Contropartite

di MaxB
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lieto fine lieto. Fine ***
Capitolo 2: *** Lieto fine forse - Prologo ***
Capitolo 3: *** Lieto fine forse - Contropartite ***
Capitolo 4: *** Lieto fine drastico ***



Capitolo 1
*** Lieto fine lieto. Fine ***


Cercherò di non dilungarmi troppo, ma una piccola spiegazione è dovuta, sopratutto per questo capitolo iniziale.
Il capitolo racconta del più bel finale che la mia mente sia riuscita ad immaginare; il più bel finale, non il più irrealistico, quindi avviso già che chi era malato resterà malato e chi era vecchio continuerà ad invecchiare. Però ho dovuto modificare due piccoli dettagli per far sì che non tutti fossero perduti e che qualcuno a cui teniamo tantissimo tutti avesse una fine diversa. Quindi, ve lo dico subito, riescono a tirare fuori Thorn dallo specchio PRIMA che questo si sigilli.
A parte questa piccola precisazione, che rende il capitolo non proprio un vero finale, dato che ho dovuto modificare la storia originale, ma un finale what if, i prossimi due capitoli saranno sperimentali, soprattutto il secondo. Nel senso che, rispettando la storia, Ofelia troverà il modo di tirare fuori Thorn, ma a che prezzo? E lì ci saranno diverse diramazioni con contropartite diverse. Vorrei scrivere "leggete e lo scoprirete" ma devo ancora cominciare a scriverlo e ho due storie ancora in piedi che mi puntano la pistola alla testa, quindi sarò più dettagliata quando lo pubblicherò. Il terzo capitolo sarà il più drammatico, vi avverto. Ammazzo tutti. No ahahaha scherzo. Però... va be' dai. No spoiler.
Questo primo capitolo è LUNGO. Quando lo avevo pensato lo avevo iniziato a scrivere solo per, come si dice?, self-indulgence? Mh... non so come spiegare... l'ho scritto per egoismo, forse, per desiderio di rivalsa, perché amo i lieti fine e, per quando io creda che alla fine Echi in tempesta abbia un lieto fine contenuto nelle righe finali, non potrà mai essere lieto al 100%. Quindi, dal momento che era scritto così, giusto per accontentarci tutti, ecco, non gli davo importanza. Invece mi è cresciuto sotto le dita fagocitando sempre più spazio, tanto che mi sono fermata più volte a chiedermi da dove sbucassero tutte quelle pagine, ma non me ne pento. Credo che in fondo questo sia il finale che preferisco, che avrei amato, forse, un misto di speranza e tristezza, dolore della vita e desiderio di rinascita.
Insomma, mi ci sono davvero affezionata e spero che possa strappare un sorriso triste, e una lacrima, anche a voi.
Grazie♥


Scusatemi, mi è stato fatto presente che esiste un'altra fanfiction con questo finale diverso in cui Thorn riesce ad uscire dallo specchio. Io non l'ho letta, purtroppo, e mi dispiace che mi sia sfuggito questo particolare. In ogni caso, l'autrice è Birdylove. La sua ff si chiama Insieme.

Finale 1: lieto fine lieto.

- Mi correggo – disse Archibald. – Non abbiamo più tempo.
Ofelia ebbe un conato di vomito. Con un zampillio organico in cui si mischiavano lingue, denti e viscere l’Altro perse ogni parvenza di omogeneità. Cominciarono a spuntare non una, ma grappoli interi di teste, una delle quali si allungò su un collo smisurato, come una pianta a crescita fulminea, e colpì Renard spaccandogli il naso con un atroce rumore di ossa che Ofelia sentì sulla propria pelle. Renard perse l’equilibrio. Gaela riuscì a trattenerlo a stento, avvinghiata com’era alla sua vita, spingendolo affinché cadesse in avanti e non di lato, dove sarebbero precipitati, o all’indietro, dove la caduta sugli scalini avrebbe rotto loro l’osso del collo. Una sopra l’altro, con gli arti intrecciati come ad emulare il grottesco mutamento dell’Altro, insieme ripeterono: - Non rappresenti nessuno!
Il sangue che colava copioso dal naso spaccato di Renard non sembrò turbarlo minimamente.
- Non rappresenti nessuno! – fece eco la zia Roseline, che gesticolava dall’ultimo piano, visibile nonostante le lenti rotte degli occhiali di Ofelia.
Archibald indossava un sorriso che sarebbe stato più adatto ad una sala da tè che a quel luogo, con un mostro disgustoso che non aveva più nessuna parvenza umana, e con Gaela e Renard aggrappati alle scale per non cadere.
- Non rappresenti nessuno! Non rappresenti nessuno! – si unirono al coro le altre voci. Ofelia distinse chiaramente quelle della sua famiglia, che sembravano incitare lei invece che infierire contro l’Altro.
La zia Roseline scagliò il primo libro, proprio lei che amava tanto la carta, e presto tutti la imitarono. Infusi di animismo, presero il volo, guidati da paura, rabbia e soprattutto una volontà ferrea di farcela, di vincere, di annientare un male. Migliaia di libri si abbatterono sull’Altro, libri inanimati che presero vita a contatto con gli altri, offuscandogli la vista, impedendogli i movimenti.
Sentì la mano di Archibald, non più sorridente, sulla guancia, e la pelle di Elizabeth sulla sua, uniti da un unico legame. Niente più segreti.
Si abbandonò alla condivisione, lieta di poter finalmente restituire la sua altra memoria alla legittima proprietaria.
 
La comunione si ruppe. Ofelia notò con sgomento, con la testa confusa e gli occhi appannati, che vecchio e nuovo mondo si stavano mischiando, mentre il Dritto e il Rovescio non trovavano più il loro posto, i propri confini. C’era l’oceano, ma non c’era la sua famiglia.
- Posso riportarli indietro – la allettò l’Altro, il cui corpo era un guazzabuglio caotico di arti e organi che non sarebbero dovuti essere visibili. – È colpa tua e di Eulalia. Sta a voi dipanare la vostra polpa… riparare la vostra colpa. E il mondo è mio.
- Tu non rappresenti nessuno – rispose Elizabeth, in piedi, finalmente presente a se stessa. Consapevole. – Neanche me.
L’Altro parve rimpicciolire, come un bambino che viene sgridato dalla mamma dopo aver commesso fin troppe malefatte. Elizabeth gli parlò, annullando la sua volontà, palesando l’errore che entrambi avevano commesso e a cui lei poteva porre rimedio in quel momento.
Ma Ofelia non poteva perdere tempo. Si lanciò a testa bassa spingendo l’Altro nello specchio alle sue spalle, senza dargli la possibilità di capire cosa stesse accadendo. La superficie riflettente si mise a vorticare, pronta ad inghiottirlo nonostante la resistenza che l’Altro opponeva. Il Rovescio esigeva la sua contropartita, quella che troppo tempo era rimasta insoluta da quando Ofelia aveva liberato Eulalia, o meglio Elizabeth, da quello che credeva essere uno specchio.
Elizabeth ed Ofelia spinsero al massimo per farcelo cadere dentro, ma l’Altro lottava strenuamente, con una forza che aveva abbandonato loro già da diversi minuti.
Ofelia. Una vecchia. Un mostro. E il sangue. Lazarus aveva ragione: gli echi anticipatori non sbagliavano mai. Seconda non sbagliava mai.
Dallo specchio però spuntarono due braccia. Due braccia striate di cicatrici che si avvilupparono all’Altro per tirarlo giù con sé.
Erano le braccia di Thorn.
Li aveva seguiti dal Rovescio, in qualche modo, sfruttando quella breccia per aiutarle.
L’Altro non poté nulla contro i loro sforzi congiunti e precipitò con tutte le sue mani, braccia, nasi, occhi spalancati e bocche mute.
Con Thorn.
- Stavolta no.
La voce di Ofelia era dura quanto la sua determinazione. Era uscita dal Rovescio contro-invertendosi, dando le proprie dita, il proprio potere di lettrice, in cambio. Abbandonando Thorn lì dentro. Questa volta non lo avrebbe permesso. Non sarebbe più stata lontana da lui, o senza di lui.
Seppe senza ombra di dubbio che il prezzo pagato dall’Altro bastava anche per tirare fuori Thorn, così tuffò le braccia nello specchio. Sentì la mano di Thorn afferrare la sua, e scivolare per la mancanza delle dita. Poi la sentì ancora, forte, stretta attorno al polso. Il Rovescio era come un gorgo, reclamava indietro Thorn come se gli appartenesse. Le si slogò la spalla, urlò, ma mentalmente non faceva che incoraggiare Thorn, pregandolo di non mollare. Elizabeth la teneva per la sciarpa e quest’ultima, determinata quanto la padrona, senza preavviso infilò l’altra coda dentro lo specchio, avvinghiandosi al polso di Ofelia: là dove le sue dita non c’erano più, la sciarpa fungeva da collante, per tenere unite le mani sue e di Thorn.
Ce l’avrebbe fatta. Lo avrebbe riportato indietro. Doveva. Avrebbe dato qualsiasi contropartita pur di strapparlo al Rovescio.
Soffocò un altro grido quando due braccia le circondarono la vita con forza, tirandola indietro.
- Su, moglie di Thorn – la incitò Archibald in un roco sussurro contro l’orecchio. Provocatore fino all’ultimo. – Tiriamo fuori vostro marito.
Ofelia sentì una nuova ondata di fiducia scorrerle nelle vene, una scarica di adrenalina che le avrebbe permesso di contrarre le dita con più forza, se ne avesse avute.
Elizabeth mollò la presa sulla sciarpa e afferrò a sua volta Archibald. Con la coda dell’occhio, Ofelia vide anche Renard e Gaela caracollare alle sue spalle, aiutandoli a tirare fuori Thorn con quella strana catena umana. Lo strattone che diede Renard, nonostante il naso rotto e sanguinante, si sentì più che bene, facendo arretrare tutti di un bel po’.
Thorn compreso.
Tirarono con quanta più forza avevano, come i parenti di Ofelia avevano fatto con lei nel bagno del Memoriale. Insieme. Le sue braccia uscirono dallo specchio, seguite da quelle di Thorn, e poi dai suoi capelli biondi. Incontrarono resistenza, Ofelia sentì le mani di Thorn scivolare sui suoi polsi. Stava per gridare, ma la sciarpa la prevenne: scivolò del tutto dal suo collo, passò dalla sua vita a quella di Thorn, come una corda strettamente annodata. Renard e Gaela corsero al suo fianco, uno per lato, afferrando le braccia di Thorn con dita agili, sicure.
Con un ultimo, disperato strattone, caddero tutti come tessere del domino, Ofelia sopra Archibald e Thorn sopra di lei. Il respiro di Thorn sul viso, affannoso, i suoi occhi gelidi e brucianti di metallo, il suo ginocchio piantato nella gamba… Ofelia sentì le lacrime sul punto di traboccare.
Alle spalle di Thorn, la superficie dello specchio sospeso si spianò fino a tornare solida. Il passaggio verso il Rovescio si era chiuso.
Ce l’avevano fatta.
Non ci fu il tempo di gioire.
- Oh oh – mormorò Archibald, dando voce alla paura di tutti.
Rispedire l’Altro nel Rovescio aveva rotto il contratto. Il vecchio e il nuovo mondo si stavano riallineando sullo stesso piano. Le due parti stavano per entrare in contrasto. Non erano ancora al sicuro.
Elizabeth si mise le mani a megafono e piena di un’autorità nuova ordinò: - Evacuate l’edificio! Tutti fuori!
Gaela e Renard le facevano eco, gridando per sovrastare i rumori del crollo e dell’assestamento, precipitandosi poi giù per le scale. Chissà come, Salame li aveva raggiunti, ma Renard fu lesto a riagguantarlo tenendo per la vita anche Gaela.
Ofelia provò a muoversi, ma la spalla slogata le lanciò una fitta atroce che le appannò gli occhiali rotti e le fece girare la testa. Era sul punto di cedere, ma riuscì a vedere nitidamente una cosa, anzi, due, prima di perdere i sensi: le bracci di Thorn.
Solide. Marchiate dalle cicatrici. Forti.
Poi ricevette un colpo, e si abbandonò ad esse con un ultimo, insensato pensiero: piuttosto che perdere le mani di Thorn, era felice di aver barattato le sue.
 
La permanenza in ospedale, più lunga di quanto fosse necessario, a detta di Ofelia, fu estremamente tediosa. Quando si svegliò fu subito colpita dalla luce del sole che filtrava con prepotenza dalla persiana, facendole aumentare il bruciore alla testa. Per un attimo, smarrita, si chiese se non fosse stato tutto un sogno e non fosse ancora nella sua camera dell’osservatorio, vittima di qualche esperimento che le aveva scombussolato le percezioni.
Tutto acquistò nitidezza quando voltò la testa e incontrò gli occhi di Thorn, aperti, vigili, stanchi, marchiati da profonde occhiaie. Era lì con lei. Era riuscita a trascinarlo fuori dal Rovescio. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime che si impose di trattenere, un misto di gioia, sollievo, soddisfazione, malinconia e dolore. Aveva male ovunque. La sciarpa le stava raggomitolata in grembo, come un gatto, e la sua calma sonnacchiosa faceva eco al suo intontimento. Aveva preso indipendenza, era dotata di una propria libertà, ma alla fine la sua sciarpa rimaneva legata a lei a doppio filo, contagiata dal suo stato d’animo.
Un lieve russare la fece voltare dalla parte opposta del letto, dove spaparanzata su una poltrona, in un misto di gonne vaporose, capelli rossi spettinati e guance paffute c’era sua madre. Le sue sorelline dormivano raggomitolate accanto a lei, su un divanetto, e un borbottio infastidito le fece capire che c’erano anche suo padre e Hector, probabilmente sdraiati da qualche parte per terra. Le sembrava di aver già vissuto quella scena, in un passato che quasi sentiva estraneo. L’unica cosa che differiva era la presenza di Thorn: in quel momento, lì accanto a lei, era suo marito, mentre la volta precedente, nelle stesse condizioni, era solo il fidanzato che stava per rompere il contratto matrimoniale.
Riportò lo sguardo su di lui, cercando di accertarsi della sua realtà, della sua solidità, e scoprì una brutta escoriazione sul suo avambraccio, che copriva persino le cicatrici. Le maniche arrotolate ne lasciavano scoperte molte, e la cosa non sembrava disturbarlo. Non più.
- Il tuo braccio… - mormorò, sentendosi la bocca impastata.
Per quanto tempo aveva dormito? Cos’era successo?
Thorn parve intuire le sue domande e le allungò un bicchiere d’acqua, senza mai distogliere lo sguardo da lei, nascondendo l’apprensione dietro lo sguardo duro. Ofelia fece per prenderlo, ma si rese conto che non aveva dita per afferrarlo. E aveva anche un braccio legato al collo. Si era slogata la spalla, ricordò. Thorn però non aveva avuto intenzione di porgerglielo: glielo accostò alle labbra.
- Bevi piano – le intimò, più che consigliarle.
 Thorn non si smentiva mai, e la cosa la fece sorridere leggermente mentre sorbiva l’acqua con cautela.
- Hai dormito due giorni. Dovresti preoccuparti più delle tue condizioni che delle mie.
Come se le sue parole avessero risvegliato in lei una certa consapevolezza, sentì un certo freddo alla testa, come se d’improvviso avesse cominciato a spirare un vento gelido. Sollevò il braccio libero e trattene a stento un’esclamazione quando sentì la pelle del cranio. Il palmo della sua mano non era percettivo quanto le sue dita perdute, ma era certa che mancasse qualcosa. L’avevano rasata.
Boccheggiò, ma Thorn allungò la sua esagerata colonna vertebrale su di lei, cercando di calmarla. Riempì il suo intero campo visivo, e la sua solidità indusse Ofelia a prendere un lungo respiro. Lui era davvero diventato il suo punto di riferimento, la sua torre, la fonte da cui attingere la forza quando il coraggio le veniva meno. L’idea di non averlo lì le procurava un dolore fisico, che si andava a sommare a quello alla testa e alla spalla.
- Ti hanno dovuto tagliare i capelli per suturare la ferita. Non sono riuscito a scansare del tutto la trave che ti è piovuta addosso – spiegò, non riuscendo a nascondere una nota di recriminazione nella sua voce. Nei suoi confronti, che non era riuscito a proteggerla del tutto.
Ofelia capì come si fosse procurato quell’escoriazione, e si commosse nuovamente.
Thorn fraintese l’emozione nel suo sguardo e, a disagio, si schiarì la voce. – Non è un gran male. Ricresceranno. Sarebbe potuta andare peggio.
In quel momento a Ofelia interessava poco nulla dei capelli, anche se tra la ferita e la rasatura non doveva essere un bello spettacolo. La sciarpa, ormai sveglia, le strisciò lungo il busto e sul collo, per poi arrotolarsi sulla sua testa. Le stava facendo da turbante come aveva fatto tante volte per Ambroise. Certa che stessero pensando la stessa cosa, con il braccio sano le toccò la frangia di una coda. Se avesse potuto, gliel’avrebbe stretta solidalmente. Lei non poteva più farlo, ma la sciarpa sì. Le strinse il polso, prima di lasciarla.
- Una ferita alla testa e una spalla slogata. Non è il massimo, ma dati i tuoi precedenti e la tua tendenza ad attirare sciagure, sarebbe potuto andare peggio. Anche un po’ di più.
Ofelia lo guardò, odiando il groppo che sentiva in gola, e che non aveva nulla a che fare con la bocca secca. Avrebbe voluto aggiungere che era ancora senza dita, ma in quel momento le interessava poco; sapeva che le avrebbe rimpiante, che si sarebbe dovuta reinventare per vivere senza di esse, che sarebbe stata diversa senza il suo potere di lettrice, ma non le pesava quanto l’altra subdola menomazione che aveva. Le parole che le aveva rivolto la donna con lo scarabeo la colpirono in pieno, inondandole la mente e acuendo il dolore delle sue ferite. Le venne mal di pancia.
- E sono ancora sterile – articolò a fatica.
Sentiva ancora dentro le vene il bruciore causato dalla fusione con il suo eco, dall’uscita dal Rovescio, la sofferenza che sgorgava dalla miscela di due corpi materialmente inaccostabili. Il fuoco, la sensazione di sventramento che era derivato dal mescolamento del suo corpo con Eulalia, tempo prima. Il mondo era tornato in equilibrio. Era tornato ad essere ciò che era in origine. Ma lei no. A lei era stata preclusa per sempre, con quel primo attraversamento di specchio, la possibilità di diventare madre.
E quello non sarebbe mai cambiato.
Quando vide Thorn stringere le labbra e assottigliarle fino a renderle una linea quasi invisibile, gli occhi pieni di preoccupazione come quando glielo aveva rivelato per la prima volta, sentì gli occhi inumidirsi. E traboccare.
La sciarpa le asciugò una lacrima. Thorn le altre, in silenzio, accogliendola tra le sue braccia come aveva sempre fatto. Thorn, il suo punto fermo, l’uomo che l’accettava, che l’amava, così com’era, che non le aveva mai, mai, mai imposto nulla, al contrario di sua madre, dei canoni di Anima, della vita stessa.
Se avesse avuto dita si sarebbe aggrappata a lui tanto da stropicciargli la camicia, e sentì per la prima vera volta tutta la gravità della sua situazione.
Quando ebbe esaurito le lacrime e i singhiozzi silenziosi ebbero finito di squassarle il petto, nessuno dei due si mosse, e rimasero abbracciati in silenzio.
- È tutto finito – le disse Thorn dopo così tanto tempo che Ofelia stava quasi per riaddormentarsi.
Si abbandonò al sonno nuovamente, per sfuggire al dolore, per non dover parlare con la sua famiglia caotica, che amava con tutto il cuore, e per non vedere lo stesso dolore riflesso negli occhi di Thorn.
 
- Scartoffie in aumento, temo.
All’orto botanico di Polluce, Ofelia, Thorn e Octavio osservavano la strana scena che si presentava loro di fronte. Seconda giocava a carte con Helena e Polluce, spensierata come non era mai stata. Una folla di persone di tutte le età del vecchio mondo, silenziose proprio come quelle che avevano incontrato quando si erano schiantati con il dirigibile, si muovevano indisturbate tra i babeliani.
Vecchio e nuovo mondo si erano ormai rimescolati del tutto, trasformando la terra, o qualsiasi cosa fosse lo spazio in cui vivevano, in quella che era prima della Lacerazione, come se niente fosse accaduto. O meglio, prima dell’Inversione. Thorn aveva usato talmente tante volte quel termine per sostituire il primo che Ofelia si era abituata, e ormai lo pensava come se non avesse mai pronunciato la parola Lacerazione. Nonostante tutto, il pragmatismo e l’attenzione al dettaglio di Thorn erano rassicuranti.
Gli abitanti di quelle nuove arche, più complete, che non fluttuavano in un cielo di nuvole infinite ma erano lambite da acqua, acqua e ancora acqua, erano quanto di più eterogeneo si potesse immaginare. Di per sé anche i vecchi cittadini delle arche erano tutti differenti tra loro: animisti, totemisti, babeliani, arcadiani… accenti diversi, colori di pelle diversi, mentalità diverse, sistemi giurisdizionali, leggi, abitudini… erano un guazzabuglio di poteri familiari, prima, e con l’arrivo degli abitanti del Rovescio si aggiungeva ancora più varietà a quella difformità inclassificabile. A Ofelia piaceva. A Thorn, che osservava tutti con occhio critico e, Ofelia lo sapeva, registrando chiunque con lo sguardo e chiedendosi come avrebbero fatto a ricominciare o a farsi capire da chi nemmeno utilizzava una lingua, sarebbe venuta la faccia verde di nausea, se fosse stato solo leggermente più espressivo.
- Due umanità diverse sullo stesso suolo – continuò Octavio, dando voce ai pensieri di tutti. – Mi stupirebbe assistere a una convivenza senza intoppi. Tutto dipenderà dalle scelte di ognuno, ma preferisco essere qui a scegliere con loro che non laggiù a subire il mio inferno.
Il sorriso di Ofelia si allargò di secondo in secondo, come se fosse la persona più gioiosa della terra e non avesse perso molto, troppo, in quella battaglia a cui non sapeva nemmeno di aver dato vita. E che aveva finalmente concluso, con Thorn. Octavio. E tutti quelli che amava. Lanciò una breve occhiata divertita a Gaela e Renard che, poco lontano all’ombra di una palma particolarmente bassa, sembravano incapaci di togliersi le mani di dosso.
- Hai il diritto di scegliere ciò che meglio ti si addice. Siamo a New Babel, dopo tutto, e in parte grazie a te. Non era facile apprezzare Lady Septima, ma a modo suo vi voleva bene.
Octavio non staccava gli occhi dalla sorella, che rideva e si divertiva un mondo a battere senza pietà Helena e Polluce. Aveva definitivamente messo via le matite, ora che il mondo era tornato in equilibrio e non c’era più nessun eco anticipatore da disegnare. Lei e Thorn erano stati fondamentali per la loro vittoria. Se Seconda non avesse spinto Thorn nella gabbia, lui non avrebbe potuto trascinare l’Altro con sé nel Rovescio. E se lei non lo avesse sposato, condividendo i suoi poteri, lui non sarebbe mai diventato un Attraversaspecchi, e non avrebbe potuto farlo. Al contempo, lei non sarebbe mai stata scelta come sua moglie, se non fosse diventata la migliore lettrice di Anima per compensare la sua goffaggine. Mosse le dita, che non risposero, rammentandole che non era più una lettrice. Era stata scelta anche perché la sua famiglia era molto prolifica, eppure lei non avrebbe mai potuto avere figli. Se non avesse liberato Eulalia dallo specchio sarebbe potuta diventare madre, ma a che prezzo? No, non si pentiva delle sue scelte. Nemmeno di una.
Eppure, si chiese se fossero davvero scelte quelle che aveva compiuto, e non passi esitanti e con una parvenza di libertà su un sentiero unico, contorto, ma già tracciato. C’erano così tante incognite, come le avrebbe definite Thorn nel suo gergo matematico. Se avesse fatto anche una sola cosa in modo diverso non sarebbero mai riusciti a vincere e riportare il mondo in ordine. Erano davvero decisioni che avevano preso loro, o c’era qualcos’altro dietro, un modo in cui magari potevano essere stati influenzati da echi anticipatori che li guidavano inconsciamente per il loro meglio?
Non lo sapeva, e non voleva saperlo. Era sterile. Non aveva più le dita. Ma aveva Thorn, proprio lì al suo fianco, il cui gomito sfiorò leggermente il suo braccio come per volerglielo rammentare. Avrebbe rinunciato a molto di più pur di averlo con sé.
- Cosa farai… cosa farete ora? – chiese Octavio, che ancora faceva fatica a rendersi conto che la sua amica era in realtà sposata con sir Henry, una figura che gli aveva sempre incusso rispetto e timore, un uomo come il quale avrebbe dovuto aspirare a diventare.
Ofelia guardò i membri della sua famiglia, che in lontananza bevevano tè e caffè sotto gli ombrelloni che giravano per effetto dell’animismo. Si erano ben abituati all’usanza di Babel di bere bevande calde quanto lo erano le giornate, ma stavano per ripartire alla volta di Anima. Avevano ritardato la partenza per attendere la dimissione di Ofelia dall’ospedale, non c’era più nulla che li trattenesse lì. Sua madre aveva provato a convincerla a tornare con loro su Anima, lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Thorn, che la sovrastava silenziosamente, come a far capire che lui era incluso nell’invito.
Ofelia però non apparteneva più al loro mondo. Non era sicura nemmeno di sapere a che mondo appartenesse; era certa solo del fatto che il suo posto fosse al fianco di Thorn.
Lui le aveva detto, notti addietro, in un prato sotto le stelle, che si sarebbe consegnato alla giustizia del Polo in attesa di un processo equo. Guardando Faruk, intento a giocare a palla con Vittoria, sua figlia, non sapeva nemmeno più cosa aspettarsi da quel piano.
- Abbiamo ancora alcune questioni da risolvere – ammise alla fine, inclinando il collo per lanciare un'occhiata a Thorn.
Il bagliore metallico dei suoi occhi le fece capire che anche lui la stava fissando, ma distolse velocemente lo sguardo. – Io non sono ancora stato processato. Credo che le cose saranno molto diverse da ora in poi, ci sono talmente tanti variabili che quest’enorme equazione potrebbe diventare più complessa di quella affrontata finora. Anche un po’ di più. Ma non si può lasciare la questione in sospeso.
- Torneremo al Polo – concluse Ofelia a beneficio di Octavio. Thorn aveva ripreso il naturale accento del nord, e l’occhiata confusa di Octavio le confermò che il suo amico faticava a cogliere ogni singola parola della veloce parlantina di Thorn.
- Oh. Well, fine della mia pausa… Dovete scusarmi, ma ho del lavoro da fare da qui alla fine dei miei giorni. Se torni… se tornate a New Babel avete il dovere di bussare alla mia porta.
Ofelia osservò Octavio allontanarsi, mano nella mano con Seconda. Era felice per loro, e si augurava che potessero ricominciare da zero in un mondo senza pregiudizi o scalate sociali. Confidava nel fatto che, grazie alla diplomazia di Octavio, New Babel potesse diventare una nuova eterogenea dimora per persone di tutti i tipi e provenienza, sotto un sistema burocratico che non faceva distinzioni tra poteri, non poteri e immigrazione.
- Mi seguite, allora.
Sotto gli alberi con loro, Archibald palesò la sua presenza. Sdraiato con il cilindro sul naso non passava certo inosservato, ma Ofelia aveva creduto che fosse addormentato. Thorn, di fianco a lei, non si irrigidì come suo solito di fronte a quell’ambasciatore poco ortodosso e sregolato. E non sentì nemmeno la morsa degli artigli intensificarsi e riempire l’aria come una scarica elettrica crepitante. Avevano avuto poco tempo per parlare, loro due, ma dovevano assolutamente farlo.
Salame si era accovacciato contro Archibald, come se fosse una cosa naturale; forse lo era, dopo tutto il tempo che avevano passato insieme, lui, Gaela e Renard, a cercare Terra d’Arco. Ofelia vagò con lo sguardo, cercando di non muovere troppo il turbante sulla testa rasata, finché trovò le due persone che cercava. In lontananza sembravano un’unica entità, dato che stavano avvinghiati come se ne andasse della loro vita. Ofelia era felice per Renard, che con la sua mole imponente era quasi largo due volte Gaela, ma sperava anche che i due non dessero spettacolo in pubblico. Era sollevata di essere abbastanza lontana da non sentire i loro versi e gli schiocchi dei baci.
Quanto ad Archibald… non pensava che sarebbe tornato al Polo. La vita lo stava abbandonando velocemente, non sarebbe stato in grado di conservarla ancora a lungo. Eppure aveva intenzione di tornare al Polo. Ofelia avrebbe giurato che sarebbe partito per girare quel mondo nuovo ed esplorarlo finché avesse potuto. Ma forse, proprio perché di tempo non gliene rimaneva molto, desiderava ritornare alla normalità di un tempo, per quanto possibile. A vecchi luoghi, abitudini, mansioni, alla vita che non lo aveva mai completamente appagato, ma che era la sua vita, l’unica che conoscesse.
- Smettetela – le intimò di punto in bianco.
- Di fare che?
- Di pensare. Ascoltate, invece.
Ofelia chiuse gli occhi, estremamente consapevole della presenza di Thorn accanto a sé. Gli si avvicinò un po’, lieta di poter percepire il suo corpo solido a un soffio da lei. Sentiva l’inusuale chiacchiericcio di Vittoria, persino il silenzio di Faruk. Udiva i mormorii della zia Roseline e di Berenilde, la sua apprensione, persino i battibecchi della sua famiglia, più in fondo.
Riaprì gli occhi e li osservò, salutandoli poi con la mano. I guanti animati davano l’illusione che le dita ci fossero ancora, ma fu la sciarpa, fedele e sollecita, a raddrizzarle gli occhiali sul naso. Aveva perso qualcosa, ma aveva guadagnato molto, molto di più, tra cui il rapporto ritrovato con la sua compagna di una vita.
Thorn si schiarì la gola. – Credevo che aveste più interesse a lasciarmi lì dov’ero.
Con quella frase stranamente ambigua da parte di uno che conferiva a semantica e sintassi un valore assoluto come quello matematico, tutti capirono a cosa si stesse riferendo Thorn.
Archibald si sollevò la tesa del cappello.
- Mi sono stati affibbiati gli epiteti meno lusinghieri che possiate immaginare, ex intendente, alcuni dei quali sono stati sicuramente usati anche da voi, quanto meno mentalmente. Ma sadico assassino non rientra tra questi. E poi, è più divertente avervi qui. Che gusto ci sarebbe altrimenti?
Thorn aggrottò le sopracciglia, spronando Archibald a spiegarsi meglio.
Quest’ultimo si aprì in un sorriso accattivante, come se non avesse una preoccupazione al mondo. – Se vi avessi lasciato dov’eravate, temo che la vostra mogliettina sarebbe stata difficile da persuadere a fare alcunché. Probabilmente si sarebbe messa in testa di salvarvi. Con voi al fianco, sano e salvo, invece, si metterà il cuore in pace e sarà molto più facile sedurla. Se siete presente ho una chance, mettiamola così.
Ofelia non si prese nemmeno la briga di rispondere a quelle insinuazioni, ma si sorprese quando non sentì nessuno scatto di furia repressa provenire da Thorn. I suoi artigli erano… anzi, non erano… L’altra cosa che la colpì, invece, fu rendersi conto di quanto Archibald avesse ragione. Non voleva neanche pensare all’eventualità in cui non fossero riusciti a tirare Thorn fuori dal Rovescio, ma era sicura che in quel caso non si sarebbe data pace finché non lo avesse ritrovato.
- Per avere una chance con lei dovreste essere me – lo zittì Thorn prima di dirigersi verso Vittoria, che aveva incastrato la palla nei rami più alti di una palma. Grazie ad una nuova armatura che aveva perfezionato con l’aiuto del prozio, camminava dritto senza nemmeno produrre tutto quel clangore metallico che aveva accompagnato ogni suo passo in precedenza.
Sia Archibald che Ofelia rimasero senza parole. Thorn era… diverso. Non solo aveva tentato di essere umoristico per tirarle su il morale, nell’erba alta, troppe notti prima, addirittura ribatteva a commenti canzonatori tappando la bocca all’interlocutore. Ofelia non sapeva se fosse un cambiamento in atto, o se Thorn, acquistata fiducia verso di lei e il loro rapporto, si stesse finalmente aprendo rivelando tutto se stesso, ma era grata di cuore di poterlo scoprire. Con lui accanto, vivo. Lo osservò mentre raggiungeva senza fatica la palla, porgendola a Vittoria che chiacchierava senza sosta in una lingua inventata, con Faruk, goffo quasi quanto lei, al seguito. Thorn lanciò loro un’occhiata guardinga mentre si allontanavano, come per accertarsi che stessero bene. Ofelia si sentì stringere il ventre in una morsa. Non aveva mai voluto figli, forse non li avrebbe voluti se, in altre circostanze, avesse potuto sceglierlo. Ma in cuor suo sapeva che alla fine sarebbe voluta diventare madre, un giorno, com’era giusto che fosse. Le parole che aveva rivolto a Thorn tanto, troppo tempo prima, parole dure, erano solo un tentativo verbale di andare controcorrente, di affrancarsi dalle scelte che le venivano imposte dalla madre, dal ruolo di moglie e dalla vita stessa.
Se ne pentiva amaramente. Avrebbe davvero desiderato vedere Thorn nei panni di padre. Gli avrebbe fatto bene, lo avrebbe aiutato ad accettarsi di più. Perché, non aveva dubbi al riguardo, Thorn sarebbe stato un padre ineccepibile.
- Sarà uno spasso tornare tutti insieme al Polo. Già mi immagino l’ex intendente che perde la pazienza – sogghignò Archibald, nascondendo di nuovo il naso sotto alla tesa del cappello.
Ofelia non si fece ingannare. La sua situazione era peggiore di quanto volessero entrambi ammettere, e i suoi occhi erano tristi. Finalmente capiva per quale motivo i sorrisi di Archiblad non contagiavano mai il suo volto.
- Non torneremo insieme. Devo… dobbiamo fare una deviazione, prima. Ci vedremo direttamente là.
Si allontanò senza salutare o aggiungere altro. Il viaggio che si apprestava a compiere era lungo, non sapeva per quanto tempo lei e Thorn sarebbero stati lontani. Sperava abbastanza da poter vedere Archibald un’ultima volta.
Prima di andare voleva salutare un’altra persona. Era in attesa davanti al cancello, reggendosi alle sbarre come un’anziana signora, con le palpebre più appesantite che mai. Un orologio invisibile si era rimesso in moto insieme alla sua memoria.
- Non hai un gran bell’aspetto – disse Ofelia.
- Neanche tu sei molto presentabile.
- Come devo chiamarti, Elizabeth o Eulalia?
- Elizabeth. Da un pezzo non sono più Eulalia. Ma la cosa più importante non è il mio nome, sono loro.
Si voltarono insieme verso i giardini in cui gli spiriti di famiglia si trastullavano goffi.
Elizabeth rivelò di aver nascosto i libri dove nessuno potesse trovarli, arrecando danni. Gli spiriti di famiglia erano comuni bambini la cui vita era legata al deterioramento di carta e inchiostro, così come gli umani erano vivi grazie a carne e sangue. Cambiava la forma, ma non la sostanza. Avrebbero avuto una vita normale, una vita vera, senza poteri o vuoti di memoria. Sarebbero stati gli artefici del loro destino sotto ogni punto di vista. E forse nessuno si sarebbe reso conto che gli spiriti di famiglia, i grandi padri e le grandi madri che avevano dato vita a praticamente chiunque, nelle varie arche, erano di nuovo degli infanti da crescere ed educare. Faruk, che giocava con Vittoria, era paradossalmente suo padre, eppure non lo era. C’era di che far girare la testa.
L’Altro non si manifestava più, ulteriore prova che il Dritto e il Rovescio si fossero definitivamente divisi e sigillati. Non c’era più nessun mostro, nessuna matita rossa da temere.
Parlarono ancora un poco, mentre Elizabeth, finalmente libera dai canoni imposti dalle rigide regole babeliane, le parlava sul serio, da pari a pari. Come un’amica. Le confessò del suo ritorno, della mescolanza dei loro ricordi, che Ofelia poteva ben capire. Per troppo tempo aveva condiviso la memoria di Elizabeth, di Eulalia, che non le apparteneva. Ora era di nuovo padrona di sé, della sua mente e del suo futuro, forse per la prima volta.
Elizabeth alla fine si allontanò zoppicando verso gli spiriti di famiglia. Non si dissero addio, non si salutarono nemmeno. In cuor suo, però, Ofelia sapeva che quella era l’ultima volta che la vedeva.
In lontananza notò Gaela e Renard, ancora avvinghiati l’uno all’altra, che si rotolavano per terra. Ofelia arrossì rendendosi conto che lei aveva fatto più o meno la stessa con Thorn, ma si giustificò schermandosi dietro la scusa dell’erba alta. E della notte. Non si erano abbandonati l’uno all’altra, freneticamente, in pieno giorno. Però poteva capire la disperazione celata in quell’atto d’amore, quel tentativo di dar sfogo a tutto ciò che di opprimente il corpo conteneva.
Thorn incedeva verso di lei, scrutandola con i suoi occhi metallici che mandavano lampi sotto al sole. Il caldo di New Babel non gli si addiceva, proprio come quello di Babel. Con un cenno del capo la invitò a seguirlo.
- Mia zia e la tua partiranno da qui questa sera, su un’aeronave diretta al Polo. Anche Archibald e il tuo vecchio consigliere con la sua… - disse aggrottando le sopracciglia, alla ricerca del termine giusto, - …con la meccanica li seguiranno. La tua famiglia prenderà invece il dirigibile che tornerà su Anima. Gli spiriti di famiglia resteranno qui con Elizabeth, per tutto il tempo in cui lei potrà seguirli. Ha intenzione di riformare l’orfanotrofio.
Ofelia annuì, senza aggiungere altro. Elizabeth glielo aveva detto, ma sapeva che Thorn stava solo cercando di confortarla, a modo suo. A parte quella con Elizabeth, le altre non erano separazioni definitive. Niente le avrebbe impedito di rivedere nuovamente la sua famiglia, però sapeva che non ne avrebbe sentito il bisogno come in passato. Il suo posto era al fianco di Thorn, non le serviva altro da quando aveva accettato quella posizione con tutta se stessa.
- Sicura di voler fare questa deviazione? – la incalzò lui, confondendo il suo deciso silenzio con la titubanza.
- Sì.
Si diressero senza bagagli o borse verso un piccolo molo che dava sull’oceano. Non si poteva dire che gli abitanti di New Babel fossero pigri: nel tempo che lei aveva trascorso in ospedale avevano costruito moli e barche dall’aria fiduciosamente solida, anche se non erano imponenti e il numero di passeggeri che potevano ospitare era limitato. Loro però non cercavano la comodità, e quelle imbarcazioni erano più che sufficienti. Salirono a bordo insieme ad altre persone, passeggeri alla ricerca di qualcosa di meglio o semplici esploratori.
Quando salparono si guardarono entrambi alle spalle, sapendo che al loro ritorno le cose sarebbero state diverse.
 
