A good deed di valehina (/viewuser.php?uid=66729)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Bag and a Caress ***
Capitolo 2: *** Dolls and Slings ***
Capitolo 3: *** Heroes' son ***
Capitolo 4: *** Vandalic Act of Love ***
Capitolo 1 *** A Bag and a Caress ***
A good deed 01
- Nick Autore:
ValeHina
- Titolo:
A good deed
- Titolo canzone scelta:
“Nei giardini che
nessuno sa”, Laura Pausini
- Personaggi:
Sarutobi Konohamaru, Sarutobi
Hiruzen, Hyuga Hanabi, Altri
- Genere:
Malinconico, Triste, SongFic
- Rating:
Verde
- Avvertimenti:
Nessuno
- NdA (facoltative):
in fondo all’ultimo
capitolo.
A good deed
Capitolo 1. A
Bag and a Caress
Senti
quella pelle ruvida,
un gran freddo dentro l'anima,
fa fatica anche una lacrima a
scendere giù.
Troppe attese dietro l'angolo,
gioie che non ti appartengono.
Questo tempo inconciliabile gioca contro di te.
“Uffa, nemmeno
stavolta ci sei cascato!”
Un bimbo di
6 anni gonfiò le guance, incrociò le braccia e si
sedette a terra, deluso e
irritato.
Sopra di
lui, un vecchio uomo rise.
In quella
risata non c’era cattiveria o presunzione.
Quella
risata sapeva di affetto, di carezze e di dolci.
“Quando lo
capirai che io non cadrò mai nelle tue trappole,
Konohamaru?”
Il bambino
in risposta gonfiò ancora di più le guance e
sollevò il naso in aria, stizzito.
“Su, vieni
qui…non dicevi sempre di voler provare il mio
cappello?”
A quelle
parole il piccolo Konohamaru sgranò gli occhioni, mentre le
sue labbra si
tesero a un sorriso estatico.
“…dici sul
serio, nonno? Cioè…mi fa provare davverissimo
il tuo cappello?”
Il vecchio
si sedette su una poltrona scura, davanti a una scrivania ricolma di
ogni sorta
di documenti. Poggiò sul ripiano in legno la vecchia pipa e
sbuffò, spargendo
nell’aria viziata della stanza qualche traccia di tabacco.
“Konohamaru,
dovresti saperlo che non si dice davverissimo.
Cosa diavolo ti insegna Ebisu?”
Il bambino
si tirò su da terra, togliendosi l’assurdo
copricapo che teneva in testa e che
gli sparava in aria i capelli scuri.
“Nonno,
quello là è un incapace. Non mi insegna niente di
utile! Proprio ieri voleva
insegnarmi la…la fotocellula…no, la
sintetismica…la cloroformica…”
“Intendi la
fotosintesi clorofilliana?”, intervenne il nonno, le labbra
rugose tirate in un
sorriso.
“Ecco! Sì,
proprio quello! La clorosintesi fotofilliana! Come se servisse per
diventare un
ninja!”, sbottò Konohamaru, scattando in avanti.
Il bimbo
tuttavia non si accorse del tappeto arrotolato a terra, e
scivolò. Cadendo, la sua
testolina finì dritta contro lo spigolo della scrivania.
Nello studio
si sentì un tonfo e un “Ahiaaaa!” a
squarciagola.
L’uomo,
preoccupato, si alzò dalla poltrona, per controllare lo
stato del suo nipotino.
Si
tranquillizzò nel vedere la mancanza di sangue: quel bambino
aveva la testa
dura…come tutti i Sarutobi, del resto!
Tuttavia,
la botta aveva fatto male, e i primi lacrimoni stavano spuntando dagli
occhi
del bambino.
“Oh,
Konohamaru…sei un disastro.”, mormorò
l’uomo, avvicinandosi al nipotino che
ormai piangeva come una fontana. Lo prese in braccio
–nonostante avesse sei
anni, non pesava affatto- e se lo portò sulla poltrona.
Infine il
vecchio, afferrato il buffo cappello che portava di solito, e che in
quel
momento era poggiato sopra carte e documenti, lo poggiò in
testa al bimbo, che
smise di singhiozzare.
Enormi lacrime
si facevano però largo sulle guance paffute del bimbo che,
dopo qualche attimo
di incertezza, parlò.
“Nonno…”,
incominciò, la voce rotta dal pianto.
“…senti nonno, posso chiederti una cosa?”
L’uomo si
stupì per quella richiesta: di solito quel bambino non si
faceva problemi a
chiedere ogni tipo di cosa, anche la più imbarazzante.
“Certo.
Dimmi pure.”
“Perché la
mamma e il papà non sono ancora tornati dalla
missione?”
Fu come se
qualcuno avesse dato al vecchio un calcio sullo stomaco. In quel
momento, sentì
sulle sue spalle gli anni della vecchiaia, tutti gli acciacchi, le
debolezze, i
dolori nascosti. Tutti insieme.
Intanto
Konohamaru attendeva, dondolando le gambe grassoccie che si scontravano
con
quelle magre e rugose del nonno, sotto di lui. Sulla testa, quel
cappello
piatto e quadrangolare aveva bloccato il dolore, come se contenesse un
rimedio
magico contro le ferite.
Il bimbo
rivolse lo sguardo al nonno, stupendosi dei suoi occhi, annebbiati e
confusi.
“Nonno…?”,
mormorò a fior di labbra. Quello sguardo non gli piaceva.
Non gli
piaceva per niente.
Ecco
come si finisce poi,
inchiodati a una finestra noi,
spettatori malinconici,
di felicità impossibili...
Tanti viaggi rimandati e già,
valigie vuote da un'eternità...
Quel dolore che non sai cos'è,
solo lui non ti abbandonerà mai…oh,
mai…
Quasi sei
anni dopo, un ragazzo si svegliò nella sua stanza.
Era stanco,
nonostante avesse dormito per almeno sette ore. I suoi muscoli erano
indolenziti, i legamenti scrocchiavano e non c’era un solo
osso che non urlasse
pietà.
Ebisu la
doveva piantare. Quegli allenamenti sarebbero stati massacranti anche
per
Naruto.
A quel
pensiero il ragazzo sorrise, pentendosi subito del gesto compiuto:
anche i
lineamenti del viso erano a pezzi…
Si
stiracchiò, tra gemiti di dolore impressionanti, e si
passò una mano tra i
folti capelli castani, dritti in aria.
Tutti a
Konoha si chiedevano come diavolo facessero a starsene su, alla faccia
della
legge di gravità.
Lo sguardo
assonnato e annebbiato del ragazzo si posò su uno scaffale,
dove uno
stranissimo copricapo spiccava subito agli occhi. Era quello che aveva
portato
fino all’età dei sei anni, prima di indossare gli
occhialoni da pilota in onore
di Naruto e, in seguito, il luccicante coprifronte del Villaggio della
Foglia.
Ecco. Forse
era a causa di quello, se i suoi capelli non avrebbero mai assunto una
posizione normale.
Konohamaru
poggiò i piedi sul pavimento gelato, e rabbrividendo si
diresse in cucina, dove
lo aspettava una bella colazione.
O meglio,
l’avrebbe aspettato se ci fosse stato qualcuno a
preparargliela.
Invece la
cucina era deserta e fredda come sempre.
Il ragazzo
si sedette, in mano la solita confezione di latte –sperava-
non ancora scaduto.
Senza
nemmeno prendere una ciotola, se lo versò in bocca, troppo
tramortito e a terra
per rendersi conto di essersi completamente inzuppato la casacca del
pigiama di
latte.
Appoggiandola
sul tavolino, lanciò un’occhiata tramortita al
calendario, dove troneggiava una
bellissima donna coperta solo da due ombrelli.
Ignorando
lo sguardo provocante che Miss Novembre gli rivolgeva, si
concentrò sulla data
di quel giorno.
Nel
quadratino bianco, c’era una sola parola.
Cinque
lettere che riempirono il cuore di Konohamaru di un dolore antico e
tuttavia
nuovo.
Ogni anno
si sarebbe rinnovato. E lui lo sapeva.
Solo
che…ogni anno lui era sempre meno pronto.
Si alzò di
scatto, ignorando il latte che gocciolava sul pavimento e sui
pantaloni, e
corse in camera, temendo quasi che quelle cinque lettere potessero
rimproverarlo di non far tardi.
Non sarebbe
tardato, no.
Entrando in
stanza, si sfilò il pigiama per indossare gli indumenti di
sempre. Mentre
apriva l’armadio, il suo sguardo cadde su una borsa.
Una borsa
logora e vecchia, consumata dagli anni e dai tarli.
Che però
Konohamaru aveva sempre ignorato.
“Nonno, mi
ci porti?”
L’uomo
sbuffò spazientito. “Konohamaru, ho troppe cose da
fare. Per favore, vai da
Ebisu.”
“Ma nonno!
Me l’avevi promesso! Me lo ripeti sempre anche tu!”
Il bimbo si
fece serio, ingrossando la voce e imitando il nonno.
“I veri
ninja non rimangiano la parola data. Mai.”
Il vecchio
fissò assorto il nipotino, poi ridacchiò. Infine
si abbassò, per frugare sotto
la scrivania del suo ufficio.
Konohamaru,
incuriosito, cercò di spiare issandosi con le braccia sul
ripiano del tavolo,
troppo alto per lui.
Si ritrovò
davanti al naso un borsone.
“…che è?!”
esclamò, afferrando quell’affare di stoffa e
portandolo alla sua altezza.
“Konohamaru,
non pensavo fossi così miope.”, sorrise il nonno.
“Quella è
una borsa, non la vedi? Serve per mettere dentro oggetti, vestiti,
libri…”
“Lo so
cos’è una borsa, nonno.”,
replicò Konohamaru, stizzito. Soppesò
l’oggetto in
cuoio, sorpreso. Era bella, capiente e maneggevole. Gli piaceva. Ma
perché ce
l’aveva in mano?
“…nonno,
perché…?”, cominciò, prima
di venire interrotto dall’uomo.
“Un secondo
fa non mi dicevi di voler partire per Suna? Bene, con quella borsa
potrai
arrivarci.”
