La prigione di sonno - The prison of slumber

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Ospedale ***
Capitolo 2: *** La Foresta ***
Capitolo 3: *** La Radura ***
Capitolo 4: *** La Morte (non) aspetta ***
Capitolo 5: *** L'Altro Ospedale ***
Capitolo 6: *** La Nursery ***
Capitolo 7: *** Rimembranze ***
Capitolo 8: *** La Spiaggia ***
Capitolo 9: *** Gli Specchi ***
Capitolo 10: *** Acqua e Fuoco ***
Capitolo 11: *** Inizi ***



Capitolo 1
*** L'Ospedale ***


Marla riprese conoscenza in un letto sconosciuto, dentro una stanza che non aveva mai visto.
Il suo cervello impiegò qualche secondo per mettere a fuoco il soffitto color candeggina, l’armadietto spartano sistemato sotto la finestra, le pareti spoglie.
Che si fosse fatta rimorchiare la notte precedente?
No, non era nel suo stile.
Scostò da un lato le coperte e scoprì di avere addosso un lungo camice di cotone ruvido, di quelli che indossano i pazienti degli ospedali.
L’angoscia cominciò a montarle in petto mentre si sollevava con cautela, temendo di non riuscire ad alzarsi, e invece – con sua grande sorpresa – era perfettamente capace di stare in piedi.
Nessuno stordimento, niente ossa rotte. Solo una leggera emicrania.
Se aveva avuto un incidente di qualche tipo, doveva far sapere ai suoi che stava bene.
Aprì la porta della camera e si ritrovò in uno stretto e basso corridoio che si estendeva in entrambe le direzioni. Pareva deserto.
Una serie di neon gettavano una luce giallastra e sfrigolante sull’impiantito.
Avanzando scalza nel suo camice sottile, Marla provò uno strano senso di tranquillità: come se ogni problema le fosse stato aspirato fuori dalla testa.
Eppure non poteva fare a meno di osservare con circospezione le porte tutte uguali allineate lungo il corridoio, le sedie di acciaio temprato, gli anonimi vasi di fiori finti disposti tra un ingresso e l’altro.
Probabilmente si era appena ripresa da un trauma molto grave… ecco perché si sentiva così leggera.
I ricordi stazionavano nella sua mente, a portata di mano, familiari ma non del tutto identificabili.
 
“C’è nessuno?” chiese ad alta voce sentendosi un po’ stupida.
La domanda le uscì in un rantolo gracchiante, ben consapevole che non sembrava esserci anima viva; e ancor più del fatto che la cosa suonasse davvero ambigua.
 
Giunse al banco dell’accettazione, che dava su un’ampia sala provvista di vetrata panoramica (in cosa consistesse il panorama, francamente era difficile stabilirlo: i vetri erano luridi).
Fece il giro intorno al mobile ovale che avrebbe dovuto fungere da postazione per un’infermiera o un addetto alle visite, e scoprì un vecchio telefono a disco abbandonato in un angolo.
Sollevò il ricevitore. Non c’era linea.
Nel preciso istante in cui lo rimise giù, la stanza cominciò a evaporare.
Marla ebbe l’impressione di essere attratta da una forza che veniva dal sottosuolo, la sua esile figura immortalata in una sequenza di diapositive che si estendevano dalla superficie del pavimento piastrellato sino alle più oscure propaggini della Terra.
Per la prima volta da quando si era svegliata, avvertì un principio di vertigini, perse l’equilibrio e sbatté la faccia contro il terreno polveroso.
Il mondo continuava a ondeggiare, le orecchie cercavano di recuperare l’equilibrio perduto e il vento spirava gentile.
Dopo un po’ si sforzò di sollevare il capo e provò a guardarsi intorno.
Le si dilatarono le pupille dallo shock.
 
Si trovava in una foresta.
Si trovava in una foresta, ed era equipaggiata di tutto punto per una scarpinata in montagna.

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Capitolo 2
*** La Foresta ***


Camminava ormai da diverse ore.
Non avrebbe saputo dire quante di preciso: il riverbero grigiognolo che faceva capolino tra gli abeti aveva il potere di annullare il senso del tempo e la bussola che aveva trovato nello zaino pareva impazzita, con l’ago che oscillava nevrotico da una parte all’altra del quadrante.
Era un pensiero irrazionale, Marla lo sapeva, ma cominciava a sospettare di essere la vittima di uno scherzo macabro: prima si svegliava in un ospedale abbandonato, poi sprofondava nel pavimento, e di colpo eccola lì a vagare per una foresta da qualche parte in mezzo al nulla, con una bussola che non segnava il nord e nessun espediente sicuro per misurare lo scorrere dei minuti.
Sulle prime aveva avuto la tentazione di sedersi e aspettare che qualcuno la trovasse, ma ben presto aveva capito di trovarsi in una situazione che richiedeva di salvarsi da soli. E poi, non le era mai piaciuto rimanere con le mani in mano.
Dunque continuava ad avanzare, le orecchie tese nella speranza di individuare il gorgoglio di un fiume – o di un torrente – e lo sguardo vigile, attenta a non perdere di vista i pochi punti di riferimento disseminati lungo il “sentiero”: se avesse iniziato a girare in tondo non sarebbe più uscita da lì.
Si era quasi convinta di scorgere del fumo in lontananza, quando inciampò in un ammasso di sterpaglie che la fecero ruzzolare a terra.
Aveva udito un verso di terrore levarsi dal sottobosco, oppure era solo la sua immaginazione?
 
Un uomo coperto di foglie secche si sollevò in piedi con movimenti bruschi e la fissò, gli occhi strabuzzati che sporgevano dal volto scheletrico.
“Tu non sei… lei.”
“Lei chi?” chiese Marla, dimenticando per un attimo quanto fosse strano avere a che fare con un altro essere umano.
L’uomo scosse il capo, gli zigomi incavati che parevano diventare più concavi ad ogni movimento della testa. Marla notò che era equipaggiato con una tenuta simile alla sua, ma quella che portava lui sembrava più logora, ed era anche sudicia.
“Anche tu ti sei perso?” provò a chiedergli.
L’uomo ridacchiò. A guardarlo bene, non era poi così vecchio: poteva avere ventisette, ventott'anni.
“Perso?” esclamò con voce roca.
“Perso è… una grossa semplificazione. Magari mi fossi perso.”
Marla si alzò scuotendosi di dosso la polvere.
“Per caso vieni da un ospedale?” insistette.
Lui la scrutò con un accenno di interesse, si fece avanti per osservarla meglio (lei non si ritrasse); infine si accosciò su un tronco marcio.
“Molti vengono da lì” rispose.
“Anche se dubito che ci siamo addormentati nello stesso ospedale, tu e io.”
Marla notò che in quell’affermazione c’era un dettaglio fuori posto.
“Forse volevi dire svegliàti.
L’uomo sospirò, frustrato.
“Come ti chiami?” gli chiese Marla.
“Non ha importanza” disse lui.
“Tu sei appena arrivata, devi ancora fare pace col cervello…”
“Prego?” sbottò lei.
“…e non hai la più pallida idea di dove ti trovi, ma col tempo lo capirai.
Magari sei un tipo combattivo, magari sei una che molla subito… non lo so e non me ne frega niente. So solo che devo continuare a correre.”
Marla lo sogguardava, la pietà e l’inquietudine che si alternavano sul suo volto.
“Aggrapparmi alla vita è quello che mi riesce meglio, anche se in questa situazione mi ci sono ficcato da solo…” aggiunse l’uomo “tutta colpa delle Skittles.”
“Le Skittles?” ripeté la ragazza, interdetta.
Lui sputò a terra.
“Speed, ecstasy, crystal. Mi hanno ridotto veramente uno schifo e ora sono qui, a secco di pasticche, ricoperto di merda, costretto a giocare ad acchiapparella con una troia della Belle Ѐpoque! Come se non sapessi cosa mi aspetta…”
L’uomo sollevò il mento, e Marla comprese che un tempo doveva essere stato attraente.
“In questo posto puoi sfuggirle, puoi ritardare l’inevitabile. Ma alla fine della fiera, lei ti prende. Ti prende sempre.”
 
