu pensi davvero che io non lo farò?»

«Non finché non avrai visto Sam. I Collaborazionisti scoperti a fare la spia, Michael li fa volare dall’ultimo piano»

Dean deglutì. L’angelo adesso si era fermato, lo guardava dritto negli occhi, e lui non poté far altro che aggrapparsi a quell’unica, flebile speranza che gli stesse dicendo la verità.

Aveva deciso di fidarsi della luna che aveva illuminato la sua cella, la notte che aveva perso suo padre e ritrovato suo fratello, e quella stessa luna brillava ancora sul fondo dello sguardo di Castiel, come un riflesso d’argento sulla superficie di un lago.

«Cosa vuoi che faccia?»

L’ombra di un sorriso attraversò il viso dell’angelo.

«Teniamo nota di tutto ciò che entra e esce da questo edificio: cibo, merci, persone» iniziò a spiegargli, compunto «I registri vengono compilati dagli angeli o da qualche umano particolarmente fidato, e dopo ne viene sempre fatta una copia, per sicurezza. Tu dovrai occuparti di una parte di questa copia»

«Pensavo che aveste distrutto tutti le nostre macchine non strettamente essenziali» commentò il ragazzo, stupito. L’idea di trascorrere le sue giornate a fare fotocopie non era poi male — una volta da piccolo aveva visto una fotocopiatrice in funzione, all’ufficio postale — se paragonata al trascinare blocchi di marmo per centinaia di metri.

«E’ quello che abbiamo fatto. Non capisco a cosa ti stai riferendo» gli rispose Castiel, mentre un gruppetto di angeli impettiti li superava.

«Le copie dei registri…» una tragica consapevolezza stava già iniziando a maturare nella testa di Dean.

«Tutto viene ricopiato a mano»

Il ragazzo sbiancò «Ma io non so scrivere!»

Stavolta fu Castiel a impallidire. I suoi occhi spalancati sembrava volessero impadronirsi di tutta la sua faccia.

«In che senso?»

«Nel senso che non me l’hanno mai insegnato: so scrivere il mio nome a lettere storte ma non penso che basti»

L’angelo non colse quell’impacciato tentativo di sdrammatizzare e aggrottò la fronte, indispettito.

«E’ inutile portarti da Metatron a questo punto, e immagino che tu non sappia nemmeno leggere»

Dean scosse la testa.

«Beh, io non ho abbastanza tempo per insegnartelo, lo farà Claire»

«Claire?»

Un’espressione sorniona affiorò sulle labbra di Castiel.

«Oh, la conoscerai domani»










Signore e signori, benvenuti a Corte! *inchino da gran dama*
Queste note saranno un po’ lunghe, pardon.
Ci tengo a precisare, come mi è stato giustamente fatto notare, che Abbadon in questa storia è un uomo e non una donna. Non è un dettaglio super importante, visto che il personaggio è comunque già morto, ma tra poco ci sarà un riferimento al fatto che i Collaborazionisti del cantiere fossero tutti uomini, quindi mi pareva doveroso specificare. (grazie lilyy <3)
Inoltre, non sono sicura lo ricordiate quindi lo aggiungo io per chiarezza, Dean rivela a Zaccaria di non saper leggere (conseguentemente nemmeno scrivere) nel primo capitolo.
Il nomignolo che Crowley rivolge a Dean, “scoiattolino”, è la traduzione di “squirrel”, che è appunto uno dei soprannomi che gli affibbia il demone, nel canon.
I primissimi capitoli di questa seconda parte avranno dei toni leggermente più tranquilli, perché dopo tutto il dramma degli ultimi capitoli avevo bisogno di una breve pausa dall’angst (e credo e spero anche voi). Mi auguro di non annoiarvi ^^’’
Vi ringrazio infinitamente per le recensioni allo scorso capitolo <3 e un altro enorme grazie a chi ha aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite.
Alla prossima settimana!
Cheers *.*

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Capitolo 8
*** Una seconda possibilità ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






8. Una seconda possibilità




4 gennaio 2009

Claire aveva quindici anni, lunghissimi capelli biondi e — esattamente come Castiel — non amava perdere tempo in convenevoli.

«Castiel ha detto che sai solo scrivere il tuo nome» esordì senza il minimo pudore.

Era praticamente l’alba quando qualcuno aveva iniziato a bussare insistentemente alla sua porta.

Claire si era fiondata nella stanza senza nemmeno chiedere il permesso: l’angelo le aveva già spiegato tutto e — a suo dire — dovevano iniziare immediatamente.

«Io… ecco… in realtà so anche scrivere qualche altra lettera, un po’ oltre le due parole vado…»

Dean arrossì.

Si aspettava un pomposo donnone, o un angelo particolarmente pedante, non si era certo preparato ad affrontare uno scricciolo autoritario. E lo sguardo inquisitorio che la ragazzetta sembrava stesse affilando su di lui si stava già rivelando molto più imbarazzante del previsto.

«…non sono mica un analfabeta…» finì per balbettare, come se stesse di nuovo giustificando a suo padre l’ennesimo colpo di testa adolescenziale, di quelli che al cantiere avrebbero rischiato di fargli tagliare un orecchio.

In più, Claire era una Collaborazionista.

La giacca azzurra, dal taglio leggermente più sagomato rispetto a quella che portava lui, faceva risaltare ancora di più il dorato brillante dei suoi capelli.

Nel momento in cui la ragazzina gli si era presentata, Dean si era reso conto di non aver mai visto una Collaborazionista donna.

Figuriamoci una che gli arrivava sì e no alla spalla.

Ne era rimasto talmente scioccato che aveva continuato a fissarla per i successivi cinque minuti, finché lei non gli aveva schioccato le dita davanti alla faccia, borbottando improperi che lui non aveva ben compreso ma che era sicuro fossero riferiti ad un certo angelo di loro comune conoscenza.

«Sì, certo, non sei un analfabeta» Claire aveva perso quella sfumatura di superiorità intellettuale con la quale era entrata, solo per assumere un certo tono di condiscendenza.

«Diciamo allora che sei un analfabeta… di livello due»

Dean aggrottò le sopracciglia: se quello era uno scherzo di Castiel, era decisamente di pessimo gusto.

«Ti affideremo la copia dei rendiconti del settantaduesimo piano, cioè questo» cominciò a sciorinare lei, senza minimamente preoccuparsi del suo imbarazzo, né della sua diffidenza.

«Non è un lavoro difficile ma non possiamo affidarti una parte dei registri contabili senza che tu sappia neanche leggerli perciò…»

«Aspetta un attimo…» la fermò lui, confuso «In che senso, ti affideremo?»

Claire sorrise raggiante.

«Io dirigo il settore della contabilità per conto della Corte, dal settantesimo all’ottantesimo piano!» esclamò, orgogliosa come una bambina che ha appena ottenuto la parte di Biancaneve alla recita scolastica.

«Fantastico…»

Dean invece si sentiva come se gli avessero appena appioppato la parte dell’ultimo nano, quello un po’ scemo. Aveva già bofonchiato un bel po’ d’imprecazioni a mezza bocca, quando la ragazza gli squadernò sotto il naso un libro che puzzava di stantio.

«Tra un ora devo andare via» dichiarò «Devo fare rapporto a Metatron. Perciò ora impegnati, non abbiamo tempo per tergiversare»

«Cosa significa tergiversare?»

Claire alzò gli occhi al cielo.

«Questa Castiel me la paga»




Passata un’ora, Dean si era pienamente convinto di essere un analfabeta di livello zero. Meno di zero. Zero spaccato, che più zero non si sarebbe potuto.

La quindicenne l’aveva appena salutato con la stessa rapidità implacabile con la quale si era presentata e se n’era andata a passo svelto, con i capelli che le ondeggiavano intorno alla testa come un’aureola.

Lui era stremato.

Claire non gli stava insegnando a scrivere, quello era un corso intensivo supercompresso al quale solo un individuo con spiccate tendenze masochistiche avrebbe avuto speranza di sopravvivere.

Qualcuno tipo Sam.

Sam avrebbe adorato quella ragazzina so-tutto-io: gli brillava la stessa intelligenza negli occhi.

Inutile dire che suo fratello aveva imparato a leggere e a scrivere quasi completamente da solo e molto meglio di lui. Tutti i libri che circolavano illegalmente nel cantiere li aveva letti e riletti fino allo sfinimento, nonostante John Winchester si sgolasse nel tentativo di proibirglielo.

Sam.

Secondo Castiel, se voleva rivederlo avrebbe dovuto mantenere un basso profilo, e collaborare per davvero, il che implicava rompersi la testa sopra quella mezza tonnellata di libri che Claire gli aveva lasciato spietatamente sul tavolo.

Lanciò un’occhiata disperata al mucchio di fogli scarabocchiati davanti a lui. Colonne ordinate di sillabe e numeri da una parte — la scrittura rotonda della ragazza — e dall’altro i suoi ultimi tentativi della mattinata: un ammasso di segnacci.

Si sfregò gli occhi con la punta delle dita: non aveva dormito nemmeno quella notte. La voce di suo padre si era tramutata in un rombo assordante che aveva riempito la sua testa fino a fargli credere che stesse per scoppiare.

Non aveva potuto far altro che girarsi e rigirarsi tra le lenzuola fino all’arrivo di Claire, premendosi inutilmente i palmi delle mani sulle orecchie nello sforzo vano di attutire quelle urla.

Lo specchio del bagno gli aveva restituito un riflesso molto più invecchiato di quanto credesse.

Scosse la testa come a voler scacciare via quel pensiero e si arrotolò le maniche della camicia fin sopra il gomito: sonno o no, non era ancora arrivato il momento di autocommiserarsi.

L’idea che suo fratello stesse camminando a poche decine di metri sopra di lui bastava a mettergli addosso una frenesia incontenibile: doveva ottenere quel lavoro, e doveva ottenerlo presto.


9 gennaio 2009

Era così giovane, nel sogno, suo padre. E aveva un sorriso così buono.

Quindi perché lui si sentiva soffocare?

Intorno al collo aveva un cappio azzurro, e i suoi piedi dondolavano nel vuoto.

«E’ questo quello che succede ai traditori come te»

La mattina seguente Claire lo trovò che si contorceva sul pavimento.

Durante la notte era caduto dal letto, ma non era bastato a farlo svegliare.


19 gennaio 2009

«Stai facendo progressi» azzardò Claire, dopo una rapida occhiata ai suoi ultimi esercizi di scrittura.

Erano settimane che Dean non usciva dalla sua camera, se non per ritirare i pasti.

Le luci al settantaduesimo piano si spegnevano intorno alle nove di sera per riaccendersi di buon mattino — ormai l’aveva imparato — il che significava che lui rimaneva chino sui libri per qualcosa come dodici o tredici ore.

Castiel non si faceva vivo da giorni e l’unica persona con la quale lui avesse scambiato più di due parole era quella ragazzetta bionda. Aveva incrociato di nuovo Crowley, stavolta nelle cucine, ma l’uomo non era stato loquace come al loro primo incontro.

Dean, inoltre, aveva l’impressione che sebbene fossero entrambi vestiti d’azzurro, il resto degli uomini trattasse Crowley con una riverenza ben più forzata rispetto a quanto facessero con lui. Come se fossero molto più spaventati da lui che da qualunque altro Collaborazionista. Si era ripromesso di parlarne con Castiel, o con Claire, non appena avesse avuto un po’ più di tempo a disposizione.

«Quando pensi che potrò iniziare a lavorare per davvero?»

Claire si mordicchiò il labbro, pensierosa.

«Tra poco, se continui a impegnarti. Metatron è un tipo maniacale, ma non gli interessa poi tanto la bella scrittura. Prova a risolvere queste» la ragazza gli allungò un foglio pieno zeppo di operazioni. Quella mattina non aveva molto da fare e aveva deciso di insegnargli le basi dell’aritmetica. Fortunatamente, Dean possedeva già un po’ di conoscenza in materia e così procedevano spediti da più di due ore.

«Senti Claire, posso chiederti una cosa?»

«Perché qui bisogna spostare la virgola di due spazi?»

«No, no» Dean avvampò: sebbene stesse migliorando, durante le lezioni con Claire continuava a sentirsi un bambino interrogato dalla maestra «Cioè… anche quello, però magari tra un minuto»

La ragazzina corrugò la fronte ma, di contro, la sua espressione sembrava quasi divertita.

«Ti ascolto allora»

«A te chi ha insegnato tutto questo?»

Claire non finse di nascondere quel sorriso.

«E’ stato Castiel»

Dean si fermò con la matita a mezz’aria, temporeggiò un paio di secondi e infine sbagliò il risultato della moltiplicazione che attendeva pazientemente di essere risolta già da qualche minuto.

«La cosa ti sorprende?» domandò lei correggendogli l’errore.

«I bambini non sono benvisti qui a Corte… né da nessun’altra parte in realtà» sospirò «Sono rimasta orfana a sei anni: mi avrebbero trasferito alla cava più vicina e avrei iniziato a spaccare pietre appena raggiunta l’età minima, se non fosse stato per Castiel. Prova a immaginare…»

Ridacchiò, cercando — stavolta sì — di nascondere gli occhi lucidi «…una nanerottola alta un metro vestita da Collaborazionista!»

Dean s’intenerì. Claire aveva abbassato la voce, era strano sentirla parlare così dolcemente, lei che di solito aveva il piglio d’un generale.

Le moltiplicazioni ormai erano state abbandonate a loro stesse.

«Non è stato facile sai, per Castiel, convincere gli Arcangeli. I Collaborazionisti si chiamano così per un motivo, e io a sei anni per gli angeli non rappresentavo altro che un peso, ero una nullità»

«Castiel ha garantito anche per te?»

La ragazza annuì «Non mi ha mai rivelato come avesse fatto a convincerli, ma immagino abbia sparato qualche cazzata del tipo che io sarei stata la prima umana a credere davvero nella causa degli angeli e che gli sarei stata per sempre grata per avermi permesso di diventare una Collaborazionista, o qualcosa del genere»

Il ragazzo si irrigidì.

«Ed è così? Stai davvero dalla loro parte?» sibilò.

«Sarò anche vestita come un Collaborazionista, ma non sono una stupida»

Claire fece schioccare la lingua contro il palato.

«I miei genitori lavoravano nelle lavanderie, al terzo piano. Dodici ore al giorno, non hai idea di quanto possa essere irrespirabile l’aria in una stanza in cui sono contemporaneamente in funzione dodici ferri da stiro. Per non parlare degli acidi e di tutto il resto dei detersivi: si sono fottuti i polmoni nel giro di un paio d’anni»

Dean si morse l’interno della guancia.

«Scusa» mormorò «Non potevo saperlo»

«Non fa niente» la ragazza alzò le spalle «La cosa peggiore in realtà era quando qualcosa andava storto: una macchia, una piega, uno strappo di cui nessuno si accorgeva. Un giorno un angelo ha sollevato di peso mio padre e lo ha lanciato contro il muro solo perché la sua giacca gli era arrivata con un bottone in meno»

Adesso il ragazzo voleva soltanto sprofondare: non avrebbe mai dovuto farle quella domanda.

«Claire io… io non volevo insinuare nulla, sono stato uno sciocco»

«Sì sei davvero uno sciocco Dean Winchester, a pensare certe cose di me» lo riprese lei, piccata. Quantomeno le si era dissolta tutta quell’amarezza nella voce.

«Però una cosa è vera» ammise, accoccolandosi sulla branda, con le ginocchia contro il petto «Sarò sempre grata a Castiel per quello che ha fatto per me: io non avrei rischiato il mio dito mignolo, se fossi stata al posto suo»

C’era qualcosa di bizzarro, in quell’ultima frase, che iniziò a ronzare nella testa di Dean senza che lui fosse in grado di identificare di cosa si trattasse.

Probabilmente era solo stanchezza accumulata.

«E poi Castiel è gentile» si premurò di sottolineare la quindicenne «E non ha mai lanciato contro il muro nessuno, soltanto per dei vestiti stirati male!»

Di questo Dean non era molto sicuro, considerata la strigliata che si era beccato dall’angelo — appena qualche settimana prima — per i suoi pantaloni stazzonati, ma si limitò ad assimilare quel pugno d’informazioni senza fare ulteriori commenti.

«Bene, abbiamo chiacchierato anche troppo!» la ragazzina saltò giù dal letto, riavvicinandosi al tavolo «Eravamo rimasti a quella virgola che andava spostata di due spazi…»

Dean rimase incollato alla sedia fino a pomeriggio inoltrato, quando iniziarono a bruciargli gli occhi e decise di lasciare la sua stanza per sgranchirsi un po’ le gambe.

Non riusciva a smettere di pensare a Castiel, e a quello che gli aveva rivelato Claire quella mattina.

Nel profondo della sua coscienza sapeva di nutrire anche lui una certa riconoscenza nei confronti dell’angelo, nonostante tutto, eppure si rifiutava ostinatamente di accettarlo.

Forse — dopo il suo promesso ricongiungimento con Sam — avrebbe anche potuto concedere a Castiel una seconda possibilità.

Forse.

Ma, per il momento, continuare a covare rancore gli offriva un ottimo diversivo al senso di colpa che la notte continuava a impedirgli di dormire, e che aveva il volto e la voce di John Winchester.

Continuò a bighellonare per svariati minuti — il settantaduesimo piano era un infinito labirinto di porte tutte uguali, come il resto del grattacielo dopotutto — finché non sentì un fruscio di seta dietro di lui.

Freddo.

Viscido.

La sensazione di una lingua gelida che risale lungo la spina dorsale.

«Ma tu guarda che bella sorpresa!»

Lucifer.

I suoi incubi che si rapprendevano sotto uno sfarfallante tubo al neon.

Dean si fece da parte per lasciarlo passare. Oh, se solo avesse avuto di nuovo tra le mani quella calibro 22.

«Mi avevano detto che avevamo un altro Winchester a Corte, ero sicuro che fossi tu»

Sebbene il ragazzo avesse cercato di farsi il più minuscolo possibile per non essere notato — o almeno per non poter essere tacciato di insolenza — l’angelo si era fermato proprio davanti a lui.

Mellifluo. Nauseante.

Non rispondere, gli suggeriva la voce di Castiel, intrappolata da qualche parte dentro al suo cranio.

Non rispondere.

Lucifer stirò le labbra e tirò la seconda stoccata «Tuo padre non sarebbe andato da nessuna parte con quel carattere così irritabile»

Non rispondere, continuava la voce. Ma stava già diventando troppo difficile.

Perché se lo ricordava con una precisione atroce.

Poteva rivederlo in quell’istante, sotto i suoi occhi come se si trovasse ancora al cantiere e non in quell’anonimo corridoio, il ghigno vittorioso dell’Arcangelo, mentre suo padre urlava a pieni polmoni tutto il dolore che un umano potesse contenere, e il raccapricciante fiotto scarlatto che sgorgava da quella che fino a un attimo prima era la sua mano destra non era stato neanche lontanamente paragonabile all’espressione di Sam, quando era stato trascinato via.

Non rispondere.

«Oh, Castiel deve averti addomesticato proprio per bene!»

L’Arcangelo rise, con la risata di una iena. Infilò le mani nella tasca della giacca e si piegò leggermente in avanti, fin quasi a sfiorare la fronte del ragazzo con la sua.

E lui avrebbe voluto sputargli addosso, ma non aveva nemmeno il permesso di guardarlo in faccia.

«Non pensavo che potessi diventare così remissivo»

Non rispondere. Non ris-

Un dolore ferroso esplose sotto i denti di Dean. Si era appena morso la lingua a sangue.

Inghiottì rosso e veleno.

Lucifer si staccò da lui e lo oltrepassò, ciondolando: l’assenza di una replica gli aveva fatto perdere ogni interesse nel proseguire quella conversazione.

I suoi abiti — notò il ragazzo, confusamente sorpreso — erano bianchi come quelli di Castiel, ma non brillavano affatto come i suoi.

«Porterò a Sam i tuoi saluti!» trillò l’Arcangelo, prima di girare l’angolo e scomparire.

Dean scivolò con le spalle contro il muro. Le viscere gli si contorcevano neanche si fossero trasformate in anguille vive.

Prese un paio di respiri profondi, obbligandosi a riflettere.

Si trovava a Corte: era probabile che prima o poi avrebbe incrociato un Arcangelo.

Suo fratello era vivo e presto l’avrebbe rivisto — Castiel gliel’aveva assicurato, dopotutto — quell’incontro non cambiava le cose e lui non aveva alcun motivo di preoccuparsi. Andava tutto bene.

Riuscì ad arrivare ai bagni appena in tempo.

Si piegò in due sulle mattonelle e vomitò, tremando, tutta la bile che il suo corpo aveva prodotto dopo soli cinque minuti al cospetto di quell’essere ripugnante, mentre le angoscianti visioni delle notti precedenti gli accarezzavano dolcemente la schiena.

Col cazzo che andava tutto bene.

Uscì dal bagno con la camicia zuppa di sudore. Adesso voleva soltanto stendersi sul letto e dormire, o almeno provarci. L’idea di ripiombare in un altro incubo lo atterriva ancor più che il dover trascorrere la nottata in bianco. Gli era passata anche la fame.

S’imbatté in Castiel a due metri dalla sua camera.

«Ciao Dean» — esordì amichevolmente l’angelo — «Stavo giusto venendo da te. Come sta andando con Claire? Mi ha detto che stai facendo progressi»

Lui grugnì un saluto poco cortese.

«Sta andando bene, credo» borbottò superandolo, per poter accedere — finalmente — alla sua dannata stanza.

«Deduco che la mia proposta di tregua non sia stata accettata» commentò Castiel senza scomporsi, squadrandolo con gli occhi socchiusi.

Dean non aveva proprio voglia di mettersi a discutere lì, in mezzo al corridoio, in quelle condizioni pietose.

«Sono solo stanco» sintetizzò.

«Ho incontrato Lucifer poco fa»

Il suo stomaco si contrasse violentemente — per la seconda volta nell’arco di un’ora — e il ragazzo si rivide nuovamente spezzato in due, sul pavimento freddo del bagno.

Castiel gli fu accanto in due passi, la punta delle sue dita a lambirgli la fronte madida.

«Non può farti del male, lo sai» il tocco dell’angelo era fresco, piacevole. Come la sera in cui gli aveva curato le ferite inflittegli da Alastair.

Ferite che non gli aveva certo curato per puro e disinteressato buon cuore.

Dean si scostò.

«Lucifer ha Sam» gracchiò, ma era troppo stanco per apparire davvero stizzito.

Inoltre, la velatura acida che gli era rimasta attaccata alla lingua gli rendeva difficile parlare senza tradurre il suo disagio in smorfie disgustate.

«Può farmi del male in ogni momento e lo sa, e sembra anche trovarlo molto divertente» esalò infine, avvilito.

Un’increspatura contrita si propagò attraverso i lineamenti di Castiel.

«Mi dispiace» disse.

Dean alzò un sopracciglio. Era la prima volta che sentiva un angelo chiedere scusa per qualcosa.

«Ero venuto per darti una notizia, comunque» si affrettò ad aggiungere Castiel, recuperando in un battito di ciglia la sua solita impassibilità.

«Da domani potrai iniziare a lavorare per Metatron. Claire ti mostrerà cosa fare»

Nonostante il suo aspetto dovesse assomigliare più a quello di un fantasma che a quello di un uomo, Dean si sentì improvvisamente di nuovo pieno di energia.

«Presentati vestito come si deve, stavolta» ci tenne a precisare l’angelo, incapace di nascondere una punta di nervosismo nella voce.

«Ti è stata concessa una seconda possibilità, Dean. Fa in modo di non sprecarla»











Ebbene, ancora niente Sam. Ma almeno è arrivato Lucifer, è pur sempre qualcosa, no? ^^’
Vi ringrazio immensamente per le recensioni lasciate all’ultimo capitolo, perché sono sempre - e lo siete anche voi - preziosissime per me ♡
Grazie a chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferite, sono molto curiosa di sapere cosa ne pensiate anche voi di quest’altro capitolo, di Claire, del comportamento di Castiel e di tutti gli annessi e connessi.
Vi auguro un buon weekend e vi mando un grande abbraccio *^*
A sabato prossimo!
Cheers ❀*

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Capitolo 9
*** Qualcosa per cui valga la pena ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






9. Qualcosa per cui valga la pena




22 gennaio 2009

«Sam?»

«Non mi parlare»

«Sam…»

Dean avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma quel nome era l’unica parola che riuscisse a sillabare. L’intero alfabeto si era ristretto a tre lettere.

«Sono morto. Non mi puoi parlare»

Suo fratello aveva indosso una maglietta grigia. Il che era impossibile, quella maglietta era rimasta sul fondo del vecchio baule in Colorado. Insieme a una foto sbiadita.

«Papà è morto. Io sono morto. E tu ci hai tradito»

«Sam…»

Maledizione, quelle tre dannate lettere.

«Io l’ho fatto per te… soltanto per te…»

Patetico.

«E dove sei Dean? Dove sei adesso?»

No. No, no, no.

«Sono morto, Dean. Sto morendo, dieci piani sopra la tua testa»

Il ragazzo si risvegliò urlando.


23 gennaio 2009

Ogni volta che Dean si trovava in presenza di Metatron doveva sforzarsi di non fissarlo: l’aria stralunata e gli abiti perennemente spiegazzati lo rendevano l’angelo più strambo che lui avesse mai visto.

Inoltre avrebbe avuto urgentemente bisogno di un barbiere; quei riccioli grigi e oleosi, che Metatron non smetteva mai di arrotolarsi intorno all’indice, certe volte gli sembravano dotati di vita propria.

«…e infine questi»

L’angelo barcollò verso di lui, una pila di registri in precario equilibrio tra le braccia. Quando glieli passò Dean per poco non crollò sotto tutto quel peso.

Metatron era stato talmente soddisfatto del lavoro svolto dal ragazzo in quei due giorni di prova, che gli aveva assegnato un’intero scaffale dell’immenso deposito contabile nel quale, a detta di Claire, l’angelo aveva deciso di trasferirsi in pianta stabile.

Era così assurda l’idea di un angelo rinchiuso in quel magazzino come un topo di biblioteca che all’inizio Dean non le aveva creduto. Tuttavia aveva dovuto convenire con lei sul fatto che la faccia di Metatron avesse lo stesso colore delle pagine dei registri, e che i suoi occhietti neri assomigliassero in maniera impressionante a due macchie d’inchiostro perfettamente tonde.

«Quando finisci di ricopiarne uno, riportalo immediatamente qui insieme alla copia» gli raccomandò «E non provare a fregarmi Winchester. Conosco a memoria il contenuto esatto di quei registri, prova a cambiare anche solo una virgola e ti stacco le orecchie»

Dean deglutì.

«Sissignore, non mi permetterei mai, signore»

Nonostante l’aspetto bizzarro e l’atteggiamento impacciato, Metatron rimaneva comunque un angelo dal temperamento piuttosto suscettibile, gli aveva confidato Claire. Era facile farlo irritare, se non lo si trattava con il giusto ossequio. E se lui voleva davvero rivedere suo fratello — in tempi ragionevolmente brevi almeno — non gli conveniva far irritare nessuno, men che meno il celestiale piccione di cui era alle dirette dipendenze. Il suo autocontrollo implorava già pietà.

«Bene» Metatron tornò a sedersi alla scrivania addossata alla parete in fondo al deposito e si rimise a compilare le sue carte.

Dean rimase sulla porta, incerto sul da farsi.

Il peso dei registri stava diventando insostenibile: i muscoli delle braccia iniziavano già a fremergli debolmente.

L’angelo si ricordò di lui appena in tempo.

«Puoi andare» borbottò distrattamente facendogli un cenno con la mano, senza nemmeno alzare lo sguardo dal foglio su cui scriveva.

Dean si precipitò fuori mentre le sue labbra scandivano meccanicamente svariati ‘Grazie, signore’.

Claire lo trovò nella sua camera che si stiracchiava come un vecchio gatto. Stare seduto così tante ore con la testa china gli faceva scricchiolare tutte le ossa.

«Ti ho portato la cena» annunciò con solennità.

«A cosa devo questa improvvisa gentilezza?» s’insospettì immediatamente lui.

«Sarò sincera» la ragazza posò il piatto sul tavolo, pericolosamente vicino alle ultime due ore di lavoro di Dean «Castiel mi ha detto di tenerti d’occhio»

Il ragazzo roteò gli occhi «Perché non mi attacca un campanello al culo allora, se vuole sapere dove vado?» sbuffò.

Aveva imparato a badare a se stesso a cinque anni: non aveva alcun bisogno di una balia con gli occhi blu.

«Non fare il bambino» lo rimproverò Claire «E poi Castiel non è certo l’unico a controllarti»

«Cosa intendi dire?»

«Gli angeli si stanno assicurando che tu non sia una spia» Claire tirò su dal piatto un grosso pezzo di carne sugosa e lo addentò con gusto «Mmmmmh, è davvero ottimo! Dovresti mangiare prima che si raffreddi»

Dean si accigliò.

«Ecco, questo non avrei dovuto dirtelo…» la ragazza finì di masticare e si pulì la bocca con la manica «Ma ormai… sappi che il cagnolino preferito dagli angeli ti si è messo alla calcagna»

Dean strappò il piatto dalle mani di Claire prima che lei potesse sottrargli un altro boccone.

«Chi?»

Lei fece una smorfia.

«Si chiama Crowley. E’ un Collaborazionista anche lui e sembra molto più simpatico di quanto non sia»

A Dean tornò in mente il suo primo giorno a Corte. Forse non si era imbattuto in Crowley per caso, forse l’uomo lo stava seguendo di proposito. In quel momento capì cosa intendesse Castiel quando gli raccomandava di non andarsene in giro senza motivo. Quel posto pullulava di serpenti pronti a saltare alla gola al primo passo falso.

«Sì… l’ho conosciuto» mormorò iniziando a mangiare «Ma dimmi di più»

Cavoli, Claire aveva ragione, quella carne era davvero ottima.

«Dicono che sia stato uno dei primi umani a collaborare con gli angeli» cominciò lei a bassa voce «Circolano un sacco di storie su di lui: alcuni sostengono che fosse un agente segreto e che abbia consegnato agli angeli il presidente degli Stati Uniti in persona»

Si sedette sulla branda e fece una pausa a effetto, soltanto per godersi la faccia incredula di Dean.

«…secondo altri, invece, ha tradito tutta la sua famiglia, pur di ottenere un posto qui a Corte. Quel che è certo è che Crowley vive qui da anni, mi ricordo di lui quando ero bambina. E ha un talento naturale per scovare le spie… per questo gode di tanta considerazione tra gli angeli»

Il ragazzo ingoiò l’ultimo tocco di carne e si lasciò andare pesantemente contro lo schienale della sedia.

«Ci mancava solo lui…» brontolò indispettito.

«Beh, ora sai più o meno tutto» Claire saltò giù dalla branda «Adesso devo andare, tu evita di metterti nei guai, intesi?»

«E questo?» Dean recuperò il piatto vuoto abbandonato sul tavolo e glielo porse.

«Devo tenerti d’occhio, non sono mica la tua cameriera»

Claire uscì con un sorrisetto divertito sulle labbra, e lui rimase in mezzo alla stanza con la stoviglia sporca tra le mani.

Quella ragazzina lo avrebbe mandato fuori di testa.


25 febbraio 2009

I suoi occhi non si abituavano mai al buio.

Diventavano sempre più ciechi, a ogni minuto, e gli incubi imprimevano a fuoco sagome e volti direttamente sulla sua retina.

Di solito era suo padre, ma ultimamente era molto più spesso Sam.

Erano passati quasi due mesi dal suo arrivo a Corte — suo fratello era un’entità astratta durante il giorno, un fantasma vendicatore durante la notte — e lui si sentiva impazzire.

«E dove sei Dean? Dove sei adesso?»


1 marzo 2009

Suo padre camminava davanti a lui ma il ragazzo lo vedeva da una strana prospettiva: sembrava che John fosse molto più alto e molto più grosso di quanto ricordasse.

«Papà dove stiamo andando?»

Anche la sua voce era strana: acuta, infantile, il timbro limpido di un bambino.

Nel sogno, Dean aveva dieci anni.

«Te lo dico dopo. Stammi vicino e occupati di Sam»

Sam. Si guardò intorno ma non c’era nessuno, tranne loro due.

Perché suo fratello non c’era? Avrebbe dovuto stare più attento.

John si fermò di scatto e Dean andò a sbattere contro la sua schiena.

«Che cos’hai fatto?»

Adesso l’uomo che gli stava davanti aveva il volto di Sam, e John era riverso sul terreno accanto a loro, a faccia in giù in una pozzanghera di sangue e materia grigia.

Poi il sogno cambiò, ma solo Sam scomparve. Dean aveva di nuovo trent’anni e si trovava in uno dei condotti del vecchio acquedotto in Colorado.

«Che cos’hai fatto?»

Suo padre si era rovesciato su un fianco e le sue orbite vuote erano puntate su di lui.

Non riusciva a muoversi; i suoi piedi sembravano incollati al suolo.

«Che cos’hai fatto?»

John iniziò lentamente a decomporsi sotto i suoi occhi.

Il sangue gli colava dalla bocca, dal naso, e la sua pelle si fece prima pallida, poi grigia, infine giallastra e avvizzita come la buccia di una mela.

«Che cosa hai fatto?»

Le gengive gli si ritiravano sotto denti. I capelli, al contrario, cominciarono a crescergli a dismisura.

«Che cosa hai fatto?»

Un ragnò sbucò zampettando dalla sua orbita destra e Dean si svegliò ansimando, in un bagno di sudore gelido.

Migliaia di puntini luminosi gli ballavano davanti agli occhi.

Si mise seduto e sbatté le palpebre finché la vista non gli ritornò normale, e continuò a sbatterle anche dopo il dissolversi dell’ultimo puntino, finché non fu sicuro che la luna che rischiarava la sua stanza fosse reale e non un altro incubo.

«Castiel, ma che…»

Anche solo articolare un pensiero gli costava una fatica immensa.

Le prime tre parole sensate che le sue sinapsi riuscirono a trasmettere alla lingua furono: «Che ore sono?»

Castiel teneva tra le mani uno dei registri che lui non aveva ancora finito di ricopiare, ed era splendido e concreto come una divinità pagana.

«Le cinque del mattino, più o meno»

Se ne stava mollemente accomodato sulla sedia, completamente abbandonato contro lo schienale, in una posizione rilassata che il ragazzo non credeva che quella spina dorsale — perennemente dritta come una scopa — fosse in grado di assumere.

«Noi non abbiamo bisogno di dormire, in caso te ne fossi dimenticato. Dovevo fare alcune verifiche, Claire mi ha detto che non avevi ancora restituito i registri»

Si era tolto la giacca.

Senza quella sovrastruttura squadrata, le linee perfette dei muscoli delle sue spalle guizzavano sotto la seta morbida della camicia.

«Era una cosa urgente, non potevo aspettare domattina. Non volevo svegliarti» aggiunse a mo’ di scusa.

Dean si agitò sul materasso «Non mi hai svegliato»

Nel sonno, le lenzuola gli si erano avviluppate addosso come un sudario «Era… era solo…» il sudore freddo che gli si asciugava sulla pelle lo faceva rabbrividire.

Che cosa hai fatto?

L’eco del sogno gli spezzò il respiro. Castiel chiuse il registro e lo posò sul tavolo.

«Un incubo» terminò la frase al posto suo.

«Già»

«Da quanto tempo li hai?»

Dean tentennò, prima di rispondere «Dalla prima notte»

L’angelo chiuse gli occhi per un istante.

«Ho sempre trovato i sogni degli umani assai bizzarri» esordì dopo qualche secondo.

«Durante la notte è come se una parte della vostra mente cercasse disperatamente di comunicare con l’altra tramite strane metafore. E’ un tipo di comunicazione che si rivela inutile il più delle volte, se non autodistruttivo»

«E a voi angeli non succede mai?» ribatté il ragazzo, improvvisamente infastidito.

Detestava quel modo che aveva Castiel di riferirsi agli uomini, come se stesse descrivendo il comportamento degli scimpanzé alla scolaresca in visita alla zoo.

Castiel inclinò la testa da un lato «Di sognare? E come potremmo?»

«Di tentare in tutti i modi di non pensare a qualcosa, perché altrimenti finiresti per prendere il muro a testate, pur di farti uscire a forza quel pensiero dal cervello!»

Cazzo, era esausto.

Eppure — tecnicamente —si era appena svegliato.

L’angelo abbozzò un sorriso malinconico «Ogni secondo, di ogni minuto, di ogni giorno» sussurrò «La mente degli angeli non può nascondersi da se stessa: le nostre paure camminano davanti a noi costantemente, non solo nei sogni»

«Credevo che voi non aveste mai paura» adesso, Dean si sentiva piuttosto confuso.

Forse stava ancora dormendo e quella conversazione si stava svolgendo solo nella sua fantasia. Avrebbe spiegato anche il perché si sentiva così stanco.

«Che cos’è che temete, voi angeli? Che il cielo vi cada sulla testa?»

Castiel sbuffò qualcosa che avrebbe potuto assomigliare a una risata «Se te lo dicessi non mi crederesti»

La penombra in cui la stanza era immersa gli smussava tutti gli angoli del volto. Il ragazzo avrebbe giurato che anche la voce gli si fosse ammorbidita.

«Il punto, Dean, non è la paura. La paura c’è sempre. Il punto è se esista ancora qualcosa per cui valga la pena avere coraggio» lo guardò.

Quegli occhi.

Quei fottutissimi occhi celesti, o blu, o neri, qualunque colore avesse avuto il cielo all’inizio del mondo, Dean era sicuro che sarebbe stato quel colore lì.

«Sto impazzendo, Castiel»

Era tutto, troppo. Quella docilità forzata che era stato costretto a indossare assieme al resto dei vestiti azzurri, quel letto, quel grattacielo, la risata di Lucifer, Sam che chissà se era ancora vivo e chissà se lui avrebbe mai davvero potuto rivederlo, gli incubi che ormai prendevano forma e vagavano liberamente nella sua camera senza che lui potesse fare più nulla per scacciarli via.

Era stanco, era al limite, il coraggio era finito. Adesso era rimasta soltanto la paura a camminare davanti a lui.

«Nel sogno c’era mio padre»

E il rimorso.

L’angelo abbassò lo sguardo.

«O forse era solo la personificazione del senso di colpa per averlo lasciato morire come un cane in quel condotto» Dean si passò una mano sul viso «Nessun uomo meriterebbe di finire così, mangiato dai ragni, senza nemmeno un addio…»

Le ultime parole gli morirono tra le labbra.

John avrebbe meritato un rogo funebre così alto da ardere per una notte intera, e invece il suo cadavere era rimasto a marcire a un bivio irrintracciabile di un acquedotto dismesso. Non se lo sarebbe mai perdonato.

Tuttavia, si rese conto in quell’istante, il solo parlarne ad alta voce sembrava rendere i suoi incubi meno spaventosi.

«Nessun uomo è rimasto dentro l’acquedotto» mormorò Castiel, con le pupille piantate sulle sue mani intrecciate in grembo «Nè vivo, né morto: ho bruciato il corpo di John Winchester io stesso»

Dean strabuzzò gli occhi. Una riconoscenza infinita iniziò a traboccargli dal cuore e a riscaldarlo come se gli avessero appena posato sulle spalle una coperta tiepida.

«Non me lo avevi mai detto»

«Non ne ho mai avuto l’occasione»

Per un po’ nessuno dei due parlò.

Dean si lasciò cadere all’indietro, sul materasso. Sebbene fosse ancora a pezzi, e assonnato, si sentiva leggero come se fino a quel momento su di lui stesse ancora gravando il peso di uno dei blocchi di marmo della cava.

«Grazie» bisbigliò al soffitto.

Castiel fece soltanto finta di non averlo sentito.

Si alzò, recuperò la giacca dall’attaccapanni e — una volta in piedi — anche il suo tipico portamento da stoccafisso, ma Dean si accorse di non trovarlo così irritante come prima.

«Datti una sistemata, tra un’ora, o giù di lì, tornerò a prenderti»

Il ragazzo balzò giù dal letto, allarmato.

«Dove andiamo? Devo vedere Metatron domattina, cioè, stamattina… ma che ore sono?»

Aveva di nuovo perso il senso del tempo: cominciava a odiare quella camera senza finestre. Avrebbe avuto bisogno di una doccia gelata e poi di una doccia bollente, ma nei bagni del settantaduesimo piano era già tanto se arrivava l’acqua.

Castiel gli rivolse uno sguardo comprensivo.

«Non preoccuparti, conosco i tuoi impegni. Ma direi che hai aspettato abbastanza»

Dean trattenne il fiato.

«Andiamo da Sam»











Eeee… sorpresa! (doppia sorpresa, anzi eh eh eh)
Avrei dovuto aggiornare domani ma mi sono appena resa conto che per il resto del weekend non avrò con me il computer, perciò eccomi qua.
Lo so che ormai avevate perso le speranze ma… finalmente sta per arrivare anche il momento di Sam! Ed era ora, direte voi, e avete perfettamente ragione ^^’
Come sempre, grazie alle mie dolcissime e pazientissime lettrici per le recensioni dell’ultimo capitolo ♡
Non vedo l’ora di leggere le vostre ipotesi riguardo all’ormai prossima comparsa del nostro adorato Winchester mancante.
Vi auguro un buon week-end e vi mando un grande abbraccio.
A sabato prossimo ❀* (per davvero, stavolta)

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Capitolo 10
*** Piano ottantaquattro ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






10. Piano ottantaquattro




1 marzo 2009

Lo schermo bluastro e pieno di graffi incastonato nella parete dell’ascensore segnava il numero ottantaquattro. Il quattro continuava a tremolare e a sparire come se la cabina metallica non fosse pienamente convinta di volersi fermare, ma preferisse continuare a scivolare ancora per un po’, libera e indisturbata, nel ventre silenzioso dell’Empire State Building.

Dean era così teso che quando le porte dell’ascensore si aprirono Castiel dovette quasi tirarselo dietro per farlo muovere.

Un angelo magrissimo e biondo era di guardia all’inizio del corridoio.

«L’umano è sotto la tua responsabilità» li ammonì con voce roca.

Castiel rispose con un muto gesto di assenso e lui li lasciò passare.

«Castiel…» bisbigliò Dean «Sei sicuro che non sia ancora troppo presto?»

Il ragazzo non era sicuro che gli angeli avessero il suo stesso concetto di ‘presto’ e ‘tardi’, ma essendo esseri celesti praticamente immortali temeva che quella di Castiel fosse stata una mossa azzardata. Erano appena un paio di mesi che si trovava a Corte, gli sembrava impossibile che quel lasso di tempo così ridotto fosse bastato a convincerli della sua lealtà.

«In quel caso non saresti riuscito nemmeno a uscire dall’ascensore» lo rabbonì lui, volutamente spiccio «Fidati di me»

Dean sospirò e tornò a concentrarsi sugli arabeschi dorati della carta da parati, cercando di tenere a bada il ritmo impazzito del proprio cuore.

L’ottantaquattresimo piano era molto diverso da qualsiasi altra zona del grattacielo lui avesse visitato fino ad allora.

Il pavimento era ricoperto da una soffice moquette nero pece, lucida e morbida come se l’avessero appena sostituita. Enormi lampadari dalle forme contorte pendevano a intervalli regolari dai soffitti riempiendo l’ambiente di una luce soffusa, giallognola.

Alla fine del corridoio si apriva un’impressionante serie di vetrate, da cui si poteva dominare l’intera città con uno sguardo.

O almeno, quel che ne rimaneva.

Il chiarore del primo mattino illuminava impietoso i resti carbonizzati delle automobili e i moncherini di cemento che avevano preso il posto degli edifici. Una sottile nebbia polverosa e quasi morbida offuscava la linea grigia dell’orizzonte, i profili dei palazzi più lontani, e arrivava persino ad appannare il luccichio smorto di un oceano che s’intravedeva appena, nonostante distasse soltanto qualche chilometro.

Era uno spettacolo di una potenza e di una desolazione terrificanti.

Proseguirono lungo la vetrata; la moquette attutiva il rumore dei loro passi e contrastava violentemente con le pareti chiare, e con il bianco immacolato dei vestiti di Castiel.

Dean si sorprese a specchiarsi sul vetro: avrebbe dovuto sistemarsi meglio i capelli che ora erano sparati in tutte le direzioni come gli aculei di un istrice. In un maldestro tentativo di appiattirseli con le mani si distrasse quel tanto che bastava da non accorgersi che il suo accompagnatore si era fermato davanti a una porta bianca.

«E’ chiusa dall’interno» scandì lentamente l’angelo, neanche gli stesse spiegando come funzionano le porte.

Dean appoggiò la punta delle dita sul legno verniciato.

«Magari sta ancora dormendo» sussurrò.

Improvvisamente quella porta gli metteva una paura fottuta.

In che condizioni avrebbe trovato Sam? Se fosse stato ferito, o peggio? Se fosse impazzito? Se non avesse voluto parlargli?

Non sarebbe stato in grado di superare un possibile rifiuto da parte di suo fratello.

«Forse è meglio che io ti aspetti un po’ più in là»

Prima di allontanarsi Castiel gli sfiorò un braccio e lui si voltò a guardarlo.

Non c’era commiserazione, castigo, e nemmeno alterigia nel suo sguardo.

Soltanto pace, e un’indefinita sfumatura di malinconia. In quell’istante, al ragazzo parve che per godere di quella pace sarebbe bastato allungare la mano verso di lui e toccarlo.

Qualcosa per cui valga la pena avere coraggio…

Quando Dean batté tre colpi sulla porta bianca, Castiel era già sparito in fondo al corridoio.

Dopo qualche minuto, dall’interno, giunsero alle sue orecchie dei rumori attutiti. Passi che si avvicinavano. Un tintinnio.

Sam aprì, sbadigliando.

«Si?»

«SAMMY!»

Suo fratello dovette appoggiarsi allo stipite per non cadere.

«D-Dean?»

Il filo assonnato di quella voce ricucì tutti gli strappi che la sua assenza si era divertita a moltiplicare.

Era lui.

Il pianeta Terra si fermò, il respiro di Dean si fermò, per quel minuscolo granello di tempo che consentì a ogni pezzo di ritornare al posto suo.

Era davvero lui.

Poi, tutto riprese a scorrere con la solita regolarità, e il ragazzo non seppe mai come fosse riuscito a convincere le sue ginocchia ballerine a collaborare, in quel mezzo passo che lo portò dritto dritto tra le braccia di Sam.

Era proprio lui, quello era il suo odore — terra, casa, crostata di mele, sebbene del profumo di quest’ultima non fosse mai stato davvero sicuro, il biondo di sua madre che si affaccendava sinuosamente in cucina era sempre stato un’immagine troppo sfuggente, ma c’era Sam in quel pomeriggio assolato, lentiggini di zucchero a velo sul suo naso minuscolo — quello che sentiva attraverso i vestiti era il calore della sua pelle — tiepido, asciutto, anche se la pioggia filtrava attraverso le lamiere arrugginite del soffitto della baracca — quelli che gli solleticavano il collo erano i suoi capelli, e Sam — Sam, Sam, Sam — li portava ancora lunghi, esattamente come se li ricordava.

Suo fratello si districò a fatica dall’abbraccio e lo fece entrare.

Dean non riusciva a smettere di toccarlo.

Le spalle, gli avambracci, le mani, non poteva permettersi di tralasciare nulla; non trovò nessuna ferita, nemmeno una piccolissima cicatrice. Le gambe erano ancora due, diritte, tutte le ossa al loro posto.

Si aspettava di ritrovare uno scheletro vestito di stracci incatenato al pavimento e invece suo fratello indossava un paio di normalissimi jeans e una camicia verdastra — nessuna macchia di sangue, né sui pantaloni, né sul cotone scuro del pezzo di sopra — arrotolata fino ai gomiti.

Gli sembrava persino ingrassato.

«Dean… basta…» ridacchiò il minore tirandosi giù le maniche della camicia «Così mi fai il solletico!»

Dean mollò di controvoglia la presa sui suoi polsi e cominciò a guardarsi intorno, con uno strano senso di meraviglia misto a soggezione.

Si trovava in una grande sala dalle pareti dorate, la cui brillantezza era messa ancora più in risalto dal nero della moquette e dei mobili. Non poteva esserne sicuro, ma gli immensi affreschi incorniciati che decoravano i muri gli davano l’idea di non essere affatto delle copie.

Tutt’intorno vasi di porcellana alti più d’un metro, finemente dipinti a motivi viola e neri, pieni di spighe e steli di vetro così sottili che pareva fossero sul punto di spezzarsi e infrangersi sul pavimento da un momento all’altro. Dalla sala si dipartiva un piccolo corridoio, su cui affacciavano svariate altre porte.

Non aveva mai visto niente del genere in tutta la sua vita.

«Sam ma questa è la reggia di un principe!» esclamò stupito, riportando lo sguardo su suo fratello «Ma che cosa…» balbettò «Che cosa ti è successo in questi quattro anni?»

«Dean, perché hai addosso quei vestiti?»

Dall’alto del suo abbondante metro e novanta Sam lo fissava sconcertato.

«Non è come credi…» il ragazzo iniziò a lisciarsi nervosamente la piega dei pantaloni. Non si era assolutamente soffermato — neanche una volta, durante il tragitto dalla sua camera a quell’assurdo appartamento — a ciò che Sam avrebbe potuto pensare di lui, nel trovarlo infilato in una giacca del genere.

I suoi polpastrelli scivolavano sulla stoffa producendo piccoli sibili ovattati, e lui per un attimo sperò che il tessuto potesse di colpo perdere quella sfumatura azzurrognola e cambiare colore sotto le sue dita.

«Perché hai addosso quei vestiti?» ripetè suo fratello, alzando la voce. Mentre parlava indietreggiava lentamente, ora lo separavano svariati metri da Dean.

Ovviamente i pantaloni del maggiore rimasero azzurri, e anche la sua faccia iniziava già ad assumere tonalità simili.

«Dov’è nostro padre?»

Per un breve — terrificante — momento, nell’ingarbugliato discorso di spiegazioni che stava tentando mentalmente di imbastire, Dean si ritrovò combattuto tra il tenergli nascosta la morte di John, e risparmiargli quel dolore tremendo, o il confessargli ogni cosa.

Propese per la sincerità.

«Ti racconterò tutto»

Suo fratello ringhiò.

Ora aveva assunto l’atteggiamento ostile di una bestia presa in trappola, e il suo corpo fremeva come fosse sul punto di saltargli addosso, o di scappare via.

Dean alzò le mani sopra la testa nel tentativo di convincerlo delle sue buone intenzioni.

«Dammi soltanto dieci minuti» chiese — supplicò, più che altro «Poi, se lo vorrai, me ne andrò via e non mi rivedrai mai più»

Inghiottì a vuoto. Il solo formulare ad alta voce un’ipotesi del genere gli serrava la gola in una morsa.

«Ti ascolto» concesse Sam, gelido.

Da dove partire?

Ah, ecco.

«Il cantiere, in Colorado, non esiste più»

Non riuscì a nascondere un certo compiacimento.

«L’abbiamo fatto saltare in aria due mesi fa»

Suo fratello urtò uno dei vasi di porcellana; gli steli di vetro che conteneva si lamentarono per quello scossone tintinnando debolmente.

Dean decise di mettersi a sedere su un elegantissimo divanetto di pelle nera addossato a una delle pareti, sotto un enorme affresco di una Natività buia, tanto cupa quanto realisticamente malinconica.

Gli si prospettavano dieci minuti tremendamente difficili, valeva la pena mettersi comodi, almeno.




«Ho bisogno di un po’ d’acqua»

Dean aveva la bocca secca. Asciutta come il deserto del Colorado. Raccontare a Sam dell’acquedotto, della torre collassata su se stessa in una nube di fumo e fuoco, persino dirgli del suicidio di John, era stato quasi facile. Le parole scivolavano via una dietro l’altra come se le avesse già tutte perfettamente ordinate nella testa.

La parte difficile era stato parlare di Castiel.

Per l’angelo, le spiegazioni si incastravano, si contorcevano su se stesse come serpenti incazzati e si rifiutavano categoricamente di lasciare il tiepido alveo roseo della sua lingua.

Sam gli diede le spalle e iniziò ad arrancare verso una delle porte chiuse che si affacciavano sul piccolo corridoio.

«Andiamo di là. Io ho bisogno di una tazza di caffè»

Dean lo seguì a ruota in quella che doveva essere la cucina. Accanto ai fornelli, sul piano di marmo chiaro, campeggiavano una serie di utensili che non aveva mai visto prima ma che, dai suoi ricordi d’infanzia e dalle storie degli uomini del cantiere, avevano tutta l’aria di essere una macchinetta del caffè e un bollitore.

O era un frullatore?

La moquette aveva lasciato il posto ad un pavimento di piastrelle, anch’esso nero. Suo fratello gli fece cenno di sedersi. Un profumo buonissimo cominciò a sprigionarsi dalla caraffa alla base della macchinetta del caffè, mentre si riempiva velocemente di liquido bollente e scuro.

«Attento, scotta»

Sam gli porse una tazza fumante. Ne riempì un’altra per sé, si sedette di fronte a lui e affondò il viso tra le mani.

«E’ tutto così assurdo» sussurrò «Tu qui… e papà… non riesco a credere che abbia fatto una cosa del genere»

«Sacrificatosi in nome della Resistenza» Dean si mise a soffiare via le spirali di vapore che si alzavano pigramente dalla superficie del liquido «E’ decisamente una cosa da John Winchester»

Suo fratello alzò la testa e accennò un sorriso tremolante che gli fece cascare una lacrima solitaria nel caffè. Si strofinò immediatamente gli occhi lucidi col dorso della mano e Dean pensò che anche da piccolo si comportava allo stesso modo, quando era sul punto di piangere.

Si stropicciava gli occhi, tirava su col naso, e poi credeva davvero che chi avesse davanti non si accorgesse dei lucciconi che gli spuntavano da sotto le ciglia.

«A John Winchester, quindi» disse Sam.

Fu allora che gli sembrò che la voce di suo fratello gli stesse arrivando da dietro un vetro. Lontana. Troppo pacata. Orribilmente sfinita. E d’un tratto la goccia d’acqua che era finita ad annacquargli il caffè — più che un residuo d’infanzia — gli parve piuttosto il riflesso di un dolore molto più profondo, che non riusciva a identificare, e che con la morte di suo padre aveva a che fare tutto e niente.

«A John» Dean alzò la tazza e la fece cozzare contro quella del minore.

In ogni caso, non aveva importanza. Lui era lì, dopo quattro anni finalmente erano di nuovo insieme e Sam… Sam stava bene, no?

Il caffè era caldo e amarissimo, eppure il suo sapore persistente era stranamente piacevole. In più, tutte le sue terminazioni nervose sembravano aver iniziato a ballare la samba: si sentiva vigile e attento.

«Come hai detto che si chiama l’angelo che ti ha fatto da garante?»

«Castiel»

«Castiel… devo aver già sentito questo nome da qualche parte, ma non penso di averlo mai visto»

«Oh, è un angelo come tanti…» Dean si rimise a soffiare sulla tazza, nonostante la bevanda si fosse ormai raffreddata, ma il sangue gli era affluito alle guance molto più rapidamente di quanto avesse voluto.

«Ma ora devi spiegarmi tutto questo!» allargò le braccia, cercando di cambiare argomento «Ero convinto di trovarti in uno sgabuzzino puzzolente e invece… la migliore camera del Grand Hotel!» lo canzonò.

«Già, ecco…» balbettò Sam «Devo spiegarti anch’io alcune cose…»

Una figura femminile comparve in quell’istante sulla porta della cucina.

«Sam, chi… chi è lui?»

Doveva avere più o meno la sua età. Morbidi capelli castani le incorniciavano un bell’ovale morbido su cui spiccava una bocca rossa e carnosa.

Era molto bella e sembrava molto spaventata.

Sam le si avvicinò e le cinse le spalle con un braccio, spingendola dolcemente all’interno della stanza.

«Non avere paura, è solo mio fratello. Non vi farà alcun male»

La ragazza si aggrappò alla mano di Sam e rivolse a Dean uno sguardo stralunato.

«Io… io sono Kelly» bisbigliò.

«Dean, piacere di conoscerti» mimò un inchino «Sammy, non mi avevi detto che ti eri trovato la ragazza!» rise, versandosi una seconda tazza di caffè.

«Sì… cioè, no!» suo fratello era visibilmente a disagio «Insomma, quello che voglio dire…»

Kelly si era seduta al suo posto e aveva incrociato le mani sulla pancia tonda. Troppo tonda e sporgente per trattarsi solo dei postumi di una grandiosa mangiata; senza contare che aveva anche iniziato ad accarezzarsela teneramente.

«Diventerai papà!»

Sam per poco non si strozzò col caffè.

«E’ maschio o femmina?» Dean era scattato in piedi come rimbalzato da una molla e aveva cominciato ad agitarsi su e giù per la cucina.

«Come lo chiamerete? Oh diamine, sto per diventare zio! Zio Dean! Chi poteva mai pensare a una cosa del genere… un bambino! Quando nascerà? Kelly devi assolutamente evitare gli sforzi fisici, hai abbastanza cibo? Sam ti fa innervosire? Se hai bisogno di qualunque, qualunque cosa puoi venire da me…»

«Dean…»

«…anche se credo che staresti molto meglio in questo posto, qui ci sono i mobili, le finestre e tutto il resto…»

«DEAN!»

Suo fratello lo stava strattonando per un braccio «Per favore, fermati!»

Aveva una buffa espressione, in equilibrio precario tra il divertito, l’esasperato e il completamente terrorizzato. Kelly si era raggomitolata sulla sedia ed era rimasta ad osservare la scena in silenzio, tracciando con le dita cerchi invisibili sul pancione.

«Per favore lasciami finire, io e Kelly non…»

Qualcuno iniziò a bussare con forza alla porta esterna.

«Quanto tempo è passato?» si allarmò Dean «Metatron mi farà a pezzi se arrivo in ritardo!»

La voce perentoria di Castiel cominciò a reclamarlo dall’esterno dell’appartamento e il ragazzo si precipitò alla porta.

«Sammy devo scappare!»

Tra le mani stringeva ancora la tazza di caffè. Gliela porse con aria riluttante.

«Puoi tenerla» sospirò lui «Occhio a non rovesciare il caffè addosso a Castiel ora che esci» si preoccupò.

«Puoi… puoi venire da me se vuoi» azzardò il maggiore «Stasera o dopo o… quando vuoi. Quando volete» aggiunse.

Effettivamente, solo adesso si domandava come mai suo fratello non avesse mai provato a mettersi in contatto con lui, dal momento che stava benissimo, era ben nutrito e non era incatenato da nessuna parte.

«La mia stanza non è nemmeno lontanamente paragonabile a questo splendore di appartamento ma…»

Sam scosse la testa.

«Né io né Kelly possiamo lasciare l’ottantaquattresimo piano»

Dean fece una smorfia: eccolo lì, il trucco.

La moquette, i vestiti, i quadri, era tutto troppo meraviglioso perché non ci fosse una fregatura da qualche parte. Il ragazzo si ritrovò a chiedersi, con un brivido, dove fosse Lucifer in quel momento. Cosa c’entrasse Lucifer, con un simile splendore.

E qualcosa lo morse, dall’interno, in un punto imprecisato tra lo stomaco e la gola. Un qualche inaspettato effetto del caffè, senza dubbio.

Perché Sam stava bene, no?

«Allora tornerò da te il prima possibile» dichiarò.

«Fa attenzione» furono le ultime parole di suo fratello, prima che la porta bianca si richiudesse — con una strana rapidità — dietro di lui.

Castiel non fece domande.

Solo, quando furono di nuovo in ascensore, si piegò leggermente verso di lui e scrutò incuriosito l’interno della tazza che Dean reggeva con entrambe le mani.

«Cos’è quella brodaglia?»

«Questo, Castiel» spiegò lui con solennità «Si chiama caffè. Vuoi assaggiare?»

L’angelo alzò un sopracciglio.

«Non credo riuscirei a percepirne il sapore»

«E’ un peccato sai? E’ davvero ottimo»

Castiel non rispose, ma gli angoli della sua bocca perfetta si sollevarono all’insù.

Dean sorrise, tra sé e sé. Si sentiva così felice che aveva voglia di mettersi a cantare.











Buongiorno *.*
Aaah, sono curiosissima ora.
Cosa ne pensate di Sam? E di Kelly? Vi aspettavate uno sviluppo del genere? Cosa pensate che succederà adesso? Quante maledizioni mi state lanciando? Suvvia, davvero pensavate che con questo capitolo sarebbe stato tutto chiaro? ^^’
E aspettate di leggere il prossimo eh eh eh.
Nel frattempo, io vi ringrazio di cuore per le recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo - sono sempre più belle e sto finendo le parole per dire quanto vi adori - e vi do appuntamento a sabato prossimo ♡
Cheers ❀*

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Capitolo 11
*** Incastrato ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






11. Incastrato




4 marzo 2009

Dean trascorse i giorni seguenti in uno stato di disordinata euforia. La sua mente continuava a tornare all'ottantaquattresimo piano e a Sam, a quell’appartamento che sembrava uscito da un catalogo d’arredamento e alle mani di Kelly posate placidamente sul pancione.

Non riusciva a concentrarsi su nient’altro e si era dimenticato per ben due volte di restituire i registri a Metatron, per fortuna c’era stata Claire a ricordarglielo.

«Adesso mi sono proprio stufata!»

Dean venne riscosso brutalmente dalle sue fantasticherie.

«Se non mi dici subito cosa è successo negli ultimi tre giorni da renderti così svampito giurò che ti prenderò a sberle!»

Claire era appena entrata nella sua camera — da un bel po’ aveva perso l’abitudine di bussare — e l’aveva trovato a fissare il muro con un sorrisetto idiota stampato in faccia, mentre la contabilità delle ultime due settimane aspettava pazientemente sul tavolo già da parecchie ore.

«Claire!» sussultò «Mi sono solo distratto un secondo, io…»

«Poche storie Winchester! Sputa il rospo!» la ragazza si piazzò a gambe larghe davanti a lui, con le braccia incrociate e un irremovibile — e quantomai minaccioso — scintillio negli occhi.

Dean sbuffò.

«E va bene, se la metti così…» chiuse definitivamente il registro con un colpo secco.

«Tre giorni fa ho rivisto mio fratello, per la prima volta dopo quattro anni» confessò «Pensavo di trovarlo ridotto allo spettro di se stesso e invece sta anche meglio di me!» la sua bocca si aprì in un nuovo, spontaneo sorriso a trentadue denti.

«Ritrovarlo è stato qualcosa di così assurdo e meraviglioso allo stesso tempo che…»

«…che ti sei rimbambito» Claire finì la frase al posto suo e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rilassandosi.

Dean si pentì di averle taciuto del suo incontro con Sam.

«Avrei dovuto dirtelo subito» si scusò.

Dopotutto, ormai si fidava di quella ragazzetta impertinente.

«Beh, me l’hai detto ora: ed è una bellissima notizia comunque»

Lui le rivolse un'espressione riconoscente.

«E non ti ho detto tutto!» proseguì entusiasta, fin troppo lanciato, ora, nella descrizione «Il posto dove vive è così lussuoso, è praticamente una specie di reggia, anzi, tutto il piano lo è»

Claire socchiuse gli occhi «Quale piano?»

«L’ottantaquattresimo. Mi ci ha portato Castiel» si affrettò a specificare lui.

La ragazzina s’incupì e la sua mascella iniziò a contrarsi a intermittenza. D’un tratto sembrava estremamente irritata.

Dean s’interruppe, inquieto. Non gli pareva di aver fatto nulla di sbagliato: aveva pedissequamente seguito le direttive di Castiel, non si era ficcato in brutte situazioni e, tralasciando gli ultimi tre giorni, aveva sempre lavorato sodo.

«Ho detto qualcosa di male?»

Claire tremò tutta, sbatté a terra un piede, e poi prese a marciare avanti e indietro per la stanza a grandi passi.

«Stavolta gliene dico quattro! Oh se gliene dico quattro!»

Con un po’ di immaginazione, si sarebbe potuto dire che le fumavano le orecchie.

«Claire… » Dean invece si sentiva sempre più spaesato «Potresti per favore spiegarmi che cosa…»

«Hai una vaga idea…» sibilò la ragazza senza smettere di agitarsi «Di quanto abbia dovuto esporsi Castiel, per farti accedere ai piani superiori dopo appena due mesi dal tuo arrivo? Di quanto possa aver insistito con gli Arcangeli, per questo?»

Quelle parole lo colpirono come una secchiata d’acqua fredda.

Castiel non aveva mai accennato a un suo eventuale coinvolgimento in tutta quella faccenda — né tantomeno lui capiva in che modo l’angelo potesse esserne compromesso — eppure di fronte alla reazione angosciata di Claire non potè fare a meno di sentirsi un po’ colpevole.

«Lascia che ti spieghi un paio di cosette» continuò lei, sempre più nervosa «Il fatto che Castiel sia il tuo garante non significa che ci sia il suo nome cucito sul colletto della tua camicia…» stridette «Michael gli sta già perennemente col fiato sul collo e se tu finisci in qualche guaio, pesti i piedi alla persona sbagliata o anche solo pensi, per sbaglio, di poterti mettere in contatto con qualcuno della Resistenza, Castiel ne pagherebbe le conseguenze ancora prima di te»

Dean era lentamente impallidito, man mano che lei parlava.

«Io non farei mai niente del genere…» tentò di giustificarsi con un filo di voce.

Gli tornò alla mente quando, durante il suo primo giorno a Corte, si era rivolto a Castiel dicendogli di essere disgustato da lui.

Nemmeno le pensava per davvero quelle cose. Era solo spaventato, e stanco, e la morte di suo padre era ancora una ferita troppo fresca per permettergli di ragionare con lucidità.

Si era comportato in maniera schifosamente superficiale.

«Non è questo il punto» sospirò Claire fermandosi — finalmente — in mezzo alla stanza «Il punto è che se — come penso io — Michael non stia cercando altro che un pretesto, da quando sei arrivato tu Castiel sembra stia facendo di tutto per fornirglielo. E’ questa la cosa che mi fa incazzare!» sbottò.

Dean si contorse sopra la sedia «Cosa c’entra Michael in tutto questo?»

La ragazza si adombrò «E'una faccenda complicata» disse.

«Sai, Castiel non è un angelo come tanti» sospirò «Anni fa, ti parlo di prima che io nascessi, lui era uno dei migliori. O dei peggiori, immagino dipenda dai punti di vista» sul suo viso si disegnò una crudele smorfia sarcastica.

«Era un angelo sterminatore: nei primi scontri con la Resistenza era lui a guidare la controffensiva»

Dean la ascoltava sbalordito.

Gli sterminatori erano stati i primi angeli a scendere sulla terra, durante la notte di sangue. I primi, e i più violenti: quasi nulla sopravviveva al loro passaggio. Associare una brutalità del genere allo sguardo lunare di Castiel gli risultava quasi impossibile.

«Poi è accaduto qualcosa» Claire abbassò la voce, d’un tratto pareva essersi fatta guardinga «Qualcosa che ha fatto contrariare Michael, e parecchio anche. Castiel con me non ne parla mai ma io ero piccola, i miei genitori erano ancora vivi, e ricordo che quando l’Arcangelo gridava faceva tremare tutto il grattacielo»

Istintivamente Dean si accodò alla sua circospezione «E non si è mai saputo cosa fosse successo?» sussurrò.

«No» lei scosse la testa «Ti ho detto che lui con me non ne parla. Ma da allora Michael ha iniziato a tenerlo d’occhio. Castiel è un esasperante perfezionista come pochi, e a quanto pare continua ad eseguire gli ordini come il resto degli angeli ma l’hai visto anche tu, non se ne va certo a seminare morte e distruzione in giro ed ecco… deve pur esserci un motivo… e io…» incespicò, alla ricerca della perifrasi più adeguata.

«Io credo che Michael tema che Castiel non gli sia più leale come un tempo»

La quindicenne si sarebbe forse aspettata una reazione diversa, ma in quel momento tutto ciò che ottenne da Dean fu un dubbioso sollevamento delle sue sopracciglia.

«Castiel? Un traditore?» commentò infatti lui, scettico «Assolutamente impossibile»

«Beh, Michael non la pensa così» insistette Claire, quasi seccata dal fatto che l'altro apparisse così diffidente «Hai detto che prima di arrivare a Corte lavoravi nel cantiere di una torre, giusto?»

Il ragazzo annuì.

«Beh, uno degli ultimi scherzetti dell’Arcangelo è stato inviare Castiel in un cantiere nel Colorado. E Castiel li detesta quei posti. Gli ha dato tre mesi di tempo per localizzare e annientare la cellula della Resistenza locale e credimi… è meglio non disobbedire agli ordini di Michael»

Ora Dean aveva improvvisamente caldo.

«Ma perché… perché dargli un ultimatum del genere?»

Il suo corpo tradiva ciò che la sua voce tentava in ogni modo di dissimulare. Si sbottonò il colletto della camicia e si allentò la cravatta con due dita. Stava per togliersi anche la giacca ma poi si sorprese a rabbrividire e decise di tenersela addosso.

«Per assicurarsi che gli fosse ancora fedele, forse. O per vedere se avrebbe tradito, non lo so» Claire si era appoggiata con le spalle alla parete mordicchiandosi distrattamente le unghie «Però quello che so è che Michael è terrorizzato dal fatto che gli angeli possano schierarsi con gli umani. In particolar modo Castiel» precisò.

«Ed è per questo che quel tonto dovrebbe evitare di scarrozzarti prima del tempo oltre l’ottantesimo piano soltanto per una riunione familiare!» concluse, in un mugugno contrariato.

Il ragazzo la fulminò con un’occhiataccia.

«Scusa» biascicò lei, mentre con i denti si accaniva sulle pellicine intorno all’anulare «Lo so che non è colpa tua» tentò di ritrattare, di fronte allo sguardo di pietra del ragazzo «Sono solo preoccupata per Castiel: Michael potrebbe usare te e tuo fratello contro di lui, e se riuscisse a convincere gli altri Arcangeli del fatto che lui sia davvero in combutta con gli umani sarebbe…» deglutì.

«Sarebbe cosa?» la incalzò Dean, teso.

«Non lo so»

Claire si sfregò la mano sopra la camicia, tracciando una minuscola scia di sangue sulla stoffa azzurra.

«Non so cosa succede agli angeli che tradiscono, e ora dammi pure della vigliacca ma non voglio saperlo» proseguì inquieta «Né ora, né mai»




Dopo che Claire se ne fu andata, Dean si slacciò del tutto la cravatta, si tolse la giacca e si distese sulla branda.

Spesso, quando si sentiva in balia degli eventi, iniziava ad elencare mentalmente ciò che lo preoccupava, o che non era in grado di spiegarsi, e poi tentava con calma di districarsi tra i suoi dubbi così ordinatamente catalogati.

Punto numero uno: Castiel nascondeva molti più segreti di quanto non desse a vedere. Gli sterminatori erano tra gli angeli più fedeli, i più vicini agli Arcangeli, doveva essere successo qualcosa di davvero eccezionale perché Michael avesse iniziato a dubitare di lui.

Secondo punto, ma quello più che un interrogativo era una vera e propria certezza: l’angelo stava rischiando parecchio per lui. E Dean non aveva la minima idea del perché.

(In realtà, un’idea ce l’aveva. Ma era talmente assurda da non figurare nemmeno nell’elenco)

Terzo punto, forse il più ostico da sbrogliare: in Colorado, Michael aveva obbligato Castiel a scegliere tra — molto probabilmente — la sua stessa vita e quella di uomini e donne che conosceva appena. Ora, Dean non era nuovo ad atti altruistici ai limiti del masochismo, ma in una situazione del genere probabilmente si sarebbe comportato allo stesso modo. Non era del tutto colpa di Castiel se suo padre aveva deciso di ammazzarsi. E non era nemmeno colpa sua, in fondo.

Era colpa di quelle dannate torri, di quel grattacielo di centodue piani di cui lui e Sam erano prigionieri, di quel mondo marcio, che gli Arcangeli avevano plasmato con il sangue, e che continuava inesorabilmente a imputridire.

Non riusciva più a stare fermo: scese dalla branda e iniziò a girare in tondo.

Quarto punto: che cosa provava, lui, per Castiel?

Durante l’assalto al cantiere gli aveva salvato la vita in nome di una riconoscenza cresciuta sopra un inganno e poi, quando l’angelo era apparso davanti a lui, nell’acquedotto, si era sentito tradito, e subito dopo uno sciocco. Aveva fatto di tutto per odiarlo nelle ultime settimane ma non c’era mai riuscito e anzi, si era sentito ancora più stupido e in colpa per avergli lanciato addosso accuse tanto orribili. Ora, i suoi sentimenti verso Castiel cozzavano contro tutto ciò che suo padre gli aveva insegnato. Agli occhi di John Winchester, un angelo non era altro che la metastasi di un cancro diffuso, da estirpare a ogni costo dal mondo.

Dopo le parole di Claire, dopo il suo incontro anticipato con Sam, Dean non sapeva più a cosa credere.

I pensieri che si sforzava così faticosamente di ordinare continuavano a sgusciare fuori dalle loro caselle, si mescolavano e si confondevano uno con l’altro come gocce d’inchiostro in un bicchiere d’acqua.

Aveva bisogno d’aria.

Chiuso nella sua camera senza finestre, si sentiva una di quelle farfalline notturne che, nelle notti estive, entravano nelle baracche degli umani attirate dalla luce delle candele e si mettevano a svolazzare intorno alle loro deboli fiammelle.

Dean aveva la sensazione che le sue ali fossero a un soffio dal bruciarsi.

Spalancò la porta e…

E si ritrovò davanti un affannatissimo Castiel.

«Dean, stavo venendo proprio da te, volevo…» l’angelo aveva un pugno levato, doveva essere sul punto di bussare «…volevo chiederti come stavi. Immagino che rivedere tuo fratello ti abbia turbato»

In verità quello turbato sembrava proprio lui; la cravatta gli pendeva tutta storta da un lato e la sua voce era affaticata come se fosse arrivato di corsa.

«Io sto, uhm, bene direi» Dean si era fermato con la mano sulla maniglia della porta.

«Oh, bene! Ottimo» Castiel aveva un’espressione nervosa e vagamente imbarazzata che lui faceva fatica a decifrare.

Decise di prendere il toro per le corna.

«Castiel, ho parlato con Claire poco fa»

Le labbra dell’angelo si serrarono in una smorfia colpevole, e Dean si rese conto che Claire doveva avergliene davvero dette quattro, come aveva minacciato.

Per quello si era scaraventato da lui senza neanche guardarsi allo specchio.

«Cosa ti ha detto?»

«Quello che avresti dovuto dirmi tu, e molto tempo fa»

Adesso era vicino, pericolosamente vicino alla fiamma, esattamente come la falena, e la domanda successiva scivolò via dalle sue labbra in maniera molto più dura di quanto avrebbe voluto.

«Perché?»

Castiel lo spinse bruscamente dentro la stanza sbattendosi la porta alle spalle.

Tutta la baldanza di Dean si disintegrò e svanì, mentre un’ondata di terrore lo sopraffaceva.

Non doveva rivolgersi ad un angelo in quel modo. Lo aveva già fatto troppe volte, con Castiel, e avrebbe dovuto saperlo, che prima o poi ne avrebbe pagato le conseguenze.

Qualsiasi castigo avesse intenzione di infliggergli l’angelo non sarebbe stato nemmeno lontanamente paragonabile a quello che gli avrebbe fatto passare Zaccaria se una cosa del genere fosse successa al cantiere, eppure lui sentiva — ne era certo — che ne sarebbe stato ferito molto di più.

Lo avrebbe colpito? O lo avrebbe fatto punire da qualcun altro? Oh, Dean avrebbe avrebbe preferito in gran misura quell’eventualità. E dopotutto — se ne rese sorprendentemente conto solo allora — Castiel non gli aveva mai dato nemmeno uno schiaffo.

Era indietreggiato fino alla parete opposta, la schiena appiccicata al muro ruvido quasi sperasse di affondarci dentro e sparire.

L’angelo teneva il palmo della mano premuto contro il suo petto che si alzava e si abbassava rumorosamente, con la violenza di un mantice.

Poi Castiel si sporse appena in avanti, e lo baciò.

Fu la sorpresa di un istante, la percezione sbigottita di appena un secondo.

Il corpo di Dean vibrò, irrimediabilmente incastrato tra l’intonaco freddo che grattava contro le sue scapole e il fronte d’urto di un’esplosione bianca, incandescente, la cui intensità disperata gli sottraeva qualsiasi via di fuga, praticabile o meno che fosse.

Ma si trattò, appunto, di un attimo.

Perché l’attimo dopo, le dita del ragazzo risalirono lungo le braccia di Castiel, scivolarono con una certa urgenza sulla stoffa immacolata delle maniche della sua giacca e si intrecciarono — come se non avessero mai desiderato altro, da quando l’angelo era comparso davanti alla sua porta col fiato corto — nei suoi capelli.

Quando, ansimando, Castiel si staccò dalla sua bocca, Dean seppe di essersi bruciato.

La fiamma si era inaspettatamente allungata verso l’alto e le ali della falena avevano preso fuoco.

«E’ una spiegazione abbastanza esauriente per te?» gemette Castiel, con la fronte premuta contro la sua. Anche il suo corpo, ora, vibrava.

Dean fu appena capace di annuire. Poi decise di afferrare la cravatta sghemba dell’angelo e di attirarlo di nuovo verso di sé.











Hola!
Lo so, lo so cosa state pensando adesso: prima Sam tutto intero e adesso pure la Destiel. Loth si è rammollita, Dean le ha dato una botta in testa e Castiel si è impadronito della sua tastiera.
Ma ormai dovreste aver imparato a conoscermi, no? ^^’
E poi, non siamo nemmeno a metà della seconda parte di questa storia! ^^’’
Non vedo l’ora di scoprire le vostre opinioni in merito a questo tanto agognato principio di sana (?) Destiel perciò, lasciandovi di nuovo i miei ringraziamenti per le splendide recensioni al capitolo precedente ♡.♡ mi metto qui, in paziente attesa dei vostri commenti.
Un grande abbraccio, e a sabato prossimo! ❀*

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Capitolo 12
*** Imbarazzante. Irragionevole. Strano. ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






12. Imbarazzante. Irragionevole. Strano.




10 marzo 2009

«Non è pericoloso?»

Dean stava lottando con tutto se stesso per non cedere all’impulso di tracciare con la punta delle dita il profilo morbido delle scapole dell’angelo che affiorava sotto la sua camicia bianca «Che tu venga qui così spesso intendo»

Castiel ritornava da lui ogni sera.

Il ragazzo aveva imparato a riconoscerlo dal modo in cui bussava alla porta. Non era mai imperioso, o affrettato, e non bussava mai due volte; aspettava tranquillo che gli aprisse, come se fosse certo che lo avrebbe fatto, tutte le notti.

Lui, invece, non era affatto sicuro che l’angelo sarebbe ritornato anche il giorno dopo. Non era nemmeno sicuro del perché continuasse a farlo entrare, in realtà.

Non era ancora riuscito a sbrogliare la matassa di sensazioni che gli si ingarbugliava nella pancia ogni volta che pensava a Castiel.

Venivano da due mondi, da due dimensioni anzi, troppo diverse.

Gli opposti potevano anche attrarsi, per un po’, ma alla fine finivano sempre per distruggersi a vicenda. E Castiel lo attraeva, lo attraeva terribilmente.

«Non sono certo il primo angelo che s’intrufola nella stanza di un umano dopo che si sono spente le luci»

Dean si ritrasse con una smorfia.

«Quello che intendevo dire…» rettificò Castiel, posandogli una mano sul ginocchio «E’ che non devi preoccuparti per me»

«Quando sono arrivato a Corte dovevo sforzarmi per preoccuparmi di me stesso» sospirò il ragazzo «E adesso invece sento di dovermi occupare di mucchio di persone»

L’angelo risalì con le dita lungo la sua coscia e a lui venne la pelle d’oca. Erano accoccolati uno accanto all’altro sopra il suo letto, la stanza immersa nel buio.

C’erano voluti sei giorni per arrivare a stare seduti così vicini. C’erano voluti sei giorni prima che riuscissero ad intavolare qualcosa che assomigliasse a una vera e propria conversazione, perché una volta che le labbra di Castiel si staccavano dalle sue il mondo ritornava uno schifo, i loro vestiti recuperavano le loro rispettive sfumature, così crudelmente diverse ma altrettanto ugualmente ripugnanti, e tutto era di nuovo strano, irragionevole e imbarazzante.

Ma Castiel ritornava da lui ogni sera, e quando se ne andava lui dormiva.

Quando l’angelo l’aveva salutato, sei notti prima — senza aggiungere nient’altro agli ansiti scomposti dei loro rispettivi respiri se non un esitante ‘Buonanotte’ — mentre l’ammonimento di Claire rimbalzava ancora contro le pareti della sua camera, Dean si era infilato nel letto ancora prima che spegnessero le luci e non si era svegliato fino alla mattina dopo.

«Puoi andare da tuo fratello quando vuoi, non è necessario che io ti accompagni. Samandriel, l’angelo di guardia all’uscita dell’ascensore, ti lascerà passare» mormorò Castiel «Ma ricorda che rimani comunque sotto la mia responsabilità, e che il non uscire dalla tua stanza di notte e il non curiosare in giro non sono semplicemente miei consigli» puntualizzò.

Il ragazzo sbuffò.

«E questo me lo dici prima o dopo avermi detto di non preoccuparmi?» s’informò, vagamente sarcastico.

Castiel rise. La sua risata non era né strana, né irragionevole, né imbarazzante.

La sua risata era d’argento.

«Lo sto dicendo per la tua stessa sicurezza» sorrise «Claire tende a sopravvalutare il pericolo, quando si tratta di me»

Le sue dita continuavano a muoversi, leggere, nel loro viaggio languido sulla superficie azzurra degli abiti di Dean avevano raggiunto lo sterno, le clavicole, e ora seguivano il contorno del suo collo e della mandibola. Scivolarono sulle sue tempie e poi scesero di nuovo giù, fino alle labbra.

Lui chiuse gli occhi e si lasciò andare contro quella mano tiepida, contro quella bocca morbida, quella lingua dolce. E quella — sì — era anche decisamente irragionevole.

Il respiro di Castiel continuò a cullarlo anche dopo che l’angelo lo ebbe lasciato solo, soltanto perché si era fatto davvero troppo tardi e aveva del lavoro da sbrigare, e lui aveva davvero bisogno di riposare.




Era così giovane, nel sogno, suo padre. E aveva un sorriso così buono.

I cinque anni di Sam erano corsi ad abbracciarlo e a chiedergli scusa per aver fatto tutti quei capricci, il giorno precedente, e John l’aveva tenuto stretto per un minuto lungo un mese prima di richiamare il maggiore e di lasciare un bacio sfinito anche tra i suoi capelli.

