Imprevisti – Giorni di Maggio

di Tenar80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Giorni ordinari ***
Capitolo 3: *** Imprevisti ***
Capitolo 4: *** Ricerche d'equilibrio ***
Capitolo 5: *** I sogni di una madre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ciao a tutti/e,

tantissimo tempo fa avevo promesso che il mio viaggio nel mondo di Yuri on Ice si sarebbe concluso nel 2032. Poi c’è stata una pandemia globale, con tanto di un paio di apocalissi in formato di asteroidi che ci hanno sfiorato e il mio tempo libero è evaporato tutto d’un colpo. Per tutto questo periodo Victori, Yuri, Yurio, Otabek e tutti gli altri hanno continuato a vivere nel mio salotto mentale, ben sistemati sul divano leopardato scelto da Yurio e si sono ripresentati puntuali all’inizio delle vacanze. 

Questa è la storia che conclude il mio viaggio con loro, era progettata da tantissimo tempo, l’extra conclusivo è stato scritto per il Natale del 2018! Per chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui, spero che questo sia un buon finale. Racconta di cose che mi stanno molto a cuore e spero, come sempre, di non urtare la sensibilità di nessuno. Si parla, ancora un po’, di abbandoni e di famiglie che vanno a costruirsi non proprio o non sempre com’erano state progettate o come stanno nel dizionario alla voce «famiglia», ma non per questo sono meno vere.

Per chi fosse giunto per caso in questi lidi, credo che la storia sia comunque comprensibile. Siamo nel 2032, quindi ere geologiche dopo la serie, ma Victor e Yuuri stanno insieme in Giappone e Otabek e Yurio stanno insieme in Inghilterra, il che mi sembra già un buon risultato. Certo, se volete sapere perché Otabek fa un lavoro che non ha nulla a che fare col pattinaggio, perché Victor ha un nipote o quando si sia infortunato Yuuri, temo vi tocchi leggere tutte le storie della serie «Stagioni».

Come sempre, questa storia non esisterebbe senza Elina e Thalia, numi tutelari dei miei pattinini e supporto indispensabile per me che li scrivo. 

 



 

 

IMPREVISTI

La vita è quella cosa che ti succede

mentre sei impegnato a fare altri progetti.

J. Lennon

 

Maggio 2032

 

Hasetsu

 

    Con cautela, Victor richiuse il cancelletto di casa dietro i cani. 

    Liza andò subito a sedersi sul prato, nella sua posizione preferita, vicino alla panca di pietra sotto la magnolia. A quattordici anni era un delitto che dovesse essere già così vecchia. Doveva essere stato un dio crudele quello che aveva stabilito il limite della vita dei cani. Doveva chiedere a Yuuri, i giapponesi avevano divinità o semidivinità per qualsiasi cosa, forse anche per l’età dei cani. Ark, del tutto tutto ignaro della fatica della sua compagna, preso dall’irruenza dei suoi tre anni, invece guardava Victor con i suoi occhi bicolori nella speranza di un secondo giro. Qualche volta capitava.

    – Oggi no – gli sussurrò il padrone, in russo.

    Ark, per tutta risposta ansimò, perplesso.

    Era un cane improbabile. Più alto di Liza sulle sue magrissime zampe, aveva il pelo corto, bianco e nero, un po’ a chiazze e un po’ a puntini, gli occhi di colore diverso, uno ghiaccio e uno marrone e la lingua di un rosso abbagliante sempre fuori dalla bocca di almeno dieci centimetri. Victor era stato convinto per anni che in Giappone non ci fossero randagi. Lo aveva pensato fino a che Ark, allora cucciolo, magrissimo e con una visibile escoriazione sulla coda, aveva iniziato a seguirlo sul retro di un palaghiaccio in Hokkaido. Victor aveva provato a lasciarlo con una mezza carezza entrando nella struttura e cinque ore dopo, alla fine della masterclass, lo aveva ritrovato all’uscita, semicongelato. Non lo aveva adottato, era stato messo con le spalle al muro.

    – Ho di meglio da fare – gli disse, facendogli l’occhiolino.

    C’era almeno un’ora prima che la giornata li risucchiasse nella sua spirale di impegni. Il tempo per preparare e sistemare la spremuta vicino al bollitore per il caffè, mettere due biscotti a fianco di ogni tazza, darsi una sciacquata veloce e poi infilarsi nudo e ancora un po’ umido nel futon di Yuuri.

    Non avrebbe saputo dire se era una questione di conoscenza approfondita, mancanza di ansia da prestazione o altro, ma il sesso a quarant’anni forse non era frequente com’era stato a venti o a trenta, ma per certi versi era più soddisfacente.

    Per prima cosa avrebbe fatto percepire a Yuuri la presenza del suo corpo. Suo marito odiava svegliarsi di soprassalto, quindi avrebbe atteso almeno un mugugno di assenso, prima di iniziare ad accarezzarlo. Una volta, Victor aveva amato sentirne i muscoli guizzanti sotto pelle, le costole ben distinguibili sotto i polpastrelli. Col tempo Yuuri si era un poco appesantito e con una certa sorpresa Victor aveva scoperto che adorava giocare con le pieghe della pelle sulla pancia del marito. Avrebbe fatto così anche quella mattina, fino a che Yuuri non fosse stato abbastanza sveglio per decidere cosa gli andasse di fare. Avevano entrambi una giornata impegnativa ad aspettarli, non si sarebbero più rivisti fino a sera e Victor aveva tutto l’intenzione di prendere il meglio da quell’ora tutta per loro.

 

*

 

Newcastle.

 

    – Vieni a mangiare con noi? – chiese Shanna. – È tornata Jennifer. 

    Il collega rispose con il suo abituale mezzo sorriso, che lei continuava a trovare il più affascinante dell’ateneo, nonostante l’enorme pietra che ormai ci aveva messo sopra.

    – Davvero? Magari un altro giorno. Oggi devo coprire anche Matematica uno.

    – Nessun problema – lo salutò Shanna con la mano.

 

    Jennifer e Rosemary la aspettavano appena oltre la porta scorrevole dell’atrio dell’università.

    – Ehi, ma allora c’è ancora del tenero tra voi! – commentò Jennifer, a cui il breve scambio non era sfuggito.

    – No, non c’è mai stati del tenero – cercò di tagliar corto Shanna.

    – E comunque ora lui non è più sul mercato. Sposato – si intromise con aria pettegola Rosemary.

    Fu gratificata dallo sgranarsi degli occhi di Jennifer.

    – “Una notte e addio” si è sposato? 

    – Le cose cambiano – mormorò Shanna, acida.

    Jennifer era appena tornata dopo quattro anni di post doc all’Università di Dublino e la prima cosa su cui Rosemary aveva pensato di aggiornarla era lo stato sentimentale dell’uomo per cui aveva preso, all’epoca, una sbandata colossale? Aveva ragione sua madre, doveva farlo quel concorso a Oxford e lasciarsi indietro quel posto pettegolo circondato da pecore. 

    – È stata una cosa un po’ strana, in effetti – iniziò a raccontare Rosmery, mentre con la mano indicava il solito bar a pochi passi dall’ateneo.

    Quello non era cambiato per niente. Senza volerlo Shanna rivide la se stessa di oltre quattro anni prima, imbacuccata nel piumino, sotto la neve, in attesa di svelare alle amiche di essere riuscita a infilarsi nell’ambito letto del professor Altin. Le donne del dipartimento di Matematica dell’università di Newcastle avevano fatto una scommessa su chi ci sarebbe arrivata per prima e Shanna non vedeva l’ora di riscuotere la propria birra e di tacere che in quel letto ci sarebbe tornata volentieri ancora e ancora e non solo per scommessa.

    – Se non fossi passata per caso dalla segreteria non avrei mai scoperto che i quindici giorni che si è preso… Ormai sono due anni giusti… Erano licenza matrimoniale.

    Senza smettere di raccontare, Rosmery le guidò a quello che era il loro solito tavolo, addossato alla finestra che dava sul piccolo parco.

    – Niente partecipazioni, inviti, confetti, niente. Se ne torna bello bello dal giro della California in moto senza dire niente sui motivi di quella vacanza, neppure alla sottoscritta che si è smazzata tutta la sua sessione di esami. Però l’anello al dito ce l’ha. Sottile, ma di platino.

    Chissà, si chiese Shanna, non per la prima volta, com’era stato possibile che in un momento imprecisato tra quella notte di gennaio e il maggio di due anni dopo qualcuno di fosse incuneato così nel profondo di quegli occhi scuri.

    – Ma saprete ben com’è questa donna del mistero! – disse Jennifer, dopo che ebbero ordinato.

    – Non dare così per scontato che sia una donna – borbottò Shanna.

    La cosa avrebbe dovuto consolarla. Era evidente che non avrebbe proprio potuto competere con il suo tipo ideale.

    – No! – esclamò Jennifer, sempre più avida di pettegolezzi. – Quindi Fred di Fisica del Materiali ha sempre avuto ragione? Ma non era mussulmano?

    – Evidentemente lui non sa di maiale – commentò Shanna, acida.

    – Bisessuale – confermò Rosemary. – È saltato fuori che era uscito anche col barista dello Skye.

    – Ma lo avete visto? – insistette Jennifer.

    – Forse, di sfuggita – sospirò Rosmary.

    Per la più grande pettegola di Newcastle non avere un identikit del marito misterioso era uno smacco non da poco.

    – Io l’ho visto – ammise Shanna. – Un paio di volte.

    Abbastanza per capire che non c’era partita. Un giorno, dalla finestra del proprio laboratorio, aveva visto arrivare nel parcheggio dei dipendenti una moto verde con su due uomini. Non l’aveva mai vista. L’unico collega che usasse la moto era proprio il kazako, ma la sua era nera. Invece il professor Altin era sceso da posto del passeggero. L’altro si era tolto il casco rosso, aveva scosso un’assurda chioma dorata e aveva sfoderato un’espressione a metà tra un ringhio e un sorriso nel viso da modello. Se Shanna avesse dovuto immaginare l’esatto opposto del quasi militaresco docente di matematica non avrebbe trovato di meglio. Non si erano baciati, si erano limitati a un cenno di saluto con la mano, ma lo sguardo che Altin, di una dolcezza quasi struggente, aveva lanciato a quell’uomo, Shanna non lo aveva visto rivolto a nessun altro, tanto meno a lei.

    – Molto biondo – fu tutta la descrizione che la ricercatrice riuscì a fornire alle amiche.

    – Ci sono delle voci, ovviamente – continuò Rosemary. – Dato che nessuno lo ha mai visto o sentito nominare magari è solo una questione di documenti. Un altro gay o bisex di uno stato bigotto e in culo ai lupi a cui dare in fretta cittadinanza britannica.

    – Con una fede in platino? – obiettò Jennifer.

    – Secondo Mary, invece Altin ha perso la testa per uno che si fa mantenere – intervenne Shanna. 

    Almeno un pettegolezzo cattivo su “una notte e mai più” poteva concederselo, no?

    – Sai, lei sa il russo e una volta lo ha sentito al telefono. Diceva una cosa del tipo «non me ne frega niente se non vuoi lavorare. Trovati un hobby, fai la maglia, fai volontariato, ma se ti trovo ancora a passare la giornata sul divano ti rompo tutte le ossa a calci!».

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Capitolo 2
*** Giorni ordinari ***


Hasetsu

 

    Yuuri varcò l’ingresso dell’Ice Castle con un sottofondo d’ansia nello stomaco.

    Nell’atrio, come sempre, trovò ad attenderlo le gigantografie e come sempre accarezzò il pensiero di togliere quella che lo ritraeva alle Olimpiadi del 2022. Era passato troppo tempo e dava l’idea di una pista più protesa al passato che al futuro. Seguendo questa linea di pensiero, però, avrebbe dovuto togliere anche quella di Victor al corto delle Olimpiadi del 2018 e questo sarebbe stato un delitto. Era già abbastanza terribile constatare che alcune delle nuove leve neppure se la ricordavano quell’olimpiade. Alcuni addirittura pensavano che Victor fosse stato sempre e solo un allenatore… Scosse il capo, colpito da quell’idiozia, mentre passava sotto il trionfante Yurio del 2030, affiancato dall’Otabek dei mondiali del 2023 (quando quei due pazzi si erano rimessi insieme era stato naturale appendere di nuovo anche la foto. Con tutte le estati trascorse lì, anche Otabek apparteneva di diritto all’Ice Castle). Infine la foto più recente, la vittoria di Luzt a Skate America, l’anno prima. Yuuri si fermò un istante a contemplarla. Lutz non aveva mai raggiunto il podio in una grande finale internazionale. Era arrivata quinta ai mondiali nel 2028, sesta alle olimpiadi nel 2030 e da che Yurio si era ritirato era la loro atleta migliore. Per molti era la prova che loro non sapevano davvero allenare, Plisesky era un portento della natura, lo sapevano tutti, un diamante grezzo che era stato Yakov a lucidare a dovere. Nonostante Victor lo avesse allenato per dodici anni, qualcuno non dava davvero il merito a lui per le sue vittorie. Ovviamente questo tralasciava una quantità piuttosto importante di particolari. Il fatto che fosse estremamente difficile convivere con una personalità come quella di Yurio, ad esempio. Non che lui fosse davvero così insopportabile, beh, insomma, un po’ lo era, ma la leggenda di Plisesky, quella sì che era un peso schiacciante. Adesso avevano due ragazzi junior, uno di quindici e uno di sedici anni, che promettevano bene, ma in pratica avevano iniziato a provarci davvero solo quando Yurio si era ritirato. Il secondo problema era che Victor rifiutava quasi tutti. Continuava a seguire con tenacia le idee di Yakov, secondo cui un atleta andava cresciuto fin dagli undici, dodici anni al massimo. C’era un limiti, però, ai talenti che un posto come Hasetsu poteva sfornare e non erano molte le famiglie disposte a mandare lontano dei bambini di quell’età o a trasferirsi per una vaga idea di futuro. E questo era il motivo per cui quel giorno Yuuri era solo, oltre che per il concomitante arrivo di Chris con Joseph e Igor. Victor gli aveva solennemente promesso che se Mira gli fosse piaciuta l’avrebbero allenata. E a Yuuri Mira Novak piaceva già. O, meglio, a Yuuri Mira era piaciuta immensamente due anni prima, quando a quattordici anni appena compiuti aveva vinto i mondiali junior per la Polonia con il miglior triplo Axel del circuito femminile. Poi era sparita dai radar. Infortunio si era detto, frattura a una gamba. Quindi, per quanto avessero bisogno di un talento per rilanciare la pista, Yuuri doveva essere pronto a spezzare in cuore a una sedicenne che aveva attraversato da sola il mondo per avere una seconda possibilità. 

    

    No, pensò Yuuri un’ora dopo, quando se la trovò davanti. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di  spezzarle il cuore. Qualcuno aveva già provveduto a farlo.

    Il giapponese ricordava la quattordicenne spavalda che si era mangiata le avversarie con la tracotanza tipica di chi si crede invincibile, la stessa assoluta certezza nelle proprie capacità che aveva avuto Yurio quando lo aveva conosciuto. Adesso, se non avesse avuto la conferma anagrafica, Yuuri non avrebbe riconosciuto Mira. Era cresciuta, ovviamente, come solo a quell’età  si poteva crescere. La ragazza dai lunghi capelli biondi e mossi che si era seduta compunta davanti a lui doveva essere alta almeno un metro e sessantacinque, se non di più. Troppo, secondo gli standard di alcune scuole di pattinaggio, che volevano soltanto atlete leggerissime, in grado di ruotare con facilità i salti.  Forse era per sembrare più bassa che se ne stava seduta ingobbita, con gli occhi che cercavano in ogni modo di sfuggire quelli del giapponese. Sembrava in uno studio medico, costretta a confessare di aver fatto qualche sciocchezza imbarazzante, invece che nel luogo che doveva dare una svolta alla sua vita. 