Neanche avesse pronunciato qualche oscuro incantesimo, un vento gelido si alzò all’improvviso facendoli rabbrividire.
Come per incanto, le tinte degli alberi cominciarono a sbiadire, virando rapidamente verso il grigio, e il cielo si accese di un bagliore azzurro che risplendeva come un oceano di lapislazzuli.
“Oh no” mormorò l’uomo.
I suoi arti presero a tremare, come paralizzati, e la faccia gli si deformò in una smorfia di puro raccapriccio.
Marla non capiva, non riusciva più a pensare lucidamente.
“Sapevo che non dovevo fermarmi a parlare con te. Adesso non posso più scappare” sussurrò lui.
E mentre la ragazza cercava di elaborare una risposta, si accorse che gli alberi erano rientrati silenziosamente nel terreno.
Si trovavano in una vecchia sala da tè con le pareti tappezzate da fotografie di una foresta. La loro foresta.
Una lampada a pavimento coperta da un paralume rosso sangue gettava una luce scarlatta sui rivestimenti di velluto.
Finalmente posso guardarti negli occhi” disse una voce dal timbro suadente, sonoro. Una voce che non aveva nulla di anormale, e che proprio per questo le fece accapponare la pelle.
I due viaggiatori si voltarono e videro un’alta figura nera uscire da un separé, letteralmente dal tessuto – o almeno così parve alla ragazza.
L’entità che si era introdotta nella stanza non si poteva descrivere a parole.
Era senza dubbio una donna; e non era una persona.
Era chiaramente vestita, anche se non si riusciva a capire bene di cosa.
Si muoveva in modo fluido, ma la sua era la fluidità meccanica tipica degli insetti.
E il volto era una maschera di pura perfezione, algido e orribile, una tavolozza su cui le espressioni indugiavano come tante variazioni della stessa melodia.
In un attimo che parve durare in eterno, appoggiò la mano sulla spalla dell’uomo. Lui sembrava perduto in una sorta di trance, e non reagì, ma Marla si accorse che il suo corpo era proteso in un grido muto.
L'exquise sensation du tout petit frisson qui me parcourt de la tête aux talons… c'est la joie de tous vous reconnaître; c'est la joie ou l'émotion, peut-être” flautò la donna.
Per una qualche assurda associazione mentale, Marla si disse che quella frase ricordava molto le strofe di una canzone… magari una canzone d’amore?
Non è meraviglioso?” aggiunse la creatura guardando Marla di sghimbescio.
La ragazza si sentì gelare il sangue, eppure aveva la sensazione che l’altra non riuscisse veramente a vederla. Non del tutto. Non ancora.
Il corpo dell’uomo si deformava a vista d’occhio, la carne che ribolliva come un mare in tempesta, quasi che delle forze misteriose ne stessero plasmando la sostanza per capriccio.
Marla osservava, affascinata e disgustata.
In un ultimo empito di lucidità, lui si sporse dal divano per toccarle il braccio con una delle dita bulbose, piantò i grandi occhi colmi d’estasi nei suoi e sussurrò, la voce ormai ridotta a un bizzarro uggiolio:
“Mi ChiAmO LUiS.”
Poi esplose.
Si ridusse a niente.
E un momento dopo non c’era più nulla.
Marla vedeva ancora il sorriso della donna-che-non-era-una-donna aleggiare nel vuoto come il ghigno dello Stregatto, e nel frattempo la foresta si stava ricomponendo silenziosa, simile a un diorama di cartoncino.
Non sapeva dare una definizione precisa di quanto era appena successo, e la mancanza di qualsivoglia indizio non aiutava. Ma di una cosa era sicura: se non trovava un’uscita, e al più presto, lo stesso sarebbe capitato anche a lei.
Sentiva il panico montare dentro di sé, un’emozione inafferrabile e svuotata di ogni significato, che in qualche modo provava e non riusciva a provare: una tipologia di frustrazione, si rese conto, ancora peggiore del panico vero e proprio.
Tirò indietro il capo e lanciò un urlo di rabbia che risuonò a lungo nell’abetaia.
Non comprendeva perché si trovava lì, ma sapeva per certo che non ci era finita per sua scelta.
Se solo avesse potuto risvegliarsi.
Ogni cosa, in quello stramaledetto ammasso di alberi, era provvisoria, ambigua, fumosa…
 
E d’improvviso la colpì un pensiero.
Fumo.
Aveva visto del fumo levarsi tra le fronde.
Dilatò le narici e si accorse che poteva addirittura fiutarne l’odore. Se fosse riuscita a risalire alla fonte, forse avrebbe avuto qualche speranza.
Ma quella traccia, realizzò molto presto, da sola non bastava.
Marla non era un cane da tartufo e, per quanto tentasse di orientarsi, gli alberi parevano tutti uguali, non c’erano sentieri e la sua unica possibilità di trovare un’uscita sembrava essere stata messa lì apposta per irriderla anziché guidarla.
Scagliò un’imprecazione a bassa voce.
Poi, ecco che udì un trillante gorgoglio... un torrente.
La foresta, meditò, era strettamente vincolata alle leggi dell’assurdo: meno cercava qualcosa, più probabilità aveva di trovarlo.
Il suono rimbalzava da una corteccia all’altra con una limpidezza cristallina, e le bastò seguirlo per imbattersi, appena al di là di un cespuglio, in una striscia d’acqua argentea e brillante.
Da lì, come seguendo un oscuro impulso, si mosse veloce nella direzione da cui proveniva l’aroma di legna bruciata, ormai certa di scorgere anche una colonnina grigiastra, proprio oltre quei pinnacoli frondosi, ben nascosta da un intrico di piante particolarmente fitte.
Prima che potesse rendersene conto, sbucò in una radura.
E al centro della radura c’era una casa.

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Capitolo 3
*** La Radura ***