- Miss Eula… Ofelia!
Ofelia sorrise quando il proprietario di quella voce fece cadere un vaso di rosmarino sul piede dell’uomo che aveva accanto. Quest’ultimo imprecò, costringendo il primo a profondersi in scuse e cercare di salvare pianta e piede come possibile.
Ofelia, incurante di tutto e tutti, corse verso di loro e abbracciò entrambi, sentendo gli occhi inumidirsi.
- Miss… - mormorò Blasius, altrettanto commosso. I capelli da istrice le solleticavano la guancia, mentre sotto all’altro braccio sentiva il corpo rigido di Wolf, decisamente non avvezzo alle effusioni.
Alle sue spalle, Thorn si schiarì la voce, dardeggiando sul quadretto uno sguardo infastidito.
- Sir Henry… - salutò Blasius con deferenza, staccandosi subito da Ofelia e chinando il capo.
Wolf non si fece intimidire né dall’altezza né dall’alterigia di Thorn. – Anche se sospetto che questo non sia il vostro vero nome.
Thorn non mosse un muscolo. – Difatti – disse, mentre l’accento del Polo non trattenuto faceva sgranare gli occhi a Blasius, inducendolo finalmente a capire.
Nonostante tutto, Thorn non si presentò, e fu Ofelia, al suo fianco, a toglierli dall’impaccio. – Lui è Thorn, intendente del Polo. Mio marito.
Questa volta gli occhi neri e umidi di Blasius si spalancarono tanto da far credere ai presenti che sarebbero usciti fuori dalle orbite. Wolf, nonostante la severità che ben si accostava a quella di Thorn, si mostrò altrettanto stupefatto.
- Ex intendente – corresse Thorn, come se fosse la questione fondamentale.
Blasius aprì e chiuse la bocca più volte, incerto su cosa e come chiederlo. Alla fine si voltò verso Wolf, sospettoso, ma sempre in modo gentile: - Tu non hai cambiato nome, vero?
Il professore alzò gli occhi al cielo, cosa cui Ofelia non fece nemmeno caso. L’alchimia che c’era tra quei due, il linguaggio dei loro corpi, il fatto stesso che Blasius gli avesse dato del tu… non c’erano più barriere sociali o di circostanza a separarli. Niente pregiudizi. Erano Blasius e Wolf, un ex commesso e un ex professore, che cominciavano una nuova vita in una terra più che mai scevra di tabù e proibizioni, dove la libertà individuale regnava sovrana.
Ofelia sorrise. – Credo di avere diverse cose da raccontarvi.
Wolf annuì con un secco cenno della testa. Blasius invece accennò alla porta della casa di fronte a cui si trovavano. – Accomodatevi, vi preparo del tè.
Si sedettero tutti attorno ad un piccolo tavolino rotondo, a sorseggiare tè, dopo che Wolf ebbe cambiato vaso e terra alla pianta di rosmarino e Blasius fatto gli onori di casa.
- Suppongo che sia lui, allora, l’uomo nella vostra vita, miss.
Ofelia sorrise ripensando a quella strana uscita avvenuta mesi addietro, in cui si era preoccupata di aver in qualche modo illuso Blasius. C’è un uomo nella mia vita, gli aveva scritto sul bordo di una carta da gioco, circondati da una cacofonia che li rendeva sordi, in un luogo di dubbia moralità. Anche nella mia, le aveva risposto Blasius, a disagio.
- Ora entrambi li abbiamo al fianco.
Thorn sollevò un sopracciglio, fuori luogo in quell’ambiente intimo e familiare, ma non espresse nessuna opinione e soprattutto non la lasciò trapelare. Wolf, stoico, finì di sorbire il suo tè e non diede segno di imbarazzo di fronte a quella rivelazione. Ormai la loro relazione era palese, ma sapevano che Ofelia non li avrebbe mai giudicati.
- Diteci cosa vi è successo da quando siete partita… partiti – si corresse Blasius, suo malgrado intimorito dalla presenza statuaria di Thorn.
- Credo che dobbiate prima raccontarlo voi a me. La mia storia è leggermente più lunga.
Blasius assentì, e così Wolf, sebbene il suo viso mostrasse l’entusiasmo che avrebbe pervaso un cadavere nel giorno del funerale.
Blasius, soprattutto, raccontò come si erano trasferiti lì. Wolf ogni tanto interveniva con qualche commento o precisazione, ma fu soprattutto l’olfattivo a narrare la storia.
Gli abitanti di quella terra, incapaci di parlare, si erano rivelati liberi, completamente privi di possedimenti. Vivevano in modo semplice, studiando con curiosità i nuovi arrivati, imparando da loro. Qualcuno aveva persino cominciato, a fatica, a scandire qualche parola. Alla fine si erano divisi le costruzioni esistenti, una volta capito che si trovavano lì da troppo tempo perché qualcuno potesse reclamarne il possesso. I Bad Boys avevano depredato le cantine di qualsiasi tipo di alcolico, deridendoli per le loro intenzioni e dandosi alla macchia. Wolf e Blasius avevano preso il comando delle operazioni di ristrutturazione e smistamento, assegnando compiti ai rimasti: chi si occupava delle riparazioni, chi delle coltivazioni, chi delle esplorazioni. Ognuno aveva abbandonato di buon grado i panni che vestiva in quello che ormai era il loro passato, la loro vita precedente, e persone di tutti gli accenti e con i poteri più disparati si erano alleati pacificamente per costruire un nuovo futuro. Inutile a dirsi, dopo qualche giorno anche i Bad Boys erano tornati e, una volta capito che nessuno avrebbe imposto loro divieti pesanti come a Babel e tutti se ne infischiavano dell’index, si erano dimostrati utili alla ricostruzione. Non avevano più nulla contro cui ribellarsi, se non persone che volevano, come loro, essere padroni del loro avvenire.
- Questo è quanto – sancì Wolf, lapidario.
Blasius sorrise timidamente. – Noi ci siamo stabiliti qui. Sapete, nessuno ha commentato quando ci hanno visto prendere possesso di una dimora insieme.
- Cosa vuoi che gliene interessi! – scattò Wolf, imbarazzato. – Poche case più a destra ci sono due donne che fanno lo stesso.
- Ah, well, buon per loro – mormorò Blasius.
Thorn non aveva ancora proferito parola. Del resto, non conosceva i padroni di casa bene quanto Ofelia.
- E voi, miss? È il vostro turno.
Ofelia prese fiato e li avvisò che sarebbe stata una storia lunga.
Partì dal principio, dalla storia di un’orfana di guerra che voleva salvare il mondo. Di qualcuno che invece, mentre prendeva coscienza di sé, voleva controllarlo. Parlò di una creazione, della creazione di spiriti di famiglia legati a libri incorruttibili. E del loro assoggettamento alla volontà di qualcun altro. Raccontò di una ragazza, sospesa tra infanzia e adolescenza, con i capelli rossi e le lentiggini, gli occhi perfettamente funzionanti, che prendeva una decisione per il solo gusto di andare contro le regole impostele. Quella ragazza, dopo il suo primo attraversamento di specchi, non sarebbe più stata la stessa. Narrò di come fosse arrivata al Polo, del matrimonio combinato, dell’intrigo di corte che c’era dietro, dell’ambizione del fidanzato che non capiva, che le taceva l’essenziale, ma che l’amava profondamente, sinceramente, e aveva fatto ammenda per tutto quello che non le aveva detto, per il ginepraio in cui l’aveva cacciata.
Si concentrò talmente tanto su quel punto che Thorn, imbarazzato, si agitò sulla sedia, mentre Blasius e Wolf lo guardavano con occhi nuovi, consapevoli.
Ofelia non lo perse di vista un istante quando disse ai presenti di come avesse costretto Thorn a celebrare il matrimonio in prigione, per salvarlo, per fargli capire che era ciò che voleva, sebbene lei per prima non se ne fosse resa conto subito. Rivelò l’arrivo di Dio, di quello che credevano Dio, della fuga del marito, dei due anni passati in un limbo, incapace di agire e fare alcunché, autocommiserandosi e ingrassando. Thorn fu particolarmente interessato a quella parte della storia, dato che non l’aveva rivelata mai nemmeno a lui. I suoi occhi da rapace la scrutavano nell’animo, rendendola incerta, timida quanto un’innamorata alle prime armi.
E poi entrarono in gioco loro. L’arrivo di vecchi amici, che l’avevano strappata alla sua vita monotona, l’approdo a Babel, la conoscenza di Blasius e di Wolf, il percorso per diventare virtuosa, tutto solo per ritrovare l’uomo che amava senza che se ne fosse accorta. Le rivelazioni, il luogo di mezzo, la scoperta della vera identità di Dio, lo spazzino del Memoriale, l’orfanotrofio militare.
Thorn accostò una gamba alla sua, durante il racconto, per darle forza.
Ofelia si sentì prosciugata quando concluse il racconto e svelò la verità sul corno, sull’Altro, sulla contropartita, sul mondo vecchio e nuovo, sul Dritto e sul Rovescio. Fuori era buio, come se la storia avesse risucchiato persino la luce del giorno.
Blasius le guardava le mani con apprensione, e Ofelia si tolse i guanti, aiutata dalla sciarpa e da Thorn, mostrando le sue mani senza dita. Wolf sembrò quasi intristirsi, oppure irritarsi, era difficile dirlo quando il suo volto rimaneva così teso e inespressivo. Blasius rischiò di piangere.
Non aggiunsero altro se non che Blasius aveva perso parte della sua sfortuna. La caduta del vaso di rosmarino al loro arrivo era dettato dalla sorpresa, non dalla iella.
Andarono in piazza a cenare, perché ogni sera le signore del villaggio cucinavano per tutti grazie ai prodotti raccolti da ognuno, in quella che sembrava una lunga catena di montaggio culinaria. Gli abitanti del Rovescio erano i più maldestri, e giocavano sempre con il cibo, cercando di studiarlo, prima di mangiarlo.
Blasius, Wolf, Ofelia e Thorn mangiarono un silenzio, i primi due troppo sconvolti dalle rivelazioni della giornata per poter fare domande, gli altri due troppo stanchi per aver ancora voglia di conversare.
Ad un certo punto Thorn attirò l’attenzione di Ofelia, indicando con un cenno del capo la distante collina su cui avevano passato un’intera notte, prima di ripartire.
Ofelia non arrossì nemmeno, sorrise tristemente e si avvicinò ancora di più, in modo discreto, al marito, lieta della sua presenza solida al suo fianco. Thorn incombeva su di lei, e non la perdeva mai di vista, preoccupato che potesse avere un crollo, prima o poi. La sciarpa gli batté dei piccoli colpi sulla schiena, come a volerlo rassicurare che andava tutto bene, e lui le sistemò il turbante che rischiava di caderle dalla testa.
Dormirono a casa di Blasius e Wolf, augurandosi la buonanotte in modo quasi impacciato. Del resto, cosa potevano dire due uomini a quella donna che era piombata nella loro vita, e in quella di tutti, mettendola a soqquadro ma, soprattutto, salvandoli tutti?
Ofelia non fece in tempo a chiudere la porta che Thorn le tolse il turbante e le accarezzò la nuca, baciandola dolcemente. Era da così tanto tempo che non stavano vicini in quel modo che si sentì mancare la terra sotto i piedi. Le braccia di Thorn furono pronte a sorreggerla, e a spogliarla, restituendola a se stessa per una notte. Ofelia fu grata al suo animismo, più preciso di quanto lo fossero mai state le sue vere dita, che le permise di spogliare a sua volta Thorn, anche se con difficoltà. Si ritrovò a letto senza nemmeno accorgersene, mentre la gamba di Thorn, che torreggiava su di lei, scricchiolava pacatamente. Lui accarezzò la sciarpa, che sembrava non voler lasciare il collo di Ofelia, finché non si allentò, permettendogli di baciarle le clavicole e di immergere il viso nel suo collo. Come ultima cosa le tolse i guanti, accarezzandole le mani con tenerezza. Ofelia si permise di piangere mentre Thorn l’amava lentamente, come se fossero i possessori del tempo, come se quella fosse l’unica cosa che contava. Pianse per tutto quello che aveva perso, per quelle dita che non potevano più affondare nelle spalle di Thorn, che non potevano stringerlo a sé quanto lei avrebbe voluto; pianse per il suo ventre vuoto, per la sua sterilità, per quella mancanza che la presenza di Thorn alleviava, ma non avrebbe mai potuto dissipare del tutto. Ma soprattutto, pianse di gratitudine per la sua presenza lì, perché era tangibile, sudato e caldo contro la sua pelle, solido. Inebriante. Lo baciò con foga, desiderando perdersi in lui e non trovare più la strada per tornare indietro.
Baciò ogni parte di lui che riuscì a raggiungere, collo, spalle, viso, petto, e lui baciò lei, soffocandone i gemiti, quando la spinse oltre il limite. Entrambi si rendevano conto che Blasius e Wolf dormivano proprio nella stanza accanto, e Thorn si incaricò di non far loro sapere cosa stessero facendo. Si augurava solo che le molle del letto scricchiolassero in quel modo infernale solo per loro, e che in realtà al di là del muro il suono non si sentisse.
Quando Thorn crollò su di lei Ofelia lo abbracciò strettamente, impedendogli di allontanarsi.
La mattina li sorprese in quella stessa posizione, con lui sdraiato sopra di lei, profondamente addormentato. Ofelia lo guardò con curiosità per quello che parve un tempo infinito. Da che aveva memoria, non aveva mai visto Thorn così rilassato. Non lo aveva mai visto dormire.
Non lo aveva mai visto in pace. Non lottava più contro se stesso.
Quando anche lui si riscosse, incontrando gli occhi affettuosi e leggermente gonfi di Ofelia, si affrettò a rotolare via, preoccupato di averle fatto male con il suo peso. Non si allontanò troppo, in ogni caso, e rimasero a lungo avvinghiati in silenzio nella luce soffusa del mattino.
- Gli artigli… - mormorò Ofelia, rompendo il silenzio. Se avesse potuto avrebbe infilato le dita tra i morbidi e sottili capelli argentei di Thorn.
Lui prese un respiro più profondo degli altri. – È finita – sussurrò.
Ofelia seppe allora che aveva perdonato se stesso, che si era accettato, che sarebbe stato un uomo nuovo, in grado di andare avanti a testa alta. In grado di guardarsi allo specchio. Non si fece spiegare cosa fosse cambiato. Nonostante tra loro non ci fossero segreti, nonostante fossero ormai un’unica entità, una coppia, sapeva che nel cuore di ognuno esisteva un piccolo confine invalicabile anche dalle persone che si amavano di più al mondo. Lo strinse a sé, però, infondendo in quella stretta tutto l’amore che provava.
Si alzarono in silenzio e si vestirono e lavarono altrettanto in silenzio. Wolf e Blasius non sembravano essersi ancora svegliati, e Ofelia e Thorn ne approfittarono per uscire a fare due passi. Non che Thorn fosse un amante delle passeggiate, ma aveva tanto da esaminare in quella piccola arca… o meglio, in quella terra vecchia e nuova abitata da personaggi di tutte le origini. Arrivarono fino in cima alla collina su cui avevano trascorso un’intera notte, più silenziosamente del solito, dato lo scricchiolio quasi impercettibile della nuova armatura di Thorn. Ofelia cercò tracce del loro passaggio lì, del fatto che per una notte avessero vissuto sotto quelle stelle, ma sole, pioggia e impronte di altri passi nell’erba alta avevano cancellato ogni loro ricordo, rendendolo vivo solo nel loro animo.
Fu Thorn a riscuoterla, posandole una mano sulla spalla in modo così pacato da rendere quel tocco più adeguato di un abbraccio. Poi le prese la mano, timidamente, e la condusse di nuovo a casa, mentre le dita vuote dei suoi guanti si attorcigliavano attorno alla sua stretta.
I lavori di restauro stavano procedendo bene e Thorn si fermò a dare alcuni consigli, che somigliavano più a degli ordini, ad uno degli abitanti che di prima mattina si stava già portando avanti con i lavori. Questi non diede segni di essere scocciato dalle parole di Thorn; non si inorgoglì, accettò umilmente le dritte e promise di farlo sapere anche agli altri che lavoravano con lui.
Se ne andarono senza aggiungere altro, e la sciarpa risistemò gli occhiali sul naso di Ofelia e il turbante che pendeva pericolosamente verso il terreno. Ofelia l’accarezzò con gratitudine e varcarono nuovamente la soglia di casa di Blasius e Wolf. Questi smisero immediatamente di parlare, o bisticciare, dato il tono pacatamente concitato delle loro voci, quando misero piede in cucina. Blasius le sorrise con dolcezza mentre Wolf la osservava con lo sguardo austero di sempre. Li invitarono a mangiare con la cordialità che li contraddistingueva, e fu allora che Blasius si mise a parlare, fulminato da Wolf.
- Miss Ofelia… ci tenevamo a ringraziarvi per tutto quello che avete fatto non solo per questo mondo, e quindi per le nostre vite, ma anche per noi a livello individuale. Siete stata… una messaggera per noi, e non avete mai espresso giudizi e condannato. Siete… - commentò con voce roca abbassando lo sguardo, - la migliore amica che potessi desiderare.
Wolf alzò gli occhi al cielo, disturbato da tutta quell’emotività, ma Ofelia vide chiaramente il suo braccio scattare, sotto al tavolo, per stringere la mano di Blasius. Lei sorrise a sua volta, rendendosi conto di quanto quel commesso bistrattato le somigliasse, in un certo senso, mentre Wolf non era altro che un burbero professore dal cuore tenero, come l’uomo che le sedeva al fianco, rigido.
- Sono io che devo ringraziare voi, entrambi, per l’aiuto. Non vi dimenticherò mai, e mi aspetto che riusciate a guidare la città per portarla a nuovi fasti.
Blasius tirò su con il lungo naso, annuendo con gli occhi lucidi prima di soffiarselo.
Non aggiunsero altro, e poco tempo dopo si salutarono sulla porta di casa.
Wolf fu il primo a rompere il silenzio, togliendoli dall’impiccio di capire come iniziare a dirsi addio.
- Vi ho fatto preparare questi. Tra i superstiti di Babel c’è un fabbro molto dotato. Studiando le guerre del vecchio mondo ho appreso anche interessanti particolari relativi alla medicina. Non era insolito perdere qualche… parte del corpo durante le battaglie, e in certi casi questa veniva sostituita con delle protesi, delle parti meccaniche. Un po’ come un sostegno, diciamo. Con il vostro animismo sono certo che ne farete buon uso.
Ofelia allungò le mani e le dita dei guanti si tesero per dare una forma a coppa a quell’intrico di palmi e stoffa. La sciarpa accorse in suo aiuto, protendendo una coda fin sotto ai suoi polsi, come una rete protettiva anticaduta. Wolf depositò sui suoi guanti dieci piccoli oggetti: dieci dita. Ofelia notò subito la straordinaria fattezza di quelle parti metalliche, identiche in coppia e, lo sapeva già, delle dimensioni giuste per entrare nei suoi guanti alla perfezione. Strinse le sue nuove dita al petto come poté, tuffandosi poi tra i due uomini, abbracciandoli come riuscì. I due non esitarono che un istante prima di circondarla in una stretta vigorosa, maschile, ma piena di calore e buoni sentimenti.
Ofelia si impose di non piangere quando indietreggiò, con le mani di Thorn sulle spalle, per una volta non possessive ma sostenitrici. Lui diede la mano ad entrambi, stupendo Ofelia. Da che ricordasse, non lo aveva mai visto toccare nessuno, se non lei e forse sua zia, quando quest’ultima lo abbracciava o gli si avvicinava a tradimento.
Quando si allontanarono le parve di camminare in un sogno di cui doveva ancora capire l’origine. Poi però vide Thorn contrarre le dita e portare una mano al taschino dove un tempo teneva il disinfettante con cui si frizionava le mani, e contrarle ancora di più, come uno spasmo, quando si rese conto di non averlo più. Ripiegò allora sul suo orologio da taschino, che si aprì e chiuse spontaneamente.
Tac-tac.
Ofelia sorrise. Quel suono, il cigolio della gamba di Thorn, i suoi sforzi, erano tutto ciò di cui aveva bisogno. Eppure strinse con più forza, grazie alla sciarpa, le dita metalliche che si era appoggiata al cuore, sapendo che per nulla al mondo avrebbe scordato coloro senza i quali lei e Thorn non avrebbero potuto salvare né il mondo né loro stessi.
 
La traversata di ritorno in mare fu più lunga che all’andata, disturbata da frequenti tempeste che fecero più volte rigettare i pasti fuori bordo ad Ofelia. Si ricordò del suo primo viaggio con Thorn, a bordo del dirigibile che li aveva condotti da Anima al Polo, un viaggio poco piacevole, in cui aveva addirittura tentato di offrire del tè al fidanzato, dietro insistenze da parte della zia, ottenendo in cambio solo parole amare. Thorn l’aveva sempre guardata con diffidenza quando aveva il colorito verdognolo tipico di chi soffre di cinetosi. In quella traversata, invece, era al suo fianco ogni volta che stava male, senza nemmeno tradire il disgusto.
Fu Thorn a collaudarle i nuovi guanti-mani. Ofelia e la sua sciarpa, per quanto fosse una valida aiutante e sostenitrice, avrebbero avuto difficoltà a sistemare con precisione le dita di metallo dentro ai buchi dei guanti; compito che invece si rivelò facilissimo per Thorn. Seduti sul letto nella loro cabina, stretti l’uno all’altra e chini sui guanti, crearono le nuove mani di Ofelia. Thorn non perse la pazienza con lei nemmeno una volta, né quando gli oscurava la luce, rendendogli difficile vedere cosa stesse facendo, né quando rovesciava la colla a caldo imbrattando coperte, vestiti e persino i loro capelli di bollente appiccicume. Saldare le dita si rivelò più agevole del previsto per Thorn, le cui mani, ora Ofelia ne era convinta, potevano fare tutto, e i guanti animati si dimostrarono particolarmente collaborativi. Era necessario incollarle, per evitare che le dita di metallo scivolassero fuori ogni volta che lei si toglieva i guanti. Fu Thorn a rimetterglieli sui palmi con cura, chiudendoli con precisione e osservando l’effetto ottenuto. Se i guanti di prima erano utili e le dita vuote davano la parvenza di normalità grazie all’animismo, quelli nuovi erano a tutti gli effetti delle mani sostitutive. Ofelia non era infastidita dal metallo freddo contro la pelle, lì dove un tempo sorgevano le sue vere dita; e nel giro di pochi minuti si scaldarono, adottando la temperatura del suo corpo. L’animismo le pervase, e Ofelia mosse guanti e metallo come se fossero le sue vere dita, le sue mani di un tempo, assoggettate alla sua volontà non da giunture e nervi e impulsi cerebrali, ma dalla determinazione e dal suo controllo degli oggetti. Guardò Thorn sorridendo e, prima che lui potesse chiederle come le sentiva, Ofelia si aggrappò ai suoi vestiti con urgenza, ridendo quando vide i suoi guanti stringere il bavero della giacca di Thorn come un tempo avevano fatto le sue vere mani. Lo spogliò lentamente, gli accarezzò il viso e il petto, gli salì addosso baciandolo con impazienza e… si fermò quando infilò le dita tra i capelli di Thorn. Pieni di colla.
Glieli tagliò come poté prima di riprendere da dove si erano interrotti, e il risultato non fu catastrofico come Ofelia si era immaginata. Non essendo davvero una parte di sé, non essendo quindi affette dalla sua goffaggine, le sue dita si mostrarono incredibilmente capaci e controllate. Furono brave sia a tagliare i capelli di Thorn che a spogliarlo, e Ofelia sapeva che in cuor suo avrebbe rotto molti meno oggetti che in passato. Qualche ora dopo urtò il comodino scendendo dal letto, facendo crollare la lampada che vi stava sopra. Thorn fu lesto a prenderla prima che si rompesse, e lanciò ad Ofelia un’occhiata impenetrabile da dietro i ciuffi di capelli che lei gli aveva spettinato, le sopracciglia aggrottate.
Forse, in fin dei conti, non avrebbe rotto molti meno oggetti, ma solo qualcuno. Un tredici percento, calcolò Thorn, sulla sua stessa lunghezza d’onda, senza però dirglielo.
Guardando il profilo di New Babel che si stagliava all’orizzonte, un pezzo di terra sottile quanto un foglio di carta, Ofelia pensò a quante cose fossero cambiate, e a quanto fosse grata di quel cambiamento. Aveva sempre sostenuto di non volersi sposare, più per ripicca verso sua madre e la vita preimpostata di Anima che per volontà di restare sola. Era contenta che almeno su quello sua madre l’avesse avuta vinta. Era quasi avvilente constatare quanto si sentisse vuota senza Thorn al fianco.
Sbarcarono solo per salire sul dirigibile che li avrebbe riportati al Polo. Avevano già salutato quella terra. Da lontano, prima di salire sul ponte d’attracco, Ofelia vide Elizabeth. I capelli fulvi, i suoi capelli, erano ormai interamente bianchi, e la sua andatura leggermente claudicante. Persino la postura era più incurvata. Nonostante tutto, a un passo dalla morte, con la vecchiaia inclemente che riprendeva possesso del suo corpo, Elizabeth sorrideva circondata da venti bambini bisognosi di attenzione. Ofelia scorse la lunga treccia rossa di Artemide e i capelli candidi di Faruk prima di involarsi.
Sperava davvero che, alla morte di Elizabeth, qualcuno fosse disposto a prendersi cura di loro e del loro potenziale, un potenziale nuovo e privo di poteri.
 
 
Il loro ritorno al Polo fu meno eclatante di quanto si aspettasse. Il giornale ne parlò poco, giusto un trafiletto. Era comprensibile, dal momento che tutti erano invece impegnati a fare congetture su cosa fosse accaduto, sul perché fuori dalla muraglia non ci fossero più nuvole ma acqua, su dove fosse finito il sire Faruk e come mai la sua favorita fosse tornata con la figlia, che a quanto pareva sapeva parlare, ma senza il padre di Vittoria. Un colpo di stato forse?
Ci pensò Thorn a dissipare i dubbi in seno al senato. Indisse un’assemblea straordinaria che venne trasmessa via radio in tutta Anima. Ofelia, la zia Roseline, Berenilde, Renard e Gaela, con un anello al dito che la metteva a disagio ma non si azzardava a togliere, ascoltarono dal salotto in un silenzio teso, augurandosi che la loro sorte fosse più propizia di quanto non fosse stata in passato.
Thorn spiegò a grandi linee la situazione, omettendo fatti fondamentali che nessuno avrebbe compreso, fornendo spiegazioni circa la sua gamba e la sua attività in quegli ultimi anni. Il dibattito tra lui e la crème della burocrazia del Polo fu trasmesso per intero, dal vivo, mentre gli occupanti del palazzo di Berenilde rimanevano con il fiato sospeso.
Alcuni dubitavano delle parole di Thorn, altri, solidali del barone Melchior che ancora volevano giustizia per la sua morte (e per i favori che non potevano più ottenere) insistevano per riprendere quel processo che era stato interrotto anni addietro e imprigionare Thorn; fortunatamente sembrarono prevalere i consensi alla sua riabilitazione secondo le ultime volontà di Faruk che, di fronte ad una folla non indifferente, dopo che Ofelia gli aveva rivolto quelle strane parole che solo il sire aveva compreso, davanti alla cella di Thorn lo aveva affrancato dalla sua situazione di bastardo e lo aveva eletto al rango nobiliare, dandogli il titolo e il credito che gli spettavano.
La differenza la fece Archibald che intervenne anche se non interpellato. Non era più ambasciatore, era letteralmente estromesso dalla sua famiglia, ma sapeva ancora quali segretucci sua sorella Pazientina non voleva assolutamente che venissero rivelati. Fu grazie a lui che Thorn venne giudicato innocente e riabilitato. Gli venne addirittura ridato il suo ruolo da intendente, anche se Ofelia sospettava che fosse più per il demerito dell’intendente in carica, troppo occupato a fare cruciverba per svolgere il proprio lavoro, che per riconosciuta competenza di Thorn.
Prima di togliere la seduta, Thorn ne indisse una seconda per il giorno seguente, dato che il loro sistema politico doveva essere rivisto a causa della scomparsa del sire Faruk, che non si prese la briga di spiegare. E come ultima cosa, dichiarò nullo senza mezzi termini il suo matrimonio con Ofelia. La comunicazione radiofonica si interruppe quando scoppiò il caos nel luogo in cui veniva trasmesso il processo, specchio di ciò che accadde nel salotto di Berenilde: questa scattò in piedi spaventando Vittoria, la zia Roseline cominciò ad imprecare, insultando la carta di qualità scadente e le presine inaffidabili con cui si finiva sempre per rimanere scottati, Renard fissò Ofelia con un misto di stupore e inquietudine e Gaela scosse le spalle, salutando tutti e andandosene in camera propria. Ofelia aveva appreso con perplessità come il palazzo di Berenilde fosse diventato il quartier generale di Archibald, Renard e Gaela, dato che il loro lavoro era in parte finalizzato anche al ritrovamento di Thorn. O così le avevano detto.
Dal canto suo, Ofelia sorrise di fronte a quella notizia sbandierata ai quattro venti. Un sorriso piccolo che divenne ben presto tanto largo da farle dolore i muscoli del viso. Si lasciò scappare persino una risata, che coprì lestamente con le dita di metallo guantate.
Thorn non tornò a casa quella notte, cercando di rimettere ordine tra le scartoffie che l’intendente che lo aveva sostituito aveva lasciato accumulare. Chiamò solo una volta, e si fece passare Renard invece di lei. Il suo consigliere, o ex consigliere, dal momento che ormai era un sindacalista, appariva al contempo euforico e spaventato, ma non volle dare spiegazioni ad Ofelia.
L’arcano si svelò il giorno seguente, alla nuova seduta del governo. Senza chiedere pareri, opinioni, consigli, in virtù dell’incarico che ricopriva e del potere di cui era stato investito da Faruk stesso, decretò che la loro forma di governo era ormai decaduta. Sarebbe stata istituita seduta stante una forma democratica, in cui i cittadini avrebbero votato per decidere i loro rappresentanti e ogni quinquennio avrebbero eletto un presidente, che avrebbe ricoperto il ruolo di Faruk in modo più efficiente, affinché si facesse portavoce delle loro idee e soprintendesse i politici, verificandone anche la trasparenza e correttezza. Inserì al governo anche la figura ufficiale del sindacalista, che sarebbe stato un vero e proprio ufficiale politico incaricato di farsi portavoce dei lavoratori e dei loro diritti. Il nome di Renard venne pronunciato senza incertezze ed esitazioni, e Ofelia lo vide commuoversi, stringendo i denti per non piangere, quando lo annunciò. Persino Gaela mise da parte la sigaretta per sorridere e stampargli un bacio sulla guancia. Quando si allontanarono di soppiatto, Ofelia non ebbe dubbi che fosse per approfondire quel bacio. Anche un po’ di più.
La decisione di Thorn non fu popolare, e lui rimase lontano da casa per altri tre giorni, insieme a Renard, che lo seguiva per prendere confidenza con il suo nuovo ruolo e, Ofelia sospettava, anche per fargli da guardia del corpo. Thorn non aveva bisogno di difensori, ne erano tutti consapevoli, ma avere al fianco un omone enorme e muscoloso che sembrava duro fuori tanto quanto era morbido dentro aiutava di sicuro a tenere lontani lamentatori incalliti. A casa invece Ofelia non se la passò tanto bene. Berenilde e la zia Roseline facevano pressioni per capire cosa fosse accaduto, e perché mai Thorn avesse preso una decisione del genere. Ofelia non provava nemmeno a dare spiegazioni, ma la sua calma serafica e lo sguardo enigmatico dietro le lenti rosate le faceva imbestialire e disperare, alla ricerca di risposte. La sua unica fonte di distrazione era Vittoria, che diceva una parola esistente su dieci inventate, e le faceva ricordare Elizabeth e i suoi codici.
Quando finalmente Thorn si degnò di presentarsi a casa, scoppiò il putiferio. Berenilde lo abbracciò forte, contenta di vederlo e che tutto si fosse risolto per il meglio, e poi lo sgridò per quelle decisioni sovversive che prendeva senza chiedere nulla a nessuno. La zia Roseline se ne rimase in disparte guardandolo trucemente, e la cena fu uno strazio che si concluse con una quantità di domande senza risposta e un Thorn più muto del solito che non diede informazioni a nessuno. Ofelia, seduta accanto a lui, avrebbe tanto voluto parlargli, ma aspettò che si fosse ritirato nel suo studio per seguirlo.
- Volevate dirmi qualcosa? – le chiese a bruciapelo prendendo posto alla scrivania in mezzo alla biblioteca di Berenilde.
Ofelia fu colta da un brivido quando lui usò formalmente il voi, un brivido non piacevole. La zia Roseline, che l’aveva seguita per poter inveire contro l’uomo senza paura di farsi sentire da orecchie innocenti come quelle di Vittoria, sbottò: - Vi siete bevuto la ragione? Per quale motivo avete annullato il matrimonio? Io non ci penso nemmeno a tornare su Anima, ma Ofelia cosa dovrebbe fare? Rimanere qui? Tornare lì? È la seconda volta che macchiate la nostra famiglia di una simile onta, Thorn, e non credo che, nonostante tutto quello che è successo, ci sia ancora qualcuno disposto a tollerarlo.
Col fiato grosso, la zia muoveva la testa come un uccello, mentre lo chignon infilzato dalle forcine veniva sballottato sulla sua nuca.
Lo sguardo di Thorn era impietoso, anche un po’ seccato.
- Va tutto bene zia, Thorn non l’ha fatto con cattive intenzioni o per recare offesa a qualcuno, ve lo garantisco. Potremmo parlarne in privato?
Fu il tono supplice della nipote a far sgonfiare l’ira di Roseline come un sufflé, ma la zia mantenne comunque la fronte e la mascella contratta, e non poté impedirsi di guardare male l’intendente.
- Ah, va bene – bofonchiò. – Tanto sei testarda come un ciocco di legno, quindi anche se te lo impedissi troveresti lo stesso il modo di disobbedire.
La zia fece per andarsene, ma si fermò sull’uscio della sala. – Ora che ci penso, dal momento che non siete più sposati tu hai ancora bisogno di uno chaperon!
Ofelia impallidì. L’ultima cosa che le serviva era che la zia ricoprisse il suo vecchio ruolo, seguendola per assicurarsi che non stesse mai da sola con Thorn.
Poi sbuffò, allontanandosi. – Ormai me ne frego delle opinioni di chicchessia, per quel che mi riguarda potresti già essere incinta.
Ofelia avvampò mentre le parole della zia si perdevano in lontananza, ignorando la fitta di dolore che quelle parole le avevano procurato involontariamente. No, non c’era rischio che rimanesse incinta. Thorn la osservò rilassando un poco il viso.
- State bene? – le chiese, percorrendo il suo corpo con lo sguardo alla ricerca di qualcosa fuori posto.
Ofelia si rese conto che la domanda non era solo indirizzata al suo stato emotivo, ma anche a quello fisico. Thorn si preoccupava per lei perché sapeva che la sua goffaggine in tre o quattro giorni poteva spedirla direttamente all’ospedale. In effetti si era graffiata il braccio, così ringraziò il vestito che le copriva l’abrasione.
- Sì, volevo solo vederti.
- A che pro volevate vedermi?
All’improvviso Ofelia si sentì di nuovo una bambina. Non era più sposata, si rese conto, e quello di fronte a lei, nonostante tutto ciò che avevano passato, era un uomo. Non un amico, perché Thorn era stato chiaro in merito, non un fidanzato o un pretendente. Non era nulla, se non l’uomo che amava. E che ricambiava il suo sentimento. In teoria.
Adottò anche lei il voi, per uniformarsi, ma quel distacco la faceva stare male. Scavava tra di loro un solco che non c’era più da molto tempo.
- Volevo chiedervi come intendete procedere. Con il matrimonio.
Thorn assottigliò gli occhi, e si raddrizzò. Ofelia vide un angolo della sua bocca incurvarsi, ma fu solo un attimo. – Quale matrimonio?
Ofelia si sentì vacillare, ma poi notò l’insistenza con cui Thorn la guardava, come a volerle far capire qualcosa, e si rese conto che le parole che aveva pronunciato quella notte sulla collina erano vere. Thorn si aspettava davvero che lei gli chiedesse di sposarlo. Lei, allora, voleva tenerlo sulle spine.
Potevano stare al gioco in due.
- Il matrimonio di Renard e Gaela.
Questa volta fu Thorn quello che rimase spiazzato; ossia aggrottò le sopracciglia. – Cos’ho io a che fare con il loro matrimonio?
Ofelia fece spallucce, avvicinandoglisi. Cambiò argomento.
- Come vanno le cose al governo?
Thorn mutò subito atteggiamento e cominciò a parlare la sua lingua, eloquente e fluida come un libro di diritto. – Potrebbero andare meglio, ma anche peggio. I politici si sono tutti convinti del fatto che il vecchio regime e le vecchie istituzioni hanno fatto il loro tempo. Renold sta facendo un ottimo lavoro, raccogliendo consensi e opinioni pubbliche, molte delle quali offrono degli ottimi spunti.
- Non temete per la vostra incolumità?
Thorn la guardò senza lasciarle intuire cosa stesse realmente pensando. – No. Temo solo una cosa, e ha a che fare con voi. Il resto non mi tange.
Ofelia sentì che il proprio corpo si sporgeva verso di lui, e vide Thorn fare altrettanto. Le loro labbra erano ad un soffio le une dalle altre quando Ofelia si ritrasse. Gli rivolse un piccolo sorriso. – Non sono sicura che stare così vicino ad un uomo, da nubile, sia una buona idea. Vi auguro buona notte, intendente.
Cercò di non scoppiare a ridere quando vide offesa, dolore e orgoglio ferito attraversare lo sguardo di Thorn. Lui serrò la mascella e si mise a lavorare mentre lei, certa di cosa dovesse fare, si diresse verso il salotto dove Berenilde giocava con Vittoria.
Thorn aveva detto che lei avrebbe dovuto chiedergli si sposarlo, e che sarebbe anche dovuta essere persuasiva. Prima di tutto, però, Ofelia voleva vederlo sulle spine, anche se non lo meritava.
- Berenilde, avrei bisogno di chiedervi un favore.
La madama la guardò con affetto e serenità, un’espressione che aveva spesso sul volto da quando erano tornati a casa e Vittoria sembrava essere guarita dal suo mutismo. Era vero ciò che le aveva detto tempo addietro: più di ogni altra cosa, Berenilde desiderava un figlio, e la mancanza di Faruk era sopportabile se paragonata a quella che sarebbe derivata dalla scomparsa di Vittoria.
- Cosa potrei mai fare per voi, cara?
Ofelia si sedette sul divano di fronte a lei, incerta su come affrontare l’argomento.
Intuendo il suo disagio, ma fraintendendolo, Berenilde smise di spazzolare Vittoria e la guardò seriamente. – Non so cosa passi per la testa di mio nipote. Spero che voi ne abbiate un’idea, perché io non so proprio cosa gli sia preso. Vi avevo detto di non abbandonarlo, di prendervi cura di lui, ma sembra che lui in qualche modo riesca sempre a trovare il modo di allontanarsi. Io sono certa che vi ami, Ofelia. L’ho capito appena vi ho visti insieme per la prima volta. Il suo modo di comportarsi, anche se di poco, era cambiato. Ne ho avuto la conferma schiacciante quando mi ha zittita dicendo che la vostra opinione per lui contava. Nemmeno la mia aveva mai importato molto, per lui. Sono di nuovo qui a chiedervi di non abbandonarlo, per il suo bene. Ha bisogno di qualcuno. Anzi, ha bisogno di voi, unicamente di voi.
Ofelia sorrise leggermente a quelle parole.
- Lo so, madama. Non temete, sono qui per questo. Avrei bisogno di un prestito che sono certa Thorn salderà quanto prima.
Berenilde la guardò senza capire, con le eleganti sopracciglia arcuate e la fronte aggrottata. Somigliava senza ombra di dubbio a Thorn, con quell’espressione.
Ofelia le spiegò a grandi linee cosa intendesse fare, mentre Berenilde la guardava scuotendo la testa. Alzò persino gli occhi al cielo, ma Ofelia vide che era felice. E lo era anche lei.
 
