Il processo

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una, nessuna, centomila (1) ***
Capitolo 2: *** Una, nessuna, centomila II ***



Capitolo 1
*** Una, nessuna, centomila (1) ***


 

Era successo nel tempo di tre battiti.
Tre, secchi e rapidi, spinti dall'adrenalina.

Nel primo aveva realizzato cosa stava succedendo.
Al secondo aveva capito cosa sarebbe potuto succedere.
Col terzo, agì.

_______

Nadja Rubin sedeva a un tavolo più vecchio di lei, sua madre e sua nonna messe insieme. Era largo, quadrato, e avrebbe facilmente potuto accogliere una ventina di persone.
Dall'altro lato un uomo, in piedi, si ostinava a leggere e rileggere due pagine di un fascicolo alto quanto un vocabolario. Accanto all'uomo sedeva una donna, forse sessant'anni, dai lunghi capelli argentati e il volto curato, ben truccato, le sopracciglia perfettamente simmetriche e candide: vestiva una tuta da ginnastica nera, chiusa sino al collo.
La guardava.
Da mezz'ora, non faceva altro che guardarla.
La donna si chiamava Eva Santoro, ed era - era stata - Procuratrice della Repubblica a Tolmezzo, una cittadina appoggiata alle prealpi carniche di cui nessuno, sino a qualche anno prima, si era mai troppo curato.
C'erano due motivi per cui Eva Santoro sedeva in quella stanza - anzi, tre.
Il primo era che a Tolmezzo c'era ancora un tribunale funzionante. Magistrati, amministrativi, tecnici informatici e inservienti erano non solo tutti in vita, ma anche tutti pronti a lavorare: pronti a mettere a posto gli archivi disastrati, pronti a mettere in sicurezza gli uffici sventrati, a pulire i calcinacci, a rimettere la malta, a lavorare sulle scale, sui prati o nei tendoni allestiti poco lontano. 
Se quindi si fosse dovuto svolgere un processo, quello era il luogo giusto per farlo. Infatti, di processi ne avevano già svolti una decina: piccole banalità, vecchie storie da chiudere, un paio di furti in recidiva.
Il secondo motivo erano i piani alti. Gli ingenui avevano immaginato che i piani alti sarebbero stati i primi ad accusare il colpo di quanto era successo, disintegrandosi: errato. I piani alti erano sopravvissuti - non senza contraccolpi o mutilazioni, ma erano sopravvissuti. Loro, e i media: reti televisive e radiofoniche, piattaforme web dell'uno o dell'altro tipo, erano esplosi non appena era tornata la corrente, riempiendo il baratro lasciato dai big. Tutto era cambiato, e nulla era cambiato: la gente esigeva un processo. 
... fra le altre. Esigeva anche acqua potabile, scuole, cibo e medicine, ma soprattutto esigeva un processo. Lo dicevano i media, lo dicevano i piani alti, lo diceva la gente.
Arriviamo al terzo motivo. Il motivo per cui, a quel tavolo, sedeva Eva Santoro, e non Massimo Righi, o Lucia Linz. Eva Santoro era lì perché era brava, sì, perché era affidabile, sì, perché era viva - sì. Ma anche e soprattutto perché sapeva benissimo quanto quel processo, in realtà, non si potesse fare.
Eva Santoro sedeva fissando Nadja Rubin da un'ora.
Non voleva essere lì. Odiava essere lì. 
Eppure era lì.
Si alzò, dando un colpetto sulla spalla all'uomo accanto a lei.
"Va bene. Iniziamo."
Nadja Rubin si irrigidì impercettibilmente sulla sedia.
Eva Santoro inforcò gli occhiali, prese una matita, due fogli dal plico, due fogli da un cassetto, e tornò a sedersi.
"Posso verbalizzare io, Dottoressa..." farfugliò l'uomo.
Eva Santoro lo guardò sottecchi: "Sì, vabbè. Tu, capire le cose, mai."
Quello aggrottò leggermente le sopracciglia, ma non rispose.
"Non verbalizziamo un cazzo." spiegò la donna.
"Come scusi?"
"Vai a prendere dell'acqua, piuttosto. Sarà lunga."




 

 

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Capitolo 2
*** Una, nessuna, centomila II ***


(Una, nessuna, centomila - II)

 

Iniziò con le domande banali.
Quelle semplici.
"Nome."
"Nadja."
Quelle che nessuno faceva più, e che cinque anni prima nemmeno lei avrebbe mai fatto.
Cinque anni prima non si sarebbe nemmeno trovata a quel tavolo, a dirla tutta. 
"Cognome."
"Rubin."
"Nata il..."
"Sette giugno del novantacinque."
"A?"
"Monfalcone."
"Italiana."
"E slovena."
"Giusto."
"Nadja con la j."
Eva annuì: lo sapeva, sì. Lo sapevano tutti. 
"Dunque, Rubin..." Eva si appoggiò al tavolo, puntellandosi sui gomiti, sporgendosi leggermente verso Nadja. L'altra non si mosse, scrutandola - no, guardandola. Fissa.
Eva aspettò un paio di secondi, prima di continuare. 
"Rubin, la prima domanda che le faccio è semplice e gliela faranno migliaia di volte. La seconda meno, e anche questa gliela faranno migliaia di volte."
Nadja non si mosse. Sembrava salda, inamovibile.
Non era bene.
"Ci sono vari filmati che la ritraggono, Rubin, datati ventisette settembre duemilaetrentadue. Gliene faccio vedere alcuni. Per ognuno di questi, deve dirmi se la persona indicata dal cerchio verde è lei. Ha capito?"
Nadja annuì.
Nei cinque minuti successivi Nadja non contò le volte in cui ripeté "Sì, sono io". Eva la scrutava, mentre l'altra, immobile, continuava a osservare la sequenza di filmati: un paio di riprese da telecamere di video sorveglianza, qualche video di occhiali smart, uno di uno smartphone. Anche quando il suo volto non era perfettamente riconoscibile, anche quando tutto il suo corpo era riassunto in uno scarso centinaio di pixel, Nadja Rubin ripeteva: "Sì, sono io".
Erano mesi, ormai, che quei video circolavano sui media. In un modo o nell'altro, doveva averli già visti. Ma forse, non tutti di fila. Non un dopo l'altro. Non così.
"Veniamo alla seconda domanda." 