    – Ho guardato le lastre e gli altri referti, mi sembra che tutto indichi che puoi tornare all’agonismo – disse Yuuri, dato che l’altra non sembrava intenzionata a proferir parola.

    Forse era una questione di lingua? Il giapponese non era mai sicuro del proprio inglese, nonostante lo usasse quasi giornalmente e, dal momento che la ragazza aveva una madre russa, durante le videochiamate aveva parlato quasi sempre con Victor, in russo.

    – Ti sei allenata prima della partenza? – riprovò.

    Lei annuì come faceva Yuuri a scuola, quando era quasi sicuro, ma non del tutto, di sapere la risposta.

    – Mi alleno da due mesi. Ho ripristinato tutto le triple, tranne l’Axel, ma non ho provato i quadrupli – disse infine.

    L’inglese non era il problema.

    – Perché vuoi allenarti proprio da noi? – chiese Yuuri.

    Era abbastanza abituale che alla loro porta bussassero dei ragazzi. Quasi tutti senior partiti pieni di speranze e che si erano poi trovati a sbattere il naso con la difficoltà della categoria maggiore. Ragazzi sui vent’anni che Victor rimandava sistematicamente indietro. Le ragazze erano pochissime e quasi tutte giapponesi. Loro finivano per lo più a ingrossare le fila del gruppo seguito da Yuuko, quello delle brave atlete che non avrebbero mai fatto del pattinaggio la loro professione.

    – Mamma dice che avete esperienza con i recuperi da infortunio – si decise a rispondere Mira. – Non avete mai sbattuto fuori qualcuno perché si era fatto male.

    – È questo quello che è successo? Ti hanno escluso dal tuo gruppo perché di eri infortunata?

    – No…

    Mira si guardò le mani. Su ciascuna unghia era disegnato un perfetto arcobaleno che usciva da una minuscola nuvoletta. 

    – La vostra atleta migliore ha ventidue anni e gareggia ancora… Anche se non vince molto…

    Yuuri sospirò.

    – Non ti sentirai vecchia a sedici anni?

    – No…

    – La tua allenatrice ha preferito qualcuno di più giovane, piuttosto che investire sul tuo recupero?

    – No…

    – Perché hai rotto con la tua vecchia squadra, Mira? – chiese Yuuri. – Se dobbiamo collaborare dobbiamo conoscerci.

    Sospirò anche lei.

    Yuuri era preparato al fatto che l’incontro sarebbe stato difficile, ma così stava diventando una tortura per entrambi.

    – Quando Victor ha deciso di allenarmi ero reduce da un anno in cui avevo sistematicamente buttato via tutte le gare nel tentativo di far dimenticare alla Federazione Giapponese anche la mia esistenza, ne so qualcosa di idiozie in campo sportivo – buttò lì.

    Lei alzò lo sguardo come un condannato al supplizio.

    Era stato anche lui così terribile? Come aveva resistito Victor alla tentazione di prenderlo a sberle?

    – Sono cresciuta – esalò Mira.

    – E…? 

    – Sono cresciuta – ripetè Mira, più decisa. – Dieci centimetri in una sola estate… Poi ho preso peso… Quindi ho cercato di dimagrire il più possibile.

    Ecco. Per tutti i pattinatori il peso era un’ossessione. Lo sapeva benissimo. Per molte pattinatrici era una malattia. Anche per molti pattinatori, certo, ma l’incidenza nel settore femminile era ancora più alta.

    – Hai smesso di mangiare e ti sei infortunata – disse.

    – No… Mia madre mi ha fatto ricoverare in clinica. Mi hanno detto che non avrei pattinato per mesi… E io ho cercato di scappare dalla finestra.    

    Questa volta Yuuri si assicurò di cercare lo sguardo della ragazza.

    – Scappare o buttarti? – chiese, cercando di mantenere un tono neutro.

    – Scappare. Sono scivolata. E mi sono rotta la gamba.

    D’istinto, Yuuri le credette. Ma avrebbe poi fatto davvero differenza? Ragazzine la cui vita ruotava tutta intorno allo sport, per cui uno stop era la fine di tutto. Ogni anno qualcuna si fermava per esaurimento nervoso, un grave disturbo alimentare, una causa non meglio specificata.

    – E poi? – chiese il giapponese.

    Lei si strinse nelle spalle, cercando con lo sguardo una finestra che non c’era in quell’ufficio interno.

    – Sono tornata in clinica. Mia madre mi ha fatto fare psicoterapia. Poi fisioterapia. Ancora psicoterapia. Però per la mia allenatrice continuavo a essere troppo grassa, così mia madre ha deciso che avrei cambiato allenatore.

    – Tua madre sembra assennata.

    E anche piuttosto ingombrante, pensò Yuuri. A volte anche le migliori intenzioni finiscono per essere troppo.

    Mira si strinse di nuovo nelle spalle. Fosse stata una tartaruga, avrebbe ritratto del tutto la testa nel guscio.

    – Siamo solo noi due. Si è trasferita per permettermi di allenarmi al meglio. Ha investito tutto nella mia carriera.

    Tutto. Ogni energia fisica, mentale ed economica. In un’impresa ad alto rischio di fallimento. Yuuri sapeva fin troppo bene come ci si sentiva. Merce avariata. Per Mira, e sua madre, il Giappone era l’ultima possibilità in cui investire quello che restava. Solo se avesse vinto i nazionali polacchi, a dicembre, la federazione avrebbe coperto parte delle spese, fino ad allora era tutto sulle spalle della famiglia.

    – Se ti prendiamo anche tua madre vivrà qui?

    Mira scosse il capo.

    – Non può lasciare di nuovo il lavoro.

    – Però è stata tua madre a spingerti a venire da noi. Tu cosa avresti fatto? – chiese.

    – Non lo so. Le scuole russe sono quasi impenetrabili. Quelle americane o canadesi… Alcune costano troppo. In altre sei solo un numero, troppo facile rimanere una delle tante promesse junior sparite nel passaggio a senior…

    – E tu cosa vuoi?

    Mira rialzò la testa di scatto, il suo viso era di colpo così duro da appartenere a una persona diversa, una donna già adulta.

    – Io voglio vincere. È mamma che non vuole più che sia a qualunque costo.

    Yuuri resistette all’impulso di spostare la sedia all’indietro.

    Non aveva bisogno di chiedersi dove avesse già visto quel misto di totale mancanza di autostima e di disperato desiderio di vincere. Quello che non sapeva era se avesse voglia di allenare la versione femminile di se stesso.

*

Newcastle

 

    Yuri alzò lo sguardo dall’app del cellulare con una sorta di incredulità.

    – Tre e cinquanta? Tre e cinquanta sui mille metri li fa il mio allenatore di ottantasei anni, col cuore rattoppato due volte, saltando su un piede solo!

    L’interlocutore, un dodicenne dalla pelle olivastra, sudato e semidraiato sul tartan della pista di atletica ci mise un istante per raccogliere il fiato per replicare.

    – Cazzo me ne frega, oggi c’ho le palle in giostra.

    – Me ne frega niente delle tue palle, Martinez, adesso alzi il culo, torni alla partenza e vedi di farmi almeno un tre e trenta! – sbraitò il russo.

    – Ho detto che c’ho le palle in giostra, oggi non prendo ordini da una checca!

    Yuri resistette all’impulso di gettagli il cellulare su quel viso brufoloso da preadolescente e cercò imitare la miglior posa di Otabek.

    – Eccone un altro che torna a casa correndo davanti al pulmino – disse, laconico. – Sono quattro miglia per casa tua, vero?    

    – Eccheppalle! – fu la risposta di Martinez.

    Con fatica, tenendosi una mano sul fianco, il ragazzo si rialzò per andare a caracollare sull’erba semi incolta al margine della pista di atletica. Chissà cosa si era scofanato prima dell’allenamento per essere messo ko in quel modo da un singolo mille metri? Non che Martinez avesse mai avuto la possibilità di diventare un campione, ma era, drammatica constatazione, il meglio che avevano per coprire il mezzofondo maschile.

    – Ehm… Mister?

    Otman, un compagno di scuola di Martinez, gli si avvicinò con ancora il giavellotto in mano 

    – Sì? – si sforzò di non sbranarlo Yuri.

    – Non ha pranzato, Martinez – disse Otman, con un filo di voce. – La madre non ha pagato la mensa e oggi ha passato la pausa pranzo in corridoio.

    Yuri si passò una mano sulla fronte per pensare a come rispondere. Faceva caldo, porca miseria, rischiava seriamente di tornarsene a casa color pomodoro. Fottutissimo paese. Solo Otabek poteva scegliere di vivere ai confini del nulla, in un posto che passava in tempo zero da pioggia torrenziale a solleone. 

    Sei mesi prima, quando aveva iniziato, Yuri avrebbe ribattuto che si fosse fatto fermare da un singolo pasto mancato sarebbe rimasto per sempre in una periferia asfittica tale e quale quella che loro adesso vivevano. Ma ormai aveva imparato. L’atletica per quei ragazzi non era una via di fuga. Era un’ora d’aria.

    Quel giorno erano sei, Kamalika, che invece di fare gli esercizi stava leggendo sdraiata sull’erba, con i suoi sette anni era la più piccola, mentre Manila, quattordici anni e almeno una spolverata di talento per il salto con l’asta, era la più grande. Nessuno aveva neppure un briciolo di DNA inglese. L’accento di Otman era persino peggiore del suo. Solo Safia, un tre e quarantacinque sui mille tutto sommato onesto per i suoi undici anni, viveva con entrambi i genitori, ma anche con sette tra fratelli e sorelle. Che ne sapesse Yuri, solo Kamalika non era sull’orlo della bocciatura, anche se a quanto pareva con alcuni docenti si rifiutava ostinatamente di proferir parola. Facevano atletica solo perché quella pista con il tartan che si staccava a zolle e l’acqua che usciva color ruggine dalle docce era l’unico impianto che il comune si era sentito di far usare all’associazione In corsa per il futuro. La quale, a sua volta, era probabilmente la più sgangherata tra le associazioni di volontariato della città e il suo unico pregio, agli occhi di Yuri, era stato quello di non essere implicata in qualsivoglia religione né essere in mano a qualche imbarazzante hippie invecchiato. Del resto, che fosse quello il modo in cui passava la maggior parte dei pomeriggi liberi dai suoi mille non lavori, era una cosa che non avrebbe rivelato ai giornalisti neppure sotto tortura.

    – Quindi che si fa, Mister? – chiese Otman.

    Yuri sospirò, buttando un occhio all’ora.

    Manila, che poi era l’unica per cui l’allenamento avesse in senso stretto una ragion d’essere, almeno se l’obiettivo era qualificarsi per le nazionali puntando agli ultimi posti, aveva finito. Martinez non si reggeva in piedi. Otman e Safia avevano voglia di correre più o meno come la sua gatta di diciannove anni, Kamalika aveva finito di fare i compiti e Abdul di cercare insetti a cui strappare le ali.

    – Doccia e merenda – sentenziò. – Chi puzza non mangia.

    Aveva comprato la frutta? Otabek rompeva sempre le scatole sul fatto che dovesse fornire del cibo sano, ma il russo era sicuro che fosse per le patatine, non per le arance, che i ragazzi venissero lì quasi ogni giorno. 

    Scosse il capo, mentre si dirigeva verso il pulmino, comprato a proprie spese, per prendere le provviste. Per quanto le patatine non mancassero mai, non aveva ancora capito davvero perché quei ragazzi continuassero a venire ogni pomeriggio. Lui la conosceva la periferia, la conosceva davvero. Era il motivo per cui Otabek non si era stupito quando infine aveva ammesso che sì, forse aveva troppo tempo libero, almeno in certi periodi dell’anno, che no, grazie, non voleva davvero nessun lavoro a tempo pieno oltre a quello di atleta da esibizioni, specialista di salti per cinque o sei piste, aiuto coreografo e modello e che tutto sommato avrebbe fatto qualche progetto con dei ragazzi. Della periferia, però, Yuri capiva sopratutto il desiderio impellente di fuggire. Se non fosse stato il pattinaggio sarebbe stato qualcos’altro, supponeva. Questi ragazzi, invece, erano del tutto assuefatti al loro destino di marginali. Neppure sognavano di essere qualcosa di diverso dagli sfigati che erano.

    – Quello che offri loro è del tempo per sognare una vita differente – gli aveva detto una volta Otabek. – Se li portiamo a gareggiare contro i fighetti delle squadre delle scuole bene e non arrivano ultimi abbiamo già dimostrato loro qualcosa.

    Yuri si strinse nelle spalle. Era probabile che Otabek avesse ragione, ma secondo lui venivano per le patatine.

 

    Quando i ragazzi riemersero dalle docce con un grado di igiene quasi passabile (quasi, perché Otman aveva un’ostinata allergia al sapone), Yuri aveva già disposto le provviste su una stuoia in mezzo al prato e raccolto altre due iscrizioni per il campus di quell’estate. Quella era stata un’idea di Otabek, ma a quanto pare funzionava. Yuri non aveva nessunissima voglia di allenare sul serio. Grazie tante, viaggiava già abbastanza per le esibizioni e i set delle pubblicità, senza dover fare la pallina da flipper su e giù per il circuito internazionale dietro ad adolescenti in panico. D’altro canto aveva davvero pena di come saltassero certi così detti atleti, incapaci di distinguere un filo di stacco e dall’altro, con delle tecniche tanto patetiche che il rompersi una gamba in modo così drammatico da doversi ritirare era quasi un atto di pietà. Così a fine luglio, dopo il tour in Giappone, dieci junior sarebbero arrivati per cercare di raddrizzare i loro salti tremebondi. Otabek si era occupato della logistica, coinvolgendo il campus dell’università, praticamente vuoto in quei giorni, mentre a lui sarebbe toccato sbraitare contro ai ragazzini. Il suo primo quasi lavoro serio da ex atleta, che impressione!

    – Posso prendere due pacchetti di patatine, Mister? – venne a chiedere Martinez, con tono ben diverso da quello di poco prima.

    – Solo se prendi due porzioni di frutta. La regola la conosci, un pacchetto, un frutto.

    – Ma oggi non hai portato le banane!

    – C’erano le ciliegie in offerta, a chi non piacciono le ciliegie?

    Martinez fece una faccia schifata.

    – Se le mangio posso evitare di tornare a casa a piedi?

    – Non è che ti faccia male correre, sei un atleta. E poi mi hai chiamato «checca». Quindi con la checca sul pulmino non ci sali… Ehi, ferma tu, cosa si dice?

    Mentre era impegnato a battibeccare con Martinez, Kamalika, la scurissima cingalese, si era intrufolata in mezzo a loro, appropriandosi del pacchetto di ciliegie più grosso. Per tutta risposta la bambina rivolse a Yuri i suoi enormi occhi neri e lo sguardo quasi perennemente imbronciato, poi fece alcuni passi indietro, senza dire niente e con le ciliegie ben strette tra le mani. Yuri sospirò. Era una di quelle giornate in cui Kamalika non avrebbe detto nulla. Almeno, non a lui. In quel momento, infatti, da dietro gli spalti spuntò un uomo con ancora il casco della moto sulla capo e Yuri potè vederne l’effetto nel viso della bimba. Il cipiglio si distese all’istante, tutta la posa contratta di rilassò, mentre Kamalika prendeva a sorridere e ad alzare la mano.

    – Otabek! – gridò, mentre già gli correva incontro. – Mi devi far vedere quella cosa lì… Le potenze!

    Yuri sbuffò, stringendosi le braccia al petto.

    Niente da fare, quel microbo scuro voleva fregargli il suo uomo seducendolo con la matematica! Piccola ingrata sleale!