Stava per entrare nella sua vecchia camera, diversi minuti dopo, quando vide Thorn avanzare a grandi passi verso di lei. L’armatura anticipava il suo arrivo con il suo scricchiolio, ma lei era talmente distratta da non essersene resa conto.
- Vi ricordate cosa vi ho detto cinquantadue giorni or sono? – le chiese senza preamboli.
Fu il turno di Ofelia di aggrottare la fronte. – Temo dobbiate rinfrescarmi la memoria. Non ricordo nemmeno dove fossi, cinquantadue giorni or sono.
Thorn non si mostrò divertito, ovviamente. – Vi ho detto che… ti ho detto che sarebbe stata una tua decisione il matrimonio. Che avrei aspettato una tua mossa.
Ofelia tornò immediatamente seria. Thorn aveva gli occhi infiammati di una luce simile quasi alla… paura. Temeva che Ofelia non gli avrebbe chiesto di sposarlo? Paventava un ripensamento?
- Mi hai anche detto che non sapevi se avresti accettato – ribadì lei, tra il serio e il faceto.
Thorn accartocciò il viso, contraendo labbra e sbattendo più volte gli occhi. – Non intendevo dire che… - borbottò, ma Ofelia lo interruppe.
- Io ti ho risposto che mi sarei mostrata persuasiva.
Si alzò sulle punte per cercare di fargli intendere le sue intenzioni, e fortunatamente Thorn capì subito. Si chinò su di lei, facendola sprofondare nel buio. Si baciarono in mezzo al corridoio, incuranti del fatto che qualcuno avrebbe potuto vederli. Thorn allungò una mano per aprire la porta della camera e vi condusse dentro Ofelia, che lo fermò non appena lui la richiuse alle sue spalle.
- Non siamo sposati, non dovremmo…
Le labbra di Thorn la zittirono definitivamente, e anche se le parole di Ofelia volevano essere sarcastiche, lui le prese sul serio, e le ignorò completamente.
Ofelia fu così persuasiva che Thorn non tornò al lavoro quella notte, e l’alba lo sorprese ancora aggrappato a lei.
 
Il giorno successivo Ofelia riuscì ad intercettare Renard, nonostante la fretta che il suo nuovo ruolo imponeva, e gli strappò un’ultima commissione da consigliere.
- Per te, ragazzo, sono sempre disponibile, sindacalista o non sindacalista. Quello per te rimarrà sempre il mio lavoro principale.
Ofelia si fece accompagnare nella miglior gioielleria della zona.
 
L’ordine fu pronto due giorni dopo, due giorni durante i quali Thorn non era riuscito a tornare a casa per via dell’organizzazione delle elezioni. Il fatto che il popolo potesse votare per decidere chi dovesse governarli era una novità senza precedenti, e fioccavano candidature a destra e a manca, persino tra i ceti più trascurati. Ofelia fu costretta a recarsi all’intendenza per parlare a tu per tu con Thorn.
Quel giorno decise di accantonare il turbante; ormai i capelli le erano ricresciuti abbastanza da nascondere la cicatrice causata dalla trave, e le sembrava di essere di nuovo accettabile, nonostante i ricci fitti e corti le dessero l’impressione di avere in testa la lana di una pecora. Com’era abituata a fare una volta, sbucò dall’armadio nell’ufficio di Thorn, la cui anta rimaneva sempre aperta per lei.
Lui la notò con la coda dell’occhio e usò il telefono per chiedere al proprio segretario di bloccare gli appuntamenti fino a nuovo ordine. Fu allora che Ofelia uscì e prese posto di fronte a lui. Avrebbe voluto toccarlo, invece rimase in piedi dietro la scrivania, per una volta quasi più alta di lui.
- C’è qualcosa che non va? Cosa fate qua? – indagò subito, celando la sorpresa per la sua visita.
Ofelia sorrise appena. – Cerco di accasarmi. Pare che l’intendente del Polo sia da poco tornato disponibile.
Thorn inarcò un sopracciglio mentre Ofelia si inginocchiava per davvero. Thorn si alzò in piedi, preso alla sprovvista e confuso su come comportarsi.
- Alzati – le ordinò con voce brusca, accantonando la finta formalità. – Non intendevo davvero…
Ofelia prese dalla tasca una scatolina, che in qualche modo riuscì ad aprire di fronte a Thorn. Le veniva un po’ da ridere, ma la verità era che, nonostante sapesse che Thorn non l’avrebbe ovviamente rifiutata, era un po’ in apprensione.
- Vuoi sposarmi? – chiese, cercando di nascondere il tremito della voce.
Thorn si chinò con circospezione per osservare il contenuto della scatolina. Posti su un piccolo cuscinetto si trovavano due dadi d’oro di squisita fattura e indubbia precisione. Ofelia sapeva che un anello non si sarebbe ben adattato alla figura di Thorn, e un orologio da taschino era fuori discussione. A lungo si era interrogata su cosa potesse regalargli, e alla fine aveva optato, quasi come un’illuminazione, per i dadi.
I dadi del loro destino, i dadi che avevano restituito al mondo. Ora toccava a loro prendere delle decisioni dettate dalle scelte personali, e non dalle imposizioni.
Thorn si inginocchiò di fronte a lei con qualche difficoltà, dopo aver preso un involto dal cassetto della scrivania. La gamba storpia non rappresentava un grande problema, ma era il suo intero corpo a non essere adatto ad abbassarsi sul pavimento. Specularmente ad Ofelia, anche lui aprì di fronte a lei la scatola che reggeva: conteneva un paio di guanti di seta bianca, con i bordi tempestati di piccole pietre preziose e ricami in oro e argento sul dorso. Quei colori le ricordarono immediatamente Thorn: pallido come la seta bianca, con i capelli dorati che tendevano all’argento e gli occhi di metallo affilato.
Thorn si schiarì la gola, a disagio. – Ho pensato che ti sarebbero piaciuti, dal momento che ora non sei più costretta ad indossare dei guanti specifici antilettura.
Ofelia, profondamente commossa, spostò lo sguardo dai guanti a lui, e viceversa.
Il suo silenzio mise in ansia Thorn, che si contrasse nel lungo corpo ossuto. – Ovviamente è implicita la mia proposta di matrimonio. Non intendevo davvero dire che mi avresti dovuto chiedere di sposarti, ma dal momento che…
Ofelia gli si avvicinò e lo strinse a sé, senza baciarlo, solo abbracciandolo finché non lo sentì rispondere alla stretta con forza, fino a lasciarla senza fiato.
E poi ovviamente caddero uno sopra l’altra.
Thorn trattenne uno sbuffo, ma Ofelia vide che non era irritato per davvero. – Devi smetterla di trascinarmi con te ogni volta che perdi l’equilibrio. Rischio di farti male.
Ofelia ripensò a quando era caduta sopra di lui, nella stanza dell’Ordinatore a Babel. Si sarebbe fatta male se lui non ci fosse stato: Thorn aveva accusato volontariamente il colpo per proteggere lei.
Ofelia ridacchiò e cercò di rialzarsi senza far cadere i dadi che erano miracolosamente rimasti al loro posto. Si scambiò i regali con Thorn, che accantonò subito la scatolina e depositò i dadi nella stessa tasca in cui stava il suo orologio da taschino, e si diresse verso l’armadio per tornare da Berenilde. Prima o poi avrebbe dovuto dire a Thorn di saldare il debito che lei aveva contratto con sua zia, ma le sembrava di cattivo gusto chiedergli di pagare per un regalo che era rivolto a lui.
Gli lanciò un’ultima occhiata sorridendo con i guanti stretti al petto prima di attraversare lo specchio. Quado fu emersa nella sua camera, però, fu trattenuta.
- Ofelia – la chiamò Thorn, che sporgeva con mezzo busto dallo specchio, come una strana statua che sfidava le leggi di gravità.
Lei gli si avvicinò, chiedendosi cosa mai avesse da dirle Thorn di così urgente da spingerlo ad attraversare uno specchio. Invece lui la baciò a sorpresa come faceva sempre, graffiandola con la barba corta che nel turbine di impegni di Thorn non vedeva il rasoio da almeno un paio di giorni.
Quando Ofelia si aggrappò a lui, desiderosa di approfondire quel contatto, Thorn si ritrasse. Anche se i suoi occhi erano accesi, il suo tono era autoritario e distaccato. – Scegli un giorno per il matrimonio, io sarò a casa fra tre giorni.
Se ne andò salutando in quel modo, lasciando Ofelia in piedi in mezzo alla camera, accaldata. Scosse la testa, ma sorrideva, perché alla fine dei conti Thorn non si smentiva mai. E lei lo voleva esattamente così. Depositò con cura i guanti sul comodino; avrebbe dovuto aspettare che il fidanzato rientrasse per farglieli sistemare.
E indossarli nel giorno del matrimonio.
 
La cerimonia venne fissata da lì a tre mesi, per il tre agosto, la data che era stata scelta in origine. Né Ofelia né Thorn avrebbero voluto aspettare così tanto, soprattutto visto che la zia Roseline era stata costretta a riprendere il suo ruolo da chaperon, ma le incombenze al governo li avevano costretti a posticipare di almeno due mesi. Era stata Ofelia a far notare che due settimane non avrebbero cambiato nulla, così da metà luglio il matrimonio era stato sposato ai primi di agosto.
Quando si erano sposati ben quattro anni prima.
Berenilde si mise subito in moto per preparare il matrimonio, e Renard la imitò, per quanto possibile. Posticipò persino il suo, di matrimonio, perché voleva prima essere presente e aiutare con i preparativi per la sua ex padrona. Senza distrazioni.
Ofelia gliene era grata, ma ad un mese dal matrimonio si rese conto che sarebbe stato meglio per loro non procrastinarlo troppo, a giudicare da come Gaela si passava soventemente una mano sul ventre, come in cerca di conferme. Berenilde fu più che lieta di organizzare due cerimonie, di cui la seconda a distanza di una sola settimana dalla prima. Gaela, dopo quelle insistenze, rivolse un’occhiata di ringraziamento ad Ofelia. Si tolse la sigaretta dalla bocca e Ofelia seppe con certezza che non gliel’avrebbe più vista maneggiare per lungo tempo.
La scoperta della dolce attesa di Gaela e Renard la gettò in uno sconforto che la faceva sentire in colpa e faticava a mascherare. Sapeva che prima o poi avrebbero avuto dei figli, tutti ne avevano. Tutti tranne lei e Thorn. In qualche modo lui parve intuire cosa angosciasse la fidanzata; era sempre stato ricettivo quando si trattava di lei.
Per quanto la zia Roseline si impegnasse affinché non stessero troppo attaccati o non fossero mai soli, non si rendeva conto che una volta chiuse le porte delle loro camere non c’era niente che potesse impedire un attraversamento di specchi. Quelle rare volte in cui Thorn era a casa non esitava a varcare quello di camera sua per sbucare tra le braccia di Ofelia, e offrirle conforto come poteva.
Il terrore di non poter fare abbastanza per lei, di non poterle dare ciò che più voleva, era un tarlo che gli rodeva il cervello come un tempo avevano fatto i suoi artigli. Ma lei lo rassicurava sempre, facendogli capire che, anche se sarebbero rimasti sempre loro due, da soli, appartenergli le sarebbe bastato.
Lui le sarebbe bastato. Anche un po’ di più.
Le occasioni che ebbero per vedersi furono comunque poche, dato che nel primo mese di fidanzamento ci furono le elezioni, le prime elezioni del Polo, e nel secondo mese Thorn dovette abbandonare i panni di intendente per assumere quelli del presidente. Nessuno si aspettava che il popolo avrebbe scelto proprio lui, ma in fin dei conti, perché no? Era sempre stato un faro di integrità e neutralità in un governo corrotto. Aveva persino preso le parti dei clan caduti in disgrazia per aiutarli ad assurgere a nuovo potere, al posto che spettava loro. Era integerrimo, forse anche troppo, ma dietro la scorza dura e l’aria da cattivo, nessuno poteva negare che per il Polo avesse fatto tanto.
La sua vittoria alle elezioni, nonostante non si fosse nemmeno candidato, fu schiacciante. E nessuno, di nuovo, si sarebbe immaginato che rimanesse presidente per quindici anni. Il suo mandato fu rinnovato per le seconde elezioni, il massimo che un presidente potesse aspettarsi di rimanere in carica. Quando però fu nominato il nuovo presidente, eletto nelle terze elezioni del Polo, il suo mandato durò ben pochi mesi: fu stroncato da un infarto. Thorn venne designato come presidente temporaneo in attesa di un sostituto, ma la faccenda si protrasse per così lungo tempo che alla fine passarono altri cinque anni e vennero indette nuove elezioni. Che vinse Renard. Ma questa è una storia che non verrà mai raccontata.
Agata si adoperò per scegliere per Ofelia il miglior vestito di pizzo bianco che riuscì a trovare, e la sposa si lasciò vestire come una bambola per la prima volta in vita sua. Il vestito era ben lontano dall’essere un abito che avrebbe mai scelto spontaneamente, ma strinse i denti per la sorella. In quella circostanza si limitò ad obbedire di sua spontanea volontà, anche se la zia Roseline scuoteva la testa e borbottava maledizioni a base di meringhe e fagiani ripieni. Per fortuna avrebbe dovuto indossarlo una sola volta. La madre invece mise insieme il miglior corredino da neonati che riuscì a trovare sul mercato.
- Non voglio sapere a che punto sei con Thorn né se nel vostro precedente matrimonio avete parlato di queste cose o le avete messe in pratica – borbottò con la figlia, con le guance rubizze e i capelli fulvi che la facevano assomigliare più a Renard che a lei. – In ogni caso, questa volta ti sposi come si deve e questo è tutto ciò che ti serve.
Scarpine, tutine, pannoloni confezionati a mano e calzini si dipanavano sul tavolo del salotto, minuscoli come se fossero state sbagliate le proporzioni per un adulto. Berenilde annuì con vigore, il viso che si apriva in un sorriso trionfante. – Avremo la casa piena di bambini – canticchiò, scoccando un bacio a Vittoria, contagiata dall’entusiasmo della madre.
Sophie e Berenilde di misero subito a parlare di gravidanze, gestazioni e aneddoti sui loro figli, e Ofelia si allontanò silenziosamente per non mostrare le lacrime che rischiavano di tracimare. Si scontrò con la zia Roseline.
- Ti ho vista, cara – mormorò prima di notare che la nipote stava piangendo silenziosamente, le spalle scosse da piccoli tremiti. – Oh… non anche tu…
Ofelia venne avvolta dalle braccia incredibilmente forti di quella piccola e severa donna che era come una madre per lei, forse anche meglio.
- Speravo di essere l’unica nella nostra famiglia. Mi dispiace così tanto, bambina mia.
Ofelia si mise a singhiozzare senza ritegno, per sé e per la zia. Per la prima si sentì compresa davvero, perché per quanto Thorn soffrisse all’idea di non poterla accontentare, e in parte all’idea stessa di non poter diventare padre, una cosa a cui non aveva mai pensato in precedenza, nessuno poteva comprendere lo strazio e il dolore che derivavano dalla sterilità come un’altra donna nella stessa situazione.
Se possibile, Ofelia volle ancora più bene alla madrina, al suo chaperon, al suo punto di riferimento, e l’ammirò per la forza che mostrava nonostante la tristezza insita nella sua condizione. Non osava nemmeno immaginare quanto difficile dovesse essere stato vedere sua sorella, sua madre, sfornare un figlio dietro l’altro mentre lei non poteva darne alla luce nemmeno uno.
Si lasciarono dopo diversi minuti, senza dire una parola. Non serviva. Anche la zia Roseline aveva gli occhi rossi.
In qualche modo sua madre dovette capire la cosa, o qualcuno gliela fece intuire, perché Ofelia non vide più i corredini da neonato e una sera, a tavola, quando si parlava di bambini, le strinse la mano con forza. Senza guardarla.
Ofelia accarezzò le loro mani unite, con le sue dita di metallo, grata di poter ancora sentire i sentimenti che solo le mani erano in grado di comunicare.
 
Il matrimonio andò tutto sommato bene. Agata si rese conto da sola che il vestito scelto per la sorella non era decisamente nel suo stile, e glielo cambiò spontaneamente con uno che Ofelia reputò più che consono. E che si adattava perfettamente ai guanti di fidanzamento. I giornali parlarono per giorni di quello che venne definito il matrimonio del tira e molla, dato che era stato sancito e annullato così tante volte che nessuno avrebbe saputo dire se sarebbe durato. L’importante, in ogni caso, era che gli sposi fossero certi che niente avrebbe più potuto inficiarlo. La foto del loro breve e imbarazzato bacio vinse la prima pagina del giornale, cosa che rese Thorn di pessimo umore per giorni.
Alla fine optarono per non andare a vivere in uno dei castelli posseduti dalla famiglia di Thorn. L’idea rimase sospesa, come una futura azione da attuare, ma tutti sapevano che non sarebbe mai stata portata a termine. Il palazzo di Berenilde era abbastanza grande per contenerli, soprattutto dato che i bambini non sarebbero aumentati, e lei e Vittoria si sarebbero sentite sole in quella magione.
Ricevettero una cartolina di congratulazioni anche dalla terra di Blasius e Wolf, a cui loro avevano dato il nome di Liberterra. Ofelia sorrise leggendo il nome, ma non tanto quanto sorrise leggendo la lettera di Octavio. L’amico le scrisse canzonatoriamente che sapeva che tra loro non sarebbe durata, e Ofelia si promise non far mai leggere quelle parole a Thorn, data la sua gelosia, e che si stava occupando della crescita di ventuno scalmanati pargoli, tra gli spiriti di famiglia e sua sorella. Non le rese noto che Elizabeth se n’era andata, Ofelia lo lesse tra le righe, e gliene fu grata. Fu soprattutto grata del fatto che il compito di prendersi cura di quei bambini fosse passato ad Octavio. Sarebbe stato un ottimo punto di riferimento per loro, e si sarebbe preso cura di loro come un vero padre.
I giornali del Polo invece presero ben presto a fare del pettegolezzo circa le future gravidanze della moglie del presidente. La cosa si protrasse per diversi mesi, finché Archibald non fece scalpore presentandosi ad una festa con solo la biancheria addosso. Ebbe il suo momento di gloria per tre giorni, poi se ne dimenticarono tutti e tornarono alla carica per sapere dello stato di Ofelia.
Fu allora che lei capì che il primo tentativo di Archibald di attirare l’attenzione era solo un diversivo per distoglierla da lei. Quando vide che era servito a poco, l’ex ambasciatore ricattò tutti i giornalisti. Nessuno si chiese più se Ofelia fosse incinta o no, e a calmare del tutto le acque fu il parto di Gaela, che diede alla luce un paio di gemelli.
- Se i miei figli avessero la memoria del signor presidente – disse Renard, visibilmente provato, dopo il parto, - sono certo che come prime parole direbbero una sfilza di blasfemie irripetibili. Ma Gaela è stata così forte…
Dietro gli occhi stanchi dell’ex consigliere, Ofelia vide orgoglio per la moglie e un senso di realizzazione indescrivibile all’idea di essere diventato padre. Padre di un bimbo e una bimba bellissimi, con i capelli rossi e gli occhi eterocromi. Mime ed Eulalia. I suoi figliocci, suoi e di Thorn, che vennero designati come madrina e padrino.
Ofelia fu così felice per Renard e Gaela che quasi non sentì la puntura dell’invidia. Sorrise per tutto il tempo in cui fecero compagnia ai neo genitori, e sorrise anche quando scese la sera e si ritirarono a dormire. Sorrise quando lei e Thorn si abbandonarono l’uno all’altra per trovare conforto e coprire l’assenza di qualcosa che non avrebbero potuto avere, e sorrise anche quando la sciarpa si lamentò, come sempre quando Ofelia la accantonava per stringersi al marito.
- Cosa ti rende così felice questa sera? – le chiese Thorn alla fine, con il fiato ancora grosso.
Lei gli diede un lungo e pigro bacio, circondandogli il viso con i guanti che raramente si toglieva. I dadi di Thorn erano invece posati sul comodino, insieme all’orologio da taschino.
- Il fatto di averti – gli rispose. – Che mi basterai, sempre.
Thorn si chinò di nuovo su di lei, seppellendola nel calore della sua pelle, nell’oscurità del suo corpo, in quel luogo in cui c’erano solo loro e niente avrebbe potuto strapparli l’uno all’altra.
Quell’anfratto in cui c’era tutto quello di cui avrebbero mai avuto bisogno.
Anche un po’ di più.
 
 
 
 








Extra
Archibald non avrebbe voluto destare scalpore, per una volta nella vita. Avrebbe voluto andarsene silenziosamente, quasi senza essere notato, ma fu impossibile. Aveva preso dimora nella casa di Berenilde da quando erano tornati dal loro peregrinare alla ricerca di Terra d’Arco, ma trascorreva così tanto tempo in giro che si sarebbe potuto dire che la sua dimora erano le strade del Polo e il palazzo di Berenilde una specie di villa delle vacanze.
Aveva viaggiato, tra le rose dei venti, nelle nuove terre, aprendo e chiudendo scorciatoie, scoprendo nuovi passaggi. Quando tornava al Polo lo capivano tutti, perché una cosa in cui Archibald era bravo era quella di farsi vedere. Si poteva dire che avesse avuto una vita piena e felice, anche se breve.
Ma non sarebbe stata la verità.
La sua ora giunse dopo tre anni dal loro ritorno al Polo, più di quanto lui e Ofelia si sarebbero aspettati. Arrivò in casa di Berenilde con l’aria affaticata che celava a stento dietro la facciata indolente e scanzonata. Si ritirò in camera sua, e non ne uscì più.
Fu Ofelia a rendersi conto di quanto era grave il suo stato, entrando in camera sua senza permesso. Aveva uno strano presentimento, e gli oggetti fuori dalla camera di Archibald le avevano lanciato piccoli indizi che lei era solo stata lenta a cogliere.
Achibald scottava di febbre e sul suo volto era dipinta la sofferenza più estrema. Il cappello sbrindellato giaceva per terra, abbandonato. Ofelia aveva subito allertato tutti e fatto chiamare un medico. La situazione era risultata grave quando Archibald non aveva nemmeno provato ad opporsi.
Il dottore aveva confermato con sguardo afflitto la diagnosi: il male era incurabile e non gli restava molto da vivere. La zia Roseline, Berenilde e Ofelia fecero a turno per vegliare su Archibald, che alternava medicine narcotiche a lunghi sonni e rimaneva quindi cosciente sempre meno.
Le ultime parole che pronunciò le disse ad Ofelia, un pomeriggio dopo aver ricevuto la visita di Renard, Gaela e dei loro tre figli: Mime ed Eulalia i gemelli, Ildegarda la terzogenita. Archibald sorrise quando li vide allontanarsi dopo averlo salutato per quella che sarebbe stata l’ultima volta.
- Li invidio. Invidio pure voi, moglie di Thorn, per quello che io non ho mai potuto avere.
Ofelia si bloccò con le mani guantate strette attorno allo straccio che usava per tamponare la fronte bollente di Archibald.
- Come?
Archibald tossì. I capelli biondi, un tempo così fluenti e morbidi, erano sudati e spettinati, il volto su cui campeggiava una corta balba incolta era emaciato, e quegli occhi azzurri che avevano catturato il cuore e l’ardore di così tante fanciulle erano appannati.
- Una famiglia. Non ho mai potuto averla.
Ofelia si mosse per posargli sulla fronte lo straccio, accarezzandogli i capelli.
- Non avete mai voluto averla. Sono certa che moltissime signorine, di buona famiglia e non, sarebbero state disposte a passare sopra i vostri precedenti per sposarvi.
Archibald rise, o forse tossì di nuovo. – Appunto per questo non mi sono potuto sposare.
- Non capisco… - mormorò Ofelia, china su di lui per sentire meglio quella voce flebile che aveva perso tutto il suo fascino.
- So che molte sarebbero state disposte a sposarmi. So anche che molti mi considerano un libertino senza cuore, ma proprio perché ne ho uno non mi sono mai sposato. Avete idea di come debba sentirsi una vedova che ha amato ardentemente il marito, Ofelia?
Non erano molte le volte in cui Archibald l’aveva chiamata per nome, e fu quello, più di tutto, a stringere lo stomaco di Ofelia. Non sapeva cosa si provasse; lei era rimasta senza Thorn per quasi tre anni, ma prima di quei tre anni, nonostante l’amore che provavano l’uno per l’altra, non erano mai stati intimi e non avevano accettato del tutto il fatto di essere sposati. Pensare a come si sarebbe sentita se non fosse riuscita a tirarlo fuori dallo specchio le risultava difficile. Ma immaginare come dovesse essere vivere senza di lui da quel momento in poi diventava straziante. Thorn era tutto ciò che aveva, tutto ciò che voleva.
- Non vi siete sposato perché sapevate di essere malato?
Archibald annuì. – C’era una ragazza, una volta. Io avevo diciassette anni, lei quindici. L’ho amata come non ho mai amato nessuno per due lunghi anni, e pensate che non ho mai avuto nemmeno il coraggio di sfiorarla. Mi sembrava troppo preziosa per rovinarla. Speravo di allontanarla con il mio atteggiamento da seduttore, cercavo di dimenticarla concedendomi ad altre donne. Non c’era verso di togliermela dalla testa: la vita che avremmo potuto costruire, i figli che avremmo potuto avere… e che io avrei dovuto abbandonare prematuramente. Ho meno di trent’anni, Ofelia, e lo stesso mi meraviglio di essere durato così a lungo. Non potevo farle questo.
Ofelia gli afferrò la mano, cercando di trasmettergli conforto con quella stretta. Si morse il labbro per non piangere.
- Voi sapete cosa significa non poter realizzare una cosa naturale come questa, una famiglia. Ma almeno voi avete Thorn. Con quale coraggio avrei potuto sposarla, per poi lasciarla sola a crescere i miei figli in un’ambiente corrotto come la corte del Polo, in mezzo alle mie sorelle gelose e agli intrighi che sono brave quanto me a tessere? Mi sono dato alle gozzoviglie nel tentativo di allontanarla, e lei finalmente si è decisa a sposare un brav’uomo. Nemmeno una delle donne con cui sono stato è riuscita a lenire questo dolore.
Ofelia tirò su col naso. – Siete stato forte, Archibald. Siete stato coraggioso.
Lui sbuffò una risata affatto divertita. – A cosa è servito? Morirò solo e odiato da tutti. Verrò dimenticato velocemente così come mi hanno rimpiazzato le mie sorelle.
- Non è vero – asserì Ofelia duramente, più di quanto avrebbe voluto. – Non è vero. Noi non vi dimenticheremo. Non io, non Thorn, che non potrebbe scordarvi nemmeno se lo volesse, né Berenilde, Renard e Gaela, e soprattutto non Vittoria, che è innamorata del suo padrino.
Archibald sorrise quando Ofelia nominò la sua figlioccia.
- Avrei tanto voluto una figlia come Vittoria.
Ofelia non demorse, voleva che ad Archibald entrasse bene in testa il concetto che stava cercando di trasmettergli. – Io non posso avere una famiglia mia, eppure ne ho una più grande che compensa. Ho Thorn, ma ho anche Vittoria, i miei parenti su Anima, Renard, amici sparsi su più arche. La vostra famiglia vi ha abbandonato, ma talvolta i legami che stringiamo al di fuori di quelli sanguigni sono quelli più duraturi. Avete lavorato per anni al fianco di Renard e Gaela, e il fatto che vengano ancora a trovarvi significa che, al di là delle battute sul vostro conto e delle rimostranze, ci tengono a voi. Tutti ci teniamo a voi, perché siamo noi la vostra famiglia.
Archibald sorrise di nuovo. – Sono contento di avervi incontrato, moglie di Thorn. E di non avervi deflorato la prima volta che ci siamo incontrati -. Ofelia avvampò. – Come la mia adorata, anche voi vi siete dimostrata troppo preziosa per potervi raggirare. Abbiamo vissuto una bella avventura insieme. Davvero una bella avventura. Vi chiedo scusa. E vi ringrazio per aver creduto in me come persona, e non come influente membro della Rete. Ho vissuto come ho potuto per il breve tempo che mi è stato concesso infischiandomene delle convenzioni, lo ammetto. Eppure, per quanto si possa cercare di vivere senza creare dei legami, la solitudine è la malattia peggiore. Grazie per essere stata una di quelle persone che soffriranno quando me ne andrò.
Ofelia fu grata alla sciarpa quando le tolse gli occhiali per pulirglieli. Le lacrime le avevano appannato le lenti, e il grigio-azzurro malinconico del suo umore tingeva tutto di tristezza.
- Così è la vita. Il fatto che qualcuno soffra significa che avete lasciato un segno, e che avete fatto del bene. Quando giunge il proprio momento è impossibile andarsene senza che nessuno ne rimanga colpito.
Archibald scosse leggermente le spalle, poi tossì di nuovo.
- Non soffrite troppo a lungo. Prendetevi una bella notte con vostro marito, e suggerite lo stesso alla meccanica e al sindacalista. Una buona notte di… - un accesso di tosse coprì le sue parole, che Ofelia colse lo stesso. Gli occhiali si tinsero di rosso, invece che di blu. – …guarisce sempre tutto. Almeno per un po’, ma sono certo che quando si ama la persona con cui lo si fa, l’effetto sia permanente. Spero che a quei due scappi un altro bambino. Lo augurerei anche a voi, se fosse possibile. Vi prego, salutatemi tutti.
Ofelia gli asciugò il viso accaldato. – Non dite così, Archinald. Non è ancora finita.
Lui sorrise. – Non ancora, no. Ma non ho più nulla da dare. Potrei vedere Vittoria?
Ofelia andò a prendere la figlioccia, che si fiondò a letto accoccolandosi vicino ad Archibald. Per una volta non parlò molto, rimase zitta com’era stata per i suoi primi tre anni di vita.
Archibald la osservò sorridendo, mentre Vittoria ricambiava il suo sguardo, in modo innaturalmente docile per una bambina piena di energie come lei. Gli accarezzò il viso quando vide che stava per addormentarsi, e Archibald si lasciò sfuggire una lacrima.
Non si svegliò più.
 
Il funerale fu organizzato da Ofelia e Thorn in persona, e fu sobrio, sobrio come Archibald non era mai stato, ma come Ofelia sapeva che avrebbe voluto essere. Parteciparono tutti i membri della Rete, ma ad occupare le prime file dell’edificio in cui venne celebrata la funzione sedettero le persone che lo avevano conosciuto, apprezzato, detestato e amato davvero: Ofelia, Vittoria, Berenilde, Roseline, Renard, Gaela… e Thorn.
Il suo cappello venne depositato sulla tomba e lì fissato. Sembrava in attesa di essere colto e indossato, come Archibald faceva sempre, ma nessuno avrebbe potuto portarlo con più fierezza.
Stavano per tornare a casa quando Ofelia vide in disparte una figura ammantata di nero. Aveva un cappuccio calato sulla testa, ma alcuni ciuffi di capelli biondi sfuggivano dal riparo. Quando si voltò Ofelia riuscì a vedere chiaramente il suo viso: era una giovane donna, poco più grande di lei, bellissima. Piangeva. E si teneva la pancia tonda con una mano. La guardò finché non ne incrociò lo sguardo. Le rivolse un piccolo sorriso e si toccò il cuore.
La donna sembrò quasi annuire prima di andarsene.
Ofelia strinse il braccio di Thorn. Se c’era una cosa che poteva dire con certezza, era che lei avrebbe preferito soffrire la mancanza di Thorn dopo una vita piena di amore e compagnia che non soffrire a causa della sua mancanza da principio. Soffrire per aver vissuto qualcosa di meraviglioso che non soffrire per essersela negata. Archibald aveva avuto coraggio, era stato forte, altruista, ma a che prezzo? L’amore non si cancella da un giorno all’altro, e forse la sua amata avrebbe preferito piangere ciò che era stato, invece di ciò che non aveva mai potuto essere.
O forse no. Avrebbe preferito avere un figlio e perderlo, o non averlo affatto?
Intrecciò le dita con quelle del marito e si sentì scaldare dentro, persino quando lui le lanciò un’occhiata tagliente. Non gli piacevano i contatti in pubblico, tanto più se circondati dai giornalisti. Ad Ofelia non importava, non in quel momento. Lei aveva la persona che amava al fianco, e si augurava che la cosa potesse durare ancora a lungo.
La morte di Archibald, contrariamente a quanto lui si aspettava, venne pianta a lungo, e al Polo venne istituito giorno di lutto quello della sua dipartita. Ogni anno veniva celebrato, per il suo contributo a creare qualcosa di meglio, non per le sue scappatelle.
E nessuno, mai, lo dimenticò, tra coloro che più avevano lavorato al suo fianco.
Del resto, come avrebbero potuto, quando il quarto figlio di Renard e Gaela portava il suo nome?