Il nonno,
soddisfatto, si rituffò nelle sue carte. Konohamaru
restò di sasso.
In quel
momento, quella borsa gli parve la più brutta cosa che
avesse mai visto.
Era un
regalo, però. Non poteva rifiutarlo.
Il vecchio,
notando che Konohamaru era ancora nella stanza, lo fissò.
“Che c’è
ancora?”, borbottò, piccato.
Gli occhi
del bambino iniziarono a bruciare.
“Nonno…”,
iniziò, la voce falsata. “…io a Suna
però…volevo andarci con te…”
L’uomo lo
fissò di sottecchi, come se avesse detto che
l’acqua era bagnata.
Poi scoppiò
a ridere di gusto.
Il bimbo si
sentì profondamente offeso. Stava per posare a terra quella
stramaledetta
borsa, prenderla a calci e poi correre fuori dall’ufficio del
nonno frignando.
Si fermò
quando vide un’ombra davanti a sé.
E si calmò
quando qualcosa di ruvido e delicato gli sfiorò la guancia.
“Che
sciocchino, Konohamaru”, bisbigliò il nonno, a
pochi centimetri dal suo viso. “Ovvio
che io vengo con te. Non lascerei mai che un moccioso di sei anni vada
in giro da
solo per il deserto.”
In un altro
momento Konohamaru se la sarebbe di sicuro presa. Avrebbe trattenuto il
fiato,
gonfiato le guance e incrociato le braccia, come suo solito.
Invece in
quell’occasione il bimbo si sentì felice come non
mai.
Appena il
nonno ebbe ritratto la mano dalla guancia del nipotino, questi gli si
gettò al
collo, quasi gettandolo a terra.
“Ahi!
Konohamaru, non sono più giovane come un tempo!”,
tossì il vecchio, divertito.
“Oh nonno,
nonnino adorato! Ti voglio tantissimo bene, lo sai?”
Nonostante
avesse il volto affondato nelle deboli –almeno per lui-
spalle del vecchio, poté
sentire un sorriso increspargli le labbra, e immaginò le
rughe attorno ai suoi
occhi neri accentuarsi.
“Lo so,
Konohamaru…anche io te ne voglio.”
Fissando
quel cimelio, Konohamaru venne colpito da una dolorosa certezza.
Non aveva
mai usato quella borsa. Mai.
Lui e il
nonno avrebbero dovuto partire dopo l’esame dei Chunin.
Altra fitta
dolorosa allo stomaco.
Peccato che
il nonnino, dopo l’esame, fosse già
partito…
Scacciò via
quel pensiero e le lacrime che iniziavano ad affiorare sugli occhi
neri,
identici a quelli del nonno.
Afferrò una
maglia, un paio di pantaloni e, dopo qualche attimo di incertezza,
anche quella
borsa logora.
Se doveva
farlo, allora avrebbe dovuto farlo bene.
NdA
1° Classificata:ValeHina con A
good Deed
- Correttezza grammaticale:10/10 punti.
- Completezza della storia: 10/10 punti.
- Originalità: max 10/10 punti.
- Giudizio personale: 8/10 punti.
Totale:38
IO TI ODIO!
Mi sono innamorata della tua fic,mi hai fatto convertire quasi alla
KonoHana...io sono una KibaHana iper convinta,comunque ho capito che
anche questa coppia non mi dispiace.
Non ho trovato un errore ne di distriazione,ne di digitazione.La storia
è completa spiegata e ricca nei minimi particolari,mi
è piaciuto molto il ruolo di contorno che hai dato a Hinata.
Ti ho dato dieci punti all'originalità,perchè a
differenza delle tue compagne hai usato personaggi di contorno,a cui
vengono lasciati principalmente ruoli insignificanti.La Canzone "Nei
giardini che nessuno sa" non la cooscevo,ma mentre leggevo la tua
fic,l'ascoltavo e così me ne sono innamorata,rispecchia in
modo veritiero,senza Spoiler,il rapporto Nonno-Nipote.
Devo dire che ero indecisa sulla classifica,le preferite erano la tua e
"Tu Esisti"di °Nana°,ma alla fine la tua ha trionfato
per l'originalità.
Congratulazioni.Sei la vincitrice di "Song-fic...Naruto e la Pausini".
Dire che
non ci credo è poco. Pochissimo.
Io prima in un contest. Sembra
una barzelletta, no?
E invece è così.
Io sono estremamente felice. Non posso aggiungere altro,
perchè è così.
Sinceramente non so nemmeno cosa scrivere...
Non sto capendo più nulla, eh eh... @__@
In origine questa storia doveva trattare soltanto di Konohamaru e del
vecchio Sandaime...e invece è spuntata una KonoHana con un
accenno lievissimo, quasi impercettibile, di NaruHina.
Hanabi comparirà nel prossimo capitolo.
Bene, non posso fare altro che dedicare questo capitolo a Krikke, la
giudicessa, e a tutte quante le partecipanti al contest. Grazie mille
ancora.
Questo è il primo di quattro capitoli. Spero siano di vostro
gradimento.
Ah, posto anche il bannerino. Grazie, Krikke.
A presto.
Vale
|
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Capitolo 2 *** Dolls and Slings ***
A good deed 02
A good deed
Capitolo
2: Dolls and Slings
E' un
rifugio quel malessere,
troppa fretta in quel tuo crescere.
Non si fanno più miracoli,
adesso, adesso non più.
Konohamaru
procedeva spedito sulla via principale di Konoha, lo sguardo dritto
davanti a
sé.
Non voleva
distrazioni. Non voleva fermarsi.
In mano,
quella vecchia borsa logora che attirò lo sguardo curioso di
parecchie persone.
Il ragazzo
camminava, camminava, incurante della gente che lo salutava o che lo
chiamava.
Aveva un
obiettivo, quel giorno. E l’avrebbe raggiunto ad ogni costo.
Tuttavia,
Konohamaru non poté non vedere le espressioni che gli
abitanti della Foglia
avevano in viso.
Sorrisi. Risate.
Bronci. Aggrottamenti di sopracciglia. E di nuovo sorrisi.
Sentì una
fitta al cuore. Ebbe l’orrenda sensazione che si fossero
tutti dimenticati di
quel giorno.
Che si
fossero tutti dimenticati di lui.
A
Konohamaru mancò per qualche secondo il respiro, ma non si
fermò.
Ricacciò
indietro le lacrime di amarezza e rabbia e continuò,
cercando di catalizzare
tutto il dolore che provava alla vista di quegli ingrati
–solo così poteva
chiamarli quel giorno, ingrati-
insieme a quello che era risorto nel suo cuore quel giorno.
Se ci fosse
stato lui, avrebbe sorriso e gli
avrebbe arruffato i capelli dicendo: “Konohamaru, sono
contento di vederli
così. Preferisco vedere il mio villaggio sorridere,
piuttosto che piangere”.
Un
sorrisetto amaro comparve sul viso del dodicenne.
Certo,
avrebbe detto così. Suo nonno era buono. Troppo buono.
Avrebbe
voluto con tutto il cuore abbracciarlo, ma sapeva che era impossibile.
I miracoli
non avvenivano. Perlomeno, non a lui.
Non dar
retta a quelle bambole
Non toccare quelle pillole
Quella suora ha un bel carattere,
ci sa fare con le anime.
Passo dopo
passo, Konohamaru si era allontanato sempre di più da casa
sua.
Nella sua
mente frullavano diversi pensieri, la maggior parte
pressoché inutili.
Ricordò di
non avere abbassato la tapparella in camera da letto: quando sarebbe
tornato,
avrebbe trovato un caldo asfissiante.
Si chiese
se anche Udon e Moegi avevano i muscoli a pezzi, e promise che la
prossima
volta che avrebbe visto Ebisu l’avrebbe punito.
Lui era il
nipote del Terzo Hokage, che diamine!
Mentre un
sorriso malinconico appariva sulle sue labbra, un nuovo dolore gonfiava
il suo
cuore.
Era finito
nel centro commerciale di Konoha, nel frattempo. Attorno a lui, decine
di
negozi aperti facevano a gara per accogliere più clienti. I
commessi sorridendo
eseguivano alla lettera le richieste dei clienti, com’era
d’abitudine a Konoha.
Konohamaru
non ci badò: d’altronde era la stessa scena che
ogni giorno aveva sotto i suoi
occhi. Tuttavia, si fermò davanti a un negozio di
giocattoli, dal quale un
bambino stava uscendo in lacrime.
“Uffa,
mamma! Dai, per favore, prendimi la macchinina! Dai!”,
singhiozzò il piccolo.
Dietro di
lui apparve una donna, uno sguardo stizzito.
“Andiamo,
Kazuo! Ti ho già comprato il pallone ieri. Questo regalo
è per tua sorella Emi,
quindi non lamentarti e pensa a lei, che ha la febbre!”,
sbottò, sollevando in
aria il sacchetto che teneva in mano.
Kazuo
sembrò colpito da quelle parole, perché smise di
piangere e dette la manina
grassottella alla mamma, che gli sorrise.
“Ho capito,
mamma. Andiamo da Emi, adesso?”, fece, gli occhi luminosi.
“Sì, Kazuo.
E ho anche preparato una torta per lei! Sei contento?”
Un sorriso
estatico apparve sul viso del bimbo.
“Urrà!
Allora sbrighiamoci!”
I due si
incamminarono verso la strada che portava all’ospedale.
Konohamaru non poté
fare a meno di preoccuparsi per la piccola Emi: doveva stare proprio
male, se
la mamma le comprava un giocattolo nuovo e le portava un
dolce…
Sovrappensiero,
il ragazzo si avvicinò alla vetrina del negozio, fino a
sfiorarla con la punta
delle dita.
Concentrò
il suo sguardo sui bei giochi nuovi di zecca esposti, non senza pensare
che lui
non ne aveva avuti mai.
Aveva avuto
solo armi, come d’altronde tutti i ninja presenti a Konoha.
Il suo
unico gioco era stata una fionda, che aveva preso…proprio
lì, in quel negozio.
La sua
attenzione si catalizzò su una bambola, seduta al centro.