Al risveglio, si domandò se anche i suoi incubi fossero rimasti impigliati tra le labbra di Castiel.


11 marzo 2009

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, Samandriel gli lanciò un’occhiata minacciosa ma non parlò.

Dean gli sfilò davanti e iniziò a percorrere il corridoio dai lampadari contorti con l’andatura più spedita che riuscisse a mantenere senza mettersi a correre. Solo dopo aver girato l’angolo rallentò, accertatosi con sollievo che gli occhi dell’angelo non erano più puntati sulla sua schiena.

Qualcuno gli venne incontro mentre passava vicino alle vetrate.

«Scoiattolino! Che piacere, anche tu da queste parti!»

Crowley aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro.

Dean lo squadrò, sospettoso «Cosa ci fai tu qui?»

«Che domande, mi godo il panorama. Non trovi anche tu che la vista da quassù sia magnifica?» il Collaborazionista allargò le braccia accennando alle macerie sottostanti, drammaticamente scintillanti sotto l’ultima luce del giorno «A proposito, come sta il caro fratellino?»

Il ragazzo scattò immediatamente sulla difensiva, come ogni volta che si trovava faccia a faccia con quel Collaborazionista, ormai.

«Come fai a sapere di mio fratello?» ringhiò.

«Oh scoiattolino, ancora ti stupisci…» lo canzonò Crowley «Il tuo dolce amante non te l’ha detto che io conosco tutti, qui dentro?»

Dean si sentì gelare; in due falcate raggiunse l’uomo e lo spinse con la faccia contro le vetrate.

«Ehi, ehi rilashati furia…» biascicò il Collaborazionista. Il suo fiato lasciava nuvolette bianche sul vetro «Shono sholtanto contento per te e per il caro Cashtiel…»

Il ragazzo lo lasciò andare con un gesto di stizza e Crowley si risistemò la cravatta tossicchiando.

«Oh dev’essere davvero comodo un angelo a domicilio ogni sera» continuò allegramente, come se Dean non avesse appena tentato di spaccargli il naso contro la vetrata.

«Mi stai spiando?»

«Io non spio proprio nessuno» si offese lui «Io osservo» sibilò, con l’aria di chi la sapeva lunga «Ma metti una buona parola per me col tuo bel tenebroso, d’accordo?» chiese timidamente, prima di avviarsi fischiettando verso l’ascensore.

Dean rimase per un buon paio di minuti a fissarlo mentre si allontanava.

Una buona parola? Con Castiel?

Cosa caspita intendeva dire?

Quando Sam andò ad aprirgli non era ancora riuscito a togliersi dalla faccia un’espressione stranita.

«Dean, sei tornato!» il sorriso di suo fratello tremolò e si spense un po’ più in fretta di quanto lui si sarebbe aspettato.

«Io le mantengo sempre le promesse Sammy. Come stai?»

Era la seconda volta che si vedevano — dopo quattro anni durante i quali avrebbero anche potuto essere morti, o peggio, l’uno per l’altro — e Dean ci rimase sinceramente male quando si rese conto che il suo principio di abbraccio era stato a senso unico.

«Oh… come al solito credo» Sam si strinse nelle spalle «Vieni, stavamo mangiando»

Si spostarono in cucina. Seduta al tavolo c’era Kelly, che spiluccava di malavoglia da un piatto di riso.

Dean la salutò sorridendo «Come sta il mio nipotino?» domandò. La pancia della ragazza gli pareva molto più grossa della prima e unica volta in cui si erano visti.

Kelly fece una smorfia imbarazzata e lanciò a Sam uno sguardo inquieto.

«Ehm, Dean… prendi un po’ di riso, è una ricetta che non avevo mai provato, assaggia»

Il ragazzo prese un cucchiaio pulito e lo affondò nella pentola che gli indicava Sam.

«Mmmmmh, è fantastico Sammy!» mugugnò a occhi chiusi, godendosi il gusto del sugo sulla sua lingua.

«Ma… come mai voi avete tutto questo cibo? Le pentole, le posate, tutti questi arnesi… » accennò languidamente alla macchinetta del caffè posata dall’altra parte del tavolo «Pensavo che i pasti fossero razionati e uguali per tutti»

«Ecco, vedi…» iniziò a spiegargli il minore, incerto «L’essere praticamente confinati su questo piano ci procura qualche privilegio. Come i quadri, i vasi e il resto»

Dean non credeva alle sue orecchie.

Sam, tuttavia, non sembrava altrettanto entusiasta.

«Dall’ottantesimo piano in su, ma immagino che Castiel te l’abbia spiegato, ci sono gli appartamenti degli angeli. Ci sono grandi tappeti, piante, un mucchio di roba raffinata a seconda dei gusti di chi ci abita. Almeno, così mi hanno detto»

«Ci sono altri umani che vivono oltre l’ottantesimo piano?» Dean ormai pendeva dalle sue labbra, più passava il tempo e più scopriva nuove bizzarrie dentro quel grattacielo.

«Sì. Tre piani più su ci sono gli appartamenti di Gabriel, con lui vivono alcuni umani»

«Per umani intendi…»

«No, niente Collaborazionisti» lo intercettò Sam «Umani con vestiti decenti» chiarì, facendolo arrossire.

«Ellen e Jo» deviò poi, alla vista di Dean che si graffiava nervosamente la maniche azzurre della giacca «Madre e figlia: ogni tanto scendono anche qui»

Il maggiore smise di tentare di strapparsi di dosso i vestiti e lanciò al più piccolo uno sguardo confuso.

«Ma… ma se mi hai detto che non potete lasciare il piano dove vivete…»

Sam sospirò «Sì…» ammise «Ma Gabriel permette a Jo ed Ellen di fare più o meno quello che a loro pare purché non si mettano nei guai, e anche in quel caso…» s’interruppe di colpo, come se la scia di un ricordo che non avrebbe mai voluto rievocare l’avesse quasi trascinato via.

Scosse la testa, il ricordo l’aveva distratto «L’averci confinato qui è stata un’idea esclusiva di Lucifer» si lasciò sfuggire.

Kelly singhiozzò.

«Ehi, tutto bene?» si preoccupò subito Dean «Ti fa male qualcosa, ti gira la testa?»

La ragazza negò, senza troppa convinzione «No, io… ho solo bisogno di riposare…» spinse lontano il piatto ancora mezzo piano e si strinse la mani sulla pancia «Io… io… scusatemi» sussurrò, prima di alzarsi, barcollando, e di dirigersi verso la sua stanza.

«Sammy…» s’avviò Dean a mezza bocca, una volta che Kelly fu sparita «Ci sono cose di cui dobbiamo discutere…» borbottò «Perché Lucifer vi tiene rinchiusi in questa specie di gabbia d’oro?»

Le dita di Sam si contrassero intorno al manico della pentola che stava posando nel lavandino.

«E’… complicato» mormorò, con lo sguardo fisso sulle macchie di sugo incrostate sui fornelli.

Dean deglutì: una familiare sensazione di panico già cominciava a stringergli la bocca dello stomaco.

«Sam, se lui ha anche solo provato a…»

E quel qualcosa lo morse di nuovo, sempre dall’interno, sempre con la stessa, sadica, urgenza.

«Dean, ti prego» suo fratello gli rivolse uno sguardo afflitto «Non ho voglia di parlare di questa cosa, ora. Più va avanti la gravidanza e più Kelly diventa ingestibile, sono stato dietro ai suoi capricci tutto il giorno e ora sono solo stanco» sbottò.

«E comunque, adesso Lucifer non è a Corte»

Dean incrociò le braccia al petto e maledisse mentalmente la testardaggine dei Winchester. L’espressione irremovibile sul viso di Sam gli ricordava fin troppo bene quella di suo padre.

«L’Arcangelo ha finalmente deciso di liberare questo mondo dalla sua presenza?» optò quindi per commentare, inacidito.

A quella domanda le spalle di Sam si rilassarono e lui prese a scrostare il fondo la pentola «Gli Arcangeli a volte sono via, in giro per il mondo. Raphael ad esempio si fa vedere raramente, è quasi sempre in Europa: ci sono altre torri in costruzione un po’ ovunque»

«Le torri, già» rammentò il maggiore «Sono successe così tante cose negli ultimi tre mesi che me stavo quasi dimenticando»

Il sudore, la polvere, la fame.

I ricordi erano cicatrici speculari, sottopelle, di quelle che invece gli marchiavano visibilmente la schiena, e un mucchio di altre parti del corpo.

«E dimmi, si è capito a cosa servano simili capolavori d’ingegneria?» ghignò.

«Purtroppo no. Sembra essere argomento riservato anche qui a Corte» Sam mise a posto la pentola e lasciò il resto dei piatti sporchi sulla tavola «Ma adesso parliamo di qualcos’altro mh? Vuoi del caffè?»

Dean non se lo fece ripetere due volte.

Ignorò il morso.

Sam stava bene, no?











Mi rendo conto che questo capitolo è un po’ cortino, oltre che molto tranquillo, perdonatemi ma non volevo mettere troppa carne a cuocere contemporaneamente. Però lo sapete che ho il cuore di pasta frolla — e l’impazienza di una scimmietta — in questi casi. Quindi… avete vinto un altro aggiornamento al mercoledì!
*Dean: ma chi lo vuole un altro aggiornamento?
Sam: io no di certo
Castiel: io sì!
Crowley: lo so io perché tu vuoi un altro aggiornamento…
Loth: piantatela prima che vi faccia fuori tutti nel prossimo capitolo!*
Ehm, scusate.
Ma intanto, cosa ne pensate di Crowley? E dei — eh eh — piani superiori? E non vi sarete mica già dimenticati delle famose torri?
Un enorme grazie a chi ha recensito/seguito/preferito/ricordato fin qui ♡

A mercoledì! ❀*

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Capitolo 13
*** Claude Monet ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






13. Claude Monet




22 marzo 2009

Finì di ricopiare l’ultima riga, per quella sera, e si stiracchiò sulla sedia; le luci della sua stanza si spensero nemmeno cinque minuti dopo.

Una bussata inconfondibile alla porta.

«Ciao Dean»

Il sorriso di Castiel brillava come una falce di luna; Dean seguì la luce e arrivò fino alla sua bocca.

«Aspetta» l’angelo lo fermò «Stasera voglio che tu veda una cosa» intrecciò le dita alle sue e lo tirò dolcemente all’esterno della stanza «Vieni»

«Castiel hanno spento le luci, io non potrei…»

Fu un gesto quasi casuale.

Castiel gli accarezzò l’interno della mano con il pollice — le tre linee più profonde, ben visibili sul palmo, il reticolo di cicatrici quasi invisibili che gli angeli ci avevano intessuto sopra.

«Sarai con me, non ci sarà nulla di pericoloso»

Dean fremette.

Oh, non era certo una verginella accidenti!

Al cantiere era stato quasi per un anno intero con Cassie, una ragazza con una massa di ricci neri e indistricabili sopra la testa, ed era stata la relazione più lunga — nonché la più eterosessuale — che avesse mai avuto: il resto delle sue innumerevoli avventure amorose non era mai durato più d’un paio di settimane.

Si era beccato persino un ceffone una volta… una bel tipetto, peccato non riuscisse a ricordarne il nome.

Ma Castiel era un fottutissimo angelo, per la miseria! E gli angeli gli avevano sputato addosso, lo avevano insultato, deriso, umiliato, non gli avevano di certo mai sfiorato le mani in quel modo.

Né tantomeno nessun umano, uomo o donna che fosse, lo aveva mai fatto sentire in quel modo. Ed era una sensazione così strana che a tratti ne aveva quasi paura.

Era abbastanza sicuro che Castiel gli avesse sorriso, prima di entrare in ascensore, ma in assenza d’illuminazione artificiale Dean non vedeva granché; seguì l’angelo per diversi piani, finché i suoi occhi non si abituarono all’oscurità e riconobbe i contorni di un lungo corridoio che era sicuro di non aver mai percorso prima.

«Siamo all’ottantaseiesimo piano» gli spiegò Castiel «Si può dire che io viva qui, in un certo senso»

Aprì una porta e Dean si ritrovò in un ambiente enorme, una stanza dalle pareti blu e il pavimento di marmo bianco, così pulito che esitò prima di metterci i piedi sopra.

Quando Castiel accese le luci, lui registrò mentalmente che ai piani alti — a quanto pareva — era concesso anche disporre a proprio piacimento dell’elettricità.

«Tu abiti in questo posto?»

La luce, azzurrina e soffusa come un fuoco fatuo, svelava lentamente i contorni degli oggetti. Una scrivania ingombra di carte, una libreria che prendeva un’intera parete e un divano blu, quasi al centro della stanza.

Era tutto sommato un arredamento molto spartano, paragonato ai vasi, ai cristalli e all’elegantissima moquette dell’appartamento di Sam.

«Ci passo parecchio tempo, sì»

Dean mosse cautamente qualche passo all’interno e la sua attenzione fu subito catturata da un quadro, una tela alta, lunga poco meno di un paio di metri, attaccata alla parete esattamente di fronte al divano.

Uno specchio d’acqua limpida sul quale galleggiavano delle ninfee.

«L’hai fatto tu?»

Le forme dei fiori, le loro ombre sull’acqua, non avevano quasi nulla di realistico e rimanevano vaghe, appena accennate. Come se lo scopo di chi le avesse dipinte fosse qualcos’altro, qualcosa di diverso dalla semplice riproduzione della realtà.

«No» rispose Castiel «L’ho solo… tenuto» mormorò «L’autore di quel dipinto è un tale Claude Monet, un pittore francese vissuto più o meno due secoli fa»

Dean si sedette sul divano e rivolse all’angelo uno sguardo interrogativo. Un angolo della tela era annerito, leggermente strappato, e messo così, un po’ storto, senza nemmeno una cornice o un vetro a proteggerlo, quel quadro sembrava fosse finito lì per caso, o per errore. Le forme morbide e indefinite delle ninfee stonavano con gli spigoli netti dei mobili e con l’ordine rigoroso, quasi austero, che regnava nella stanza.

«Dopo la notte della rinascita Michael ci ordinò di distruggere tutte le opere d’arte umane»

Castiel prese posto accanto a lui e accavallò le gambe.

«Nulla di ciò che era stato prima di quella notte sarebbe dovuto sopravvivere. La Resistenza è riuscita a salvare qualcosa, e alcuni di noi hanno tenuto quadri o statue come una sorta di trofeo…»

Dean ripensò agli affreschi appesi nell’appartamento di Sam e un brivido lugubre gli scivolò giù per la schiena.

«…ma in breve tempo è stato ridotto quasi tutto in cenere. All’epoca, io mi trovavo in Francia. Un giorno, nella sala caldaie di un museo trovai una ragazza» gli rivelò sommessamente.

«Probabilmente era chiusa lì da giorni. Aveva nascosto questo quadro dietro una delle caldaie spente ed era rimasta lì, a proteggerlo»

Il respiro dell’angelo accelerò e il suo sguardo si perse nel vuoto, oltre la punta delle sue scarpe candide.

«Mi implorò di non bruciarlo. Mi disse che potevo avere lei, che potevo farle ciò che volevo purché lasciassi stare quel quadro»

Poi Castiel si alzò e si avvicinò alla tela, dando le spalle al ragazzo, e al divano. Rimase lì, a fissarla in silenzio, con la testa leggermente piegata da un lato.

«E poi cos’è successo?»

L’angelo allungò le dita fino a sfiorare una delle ninfee, delicatamente, quasi temesse che sotto il suo tocco quei petali violetti potessero disfarsi e sparire sotto la superficie immobile dello stagno dipinto.

«L’ho uccisa»

L’istinto di sopravvivenza che Dean aveva sviluppato in vent’anni di terrore cominciò a urlare.

Scappa.

Scappa finché sei in tempo.

Eppure qualcosa continuava a tenerlo lì, immobile.

«In quel museo erano esposte centinaia di opere, alcune molto più preziose di questa» proseguì l’angelo, lasciando cadere il braccio lungo il corpo «Continuo a mettermi qui e a fissare questo quadro…»

Come a voler confermare la veridicità delle sue parole, Castiel tornò a sedersi sul divano.

«…e a domandarmi perché lei abbia deciso di sacrificare la sua vita pur di salvarlo. Avrei dovuto chiederglielo… avrei dovuto lasciarla vivere come ho fatto con ciò che proteggeva» ammise in un sussurro.

Dean vagava con lo sguardo tra la figura candida dell’angelo e le ninfee. Ora che le grida nella sua testa erano cessate, si sentiva come se — da giorni ormai — si trovasse in bilico su uno strapiombo.

«Perché Michael non si fida più di te?»

E in fondo allo strapiombo c’era Castiel.

L’angelo abbozzò un sorriso amaro.

«Te l’ha detto Claire?»

Lui annuì.

«Avevo una sorella, tempo fa»

Dean provò una fortissima sensazione di déjà-vu.

«Un giorno decise di abbandonarci, e da quel giorno non l’ho mai più rivista»

Erano passati tre mesi da quando Castiel aveva bussato alla porta della sua baracca e l’aveva sorpreso con quella vecchia foto tra le mani.

Tre mesi. Gli sembrava fosse passata una vita.

«Aniel era la creatura più gentile che avesse mai camminato su questa terra, e io l’amavo come si ama l’arrivo dell’alba dopo una notte di tempesta»

La voce di Castiel si era gonfiata di tristezza.

«Almeno, finché non ci ha traditi»

Dean ringraziò mentalmente di essere seduto, perché di fronte a quella rivelazione le sue gambe non avrebbero retto e se fosse stato in piedi si sarebbe ritrovato sul pavimento con le chiappe doloranti.

«Traditi?» esclamò sconcertato «Un angelo… un angelo può davvero tradire? Credevo che foste tutti precisi e perfetti come soldatini di piombo»

«Aniel è stata l’unica» specificò Castiel, stringendosi le braccia al petto «Ha abbandonato la Corte senza spiegazioni e ha fatto perdere le sue tracce. Ero…» il suo discorso tanto ordinato, improvvisamente s’arresto. Per la prima volta da quando lo conosceva, Castiel incespicava nelle sue stesse parole «Eravamo… eravamo distrutti» esalò «Tutti noi»

Fosse stata qualsiasi altra gallina biancovestita a parlare, Dean avrebbe riso in faccia a quel dolore così effimero.

Ma era Castiel.

Era Castiel, e del suo dolore lui non si beffò.

«Ma dopo…» continuò l’angelo, deglutendo «Michael è andato su tutte le furie. Mi ha ordinato di cercarla, di trovarla e… di ucciderla»

Dean ringraziò di nuovo il divano.

«E tu l’hai trovata?»

Castiel quasi si offese «Ovviamente sì»

Poi chiuse gli occhi, come sopraffatto da una visione angosciante. Dean avrebbe quasi voluto dirgli che i ricordi che probabilmente stavano danzando davanti al suo viso in quel momento non sarebbero spariti semplicemente abbassando le palpebre, ma poi immaginò che l’altro lo sapesse già.

«Ma da quel giorno ho iniziato a fare scelte diverse»

Castiel si abbandonò con un sospiro contro lo schienale del divano «Ho chiesto di essere esentato dal dover prendere parte alla repressione attiva della Resistenza e di essere assegnato a un altra mansione. Mi è stato affidato l’incarico che prima spettava ad Aniel però puoi immaginarlo, Michael non è stato molto felice di perdere uno dei suoi migliori soldati. Ma tutta quella violenza, e l’idea di dover continuare a infliggere altro dolore… improvvisamente ne ero disgustato» gemette.

Dean si irrigidì.

«Non mi pare di aver notato tutto questo disgusto sul tuo volto, quando hai costretto mio padre ad ammazzarsi» sibilò.

Il suo cuore stillava ancora sangue e fiele, al ricordo di quella notte.

«Ho agito in maniera miserabile»

L’angelo riaprì gli occhi e si voltò verso di lui.

«Ma per quel che vale, Dean, anche in Colorado avrei potuto prendere altre strade. Non sono stato completamente sincero con voi in quell’occasione»

Abbassò lo sguardo.

«Michael mi aveva dato tre mesi. Non potevo essere sicuro che il mio piano di usare te per destabilizzare John e di aspettare un suo passo falso funzionasse. In un’altra epoca, avrei torturato sul posto, personalmente, ogni singolo uomo del cantiere sospettato di avere legami con la Resistenza, incluso te. E’ un metodo decisamente più rapido per ottenere informazioni»

Dean rabbrividì. Si era chiesto spesso perché Castiel avesse orchestrato un inganno così raffinato anziché radere al suolo il campo, come era successo a Phoenix.

Aveva semplicemente fatto una scelta diversa. Aveva cercato di minimizzare i danni: il numero di cadaveri irriconoscibili, come quello di Ketch.

«Ma io non ero… non sono più quel genere di angelo» sospirò lui, a conferma delle sue supposizioni «Ormai conoscevo abbastanza bene gli umani da poter tentare un’altra strada - per quanto inconsueta e crudele avrei scoperto fosse anch’essa - e ho tentato. Michael voleva assicurarsi che io gli fossi ancora leale, voleva colpire al cuore la Resistenza, e sebbene non abbia ottenuto il nome dell’Occulto, alla fine ha avuto ciò che desiderava… più o meno» ammise.

«Più o meno?»

Castiel si morse il labbro inferiore.

«Non credere che non sia stato punito anch’io per non essere stato capace di sventare la distruzione delle torre»

Il ragazzo aprì la bocca ma l’angelo interruppe con un cenno stanco la formulazione di qualsiasi domanda.

«Non chiedere» lo fermò, ritornando a sollevare lo sguardo «Per favore»

«Ti basti sapere che ci sono delle… cose» si limitò a sussurrare, afflitto «Cose che Michael può obbligarmi a fare — cose che non prevedono la possibilità di scegliere un’altra strada — e che sa bene che io non voglio fare» i suoi occhi sgusciarono via da quelli di Dean, saettando verso il quadro «Non più, almeno»

La luce azzurra si rifletteva morbida sulle ninfee di Claude Monet, animando l’acqua di riflessi cangianti. Sotto quel chiarore di laguna, anche Castiel sembrava tremare.

«La notte in cui abbiamo fatto saltare in aria la torre…»

Dean non era colpevole di niente, eppure la sua voce vibrava al tono amaro della confessione.

«…ti ho trovato, dopo che Ketch ti aveva ferito: avevo ancora due pallottole nella mia pistola» gli rivelò «Sono stato sul punto di ucciderti»

«Lo so» rispose tranquillamente l’angelo «Ti ho visto»

Il ragazzo impallidì.

«Ma fino ad allora credevo di aver preso solo un abbaglio. Fino a quel momento, tutto quello che avevo fatto… ero sicuro di averlo fatto soltanto per ingannarti, ero convinto che il crescente senso di protezione che provavo nei tuoi confronti facesse parte del mio stesso piano, in qualche modo» Castiel sorrise, alla sua stessa ingenuità.

«E sebbene non riuscissi a spiegarmi quale fosse, questo strano modo, nonostante questo, tutto sommato, all’inizio di quella notte ero ancora convinto che non ci tenessi per davvero…»

«Credevo che non m’importasse»

Per la seconda volta, quella sera, Dean provò la stessa, fortissima, sensazione di déjà-vu. La cella senza serratura, il dolore pungente della ferita al fianco e quello, ben più straziante, per la morte di suo padre, che gli aveva lasciato gli occhi vuoti.

«Ma mi sbagliavo»

I vestiti di Castiel che brillavano nell’oscurità.

La memoria degli angeli era perfetta, gli aveva detto una volta.

Si chiese se anche lui in quel momento stesse pensando a quella notte.

Quando l’angelo lo attirò verso di sé, Dean non resistette all’impatto contro la sua bocca.

Era fuoco bianco, e distruzione, e disperata dolcezza, — era come guardare New York dalle vetrate dell’ottantaquattresimo piano e desiderare di sfondare quella lastra trasparente e di lanciarsi giù dal grattacielo, di disfarsi in cenere come i petali della ninfea, dissolversi nella luce insanguinata del tramonto — e quando la sua testa impattò contro il bracciolo del divano, Dean si rese conto che quella bocca non gli bastava più.

Smise di ordinare invisibili elenchi mentali, di porsi domande inutili alle quali aveva già risposte che semplicemente si rifiutava di ascoltare, di tracciare confini spauriti che Castiel cancellava con la punta delle dita.

«Sai» ansimò, riprendendo fiato con la guancia premuta contro quella dell’angelo «Penso… penso di aver iniziato anch’io a fare scelte diverse, da un po’ di tempo»

Fu come lasciarsi finalmente andare.

I loro abiti non erano altro che banali pezzi di stoffa cucita assieme in fondo. Un anonimo mucchietto di cotone e seta.

Dean allungò due dita sotto il colletto di quella camicia tanto candida, raggiunse il tessuto lucidissimo della cravatta e ne allentò rapidamente il nodo fino a sfilarla via.

Ebbe giusto il tempo di domandarsi come avesse fatto la propria giacca a scivolargli via dalle spalle tanto in fretta perché, quando le pupille di Castiel si dilatarono, non fu capace di chiedersi più niente.

Il divano sotto di loro, le ninfee appese alla parete.

Bianco. Blu. Stelle fisse.

Le labbra dell’angelo che scendevano sul suo stomaco nudo.

Le lavanderie, i registri di Metatron, gli ascensori, le scale pericolanti dell’ala est.

La schiena di Dean che s’inarcava.

Le macerie carbonizzate che circondavano l’Empire State Building.

I muscoli tesi delle sue cosce.

Tra le sue gambe.

Dappertutto.

Castiel.

Cas-

New York si sganciò dal proprio ancoraggio e sparì.

Tutto ciò che non era Castiel sparì.

Rimasero solo la sua pelle, la sua bocca incandescente, i suoi occhi luminosi che lo guardavano come fosse la cosa più bella di questo (e dell’altro) mondo.













Non ci credo che siamo già arrivati qui! T.T
Devo confessarvelo, per quanto lo adori, ci ho messo una vita a scrivere questo capitolo: divano (cosa se ne fanno gli angeli di un letto?) quadro (ma non sarà una cosa ridicola?) cosa far dire a chi, cosa far fare a chi, non volevo ridurre il tutto a un dramma angelico-psicologico ma dovevo spiegare in qualche modo cosa stesse passando e cosa fosse già passato nella testa di Castiel. Senza contare che non sono molto brava nel descrivere certe - ehm - pulsioni.
Ma ora siamo già alle ninfee. Mamma mia.
Il prossimo aggiornamento sarà molto, mooooolto lungo ^^’ e spero di riuscire a pubblicarlo sabato come sempre, ma vi avviso che potrei non riuscirci e scivolare a domenica.
Un immenso grazie a chiunque stia seguendo questa storia. E un doppio e ancor più enorme grazie a chi ha recensito fin qui: questo capitolo è tutto per voi ♡
*chiede umilmente perdono a Monet e si allontana fischiettando*
A prestissimo! ❀*

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Capitolo 14
*** Giocattoli ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






14. Giocattoli




10 aprile 2009

Era tutto troppo perfetto per essere reale.

Dean aveva la testa posata sulla spalla di Castiel e gli occhi rivolti al soffitto. La camera dell’angelo aveva una grande finestra su un lato che di giorno rimaneva quasi sempre aperta, e il venticello che si era alzato appena prima del crepuscolo lo aveva fatto rabbrividire.

La sua giacca azzurra era finita appallottolata sotto il divano, con grande disappunto di Castiel per come si sarebbe irrimediabilmente sgualcita, così l’angelo gli aveva passato la propria.

Le maniche erano un po’ troppo lunghe per Dean, ma era quel bianco che gli fasciava le braccia a disturbarlo. Nonostante appartenesse ad un angelo, in quella giacca si sentiva terribilmente a suo agio: era una sensazione quantomeno singolare.

«Perché l’azzurro, per i Collaborazionisti?» domandò in un impeto di curiosità.

«Mah, non credo ci sia una ragione particolare» rispose Castiel pensieroso «È un colore ben riconoscibile e simboleggia la purezza, un po’ come il bianco. Ma è stata una scelta di Gabriel, dovrei chiedere a lui»

A Dean tutta quella faccenda della nobiltà e della purezza degli angeli non era mai andata giù. Figurarsi la presunta purezza dei Collaborazionisti.

«Bah! Questo Gabriel non mi piace affatto!»

Castiel girò la testa verso di lui in un espressione di muto rimprovero.

«Secondo me invece andreste d’accordo: Gabriel è senza dubbio il più eccentrico degli Arcangeli» rifletté «Il più umano in un certo senso»

«Pessimo senso estetico, comunque» bofonchiò Dean, cercando di farsi scivolare addosso quello sguardo di biasimo «Assomiglio a un piccione»

«Io invece penso che l’azzurro ti doni» gli confidò candidamente l’angelo, e lui arrossì fino alla punta delle orecchie.

«Castiel, senti…» balbettò mentre l’altro cominciava pigramente a rivestirsi «E’ da qualche giorno che non vedo Sam, ti andrebbe… ti andrebbe di venirci con me?»

Castiel alzò un sopracciglio e Dean si sentì improvvisamente molto stupido. Invitare un angelo a conoscere la sua famiglia come se si trattasse del suo accompagnatore al ballo della scuola, che razza di idea.

Ma, al contrario, lui gli sorrise «Verrò molto volentieri»

Era in quei momenti che Dean aveva l’impressione di aver vinto un biglietto di sola andata per il Paradiso.

Mentre ritornava nella sua stanza incontrò di nuovo Crowley.

Diamine, quel tipo non faceva altro che gironzolargli attorno con aria compiacente, tessendo — neanche in maniera troppo velata — le lodi di Castiel. Dean non aveva ancora capito le sue intenzioni ma lo sguardo rapace del Collaborazionista gli lasciava addosso una sensazione assai spiacevole.

Crowley lo metteva a disagio. Portava con sé una consapevolezza crudele da cui lui cercava in ogni modo di sfuggire.

Erano prigionieri.

Prigionieri dai vestiti eleganti in una cella sorprendentemente spaziosa, ma dalla notte di sangue le loro catene non si erano mai spezzate. E mentre lui mangiava zuppa di pollo e trascorreva le sue notti in una stanza molto più grande della sua, nei cantieri delle torri gli umani continuavano a morire sotto i colpi di frusta degli angeli.

Inoltre, il fatto che suo fratello continuasse a sorvolare su Lucifer e a prodursi in risatine nervose ogni volta che Dean accennava al pancione di Kelly gli istillava sotto pelle una sottile angoscia.

Eppure quegli ultimi giorni erano stati i più felici della sua vita.

Lo specchio gli restituiva per la prima volta un immagine di se stesso che non gli faceva paura: non aveva il coraggio di rompere il vetro per vedere cosa ci fosse dall’altra parte.

Non ancora.


11 aprile 2009

Dean non credeva che un angelo potesse essere più bello di — beh —di com’era di solito, ma quando aprì la porta capì che la figura allampanata che aveva davanti se ne fregava beatamente delle sue convinzioni in proposito.

Castiel splendeva, gloriosamente, come una fottuta stella cometa.

Non avrebbe saputo dire cos’era cambiato in lui, l’aspetto dell’angelo era sempre più che impeccabile, forse aveva fatto qualcosa ai capelli, o forse era il taglio della giacca, il colletto inamidato di fresco.

«Vogliamo andare?»

Lui, al confronto, sembrava un ladro in fuga; e sì che si era persino lucidato le scarpe per l’occasione!

Mentre si dirigevano verso l’ascensore, Dean riconobbe una sagoma nota in fondo al corridoio.

«Merda, di nuovo Crowley!»

«Di qua» Castiel svoltò improvvisamente a destra, tirandolo per un braccio e portandoli entrambi fuori dalla portata del Collaborazionista.

«Non capisco cosa voglia ancora da me quel tipo!» il ragazzo si sistemò la cravatta con un gesto irritato.

«Cerca di ottenere l’accesso alla biblioteca» rispose annoiato l’angelo, con un’alzata di spalle «Ha provato a sedurmi e poi a implorarmi: immagino ti veda come la sua ultima possibilità per riacquistare di nuovo credito presso di me»

Alla parola ‘sedurmi’ Dean aveva già smesso di ascoltare.

«Pensavo che Crowley avesse il permesso di muoversi ovunque dentro il grattacielo: cosa c’entri tu?» incrociò le braccia al petto.

Di fronte a quella malcelata scenata di gelosia Castiel non riuscì a trattenere un sorrisetto.

«La biblioteca è sostanzialmente un enorme magazzino. Tutto ciò che non è andato bruciato negli Stati Uniti, durante la notte della rinascita, si trova lì: libri e giornali, per la maggior parte»

«E con ciò?» Dean continuava a guardarlo accigliato.

«Io mi occupo di studiare gli umani. Il vostro modo di pensare, di agire, i vostri meccanismi cognitivi» gli spiegò l’angelo «Michael mi ha affidato le chiavi della biblioteca e il suo accesso esclusivo, in modo da avere quanto più materiale sugli umani a mia disposizione»

Dean non aveva idea di cosa fosse un ‘meccanismo cognitivo’ ma in quel momento non desiderava altro che una buona motivazione per poter finalmente rompere il naso a quel Collaborazionista.

«Cosa c’è lì dentro che Crowley desidera così tanto?»

Castiel scosse la testa «Non me l’ha mai detto, né io gliel’ho mai chiesto. Nè tantomeno ho mai ceduto a qualcuna delle sue colorite proposte» concluse, lanciando a Dean uno sguardo divertito e vagamente spazientito «Possiamo andare ora




Quando li vide uscire dall’ascensore, Samandriel socchiuse gli occhi e squadrò Dean da capo a piedi.

«Faresti meglio a tornartene di sotto, Winchester» mormorò cupo.

«E’ tutto a posto Samandriel, non preoccuparti» lo rassicurò Castiel, ma l’angelo biondo si limitò a chiudersi nelle spalle e a far loro un mesto cenno dal significato incomprensibile.

La moquette nera del corridoio era più lucida del solito.

Quando arrivarono davanti alla porta di Sam, Dean non stava più nella pelle. Castiel gli rivolse un’occhiata incoraggiante e lui bussò vigorosamente, con il cuore che gli batteva all’impazzata.

Chissà cosa suo fratello avrebbe pensato di Castiel. E chissà cosa Castiel avrebbe pensato di Sam, di Kelly, e della nuova, piccola Winchester (perché sarebbe stata una femmina, assolutamente) che di lì a poche settimane sarebbe piombata nelle loro vite.

Sam aprì la porta quel tanto che bastava a metterne fuori la testa.

«Dean!» la bocca gli si arricciò in un sorriso poco convinto «Kelly sta… sta riposando, ti farei entrare… solo che…» il labbro inferiore gli tremava appena.

«Sammy…»

Dean si era pietrificato nel suo bel completo azzurro.

«Che cazzo ti è successo?»

Dal collo di Sam, e fin dentro allo scollo della maglietta, si allargava una macchia bluastra, una serie di lividi irregolari, non più vecchi di qualche ora e che probabilmente continuavano anche sotto i vestiti.

Prima che suo fratello potesse ribattere, Dean s’impossessò della maniglia della porta e spinse. Il minore fu costretto a farsi da parte per evitare l’anta gli sbattesse in faccia e lui si catapultò all’interno dell’appartamento, seguito a ruota da Castiel.

«Per favore, ascoltami» tentò Sam «Io volevo…»

«CHI E’ STATO?»

Castiel si avvicinò al maggiore con un’espressione corrucciata dipinta in volto «Dean, abbassa la voce»

«Davvero…» Sam lanciò all’angelo uno sguardo riconoscente, sebbene sembrasse ancora piuttosto confuso sul chi fosse e sul perché suo fratello fosse in sua compagnia «…non dovremmo attirare troppo l’attenzione in questo…»

Ma Dean era completamente fuori di sé.

«Non me ne frega un cazzo di attirare l’attenzione!» sbraitò «Tu dimmi solo chi è stato e io giuro!» riprese, sempre più stridulo «Giuro che gli spezzerò il collo con le mie mani!»

«Beh, non puoi»

Dopo aver cercato di calmarlo con le buone — come se avessero mai funzionato, con qualcuno come Dean — il più piccolo era passato alla terapia d’urto.

«Perché è stato Lucifer a farlo»

L’ultima imprecazione del ragazzo rimase sospesa a mezz’aria. Sbatté le palpebre e aprì di nuovo la bocca, come per dire qualcosa, ma stavolta dalle sue labbra dischiuse non uscì nemmeno un sussurro.

Il minore tirò un sospiro rassegnato e si accasciò con un gemito sul divanetto di pelle.

«Bene, ora lo sai» proseguì stancamente «Possiamo… parlare come delle persone civili adesso, per favore?»

Il castello di vetro che Dean si era — con gran fatica — costruito intorno nelle ultime settimane gli crollò miseramente addosso.

Poteva persino sentirne le schegge che gli perforavano i polmoni.

«Quando?» gracchiò.

Gli mancava l’aria.

«Lucifer è tornato stamattina» rispose Sam compassato «Ed è andato via più o meno due ore fa»

Si spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che gli dondolava sul viso e Dean intravide una brutta escoriazione che andava dalla tempia alla mandibola, come se qualcuno avesse strascicato la testa di suo fratello lungo un muro.

«S-Sam?»

Il pancione di Kelly precedette l’ingresso della ragazza nella sala. Le urla di Dean avrebbero fatto svegliare anche un orso in letargo.

«Ti prego dimmi che almeno tu stai bene!» il maggiore le andò incontro e le cinse un braccio con le spalle «Che state bene, tutti e due»

Effettivamente Kelly non aveva nessuna ferita visibile, ma i suoi occhi erano rossi e gonfi come se avesse appena finito di piangere.

«Dean, allontanati da quella donna»

Castiel, che fino a quel momento era rimasto ad osservare la scena in un silenzio tristemente consapevole, li raggiunse in due falcate e li separò con uno strattone.

«Samuel Winchester»

Dean indietreggiò istintivamente contro la parete.

«Hai una sola possibilità per spiegarmi questo» la collera aveva trasformato i lineamenti morbidi di Castiel in una maschera contratta «Prima che io vi uccida»

«C-Castiel…» azzardò Dean, con un filo di voce: l’espressione furente dell’angelo gli faceva accapponare la pelle «C-cosa stai…»

«Sta zitto»

Quell’ordine lo colpì come come uno schiaffo.

Sam si alzò — non senza un certa fatica — dal divanetto e piantò uno sguardo di pietra dentro le fiamme blu che bruciavano dentro gli occhi di Castiel.

«Cos’è questo?» ringhiò, ma era il latrato di una bestia ferita a morte «E’ il vostro Arcangelo ecco cos’è!»

D’un tratto Kelly esplose in un pianto isterico e crollò sul pavimento.

«Non parlare così di lui!» guaì, le spalle minute scosse dai singhiozzi.

Il minore buttò fuori un sospiro logoro, raggiunse Kelly e l’aiutò a rialzarsi, incurante dell’espressione truce dell’angelo che si frapponeva tra di loro.

La ragazza gli si aggrappò alla spalla strappandogli un lamento soffocato e continuò a piangere finché lui non la depositò, come un fagotto, sul divano. Lì parve acquietarsi un poco, si raggomitolò come meglio poteva con quella protuberanza enorme che le sporgeva dal corpo e cominciò a parlottare sommessamente con se stessa.

Sam rivolse all’angelo un’occhiata eloquente.

«Cosa pensavi, che Lucifer avrebbe fatto il salto della quaglia?» lo incenerì «O che si sarebbe preoccupato delle conseguenze di quello che fa? Di quello che ci fa?»

Dean si sentì gelare il sangue, ma la sua reazione orripilata non fu nemmeno lontanamente paragonabile a quella di Castiel.

L’angelo impallidì. Divenne praticamente grigio. I suoi occhi spalancati, intanto, avevano raggiunto dimensioni ormai irrealistiche e le sue labbra…

Le sue labbra tremavano.

Dean non riusciva a crederci. Castiel sembrava fosse sul punto di avere un infarto.

Sam si accoccolò sul divano e cominciò ad accarezzare dolcemente la schiena di Kelly, che continuava a farneticare a bassa voce stringendosi le braccia attorno al pancione.

«Lui… lui non è quello che pensi…»

Non era la prima volta che succedeva: i gesti di suo fratello erano troppo sicuri e precisi per essere solo un’idea fortuita scaturita dalla crisi occasionale di una donna incinta.

«Lui… lui mi ama Sam…»

Kelly non stava bene. Non stava affatto bene, e non si trattava del naturale disagio provocato dagli effetti collaterali di una gravidanza ormai agli sgoccioli. La ragazza aveva cominciato a graffiarsi le braccia — filamenti rossi si allungavano sulla sua pelle diafana — e i suoi occhi sgranati erano aperti su un altro mondo, non avevano colore.

Kelly era evidentemente fuori di testa.

Dean trovò finalmente il coraggio di staccarsi dalla parete. Non capiva più nulla, aveva solo la sgradevole sensazione che di lì a poco sarebbe successo qualcosa di orribile.

«Sam… ho bisogno che tu mi dica la verità» s’impose, con la voce più ferma che riuscì a cavarsi dalla gola «Adesso»

Suo fratello sospirò.

«Io e Kelly non stiamo insieme, Dean. Il bambino che porta in grembo non è mio: è di Lucifer»

«NO!»

Il grido di Castiel fece tintinnare tutti gli steli di vetro nei vasi.

«Non è possibile… un Arcangelo non farebbe mai una cosa del genere, è… è un’aberrazione»

Ora il suo colorito era un po’ meno grigiastro, ma continuava ad avere gli occhi sbarrati, ed era come se dietro le sue iridi si fosse appena rotto qualcosa.

Sam lo ignorò.

«Io e Kelly siamo i suoi… giocattoli, diciamo così» le sue pupille tremolavano leggermente.

«E Lucifer ha una maniera molto singolare di giocare »

Dean non voleva sentirlo. Non voleva, non voleva, non voleva.

«Può farti scendere uno a uno i gradini della scala per l’Inferno e poi lasciarti sospeso sull’ultimo per tutto il tempo che gli pare»

Era un altro incubo. Era soltanto un altro incubo, di lì a poco si sarebbe svegliato urlando.

Sam stava bene, no?

La mano di suo fratello continuava a scivolare su e giù lungo la schiena di Kelly, il cui respiro spezzato cominciava a farsi via via più regolare.

«Lei è rimasta sull’ultimo gradino» mormorò «La sua mente ha ceduto prima del suo corpo»

La ragazza si agitò debolmente, urtando il fianco di Sam con un gomito e facendogli sfuggire dalle labbra un sottile sibilo di dolore che raggiunse e trafisse Dean come una lama altrettanto affilata.

No. Non si sarebbe mai risvegliato da quel sogno.

«Non so più quante volte ho sperato che sbagliasse i suoi calcoli e mi lasciasse morire. Ma ogni maledetta volta riusciva a riprendermi per i capelli e a riportarmi indietro»

«Ti ha guarito…»

Dean avrebbe voluto mettersi di nuovo ad urlare, ma non ne aveva la forza.

«Ogni volta…» realizzò, mentre la cena tentava di risalirgli su per l’esofago «Per questo non hai cicatrici»

Sperò di svenire, di piombare nel più completo e nero ottundimento dei sensi e di rimanere nel buio per il resto dell’eternità, ma poi si odiò immediatamente per esserselo augurato. Per aver anelato la fuga — la facile, codarda, seducente fuga — davanti al viso devastato di suo fratello.

«Perché non me l’hai detto prima?»

Sam chinò la testa.

«Non ne ho avuto il tempo la prima volta che sei stato qui» si giustificò tristemente «E poi, quando sei ritornato… credimi, ho davvero pensato di dirtelo, all’inizio, ma tanto… cosa avresti potuto fare? Avresti dato di matto e ti saresti soltanto messo in un mare di guai e poi…» annaspò «…eri così felice…»

E quel mezzo sorriso sbagliato che ondeggiò all’angolo della sua bocca lo pugnalò di nuovo.

«Non ti avevo mai visto così felice»

Dean si maledisse, in silenzio.

Aveva desiderato così tanto che le cose andassero per il verso giusto — una volta, una volta sola, nella sua vita sconquassata — che si era aggrappato con le unghie e con i denti a quella moquette nera, alla macchinetta del caffè, alle ninfee della stanza di Castiel, alla sua bocca perfetta, a quella parvenza di normalità, di serenità perfino — serenità, dentro un grattacielo che vomitava morte sopra il mondo? Che razza di idiota — e alla fine aveva trascurato l’unica cosa alla quale invece avrebbe dovuto prestare davvero attenzione: Sam.

Era stato stupidamente egoista.

«Lucifer sa del bambino?»

Sam gli fece cenno di tacere e si rivolse invece alla ragazza.

«Kelly credo sia il caso che tu vada a stenderti un po’ sul letto»

Lei annuì, senza troppa convinzione, e lui la accompagnò lentamente fino alla sua stanza. Quando gli sfilarono davanti, Castiel rimase immobile.

«Lucifer non sa nulla»

Sam ritornò zoppicando verso il divanetto.

«La ucciderebbe, e ucciderebbe anche il bambino»

«Ma come… come ha fatto a non accorgersi di…»

Dean si mise entrambi le mani sul ventre e poi le allungò in avanti. Cazzo, il pancione di Kelly era la cosa meno occultabile che lui avesse mai visto.

«La sua gravidanza è molto più veloce del normale, e poi…» Sam sembrava stesse facendo appello a tutte le sue energie per continuare quella conversazione «…Lucifer non la tocca da settimane»

«Settimane?»

«Lucifer si stanca presto dei suoi giocattoli. Quando sono arrivato io c’era un tale Rooney a occupare la sua stanza: poi c’è stato Vince, poi Nick, e infine lei»

Dean non fece nessun’altra domanda, ma il silenzio che dopo quell’ultima rivelazione si rapprese nella stanza vibrava, e parlava al posto suo. Nessun umano era durato più di qualche mese sotto le grinfie dell’Arcangelo: suo fratello era lì da quattro anni.

«Io sono… sono il suo preferito, a quanto pare»

A quel punto, Sam cedette.

La maschera d’imperturbabile stoicismo che aveva tenuto su fino a quel momento s’incrinò pericolosamente e lui nascose la faccia tra le mani, appena un secondo prima di scoppiare in lacrime.

Senza nemmeno rendersi bene conto di cosa stesse accadendo, Dean si catapultò al suo fianco ritrovandosi, suo malgrado, in un frustrante pantano d’incertezza. Le sue dita si articolarono nell’aria senza riuscire a decidersi, si serrarono a pugno, ritornarono rabbiosamente a distendersi e infine rimasero prive d’intenzione, a contorcersi su loro stesse.

Non sapeva cosa fare.

Avrebbe voluto abbracciare suo fratello, consolarlo, offrirgli il suo sostegno, fare qualcosa — qualsiasi cosa, pur di far cessare quei singhiozzi — ma aveva una dannata paura di fargli soltanto altro male: non aveva la minima idea di quale parte del corpo di Sam potesse toccare senza farlo gemere di dolore.

«Ho provato a uccidermi…» continuò a rantolare il minore, come se le convulsioni che lo squassavano non fossero già sufficientemente strazianti «Ma non ci sono riuscito… non sono stato abbastanza deciso e Nick mi ha scoperto e poi… poi quando Lucifer è arrivato è stato ancora peggio!» tremò violentemente.

Dean gli sfiorò la fronte con le labbra, soltanto perché di più non osava rischiare. Alla fine si era rassegnato ad accarezzare la zazzera disordinata che, da quando era entrato nell’adolescenza, suo fratello rifiutava categoricamente di accorciare.

Strinse i denti. Non riusciva neanche a piangere, ma era sicuro che se ne fosse stato in grado, in quel momento dai suoi occhi sarebbe piovuto acido.

«Ti prometto che ti porterò via Sammy» sibilò tra i suoi capelli aggrovigliati.

«Ti porterò via da questo posto»

Il minore non disse niente, ma il fremito delle sue spalle diminuì un poco.

«Tieni questo»

Dean alzò lo sguardo e per poco non gli venne un colpo.

Castiel, recuperata la sua angelica compostezza, gli stava tendendo un tovagliolo di stoffa, di quelli che aveva visto una volta impilati sul tavolo della cucina.

Lo afferrò con una certa titubanza: lo scoppio d’ira dell’angelo, la sua successiva reazione sgomenta e — non per ultimo — quello ‘sta zitto’ che ancora gli rimbombava nel cervello, gli avevano annodato in gola un terrore ancestrale che faticava a scendere.

Porse il fazzoletto a Sam, il quale finalmente staccò la faccia dalle mani e si soffiò rumorosamente il naso. Le lacrime gli erano colate fino ai gomiti.

«G-grazie» balbettò, asciugandosi gli occhi e il viso come meglio poteva. Dean gli teneva ancora la mano tra i capelli.

«Posso guarirti se me lo permetti»

Castiel si manteneva a una prudente distanza dal divanetto ma più che per disgusto, o rabbia, sembrava lo stesse facendo per una sorta di delicata premura. Come se, improvvisamente, volesse apparire il meno invadente e minaccioso possibile.

«No»

Sam si ritrasse, scostandosi anche dalla mano di Dean «Se Lucifer lascia i segni è perché vuole che restino» non piangeva già più «Gabriel mi ha guarito, una volta, e lui non ne è stato molto contento»

Si rialzò, sbuffando un lamento.

«Dean, Castiel»

In quel momento Dean si rese conto che, una volta scoperto il nome dell’angelo, suo fratello aveva già capito tutto.

«Io… mi dispiace per tutto questo, non era mia intenzione» si scusò, cercando di recuperare un contegno il più distaccato possibile, malgrado gli occhi umidi. Poi cominciò ad arrancare lentamente verso la sua stanza.

«Se pensi che io ti lasci in queste condizioni» attaccò il maggiore con fare paternalistico, intuendo con orrore cosa l’altro gli avesse appena chiesto, dandogli le spalle «Non hai proprio…»

«Sono solo lividi Dean: è roba superficiale» tagliò corto lui, stancamente, senza nemmeno voltarsi «Ci sono abituato»

Che cosa ti ha fatto Sam?

Che cosa ti ha fatto per ridurti così?

«Sammy…» ormai lo stava implorando.

Per strapparti persino la capacità di reagire?

«Sei a pezzi…»

Ma suo fratello aveva già rimesso la maschera, quella che si era costruito in quattro anni di tormenti, quella che gli aveva consentito di non fare la fine di Kelly, ma che non era comunque riuscita a salvarlo.

Avrebbe dovuto capirlo al loro primo incontro.

Sam non gli avrebbe permesso di restare nemmeno se lui l’avesse trovato a reggersi le viscere con le mani.

Perché Lucifer sarebbe tornato, perché non gli era stato concesso nemmeno di morire, e quindi, semplicemente, suo fratello si era arreso.

Si era rassegnato. E ciò che annientava il maggiore più di tutto, era che pretendeva che si rassegnasse anche lui.

«Ha appena cominciato, Dean» lo interruppe infatti, asciutto «E Samandriel non avrebbe dovuto nemmeno farti uscire dall’ascensore, Lucifer non permette che altri circolino su questo piano quando lui è a Corte, o almeno…» esitò «Almeno finché non ha finito»

Si appoggiò allo stipite della porta, come se per aprirla occorresse richiamare tutte le forze ancora rimastegli. Dean lo aveva istintivamente seguito e adesso erano entrambi immersi nella penombra scura del disimpegno che separava la sala principale — quella con gli affreschi (insanguinati) e i vasi di porcellana (terrificanti) — dal resto delle altre camere.

«Non puoi chiedermelo» il ragazzo, dopo essere passato attraverso la rabbia, lo sgomento e il dolore, adesso era solo completamente terrorizzato «Lo sai che non puoi»

Sam si girò solo per piantare nei suoi occhi uno sguardo esausto.

«Sei tu che non puoi evitarlo, Dean. Non ci è riuscito neanche papà quattro anni fa» sussurrò «E se sarai ancora qui quando tornerà o peggio , se proverai a fermarlo, Lucifer farà del male anche a te»

«Io non…»

«Ascoltami» il minore gli artigliò l’avambraccio, e nonostante la giacca e la camicia il ragazzo sentì le sue unghie conficcarglisi nella pelle «Ogni volta che se ne andava — se ero ancora abbastanza lucido per farlo — pregavo. Per un… per un’infinità di cose, all’inizio»

Dean non riusciva più a guardarlo.

«Ma a un certo punto… se ho continuato a farlo è stato solo affinché questo non toccasse anche a te. Pregavo la mamma — e chiunque altro potesse essere in ascolto — soltanto affinché tu e papà non doveste mai vivere lo stesso inferno. E quando ho aperto la porta e ti ho trovato lì davanti io non-»

Non dirlo.

«Senza contare che io sono la prima persona con cui se la prenderebbe, se ti trovasse qui»

Non dirlo.

«Vuoi fare davvero qualcosa per me Dean?»

Non dirlo.

«Va via»

Non-.

«Resta al sicuro. Resta vivo. Ho bisogno di saperti vivo»

Il maggiore non riuscì a replicare abbastanza in fretta. Sam si infilò dentro la sua stanza e ci si chiuse definitivamente dentro.

Dean si accasciò contro la porta. Dal fruscio che udì poco dopo, ne dedusse che dall’altra parte suo fratello avesse fatto la stessa identica cosa.

«Io non ho nessuna autorità sugli Arcangeli»

Sentì a malapena le parole di Castiel.

«Se davvero Sam ha ragione, qualsiasi cosa potrebbe farti Lucifer, io non avrei il potere di impedirla»

Lui non ricordò mai in che condizioni l’angelo l’avesse trascinato fuori dall’appartamento, che espressione avesse Samandriel una volta arrivati all’ascensore, come lui avesse fatto a raggiungere il settantaduesimo piano senza che le sue gambe cedessero.

Una volta ritornato nella sua camera, Dean si sedette sul bordo del letto e si tolse lentamente la giacca azzurra. Non si distese, né finì di spogliarsi. Rimase così — fermo — a fissare il muro, per tutto il resto della notte.













*sporge leggermente la testa oltre il divano dietro il quale è tornata a nascondersi*
Un pochino ve lo aspettavate dai. Vero? Almeno un pochino. Ditemi di sì ^^’
Purtroppo, siamo arrivati infine alla grande virata della seconda parte di questa storia. E non posso non confessarvi già da ora che i prossimi capitoli saranno decisamente meno tranquilli dei precedenti. Ma avremo ancora delle gioie in futuro, resistete ^^
Qualcosina c’è già qui, se guardate bene ;)
Mi rendo conto che Sam si prende praticamente tutto il capitolo, ma il dialogo che Dean e Castiel hanno dopo aver evitato Crowley è molto importante, quindi vi consiglio di conservarlo al calduccio in un angolino della vostra mente.
Infine - ma non per importanza - grazie, grazie, grazie per le recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo ♡
A sabato prossimo ❀*

EDIT (perché questo capitolo, nonostante l'abbia scritto io, mi ha messo tutto sottosopra e mi ha fatto dimenticare pezzi di cose che volevo dirvi -.-): Rooney, Vince e Nick sono i nomi dei tramiti (alcuni, perlomeno) di Lucifer in SPN.
Cheers ❀*

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Capitolo 15
*** Nessun diritto ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






15. Nessun diritto




12 aprile 2009

Il giorno dopo andò prima un po’ meglio, e poi molto peggio.

Un po’ meglio perché Dean riuscì ad alzarsi — a uscire dallo stato d’immobilità agghiacciata in cui era piombato non appena Sam si era chiuso la porta alle spalle — e ad andare almeno a lavarsi la faccia.

Molto peggio perché, di ritorno dai bagni comuni del settantaduesimo piano, trovò Castiel nella sua stanza, elegantemente accomodato sul suo letto.

L’angelo non aveva detto una sola parola una volta uscito dall’appartamento di Sam. Aveva riaccompagnato Dean fino alla sua camera e poi era sparito.

«Perdonami Castiel, ma non ho voglia di parlare in questo momento»

Non aveva usato un tono cattivo.

Semplicemente, l’idea di dover ridare forma a quanto successo la sera prima gli dava il voltastomaco.

«Il destino dei nephilim è crudele»

Di fronte al suo sfinimento l’angelo aveva sospirato d’angoscia, ma non si era comunque smosso di un solo millimetro.

«Né angeli, né umani, non hanno nulla a cui appartenere. Vivono nella solitudine, ripudiati, abbandonati alla loro sorte. I loro poteri sono del tutto imprevedibili e, non avendo nessuno che insegni loro ad usarli, finiscono per rivolgerli contro loro stessi»

Il ragazzo si passò una mano sul viso, ancora leggermente umido.

«Questo è l’unico modo che hai trovato per chiedere scusa per ieri sera?» azzardò.

Castiel intrecciò le mani in grembo e cominciò a torcersi nervosamente le dita.

«Lucifer non avrebbe dovuto» ammise «E’ una delle poche regole a cui devono sottostare gli stessi Arcangeli: il concepimento di un nephilim è una stortura nella trama del creato, una… violenza, la messa al mondo di qualcosa di destinato puramente a soffrire»

Le pupille di Dean si dilatarono mentre le parole che l’angelo taceva si condensavano tra una pausa e l’altra.

La smorfia indecifrabile — confusione, raccapriccio, delusione — appena comparsa sul suo viso gli scavava profondi solchi sulla fronte e agli angoli delle labbra.

«Ma ormai…» Castiel sospirò «Oh, ormai non ha più importanza»

Sembrava… invecchiato.

«Quello che le regole impongono, ora, è un semplice atto di pietà» sentenziò infine «Il bambino e sua madre devono essere soppressi quanto prima» mormorò, stroncando tuttavia sul nascere la prevedile reazione di Dean con una rapida — e quella sì, inaspettata — postilla.

«Ma sappi che non è ciò che intendo fare»

Il ragazzo s’interruppe con un risoluto ‘No’ già sulla punta della lingua, e una scintilla stupita negli occhi.

«Non dirò a Lucifer del bambino» dichiarò Castiel d’un fiato «Né a lui, né a nessun altro» e poi proseguì «Non riesco a vedere nessuna pietà in un… in un assassinio del genere»

Dean trasalì.

Un’ondata di commozione gli risalì dalla pancia e gli arrivò fin sotto le palpebre.

Il turbinio doloroso di emozioni che si erano avvicendate nel suo animo durante quella notte insonne, dopo le contrastanti dichiarazioni dell’angelo sembrava stesse ormai per sopraffarlo definitivamente, per mezzo di un’imbarazzante — e quantomai grandiosa — crisi di pianto.

Stava cercando la maniera migliore per rispondere senza lacrime, quando Castiel aggiunse: «Non immaginavo che Lucifer si sentisse superiore alle regole fino a tal punto»

Il gemito grato del ragazzo finì brutalmente risucchiato di nuovo dentro i suoi polmoni.

«Ah no?»

La commozione si ritirò e sprofondò giù dentro il suo corpo, come se non fosse mai esistita.

Tralasciando lo shock dell’angelo dopo aver percepito cosa Kelly nascondesse nel pancione, a Dean non era sfuggito lo sguardo tristemente rassegnato che Castiel aveva rivolto ai lividi di Sam.

«Nemmeno un dubbio fugace, un sospetto ogni tanto?» cantilenò, nella migliore delle sue espressioni sarcastiche.

In realtà quella stessa domanda la stava ponendo anche a se stesso.

Come aveva fatto a non accorgersi subito di quanto stesse accadendo a Sam? Come aveva potuto essere così cieco?

Il rimorso gli affondava nello stomaco con la sottile ferocia di un granello di sabbia incandescente.

«Cazzo prendete nota persino dei moscerini che passano da un piano all’altro, mi sto slogando un polso sui vostri dannati registri e tu vuoi farmi credere che un cadavere all’anno in uscita dall’appartamento di Lucifer riesce a passare inosservato?»

«Dean…» l’espressione di Castiel s’indurì.

«Cosa pensavi, che il vostro Arcangelo regalasse tenerezza e mazzi di rose alle sue puttane?»

L’angelo balzò in piedi.

«Dean, non ti permetto di parlare di un Arcangelo in questo modo!»

Incrociò le braccia al petto «Lucifer ha molto difetti, è vero, e ha sempre posto se stesso al di sopra delle regole» constatò cupamente «Ma per quanto io non approvi il suo comportamento, lui rimane un mio diretto superiore, un compagno affidabile e un soldato valoros…»

«COME PUOI DIFENDERLO?» esplose Dean, paonazzo.

Notevole.

Castiel era riuscito ad esaurire il suo autocontrollo in meno di dieci secondi.

«Hai visto com’era ridotta Kelly! Hai visto Sam! Lucifer può pensare ciò che vuole di se stesso, ma se anche lui fosse la stella più brillante del cielo e mio fratello un mucchietto di polvere, non avrebbe nessun diritto di trattarlo così!»

Ogni singola parola pronunciata da Sam la sera precedente gli si era conficcata tra le costole come una spina e mordeva, gli lacerava le viscere a ogni respiro.

«Voi non avete nessun diritto di trattarci così. Nessuno dovrebbe fare questo a un altro!»

Era troppo, era davvero troppo. Lucifer si era spinto ben oltre le sue peggiori previsioni: un angelo poteva guarire, poteva giocarsela con la morte e strappargli un’anima sul filo di lana e invece lui aveva deciso di usare il suo potere in quel modo. Non era semplice crudeltà, era qualcosa che sconfinava nel disgustoso, nel sadico, nel perverso, era… com’è che aveva detto Castiel?

Aberrante.

Un dolore nero gli risalì fulmineo lungo il braccio, pretendendo la sua totale attenzione.

Merda.

Il pugno che aveva tirato contro il muro era stato così violento che temeva di essersi rotto più d’un dito. Per fortuna era la mano sinistra, le scadenze di Metatron non si sarebbero certamente messe a compatire le sue ossa incrinate.

Castiel era scattato verso di lui appena un istante prima che le sue nocche si schiantassero contro la parete e — sebbene non fosse riuscito ad evitarne l’impatto con il muro — adesso gli stringeva entrambi i polsi con una forza tale che la pelle del ragazzo, sotto le sue dita, cominciava già a sbiancare.

«Ora basta Dean» sibilò «Tutto questo non serve a niente»

I loro occhi s’incrociarono e Dean, dal fondo della sua prostrazione, non poté fare a meno di notare come l’angelo sembrasse turbato almeno quanto lui.

Abbandonò il peso delle sue braccia in quella stretta inquieta.

«Allora dimmi che cosa servirebbe…» esalò, mentre il suo sguardo verde si arrampicava dentro quello di Castiel e supplicava, supplicava una sola cosa.

Aveva promesso a Sam che l’avrebbe portato via da Lucifer quando, in realtà, lui non poteva fare proprio un bel niente. Dean Winchester non poteva fare proprio un bel niente.

Nemmeno disporre completamente del proprio corpo, a giudicare da come Castiel aveva deciso di rimettergli a posto la mano tumefatta senza neanche chiederglielo.

«Servirebbe un po’ più di discrezione da parte tua» bofonchiò l’angelo, distogliendo gli occhi e concentrandosi invece sulle sue nocche insanguinate.

Il calore che pian piano si sostituiva al pulsare rabbioso delle sue falangi spezzate sarebbe risultato assolutamente piacevole, se solo il subconscio di Dean non avesse appena deciso di associarvi l’espressione affranta dipintasi sul viso di Sam, al ricordo di tutte le volte in cui Lucifer aveva usato quegli stessi poteri su di lui, dopo averlo ridotto a brandelli.

Scariche di terrore si propagarono da ogni centimetro della sua epidermide in contatto con le dita sottili di Castiel, e lui si allontanò bruscamente.

L’angelo tentò di riacciuffargli il polso, senza esito.

«Ti prego…» si rese conto di aver appena iniziato a tremare «Ti prego, promettimi che tu non mi farai del male»

Castiel sgranò gli occhi.

«Come puoi pensare…» sussurrò addolorato «Dean, come puoi pensare che io possa farti del male?»

Dean avrebbe voluto dirgli che da qualche parte, dentro di lui, sepolto sotto innumerevoli strati di compromessi e di amarezza, sotto camicie azzurre, pasti abbondanti e carezze che non si sarebbe mai aspettato di ricevere da qualcuno con indosso abiti tanto candidi, il ricordo della frusta di Zaccaria che si abbatteva senza pietà sulla sua schiena era ancora vivido, e ancora bruciava.

Zaccaria era un angelo, Lucifer era un angelo, Castiel era un angelo.

La mano che adesso risaliva lungo il suo viso riusciva a lenire il dolore, eppure contemporaneamente lo alimentava.

Castiel gli sfiorò la tempia con le labbra, e la delicatezza dei suoi baci era insopportabile.

Dio, si sentiva come se lo stessero strappando in due.


15 aprile 2009

In quei giorni, accettare l’idea di non poter far nulla mentre Lucifer sbatteva suo fratello contro il muro appena una trentina di metri sopra la sua testa gli provocava quasi un dolore fisico.

Che Dean avesse il permesso per circolare oltre l’ottantesimo piano del grattacielo, che quello che stesse torturando fosse l’ultimo membro della sua famiglia ancora in vita — non solo, quello che più di tutti amava — e che Castiel avesse tentato in ogni modo di intercedere affinché glielo facessero almeno vedere — poi se ne sarebbe andato, aveva giurato e spergiurato su tutti i suoi morti, avrebbe fatto qualsiasi cosa, si sarebbe inginocchiato ai piedi dell’Arcangelo e avrebbe baciato la punta delle sue scarpe purché gli concedesse anche un solo minuto con suo fratello — a Lucifer non interessava granché.

«Almeno tu…»

Dean sollevò la fronte dal registro la cui copia era attesa da Metatron già da parecchie ore. La testa gli girava, tra poco avrebbero spento le luci e Castiel era appena arrivato ad annunciargli che no, non era possibile, per il momento era assolutamente fuori questione che l’Arcangelo lo lasciasse andare da Sam.

Tutto ciò che i vani tentativi di Castiel avevano ottenuto era stato soltanto un violentissimo litigio con Claire.

«Non potresti andare almeno tu, da lui?»

Samandriel, come il minore aveva previsto, non l’aveva più neanche lasciato uscire dall’ascensore, e le scale e tutti gli altri accessi all’ottantaquattresimo piano erano presidiati allo stesso modo.

L’angelo scosse la testa «Gli ordini sono stati chiari» ripetè, per la terza volta quella sera.

Quando Lucifer gioca non gradisce interruzioni.

«Solo gli Arcangeli hanno accesso a quel piano, per il momento»

Quando Lucifer morirà io piscerò sul suo cadavere.

Dean si stropicciò gli occhi.

In ogni caso, l’idea di travolgere chiunque gli si parasse davanti, fare irruzione in quel dannato appartamento senza avere comunque né l’autorità né la forza per fronteggiare l’Arcangelo — e rischiare che a subirne le conseguenze fosse poi Sam — gli risultava esattamente insopportabile come il doversene rimanere lì, con quella fottuta penna in mano.

«Ti ho…» l’angelo esitò, prima di posare sul tavolo una ciotola fumante «Ti ho portato la cena»

Cambia pure argomento Castiel.

«Non ho fame»

Non ti servirà comunque a niente.

«Per favore»

Dean non mangiava da quattro giorni.

«Tu mi hai portato da lui e lo sapevi » il ragazzo ignorò l’apprensione afflitta appena emersa dal fondo di quelle iridi abissali «E non hai mai pensato di dirmi nulla, cosa pensavi sarebbe accaduto quando…» la voce gli morì in gola.

«Che Lucifer agisca in un certo modo non è una novità»

L’angelo si sedette — si accasciò — sul letto, con un verso spossato.

«Lui ha sempre trattato gli umani alla stregua di…» sebbene fosse dietro di lui, Dean percepì chiaramente le pupille di Castiel rimbalzare freneticamente da una parte all’altra prima di riuscire a fermarsi in un punto imprecisato della camera «Oggetti»

«Cose, strumenti, mezzi, giocattoli» continuò, con un po’ troppa leggerezza, perché sull’ultimo vocabolo la penna sfuggì dalla presa del ragazzo e la sua mano finì a tappargli la bocca, nello sforzo esausto di reprimere l’ennesimo singhiozzo.

«Scusami» Castiel sospirò «Mi sembra sempre di… di continuare a usare le parole sbagliate con te, in questo periodo»

Dean sbuffò, attraverso le dita semichiuse. L’angelo decise di interpretare quel lamento come un qualche tipo di rude assoluzione, e proseguì.

«La prima volta che successe era il 1995» mormorò «Lucifer era alla guida della mia guarnigione, e ci trovavamo nello stato che una volta aveva il nome di Maryland. Eravamo sulle tracce di un gruppetto di umani in fuga: una manciata di sbandati, nulla di particolarmente impegnativo, probabilmente non erano nemmeno in contatto con la Resistenza»

Il ragazzo si puntellò con i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sopra i pugni chiusi. Se Castiel non avesse avuto davanti agli occhi solo le spalle di Dean curve sulla scrivania, forse avrebbe anche potuto accorgersi del pericoloso tremore dei suoi polsi.

«Quando li trovammo, prima che li giustiziassimo, Lucifer vide Lilith e decise di risparmiarle la vita»

La cena andò a schiantarsi contro la porta, insieme a quanto il ragazzo stava ancora finendo di ricopiare. Fortuna insperata volle che il contenuto — ormai quasi freddo — della ciotola metallica si rovesciasse nella direzione opposta rispetto a quella in cui era volato il registro.

Dean inghiottì il pianto che stava per sopraffarlo e si sentì come se stesse ingoiando vetro.

«Stai provando a giustificare lui o te stesso?» rantolò poi, con inattesa pacatezza.

Da quattro giorni, il suo animo si manteneva in un precario e sfibrante equilibrio sulla sottile lama di rasoio che separava la furia cieca dall’impulso di appallottolarsi in lacrime sul pavimento. In tutto ciò, continuava a sentirsi terribilmente e colpevolmente infantile: suo fratello implorava la morte al piano di sopra e lui si lasciava andare a patetiche sceneggiate prive d’utilità alcuna. Nel delirio che imperversava nella sua testa, c’erano occasioni in cui arrivava a sentirsi persino ridicolo.

Ma non poteva lo stesso farci niente.

Il tocco gentile di Castiel in mezzo alle sue scapole ricevette in risposta soltanto un sibilo straziato.

Faceva troppo male.

«Io non sto cercando di giustificare proprio nessuno» l’angelo lasciò scivolare via la mano dalla sua schiena, assieme a un gemito frustrato.

Non sono le tue parole, Castiel.

«E’ solo che avrei dovuto…» l’angelo annaspò «Non… non frequento abitualmente l’ottantaquattresimo piano e tuo fratello è qui da quattro anni, io pensavo — speravo — che…» Dean sentiva le suole delle sue scarpe bianche ticchettare agitate, qualche passo dietro di lui «Che la situazione fosse migliorata»

E’ il colore dei tuoi vestiti.

Il ragazzo prese un profondo, profondissimo respiro «Cosa accadde a Lilith?»

«Lucifer la portò a Corte»

Castiel recuperò il registro dal pavimento, si assicurò che non avesse subito troppi danni — le pagine erano un po’ stropicciate ma non si erano strappate, per fortuna — lo richiuse con un sospiro e lo rimise sul tavolo.

«Neanche una settimana dopo trovai il suo nome sui registri dell’ottantaquattresimo piano. Sulla colonna delle uscite»

Dopo gli ultimi due scatti del ragazzo, aveva rinunciato all’avvicinarsi di nuovo ed era tornato a sedersi sul letto «Quando chiesi a Lucifer cosa le fosse successo, quasi si sorprese che io mi ricordassi di lei: mi disse semplicemente che ‘era diventata inutile’»

Dean fece ruotare con uno stridio raccapricciante le gambe della sedia, girandosi finalmente verso l’angelo.

«L’aveva uccisa» sputò senza remore. E dal silenzio che seguì ne dedusse che aveva ragione — oltre che sulle sorti di Lilith — anche su un altro punto.

«E tu non hai mosso obiezioni» esplicitò.

«Era un’umana»

Castiel si chiuse nelle spalle.

«E in quanto tale, la sua anima era già perduta da tempo»

Dean non ebbe la lucidità necessaria per afferrare — in quel frangente — le implicazioni contenute in una simile affermazione. Nè l’angelo vi si soffermò più d’una manciata di secondi.

«Comunque, ingenuamente…» proseguì infatti «All’inizio pensai che l’avesse riportata nel Maryland»

Il ragazzo alzò un sopracciglio.

«E’ di un Arcangelo che stiamo parlando»

Qualcosa, nell’ovvietà amareggiata con la quale aveva pronunciato le ultime parole, doveva aver punto Castiel sul vivo, perché la schiena dell’angelo improvvisamente si raddrizzò.

«Sappi che anche la tua specie ha compiuto atrocità simili, Dean!» stridette, facendolo sobbalzare.

«Tu non hai mai avuto modo di venirne a conoscenza, in effetti…» continuò, un po’ più conciliante, sebbene apparisse ancora leggermente indispettito «Ma l’umanità non si è mai risparmiata in fatto di massacri, stupri e genocidi e credimi, io c’ero, e vi ho assistito»

Le luci si spensero in quell’istante e Dean emise un lungo sospiro lugubre.

«E alla fine che cos’hai imparato?» mormorò.

Ma a rispondergli fu soltanto il buio.

Castiel si alzò, schivò i resti di cibo sparsi sul pavimento e andò ad aprire la porta.

«Non credo sia il caso che tu dorma qui, stanotte» deliberò «Manderò qualcuno a pulire domattina»

Dean si sollevò stancamente dalla sedia soltanto per lasciarsi cadere a peso morto sulle coperte stropicciate della branda, senza nemmeno togliersi la giacca.

«Dean…»

In verità, era da un po’ di giorni che non aveva più la forza — né la voglia — di fare niente. Mangiare, spogliarsi, lavarsi la faccia al mattino. Trascinava stancamente la mano sui registri di Metatron soltanto perché l’ultima, unticcia ammonizione dell’angelo gli aveva fatto ben intendere che la sua già scarsa pazienza stava davvero raschiando il fondo del barile, e Sam gli aveva chiesto di non mettersi nei guai.

Se non fosse stato così stremato si sarebbe persino sorpreso del fatto che Metatron avesse accettato i suoi ritardi senza fargliene pagare le conseguenze e, perlomeno per il momento, limitandosi a minacciargliele. Aveva il sospetto che in quell’improvviso e decisamente poco angelico sforzo di condiscendenza c’entrasse qualcosa Castiel, ma non aveva intenzione di chiederglielo, né di riaprire qualunque altra discussione con lui per quella sera.

«Posso almeno restare?» l’angelo era una macchia sfocata e immobile ai piedi del suo letto.

No.

No che non poteva.

Lui non se lo meritava di certo, di trascorrere la notte tra quelle braccia tiepide mentre le dita di Lucifer lasciavano lividi feroci sulla gola di Sam, si stringevano intorno alle sue spalle, intorno alle sue braccia, e ai suoi fianchi, e, e…

Dean si strinse le braccia intorno al torace ma le ferite che tentava disperatamente di tamponare non stillavano nemmeno una goccia di sangue.

Com’era possibile? Non poteva essere possibile.

Lo stavano accoltellando.

Quindi perché non sanguinava?

«Tu non mangi da giorni e Claire a stento mi parla» la voce di Castiel arrivò sfinita, appena udibile, alle sue orecchie «Io non… non so cos’altro fare…»

Dean non sentì mai la seconda frase.

Ormai — quando si spegnevano le luci — il sonno se lo prendeva soltanto perché il suo corpo era troppo debole anche per avere incubi.













Per prima cosa, grazie per le splendide recensioni che avete lasciato allo scorso capitolo, nonostante la sofferenza dilagante ^^’
Per il resto, mi rendo conto che questo capitolo è veramente pesantissimo. Scusatemi. Ma non potevo alleggerire troppo i toni, in questa che è probabilmente la parte più cupa di tutta la storia, oltre che una fase molto delicata per quanto riguarda l’evolversi del rapporto tra Dean e Castiel.
Il prossimo aggiornamento sarà ben più movimentato di questo, ma non posso assicurarvi che il dramma sia già finito qui, purtroppo T_T
Però ci sarà presto una nuova svolta. Non subito, ma presto. Promesso!
Vi abbraccio forte, a sabato prossimo ❀*

P.S. La frase 'Nessuno dovrebbe fare questo a un altro' è ripresa da 'I Melrose' di Edward St Aubyn, un grandioso mattone da cui è stata anche tratta un'altrettanto grandiosa miniserie che vi consiglio assolutamente di guardare, se siete amanti del genere, o anche soltanto perché c'è un meraviglioso Benedict Cumberbatch come protagonista ♡

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Capitolo 16
*** Vicino ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






16. Vicino




24 aprile 2009

A tentoni, mentre con una mano tentava di infilarsi i pantaloni e con l’altra recuperava la giacca dall’attaccapanni, Dean raggiunse la maniglia della porta e giurò che avrebbe preso solennemente a schiaffi chiunque si fosse trovato davanti.

Era notte, notte fonda, quella non era decisamente una bussata alla Castiel e lui aveva appena preso sonno dopo ore di vani tentativi.

«Tu sei Dean Winchester?»

Una ragazza bionda, l’aveva presa per Claire all’inizio, lo squadrava da capo a piedi con aria scettica.

«E tu invece chi caspita…»

«Mi ha mandato Sam» tagliò corto lei.

Dean si catapultò in corridoio e la seguì, anche se sarebbe più corretto dire la sospinse, fino all’appartamento di suo fratello.

Una donna dai folti capelli castani, che non aveva mai visto prima, li fece entrare e rivolse al ragazzo uno sguardo risoluto.

«Togliti le scarpe e lavati le mani» gli ordinò «Meno germi e altre schifezze entrano in questo posto e meglio è»

Lui avrebbe voluto obbedirle ma la domanda atroce che gli era appena scivolata sulla lingua — e che non aveva il coraggio di lasciar andare — lo aveva appena congelato.

«Lucifer non verrà» il tono della donna si addolcì «Puoi starne sicuro, almeno per stanotte»

Sam apparve sulla soglia della camera di Kelly prima che lui avesse il tempo di porre altre domande.

«Dean, loro sono Jo ed Ellen» gli comunicò, neutro.

Più delle parole della donna fu la presenza di suo fratello — intera e stabile sulle proprie gambe — a risvegliarlo.

Il maggiore attraversò la sala a larghi passi e si piantò davanti a Sam con cipiglio indagatore.

«Scusami» mormorò lui, opponendo al suo inquieto sguardo interrogativo una strana, angosciata apprensione «So che non avrei dovuto farti lasciare la tua stanza di notte ma…»

«Sammy…»

La pelle di suo fratello era liscia e rosea, perfettamente intatta, ma tutte le sofferenze delle ultime settimane Dean gliele lesse impietosamente negli occhi, e a quel punto non gli rimaneva più molto altro da fare.

«Per il bene che ti voglio, ti scongiuro…»

Gli bastò un solo passo per colmare quel po’ di insignificante distanza che ancora lo separava da suo fratello, e per attirarlo con ogni fibra di se stesso nel più consolante degli abbracci che avesse mai dato in vita sua.

«…stai zitto»

E stavolta, Sam non lo evitò.

Il suo metro e novanta si accartocciò con la fronte sulla sua spalla e Sam rimase lì, a riprendersi quel che restava di lui, attraverso i palmi sudati di suo fratello maggiore che gli stringevano la nuca e la schiena con l’urgenza di un naufrago avvinghiato al suo relitto.

Fossi ancora gracilino e scheletrico come lo eri da bambino, Sammy, potrei piegarti in quattro, metterti in tasca e portarti via.

Dean dovette mordersi la lingua per scacciarsi dalla testa quel pensiero tanto stupido.

Almeno il respiro di suo fratello contro il suo collo non era più così corto «E’ solo che senza di te non penso davvero di potercela fare, adesso» fu quel che biascicò il minore, qualche secondo dopo, e sebbene non potesse ripiegarlo come un foglio di carta e nasconderselo nella giacca, per quella notte lui se lo fece bastare.

Quando Sam si staccò di malavoglia dall’abbraccio, Dean non potè infatti non notare — con una punta di esultanza — come il verde dei suoi occhi si fosse leggermente ravvivato.

Ma fu un’allegria di breve durata, perché un istante dopo un urlo lacerante gli perforò un timpano.

«Merda!» esclamò Ellen, precipitandosi nella camera di Kelly.

Il ragazzo inghiottì tutta d’un colpo l’impellenza contenuta in quella imprecazione.

«Lei sta…» balbettò, impallidendo «Sta per…»

«Tecnicamente, si dice partorire» puntualizzò Jo, sfilandogli davanti insieme a una bacinella d’acqua bollente.

Le ore che seguirono furono probabilmente le più complicate di sempre. Ellen non faceva altro che ordinargli questo, e quest’altro, e i due fratelli si affannavano tra lei e la cucina senza riuscire a scrollarsi di dosso quella sensazione di vaga inutilità che, in circostanze come quella, accomunava più o meno tutti gli esseri umani maschi del pianeta.

Senza contare che Ellen sembrava — cribbio — la copia sputata al femminile di John Winchester. Ad un paio di direttive particolarmente decise Dean era stato sul punto di rispondere ‘Si, papà!’

La sua giacca e la cravatta azzurra erano state rapidamente abbandonate sul divanetto nero del salone d’ingresso, e il maggiore si appuntò mentalmente di verificare che Jo non ci avesse sputato sopra, prima di reindossarle. Era abbastanza sicuro che la ragazza non gli avesse sputato direttamente in faccia soltanto perché lui e Sam erano nati dagli stessi genitori.

Dean si asciugò la fronte con il dorso della mano e crollò sull’unica sedia ancora sgombra.

«Quante possibilità ha Kelly di…»

La parola ‘sopravvivere’ gli rimase incagliata sul fondo della gola, mentre suo fratello accendeva il fuoco sotto l’ennesima pentola d’acqua.

«Nella migliore delle ipotesi, il bambino nascerà morto e lei vivrà» asserì Sam monocorde, voltandosi e appoggiando la schiena al piano di marmo della cucina.

Dean non ebbe cuore di domandargli quale fosse l’ipotesi peggiore.

Attraverso il filo di luce che filtrava dalla porta socchiusa della camera della ragazza, Dean scorgeva solo la schiena di Ellen. La donna non aveva proibito loro l’ingresso, eppure lui non aveva ancora trovato il coraggio di entrare: ogni volta che avvicinava la mano alla maniglia, le urla di Kelly lo pietrificavano.


25 aprile 2009

Accadde quasi alla fine della notte.

Dopo una quantità di acqua, di asciugamani e di sudore, che Dean non pensava di poter versare in tale quantità in un frangente del genere, le grida di Kelly improvvisamente cessarono, stemperandosi in qualcos’altro.

Qualcosa di pur sempre sofferente — sì — ma ammantato di un dolore totalmente diverso.

Un dolore nuovo. Umano.

Vivo.

Il pianto stridulo di un neonato.