“Vediamo se ho capito bene: non solo tu vorresti uscire di qui, ma pure tornartene da dove sei venuta?” chiese Tara.
Marla annuì mentre finiva di sorseggiare il suo caffè.
Tara fece una risatina sguaiata.
“Che c’è di tanto divertente?” chiese Marla con un mezzo sorriso che le affiorava sulle labbra.
“No no, figurati, non è divertente, è una cosa seria” replicò Tara in un tono che di serio non aveva proprio nulla.
“Ma trovo abbastanza ironico che una come me, una che si era impegnata veramente un sacco per finire all’altro mondo – e che ancora non ci è riuscita del tutto, porca di quella puttana ladra – si sia ritrovata per puro caso a offrire la sua ospitalità a una come te, che invece ti attacchi alla vita come una piattola alle palle di un barbone.”
“Che finezza” mormorò Marla.
Notò che nella voce dell’altra c’era un accenno di amarezza.
Si conoscevano da pochissimo, e forse non era il caso di porre domande personali; ma in quel luogo certe precauzioni non sembravano valere molto, e poi l’atmosfera era talmente languida che la giovane non riuscì proprio a trattenersi dal chiedere: “come mai lei non è ancora venuta a prenderti?”
Per un momento Tara sembrò perdere il suo sarcasmo, e apparve come nuda, smarrita. Ma si riprese in fretta.
“Secondo te perché? Quella stronza si diverte a negarti quello che desideri. Proprio come si diverte a prendere da te quello che non vuoi che sia preso.”
“Chi pensi che mi abbia regalato questa casa?” aggiunse con una punta di scherno.
“Anzi, mi correggo: relegato in questa casa?”
Marla distolse lo sguardo, a disagio.
“Io volevo crepare, e lei mi ha dato una casa. Così posso godermi questo magnifico Nulla da qui fino alla fine dei tempi. O finché il mio corpo non tira le cuoia nel mondo reale. Ma dubito che sia così semplice… da queste parti il tempo è un concetto relativo.”
Marla si alzò. Misurò a grandi passi l’arioso soggiorno.
Croccanti stuoie di vimini rivestivano il pavimento in faggio.
Pur non condividendo il suo desiderio di farla finita, capiva perché Tara odiasse a morte quella casa.
“Io credo che ci sia un motivo se ci siamo incontrate” disse infine.
“Sforbiciare per tutti i secoli dei secoli?” azzardò Tara.
Marla represse una risatina.
“Il fatto che mi piacciano le donne non significa che mi piacciano automaticamente tutte le donne” rispose.
“Ahia” borbottò Tara fingendosi offesa.
“Comunque una ragione c’è” continuò Marla.
Deve esserci.”
Tara la fissò con un’espressione indecifrabile.
“Prima dicevi che hai solo ricordi vaghi di come sei finita qui. Qualcosa che ha a che fare con un incidente… ma non è detto. A volte la mente crea false reminiscenze per seppellire traumi troppo difficili da affrontare.”
“Dove vuoi arrivare?” chiese Marla.
Tara si appoggiò a una credenza studiandosi le unghie.
“Forse, e dico forse, non sei così attaccata alla vita come sostieni di essere.”
Marla esitò. Sorrise.
“Magari, e dico magari,” disse a sua volta “sei tu a non essere così determinata a morire come invece pensavi.”
Tara sorrise di rimando.
Prese la tazza vuota dal tavolinetto e la portò nel piccolo acquaio della cucina.
Quando tornò in salotto, scoprì che Marla si era distesa sul divano e fissava le travature del soffitto. Sembrava tranquilla, in pace con sé stessa.
“Perché so con certezza di aver desiderato la morte,” riprese Tara “ma non ricordo come ho tentato di togliermi la vita.”
Credi” rimarcò Marla.
“Scusa?”
“Tu credi di aver desiderato la morte. Ma è solo un ricordo: non dev’essere per forza autentico.” 
L’anfitriona sospirò.
“Te l’hanno mai detto che sei una rompicoglioni?”
Marla rise di gusto.
“Non saprei, ma sono pronta a scommettere che apprezzassero il mio eccezionale altruismo.”
“Come ti accennavo, questa casa ha un’uscita di emergenza” buttò lì Tara.
“Non mi è mai passato per la testa di imboccarla – per non correre il rischio di uscire dal coma, capisci – ma, dato che la mia situazione sembra essere a un punto morto, credo proprio che ti accompagnerò laggiù. E chissà, magari anch’io troverò quello che sto cercando.”
Marla annuì.
“Può pure darsi che, svegliandoci, scopriremo di essere ricoverate nello stesso reparto. Perfino nella stessa camera. Vicine di letto.”
Tara sbuffò.
“Se mi fai tornare in vita, giuro che ti ammazzo.”
“Promesso?”
“Vaffanculo.”
Marla tese la mano.
Tara scosse la testa.
“Quello lo fanno solo i politici e gli assicuratori.”
Marla chiuse la mano a pugno. Tara le diede un colpetto con la propria.
In un modo o nell’altro sarebbero uscite di lì.
Anche se erano dirette in luoghi diversi – di fatto, verso due destinazioni diametralmente opposte –, si sentivano unite da una certezza profonda: non sarebbero rimaste in quella prigione un minuto di più.
Entrambe erano alla ricerca di una chiusura, di un esito chiaro e circoscritto: che fosse il caotico clamore della vita o il gelido abbraccio della morte, poco importava.
 
Tara spalancò la botola che conduceva nel seminterrato. Un odore acre e stagnante si riversò all’intorno, quasi a volerle ammonire.
La donna si voltò e prese a scendere la cigolante scaletta di legno alla base dell’apertura. Indossava abiti leggeri dai colori tenui, gli stessi con cui si era presentata aprendo la porta a Marla.
Questa domandò: “Ma… e lo zaino? La bussola?”
“Lasciali,” le giunse in un’eco la voce ovattata di Tara “sono solo zavorra. Fanno parte del suo gioco, non del nostro. Per quel che ne so, potrebbero aiutarla a trovarci più facilmente.”
Marla lasciò cadere a terra l’equipaggiamento.
D’accordo, disse a sé stessa, giochiamo secondo le nostre regole.
E raggiunse Tara nello scantinato.

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Capitolo 4
*** La Morte (non) aspetta ***


Marla e Tara camminavano fianco a fianco lungo l’angusto tunnel da parecchio tempo, anche se ormai avevano rinunciato a misurarlo.
Le pareti di nudi mattoni erano illuminate da una curiosa fosforescenza verdastra: avvicinandosi un po’, videro che il lucore era emesso da una gigantesca varietà di lucciole intrappolate in recipienti di vetro.
Arazzi che sembravano risalire a epoche ante-medievali decoravano il corridoio secondo una disposizione apparentemente casuale, ma ciò che risultava davvero bizzarro era lo stile adoperato per intesserli: nonostante la tecnica rigorosa e certosina, occasionali sprazzi di modernismo sollevavano interrogativi sulla loro reale datazione, e i soggetti… i soggetti…
“Ѐ lei, ho ragione?” chiese Tara.
“Lei? Oh, lei” esclamò Marla, dapprima interdetta.
Ritratta in contesti diversi, addobbata con tessuti eterogenei e sempre dissimile da sé stessa, eppure anche sin troppo riconoscibile, la sagoma ragnesca dal volto oscurato sorgeva a intervalli regolari in tutta la sua maestà. Sogguardandole. Studiandole. Leccandosi le labbra che non aveva con una lingua che non era una lingua.
“Dovremmo smetterla di chiamarla così, si fa confusione” riprese Marla.
“Io opterei per La stronza” propose Tara.
“Sì, oppure La stalker” le fece eco Marla.
La stanga che ti stronca” cantilenò l’altra, ed entrambe fecero una risatina strozzata.
Erano parimenti terrorizzate all’idea di rincontrarla, Marla se ne rendeva conto: malgrado Tara avesse dichiarato di voler morire, ora sospettava che quel desiderio appartenesse a un’altra esistenza.
O perlomeno voleva credere che Tara aspettasse solo una spinta dall’esterno, un incentivo a invertire il flusso della marea… una Principessa Azzurra che giungesse a salvarla.
Del resto, è facile agognare al nulla quando questi ci si presenta sotto forma di un caritatevole sonno eterno. Ma l’idea di essere presi e svuotati da quella cosa – da quella Stalker che viveva in una galera scarlatta avulsa dal tempo, potenzialmente infinita quanto era infinito il dolore che impartiva – per poi raggiungere un fantomatico Nulla spogliati della propria umanità, alla deriva… bè, non suonava affatto piacevole; e il luogo in cui si trovavano, seppur assurdo e regolato da leggi imponderabili, rappresentava una seconda occasione, una promessa di riabbracciare la speranza. O soltanto di sfuggire alla disperazione; le due cose non dovevano essere per forza collegate.
 