Aveva due
occhi enormi, di un azzurro cielo innaturale. I boccoli rossi le
cadevano fino
alle spalle. La bocca rossa sorrideva immobile.
Portava un
vestitino verde a fronzoli, che si intonava con la capigliatura rosso
fuoco.
Konohamaru
non aveva mai visto quella bambola. Eppure, appena incrociò
quel viso di
porcellana, il suo cuore fece ancora più male.
E la sua
mente riprese a vagare nel passato.
“Quale
onore, Hokage!”
Il
commesso, un uomo con una pancia grossa e la faccia simpatica, si
alzò in piedi
non appena il vecchio fece il suo ingresso nella bottega.
“Stia
seduto, la prego.”, rispose l’Hokage, sorridendo.
“Non si scomodi.”
Konohamaru
stava dietro il nonno, parzialmente coperto dalla lunga tunica bianca
che il
vecchio indossava ogni giorno.
Appena si
rese conto del posto in cui era entrato, gli occhi gli si illuminarono
e la
bocca formò una grande o.
“Nonno…ma
questo è il paradiso!”
Davanti a
lui c’erano scatole e scatole di giocattoli, piene zeppe di
macchinine,
camioncini, palloni, pupazzi, animaletti di plastica, girandole,
frisbee,
corde, bambolotti, maschere, racchette, e ogni altra sorta di balocco.
Per poco
non gli venne la bava alla bocca.
Il nonno
rise alla vista della sua espressione. Poi si diresse verso le scatole.
Il commesso
non si era ancora seduto.
Konohamaru
corse verso il vecchio, che aveva infilato una mano in una delle decine
di
scatole lì presenti. Dopo qualche minuto, tirò
fuori uno strano oggetto, mai
visto prima dal nipotino.
“…che
cos’è, nonno?”
L’uomo
sorrise e glielo mise in mano. Konohamaru se lo portò
davanti agli occhi, in
modo da vederlo meglio: sembrava un rametto, la cui
estremità si diramavano in
due direzioni. Il bimbo si stupì dell’elastico
lungo e spesso attaccato ai due
pezzettini separati.
“Si chiama
fionda, Konohamaru.”
“Fionda…”,
bisbigliò il bimbo, pronunciando per la prima volta quel
nome nuovo. “…è un
giocattolo?”
“Certo. Non
l’avresti trovato qui altrimenti.”
Konohamaru
annuì, capendo che la domanda che aveva fatto era proprio
stupida. Poi chiese:
“Come si usa?”
Il nonno
allora cercò nella scatola una pallina, e dopo averla
trovata la mise
sull’elastico, tendendolo con l’indice e il medio
della mano destra.
“Ecco, ti
posizioni così…”, disse
l’uomo. “…e poi lasci andare le dita.
Hai capito cosa
succede poi?”
“La
pallina…viene lanciata via!”, esclamò
il nipotino, fiero di esserci arrivato da
solo. “Che forza! Posso provare?”
Il vecchio
lanciò uno sguardo al commesso, che aveva assistito al
dialogo. Costui annuì
subito, senza un attimo di incertezza.
Allora
lasciò la fionda e la pallina nelle mani del piccolo, che
era entusiasta.
“Non mirare
alla vetrina, mi raccomando. Potresti romperla.”, disse
l’uomo, sorridendo.
Konohamaru
si concentrò subito sulla porta aperta del negozio. Non
avrebbe fatto danni,
così.
Alzò
esageratamente le braccia, chiuse un occhio per prendere la mira. Per
la
concentrazione tirò fuori perfino la lingua.
Tre, due,
uno…
La
pallina
partì ronzando verso la porta. La traiettoria era perfetta,
sarebbe finita
esattamente contro il tavolino del bar a cui Konohamaru aveva mirato.
Se in quel
momento non fosse apparsa lei.
La pallina
le finì dritta in testa, facendola barcollare lievemente.
Poi si massaggiò la
parte colpita fissando prima la pallina, che rotolò ai suoi
piedi, e poi colui
che l’aveva lanciata.
La prima
cosa che Konohamaru notò furono gli occhi.
Erano
bianchi. Non azzurro chiaro, o di un violetto talmente tenue da
somigliare al
bianco.
Erano
bianchi come la neve.
Erano
sorpresi, lievemente infastiditi. Ed erano freddi come il ghiaccio.
Il bimbo
non poté reggere quello sguardo e lo abbassò ai
suoi sandaletti, vergognandosi
come un ladro.
Il nonno,
che aveva osservato tutto, non poté fare a meno di ridere.
La bimba
entrò nel negozio, seguita da un uomo che era
senz’altro il padre.
Stessi
occhi bianchi. Stesso gelo in viso.
Non appena
l’uomo entrò nella bottega, il vecchio smise di
ridere. Si fece avanti e disse,
cordiale: “Anche tu qui, Hiashi?”
L’interessato
si accorse della presenza dell’uomo e chinò
lievemente il capo. Si vedeva che
non era abituato a farlo.
“Buongiorno,
Hokage. Oggi è il compleanno di Hanabi, perciò
siamo venuti a scegliere il suo
regalo.”
La bimba,
Hanabi, alzò lo sguardo e sorrise al nonno di Konohamaru.
Poi tornò a fissare
il bimbo, che si era messo a contare le mattonelle sul pavimento.
“Capisco. E
quanti anni compi, signorinella?”
“Faccio
sette anni, signor Hokage”, rispose Hanabi, senza incertezza
nella voce.
“Ma
davvero?”, mormorò il nonno, sorridendole
affabile. “Allora hai la stessa età
di Konohamaru! Vero, figliolo?”
Il bimbo,
nel sentirsi interpellato, alzò la testa di scatto,
arrossendo. Poi balbettò: “S-si,
nonno…”
“Quando li
compi, tu?”
Konohamaru
inizialmente non si accorse che la domanda della bimba mora era diretta
a lui.
Infatti, quando lo capì, avvampò ancora di
più.
“…i-il 30
di-dicembre…”, bisbigliò a bassa voce,
così bassa che temette che non l’avesse
sentito.
Invece
Hanabi annuì e si avvicinò a lui. Lo
guardò di nuovo con quegli occhi freddi e
poi fissò le mensole sopra la loro testa.
Konohamaru
non le aveva notate, forse perché quello che contenevano era
solo roba da
femmine.
Su quelle
mensole c’erano una ventina di bambole, tutte seduta una
accanto all’altra.
Tutte con lo sguardo fisso in avanti. Tutte con un sorriso finto.
A
Konohamaru misero paura. Si voltò verso la bimba, che le
osservava con aria
distaccata.
“Tu quale
prenderesti?”, chiese Hanabi, a bassa voce.
Konohamaru
tornò a fissarle. Poi tastò la fionda che aveva
in mano.
“Io
sinceramente”, fece, anche lui abbassando la voce,
“prenderei questa fionda.”
Hanabi
abbassò lo sguardo sul visetto di Konohamaru, per poi
puntarlo sul rametto
rosso che aveva in mano lui.
Lo fissò
per qualche istante, incantata. Fece per prenderlo, ma poi scosse la
testa,
come se si fosse appena svegliata. E tornò a fissare le
bambole, fredda.
“Non
posso.”, bisbigliò la bimba.
Konohamaru
in quel momento la trovò più stupida che mai:
perché non poteva prendere una
cosa che voleva nel giorno del suo compleanno? Lui avrebbe fatto i
capricci,
avrebbe pianto e strepitato, pur di avere quella fionda.
“E perché no,
scusa?”, chiese lui, con tono infastidito.
Hanabi se
ne accorse, e si voltò verso di lui. Il suo viso ora era
triste.
“Perché il
papà non vuole…”
Konohamaru
rimase di sasso.
La bimba
continuò: “Lui dice sempre che è
tradizione del nostro clan essere eleganti e
superiori agli altri. Per questo non mi farebbe mai prendere un
giocattolo che
appartiene alla…”, pensò alla parola
giusta, “…alla plebaglia.”
Il bimbo in
quel momento non seppe se sentirsi offeso o dispiaciuto. Quella strana
bambina
aveva usato delle parole che lui non conosceva –clan,
superiori, plebaglia-, e
gli sembrava tanto triste.
Konohamaru
ci pensò su, poi tese la fionda verso Hanabi, che lo
fissò stupita.
Il bimbo
sorrise a quello sguardo interrogativo, e le mise il rametto in mano.
“Buon
compleanno, Hanabi. Questo è il mio regalo per te.”
La bimba lo
fissava a bocca aperta. Le sue guance pallide erano arrossite, lo
sguardo si
era fatto lucidi.
Fissò
Konohamaru dritto negli occhi, ma stavolta il bimbo non li
abbassò.
Era troppo
fiero di sé, per farlo.
Tornando a
casa, mano nella mano con il nonno, Konohamaru fissò la
fionda che teneva tra
le mani.
Poi
finalmente parlò al vecchio.
“Nonno…”
“Dimmi,
Konohamaru.”
Il bimbo
esitò qualche istante. “Perché Hanabi
non ha preso il mio regalo?”
Ricordava
ancora lo sguardo di scuse che gli aveva rivolto, mentre usciva dal
negozio con
il padre.
Aveva
sottobraccio una bambola bionda.
Konohamaru
non capiva. Avrebbe voluto tanto, ma non lo capiva.
L’uomo
sorrise: sapeva che il nipote era sveglio.
“Dunque,
Konohamaru…devi sapere che Hanabi appartiene a un
clan…”
“Cos’è un
clan, nonno?”, interruppe Konohamaru, ricordandosi che Hanabi
aveva usato
quella parola.
L’uomo
sospirò: ci sarebbe voluto parecchio tempo, per
spiegarglielo…
Si sedette
su una panca, seguito immediatamente dal piccolo. Prese un lungo
respiro.
“Vediamo…sai
bene che noi, Konohamaru, siamo ninja, mentre altre persone non lo
sono.”
Al bimbo
venne in mente il commesso del negozio di giocattoli: con quella
pancia, non
sarebbe mai potuto diventare un ninja.
“Konoha”,
riprese il nonno, “è abitata perlopiù
da ninja, che si occupano di difenderla e
proteggerla. E io, Konohamaru…”
“Tu sei il
più forte di tutti, nonnino!”, esclamò
il nipote, gli occhi luminosi come
stelle. L’Hokage sorrise.