Dean sarebbe saltato dalla sedia se dopo quella notte infernale non fosse stato troppo stremato per farlo mentre Sam, al contrario — nei soli dieci passi che separavano la cucina dalla stanza di Kelly - inciampò in tutte le bacinelle e i mucchietti di lenzuola insanguinati che Ellen aveva disseminato in giro.

Il maggiore lo seguì con qualche secondo di ritardo, ma al momento di entrare nella stanza optò invece per fermarsi sullo stipite della porta, ora completamente spalancata.

C’era molta più luce di quanta se ne sarebbe aspettata da quel lampadario opaco che dondolava dal soffitto.

«Sei bellissimo amore mio…»

Kelly aveva l’espressione radiosa e sfinita di una madonna in estasi. La camicia da notte spiegazzata e i capelli appiccicati alla fronte non riuscivano a scalfire d’un unghia l’immagine di pura e incontaminata gioia che il suo sorriso trasmetteva.

Jo le aveva deposto un fagotto piangente tra le braccia, e lei ed Ellen avevano un’aria talmente stravolta che lui quasi si vergognò della propria stanchezza.

Tra le braccia di sua madre, quel tremante mucchietto di coperte parve acquietarsi un poco. Del figlio di Lucifer, Dean intravedeva soltanto una testolina bionda.

«Sei perfetto, lo sai, piccolino?» la ragazza depositò un bacio esausto sulla minuscola fronte del bambino «E quando… quando diventerai grande…» sussurrò ancora «Sarai meraviglioso proprio come il tuo pa-»

S’interruppe.

Dean la vide alzare la testa verso Sam, in piedi accanto al letto, ancora troppo scosso per provare a intervenire in maniera sensata.

Per un istante — un solo secondo, ma fu sufficiente — lo sguardo di Kelly fu totalmente lucido: consapevole di ogni singolo minuto trascorso in quell’appartamento.

«…proprio come Sam» mormorò con gratitudine, al volume d’un soffio, con gli occhi fissi in quelli ora enormi e pieni di lacrime del ragazzo.

«Kelly…» azzardò timidamente Ellen «Devo assicurarmi che anche tu stia bene, ora»

Ma le sue palpebre si erano già chiuse.

«Kelly!»

Sam le strappò di dosso il lenzuolo che la copriva, dalla vita in giù. Il sangue che le impregnava la camicia da notte aveva già cominciato a infiltrarsi nel materasso, e non accennava a fermarsi.

Nei minuti che seguirono, la concitazione agitata che si era immediatamente diffusa nella stanza dopo l’urlo di Sam, lasciò prima il posto ad un’angoscia incredula, e infine si esaurì in una nera disperazione.

Quando le labbra della ragazza virarono dal pallido al viola, Ellen scosse la testa e si appoggiò stancamente con le spalle contro il muro «Non c’è più nulla che possiamo fare per lei, ora»

«No invece»

Quel pensiero l’aveva colpito con l’intensità di una randellata.

Castiel.

Castiel poteva salvarla.

Dean si precipitò fuori dall’appartamento senza nemmeno rimettersi le scarpe, né prestando la minima attenzione ai rimproveri agitati di Ellen e Jo.

All’esterno, guardando attraverso le vetrate, la primissima e più violenta luce dell’alba infiammava già di rosso le macerie di New York.

Di prendere l’ascensore non se ne parlava: non a quell’ora e non in quelle condizioni. Si mangiò i gradini a due a due, finché i corridoi larghi dell’ottantaseiesimo piano non lo accolsero nel loro labirintico abbraccio.

Era sicuro di ricordare bene la strada, ma adesso quelle porte gli sembravano tutte uguali: la stessa identica sensazione di smarrimento che aveva provato durante il suo primo giorno a Corte gli velò la fronte di sudore gelido.

Destra, sinistra, ancora sinistra: era come cercare un ago in un pagliaio.

Quando, finalmente, irruppe in quella dannatissima stanza senza nemmeno bussare, il silenzio blu che vi trovò ad attenderlo gli strappò un gemito.

Castiel non era lì, e il panico che gli attanagliò le viscere un attimo dopo gli fece perdere del tutto l’orientamento.

Avrebbe dovuto cercarlo, forse, o ritornare da Sam? Le luci non erano ancora state accese, l’ottantaseiesimo piano era pressoché avvolto nel buio e lui non aveva la minima idea di dove potesse trovarsi l’angelo in quel momento. Ormai correva, con il fiato corto. Destra, destra, sinistra.

Quanti corridoi aveva attraversato? Era sicuro di essere già passato di lì.

Dov’erano finite le scale?

Una morsa d’acciaio si serrò intorno al suo gomito, strattonandolo con violenza e costringendolo con la schiena contro il muro.

Un istante prima che le sue spalle impattassero bruscamente contro la parete e che il suo sguardo cadesse al suolo, come da regole, Dean scorse le due lunghe e immacolate code di rondine che ogni anno — durante la repellente sfilata degli Arcangeli sotto la torre — aveva ardentemente desiderato di strappare a quella giacca bianca, nonché di attorcigliare intorno alla gola del proprietario di suddetto capo d’abbigliamento fino a spezzargli il collo, e seppe di aver appena commesso un’enorme cazzata.

Castiel gli aveva ripetuto più e più volte di non andarsene in giro — da solo — di notte, e per di più oltre l’ottantesimo piano. Lui e Jo erano già stati abbastanza fortunati da arrivare all’appartamento di Sam senza che nessun angelo li beccasse, e la ragazza sapeva sicuramente meglio di lui come muoversi dentro quel grattacielo.

Avrebbero pensato che fosse una spia. Che stesse cercando chissà quali informazioni, o che dovesse incontrarsi di nascosto con qualcuno, aiutato dall’ora inusuale e dalle ombre che l’alba ancora non era riuscita a diradare (ed era persino senza scarpe!)

Di Castiel non c’erano tracce e anzi, per la sua avventatezza probabilmente anche lui si sarebbe presto ritrovato in un mucchio di guai. Dean non avrebbe più avuto alcun modo di aiutare Kelly, né tantomeno Sam, sarebbe finito dritto dritto sotto il torchio di Naomi, e quella sarebbe stata persino un gran fortuna.

«Hai una sola possibilità…»

Perché non erano molti gli angeli eccentrici — e dall’innegabile pessimo senso estetico, checché ne dicesse Castiel — che potevano liberamente circolare a Corte infilati dentro un frac.

«Una sola…»

Il ragazzo sperò con tutto se stesso che Gabriel avesse, se non la pietà, almeno la decenza di farlo portare via — dopo — e di non lasciarlo a dissanguarsi in mezzo al corridoio. Le ossa del suo gomito già scricchiolavano: frattura imminente — realizzò, in un istante di lucido terrore — frattura scomposta, con ottime probabilità.

La vernice bianca delle scarpe della gallina era leggermente scrostata in punta, ma l’analisi spasmodica di quelle piccole crepe non bastò comunque a distrarlo. Dean chiuse gli occhi e cominciò silenziosamente a pregare.

«…per spiegarmi cosa tu ci faccia in questo posto a quest’ora, prima che io ti rispedisca nella tua stanza a calci nel sedere!»

Non capì mai se ciò che lo sconvolse di più fu il tono apprensivo dell’Arcangelo o il fatto che la morsa che gli serrava il braccio, anziché stringersi, si fosse improvvisamente allentata.

«Si può sapere cosa avete nella testa, voi umani? Lo sai che fine ti avrebbero fatto fare Naomi, o Dumah, se ti avessero trovato loro anziché il sottoscritto?»

Dean si arrischiò ad alzare le palpebre — soltanto perché delle dita stranamente educate gli stavano sollevando il mento — e per poco non gli venne un colpo.

Gabriel lo stava fissando — gli reggeva ancora la testa con il dorso della mano — lo stava guardando diritto negli occhi, e le sue morbide iridi castane non l’avevano ancora incenerito.

In che razza di universo parallelo era precipitato dopo aver svoltato in quel corridoio?

«Ti concedo altri cinque secondi, poi finisci per davvero al novantesimo piano» lo minacciò l’Arcangelo, di fronte al suo prolungato silenzio sbigottito «Tutte a me, stanotte!»

C’era qualcosa, nel tono petulante che aveva appena usato, che lasciava intravedere una certa, inquieta, fretta .

«Io…» balbettò Dean, cercando di ritrovare un contegno «Io… cercavo Castiel»

Non fu comunque in grado di impedirsi di sussultare a ogni parola.

«Castiel?»

Ancor prima che lui annuisse, una luce allarmata si accese dietro le pupille di Gabriel.

«Tu sei Dean Winchester?» domandò, più per formalità che per altro, perché nel frattempo lo aveva già afferrato di nuovo per il polso e lo stava trascinando verso l’ala est del grattacielo, attraverso una strana specie di posticcio colonnato da interni che Dean non aveva mai percorso.

«Avete davvero deciso di farmi dannare stanotte, eh?» sibilò «Castiel è in biblioteca, dove altro credevi che fosse a quest’ora del mattino?» puntò il dito verso una lama di luce bianca che tagliava in due la parete in fondo al porticato.

«La porta è quella laggiù»

Prima che le code della giacca di Gabriel si allontanassero svolazzando come rondini indemoniate, Dean avrebbe giurato che l’Arcangelo fosse stato sul punto di chiedergli qualcosa. Il suo sguardo era rimasto a vagare un minuto di troppo sul viso arrossato del ragazzo, come se stesse tentando di decifrare la causa di quell’espressione tormentata, ma si trattenesse di proposito dall’interrogarlo esplicitamente in tal merito.

«Noi non ci siamo mai incontrati» si era limitato a mormorare, alla fine. Dean aveva spalancato gli occhi e la bocca ma era stato zittito con un cenno nervoso.

«Voi due Winchester mi avete già piantato abbastanza grane, per una notte sola»

Un secondo dopo Gabriel era già sparito tra le colonne posticce, e Dean s’infilava attraverso quello spiraglio di luce bianca che lo catapultò nell’ambiente più inquietante in cui si fosse mai ritrovato.

La biblioteca era l’obitorio asettico d’un mondo morto.

Scatoloni, cassette di plastica, faldoni impilati uno sull’altro, ogni cosa meticolosamente etichettata. La grafia appuntita di Castiel — leggermente inclinata verso destra — a inventariare ogni singolo oggetto sul quale lui arrivasse a posare lo sguardo. Sorrisi patinati che sgranavano consigli di bellezza da un pacco di riviste abbandonato su uno scaffale.

«Dean!»

E l’angelo era un fantasma, seduto a gambe incrociate tra i cadaveri polverosi di un qualcosa che era stato.

Dean ricordava di aver tenuto anche lui tra le mani, anni e anni prima, un album illustrato simile a quello che ora languiva, senza scopo, sopra una pila di giornali incartapecoriti alle spalle di Castiel.

Qualcosa che non sarebbe mai più ritornato a essere.

«Il bambino…» riuscì appena ad ansimare, una volta ripresosi dall’angoscia in cui quell’ambiente surreale l’aveva precipitato «Kelly…»

Castiel non pretese altre spiegazioni.




Si era fatta mattina.

L’alba era definitivamente sorta oltre le vetrate dell’ottantaquattresimo piano, i cadaveri mutilati dei palazzi si erano tinti d’oro e scintillavano come cocci di vetro al sole.

Dean si era rimesso le scarpe e aveva aiutato Jo ad ammucchiare tutta le biancheria sporca in un angolo e a sistemare le pentole e il resto delle bacinelle abbandonate tra cucina e corridoio. Ellen gli aveva detto che ci avrebbero pensato loro, al resto, e lui non aveva posto ulteriori domande.

Avevano spostato Kelly nell’altra stanza, quella di Sam, perché lì le lenzuola erano almeno pulite e sembrava che l’aria grondasse meno dolore.

Al suo arrivo, tutto ciò che Castiel aveva potuto fare era stato constatare che la ragazza — con lo stesso sorriso radioso che non si era mai spento da quando Jo le aveva deposto suo figlio tra le braccia — era già passata oltre.

«Dean…» suo fratello aveva gli occhi gonfi di chi ha appena smesso di piangere eppure, sul fondo delle sue iridi annacquate, luccicava un’emozione del tutto nuova.

«Lui è Jack»

Un faccino raggrinzito sbucava dal mucchio di coperte che teneva in braccio. Piuttosto bruttino, ad essere sinceri.

«Crescerà»

La voce di Castiel arrivò profonda alle loro orecchie, ma decisamente meno stabile del solito.

«Crescerà in fretta e la velocità aumenterà finché il nephilim non raggiungerà la sua forma stabile» precisò.

«E i suoi…» Dean osservava il corpicino del neonato come se temesse che da un momento all’altro potesse trasformarsi in una lupo e azzannarlo «…poteri?»

«Non saprei dirvi quando e se si manifesteranno. Né se il nephilim sarà in grado di padroneggiarli senza uccidersi»

«Jack»

La mascella di Sam si contrasse.

«Il suo nome…» ripeté, fremendo «E’ Jack»

Tutti e cinque i sensi di Dean si misero subito in allerta.

Ma la sua bocca era talmente secca, ed era così stanco: non riuscì a interromperlo in tempo.

«E Lucifer pagherà per tutto questo» continuò infatti a ringhiare suo fratello, facendo tremare pericolosamente anche il neonato fra le sue braccia.

«Lo pagherà il doppio»

La minuscola bocca di Jack si storse in una smorfia corrucciata e a Dean parve, nonostante le sue due ore di vita, che il piccoletto fosse perfettamente d’accordo con lui.

Un brivido terrorizzato gli rotolò giù per la schiena.

Sebbene, anche nella sua testa, Lucifer fosse morto in almeno una dozzina di modi diversi — uno più atroce dell’altro — Sam si era appena spinto ben oltre.

Aveva appena minacciato un Arcangelo, ad alta voce.

E lo aveva fatto di fronte a Castiel.

Le pupille di Dean saettarono spaventate verso l’angelo, temendo una reazione violenta che tuttavia non arrivò mai.

Castiel — che fino a quel momento era rimasto immobile, di fronte al letto su cui giaceva il cadavere madreperlaceo di Kelly — girò leggermente la testa e lo guardò.

«Dean…»

Non lo aveva mai visto così.

Probabilmente nemmeno Castiel si era mai sentito così, perché in situazioni del genere gli angeli si ritrovavano sempre dall’altra parte, dalla parte dell’oppressore.

Ma Sam li aveva cacciati via e Dean si era quasi lasciato morire di consunzione, e se ciò non era successo non era stato di certo merito suo ma di Claire, che — nonostante i suoi bronci infiniti e le innumerevoli porte sbattute — una sera era piombata nella stanza e aveva preso il ragazzo a schiaffi fino a fargli lacrimare gli occhi, aveva preteso che finisse — oltre alla propria — anche la sua di cena, l’aveva trascinato in bagno l’aveva spogliato, l’aveva lavato e alla fine si era ficcata nel letto assieme a lui e non se n’era andata finché Dean non era riuscito ad addormentarsi. C’era mancato poco che prendesse a sberle anche l’angelo, dopo.

E adesso Kelly era morta, e Castiel non aveva potuto fare niente neanche per lei, se non accarezzare l’aureola mogano dei suoi capelli sparsi sul cuscino.

Adesso — nella sua elegantissima e immacolata giacca bianca — Castiel stava sperimentando una sensazione nuova, la più rabbiosa, e disperata, e annichilente delle emozioni umane.

L’impotenza.

Dean si mosse istintivamente verso di lui. Il riflesso negli occhi dell’angelo gli era troppo dolorosamente familiare perché non se ne sentisse toccato, ma Castiel non resse il confronto con il suo sguardo verdissimo.

Affondò il viso nell’incavo del suo collo e cominciò silenziosamente a piangere.

Dean ne rimase talmente scioccato che, in un primo momento, rimase con le braccia penzoloni, incapace di fare o dire alcunché.

Erano giorni che Castiel neanche lo toccava.

A malapena si parlavano in realtà, lui non aveva più lanciato la cena dall’altra parte della stanza né tirato pugni contro il muro, ma ciò non gli aveva impedito di chiudersi lo stesso in un logorante silenzio d’attesa, rotto da poco più che qualche monosillabo nemmeno vagamente rassicurante, di fronte alla preoccupazione angosciata dell’angelo.

Aveva messo in fila più di tre parole soltanto per chiedere di Sam, e ogni maledetta volta il sospiro frustrato che aveva ottenuto in riposta era sempre stato lo stesso ‘Non ancora’.

Ma ora la testa dell’angelo pesava sopra la sua clavicola, la sua camicia azzurra si stava impregnando di lacrime bollenti e Dean si rendeva conto che per la prima volta — per la prima volta nella sua intera esistenza — Castiel capiva, capiva come doveva sentirsi lui, come doveva sentirsi un essere umano, davanti alle crudeltà che era costretto a subire, inerme, da parte dei membri di quella stessa specie di cui lui faceva parte.

Affondò le dita nella massa corvina dei suoi capelli.

La schiena dell’angelo fremeva appena, scossa da lievissimi singhiozzi.

Castiel ormai conosceva a memoria ogni centimetro della sua pelle, era scivolato dentro il suo corpo e ne aveva baciato tutte le cicatrici, eppure non lo aveva mai sentito così… vicino .

E il modo in cui l’angelo si era abbandonato sulla sua spalla aveva in sé qualcosa di talmente intimo che persino Sam si ritrovò a dover distogliere lo sguardo, fingendo di sistemare meglio Jack dentro la sua mezza dozzina di copertine.

«E’ necessario che tu sappia…»

Castiel articolava a fatica, come se le sue stesse parole lo terrorizzassero.

«…che tu sappia una cosa. Quello che io… io…»

«Non è colpa tua Castiel» lo fraintese il ragazzo «Non serve che tu mi dica niente, adesso»

Il corpo di Castiel fu squassato da un lunghissimo brivido, tanto che lui temette stesse davvero per crollargli tra le braccia; quando l’angelo riprese a parlare, la sua voce era stremata.

«Nessuno dovrebbe fare questo a un altro»

Dean rimase ad accarezzargli la testa per un tempo che, in futuro, non sarebbe mai stato capace di quantificare.













Cosa mi scuso a fare per tutta questa sofferenza, non sarei per niente credibile ormai T_T
Spero almeno che la comparsata di Gabriel abbia alleggerito un pochino l’atmosfera ^^’’
Vi ringrazio per le splendide recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo e non vedo l’ora di poter chiacchierare un altro po’ con voi a proposito di questo, di Jack, del sopracitato Gabriel e di cosa pensate potrebbe succedere in futuro :D
Ci stiamo avvicinando alla fine della seconda parte della storia (sic!) e nei prossimi capitoli i ritmi si faranno ancora più serrati, ma non disperate. Come diceva qualcuno, ‘La felicità la si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo uno si ricorda… di accendere la luce’ (perdonami Albus, non ho saputo resistere).
A sabato prossimo! ❀*
*fuggeallavelocitàdiunneutrino*

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Capitolo 17
*** Redenzione ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






17. Redenzione




1 maggio 2009

«Per tutto ciò che esiste ancora di caro su questa terra, Jack Kline!»

Dean non avrebbe mai pensato di ritrovarsi ad assistere a una scena del genere.

«Abbi pietà delle mie povere orecchie!»

Suo fratello aveva provato a cullarlo, canticchiargli una canzone — stonato com’era Sam, non c’era da illudersi che un’escamotage del genere funzionasse — e cambiarlo per l’ennesima volta, ma la bocca spalancata di quel benedetto neonato sembrava non fosse minimamente intenzionata a chiudersi. Non prima di aver ridotto i due fratelli alla sordità permanente, almeno.

Dean non capiva come fosse possibile che un corpicino così piccolo — anche se, a nemmeno una settimana dalla nascita, il nephilim dimostrava già più di un anno — potesse produrre un frastuono spaccatimpani come quello.

«Castiel avrebbe dovuto dircelo!» esclamò, cercando di sovrastare il pianto incontrollato di Jack «Che il mostriciattolo avrebbe fatto tanto chiasso»

Sam gli lanciò un’occhiataccia.

A onor del vero, il piccolo Jack Kline se ne stava buono e zitto per la maggior parte del tempo, e a guardarlo si sarebbe anche detto un normale e bellissimo bambino. In certi momenti però, senza che vi fosse apparente motivo — poteva anche aver appena finito di mangiare — scoppiava in un pianto fragoroso e disperato che né Ellen, né Jo, né tantomeno Dean, erano in grado di consolare.

Non che a Dean Jack non piacesse. Era morbido, aveva due occhioni dorati, enormi e altrettanto disarmanti e, tralasciando la crescita anormale, sembrava umano a tutti gli effetti.

Soltanto…

Quel bambino rappresentava, nella forma peggiore, viva e palpitante, tutte le angherie e le crudeltà che Kelly — ma soprattutto suo fratello — erano stati costretti a subire.

E lui non si capacitava di come Sam potesse anche solo sopportarne la vista.

Eppure, l’unico che riuscisse a tranquillizzare il neonato, con infinita pazienza e dopo altrettanti infiniti tentativi, era proprio Sam. Il quale, dopo, ne usciva talmente stremato che poi aveva bisogno di qualcun altro che calmasse lui.

«Lo so, vorresti la tua mamma, lo so» sospirò il minore «Kelly saprebbe sicuramente cosa fare in questo momento e tu non avresti alcun motivo di piangere… ma io sto facendo del mio meglio, cerca di capire»

Dean stava per fargli notare che un discorso così adulto e razionale non avrebbe sortito alcun effetto su un bebè, quando le frequenze acute degli strilli Jack si trasformarono improvvisamente in un persistente, ma tenue, piagnucolare.

«Vuoi che ti parli ancora della mamma, vero?»

Lo sguardo di Sam si riempì di malinconica dolcezza, mentre inventava per il bambino un fantastico e quantomai inverosimile mondo in cui Kelly trascorreva le sue giornate leggendo e preparando deliziosi manicaretti, in attesa di poter riabbracciare suo figlio.

Quando finalmente Jack decise di chiudere gli occhi e di concedergli una tregua, andò a sistemarlo sul letto e poi si gettò a peso morto accanto a Dean, sul divanetto di pelle.

«Sono… esausto» esalò «Io sono sicuro di non essere mai stato così da piccolo!»

Il maggiore sollevò un sopracciglio.

«Se posso contraddirti, Sammy» principiò, petulante come ogni buon demolitore di convinzioni «Jack dorme, ogni tanto: tu piangevi ventiquattr’ore su ventiquattro»

Suo fratello arrossì e tentò di imbastire una replica salace, ma a quel punto Dean era ben deciso a divertirsi un po’ a spese del suo imbarazzo.

«Non avevi nemmeno due anni, una volta…» ridacchiò, immergendosi nei ricordi «Hai strillato per tutta la notte: a un certo punto papà ha spalancato la porta minacciando di farti venire a prendere dai Collaborazionisti»

Dean si piegò in avanti sghignazzando «E tu ti eri convinto… che ti avrebbero tagliato le orecchie e poi te le avrebbero appese al collo!» continuò, colpendosi le ginocchia con i palmi delle mani.

«Oh avresti dovuto vedere la tua faccia! Deeeean…» trillò, in un’improbabile imitazione di un duenne Sam Winchester«Non voglio che mi taglino le orecchie… poi non sentirò più niente…» finse di frignare.

Sam incrociò le braccia al petto e mise su un’espressione corrucciata.

«Non è divertente!» sbottò, sporgendo in fuori il labbro inferiore, dall’età di cinque anni la sua tipica reazione di fronte agli sberleffi provocatori di suo fratello maggiore.

«E comunque non me lo ricordo quindi per quel che so potreste esservelo anche inventato» ci tenne a puntualizzare, mentre suo fratello continuava a esibirsi in una parata di ridicole smorfie che, a suo dire, corrispondevano esattamente alla reazione terrorizzata ma decisamente comica — su questo Sam non si trovava affatto d’accordo — che il più piccolo aveva avuto in quell’occasione.

«Oh Sammy non saremmo mai riusciti ad inventarcelo, un aneddoto tanto spassoso, in quel cazzo di posto!»

La risata di Dean si stemperò in un basso mormorio.

Le cose erano andate effettivamente come lui le aveva appena descritte. John quella notte era talmente esasperato e stanco che aveva davvero minacciato Sam in quel modo, sebbene la credulità impaurita ed involontariamente buffa che si era dipinta un attimo dopo sul volto del bambino era riuscita a strappare un mezzo sorriso anche a lui.

In realtà ciò che il maggiore aveva sempre tenuto per sé era che loro padre, dopo avere passato l’intera nottata senza chiudere occhio, la sera successiva era tornato alla baracca con la schiena sanguinante e una mezza razione di cibo che non bastava nemmeno per Sam.

Dean tacque: d’un tratto quell’episodio non lo trovava più tanto divertente.

«Io ormai sono fottuto, Dean»

Suo fratello gli rivolse uno sguardo mesto. Lui avrebbe voluto chiedergli come caspita gli fosse venuto in mente di riaprire un argomento del genere proprio adesso, ma poi si rese conto che in qualsiasi altro momento quelle parole gli sarebbero risultate altrettanto intollerabili.

«Domani, tra sei mesi, dieci anni, Lucifer si stancherà anche di me — oppure aspetterà un secondo di troppo prima di farmi ripartire il cuore — e io morirò sopra questo stesso divano»

Dean si sentì la pelle nera sopra la quale era seduto farsi molle e viscida come fosse tesa sopra un pantano di sabbie mobili che avesse appena cominciato a inghiottirlo.

«Se pensi che io…»

Ma il minore troncò sul nascere ogni ipotesi di contraddittorio.

«Quante possibilità credi di avere contro un Arcangelo?»

Ti prego Sam, no. Non di nuovo.

Un cazzotto ben assestato avrebbe fatto meno male.

«Dean, non deve necessariamente essere così per tutti…»

Il tono di suo fratello si era ammorbidito, ma soltanto per velarsi di tristezza.

«Tu sei un Collaborazionista dopotutto, puoi ancora trovare un modo di scappare, potete ancora salvarvi… tu e Jack»

Dean schizzò di colpo in piedi, neanche temesse davvero che il divanetto potesse risucchiarlo.

«Ascoltami bene fratellino! Se tu ci tieni così tanto a quel grazioso mostricciatolo bene, posso accettarlo» proruppe infuriato, nonostante non avrebbe saputo di preciso a chi indirizzare tanta rabbia.

A Lucifer? A Jack? A Sam?

«Ma se mi stai chiedendo di abbandonarti in questa specie di… di gabbia infernale, beh, scordatelo!»

Sam graffiava ansiosamente il bordo del bracciolo con le unghie e Dean avrebbe soltanto voluto prenderlo, scollarlo da quella seduta e scaraventarlo dall’altra parte della stanza, nel tentativo di smuoverlo da quella granitica rassegnazione.

«NON PUOI!»

L’urlo lacerante che aveva appena lasciato la gola di Sam gli strappò il cuore in due come fosse stato di carta.

«Non posso…» continuò a balbettare «Non posso andare da nessuna parte Dean. Lucifer lo scoprirebbe»

Dean gli si accovacciò davanti, con i propri occhi fissi nei suoi. Era abbastanza sicuro che l’ostinazione di suo fratello fosse dettata puramente dal dolore inumano nel quale Lucifer l’aveva più volte affogato, ed era fermamente intenzionato a schiodargli quel terrore dalla testa.

Gli sfiorò delicatamente una guancia.

«Sammy… Ora non è neanche a Corte» sottolineò «Come potrebbe?»

Il minore sbuffò una risata amara «E’ la prima cosa che ha fatto» sputò in un solo fiato «E’ la prima cosa che fa ai suoi giocattoli: ti incide mezzo vocabolario enochiano sulle costole per assicurarsi che tu non oltrepassi quella dannata soglia»

Sollevò stancamente un braccio in direzione della porta d’ingresso.

«Ti prego…» adesso era Sam a tenere gli occhi di Dean inchiodati nei propri, e il maggiore avrebbe tanto voluto cavarseli pur di non dover sostenere quello sguardo così risolutamente distrutto.

«Quando ti ho rivisto… quella è stata probabilmente l’unica volta negli ultimi quattro anni in cui sono stato contento di essere ancora vivo ma ti prego…» annaspò «Lucifer non permette che qualcun altro tenga gli occhi tanto a lungo sulle cose che sono sue. Se ti ha permesso di gironzolarmi intorno finora è perché l’avrà trovato divertente, o semplicemente per una qualche strana forma di riguardo nei confronti di Castiel, ma la sua pazienza finirà prima o poi, e a quel punto né lui né il colore dei tuoi vestiti potranno aiutarti»

Dean si sentì quasi morire, e Sam lo vide.

Ma continuò lo stesso.

«Dean… ti chiedo solo di non rendere le cose più difficili di quanto non siano già…»

Lui buttò fuori l’ultimo filo d’aria che gli era rimasto nei polmoni e senza rendersene conto si ritrovò in ginocchio, con la fronte premuta contro il dorso delle mani di Sam, che il più piccolo teneva immobili in grembo.

Suo fratello aspettò che si calmasse.

«Ok… ok Sammy» si arrese alla fine, riprendendo fiato «Ci penserò io a Jack…» gli concesse «Farò come vuoi tu»




Che quel caso irrecuperabile di suo fratello dicesse pure quel che gli pareva!

Dean non avrebbe accettato l’idea di doverlo abbandonare in quell’appartamento nemmeno per cinque secondi, e cavarsi di bocca quell’ultima dozzina di parole era stato come ricevere altrettante stilettate nella schiena.

E comunque, lui ora aveva un piano.

In tutta sincerità, l’aveva sempre avuto.

Castiel era l’unico che avrebbe potuto farli uscire — Sam e Jack — dall’Empire State Building; inoltre era un angelo, quindi avrebbe sicuramente trovato un modo per rimuovere quei sigilli — se continuava a pensarci, Dean rischiava di dare di matto — dalle costole di suo fratello.

Certo, ciò che il ragazzo stava per chiedergli era, di fatto, di infrangere un mucchio di regole celesti: favorire la fuga di un umano (e di un nephilim) dalla Corte, mettersi apertamente in conflitto con un Arcangelo, schierarsi - seppur in maniera indiretta — contro la sua stessa specie. Considerati i trascorsi dell’angelo con Michael, una mossa del genere sarebbe risultata quantomeno audace, se non apertamente suicida.

Ma Castiel aveva pianto sopra la sua spalla, aveva visto i lividi di Sam, e Kelly, e avrebbe sicuramente capito.

Dean si era svegliato tra le sue braccia nude quella mattina, ed era rimasto per qualche secondo a godersi il calore morbido di quella pelle senza graffi, prima di convincersi a riaprire gli occhi.

Era scivolato nel sonno senza accorgersene, con la testa posata sullo sterno dell’angelo, le gambe ancora intrecciate alle sue, e Castiel era rimasto immobile, sotto di lui, per tutta la durata della notte.

Castiel avrebbe trovato il modo di risolvere ogni cosa.

Avrebbe fatto la scelta giusta.

Dean uscì dall’ascensore e si avviò verso l’appartamento dell’angelo con passo deciso.

Incrociò Crowley a metà del corridoio.

«Winchester, ma che piacere!» tubò il Collaborazionista «Ho intravisto il nostro caro amico Castiel appena un minuto fa: ora che lo vedi, porgigli i miei saluti!»

Il ragazzo, che nelle ultime settimane aveva abusato fin troppo del suo già scarso autocontrollo, gli regalò uno dei suoi insulti più coloriti.

«Winchester, ma che modi!» lo rimbrottò affettuosamente lui, senza nemmeno fingere di essersi offeso «Dovresti prendere esempio dal nostro carissimo angelo che…»

«Adesso ascoltami bene Crowley!»

Di fronte all’ennesimo sdilinquimento del Collaborazionista, Dean era definitivamente esploso.

«Non so tu cosa voglia da Castiel, né cosa stia cercando in quella sua orrenda biblioteca. Ma se non tieni il più lontano possibile da lui e da me quel culo grasso che ti ritrovi, dovessero anche arrivare i quattro Arcangeli in tua difesa, io giuro che ti spaccherò il naso!»

Crowley s’immobilizzò tanto in fretta che il ragazzo temette stesse per sentirsi male.

«Il mio… culo grasso

I suoi piccoli occhietti neri si erano ridotti a due fessure.

Dean era quasi sul punto di scusarsi per quello scoppio d’ira, non era con lui che si era preparato a discutere, ma la faccia di Crowley era ingrigita di colpo.

«Dì un po’ scoiattolino» sibilò «Tu credi davvero che a Castiel importi qualcosa di te? Pensi che potrete vivere per sempre felici e contenti, e darvi alla pazza gioia di fronte alla Ninfee di Monet?»

Il ragazzo avvampò.

«Oh, ti avevo detto di non sottovalutarmi, scoiattolino» ghignò il Collaborazionista, senza la minima pietà di fronte al suo imbarazzo.

«Che cosa vuoi?»

Dean tentava di deglutire, ma dalla sua bocca pareva scomparsa ogni traccia di saliva.

«Che tu venga con me»

Crowley lo afferrò per un gomito «Adesso» abbaiò «Voglio proprio che tu veda una cosa»

L’uomo lo trascinò in ascensore e lo riportò al settantaduesimo piano. Una chiave d’argento scintillava nella tasca della sua giacca.

«Sorpreso che io dorma sul tuo stesso piano, Winchester?»

Dean fu spinto rudemente dentro una stanza senza finestre, incredibilmente simile alla sua. Ne rimase piuttosto sorpreso: si sarebbe aspettato che, al servizio diretto di Michael, Crowley fosse riuscito a guadagnarsi almeno qualche pezzo di mobilia in più.

«Dimmi, scoiattolino, quanto ne sai - tu - delle torri

Frugò per qualche istante sotto il materasso e poi gli lanciò un pezzo di stoffa bianca che il ragazzo scambiò inizialmente per una federa appallottolata, ma che si rivelò essere una minuscola giacca bianca, in tutto e per tutto uguale a quella che portavano gli angeli.

L’unica bizzarria pareva rappresentata dalla taglia: un indumento del genere avrebbe calzato a pennello su un bambino di tre o quattro anni, non certo su un glorioso fisico celeste.

E poi cosa diamine c’entravano le torri con quell'indumento?

«Bontà del cielo! In vent’anni di cantiere, ti è mai passata sotto mano la planimetria di una torre? Ti sei mai chiesto il motivo di così tante, graziose cattedrali nel deserto?»

Crowley aveva ben pensato di restituire una seconda domanda al suo sguardo interrogativo.

«Gli angeli non erano così ansiosi di metterci al corrente dei loro progressi architettonici» mugugnò Dean, lanciando sul letto la giacchetta con un gesto disgustato.

«Tre blocchi di marmo al giorno, per trecentosessantaquattro giorni all’anno, per quindici anni — più o meno — sono sedicimilatrecentottanta fottutissimi sassi che hai trascinato sotto la torre e mai una domanda, né un minimo di iniziativa…» brontolò il Collaborazionista «Per questo quelli come te non andranno mai da nessuna parte!» sentenziò acido.

«Se c’è qualcosa che vuoi dirmi, dimmela e basta!»

Dean era abbastanza sicuro che Crowley volesse solo spaventarlo. Dopo aver tentato di accattivarsi la sua amicizia, senza esito, era semplicemente passato a un altro tipo di giochetto.

Eppure continuava ad avvertire un presentimento angosciante, come una serpe che gli si arrotolasse sempre più stretta intorno al collo.

«Le torri non sono che l’inizio, Winchester»

D’un tratto Crowley aveva perso la sua caustica ironia.

«Quando saranno completate, Michael rastrellerà ogni bambino al di sotto dei tre anni che ancora respira su questa terra e lo chiuderà a doppia mandata dentro uno di quei mausolei di marmo»

«Vuole murarli vivi?» la bocca di Dean si era spalancata per l’orrore.

«Dio mio Winchester, no!» il Collaborazionista agitò le braccia in aria, esasperato «Mi ci gioco il culo che è lo spilungone il fratello intelligente della coppia!» bofonchiò.

«Gli Arcangeli non vogliano un’umanità schiava» sibilò «Vogliono un’umanità obbediente»

Lui continuava a non capire.

Crowley sfiatò un’imprecazione smorzata e andò a sedersi alla scrivania, accavallando le gambe.

«Immagina un mucchio di mocciosetti chiusi dentro una torre fino al compimento dei vent’anni, con gli angeli a ronzargli attorno ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo della loro esistenza» scandì «I bambini credono a qualsiasi cazzata venga loro raccontata, da Babbo Natale all’uomo nero, e loro potranno plasmare le loro piccole menti fertili come più gli aggrada»

Gli occhi di Dean saettarono verso la giacca bianca che aveva appena gettato via.

«Esatto Winchester» assentì il Collaborazionista.

«Gli daranno da mangiare, li vestiranno come loro. Gli diranno che gli Arcangeli sono i loro salvatori? Ci crederanno. Gli diranno di prostrarsi, e di ringraziare, e di obbedire? Lo faranno. E non si chiederanno mai se è giusto o sbagliato, perché nessuno gli avrà mai insegnato a farlo! Li riprogrammeranno, come si fa con una macchina difettosa» concluse solennemente.

«Insomma…»

Dean aveva deciso di stamparsi in faccia la sua migliore espressione sarcastica, nonostante la sue mascella avesse già iniziato a vibrare «Tu pensi davvero che io creda a questa storiella?»

Crowley sorrise.

«Ti sei mai ritrovato faccia a faccia con Michael, Winchester?»

Ad eccezione dei discorsi annuali al cantiere — che praticamente neanche ascoltava — Dean non aveva mai avuto davvero a che fare con l’Arcangelo. Scosse la testa; non che la cosa gli dispiacesse.

«La totale assenza di empatia unita alla più grande compassione che un essere umano — o angelo che sia — possa provare. Tu crederai che Michael sia crudele, o stupido…»

Il ragazzo stirò istintivamente le labbra: crudele o stupido erano aggettivi riduttivi, per un Arcangelo.

«Lui vuole soltanto salvarci» Crowley aveva assunto un’aria di rassegnata serietà.

«Dall’invidia, dalla rabbia, dall’insoddisfazione, da tutto ciò che ci rende infelici, deboli… umani. Sotto il dominio di Michael non ci saranno più guerre, lotte all’ultimo sangue per il potere o il denaro, non ci sarà più dolore… sarà un’era di pace»

«Un’era di niente!» ruggì Dean, a cui tutta quella faccenda, d’un tratto, sembrava diventata un’utopistica rivisitazione di un film dell’orrore. Poi fu improvvisamente preso da un attacco di risa.

«Salvarci?» esclamò, con la faccia paonazza «Se volesse salvarci dovrebbe soltanto darsi fuoco e poi buttarsi giù dall’ultimo piano!»

Il Collaborazionista scattò in piedi.

«Chiudi quella fogna di bocca prima che qualche angelo possa sentirti e ascoltami!» sbottò.

«Se vuoi fare il lavaggio del cervello a mezzo milione di marmocchi ti serve come minimo una fortezza alta un chilometro per evitare che scappino alla prima occasione, o che la Resistenza arrivi coi forconi a riprenderseli, poco ma sicuro. E io non ce li vedo gli angeli a sporcarsi le scarpe nuove in una cava, così come non ce li vedo a perder tempo a lavarsi le mutande o a tenere in ordine gli archivi»

Dean smise immediatamente di ridere.

«C’è vita in quella tua zucca vuota allora!» esultò Crowley alzando lo sguardo al soffitto e sollevando i palmi delle mani, in un accorato ringraziamento ad una non ben definita entità divina sopra di lui.

«A lui non interessiamo né tu né io: siamo adulti, per noi non ci sarà mai speranza di redenzione. Se siamo vivi è soltanto perché siamo ancora utili a qualcosa» ammise amaramente.

«Ma quando gli Arcangeli avranno abbastanza soldatini di gesso da sguinzagliare in giro, oh, su questo pianeta rimarranno solo le loro fottutissime torri, perché raderanno definitivamente al suolo tutto quello che rimane. Via le macerie, via le automobili carbonizzate, saranno delle magnifiche pulizie di primavera!» esclamò.

La faccia di Dean era sempre più sconvolta.

«Agli ultimi adulti dotati ancora di un minimo di volontà propria, di una qualsiasi emozione diversa dalla cieca obbedienza — me e te inclusi — verrà compassionevolmente tagliata la gola; la Resistenza si estinguerà da sola, poiché non si può salvare qualcuno che pensa di essere già stato salvato, e Michael regnerà su un’umanità pacifica, grata e ordinatamente sottomessa per i secoli dei secoli»

Crowley terminò con un estatico ‘amen’ che nella sua bocca vibrò come una bestemmia.

Il ragazzo si scagliò contro il Collaborazionista, facendolo ribaltare insieme alla sedia traballante su cui si era stravaccato. Avrebbe tanto voluto prenderlo a calci, ma alla fine lasciò che la sua furia scemasse mentre l’uomo si rialzava, massaggiandosi il fondoschiena.

«Dammi un solo, valido, motivo per cui io debba credere alle tue farneticazioni» pretese, dopo che Crowley si fu rimesso in piedi.

«Puoi anche non credermi, scoiattolino…» biascicò quello, lanciandogli uno sguardo irritato «Ma quanti anni credi di avere ancora da vivere? La torre che avete fatto crollare in Colorado sarebbe stata ultimata entro sei mesi, in Europa le hanno completate tutte ormai più d’un anno fa, e i rastrellamenti sono già iniziati»

«Inoltre…» proseguì dolcemente «Devi sapere gli angeli non hanno — o non avevano, almeno — la più pallida idea di cosa potesse esserci dentro la testa di un uomo, figuriamoci dentro quella di un bambino. Michael aveva bisogno di tempo, di studio, per assicurarsi che il suo caritatevole piano funzionasse. Vent’anni, trenta, lui è immortale e non ha di certo fretta: non sarebbe stato un problema saltare quattro o cinque generazioni di fanciullini, vista la velocità alla quale gli umani si riproducono» illustrò con aria compita.

«L’importante era che alla fine sapessero precisamente come modellare le loro piccole menti ingenue, in modo da evitare ogni possibilità di recupero. E indovina…»

Il Collaborazionista si leccò lentamente le labbra, come stesse pregustandosi il gran finale.

«E indovina chi ha fatto incazzare così tanto Michael, dieci anni fa, da meritarsi l’ingrato compito di vivisezionare la psiche dei mocciosetti americani?»

Dean trasalì.

«No»

Una scintilla diabolica sfrigolò dietro le pupille di Crowley.

«Oh invece io credo proprio di sì, scoiattolino. Cosa pensi che faccia altrimenti Castiel, chiuso in quella biblioteca? Credevi forse che gli piacesse Walt Whitman?»

«No…»

Non si era mai chiesto cosa fossero, quei misteriosi meccanismi cognitivi, di cui gli aveva parlato tempo addietro Castiel.

«Oh per favore! Ti si è incantato il disco?»

Castiel, che conosceva così bene gli umani da riuscire a far cadere persino suo padre in trappola.

Che gli aveva rivelato lui stesso — quasi per caso, come se si trattasse di una faccenda di poco conto — quale fosse il suo compito, all’interno di quel grattacielo infame.

E che per quanto generoso, strambo e meraviglioso fosse (apparisse) era sempre stato e sarebbe rimasto per sempre — eppure solo adesso lui se ne rendeva conto — un angelo, e per quanto ostinatamente Dean volesse sentirlo vicino, Castiel era lontano da lui anni luce.

I loro rispettivi mondi, lo erano.

Aveva davvero creduto che un angelo potesse schierarsi apertamente con gli umani, con lui? Che ingenuo che era stato.

Crowley sogghignava.

«E tu…» il ragazzo avrebbe voluto che la sua voce risultasse più ferma e limpida d’un rantolo, ma dopo quella rivelazione non era in grado di controllare nemmeno il tremito scomposto delle proprie mani.

«Tu che sei così vicino agli Arcangeli da essere persino a conoscenza dei loro piani, come…» biascicò allibito «Come puoi continuare ad andartene in giro dentro quei vestiti? A fare la spia per loro…» gemette «Presto o tardi uccideranno anche te…»

«Io ormai ho vissuto la mia vita, Dean»

Il Collaborazionista si era fatto improvvisamente cupo. Nei suoi occhi di giaietto si sarebbe potuta intravedere quasi una parvenza di rammarico. Persino, forse, di malinconia.

«E poi, sono stanco di fingere che mi diverta, ballare sopra le rovine di questo mondo»




Dean non ricordava come e quando fosse uscito dalla stanza di Crowley.

La sua rabbia aumentava a ogni passo e risaliva come lava, dal fondo della sua gola.

Arrivò all’ottantaseiesimo piano con la sensazione di essere prossimo al vomitare fiamme.













Cominciamo con la parte facile (e piacevole): grazie per le vostre sempre squisite recensioni, grazie a chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate, grazie a chiunque sia arrivato fin qui. ♡
Questo è un altro di quei capitoli in cui mi chiedo ‘ma non sarò stata troppo cervellotica’? Quindi ecco, qualsiasi sia la vostra opinione in merito a questo ennesimo arrotolamento della trama, sappiate che non vedo l’ora di leggerla, positiva o meno che sia.
Infine, due comunicazioni di servizio: quella brutta, è che la prossima settimana non riuscirò ad aggiornare T.T, quella buona è che i prossimi due capitoli erano nati come uno solo e quindi, per amore del flusso narrativo (?) li pubblicherò entrambi tra due settimane. Come al solito, il mercoledì e il sabato.
Ne approfitto per augurarvi un buon Ferragosto, riposatevi, rilassatevi e rispettate le regole, ci rivediamo tra due mercoledì con la fine della seconda parte della storia. Sempre che vogliate ancora star dietro a questo delirio, ovviamente ^__^;
Cheers ❀*

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Capitolo 18
*** Ciò che si ama — O, dello spezzarsi in due ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






18. Ciò che si ama
O, dello spezzarsi in due




1 maggio 2009

No.

Non avrebbe dovuto farlo.

Oh, no.

Non avrebbe affatto dovuto farlo.

Castiel era seduto alla sua scrivania quando lo schianto della porta della sua camera che veniva violentemente spalancata e sbatteva contro la parete lo aveva fatto saltare in piedi.

Dean non aveva aspettato che l’angelo gli chiedesse qualcosa, né si era posto il problema di come approcciarlo, di come introdurre l’argomento o di quale domanda porgli per prima.

Mentre Castiel tentava di decifrare la rabbia e la delusione sul suo volto, Dean lo aveva raggiunto in poche, ampie falcate, e gli aveva tirato il ceffone più poderoso che avesse mai mollato — o ricevuto, e lui di ceffoni ne aveva ricevuti a bizzeffe — a qualcuno.

E no, non avrebbe dovuto farlo.

Perché era stato più o meno come schiaffeggiare una colonna di granito.

Il bruciore tremendo che dal palmo della sua mano si propagava fino alla spalla ce la mise tutta per avvertirlo di non proseguire sulla strada del conflitto aperto, non con un angelo sterminatore.

Come se a lui potesse importare qualcosa, in quel momento, della reazione di Castiel.

«Tu lo sai a cosa servono le torri, non è così?»

Che lo punisse pure, se voleva. Che gli spezzasse tutte le ossa e che non si premurasse nemmeno di riaggiustargliele, dopo.

Ma la colonna di granito — Castiel — pareva non averne affatto l’intenzione.

«Dean…»

Quello schiaffo, sebbene non lo avesse smosso di mezzo millimetro, sembrava averlo ferito molto più di quanto non avesse fatto con la mano destra di Dean.

«Credimi…» balbettò, immobile e pallido come una statua di cera «Sono stato sul punto di dirtelo infinite volte ma…»

«E cosa pensavi di dirmi, sentiamo!» lo interruppe lui, sbraitando «E’ stato bello scopare con te ma ora devo ucciderti perché Michael crede di essere il nuovo padreterno e tu non sarai mai abbastanza perfetto e ubbidiente per il suo mondo?»

L’angelo si rabbuiò «Lo sai che non potrei mai dirti niente del genere…»

«No, non lo so! Non so assolutamente niente in questo momento! Una settimana fa piangevi con la testa sulla mia spalla e ora scopro che sei uno dei teorici di questa follia!»

Ogni fibra del corpo di Dean tremava.

Che gli Arcangeli avessero qualche strampalato piano per l’umanità poteva anche accettarlo. Aveva visto la sua casa bruciare, i suoi affetti ridotti in schiavitù e trattati al pari di bestie da soma, che Michael volesse passare da tiranno a dio altro non era che il naturale decorso del suo progetto di sopraffazione del genere umano.

Ma che Castiel fosse complice di una simile atrocità no, non lo poteva sopportare.

Non dopo gli ultimi due mesi.

«Cosa avrei dovuto fare?» s’inalberò l’angelo «Qualsiasi cosa pensi di me Michael, io… io sono sempre stato fedele…» fremette, finché la violenza dello schiaffo appena ricevuto cominciò a fare effetto, e lui scattò.

«Credi che per me sia stato facile?» stridette «Hai una vaga idea di quanto siano state laceranti per me queste ultime settimane?»

Dean strinse i pugni.

«E come pensi che mi sia sentito io, invece?»

Castiel schiuse le labbra ma lui non lo lasciò parlare.

«Avete ucciso mia madre» lo intercettò, a denti stretti «Lucifer tortura mio fratello per il suo puro piacere personale. E adesso scopro che il vostro Arcangelo vuole salvarci…» ridacchiò, isterico.

«…salvare gli uomini dalla guerra, dalla sofferenza e dall’infelicità, sterminando metà della razza umana e facendo il lavaggio del cervello all’altra… e che tu sei d’accordo con lui» concluse, gorgogliando.

«Dean, cerca di comprendere…» l’angelo ora lo stava quasi implorando «Non puoi negare che la vostra sete di potere, la vostra aggressività, abbiano portato l’umanità sull’orlo del baratro. L’inquinamento, la povertà, la violenza…»

«Certo, perché voi angeli siete arrivati con fiori e cioccolatini!»

«Io non sono d’accordo con i suoi modi. Non più» ribatté mestamente Castiel «Ma prova a pensarci, Dean, è un sacrificio necessario. Pace, tranquillità, armonia, in cambio soltanto dell’obbedienza»

«In cambio di me» sputò il ragazzo, incapace di nascondere l’avvilimento «Sacrificheresti anche me in nome della tua pace e della tua armonia?»

L’angelo storse la bocca, e nella stanza calò un silenzio opprimente, che durò quasi un intero minuto.

Castiel aveva l’espressione di un condannato a morte costretto ad aspettare, con la testa sopra il ceppo, che il boia finisse di affilare la sua ascia.

Quando rispose, la voce che aveva non sembrava nemmeno la sua. Così come le parole che pronunciò.

«Michael… lui… lui ama gli umani come un padre…»

Se Dean fosse stato meno furioso, e agitato, forse si sarebbe reso conto che — davvero — quelle parole non erano le sue. Che gli angeli erano stati i primi a fidarsi ciecamente degli Arcangeli, che anche Castiel aveva obbedito per secoli, e che dopo Aniel era piombata su di lui l’impietosa scure della scelta, con tutti i rimorsi, i dubbi e il senso di colpa che una decisione presa con la propria testa — e non con quella di un carismatico superiore — potesse comportare.

«Questo non è amore»

Ma quel giorno la rabbia era di più.

«E’ smania di controllo, prepotenza, arroganza, senso di superiorità e brama di potere spacciata per misericordia»

Castiel non avrebbe mai fatto fuggire Sam e Jack da quella prigione di cento piani.

«L’amore non sacrifica ciò che ama, Castiel. Lo difende»

Né avrebbe mai capito il vero significato di quelle cinque lettere. Gli angeli erano stati creati perfetti, interi e incorruttibili: non sarebbero mai stati in grado di provare per davvero un sentimento così potente da spezzarti in due.

Rivolse uno sguardo sconsolato al quadro con le ninfee appeso al muro.

L’amore avrebbe sacrificato se stesso, piuttosto.

Un sorriso doloroso gli deformò gli angoli della bocca: Castiel non avrebbe mai compreso perché quella ragazza aveva dato la vita, pur di salvare quel quadro tanto amato dalla distruzione.

«Io ce l’avevo un padre» sussurrò poi, più a se stesso che all’angelo, che adesso lo fissava con gli occhi spalancati e colmi di angoscia.

«E siete stati voi a portarmelo via»

«Dean, io non…»

Lui non finse nemmeno di ascoltarlo: gli voltò le spalle, e iniziò a dirigersi lentamente verso la porta.

Non riusciva più a guardarlo.

Come se fosse seduto sul bordo di un pozzo, e la distrazione d’un istante sarebbe bastata a farcelo cascare dentro, Dean aveva l’impressione che con un solo sguardo — un solo attimo d’indugio dentro quegli occhi blu — non avrebbe più avuto la forza per dire ciò che invece era fermamente deciso a comunicare.

«No, Castiel»

Una trafittura al petto soltanto nel pronunciare quel nome, in quel modo.

«Quando sono arrivato qui a Corte mi hai detto che questa sarebbe stata la mia seconda possibilità. Ebbene, è stata anche la tua, ma io non avrei mai dovuto concedertela»

L’aveva spogliato a strattoni, pur di non vederlo.

«Eri uno sterminatore» mormorò «Sei un angelo, e lo sarai per sempre» e adesso che la realtà gli si era beffardamente dispiegata davanti, Castiel avrebbe potuto strapparsi di dosso anche la pelle, non sarebbe comunque riuscito a cambiarla.

Dean ingoiò l’ultima esitazione, e si spezzò in due.

«Io sono soltanto un uomo in fondo, e sono stato… sono stato uno sciocco a credere che le cose tra noi potessero andare diversamente»

Allungò il passo.

«Dean, aspetta»

Il ragazzo si fermò nel quadro bianco della porta; non si girò nemmeno.

«E’ un ordine, Castiel?»

Attraverso l’enorme finestra aperta, il crepuscolo primaverile bisbigliava una brezza leggera, come una preghiera sussurrata a fior di labbra.

Dean esitò per un paio di secondi, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a rimettere insieme i cocci che avevano preso il posto del suo cuore, dei suoi polmoni e di tutto il resto degli organi contenuti dentro la sua cassa toracica. Quindi oltrepassò lo stipite, svoltò a destra, e continuò a camminare senza guardarsi indietro.


2 maggio 2009

Quella sera si era beccato la più sonora lavata di capo che avesse mai ricevuto da Metatron.

Nemmeno lui sapeva come fosse riuscito ad uscirne indenne, con tutti gli arti al proprio posto e un unico, pulsante fastidio dietro la testa, lì dove l’angelo l’aveva colpito con il registro contabile che aveva appena realizzato di aver sbagliato a ricopiare.

Una data al posto di un’altra, gli elenchi tutti storti, aveva anche saltato due pagine: un completo disastro.

Dean si avviò, mogio, verso l’ascensore.

Aveva bisogno di vedere Sam.

Non per scaricargli addosso altri problemi — i suoi — ma semplicemente perché, in certi casi, la presenza silenziosa del minore accanto a lui era sufficiente a lenire ogni dolore, fisico o meno che fosse.

E Sam era perfettamente consapevole dello strano potere confortante che aveva sul fratello maggiore, non che la stessa cosa non fosse reciproca, dopotutto: al cantiere non era capitato una sola volta che uno dei due fosse finito in infermeria senza l’altro a tenergli la mano.

Samandriel aveva una strana aria fosca, ma non disse nulla quando lui uscì dall’ascensore trascinando i piedi.

Arrancando — immerso nei propri pensieri — in direzione delle vetrate, Dean inciampò in un bizzarro oggetto luccicante e per poco non finì lungo disteso sulla moquette.

Recuperato l’equilibrio, si fermò per un attimo di troppo a studiare l’oblungo pezzo metallico che gli era finito in mezzo ai piedi.

La maniglia dorata di una porta.

«Merda…»

Ciò che quella maniglia apriva, la porta dell’appartamento di Sam, era stata scardinata dal muro e scagliata violentemente sul pavimento.

Dean ne scartò una mezza dozzina di pezzi, disseminati qua e là lungo il corridoio, mentre si precipitava verso ciò che — dopo esserne stata la prigione — avrebbe tranquillamente potuto essere diventata la tomba di suo fratello.

Gli stipiti divelti sporgevano dall’intelaiatura della porta come denti affilati; il ragazzo oltrepassò la soglia e trattenne il fiato.

L’appartamento sembrava essere stato investito da un uragano.

I vasi di porcellana, assieme ai fragili steli di vetro che contenevano, languivano sulla moquette in mucchietti di schegge taglienti.

I quadri alle pareti erano stati fatti a brandelli, il divanetto di pelle squarciato, e dalla cucina proveniva un leggero sciacquio ronzante da quelle che dovevano essere state fino a poco prima le tubazioni dell’acqua.

«Sam!» si ritrovò a gridare, col cuore in gola «SAM!»

Scavalcò lo spuntone annerito della cornice che ingombrava il piccolo corridoio sul quale si aprivano — urlavano — il resto delle porte sfasciate, e una folata d’aria fredda lo investì: all’interno dell’appartamento non era rimasta neppure una finestra intatta.

Alla fine trovò suo fratello in un angolo di quella che era stata la camera di Kelly, e che verteva in condizioni persino peggiori della cucina e del salone d’ingresso.

Il materasso era stato sventrato e le tende pendevano stracciate nel soqquadro delle persiane e del vetro in frantumi; anche lì il pavimento era per una buona metà ricoperto di schegge.

Sam se ne stava raggomitolato su se stesso, tant’è che all’inizio l’aveva quasi scambiato per un mucchio di lenzuola.

«Sam!»

Al rumore di passi che si avvicinavano, il minore sussultò leggermente.

Lode a qualsiasi divinità cui un umano potesse appellarsi, era vivo. Suo fratello era ancora vivo.

Dean si accovacciò al suo fianco e gli scostò le ciocche di capelli sudate, appiccicate alla fronte.

«Lo ha saputo…» rantolò Sam, i cui occhi pesti riuscivano a malapena ad aprirsi «Che Kelly è morta… e che io l’ho aiutata a uccidersi…»

«Come ti è saltato in mente di inventarti una cosa del genere!» strillò il ragazzo, pentendosi però immediatamente di quel rimprovero. Non era certo quello il momento di mettersi a criticare gli scatti d’impulsività di suo fratello.

«Non potevo dirgli di…» boccheggiò lui «Per fortuna Jack era con Ellen, di sopra… e poi… poi avresti dovuto vedere la sua faccia…»

Attraverso il labbro spaccato del minore, Dean intravide l’ombra di un ghigno perversamente compiaciuto.

«Ci ha creduto…» proseguì Sam con un filo di voce, mentre il sangue gli colava sul mento «Ha perso il controllo… Lucifer pretende di regnare sulla vita e la morte degli umani chiusi dentro questo appartamento… ma Kelly gli è sfuggita dalle mani… e lui non poteva sopportarlo…»

Dean aveva ascoltato quel delirio abbastanza a lungo.

«Va bene Sammy, adesso basta» sentenziò, cercando di mantenere ferma la voce. Si allontanò da lui solo per quella manciata di secondi necessaria a decidere il da farsi.

«Riesci a camminare?» gli domandò.

«Credo… credo di sì»

La stanza di Sam sembrava fosse stata parzialmente risparmiata dalla furia dell’Arcangelo. Le ante dell’armadio erano state spaccate e i pochi vestiti di suo fratello erano sparsi in giro, ma a parte questo il resto dell’arredamento non aveva subito grossi danni.

Sam — non senza una certa fatica, e praticamente trascinato dal maggiore — riuscì ad arrivare al letto e a distendercisi sopra, strappando a Dean un’infinita sequela di sospiri di sollievo.

Se riusciva — per quanto penosamente — a muoversi e a parlare, le ferite inflittegli da Lucifer non dovevano essere così gravi. Il ragazzo recuperò un paio di forbici dalla cucina, tagliò via quel che rimaneva degli abiti sbrindellati di suo fratello, e cominciò a ispezionare con sguardo clinico quel disastro che giaceva semi-incosciente sopra il materasso.

Mentre esaminava il torace tumefatto di Sam, capì come doveva essersi sentito suo padre, tutte le volte che i suoi figli erano tornati alla baracca sanguinando.

«Hai almeno quattro costole rotte» dichiarò alla fine «Ma per il resto mi sembra che tu sia ancora tutto intero. In compenso hai un mucchio di schegge infilate ovunque, te le devo togliere prima che le ferite s’infettino»

Sam emise un mugugno che lui interpretò come un assenso. Dean poteva non sapere come trattare una partoriente ma lividi e tagli di qualsiasi foggia erano la routine al cantiere, ed erano la sua specialità.

In ogni caso, non avrebbe comunque saputo a chi rivolgersi: non aveva la più pallida idea del se esistesse o meno un’infermeria all’interno dell’edificio, né se mai un angelo si fosse effettivamente preoccupato delle condizioni di salute degli umani rinchiusi dentro l’Empire State Building.

Ci mise venti minuti a trovare una pinzetta in mezzo a quella devastazione e chissà come riuscì persino a rimediare una bottiglietta di qualcosa che assomigliava a del vero disinfettante, chiedendosi come caspita avesse fatto suo fratello a procurarselo.

Un’ora e un tripudio di imprecazioni dopo, Sam aveva ancora un aspetto orrendo ma il suo colorito era un po’ meno cinereo.

Era persino riuscito a fargli bere un po’ d’acqua senza che si strozzasse.

Dean ritornò in camera di Kelly, tirò giù dal letto il materasso squartato e lo trascinò al lato del letto di Sam, il quale, nonostante il dolore e la stanchezza che gli intorpidivano i sensi, intuì subito cosa lui avesse intenzione di fare.

«Non puoi…» gracchiò «Tornerà… Lucifer torna sempre dopo… e se domattina ti troverà qui…»

«Beh potrà prendere a pugni anche me se vuole!» tagliò corto il maggiore «Ma non ci penso proprio a lasciarti passare la notte, da solo, in questo stato»

Sam stava già partendo col secondo round di proteste quando Dean si tuffò sul materasso — con un po’ troppo brio, per un pelo non finì infilzato su una delle molle scoperte — dichiarando conclusa la discussione.

«Piantala Sammy, e cerca di riposare, adesso» brontolò, cercando di rilassare — per quanto poteva, su quel giaciglio bitorzoluto — i muscoli contratti delle spalle e del collo.

«Non sei tu quello che passerà la notte sveglio per assicurarsi che suo fratello continui a respirare»

Il più piccolo sbuffò piano, ma dopo un po’ il suo respiro iniziò a regolarizzarsi. Quando Dean si sollevò sui gomiti e si sporse oltre il bordo del letto per controllare la situazione, Sam si era già addormentato.

Alla fine, poco prima dell’alba, le sue palpebre si erano fatte così pesanti da non riuscire più a tenerle sollevate, e finalmente anche lui sprofondò in un sonno senza sogni.













Ben (si fa per dire) ritrovati!
Purtroppo la versione originale di questo capitolo ha sfondato il muro delle venti pagine e non me la sono sentita di pubblicare un mattone del genere tutto in una volta. Ma vi prego, resistete ancora fino a sabato: potrebbe non essere tutto così perduto come sembra.
Un enorme, enorme grazie a chi ha recensito lo scorso delirio ehm, capitolo, ♡ a chi ha messo la storia tra le preferite e le seguite, e a tutti i lettori silenziosi che ancora sopportano tutto questo dramma.
A prestissimo,
Cheers ❀*

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Capitolo 19
*** Ciò che si ama — O, di Bay Ridge, 95esima strada ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






19. Ciò che si ama
O, di Bay Ridge, 95esima strada




3 maggio 2009

Un mugolio terribilmente familiare strappò Dean alla sua beata incoscienza. Non ebbe nemmeno bisogno di alzare le palpebre per percepire la sgradevole e ingombrante presenza di qualcun altro nella stanza.

«La resistenza è inutile, Sammy…»

Dolcissimo.

«Non puoi impedirmi di prendermi cura di te… non puoi farlo adesso e non potrai farlo mai…»

Stomachevole, viscido.

«Shhhh…»

Rivoltante.

Lucifer teneva suo fratello inchiodato al materasso, la mano destra piantata sul suo sterno, le dita spalancate. I lividi che appena qualche ora prima deturpavano il viso di Sam erano spariti, e la forza con la quale cercava di respingere l’Arcangelo indicava che anche le sue costole e il resto delle ferite che lui aveva impiegato un’eternità a disinfettare stavano ricevendo lo stesso trattamento.

Lucifer lo stava curando.

I graffi che correvano lungo le braccia del minore si cicatrizzavano e sparivano a vista d’occhio.

Tuttavia, se Dean non fosse stato guarito a sua volta da un angelo, e non avesse provato sulla propria pelle il calore benefico e piacevole di quel risanamento così rapido, avrebbe giurato che suo fratello stesse patendo le pene dell’Inferno.

«Oh, si è svegliato anche il fratellone!»

L’Arcangelo spostò lo sguardo su Dean, semidisteso sui gomiti, senza concedergli neanche il tempo di rialzarsi.

«Buongiorno, piccolo umano» lo infilzò, congelandolo sul colpo «Immagino che sia stato tu a tenermi al caldo il caro Sammy, stanotte»

Sam digrignò i denti, ma tutto ciò che ottenne in risposta fu un’occhiataccia irridente: per quanto provasse a resistere infatti, non poteva granché contro l’ennesima guarigione forzata che si accaniva sul suo corpo.

Lottò inutilmente ancora per qualche secondo, finché Lucifer non perse definitivamente la pazienza e gli tolse la mano dal petto, soltanto per afferrarlo alla gola.

«Finiscila» ringhiò, facendolo affondare nel cuscino.

Quando terminò di occuparsi delle sue ferite — ovvero un secondo prima che il ragazzo soffocasse — e anche gli ultimi lividi giallognoli sotto gli occhi di Sam si furono riassorbiti, Lucifer lo prese per i capelli e lo tirò bruscamente in piedi.

Dean scattò istintivamente in avanti.

«Fermò là, Winchester!» lo bloccò l’Arcangelo, artigliando più saldamente i capelli di suo fratello e strattonandogli la testa all’indietro.

«Sappi che se adesso ti permetterò di andartene…» sibilò minaccioso, puntandogli un dito contro «E’ soltanto per ringraziarti di non aver lasciato che il mio umano preferito tirasse le cuoia durante la notte»

Il ragazzo deglutì. Lo sguardo affranto di Sam lo stava letteralmente supplicando di infilare la porta e andarsene da lì il più rapidamente possibile, ma adesso Dean era troppo terrorizzato per muovere anche un solo passo.

«Ma quando tornerò, stasera» proseguì l’Arcangelo, inesorabile «Se ti troverò di nuovo qui a ronzare intorno al tuo fratellino come una mamma chioccia, allora inizierò a divertirmi anche con te»

Lanciò a Sam un’occhiata fintamente maliziosa.

«Cosa ne dici, Sammy, ti piacerebbe?»

Poi Lucifer attirò il minore a sé, gli avvinghiò le dita intorno alla nuca e insinuò la lingua dentro la sua bocca.

Dean dovette farsi violenza per non vomitare.

Se riuscì ad evitare di scagliarsi con tutte le sue forze contro Lucifer fu solo grazie alla preghiera — all’unico e ultimo ordine stremato — che lesse negli occhi spalancati di Sam, mentre il minore si costringeva a cedere a quel bacio inumano.

Qualsiasi cosa Dean avesse fatto, qualsiasi reazione avesse avuto, avrebbe soltanto peggiorato la situazione.

Quando l’Arcangelo si staccò da suo fratello, era già corso via.

«Vaffanculo!»

Mentre percorreva a ritroso quello schifosissimo corridoio, Dean riuscì nella mirabile impresa di inciampare in tutti i frammenti della porta che ancora ingombravano il pavimento, maniglia dorata inclusa.

Dovevano andare via da lì. Scappare.

Ora, subito, immediatamente.

Si rese conto di non aver preso l’ascensore solo quando perse l’equilibrio sull’ultimo scalino della rampa che portava al piano di sotto.

Chi avrebbe potuto aiutarlo?

Castiel, ormai non se ne parlava; Claire era sicuramente una ragazzina intelligente ma dubitava che comprendesse l’enochiano così bene da sapere come contrastare i sigilli che Sam aveva incisi sulle costole.

Crowley… forse lui era l’unico. Qualche conoscenza l’avrebbe sicuramente avuta, conosceva quel grattacielo e i suoi inquilini come le sue tasche, avrebbe sicuramente trovato qualcuno in grado di aiutarli.

Dopo la loro ultima conversazione Dean non era più tanto certo di rientrare nelle sue simpatie ma poteva bluffare, inventarsi qualcosa, fargli credere di aver finalmente ottenuto per lui l’agognato accesso alla biblioteca. Dopotutto l’uomo — nonostante lo sospettasse, e anzi probabilmente era stato il suo desiderio di seminare zizzania che l’aveva spinto a rivelargli i piani di Michael — non sapeva niente del suo litigio con Castiel.

Sì, poteva funzionare.

O almeno così Dean si obbligava a pensare, mentre i gradini sfilavano via sotto i suoi piedi.

Raggiunse il settantaduesimo piano che quasi non aveva più aria nei polmoni, ma proprio sul punto di bussare, trafelato, alla stanza di Crowley, qualcuno gli ghermì il braccio prima che le sue nocche raggiungessero la porta.

«Va da tuo fratello»

Le iridi insondabili di Castiel fiammeggiavano a dieci centimetri dalla sua faccia.

«Ho detto a Ellen di riportargli Jack» si schierò «Va da lui, e aspettatemi lì»

Dean, che nelle ultime ventiquattr’ore aveva subito più colpi al cuore di quanti non ne avesse ricevuti in tutta la sua vita, non capì.

«Lucifer…»

«Lucifer è occupato, ora, e lo sarà almeno fino a stasera»

L’angelo gli liberò il braccio, non senza avergli prima, prudentemente, allontanato il pugno chiuso dalla porta.

«Raggiungi Sam, e aspettatemi lì» ripeté, scandendo ogni parola come se si stesse rivolgendo a un bambino.

Qualcosa trapassò Dean da parte a parte, con l’implacabilità di una folgore. Il suo respirò, da affannato e inquieto, improvvisamente rallentò.

Castiel gli fece nuovamente cenno di muoversi, e stavolta lui non se lo fece ripetere.




Lucifer aveva lasciato l’appartamento ma aveva evidentemente mandato qualcuno a pulire, perché dal pavimento del salone d’ingresso erano sparite tutte le schegge, i quadri lacerati e il divanetto squarciato.

Suo fratello era seduto sul letto, con indosso dei vestiti stropicciati — ma puliti — e Jack che dormiva placidamente tra le sue braccia tremanti.

«Dean, che cosa succede?» saltò su non appena lo vide «Quando Lucifer è andato via è arrivata Ellen e…»

«Non lo so, Sam»

Dopo aver sentito quel vezzeggiativo, ‘Sammy’, lasciare tanto oscenamente le labbra dell’Arcangelo, non sapeva se sarebbe più stato capace di utilizzare ancora lo stesso soprannome.

«Ma Castiel sta per arrivare» disse.

Avrebbe voluto aggiungere un ‘e io mi fido di lui’, ma temeva di sbilanciarsi troppo. Non con suo fratello — una falsa speranza non avrebbe potuto ferire Sam più di quanto Lucifer non avesse fatto già — ma con se stesso.

Lasciandosi alle spalle le pareti blu della stanza dell’angelo infatti, aveva giurato che non gli avrebbe mai più permesso — che non avrebbe mai più permesso a nessuno — di coinvolgerlo in un rapporto così apertamente impari.

Eppure eccolo lì, imprigionato nell’ennesima, spasmodica, attesa della sua comparsa.

Il passo deciso con il quale Castiel irruppe nell’appartamento li fece sobbalzare entrambi.

Senza nemmeno un saluto, si avvicinò al piccolo addormentato tra le braccia di Sam «Meglio che prenda io il bambino per un attimo» esordì.

Il minore si ritrasse.

Furono soltanto il sospiro spazientito dell’angelo e il leggero tremore delle sue ciglia a convincere Dean che le sue intenzioni non erano cattive e che, soprattutto, quello non era il momento di tergiversare.

«Non preoccuparti» provò a rassicurarlo «Fa come ti dice»

Suo fratello, non senza una certa diffidenza, lasciò che Castiel si accomodasse Jack tra la spalla e l’avambraccio sinistro.

«Questo sarà indolore»

Prima che il minore avesse il tempo di allontanarsi, l’angelo gli piantò le cinque dita della mano destra in mezzo al petto, strappandogli un confuso ‘ehi’ di protesta.

«Adesso dovresti poter lasciare l’appartamento senza che Lucifer lo sappia» dichiarò.

La mascella di Sam divenne improvvisa preda della gravità e crollò verso il basso, lasciando il ragazzo a bocca aperta.

«Questo invece potrebbe fare un po’ male»

Approfittando dello sconcerto che si era dipinto sui volti dei due fratelli, Castiel spinse nuovamente le dita contro il torace di Sam, che stavolta si piegò in due come se gli avessero tirato un pugno nello stomaco.

«E adesso nessun altro angelo dovrebbe essere in grado di localizzarti» concluse girandosi verso Dean che, dopo un primo attimo di smarrimento, aveva capito le sue intenzioni e si stava già preparando a ricevere gli stessi sigilli anti-angelo sulle sue costole.

Merda, però.

Era molto peggio di un pugno nello stomaco.

«Venite con me» Castiel non diede a nessuno dei due il tempo di riprendersi «Veloci»

Lo seguirono fino all’angolo del corridoio, dove quella che sembrava una sporgenza del muro si rivelò essere il vano di un vecchio montacarichi da interni, in disuso da anni a giudicare dalla polvere.

«Scenderete giù fino al terzo piano sotterraneo» chiarì, mostrandogli il pulsante che avrebbero dovuto premere una volta nella cabina «Non ci si può teletrasportare all’interno del grattacielo, perciò non ho altro modo di farvi arrivare lì sotto tutti e tre senza che qualcuno vi veda» continuò, nervoso.

«Non muovetevi, non fate rumore, non cercate di uscire finché non vi aprirò io, nemmeno se doveste rimanere bloccati»

Il montacarichi non era stato progettato per il trasporto delle persone, non era illuminato e aveva il soffitto così basso che dovettero mettersi seduti — Sam persino con la schiena curva — incastrati uno sull’altro alla bell’e meglio, con un quasi duenne che avrebbe potuto esplodere in una crisi di pianto da un momento all’altro proprio in mezzo a loro.

Castiel aspettò che si sistemassero, poi richiuse l’anta con un gesto secco.

La discesa fino ai piani sotterranei durò un tempo infinito.

Il montacarichi era lentissimo rispetto all’ascensore, Dean aveva un ginocchio di suo fratello piantato nella schiena e Jack emetteva di tanto in tanto dei deboli piagnucolii, nemmeno udibili in una situazione normale, ma che nell’oscurità del minuscolo interno risuonavano come terrificanti avvisaglie di strepiti ben più rumorosi.

A un certo punto il montacarichi si bloccò, e lui riuscì a percepire il battito cardiaco di Sam che accelerava furiosamente.

L’istante successivo riprendevano la discesa, consapevoli entrambi che quella momentanea fermata gli aveva strappato qualcosa come dieci anni di vita.

Attesero appena una manciata di minuti, una volta giunti al terzo piano sotterraneo. Castiel apparve in una polverosa nube di bianco accecante e li aiutò caritatevolmente a uscire dal montacarichi, con mille ringraziamenti da parte delle loro membra anchilosate.

Si trovavano in un parcheggio interrato, praticamente deserto fatta eccezione per una vecchia automobile con le ruote a terra e il parabrezza in frantumi.

«Di qua»

L’angelo li guidò fino alla fine del parcheggio, lungo un tunnel sotto la strada che conduceva — stando a quanto riportato dai cartelli affissi alle pareti — alla stazione di Herald Square, trentaquattresima strada, della metropolitana di New York.

Oltrepassarono una serie di tornelli arrugginiti e arrivarono a quelli che dovevano essere i vecchi binari del treno.

Sulla linea gialla della banchina, Castiel si fermò.

«Procedete sempre verso il capolinea di Bay Ridge, novantacinquesima strada» disse, invitandoli a scendere sulle rotaie e allungando un braccio nella direzione che avrebbero dovuto prendere, segnalata anche da innumerevoli insegne scrostate, bianche e nere, appese sopra le loro teste.

«Castiel…»

Qualcosa si era appena incastrato nel petto di Dean.

«Non allontanatevi dai binari» l’angelo continuava a tenere il braccio alzato e un’espressione risoluta stampata in viso «Prima o poi vi troveranno, o almeno lo spero»

Sam si era già seduto sul bordo del marciapiede.

«Castiel…»

«Le ninfee, Dean»

Lo sguardo che Sam rivolse a Castiel in quell’istante aveva una sfumatura singolare, piuttosto comica, che dopo quel giorno il maggiore non avrebbe mai più visto ridisegnarsi sul suo volto: suo fratello si stava palesemente chiedendo — con le sopracciglia inarcate in una strana linea a zigzag — se anche gli angeli potessero andare fuori di testa.

«Io… ecco… me ne sono reso conto dopo che te ne sei andato» tradusse Castiel, vagamente imbarazzato.

«L’amore difende ciò che ama mi hai detto. Io non l’avevo mai provato e non l’avevo mai capito e continuavo a credere…» ammise, sospirando «Continuavo a credere alle cose sbagliate ma poi ho guardato quel quadro e improvvisamente…»

Dean sentì un tuffo al cuore, l’ennesimo della giornata e anche quello che avrebbe potuto risultargli fatale, a giudicare dalle fitte dolorose che avevano cominciato a diffondersi dal centro della sua cassa toracica al resto del corpo.

«Non c’era più niente di incomprensibile dietro quello che aveva fatto quella ragazza»

Castiel spostava il peso da una gamba all’altra e la sua cravatta bianca di tanto in tanto dondolava, scivolando sulla seta lucida della camicia.

«Io continuavo a chiedermi perché, perché proprio le ninfee, perché proprio Claude Monet, ma continuavo a pormi le domande sbagliate quando invece era così semplice…» mormorò «Non si era sacrificata per difendere una tela qualsiasi, tra quelle centinaia che erano esposte nel museo: lei difendeva ciò che amava…» l’angelo esitò, prima di conquistare il coraggio necessario a ritrovare gli occhi di Dean dentro i suoi.

«Ed è quello che sto facendo anch’io»

Dopodiché, non ottenendo nessuna risposta se non un singulto strozzato — sfuggito alla gola del ragazzo prima che la sua trachea si cementificasse del tutto — abbassò il braccio e lasciò che le sue dita ripercorressero le tracce umide delle lacrime che avevano appena abbandonato le iridi verdissime di Dean, spalancateglisi di fronte.

«Ti amo, Dean» sussurrò, senza vergogna «Ti ho amato dal momento in cui sono entrato in quella cella, ti ho tolto quella benda dagli occhi e non ho desiderato altro se non che tu potessi continuare a vivere»

Luccicava.

«E non ho più smesso di odiarmi, da allora, per tutto il dolore che ti avevo causato, per il modo in cui ho dovuto trattarti, per essermi comportato da vigliacco e per non aver mai trovato il coraggio di fare niente, niente per cambiare le cose…»

Luccicava.

«…fino a ora»

La superficie tremula dell’acqua, dal fondo del pozzo in cui Dean era appena caduto.

«Vieni con noi»

Le tre parole che il ragazzo era appena riuscito a rantolare si spezzarono in un singhiozzo sconnesso.

Castiel scosse la testa.

«E’ molto più facile seguire le tracce di un angelo che quelle di un umano» spiegò «Senza contare che la mia assenza verrebbe notata ancora prima della vostra e gli Arcangeli finirebbero col rintracciarci nel giro di poche ore» aggiunse cupamente «Rimanendo a Corte potrei riuscire a darvi sufficiente vantaggio, anche dopo che avranno scoperto la vostra fuga»

«E quando scopriranno te» soffiò il ragazzo, al volume d’un respiro «Che cosa…»

«Io me la sono sempre cavata, Dean. Me la caverò anche adesso, in qualche modo»

L’angelo sorrise, e Dean avrebbe voluto prendere quel sorriso e trapassarci il cuore di ogni Arcangelo, che qualsiasi mondo perfetto fossero intenzionati a creare sarebbe sorto sbagliato, e putrido — e come altrimenti avrebbe potuto essere? — se il suo costo sarebbero stati gli occhi scintillanti di Castiel.

«Dean…» la voce di Sam gli arrivava ovattata, lontana, eppure era l’unico filo che riuscisse a tenerlo ancora legato alla realtà.

Lucifer l’avrebbe cercato. L’avrebbe cercato e l’avrebbe trovato, se non avessero fatto in fretta.

«Dovreste andare, ora»

Castiel si staccò da Dean con la riluttanza di un magnete separato a forza dalla sua metà opposta ma il ragazzo, esattamente come una calamita, non gli permise di sottrarsi così facilmente al suo contatto.

Mosse mezzo passo in avanti, poi la bocca dell’angelo fu sopra la sua ed era dolce, e arrendevole. Fremeva appena.

Nel groviglio di emozioni che si affollavano dentro al suo stomaco Dean arrivò a domandarsi, per un secondo, se Castiel fosse in grado di percepire il sapore, l’asprezza salata delle sue lacrime che ora bagnavano, silenziosamente, le labbra di entrambi.

Jack aveva iniziato a piagnucolare, piano.

Castiel non rimase ad aspettare che sparissero dentro la prima galleria.

Dopo aver scavalcato la banchina, ormai arrivato sui binari, Dean si voltò indietro e non lo trovò più.




Sam gli aveva tenuto la mano per tutta la prima ora di cammino.

Poi erano arrivati in un punto in cui le rotaie erano state estirpate dal terreno come erbacce — risultava difficile mantenere l’equilibrio, avevano già rischiato due volte di inciampare — e il minore l’aveva lasciato soltanto per poter stringersi più saldamente Jack contro il busto.

Uno scricchiolio alle loro spalle li fece sussultare, seguito da un’imprecazione soffocata e da quel rumore inconfondibile, che Dean non avrebbe mai potuto confondere con nient’altro.

Lo scatto metallico della sicura di una pistola.

«Bene bene… scoiattolino»

Il ragazzo sbiancò.

«Ora allontanati dallo spilungone e girati lentamente, molto lentamente, se non vuoi che ti pianti una pallottola in testa»













Qui si chiude la seconda parte della storia.
I nomi delle fermate della metropolitana sono reali, ad eccezione del parcheggio e del relativo tunnel sotterraneo che invece sono di mia invenzione. Non allungherò ulteriormente anche questo capitolo con le mie note, se non per ringraziarvi delle splendide recensioni dalle quali sono stata sommersa negli ultimi tre giorni ♡.
Per qualsiasi altra cosa, se mi cercate, sono in un angolino della mia camera a piangere insieme a Dean.
A sabato prossimo ❀*

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Capitolo 20
*** Welcome to Brooklyn (Where New York City begins!) ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






20. Welcome to Brooklyn
(Where New York City begins!)




3 maggio 2009

L’oggetto luccicante che Crowley gli lanciò ricadde tintinnando sul pietrisco grigio.