    Intanto Otabek si era tolto il casco e già si dedicava tutto a lei, scompigliandole i capelli neri.

    – Dammi un attimo e fammi vedere il quaderno che ti spiego.

    – Ci saremmo anche noi, eh – brontolò Yuri.

    Per tutta risposta, però, Otabek si limitò a posare il casco sull’erba e a prendere un sacchettino di ciliegie.

    – Maledetta Matematica Uno, non solo è piena di zucconi irrecuperabili, mi ha anche fatto saltare il pranzo.

    – Non si muore per un pasto saltato – disse Yuri, a voce abbastanza alta perché anche Martinez lo sentisse.

    Poi prese un pacchetto di patatine e si sedette a fianco di Otabek.

    – Dovresti mangiare la frutta, per l’esempio – lo rimproverò il kazako.

    Yuri si limitò a scuotere la testa e ad aprire il proprio pacchetto.

    Poco più di due anni prima, quando si accingeva a partecipare alle Olimpiadi che avrebbero posto fine alla sua carriera non riusciva davvero a immaginarsi il dopo. L’impressione era quella di stare per tuffarsi in un pozzo scuro e profondissimo, probabilmente con il fondo ricoperto dai teschi di chi si era buttato prima di lui, come il cenote che aveva visto l’estate precedente in Messico. Non si sarebbe  mai immaginato seduto sul prato asfittico a fianco del campo di atletica in rovina a mangiare schifezze con dei ragazzi disastrati.

*

Hasetsu

 

    Era la quindicesima volta che Igor e Joseph salivano fino in cima alla struttura tridimensionale che svettava al centro dell’area gioco davanti al bar della stazione di Hasestu. Facevano a gara a chi arrivava primo in cima, per potersi appendere con le gambe, buttarsi all’indietro, raggiungere con le braccia l’asticella sotto di loro e fare un giro su se stessi per iniziare la discesa. Altro che atleti olimpici! Chris, seduto accanto a Victor a uno dei tavolini, sembrava appena uscito da un tritacarne.

    – Cosa gli hanno dato in treno? Cocaina? – chiese Victor.

    Lui era famoso nell’ambiente per non risentire quasi per nulla per il jet lag. Ai tempi d’oro era in grado di scendere da un volo intercontinentale e andare ad allenarsi. Ma non si sarebbe mai arrampicato per divertimento per ormai diciassette volte dopo aver attraversato il mondo.

    Chris scosse la testa.

    – Che tu ci creda o no, adesso è niente rispetto a quando aveva quattro o cinque anni. Ho pensato di mettergli una cintura fatta di placchette di piombo, ma poi ho capito che lo avrei solo allenato.

    Igor scese velocissimo dalla struttura e in un battito di ciglia fu al tavolo.

    – Zio, ho sete! – disse, in russo.

    Victor represse il piccolo se stesso esultante che in qualche modo si impadroniva della sua mente ogni volta che veniva chiamato «zio» e si impose una faccia seria.

    – Ah! In inglese. Gli accordi erano chiari. Per una settimana tu, Joseph e Norio dovete parlare sempre in inglese. Almeno fino a che qualcuno altro può sentirvi.

    – Water, please – disse il bambino, compunto.

    Victor, con lo stesso sorriso che aveva riservato al punteggio con cui Yurio aveva vinto le olimpiadi del 2030, gli riempì il bicchiere.

    Appena il tempo di trangugiare l’acqua e stava di nuovo correndo.

    – Hai detto che ci sarà una persona con loro? – chiese conferma Chris.

    – Dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio staranno con una ragazza inglese che Yuuko ci ha trovato non saprei dire come. Per una settimana sarai un papà part time.

    – Sia lodato il Cielo – esclamò Chris, mentre con lo sguardo seguiva il figlio che, quella volta, la stava spuntando sul russo.

    – Quindi adesso ne hai l’affido esclusivo? – chiese Victor.

    Chris bevve una lunga sorsata dalla sua bibita, un’insospettabile gazzosa a cui era stato aggiunto solo uno spicchio di limone.

    – Beh, lei lo può vedere quando vuole, il problema è che non ne ha tutta questa voglia, ma almeno abbiamo finito di farci la guerra in tribunale.

    Il russo annuì anche se, anche a distanza di anni, aveva tutto ancora dell’incredibile. O, meglio, che Chris ogni tanto si concedesse delle scappatelle era nella natura delle cose. Ma ormai c’erano prove inconfutabili che una di queste fosse stata con una rampante modella di origine etiope e che avesse avuto degli esiti del tutto imprevisti. Joseph sembrava la miglior somma possibile dei suoi genitori. Era una guizzante creatura dalla pelle ambrata, i capelli neri e ricci e gli occhi smeraldo. Nulla di strano che fosse già apparso in alcune pubblicità di abbigliamento infantile. Suo nipote, dovette ammettere Victor, non aveva la stessa fortuna genetica. Aveva il naso un po’ storto e la tendenza ad assumere, quando era soprappensiero, un’espressione che non era proprio la migliore pubblicità alla sua intelligenza. Ma aveva due genitori che lo adoravano, anche se lavoravano entrambi dieci ore al giorno in Siberia, e il russo non aveva dubbi su quale dei due invidiasse l’altro.

    – Lui come la sta prendendo? – chiese Victor.

    Chris rimase un poco a guardare il figlio.

    – Per ora sembra sereno. La psicologa però dice che l’adolescenza sarà un incubo. Dici che posso criocongelarlo verso i dodici anni e scongelarlo ai venti?

    – E perderti tutti quegli impagabili momenti? La prima sbornia, la prima canna, il primo preservativo dimenticato in giro…

    – Oppure potrei murarlo in taverna… – lo svizzero emise un sospiro stanco. – Non ti ho ancora ringraziato. Sarà bello per lui compiere otto anni qui e avere qualcosa di meglio da ricordare del fatto che sua madre non si è neppure degnata di chiamarlo perché, sai, deve lavorare.

    Victor si pulì una lente degli occhiali che ancora non si era abituato a portare.

    – Non so i dettagli di quello che hanno organizzato Yuuko e le ragazze per giovedì sera all’Ice Castle, ma sul fatto che avrà qualcosa da ricordare puoi stare tranquillo… Spero solo che per allora non abbiano già fatto fare l’infarto al povero Norio.

    Il figlio della sorella di Yuuri era un decenne ai limiti dell’obesità e con la vitalità di un panda durante la digestione. I genitori, e suo marito, continuavano a dire che era così sensibile e intelligente, ma Victor era felice che non fosse quello il suo unico nipote. Lasciato a se stesso, probabilmente, avrebbe viziato Igor in modo inverecondo. Come sempre, Klara aveva preso le redini della cosa mettendo in chiaro che di fare i parenti poveri con lo zio ricco che elargiva doni dal Giappone anche no, grazie. Tuttavia, Victor poteva sentirsi libero di spendere quanto voleva per l’istruzione del bambino e aveva scoperto di avere un ampio spazio di manovra coperto dalla parola «educativo». Tuttavia era la prima volta che Igor veniva in Giappone senza i genitori e nonostante la ragionevole certezza che nulla di drammatico poteva davvero succedere, per la prima volta in vita sua il russo provava quella sensazione di ansia immotivata che il marito gli aveva descritto così spesso. 

    Victor represse un sospiro e si risistemò gli occhiali. Odiava portarli, anche se secondo Yuuri la montatura sottile gli dava un’aria seria e intellettuale.

    – E tu? – chiese a Chris. – Sempre anacoreta?

    – Sempre – rispose l’amico, esagerando un’espressione disperata. – Se anche dovesse capitarmi di fare sesso potrei non ricordarmi più come si fa.

    – Esagerato.

    – Tu ancora non l’hai tradito Yuuri?

    Era la domanda che lo svizzero gli faceva sempre quando si vedevano. Ormai era una sorta di rituale.

    – So che ti sembra assurdo, ma non mi interessa farlo.

    – Non mi sembra assurdo. Ormai mi sembra leggendario il sesso.

    – Ma Max lo vedi ancora.

    Chris trovò per qualche istante molto interessante le bollicine della sua gazzosa.

    – Ah, sì. Lo vedo. Grandi chiacchierate. Ceniamo insieme ogni tanto. Ha un ottimo rapporto con Joseph. Se lo voglio veder sparire all’istante e non aver più sue notizie per un mese basta che gli chieda di fermarsi per la notte.

    Alzò gli occhi verso il cielo, dove le nubi si rincorrevano in alta quota.

    – Però non si vede più con l’architetto – aggiunse.

    Victor terminò il proprio caffè americano senza dire niente. Otto anni erano un tempo decisamente lungo per fare l’offeso e tenere il muso. Oppure troppo corto per ricominciare a fidarsi. Lui non poteva neanche immaginarsi di tornare in una relazione dopo un così plateale tradimento, gli sembrava già un azzardo che Chris invitasse a cena il proprio ex. Fosse stato in Max ne avrebbe approfittato per avvelenarlo. Ma, in fin dei conti, che cosa ne sapeva lui di relazioni? Aveva trovato per puro caso il suo incastro perfetto e tutta la sua strategia si era risolta nel stare abbastanza vicino a Yuuri per evitare che gli scappasse. Era consapevole del fatto che potesse non essere una ricetta universale. 

    – Che dici, li recuperiamo? – disse, accennando ai bambini. – Andranno lavati prima di poter essere portati a pranzare in un posto decente.

    

*

Newcastle

 

    Yurio prese Potya, acciambellata sul divano al fianco di Otabek e la spostò più in là verso il bracciolo. La gatta non diede prova di essersi accorta della manovra se non per un lieve vibrare dei baffi.

    Otabek alzò gli occhi dal libro che stava leggendo.

    – Sicuro che sia ancora viva?

    Il russo passò una mano vicino al naso dell’animale e poi vi avvicinò il viso.

    – Respira. Non credo te ne libererai così presto.

    – No, non credo – sorrise il kazako.

    – Cosa leggi? – chiese Yurio, sistemandosi al posto della gatta.

    Era un modo gentile per dire che avrebbe acceso la televisione e guardato in streaming uno di quegli improbabili reality russi di cui si drogava.

    – La guida della Namibia – disse Otabek, mostrando la copertina.

    – Cartacea? Ne esistono ancora?

    Yurio afferrò il volume e lo osservò come se fosse un antico reperto archeologico.

    – Così la posso annotare, ragiono meglio se scrivo a mano – spiegò l’altro, riacciuffandola.

    – È una vacanza, non una tesi di laurea! E poi manca ancora un secolo.

    – Agosto non è tra un secolo. E, se non te ne sei accorto, in Namibia c’è il deserto. Non voglio correre il rischio di trovarmi con la moto in panne a cinquanta gradi in mezzo alle dune.

    – Possiamo anche non andarci, se è così stressante – borbottò Yurio, cercando il telecomando.

    Di sicuro aveva finito per appoggiarci sopra la gatta.

    – Non è uno stress. Organizzare è la metà del divertimento – ribatté Otabek, allungando una mano per sfiorare la nuca dell’altro.

    Yurio incurvò il collo per godersi appieno la carezza.

    – Dev’essere stressantissimo essere te – sentenziò.

    Otabek aveva questa necessità di organizzare e pianificare tutto che il russo trovava snervante. Anche se era piuttosto pratico vivere con uno così. Per le vacanze, ad esempio, lui non avrebbe avuto nient’altro da fare che godersi il viaggio, scattare foto e assaggiare cibi improbabili.

    – Lo è, se si mette su casa con uno come te.

    – Nessuno ti ha obbligato.

    – Lo so.

    Era piuttosto vero il contrario. Yurio non pensava mai a Otabek come a suo marito. Quella parola era troppo mielosa, troppo Victyuuri. Ma legalmente, almeno lì in Inghilterra, erano sposati. Il giorno delle libero delle olimpiadi, la sua ultima gara, quando alla fine era riuscito ad approdare alla propria camera, Yurio aveva trovato sul proprio letto una cartellina anonima. Dentro c’era la lista dei documenti necessari al matrimonio e l’elenco delle persone che Otabek pensava di invitare. Se glielo avesse chiesto in un qualsiasi altro modo, il kazako si sarebbe trovato con ogni probabilità con un pugno sul naso e un secco «non sono una checca». Ma quella notte, con la stanchezza che sembrava volergli sbriciolare ad una ad una le ossa e la consapevolezza assurda che anche quel dolore gli sarebbe mancato, Yuri nello scorrere quei fogli, così asettici e burocratici, si era sentito invadere da un senso di calore che poteva definirsi solo come “necessario”.

    – Allora cosa ci tocca questa sera? Gente che si sposa senza conoscersi o che deve sopravvivere in un’isola deserta con solo tre oggetti a caso? – domandò Otabek.

    –Più estremo. Gente che ha sempre vissuto in una villa e che si trasferisce in un monolocale.

    Il kazako sogghignò.

    Entrambi avevano sempre avuto poco spazio in cui vivere. Per dieci anni Yurio aveva vissuto in un bilocale a due passi dall’Ice Castle, ad Hasetsu. Otabek, quando si erano rimessi insieme, stava in tre stanze, di cui una era praticamente un ripostiglio. Quindi avevano finito per allargarsi un po’. Ogni tanto Potya ancora si perdeva in giro per casa. In giardino non avevano mai osato farla uscire.

    – Ci credi che in università c’è chi pensa che abbia perso la testa per un bello e impossibile che si fa mantenere? – Rivelò Otabek.

    – E questa da dove vien fuori? – rise Yurio.

    Era assurdo come la consapevolezza di essere quello con più soldi lo rassicurasse. Come se la solidità di Otabek, la sua snervante razionalità lo facesse sentire perennemente in difetto all’interno della relazione e questo riequilibrasse un poco i rapporti.

    – Pettegolezzi – si strinse nelle spalle il kazako, con un mezzo sorriso.

    Yurio posò di nuovo il telecomando.

    Era raro veder far capolino il suo lato più frivolo. Quando succedeva, però, Otabek era in grado di dire con tono soave le più impensabili cattiverie a proposito dei suoi colleghi. Di solito, poi, la serata prendeva una piega assai più interessante dei reality russi.

    Alla fine, pensò Yurio, non era così male lasciarsi cullare dalla prevedibilità del suo beh… Quella cosa lì.

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Capitolo 3
*** Imprevisti ***


Hasetsu

 

    – Quindi non sei del tutto convinto di prenderla? – chiese Victor.

    – Non ho detto questo. È che ci sono delle criticità che è bene considerare.

    Che fosse un sì o un no, non si poteva far tornare la ragazza in Polonia senza che avesse pattinato davanti a Victor. Così, dopo aver affidato i bambini a Yvonne e rassicurato Chris sul fatto che poteva tornare a dormire fino all’ora di pranzo, si stavano dirigendo verso l’Ice Castle.

    Era uno dei momenti che Yuuri preferiva, quando andavano insieme al palazzetto, a piedi, percorrendo il lungomare. Ark trotterellava con la sua andatura caracollante al loro fianco. Ormai non era possibile immaginare una sessione di allenamento senza si lui che correva avanti e indietro nel cortile o faceva irruzione in sala danza. Hyobe, il loro junior più promettente, terzo alla JGP Final dell’anno prima, si era fatto fare un Ark peluche in miniatura che si portava nelle trasferte come anti stress. Adesso, però, il cane sembrava quasi una guardia del corpo, il garante di quel loro momento di privacy attraversato dalla brezza marina.

    – I problemi alimentari? – chiese Victor.

    – Ad esempio – disse Yuuri.

    Il russo alzò le spalle.

    – Chi di noi non ha avuto problemi alimentari? – mormorò.