“…io ho il
compito di difendere e proteggere anche i ninja. Facciamo parte di
un’unica
grande famiglia.”
Il bimbo
pensò che se era così, in un certo senso doveva
essere imparentato anche con
Hanabi. Subito ebbe un moto di stizza, anche se non capì
perché.
“Dentro la
nostra famiglia, chiamiamola così, ce ne sono molte altre,
più piccole.
Tuttavia, alcune spiccano in particolare, vuoi perché hanno
un’origine
antichissima, vuoi perché sono ninja fortissimi, vuoi
perché hanno un’abilità
innata.”
Konohamaru
annuì, serio: ricordava che Ebizu aveva accennato qualcosa
alle abilità innate,
ma in quel momento non gli venne in mente cosa significassero e a cosa
servissero.
“Questo
tipo di famiglia si chiama clan.” Il nonno si
sistemò il cappello rosso e
bianco, sorridendo.
“Ho
capito…e com’è il clan di Hanabi, tra
quelli che hai detto prima?É forte, è
vecchio oppure è speciale?”, chiese Konohamaru,
pensando che forse quegli occhi
bianchi servissero ad altro, oltre che a congelare la gente.
“Il clan di
Hanabi appartiene a tutte e tre le categorie che ti ho elencato prima,
Konohamaru.”, disse l’uomo.
Il bimbo
rimase senza fiato.
“Devi
sapere che la famiglia della tua amica ha
un’abilità innata invidiatissima: con
i loro occhi bianchi possono vedere ogni cosa. Si chiama Byakugan.
Inoltre
hanno uno stile di combattimento molto particolare, che unisce la forza
all’eleganza.”
Il nonno
notò l’espressione concentrata del bambino, che
sicuramente tentava invano di
ricordare il nome dell’abilità degli Hyuga.
Quindi
riprese: “Gli appartenenti a questo clan sono molto
orgogliosi di questa loro
abilità, perciò hanno un’altra stima di
loro stessi e tendono a
sopravvalutarsi. I genitori vogliono che i loro figli siano
all’altezza delle
aspettative che gravano sulle loro esili spalle. Ora comprendi
perché Hanabi ha
rifiutato la tua fionda? Sicuramente suo padre si sarebbe arrabbiato.
Lo capisci,
Konohamaru?”
L’Hokage
temeva di aver usato troppe parole difficili, e guardava preoccupato il
nipote,
che fissava il suo giocattolo nuovo.
Quando alzò
lo sguardo, Konohamaru aveva un’espressione dolorosa in viso.
“Allora,
nonno…vuoi dirmi che Hanabi diventerà antipatica
come il suo papà?”, mormorò,
la voce pronta a incrinarsi.
L’uomo lo
guardò, incredulo che un bimbo di appena sei anni potesse
formulare un pensiero
tanto profondo.
Poi ripensò
ai componenti della famiglia Hyuga: in effetti, tutti sembravano
ritenere di
essere superiori al mondo intero…
Tutti…tranne
una dodicenne.
Hyuga
Hinata, la primogenita odiata da Hiashi.
L’Hokage
sorrise.
“Stai
tranquillo, Konohamaru. Lei non diventerà mai come gli
altri.”
Il bimbo
piegò la testa di lato, in attesa di spiegazioni.
“Vedi…Hanabi
ha una sorella, Hinata. Ho avuto occasione di conoscerla, quando
è stata
ammessa all’accademia. E posso assicurarti che è
la bambina più dolce del
mondo.”, sorrise il vecchio.
“…davvero?”,
mormorò stupito il bimbo: lui non ne aveva di fratelli.
Però aveva sempre
considerato quello come
tale…
L’uomo
parve leggere nei suoi pensieri, perché disse: “Tu
non consideri Naruto come un
fratello, Konohamaru?”
Il nipotino
avvampò: ci aveva azzeccato in pieno.
L’uomo
ridacchiò soddisfatto. Poi scompigliò i capelli
del bambino.
“Tu
vorresti diventare come lui, vero? Lo consideri un modello da seguire,
no?”
Konohamaru,
imbarazzatissimo, fece sì con la testa. Allora il nonno
continuò: “Anche
Hanabi, nonostante non lo darà mai a vedere, avrà
sempre Hinata come punto di
riferimento. E poco a poco, anche se i loro caratteri non saranno
uguali, la
minore prenderà la semplicità e la dolcezza della
maggiore. Posso giurartelo,
Konohamaru.”
Il bambino
sorrise, rassicurato dalle belle parole del nonno. Si alzò
in piedi ed esclamò:
“Bene! Allora a dopo, nonno!”
“Cosa?!
Konohamaru, dove stai…?”
Al posto
del bambino, c’era una nuvola di polvere che fece tossire
l’uomo.
“Coff…quel
bambino è incredibile…”
“Posso
entrare?”
Hanabi non
si mosse dal letto. A pancia in giù, osservava il suo nuovo
regalo con aria
annoiata, dondolando in aria i piedi scalzi.
“Entra,
Hinata.”
La sorella
maggiore di Hanabi, una ragazzina esile di dodici anni, con i capelli
neri a
caschetto e gli stessi occhi della minore, entrò silenziosa,
un sorriso timido
sulle labbra.
“Così è
questo il tuo nuovo giocattolo?”, chiese cortesemente, come
se stesse parlando
ad uno sconosciuto.
Hanabi
annuì, senza levare i suoi occhi da quelli azzurri della
bambola. Hinata si
avvicino, sedendosi sul letto.
“Davvero
molto graziosa…sei soddisfatta?”,
domandò la maggiore, accarezzando la chioma
bionda del giocattolo.
Hanabi
avrebbe voluto rispondere di no. Avrebbe voluto dire che odiava quei
boccoli surreali,
quegli occhi dipinti, quelle labbra disegnate. Però si
limitò ad annuire
ancora.
Non che non
volesse confidarsi con la sorella. Anzi, ne sentiva un gran bisogno.
Solo non ce
la faceva. L’orgoglio degli Hyuga non le permetteva di
mostrarsi debole,
nemmeno in questa situazione.
La mano di
Hinata, dalla testa della bambola, si spostò sulla testa
della sorellina.
Mormorò tristemente: “Lo so che non ti piace, ma
devi accettarla comunque.
Forse questo sarà l’ultimo regalo che nostro padre
ti farà.”
Hanabi
sbiancò: le vennero alla mente le sfuriate e i rimproveri
che Hiashi rivolgeva
a sua sorella. Per un secondo si vide al posto di Hinata, la testa
china e gli
occhi lucidi.
Come per
scacciare quel pensiero dalla testa, Hanabi si alzò dal
letto e corse fuori
dalla stanza, non senza aver rivolto un sorriso malinconico a Hinata,
che le
rispose allo stesso modo.
Hanabi
corse fuori dalla casa, fino a giungere al portone di villa Hyuga. Qui
si fermò
indecisa: non sapeva nemmeno perché era corsa via.
Molto
probabilmente per non mostrare a Hinata le lacrime che le scendevano
sul viso.
Tirando su
con il naso, si diresse a passo deciso verso il portone. Lo
spalancò, faticando
non poco, e uscì dalla proprietà del clan. Stava
per dirigersi verso il parco,
dove avrebbe potuto distrarsi, quando per poco non inciampò
su un pacchetto per
terra.
Stupita, lo
prese in mano; era piccolo, schiacciato e lungo. Non pesava molto, anzi
riusciva a reggerlo con una mano sola.
Sulla carta
che avvolgeva l’oggetto all’interno,
c’era scritto a lettere chiare e
tremolanti “HANABI”.
La bimba
ebbe un tuffo al cuore, e scartò in fretta e furia il
pacchetto.
Non appena
vide il regalo, nuove lacrime caddero sulle sue guance, che raggiunsero
una
tonalità rosso fuoco.
Un dolce
sorriso le si spalancò sulle labbra, mentre il suo corpicino
esile veniva scosso
dai singhiozzi.
Nelle sue
mani stringeva una fionda.
Ti
darei gli occhi miei
per vedere ciò che non vedi.
L'energia, l'allegria,
per strapparti ancora sorrisi.
Dirti sì, sempre sì,
e riuscire a farti volare,
dove vuoi, dove sai,
senza più quel peso sul cuore.
Il commesso
del negozio fissò preoccupato il ragazzino che si era
incantato a fissare la
vetrina piena di giocattoli.
Erano ormai
due ore che stava fermo in quella posizione.
L’uomo
stava per uscire ad accertarsi dello stato di salute del ragazzo,
quando questi
entrò nella bottega.
“Salve…”,
mormorò, un sorriso malinconico sulle labbra. “Non
è che per caso avreste una
fionda?”
NdA
Ed eccoci
con il secondo capitolo di "A good deed". Hanabi è apparsa,
come promesso, insieme a Hinata.
Nel secondo
capitolo invece, quando si dice che i ninja durante la loro infanzia
non hanno
giocattoli, ho inventato.
Non so se è
vero, però ipotizzo sia così.
O armi
vere, oppure dei kunai e degli shuriken di plastica.
Ah. Kazuo,
Emi e sua mamma sono miei OC. Come il commesso.
Ho scritto
così nelle note in fondo all'ultimo capitolo.
Ringrazio
tantissimo chi ha inserito la storia tra le seguite e le preferite.
Shizue Asahi: grazie
mille, neechan. ^^ Sono felice che ti sia piaciuta la parte della
borsa: una strofa della canzone parla di una valigia, ma non penso
avrebbe reso l'idea. ^^° Probabilmente a Konoha c'è
una diversa forza di gravità: solo per questo i suoi
abitanti hanno dei capelli così...strani. xD Spero che anche
questo capitolo (che in tutta sincerità è il mio
preferito) ti sia piaciuto e ti abbia tenuta appesa. xD A presto, un
bacio! (P.S. in realtà non so se Konohamaru è
orfano: i suoi genitori non sono mai apparsi, proprio come quelli di
Sakura. Mah. Comunque concordo con te: questo bimbo ha tutte le sfighe
del mondo. ç_ç)
MiCin: neechan,
grazie mille! Sono felice che tu sia felice per me. xD Per me la
KonoHana è come la NaruHina: se ci pensi, sono collegati.