«Molto lentamente, Winchester» continuò a raccomandarsi, la pistola fermamente puntata su di lui «Ora sarai così gentile da ammanettarti, e poi ti ammanetterai allo spilungone»

Sam fremette.

«Dean, tu conosci quest’uomo?»

Crowley deviò dolcemente la traiettoria del suo braccio, finché non fu sicuro che l’eventuale rilascio di un proiettile non avrebbe centrato senza possibilità d’errore il fagotto addormentato tra le braccia del ragazzo.

«E poiché mi ritengo una persona ammodo permetterò a te, Samuel Winchester, di continuare a giocare col pupetto, se mi prometterai di tenere chiusa quella bocca»

Sam spostò un piede all’indietro, nell’istintivo atteggiamento di chi vuole allontanarsi il più possibile dal pericolo, e per poco non inciampò nello scheletro d’un cavo elettrico tranciato in due che sporgeva dal terreno.

«Se hai intenzione di riportarci indietro faresti meglio ad ammazzarci subito» ringhiò Dean, mentre faceva schioccare il meccanismo perfetto che serrava implacabilmente i due semicerchi argentati intorno ai suoi polsi.

«Occupati del tuo fratellino, prima»

Crowley gli tirò il secondo paio di manette, e raccoglierlo da terra con i palmi delle mani quasi completamente bloccati uno contro l’altro si rivelò molto più difficile di prima.

«Poi, se ne avrò ancora voglia, potremo discutere»

Dean si avvicinò al minore, il quale gli allungò mestamente un braccio, con Jack che proprio in quel momento aveva iniziato a contorcersi tra le coperte.

«Scusami, Sam»

«Lentamente, Winchester!» abbaiò il Collaborazionista, facendo ondeggiare pericolosamente la pistola «Insomma, ti pare questo il modo di ricambiare la mia generosità?»

Dean sentì i propri denti stridere, mentre si costringeva a mantenere un equilibrio sempre più precario, appiccicato senza possibilità di fuga — né di alcun movimento realmente autonomo — al braccio sinistro di Sam.

«Ottimo lavoro, scoiattolino»

Solo allora Crowley si decise a ridurre la distanza che lo separava dai due fratelli, scartando i detriti che ingombravano i binari saltellando come un grosso furetto.

«Avanti, marsc’!» li esortò con un cenno, prima di piazzarsi alle spalle di Dean per punzecchiarlo con la canna della pistola «Muoversi, su!»

Sam girò la testa verso suo fratello, aggrottando la fronte.

La direzione verso la quale Crowley pretendeva si dirigessero non era quella che li avrebbe riportati alla fermata di Herald Square, trentaquattresima strada.

Era esattamente quella opposta, quella che loro stavano già seguendo, prima di venire bruscamente interrotti dal Collaborazionista.

«Vogliamo sbrigarci o no?» brontolò l’uomo, con l’espressione di un genitore spazientito, incassando la testa nelle spalle e spingendo un po’ più a fondo la pistola nella schiena di Dean.

Toccò a Sam prendere le redini della situazione.

«Va bene» mugugnò, scuotendo leggermente il braccio sinistro, in modo da far capire al maggiore che stava per mettersi in cammino.

Nelle ore successive tutta l’attenzione di Dean rimase focalizzata sui propri piedi, e sui movimenti incerti di suo fratello.

Se Crowley voleva impedire che scappassero, o che provassero ad aggredirlo, c’era riuscito dannatamente bene. Qualsiasi mossa che esulasse dal mettere, con estrema cautela, un piede davanti all’altro, avrebbe rischiato di far finire lui e Sam con la schiena — nella migliore delle ipotesi — o con la faccia — nella peggiore — spiattellata sulle rotaie.

Per non pensare a dove sarebbe volato Jack, se il minore avesse perso l’equilibrio.

All’ennesima provocazione della pistola contro le sue vertebre, Dean non resse più.

«Che cosa vuoi da noi?» esclamò esasperato facendo sussultare pericolosamente Sam.

Crowley fece schioccare la lingua contro il palato.

«Soltanto assicurarmi che chiunque vi trovi, trovi anche me» rispose, laconico.

«Beh, se stiamo andando dalla stessa parte potresti anche risparmiarci questo imbarazzante teatrino» sbottò il ragazzo, facendo tintinnare le manette e guadagnandosi un’occhiataccia da suo fratello che — dopo il sobbalzo di poco prima — per quel suo gesto improvviso era quasi scivolato all’indietro.

«Non prenderla troppo sul personale, Winchester» gongolò Crowley, ben consapevole di quanto potesse essere frustrante essere costretti a camminare su quel terreno accidentato, e in quelle condizioni «Considera questo come una piccola vendetta per tutte le volte che hai minacciato di rompermi il naso»

«Vedo che le tue maniere sono rimaste garbate come quando avevi sedici anni» chiosò Sam — perfidamente puntuale come il dodicenne che era stato — nel ricordargli che, con quel carattere così scontroso, prima o poi Dean avrebbe finito per farsi ammazzare.

Il maggiore avvampò «Tu chiudi il becco!»

«Chiudete il becco tutti e due, se non volete che vi leghi anche le caviglie» li zittì Crowley «Oltre che rallentarci, quello sì che sarebbe orribilmente scomodo»

Manette o no, dopo un altro paio d’ore fu Jack a costringerli a fermarsi e, nonostante gli perforassero i timpani, Dean accolse con un moto di infinita gratitudine gli strilli acuti del bambino.

Avevano camminato tutto il giorno — le gallerie buie erano sbucate all’esterno, in quello che doveva essere un quartiere anonimo alla periferia di Manhattan — e le sue caviglie, i polpacci e le cosce erano sul punto di andare a fuoco.

Il braccio con il quale Sam reggeva Jack, tremava.

Si fermarono vicino ad una cabina ferroviaria per il controllo degli scambi, evidentemente in disuso da decenni.

«Per tutti i numi, fai tacere quella belva!»

Crowley si tappò le orecchie con le mani e si guardò intorno, preoccupato. Era calata la notte, e a quel punto ormai gli angeli — o almeno Lucifer, di certo — avrebbero dovuto essersi accorti della loro fuga.

Dean si sforzò di non pensare a Castiel — a cosa potesse essergli accaduto in quelle ore, a quali sarebbero potute essere le conseguenze della sua disobbedienza — e provò a dirottare le sue elucubrazioni su qualcos’altro.

«Se togliessi le manette almeno a lui…» tentò «Sam potrebbe anche tentare di far calmare il mostriciattolo…» propose, insinuante.

Cercò di non soffermarsi sull’ironia grottesca della cosa, lui che chiedeva che lo separassero da Sam.

«Puoi continuare a tenere ammanettato me, se la cosa ti tranquillizza» proseguì «Non ci saranno colpi di testa, prometto»

Il Collaborazionista si accarezzò il mento, sospettoso.

«E hai sempre la tua pistola»

Sam arrivò in suo soccorso, rivolgendo all’uomo uno sguardo implorante.

Oh, quello sguardo implorante.

Dean glielo invidiava dall’infanzia: lui non era mai stato capace di spalancare gli occhi e di arricciare le sopracciglia in quel modo.

Lui digrignava i denti e bestemmiava, in casi del genere, non era mai stato un asso della persuasione gentile.

«Oh, e va bene! Va bene!» si arrese infine Crowley, estraendo una piccola chiave metallica dalla tasca della giacca.

Anche perché, a quel punto, il pianto di Jack aveva raggiunto un volume intollerabile e si propagava nel quartiere deserto con la potenza di un tuono.

Gli angeli l’avrebbero sentito a chilometri di distanza.

«Se uno di voi prova a farmi fesso lo azzoppo» minacciò, avvicinandosi con circospezione, l’arma saldamente in pugno.

Quando la serratura scattò, il braccio destro di Sam cedette del tutto, Jack per poco non si schiantò al suolo, e i suoi strilli arrivarono alle stelle.

«Shhhh, va tutto bene» Sam si accoccolò con il bambino in braccio e la schiena contro la parete della cabina «Shhhh, shhhh, adesso passa, adesso passa Jack» sussurrò accarezzandogli i capelli.

Crowley crollò a sedere «Beh, se lo spilungone vuole giocare alla mamma tanto vale che ci fermiamo» berciò.

Doveva essere stanco anche lui, dopotutto.

Dean si sistemò tra Crowley e suo fratello, a una prudente distanza da entrambi.

Sul perché desiderasse mantenersi il più possibile lontano dal Collaborazionista, era così ovvio che sarebbe stato inutile chiederselo.

In quanto a Sam, invece… il modo in cui il minore si ostinava a voler rassicurare il mostriciattolo lo riempiva di tenerezza e di sgomento assieme.

Dean si era trovato nella stessa identica situazione — un incalzante e straziante piangere senza possibilità di consolazione al quale dover far fronte — dozzine e dozzine di volte, durante la sua infanzia e la sua prima adolescenza.

Fino agli otto, nove anni, Sam frignava in continuazione per i motivi più improbabili, e John non aveva certo il tempo — e le forze — di occuparsi anche dei suoi infiniti piagnistei. L’ingrato compito di asciugargli le lacrime e il moccio al naso era così ricaduto sul fratello maggiore, che in ogni caso non era mai stato capace di starsene a guardare, quando il più piccolo piangeva.

Dean si ritrovò suo malgrado a sorridere alla notte, al ricordo dei capelli arruffati di suo fratello che gli solleticavano il naso, e della sua maglietta puntualmente bagnata fradicia, alla fine di ognuna di quelle piccole crisi infantili.

Jack si acquietò dopo qualche minuto.

Ma Sam era Sam — diamine! — era la sua famiglia, era una delle poche cose che gli facevano credere che in quel mondo malato ci fosse ancora speranza.

«Dean, perfavore, puoi prendere tu Jack, per un attimo? Mi formicola terribilmente il braccio»

Cosa invece ci trovasse adesso, suo fratello, in quel bambino dagli occhi dorati, per lui continuava a rimanere un mistero.

Il ragazzo si mise semi-disteso e si accomodò alla bell’e meglio il mostriciattolo sopra il petto, brontolando sottovoce. Crowley non pareva affatto intenzionato a voler togliere le manette anche a lui.

«Possiamo rimanere a dormire qualche ora» concesse l’uomo, sospirando «Proseguire sarebbe soltanto controproducente. E’ talmente buio che non si riuscirebbe a vedere a un palmo dal naso»

«Dormi, Sam» ribatté prontamente Dean «Mi assicurerò io che questa serpe non faccia del male a nessuno di noi»

«Mi assicurerò io Sam! Sei davvero in una botte di ferro, Sam!» lo schernì Crowley, in una sua tragicomica imitazione.

«Oh, sta zitto!»

Il Collaborazionista fece oscillare la pistola, reggendola tra pollice e indice.

«Sono io qui quello che intima il silenzio, scoiattolino» gli rammentò schiettamente «Ma se davvero non vuoi dar retta ai miei proiettili, preoccupati almeno di non svegliare il tuo adorato cucciolo di alce»

Dean ruotò il collo in direzione di suo fratello.

Si era addormentato al primo e unico ‘Dormi, Sam’ che lui gli aveva rivolto.

Aveva abbandonato la testa contro la parete scrostata della cabina ferroviaria, leggermente piegata sulla spalla sinistra, aveva chiuso gli occhi ed era immediatamente crollato.

Il ragazzo tirò un sospiro. Dopo la notte precedente — e poi Lucifer, il montacarichi polveroso e otto ore di marcia ininterrotta — anche lui si sentiva ormai prossimo al tracollo.

Ciò che ancora lo teneva sveglio e vigile, tuttavia, era l’espressione corrucciata sul volto di Crowley.

«Perché sei fuggito dalla Corte?» non potè trattenersi dal domandargli, cercando di fare meno rumore possibile «Immagino che in qualche modo tu sia riuscito a svignartela e a seguirci senza farti notare ma… ti ho sempre creduto un Collaborazionista fedele quindi… perché?»

Crowley fece spallucce.

«Perché sono un bastardo traditore, Winchester. E ho il culo grasso. Ti basta, come motivazione?»

Dean alzò gli occhi al cielo. Quell’uomo aveva una maniera tutta sua di fargli dare di matto.

«E credi davvero che se la Resistenza ci troverà…»

Perché ormai l’aveva capito.

Castiel non li avrebbe mai abbandonati in una stazione deserta della metropolitana senza la speranza che qualcuno — qualcuno che non portasse abiti bianchi — riuscisse a recuperarli.

«…accetterà qualcuno come te nelle sue fila?»

Il Collaborazionista sbuffò.

«Io non credo un bel niente» svicolò «Mi ero semplicemente stufato di questi pantaloni azzurri e della zuppa di pollo del decimo piano»

Dean alzò un sopracciglio. Non avrebbe mai creduto a quelle parole, nemmeno se Crowley gliele avesse ripetute con la mano destra posata sopra una Bibbia.

(Vatti a fidare, poi, della Bibbia)

«E la biblioteca? Non ti interessa più quello che c’è lì dentro?»

«Cos’è, un interrogatorio questo?» gracchiò l’uomo agitando le braccia.

Il ragazzo cominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore. Si stava muovendo in un territorio a lui del tutto sconosciuto: non era abituato a discutere in toni così elastici e pacati con gente della risma di Crowley.

«Vedila come la pacifica chiacchierata che avremmo dovuto fare settimane fa»

«La biblioteca era ormai diventata inaccessibile per me» articolò mestamente quello «Ma sappi che quando ti ho detto delle torri, beh, non immaginavo affatto ciò che ne sarebbe conseguito»

«L’hai fatto apposta, non è così?»

Dean aveva aperto la questione con una domanda, ma in realtà ne era certo.

«Sono un essere umano piuttosto permaloso, scoiattolino»

Quando Crowley si era reso conto che il ragazzo non l’avrebbe mai aiutato a raggiungere i suoi scopi, aveva optato per la vendetta. Sapeva che una rivelazione del genere si sarebbe inevitabilmente tradotta in una rottura, tra lui e Castiel.

«Ma quando vi ho sentito amoreggiare davanti alla mia porta, ho capito subito cosa aveva in mente il bel tenebroso… l’ho capito prima di te, persino»

Dean ringraziò l’oscurità ovattata che li circondava e arrossì violentemente.

«A proposito…»

Il Collaborazionista strisciò sul pietrisco fino ad arrivare a qualche palmo da lui.

«Conosco abbastanza bene gli angeli da sapere che lì sotto…» insinuò «…sono più o meno uguali ad un trentenne in salute, e nemmeno particolarmente dotato»

Dean ormai era viola.

«Ne deduco quindi che il pupetto sia la graziosa prole del piccolo Samuel…» proseguì «Graziosa e urlante, se posso permettermi»

Jack sonnecchiava sulla pancia del ragazzo con la bocca semiaperta, un filo di bava colava sopra la sua camicia azzurrognola e c’era qualcosa di profondamente tenero e innocente nel modo in cui gli stringeva il lembo stropicciato della giacca.

«Il bambino non è suo» tagliò corto Dean.

Sam era stato ugualmente tenero (e ugualmente sbavante) da bambino. Sam, che era stato picchiato, torturato e abusato dal padre dello stesso mostriciattolo che ora gli dormiva spiaccicato sopra il torace.

«Hai davvero consegnato agli Arcangeli il Presidente degli Stati Uniti?» improvvisò, cercando un modo rapido per scacciare dalla mente l’immagine di suo fratello raggomitolato nell’angolo più buio di quell’appartamento infernale.

Crowley soffocò una risata lusingata.

«Buon Dio, no! Ma chi è che racconta certe cose?»

Il ragazzo fece un cenno vago, e per un po’ nessuno parlo più. Era quasi sicuro che il Collaborazionista si fosse appisolato anche lui, quando la sua voce, stranamente roca, gli fece accapponare la pelle.

«Però qualcuno ho tradito, Dean» soffiò «Questo sì, l’ho fatto»

Lui si strinse istintivamente Jack contro il petto.

«Adesso però dormi, per cortesia» gli intimò Crowley, tossicchiando.

«Se mi farai ancora una sola domanda giuro che ti farò tacere con una botta in testa»


4 maggio 2009

Quando riaprì gli occhi non era ancora l’alba. I palazzi intorno a loro erano avvolti da una bruma violetta e il cielo era grigio, lacero come se lo avessero strappato a brandelli.

Dean si sentiva distrutto.

La schiena gli doleva a causa della dormita all’addiaccio, sul terreno duro e irregolare della ferrovia, e le costole gli facevano ugualmente male per il peso dell’ormai treenne Jack, che aveva sopportato e supportato - nel senso più stretto del termine - per tutta la nottata.

Ma, nonostante tutto, avrebbe continuato volentieri a dormire.

Cascava dal sonno. Perché mai si era svegliato?

«Dean…»

Suo fratello gli stava scuotendo con forza una spalla.

«Dean…»

Jack era ben sveglio e si agitava su di lui coprendogli parzialmente la visuale.

«Scoiattolino, ci degneresti della tua presenza o sei per caso finito in coma?»

«Silenzio, tu»

La terza voce, stridula e sconosciuta, sebbene fosse l’unica a non averlo interpellato, fu quella che riuscì finalmente a scuoterlo.

Dean si mise a sedere, lasciò barcollare Jack fino alle braccia di suo fratello — durante la notte aveva imparato anche a camminare, il nanetto — e si ritrovò un fucile puntato dritto in mezzo alla fronte.

«Cosa ci fanno due vermi azzurri come voi, un ragazzo e…» il giovane adolescente che reggeva il fucile lanciò un’occhiata inquieta alle iridi dorate del nephilim «…un bambino strambo, sui binari della metropolitana?»

Crowley si schiarì la voce.

«Quello che ho provato già a dirvi, è che…»

«Kevin te lo ha già detto» dietro l’adolescente col fucile spuntò un altro uomo, più anziano, dalla pelle scura «Silenzio, tu»

Il Collaborazionista strinse la bocca.

«Molto bene» sibilò invelenito «Scoiattolino, a te le presentazioni allora»

«C-come siete arrivati fin qui?»

Il giovane col fucile non sembrava poi così minaccioso.

Dean lo studiò per qualche istante, sbattendo le palpebre per assicurarsi di non star sognando. Non poteva avere più di sedici, diciassette anni.

«Siamo fuggiti dalla Corte» decise di rispondere.

«E come, di grazia, sareste riusciti a farlo? In quattro, poi»

L’uomo dalla pelle scura, invece, era decisamente minaccioso.

«Un angelo ci ha aiutati a scappare, e sempre lui ci ha detto di seguire i binari della metropolitana finché qualcuno non ci avesse trovato»

Castiel.

Castiel.

Cosa ne stanno facendo gli Arcangeli dei tuoi occhi luminosi?

«Un angelo, Rufus»

Kevin cominciò ad agitarsi, e per poco non gli cavò un occhio con la punta del fucile.

«Oddio, non volevo» si affannò a scusarsi, mentre Rufus roteava gli occhi al cielo.

Sam rivolse al fratello uno sguardo perplesso.

«Oh, d’accordo» gracchiò infine il più anziano «Tiratevi su, tutti e quattro, e niente scherzi: a me non serve di certo un fucile per mettervi al tappeto»

Prima che Dean riuscisse a protestare — o almeno a chiedere che gli venissero tolte le manette, visto che i suoi polsi lividi non erano ancora riusciti a muovere Crowley a compassione — un buio morbido calò sopra la sua testa.




Proseguirono lungo le rotaie, incappucciati, per una buona mezz’oretta. Crowley imprecava ogni cinque minuti, con la puntualità d’un orologio. Poi Rufus e Kevin li aiutarono a risalire la banchina, e una strada d’asfalto liscio si sostituì al pietrisco sdrucciolevole della ferrovia.

A un certo punto l’aria si condensò e si appesantì, e Dean ne dedusse che dovevano essere ritornati al chiuso. Scesero lungo infinite — a lui così parve — rampe di scale, nel silenzio generale, interrotto soltanto dai borbotti indecifrabili di Crowley.

Quando Kevin gli tolse il cappuccio erano già parecchi metri sotto il livello della strada.

Appeso all’ingresso della galleria che gli si apriva davanti, scrostato e arrugginito negli angoli ma con la vernice ancora lucida al centro, il cartello autostradale recitava:

‘Benvenuti a Brooklyn’

E alla riga seguente:

‘Dove incomincia la città di New York!’

Qualcuno doveva averlo staccato dal suo originario cavalcavia e affisso lì, chissà quando.

«Attenti a dove mettete i piedi»

Rufus accese una torcia elettrica e fece loro segno di avviarsi nella galleria. Kevin, sempre col fucile puntato — nonostante ormai Dean avesse iniziato a chiedersi se l’adolescente l’avesse mai davvero usato contro qualcuno — si attardò qualche minuto per controllare che nessuno li stesse seguendo.

Il tunnel era umido, pieno di scarafaggi, e terminò davanti a una parete di roccia ricoperta di muschio.

Dean si sentì venir meno al ricordo dei due condotti dell’acquedotto, in Colorado, che gli angeli avevano beffardamente sbarrato pochi minuti prima del loro arrivo, ma Rufus lo salvò dalle reminiscenze di quella notte scrollandogli un braccio.

«Giù di sotto»

Il ragazzo abbassò lo sguardo e una voragine ancora più nera della galleria appena attraversata comparve a mezzo metro dai suoi piedi.

La gola spalancata di un tombino.

«Giù di sotto» ripetè Kevin.

Scendere con i polsi ammanettati lungo la scaletta muffosa del tombino e arrivare ‘giù di sotto’ fu un’impresa titanica. Il pavimento su cui aveva appena posato i piedi però era stranamente pulito, e Jack trillò di gioia all’apparire della prima luce, a qualche metro di distanza dalla scaletta.

Rufus li guidò ancora per qualche minuto, attraverso un paio di porte a tenuta stagna che erano state chiuse a chiave.

Poi, la terza porta si spalancò nel più grande bunker sotterraneo che Dean avesse mai immaginato.

Assomigliava a un hangar aeroportuale, di quelli che avrebbero potuto comparire un film, se ancora fossero esistiti i cinema. Il pavimento e le pareti di cemento, il soffitto illuminato a giorno da un reticolato di tubi fluorescenti.

Uomini, donne, la cui espressione distesa — per quanto concentrata o risoluta che fosse — gli risultava assolutamente nuova e invidiabile, gli sfilavano accanto impegnati in una miriade di faccende diverse. C’era chi rammendava vestiti, chi lucidava pistole, chi trasportava casse e scatoloni lamentandosi bonariamente con i compagni che ne sorreggevano il peso assieme a lui.

Dean si fermò a osservare un pugno di bambini, avrebbero potuto avere forse cinque o sei anni, che giocavano a rincorrersi, in un angolo abbastanza sgombro del bunker.

Anche lui aveva rincorso Sam, una volta, quando suo fratello aveva più o meno la stessa età di quei bambini e aveva deciso di lanciarsi nell’esplorazione solitaria del cantiere, nonostante i reiterati divieti. Per fortuna le gambe del maggiore, all’epoca, erano ancora le più lunghe.

Kevin si era messo a chiacchierare vivacemente con una ragazzetta quando Rufus lo fulminò con lo sguardo, facendogli segno di muoversi.

L’adolescente arrossì, si mise il fucile in spalla e seguì il gruppetto fino alla fine della sala principale del bunker, in una stanzetta più piccola, dove dietro una scrivania metallica ingombra di fogli, proiettili spuntati e scheletri di mitragliatrici, era seduta una giovane donna dai capelli rossi.

O arancioni. Era un colore piuttosto bizzarro.

«Sono loro?» domandò, senza neppure alzare la testa dall’ultimo ingranaggio sbeccato della calibro 22 che stava smontando.

«Crediamo di sì» Rufus spinse Crowley in avanti. Il Collaborazionista, persa la sua spavalderia, adesso aveva tutta l’aria di volersela filare da lì il prima possibile.

«I sensori sui binari segnalavano il passaggio di tre uomini presso Bay Ridge Avenue, sebbene la presenza del bambino sia passata inosservata»

Lei annuì.

«Kevin?»

«Kevin se l’è cavata quasi bene, all’inizio» mugugnò l’uomo, mentre l’adolescente chinava il capo.

«Immagino sia soltanto questione di tempo…» la donna sospirò, ma non sembrava arrabbiata «Vi ringrazio, potete andare, adesso»

«C’è un’altra cosa»

La donna sollevò lo sguardo. Aveva una cicatrice allungata sul sopracciglio sinistro e i suoi occhi verdazzurri erano taglienti come schegge di vetro.

«Hanno detto…» Rufus esitò «…che è stato un angelo a farli arrivare fino a lì»

«Un angelo?»

«Sissignore»

La donna posò la calibro 22 sulla scrivania «Fa venire qui Anna, per favore»

Rufus e Kevin si congedarono in silenzio, chiudendosi la porta della stanzetta alla spalle.

«Beh, non state lì impalati come stoccafissi, sedetevi!»

Quando tutti e quattro — Jack ben piazzato sulle ginocchia di Sam — si furono sistemati, lei incrociò le dita sotto il mento.

L’espressione singolarmente interessata, assolutamente priva di discrezione, con il quale li osservava, a Dean metteva quasi i brividi.

«Due Collaborazionisti trasandati, un umano in pessime condizioni e un bambino di tre anni» mormorò pensierosa.

«Nome, cognome e generalità per piacere» ordinò.

Crowley gracchiò le informazioni richieste senza la minima esitazione e incrociò le braccia al petto.

Poi fu la volta di Sam.

«Il mio nome è Sam Winchester» esordì «E lui è mio fratello maggiore, Dean»

Un lampo di sbigottimento trafisse le iridi della donna, per un rapidissimo istante, prima che quella sua maschera neutralmente determinata le ricoprisse di nuovo il viso.

«I due figli di John Winchester»

Non era una domanda.

«E tu come fai a…» Dean si contorse sulla sedia facendone stridere le gambe d’acciaio sul pavimento.

«Il mio nome è Charlene Bradbury, ma tutti qui mi chiamano semplicemente Charlie»

La donna si alzò, girò intorno alla scrivania, e si mise di fronte a loro a braccia conserte.

«Ho incontrato per la prima volta vostro padre molti anni fa» disse «Abbiamo lavorato a lungo insieme, in Colorado, prima che la cellula locale della Resistenza venisse distrutta. Mi parlava spesso di voi due, per questo conosco i vostri nomi»

Sospirò.

«Ma forse adesso meritereste di sapere che John era l’unico a conoscere il mio»

Dean per poco non svenne.

Era quello il nome. Il suo nome.

Il nome per difendere il quale suo padre si era tirato un colpo in testa.

L’Occulto del Colorado.

Charlie.













Ebbene, dopo soli venti capitoli, finalmente abbiamo il nome del tanto famigerato Occulto del Colorado! xD
Perdonate questo aggiornamento infinito, ma più vado avanti con questa storia e più divento prolissa ^^’
Grazie, come sempre, per le recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo. Non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate di questo (e di Charlie, e di Crowley, eccetera eccetera *.*)
Fun fact: il cartello “Welcome to Brooklyn — Where New York City begins” esiste davvero, ma data la mia incapacità di usare l’html non sono riuscita a inserire l’immagine qui e perciò rimetto la vostra curiosità al buon vecchio zio Google :D
A sabato prossimo (o più probabilmente domenica) con la ehm, pacata reazione di Dean.
Cheers ❀*

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Capitolo 21
*** Spegnere la luce ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






21. Spegnere la luce




4 maggio 2009

Jack approfittò del momento di sbigottimento generale che seguì per scivolare giù dalle ginocchia di Sam e caracollare verso le armi smontate sulla scrivania dell’Occulto, che ai suoi occhi dovevano apparire come graziose cianfrusaglie luccicanti.

Dean allungò istintivamente le braccia in avanti per afferrarlo prima che si schiantasse sul pavimento — era inciampato nei suoi stessi piedi dopo neanche tre passi — e il bambino, per non cadere, si aggrappò ai suoi polsi legati tirando involontariamente le manette verso il basso e strappandogli un sibilo di dolore.

Charlie storse la bocca «E’ stato Rufus ad ammanettarti?»

«No» lui strinse le palpebre, mentre suo fratello rimetteva diritto il mostriciattolo, staccandolo dalle sue braccia.

Mosse il capo in direzione di Crowley «E’ stato questo bastardo qui»

L’uomo alzò le spalle.

«Era una pura questione personale, signorina Charlie» si giustificò, con la massima innocenza «Lei come si comporterebbe nei confronti di qualcuno che le dà del ‘culo grasso’?»

Dean balzò in piedi «Dio, quanto sei esasperante!»

Se non avesse avuto le mani bloccate — ne era certo — in quell’istante il naso del Collaborazionista avrebbe finalmente ricevuto il meritatissimo cazzotto che era riuscito a scampare tanto a lungo.

«Uomini!»

L’Occulto piazzò davanti alla faccia di Crowley il palmo aperto «La chiave prego, signor McLeod» ordinò, prima di interpellare di nuovo Dean.

«E tu incolla immediatamente quelle chiappe alla sedia se non vuoi che ti prenda a sculacciate»

Sam soffocò nel gomito la più grassa risata ghignante della sua vita.

Quando Dean — le cui guance ormai stavano andando a fuoco — si rimise seduto, la ragazza gli tolse le manette e scrutò le ecchimosi rosse e nere che si avviluppavano intorno ai suoi polsi.

«Dopo ti farò avere qualcosa per quelli» sospirò.

Una rapida bussata di cortesia, poi la porta della stanza si aprì e Rufus comparve sulla soglia, seguito da una figura femminile.

«Grazie Rufus» gli sorrise Charlie «Jody è già partita?»

«Ha detto che preferiva rimanere un altro po’, in caso ti servisse una mano con i nuovi arrivati»

Accennò a Dean e al resto del gruppetto seduto.

«Siano benedette le sue camicie a quadri!» esclamò l’Occulto «Porta il signor McLeod di sotto, e dille chi ci pensi lei. Un solo completo azzurro in questa stanza è già molto più di quanto io possa tollerare»

Rufus annuì risoluto e uscì trascinandosi appresso Crowley, il quale, stavolta, si guardò bene dal far innervosire chicchessia.

«Charlene…» la figura femminile sulla soglia si avvicinò «Mi hai fatto chiamare?»

«Anna, amore, sì»

Anna era un’alba in giugno.

Dean non sarebbe riuscito a trovare alcun difetto nei suoi lineamenti, né sul suo corpo. I suoi enormi occhi nocciola, quasi dorati, illuminavano un volto chiaro, senza rughe né ombre, e a dire il vero tutto in lei sembrava emanare una strana, ma morbida radiosità.

Jack trillò uno strano versetto eccitato quando la vide entrare, e la donna rimase immobile a guardarlo per qualche secondo — come assorta in un pensiero malinconico — prima di raggiungere Charlie e sfiorarle teneramente la guancia con le labbra.

«Sostengono che un angelo li abbia fatti fuggire dalla Corte» spiegò lei, agitando una mano verso Dean.

Anna socchiuse leggermente gli occhi «Lo escludo» mormorò «Una mossa del genere sarebbe troppo rischiosa anche per lui, e negli ultimi mesi si è già esposto troppo»

Dean aggrottò la fronte. Non era affatto sicuro che le due donne si stessero riferendo a Castiel.

«Nessuna variazione dei piani dell’ultim’ora, quindi?»

«L’ultima volta che ha provato a cambiare i piani di sua iniziativa mi sono assicurata che non gli tornasse la voglia di rifarlo»

Charlie rise.

«Oh, è stata quella volta che gli è rimasto moscio per una settimana intera?»

No, decisamente non stavano parlando del suo angelo dallo sguardo blu.

«Castiel»

L’attenzione delle due donne venne immediatamente dirottata verso Dean.

«E’ il suo nome. Il nome dell’angelo che ci ha aiutati» precisò il ragazzo.

E’ ancora il tuo nome, Castiel?

O ti stanno strappando via anche quello, tra le urla?

Anna mise su un’espressione a metà tra l’affranto e il rassegnato, e lei e l’Occulto si scambiarono un cenno che lui non seppe decifrare.

«Castiel, eh?» Charlie sospirò «D’accordo…»

Si massaggiò le tempie con la punta delle dita.

«Vi troverò una stanza, o perlomeno un letto» stabilì infine, dopo qualche secondo di silenzio «Per voi e il piccolo…»

«C’è qualcosa che dovete sapere, a proposito del bambino» la interruppe Sam.

Dean lo fulminò con lo sguardo. Rivelare a un Occulto che quel frugoletto biondo sulle sue ginocchia era nientemeno che il figlio di un Arcangelo sarebbe stato il modo migliore per farli sgozzare seduta stante tutti e tre.

«Ci penso io Charlene» s’intromise inaspettatamente Anna «Chiederò a Missouri. Ci saranno sicuramente delle stanze ancora vuote al secondo livello»

«Vieni» si rivolse al minore «Porta il bambino con te»

Prima di seguire Anna fuori dalla stanzetta tenendo Jack per mano, Sam strinse la spalla di suo fratello in un muto ‘non preoccuparti, andrà tutto bene’ al quale Dean si aggrappò con tutte le sue forze, non avendo alcuna migliore alternativa.

Adesso erano rimasti solo lui e Charlene.

«Kevin ti troverà degli altri vestiti» dichiarò l’Occulto, girando intorno alla scrivania e rimettendosi a sedere «A meno che tu non voglia finire brutalmente malmenato anche dalle ragazzine»

Ricominciò a smontare metodicamente la calibro 22.

«Poi, quando tu e Sam vi sarete sistemati, mi spiegherai meglio cosa è successo, da quando…»

S’interruppe, e la molla argentata del percussore quasi le volò via dalle mani.

«Da quando mio padre si è ammazzato» puntualizzò Dean, sibilando.

Charlie posò la pistola e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

«Non posso negare di averlo immaginato»

«E…?»

Dean si stava sforzando di stare fermo.

L’impulso rabbioso di spazzare via con un braccio tutto quel ciarpame disordinatamente abbandonato sopra il tavolo si faceva sempre più pressante.

«E cosa, Dean?»

«E’ tutto quello che hai da dire?»

La donna si sporse in avanti, piantando i gomiti sulla scrivania.

«Vuoi davvero che ti racconti di quella notte?»

No.

No, cazzo, non voleva. Non se lo meritava, di ripescare dal fondo dei suoi ricordi altro dolore.

Qualsiasi versione degli accadimenti del 25 dicembre 2008 non avrebbe comunque avuto nessuna speranza di placarlo, e a giudicare dalla fermezza rassegnata delle sue iridi verdazzurre anche l’Occulto ne era perfettamente consapevole.

Eppure, una parte di lui — una parte che in quel momento odiava con tutto il resto di se stesso — desiderava, pretendeva quelle spiegazioni.

Charlie interpretò la sua assenza di reazione come un assenso. Probabilmente avrebbe tradotto allo stesso modo qualunque risposta diversa da un secco ‘no’.

«Quella notte vi abbiamo aspettato per ore, allo snodo prestabilito. La torre era caduta e i più spavaldi, tra noi, avevano già cominciato a festeggiare»

La sedia sopra la quale l’Occulto l’aveva tanto gentilmente costretto era già diventata incandescente.

Dean si alzò, la fissò intensamente per qualche attimo — come se potesse improvvisamente cominciare a muoversi da sola — e con un calcio la spedì dall’altra parte della stanza.

«Poi abbiamo visto le rune luccicare lungo le pareti del condotto, e gli uomini che si sono offerti volontari per andare in avanscoperta non sono più tornati»

La seconda sedia si schiantò contro la porta lasciando un piccolo bozzo nella parete, appena sotto lo stipite.

«E CREDI CHE MI BASTI?»

Le gambe della terza sedia s’incrinarono e infine si ruppero con uno schiocco sordo, sotto la terrificante sequenza di calci con la quale Dean l’aveva appena torturata.

«Che questo mi basti, a ripagarmi della sua morte?» continuò a strepitare, alla ricerca quasi disperata di qualcosa da distruggere che non fosse la donna rossa dietro la scrivania.

«Del suo sangue schizzato sui miei vestiti, del suo cadavere, del suo-»

Fu costretto a interrompersi soltanto perché, adesso, l’unica sedia rimasta integra era quella che Charlie aveva appena mandato a gambe all’aria, scattando in piedi e facendo quasi rovesciare anche la scrivania.

«Credi di essere l’unico ad aver perso qualcuno, quella notte?» lo infilzò con uno sguardo gelido, ancora più terrificante del suo timbro di pietra.

«La mia coscienza fa già attualmente i conti con molti più cadaveri di quanto immagini perciò, se pensi che addossarmi anche la morte di John ti farà stare meglio, accomodati» lo invitò «Ma sappi che non lo farà»

«Io… io non…»

Le ginocchia di Dean quasi vennero meno, ma Charlie non ammorbidì d’un muscolo la durezza di quel contatto visivo.

«Abbiamo aspettato. Abbiamo aspettato ancora per ore, in quel condotto» proseguì, implacabile «Eravamo sufficientemente protetti, dopotutto. E mentre noi aspettavamo, gli angeli hanno attaccato l’avamposto di Avondale, quello al quale avremmo dovuto condurvi, una volta incontrati. Introvabile per chiunque non sapesse dove trovarlo, sopra quella cartina»

Il ragazzo gemette. Era sicuro che prima della fine della conversazione avrebbe rimesso anche l’anima.

«Hanno distrutto i depositi di munizioni, le scorte di viveri e gli accumulatori di elettricità: al nostro ritorno abbiamo trovato soltanto fumo. E morte»

Poi, la donna si fece improvvisamente da parte lasciandogli campo libero.

I fogli, i pezzi della calibro 22 e i proiettili spuntati sulla scrivania tracciarono un perfetto arco di parabola prima di rovinare sul pavimento, sparpagliandosi in tutte le direzioni.

Charlie non sobbalzò nemmeno.

Neanche se la prevedibile esplosione di Dean fosse stata - fin da subito - lo scopo principale di quella avvilente conversazione, aspettò pazientemente che lui finisse di sfogarsi.

Che finisse di sfogare la rabbia, il dolore, persino il sollievo: tutto ciò che aveva dovuto spingere sempre più giù, sempre più dolorosamente in fondo allo stomaco negli ultimi cinque mesi, a partire da quel 25 dicembre.

Perché, dopo quella notte — dopo quella morte — c’era stata la Corte.

La cravatta azzurra che lo soffocava nel sonno, che si attorcigliava intorno al suo collo fino a spezzarglielo, il compromesso che l’aveva portato sull’orlo della pazzia — sissignore — Metatron, i suoi registri che gli facevano bruciare gli occhi — sissignore — Lucifer, la moquette nera e insanguinata dell’ottantaquattresimo piano. Kelly che sorrideva ad un bambino che non sarebbe mai stato amato da nessuno, Crowley, il suo sorriso sghembo e — sissignore — l’abominio che si sarebbe consumato all’interno delle torri, la sua stessa morte programmata, di lì a una manciata d’anni e poi di nuovo Lucifer, suo fratello che lo implorava di abbandonarlo, lì, sotto quel bacio osceno, — sissignore — che non era mai stato saggio mostrarsi insolenti, aggressivi o arrabbiati dentro quel grattacielo, davanti a un angelo, davanti a un demonio, davanti al proprio riflesso nello specchio, erano state le prime parole che Castiel gli aveva rivolto una volta entrati in ascensore ‘evita i colpi di testa’ gli aveva detto, che gliel’aveva chiesto per favore e lui gli aveva sputato addosso tutto il suo disprezzo. Castiel che se la prendeva con i suoi pantaloni stropicciati, che rischiarava il buio della sua stanza senza finestre e che si era portato via i suoi incubi risucchiandoglieli direttamente dalle labbra, Castiel che si era schierato (per lui), che aveva tradito (per lui), e che adesso Michael-

Dean si accasciò con la schiena contro la parete.

Castiel?

Charlie gli fu accanto in un battito di ciglia.

Se ti pregassi, Castiel, riusciresti a sentirmi?

Sopravvivi.

Ti prego, sopravvivi.

«E’ finita, Dean»

Il ragazzo lasciò che la sua fronte si adagiasse senza remore sulla spalla della donna.

«Non permetterò che venga fatto altro male a te o a Sam» gli assicurò Charlie, riuscendo a estorcergli il primo respiro davvero sollevato da quando il ragazzo aveva varcato la soglia, ancora in manette «Siete al sicuro, adesso»

Lui si sentì stranamente ed improvvisamente calmo.

Svuotato, sarebbe stata la parola adatta.

Charlie lo aiutò a rimettersi in piedi. Lanciò un’occhiata distratta al caos nel quale era precipitata la sua stanzetta, ma non parve badare più di tanto alle sedie sfasciate e ai documenti ridotti a brandelli.

Dean immaginò dovesse essere abituata alle escandescenze dei suoi uomini, di tanto in tanto.

Infatti, mentre la sua mano sinistra — saldamente avvolta intorno al suo gomito — scongiurava qualsiasi possibilità di un repentino crollo del ragazzo sul pavimento, la destra era già abilmente scivolata a carezzargli le scapole.

«Va un po’ meglio ora?» chiese.

Dean accettò di buon grado quel contatto — che in condizioni normali avrebbe scansato, con un moto di fastidio misto a imbarazzo — e quasi si pentì di averle distrutto quel poco di arredamento, che la Resistenza aveva certamente impiegato tempo ed energie per procurarsi.

Ma non poteva negare che quella esplosione così violenta sembrava avergli restituito una lucidità introvabile fino a qualche minuto prima: si schiarì la voce.

«Non è stato mio padre a tradirvi»

Charlie non mollò la presa sul suo gomito ma la tensione del suo braccio diminuì un poco.

«Lo so»

Il ragazzo sbatté le palpebre, interdetto.

«Ad Avondale, gli angeli erano rimasti ad aspettarci» spiegò «Quando mi hanno regalato questa…»

Tracciò lentamente, con la punta dell’indice, i contorni della cicatrice irregolare che le sfregiava il sopracciglio.

«Ho capito che non avevano idea di chi fossi realmente. Nessun angelo avrebbe mai corso il rischio di ammazzare un Occulto»

«E non vi hanno…» Dean chiamò a raccolta le ultime energie «Non vi hanno catturato?»

«Sono arrivati i rinforzi, nel frattempo. Anna, e gli altri» anche Charlie appariva stanca, ora «Qualcuno aveva lanciato una richiesta di soccorso, prima che gli angeli facessero irruzione»

L’Occulto si assicurò che il ragazzo fosse ben stabile sulle proprie gambe, prima di lasciarlo andare definitivamente.

«Posso…» lui tirò su col naso «Potrei avere un po’ d’acqua perfavore?»

Charlie sorrise.

«Certo»

Scavalcò i resti della seconda sedia, quella scaraventata contro la porta, e lo esortò a seguirla fuori dalla stanzetta.

«Anzi, io direi proprio che tutto ciò di cui tu e Sam abbiate bisogno, adesso, è di farvi una bella doccia, mettere qualcosa di caldo in pancia e dormire almeno fino a domani mattina»

Di nuovo nell’enorme spazio aperto del bunker, più d’un paio d’occhi saettarono minacciosi in direzione di Dean, e del suo spiegazzato completo azzurrino.

«E a te occorrono altri vestiti, certo» la donna gli fece l’occhiolino, scortandolo fino alla rampa di scale che dalla sala principale del bunker sembrava snodarsi all’infinito nel sottosuolo.

«Sembra immenso, all’inizio. Ma in tutto ci sono soltanto tre livelli, ed è piuttosto facile orientarsi» lo incoraggiò «Vi ambienterete in un paio di giorni, te lo assicuro»

Dean le regalò il miglior sorriso esausto che la sua spossatezza riuscì a produrre.




Sam si era già cambiato. Aveva sostituito i jeans logori e la maglia scura con un altro paio di jeans logori e un’altra maglietta, ma bastava il pensiero che quegli abiti non gli fossero stati procurati da Lucifer per farlo assomigliare a un altra persona.

Dean aveva lanciato nell’angolo più lontano della camera ogni singolo pezzo del suo vestiario azzurro, soltanto per poi ricordarsi di quella notte in cui Castiel, in un momento di distrazione, aveva iniziato a infilarsi per sbaglio la sua camicia, e per finire quindi ad appallottolare quest’ultima sotto il materasso.

«Anna che cosa sa di Jack?»

Suo fratello scrollò le spalle.

«Che è un nephilim. Che è il figlio di un Arcangelo e che forse sarebbe il caso di tenerlo nascosto al resto degli uomini, almeno finché non raggiungerà la sua forma stabile»

Jack si era appena addormentato, nel lettino dalle lenzuola verdoline ai piedi di quello, più grande, di Sam.

«Cioè quello che intendi…» Dean non credeva alle sue orecchie «Anna ha accettato la cosa senza dire niente?»

Il minore fece oscillare la testa a destra e a sinistra.

«Non ha detto granché» mormorò «Non sembrava nemmeno particolarmente stupita: era soltanto molto triste»

Il ragazzo aggrottò la fronte, incredulo, ma Sam non fu in grado di fornire altre spiegazioni a quella strana indulgenza nei confronti di Jack, così lui dovette accontentarsi del fruscio invitante che produssero le coperte del suo letto, quando ci si infilò dentro.

Aveva la pancia piena, i polsi fasciati, vestiti puliti.

In verità, era da molto tempo che non si sentiva anche lui così pulito. Ed era piuttosto sicuro che una sensazione del genere non avesse poi tanto a che fare con la doccia bollente che gli era stata concessa — si consumava fin troppa energia per riscaldare così tanta acqua — un paio d’ore prima.

Il suo cuscino aveva un buon odore. La camera che Anna era riuscita ad arrangiare per tutti e tre era davvero piccola — Dean sospettava fosse stata una specie di sgabuzzino con servizi, un tempo — e anche quella non aveva finestre ma aveva due letti quasi appiccicati l’uno all’altro, e in quello alla sua destra c’era Sam.

«Qualcuno dovrà andare a spegnere la luce» constatò il minore, girando pigramente la testa verso di lui.

A Dean venne quasi da ridere.

«Sì» ribadì «Qualcuno dovrà andare a spegnere la luce»




Avrebbe dovuto prevederlo.

Inconsciamente in verità, se lo aspettava.

Dei suoi cinque sensi infatti, soltanto quattro si erano veramente assopiti, dopo che — tra innumerevoli sbuffi e contrattazioni — Dean aveva momentaneamente abbandonato le coperte e si era alzato per abbassare il famigerato interruttore che aveva fatto precipitare la camera nel buio.

Al primo gemito era già completamente sveglio.

Al secondo, benché abilmente soffocato dal cuscino, i suoi piedi nudi si posavano sul pavimento di cemento grigio.

«Sam?»

Suo fratello non deflagrava sfasciando sedie.

Al massimo pestava i piedi, lanciava qualcosa in giro — qualcosa che non si rompesse, possibilmente — e poi andava a rintanarsi in un angolo a smaltire la bile. La prima volta che al cantiere gli angeli lo avevano punito sul serio — aveva quindici anni, ed era stata davvero una pessima giornata — Sam non aveva parlato per tre giorni. Nemmeno Dean, con le sue infinite provocazioni, era stato in grado di scucirgli un solo ‘vaffanculo’.

Alla fine, alla terza notte, quando lo aveva sentito piangere con la faccia tra le mani, aveva afferrato una delle più marcate e fondamentali differenze tra lui e l’adolescente raggomitolato sul materasso accanto.

Se Dean esplodeva — in una furia incontrollata che arrivava a rasentare il grottesco ma che aveva il grandioso vantaggio di rimetterlo, più o meno, in pace con quel mondo schifoso — Sam implodeva. E a volte il maggiore aveva l’impressione che, nel tenersi dentro tutto quel male silenzioso, suo fratello si stesse consumando come una candela.

«Sam?»

Oh, al diavolo.

Quando le sue braccia si strinsero attorno a quel corpo tremante, — così minuscolo, rannicchiato tra le lenzuola, e che invece era una buona testa più alto di lui — pensò che non avrebbe più avuto il coraggio di lasciarlo andare.

«Ehi, ehi, è tutto ok fratellino» cercò di rincuorarlo, per quanto esigue fossero le sue speranze «Nessun gallinaccio celeste sarà in grado di trovarci, qui: la rossa me l’ha assicurato»

Sam strizzò gli occhi — due schegge di luce tremolante nell’oscurità della stanza — e forse avrebbe anche potuto essere sul punto di farfugliare qualcosa, qualcosa che Dean avrebbe preso come un segnale di ritrovata serenità, al pari della terza notte di silenzio dei suoi quindici anni.

‘Quel tuo braccio sulla mia schiena mi sta torturando, lo sai vero?’ — Era stato quel che gli aveva concesso, in risposta ad un suo molto simile — ‘Se un’altra di quelle galline in giacca e cravatta ti tocca, giuro che la farò allo spiedo’ — ma era bastato.

Ingenuamente, il maggiore sperò che lo facesse.

Che Sam sfuggisse alla sua presa, reagisse alla sua preoccupazione con un orgoglioso broncio contraffatto da un mezzo sorriso, e che poi lo lasciasse comunque dormire con la spalla contro la sua, anche se aveva la schiena che gli andava a fuoco e i contorcimenti notturni di Dean non conciliavano certo il sonno.

Ma adesso Sam non si ritrovava a dover smaltire il dolore e l’umiliazione di una buona dose di frustate.

Adesso aveva il volto di un Arcangelo a bruciargli le retine, le labbra, e ogni singola cellula del suo corpo che si era rigenerata, ancora e ancora, nonostante lui non desiderasse altro che il suo cuore smettesse di battere.

Perciò, quando suo fratello urlò, Dean non ci provò nemmeno a fermarlo. Attirò la sua testa contro il proprio petto e lasciò che si sfogasse, proprio come Charlie aveva fatto con lui, nella stanzetta.

Fece appena in tempo a chiedersi cosa avrebbero pensato gli uomini nelle stanze adiacenti — e come accidenti fosse possibile che Jack non si fosse ancora svegliato, visto che quelle grida disperate lo stavano già assordando — prima che un fiume in piena travolgesse anche la sua gola e straripasse sotto le sue ciglia, nonostante l’argine ostinato delle palpebre che lui continuava a tenere serrate.

Sam continuò a urlare, per dei minuti che si dilatarono in ore nella percezione straziata di Dean.

Urlò e urlò, e alla fine furono le sue corde vocali a cedere perché, dopo che l’ultimo grido si fu stemperato in un basso crepitio, morendo definitivamente poco dopo, il corpo di suo fratello rimase ancora a lungo in tensione tra le sue braccia.

«Mi…»

Era un suono afono, quello che tentava di lasciare le labbra di Sam.

«Mi dispiace, per te e Castiel» esalò «Era… era una persona buona»

Dean tirò su col naso.

Tipico di suo fratello, preoccuparsi delle sorti di un angelo semi-sconosciuto, dopo essere appena scampato all’inferno.

«Adesso dormi, Sam»

Il maggiore allentò un po’ l’abbraccio, giusto perché aveva l’impressione che con la faccia premuta contro il suo torace Sam prima o poi avrebbe finito per soffocare.

«Ma sappi che domani sera sarai tu quello che si alzerà dal letto per andare a spegnere la luce»

Il sorriso di suo fratello — da quanto non lo vedeva sorridere così? A Corte non era mai successo, realizzò in quell’attimo — lo sentì direttamente sulla pelle, attraverso la stoffa liscia della propria maglietta blu.

Una maglietta pulita. Senza toppe, strappi o macchie.

Una banalissima maglia blu.

Non azzurra. Blu.













Buongiorno e buona domenica :)
Ecco, spero mi perdonerete il blocco di cemento, aka il pesantissimo flusso di coscienza di Dean a metà capitolo, ma dopo tutto quello che ha passato penso proprio che avesse il diritto di sfogarsi un po’, così come Sam. ^^’
Grazie per le bellissime recensioni che continuate a regalarmi *si commuove e lancia cioccolatini*, sappiate che ve ne sono sempre immensamente grata e che — come sempre — non vedo l’ora di leggere le vostre opinioni su questo capitolo.
A sabato prossimo ❀*

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Capitolo 22
*** La calma prima della tempesta ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






22. La calma prima della tempesta




12 maggio 2009

Una settimana intera trascorsa a mangiare, dormire e bighellonare pigramente all’interno del bunker — senza avere realmente nulla da fare — aveva dato i suoi frutti.

Dean poteva ormai affermare, con assoluta certezza, di non essersi mai sentito meglio in vita sua.

Fisicamente almeno, perché il ricordo di Castiel arrivava con la violenza della risacca.

Quando meno se lo aspettava, mentre le sue dita scivolavano lungo il corrimano gelato della scala metallica che collegava il secondo e il terzo livello, o mentre Jack — logorroico come solo gli undicenni di tre settimane di vita potevano essere — puntava il dito contro qualsiasi oggetto, dall’apriscatole ai calzini, chiedendo ‘Cos’è?’, il suo campo visivo si riduceva al fondo blu di due iridi lunari, e lui smetteva di respirare.

Castiel che gli chiedeva se volesse rimanere a dormire sul suo divano affacciato sopra uno stagno di ninfee. Che gli allungava la sua giacca bianca — ‘Per il momento, ma ora vado a cercarti una coperta’. ’Non serve’. ‘Certo che serve: la temperatura corporea degli umani durante la notte si abbassa’. Il suo sorriso chiaro. ‘Oh, d’accordo. Sia mai dovessi finire congelato’. Aveva sognato un oceano che non sapeva nemmeno se fosse mai esistito.

«Pianeta Terra chiama Dean Winchester»

Terra.

Il suo ancoraggio. L’autunno reale, verde e marrone, del parco pubblico di Lawrence.

«Ehi…» suo fratello richiuse il libro con estrema cautela — le pagine ingiallite crepitarono, sfregando una contro l’altra — e lo posò alla sua destra, sopra il letto «Sono qui Dean, guardami»

Il colore pacifico degli occhi di Sam.

I suoi polmoni si riempirono di nuovo d’aria.

«Sto bene» gracchiò.

Suo fratello alzò un sopracciglio, ma non infierì.

«Perché non chiedi anche tu un libro a Charlie?» propose invece «Avresti un ottimo modo per occupare il tempo, e ti aiuterebbe a svuotare un po’ la mente, leggere qualcosa» sorrise affettuosamente.

Ecco, se Dean si sentiva — tutto sommato — abbastanza bene, la serenità e la quiete che si riflettevano nello sguardo del più piccolo erano a tutt’altro livello.

Ogni volta che ci pensava, ogni volta che lo sbirciava di sottecchi mentre suo fratello si lanciava entusiasta sul pranzo, si radeva di fronte allo specchio scheggiato del bagno o sprimacciava appena il cuscino prima di adagiarci sopra la testa, lui rischiava quasi di commuoversi.

Sam era letteralmente rinato.

Trascorreva le sue giornate a leggere — aveva già divorato metà della biblioteca del bunker, Dean una mattina l’aveva addirittura sorpreso con uno spaventoso tomo rilegato in rosso che riportava la minacciosa dicitura ‘Manuale di diritto privato’ — e a tenere d’occhio Jack, per assicurarsi che non uscisse dalla loro camera. Finché non avesse smesso di crescere, aveva concordato con Anna, era meglio che non se ne andasse in giro con un’età diversa a seconda della giornata.

Dean era abbastanza sicuro — per quanto non riuscisse ancora a capirne il motivo e anzi, in certi momenti ne fosse quasi geloso — che all’insperato benessere psicologico di Sam contribuisse anche il mostriciattolo.

In realtà, il maggiore lo aveva sentito agitarsi di nuovo nel sonno, un paio di volte — una notte era stato quasi sul punto di infilarsi di nuovo nel suo letto e abbracciarlo — ma dopo qualche minuto gli incubi gli avevano già dato tregua e il respiro di suo fratello era tornato regolare.

Ragionando con un certo, seppur cauto ottimismo, probabilmente nel tempo si sarebbero diradati fino a sparire quasi del tutto, come era accaduto anche a lui qualche mese prima.

Castiel?

Te li sei tenuti tu i miei incubi?

Sono rimasti a farti compagnia durante le tue notti insonni?

«Cosa significa ‘au-to-stop-pi-sti’?»

Jack, seduto sul pavimento a gambe incrociate, intento a smontare una vecchia sveglia a molla, aveva appena sollevato la testa oltre il bordo del letto di Sam per sbirciare il titolo del libro.

«Oh, immagino che gli autostoppisti siano delle persone che fanno l’autostop»

«E che cos’è l’autostop?»

«Fare l’autostop vuol dire mettersi sulla strada, stendere il braccio…» Sam allungò la mano davanti a sé e chiuse le dita a pugno, ad eccezione del pollice «…così»

Soltanto che il suo pollice, anziché puntare verso il soffitto, era rivolto verso il pavimento.

«E poi aspettare che arrivi una macchina» spiegò «Credo. Non ne sono molto sicuro però. Non l’ho mai visto fare, l’ho solo letto in un altro libro»

Gli occhi dorati di Jack luccicavano di curiosità.

«E bisogna stare tutto il tempo col braccio alzato?» chiese.

Sam ci pensò un po’ su «Immagino di sì, altrimenti la macchina non arriverebbe» ponderò.

«Certo, come no» Dean scavalcò, sbuffando, i pezzi della sveglia a molla — della mezza dozzina di sveglie a molla — che il ragazzino aveva seminato in giro e aprì la porta della stanza.

Stanza da Jack affettuosamente ribattezzata ‘gattabuia’ appena qualche ora prima, alla fine della lettura di chissà quale romanzetto per ragazzi e dell’ennesima ramanzina di Sam sul fatto che dovesse starsene lì, buono, e che non fosse ancora arrivato il momento di uscire ed esplorare il resto del bunker.

«Io vado a farmi un giro» annunciò il maggiore, tirando uno scappellotto alla mano di suo fratello per fargli abbassare il braccio che teneva ancora teso davanti al viso e che, nella sua mente ingenua, avrebbe dovuto fungere da magico richiamo per autovetture.

«Poi, al mio ritorno, mi toccherà spiegare a entrambi come funzionano le autostrade e le automobili»

Sam gli lanciò uno sguardo che voleva passare per offeso e si rituffò nel suo libro.

Mentre usciva, Dean sentì la vocina acuta dell’undicenne che domandava ancora: «Sam, che cosa significa ‘galattica’?»




Il terzo livello del bunker, quello più elevato, dove si trovava la sala principale attraverso la quale dove Rufus e Kevin li avevano scortati al loro arrivo, era tutto un fermento di adulti e bambini.

Persino durante la notte — quando l’intensità della luce dei tubi fluorescenti attaccati al soffitto diminuiva leggermente — c’era sempre qualcuno di guardia ad aggirarsi tra i container metallici, i mucchi di abiti da rammendare e gli scatoloni in attesa di essere sistemati. E chi non riusciva a dormire, in quello stanzone dal pavimento grigio trovava sempre qualcosa da fare.

«Dean!»

Sulla soglia della stanzetta che il ragazzo aveva messo a soqquadro appena una settimana prima, Charlie lo salutò allegramente e gli fece segno di avvicinarsi.

Oltre ad Anna, all’interno, una ragazzina e una donna — forse una zia o comunque una parente di qualche tipo, a giudicare dal taglio e dal colore dei loro occhi e dalla linea altera della mandibola — parlottavano tra loro con aria concitata.

S’interruppero non appena lui entrò.

«Il figlio maggiore di John Winchester» fu Anna ad occuparsi delle presentazioni «Dean, loro sono Patience e Missouri»

«Era Missouri a mandare avanti la baracca qui a New York» precisò Charlie, prima di lanciarsi alla ricerca di qualcosa di non ben precisato in mezzo al caos di fogli, libri e armi smontate che a quanto pare era un’imprescindibile caratteristica della sua scrivania.

«Almeno, prima che io ritornassi a seminare scompiglio e… ecco qua!» esclamò trionfante, sventolando in aria un paio di pagine fitte di numeri e sigle.

«L’elenco aggiornato» porse i documenti alla ragazzina più piccola, che quasi glieli strappò dalle mani «Scusami Patience, lo sai che non sono tagliata per la contabilità» provò poi a giustificarsi, con una timida alzata di spalle.

Dean aggrottò la fronte, sorpreso dall’improvvisa insicurezza dell’Occulto di fronte a quella ragazzetta dagli occhi scuri.

«Patience è mia nipote» Missouri, la donna più anziana, gli sorrise amabilmente «E sarà lei a prendere il mio posto quando…»

Patience la fulminò con un’occhiataccia.

«Beh, quando sarà il momento» intervenne Anna, posando una mano sulla spalla della ragazzina «Anche se, della terza generazione di Occulti, speriamo davvero che non ci sia bisogno»

Dean sobbalzò.

Anche Missouri era un Occulto, quindi.

«Ah, peccato che Jody se ne sia già andata, ti sarebbe sicuramente piaciuta» mormorò distrattamente Charlie, tentando di mettere in ordine il resto delle scartoffie sul tavolo «Ma ad est le cose si stanno complicando troppo in fretta, a quanto pare la torre in Oregon sarà finita prima di giugno»

E così anche Jody, ne dedusse lui.

Il ragazzo sbatté la palpebre, incerto «Ma siete…» c’era qualcosa — nella stanza e tra le parole di quelle donne — di talmente evidente e inaspettato che ci mise qualche secondo a capirlo «Siete tutte…»

«Femmine?»

Patience aveva una voce stranamente bassa, ma limpida come uno specchio d’acqua.

Dean annuì, ancora troppo stupito per riuscire a rispondere a parole.

«Hanno tutti la stessa reazione, eh?» ridacchiò Charlie «Beh, sappi che all’inizio si è trattato praticamente di un caso…» mormorò pensierosa «Gli unici sensitivi ad aver previsto la venuta degli angeli erano stati quelli del gentil sesso. Certo, con un anticipo pressoché sufficiente appena a tirar fuori un paio di vecchi tomi sull’enochiano dalla libreria» constatò tristemente.

Missouri sospirò.

«Ma in ogni caso… Durante la notte di sangue quel paio di libri riuscì a salvare molte più vite di quanto avessimo potuto sperare»

Dean continuava a tenere gli occhi sgranati.

«Cosa c’è, Winchester, non sei ancora convinto?» una scintilla maliziosa scoppiettò allegra, dietro le iridi verdazzurre di Charlie.

«Avanti allora» propose, invitandolo ad uscire dalla stanzetta «Fammi vedere tu cosa sai fare. O hai paura di prenderle da una ragazza?»

«Io cos… Che

Patience e Missouri si scambiarono un’occhiata divertita.

«Oh, sono solo curiosa» ripeté Charlie, solo fintamente noncurante «Non dirmi che non lo sei anche tu…»

Lui la seguì all’esterno, più per educazione che per la reale intenzione di battersi con lei. Non si era mai confrontato con una ragazza in quei termini e poi — poteva anche conoscere l’enochiano, maneggiare una pistola e andarsene in giro tenendo su quell’aria da dura — ma Charlie non gli arrivava nemmeno al mento ed era così magrolina che…

Qualcuno ridacchiò.

Dopodiché, lui si ritrovò a fissare il reticolato fosforescente sul soffitto prima ancora di realizzare che ad averlo investito e sbatacchiato sul pavimento era stata invece proprio Charlie, e non un treno merci in canotta nera e jeans.

«Va bene, facciamo che ti ho preso un po’ troppo alla sprovvista»

La ragazza gli tese la mano sorridendo e lo aiutò a rimettersi in piedi.

«Seconda possibilità» dichiarò, schioccando la lingua contro il palato.

A onor del vero, come gli avrebbe raccontato Kevin più tardi, Dean era stato in grado di schivare ben due affondi dell’Occulto, non aveva evitato il terzo — quello che l’aveva quasi rimandato di nuovo a gambe all’aria — soltanto per un pelo, ed era persino riuscito a colpire di striscio — ma quello se lo ricordava bene anche lui — la spalla esile della ragazza.

Certo, a onor del vero, Charlie l’aveva anche rispedito col sedere per terra cinque minuti dopo averlo aiutato a rialzarsi. E stavolta gli aveva dato tutto il tempo per alzare la guardia, rallentare il ritmo del respiro e studiare per qualche istante le sue movenze flessuose da gatta, prima di lanciarsi di nuovo all’attacco.

«E’ quello nuovo eh, Charlie?» esclamò una voce maschile poco distante, cui fecero coro un paio d’altri commenti sornioni e uno scroscio di risatine infantili in lontananza «Devi proprio volergli un gran bene, con me non hai avuto tutto questo riguardo!»

«Tu eri decisamente andato a cercartela Ash!» ribatté lei allargando le braccia e le labbra in un risolino gongolante «Mi avevi appena dato della ‘deboluccia’!»

La voce maschile si dissolse in una risata lontana.

«Lezione numero uno per i nuovi arrivati» Anna gli offrì una mano che lui rifiutò con un cenno imbarazzato, puntellandosi sui gomiti «Non stuzzicare l’orgoglio di Charlie in merito a ciò che una donna può o non può fare»

«Beh, complimenti allora» Dean si spazzolò via la polvere dai pantaloni «Per esserti trovata la ragazza più modesta di tutto il bunker»

«Oh…» Anna sorrise «In fondo non è così orgogliosa come vorrebbe far credere» gli confidò, lanciando alla compagna uno sguardo carico di tenerezza. E di un sentimento molto meno casto, ma a quel punto qualcosa dentro il petto del ragazzo ricominciò a far male e lui preferì guardare da un’altra parte.

«Se può consolarti, tuo padre è riuscito a mettermi al tappeto una volta sola»

Charlie aveva salutato Patience e Missouri ed era tornata a rivolgersi a Dean. C’era ancora luce, dietro le sue pupille, ma non era fierezza o compiacimento quello: assomigliava di più ad una sorta di tremolante nostalgia.

«Anche se lui aveva a disposizione solo la mano sinistra quindi… dovrai impegnarti un bel po’ temo»

Dean aggrottò la fronte.

«Vorrei potervi concedere qualche altra settimana di riposo» proseguì l’Occulto, mestamente «Ma non abbiamo molto tempo a disposizione, purtroppo, perciò è ora che tu e Sam iniziate a darvi da fare»

«Cosa vuoi che facciamo?»

«Che impariate a difendervi come si deve, per cominciare» la cicatrice irregolare sul suo sopracciglio sinistro — che le regalava, di solito, una perenne espressione di ironico scetticismo — ora rendeva lo sguardo di Charlie cupo e duro, come una maschera di pietra.

«Sarà l’Empire State Building la prossima torre che crollerà. E quando succederà, una calibro 22 e sei pallottole anti-angelo non basteranno a fronteggiare ciò che pioverà dal cielo»

Il ragazzo impallidì.

Charlie si avvicinò e gli strinse, piano, un braccio «La guerra è ormai prossima, Dean» mormorò, e i suoi lineamenti si ammorbidirono appena «Tu e Sam fareste meglio ad approfittare di questo momento di calma, prima che la vera tempesta arrivi»




Dean rimase per un po’ a osservarle, lei e Anna, mentre si allontanavano verso le scale che portavano al secondo livello del bunker. Camminavano abbastanza vicine da toccarsi le mani quasi a ogni passo e, se Anna era un’alba in giugno, Charlie era un tramonto.

Tanto una era pallida, gentile ed eterea, tanto l’altra bruciava di vita.

La chioma rossa di Charlie le ricadeva sulle spalle come una cascata di fuoco e dondolava e fremeva al mimino movimento del suo collo, esattamente al pari di una fiamma viva. La sua compagna, invece, sembrava galleggiare senza peso a una spanna dal pavimento; la sua andatura fluida, la sua compostezza elegante, la facevano assomigliare a una regina delle fiabe.

Le vide sfiorarsi le labbra di sfuggita prima che l’Occulto fosse costretto a correre via, richiamato a gran voce da chissà quali problemi al piano di sotto.

Dean pensò che — tra la sua camera senza finestre al settantaduesimo piano dell’Empire State Building e quel bunker sotterraneo — cominciava a mancargli sul serio la luce naturale del sole.

Poi pensò che quella non era l’unica cosa che gli mancava.


16 maggio 2009

Fu una sensazione stranissima, all’inizio.

E fu quasi buffo rendersi conto di come — dopo vent’anni a spaccarsi la schiena nella cava e quasi a morire di fame e di freddo — il suo corpo avesse deciso di cedere proprio quando avrebbe dovuto, invece, sentirsi più in forze.

Dean aveva sperimentato diversi tipi di dolore, ma quel martellare costante e ovattato sulle sue tempie non sapeva di preciso come classificarlo. Il torpore diffuso, però, lo rimandava indietro nel tempo, al tocco di dita ruvide sulla sua fronte sudata, al peso caldo delle coperte in più che John gli rimboccava fin sotto il mento.

Inverno.

Pioggia battente che allargava pozzanghere ovunque nella baracca, Sam che non arrivava nemmeno all’altezza del tavolo e che si affannava a svuotare i secchi di zinco che lo sgocciolare impietoso dell’acqua attraverso il soffitto faceva traboccare a velocità insostenibili per un bambino così piccolo.

La sua ultima febbre.

Poteva avere dieci, undici anni.

«Piano…»

Charlie non c’era andata giù nemmeno tanto pesante quella mattina.

Si era accorta che qualcosa non andava quando lui — anziché rialzarsi subito e cercare di capire quale errore avesse commesso da farlo finire di nuovo per terra — era rimasto per un minuto intero sul pavimento, perché le sue gambe sembravano improvvisamente incapaci di reggere il suo peso.

«Ce la faccio»

Dean per poco non si rovesciò addosso il contenuto bollente della ciotola che si ostinava a volere reggere da solo, nonostante i suoi muscoli parevano essersi tramutati in gelatina.

«Sì, sicuro»

Sam lo aiutò a finire di bere il brodo insipido che Anna si era premurata di fargli arrivare direttamente in camera e — solo dopo che lui si fu risistemato per bene sotto le lenzuola — tornò ad occupare il proprio letto, buttando fuori un sospiro preoccupato.

«Ma guarirà, vero Sam?»

Lo sguardo dorato del mostriciattolo era rimasto ad altalenare ansiosamente tra lui e suo fratello per tutto il tempo che Dean aveva impiegato a finire il brodo.

«Ma certo, Jack» Sam gli rivolse un’occhiata incoraggiante «Non preoccuparti, un po’ di riposo e vedrai che tra qualche giorno Dean starà di nuovo bene»

Jack azzardò un sorriso timoroso, mosse qualche passo esitante in direzione del letto del maggiore — i cui occhi già semichiusi non riuscirono a fulminarlo abbastanza in fretta — e gli rincalzò le coperte sotto il materasso con aria tremendamente compita.

Ora che il nephilim aveva l’aspetto di un quindicenne e il lettino per bambini era stato sostituito da un’ingombrante branda che era andata ad occupare il poco spazio ancora disponibile — quello sgabuzzino riadattato che avevano per stanza stava diventando decisamente troppo piccolo.

Dean sentì Jack balbettare qualcosa, suo fratello sbuffare una leggera risata, ma in quel momento non aveva davvero le forze per replicare a tono.

Chiuse gli occhi, sprofondò con la testa nel cuscino, e sognò Castiel.













Buon pomeriggio :)
Spero di non avervi annoiato troppo con questo capitolo, ma era davvero arrivato il momento di concedere un attimo di pace e tranquillità ai Winchester ^^
*Dean: ma se io sto bruciando di febbre!*
*Sam: Fratello non lamentiamoci troppo, che poi magari l’autrice cambia idea e finiamo dritti dritti di nuovo a Corte ç_ç *
*Castiel: A questo proposito, se posso intrometter-*
Ehm, stavo dicendo. Pace e tranquillità. Per ora.
Vi ringrazio di cuore per le splendide recensioni che state lasciando a questa storia, so di avervelo già detto ma siete davvero, davvero delle lettrici meravigliose. (Se poi volesse palesarsi anche qualche lettore, sappia che è sempre il benvenuto :D )
Un grande abbraccio, e a sabato prossimo ❀*

P.S. Chi indovina quale libro sta leggendo Sam all’inizio del capitolo? ;)

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Capitolo 23
*** Parte della famiglia ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






23. Parte della famiglia




18 maggio 2009

La febbre salì.

Dean fluttuò per un giorno intero in un perenne stato di dormiveglia e anche quando la sua temperatura corporea si abbassò trascorse le dodici successive a dormire.

Nei brevi momenti di lucidità che quella stanchezza smisurata gli concedeva, sagome sfocate si alternavano nella stanza, frammenti di dialoghi lontani riuscivano appena a raggiungerlo.

Suo fratello, la presenza costante di Jack, l’allegro chiacchiericcio di Charlie, Anna. Ripensandoci, quest’ultima era comparsa al suo capezzale fin troppo spesso.

«Ora che non hai più febbre, secondo Charlie dovresti rimetterti in un paio di giorni»

Dean annuì con molto meno ottimismo rispetto a quanto ne trapelasse dalle parole di Sam. Il riuscire a mettersi seduto sul letto senza aiuto era già stata una fatica immensa, il pensiero che di lì a due giorni sarebbe stato di nuovo in piedi sulle proprie gambe gli pareva davvero un’ingenua assurdità.

Ma, almeno, il tamburo che chissà chi aveva ficcato dentro la sua testa — e che per due giorni l’aveva assordato dall’interno — era finalmente svanito. La calma silenziosa della stanza era piacevole da ascoltare.

Troppo silenziosa.

«Dov’è Jack?»

Sam si mordicchiò l’interno della guancia.

«Con Kevin» disse soltanto «A rimettere a posto dei libri»

Dean alzò un sopracciglio.

«In giro per il bunker?»

«In giro per il bunker» Sam si sedette di fronte a lui, all’estremità opposta del letto «Sono tre giorni che non cresce più» lo informò «Anna crede che abbia raggiunto la sua forma stabile»

«E oltre ad aver ‘raggiunto la sua forma stabile’» principiò Dean, fosco «Cos’altro ha dedotto Anna, mentre io me ne stavo qui a dormire?»

Suo fratello finse di non accorgersi dell’ostilità piccata che lui non aveva nemmeno finto di nascondere, porgendogli quella domanda, e scrollò le spalle.

«A quanto pare Jack sa padroneggiare l’enochiano molto meglio di chiunque altro, qui dentro» si limitò a rispondergli «Ma niente lampi dagli occhi, teletrasporto o…»

«…tendenze assassine»

«Dean!»

«Cosa c’è?» si schermì lui, irrigidendosi «Vogliamo davvero continuare a fingere che non sia vero, Sam? Che lui non sia il figlio di Lucifer?»

Si pentì immediatamente delle proprie parole.

«Scusami Sam, io…»

La testa ricominciò a rimbombargli nell’esatto momento in cui suo fratello si rattrappì sopra le coperte con l’espressione di un animale braccato, e la certezza di esserne stato lui la causa cominciò a perforargli le pareti dello stomaco.

«Non volevo, mi dispiace, sono solo…» il suo misero tentativo di scuse andò a infrangersi contro il bordo del lenzuolo stretto nel pugno tremante di Sam, le cui nocche sbiancate tolsero a Dean il resto delle già poche forze che ancora gli consentivano di rimanere seduto.

«Forse avrò bisogno di un po’ più d’un paio di giorni» rantolò, abbandonandosi di nuovo tra i cuscini.

«Non fa niente»

Sam si rialzò con un movimento che voleva spacciarsi per fluido, ma che comunque non riuscì a dissimulare il tremore nervoso delle sue ginocchia.

«Ma ora meglio che vada a controllare cosa combina» abbozzò «Tu cerca di riposare ancora un po’, va bene?»

La gola di Dean si era ormai seccata tanto da non riuscire a produrre il minimo suono, ma a quel punto il ragazzo non avrebbe saputo dire se per un effetto postumo della febbre, o se si trattasse piuttosto dell’ultimo — ritardatario — tentativo del proprio cervello di metterlo finalmente a tacere. In ogni caso, il mugolio roco che abbandonò le sue labbra fu abbastanza patetico da convincerlo a chiudere definitivamente la bocca, per quel giorno.

«Davvero, Dean. Non fa nulla»

La voce di Sam almeno era limpida, sebbene il suo sguardo fosse ancora leggermente fuori fuoco.

«Pensa solo a riprenderti, adesso»

Aveva la mano sulla maniglia della porta e già un piede fuori dalla stanza quando Dean lo vide esitare, scuotere appena la testa come a voler diradare una nebbia invisibile addensatasi tra i due stipiti, e poi tirare un debole sospiro.

«E comunque» mormorò, un istante prima di richiudersi silenziosamente l’anta alle spalle «Non è solo figlio suo»


30 maggio 2009

Aveva incrociato Patience già due volte quella mattina, stranamente sola. Sembrava molto più piccola, e quasi spaurita, senza la rassicurante presenza della nonna al suo fianco.

Dean vagava alla ricerca di Charlie da una buona mezz’ora ormai, e non l’aveva ancora trovata.

Non era nella sua stanzetta — immersa fino ai gomiti nel disordine dilagante della sua scrivania — nessuno l’aveva vista, Anna pareva essersi volatilizzata insieme a lei e — cosa più irritante di tutto — Dean aveva la sensazione di essere l’unico a preoccuparsene.

Due Occulti sparivano nel nulla senza il minimo preavviso e la vita del bunker continuava placidamente a scorrere come se alla primavera fosse semplicemente seguita l’estate, e tante grazie.

«Andiamo…» Sam, poco dietro di lui, sbuffò rumorosamente «Ammetti di essere così nervoso soltanto perché ieri Charlie ti ha fatto a fettine e tu oggi volevi la rivincita» lo punzecchiò.

Dopo aver vagabondato per un po’ senza risultati, il maggiore aveva deciso di rendere suo fratello partecipe della propria agitazione. Peccato che Sam non fosse stato particolarmente disposto ad assecondarlo, tanto più che Jack stava iniziando a insegnargli a leggere l’enochiano, perciò lui aveva sicuramente di meglio da fare che trascinarsi al seguito di quell’apprensione puerile.

«Si, beh, forse» mugugnò Dean, indovinando il ghigno canzonatorio del minore senza nemmeno voltarsi «Ma avrebbe potuto avvertirmi almeno e… ehi, Rufus! Rufus!»

Dean allungò il passo — finse di non sentire l’imprecazione che Sam non si preoccupò nemmeno di soffocare — e raggiunse il fascio nodoso di muscoli che li aveva scortati nel bunker al loro arrivo, e che ora li squadrava a braccia conserte, con aria indispettita.

«Hai visto Charlie?» gli domandò, senza troppi giri di parole «O Anna, o Missouri, è tutta la mattina che le cerco ma…»

«Sono occupate al momento»

Dean si chiese se la faccia di Rufus fosse mai stata capace di assumere un’espressione diversa dal quel burbero cipiglio perennemente indignato.

«Occupate?»

«Occupate» l’uomo socchiuse gli occhi «In affari che non ti riguardano»

«Ah, faccende da donna quindi?»

L’occhiataccia che lo incenerì fu molto più esplicativa di qualsiasi risposta, e Sam per poco non gli tirò un calcio negli stinchi.

«Muovi quel culo Winchester, e seguimi» brontolò Rufus «Visto che a quanto pare non riesci a startene con le mani in mano per più di due minuti, ti troverò io qualcosa da fare»

Sam si dileguò prima ancora che l’uomo potesse posare lo sguardo su di lui, e Dean avrebbe giurato di aver quasi visto un sorrisetto divertito farsi largo tra le rughe profonde di quel viso tanto segnato, mentre il minore si allontanava a gran velocità.

Seguì Rufus fino ai margini del bunker, dove era stato attrezzato un rudimentale poligono di tiro, ben recintato, e sorvegliato giorno e notte in modo da evitare incidenti.

«Non ci sono molte fabbriche di armi ancora in funzione»

L’uomo gli indicò una mezza dozzina di casse di legno — piene fino all’orlo di qualcosa che Dean non avrebbe saputo classificare se non come ‘vecchia ferraglia’ — e da uno di quei mucchi di metallo estrasse i tre pezzi graffiati di un fucile a canne mozze, posandoli poi con cautela su un vecchio tavolo di plastica lì accanto.

«Non ce n’è nemmeno una, per l’esattezza» specificò, con un grugnito contrariato «Quindi dobbiamo accontentarci di quello che recuperiamo in giro»

Dean gli lanciò uno sguardo confuso.

«Ispezionare, pulire, oliare e verificare che i meccanismi interni funzionino ancora» ordinò Rufus, per nulla impressionato dalla linea minacciosa in cui le sopracciglia del ragazzo si erano appena curvate «Mi è stato detto che con le armi te la cavi bene perciò… Buon divertimento!» concluse, regalandogli un’incoraggiante pacca sulla spalla.

«Ti farò un fischio, semmai Charlie dovesse ricomparire» aggiunse infine, poco prima di andarsene, e mentre Rufus spariva attraverso il perpetuo via-vai del terzo livello del bunker — con un decisamente atipico sorrisino furbetto stampato in faccia — Dean dovette davvero riconoscerlo.

Stavolta se l’era proprio andata a cercare.




Sam lo raggiunse qualche ora dopo, quando lui era quasi alla fine della prima cassa, ma la sua pazienza si era esaurita già da un pezzo.

«Ma tu guarda chi si rivede…» lo accolse sibilando «Il traditore della patria»

Suo fratello oppose al suo sarcasmo un sorriso a trentadue denti al quale Dean non sarebbe stato in grado di resistere nemmeno se Sam gli avesse appena infilato un coltello nella schiena.

«Dai, ti aiuto» si offrì il minore, prendendo posto di fronte a lui «Ho incontrato Rufus, ha detto che puoi piantarla quando vuoi con il restauro bellico, ma che sarebbe fantastico se finissimo almeno una cassa»

«Grazie per la gentile concessione…» mugugnò lui, tornando a concentrarsi sugli ingranaggi scheggiati tra i quali cercava di raccapezzarsi ormai da ore.

«E ho anche visto Charlie» gli confidò «Si scusa per non averti avvisato e per averti fatto saltare l’allenamento stamattina, ma lei, Anna e Missouri avevano un incontro con qualcuno di parecchio importante, o almeno così mi è parso di capire»

Dean aggrottò la fronte «Ovvero chi?»

«Questo non me l’ha detto»

Sam si strinse nelle spalle e svuotò il resto della cassa sul tavolo.

«Sam, Dean!» Jack attraversò saltellando il poligono di tiro — completamente vuoto in quel momento, per fortuna — con l’aria estatica di chi ha appena avuto un’apparizione.

«Ehi, Jack, dov’eri finito?» lo salutò allegramente Sam «Pensavo che Ash ti avesse rapito»

«Oh, io… Ash mi aveva chiesto di aiutarlo a rifare i sigilli anti-angelo del primo livello, sì» rispose lui, esibendosi in un sorriso euforico che Dean non avrebbe potuto definire in altro modo se non ebete.

«Ma mentre ero lì ho incontrato questa ragazza, Kaia» proseguì infatti il nephilim, sbattendo le palpebre. I suoi occhioni dorati scintillavano come non mai «E cavoli, è davvero fantastica!» trillò «E’ un’orfana anche lei, da quando era piccolissima, è nata in Oregon e ha girato tutta l’America prima di finire qui e…»

«Tutto questo è meraviglioso, Jack» lo interruppe Dean con un cenno brusco «Ma adesso potresti anche piantarla e darci una mano, che ne dici?»