“Sembra quasi di stare in una favola” considerò Tara interrompendo le sue riflessioni.
“Le due belle addormentate in fuga.”
“Mi hai letto nel pensiero” disse Marla.
L’altra ammiccò.
“Le due belle addormentate lesbiche” aggiunse, maliziosa.
“Aha” replicò Marla, cercando rapidamente un altro argomento.
“Stavo pensando… c’era un uomo.”
Tara si produsse in un’espressione delusa.
“Peccato.”
“No, voglio dire,” continuò Marla “c’era un uomo nella foresta. Si chiamava Luis. L’ho visto morire. Morire sul serio.”
“Oh.”
La ragazza annuì.
“Diceva che potremmo non esserci addormentati nello stesso ospedale, e ora c'è un quesito che mi assilla: se questo posto è una specie di purgatorio, e la foresta è uguale per tutti – perché, insomma, ogni coscienza in stato di coma deve condividere lo stesso livello di realtà, è logico, altrimenti spunterebbero delle incongruenze e le nostre azioni non potrebbero coesistere…”
“Ferma ferma ferma,” eruppe Tara “stai paragonando l’aldilà a un gioco di ruolo online?”
“Sto solo dicendo che magari il punto di accesso è diverso per ognuno di noi, modellato sull’edificio in cui ci hanno depositate da sveglie. Sai, per facilitare la transizione tra piani. Sempre che – come ho detto prima – noi due non siamo effettivamente vicine di letto (ma quanto sarebbe bello!?).”
Tara si prese il mento tra pollice e indice.
“In che modo faciliterebbe la transizione? Noi mica ce lo ricordiamo, l’ospedale in cui ci hanno parcheggiate.”
“Può darsi che il trapasso non abbia a che fare con i sensi,” rispose Marla “che sia piuttosto una questione di coerenza strutturale.”
“Certo, sì, coerenza strutturale…” la canzonò l’altra “forse da sveglia eri un’astrofisica, una teosofa o perfino una suora. Sei finita in coma scolandoti il vino della messa?”
Marla fece a meno di rispondere.
“Riflettici: perché catapultarci in un ambiente come l’ospedale, se poi c’è bisogno di effettuare un ulteriore trasbordo da un’altra parte?”
Tara assentì e aggiunse: “Ora che mi ci fai pensare, anch’io mi sono dovuta sorbire la trafila: ho sollevato il ricevitore di un telefono, il mondo è diventato una versione in 3D dei dipinti di Pollock e poi l’ospedale ha ceduto il posto alla foresta.”
“Quindi, se ogni ospedale è diverso, potrebbe essere diversa anche la via d’uscita” concluse Marla in un bisbiglio; ma prima che potesse darsi il tempo di elaborare una nuova – e possibilmente ancor più inquietante – considerazione, un’altra curiosità si interpose tra lei e le sue angosce, forse nel tentativo irrazionale di rimandare l’inevitabile.
“Seriamente, Tara. Com’è possibile che la Stalker abbia messo una botola per scappare in casa tua? Riesco ad accettare l’idea che la Morte possa donare a qualcuno un cottage per la villeggiatura, ma addirittura creargli una via di fuga…”
La sua nuova amica si strinse nelle spalle.
“Mi ha dato una botola per la stessa ragione che l’ha spinta a fabbricarmi una casa: all’epoca, sapeva che non l’avrei usata per fuggire. Quella creatura è estranea alla logica umana, pensa solo per analogie e contrari.”
“Cioè?”
“Non sono né la sua migliore amica né la sua psicologa, che vuoi che ne sappia?” borbottò Tara facendo il broncio.
“Ma sei la sua dirimpettaia” flautò Marla.
“Che stronza!” esclamò Tara.
“Ho avuto modo di rifletterci, ok? E la mia conclusione non è nulla di sbalorditivo, a differenza dei voli pindarici in cui si lancia una certa nerd… La signorina Stalker si limita a interpretare i nostri desideri e distorcerli nella maniera più sadica possibile, punto.”
“Ma ora tu vuoi scappare.”
Tara serrò le labbra.
“Sto aiutando te, perché un po’ mi fai pena.”
Marla le diede una spintarella.
“Sì, sto scappando,” ammise Tara “e sono piuttosto sicura che lei si sia già mobilitata per correggere l’errore. Non aspettiamo di scoprirlo.”
 
Neanche a farlo apposta, proprio in quel momento una flebile luce avoriata le distolse dalle loro dissertazioni. Una porta bianca dalla vernice scrostata aleggiava di fronte a loro come un pallido fantasma.
Marla deglutì.
“Eri qui per questo, no?” la canzonò Tara, non senza una punta di preoccupazione nella voce.
“E va bene” sussurrò Marla.
Fece un profondo respiro, inalando una miscela di gas che con tutta probabilità non esisteva nemmeno.
“Vogliamo andare?” disse infine.

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Capitolo 5
*** L'Altro Ospedale ***


Corsie dipinte di un lezioso rosa confetto. Una lunga moquette ornata con motivi geometrici dai colori sparati. Seggiole in plastica verde. C’era tutto.
Tutto quello che occorreva per provocare una crisi di vomito ad eventuali pazienti.
Marla rabbrividì. Il suo ospedale, in confronto, era un luogo pacifico e confortevole.
“Mi mancava questo carpet,” disse Tara “ti fa sentire come il piccolo Daniel Torrance mentre se ne va in giro sul suo triciclo all’Overlook Hotel.”
Il passaggio alle loro spalle si chiuse con un tonfo che le fece sobbalzare. Si voltarono. Era una porta tagliafuoco.
“Quindi ci troviamo nel tuo ospedale?” domandò Marla.
L’altra fece schioccare la lingua.
“Tu non sai quanti ricordi… flashback della mia seconda vita.”
Marla pensò che parlare di seconda vita fosse un tantino esagerato, dato che i visitatori di quell’area transitoria erano destinati a rimanervi per un tempo relativamente breve, ma lo tenne per sé.
Si accostò a uno dei quadretti che riempivano gli spazi vuoti tra un ufficio e l’altro.
Era orribile, come la totalità dei suoi cugini: campiture violette e arancioni si sovrapponevano a formare un insieme stonato e disarmonico che tracimava dalla tela, quasi a voler implicare che qualcuno, in condizioni normali, avrebbe potuto desiderare di esaminarlo dappresso.
Lesse la didascalia stampata sulla targhetta.
Stazione del Purgatorio, Amilcare Benvenuti… probabilmente opera di un ospite del reparto psichiatrico.”
“Solo perché quelli soffrono di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo, non è una buona ragione per farli venire anche a noi” commentò Tara.
“Muoviamoci” aggiunse.
 
Con una sicurezza a dir poco sorprendente, l’amica prese a guidarla lungo i tortuosi dedali dell’ospedale, riservando poca o nessuna attenzione ai nomi dei reparti, che – una volta osservati a distanza ravvicinata – risultavano sempre sbiaditi. Lì dentro sembrava regnare la desolazione più totale, esattamente come nel posto in cui si era svegliata lei.
Quando ebbero oltrepassato una doppia porta dall’aria importante, la ragazza decise di dar voce ai propri dubbi.
“Tara, come puoi…”
“Sapere dove diavolo vado?” concluse l’altra, e si fermò.
Nel suo sguardo c’era un’esitazione che sconfinava nel pudore, il quieto conflitto di chi è indeciso se omettere alcuni dettagli o aprirsi completamente. Ma durò poco.
“Dopo il mio arrivo, sono rimasta qui a lungo. Molto a lungo.”
“…non riuscivi a trovare l’uscita?” azzardò Marla.
“Certo che ci sono riuscita! O meglio… all’inizio no, ma all’epoca non importava.”
Vi furono dieci secondi di imbarazzato silenzio.
“Ero fissata con la morte,” riprese Tara “e per quel che mi riguardava, ero morta. Non avevo idea di cosa mi sarebbe capitato, se mi sarebbe capitato ancora qualcosa, e neanche ci tenevo a scoprirlo. Così ho aspettato, immobile, per un tempo che mi è sembrato interminabile. Forse sono rimasta qui per mesi. Forse anni. In attesa di sparire. In attesa del nulla.”
Marla fece per metterle una mano sulla spalla.
“Ma” riattaccò l’amica, facendola sussultare “il niente tardava ad arrivare, per quanto il concetto di ritardo suoni abbastanza ridicolo, qui… e così mi sono decisa a esplorare per bene il resto dell’ospedale. L’ho percorso avanti e indietro, in lungo e in largo, in cerca di una risposta che stava proprio sotto al mio naso. Non so perché ho lasciato per ultimo il telefono in Accettazione. Un sesto senso o una forma di masochismo, forse. Giunta nella foresta, ho trovato quello che cercavo. O meglio: non l’ho trovato, ma almeno c’era il caffè. Il resto lo sai già.”
Marla sorrise.
“Ma sì che l’hai trovato. Io sono qui per te, ricordi? Ti salverò… ti salverò da te stessa!”
Tara la guardò storto.
“Non ti salverai da quello che sto per fare.”
E poi si mise a solleticarla sotto le ascelle, così, all’improvviso. In quel posto terrificante. Senza dire una parola.
Marla rideva a crepapelle, nemmeno lei sapeva perché. Non soffriva il solletico; perlomeno, la sua coscienza in stato di coma non lo soffriva. Eppure stava ridendo. Il motivo sarebbe rimasto un mistero.
Quando si furono entrambe riprese, Tara ghignò.
“Sazia di giocare alla crocerossina?”
“Cammina, prima che ti faccia un’iniezione” ansimò Marla.
 