+_+ Ok, basta con le mie ipotesi. xD Anche a me piace tantissimo
Konohamaru....povero bimbo. ç_ç Spero ti sia
piaciuto anche questo capitolo! ^^ Baci
LalyBlackangel:
sensei ** Grazie davvero. Come sopra, sono contenta che tu sia
contenta. Ho visto che hai messo la storia tra le seguite: grazie ** Un
bacio Laly! ^^
Bene, ho
concluso.
Spero vi sia piaciuto. ^^°
Bye.
Vale
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Capitolo 3 *** Heroes' son ***
A good deed 3
Cap. 3.
Heroes’ Son
Nasconderti
le nuvole
e quell'inverno che ti fa male.
Curarti le ferite e poi,
qualche dente in più per mangiare.
E poi vederti ridere,
e poi vederti correre ancora.
Dimentica, c'è chi dimentica
distrattamente un fiore una domenica
e poi... silenzi.
Hanabi si
era svegliata presto, quel giorno.
Inizialmente,
mentre faceva colazione nell’enorme cucina deserta, non
capiva il motivo di
quel senso di colpa misto a una tristezza che non provava da tantissimo
tempo.
Si riscosse
un poco quando Neji entrò nella stanza.
“Buongiorno,
Hanabi…”, mormorò lui, avvicinandosi al
tavolo dove sedeva la dodicenne.
“Ciao,
Neji…”, borbottò in risposta, la bocca
piena di biscotti. Sapeva che era
maleducazione parlare a bocca piena, ma sinceramente in quel momento
non le
importava.
Il cugino
sembrò ignorare la maleducazione della ragazzina,
perché, dopo aver afferrato
una ciotola che stava su una mensola, si sedette davanti a lei, la
solita
espressione di ogni Hyuga, e le chiese di passargli il latte.
I due
mangiarono in silenzio, come al solito. Neji non era il tipo di persona
con cui
chiacchierare amabilmente, Hanabi lo sapeva bene.
Tuttavia,
gli domandò: “Neji, sai dov’è
Hinata?”
Il ragazzo
rispose, dopo aver finito il suo latte: “Si è
svegliata molto presto, stamani.
Mi ha detto che sarebbe andata ad aiutare Sakura con i
preparativi.”
Preparativi?
“Scusa,
Neji…preparativi per cosa?”, domandò
Hanabi, poggiando la tazza mezza vuota sul
tavolo.
Il ragazzo
la fissò, lievemente stupito. “Dovreste ricordare,
Hanabi. Dopotutto, avevate
sette anni…”
La
ragazzina iniziò a stizzirsi: non sopportava quando non le
veniva svelato
subito qualcosa, ed era certa che se Neji non si fosse spicciato gli
avrebbe
tirato in testa gli ultimi residui di latte presenti nella sua ciotola.
“In questo
giorno, circa cinque anni fa, Konoha è stata presa
d’assalto da Suna. Proprio
oggi si ricorda la morte del nostro terzo Hokage, Sarutobi Hiruzen,
Hanabi.”,
disse Neji, duro e schietto.
Alla cugina
mancò il fiato: in quello stesso momento,
l’immagine di un bambino dall’aria
sbruffona e un sorriso accattivante si presentò nella sua
mente.
Konohamaru.
Hanabi
rimase di sasso per qualche secondo, mentre Neji si alzò e
ripose la tazza
sporca nel lavello.
“Ora
perdonatemi, ma devo raggiungere TenTen per gli allenamenti. Vi auguro
una
buona giornata, Hanabi.”
Detto
questo, se ne andò, lasciando la cugina a combattere con i
fantasmi del
passato.
Nella
grande cucina vuota cadde un silenzio di tomba.
Un silenzio
carico di sorpresa, stupore.
Perché
Hanabi, nonostante tutto, non aveva dimenticato quel giorno.
Perché in
quella domenica di tanti anni fa aveva compreso di poter essere se
stessa,
senza aver paura degli altri.
Perché là,
in quel lontanissimo 27 marzo, aveva capito cos’è
l’amicizia. E l’affetto.
Tutto
questo, in un silenzio.
E
poi... silenzi..
Silenzi...
Non sapeva
nemmeno dove l’avessero sepolto.
Questo era
un piccolo particolare che Konohamaru non aveva mai tenuto in
considerazione.
Ogni anno
si riprometteva di scoprirlo, di venire a sapere dove il suo nonnino
riposava
in eterno.
Ogni anno
si dimenticava.
Perciò era
lì. Come sempre, in quel giorno.
La lapide
commemorativa, incisa quasi completamente con i nomi dei grandi eroi di
Konoha,
si stagliava di fronte a lui. Era consumata, si vedeva a occhio nudo.
D’altronde
era lì da più di sedici anni, e tutti, prima o
poi, erano stati costretti a
fargli una visita e a piangervi sopra.
Era il
turno di Konohamaru, ora.
Il
ragazzino si avvicinò alla pietra, posando la fionda nuova
nella borsa logora e
ponendola sotto di questa, come fosse un dono.
Si
inginocchiò per mettere a fuoco i nomi dei grandi ninja
deceduti per il
Villaggio della Foglia. Li lesse mentalmente, pregando per loro.
Come ogni
anno, un moto di stizza lo invase quando terminò di leggere.
Il nome di
suo nonno non c’era.
Sapeva che
tutti a Konoha lo consideravano più di un eroe, tuttavia
avrebbe voluto avere
la testimonianza di quanto loro tenessero a lui.
Perché il
suo nonnino ci teneva, a loro.
“Nonno…”
“Sì,
Konohamaru?”
“Perché
siamo qui?”, chiese il bambino, dopo un attimo di incertezza.
Erano nel
parco di Konoha. Konohamaru era inizialmente entusiasta: pensava che il
nonno
lo portasse a giocare, e per questo aveva invitato anche Moegi e Udon,
due suoi
nuovi amici, per giocare ai ninja e tendergli delle imboscate.
Invece,
quando l’uomo lo aveva condotto lontano dal punto di ritrovo
dei tre amici, in
mezzo al boschetto del parco, era rimasto deluso.
Non capiva
cosa avrebbe potuto fare con quella pietra obliqua che stava
lì, immobile. Come
qualsiasi altra pietra.
Eppure il
nonnino sembrava tenere molto a quel masso, perché gli si
avvicinò e la
carezzò.
“Vieni qui,
Konohamaru.”, aveva detto, invitandolo con una mano a venire
più vicino a lui.
Il bimbo
obbedì. Non appena si avvicinò, il nonno gli
spinse con forza la testa verso il
basso, per farlo inginocchiare.
“Ahia…”,
bisbigliò il bambino, sbuffando.
“Leggi i
nomi che sono incisi qui sopra, per favore.”, disse il nonno,
con un sorriso
dolce. “Capirai quanto questo inutile masso sia importante
per Konoha e per
tutti noi. Anche per te.”
Il bambino
iniziò a leggere, imbarazzato: non capiva ancora come suo
nonno riuscisse
sempre a leggere i suoi pensieri.
Uchiha Obito.
Konohamaru
sbadigliò: era più di un’ora che
leggeva quei nomi, inginocchiato sui fiori che
avvolgevano tutto il perimetro della pietra.
Umino Kanko.
Probabilmente
Moegi e Udon si stavano chiedendo dove fosse finito.
Sarutobi
Sanjiro.
Non
voleva certo
fare una brutta figura con i suoi due nuovi…
Konohamaru
spalancò gli occhi. Poi tornò al nome che aveva
appena letto.
Sarutobi
Sanjiro.
Il
bambino
sbiancò, gli occhi iniziarono a pungere.
Sotto
Sanjiro, un altro nome da lui ben conosciuto.
Enoki Nayoko in
Sarutobi.
Konohamaru
sentiva le lacrime scendere sulle guance, ma non si
preoccupò di fermarle.
Sanjiro e
Nayoko. I suoi genitori erano su quella lapide.
Scoppiò a
piangere. Il corpicino del bambino era talmente scosso dai tremiti che
dovette
aggrapparsi alla lapide –era una lapide, l’aveva
capito anche senza conoscere
il termine “lapide”-
per non cadere.
Il nonno,
che era rimasto in piedi accanto a lui per tutto il tempo, prese il
bambino in
braccio e lo abbracciò.
“Nonno…nonno…mamma
e papà sono…sono…”,
balbettò Konohamaru, incapace di dire altro.
“Shhh,
Konohamaru. Tranquillo, tranquillo. E scusami, piccolo.”
Il bambino
si rizzò, tenendo le mani sulle spalle dell’uomo
in modo da fissarlo in viso.
Le lacrime scendevano ancora.
“S-scusarti,
nonno?”
L’uomo
annuì, intristitosi. “Sì, Konohamaru.
Scusarmi perché sono un vecchio stolto e
insensibile che non ha mai rivelato al suo unico nipote che i suoi
genitori
sono due eroi di Konoha.”
Il piccolo
lo guardò a lungo, gli occhi sgranati pieni di lacrime. Poi
abbracciò stretto
stretto il nonno.
“Nonno…tu
non devi scusarti. S-so quello che pensavi, che ero piccolo quando se
ne sono
andati, e che n-non potevo capire,
c-che…”
“Shhh,
Konohamaru, shh. Ora tranquillizzati, c’è qui il
nonno con te. Ci sono io con
te…”
Sei anni
dopo, in quello stesso posto, lo stesso bambino era cresciuto.
Era un
ragazzo ormai. Però piangeva, perso nei dolorosi ricordi.
E non c’era
nessuno a consolarlo.
L’unica persona
che potesse farlo era proprio quella per cui stava piangendo.
Nei
giardini che nessuno sa
si respira l'inutilità,
c'è rispetto e grande pulizia,
è quasi follia.
Non sai come è bello stringerti,
ritrovarsi qui a difenderti,
e vestirti e pettinarti sì,
e sussurrarti non arrenderti.
”Allora
ti sei
calmato, Konohamaru?”
Il piccolo
rispose con un sorriso raggiante.