    Yuuri si guardò le scarpe. Non era il suo argomento preferito. In modo esplicito con Victor non ne aveva mai parlato, ma qualcuno doveva averlo fatto per lui perché poco prima della finale del Grand Prix, l’anno in cui la loro relazione era cominciata, di colpo il russo aveva smesso di chiamarlo «maialino». Durante il primo anno negli USA Yuuri aveva vomitato così tante volte che si era rovinato lo smalto dei denti. Col senno di poi, era stato fortunato ad uscirne con poco più di qualche otturazione aggiuntiva. Lo aveva salvato Pich, supponeva. Diventava difficile vomitare di nascosto in bagno con un compagno di stanza che teneva a te.

    – Otabek – disse infine, per allontanare i ricordi.

    Victor emise qualcosa a metà tra un sospiro e una risata.

    – Probabile. Mai stato convinto che sia del tutto umano, quello. Dopo tutto sta con Yurio. Ma è un’eccezione.

    – Tu?

    Questa volta quella di Victor fu davvero una risata.

    – Siamo sposati da dieci anni e ancora credi che ci sia una singola cazzata del nostro ambiente che io non abbia fatto?

    – Ma tu sei l’unica persona che conosca che segue le diete al grammo senza soffrire! – disse Yuuri, sorpreso.

    A Victor piaceva mangiare bene, quando lo facevano fuori casa. Digeriva qualsiasi cosa e ancora adesso era in grado di mangiare prima di un’esibizione cibi per cui il giapponese sarebbe stato male tre giorni. Però nella vita di ogni giorno era del tutto inconsapevole di ciò che ingurgitava. Se non era un’occasione di condivisione il cibo serviva solo a nutrirlo, mangiava quello che gli dicevano di mangiare, pesando il cibo senza rammarico e se stesso senza ansia. Ogni tanto sgranocchiava foglie di insalata, lattuga della varietà iceberg, guardando la tv. Era il sogno di ogni nutrizionista.

    Adesso, però, il russo guardava i gabbiani che veleggiavano sul mare con quel suo mezzo sorriso tipico dei ricordi.

    – Ho iniziato a considerare il cibo un premio ben prima di iniziare a pattinare – raccontò, con tono sommesso. – Quando sono andato a vivere con Yakov,  Lilia ha incentivato la cosa. Un cioccolatino per ogni traguardo raggiunto.

    – Non ti ho mai visto mangiare troppo o troppo poco per il tuo fisico.

    Per questo, nei primi anni, Yuuri lo aveva invidiato con un’acrimonia che era quasi odio.

    – Non mi hai mai visto in un momento in cui ritenevo di dovermi punire – puntualizzò Victor. – Le olimpiadi del 2006 sono state un discreto disastro, altro che la tua GP Final dopo cui volevi ritirati.

    – Ah…

    La stagione 2006-2007 per Victor era stata una sequela di infortuni ed errori. Aveva coinciso anche con il divorzio di Yakov, il russo doveva essere andato a vivere da qualche parte di cui raccontava molto poco…

    – Cosa…?

    – Odio vomitare. Non mangiare è più diretto.

    Nonostante tutto, Yuuri sorrise. Anche quella per Victor era stata una questione di eleganza.

    – Come ne sei uscito?

    – Rapidamente. La mia tolleranza al masochismo è scarsa. Yakov mi ha recuperato e mi ha offerto di installarmi nel suo appartamento fino a che non avessi vinto un titolo mondiale, all’epoca era una scommessa piuttosto azzardata.

    Yuuri mandò un silenzioso ringraziamento a quel sant’uomo di Yakov che aveva permesso a suo marito di arrivare vivo fino al giorno in cui si erano conosciuti. Rapidamente, però, lo sapeva, non era sinonimo di facilmente. 

    – Lavoriamo con i corpi e con le anime degli atleti, sono materiali altamente instabili – continuò Victor. – Non c’è nessuno di noi che non abbia commesso errori o attraversato periodi bui.

     Yuuri annuì.

    – A questa ragazza, però, serve qualcosa di più di un buon centro di allenamento, ma non saprei dire cosa.

    Avrebbe lavorato con loro psicologo. Era una delle condizioni che mettevano agli atleti, che fossero disposti ad accettare nello staff anche uno psicologo dello sport, il che faceva sorridere, considerando che non erano mai riusciti a far avvicinare Yurio a uno specialista e anche Yuuri ci aveva sempre voluto avere a che fare il meno possibile. Ma poteva essere che l’essenza della maturità stesse nel cercare di impedire ai giovani gli errori della propria giovinezza. Eppure, pensò Yuuri, non era neppure di questo che Mira aveva bisogno.

 

    Lei li aspettava già sulla pista. 

    Al giapponese faceva sempre impressione quanto potesse sembrare piccolo un atleta da solo nell’anello di ghiaccio. Un po’ il trucco era quello. Al di là della tecnica, c’erano personalità in grado di riempire il ghiaccio e altri che rimanevano minuscoli.

    – Ci presenti il corto della tua ultima stagione? – chiese Victor.

    Mira annuì.

    Proprio come durante il colloquio con Yuuri sembrava volersi accartocciare su se stessa e sparire come carta usata nel cestino. Era assurdo come una ragazza di sedici anni, bella, con un inglese stupefacente, con già le abilità per poter campare tutta la vita come allenatrice, se avesse voluto, potesse sentirsi un’errore di stampa sul libro della vita. Eppure il giapponese sapeva fin troppo bene che poteva accadere.

    Lui e Victor avevano visto e rivisto i video della sua ultima esibizione, la bimbetta magrissima e sicura di sé che si era mangiata le avversarie. La musica era un brano classico, uno Stravinsky visto e rivisto, uno di quei pezzi per cui Victor voleva proporre il veto per sovrautilizzo. Adesso, mentre Mira si toglieva la felpa e andava verso il centro della pista con l’espressione di una vittima condotta al patibolo, il giapponese pensò che sarebbe finita schiacciata dal peso di tutte quelle esibizioni precedenti.

    Già ai primi movimenti Yuuri vide che aveva cambiato la coreografia. Non in modo sostanziale, solo leggeri movimenti, una questioni di postura ed espressione più che di tecnica. La stava portando sul ghiaccio, la sua desolazione. Mira si abbandonava alla musica come un relitto alla corrente, annullandosi e diventandone parte. I salti non erano meravigliosi. La crescita era stato un problema oggettivo. La ragazza era sempre un po’ sbilanciata, leggermente fuori asse e un triplo divenne addirittura un doppio. Ma l’impressione generale… Cercando di non farsi scoprire, Yuuri cercò di spiare la reazione di Victor. Magari solo a lui piaceva quell’esibizione per motivi più personali che oggettivi. Empatizzare troppo con un atleta non era un dono per un allenatore. Suo marito, però, la stava guardando del tutto rapito, con le dita che tamburellavano a tempo sulle braccia e la fronte che si corrugava solo agli atterraggi sporchi dei salti. 

        

    *

 

Newcasle

 

    Yuri suonò il clacson e imprecò in russo.

    Dal marciapiede, un’anziana col deambulatore lo guardò male. Vecchia malefica. Anche se, forse, poteva darsi che fosse il caso di darsi una regolata. I vigili inglese erano di una pesantezza insopportabile.

    Non era colpa sua. Era quello davanti che dormiva al semaforo. Certo, c’era la pura ipotesi, fantascienza in verità, che l’allenamento di merda della mattinata stesse interferendo con il suo umore. E anche il dolore all’anca. Tanto ormai lo aveva accettato che doveva farsi operare. Aveva persino già parlato con l’ortopedico. A tutti i pattinatori cede l’anca, tranne a quelli a cui cede prima qualcos’altro. Però, cazzo, almeno le esibizioni di quell’estate poteva fargliele fare. Poi il suo corpo avrebbe riposato fin quasi a metà autunno. Invece avrebbe trascorso tutto il tour in Giappone inebetito dagli antidolorifici. Doveva fare in modo, in qualsiasi modo, che Victor non se ne accorgesse. Yuri aveva il terrore di come il suo ex allenatore avrebbe potuto approfittarne! Se non altro adesso avrebbe caricato il suo manipolo di sbandati contro cui sbraitare. Era a quello che serviva allenare, no? Ad avere qualcuno su cui sfogarsi…

    

    La prima che raccoglieva era Kamalika, che abitava con un padre di ventisette anni, la nuova compagna di lui e i suoi due fratellastri in un palazzone che non aveva niente da invidiare alla peggio architettura popolare sovietica.

    Che qualcosa non tornasse, Yuri lo vide dalla presenza di una volante della polizia proprio davanti all’ingresso. Poteva essere che avesse bruciato un rosso, ma era improbabile che le forze dell’ordine lo avessero preceduto per arrestarlo lì. E poi la bambina seduta sul marciapiede era Kamalika. A onor del vero, Yuri riconobbe per primo il peluche che stringeva, una lontra stazzonata. Il russo e il kazako, benché ne avessero devoluto in beneficienza la maggior parte, avevano ancora un numero impressionante di peluche. Anche tenendone solo uno o due per ogni competizione, dopo diciassette anni di carriera internazionale, contando anche le stagioni junior, il numero diventava ragguardevole. A Natale avevano pensato di regalarne qualcuno ai ragazzi dell’associazione ed erano andati a ruba, anche tra i più grandicelli. Kamalika, che la sera della festa attraversa una delle sue fasi di mutismo transitorio, se ne era stata in disparte fino a che Otabek non si era avvicinato con la lontra.

    – Si chiama quasi come me – le aveva detto. – Ti presento Mister Ottarbek. 

    Kamalika l’aveva presa senza neppure ringraziare.

    Adesso la stringeva al petto come se non avesse nient’altro.

    A qualche metro da lei, la sua matrigna, con il figlio più piccolo in braccio e l’altro tenuto per mano, stava avendo una discussione piuttosto accesa con i tutori dell’ordine.

    

    Stando ben attento a farlo a norma di legge, Yuri parcheggiò il pulmino e vi scese. 

    Vedendolo arrivare Kamalika non disse nulla ma, silenziosa, si alzò, sempre con la lontra in braccio e si mise proprio dietro di lui. Il russo non provò neppure a chiedere a lei cosa stesse accadendo.

    – Cosa succede? – chiese, avvicinandosi abbastanza per sentire gli improperi, metà in inglese e metà in chissà quale dialetto del sud est asiatico, della donna.

    – Succede che quello stronzo buono a nulla si è fatto mettere dentro e adesso secondo loro dovrei tenermi anche la sua bastarda – ruggì la donna.

    – Lei chi è, il magnaccia? – chiese senza giri di parole uno dei poliziotti.

    Yuri sbatté le palpebre.

    Certo, poteva essere che il suo abbigliamento quel giorno non fosse proprio sobrio. Il suo fan club gli aveva regalato un orologio vistoso che forse non avrebbe dovuto indossare il quel quartiere e la tuta Dolce e Gabbana con le decorazioni dorate si faceva un po’ notare. Però, insomma, per pappone non l’aveva mai preso nessuno. Colpa delle scarpe rosse e e blu elettrico, senza dubbio.

    – Collaboro con l’associazione In corsa per il futuro. Alleno la ragazzina – cercò di darsi un contegno.

    Lo sguardo del tutore dell’ordine fu una delle cose meno convinte che avesse mai visto e per un istante Yuri fu indeciso se dargli un pugno o tirar fuori un documento che dimostrasse la veridicità delle sue parole. Optò per una ferma immobilità.

    – Che succede? – chiese.

    – Il padre dei marmocchi è stato arrestato e lei non vuole tenersi la più grande – riassunse l’uomo.

    Yuri lanciò uno sguardo alla signora.

    – Già non so come sfamare i miei – si giustificò lei.

    – Per cosa è dentro? Spaccio? 

    – Omicidio. Una rapina in villa finita male.

    Cazzo.

    – E la bambina?

    Il poliziotto si strinse nelle spalle.

    – Se non è figlia sua mica possiamo obbligarla. Chiamiamo i servizi sociali.

    Yuri si girò verso Kamalika e si trovò inchiodato dal suo sguardo nero e silenzioso. Se se ne fosse andato in quel momento, ne era sicuro, sarebbe stato tormentato a vita da un mostro a forma di peluche stazzonato di lontra.

    – Posso aspettare con la bambina e vedere cosa succede? – chiese.

    Il poliziotto, già attaccato al cellulare, gli diede a malapena uno sguardo di sbieco.

    Faccia un po’ come crede.

 

    *

Hasetsu

 

     Victor si lasciò cadere, più che sdraiarsi, sulla sabbia.

    Non si sarebbe mai, mai più lamentato di quanto fosse stancante seguire gli allenamenti sul ghiaccio reggendo la canna, quando i ragazzi provavano i salti più difficili. Se non altro, al momento, i due disgraziati sembravano aver ingaggiato Ark che, dal canto suo, correva dietro al pallone con lodevole impegno. 

    – Spero non mi sfianchino il cane – borbottò. – Anche se sembra magro non ho nessuna voglia di portarlo in braccio fino a casa.

    – Non abbiamo più l’età. Chi l’avrebbe detto che saremmo arrivati a superare i quaranta? – disse Chris.

    Aveva già bevuto in un sorso metà della sua bottiglietta d’acqua da mezzo litro.

    – Questa mattina io e Yuuri abbiamo visto Mira Novak – iniziò Victor.

    In realtà non voleva parlarne con Chris.

    Non voleva parlarne affatto. Era solo che adesso la capiva quell’inquietudine che aveva sentito in Yuuri, quella mattina.

    – Quindi è vero che verrà da voi? Posso scrivere un articolo in anteprima?

    – No. Sei in vacanza.

    L’aggettivo «autorevole» a fianco di Chris era surreale. Eppure era quello che era, per tante persone. Giacometti, la voce più autorevole in fatto di sport invernali indoor. Roba da non credere.

    – Non ti ha convinto? – indagò Chris.

    – I salti sono un po’ un disastro, tutti sbilanciati, il Lutz non lo si può neppure chiamare tale. Ci vorrà almeno un anno per sistemarli. Le trottole però sono le più belle che abbia mai visto, la pattinata, poi, è morbidissima… È un’atleta che deve crescere. Anche se non recuperasse mai i quadrupli, si può lavorare su altri elementi.

    – Ma?

    Victor si prese un attimo per guardare il mare.

    Maggio era il mese migliore per andare in spiaggia. La distesa di sabbia era tutta per loro, mentre le onde giungevano dolci sulla battigia, lasciando ciottoli e conchiglie che nessuno raccoglieva. Per quanto continuasse amare viaggiare, molto più di Yuuri, e adorasse passare del tempo in Europa, bastavano pochi giorni lontano dallo sciabordio delle onde per sentirne la mancanza.

     – Dà l’idea di essere una ragazza complicata – disse, cercando di riordinare le idee. – Potrei non sapere come prenderla.

    Da quello che aveva saputo, entrambi i suoi genitori erano medici. Il padre era morto quando Mira aveva quattro anni, da allora l’intero mondo di sua madre aveva ruotato intorno a lei e al suo possibile successo sportivo.

    – Si è già spezzata una volta e sta cercando di rialzarsi – concluse. – Potrebbe finire di nuovo in pezzi per un nonnulla.

    – O forse sei tu che hai paura di finire in pezzi, se qualcosa andasse storto – disse Chris, dolcemente.

    – Cosa intendi?

    – Analizziamo i fatti – iniziò lo svizzero, mentre allungava il collo per controllare dove fossero i bambini. – Il tuo primo allievo te lo sei sposato. Yuri è quasi un fratello. Luzt è di famiglia, è stata tua damigella di nozze prima che tu allieva. Anche i due ragazzi junior sono praticamente dei nipotini, li segui da quando hanno dieci anni. Certo, tieni anche i corsi, lavori con altri ragazzi, ma quando inizi a lavorare in modo individualizzato diventano famiglia.

    Victor sospirò, mentre muovendo le dita nella sabbia. Era imbarazzante il modo in cui Chris riusciva a leggerlo.

