Come nacquero i Bucaneve

di Giulia1098
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tra meno di un anno ***
Capitolo 2: *** Euforia ***
Capitolo 3: *** Il Dio della Morte ***
Capitolo 4: *** Usar gentilezza ***
Capitolo 5: *** La bella Principessa ***
Capitolo 6: *** Pegno d'amore ***
Capitolo 7: *** Aida ed Amina ***
Capitolo 8: *** Partenza ***
Capitolo 9: *** Notti d'Oriente ***
Capitolo 10: *** Gli Egoisti ***
Capitolo 11: *** Core ***
Capitolo 12: *** Mitologia ***
Capitolo 13: *** Stabat Mater ***
Capitolo 14: *** Aleksej ***
Capitolo 15: *** Emicrania ***
Capitolo 16: *** Reminiscenza ***
Capitolo 17: *** Un anno di vita ***



Capitolo 1
*** Tra meno di un anno ***


Mani bianche accarezzavano un’acqua trasparente, che si increspava al di sotto di quelle lunghe dita affusolate; dei petali di ciliegio navigavano intrepidi nella piccola polla e sassolini bianchi splendevano come denti di un sorriso smagliante tra alghe verdi, oscillanti, che seguivano ubbidienti il movimento sinuoso di quelle morbide dita delicate.
 Maggio cantava una canzone antica, con una voce che sapeva di passato: aveva visto tanto del mondo ed aveva conosciuto altrettante musiche e racconti, rimanendo ogni volta affascinata da quegli uomini che si radunavano in cerchio davanti ad un fuoco per raccontarsi di leggendari cavalieri, streghe e sirene, avventure mai udite prima, ma sempre con voci suadenti ed affascinanti.
Cantava di amori e sguardi, di parole e sospiri e intanto sognava un amore tutto suo e sospirava sognandolo, mentre il vento profumato accarezzava i suoi lunghi capelli castani. Alzò gli occhi al cielo e le labbra di rosa sorrisero davanti ad un azzurro sconfinato che illuminava il giardino fatto di sole e di fronde; grandi occhi azzurri si riempirono di orgoglio e dolcezza osservando una piccola margheritina che cercava di allungare il collo per godere anche lei dei raggi del sole. Maggio si alzò e il vestito di petali di rosa ondeggiò lievemente accarezzando quel corpo delicato e morbido, bianco come fosse stato latte.
Con le mani alzò la corolla del piccolo fiore e la sostenne con le dita, delicatamente -Su, su- lo incoraggiò materna. La margherita sembrò aver ascoltato e tentò di drizzarsi sul suo stelo con tutte le sue forze, aprendo le foglie più che poteva, tentando di dispiegare i petali accartocciati. Ma il sole era un poco troppo distante da lei e per quanto ci provasse, rimaneva purtroppo nell’ombra del cespuglio sovrastante.
Maggio ridacchiò sotto i baffi e le soffiò un alito caldo e dolce sulla corolla; quella sembrò dotarsi di una forza inaudita per una semplice margheritina di campo: lo stelo si allungò, le foglie si distesero e il caldo della luce del sole poté finalmente bagnarle il bianco dei petali. -Oh, piccolo fiore, non sei forse bellissimo? - domandò Maggio, guardandola con amore. Era ormai da quasi un anno che aspettava di poter scendere nella terra, lì dove lo spazio per dare la vita e farla maturare e fiorire era così vasto. Amava il suo giardino, certamente, sarebbe stata un’ingrata a non apprezzarlo, lì poteva godere di tutto il sole che voleva, della pioggia se fosse stata triste o della brezza se avesse avuto caldo, ma alla fine di quel giardino c’era sempre un cancello, un cancello che lei poteva aprire troppe poche volte l’anno e che la faceva sentire in fondo come se fosse in una bella prigione, una prigione di luce, di bellezza e vita, ma pur sempre una prigione.
Ogni volta che scendeva nel mondo invece, rimaneva estasiata da tutta la diversità che vi incontrava, dai popoli che osservava, dalle città che sbirciava di nascosto, ovviamente il suo compito non era guardare, ma portare i fiori ed i frutti, eppure una spasmodica curiosità si impossessava di lei per tutti quei trentun giorni di libertà che le erano concessi.
 Nella sua mente prendeva nota di tutto quello che vedeva, dei racconti che origliava, delle canzoni che di nascosto imparava a memoria, di tutte quelle strane lingue che poteva ascoltare, non osservata da nessuno, aveva udito una volta una vecchia cantare un canto talmente triste, ma con una lingua talmente bella, che si era dimenticata se stesse piangendo per la gioia o per la tristezza. Ovviamente non aveva sempre assistito a bei ricordi, c’erano stati avvenimenti che le avevano fatto odiare l’umanità, in cui aveva sperato di non dover scendere mai più tra quei barbari incivili, che uccidono, rubano e mentono, ma alla fine non riusciva a non farsi trasportare dalla loro stessa vitalità cieca, perché in fondo erano come bambini spersi, bisognava solo educarli alla bellezza per far sì che loro stessi aspirassero a questa, rinnegando violenza e malvagità. Per questo Maggio si sforzava di portare ogni anno i fiori più belli ed i frutti più buoni, così che l’uomo li ammirasse e venisse ispirato da così tanta vita. Prese in mano un taccuino appoggiato sull’erba e ne sfogliò le pagine ingiallite dal tempo.
L’aveva rubato in qualche mercato, non sapeva nemmeno lei più dove, ed aveva preso l’abitudine di annotarvi tutto ciò che fosse degno di essere ricordato: una canzone, una favola su di un lupo ed una strana bambina rossa, o così le era sembrato di aver capito, una legge giusta, uno schizzo di un volto di donna. Mentre sfogliava le pagine assorta dai suoi ricordi di libertà, non si accorse che in fondo al giardino si era aperta la porta del cancello ed un ragazzo, vestito elegantemente, era avanzato maestoso verso di lei, accompagnato da gocce di pioggia, che si divertivano a scendere e risalire quei capelli castano scuro, proprio come i suoi. -Aprile!- accortasi del fratello, la ragazza gli corse incontro a braccia aperte; il vento accompagnò la sua corsa non facendole toccare terra, mentre le magnolie bianche con cui aveva intrecciato i capelli ricadevano sull'erba verde e diventavano alberi fioriti. -Aprile, Aprile! - Maggio circondò il fratello con le braccia facendolo cadere per terra; quello ridendo la strinse a sé -Non hai rinunciato alle rose vedo- disse indicando il cancello su cui si inerpicavano rose rosse spinose -E come potrei; Quelle sbarre di ferro sono così fredde e brutte che ho pur dovuto porvi un qualche rimedio- rispose Maggio, ridendo. Aprile le accarezzò le guance arrossate -Neanche un giorno- lei sorrise e arrossì -Bella come nostra Madre, ma meno elegante oserei dire dal modo in cui mi sei corsa addosso! - si rialzò guardandola di sottecchi, uno sguardo un po’ di rimprovero un po’ di complicità. -E’ finalmente passato un anno- disse la sorella, mentre lui si sistemava la giacca azzurra
-Sì Maggio, già un anno. La terra ti reclama. Credo che gli uomini ne abbiano abbastanza delle mie piogge, attendono solo te- la ragazza cominciò a volteggiare per il giardino senza fermarsi un solo attimo. Finalmente sarebbe potuta uscire, finalmente avrebbe respirato di nuovo l’aria della terra, ascoltato nuovi racconti e sbirciato nuove vite. -Avete sentito ciliegi, devo portarvi giù sulla terra con me. Oh, voglio tanti frutti quest'anno, tanti colori- la testa le girava, ma Aprile la prese proprio un momento prima che cadesse a terra -Ma ora devi recarti da nostra madre per la porta, lo sai-
-Giusto, giusto la porta...Aprile sono così felice di vederti! - strinse ancora il fratello -E' proprio ingiusto vedersi solo ai cambi, non trovi anche tu? –
-Lo so, ma ora io sono qui- i suoi occhi azzurri la guardarono con affetto, un affetto che rimaneva immutato da ormai molto tempo, ma che velava anche una malinconia ed un senso di ingiustizia nascosti. I figli delle stagioni avevano difatti l'obbligo di restare nei loro giardini per tutto l'anno fino al loro mese, allora scendevano sulla terra e come pittori la coloravano e dipingevano di sé stessi. Tre figli per quattro stagioni, dodici mesi e dodici vite. Maggio non conosceva i figli di Inverno, né quelli di Estate o Autunno e poteva vedere Marzo solo il giorno del solstizio di primavera dove tutti e tre si riunivano nel palazzo della madre. Così era per tutti e così era da sempre, mai nessuna domanda, mai nessuna obiezione. -Aprile tu hai visto Marzo un mese fa, come sta? - lui le prese la mano e passeggiò un po' con lei per il suo giardino -Oh, come al solito. Sempre di malumore e si diverte a far piovere con il sole- lei rise -Non vedo l'ora che sia il nostro equinozio- -L'amore per il tuo mese è già finito? - la canzonò lui -Oh no, ho tante idee. Che ne dici di nuvole come lana? Così i bambini potranno giocare e poi voglio caldo e gioia. Molto azzurro e un tocco di rosa, bianco ed arancione. Forse inventerò qualcosa di nuovo- Aprile le scompigliò i capelli, lasciandole una matassa arruffata -Tanto poi arriverà Giugno e i tuoi fiori andranno via-
-Ma tutti ricorderanno com'erano belli e mi aspetteranno per rivederli-. Passeggiavano insieme, mano nella mano felici di essersi rivisti; in effetti Aprile era il suo fratello preferito. Marzo era troppo grande e vicino ai figli di Inverno per essere più di tanto simile a lei; Aprile invece era il suo amico fidato, quello che non vedeva l'ora di vederla per raccontarle tutto quello che aveva fatto. -...E poi un giorno ho fatto piovere così tanto da allagare tutto un prato. Credimi sembrava un lago come quello davanti a casa di nostra madre, dovevi vedere quelle povere massaie si affrettavano a ritirare il bucato appena steso, erano tutte un garbuglio di sottane, gonne e copricapi! - avevano fatto il giro di tutto il giardino ed erano arrivati al cancello di rose rosse, possibile che quel posto fosse così piccolo?
-Ti prego resta ancora un po’- lo supplicò Maggio -Solo un'ora, dovremo aspettare un altro anno per rivederci, per favore resta qui con me, nessuno lo verrà a sapere, solo un’ora ancora- -Sai che non si può, e poi è già meno di un anno- le baciò la fronte e le pizzicò la guancia con le dita -Ora devo andare, sono rimasto anche fin troppo- il cancello infatti si era già spalancato da qualche minuto, come se aspettasse irritato di far uscire l’intruso dalla sua cella. -Tra meno di un anno- - Tra meno di un anno- gli fece eco una Maggio un poco più triste di come l’aveva trovata. Il fratello passò sotto l'arco di rose e si dissolse in pioggia che volò in una direzione sconosciuta in quella bruma bianca, lasciandole solo il profumo dell'acqua fresca. La ragazza rimase qualche secondo a guardare quel paesaggio di nuvole davanti a lei. Sembravano pennellate di acquerello color perla e lillà, soffici e leggere scorrevano come acqua di un fiume, placide e tranquille. Si riscosse all’improvviso e tornò immediatamente di buon umore pensando alla madre, che avrebbe visto di lì a poco.
Corse alla polla d'acqua e cominciò a specchiarsi e pettinarsi i capelli, intrecciandoli con dei piccolissimi fiori blu, ora che ci pensava somigliavano a pietruzze incastonate in stupendi bracciali che aveva visto al polso di favolose dame qualche anno prima ed ecco che subito l’entusiasmo per il mondo e la curiosità vinsero la sua malinconia.
 Il vento la vestì di petali di pesco, mentre le viole le regalarono gocce del loro profumo. Era proprio come prepararsi per una festa importante, una festa che aspettava da un anno e fu pronta per partire. Varcato il cancello cominciò a non sentire più i piedi, poi toccò alle gambe, al ventre e alle braccia, finché tutto il suo corpo non divenne fiori e profumo e volteggiando si immerse nel mare di nebbia, inconsapevole di sé.
 
 Il palazzo di Primavera sorgeva su di un prato verde, la cui erba era giovane e fresca, dissetata dalla rugiada guardava con invidia gli alberi dai frutti rossi accompagnatori dello stretto viale di terra, che portava all'entrata dell'imponente dimora.
Quando toccò terra, Maggio riprese forma di donna e rimase per un attimo a contemplare la vastità di quel giardino, molto più ampio del suo. In lontananza, proprio dietro il grande palazzo di marmo bianco, si scorgeva una superficie argentea luccicare sotto il sole e risplendere come fosse diamante, mentre di lato un cerbiatto dalle corna acerbe brucava tranquillo. Cespugli di fragole e lamponi crescevano sotto alte querce e betulle dai candidi tronchi accompagnate da bellissimi salici facevano da cornice al grande lago. Maggio avanzò per il viale mentre i fringuelli cantavano in cielo; i piedi, intorno ai quali si intrecciava dell’edera, sfioravano appena i sassi tondi sul terreno. Era impaziente di vedere la madre, di ascoltare quella voce che le avrebbe parlato, di vedere quegli occhi viola sorriderle affettuosi.
Dama Primavera era una madre inconsueta, non ne aveva mai viste di così sulla terra: lì di solito le madri raccontavano le favole della buonanotte ai bambini prima che si addormentassero, giocavano con loro, o li guardavano di nascosto crescere e diventare grandi, mentre Dama Primavera non era mai stata così.
Non ovviamente nel senso che non fosse buona o amorevole, certo lo era, ma lo era una volta sola all’anno, e comunque i modi eleganti, raffinati e composti, non facevano mai trasparire quell’onda di amore che Maggio aveva invidiato nei figli della terra. Il passo si fece più veloce e un tintinnio cristallino cominciò ad echeggiare mentre il vento faceva sbattere tra loro i frutti vermigli degli alberi, quasi fossero stati gioielli Le mani giocherellavano continuamente con i petali del vestito e i denti mordicchiavano ripetutamente il labbro inferiore, mentre una dolce euforia la prendeva. Finalmente fu davanti alla porta. Bussò. Una voce ariosa di donna cominciò a sussurrare attraverso le venature del marmo: La figlia della primavera è arrivata. Avanti, avanti! E le porte di cristallo vennero aperte mostrandole una stupenda sala bianca. Intorno alle alte colonne tornite si inerpicavano fiori azzurri e viola e i corrimano delle numerose scale erano rami di grandi alberi forti che sostenevano la dimora della regina della natura. Ad ogni passo della ragazza la voce sibillina le sussurrava dalle pareti Di qui principessina, di qui e lei la seguiva sempre più impaziente e vogliosa di vedere la madre in tutta la sua grandezza. Gli alti soffitti erano affrescati con dipinti di prati di campagna, i quali si perdevano in un cielo celeste dissolto nel marmo delle colonne, sempre adornate di bellissimi fiori. Ogni stanza dentro cui entrava era una gioia per gli occhi: vasi di vetro da cui sbocciavano rose, piccoli ruscelli che attraversavano il pavimento, uccellini variopinti che cantavano armoniosi. Era il tripudio della vita e della serenità. Aprite principessina, aprite! La incitò la voce e Maggio spinse con delicatezza una porta di legno massiccio con intarsiature finemente lavorate. Una luce accecante e bianca le investì il volto e poi eccola, al di là della porta: Dama Primavera. In una camera di cristallo, una donna bellissima stava assisa su di un trono di giunchi flessuosi, aveva lunghi capelli castani, ondulati che le arrivavano fino alle caviglie, occhi viola, saggi ed amorevoli, una bocca sorridente e rossa, come i lamponi del suo giardino. Si alzò e tese le braccia. Il vestito di acqua e foglie vorticava intorno al suo corpo, avvolgendosi sugli avambracci e disperdendosi ai suoi piedi, mentre una corona di primule illuminava quel bel viso bianco, in cui risaltavano le gote rosate. -Benvenuta, bambina mia- il tono educato e forse un poco pacato, non trattene Maggio dal correre in contro alla madre inebriandosi di quel fresco profumo di pesca -Mi siete mancata tanto!-
-Anche tu, bambina cara- ascoltare la sua voce era come stare a sentire mille campanelle che tintinnavano argentee, come il canto degli usignoli e lo scrosciare dell'acqua. La dama Primavera le accarezzò i lunghi capelli castani -Non racconti quindi nulla alla tua cara madre? Cosa pensi di portare quest’anno con te? - la ragazza le sorrise -Vorrei colore e caldo, ma non quello soffocante, quello non mi appartiene, un caldo tiepido, morbido- mentre le mani della madre continuavano ad accarezzarle la chioma, la figlia si accomodò ai piedi del trono, la testa appoggiata sulle gambe della Dama. Che fosse questo il solo affetto che la madre fosse in grado di offrirle, modi garbati e qualche carezza? Maggio si rimproverò da sola nella sua stessa testa: gioisci per ciò che hai e che non avrai per un altro anno intero, sciocca! -Vorrei anche inventare fiori nuovi e frutti nuovi, sai?- la madre sorrise -E che tipo di fiori e frutti?-
-L'altro giorno pensavo ad un frutto come i lamponi, ma blu come il cielo di notte- -E come lo desideri chiamare?- Maggio ci pensò un attimo, immaginando quella piccola pietruzza protetta da un corpo spinoso che la rendesse ancora più bella perché difficile da cogliere -Mora, lo chiamerò così-
-Che nome strano. Un po' bizzarro- la ragazza giocherellava con i petali di tulipani gialli che galleggiavano per i rigagnoli di acqua che percorrevano il pavimento della sala
-Lo sarà-
-E per i fiori?-
-Pensavo qualcosa di piccolo e rosato o bianco oppure entrambi, delicato, sicuramente leggero. I petali a cuore e gli stami saranno polverosi come quelli del giglio, ma giallo vivo. Una rosa delicata- -Rosa canina- Maggio guardò sorridente la madre -E' un nome stupendo-
-Dovresti fornirla di spine –
-Non so ancora, deciderò-. Rimase tutto il pomeriggio a parlare e a ricordare ricordi andati, mentre passeggiavano per l'immenso giardino, ma la Dama tendeva solo a sorridere a chiamarla con qualche vezzeggiativo ed a proporle alle volte qualche consiglio del mestiere. Quando arrivarono alle aiuole di campanule Maggio non resistette e pregò la madre di cantare una canzone con lei, mentre i fiori si scuotevano e suonavano come se fossero stati fatti di vetro. Forse uno dei pochi momenti di complicità che avrebbe avuto con lei per il successivo anno a venire. Cantarono una dolce ninna nanna che parlava di stelle e di albe, di laghi e mari e di primule timide che non volevano fiorire timorose del sole. Le loro voci erano leggere e delicate, così belle insieme che i fringuelli avevano smesso di cinguettare e, posatisi sui rami dei pioppi, stavano ad ascoltarle incantati. Quando il sole delineò la sua linea rossa all'orizzonte la dama Primavera fece segno alla figlia di rientrare. Era l’ora per recarsi nel mondo. Mentre camminavano per il palazzo la voce ariosa le superava attraverso i muri Preparate la porta, presto la porta! su per le scale e tra le colonne, oltre le sale e in mezzo ai soffitti. Maggio seguì la madre che la condusse in una stanza, ormai ben nota, al cui centro stava una polla d'acqua limpida su cui galleggiava una ninfea bianca, grande come non mai. -Siamo arrivati, ora è il momento per te di andare, cara bambina-
-Ancora un poco, ve ne prego-
-Sai bene che non è concesso- la madre la guardò con uno sguardo gentile, come sempre del resto, ma un guizzo le mostrò anche il rimprovero celato e la ragazza alzò le spalle -Già, me l'ha detto anche Aprile- con la mano Dama Primavera incitò la figlia ad entrare in acqua e a malincuore Maggio lo fece. Cominciò a scendere la grande scalinata che portava fino al fondo della polla, sentiva una dolce frescura penetrarle nelle ossa, una sensazione rilassante, piacevole. Quando l'acqua le arrivò al collo si voltò in direzione della madre con uno sguardo supplichevole che la pregava di restare con lei ancora un po', ma quella sorrise scuotendo lievemente la testa: –Tra meno di un anno- le stesse parole di Aprile -Tra poco, mamma- e si immerse completamente. Le radici della ninfea le avvolsero le mani e la trascinarono verso il fondo in direzione di un grande specchio ornato con lapislazzuli. Quando il suo corpo toccò la superficie fredda quella si spezzò in miriadi di frammenti lasciandola passare attraverso la sua cornice e dissolvendo il suo corpo in petali e profumo di viola. Il suo ultimo pensiero prima di svanire anche nella mente, fu per la madre e si chiese se un giorno l’avrebbe mai chiamata per nome.

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Capitolo 2
*** Euforia ***


 Maggio riaprì gli occhi sotto un cielo terso, sentiva l’erba che le pizzicava piacevolmente le guance e qualche filo le arrivava fino alla bocca; il corpo sdraiato sembrava leggermente affondare in un terreno morbido ed umido, che sapeva di buono. Terra pensò.
Si mise a sedere guardandosi un poco attorno, mentre le gambe riprendevano pian piano sensibilità: si trovava in una grande distesa di erba, quell’erba che è ancora un poco gialla, soda e fresca, in lontananza poteva scorgere un villaggio fatto di casupole e tetti spioventi dai cui camini salivano rigagnoli di fumo, poi l’occhio si perdeva oltre, verso un orizzonte luminoso che si spalancava su di uno spazio per lei infinito.
Mentre se ne stava lì, quasi ipnotizzata da quella sensazione di luce e chiarezza, notò un gruppo di tre bambini che si rincorrevano nel prato, giocando ad acchiapparsi l’un l’altro.
 -Sei lento, Agapio!- gridava divertita una bambina, la cui corsa un po’ sgraziata aveva fatto sciogliere i laccetti che le legavano i capelli, ora liberi di agitarsi al vento -Non è giusto, Helena, lo sai che ieri sono caduto! Potevamo anche stare con la mamma oggi pomeriggio!- ma la bambina aveva già smesso di ascoltarlo pronta ad acchiappare il ragazzino più grande che, ad ampie falcate, cercava di sfuggirle -Timoteo, questa volta non vincerai, te lo giuro!- le gambette della bambina si erano avvicinate sempre più alla schiena del compagno, ed un braccio magrolino si era teso in avanti per afferrare la casacca, ma lui, scaltro, aveva rallentato apposta ed ora con uno scatto fulmineo si era portato in avanti.
-Mi sono stufato di giocare con voi!- stava urlando nel frattempo il piccolo Agapio, oramai abbandonato a se stesso, lontano nel prato, -Non mi fate vincere mai- e sedutosi per terra, iniziò a singhiozzare con le braccine incrociate sul petto. Helena si fermò un attimo per assicurarsi che il fratello stesse solo facendo i suoi soliti capricci, ma quello per Timoteo fu il momento decisivo per sfuggirle del tutto. Prese a correre con maggior decisione, una falcata dopo l’altra, proprio in direzione della povera Maggio, che nel frattempo se ne era stata seduta lì, in mezzo all’erba ad osservare silenziosa. Ormai il ragazzino le era dinnanzi, ma con un altro slancio in avanti le passò attraverso, senza nemmeno accorgersi di lei, se non forse per un buon profumo di fiori che in quel momento gli passò sotto il naso.
Maggio chiuse quasi istintivamente gli occhi, quando si vide il ginocchio magrolino del ragazzino piantarsi proprio di fronte alla sua faccia, anche se già sapeva di essere per gli uomini solo un vago sentore di frutti ed al massimo un fantasma evanescente che qualcuno si voltava a guardare pensando di aver visto una sagoma, che poi si rivelava solo un riflesso, una qualche ombra lontana.
Mentre guardava quei ragazzini che giocavano e si divertivano tra loro, Maggio pensò spontaneamente ai fratelli e cercò di immaginare come dovesse essere avere un’infanzia, avere dei momenti come quelli, poter giocare e festeggiare, il pomeriggio sonnecchiare assieme al sole e la sera raccontarsi favole, ma purtroppo così non era e non aveva senso lagnarsi, pensò, tanto valeva mettersi all’opera e darsi da fare il prima possibile, alla fine trentun giorni non sono poi così tanti. Ma nella testa aveva fermato l’istante in cui la mano di Helena si era sporta verso la schiena di Timoteo, mentre il piccolo Agapio zoppicava poco più dietro, decisa a ritrarre quel momento sul suo taccuino una volta tornata indietro.
Iniziò il suo operato.

Dopo pochi giorni il mondo aveva già adorato la comparsa delle more, era vero, ogni tanto qualche sbadato finiva dentro un roveto, ma otteneva solo un po’ di graffi e l’insegnamento di fare più attenzione la volta successiva, in compenso le donne si recavano a cogliere i bei frutti scuri e se ne riempivano i grembiuli, accompagnate dai bambini che invece si impiastricciavano la bocca e le dita rubandole dai cestini e cercando poi di nascondere il misfatto.
Maggio adorava tutta questa spontaneità, tutta questa vita che scorreva placida, serena e felice ed era contenta, fiera di poter donare gioia a tutte quelle persone, di poter portare un sorriso facendo splendere un poco di più il sole prima del tramonto sulla finestra di qualche anziano, così che potesse godere ancora un po’ del suo tepore.
Dopo poco meno di una settimana, aveva già partecipato ad almeno tre feste di paese, all’insaputa degli invitati, riso e ballato assieme a quelle persone che celebravano un matrimonio, una nascita o una strana figura femminile che portava ogni anno le messi, anzi, rise sotto i baffi pensando che forse gli uomini l’avevano qualche volta scambiata nelle loro menti per quella donna giunonica e prospera che chiamavano Cerere.
E proprio alla festa di questa fantomatica Cerere, mentre i cittadini della città innalzavano ghirlande di fiori e l’aria rosseggiante per il tramonto si riempiva del dolce profumo del pane, Maggio assaggiò per la prima volta, rubandola dalla coppa di una bella donna dai capelli corvini, una bevanda strana, dolce ed acida allo stesso tempo, di un viola profondo e speziato, che il giorno successivo le causò un forte mal di testa.
Così se ne vagava per il mondo adornandolo con i suoi frutti e fiori, godendo spensierata della vita e cercando di catturare nella mente quanti più ricordi le fosse possibile ricordarsi, quando giunse in prossimità di un alto bosco tetro.
L’aria lì era un poco più fredda e rarefatta, le pizzicava nelle narici quando inspirava e la vista rimaneva quasi annegata da quel verde così profondo e pieno che le si parava, quasi fosse stato un muro, davanti. Un brivido le corse su per la schiena, un senso di angoscia e paura, forse spirito di sopravvivenza, che le suggeriva di lasciar stare quello strano posto, di non addentrarsi dove sentiva venir meno la vita, ma la sua curiosità era troppo alta, e poi, sotto sotto, nascosto tra buoni propositi e progetti per il futuro, un pensiero macabro e triste: forse se mi succedesse qualcosa, sarei finalmente libera. Rimase agghiacciata dal rendersi anche solo conto di aver potuto pensare ad una cosa del genere, ma alle volte la razionalità non è abbastanza potente da vincere la passione irrazionale che ci stringe il petto e così, un passo timoroso dopo l’altro, si addentrò sempre più nella selva.
 Quel bosco era un luogo veramente molto strano, non sentiva cantare un solo uccello, né lo scricchiolio degli animali che passeggiavano sugli sterpi, neppure l’ululato di un solo lupo la accompagnava in quel posto privo di luce che le si faceva sempre più opprimente addosso.
Per un momento pensò di tornarsene indietro, indietro verso le feste con il vino, indietro verso i bambini che giocavano e i tramonti color pesca, ma, quando si voltò poi effettivamente indietro, non vide altro che buio dietro di sé, così come non c’era altro che buio attorno a lei e sopra di lei. Sembrava di avanzare in una strana massa scura, indefinibile e sempre uguale, ogni tanto si rendeva conto che quello spazio in cui si stava muovendo, o almeno, pensava di starsi muovendo, fosse un bosco, con i suoi tronchi, i suoi rami e le sue foglie, ma l’attimo successivo tornava a sembrarle solo un’indefinita massa scura, densa, che le bloccava il respiro.
Si fermò. Davvero hai paura del buio, davvero credi di non poterci riuscire? E’ solo un bosco giusto? Rendilo tale pensò mentre un sudore freddo le imperlava la fronte e così tentò di riportare un poco di vita in quel posto che sembrava esserne privo da molto tempo. Appoggiò le dita sul tronco di un albero, la scorza dura e fredda, terribilmente fredda, e vi impresse tutta la forza che sentiva in corpo, tutto quell’attaccamento spasmodico alla vitalità che è proprio del mese dei frutti e dei fiori, e così quasi timidi, come se fossero stati risvegliati da un lungo torpore malato, dei germogli verdi iniziarono a strisciare sotto i suoi palmi ed ad abbracciare il tronco dell’albero che pian piano riprendeva calore.
Maggio appoggiò un orecchio al fusto e sentì dentro, in profondità, il cuore di legno riprendere timoroso a battere ed a pulsare linfa nel suo corpo, per cui, rinvigorita dal primo tentativo, fece lo stesso con gli altri alberi che le stavano attorno: si appoggiava alla loro fredda scorza e vi imprimeva di nuovo la vita, gioendo ogni volta che il lento battito millenario riprendeva ad echeggiare nel profondo del legno.
Purtroppo però la carica emotiva, l’ansia di fallire ed il timore della morte di quel luogo, avevano reso Maggio distratta nei confronti dei particolari, per cui, nella foga di risvegliare ogni albero, non si rendeva conto che i precedenti ricadevano in quello stato di morte apparente in cui li aveva trovati, non si rendeva conto che i germogli che aveva loro donato si ghiacciavano e sbriciolavano nel momento esatto in cui lei girava loro le spalle, quasi fosse una madre con troppi figli malati e troppo amore per ciascuno di questi, Maggio curava un albero per poi non accorgersi di star lasciando morire gli altri dietro la sua schiena bianca.
Lo schiaffo della realtà arrivò nel momento in cui non riuscì più a guarirli ed allora si rese disperatamente conto che anche tutto il suo lavoro precedente non era servito a nulla, che il freddo imperversava, che la morte non abbandonava quel posto maligno, che lei aveva ormai perso la strada per uscirne fuori. A questo punto la paura si impadronì di lei, perse quel poco di lucidità che le era rimasta e iniziò a correre, e più correva più piangeva per il terrore, e più piangeva più la vista le si offuscava e credeva di vedere strane figure intorno a lei che la rincorrevano, figure sgraziate, terribili, dai corpi di ghiaccio così magri, che sembravano quasi volerla divorare per la fame di cui portavano i segni visibili sulle membra. L’unica parola che la sua testa riusciva a formulare in quel momento era: paura.
Voltandosi indietro cercando di capire se poi quelle figure abominevoli ci fossero o meno, non si era accorta di una grande radice che la fece cadere con la faccia in mezzo all’erba scura. Quando si alzò, un poco stordita vide una radura che sembrava quasi protetta, rinchiusa da quella selva terribile e proprio al centro di quella stessa stava una vecchia casa diroccata.
Sembrava una vecchia dimora, grigia e spenta, così come il bosco che la circondava, una persona anziana e malata, che aveva visto di gran lunga tempi migliori: le finestre parevano orbite nere, le pareti da fuori erano rovinate dalla muffa e dalle intemperie e nella porta, sbarrata, si apriva uno squarcio stretto che avrebbe a stento fatto passare un uomo. Maggio ne era totalmente rapita e spaventata, non riusciva a muoversi, sentendo quasi un torpore sinistro afferrarle le gambe ma un grido agghiacciante le ridiede il movimento.
Dietro di lei infatti quelle che fino a quel momento aveva sperato fossero solo visioni allucinate di una mente stanca ed impaurita, erano diventati veri e propri fantasmi, dalle braccia lunghe che ricadevano a penzoloni sul terreno, occhi talmente tristi da bloccare il respiro in gola e soprattutto venivano proprio verso di lei. Non aveva scelta che rifugiarsi in quella sinistra casa.
Corse velocemente all’ingresso salendo rapida le scale che portavano al pergolato e si infilò nella piccola apertura sulla porta, lasciandosi alle spalle quelle creature terribili i cui lamenti le stavano facendo vibrare dolorosamente i timpani.
Se un uccello nel suo viaggio lungo il cielo in quel momento avesse guardato verso il basso, verso quella strana radura in quella strana casa, avrebbe colto un piccolo petalo di rosa scomparire, divorato da una buia bocca sdentata

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Capitolo 3
*** Il Dio della Morte ***