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Capitolo 2
*** Lieto fine forse - Prologo ***


Oooooook ho un sacco di cose da dire, cercherò di essere veloce e non noiosa.
Ho dovuto dividere il capitolo, ovviamente, perché come sempre l'idea da cui parto diventa ingestibile e quando ancora sono lontana dal mio obiettivo ho in realtà già scritto troppo (digressioni e mancanza di disciplina a gogo).
Punto 1: non so se questa idea vi convincerà, io stessa ne sono convinta a momenti sì e a momenti no, ma questa povera Ofelia dovrà pur trovare Thorn, no? E allora questo è quello che mi è venuto in mente. Non tutto. Il resto sarà nella terza versione del finale.
Il punto 2 lo tratto a fine capitolo per non farvi spoiler.
Buona lettura e se avete dubbi su ciò che ho scritto o volete discutere delle mie scelte sono sempre a disposizione^^ Mi auguro non sia troppo difficile da capire o macchinoso, il mio procedimento mentale... aiuto...


Finale 2: lieto fine forse - Prologo

Ofelia riemerse dallo specchio di camera sua. La sua vecchia camera.
Scrutò la penombra familiare della stanza e osservò con affetto la figura del fratello, profondamente addormentato nel letto. I suoi genitori, o meglio, sua madre gli aveva permesso di cambiare il letto a castello con uno singolo tutto per lui. Le gemelle condividevano ancora la stanza, ma Ofelia sapeva che nel giro di poco tempo si sarebbero messe a litigare per poter ottenere quella camera: anche Hector, alla fine, stava per sposarsi.
Aveva solo intravisto la sua fidanzata, non aveva avuto modo di conoscerla, ma si augurava che potesse rendere felice il fratello e che insieme potessero vivere una bella vita. Amarsi. Avere dei figli. Ofelia sospirò e si sedette alla scrivania.
La sciarpa accese il lume schermando la luce perché non disturbasse Hector, prese la carta da lettere e intinse la penna nel calamo. Era diventata a tutti gli effetti le sue mani, e Ofelia la ringraziò per il suo aiuto con una carezza del palmo guantato.
Quando ebbe finito si immerse nello specchio lasciando dietro di sé una lettera e infilandone altre tre in tasca.
 
Riemerse nell’altrettanto familiare museo dello zio. Da quando avevano ricomposto il vecchio mondo erano cambiate alcune cose ad Anima, cose delle quali si era del tutto disinteressata, se non per una: il museo gestito dal prozio era stato riaperto e dotato di tutti i documenti e oggetti espositivi di cui era stato privato dalle Decane. Ofelia trovava sempre un certo conforto nello stazionare lì, nel respirare il passato. Al di sopra di tutto si ricordava di quando era andata lì con il prozio e avevano parlato del Polo. I dipinti e le testimonianze che aveva trovato all’epoca l’avevano spaventata, e la sua voglia di sposarsi, già di per sé sotto i tacchi, era ulteriormente diminuita.
In quel momento sarebbe volentieri tornata a quel tempo, al tempo in cui stava per conoscere Thorn. Non avrebbe cambiato nulla della sua vita se non quello: i primi mesi passati con lui. I primi mesi di incomprensioni e segreti, che avrebbero potuto passare insieme a godere della reciproca compagnia invece che a farsi la guerra ed evitarsi l’un l’altra. Ofelia scosse la testa. Era stata più che altro lei a tenere le distanze. Sapeva che se gliene avesse data l’opportunità, Thorn si sarebbe avvicinato a lei da subito. Quello era forse il suo più grande rimpianto: l’incomprensione iniziale.
Il dolore della mancanza la colpì con forza, lasciandola senza fiato. La sciarpa le si avvolse attorno ai fianchi, abbracciandola, condividendo con lei lo struggimento che comprendeva bene: uno per Thorn, l’altro per Ambroise. Quest’ultimo era ormai irrecuperabile, ma Ofelia non avrebbe mai perso le speranze per suo marito.
Doveva solo perseverare.
Diede le spalle al museo e si immerse nuovamente nello specchio.
 
Quando si ritrovò nel piccolo alloggio del prozio si sentì vacillare. Inciampò e dovette reggersi ad un mobiletto basso per non cadere.
- Ti aspettavo – la salutò il prozio esalando uno sbuffo di fumo dalla pipa.
Le fece cenno di accomodarsi e Ofelia prese posto di fronte a lui solo dopo alcuni interminabili secondi.
Il prozio aveva l’aria triste dietro i baffi a manubrio, ma gli occhi erano pieni di nostalgico affetto. – C’era un tempo in cui morivi dalla voglia di venire qui e coglievi ogni occasione per farlo. Ora sfuggi come un gatto randagio.
Ofelia usò quel che restava delle sue mani per sistemarsi la sciarpa. O meglio, per importunarla, tesa com’era.
- È molto tardi, cosa fate alzato?
- Ti aspettavo, figliola. Non credere che non sappia che sei tu a lasciare sul pavimento di fronte alla porta le lettere. Pensavi di fregare il tuo vecchio zio? Chi mai recapiterebbe una lettera sotto l’uscio di casa in piena notte? E con regolarità, per giunta. Ah! Ho sempre saputo che usavi gli specchi, ma non ho voluto forzarti a vedermi. Sapevo che se avessi avuto bisogno di me saresti venuta di giorno. Ora però credo che tu abbia bisogno di me ma non te ne renda conto.
Ofelia sentì gli occhi riempirsi di lacrime e la sciarpa le tolse gli occhiali con movimenti frenetici. Aveva perso così tanto. Ridare al mondo i suoi dadi le era costato davvero, davvero molto. Troppo, pensava a volte. Non si sarebbe mai data per vinta riguardo a Thorn, ma c’erano persone che non avrebbe potuto riportare indietro. Come Renard e Gaela. O il prozio, che alla fine evitava per proteggerlo. Ed era lo stesso per Berenilde e la zia Roseline. Un contatto fugace una volta ogni tanto era assai più duro da sopportare rispetto alla mancanza perpetua, specialmente se non si aveva nessuna novità da riferire.
Inoltre, finché lei non avesse ritrovato Thorn non se la sentiva di godere di quegli affetti che a lui erano preclusi.
Di fronte al silenzio della nipote, il prozio sospirò. – Sono passati due anni, Ofelia. Hai ottenuto qualche risultato?
No. Nessun risultato.
Ofelia aveva passato le prime settimane solo ad attraversare specchi, a cercare di tornare in quel luogo di mezzo che le era precluso definitivamente. Con tenacia si era decisa a voler trovare una breccia che non c’era. Aveva studiato molto alla biblioteca di Anima, cercando di documentarsi quanto più possibile sul suo potere di Attraversaspecchi. L’unica cosa che aveva scoperto era che il suo era un dono raro e misterioso, che nessuno aveva potuto studiare approfonditamente in quanto era peculiarità di pochi, e non sperimentabile.
Aveva però scoperto di essere ancora in grado di percepire tutti gli specchi di quel mondo ricostruito. Con un solo attraversamento poteva giungere a Babel, il Polo e persino in arche che non aveva mai visitato. Era una reminiscenza rimastale da dopo la visita al luogo di mezzo e al Rovescio, un piccolo lascito che le tornava utile per muoversi indisturbata. Era come se dopo aver perso il potere da lettrice, quello da attraversaspecchi si fosse migliorato, amplificato, come quando i sensi rimasti sopperiscono alla perdita di uno di essi, o il corpo si ingegna in seguito alla mancanza di un arto.
Lo zio sospirò di nuovo di fronte al suo silenzio. – Ti preparo un tè.
Ofelia gradì molto la bevanda calda e i biscotti che lo zio le offrì. Viveva come una nomade, cercando freneticamente qualcosa che non sapeva come trovare, dormendo ogni notte in una camera d’albergo diversa e mangiando nelle cucine silenziose di qualche palazzo sperduto o taverna.
Non parlava con qualcuno da mesi, e la voce le uscì roca e pigolante quando disse: - Grazie infinite.
La sciarpa ripose la tazza sul ripiano, senza romperla com’era solita fare Ofelia, e spazzolandole le briciole di biscotto dalla gonna.
Il prozio la fissava in silenzio fumando la pipa. – So bene che nessun tentativo di dissuasione potrà avere buon esito, quindi non provo nemmeno a farti restare. L’unica cosa che può porre fine a questa tua fuga è la riuscita, e allora ti aiuterò come posso. Non ho trovato nulla di utile riguardo a tutto quello che è successo da quando tu e quel tuo marito avete cambiato il nostro mondo. Però ti lasci tante tracce dietro, figliola. Disordinata come sempre. Ho studiato i libri della biblioteca che sfuggivano al tuo tentativo di rimetterli a posto, e posso solo dirti questo: stai studiando il tuo potere, ma non credi che dovresti conoscere meglio quelli dell’arca natale di tuo marito?
Ofelia increspò la fronte. Di che utilità le sarebbe stato studiare i poteri familiari di Thorn o del Polo?
- Vedo che sei scettica, ma non ho trovato altre strade da percorrere. Ho scoperto della cerimonia del dono, e ho ragione di credere che ne sia stata sottoposta anche tu.
- Sì – confermò in un sussurro Ofelia.
- Dunque hai dentro di te altri poteri che hai ereditato dalla famiglia del tuo coniuge. Sarebbe utile scoprire come questi doni possono influenzarsi fra loro, no?
Ofelia aprì la bocca, ma quando si rese conto di non avere nulla da dire la richiuse.
Il prozio si diresse verso di lei e le prese i palmi guantati, accucciandosi con qualche imprecazione e scricchiolante rumore di ossa non più molto giovani.
- Se rimarrò bloccato in questa posizione ti considererò direttamente responsabile – borbottò, e in risposta le dita vuote dei guanti di Ofelia si strinsero attorno alle sue mani.
- Io rivoglio mia nipote. La mia cocciuta, forte, determinata e vitale pronipote, che mi rompe tutto quello che tocca e viene da me per ogni piccolo problema che ha.
Ofelia scosse la testa. – Non sono sicura che esista ancora quella ragazza.
- No, perché ora è una donna cocciuta, forte, determinata e vitale, il che è anche peggio. Prova a fare ciò che ti ho detto, tentare non costa nulla. Hai già buttato due anni, cosa vuoi che siano pochi giorni?
Lo zio si rialzò a fatica, ma Ofelia gli gettò le braccia al collo senza preavviso e caddero entrambi per terra. Il prozio borbottò e poi scoppiò a ridere, imitato da Ofelia. Le depositò un bacio sulla zazzera di capelli ricci che non aveva più tagliato dopo la rasatura dell’ospedale. Le arrivavano di nuovo a metà schiena, poco più corti di quando aveva conosciuto Thorn.
- Resta qui per questa notte, domani è un nuovo giorno.
Ofelia seppellì il viso nel suo petto, desiderando liberare le lacrime di scoramento, solitudine, affetto e speranza che serbava da troppo tempo, ormai. Invece aiutò lo zio a rialzarsi, si lavò e solo dopo essersi coricata si permise di piangere in silenzio.
 
La mattina fu svegliata dall’odore invitante della colazione che il prozio stava già servendo a tavola. Mangiarono in silenzio, anche se qualche volta lo zio la metteva a parte delle ultime novità, come il numero dei figli di Agata, l’imminente matrimonio di Hector e il pretendente di Beatrice, che la scambiava soventemente con Eleonora e Domitilla. Ofelia rise di gusto e si sentì più rinfrancata dalla chiacchierata amena con lo zio che dalla notte di riposo e dal pasto.
Lo aiutò a lavare le stoviglie come in passato, anche se a ruoli invertiti: fu lui a strofinare e lei ad asciugare, dato che era un compito più facile per la sua sciarpa. Nessuno dei due proferì parola mentre si perdevano in altri ricordi di altri lavaggi e asciugature dei piatti. Ofelia, anzi, la sciarpa non ruppe nulla, e il prozio mugugnò qualcosa a proposito dell’inutilità del suo potere, se nessuno fracassava alcunché.
Alla fine si preparò per uscire e salutò Ofelia sulla porta di casa.
- Non ti troverò al mio ritorno, vero?
Ofelia non gli rispose, ma lo abbracciò per l’ultima volta e lo guardò andarsene.
Depose ugualmente la lettera sul suo letto e si rituffò nello specchio, ricaricata di un’energia nuova che solo l’affetto delle persone più care poteva generare.
Lasciò una lettera alla zia Roseline e una a Berenilde e Vittoria prima di riprendere la sua ricerca.
 
Lo zio non aveva avuto torto, ma nemmeno ragione.
Ciò che Ofelia aveva cercato per tutto quel tempo, una possibile risposta alle sue domande, si trovava al Polo, ma non era relativa al potere familiare di Thorn. La memoria che non aveva ereditato non le sarebbe servita, e tantomeno le sarebbero tornati utili gli artigli.
Un potere di comunione, però, forse faceva al caso suo.
Insieme a quello di poter uscire dal proprio corpo e proiettare la propria coscienza in un mondo inaccessibile.
 
Quando emerse dallo specchio della camera di Archibald, lui la guardò distrattamente, sorridendole come sorrideva a chiunque. Alloggiava presso il castello di Berenilde dato che, non essendo più in contatto mentale con la Rete, la sua famiglia, era considerato radiato dal loro clan. Ofelia la trovava una cosa orribile. Nonostante tutto quel tempo ancora non riusciva ad abituarsi alla mancanza di affezione naturale e alle brutalità del Polo.
Archibald non si mostrò sorpreso dalla sua visita, né contento o triste.
- Moglie di Thorn! Siete in cerca di consolazione? Non credo che vostro marito lo verrà a sapere, se passerete una notte con me, e la cosa toglie un po’ di divertimento alla faccenda, lo ammetto, ma a chi importa?
Ofelia fu al tempo stesso sollevata e infastidita da quel commento: sollevata nel rendersi conto che se Archibald faceva ancora dell’umore significava che non stava troppo male; infastidita dal commento in sé e dall’incapacità dell’uomo di essere serio, in qualsiasi situazione.
- Ho bisogno del vostro aiuto – gli disse solo, senza aggiungere o chiedere altro.
Doveva ammettere che quei due anni di solitudine, ricerche, vagabondaggi e lontananza l’avevano resa ruvida quasi quanto Thorn.
Il sorriso di Archibald si allargò, sebbene i suoi occhi rimanessero come al solito privi di un’effettiva luce gioiosa.
- Sapete che non faccio mai nulla per nulla. I miei favori hanno sempre un prezzo, moglie di Thorn.
Ofelia ignorò spudoratamente l’espressione maliziosa dell’ex ambasciatore.
- Possiamo parlarne. Non ho nulla da perdere. Accettate?
- Per quanto sia allettante immaginarmi la ricompensa che potrei chiedervi, non accetto molto spesso incarichi che non mi vengono quanto meno accennati.
Ofelia non si lasciò scoraggiare, ma non espose nemmeno la sua idea.
- Avrei prima bisogno di vedere anche Vittoria. Ho ragione di supporre che sia necessario anche il suo contributo.
Questa volta la curiosità di Archibald prese il sopravvento su tutto, persino sul suo sorriso. Per un attimo parve un uomo serio e distinto, e Ofelia si rese conto che dietro ai modi scanzonati, incuranti del decoro e fuori luogo, Archibald avrebbe potuto essere un ottimo ambasciatore. Se solo gli fosse mai importato.
- Spero non sia una cosa pericolosa, moglie di Thorn, ipotesi di cui dubito dati i vostri precedenti.
Ofelia non negò né confermò i suoi timori e Archibald si corrucciò, facendo increspare la fronte persino ad Ofelia. Era insolito che mostrasse così tanto interesse nei confronti di qualcuno.
- Va bene, allora accetto l’incarico a scatola chiusa. La mia condizione è che mi spieghiate ogni dettaglio e che il vostro piano non mini in alcun modo la sicurezza di Vittoria.
Ofelia dovette trattenersi per non sgranare gli occhi, e persino la sciarpa si agitò, appallottolando le due estremità delle sue code come i pugni che la sua padrona non poteva più stringere. Le dita vuote dei guanti che indossava cominciarono a muoversi convulsamente, attirando lo sguardo di Archibald. Ofelia sapeva che non era un bello spettacolo vedere i suoi guanti che si dimenavano scompostamente.
Avrebbe ovviamente accettato, ma trattenere le domande che le affollavano la mente fu difficile. Le sfuggì un piccolo sorriso triste al ricordo di quando ancora era con Thorn: non c’era domanda che non fosse uscita dalle sue labbra, a volte in modo indiscreto, altre in maniera improvvisa, altre ancora inopportuna. Lo aveva sempre, sempre interrogato, un po’ come Hector aveva interrogato lei con i suoi perché.
Ma Archibald non era Thorn, e lei non avrebbe indagato la natura di quel rapporto con la sua figlioccia. Calcolò che ormai Vittoria dovesse avere quasi sei anni.
- E sia. Ma non fate sapere né a mia zia né a Berenilde che sono qui.
Archibald sgranò gli occhi e ritrovò il consueto sorriso, seppur leggermente attonito e recalcitrante. – Volete dire… subito? Ora?
Il tono di Ofelia si fece più duro del previsto. – Cosa dobbiamo aspettare, di preciso?
Sembrava una vecchia zitella inacidita. Comprese in quel momento perché la zia Roseline avesse modi tanto bruschi, troppo diretti, spesso pungenti: la perdita dell’amore inaridiva dentro, soffocando la gentilezza con il dolore della mancanza.
La prima volta che Thorn era sparito, Ofelia aveva la certezza che fosse vivo, da qualche parte, in forze, e che lo avrebbe ritrovato. Si era impigrita e nascosta in casa, si era sentita vuota, ma non era cambiata. Dopo due anni di ricerche infruttuose, invece, il seme dello sconforto aveva messo radici in lei, ed era divenuta insofferente, irritabile. Scoraggiata.
Talvolta perdeva completamente le speranze.
Non poteva più attendere.
Il suo sguardo risoluto parve convincere Archibald.
- Vado a chiamare la piccola. Fate sì che ne valga la pena, moglie di Thorn.
Lei era la moglie di Thorn, sì. E suo marito valeva la pena di qualunque tentativo.
 
Vittoria la accolse con uno sguardo incuriosito e reticente al tempo stesso. Ofelia l’aveva sentita arrivare chiacchierando, ma quando aveva varcato la soglia della camera mano nella mano con Archibald e aveva notato Ofelia si era subito zittita.
Le due si squadrarono in silenzio, e alla fine quel visino pallido dai grandi occhi e dai lucenti capelli candidi non poté nulla contro la barriera isolante di Ofelia. Quest’ultima si aprì in un sorriso tenero, riportata indietro nel tempo da quella mescolanza di Berenilde e Faruk. Riportata indietro ad un’altra epoca, quasi, in cui tutto era diverso.
Aveva scelto lei il nome di quella creatura, si rese conto. E lei credeva nell’importanza dei nomi, che ad un nome corrispondesse un carattere specifico. Chissà se Vittoria sarebbe stata la stessa, con un nome diverso.
- Ciao Vittoria – la salutò, avvicinandosi a lei. La bambina era più alta della media, e aveva solo cinque anni, quasi sei. La sua bellezza era comunque evidente e innegabile, e Ofelia sperò tanto di poterla proteggere da malelingue invidiose e da falsi pretendenti, quando fosse cresciuta. Del resto… - Sono la tua madrina, Ofelia.
Vittoria guardò Archibald, che negli occhi serbava un sentimento di affetto così puro e profondo da far commuovere Ofelia. Era la prima volta che vedeva un vero sorriso sulle labbra di quell’uomo tanto schivo quanto irriverente, e Ofelia fu grata aver avuto l’opportunità di scorgerlo. Archibald era innegabilmente bello, di quella bellezza angelica e seducente che fa battere il cuore delle fanciulle e ribollire il sangue degli uomini gelosi. Ofelia si rendeva conto di non aver sposato un uomo eccezionalmente affascinante, ma non le importava perché Thorn era tutto quello che avrebbe mai desiderato, anche se era stata lenta a capirlo. In ogni caso, ora capiva per quale motivo Thorn fosse sempre stato rigido e scostante con Archibald accanto, in sua presenza. Chissà quante donne aveva visto scappare con lui proprio di fronte al proprio promesso sposo, o al marito.
Lei non avrebbe mai tradito Thorn, di quello era più che sicura, ma a vedere Archibald con quel sorriso sul volto si sentì arrossire mentre gli occhiali si tingevano di un tenue rosa. Chissà cosa avrebbero dato le donne per essere guardate in quel modo…
La voce morbida e caramellata di Vittoria la distrasse da quel sortilegio, facendole sentire ancora di più la mancanza di Thorn, se possibile. Il suo accento era lo stesso. – Lo so. Mi ricordo di voi, madrina.
Vittoria le sorrise timidamente e si avvicinò a lei per prenderle la mano. Poi si voltò di nuovo verso Archibald, come in attesa di ordini; le dita irrequiete e vuote dei guanti l’avevano fatta desistere. Lui le si inginocchiò di fronte, accarezzandole i capelli.
- Ora la tua madrina ci spiegherà cosa vuole che facciamo. Sarà divertente. Spero. Non si può mai sapere, con lei. È un po’ pazza, sai.
Vittoria sorrise e guardò Ofelia come se Archibald le avesse appena detto che le avrebbe regalato un sacco di dolci. Lei, dal canto suo, scoccò un’occhiataccia ad Archibald, che aveva la solita espressione canzonatoria sul viso. Era tornato in sé. O forse era tornato ad indossare la maschera, smettendo di essere se stesso.
Ofelia propendeva più per la seconda ipotesi.
- Siamo qui per ritrovare il cugino? Mamma dice sempre che voi siete in giro tutto il tempo per riportarlo a casa. Lo avete trovato?
Ofelia esitò, mentre le parole di Vittoria la facevano vacillare. Si sedette sul letto di Archibald, per quanto quella frase sembrasse indecorosa. Berenilde sperava ancora nel ritorno di Thorn, così come confidava nel fatto che lei sarebbe riuscita nell’intento. Non l’avrebbe delusa, si augurava, o avrebbe deluso anche se stessa.
- L’ho trovato, sì. Ma perché ho sempre saputo dove si trova. Il difficile è raggiungerlo, non trovarlo.
Vittoria aggrottò le sopracciglia, poi annuì come se in realtà avesse capito perfettamente il significato delle parole di Ofelia. Per qualche motivo seppe che era proprio così.
- Su, moglie di Thorn, madama Berenilde diventa un po’ isterica quando Vittoria si allontana per troppo tempo.
Ofelia lo guardò sgomenta. – Non l’avete avvisata?
Archibald si strinse nelle spalle, ma Vittoria glielo confermò con un cenno d’assenso. O forse confermò che sua mamma diventava particolarmente sensibile quando non l’aveva sotto controllo. Forse Berenilde non aveva cicatrici fisiche come Thorn, ma era a sua volta segnata nell’animo e certi sentimenti di apprensione e paura non sarebbero mai cambiati.
- Allora? – la incalzò nuovamente Archibald, prendendo in braccio Vittoria senza sforzo.
Ofelia prese un profondo respiro.
- Ho formulato una teoria.
Rimase in silenzio, mentre le dita vuote dei suoi guanti si muovevano impazzite. Vittoria sembrava ipnotizzata da esse, Archibald stava lentamente perdendo il sorriso.
- Mi sono informata sui poteri che qui al Polo prevalgono. So già cosa siete in grado di fare voi, Archibald, e credo che il vostro dono sia potente e utile, ma non da solo. Insieme a quello di Vittoria potrebbe aiutarmi a recuperare Thorn.
Archibald non sorrideva più. Il volto serio e concentrato non gli si addiceva, sebbene contribuisse a renderlo fascinoso in modo diverso. In ogni caso, Ofelia gli fu grata per quella presa di coscienza e attenzione.
- Cosa intendete dire?
- Ho letto molto in questo periodo. Ho studiato le peculiarità di tutte le arche per cercare di capire se e come potessero tornarmi utile. Paradossalmente, ho ignorato i poteri familiari del Polo, l’arca natia di Thorn, di certo l’arca che più mi sarebbe potuta servire.
Ofelia sorrise amaramente e scosse la testa. Le sembrava di parlare come Thorn, e le mancava la sua eloquenza trasparente e diretta, il suo modo di esporre i fatti con concretezza e decisione. A lei la voce già veniva meno e lo sguardo di Archibald non l’aiutava di certo a spiegarsi con chiarezza.
- Come ho detto, so bene di cosa siete capace voi. Avete poteri telepatici, che non sono sminuiti dalla recisione del contatto con la Rete. Avete soprinteso alla cerimonia del dono, permettendo a me e a Thorn di condividere i nostri poteri. Avete messo in collegamento le coscienze mia e di Elizabeth, scambiandoci le memorie. Inoltre, avete nelle vene il sangue di Madre Ildegarda, e la capacità di creare scorciatoie. Passaggi.
Distolse lo sguardo quando vide quello di Archibald adombrarsi. Aveva anche scoperto della sua malattia in quel modo, cosa che non gli faceva molto piacere.
- E Vittoria?
Ofelia prese un profondo respiro. – Vittoria ha un nuovo potere familiare, essendo una diretta discendente di uno spirito di famiglia. Un potere che nessuno aveva capito all’inizio, com’è stato correttamente riportato nelle varie enciclopedie familiari del Polo. Vittoria può viaggiare, può scindersi dal suo corpo, disincarnarsi in una forma eterea mentre il suo fisico si ferma e rimane sospeso in una specie di stasi, impotente. Sostanzialmente, Vittoria può diventare l’ombra, l’eco di se stessa e arrivare al Rovescio.
Archibald aggrottò le sopracciglia, imitato dalla bambina.
- Non avete torto, moglie di Thorn. Vittoria stessa mi ha fatto capire di avermi seguito a Terra d’Arco mentre il suo corpo rimaneva qui, una bambola inerte nelle mani della madre. Oh, Berenilde ha dato di matto, potete starne certa. Ma se avete letto queste fantomatiche enciclopedie come si conviene, saprete anche che Vittoria non ha più viaggiato da allora. Troppo pericoloso.
Vittoria sembrava più a disagio di chiunque altro, in quella stanza. Sembrava anche la più vecchia, e forse era la più saggia, data la disperazione che pervadeva i due adulti che discutevano. Disperazione che si manifestava sotto forme diverse, ma faceva ugualmente male. Vittoria sapeva che se si fosse scissa da se stessa in quel momento avrebbe visto un tripudio di ombre farsi lotta fra di loro.
Ofelia le sorrise. – Lo so. Questo però non significa che tu non sia in grado di farlo, vero Vittoria?
La bambina annuì con riluttanza.
Ofelia le si avvicinò e le accarezzò lievemente una guancia con un dito floscio. – Hai paura?
Vittoria annuì nuovamente. La piccola sapeva parlare, certo, ma questo non significava che l’eloquio le confacesse. Se poteva, evitava di proferire parola, e spesso si ingarbugliava e usava invece vocaboli che non esistevano.
- Perché hai paura, Vittoria?
La bambina esitò, guardò Archibald, che le sorrise incoraggiante, e poi disse: - Non voglio perdermi ancora.
Ofelia la osservò con perplessità. – Ti sei persa perché eri troppo lontana dal tuo corpo, vero?
Vittoria assentì.
- Come hai fatto a tornare?
Esitando, la piccola tirò fuori le parole a fatica. – Cugino mi ha aiutato.
Sia Archibald che Ofelia sgranarono gli occhi. Thorn e Vittoria non si erano mai visti.
- Come…? – mormorò Ofelia, incapace di formulare una domanda sensata.
- L’ho trovato di là. In un pozzo. Ero tanto lontana. Padrino non c’era. Mamma non c’era. Nessuno c’era. Ma cugino mi ha riportata dall’Altra Vittoria. Da Mamma.
- Tu non hai mai visto Thorn – le fa notare Archibald, serio.
- Era cugino.
Ofelia non indagò oltre: la parte più irrazionale di sé credeva ciecamente alle parole di Vittoria. Thorn aveva riportato indietro la figlia di Berenilde. L’aveva trovata nel Rovescio quando ci era entrato per causa di Seconda. Quella nuova rivelazione non faceva che avvalorare la tesi di Ofelia, che cercò di trattenere l’emozione.
- Non potete farla viaggiare, Ofelia. E non lo dico perché temo la furia di Berenilde, ma per Vittoria stessa. Quando ha smesso di proiettare all’esterno la sua mente è diventata anche in grado di camminare, muoversi e parlare.
Ofelia sorrise. – Non sarà lei a viaggiare, ma io.
Archibald la scrutò in silenzio mentre arrivava a comprendere il piano di Ofelia. Il cilindro sbrindellato gli cadde dalla testa, e Vittoria fissò la sua discesa con sconcerto. Poi fu distratta da Salame, come se niente fosse più importante al mondo. In fondo, era una bambina.
- Non posso eseguire una cerimonia del dono su voi e Vittoria. Questa è un’idea balzana persino per me, moglie di Thorn. Avete perso il senno. Non avrei mai immaginato che sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto ricondurre alla ragione…
La sciarpa di Ofelia, reagendo alle intenzioni della padrona, si attorcigliò al suo polso. Ofelia lo fissava con intensità inquietante, sorridendo sempre di più, estatica. Speranzosa.
- Non voglio assorbire il potere di Vittoria. Voglio che voi ci mettiate in contatto telepatico e fisico con i vostri due doni, che creiate un passaggio tra noi, e che Vittoria sfrutti questa connessione per proiettare mentalmente me.
Archibald appariva confuso. – Proiettarvi dove?
Vittoria guardava ai piedi di Ofelia, concentrata su qualcosa che solo lei sembrava notare. – Ombra-specchio.
- Esatto. Dentro lo specchio.
 
Pochi minuti dopo erano tutti in piedi di fronte allo specchio della camera di Archibald, con la porta ben chiusa.
- È una follia. Ve lo dico io, moglie di Thorn, e se lo dico io…
- Vuol dire che è folle follissimo – ripeté Vittoria ridendo.
Archibald aveva ripetuto quella parola talmente tante volte che Vittoria l’aveva presa e plasmata a proprio piacimento in innumerevoli vocaboli derivati senza significato. Ofelia pensò distrattamente che storpiare in quel modo la sintassi sarebbe stato un affronto, per Thorn.
- Non vi ho chiesto un’opinione, ma un’azione.
Archibald bofonchiò. Poi sorrise, ovviamente. – In ogni caso, era da tanto che non facevo qualcosa di folle. Morirei senza un po’ di brio, odio la monotonia.
Poi rise delle sue macabre parole e posò una mano sulla guancia della donna al suo fianco e della bambina dall’altro lato.
- Non funzionerà.
- Vi facevo più positivo, Archibald.
- Sono stato positivo tutta la vita e guardate dove mi ha portato – disse sorridendo.
Ofelia non gli diede retta.
- Avete capito tutto? Vittoria?
La bambina emise un mormorio che Ofelia interpretò come un assenso. Era ridicolo quello che stava cercando di fare, ma era tutto ciò che aveva.
Immerse una mano nello specchio, palmo e polso, e disse: - Ora.
Com'era accaduto tanto, tanto tempo prima, Ofelia si sentì sbiadire nelle coscienze altrui, diventando un uomo malato e una bambina piena di energie e con una visione del mondo distorta e percettivamente alterata. Sentì la sua pelle diventare pallida come quella di Vittoria e sentì la pelle di Archibald toccare entrambe mentre lei entrava in contatto con la bambina e diventavano un tutt’uno tutti e tre. Venne pervasa da un sentimento di ammirazione e affetto così profondo nei confronti di Archibald che se non fosse stata attenta avrebbe rischiato di dimenticare il suo amore per Thorn e sostituirlo con quello per l’uomo che le stava accanto, anche se quelle che provava erano le emozioni infantili di una bimba. Allora strinse gli occhi e fece emergere da dentro di sé tutto quello che provava per il marito, come un fiume impetuoso che travolse tutti e tre facendoli gemere per il dolore della mancanza, di quei due anni di lontananza, perché in quel momento amavano tutti Thorn.
Desideravano tutti Thorn.
Si fusero insieme e si separarono e Ofelia era Vittoria mentre Archibald era Ofelia e poi Vittoria divenne Archibald e i confini si fecero labili mentre la bambina usciva dal proprio corpo e Archibald vedeva le ombre di tutti che si sfalsavano e Ofelia percepiva i pensieri di tutti e una malattia giunta al suo parossismo che bruciava e bruciava e Vittoria si sentiva morire mentre si aggrappava alla gonna della madre e Ofelia si immergeva in uno dieci cento infiniti specchi e scappava fuggiva baciava le labbra di una dieci cento donne ma quello era Archibald che cercava di sopprimere la paura e Vittoria voleva tornare a casa e Thorn mancava mancava mancava e Vittoria viaggiò.
Thorn le mancava. Si proiettò fuori da sé. Thorn le mancava. Guardò se stessa da fuori. Thorn le mancava. Guardò la sua madrina e il suo padrino. Thorn le mancava. Rientrò dentro il proprio corpo. Thorn le mancava. E poi buttò fuori Ofelia.
Thorn mancava.
Finì tutto, silenzioso e immediato come un battito di ciglia. Ofelia si sentì leggera e priva di forma, incorporea e incosciente, i suoni e i colori le arrivavano ovattati. Poi si vide da fuori, con gli occhi vitrei e spalancati, al fianco di Archibald e Vittoria, entrambi con le fronti corrugate, concentrati al massimo. Ofelia tornò presente a se stessa. Vittoria aprì gli occhi, imitata da Archibald; essendo connessi, avevano entrambi percepito la proiezione mentale di Ofelia staccarsi da loro, lasciandosi solo un guscio vuoto alle spalle. I due le sorrisero, in grado di vederla. Ofelia diede loro le spalle e si tuffò nello specchio.
 