    – Messa così non suona molto professionale – disse.

    Chris si strinse nelle spalle.

    – Yakov si è preso in casa te e poi Yuri. Abbaiava un sacco, ma non ha mai buttato fuori nessuno perché per una stagione o due non ha ottenuto medaglie. Da qualcuno avrai pur imparato.

 

*

Newcastle

 

    L’ufficio dei servizi sociali di Newcastle aveva arredi di rara tristezza. Una via di mezzo tra la sala d’aspetto di un ospedale e quelle delle visita in un carcere. C’erano mobili in compensato bianchi dagli angoli sbeccati e sbarre a tutte le finestre. Per entrare avevano fatto passare Yuri al metal detector peggio che in aeroporto e gli avevano chiesto dove avesse preso l’orologio, manco lo avessero trovato a fare chissà cosa di illegale.

    Kamalika era stata invitata a giocare in una stanza dove c’erano costruzioni di legno per bimbi di uno o due anni e una cesta di bambole variamente mutilate. Lei se ne stava su una seggiolina di plastica arancione con mister Otterbek sempre ben stretto al petto. Yuri stava aspettando da una ventina di minuti in una stanzetta adiacente, da cui vedeva la bambina attraverso il vetro. Dire che era inquieto forse era troppo. Tuttavia…

    L’estate dopo le ultime Olimpiadi era andato in Russia per una campagna pubblicitaria e per una santa volta Otabek lo aveva accompagnato. Erano andati a fare un servizio fotografico in un posto sperduto, in mezzo alla taiga. Alla sera avevano dormito nella cittadina più vicina. Lui e Otabek erano andati al cinema. Una serata normale. Non erano certo tipi da chissà quali effusioni, loro. Non erano i due pervertiti del Giappone. Non avevano neanche saputo dire, poi, per quale assurdo motivo era sembrata una buona idea baciarsi nella piazza. Forse perché era il tramonto, perché erano tre mesi esatti da… Quella cosa lì. Un solerte poliziotto li aveva fermati per atti osceni. Senza capire bene cosa stesse accadendo, si erano trovati in uno squallido ufficio arredato con un tavolaccio con gli angoli sbeccati. Otabek aveva gestito la cosa con molta calma e molti rubli. Erano tornati in camera nel giro di un’ora, senza neppure dover chiamare l’avvocato. Tuttavia né lui né Otabek avevano davvero voluto chiedersi cosa sarebbe accaduto se avessero avuto cognomi meno famosi, conoscenze meno influenti e sopratutto meno contanti a disposizione. Non c’era davvero un motivo per cui quell’ufficio ben illuminato dovesse ricordare la sordida stazione di polizia di Kalya, salvo l’angolo sbeccato della scrivania. Tuttavia Yuri sobbalzò, quando la porta si aprì.

    Non entrò alcun poliziotto con eccesso di testosterone, ma una donna bassa sulla cinquantina con gli occhiali, la pelle color cappuccino e i capelli ricci venati di grigio.

    – Mi hanno detto che è un volontario dell’associazione con cui Kamalika fa sport e che vuole sapere come sarà sistemata la bambina – disse, mentre appoggiava il proprio tablet al tavolo. – Io sono la dottoressa Alicia Breem.

    Yuri annuì, stringedole la mano.

    – Yuri Plisesky – disse.

    Di solito, quando si presentava, il suo cognome bastava e avanzava. Spesso bastava il nome. Per la prima volta sentì l’assurda mancanza di un titolo da premettere, come se si trovasse in perizoma a un ricevimento formale, circondato solo da persona in giacca e cravatta.

    – Polacco? – chiese la donna.

    – Russo – ringhiò. – Qual è la situazione della bambina?

    La dottoressa, presumibilmente un’assistente sociale, sospirò.

    – Il padre è implicato in una rapina finita con l’omicidio dell’anziano proprietario… A quanto pare lui e i complici pensavano che non fosse in casa e si sono fatti prendere dal panico. Le responsabilità delle persone coinvolte sono ancora da chiarire, tuttavia…

    …Dai dieci ai trent’anni di galera, così a stima, pensò Yuri.

    – La madre non risulta più domiciliata nel Regno Unito, stiamo cercando di rintracciare altri parenti, ma sarà difficile trovare qualcuno disposto a prendersi la bambina – disse la donna.

    Aveva un tono pratico, di chi tratta casi simili tutti i giorni. Aveva un viso simpatico, dava l’aria di una persona a cui piacesse ridere, tuttavia Yuri sentì di odiarla.

    – Quindi?

    – Siamo contattando le case famiglia della zona per vedere dove c’è un posto. Se possiamo, eviteremo di spostarla da Newcastle. Magari potrà continuare a frequentare la vostra associazione…

    Certo, pensò Yuri, perché il problema era continuare a farla arrivare ultima a qualsiasi competizione provassero a iscriverla, dai cento metri al vortex. 

    – Cioè finisce in istituto?

    La Breem si sistemò gli occhiali e tentò un sorriso.

    – Casa famiglia. Ha detto di essere russo? Qui non abbiamo veri e propri istituti come, beh, nel suo paese. I ragazzi vengono seguiti da operatori specializzati in un rapporto di circa uno a tre.

    Lanciò un’eloquente occhiata alla stanza adiacente, dove oltre il vetro si vedeva Kamalika che dava da bere a mister Otterbek in una tazzina giocattolo in plastica stinta.

    – È molto probabile che si troverà meglio lì che dove stava prima.

    Era quasi sicuramente vero. Con ogni probabilità nella casa famiglia nessun fratellino gli avrebbe rigurgitato sui quaderni. Non sarebbe stata obbligata dalla matrigna a fare i lavori di casa. Non sarebbe stata svegliata in piena notte dalla polizia, venuta a cercare la droga che il padre nascondeva. Né avrebbe visto il suddetto padre e la matrigna farsi.

    Dall’altra parte del vetro, Kamalika prese il pupazzo con entrambe le mani e lo alzò per muovergli le zampe, mimando un saluto. Un gesto uguale a quello che aveva visto fare un milione di volte a Victor, con il suo assurdo peluche a forma di barboncino.

    – Non voglio che vada in istituto – disse, senza pensarci.

    – Beh, certo, la soluzione migliore sarebbe l’affido – sospirò la dottoressa Breem. – Ma non è facile trovare da un giorno all’altro famiglie disposte a farsi carico di una bambina già in età scolare.

    Il tablet trillò per una notifica in arrivo.

    – Ecco, la nostra struttura a Newcastle sud ha un posto vacante – annunciò la donna. – Kamalika starà con altri otto ragazzi dai sei ai diciassette anni. Visto che è così legato alla bambina, sarebbe davvero gentile se la potesse accompagnare insieme a me. Vedrà, è una bella casa con un giardino, nulla a che vedere con certi… Beh, con le strutture dell’est Europa.

    Negli ultimi anni Victor aveva curato tutto una serie di progetti con l’istituto in cui era cresciuto, in Siberia. Una volta era persino riuscito a convincerlo ad andare con lui per offrire una settimana di lezioni di pattinaggio gratuite ai bambini. Come ripetevano in modo ossessivo gli operatori e come faceva anche Victor, quando era obbligato a toccare l’argomento, c’erano posti peggiori in cui crescere. 

    – Ma… Se, per dire, volessi prenderla con me?

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Capitolo 4
*** Ricerche d'equilibrio ***


Eccoci qui, a quello che di fatto è l'ultimo capitolo, anche se poi seguirà un piccolo extra finale.
Sono un po' emozionata a pubblicare il finale di questa creaturina che è venuta a farmi compagnia nella strana estate della pandemia. Ma i miei "pattinini" ormai sono cresciuti, è ora di lasciarli andare verso la vita che vorranno, alla ricerca dei loro nuovi e sempre precari equilibri.
Come credo sia ovvio a chi a letto fin qui, in questo capitolo si parla, anche, di affidi. L'abbandono e la ricerca di un nuovo equilibrio affettivo, con relazioni magari non così facilmente classificabili, ma non per questo meno vere è un filo rosso che ha unito tutte le storie della mia serie "Stagioni". È un tema che mi sta molto a cuore e spero di non averlo mai trattato con leggerezza. Questa storia si ambienta in Inghilterra nel 2032 e questo 2020 ci ha ricordato quanto precarie siano le nostre certezze. Non ho idee di come sarà la legislazione inglese del 2032 in fatto di affidi! So qualcosina della nostra, quindi qui è tutto semplificato e romanzato e spero di non urtare la sensibilità di nessuno, ma non dovrei aver raccontato cose impossibili.


 

– Ma… Se, per dire, volessi prenderla con me?

    Yuri sentì l’assurdità delle proprie parole già mentre le pronunciava. Poi vide riflessa nella perplessità degli occhi della Breem l’improbabilità di quell’eventualità. Eppure… Insomma, Potya stava scivolando senza particolari problemi verso i vent’anni. Non era stato così pessimo nel prendersi cura di lei, no?

    – Non è una cosa da scegliere così su due piedi, sull’onda dell’emozione – disse la donna, fredda.

    – Beh, ma Kamalika deve trovare una casa su due piedi, sono sicuro che la mia sia migliore di quella bellissima, con giardino, a Newcastle sud. Almeno non starebbe da sconosciuti. 

    Di tutti i ragazzi che seguiva, Kamalika era quella con cui aveva più difficoltà a comunicare. Metà delle volte non spiaccicava parola, se non con Otabek. Era negata per qualsiasi attività sportiva. Non ringraziava, non sorrideva. Stava lì, in un angolo del campo visivo, senza mettersi nei guai. Non c’era mai bisogno di richiamarla, quando era ora di andare, o di fare merenda, era sempre lì dove ci si aspettava che fosse. Otabek diceva che era portata per la matematica, spesso si mettevano in un angolo per fare esercizi insieme, cose più difficili rispetto a quanto assegnato dalle maestre, ma per Yuri tutto questo era ininfluente. La trovava anche bruttina, così scura, tutta pelle e ossa, con quei capelli crespi perennemente spettinati. Se mai a mente fredda avesser concepito l’immane idiozia di portarsi un bambino per casa non avrebbe mai scelto lei.

    «Ci sono posti peggiori in cui crescere».

    Lo avrebbe detto anche lei, con quello stesso sottofondo di desolazione?

    – Se davvero è interessato a un affido, possiamo prendere in considerazione la richiesta – sospirò l’assistente sociale. – Però ci sono dei requisiti. Lei ha un lavoro fisso?

    Yuri si passò una mano nei capelli. Che razza di domanda era?

    – Faccio il consulente, diciamo, per squadre sportive, eventi… Mi esibisco, ovviamente, e lavoro come promoter…

    – Quindi non ce l’ha. Deve capire che ai bambini serve stabilità, una figura di riferimento che sia preoccupata per la mancanza di entrate fisse, che cambia spesso lavoro non è il massimo…

    – Guardi che non sono i soldi che mi mancano – sbuffò Yuri.

    Non si sentiva così a disagio da quando aveva undici anni e aveva fatto il provino per entrare nel gruppo allenato da Yakov. 

    – Non lo metto in dubbio. Ma avrebbe un posto per Kamalika in casa sua? Una stanza da dedicarle? Di solito gli aspiranti affidatari fanno dei corsi, hanno del tempo per prepararsi.

    – Abbiamo tre stanze per gli ospiti.

    – Abbiamo? Quindi è sposato, convive? Questo è meglio, in generale, per un affido, ma capirà che non può scegliere una cosa così importante da solo.

    Yuri si guardò le mani, dove non c’era alcun anello. Adesso era davvero in imbarazzo. Odiava quel tipo di domande, come se la gente volesse aprire la sua stanza da letto. Anche se poi cosa, maledizione? Aveva trentadue anni, aveva vinto due ori olimpici, viveva lì da più di due anni, aveva fatto tutto secondo la legge e ancora lo metteva a disagio dire che viveva con un uomo?

    – Sono sposato – esalò. – Mio marito ha la cittadinanza inglese e insegna in università.

    La Breem, si sistemò ancora gli occhiali e Yuri capì che finalmente lo vedeva. Aveva detto qualcosa che aveva un senso nel linguaggio della donna. Insegna in università. Il che lo elevava dallo status di perdigiorno artistoide russo a quello di coniuge di una persona civile.

    – Se fa sul serio, forse è il caso che chiami suo marito – disse  la donna.

 

    *

 

    Sposando Yuri, Otabek sapeva di essersi aperto alle possibilità dell’improbabile. 

    Tornare una sera a casa e non trovarlo più. Tornare una sera a casa e scoprire di dover partire all’istante per l’altra parte del mondo. Trovarsi un intero gattile in salotto. Oppure un’improvvisata festa russa con vodka che scorreva a fiumi. Una tigre in giardino. Tutti gli elettrodomestici esplosi in simultanea. La piscina riempita di pop corn. Erano tutti scenari che il kazako si era figurato con facilità. Essere chiamato per un colloquio dall’ufficio affidi dei servizi sociali di Newcastle, però, esulava dalla sua più sfrenata fantasia. Non aveva risposto seccato che si trattava di un errore solo perché pochi istanti prima c’era stato un criptico messaggio di Yuri.

    Tu non lasceresti portare Kamalika in istituto, vero?

    Quindi la chiamata stava a significare che la domanda non era ne ipotetica ne teorica.

    Otabek percorse la città in moto in una sorta di stato confusionale, sperando in modo vago che dei riflessi istintivi intervenissero a evitargli degli incidenti.

    Kamalika. In casa sua. 

    Per quanto?

    Affido, quindi una cosa temporanea.

    Eppure era stato Yuri a proporlo…

    Non avevano mai parlato di bambini. Perché poi? Yuri neppure portava la fede, non l’aveva mai sentito dire a nessuno che erano sposati. Per quel che ne sapeva, nel fare richiesta di adozione una coppia accettava di essere visezionata da degli estranei. Ammettere di essere una coppia era quanto meno il livello da cui partire. Poi c’erano tutti quegli assurdi stereotipi russi che ogni tanto Yuri tirava fuori più o meno in modo inconscio quando parlava dei ragazzi dell’associazione. Così brutta con quella pelle scura… Delinquente come suo padre… Col DNA del perdente. Gli era persino capitato di sentirlo dare del frocio a qualcuno, il che, dalla bocca di Yuri, era piuttosto surreale. Per non parlare del fatto che suo marito era la creatura meno accudente che si potesse immaginare. Otabek non riusciva a spiegarsi la sopravvivenza della gatta se non con una sua intrinseca immortalità. L’immagine di Yuri che teneva in braccio un neonato non gli suscitava tenerezza, ma panico puro. D’altro canto gli aggettivi con cui il russo si riferiva ai bebé erano tutti irripetibili. Sposando Yuri, il kazako aveva deciso in piena coscienza si rinunciare ad essere padre. Quindi era del tutto inutile parlarne, così come era inutile parlare di un qualsiasi desiderio irrealizzabile. La vita era una questione di scelte e Otabek aveva compiuto la sua. E poi era arrivato quel messaggio.

    

    – Che cosa succede? – chiese a Yuri, appena ebbe parcheggiato la moto, sotto la sede dei Servizi Sociali.

    – Non pensano che io sia affidabile. Non credono neppure che le foto di casa nostra siano di casa nostra! – mugolò Yuri.

    Otabek non riuscì ad evitare di ridere.

    La situazione era ben oltre la soglia dell’assurdo. Suo marito era vestito da cosplay di un mafioso russo di bassa lega. Lo sguardo, però, aveva un sottofondo quasi di disperazione.

    – Puoi smettere di ridere e essere serio e noioso? – lo implorò il russo.

    Otabek si sforzò di impostare il viso all'abituale imperturbabilità.

    – Di solito dicono che mi venga bene.

    Yuri annuì.