Gli occhi fecero fatica ad abituarsi a quell’oscurità polverosa nella quale si era ritrovata, ma i graffi provenienti dall’esterno, che poteva però sentire sulle pareti della casa, le mettevano addosso una paura tale da impedirle di uscire e preferire comunque quel luogo buio, al terrore di ciò che l’aspettava fuori.
Rimase così, raggomitolata su sé stessa a piangere sommessamente per qualche ora o forse solo qualche minuto, senza luce infatti non si rendeva conto del passare del tempo, ma non sapeva nemmeno cosa fare, disperata come era, per cui se ne rimaneva lì in preda all’ansia cercando di percepire ogni minimo rumore che le si avvicinasse.
Dopo un po’ non riuscì nemmeno più a capire se quei graffi che sentiva da fuori ci fossero davvero o no, non ricordava bene se quelle creature terribili esistessero veramente o fossero solo frutto della sua fantasia, forse era talmente concentrata a sentirne i rumori, che la sua mente la accontentava facendole credere di aver visto e di aver sentito qualcosa, fatto sta che trascorse molto tempo prima che potesse calmarsi e riprendere lucidità mentale.
Mentre se ne stava lì per terra iniziò a cercare di dare un senso a quello che aveva appena vissuto, o credeva di aver appena vissuto, e tutto ciò a cui riuscì a pensare fu una vecchia storia che aveva udito qualche tempo prima nella piazzetta di un paesino di montagna lì vicino.
Un vecchio dal naso bitorzoluto infatti, seduto sulla panca a ridosso della parete della sua casa, stava intrattenendo una discreta folla di bambini attenti che, chi seduto per terra, chi sdraiato, rimanevano assorti ad ascoltare i racconti di paura di Vecchio Nonno Gleb. Maggio era rimasta incuriosita da quella piccola folla, per cui si era avvicinata e seduta tra i bambini.
-Conoscete bambini ciò che si dice del Bosco qui vicino vero? - domandò Nonno Gleb ed un mormorio di assenso salì dalle piccole bocche radunate -Bene bambini, i più grandicelli di voi penseranno che si tratti di frottole, storie di paura per tenere lontani i più piccoli, ma io vi dico che è tutto vero e che l’ho visto con i miei occhi- strabuzzò dei grossi occhioni chiarissimi, cerulei, prima impossibili da vedere, coperti com’erano da quella ragnatela di rughe che li sovrastava  -Sapete, quando avevo la vostra età, ero molto curioso troppo curioso forse, e, nonostante sapessi che nel Bosco qui vicino nessuno deve mai addentrarsi, ho pensato che fosse sciocco non andare a vedere di persona che cosa vi si nascondesse e poi, se avessi incontrato qualche grosso lupo, l’avrei sicuramente ucciso a mani nude, pensavo, l’avrei ucciso sì, sì, e poi tutti in paese avrebbero detto che ero il giovane coraggioso più coraggioso del regno- qualche bambino più grande dava una gomitata ammiccante all’amichetto di fianco, forse, pensò Maggio, anche loro avevano pensato di compiere la stessa eroica impresa -Bene, allora un giorno mi ero addentrato per il Bosco qui vicino e non riuscivo a capire che cosa ci fosse poi di tanto pauroso da temere, fino a che non mi infilai nelle sue profondità. Lì la luce non arrivava e sembrava che tutto tacesse, come se fosse lo stesso Bosco a braccare me e non io ad esplorare lui. Fatto sta che la notte doveva essere calata, ma lì era così buio che a stento riuscivo a vedere ad un palmo dal mio naso- al che una ragazzetta ridacchiò pensando al grosso naso bitorzoluto del vecchio, che non sembrò però darci troppo peso e proseguì nel racconto -Sì sì, mi ero proprio perso e temevo per la mia vita, sapete, non si è più poi tanto coraggiosi quando la luce non la si vede e si inizia ad avere freddo e fame, in più sentivo qualche lupo ululare e non ero più sicuro che sarei stato in grado di sconfiggerlo se mi si fosse parato davanti. In ogni caso, ormai perduto, mi sono seduto per terra pensando a casa mia, alla mia camera ed al mio letto caldo, quando eccoli, lì nel buio due grandi occhi azzurri brillare nella notte- un fremito scosse la folla di bambini -Sì bambini, quello era il re della morte, il signore della fine, un fantasma fatto di ragnatele ed ossa delle creature che si era divorato ed ora voleva mangiare proprio me! Ma sapete cosa piace ai mostri ancora di più che mangiare poveri ragazzini sperduti?- una decina di testoline scosse il capo in segno di diniego -Oh, ma è presto fatto, ai mostri piacciono gli indovinelli, quelli strani ed arzigogolati, che ti fanno perdere il filo del discorso quando li racconti, vedete, per loro la carne diventa più succulenta, se prima si è fatto anche un poco andare il cervello-
-E cosa ti chiese Nonno Gleb?- domandò un bambino grassottello -Vedi, Ismael, i mostri del ghiaccio hanno una mente un po’ strana, stanno sempre al freddo ed al buio, per cui i loro indovinelli non sono sempre chiari, ma anzi oscuri e misteriosi come il ghiaccio della loro anima. Il Dio della morte mi disse Da morte ho vita: e son di vita priva. Tosto ch'io nasco: e morte ho pria che vita, né sia che d'altro padre io nasca o viva! Ragazzi miei che paura che ho avuto, sapevo bene che mi avrebbe divorato comunque, ma speravo di poter guadagnar tempo per poter pensare a dove fuggire, così iniziai a ragionare su cosa potesse essere quella stranezza che mi aveva chiesto, ma proprio non mi veniva in mente un bel nulla! La Legna, provai a rispondere, Gli alberi vengono abbattuti per far legna e lei nasce allora dalla morte, ma è della vita privata, ma la testa spaventosa fece cenno di no e con le sue lunghe dita artigliate mi fece capire che avevo ancora una sola possibilità. Mentre mi guardavo attorno ormai terrorizzato mi resi conto del muschio, sapete ragazzi, il muschio cresce sugli alberi in direzione del nord, e seguendolo avrei avuto modo di far ritorno a casa! Eppure, rimaneva sempre il problema dell’indovinello, avrei dovuto almeno risolverlo prima altrimenti non avrei avuto neanche il tempo di fare un passo. Ora, io non sono un vecchio edotto, non ho studiato sui grandi libri ed ogni volta che qualcuno provava ad insegnarmi qualche cosa io scappavo sempre via annoiato, ma in quel momento un ricordo mi salì improvviso alla memoria. Quando ero più piccolo un mercante, che veniva da lontano, ci aveva fatto vedere a noi ragazzi del paese uno strano uccello rosso fiammeggiante e giurava che dalle fiamme fosse proprio nato nel momento in cui bruciando era morto, Araba Fenice l’aveva chiamato. Ora, il mercante non ci aveva dato la prova certa incendiando quel bell’animale davanti ai nostri occhi, ma, anche se scettico, mi era proprio sembrato che quella fosse la risposta giusta. Araba Fenice! urlai in faccia al mostro, il cui ghigno si spense deluso, e mentre la delusione e la rabbia ne avevano bloccato per il momento il corpo io mi misi a correre come un pazzo, sempre più veloce, verso nord- un bambinetto un poco strafottente si alzò in piedi e domandò -Tu ci vorresti dire che sei sfuggito al Dio della morte, grazie a del muschio? –
-Certo!- ribatté senza esitazione Vecchio Nonno Gleb -Ma poco prima che gli sfuggissi, il Dio della morte mi ha toccato il volto con le sue unghie avvelenate, è per questo che ora ho questo orribile naso che mi ritrovo- ma in quel momento passò per la piazza una donna anziana con un cesto pieno di mele sulla testa e, avendo ascoltato le ultime parole dell’uomo, lo canzonò dicendo -Ma cosa racconti a questi bambini! Da che sono a questo mondo, mi ricordo il tuo naso bitorzoluto da sempre! Altro che Dio della morte! –
-Sta zitta Olga! - le gridò dietro il vecchio e così tutto il piccolo uditorio scoppiò a ridere, Maggio compresa.
Ora invece, in quella sala buia e silenziosa, a Maggio non veniva più così tanto da ridere e ripensava ossessivamente alle parole di Vecchio Nonno Gleb: un fantasma fatto di ragnatele ed ossa delle creature che si era divorato e rabbrividì ancora di più stringendosi le ginocchia al petto.
Che sciocca che sei! Così ingorda di racconti che hai finito per crederci anche tu. Sicuramente tutto ciò che hai visto, hai solo creduto di vederlo e questo Dio della morte sicuramente non esiste. Smettila di comportarti come una bambina spaventata.
Si rimise in piedi sistemando la gonna del vestito tutta stropicciata e, dopo aver fatto un lungo respiro, decise di avvicinarsi allo squarcio sulla porta: fuori non si vedeva nulla tanto era buio il cielo di quella notte, forse le nuvole coprivano le stelle, fatto sta che non riusciva a vedere bene nemmeno le sagome degli alberi, ma di sicuro non c’erano quelle terribili figure magre e lunghe, che poco prima aveva pensato la stessero inseguendo e addirittura avessero graffiato con le unghie la porta e le pareti per poter entrare. Visto? Sei proprio una stupida pensò, eppure non poté far a meno di intravedere strane pozze d’acqua sull’erba e sul porticato, visibili solo dall’incresparsi della superficie per la leggera brezza primaverile.
Ormai era notte, e notte inoltrata per di più, non avrebbe potuto fare chissà cosa, sicuramente non avrebbe potuto ritrovare la strada per uscirsene dal bosco, dato che anche durante il giorno non era passato un solo raggio di sole attraverso quelle fitte chiome, per cui decise che sarebbe rimasta in quella casa ad aspettare l’alba. Ovviamente la cosa saggia da farsi sarebbe stata rimanere ferma e non allontanarsi troppo, quel posto, benché senza alcuna ombra di dubbio vuoto ed abbandonato, doveva comunque essere pericolante ed instabile, se si fosse messa a girovagare senza nemmeno poter vedere dove mettere i piedi sicuramente sarebbe piombata in qualche buco sul pavimento o le si sarebbero sgretolate le travi di legno sotto i piedi incerti.
Ma eccola, nuovamente nella sua testa, quella vocina che qualche ora prima l’aveva messa in pericolo e l’aveva fatta morire di paura, ripresentarsi al suo orecchio e suggerirle di esplorare quella dimora abbandonata: alla fine aveva solo immaginato tutto, non c’erano certo fantasmi nascosti sotto i tavoli o dietro le tende pronti ad aspettarla, ma solo oggetti impolverati ed abbandonati a loro stessi, forse qualche strano cimelio che avrebbe potuto collezionare e portare con sé nel suo giardino.
E poi che male avrebbe fatto se si fosse messa un poco ad esplorare, alcuno ovviamente, la casa non era abitata da anima viva e quindi chi si sarebbe lamentato per un pomello staccato o una gamba rotta di qualche sedia? Nessuno certo, non doveva temere nulla, si sarebbe aggirata indisturbata per la casa, avrebbe fatto attenzione a non rompere alcunché, e, se avesse trovato qualche cosa di interessante, se la sarebbe portata via con sé senza far certo del torto a qualcuno.
Quella voglia di scoprire fu troppo forte e vinse, senza nemmeno eccessive moine, l’altra voce che le suggeriva di rimanersene dov’era, lì ferma immobile ad aspettare l’aurora, cosa comunque molto noiosa da farsi, considerò tra sé e sé.
Che male vuoi che sia? pensò, e voltatasi le parve di scorgere una grande scalinata che portava ad uno o forse più piani superiori. Salì. 

Man mano che gli occhi si abituavano al buio e che le lacrime si asciugavano riusciva a scorgere sempre più particolari interessanti attorno a lei: qualche quadro di famiglia impolverato e dai colori impercettibili al buio, tavoli ancora coperti con tovaglie, forse bianche, ma mangiucchiate dalle tarme qua e là, sui comodini e sui mobili c’erano ampolle di vetro, tutte vuote, e qualche cofanetto di legno intarsiato. Molti di questi particolari ovviamente riusciva a scoprirli solo toccando con le dita le superfici e così si accorgeva della loro morbidezza, durezza o freschezza, ma soprattutto di quanto tutto lì fosse terribilmente impolverato.
Entrò in una nuova stanza, forse una vecchia camera da letto ma che era appartenuta a qualche bambino, anzi no, una bambina, poiché riconobbe una casa per le bambole e qualche pupazzo rotto sparso in giro. Doveva essere stata una camera grande e spaziosa, dove poter giocare e divertirsi, ma un crollo del piano superiore aveva a sua volta creato una voragine nel pavimento proprio al centro della stanza, riducendo irrimediabilmente lo spazio: solo una trave del soffitto, fermatasi tra una sponda e l’altra del buco, permetteva di attraversarlo.
Maggio si avvicinò ad una cassettiera a fianco del letto, che per un poco penzolava giù nel vuoto di macerie, e tentò di aprire una scatola posta su di essa. Benché fosse chiusa da una serratura non dovette fare più di tanto forza, dato che il legno, marcio, cedette subito sotto il tocco della ragazza ed ecco aprirsi sullo scenario nero del cofanetto dispiegato una ballerina aggraziata che girava su se stessa accompagnata dalla melodia metallica, proveniente dall’interno della scatola.
Alle volte la musica andava e veniva, si interrompeva e poi accelerava bruscamente come se, colta da improvvisi attacchi di sonno, si svegliasse di colpo e si ricordasse di dover andare a tempo con la propria danzatrice, che invece continuava la sua pirouette, infaticabile ed elegante.
Che tristezza, pensò, essere quella ballerina, costretta a girare su sé stessa tutto il tempo che il cofanetto fosse rimasto aperto, al servizio di chi ci sta a guardare, senza fermarsi mai o mai appoggiare quella gamba piegata sotto il tulle. Un po’ come per lei, per i suoi fratelli, per la vita di tutti loro, erano ballerine che danzavano per tutto l’arco del loro mese, bellissimi a vedersi, per il divertimento e la sorpresa di chi li stava a guardare, ma poi, quando il coperchio si riabbassava, quando il trentunesimo giorno scadeva, proprio come la ballerina, tutti loro ricadevano nell’oblio del dimenticatoio, aspettando al buio di giardini splendenti che qualcuno riaprisse di nuovo il carillon e si sedesse ad osservarli ballare, fingendo che tutto ciò fosse molto bello, molto giusto e molto necessario.
-Quanto non vorrei essere una ballerina- sospirò la sconsolata Maggio a voce alta, ma uno scricchiolio dietro la sua testa la fece voltare di scatto, all’improvviso spaventata come quando era entrata in quella vecchia casa.
Dietro di lei, all’ingresso della camera stava un giovane dall’aria nota e dall’aspetto bizzarro: i capelli erano bianchissimi e le loro punte si ghiacciavano ed anche il colore della pelle era talmente chiaro da sembrare trasparente, ma ciò che colpì davvero Maggio furono gli occhi indagatori e timorosi che la guardavano.
In quegli occhi scorse la tristezza di Aprile, quella di Marzo e soprattutto la propria, scorse la prigione di un giardino bellissimo in cui dover far ritorno ogni volta volontariamente o meno. -Chi sei tu? - le domandò una voce roca e fredda, ma quello che le stavano dicendo quegli occhi di ghiaccio era in realtà Va via! Sono arrivati, mi hanno scoperto!
Le sembrava di aver perso la voce, si trovava di fronte ad un fatto che non era mai accaduto prima e che non doveva categoricamente accadere, tutti loro infatti odiavano far ritorno nei loro cancelli, tutti loro odiavano non poter vivere liberamente, eppure vivevano quella vita, così come era stata loro fatalmente imposta, senza fare domande, così come doveva essere.

 -Tu non dovresti essere qui- continuò il ragazzo avanzando lentamente, e per ogni passo che lui faceva, lei ne portava uno indietro dirigendosi inconsapevolmente sempre più in là sulla trave traballante.
-Tu non dovresti essere qui. Ho fatto in modo che nessuno potesse trovarmi qui, devi andartene via-
-Io so chi sei tu - Maggio sembrò aver improvvisamente ritrovato la voce -Io non conosco il tuo nome, ma conosco il nome di tuo padre. Tu sei uno dei figli di Inverno, non è vero? – il ragazzo fu preso da un tremito di paura e dai suoi piedi il legno iniziò a ghiacciarsi paurosamente ed avanzare verso di lei, mangiandosi trave dopo trave, come se fosse stato un animale braccato pronto a difendersi, mentre la ragazza retrocedeva sempre più.
-Allora anche io so chi sei, ma non conosco il tuo nome. Sei una figlia di Primavera, ma questo non importa, sei come tutti loro, come i nostri genitori, schiava del tuo giardino e non hai il coraggio di fare quello che invece io ho fatto, sì che io ho fatto e voi altri no- il ghiaccio avanzava pericolosamente e Maggio ebbe un’illuminazione su chi fosse il suo terrorizzato interlocutore.
I nomi hanno sempre avuto un potere particolare, racchiudono l’essenza delle cose, la loro scintilla vitale, sono un bene prezioso da custodirsi con premura e conoscere il nome di qualcosa crea un legame indissolubile con questa -Io conosco il tuo nome- disse la ragazza calma e le mani di lui presero a tremare: -Dicembre-, ma non appena lo ebbe pronunciato il ghiaccio impazzito divorò l’ultimo centimetro di trave, che, resa ancora più fragile, non resse il peso di Maggio e si frantumò in mille pezzi. Cadde nel vuoto.

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Capitolo 4
*** Usar gentilezza ***


Intorno a lei c’era molto buio ed uno spazio stretto, non riusciva a muoversi e sentiva il proprio corpo freddo, le pareva quasi di esser fatta di porcellana, tanto lo sentiva gelido e contratto. Non riusciva a muovere le braccia, bloccate in una strana posizione, come se disegnassero un cerchio sopra alla sua testa, ed anche le gambe erano immobilizzate, con una postura scomoda e rigida. In quel momento le avrebbe volentieri sgranchite un poco, ma, più si sforzava, più si rendeva conto di non aver controllo sul suo corpo.
Improvvisamente uno scricchiolio ed il buio che le sovrastava la testa si dischiuse, come un cofanetto scoperchiato, obbligandola in un gesto rigido, quasi meccanico, ad alzarsi stando in equilibrio su di un solo piccolo piede, fasciato in una scarpetta.
Nelle orecchie poteva sentire la musica suonare placida, mentre lei girava su sé stessa senza sosta e senza volerlo.
Anche il viso non era più in suo possesso: la bocca era costretta in un sorriso appena accennato, elegante e sobrio, che non le apparteneva ed il mento era leggermente alzato in su con raffinatezza, solo gli occhi sembravano ancora essere suoi e li girava freneticamente cercando di capire dove si trovasse e cosa stesse succedendo.
Tra una piroetta e l’altra era riuscita a scorgere solo molta luce bianca, che la accecava forse anche di più di quanto non avesse fatto il buio ottenebrante della sua scatola, ma, nonostante questo, riusciva ancora a scorgere altre undici sagome che le ricordavano sé stessa.
Undici carillon aperti su cui ballerine e ballerini vorticavano costretti a sorridere, ma i cui occhi rivelavano la stessa malinconia e lo stesso sconforto che sentiva nel suo cuore. E lì, in mezzo a quel cerchio di finzione, stava una figura alta ed imponente.
Non riusciva a capire se fosse uomo o donna, se fosse vecchia o giovane, era solo una grande figura che se ne stava lì in piedi ad osservare il tutto, eppure, anche se non riusciva a scorgerne il volto, Maggio percepì il suo sogghigno, come se provasse piacere nel guardarli vorticare così, come se adorasse essere adorata, anche se, tutte quelle belle statuine che, ballando, la guardavano sorridenti, erano obbligate a farlo. Poco importava, l’essenziale era solo che fossero lì.
Ma ecco nel punto del cerchio perfettamente opposto al suo, una figura imprigionata nel carillon spezzare il legno del suo giogo e balzare in avanti frantumandosi in mille pezzi e provocando l’ira della grande Sagoma: aveva perduto un suo gioco e questo l’ aveva resa terribilmente arrabbiata, talmente fuori controllo che con un solo gesto della mano non aveva solo chiuso all’improvviso tutti i coperchi dei dodici cofanetti, ma li aveva distrutti, sbriciolati sotto la sua furia. E fu di nuovo buio.
Riaprì ancora una volta gli occhi e nuovamente intorno a sé non poté vedere altro che buio pesto, ma questa volta le mani potevano muoversi ed anche le gambe, oltretutto un forte mal di testa le stava confermando che, ciò che aveva visto prima, fosse stato solo un sogno allucinato.
-Solo un sogno- bisbigliò, quasi per assicurarsi che la sua voce ci fosse ancora e che il suo corpo fosse davvero suo, e nel farlo si portò la mano alla testa, là dove le doleva: scoprì di aver però entrambi i polsi legati, così come anche le caviglie e sentì una strana sostanza calda scorrerle viscosa sulla tempia sinistra. Sangue pensò spaventata.
Cominciò a respirare affannosamente cercando di capire in che luogo della casa si trovasse. Non era più nella camera della bambina ovviamente, ma nemmeno nella stanza dove era precipitata o avrebbe potuto notare il buco sul soffitto, era un posto buio e più angusto ed una lunga scalinata stretta sembrava essere l’unica via d’uscita a quello che doveva essere un sottoscala, uno scantinato o una cantina.
-Smettila di muoverti così o allenterai le bende-…Bende, sì effettivamente sentiva qualcosa che le stringeva la testa, ma che, con le mani impedite, non aveva potuto toccare.
Sulle scale, appollaiato a dire il vero sul loro corrimano c’era quel ragazzo bizzarro di prima: la pelle talmente tanto diafana e fredda che emanava un bagliore azzurro, l’unica fonte di luce a cui appigliarsi -Dove mi trovo? Cosa mi è successo? - gridò Maggio spaventata -Sei caduta ed hai battuto la testa, non ti devi preoccupare e solo una botta con qualche graffio, niente di grave, te l’ho fasciata solo per precauzione con qualche lenzuolo stracciato-
-Tu non dovresti essere qui- la paura della ragazza adesso iniziava a salire così come riemergevano alla memoria tutti i ricordi del giorno precedente -Tu non dovresti essere qui. Dovresti essere nel tuo giardino, non qui. Tutto questo non ha senso- addolcito dall’evidente stato di panico di lei, Dicembre balzò giù dal corrimano con un rapido gesto e le si avvicinò, ma, ancora troppo spaventata e diffidente, Maggio cercò di strisciare il più lontano possibile da lui, ricordando cosa fosse successo al pavimento sotto i suoi piedi e non volendo precipitare chissà dove una seconda volta -Non ti devi preoccupare, ieri mi hai colto alla sprovvista e ho agito di impulso, senza controllarmi, non riaccadrà te lo prometto- lei lo guardò rimanendosene zitta -Beh, non hai intenzione di dirmi quale dei figli di Primavera tu sia?-
-Maggio- bisbigliò lei senza smettere di guardare la figura del suo aguzzino, con particolare interesse per il legno al di sotto dei suoi piedi -E sentiamo, Maggio, come avresti fatto a trovarmi? Ti ha mandata tua madre? Ha parlato con mio padre? – il suo tono aveva iniziato ad irrigidirsi e di fatti piccoli cristalli ghiacciati iniziavano a zampettare qua e là a fianco dei suoi talloni -No, nessuno mi ha mandata. Io… mi sono persa, credevo di aver visto, beh, qualcosa nel bosco. Mi sono persa e basta. Ho solo cercato rifugio- alla parola rifugio il ghiaccio tornò ubbidiente dal suo padrone, come se si fosse impietosito da quella ricerca di salvezza, mossa dalla paura, ma subito riacquistò quel suo tono spavaldo -Non credi di aver visto qualcosa nel bosco, tu hai visto qualcosa nel bosco-
-Ma non è possibile-
-Oh, sì che è possibile, ho fatto in modo che nessun essere umano si avvicinasse a questo luogo, ho creato io quegli spettri che hai visto, dovevano però solo spaventarti, te come per tutti gli altri del resto, non avevo certo previsto che una ragazzetta nello scappare arrivasse proprio qui, in casa mia- la ragazza notò un certo fastidio nell’espressione di lui -Questa non è casa tua, Dicembre. Tu non appartieni a questo posto, non gli appartieni come non gli appartengo io-
-Tu menti, Maggio, menti come mentono i tuoi fratelli e tutti gli altri. Noi apparteniamo a luogo che decidiamo di abitare ed io non ho mai deciso di abitare in un giardino freddo e desolato, non ho mai deciso di poter essere libero una sola volta l’anno o chiesto io di essere il primogenito di Inverno- l’aria spavalda e forte che aveva indossato come maschera qualche attimo prima, lasciò il posto un ragazzo fragile che aveva solo provato a fare quello che tutti loro non avevano mai nemmeno pensato fosse possibile sognare.
 -Come hai fatto? - questa era la domanda che le ronzava in testa dall’inizio di quella strana conversazione, come era possibile che uno di loro fosse sfuggito ai meccanismi che regolano l’universo -L’ho fatto e basta. Tu non eri forse stanca di stare lì dietro quei cancelli? Lo so che è così, perché tutti noi alla fine soffriamo per ciò che siamo, lo so bene, ho solo deciso che non poteva più essere così, ho solo deciso che me ne sarei andato-
-Ma come hai fatto? Come hai aperto il cancello se il tempo non era ancora arrivato? Come hai fatto a venire qui senza una porta? –  lui si allontanò in fretta, forse pentito di aver già parlato così tanto -Troppo, troppo- continuava a ripetere -Le ho detto troppo-
-Cosa ne vuoi fare di me? – lo rimbeccò lei avendo colto quello stesso momento di fragilità che aveva notato il giorno precedente -Cosa pensi di fare, eh? Di tenermi qui per sempre? –
-Forse! - le urlò dietro lui -Fino a che sarà necessario, non posso permettere che per colpa tua tutto quello che ho fatto venga mandato in fumo. Non lo voglio permettere-. Quella frase le fece ancora più paura del buio, dei fantasmi e della caduta, perché in quella frase, in quel voglio così marcato aveva percepito lo stesso pensiero agghiacciante che le si era palesato nella mente poco prima di addentrarsi nel bosco: forse se mi succedesse qualcosa, sarei finalmente libera.
Rimase sconvolta dal rendersi conto di quanto la paura potesse far perdere la lucidità, di quanto il vivere in cattività come se fossero loro tutti semplici cani ammaestrati potesse condurre a bramare la libertà con una forza cieca e portasse anche, una volta che quella libertà la si era in un qualche modo ottenuta, a viverla nel timore di perderla di nuovo, nel terrore di essere scoperti, nell’ansia e nella fatica di essere costantemente braccati e messi all’angolo, in dovere di difendersi senza riuscire più a distinguere tra chi ci è nemico e chi no. In quel momento temette davvero per la sua vita.
-Credi forse di essere libero qui? – sapeva che stava rischiando molto, che una mente impaurita è più imprevedibile di una lucida -Come puoi chiamare libertà questo luogo buio e sporco-
-Sta zitta! – le urlò di contro lui ed il ghiaccio riprese a zampillare da sotto i suoi piedi, sembravano quasi piccole scariche di elettricità, come se fossero fulmini bianchi che esplodevano in scintille.
Nuovamente si rese conto che la lucidità mentale di Dicembre stava venendo meno, che la paura stava di nuovo montando in lui, ma pensò che quello fosse il momento più utile per metterlo alle strette, per prendere tempo: -Come puoi chiamare questa libertà? Come puoi chiamare la solitudine libertà? -
-Zitta, zitta! - intanto continuava lui, ma Maggio non demorse -Sei fuggito da un giardino per chiuderti in un altro. Sei scappato dal freddo e dalla solitudine, ma qui non vedo altro che questo. Tutto questo non è essere liberi Dicembre, tutto questo è essere soli ed essere ancora più soli di quanto non fossi nel tuo giardino. Scappare non è la strada giusta da percorrere, stai solo vivendo nella paura! –
-No! - urlò lui e una parete della piccola stanzetta si gelò. Maggio la guardò strabiliata mentre il ragazzo, sordo di fronte alla verità, corse su per le scale sbattendosi la porta alle spalle.
Forse aveva sbagliato a parlargli così, forse avrebbe dovuto essere più accondiscendente, fingere di condividere quello che Dicembre le aveva detto. Fingere. Pensò che in fin dei conti non si sarebbe nemmeno dovuta sforzare più di tanto, perché quella libertà la bramava anche lei, anche lei sognava di poter uscire dai cancelli senza costrizioni, senza scadere del tempo, godendosi questa meravigliosa immortalità che fino a quel momento aveva passato ad ubbidire a qualcuno che non aveva mai nemmeno visto. Fingere. 
No, non avrebbe finto, avrebbe semplicemente detto la verità.
Si raggomitolò in un angolo della stanza sperando di raccogliere un poco di calore e tentò di riposare, mentre la testa le pulsava terribilmente.
Si assopì.


Il sonno che dormì quella seconda volta non fu tormentato da incubi come il primo, ma non per questo meno faticoso e teso, si svegliava di soprassalto ripiombando nel buio della sua cella, per poi riaddormentarsi inconsapevolmente. Alle volte sentiva accanto a lei Dicembre che le cambiava le bende, che le dava da bere dell’acqua o che semplicemente la guardava e si domandava, tra uno stato di incoscienza e l’altro, perché stesse facendo tutto questo, perché, se lei per lui rappresentava un pericolo, non l’avesse uccisa subito o semplicemente abbandonata lì a marcire.
Il giorno dopo, o almeno così pensò Maggio, Dicembre tornò da lei con l’intenzione di parlare.
-Scusami se ho urlato e mi sono comportato così- lei non capiva dove volesse andare a parare, ma era una buona occasione per dialogare senza alzare la voce e mantenendo la calma e la lucidità -Non volevo farti male, te lo giuro. Le bende oramai le si può anche togliere, dopo una settimana non dovrebbero servire più-. Una settimana! pensò, Era davvero passato così tanto tempo, a lei sembrava solo un giorno. E perché in una settimana lui non l’aveva uccisa, anzi curata e nutrita? -Io non sono cattivo sai? So che gli uomini non amano il momento in cui io vengo sulla terra, ma io non sono cattivo, anzi li amo con tutto me stesso, adoro portar loro la neve, adoro vedere i bambini giocare e le famiglie riunirsi al caldo davanti ai camini- Maggio provò pietà per lui, riscoprendo in quelle parole lo stesso amore che lei stessa provava per la terra ed i suoi abitanti -Una volta- rise nel raccontare – ho decorato un intero boschetto di cristalli di ghiaccio, bellissimi, e tutti guardandoli erano rimasti incantati, me compreso. Io non sono cattivo, veramente, ma non potevo più sopportare la cattività in cui siamo rinchiusi-
-Come hai fatto a venire qui? – questa volta la domanda era stata posta con gentilezza e pietà – L’ho semplicemente desiderato con tutto me stesso. Sai, da che ho memoria, ho sempre saputo quando dovevo recarmi qui, quando dovevo risalire, come fare ad arrivare da mio padre, come passare attraverso lo specchio, ma, da che ho memoria ho sempre odiato tutto questo, ho sempre bramato di vivere libero, di muovermi quando e se volessi, di scegliere io- le si sedette al fianco, ma lei questa volta non indietreggiò, se non l’aveva uccisa in quella settimana che le era parsa un giorno, non l’avrebbe di certo fatto ora -Vedi, quest’anno, dopo aver terminato il mio compito mi sono recato come sempre da mia sorella Gennaio, un po’ me la ricordi sai, è piccola proprio come te. L’ho salutata come ogni anno, abbiamo passeggiato e ci siamo abbracciati prima che me ne andassi di nuovo nel mio giardino ed è stato lì che ho deciso che in quel vecchio e freddo cancello io non ci sarei tornato. Ho deciso che avrei preso in mano la mia vita, che avrei fatto quello che volevo, che sarei stato libero-
-Ma senza porta, come sei arrivato fin qui? –
-Oh, non è stato complicato. Tu certo saprai, come sapevo io e sanno tutti gli altri, che serve una porta per passare, è logico, per andare in un luogo devi passare dalla sua porta, ma non abbiamo mai pensato che le porte possano essere costruite. Quello che si riflette nella superficie dello specchio quando ci immergiamo in lui è la nostra immagine sui campi della terra, ma qual è la differenza tra un riflesso ed il ricordo del riflesso stesso? Tanto più che chiudendo gli occhi ero capace di immaginare ogni angolo di questa bella terra, ogni sua montagna e fiume ed io con essi- Maggio ascoltava rapita, ripensando al suo taccuino, ai suoi disegni ed alle annotazioni preziose, ripensò ai tre bambini che giocavano, alle lacrime di Agapio, al sorriso di Helena, anche lei infondo se avesse chiuso gli occhi avrebbe potuto dipingere perfettamente ogni spazio di quella bella terra, ogni suo albero, campo, fiore, ogni suo abitante felice-Così quando sono uscito dal cancello di Gennaio non ho fatto ritorno al mio giardino, ma sono venuto sulla terra deciso a non abbandonarla, mai-
-E i fantasmi? –
-Quando mi sono ritrovato qui, nel mondo intendo, sapevo che avrei avuto bisogno di un rifugio sicuro, sapevo che gli altri, una volta che fossero scesi avrebbero potuto percepire che qualcosa non andasse, avrebbero colto negli sguardi degli uomini che il freddo non aveva mai abbandonato la natura e così mi sono nascosto-
Aveva sentito infatti che gli abitanti della zona credevano che in quel bosco vivesse il Dio della morte e lui gli aveva solo dato vita, creando spettri ghiacciati che spaventassero i curiosi e li tenessero alla larga -Ma era tutto finto, nel momento in cui volti le spalle tornano ad essere semplice neve e si sciolgono al suolo- e Maggio ricordò quelle pozze d’acqua sull’ingresso della casa -E questo posto? Che posto è? –
-Non lo so, una casa abbandonata da molto tempo. Deve essere appartenuta a qualche signore del luogo, un tempo, ho sentito il bosco era la sua tenuta, curata e rigogliosa, ma poi la famiglia è decaduta, il giardino abbandonato all’incolto e la casa lasciata a sé stessa. Sai, gli abitanti dei villaggi qui attorno credono che sia proprio stato il Dio della morte a divorare i signori di questa dimora, invidioso delle loro ricchezze e del loro fasto- sorrise di fronte all’ingenuità degli uomini, proprio come ne aveva sorriso Maggio ogni volta che ne ascoltava le storie.
-Mi lascerai andare? - gli chiese timorosa -Non so ancora, ma per il momento ti libererò dalle corde- e come lo ebbe detto quelle si ghiacciarono e frantumarono in sabbia freddissima, talmente fredda che bruciò un poco la pelle delicata della ragazza a cui scappò un gemito -Scusami, non conosco la gentilezza. Nessuno l’ha mai usata con me- e così lei si rese conto di quanto fosse fortunata ad avere una madre assente come la Dama Primavera, contro invece il padre di Dicembre, che, come un perfetto re dell’Inverno, non solo non mostrava affetto ai figli, ma forse nemmeno cortesia e gentilezza.
Allo stesso tempo, pensò alle cure premurose, all’acqua quando aveva avuto sete, alle bende strette sul capo, e comprese che lui non doveva proprio essere cattivo, ma solo spaventato. In fondo era stato in grado, a suo modo, di usar gentilezza per lei.
-Grazie- sussurrò, ma lui era già salito su per le scale e si era chiuso la porta alle spalle.
 