Il nephilim tacque immediatamente.

«Scusa, Dean» pigolò.

«Andiamo, Dean non intendeva…» tentò di ammortizzare Sam, ma Jack aveva già messo su un’aria afflitta, mentre suo fratello era tornato a concentrarsi sul carrello arrugginito di una 9 millimetri che doveva aver visto tempi migliori.

«Senti» propose quindi «Perché non vai a vedere se Kevin ha bisogno di aiuto, invece?»

Al sentir nominare colui che doveva essere diventato uno dei suoi migliori amici, Jack parve ringalluzzirsi un poco, annuì deciso e si allontanò in fretta, ma Sam non potè non accorgersi dell’ultimo sguardo amareggiato che il ragazzino aveva lanciato in direzione di Dean, beatamente immerso nella contemplazione della pistola che stava tirando a lucido, con lo zelo sereno di chi non ha nulla di cui pentirsi.

«Perché lo tratti così?»

Dean alzò gli occhi, e Sam quasi non credette alla scintilla di sincera confusione che vi trovò dentro.

«Jack» precisò «Lui ti adora e tu lo tratti come… come se fosse un cane randagio»

«Tu in compenso continui a fargli da balia come se avesse ancora tre anni» osservò il maggiore «O due settimane, o quel che è» si corresse, stizzito «Ormai è grande, sbaglio? E’ stabile. Direi che può cavarsela anche da solo»

«Dean… Jack fa parte della famiglia ormai»

«Io sono la tua famiglia, Sam!»

La coppietta di ragazzini che in quel momento si preparava a entrare nel poligono di tiro per l’allenamento quotidiano si girò a guardarlo, ma Dean non ci badò.

«Papà lo era, e Bobby, e Martha, e Garth! Non lui!» esclamò «Non il figlio di uno di quei… mostri»

«Non mi pare di aver fatto tutte queste storie, quando ti sei presentato alla mia porta insieme a uno di loro»

Era un colpo basso.

Suo fratello lo sapeva, Dean glielo leggeva chiaramente in faccia e probabilmente fu quello il motivo per cui non riuscì più a replicare.

Il capannello di persone che si stava già formando intorno a loro si disperse in fretta.

«Rooney era… credo che fosse convinto di aiutarmi, a modo suo»

Lui non capì a chi si stesse riferendo Sam finché non si accorse del tremolio lucido delle sue pupille.

«Lucifer si stanca presto dei suoi giocattoli. Quando sono arrivato io c’era un tale Rooney ad occupare la sua stanza: poi c’è stato Vince, poi Nick, e infine lei»

Nonostante suo fratello fosse ormai lontano dall’orrore di quell’appartamento, lui non era così fiducioso da credere che sarebbe stato capace di dimenticare tanto facilmente quanto gli aveva raccontato quella sera d’aprile, in cui si era ingenuamente presentato alla sua porta, al fianco di Castiel.

«Credo che avesse assistito alla morte del mio predecessore, e aveva capito che presto o tardi sarebbe toccato anche a lui, e a me, e non vedeva l’ora che succedesse. Ma io ero appena arrivato ed ero soltanto…» Sam inspirò ed espirò, e il suo sguardo si fissò in un punto lontano, oltre il mucchio di armi sopra il tavolo, oltre il rudimentale poligono di tiro recintato all’angolo estremo del bunker, i sigilli anti-angelo appena riverniciati sulle pareti di cemento armato.

«…spaventato» riassunse in un soffio. Inspirò di nuovo e poi si schiarì la voce «E il suo modo di consolarmi era dirmi che… beh, sarei morto di lì a qualche mese»

La pistola lucida che il maggiore stava esaminando — prima che il nome ‘Rooney’ la trasformasse in un pezzo di metallo privo di qualunque importanza — ricadde sul tavolo con un sibilo sferragliante; il palmo di Dean scivolò lungo la superficie irregolare della plastica graffiata fino a posarsi con dolcezza sul polso di suo fratello.

«Non devi farlo per forza»

Era un accordo tacito, stipulato dopo un incubo particolarmente violento che aveva fatto scoppiare Jack in lacrime e spinto lui a porre qualche domanda infelice di troppo, alle quali Sam aveva fornito un’accozzaglia di risposte vaghe, la maggior parte delle quali esauritesi in un imbarazzante balbettare.

Il risultato di quella curiosità inopportuna — per quanto animata dalle migliori intenzioni — si era tradotto in un angosciante intensificarsi delle orride allucinazioni notturne di suo fratello, e alla fine Dean aveva preso la drastica decisione di non riaprire più nessuna discussione in merito a quanto accaduto, nei quattro anni precedenti, tra le pareti dorate dell’ottantaquattresimo piano.

Di non farlo di propria iniziativa, almeno.

«Lo so» sospirò Sam, riportando su di lui la convergenza del proprio sguardo «Ma credo sia importante che tu lo sappia»

Dean storse leggermente la bocca, ma si limitò a far oscillare la testa in un rassegnato cenno d’assenso.

Non spostò comunque la mano dal polso di Sam.

«Dopo Rooney» proseguì quindi il minore «E’ stato il turno di Vince. Ma Vince era troppo arrendevole per i suoi gusti, e lui ha iniziato ad annoiarsi dopo nemmeno un mese»

Dean si domandò se l’evitare di pronunciare il nome dell’Arcangelo fosse un modo come un altro per fissare un argine al dilagare dei ricordi, o se invece Sam avesse realmente paura che Lucifer potesse davvero materializzarsi lì, teletrasportarsi all’interno del bunker e trascinarlo di nuovo a Corte, al semplice scandire il suo appellativo durante una conversazione.

«Mese che Vince ha trascorso completamente chiuso nella sua stanza, non ha mai voluto parlarmi o accettare il mio aiuto, né tantomeno… aiutare me, quando se ne è presentata l’occasione»

Sam s’interruppe di nuovo, e stavolta Dean non potè trattenersi dal chiudere le dita intorno al suo polso e accarezzargli istintivamente l’avambraccio con la punta dell’indice.

«Finché una mattina non ho trovato la porta della sua stanza spalancata, ma Vince non c’era già più» riprese, dopo qualche secondo, ma la sua voce continuava ad affievolirsi a ogni parola.

«E poi la settimana successiva è arrivato Nick»

Forse non avrebbe dovuto nemmeno permettere a suo fratello di riavviare una discussione del genere.

Era ancora troppo presto, non erano trascorse che una manciata di settimane dal giorno in cui aveva dovuto spogliarlo a forbiciate e sfilare fuori dal suo corpo una quantità raccapricciante di schegge di vetro.

«Va tutto bene, Dean»

Sam intercettò la sua preoccupazione ancora prima che lui riuscisse a manifestarla.

«Avrei dovuto parlartene giorni fa. Lo so che quando guardi Jack vedi… lui. Lo vedo anch’io» riconobbe, a volume appena udibile «Ma è proprio per questo che vorrei che tu capissi…» deglutì «Che tu capissi che è anche grazie a suo figlio se io sono ancora vivo»

Dean non rispose.

E cosa avrebbe potuto rispondergli?

Suo fratello aveva tentato di ammazzarsi e lui aveva assorbito e nascosto quell’informazione tanto in profondità dentro di sé che non era affatto sicuro sarebbe mai riuscito a riportarla alla luce senza impazzire.

«Dicevo… Nick» ricominciò Sam, sottraendosi alle dita del maggiore che ancora gli carezzavano il polso e intrecciando le mani sopra il tavolo.

«Nick era semplicemente un sadico» i suoi occhi — dagli occhi di Dean — caddero a fissarsi sui suoi pollici «E un Collaborazionista»

Un familiare nodo azzurro cominciò a serrarsi intorno alla gola di Dean.

«Ora sai perché non ho mai smesso di avere paura per te, in quell’appartamento» ammise Sam, piatto «Per lui gli umani sono sempre stati tutti uguali, e non avrebbe contato molto il fatto che tu stessi dalla sua stessa stessa parte. Anche solo teoricamente, certo» ci tenne a puntualizzare, e di questo il ragazzo non potè essergliene più grato.

Anche se non sarebbe mai più riuscito a indossare una cravatta — di qualsivoglia colore — in vita sua.

«Ad ogni modo» proseguì il più piccolo «Nick lo divertiva. Quasi più di me, oserei dire. Lo divertiva scoprire fin dove un uomo potesse spingersi, nei confronti di un altro essere umano»

Il maggiore schiuse le labbra, ma non reagì.

Non sapeva cosa sarebbe potuto accadere, se si fosse soffermato sulle implicazioni contenute in una simile confessione un istante in più.

Sapeva soltanto che lo avrebbe ucciso.

Avrebbe incatenato Lucifer al soffitto e l’avrebbe costretto a guardare mentre lo apriva in due fino a fargli gocciolare le viscere sul pavimento.

«Ho resistito per due mesi, ma erano ormai tre anni che ero lì e semplicemente…»

A quel punto, se Sam non si fosse sforzato a rialzare la testa, e a riallacciare quello straziante — eppure indispensabile — contatto visivo, avrebbero entrambi ceduto.

«…una mattina Nick mi ha trovato riverso nel mio stesso sangue»

Dean avrebbe fatto a pezzi il tavolo di plastica e ogni altro oggetto alla sua portata — gettando alle ortiche ore e ore di lavoro — Sam si sarebbe raggomitolato su se stesso, in un silenzio subdolamente confortevole, e la notte seguente le sue urla avrebbero fatto svegliare di nuovo metà del bunker.

«Non ho ricordi chiari, di quel giorno»

Il maggiore inghiottì bile, e un blocco di marmo, mentre Sam riprendeva lentamente a parlare.

«Nick è corso fuori — a cercare aiuto o forse soltanto per avvisare che non c’entrava niente, che non era colpa sua se io avevo deciso di morire dissanguato sulla moquette — e nel momento in cui ha oltrepassato la porta i sigilli sulle sue costole devono essersi attivati, perché lui è arrivato una manciata di minuti dopo»

Dean rabbrividì.

«Non so cosa Nick gli abbia detto, o abbia fatto, ma lui l’ha mandato a schiantarsi contro la parete, e da lì Nick non si è mai più rialzato» fece schioccare la lingua contro il palato «Non che mi sia mai dispiaciuto, comunque. Ma nei giorni successivi ho imparato che non era solo la mia vita a essere diventata di sua proprietà: una volta entrato in quell’appartamento, anche la mia morte aveva smesso di appartenermi»

Sam teneva ancora le dita intrecciate davanti a sé, aveva piantato le unghie della mano destra nel dorso di quella sinistra, e adesso piccole mezzelune rosse spiccavano sulla sua pelle chiara.

«E poi… poi arrivò Kelly, no?»

Quando finalmente Sam smise di tormentarsi le mani e annuì, Dean era abbastanza sicuro di avere appena battuto ogni suo precedente record di apnea.

«Non saprei dirti in che condizioni fossi, quando conobbi Kelly» mormorò il più piccolo «Semplicemente me ne stavo lì, ad aspettare che lui arrivasse, che facesse quello che voleva e che se ne andasse, e ogni volta speravo che quella fosse la volta buona che decidesse di farla finita. Non avevo nemmeno più il coraggio di riprovarci, ad ammazzarmi»

Eppure, nonostante la brutalità di quel ricordo, le sue pupille avevano appena smesso di tremare.

«Kelly era gentile» continuò «Mi raccontava di lei, della sua famiglia: aveva una sorella più piccola, sai?» gli confidò «Avresti dovuto sentire come ne parlava…»

Dean sorrise: era abbastanza sicuro di essere perfettamente in grado di immaginarselo.

«Avrei voluto conoscerla» disse «Sì, insomma, conoscerla prima di…»

«Vedi, la cosa buffa è che io non ho mai smesso di desiderare la morte, anche dopo il suo arrivo»

Sam aveva cominciato a mordicchiarsi nervosamente le labbra.

«Kelly era… buona» ripetè «Dormiva sul pavimento accanto a me, quando sapeva che avrebbe fatto solo più male se avesse provato a spostarmi. Ma paradossalmente, se avessi provato di nuovo a tagliarmi le vene ero sicuro che lei non sarebbe corsa a chiamare aiuto e anzi, credo che fosse rimasta lucida soltanto un giorno in più, il primo che avesse rimesso piede in quell’appartamento si sarebbe ritrovato con due cadaveri per le mani»

La tiepida cappa di sollievo che il nome di Kelly aveva fatto scendere su di loro venne sgarbatamente spazzata via.

Dean si congelò di nuovo sulla sedia.

Ma per quanto assurdo fosse, per la prima volta da quando si era addentrato in quel macabro racconto, Sam invece sembrava non vedesse l’ora di proseguire.

«Stava già male, quando scoprimmo che era incinta» spiegò, con una strana nota di tenerezza ad ammorbidirgli la voce «Trascorse un giorno intero a vomitare e a piangere, e a farfugliare frasi prive di senso, e fu solo a quel punto mi resi conto che non avrei mai potuto abbandonarla. Che non avrei mai potuto togliermi la vita e lasciarla sola, né lei, né…»

«Jack!»

Troppo distante per decifrare gli estremi della loro conversazione, abbastanza vicino da intuire di aver appena interrotto qualcosa di importante, il nephilim era appena ricomparso dall’altra parte del poligono di tiro e li stava fissando con l’aria imbarazzata di chi avrebbe preferito piuttosto sprofondare.

«Mi dispiace, io…» tentò di scusarsi, accostandosi goffamente al tavolo di plastica «Kevin è occupato con Rufus e avevo pensato di tornare ad aiutarvi ma non… Se vi do fastidio posso andarmene in camera e…»

E Dean lo vide di nuovo.

Dietro l’afflizione dorata delle sue iridi luccicanti, il ghigno ferale che si era aperto la strada attraverso la folla di umani — senza nemmeno sfiorarla — ammassata sotto la torre, finché Lucifer non si era fermato — le mani sui fianchi, la testa leggermente inclinata da un lato — davanti al viso attonito di suo fratello.

Però, poi vide anche qualcos’altro.

Il bambolotto biondo che dormiva — e sbavava — sulla sua camicia azzurra. Le fossette che gli bucavano ancora le guance quando rideva, quando una mattina era stato svegliato da rumori inusitati e aveva trovato il nephilim e Sam impegnati in una battaglia di solletico e cuscini che lo aveva portato a pizzicarsi insistentemente il braccio per assicurarsi di non stare ancora sognando.

Il cadavere esangue di suo fratello che si sarebbe ritrovato a piangere fino alla fine dei suoi giorni, se non fosse stato per Kelly.

Se non fosse stato per Jack.

«Ci sono abbastanza sedie per tutti, mi pare» il maggiore si spostò per fargli posto tra lui e Sam, e il sorriso che si allargò sulla faccia del nephilim non era il sogghigno sprezzante di un Arcangelo.

E forse, prima o poi, Dean avrebbe imparato gestire la rabbia, e il dolore, senza comportarsi da perfetto idiota.

«Sai come funziona una pistola, Jack?» gli domandò Sam, mentre una curva molto simile si allungava anche sulle sue labbra.

«Oh, abbiamo tutto il tempo per quello!» lo interruppe suo fratello, sventolando una mano verso di lui.

«Piuttosto, Jack, parlaci un po’ di questa Kaia…»













Buongiorno, e buona domenica!
Sono in ritardo, lo so. La stesura e la revisione di questo capitolo sono state decisamente complicate ^^’’ quindi sappiate che aspetterò con grande ansia la vostra opinione in merito a questa parentesi tutta incentrata su Sam, Dean e Jack ^^
Nel frattempo, vi ringrazio per tutto l’affetto con il quale continuate a seguire e commentare questa storia, vi mando un grande abbraccio e ci rivediamo — puntuali, promesso — sabato prossimo.
Cheers ❀*

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Capitolo 24
*** Tradimento ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






24. Tradimento




6 giugno 2009

Sotto certi punti di vista, lo sgabuzzino con servizi che lui, Sam e Jack si erano ritrovati costretti a condividere non era poi tanto male.

«Tutto questo è assolutamente ridicolo!»

Dean lanciò un’occhiata esasperata a suo fratello — piantato a braccia conserte tra i due stipiti della porta — ottenendo in risposta soltanto un sospiro, e un’alzata di spalle fin troppo accomodante, considerata la quantità di tempo, energie e preghiere inefficaci che entrambi avevano già sprecato per quella che al cantiere, in Colorado, non avrebbero nemmeno qualificato come ‘ferita’.

Il maggiore chiuse gli occhi per qualche istante, massaggiandosi le tempie con i polpastrelli.

Se non altro — nel suo tentativo di sottrarsi a quella che altro non era che un po’ d’acqua e sale, per la miseria! — il nephilim era andato a incastrarsi tra la parete e il letto di Sam, tagliandosi da solo ogni via di fuga che non prevedesse il gettarsi sul materasso e rotolarci sopra fino a cascare dall’altra parte, e Dean era abbastanza sicuro che il bruciore delle sue ginocchia insanguinate sarebbe bastato a farlo desistere da ulteriori manovre evasive.

Senza contare che la loro stanza era talmente piccola che non avrebbe potuto scappare chissà dove. Non con un abbondante metro e novanta di Sam Winchester che piantonava l’uscita.

«Jack, ti stai comportando come un bambino!»

«Ma brucia!»

Fu un’affermazione mossa con una schiettezza tanto stupita che Dean avrebbe quasi sorriso, se non fosse che era circa mezz’ora che cercava di metterlo seduto per pulirgli il piastriccio di sangue, sudore e polvere che gli si stava seccando all’altezza delle rotule.

Quella mattina Charlie era di nuovo sparita — naturalmente insieme ad Anna e Missouri — ma almeno stavolta si era degnata di avvertirlo. Ash aveva promesso di insegnare a Sam il funzionamento dei walkie-talkie a lunga distanza, così Dean si era offerto — in nome della recente accoglienza del nuovo, strambo membro, all’interno della famiglia — di occuparsi dell’allenamento di Jack per quella mezza giornata.

Ciò su cui non aveva riflettuto, però, era che il nephilim — a differenza di tutti gli altri umani che lui si fosse mai ritrovato ad affrontare, ed esattamente come il suo amico Kevin — possedeva la stessa attitudine al combattimento di un coniglietto pasquale.

Abituato ai modi più pazienti e premurosi del minore dei Winchester, Jack aveva rimediato un paio di lividi già allo sferrare dei primi colpi e, malgrado tutti gli accorgimenti di Dean, era finito a grattugiarsi le ginocchia sul cemento nudo e ruvido del bunker nemmeno dieci minuti dopo.

«Jack, per favore»

Se in quel momento qualcuno gli avesse fatto notare che il ragazzino tremante appiccicato alla parete era il figlio di un Arcangelo, Dean gli avrebbe certamente riso in faccia.

«Ti prenderai un’infezione coi fiocchi se non mi lasci pulire quel disastro, e a quel punto sarà ancora peggio»

Che poi, in virtù delle sue origini celestiali, Jack non avrebbe dovuto essere capace di curarsi da solo? O il sangue umano che scorreva nelle sue vene gliene precludeva la capacità?

«Magari potremmo chiedere a Rufus se in infermeria hanno qualcosa che non bruci così tanto…» propose Sam, in uno slancio di pietà, sebbene non apparisse così chiaro se nei confronti di suo fratello o del nephilim.

Ad ogni modo, Dean lo fissò come se gli fosse appena spuntata una seconda testa. Pelata, per giunta.

«Ma tu da che parte stai?» esclamò strabuzzando gli occhi «Lo sai che medicinali e affini già scarseggiano, Charlie ci metterebbe a rammendare calzini fino alla fine dell’estate se scoprisse che abbiamo anche solo pensato a una soluzione del genere per due graffi»

«Era solo un’idea…» si schermì il minore, sospirando «Se tu ne hai di migliori…»

Una camicia di forza, per Dio.

Una camicia di forza sarebbe stata indubbiamente un’ottima soluzione.

Peccato soltanto che Sam non avrebbe mai condiviso una trovata del genere — considerata la plateale e snervante indulgenza che accordava al piccoletto — perciò Dean si concesse ancora un ultimo tentativo da persona civile.

«Andiamo Jack, è questione di cinque minuti. Adesso siediti e piantala con questi capricci»

«No!»

La mano che planò senza la minima grazia ad afferrargli una spalla e a strattonarlo sul letto lo colse talmente alla sprovvista che il nephilim fu appena in grado di esalare un discreto ‘ehi’.

Poi, il panno imbevuto che gli venne piazzato con rapidità implacabile sul ginocchio sinistro gli mozzò il respiro e Dean, accovacciato di fronte a lui e non particolarmente incline alla tenerezza — non dopo aver trascorso la mezz’ora precedente a implorare e rincorrere quell’irragionevole figlio di un Arcangelo e la sua ridicola soglia del dolore — cominciò a ripulirgli scrupolosamente le ferite incrostate, masticando borbottii indecifrabili.

Quando rialzò lo sguardo gli occhioni di Jack si erano già riempiti di lacrime.

«Sai…»

Tutta la sua irritazione sprofondò dentro quei due laghetti d’oro tremolante e svanì.

«Quando ero piccolo, forse per il mio terzo compleanno ma non ne sono così sicuro, papà arrivò a casa con una bicicletta nuova di zecca»

Posò gentilmente la mano libera sulla sua coscia contratta.

«Una bicicletta?»

Forse fu per la dolcezza di quel ricordo, o perché il luccichio traballante all’orlo delle ciglia di Jack pareva essersi già affievolito.

Dean sorrise.

«La bicicletta è un mezzo di trasporto, un po’ come l’automobile, però ha soltanto due ruote e non ha un motore» gli spiegò, mentre goccioline d’acqua rosa gli scorrevano lungo il polso «Serve solo un po’ di tempo per riuscire a guidarla e a mantenere l’equilibrio senza cadere»

Sam si staccò dalla porta e andò a sedersi sull’altro letto, alle spalle del nephilim, la cui attenzione era stata ormai definitivamente calamitata da quello strano trabiccolo che erano capaci di portare persino i bambini di tre anni.

«Io non ho mai imparato ad andarci come si deve, in realtà» gli confidò Dean «Non ne ho avuto il tempo» ammise tristemente «In compenso però sono caduto e mi sono fatto male un sacco di volte, tentando di fare pratica. E quando papà cercava di disinfettarmi le sbucciature facevo un mucchio di capricci, doveva inseguirmi per tutta la casa!»

Jack rise, e la linea delle sue spalle si abbassò; i muscoli delle sue gambe si rilassarono e Dean ne approfittò per passare a dedicarsi al suo malridotto ginocchio destro.

«Dopo un po’, tra pianti e strilli, non mi rimaneva più nemmeno la forza di protestare e lui riusciva ad acciuffarmi» proseguì «Dopodiché mi faceva una ramanzina di un quarto d’ora e mi spediva sul divano a riprendere fiato e a riflettere sulla stupidità dei miei atteggiamenti. Ma ogni volta — per quanto l’avessi fatto impazzire — faceva sempre finta di non guardare quando la mamma si sedeva accanto a me con la scatola dei biscotti»

Aveva quasi finito: erano graffi talmente superficiali che non sarebbe valsa neanche la pena fasciarli.

«E lei com’era?»

Immerso fino al collo nelle reminiscenze deliziosamente crudeli dello zucchero caramellato e del burro fuso, Dean rimase per un attimo interdetto.

«Mia madre?»

Jack annuì.

«Oh, io…» ci pensò su per qualche istante «Non saprei dirtelo con esattezza. Aveva i capelli biondi, lunghissimi, e papà mi ha sempre raccontato di lei come di una donna gentile e molto bella ma io… io non ricordo nient’altro che il suo maglioncino giallo e la sensazione che non mi sarebbe successo mai nulla di male finché lei rimaneva nella mia stessa stanza e… ecco qua!» esclamò d’un tratto, sviando la conversazione con bizzarra esultanza.

«E’ stato così drammatico come temevi?» domandò, rimettendosi in piedi e asciugandosi le mani sui pantaloni «Questione di cinque minuti, che ti avevo detto?»

Jack abbassò lo sguardo.

«E adesso…» mormorò contrito «Adesso toccherà anche a me una ramanzina di un quarto d’ora?»

«Oh, senza dubbio te la meriteresti» intervenne Sam, strappando al fratello un confuso ‘oh’ di sorpresa «Ma direi che per stavolta va bene anche così»

I lineamenti del nephilim si distesero in un’espressione riconoscente, e Dean si ritrovò a chiedersi se lui ricordasse qualcosa, delle sue primissime settimane di vita.

La moquette nera dell’appartamento di Lucifer, Ellen, Joe, l’oscurità polverosa del montacarichi, che aveva restituito Sam alla vita, la marcia estenuante lungo i binari della metropolitana.

Se almeno Jack, nella sua memoria, fosse riuscito a trattenere l’odore di sua madre o se invece rammentasse soltanto quello acre del sangue, così come lui conservava solo quello del fumo, e della plastica che bruciava.




A New York il freddo di quell’ultimo giorno d’aprile graffiava come in gennaio. Castiel era un corpo caldo, contro il suo.

Dean si era rigirato sulla schiena che aveva ancora il respiro corto.

Non ricordava le sue ultime parole ma ricordava — qualche minuto dopo — di aver piegato la testa sul petto dell’angelo e di aver chiuso gli occhi, avvolto dall’oscurità azzurrina che seguiva la mezzanotte.

«E’ appena l’alba»

A incunearsi sotto le sue palpebre adesso erano riflessi più chiari, arancioni, ma Castiel era ancora un corpo caldo contro il suo.

«Puoi dormire un altro po’, se vuoi»

Dean mugolò qualcosa che assomigliava a un ‘ho dormito anche troppo’ e l’angelo rise, e se lo tirò più vicino.

La prima luce del giorno arrotondava tutti gli angoli della stanza.

«Castiel…»

Castiel era nudo sotto di lui. Il mucchietto bianco e azzurro dei loro vestiti continuava a impolverarsi sotto la scrivania.

«Castiel, saranno almeno le sei del mattino»

«Le sei e quattro minuti»

L’angelo lo guardava e non capiva.

«Mi sono addormentato addosso a te e tu per tutta la notte non ti sei mai mosso?»

«Non volevo svegliarti»

Dai fianchi di Castiel, le dita di Dean scivolarono più giù.

«Però adesso sono sveglio»

Sopra la linea ruvida dell’orizzonte si intravedevano gli ultimi scampoli di una luna di madreperla.

Lo stridio sconfortante del percussore contro la capsula d’innesco della — stando a quanto riportato sul calcio graffiato dell’arma — Smith&Wesson 686 lo riscosse di colpo dalle sue elucubrazioni.

«Tu sei bella che andata dolcezza…»

Dean lanciò la rivoltella arrugginita nel bidoncino scrostato alla sua sinistra.

«Cos’è, ora ti sei messo a parlare con le pistole?»

La fluorescenza intermittente dei tubi al neon illuminò i lineamenti scavati di suo fratello — i capelli arruffati di chi è rimasto troppo a lungo a girarsi e rigirarsi sul cuscino — appena accomodatosi di fronte a lui dall’altra parte del tavolo.

«Ehi…»

Immerso nei propri pensieri, Dean non lo aveva neanche sentito arrivare.

«Devi avermi sentito uscire, scusami, non volevo svegliarti»

Suo fratello scosse la testa «Ero già sveglio»

«Un altro incubo?»

«No, niente incubi per stanotte» Sam stirò le labbra e cominciò a tamburellare distrattamente con le dita sul bordo della sedia «Non riuscivo a prendere sonno e basta»

«Siamo in due allora» si azzardò a confessargli il maggiore «Finiamo la seconda cassa? Qualcun altro deve esserci dedicatosi oltre a me ultimamente, perché restano solo un paio di fucili e questa vecchia doppietta qui»

Sebbene non l’avrebbe mai e poi mai ammesso davanti a Rufus, Dean aveva scoperto che dedicarsi alla pulizia e alla riparazione delle armi lo rilassava.

Era un compito ripetitivo, puramente manuale e assolutamente noioso, eppure era l’unico modo che sembrasse funzionare nell’impedire all’ultimo sorriso di Castiel di farlo impazzire: gli sgombrava la mente da qualsiasi altro pensiero che non fossero scricchiolanti contingenze meccaniche.

«Sai, pensavo…» Sam declinò la sua proposta con un cenno del capo e poggiò gli avambracci sul tavolo «Mi sarebbe piaciuto avere ricordi della mamma. Ricordi davvero miei» precisò.

«Io l’ho sempre…» s’inumidì le labbra «… vista, solo attraverso i racconti nostalgici di papà, ma per quel che so lei potrebbe anche essere stata completamente diversa da come l’ho sempre immaginata»

Dean rimase a passarsi la doppietta da una mano all’altra per qualche secondo, prima di replicare.

«Vedi, Sam» disse «I ricordi sono una bella fregatura, se non impari a lasciarli andare in fretta»

Specialmente i ricordi buoni, quei gran bastardi.

Sempre lì a soffiarti all’orecchio e a rammentarti quanto rapidamente ogni felicità della tua vita sia marcita senza che tu abbia potuto far nulla per evitarlo.

Per un po’, suo fratello se ne stette zitto. Finì di ticchettare con le unghie sulla plastica e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

«Credi che lo rivedremo mai?»

A New York il freddo di quell’ultimo giorno d’aprile graffiava come in gennaio, e Castiel era un corpo caldo, contro il suo.

Le canne lisce della doppietta erano ben tenute, impolverate ma prive di incrostazioni interne.

Se avesse saputo che quella sarebbe stata anche l’ultima notte avrebbe implorato Castiel di tenerlo sveglio. Di non lasciare che si addormentasse tra le sue braccia.

Sam inspirò rumorosamente dal naso «Non gli ho mai nemmeno detto grazie»

Sapessi ciò che avrei voluto dirgli io, Sam.

E invece l’ho lasciato andare.

Dean smise di fingere che quella conversazione non stesse avendo luogo, abbandonò l’arma smontata sul tavolo e intrecciò le dita davanti a sé.

«A me basterebbe sapere che sia ancora vivo» sussurrò «Che sia vivo e che stia bene, e che Michael non gli abbia già cavato gli occhi dalle orbite»

I tubi al neon improvvisamente persero potenza e il bunker precipitò nel buio.

«Che succede?» il maggiore scattò in piedi, urtando il bidoncino scrostato e facendo tintinnare pericolosamente il mucchio di rottami inutilizzabili al suo interno.

I luccicanti segnali d’emergenza attaccati alle pareti — d’un fosforescente rosso acceso — sfavillavano con un’urgenza che metteva i brividi.

«Ma che invidiabile balzo da centometrista!»

Dean si voltò strizzando gli occhi, ma in quell’oscurità così densa riuscì appena a distinguere una sagoma che si avvicinava molleggiando.

«Non c’è niente di cui preoccuparsi, sono soltanto i gruppi elettrogeni che perdono colpi» continuò la voce, e infatti un istante dopo i cilindri fluorescenti ripresero vita, ronzando e sbuffando, e illuminando un profilo a loro ben noto.

«Salve, ragazzi»

Crowley aveva — prevedibilmente — smesso gli abiti dei Collaborazionisti, e ora indossava un’anonima giacca nera e pantaloni e camicia sdrucita altrettanto scuri.

Assomigliava a un grosso pipistrello.

«Non ditemi che vi siete già dimenticati del vostro vecchio amico Crowley?»

Sam alzò un sopracciglio «Beh… amico mi sembra una parola grossa…»

«Una parola molto grossa»

Dean socchiuse le palpebre «Pensavo che questo posto avesse delle celle molto più affidabili» commentò, sprezzante «Anche se ad essere sincero, non vedendoti in giro speravo davvero che Rufus ti avesse tirato un colpo in testa»

«Oh, a quanto pare alla Resistenza risulto più utile da vivo che da morto» gongolò maliziosamente l’uomo — per nulla turbato dal veleno il ragazzo gli aveva appena sputato addosso — prima di rivolgere la sua attenzione alla doppietta smontata lì accanto.

«Vi trastullate con la vecchia ferraglia?» chiese «Un hobby come un altro in fondo, anche se io ho sempre preferito le cartine geografiche, le mappe dei pirati e le cacce al tesoro» buttò lì con noncuranza.

Dean non seppe rispondergli, stranito com’era rimasto da quell’improvvisa confidenza nonché dall’idea che un soggetto della risma di Crowley potesse dedicarsi a passatempi tanto innocenti.

«Sentite, ragazzi» ne approfittò perciò lui «So che abbiamo iniziato con il piede sbagliato, noi tre…»

Il maggiore sbuffò.

«…ma ormai siamo dalla stessa parte della barricata, quindi…» deglutì «Che ne dite di mettere da parte i vecchi rancori e di ricominciare da capo?»

l silenzio notturno in cui era immerso il bunker parve condensarsi in una lastra di vetro sopra le loro teste, mentre Crowley sfilava la mano destra dalla tasca dei pantaloni e la allungava verso Dean.

Sam lanciò a suo fratello un’occhiata incoraggiante.

D’altronde lui non aveva poi tutti questi motivi per avercela con quel Collaborazionista.

Inoltre, quando gli erano stati rivelati i veri piani degli angeli, lui e Dean erano sani, salvi e sazi a duecento metri nel sottosuolo, e Jack si era appena addormentato nel suo lettino senza nemmeno un capriccio. Dopo quattro anni confinato all’ottantaquattresimo piano dell’Empire State Building, il suo stupore atterrito non era durato più di cinque minuti.

Il maggiore si avvicinò a Crowley di mezzo passo, ma — per il momento — soltanto per essere sicuro che la sua domanda venisse ben compresa.

«Stai facendo il triplo gioco, Crowley?» sibilò «Cos’è, un altro dei tuoi giochetti questo?»

«Potrei aver mantenuto un certo… riserbo su un alcune faccende Dean…» rispose lui, adombrandosi ma continuando lo stesso a tendergli la mano «Ma non sono stato certo io ad averti mentito»

Dean sentì la propria mascella scricchiolare.

No, certo che non era stato lui.

«Se mi farai la cortesia di spiegarmi cosa caspita cercavi nella biblioteca di…» il ragazzo sfiatò qualcosa a metà tra un’imprecazione e una resa «Sì, insomma, in quel posto orrendo» borbottò, avanzando di un ultimo mezzo passo.

Crowley impallidì, e il braccio teso davanti al suo torace oscillò su e giù.

Nel breve silenzio che seguì, Dean si era già quasi pentito del colpo di spugna che stava ormai per gettare sui loro infelici trascorsi quando l’espressione dell’uomo lo stupì.

«Hai la mia parola» promise Crowley, con uno scintillio terribilmente serio dentro le sue iridi di giaietto «Da qui in poi nessun segreto, scoiattolino. E nessun rancore, mi auguro»

«Ciò non significa che non ti terrò comunque d’occhio…» brontolò il ragazzo, decidendosi finalmente a stringere la mano che gli veniva offerta.

«Non sei il primo che me lo dice, qui dentro!» ridacchiò l’altro, visibilmente sollevato, facendo l’occhiolino a Sam «Quel brutto muso nero non ha fatto altro che spintonarmi per tutto il tempo quando…»

Le luci del bunker si spensero di nuovo, fischiando.

«Strano, però…» commentò Crowley, osservando il soffitto, mentre i tubi al neon riprendevano faticosamente a funzionare.

«Non mi era mai capitato di assistere a due perdite di potenza così ravvicinate…»

«CHARLIE!»

Il grido disperato di Patience stracciò la quiete del terzo livello, facendoli trasalire.

«CHARLIE!»

Seguito a ruota da Sam e da Crowley, Dean si precipitò in direzione delle urla, verso la stanzetta disordinata dell’Occulto intorno alla quale si era già creato un gruppetto di nottambuli come loro.

Convinto che richiami così angosciati non potessero avere a che fare con nient’altro che le condizioni di salute della ragazza, nello scorgere la sua chioma rossa — piuttosto spettinata, ma intatta e incolume come il resto di lei — comparire sull’uscio, Dean sobbalzò di nuovo.

«Patience, tesoro, calmati…»

Charlie non sembrava nemmeno assonnata.

Il languore che stagnava dietro le sue pupille Dean riuscì a identificarlo solo quando Anna — scarmigliata almeno quanto l’Occulto — sbucò alle sue spalle sistemandosi i bottoni della camicetta, ma non ebbe il tempo di invidiarlo.

Patience tremava da capo a piedi e a nulla valevano i tentativi delle due donne di tranquillizzarla.

«Ero di turno… in superficie… abbiamo aspettato il rapporto di Ellen tutta la sera ma poi…» farfugliò «Poi ci ha contattati Do-donatello…»

«Quel misantropo!» Charlie strabuzzò gli occhi «Ma se di solito dobbiamo pregare, per riuscire metterci in comunicazione con lui!»

«Non è con Donatello che ho parlato!» la ragazzina eruppe in un pianto convulso «E-erano Ellen e… e Joe, s-sono… sono scappate» attraverso i singhiozzi, le sue parole risultavano appena comprensibili «S-sono scappate e si… si sono rifugiate da lui»

Dean si voltò verso suo fratello, ma la confusione sgomenta che gli trovò riflessa in volto non fece altro che accelerare il ritmo del suo battito cardiaco.

«Patience ho bisogno di sapere cosa è successo»

Anna le aveva posato le mani sulle spalle e si era piegata sulle ginocchia, in modo da tenere il viso della ragazzina esattamente davanti al suo, ma — sebbene lui e Sam riuscissero a stento a vederlo — lo sguardo che le stava rivolgendo non avrebbe potuto essere meno consolante, o tenero di così, perché Patience smise immediatamente di piangere e si irrigidì come se qualcuno le avesse appena gettato addosso una secchiata d’acqua gelida.

Anna mantenne quell’implacabile contatto visivo tanto a lungo che Charlie era ormai sul punto d’intervenire, quando la più piccola trovò finalmente il coraggio di schiudere le labbra e confessare, con un filo di voce: «Lo hanno scoperto, Anna…»

Per un fugace — e altrettanto doloroso — momento, Dean credette che la ragazzina stesse riferendosi a Castiel; bastarono le due successive manciate di parole a riportarlo con i piedi per terra.

«Probabilmente gli Arcangeli sospettavano già qualcosa perché Ellen ha detto che Raphael lo ha seguito, oggi, quando è venuto qui…» Patience deglutì «E poi… poi l’ha affrontato, e… e a quanto pare devono aver combattuto perché nello scontro Raphael è rimasto ucciso!»

Anna perse l’equilibrio.

Si accartocciò su se stessa, barcollando all’indietro, e Charlie riuscì ad afferrarle un braccio e a tirarla contro di sé appena un attimo prima che sbattesse con la schiena contro il muro.

«Cosa ti ha detto di Gabriel?» domandò l’Occulto «Che ne è stato di lui?»

Fu soltanto allora che Dean capì.

O meglio, di tutta quella faccenda rimanevano comunque molti di più gli aspetti oscuri che quelli certi, ma l’evidenza era ormai sotto i suoi occhi così come sotto quelli di Sam, le cui ginocchia avevano già cominciato a tremare.

Gabriel aveva tradito.

Aveva tradito i suoi fratelli ben prima di Castiel, ed era lui la causa delle misteriose e periodiche sparizioni di Charlie, Anna e Missouri.

«Non lo sapeva…» sussurrò Patience, tirando su col naso «L’ultima volta che lei e Joe l’hanno visto era vivo» aggiunse «Ferito, ma vivo, ma non sapevano… non sapevano…»

«Maledizione!»

Charlie colpì la parete con il palmo della mano, facendo sussultare per la seconda — o terza volta, almeno — tutti i presenti.

«Fa suonare la sirena Charlene» la voce di Anna era ancora malferma «Dobbiamo far evacuare questo posto, e in fretta»

L’Occulto sbatté le palpebre.

«Ci sono centinaia di persone qui dentro, come pensi di…» osservò, prima che l’intento irremovibile nello sguardo della compagna — intento che stavolta Dean non riuscì a indovinare — la facesse impallidire.

«No, Anna, non posso permettertelo» Charlie le afferrò il polso «Potrebbe anche ucciderti»

Lei non si divincolò.

«Se Raphael ha davvero seguito Gabriel fin qui, stamattina, significa che gli angeli conoscono le coordinate di questo posto» si limitò a mormorare, compassata.

«Spezzeranno i sigilli ed entreranno nel bunker, non siamo abbastanza preparati e ci sono almeno trenta bambini che sanno a malapena tenere in mano una pistola» le fece inoltre notare «Tralasciando i vecchi, i malati, e Ada che dovrebbe partorire tra meno di tre settimane»

Uno dei cilindri fluorescenti si staccò dal soffitto e crollò sul cemento, in una pioggia di frammenti scoppiettanti.

«Trova Missouri e fa suonare la sirena, Charlene»

I riflessi arancioni, negli occhi di Anna, erano braci accese.

«Arrivano»













Al fotofinish, ma ci sono! ^^
Probabilmente ve ne sarete accorti, ma tra lavoro/università/varie ed eventuali, questo è un periodo per me po’ frenetico. Mi tocca purtroppo dirvi, quindi, che il prossimo aggiornamento arriverà tra due settimane :(
Nel frattempo però, vi ringrazio di cuore per le recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo, e un secondo, enorme grazie a chiunque stia ancora seguendo questa storia. A presto ❀*

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Capitolo 25
*** Nero ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






25. Nero




6 giugno 2009

Nel minuto successivo, ci fu solo la sirena.

Dean si avvinghiò al corrimano metallico dell’ultima rampa di scale un attimo prima che un gruppetto di uomini armati lo travolgesse, facendolo incespicare sui gradini.

Le luci biancastre dei tubi al neon sfarfallavano e si spegnevano, a intervalli sempre più ravvicinati, e se non fosse stato per i segnali d’emergenza attaccati alle pareti lui non sarebbe riuscito nemmeno a vedersi i piedi.

Sam era già corso via, in direzione della loro stanza, di Jack, e della biblioteca del bunker, che custodiva informazioni, mappe e traduzioni troppo importanti per rischiare che venissero distrutte.

O, peggio, che finissero nelle mani di Michael.

Le vibrazioni più intense provenivano dal lato ovest del terzo livello.

Dean non sapeva fin dove Raphael avesse seguito Gabriel, né dove l’Arcangelo fosse solito incontrarsi con gli Occulti.

Evidentemente gli angeli avevano già una buona quantità di sospetti in merito alla posizione esatta del loro nascondiglio — d’altronde, era stato Castiel a indicare loro la direzione da prendere, dopo averli fatti uscire dall’Empire State Building — perché erano bastati quel paio di elementi in più per ritrovarseli direttamente alla porta.

Se le previsioni di Anna si fossero rivelate veritiere — e Dean sperava con tutto il cuore che lo sarebbero state — i sigilli del terzo livello avrebbero ceduto per primi e gli angeli avrebbero fatto irruzione da lì, mentre l’evacuazione sarebbe avvenuta dal primo livello, al momento il più protetto.

Lui non aveva la minima idea di come la donna sarebbe riuscita a mettere in salvo tutti, e soltanto all’idea di doversi infilare nell’ennesimo condotto sotterraneo i ricordi della sua fuga dal cantiere in Colorado, attraverso il vecchio acquedotto, gli inviavano scariche di brividi giù per la spina dorsale.

L’unica cosa certa era che, per farlo, Anna avrebbe avuto bisogno di tempo.

Quanto, non era dato saperlo, ma gli ordini di Charlie gli rimbombavano nelle orecchie con la stessa urgenza stridula dell’allarme che scuoteva le pareti di cemento armato.

Tutto il tempo che sarebbero riusciti a guadagnare.

Le rune anti-angelo brillavano come lingue di fuoco sulle pareti.

A ogni scossone del pavimento il riverbero che producevano aumentava d’intensità e la vernice con cui erano state dipinte si assottigliava.

«Sei dei nostri, Winchester?»

Rufus imbracciava un mitra con una scioltezza che Dean non avrebbe saputo descrivere se non come terrificante, e portava arrotolato alla vita uno scintillante caricatore a nastro.

Annuì.

«Bene. Allora mettiti in seconda linea e vedi di non farti ammazzare e… Winchester» l’uomo lo trattenne, stringendogli una spalla «Se invece dovessero catturarti vivo…»

Corte. Naomi.

Novantesimo piano.

Rufus non ebbe neanche bisogno di specificarlo.

Una parte di Dean — la più miserabile — rise, all’idea che lo spararsi un proiettile dritto nel cervello sarebbe potuto entrare a far parte delle tradizioni di famiglia.

Quando l’ultimo sigillo sul muro di fronte a lui si illuminò per l’ultima volta e sparì definitivamente, il buio lo avvolse per alcuni, lunghissimi istanti, e il primo proiettile che sibilò sopra la sua spalla il ragazzo non capì subito da che direzione provenisse.

Se dalla sudaticcia, variegata massa umana che lo circondava o se dal fronte compatto, gelido e bianco, che aveva già cominciato a farli inesorabilmente indietreggiare: l’intermittenza del neon lo disorientava.

Ma gli angeli non usavano armi da fuoco.

Gli angeli avevano lame aguzze, e miravano alla gola.

Dean vide due uomini cadere, colpiti da una figura candida e sfocata, i cui movimenti così veloci la facevano assomigliare allo strascico di un fulmine, e che avrebbe irrimediabilmente trucidato anche lui se la fucilata che fischiò a un palmo dal suo viso non gliel’avesse impedito, facendo accasciare la figura candida sul pavimento.

«Winchester non ho passato un mese ad allenarti perché tu ti facessi sgozzare alla prima occasione utile!»

Charlie scavalcò il cadavere — ancora palpitante — dell’angelo che aveva appena ucciso ed ebbe appena il tempo di lanciargli uno sguardo grave, prima di sparire in un turbinio di rosso e seta.

Sotto le tremolanti luci al neon, le schiere celesti erano un oceano di schiuma che ribolliva.

Al settimo proiettile esploso, Dean si rese conto che quella notte non ci sarebbe stato spazio per nessuna tradizione familiare suicida.

Al decimo, il bastardo piumato che non aveva centrato per pochi centimetri gli planò addosso senza che lui avesse il tempo di riprendere la mira, sfilettandogli il bicipite sinistro.

Al tredicesimo perse il conto.

Si riparò dietro un pilastro per inserire un nuovo caricatore nella pistola, mentre il sangue gli scorreva lungo il gomito, inzuppandogli la manica della maglietta.

Dopo pochi minuti furono già costretti a retrocedere al secondo livello.

E il secondo livello era stretto, angusto, due corridoi perpendicolari che si incrociavano nel mezzo. I cadaveri si ammassavano tra il pianerottolo e le scale.

Dean pregò che Anna facesse in fretta.

Che qualsiasi fosse il suo piano, che funzionasse, perché un Arcangelo era appena stato ucciso ed era per vendicare la sua morte che i suoi fratelli erano piombati in quel bunker con un’unica, precisa intenzione.

Massacrare.

Massacrarli tutti.

Il braccio sinistro ormai non lo sentiva più; il destro aveva cominciato a tremargli violentemente, e lui fu costretto a spostarsi nelle retrovie.

L’odore della polvere da sparo era talmente forte da annebbiargli persino la vista.

«DEAN!»

Merda.

Ingenuamente — con un imbranatissimo nephilim a cui badare — il maggiore aveva sperato che suo fratello si sarebbe tenuto lontano dalla battaglia.

«Dean, abbiamo perso Jack!»

Ancora più ingenuamente, aveva sperato che lui e il ragazzino fossero già in salvo.

Dean si lasciò condurre lontano dalla mischia, cieco e sordo a qualsiasi altro stimolo che non provenisse dalla sua spalla aperta o dalle dita scivolose di Sam strette intorno al suo polso.

«Cos’è successo?»

«Patience…» ansimò il più piccolo «Lo aveva mandato a recuperare delle cartine e poi avrebbe dovuto raggiungere Anna, ma lui… lui non è più tornato»

«Dov’era diretto?»

A ogni domanda Dean percepiva la sua lingua muoversi, ma non riusciva a udire alcun suono.

Sam si accorse solo allora della sua ferita sanguinante, e inorridì.

«Non è niente, Sam»

Ecco, quello forse non era del tutto vero, ma in quel momento avevano già abbastanza problemi.

«Dov’era diretto Jack?» ripetè.

«Qui…» balbettò suo fratello «Nel magazzino del secondo livello ma non c’è più tempo… Charlie e Anna saranno le ultime a lasciare il bunker ma la maggior parte degli uomini è già stata evacuata… non c’è più tempo, Dean… dobbiamo trovarlo»

Dopodiché Ash volò — letteralmente — sopra le loro teste e si schiantò venti metri più avanti, in fondo al corridoio buio.

Il maggiore svuotò la pistola contro l’angelo che si era lanciato nella loro direzione — ansioso far fare a lui e a suo fratello la stessa fine — ma le condizioni pietose dei suoi arti superiori non gli consentirono di centrarlo nemmeno una volta.

Sam lo spinse via.

«Trovalo!» gridò soltanto, prima che gli spari coprissero ogni altro rumore.




Il magazzino nel quale Jack era stato mandato si trovava esattamente dalla parte opposta rispetto al punto in cui lui e Sam si erano separati.

Gli echi della battaglia in corso non erano poi chissà quanto lontani e Dean sentiva le urla e gli strepiti del mitra di Rufus farsi sempre più vicini, mentre si affrettava attraverso il corridoio ovest del secondo livello rasentando i muri, voltandosi indietro a ogni passo.

Fu proprio scivolando con le dita lungo le pareti che si accorse delle profonde crepe verticali che solcavano i tramezzi ruvidi, fino a intersecarsi sopra la sua testa in un intricato — e quantomai minaccioso — reticolo di fessurazioni.

Gli angeli erano penetrati nel bunker dall’ala ovest, e adesso l’ala ovest stava collassando su se stessa.

Dean ingoiò un bolo di saliva acida e proseguì.

Le crepe arrivarono ad allungarsi fino al pavimento, poi una sottile sabbiolina grigiastra cominciò a piovergli addosso assieme a qualche sporadico frammento di roccia che ricadeva a terra ticchettando.

Il soffitto era crollato a neanche tre metri dall’ingresso del magazzino.

Il passaggio era soltanto parzialmente ostruito — per fortuna — ma lui dovette comunque arrampicarsi a quattro zampe sui detriti per superarlo e ritrovarsi finalmente davanti alla porta del locale.

«Jack!» chiamò a gran voce «Jack!»

Gran voce per modo dire, ma quello era tutto il fiato che gli era rimasto.

All’interno del magazzino, le massicce scaffalature metalliche, originariamente addossate al muro, si erano capovolte ed erano piombate sui tavoli e sul resto dei mobili stipati lì dentro, schizzando schegge di legno e plastica dura ovunque.

Il soffitto era ancora integro, nonostante presentasse spaccature ancor più inquietanti di quelle che il ragazzo aveva notato anche nel corridoio, e non avrebbe affatto scommesso sulla sua tenuta di lì a un’ora.

Dean drizzò le orecchie, continuando imperterrito a scandire il nome del nephilim e a rovistare tra le macerie, ma per qualche minuto le uniche risposte udibili furono gli spari in fondo al corridoio (vicini, troppo vicini) e il gorgoglio rauco del suo stesso respiro.

Infine, qualcosa a metà tra un miagolio e un lamento soffocato lo zittì.

«D-Dean…»

Considerati tutti i capricci che il ragazzino aveva fatto — nemmeno ventiquattr’ore prima — a fronte di un paio di ginocchia sbucciate, era già un miracolo che adesso fosse ancora cosciente, o che non si fosse stracciato le corde vocali a forza di urla.

Una delle scaffalature — come Dean aveva purtroppo intuito appena varcata la soglia — gli si era rovesciata addosso.

«De…»

«Sono qui, Jack»

Il busto di Jack sporgeva al di sotto di un cumulo di cavi elettrici e di oggetto voluminoso e compatto che assomigliava a un grosso motore.

«Non muoverti»

Una delle mensole metalliche si era staccata dal suo montante verticale e il gancio d’attacco, rimasto scoperto, si era conficcato nella gamba del nephilim scavando un profondo solco sanguinante per l’intera lunghezza della sua coscia.

Dean scavalcò l’ultimo pannello che ancora lo separava dal ragazzino e gli si accovacciò accanto.

«Sono qui» ripetè, sperando che l’ansia non gli trapelasse dalla voce «Ci penso io, adesso»

I cavi gli si erano aggrovigliati intorno al collo e alle braccia — Jack doveva aver tentato di sgusciare via con le proprie forze, senza esito, e con il risultato di attorcigliarcisi ancora di più dentro — e il peso che gli gravava sul torace gli rendeva difficile persino respirare.

Dean fermò il rantolo che stava sforzandosi di produrre da almeno dieci secondi asciugandogli una guancia con il dorso della mano.

«Qualsiasi cosa sia me la dirai quando saremo fuori di qui, mh?»

Nonostante tutto, districare il nephilim dai fili elettrici e rimuovere il gancio piantato nella sua coscia fu relativamente semplice.

Dean si tolse la camicia — il suo bicipite sinistro non ne fu molto contento — e la strinse saldamente intorno alla ferita. Di meglio non poteva fare: sperò che fosse sufficiente a contenere l’emorragia, almeno per un po’.

Il vero problema si rivelò esser l’arrugginito, pesantissimo motore semi-smontato che non aveva la più pallida idea di come levargli di dosso.

Aveva un braccio quasi del tutto fuori uso e una mossa azzardata avrebbe finito per frantumare quel po’ di costole che il nephilim era riuscito a conservare ancora intatte.

Afferrò uno dei pannelli metallici staccatisi dalle scaffalature, quello che gli sembrò sufficientemente robusto.

Pregò che fosse sufficientemente robusto.

Poco meno di metà del motore a contatto con il pavimento, il resto a schiacciare a terra la gabbia toracica di Jack: una questione di leve. E un minimo di fortuna.

Il motore si ribaltò oltre il nephilim, schiantandosi sul cemento in un fragore di ferro e bulloni saltellanti che rimase a riecheggiare qualche istante nel silenzio del magazzino.

Dean si immobilizzò.

Silenzio.

Né grida, né spari, soltanto uno scalpiccio appena percepibile in lontananza.

Avevano perso anche il secondo livello.

«Jack, dobbiamo andare»

In qualche modo riuscirono a superare il cumulo di detriti del soffitto crollato e ad arrivare fin quasi a metà del corridoio.

Jack — con l’unico braccio di Dean ancora funzionante a sorreggerlo al meglio delle proprie possibilità — non aveva detto una sola parola da quando avevano lasciato il magazzino, ma non aveva smesso di piangere neanche per un secondo, e il maggiore si stava giusto chiedendo se non stesse correndo il rischio di prosciugarsi e di morire a causa della disidratazione prima che per la perdita di sangue, quando un rumore di passi lo mise in allarme.

Passi lenti. Beffardamente tranquilli.

Decisamente non appartenenti a un essere umano.

Per un attimo, Dean immaginò di togliersi dal campo aperto del corridoio, spalancare la prima porta utile e rifugiarsi dietro un armadio, sotto un letto, dentro una cassapanca, ma il pensiero si dissolse dentro la sua testa con la stessa rapidità con la quale gli si era presentato.

Nascondersi non sarebbe servito.

«Ancora uno sforzo, Jack…»

Gli angeli avrebbero setacciato il bunker palmo a palmo.

Fino all’ultima cassa chiusa, fino al più imprevedibile doppiofondo di ogni pezzo di mobilia, fino all’ultimo — sfortunato — superstite.

Dean affrettò l’andatura, tirandosi un po’ di più addosso la figurina bionda che gli tremava accanto e che sembrava ormai prossima a svenirgli sulla spalla.

«Ancora uno sforzo…» gli sussurrò tra i capelli «Vedrai che poi…»

Poi, accadde tutto troppo in fretta.

Il pavimento prese il posto del soffitto e cominciò a ruotargli attorno.

Ricadde sulla schiena, tossì.

Sassolini appuntiti gli piovvero sulle spalle, mentre le crepe sopra la sua testa gemevano e si allargavano in tetri sorrisi sdentati.

L’angelo che era piombato su di loro, Dean non avrebbe saputo nemmeno dire da che parte fosse arrivato.

Ma lui era stato scaraventato dieci metri più avanti, e aveva finito le munizioni, e la sagoma che ora avanzava verso il nephilim accartocciato su se stesso era bianca, e argento, e morte, e-

«JACK!»

Il risucchio viscido della lama angelica che riemergeva dalla carne — troppo tenera — in cui era appena affondata, lo fece quasi cadere di nuovo bocconi.

No.

No, no, no, no.

Dean vide l’angelo levare la mano, per la seconda volta, ma la violentissima detonazione che risuonò nel corridoio lo spedì contro la parete opposta prima che potesse sferrare un nuovo colpo.

Si contorse per qualche secondo, i suoi occhi piansero luce giallastra, e infine morì.

«Lui…»

Jack lo guardava.

«Si è…» balbettò «…si è messo in mezzo»

Dean abbassò lo sguardo.

Riverso ai piedi del nephilim, la giacca nera ancora perfettamente abbottonata come se dalla base del suo collo non stesse zampillando sangue neanche fosse una fottuta fontana, c’era Crowley.

«E’… è… morto?»

Dean si chinò sopra l’uomo e usò il bavero della sua stessa giacca per tamponargli lo squarcio sanguinante appena sopra la clavicola.

Maledizione, ma che cosa gli era passato per la testa?

«No» rispose, a metà tra lo scosso e l’incredulo «Ma dobbiamo portarlo via di qui prima che-»

Crowley spalancò gli occhi ed esalò un lunghissimo, graffiante, respiro rauco.

«G-Gavin…» gorgogliò, afferrandogli il polso.

Una strana patina opaca gli velava le pupille.

«Gavin… sta… sta bene?»

Dean aggrottò la fronte, confuso «Jack sopravvivrà» rispose. Tra tutto ciò che avrebbe potuto inventarsi Crowley — in quel frangente — quel nome sconosciuto lo aveva lasciato decisamente interdetto.

«No, io…» l’uomo farfugliò qualcosa di inintelligibile, poi la nebbia che offuscava il suo sguardo si diradò, lasciando il posto a un inequivocabile luccichio «E’ stata colpa mia»

«Dean!»

La voce di Sam, alle sue spalle, lo fece sobbalzare.

Il minore abbassò leggermente il fucile — lo stesso che aveva spedito l’angelo a morire dall’altra parte del corridoio — mentre alternava lo sguardo tra suo fratello maggiore, il corpo dilaniato di Crowley, e Jack raggomitolato accanto a loro.

«Io e Crowley eravamo venuti a cercarvi, io… io sono stato rallentato, ma che cosa…» deglutì «Cosa è successo?»

«Occupati di Jack» gli ordinò Dean, telegrafico: il colorito di Crowley, da pallido, stava diventando cinereo «Ci sarà tempo per le spiegazioni, dopo»

Dean passò il braccio buono sotto la nuca di Crowley cercando di aiutarlo a rimettersi in piedi, ma l’uomo sembrava essersi trasformato in un ammasso di gelatina farfugliante.

«Stavamo morendo di fame» biascicò «E io ero solo andato a cercare…» sputò un grumo di saliva rossastra «Quando ero piccolo la California era piena di alberi di pesche… Hai mai assaggiato le pesche gialle della California, Dean?» gli domandò con aria trasognata.

«Tieni premuto sulla ferita»

Gli girava la testa.

Sam li precedeva, Jack in spalla e il fucile spianato, ma Crowley pesava — dannazione — pesava come un fottuto blocco di marmo e continuava a perdere sangue a litri e a delirare.

Il suo bicipite destro pulsava maledettamente e Dean si sentiva a tanto così dal vomitare.

«Quando mi hanno catturato…»

Crowley aveva cominciato a singhiozzare.

«Io non volevo — non volevo!» esclamò, facendolo sussultare «Ma poi mi hanno detto che se avessi collaborato… se gli avessi rivelato dove ci nascondevamo…» sputacchiò altro sangue «Gli Arcangeli mi avrebbero risparmiato… avrebbero risparmiato entrambi, loro…» tossì di nuovo «Ci avrebbero dato da mangiare, e io…»

Lo squarcio alla base del suo collo riprese a zampillare e l’uomo inciampò, perse la presa intorno alle spalle di Dean e crollò a terra, per poco non trascinandosi anche il ragazzo appresso.

«E io l’ho fatto, Dean…»

Sam si voltò, allarmato.

«L’ho fatto…»

«Crowley, maledizione…»

Ma Crowley non lo ascoltava più.

«E quando Gavin l’ha capito…» proseguì, farfugliando «Appena prima che gli angeli irrompessero nel vecchio silos, e io gli ho ordinato di prendere le sue cose e di seguirmi fuori…» rantolò «L’ho supplicato, l’ho supplicato affinché capisse che l’avevo fatto per lui, che… che era questo ciò che un padre avrebbe dovuto fare per i suoi figli ma lui…» storse la testa di lato e rigurgitò un fiotto di bile verdognola.

«Lui mi ha detto che io non ero più suo padre» sussurrò «Che non ero altro che un traditore»

Erano arrivati ormai alla rampa di scale che li avrebbe portati giù, da Anna, al primo livello. Il bunker era buio, e sempre più silenzioso ogni secondo che passava.

Dean alzò lo sguardo verso suo fratello.

«Va avanti» mormorò «Porta Jack al sicuro e poi vieni a riprenderci, io non riesco…» deglutì «E’ troppo pesante per me, e ho un braccio fuori uso»

Sam esitò un istante, ma alla fine si portò una mano alla cintura e gli lanciò una pistola lucida assieme a un’occhiata risoluta.

«Resisti finché non torno»

Quando la sagoma di suo fratello scomparve oltre le scale, Dean si lasciò cadere accanto a Crowley.

«E’ stata tutta colpa mia…»

Una lacrima solitaria scivolò lungo la tempia dell’uomo e sparì tra le sue ciocche arruffate.

«Gavin è morto ed è stata tutta colpa mia…»

Dean sentì la propria gola chiudersi.

«Prima che muoia, scoiattolino…»

«Che io sia dannato se ti lascio crepare dopo averti trascinato per tutto il corridoio!»

Premette il palmo destro sulla ferita di Crowley, nervoso.

Il bunker ormai pullulava di angeli, e con il trascorrere dei minuti, le probabilità che qualcuno di quei bastardi si accorgesse di loro — due umani ancora vivi in mezzo al mucchio di cadaveri accatastati sul pianerottolo — aumentavano sempre di più.

Dio, Sam, sbrigati.

«Ti avevo promesso» continuò l’uomo, mentre il suo respiro si faceva via via più flebile «Che ti avrei detto che cosa cercavo nella biblioteca di Castiel»

«Me lo dirai domani»

«Sarò morto, domani»

«Non…»

Le dita ghiacciate di Crowley — troppo deboli per chiudersi intorno al suo avambraccio — lo sfiorarono appena.

Dean tacque.

«’La storia infinita’»

«La storia…»

«E’ un libro» l’uomo abbozzò un sorriso esausto «Il regalo del suo undicesimo compleanno» gli spiegò «Durante la notte di sangue riuscì a portarlo con se e nei mesi seguenti noi…»

Sospirò.

«Certe sere lo leggevamo insieme. C’erano dei pezzi che avevamo imparato ormai a memoria e quando aveva paura, quando si svegliava di notte per il freddo, o la fame, o perché aveva sentito degli strani fruscii nelle vicinanze, io glieli ripetevo finché lui non si addormentava»

Sotto le dita umide del ragazzo, il corpo di Crowley era sempre più freddo.

«Poi, quando abbiamo litigato, poco prima che gli angeli piombassero nel silos e lo ammazzassero insieme al resto degli uomini, lui l’ha preso e me l’ha tirato addosso»

«E com’è finito quel libro nella biblioteca di Castiel?»

Adesso Dean aveva la sgradevole sensazione che, se in quel momento Crowley avesse smesso di parlare, non avrebbe parlato mai più.

«Gli angeli non permettono a nessun umano di conservare oggetti antecendenti la notte di sangue, dovresti saperlo» esalò lui «All’epoca era ancora Aniel — Anna — a gestire la biblioteca, ma se lei non mi avesse confiscato il romanzo, probabilmente io l’avrei bruciato il giorno dopo» ammise «Non l’avevo mai aperto — nemmeno una volta — dopo che Gavin me l’aveva lanciato addosso. Non sapevo nemmeno perché l’avevo tenuto»

«Ma poi hai cambiato idea»

«Tu sei ancora troppo giovane per il rimorso, scoiattolino» un eccesso di tosse lo piegò in due «Ma per i traditori come me…» ansimò Crowley «Finisce che una mattina ti svegli e tutto ciò che desideri è non essere mai nato»

Dean aveva già aperto la bocca per replicare quando un brusio in rapido avvicinamento lo mise improvvisamente a tacere.

Voci sconosciute, in discesa dal terzo livello.

Sii asciugò la mano destra sul pantalone e fece scattare la sicura della pistola.

«Avresti potuto dire a Castiel la verità» sussurrò amaramente, aguzzando la vista.

Sam, Sam, Sam.

«Avresti potuto dirla a me, almeno»

«Avrei potuto fare tante cose nella vita, Dean» le parole di Crowley si erano ridotte a un fioco pigolio «E ne ho fatte molte, dopotutto…» tossì ancora, piano «…ma erano tutte sbagliate…»

Dean si appiattì a terra.

Una figura allampanata — diafana — era appena entrata nel suo campo visivo.

Dietro di lei altri due, no tre, angeli in giacca e cravatta esaminavano lo stato dei corpi riversi lungo le scale.

«Fa luce, Dumah»

Il ragazzo sentì uno schiocco e qualcosa di incomprensibile che doveva essere enochiano, poi le luci del bunker si riaccesero di colpo, e fu come se una moltitudine di lame d’acciaio gli si fosse appena conficcata nel cervello passando attraverso i suoi bulbi oculari.

Sam, Sam, Sam.

Seppur dolorosamente, i suoi occhi si riabituarono in fretta alla luce.

Dumah era rimasta sulla scala del terzo livello. Gli altri due angeli, Dean li scorse di sfuggita dirigersi verso il corridoio est.

La figura allampanata, ad appena un paio di metri di distanza da lui e Crowley e con una lama angelica saldamente in pugno, era china su un cadavere particolarmente malconcio.

Dean non ebbe tempo di domandarsi perché si stesse attardando tanto su quel corpo morto — con il collo pressoché staccato dalle spalle era decisamente difficile ipotizzare che quell’uomo respirasse ancora — perché, in quel preciso istante, l’angelo girò la testa e lo guardò.

I loro sguardi s'incrociarono e fu di nuovo il 2 novembre 2008, fu come se qualcuno avesse riavvolto la pellicola e fatto ripartire dall’inizio tutto il film.

Ma stavolta il brivido di pericolo che scivolò su e giù lungo la sua schiena non riuscì a salvarlo.

Il blu scheggiato degli occhi di Castiel lo inghiottì.

Dopo, tutto divenne nero.













Sì, insomma… ormai avrete capito che mi piacciono i cliffhanger, no? ^^'
Purtroppo però anche il prossimo aggiornamento arriverà, ahimè, tra due settimane.
Nel frattempo, ne approfitto per ringraziarvi delle recensioni (e non vedo l’ora di sapere cosa ne pensate di Crowley, di questa ‘apparizione’ del nostro angioletto preferito e di cosa accadrà a Dean nel prossimo capitolo…), grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite e grazie a chiunque stia ancora leggendo e, spero ^^, apprezzando tutto ciò.
A presto ❀*

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Capitolo 26
*** Quello che siamo stati ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






26. Quello che siamo stati




7 giugno 2009

«Castiel…»

Il terreno era duro, caldissimo sotto la sua schiena. Castiel gli aveva strappato i vestiti e adesso era sopra di lui, e pesava.

«Castiel, non riesco a respira…»

Dean tentò di alzare la testa ma il dolore esplose subito, rosso, dietro le sue orbite, mentre la sua nuca sbatteva con violenza sul pavimento rovente.

Una mano gelida — una stretta d’acciaio che gli tirava i capelli e il capo all’indietro — lo convinse in fretta che era meglio non riprovarci, se non voleva ritrovarsi con un trauma cranico o peggio, direttamente con il cervello spiaccicato sopra il cemento.

«Il mio umano preferito…»

Anche la lingua di Castiel era di ghiaccio: lasciava raccapriccianti scie di brividi lungo le vene pulsanti del suo collo. Dean cominciò a tremare.

«Shhhh…»

L’angelo non gli concesse di schivare la sua bocca; il cielo violetto, alle sue spalle, vorticava.

Poi un fiotto d’aria bollente — dritto dritto a incendiargli i polmoni — gli bruciò la gola, appannandogli anche la vista.

Castiel si era spostato.

L’improvvisa sparizione del suo peso dalle costole del ragazzo aveva fatto sobbalzare quest’ultimo di contraccolpo e le sue labbra si erano disperatamente e immediatamente spalancate, nel tentativo di incamerare quanto più ossigeno possibile prima che l’angelo calasse di nuovo su di lui.

Dean rantolò un paio di colpi di tosse ma non ebbe il tempo di riprendere davvero fiato perché, una frazione di secondo dopo, si ritrovò per la seconda volta schiacciato a terra, bocconi, la faccia sudicia di polvere biancastra e del sangue rappreso che copriva il pavimento.

No.

Il sangue era suo.

Gli colava fra le palpebre dallo squarcio che gli si era appena aperto in mezzo alla fronte. Castiel lo tenne fermo piantandogli un ginocchio in mezzo alla schiena.

«Oh, Dean»

Lui chiuse gli occhi soltanto perché le braccia non rispondevano più ai suoi comandi e non poteva tapparsi anche le orecchie.

«Castiel… ti prego…»

Era sbagliato, era tutto sbagliato, quella non era la voce di Castiel e lui non voleva sentirla.

«Ti prego…»

Faceva già troppo male. La stretta dell’angelo sui suoi fianchi, l’agonia roca del proprio respiro, la pressione intollerabile sulla sua spalla — che già minacciava di lussargli l’articolazione — quel frugare avido delle dita fredde di Castiel sopra il suo corpo inerme.

Sapeva dove toccarlo, sapeva come romperlo: gliel’aveva mostrato lui stesso. Dean si vergognò come non gli era mai successo in una vita intera, ma il terrore fagocitò ben presto ogni pudore.

«C-Castiel…» le lacrime gli lavavano via il sangue dalla faccia e si raccoglievano in una pozzangherina rosa sotto il suo mento.

«Pietà…»

Continuò a supplicarlo fino a perdere ogni decenza, fino a smarrire il senso stesso delle parole che pronunciava.

«Dean»

Che per ciò che erano stati almeno tacesse.

Che si prendesse ciò che voleva — che si divertisse come voleva — bastava che la smettesse di ripetere il suo nome con una voce che non era la sua.

«Dean!»

Ma l’angelo non si prese un bel niente; lui seguitò a implorarlo inutilmente perché non accadde più nulla.

Il dolore si congelò in una narcotica stasi.

Quella non era affatto la voce di Castiel.

«DEAN!»

Dean spalancò gli occhi con una forza tale che temette stessero per schizzargli fuori dalle orbite. A tenerlo fermo, adesso, non erano le ginocchia di Castiel premute sulle sue spalle ma le mani ruvide di suo fratello che lo spingevano contro il materasso.

«Sam…» annaspò, accecato dalla lampadina a incandescenza che penzolava sopra la sua testa e che pareva irradiare il calore insopportabile di una mezza dozzina di soli «Cosa…»

«Va tutto bene Dean, siamo con Anna, siamo al sicuro»

Sam aveva due punti di sutura sul sopracciglio sinistro e l’aria esausta di chi avrebbe voluto soltanto dormire per quattordici ore filate «Hai soltanto avuto un incubo»

«Io…» lui non era assolutamente più in grado di discernere tra cosa fosse realmente accaduto e cosa no «Che è successo?»

«Hai di nuovo la febbre»

Dean realizzò in quell’istante che a farlo rabbrividire — nel sogno — non era stata la lingua gelida di Castiel, ma l’asciugamano umido che suo fratello stringeva ancora nella mano sinistra e con il quale aveva cercato di lavargli via il sudore dal viso e dal collo, mentre lui giaceva incosciente.

«Stanotte hai sfiorato i quaranta gradi» proseguì infatti Sam «Vaneggiavi… non hai chiuso bocca per un minuto»

«No, io… intendevo… Cos’è successo al bunker?»

Non avrebbe mai chiesto chi fosse stato il soggetto delle sue farneticazioni.

Non che occorresse domandare.

«Castiel ti ha quasi ammazzato» sintetizzò il minore, con la brutale schiettezza di chi ha appena passato la nottata in bianco «Sono arrivato appena in tempo per vederlo piombarti addosso e sfondarti lo sterno con un calcio» ammise sconfortato «Hai perso i sensi, quando ti abbiamo portato via eri più di là che di qua»

Dean ricadde pesantemente sul materasso: la testa gli ronzava come se un nugolo di vespe incazzate gli fosse rimasto intrappolato nel cranio e lui stava annegando nel suo stesso sudore ma a parte quello si sentiva abbastanza bene. Intero, perlomeno.

Si portò le mani al petto, tastandosi le costole e il torace: nessuna frattura.

Sam anticipò la sua domanda «È stata Anna a curarti» mormorò.

Il mucchio di supposizioni che Dean aveva tenuto celato fino a quel momento in un angolo nascosto della propria mente ritornò prepotentemente a galla.

«Aniel…» gemette, mentre un nuovo attacco di vertigini lo assaliva.

Lo sforzo mnemonico che si era appena obbligato a compiere aveva fatto infuriare ancor di più le vespe che si dibattevano dentro la sua scatola cranica e lui avrebbe certamente vomitato oltre il bordo del materasso, se solo avesse avuto qualcosa nello stomaco, e se il palmo di suo fratello non si fosse posato con fermezza sul suo braccio, riportandolo con la testa sul cuscino.

«Nessuno mi chiama più così da molto tempo ormai»

Anna — Aniel — emerse dalla penombra, alle spalle di Sam, livida e pallidissima sotto l’impietosa luce giallastra che riempiva l’ambiente.

«Mi dispiace, per la febbre» sussurrò «Avrei voluto risparmiartela, ma sono ancora troppo debole»

Sam le cedette la sedia un attimo prima che lei si afflosciasse sul pavimento. Effettivamente, l’angelo sembrava non avere le forze nemmeno per reggersi in piedi.

«Anna ha dovuto teletrasportarci tutti quanti» spiegò il minore «Era l’unico modo per…» sospirò, torcendosi tra le mani il panno bagnato e spruzzandosi goccioline d’acqua sui pantaloni «Sì, insomma, per evitare di venire trucidati, o peggio»

Suo fratello avrebbe davvero avuto bisogno di una dormita di dodici ore, come minimo, ma le immagini indistinte che si agitavano furiosamente nei ricordi di Dean — uno stagno di ninfee, binari divelti, sangue e preghiere inascoltate mentre la sua testa picchiava contro il cemento — minacciavano di ridurlo alla pazzia se non avesse ricevuto in fretta almeno qualche spiegazione in più.

«Dove siamo?» gracchiò.

«Poughkeepsie, riva est del fiume Hudson» rispose Sam, recuperando uno sgabello traballante e sistemandosi di fronte ad Anna, dall’altra parte del letto «E’ praticamente un deposito, ma era il posto più vicino in grado di accoglierci tutti»

«Tu lo sapevi?»

Sam scosse la testa.

«L’ho scoperto nel momento in cui ti ho trascinato mezzo morto al primo livello, e un attimo dopo eravamo a cento chilometri da New York e tu non eri poi così morto»

«Avremmo dovuto dirvelo prima» riconobbe Anna, con un filo di voce «Credimi, stavamo solo aspettando il momento più adatto… non sapevamo come l’avresti presa, se e cosa Castiel ti avesse raccontato di me e…»

«Che cosa gli hanno fatto?»

Le lacrime che durante la notte aveva soltanto sognato di versare ora vibravano per davvero, brucianti e reali, all’orlo delle sue ciglia.

«Si è svegliato?»

Un cigolio, passi svelti, poi un profilo longilineo si avvicinò al suo capezzale e il rosso vivo dei capelli di Charlie fu tutto ciò che vide, per qualche secondo.

Gli occhi chiari dell’Occulto traboccavano di preoccupazione.

«Sto bene, Charlie»

A differenza sua, invece, la ragazza aveva mezza faccia pesta, uno squarcio rammendato male appena sotto la clavicola e le nocche di entrambe le mani scorticate a sangue, eppure non sembrava badarci più di tanto.

«Dio, mi hai fatto morire di paura Winchester…» soffiò, buttando fuori l’aria in un sospiro che pareva stesse trattenendo da ore, prima di rivolgere ad Anna un’occhiata di apprensiva riprovazione.

«E tu dovresti essere a riposare, non qui» osservò, aggrottando la fronte tumefatta in una smorfia avventata che la fece sibilare di dolore.

«E rimanere a guardare mentre ti ricuci da sola perché non mi permetti di guarirti?» ribatté l’angelo, ricambiando stancamente il suo sguardo di biasimo.

«Tanto non ce la faresti comunque. Teletrasportare tutto il bunker ti ha debilitato troppo»

«Potresti lasciarmi almeno provare»

«Ne abbiamo già parlato, amore mio»

Dean si chiese se qualcuno fosse mai riuscito a ottenere l’ultima parola, durante una conversazione con Charlie.

«Tra qualche giorno, quando ti sarai rimessa in forze, allora potrai pensare a questa vecchia carcassa umana alla quale sei tanto affezionata»

Anna le artigliò l’avambraccio e piantò nelle sue iridi verdazzurre uno sguardo ambrato che avrebbe trapassato un muro.

«Lo so, perdonami» Charlie abbassò gli occhi «Me lo ripeti sempre, no? Di non essere così severa con me stessa»

Tentò il miglior sorriso di scuse che la faccia ancora gonfia le permetteva e Anna l’attirò dolcemente verso di sé, soltanto per sfiorare con le labbra le sue nocche sbucciate.

Sam avrebbe presto finto un discreto colpo di tosse, se Dean non l’avesse preceduto in maniera ben più plateale.

«Certo…» Anna lasciò di malavoglia il braccio della compagna e si abbandonò contro lo schienale della sedia «Immagino che ora tu voglia delle risposte»

«Credevo…» esordì il maggiore, perplesso «Credevo che Castiel ti avesse uccisa»

Le labbra di Anna si tirarono in una smorfia amara «L’ho supplicato, affinché lo facesse»

Charlie s’incupì.

«Esistevo da centinaia di anni, e non mi sono mai sentita così perduta come il giorno in cui Michael ha mandato Castiel ad ammazzarmi»

Dean si issò lentamente sui gomiti e appoggiò la schiena contro la parete contro cui il letto era stato addossato.

«Perché sei scappata?»

«Vedi, Dean…» rispose lei, senza guardarlo «Vi abbiamo osservato per secoli… nascere, morire, ammazzarvi, mentre la nostra esistenza continuava semplicemente a scorrere» sussurrò «Conoscevamo i meccanismi alla base dell’esplosione primordiale dell’Universo quando la maggior parte degli esseri umani ancora si chiedeva come potesse funzionare un mulino a vento e abbiamo finito…»

Anna intrecciò le mani in grembo.

«…abbiamo finito per crederci migliori di voi»

Charlie le strinse dolcemente una spalla, ma l’angelo continuò a tenere gli occhi puntati al suolo.

«Poi quando Michael, per primo, e Raphael subito dopo di lui, hanno cominciato a pensare che non fosse tutto qui…» riprese «…ma che fosse nostro preciso compito, nostro dovere rendervi migliori, rendervi perfetti, rendervi…»

«Sottomessi»

Dean non avrebbe voluto usare quel tono così duro.

«Lui crede fermamente di essere nel giusto, Dean»

Anna adesso fissava un punto lontano, molto più lontano del pavimento polveroso su cui poggiava i piedi.

«Michael crede davvero di amare l’umanità — o quel concetto astratto che lui ritiene tale — e che il suo scopo ultimo sia quello di governare gli umani così come ha fatto con gli angeli, fino a questo momento» lei rialzò lo sguardo.

Erano gli stessi occhi con i quali aveva implorato Castiel di ammazzarla?

«Ma ad ogni modo…» ammise, schiudendo appena le labbra «Noi l’abbiamo seguito. Chi più e chi meno convinto ma l’abbiamo seguito, forti della superiorità di cui — quello sì — ci sentivamo tutti portatori…»

Soffiò una risata stridula.

«Quanto siamo stati stupidi»

«Anna…» sussurrò Charlie, tesa «Amore…»

«Sto bene, Charlene…» la rassicurò l’angelo, facendosi scivolare le dita tra i capelli «E’ una decisione che ho preso, ormai, molto tempo fa…»

Perdere ogni cosa. Fuggire via.

Rimanere a vagare da sola, nel buio.

Tutto quello che era Aniel era stata, tutto quello che sapeva, che aveva imparato nel corso di anni — di secoli — e in cui credeva, tutto ciò a cui era appartenuta e tutto ciò a cui sarebbe sempre dovuta appartenere… aveva semplicemente smesso di esistere il giorno stesso in cui lei aveva lasciato la Corte e aveva fatto perdere le sue tracce.

«Ma quando Castiel ti ha trovato…» il ragazzo deglutì. Il sudore gli si stava lentamente asciugando addosso e lui non era più in gradi di dissimulare i brividi «Come… che cosa…»

«Castiel non mi uccise, come puoi notare» rispose lei, frenando quell’insensata sfilza di balbettii «Avrebbe semplicemente riferito a Michael di non avermi trovato, o almeno, così mi disse. Non l’ho mai più rivisto, da quel giorno»

L’angelo si raddrizzò un po’ sulla sedia, la mano tumefatta di Charlie ancora saldamente poggiata sulla sua spalla.

«Trascorsi i mesi successivi a vagare senza meta» continuò «Non avevo un posto dove andare, né un luogo in cui tornare, e ovunque mi spostassi trovavo soltanto devastazione. Pianure sterili che un tempo erano state città e che io, io avevo contribuito a radere al suolo, e a quel punto ero pronta a riconsegnarmi agli Arcangeli» gli rivelò sommessamente «Se solo con la mia morte avrei potuto fare ammenda per i miei peccati, allora non avrebbe avuto senso rimandarla ancora»

«E poi cos’è successo?» Dean represse l’ennesimo brivido e si infilò di nuovo sotto le lenzuola, tirandosele fin sotto al mento.

«Poi la Resistenza mi trovò»

Anna aveva improvvisante smesso di torturarsi le dita.

«Charlene Bradbury mi trovò» sorrise «A nemmeno due chilometri da Fort Hamilton, e a quanto pare non vedeva l’ora di testare le sue nuove manette anti-angelo di ultimissima invenzione» concluse ridacchiando.