    – Non mi tradire adesso.

    Otabek sospirò, reprimendo l’impulso di spettinargli i capelli. Se qualcuno li stava già osservando per valutarli, forse quella non sarebbe sembrato un comportamento così maturo.

    – Sei sicuro? – si limitò a chiedere.

    Kamalika era la sua preferita. Yuri a malapena la tollerava.

    – Non voglio che vada in un istituto, come Victor.

    Otabek annuì.

    – Qui non ci sono…

    – Lo so. Me lo hanno già detto in tutte le salse. Mi sembra di sentire lui.

    Victor, quando diceva che la sua non era stata una brutta infanzia. Otabek ricordava le parole precise, l’unica volta in cui aveva sentito il russo toccare l’argomento. Non era stato così male. Nessuno lo aveva mai picchiato. In effetti, pensò Otabek, persino loro dovevano essere in grado di offrire una prospettiva migliore a una bambina.

    – Va bene – disse.

 

    – Quindi lei è davvero un docente universitario – disse la dottoressa Breem. – Matematica dello sport? Che disciplina è?

    Otabek si strinse nelle spalle.

    – C’è un sacco di matematica nello sport, a partire dai problemi di misurazione oggettiva in molte discipline, variabili delle traiettorie nei lanci e nei salti, il tutto ovviamente si integra con i programmi informatici appositi e la necessità di creare simulazioni attendibili. È un bel campo di studio, anche se poi di fatto tengo anche i corsi di matematica uno e due e sono quelli a occuparmi la maggior parte del tempo

    – Immagino che lavori molto.

    – Al momento sì, ma se fosse necessario potrei ridurre il numero dei corsi, fino a un minimo di una quindicina di ore alla settimana.

    Si sarebbe annoiato a morte. Abituato a competere a livello internazionale e a studiare, prima con l’università e poi con il dottorato, Otabek aveva scoperto che il suo maggior problema, dopo il ritiro, era la noia. Ma non era necessario che l’assistente sociale lo sapesse.

    – E come fareste a livello economico? Suo marito non ha un lavoro fisso.

    Otabek si girò a fissare Yuri, che si limitò ad alzare le mani.

    – Te l’avevo detto – brontolò.

    – Ehm… Forse Yuri non si è spiegato bene. È uno sportivo, si è ritirato da poco… Insomma, se lo cercate su Wikipedia facciamo prima, credo.

    Se non fosse stato così teso, Otabek si sarebbe goduto il momento. Era abituato ad essere del tutto eclissato dalla personalità e dalla fama di Yuri. Nonostante la loro residenza periferica, la maggior parte della loro vita sociale gravitava intorno al mondo del ghiaccio. Tra masterclass, consulenze e esibizioni Yuri era impegnato quasi tutti i fine settimana, non era raro che prendessero l’aereo il venerdì sera per rientrare il lunedì mattina. E ovunque, nonostante il suo argento olimpico del 2022, ormai  archeologia, lui era nella migliore delle ipotesi «il compagno di Plisesky, pattinava anche lui». Vedere l’incredulità con cui l’assistente sociale prendeva atto che il perdigiorno russo era in realtà un eroe dello sport era uno spettacolo di quelli che capitavano una sola volta nella vita.

    – L’espatrio, per i minori in affido, è complicato – fu tutto quello che riuscì a dire la donna a lettura terminata.    

    – Stiamo cercando di valorizzare l’impianto di Newcastle per, diciamo, portare il lavoro a casa –disse Otabek. – In ogni caso io non ho tutta questa necessità di recarmi all’estero.

    Con un certo divertimento, una parte della mente del kazako annotò che si stava candidando al ruolo di madre amorevole che rimaneva a casa a occuparsi della prole.

    La Breem annuì.

    – Quindi, ricapitoliamo. Avete un legame affettivo pregresso e documentabile con la bambina. Il signor Altin ha anche la cittadinanza britannica… Ovviamente l’ultima parola sull’affido spetta al giudice e dovrete seguire un corso con i nostri psicologi. Verremo a monitorare la situazione a casa. Non dovete pensare di potervi sostituire al padre della bambina, anche se, ovviamente la situazione verrà valuta anche in base alla storia giudiziaria dell’uomo. Se dovesse prospettarsi l’adottabilità della bambina gli affidatari sono ovviamente la scelta preferenziale. Per… Beh, coppie come voi, l’affido, pur con tutte le sue criticità, può essere la via più rapida diventare genitori.

    Genitori.

    Otabek era svegliato quella mattina, come ogni mattina, con la granitica sicurezza che non avrebbe mai accompagnato un bambino al parco, o a scuola. Non gli avrebbe mai scattato una foto mentre spegneva delle candeline per poi appenderla in salotto. Non l’avrebbe mai convinto che il disinfettante non brucia dopo una sbucciatura né lo avrebbe mai sgridato per una qualsiasi delle cose di cui si lamentavano sempre i suoi fratelli a proposito dei loro marmocchi. Come ogni mattina, più o meno inconsciamente, quando aveva superato in moto la scuola elementare che incontrava sul tragitto tra casa e università, si era detto che dopo tutto i pannolini puzzano, i capricci farebbero perdere la pazienza anche a un santo e che comunque tutte quelle creaturine si sarebbero trasformate poi in adolescenti brufolosi e ribelli concentrati solo sui propri genitali. Che la sua vita era perfetta già così. Che con un bambino certo il tour della Namibia in moto poteva sognarselo… E adesso era seduto a un tavolo con una donna che gli stava dicendo che una bambina, non una bambina qualunque, Kamalika, il suo demonietto scuro, lo sguardo che ogni volta che andava al campo di atletica o alla sede dell’associazione temeva di non vedere, poteva installarsi a casa sua. E forse un giorno chiamarsi Altin, chissà. Aveva affrontato i campionati mondiali e le olimpiadi. Era sceso in pista con un ginocchio che stava insieme per miracolo, consapevole di dover arrivare al podio per ottenere il premio in denaro necessario per le cure di suo padre. Aveva concorso per il dottorato mentre gareggiava ai vertici mondiali. Aveva affrontato, un paio di volte, uno Yuri furioso. Eppure la parola «ansia» sembrava acquisire significato solo in quel momento.

    Cercò di spiare Yuri, seduto a fianco a lui, ma il russo pareva solo ringhioso e concentrato, più o meno come prima di entrare in pista.

    – E quando si pronuncerà il giudice? – chiese.

    – Se siete davvero convinti a inoltrare la domanda, lo contattiamo subito. Sarà una serata lunga, ma è la cosa migliore per la bambina.

    La mano di Yuri calò di botto sul tavolo e Otabek sobbalzò sulla sedia.

    – Cioè, spiegatemi – disse, con il tono sibilante che assumeva quando si sforzava di non urlare. – Se sono io, volontario non si sa cosa facente russo, la casa famiglia è un angolo di paradiso. Se arriva un professore perfettino  preparate già il bimbo in un pacchetto regalo?

    L’assistente sociale si tolse gli occhiali e prese un respiro.

    – C’è stato un equivoco e mi creda, tutto il nostro lavoro è nel massimo interesse dei bambini…

    – No, adesso ascolti me – adesso Yuri non sibilava più, ringhiava. – Perché ne so qualcosa di abbandoni. Mia madre si drogava e mio padre manco so chi è. Sono stato tirato su da mio nonno in un bilocale fatiscente, sono sicuro che voi lo avreste considerato alcolizzato e con scarsa capacità genitoriale. Forse, se fosse capitato a tiro di qualche solerte assistente sociale neppure sarebbe stato considerato in grado di allevarmi. Ma le assicuro che ringrazio per ogni minuto trascorso con lui, o con il suo amico stalinista zoppo che mi ha tenuto in casa dagli undici ai quindici anni, piuttosto che trovarmi nella migliore casa famiglia di modello inglese, con tanto di giochi in giardino, dove sarei stato solo un cazzo di lavoro da sbrigare per raggiungere lo stipendio.

    Otabek aveva messo una mano sul braccio di Yuri e lo sentiva tremare sotto la felpa. 

    Non aveva idea di cosa dovesse fare. Era la prima volta in assoluto che sentiva il marito parlare dei propri genitori. Aveva nominato Victor, quando Otabek era arrivato, ma il kazako avrebbe dovuto capire che era ancora qualcosa di più profondo che aveva spinto Yuri a chiedere su due piedi l’affido di Kamalika. Mentre cercava in qualche modo di trasmettergli calma con il tocco, l’unica cosa a cui Otabek riusciva davvero a pensare era che Yuri, a modo suo, sarebbe stato fantastico con la bambina.

    

*

 

Hasetsu

    – Dorme? – chiese Yuuri.

    – E vorrei ben vedere. Non pensavo avesse neppure la forza di andare sul ghiaccio, invece mi ha stremato.

    Igor giocava a hockey e considerava il pattinaggio di figura una cosa da femminucce. L’anno scorso, tuttavia, aveva dovuto ammettere, dopo una sfiancante prova sperimentale, di non essere in grado di prendere lo zio sulla pista di ghiaccio. Così si era deciso che la settimana di vacanza studio in Giappone avrebbe compreso anche alcune lezioni di pattinaggio. In realtà erano poco più di una scusa per giocare sul ghiaccio. Con la responsabilità di un’accademia, a Victor mancava l’aspetto puramente ludico. Per qualche motivo i suoi allievi si aspettavano che l’allenatore dovesse essere un tipo serio e assertivo e col tempo il russo aveva imparato che se una battuta poteva aiutare a sdrammatizzare, troppa leggerezza disorientava. Anche lui aveva ammesso a se stesso che se Yakov avesse riso a bordo pista, invece che sbraitare, non sarebbe stata la stessa cosa. Lui non urlava, non pensava di avere neppure l’apparato fonatorio adatto al volume e alla quantità di urla che Yakov riusciva a emettere in un singolo allenamento, ma si sforzava di non ridere troppo. Igor, invece, non correva neppure il rischio lontano di essere convocato nella squadra nazionale di hockey. Anche Joseph pattinava con discreta grazia, ma non sembrava intenzionato a ripercorrere le orme del padre. La gente se ne stupiva, ma Victor, con la sua caviglia quasi rifatta da zero e ben consapevole dei cinque bulloni di titanio nella schiena di Yuuri, capiva perfettamente perché Chris non lo spingesse in quella direzione. Quella sera, quindi, quello che si era divertito di più sul ghiaccio era lui. Questo, però, non voleva dire che non fosse distrutto.

    – Sembri sul punto di crollare anche tu – notò infatti Yuuri.

    – Sì. Però non ho voglia di andare a dormire subito.

    Di solito Victor crollava prima delle undici di sera e probabilmente se si fosse sdraiato si sarebbe addormentato all’istante… Dimenticando quel mezzo pensiero non ancora formulato che si aggirava elusivo nella sua mente da quella mattina.

    – Mi accompagni con i cani? – chiese il giapponese.

    La passeggiata serale era appannaggio di Yuuri, come quella del mattino apparteneva al russo.

    – E se Igor si sveglia e non trova nessuno?

    – Ha il cellulare sul comodino e noi, con Liza, non saremo a più di trecento metri. Chris e Joseph sono nella stanza accanto.

    Victor annuì, non del tutto convinto, mentre andava a prendere i guinzagli.

    – Possiamo fermarci a prendere un gelato – disse Yuuri.

    – Mi stai corrompendo.

    – Mentre tornavo dal palazzetto ho visto arrivare la frutta. Dovrebbero aver fatto il mango.

    – Cedo… Come sono andati i ragazzi oggi?

    – Bene, anche se ho sempre l’impressione che saltino con meno impegno quando ci sono solo io… 

    – Sakura?

    La loro novice più promettente.

    – Hai ragione. Entro settembre ce l’abbiamo, il triplo Axel. Un mese fa non lo avrei detto… Io riesco a valutarli sul presente, se sbagliano lo vedo subito, ma non ho il tuo senso della prospettiva.

    – Bah, è solo che a me piace scommettere e a te no.

    Erano già sulla soglia, d’istinto, Victor si girò verso la scala che conduceva al piano superiore, dove dormiva Igor.

    – Non succede niente – lo rassicurò Yuuri. – Chissà come saresti stato apprensivo come padre.

    – Chissà…

    Era un pensiero su cui tornava spesso, negli ultimi tempi.

    Non aveva mai desiderato un figlio. I bambini piccoli, poi, gli sembravano esplosivi instabili sempre sul punto di scoppiare, adatti a essere maneggiati solo da un artificiere esperto. Anche come allenatore cercava di non averci nulla a che fare prima degli undici, dodici anni. E tuttavia…

    – Ti manca, il non essere padre? – chiese, a bassa voce.

    Yuuri sarebbe stato un genitore fantastico. L’idea che si fosse negato quella possibilità per stare con lui era un pensiero che ogni tanto gli balenava nella mente.

    – Stai scherzando? – chiese Yuuri.

    – Saresti almeno meglio di Mari! – non riuscì a trattenersi Victor.

    Cercava di evitare di parlar male della famiglia del marito, ma ogni tanto gli pareva che fosse Yuuri la madre del piccolo botolo che quasi tutti i giorni dopo scuola stazionava al palaghiaccio in attesa che un genitore si ricordasse della sua esistenza.

    – O magari no. Insomma, la base genetica è quella – scherzò Yuuri.

    Persino lui era consapevole delle mancanze di sua sorella.

    – Io sono egoista – disse il giapponese, più serio mentre lottava per agganciare il guinzaglio alla pettorina di un esagitatissimo Ark. – Mi piace andare a dormire tardi sicuro che nessuno poi mi disturberà. Non mi piace fare avanti e indietro per il globo in un fine settimana, ma mi piace viaggiare, avere una casa a Parigi e agganciare una settimana di vacanza dopo il mondiale. Mi piace stare dieci ore di fila al palazzetto per seguire gli allenamenti, senza preoccuparmi se le ore diventano dodici. Mi piace avere te, senza doverti dividere con nessuno, neppure con un figlio.

    – Ah… – fu tutto quello che Victor riuscì a dire.

    – Mari ha fatto un figlio solo perché era quello che ci si aspettava da lei, e gli vuole anche bene, sia chiaro, ma, insomma, un bambino meriterebbe di essere qualcosa di più di un dovere sociale, non credi? 

    – Forse…

    – Dopo una vita da insicuro sono arrivato alla conclusione di essere diventato abbastanza sicuro di me da sapere che sto bene così e quello che ho adesso è esattamente ciò che voglio dalla vita.

    – Ho creato un mostro – sorrise Victor.

    Eppure si sentiva intenerito e sollevato. 

    Nonostante tutto, nonostante il tempo passato, era come se Yuuri lo scegliesse ogni giorno, ancora e ancora e ogni volta era un piccolo miracolo.

    – Sai, pensavo una cosa, a proposito di Mira Novak – disse Victor.

    In qualche modo era come se il discorso precedente lo avesse riportato al pensiero che faticava a prendere forma.

    – Non è solo di allenamento che ha bisogno, ma di stabilità – disse Yuuri.

    Anche lui non sembrava trovare strano essere finiti a parlare di lei.

    – Mi hanno fatto pensare le cose che ci siamo detti questa mattina – continuò il giapponese. – Ha sedici anni, se anche la mandiamo all’Osen, circondata da persone che non parlano una parola di inglese o di russo, smette di nuovo di mangiare. Per i disturbi alimentari la solitudine non fa bene.

    – Però potrebbe stare da noi, almeno per i primi tempi – disse Victor, dando voce al proprio pensiero.

    Yuuri si limitò ad annuire, mentre finalmente guadagnava il cancelletto di casa.

    – Sì, lo pensavo anch’io.

    – Ho paura di affezionarmici – ammise il russo.

    Yuuri gli sorrise.

    – Credo che sia esattamente quello di cui ha bisogno, un allenatore che le si affezioni al di là dei risultati.