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Capitolo 5
*** La bella Principessa ***


Dicembre scendeva ogni giorno da lei, le portava dell’acqua, qualcosa da mangiare e si sedeva lì sul corrimano ad aspettare che finisse per poi scomparire via, ma ogni volta il tempo che passava sulle scale era un po’ più lungo, le parole che si scambiavano un po’ più interessate, sapendo che, benché ci fosse un prigioniero ed un carceriere, entrambi erano servi e desideravano la medesima cosa. -Parlami del tuo tempo? – le aveva chiesto un giorno mentre lei sbocconcellava un pezzetto di pane -Perché ti interessa? - gli aveva risposto dubbiosa -Perché voglio conoscere chi ho davanti. Conosco il tuo nome, ma non so chi tu sia-. Così Maggio si mise a raccontare di tutto ciò che amava fare quando scendeva in quella bella terra, di come la divertissero moltissimo le storie ed i racconti degli uomini, di come ammirasse quella loro cieca devozione per qualcosa di più grande, indipendentemente da cosa o chi fosse, quel loro affidarsi come bambini l’aveva stupefatta, lei che ogni volta si chiedeva il perché del suo ruolo e dei suoi obblighi. -Raccontami una storia- le chiese allora lui -Anche a me piacciono i racconti degli uomini, ma quando tocca a me, scendere intendo, loro hanno sempre freddo e se ne stanno chiusi in casa. Mi è difficile sedermi tra loro come fai tu- c’era una punta di gelosia in quelle parole, come se Dicembre invidiasse la vitalità che Maggio portava con sé e l’attesa da parte degli uomini che ogni volta l’accompagnava. Con lui spesso non era così: gli uomini si preparavano al freddo incombente, mettevano da parte il grano e chiudevano gli animali nelle stalle, al caldo; certamente ai bambini piaceva la neve, piaceva pattinare sulle superfici ghiacciate dei laghi, ma quando poi arrivavano le bufere, le persone avevano paura e sbarravano le porte.
Purtroppo, quello era il compito di Dicembre e lui non l’aveva scelto. Cercava in tutti i modi di rendere quelle bufere il più brevi possibili, ma la terra aveva bisogno anche di loro, anche del freddo e del ghiaccio, ma questo gli uomini non lo capivano spesso, e Dicembre se ne dispiaceva molto, per cui ogni volta che poteva, faceva ghiacciare le finestre così che i bambini potessero disegnarci con le dita quello che si nascondeva nelle loro testoline curiose e cercava di far sì che si trovasse sempre della legna e che sotto lo strato di neve qualche frutto rosso si fosse salvato, nella speranza che gli uomini se ne accorgessero, anche se raramente se ne accorgevano.
-Raccontami una storia, per favore-.
Maggio cercò di ricordare nella mente una favola che le fosse piaciuta molto, qualcosa che aveva ascoltato in passato e subito le salì alla memoria l’immagine di una donna, che lavorava in un campo, mentre teneva un frugoletto morbido dentro a delle fasce, fisse sulla sua schiena. Quella madre laboriosa faticava nel lavorare, la pelle scura si imperlava di sudore, ma, mentre raccoglieva i frutti della terra, non smetteva di raccontare una favola al suo bambino che intanto sonnecchiava placido a contatto con la sua schiena sicura.
 
     Molto tempo fa c’era un re che aveva una figlia bellissima, così bella che tutti i principi del reame volevano averla in sposa ed ogni giorno si presentavano al loro cospetto con doni preziosi. Prendi, oh mio re dicevano Prendi queste stoffe pregiate, perché tua figlia possa indossarle Prendi, oh mio re, questi gioielli, perché tua figlia possa indossarli Prendi, oh mio re, questi frutti, perché tua figlia possa mangiarli ed il re gioiva per tutti quei giovani innamorati della bella principessa, ma proprio non riusciva a decidersi su chi di loro sarebbe stato il suo amato sposo. Indeciso, chiese allora alla bella figlia, quale preferisse, ma lei aveva in mente ben altro… La principessa non era infatti solo bella, ma molto furba e scaltra, per cui, non fidandosi di quei ricchi pretendenti, chiese al padre di diffondere una triste notizia: la principessa è morta, morsa da un serpente velenoso al petto”.
Il padre non capiva il perché di quella richiesta, ma, amando troppo la sua cara bambina, decise di accontentarla. Le donne piangevano la morte della loro principessina, gli uomini non lavorarono per una settimana in ossequio alla defunta, ma eccoli, tutti quei principi ricchissimi e follemente innamorati che si recavano al cospetto del re, eppure non per piangere la morte dell’amata, non per recare le loro condoglianze più sentite, ma per riavere indietro tutti quei doni che prima avevano portato con loro. Ridacci, oh mio re, quelle stoffe, perché ormai tua figlia non le potrà indossare Ridacci, oh mio re, quei gioielli, perché ormai tua figlia non li potrà indossare Ridacci, oh mio re, quei frutti, perché ormai tua figlia non li potrà mangiare Ecco cosa aveva voluto mettere alla prova la bella principessa: tutti quei bei principi volevano solo la sua bellezza e non erano veramente innamorati di lei, ma per ultimo giunse un giovane mai visto prima. Non era un principe, né un marchese o un conte, non era nobile, sembrava anzi molto povero, ma, piangendo disperato, si recò al cospetto del suo re e disse: Prendi, oh padre, queste sono tutte le mie ricchezze per cui ho lavorato una vita, prendi queste stoffe di lino perché la bella principessa, che ho tanto amato, possa essere ancora più bella anche nella sua tomba al sentire quelle parole la bella principessa comparve da dietro il paravento. Caro giovane, poiché tu hai saputo amarmi onestamente e non hai desiderato solo il mio volto, io a te concederò la mia mano. Dopo poco tempo celebrarono le nozze più belle mai viste prima e tutti quei ricchi pretendenti rimasti soli non si fecero più vedere. -E’ molto bella- disse Dicembre dopo che lei ebbe finito il suo racconto -Grazie-. Maggio provò ad alzarsi in piedi, ma sentiva ancora le gambe deboli -Mi farai uscire ora? –
-Non lo so ancora, non sei un pericolo, ma sto rischiando davvero molto, so che mi capirai- ed in effetti lo capiva e non riusciva a biasimarlo fin troppo -Allora adesso raccontami tu del tuo tempo. Raccontami anche cosa hai fatto nel tempo che non era tuo, in cui sei stato qui-
-Il mio tempo non è come il tuo, come potrai intuire, così come mio padre non è come tua madre, anche se immagino che neanche lei sia come i genitori di qui- Maggio sorrise sconsolata -Il mio tempo è strano, io devo portare il freddo e le bufere, la terra ne ha bisogno, perché i tuoi fiori possano nascere c’è bisogno che la terra riposi e si rigeneri e per questo c’è bisogno di me ed io lo apprezzo. Sono utile e non solo un malanno per questo bel posto, ma gli uomini non lo capiscono sempre, alle volte hanno paura di me. Ci sono dei posti, su al nord, dove mi chiamano Morte, ma io non sono la Morte, è grazie a me se poi ci sarà la vita- Maggio non aveva mai pensato a come davvero fosse fortunata a godere del suo tempo, in cui le persone la aspettavano trepidanti di gioia, in cui tutti attendevano i fiori ed il profumo dei frutti, non aveva mai pensato a cosa dovesse essere invece il tempo del freddo, grazie al quale però lei stessa esisteva e senza del quale non avrebbe avuto senso di esistere.
-Io amo gli uomini e darei di tutto per essere visto e toccato da loro, darei qualunque cosa per poter spiegare, per poterli prendere per mano e far vedere loro che la legna l’ho nascosta perché la trovassero asciutta e non bagnata, per mostrar loro che quei laghi ghiacciati, sui quali pattinano, sono un mio dono, che il freddo non porta solo la Morte, come mi chiamano, ma che sotto al ghiaccio ci sono i pesci che continuano a nuotare perché io, che sono il freddo, li proteggo da me stesso. Vorrei fargli vedere che gli alberi, che sembrano morti, in realtà dormono, e sono io a cullarli e a farli scivolare nel sonno- Maggio gli pose una mano sulla spalla, sorridendogli gentile e lui ne fu turbato. Nessuno lo aveva mai guardato con pietà e non voleva essere guardato con pietà, per cui si ritrasse indietro con forza -Non trattarmi così, perché tu non sei diversa da me. Gli uomini non sanno il tuo nome, attribuiscono il merito della tua fatica a qualcuno che invece non ha mosso dito e ti dimenticano nell’esatto momento in cui te ne vai. Hai solo la fortuna di portare il caldo e non il freddo, sei solo più semplice da capire- detto questo corse nuovamente su per le scale e scomparì oltre alla porta, chiusa a chiave. Maggio non capiva come doveva comportarsi con lui, cosa dovesse dire o cosa dovesse fare, ogni volta che gli si mostrava gentile lui scambiava quella gentilezza complice per pietà e si arrabbiava tornando a chiudersi in sé, se però provava ad alzare la voce e ribattere con forza, otteneva lo stesso risultato. Era terreno insidioso dove non aveva mai messo piede prima e nel quale non sapeva come muoversi. Con Aprile era diverso, non c’erano litigi né screzi, non si urlava né ci si offendeva, erano solo sorrisi, abbracci e racconti da scambiarsi: No, pensò, Non è così. Con Aprile non c’è tempo per litigi e screzi e si decide di tacito accordo solo per gli abbracci ed i sorrisi. Si rese improvvisamente conto che lì in quel sottoscala, al buio ed al freddo, era forse più libera di quanto non fosse mai stata nel suo bel giardino, nei suoi racconti davanti ai falò e tra i suoi amati fiori, perché lì, per la prima volta, stava imparando cosa volesse dire conoscere veramente qualcuno, doverci convivere e capire come condividere il tempo che si ha da trascorrere assieme. Quello era un vero assaggio della vita, fatta dei suoi alti e bassi, dei suoi momenti felici e di quelli tristi, e non invece basata su di un eterno presente dove è tutto uguale a sé stesso, dove ogni anno doveva salutare il fratello e fingere che tra loro ci fosse un sincero affetto, perché lei del fratello, si rese amaramente conto, non conosceva quasi nulla, sapeva solo quello che lui aveva deciso di raccontarle e che lei aveva deciso di ascoltare, senza aver tempo di smentirsi o mettersi alla prova, due soli giorni in un anno d’altro canto come possono essere sufficienti per conoscere una persona? Che importanza avrebbe poi fatto che quella fosse proprio il suo amato fratello? Amato, come poteva dire di amarlo se nemmeno lo conosceva? Nel paradosso del suo ragionamento si rese conto che conosceva più a fondo Dicembre, quel bizzarro sconosciuto, di suo fratello Aprile. Di Dicembre aveva intuito la paura ed il dolore, lui stesso gli aveva raccontato il suo sconforto, ma di Aprile lei che cosa poteva dire di conoscere? Sapeva delle sue ragazzate sulla terra, di quando aveva fatto piovere molto e tutto il mondo si era bagnato e poi? Quali erano le paure di Aprile, che cosa desiderava ardentemente? Dicembre glielo aveva detto, lui voleva essere visto dagli uomini e riamato di rimando, ma Aprile, che cosa voleva veramente? In quel momento odiò con tutta se stessa quell’universo costruito così male, odiò suo fratello perché per lei era uno sconosciuto, odiò Dicembre perché, da sconosciuto, per lei era più chiaro di suo fratello, odiò se stessa perché non era una buona sorella ed dava la colpa della sua ignoranza ad altri. Odiò tante cose in quel momento, ma fu anche grata di poter sperimentare davvero cosa volesse dire conoscere qualcuno e creare un legame genuino, che non si costruisce, si rese conto, sulla base di soli attimi di gioia, soprattutto se superficialmente vissuti e raccontati, ma sulla base del dolore condiviso e delle difficoltà affrontate assieme, e nulla di tutto ciò aveva mai sperimentato con Aprile, né con Marzo, né con sua Madre. Si sentì terribilmente sola e terribilmente viva.

Dicembre scese una seconda volta quella sera, forse turbato da quella strana sconosciuta che si rendeva però disponibile al racconto ed all’ascolto. Si vergognava per i suoi momenti di debolezza, ma si vergognava ancora di più per le cose che, arrabbiato, le diceva, lei che non gli aveva fatto nulla e che era lui a tenere chiusa nel buio. -Perdonami per quello che ti ho detto prima- le disse in piedi sull’ultimo gradino prima del pavimento sporco -Perdonami, non volevo farti soffrire- -Non importa- gli rispose serena, perché per davvero non importava, per davvero stava imparando a vivere -Avevi ragione sai? Io ho solo la fortuna di essere più facile da comprendere per loro, ma se fossi stata te, non avrei mai saputo che cosa fare- provò a portarsi più vicina alle scale e si sedette con qualche sforzo alla base di queste, la schiena appoggiata contro il parapetto marcio -Non mi hai più raccontato come hai fatto a sopravvivere qui. Cosa mangi, cosa fai per tutto il giorno?-
- In realtà- disse lui -Non è che faccia chissà che. Quando sono fuggito mi sono ritrovato nell’ultimo posto che ricordavo della terra. Una landa molto a nord, stepposa, dove gli uomini portano lunghe barbe e strani cappelli e le donne sono rubiconde, mi piaceva quel posto, per cui ho deciso che ci sarei rimasto, ma avevo bisogno di un riparo e questa tenuta faceva proprio al caso mio, te l’ho già detto- si sedette anche lui sulla base del gradino dando la schiena alla parete e alzando il viso verso il soffitto -Qui le persone non sono ricche, fanno fatica a lavorare la terra e raccontano molte storie su fantasmi e creature che vivono nei boschi e nei fiumi, così mi sono semplicemente nascosto nelle loro stesse favole. Quando ho fame sguscio via da qui e me ne vado via in qualche villaggio a rubare del pane o qualche cavolo, qui ne mangiano moltissimi, ma lascio sempre qualcosa in cambio: erbe buone che farebbero fatica a raccogliere dato che temono il bosco, frutti rossi, funghi… alle volte lascio dei pezzetti di ambra che trovo incastrati nelle rocce, non so perché ma gli uomini di questo posto ne fanno gioielli per le loro donne. Io non sono cattivo, Maggio, amo gli uomini e vorrei solo che loro lo sapessero, vorrei solo essere libero- lei annuì, era quello che volevano tutti.
Dicembre si alzò dal suo gradino e salì le scale ma quando arrivo alla porta e la ebbe aperta si voltò un attimo -Oggi non la chiuderò- -Non temi che me ne possa andare? – gli chiese lei -Non hai paura che quando ti sarai addormentato o allontanato in un qualche villaggio, io me ne andrò via e racconterò tutto? – le spalle di Dicembre si abbassarono docili e finalmente rilassate; un sorriso comparve sul suo volto stanco -No, non ti posso costringere qui, sei libera di fare quello che vuoi, sei libera di parlare di ciò che hai visto, di ciò che ti ho fatto, ma non posso più sopportare questa solitudine e questo buio- si voltò indietro -Mi avevi chiesto come potessi credere che questa fosse libertà ed io non ti ho voluto ascoltare, volendo difenderla a tutti i costi, ma avevi ragione e lo sapevo. Questo è nascondersi e non ho più la forza per farlo, sei libera di fare come meglio credi- stava per oltrepassare la porta lasciandosi Maggio alle spalle, ma gli arrivò comunque all’orecchio quell’invito gentile -Io vorrei solo esserti amica

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Capitolo 6
*** Pegno d'amore ***


 

 

La porta era rimasta lì, spalancata per un po’, una sorta di tregua che i due avevano tacitamente stretto.
All’inizio Maggio aveva avuto qualche dubbio sull’uscire, non era ancora del tutto sicura di Dicembre, era imprevedibile e temeva che in un momento di rabbia potesse fare qualche cosa di sconsiderato, dimenticando le belle parole dette; d’altro canto invece non riusciva più a sopportare di starsene lì al buio aveva voglia di vedere il sole e sgranchirsi le gambe, oltretutto aveva perso la concezione del tempo, sapeva solo che mancava poco allo scadere del suo mese, ma senza poter vedere la luce e la natura non riusciva a rendersi conto con precisione di quanto poi effettivamente le mancasse: una settimana, quindici giorni, un’ora? Non avrebbe saputo rispondere.
Così mentre se ne stava lì seduta a rimuginare sul da farsi, la porta rimaneva socchiusa e l’unica cosa che era certa nella sua mente era che non avrebbe abbandonato quello strano ragazzo in balia di sé stesso e della sua paura, non l’avrebbe fatto perché lei per prima avrebbe voluto che qualcuno le allungasse una mano in quello sconforto che li attanagliava, e quindi decise che lei per lui sarebbe stata quella mano amica.
Basta, si era decisa, sarebbe almeno uscita da quello scantinato, aveva troppo bisogno di sapere quanto le mancasse sulla terra.
Si alzò a fatica e si portò vicino alle scale, scoprendo sorpresa che più si sforzava di camminare dritta e sicura, più le sue gambe iniziavano a ricordare come si facesse, più la forza tornava a scorrerle nelle ossa rattrappite.
Afferrò il corrimano della scala e prese ad issarsi su, gradino dopo gradino, fino ad arrivare un poco affaticata all’ingresso: quello che vide una volta uscita dalla sua cella era ben diverso da ciò che ricordava di aver visto la prima volta che era entrata nella casa.
Doveva trovarsi nella sala d’accesso dove si era rifugiata all'inizio, proprio sotto la grande scalinata infatti c’era una porticina nascosta da cui era appena sbucata, ma se la notte di non ricordava quanti giorni prima, quel posto era stato buio e cupo, ora era illuminato dalla luce del sole che entrava dalla breccia sulla porta e dai vetri sporchi delle finestre, regalando un bagliore un poco a chiazze sul pavimento di legno.
Adesso con quel chiarore riusciva a vedere i volti raffigurati sui quadri storti appesi alle pareti, visi austeri e regali, ma eccola lì, in un quadretto in disparte una bambina rappresentata con un piccolo cagnolino al fianco, anche lei seria come per i ritratti dei suoi familiari, ma nell’angolo destro della bocca si nascondeva un sorriso infantile che ne tradiva la tenera età. Maggio si chiese che fine avesse fatto quella piccolina assieme al suo cane e sperò che per davvero le storie del Dio della Morte fossero poi solo storie.
-Sei uscita alla fine, mi chiedevo quando l’avresti fatto- dalla breccia sulla porta era comparso Dicembre con in mano qualche mela, bottino di una presunta incursione in un villaggio vicino -Vieni, mangia- le fece cenno di uscire con lui all’aria aperta mentre le tendeva un pomo rosso con la mano.
Maggio sgusciò lenta attraverso l’apertura e si ritrovò di nuovo nella radura che aveva un aspetto diverso, meno cupo ed opprimente, più vivo e sereno. Sentì che mancava poco al suo tempo.
-Come è diverso ora- disse seduta sotto il pergolato mentre mordeva affamata la mela -Sì, ho sciolto l’illusione che avevo imposto- le fece eco Dicembre anche lui indaffarato a mangiare il suo pasto -Perché? –
-Quando abbiamo parlato ieri non mentivo, non voglio più vivere così, ho capito che mi sono solo chiuso in un posto ancora più piccolo di quello in cui vivevo prima, e ho scoperto che non mi piace poi così tanto. Me la immaginavo diversa la libertà- Maggio sorrise pensando di aver fatto proprio centro con le sue parole, anche se crudeli e dirette.
-Riesci a camminare? – le chiese Dicembre facendo finta che la cosa non gli interessasse particolarmente -Faccio fatica, ma sto riprendendo le forze- si guardò il vestito: i petali che, a furia di starsene al buio, si erano impolverati come la casa stessa ed avevano perso un po’ della loro luce, sotto i raggi del sole sembravano riacquistare man mano vita e risvegliarsi assieme anche al colorito della loro padrona, che da grigio e smunto iniziava a ritornare più sano. Una brezza leggera trasportò verso di loro qualche soffione che si era staccato stuzzicando il volto di Maggio, come se un cane fidato gioisse per il ritorno della sua padroncina.
-Mi ricordi proprio Gennaio sai? Anche lei stropiccia il naso a quel modo-
-Raccontami di tua sorella- gli chiese curiosa di sapere se anche lui fosse giunto alle sue stesse tristi conclusioni, ma Dicembre non sembrava averci dato lo stesso suo peso e, ricordandogli se stessa quando ripensava ai fratelli, si profuse in un racconto appassionato della sorellina più piccola.
A quanto pare Gennaio aveva i capelli bianchi come lui, ma era più piccola di statura, tanto piccola che se si fosse impegnata sarebbe stata in grado di sederglisi sulla spalla, appollaiandosi lì, non a caso, aveva sottolineato, per gli uomini era anche l’inizio dell’anno, anche se non per tutti, aveva ammesso, ma di fatti quella era una congettura tutta sua, priva di ogni fondamento.
A Gennaio non piacevano le storie, o almeno non come piacevano a lui, era più pratica, pragmatica e raramente si lasciava andare a slanci emotivi, eppure era la sua sorella preferita, un po’ perché vedeva Febbraio solo al solstizio, un po’ perché vedeva in Gennaio qualcosa di piccolo da proteggere ed a cui spianare la strada sulla terra. Chissà se anche Aprile pensava lo stesso di lei, si chiese Maggio, un po’ immusonita.
-E di tuo padre? Ti va di raccontarmi qualcosa? –
-No- disse lui secco -Scusa non volevo essere indiscreta- ma, Dicembre scosse le spalle -Non ti preoccupare, ma di mio padre non voglio parlare- si sedette accanto a lei e butto il torsolo della mela per terra in mezzo all’erba e quella subito si ghiacciò e decompose diventando parte stessa del terreno.
-E’ questo che fai per me? Per tutti noi che veniamo dopo di te? - gli chiese -Sì, faccio anche questo-
-Allora ti ringrazio, non avevo mai pensato che perché io esista è necessario che prima ci sia stato tu-
-Siamo un circolo, Maggio, non c’è un prima o un dopo, esistiamo solo perchè esiste chi è prima di noi e ci garantisce di essere necessari, io non esisterei se tu non portassi i tuoi fiori ed i tuoi frutti, non dovrei preparare la terra, se lei prima non avesse partorito i suoi figli. Forse anche io ti dovrei ringraziare- si sorrisero a vicenda, sapendo che, anche se diversi, erano necessari tra loro.
-Mi manca poco tempo, adesso me ne rendo conto- gli disse lei mentre con la mano staccava i piccoli semini neri dal torsolo della mela e li custodiva nel palmo -Da quando non sono più tornato, io invece continuo a sentire di essere in ritardo, come se il mio tempo stesse sempre per scadere, ma poi non lo fa mai-
-Tra poco dovrò far ritorno, ma volevo dirti che non dirò nulla a nessuno. Sei al sicuro, perché io non parlerò- Dicembre le sorrise -Grazie, ma ho deciso di tornare, se tu te ne andrai rimarrò solo un’altra volta e non posso essere sicuro di non ricadere nella pazzia in cui mi hai trovato la prima volta-
-Ma come, e la libertà? Lo scegliere da noi? – lui guardò un punto più in alto nel cielo -Ma io ho scelto, Maggio, o meglio ho capito. Come hai detto mi sono chiuso solo in una prigione più piccola che ho chiamato libertà, ora lo so, per cui ho scelto di accettare il mio ruolo ed il mio compito- lei non capiva -E tutto quello che mi hai detto sull’amore per gli uomini, sul voler essere riamato?-
-Non posso costringerli ad amarmi e come hai detto tu, io ti sono necessario, come tu lo sei a me, non priverei te dell’esistenza solo perché così io possa fingere di aver scelto. Credo che ci voglia coraggio per capire chi si è e non fuggire di fronte a se stessi, prima questo coraggio non ce l’avevo, ma ora me lo sto costruendo- si alzò e si incamminò giù per le scale -Vieni prima che tu te ne vada voglio farti vedere una cosa- Maggio lo seguì curiosa.

 Si addentrarono nel bosco che ormai non era più quella matassa scura nella quale si era persa impaurita, ma era tornato una semplice foresta, con i suoi alberi ed i suoi animali ad abitarlo.
I tronchi erano alti e sottili ed il terreno era ricoperto di sterpaglie e fili d’erba che cercavano di rubare qualche raggio di sole, che le chiome più alte si bevevano ingorde lasciandone ricadere qualche goccia qua e là sul suolo morbido.
-Ti ricordi quando ti ho parlato di quella terra povera, ma che mi piaceva molto- Maggio annuì con la testa affascinata da come le illusione avessero potuto nasconderle tutta quella bella natura -E’ proprio qui, questo è il posto che ti dicevo, un po’ più avanti ci sarà un villaggio. Gli uomini vivono a ridosso di questo bosco ed allevano dei bei cavalli nella prateria davanti, volevo solo farti vedere quelle persone- la ragazza lo seguì e dopo poco sbucarono dalla fitta foresta in una piana dove lei non era mai stata.
Sembrava che improvvisamente gli alberi si fermassero, comparendo a chiazze solo qua e là, mentre davanti a loro un paesaggio brullo e stepposo si disperdeva a vista d’occhio, lontano, oltre l’orizzonte azzurrino.
In mezzo a quella landa un ampio fiume scorreva placido cullando il paesaggio con le sue dolci anse e a ridosso di una di queste sorgeva un villaggio: le case fatte di legno avevano i tetti spioventi, per evitare che la neve li bucasse in inverno, e dai camini saliva il fumo scuro di legna ancora umida messa a bruciare.
Più in là una mandria di stalloni veniva portata al pascolo da un gruppo di tre o quattro ragazzini che giocavano a fare i cavalieri, annoiati dal loro lavoro. Si respirava un’aria di quiete e stasi, di un mondo che per lungo tempo era stato uguale a se stesso e per altrettanto tempo lo sarebbe stato; una realtà nella quale solo l’avvicendarsi di mesi e stagioni permetteva lo scorrere della vita, scandita dalle mansioni contadine.
Scesero lungo il declivio, ogni tanto Maggio doveva appoggiarsi al braccio di Dicembre per non cadere, le gambe non avevano ancora ripreso del tutto la loro forza, ma soprattutto tendeva a rimanere distratta da tutta quell’apertura dello spazio, tutta quell’aria pulita che riempiva quel vasto cielo e quella vasta terra e comprese perché lui la amava così tanto da essersi nascosto proprio lì. Era la
concretizzazione dell’idea di libertà.

Arrivarono al villaggio e Dicembre tirò fuori dalla tasca dei pantaloni alcuni sassolini arancioni, lucidi e leggermente offuscati da piccole bolle che erano rimaste intrappolate all’interno -Questa è ambra- le disse -Qui le rocce ne sono piene, alle volte si nasconde anche nei fiumi e gli uomini di qui la ripescano con delle reti robuste. Per me è più facile coglierla e così gliela porto in dono o la uso per pagarmi ciò che prendo- detto questo posò i ciottoli sul davanzale di una finestra, dietro alla quale una donna stava ricamando una trapunta bianca.
-Gli uomini di qui sono molto superstiziosi, vedi quella grande struttura lì in fondo?- lei fece segno di sì con la testa -Chiesa, la chiamano, e dentro è pieno di immagini dorate dipinte da loro, a cui ogni giorno fanno offerte e davanti a cui si inginocchiano a pregare. Credono che in quel luogo, quelli che loro chiamano spiriti malvagi, fantasmi, diavoli, non possano entrare. Ma io ci sono entrato più volte, cercando di capire cosa significasse tutto quell’oro e quello sfarzo in un posto così povero-
-E l’hai capito? –
-Lascerò che tu lo capisca da sola- le rispose e la portò dentro al grande portale della chiesa.
All’interno l’aria era più fredda, nonostante i molti ceri accesi, rimaneva profumata però dall’odore dell’incenso che bruciava al di sotto di grandi pale d’altare finemente decorate, la più grande di queste aveva al suo centro un mezzo busto di donna, con il capo coperto da un velo scuro, in braccio teneva un bambino, il cui volto sembrava però già quello di un adulto, e lo sguardo di lei era triste e guardava fisso negli occhi il volto dei suoi osservatori, alle sue spalle l’oro.
-Quelli di qui la chiamano Madre della tenerezza- le disse Dicembre -Ma in questo bel mondo ci sono così tante religioni e credo che non so se poi uno di questi sia poi effettivamente vero- si appoggiò ad una colonna osservando una donna che, in ginocchio davanti ad una nicchia, congiungeva le mani incollate alla bocca, bagnata dalle lacrime -Cosa sta facendo?- chiese Maggio incuriosita e mossa a compassione -In lei c’è la risposta a ciò che io ho capito venendo qui- la ragazza non comprese subito, ma vide che la donna lasciava in un piattino qualche moneta d’oro e, fattasi uno strano segno sul petto, se ne usciva più serena, le rughe di preoccupazione sulla fronte diradate.
-Speranza- si volse verso Dicembre -Sì, speranza. Non importa che gli uomini preghino un Dio o un Altro, un Animale o una Pianta, hanno bisogno di credere che ci sia qualche cosa di più grande che li protegga e dia senso alle loro sofferenze. Per questo decorano i loro luoghi di culto e lasciano offerte, nelle case degli Dei regna il potere di questi e gli uomini vorrebbero ingraziarseli- lei gli si avvicinò -Era questo che intendevi quando hai detto che danno il merito ad altri di tutto ciò che facciamo- lui annuì.
-Anche tu nel tuo viaggiare avrai conosciuto diverse credenze e luoghi di culto, assistito a cerimonie- a Maggio venne in mente quella festa per una certa Cerere -Si, ma non mi sono mai soffermata a studiarli-
-Certo che no, in un solo mese come avresti potuto? Io ho avuto tempo per vivere con queste persone e capire la loro fede-
-Vorrei far loro un dono. Non mi interessa se poi lo attribuiranno a questa donna velata o al bambino che tiene in braccio, voglio solo far loro un dono, un mio pegno d’amore per questa terra povera- Dicembre non capiva cosa potesse lei donare loro e la seguì incuriosito fuori dalla chiesa.
Accanto al sagrato c’era uno spazio di erba lasciato incolto, senza strada battuta o case costruitevi sopra e lì Maggio decise che sarebbe sorto il suo dono, proprio accanto al luogo di culto di quelle persone, così che potessero motivarlo e capirlo.
Teneva ancora in mano i semi della mela che aveva mangiato la mattina, erano quattro, splendenti come fossero stati fatti lucidare uno ad uno da mani sapienti: sorrise sicura anche lei di quale fosse il suo ruolo, decisa ad accoglierlo.
Dicembre la stava a guardare un po’ in disparte, osservava quella figura piccina imprimere i palmi delle mani sul terreno con forza, mentre una luce benigna sgorgava dallo stesso. Il mistero della creazione.
Dalle dita di Maggio spuntò un germoglio, poi un altro ed un altro ancora, fino a che i germogli non divennero radici e le radici non sostennero un tronco scuro e possente che si diramò in tante direzione riempiendosi di foglie verdi e frutti rossi, che, sodi e succosi, se ne stavano lì appesi, aspettando di essere colti.
Le persone del villaggio si erano fermate ad osservare quel miracolo avvenuto in terra ed un po’ titubanti se ne stavano lontane, ma dopo che un bambino, arrampicatosi svelto sull’albero, ebbe addentato felice una mela ed un uomo ebbe dichiarato che quello era sicuramente Nostro Signore Gesù Cristo che ci ha benedetti con il frutto della Bibbia le persone iniziarono ad avvicinarsi facendosi sempre quello strano segno sul petto e tastando i pomi appesi.
Maggio era inginocchiata in mezzo a loro, la mano ancora appoggiata sul tronco -Questo è il mio dono per voi. Un albero che non sfiorisca mai, che neanche in inverno smetterà di darvi frutti e portarvi vita- Dicembre la aiutò ad alzarsi -Sai che così facendo non potrai donare loro più niente per un bel po’, vero?- lei si sistemò il vestito -Sì lo so, ma anche io amo gli uomini tanto quanto te e come te ho compreso quale sia il mio compito- insieme si allontanarono dalla folla in festa e si sedettero su di un muretto ad osservarla felici.
-Quindi è stato tutto qui? - gli chiese lei -Cosa? -
-Il tuo desiderio di libertà, si esaurisce qui ?- lui ci stette un poco a pensare -No, ho deciso di tornare al mio giardino, ma non ho smesso di
desiderare la libertà. Ho solo capito che amerò gli uomini per sempre anche se mi dovessero chiamare morte, perché so che è grazie a me che poi tu potrai essere chiamata vita e ne sono felice. Ma desidero ancora essere libero- lei lo guardò incuriosita -Ed allora cosa pensi di fare?-
-Non fuggirò né mi nasconderò più, tornerò nel mio giardino sì, ma ne uscirò quando ne avrò voglia ed esplorerò il mondo. Alla fine, mi hanno dato quel cancello, giusto? Come hanno fatto con te e con tutti gli altri, lo accetto, ma voglio essere libero di entrare ed uscire e così farò. Visiterò nuove terre e nuove città, ma quando sarà il mio tempo porterò anche la neve sulla terra per poi andare a svegliare Gennaio, così facendo ognuno avrebbe ciò che vuole- Maggiò annuì.
-Mi tradirai? - le chiese -Stavo proprio per chiederti se potessi venire con te a vedere il mondo-

 

 

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Capitolo 7
*** Aida ed Amina ***