«Non ridere» la riprese l’Occulto, imbronciandosi «Non c’è niente da ridere, ti abbiamo trattata in maniera terrificante»

«Allo stesso modo in cui io ho trattato voi per vent’anni, Charlene»

Charlie rimase in silenzio.

«Da quanto tempo Gabriel collaborava con la Resistenza?»

Stavolta era stata la lingua di Sam a muoversi per prima.

«E’… è una faccenda complessa, Sam»

«E questo non è il momento più adatto per mettersi a discutere anche di Gabriel» sentenziò l’Occulto incrociando le braccia, ma la voce le si era già incrinata.

«Charl…»

«No, niente Charlene, Anna» la fermò la compagna, sebbene le sue parole assomigliassero molto di più a una supplica che a un comando «Adesso hai bisogno di riposare. Abbiamo tutti bisogno di riposare… soprattutto tu, signorino»

Sentendosi chiamato in causa dal cipiglio apprensivo dell’Occulto Sam si drizzò di scatto sullo sgabello, cercando di dissimulare quello che probabilmente era il decimo sbadiglio dell’ultimo minuto.

«Resterò io con tuo fratello» lo rassicurò Charlie, stroncando sul nascere quella che sarebbe stata di certo una delle più stoiche, e altrettanto assonnate, obiezioni della sua vita «Perciò adesso filate, tutti e due»

Sam caracollò fino alla porta trascinando i piedi e, con ogni probabilità, se Anna non l’avesse preceduto — tenendogliela aperta — lui ci si sarebbe addormentato contro.

Quando sia suo fratello che l’angelo furono — finalmente — usciti dalla stanza, Dean si girò lentamente su un fianco, in direzione di Charlie, ora seduta accanto al suo letto al posto di Anna.

«Non è necessario che tu rimanga» mormorò.

«Lo so perfettamente, Dean»

Lei gli scoccò un occhiata in tralice.

«Ma credi che sarei riuscita a convincere altrimenti Sam ad allontanarsi dal tuo capezzale per più di dieci minuti?» gli domandò, nonostante la risposta fosse già nota a entrambi «In tutta onestà, tra te e Jack, non ho davvero idea di come facesse tuo fratello a stare ancora in piedi»

Jack.

Il soffitto crollato all’entrata del magazzino e la giacca nera di Crowley che si stracciava.

«Crowley e Jack sono vivi»

Dean doveva evidentemente aver farfugliato qualcosa a tal proposito, mentre i ricordi della notte precedente gli franavano addosso, perché se c’era una cosa di cui in quel momento poteva dirsi sicuro, era che Charlie non fosse anche capace di leggergli nel pensiero.

«Sopravvivranno, tutti e due» si premurò di specificare l’Occulto «Anche se il ragazzino è ancora leggermente scosso» aggiunse «Ma la ferita era profonda, Anna riusciva a stento a parlare e, beh, l’anestetico è un lusso che non potevamo permetterci nemmeno a New York»

Gli angoli della bocca di Dean si arricciarono istintivamente in una smorfia di dolore.

«Lo so, fa un male cane, indipendentemente dall’età» riconobbe lei, passandosi la lingua sulle labbra spaccate «Ma l’alternativa al ricucirlo era lasciarlo morire dissanguato, e in ogni caso lui è svenuto al secondo punto» sospirò «Direi che è andata bene così»

Dean si rimise supino.

Ora la testa non gli girava poi tanto — aveva piuttosto la sensazione che qualcuno gliel’avesse appena riempita di ovatta — la luce della lampadina appesa al soffitto continuava ad accecarlo e le sue palpebre si stavano facendo sempre più pesanti, ma lui non aveva tutta questa voglia di provare a dormire.

«Come puoi pensare…»

Non voleva scivolare nell’incoscienza soltanto per ritrovarsi di nuovo con la faccia sul cemento.

«Dean, come puoi pensare che io possa farti del male?»

«Che cosa gli hanno fatto?»

Con le dita gelate di Castiel che s’infilavano sotto i suoi vestiti.

«Non lo so, Dean»

Charlie si strinse tristemente nelle spalle.

«Tutte le informazioni che abbiamo su Castiel, le abbiamo ottenute tramite Gabriel. Ma quando tu e Sam siete scappati lui non era a Corte, e a quanto pare Michael non ha ritenuto necessario comunicargli subito quanto accaduto» gli spiegò «Quando è ritornato a New York, alla fine di maggio, Castiel era già stato sollevato da tutti i suoi incarichi — responsabilità della biblioteca inclusa — e nessuno sembrava molto propenso a fornire ulteriori dettagli»

«Ma lo ha visto?»

Dean ruotò letalmente la testa sul cuscino, fino a incrociare il turchese afflitto delle sue iridi d’acqua.

«E’ riuscito a parlarci?» la incalzò.

«Non ha avuto modo di trovarsi con lui a quattr’occhi, se è quello che mi stai chiedendo, ma prima che tu possa aggiungere altro…» proseguì lei, svelta, impedendogli di replicare «…per quanto Michael lo avesse privato di tutti i suoi compiti, Castiel aveva ancora tutti i pezzi al proprio posto e il suo appartamento all’ottantaseiesimo piano perciò, Dean, per quanto ne sappiamo, ieri notte potrebbe anche essere stata tutta una messinscena» concluse, accavallando le gambe «Non sappiamo cosa è realmente accaduto a Corte quando tu e Sam siete scappati… forse Castiel è riuscito a tenere nascosto il suo diretto coinvolgimento a Michael, forse… »

«E lo sfondarmi lo sterno con un calcio che cos’era, un modo per farmelo capire?»

Pessima idea.

Balzare a sedere di scatto, come se non avesse le ossa e la testa che gli andavano a fuoco.

Pessima, pessima idea.

«Magari Castiel temeva che se non avesse fatto subito qualcosa lui, gli altri angeli ti avrebbero ammazzato»

Quando la vista di Dean ritornò semi-limpida e le pareti della stanza smisero di girargli attorno, l’Occulto gli stava riaccomodando le coperte intorno alle spalle.

«Dopotutto Sam ha detto che c’era anche Dumah con lui, ieri notte… ma per la miseria!» Charlie si era allungata verso di lui fino a sfiorargli la fronte con le dita «Ci si potrebbe sul serio cuocere un uovo là sopra» commentò angustiata, sventolando la mano in aria.

Dean grugnì un’obiezione poco convinta che lei non fece neanche finta di prendere in considerazione.

«Ascolta» disse invece «Donatello è un uomo di buon cuore ma non è particolarmente incline al tenere ospiti. Ellen e Jo saranno qui tra due, tre giorni al massimo: loro potrebbero saperne di più, ma per il momento tu cerca di riposare un altro po’, va bene?» stabilì, alzandosi.

«Io vado ad assicurarmi che quel testone di tuo fratello sia riuscito a trovare un posto per distendersi, fossero anche solo due metri di pavimento» esalò, lanciandogli un’ultima occhiata esausta «Per quanto sia spazioso e ben rifornito, questo deposito non è esattamente il luogo ideale per una villeggiatura…»

Charlie sparì, assieme allo stesso cigolio con il quale era entrata, dimenticandosi di spegnere la lampadina. O forse l’aveva lasciata accesa di proposito.

Dean si girò sulla pancia e affondò la faccia nel cuscino.

«Dean, come puoi pensare che io possa farti del male?»













Ok, ok, riconosco le mie colpe per quanto riguarda l'inizio del capitolo, ma nulla di ciò che Dean sogna è mai successo perciò non vogliatemi troppo male. Per favore? ^^
Vi aspettavate questa rivelazione su Anna? :) E cosa ne pensate invece del comportamento di Castiel? A tal proposito, le frasi in corsivo sono riprese dal capitolo 15, dove vengono pronunciate proprio da Castiel.
Mi dispiace dover allungare i tempi di aggiornamento ma non riesco più a pubblicare settimanalmente ahimè, quindi il prossimo capitolo arriverà lo stesso tra due settimane, e così i prossimi. E scusatemi anche per il ritardo con il quale sto rispondendo alle vostre recensioni, ma sappiate che per me sono sempre e comunque preziosissime e per questo vi ringrazio tanto tanto tanto ♡.
Un abbraccio, e a presto.
Take care ❀*

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Capitolo 27
*** Cocci ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






27. Cocci




10 giugno 2009

Il giorno successivo, Missouri fece la conta dei morti.

Un silenzio funebre discese all’interno del magazzino di Poughkeepsie e lì rimase, a stagnare sopra le teste dei sopravvissuti. A guisa di spettro, per una notte intera.

Poi di giorni ne passarono altri due, ma tante parole rimanevano troppo difficili da pronunciare, e molte risultavano ancora troppo dolorose.

Tutte le altre sarebbero state superflue, in ogni caso.

«Come vanno i punti?»

Anna si stava pian piano riprendendo. Charlie non aveva più la faccia gonfia e Jack camminava normalmente, senza bisogno d’aiuto.

«Tirano molto?»

Sam, invece, aveva insistito affinché l’angelo lasciasse che il suo sopracciglio spaccato si cicatrizzare naturalmente, adducendo improbabili scuse per cui non valeva davvero la pena sprecare i suoi ancora ridotti poteri per così poco.

«Solo se dormo sul lato sinistro» specificò il più piccolo, sollevandosi sui gomiti «Per il resto quasi non li sento»

Dean annuì, ma soltanto con la testa: l’alone rossastro che si allargava fino alla palpebra di Sam sembrava strillare tutto il contrario.

E che quell’improvvisa preoccupazione per i tempi di recupero di Anna fosse una scusa bell’e buona era chiaro come il sole, ma se suo fratello non si sentiva ancora pronto ad accordare a un angelo il permesso di guarirlo non sarebbe di certo stato lui a costringerlo.

Perciò, il maggiore non aggiunse altro. Si mise seduto, litigò per un po’ con la coperta che durante la notte gli si era aggrovigliata intorno alle caviglie, poi allungò le braccia verso l’alto e cominciò a stiracchiarsi con estenuante lentezza.

«Ah, la mia povera schiena!»

Charlie era stata fin troppo generosa nel definire il deposito di Poughkeepsie ‘non il luogo ideale per una villeggiatura’.

Il letto che Dean aveva potuto — relativamente — godersi finché la febbre non gli aveva dato tregua adesso era occupato da una coppia di gemellini di sei anni e dalla loro sorellina più piccola.

«Come se questa fosse la prima volta che dormi per terra…»

Ma mai una volta che Sam perdesse l’occasione di puntualizzare, eh.

«Si, beh, a dieci anni mi sarei addormentato pure sopra un tappeto di chiodi…» mugugnò Dean, inclinando la testa a destra e a sinistra fino a farsi scrocchiare il collo.

L’edificio era indubbiamente ben rifornito — beni di prima necessità, attrezzature per la radiotrasmissione, armi e almeno una dozzina di generatori ancora funzionanti — ma si trattava, per l’appunto, di un deposito.

Un riparo di fortuna, un luogo di momentanea sosta, al massimo.

I posti letto erano decisamente insufficienti — per tacere dei servizi igienici — e così lui, Sam e Jack non avevano potuto far altro che rimediare un paio di scatoloni, qualche vecchia coperta e un comodo angolo di pavimento sul quale accoccolarsi.

«Jack dorme ancora?» domandò.

Sam si sporse leggermente verso il nephilim. Dal bozzolo di lana scura che gli respirava affianco sbucava solo una matassa di capelli biondi.

«Sembra di sì» mormorò.

Dean maledisse i suoi trent’anni — e le sue articolazioni andate in malora a venti — e si tirò in piedi con un gemito «Vado a vedere se Anna ha bisogno d’aiuto con la distribuzione dei pasti…» biascicò, stropicciandosi gli occhi «Tanto ormai sono sveglio…»

Gli avessero messo a disposizione cuscini di piume e lenzuola di seta su cui coricarsi, le sue notti sarebbero rimaste comunque insonni.

Un infinito spazio nero in cui lui seguitava a girarsi e rigirarsi su se stesso, a srotolare e riarrotolare la sua ultima conversazione con Charlie a ogni contorsione del suo corpo indolenzito sulla vernice scrostata che rivestiva il pavimento.

Certo, l’ipotesi dell’Occulto era ragionevolmente sensata.

Quando Aniel aveva deciso di voltare le spalle agli Arcangeli, abbandonando la Corte, si era ritrovata una sentenza di morte sopra la testa nel giro di qualche giorno; se Castiel era ancora vivo, e oltretutto libero di andarsene in giro insieme al resto dei suoi fratelli, doveva aver trovato un modo per placare l’ira di Michael, ed evitare — almeno — la stessa condanna.

Stando a quanto sosteneva Gabriel aveva ancora il suo appartamento blu all’ottantaseiesimo piano e la camicia bianca allacciata fino all’ultimo bottone, Dean avrebbe dovuto esserne sollevato, eppure continuava a non dormire.

Castiel gli era piombato addosso e gli aveva sfondato la cassa toracica con un calcio.

Castiel.

Lo stesso angelo che aveva infilato lui e Sam in un montacarichi e li aveva fatti letteralmente evadere dall’Empire State Building —mettendo a repentaglio la sua stessa vita — due giorni dopo che Dean lo aveva preso a schiaffi.

Castiel.

Che una sera gli aveva persino chiesto il permesso prima di…

«TU!»

Fu come ricevere un proiettile in pieno viso.

E lui la odiò — per un istante, un istante solo — quella voce rabbiosa, dritta contro la sua nuca.

«Tu!»

Dean le era passato davanti e non l’aveva riconosciuta.

Senza i pantaloni azzurri, la giacca sagomata e i capelli biondissimi che le ondeggiavano sulle spalle.

«Come hai potuto!»

Claire indossava un cappotto verde troppo lungo ed era magra, magra, magra, così tanto che quando si scagliò contro di lui e cominciò a tempestargli il petto di pugni, il ragazzo esitò a bloccarla.

«C-Claire…»

Aveva paura di spezzarle un polso.

«Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te!» le nocche ossute della ragazzina gli si conficcavano nelle costole, ma i suoi colpi erano troppo deboli per fargli davvero male «Dopo tutto quello che lui…»

«Claire…»

Un altro schiaffo.

«Che lui ha fatto per te! Come hai potuto!»

«Per favore…» il maggiore la afferrò per le spalle «Claire, calmati…»

Lei per tutta risposta gli assestò una testata sul mento.

«E’ colpa tua!» ululò, approfittando del contraccolpo per liberarsi dalla sua stretta e rifilargli una seconda scarica di cazzotti — ancora più fiacca della prima — ma stavolta Dean non tentennò, e sue dita si serrarono decise intorno ai polsi della ragazzina, bloccandoglieli ai lati del busto.

«Te ne sei andato!»

Lei provò divincolarsi ma le sue braccia, sotto gli strati imbottiti del cappotto, assomigliavano piuttosto a due stecchini.

«T-te ne sei andato e io… ti ho cercato dappertutto…»

Dean mollò la presa sui suoi polsi.

«Shhhh…»

«…eri sparito…»

Claire piangeva senza singhiozzi.

«…e Castiel era sparito…»

La faccia premuta sul suo petto e le dita avvinghiate alla sua schiena. Troppo piccola nel suo cappotto troppo grande, si era aggrappata alla sua maglietta sbrindellata come una bambina alla gonna della madre.

«Va tutto bene, adesso sei qui… io sono qui…» lui le passò una mano tra i capelli arruffati «Va tutto bene…»

Aveva quindici anni. Praticamente era una bambina.

«Mi dispiace averti lasciato sola…» mormorò «Mi dispiace, non avrei mai voluto che le cose andassero così»

«Dovevi fare rapporto a Metatron quella mattina»

Smorzata dal tessuto, la voce di Claire era senza colore. Il suo fiato passava attraverso la stoffa e si addensava in bolle tiepide a contatto con la pelle di Dean.

«Quando non ti sei presentato sono venuta a cercarti in stanza ma non c’eri. Non eri in camera di Castiel, non eri in biblioteca, non eri da nessuna parte. Poi mentre tornavo su, dalle cucine, Dumah ha sfasciato le porte dell’ascensore e mi ha trascinato per le scale fino al novantesimo piano»

Il ragazzo deglutì.

«Ti hanno fatto del male?»

Claire scollò la faccia dalla sua maglietta ormai zuppa e sollevò il viso verso di lui.

Non disse di sì. Ma non disse neanche di no.

«Mi hanno rinchiuso in una di quelle loro orribili celle senza luce» rispose «Non avevo la minima idea di che cosa stesse succedendo, l’unica cosa che Dumah ci teneva a farmi sapere, quando si ricordava di portarmi da mangiare, era che fossero parecchi mesi che un Collaborazionista infedele non veniva buttato giù dal grattacielo»

Una lunga treccia scomposta le penzolava dietro le spalle, e anche quella sembrava troppo lunga. Ogni parte di lei, in realtà, restituiva la stessa identica impressione, di essere troppo, o troppo poco.

«Ti giuro che se avessi immaginato che ci saresti andata di mezzo anche tu…»

Dean fece per cingerle di nuovo le spalle, ma stavolta lei si ritrasse, posandogli entrambi i palmi sul petto.

«Saresti rimasto lì?»

Claire si tirò su le maniche del cappotto.

«Mi hanno tenuto rinchiusa per due settimane, poi una una mattina hanno aperto la porta della cella e mi hanno buttato fuori» esalò, sfregandosi gli occhi gonfi e staccandosi definitivamente da lui «Senza una spiegazione, senza niente: Metatron mi aveva rimpiazzato con quella deficiente di Alex e io sono finita a ricopiare i dannati registri e a sistemare tutto il lavoro che tu avevi lasciato appeso!» esclamò, facendolo sussultare, ma non era per due settimane senza luce, e nemmeno per tutti quei chili in meno che si era avventata contro di lui.

Che aveva incrociato le braccia al petto e che ora lo guardava con l’espressione truce di chi l’avrebbe volentieri preso a pugni di nuovo, e con maggiore convinzione, e a quel punto il ragazzo desiderò davvero, davvero che lo facesse, invece di continuare a fissarlo così, perché Gabriel poteva aver visto e creduto quel che voleva, e Charlie poteva aver interpretato le sue parole come voleva, ma la verità era che Dean, nel profondo, lo sapeva.

«Castiel è stato buttato fuori una settimana dopo di me»

Lo sapeva.

L’aveva sempre saputo.

Dal momento in cui i loro sguardi si erano incontrati, e al posto dei suoi occhi Dean aveva trovato due cocci di vetro.

«L’ho trovato nel suo appartamento che tirava via la cenere dalle pareti»

Claire aveva abbassato la voce.

«Non era rimasto nient’altro, persino i vetri della finestra erano stati spaccati» sussurrò. L’assonnato brusio del primo mattino che riempiva il locale — e che cominciava ad aumentare lentamente di volume — era ormai a un soffio dal sovrastarla.

«Era stato tutto bruciato»

Lui ci mise qualche secondo ad accorgersi che il gelo che sembrava avvilupparsi come un rovo intorno al suo braccio non era dovuto a nient’altro che all’umidità della parete contro la quale aveva dovuto appoggiarsi.

«Ti… ti ha detto qualcosa?»

«Non mi ha nemmeno riconosciuto»

«Ehi, ragazzina!»

Due decise ottave sopra il rumore di fondo — ma solo leggermente più acuto delle urla che avevano cominciato a inseguirsi dentro la sua testa — Dean percepì sollevarsi un altro timbro familiare.

«Per la miseria, ma dove ti eri cacciata? Ti sembra questo il modo di ringraziare?»

La sagoma affilata di Jo gli sfilò accanto senza degnarlo d’un cenno, puntando come una freccia in direzione della quindicenne corrucciata di fronte a lui.

«Dove pensavi di andartene?» la rimproverò, piazzandosi davanti a lei a braccia conserte «Charlie ha bisogno di parlarti»

«Abbiamo già parlato»

Claire drizzò le spalle e alzò il mento, ma come tentativo di spavalderia non suonava molto convincente, oltre a stonare in maniera quasi comica con i suoi occhi lucidi e le guance ancora arrossate.

«O forse non l’ho ringraziata a sufficienza?» mugugnò, in un moto d’impulsività che le costò tutta la baldanza che era riuscita a racimolare, e che fece fremere Jo da capo ai piedi.

L’unico motivo per il quale la più piccola riuscì a scampare alla sberla che l’altra era oramai pronta ad appiopparle fu la figura morbida che nel frattempo li aveva, lentamente, raggiunti.

«Charlie voleva soltanto assicurarsi che avessi trovato un posto per dormire»

Claire avvampò, e l’espressione di Ellen, per quanto visibilmente provata, si addolcì.

«Sono contenta di rivederti, Dean» lo salutò la donna, prima di avanzare zoppicando verso sua figlia.

«Jo, accompagnala tu da Charlie»

«Ma mamma…»

«E non voglio sentirvi accapigliarvi come due gatte appena girato l’angolo, siamo intesi?»

Jo storse la bocca, ma non obiettò oltre. Dal canto suo, Claire si era stretta nel suo cappotto con aria talmente mortificata che Dean dubitava avrebbe obiettato mai più a chicchessia, e non disse nulla nemmeno quando l’altra le allungò un colpetto dietro le spalle, esortandola a muoversi.

«Dopo… dopo vengo a vedere come ti sei sistemata, ok?» propose Dean, ma la ragazzina lo oltrepassò in silenzio, trascinando i piedi.

«Le passerà»

Ellen aveva aspettato che le due ragazze fossero sufficientemente lontane, prima di tornare a rivolgersi a lui.

«In ogni caso…» gli sorrise «Ti trovo bene»

«Immagino che sia merito vostro se Claire è qui»

Dean ricambiò il sorriso, ma non era mai stato bravo con i convenevoli.

«Gabriel ci aveva consigliato di tenerla sott'occhio…» Ellen allungò il collo e rimase qualche secondo a scrutare l’andirivieni degli uomini alle spalle del ragazzo, come a sincerarsi che sua figlia e Claire non si fossero attardate a battibeccare nelle immediate vicinanze «Né Naomi né Dumah l’hanno toccata, a quanto pare» rispose «Ma Lucifer aveva già dimostrato di potersi vendicare sugli umani altrui, una volta scoperto che un altro angelo aveva osato mettere la mani sui suoi»

«Sembra quasi che tu stia parlando per esperienza personale»

Lei gli lanciò uno sguardo che tagliava come una scheggia, ma non c’era alcun risentimento nel modo in cui, un attimo dopo, gli si accostò per prenderlo sottobraccio.

«Vieni, accompagnami per favore» glissò «Da New York a Poughkeepsie sono più di cento chilometri e io ormai ho una certa età…»

Charlie purtroppo non aveva ulteriori letti da offrire, ma aveva comunque messo a disposizione di Ellen la stanza che condivideva con la compagna, oltre che con Patience e Missouri — che poi altro non era che il locale in cui erano state stoccate le apparecchiature elettroniche — almeno per garantirle un po’ di relativa privacy e di tranquillità dopo le frenetiche vicissitudini degli ultimi giorni.

Il ragazzo l’aiutò di buon grado ad attraversare il magazzino, rallentando il passo ogni qual volta lei gli sembrasse particolarmente affaticata, o quando qualcuno decideva di aggiungere una manciata di parole in più al mesto cenno con il quale la maggior parte degli uomini la salutava.

Dean non aveva visto ancora nessuno — nemmeno Kevin — sorridere, o almeno tentare un espressione che non fosse di pura — e più o meno cupa — angoscia, da quando si era risvegliato febbricitante alla periferia della un tempo ridente cittadina di Poughkeepsie.

Ma d’altronde.

Gabriel era stato scoperto.

Loro erano stati costretti ad abbandonare il bunker in fretta e furia, ed erano comunque morti a decine. Erano tre giorni che dormivano sul pavimento e in quelle condizioni pietose, ammassati l’uno sull’altro, non avrebbero resistito ancora a lungo senza impazzire.

«Tuo fratello come sta?»

Ellen gli strinse dolcemente il braccio.

«Bene. Meglio» esalò lui di getto, prima di optare per una più sincera rettifica «Fino a tre giorni fa, almeno: adesso finge di dormire…»

‘Esattamente come faccio anch’io’, fu lì lì per aggiungere.

«Ed è troppo terrorizzato da cosa potrebbe essere successo a Gabriel persino per chiedere a Charlie che cosa c’entrasse lui, con tutto questo»

«E’ stata un’idea di Anna, in realtà»

Ellen sospirò.

«E a tutti sembrava una follia, all’inizio: mettersi in contatto con un Arcangelo, per di più dopo essere fuggita dalla Corte e con una sentenza di morte sopra la testa… Charlie non ha dormito per giorni» gli confidò, mentre passavano accanto a una pila di vecchie scarpe da risuolare.

«Ma Anna naturalmente conosceva gli Arcangeli molto meglio di qualsiasi Occulto e Gabriel, beh… Gabriel è sempre stato un grande sostenitore della teoria del ‘vivi e lascia vivere’ oserei dire, dopo cinque anni trascorsi con lui: se Anna aveva deciso di trascorrere un’eternità da reietta e rimanere a vagabondare sulla Terra per il resto dei suoi giorni, non sarebbe stato certo lui a riconsegnarla a Michael» precisò, fermandosi a riprendere fiato «E poi ho sempre pensato che un po’ la invidiasse»

Stavolta toccò a Dean bloccarsi sul posto, confuso.

«La… invidiasse?»

«Per aver avuto abbastanza coraggio da piantarli tutti in asso e andarsene, sì» ripetè lei, serissima «Vedi, a Gabriel tutta questa faccenda dell’umanità perfetta, e pacifica… non è mai interessata granché. Ha sempre assecondato il resto degli Arcangeli quel tanto che bastava affinché non gli stessero col fiato sul collo ma ad essere sincera… non credo che abbia mai pienamente condiviso i piani di Michael»

«E quando Anna gli ha chiesto di collaborare con la Resistenza lui ha semplicemente…» Dean era sempre più incredulo «…accettato

Per carità, Gabriel poteva anche essere un angelo eccentrico, svolazzare liberamente su e giù per l’Empire State Building pavoneggiandosi nel suo bel frac e magari anche sentirsi sufficientemente compassionevole da non fare a pezzi i Collaborazionisti sorpresi fuori dalle loro stanze in piena notte ma — diamine — era pur sempre di un Arcangelo che si stava parlando!

«Oh no, Dean, no. Affatto»

«Finirò per dover ripetere due volte lo stesso discorso, tra te e Sam…» ponderò Ellen, con un sospiro malinconico «Ma giacché ormai stiamo parlando…» gli concesse «…Anna non ha mai menzionato la Resistenza, quando ha chiesto a Gabriel di prendere me e Jo sotto la sua custodia» chiarì «Credo che gliel’abbia piuttosto chiesto come cortesia personale. E credo proprio che l’idea di farla sotto il naso di Michael — non solo tenergli celato il suo incontro con una traditrice del calibro di Aniel, ma persino concederle favori — Gabriel la trovasse anche molto divertente»

Dean aggrottò la fronte, a metà tra lo scettico e il colpito.

«Ricordami di non chiedere mai barzellette ad un angelo» borbottò, ed Ellen si lasciò sfuggire una risata.

Più di qualcuno si girò a guardarli.

«Ad ogni modo…» proseguì la donna, ricomponendosi «L’obiettivo di Anna era quello di infiltrarsi all’interno dell’Empire State Building. Ci sarebbe voluto tempo — anni, almeno — prima di riuscirci, ma era l’unico modo per poter fare fuori gli Arcangeli, e possibilmente tutti in una volta. Dopodiché un conflitto aperto sarebbe stato inevitabile, ma con i pezzi grossi fuorigioco almeno avremmo avuto delle serie possibilità di vittoria»

Non era un’idea così stupida, dovette convenire Dean.

«E poi cos’è cambiato?»

«Poi è arrivato Sam»

E allora tanto valeva fermarsi, trovare una pila di casse sufficientemente alta da garantire loro un minimo di riservatezza e infilarcisi dietro, perché lui non avrebbe mai lasciato andare Ellen prima della conclusione di quella storia.

«Non essere così ingenuo da credere che Gabriel non sapesse…» e lei doveva essersene resa conto — di essere arrivata al punto di non ritorno — perché i suoi passi avevano cambiato direzione «O che non sospettasse, quantomeno»

L’ansa del corridoio nella quale si erano fermati era ragionevolmente appartata, e puzzava di muffa.

«Rumori terrificanti che si udivano fin dentro l’ascensore, accesso all’ottantaquattresimo piano interdetto per giorni» snocciolò «Che qualcosa di losco si stesse consumando tra quelle pareti era praticamente noto a tutti, di certo non soltanto a quel poveraccio di Samandriel» commentò con una smorfia «E non era la prima volta che sentivo urlare, ma quelle urla io… scusa»

Ellen s’interruppe, serrando le labbra.

«E’ pur sempre di tuo fratello che stiamo parlando»

«Non… non importa»

Non che non importasse — non che ogni volta che Dean ripensasse a quei quattro anni non riavvertisse il desiderio macabro e altrettanto pressante di appendere Lucifer a un gancio e lasciarlo sanguinare fino a quando non si fosse seccato — ma ormai anche lui aveva sentito Sam urlare, più d’una notte, da quando erano fuggiti dalla Corte.

«Continua»

Lei gli scoccò un’occhiata grave, ma proseguì.

«A quel punto è stato troppo anche per Gabriel» mormorò «Ha aspettato che Lucifer se ne andasse e poi è entrato in quell’appartamento e ha trovato… quel che ha trovato, immagino. Non chiedermi di più» si schermì, prima che lui potesse pretendere ulteriori dettagli «Non saprei dirti altro: non era un tipo di confidenza che avrei potuto prendermi, non in quel frangente, neanche con un Arcangelo come Gabriel. So solo che quando è tornato su era talmente pallido che ho avuto paura svenisse, e che da quel giorno ha cominciato a scendere all’ottantaquattresimo piano molto più spesso del solito»

Questa poi.

Suo fratello aveva menzionato spesso il nome di Gabriel durante le loro conversazioni — e anche l’Arcangelo aveva dato prova di conoscere lui e Sam, la notte in cui Dean aveva avuto la sfortuna, o la fortuna, sarebbe stato più giusto dire, ora, di incrociarlo — ma non aveva mai accennato a niente del genere.

«Però continuo a non capire, cosa c’entra la Resistenza con mio fratello e con il suo…» il ragazzo scosse la testa «…rapporto con Gabriel?»

Col cavolo che stavolta avrebbe concesso a Sam di tenere per sé i particolari.

«Adesso ci arrivo»

Ellen sì staccò dal suo braccio e andò a sistemarsi su una cassa di legno lì accanto, senza etichette e mezza marcita, come se qualcuno l’avesse perduta lungo la strada e non fosse mai tornato a riprendersela.

«Per qualche settimana è filato tutto… liscio, diciamo così» disse «Lucifer non sembrava essersi accorto di niente, o comunque aveva deciso di tollerare — per il momento — le intrusioni di un altro Arcangelo nel suo appartamento, almeno finché Gabriel non è… non ha deciso di spingersi oltre»

«Per spingersi oltre intendi…»

«L’ha curato»

Ellen si morse il labbro inferiore «L’ha curato, e naturalmente Lucifer se n’è accorto»

«E non ne è stato molto contento» Dean completò la frase al posto suo, rabbrividendo, mentre lei smetteva di tormentarsi le labbra solo per cominciare a grattare con le unghie contro il legno fradicio della cassa su cui sedeva.

«Hanno litigato» confermò «Hanno litigato ed è stato… terrificante» ammise, chiudendo gli occhi per un istante «Le loro grida si sentivano a tre piani di distanza e per qualche giorno Gabriel non ha spiccicato parola, non credo sia nemmeno mai uscito dalla sua camera a dirla tutta. Poi una notte Lucifer ha sorpreso Jo dove non avrebbe dovuto trovarsi e… e niente mi toglierà mai dalla testa che la stesse spiando già da tempo, aspettando solo il momento più adatto per…»

Adesso però era di sua figlia, che si stava parlando.

«Se quel giorno Gabriel non fosse stato a Corte, Lucifer l’avrebbe uccisa»

Fu Dean a chiederle di fermarsi. Ellen rimase a osservarsi intensamente le punte dei piedi, in silenzio, per più di qualche minuto.

«Allora… non so come abbia fatto, Gabriel, a rendersene conto» riprese infine, solo leggermente rianimata «Non so se in fondo l’avesse sempre pensato e se fino a quel momento l’avesse consapevolmente ignorato, o se l’avesse realizzato solo dopo che Lucifer aveva sorpreso Jo a frugare tra i registri di Metatron in piena notte, fatto sta che quel giorno lo capì»

«Che non eravate lì solo perché il buon cuore di Anna voleva salvarvi da una vita di stenti»

La donna annuì.

«Che quello che lui considerava un gioco — un divertente sberleffo all’autorità — per gli umani non lo era mai stato. E che quel suo blando disinteresse per la causa di Michael non bastava più: era il momento di decidere da che parte stare»

«E dopo che cosa è successo?»

«Dopo quanto era accaduto a Jo, sarebbe stato meglio per tutti che nessun altro Arcangelo si facesse più vedere nei paraggi dell’ottantaquattresimo piano» Ellen si passò nervosamente una mano tra i capelli «Ma Gabriel ci ha chiesto ugualmente di tenere d’occhio tuo fratello, e di aiutarlo per quanto avremmo potuto»

Il formicolio che Dean avvertiva espandersi dalla punta delle sue dita era lo stesso del giorno in cui — sotto l’attenta supervisione di Claire — il mucchio di tondini e asticelle che da ore allineava pazientemente sopra il foglio aveva acquisito finalmente un senso, e lui aveva letto la sua prima parola.

«Gabriel sapeva…» realizzò in un lampo di sbigottimento «Gabriel sapeva di Kelly, di… di Jack, la notte in cui è nato…»

«Lucifer era a Corte quella notte» lo infilzò Ellen «Chi altri credi che l’abbia tenuto lontano da quell’appartamento?»

Dean si sentì gelare.

Anziché Gabriel, quella notte avrebbe potuto trovarsi di fronte a ben altro Arcangelo.

«E Sam… Sam lo sapeva?»

«No, Sam non ne sapeva niente, sarebbe stato troppo pericoloso informarlo dei piani della Resistenza, per noi, e per lui stesso» ammise lei «E Gabriel non avrebbe potuto portare via da lì né lui né Kelly, senza scatenare un putiferio e rischiare di far saltare tutte le nostre operazioni, sebbene il piano originale prevedesse che lui facesse fuggire almeno Jack, il prima possibile. Il piano originale, naturalmente» fu costretta a specificare.

«Alla fine di aprile Gabriel è stato spedito in tutta fretta a sedare delle rivolte in America Latina, i tempi si sono allungati e nel frattempo… Dean?»

Nel frattempo Castiel aveva deciso di precederlo.

«Dean, ti senti bene?» Ellen gli si avvicinò, sfiorandogli una guancia «Sei pallido… Hai mangiato qualcosa stamattina?»

«Sto… sto bene, non preoccuparti» abbozzò lui, con falsa indifferenza «Andiamo, abbiamo parlato fin troppo e tu hai bisogno di dormire»

«Anche tu, mi sembra»

Dean finse di non sentirla.

La riaccompagnò lentamente fino alla stanza di Charlie — l’Occulto non c’era, né Anna, né nessun altro, e il locale era vuoto e talmente angusto e freddo che lui si chiese come potesse qualcuno addormentarsi lì dentro — la salutò con un cenno del capo, chiuse la porta, e un secondo dopo le sue gambe scattarono da sole.

Camminava talmente in fretta che per poco non si scontrò con suo fratello, che gli arrivava incontro dalla parte opposta.

«Dean! Ma che cosa… ma non dovevi andare ad aiutare Anna?»

«Devo parlare con Charlie»

Il sopracciglio spaccato di Sam si corrugò in una linea inquieta.

«Dean, è successo qualcosa?»

Lui lo scansò, letteralmente, come avrebbe fatto con uno dei tanti scatoloni sparsi in giro, ed era già tornato a mangiarsi lo spazio che lo separava dall’Occulto a grandi falcate, quando qualcosa lo costrinse a fermarsi.

«Dean…»

Suo fratello lo stava trattenendo per un polso.

«Non hai dormito niente nemmeno stanotte, io credo proprio che tu abbia bisogno di…»

«L’unica cosa di cui ho bisogno adesso è di parlare con Charlie, Sam!»

Nemmeno cinque secondi dopo gli stava già chiedendo scusa.

Ma non era quello il momento di riposare.

Finché Castiel sarebbe rimasto in quel grattacielo lui non avrebbe mai potuto riposare.

E se non fosse riuscito a portarlo via, probabilmente Dean non avrebbe dormito mai più.













Ciao a tutti,
Comincio con il ringraziarvi per le vostre — come sempre — bellissime recensioni, e a dare il benvenuto ai nuovi lettori ♡
So che questi capitoli, incluso il prossimo, (oltre ad essere illegalmente lunghi) sono piuttosto discorsivi e forse un po’ noiosi, ma ormai ci stiamo avviando verso la fine della storia ed era arrivato il momento di tirare le somme e di chiarire ciò che ancora era rimasto in sospeso dalla seconda parte. In ogni caso, commenti, critiche, pareri, sono sempre i benvenuti :)
Avevate capito più o meno tutte che a Castiel fosse accaduto qualcosa di, ehm, brutto (T__T) ma avrete anche capito che Dean non ha intenzione di restarsene con le mani in mano ancora a lungo, ora che sa come stanno realmente le cose.
Vi abbraccio forte, ci rivediamo tra due settimane†
Take care ❀*



†Sempre che io sopravviva al finale della serie, considerato il mio già precario stato emotivo dopo l’ultimo episod*piange*

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Capitolo 28
*** Corrente a favore ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene






28. Corrente a favore




10 giugno 2009

«Ti rendi conto di cosa mi hai appena chiesto, Dean?»

Si sentivano un po’ tutti quanti in colpa per essere piombati in quella stanza e aver fatto svegliare Ellen di soprassalto, ma l’attuale argomento di discussione non era un qualcosa che Dean avrebbe permesso al resto degli uomini di origliare con tanta facilità.

«Sissignore»

Per quanto vittima e colpevoli fossero già stati ampiamente riconosciuti, nel locale di stoccaggio delle apparecchiature elettroniche si respirava l'atmosfera tesa e vibrante di un processo per direttissima.

Né il ragazzo avrebbe potuto negare di stare a tutti gli effetti perorando una causa — e al meglio delle proprie possibilità — nonostante l’espressione granitica dell’Occulto la facesse apparire come persa in partenza.

«Bene, allora immagino che tu conosca già la mia risposta»

«Non sono venuto a…»

«Supponiamo pure che tu riesca a introdurti a Corte senza farti scoprire e giustiziare nel giro di mezzo minuto allora…»

Charlie lo interruppe con un cenno brusco.

«Se quanto riferisce Claire è vero — e Castiel è stato realmente plagiato da Michael, o da chi per lui — pensi davvero che tu, da solo, riusciresti a portarlo via da lì?» gli domandò, scettica «Pensi che te lo lascerebbe fare?»

Dean fu costretto a mordersi la lingua per non inveirle contro: non avrebbe giovato a nessuno, né a lui, né al suo piano, né tantomeno a Castiel.

«Troverò un modo»

Ma non avrebbe trascorso l’ennesima notte insonne a rivoltarsi su quel pavimento sempre più duro, e a pensare.

«Troverai un…»

«Dovessi chiuderlo in un sacco e trascinarlo fuori» Dean si sforzò di non soffermarsi su una simile eventualità un solo istante in più del tempo necessario a formularla «Non lo lascerò un giorno di più dentro quel dannato grattacielo»

«Ora ne ho veramente abbastanza»

«Char-»

«Non ho la minima intenzione di lasciarti suicidare in questo modo!»

«Lo hanno torturato, Charlie!»

Per giorni. Settimane intere.

Dean ne aveva sentite tante, di storie su Naomi.

Aveva posato lo sguardo — uno sguardo di troppo — sul cadavere sfigurato di Ketch: sui suoi lineamenti maciullati e le ossa scoperte, rimaste a biancheggiare sotto i suoi nervi sfrangiati.

«Chi mi assicura che non lo faranno di nuovo?»

E aveva paura. Una paura fottuta che gli corrodeva la gola e che gli pungeva gli angoli degli occhi.

«Che non lo stiano facendo anche adesso?»

Che Castiel fosse stato d’accordo oppure no, lui non l’avrebbe abbandonato alla mercé di Michael, non di nuovo. Non se gli angeli avevano trasformato le sue ninfee in un mucchio di cenere, non se la colpa di tutto ciò era anche sua.

E se anche la colpa fosse stata di qualcun’ altro, lui avrebbe fatto lo stesso.

Presa alla sprovvista da quell’improvviso scatto di dolore, Charlie non aveva ancora replicato. Anna e Missouri, dietro di lei, si scambiavano occhiate indecifrabili già da qualche minuto ma l’Occulto era fin troppo nervoso per badarci: la rigidità del suo corpo si era solo parzialmente addolcita, e continuava a tenere le braccia conserte e la gambe divaricate, nell’atteggiamento tipico di qualcuno a cui è rimasto ben poco da valutare.

«Dean…» mormorò «Adesso ascoltami…»

Lui ricacciò il pianto lì da dove era venuto e già preparava al secondo — terzo, quarto, quinto, avrebbero dovuto chiuderlo in un baule per tenerlo un altro giorno bloccato in quel deposito — tentativo di contrattazione, quando Anna si avvicinò alla ragazza e posò con delicata fermezza una mano sulla sua spalla.

«Charlene, io credo che la proposta di Dean potrebbe non essere del tutto irragionevole» asserì.

La faccia di Dean non seppe bene come reagire a una simile dichiarazione, ma nemmeno le sue labbra semiaperte e gli occhi sgranati in bilico tra l’immensamente grato, il sollevato e il confuso, riuscirono a competere con l’espressione di assoluto sbigottimento che attraversò il volto della ragazza, mentre le braccia le cascavano lungo il corpo.

«Stai scherzando» soffiò Charlie «Stai scherzando, spero»

«Ne stavamo parlando giusto stamattina» Anna cercò il sostegno dello sguardo di Missouri, poi prese un profondo respiro «Non sappiamo cosa è successo a Gabriel, ma il piano iniziale può ugualmente reggere» affermò «Il tunnel tra la quinta e la trentaquattresima è sgombro, il che significa che Michael non ha ancora idea di cosa la Resistenza stesse organizzando»

La sua compagna si accigliò «E tu come fai a saperlo?»

«Sono andata a controllare»

«Sei… quando?»

L’angelo abbassò gli occhi.

«Ieri notte»

L’Occulto strinse i pugni, e per un attimo Dean temette che stesse per rifilarle un cazzotto dritto sul naso, ma lei si contenne.

«Ti sei teletrasportata di nuovo a New York» scandì. Più che adirata, pareva orribilmente delusa «Nelle tue condizioni non completamente stabili, e hai ben pensato di non dirmi niente»

«Charlene ti prego, stammi a sentire» la supplicò l’altra «Raphael è morto, Gabriel si è scoperto un traditore, questo significa…»

«Significa che faranno a pezzi nel giro di tre secondi chiunque proverà a mettere piede in quel grattacielo ecco cosa significa!»

«Charlie adesso finiscila»

La voce di Missouri li raggiunse intrisa d’una severità che Dean non aveva mai udito prima. Charlie sobbalzò.

«Ti stai comportando come una bambina» la riprese la più anziana «E io non avrò la minima esitazione nel tirarti due sberle come quando avevi quindici anni se continui»

Gli effetti del suo rimprovero, e relativa velata minaccia, non tardarono ad arrivare.

La ragazza socchiuse gli occhi e si allontanò da Anna di un paio di passi.

«Bene» gracchiò, esortandola a continuare «Molto bene. Aniel, a te la parola dunque»

L’angelo accusò il colpo senza ribattere.

«Anche gli angeli hanno subito parecchie perdite durante l’attacco al nostro bunker. Hanno perso Gabriel, e Raphael è stato ucciso» riprese, cupa «Sono indeboliti, devono riorganizzarsi, non avremo un’altra occasione come questa» affermò «Missouri ha già contattato Jody. L’attacco alla Corte si prevedeva solo tra un mese, ma possiamo affrettare i tempi. Dal Vermont e dalla Georgia gli uomini sono già pronti a partire»

Già dimentica del rimprovero di Missouri, Charlie si produsse in una risatina sardonica «Ci sono ancora due Arcangeli a Corte» le fece notare «Vivi. E senza più Gabriel dalla nostra parte, e con Ellen e Jo fuori dall’Empire State Building non abbiamo più modo di eliminarli»

«Un modo ci sarebbe»

Anna si girò verso Dean.

«Introdursi all’interno del grattacielo e coglierli di sorpresa» dichiarò, fissandolo come se dovesse essere lui, alla fine, a premere il grilletto, ma il suo vero ruolo in tutta quella faccenda era ben altro e il ragazzo lo stava già cominciando a intuire.

«Michael mi voleva morta» chiarì infatti l’angelo subito dopo «E’ arrivato il momento che io ricambi il favore»

«Quale parte del ‘faranno a pezzi nel giro di tre secondi chiunque proverà a…»

L’ennesima obiezione di Charlie rimase sospesa su quell’ultima vocale come fosse l’unica lettera dell’alfabeto rimasta in suo possesso.

Quando richiuse la bocca era già troppo tardi.

«…un diversivo» esalò, incredula «Mandare un essere umano a morire per te è un… diversivo

«Nessuno sta mandando a morire nessun altro, qui» intervenne Missouri «Ma questa potrebbe essere davvero l’unica possibilità che abbiamo, e lo sai»

«Allora troveremo un diversivo migliore di questo»

«No»

Forte di quella improvvisa, quanto insperata, superiorità numerica, Dean non fece neanche caso al guizzo adirato che lampeggiò nelle iridi della sua appena contraddetta interlocutrice.

«E’ una scelta che sto facendo io» ribadì «Ed è oltretutto la migliore opportunità che abbiamo per…»

Alle spalle dell’Occulto, con lo sguardo ancora incatenato al suo, Anna annuì quasi impercettibilmente, e di colpo Dean sentì di essere appena stato catapultato in qualcosa molto più grande di lui.

«…per uccidere Michael, e per fermare questa follia» concluse, passandosi le lingua sulle labbra screpolate.

Missouri si lasciò andare ad un discreto sospiro, che si sarebbe potuto quasi scambiare per sollevato se non fosse stato per l’espressione tormentata che sembrava scavarle ancor di più le rughe sottili che le segnavano il volto, ma quantomeno una decisione era stata presa.

Sembrava stesse per aggiungere qualcosa alle parole del ragazzo ma d’un tratto la spalla destra di Dean cominciò a far male, e lui si ritrovò a fronteggiare due lastre di ghiaccio verdazzurro — l’ostinazione rabbiosa negli occhi di Charlie —, il dolore ovattato delle unghie che affondavano nella stoffa della sua maglietta e gli graffiavano la pelle.

«Ti ammazzeranno» sibilò lei, a un soffio dal suo viso «Non salverai Castiel, nessuno di voi due uscirà mai vivo da quel grattacielo»

«E tu che cosa faresti…»

L’Occulto era tanto vicino alla sua bocca da non necessitare che di un sussurro.

«Che cosa faresti se ci fosse Anna, al posto suo?»

Il dolore ovattato si ridusse a una pulsazione insignificante sul suo braccio.

«Fuori di qui»

Charlie ritrasse la mano e arretrò come se a Dean fossero appena spuntate delle ali, un paio di pantaloni bianchi e una cravatta di seta.

«Non proseguirò nessun altra discussione con te in questa stanza» decretò, lanciandogli un’occhiata ferale.

«Charlie…»

«Fuori di qui, ho detto. Avrai la mia decisione una volta che avremo finito di discuterne»

A lui non rimase molto altro da fare.




Passò un’ora intera.

Poi due.

«Lo so che intenzioni hai»

Suo fratello l’aveva trovato seduto per terra, con la schiena appoggiata alla parete, a due metri dalla porta che Charlie si era chiusa alle spalle con un movimento flemmatico che non aveva rassicurato Dean neanche un po’.

«Ho incontrato Jo poco fa»

«E?»

«Era impegnata a litigare con una ragazzetta bionda che — se ho ben capito — risponde al nome di Claire ed era una Collaborazionista fino all’altro ieri» esternò Sam, sistemandosi affianco a lui.

«Mh»

Dovevano essere trascorse ormai quasi tre ore.

Non che poi gli interessasse davvero, avere il benestare di Charlie, o della Resistenza, ma delle munizioni di scorta e magari un bel mitra scintillante come quello di Rufus gli avrebbero fatto comodo. Nonché una strada da seguire, Poughkeepsie era a cento chilometri da New York sì, ma in quale direzione? Avrebbe dovuto chiedere a Kevin di mostragli una cartina, prima di mettersi in marcia.

«Vengo con te»

Dean sussultò e per poco non finì con il picchiare la testa contro il muro.

«Cosa?!» esclamò «No!»

«Dean, non ti lascerò imbarcare da solo in una missione potenzialmente suicida» si limitò a osservare pacato suo fratello, come fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo.

«E non pensi…» il maggiore cominciò a guardarsi attorno nervosamente, come alla ricerca d’una contro-argomentazione altrettanto valida cui appigliarsi «…e abbandoneresti Jack?»

Sam gli posò una mano sul ginocchio.

«Jack è al sicuro» rispose, abbozzando un sorriso «Ci sono Anna, Patience, Kevin, e lui si è ufficialmente preso una cotta coi controfiocchi per quella Kaia… starà benissimo qui»

Dean deglutì a vuoto, eppure gli parve lo stesso di stare inghiottendo un sasso.

«Sam, io…»

Una parte di lui già si sentiva infinitamente più sollevata nel sapere che ci sarebbe stato suo fratello a coprirgli le spalle, ma l’altra…

«Io non posso riportarti lì dentro, come puoi…»

Dio, l’altra si sarebbe strappata le braccia piuttosto che permettergli di ritornare in quel grattacielo.

«Dean, credimi» lo fermò Sam, seguendo il filo muto dei suoi pensieri più che il flusso disordinato delle sue parole sconnesse «Tornare di nuovo in quel posto è l’ultima cosa che vorrei, ora, ma tu non sei l’unico ad avere un debito nei confronti di Castiel»

La porta arrugginita del locale di stoccaggio delle apparecchiature elettroniche cigolò e si aprì scricchiolando.

Charlie sembrava avesse appena ingoiato mezza dozzina di rospi, uno dietro l’altro.

«Partiremo tra cinque giorni» gli comunicò, telegrafica «Scenderemo lungo il corso dell’Hudson, con la corrente a nostro favore in dodici ore saremo di nuovo a New York»

Cinque giorni.

No, assolutamente impossibile. Troppo tempo.

«E se per caso non avessi intenzione di aspettare…» lo anticipò l’Occulto «E avessi intenzione di partire stanotte, puoi tranquillamente avviarti a piedi, sono comunque cinque giorni di cammino. O forse dovrei dire… potete?» domandò con un sospiro, squadrandoli entrambi da capo a piedi mentre si rialzavano.

Dean si lasciò scappare un gemito di frustrazione.

«Andate a chiamare Crowley e poi tornate qui» proseguì lei «Se aveste difficoltà a trovarlo, vi consiglio di cercarlo nel posto più buio del magazzino»

«Crowley?»

Charlie alzò un sopracciglio.

«Volevate forse entrare nell’Empire State Building dall’ingresso principale e chiedere gentilmente al concierge angelico di turno di accompagnarvi fino all’ottantaseiesimo piano?» domandò, sinceramente stupita «Crowley sapeva quel che faceva, quando ci ha chiesto di risparmiargli la vita in cambio della sua collaborazione con la Resistenza» spiegò «Ha trascorso vent’anni chiuso in quell’edificio, possiede informazioni che Jo ed Ellen non avrebbero mai avuto il tempo di procurarsi»

«Ci penso io a lui» intervenne Sam «Credo di sapere dove potrebbe essersi sistemato» mormorò tra sé e sé, avviandosi lungo il corridoio.

«Charlie… voglio che tu sappia che…»

«Non provarci nemmeno, Dean»

L’Occulto era rimasto a braccia conserte, a fissare la schiena di Sam che si allontanava.

«Non voglio essere ringraziata. Non per questo. E non ho affatto cambiato opinione in merito al tuo… piano, ma Missouri ha ragione. Colpire gli angeli — adesso — è la nostra unica possibilità e poi… Eri venuto a chiedere il mio aiuto, non il mio permesso»

Dean stava per risponderle quando si accorse che la ragazza non gli aveva in realtà fatto una domanda.

Charlie gli si avvicinò.

«Abbatterei l’Empire State Building a colpi di piccone» gli confessò.

Le sue iridi erano ancora di ghiaccio ma non tagliavano più come prima. Adesso erano soltanto fredde, e tristi.

«Se Anna fosse lì dentro, e avessi anche solo il sospetto che qualcuno le abbia fatto del male. Smonterei centodue piani mattone per mattone fino a trovarla»

Dean tenne lo sguardo fisso nel suo finché non fu troppo da sopportare per entrambi. Dopodiché lei lo oltrepassò, allungandogli una carezza sul braccio.

«Vieni, torna dentro» lo esortò a rientrare, tenendogli aperta la porta «Ogni minuto è prezioso e abbiamo parecchie questioni di cui occuparci, perciò augurati che tuo fratello trovi Crowley in fretta e non si perda in chiacchiere»

Crowley.

Chissà dove aveva trascorso le ultime notti dentro quel deposito. Nonostante lo spazio striminzito che tutti loro si erano improvvisamente ritrovati a condividere, Dean non l’aveva incrociato nemmeno una volta.

Non l’aveva ancora ringraziato per aver salvato la vita a Jack, rifletté, e già scopriva che gli sarebbe servito nuovamente il suo aiuto.

Tutto sommato, si ritrovò costretto ad ammettere, non si era affatto pentito di avergli stretto la mano quella sera.













Ciao a tutti, (riemergendo un attimo dal lago di lacrime in cui sto nuotando da ieri) volevo ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato nelle ultime settimane e annunciarvi che i capitoli discorsivi sono ufficialmente finiti, quindi — sperando che quest’aggiornamento vi sia piaciuto e che voi abbiate ancora voglia di continuare a seguire questa storia — ci vediamo tra due settimane per un po’ d’azione (finalmente ^^) e forse anche per un po’ di Castiel… chissà ^^
Vi abbraccio fortissimo (che ne ho veramente bisogno).
Take care ❀*

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Capitolo 29
*** Acciaio ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene



 

29. Acciaio

 

16 giugno 2009

Affatto pentito un emerito cazzo.

«Lo prenderò a pugni»

Alla sua sinistra, Sam gli avrebbe certamente dato ragione. 

Senonché aprire la bocca in quel momento avrebbe significato incamerare un quantitativo ancora maggiore di quell’aria nauseabonda, e il colorito di suo fratello era appena riuscito a recuperare una sfumatura vagamente salubre, dopo venti minuti trascorsi a trattenere i conati.

«Parola mia, questa è la volta buona che gli cambio i connotati»

Dal canto suo, Dean era troppo teso persino per vomitare, o per prestare attenzione all’odore pestilenziale che impregnava le pareti del cunicolo scuro che lui e suo fratello stavano attraversando.

Le fogne.

Le fottute, sgocciolanti, schifosissime fogne.

Non erano bastate quattordici ore appiattiti sul fondo di una barchetta che doveva avere pressappoco la stessa età di Missouri, no. 

All’altezza del Lincoln Tunnel, a circa due chilometri in linea d’aria dall’Empire State Building, lui e Sam si erano separati dal resto degli umani e avevano imboccato il ‘canale di scarico delle acque reflue’, come Crowley l’aveva definito un secondo prima di spiegargli che avrebbero dovuto infilarcisi dentro e percorrerlo fino ad arrivare al basamento interrato del grattacielo.

Quando Dean gli aveva chiesto come avesse fatto a procurarsi, non solo le piantine dettagliate di quasi ogni piano dell’edificio, ma persino lo schema planimetrico dell’impianto idrico sotterraneo di Manhattan, l’uomo aveva alzato le spalle e aveva mugugnato qualcosa che assomigliava a un fosco ‘ognuno ha i propri hobby’. 

Più probabilmente — aveva riflettuto il ragazzo — erano anni che l’ex Collaborazionista era alla ricerca di un modo per svignarsela dalla Corte — e l’aveva anche trovato, a giudicare dalla scioltezza con la quale le sue dita indicavano tale o talaltro passaggio sulla cartina — ma non aveva mai avuto il coraggio di metterlo in pratica.

Che poi, se anche fosse riuscito a fuggire, non avrebbe di certo saputo dove andare; non con quella giacca azzurrognola e la reputazione che si portava appresso.

«Sam, dammi una mano»

Il maggiore controllò per l’ennesima volta che fossero arrivati nel punto giusto, sul percorso che Crowley aveva loro tracciato, gettò a terra la sacca che aveva finora tenuto in spalla e ne estrasse quattro piccoli cilindretti gialli.

«Queste vanno piantate qui e qui» gli ricordò, allungandogliene due, assieme a un vecchio scalpello arrugginito. Sam rispose con un silenzioso cenno d’assenso e conficcò lo scalpello nella parete di calcestruzzo davanti a lui. 

Lo sciabordare dell’acqua putrida che correva verso il mare — lungo il canale muffoso che si trovava ad appena venti centimetri dal marciapiede su cui loro si fermati — coprì buona parte del rumore.

Dean tirò un sospiro di sollievo. 

Si accovacciò sui talloni, impugnò saldamente il suo scalpello e si mise anche lui all’opera.

Le quattro micro cariche d’esplosivo andavano posizionate ad almeno dieci centimetri di profondità all’interno del muro. Non era un lavoro particolarmente difficile e la roccia era vecchia e impregnata d’umido, in poco meno di mezz’ora avevano già finito.

Più che un esplosione, si trattò di un tonfo sordo. Di quattro piccoli colpi soffocati, anzi, il cui brontolio venne anch’esso portato via dallo scarico della fogna.

Sam punzecchiò un’altro po’ la parete così indebolita finché il reticolo di crepe provocato da quelle — per quanto piccole — ben calibrate deflagrazioni non si sfaldò in un varco abbastanza grande da potercisi passare attraverso.

Oltre il calcestruzzo sfondato — nel cono di luce giallognola che la torcia di Dean proiettava attraverso il buco — s’intravedeva un locale dai muri intonacati, una porta rugginosa e una strana specie di tombino, proprio al centro del pavimento.

Il vano di servizio al cui interno si trovava il pozzetto d’ispezione fognaria dell’Empire State Building.

L’impianto idraulico del grattacielo convogliava tutti gli scarichi in quattro collettori principali, ma il pozzetto d’ispezione soltanto di uno di questi era stato interrato dentro la struttura — e ad appena un muro di distanza dai tunnel delle fognature — anziché all’esterno, sotto la strada.

Mentre analizzavano i dettagli del percorso — una manciata di giorni prima, ancora nel vecchio deposito di Poughkeepsie — Crowley si era lanciato in una spiegazione incredibilmente tecnica riguardo al cosa fosse e al cosa servisse suddetto elemento ingegneristico, ma va da sé, nessuno l’aveva minimamente ascoltato.

La sua esauriente descrizione si era interrotta a metà tra ‘un indispensabile requisito per la manutenzione’ e ‘un collegamento con le tubature’, ma in ogni caso a che cosa servisse il benedetto pozzetto a Dean non sarebbe potuto fregare di meno. 

L’unica cosa importante era che, adesso, lui e Sam si trovavano dentro l’Empire State Building. 

Dean puntò la torcia verso il soffitto.

«Beccata!»

Le indicazioni di Crowley erano state precise quasi al centimetro: la grata del condotto d’areazione luccicava nell’angolo in alto della parete, a poco più d’un paio di metri d’altezza, e non si trattava di un condotto qualsiasi. Molto più ampio del resto delle condutture sotterranee, era direttamente collegato al canale centrale di circolazione dell’aria che risaliva senza sbarramenti fino al centesimo piano.

D’altronde già negli anni Cinquanta si sapeva — aveva chiosato l’ex-Collaborazionista, picchiettando con la matita sulla cartina — che i pozzetti d’ispezione fognaria necessitavano di continua ed adeguata ventilazione. (Dean aveva roteato gli occhi con tale veemenza che persino Missouri si era messa a ridere).

Sam riuscì ad allentare le viti che saldavano la grata al muro, la sfilò via, si aggrappò con le dita alla cornice metallica che delimitava il bordo del condotto e si issò, sbuffando, al suo interno. Dean lo raggiunse subito dopo.

Anna avrebbe aspettato che loro fossero sufficientemente in alto — come anche Dean ricordava, era impossibile teletrasportarsi dentro la Corte — e poi avrebbe utilizzato il loro stesso passaggio per introdursi nell’edificio.

Era praticamente impossibile che gli angeli si accorgessero del varco che si erano aperti nel sottosuolo, semmai li avessero scoperti sarebbe stato nel condotto d’areazione, oppure li avrebbero sorpresi lungo le scale, o a metà di uno dei loro corridoi tutti uguali.

Semmai. Beh.

L’unica cosa su cui erano stati tutti d’accordo — dentro l’angusto locale di stoccaggio delle apparecchiature elettroniche — era che, presto o tardi, gli angeli li avrebbero individuati.

L’intera attenzione della Corte sarebbe stata puntata su di loro e Anna avrebbe avuto il tempo di raggiungere Michael — come potesse la presenza di un Arcangelo essere percepita dal resto della truppa celeste a decine di metri di distanza per lui sarebbe sempre rimasto un mistero, ma tant’era — e forse persino la tempestività di piantargli un pugnale nel petto, o una pallottola in fronte — quello era un altro particolare che non gli era del tutto chiaro — prima che lui la polverizzasse con uno schiocco di dita.

Ma per quando gli angeli li avessero trovati, Dean voleva avere Castiel dietro di sé.

Vivo, intero e senziente.

Al resto avrebbe pensato dopo.

Sam procedeva davanti a lui: vista migliore e memoria più acuta, e con suo fratello a indicargli la strada il senso di claustrofobia che gli trasmetteva il metallo lucido di cui era rivestito il condotto pareva persino attenuarsi.

Dal canale d’areazione principale si diramava una complicata serie di collegamenti secondari, per la maggior parte troppo stretti per potercisi intrufolare. Soltanto ogni cinque piani, in corrispondenza di quelli che dovevano essere i punti di manutenzione dell’impianto, le biforcazioni del tunnel erano sufficientemente larghe da permettere loro di passare. 

Dean si asciugò il sudore dalla fronte.

Non era una salita in verticale, il canale si snodava spezzato nelle viscere del grattacielo, alternava tratti piani — in cui si limitavano a gattonare silenziosamente sulle lastre metalliche — ad altri completamente perpendicolari al suolo, e se in quei punti il condotto non fosse stato fornito di corte ma funzionali maniglie — un po’ come i pioli di una scala — avrebbero avuto non pochi problemi a risalirlo.

Sam si fermò in corrispondenza dello snodo dell’ottantesimo piano.

«Credo… credo che ci convenga uscire qui» sussurrò.

Dean sollevò un sopracciglio.

Teoricamente avrebbero avuto la possibilità di arrivare direttamente all’ottantacinquesimo, appena un livello sotto l’appartamento in cui avrebbe dovuto ancora —  almeno, stando a quanto gli aveva detto Claire — trovarsi Castiel, ma Crowley gli aveva caldamente sconsigliato di utilizzare quel passaggio. 

Alcuni anni prima il soffitto di quel piano aveva subito una serie di cedimenti che non era sicuro fossero stati sistemati del tutto, e piombare nel bel mezzo del corridoio in una nube di intonaco e calcinacci non corrispondeva esattamente ai concetti di discrezione e prudenza con i quali Charlie aveva riempito i tre quarti delle loro ultime giornate trascorse a Poughkeepsie, quindi — sempre teoricamente — rimanevano due possibilità.

Uscire subito allo scoperto e raggiungere l’ottantaseiesimo piano a piedi, utilizzando le scale, oppure salire ancora attraverso il canale d’areazione e arrivare fino al novantesimo, per poi scendere.

Entrambe le opzioni si prospettavano ugualmente orrende, ma la prima avrebbe implicato posare di nuovo i piedi — per quanto per pochi passi — sulla moquette nera dell’ottantaquattresimo piano.

Perciò, di fatto, per Dean, l’opzione era sempre stata una sola.

«Sam, non dire cazzate» sibilò, accennando alla cartina stropicciata che suo fratello teneva aperta sulle ginocchia, ormai a stento decifrabile alla luce della sua pila elettrica quasi scarica «E poi così dovremo percorrere solo quattro piani anziché sei» aggiunse.

Le labbra di Sam si arricciarono in una smorfia tormentata: in quel modo avrebbero evitato Lucifer, ma raggiungere il novantesimo piano avrebbe significato sbucare dritti dritti nel regno insanguinato di Naomi.  

La torcia di Dean emise un debole ronzio e cominciò a sfarfallare pericolosamente.

L’autonomia di quell’aggeggio non era poi così corta, valutò il ragazzo, perciò erano di certo trascorse già diverse ore da quando lui e Sam si erano incamminati nelle fognature.

Anna doveva essere già nel grattacielo — forse solo qualche decina di metri sotto di loro — e gli uomini della Resistenza dovevano essere già arrivati al tunnel tra la quinta e la trentaquattresima strada. 

«Muoviamoci» 

La pila elettrica di Dean si spense pochi secondi dopo. 

Quella di Sam resistette fin quasi alla fine del tunnel, abbandonandoli giusto all’imbocco dello snodo del novantesimo piano, e loro furono costretti a percorrere l’ultima ventina di metri completamente al buio.

Per questo, in un primo momento, lui quasi non ci fece caso.

Quando suo fratello — dopo averle cercate a tentoni per almeno una buona decina di lunghissimi e frustranti minuti — riuscì finalmente ad allentare le viti della griglia metallica e a mettere il naso fuori dal condotto, Dean lo seguì attraverso quell’oscurità ovattata alla quale i suoi occhi si stavano pian piano abituando e ci mise qualche istante ad accorgersi che quel buio non era normale. 

Non erano più nell’impianto di ventilazione. Fuori era pieno giorno e i livelli superiori dell’Empire State Building abbondavano di finestre: le ricordava chiaramente, sulle planimetrie che Crowley aveva loro mostrato e che lui e Sam avevano imparato pressoché a memoria prima di lasciare il deposito di Poughkeepsie.

Eppure intorno a loro ogni cosa era tenebra e acciaio.

Per quanto strizzasse gli occhi Dean non riusciva a scorgere nemmeno una lampadina attaccata al soffitto, o da qualsiasi altra parte.

La sola, fievole, sorgente luminosa, che provasse a scalfire la densa notte nella quale cominciava quasi a sentirsi galleggiare, era una traballante lama di luce bianca in fondo al corridoio in mezzo al quale lui e suo fratello erano sbucati. 

Corridoio che era molto più stretto di quanto Dean si sarebbe immaginato, e stranamente calmo: non si udivano pianti, né lamenti, né grida in lontananza. Incassate nel muro, a intervalli regolari, s’intravedevano solo delle alte lastre metalliche, alcune con una strana specie di finestrella sporgente, come una sorta di sportello o di scuro.

La sua mano destra corse istintivamente a cercare il profilo rassicurante della pistola che teneva assicurata alla cintura.

Al suo fianco, Sam sembrava turbato almeno quanto lui. I suoi occhi si muovevano frenetici da una parte all’altra, come alla ricerca di un punto di riferimento mancante, e quando Dean chiuse le dita intorno al suo gomito, in una muta richiesta di conferma sulla direzione da prendere, il più piccolo per poco non sobbalzò. 

Proseguirono lentamente, per un paio di minuti, nel senso opposto rispetto alla lama di luce bianca.

Il silenzio che li avvolgeva era talmente irreale, e il buio così fitto, che Dean si ritrovò a chiedersi se non avessero sbagliato strada e fossero per caso finiti in una qualche zona inutilizzata del grattacielo, in qualche andito dimenticato, non segnato neanche sulla mappa.

Persino i loro passi sembravano non produrre suono.

Era sul punto di chiedere a Sam di ricontrollare la cartina — anziché allontanarsene, avrebbero potuto avvicinarsi allo spiraglio luminoso in fondo al corridoio e assicurarsi di essere nel posto giusto, invece di rischiare stupidamente di perdersi in quell’oscurità inattesa — quando si rese conto che suo fratello si era fermato una manciata di metri dietro di lui, davanti ad una delle lastre d’acciaio montate sulla parete.

Fissava qualcosa in corrispondenza della finestrella, anzi, del vero e proprio sportello — l’unico aperto, evidentemente, altrimenti Sam non l’avrebbe mai notato — incastonato sul pannello metallico.

Dean lo raggiunse, guardingo, ma ormai era talmente convinto di trovarsi nel posto sbagliato — nessun rumore, niente urla, niente sangue che colava dai muri — da sentirsi sufficientemente sicuro di poter evitare il linguaggio dei segni. 

«Sam…» sussurrò, avvicinandosi «Che cosa stai…»

Ma si sbagliava.

Oh, se si sbagliava.

Perché la lastra d’acciaio su cui suo fratello aveva appena posato le dita altro non era che una porta, fredda, senza serratura, che si apriva su una stanza dalle dimensioni decisamente inusuali ma che Dean avrebbe saputo riconoscere fin troppo bene — perché era stato in una cella molto simile che lui aveva trascorso la notte più disperata della sua vita, finché Castiel non gli aveva tolto quella benda dagli occhi — e perché, in quella cella, c’era Gabriel.

La scarica di adrenalina che risalì fulminea la sua colonna vertebrale gli montò un fischio acuto nell’orecchio destro che lo assordò completamente per una decina di secondi.

Erano davvero al novantesimo piano. 

Ad osservare l’interno di una delle famigerate ‘celle senza luce’ di cui Claire gli aveva fatto menzione mentre si asciugava le lacrime sulla sua maglietta, solo che non erano semplicemente le celle, ad essere senza luce. 

Era l’intero corridoio.

Naomi doveva aver fatto murare tutte le finestre.

Quando il suo udito ritornò normale Sam si stava già adoperando per aprire la porta: aveva poggiato entrambi i palmi sulla superficie levigata e borbottava parole incomprensibili a bassa voce — il frutto delle sue interminabili lezioni di enochiano con Jack — fermandosi di tanto in tanto con la fronte aggrottata, nel tentativo di richiamare alla memoria fino all’ultimo fonema angelico utile.

Il maggiore ritornò con lo sguardo alla finestrella. 

La grandezza della cella non superava i due metri per due, ma Gabriel se ne stava seduto — inginocchiato sui propri talloni — giusto in mezzo, e lo fissava dritto in viso esattamente come era accaduto durante la notte in cui era nato Jack, e lui l’aveva sorpreso senza scarpe, fuori dalla sua stanza, alla ricerca semi-convulsa di Castiel. 

In quel buio, però, il ragazzo riusciva a stento a distinguere la sagoma dell’Arcangelo, nonché appena una parte dei suoi lineamenti. Il candore immacolato dei suoi vestiti certamente aiutava, ma di fatto lo scintillio degli occhi di Gabriel era in quel momento l’unica debole fonte di luce a sua disposizione.

La lastra d’acciaio si sganciò dal muro con uno scricchiolio sinistro. 

Dean tirò fuori la pistola ed ebbe giusto il tempo di rialzare gli occhi su Sam prima che questi, nello spazio di tre soprannaturali falcate, si precipitasse nella minuscola stanzetta, si inginocchiasse davanti ad un decisamente troppo taciturno Gabriel, si piegasse in due e…

Dean si tappò la bocca con la mano libera, perché altrimenti la sua bestemmia l’avrebbero sentita fino in Colorado.

Per carità, a proposito del tipo di relazione consenziente che durante i quattro anni precedenti suo fratello avesse deciso di intrattenere con nientemeno che — santa merda — un altro Arcangelo, lui aveva ancora un discreto quantitativo di dubbi che prima o poi qualcuno avrebbe dovuto sciogliergli, ma era piuttosto sicuro che non si trattasse del genere di rapporto che induce il vomito.

Sam finì di rimettere e sputacchiò l’ultimo rimasuglio di bile in un angolo.

Gabriel non si era mosso d’un millimetro né aveva detto una sola parola — mentre Sam rigurgitava l’anima pressappoco sulle sue ginocchia — si era limitato a spalancare gli occhi e a girare la testa verso di lui, e quella situazione stava cominciando a farsi decisamente surreale. 

Al diavolo le reticenze.

Dean recuperò l’accendino dalla sacca.

«Figli di…»

Gabriel alzò un sopracciglio in un’elegante smorfia di disapprovazione che non sortì alcun effetto: il ragazzo continuò a sibilare insulti sempre più coloriti mentre rituffava le mani nella sacca alla ricerca del suo coltello.

Ma l’Arcangelo, d’altronde, di più non poteva fare.

Non con le labbra cucite.

«Ci penso io…» mormorò Sam, rimettendosi diritto «Tu fammi solo un po’ di luce…» 

Lui gli passò di buon grado il coltello e indietreggiò, spostandosi leggermente di lato per lasciare a suo fratello il più ampio spazio di manovra possibile. E perché avvertiva anche lui, adesso, una sgradevole e quantomai nauseante pressione sullo stomaco.

Il suo status di Arcangelo era riuscito a risparmiargli la vita e forse anche la tortura, ma in compenso Michael, dopo avergli probabilmente anche curato le ferite riportate durante lo scontro con Raphael — tralasciando l’aspetto pietoso della sua bocca, infatti, Gabriel sembrava godere di perfetta e invidiabile salute — doveva essersi premurato di mettere suo fratello in condizioni di non nuocere ulteriormente alla causa. 

Dean rabbrividì.

In condizioni di non poter fare praticamente niente.

L’Arcangelo aveva i polsi legati dietro la schiena — così come le  caviglie — e l’unico movimento non doloroso che quella posizione costretta doveva permettergli era la rotazione più o meno libera del collo.

In sostanza, Gabriel era stato degradato allo stato di vecchio soprammobile, e conseguentemente relegato in una scatola d’acciaio dalla quale non sarebbe mai più uscito.

«Dean, avvicinati non… non riesco a vedere niente…»

Il filo del coltello era troppo rozzo e i punti — incrostati e tirati fino all’ultimo con precisione raccapricciante — troppo piccoli. E per quanto si sforzasse la presa di Sam intorno all’impugnatura non era poi così salda: di tanto in tanto la punta scivolava oltre la traccia nera della sutura, il torace di Gabriel si alzava e si abbassava di scatto e lui strizzava le palpebre, mentre una nuova scia di sangue lasciava le sue labbra. 

Dean aveva perso il conto delle volte in cui suo fratello aveva bisbigliato ‘Mi dispiace’ e l’Arcangelo aveva riaperto immediatamente gli occhi soltanto per poterli alzare al cielo, con un’espressione che sarebbe potuta risultare persino comica, se solo fosse comparsa sulla sua faccia in un altro frangente.

Sam sfilò via l’ultima cucitura e abbandonò il coltello sul pavimento.

«Immagino che tu non possa ancora curarti da solo…» sussurrò rialzandosi e portandosi rapidamente alla spalle di Gabriel per esaminare le costrizioni che lo immobilizzavano «Devono essere simili alle manette anti-angelo di Charlie, non sono molti i sigilli in grado di bloccare i poteri di…»

Gabriel si tese in avanti e sputò un coagulo di sangue scuro.

«Sam…» biascicò, ad un volume a malapena udibile. 

«…i poteri di un angelo, figuriamoci quelli di un Arcangelo, ma Jack mi ha spiegato che…»

«Sam…»

«…potrebbe volerci qualche minuto, ora non sono certo di ricordare bene ma…»

«Samuel…»

Apparentemente sordo persino alla vibrazione del proprio nome completo, suo fratello continuava ad armeggiare in uno stato di logorroica trance intorno ai polsi ammanettati dell’Arcangelo.

«Mi perdonerai mai, Samuel?»

Sam si fermò.

«Per… per cosa?»

Dean si tirò di nuovo in piedi e tornò, discretamente, a scrutare il buio attraverso la finestrella.

«Avrei dovuto portarti via da lì lo stesso giorno in cui ti ho trovato semi-svenuto su quella moquette»

La voce di Gabriel era molto diversa da come lui la ricordava; non era limpida, né tantomeno stentorea; assomigliava di più a un sommesso gorgoglio.

«Gabriel, non…»

«Mi sono comportato da codardo»

«Lo sai che lui non te l’avrebbe mai lasciato fare»

Nonostante fosse girato di spalle, a Dean parve quasi di vedere la schiena di Sam che si drizzava.

«Avrebbe fatto a pezzi Jo, ed Ellen, e dopo anche… anche te» continuò suo fratello, risoluto, nonostante l’Arcangelo stesse già provando a interromperlo «Perciò non hai un bel niente da farti perdonare, Gabe»

Il silenzio d’acciaio del novantesimo piano si ruppe con schianto secco.

Con l’eco aspra di schiaffo che rimbombò nel corridoio, rimbalzando sulle pareti grigie della cella, seguita da un lamento e da un basso tonfo, e da qualcosa che assomigliava a… un tintinnio?

Sam fece un balzo in avanti — estraendo la sua pistola e parandosi davanti a Gabriel, ancora legato e pressoché inerme, accroccato su stesso — pronto a fronteggiare qualsiasi minaccia stesse per sfondare la porta e aggredirli, ma una volta puntata l’arma contro la finestrella l’oscurità aveva già inghiottito ogni rumore.

Il minore abbassò il braccio e lasciò andare un sospiro angosciato.

«Dobbiamo muoverci» soffiò, rimettendo la sicura alla pistola «Dean…»

Ma Dean aveva smesso di ascoltarlo.

Il gemito che aveva appena attraversato il corridoio gli si era infranto addosso in una moltitudine di schegge di vetro.

Che un fulmine lo incenerisse se lui non fosse stato in grado di riconoscere quella voce. 

La sua voce.

Che annaspava sotto l’onda nera di uno schiaffo.

Si girò verso Gabriel ma le sue corde vocali non riuscirono ad articolare alcun suono, una delle schegge doveva essergli rimasta incastrata in gola.

«Ultima porta in fondo» 

La scheggia sprofondo giù e si conficcò poco sopra il suo sterno. 

«Segui la luce»

L’ultima sillaba finì per contorcersi in un sibilo che schizzò una nuova riga rossa all’angolo della bocca dell’Arcangelo. La riga si spezzò sul suo mento e colò sulla sua giacca bianca, macchiandola di grosse gocce nere.

«Io non credevo Dean, io… mi dis…»

Prima che Dean sgattaiolasse fuori, Sam gli aveva sfiorato la spalla e aveva bisbigliato qualcosa che lui aveva già dimenticato.

La scheggia continuava a scendere. Gli stava squarciando i polmoni.

La fiammella dell’accendino che suo fratello doveva aver appena acceso, nella cella, si rifletteva sull’anta metallica e proiettava buffe ombre arancioni oltre la finestrella. 

Dean camminò a ritroso, fino ad arrivare al punto in cui lui e Sam erano usciti dall’impianto di ventilazione e dopo proseguì ancora, verso la lama di luce alla fine del corridoio, che sembrava tagliare il buio in due. 

Grondare sangue luminescente.

La quiete irreale che fino a qualche secondo prima aveva accompagnato i suoi passi iniziò lentamente a incrinarsi.

«Sono stanca…»

Qualcuno parlava, oltre la lama di luce. 

«Sono veramente, veramente stanca…»

La porta davanti alla quale Dean si era fermato non aveva nessuno sportellino al centro; era un unico blocco d’acciaio, apparentemente lasciato socchiuso, da cui filtrava un chiarore intollerabile.

«Da quanti giorni siamo qui? Dieci?»

Il ragazzo accostò il viso allo spiraglio luminoso. 

L’angolo di visuale che quella stretta apertura gli concedeva non raggiungeva i dieci gradi e tutto ciò su cui i suoi occhi riuscivano a posarsi sfolgorava di bianco accecante.

«Ma anziché andare avanti sembri essere regredito allo stato delirante di un mese e mezzo fa»

Anche la figura che si muoveva avanti e indietro — entrando e uscendo dal suo ridotto campo visivo a intervalli orribilmente regolari — era candida, soltanto un po’ meno abbagliante del resto della stanza.

«Ne vale davvero la pena?»

Naomi si fermò oltre la portata del suo sguardo. 

«Voglio che tu mi risponda. Ne vale davvero la pena, Castiel?»

Dean non lo vedeva.

«Sorella…» 

Per quanto si contorcesse, si avvicinasse alla porta o storcesse il collo, le sue pupille non incrociavano altro che bianco elettrico. 

«Sorella, ti prego, ti…»

Lo schiaffo che zittì Castiel stavolta bruciò anche sulla sua faccia. 

«Ti avevamo concesso un’altra possibilità…»

Il ticchettio delle scarpe di Naomi sul pavimento riprese, ma molto meno controllato e molto più frenetico di prima.

«L’attacco a Bay Ridge poteva essere la tua occasione per dimostrare di essere davvero ritornato…» sibilò l’angelo «E io ero sicura che tu fossi ritornato, che gli avresti tagliato la gola senza battere ciglio e invece…»  

Il suono smorzato di uno sbuffo.

«Invece ti è bastato rivederlo una volta sola…»

«Me ne andrò via!» 

Il timbro di Castiel cominciò a salire disperatamente in altezza.

«Non intralcerò nessuno dei progetti di Michael, non cercherò la Resistenza, non… non cercherò lui, mi chiuderò nel ventre di una montagna e sarà come se non fossi mai esistito, mi…»

«Per essere un traditore, fratello, ti facevo più intelligente di così»

Naomi fece schioccare la lingua contro il palato, e Castiel s’interruppe di colpo. 

Di nuovo quel bizzarro tintinnio.

«Nessun altro angelo abbandonerà la Corte, quella piccola irriconoscente di Aniel è stata la prima e l’ultima»

In pieno contrasto con quell’impietosa sentenza, le parole di Naomi si tinsero d’una sfumatura quasi morbida «Quando gli hai detto di non averla trovata…» chiese, dolcemente «E’ stata quella la prima volta che gli hai mentito?»

«Sorella, ti prego…»

«Michael avrebbe dovuto capirlo già allora… » sospirò lei «E allora sarebbe stato molto più facile farti rientrare nei ranghi ma così…»

«…n-non servirà a niente, non…»

«Sono stata evidentemente troppo ottimista nei tuoi confronti»

«NO!»

Le urla di Castiel erano uguali alle urla di un qualunque essere umano.

«Per favore… per favore non di nuovo…» 

Stridule.

«Naomi ti prego…»

Senza forma. 

«Ti prego, ti prego, ti-»

La prima cosa che Dean riuscì a mettere a fuoco fu la chiazza di sangue sulla parete.

La seconda, la sagoma ributtante di Naomi che si accartocciava da un lato: il proiettile le aveva trapassato il braccio destro, proprio nell’incavo del gomito, fermandosi nel muro dietro di lei.