 

*

 

Newcastle

 

    – Lascia che si ambienti – disse Otabek.

    Yuri grugì, seguendo Kamalika con lo sguardo, attraverso la porta finestra.

    La bambina stava esplorando il giardino percorrendo lenti cerchi concentrici a partire dal ciliegio giapponese proveniente da Hasetsu che Victor e Yuuri avevano regalato loro. Ogni tanto si fermava e faceva correre un poco mister Otterbek sull’erba, poi recuperava il peluche e proseguiva. Quella mattina non aveva detto una parola. Si era svegliata nella stanza che avevano raggiunto la sera precedente a un’ora che si poteva definire già notte. Aveva indicato il latte e i cereali per la colazione, aveva mangiato in silenzio e sempre in silenzio si era alzata per sciacquare la tazza nel lavello. Otabek le aveva indicato la lavastoviglie, lei l’aveva aperta, guardata con diffidenza e poi aveva ripreso a sciacquare sotto il rubinetto.

    – Dobbiamo andare a fare shopping… O forse è il caso che tu resti con lei e vada io a prenderle qualcosa? – chiese Yuri.

    Alla fine, ben oltre l’ora di cena, quando la cosa si era concretizzata, la bambina era stata data loro come se si trattasse di un pacco postale. In effetti, l’idea di bussare alla porta della matrigna per farsi dare le cose di Kamalika non era sembrata neppure a Yuri il massimo della saggezza. Tuttavia si erano ritrovati con l’affido legale, o, meglio, il solo Otabek, in quanto dotato di doppia cittadinanza, si era trovato con l’affido legale, ma erano sprovvisti del corredo minimo. Non avevano nulla. Dallo spazzolino da denti allo zaino di scuola, tutto era rimasto nella vecchia casa di Kamalika.

    – Forse è la cosa migliore… Anche se un po’ ho paura – disse Otabek.

    – Lo zebrato secondo me le dona.

    – Yuri!

    Di colpo l’idea di dover davvero entrare da lì a un’ora in un reparto abbigliamento per bambine lo travolse come un tir in corsa. Il giorno precedente lo avevano preso per un magnaccia. Oggi lo avrebbero guardato come un pervertito.

    – Se non ti fidi del mio gusto… – fece finta di mettere il muso.

    – Stai sul fucsia, le piace il fucsia – sospirò Otabek. – E gli animaletti, quelli le piacciono.

    Yuri lo guardò male.

    – Ci siamo messi in un bel guaio – disse Otabek, sorridendo.

    – Na… Quasi tutti riescono ad allevare i cuccioli d’uomo. Non può essere così difficile.

    La mano del kazako si posò sulla sua spalla.

    – Hai iniziato a riorganizzare il calendario? – chiese.

    – Certo, per chi mi prendi?

    Ecco, quello era ancora più spaventoso del dover far incetta di abiti rosa al reparto bambini.

    Otabek, avevano scoperto, aveva diritto a un periodo di congedo che avrebbe aiutato a tamponare l’immediato, ma la bambina non poteva espatriare. La Namibia si era già trasformata nel tour della Cornovaglia, quello era stato facile: era bastato ordinare una nuova guida turistica. Però gli spettacoli estivi incombevano e quelli non erano così semplici da reindirizzare. Abbandonare il marito per tuffarsi, da lì  a un mese, nella follia delle tournée estive era troppo anche per uno stronzo come lui.

    – Hai avvisato Victor? – chiese Otabek.

    Il pezzo forte della prima parte dell’estate erano le esibizioni in Giappone, organizzate dal suo ex allenatore. 

    Yuri scosse il capo.

    – Dici che ci sarà una penale da pagare? – chiese.

    – In caso di infortunio dovrebbe intervenire l’assicurazione, mi pare.

    – Non sono infortunato.

    – Hai l’anca di un novantenne con l’artrite, potrebbe cedere in modo definitivo in qualsiasi momento.

    – Parla quello che non ha più le ginocchia.

    – Infatti io non mi esibisco… Tornando alle cose serie, sabato sono invitato a una cena con i colleghi. Una grigliata informale in un locale per famiglie. Ci saranno dei bambini… Forse potrebbe essere un’occasione per chiedere delle informazioni di base a chi già vive con creature della sua stessa specie.

    Yuri lanciò un’occhiata perplessa a Kamalika. Aveva raggiunto il pino e stava facendo annusare una pigna a mister Otterbek.

    – Mah… Dovrei sopravvivere. Il fatto che sia quasi muta dovrebbe evitarmi qualsiasi commento sulla mia cucina.

    – Pensavo che potevate venire anche voi. Lei ha bisogno di incontrare altri bambini e tu… Passeremo più tempo in città, ti tocca socializzare.

    Yuri sgranò gli occhi.

    – Ho capito il rivoluzionare la vita e fare sacrifici, ma qui si esagera!

 

*

 

Hasetsu

 

    Aveva fatto bene a insistere. Il gelato al mango era strepitoso.

    – Non te lo dò, ti fa male – disse, serio, a Liza che lo guardava implorante.

    – Ma è taaanto buono! – fece Victor, cercando di imitare lo sguardo della cagnolina.

    Con un movimento lesto, intanto, riuscì a intingere un cucchiaino di plastica nel proprio gelato e farlo sleppare ad Ark senza che l’altra se ne accorgesse. 

    Yuuri lo incenerì con lo sguardo.

    – Così non aiuti! – protestò.

    – Saranno due grammi, non può fargli male! Non deve saltare sui pattini, lui.

    Yuuri scosse il capo, sconfitto, mentre la brezza serale gli scompigliava i capelli.

    Erano seduti sul muretto che separava il lungomare dalla spiaggia a guardare la luna che appariva spariva sopra il mare, giocando a nascondino tra le nubi che correvano veloci. La salsedine depositata sulle labbra si mescolava al sapore del mango del gelato, creando una fragranza inedita Le banche, pensò, dovrebbero permettere di immagazzinare i ricordi di momenti come quello, per avere le prove sul letto di morte che era valsa la pena di vivere.

    Era una cosa a cui pensava spesso da che suo padre era mancato all’improvviso, quell’inverno. Se n’era andato dopo aver dedicato l’intera esistenza a un lavoro che non aveva scelto, a quell’onsen ereditato e portato avanti come un dovere sacro. Non si era fermato neppure per vedere il figlio vincere l’oro olimpico o per il matrimonio di sua figlia. Forse lui avrebbe deluso chissà quale arcigno antenato, ma non sarebbe arrivato al fondo della propria esistenza vivendo la vita di qualcun altro, senza fermarsi ad assaporarla o rinunciando a lasciarsi stupire.

    Si chiese come sarebbe stato vivere con un’adolescente a piede libero per casa. Sarebbe stato come tornare a quando era ragazzo e i confini tra la famiglia Katsuki e gli ospiti più assidui dell’onsen a volte si facevano labili. Alcuni erano qualcosa di più che clienti e qualcosa di meno che parenti. Tutti loro avevano finito per scivolare fuori dalla loro vita, senza lasciare tracce apparenti eppure tutti loro avevano finito per modificare un poco la vita dell’onsen e quella della sua famiglia… C’era stato un professore sui trent’anni che era stato da loro per tutto un semestre, quando Yuuri aveva quindici anni… Yuuri gareggiava da junior e per la prima volta aveva avuto accesso al circuito internazionale, il carico di lavoro in pista era aumentato in modo enorme e non riusciva a tenere il passo con gli studi. A volte, la sera, il professore gli dava una mano con i compiti o gli riassumeva le lezioni che lui non era riuscito a seguire per via delle gare. Yuuri ricordava il suo viso intenso, alla luce tremolante della lampada della sua scrivania, proprio sotto a uno dei suoi poster di Victor e la voce calda con cui gli parlava di letteratura. Era la prima volta che trovava bello un uomo reale, lì in carne ed ossa davanti a lui. Non era successo niente, ovviamente. L’uomo aveva avuto un trasferimento nella città in cui desiderava vivere e se n’era andato lasciandogli un biglietto di auguri per la sua carriera sportiva e un libro di poesie. Eppure senza quell’incontro la sua vita sarebbe stata diversa… A volte, pensò, quando ti senti perso e hai l’impressione di nuotare senza alcun motivo contro corrente basta una voce calma, del tempo regalato, un libro di poesia per non farti sentire più così sbagliato.

    – A cosa pensi? – chiese Victor.

    – A Mira – rispose Yuuri. – Alla fine siamo arrivati alla stessa conclusione. È bello guardare il mondo e sapere che non lo vedi così diverso da me.

    Il russo sogghignò.

    – Chris direbbe che è una gran noia e che è tempo di cambiare.

    – Io sono una persona noiosa. Domani che programmi avete?

    – Più o meno come oggi. Accompagna lui i bambini da Yvonne, così io sto in pista tutta la mattina. Anche se ho detto che questa settimana sarei stato impegnato, devo rivedere le coreografie per Lutz e voglio vedere i ragazzi sudare sul quadruplo Flip. Al pomeriggio, invece, magari lo portiamo in gita nell’interno. Vuoi venire?

    – Non so. Di sicuro seguo l’allenamento di Sakura, sono più tranquillo se la canna la teniamo io o te. Dovrei aver finito per le quattordici e trenta.

    – Allora ci sentiamo intorno a quell’ora e vediamo se riesci a liberarti.

    Yuuri annuì, ma fu interrotto a metà del gesto dalla vibrazione del cellulare di Victor. Un messaggio. Gli occhi del russo si indurirono all’istante. Se Igor si era svegliato e davvero si era spaventato Yuuri avrebbe dovuto dar ragione al marito sul tutta la linea per almeno un mese…

    – È Yurio – disse Victor, guardando lo schermo.

    Adesso le rughe sulla sua fronte parlavano di preoccupazione.

    – Non può fare le esibizioni.

    – Cazzo. L’anca?

    Victor scosse il capo.

    – Non lo dice… Gli avevamo detto tutti di non procrastinare l’operazione… Gli sponsor avranno parecchio da ridire.

    Il russo stava per riporre il cellulare, quando questi riprese a vibrare, adesso in modo più deciso.

    – Otabek?

    Ora Victor era davvero preoccupato.

    Yuuri lo vide allontanarsi di qualche passo prima di rispondere.

    Nel giro di pochi istanti era già immerso in una conversazione in russo. 

    Yuuri strinse gli occhi per cercare di carpire l’espressione del marito. Se Yurio mandava un messaggio e Otabek chiamava era qualcosa di più serio della necessità di anticipare un’operazione tutto sommato di routine già programmata. 

    Incapace di resistere, si avvicinò a Victor.

    Senza smettere di parlare, il russo gli fece il segno dell’ok con la mano sinistra. Quindi andava tutto bene?

    La conversazione si protrasse per parecchi minuti, durante i quali Victor camminò avanti e indietro per il lungomare con Ark che lo seguiva a ruota. Finalmente, il russo riattaccò, ma rimase per qualche istante a fissare lo schermo con espressione indecifrabile.

    – Che succede? – chiese Yuuri.

    – Tu non hai idea del guaio in cui si sono cacciati quei due!

 

    

    

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Capitolo 5
*** I sogni di una madre ***


Eccoci qui, alla fine.
I nostri "pattinini" li voglio lasciare così, due coppie affiatate, protese verso il futuro e nuove sfide.

Vi lascio con un extra particolare che ci porta a vedere le cose dal punto di vista della mamma di Otabek.
Questo racconto è un po' speciale. È dedicato a tutti quei genitori i cui figli prendono strade impreviste. Che si trovano nipoti inaspettati, con tratti diversi dai propri, in cui non possono specchiarsi, frutto di scelte magari difficili da capire per i loro coetanei e il loro tessuto culturale. A volte diventano diventano dei nonni-leone quando si trovano a dover difendere i loro nipoti atipici dalle chiacchiere e dalgi sguardi malevoli.


 

    SOGNI DI MADRE

 

    I sogni delle madri sono senza fantasia.

    Per un neonato si preparano culle dai bordi alti e morbidi, lettini con le sbarre e box recitati. Si appronta tutto un piccolo mondo di gabbie accoglienti, che finiscono per crescere, dentro la testa di una madre, senza sparire mai del tutto.

    Per il proprio primogenito, sui suoi primi passi ostinati, lui che fin da subito non aveva voluto mani a sorreggerlo, il visetto paffuto già chiuso in un’espressione di sfida, Aiday aveva ricamato orsetti su bavaglioli e progetti nella propria mente. Lo immaginava architetto, come suo marito, o ingegnere, in uno studio dalle vetrate ampie, da cui si vedessero le montagne, con una casa in uno dei nuovi quartieri di Almaty, a meno di un quarto d’ora dalla loro abitazione.

    Con un sospiro. Aiday guardò la terra lontana, oltre il finestrino dell’aereo. Il monitor, sul sedile di fronte, le diceva che era la Francia. Non era la prima volta che prendeva l’aereo, ma era la prima volta che lo faceva da sola. La prima volta che poteva concentrarsi su se stessa e ciò che aveva intorno e non su chi accompagnava. Non l’aveva vista, le altre volte, la Francia. Non così, tanto verde e spopolata. Ma entro un quarto d’ora, sempre a detta del monitor, sarebbero passati a fianco di Parigi e forse avrebbe visto il sole riflesso sulla Tour Eiffel. Non l’aveva mai vista, se non nei film, la Tour Eiffel. 

 

    A disagio, improvvisamente più consapevole della propria solitudine, si strinse le mani una con l’altra. Erano magre, con le vene in rilevo e qualche macchia sulla pelle, ma non tremavano più, come avevano fatto al check-in, quando aveva mostrato i documenti alla hostess per il controllo.

    – Parente dell’atleta? – aveva chiesto la donna.

    Il Kazakistan non aveva abbastanza medaglie olimpiche da permettersi di dimenticare i propri eroi, anche a distanza di anni. Lei aveva fatto un sorriso, senza confermare né negare, e aveva proseguito. Chissà se anche quella donna, che aveva all’incirca l’età di Otabek, si era innamorata di lui, seguendone le gare in televisione?

    Aiday l’aveva sempre odiato il pattinaggio. Lei aveva iscritto Otabek a ginnastica, quando aveva cinque anni, per far muovere un po’ un bambino di città e rafforzarne la muscolatura. Con intenti semplici, senza fantasia. Voleva che si divertisse, non che scoprisse una vocazione. Le madri, pensò, diffidano per istinto dalle vocazioni dei figli. Non aveva previsto che nel giro di due anni lui le sarebbe stato rapito a favore di un sport più freddo e scomodo, solo perché il comune voleva promuovere un nuovo impianto. Aveva odiato accompagnarlo alle gare, rimanere a gelare seduta sugli spalti di cemento, con la pelle delle mani che si screpolava e il naso che iniziava a colare. Aveva sperato con tutta se stessa che se ne stancasse. Che i compagni di scuola lo prendessero in giro per i volteggi che doveva provare e riprovare. Che semplicemente capisse che non ne valeva la pena. Ma lei era ostinata e tutti i suoi figli, ciascuno a suo modo, lo erano. Senza capire come, si era trovata ad accompagnare Otabek all’aeroporto non per una trasferta di pochi giorni, ma per un arrivederci lungo anni interi. Un quindicenne con tutto il suo bagaglio in uno zaino e in un trolley, e lei sapeva di averlo perso per sempre. Anche se quattro anni dopo era tornato e per qualche anno aveva vissuto con loro, non era più stato suo. C’è un momento preciso in cui un ragazzo si trasforma in un uomo e lei l’aveva perso. Aveva perso, insieme ad esso, la capacità di leggere nei suoi occhi scuri, nelle sue labbra perennemente serrate, nella fronte corrucciata a mezzo. Dei suoi figli era l’unico che potesse guardarla negli occhi e mentirle. Non che gli altri non ci provassero, ovviamente. Rustam lo faceva continuamente, di fatto ogni volta che andava a trovarli, quasi sempre per chiedere soldi. Ma Otabek le sfuggiva. Poteva sorriderle quando in realtà stava soffrendo, o mostrarsi serio quando esultava e lei non avrebbe mai potuto capirlo. Questo non l’aveva mai portata a fidarsi meno di lui, o ad amarlo di meno. Otabek era sfuggito dalla gabbia di sicurezza che lei aveva intessuto per lui, volava in luoghi di cui lei non aveva neppure sospettato l’esistenza. Non aveva più bisogno della sua famiglia, era piuttosto il contrario. E tuttavia continuava a tornare. Fino alla videochiamata della settimana precedente.