Conosci tanti posti? Qui sulla terra intendo- Maggio se ne stava seduta sopra il tetto diroccato e guardava serena il cielo che tramontava oltre il bosco -Io, sai, ogni volta che vengo qui sulla terra devo sempre attraversarla velocemente e non ho mai avuto molto tempo per soffermarmi da qualche parte- Dicembre era sdraiato a sonnecchiare godendosi quell’ultimo giorno.
Ormai aveva trascorso con Maggio sufficiente tempo per capire che non l’avrebbe tradito e non essendoci nessun altro che potesse scoprirlo si stava finalmente godendo quel meritato riposo dopo un lungo periodo di paura.
Non si era reso conto di quanto aver paura potesse essere stancante, quanto potesse logorare nel profondo ed alla fine era quasi grato a quella ragazzina curiosa di averlo trovato, perché finalmente si stava rendendo conto che paura e libertà non avrebbero potuto assolutamente convivere tra loro, erano nemiche l’una dell’altra.
-Ma dovrai pur aver avuto un luogo preferito, no? Un po’ come per me con queste lande- Maggio ci pensò un po’ su.
In effetti c’erano dei posti che aveva preferito più di altri, anche se i suoi soggiorni erano sempre stati estremamente brevi -C’è una città che mi piace particolarmente- disse alla fine, Dicembre si era spostato su di un fianco con la testa appoggiata sul palmo della mano.
-Ti ascolto-
-Si trova sul mare d’oriente, è proprio sulla costa, quindi quando ti avvicini dall’oceano è la prima cosa che vedi. Ha un’alta torre bianca, penso che sia un faro, perché alle volte sono arrivata di notte e mi sembrava brillasse-.
 Che bella che era quella città, pensò tra sé e sé, ma purtroppo quell’anno non aveva fatto proprio in tempo a vederla ed ora non aveva più occasione di salutarla -Perché ti piace così tanto?- Maggio scrollò le spalle -Non saprei dirti, forse è l’aria esotica che si respira, sai quella è una città di mercanti ed ogni giorno troverai esposte merci ricercate e pregiate. Una volta ho sentito un uomo giurare ad una donna che quella era vera seta viola, proprio quella che indossavano le più belle amanti dell’imperatore, e lei era sembrata molto incuriosita da quel prodotto e l’aveva comprato per sole dieci monete, o almeno così aveva detto il mercante. Io non ho idea di quanto possa costare della seta e non sapevo nemmeno se quella fosse veramente la seta dell’imperatore, ma penso che anche la donna ne sapesse poi tanto quanto me, perché, una volta allontanata dal banchetto, ho visto l’uomo immergere del tessuto bianco in un recipiente-
-E quindi? –
-Niente, semplicemente una volta uscito era proprio dello stesso viola di quello appena venduto- Dicembre tornò a sdraiarsi sulla schiena, forse annoiato da quel banale aneddoto, si aspettava qualche cosa di più da quell’esotica città -Gli uomini truffano, lo sappiamo, è proprio per questo che sono uomini, se non avessero i loro peccati sarebbero come gli dei che venerano ed allora non avrebbero bisogno di noi, farebbero tutto da sé- Maggio lo sapeva benissimo, e rimase un po’ scocciata dal tono di lui, per cui gli rispose risentita -Certo che lo so, ma non per questo, quando mi capita di vedere truffare, mentire o altro, me ne rimango impassibile, quella donna era sembrata così gentile ed era stata così felice del suo acquisto che mi è spiaciuto per lei- il ragazzo colse la punta di asprezza nel tono e cercò di porre in fretta rimedio a quello che aveva detto -Lo so Maggio, scusami non volevo essere saccente, ma quando ami qualcuno così intensamente come io amo gli uomini, vai oltre i suoi limiti, non li vedi, capisci?-
-No, questo non è vero. Quando ami qualcuno tanto quanto tu dici di amare gli uomini, ne vedi gli sbagli e per amore provi a correggerli, sarebbe solo infatuazione lasciare che chi si ama continui a comportarsi male, a tradire e rubare o peggio- Dicembre non l’aveva mai osservata da quel punto di vista e rimase un po’ stupefatto dalla fermezza con cui quella ragazzina così piccola si fosse espressa con lui -Forse hai ragione tu, forse no o forse amiamo solo in modo diverso-.
Quanto era strano questo Dicembre, dalle idee salde che si piegavano facilmente, rigido, ma anche facile da condurre al compromesso, veramente strano e complesso, e si rese conto che lo stava pian piano sondando ed imparando a conoscere più a fondo.
-Non c’è nient’altro di interessante su questa città, quindi? Solo stoffe e truffatori? – si stava spazientendo, quella città era molto più di qualche mercante scaltro e lana camuffata da seta, le era subito piaciuta dal primo momento in cui l’aveva vista, là, di lontano mentre si faceva sempre più vicina sull’orizzonte e non riusciva a sopportare che Dicembre la sminuisse così -No, non è solo questo-
-E allora cos’altro?- lui non sembrava aver notato più di tanto quanto il suo atteggiamento potesse darle fastidio, ma in fondo entrambi erano alle prime armi in materia di amicizia o anche di semplice conoscenza, dato che, in quelle poche ore che avevano a disposizione per vedere i rispettivi fratelli, non c’era tempo per litigare o spazientirsi, si doveva gioire ed essere allegri perché sarebbe passato molto prima di rivedersi insieme.
-Quella città mi è così cara perché è piena di storie, in ogni suo angolo o vicolo puoi trovare delle vecchie storie da raccogliere e conservare, per questo le sono così affezionata, le più belle che ho ascoltato, le appartenevano tutte- questo sembrò attirare l’attenzione del ragazzo che riprese la posizione di ascolto, la sua mente pronta a darle una seconda occasione per interessarla -Vedi, gli uomini non ci vedono, certamente lo sai già, ma ci percepiscono, ogni tanto hanno il sentore che ci siamo, ma spesso ci scambiano per fantasmi o ombre ed altrettanto spesso me ne dispiaccio, ma una volta invece questo difetto, diciamo così, mi è valso una storia molto bella-
-Ascolto-
 
Maggio era arrivata da poco sulla terra, ma il primo luogo che aveva voluto salutare era stata proprio lei, Gea, la città dai mille volti, e così aveva fatto mettendosi in viaggio e giungendo in fretta sulla spuma del mare: eccola lì, bellissima come sempre, la torre bianca le dava il benvenuto, a lei ed anche ad un’enorme imbarcazione che veleggiava diritta verso il porto.
Quanto era bella Gea, quanto era colorata e profumata, esotica, un piccolo microcosmo da scoprire pezzetto per pezzetto e lei non vedeva l’ora.
Aveva già visto il mercato, la piazza delle feste ed anche i vicoli malfamati del porto, ma ciò che quella volta ne aveva catturato l’attenzione era stata una vecchia affacciata alla finestra della propria casa, persa a scrutare la luna che si rifletteva sul mare scuro.
Maggio le era volteggiata accanto cercando di guardare in lontananza ciò che la vecchia donna stava osservando, eppure non c’era nulla fuorché onde e riflessi di stelle, ma in quel momento la nonnina si era voltata dalla sua parte e sembrava proprio fissarla dritto negli occhi, cosa mai successa prima, per cui, un poco spaventata, si era rifugiata sulla grondaia del tetto, lontano da quegli occhietti avvizziti.
-Aida, sei tu, vero Aida?- la vecchia doveva aver rivisto in quel vago movimento dell’aria il fantasma di qualcuno -Oh, cara Aida, sei tornata da me? E’ molto tempo ormai che non ti sento più, mi manca la mia vecchia amica- Maggio non voleva deludere quella donna, le sembrava così sola e triste, fece frusciare della brezza fresca che le accarezzò le guance rugose ed abbronzate dal sole -Lo sapevo Aida, che saresti tornata per salutarmi un’ultima volta, sai anche Moose se n’è andato poco dopo di te ed ora io sono rimasta sola, avevi ragione tu quando mi consigliavi di far figli, adesso vorrei tanto avere qualcuno a tenermi compagnia, Amina, dicevi, i figli saranno il bastone della tua vecchiaia, sì sì, proprio così dicevi, ma ero troppo giovane e sciocca per ascoltare- Amina si era sporta un poco più fuori dalla finestra per cercare di scorgere ancora lo spettro della sua vecchia amica Aida, le braccine magre facevano da perno ad un seno che un tempo doveva essere stato florido, ma che ora se ne stava lì, sfiorito.
-Sempre sciocca sono stata da giovane, tu me lo dicevi spesso, sì sì, eri più sveglia di me, ma certamente io ero più bella, questo anche tu lo ammettevi, sì sì, lo ammettevi spesso. Ti ricordi quando c’era stata la guerra, quando si doveva razionare il cibo perché non ci bastava, certo che te lo ricordi, io me lo ricordo ancora, anche se sono passati tanti anni, ma ecco tornerei volentieri indietro a quei tempi se potessi, sì sì, a quando eravamo giovani, a quando eravamo insieme. Ti ricordi la taverna nella piazza? Quella del vecchio zoppo, dove si andava noi due la sera perché sottobanco vendevano ancora un po’ di latte di leone? Certo che te la ricordi, sì sì, ricorderai anche che quando c’era la guerra ed andavamo a cantare io e te in quella taverna, i soldati smettevano di insultarsi ed uccidersi, solo per ascoltare noi.
Che bello che era, tutti, non importava se imperialisti o ribelli, si fermavano per ascoltarci cantare, ma certo che te lo ricorderai, cara amica mia- qualche lacrima era iniziata a scendere tra le ciglia grigie della donna mentre ricordava con nostalgia quegli anni andati -Ricorderai anche, ne sono certa, che Moose era proprio lì tra quei soldati. Quanto era buffo con quella sua uniforme larga, non aveva ancora i baffi che mi piacevano tanto, sembrava proprio un ragazzino, e pensare che qualche anno dopo l’avrei sposato, da non crederci. In quegli anni abbiamo avuto entrambe tanti amori, vero Aida? Sì sì, tanti amori, che sono partiti e non hanno fatto più ritorno, ma li abbiamo amati tutti, uno per uno, ed ora che sono vecchia e non ho più la mia bellezza, non ho più la mia cara amica ed ora che anche mio marito se ne è andato, rimpiango tanto quegli anni felici, anche se poveri.
Ricordi Aida quando provammo a rubare dei sacchetti di farina al mercato? Amina, mi avevi detto all’orecchio, Amina c’è il garzone giovane, quello che ti guarda sempre, distrailo mentre io sfilo i sacchetti, sì sì, proprio così avevi detto, Tu sei bella e fai girare gli uomini a guardarti, mi avevi bisbigliato, ma io sono furba e veloce e ti prometto che per domani avremo pane fresco per cena! Quanto ridere, cara Aida, quanto ridere quando poi il garzone ci ha viste correre via per i vicoli lasciandoci dietro un filo bianco di farina, ma che buono quel pane, così buono che credo di non averne mai più mangiato uno così, mai mai- proruppe in una risata sincera che ad ascoltarla non sembrava proprio quella di un’anziana, ma pareva quasi di poter sentire la bella Amina ridere con la sua cara amica Aida, in fuga dal garzone del forno.
-Oh Aida, se solo ti avessi ascoltata, ora avrei una figlia o un figlio a farmi un poco di compagnia ed invece me ne sto qui da sola a guardare il mare. Quanti giovani erano partiti per quel maledetto mare e non sono più tornati, il tuo Kamal è partito per il mare ed il mare se l’è inghiottito, ma mi ricordo che tu non hai versato neanche una lacrima, sì sì, che donna forte che eri, cara Aida, così forte che ai miei occhi non sembravi nemmeno una donna, ma, quando te lo dicevo, tu ridevi e mi prendevi in giro. Esser donna non vuol dire esser debole, mi dicevi, Esser donna vuol solo dire esser donna, come esser uomo vuol solo dire esser uomo, nulla più.
Come eri saggia vecchia amica, molto più saggia di me, ma certo, io ero più bella- queste ultime parole erano arrivate fiacche alle orecchie di Maggio, gracchiate, quasi un leggero rantolo accompagnato da qualche sbuffo strano.
La ragazza si era affacciata dalla grondaia, la testa in giù verso la finestra si sporse per vedere quella vecchietta tutta pelle ed ossa sdraiata per terra, come se dormisse.
Si infilò dentro la stanza, leggera e, inginocchiatasi accanto alla donna, le accarezzò i capelli avvizziti, crespi, raccolti alla bell’e meglio in una crocchia stretta che le tirava indietro la pelle molle del viso -Aida, ora potrò venire anche io con te? Sì sì- aveva sussurrato a stento, tenendo però sempre gli occhi chiusi e respirando a fatica -Chissà, cara amica, se ci saranno garzoni e taverne in cui cantare dove sto per andare…- quelle ultime parole furono seguite da un ultimo sospiro profondo che lasciò il corpo esanime a terra, ma Maggio poté scorgere un piccolo globo luminoso sgusciare fuori dai denti della donna e salire verso la finestra, uscirne per perdersi poi tra gli altri infiniti piccoli globi luminosi che brillavano nel cielo, bellissimi.
 
-Non avevo mai visto una persona morire- disse la ragazza concludendo il suo racconto -Io ne ho viste molte, invece, ma non mi hanno mai raccontato le loro storie prima di andarsene, penso sia un dono prezioso- quell’aneddoto era stato sicuramente più interessante del precedente, anzi l’aveva quasi commosso, come se fosse stato lui Amina, da sola a ricordare la sua amica -Sì, questa è una delle storie più belle che conservo, so che quella donna stava parlando, o credeva di parlare, con la sua amica, e non ero certo io la destinataria di quelle parole, ma non c’era nessun altro in ascolto, così le ho accolte io e le ho custodite per lei- Maggio si voltò verso dicembre -Dici che sarà poi andata con la sua amica?- Dicembre scosse le spalle -Non lo so, non so come funzioni la morte, ma è bello per loro credere che sia così-
-Già, spero che lo sia, sembrava così felice quando poi se ne è andata via, non sembrava proprio aver paura, io ne avrei invece- il ragazzo si era alzato e seduto accanto a lei, le gambe a penzoloni nel vuoto al di sotto di loro – La ammiro però, questa speranza degli uomini. Loro sono creature finite, fanno parte del ciclo della vita sì, ma sono dei piccoli segmenti, hanno un inizio ed una fine eppure si sforzano così tanto, sperano con così tanta forza che a volte mi sembra quasi che si stiano creando l’immortalità da soli-
-Credi che sia una cosa possibile? –
-Non ne ho idea, ma li trovo comunque affascinanti-.
Il sole era del tutto tramontato ormai, rimaneva nell’aria solo quella luce violetta del crepuscolo, un’anticamera alla sera decorata da qualche uccello che se ne tornava a casa, al proprio nido, dopo una giornata di voli nel cielo.
A quell’ora gli uomini dovevano essere tutti nelle loro case, raccolti a tavola con le proprie famiglie a raccontarsi cosa avessero fatto, godendosi un pasto caldo dopo una giornata di fatica e Maggio pensò che fosse proprio bello far ritorno a casa, dai propri cari ogni giorno.
-Ora devo andare, il mio tempo è scaduto, il sole è tramontato- Dicembre guardò oltre il bosco quel cielo violaceo che si stagliava su di loro -Anche il mio tempo ormai è terminato, sarà il caso che me ne torni nel mio giardino, non credi? - lei gli annuì di rimando -Hai promesso però, hai promesso che mi avresti portata con te a vedere il mondo. Hai promesso che saremmo stati amici- gli occhi di lui si si puntarono nei suoi.
Ora in loro non c’era più quella paura che aveva visto all’inizio e nemmeno la tristezza che leggeva in Aprile e Marzo, ora in quegli occhi c’era la determinazione di esplorare a fondo la libertà, ma con coscienza e sapientemente, senza scappare e cercare nascondigli.
-L’ho promesso e mantengo la mia parola, Maggio- la ragazza gli sorrise grata -Credo che potremmo vedere quella tua bella città, la città di Amina ed Aida, anche io voglio scoprirne le storie. Non mi hai detto il nome-
-Gea, si chiama, Gea-

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Capitolo 8
*** Partenza ***


Ansia. Trepidante attesa. Maggio era seduta entro i confini del suo giardino, il viso schiacciato sulle sbarre fredde del cancello chiuso. Chissà se Dicembre sarebbe poi venuto, si chiedeva, alla fine forse si era fatta tanti stupidi castelli in aria, alla fine quel tipo bizzarro l’aveva conosciuto per poco meno di un solo mese, non poi così tanto tempo per fidarsi, non poi così tanto tempo per essere amici. Chissà se Dicembre sarebbe poi venuto, si chiedeva, alla fine forse l’aveva solo ingannata per tenersela buona, alla fine forse era tutta solo una bella facciata, alla fine era stato solo un mese ed in un mese non puoi conoscere a fondo una persona, impossibile, assolutamente impossibile, come poteva pensare di essere sua amica o che lui fosse per lei un amico, quando non poteva nemmeno dire con assoluta certezza che suo fratello Aprile, fosse poi veramente suo fratello, nel senso più intenso della parola, conosceva Aprile per due soli giorni all’anno dall’eternità a questa parte, peggio ancora, conosceva suo fratello Marzo per uno solo di questi molti giorni ed ora credeva davvero di potersi fidare, di essersi affidata ad uno sconosciuto che le aveva detto belle parole nell’arco di poco meno di un mese? Sciocchezze, assolutamente sciocchezze.
Ma per quanto quelle fossero sciocchezze se ne rimaneva comunque lì, seduta per terra, il viso schiacciato sulle sbarre fredde del cancello chiuso. Chissà poi se Dicembre sarebbe venuto da lei, alla fine poteva benissimo averle mentito, poteva averle detto che sì, lui se ne sarebbe fatto ritorno al suo giardino, ma lei non l’aveva visto andarsene via dalla terra, certo che no, lei prima di lui se ne era andata e non aveva avuto modo di confermare anche la partenza dell’altro, come avrebbe potuto? Lei che in quel momento era solo brezza e profumo, non aveva occhi per guardare o orecchie per sentire.
E se Dicembre l’avesse ingannata? Oh come le sarebbe dispiaciuto se quel suo unico amico l’avesse poi ingannata, se non fosse mai esistito, ma fosse solo stato un personaggio di comodo per sbarazzarsi di quella ragazzina fastidiosa e petulante. Che sciocca che era stata, sicuramente l’aveva ingannata, era così ovvio, perché non c’era arrivata subito? Perché si era lasciata attrarre da prospettive di viaggi, esplorazioni e libertà? Sciocchezze, assolutamente, Sciocchezze. Ma per quanto quelle fossero sciocchezze se ne rimaneva comunque lì, seduta per terra, il viso schiacciato sulle barre fredde del cancello chiuso. Chissà se alla fin fine Dicembre sarebbe ritornato come le aveva promesso, si chiedeva, o se invece le avesse mentito per davvero? Sicuramente doveva aver mentito, non avrebbe avuto senso che rischiasse così tanto ed ora lei se ne sarebbe stata chiusa lì dentro, mentre lui scorrazzava libero per il mondo. Magari in quel preciso instante era nella sua bella Gea, la stava visitando e stava raccogliendo tutte le storie che lei non aveva ancora potuto ascoltare, gliele stava sicuramente rubando, pensando a quanto fosse stato facile ingannare quella sciocca ragazzina, facile tanto quanto per il mercante di vera seta viola truffare la povera signora sprovveduta.
Sciocchezze, assolutamente, sciocchezze. Ed una sciocchezza dopo l’altra Maggio se ne rimaneva lì seduta, il suo cuore, costantemente in subbuglio, teso tra la fiducia e lo sconforto, le batteva forte nel petto pronto a balzarle in gola per ogni nuvola che le passava di fronte. Che fosse Dicembre? No, no era solo quella solita bruma e nulla di più. Ma se fosse stato Dicembre? Sì, e se quella condensa che sembrava così tanto un braccio fosse stato proprio il suo braccio che la stava salutando? Ma no, ma no è solo bruma, si ripeteva sconsolata, stattene buona. E forse buona se ne sarebbe dovuta stare per molto tempo ancora, non perché Dicembre le avesse mentito, non perché non le volesse essere amico, ma perché lei presa dall’emozione della libertà si era messa ad aspettarlo molto prima del momento stabilito, nella speranza che facesse prima, che si recasse da lei in anticipo.
Doveva essere pronta, certo, doveva essere lì attenta ad aspettare che arrivasse, non doveva farlo attendere, sarebbe stato assai scortese, non poteva e non voleva far attendere la libertà.
Il problema era però che, come accade spesso, quell’eccitazione piacevole che ci brucia nel fondo della pancia, rischia di trasformarsi in sfiducia e timore se contorta dai dubbi della nostra mente, e così dall’essere un frizzante tepore nello stomaco, diventa un sasso, denso e pesante, che sembra svuotarci dentro e voler quasi bucare il nostro corpo. Per cui Maggio poteva solo starsene lì, il viso schiacciato sulle sbarre fredde ad aspettare che Dicembre arrivasse e che ci mettesse magari meno del previsto.
Ed eccola lì, finalmente, una nube più consistente delle altre, che trasportava con sé cristalli ghiacciati e qualche fiocco di neve. Ovviamente lei non poteva scorgerne il volto, ma sapeva che dove stava guardando c’erano due occhi amici che alla fine la parola l’avevano mantenuta davvero, così come le avevano detto qualche tempo prima. Quella che le era sembrata una nuvola più fredda e bianca delle altre iniziò a prendere forma di uomo: per prima comparve una bocca dal sorriso accennato, a cui seguì un naso affilato che si sporse oltre la bruma ed alla fine da quel vorticare di nevischio fece capolino un ragazzo alto e sottile, dalla pelle così chiara da sembrar trasparente.
-Sei arrivato finalmente- disse lei tirandosi in piedi, le mani avvinghiate alle inferiate -Te l’avevo detto che mantengo la mia parola- disse lui stiracchiandosi le gambe intorpidite dal viaggio -Hai fatto fatica a raggiungermi? – gli chiese -No, questo posto era esattamente come me l’avevi descritto tu, anche le rose sul cancello sono uguali- lei sorrise, fiera di quei suoi bei fiori appariscenti -Sai ho temuto che non venissi- lui si avvicinò al cancello, ma le sbarre nere le impedivano di vederne il viso nella sua interezza -Io avevo il timore che tu cambiassi idea, ma invece sei qui e ne sono felice- le sorrise amichevole.
In effetti Dicembre in tutti quei mesi di solitudine e paura e nel suo forte desiderio di essere libero non si era mai posto il problema che la vita, per essere pienamente vissuta vada condivisa con qualcuno, che le gioie e le paure, se tenute per sé stessi, da soli, perdono di sapore o si acuiscono nel male, ma se condivise riescono invece a divenire sapide, ricche ed insegnarci qualcosa. Si rese conto che, nel viaggio inconsistente che l’aveva portato dal suo giardino a quello di Maggio, aveva veramente temuto che la ragazza non fosse lì ad aspettarlo, che alla fine avesse cambiato idea, aveva temuto di ritrovarsi di nuovo suolo a vivere quel terrore che gli aveva fatto compagnia per mesi, ma, nel momento in cui aveva visto i grandi occhi azzurri di lei, quell’ansia e quella preoccupazione erano sfumate davanti ad un sorriso che gli era amico, che era felice di vederlo.
-Ma ora come faccio ad uscire? Il cancello solitamente si apre da solo- provò a smuoverlo un poco, afferrando saldamente le inferiate con entrambe le mani, ma quello non dette segno di cedere e subito spostò lo sguardo in quello di Dicembre cercandovi una risposta al dilemma -No, non funziona così Maggio, è tutto molto più semplice di quanto credi. Ricordi quando ti ho detto che questo giardino alla fine è la nostra casa?- la ragazza gli annuì di rimando -Perfetto, ubbidisce al tuo comando, solo che tu ancora non hai mai provato a comandargli nulla-
-E tutte le volte che ho desiderato che si aprisse? O che restasse aperto più a lungo e non facesse andare via mio fratello? – lui le sorrise, attratto da quell’ingenuità fanciulla -Desiderare è una cosa ben diversa dall’ordinare. Le parole hanno potere, Maggio, ma solo se vengono pronunciate, altrimenti, come i desideri inespressi, rimangono taciute e prive di ogni volontà- lei sembrò un po’ scettica, possibile che fosse tutto qui? Eppure pensò che effettivamente non aveva mai dato ordini al suo cancello, né mai le sarebbe venuto in mente di farlo o poterlo fare
-Davvero devo solo chiederglielo? -
-Devi solo ordinarglielo, è casa tua e ti ubbidirà-.
Maggio non era troppo convinta di quella soluzione, ma decise di provarci comunque -Per favore apriti- sussurrò a fior di labbra, un po’ imbarazzata per star chiedendo un piacere ad un semplice cancello, ma quello, forse proprio perché inanimato, non diede segno di aver compreso la richiesta e se ne stette serrato.
 -No, Maggio, questo non è ordinare-
-Apriti, te ne prego- riprovò lei con un poco in più di voce, ma sempre senza troppa intenzione o convinzione, dopo tutto era solo un semplice cancello! -No, no, se non sei convinta nemmeno tu di voler uscire, cosa ti fa credere che la tua casa si aprirà per te!-
-Io voglio uscire! - gli ribatté contro lei -Evidentemente non abbastanza se non sei nemmeno in grado di dare un ordine al tuo cancello- ancora quel tono supponente che le dava così tanto fastidio, possibile che come amico le fosse davvero capitato uno sbruffone del genere? -Non mi trattare come se fossi una ragazzetta, perché non lo sono e se questo dannatissimo cancello mi avesse fatto in passato il favore di aprirsi, ora non mi troverei qui a discutere con uno sbruffone come te!- Maggio non si era resa conto di ciò che Dicembre le stava offrendo, la possibilità di trovare più forza ed ardimento non solo per rispondergli a tono, ma anche per dare un ordine prima che al cancello, a sé stessa -Ah, e quindi io sarei uno sbruffone? O non sarai invece tu che non ha il coraggio di vedere il mondo?- insinuò -Io non ho assolutamente paura! Forse hai dimenticato chi ti ha aiutato in quella vecchia casa? Chi era spaventato lì sulla terra e si nascondeva da tutto e da tutti? Quelle orribili illusioni non erano certo frutto della mia di fantasia-
-Oh, certo, e cosa mi dici di te? Forse non ti interessa veramente vedere il mondo, o anzi, non sei disposta a fare la fatica necessaria per guadagnarti la libertà, cosa che io invece ho fatto a differenza tua, ragazzina-
-Come mi hai chiamata?! –
-Oh sì, ma ricordiamoci anche di tuo fratello, Aprile giusto? Forse non sei affatto una buona sorella e sai che lui lo pensa, per questo non hai il coraggio di uscire da qui, da codarda, temi che l’idea pessima che lui ha già di te possa peggiorare ancora di più. Per non parlare di tua madre…- a quel punto Maggio era ormai completamente su di giri, la testa le si era annebbiata per la rabbia e ogni sua emozione traspariva chiara dalla sua stessa casa che sembrava gonfiarsi con la sua padroncina e stare per esplodere addosso a Dicembre. Addirittura le rose, come se si fossero ricordate di un recondito lato felino, sembrano soffiare contro quel ragazzo che le stava infastidendo e non poco. -Maledetto cancello, apriti immediatamente così che possa farla pagare a quello stupido sbruffone!- Lo schiaffo arrivò in pieno volto al ragazzo, senza più il cancello a fargli da scudo, questo infatti, non appena aveva sentito il comando della sua padrona, si era schiuso con forza lasciandole libero campo per imprimere il segno rosso delle sue cinque dita sulla pelle sottile della guancia di Dicembre, che non sembrava essersi affatto aspettato una reazione simile. -So benissimo cosa hai fatto- gli disse ancora inviperita -Ed ha funzionato direi- le rispose lui, massaggiandosi la guancia lesa, quasi risentito per il ringraziamento ricevuto -Non ti permettere mai più di trattarmi così, io non sono una ragazzetta a cui sputare in faccia tutto ciò che ti passa per la testa. Voglio esserti amica, sì, ma in amicizia si è in due e sarebbe buona cosa rispettarsi- a quel punto lui si accorse che forse aveva un po’ esagerato, che qualche cosa se la sarebbe anche potuta risparmiare, soprattutto in merito al fratello, tutti particolari che aveva percepito, ma di cui lei non gli aveva mai parlato e forse, così come lui non aveva ancora il coraggio di parlare a lei di suo padre, forse lei non si fidava ancora abbastanza per parlare a lui di suo fratello. L’inesperienza in materia di amicizia non aveva certo giovato al suo stratagemma per aprire il cancello. -Scusami, Maggio, ho esagerato, alcune cose non le avrei dovute proprio dire, mi spiace…-
-Esatto, alcune cose te le saresti dovuto tenere per te, dato che non ti riguardano- lei, spazientita, aveva le braccia incrociate sul petto, mentre lo guardava torva in viso. Assurdo come gli sembrasse così graziosa, anche da arrabbiata. -Allora? Non vuoi più viaggiare? - le domandò canzonatorio, ma la ragazza all’inizio non rispose, ancora offesa dai suoi modi di poco prima -Vorrà dire che me ne andrò da solo a Gea. Sono proprio curioso di visitare questa città dalle mille strade- -Dai mille volti- lo corresse subito lei -Non la chiamano città dalle mille strade e se ci andassi da solo ti perderesti subito, hai bisogno che io ti guidi- lui si rasserenò notando che in lei la rabbia sfumava velocemente, lasciando il posto all’ebrezza del viaggio -Vorrà dire che mi dovrò affidare a te per scendere- lei se ne stette ancora un poco sulle sue, mentre il ragazzo la guardava speranzoso, pregando di aver fatto breccia in lei con la curiosità e la scoperta di nuovi luoghi. -Non hai altra scelta- gli sorrise infine lei e, strettagli la mano, pensò intensamente alla bella Gea, così come gli aveva insegnato Dicembre sulla terra. Vide nella propria mente la torre bianca, il mare spumeggiante e le navi che arrivavano al porto, vide sè stessa volteggiare sui campanili della città e tra i banchi del mercato, con accanto quello strano ragazzo dai capelli bianchi, liberi. Davanti al cancello spalancato del giardino del mese di maggio non era rimasto nulla, se non una bruma indistinta e violetta, nella quale però si sarebbe potuto percepire un leggero profumo di rose accompagnate da qualche fiocco di neve sparuto.
 

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Capitolo 9
*** Notti d'Oriente ***


Era ormai da qualche tempo che Maggio e Dicembre se ne andavano a spasso per il mondo, il tutto era divenuto quasi un rituale studiato nel dettaglio: lui si presentava al suo giardino, lei ordinava al cancello di aprirsi ed insieme oltrepassavano la porta dei loro ricordi per atterrare indisturbati sulla terra. Niente di più semplice, niente di più bello.
Quell’esperienza era così bella però, proprio perché erano in due a poterla condividere, in due a desiderare di vedere nuovi luoghi, in due a viaggiare ed in due a conoscersi, questo forse era il punto più interessante di quel loro infinito viaggiare, era per non star da soli, per scoprirsi a vicenda ed ogni volta che esploravano una nuova città o un nuovo mare, stavano in realtà svelando una parte nascosta l’uno dell’altra: Maggio adorava le città dell’oriente, mentre non sopportava più di tanto l’alterigia di certe metropoli dell’ovest, mentre Dicembre era più interessato agli spazi aperti, alla natura incontaminata, come in quelle vecchie lande dove si erano incontrati per la prima volta.
Entrambi erano assetati di storie da ascoltare e ghermire dalle bocche degli uomini, il loro tesoro più caro, al quale entrambi con amore tendevano, felici.
Quella volta avevano deciso di vedere come vivessero i popoli dei deserti, gente strana che viveva in accampamenti di tende colorate nel bel mezzo di un deserto roccioso, dalla terra rossa.
Vestivano con abiti strani, tuniche che arrivavano loro fino alle caviglie, non importava che si trattasse di uomini o di donne, e sul capo portavano teli che ne proteggessero le teste dalle ustioni di un sole che durante il giorno bruciava il terreno arso ed arido, ma che di notte lasciava il posto ad un freddo terribile.
In quello strano posto cresceva anche una strana vegetazione, erano tutte sterpaglie secche, alberi piccoli senza grandi fronde, sembravano più che altro cespugli spelacchiati, anche se ogni tanto se ne incontravano di più alti, dal tronco lungo e seghettato e la punta coperta da poche, ma gigantesche, foglie.
Dalla loro cima alle volte pendevano caschi di frutti, piccoli, sembravano quasi dei diti appesi, che la gente raccoglieva e lasciava essiccare prima di mangiare con gusto. Dicevano addirittura che fosse cosa buona che le donne in dolce attesa se ne cibassero, per aiutarle in questa fase delicata della loro vita. Un frutto miracoloso a vedersi o a sentirne parlare.
La gente di questi luoghi non era però povera, aveva solo una forma diversa di ricchezza e la ricchezza più grande di tutte era evidentemente l’acqua.
Queste zone erano ricche di oro, se ne trovava spesso nelle montagne rosse che sormontavano le distese di terra arida, ma l’acqua era il vero oro che si andava a cercare: ogni volta che veniva individuata una falda, si scavava un pozzo ed attorno a quel pozzo, come se fosse stata linfa vitale, si piantava prima una tenda, poi un’altra ancora, fino a che non si andava a creare una distesa di teli colorati e decorati con favolosi arabeschi. L’acqua aveva un tale potere attrattivo da battere qualsiasi altro bene prezioso.
In quel posto desertico ed arido c’era però un luogo ancora più asciutto, anche se, paradossalmente, ricco di acqua, come nessun’altra zona lì.
Era un grande lago, così grande che alcuni lo chiamavano Bahr, nella loro lingua Mare, ma benchè fosse una vasta distesa di acqua in essa non c’era vita, neanche un pesce riusciva a sopravvivere in quel posto così salato, nemmeno un’alga ed alla fine rimaneva solo quell’acqua densa e scura.
Sulla sua superficie ogni tanto galleggiava una strana sostanza bituminosa, la quale aveva fatto sì che altri popoli di mercanti, giunti in quelle terre per commerciare, lo chiamassero lago Asfaltide, i cui rigurgiti semifluidi venivano mescolati con l’olio di lino per ricavarne della pittura bruna, molto apprezzata.
Quel posto lasciava Maggio esterrefatta, era molto lontano da ciò a cui lei era abituata, era un posto arido, caldo dove era difficile che il terreno fosse fertile e desse frutto, quasi opposto rispetto al suo animo fresco, fatto di fiori, rugiada e verde, eppure, nonostante le fosse così diverso e forse anche ostile, da esterrefatta che era ne rimase anche affascinata, terribilmente affascinata, perché lì durante le notti fredde, alla luce delle lampade ad olio aveva ascoltate alcune tra le favole più esotiche che avesse mai sentito.
C’erano donne bellissime, scaltre che danzavano per ingannare gli occhi di chi le guardava, tesori nascosti dietro rocce imperturbabili che, pronunciata la giusta parola d’ordine, si schiudevano in grotte ricolme di gemme e preziosi, briganti e ladroni con scimitarre appuntite e giovani straccioni che improvvisamente diventavano ricchi sultani vestiti di seta e piume di pavone. Il tutto era estremamente affascinante.
Eppure, in un posto così ostile alla vita, ma anche così vivo e ricco di persone, era difficile sopravvivere, non solo per le condizioni climatiche o le difficoltà nel trovare dell’acqua, ma soprattutto perché le asperità avevano reso alcuni più maligni di altri, come spesso capita quando vivere si fa difficile, e accadeva che gruppi di uomini in groppa a cavalli veloci formassero bande che di notte sorprendevano qualche mercante indifeso lungo la via di casa, lo braccassero e ne rubassero tutte le ricchezze lasciandolo lì, la maggior parte delle volte morto alla mercé dei cani randagi. E proprio a questo triste spettacolo una volta Dicembre e Maggio assistettero, ma non inermi.
Era da qualche giorno che erano giunti in quella terra così esotica e selvaggia, ne avevano appena gustato i cibi speziati ed ammirato i colori caldi, e quella sera avevano deciso che avrebbero trascorso un poco di tempo sotto ad un palmeto, accanto ad un piccolo pozzo semisecco. Nel corso del loro breve soggiorno avrebbero appreso che le principali vie di comunicazione sorgevano lungo un percorso tracciato da piccoli pozzi, così che i viaggiatori potessero sostare ed abbeverarsi, senza farsi cogliere impreparati dal sole cocente del giorno.
Se ne stavano quindi lì seduti a guardare le stelle che brillavano luminose nel cielo notturno, quando in lontananza un puntino più luminoso degli altri si faceva strada in mezzo alla polvere del deserto: era un piccolo carro trainato da un mulo e guidato da un omino grassoccio e vestito con quei soliti abiti lunghi che gli fasciavano corpo e testa.
Mentre le mani tenevano flosce le redini dell’animale, fischiettava un motivetto carino accompagnato a volte da qualche parola sconclusionata: Balla bella Sherazade, e poi riprendeva a fischiettare, Racconta belle favole al Re… accanto ad un lanternino ad olio che veniva sbattacchiato a destra e sinistra a seconda dell’incedere dell’animale.