La camera era piccola e buia, permeata dal sentore di abbandono che infesta tutti i luoghi destinati a deperire nella sciatteria. Un tempo doveva essere stata accogliente, come testimoniavano le azalee appassite sul comodino, il buffo biglietto a cuore subito accanto e la poltroncina tappezzata con uno sbiadito motivo a pois.
“Ѐ questa?” chiese Marla.
“Ѐ questa” si limitò a dire Tara.
Fece lentamente il giro intorno al letto dalle lenzuola disfatte, passando un dito sulla trapunta.
“Quando mi sono svegliata qui, non ricordavo nulla. E tutt’ora non ricordo. Ma la sensazione di sapere… di aver sempre saputo ciò che volevo, e di non averlo ancora ottenuto… ho provato quella sensazione frustrante fin dall’inizio.”
“Devi aver ispezionato la stanza palmo a palmo” considerò Marla nel tentativo di cambiare discorso.
“Oh, sì” sussurrò Tara con un ghigno. Meditabonda, scrutava dei segni sul freddo pavimento in PVC: correvano dalle gambe del letto sino al muro, che ospitava un piccolo schermo al plasma.
Tara iniziò a spostare il letto, producendo un gran fracasso.
Frattanto mormorava in tono nevrotico: “Provai ogni possibile combinazione… prima per gioco, poi solo per vedere cosa sarebbe successo.”
“Tara?” azzardò l’amica con aria incerta.
“Accendi il televisore” disse l’altra. Marla armeggiò un momento con un piccolo telecomando, poi eseguì. Una luce biancastra illuminò la penombra.
Lo spazio sotto il letto, che fino a un attimo prima non conteneva che polvere e ragnatele, s’accese di un bagliore azzurrino. Un quadrato delle dimensioni di un pugno composto da quattro scanalature luccicanti apparve dal nulla.
“Incredibile… è come essere in un film di Indiana Jones” disse Marla.
“Dubito che funzioni così per tutti,” replicò Tara, più seria del solito “o perlomeno, voglio sperare che il trapasso non sia solo un’altra fottuta catena di montaggio. Il capitalismo ci ha già danneggiati abbastanza.”
Marla cercò di assecondare il suo ragionamento. In fin dei conti, l’esperta era Tara.
“Riguardo al perché funzioni e che cosa faccia, poi, ne so meno di zero. Può darsi che ai proprietari di questa ecto-ferrovia serva una scappatoia di qualche tipo nel caso il treno arrivi con troppo anticipo e il passeggero di turno debba fare dietrofront e ritornare al suo corpo. E chi può dirlo… forse l’impresa Defunti & Contenti non vede quello che vediamo noi; forse il nostro cervello dipinge le cose in un certo modo per razionalizzare ciò che ha davanti, dargli una parvenza di senso.”
“E poi sarei io la nerd?” scherzò Marla.
“C’è una bella differenza!” s’inalberò Tara.
“Quando sono finita quaggiù mica mi facevo tutte queste seghe mentali… almeno credo.”
“E insomma, qual è il passo successivo?”
Tara sospirò.
“Premiamo il bottone azzurro. E no, non ho idea di che succederà dopo.”
Le due donne deglutirono. Si accovacciarono sul quadratino luminescente. Vi appoggiarono sopra l’indice.
“Tre…”
“Due…”
“Uno…”
Ci fu un rumore lacerante, come un sommesso, stridulo richiamo agli ultrasuoni, e senza preavviso il pavimento iniziò a ribaltarsi.
Era come se l’impiantito fosse assicurato ad un perno centrale, un perno girevole, e un meccanismo l’avesse messo in moto, spingendolo a rovesciarsi con estrema lentezza.
Dapprima Marla e Tara ebbero paura, perché sembrava che dovessero precipitare nel vuoto, ma poi si accorsero che anche la gravità si comportava in maniera imprevista: ogni elemento presente nella stanza – loro incluse –, ogni oggetto, sino al più piccolo granello di pulviscolo, rimaneva saldamente ancorato al pavimento, quasi che il processo d’inversione non lo interessasse minimamente.
“Stiamo guardando il nostro riflesso sotto la superficie dell’acqua” bisbigliò Marla in una sorta di trance. Le sue pupille rispecchiavano il sole calante, un sole che non si trovava lì.
Tara la scrutò.
“Marla, che succede?”
“No, no… non fatemi tornare…”
Tara le diede uno scossone. La ragazza parve riacquisire il controllo di sé; sudava copiosamente, malgrado non facesse così caldo.
“Che ti è preso?” la spronò l’amica.
“Ho intravisto… qualcosa di sgradevole. Un ricordo, credo. Non sono sicura” rispose Marla, con le lacrime agli occhi.
L’impressione di trovarsi a testa in giù era svanita del tutto, nulla suonava fuori posto. In apparenza, avevano fatto tappa per lo stesso identico luogo; solo che il televisore era spento.
“Ricordo o meno, credo che tu abbia ragione” affermò Tara. Stava fissando il letto.
“Siamo finite in una rifrazione: un Mondo Specchio, chiamiamolo così. Ogni cosa è a rovescio; ogni cosa è il contrario di ciò che sembra.”
“Il contrario…?” ripeté Marla, ancora turbata.
“Prendi il letto. L’abbiamo usato per arrivare nel limbo – anche se usare non è proprio la parola adatta –, ci ha fatto da tramite per questo mondo. E ora… ora è un tramite per il mondo dei vivi.”
“Cosa intendi?” domandò l’altra.
“Tu non lo vedi?” disse Tara, sorpresa.
Sì, perché ai suoi occhi le lenzuola del Mondo Specchio emanavano un tiepido riverbero, come il nitore di una mattinata primaverile che filtra attraverso persiane accostate. La qualità di quel chiarore, sebbene discreta, era diversa; più autentica, più… reale. Il cotone ondeggiava impercettibilmente, attraversato da una leggera brezza.
Marla abbozzò un sorriso.
“Quindi l’abbiamo trovata. Abbiamo trovato l’uscita.”
Tara stava per descriverle l’immagine che aveva davanti, ma si bloccò. L’amica era giunta alla sua stessa conclusione pur rimanendo estranea a ciò che lei scorgeva.
“Ѐ naturale che io non la veda” proseguì Marla in tono vagamente canzonatorio.
“Dopotutto, questo è il tuo letto. Non il mio.”
“Cosa vuoi dire?” chiese Tara, ma l’altra si limitava a sorridere.
“Che cosa vuoi dire, brutta stronza?” ripeté Tara con veemenza.
“Avanti, non c’è mica bisogno di offendere” disse l’amica.
“Vuol dire semplicemente che ti è stata data un’altra occasione.”
Tara scosse il capo.
“Te lo scordi. Io sono venuta fin qui per te. Non è giusto che… non è giusto, non è giusto e basta!”
Marla le prese le mani.
“Stenditi lì, addormentati e vedrai che andrà tutto bene. Concediti un’altra possibilità.”
“Addormentarmi?” ringhiò Tara.
“Non ho dormito nemmeno un minuto da quando sono finita quaggiù. Non c’è verso che mi addormenti in questo letto di merda!”
“Provaci, forse basta che tu tocchi la coperta…”
Marla non aveva neppure finito di parlare che un freddo innaturale invase la stanza. Le parole le si congelarono in bocca.
Colori rossastri sbocciarono ovunque, una carta da parati di un cupo borgogna ricoprì le facciate soffocando la luce. Una saletta da tè. Un divisorio in tessuto ricamato. Fotografie dell’ospedale appese alle pareti.
La Stalker emerse dagli arabeschi di un tappeto persiano, il corpo tratteggiato da un groviglio di fili che si contorcevano come vermi. Aveva un’espressione candida, colma di letizia.
Come in un incubo, Marla e Tara si sentirono trattenere da una forza invisibile che rallentava i loro movimenti. In particolare Tara. Ironicamente, erano davvero sotto la superficie dell’acqua.
Avrei potuto estinguervi nel sotterraneo, ma che trofei insipidi sareste state” sibilò la Stalker.
“Tara, ascolta,” proruppe Marla con foga “non può catturarci entrambe in una volta, può prendere solo una di noi!”
“E tu come lo sai?” disse l’amica, semiparalizzata.
“L’ho vista cacciare, ricordi?” rispose Marla in gran fretta.
Poi fece per uscire dalla saletta, agitando vistosamente le mani all’indirizzo della creatura che si stava approssimando a Tara.
“Ehi, Mimì! Dove diavolo stai guardando? Sono qui! Non è me che vuoi?”
La Stalker voltò impercettibilmente il capo. Marla avvertì l’attenzione calcolatrice di quegli occhi glaciali che la scavavano sin nel profondo.
Tara riusciva a malapena a respirare, immobile come un manichino.
“Lascia perdere quel maschiaccio depresso, non vedi che gli faresti un favore?” continuò Marla.
L’espressione sorridente della Stalker mutò in un rigido cipiglio. C’era fame in quello sguardo; c’era una smania vorace.
Sì, ora capisco,” cinguettò “tu… sei… interessante. Ami intensamente la vita, eppure godi al pensiero che ti venga strappata via.
Come? si disse Marla.
Ma non c’era tempo per pensare: la Stalker le stava venendo incontro con una flemma che rasentava il sadismo, lontanissima e contemporaneamente a un passo da lei. La sua figura sembrava evadere il tempo.
L’agguantò per la gola, sollevandola in alto. Si sentì annullare, piluccare un boccone alla volta.
Nello stesso momento, Tara riguadagnò il controllo del proprio corpo.
“Marla!” strillò.
“Vai” annaspò l’altra, col volto che le si deformava e perdeva poco a poco ogni connotato umano.
“CoR… rI…”
“No! Io non ti lascio!”
 “Mi… mI diSpiAce…”
 