Come aveva pensato, come aveva sperato, sperato con tutta se stessa, uscì nel Rovescio. Quella proiezione mentale era quanto ci fosse di più simile ad un'eco, un'ombra, a cui non era precluso il viaggio tra i versi. Si trovava nella stessa camera in cui aveva lasciato il suo corpo, solo che i colori erano in contrasto e la simmetria era invertita. Guardandosi alle spalle, Ofelia vide Archibald, Vittoria e il suo corpo al di là dello specchio, e la sua stessa mano immersa in esso. Capì allora che in realtà, per tutti quegli anni, lei aveva sempre viaggiato attraverso il Rovescio, ma senza ma percepirlo. Era come se recto e verso fossero sullo stesso piano di esistenza, ma sfalsati gli uni rispetto agli altri, come la superficie di uno specchio che rifletteva ogni dettaglio ma non permetteva la collisione dei due mondi che venivano a crearsi, speculari e inversi. Infatti notò subito la consistenza nebbiosa della propria mano, come un alone su una foto, visibile ma non esistente. Immateriale.
Chiuse gli occhi con forza, disturbata da tutto quel bianco innaturale.
Si chiese dove potesse essere Thorn, dove avrebbe potuto cominciare a cercarlo. Fece un elenco dei luoghi da cui partire con l’indagine, ma quando si volse se lo trovò di fronte.
Alto. Magro. Rigido. Con le svettanti cicatrici nere sugli avambracci scoperti. Con gli occhi chiari che mandavano inquietanti lampi scuri, invece che argentei come se li ricordava. Con la gamba storpia posizionata ad un'angolatura del tutto innaturale.
Eppure la forza che emanava dal suo corpo, la sua determinazione, erano le stesse di sempre.
Ofelia notò solo in quel momento che ai propri piedi si agitavano scompostamente delle ombre nere, dotate di vita propria. Al contrario, sotto di sé Thorn aveva una pozza di liquida oscurità che si muoveva sinuosamente, placida. Solo per un attimo la vide diramarsi come un groviglio di rovi letali, ma fu un istante troppo breve per appurare se non fosse solo uno scherzo della sua mente.
Ofelia sentì le lacrime salirle lungo la gola, come se avessero avuto origine dal suo intestino, da dove risiedevano tutte le emozioni negative e alienanti che aveva provato nel corso di quei due anni. Paura, tristezza, solitudine, scoraggiamento, abbandono, gratitudine mista a rabbia per il gesto di salvezza che Thorn aveva compiuto per permettere a lei di salvarsi. Ma a che prezzo?
Le aveva promesso che lei avrebbe sempre avuto una scelta, che avrebbe avuto in mano i dadi del suo destino. Ironicamente, le mani non le aveva più, non completamente, e con la sua decisione di condannarsi all'esilio nel Rovescio per salvare lei Thorn le aveva tolto ogni possibilità di scelta. Le aveva imposto un'esistenza diversa da quella che lei voleva. Un'esistenza senza di lui.
Solo in quel momento si rese conto di come dovesse essersi sentito Thorn per la maggior parte della sua vita, costretto a subire le decisioni altrui, assaggiandole sulla pelle.
Rimase immobile, ad osservarlo, sentendo ancora di più la mancanza che aveva provato in quegli anni.
Aprì la bocca per parlare, ma con sua sorpresa non ne uscì nulla. Si spaventò appena prima di rendersi conto che era normale in quel mondo, che non era un problema solo suo. Ma aveva così tante cose da chiedere e dire a Thorn...
Prese atto in ritardo del fatto che lui era fermo, rigido, corrucciato come al solito ma con una parvenza di timore negli occhi.
Ofelia si spaventò. E se lui non l'avesse riconosciuta? Se gli fosse successo qualcosa in quegli anni? Il Rovescio non rispondeva alle stesse regole del loro mondo...
L'oscurità piombò su di lei, più nera del nero, più nera di quanto fosse quel luogo già fin troppo scuro. Ma era un'oscurità calda, un'oscurità che le fece venire voglia di piangere sebbene non ci riuscisse. Un oblio che la accecava con la sua luce. La fece infuriare non poter buttare fuori tutto il dolore che portava dentro. Ricambiò comunque l'abbraccio di Thorn, temendo che potesse allontanarsi.
Non gli avrebbe permesso di far durare quell'abbraccio solo cinque secondi, come suo solito. Sorrise e scosse la testa al pensiero. Lo aveva appena ritrovato, e già la sua presenza aveva cancellato quei giorni, mesi, anni di isolamento, colmando il vuoto dentro di lei al punto che traboccava.
Si ritrovarono accasciati sul pavimento, incapaci di sostenere i propri corpi, e ad Ofelia venne in mente la prima volta che Thorn l'aveva stretta tra le braccia in quel modo, come a voler tenere insieme tutti i suoi pezzi. Anche in quell'occasione la circostanza non era stata felice, dato che Ofelia aveva rischiato di morire a causa di un'illusione del barone Melchior. La presenza solida di Thorn le dava sempre, imprescindibilmente la forza di continuare a respirare, a vivere anche quando faceva male.
Non seppe dire per quanto tempo rimasero in quella posizione, con le braccia intrecciate, i corpi uniti.
Thorn si scostò poco tempo dopo, o tanto tempo dopo. Non aveva alcun significato lo scorrere dei secondi, lì.
Allungò una mano ossuta, quella mano che Ofelia trovava tanto elegante e forte, e con estrema delicatezza le accarezzò una guancia, asciugandole con il pollice una lacrima che non esisteva.
Si baciarono quasi con timore, come se paventassero la scomparsa dell'altro se fossero entrati in contatto; terrorizzati all'idea di svegliarsi, di scoprire che era tutto falso, che non si erano ricongiunti. Invece era tutto vero, e la pressione delle labbra di Thorn fu leggera ed esitante come la prima volta che l'aveva baciata, sulla muraglia del Polo, ma divenne ben presto insistente e profonda come la seconda volta che lo aveva fatto, quando erano crollati una sopra l'altro nella stanza dell'Ordinatore a Babel.
Approfondirono il contatto più che poterono, stringendosi quanto fosse fisicamente possibile, desiderandone ancora, trattenendosi per non consumarsi in quel fuoco che li stava sciogliendo dall'interno, come olio bollente nelle vene. Quando Ofelia si aggrappò a lui, ai suoi vestiti vecchi di anni ma non per questo rovinati, si rese conto con stupore di riuscire a farlo. Mosse le dita senza smettere di baciare Thorn, usandole per avvinghiarsi a lui, stringerlo, toccarlo. Thorn sgranò per un istante gli occhi prima di rispondere con lo stesso impeto. Sapeva che una volta tornata nel proprio corpo le sue mani sarebbero nuovamente state mutilate, ma non le importava. Non era riuscita a trattenere Thorn quando aveva cercato di tirarlo fuori dallo specchio, e la mano immateriale che bucava quello alle loro spalle era ancora senza dita, eppure sapeva che questa volta ce l'avrebbe fatta. Che l'avrebbe tirato fuori ad ogni costo. Intrecciò la mano alla sua sorridendo, commuovendosi quando sentì le sue lunghe dita affusolate racchiudere le sue, piccole e delicate, nella propria stretta. Erano poche le volte in cui aveva preso Thorn per mano, tante le volte in cui avrebbe voluto farlo. Si godette quella sensazione più che poté, desiderando di essere riuscita ad ereditare anche la memoria degli Storiografi per conservare il ricordo indelebile di quel momento nel suo cervello. Invece sorrise, perché non le importava più nulla a parte il presente, la loro riconciliazione.
Finalmente lo aveva trovato, nel qui e nell'ora.
Non si rese nemmeno conto di aver cominciato a sbottonare la camicia di Thorn finché lui non la bloccò per i polsi. Negli occhi gli ardeva una luce che scaturiva da intense emozioni contraddittorie: desiderio di avvicinarla e insieme allontanarla, disperazione e beatitudine, paura e bramosia. Scosse impercettibilmente la testa, e Ofelia sapeva che sarebbe avvampata se la sua pelle non fosse apparsa nera. Non potevano... non lì. Non era il momento, non quando Archibald e Vittoria erano legati a lei mentalmente. Si districò dal groviglio di braccia e gambe e si rialzò di scatto, perdendo l'equilibrio. Thorn fu più lesto di lei ad alzarsi e afferrarla, lasciandola poi andare quasi con riluttanza. Quel posto sembrava aver conferito al suo fisico ancora più scioltezza e velocità, come se fosse slegato dai limiti che la realtà imponeva ai loro corpi.
Avrebbe voluto chiedere a Thorn cosa gli fosse successo in quei due anni, come avesse fatto a sapere che lei era proprio lì, come avesse vissuto e cosa avesse scoperto, ma non aveva parole per esprimere la sua curiosità.
Chiuse gli occhi, desiderando tornare all'intendenza, ad anni prima, quando di notte sgattaiolava nell'ufficio di Thorn nei panni di Mime. Avrebbe fatto le cose diversamente se fosse tornata indietro? Sì, alcune cose le avrebbe cambiate. Innanzitutto: si sarebbe goduta i pochi momenti sola con Thorn all'intendenza, quando erano insieme, senza schermi, orecchie indiscrete o chaperon. Rimpiangeva di aver perso quell'opportunità.
Come rispondendo al suo rimuginare velleitario, l'ambiente attorno a lei cambiò. Fu sommersa dalla nebbia, da un bianco abbacinante, e si aggrappò a Thorn chiudendo gli occhi.
Quando li riaprì si trovò proprio all'intendenza. Il funzionario scansafatiche che aveva preso il posto di Thorn stava oziando mentre il telefono suonava, a giudicare dalle vibrazioni dell’apparecchio e dalle occhiate torve dell'intendente. Questo Ofelia lo vedeva dall'altra parte della specchiera nuova che l'uomo aveva fatto appendere di fianco alla porta della stanza. Quella in cui si trovava lei era il riflesso della camera vista attraverso lo specchio. Non le giungevano parole, i colori erano normali anche se annacquati come in un acquerello, ma la scena era comprensibile e nitida. Dov'erano loro, invece, non c'era nessuno. Ofelia capì come Thorn avesse fatto a sapere dov'era lei: l'aveva seguita attraverso gli specchi. Per due anni.
Divisi da un sottile strato di vetro. Impossibilitati ad entrare in contatto.
La rivelazione era così ridicolmente paradossale che Ofelia rise senza emettere un suono.
Scosse la testa. Thorn, di fianco a lei, si era fatto rigido nel vedere lo stato di abbandono e disordine in cui versava il suo vecchio ufficio. Di nuovo, Ofelia vide le ombre ai suoi piedi agitarsi e allungarsi in rovi spinosi, ma questa volta ebbe la certezza di averli visti. E capì anche che erano gli artigli di Thorn, la proiezione del suo potere familiare.
Lui le afferrò la mano all'improvviso e il panorama cambiò nuovamente.
 
*
 
Tornarono nel riflesso della camera di Archibald, bianca. Bianca. Bianca.
Ormai Thorn si era abituato allo straripamento dei suoi numerosi pensieri, allo strabordare della sua memoria che non conosceva confini in quel luogo-non-luogo, nel Rovescio (rovescio, invertito, Ofelia).
Non era piacevole conviverci, e Thorn non avrebbe saputo dire se fosse meglio lottare contro i suoi artigli o la sua memoria incontenibile. Forse contro gli artigli, dal momento che lì non rischiava di ferire nessuno e il dolore, qualsiasi dolore fisico, era tollerabile. Ovviamente, quindi, quel potere non gli dava più problemi.
Thorn non sapeva se sarebbe uscito, ma al di là dello specchio (riflesso, Eulalia, Ofelia) vedeva Archibald, che scatenò in lui un mare di ricordi confusi e amari, Vittoria (bianca, cugina, Faruk, Berenilde) e il corpo di Ofelia, il suo vero corpo (Babel, erba alta, matrimonio). Ofelia non poteva rimanere lì con lui. Aveva aiutato Vittoria a tornare da sua madre, sapeva quindi che Ofelia sarebbe rimasta in uno stato di sospensione finché non fosse tornata in sé. Come ci sarebbe riuscito non lo sapeva (missione, Corno dell'abbondanza, dadi), ma era sicuro che avrebbe fatto di tutto per rimandare Ofelia nel Dritto; perché vivesse.
Il suo sguardo fu attratto dalla sua mano (mano, madre, mutilazione, memoria), dalla mano che Ofelia aveva immerso nello specchio, ma che non era effettivamente lì. Era anch'essa una proiezione (ombra, eco, Rovescio), la proiezione di un oggetto che attraversava un luogo per raggiungerne un altro ma non passava realmente per quello spazio.
Era una mano senza dita (dita, lettura, Ofelia, Libro). Non sapeva che cosa fosse capitato ad Ofelia per perderle, sapeva solo che non era riuscito a trattenerle quando lei aveva provato ad afferrarlo per tirarlo fuori da lì (due anni, un mese, cinque giorni, sette ore, ventotto minuti, quattro secondi).
Fu spinto da un impulso errante a toccarla, e allungò il braccio per farlo, ma incontrò solo aerargyrum. Quella mano non era davvero lì.
Sentì invece il tocco dell'Ofelia-proiettata, che gli aveva afferrato la manica (Sabbie d'Opale, Polo, famiglia animista, matrimonio) e lo guardava con affetto e un'incalcolabile quantità di altre emozioni nascoste negli occhi neri.
Fu lei ad afferrare la sua stessa mano, che divenne solida a quel contatto. Fu lei ad aggrapparsi a lui con l'altro braccio, invitandolo a prendere quella mano che prima era immateriale (eco, aerargyrum, Corno dell'abbondanza, Altro).
Fu lei a tirarlo fuori dallo specchio.
Specchio. Attraversaspecchi. Ofelia.
 
*
 
- Ce l'ho! - gridò Ofelia tornando in sé. - Aiutatemi a tirarlo!
Aveva funzionato. Lo aveva trovato. La connessione di Archibald e il potere di Vittoria l'avevano aiutata ad individuare Thorn. E ora doveva farlo passare attraverso lo specchio grazie al suo potere di attraversaspecchi e a quello di Vittoria. Ofelia si sarebbe concentrata in un secondo momento sulle implicazioni di quella riuscita, sulla conclusione del suo pellegrinaggio; prima voleva vedere Thorn di fronte a lei, fuori dallo specchio.
- Devo mantenere la connessione - mormorò Archibald tra i denti, affatto sorridente. – Appena si romperà non saremo in grado di fare alcunché, moglie di Thorn. Ricordate?
Certo che ricordava. Archibald svenuto a terra dopo aver interrotto il legame con lei ed Elizabeth; quest’ultima rannicchiata, gemente, inerte; la sua difficoltà ad affermarsi come entità individuale, dopo essere stata Eulalia, Elizabeth e Archibald insieme. Una vecchia, una smemorata, un malato.
Ofelia immerse anche l'altro braccio nello specchio, affinché Thorn potesse aggrapparvisi. Lui lo fece, stringendole le braccia fino a farle male, ma non si sarebbe lamentata minimamente. Avevano poco tempo.
Vittoria, seppur vicina ad Archibald e connessa a lui, riuscì ad andare in soccorso della cugina afferrando e rinsaldando la presa delle mani di Thorn sulle braccia di Ofelia. Avevano oltrepassato la soglia dello specchio, erano visibili, reali. Ofelia si sarebbe stupita della forza di Vittoria in quel frangente, se fossero stati in un’altra circostanza. Eppure la bambina ansimava, stremata.
Le mani di Thorn erano lì, vere…
Bastava solo fare uscire il resto del corpo.
Ofelia avrebbe stretto i pugni se avesse potuto, e in mancanza d'altro digrignò i denti e chiuse gli occhi.
Le sembrava che Thorn le remasse contro invece di aiutarla. Opponeva resistenza.
Poi sgranò gli occhi quando si rese conto di aver dimenticato una cosa fondamentale.
Per tornare nel mondo al dritto bisognava cedere al mondo al rovescio una contropartita simbolicamente equivalente. Se non si rispettava la regola si sarebbe dato nuovamente vita al ciclo delle inversioni e contro-inversioni che per decenni avevano lacerato il mondo. I mondi. I sacrifici di tutti, Elizabeth, Renard, Gaela… Ambroise… tutto vano.
Ofelia trasalì sotto il peso di quella consapevolezza, e Archibald e Vittoria, legati a lei, vacillarono a loro volta, inclinandosi. Archibald rinsaldò la carezza sulle loro guance, per non perdere il contatto.
Thorn doveva pagare per uscire da lì, o non sarebbe stata una vittoria, ma un annientamento.
Ofelia lo tirò ancora, sentendo le forze venire meno. La resistenza aumentò.
E poi svanì.
La contropartita era stata ceduta.




Nota
Punto 2: se avete idee su quale debba essere la contropartita pagata da Thorn, fatemelo sapere, sono ben lieta di discuterne. Io ho già scelto 3 possibile contropartite, vediamo se le indovinate. Una però è mooooolto drastica e temo sarà impopolare ma, va be', tanto la Dabos ci ha fatto finire il libro così quindi mi metto a sperimentare pure io. Cose paradossali xD
Quindi la parte 2 riguarderà 3 finali che seguiranno il pagamento di una specifica contropartita.
Poi ci sarà l'ultimo finale che per me sarà il più straziante ma forse per voi no.
Grazie a tutti a prescindere♥

 

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Capitolo 3
*** Lieto fine forse - Contropartite ***


Ho così tante cose da dire... perdonatemi in anticipo c.c
Per prima cosa volevo fare i complimenti a:
- Giulia_Ambrosi, che ha azzeccato una teoria ma ha anche capito che alla base volevo riguardassero i poteri familiari, anche quella che forse temeva di più (scusa...) e mi ha dato un suggerimento molto carino sull'orologio che ho inserito brevemente nel primo finale. Grazie mille.
- Missgenius... che ha indovinato la peggiore, con terrore (scusami anche tu...).
- Leon99 che mi ha sparato un sacco di teorie interessantissime (grazie*-*) e ne ha beccata in pieno una e l'altra, quella peggiore che mi ha offerto con una doppia alternativa, l'ha sfiorata alla radice. Io ho sfruttato una via di mezzo tra le due idee.
Detto ciò, grandissime ;)
Io ormai mi sono così affezionata a queste tre versioni che, anche se prima ne avevo una preferita, ora non so più quale sia. Una volta era la prima, la cessione degli artigli, e in parte è ancora così, ma anche la seconda teoria che nessuno ha indovinato mi sembra verosimile. Poi dovrete dirmelo voi se siete d'accordo o no. Per quanto riguarda l'ultima, la peggiore, quella che tutti temete, mentre scrivevo ero sempre dubbiosa se continuarla o meno, perché Thorn senza quella specifica parte di sé non è Thorn. Però... forse non sarebbe un male. Sì lo so sembra un'eresia e merito la fustigazione, ma spero di riuscire a convincervi attraverso i pensieri di Ofelia.
Spero proprio che vi piacciano queste tre alternative, e spero che non mi linciate per l'ultimo ahahahha.
Grazie mille e buona lettura♥


Lieto fine forse - Contropartite

1. Artigli
Thorn schizzò fuori dallo specchio come se lo stesso Rovescio avesse voluto sbarazzarsi di qualcosa di indesiderato.
La connessione con Archibald e Vittoria si ruppe così bruscamente, quando Thorn uscì dalla sua prigione, che Ofelia non seppe se il dolore che le lacerava il corpo fosse causato dal brutale atterraggio delle ossa di Thorn sopra di lei o dalla fatica di tornare ad essere una persona sola, unica, che seguiva la recisione del legame creato grazie al potere di Archibald.
Ofelia rimase semisvenuta sul pavimento della camera di Archibald per un tempo che le parve infinito, in attesa che i suoi organi interni, la sua pelle, la sua mente e tutto quello che li contornava tornassero al loro posto. Quando riuscì a riaprire gli occhi, però, si rese conto di essere ancora schiacciata sotto Thorn, che la fissava con sguardo impassibile e non accennava a volersi scostare. Dedusse che quindi non era rimasta priva di sensi per così tanto tempo, ma se ne rese conto a malapena. Tutta la sua attenzione, tutta la sua lucidità e consapevolezza erano catturate dall'uomo che la sovrastava.
Magro come al solito. Con il volto affilato e la mascella contratta come al solito. Le sopracciglia increspate al punto quasi di unirsi e di congiungere persino le due cicatrici che gli attraversavano il viso per il lungo. Come al solito. Il suo cipiglio. Le spalle larghe e ossute. I capelli biondi così chiari da essere quasi argentei, pettinati con cura. La stempiatura che si stava lentamente accentuando. Il naso imponente, anch'esso rigoroso come un genitore severo. Come al solito.
E gli occhi...
Ofelia sentì i suoi riempirsi di lacrime e non provò nemmeno a trattenerle. Lasciò che le inondassero le guance, i capelli, le orecchie nella loro discesa verso il pavimento.
Quegli occhi metallici, non più neri, finalmente, che la fissavano con intensità da sotto le sopracciglia chiare; quegli occhi taglienti come rasoi e fissi come quelli di un rapace, che sapevano lanciare occhiatacce eloquenti ed efficaci come nessun altro; quegli occhi che sembravano sempre privi, svuotati di qualsiasi forma di amore, ma che erano bloccati su di lei colmi di un innegabile affetto... e di commozione.
Thorn sbatté le palpebre per scacciare quel leggero velo umido che vi si era posato sopra, ancora più contrariato per quella perdita di controllo.
Ofelia invece non se ne vergognava assolutamente. Allungò le braccia per abbracciare il marito e stringerlo con forza a sé. Voleva avere la certezza che fosse tutto vero, che Thorn fosse davvero lì con lei. Prima di potersi rendere conto che il braccio le faceva un male indicibile, però, Thorn le piazzò di fronte al naso il suo orologio da taschino.
- Controlla... il riflesso - mormorò imperiosamente, con una voce scricchiolante non solo a causa del suo accento.
Dopo due anni passati nel più completo silenzio sarebbe stato un miracolo riuscire anche solo a pronunciare un suono inarticolato. Thorn invece già parlava comprensibilmente.
Ofelia si sentì scoppiare una risata in petto, ma venne scossa dai singhiozzi invece che dall'ilarità.
Temendo che fosse ferita fisicamente, Thorn si affrettò a spostarsi per lasciarle spazio. Trattenne il respiro rumorosamente quando si rese conto che in quel mondo le leggi della fisica funzionavano correttamente, e dunque che la sua gamba storpia non poteva più sorreggerlo come aveva fatto nel Rovescio. Imprecò fra i denti mentre collassava sul letto di Archibald.
Quest'ultimo recuperò flemmaticamente il cilindro da terra e, dopo averlo spolverato come se fosse la cosa più nuova e preziosa del mondo, se lo rimise in testa.
- Su, su, ex intendente. Non è il caso di far ricorso ad un simile turpiloquio di fronte ad una signorina.
Thorn si irrigidì, irritato. Gradiva assai poco che la seconda persona pronta ad accoglierlo al suo rientro fosse proprio Archibald, tra tutti. Non si aspettava però, si rese conto Ofelia, che la terza persona fosse la cuginetta. La bambina, nascosta dietro Archibald, si teneva una mano sulla fronte come se fosse preda di un dolore indicibile, e forse era proprio così. Persino Archibald sembrava indebolito, e il suo sorriso era attraversato da una ben distinguibile smorfia di sofferenza.
Quando però Vittoria alzò lo sguardo sul cugino, impallidì, rischiando di far assumere alla sua carnagione lo stesso colore dei capelli candidi. Senza esitazione eppure lentamente, come se si trovasse al cospetto di una Bestia, Vittoria staccò le mani dalla giacca sbrindellata di Archibald e si diresse verso Thorn. Si squadrarono a vicenda senza nemmeno battere le palpebre. L'incanto venne rotto quando l'orologio da taschino che Thorn teneva ancora in mano batté il suo tac-tac nervoso. Come se avessero comunicato telepaticamente, Thorn lo ripose proprio mentre Vittoria si arrampicava sulle sue gambe. Il cugino l'aiutò a salire e, una volta che la bambina fu seduta in braccio a lui, lo abbracciò come se fosse la cosa più naturale del mondo. Nascose il viso nel suo petto perché quella era l'altezza cui arrivava, e rimase ferma, a suo agio, aggrappata a Thorn come se fosse una sua proprietà. La cosa che più stupì Ofelia non fu il fatto che Thorn le permise di farlo, ma che addirittura ricambiò la sua stretta. Da che aveva memoria, Ofelia aveva visto il marito entrare in contatto fisico solo con lei.
Una piccola parte della sua coscienza, resa meschina dagli anni di solitudine, si ingelosì di fronte alla consapevolezza che non era più l'unica di cui Thorn tollerasse il tocco.
Poi però vide l'accettazione con cui il marito consolava la cuginetta, vide i tratti del suo viso addolcirsi, per quanto possibile, lo vide usare una premura tutta nuova, preda del timore che la bambina potesse essere troppo fragile per le sue braccia ossute ma forti.
Non aveva niente a che vedere con gli sguardi che aveva sempre rivolto a lei, intensi, colmi di bisogno, di passione, di una richiesta mai esternata ma palpabile, sguardi in cui albergava un sentimento sconfinato di lealtà, devozione, gratitudine e necessità. Con Vittoria tra le braccia invece sembrava essere tornato ad essere anche lui un bambino, un bambino non più maltrattato e indesiderato, ma uguale agli altri, voluto dalla propria famiglia, accettato.
La gelosia si dissipò e nel cuore di Ofelia rimase solo una malinconia agrodolce: aveva scoperto ciò di cui Thorn aveva davvero bisogno, ma non sarebbe mai stata in grado di darglielo.
Provò ad alzarsi, scoprendo che non riusciva a muovere una gamba, e il solo provare a spostarla le scatenò un dolore atroce che le fece brillare lampi bianchi di fronte agli occhi. Thorn se ne accorse e si scostò da Vittoria.
L'ultima cosa che Ofelia vide fu la figura preoccupata di Thorn che si chinava su di lei.
 
Ofelia si svegliò in una stanza scarsamente illuminata che non riconobbe subito. Solo dopo vari battiti di palpebre e con l'aiuto della sciarpa, che le rimise gli occhiali sul naso, capì di essere a casa di Berenilde. Ofelia provò a muoversi, ma le risultò particolarmente difficile provare a spostarsi.
- Avevo promesso che non ti avrei mai fatto del male.
Ofelia sussultò. Quella voce tagliente era giunta da una sedia a fianco al letto, su cui se ne stava seduto rigidamente Thorn. Era stata così confusa dall'ambiente da non essersi accorta della sua presenza. Thorn inoltre se ne stava così immobile da rendere facile confonderlo con l'arredamento.
Farle del male? Ofelia sollevò le coperte e vide che la sua gamba era strettamente fasciata dal ginocchio al tallone. Le formicolava sotto quell'ammasso di bende e, a giudicare dalla rigidità, sostegni di metallo, ma non le causava dolore.
Si rese conto solo allora che doveva essere stato Thorn a romperle la gamba, atterrando su di lei dopo essere uscito dallo specchio. Distrattamente rifletté anche sul fatto che ogni volta che erano implicati uno specchio e il Rovescio, lei si rompeva inevitabilmente qualcosa.
Ripensò anche a quando Thorn aveva involontariamente usato gli artigli su di lei. Allora il dolore era stato decisamente peggiore, anche se la causa era da imputare all'ignoranza di Ofelia circa la condizione incontrollabile del potere familiare di Thorn: non l'aveva attaccata volontariamente. Non se n'era nemmeno accorto.
Lo stesso valeva per quella volta.
- Non è stata colpa tua.
Thorn si accigliò. - Il mio ginocchio ti ha fratturato la tibia e poco ci mancava che il perone finisse nello stesso modo.
Ofelia lo guardò con quello che pensava essere un volto inespressivo, troppo sconvolta dagli eventi per concentrarsi su ciò che Thorn le stava dicendo. Lui però fraintese, perché strinse narici, labbra, occhi, costernato.
- La gamba ti guarirà completamente - la rassicurò, confondendo la sua espressione con la paura di rimanere storpia. - Non rimarrai danneggiata...
Ofelia non rispose. Si chiese se fosse stato tutto un sogno: la ricerca, quei due anni, il salvataggio...
Sembrava che fosse lei quella che era appena stata estratta dal Rovescio, confusa e intontita com'era. Pareva che lei e Thorn si fossero visti l'ultima volta il giorno prima, non mesi e mesi addietro, in circostanze tutt'altro che normali.
- Cosa... come... tu... - balbettò arruffatamente.
Thorn non smise per un attimo di fissarla mentre si chinava su di lei con la sua lunghissima colonna vertebrale. Si mosse lentamente quasi avesse paura di spaventarla. Quando le sue braccia finalmente la circondarono, calde, solide, ossute e cosparse di cicatrici, Ofelia scoppiò in lacrime senza ritegno o preavviso. Desiderò potersi aggrappare a lui come aveva fatto nel Rovescio, ma non aveva di nuovo più le dita e mai come in quel momento ne aveva sentito la mancanza. Lui parve intuirlo e la strinse di più a sé, facendosi inzuppare la camicia di lacrime. Ofelia chiuse gli occhi e i ricordi di quando Thorn l’aveva stretta a sé dopo l’attacco del barone Melchior la fecero singhiozzare ancora più forte; quella volta aveva capito che l’abbraccio di Thorn era il posto a cui apparteneva. E in quel momento, finalmente, era tornata a casa.
Thorn attese pazientemente che si calmasse, senza mai dare segno di impazienza o fretta. Era stato lontano dal mondo per anni e l’unica cosa che lo angustiava era la sua salute. La sua lealtà sfiorava quasi l’ossessività.
Quella situazione era talmente surreale che Ofelia ci mise parecchio per rendersi conto che ancora non aveva capito cosa Thorn avesse ceduto per poter uscire da quel luogo infernale. Non le era sembrato che fisicamente gli mancasse qualcosa, dunque cosa mai poteva aver barattato di valore equivalente alla libertà?
I suoi occhi corsero all’orologio da taschino istintivamente, ma quell’oggetto tanto caro a Thorn era ancora al suo posto, di fianco a lei, dentro la tasca.
Ofelia si scostò dopo un tempo che le parve estremamente dilatato e la sciarpa l’aiutò a soffiarsi il naso.
Thorn assottigliò gli occhi nel far caso a quella menomazione. Era impossibile che non se ne fosse accorto, lui, a cui non sfuggiva nemmeno un graffio, ma forse doveva ancora somatizzare la portata di quella perdita.
- Le tue dita – disse infatti, come se quelle tre parole valessero come spiegazione. – No puoi più leggere?
Ofelia scosse la testa. – Senza le dita non ho potere. Sono solo un’attraversaspecchi, ormai – mormorò, mentre la sciarpa metteva sul comodino il fazzoletto umido. Poi sorrise tristemente. – Con qualche artiglio. È venuto meno il requisito per il quale sono stata scelta come tua moglie. Cosa te ne farai di me senza le mie mani, ora?
Thorn si incupì. – Pensavo di aver chiarito da tempo che per me non sei, e non sei mai stata, solo un paio di mani. Oltretutto, non ha più significato la lettura del Libro…
Thorn si bloccò, disorientato. Il suo volto a dire il vero non lasciava trapelare nulla, ma Ofelia lo conosceva bene nonostante gli anni di lontananza. Thorn concludeva sempre una frase o un pensiero. In caso contrario, era turbato.
Ofelia gli spiegò quindi, intuendo la natura della sua perplessità, cosa fosse successo da quando si era immolato per non trascinare pure lei nel Rovescio, barricandosi al suo interno. Gli raccontò di come la sua famiglia l’avesse trascinata fuori dallo specchio del bagno del Memoriale, del suo eco, che aveva fatto sparire per sempre il Corno dell’abbondanza, di Renard e Gaela, morti per salvare tutti, di Elizabeth, dell’Altro, della sua memoria, di quei due anni.
Dei mesi passati a cercarlo.
- Com’è possibile che tu sia così… presente? – chiese quando ebbe finito. La sciarpa le allungò un bicchiere d’acqua, ma permise a Thorn di accostarlo alle labbra di Ofelia per farla bere. – Sembra che tu sia stato lontano solo due giorni. Non hai parlato per due anni – bofonchiò.
Era fuori dal comune che l’eloquenza di Thorn non avesse risentito della sua permanenza nel verso. Ma Thorn era fuori dal comune. In ogni caso, non aveva proferito parola mentre lei parlava.
- Ho ugualmente conservato la capacità di pensare – le fece notare, aggrottando però le sopracciglia, come se stesse omettendo qualcosa che Ofelia non poteva capire. – Anche un po’ di più.
Il sorriso le sorse spontaneo sulle labbra. Era costretta a letto con una gamba rotta, ma era a casa. Ovunque fosse quella stanza, era a casa. Perché Thorn era lì.
- Tu invece cos’hai fatto in questi anni?
Thorn si schiarì la voce. – Due anni, tre mesi e due giorni se il tempo non mi ha ingannato.
Ofelia non avrebbe saputo dirlo con precisione, ma lo diede per corretto. Aspettò che Thorn parlasse.
Non gli fu facile all’inizio, e Ofelia poté vedere come in effetti il silenzio prolungato lo avesse colpito. La sua parlantina sciolta tornò mano a mano che parlava, e il racconto stentato e scarno di cosa fosse successo venne arricchito di impressioni personali, riflessioni e… confidenze.
Thorn non glielo disse apertamente, ma Ofelia capì come la solitudine avesse pesato su di lui. Il modo in cui le rivelò di averla seguita usando gli specchi come finestre, l’assoluta impotenza che aveva provato ogni istante nel guardarla, così vicina eppure irraggiungibile, la pena per l’esistenza a cui l’aveva costretta.
- Ho cercato anche io di tornare, non dubitarne. Mi… mi sentivo responsabile della tua infelicità e del tuo pellegrinaggio. Ti avevo costretta io a condurre quella vita. Non lo avrei voluto. Quando ho lasciato la presa è stato perché speravo di salvarti. Non volevo trascinarti con me in quel… - mormorò digrignando i denti. Le parole “illogico”, “inclassificabile” e “caotico” gli uscirono tra i denti come se fossero foglie amare di tè, e Ofelia avrebbe riso per la sua incapacità di tollerare il non ordinario se non fosse stata così evidente la sua pena.
- Non ti ho lasciato scelta, alla fine. O meglio, le scelte che ti ho offerto non erano quelle che avrei voluto darti al principio.
Ofelia gli posò un palmo sulla guancia, guardandolo con quella che sperava fosse un’espressione di affetto e amore incondizionato.
Thorn si schiarì la gola e distolse lo sguardo, ma non si sottrasse al suo contatto.
- Tu hai restituito al mondo i suoi dadi, Thorn. Hai dato a ogni singolo individuo una scelta che senza di te non avrebbero mai avuto. Poco importa che le mie possibilità siano state limitate, sei stato tu a sopportare il fardello più grande. Per tutta l’umanità.
Ofelia lo fissò intensamente, ma continuò a parlare quando si rese conto che Thorn non aveva intenzione di ribattere.
- Mi avevi detto che non aspiravi a liberare il mondo, volevi solo essermi indispensabile – sussurrò. Le lacrime tracimarono nuovamente, e Ofelia se le asciugò con gesto stizzito. La gioia di averlo ritrovato, il dolore per averlo perso, l’ansia di non riuscire a raggiungerlo si mischiarono in lei nuovamente. Thorn forse aveva accusato il colpo meglio di lei, nonostante avesse sopportato il calvario peggiore. Significava che Thorn era riuscito nel suo intento.
Le era diventato indispensabile. Anche molto di più.
- Lo sei, Thorn. Sei diventato fondamentale per me, ma hai comunque anteposto il mondo a me. A noi. Se solo avessimo… se solo avessi resistito. Potevamo farcela.
Thorn la seppellì nuovamente nel suo abbraccio, incerto su come muovere le mani. Non era mai stato avvezzo a consolare qualcun altro, e i due anni di isolamento non avevano fatto altro che esacerbare questa lacuna. Avevano scavato un nuovo solco tra di loro, una voragine a cui Ofelia sentì l’impellente bisogno di porre fine.
- Ho bisogno di te – mormorò, cercando la sua bocca.
- Pure io – rispose lui quando finalmente la trovò. – Anche un po’ di più.
A nessuno dei due importava delle loro gambe, una irrimediabilmente storpia e l’altra rotta, o della mancanza delle dita di Ofelia, o degli altri problemi che avrebbero dovuto affrontare. Degli incubi con cui avrebbero dovuto convivere, delle privazioni che avrebbero dovuto sopportare, della vita che avrebbero dovuto costruire da zero. Dell’incertezza del loro avvenire.
Nulla aveva importanza in quel momento, se non la loro presenza reale. Fisica. Tangibile.
Il fatto che fossero vivi. Insieme.
Thorn chiuse a chiave la porta prima di dirigersi verso Ofelia e sovrastarla con pochi movimenti abili. Lui, al contrario di lei, era sempre stato consapevole del suo corpo, dello spazio che occupava e del modo in cui si muoveva. Ofelia si affidò a lui perché riuscisse a restituirla a se stessa, a riempire la desolazione che serbava in cuore, a farla sentire completa.
- Sicuro che non verrà nessuno? – gli chiese poco dopo, interrompendo un lungo e lento bacio.
- Sei rimasta incosciente per ventisette ore, e adesso è notte fonda. Riceveremo le prime visite domattina.
Ofelia si rese conto di avere ancora tante domande da porgli, ma lo strinse di più a sé affinché non si allontanasse.
- Come è stato il ritrovo con tua zia?
Thorn, che si stava già avvicinando per ricominciare il bacio, si bloccò bruscamente. – Si è dimostrata entusiasta. Anche un po’ di più. Ha pianto, ha… urlato, e in altri modi rumorosi e inopportuni ha detto di essere felice che fossi finalmente a casa. Avrebbe continuato ad abbracciarmi e invadere il mio spazio vitale se non le avessi fatto notare che tu eri riversa per terra, incosciente. Tua zia e Archibald stavano cercando di metterti a letto, e quell’individuo stava indugiando un po’ troppo con le mani su di te, a mio parere, così l’ho scansata per aiutarli. Mia zia si è quietata solo quando ha visto la figlia, per poi rischiare un attacco isterico quando si è accorta che rischiava una sincope.
Ofelia scosse la testa. Accolse nuovamente le labbra di Thorn sulle sue, rendendosi conto che l’indomani avrebbe dovuto affrontare entrambe le loro zie. In quel momento però niente le faceva paura. Non tra le braccia di Thorn, circondata dal suo corpo caldo e solido, dalla sua voce ruvida contro l’orecchio e dalle sue erre scricchiolanti, tipiche del Polo, che le facevano vibrare i muscoli.
- Quindi siamo in camera di Archibald?
Thorn non riuscì a trattenersi un’altra volta: emise un verso stizzito e lanciò ad Ofelia un’occhiata dardeggiante, che invece che intimorirla la fece rabbrividire in altro modo.
- Sì, siamo dov’eri quando sei svenuta.
La sua espressione non si addolcì, e Ofelia si ritrasse di fronte al suo sguardo intenso.
- Sei arrabbiato? – gli chiese così flebilmente che dubitava che lui l’avesse sentita.
Ma Thorn era troppo vicino perché gli sfuggisse anche un suo respiro.
- No. Ma l’idea di essere avvolto tra le coperte in cui dormiva Archibald mi disgusta, e questa posizione rende la mia gamba estremamente instabile. Possiamo rimandare a dopo la conversazione? Non mi sembra il momento opportuno.
Thorn non aggiunse che aveva fretta di concludere. Non ce n’era bisogno, e oltretutto sarebbe suonato terribilmente sbagliato. Ofelia però rise di gusto, una risata liberatoria che sorprese Thorn. Era ancora preda dell’ilarità quando si strinse a lui quanto era fisicamente possibile, colmando la distanza fisica e temporale di quegli anni.
Quando, diverse ore dopo, Ofelia si svegliò tra le sue braccia, impiegò alcuni secondi a raccapezzarsi.
Non aveva mai dormito con il marito. Non lo aveva nemmeno mai visto dormire, a dire il vero. Nel sonno aveva un volto quasi rilassato, privo delle rughe di tensione che lo attraversavano costantemente. I capelli biondi, spettinati, gli coprivano in parte la cicatrice sulla tempia, e il respiro era talmente sommesso e regolare da risultare inudibile persino nel silenzio assoluto della camera.
Ofelia si perse nella contemplazione di quel viso scarno su cui erano visibili le numerose sofferenze patite, affronti psichici oltre che fisici. Lo guardò perché non aveva potuto farlo per troppo tempo, e perché in altre circostanze non avrebbe nemmeno potuto farlo. Anche se ne avesse avuto voglia. Lui non gliel’avrebbe permesso.
Si avvicinò ancora di più a lui, sorpresa di scoprire quanto profondo fosse il suo sonno.
Se ne rese conto quasi per caso.
Thorn non aveva mai dormito, perché il sonno rappresentava una perdita di controllo sul proprio inconscio; sui propri nervi.
Inoltre, da quando si era svegliata Ofelia non aveva sofferto della vicinanza di Thorn e non aveva avvertito la pressione del suo potere familiare.
Serrò gli occhi con forza, trattenendo il respiro.
Aveva capito quale contropartita avesse richiesto il Rovescio.
 