Maggio e Dicembre avevano spostato la loro attenzione su di lui, divertiti da quel motivetto e curiosi di sapere chi fosse poi quella bella Sherazade, ma, esattamente come il povero mercante, non si accorsero che quel semplice carretto, trainato da un placido mulo, non sarebbe assolutamente stato in grado di alzare tutto da solo quel polverone immenso che si stagliava alle sue spalle.
E di fatti quella nube di sabbia che si stava alzando non era affatto frutto della povera bestia da soma, ma di altri dieci stalloni veloci che stavano correndo nella sua direzione con in groppa altrettanti uomini armati e dal volto coperto da turbanti neri.
Erano scesi dalla duna che sovrastava la via mercantile ed adesso come uno sciame di vespe si stavano scagliando contro il povero mercante, che, non appena se ne fu accorto, non sapendo che fare aveva provato a spronare il mulo a correre, ma un mulo non è uno stallone e di sicuro non potrà correre altrettanto veloce, soprattutto se con il collo sotto il giogo di un peso di un carro pieno di merci.
Maggio si alzò in piedi, voleva fare qualcosa, voleva aiutare quel povero sventurato a cui sarebbe capitata in sorte una morte certa e per di più dolorosa, ma non sapeva assolutamente cosa potesse fare: far crescere qualche fiore, ammaliare i beduini con i profumi della primavera? Quegli uomini più che tali, sembravano animali inferociti, ma malvagi, qualcosa che un animale non sarebbe mai stato, attaccavano per brama di ricchezze ed erano disposti ad assassinare per questo.
Dicembre le afferrò il polso con fare risoluto. Certo gli uomini non potevano né vederla né farle direttamente del male, ma le lame delle spade erano mortali per chiunque avesse vita, tanto più che immortale non significa affatto intoccabile.
-Dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare qui a guardare!- gli urlò di contro lei cercando di sciogliere la presa salda di lui dal suo polso -Non c’è niente che puoi fare Maggio!- finalmente, con un ultimo strattone, si era liberata da quella mano fredda -Non sarò testimone di un omicidio!- c’era del disprezzo nelle sue parole, una delusione che toccò Dicembre nel profondo e lo fece soffrire terribilmente, come se a morirci lì fosse stato lui e non il mercante.
Ma Maggio si era già allontanata rapida ed era saltata al volo al fianco del mercante terrorizzato, che continuava a sbattere freneticamente le briglie del suo povero mulo. L’animale sfiancato continuava a correre all’impazzata, la sua schiena schiumava dalla fatica e suoni sgradevolissimi gli uscivano dalla bocca, come se agonizzasse ad ogni falcata, ma gli stalloni poco più dietro si facevano sempre più vicini e le urla dei briganti arrivavano chiare alle orecchie del mercante e della ragazzina invisibile seduta al suo fianco.
Assieme alle grida dei ladroni a Maggio era arrivata anche un’altra voce, più fredda, ma scossa tanto quanto lo era lei in quel momento -Cosa credi di fare?- le aveva urlato Dicembre poco prima che lei saltasse ed adesso se lo stava proprio chiedendo: cosa credeva di fare?
Affiancarsi all’uomo le era sembrata l’unica soluzione, sul momento, a piedi non avrebbe mai fatto in tempo né a raggiungere lui, né a superare i cavalli degli inseguitori, l’unica possibilità era stata quella di cogliere al volo il passaggio quando il carro le era corso davanti, poi, si era detta, avrebbe pensato al da farsi, eppure ora non le veniva in mente niente che potesse aiutarla.
-Salta! Maggio devi saltare giù!- le stava intanto urlando Dicembre alle spalle, ma il grido le arrivò spezzato perché in quel momento i briganti avevano superato il ragazzo ed interrotto le sue parole con le loro grida diaboliche.
-Dannata ragazzina- disse Dicembre a denti stretti -Quanto potrà mai essere sciocca!- si era messo a correre il più veloce che poteva. Vedeva i dieci cavalli neri correre come una masnada impazzita verso il carretto del mercante, sul quale poteva scorgere una testolina bruna voltarsi verso di lui e delle braccia fargli strani gesti.
Maggio non aveva evidentemente alcuna intenzione di saltare giù, voleva aiutare quell’uomo e per farlo stava costringendo Dicembre, le cui possibilità erano sicuramente al momento più efficaci delle sue a fare qualcosa, o per lo meno sperava che facesse qualcosa.
Lui continuava a correre a per di fiato dietro a quella folla scura e confusa, era più veloce di un uomo adulto, più veloce anche di un mulo, ma certamente non riusciva ad eguagliare in velocità dieci stalloni allenati -Dannazione! Ti farai ammazzare a startene lassù!- provò ad urlarle di nuovo, ma lei non dava segno di voler scendere, anzi gli sembrò quasi che quegli occhi azzurri che erano stati con lui così dolci ora lo guardassero con un aspro rimprovero, il rimprovero contro chi non avrebbe fatto nulla ed anzi avrebbe lasciato accadere tutto.
Nel frattempo Maggio sperò che Dicembre avesse compreso ciò che lei voleva lui facesse, ora si sarebbe occupata di ciò che sapeva fare meglio: portare serenità, pace e riposo. Si mise in piedi, non senza fatica e con un balzo abile saltò in groppa al povero mulo esausto e, a cavalcioni sull’animale, provò a tranquillizzarlo.
Se gli uomini infatti non erano in grado di vedere o toccare una creatura immortale, non era assolutamente lo stesso per gli animali, loro infatti vedevano e sentivano tutto e, se avessero avuto il dono della parola, avrebbero comunicato agli uomini che, quelli che loro chiamavano diavoli o fantasmi, erano in realtà esseri buoni e gentili, innamorati di loro.
Maggio accarezzava la chioma bagnata del mulo ed intanto all’orecchio gli sussurrava parole dolci.
-Ci sono io qui con te, ora non sentirai la fatica e non sentirai l’affannarsi delle tue ossa. Io ti darò la forza per correre più veloce- detto ciò appoggiò la fronte sul capo dell’animale cercando di prendere su di sé tutta la sua fatica e donando a lui freschezza e forza per procedere, ma assieme alla spossatezza della carne in lei si riversò anche tutta la paura di quel poveretto che non capiva cosa succedesse attorno a lui, ma aveva solo sentito le briglie dare ordini convulsi ed urla raccapriccianti arrivare dalle sue spalle. -Oh, povero animale- disse Maggio con le lacrime agli occhi e si avvinghiò al suo collo, nel tentativo di donargli qualunque briciolo di forza che le fosse rimasto.
Dicembre continuava intanto a correre maledicendo le sue gambe per essere così lente, maledicendo quei briganti per essere spuntati fuori dal nulla, ma soprattutto maledicendo Maggio per non aver lasciato che le cose seguissero il loro corso.
Si fermò esausto e comprese che cosa avrebbe dovuto fare, Maggio si era comportata con lui come lui aveva fatto con lei quel giorno al cancello. Lui le aveva detto in un momento di confidenza alla vecchia casa che il suo amore per gli uomini era incondizionato, che sarebbe stato disposto a passare oltre a qualunque loro debolezza, tanto appassionatamente li amava, mentre lei aveva sottolineato che se si amasse davvero qualcuno se ne vorrebbero correggere i difetti, si desidererebbe che non si addentrasse nel male, ma lui non ne era rimasto molto convinto.
Ora Maggio lo stava costringendo a fare qualcosa, a non guardare dall’altro lato di fronte ad un errore dell’uomo, ma a prendere con le sue mani la sorte di quel povero mercante e, a quel punto, anche della sua amica. La domanda che gli ronzava nella mente infatti era davvero avrebbe perdonato agli uomini la morte di lei? E la risposta venne facile a galla. No.
Piantò i piedi saldamente al suolo ed ispirò profondamente.
All’improvviso, sorta dal nulla davanti ai dieci briganti, una bufera di neve si presentò improvvisa e mai vista dagli occhi di chi conosceva solo il deserto. I cavalli si imbizzarrirono, qualcuno di questi se ne scappò via lasciando a terra il suo cavaliere disarcionato, ma ciò che spaventò ancora di più, non solo gli animali, ma anche gli uomini, fu che da quel vorticare furioso di neve comparve un immenso volto indistinto.
Aveva bocca, naso ed occhi, ma non capivano dove quella faccia adirata avesse inizio e dove invece avesse fine, tanto i suoi tratti si perdevano nel vento gelido che la formava. Parlò.
-Voi, umani, siete meschini, maligni ed avidi. Attaccate solo per accumulare ricchezze, indifferenti del grande dono della vita che vi è stato fatto e che non avete diritto di sottrarre ad altri- i briganti a cavallo erano rimasti esterrefatti, che fosse quella la voce di Dio? Improvviso, sulla loro testa, il cielo si rabbuiò e scariche di ghiaccio iniziarono a cadere dal cielo ed infrangersi pericolosamente al suolo.
-E’ la maledizione di Dio- urlava uno -Dio ci punisce- urlavano altri, ma tutti indistintamente si voltarono indietro e scapparono nel buio della notte, raccogliendo sul dorso dei loro destrieri chi il proprio l’aveva perduto. La bufera e il volto in quella si dissolsero.
Maggio era stata ad osservare tutto dal collo in tensione del povero mulo ed ora, sfinita, si era nuovamente avvicinata alle orecchie dell’animale -Tornatene a casa ora, sei protetto, e porta con te il tuo compagno- detto ciò si lasciò scivolare sulla sabbia, madida di sudore per tutta la fatica che gli aveva rubato, in cambio di nuova forza. Il carretto si allontanò, salvo, nelle dune del deserto.
Dicembre le fu presto accanto -Cosa pensavi di fare? - le chiese adirato -Per poco non ci rimanevi ammazzata! - lei gli sorrise dal basso verso l’alto -Ho fatto esattamente quello che hai fatto tu con me. Ti ho costretto a far forza su di te ed alla fine hai salvato un uomo-
-Maggio, potevi morire! –
-Ma io sapevo tu non mi avresti lasciata morire e così è stato-
-Quanto puoi essere sciocca- le disse lui sorridendo e le si sdraiò al fianco, godendosi quel meritato riposo e scoprendo un sollievo inaudito per la salvezza della sua amica ed una tensione che, se fosse stato esperto, non avrebbe chiamato amicizia.

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Capitolo 10
*** Gli Egoisti ***


Luglio era in piedi sulla spiaggia, il mare gli bagnava i piedi nudi lasciando la sua pelle color ebano brillare inumidita, quasi fosse stata ossidiana.
Poteva sentire il peso del suo corpo, quella strana sensazione di sprofondamento che ti dà la sabbia impregnata d’acqua una volta che il mare l’ha ingoiata ed i piedi scendono nel fango morbido.
Una sensazione bellissima per lui, sensazione che andava ricercando ogni anno sulle coste della terra.
In piedi, sulla spiaggia vedeva la sconfinatezza del mare davanti ai suoi occhi bruni, la luce abbacinante regalava alla superficie piatta piccoli cristalli sfavillanti e mobili, pezzetti di vetro caleidoscopico, che scattavano tra una piccola increspatura e l’altra.
Accanto a lui, senza che se ne accorgessero, c’erano due uomini che armeggiavano con funi e reti di una piccola barca per la pesca, tirata sulla riva; la pelle bruciata dal sole di tanti anni passati per mare, i capelli radi e denti storti in bocche sgangherate, stavano parlando in una lingua morbida, per quanto un suono possa poi esserlo.
Sentirli parlare era come sentirli cantare e quando cantavano Luglio faceva fatica a rendersene conto credendo che stessero ancora parlottando tra loro, ma, nella sua lunga esperienza, si era ormai reso conto che le sue stesse difficoltà le riscontravano anche gli altri mercanti e marinai con cui questi uomini si incontravano per fare affari e vendere merci.
Si stavano lamentando della calma piatta che ormai da qualche settimana impediva loro di partire e lasciare la costa; non un alito di vento si era alzato e aveva gonfiato le loro vele, solo qualche sbuffo ogni tanto che faceva leggermente increspare le acque.
Luglio sapeva perché i due uomini fossero così contrariati, quello per loro era il periodo del mare aperto, quando è sicuro mettersi sulle navi perché i venti sono buoni, favorevoli, e li spingono lungo rotte conosciute. Durante il mare aperto non sono costretti a navigare a vista, a costeggiare la terra ferma, ma possono addentrarsi in linea retta nelle acque più profonde, tagliando la strada ed impiegando meno tempo del previsto.
E per i mercanti impiegare poco tempo è sempre la scelta migliore da farsi, tanto più che navigare risultava essere alquanto pericoloso, non solo perché una cattiva bonaccia o un’improvvisa tempesta estiva avrebbero potuto far scomparire nelle profondità degli abissi preziosi carichi, ma perché assieme a quelle spezie, a quel grano e vino, anche le loro vite se ne sarebbero andate giù.
Andare per mare era sì un grande rischio, voleva dire scommettere tutto quello che si possiede con la speranza avida di averne di più e non tutti condividevano questo modo di vedere il mondo.
No, anzi, molti lo deprecavano.
-Mia madre me lo ha sempre detto, Mikka, ha sempre detto che coltivare un pezzo di terra era più sicuro, che gli Dei non vogliono che gli uomini si arricchiscano e si insuperbiscano-
-Tua madre era una contadina, Malek, non aveva messo piede su di una nave e non aveva mai visto i mercati delle isole centrali, non ne sapeva nulla di commercio, è ovvio che ti dicesse tutto questo. Sei troppo superstizioso-
-Eppure, qui non spira vento da due settimane e se dovessimo aspettare ancora finirà che ci ritroveremo in viaggio quando il mare sarà chiuso-
Luglio aveva già sentito anche quell’espressione: il mare si chiudeva quando si approssimava la stagione della vendemmia e si avvicinava l’autunno, allora si ritiravano le barche e le si rimetteva in secca e si attendeva di nuovo il periodo bello.
Erano anche abbastanza precisi nel calcolare quando il mare diventasse chiuso, sapevano che quando la costellazione delle Peleiadi fosse tramontata allora il mare non sarebbe stato più accessibile, ma invece assai pericoloso sfidarlo. Alcuni parlavano della cintura di Orione, ma arrivavano sempre alla stessa conclusione. Quando il mare si chiude, navigare può significare solo morte.
-Vedrai che spirerà il vento e partiremo, c’è ancora tempo- diceva nel frattempo Mikka mentre armeggiava cona alcune reti rovinate che andavano riparate. -Non mi preoccupa il fatto di non partire, ma quello di non tornare, ci vuole più di un mese di viaggio per andare al porto del Sud, e anche a tornare, rischiamo di doverci fermare per l’inverno lontano da casa-
-E che problema sarebbe? Qualche anno fa ci siamo fermati in una delle piccole isolette del nord, e non mi sembra che ti avesse dato fastidio l’accoglienza- Malek, che stava raccogliendo i pesci pescati quella mattina per riporli nel secchio, alzò lo sguardo accusatorio sull’amico -Non sono certo io quello che ha disseminato cuori spezzati in giro per i vari scali- l’uomo si mise a ridere pensando alle sue avventure amorose per il mondo -Bene ed allora che vuoi fare? Vogliamo andare avanti così per tutto il tempo, con questa piccola barcarola a pescar pesce lungo la costa? –
-No certo che no- rispose a bassa voce Malek ed in quel momento un pesce ancora arzillo gli sgusciò via dalle mane finendo nella risacca di un onda che se lo portò via, in salvo.
-No, odio questo lavoro ed ho bisogno di più soldi per saldare i debiti, ma se qui non tira vento andrà a finire che rimarremo con un pugno di sabbia e qualche triglia in più-
-Soffierà vedrai- lo rassicurava intanto Mikka, ma anche in lui la speranza cominciava a venir meno, in fondo non era rimasto sordo ai racconti del naufrago ripescata qualche anno prima al largo della costa da alcuni pescatori: il mare in tempesta aveva risucchiato tutti i suoi compagni e i suoi averi, quello, diceva, era il Dio che puniva la loro tracotanza.
E poi c’erano ovviamente i terribili racconti delle Sirti, li avevano ascoltati più e più volte nelle taverne degli scali del sud. Dove il deserto si affacciava sul mare, lì l’acqua diventava paludosa ed era impossibile muoversi. Dove il deserto incontrava il mare, lì c’era solo vuoto e silenzio, tanto cielo, tanta sabbia e troppo poco mare, lì non c’erano villaggi o città, rimanere incagliato nelle Sirti voleva dire morire di caldo, di sete e di inedia.
In pochi si erano salvati ed i racconti che avevano riportato con sé erano di atti terribili, di compagni che divoravano i corpi morti degli altri, di pelle che si squamava sotto il caldo e la salsedine e di teste che impazzivano ed invocavano la morte. Le Sirti erano luoghi terribili e ritrovarsi in mare quando questo fosse stato chiuso li avrebbe potuti portare fin lì. Malek ebbe un brivido freddo lungo la schiena piegata dagli anni e dalla fatica.
Luglio era rimasto ad ascoltarli, mentre sbrogliavano le reti vecchie e raccoglievano la pesca migliore, gettando in mare ciò che non serviva.
Poco più dietro rispetto alla caletta dove i due stavano lavorando, superando gli scogli a strapiombo sul mare c’era una cittadina, si vedeva il fumo risalire il cielo in arabeschi grigi e bianchi. Non una grande città, Luglio l’aveva ormai imparato, non il famoso porto del Sud, meta ambita da tutti i mercanti del Grande Mare, ma una decente opzione per non morire di fame e di debiti.
-E quando avrai dato al vecchio ciò che gli spetta che farai?- Mikka si era fermato a guardare la vastità del mare in lontananza e l’altro lo imitò -Non so sai, io non ci ho mai pensato, ogni volta che lo pago mi ricordo di dovergli qualcos’altro. Non ho mai pensato a quando avrò saldato tutto, tu che faresti?-
-Io- rispose l’altro ridendo sguaiatamente – Me ne andrei in tutti i bordelli del mondo e mi godrei quel che mi resta-
-Non fare lo scemo-
-Hai ragione, scusa. No io penso che mi prenderei un pezzo di terra, la coltiverei, magari mi sposerei pure, farei qualche marmocchio che mi stia accanto fino a che non tirerò le cuoia, tutto qui-
-Credo che ti annoieresti-
-Già, lo credo anche io- e tornarono al loro lavoro di sempre.
Gli fecero pena quei due pescatori che avrebbero solo voluto arricchirsi un po’ di più, permettersi magari vestiti migliori o sdebitarsi e decise che avrebbe fatto loro quel dono che tanto desideravano.
Nei suoi piani quell’anno non avrebbe dovuto spirare troppo vento, la bonaccia non doveva essere eccessiva, l’anno precedente aveva causato qualche danno di troppo, ma di fronte a quei discorsi di uomini, lui che uomo non era, non poté fare a meno che intenerirsi, come un padre di fronte ai capricci dei figli, ed, arrendevole, dar loro ciò che chiedevano.
Aspettò che i due si caricassero le reti sulla schiena, Malek si calcò il cappello di paglia sulla testa abbronzata, sperando di proteggersi un poco dal sole cocente, ed allora lui soffiò.
Il suo alito caldo si propagò nell’aria, ed un soffio potente fece volare via il copricapo dell’uomo, facendolo finire chissà dove in acqua, irraggiungibile.
-Mikka! Mikka! Che sia arrivata finalmente la bonaccia? – chiese uno speranzoso -Non so, dovremmo aspettare almeno domani per esserne certi, ma sembra proprio che il vento stia cambiando- ma infondo, felice, sapeva che il giorno dopo sarebbero partiti per il Sud.
Luglio li spiò andarsene via felici, risalire l’altura e sparire tra i fumi della città in lontananza. Si sedette per terra e lasciò che l’acqua salata gli bagnasse il corpo.
Quanto amava la terra, tutti loro la amavano, ma ogni anno si sorprendeva a scoprire quanto fosse bello scendere lì tra gli uomini, ascoltarli, vivere a fianco loro, anche senza che si accorgessero di lui, e fare loro dono di sé, del suo atto creativo, della sua essenza. Appagante e magnifico, donarsi agli uomini, ciò per cui era stato creato.
Gli uomini non sapevano di lui, non immaginavano ciò che Luglio ed i suoi fratelli facessero, semplicemente vivevano i loro doni come tali, senza dare nulla in cambio, ma nessuno dei dodici mesi si sarebbe mai aspettato nulla, donarsi gratuitamente agli uomini era ciò che amavano di più. O almeno questo era quello che lui credeva e che pensava tutti provassero.
Era stato affidato loro un compito con delle regole, regole necessarie perché tutto trovasse un equilibrio, regole perché questo mondo fragile non si distruggesse, perché il caldo portasse frutti che il freddo avrebbe strappato, donando al mondo nuova linfa in un ciclo infinito di morte e rinascita eterne.
Tutto così perfetto, ogni ingranaggio perfettamente oliato.
Pensando tra sé e sé a tutta questa sua soddisfazione, si librò nell’aria verso i paesi dell’Ovest, sulle terre dove il sole tramonta, il suo corpo era pulviscolo di calore e luce, volava ad una velocità che un uccello non avrebbe mai eguagliato, non importava quanto ampie fossero le sue ali.
Sentiva però anche il calore dell’aria che gli accarezzava la faccia, domandandosi poi quale faccia, dal momento che del suo corpo nulla era rimasto, se non una coscienza che aveva memoria di sensazioni corporee che fino a qualche minuto prima aveva realmente provato.
Volava così veloce, infatti, che l’aria non avrebbe mai potuto esser calda, anzi fredda gli avrebbe ghiacciato i riccioli bruni, ma di questo i suoi capelli non avevano memoria, oltre al non avere più sostanza, e la sua mente ricordava solo il dolce tepore della spiaggia assolata.
Un Miracolo della creazione che gli permetteva di sfruttare al meglio quei pochi giorni che ogni anno riceveva in dono per recarsi sulla terra.

 Sul marciapiede lastricato si materializzò prima un piede scalzo dalla pelle scurissima, poi una gamba, seguita da un busto, braccia ed un volto. Luglio si era ritrovato nel centro della più grande città dell’Ovest, un posto fatto di case dai tetti spioventi e grandi finestre, dove la natura aveva poco spazio e veniva recintata in giardini curati, vasi ed aiuole.
Vedeva Donne eleganti aggirarsi sotto deliziosi ombrellini che proteggevano pelli di porcellana, seguite da abiti ingombranti che ai suoi occhi le trasformavano i soffici meringhe. Certo l’Ovest non era il suo posto preferito, apprezzava molto più la spontaneità dell’Est o l’esoticità del Sud, ma tutto il mondo aveva il diritto di attingere da lui, e lui non aveva diritto di negarglielo.
Notò come l’atmosfera fosse luminosa e carica di gioia, ma ricordava che fino ad un anno prima non era certo quello il clima che vi aveva regnato.
Qualche tempo addietro un regno aveva imposto un ultimatum all’altro ed era ormai da molto tempo che qui si combattevano guerriglie snervanti, che monopolizzavano ogni attenzione.
Passò accanto ad una tipografia, dai vetri torbidi poteva scorgere le pagine di chissà quali libri appese ad asciugare, mentre due uomini, o meglio, un uomo ed un giovanissimo garzone lavoravano alle stampe in maniera forsennata. Si chiese che cosa stessero stampando di così urgente, ma subito la sua attenzione fu catturata da altro.
Poco più in là, nella piazza, si stava tenendo una festa, vedeva gli striscioni appesi da un capo all’altro dei comignoli, e sentiva la musica risuonare tra le viuzze piene di gente in ghingheri che si affrettava ad andare a festeggiare gioiosa. Un uomo sventolava dei volantini, alzava le braccia e le muoveva freneticamente: -E’ finita! La guerra è finita!- andava urlando, mentre altri seguivano il suo richiamo e gridavano di gioia, muovendo verso la piazza sempre più gremita di gente. Ecco cosa stavano stampando i due tipografi, volantini per la fine della guerra. Luglio ne fu felice, quella gente meritava di vivere nella pace, come tutti gli uomini del resto, era giusto che ora festeggiassero e dentro di sé sperò che non ricadessero nell’errore della violenza a breve. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, quello era parte della natura degli uomini e lui non avrebbe potuto impedirlo, ma sperò ugualmente che per un poco almeno si fossero placati.
La folla nella piazza era tale che non c’era spazio per muoversi, ovunque vi erano damigelle che ballavano e soldati blasonati che le accompagnavano nella danza, una danza fatta di cerchi che si incastravano gli uni negli altri in forme sinuose. Luglio si spostò sulla cima di un tetto per apprezzare meglio tutta quella felicità e serenità, dopo tanto tempo di paure e ansie. Gioì per loro e si commosse assieme ad una ragazza che finalmente aveva detto di sì al suo amato inginocchiato davanti a lei, ora che la guerra era finita era tempo di speranza per il futuro, ma in tutta quella gioia c’era qualcosa che stonava, che non era al suo posto, lo percepiva, sentiva un ingranaggio che si era incastrato.
Ed ecco l’errore, lì nascosto tra la folla, eppure così palese ai suoi occhi ed alla sua essenza. Due figure ballavano tra gli uomini, ma uomini non erano; un giovane dai capelli bianchi ed una ragazza vestita di petali stavano danzando e festeggiando, come se quella festa fosse anche loro. Luglio sentì una sensazione terribile divorargli il cuore, sapeva perfettamente chi fossero quei due, sapeva che lì non sarebbero dovuti stare, sapeva che stavano rompendo un orologio dove ogni vite aveva il suo posto preciso. Egoisti, ecco che cosa erano quei due, degli egoisti che stavano mettendo a repentaglio un ordine fragile, che stavano mettendo a repentaglio la vita degli uomini.
Ne doveva informare sua madre, lei avrebbe saputo che fare.
 

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Capitolo 11
*** Core ***


Quella volta aveva deciso che sarebbe partita lei per prima. Ormai aveva abbastanza sicurezza per aprire il suo cancello in tutta serenità e quello le obbediva come se fosse sempre stato così, ma ogni volta si sorprendeva di come invece non lo fosse mai stato.
 Secoli vissuti all’interno di quelle inferiate e mai era riuscita ad uscirne quando avesse voluto, mai vi aveva anche solo pensato, ed ora, grazie ad un tipo piuttosto bizzarro, aveva invece scoperto che era tutto così facile, che la volontà può avere un potere inaudito, capace di aprire porte chiuse da tempo.
Ma adesso toccava a lei partire, voleva viaggiare da sola fino al suo di giardino, voleva fargli vedere che aveva imparato a volare senza istruzioni, che sapeva visualizzare i luoghi dove recarsi, anche senza esserci mai stata. Voleva che lui fosse fiero di lei, come Aprile non era mai stato, come sua madre non era mai stata. L’aria le frizzava nel naso dall’eccitazione.
Si avvicinò alle sbarre di ferro battuto.
Se le prime volte queste erano ritrose, quasi si allontanavano da lei al suo incedere, adesso invece si sottomettevano subito al suo volere, senza che dovesse dire nulla, senza che dovesse neanche pensare, erano parte della sua volontà, come tutto il suo giardino.
Aveva sempre vissuto quello spazio come prigionia, una bella cella colorata nella quale cercare di far rinascere flebili copie di ciò che vedeva sulla terra, ma non aveva mai pensato a come quello spazio fosse in realtà profusione della sua essenza, a come tutto quel luogo fosse casa sua e come, in quanto tale, la amasse e le ubbidisse, fedele.
Dentro di sé fu grata di aver incontrato Dicembre, gli fu grata di averla prima spaventata e poi accolta, così come lei aveva accolto lui.
Per la prima volta in tutta la sua vita, provava una sensazione nuova, non era l’affetto dovuto ad Aprile, in quanto suo fratello, non era l’affetto dovuto a sua madre, in quanto tale, era un affetto scelto, spontaneo e genuino, un affetto che si era costruito mano a mano e che era ancora in via di costruzione.
Se fosse stata una casa, quell’affetto sarebbe stato ancora alle fondamenta, ma almeno avrebbe avuto delle fondamenta, mentre quell’amore che lei provava per i fratelli e per la madre di fondamenta non ne aveva, si era sempre sorretto su di un equilibrio fragile, di cui lei non si era mai accorta, ma lui finalmente le aveva aperto gli occhi, forse nemmeno volendolo, e di questo gli era davvero grata.
Fece un ultimo passo verso l’ingresso e quello si schiuse delicatamente sopra a quel mare di nebbia indistinta e di silenzi infiniti.
Respirò a fondo e nella sua mente visualizzò un altro giardino, copia del suo, ma come Dicembre glielo aveva descritto.
Le inferiate ghiacciate e lucide, l’erba sommersa dalla neve soffice ed alti alberi magri con foglie aghiformi sulle quali si era cristallizzata la brina. Un lago ghiacciato che, come uno specchio, rifletteva quella vertiginosa altezza di rami ed abeti che si allungavano verso il cielo. Un ragazzo sparuto, da solo che aspettava.
Si slanciò nella nebbiolina, il copro si dissolse e d’improvviso non fu più nulla. Solo un pensiero le sgusciò via dalla mente, prima che anche questa si dissolvesse, non sapeva nemmeno lei perché ci avesse pensato, ma eccolo lì che in una frazione di secondo le si manifestava davanti agli occhi ormai non più occhi: molto buio.
 