E si disintegrò. Si disfece in tante particelle di oblio. Di Marla, in quella stanza, non rimase che il ricordo.

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Capitolo 6
*** La Nursery ***


Un delicato profumo di biscotti la strappò all’oscurità.
“Mamma… papà… lasciatemi dormire ancora un po’…”
Poi si rese conto che non riusciva a ricordare i volti di sua madre e di suo padre.
Ancor più strano, sapeva cosa fosse un biscotto ma non sapeva come lo sapeva.
Marla spalancò gli occhi.
Si trovava in uno stanzone ampio e coloratissimo dai soffitti molto alti.
Il pavimento era completamente fasciato da un rivestimento antiurto per bambini, abbellito con un pattern che ricalcava i pezzi di un puzzle. Paffuti pupazzi di peluche e giocattoli d’ogni sorta – trottole, bambolotti, rozzi strumenti musicali – giacevano sparpagliati in giro come soldati caduti.
Nonostante fosse seduta sul pavimento a gambe incrociate, si sentì vacillare.
Ma non era morta? Sì, insomma, più morta?
Una scarica di terrore, violenta e repentina, la scosse da capo a piedi. Passò in un lampo, come per magia, ma fu come se un dottore sadico le avesse infilato l’ago di una siringa nel piede.
La Stalker l’aveva afferrata. E quando era successo, lei aveva avvertito dolore, anzi, qualcosa di ancor più tremendo: si era sentita derubare della propria identità, della pelle, di organi e sensi, e di tutti i punti di riferimento che le consentivano di distinguere l’entusiasmo dalla depressione; aveva sofferto, era una verità innegabile. Ma aveva anche goduto.
Laddove il suo corpo gemeva e si contorceva nel tentativo di mantenere una forma fissa, la sua psiche fluttuava alla deriva, finalmente libera, in pace. Affrancata dalla carne.
Aveva provato gratitudine.
Scoprirsi di nuovo in possesso di un involucro, ed esserne lieta malgrado l’estasi che la sua mente aveva appena sperimentato, suonava come un tradimento.
Si sentiva sporca.
 
“Vedo che la balla ti è passata” trillò una vocina rasposa.
Marla scattò in piedi e si guardò intorno: una manona paffuta le faceva cenno di avvicinarsi dallo sportello di una guardiola. Portava un dozzinale brillante viola infilato all’anulare. Impossibile stabilire chi la spiasse dietro il vetro satinato, ma le parve d’intravedere una sagoma tozza che sferruzzava.
Marla scostò i balocchi e mosse, circospetta, nella sua direzione. Chissà poi perché quel posto appariva così grande? Era come se si fosse ristretta.
“Finalmente, cara! Cominciavo a pensare che non ti saresti più svegliata!”
La vecchina rise di gusto, col tono di chi non si stanca mai di ripetere la stessa battuta. Memoria selettiva o demenza senile? Difficile dirlo.
Giganteschi orecchini a losanga le pendevano dai lobi deformi, aveva i capelli cotonati e, a giudicare dal reticolo di rughe in cui s’intravedeva a malapena la faccia, un’età compresa tra i cento e i centotrent’anni. Se non altro, il tono con cui le si rivolgeva era cordiale.
Un lavoro a maglia straordinariamente lungo languiva sulla scrivania, accanto a una gigantesca bottiglia di whiskey (consumata per tre quarti). Poco vicino, un piattino di biscotti emanava un’invitante fragranza burrosa.
“Prego, prendine uno. Non sarai ossessionata dalla linea, voglio sperare?” la punzecchiò la signora.
Marla balbettò una parola di ringraziamento e prese distrattamente un biscotto. Era la prima cosa solida che assaggiava da quando era finita lì, ma il sospirato ricongiungersi tra il cibo e la sua bocca non fu l’epifania che si aspettava. L’impasto aveva un sapore familiare, solo sprovvisto di tutto ciò che lo rendeva gustoso: pareva di mangiare un concetto.
 