“Sì, nonno!
Sai una cosa? Sono proprio contento che tu mi hai portato qui a vedere
quella
pietra!”
L’Hokage
sospirò. “Konohamaru, devi dire: sono proprio
contento che tu mi abbia portato
qui a vedere quella
pietra! Ogni giorno che passa perdo sempre più fiducia nei
metodi
d’insegnamento di Ebizu…”
“Ehilà,
ciao!”, esclamò all’improvviso il
bambino, staccando la sua mano da quella del
nonno e correndo come un matto verso due bambini. “Scusate il
ritardo, ma ero
con il nonno!”
“Ciao
Konohamaru! Era proprio ora che arrivassi!”,
borbottò una bella bimba dai
capelli arancioni, mentre l’altro, con i capelli castani a
scodella, gli
occhiali sul naso e lo sguardo insonnolito, annuì.
“Eh,
scusami Moegi…il mio nonnino mi ha fatto sapere che i miei
genitori erano due
grandi eroi di Konoha, lo sapete?”, disse Konohamaru, gli
occhi luminosi di
contentezza.
“Davvero?!”,
esclamarono all’unisono gli altri due, allungando in maniera
esorbitante la e.
Il bambino
fece sì con la testolina, ridacchiando fiero.
Quello
mezzo addormentato, guardando dietro l’amico, disse con voce
nasale: “Senti,
Konohamaru…tuo nonno è quello
là?”
L’altro
seguì il dito che l’occhialuto aveva steso, e che
indicava proprio il suo
nonnino, che si era appena seduto su una panca e che proprio in quel
momento li
salutava cordiale.
“Sì, è lui!
È il nonno migliore del mondo, sapete?”,
bisbigliò per farsi sentire solo dai
suoi amici , tutto fiero.
“Quello?!”,
esclamò disgustata Moegi,
guardando il vecchino che le sorrideva. “Mamma mia,
com’è rugoso e brutto! Sei
sicuro che non sia un barbone, Konohamaru?”
La risposta
dell’amica lasciò il bambino di sasso. Si
voltò a guardare l’uomo, che in quel
momento stava salutando alcune persone, e sentì crescere
dentro di sé la
rabbia.
Moegi, non
contenta, proseguì: “Insomma, guardalo! Per me non
ha nemmeno un dente…non ho
ragione, Udon?”
L’occhialuto,
fissando prima la bambina, poi Konohamaru, abbassò lo
sguardo, intimidito da
quella cattiveria gratuita.
“Io mi
vergognerei se fossi in te, Konoham…”
“Che ne sai tu?!”
Moegi
rimase di stucco: senza accorgersene, il bambino davanti a lei aveva
iniziato a
gridare, gli occhi lucidi di pianto.
“Lo conosci
meglio di me, per caso?”, sbraitò Konohamaru,
infuriato. “Per caso lui ti
saluta ogni mattina, ti porta a pranzo, a cena…ti da il
bacio della buonanotte?
Moegi, dimmelo!”
La bambina
sbiancò, anche lei sull’orlo di un pianto isterico.
“Tu non…non
sai niente del nonno…io sono l’unico abitante di
Konoha che lo conosce
davvero!”, continuò il bimbo, con il naso
gocciolante di moccio. “E tu non puoi
p-permetterti di dire quelle cose su di lui perché
io…io…”
Sentì sotto
le sue ascelle due mani rugose che lo sollevarono da terra, e si
ritrovò in
braccio all’Hokage.
“Su,
Konohamaru, su…calmati, ci sono qui io.”
Il bambino
chiuse gli occhi, tranquillizzato dai passi che il nonno faceva. Si
stavano
allontanando dal parco, da quell’antipatica di Moegi e da
Udon che non aveva detto
niente in difesa dell’uomo che in quel momento gli carezzava
la testa e lo
ringraziava.
Che strano,
pensò Konohamaru, chissà come mai anche la faccia
del nonno è bagnata…
Questa
tenera domanda e tutte le lacrime che cadevano sul volto di quel
bambino e di
quel vecchio vennero inghiottite dal buio.
Nei
giardini che nessuno sa,
quanta vita si trascina qua,
solo acciacchi, piccole anemie.
Siamo niente senza fantasie.
Nda
Cielo, questo capitolo
è davvero angosciante. Me ne rendo conto solo ora.
°°
Chiedo perdono per l'immenso
ritardo di questo capitolo, ho troppi impegni in questo periodo.
>>'
Piccola specificazione: i
genitori di Konohamaru e il padre di Iruka (quel Kanko lì,
insomma xD) sono miei OC, dal momento che non si sa
pressochè niente su di loro. Certo, si sa che i genitori di
Iruka morirono durante l'attacco di Kyuubi...ma il povero Konohamaru?
Mah. Quel bambino è
perseguitato dalla sfiga. >>
Passiamo ai ringraziamenti ^^
Rinalamisteriosa: ...TU?
Tu che commenti una MIA storia?! Oh Cielo d'Alcamo.
°///°
Anch'io adoro 'Nei giardini
che nessuno sa': è una canzone davvero triste, ma che mi
piace cantare spesso. E l'ho sempre associata ai 'vecchi' di Naruto -
all'inizio avevo intenzione di parlare di Jirayia, pensa. xD
Io amo il personaggio di
Hababi, proprio tanto. E non so nemmeno perchè.
Comunque sia, penso che sia
molto diversa da Hinata. Molto diversa. So che qui non si nota per
nulla - era la prima volta che le davo un ruolo così
importante - , però sto scrivendo una Long in cui
è molto ma molto ma molto ma molto ma molto ma molto
più str...ehm, cattivella. ^^'
Grazie mille per i
complimenti, davvero. Quando ho visto il tuo commento mi brillavano gli
occhi. *_*
So che questo capitolo
è davvero molto angosciante, comunque spero ti sia piaciuto.
A presto e grazie! Un bacio
<3
MiCin (ovvero AngelEcate, ma
vabbè xD): cara Nee, mi sto stufando a
ringraziarti di tutte le recensioni che mi lasci xD
No scherzo, le adoro. <3
Guarda, se ti faccio diventare
KonoHana-dipendente, ti faccio una statua d'oro.
Ah, e ti scrivo anche una SasuTen. xD
A presto, Nee. E grazie
ancora. <3
Ringrazio anche tutti coloro
che hanno messo la storia tra i preferiti, tra le seguite o che ha
letto e basta.
Ogni critica sarà
ben accetta, così come ogni commento. ^^
Al prossimo - e ultimo -
capitolo!
Vale
|
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Capitolo 4 *** Vandalic Act of Love ***
A good deed 4
Cap. 4: Vandalic Act of Love
Sorreggili,
aiutali,
ti prego non lasciarli cadere.
Esili, fragili,
non negargli un po' del tuo amore...
Stelle che ora tacciono,
ma daranno un senso a quel cielo.
Gli uomini non brillano,
se non sono stelle anche loro.
Hinata
stava per sentirsi male.
E questa
volta Naruto non c’entrava proprio nulla.
Appoggiò la
mano sinistra allo stipite della porta, posò la destra
contro la schiena
dolorante, una smorfia sul viso.
Quando si
metteva d’impegno, Sakura si trasformava in un mostro.
Lei e Ino
avevano dovuto fare per almeno venti volte la strada
dall’ufficio dell’Hokage
al fioraio Yamanaka.
Trasportando
delle inaspettatamente pesantissime scatole zeppe di fiori.
Sebbene la
Hyuga li amasse alla follia,
li avrebbe volentieri lasciati cadere. Per
sbaglio, certo.
Ma si era
resa conto che sarebbe stata una cattiveria imperdonabile.
Sbuffò
lievemente: dannazione, l’anno seguente avrebbe fatto di
tutto per non finire
di nuovo sotto le grinfie dell’Haruno.
Questo era
certo.
Un
singhiozzo la riportò alla realtà: qualcuno stava
piangendo.
Hinata si
precipitò in cucina, dove trovò
un’Hanabi in lacrime. Davanti a lei, una tazza
di latte ormai congelato.
Era in
quella posizione da almeno cinque ore, e non aveva intenzione di
schiodarsi da
lì.
“Hanabi…”,
mormorò la sorella, avvicinandosi alla dodicenne e
abbracciandola.
La minore
di casa Hyuga non riusciva a formulare una frase di senso compiuto
nemmeno a
pagarla. Continuava a ripetere le stesse parole in continuazione.
“Konohamaru…compleanno…nonno…fionda…regalo…fionda…”
“Hanabi,
shh…calmati, piccola…” Hinata le
carezzava la testa, senza sapere cosa fare.
Si alzò e
si diresse verso i fornelli, dove iniziò a preparare un the.
Hanabi in
tutta sincerità odiava il the, ma lasciò fare:
non aveva la forza di reagire.
Si sentiva
una traditrice. Per tutti quegli anni aveva ignorato senza volerlo
l’anniversario
della morte del terzo Hokage.
La morte
del nonno di Konohamaru. E forse questo era ancora più grave.
Perché
anche se non si frequentavano, anche se Hanabi era in un team diverso,
loro due
erano amici.
Dopo quella
domenica di marzo non si erano più parlati, ma ogniqualvolta
si incrociavano,
sui loro visi appariva un sorriso carico di ricordi e malinconia.
Un bel
sorriso che piaceva ad entrambi.
Eppure
adesso lei non sapeva come farsi perdonare.
“Tieni,
Hanabi.”
Una zaffata
di vapore colpì in viso la dodicenne, che storse il naso tra
i singhiozzi.
Hinata si
sedette davanti a lei, non senza qualche smorfia e molti gemiti di
dolore, dovuti al lavoro incessante della mattina.
Quanto
aveva lavorato lei, per onorare la
memoria di quell’uomo?
Nemmeno un
secondo.
Una lacrima
finì dritta nel liquido ambrato, facendo sbuffare Hinata.
“Ecco, ora
è imbevibile.”, borbottò, spostandolo
su un’altra parte del tavolo.
“S-scusami…”,
mormorò Hanabi, senza smettere di piangere.
“Ehi.”
Hinata la fissava sorridendo. “D’altronde, le
sorelle minori vengono al mondo
solo per rovinare i piani delle sorelle maggiori, no?”