Quando riprese forma non si trovava esattamente dove credeva che si sarebbe ricomposta, non c’era il cancello, non c’era la neve e non c’era Dicembre ad aspettarla.
C’era solo quel molto buio a cui aveva inavvertitamente pensato prima di slanciarsi nel vuoto.
Non capiva di preciso dove fosse, in realtà non riusciva a vedere ad un palmo dal suo naso, ma non si era preoccupata più di tanto, Dicembre le aveva spiegato che alle volte si finisce per errore in zone di mezzo, che non sono né qui, né lì, e si deve solo prestare più attenzione nel viaggio successivo.
In fondo non aveva paura, infatti, doveva solo riprovare, al primo tentativo raramente si riesce a raggiungere i propri obiettivi, ma proprio quando stava per ripartire, dal buio intravide qualcosa di grande.
Quell’oscurità nella quali si muoveva era densa, come se fosse stata la nebbia dalla quale era partita che aveva solo cambiato colore: c’era nebbia sopra alla sua testa, e sotto i suoi piedi, davanti e dietro, ma riusciva a vedere qualcosa oltre la nebbia.
Tra le coltri si ergeva qualcosa di grande e di lucido che rifletteva una luce che lei però non riusciva a vedere, o meglio, non capiva da dove arrivasse, data l’oscurità che regnava in quel luogo. Ma, più che l’oscurità, a metterla fortemente a disagio era la solitudine che vi percepiva, non era nemmeno la solitudine sua o di Dicembre, né di Aprile o Marzo, era molto più profonda e radicata, come se in quel posto non ci venisse nessuno da sempre, come se fosse stato dimenticato o si fosse fatto dimenticare.
Incuriosita mosse alcuni passi verso quella grande cosa luminosa e più avanzava e più le sembrava di camminare sul vuoto, ma non appena la pianta del piede toccava il pavimento inconsistente, quello prendeva sostanza e, come fosse stato vetro, sorreggeva il suo peso permettendole di avanzare.
Ed eccola finalmente, stava davanti a quella strana cosa luminosa e si rese conto che non era una cosa, ma una casa, una grandissima casa che risplendeva di una luce pallida in quel buio soffocante.
Forse non doveva trattenersi lì ancora, Dicembre la stava aspettando e lei non sapeva dove si trovasse, né a chi appartenesse quell’imponente dimora, però sentiva una curiosità troppo forte divorarle il cuore.
Non era come quando si era imbattuta nella selva tetra dove aveva incontrato Dicembre, era diversa, era una voglia di sapere lancinante, come se il suo stesso corpo fosse attratto dalla domanda che le ronzava nella testa. Chi?
Non sapeva neanche lei perché stesse proprio pensando a quel quesito senza capo né coda. Chi, cosa? Perché chi? Perché non dove o quando? Ma la domanda rimaneva lì: Chi?
Tutto di quella casa era troppo grande e snaturato, la porta a cui era arrivata era di un’altezza vertiginosa, che mai Maggio avrebbe potuto aprire da sola, ma poi ricordò il potere della volontà che aveva tanto decantato qualche momento prima e decise di tentare. Mal che vada non si sarebbe aperto e lei se ne sarebbe andata via.
Non aveva però nemmeno formulato l’ordine che la porta le si era già schiusa dinnanzi, fatto molto strano, dal momento che non era stata la sua volontà ad aprirla.
Dovrei andarmene via, continuava a pensare, Non dovrei starmene qui, ma quel chi? invadente le ronzava nella testa senza darle tregua.
Entrata nel Palazzo si rese conto che la nebbia densa e nera che vi regnava fuori, in realtà dominava anche l’interno.
Saliva su per le scale e contornava le pareti, che però, riflettendo la luce malata, si mostravano in un’ottica strana, come e il tutto fosse terribilmente offuscato e poco chiaro, così poco lucido che anche la stessa Maggio faceva fatica a ragionare, come se la sua testa si stesse lentamente ammalando assieme a quella stranissima dimora buia e luminosa allo stesso tempo.
Non sapeva precisamente dove dovesse andare, pensava solo forsennatamente chi? chi? chi? ed i suoi piedi si muovevano da soli, come se fossero a conoscenza di particolarità delle quali la sua testa non era stata anticipatamente informata.
Salì un’enorme rampa di scalda, ogni gradino richiedeva alle sue gambine di alzarsi spropositatamente e in cima alla rampa si scoprì stanca come se avesse scalato un pendio ripido ed impervio, e quest’immagine di poco si distanziava dal reale infatti.
Imboccò una serie di corridoi senza spere nemmeno lei dove si stesse recando. Non conosceva quel posto, eppure sapeva dove andare e sapeva di dover trovare risposta ad una domanda insistente ed insensata: chi?.
Sapeva che la porta da prendere era quella sulla destra e non sulla sinistra, sapeva che dopo la porta avrebbe dovuto svoltare a destra e salire altre scale, ma ciò che veramente non sapeva era perché sapesse poi così tanto, in fondo non aveva mai visto quel posto, perché invece le sembrava di ricordare dove dovessero andare i suoi passi, come se ci fosse un obiettivo da perseguire, un centro del labirinto a cui aspirare.
I piedi si interruppero, improvvisamente quell’istinto che la stava muovendo era scomparso di fronte ad un portone gigantesco, molto più grande rispetto a tutti gli ingressi che fin lì aveva visto.
Perché si era fermata? Perché era arrivata senza esitazione fino a lì? Non aveva una risposta a nessuna delle due domande, ma sapeva che la vera risposta, quella che l’aveva attratta a sé, sarebbe arrivata oltre quella porta.
Non si stupì più di tanto quando anche quella grande struttura di alabastro, la cui luminosità era oscurata dalla nebbia nerastra, che non l’aveva mai abbandonata, le si schiuse davanti agli occhi spalancandosi di fronte ad una sala spoglia.
Era un ambiente dai soffitti vertiginosi e dalle dimensioni spropositate, rese ancora più grandi dal vuoto che vi regnava.
Non un quadro, non un mobile o un lampadario che pendesse dal soffitto, non un tappeto, un tavolo, niente di niente, tranne che per una figura ricurva su sé stessa che le dava le spalle.
Anche lei come tutto il resto aveva quel colorito che doveva risplendere, ma che invece risultava annebbiato ed offuscato, anche lei come tutto sembrava malata e stanca, anche lei come tutto il resto aveva proporzioni gigantesche; la sua sola schiena era alta almeno cinque volte l’intera Maggio.
La figura era scossa da singulti convulsi.
Che stesse piangendo? Era questa la risposta alla domanda, un gigante in una sala vuota che piangeva in silenzio? Quantomeno bizzarro.
Ma Maggio sentiva dentro di sé che quel gigante non era un gigante, ma altro ancora, ne provava timore, sentiva la pelle del corpo ricettiva ad ogni suo movimento, la sua gola ingoiava a vuoto di fronte a quell’enorme spina dorsale che si intravedeva al di sotto di una schiena amplissima, disumana.
Fece un passetto timoroso in avanti, ma la figura, come resasi conto di non essere più sola in quella grande sala, si voltò leggermente, lasciando visibile un profilo di donna, o così credette almeno Maggio, data la difficoltà nel vederci chiaramente.
Il naso era spigoloso e la bocca gigantesca se ne stava semichiusa, come se dovesse riprendere aria dopo i tanti singhiozzi. Lo sguardo era allucinato, alienante, non sembrava lo sguardo di una persona normale, ma ormai Maggio aveva capito che quella grande figura dai capelli neri che le ricadevano bagnati sulla fronte di normale non doveva avere proprio nulla. Le palpebre calarono sui grandi occhi ancora impregnati di lacrime per pulirle la visuale su quella figurina minuscola e spaventata che le stava davanti, tremante.  
L’enorme bocca carnosa sembrò aprirsi in un sorriso terrificante, il sorriso di un pazzo ed una lingua rossa schioccò -Core? Core, sei tu? -.
Che voce terribile aveva profuso quelle parole, una voce che non era come quella della madre, ma nemmeno come quella di Aprile o Dicembre, non sembrava neanche quella degli uomini sulla terra. Non era voce di donna, né voce di uomo, sembrava essere entrambe, sembrava che per ogni suono dalla gole ne riecheggiassero altri cento o più. Maggio si portò le mani alle orecchie doloranti.
La vide alzarsi in tutta la sua monumentalità, e protendersi, con gesti lenti e fiacchi, verso di lei, allungare la mano per coglierla, come fosse stata un fiore di campo.
Andarsene, doveva andarsene da lì, maledetta lei e la sua curiosità che ogni volta la faceva finire sempre in situazioni scomode e pericolose.
Il cuore le batteva ad una velocità spropositata, la paura ormai le aveva avvinghiato ogni vena che aveva in corpo, sbiancata in volto, il sangue sembrava averla abbandonata e la mente terrorizzata saltava da un pensiero di fuga ad un altro come un grillo.
Che fare? Dove andare? Dove fuggire? Nel frattempo, la mano gigantesca si stava avvicinando, ma con una lentezza inaudita e la voragine nera, bocca della creatura, continuava a domandare speranzosa -Core? Sei tornata da me? Mi hai perdonata?- provocando alla ragazza fitte dolorose alle orecchie.
Maggio cominciò a guardarsi attorno, ma oltre alla grande porta non c’erano altre vie d’uscita.
 -Core, piccola mia, ti prego dimmi che mi hai finalmente perdonata- l’ultima frase era stata un rantolo ucciso da un singulto, spia di un pianto imminente.
Quella grande creatura continuava ad avanzare verso di lei, o meglio, più che procedere sembrava trascinarsi sul pavimento, come se quel dolore che la prendeva fossero pesanti catene che le impedivano di muoversi
Illuminazione.
Si trovava ancora immersa nella nebbia, non se n’era mai andata, ecco la nebbia era la sua uscita di sicurezza.
Chiuse gli occhi e pensò intensamente a Dicembre con tutto il suo corpo, con tutta la sua anima, cercando di rimanere sorda a quella supplica terribile che le arrivava ormai da lontano -Core ti prego perdonami- pensò ai giardini di ghiaccio, pensò agli abeti, pensò anche alla neve che cadeva, pensò al sorriso di lui, pensò al suo affetto ed a quanto ora gli volesse stare accanto.
-Core!Core! Non andare- ma Core lì non c’era mai stata, c’era solo un piccolo petalo, ricordo di una ragazzina spaventata che si era dissolta in cerca di appigli sicuri.
 
 
 

 

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Capitolo 12
*** Mitologia ***


Neve, ghiaccio, freddo. Neve, ghiaccio, freddo.
Aveva pensato con tutta sé stessa a queste tre cose nell’arco di tutto il suo viaggio, non voleva rischiare che qualche pensiero indesiderato sfuggitole dalla mente potesse condurla in qualche altro luogo terribile.
Un solo, piccolissimo pensiero l’aveva condotta in un luogo in cui non avrebbe mai dovuta recarsi e non voleva permettere che questo riaccadesse, anche se…
Anche se la curiosità, doveva essere sincera non l’aveva mai abbandonata: perché quella casa? E dov’era di preciso quel luogo? Non era lo spazio di mezzo che le aveva descritto Dicembre, no certo, lì non c’erano né case né giganti in lacrime. No, non un gigante, si corresse, una madre. Alla fine, effettivamente aveva trovato una risposta al suo chi? insistente, ma non sapeva madre di chi o di cosa, forse di quella Core che continuava a nominare, ma chi fosse questa Core Maggio non lo sapeva, non ne aveva minimamente idea e non aveva alcuna intenzione di tornare lì a scoprirlo, anche se…
Forse avrebbe anche potuto farlo, forse insieme a Dicembre non avrebbe avuto paura, forse lui avrebbe saputo cosa fare, e sicuramente lei con lui si sarebbe sentita più al sicuro e meno spaventata. Sentiva dentro di sé che i misteri di quella strana, enorme figura piangente, non erano finiti, ma solo iniziati e sentiva un legame, qualcosa di primigenio ed originario che la legava indissolubilmente a quel luogo spaventoso, qualcosa che l’aveva condotta proprio lì, ma quella Core, chi era quella Core, perché la doveva perdonare? Che cosa doveva averle mai aver fatto? E soprattutto quale grande torto le avrà mai fatto lei che era sua madre? Non sapeva come facesse a sapere del rapporto di filiazione tra le due creature, quella vista e quella citata, ma dentro di sé sapeva che la risposta era quella: madre e figlia. Chi fosse quella madre o chi o cosa fosse quella figlia, no certo, quello lo ignorava, ma sentiva dentro di sé che la risposta alla domanda chi? era Madre e Figlia. Una risposta importante, ma non ne capiva il senso, sapeva che era importante, ma era come se non riuscisse a ricordarsi il perché, e quell’ignoranza le perforava la mente, non riusciva a distrarsi dal dubbio e dalle domande, voleva saperne di più, ma aveva anche paura di farlo, voleva scoprire perché la Madre piangesse, che fine avesse fatto Core, perché la dovesse perdonare, che cosa le avesse mai fatto di così terribile, perché quel gigante fosse così sconvolto dal dolore da scambiarla per qualcun altro che lei evidentemente non era.
Nel turbinio di quei pensieri una mano amica le venne in soccorso.
Dicembre era lì con lei e le aveva appoggiato delicatamente un palmo sulla mano -Maggio? Come hai fatto a venire qui da sola? Non credevo fossi già in grado di farlo- ma quando lei alzò il volto sconvolto su di lui, Dicembre si accorse che qualcosa non andava e le si inginocchiò accanto -Cosa è successo? - chiese apprensivo.
Maggio non sapeva se raccontargli tutto o meno, non sapeva un bel niente di tutto quello che era accaduto qualche minuto prima, non lo capiva, ma voleva capirlo, ma non riusciva a discernere ciò che aveva visto davvero da ciò che forse si era solo immaginata, sempre che l’avesse solo immaginato.
-Dimmi che ti è successo- lei si asciugò una lacrima di spavento -Io… io volevo venire da te… volevo farti vedere che ero in grado, ma… mi sono persa-
-Sei finita nel luogo di mezzo? –
-No, no, almeno non credo, era buio come l’hai descritto tu, ma.. ma…-
-Cosa? – lui si fece più vicino. Quella ragazzina che gli aveva ridato forza, che l’aveva liberato con delicatezza dalla paura nella quale era rimasto annidato a lungo, adesso aveva bisogno del suo aiuto, e lui non glielo avrebbe certo negato, non ne aveva alcuna intenzione.
Anzi, percepiva un senso di disagio, come se la sofferenza di Maggio, fosse anche una sofferenza sua, come se non potesse sopportare di vederla così, tremante e spaventata, ma sentiva anche un senso di impotenza. Che fosse quello provare affetto sincero per qualcuno?
-Lì c’era una casa, non proprio una casa, era enorme e luminosa, ma anche buia- provò a raccontargli quello che aveva visto, gli raccontò del gigante, delle sue lacrime, di Core, della domanda a cui aveva trovato una risposta che però non capiva, del senso di dimenticanza che la pervadeva quando provava a capirci qualcosa e di quello di reminiscenza dei suoi piedi che sapevano dove andare.
Alla fine, la paura non se n’era completamente andata, ma si sentiva più sicura ed a suo agio, avendo condiviso un grande spavento con un amico.
Dicembre però non sapeva in che modo aiutarla, non aveva idea di che cosa fosse ciò che aveva visto lei, in quel luogo così strano lui non c’era mai finito prima, si era ritrovato qualche volta bloccato nel luogo di mezzo, ma oltre al buio non c’era altro a fargli compagnia e gli era subito bastato visualizzare di nuovo la meta di arrivo per correggere la rotta mal disegnata, nulla di più.
-Magari hai immaginato tutto, forse ti sei solo spaventata e la tua mente ti ha giocato un brutto scherzo? – provò a rassicurarlo lui, ma Maggio dentro di sé sapeva che non era stata un’allucinazione, per quanto avrebbe voluto, c’era una verità terribile nascosta in quel luogo recondito, una verità che le faceva tremare le ossa, ma che avrebbe voluto scoprire visceralmente come fosse stata parte di lei.
-Tu hai mai sentito parlare di Core? – gli chiese un po’ ripresasi dallo spavento -Sì, ci sono degli uomini sulla terra che ne parlano-
-E cosa sai di lei? O forse di lui? O non è una persona? Io non ne ho veramente idea- si erano spostati dentro al giardino di Dicembre e, sedutisi al bordo del lago, si specchiavano nell’acqua ghiacciata -In effetti è strano, perché quando gli uomini ne parlano non citano mai giganti, anche se alle volte parlano di un palazzo- Maggio ascoltava attenta.
-Core era la figlia di una dea, una dea potente, Demetra o Cerere, la chiamano in modi diversi sulla terra- e lei ricordò una festività dedicata proprio a quella Cerere a cui aveva partecipato prima di incontrare Dicembre -Demetra è la dea delle messi, ed aveva una figlia bellissima, Core, ma anche lei cambia nome, ho sentito chiamarla anche Persefone o Proserpina, ma la storia rimane uguale a sé stessa-
 
Nelle pianure della terra la bella Core se ne stava con altre fanciulle, sue sorelle, a giocar felice ed a raccogliere fiori profumati, la madre dall’alto del cielo, nella sede degli Dei, la guardava beatamente, gioiosa per quella sua bella figlia.
La bellezza di Core era risaputa in tutto il mondo, ed ognuno l’ammirava, ma nessuno poteva averla, tanto era l’affetto che la madre provava per quella sua creatura, eppure c’era chi invece la desiderava a tal punto da esser pronto a sfidare anche la sorte per lei.
Un giorno la fanciulla con le sorelle stava a raccoglier fiori in un prato tra i più belli che la terra potesse vantar di avere ed ecco che un tetro cavaliere in sella ad un nero destriero, la vide e se ne innamorò. Costui altri non era che il Dio degli Inferi, Ade, che invaghitosi di lei in poche falcate abbracciò voracemente la delicata fanciulla.
Le sorelle nulla poterono fare per aiutarla, solo Ciane tentò di fermarlo, ma il vigore del Dio la tramutò in fonte, che ancora lì sorge irrigando i campi di acqua purissima. Ade se ne tornò nell’oltretomba portando con sé la sua novella sposa.
Demetra purtroppo non aveva visto il fatto e disperata si mise alla ricerca di quella sua figliola prediletta, la cercò ovunque, per i campi e per i deserti, nei mari e nelle montagne, ma la terra sembrava non prestare alcun ricordo della sua beneamata. Sparita nel nulla di Core non rimaneva niente.
Fu così che l’ira della Dea si scagliò sulla terra stessa che della figlia sembrava non ricordarsi, le messi non arrivavano più, ma al loro posto solo siccità e carestia sembravano essere i doni della Dea dei raccolti, gli uomini pativano la fame, i popoli si facevano la guerra per cibo ed acqua e l’oscurità discese su tutto il mondo.
Ma il Dio del Sole, che tutto vede, lui occhio luminoso, aveva in realtà scorto ciò che era successo e lo rivelò alla madre disperata, nella speranza che mettesse fine a tutto quel dolore che stava causando agli esseri umani.
Eppure, la rabbia di Demetra fu ancora più grande perché era stato un Dio, un suo pari, a sottrarle la figlia ed ora la rivoleva indietro. Il padre degli Dei mandò un messaggero nell’Ade perché Core fosse restituita, ma ciò era ormai impossibile: astenutasi dal mangiare  dal bere a lungo, alla fine la bella fanciulla, piegata dalla fame e dalla sete, aveva acconsentito a prendere un chicco di melograno, ma chiunque avesse mangiato un cibo infernale, sarebbe stato condannato a vivere negli inferi per l’eternità e questo Ade lo sapeva, ma tanto desiderava quella sua bella sposa che l’aveva ingannata, promettendole che un solo chicco non avrebbe avuto nessuna conseguenza.
Il dolore di Demetra accrebbe ancor di più e con lui l’ira che si fece odio viscerale, le carestie peggiorarono, la siccità con loro, gli uomini morivano ed assieme agli uomini morivano le bestie e gli armenti, i pesci nei mari e gli uccelli nei cieli, le piante si seccavano striminzite al suolo e la vita abbandonava pian piano la terra, i fiori che Core era solita raccogliere scomparivano in polvere arida.
Il padre degli Dei non poteva permettere che per un affronto fatto ad uno di loro tutto il mondo ne patisse le conseguenze ed impose un vincolo, qualcosa che non privasse la madre della figlia ed il marito della sposa: Che Core stia sei mesi con la madre e sei mesi con il marito impose.
E così nel mondo si crearono le stagioni, due di vita e calore e due di morte e freddo, in un ciclo eterno che salvò la terra dalla devastazione.
 
-Non capisco, però, questa storia cosa possa centrare con quel gigante? – si chiese Maggio -Non ne ho idea, ma mi hai chiesto se avessi mai sentito di quel nome e la mia risposta è stata questa- ormai si era tranquillizzata, le favole l’avevano sempre messa di buon umore ed erano ancora la miglior medicina ad ogni suo male.
-Forse hai ragione, forse è stato solo un brutto scherzo della mia mente-
-Non saprei come spiegarlo altrimenti- appoggiò la pianta nuda del piede sul lago ghiacciato lasciando che la brina disegnasse arabeschi su questo, al contatto con la sua pelle fredda.
-Sapresti ritornarci? -chiese lui -Non credo, no, è stato qualcosa che è accaduto al di fuori della mia volontà, non ne avevo controllo e non so come ho fatto-
-Quello che potremmo fare adesso è andare sulla terra, come avevamo programmato, vedrai che ti sentirai subito meglio- si mise in piedi -E magari potremmo scoprire qualche cosa di più su questa Core, sai, gli uomini raccontano molte storie, ma alla fine, se fai attenzione, sono sempre le stesse, dettaglio più, dettaglio meno- Maggio annuì.
Era proprio vero, aveva sentito tantissime favole che si potevano ridurre ad un gruppetto, ogni volta cambiava qualche nome, un particolare diverso, ma la storia in sé rimaneva sempre la stessa, come se ci fosse una verità di fondo che aveva preso diverse facce ed era stata raccontata in diversi modi.
Insieme si avvicinarono alla nebbiolina al di fuori del cancello, bianca, come quando Maggio era partita. Fece profondi respiri, tentando di focalizzare bene la terra e le sue contrade, tentando di impedire a quel ricordo terribile di affiorare in superficie.
Sentì Dicembre stringerle la mano con vigore, era lì con lei ed era lì per lei, non aveva motivo di avere paura, non aveva motivo di dubitare del dove sarebbero finiti.
 -Insieme- le disse lui sorridendo -Insieme- gli fece eco lei.
Se anche si fossero ritrovati di nuovo in quel luogo, sarebbero stati in due e sarebbero stati loro due, del tutto diverso, ma soprattutto non era disposta a lasciare andare quel mistero che aveva appena scalfito, sentiva che doveva esserci molto di più, ma anche che la risposta l’avrebbero trovata sulla terra, o almeno così sperava.
Mossero due passi verso la nebbia.
Prima i piedi, poi le gambe e il busto, infine braccia e testa si sciolsero in neve e petali, rimase solo l’ombra di due corpi che prima erano stati lì ed ora non c’erano più, due corpi che si stavano tenendo la mano, facendo affidamento l’una sull’altro.
 
Ricomparvero in una cittadina dell’Ovest, uno di quei posti lastricati e pieni di marmi e costruzioni, dove le persone vestivano eleganti e parlavano in modo volutamente raffinato. L’atmosfera era gioiosa di festa, si stava celebrando qualcosa, qualcosa di importante.
-La guerra è finita! – le grida di festa arrivavano da ogni angolo della città, da ogni viuzza e finestra aperta -La guerra è finita! – Dicembre si lasciò trascinare dalla folla lungo il vialone principale, senza mai lasciare la mano di Maggio.
Sbucarono in una grande piazza circolare, dove la gente ballava e si divertiva. Un’orchestra suonava una musica allegra e festosa, gli uomini bevevano calici di un liquido bruno che contrastava con una schiuma vaporosa e bianca che sporcava loro i baffi. Sembravano tutti felici, tutti gioiosi e sereni, e questo rallegrò l’animo di Maggio ormai sollevato dallo sconforto.
Le donne avevano grandi abiti con imponenti gonne a ruota che vorticavano nelle danze, lasciando intravedere alle volte le sottane e i calzoni di pizzo, ma ci badavano poco, prese com’erano nei balli di gioia e festa, i cadetti le invitavano a ballare e loro subito sorridevano e si gettavano nella piazza, tenendosi per mano e creando cerchi per Maggio complicatissimi da realizzare, ma per loro così semplici.
Un passo avanti ed uno indietro, battere le mani, passare sotto le braccia alzate della coppia che ti sta accanto ed ancora e ancora, fino a che la testa non fosse girata e con la testa tutta la piazza, costringendo i ballerini a prendersi un attimo di pausa per riposarsi, ma il riposo non durava mai più di qualche minuto e subito giù, di nuovo a danzare.
Che gioia, che festa! 
Dai comignoli delle case pendevano degli striscioni colorati e qualcuno gettava dai balconi pezzettini di carta variopinti, c’era bella musica, profumi buoni e serenità.
-Balliamo anche noi! – Maggio tirò Dicembre per un braccio, improvvisamente tutta quell’adrenalina che l’aveva divorata fino a qualche attimo prima l’aveva del tutto abbandonata, sostituita da quell’amore che le scaldava il petto, l’amore per gli uomini quando sono buoni, l’amore per gli uomini quando sono felici.
-Io non so ballare- protestò imbarazzato Dicembre -Non c’è bisogno di fare quel che fanno loro- gli suggerì Maggio -Fa’ solo ciò che faccio io! E’ divertente, prova.
Gli afferrò entrambe le mani e si mise a girare vorticosamente, la gonna di petali svolazzava di qua e di là, mentre lei non poteva a fare a meno di sorridere spensierata. Quanto è grande la gioia, dopo un momento di grande paura. Quanto è grande la gioia quando si sta insieme a coloro ai quali si vuole bene.
Dicembre, meno sciolto, girava con lei e la guardava ammirato, si scoprì inspiegabilmente attratto da quel sorriso ora così felice e che poco prima era stato così terribilmente triste.
Si lasciò andare ed anche lui rise con lei, ballando e beandosi del momento. Forse si accorse di un luccichio strano in cima ad un tetto, qualcosa che avrebbe dovuto metterlo in allarme, ma tale era la gioia, tale era la felicità di quel momento che si perse negli occhi di Maggio, senza dar prova di volerne uscire.
 
 

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Capitolo 13
*** Stabat Mater ***


Maggio ricomparve sulla soglia del proprio giardino inebriata di felicità. Aveva trascorso splendidi giorni assieme a Dicembre tra gli uomini delle città dell’Ovest.
Li aveva giudicati male, si era fatta prendere dal pregiudizio di begli abiti e modi affettati, quando in realtà, lasciatisi andare alla gioia ed alla festa diventavano come tutti gli altri, rinnovando in lei con ardore quell’amore che riponeva nei loro confronti.
Aveva mangiato e bevuto a sazietà, aveva partecipato a tante feste di città in città, ognuna di queste per quella guerra che finalmente era finita, aveva visto persone che in quella guerra dovevano aver perso molto, ma non il loro orgoglio di cittadini dell’Ovest e per cui, baldanzosi, li aveva visti gettarsi nelle danze indossando i loro abiti migliori, anche se magari un poco mal ridotti e con qualche toppa qua e là.
I bambini, poi, i bambini le avevano sciolto il cuore. Correvano per ogni dove in gruppi aitanti, giocando e facendo scherzi ai passanti che, addolciti dalla pace finalmente ritrovata, erano disposti a dar loro vinto ogni capriccio e cedere ad ogni loro moina.
I panettieri facevano finta di non vedere le manine grassocce che rubavano da sotto il bancone le tortine al miele ed i burattinai aggiungevano sempre qualche scena in più per il loro divertimento: il prode cavaliera era forse riuscito a conquistare il cuore della sua -gentil dama? Ed allora ecco che subito lei si rivelava una brutta vecchia bisbetica che tanto faceva ridere quei bambinetti davanti al piccolo palcoscenico e Maggio non poteva far altro che adorarli ancor di più.
Gli artisti di strada si erano riversati in frotte entro le mura delle città dell’Ovest alla notizia della fine degli scontri, avevano colto la palla al balzo e si erano recati là dove sapevano che avrebbero trovato un pubblico desideroso di ridere, divertirsi e lasciarsi ammaliare e distrarre dopo molto tempo passato a preoccuparsi.
Un gruppo di acrobati aveva svolto complicate contorsioni, che avrebbero spezzato le ossa a chiunque avesse tentato di emularle per conto proprio, un sedicente mago aveva giurava di saper trasformare il ferro in oro grazie ad una magica pietra che avrebbe venduto ai passanti per sole venti monete, un prezzo stracciatissimo, giurava, in prospettiva delle montagne di oro che se ne sarebbero poi ricavate e molti gli credevano ed, ingenui, acquistavano la magica pietra, rimanendo poi terribilmente delusi e adirati per essersi fatti gabbare così facilmente.
Una coppia di mimi aveva tenuto un graziosissimo spettacolo dove fingevano di starsene chiusi in casse invisibili che uno dei due trainava con una corda impossibile da vedere, ma forse, ancor più che gli acrobati, del mago e dei mimi, era stata una ballerina a rapire gli occhi non solo di tutta la platea, ma anche dello stesso Dicembre, che ne era rimasto terribilmente affascinato, con una punta di stizza da parte della sua amica.
La ballerina dalla pelle bruna e soffici capelli corvini aveva due smeraldi che le brillavano in volto, due occhi così verdi e profondi da catturare ogni spettatore.
Si muoveva con un passo aggraziato e sinuoso al ritmo di una musica cadenzata, frutto di un ragazzino che alle sue spalle suonava un piccolo strumento a corde, dal sapore un po’ esotico.
Per quanto trovasse esagerata l’attenzione che Dicembre riservava per lo spettacolo in questione, Maggio però dovette ammettere che quella ballerina era davvero brava, sapeva come muoversi, aveva la musica nel sangue, come se ogni suo passo fosse nel punto giusto al momento giusto, ogni suo sorriso, ogni suo sguardo aveva la giusta dose di fascino, innocenza e seduzione.
Non a caso alla fine del suo spettacolo il pubblico applaudì a lungo, chiedendo più volte che ballasse ancora per poco, gettandole monete e monili, che in fretta il ragazzino raccoglieva in un cappello, mentre lei si lanciavi in inchini profondi.
Che belli quei giorni trascorsi sulla terra, che gioia, che festa! Si lasciò andare sulla sua erba morbida e profumata ripensando ancora un po’ a tutte le belle cose che aveva visto, ai colori ed alla musica.
Non aveva scoperto nulla di più su quella Core e quel Gigante, il pensiero non l’aveva certo abbandonata, ma le feste erano state tali che aveva preferito pensarci dopo e godersi il momento.
Avevano però partecipato ad una processione molto particolare, tenutasi sul far della sera. Per uno stretto sentiero che saliva sul per le colline, verso una piccola cappella, donne vestite di bianchi veli e uomini in tunica avevano camminato lentamente fermandosi di volta in volta a recitare nuove preghiere in una lingua che ormai nessuno più parlava veramente. Si fermavano, alzavano delle croci al cielo e cantavano quelle belle preghiere per poi riprendere a salire, fin sulla cappella, fino a che il sole non fosse del tutto tramontato.
Una di queste preghiere colse Maggio nel profondo. Sta la Madre dolorosa presso il legno lacrimosa, mentre pende il Figlio; e quell'anima gemente, contristata e insieme dolente, una spada penetra. Ella vide il Figlio, amatone gli estremi, desolato esalar lo spirito.
Quella preghiera strana, che parlava di una madre, di un dolore, di un figlio morto, le ricordò in un qualche modo la storia che gli aveva raccontato Dicembre e sentì che doveva esserci un qualche legame. Forse i culti delle due dee in un qualche modo si toccavano, forse erano in diversi modi legati al quel gigante solitario che piangeva nel palazzo di luce e buio?
Quando il corpo morto fia, fa che all'alma data sia la celeste gloria! Amen. Sembrava parlale di resurrezione, di una vita oltre la morte, ma quella Core non era forse passata dal regno degli inferi a quello dei vivi, trascorrendo sei mesi con la madre e sei con il marito? Pensò che un collegamento dovesse per pur esserci, ma ancora non riusciva a coglierlo.
Si perse per un momento in quei pensieri, cercando di scoprire quel nesso che non vedeva, senza accorgersi di una presenza alle sue spalle che, già da tempo, la stava aspettando.
-Maggio- la voce laconica le fece tremare le ossa e sbiancare in volto, non si sentiva più le gambe e lo stomaco all’improvviso si era fatto così pesante che sembrava dovesse bucarle il corpo.
Si voltò leggermente, come se in fondo sperasse che non fosse lei e che non fosse proprio lì, dove non si era mai recata prima.
Purtroppo Dama Primavera era lì, ritta in piedi con quella sua figura imponente e statuaria di sempre, una bellezza così perfetta ed altera da incutere timore e rispetto, ma con uno sguardo ora diverso, non insensibile come le altre volte, ma rigido e di rimprovero, come se la figlia, di cui mai si era curata più di tanto, adesso l’avesse delusa a tal punto da renderle difficile anche sostenerne la vista.
-Madre- balbettò lei, improvvisamente dimenticatasi come si facesse ad articolare suoni di senso compiuto
-Co…cosa ci fate voi qui? – eppure sapeva perfettamente perché era lì, non avrebbe avuto nessun altro motivo al mondo, se non quello che lei temeva così tanto.
Era vero, nei primi viaggi con Dicembre si era chiesta cosa sarebbe accaduto se un altro dei dodici mesi li avesse visti, si era chiesta se li avrebbe riconosciuti come lei aveva fatto con il suo nuovo amico e si era anche chiesta quali sarebbero state le conseguenze, ma tutte le sue ansie e paure sembravano scolorire facilmente davanti alla bellezza della terra, alle feste ed ai racconti degli uomini.
Anzi, da paura era passata a provare una certa adrenalina che alimentava solo di più il desiderio in lei di scoprire, vedere e soprattutto di infrangere delle regole così ingiuste ai suoi occhi.
-Non è questa la domanda, Maggio, non perché io sia qui, ma perché tu non fossi qui quando ti ho cercata- .
Cosa dire, cosa inventarsi, non riusciva a trovare nemmeno una scusa plausibile per la sua assenza, non aveva nessun motivo valido per essersi allontanata dal suo giardino ed oltretutto così spesso -Ti hanno vista Maggio, non cercare di ingannarmi-
-E’ successo solo una volta! - provò a difendersi lei, ma sapeva che arrampicarsi sugli specchi di fronte ad una creatura immortale ed in vita da così tanto tempo come sua madre non sarebbe servito a molto -Tu, sulla terra! Quando il tuo tempo non era giunto ancora. E per di più con quel ragazzo sfacciato, quell’inetto figlio di Inverno!- all’improvviso la madre si era infuocata di ira, la collera che dipingeva il volto della Dama rendeva i suoi lineamenti solitamente così belli ed aggraziati, improvvisamente rozzi, squadrati e cupi, come se un’ombra nera vi si fosse stagliata contro. Era come se un fascio di luce proiettasse, dal basso verso l’alto, inquietanti ombreggiature su quei tratti un tempo così materni e dolci.
-Tu mi hai delusa, Maggio! Ma ancor di più hai infranto non una regola banale, ma un principio! Non ti rendi conto del danno che avresti potuto provocare? Non ti rendi conto che per il tuo egoismo infantile avresti potuto rompere un equilibrio fragilissimo?!- la voce della madre si era fatta acuta e stridula, tutto ciò che di più bello in lei era sempre vissuto, sembra non essere mai esistito prima.
La ragazza si era inizialmente rannicchiata contro un albero, come se potesse scomparirci all’interno, provava vergogna per essere stata scoperta, angoscia per il desiderio di porvi rimedio, ma anche rabbia per il fatto di non essere capita. Come poteva sua madre non capire? Come poteva non essere in grado di vedere quanta sofferenza le avesse causato quella prigionia durata tutta l’eternità e quanta gioia le avesse dato poco più di un anno di viaggi, poco più di un anno di amicizia!
-Io egoista? – Maggio non riuscì più a trattenersi. Ormai era nei guai fino al collo, tanto valeva allora dire tutto quello che pensava fino in fondo -Egoista io che ho vissuto un’eternità dentro questo giardino, come fanno i miei fratelli e tutti gli altri? Egoista io, che devo amare gli uomini da lontano, potendo donare a loro il mio amore solo per un mese all’anno? –
-Sei solo una ragazzina, non puoi capire che pericolo avete corso e non solo voi, ma tutti noi, la terra stessa- la interruppe la madre -Perché? Quale pericolo? Perché dobbiamo soffrire tutti così? A che pro tutto questo? – ma la madre non rispondeva -Perché non mi spieghi che cosa ci sia di così fragile che possa rompersi? Perché non mi fai capire dove ho sbagliato? Qui intorno a me io vedo solo una prigione, ma là fuori avevo un mondo intero a mia disposizione- non era più disposta a sentire ragioni -Sciocca! Sciocca tu come quello sciocco di Dicembre. Voi non potete e non dovete capire, è tutto troppo fragile e voi siete degli sconsiderati, lui è uno sconsiderato. Sono sicura che sia stato lui a convincerti, deve averti ingannata o costretta in qualche modo, sicuramente lui…-
-Lui non ha fatto proprio niente! - la interruppe Maggio -Ho scelto io di viaggiare, ho scelto io di essere libera- lo sguardo della madre la rimise nei ranghi, non l’aveva mai guardata con così tanto disprezzo come in quel momento e lei non aveva mai sofferto così tanto per averla delusa così nel profondo.
-Se sei stata stupida tanto quanto lui, vuol dire che ti ho giudicata male, ma così assieme a lui ora verrai giudicata- disse lei perentoria. Il volto era tornato quello di sempre, ma la voce no, quella non aveva nulla della dolcezza e tenerezza del passato, era priva di ogni affetto, priva di ogni amore. I suoi occhi non brillavano più.
-Cosa vuol dire? Chi ci giudicherà? – i suoi pensieri corsero involontariamente a quell’orribile creatura dello spazio di mezzo -Noi vi giudicheremo- questo quasi la tranquillizzò, per un attimo aveva temuto che il giudice sarebbe stato quel gigante piangente, chissà perché poi.
 -Io e gli altri. Ed i nostri figli staranno a guardare, voi sarete il monito per tutti loro- le diede le spalle- Ora seguimi- e Maggio non poté fare altro che seguirla, docile, senza avere nessun luogo in cui andare, scappare o rifugiarsi e sperando che quel padre burbero, di cui Dicembre non aveva mai voluto parlarle, non gli avesse fatto del male, ma si fosse limitato a ferire con le parole, come sua madre aveva fatto con lei.
Uscirono dal cancello silenziose, nessuna delle due diceva nemmeno una parola, ed in Maggio l’angoscia si faceva sempre più grande, voleva porre rimedio a tutto, voleva che la madre non la disprezzasse così tanto, ma le volesse bene, voleva che Aprile e Marzo non assistessero al suo giudizio e non la odiassero anche loro, ma soprattutto voleva che Dicembre stesse bene, e sperava con tutto il suo cuore che il giudizio non fosse troppo severo.
La madre le prese la mano con violenza per guidarla nel viaggio e ben presto dei loro corpi non rimase più nulla.
 