Mentre masticava, l’attenzione di Marla si focalizzò su una pesante console, d’aspetto datato e nera come l’ebano, che riempiva la porzione frontale della scrivania. Numerosi schermi a cinque e otto pollici sporgevano dal complesso centrale irregolare e frastagliato – una piccola catena montuosa –, in parte soffocati da un groviglio di cavi che potevano essere collegati indifferentemente a una cornetta telefonica o a un apparecchio per l’igiene dentale.
Proprio in quel momento, una spia rossa s’illuminò da qualche parte e la signora prese subito a frugare tra i fili. Estraendone, con gran sorpresa di Marla, un rudimentale controller.
“Vediamo subito… ecco qua. Perdonami cara, sarò subito da te” mugugnò la vecchina.
Ma Marla non l’ascoltava.
Poteva solo guardare, orripilata, mentre uno dei monitor si accendeva crepitando e, tra scariche statiche e fruscii, restituiva l’immagine in bianco e nero, di spalle, della Stalker.
La vecchia abbassò il pollice artritico sulla levetta direzionale del controller, e la Stalker, come assecondando quel movimento, iniziò a fluttuare in avanti. Lo scenario riprodotto sullo schermo appariva quasi privo di punti di riferimento, salvo alcuni abeti, qualche roccia sparsa, il nastro argentato di un fiume… era un bambino, quello che correva strillando in mezzo alle betulle?
Marla distolse lo sguardo. Fortunatamente la trasmissione era priva di audio.
Raccapriccio, indignazione, ilarità si mescolavano sul suo viso.
“Ma… che…”
“Cazzo, lo puoi ben dire. Col tempo ci si abitua,” replicò la signora “fidati, io ne so qualcosa.”
Marla incespicava, non trovava le parole.
“Dunque è così… è così che voi… che tu…”
“Catturo le anime del limbo? Già” disse la donnetta.
Si schiarì la gola con fare da maestra.
“Chiariamo bene una cosa: un metodo fisso non esiste. Perlomeno, non uno che la mente umana possa afferrare ed elaborare nella sua interezza. Quello che vedete si riplasma alla bisogna in modo da accomodare le esigenze della vostra psiche. A proposito, signorina: sei un tantino cresciutella per apprezzare i giochini elettronici, non ti pare? Anche se ormai non fa differenza.”
Marla cercò di ritrovare il contegno.
“Perciò io e Tara avevamo ragione… il primo livello consiste in uno spazio condiviso, mentre l’aldilà è subordinato ai processi mentali. Oddio. Oddio, sono morta. Perché non sto dando di matto? A questo punto dovrei dare di matto.”
La nonnetta le accarezzò dolcemente una mano, mentre con l’altra continuava a pilotare la Stalker. Marla rabbrividì.
“Prima di tutto, non stai dando di matto perché ti abbiamo offuscato la memoria. Ѐ la prima cosa che facciamo quando uno spirito si connette alla rete. Avrai notato che non ti capita di essere triste o spaventata troppo a lungo.”
Marla annuì. Era vero. Considerato che le mancava un’identità propriamente detta, avrebbe dovuto essere il contrario.
“Secondo,” proseguì la vecchina “tu non sei ancora morta. Ti abbiamo appena levato il secondo strato.”
Marla strabuzzò gli occhi. Deglutì.
“Il secondo strato? Come una cipolla?”
“Più o meno” assentì l’altra.
“La morte è un processo graduale. Strato dopo strato, vi spogliamo di tutte le sovrastrutture materiali sino a quando rimane solo la sostanza incorruttibile.
La signorina che ti ha dato la caccia, quella che hai affettuosamente soprannominato la Stalker, è uno strumento utile allo scopo.”
“E cioè? Farcela fare addosso?” rispose Marla.
Temette di aver esagerato con quella provocazione. Sto diventando come Tara, si disse. Chissà che ne è stato di lei?
La nonnetta ridacchiò.
“Serve a velocizzare le procedure di trapasso. Vi aiuta a fare i conti coi vostri attaccamenti terreni, favorisce una serena accettazione del dopo.”
Marla vide con la coda dell’occhio che la Stalker aveva agguantato il bambino. Lo teneva sollevato da terra. La signora premette un pulsante.
“Insomma, lei fa il lavoro sporco,” chiosò Marla “e tu invece sei…”
La nonnetta esplose in una gran risata.
“Oh no, cara! Non sono la Grande Mietitrice, né Dio, il Demonio o il Karma, che il cielo me ne scampi… svolgo solo il mio compito, come tutti.”
Marla ghignò con un accenno di isteria (ma solo un accenno, di più non era concesso).
“Vorresti dirmi che spii le tribolazioni dell’intera umanità da quei quattro monitor? Non è fisicamente possibile.”
“Tesoro,” replicò la vecchia “qui dentro c’è ben poco di fisico, e il tempo non esiste. Che fortuna, dico bene?”
La ragazza percepì una nota di sarcasmo nelle sue parole.
“Presumendo che centinaia di migliaia di persone finiscano qui ogni giorno, ciò significa che, anche se non riesco a vederle, in questo momento stai parlando anche con loro?” speculò.
“Ma che bimba perspicace!” chiocciò la nonnina.
“Come in un multiplayer asincrono” borbottò Marla, affascinata.
Scosse la testa, rimproverandosi per quelle trivialità.
“Ma se non sono ancora morta, dove mi trovo?”
La signora batté le mani.
“Proprio qui ti volevo! Diciamo che sei scesa di un gradino nella scala. E più si scende, si sa, più è difficile risalire.”
“Cioè?” l’incalzò lei.
“Bè, diciamo che qui ti viene concessa una scelta. Niente di che, a essere onesta: opzione A, prendi la porta a destra e ti getti nel Lago del Tutto.”
“Il Lago del Tutto?”
“Sì, sai, quella cosa di cui cianciano le religioni organizzate quando sostengono che c’è vita dopo la morte. Non posso assicurarti che ne rimarrai soddisfatta, ma effettivamente qualcosa c’è. Si tratta del capolinea. L’ultima destinazione, la fine, the end. Di te rimarrà solo la parte migliore, e con tutta probabilità quella parte saprà apprezzare ciò che le offriamo.”
“Quando ero nella foresta, ho conosciuto un uomo…” iniziò Marla.
“Luis è già stato processato” affermò la vecchina con schiettezza.
“Nel Lago?” domandò Marla.
“Lavorato, trattato, raffinato e smaltito” confermò l’altra.
“Aveva un’aria tutto fuorché serena, quando la Staker l’ha preso.”
La vecchia prese un biscotto e lo smangiucchiò con stizza.
“Bisogna sempre soffrire un po’, prima di vedere la luce. Altrimenti che luce sarebbe?”
Marla le afferrò il polso.
“E Tara? Sai dirmi dov’è Tara?”
La signora la scrutò. Emise un sospiro.
“Potrei anche farlo, ma preferirei non influenzare la tua decisione.”
“Dimmi dov’è e basta” supplicò la giovane.
“Lei ha…” principiò la signora “avuto una seconda occasione. Ma se sceglierà di sfruttarla o meno, non è in mio potere stabilirlo. A titolo personale, mi sembra poco probabile.”
Marla aveva un’espressione tanto risoluta che perfino la nonnina ne rimase colpita.
“E l’opzione B?”
La vecchia lasciò ricadere gli occhiali sul seno avvizzito e si massaggiò il setto nasale con aria stanca.
“Opzione B: imbocchi la porta a sinistra, verso il Grande Nulla. A quel punto, almeno per un po’, non sarai più di mia competenza.”
“Ho l’impressione che tu mi stia mettendo in guardia” notò Marla.
“Oh, non sarà affatto piacevole. E potrebbero capitarti cose molto brutte. Cose fuori dal mio controllo.”
“Cose ancora più brutte di quelle che ho affrontato?”
“Dovrai fare i conti con la persona che eri: non c’è trauma peggiore per un’anima in trapasso. Immagina di calarti negli abissi oceanici e poi, bruscamente, invertire la rotta risalendo a rotta di collo. Anche se riuscissi nell’impresa e sfruttassi quel canale per tornare all’ospedale…”
“Il Grande Nulla mi riporterà da Tara?” esclamò Marla.
“E come faccio a riavere il secondo strato? Non dirmi che è come riattaccare un frenulo,” proseguì, implacabile “tecnicamente si può, ma pochi ne sentono la mancanza.”
Se ci riuscissi,” ricominciò la vecchina, severa “vorrà dire che ti sarai lasciata alle spalle le Creature dell’Altra Parte; che sarai sopravvissuta a un incontro con le Creature dell’Altra Parte. Un’eventualità piuttosto inverosimile, dico io.”
Marla strinse le labbra.
“Non sembrano bestioline amichevoli.”
La nonnetta snudò i denti storti in una parodia di sorriso.
“Sono gli spazzini dell’oltremondo, le spatole con cui si scrostano i cirripedi più ostinati. Una volta che ti prendono, ti divorano. E di te non rimane niente.”
Marla arricciò il naso.
“Sì, certo, come no. Finirò in un buco doppiamente profondo e una nonnetta doppiamente decrepita mi racconterà storie doppiamente spaventose per dissuadermi dal tentare la fortuna. Di nuovo.”
“No, cara, hai capito male” disse la signora.
“Sparirai davvero. Diventerai puro vuoto. Sarà come se non fossi mai esistita, il tuo nome verrà cancellato per sempre dal registro dell’apocatastasi.”
Marla smise di sorridere. Non suonava bene. Non suonava affatto bene.
“Questa, ad ogni modo, è la buona notizia” precisò la vecchina.
“La cattiva notizia è che se la tua anima risulta troppo coriacea da dilaniare, troppo tenace persino per le loro zanne, ad attenderti ci sarà un destino infinitamente peggiore.”
“Un destino peggiore?” sbottò Marla.
“Cosa può esserci di peggio che smettere di esistere?”
“Oh, non ti aspetterai che mi sbottoni fino all’ultimissima asola!” sghignazzò la signora mandando giù una sorsata di whisky.
“In fin dei conti, sono già stata abbastanza disponibile con te, non credi? Tieni” aggiunse porgendole un foglio.
“Mentre ci rifletti, saresti così gentile da compilare un piccolo questionario di gradimento? Uno significa per niente soddisfatta, mentre cinque corrisponde a immensamente soddisfatta! Ora, non ho certo la pretesa di essere la migliore nel mio campo, ma ti chiedo di considerare la variabile umana…”
Che cosa direbbe Tara? Che cosa farebbe Tara? si domandò febbrilmente Marla mentre l’altra blaterava di incentivi al personale e comunicazione orizzontale.
“Mi prendi per il culo, vecchia troia!?”
Le era uscito di getto e se ne pentì subito.
La nonnina non si scompose, limitandosi a mettere via il questionario.
“Mi chiedo perché reagiscano tutti allo stesso modo,” borbottò tra sé e sé “forse, se apparissi nella forma di un capro alato con una corona fiammeggiante…”
Marla iniziò, esitante: “Mi scusi… è l'uscita alla mia sinistra o l'uscita che si trova a sinistra fronteggiando la portineria?”
“L'uscita a sinistra,” brontolò l’altra con una mano sulla fronte “non importa quale. Se vuoi suicidarti per la terza volta, sarà la porta a trovare te. Stanne pur certa.”
Marla finse di non aver udito l’ultima parte.
 