Thorn si svegliò quasi mezz’ora dopo. Scese fulmineamente dal letto e si rivestì con il volto indurito dal fastidio. Ofelia lo guardò senza quasi osare muoversi. Ora che poteva analizzare un nuovo lato di Thorn, quello di quando era appena sveglio, le sembrava scontato che fosse una di quelle persone che appena aprivano gli occhi erano già scattanti.
Diede un giro di chiave alla serratura, perché non la trovassero chiusa, e cercò di rassettarsi vestiti e capelli come meglio poté. I vestiti, preda dell’animismo perfezionista del proprietario, si stirarono da soli, ma i capelli erano un’altra storia. Ad Ofelia piacque vederlo così scarmigliato, e sentì una nuova ondata di desiderio percorrerla. Cercò di non arrossire pensando alla sera prima. Se non altro le era servita per accertarsi della realtà del marito, della sua presenza.
Ce l’aveva davvero fatta.
La mattina fu un susseguirsi convulso di visite, lacrime, soprattutto da parte di Berenilde, e chiacchiere, da parte della zia Roseline. La prima, insieme a Vittoria, non fece che riempire di attenzioni e premure il nipote, per recuperare quegli anni di assenza. La seconda, invece, rapì, volente o nolente, tutte le facoltà di Ofelia, che fu costretta a sorbirsi le vicissitudini della sua famiglia e dintorni per un tempo che le parve protrarsi fin troppo a lungo. Non voleva dire alla zia Roseline che sapeva già tutto di tutti perché li aveva seguiti attraverso gli specchi, così si limitò a lasciarla parlare mentre studiava Thorn con la coda dell’occhio. Il marito non era particolarmente entusiasta di fronte a tutte quelle premure da parte della zia, eppure non ne sembrava nemmeno dispiaciuto.
Ofelia non avrebbe mai creduto che sarebbe arrivato il momento in cui lo avrebbe pensato, ma Thorn sembrava… in pace. In pace con se stesso, con il suo passato e con il suo futuro, e con le persone che lo circondavano.
Persino con Archibald, che aggiungeva qui e là commenti poco opportuni e continuava a rimarcare che era palese che il suo letto fosse stato profanato quella notte, sghignazzando come un pazzo mentre faceva allusioni che imbarazzavano Ofelia e incattivivano Thorn.
Riuscirono a rimanere soli, davvero soli, quando calò nuovamente la notte. Thorn portò Ofelia in un’altra camera, perché l’idea di rimanere di nuovo in quella di Archibald metteva a dura prova i suoi nervi. Ancora una volta Ofelia si stupì di non sentire nessun attacco al suo sistema nervoso, anche se involontario. Da Thorn non emanava null’altro che stanchezza.
Quando fu riemerso dal bagno, fresco di doccia, con i capelli in ordine e sbarbato, Ofelia si spostò per lasciargli posto a letto. Il profumo maschile dei prodotti che aveva usato la indusse a chiedersi come avesse fatto a vivere nel Rovescio. Forse aveva trovato il modo per farsi la barba ogni giorno, ma qualcosa le diceva che era come se dall’altra parte il tempo si fosse fermato per lui: i capelli e la barba erano lunghi come il giorno in cui Seconda lo aveva spinto nella gabbia del Corno dell’abbondanza. Fisicamente non era cambiato niente.
Nemmeno mentalmente, a giudicare dal modo in cui l’orologio di Thorn si apriva e chiudeva anticipando i bisogni del padrone, e tutte le piccole manie che Thorn aveva conservato. Ogni più piccola asimmetria veniva sistemata, ogni imperfezione risanata. L’unica cosa su cui sembrava aver ceduto era l’igiene, data la mancanza del flacone di disinfettante con cui era stato solito pulirsi meticolosamente le mani, ma Ofelia era grata lo stesso alla zia per l’aiuto che le aveva dato affinché si lavasse, quel pomeriggio. Sapeva che Thorn non si sarebbe allontanato da lei nemmeno se fosse stata ricoperta di sporcizia, ma non voleva mettere alla prova la sua tolleranza senza motivo.
Gli pose la domanda senza mezzi termini.
- Ti dispiace aver perso i tuoi artigli? Non essere più un Drago?
Thorn strinse le labbra e gli occhi quasi gli sparirono sotto le sopracciglia aggrottate. Era in conflitto con se stesso, e Ofelia attese la risposta con pazienza, ma non sembrò particolarmente sorpreso che lei se ne fosse accorta.
- Sì e no. Da un punto di vista oggettivo non avere più Draghi sarà un problema. Il clan, al di là delle idiosincrasie che potevo avere io nei suoi confronti, era utile. Svolgeva un compito ben prestabilito e difficilmente sostituibile. O meglio, anche altri clan possono riuscire nell'intento con successo, ma con più difficoltà, più perdite e meno guadagno. Ci saranno sicuramente dei surrogati, ma l'efficienza dei Draghi era innegabile. Per contro, ho sempre aborrito ciò che gli artigli erano in grado di fare. Davano uno svantaggio sleale in termini di forza e velocità d'attacco quando si combatteva, ma era l'ideale contro le Bestie. Anche contro i malfattori e gli aggressori, a dire il vero, se non c'era un'arma sotto mano.
Ofelia si meravigliò delle sue parole. Non tanto per la capacità di Thorn di analizzare così distaccatamente le emozioni che lo pervadevano, quanto per le contraddizioni insite in lui che emergevano da ciò che aveva detto.
Thorn catalogava e vedeva il mondo in un modo o in un altro, sì o no. Il fatto che fosse confuso circa quello che provava verso la perdita del suo potere familiare dimostrava ampiamente quanto fosse turbato.
Ofelia pensò che avesse finito, ma Thorn riprese la parola senza preavviso. - Ho sempre lottato contro il mio potere familiare, contro la brama di sangue che lo accompagnava e la violenza intrinseca nella sua natura. Ma proprio perché ho combattuto contro gli artigli tutta la vita, ora che non li ho più mi sento mancare qualcosa.
Più di qualsiasi altra asserzione, fu quella dicotomia a rendere Thorn estremamente umano. Quasi fragile. Come tutti, si rendeva davvero conto del valore di ciò che aveva avuto solo quando lo aveva perso. Perché per quanto doloroso, riprovevole e ripugnante potesse essere il potere dei Draghi, era anche utile.
E Thorn lo aveva capito troppo tardi.
- Come potrò proteggerti ora? - mormorò infatti, distogliendo lo sguardo in preda alla vergogna. - Sono uno storpio... il mio corpo non è... e io non posso...
Come tanto tempo prima, su un'arca altra, in un'altra casa, su un altro letto, Ofelia si avvicinò a Thorn con pacatezza, come se temesse un attacco degli artigli che non c'erano più. Abbracciò Thorn con gesti lenti ma decisi, e la sua stretta lo confortò al punto che lo sentì rilassarsi tra le sue braccia.
Come quella volta a casa di Lazarus, la loro prima volta insieme senza più barriere di parole, pensieri o incomprensioni, Ofelia lo toccò per calmare il suo tormento, cercando di porvi fine con la sua presenza e la solidità dei suoi sentimenti.
Gli accarezzò la nuca come avrebbe fatto con un bambino quando Thorn si abbandonò contro di lei e seppellì il volto nella sua spalla, irrigidendosi a intermittenza come se dentro di sé stesse combattendo una battaglia invisibile.
- Ci proteggeremo a vicenda, Thorn. Un matrimonio non serve solo per ereditare il potere familiare del coniuge.
Temendo che le sue parole fossero state troppo dure, una riesumazione di vecchi fantasmi ormai scomparsi, aggiunse con voce flebile: - E nemmeno per fare figli. Non solo, almeno.
Thorn si aggrappò a lei all'improvviso, artigliandole la schiena e stringendosi a lei quanto fosse fisicamente possibile, con una forza tale da farle credere che volesse mescolarsi a lei come un tempo aveva fatto la sua ombra di attraversaspecchi.
Lo consolò a sua volta, depositandogli un bacio leggero tra i capelli.
Sapeva bene cosa significava essere privati di una parte fondamentale di sé, per quanto sgradita. Lei si era sentita snaturata persino quando aveva perso la goffaggine a seguito della cristallizzazione, come se le fosse stata portata via una parte imprescindibile di sé, per quanto scomoda. Thorn era abituato agli artigli, nonostante tutto il dolore che gli avevano causato e che causavano.
E sapeva bene anche cosa significava essere privati di qualcosa che ti identificava come individuo. Lei era stata una lettrice, e talvolta ancora faticava ad accettare il fatto che non lo fosse più. Thorn era metà Drago e metà Storiografo, un bastardo nato da un'unione proibita e malvista, ma era ciò che lo identificava. Senza la metà di quella condizione, che cos'era?
- Per lo meno ora posso avvicinarmi a te alle spalle senza temere una ferita involontaria - bofonchiò Ofelia in un blando tentativo di umorismo.
Thorn ovviamente non rise, e nemmeno sorrise. Però alzò la testa e, guardando intensamente Ofelia senza vergognarsi e senza temere di essere respinto, la baciò con tenerezza. Con dolcezza. Con lentezza. Assaporò quel contatto come non aveva mai fatto.
La baciò con gratitudine, e Ofelia ricambiò a sua volta.
Fu Thorn ad interrompersi, bloccando entrambi prima di andare troppo oltre.
- Cosa faremo ora?
Ofelia sorrise. – Avevi le idee molto chiare in proposito, una volta.
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Certo, mi ricordo, ma ci sono innumerevoli questioni che devo recuperare. Le gerarchie devono aver subito modifiche, così come le leggi e gli equilibri.
Si interruppe, con il chiaro tentativo di mettere ordine tra i suoi pensieri.
Ofelia andò in suo aiuto. – Possiamo pensarci domani. Ma sei ancora della stessa idea riguardo al nostro matrimonio? Intendi annullarlo?
Thorn la guardò con occhi fiammeggianti che la fecero quasi vacillare. Si sentì mancare l’appoggiò sotto di sé, come se lui l’avesse fatta precipitare.
- Anche a questo possiamo pensare domani.
Nessuno dei due aggiunse altro fino alla mattina successiva, quando si svegliarono entrambi, di nuovo stretti uno all’altra.
Si destarono senza fretta, così come si erano addormentati, per una volta nella vita senza ansie divoranti o preoccupazioni soverchianti. Perché qualunque cosa fosse accaduta, avevano un domani insieme. Avevano una vita che si dipanava loro davanti, e qualsiasi fosse la natura dei problemi che sarebbero sorti, l’avrebbero affrontata insieme.
Avrebbero vissuto giorno per giorno, sfruttando quel tempo che era stato loro concesso, costruendo il loro avvenire così come tutte le arche, l’intero mondo si era reinventato. Sarebbero diventati delle nuove versioni di loro stessi, quelle definitive, quelle che forse erano stati destinati a diventare fin dal principio.
Ma ogni cosa avrebbe avuto luogo a suo tempo.
Nel frattempo avrebbero goduto della reciproca compagnia, consci che nessun altro luogo al mondo avrebbe potuto farli sentire a casa come in quel momento. Qualunque cosa fosse accaduta, ci sarebbero stati una per l’altro. Quella era una certezza.
Anche un po’ di più.
 
 
2. Uomo per uomo
Ofelia impiegò un attimo di troppo per rendersi conto che Archibald aveva cambiato posto. Non stava più tra lei e Vittoria, con le mani posate sulle guance di entrambe, ma aveva infilato un braccio dentro lo specchio anche lui. Vittoria era caduta a terra semisvenuta, interrompendo il contatto con entrambi. O forse era stato Archibald ad interrompere il contatto con lei. In ogni caso, con una mano toccava Ofelia e con l’altra afferrava Thorn.
Ma qualcosa non andava.
Archibald la guardò sorridendo tristemente, e con il legame che si era creato tra di loro condivise anche l’ultimo segreto che aveva cercato di nascondere: era arrivato al limite.
Ofelia sentì sulla sua pelle il dolore dell’ex ambasciatore, la vastità sterminata di quell’infida malattia che aveva divorato quasi tutto di Archibald, riducendolo ad un’ombra dell’uomo che era stato.
Non gli restavano che giorni. Poche settimane, forse. Poco tempo in ogni caso.
- Credo che sia uno scambio equo, moglie di Thorn. Voi che dite?
- No! – urlò Ofelia, perdendo per un attimo la presa sul marito. Si riebbe subito e continuò a tirare con tutte le forze.
Archibald posò una mano su quella di Thorn, aggrappata al braccio della moglie, unica parte del corpo che aveva attraversato lo specchio e aspettava il resto.
- No! Non deve andare così. Non era questo quello che volevo, e non lo vorrebbe nemmeno Thorn!
Archibald l’accarezzò con la mano ancora posata sul suo viso prima di dirigerla verso l’altra mano di Thorn. – Lo so, Ofelia.
Gli occhi le si inumidirono più per quello che per la situazione. Archibald che la chiamava con il suo nome vero aveva un qualcosa di… definitivo. Solenne.
- Ma è ciò che desidero io. Le forze mi hanno abbandonato da parecchio, e ogni giorno è peggio. Riesco a malapena a tenere in braccio Vittoria. Non potrò nascondere la cosa a Berenilde ancora a lungo, essendo suo ospite, e non voglio andarmene sotto gli sguardi di dolore e pietà delle uniche persone che hanno davvero rappresentato una famiglia per me. Una famiglia autentica.
Ofelia non vide più nulla a causa delle lacrime. Non sarebbe riuscita a vedere niente nemmeno con gli occhi asciutti, però, da quanto si erano scurite le lenti dei suoi occhiali. E la sciarpa che tentava di asciugarle le lacrime non la aiutava.
- Permettetemi di fare una cosa giusta nella vita. Anche il mio tentativo di trovare Terra d’Arco è stato piuttosto fallimentare, vista la fine di don Janus e… degli altri miei colleghi. Dato che sono destinato a sparire, tanto vale farlo lasciandomi qualcosa dietro. E cosa potrei donarvi di meglio se non vostro marito, il nipote di Berenilde?
Ofelia si sarebbe accorta che anche Archibald aveva gli occhi lucidi, se solo avesse avuto la vista nitida. E avrebbe anche notato che il suo sorriso, per quanto triste, era autentico.
Archibald le posò un bacio sulla guancia, cosa che le fece scoppiare un singhiozzo in petto. – Non ditelo a vostro marito, o verrà a cercarmi – le sussurrò con tono seducente, rivestendo nuovamente i panni da impenitente seduttore. – Abbiate cura di voi.
Successe tutto così in fretta che non riuscì a replicare. Un attimo prima Archibald era ad un soffio da lei, mentre lottavano per far uscire Thorn. Quello dopo il marito era lì con lei, anzi, letteralmente sopra di lei, ma Archibald era sparito.
Lo specchio era tornato ad essere un singolo specchio, chiuso per sempre.
 
I minuti che seguirono furono frenetici e confusi. Ofelia era talmente sconvolta da tutta quella situazione – l’essere riuscita nel suo intento, la presenza di Thorn, il sacrificio di Archibald – che non sapeva dare una direzione alle sue emozioni. Era contenta per il ritorno di Thorn, o era più dispiaciuta per la dipartita di un amico?
Senza chiederglielo, senza ordinare nulla, fu Thorn a prendere in mano le redini. Come aveva sempre fatto. Come forse Ofelia si era aspettata che facesse fin da subito. Perché, in fondo, lo amava anche per quello, e fu solo un sollievo rendersi conto che gli anni di lontananza non avevano cambiato questo tratto fondamentale di Thorn. Era un uomo d’azione, intraprendente, e avrebbe fatto di tutto per tenerla al sicuro. Non era quello il motivo per cui aveva mollato la presa sulle sue braccia, la prima volta?
Thorn si sollevò da Ofelia, permettendole di mettersi seduta. Lei provò a scacciare le lacrime con i palmi guantati, ma fu il marito con le sue grandi mani a ridarle una vista nitida. E lei lo baciò nuovamente, per accertarsi che fosse vivo, vero, per soffocare il dolore, nuovo e vecchio, e perché lo amava, lo aveva amato a distanza per tutti quegli anni, e non avrebbe più tollerato di stargli lontano.
Thorn però si staccò troppo presto, senza incrociare il suo sguardo. Adocchiò la povera Vittoria ancora semi svenuta di fianco a loro e la prese in braccio come se fosse abituato a sollevare bambini da tutta la vita. Ergersi sulla gamba storpia, che nel mondo al dritto si palesava in tutta la sua deformità e difficoltà deambulatoria, non fu molto semplice, ma Ofelia gli si affiancò per aiutarlo a camminare.
Portarono insieme Vittoria dalla madre, sperando di non far prendere a Berenilde un colpo per la loro improvvisa comparsa. Salame li intercettò nel corridoio e fece loro da scorta fin nel salotto, strusciandosi sulle gambe di Thorn per dargli il benvenuto. O per farlo inciampare.
Berenilde se ne stava sdraiata sul divano, in panciolle, ma il tempo fuori dalla finestra era sereno e ciò significava che almeno il suo umore non era dei peggiori. La zia Roseline le stava parlando di una qualche vecchia vicenda di famiglia da cui avrebbe dovuto trarre spunto, mentre cuciva con la sua ritrovata macchina andata distrutta anni addietro in occasione del loro prima viaggio al Polo.
Si interruppero entrambe quando videro entrare in soggiorno la latitante nipote, il disperso nipote e la svenuta figlia. O meglio, Roseline si interruppe e Berenilde scattò in piedi, così agitata che Ofelia sentì nel cervello la presenza violenta dei suoi artigli.
Berenilde boccheggiò e mosse dei passi incerti mentre andava in contro a Thorn e Vittoria. Ofelia non si offese per quella poca considerazione, anzi, si fece da parte per permettere alla madama di ricongiungersi ai suoi amati.
Distolse lo sguardo quando la vide piangere, e quello più di tutto le fece capire la gravità di ciò che avevano compiuto. L’impresa impossibile. E la perdita subita, in modo irrimediabile.
- Mi sei mancato così tanto… - mormorò prima che la voce le venisse meno.
Thorn si lasciò abbracciare, impassibile come sempre, ma quando Ofelia incontrò il suo sguardo vi lesse accettazione, non rifiuto. Liberò un braccio per stringere la zia a sua volta, per un attimo così breve da risultare quasi illusorio. Ofelia sorrise tra le lacrime.
La zia Roseline la stava interrogando come il più meticoloso dei gendarmi, asciugandole il volto, toccandole le braccia e lamentandosi dello stato dei suoi vestiti o capelli, rimbrottandola per le sue lettere evasive e per la preoccupazione a cui l’aveva sottoposta in quegli anni.
Ofelia l’abbracciò per zittirla, e finalmente la zia tacque, stringendola con una forza tale da mozzarle il respiro in petto.
- Bentornata, mia cara. Sapevo che ce l’avresti fatta. Berenilde ogni tanto ne dubitava, ma io no.
- Roseline, siete voi quella che più soventemente si faceva prendere dallo sconforto. Non addossate a me la vostra debolezza – la sgridò Berenilde, che aveva sentito le parole della zia.
Quest’ultima si allontanò dalla nipote e si impettì tutta, come un gallo in procinto di fare bella mostra di sé.
- Non dite sciocchezze, Berenilde. È la mia parola contro la vostra, ma chiunque su Anima può giurare che io sono la persona più integerrima dell’intera arca. E sicuramente anche del Polo.
Berenilde non si degnò nemmeno di risponderle, ma nel girarsi verso il nipote sorrise fugacemente ad Ofelia, ringraziandola con lo sguardo. O forse compatendola per essere stata accolta da quella zia energica.
Ofelia non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo.
Quando Berenilde prese Vittoria tra le braccia, però, il suo sorriso svanì. – Cosa le è accaduto?
Thorn si spostò per andare a sedersi sul divano, trascinandosi dietro la gamba storpia. Ormai non si impegnava nemmeno più per nascondere la gravita della sua zoppia, e rifuggì le occhiate di compatimento delle due zie. Ofelia non lo guardava con altra espressione se non di rinnovato affetto e ammirazione. Doveva essere come minimo scombussolato dopo quello che aveva dovuto passare, invece sembrava più concreto e ragionevole di tutte loro messe insieme.
- Credo debba essere Ofelia a spiegare. Devo ammettere di essere io stesso all’oscuro di ciò che ha fatto.
Sotto lo sguardo indagatore di tutti i presenti, compreso il gatto e Vittoria, che batté le palpebre proprio in quell’istante, Ofelia rischiò di far cadere un vaso che si trovava troppo vicino al suo gomito.
- Potrei avere una tazza di tè, prima?
 
Il funerale di Archibald, una mera formalità, dato che la bara non avrebbe mai accolto il suo corpo, fu fissato per tre giorni dopo.
La mattina della funzione, mentre Ofelia finiva di prepararsi, sentì gli occhi di Thorn addosso in maniera particolarmente insistente. Il fatto che la camera che condividevano fosse la più piccola del palazzo di Berenilde, in attesa di sistemare quella più grande, non aiutava.
Quando finalmente incrociò il suo sguardo, lui distolse gli occhi.
- Ti dispiace?
Ofelia lo fissò, perplessa. La sciarpa le raddrizzò gli occhiali, come se in quel modo potesse dare la giusta angolazione ai propri pensieri. – Certo che mi dispiace. Archibald era quello che era, ma ha fatto per noi molto più di chiunque altro.
Thorn si schiarì la gola, e la osservò di sottecchi. – Intendevo dire se non ti dispiacesse in realtà che il prezzo da pagare fosse quello.
Ofelia lo guardò senza capire, e finalmente Thorn si raddrizzò, guadagnando in altezza un paio di centimetri di cui non aveva bisogno.
- Sei pentita che lui si sia scambiato con me? Avresti preferito che le cose rimanessero com’erano?
Nel suo tono duro, glaciale come la sua arca natia, Ofelia percepì una paura sopita che le fece male. Gli andò vicino a passi misurati, come se temesse di essere al cospetto di una bestia gigantesca in procinto di attaccare, e si allungò per gettargli le braccia al collo.
Thorn si lasciò baciare, chinandosi per facilitarle il compito, ma non rispose e dopo poco Ofelia si staccò.
Come potevano le tre notti che avevano condiviso, riscoprendosi dopo quegli anni di isolamento e lontananza, non aver dissipato i suoi dubbi al riguardo? Non gli aveva offerto tutto ciò che poteva, abbandonandosi a lui quasi con disperazione, mentre il fantasma della solitudine e della privazione ancora la punzecchiava?
- Sono dispiaciuta che se ne sia andato così, ma la gioia prevale su questo sentimento. La gioia di averti ritrovato, e la gioia che Archibald abbia scelto come morire, invece che accettare l’imposizione della sua malattia.
Thron aggrottò le sopracciglia e, sospirando, Ofelia gli svelò quell’unico particolare che aveva omesso a tutti, tranne che a Vittoria: che Archibald era malato, che il suo tempo era agli sgoccioli, e che il suo sacrificio non era stato del tutto dettato da uno slancio altruistico. Aveva compiuto un gesto buono per il quale Ofelia gli sarebbe stata per sempre debitrice, ma anche lui aveva trovato in quella soluzione una scappatoia al destino che gli era stato inflitto.
- Dato che mi ha aiutata a riportarti da me non ho fatto parola della sua condizione. Mi ha fatto un regalo così grande che provo solo gratitudine nei suoi confronti, e non vorrei che il suo sacrifico venisse sminuito dalle attenuanti.
- Si prenderà tutta la gloria ancora una volta – bofonchiò Thorn contro le sue labbra, prima di baciarla con la sua solita irruenza e stringerla a sé di più, di più, di più.
Ofelia non diede peso a quel commento quasi acido, perché lo sentiva sulla pelle del marito, nel contatto della sua bocca: Thorn più di tutti era grato ad Archibald, persino più di lei. La gratitudine per l’uomo che aveva preso il suo posto però non avrebbe mai potuto superare quella che provava per la donna che stringeva tra le braccia, che aveva rinunciato ad anni di vita pur di ritrovarlo, sacrificando a sua volta se stessa. Per lui.
Alla fine interruppe il contatto e seppellì il viso nella sua spalla per nasconderle le lacrime.
 
Al funerale furono presenti meno persone del previsto. A quanto pareva essere sedotte per una notte dall’ambasciatore non costituiva un pretesto per mostrarsi al suo funerale, e delle innumerevoli donne vittime del fascino di Archibald non si presentarono che dieci, forse quindici signore. Persino dei membri della Rete furono in pochi ad assistere alla funzione: le dieci sorelle minori del defunto, le due Valchirie, con grande sorpresa di Ofelia, e il ragazzo che aveva ricoperto il ruolo di assistente di Faruk, a suo tempo.
La cerimonia fu più che altro un modo per permettere a Berenilde, Roseline, Ofelia e anche Thorn di ringraziare quell’uomo che gliene aveva fatte passare tante, ma alla fine si era dimostrato il più caro degli amici e il più affidabile detentore di segreti. Un uomo leale e presente, disponibile, anche troppo a detta di Thorn, positivo e determinato, che non si fermava nemmeno di fronte agli ostacoli più grandi.
Ofelia e Berenilde avrebbero voluto aggiungere qualche altra caratteristica a quell’elenco, ma Thorn le fulminò con lo sguardo facendo loro capire che ne avevano già dette abbastanza.
Ofelia cercò la sua mano durante la funzione, e Thorn le circondò il palmo con le sue lunghe dita.
- Permettimi di mostrarmi grata verso l’uomo che mi ha ridato mio marito, intero.
Thorn non la guardò. – Non se questo significa pensare a lui in modo troppo riconoscente ed elevarlo più del dovuto. Hai detto tu stessa che il suo sacrificio è tornato utile anche a lui.
Ofelia soffocò una risata, decisamente inadatta ad un funerale, seppur di circostanza, e desiderò più che mai avere le dita per stringere più forte la mano di Thorn.
Quando tornarono a casa, più incoraggiati che malinconici nonostante la triste occasione, Vittoria tirò una manica di Thorn perché lui la prendesse in braccio. Ofelia si stupiva sempre di quell’interazione naturale tra i due, soprattutto perché Vittoria era una “marmocchia”, come Thorn l’avrebbe sicuramente definita, e perché il marito, così restio ai contatti, non si faceva remore a toccarla e accostarsela. Quella visione aveva un sapore dolceamaro, però, perché per quanto fosse felice che Thorn andasse d’accordo con la cuginetta, vederlo tenere in braccio la bambina le faceva rimpiangere ancora di più la sua impossibilità di avere figli.
Thorn era… era così bello con Vittoria in braccio. Naturale.
Doloroso.
Lui parve quasi intuire i suoi pensieri, perché d’un tratto la fissò con gli occhi stretti a fessura. Ofelia non percepiva che un bagliore metallico lì in alto, sopra di lei, ma tanto bastava ad indurla a distogliere lo sguardo. Thorn le strinse delicatamente un braccio in segno di solidarietà, prima di portare la mano verso il corpo di Vittoria, che si era accasciata su di lui all’improvviso.
Riusciva a portarla senza zoppicare grazie ad un’armatura che si era costruito lui stesso due giorni prima, un prototipo decisamente migliore di quello scricchiolante e dissestato fornitogli dai Genealogisti. Nessuno si preoccupò per Vittoria, pensando che si fosse addormentata.
Solo quando furono di fronte all’ingresso del palazzo di Berenilde, si resero conto la bambina aveva in realtà viaggiato. A quanto pareva, usare il suo potere per salvare Thorn le aveva fatto capire che, se sfruttato con moderazione, poteva ancora usarlo per viaggiare.
Come in quel momento.
Sorrise con aria sollevata. – Padrino dice che il funerale è stato un mortorio. E che lui non è morto.
Sì, poteva viaggiare e andare a trovare Archibald ogni volta che voleva.
Ofelia sorrise, così come Berenilde e la zia Roseline.
Thorn scosse la testa. – Non siamo riusciti a liberarcene, alla fine.
- Padrino dice anche che dovreste togliere lo specchio dalla vostra camera perché si vede tutto.
Thorn passò in malo modo la bambina a sua madre prima di fiondarsi in camera. Ofelia lo seguì più lentamente, attenta a non inciampare e fuggendo le domande delle loro due zie. Quando entrò nella stanza che occupavano provvisoriamente vide Thorn di fronte allo specchio, con la mascella contratta, chiaramente infuriato, che mormorava improperi verso lo specchio e Archibald. Alla fine lo girò verso il muro.
- Guarda pure la parete – bofonchiò prima di voltarsi verso Ofelia.
Lei scosse il capo e, per nulla preoccupata da ciò che Archibald poteva aver visto, scoppiò a ridere.
- Guardare è l’unica cosa che può fare ormai – disse sorprendendo sia se stessa che Thorn.
In risposta lui chiuse la porta con fin troppa forza e si avvicinò ad Ofelia con occhi da predatore.
- Non lo esalterai più così tanto dopo oggi, spero.
Ofelia allargò le braccia, invitandolo a spogliarla.
Accolse con un sospiro la pelle calda di Thorn sulla propria.
No, non avrebbe mai esaltato Archibald. Non ad alta voce, almeno. Ma sapeva che avrebbe sempre avuto un debito di gratitudine nei suoi confronti, per quanto il suo scambio fosse stato vantaggioso per entrambi.
Riversò invece parte di quella gratitudine su Thorn, che l’accolse con piacere.
Anche un po’ di più.
 
 
3. Memoria
Thorn sgusciò fuori dallo specchio sinuosamente quanto una saponetta bagnata.
Ofelia fece giusto in tempo a scostarsi per non essere travolta e lei e Archibald ebbero la prontezza di attutire la caduta di Thorn, che non fu troppo brutale. Vittoria barcollava, visibilmente in procinto di svenire, e anche se Archibald non si sentiva molto meglio la prese comunque in braccio posandola sul letto, affinché non si facesse male.
I respiri affannosi di tutti furono gli unici suoni udibili, al di là del battito forsennato dei loro cuori nelle orecchie. Archibald sembrava addirittura invecchiato.
Fu Ofelia a scivolare nell’oblio, però, quando Thorn la guardò e, freddo e impassibile come sempre, chiese: - Chi siete?
 
Ofelia aveva preso in considerazione la possibilità che Thorn dovesse cedere un potere familiare per poter uscire dal Rovescio. Non aveva lei stesso ceduto le sue doti da lettrice? In quei due anni di ricerche non aveva fatto altro che pensare a due cose: come tirare fuori il marito dal verso, e quale sarebbe stata la contropartita da cedere.
Aveva ipotizzato che la Memoria fosse un prezzo equivalente.
Non si era resa conto che il riscatto da pagare poteva essere più… drastico di così. Non aveva pure lei perso le dita, invece che la semplice capacità di leggere? Il Rovescio si era preso la fonte del suo potere, lo strumento che le permetteva di esercitarlo.
Thorn aveva perso la sua formidabile Memoria, il dono di immagazzinare qualsiasi dato, numero, avvenimento, parola, libro, documento, volto e molto altro che non le aveva mai detto, sospettava Ofelia. E aveva perso i suoi ricordi. Aveva perso tutto.
Aveva perso se stesso.
I giorni che seguirono il suo salvataggio furono un connubio inestricabile di gioia e sgomento. Quando Berenilde e la zia Roseline avevano visto uscire dalla camera di Archibald, dove avrebbero dovuto esserci due persone sole, ben quattro individui, le due zie erano rimaste paralizzate dallo sgomento. Poi, com’era prevedibile, Berenilde era esplosa in una cacofonia di frasi di giubilo mentre la zia Roseline alternava rimbrotti a ringraziamenti per il semplice fatto che Ofelia era viva.
Il sorriso era morto anche sulle loro labbra, però, quando Thorn aveva nuovamente chiesto chi fossero.
Berenilde si era scostata dal nipote come se avesse usato gli artigli su di lei, ma sul suo volto era dipinta un’espressione di dolore ben più profondo di quello che avrebbe potuto causare un attacco fisico.
La zia Roseline schioccò la lingua, mettendo in mostra i denti cavallini. – So bene che non ci vediamo da molto, ma né io né vostra zia siamo invecchiate così tanto!
Quando si rese conto che nessuno tentava di fare dell’umorismo, soprattutto non Thorn, la mascella rischiò di caderle a terra.
- Perbacco…
 
Quella sera cenarono tutti insieme, in un silenzio tetro specchio dei pensieri di ciascuno. Cosa potevano dire per alleggerire la tensione? Potevano chiedere ad Ofelia i dettagli di come fosse riuscita a salvare Thorn, se lui nemmeno si rendeva conto di essere stato salvato? Potevano chiedere a Thorn come si fosse sentito nel Rovescio, se lui non era nemmeno consapevole di essere nel Dritto?
L’unica cosa positiva, se così la si poteva definire, era che Thorn mangiava con insolito appetito, come se il fatto di nutrirsi non fosse più un calvario, una perdita di tempo o un bisogno non gradito, o qualsiasi altro fosse il modo in cui aveva considerato i pasti prima di scordarsi perché li odiava.
- Quindi voi siete mia zia – esordì quando ebbe finito di sorbire la zuppa, prima di tutti gli altri. Sembrava l’unico ad avere fame.
Berenilde gli rivolse un debole sorriso, conscia del fatto che Thorn non l’aveva riconosciuta, ma stava solo cercando di mandare a memoria chi lei fosse.
Mandare a memoria… per Thorn un’espressione del genere non aveva mai avuto significato. Ofelia ingollò il groppo che le serrava la gola con la successiva cucchiaiata di zuppa.
- Lei è mia cugina – continuò indicando con il capo Vittoria, la cui indole silenziosa per una volta non era fuori luogo. – Voi siete la madrina di mia moglie, voi non ho ancora capito chi siate. E voi siete mia moglie.
Ofelia alzò lo sguardo su di lui, quasi intimidita. Avrebbe riflettuto sul fatto che sarebbe stato buffo temere il proprio marito quando non aveva avuto paura di lui nemmeno da fidanzati, ma la situazione era troppo tragica per poter indulgere in simili sciocchezze.
Ofelia annuì leggermente, dal momento che Thorn non sembrava intenzionato a distogliere lo sguardo. La sciarpa pensò bene di infilarle il cucchiaio in bocca, rischiando di farla strozzare.
Nessun parve farci caso.
Archibald si schiarì la voce, sorridendo in modo del tutto fuori luogo. – Se permettete, caro Thorn, io sono il vostro migliore amico.
Le signore si voltarono tutte verso Archibald, troppo sbigottite per dire alcunché. Fu Thorn, però, a sorprenderle di più.
- Avrei detto il contrario. Mi suscitate un’innata antipatia.
Il sorriso di Archibald si allargò ancora di più mentre Thorn incurvava un angolo della bocca.
Fu solo un attimo, un attimo che fece sgranare gli occhi ad Ofelia e andare di traverso la zuppa alla zia Roseline, mentre Berenilde guardava a turno i due uomini.
Poi il sorriso svanì e Thorn si servì la seconda portata.
Abbondando.
 