Hanabi
ridacchiò. Poi sollevò lo sguardo ancora umido
verso Hinata, e fu come
specchiarsi in uno specchio.
Occhi uguali
ai suoi la fissavano. Le imploravano di confidarsi, di svelare il
motivo di
quel pianto disperato.
Prese un
profondo respiro, poi iniziò a parlare, senza che la
maggiore chiedesse
qualcosa.
Raccontò di
Konohamaru, della fionda, di suo nonno, del compleanno.
Parlò senza quasi
prendere fiato. Ogni parola fuoriusciva dalle sue labbra
automaticamente, come
se fosse sempre stata lì pronta ad essere svelata.
Quando
terminò, si accorse che il sorriso di Hinata era immutato.
Cadde un
lungo silenzio, durante il quale la dodicenne si chiese se sua sorella
aveva
davvero ascoltato tutto o la stava solo prendendo in giro.
“Hanabi…”,
disse in un soffio Hinata.
No, aveva
sentito tutto.
“…comprendo
il tuo rimorso. È naturale che tu ti senta in colpa nei
confronti del tuo…amico,
chiamiamolo così.”
Hanabi
credette di vedere un lampo di malizia in quegli occhi sempre buoni e
gentili,
ma non ne tenne conto: la cosa che la preoccupò invece fu
quello sgradevole
rossore che le avvolse completamente il viso.
La
sedicenne davanti a lei sembrava trovare molto divertente quel fatto,
come se
le parti per una volta si fossero scambiate.
“Tuttavia,
Hanabi”, riprese Hinata, “non hai motivo di
piangere, perché tu sei sempre
stata accanto a Konohamaru.”
La
Hyuga minore
sgranò gli occhi: com’era possibile?
“Esatto.
Non pensi che ogni anno, in questo giorno, lui non ripensi a tutti i
bei
momenti passati con suo nonno? Beh, in uno di questi ci sei anche tu. E
a
quanto pare, lui se ne ricorda ancora. Altrimenti non ti sorriderebbe
in quel
modo ogni volta che lo incrociamo.”
Hanabi
sentì le guance esplodere: si era accorta anche di quello.
La maggiore
aveva teso una mano, e l’aveva posata sul braccio della
minore. Un sorriso
dolcissimo le si spalancò in viso.
“Non devi
preoccuparti”, disse. “Lui non ti odia, se
è questo che pensi.”
“Ma no, non
è per quello che piangevo!”, esclamò
Hanabi, ritrovando la voce. “Io stavo male
perché…”
“…non hai
avuto modo di consolarlo in questi anni?”
La
dodicenne rimase di sasso: ma come cavolo faceva quella ragazza a
sapere tutto
di lei?
Poi ci
arrivò: Naruto.
Hinata si
era alzata nel frattempo e le era venuta accanto. “In questo
caso, ho solo una
cosa da chiederti.”
Si
inginocchiò e sussurrò all’orecchio di
Hanabi: “Cosa ci fai ancora qui?”
Hanabi
spalancò gli occhi e la bocca nello stesso momento.
Nella sua
testa apparve un solo unico pensiero, che la fece sorridere.
Hinata se
ne accorse, perché le domandò: “Ehi,
cos’è quel sorrisino?”
“Niente,
niente!”, ridacchiò la sorella, alzandosi in piedi
come una furia. “Penso che
ora…”
“…uscirai,
certo.”, concluse Hinata, rizzandosi dolorosamente.
“Purtroppo finchè non mi
dirai cosa ti ha fatto sorridere, te lo scordi, piccola.”
In risposta
la dodicenne diede un bacio sulla guancia alla sorella e si diresse a
grandi
passi verso l’uscita.
Poco prima
di oltrepassare la soglia, si girò. Hinata la stava fissando
interrogativa.
“…pensavo
che Naruto sia proprio uno stupido a non capire quanto sei mitica,
sorellona.”
Detto ciò,
sparì, lasciando Hinata in mezzo alla stanza stupita, a
bocca aperta e
completamente bordeaux in viso.
Mani che ora tremano,
perché
il vento soffia più forte...
non lasciarli
adesso no,
che non li
sorprenda la morte.
Da quanto
tempo era lì?
Dovevano
essere passate ore, eppure gli sembrava di essere lì da
pochissimo tempo.
Konohamaru
sollevò lo sguardo: davanti ai suoi occhi, i nomi di suo
padre e di sua madre.
Due eroi di
Konoha.
Ma suo
nonno non c’era.
Allora il
ragazzo afferrò un kunai e iniziò a incidere
sulla grande lapide commemorativa.
Fece parecchia
fatica: l’arma non era affilata e la roccia sembrava acciaio.
Nel
frattempo il sole era giunto allo zenit: era mezzogiorno, eppure non
aveva
fame. Che cosa strana.
Il caldo
era atroce. La sua fronte e il suo viso erano imperlati da minuscole
gocce di
sudore, ma non se ne curò.
Era
talmente occupato dal suo lavoro da vandalo/scalpellatore che non prese
nemmeno
in considerazione il fatto di poter avere un collasso.
Infatti è
proprio quello che gli venne.
Mentre
concludeva l’ultima n di
Hiruzen,
sentì mancare la terra sotto i piedi, tutto
iniziò a girargli intorno e la
vista gli si oscurò.
Era
contento, però. Ora suo nonno era tra gli eroi di Konoha.
Siamo
noi gli inabili,
che pur avendo a volte non diamo.
La prima
cosa che sentì quando rinvenne fu una gradevole brezza
fresca che gli
accarezzava il viso.
Avrebbe
tanto voluto afferrarla e tenerla stretta a sé, per non
tornare al caldo
sahariano di poco prima.
Sollevò una
mano e a tentoni tastò quel venticello che colpiva in
particolare la sua
guancia sinistra.
Soltanto
quando afferrò qualcosa capì che quello non era
il vento.
Spalancò
gli occhi, stupefatto. Davanti a lui, lei.
O forse è
meglio dire sopra di lui.
Il viso di
Konohamaru raggiunse una tonalità di rosso indescrivibile.
Quella che
credeva fosse brezza e che aveva afferrato era la mano di Hanabi,
talmente
delicata e fresca da essere scambiata con il vento.
Il ragazzo
tentò di tirarsi su a sedere, immediatamente bloccato dalla
dodicenne.
“Che
diavolo fai, Sarutobi? Hai appena avuto un collasso, stai sdraiato per
qualche
minuto ancora!”
Da quanto
non sentiva la sua voce? Sei anni, sette?
“…v-va
bene, Hyuga. Ai suoi ordini.”, rispose lui, un ghigno
serafico stampato in
viso.
Hanabi lo
fulminò con lo sguardo. Poi distolse lo sguardo da lui, e lo
puntò su qualcosa
che sembrava molto lontano.
“Che stavi
facendo?”, mormorò poi.
“Scusa?”
La ragazza
alzò gli occhi al cielo. “Che stavi facendo prima
di collassare sotto il sole
cocente di mezzogiorno?”
“Ah…ecco,
io…”
Konohamaru
distolse lo sguardo, vergognandosi come un cane.
In fin dei
conti, quello che aveva fatto era un semplice atto di vandalismo.
Spiegarlo a
lei però sarebbe stato alquanto difficile.
“Hai
scritto il nome di tuo nonno sulla lapide.”
Per poco il
ragazzino non si strozzò con la sua stessa saliva.
Iniziò a tossire come un
disperato, mentre Hanabi lo sollevava e gli teneva la schiena con una
leggerissima mano.
“C-come fai
a…”, tossì Konohamaru.
Hanabi
sorrise. “Ho guardato, scemo. Solo tu potevi tentare
un’impresa quasi
impossibile come quella.”
Konohamaru
non rispose. Rimase incantato da quel sorriso: era lo stesso che gli
rivolgeva
ad ogni loro incontro.
Però…stavolta
c’era qualcosa in più.
Un qualcosa
che lui non conosceva.
“…in più è
un atto vandalico puro, lo sai?”, lo rimproverò
Hanabi, picchiettandogli il
naso.
Konohamaru
scoppiò a ridere. “Lo so, Hanabi, lo so. Dovevo
farlo, tutto qui.”
Hanabi
tacque, senza nemmeno chiedere il motivo che l’aveva spinto a
farlo.
Il ragazzo
la fissò per qualche secondo, senza nemmeno accorgersene.
Era cambiata tanto
dalla bambina che aveva rifiutato la sua fionda, tanti anni fa. Era
diventata
più snella, più slanciata, più
bella…
Puntò lo
sguardo al cielo, imbarazzato. Come poteva pensare robe del genere su
una
femmina?!
“Tu non hai
mai fatto niente di così…rischioso,
Hanabi?”
La
dodicenne fissò l’altro, sorpresa da quella
domanda a bruciapelo. Poi sorrise.
“Sì,
Konohamaru. L’ho fatto.”
Il genin
abbassò lo sguardo su di lei, mentre ripercorreva quello che
aveva fatto nella
mente.
“…posso
sapere cosa?”
Hanabi in
risposta si alzò in piedi e gli tese una mano. Konohamaru
fissò prima la mano,
poi Hanabi, poi di nuovo la mano.
“Andiamo,
Sarutobi! Ti faccio vedere cos’ho fatto!”,
sbottò lei, stizzita.
Un poco
insicuro, il ragazzo afferrò la mano bianca davanti a lui.
Si sentì subito
meglio.
Stava
tenendo una ragazza per mano. Udon sarebbe certamente morto di invidia.
Dimentica,
c'è chi dimentica,
distrattamente un fiore una domenica
“Pensi
di
essere spiritosa, Hyuga?”
Konohamaru
era stizzito, irritato e anche un bel po’ furioso. La
kunoichi l’aveva portato
esattamente davanti alla lapide commemorativa.
Hanabi lo
fulminò con lo sguardo, poi si chinò sulla
pietra. Ignorò la borsa, poggiata lì
a sua insaputa proprio dal ragazzo alle sue spalle, e iniziò
a sfiorare con il
dito i nomi di tutti gli eroici abitanti della Foglia, fin quando non
si fermò.