Castiel fu solo la terza cosa che vide, dopo aver spalancato la porta d’acciaio con un calcio e aver esploso un colpo il cui frastuono doveva essersi sentito ad almeno trenta piani di distanza, ma che lui aveva a stento percepito.

L’angelo lo fissava a occhi sbarrati.

Le labbra spaccate, un livido violetto che gli si allargava sullo zigomo — lì dove era stato schiaffeggiato — la giacca e i pantaloni laceri e macchiati, come se li avesse tenuti addosso per mesi.

Un anello di ferro chiuso intorno al suo collo.

Incatenato al pavimento nemmeno fosse un cane.

Quando Castiel muoveva la testa, la catena tintinnava.












Ciao a tutti!
Un gigantesco benvenuto ai nuovi lettori che sono approdati in questi, ehm, placidi lidi nelle ultime settimane e un altrettanto sentitissimo — ma è una parola decisamente riduttiva — grazie a chi continua a seguire e a recensire questa storia .
Ok, il lavaggio del cervello che era stato fatto a Castiel non era poi così irreversibile, questa è una buona notizia, no?
*Castiel: taci, per l’amor del cielo Loth, taci!*
Ci rivediamo tra due settimane, probabilmente di domenica poiché sabato sarà una giornata molto incasinata in cui non so se avrò un’adeguata connessione internet (argh!)
Un abbraccio grande.
Take care *

P.S. Chiedo perdono a tutti i possibili ingegneri, architetti, idraulici et similia in ascolto. Tutte le conoscenze d'ingegneria civile che ho millantato in questo capitolo sono solo l'opinabile frutto di un'intensa serie di nottate trascorse su Wikipedia (e per cui Google continuerà a suggerirmi siti dove acquistare tubi e guarnizioni fino alla prossima primavera).

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Capitolo 30
*** Aria ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene



 

30. Aria

 

16 giugno 2009

Castiel era incatenato al centro di una stanza senza ombre.

Nel brevissimo lasso di tempo che intercorse tra lo sparo e il ruggito di dolore che eruppe dalle labbra di Naomi — dirottando immediatamente ogni attenzione su di lei — tutto ciò che la visione periferica di Dean registrò, intorno alla sagoma dell’angelo semi-accasciata sul pavimento, furono solo metallo verniciato in bianco e spigoli perfettamente squadrati.

Se non avesse avuto il blu sgranato dei suoi occhi a fargli da punto di riferimento, il ragazzo non avrebbe saputo distinguere il pavimento dal soffitto, o da una delle pareti liscissime che delimitavano il perimetro del cubo asettico in cui aveva appena fatto irruzione. 

A rompere la stordente identicità di quelle superfici immacolate erano solo lo schizzo di sangue sul muro e la porta alle sue spalle, spalancata sul corridoio buio come la bocca di una voragine infernale.

«TU!»

La pistola sfuggì dalla sua presa prima che Dean potesse premere di nuovo il grilletto: attraversò, volando, l’intera stanza e infine ricadde al suolo lasciando un leggero bozzo sulla parete metallica dove era andata a sbattere. 

Nonostante avesse un braccio fuori uso, a Naomi era bastato un cenno della testa per disarmarlo.

Al movimento seguente della sua mano ancora sana la porta della cella si richiuse di colpo, i contorni dell’anta sbiadirono fino a dissolversi, e fu come se quell’entrata non fosse mai esistita.

Dopodiché Naomi scattò verso di lui e lo inchiodò al muro con la sola forza dell’avambraccio sinistro.

«Come sei riuscito ad arrivare fin qui?» stridette «Chi ti ha fatto entrare nel grattacielo?»

Dean commise il madornale errore di incrociare le sue iridi avvelenate e una fiammata di dolore acuto gli dilaniò il torace, facendolo rattrappire su se stesso.

Lei lo afferrò dal bavero della maglietta e lo sollevò finché i suoi piedi non si staccarono da terra.

«Come hai fatto?» ripetè, sibilando, mentre lui provava invano a liberarsi dalla sua stretta, scalciando e dibattendosi contro il muro «Rispondimi…» continuò soavemente, abbassando la voce e avvicinandosi al suo viso paonazzo «E forse ti riconoscerò la dignità di morire in silenz-»

Dean le sputò in faccia.

«Puttana»

Un secondo dopo si schiantava dall’altra parte della stanza.

Un liquido tiepido e appiccicaticcio gli colò a gocce dentro l’orecchio destro, dal margine aperto della sua tempia spaccata.

«Se questa è la tua decisione…»

L’angelo si ripulì tranquillamente il volto e cominciò ad avanzare — stavolta senza la minima fretta — verso di lui. Il suo braccio straziato tracciava strade di sangue dove passava. 

«Sarò ben lieta di cavarti fuori la risposta in altro modo» mormorò.

«No…»

I passi misurati di Naomi si arrestarono a due metri da Dean. 

«No…»

Più che sorpresa, evidentemente seccata, lei abbassò appena lo sguardo.

Teso — come la catena che lo bloccava a terra — oltre il limite estremo dell’ignobile raggio di movimento cui era stato costretto, Castiel aveva allungato la mano e l’aveva fermata agguantandole l’orlo del pantalone.

Le labbra di Naomi si piegarono in una smorfia.

«La mia pazienza è ufficialmente finita, Castiel» dichiarò, prima di ruotare su stessa e assestargli, con la gamba libera, un calcio in pieno viso.

Castiel rovinò sulla schiena — guaendo un lamento che Dean non sarebbe riuscito a dimenticare fino alla morte — e non fece in tempo a rimettersi seduto che la catena iniziò a sprofondare nel pavimento in cui era stata piantata, accorciandosi sempre di più, finché anche l’ultimo anello di ferro sparì e Castiel non finì bloccato con la faccia a terra, la guancia premuta direttamente sul metallo verniciato. 

Dean non lo poteva guardare.

Mentre i suoi occhi rimbalzavano disperati da una parte all’altra della cella, la sua attenzione ricadde sulla sua pistola, incredibilmente e fortunosamente finita solo a qualche palmo di distanza dal punto in cui lui era stato scaraventato.

Naomi era ancora rivolta verso Castiel.

Il ragazzo trattenne il fiato e scivolò rapido in direzione dell’arma.

«Sorella, basta così»

La pistola si disintegrò sotto le sue dita. 

Sul palmo non gli rimase che mucchietto di limatura scintillante.

Dean alzò lo sguardo, attonito — mentre quella polverina inutilizzabile gli scivolava tra le falangi — e si ritrovò proiettato dentro le iridi indecifrabili di Michael. 

Per una frazione di secondo, dopodiché la soggezione inculcatagli a forza in vent’anni di asservimento terrorizzato lo riportarono con la fronte verso il basso prima che lui potesse anche solo pensare di reagire in modo diverso.

«Puoi andare» la punta candida della sua scarpa destra disegnò un perfetto arco di circonferenza mentre l’Arcangelo si girava verso Naomi «Va’ ad occuparti delle tue ferite» le ordinò «I proiettili che gli umani hanno imparato a fabbricare sono assai più pericolosi di quelli con cui hanno tentato di frenare la nostra venuta, ventisei anni fa» 

In un primo momento lei parve esitare, ma alla fine si schiarì la voce: «Come desideri» sospirò.

Dean racimolò il coraggio necessario a risollevare la testa in tempo per vedere la cornice della porta riaffiorare sulla parete. Naomi, una volta uscita, si riaccostò diligentemente l’uscio alle spalle ma Michael non si diede la pena di farlo nuovamente scomparire.

«Hai il permesso di guardarmi» l’Arcangelo inclinò impercettibilmente il capo, portando le mani dietro la schiena «E voglio che tu lo faccia» 

La punta della sua scarpa ruotò di nuovo, stavolta mirando dritta su di lui.

«Dean, giusto?»

Gli occhi di Michael erano sabbie mobili.

Nel corso della sua vita, lui aveva avuto il dispiacere di trovarsi al cospetto dell'Arcangelo, nonché di fingere di ascoltarlo — disgustosamente solenne nel suo completo immacolato, che sembrava intessuto di diamanti se paragonato agli stracci che invece toccavano agli uomini del cantiere — una volta all’anno, durante il giorno della Celebrazione, ma non era mai stato tanto stupido da rischiare una punizione inutile — e una conseguente sfuriata di suo padre — cercando di incrociare direttamente il suo sguardo.

Dean si sentì sprofondare.

Michael lo osservava placidamente, senza nessuna espressione particolare ma con la scrupolosa attenzione di chi sta esaminando un dettaglio molto importante, e il ragazzo avvertì sottopelle l’impulso istintivo di combattere. Di reagire, di ribattere, di impedirgli di continuare a scrutarlo così, ma allo stesso tempo c’era una benevolenza strana nel colore di quegli occhi — peraltro non ben definibile da quella distanza — da non fargli desiderare nient’altro se non abbandonarsi con fiducia al suo giudizio. 

Come un uomo in procinto di annegare che incominci a soppesare l’idea di lasciarsi andare, anziché continuare a lottare contro la corrente.

«Speravo fossi sufficientemente misericordioso da risparmiare a Castiel questa ulteriore, incresciosa situazione»

L’Arcangelo non attese oltre una sua — decisamente improbabile — replica, raggiunse il centro della stanza, si piegò sulle ginocchia e depositò una carezza leggera sui capelli aggrovigliati di Castiel.

«Va bene… va bene così…»

I suoi polpastrelli scesero giù — sfiorando appena, nel passaggio, il suo zigomo tumefatto — fino a raggiungere il collare di ferro che teneva l’angelo inchiodato al pavimento. 

«E’ tutto finito»

L’anello metallico si aprì di scatto.

Castiel inspirò con violenza dalla bocca, si rigirò su un fianco e tossì, espettorando sangue e saliva. Quando i singulti smisero di scuotergli le spalle curvò la schiena e si portò le ginocchia al petto, ma per il resto non si mosse.

Rimase lì, immobile, con le dita di Michael ancora sospese sopra su di lui.

Le ecchimosi estese, rosse e blu, che gli imbrattavano il collo, facevano a pugni con il colletto bianco della sua camicia.

«Riesci a curarti da solo?»

La fronte dell’Arcangelo s’increspò solo lievemente quando Castiel esalò un gemito passabile per un no.

«Era un’eventualità di cui ero stato purtroppo informato…» sospirò, posando la mano sulla sua nuca livida, per poi passare a strofinargli piano la schiena «La reazione fisiologica del corpo di un angelo al tentativo esterno di fare breccia nella sua mente: i tuoi poteri sarebbero stati la prima parte del tuo organismo che avrebbe risentito dei provvedimenti di Naomi»

C’era qualcosa di profondamente sbagliato nei suoi gesti. 

Nella sua postura, in ognuna delle parole che Michael pronunciava.

Dean non avrebbe saputo spiegare di cosa si trattasse ma sapeva, sapeva — perché lo ricordava, quando Sam aveva quattro anni e il terrore dei tuoni e lui gli accarezzava le scapole ripetendogli di non preoccuparsi, che papà sarebbe tornato presto e che nessun umano era mai morto, nella cava, per un po’ di pioggia, nonostante non fosse vero niente e appena il giorno prima una valanga di fango e detriti ne avesse travolti e ammazzati due — che era sbagliato, era terrificante, che non era quello il modo, che non si consolava qualcuno così.

«La scorsa volta sei rimasto qui tre settimane, eppure alla fine non eri così debole» commentò l’Arcangelo, amareggiato «Ti sei ristabilito subito…»

La schiena di Castiel tremava sotto il suo tocco.

Appiattito contro la parete — nell’angolo dal quale, in verità, non aveva ancora trovato l’ardire di muoversi — Dean vedeva i lembi sgualciti della sua giacca agitarsi a un centimetro dal pavimento.

Michael si voltò di colpo verso di lui e lo paralizzò con un’occhiata di pietra.

«Sarai soddisfatto, adesso» sibilò.

«Io…» 

Dean s’inumidì le labbra. Accostata al timbro lucente dell’Arcangelo, la sua voce assomigliava di più a un fastidioso pigolio.

«Non sono stato io a fargli questo» dichiarò, con tutta la fermezza di cui era capace.

«Ah no?»

«N-non-»

«Tu, miserabile, imperfetta ed egocentrica creatura»

Il suo istinto di autoconservazione lo stava implorando di darsela a gambe — o quantomeno di arretrare e di allontanarsi il più possibile da quell’espressione accusatoria — ma c’erano Castiel e un Arcangelo tra lui e porta, e a forza di indietreggiare Dean era ormai finito con le spalle al muro. 

Le sue unghie grattavano sul metallo verniciato già da qualche secondo.

«E’ sempre stato questo il problema di voi umani»

Michael scosse tristemente il capo.

«Siete talmente effimeri. E le vostre prospettive sono così ridotte. Se solo aveste un briciolo di lungimiranza in più di quella che vi è stata assegnata insieme alla vostra esistenza mortale…» mormorò, afflitto «Capireste che tutto ciò che sto facendo lo sto facendo per voi, e voi soltanto»

«Michael…» 

Se il setto nasale sbriciolato di Castiel non stesse gocciolando rosso — e se l’angelo fosse almeno riuscito ad alzare la testa dal pavimento sul quale se ne stava raggomitolato — Dean gli sarebbe stato grato per aver trovato la forza di aprire bocca e di deviare quello sguardo su di lui.

«Michael, stai…»

«Commettendo un errore?»

Ma in quel momento l’unica cosa per cui Dean pregava era che Anna arrivasse presto. 

Che irrompesse nella cella, che desse inizio all’attacco, che la Resistenza travolgesse gli angeli di guardia al piano terra e cominciasse a risalire all’interno dell’Empire State Building, mettendo a ferro e a fuoco ogni piano che attraversava.   

«Castiel, questa non è una china che vuoi risalire una seconda volta»

Castiel sussultò e tacque.

«Guarda come ti sei ridotto…»

Michael si chinò verso l’angelo e gli prese delicatamente il viso tra le mani.

«Eppure forse davvero…» sussurrò, esaminando lo stato pietoso dei suoi lineamenti maltrattati «Davvero ho commesso un intollerabile errore di giudizio nei tuoi confronti…» 

Castiel sussultò di nuovo.

«Quando ti ordinai di giustiziare Aniel, colei che era tra le tue più care sorelle…» l’Arcangelo si lasciò andare all’ennesimo sospiro addolorato.

«Non avrei mai dovuto chiederti tanto» ammise in un soffio «Puoi perdonarmi per questo, Castiel?»

Dean lo aveva visto ferito.

Lacero ed esausto, con il sangue che gli inzuppava i vestiti e gli colava giù dalla punta delle dita. Lo aveva visto nervoso, frastornato, infuriato, lo aveva visto impotente e disperato e poi lo aveva tenuto stretto mentre piangeva ma mai, mai, sul fondo delle iridi abissali di Castiel, Dean aveva scorto un terrore simile a quello.

«Ma ti prometto che a nessun angelo verrà mai più chiesto di ucciderne deliberatamente un altro, mai più»

Michael era stato la sua guida. Il suo comandante. 

Il suo fratello più amato, la figura di riferimento che più di chiunque altro Castiel aveva sempre rispettato e alla quale aveva sempre obbedito; l’unico Arcangelo al quale, nonostante tutto, si era sempre, ciecamente, affidato. 

Ma il giorno in cui aveva teso il braccio e indicato a lui e Sam la direzione da prendere, lungo i binari della metropolitana, Castiel aveva fatto ritorno a Corte e aveva sperato in una comprensione che non gli era mai stata accordata. 

In un dialogo che non era mai avvenuto e in una pietà che non gli era mai stata concessa.

Il suo comandante l’aveva chiuso in quella cella.

Il suo fratello più amato l’aveva fatto mettere in catene e aveva permesso a Naomi di ridurlo allo spettro esangue di se stesso. 

«E ti prometto che tornerai a essere il soldato fedele che eri un tempo…»

E adesso, a ogni nuova carezza che arrivava a lambire le sue guance livide, Castiel singhiozzava.

«…che le tue sofferenze cesseranno oggi stesso…»

Le labbra di Michael si posarono con dolcezza sulla sua fronte sudata.

«…e che non permetterò a nessun altro umano di farti del male»

L’Arcangelo riadagiò con estrema accortezza la testa di Castiel sul pavimento, ma quando si rimise in piedi le sue ferite, il naso rotto e gli ematomi accesi che si aggrovigliavano sulla pelle traslucida dell’angelo erano ancora tutti lì.

«Mi sono interrogato per giorni su cosa, anzi, su come» esordì poi, e Dean ebbe giusto il tempo di accorgersi del fruscio morbido dei suoi pantaloni immacolati e del refolo freddo — che s’insinuò sotto la sua maglietta — provocato dal rapido spostamento d’aria.  

Al suo successivo battito di ciglia l’Arcangelo lo aveva già raggiunto, lo aveva afferrato per il collo e lo aveva tirato su.

«Come abbia potuto un qualunque, anonimo essere umano, condurre un angelo alla follia»

Grigi.

Gli occhi di Michael erano grigi e sfolgoranti come il mercurio. 

Dean si aggrappò con tutte le sue forze alla sua manica candida e provò a spingerlo via ma era una lotta impari e, piuttosto che contro un braccio e delle dita, lui aveva la sensazione di star combattendo contro la radice inamovibile di una quercia. 

«Ad ogni modo, adesso sei qui» 

E Anna ancora non arrivava.

Perché Anna non arrivava?

«Per cui non perderò ulteriormente tempo a tormentarmi su domande prive d’importanza» concluse l’Arcangelo, facendo giusto un mezzo passo indietro; dopodiché socchiuse le palpebre e si chiuse in uno strano silenzio calcolatore, come se stesse prendendo le misure di qualcosa alle spalle del ragazzo.

Infine, allungò lentamente la mano libera — quella che non sembrava intenzionata a sfondare la trachea dell’essere umano che teneva ancora per il collo — verso il muro, e l’illuminazione della cella cambiò.

Il bianco elettrico del filo al neon che scorreva sul soffitto sbiadì miseramente, mentre la luce calda e dorata del mezzogiorno di giugno invadeva la stanza e ne sfumava di ombre tutti gli spigoli.

Dean poteva percepire il calore del sole sulla sua schiena. 

Il venticello leggero che gli sfiorava le caviglie. 

Quello che poteva essere lo stridio lontano di un gabbiano, o di chissà quale uccello marino.

«Tu oggi morirai, Dean Winchester, e tanto basta»

I suoi piedi che dondolavano nel vuoto. 

La parete bianca della cella non c’era più, e lui era sospeso a trecento metri d’altezza: sul bordo di ciò che un attimo prima era un banalissimo pavimento d’acciaio e che si era appena trasformato in un panoramico, e altrettanto terrificante, affaccio a strapiombo sulla devastazione di New York.

I Collaborazionisti infedeli Michael li fa volare giù dall’ultimo piano. 

Non ricordava nemmeno più chi glielo avesse detto.

«E con te, finalmente…» proseguì l’Arcangelo, inesorabile «Morirà anche l’insano germoglio che sei riuscito a piantare nella mente di Castiel»

Se anche Anna fosse arrivata in tempo per salvarlo, Michael l’avrebbe schiacciata sotto la suola della sua scarpa come fosse una formica: non sarebbe mai riuscita a coglierlo di sorpresa.

Avrebbe lasciato precipitare lui giù di sotto e — nel pugno di secondi che il ragazzo avrebbe impiegato a raggiungere l’asfalto e a sfracellarcisi sopra — avrebbe riportato il muro al suo posto e sarebbe partito alla ricerca di Sam, o di qualunque altro umano tanto spavaldo da osare intrufolarsi all’interno dell’Empire State Building.

Avrebbe trovato gli uomini della Resistenza, nel tunnel tra la quinta e la trentaquattresima strada, e li avrebbe fatti a pezzi.

Era stato tutto inutile.

Non avrebbero mai vinto.

La Resistenza non avrebbe mai vinto.

Loro non erano che fragili creature mortali, e di fronte a lui c’era un Arcangelo che aveva appena polverizzato una parete d’acciaio — il cui spessore doveva ammontare ad almeno due metri — con il solo tocco della mano.

Dean smise di divincolarsi.

Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi e le sue gambe smisero di scalciare.

«Non mi aspetto che tu capisca» mormorò Michael, con una nota disgustosamente indulgente nella voce «Nè che voi umani capiate»

La morsa che a ogni secondo pareva stringersi sempre di più intorno alla sua gola era l’unica cosa che ancora trattenesse il ragazzo dalla caduta libera.

«Dopotutto, l’ingratitudine è sempre stata la vostra principale caratteristica, insieme alla più totale mancanza di predisposizione al sacrificio» concluse.

La saliva di Dean s’impastò in fiele e un sapore amaro gli riempì la bocca.

Non voleva.

Non voleva andarsene con la compassione ipocrita di Michael che gli risuonava nelle orecchie.

Non voleva che l’ultima immagine che si sarebbe portato via nell’oltretomba fosse la pietà distorta riflessa nei suoi occhi d’argento.

Non se c’era Castiel raggomitolato al limite estremo del suo campo visivo.

Non se anche l’angelo si era penosamente trascinato fino all’altro angolo della cella, soltanto per riuscire a guardarlo. 

Dean sentì il proprio respiro ridursi a un filo, mentre tentava di ruotare il collo della manciata di gradi necessaria a raggiungere con lo sguardo quelle due schegge bluastre che lo fissavano: i cocci di tutte le notti stellate che Naomi aveva frantumato dentro le iridi di Castiel.

Avrebbe voluto avere fiato per dirgli molto di più. 

Avrebbe voluto raccontargli di Jack — dell’ingenuità gentile dei suoi eterni sedici anni — del sorriso di Sam che aveva sentito attraverso la maglietta, la prima notte al bunker, di Missouri, di Aniel — di Anna — del rosso improbabile dei capelli di Charlie — un colore meno assurdo solo del turchese trasparente dei suoi occhi —, di Rufus, e di Kevin, di cosa stesse realmente cercando Crowley nella sua biblioteca. 

Avrebbe voluto abbracciarlo, e baciarlo, fargli sapere che non c’era niente di cui avere paura, perché una volta che che Dean Winchester sarebbe morto lui sarebbe ritornato ad essere quello di prima, l’angelo strambo e generoso che era stato, si sarebbe ripreso, i suoi poteri sarebbero ritornati, Naomi non l’avrebbe più toccato, sarebbe stato di nuovo bene. 

Avrebbe voluto implorare il suo perdono, se solo avesse avuto abbastanza aria nei polmoni. 

«I-io…» 

Ma stava lentamente soffocando.

Non credeva che Michael avesse realmente intenzione di strangolarlo, prima di buttarlo giù dal grattacielo. Più probabilmente, l’Arcangelo non era capace di calibrare la propria forza intorno alla sua esile gola umana. 

«…ti amo Cas-»

Michael lo lasciò andare.

La sua voce si perse nel vento.












Ok. Ok.
Ok lo so che questo non è propriamente il capitolo migliore da regalarvi per Natale, ma le tempistiche sono quelle che sono, purtroppo -.-
Come sempre, grazie per le vostre recensioni, grazie per l’affetto (e la pazienza) con la quale continuate a seguire questa storia. In questi tempi confusi non so più nemmeno quali parole spendere per queste festività, perciò vi auguro di trascorrere un Natale, quantomeno, sereno.
Ci rivediamo tra due settimane.
Take care ❀*

 

Through the years we all will be together
If the fates allow
Hang a shining star upon the highest bough
And have yourself a merry little Christmas now

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Capitolo 31
*** Nel suo volo ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

31. Nel suo volo

 

16 giugno 2009

Il giorno in cui Dean compiva ventun anni, un ragazzo precipitò dall’ultimo livello della torre in costruzione. 

Non era certo la prima volta che un servitore del cielo faceva una fine simile. Nei venticinque anni che lui aveva trascorso al cantiere ne aveva visti a decine, buttarsi volontariamente di sotto o soltanto scivolare, inciampare, venire traditi dalla miserabile impalcatura arrugginita che avrebbe dovuto sorreggere il loro peso e che invece fin troppo spesso si piegava e cedeva, in una cacofonia di urla e acciaio gracchiante.

Ma il giorno del suo ventunesimo compleanno, il giovane uomo che finì a sfracellarsi tra due blocchi di marmo, sotto gli sguardi atterriti degli ultimi umani che, passato il crepuscolo, ancora si trascinavano sotto la torre, tirò il suo ultimo respiro a neanche tre metri dalla figura nervosa di John Winchester. 

New York gli restituiva scampoli sfilacciati di cielo azzurrino, frammenti inceneriti e un abisso di asfalto crepato che sembrava ondeggiare — qualche centinaio di metri più in basso — come un oceano di polvere pronto a inghiottirlo. 

Ciò che terrorizzò Dean più di tutto fu il silenzio.

Il vuoto pneumatico che riempì le sue orecchie, nell’istante in cui le unghie di Michael persero presa sul suo collo e lo spazio che il suo corpo umano occupava si ridusse a un concetto astratto (l’orizzonte si era spezzato), lo scorrere del tempo perse consistenza. 

Uno. 

Due. 

Aveva cominciato a contare soltanto perché non voleva che gli si schiantasse prima il cuore.

Tre.

John si era avvicinato al cadavere del ragazzo, si era chinato su di lui ed era scomparso, per qualche attimo, dietro uno dei due blocchi di marmo; poi l’aveva tirato su lentamente, sollevandolo con delicatezza, con l’attenzione che avrebbe riservato a un cucciolo ferito. 

Quattro.

Aveva riportato lui il corpo ai genitori.

Cinque. Sei.

All’epoca, il ragazzo era parecchio più grande di Dean. A giudicare dalla corporatura e dalla linea dura dei suoi polpacci insanguinati avrebbe potuto avere anche più di trent’anni, eppure sembrava così piccolo tra le braccia di suo padre. Così sereno.

Sette.

Otto.

Le donne del cantiere raccontavano che un secondo prima di morire la vita che hai vissuto riesce a infilartisi sotto le palpebre e che la si può vedere passare — se si è ancora abbastanza lucidi — come fotografie sfogliate in fretta.

Ma tutta la vita di Dean si era condensata in un unico ricordo, e in un unico sorriso.

John lo aspettava, ai piedi dell’Empire State Building. 

Aveva alzato la testa verso di lui, lo guardava, e Dean poteva quasi scorgere il luccichio benevolo delle sue iridi scure, la linea severa delle labbra, appena incurvate all’insù.

Era venuto a prenderlo. 

Avrebbe raccolto da terra le sue ossa sfasciate, fatto fagotto dei suoi organi spappolati, e se lo sarebbe portato via.  

Nove.

Die-

 

 

 

 

Il dolore si prese suo padre, New York, e tutto quello che rimaneva.

Un’oscurità di seta si chiuse sopra la testa di Dean, poi qualcuno gli sfilò la spina dorsale dal torace e le sue costole — d’un tratto prive di cardini — si serrarono intorno ai suoi polmoni in una morsa infuocata.  

 

 

 

 

Undici.

 

 

 

 

Dodici.

Quando il buio si diradò, un enorme mausoleo d’acciaio torreggiava sopra di lui: le vetrate dell’Empire State Building luccicavano come specchi d’acqua.

Tredici. 

Il cielo sullo sfondo era nero — no — azzurro, e terso. Limpidissimo.

Quattordici.

Non ci si poteva teletrasportare all’interno del grattacielo gli aveva detto Castiel, mesi prima ormai. 

Si era lanciato dietro di lui quindi, in quella manciata di secondi si era rimesso in piedi e si era precipitato attraverso lo squarcio nella parete — sfuggendo persino a Michael — prima che questa si richiudesse? 

Lo aveva seguito, nel suo ultimo volo? 

Era così debole; non era stato nemmeno in grado di fermare il sangue che gli gocciolava ancora dal taglio aperto sulle sue labbra. 

Aveva usato quel che rimaneva dei suoi poteri per raggiungerlo, una volta fuori dall’edificio? Aveva provato a frenare — a evitare in qualche modo l’impatto, senza riuscirci — o non aveva potuto far altro che afferrarlo, stringersi contro il suo corpo e… cadere?

Gli occhi rotti di Castiel fissavano un cielo senza nuvole. 

Le braccia scarne dell’angelo erano scivolate dalla testa di Dean — intorno alla quale si erano saldamente avvolte, un attimo prima dell’urto contro il suolo — alle sue spalle, e il ragazzo realizzò di trovarsi rannicchiato contro il busto di Castiel — le dita avvinghiate alle maniche sdrucite della sua giacca bianca — con il suo intero peso che ancora gli gravava sulle costole.

Rotolò su un fianco e atterrò con la faccia sull’asfalto. 

Nonostante Castiel si fosse frapposto tra lui e il terreno — e una morte certa — riuscendo ad attutire il colpo e la gravità delle lesioni, lui faticava comunque a muoversi e si sentiva come se l’avessero appena preso a calci.

«C-Castiel?»

L’angelo non si mosse. 

Non aveva prodotto neanche un suono quando lui era sceso dal suo torace, le braccia gli erano cascate lungo i fianchi come arti di plastica e la sua sagoma spezzata continuava a tenere lo sguardo inchiodato a quella volta celeste tanto pacifica, insensibile alla linea oscena che gli deformava la gamba sinistra.

Dean strisciò sulla pancia finché non riuscì a sollevarsi facendo leva sugli avambracci. Si puntellò sui gomiti e il brecciolino aguzzo della strada gli s’insinuò sotto la pelle, grattando e graffiando e facendolo sibilare.

Una nube grigiastra si addensò sopra il viso insanguinato dell’angelo. 

Polvere.

Si alzava e turbinava risalendo per metri dal suolo, vorticava in mulinelli farinosi che si infilavano nelle narici e gli raschiavano la gola. In pochi secondi l’intero quartiere di Midtown, Manhattan, venne travolto da una bufera di rifiuti e cenere, finché Dean non lo sentì.

Sembrava scaturire dalle viscere del mondo e invece proveniva dal novantesimo piano del grattacielo sfocato — origine e centro della tempesta improvvisamente abbattutasi sopra New York — che li sovrastava.

Che fosse un grido, un richiamo, una richiesta di aiuto, lui non lo sapeva. 

Forse il piano di Anna era davvero andato a buon fine e quello era lo strepito vittorioso della morte che dopo secoli era infine riuscita a prenderselo.

La voce di Michael gli riempiva le orecchie, gli faceva tremare le ossa, e lui ebbe appena il tempo rendersi conto che Sam si trovava ancora lassù, da qualche parte all’interno dell’Empire State Building, al fianco di un Arcangelo che Dean sperò con tutto se stesso potesse proteggerlo, difenderlo come non era riuscito a fare in quattro anni. 

Dopodiché una luce insopportabile lo investì, insieme a una seconda raffica di vento che lo costrinse ad appiattirsi nuovamente al suolo. E che si rese conto poco dopo, con orrore, non trasportava soltanto buste di plastica nella sua scia.

Come una grossa nube di cavallette mute, richiamate da ogni parte del globo, gli angeli ferivano l’aria e irrompevano all’interno dell’edificio facendone esplodere le finestre: una pioggia di frammenti aguzzi si sostituì alla polvere agitata dal vento.

Dean si trascinò fino al viso di Castiel e lo chiamò ancora — inutilmente — finché le urla di Michael cessarono, le schegge di vetro smisero di graffiargli la schiena, e il lato sud di uno dei livelli superiori del grattacielo — tra il settantesimo e l’ottantesimo piano, o forse addirittura più sù — improvvisamente deflagrò.

Non potevano rimanere lì.

Nessun angelo aveva ancora fatto caso a loro — due sagome quasi immobili, se osservate dall’alto, nel mezzo di un cerchio di detriti — ma se anche fossero stati così fortunati da non essere notati — durante la battaglia che ormai si annunciava imminente, se non addirittura già in corso all’interno dell’edificio — sarebbero stati certamente travolti e uccisi dalle macerie che l’Empire State Building, dopo la detonazione, aveva cominciato a sputare giù di sotto.

Perciò Dean puntò le ginocchia sul terreno sporco e cercò di non pensare, di non pensare al turbinio bianco sopra la sua testa, al tubo d’acciaio che si era appena schiantato a pochi metri da lui, alla gamba sinistra di Castiel piegata in un angolo che nemmeno nei peggiori incidenti al cantiere aveva mai visto. 

Si strinse l’angelo contro il petto, passò un braccio sotto le sue ginocchia, spostò il proprio peso sui talloni e si tirò in piedi.  

Ogni cellula del suo corpo urlò. 

Castiel non era particolarmente pesante — di certo non avrebbe potuto esserlo più di un blocco di marmo — ma ora Dean aveva la sensazione che la sua colonna vertebrale si fosse assottigliata fino a ridursi allo spessore di un capello e che stesse per rompersi in mille pezzi da un momento all’altro. Ogni passo gli spediva fitte atroci dal coccige alla base del collo. 

Si rifugiò nel primo edificio semi-integro il cui soffitto non pareva sul punto di crollare. Ebbe persino la lucidità di cercare un muro che rispondesse vagamente alla descrizione di ‘portante’, prima di accartocciarsi su se stesso e di crollare a terra, senza più forze.

Avevano un cuore che battesse, gli angeli? 

Un ritmo, una pulsazione, un alito a cui lui si potesse ancora aggrappare?

Un filo di sangue scuro — suo forse, o forse di Castiel, non avrebbe saputo dirlo — si allungava sul terreno sotto di loro e strisciava, si fermava e si biforcava e si riuniva di nuovo, come la ramificazione del delta di un fiume scarlatto.

Dean si sentì venire meno. 

Il corpo esangue di Castiel lo teneva ancora stretto tra le braccia.

Pensò che non l’avrebbe lasciato mai più.

 

31 marzo 2009

«E queste?»

«Queste cosa?»

Le dita di Castiel disegnavano minuscoli cerchietti sul dorso della sua mano. Avevano cominciato a muoversi sulle sue spalle, un abbondante minuto prima, ed erano poi scese lungo le sue braccia, tratteggiandone il profilo dei muscoli con una lentezza languida che gli aveva fatto venire la pelle d’oca.

«Chi te le ha procurate?»

«Ah» mormorò distrattamente Dean, riaprendo gli occhi «Quelle»

A lui quelle carezze non dispiacevano — affatto — ma avrebbe dovuto aspettarselo che in quel modo, presto o tardi, l’angelo le avrebbe notate.

Illuminate dalla caratteristica luce azzurrina — che il ragazzo non avrebbe mai più potuto associare a nient’altro se non dell’ordinatissimo appartamento di Castiel — le cicatrici apparivano quasi traslucide, irregolari e ancora profonde, anche sul suo palmo ruvido di uomo adulto. Si facevano persino più marcate dall’altro lato, in corrispondenza delle sue nocche, lì dove i polpastrelli dell’angelo si erano appena fermati, in attesa.

«Avrò avuto tredici o quattordici anni» rispose Dean, ricomponendosi di malavoglia sul divano «A sorvegliare il cantiere in quel periodo c’erano soltanto tre angeli, ma temo di aver dimenticato i loro nomi» riferì in fretta.

Erano ferite vecchie. 

Storie vecchie, anni lontani, lui era sceso a patti con la sua infanzia e la sua adolescenza da parecchio tempo ma non aveva lo stesso tutta questa voglia di riportarle a galla, quella sera.

Non voleva caricare anche Castiel di quel peso.

«I nomi posso facilmente immaginarli»

Evidentemente, Castiel era di tutt’altra opinione.

Dean rovesciò la testa all’indietro, abbandonandosi con un sospiro contro la testata del divano fino a ritrovarsi con lo sguardo puntato verso il soffitto.

«Eravamo bambini, maschi, gli adulti sgobbavano nella cava fino al tramonto e io e Sam avevamo sempre fame» iniziò a raccontare «Io avevo sette anni e lui appena tre, quando scoprimmo dove i Collaborazionisti nascondevano i viveri, e da allora neppure le peggiori minacce di papà erano riuscite a farci desistere dallo sgraffignare qualcosina, di tanto di tanto o… beh… forse anche un po’ più di qualcosina» si corresse sogghignando.

Castiel sollevò un sopracciglio.

Di certo non per biasimarlo di essersi dato al ladrocinio in età tanto tenera — gli angeli avevano commesso peccati ben peggiori — ma perché i furti di cibo erano particolarmente mal tollerati nei cantieri delle torri, e altrettanto severamente puniti. Dean decise di non mandarla tanto per le lunghe.

«Smettemmo il giorno in cui ci sorpresero con le mani nel sacco» gli confessò, senza troppi giri di parole «Cioè… sorpresero me, almeno. Sam era ancora piccolo, riuscì a nascondersi in tempo, e io dissi ai Collaborazionisti che ero l’unico a conoscere il modo di intrufolarsi in quel container senza essere visto, e che cosa ci fosse al suo interno»

E chissà per quale miracolo d’autunno, quegli esseri ributtanti gli avevano creduto. 

«Non fare quella faccia Castiel, gli angeli non mi impiccarono a nessun albero né mi amputarono un bel niente, come puoi notare. Forse perché ero solo un ragazzino, o perché avevo cominciato a lavorare nella cava e a quanto pare lavoravo già bene, secondo i loro fottutiss…»

Basta così.

Dean richiuse precipitosamente la bocca facendo scattare i denti uno contro l’altro. Aveva parlato anche troppo.

Per quanto Castiel non sembrasse avesse dato particolare peso al suo principio di invettiva, era troppo impegnato a fissarlo inorridito.

«Sì… insomma… sempre meglio che due dita in meno, no?» se ne uscì infelicemente lui, tentando di rompere il suo silenzio afflitto «E il peggio è venuto dopo, comunque, non riuscivo neanche a grattarmi la punta del naso e Sam ha dovuto imboccarmi per una settimana… tra l’altro credo che quella sia stata l’unica volta in cui papà gli ha rifilato anche la mia razione di ceffoni…» rifletté «Di solito era il contrario»

Ma poche volte gli era capitato di vedere John così agitato: era ritornato alla loro baracca e aveva trovato solo Sam, in un lago di lacrime. Aveva attraversato il cantiere come se avesse un’orda di diavoli alle calcagna, ma quando l’aveva ritrovato non c’era già più un centimetro di epidermide sulle mani di Dean che non pulsasse e sanguinasse come se lui le avesse infilate in un mucchio di carboni accesi. 

«Posso farle sparire»

«Eh?»

Nel turbinio dei suoi pensieri, la voce di Castiel era andata dispersa.

«I segni delle frustate» ripetè l’angelo «Dalle tue mani, dalla tua schiena, posso cancellare tutte le cicatrici che hai»

In un primo momento, Dean non seppe cosa rispondergli; lanciò un’occhiata alle Ninfee di Claude Monet, come se potessero offrirgli consiglio.

«No» decise infine «Non… non servirebbe»

Castiel corrugò la fronte, visibilmente confuso.

«Non cambierebbe quello che che è successo, non… non cambierebbe il passato» gli spiegò, riprendendo coraggio «La cava, Zaccaria, la faccia di Sammy durante quella settimana… continuerò lo stesso a sognarmeli la notte — di tanto in tanto — anche senza un paio di cicatrici a rammentarmeli» ammise, recuperando il contatto visivo con l’angelo «Riesci a capire cosa intendo?»

Gli occhi di Castiel rimasero a frugare a lungo dentro i suoi, prima che quello si decidesse ad annuire. 

Dean si lasciò cadere di nuovo sull’imbottitura soffice del bracciolo, sprofondando tra i cuscini con un gemito sollevato che guadagnò rapidamente in calore, una volta che Castiel si fu disteso accanto a lui.

Il suo respiro guadagnò in frequenza. 

A volte gli sembrava quasi impossibile riuscire a provare sensazioni come quelle. Che al mondo esistesse ancora qualcosa di così perfetto, e profondo, che non si portasse dietro uno strascico di spine: nel suo mondo anche un bagliore accecava, e non c’era fiamma che non ustionasse. 

Ma il caldo che dal suo petto si irradiava al resto del corpo non bruciava e lo sguardo di Castiel era chiaro, dentro il suo, e luccicava di luce che si poteva guardare. 

Non era il sole d’agosto del Colorado, che gli scorticava la faccia; era luce buona.

Il riverbero della luna sull’acqua.  

«Castiel…»

L’aria non voleva più saperne di vibrare tra le sue corde vocali.

«Castiel, non…»

Castiel gli aveva preso la mano destra e aveva posato le labbra sul suo palmo sfregiato. 

Non che non l’avesse mai baciato in posti ben più imbarazzanti di quello ma non…

Non così.

Sarebbe stato uguale se Castiel fosse sceso dal divano per prostrarsi davanti ai suoi piedi, e ai suoi occhi sconcertati.

Provò a ritrarre la mano, ma lui la trattenne. 

Senza violenza, quel tanto che bastava a concedere a Dean di spostarla un po’ dalle sue labbra, ma senza per questo farsela sfuggire dalle dita.

«Castiel, le mie cicatrici non sono qualcosa per cui tu debba chiedere scusa» provò allora ad imporsi, alzando appena la voce.

Non era giusto, non sarebbe stato appropriato, di fronte a lui c'era pur sempre un angelo e Dean… 

«E comunque avrei potuto essere più accorto ed evitare di meritarmele» 

Dean non gli avrebbe permesso di umiliarsi così.

Castiel non interruppe le sue obiezioni — limitandosi a ricambiare silenziosamente il suo sguardo — ma quando alla fine il ragazzo tacque, la presa sul suo polso anziché diminuire sembrò rafforzarsi.

«Mi hai detto che non posso cambiare il passato» esordì l’angelo, a bassa voce. Dolcemente, come se avesse paura di spaventarlo «Però forse…»

Le sue labbra di nuovo sul suo palmo. 

Una per una, sulle sue nocche, e stavolta ritrovare il fiato per replicare a Dean parve molto più difficile.

«Forse posso…»

Sul taglio mai ricucito e mai rimarginato a dovere che gli aveva lasciato una cicatrice spessa e rosa sull’avambraccio. 

«Almeno questo» lo supplicò «Almeno questo, lasciamelo fare»

Dean gli lasciò fare tutto ciò che voleva. 

Mentre il buio della sera si faceva inchiostro, fuori dalla finestra.

Gli lasciò imparare a memoria fino all’ultimo squarcio mal medicato sulla sua schiena.

Lo lasciò muoversi, mormorare parole incomprensibili sulla sua bocca e scivolare, aspettare, e poi indugiare ancora; scendere fino ai suoi fianchi e serrare i denti, per l’unica ferita che Castiel aveva visto aperta ma che non aveva avuto la risolutezza di curare, quando aveva potuto; lo lasciò chiedere e dopo lo lasciò implorare, finché non vide le sue pupille accendersi e il suo corpo perfetto reclamare lo stesso orgasmo elettrico che aveva sconquassato lui neanche mezzo minuto prima. 

Dean lo lasciò accarezzargli i capelli.

Lieve e continuo come una preghiera sussurrata, il respiro di Castiel rimase sulla sua pelle fino all’alba.

Fu la notte più lunga della sua vita.

 

16 giugno 2009

Dall’esterno della costruzione semi-crollata in cui Dean si era rifugiato, cominciavano a provenire rumori sempre più concitati.

Udiva spari, il crepitio di una parete che si spaccava. Voci che si alternavano strepitando maledizioni.

«Ci troveranno presto, vedrai»

Castiel non diede segno d’averlo sentito.

«Qualcuno verrà a ripararsi in questo edificio, e sarà sicuramente un umano» proseguì «Io non ce li vedo mica, i tuoi fratelli piccioni, a nascondersi durante una battaglia» 

Dean si sistemò lo stesso un po’ più diritto, appoggiandosi con tutta la schiena contro la parete alle sue spalle e accomodandosi la testa di Castiel — ancora abbandonata sopra il suo sterno in una scomoda posizione da torcicollo — nell’incavo del braccio, tra il gomito e la spalla. 

Il taglio all’angolo della bocca dell’angelo aveva smesso di sanguinare.

«Ci porteranno da Anna, sicuramente lei saprà cosa fare» 

Sempre che sia ancora viva, si intromise una vocetta sgradevole nella sua testa.

Sempre che non fosse già troppo tardi.

«E anche Gabriel è dalla nostra parte adesso, sai?» Dean ignorò la sua — finora unica — interlocutrice e proseguì, imperterrito «Ti rimetterà a posto la gamba e ti restituirà i tuoi poteri… ad Anna è bastato un po’ di riposo, poi era come nuova»

Anna non si è mica lanciata giù da un grattacielo, osservò la vocetta. 

Sta zitta.

Non è rimasta dieci giorni incatenata al pavimento. 

Stai…

Dean ribaltò il capo all’indietro fino a sbatterlo violentemente contro il muro. 

Al terzo colpo una cascata di vermi luminosi gli colò d’improvviso sopra le retine, montandogli una nausea atroce, ma almeno quella stronza d’una vocetta era stata ridotta al silenzio.

«Probabilmente ci staranno anche già cercando…» boccheggiò, sentendo le grida all’esterno intensificarsi «Tra poco saranno qui vedrai…»

La bocca di Castiel sapeva di sangue. 

«Però per favore non lasciarmi di nuovo…»

Il primo angelo che Dean aveva avuto il piacere di vedere morto era stato Zaccaria. 

«Per favore…»

Gli aveva piantato due pallottole in corpo e l’aveva guardato vibrare e accasciarsi su se stesso, il volto sfigurato da due orbite nere e vuote.

«Per favore…»

Ma ad eccezione del suo setto nasale fratturato, i lineamenti di Castiel non erano mutati d’una scheggia dall’ultima volta che lui li aveva tracciati con le labbra. 

I suoi occhi erano ancora lì, spalancati. E freddi.

Così disperatamente blu che Dean non avrebbe mai trovato il coraggio per richiuderglieli.

 

7 aprile 2009

L’alba saliva dal mare e strabordava sopra New York chiazzandola di giallo e di rosa.

«Castiel?»

Dean appoggiò la punta delle dita sulla superficie lucida del vetro.

«L’oceano è davvero tanto grande come si dice?»

Il riflesso dell’angelo comparve accanto al suo, nella cornice argentata della finestra chiusa.

«Secondo le scale metriche umane, l’acqua ricopre il pianeta Terra per un’estensione di trecentosessanta milioni e seicentocinquantamilaottocentoquarantanove chilometri quadrati»

Castiel gli cinse la vita con le braccia e il calore che abbracciò la sua schiena nuda fu sufficiente a scombussolare Dean molto più di quella cifra assurda.

«Settecentoventisettemila… e invece quanto…» balbettò, mentre la bocca morbida di Castiel gli carezzava il collo «Invece la terra quanto spazio occupa?»

«La superficie delle terre emerse…» meditò per un attimo l’angelo, fermandosi con il mento sulla sua spalla «Ha un’area decisamente minore che si aggira sui centoquarantanove milioni e… Ma come mai tutta questa curiosità?»

«Oh… Non è niente di che»

Dean arrossì, ma stavolta non fu per il bacio che Castiel gli aveva appena lasciato tra i capelli.

«Da piccolo Sam aveva letto in un libro che gli oceani ricoprono i due terzi del pianeta e io non gli ho mai creduto» spiattellò alla finestra «Ma con questa storia dei trecentosessantamila-bla bla milioni adesso credo che avesse sempre avuto ragione lui» bofonchiò indispettito.

Castiel rise, e lo baciò di nuovo.

«Un giorno ti porterò a Cape Trail» disse «Credo che voi umani lo chiamiate ancora così»

Dean, a cui quel nome non diceva assolutamente nulla, pensò stesse riferendosi a una delle terrazze panoramiche dei piani superiori. 

«E’ un promontorio sulla costa ovest, nel vecchio Stato dell’Oregon se non mi sbaglio. Non saranno le Hawaii ma dovrei riuscire a trasportarci entrambi fin lì senza troppa fatica»

«Fuori…» Dean girò le spalle al panorama urbano e si ritrovò a un soffio dal viso di Castiel «Fuori di qui?» sussurrò sbalordito.

«Dovrò chiedere il permesso a Metatron… ma credo che potrà fare a meno di te per una mezza giornata» sorrise l’angelo, di fronte al suo sconcerto «E poi sei sotto la mia responsabilità, non la sua, e io avrò pure il diritto di portare le mie responsabilità dove mi pare e piace, o no?» aggiunse, strappandogli uno sbuffo divertito.

«Tieni» Castiel gli tese la sua camicia azzurra «L’alba è già passata, se resti ancora finirai per fare tardi» 

Dean afferrò l’indumento con la stessa riluttanza con la quale l’angelo glielo stava porgendo e impiegò cinque minuti buoni ad appaiare ogni bottone con la sua asola.

Odiava quei vestiti. 

Odiava l’alba, odiava Metatron, odiava quel grattacielo e tutti i suoi schifosi occupanti, e a volte credeva di non possedere nient’altro, di non avere nient’altro di davvero suo se non quello — l’odio — la linea di fuoco che lo separava dalla pazzia, senonché…

«Ci vediamo più tardi, Dean»

Era stato a tanto così dal dirglielo, quella notte: andiamo via.

Ci dovrà pur essere un posto dove potremmo stare, dove neppure gli Arcangeli saranno mai in grado di trovarci. 

Prendiamo Sam, e Kelly, e le ninfee, e andiamocene via.

Dean recuperò la giacca dal bracciolo del divano e si avviò verso la porta.

«Castiel?»

«Mh?»

Castiel non si era ancora rivestito. Cercava qualcosa tra le pagine di uno dei libri aperti sulla sua scrivania.

«Cosa c’è a Cape Trail di tanto interessante?»

L'angelo rialzò la testa e c’era una luce strana nei suoi occhi.

Forse erano solo i raggi del sole nascente che si riflettevano sul pavimento chiaro; l’iridescenza delle lampadine attaccate al soffitto, che non erano ancora state spente. 

Dean se ne rese conto solo molto tempo dopo. 

Che se quella mattina gli avesse chiesto di andarsene, Castiel avrebbe detto di sì.

«L’oceano, Dean» gli rispose l’angelo, sorridendo «Oceano fin dove puoi guardare»














Solo una nota a margine: quando nel primo flashback parlo di ‘ferita che Castiel aveva visto aperta ma che non aveva avuto la risolutezza di curare’, mi riferisco a quella che Alastair ha inflitto a Dean durante l’attacco al cantiere, nel capitolo 5 (e che viene poi menzionata anche nel successivo). 
Non so assolutamente come commentare questo aggiornamento. Grazie per le recensioni e per tutto il sostegno e l’affetto .
Ci rivediamo tra due settimane.
Take care *
*fugge*

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Capitolo 32
*** Due soli ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

32. Due soli

 

 

17 giugno 2009

Finito il giorno, arrivò la notte.

Scese sulle sue ossa doloranti e ricoprì ogni cosa con una coperta d’ombra.

Finita la notte, ritornò il giorno.

Quando Dean riaprì gli occhi — non perché si fosse addormentato, ma perché gli bruciavano così tanto da non riuscire più a tenere le ciglia sollevate — una chiara luce violetta era già arrivata a lambirgli le punte delle scarpe.

Per tutto quel tempo la testa di Castiel era rimasta immobile, appoggiata sopra il suo sterno. 

«Mi dispiace» Dean affondò la faccia nei suoi capelli «Mi dispiace, è stata colpa mia» gorgogliò «Sono stato egoista e avventato e non avrei…» le sue narici si riempirono dell’aroma tossico del compensato in fiamme «Non avrei dovu-»

S’interruppe bruscamente, tossendo.

Un odore del genere non poteva certo provenire dalle ciocche impolverate di Castiel: ed era troppo penetrante per essere stato trasportato fin lì dal vento.

Alzò lo sguardo. 

Il controsoffitto bruciava. 

Uno dei pannelli di compensato — ormai prossimo al carbonizzarsi del tutto — penzolava pericolosamente proprio sopra le loro teste, e un caldo spiacevole cominciava a irradiarsi anche dalla parete contro la quale il ragazzo era ancora accasciato, segno che l’incendio doveva essere partito dai piani superiori ma si stava rapidamente estendendo all’intero palazzo. 

Si strinse Castiel contro il petto e strisciò di lato, mentre i primi fiocchi di cenere gli piovevano sul naso e sulle spalle.

«Dobbiamo uscire di qui» ansimò, scuotendosi la fuliggine di dosso e spazzando via con il dorso della mano quella che si era depositata sulle maniche e sui pantaloni candidi dell’angelo.

La temperatura aumentava in fretta e il calore stava diventando insopportabile.

Spostò con cautela Castiel sul pavimento e cercò per prima cosa di piazzarsi stabilmente in piedi; il muro oramai scottava ma lui fu costretto lo stesso ad appoggiarcisi per qualche secondo, il minimo lasso di tempo necessario affinché i contorni degli oggetti smettessero di ondeggiargli attorno e lui recuperasse l’equilibrio. 

Si piegò lentamente in avanti, infilò le mani sotto le ascelle di Castiel e lo sollevò, tirandoselo delicatamente addosso — un braccio a circondargli la schiena e un altro sotto le sue gambe —, dopodiché si avviò barcollando verso la stessa porta sfondata attraverso la quale era entrato nell’edificio, ventiquattr’ore prima.

I pannelli che crollavano dal controsoffitto si accartocciavano sfrigolando sul pavimento, sollevando grosse spirali di fumo che assomigliavano a serpenti fatti di nebbia: come quando Dean aveva quattro anni, i vetri della sua cameretta erano esplosi e un minuto dopo la mamma era sparita in un una nuvola di fuoco.

Si domandò se tutto ciò che avrebbe mai potuto fare, per le persone che amava, fosse tenerle tra le braccia, e trasportarle fuori da un edificio in fiamme.

Solo che Sam era molto più piccolo, all’epoca, era un cosino minuscolo che tra le coperte a stento si vedeva e che non pesava quasi niente. E piangeva e si dimenava, mentre lui si fiondava fuori.

Dean si puntellò contro lo stipite — tiepido — della porta e prima di uscire lanciò un’occhiata guardinga all’esterno.

Cenere dentro, cenere fuori.

New York era una sconfinata e deserta tavolozza di grigi.

Il cielo aveva perso la tonalità azzurrina del giorno prima ed era triste e sporco come una mattonella di fango secco.

L’Empire State Building era dalla parte opposta — alle spalle della costruzione in fiamme — perciò lui non lo poteva vedere, ma per il resto la città pareva essere stata appena sfiorata da quello che doveva essere stato il più violento — e probabilmente il definitivo — scontro tra le candide schiere celesti e la loro, terrena, controparte umana.

I residui dei palazzi circostanti erano definitivamente crollati e i mucchi di macerie erano un po’ più alti e fumanti di come lui li ricordava, ma nell’aria aleggiava la stessa identica desolazione che lo aveva accolto il giorno in cui aveva messo piede a Corte per la prima volta.

Mosse tre passi oltre la porta e venne immediatamente fermato da una serie di grida concitate e da due figure longilinee che, notata la sua presenza, si stavano affrettando nella sua direzione.

«Ehi! Ehi! C’è un ferito?» 

Con la faccia sudicia di sangue e polvere, non si stupì che da quella distanza Kevin non l’avesse riconosciuto. 

«Cos’è successo?» fu il secondo grido, e la matassa bionda che sbucò poco dietro il caschetto nero del ragazzino riuscì persino, per un attimo, a distrarre Dean dalle carezze irridenti dei capelli di Castiel che gli solleticavano il collo e dai rivoli di sudore che gli colavano giù lungo la spina dorsale, irritando tutte le piccole ferite che incontravano sulla loro strada.

«Che cosa ci fate voi due qui?» gracchiò, mentre Kevin gli correva incontro «Dovreste essere a Poughkeepsie, al sicuro, qui è… è troppo pericoloso per…»

«Dean…» 

Kevin abbassò il fucile. 

«E’ finita» mormorò.

«Michael è stato ucciso. Gli angeli si sono arresi. Poco prima dell’alba Anna è ritornata a Poughkeepsie a prendere chiunque di noi potesse essere d’aiuto» 

L’espressione frastornata che non accennava a svanire dalla faccia di Dean — la bocca semi-aperta, lo sguardo stralunato, la palpebra destra che continuava a tremolare come se lui fosse sul punto di collassare — gli fece aggrottare la fronte, perplesso «Abbiamo vinto» ripetè l’adolescente, temendo forse di non essere stato sufficientemente chiaro «Michael è mor-»

«Castiel?»

Jack, che era corso verso Dean giusto con qualche secondo di ritardo rispetto al suo amico, li aveva appena raggiunti.

Quel nome inusitato, per nulla umano — assieme agli scampoli di tessuto candido che ancora s’intravedevano tra le chiazze rosse e nere che imbrattavano i vestiti di Castiel — fece sobbalzare Kevin, e la punta del suo fucile si risollevò di scatto come azionata da un meccanismo a molla.

«No, no, lui…» sotto due paia di occhi sconcertati, Jack avvolse le dita intorno al mirino dell’arma e la dirottò altrove, scuotendo la testa. 

«E’ che… non me lo ricordavo così» sussurrò.

Dean sbatté le palpebre.

«Lo ri… lo ricordavi?»

Le guance del nephilim s’imporporarono «I-io…» cominciò a balbettare, fissandosi i piedi «Io… quello che volevo dire…» 

Poi, improvvisamente, tacque. 

Serrò le labbra, trasse un profondo respiro e rialzò lo sguardo su di lui. 

Dean non l’aveva mai visto così serio. Nemmeno quando Sam l’aveva chiamato in disparte e l’aveva messo al corrente del piano della Resistenza e del ruolo che loro due avrebbero avuto al suo interno.

«Io ricordo tutto, Dean»

Kevin inarcò un sopracciglio e si rimise il fucile in spalla «Vado a cercare Anna» borbottò, confuso, prima di allontanarsi e sparire dietro un cumulo di monconi di cemento. Dean quasi non se ne accorse.

Jack continuava a guardarlo. 

Non aveva mai fatto caso a quanto le sue iridi fossero chiare, e dense. 

«Il primo ricordo che ho sono grida nel buio» ammise il nephilim «Di quando non ero ancora nato. Quando ero ancora nel corpo di mia madre, ma le urla non erano le sue»

Le urla di Sam. 

Non potevano che essere le urla di Sam.

Dean sentì il proprio stomaco aggrovigliarsi.

«Ricordo il suo volto, i suoi capelli, le sue ultime parole e il sangue che bagnava il materasso, prima che Jo mi strappasse via da lei e mi portasse nell’altra stanza: ogni cosa di quella notte, e di tutti i giorni e le notti a venire» proseguì Jack, spedito, come se avesse paura che il coraggio potesse scappargli via prima che lui riuscisse a concludere il discorso «Ricordo quando Castiel mi ha preso in braccio, prima di farci entrare in quel…» la parola ‘montacarichi’ non doveva averla trovata in nessun libro «…in quella strana specie di ascensore» decretò infine «Crowley, la galleria, quando ci siamo fermati perché piangevo e quando alla fine mi sono addormentato addosso a te. Ricordo le parole che si sono scambiati Sam e Anna, il primo giorno che siamo arrivati al bunker»

Dean rafforzò la presa sulla schiena di Castiel e arretrò. 

«Jack…» esalò, senza riuscire a sentirsi. 

Gli ronzavano le orecchie. 

In realtà non sapeva nemmeno perché fosse indietreggiato. Non credeva davvero che il ragazzino potesse fargli del male.

Era semplicemente sfinito. 

Castiel non rispondeva, non si muoveva, non respirava. Dean non avrebbe desiderato altro che un posto ragionevolmente sicuro dove poter svenire, ma l’idea che nel frattempo qualcuno avrebbe potuto staccarlo dall’angelo per deporre quest’ultimo sopra una pira funebre lo terrorizzava.

Davanti a lui c’era un nephilim sedicenne di due mesi scarsi che gli aveva appena rivelato di essere a conoscenza dei suoi infausti natali — Jack non aveva mai visto Lucifer, e sia lui che Sam si erano sempre ben guardati dal rivelargli alcunché in merito alla sua nascita, ma se ricordava quella conversazione tra suo fratello e Anna doveva essere al corrente di ogni particolare: dal suo concepimento, alla sua crescita anomala, alla natura imprevedibile dei suoi poteri, sebbene questi ultimi non si fossero mai manifestati — e che appariva a tanto così dall’esplodere in un attacco di panico.

«Jack, questo…» gemette «Questo non è il momento»

Ma il fatto che Dean si fosse tirato indietro, come se avesse paura di lui, aveva peggiorato la situazione.

«Tu… e Sam…» 

Se anche fossero stati circondati da un esercito di angeli armati fino ai denti, Jack non se ne sarebbe neppure accorto.

«Credete sul serio che io possa diventare come mio padre? Come Lucifer?»

Era completamente perso. 

Pietrificato, immobile e pallido come una statua, ad eccezione del labbro inferiore che gli vibrava leggermente.

«Io non voglio trasformarmi in un mostro…» pigolò, mentre i lucciconi gli sfuggivano dalle ciglia e gli colavano lungo le guance «E’ che non lo so… non so come fare, io… brucia come il fuoco e non ce la faccio più e non voglio…» deglutì «Non voglio che voi mi odiate, non voglio mi cacciate via, non voglio rimanere da sol-»

«Noi non ti cacceremmo mai via» 

In quale recesso della propria mente Dean avesse recuperato la forza per interromperlo sarebbe sempre rimasto un mistero: si sentiva anche lui sull’orlo di un tracollo.

«Ascoltami» proseguì «Mi dispiace. Mi dispiace che tu abbia saputo di Lucifer e della tua natura… in quel modo. Io e Sam avremmo dovuto già parlartene settimane fa ma dopo c’è stato l’attacco a Bay Ridge, Gabriel, e Claire e…»

E Castiel, incatenato al pavimento di una delle celle del novantesimo piano.

«Nessuno di noi ti odia, Jack. Nessuno di noi ti manderebbe mai via»

«D-davvero?»

La faccia di Jack era un vetro trasparente oltre il quale si potevano vedere tutte le emozioni che gli stavano sconquassando il petto. 

Confusione. Incredulità. 

Sollievo.

«Ma n-non avete… Non avete paura di me?» domandò, esitante.

«Vieni qui»

Dean si sarebbe volentieri avvicinato lui stesso ma aveva l’impressione che con un solo passo in più le sue gambe avrebbero definitivamente ceduto e lui sarebbe crollato a terra.

«Portalo tu»

Quando la distanza tra lui e il nephilim si fu ragionevolmente ridotta, il ragazzo gli lasciò scivolare delicatamente Castiel tra le braccia. E gli parve che anche qualcos’altro, come un pezzetto piccolissimo ma altrettanto tagliente, staccatosi da qualche parte dentro di lui, fosse scivolato e dopo caduto giù, sopra l’asfalto, in mezzo alla polvere.

«Io non credo riuscirei a fare ancora molta strada, con il suo peso» mormorò.

Ma le sue previsioni erano state fin troppo ottimistiche, perché un secondo dopo il suo ginocchio smise di collaborare, l’articolazione gli si piegò fregandosene beatamente della sua volontà, e la rotula destra di Dean cozzò violentemente sul terreno.

«Dean!» 

Jack gli fu immediatamente accanto.

«Sei ferito?»

«Sto… sto bene» Dean ingoiò un lamento assieme a quel poco di saliva che gli rimaneva sulla lingua «Sto bene, non preoccuparti»

Sono soltanto precipitato da trecento metri d’altezza, avrebbe volentieri aggiunto, ma non aveva le energie nemmeno per fare il sarcastico.

«Andiamo, adesso» gemette, puntellandosi sulle nocche nel tentativo di raddrizzarsi «Per favore»

Tuttavia, Jack non si mosse.

Il suo sguardo dorato vagava tra lui e il volto cereo di Castiel. Rimase a guardare l’angelo tanto a lungo che Dean temette che sarebbe stato costretto a dover trasportare anche il nephilim di peso, per riuscire a schiodarlo da lì.

Stava già per esortarlo — o implorarlo — di nuovo, quando il ragazzino s’inginocchiò sull’asfalto, depositando gentilmente Castiel davanti a lui. Fletté le dita, le richiuse a pugno e le riaprì, come se di colpo non sapesse più bene cosa farsene delle mani.

«Io forse…» balbettò «Forse posso…»

«Jack…» sospirò Dean, esausto «Che stai…»

Quando Sam, giorni dopo, gli avrebbe chiesto cosa fosse realmente accaduto, in quel desolato tratto di strada a metà della Avenue C, lui avrebbe parlato di un grande boato — simile a quello di una deflagrazione ma privo della sua stessa, distruttiva, onda d’urto — originatosi dal centro esatto del torace di Castiel, lì dove il nephilim si era alla fine deciso a posare i polpastrelli.    

Dei suoi occhioni che si erano illuminati come piccoli soli.

Dopodiché sentì un raccapricciante rumore di ossa che scricchiolavano e si rinsaldavano insieme, e un ancor più sgradevole puzzo di carne bruciata. 

Castiel schiuse appena le labbra. 

Girò la testa da un lato e sputò fuori un globo di sangue scuro, e Dean pensò di essere diventato cieco all’improvviso — o perlomeno miope — perché il profilo dell’angelo si sfocò d’un colpo, il blu dei suoi occhi ondeggiava come l’acqua increspata di una pozzanghera, oppure magari era un fantasma quello che stava guardando — avrebbe avuto senso, un’entità spettrale angelica sarebbe potuta apparire così, con i lineamenti pallidi e nebulosi — eppure Castiel era solido, lo poteva toccare, le sue lacrime non gli passavano attraverso ma si fermavano sulla sua camicia chiara e la verità era che lui stava semplicemente piangendo — e ridendo — e aveva la sensazione qualcuno stesse lo chiamando, qualcuno lo chiamava, ma non sapeva chi, né da che parte provenisse la voce.

Rialzò lo sguardo e vide solo Jack, che si fissava — inespressivo — i propri palmi carbonizzati. 

Poi persino i colori sbiadirono in una strana luminescenza nera.

E Dean, finalmente, svenne.
 





Era disteso su un fianco, su qualcosa di morbido. 

Non troppo soffice in realtà, e dalla superficie un po’ ruvida: un vecchio materasso scoperto, avrebbe potuto giurarlo.

Dean aprì lentamente prima un occhio, poi l’altro. Accanto al suo c’era un secondo, rozzo, strapuntino stinto. 

«Sei già sveglio» s’impensierì una voce sopra di lui.

Castiel era seduto a gambe incrociate sullo strapuntino. 

Con la schiena lievemente incurvata e le mani posate sulle caviglie — in una posizione che chiunque avrebbe giudicato piuttosto dimessa, per un angelo — e con indosso dei vestiti della taglia sbagliata: il jeans più rattoppato che lui avesse mai visto e una spiegazzata maglietta grigia in cui sembrava nuotare, le cui maniche chilometriche aveva dovuto arrotolarsi fino ai gomiti.

Dean si drizzò a sedere come morso da un ragno — o ridestato di soprassalto dal suono di una sirena d’allarme — senonché un pensiero strisciante, una vocetta molto simile a quella che gli aveva tenuto compagnia nelle ventiquattro ore precedenti s’infiltrò nella sua mente alla stessa velocità, bloccandolo con le braccia strette lungo il corpo un secondo prima che lui potesse lanciarsi ad abbracciare il fagotto di abiti sbrindellati che si era ritrovato davanti. 

Con che diritto?

Il collo dell’angelo era immacolato; il suo viso intatto, forse un po’ pallido, ma i suoi lineamenti erano ritornati perfetti e inalterati e il suo naso di nuovo integro e diritto, come se il tacco della scarpa di Naomi non l’avesse mai raggiunto; la gamba sinistra era incrociata, insieme alla destra, in una posizione assolutamente normale e la sua pelle era pulita, così come anche i suoi capelli. 

Con che diritto?

Aveva solo una sorta di bizzarro e a malapena percettibile tic all’occhio sinistro. A intervalli regolari la palpebra inferiore gli si contraeva e quella superiore si abbassava leggermente, come se sulla sua pupilla comparisse un’immagine che lui non voleva guardare.

Con che diritto Dean avrebbe potuto buttargli le braccia al collo, e cercare le sue labbra, e baciargli le guance, le tempie, e gli angoli degli occhi, e qualsiasi lembo di pelle scoperta che sarebbe riuscito a trovare prima di doversi fermare per tirare un nuovo respiro?

Castiel aveva perso ogni cosa, per colpa sua. La reputazione, l’orgoglio, la volontà, la dignità e la voce.

Castiel era quasi morto, per colpa sua.

«Questi me li ha procurati tuo fratello» spiegò l’angelo, tentando probabilmente d’interpretare il suo mutismo turbato; accennò alle maniche arrotolate «Immagino non abbia avuto il tempo di preoccuparsi delle misure» ammise, provando ad abbozzare un sorriso.

La notizia lo riscosse appena.

«Sam» articolò, a fatica: aveva la bocca orribilmente asciutta «Dov’è? Come…»

«Oh, sta bene» venne immediatamente rassicurato «Sta bene. E’ fuori insieme agli altri a dare una mano con i feriti e con… con i cadaveri» aggiunse Castiel, sospirando «E’ andato via poco fa, nessuno di noi si aspettava che tu ti risvegliassi prima di domattina»

Oltre l’aureola disordinata delle sue ciocche scure, Dean scorgeva le ante semiaperte di una coppia di finestre. Spesse nuvole bigie continuavano a velare il cielo ed era difficile stabilire che ora fosse, ma la luce che aveva l’ardire di filtrarvi attraverso era fuor di dubbio quella del pomeriggio. La stanza in cui si trovavano era completamente spoglia, ad eccezione dei loro due materassi gettati a terra e di una pila di indumenti macchiati — o asciugamani forse? — in un angolo. 

«Devi essere assetato» ritentò l’angelo, di fronte al prolungarsi del suo silenzio «Sam ha lasciato dell’acqua da qualche parte…» si sporse dall’altro lato dello strapuntino, recuperò una borraccia metallica — dal cui interno proveniva un invitante borbottio liquido — e la poggiò sulla porzione di pavimento libero davanti a lui, ma Dean non era ancora intenzionato a servirsene.

«Siamo dentro l’Empire State Building?» domandò invece.

Castiel annuì e il tic della sua palpebra sinistra si fece più acuto, fino a diventare pressoché ininterrotto; chinò il capo e si strofinò l’occhio con il dorso dell’indice; una volta che il tic si fu normalizzato riportò la mano alla caviglia e gli lanciò una cauta occhiata di sottecchi.

«Posso venire lì?» chiese. 

«S-sì» il ragazzo si tirò le ginocchia sotto il mento per fargli posto «Sì, certo»

L’angelo si allungò in avanti e lo raggiunse sul suo giaciglio. 

Anche i pantaloni gli andavano lunghi; almeno dieci centimetri di tessuto blu in più cascavano e si arricciavano sui suoi piedi nudi. 

«Castiel…» decise infine di rischiare «Castiel, io…»

I suoi propositi di coerenza sfumarono nel fruscio di jeans che sfregavano sul cotone del materasso.

«Non dire niente» 

Castiel aveva azzerato l’ultimo minimo di distanza che li separava e ora le sue parole tremavano sulla clavicola destra di Dean. 

«Non serve che tu mi dica niente»

Le braccia magre dell’angelo si erano aggrappate alla sua schiena con un urgenza tale che se anche il ragazzo avesse voluto non sarebbe stato ugualmente in grado di emettere suono, perché quella stretta gli aveva mozzato il respiro.

«Domani risponderò a tutte le domande che vorrai farmi, ma non adesso» lo supplicò.

Castiel aveva i capelli umidi. 

Addosso gli era rimasto un vago odore di cenere bagnata.

«Non adesso»

Dean distese le gambe — che teneva ancora strette al petto — e gliele avvolse intorno ai fianchi.

«Va bene…» sussurrò, abbandonando la fronte sulla sua spalla, mentre si avvinghiava alla sua maglietta e i pugni gli si riempivano di stoffa grigia «Va bene…»

L’angelo rilassò le spalle e lui percepì il suo palmo spostarsi, dalla sua scapola alla sua nuca e premere appena, come se non si sentisse ancora completamente sicuro che lui fosse solido, che fosse vivo, e reale, che fosse lì.

Dean rafforzò la presa sui suoi fianchi e gli sembrò di aver aspettato quel momento per tutta la vita, anziché per soli due mesi e mezzo, con il cuore in gola.

Rialzò la testa, prese il viso di Castiel tra le mani e lo baciò.

Registrò due guance gelate sotto le dita.

Per il resto, dove fossero precisamente le sue gambe, o le sue braccia, quali parti del suo corpo si stessero muovendo o in che momento e quante volte si fosse staccato dalla bocca dell’angelo per riprendere fiato, non l'avrebbe mai saputo. 

Si separarono quando il formicolio che era partito dal suo piede sinistro — risalito in fretta al polpaccio e alla parte bassa della coscia — da facilmente ignorabile divenne fastidioso, fino a farsi lancinante e a strappargli una smorfia contrariata: minuscola, ma Castiel dovette accorgersene ugualmente.

«Ho solo la gamba intorpidita» lo tranquillizzò, mentre lui si districava dall’abbraccio con aria preoccupata «Cinque minuti e ritornerà normale» 

L’angelo socchiuse gli occhi e continuò a scrutarlo con espressione poco convinta: davanti all’incresparsi sospettoso delle sue sopracciglia Dean si lasciò quasi scappare una risata.

«E’ tutto a posto» ripetè «Non sono ferito»

«Oh…» le pieghe sulla fronte di Castiel si distesero di colpo «Va bene allora»

Dean afferrò la borraccia metallica e nel giro di dieci secondi se n’era già scolato metà del contenuto; mentre le ultime gocce gli scivolavano sul mento e ruzzolavano sui suoi pantaloni — che erano diversi da quelli che ricordava di aver indossato due giorni prima a Poughkeepsie, notò nello stesso istante, e così pure il resto dei suoi vestiti — iniziò a sentirsi preda d’una stanchezza crescente, neanche fosse arrivato al termine di una pessima giornata di lavoro nella cava. 

«Secondo le previsioni di Gabriel non avresti proprio dovuto svegliarti» lo informò Castiel, recuperando il contenitore vuoto che lui aveva abbandonato sul materasso e riavvitandone coscienziosamente il tappo «Ha curato le tue ferite ma a parte quello… Eri rimasto comunque vigile — o semi-vigile — per quanto? Quarantotto ore?»

«Qualcosa del genere…» biascicò il ragazzo, sebbene il tono con cui gli era stata posta la domanda non richiedesse realmente una sua replica; tirò un sospiro spossato e si distese di nuovo.

Castiel fece per ritornare sul suo strapuntino.

«Puoi restare?»

L’angelo si rigirò verso di lui.

«Non è mia intenzione andare da nessuna par-»

«Puoi restare qui?»

Il suo stato di coscienza si era rapidamente degradato in dormiveglia, sarebbe ripiombato nel sonno di lì a poco.

Castiel si sdraiò accanto a lui e Dean si accoccolò con la schiena contro la sua pancia. Un braccio dell’angelo sotto la sua testa, l’altro — morbido — intorno al suo fianco. 

Un bacio leggero sul suo collo.

Era pieno giugno, nella stanza faceva caldo.

I capelli di Castiel erano già asciutti.

 

 

 

 

 

 

 

Quanto avevo bisogno di una scena Destiel senza morti, feriti e Arcangeli di mezzo? Ecco, la parola “tantissimo” non renderebbe affatto l’idea  
Cosa ne pensate di Jack e del suo intervento? Ve lo aspettavate? Suvvia, vi pare davvero che avrei potuto far morire Castiel in quel modo dopo tutto quello che ha dovuto passare? ^^ Non scrivo mica sceneggiature per Supernatural… (ok, la smetto)
Ci rivediamo tra due settimane con quello che — molto probabilmente — sarà il terzultimo aggiornamento (sigh), nel frattempo vi ringrazio per le recensioni che avete lasciato all’ultimo capitolo e vi mando un grande abbraccio
Take care *

Diminutivo di strapunto: grossolano materasso da stendere per terra

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Capitolo 33
*** Esseri umani ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

33. Esseri umani

 

18 giugno 2009

La mattina seguente a ridestare Dean fu un grandioso appetito.

Una fame da lupi, a dire il vero: il suo stomaco gorgogliava in maniera alquanto imbarazzante.

«Non è mai accaduto prima d’ora, Castiel»

Castiel era in piedi, davanti alla finestra. Il ragazzo non ne distingueva che la sagoma scura in controluce, accanto al profilo ancora non ben identificato con il quale l’angelo stava animatamente discutendo.

«Che nessuno l’abbia fatto finora non significa che non possa essere possibile»

«Certo, allo stesso modo per cui io potrei staccarti le braccia e riattaccarti il destro al posto del sinistro! Senza sapere quali potrebbero esserne le reali conseguenze e soprattutto…» la seconda voce non gli era del tutto sconosciuta «Soprattutto, potrei non avere voglia di farlo»

«In tal caso provvederò io stesso»

Un pausa, poi un lungo sospiro.

«Castiel… sii ragionevole…»

«Gabriel, ti prego di non parlarmi con quel tono. Mi sembra di risentire Michael»

L’Arcangelo si passò nervosamente le dita tra i capelli.

«D’accordo!» si arrese con un gemito «D’accordo. Misericordia…» si avvicinò a Castiel e gli prese il mento tra pollice e indice «…possibile che non si possa fare niente per quello?» mormorò afflitto, facendogli ruotare delicatamente il collo da un lato.

Castiel non si sottrasse al suo tocco angustiato, limitandosi a chinare la testa.

«Mi dispiace» si stropicciò l’occhio sinistro «Non è qualcosa che sono capace di controllare»

«Non è colpa tua»

Dal suo mento, il palmo di Gabriel si spostò sulla sua guancia.

«E nemmeno i miei poteri possono granché, a quanto pare…»

Dean non era del tutto convinto di avere il permesso di assistere a un tale dialogo. Stava già per sollevarsi sui gomiti e annunciare la sua cosciente presenza, quando l’Arcangelo si voltò verso di lui e gli rivolse uno smagliante — oltre che perfettamente integro — sorriso a trentadue denti.

«Bentornato tra noi, Dean!» trillò «Perdona la confusione, ma là fuori è un disastro e questo era l’unico posto in cui poter godere di cinque minuti di tregua»

«Oh, no, nessun problema io…» 

Per quanto Gabriel fosse ormai uno di loro e si mostrasse affabile — e sopra gli inconfondibili pantaloni e camicia candidi non portasse più il frac ma un’improbabile giacca turchese — Dean avrebbe avuto bisogno di qualche altro giorno per abituarsi all’idea di poterlo guardare dritto in viso.

«Non mi avete svegliato» fu tutto ciò che riuscì a rispondere.

Cercò lo sguardo di Castiel. L’angelo gli sorrise, ma aveva, se possibile, l’aria ancora più esausta del giorno precedente: fosse stato un umano, chiunque gli avrebbe caldamente consigliato una buona dormita.

«Fantastico» decretò l’Arcangelo, battendo le mani come stesse per esibirsi in un trucco di magia «Vado ad avvertire tuo fratello che sei sveglio. E ti faccio portare qualcosa da mangiare, o il tuo stomaco finirà per assordare l’intero grattacielo» aggiunse soave, ma Dean non fece in tempo ad arrossire che Gabriel si dissolse sotto i suoi occhi, con un rumore che assomigliava a un rapido frullio di ali.

«E’ sparito!» sobbalzò. 

«E’ sparito, com’è…»

Castiel abbandonò il davanzale assolato e si sedette affianco a lui. 

«Morto Michael, sono sparite anche le sue regole e i sigilli che aveva imposto sull’edificio» gli spiegò, rassicurante «E Gabriel adora teletrasportarsi in giro, credo di non averlo ancora visto mettere dieci passi uno dietro l’altro» osservò, soffiando una risata sommessa.

«Di cosa stavate parlando?»

Castiel strinse le labbra «Oh…» bofonchiò «Niente d’importante»

Dean non se la sentì d’indagare ulteriormente, e l’angelo dovette rendersene conto perché lo udì esalare un, fin troppo palese, sospiro di sollievo. Poi Castiel sollevò una mano, come volesse accarezzargli il viso, ma il movimento si bloccò d’improvviso a mezz’aria.

«Posso?»

Dean s’incupì.

«Da quando hai ricominciato a chiedere il permesso?»

Castiel non ne fece mistero a lungo «Da quando ti ho quasi ammazzato in quel bunker» 

«Quasi»

L’angelo sbuffò una seconda risata, ma era così amara che Dean desiderò che anche quella fosse un tic.

«Non eri tu, Castiel» sussurrò, sfiorandogli la linea tesa della mandibola «Non davvero»

Mentre gli scostava una ciocca corvina dalla fronte — nel tentativo di riparare le crepe nere che si erano aperte nei suoi occhi — la porta si spalancò, neanche se ad irrompere nella stanza fosse appena stato un tornado.

«Dean!»

Dean fu a stento in grado di staccarsi dall’angelo e di tirare su la testa prima che l’abbraccio incontrollato di suo fratello lo travolgesse, per poco non facendolo ribaltare all’indietro sul materasso.

«Sono…»

Era caldo Sam. Caldissimo.

Aveva la schiena sudata, la camicia appiccicata alla pelle e stava singhiozzando contro la sua maglietta, e… no. 

No, le parole le avrebbe tenute per dopo.

Dean gli cinse le spalle e lo tenne stretto finché non fu assolutamente e completamente certo che anche l’ultimo, minuscolo brivido non avesse smesso di scuotergli la spina dorsale. Poi pensò che suo fratello — con ogni probabilità — doveva essere entrato nella cella asettica di Castiel poco dopo la loro caduta nel vuoto, e forse aveva visto lo squarcio nella parete e l’angelo che vi si gettava attraverso, o forse al suo ingresso non aveva trovato che una stanzetta bianca e vuota. 

Lo strinse un po’ più forte.

«Sono contento anch’io di rivederti vivo, fratellino» mormorò, una volta che Sam ebbe ritrovato la compostezza e le forze per sciogliersi lentamente dall’abbraccio. 

«Immagino… immagino che tu adesso abbia bisogno di qualche spiegazione» biascicò il minore, asciugandosi le guance arrossate con la manica della camicia «E anche tu, Castiel…» si girò mortificato verso l’angelo, che nel frattempo aveva silenziosamente fatto ritorno al suo strapuntino «Scusami… avremmo dovuto almeno bussare»

Fintanto che Castiel si preoccupava di rassicurare suo fratello in merito alla sua tumultuosa entrata, Dean — richiamato dall’utilizzo del plurale nonché da un non ben definito ma oltremodo invitante profumo — allungò il collo per sbirciare oltre l’anta semi-socchiusa della porta; Sam l’aveva aperta con tale veemenza da farla quasi richiudere per il contraccolpo. 

«Jack» gongolò «Hai intenzione di rimanertene lì dietro ancora a lungo?»

«Oh…» 

Tra il battente e lo stipite comparve una ciotola bianca. 

Dei polsi nervosi e degli avambracci sottili, una camicia di cotone marroncino e infine, per ultimi, un paio di iridi dorate si arrischiarono ad affacciarsi all’interno.

«Non volevo disturbare» si giustificò il nephilim, dondolando il peso da una gamba all’altra.