 

 

    – Come sarebbe a dire che non torni per Natale? – aveva ripetuto lei, incredula.

    Il Natale non significava nulla per loro, erano mussulmani. Ma, dal momento che Otabek viveva in Inghilterra, era il periodo dell’anno in cui aveva le ferie. Ed era per certi versi più bello averlo per casa in quello che per loro era un tempo ordinario, senza orde di parenti in visita, senza la necessità di presenziare alle feste. Aiday si illudeva che per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato a tornare a casa per Natale.

    – Come sarebbe a dire che non torni?

    – Non è una frase complicata. Mi spiace. Non riesco a tornare per Natale.

    Aiday aveva scosso il capo, toccandosi con un gesto automatico la crocchia di capelli ormai ingrigiti.

    – Non ha importanza se non arrivi per il venticinque…

    – No, mi spiace – Otabek aveva il solito cipiglio serio. 

    A trentasette anni era, a ben vedere, una versione autentica del se stesso adolescente, stessi capelli corti, stessi maglioni grigi o neri. Se allora, Aiday lo sapeva, Otabek aveva immaginato se stesso come un giovane soldato pronto alla battaglia, ora era un solido ufficiale, le cui parole a spesso peccavano per omissione, ma il cui senso era sempre univoco. Se le avesse dato retta almeno una volta, il suo aspetto sarebbe stato diverso. Lo sguardo deciso di Otabek era quello di un uomo che a volte aveva sbagliato, ma non aveva mai tradito se stesso.

    – Per qualche mese potrò lasciare l’Inghilterra solo per emergenze – aggiunse l’uomo.

    – Non stai bene? Non sta bene…

    – No, mamma, tranquilla

    Aiday lo vide esitare.

    Suo figlio esitava pochissimo. Ancora più raramente lo lasciava trasparire. Di solito questo accadeva quando sapeva che le sue scelte li avrebbero feriti e non sapeva se condividerle o meno. L’ultima volta, quando aveva annunciato di aver chiesto la cittadinanza inglese. Suo padre non gli aveva parlato per un mese. Quindi era qualcosa di davvero serio. Si era convertito a qualche strana religione? Era diventato vegano, quella perversione occidentale in cui non si mangiava nessun tipo di derivato animale, neppure l’agnello? Peggio, aveva deciso di investire tutti i propri risparmi nell’allevamento suino?

    – Ti ho detto che sto ospitando una bambina… – iniziò Otabek.

    – Me ne hai accennato mesi fa. non era una cosa temporanea? – chiese. – Pensavo che se ne fosse andata…

    Riteneva suo figlio in grado di compiere quasi qualsiasi impresa, ma non ti relazionarsi con dei bambini.

    – Non così tanto temporanea. Il giudice mi ha dato l’affido, ma i documenti per ora non mi permettono di portarla all’estero.

    Aiday si rese conto di aver tenuto la bocca spalancata. La richiuse di scatto.

    – Un giudice ha affidato una bambina a te?

    – Ho vinto una medaglia alle olimpiadi. Ho laurea e dottorato. Insegno all’università. In generale si ritiene che questo faccia di me una persona affidabile.

    Aiday trattenne uno sbuffo che minacciava di trasformarsi in risata, mentre l’espressione di suo figlio si stava facendo ostile.

    – Quale disgrazia le è capitata perché un giudice l’abbia affidata a te?… No… Aspetta… Da quanto vive da te? Quanti anni ha?

    – Kamalika ha sette anni…

    – Kamache? Un nome normale no?

    Suo figlio incrociò le braccia.

    – Pensi che Otabek qui sia comune?

    – Sempre meglio di Kamacosa.

    – Kamalika. È indiano.

    – Indiana? No… Aspetta… L’hai vinta alla lotteria? O in Inghilterra estraggono a caso chi si deve occupare dei bambini?

    Aiday si rendeva conto che non era il modo abituale con cui si rivolgeva a suo figlio. Ma se le avesse detto che stava ospitando un alieno, forse la cosa le sarebbe sembrata più ovvia, più naturale.

    – Una volta alla settimana faccio fare sport ai bambini, ti ricordi che te ne ho parlato?

    – Quella roba benefica in cui eri stato tirato dentro con i bambini dei quartieri disagiati. Te ne eri lamentato, sì.

    – Ok. Kamalika è una di quei bambini. Non ha la mamma. E suo padre ha avuto guai con la giustizia…

    – Guai? Che guai?

    – Abbastanza per tenerlo dentro per i prossimi vent’anni, a quanto pare.

    – È la figlia di un delinquente? Tu hai in casa una piccola delinquente?

    Adesso Otabek la guardava con disapprovazione. Solo Otabek, tra tutti i suoi figli, era in grado di guardare lei con disapprovazione. Anche quella, sentirsi mal giudicata dal proprio figlio, era una cosa innaturale.

    – Suo padre ha dei guai con la giustizia. Lei è una bambina di sette anni – replicò Otabek.

    Usava quel tono particolare. Ogni parola era una porta sbattuta in faccia.

    – Beh, mai conosciuto uno figlio di un delinquente che non lo sia diventato a sua volta.

    Anche lei aveva incrociato le braccia. Era suo figlio e non aveva intenzione di lasciarsi intimidire.

    – Rustam è stato tre mesi ai domiciliari. Questo fa di tutti noi dei delinquenti?

    – Tre mesi ai domiciliari non sono vent’anni di galera – sbuffò Aiday.

    Aveva spacciato erba per ripagare dei debiti. Il suo terzo figlio era un idiota, più che un delinquente.

    – Chi viene da certi ambienti è segnato a vita – puntualizzò.

    – Chi viene da certi ambienti non te lo viene a dire per evitare proprio questo tipo di reazione.

    – Non lo dicono perché non ci sono. Stanno tutti in galera.

    – Victor. L’allenatore.

    – Victor cosa?

    Lo aveva visto di persona durante le poche gare del figlio a cui aveva assistito. L’allenatore di Yuri, da cui Otabek andava ogni estate. Un uomo così distinto e a modo che, beh, quando aveva scoperto che conviveva con un uomo aveva pensato che fosse davvero una cosa immorale. Forse, però, per motivi diversi da quelli che avrebbe elencato un imam.

    – Suo padre è stato dentro e fuori di galera e anche lui è stato in affido – spiegò Otabek.

    Era già pentito di aver parlato. Suo figlio era il confidente ideale, perché si sarebbe buttato nel fuoco piuttosto che rivelare un segreto. Il fatto che le avesse rivelato quella che era evidentemente una confidenza le diede, più di ogni altra cosa, la misura di quanto seria fosse la questione.

    – Beh, qualche strascico l’avrà lasciato. Sarà per quello che è diventato…

    – Mamma! Ne abbiamo già discusso. Non è una malattia.

    Ecco un altro argomento intoccabile.

    – Va bene, va bene. Quindi fammi capire. Ha un papà in galera. E tu saresti?

    – Il genitore affidatario.

    Genitore. Al netto dell’aggettivo, sembrava una cosa destinata a durare. Con cui fare i conti.

    – Un altro padre? Non avrebbero dovuto trovarle una madre, piuttosto? Che cos’hanno in testa questi giudici, segatura? Come verrà su, adesso, questa creatura?

    L’espressione del figlio si fece un po’ meno ingessata.

    – Sarebbe stata meglio una madre – ammise. – Ma non pare ci sia la fila di aspiranti genitori affidatari. Per quanto improbabile possa sembrarti, pare fossi il meglio sulla piazza. Quindi verrà su tra la matematica e il palaghiaccio, così come io sono cresciuto tra i progetti di papà e i tuoi piatti d’agnello.

    – Comunque, insomma, è una cosa temporanea. Non è che è tua figlia davvero.

    Stava cercando di prendere a tentoni la misura della novità, cercando di capire quanto spazio dovesse concedere nei suoi pensieri quella creatura dal nome impronunciabile. 

    – È una cosa… – la voce di Otabek era di colpo incerta, come se neppure lui volesse sbilanciarsi a parlare. – Come possiamo dire… Sotto monitoraggio costante. Potrei non risultare più adatto. O lei a un certo punto potrebbe non volerne più sapere… Tuttavia, in assenza di un parente che se possa prendere cura, esiste la possibilità che si fermi a lungo. Nel caso, quando sarà maggiorenne,  forse anche prima, potrebbe esserci un’adozione vera e propria. Kamalika Altin.

    Kamalika Altin. La figlia di un tizio che si era beccato vent’anni di galera. Quindi un omicida o poco meno. Affidata da un giudice irrimediabilmente idiota a un uomo che non aveva nessuna intenzione di recuperarle una madre.

    – Ho capito. Vorrà dire che vengo io in Inghilterra.

    Ebbe la soddisfazione di vedere suo figlio allibito.

    – Tu che vieni a casa mia? E papà?

    Suo marito non aveva più l’età e la salute per viaggiare. E, anche se avesse avuto entrambe, lo stile di vita occidentalizzato del figlio sarebbe bastato a ucciderlo. La loro relazione andava avanti ormai da quasi vent’anni sul non chiedere e il non spiegare. E, c’era da dire, funzionava molto meglio di altri rapporti padri-figli. 

    – Tua sorella ha un minimo di sale in zucca e viene a trovarci con quell’idiota di suo marito. Papà starò con loro e la famiglia di Bolat.

    – Ti rendi conto che in casa scoppierà la guerra mondiale? – chiese Otabek.

    Bolat era un perfetto figlio, se non di Aiday, del nuovo Kazakistan islamizzato. Avrebbe esposto con orgoglio i suoi bambini devoti. Ogni volta che venivano a casa loro, la donna si chiedeva se la moglie fosse davvero soddisfatta di essere la sottomessa sposa di un predicatore di una noia mortale o se almeno si fosse presa qualche soddisfazione e quei figli dagli occhi chiari fossero di qualcun altro. Sotto sotto, Aiday guardava con simpatia a quella seconda possibilità. Aiman, invece, aveva studiato all’estero e si occupava di cose schifose, malattie infettive, con un marito buono a nulla che le dava corda invece di farle capire che ormai era ora di allargare la famiglia.

    – Scoppierà in ogni caso – disse, sincera. – Tanto vale scappare.

 

    

    Aiday riaprì gli occhi, rendendosi conto di essersi assopita.

    Non aveva visto la Tour Eiffel, anche ammesso che fosse possibile vederla. Così, pensò, è la vita, il continuo rischiare di passare a fianco di cose importanti senza vederle. O volerle vedere. Scegliendo sempre la tranquillità alla novità. Era questo che aveva augurato ai suoi figli. Lei che era scappata di casa a sedici anni con un mussulmano di origine turca e che aveva riabbracciato sua madre solo dieci anni dopo, quando suo padre era morto. Ai suoi figli aveva augurato di non dover provare mai il dolore di quelle scelte. Né, di conseguenza, la gioia di percorrere la propria strada.

    Alcune cose di suo figlio, pensò mentre l’aereo iniziava la discesa, non le avrebbe mai capite. Come i suoi genitori, leninisti della vecchia scuola, con un nonno ufficiale dell’Armata Rossa, non avevano mai capito la sua conversione all’Islam. Il sollievo di avere Qualcuno a cui pregare. O contro cui inveire. Fosse stato per sua madre, avrebbe continuato gli studi, sarebbe diventata agronoma come lei. Forse non sarebbe stata una brutta vita. Ma non sarebbe stata la sua. Difficilmente avrebbe sfiorato la Tour Eiffel per andare a conoscere una bimbetta indiana, figlia di un delinquente, che rischiava di trovarsi addosso per caso quel cognome che lei aveva lottato così tanto per portare.

 

    La aspettavano all’aeroporto, appena oltre il controllo documenti.

    La bimbetta, pensò Aiday, mentre si avvicinava, aveva proprio quell’aspetto spaurito da foto di associazione umanitaria in cerca di fondi. Magrissima, suo figlio era evidentemente incapace di nutrirla  a dovere, scurissima, con la pelle che contrastava con la terribile giacca a vento rosa, e gli occhioni enormi e spaventati. Otabek la teneva per mano, portava il cappotto nero aperto. Sotto, la felpa nera mostrava la stampa di un disegno infantile. C’era una lontra con un cucciolo che giocava tra le sue zampe e la scritta «Daddy Otterbek». La firma poteva essere Kamaqualcosa.

    Suo figlio, l’uomo più serio del creato, si era fatto stampare sulla felpa un disegno della bimbetta. E se la metteva per andare in giro.

    Sono fottuta, pensò.

    Quando si avvicinò, la bimbetta tirò fuori da dietro la schiena tre rose bianche, le sue preferite.

    – Signora… – iniziò, incerta.

    – Nonna. Come altro diavolo vuoi chiamarmi?




Quindi questa è la fine? Beh, è la fine di "Stagioni". Non ho idea di come sarà il mondo nel 2032 e ho un po' paura a buttare lo sguardo troppo avanti.
Spero che vi sia piaciuto il viaggio, che vi piaccia immaginare le mie due famigliole, quella in in Inghilterra, alla presa con una bimbetta a cui non manca in carattere e quella giapponese, tutta presa tra atleti e nipoti.
Victor, Yuuri, Yurio e Otabek rimarranno sempre parte di me e non escludo che tornirno a raccontarmi qualcosa, magari sotto altre forme.
In effetti qualcosa mi hanno già raccontato.
In un'oziosa sera d'inverno, a un certo punto sul gruppo wa "Più Otabek per tutti" abbiamo iniziato a giocare alle AU. Abbiamo iniziato a passarci immagini ed è emerso uno Yurio in tenuta militare con due grandi ali nere a cui ha fatto seguito un Otabek in abiti vittoriani. Ed è stato subito steampunk... Solo che nel dare forma alla storia i personaggi per lo più hanno cambiato nome, Victor ha cambiato sesso (probabilmente la risultante, Victoria, è più virile, mi commentano i personaggi). Sono persino cambiati i rapporti di età. Insomma è diventata talmente AU da non avere più molto dell'originale. Quindi alla fine i racconti che ne sono nati li sto accasando tra le originali, qui. Se qualcuno volesse darci un'occhiata, credo che conoscendo la derivazioni alcune cose si notino (nel primo racconto abbiamo una Victoria e un Chris, per dire, e il cognome di Victoria è stato scelto con molta cura per ricalcare il significato dell'originale).

Niente, è proprio il momento dei ringraziamenti e dei saluti.
Queste storie non esisterebbero senza Elina e Thalia. Senza Lele, che non passa di qui, ma è la più grande fan di Otabek che si possa immaginare. Non avrei scritto una parola senza il sostegno costante di Nicola, che non vuole passare di qui, ma si assicura che io lo faccia. 
Syila mi ha tenuto per mano dalla prima all'ultima parola e per questo le sono infinitamente grata. Sono grata a tutti coloro che hanno regalato parte del loro tempo a leggere queste storie, a chi ha recensito, ha chi pa inserito le mie storie tra le seguite, le ricordate e le preferite.
GRAZIE A TUTTI VOI CHE SIETE ARRIVATI FIN QUI



 

    

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