Nei giorni successivi ad Ofelia e agli altri parve chiara una cosa: non tutta la memoria di Thorn era andata perduta. Non aveva studiato il cervello umano, non sapeva bene come funzionasse la mente, a dire il vero si sentiva proprio ignorante in materia, ma era comprensibile, alla fine, che qualcosa fosse rimasto nella memoria di Thorn. Come la padronanza della lingua, la consapevolezza di sé e di azioni quotidiane come il nutrirsi, il lavarsi, il saper leggere, scrivere e contare. La memoria relativa alle azioni, insomma, era intatta.
Ma non quella relativa ai ricordi.
Thorn non era diventato simile ad un neonato in quanto a capacità cerebrali. Parlava, capiva, non aveva bisogno di una balia che gli insegnasse tutto. Ma il suo io, la sua persona interiore, i ricordi che lo avevano reso ciò che era non c’erano più.
Thorn era una pagina bianca.
Passò i primi giorni dopo il suo ritorno a leggere quanti più giornali possibili per capire in quale ambiente vivesse. L’accento del Polo gli era rimasto, e Ofelia ne era contenta, in parte: almeno una caratteristica della sua vecchia essenza che non era sparita. Studiò il funzionamento della burocrazia e la struttura delle arche e delle gerarchie, un po’ apprendendo dai volumi e un po’ chiedendo delucidazioni alla zia e ad Ofelia.
Lei e lui dormivano in camere separate, interagivano poco e Ofelia non poteva fare altro che assistere alla distruzione vivente dell’uomo che aveva amato. Lo aveva capito il giorno dopo il loro ritorno, aveva fatto i conti con la dura realtà e non si era illusa. Non ne aveva più la forza. Thorn, il suo Thorn, quello che aveva imparato ad amare tanto faticosamente, quello per il cui salvataggio aveva sprecato due anni della sua vita, quello che aveva prima disprezzato, poi compatito e infine amato, non c’era più. E non sarebbe mai tornato. Non lo aveva mai odiato, mai, nemmeno quando le aveva mentito circa lo scopo del matrimonio, né quando le aveva taciuto i pericoli a cui l’aveva sottoposta fin dal principio.
In quei giorni, invece, mentre passava le ore ad osservare il corpo di quell’uomo che un tempo aveva custodito l’anima di suo marito, lo odiò. Lo odiò per ciò che rappresentava, perché era come se qualcun altro avesse preso possesso del suo corpo per ronzarle attorno e acuire la sua nostalgia.
Una sera, più scoraggiata del solito, uscì dalla stanza senza proferire parola quando Thorn chiese come mai ci fossero tanti inutili libri di matematica in biblioteca.
Non riuscì a trattenere le lacrime e si vergognò per questo, ma non poté farci nulla. Elizabeth, Ambroise, Renard e Gaela, presto anche Archibald… tutte le persone che aveva imparato ad amare si erano spente, lasciando un enorme vuoto in lei. La mancanza di Thorn non aveva fatto che esacerbare la solitudine, ma la speranza, la certezza che avrebbe recuperato almeno Thorn le aveva sempre dato la forza di continuare a lottare, per poter tornare un giorno all’unico luogo che avrebbe mai chiamato casa.
Le era stata strappata anche quella possibilità, ed era più sola che mai, arida dentro, un’ombra di se stessa. Non si sentiva molto diversa da un’eco.
La sua tristezza divenne rabbia, seppur insensata, quando Thorn le afferrò un polso per trattenerla prima che entrasse in camera sua. Berenilde gli aveva ordinato un tutore per la gamba che sarebbe arrivato nell’arco di un paio di settimane, ma anche senza sostegno, con un arto palesemente danneggiato, Thorn rimaneva veloce e silenzioso in modo innaturale.
Spalancò leggermente gli occhi quando vide il viso di Ofelia inondato dalle lacrime. La lasciò andare come se avesse preso la scossa, aggrottando la fronte com’era solito fare anche l’uomo che era stato prima. Sembrava a disagio all’idea di consolarla, come l’altro Thorn, ma a differenza di lui, quest’ultima versione era più espressiva, aveva una forza, un’energia in corpo che non aveva nulla a che fare con gli artigli ma sembrava essere sprigionata proprio dai suoi nervi.
- Perdonatemi. Volevo solo chiedervi se avete intenzione di annullare il matrimonio.
Ofelia trasecolò. Non ci aveva pensato. Era rimasta talmente sconvolta dagli ultimi avvenimenti che non aveva nemmeno pensato all’eventualità di dichiarare invalido il loro matrimonio e scioglierlo, cosa del tutto legale e, da un certo punto di vista, sensata. Eppure esitò. Lei era stata condotta al Polo a causa di un matrimonio combinato. Non aveva sposato Thorn per amore, non all’inizio almeno. C’era qualche possibilità di rimanere accanto a questo nuovo Thorn ancora in evoluzione? La questione era talmente complicata che si mise a riflettere di fronte a lui con trasporto, senza curarsi dell’attesa a cui lo sottoponeva. E poi si rese conto di un piccolo fatto.
La questione non era se lei voleva rimanere sposata a lui, un uomo che aveva conosciuto in un modo ed era stato radicalmente cambiato, ma se lui sarebbe stato disposto a rimanere sposato ad una sconosciuta. Una completa sconosciuta, che forse non avrebbe mai voluto, che non gli sarebbe piaciuta e che non avrebbe capito. Una sconosciuta menomata, oltretutto.
- E voi? – gli rigirò quindi la domanda dopo diversi minuti.
Thorn incurvò leggermente le labbra, prendendola in contropiede. Questa sua versione sorrideva decisamente troppo, abitudine a cui non era affatto avvezza ma che, in qualche modo inspiegabile, le faceva sentire un certo tramestio nello stomaco. Abbassò lo sguardo, stanca di rimanere con il collo reclinato per guardarlo al di sopra della sua immensa statura, per non dover più vedere quel sorriso a suo modo accattivante.
- Non è corretto rispondere ad una domanda con un’altra domanda – le fece notare.
Divertito.
Innegabilmente divertito.
Ofelia si sentì mancare il fiato e indietreggiò per porre una certa distanza tra di loro, ma la verità era che voleva poter osservare nuovamente quel viso che conosceva così bene eppure le appariva sotto una nuova luce. La sciarpa, confusa dai suoi sentimenti, le sistemò gli occhiali già dritti sul naso, come per aiutarla a fare chiarezza nei propri pensieri attraverso una visione nitida.
Non ottenendo risposta, Thorn tornò serio. – Perdonatemi, non volevo essere brusco o inopportuno.
Ofelia spalancò gli occhi, ma Thorn non lo notò, o lo notò ma decise di soprassedere.
- Non sono molto a mio agio a discutere di questioni che mi riguardano, ma in un modo che non posso nemmeno comprendere. Mi chiedevo solo, dato che trovo impossibile tornare ad essere ciò che ero un tempo, almeno credo, se in realtà la mia presenza non fosse troppo dolorosa per voi.
Ofelia sentì nuovamente le lacrime pungerle gli occhi, e vide Thorn distogliere lo sguardo, imbarazzato. Si esprimeva in modo così diverso dal suo Thorn… si scusava, faceva dell’umorismo, chiedeva pareri. Erano tutte cose positive, ma non per lui. Per lui era tutto sbagliato. Thorn avrebbe dovuto… non lo sapeva nemmeno lei, non più.
La confusione che aveva in testa la spinse a rispondere con più durezza di quanto avrebbe voluto. – Oppure siete voi che volete slegarvi da una moglie scomoda, menomata, non più così giovane, sterile – sputò fra i denti, anche se lui non poteva conoscere quella sua impossibilità, - e abbastanza obiettiva da potersi definire di aspetto mediocre?
Thorn la guardò spalancando gli occhi, stupito. Non era il suo Thorn, non era il suo Thorn, non era il suo…
- A dire il vero vi trovo molto gradevole d’aspetto – mormorò lui arrossendo. – Ve lo chiedevo per voi, non per me. Io non ho obiezioni in merito al nostro stato civile.
Ofelia avvampò, perdendosi completamente le ultime parole di Thorn. Lui che… arrossiva? Che faceva commenti di quel genere? Le gambe le cedettero e dovette appoggiarsi al muro per sostenersi, ignorando la mano che Thorn le tendeva. Lui non aveva mai… non le aveva mai detto che era bella, se non in un’unica occasione, la prima volta che avevano condiviso l’intimità. Ofelia sentiva ancora quel “sei perfetta” rimbombarle nella testa come le più belle parole che avesse mai sentito, insieme al ricordo ad esse legate. Thorn si era vergognato talmente tanto di essersele lasciate scappare che aveva nascosto il viso paonazzo nell’incavo del suo collo, incapace di guardarla in volto. E lei si era sciolta sotto di lui, sorridendo e sentendosi completa in un modo che le aveva fatto capire che fino a quel momento aveva vissuto in maniera del tutto sbagliata, senza il suo affetto.
E ora la voce di Thorn le diceva in modo velato che era bella, con il suo corpo, i suoi occhi espressivi dallo sguardo intenso, le sue erre scricchiolanti e le consonanti dure. Era Thorn a dirglielo. Ma non il suo Thorn. E nonostante tutto, si rese conto che era lei quella in preda ad emozioni contrastanti, quando era sempre stato lui. Aveva sempre sostenuto, all’inizio, che Thorn non avesse il diritto di amarla. In quel momento si rendeva conto che più di tutto temeva che lui invece si prendesse il diritto di non amarla. Era una donna che conosceva da pochi giorni, alla fine.
Thorn si schiarì la voce. Le faceva così male notare come i suoi manierismi fossero rimasti immutati. Era come se il suo corpo serbasse il ricordo di ciò che era solito fare, di come si comportava, mentre il suo cervello lo aveva dimenticato.
- Volete rimandare l’argomento?
Ofelia scosse la testa, cercando di concentrarsi. Si staccò dal muro, si portò i guanti alla bocca con l’intento inconscio di mordicchiarsi le cuciture, ma poi lasciò ricadere le braccia.
- No. Non ho obiezioni circa il rimanere sposati.
Annullare il matrimonio non le avrebbe mai permesso di sposarsi con qualcun altro. Tanto valeva rimanere con lui, per quanto fosse doloroso.
Thorn sembrò sollevato, ma cercò di nasconderlo come poté. Mentre la sua precedente personalità lo portava ad una perfetta e gelida impassibilità, questo nuovo Thorn sembrava incapace di sopprimere le sue reazioni. Non del tutto, almeno.
- In realtà ero venuto per chiedervi un’altra cosa.
Si risvoltò le maniche della camicia esponendo gli avambracci. Glieli mostrò, come se lei non li vedesse, in modo quasi infantile, attirando la sua attenzione sulle cicatrici. Poi mosse la gamba zoppa, e infine si toccò la gota deturpata.
- Volevo chiedervi spiegazioni circa… il mio stato. Avrei potuto chiederlo a mia zia, ma non sono sicuro di quanto abbia visto del mio… - mormorò, schiarendosi poi la voce e lasciando la frase in sospeso. – Voi invece siete mia moglie da più di cinque anni, hanno detto, quindi presumo che noi abbiamo… che voi…
- Avete cinquantasei cicatrici in totale – lo interruppe Ofelia bruscamente, facendogli capire che sì, le aveva viste tutte. Le sembrava di aver assunto lei i panni meticolosi e i modi burberi del marito.
- Immaginavo che le aveste viste. Vi causerebbe imbarazzo o vi sarebbe di troppo disturbo spiegarmi in che modo me le sono procurate? Credo che la goffaggine non causi cicatrici tanto profonde, e non mi pare di essere distratto, sebbene sia gravemente menomato.
Già, la goffaggine non c’entrava nulla, lei lo sapeva bene. Cercò di ignorare il perbenismo di Thorn. Aveva tanto cercato di addolcire un po’ i suoi modi, una volta, quando le avrebbe solo intimato di spiegarle perché fosse ridotto così. Ora che era riuscita ad ottenere un po’ di educazione e morigeratezza, non era più sicura di apprezzarla.
Thorn interpretò il suo silenzio come esitazione, così si sentì in dovere di aggiungere: - Non sto cercando di… affrettare le cose, non fraintendetemi. Pensavo solo che sarebbe stato utile ricostruire la mia memoria attraverso le storie legate a queste cicatrici. Potrebbero aiutarmi a… capire chi sono.
Ofelia era dilaniata dall’indecisione. Essere completamente onesta con lui avrebbe portato solo dolore. Avrebbe dovuto riesumare anni di soprusi e violenze, di rifiuti da parte di chiunque nei suoi confronti, persino della sua stessa madre. Non voleva far soffrire Thorn ancora, ma allo stesso tempo non poteva rifiutare la sua richiesta di capire cosa gli fosse accaduto, o di saperne di più su di sé, su di loro.
Ironicamente, era la prima volta che Thorn non soffriva per le vicissitudini della sua intera esistenza, per l’isolamento, per gli allontanamenti, per ciò che era, ma non era più se stesso per ricordarsene e gioirne. Era un recipiente vuoto che doveva cominciare a riempire.
E Ofelia voleva aiutarlo a riempirlo. Voleva trasformare l’uomo che aveva di fronte nella miglior versione di se stesso, nell’uomo che sarebbe stato se non avesse dovuto vivere una vita al limite della durezza. Un uomo che forse poteva ancora amarla, e che lei poteva amare per il potenziale che aveva, scevro dai confini che gli erano stati imposti.
Annuì rigidamente. – Avete ragione.
Il sollievo fu evidente sul viso di Thorn. I suoi tratti si erano addolciti così come il suo corpo non sembrava più in tensione. Conservava ancora i suoi lineamenti duri e spigolosi, ovviamente, ma privi di quella rigidità che poteva venire solo da dentro. Perché dentro di sé non aveva più un passato anaffettivo. Aveva solo un futuro da riscrivere.
Entrò in camera facendogli segno di seguirla, e fu il suo turno di vederlo esitare.
- Non so se sia il caso, che stiamo da soli nella stessa stanza. Per il vostro decoro, non per altro. Non potrei mai farvi del male.
No, Thorn non le avrebbe mai fatto del male. Glielo aveva promesso. E quella certezza rimaneva anche nel nuovo Thorn. Ofelia si rese conto che la personalità di fondo era la stessa, che Thorn poteva tornare ad essere quello di un tempo, ma con le caratteristiche migliori esaltate, invece che messe in ombra dalla sua asocialità e dal suo distacco.
Era leale, era buono, era altruista e generoso. Lo era stato e lo era ancora. Si voltò a guardarlo sorridendo, facendogli aggrottare la fronte, perplesso.
- Lo so. Non ho dubbi al riguardo. Ma siamo marito e moglie, non c’è niente di indecoroso.
- Oh, giusto. Me ne ero dimenticato.
Ofelia cercò di non far svanire il suo sorriso. Quella frase non aveva mai avuto significato per Thorn. Lui non avrebbe mai dimenticato nulla, un tempo. Ma il loro era un altro tempo.
Non rispose, e gli chiuse la porta alle spalle quando lui fu entrato. Gli fece cenno di sedersi sul letto, e senza mezzi termini, gli disse: - Fatemi vedere.
Thorn sgranò gli occhi. – Come?
Ofelia avrebbe stretto i pugni se avesse potuto. Invece si morse le dita vuote dei guanti e li tolse, ripensando ad un’altra occasione simile, eppure diversa. Guardò Thorn con intensità.
- Fammele vedere.
Thorn si spogliò lentamente, quasi con reticenza. – Non è propriamente una bella visione, preparat…
- Non c’è nulla che io non abbia già visto – lo interruppe Ofelia, facendolo arrossire.
Quando Thorn si fu tolto la camicia, ben attento a non incrociare lo sguardo con lei, Ofelia osservò il suo corpo magro e le sue cicatrici, orgogliosa di essere l’unica ad aver visto Thorn nella sua interezza, dentro e fuori, nel male e nel bene.
Ripercorrendo i passi che aveva già compiuto una volta, quando erano entrambi impacciati, entrambi incerti riguardo alla loro relazione, nonostante la forza dei loro sentimenti, Ofelia gli posò i palmi sulle guance.
Gli baciò le cicatrici, e lui non si ritrasse. Non sgranò gli occhi come la prima volta che l’aveva fatto, ma li chiuse, fidandosi di lei.
Ofelia non aveva più dita. Thorn non aveva più i suoi ricordi. Erano radicalmente cambiati, ma non per questo erano estranei. Thorn doveva ancora imparare a conoscerla eppure già si sentiva attratto da lei, e Ofelia non sapeva chi avesse davanti se non che era forse la parte migliore dell’uomo che aveva amato con tutta se stessa.
E gli raccontò chi era.
 
Ofelia ripensava spesso a quella notte. Non avevano fatto nulla di che, avevano parlato sino alle prime luci dell’alba e poi si erano addormentati insieme, troppo stanchi per cambiare stanza. Si erano cercati nel sonno.
Ofelia era partita dal principio, spiegandogli che Thorn aveva sangue misto. Era metà Storiografo e metà Drago, ma ormai di lui rimaneva solo il potere familiare del padre. Non aveva parlato molto dei suoi genitori, e Thorn aveva capito che non era il caso di chiedere, che valeva la pena di ricordare e imparare solo le cose che Ofelia reputava importanti, non il resto. Gli aveva spiegato gli incarichi dei Draghi, che erano formidabili cacciatori che utilizzavano il proprio sistema nervoso per uccidere le Bestie che vivevano fuori dalla muraglia protettiva del Polo, per rimpinguare le riserve di cibo di tutti i cittadini, anno dopo anno. E gli aveva svelato che quelle cicatrici erano dovute proprio a quello. Alla caccia.
Era facile rimanere feriti. Aveva dato nuova vita ai suoi tagli, ai segni della sua sofferenza, così che lui potesse guardare ad essi come trofei invece che come evidenza dei maltrattamenti subiti. Non aveva nemmeno citato Freya e Godefroy, o padre Vladimir, gli aveva solo detto che l’intero clan usciva a caccia, e c’erano numerosi membri che lei non aveva fatto in tempo a conoscere bene. Gli aveva rivelato del loro sterminio, e l’unica domanda che Thorn le aveva posto era stata: - Perché io non ero con loro?
Ofelia allora gli aveva illustrato la situazione di Berenilde, la cui gravidanza all’epoca era già avanzata, e inoltre lui era in procinto di sposarsi con lei. Quando Thorn le aveva chiesto come si fossero conosciuti, ormai erano entrambi sdraiati a letto, stanchi ma incapaci di smettere di parlare e ascoltare. Ofelia avrebbe voluto avere le dita per passarle sulla sua guancia su cui campeggiava la barba corta e ispida di un giorno, ma fu la sciarpa a sopperire a quel bisogno, srotolandosi dal collo di Ofelia per allungarsi verso quello di Thorn, che l’aveva lasciata fare.
Gli aveva raccontato la loro storia senza bugie, solo con qualche omissione. Non aveva parlato del Libro, ma solo del suo desiderio di ottenere il suo potere familiare. Gli aveva detto quanto lei si era arrabbiata per questo, ma anche quanto lui si fosse dimostrato disposto a tutto pur di farsi perdonare. Di fronte a quelle ammissioni Thorn era inorridito, come se si reputasse incapace di compiere tali atti egoistici, ma si era calmato rendendosi conto che Ofelia non gli portava rancore, anzi, era stata disposta a sposarlo lo stesso.
Gli aveva restituito i ricordi migliori di sé, le caratteristiche che l’avevano fatta innamorare e, anche se Thorn a tratti sembrava scettico di fronte a quell’altra personalità che non rammentava e gli risultava difficile capire, aveva deciso di accettarla.
Ofelia gli aveva raccontato quanto aveva potuto quando giunse a spiegargli come mai avesse perso la memoria. Cosa fosse successo in cinque anni. E per una volta Thorn si era dimostrato impassibile come un tempo.
- Voi… - aveva esordito dopo lunghi minuti, con la voce roca per il silenzio prolungato. – Tu sai che io non potrò mai tornare ad essere quello che sono stato, vero?
Ofelia aveva stretto forte gli occhi per non piangere e aveva annuito. – Lo so. Ma so anche che sei sempre tu, che le caratteristiche che mi hanno colpita di Thorn – aveva detto come se Thorn non fosse stato proprio l’uomo di fronte a lei, - sono ancora dentro di te.
Lui aveva aggrottato le sopracciglia, scettico. – Come puoi essere sicura?
Lei aveva sorriso, con le palpebre d’un tratto pesanti. – Perché le ho viste.
Si erano addormentati insieme nel giro di pochi minuti.
 
E Ofelia ripensava spesso anche al momento in cui aveva del tutto accettato quel nuovo Thorn, anzi, quella nuova versione di Thorn, perché suo marito rimaneva sempre tale. La forma forse era diversa, ma la sostanza era immutabile.
Era successo alcuni giorni dopo. Ofelia gli stava spiegando, con l’aiuto di Berenilde, come utilizzare i suoi artigli. Dopo averli usati una o due volte su Archibald, in modo blando ma comunque doloroso, Thorn aveva sorriso e aveva decretato di aver capito il meccanismo. Berenilde se n’era andata per aiutare Archibald a curarsi, mentre quest’ultimo rideva come se Thorn gli avesse fatto il solletico, asserendo che le vecchie idiosincrasie non morivano mai.
Thorn si era fissato le mani e le cicatrici visibili sugli avambracci, e aveva rassicurato Ofelia, che lo fissava con durezza. – Non amo la violenza. Il solo pensiero mi dà il voltastomaco, come se il mio corpo sapesse cosa è giusto fare e non fare. Però credo sia un potere utile per contribuire al sostentamento della comunità. Dovrei adoperarlo per fare del bene.
Lo sguardo di Ofelia si era subito addolcito, ma non aveva proferito parola.
- Sai cos’altro credo? Che il mio corpo sappia meglio di me anche i sentimenti che provo per te. Il mio cervello magari è restio, ma spesso le mie membra si muovono come se avessero vita propria, inesorabilmente spinte verso di te.
Ofelia aveva rischiato di inciampare indietreggiando, mentre la figura di Thorn troneggiava su di lei, sicura grazie alla nuova armatura per la gamba, con tenerezza e confusione mescolati nel suo sguardo.
- Credo di averti amata molto, molto profondamente in passato – mormorò, abbassando le palpebre. – E credo di amarti anche ora. Anche… anche un po’ di più.
Con le lacrime agli occhi, Ofelia aveva abbandonato anche la più piccola reticenza morale, fisica o di qualsiasi altra natura si fosse imposta.
Aveva gioito per il ritorno di Thorn, di una parte di lui, quella che amava e che non sarebbe mai morta, e aveva gioito per la nuova storia priva di violenza e brutalità che si era costruito.
Si era avvicinata a lui con uno sguardo talmente deciso che era stato lui, intuendo le sue intenzioni, a chinarsi per baciarla, e non lei.
Ma era stata lei a trascinarlo in camera con sé.
 
Extra
- Sei pronta?
Ofelia si risvegliò di mala voglia tra le braccia del marito, ancora intorpidita per la notte passata insieme e le poche ore di sonno. Arrossì al solo pensiero, e in qualche modo i metallici occhi da sparviero di Thorn riuscirono a notarlo anche nella penombra. Sorrise come sempre, pieno di una positività e spensieratezza che in passato non sarebbe mai stato in grado di dimostrare.
Un sorriso che solo la consapevolezza di essere profondamente amato poteva generare. Insieme alla certezza di non essere mai stato odiato da nessuno.
Ofelia seppellì il naso nel suo petto muscoloso, stupendosi come sempre di come Thorn si fosse ingrossato. Mangiava tanto, faceva esercizio, e il suo corpo ossuto, nervoso e dolorante era diventato possente, muscoloso e scattante, gonfio di vitalità. Ofelia non si soffermava mai a pensare a quale delle due versioni preferiva, perché sapeva che alla fine avrebbe amato Thorn qualsiasi fosse stato il suo aspetto. Non lo aveva già ampiamente dimostrato?
In ogni caso, doveva ammettere che il modo in cui l’amava era inebriante. Thorn si prendeva ciò che voleva con la tipica fiducia di chi non teme rifiuti, perché non è mai stato rifiutato. Il Thorn che era stato, per quanto appagante, aveva sempre temuto di imporsi a lei, aveva sempre paventato un allontanamento, un diniego, perché aveva avuto solo quelli per tutta la vita. Invece di aiutarlo a convincersi che lo desiderava e che lo amava, come in passato, Ofelia si abbandonava a lui che sapeva condurla con destrezza in luoghi sconosciuti ma assolutamente piacevoli.
Si chinò infatti a baciarla, prima di scivolare fuori dal letto e stiracchiarsi. – Oh sì, una buona notte con la propria moglie è la preparazione perfetta per una battuta di caccia.
Ofelia avvampò ancora di più e sentì il fantasma della risatina di Thorn raggiungerla, un suono a cui doveva ancora abituarsi nonostante tutti gli anni passati insieme. Conservava sempre una piccola nota stridula, come se, in fondo, fosse proprio innaturale per lui ridere.
- Muoviti, la strada che ci aspetta è lunga. A meno che tu non te la senta. Sai che non ti costringerei mai.
Ofelia si impose di uscire da sotto le coltri calde, per quanto di malavoglia. – Sai che non ti lascerei mai andare da solo.
- C’è mia zia.
- Sai cosa intendo. Berenilde sa badare a se stessa, ma una mano in più non guasta, per quanto debole.
- Non sei debole.
- Non sono forte quanto voi.
Thorn le sorrise nuovamente, facendole stringere il cuore. – Sei forte quanto basta. Per il resto ci sono io.
 
Ofelia veniva sempre presa da una strana trepidazione quando si approssimava il momento di andare a cacciare le Bestie. Alla fine Thorn aveva davvero preso le redini dei Draghi, cacciando le Bestie come avevano fatto i suoi familiari prima di lui, con Ofelia e Berenilde al seguito. Si dividevano il compito con gli Invisibili, una collaborazione che padre Vladimir non avrebbe mai tollerato, ma entrambi i clan erano troppo deboli per potersi imporre sull’altro, o sulle loro prede.
Come al solito, prima di varcare i cancelli che li avrebbero condotti all’esterno, Ofelia ripensò alla sua vita. A chi c’era e a che non c’era più, come Elizabeht, Ambroise, Renard, Gaela e Archibald. A ciò che aveva avuto. E a quello che non aveva avuto.
Toccò la mano di Thorn. – Sarebbe stato bello avere dei figli a cui insegnare il mestiere – mormorò con voce abbastanza bassa da non essere udita da Berenilde.
Thorn aggrottò la fronte, riportandola indietro nel tempo. – Non angosciarti. L’ho insegnato a te. Niente a parte te è indispensabile.
Ofelia sentì lo stomaco contorcersi. Era stato naturale prendere posto al fianco di Thorn quando aveva deciso di riprendere a svolgere il compito che era stato affidato alla sua famiglia per anni. Non era più una lettrice, era solo la moglie di un Drago. E aveva gli artigli. Cos’altro avrebbe potuto fare? Inoltre, non si sarebbe mai allontanata da Thorn.
Ogni tanto si fermava a riflettere sul fatto che le sembrava di essere stata sposata con due uomini diversi. Il Thorn che aveva deciso di sposare era ombroso, taciturno e asociale tanto quanto quello che aveva salvato era solare, loquace e carismatico. A volte sentiva la mancanza del primo, altre era grata della presenza del secondo. Ma ciò che le aveva permesso di mettersi il cuore in pace erano le costanti che li accomunavano: le frasi che entrambi erano soliti pronunciare, la loro incrollabile lealtà, il loro bisogno di Ofelia.
Aveva ricevuto tanto quanto aveva perso, rifletteva a volte. E anche se la vita che si era immaginata per loro non era quella che avevano, valeva la pena di viverla lo stesso. Perché, ricordi o non ricordi, passione per la matematica o meno, magrezza o tonicità, Thorn rimaneva ossessivo, preciso, presente, affidabile, risoluto, determinato.
Non si imponeva con autorevolezza perché temeva che non sarebbe altrimenti stato rispettato, ma si faceva avanti con sicurezza proprio perché non era mai stato contestato o umiliato. Erano due rovesci della stessa medaglia e Ofelia li amava entrambi. Amava Thorn.
Raddrizzò le spalle quando capì che era il momento di procedere. Thorn le diede una stretta al palmo in risposta.
- Sai, guardandoti non sembri forte come invece sei. Qualcuno potrebbe dire che non resisteresti mai qui, che ti farebbero a pezzi. Quella persona sarebbe nel torto più assoluto.
Ofelia sentì gli occhi pungerle, ma scacciò le lacrime perché non era il tempo di abbandonarsi ai ricordi. Qualcuno gliel’aveva detto, che non sarebbe resistita. Quel qualcuno le aveva anche detto che era stato il suo più grande errore. Ofelia riuscì a sorridere, nascondendo però il volto nella sciarpa.
- Mi guardi le spalle? – gli chiese come ogni volta che si accingevano a cacciare.
Thorn incurvò appena le labbra, negli occhi la seria determinazione che lo aveva caratterizzato dalla prima volta che si erano visti. – Anche un po’ di più.

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Capitolo 4
*** Lieto fine drastico ***


FINALMENTE. Finalmente ho finito. E ho messo la spunta su Completa ad una delle tre storie in corso. Mi sembra di aver partorito.
Ringrazio prima di tutto tutti coloro che hanno seguito questo strano percorso e hanno letto i deliri della mia mente che si è chiesta: "Ma come farà Ofelia a riportare indietro Thorn?"
La mia mente pensa troppo. Io comunque, personalmente, preferisco il finale in cui per uscire dallo specchio Archibald prende il posto di Thorn, mi sembra il finale più... accettabile.
Questo invece è quello che potrebbe succedere se... niente spoiler. Dico solo che spero di essermi riuscita a spiegare, perché personalmente amo amo amo tutti e 4 i libri della Dabos e l'unica pecca che potrei trovare, se proprio devo trovarla, è tutto il discorso incasinato del Corno, delle inversioni, degli echi... insomma, ogni tanto mi soffermo ancora a pensarci e spero di essere giunta alle giuste conclusioni in questo capitolo. Se avete dubbi o pensate che abbia preso un mega granchio o un super abbaglio, ditemelo pure che... be', se proprio ho cannato in pieno cambierò il capitolo xD Ma spero di no perché non ne ho molto voglia ahahahha.
Grazie ancora a tutti♥


4. Lieto fine drastico

Ofelia si girò e rigirò nel letto, stanca, sfinita, forse troppo per dormire. Si sarebbe volentieri distratta guardando il cielo fuori dalla finestra, ma il giardino del palazzo di Berenilde era troppo ammantato di illusioni per riuscire a distinguere quali stelle fossero vere e quali fossero il frutto delle manipolazioni altrui.
Aveva visto Thorn per l’ultima volta tre anni e cinque mesi prima. Quasi quattro anni. E ogni notte il conto aumentava, pensandole sulle spalle come se fossero la causa del suo invecchiamento, e forse era proprio così. Il tempo scorreva a prescindere dallo scopo e dalle motivazioni di ognuno. Che lei avesse passato quei tre anni alle terme, a coltivare campi sotto il sole o rinchiusa in una biblioteca non faceva differenza: erano passati, togliendole vita.
Si alzò lo stesso dal letto, ma invece di affacciarsi alla finestra si diresse verso il grande specchio a muro che la riprendeva a figura intera. Stava abusivamente occupando una stanza dimenticata nel grande palazzo di Berenilde, certa che nessuno l’avrebbe trovata. La prima volta che Thorn l’aveva abbandonata si era compatita e chiusa in camera sua, su Anima. La seconda volta si era dedicata ai vagabondaggi con tappe di ristoro a casa della zia del marito, ignara di tutto. Alla fine dei conti, rimaneva sempre sola a escogitare piani infruttuosi su come ritrovare Thorn. La prima volta era stato provvidenziale l’intervento di Archibald. In quel momento, invece, l’ex ambasciatore non avrebbe potuto aiutarla in alcun modo. Lui. Gaela. Renard. Tutti morti.
L’avevano tutti lasciata sola.
Cercò di distrarsi da quei pensieri depressivi guardandosi allo specchio, cercando di scorgere l’adolescente che era stata, la donna acerba che si era rifugiata a casa dei suoi dopo che il marito era scappato, la moglie che aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo quando aveva lavorato al fianco di Thorn come una coppia.
Non le trovò.
Vide solo una signora con i capelli ricci e lunghi, spettinati, una sciarpa floscia al collo, gli occhiali storti sul naso, una statura più bassa della media e delle mani senza dita. Mani che non erano state in grado di trattenere la persona che più aveva amato, e che continuava a cercare inesorabilmente. Nonostante la stanchezza. Le sembrava di aver passato la sua vita intera a cercare.
Continuò a guardarsi senza davvero vedersi, cercando qualcosa, qualcuno dietro lo specchio. Ma c’era solo lei. Lei e il suo riflesso. Quanto lo invidiava! Lui era dall’altra parte, almeno. Se avesse visto un guizzo di vita avrebbe avuto la conferma che la via per il Rovescio, dove si trovava Thorn, era aperta.
Ma la conferma che aveva era che quel passaggio era chiuso.
Alla fine si allontanò e si sdraiò nuovamente a letto.
Berenilde forse non era del tutto ignara dei suoi pernottamenti lì, comunque. Ofelia trovava sempre la stanza, la stessa, ogni volta ripulita e con lenzuola fresche e profumate, un vassoio di frutta sul comodino e ogni tanto anche pane e qualche dolcetto. Era il modo della madama di incoraggiarla nella ricerca perché, a discapito di tutto, a Berenilde mancava suo nipote, l’unico appoggio che aveva avuto per anni. E nemmeno la presenza della sua amata Vittoria poteva soffocare del tutto quel piccolo angolo di nostalgia che Berenilde provava.
Per Ofelia, però, quella sensazione non era relegata in un angolino. Era un torrente, un fiume in piena che minacciava di travolgerla sempre più spesso.
 
Il sonno giunse irrequieto e carico di sogni misti a ricordi che al mattino lasciavano confusi, incapaci di distinguere tra ciò che era realmente successo e ciò che invece si era solo immaginato.
Ofelia aveva sognato di parlare con il suo eco, l’ombra del suo potere di Attraversaspecchi. Lui non le aveva ovviamente risposto, ma si erano tuffati insieme nello specchio, alla ricerca di Thorn. O almeno così aveva pensato Ofelia. Nel momento in cui si era trovata dall’altra parte dello specchio aveva capito, con la certezza che si ha in un sogno, in cui non c’è mai una causa per gli avvenimenti, o una spiegazione, che Thorn era tornato nel mondo al dritto. Si erano scambiati i ruoli come se fossero ormai incapaci di coesistere nella stessa dimensione, riavvicinarsi. Il suo eco l’aveva portata in giro, ma alla fine si era resa conto che, come lei lo stava seguendo, allo stesso modo l’eco stava seguendo lei. Avevano quindi girato in tondo per un periodo imprecisato, mentre la sua ombra silenziosa si mangiava dei piccoli puntini luminosi come se fossero frutti di un albero. Erano tutti buchi, corni dell’abbondanza che l’eco divorava come se ne andasse della sua stessa esistenza.
Ofelia si svegliò di soprassalto quando l’eco offrì a lei un corno dell’abbondanza, che però la risucchiò invece di farsi mangiare. Aveva immaginato di precipitare, ecco perché si era destata così bruscamente.
Si guardò intorno, cercando di fare mente locale mentre gli strascichi del sogno la abbandonavano come fango lavato via dalla pioggia. Le rimase solo una sensazione, un’idea generica di cosa fosse successo. E una grande malinconia, perché nemmeno nei sogni che la assillavano la notte poteva riconciliarsi con Thorn. Le sembrava una profonda ingiustizia, ma prendersela con il suo subconscio non avrebbe aggiustato nulla. Ovviamente era in una camera del palazzo di Berenilde, era una mattina uggiosa e lei era nel Recto. Thorn era ancora nel Verso. Il passaggio tra i mondi era ancora chiuso, il marito era ancora irraggiungibile e il corno dell’abbondanza non esisteva più, mangiato dal suo stesso eco.
Sussultando, si rese conto che un’idea, un’ipotesi, un cambiamento le batteva nella testa, divorandola come un parassita, ma non riusciva a distinguerla, a darle una forma. C’era qualcosa che le sfuggiva, una strada che ancora non aveva tentato nonostante avesse provato ogni esperimento possibile e immaginabile.
Si lavò velocemente nel piccolo bagno della camera, anche quello sempre rifornito di asciugamani puliti, permise alla sciarpa di sistemarle, o arruffarle, i capelli, di rimetterle gli occhiali sul naso e di allacciarle i bottoni del vestito. Era diventata più brava e veloce di lei in quegli anni, e Ofelia la toccò con il palmo nudo per ringraziarla prima di farsi aiutare a mettere i guanti. Guanti inutili, che non le servivano più come prima, ma almeno davano l’illusione che ci fossero ancora delle dita invece di mostrare al mondo le sue mani mutilate.
Si tuffò nello specchio con gli occhi chiusi, varcando innumerevoli superfici senza mai soffermarsi troppo a lungo, vagando per tutto il globo tentando di trovare un posto di quiete che la aiutasse a tornare nel luogo di mezzo. Anche quello si era chiuso tre anni prima, ma Ofelia tentava e tentava ancora di tornarci.
Quando aprì gli occhi, ansimando, si ritrovò nel luogo che non avrebbe mai pensato di rivisitare: l’isolatoio. Il gabinetto, il lavandino, la doccia, i medicinali e il materasso erano ancora lì, immutati come se quella stanza fatta di specchi fosse al di sopra dello scorrere del tempo, come se non ne fosse stata intaccata. Le girò la testa per un istante quando, guardandosi attorno, vide i suoi movimenti riflessi ovunque, sulle pareti, sul soffitto e persino sul pavimento.
Aveva odiato l’isolatoio quando l’avevano costretta ad andarci per punizione. Lo odiava anche in quel momento, perché era lì che era riuscita a raggiungere per la prima volta il luogo di mezzo. Era lì che aveva finalmente compreso, anzi, ammesso, i suoi sentimenti per Thorn. Era scivolata nel suo stato d’animo, attraversando gli specchi per approdare dentro se stessa. Vigliacca e pavida com’era stata, bugiarda, si rese conto in quel momento che era stato un miracolo che fosse riuscita ad attraversare gli specchi. Solo chi era in grado di vedersi per ciò che era poteva farlo.
Lei era tornata per quel motivo.
E aveva un’idea.
 