«Non diciamo sciocchezze!» balzò sù Dean «Il pranzo non disturba assolutamente mai» dichiarò, raggiungendolo in due falcate e sfilandogli la scodella dalle mani. Poi gli gettò al collo il braccio libero e lo trasse a sé — non con meno, genuino impeto di quanto non avesse fatto Sam con lui un minuto prima — mentre il ragazzino era ancora alla ricerca di un vocabolo appropriato con il quale rispondergli.

«Grazie» gli bisbigliò all’orecchio. 

E Jack ne fu preso talmente alla sprovvista che Dean quasi poteva vederli, i suoi occhioni spalancati. 

«Sono…» balbettò «Sono solo riso e legumi…»

Davanti a un’innocenza del genere, lui ormai non sapeva se ridere o piangere. Il pizzicore nella sua gola, però, cominciava a farsi piuttosto esplicativo.

«Bene, mh…» tossicchiò quindi, fingendo di schiarirsi la voce «Fine dei convenevoli» sentenziò, separandosi dal ragazzino e allungandogli un buffetto sulla guancia «Sto morendo di fame»

Afferrò il cucchiaio che sporgeva dal bordo della ciotola e stava giusto chiedendosi se non dovesse procedere con delle presentazioni, o qualcosa del genere — dopotutto Castiel non aveva conosciuto che un Jack a malapena neonato — quando l’angelo richiamò il nephilim con un cenno, facendogli segno di avvicinarsi.

«Com’è andata a finire con quel muro crollato?» gli chiese, facendogli posto al suo fianco «So che avrei potuto informarmi tramite Gabriel ma ammetto di aver completamente dimenticato quella questione, stamattina»

«Ah, è stato persino più facile di quanto mi avessi detto!»

«Sì, beh…» all’occhiata perplessa che il maggiore gli indirizzò — mentre Jack riusciva finalmente a schiodarsi dallo stipite e raggiungeva Castiel con un sorriso che gli scavava due fossette enormi sulle guance — Sam rispose con una disinvolta alzata di spalle. 

«Sono successe un bel po’ di cose nelle ventiquattr’ore che tu hai trascorso a dormire» 

«’Un bel po’ di cose, eh?» 

Dean ritornò a sedersi sul materasso attaccando il pranzo con un’aria che avrebbe voluto spacciarsi per impermalita, ma ogni suo sforzo di espressione piccata non resistette oltre il primo boccone.

«Come sta?» borbottò, ancora con la bocca mezza piena «L’ultimo ricordo che ho di lui sono i suoi palmi carbonizzati»

«Se n’è occupata Anna» 

Sam si assicurò che Jack fosse sufficientemente preso dalla conversazione con Castiel, prima di continuare.

«In teoria avrebbe potuto curarsi anche da solo, ma quando vi abbiamo trovato era in stato a dir poco confusionale» gli confessò «Tu eri privo di sensi e Castiel non riusciva neppure a stare diritto. Ci sono volute ore per capire con esattezza cosa fosse successo»

«E i suoi poteri?»

«Stando a quanto sostiene Gabriel, se avesse continuato a reprimerli come stava facendo, nel giro di due, massimo tre settimane non sarebbe più stato in grado di controllarli e quasi sicuramente sarebbe…» il minore si massaggiò la tempia con due dita «Esploso, oppure avrebbe preso fuoco per autocombustione, o chissà cos’altro» gemette.

Se non fosse stato a digiuno da due giorni — e se il suo stomaco avesse almeno smesso di reclamare prepotentemente la sua attenzione — Dean avrebbe perso all’istante ogni appetito.

«Non voleva che lo abbandonassimo» ammise, rimestando nella scodella «Temeva che lo avremmo cacciato via se avesse dimostrato di essere così simile a un Arcangelo»

Suo fratello annuì «Sono stato un idiota» si maledisse «Avrei dovuto capirlo, avremmo dovuto parlargli subito»

«Ehi, non prenderti tutto il merito» lo rimbeccò lui, puntandogli la posata contro «Siamo stati idioti almeno in due» 

Sam gli regalò una smorfia non del tutto convinta. 

«Ad ogni modo, impara in fretta» proseguì «Sta già aiutando Anna e Gabriel con la ricostruzione, anche se preferirei tenerlo sotto controllo ancora per qualche altro giorno, non vorrei si facesse di nuovo male per sbaglio»

Il maggiore mugugnò un masticato ‘E’ una buona idea’ assieme a quella che era indiscutibilmente una inumana — per quanto abbondante — cucchiaiata di riso, e per qualche minuto a riempire l’ambiente rimasero solo lo scampanellio del metallo contro la ceramica e l’allegro cicalare di Jack dietro di lui, intervallato a tratti dai pazienti commenti di Castiel.

«Cos’è successo?» 

Dean ingoiò l’ultimo boccone e abbandonò il contenitore vuoto sul pavimento «Quando ci siamo separati, quando ti ho lasciato con Gabriel e sono andato…» realizzò in quel momento di aver ridotto il volume della propria voce a poco più che un sussurro «Cos’è successo, dopo?»

Sam tirò lo stesso respiro infinito che avrebbe preso se di lì a un secondo avesse dovuto tuffarsi in un lago di pece.

«Anna ci ha trovati» esordì, espellendo l’aria tutta d’un colpo «Dopodiché Naomi è comparsa in fondo al corridoio»

Dean rabbrividì.

«Non potevamo nasconderci da nessuna parte, nonostante il buio non c’era la minima possibilità che lei non si accorgesse della nostra presenza» andò avanti suo fratello «Ma ormai Gabriel, una volta libero dalle manette, era di nuovo in possesso dei suoi poteri ed è riuscito facilmente a neutralizzarla, e a quel punto ci siamo precipitati nella cella di Castiel ma…»

«Era troppo tardi»

Né sopra, né sotto, né fuori. 

Silenzio. 

Il vuoto terrificante che aveva riempito le orecchie di Dean quarantotto ore prima gli esplose per la seconda volta dentro il cranio e lui si appigliò con tutte le proprie forze al bordo scucito del materasso come se avesse paura che potesse improvvisamente disintegrarsi, assieme al pavimento dove poggiava, e farlo cadere di nuovo nel nulla.

«Dean…»

Fu il tono apprensivo di suo fratello a riportarlo in superficie.

«Va tutto bene?»

Le sue dita attorno al suo gomito. 

Il maggiore scrollò la testa «Sì…» gracchiò, imbastendo di contro un’espressione saldamente risoluta «Sì, vai avanti»

«Dicevo, quando siamo arrivati nella cella, Michael era ancora lì» 

Il più piccolo riattaccò senza indugi da dove si era interrotto, ma preferì comunque non lasciargli il braccio per la restante parte del racconto. Dean gliene fu immensamente grato.

«E una volta intuite le intenzioni di Anna — e di Gabriel — ha richiamato il resto degli angeli e allora… non c’era molto altro che potessimo — che potessi — fare se non provare a sopravvivere. La Resistenza ha fatto irruzione dal pianterreno e dopo è stato solo…» Sam affondò i denti nella polpa rossa del suo labbro inferiore «…guerra, direi sia il termine più adatto» sospirò «Finché Gabriel non è riuscito a uccidere Michael, e gli angeli si sono definitivamente arresi»

«Gabriel?» Dean strabuzzò gli occhi «L’ha davvero ucciso lui?»

«Era l’unico che poteva farlo» 

Non era stato Sam a rispondergli.

Nessuno dei due si era reso conto che Castiel e Jack avevano smesso di dissertare di muri pericolanti e modi per rimetterli in sicurezza utilizzando concentrazione e poteri angelici, e che dovevano aver assistito in silenzio al loro ultimo scambio di battute.

«In uno scontro aperto, solo un Arcangelo avrebbe avuto le capacità per sconfiggerne un altro»

Il timbro serissimo e lugubre dell’angelo rammentava il tono di un’orazione funebre.

«Oh, ehm… Io credo di dover tornare di sotto» s’intromise Jack, titubante «Avevo promesso a Jody di finire entro oggi»

Fu suo fratello a mettere ufficialmente fine a quella discussione.

«Avviati pure» acconsentì, sorridendo «Arrivo tra un minuto» 

Il nephilim recuperò la scodella di ceramica dal pavimento e si congedò, salutandoli allegramente. Sam finì con lo scusarsi di nuovo per la turbolenta improvvisata — nonostante i reiterati ‘non ce n’è alcun bisogno’ di Castiel — e aveva già afferrato la maniglia argentea della porta, quando qualcosa lo fece tentennare e girare di nuovo verso il maggiore.

«Dean, se te la senti…» propose, puntando l’indice in direzione dell’uscio «E’ ora di pranzo, il che significa che sarà ancora tutto più frenetico del solito, e in generale Charlie e Anna non hanno il tempo neanche per respirare, ma ci sono Ellen, Jo… persino Claire» gli spifferò «Che non vedono l’ora di salutarti»

Dean si sentì attraversare da una scarica di energia.

Inconsciamente, forse non aspettava nient’altro dal momento in cui si era svegliato quella mattina.

Anzi in tutta onestà non vedeva l’ora di mettere il naso fuori e di potersene andare in giro — per la prima volta nella sua vita — con in tasca la consapevolezza di essere finalmente un uomo libero. 

Non un servitore del cielo, né un Collaborazionista, e neppure un fuggiasco o un fuorilegge. 

Un uomo libero.

Un essere umano, e basta.

Eppure la rotazione successiva del suo collo la compì in direzione di Castiel. 

«Oh, non preoccupatevi per me» lo anticipò l’angelo, scambiandosi con Sam un pacato segno d’intesa «Almeno per il momento, io sarei ben felice di evitare la confusione.

Dean ingoiò un sospirò a metà tra il deluso e il preoccupato, ma non insisté. 

Né diede segno di aver cambiato idea in merito al suo desiderio di scoprire quanto davvero fosse cambiato il mondo al di là di quelle quattro mura, e tuttavia rimase lo stesso tanto a lungo a temporeggiare sulla porta — mentre suo fratello lo aveva già preceduto lungo il corridoio — che Castiel si ritrovò a doverlo letteralmente sospingere fuori dalla stanza.

«Dean, davvero… Sopravviverò a una mezza giornata di solitudine» ribadì, ridacchiando. Gli scoccò un bacio — troppo breve — sulla punta del naso, dopodiché il ragazzo si convinse a voltargli le spalle e la sensazione che provò fu di quella di essere stato catapultato in una strana sorta di realtà parallela.

Ed era tutto talmente disordinato, e rumoroso, e affollato, che lui non riusciva a riconoscere che i bordi, i contorni degli oggetti e dell’ambiente in cui si trovava. Tutto il resto era sommerso da pacchi, pacchetti, attrezzi di vario genere e persone impegnate nelle faccende più disparate. 

Dean identificò a fatica il pavimento anonimo e le pareti intonacate che caratterizzavano i livelli inferiori della Corte — non dovevano trovarsi più su del quindicesimo piano — ma ricordava alla perfezione le finestre squadrate e i relativi, impolverati, telai metallici che cigolavano maledettamente ogni qual volta si provasse ad aprirle: nel caotico via vai di uomini e donne che si alternavano, sparivano e riapparivano a velocità stordenti nel suo campo visivo, nessuno però sembrava darsi troppa pena per quegli infissi sigillati. 

D’altronde, la maggior parte dei vetri era saltata via.

I raggi del sole gli riscaldavano la pelle e inondavano l’intero corridoio di un calore dorato e quasi liquido

«Dean, vieni!» lo richiamò Sam, al di sopra del chiacchiericcio generale «C’è Jack che ci aspetta!»

Nello stesso istante Claire sbucò, sfrecciando, da dietro l’angolo, puntando dritta su di lui come se avesse tutte le intenzioni di atterrarlo con una testata, e per un istante nella sua mente balenò l’idea di tuffarsi di lato e nascondersi all’interno del primo locale utile a salvarlo dalla sua furia bionda.

Solo che questa volta lei non lo prese a pugni.
 





Il resto della giornata trascorse in un frastornato stato di beatitudine incredula, tanto che la notizia di un mezzo esercito — quanto era rimasto — di angeli tenuto prigioniero dal novantesimo livello del grattacielo in su lo scalfì appena.

Quando Sam si decise a concedergli un po’ di autonomia, fu il turno di Jo ed Ellen di piombargli entusiaste tra capo e collo e di trascinarlo da un piano all’altro snocciolando informazioni e consigli — che comunque suo fratello si era già ampiamente premurato di fornirgli — riguardo agli orari dei pasti, i turni per le docce, le zone da evitare in quanto non ancora rimesse in sicurezza.

Furono loro a comunicargli che Rufus non era sopravvissuto alla notte.

All’esterno il tenue azzurrino del cielo aveva ricominciato a virare verso un pallido color avorio; una sfilacciata velatura di nubi lattee scendeva da ovest, mischiandosi al fumo grigio che Dean scorgeva, a tratti, oltre le vetrate semi-infrante.

A metà del pomeriggio Ash lo tirò per una manica e lo convinse ad aiutarlo a riparare le tubazioni di uno dei bagni del quarto piano: all’interno dell’Empire State Building adesso erano decisamente in troppi a necessitare dei servizi igienici, e non potevano certo permettersi di abbandonare neppure un cubicolo alla ruggine e ai danni del tempo.

Al termine del lavoro entrambi avevano i pantaloni e le braccia sporche fino ai gomiti di un non ben identificato mix nerastro di ossido di rame, mastice e sudore ma il lavandino tirava che era una meraviglia, e a Dean quel paio d’ore in compagnia di Ash e del suo umorismo bislacco avevano messo un tale buonumore in corpo da fargli accettare — con fervore inusitato per una richiesta del genere — l’invito di suo fratello ad aiutarlo con gli scatoloni da ordinare all’interno del magazzino che Jack aveva oramai finito di sistemare.

Ritornò in stanza che la notte era ormai calata da un pezzo.

(Non che un orario del genere fosse stato esclusivamente colpa sua, aveva aspettato mezz’ora in fila solo per potersi fare una doccia).

«Allora, com’è andata?»

Anche le lastre della finestra al quale Castiel aveva appena dato la schiena — notò — erano tagliate in diagonale da una sottile fenditura.

«Mi sembra tutto così…»

L’aggettivo che il suo corpo esausto gli proponeva era prosciugato.

Anziché poche ore aveva l’impressione di aver consumato giornate intere ad abbracciare, festeggiare, elargire amichevoli pacche sulle spalle e riceverne il doppio, bighellonare incredulo da un piano all’altro, trasportare cassapanche, segare tubi e avvitare bulloni.

«…irreale»

Si tuffò sul materasso mugugnando frasi sconnesse di cui non avrebbe mai serbato il ricordo. 

Qualcosa a proposito di Claire — era davvero passata in stanza mentre lui dormiva, davvero lui non si era accorto di niente? — e sul fatto che Ash avrebbe dovuto accorciarsi i capelli, e pure suo fratello, a meno che non fosse intenzionato a farsi crescere due belle trecce e poi… 

«…eglio che tu dorma, ora…»

Sentì Castiel ridere, e scivolare accanto a lui.

«…finirai di raccontarmi doma-»
 

19 giugno 2009

Questa volta, al suo risveglio, trovò la camera silenziosa e tranquilla come l’aveva lasciata prima di addormentarsi.

Castiel — disteso sul suo strapuntino stinto, a nemmeno mezzo metro di distanza — era un po’ più lontano di quanto Dean avrebbe voluto, ma poi realizzò di essere stato probabilmente lui stesso a sfrattarlo dal proprio materasso. 

A pancia sotto, con le braccia e le gambe spalancate (e la bocca — Dio, c’era un laghetto di saliva proprio in corrispondenza del suo mento), non c’era da meravigliarsi che l’angelo avesse preferito trasferirsi più in là: l’alternativa sarebbe stata trovare un modo per raggomitolarsi tra la sua coscia destra e la curva del ginocchio sinistro, oppure nella concavità creatasi tra il suo gomito semi-flesso e il bacino. E Dean non era poi così sicuro che gli angeli padroneggiassero anche l’arte del contorsionismo.

Tirò indietro il collo. Nonostante si fosse precipitato a serrare le labbra, neanche stesse sbavando acido, quell’imbarazzante pozzangherina sotto la sua faccia pareva seguitare ad allargarsi.

«Cosa sognavi?»

Castiel si era spostato sul fianco sinistro — doveva averlo percepito agitarsi — e si era girato dalla sua parte, piegando l’avambraccio sotto la testa, a mo’ di cuscino.

«Oh… era…»

Colori accesi, un sogno piacevole.

Un prato?

Dean riprese il controllo dei propri arti sparsi sul materasso e cominciò a grattarsi la fronte, assorto.

Aria tiepida, schiamazzi in lontananza.

Oppure si trattava di un giardino? 

La memoria sfocava.

«Credo di non ricordarlo» si arrese infine «Perché?»

Le iridi blu di Castiel erano molto più pulite del giorno precedente; come se qualcuno avesse rimosso lo strato di condensa fermo sopra una superficie appannata.

«Sembravi… contento, a un certo punto»

Dean distese il braccio finché la guancia dell’angelo non fu sotto le sue nocche: tutto sommato — constatò con gioia, accarezzandogli lo zigomo con il pollice — il tratto di pavimento che li separava non era poi tanto esteso.

«Dev’essere proprio interessante guardarmi dormire, ah?» lo punzecchiò, mentre Castiel si godeva le sue attenzioni con le palpebre socchiuse. 

«Mh-mh»

Il sole gli sfumava fili d’oro nero tra i capelli. 

«Mi dispiace di essere crollato, ieri sera» 

La sua mano scivolò dal viso di Castiel alla sua spalla avvoltolata in quella maglietta grigia troppo grande. 

«Ora capisco cosa intendeva Gabriel. Oltrepassata quella porta sembra di saltare sopra una giostra impazzita» riconobbe, ancora meravigliosamente impressionato dalla macchina rombante di persone e mezzi che la Resistenza aveva saputo portare a regime nell’arco di soli due giorni, ma non senza una punta di timore al pensiero di cosa lo avrebbe aspettato — di cosa avrebbe aspettato tutti loro — nei giorni a seguire.

«Non dovresti scusarti»

Castiel riaprì gli occhi.

«Il fatto che non dorma non significa che non mi stia prendendo il mio tempo anch’io» gli fece notare con gentilezza, sollevandosi sul gomito. Si protese verso di lui, le loro labbra si sfiorarono appena.

Dean fece per approfondire il bacio un altro centimetro… e ruzzolò giù dal materasso.

Il suo sedere planò con scarsa grazia sulle piastrelle e una sonora e altrettanto inelegante imprecazione soffocata si levò a rompere la luminosa quiete della stanza.

«Certo è sempre stato molto interessante osservarti anche al risveglio» osservò prontamente l’angelo, avvicinandoglisi, mentre lui si tastava con preoccupazione il fondoschiena.

«Questo non è affatto diverten…»

Oh, chissenefrega.

Quando Castiel sorrideva, un intreccio di minuscole rughette si sostituiva alle ombre che stagnavano intorno alle sue ciglia.

Le punte dei loro nasi quasi si toccavano e la bocca dell’angelo, dalla sua, adesso distava meno di un respiro. Persino le sue occhiaie gli apparivano meno profonde.

Chissenefrega, poteva dargliela vinta.

«Piano…» seguitò a ridacchiare Castiel, mentre Dean si metteva alla ricerca di una posizione comoda che gli permettesse di non dover staccare la faccia dalla piega del suo collo «Altrimenti dovrai tenerti le ammaccature finché non rivedi Jack, o un altro angelo egualmente bendisposto»

Non che qualcuno, Sam, Gabriel, Claire, si fosse dato il pensiero di informarlo a riguardo.

Castiel non aveva smesso di accarezzarlo, eppure il ragazzo si rabbuiò di colpo. 

Né lui aveva avuto il coraggio di domandare, in verità, ma nonostante la pelle diafana dell’angelo non avesse un graffio Dean non aveva la minima idea di quali fossero le sue reali condizioni.

«Stando a quanto sostiene Gabriel…» fu il mormorio che arrivò alle sue orecchie «Dovrei riuscire a recuperare la totalità dei miei poteri per la fine del mese» 

Le dita di Castiel continuavano a scorrergli tra i capelli e su e giù per la sua colonna vertebrale, irrigiditasi come il resto del suo corpo sotto l’inquietudine delle sue elucubrazioni.

«Ma l’ottimismo è una sua caratteristica innata, con maggiore realismo Anna prevede dei tempi di recupero di almeno tre o quattro settimane»

Dall’esterno sopraggiunse un rumore di ceramica infranta, seguito da un vociare confuso e da una serie di ordini agitati: doveva essere ora di pranzo, immaginò Dean, a giudicare dal trambusto.

Rialzò la testa «E’una buona notizia»

«Sì…» sospirò Castiel «Immagino che lo sia»

Dalla finestra però entrava una luce fresca che non assomigliava affatto a quella del mezzogiorno.

«Perché dici ques…»

L’energica bussata che lo interruppe si rivelò essere una mera formalità: Kevin girò la maniglia e infilò la testa all’interno non concedendo né lui né a Castiel il tempo di formulare un ‘avanti’.

«Charlie è qui?» li incalzò, senza neppure salutarli, frugando febbrilmente la camera spoglia con lo sguardo «L’avete vista?»

Preso completamente alla sprovvista, Dean balbettò un ‘no’ confuso «Non l’ho ancora incontrata in realtà, da quando…»

«Cos’è successo?» 

L’espressione di Castiel si era indurita; scattò in piedi, ma Kevin aveva lasciato l’anta accostata ed era già sparito.

«Kevin! Ehi!» Dean si precipitò alla porta. La figurina smilza dell’adolescente aveva appena travolto — suscitando un vivace coro di proteste — un gruppetto di ragazzini; in pochi secondi arrivò alla fine del corridoio, svoltò a destra e finì definitivamente fuori dalla sua portata.

«Attento ragazzo, non ho ancora finito di pulire»

Con aria compassata, una donna di mezza età stava spazzando via dal pavimento i cocci di un piccolo lavandino di porcellana — molto simile a quelli che lui ricordava di aver utilizzato a suo tempo nei bagni del settantaduesimo piano — e del cartone che lo conteneva, caduti da una precaria pila di scatoloni che Kevin doveva aver urtato mentre si affrettava a raggiungere la loro camera.

Dean si guardò intorno, stranito. 

«Chiedo scusa, ma…» 

Senza accorgersene, mentre provava a richiamare l’adolescente, aveva iniziato a camminare e aveva percorso circa un quarto del corridoio.

«Quel ragazzino che correva… l’ha visto… perché era così agitato, lei ne sa qualcosa?»

«Hanno trovato Lucifer stamattina»

Fu come se un mattone gli fosse appena cascato in testa.

Non era possibile, non…

Lucifer era morto.

«E a quanto pare quel figlio d’un cane ha fatto in tempo a cavare le orbite al poveretto che l’ha trovato» la donna si appoggiò alla scopa con entrambe le mani e alzò su di lui uno sguardo a metà tra il compassionevole e il disgustato «Prima che riuscissero a sbatterlo in una cella insieme al resto della sua razza deforme» 

Quando Dean si voltò, Castiel lo fissava dalla soglia della stanza, tre metri indietro: non aveva fatto che un passo incerto oltre il quadro bianco dell’uscio, ma senza dubbio aveva ascoltato ogni parola. E ciò che lo sconvolse maggiormente fu il fatto che l’angelo non apparisse per nulla turbato.

Andiamo, Lucifer era morto. Doveva essere morto.

Che la Resistenza avesse placidamente iniziato i lavori di ricostruzione dimenticandosi un Arcangelo a piede libero era un’ipotesi assolutamente insensata.

Dean si rese conto di essere scalzo parecchio tempo dopo aver superato la donna di mezza età e i resti del lavandino ammucchiati in un angolo.

Dieci secondi dopo, stava già correndo su per scale.

 

 

 

 

 

 

 

L’avrò revisionato dieci volte questo capitolo, eppure mi sembra sempre che ci sia qualcosa che non fila: vi prego, se capite di cosa si tratti fatemelo sapere -__-
Devo purtroppo chiedervi un po’ di pazienza in più per gli ultimi aggiornamenti: il prossimo capitolo non è ancora finito e l’ultimo al momento vive solo nella mia testa, perciò le battute finali di questa storia potrebbero arrivare con qualche giorno di ritardo rispetto alle canoniche due settimane. 
Vi ringrazio per le recensioni e vi abbraccio fortissimo.
A presto *

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Capitolo 34
*** Scelte ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

34. Scelte

 

 

19 giugno 2009

Come aveva previsto, Sam non era con Jack. 

Non era nella sua stanza, non era nelle cucine, nessuno sapeva dove si fosse diretto, dopo aver fatto colazione.

«Neppure Gabriel riusciva a percepirlo»

Dean serrò la presa intorno al corrimano fino a farsi sbiancare le nocche; le parole di Castiel gli rimbalzavano tra le pareti del cranio e producevano sgradevoli ronzii.

«L’unica possibilità era che fosse morto e magari finito sotto le macerie di qualche palazzo crollato: lo stavano cercando da quasi due giorni, nessuno si aspettava di trovarlo vivo…»

«Già, e ne sono rimasti tutti talmente sorpresi da decidere di elargirgli un altro po’ di ore su questa terra!» sbottò Dean, lanciando un’occhiata esasperata alla targhetta dorata affissa al muro del pianerottolo. 

Trentadue.

La sua gola aveva iniziato a occludersi e a riaprirsi a intervalli orribilmente ravvicinati man mano che risalivano l’Empire State Building e le delucidazioni ansimanti dell’angelo non avevano che rafforzato il suo bisogno di vomitare.

«Che tu ci creda o no, uccidere un Arcangelo a sangue freddo non è cosa da poco» ci tenne a puntualizzare Castiel «Per un essere umano o per… chiunque»

Anna aveva lasciato New York insieme a Jody la sera precedente e, proprio a detta di Sam, sarebbe stata via per almeno quattro o cinque giorni. Charlie a quanto pareva era introvabile — non era da escludersi che fosse banalmente crollata dalla stanchezza sul primo materasso disponibile — e l’unico che avrebbe potuto chiudere con facilità quella nefasta parentesi era Gabriel, ma per qualche strana motivazione a lui sconosciuta nessuna delle osservazioni affannate di Castiel, finora, aveva anche solo menzionato il suo intervento.

I pochissimi ascensori in funzione erano stati strettamente adibiti al solo trasporto di merci pesanti, o ingombranti — e oltretutto erano perennemente occupati — perciò, ancora, toccavano loro poco meno di sessanta piani prima di arrivare al novantesimo livello del grattacielo.

Una ventina di minuti, a quella velocità.

«Dean, come puoi essere sicuro… voglio dire… credi davvero che Sam possa essere…»

«Mio fratello non è un santo, Castiel»

L’aveva sibilato, più che bisbigliarlo. 

«Non siamo mai stati diversi, in questo. Io non me ne starei a ritinteggiare soffitti se Lucifer mi avesse…» dovette fare una sosta per riprendere fiato «Se mi avesse fatto quello che ha fatto a lui»

Del tramestio chiassoso proveniente dai piani inferiori non era rimasto che un cupo brusio. I suoi respiri ansanti riecheggiavano nella tromba delle scale. 

Castiel ne approfittò per recuperare il distacco e, una volta di nuovo al suo fianco, posò una confortante mano tiepida su quella del ragazzo, avvinghiata al mancorrente di metallo e pressapoco alla sua stessa, spiacevole, temperatura. 

«Charlie lo saprà a momenti» provò a rincuorarlo «La staranno cercando tutti e malgrado le apparenze quest’edificio non è così grande, perciò…» esitò «Per quanto poco la conosca, immagino che Lucifer non arriverà alla notte»

«Già… sospirò lui, riprendendo la salita «Sempre che mio fratello non faccia qualcosa di enormemente stupido nel frattempo!»

Quando finalmente raggiunsero il novantesimo piano, Dean rimase ingenuamente sorpreso nel non ricordarne neanche un angolo.

O meglio, quanto adesso gli si presentava alla vista era assai diverso dal buio spoglio e raccapricciante che conservava nella sua memoria: sotto l’opalescenza delle lampadine — che lì finestre comunque non ce n’erano — l’intero ambiente appariva più angusto, meno minaccioso e addirittura più silenzioso di quando lui e Sam si erano calati a tentoni dalla griglia di areazione. Le porte chiuse delle celle mandavano strani bagliori.

«Questa non è un’attrazione turistica ragazzi, tornatevene di sotto»

Una manciata di uomini armati presidiava l’imboccatura dei due corridoi principali. Dean li scansò a spallate, uno per uno «Mio fratello, dov’è?» 

«Ventisei anni, alto, capelli castani lunghi fino a qui» si affrettò a spiegare Castiel, prima che qualcuno decidesse di bloccare Dean con una pallottola in una coscia «Temiamo possa essere in pericolo»

«Ah, Sam!» 

Un ragazzo poco più giovane di lui — occhi nerissimi e uno sformato gilet pieno di tasche chiuso sul petto con una spilla da balia — si staccò dai compagni e abbassò il fucile «Sta benissimo, giusto mezz’ora fa ha dato il cambio a Tim per la sorveglianza del corridoio ovest»

«E voi gliel’avete permesso!» 

Il ragazzo sobbalzò e per poco non perse l’equilibrio incespicando nei suoi stessi piedi: uno strillo del genere era di certo l’ultima reazione che si sarebbe aspettato.  

«Non c’è motivo di agitarsi, è fuori questione che chicchessia possa evadere da una di queste celle» s’intromise un uomo più anziano, probabilmente il responsabile di quel piccolo drappello «Persino l’Arcangelo, fintanto che rimane rinchiuso e isolato è del tutto inno…»

«Cazzate!»

Dean percepì i propri denti scricchiolare. 

L’unico motivo per cui non si era ancora lanciato a rotta di collo attraverso il corridoio era perché non sapeva con esattezza dove Lucifer fosse tenuto prigioniero, e anche la guardia doveva essersene accorta. 

«Va bene allora…» gracchiò infatti «Ennis, accompagnali tu da Sam per cortesia. Assicurati che non facciano danni»

Il ragazzo più giovane — Ennis — batté i tacchi e annuì con fervore — in un’interpretazione tutta sua del ‘mettersi sull’attenti’ — invitandoli a seguirlo verso la famigerata ala ovest che suo fratello si era tanto prontamente offerto di sorvegliare.

«Strano però…» commentò, lisciandosi il gilet, dopo aver ripetuto per ben tre volte lo stesso percorso, sulle tracce di un Sam che — precisamente come Dean si aspettava — sembrava non trovarsi da nessuna parte «Avrebbe dovuto essere qui. Forse è andato a controllare le celle in fondo, non tutte sono insonorizzate e gli angeli chiusi lì fanno un tale chiasso a volte…»

«E’ questa la cella di Lucifer?» 

Castiel si era fermato davanti a una lastra d’acciaio apparentemente identica a tutte le altre. Ennis ci penso su qualche secondo e annuì.

«Apri»

«Cosa

Ennis guardò Dean come se gli avesse appena chiesto di improvvisare uno spogliarello nel bel mezzo del corridoio.

«Mio fratello è lì dentro» sentenziò lui, tombale «Lucifer è li dentro. Non so quanto a lungo resteranno vivi entrambi se tu non apri quella maledetta porta» 

Né quanto a lungo mi tratterrò io dall’obbligarti a farlo a forza di calci nel sedere.

«D-D’accordo…» balbettò il ragazzo «D’accordo, io…» capitolò, cominciando a frugare nelle tasche del gilet «Non esiste una vera e propria chiave sapete? A quanto pare sono sufficienti alcune frasi… le avevo segnate qui…» da uno scomparto interno estrasse un foglietto spiegazzato «…per essere sicuro di non sbagliare in caso…»

Click.

Castiel riabbassò la mano e l’anta d’acciaio si sganciò dal muro: poteri o non poteri, l’enochiano non l’aveva certo dimenticato.

L’anta ruotò sui propri cardini con estenuante lentezza, fino a dischiudere — sotto gli occhi strabuzzati di Ennis — uno spiraglio scuro non più largo di una decina di centimetri. 

«I-io lì non ci entro»  

«E chi te lo ha chiesto»

La cella non era luminosa come l’esterno, ma neppure lugubre e buia come quella in cui avevano ritrovato Gabriel. 

Era piuttosto immersa in una sorta di morbida penombra, disturbata solo dal cono giallastro che il battente accostato proiettava sul pavimento.

«Oh, a quanto pare abbiamo compagnia…»

Prima delle sue iridi rosse lo colpì un forte sentore dolciastro, come di fiori marciti.

Lucifer aveva i polsi ammanettati dietro la schiena e le spalle mollemente poggiate contro la parete di fondo. 

Sangue incrostato tra i capelli e un rigagnolo più fresco che gli colava dalla radice del naso.

E la metà inferiore del suo corpo non c’era più.

Ginocchia, piedi, caviglie: come se non li avesse mai avuti, al loro posto una pozza bruna che odorava di rose in putrefazione.

«Il tuo caro fratellino ed io ci stavamo attardando nel ricordo dei bei tempi andati…»

Dean comprese all’istante cosa intendesse comunicargli Castiel, quando gli aveva detto che uccidere un Arcangelo a sangue freddo — in qualsiasi condizioni questo avrebbe potuto trovarsi — non sarebbe stata impresa da poco.

«Ma non mi hai ancora rivelato, Sammy…»

La voce di Lucifer era immutata. 

«…di cos’è che hai avuto più nostalgia in queste settimane»

Insinuante, e fredda. Una serpe che strisciava sulle rocce. 

Dean avrebbe voluto indietreggiare ma si sentiva come paralizzato.

«Delle notti in cui combattevi, quando imploravi, o quando…» 

Udì un singulto alla sua sinistra; un sorriso sghembo spaccò la faccia di Lucifer in due. 

«O quando fingevi che ti piacesse?»

Il singulto si trasformò in un ringhio. Dean si girò e intercettò la sagoma di suo fratello accartocciata nell’angolo. 

«Sam…»

Stretta nel suo pugno — s’impose di non chiedergli, non adesso, come se la fosse procurata — una lama argentea e sgocciolante sangue che assomigliava spaventosamente a quelle che gli angeli adoperavano in battaglia. Il rivolo cremisi che defluiva placido dal setto nasale di Lucifer toglieva ogni dubbio sul fatto che il ragazzo l’avesse anche già utilizzata.

«Sam, va tutto bene… sono io… sono…»

Sam non batté ciglio. Non mosse nemmeno le pupille.

I suoi occhi vuoti erano solo per l’Arcangelo, così come l’interesse di Lucifer non era che per lui, per il suo pugno serrato intorno al coltello e per il suo tremore convulso.

Il predatore fissava la sua preda, ma Dean non avrebbe saputo quale ruolo assegnare a chi dei due. Di contro, la sua presenza sembrava pari a quella della mosca che zampettava ai margini della pozza bruna che si allargava sotto quel che rimaneva di Lucifer. 

Gabriel non aveva torto, era davvero un miracolo che l’avessero ritrovato vivo.

«Questo sarà il nostro ultimo giorno insieme…» riprese l’Arcangelo, noncurante «E non mi hai rivolto neppure un saluto, non mi hai neppure portato Jack»

Dean sussultò.

«Sorpreso, Winchester?»

In un guizzo scarlatto l’attenzione letale di Lucifer fu su di lui.

«Vedi, Winchester…» graffiò «La testolina del tuo angioletto non era poi così interessante»

Fuoco liquido giù per la sua trachea.

«Da ogni parte la si rivoltasse era solo Dean, Dean, Dean, Dean…» 

Non stare al suo gioco.

Dean, Dean, Dean, Dean.

Voleva mettersi a urlare.

Non stare al suo gioco.

«Ma non fartene un cruccio. Alla fine qualche informazione utile l’abbiamo ugualmente cavata fuori…» Lucifer si leccò le labbra gonfie «Mi assomiglia, Sam?»

E quel che voleva, finalmente l’ottenne. 

Lui era ancora intrappolato nella memoria immacolata di quattro pareti bianche e di una catena che s’inabissava nel pavimento. 

Sam si scagliò in avanti con la rabbia di un animale in trappola e affondò la lama nella spalla dell’Arcangelo, proprio sotto l’omero.

«SAM, NO!» 

Non riuscì a fermarlo in tempo. 

La risata spezzata di Lucifer riempì la cella del rumore di unghie su una lavagna. La porta d’acciaio cigolò, il cono di luce gialla che le lampadine del corridoio spingevano all’interno si allungò e s’ingrandì, aprendosi come un ventaglio dorato nella semioscurità della stanza. 

Suo fratello rigirò il pugnale nella ferita e l’Arcangelo risucchiò una bestemmia tra i denti.

«Siete solo piccole cose rotte…» alitò sulla sua bocca «Puoi ridurmi a brandelli, Sammy, ma poi dovrai fare a pezzi anche te stesso perché sarà l’unico modo che ti resterà per liberarti di me…»

«Sta mentendo…» Dean non ne era del tutto sicuro, ma in quel momento voleva solo che suo fratello si allontanasse dal guscio venefico di Lucifer, dalle sue sclere rigate di violetto. 

La lama scavava nella carne e gli riportava infinite notti trascorse a fissare un materasso vuoto — ‘tuo fratello è morto, Dean, smettila di pensarci’ — a bollire stracci ustionandosi i polsi — a pregare che quella che Ketch era riuscito a far rotolare sotto la loro porta fosse davvero penicillina altrimenti la mano destra sarebbe stato solo il primo dei pezzi che John avrebbe perso — e lui voleva solo che smettesse, che finisse, basta — Sammy — per pietà, basta, fatelo smettere.

«Ti prego, Sam, guardami…»

«Tu non lo sai» 

Nera da far accapponare la pelle. 

La voce di Sam spazzò via le reminiscenze polverose di quattro anni e mezzo prima, e Lucifer s’illuminò.

«Non lo sai quello che mi ha fatto»

Glaciale, senza nessuna paura. 

Perché avrebbe dovuto averne d’altronde, il suo peggiore incubo era ridotto a un cadavere che parlava. 

Il suo pugnale lo avrebbe trasformato in un grumo di carne straziata e implorante — finché Sam non ne avrebbe avuto abbastanza da decidere di trapassargli misericordiosamente la gola — e poi si sarebbe portato le sue iridi rosse fino alla tomba: Lucifer avrebbe continuato a vivere dentro la sua testa fino alla fine dei suoi giorni.

«No, non lo so» 

E questo Dean non poteva permetterlo.

«Ma una cosa la so invece» andò avanti, tremando «So che questo non è compito tuo, Sam»

Suo fratello — grazie al cielo — sembrava perlomeno ascoltarlo, nonostante non si fosse allontanato dall’Arcangelo di un solo millimetro.

«Ti ricordi quando mi proibivi di dare la caccia alle lucertole perché temevi che soffrissero? Non importava quante volte ti ripetessi che la loro coda sarebbe ricresciuta, per te era diventata una specie di questione di principio»

Lucifer alzò un sopracciglio.

«E il giorno in cui Caleb è morto, era… era una roba talmente raccapricciante che persino papà non riusciva a guardarlo; tu quanti anni avevi quattordici, quindici? E sei rimasto con lui tutta la notte perché non volevi lasciarlo morire da solo…»

Stava sudando freddo. 

Una sillaba sbagliata e non avrebbe potuto fare più niente «Hai salvato la vita a Jack» esalò «Ti sei fatto quasi ammazzare, pur di proteggerlo» 

Dean strinse i pugni: l’appartamento devastato e la sagoma di suo fratello accasciata sul pavimento non erano immagini che amava rievocare.

«Tu non sei… non sei come lui, Sam. Non lo sarai mai»

Ti prego.

«Questo è quello che so, e mi basta»

Ti prego, Sammy.

«Quattordici» 

Adesso anche suo fratello tremava.

«Avevo quattordici anni»

Una a una, le sue dita si staccarono dal manico del pugnale conficcato nella clavicola di Lucifer, il cui viso venne attraversato da un lampo di delusione sostituito in fretta da un inquietante ghigno amaro.

«Immagino che questo sia un addio, Sammy…» 

Un’ombra si stiracchiò sotto i piedi di Dean; tra le sue scapole sentì posarsi una carezza sottile.

«Non dovreste essere qui» mormorò Charlie «Nessuno dei due» 

Nel frattempo Sam era arretrato, scivolando sul pavimento, ed era arrivato a scontrarsi con le sue ginocchia; il maggiore gli afferrò il gomito e lo tirò su. Strinse troppo, gli fece male, sicuramente, ma a suo fratello non parve importare.

«Signorina Bradbury, quale onore»

L’Arcangelo sollevò sull’Occulto uno sguardo compassato «Siete addirittura più deliziosa di quanto credessi» nonostante la scelta delle parole aveva perso ogni studiata pomposità di tono.

«Non è un mestiere che vi si addice, quello del boia…» ponderò «Ma ero certo che mio fratello non avrebbe avuto il coraggio di completare il lavoro iniziato con Raphael»

I capelli di Charlie erano molto più corti di quanto lui ricordasse, le arrivavano a malapena al mento. Fissava Lucifer e la sua bocca ripugnante che si muoveva ma senza ascoltarlo. O almeno, così sembrava.

«Avete paura, signorina Bradbury?» 

Fu l'ultima cosa che sentirono. 

Avevano quasi raggiunto il pianerottolo — Dean non aveva atteso che suo fratello si ricomponesse, prima di trascinarlo fuori e il più lontano possibile da lì — quando il rinculo secco di un unico sparo lo fece trasalire. Sam inciampò — tremava ancora come una foglia, aggrappato a lui — e gli crollò addosso.

«Sam!» le sue ginocchia non avrebbero mai retto il peso di entrambi senza cedere «Andiamo…» Dean barcollò, puntellandosi alla parete «Sono qui… sono qui, è finita…» soffiò, sfregandogli la schiena «E non hai più cinque anni, non riesco portarti in braccio» provò a sdrammatizzare, nel tentativo di rimetterlo in piedi.

«Lascia, ci penso io»

Gabriel era comparso — naturalmente teletrasportatosi, il ragazzo non l’aveva né visto né sentito avvicinarsi — a mezzo metro da loro. 

«Dov’eri?» 

Dean lo infilzò con lo sguardo. Il peso caldo di Sam che gravava sul suo fianco gli infiammava una collera acida in gola «Avresti potuto evitarlo» gli rinfacciò, senza concedergli il tempo di rispondergli «Anziché lasciare Charlie a risolvere questo casino!»

Arrossì di colpo. Gli stava ringhiando contro come una bestia rabbiosa, per una sfacciataggine del genere Gabriel non avrebbe avuto tutti i torti se avesse deciso di prenderlo a sberle.

«Lo so» 

Eh?

«E vi chiedo scusa»

Dean aprì e richiuse la bocca un paio di volte, incurante di quanto la sua espressione incredula lo facesse assomigliare a un merluzzo. Almeno Sam aveva smesso di singhiozzare.

«Ma ho assassinato due Arcangeli, Dean» Gabriel abbozzò un sorriso amaro «Sono già molto di più che un fratricida. Non chiedermi di aumentare il prezzo da pagare per essere stato complice della loro follia» 

Dean non replicò più.

Gabriel si rivolse a suo fratello «Sam, non credo che tu sia in condizioni di ritornare di sotto a piedi…» si preoccupò «E oltretutto dovresti cambiarti quei vestiti il prima possibile e farti anche una doccia, magari» gli fece notare, accennando al sangue che gli macchiava le guance e i polsini della camicia, di cui il maggiore — nella scarsa lucidità del momento — non si era ancora accorto. 

«Starà bene» gli assicurò l’Arcangelo, mentre Dean lasciava la presa sulle spalle del più piccolo, permettendogli di caracollare silenziosamente verso di lui. 

Un attimo dopo erano svaniti in un fruscio di piume, e c’era Ennis che gli correva incontro «Cos’è successo? Dov’è Sam?»

«Con Gabriel» lo tranquillizzò lui «E’ tutto a posto» 

«Oh…» il ragazzo rilasciò un rantolo sollevato «Mio Dio, mi dispiace se avessi saputo…»

Dean si accigliò «Dov’e finito Castiel?»

«Ha detto che ti avrebbe aspettato in stanza. Con tuo fratello in quello stato non voleva essere d’intralcio»

«D’accordo…» sospirò, esausto «Allora non ho più nulla da fare qui» indirizzò a Ennis un rapido cenno di saluto e si avviò — stavolta con grande calma — giù per le scale. 

Mentre si lasciava dietro il pacchianissimo soffitto rosso dell’ottantottesimo piano, a stento notato durante la salita, realizzò di non essersi mai spinto tanto in alto all’interno del grattacielo nel suo periodo — autorizzato — di permanenza a Corte. 

La stanzetta senza finestre che gli era stata assegnata al suo arrivo, persino gli alloggi di Lucifer, si trovavano parecchio più sotto.

Continuò a scendere, solo il rumore dei propri passi a fargli compagnia. 

L’aria era immobile, come rappresa in sospensione. Neppure un dling lontano dell’ascensore a incresparla e per un attimo, in quel silenzio, gli sembrò che non fosse cambiato nulla da quando aveva messo piede all’ottantaseiesimo piano per la prima volta.

Soltanto che allora era notte inoltrata, e c’era Castiel che gli teneva la mano. Lui non vedeva un accidenti, le luci erano state spente ormai da un pezzo e per i suoi sensi umani quel corridoio era semplicemente troppo buio.

A destra al secondo angolo. 

Diritto fino a dove l’intonaco virava — dal bianco — verso un impalpabile azzurrino, e poi di nuovo a destra. Scavalcò lo scheletro carbonizzato di una poltrona. Una macchia di sangue sul muro.

Adesso quella strada avrebbe potuto percorrerla anche bendato. 

Superata l’ultima cornice posticcia di stucco in gesso, terza porta prima del successivo incrocio. 

Le gambe l’avevano guidato senza che lui si opponesse, ma cosa fosse venuto a cercare, in quelli che una volta erano stati gli appartamenti di Castiel, Dean non lo sapeva: dopo la sua fuga dalla Corte, stando a quanto gli aveva riferito Claire, gli angeli avevano bruciato tutto ciò che quell’enorme stanza conteneva. 

Porta compresa, evidentemente. E quel che restava del battiscopa, deformato e corroso sugli spigoli, supplicava un misericordioso e definitivo colpo di grazia.

Dean si fece coraggio ed entrò. Gli pareva che l’atmosfera si fosse fatta meno statica.

Le grandi finestre sul fondo erano così crepate da compromettere la visibilità dell’esterno e in alcuni punti il vetro si era completamente spaccato, consentendo alla brezza leggera d’inizio estate di filtrarvi attraverso. Un refolo piacevolmente fresco gli s’infilò nel colletto della maglietta, scollandogliela da dosso.

Castiel lo sentì camminare, calpestare una scheggia — forse l’unico frammento residuo della sua scrivania — e sibilare un’imprecazione sottovoce, ma non si mosse. 

Teneva gli occhi puntati sulla versione caleidoscopica di New York che le incrinature del cristallo gli restituivano e sussultò appena, quando Dean lo sfiorò.

«Cosa ci fai qui?»

All’altezza del suo viso c’era uno squarcio particolarmente ampio nella finestra, da cui spuntava uno scampolo di cielo celestino annebbiato a tratti da ondeggianti strisce di fumo.

«E’ camera mia» sussurrò l’angelo «Era»

Dean soppesò il suo tono alla ricerca di indizi ma non ne trovò «Lo hai sentito?» chiese quindi, esitante «Lucifer»

Castiel alzò le spalle senza rispondergli.

Lo aveva sentito.

«Mi dispiace, avrei dovuto pensarci» Dean gemette «Non saresti mai dovuto ritornare…» sventolò una mano in aria in direzione di un ‘lassù’ non ben specifico, ma l’angelo intercettò le sue allusioni prima che lui potesse attribuirvi contorni più netti.

«E’ stata una mia scelta quella di accompagnarti» lo fermò, quieto. A dispetto del luogo in cui ora si trovavano, i suoi occhi erano calmi e luccicanti come Dean li aveva ritrovati nei suoi quella mattina, al suo risveglio. 

«Come tutto il resto» aggiunse, tornando a osservare le nuvole candide che si sfilacciavano dietro le vetrate, ma non aveva finito. Dean lo capiva dal modo in cui le estremità della sua bocca vibravano e si tendevano, incapaci di rilassarsi; pensò che avrebbe voluto alleviare quel fremito con le sue labbra, ma poi pensò che non era quello il luogo, né il momento. Non ancora.

Si guardò intorno. Il blu notturno delle pareti non era cambiato e il marmo chiaro su cui poggiava i piedi non presentava graffi o scalfitture. Per il resto, l’intera stanza gli dava l’impressione di essere stata malamente ripulita dopo un frettoloso trasloco: il pavimento era coperto da uno strato irregolare di polvere grigia mista a minuscoli pezzettini — legno? — carbonizzati; qua e là, senza particolare criterio, la cenere era stata spazzata via lasciando strisce più lucide sul marmo e, come la scrivania, anche il divano e il rimanente mobilio erano spariti.

Bruciati. 

Dean s’impose di non dimenticarselo. Erano stati tutti bruciati. 

C’erano una chiazza annerita sul muro alla sua sinistra, a segnalargli la vecchia posizione della libreria, e dalla parte opposta un altro rettangolo scuro che gli provocò una fitta al torace. 

«I poteri di Naomi sono sempre stati molto… peculiari»

Adesso Castiel era interamente girato verso di lui. 

«Dopo gli Arcangeli, era a lei che risultava più difficile mentire» disse «Anche per questo, quando è venuta a cercarmi, al seguito di Michael e di Lucifer…» 

«Castiel…»

«…le ho semplicemente detto la verità» il braccio che Dean aveva sollevato per interromperlo gli venne dolcemente abbassato, insieme al suo preoccupato tentativo di obiezione. L’angelo scosse la testa «Dopotutto, nessuno di loro aveva realmente intenzione di interrogarmi» proseguì, pacato «Possedevano già tutte le risposte» 

Un intenso formicolio cominciò ad arrampicarglisi addosso, salendo dalle piante dei piedi; Dean avrebbe potuto addurlo alle centinaia di scalini affrontati da scalzo e ai relativi granellini di polvere e sporco che gli si erano infiltrati sottopelle, ma sapeva che non era così.

«Michael mi ordinò di recuperarvi e di riportarvi a Corte» gli rivelò Castiel «Tu non saresti sopravvissuto e tuo fratello sarebbe tornato proprietà di Lucifer, ma se io avessi obbedito non sarei mai stato chiamato a pagare le conseguenze del mio tradimento» chiarì, a scanso di dubbi «Sarei stato perdonato senza condizioni»

«E tu?»

Domanda stupida. Era così teso che l’aveva formulata ancor prima di pensarla, ma Castiel non fece osservazioni di sorta. Si limitò a imbastire un sorriso incerto in risposta.

«Mi ero rassegnato… ero preparato, almeno, a una possibile condanna a morte, in alternativa a una prigionia che sarebbe durata fino alla fine dei tempi ma non credevo… Non sapevo nemmeno che Naomi potesse usare le sue capacità in quel modo, che gli Arcangeli glielo lasciassero fare… che le permettessero di entrare nella mia testa contro la mia volontà e di…» 

Il vento cambiò. 

Deviò il corso delle spirali di fumo che intorbidivano il cielo, spingendole attraverso le crepe delle vetrate. Un odore zuccherino e disgustoso — simile a quello che impregnava la cella di Lucifer — gli invase le narici e Dean arricciò d’istinto il naso. Tossicchiò, Castiel gettò un’occhiata tetra all’esterno.

«Sono i cadaveri degli angeli che bruciano» mormorò «Le pire funebri di coloro che un tempo credevo fossero miei fratelli»

La sua voce intrisa di un dolore sordo. Dean non aveva la più pallida idea di come sarebbe stato meglio agire, cosa dire, ma ormai non resisteva più: si portò al suo fianco, risalì con le dita lungo la sua schiena. Non voleva imporgli un contatto forzato, tantomeno costringerlo in un abbraccio inopportuno, tuttavia l’angelo gli sembrava vicinissimo al rompersi in un milione di pezzi se lui non avesse fatto qualcosa. 

«Naomi ha visto ogni cosa» 

Castiel rimase immobile. Non lo scacciò, né ricambio il suo tocco, ma esalò un lunghissimo respiro rauco e chiuse gli occhi per un secondo, mentre il tic alla sua palpebra sinistra si attenuava. 

Resta, gli stava dicendo.

Resta così.

«Poteva sfogliare i miei ricordi come un pagine di un libro, ripercorrerli quante volte voleva. E tuttavia i suoi poteri non le consentivano né di distorcerli né di eliminarli» continuò «Simili prerogative erano appannaggio esclusivo della mia coscienza»

La sua spina dorsale vibrava in maniera quasi impercettibile sotto la mano di Dean.

«Ma persino la coscienza degli angeli è soggetta alle debolezze del corpo» ammise «E il mio corpo era qualcosa che lei poteva piegare, quando mi hai trovato…» posò la testa sulla sua spalla «…era una delle giornate migliori»

Sospirò. Il suono confortante di chi sta riemergendo dal torpore di un incubo troppo vivido.

«Ho addirittura creduto di poterle resistere, all’inizio»

«Eppure mi hai salvato la vita lo stesso» Dean gli accarezzò una guancia; giocherellò con le ciocche più lunghe che gli si arricciavano dietro le orecchie «Un imbarazzante numero di volte, ad essere sinceri»

«Ad essere sinceri…» Castiel gli cinse i fianchi con un braccio, un improvviso filo di colore nella voce «…dopo averti conosciuto ho scoperto che tutte le cose in cui credevo erano totalmente insignificanti, se non completamente sbagliate»

«E adesso in che cosa credi?»

«Non lo so» Castiel girò il collo e affondò il naso nella sua clavicola, stropicciandogli la maglietta come un gatto che stesse facendo le fusa «Nelle seconde possibilità, forse»

Lui sorrise «Non sei l’unico allora»

Aveva incontrato Samandriel il giorno prima, spettinato e al seguito di un indaffarato e starnazzante Crowley che non aveva smesso un istante di impartirgli ordini: si era schierato dalla loro parte durante la battaglia, e adesso era felicemente impegnato nei lavori di ricostruzione insieme a Jack. Inoltre, sebbene non fosse ancora una notizia ufficiale, gli Occulti avevano preso la loro decisione: gli angeli superstiti sarebbero stati risparmiati e avrebbero potuto fare ritorno alla dimensione dalla quale provenivano, a patto che non facessero mai più ritorno.

Castiel rialzò su di lui uno sguardo d’acqua piatta «Perderò i miei poteri» esordì.

«Che…» 

Dean aggrottò la fronte, perplesso.

«Ma in… In che senso?» forse aveva solo capito male «Stamattina mi hai parlato di qualche settimana…» 

«Ed è la verità» gli assicurò l’angelo, facendo scivolare via la mano dal suo fianco per chiuderla con dolcezza sulla linea della sua mandibola «Ma ho intenzione di rinunciarvi ugualmente»

«Non capisco»

«Niente più teletrasporto, guarigione rapida e forza soprannaturale» elencò Castiel, per puro amore di precisione «Diventerò un umano a tutti gli effetti»

Il sottinteso ineludibile della sua ultima affermazione rimase a volteggiare come pulviscolo sopra le loro teste.

Dean sobbalzò «Morirai»

Non voglio.

«Invecchierai e morirai» ripetè, con un filo di voce il doppio più acuta del normale. 

Castiel non si scompose, continuando a tenergli il volto tra le mani «Come te» sussurrò «Come Sam. Come Claire. Come tutti voi»

«E’ davvero possibile? Che tu diventi… che tu perda…»

«Teoricamente sì, è possibile privare un angelo della sua natura angelica» sciorinò rapidamente lui, togliendolo dall’imbarazzo «E non è neppure un’operazione così complicata, per quanto non sia mai stata tentata prima d’ora… cosa c’è?» socchiuse le palpebre, le sue labbra si curvarono verso l’alto.

La faccia di Dean doveva apparire un tantino sconvolta.

«Devo forse temere che con le rughe e uno stomaco da riempire non mi amerai più?» lo punzecchiò, intrecciando le dita dietro il suo collo. 

No, certo che no. Che razza di domanda.

In seguito, gli sarebbe fatto notare che quella frase non l’aveva mai realmente pronunciata: era sbocciata e caduta solo nella sua mente, come un sasso lanciato dentro un lago. Lo stesso lago, la stessa superficie profonda e trasparente — nessun’incertezza, nessuna esitazione — che adesso il blu di quegli occhi gli offriva.

Castiel aveva cominciato a morire il giorno in cui si era chiuso la porta della sua stanzetta senza finestre alle spalle e l’aveva baciato. 

Ancora prima.

Quando gli era comparso davanti — bianco e perfetto — con una pila di abiti azzurri e nessun’altra parola, e lui l’aveva insultato. 

E aveva smesso di averne paura già da tempo, a differenza sua; nessuna motivazione che Dean avrebbe voluto opporgli sarebbe servita a fargli cambiare idea. Poteva soltanto stringerlo, e baciarlo, e bisbigliargli all’orecchio che qualunque scelta stesse per compiere lui sarebbe stato al suo fianco, fino al morire dell’ultima luce sul loro ultimo giorno insieme. 

Fu ciò che fece. 

Castiel sapeva di buono, del sapore dell’acqua dopo ore passate a inghiottire polvere di marmo nel pomeriggio isterico di luglio.

«Farà male?» non riuscì a trattenersi dal chiedere.

Si aspettava una spiegazione — o, peggio, uno sfoggio di noncuranza — frettolosa, invece l’angelo si scostò appena e Dean avvertì di nuovo il peso tiepido della sua fronte sulla sua spalla.

«Su questo Gabriel non è così ottimista» riconobbe.

Restarono così per un po’, a contare i riflessi spezzati del sole sul pavimento, finché Castiel non gli prese la mano.

«Andiamo via» disse.

 

L’ora del pranzo infine arrivò — e trascorse, abbondantemente — senza che nessuno dei due se ne preoccupasse.

Dean aveva scoperto che la porta della loro camera — oltre ad essere dotata di un’ottima serratura — aveva una sottile chiave dorata infilata nella toppa, e quello era stato il suo ultimo appunto coerente prima che la bocca — le mani, la lingua, la maglietta quattro taglie troppo larga — di Castiel lo rovesciassero sul materasso mentre lui lottava contro l’impiccio dei propri vestiti.

Gli era mancato più di quanto avrebbe mai potuto esprimere con termini umani. 

Anzi, era sicuro che neppure nella lingua degli angeli sarebbe potuto esistere un vocabolo adeguato. Non che in quel momento, comunque, Dean avesse chissà quale ampiezza di lessico a disposizione: uno dopo l’altro — a ogni gemito che s’infrangeva sulla sua pelle nuda — i suoi pensieri prendevano il volo come palloncini.

A metà del pomeriggio — nonostante la fascia di nubi discesa da nord ad attenuare la luce estiva — nella loro stanza faceva caldissimo.

La schiena di Castiel era velata da un impalpabile strato di sudore, Dean lo percepiva sotto i polpastrelli mentre scorreva lungo le sue vertebre, tratteggiando arabeschi invisibili. Il mucchietto informe dei loro vestiti era stato promosso a cuscino — quest’ultimo finito, nessuno ricordava come, troppo lontano per poter essere recuperato senza alzarsi dal materasso — e l’angelo, disteso a pancia in giù, aveva le palpebre abbassate e la guancia premuta contro la versione appallottolata di un paio di jeans. 

Dean scivolò sopra di lui e gli baciò il collo.

«Sveglia, dormiglione»

Castiel aprì un occhio solo «Non dormivo mica» bofonchiò, la voce ancora vagamente arrochita «Ti faccio presente che non ne sono ancora in grado»

«Lo so» lui gli regalò il suo ghigno più scintillante, e l’angelo aprì anche l’altro occhio «Ma stavo cominciando ad annoiarmi…»

Risatine strozzate dal corridoio.

«Che nessuno si azzardi a dire una sola parola!»

Urletti di ragazzini e una sequela di insulti da far impallidire il più sboccato dei delinquenti.

«Possibile…» Castiel soffocò un lamento pigiando la faccia nei jeans «Possibile che non si riescano ad avere dieci minuti di pace in questo dannato grattacielo?» mugugnò, tappandosi le orecchie.

Le imprecazioni di Crowley si avvicinarono, senza il minimo accenno a voler diminuire d’intensità o di tono — diamine, potevano esserci dei bambini! — e Dean vinse la propria pigrizia solo per accertarsi — sghignazzando — che la porta fosse ben chiusa.

«Cosa c’è di tanto divertente?» 

«Ieri pomeriggio ho convinto Samandriel che il più grande desiderio di Crowley fosse quello di possedere una fluente chioma di riccioli biondi» 

In quanto a ridicolaggine — il ragazzo dovette convenire — l’espressione sconvolta di Castiel faceva a gara con la prospettiva di un ex-Collaborazionsta imparruccato.

«E non solo» gongolò, tornando a sedersi «Gli ho anche confidato, in assoluta segretezza…» mimò «Che avrebbe davvero voluto, ma sapeva non avrebbe mai trovato il coraggio per chiedergli un favore simile»

«E se io conosco…» davvero, Castiel che farfugliava in quella maniera era uno spettacolo impagabile «Se conosco Samandriel la metà di quanto credo…»

«DOV’E’?»

Dean ormai doveva tenersi la pancia per non esplodere.

«Dov’è quel…» 

Vociare confuso, qualcuno che correva via. 

«Giuro che se lo prendo lo spiumo!»

Castiel scoprì i denti e rise.

Il sole di giugno bucò le nuvole, e la loro stanza si fece d’oro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Buonasera ^^
Vi chiedo scusa, alla fine i “qualche giorno di ritardo” sono diventati più di una settimana e nel frattempo, giusto per non farci mancare nulla, sono stata poco bene nel weekend. Ma insomma, finalmente sono riuscita ad aggiornare. Spero almeno che il capitolo sia valso l’attesa, in un modo o nell’altro i finali mi mettono sempre in difficoltà per la miseria =__=
Il prossimo capitolo — che sarà anche l’ultimo, sob — arriverà intorno alla metà di marzo.
Vi ringrazio infinitamente per la pazienza e le recensioni e vi abbraccio fooortissimo.
A presto ❀*

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Capitolo 35
*** Simile al cielo ***


Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene

 

 

35. Simile al cielo

 

 

14 luglio 2009

«Ti piace qui?»

Castiel si piegò sulle ginocchia, immerse una mano nell’acqua «E’ molto tranquillo» gli rispose. 

La debole risacca del lago infrangeva minuscole onde contro la punta delle sue scarpe e appiccicava la sabbia all’orlo dei suoi pantaloni.

«Sì…» Dean si riparò gli occhi con la mano e scrutò l’orizzonte «Sì lo è» 

Il sole campeggiava alto e abbagliante al centro del cielo, annerendo il profilo in controluce delle betulle che costeggiavano la riva, e fin dove lui riusciva a spingere lo sguardo c’erano solo alberi, e bosco, e silenzio. 

Un luminosissimo silenzio azzurro.

«Voglio andare a vedere cosa c’è lì»

Una cinquantina di metri più in su — lungo il crinale della collinetta che degradava lentamente verso il lago — si riconoscevano le assi brune di un tetto spiovente e un comignolo venuto giù per metà. Dean risalì lungo il sentiero, addentrandosi nel boschetto sovrastante, finché non si ritrovò di fronte una piccola costruzione in pietra e legno, di quelle che un tempo dovevano essere casette per turisti.

La piccola veranda all’ingresso era ingombra di foglie secche e spazzatura portata dal vento, ma in compenso gli ci volle meno di un minuto per forzare la serratura marcia. Un filo di impalpabile segatura gli piovve in testa non appena aprì la porta. 

«Beh…» 

Starnutì.

«…tutto sommato pensavo peggio» 

Il villino aveva un solo piano ed era privo d’ingresso — l’entrata dava direttamente sul soggiorno — ma era molto spazioso, anche più di quanto non apparisse da fuori. 

Dean si scrollò via i trucioli di dosso e cominciò a guardarsi in giro. C’erano due camere da letto, un camino, un cucinino e un bagno da rimettere entrambi a nuovo, persino uno sgabuzzino stracolmo di vecchie scope spelacchiate. Le pareti — notò — erano di solida roccia, e le piastrelle del pavimento tutte integre, avrebbero solo avuto bisogno di una buona ripulita.

Certo, le erbacce erano passate attraverso i vetri rotti colonizzando un’intera credenza, le travi del soffitto erano gonfie d’acqua e tutte le superfici languivano sotto venticinque anni di polvere, ma non era niente che non si potesse risistemare, dopotutto.

«E a te…» 

L’anta della porta non era evidentemente più abituata a venire utilizzata, perché anche Castiel aveva i capelli ricoperti di segatura. Lo aveva seguito, sul sentiero acciottolato e poi attraverso il boschetto, e adesso se ne stava appoggiato allo stipite con un’espressione sorniona stampata in viso e le mani affondate nella tasche dei jeans.

«A te piace qui?»

Dean fece oscillare la testa su e giù e assentì, ridacchiando «Si notava molto?» chiese.

«Direi…» Castiel si staccò dalla parete e lo raggiunse in mezzo alla stanza, girando intorno al divano scolorito solo per posargli un bacio sulle labbra «Direi proprio di sì»

«Secondo i vecchi cartelli all’uscita dell’autostrada qui si pescano i migliori persici dello Stato» proseguì il ragazzo «E siamo appena a un’ora da New York» aggiunse in un soffio.

Castiel posò le mani sulle sue spalle «Sono certo che Sam non avrà nulla da ridire in ogni caso» mormorò, spazzolandogli le maniche impolverate «Neppure se decidessimo di trasferirci in Canada» lo rinfrancò, per poi oltrepassarlo e mettersi a perlustrare silenziosamente il cucinino.

Dean gettò uno sguardo all’esterno, alle punte degli alberi che il sole tingeva d’oro. 

In verità gli sarebbe piaciuto proporre anche a Sam e Jack di trasferirsi lì, sulla riva del Tiorati — quella non era certamente l’unica casetta per turisti dei dintorni — ma dubitava che il suo invito sarebbe stato accolto, almeno per il momento.

Da quando gli angeli avevano abbandonato per sempre l’Empire State Building e il loro mondo, una manciata di giorni addietro, nel grattacielo non si faceva che parlare di assemblee, diritti costituiti e libere elezioni. Charlie, in modo particolare, sembrava non avesse intenzione di discutere di nient’altro se non della formazione del nuovo Parlamento e della ripresa delle attività delle fabbriche nell’ex-area metropolitana del West Haverstraw, fabbriche che proprio quel giorno lui, Castiel e un gruppetto di altri uomini erano stati incaricati di ispezionare.

Ad ogni modo — nonostante intavolare con lei un qualsiasi altro tipo di discorso fosse diventato impossibile — Dean non se la sentiva di biasimarla: anche Anna e Gabriel avevano lasciato New York, al seguito dei loro fratelli, e sebbene l’efficienza e gli ordini della ragazza fossero rimasti implacabili come un tempo lui l’aveva sorpresa più d’una volta a guardarsi intorno, smarrita, come alla ricerca di qualcosa che si fosse resa conto di aver improvvisamente perduto. Sia lei che l’Arcangelo avevano comunque promesso di ritornare il più presto possibile, ma adesso anche gli angeli avevano le loro questioni da sbrigare e nessuno avrebbe potuto prevedere quando sarebbero ricomparsi.

In compenso però Jack era rimasto, e lui e Sam erano diventati il braccio destro e sinistro di Charlie al punto dall’essere entrambi interpellati in un infinito numero di questioni — talvolta anche piuttosto delicate e di cui Dean spesso era a malapena a conoscenza — e per questo gli pareva assai improbabile che suo fratello piantasse tutti quanti in asso per darsi alla pesca d’acqua dolce e alle passeggiate nei boschi.

Sollevò il lenzuolo ingiallito che avrebbe dovuto proteggere il tavolo da pranzo, scatenando una piccola bufera di polvere nel soggiorno. 

In quanto a lui, beh… non si poteva dire che condividesse lo stesso entusiasmo di Sam di fronte alla prospettiva di trascorrere i mesi — se non gli anni — seguenti nell’edificio che faceva da sfondo a buona parte dei suoi ricordi peggiori, per giunta con un carico di responsabilità maggiore di quello che già gli gravava sulle spalle. Si fermò a osservare Castiel, affaccendato nel cucinino, che apriva e chiudeva ogni anta o cassetto alla sua portata come a volersi sincerare della tenuta delle cerniere. 

Castiel aveva rinunciato ai suoi poteri l’ultima sera di giugno, dopodiché aveva passato le sue prime tre notti da umano a fissare il soffitto della loro camera a occhi sbarrati. 

I suoi sensi — l’udito, soprattutto — sembravano rifiutarsi di venire a patti con la sua nuova vulnerabilità, e quella folle pretesa di lasciarsi scivolare in un’incoscienza ancora più indifesa semplicemente lo atterriva. 

A ogni parola pronunciata un po’ più ad alta voce o rumore inatteso che attraversava il corridoio e riusciva a raggiungere la loro stanza e i suoi timpani, Castiel sussultava e balzava a sedere come se quelle eco smorzate rappresentassero l’avvisaglia di chissà quale pericolo. A nulla erano servite le rassicurazioni e le carezze esauste di Dean, solo alla quarta notte il corpo dell’ex-angelo aveva fisiologicamente ceduto facendolo crollare in un torpore disturbato, interrottosi comunque prima dell’alba.

Da quel giorno le sue condizioni erano pian piano migliorate — riusciva a mangiare normalmente, le emicranie e il dolore generalizzato erano spariti — eppure il sonno non voleva saperne di regolarizzarsi. I suoi movimenti apparivano ancora affaticati, lenti, le sue occhiaie troppo scure. 

«Avete finito la luna di miele voi due?»

Dean alzò la testa in direzione della voce e la seguì fino in veranda, in tempo per vedere la sagoma spazientita di Crowley sbucare in cima al sentiero.

«Non abbiamo ancora finito il giro!» gracchiò l’uomo, sventolando verso di lui la vecchia cartina fornitagli da Charlie «E io vorrei tornare a New York per ora di cena»

«Sì, sì… Arriviamo…» sbuffò lui di rimando, mentre Castiel lo raggiungeva all’esterno con uno strascico di ragnatele appiccicato al fondo dei pantaloni e chiudeva la porta — per quanto potesse essere utile un’accortezza del genere. Avrebbero impiegato l’intera estate per rendere quell’abitazione nuovamente agibile, rifletté Dean. 

Soltanto che, ben lontano dallo scoraggiarlo, quell’eventualità quasi lo esaltava.

Fecero ritorno al piazzale asfaltato dove era parcheggiato il furgoncino grigio con il quale erano arrivati fin lì e il ragazzo si apprestò ad aprire lo sportello del guidatore.

«Stavolta guido i-»

«Scordatelo, Winchester» 

Crowley si frappose a braccia conserte tra lui e la portiera «Ci ho messo tre settimane per rimettere in sesto questa vecchia carcassa» specificò «Col cavolo che la lascio nelle mani di un ragazzetto che fino al mese scorso non sapeva nemmeno cosa fosse un cambio»

«Ma se ho imparato perfettament-»

«Niente ma, scoiattolino» lo interruppe — per la seconda volta —Crowley, con un'eloquente alzata di sopracciglia «Macchina mia, regole mie, marsc’!»

Dean fece una smorfia e si avviò di malavoglia verso l’altro lato della vettura. 

«La prossima volta…» borbottò «…suggerirò a Samandriel di farti crescere una coda biforcuta anziché dei capelli biondi…»

«CHE HAI DETTO?»  

«Che siamo in ritardo e che di questo passo non arriveremo mai in città per il tramonto» intervenne quieto Castiel dai sedili posteriori, prima che la conversazione prendesse definitivamente fuoco.

Crowley gli scoccò — scoccò a entrambi — un’occhiata omicida ma poi optò per il lasciar cadere la questione, sistemandosi al volante e mettendo in moto, facendo stridere le gomme del furgoncino sulla ghiaia del selciato. Nonostante non fosse più un angelo — dovette convenire Dean — Castiel possedeva ancora un certo ascendente su di lui. 

Specialmente da quando l’aveva accompagnato di persona nella sua vecchia biblioteca.
 

22 luglio 2009

Nemmeno dieci giorni dopo stava caricando lo sgangherato pick-up che Ash era riuscito a rimediargli con gli ultimi — per quella tornata — scatoloni di asciugamani e indumenti di ricambio.

Era una mattinata limpida e altrettanto torrida, neppure una bava di vento risaliva dal mare.

Castiel, nel frattempo, con la schiena poggiata contro la fiancata, tentava di arginare il profluvio di raccomandazioni miste a scuse sotto cui Sam li stava sommergendo dall’inizio della giornata e di fronte al quale il maggiore aveva già capitolato.

Come Dean aveva previsto, a New York c’erano ancora troppe faccende da sbrigare e Jack non era ancora del tutto autonomo perché suo fratello potesse allontanarsi dall’Empire State Building, anche solo per qualche settimana. Ciò non gli aveva comunque impedito di dare una mano con i bagagli, gli attrezzi e quant’altro avrebbero dovuto portare con loro — compreso il materasso assicurato al portapacchi — né di cominciare a stilare una lista infinita di preoccupati consigli non richiesti, neanche stessero per trasferirsi nella giungla, anziché appena a una cinquantina di miglia da lì. 

«Tuo fratello ti vuole troppo bene e Castiel è troppo educato per chiederti di piantarla, Sam, ma se non chiudi quel becco entro i prossimi due minuti credimi che cominceranno a sanguinargli le orecchie!»

Dean sollevò gli occhi dalle sponde metalliche del cassone posteriore e sorrise. Charlie aveva appena oltrepassato le — da pochissimo sostituite — porte a vetri del grattacielo e stava venendo loro incontro: alla fine aveva trovato il tempo di passare a salutarli prima della partenza. 

«Toneremo presto Sammy, non preoccuparti» aggiunse lui, ridendo, verso un Sam improvvisamente azzittitosi «Ci sono ancora un mucchio di cose di cui abbiamo bisogno per i lavori, avrai senz’altro modo di rifarti!»

«Cretino»

Il maggiore incassò in silenzio, ma non per questo smise di sogghignare; Sam brontolò qualcosa di inintelligibile e ritornò ad occuparsi della pressione delle gomme — che aveva già controllato una volta, ma non si poteva mai sapere — mentre Castiel s’infilava nell’abitacolo alla ricerca del manometro.

«Il lago Tiorati, eh?»

Dean aveva appena chiuso lo sportello del cassone quando la ragazza lo raggiunse «E’ un bel posto, devo ammetterlo» gli confidò, allegra, aiutandolo a inserire tutte le sicure.

«Ci sei mai stata?»

Lei scosse la testa «Io no» disse «Ma i miei genitori venivano dalla Pennsylvania e hanno trascorso più d’un estate in quella zona, quando io non ero ancora nata»

«Io non…» Dean si grattò la fronte, imbarazzato: non l’aveva mai sentita nominare la sua famiglia prima di allora «Non lo sapevo»

«Oh, non era poi una cosa così importante…» Charlie scrollò le spalle. 

«Sai, nella lingua dei nativi, la parola ‘Tiorati’ significava ‘simile al cielo’» riprese, cambiando argomento, e il suo tono si era fatto così inaspettatamente morbido «Sono sicura che vi troverete bene lì» sussurrò «Tutti e due» 

«Sì…» Dean annuì.

Seduto sul cofano anteriore, Castiel osservava suo fratello armeggiare con gli pneumatici; ogni tanto Sam gli diceva qualcosa, e lui sorrideva.

«…sì, lo credo anch’io»
 



Impiegarono l’intero pomeriggio soltanto per scaricare il pick-up e ripulire una delle due camere da letto, quella in cui lo strato di polvere che ricopriva la struttura in ferro battuto del letto appariva meno coriaceo. Avrebbero dovuto riparare il tetto, rifare i soffitti e ritinteggiare tutte le pareti, ma avrebbero cominciato il giorno dopo. Non c’era nessuna fretta, i segni che le infiltrazioni d’umidità avevo lasciato sui muri erano dello scorso inverno e l’arrivo dell’estate aveva già asciugato tutto.

Le temperature erano talmente miti che avrebbero addirittura potuto dormire anche all’esterno, se avessero voluto.

Con l’arrivo del crepuscolo si resero conto di aver trascurato un dettaglio fondamentale: l’impianto elettrico del villino era — ovviamente — non più funzionante, e loro non avevano che un paio di torce elettriche e una manciata di candele. Dean di pasti a lume di candela non voleva neppure sentirne parlare — per troppi anni erano stati lo standard nella loro catapecchia in Colorado — e così, alla luce delle pile, lui e Castiel ridiscesero fino al lago e accesero un piccolo fuocherello sulla riva. 

Quando finirono di mangiare era già calato il buio.

Se ne stavano seduti sulla sabbia, schiena contro schiena, e gli unici suoni che emergevano dall’oscurità circostante erano il rumore dell’acqua e il richiamo lontano di qualche uccello notturno; sopra le loro teste, minuscole stelle scintillavano come Dean non le aveva mai viste.

Castiel rovesciò la testa all’indietro, fermandosi con la nuca sulla sua spalla «A che cosa stai pensando?»

«Uh…» Dean trasalì «Ecco… a niente di particolare in realtà» si precipitò a rispondergli «A cosa bisognerà fare domani, i materiali che mancano, e poi…»

Il resto della frase si perse nello sciabordio placido delle onde che s’infrangevano sulla battigia. Castiel girò la testa verso di lui, la punta fredda del suo naso gli sfiorò una guancia.

«Poi?»

«Mh» Dean si schiarì la voce «Promettimi di non ridere»

Sentì Castiel sorridere contro il suo collo. 

«Prometto»

«Domani vorrei fare il bagno»

«Il bagno?»

«Sì»

«Nel lago?»

«Nel lago»

«Ma ti hanno mai insegnato a nuotare?»

Dean ammutolì nel buio, e arrossì. 

«Ehi, avevi promesso!» insorse, quando le sue orecchie intercettarono il gorgoglio divertito proveniente dalla gola di Castiel, che nel frattempo si era spostato al suo fianco.

«Lo so, lo so, riconosco le mie colpe» ammise lui, passandogli un braccio intorno alla schiena «Ma almeno assicurami che finché non imparerai come si deve resterai dove avrò la possibilità di salvarti in caso stessi rischiando di annegare»

Dean gli tirò una spallata facendoli capitombolare entrambi nella sabbia, con Castiel sotto di lui che ancora ridacchiava. 

«E tu invece?» gli domandò «A cosa stavi pensando?»

«Al fatto che mi sento stanco»

Castiel si sollevò sui gomiti.

«Ma non come durante i primi giorni in cui eravamo di nuovo insieme» rifletté «Mi sento stanco eppure mi sento… bene: è una sensazione difficile da spiegare» confessò, abbozzando un sorriso incerto «Chissà, magari stanotte riuscirò a sfondare il muro delle tre ore di sonno ininterrotto» 

Quello sarebbe stato nulla di meno che un miracolo, ponderò Dean, carezzandogli distrattamente un braccio.

«Dai, torniamo dentro» decretò dopo qualche secondo, aiutandolo a rialzarsi «Domani avremo un bel po’ di lavoro da fare»

Percorsero il sentiero a ritroso e fecero ritorno al villino. Si tolsero i vestiti pieni di sabbia sulla soglia della camera da letto e nel lasso di tempo che impiegarono a spogliarsi e mettersi sotto le lenzuola Castiel infilò dieci sbadigli uno dietro l’altro; si accoccolò contro il suo fianco e a quel punto Dean avrebbe solo voluto abbracciarlo di rimando e continuare a baciarlo fino al mattino successivo, ma erano entrambi esausti e così si accontentò di rimanere ad ascoltare il suono del suo respiro che lentamente si regolarizzava.

Pensò a Sam, mentre il sonno prendeva il sopravvento anche su di lui; a Jack; si domandò come avessero trascorso quella prima sera senza di loro. Pensò a Claire, a Charlie, a Gabriel.

Pensò a sua madre, e poi pensò a suo padre. 

Un singhiozzo gli si addensò tra le costole e il suo petto si alzò e si riabbassò con un movimento repentino mentre un brivido gelido lo scuoteva, come se un esercito di fantasmi lo avesse appena circondato.

Dean spalancò di nuovo gli occhi, ma la stanza era vuota. 

Non c’erano spettri negli angoli, né ombre minacciose sul soffitto.

C’era solo Castiel che dormiva, con la testa posata sul suo torace: il suo sobbalzo improvviso non l’aveva svegliato.

Buon segno. 

Un sorriso gli affiorò spontaneamente sulle labbra. Il freddo che aveva avvertito poco prima era già sparito e, fuori dalla finestra, la notte era serena e tersa come vetro levigato. 

L’indomani avrebbero avuto un’altra giornata piena di sole.

 

 

 

 

 

 

 

 

Varie ed eventuali:
-Ringrazio lilyy per aver voluto condividere con me - e con voi - queste due versioni delle famose Ninfee di Giverny, e quest’altra (anonima per quel che so) frase loro associata :)
-Il titolo di questa storia, “The crooked kind”, è il titolo di una canzone dei Radical Face (che tra l’altro parla di due fratelli, anche se non hanno nulla a che fare con i Winchester).

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco.

 

*note molto malinconiche in arrivo con tanto di “Hotel California” degli Eagles in sottofondo*

 

Non è passato neppure un anno da quando ho pubblicato il primo capitolo eppure quel giorno, ora, mi sembra lontanissimo. Sarà che ho cominciato a scrivere questa storia all’inizio del 2019 e - non a volervi tediare sulle sue vicissitudini - ma è rimasta talmente tanto tempo ferma al terzo capitolo, ed è arrivata così vicina al cestino (non tiratemi i pomodori) che ora mi sembra quasi assurdo che io stia davvero piangend-ehm, elaborando queste note. Ma insomma, devo aver trascorso talmente tanti anni a scrivere, riscrivere, non trovare mai le parole giuste e sentirmi insoddisfatta di talmente tante storie da avere ormai un bisogno quasi fisico di portarne a serena e soddisfacente conclusione una così assorbente come è stata “The crooked kind”. Ebbene, spero che almeno un po’ vi sia piaciuta, perché per me questo è stato un viaggio splendido, e il merito è stato in buona parte anche vostro.

Grazie a chiunque mi abbia dato fiducia e seguito questa storia fin qui, grazie a chiunque l’abbia inserita in una delle sue liste. 

Soprattutto, un grazie ENORME (ed è un termine oltremodo riduttivo) a voi lettrici che siete state tanto meravigliose da dedicarmi il vostro tempo lasciandomi una recensione. Questa storia e la sua sgangherata autrice vi devono moltissimo, al punto che potrei riempire dieci altri capitoli soltanto con la parola “grazie”, e penso non sarebbe comunque abbastanza. Per me è stato un onore - e una fortuna decisamente insperata - avervi dall’altra parte dello schermo

Un abbraccio grande,
Loth*

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