Ricomparve in una grande sala circolare. Sua madre non era più con lei.
I suoi piedi poggiavano su di un luminosissimo pavimento lucido, ogni suo centimetro sembrava realizzato con la cristallizzazione di miriadi di frammenti di vetri diversi dai colori più disparati, per un effetto caleidoscopico che virava però inesorabilmente ed inspiegabilmente alla trasparenza del cristallo.
Alzato il viso, dovette strizzare un paio di volte gli occhi accecati dalla luminosità della grande sala: ogni suo centimetro era costruito con quello strano materiale evanescente, le colonne che delimitavano il suo perimetro, la balconata soprastante ed anche il soffitto, un’immensa cupola, i cui costoloni terminavano in un oculo luminoso, dal quale spiare chissà quale cielo di chissà quale luogo.
Non c’era una porta da cui entrare o da cui uscire, non c’erano finestre, tutta la luce che inondava il luogo veniva emanata delle stesse pareti e si rifrangeva sulle altre, unico spiraglio quell’oculo inaccessibile sulla sua testa.
Sulla balconata riusciva vedere quattro figure stanti, statuarie, sembravano sculture marmoree di alcuni uomini della terra. Tra di loro riconobbe sua madre e ne dedusse chi fossero gli altri.
Dall’altro lato invece di quel deambulatorio, che correva circolarmente attorno la sala a svariati metri di altezza da terra, c’erano altre figure, ragazzi e ragazze che dovevano avere pressappoco la sua età.
Scorse le tre figlie di Autunno, con i loro capelli bruni e melanconici occhi a mandorla, scorse i figli di Estate dalla pelle color ebano, vide Gennaio, la sorella di Dicembre, piccola, quasi invisibile per la chiarezza dei suoi colori e per ultimi vide Aprile e Marzo.
Il fratello maggiore non la guardava nemmeno, come se fosse troppa cosa, puntava gli occhi sulla madre, dimenticandosi che ci fosse una sorella sotto di lui, ma Aprile no, Aprile la guardava con una tristezza immane, soffriva con lei, temeva per la sua sorte e di questo Maggio ne fu grata, perché nonostante tutto, in un qualche modo l’aveva capita e non aveva smesso di amarla.
All’appello mancava però qualcuno di molto importante, mancava perché non era lì sulla balconata a guardar giudicare, ma stava per essere anche lui giudicato.
Dall’altro capo della sala un ragazzo dai capelli bianchi si stava guardando intorno con la sua stessa aria smarrita. Quando i loro occhi si incontrarono, Maggio vide dei segni scuri sul suo viso, lividi sul collo ed anche sulle braccia, una grande paura che aveva ripreso a dominarlo. I suoi occhi erano arrossati, erano spaventati e le chiedevano di nuovo aiuto. Mosse un passo verso di lui, ma sentì qualcosa che la tratteneva: invisibili catene la tenevano sul posto impedendole di avvicinarsi al suo amico.
In quel momento capì perché Dicembre non le avesse mai parlato del padre e capì in realtà lei quanto fosse stata fortunata ad essere nata proprio figlia di Dama Primavera e della sua indifferenza che non aveva mai alzato un dito contro di lei.
Sentì dentro di sé un dolore grandissimo; non era l’angoscia per aver deluso sua madre, non era la vergogna per essere giudicata davanti a tutti, non era il terrore davanti alla grande creatura, era l’amore verso una persona quando si è impotenti per la sua sorte, era quello slancio di affetto che l’avrebbe portata ad abbracciarlo e promettergli che si sarebbe aggiustato tutto, anche se non fosse stato vero.
 Decise allora che lei sarebbe stata forte per entrambi, avrebbe avuto braccia per sorreggerlo ed un cuore per accoglierlo, non avrebbe avuto paura e non avrebbe provato dolore, lei non si sarebbe arresa così facilmente, avrebbe parlato fino in fondo, alle sue spalle c’erano altri undici ragazzi come lei che non potevano rimanere sordi al loro desiderio di libertà
 

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Capitolo 14
*** Aleksej ***


 
Dicembre aveva la testa completamente annebbiata, non riusciva a capire dove si trovasse e tremava all’idea di quello che sarebbe potuto succedere di lì a poco.
Tornato nel proprio giardino non aveva avuto neanche il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo. Subito un vento di tormenta aveva scardinato la porta del cancello ed un uomo massiccio si era fatto strada tra i suoi alberi innevati, lasciando impronte enormi nella neve.
Non aveva avuto il tempo di dire nulla, non aveva avuto il tempo di pensare nemmeno ad una spiegazione da dare al padre, che quello lo aveva già ricoperto di insulti e rimproveri.
L’aveva chiamato ingrato, sciocco ed arrogante, si era definito deluso da parte sua, aveva sottolineato quanto fosse grande la vergogna nell’avere un figlio come lui, un figlio che non meritava compassione né comprensione, perchè era solo uno sciocco egoista, che pensava a se stesso.
Ma il peggio era venuto poco dopo.
Nei suoi rimproveri a Dicembre, lui se ne era stato fermo in silenzio, aveva appreso ormai da tempo infatti che, di fronte alla collera del Conte Inverno, non si poteva fare altro che aspettare ed ingoiare ogni boccone amaro, perché non c’era alcuna uscita di sicurezza nella quale rifugiarsi.
Era abituato a tutto questo, ogni anno quando si recava presso la sua reggia innevata, assisteva a scenate del genere, all’insoddisfazione del genitore non sapendo come accontentarlo la volta successiva, ricevendo solo improperi ed insulti da lui. Ormai a tutto ciò era abituato da tempo e sapeva che doveva solo aspettare che l’ira si placasse o che terminasse gli insulti a sua disposizione, poi avrebbe affrontato le conseguenze.
Questa volta, però, la rabbia non sembrava scemare mai; il vento attorno a lui soffiava inferocito, freddo e tagliente aveva cominciato a bruciargli la pelle del viso, mostrando i primi geloni sulle braccia, ma era ancora nulla.
Ad una cosa infatti Dicembre non era mai stato abituato, non per negligenza, ma per impossibilità di sorte, non si era mai trovato nella condizione di amare qualcuno e di sentirne parlar male con ingiustizia e menzogna, non aveva mai provato quella rabbia potente che assale lo stomaco quando una persona a cui teniamo, è soggetta a calunnie e falsità. Ed era proprio ciò che il padre stava facendo, ricoprendo Maggio di insulti, come poco prima aveva fatto con lui, come se fosse stata lei la causa della deviazione del figlio. No, quello certo non lo poteva sopportare, di fronte a quello non poteva starsene inerme. E ne aveva ampiamente pagato il prezzo.
E’ stata una mia scelta, aveva detto a gran voce, sono fuggito prima che lei potesse scendere sulla terra, ma il padre non sembrava dar prova di voler ascoltare le sue motivazione continuando nei suoi improperi svilenti, chiamandola sgualdrina ed adescatrice, ma questo Dicembre non poteva lasciarglielo fare, era una questione di orgoglio, era una questione di rispetto, ma soprattutto era questione di affetto ed amore.
Non osare chiamarla in quel modo! gli era sembrato quasi di vedersi da fuori, come se non avesse controllo del suo copro o di quello che faceva o diceva, lui dall’alto guardava un se stesso coraggioso rispondere al conte per difendere l’onore della sua amica, lui dall’alto si era visto alzare un braccio richiamando a sé neve ed ghiaccio pronti per attaccare, in preda alla rabbia più furiosa.
Eppure, era tornato pienamente in sé quando il padre, incollerito, l’aveva scaraventato a terra con la forza di un solo braccio, era pienamente in sé quando il ghiaccio che prima aveva chiamato a sé, gli si era rigirato contro, ustionandogli definitivamente la pelle del viso e lasciando orribili ematomi neri.
Sì, era stato pienamente in sé ed ora non ricordava già più quel coraggio che per un momento l’aveva animato, si guardava attorno in quella grande sala luminosa e provava solo sconforto e paura.
Davanti a sé vedeva il padre con gli altri tre su di una balconata, lo sguardo cattivo e maligno che lo fissava dritto negli occhi, meditando la sua punizione, mentre girandosi rimaneva abbacinato dalla luce e faceva fatica a distinguere i contorni di ciò che lo circondava, alle sue spalle era però riuscito a scorgere su di una balconata un gruppo di ragazzi.
Tra loro gli era parso di vedere la sua piccola Gennaio che, bassina com’era, si appendeva alla balaustra per sporgersi verso di lui. Piangeva.
Distolse lo sguardo, non potendo sopportarne la vista, ma si imbatté in un altro che gli provocò ancora più dolore di quello triste della sorella.
Dall’altro capo della sala c’era Maggio, che lo guardava preoccupata, con una particolare attenzione per i segni sul suo volto.
Si vergognò. Si vergognava per non essere stato in grado di reagire di fronte al padre, per aver provato a difendere la sua amica ed essere comunque finito con il volto tumefatto, si sentiva sconfitto, come se quel bel sogno di libertà che pian piano, in poco più di un anno, aveva coltivato con lei fosse improvvisamente sfiorito di fronte alla realtà dei fatti.
Erano destinati a far parte di quella ruota, erano destinati alla ciclicità infinta del tempo, erano destinati ad essere separati e tristi. Abbassò lo sguardo non riuscendo a rispondere a quel forte richiamo dei due occhi azzurri che lo fissavano preoccupati.
-Siamo qui riuniti per giudicare i nostri due figli- era stata Dama Primavera a parlare dall’alto della balconata -Sono colpevoli di aver violato le regole imposte dalla Voce, di aver viaggiato nel mondo quando il loro tempo non era ancora giunto e di aver disubbidito al nostro volere- accanto a Dama Primavera un’altra donna giunonica e maestosa fece un passo avanti.
La pelle bruna si perdeva nel colore caldo dei suoi capelli e dei suoi occhi -Luglio- chiamò la Regina Estate -Tu li hai visti, puoi dare la tua parola?- tra i ragazzi dall’altro capo della sala un ragazzo, l’esatto riflesso d’ebano della madre, si fece un poco avanti -Sì, madre- Regina Estate abbassò gli occhi sui due imputati -E voi cosa avete da dire a vostra discolpa?- ma Dicembre non sapeva affatto che dire, erano colpevoli di ciò che li accusavano, non c’erano scuse che potessero inventare, semplicemente avevano scelto di essere liberi ed ora avrebbero pagato le conseguenze di questa loro scelta così avventata.
Per sua fortuna Maggio fu più lucida e prese la parola al posto suo, come se sapesse precisamente che cosa dovesse dire: -E’ vero siamo colpevoli, colpevoli di ciò di cui ci accusate, ma, ad essere sbagliata e proprio l’accusa- dietro alle sue spalle dall’alto del ballatoio giungeva un brusio indistinto -Voi ci accusate di aver infranto le regole, mentre dovremmo essere accusati solo di aver cercato la libertà. Voi ci parlate di equilibri fragili e leggi che non devono essere infrante, ma io vedo solo leggi ingiuste ed equilibri che non sono stati rotti- il cavaliere Autunno provò ad interromperla -Taci ragazzina! - provò ad urlarle contro, ma lei non demorse -Perché dovrei tacere? Ci state accusando e processando, abbiamo diritto di dire la nostra e difenderci o forse temete che le parole di una ragazzina, come dite voi, possano essere pericolose? - tutti tacquero e con loro Dicembre impressionato dalla forza di quell’esserino.
Maggio nel frattempo si era voltata verso i suoi simili, scegliendo sapientemente di cambiare interlocutore e Dicembre sapeva il perché, non erano i loro genitore che doveva convincere, ma i loro fratelli e sorelle.
-Voi come me, voi come Dicembre, vivete tutta la vostra vita dentro dei bei cancelli ad elemosinare l’affetto di un padre o una madre che vedete due volte all’anno, a bramare gli abbracci di sorelle e fratelli con cui non potete trascorrere tutti i momenti che vorreste e di cui avreste diritto- non poteva avanzare nella sala, ma si vedeva perfettamente come tutto il suo copro fosse in tensione verso il suo pubblico, la loro unica salvezza -Io e Dicembre abbiamo solo deciso che non poteva più essere così per noi, che non volevamo più essere soli, ma che desideravamo essere liberi. Vi parlano di regole e di leggi, ma ora vi dirò io che cosa ho visto: nessun equilibrio infranto, nessuna anomalia sulla terra, solo due ragazzi liberi di essere tali, che giravano il mondo- più la ascoltava, più Dicembre si meravigliava della sua forza e vi faceva appoggio e con lui anche i giovani ragazzi e ragazze, per i quali lei parlava -Voi amate gli uomini, tanto quanto li amo io, tanto quanto li ama lui- disse indicandolo -Abbiamo solo desiderato di poter restare con chi amiamo, di poterli vedere, di poter vivere con loro, di sentirne i racconti e non più solo sbirciarne le vite! -.
Gli occhi degli stanti erano vibranti, in loro qualcosa doveva veramente essersi smosso, le tre figlie di Autunno si erano sporte sempre di più dal parapetto ad ogni parola detta da quella ragazzina, che non avevano mai visto prima o conosciuto, ma che aveva dato voce ai loro desideri ed ai loro dolori.
In quel momento però, Regina Estate riprese il controllo della situazione che avevano visibilmente perduto -Tu parli da ignorante. Tu non conosci e non sai, dici che nessun equilibrio si è infranto, ma la verità è che per fortuna voi non l’avete ancora distrutto e se fosse accaduto, credimi ragazzina, non saremmo qui a discuterne- i suoi denti erano bianchissimi, anche a quella distanza Dicembre poteva vederli perfettamente, perle bianche racchiuse da labbra scure -Voi due avete messo a rischio, noi, i nostri figli e gli uomini che tanto dite di amare ed ora siete qua a parlarci di libertà? Credete forse che non ci sia un ordine delle cose, che noi, madri e padri, volessimo questo per voi tutti? Siamo tutti parte di un sistema, che purtroppo ha fondamenta fragili– Dicembre vide Maggio tentennare di fronte alla fermezza statuaria di Estate ed in lui qualcosa si sbloccò.
Lei aveva parlato per loro, aveva raccontato i loro i bisogni e i loro desideri, era stata in quel momento la voce delle loro proteste silenziose e lui non aveva fatto nulla, affidandosi alla sua sola forza.
-Dite che siamo ignoranti, ma non ci spiegati che cosa ignoriamo- si sorprese lui stesso di aver parlato, di nuovo come se non fosse lui ad avere il controllo di quello che faceva -Diteci che cosa sia questo sistema, diteci perché questo equilibrio debba essere così fragile. Non siamo noi ad essere ignoranti, ma siete voi che ci fate rimanere tali, che ci volete tali- il brusio alle sue spalle si fece più forte, richiamando consensi tra i giovani ragazzi.
Gli occhi di Dicembre incontrarono quelli di Maggio e vi lesse riconoscenza, affetto e stima.
-La vera domanda è perché ci vogliate ignoranti? Che cosa c’è che non dovremmo sapere? – in quel momento nella sua mente si palesò un pensiero, istantaneo e fulminante: e se quel gigante che invocava una certa Core di cui Maggio mi ha parlato, centrasse con la nostra ignoranza? 
Non sapeva nemmeno lui perché ci avesse pensato, ma sapeva che quella dovesse essere una via da perseguire ed ormai il dubbio si era instillato nella sua testa, tanto valeva tentare: -Ci accadrà forse quello che è successo a Core?- a quelle parole i quattro impietrirono, per qualche minuto nessuno di loro proferì parola come se lo sgomento li avesse avvinghiati con le sue spire.
Autunno fu il primo a parlare -Che ne sai tu di Core? - aveva pronunciato queste parole quasi soffiandole fuori dai denti -Cosa voi sapete di Core che non ci volete dire? – domandò allora Maggio spronata dal coraggio di Dicembre -Chi è? Che cosa le è successo? Perché gli uomini ne parlano? - le domande cominciarono ad uscirle come una cascata, una dopo l’altra, inarrestabili, provocando ancora più sgomento tra le quattro stagioni stanti e Dicembre le diede manforte.
-Che fine ha fatto? Che cos’è la strana casa nel luogo di mezzo? Chi è il giga…- non fece in tempo a finire la frase che il padre lo interruppe -Tacete! Core è morta per aver infranto le regole, regole che voi stavate per rovinare e ci aveva quasi portato tutti alla devastazione! –
-Inverno!- Primavera ammonì l’uomo -Non dire più una sola parola-. Allora avevo ragione, pensò Dicembre, un collegamento deve esserci e loro lo temono, temono che noi possiamo sapere di più del previsto.
Guardò Maggio con una forza nuova, come se ora fossero veramente in due a combattere la stessa battaglia ed avessero giocato il loro asso nella manica, ma questo coraggio durò molto poco e si infranse alle successive parole di Estate -Figli e Figlie andate. Il giudizio non sarà più pubblico, ma verrà pronunciato in privato-.
Privato! Privato voleva dire che avrebbero potuto far loro qualunque cosa senza che nessun altro lo venisse a sapere, voleva dire che da condanna giusta si sarebbe passati a vendetta personale, eppure la paura che provava non era per se stesso, ma per Maggio. Temette molto per la sua vita.
I lamenti dei ragazzi non servirono a nulla, uno dopo l’altro si dissolsero nell’aria all’ordine della Regina, di loro rimasero foglie, spighe di grano e neve, segno che prima erano stati lì con loro, uno schermo contro l’ingiustizia, che ora, temeva, si sarebbe perpetrata all’interno di porte sbarrate.
-Voi sapete troppo- disse Primavera -Non voglio nemmeno sapere come siate venuti a conoscenza di Core o di Lei, ma non dovevate, è rischioso per tutti noi- si schiarì la voce, come se quello che stava per dire la spaventasse o la intristisse, e questo gettò entrambi nel panico. Perché doveva avere paura? Che cosa avrebbero fatto loro?
-Ci vedete costretti a compiere una scelta delicata, non l’abbiamo mai presa prima, ma date le circostanze…- guardò Maggio dritta negli occhi, come se per un attimo si fosse pentita di ciò che ancora non aveva detto o fatto-Tutto ciò non doveva essere saputo e faremo in modo che non ve lo ricordiate per il futuro, vi sarà rimossa la memoria del vostro ultimo anno assieme, non ricorderete nulla, nulla del come uscire dai giardini prima del tempo, nulla dei vostri viaggi sulla terra, nulla di Core- e nulla di noi aggiunse Dicembre nella propria mente.
Quella forse era la peggior condanna che potessero dargli, dimenticare la libertà come se non fosse mai stata sua, dimenticare lo spirito di ribellione, dimenticare il coraggio guadagnato, dimenticare Maggio.
Si guardarono all’unisono, entrambi sconcertati e spaventati di dimenticarsi a vicenda -Inoltre- era stato suo padre a parlare e un brivido gli era salito su per la spina dorsale. Non sarebbe passato oltre i suoi affronti nel giardino e non sarebbe passato oltre la sua sfacciataggine lì, davanti a tutti gli altri.
-Inoltre, tu Dicembre, tu non sarai più uno dei dodici mesi-
-Inverno cosa stai facendo? – lo riprese Autunno -Dicembre è mio figlio- rispose di rimando lui -E non voglio che sia più tale. Non ho controllo su quella sciocca ragazzina, sarà premura di Primavera decidere per lei, ma lui, lui è mio figlio e da ora in poi non lo sarà più, mi ha fin troppo disonorato. Se dice di amare così tanto gli umani, bene diventerà uno di loro, si spezzerà la schiena per lavorare ed avere un misero tocco di pane a sera, avrà freddo e fame, sopporterà le malattie e le intemperie della natura, ma soprattutto non avrà più la sua immortalità. Invecchierà e morirà, come ogni essere umano- i suoi occhi erano glaciali e la mente di Dicembre si annebbiò.
-No!- era stata Maggio ad urlare. La guardava, la vedeva contorcersi per correre da lui e fare qualcosa, la vedeva piangere e dimenarsi, ma quelle funi invisibili la trattenevano.
-Non mi dimenticare!- urlava -Dicembre, non mi dimenticare!- ma lui si chiese chi fosse quel Dicembre, che nome bizzarro poi, dicembre è un mese non certo un nome, e chi era quella ragazzina, lui non la conosceva, non l’aveva mai vista prima, però aveva due grandi occhi azzurri, non se ne vedevano di così belli e profondi nelle lande del nord, no certo, lì la gente aveva piccoli occhi cerulei, ma quei due occhi erano molto più intensi, molto più grandi e piangevano. Erano gli occhi più belli che Aleksej avesse mai visto.
Svenne.
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Emicrania ***


Sentiva la testa pulsarle ferocemente, non aveva mai provato un dolore così grande, le palpebre pesanti se ne restavano sbarrate su suoi occhi e non riusciva ad aprirle benché si sforzasse con tutta sé stessa.
Nonostante la cecità della sua vista, riusciva a percepire colori sbizzarriti esploderle davanti, come quando si fissa troppo il sole, solo che ad ogni esplosione, ad ogni fuoco di artificio era una fitta alla testa che le penetrava il cranio, costringendola a portare le mani al capo e facendola piangere.
Era ormai da diverso tempo che soffriva di queste terribili emicranie che non la lasciavano dormire, da poco meno di un anno. Non ricordava come fossero iniziate, semplicemente una sera erano comparse dal nulla ed ogni notte aspettavano di venire a tormentarla nel suo giaciglio. E come ogni notte rimaneva paralizzata nel suo dolore di esplosioni colorate, incapace di svegliarsi ed alle volte anche di muovere solo le dita delle mani, completamente paralizzata.
Luce. Finalmente era riuscita ad aprire gli occhi, nei quali sgorgò come un fiume in piena il bagliore del sole, improvvisamente le fitte erano svanite, come capitava ad ogni suo risveglio.
Maggio si tirò su dal suo giaciglio di rose e viole, ancora un po’ stordita dal dolore, massaggiandosi le tempie con forza.
Davvero non riusciva a capire che cosa avesse mai potuto causarle quei terribili mal di testa, non ne aveva mai sofferto e non si capacitava del perché ad un certo punto fossero comparsi. Tese una mano per raccogliere qualcosa, ma si accorse che non sapeva di preciso che cosa stesse cercando, una sorta di reminiscenza che si era palesata come un fantasma nella sua testa, ma non aveva avuto tempo di concretizzarsi.
Cosa voleva prendere? Pagine, schizzi, parole, un volto di donna, ma subito questi indizi sparsi nella sua memoria si frantumavano in mille pezzetti perdendo di senso e lei non ricordava che cosa stesse cercando o perché lo stesse cercando.
Fastidioso non ricordare, ma purtroppo assieme alle emicranie era giunta anche una sgradevole perdita di memoria a breve termine, faceva fatica a catturare e tener saldi nella sua testa momenti appena vissuti che subito si cancellavano, come se non ci fosse abbastanza spazio per tutto.
Stizzita da questa sua incapacità tirò uno schiaffo contro il cespuglio che le stava accanto, facendo volare per l’aria foglioline verdi e gialle.
Forse avrebbe dovuto parlarne con sua madre? Forse lei avrebbe saputo che cosa le stava capitando, in fondo è insolito che uno spirito soffra di emicranie, come se potesse essere soggetto alle comuni malattie mortali. Forse nel suo ultimo viaggio sulla terra doveva essere incappata in qualche strana epidemia, qualche cosa che poteva aver contagiato persino lei.
Il vero problema era che non riusciva proprio a ricordare nulla del suo ultimo soggiorno sulla terra, assolutamente nulla. Per quanto si sforzasse nella sua testa riusciva solo a visualizzare pochi elementi sconclusionati: una vecchia casa, freddo e sconfinate praterie, ma nulla di più. Non appena provava a soffermarsi un po’ di più su ciò che riusciva a ricordare le emicranie ripartivano e si accanivano su di lei e a quelle immagini misteriose si sostituivano i classici fiori e frutti a cui era sempre stata abituata dall’inizio dei tempi.
La sensazione era quella di quando si tenta di ricordare un sogno, sembra così chiaro nella nostra mente, ma nel momento in cui lo si prova a raccontare o a ricordare nel dettaglio perde di sostanza e scompare. Un’immagine fatta di fumo che si dissolve all’arrivo della brezza, nulla di più.
Si alzò in piedi e si portò un poco più vicino alla polla del suo giardino, l’acqua immobile e cristallina le faceva da specchio, ma il riflesso che vedeva non le sembrava quasi più il suo.
I suoi occhi da sempre accesi e curiosi, erano invece spenti, anche la sua pelle aveva un colorito insalubre e sentiva il suo corpo stanco e spossato. Era come se qualcosa le fosse stato strappato via e la ferita non riuscisse a rimarginarsi. In quel momento la sua attenzione fu catturata da un cigolio in fondo al cancello. E’ già passato così tanto tempo? Si chiese tra sé e sé Possibile che sia già passato un anno?! E di fatti sul selciato che conduceva alla polla d’acqua stava Aprile, ritto come una statua.
Anche lui sembrava strano, pure i suoi occhi che, come quelli di Maggio, erano sempre stati vispi e accesi, si erano spenti e caricati di una strana apprensione per la sorella. Aveva nei suoi confronti un comportamento particolare, che per quel che poteva ricordare non le aveva mai riservato, era come se le facesse pena, ma avesse anche timore di starle accanto. Lo stesso timore misto a pietà che si ha guardando un animale selvaggio chiuso in una gabbia. Gabbia. Prigione. Libertà. Queste tre parole le si dipinsero nella mente, ma vennero subito seguite da tre fitte fortissime che la costrinsero a piegarsi sulle ginocchia e tenersi la testa dolorante tra le mani.
-Cos’hai Maggio?!- le domandò preoccupato il fratello, ma non si avvicinò a lei.
La ragazza alzò timorosa gli occhi su di lui, mentre il respiro le si faceva un po’ più rilassato ed il dolore scemava -Non so… è da qualche tempo ormai che soffro di emicranie-, ma lui non aggiunse nemmeno un commento.
Lei si alzò a fatica reggendosi al tronco di un albero e a passi tardi e lenti si portò vicino al fratello, che però le si tenne ad una certa distanza -Non mi racconti nulla del tuo tempo sulla terra?- gli domandò lei, sorridendo timorosa e rimanendo un po’ ferita dalla deferenza di lui -Oh, sai, il solito. Ho portato con me la stagione delle piogge, nulla di più di quello che è il mio compito- aveva marcato quelle ultime due parole con un tono strano, sembrava infatti una sorta di avviso, un’ammonizione, solo che Maggio non riusciva a capire per cosa.
-Oh non ci credo che non tu non ti sia divertito nemmeno un po’, raccontami!- ma il fratello manteneva sempre quello strano atteggiamento di distacco, che lei proprio non capiva -Te l’ho detto, non ho fatto niente di speciale e come nemmeno Marzo. D’altro canto…- lei abbassò il capò avvilita, sperava davvero che il fratello avesse qualche bel racconto da poter condividere con lei. Amava i racconti e poi cercava qualcosa che la potesse distrarre da quei fastidiosi mal di testa.
-Maggio, tu stai … bene?- le chiese poi lui. Sicuramente aveva notato il cambiamento nella sorella, la pelle pallida e malata, il corpo che si era pian paino consunto e gli occhi stanchi -Ma sì, te l’ho detto, ho solo queste fastidiose emicranie, niente di cui preoccuparsi ne sono convinta- gli sorrise fraterna, sperando che lui ricambiasse, ma tutto ciò che colse fu il tremolio nelle braccia del fratello, che instillò nella sorella non certo pochi dubbi, sentiva che le stava nascondendo qualche cosa.
Perché Aprile è così preoccupato? E perché è così distante? Sembrava proprio che avesse quasi paura di lei.
-E’ ora di andare- le disse lui con voce tombale -Perché?! Sei appena arrivato, non possiamo stare un po’ assieme?- 
-No, è tempo- a Maggio vennero le lacrime agli occhi, non capiva il perché del comportamento del fratello, quale torto gli avesse fatto, perché la trattasse con così tanta freddezza.
Provò a slanciarsi in un abbraccio, come facevano ogni volta che lui veniva a trovarla, lei gli si gettava al collo e lui la faceva roteare nell’aria, sì facevano proprio così e sapeva che se lui l’avesse presa, tutto sarebbe tornato alla normalità, sapeva che se lui l’avesse presa, allora non doveva aver smesso di volerle bene e che, se gli avesse poi mai fatto qualche torto, non doveva essere stato così grande da cancellare l’affetto di un fratello.
Ma non la prese.
Maggio cadde con le palme delle mani a terra, ferita più nel profondo che non sulla pelle.
-Che cosa ti ho fatto Aprile?- chiese con i lucciconi agli occhi -Perché mi odi?- lui si immobilizzò per qualche minuto, pietrificato dalla sua domanda e senza il coraggio di guardarla negli occhi -Io… non ti odio Maggio, è che… tu… lasciamo stare, è tempo di andare-.
Qualcosa era sicuramente cambiato in lei, non aveva più la sua solarità e forza che l’aveva sempre contraddistinta, ma, nonostante l’infermità, di certo non aveva perduto il suo orgoglio, se Aprile non le voleva dire che cosa non andasse o perché ce l’avesse così tanto con lei, se non era disposto nemmeno ad un abbraccio dopo un anno di assenza, non sarebbe certo stata lei ad elemosinare affetto. Aveva vissuto da sola tutto il tempo, un giorno in più non avrebbe fatto la differenza.
-Bene. Allora andiamo-
Facendo perno sulle sue gambe stanche si alzò e mosse avanti al fratello, cercando di tenere la schiena quanto più dritta le fosse possibile, come se un filo la tirasse verso il cielo, senza abbassare mai il mento e trattenendo con forza dignità e lacrime.
Arrivati alla soglia ormai la nebbiolina lambiva i loro piedi scalzi -Maggio, io…- Aprile aveva provato a metterle una mano sulle spalle, ma lei si era spostata con freddezza, la stessa che lui aveva usato nei suoi confronti -E’ tempo di andare, ricordi?- e lui chinò il capo mesto -Sì, è ora- la voce rotta dalla commozione.
Si dissolsero nel nulla della bruma.
 