Sì.

Certo che ho ucciso Mitja.
Dovete essere ciechi per non vederlo. Vi ho dato tutti gli elementi per confermarlo.
Volete incarcerarmi? Va bene. Inventarvi una pena capitale ad hoc per il mio particolarissimo caso? Mandarmi dagli americani, così possono farlo loro?
Basta che vi muoviate. Che la piantiate di tentennare. Che la smettiate di parlare di mostro e di eroe contemporaneamente.
Che vi godiate le vostre vite, senza pensare se ve le siate meritate o meno, che la smettiate di pensarci, che la smettiate di voler dare un senso alla morte di Mitja diverso da quello che è.

"Ha mai pensato al suicidio?"

...

No.

A quella domanda, a lei inaspettata, Nadja Rubin rispose con un lento e minimale cenno del capo: da destra a sinistra. Da sinistra a destra.
Eva scrisse qualcosa.
"Quello che sta succedendo adesso, Dottoressa Rubin, non ha nulla a che vedere con il sistema giudiziario che ha regolato questo paese negli scorsi decenni. Né con quello di altri paesi. La situazione, il contesto, il luogo, le parti - potrebbero inventarsi un tribunale di guerra solo per lei. Il fatto che ora lei stia parlando con me dipende esclusivamente da una - viscida, a parer mio - solerzia dell'esecutivo temporaneo. Lei è anche slovena: arriveranno gli slavi, fra qualche settimana, e la vorranno. Poi ci saranno i cinesi. E gli argentini. E a cascata tutti, uno dopo l'altro, vorranno poter dire una cosa chiara e definitiva su ciò che lei ha fatto e su come vada giudicata."
Nadja annuì.
"Rubin, in base alle sue conoscenze, esiste la possibilità che Mitja fosse infetto?"
No.
"Può dimostrarlo?"
"Sì."
"E come?"
"Era già immune."
"Questo non può certificarlo. E se tramite un effetto collaterale del vaccino avesse finito con lo sviluppare ospiti?"
Nadja tacque, ancora. Fece un respiro profondo, ripetendo una cosa che aveva già ripetuto miliardi di volte, a colleghi, amici, conoscenti, sconosciuti, media.
"Non offenda sé stessa, Dottoressa Santoro."
"Eva."
"Lo sapete che quello non è un vaccino, proprio perché parliamo di ospiti, e non di virus. Mitja era sano."
"Era sano anche mentalmente?"
"Sì."
"Non può provarlo."
Silenzio.

Preferiscono questa versione.

"No, ma essendo convinta del contrario non è nemmeno ciò che ha guidato le mie azioni, se mai ... se mai questo costituisse un'attenuante, immagino."
"Lei non vuole le attenuanti, Rubin?"

Se lo era chiesta milioni di volte, nel mese precedente. 
Ora doveva solo prendere coraggio. Di più. Di più.
Non era come allora: non si trattava solo di fare la scelta giusta. La cosa giusta. L'azione che andava fatta, senza se e senza ma. Si trattava di prendere una lunga strada, logorante, e che poteva finire solo nel peggiore dei modi.
Ora, però, doveva andare.
Ancora una volta, fare ciò che era giusto. 
Almeno, per lei.

"Voi non volete attenuanti. Siete voi che non accettate che Mitja sia morto per salvare la vostra, di vita."

Aveva mentito.
Certo che ci aveva pensato, al suicidio.
Un giorno.
Un giorno lo avrebbe fatto.
Ma dopo.

"Loro." la corresse Eva Santoro.
Era vero. Stava solo cercando di ridursi il carico di lavoro: tanto per cominciare, sarebbe stato molto più facile se Mitja fosse stato infettato dagli ospiti - tutti gli omicidi commessi con questo movente, tutte coloro che avevano ucciso qualcuno temendo fosse infettato, avevano ricevuto una forma globale di amnistia basata sul principio di mors tua vita mea. O meglio: basata sul fatto che la sola idea degli ospiti provocasse, nella gente, un terrore tale da poterla considerare incapace di intendere e di volere. Certo, non tutti avevano ammazzato con questo criterio.
Ma chi lo aveva fatto era giustificato.
Mitja però non era infetto.
Mitja non era nemmeno mentalmente instabile, cosa che avrebbe potuto generare degli agganci - molto più complicati, ma comunque degli agganci - a una qualche forma di giustificazione. Ci sarebbe stato da scavare molto, ma forse...
In ogni caso, niente da fare.
A quanto pare nadja Rubin aveva deciso quale strada prendere, e non c'era invenzione giuridica o pseudogiuridica che Eva Santoro potesse inventarsi per farle cambiare percorso.
"Quindi, Dottoressa Rubin - qual è la sua versione dei fatti?"

 

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