Gli specchi le riflettevano decine di differenti versioni e angolature di se stessa. Era cambiata così tanto, dentro di sé, dall’ultima volta che era stata lì. Troppe cose erano diverse, negativamente diverse. Aveva perso più persone care di quante ne avesse conosciute nel frattempo, e aveva perso quel marito che aveva fatto tanta fatica a capire di amare. Scosse la testa. Non poteva indugiare in simili pensieri.
Non poteva più scivolare nello iato tra gli specchi, rimanere sospesa tra i due mondi. Però poteva ancora attraversarli. Si diresse verso una parete riflettente. Vi immerse la mano, e come aveva previsto la vide uscire dallo specchio della parete opposta. La ritrasse, e la fece uscire dal soffitto insieme ad un piede. Rischiò di inciampare e si allontanò un secondo, toccando il vetro duro e freddo senza però trapassarlo. Poi sospirò e, immergendo di nuovo il braccio, lo vide sbucare dal pavimento. Rimase a fissare quel braccio che ondeggiava per terra.
Era suo, lo muoveva lei, ma era come se non lo fosse. Era distaccato da lei, non ne faceva più parte. Eppure, se lo riavvicinava a sé, tornava a fare parte del suo corpo.
Non si era mai chiesta granché come funzionasse il suo potere, come nessun altro probabilmente. Chi si domandava come agisse la telepatia della Rete? O gli artigli? E l’animismo? In base a quale legge fisica? C’erano così tante stranezze in quel mondo variegato abitato da persone ancora più variegate. I poteri familiari di solito venivano studiati e riportati in un compendio, su Anima, così da catalogarli e tenere nota delle mutazioni di quei doni e delle loro manifestazioni. Ma non veniva mai spiegato come mai esistessero.
A volte ciò che un potere familiare era in grado di compiere travalicava la consapevolezza stessa del portatore.
Ofelia si sedette al centro della stanza, a gambe incrociate. Chiuse gli occhi.
Per una volta cercò di fare ciò che non aveva mai fatto: esaminò la sua memoria. Era sempre stata preda di visioni incomprensibili che appartenevano ad altri, mai a lei. Soprattutto ricordi di Eulalia, ricordi di vita, di chi era stata e chi era diventata. Di come aveva cambiato persino lei stessa.
Così cercò di capire, di capirsi.
Ricordò quando aveva scoperto com’erano nati gli spiriti di famiglia. Eulalia aveva offerto al Corno dell’abbondanza un libro rilegato e confezionato con se stessa: i suoi capelli, il suo sangue, il suo sudore, la sua esistenza, il suo alfabeto. La contropartita. Il Corno era equo. Donava echi da materializzare in cambio di un’offerta.
Ma c’era anche un altro modo per evocare un eco: scindersi dalla propria ombra, dal proprio potere familiare. Era così che Eulalia aveva trovato l’Altro. Lo aveva invocato invertendosi, esasperando le proprie percezioni e i propri sensi, generando qualcosa da sé. Per materializzarlo aveva poi dovuto attraversare lo specchio al posto suo, facendolo uscire e portando con sé l’orrore della guerra.
E lei? Lei, Ofelia, aveva fatto esattamente la stessa cosa. Un’inversione nel Dritto comporta una contro-inversione nel Rovescio. Quando Eulalia si era invertita con mezzo mondo, l’Altro si era contro-invertito prendendo il suo posto. Quando Ofelia aveva tirato fuori Eulalia, anni dopo, dallo specchio, non aveva dato nulla in cambio. Per quel motivo erano iniziati i crolli e il mare di nuvole, l’aerargyrum che prendeva il posto degli oggetti e delle persone che finivano nel Rovescio, aveva cominciato ad imperversare.
Lei aveva creato un’eco offrendo il suo potere di Attraversaspecchi. Era simbolicamente equivalente. Quando si erano fusi nuovamente, all’atto di uscire dal Rovescio in cui si erano ritrovati insieme, Ofelia aveva anche pagato il debito che le avrebbe permesso di contro-invertirsi. Aveva riottenuto il potere di attraversaspecchi, cedendo quello di lettrice. E infine aveva pagato l’ultimo debito ridando al Rovescio l’Altro.
Le sembrava di avere per le mani troppe informazioni rispetto a quelle che era in grado di processare, tra ricordi suoi e di altri, speranze, progetti e congetture. Avrebbe più che mai voluto avere Thorn a fianco a sé, con la sua mente pratica e calcolatrice, la sua capacità di analizzare tutto con estremo distacco.
Le mancava così tanto.
Si rese conto quasi per caso di essere immersa per metà nello specchio del pavimento. Aprendo gli occhi vide parti del suo corpo emergere dal resto degli specchi della camera, una gamba a destra, una a sinistra, la schiena sopra. Stava di nuovo scivolando dentro se stessa, ma il passaggio era chiuso e invece di finire nel luogo di mezzo tra Dritto e Rovescio vagava nella stanza, negli specchi.
Chiuse gli occhi nuovamente, più determinata che mai.
Il mondo era in equilibrio e il Corno dell’abbondanza era sparito. Come avrebbe fatto a riportare Thorn indietro? Offrendo quale contropartita? Ogni passaggio da un mondo all’altro rendeva instabili entrambi, e senza il Corno l’entrata era chiusa per sempre.
Perché il suo eco lo aveva mangiato.
Ofelia aprì gli occhi e tornò in sé, seduta sul pavimento a specchio.
Il suo eco aveva mangiato il Corno dell’abbondanza. Poi si era fuso con lei e avevano riattraversato lo specchio della camera sospesa nel Secretarium, cedendo il potere da lettrice.
Ma dov’era il Corno dell’abbondanza?
Se il suo eco aveva assimilato il Corno e lei aveva assimilato il suo eco, non doveva aver assimilato anche la capacità di attraversare il passaggio tra i mondi? Eppure, in tutti quegli anni in cui aveva cercato il passaggio tra recto e verso non aveva trovato nulla, non aveva sentito nulla. Per lei più che per chiunque altro avrebbe dovuto essere facile trovare quella breccia, dato che l’aveva attraversato più di una volta.
Ofelia era vicina a… qualcosa, lo sentiva. Ma a cosa?
Tornò a sdraiarsi e chiuse gli occhi. Non aveva guadagnato il potere del Corno, ne era certa. Ma il Corno era davvero perduto per sempre? Più rifletteva e più le sembrava che solo il buco che convertiva echi in materia e viceversa fosse la soluzione al suo problema.
Si assopì senza nemmeno rendersene conto, e sognò.
Sognò un eco anticipatore.
Al suo risveglio, sapeva cosa fare.
 
Cercare di riportare tra loro il Corno dell’abbondanza sarebbe stato un azzardo troppo grande. Qualcuno avrebbe potuto ripetere gli errori di Eulalia o, peggio, di Lazarus, e segnare definitivamente la disfatta di entrambi i mondi. Ma se il Corno fosse rimasto nel Rovescio avrebbero forse scongiurato quella possibilità.
Eulalia aveva evocato l’Altro, e lei stessa aveva dato vita ad un eco.
Cosa avrebbe potuto impedirle di rifarlo?
Nulla.
I giorni le sarebbero scivolati via dalle dita come sabbia, se ne avesse avute. Ofelia perse la cognizione del tempo, erano solo i suoi bisogni fisiologici a scandire i ritmi delle giornate. Quando aveva fame approdava nel palazzo di Berenilde, in silenzio, senza mai lasciare tracce. Visite brevi e prive di sostanza che avevano il solo scopo di mantenerla forze. La doccia e il gabinetto incastrati tra gli specchi invece erano fondamentali per mantenersi pulita senza perdere troppo tempo a passare tra gli specchi. Thorn non avrebbe tollerato il contatto con una persona sporca, quando l’avesse rivista, anche se Ofelia aveva il presentimento che avrebbe fatto un’eccezione per lei. Lo aveva fatto anche quando l’aveva abbracciata sull’impluvium a casa di Lazarus, alla fine. E tra l’erba alta.
Quelle reminiscenze le davano la forza di continuare, nonostante il suo compito fosse caotico, disordinato e doloroso. Ripercorse i passi di Eulalia, esacerbando la sua inversione giorno dopo giorno fino al parossismo. Quando si risvegliava dal suo sonno inquieto aveva sempre più difficoltà a capire quali fossero la destra e la sinistra, e non capiva se fosse diventata come Ambroise o se le visioni di lei con le mani al contrario fossero solo un sogno. Un giorno usava solo la parte destra del corpo, un altro solo la sinistra, e quello dopo la gamba destra e la mano sinistra, confondendo se stessa e il suo corpo. O almeno pensava che i suoi esperimenti durassero l’intero giorno. Per quanto ne sapeva, forse passava solo mezz’ora dal passaggio da un esercizio all’altro. Li inframmezzava anche con gli esperimenti che le avevano fatto fare quotidianamente all’osservatorio delle deviazioni, esasperando la sua inversione ogni volta di più. Cominciò a soffrire di emicrania e i suoi fedeli occhiali divennero una blando palliativo per la sua miopia, perché aveva la vista appannata anche con quelli.
Finché un giorno faticò ad attraversare lo specchio. Le sembrò di aver immerso la mano in uno strato denso e compatto di melassa, che prima la tirava a sé e poi la respingeva. Fece diversi tentativi nell’isolatoio, sbucando una volta dal soffitto anziché dal pavimento, e quella dopo dalla parente destra invece che da quella di fronte. O era a sinistra?
Quando ebbe riottenuto un minimo di controllo, riuscì ad arrivare a casa di Berenilde, nella cucina. Da quando Thorn era diventato un Attraversaspecchi e Ofelia si era messa a cercarlo, la padrona di casa aveva fatto attaccare al muro di ogni ambiente uno specchio a grandezza naturale, nel caso in cui qualcuno avesse voluto ritrovare la strada del ritorno. Per Ofelia era stato estremamente comodo, ma non aveva mai avuto modo di ringraziare Berenilde per quel pensiero.
 Era notte fonda fortunatamente, così nessuno avrebbe rischiato di trovarla. Una candela era come sempre accesa al centro del tavolo, per permettere a chi la notte si alzava di trovare la via della cucina senza svegliare tutti. Ofelia fece passare al di là dello specchio quante più provviste possibili, selezionando quelle che non avrebbero faticato a conservarsi per più di un paio di giorni. Dopo il primo, difficoltoso attraversamento fu facile tornare nell’isolatoio, ma Ofelia sapeva che quella condizione sarebbe cambiata non appena avesse ricominciato con gli esercizi di inversione.
E sapeva anche che non se ne sarebbe potuta andare senza far avere sue notizie a Berenilde, alla zia Roseline e ai suoi parenti.
Con l’aiuto della sciarpa prese un foglietto di carta e una penna che il cuoco teneva sempre a disposizione nella cucina, per quando gli veniva in mente qualche ricetta o qualche ingrediente da comprare e si appuntava tutto per non dimenticarseli.
Era troppo determinata e concentrata per lasciarsi andare alle emozioni, ma non poté impedirsi di sentire gli occhi lucidi. La sciarpa, sempre consapevole dei suoi stati d’animo, le diede dei colpetti impazienti sulla spalla, che la riscossero.
Doveva rinunciare alla sua vanità per ammetterlo, ma la sciarpa scriveva molto meglio di lei. Con la penna in mano, scrisse senza esitazioni o sbavature quello che Ofelia le dettava, tentando di essere breve e concisa. Non fu facile riversare in poche righe tutte le emozioni che provava, contrastanti e vorticose. Sollievo per essere finalmente riuscita a giungere ad un punto, un punto più vicino a Thorn; tristezza e malinconia per il modo frettoloso in cui si era dovuta congedare; affetto per tutti i suoi cari, e rimpianto per essere stata lontana così a lungo, e perché lo sarebbe stata ancora; solitudine e nostalgia, infine, perché aveva l’assoluta certezza che quello fosse un addio.
Ofelia aveva appena finito di dettare le parole alla sciarpa, che si allungò per posare il bigliettino sul tavolo, quando la luce si accese e la investì. I suoi occhi abituati al buio sbatterono le palpebre convulsamente nel tentativo di abituarsi a quell’inondazione. Ofelia avrebbe voluto avvicinarsi quanto più possibile allo specchio della cucina, la sua unica via di fuga, ma incespicò nei suoi stessi piedi, più instabili che mai, e dovette appoggiarsi con i palmi al tavolo per non cadere.
Fortunatamente riacquistò l’uso della vista, per quanto fosse imperfetta, quasi subito. Si rese conto con sgomento che sulla soglia della cucina c’era una bambina alta e magra con la pelle chiarissima e lunghi capelli di un bianco abbacinante che sembravano splendere di luce propria, più che rifletterla. Ofelia sapeva quanti anni aveva la bambina, ma la sua statura e la sua corporatura non rispecchiavano quell’età: la bambina sembrava molto più grande. Eppure, c’era un che di vulnerabile nel suo sguardo, di fragile, come di qualcuno che ha dovuto affrontare già diversi orrori nella vita. Era uno sguardo consapevole e intelligente, eppure intimorito.
Da dietro di lei sbucò un’altra figura, identica nell’altezza e nell’età, ma decisamente maschile, con occhi semichiusi per la stanchezza e una chiara espressione di noia dipinta in volto. Se la bambina dimostrava saggezza, concretezza e coscienza, il bambino sembrava stralunato, svampito e inconsapevole.
Vittoria e Faruk. Più simili a fratello e sorella che a padre a figlia. Chissà se crescendo avrebbero mai scoperto la verità…
- Madrina? – chiamò Vittoria con voce flebile, chiedendo più una conferma che una richiesta di attenzione.
Al di là dello sbigottimento di cui era preda, Ofelia sorrise spontaneamente. Un sorriso piccolo e venato di tristezza, a cui però Vittoria fu pronta a rispondere, seppur con una curvatura di labbra altrettanto accennata.
- Siete venuta per restare? – le chiese con voce ferma, conscia di ciò che chiedeva e del ruolo che ricopriva quella donna che aveva visto così poche volte eppure le aveva donato il suo nome.
Ancora una volta, Ofelia sentì le lacrime pungerle gli occhi e le lenti degli occhiali si scurirono. La sciarpa, partecipe del suo dolore, si avvolse più strettamente attorno al suo collo. Avrebbe tanto voluto approfondire la conoscenza della sua figlioccia, e vederla crescere. Avrebbe voluto farlo con Thorn. Se non potevano avere figli, almeno si sarebbero goduti la loro cuginetta…
Scacciò quei pensieri dolorosi e le rivolse un sorriso così triste che si sarebbe potuto scambiare per la smorfia di chi è prossimo al pianto. – No, Vittoria. Sono venuta per salutare.
Lo sguardo della bambina parve brillare per un momento, come se avesse capito esattamente cosa Ofelia voleva dire, nonostante nemmeno lei lo sapesse fino in fondo.
- Avete trovato il cugino Thorn?
Ofelia scosse la testa. – Non lo so ancora. Forse sì. Ci sto provando.
Vittoria si girò per un istante verso lo specchio dal quale Ofelia era arrivata, assottigliando gli occhi come per vedere meglio. Ma fu solo un attimo e quello dopo aveva di nuovo gli occhi puntati su Ofelia.
- Portategli i miei saluti, per favore. E ringraziatelo.
Ofelia aggrottò le sopracciglia, incerta su come interpretare quelle parole. Decise che non avrebbe dovuto pensarci troppo, dato che Vittoria era figlia di Faruk e talvolta anche lui era incomprensibile. Ma avrebbe riferito il messaggio, quello era certo.
- Lo farò.
Vittoria le sorrise per davvero udendo quelle due parole. – Mi mancherete – le disse poi, con un tono nettamente in contrasto con la sua espressione gioiosa. – Spero che ne varrà la pena.
Ofelia non era certa di cosa la bambina avesse intuito, di cosa lei stessa avesse capito o se stavano per lo meno parlando della stessa cosa. Annuì lo stesso, avvicinandosi allo specchio con l’intento di andarsene sul serio.
Non aveva ancora attraversato del tutto lo specchio quando la bambina aggiunse: - Manterrete la promessa che avete fatto quando mi avete dato il nome. Vittoria.
Ofelia capitombolò sul vetro freddo del pavimento dell’isolatoio con il fiato corto. Lasciò che le lacrime sgorgassero copiose, e nemmeno la sciarpa fece un tentativo per asciugargliele. Stava forse per ritrovare Thorn, per dare un senso a quegli anni di ricerca, ma al prezzo di sacrificare tutti gli altri suoi affetti.
Per Thorn ne valeva la pena. Per stare di nuovo con lui ne valeva la pena.
Aveva promesso a se stessa, quando aveva detto a Berenilde che il nome della sua figlioccia sarebbe stato Vittoria, che avrebbe ritrovato Thorn. A costo di sfidare le Decane, il Dio dell’umanità o il distruttore dei mondi.
A costo di sfondare un passaggio invalicabile, di rinunciare ai suoi poteri familiari, agli affetti di una vita e all’Ofelia che avrebbe potuto essere e non sarebbe mai stata, aggiunse in quel momento, infondendo ancora più valore a quella promessa.
Solo che Vittoria non avrebbe dovuto essere a conoscenza di quel voto che aveva fatto quando lei non era che una neonata. Un voto a cui aveva tenuto fede, dato che poi aveva ritrovato Thorn. Lo aveva ritrovato per perderlo nuovamente, però.
Si asciugò le lacrime sentendo crescere in lei una speranza feroce che si tramutò in certezza e scacciò paura, solitudine e confusione come la luce dell’alba che dissipa le tenebre. Quella di Vittoria era stata una profezia, e Ofelia aveva intenzione di portare in alto il suo nome come un vessillo sacro, un blasone da appuntarsi al petto.
Vittoria.
 
Non le rimanevano molte scorte di cibo, ma ad Ofelia non importava. Sapeva che avrebbe portato a termine il suo proposito prima di esaurire gli alimenti. Non era più consapevole di che ore fossero, di quanti giorni fossero passati o quanto avesse dormito, ma abbracciava quell’ignoranza come l’unico mezzo per raggiungere il suo fine. Non era accaduto anche nella cappella, quando aveva vissuto pochi minuti come una quantità di giorni, quando si era immersa in se stessa e in Eulalia, o forse era Elizabeth?, e aveva perso i contorni della realtà e della sua persona?
Quando aveva compiuto la cristallizzazione e aveva evocato il suo eco, l’ombra del suo potere di Attraversaspecchi.
Si era scissa, all’epoca, si era lacerata, aveva originato qualcos’altro.
E con una mano sulla parete a specchio di fronte a sé, mentre ripercorreva e riviveva tutti gli istanti che riusciva a ricordare della sua vita, solo e unicamente della sua vita, lo sentì esplodere in lei. Rifinì i contorni di se stessa, creandone una nuova versione e rivestendo insieme quella vecchia.
Era stata la figlia di Sophie. La nipote del prozio. La sorella di Agata. Una lettrice, e poi la lettrice più competente di tutti. Un’Attraversaspecchi anche in età adulta, capacità rara da mantenere. Una giovane che aveva rifiutato due pretendenti, e poi una fidanzata costretta a sposarsi. Una nativa di Anima, un’abitante acquisita del Polo, una residente di Babel. L’amica di un eco materializzato appartenuto ad un adolescente che anni prima aveva sperimentato il Corno dell’abbondanza. E ancora, una travestita, un valletto sotto mentite spoglie, una ragazza a metà tra adolescenza e maturità che desiderava solo avere il controllo della propria vita. Una ragazza che non aveva voluto quello che poteva avere, e poi una donna che aveva voluto quello che non poteva avere. Una pedina maltrattata e tenuta nell’ignoranza, una figura riscattata che aveva scoperto che le persone non erano ciò che dicevano di essere ed erano quello che gli altri non immaginavano.
La fidanzata dell’intendente. La moglie di Thorn.
Una donna innamorata. Disposta a tutto pur di ritrovare l’unica persona determinata ad amarla tanto da lasciarla libera di compiere le sue scelte, ma che per darle quella libertà le aveva strappato la possibilità di decidere.
Di là. O di qua. Thorn aveva scelto per lei, lasciandola andare affinché lei potesse vivere nel mondo al dritto mentre lui si esiliava nel mondo al rovescio.
Ma ad Ofelia interessava solo vivere nel mondo in cui Thorn esisteva.
Di là.
E se lui non poteva andare da lei, sarebbe stata lei a raggiungerlo.
Era una ex lettrice. Era un’Attraversaspecchi. Era la moglie di Thorn.
Era Ofelia, una donna che avrebbe qualsiasi cosa in nome di quelli che amava.
Sprofondò nell’oblio.
Si sentì lacerare.
Inchiostro bianco su carta nera.
Una scelta controcorrente.
Chi era lei?
Una persona nuova.
Una persona vecchia.
La stessa di sempre.
E stava
andando da
Thorn.
 
Ofelia si sentì strappare la pelle e i capelli di dosso, come se nello spazio angusto dell’isolatoio si fosse all’improvviso sollevato un vento capace di sradicare gli alberi e distruggere gli edifici. Si sentiva bruciare e gelare insieme, rivoltata come un calzino, una sensazione che aveva già vissuto eppure le sembrava peggiore della precedente. La cristallizzazione era un processo doloroso, e capì che più volte lo si eseguiva più gravi erano le conseguenze.
Non lo avrebbe più fatto.
Se fosse andato tutto bene non le sarebbe più servito.
Batté le palpebre più volte, cercando di distrarsi dal dolore, per raccapezzarsi.
Era ancora nell’isolatoio. Era ancora intera, ma senza dita. Aveva ancora la mano posata sullo specchio, ma in qualche modo nel processo di cristallizzazione le era scivolata dentro la superficie. Solo che non riusciva più a tirarla fuori, e la vedeva sbucare, evanescente, al di là della parete a specchio.
O almeno Ofelia pensava che fosse la parete a specchio dell’isolatoio. In realtà sembrava una porta di vetro che separava due ambienti ben distinti: la stanza in cui si trovava lei, e un paesaggio nero e desolato, macchiato di tinte a contrasto, in cui si muovevano banchi di nebbia che nascondevano e mostravano figure sempre diverse. Voltando la testa, Ofelia notò che quel paesaggio desolato non si rifletteva sul soffitto, sul pavimento e sulle pareti ai suoi lati e alle sue spalle, come se non esistesse, o come se gli specchi non riuscissero a rifletterne l’immagine.
Aerargyrum.
O era forse impazzita?
Ma poi, in tutto quel nero-grigio-bianco uniforme, scorse una forma ancora più nera, alta quanto lei, come un suo riflesso fatto d’ombra.
Il suo eco. Il suo potere di Attraversaspecchi. Il suo Altro.
Se ne stava di fronte a lei con la testa inclinata, imitando la sua posa, si rese conto.
E una sua mano nera d’ombra sbucava dallo specchio di fianco a lei, nella sua stessa identica posa.
Ofelia assottigliò gli occhi. Rifletté.
Il Corno dell’abbondanza convertiva materia in echi e viceversa.
Eulalia aveva preso il posto dell’Altro nel Verso e l’Altro si era materializzato nel Recto. Una contropartita simbolicamente equivalente. Uno per uno.
Quando invece il Corno convertiva la materia in aerargyrum, rilasciava a sua volta aerargyrum, per controbilanciare l’inversione.
Per questo Ofelia aveva perso le dita da lettrice: non aveva avuto altra contropartita con cui pagare, e non aveva potuto approfittare nel Corno dell’abbondanza per rimaterializzarsi.
Allo stesso modo, aveva dovuto rispedire l’Altro nel Rovescio per riportare la pace, pagando quella contropartita che non aveva saldato quando aveva involontariamente trascinato Eulalia fuori dallo specchio.
O si utilizzava il Corno, o si pagava un prezzo che riuscisse ad equilibrare comunque i due piatti della bilancia.
Lei aveva invocato il suo eco. L’Altro. Ma non aveva intenzione di usarlo come aveva fatto Eulalia, offrendogli il proprio posto per prendere il suo. Lei voleva convertirsi con il Corno dell’abbondanza.
E ce l’aveva il suo eco.
Non sapendo bene come intavolare il discorso, prese un po’ di tempo per raccogliere le idee. Il suo eco la guardava dall’altra parte con pazienza infinita.
Cosa poteva dirgli? “Ciao, sono Ofelia, per favore rigurgita il Corno, o il buco, o particella, chiamala come vuoi, che ti sei mangiato, così che io possa sfruttarlo”?
Scosse la testa da sola, ma l’ombra non la imitò. In qualche modo quella non-imitazione la rassicurò. Il suo eco non era capace solo di emularla scioccamente. Non aveva senso nemmeno girarci tanto intorno.
- Il Corno dell’abbondanza. L’hai inghiottito, ricordi? Non so come potrebbe essere possibile, ma ci sarebbe un modo per riaverlo?
L’eco inclinò di nuovo la testa, incuriosito. Poi negò.
Ofelia non era giunta fino a quel punto, perdendo persino il suo potere di Attraversaspecchi, di nuovo, solo per farsi dire di no da quello stesso potere. Avrebbe stretto il pugno se avesse potuto, e notò che la sciarpa lo aveva fatto al posto suo, con le due code.
- Dopo potrai inghiottirlo di nuovo. Mi serve solo per trovare Thorn. Non voglio fare altro, solo passare di là.
L’eco parve rifletterci, poi voltò la testa alla sua sinistra. Ofelia vide le nuvole turbinare, esponendo alla vista una figura dai margini confusi. Una figura estremamente alta e magra, con una gamba storta in modo innaturale, che teneva in mano qualcosa e si guardava attorno. Incrociò il suo sguardo, o almeno così credette Ofelia, dato che con quella pelle nera e traslucida era difficile dirlo. Parve irrigidirsi, forse. Tremolava come l’aria calda sopra i barili infuocati accesi durante la Festa delle Castagne su Anima.
Era Thorn?
L’ombra lo indicò con la testa, come a chiederle: - Parli di lui?
- Sì, lui – rispose lei, sperando che fosse la cosa giusta da dire. – Voglio andare da lui. Voglio stare con lui. Ma non posso distruggere questo mondo, e il tuo, com’è già successo in passato. Abbiamo, ho imparato dagli errori che sono stati commessi. C’è un modo per entrare nel Rovescio senza dover causare una catastrofe, senza lacerare i mondi. Ed è il Corno dell’abbondanza.
Thorn continuava ad osservarla in silenzio, o forse no. Forse si stava immaginando tutto.
L’ombra indicò lei e poi aprì la mano, una mano integra che lei non aveva più, ad indicare l’ambiente alle sue spalle. Ofelia comprendeva perfettamente i suoi gesti, come se fossero uno strano linguaggio dei segni interpretabile solo da loro, come se l’eco le stesse bisbigliando all’orecchio.
Scosse la testa. – Non voglio tornare – mormorò, mentre le lacrime le bagnavano le guance. La sciarpa, afflosciata, non fece nemmeno lo sforzo di asciugargliele. – Non voglio tornare, senza di lui.
Voleva tornare. Abbandonare la vita che aveva conosciuto, la sua famiglia, sia quella di Anima che del Polo, le procurava un dolore che trascendeva quello fisico, era come una sofferenza interna, un altro tipo di logoramento. Non era nulla, però, paragonabile a quello che soffriva per via della mancanza di Thorn. E se doveva scegliere obiettivamente, andare da Thorn era la scelta più giusta: Berenilde aveva la figlia e la zia Roseline, la sua famiglia su Anima era grande, Octavio aveva sua sorella.
Thorn chi aveva?
Thorn era in isolamento da anni, costretto ad una solitudine che si era autoinflitto, ma che non avrebbe augurato a nessuno. E per com’era stata la sua infanzia, la sua intera vita prima che lei decidesse di appartenergli, era la persona che più di tutti non meritava una simile esistenza.
Toccava a lei salvarlo, a qualunque costo, anche se quel costo significava abbandonare tutto quello che era stata per raggiungerlo e stare al suo fianco fino alla fine. Solo loro due, insieme. Come sempre.
- Fammi venire di là – implorò a mezza voce, sentendo in gola il sapore del sale.
Erano gli occhiali ad essere appannati, o l’aerargyrum si stava agitando e infittendo?
L’eco la squadrò per dei lunghi momenti, o così pensò Ofelia, dato che era difficile capire cosa la sua ombra stesse pensando. Alla fine la vide annuire brevemente. Si posò una mano sulla pancia, la mano che non aveva immerso nello specchio fino a pochi centimetri dal viso di Ofelia, e cominciò a muovere ventre, trachea e faccia a scatti, come un’onda che si rifrangeva sugli scogli, si allontanava e tonava a sbattervi contro.
Alla fine l’eco si portò la mano alla bocca, estraendone un puntino luminoso che mostrò a Ofelia con atteggiamento trionfante.
Il Corno dell’abbondanza.
Ofelia si lasciò sfuggire un singhiozzo nel vedere quel piccolo… buco, che rappresentava la ricompensa della sua lunga ricerca. Finalmente. Ma come poteva raggiungerlo?
Intuendo i suoi pensieri, l’ombra allontanò brevemente il Corno.
- Sei sicura? – sembrava volerle chiedere.
- Permettimi di venire di là. Non tornerò più indietro. E non ti chiederò di rifonderti con me. Sarai libero, nel Rovescio.
La figura fatta di nera oscurità parve rianimarsi a quelle parole, e per un attimo Ofelia pensò di vedere due occhi bianchi brillare di desiderio.
Eppure, invece di accettare egoisticamente le condizioni, parve esitare ancora.
Sussultarono entrambe quando l’altra figura che era rimasta dietro le quinte, nascosta nella nebbia, mise una mano sulla spalla dell’eco. Una mano dalle dita lunghe e ossute, attaccata ad un avambraccio nero solcato da cicatrici bianche. Era Thorn, era davvero Thorn.
Ofelia gli sorrise, facendo del suo meglio per non apparire triste, ma insicura del risultato.
- Ti prego… - mormorò ancora. – Portami di là. Sono libera di compiere le mie scelte, e questa è la scelta che desidero compiere. Voglio giocarmi i miei dadi. E punto tutto quello che ho.
Senza preavviso, la mano dell’eco, che aveva attraversato lo specchio, le afferrò la spalla. Con l’altra mano, quella che reggeva il Corno, afferrò il palmo di Ofelia.
Il suo riflesso fu l’ultima cosa che vide prima di volare in frantumi.
 
Il senso di dolore estremo la lasciò senza fiato, anche se una piccola parte di lei lo immaginava. Ormai ci stava quasi facendo l’abitudine, anche se si chiedeva come il suo corpo potesse sopportare delle condizioni simili così tante volte. Forse avrebbe peggiorato la sua inversione interna, avrebbe danneggiato qualche altro organo. Non bastava la sterilità.
Poi non pensò più a nulla mentre cadeva verso l’alto, con un senso di vertigine e al contempo di ebbrezza, di gioia. Percepiva le lacrime scorrerle sul viso, ma quando atterrò sapeva che non le avrebbe mai più sentite.
Aveva pianto per l’ultima volta.
Atterrò. Di fianco a lei, l’ombra le lasciò spalla e mano, per tornare a guardare nello specchio e osservare gli echi prodotti dalla sua inversione che si disperdevano come foglie al vento, senza lasciare traccia dietro di loro. Poi si rimise il Corno dell’abbondanza in bocca, masticandolo come una caramella gommosa, e con un gesto fece sparire anche lo specchio.
Guardò Ofelia. Annuì, un cenno brevissimo. Un addio.
Voltò le spalle e si allontanò.
Ofelia guardò con malinconia la sua figura ombrosa andarsene. Il suo potere incarnato di Attraversaspecchi. Un pezzo di sé che si allontanava per vivere la sua vita.
Non era più una lettrice. Non era più nemmeno un’Attraversaspecchi.
La sciarpa si strinse al suo collo, confortandola, ricordandole che era ancora un’animista. Le ombre ai suoi piedi, invece, smussate in quel momento, le fecero notare che aveva anche gli artigli di un Drago. Il potere di Thorn.
Mentre l’eco scompariva di fronte a sé, avrebbe voluto ringraziarlo, ma le parole non lasciarono mai la sua bocca.
Quel mondo era privo di parole, ecco perché venivano accettate come contropartita. Le parole erano potenti, un’ottima merce di scambio. Un potere che lei non aveva più. Come Thorn.
Di fianco a lei, la sua alta figura in negativo si chinò. Ofelia avrebbe riso di fronte a quella scena, notando come la sua altezza fosse ancora più smisurata di quel che ricordava, la sua colonna vertebrale lunga e lenta nei movimenti, se la gioia non le avesse procurato un dolore tale da farla singhiozzare.
Sprofondò nel buio, o nella luce di quel mondo al rovescio, quando Thorn la strinse a sé. E l’abbraccio di quelle braccia forti valse più di tutte le parole che erano e sarebbero state inventate nei secoli trascorsi e a venire.
Si ritrovarono per terra, in una grottesca imitazione in contrasto di quello che era successo nell’immaginatoio, quando Thorn aveva ucciso il barone Melchior per salvare lei e, per la prima volta, lei si era abbandonata a lui, in cerca di conforto.
Thorn, ancora impacciato nei suoi anodini tentativi di consolazione, ma reso impaziente dalla lunga attesa, fece scorrere le mani sulla sua schiena, sui suoi capelli, sul suo viso, portando via quelle lacrime asciutte che Ofelia non percepiva più. Più volte sentì la sua bocca e la sua corta barba tra i capelli, più volte desiderò stringersi ancora di più a lui per porre fine a quella distanza inesistente fisicamente che però era stava scavata nei lunghi anni di attesa. Distanza che finalmente sembrava essere stata colmata.
Se avesse potuto, si sarebbe fusa con lui come aveva fatto con il suo eco quando era uscita dal Rovescio la prima volta.
Thorn la cullò meccanicamente per tutto il tempo in cui lei singhiozzò silenziosamente, ondeggiando avanti e indietro con il lungo busto, tenendola sempre premuta a sé. Quando Ofelia si scostò appena per accarezzargli il viso e guardarlo, guardarlo dritto negli occhi, vide che anche lui aveva delle tracce bianche slavate sotto gli occhi, che non erano cicatrici ma ombre di lacrime. La sua espressione era austera e distaccata come sempre, però, in netto contrasto con i segnali che il suo corpo le lanciava. Ofelia gli tracciò con le dita la lunghezza delle cicatrici che le erano tanto mancate, sulla gota, sul sopracciglio e sulla tempia.
Memore dei gesti che aveva compiuto in un altro momento, in un’altra storia, si alzò sulle ginocchia per baciargliele, sentendo nascere sulle sue labbra un sorriso annegato nelle lacrime quando percepì Thorn irrigidirsi. Durante quegli anni trascorsi completamente da solo doveva aver scordato del tutto cosa fosse il contatto umano.
Tornò a guardarlo negli occhi, rimpiangendone il colore metallico che avevano originariamente, la luminosità del suo sguardo e la sua spietatezza, la sua fissità da rapace. Ma in quegli occhi albergava lo stesso il sentimento che rispecchiava quello di Ofelia, una sensazione di fame e di appartenenza, di struggimento, desiderio e nostalgia, di possessività. E nessuno era possessivo quanto Thorn.
La guardò con rimprovero, sgridandola con l’espressione. Perché sei venuta fin qui? Ti avevo lasciato di là apposta perché tu vivessi una vita vera. Devi smetterla di demolire tutte le statistiche. Non fai mai quello che ci si aspetta che tu faccia. Ma soprattutto… Grazie.
Grazie. Anche un po’ di più.
Non avevano più l’uso della parola, forse con il tempo avrebbero dimenticato il significato della stessa parola, parola, ma ad Ofelia non importava. E nemmeno a Thorn. Con la fronte premuta contro la sua, i respiri che si mescolavano in aerargyrum impalpabile, Ofelia sapeva di aver raggiunto con lui una nuova intesa, un’intesa che trascendeva l’uso della lingua, che si basava su gesti, ricordi, intenzioni e sguardi.
Fu lui, come la prima volta, a colmare la distanza e posare le labbra sulle sue con pacatezza, temendo forse un rifiuto. Fu lei, però, ad approfondire il bacio, impaziente, grata di poter ancora sentire la consistenza della pelle di Thorn sulla propria. Anche la pelle infatti aveva un proprio linguaggio, uno di cui loro avevano appena cominciato a scalfire la superficie quando si erano dovuti separare. Finalmente riuniti, avrebbero avuto tutto il tempo necessario per affinarsi e arrivare a conoscere intimamente uno i pensieri dell’altra.
Del resto, che altro potevano fare?
Erano nel qui e nell’ora, e poco importava di come ci fossero giunti e di cosa avessero perso nel percorso per giungervi.
In mancanza di uno specchio, che non avrebbe comunque potuto più attraversare, Ofelia si immerse nello sguardo ricolmo d’affetto di Thorn, che finalmente aveva trovato la persona a cui sarebbe sempre bastato, disposta a rinunciare alla sua stessa vita per stare con lui. Non aveva bisogno d’altro.
La sciarpa si srotolò dal collo di Ofelia per includere nel suo abbraccio di lana anche Thorn.
Ofelia si tuffò dentro di lui.
E il mare di nuvole li avvolse.
Dimenticò se stessa e il suo passato, come per un attraversamento. L’ultimo.
Perché era insieme a Thorn. Il resto non importava.
 
Anche un po’ di più.

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