Come ogni volta Maggio ricomparve nel giardino della madre e come ogni volta un dolce panorama l’accolse, ma questa volta non sentiva il cinguettio degli uccellini, non c’era nessuno cerbiatto ad abbeverarsi al lago dietro il palazzo bianco e quando aprì il grande portone nessuna voce le fece strada al suo interno. Sembrava che nessuno l’aspettasse.
 Si recò in fretta nella sala del trono, dove dall’eternità la madre l’aveva sempre attesa, ma la trovò vuota. Che anche lei la odiasse come Aprile? Ma perché mai? Che cosa aveva dovuto fare di così terribile da non meritare nemmeno un saluto dopo così tanto tempo? Non era in fondo sua madre? Non doveva pur amare sua figlia, la sua unica figlia, sentirne la mancanza? Ingiustizia, ma di nuovo questa parola lampo che le si era balenata in testa fu accompagnata da una fitta lancinante che la piegò a terra, sul bel marmo liscio e freddo.
Se nessuno era lì ad aspettarla avrebbe voluto dire che lei non avrebbe aspettato nessuno, non ne aveva bisogno in fondo, sapeva benissimo quale fosse il suo compito, sapeva come portarlo a termine e di certo non aveva intenzione di starsene lì ad aspettare una madre che non voleva vederla in una casa che sembrava non gradire la sua presenza.
-Me la so cavare benissimo da sola, non ho certo bisogno di nessuno di voi- ed in quel voi c’era Aprile ed il suo distacco, la madre e la sua assenza gelida e tutto l’affetto di cui avrebbe avuto bisogno, ma che, orgogliosa, non aveva il coraggio di chiedere.
Sentiva dentro di sé però che quell’affetto che andava ricercando da qualche parte l’aveva trovato, era certo di averlo sentito e sperimentato.
Non ricordava né il come né il dove o il perché, non sapeva assolutamente niente, ma sapeva che quel vuoto che sentava dentro di sé, quel senso di abbandono e perdita erano sintomo di qualcosa che c’era stato e che ora non c’era più, e le mancava terribilmente, forse quella sua infermità, oltre ai mal di testa dolorosi, era dovuta a quello che sulla terra alcuni nelle città dell’Ovest chiamavano crepacuore o melanconia e sicuramente per questo adesso ne sentiva così tanto la mancanza, le mancava qualcosa e ne sentiva il bisogno tanto quanto si ha bisogno dell’acqua in una giornata assolata, tanto quanto si ha bisogno di un fuoco caldo in una bufera di neve. Neve. Ed ecco un’altra fitta che la costringeva a terra.
Se non altro avrebbe gradito spiegare alla madre di quelle terribili emicranie che ogni volta la sorprendevano e di notte non la lasciavano dormire, ma lì sua madre non c’era, lì non c’era nessuno al di fuori di sè stessa.
Si tirò su con grande fatica ed appoggiandosi alle pareti uscì dalla sala del trono.
Continuava a ripetersi che se la sarebbe cavata da sola, che se nessuno era venuto ad accoglierla lei certo non avrebbe cercato nessun altro, si bastava da sé.
 Si chiese anche da dove le venisse tutto quell’orgoglio, era stato qualcosa che raramente l’aveva contraddistinta, in una situazione normale, infatti, sarebbe forse crollata, lì in lacrime a piangere, ma sentiva dentro di sé un fuoco che le bruciava nel profondo e che, nonostante le gambe stanche ed il cuore deluso, la faceva andare avanti, corridoio dopo corridoio, porta dopo porta.
Facendo sempre più fatica arrivò alla piscina; l’acqua ferma, come la ricordava, nascondeva sotto la sua trasparenza lo specchio che le avrebbe fatto da passaggio.
Almeno, pensò, potrò rivedere gli uomini e se non posso avere l’affetto di chi amo, potrò offrire il mio a chi non mi conosce neppure. Una magra consolazione, ma pur sempre qualcosa ed in quel momento anche solo quel qualcosa poteva essere sufficiente a non crollare.
Si immerse nell’acqua ed un brivido freddo le percorse la schiena, risalendole su per la spina dorsale fino alla testa, dove la frescura le donò finalmente sollievo dal dolore, un sollievo che ormai non provava da molto tempo.
Si lasciò andare, attratta dallo specchio sul fondo che la chiamava dolce a sé, come se, almeno lui, l’avesse attesa ed ora la volesse abbracciare con gioia.
Nel momento in cui il suo corpo incontrò il freddo del cristallo perse coscienza di questo, di lei rimasero solo lacrime e solitudine, una solitudine che in cuor suo sapevo che qualcuno aveva colmato, ma non riusciva a ricordare chi o quando. Ne sentiva solo la mancanza, e fu quella mancanza che tracciò il suo percorso verso la terra.

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Capitolo 16
*** Reminiscenza ***


Maggio riprese i sensi nel mezzo di un bosco tetro e scuro. Non capiva perché si fosse ritrovata proprio lì, solitamente quando viaggiava verso la terre le sue mete iniziali erano prati, spazi aperti, dove nell’aria aleggiava ancora un ultimo ricordo di Aprile, quella volta invece si era risvegliata immersa tra le foglie secche e putrescenti di un vecchio bosco.
Gli alberi erano alti, dai fusti magri e scuri, e le loro coltri coprivano il sole che faceva fatica a filtrare fin laggiù, lasciando spazio ad altri tipi di flora, come funghi che crescevano a ridosso delle grandi radici.
Si tirò su a sedere intontita. Non c’era infatti alcun motivo per il quale si sarebbe dovuta trovare lì, era molto strano, ma decise di non farci troppo caso, alla fine un bosco è sempre un bosco e lei era pur sempre Maggio il suo compito non cambiava sia che partisse da un prato sia che iniziasse da una selva scura.
Con grande fatica si mise in piedi. Si era dimenticata come sulla terra i loro corpi acquistassero più materia, più peso e sostanza, soprattutto con questi acciacchi e dolori vari.
Le sue gambe, già instabili, facevano fatica a reggerla in piedi e le fitte alla testa, che nel suo giardino le parevano così forti, ora erano vere e proprie scariche elettriche, unghiate che le si conficcavano nelle tempie. Che fosse questa la sofferenza che gli esseri umani dovevano patire ogni giorno? Voleva dire questo avere un corpo? Per una frazione di secondo ringraziò il destino di essere quello che era, non avrebbe sopportato una vita passata nel dolore della carne, ma mentre pensava a questo sentì qualcosa di caldo e liquido bagnarle le guance.
Spaventata guardò verso l’alto, ma dai rami niente le stava gocciolando addosso, titubante portò le dita affusolate della mano sulle gote e sorprese calde e salate lacrime rigarle il volto. Perché stava piangendo? Non ne aveva idea, ma sentiva un dolore apprensivo, un misto di preoccupazione e nostalgia, al pensiero di vivere una vita da mortale, eppure non riusciva a cogliere il perché di quel dolore e di quel pianto.
Non aveva motivo di essere triste, era vero che sulla terra il suo corpo acquisiva più presenza che nel suo giardino, ma tutto questo durava solo un mese, così come accadeva per i suoi fratelli, per cui perché quel dolore? Perché quell’apprensione? Verso chi erano rivolti?
Le sembrava di non aver più il controllo su nulla, a partire dalle sue emicranie invasive fino a queste emozioni misteriose. Che tutto questo fosse legato in un qualche modo con il comportamento di Aprile e di sua madre? Forse le era successo veramente qualche cosa di grave e loro non glielo volevano dire, forse era gravemente malata e la volevano tenere all’oscuro di tutto.
Sciocchezze, sciocchezze, pensò, se un tuo caro è malato ti presenti ad accoglierlo quando si reca da te, non scompari nel nulla ignorandolo e non lo tratti come se ne avessi paura quando lo vai a trovare. Sono stati solo meschini con me ed io non so ancora il perché.
Ancora amareggiata per gli avvenimenti di poco prima si portò a fatica avanti nel basco, rinvigorendo i fusti degli alberi e facendo nascere frutti rossi nei cespugli e negli arbusti, ma con sua grande sorpresa si accorse che più avanzava in quel luogo, più la temperatura si abbassava.
Fatto strano, doveva forse trovarsi molto a nord nel mondo, sapeva di alcuni luoghi che rimangono freddi tutto l’anno, luoghi in cui il conte Inverno regnava sovrano ed era difficile che la primavera potesse veramente sopraggiungere, tanto meno l’estate, ma lei non si era mai spinta a tanto, si era sempre tenuta un poco lontana da quei posti, lasciando che le emanazioni di sé li raggiungessero e donassero anche agli uomini di lì dei benefici, ma sempre nel rispetto dei meccanismi del mondo. Non aveva certo mai portato fiori e frutti laddove esisteva un ghiaccio perenne.
Eppure lì in quel luogo non avrebbe dovuto far così tanto freddo, ma più avanzava più si scopriva a frizionarsi energicamente le braccia nella speranza di racimolare un poco di calore.
Ad un certo punto i suoi piedi calpestarono un terreno strano, morbido ed umido come se fosse stato troppo imbevuto di acqua e si accorse che qua e là, sparse per il sottobosco, si trovavano macchie di neve.
Neve! Come era possibile che ci fosse della neve?! E più avanzava più ne trovava, da macchiette sparse, erano diventati interi spazi bianchi, fino a che il manto candido non aveva coperto tutto il terreno ed infreddolito fino all’osso i piedi scalzi di Maggio.
Stranamente non era però spaventata da quel fenomeno, avrebbe dovuto esserlo, pensò, Dovrei averne paura, neve in piena primavera, come è possibile? Ma perché non ne ho paura? Ed infatti sentiva dentro di sé un sentimento di affinità con quella neve, come se le fosse amica.
Ci sono dei posti, su al nord, dove mi chiamano Morte, ma io non sono la Morte, è grazie a me se poi ci sarà la vita.
Chi aveva detto quelle parole? Perché ora le erano comparse nella memoria? Qualcuno di importante, sì, ma chi? Qual era il suo nome? Non fece in tempo a concentrarsi un po’ di più che subito una scarica elettrica le attraversò il cranio. Si portò una mano alla fronte, era proprio stanca di quelle emicranie.
Avanzò ancora un po’ nella neve, ormai le arrivava fin sopra le caviglie e le dita dei piedi erano diventate blu dal freddo.
Poco più avanti c’erano dei bambini. Giocavano spensierati a ridosso del bosco, tutti imbavagliati come se fosse inverno, anche se non lo era, ma il freddo ingannava facilmente. Si lanciavano palle di neve e ridevano a crepapelle quando riuscivano a colpire un compagno, mentre quello faceva finta di cadere a terra ferito a morte, per poi agitare braccia e gambe disegnando figure nella neve,  che loro chiamavano angeli.
-Miscia! Attento Vlad è dietro di te!- aveva urlato un bambino nascosta dietro ad un albero e Miscia in fretta si era voltato non riuscendo però ad evitare il colpo dell’altro bimbo nascosto a sua volta. Tutti e tre caddero a terra tra sonore risate -Che bello che la neve sia rimasta quest’anno! – stavano dicendo nel frattempo due bimbe in disparte occupate a costruire un bel pupazzo di neve.
-Hai proprio ragione Irina, certo che se ci fossero dei fiorellini potremmo decorare Anya, così sembra molto spoglia- disse la bambina dai capelli corvini.
Maggio, intenerita, si portò accanto a loro e soffiò un alito caldo sulla testa del pupazzo di neve. Da questo presero a sbucare piccoli fiorellini bianchi e blu che disegnarono una bella corona sul capo di Anya, ma che, dato il freddo, appassirono in fretta.
Le bambine rimaste a bocca aperta si guardavano stupefatte a vicenda -Sei stata tu Tamara?-
-No, no certo che no, io ti ho vista Irina che dicevi formule magiche- la bambina divenne paonazza -Ma cosa dici?! Io non ho aperto bocca?!- accanto a loro i tre ragazzini non avevano smesso di lanciarsi palle di neve e non si erano accorti di nulla -Dici che dovremmo dirlo alla mamma?-
-Io penso di no, alla fine erano solo fiori giusto? Non abbiamo fatto niente di male? Io non lo racconterei proprio a nessuno- ed incrociandosi i mignoli a vicenda suggellarono questo patto sacro tra di loro.
Le due vennero però interrotte da un bambino che puntava il dito in lontananza poco più in là nel bosco
-Sono Aleksej e Sascia! Sono tornati dalla caccia!- Tamara prese la mano inguantata di Irina e la tirò su in piedi -Finalmente ero stufa dei cavoli, magari mamma questa sera cucinerà qualche arrosto, ho una fame!-  Irina si sistemò la gonna bagnata su cui erano rimasti dei fiocchi di neve che erano lì lì per sciogliersi -Davvero. La neve mi piace, ma si mangiano sempre cavoli- fece una linguaccia per esprimere tutto il suo amore per quella pietanza ed insieme agli altri ragazzini si lanciarono giù, verso il villaggio dove Aleksej e Sascia erano praticamente ormai arrivati.
Maggio guardò quel gruppo di bambini correre felici verso la loro cena. Sorrise di fronte alla loro spontaneità e felicità.
Si sentì improvvisamente stanca, infreddolita ed affamata. Se, come dicevano, i due uomini erano appena tornati dalla caccia, non avrebbe certo dato fastidio a nessuno se si fosse intrufolata in qualche casa a scaldarsi a fianco di un camino. Magari avrebbe preso qualche tozzo di pane caldo per sfamarsi, ma nulla di più, aveva intuito che quelle fossero terre povere e non voleva sottrarre loro più dello stretto necessario.
Scese a fatica il declivio in direzione di un villaggio che sorgeva a ridosso di un fiume ghiacciato. La vista la lasciò di stucco, non aveva mai osservato in vita sua spazi così ampi e tersi, il bianco del cielo, sintomo di una bufera imminente, si perdeva con la coltre candida che ricopriva il suolo. La terra amoreggiava con le nuvole, perdendosi in loro in un tutt’uno che le lasciava i brividi.
Ancora meravigliata per la vastità dello spazio arrivò al villaggio. Aveva qualche cosa di familiare: c’erano un gruppo di case di legno con i tetti spioventi, i camini sputacchiavano scie di fumo biancastro che si perdevano nel cielo, confondendosi con i nuvoloni, le finestre erano tutti occhietti vispi, gialli e luminosi, che regalavano scorci di vite familiari custodite al loro interno.
Al centro del villaggio sorgeva un edificio più grande degli altri, con un’alta torre. Le sue campane stavano suonando, Maggio contò otto rintocchi secchi.
E lì accanto a quello strano edificio, un albero maestoso attirò la sua attenzione. Era un grande melo, i cui pomi rossi svettavano dalla chioma, intatti, come se il gelo non li avesse nemmeno sfiorati una volta, le radici affondavano in una terra pulita, rorida e scura, su cui la neve non riusciva ad attecchire.
Strano, pensò, come è possibile? Qui in mezzo alla neve? Come hai fatto a non addormentarti come i tuoi fratelli? Ma in fondo pensò che fosse ancora più strano che in quel momento dell’anno ci fosse tutta quella neve, eppure, nonostante la vocina razionale della sua testa le continuasse a ripetere che qualcosa non andava, che forse avrebbe fatto bene ad avere paura, lei si sentiva a suo agio come se quel posto non le fosse poi così estraneo.
Posò una mano sul tronco scuro dell’albero, poteva sentire il cuore interno di quello battere vitale. Possibile che… ma il suo pensiero fu interrotto dalla corsa di un bambino -Aliocha! Aliocha! Tirami su! La mamma vuole le mele per il suo arrosto!- il bambino saltellava come un grillo cercando di raggiungerle con le sue manine, ma i rami erano visibilmente troppo alti per lui.
Un ragazzo allora si fece avanti e con le mani se lo caricò sul collo così che potesse cogliere con facilità i frutti rossi e maturi. Maggio non poteva vederlo in volto, perché le dava la schiena, ma sentì dentro l’ansia ribollirle.
Non aveva avuto paura fino a quel momento, non aveva temuto il comportamento di Aprile, né l’assenza della madre, non si era spaventata per il suo arrivo né per la neve, eppure ora quella massa di capelli così biondi da sembrarle bianchi, stava animando in lei il panico più puro e viscerale.
-Sai Aliocha- diceva intanto il bimbo mentre si riempiva la camicia di frutti -tu non eri ancora arrivato, ma poco più di un anno fa, Dio qui ha fatto un miracolo! E’ per questo che anche se fa freddo abbiamo sempre tante belle mele-
-Lo vedo proprio che è un miracolo- rispose di rimando il ragazzo. Quella voce, quella voce era così familiare e la scosse nel profondo.
-Tu proprio non ricordi nulla Aliocha? Non è che ti è tornato qualche ricordo?- il ragazzo mise giù il bambino fin troppo carico di frutti -No, Miscia, te l’ho già detto, nulla- si voltò.
Il mondo di Maggio in quel momento smise di esistere. Il vento, la notte, il freddo, nulla rimase davanti ai suoi occhi, sulla sua pelle, nulla che potesse sentire o odorare, vedere o toccare, al di là di quel ragazzo, al di là di quei capelli bianchi, non biondi, di quella bocca affilata, di quegli occhi gelidi.
Come aveva potuto dimenticarlo? Come aveva potuto scordarsi di lui? Come aveva potuto cancellare Dicembre?!
Sconvolta, tremante e confusa seguiva passo per passo le due figure che si allontanavano verso la loro casa, senza accorgersene stava mettendo i piedi sopra le esatte impronte che Dicembre lasciava sulla neve.
E pian piano, passo dopo passo, i ricordi che non era mai riuscita a ricordare affioravano lenti alla sua memoria, senza più mal di testa a frenarli. Il suo soggiorno sulla terra, la casa abbandonata, i viaggi, Core, il processo, la paura e l’amore.
Tutto riprese senso nella sua mente e la lasciò sconvolta allo stesso tempo, come aveva potuto dimenticarsi di lui?! Si sentì terribilmente in colpa per averlo fatto.
I due erano arrivati alla soglia di casa. Miscia era già entrato lasciando i suoi stivali zuppi sull’uscio, Dicembre stava levandosi i suoi.
-Dicembre- sussurrò lei in lacrime. Era felice di averlo trovato, felice di averlo ricordato, ma si odiava per averlo anche solo dimenticato, per aver lasciato che capitasse. Aleksej si voltò, aveva sentito qualcosa nel buio della strada, un soffio caldo che sapeva di fiori e frutti, un richiamo antico a qualcosa che un tempo gli era appartenuto.
-Dicembre sono io, sono la tua Maggio. Non mi riconosci? - la voce le si era incrinata, prossima alla disperazione più totale, si rendeva conto che quello che era stato Dicembre e che ora era Aleksej poteva percepire che qualcosa c’era, che lei era lì da qualche parte, ma non riusciva a vederla, non la poteva né sentire né vedere perché ormai era un uomo come gli altri. Ma non era uno come gli altri per lei.
Avrebbe voluto abbracciarlo, avrebbe voluto stringerlo a sé e farsi stringere da lui, avrebbe voluto dirgli che sarebbe andato tutto bene, avrebbe voluto urlagli quanto gli era mancato senza che neppure lei se ne accorgesse, in quell’amnesia impostagli, avrebbe voluto chiedergli scusa per aver lasciato che capitasse, eppure tutto quello che disse fu -Sono qui- un’ultima volta, la voce ormai un sibilo di dolore e tristezza, ma in quel momento un’altra donna si fece spazio tra loro due.
Era bella e florida, dai capelli color dell’oro e dalle labbra carnose, Maggio provò istintivamente invidia ed antipatia per lei.
-Aliocha, che ci fai qui fuori ti prenderai un raffreddore! Non ti ho certo curato per farti morire poi di polmonite no?- lui si voltò sorridendole ed il fantasma dei fiori che stava lì davanti a loro odiò con tutto se stesso quel sorriso che non era per lui -No certo, scusami mi era sembrato di sentire qualcosa, ma forse era solo il vento-. Chiuse la porta.
Maggio rimase lì, davanti all’uscio, incapace di piangere e muoversi, sconvolta ed addolorata. Lei per lui era diventata solo vento.
 
 
 

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Capitolo 17
*** Un anno di vita ***


Aleksej si era svegliato al buio ed al freddo la notte di poco meno di un anno prima. Si era ritrovato da solo nel bel mezzo di un bosco, con la neve che non solo ricopriva i cespugli spogli e le foglie cadute degli alberi, ma anche i suoi vestiti decisamente troppo leggieri per l’inverno.
Non ricordava nulla di sé, non sapeva da dove venisse, quale fosse la sua casa, i nomi dei suoi amici o dei suoi genitori, alla mente gli affioravano solo due indizi: il suo nome e due occhi azzurri, tristi. Informazioni un poco scarne per ricostruire chi fosse o perché si trovasse lì.
Di quella sera ricordava oltretutto veramente poco. Doveva essere rimasto sotto la neve, svenuto, per diverso tempo, perché avanzando nel bosco alla ricerca di un’uscita, ricordava la spossatezza ed il tremito di braccia e gamba, ricordava il dolore alla gola ed un terribile mal di testa che gli perforava il cranio.
Olena gli aveva poi detto diverso tempo dopo che se non l’avessero trovato in tempo, lei e suo marito, probabilmente sarebbe morto lì, come molti altri viandanti e mendicanti che in quella strana estate di neve e gelo si erano smarriti ed erano morti assiderati.
Olena e Sascia, due contadini semplici e rustici, che però gli avevano salvato la vita e l’avevano accolto con loro.
Del primo periodo nella loro casa, Aleksej ricordava veramente poco, aveva passato tutto il tempo in un profondo stato di incoscienza, in preda a terribili febbri, più volte infatti, gli avevano poi raccontato, il piccolo Miscia, loro figlio, aveva temuto che il ragazzo fosse già morto da un pezzo e quello fosse solo il suo fantasma, tanto era sempre bianco in volto.
Alla fine, però le cure premurose di Olena l’aveva guarito ed il piccolo Miscia aveva avuto sempre meno paura di quello strano tizio dai capelli bianchi che una notte era svenuto davanti al loro uscio.
Una volta ripresosi e rimessosi in sesto Aleksej avrebbe voluto andarsene, non voleva approfittarsi troppo dell’ospitalità di quei buoni cristiani, ma loro avevano insistito perché restasse.
-Dove credi di potertene andare senza un briciolo di memoria, eh?- l’aveva apostrofato la florida Olena.
Olena era una donna grande, dai fianchi morbidi e dal seno prosperoso, una donna forte e risoluta, ma che aveva sempre una parola gentile per tutti ed un occhio di riguardo per chi fosse capitato sotto la sua ala benevola, fortuna che era toccata proprio ad Aleksej.
Trovandosi infatti quel ragazzino magrolino davanti a casa, tutto bagnato e bruciante per la febbre alta, in lei era scattato qualcosa, uno spiccato spirito materno forse, che l’aveva portata a prendersene cura giorno dopo giorno, esattamente come avrebbe fatto con il suo piccolo Miscia. Oltretutto, non insegnava forse il buon Dio ad accogliere il nostro prossimo ed essere caritatevoli per accedere al regno dei cieli? E così Olena aveva fatto.
Aleksej non poteva però godere dell’ospitalità di quella famiglia gentile senza dare nulla in cambio, non poteva certo poltrire a letto, mentre marito e moglie si affaticavano ogni giorno per portare il pane in tavola, così aveva deciso che, se proprio fosse rimasto, cosa saggia in fin dei conti, si sarebbe rimboccato le maniche anche lui.
Ne aveva parlato una sera a cena, mentre tutti e quattro assaporavano la ormai consueta zuppa di cavolo bianco -Vorrei rimanere qui con voi- aveva detto -Ma vorrei lavorare con voi, darvi una mano- e Sascia gli aveva sorriso -Ne saremmo veramente felici, Aliocha-.
Anche Sascia era un vero e proprio personaggio, un uomo rubicondo e dal sorriso largo forse tanto quanto le sue spalle, il che era tutto dire, considerandone l’enorme stazza.
Non ci sarebbe stata altra parola per descriverlo se non buono, era un uomo buono, gentile e docile; tanto la moglie poteva essere risoluta e forte nelle sue decisioni, quanto invece il marito risultava poi diplomatico ed arrendevole, cosa che il piccolo Miscia aveva ormai capito da tempo ed infatti ogni volta che desiderava qualcosa non era certo alla madre che correva a chiederla.
Era una bella famiglia, accogliente e felice, nonostante il poco che avevano da mangiare, oltretutto quell’anno, come gli aveva raccontato, l’estate sembrava proprio essersi dimenticata delle loro terre, ed era sopraggiunto uno strano inverno rigido e freddo, come non se ne erano visti da parecchio tempo.
Aleksej fu grato di poter condividere la sua vita con quelle persone e presto si affezionò molto a loro.
La mattina si svegliava all’alba ed aiutava Sascia con gli animali, poco cosa in realtà, non si trattava d’altro che di una mucca e qualche gallina, ma nonostante questo avevano il loro da fare, mungevano e raccoglievano le uova, che poi avrebbero portato a Olena. Nel pomeriggio giocava per qualche oretta con Miscia, che ormai l’aveva preso come un fratello maggiore, andavano nel bosco a vedere se sotto la neve si nascondesse qualcosa da mangiare o a costruire trappole per scoiattoli e conigli e sempre il bimbo lo ricopriva di domande.
-Qual è la tua casa? Da dove vieni? Ti chiami Aleksej, per cui devi essere di queste parti? Io conosco un Aleksej che vive in un villaggio qui vicino, tu lo conosci?- ma a tutte queste domande lui poteva sempre e solo rispondere che, no, non conosceva nessun altro Aleksej, non sapeva da dove venisse o perché fosse finito lì.
Quando Olena sorprendeva il figlio fargli così tante domande lo riprendeva severa -Miscia- diceva -lascia stare Aliocha, è da maleducati!- e poi materna si avvicinava a lui rincuorandolo -Non ti preoccupare vedrai che ricorderai, sono sicura che sia stata solo quella brutta polmonite che hai avuto, tra non molto ricorderai- ma in realtà Aleksej non ricordava mai, era passato infatti poco meno di un anno da quella notte nel bosco e dei suoi vecchi ricordi rimaneva ancora solo il suo nome e quei due grandi occhi azzurri che lo guardavano, tristi.
Quella sera a tavola erano tutti in silenzio, mangiavano la loro zuppa accompagnata da uova sode messe sotto aceto, ognuno intento a fissare intensamente il proprio piatto. Fu Miscia, con la schiettezza propria dei bambini, che interruppe quella tensione silenziosa -Ho sentito mamma e papà che parlavano l’altra sera- disse con la sua vocina acuta -dicevano che quando tu, Aliocha, recupererai la memoria, te ne vorrai andare e non starai più con noi, non starai più con me! E’ vero?! Vuoi andare via?!- tutti erano rimasti un po’ sbigottiti, i cucchiai lasciati a mezzaria che gocciolavano zuppa nel piatto -Miscia!- l’aveva rimproverato Olena, ma Aleksej aveva fatto cenna di non preoccuparsi -Scusaci, Aliocha, ma abbiamo pensato che se tu riacquisterai la memoria vorrai tornare a casa tua, mentre per noi sei stato così utile, ci faceva comodo avere due braccia in più, soprattutto ora che Miscia è ancora piccolo, ma capiremo quando tu vorrai andartene- gli aveva detto lei un po’ imbarazzata, ma Aleksej aveva semplicemente sorriso -Io non ricordo assolutamente niente ed è ormai passato molto tempo da quando mi avete trovato, eppure non ho ancora ritrovato la memoria, non credo proprio che succederà a breve, ma se anche dovessi ricordare, voi ora siete la mia famiglia e questo è qualcosa che io non potrò scordare mai- tutti i presenti furono rincuorati da quelle parole di affetto e ripresero a cenare con più gioia ed appetito, scherzando e raccontandosi piccoli aneddoti della giornata trascorsa.
-Domani andremo a caccia- aveva detto Sascia -Ormai deve iniziare il mese di Maggio, si sa mai che questo inverno che non sembra avere una fine ci conceda almeno un poco di selvaggina-
-Mamma, farai l’arrosto con quello che Papà ed Aliocha cattureranno?- lei gli tirò un pizzicotto dolce sulla guancia -Certo, faremo l’arrosto con le mele, quello che piace tanto a te? Va bene?- il bambino soddisfatto riprese a mangiare la sua zuppa con foga.
Aleksej amava tutte quelle serate trascorse assieme a loro, amava lavorare con Sascia, aiutare Olena a cucinare e giocare con Miscia, amava le storie che i vecchi del villaggio raccontavano ai bambini sotto allo strano albero che dava sempre frutto.
A volte Miscia gli aveva fatto notare come fosse strano che un ragazzo grande come lui, ormai un adulto, se ne stesse assieme a loro ad ascoltare quelle vecchie favole, ma lui sorrideva e basta rimanendo lì per sapere se Vasilisa avesse ottenuto poi quella candela dalla Baba Jaga.
E così, nonostante non ricordasse nulla di sé, sentiva un senso di appagamento, come se avesse finalmente trovato quello che stava cercando da diverso tempo, eppure mancava sempre qualcosa.
Si sentiva felice, accolto ed in pace con la vita che stava conducendo, nonostante il freddo o la fatica, ma sentiva anche che tutto quello non gli bastava, che mancava qualcosa di importante, che però non riusciva a ricordare.
Tutte le sere prima di addormentarsi nel letto sopra alla stufa assieme a Miscia, gli sopraggiungevano alla memoria quei due grandi occhi azzurri. A volte piangevano, a volte sorridevano, ma nascondevano sempre quell’immensa tristezza che gli provocava un nodo alla gola. Chi sei? Avrebbe voluto domandare a quei due occhi, ma non sapeva nemmeno chi fosse lui stesso, come poteva pretendere di ricordare a chi appartenessero loro? E così ogni notte si addormentava con questo dubbio impossibile da sciogliere.
Quel giorno si alzò più presto del solito, ed assieme a Sascia uscì per cacciare nel bosco.
Il sole non era ancora sorto, ma la sua luce cominciava a fare capolino oltre l’orizzonte, colorando flebilmente un cielo bianco da neve. Dentro di sé seppe di non aver mai visto in vita suo luogo più bello, grande e libero di quello.
Si addentrarono nella selva, facendo attenzione a dove mettevano i piedi, la neve infatti aveva ricoperto tutto durante la notte, nascondendo alla vista eventuali pericoli del selciato.
-Hai mai cacciato prima?- gli chiese Sascia mentre delle nuvolette di vapore gli uscivano dalla bocca -Non che io ricordi- rispose Aleksej -Vedi, Aliocha, cacciare è un arte. Una danza tra il cacciatore e la preda, ci vuole attenzione e pazienza. Tanto tempo fa mio padre insegnò a me e mio fratello a cacciare i cervi, ora io lo insegnerò a te- e lui si sentì onorato di questo privilegio.
Camminarono per diverso tempo dentro alla foresta addentrandosi non poco nella sua profondità e, con loro meraviglia si accorsero che più avanzavano, più la temperatura si alzava, anche se di poco, e la neve per terra sembrava diminuire.
-Forse sono gli alberi, proteggeranno il sottobosco dalle bufere- aveva azzardato Sascia, ma la verità era che entrambi trovavano il fatto non poco strano, sicuramente tanto bizzarro quanto quell’inverno che non sembrava finire più. Era come se, man mano che ci si allontanava dal villaggio si tornasse lentamente alla primavera, prima quella di marzo, ancora fredda insonnolita, fino a quella di aprile, umida e rorida.
Veramente insolito, pensarono, quando ormai della neve non erano rimaste che chiazze sparse qua e là. Che l’inverno si fosse mantenuto solo al villaggio? C’era da ammettere però che le temperature non si alzavano mai più di tanto, ed i due uomini non tolsero mai le loro pellicce.
Ormai il sole era alto nel cielo, avevano camminato per mezza giornata, mentre Sascia gli spiegava ogni particolare della caccia del cervo, come non si dovesse mai essere a favore del vento, per non farsi scoprire, come nascondersi volesse dire fare quanto più silenzio possibile, ma non avevano trovato ancora nulla, quando una macchia scura attirò la loro attenzione.
-Ecco, un cervo- bisbigliò Sascia accovacciandosi dietro un grande masso e Aleskej fece lo stesso accanto a lui -I cervi hanno un udito molto fino, il minimo rumore e scapperà via, per questo li si caccia con le frecce- ed estrasse dalla faretra che portava sulla schiena una lunga freccia acuminata.
La incoccò -Vedi, la mano che regge l’arco, mi fa da mirino, e l’altra tende il filo fino alla guancia- mentre spiegava bisbigliando al ragazzo come fare, le sue mani abili fecero il resto del lavoro. Mirò e scagliò con precisione. Il cervo non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di nulla, un soffio nell’aria ed una punta di metallo gli trafisse il collo.
-In questo caso ci è andata bene- disse Sascia uscendo allo scoperto per recuperare la freccia dall’animale -normalmente però sono più rapidi e noi li colpiamo alla zampa o alla schiena. Loro scappano via, ma sono feriti e non vanno poi così lontano- Aleksej lo guardava strabiliato, un uomo così grosso e sgraziato poteva scagliare una freccia con una tale precisione.
Sascia si caricò il cervo sulle spalle.
Era piccolo, non ancora un adulto ed a confronto con la stazza di lui sembrava quasi una bisaccia di poco peso.
-Vieni, questo basterà, ora lasciamo qualche trappola per scoiattoli e poi torniamo a casa, arriveremo al tramonto- raccolsero dei legnetti che legarono tra loro con della corda, inserirono delle esche, pezzi di pane o spicchi di mela, e li lasciarono alla base dei grandi alberi.
-Torneremo domani a vedere se abbiamo preso qualcosa e poi tra qualche settimana sarai tu a cacciare un cervo ed io a guardarti- disse Sascia sorridendo e si misero in marcia.
Arrivano in effetti che ormai il sole stava calando, un gruppo di bambini urlò i loro nomi e gli corse felice incontro, erano Miscia ed i suoi amichetti che saltellavano attorno ai due come se fosse stato un giorno di festa. Era veramente molto che quell’inverno stava durando ed iniziava a farsi sentire.
Una volta entrati in casa Sascia si dedicò a pulire l’animale, tolse la pelle e lo eviscerò -Con questa pelliccia Olena potrà farci un bel mantello oppure due paia di guanti uno per te, Miscia, ed uno per Aliocha- disse il padre rivolto al bambino, che nauseato lo guardava compiere quel lavoro meticoloso. In quel momento arrivò anche Olena -Sascia non farlo qui, sporcherai tutto! E poi guarda Miscia, lo impressionerai- prese il bimbo per le spalle e lo portò all’uscio di casa -Vammi a prendere le mele, su da bravo-, ma lui non dovette nemmeno farsi troppo pregare, aveva visto abbastanza per capire che pulire la selvaggina non faceva proprio al caso suo.
Aleksej lo seguì come un cane fidato, mentre ormai il crepuscolo avanzava. All’albero di mele prese Miscia in spalle per arrivare ai rami troppo alti per entrambi e rise quando il bambino, gonfio per i frutti custoditi nella camicia, camminava ciondolando a destra ed a sinistra.
Arrivato all’uscio di casa iniziò a levarsi gli stivali zuppi, quando qualcosa lo sorprese. Lì, nel bel mezzo di neve e freddo, nel centro di un inverno che sembrava non avere fine, al suo naso era arrivato il profumo di fiori e di frutti freschi, un alito caldo di vento che sapeva di buono. Sentì un profondo senso di malinconia e nostalgia, ma non sapeva per cosa.
Gli sembrò addirittura che una voce nel vento chiamasse qualcuno, una voce triste ed affrante, tanto quanto lo erano gli occhi blu che ogni serva gli facevano visita nella sua memoria perduta.
- Aliocha, che ci fai qui fuori ti prenderai un raffreddore! Non ti ho certo curato per farti morire poi di polmonite no?- era stata Olena a parlare e lui si era voltato sorridendo - No certo, scusami mi era sembrato di sentire qualcosa, ma forse era solo il vento- e chiuse la porta, ma dentro di sé ebbe la terribile sensazione che fuori da quella casa avesse lasciato indietro qualcosa di molto importante, qualcosa che aveva amato e che poi aveva perduto per sempre assieme ai suoi ricordi.

 

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