“Guarda un
po’ qui, Sarutobi.”, disse poi, fissandolo con aria
di sfida.
Konohamaru
sbuffò e si inginocchiò, proprio come tanti anni
fa. Puntò lo sguardo sul nome
che Hanabi indicava, e rimase allibito.
Baisotei Misako
in Hyuga.
Quella
doveva essere per forza…
“Quello che
stai leggendo proprio ora è il nome di mia mamma.
È morta mettendomi al mondo.”
Konohamaru
si voltò di scatto verso Hanabi, che gli sorrideva.
“Se guardi bene,
vedrai che ho compiuto il tuo stesso atto vandalico. Ero una bambina
quando
l’ho fatto, però è quasi
perfetto.”
Il
ragazzino passò un dito sulla scritta: era scavata, si
sentiva bene. Spiccava
da tutte le altre, in rilievo.
“Sai una
cosa?”, bisbigliò Hanabi, carezzando la pietra.
“Questo era il mio piccolo
segreto. Nessuno lo sa, oltre a me…e a te, ora.”
Konohamaru
era senza fiato, fiero per tutta quella fiducia immeritata. Quando
ritrovò la
voce, fece una domanda orrendamente stupida.
“Scusami,
ma perché l’hai fatto?”
Quando
percepì il peso del pugno sulla sua testa, ormai era troppo
tardi.
“Ahia!
Hyuga, dannazione!”, esclamò, portandosi entrambe
le mani alla testa.
“Così
impari a rispettare gli altri, brutta scimmia*!”, rispose la
dodicenne,
incrociando le braccia.
Konohamaru
sbuffò: ora capiva perché sia lui che Naruto non
avevano successo con le
ragazze…
“Lo vuoi
davvero sapere?”
La domanda
di Hanabi lo pietrificò: la ragazza lo stava fissando
interrogativa, in attesa
di una risposta.
Il genin
annuì. L’altra allora prese un lungo respiro, come
ogni volta che doveva
introdurre un discorso lungo.
“Misako,
mia madre, era una bravissima donna. Era buona con tutti, amava mio
padre e
Hinata con tutto il cuore. Quando ha saputo di essere di nuovo incinta,
il suo
cuore scoppiò di gioia. Mia sorella mi ha raccontato che
andava in giro per
casa saltellando come una bambina.”
Un sorriso
malinconico apparve sul viso di Hanabi.
“Poi ha
scoperto di essere malata. Si è subito impaurita, non
perché avrebbe potuto perdere
la propria vita, ma perché rischiava di perdere me. I medici l’hanno costretta
ad una scelta: la sua vita o la mia.
Già sai cosa ha scelto.”
Konohamaru
trattenne il respiro: gli occhi della ragazza si erano fatti lucidi.
“Ha scelto
lei il mio nome: il clan Hyuga aveva deciso di festeggiarla con un
grande
spettacolo pirotecnico**. Ha sorriso, ha sussurrato Hanabi ed
è…”
Cadde un
profondo silenzio. Hanabi tentava di ricacciare indietro le lacrime,
mentre
Konohamaru non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe
dovuto fare in quel
momento.
Avrebbe
tanto voluto abbracciarla, consolarla come faceva il nonno.
Ma forse
lei non avrebbe gradito.
Preferì
allora afferrarle la mano e stringerla lievemente, come per infonderle
coraggio.
La kunoichi
se ne accorse e sorrise. Riacquistò la sua aria altezzosa e
disse: “Ora
capisci? Per me lei è al pari di tuo nonno.”
Un altro
lungo silenzio cadde dopo quelle parole. Le loro mani rimasero unite,
si
infondevano calore a vicenda.
All’improvviso,
Hanabi incominciò a ridacchiare, prima lievemente, a bassa
voce, fino poi ad
arrivare a ridere di gusto.
Il ragazzo
la fissò stralunato: perché ora rideva?
“Scusami,
Konohamaru…”, disse lei, cercando di sembrare
seria. “Mi è solo tornato in
mente il passato.”
“Tu lo
trovi tanto divertente, il passato?”, sbottò lui,
con un’involontaria nota
astiosa nella voce.
La ragazza
smise di ridere, ma un sorriso rimase sulle sue labbra. “No,
hai ragione. Il
mio passato è pieno di dolore e tristezza.”
Hanabi
sollevò lo sguardo, fissandolo negli occhi neri del ragazzo.
“Io in
realtà”, mormorò sorridendo,
“stavo pensando al mio passato…con te.”
Konohamaru
avrebbe desiderato enormemente tirarsi un pugno nei denti.
Non poteva
arrossire, semplicemente non poteva.
“Forse non
te ne ricordi nemmeno più”, continuò
Hanabi, “ma io ho ancora quella fionda che
mi regalasti, il giorno del mio settimo complean...”
La
ragazzina smise di parlare: la faccia sbalordita e attonita di
Konohamaru
smorzò il suo discorso.
“C-come?!
Ma se l’hai rifiutata, al negozio di giocattoli!”,
esclamò, sbalordito.
Hanabi,
altrettanto esterrefatta, scosse la testa. “No, scemo!
L’ho trovata in un
pacchetto davanti a casa mia!”
“Hanabi…”,
mormorò Konohamaru, lo sguardo perso nel vuoto.
“…io non so nemmeno dove
abiti.”
Cadde un
silenzio tombale. I due genin si fissarono a lungo negli occhi,
cercando la
risposta uno negli occhi dell’altra. Il bianco dentro il
nero, il nero dentro
il bianco.
Il ragazzo,
quasi involontariamente, sollevò la mano libera e
carezzò il nome di suo nonno,
sulla roccia.
Sarutobi
Hiruzen.
In quel
momento entrambi capirono.
e
poi... silenzi.
“Buongiorno,
come posso…oh, signor Hokage!
Di nuovo
lei?”
Il commesso
si rialzò in piedi, causando un sorriso ironico sul volto
del vecchio.
“Gliel’ho
già detto prima: si sieda. Mi scusi se la disturbo ancora,
ma…per caso ha una
fionda?”
Il commesso
lo guardò stupito. “Un’altra? Per caso
suo nipote l’ha già rotta?”
L’Hokage
sorrise, quasi scusandosi. “No, non è per
quello…è solo per una sua amica,
tutto qui.”
E
poi... silenzi.
Hanabi
trattenne il fiato, gli occhi iniziarono a bruciarle.
Konohamaru
invece piangeva senza ritegno.
Siienzi...
“Konohamaru!
Si può sapere dove sei stato?”
L’uomo
assunse un finto atteggiamento arrabbiato. Il nipotino lo fissava,
imbarazzato.
“Scusami,
nonno…”, disse, passandosi una mano dietro la
nuca. “Sono andato a trovare un
mio compagno dell’Accademia, Udon. Ha la febbre,
poverino.”
“Ah,
capisco…”, rispose il vecchio, sorridendo.
“E dov’è finita la tua fionda?”
Il bambino
arrossì, e chinò il capo.
“Nonno,
io…gliel’ho regalata. Scusami, lo so che non
dovevo perché era un regalo tuo,
ma…”
Sentì una
mano passargli tra i capelli. Sollevò lo sguardo: il nonno
gli sorrideva
felice.
“Tranquillo,
Konohamaru. Hai fatto molto bene.”
Il nipotino
in risposta abbracciò l’uomo, che prese a
carezzargli il capo.
“Nonno…”
“Sì,
dimmi.”
“Tu cos’hai
fatto tutto il pomeriggio?”
Il nonno
aprì la bocca, poi la richiuse. Infine sorrise.
“Ho
compiuto una buona azione, Konohamaru. Una buona azione, tutto
qui.”
*=
Saru in giapponese
significa “scimmia”
**=Hanabi in
giapponese significa “fuoco d’artificio”
NdA
E finisce qui 'A good deed',
una delle storie che amo di più al mondo.
Perchè?
Perchè mi ha fatto scoprire la KonoHana. E ora ho deciso che
riempirò EFP di KonoHana.
Perchè è stata la mia prima Long seria (no, 'La
missione' non è da considerare seria).
Perchè Hiruzen non doveva morire. Questo è un
tributo alla sua memoria.
Perchè amo i personaggi secondari, forse più di
quelli primari.
Perchè ho usato 'Nei giardini che nessuno sa', una canzone
che ascolterei in eterno e che mi piacerebbe portare su un palco, un
giorno.
Perchè amo Hanabi.
Perchè amo Konohamaru.
Perchè adoro Hinata in veste di sorella maggiore.
Perchè fare apparire Moegi una vipera mi fa morire dalle
risate.
Perchè era nata senza pairings.
Perchè non ha una fine.
Perchè è forse la migliore SongFic che ho mai
scritto - e diamo un calcio alla modestia.
Perchè ha vinto il primo posto in un concorso, ma sono
dettagli.
Perchè è il mio Marchio di Fabbrica.
Perchè 'A good deed' vuole dire 'una buona azione'.
Perchè sì.
Grazie di aver letto. Spero di avervi fatto capire perchè
questa storia avrà sempre un ruolo speciale nel mio cuore.
<3
Grazie alla mia Beta cara, Laly
(lo so che ti piace, lo so xD salteranno fuori tante altre KonoHana,
promesso!). a Rina-chan, che non è una
persona normale, ma una grande scrittrice (hai ragione, è
strano che Moegi e Udon non riconoscano l'Hokage. Non ci avevo pensato,
grazie per avermelo fatto notare ^^' Mi dispiace per la tua perdita,
grazie per le tue graditissime recensioni <3), alla Nee, AngelEcate, che
ha classificato questa storia come 'il mio Marchio di Fabbrica' e che
l'ha messa tra i Preferiti. <3
Grazie alla Nee,
a Laly,
a LupoGrigio,
a Mamo_chan,
a ninasakura
e a Syra44
che hanno messo la storia tra le Seguite.
E grazie a voi, che in questo momento state leggendo. E se volete fare
piacere a una scrittrice mediocre sull'orlo delle lacrime che si
ascolta 'Il cerchio della vita', lasciate un commento.
Grazie ancora a tutti. Auguro ad ognuno di voi di trovare una fionda
davanti a casa.
E insieme ad essa, la felicità. <3
Vale
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