Poi imboccò la porta a sinistra, librandosi nell’abbraccio del buio come un piccolo aquilone.
“Aspettami, Tara. Sto arrivando.”

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Capitolo 7
*** Rimembranze ***


Alla porta mancava il campanello e, malgrado il profilo moderno, l’edificio ricordava in modo sibillino una casetta di marzapane.
Le imposte spalancate lasciavano intravedere interni del tutto ordinari, arredati con gusto e contraddistinti da una singolare normalità.
Marla bussò con circospezione, quasi sperasse che nessuno venisse ad aprirle.
Aspettò per quelli che le sembrarono due minuti. Bussò ancora, stavolta con maggior fermezza.
Con un movimento brusco che la fece sobbalzare, l’uscio si scostò di cinque centimetri. Un’iride verde smeraldo incorniciata da una gran massa di capelli crespi la esaminò attraverso lo spiraglio, curiosa prima che circospetta.
La porta si aprì completamente.
“Che mi venga un colpo. Sei reale?”
La donna alta e allampanata che stava sulla soglia aveva un aspetto sbarazzino, etereo, appena velato da un’ombra di segreta melanconia.
“Credo di sì. Marla.”
L’altra si accigliò. Poi il suo sguardo acquistò calore.
“Oh, è un nome proprio di persona? Molto bene. Tara.”
Marla arrischiò un sorrisetto.
“Oh, è un nome proprio di persona? In questo caso, piacere di conoscerti.”
Notò che la padrona di casa sembrava studiarla con rinnovato interesse.
“Che c’è?” chiese.
“Niente,” mormorò Tara “è solo che ho l’impressione di averti già vista da qualche parte… forse su un giornale. Per caso sei famosa? Che so, un’attrice?”
“Io non… ricordo” rispose Marla, abbattuta.
Tara inclinò la testa.
“Giusto. Come me.”
“La ragione per cui non ricordo… potrebbe avere a che fare con un incidente” speculò Marla in tono incerto.
“Un incidente d’auto?” suggerì Tara.
Poi si corresse: “No, troppo facile.”
Marla aveva un’aria sconsolata. Tara si scostò di lato.
“Su, vieni dentro.”
La ragazza farfugliò uno stentato “compermesso” e si fece avanti.
L’ingresso emanava un’aura quasi letargica, con i suoi colori spenti, le suppellettili funzionali ma disadorne, i rivestimenti in faggio che suggerivano un’eleganza spossata, superficiale. L’ambiente si caratterizzava per la totale mancanza di effetti personali.
“Dunque, prendiamo il toro per le corna” disse Tara.
“Il toro?”
“O l’elefante per la proboscide, se preferisci.”
Marla corrugò la fronte.
“Non siamo ancora morte, giusto?”
“No, non direi” confermò Tara con un grugnito.
“Io ci ho provato,” aggiunse “ma qualcosa dev’essere andato storto. Non che me ne rammenti, intendiamoci. C’è solo questa sensazione… di incompiutezza. Come se avessi commesso uno sbaglio. Non sono neanche riuscita a suicidarmi per bene! Da viva dovevo essere una fottuta incapace.”
Marla esitò. Preferiva evitare di offenderla.
Infine disse: “Ti prego, non usare quell’espressione.”
“Quale?” chiese Tara.
Da viva. C’è ancora tempo.”
Tara si strinse nelle spalle come a voler cambiare argomento.
“Se desideri tornare là fuori, accomodati. Io non posso uscire da dove sei entrata tu.”
“Perché no?”
“Che vuoi che ne sappia? Non posso fisicamente uscire dalla porta, e tanto basta. Magari c’entrano le cretinate metafisiche dei mesmeristi, hai presente? La disposizione con cui ho perso coscienza e la mia risoluzione a non tornare indietro.”
“Oh” commentò flebilmente Marla.
“Potrebbe esserci un’altra uscita,” asserì Tara con noncuranza “ma che dio mi fulmini se proverò a servirmene.”
Vi fu una pausa.
“Sai, sei il primo essere umano che incontro da quando sono finita qua dentro” dichiarò distrattamente.
Marla spalancò la bocca.
“Stai dicendo che non parli con anima viva da…”
“…un bel po’, sì. Anima viva? Sei spiritosa.”
“Ѐ pazzesco” osservò Marla.
“Che nessun altro sia arrivato fin qui? Mica tanto.”
“Che tu non abbia sbroccato.”
Tara assunse un’espressione da buffona.
“Chi dice che non l’ho fatto? Potrei aver sbroccato di brutto. Potrei essere una ninfomane necrofila, per quel che ne sai. Da queste parti la morte ignora i principi tradizionali di causa ed effetto, ma sorvoliamo sui dettagli.”
Marla ridacchiò. Lo sguardo di Tara era talmente sornione che risultava impossibile prenderla sul serio.
“La mia teoria è che nel coma – chiamiamolo così per semplificare – vigono le regole del sogno lucido,” riprese Tara, di nuovo pensierosa “un’esperienza davvero esilarante, ammesso che io l’abbia mai sperimentata. Preoccupazioni? Nada. Affanni? Nisba. Ogni cosa ammonta a nient’altro che un’ombra fugace del suo corrispettivo tangibile.”
Marla iniziava a rivalutare la sua ospite: non era solo spassosa. Sapeva anche fare dei ragionamenti complessi.
“Oh, e qui dentro godo di un plus concepito esclusivamente per me” precisò Tara.
“Non avverto mai la stanchezza. Aspetta, riformulo: visto che sono una specie di coscienza travestita da essere umano, non vado incontro a… qual è il termine? Deterioramento psichico? Abrasione spirituale? Che schifo di definizione. Insomma, rimango integra. Oppure sono solo balle e la mia condizione è legata al fatto che resto spaparanzata sul divano tutto il giorno. Tutto il… sempre.
Tu, piuttosto. Come hai fatto a trovarmi?”
Al sentirsi rivolgere quella domanda, Marla ebbe uno strano presentimento.
Come se il quesito contenesse la risposta fondamentale al mistero della propria identità smarrita. Come se potesse sbrogliare la natura stessa dell’io suo e di Tara: una scia di briciole che le connetteva a un livello profondo.
“C’era una colonna di fumo,” esordì “ma a un certo punto l’ho persa di vista. Così ho seguito un torrente. L’ho fatto d’istinto, sperando che mi portasse fuori dalla foresta.”
Tara ascoltava, intenta.
“Mi ha ricondotta al punto da cui proveniva il fumo. Da lì, ho continuato ad avanzare... e sono arrivata da te.”
L’altra si morse le labbra.
“Tesoro, ho una buona e una cattiva notizia: la cattiva è che questa bicocca non ha un camino, quindi o sei finita nella casa sbagliata o hai le traveggole; riguardo i torrenti, non ne ho visti quando sono capitata qui – ma è anche vero che mi hanno squalificata subito dal gioco della piccola esploratrice, quindi la mia testimonianza vale quanto una caccola di formica. La buona notizia è che hai trovato compagnia! Una compagnia possibilmente più pazza di te. Certo, potrei pure sbagliarmi… per ora mi astengo dall’emettere giudizi.”
Marla sorrideva apertamente.
Quella buffa, tragica ragazza le ispirava una simpatia epidermica cui non riusciva a dare una precisa collocazione. Forse era per tale motivo che la trovava tanto piacevole.
Nella sua mente stava prendendo forma un piano. Anzi, un’idea.
In realtà era più un impulso, un afflato irrazionale che necessitava di struttura. E di due persone.
Curiosamente, non era la smania di salvarsi a muoverla: voleva innanzitutto aiutare Tara. Anche se fosse giunta a farsi odiare.
La nuova amica le diede un buffetto sul braccio, strappandola alle sue riflessioni.
“Andiamo in soggiorno, sono stufa di parlare in piedi. Non ho niente da mangiare, ma ho del caffè.”
“Fantastico” esultò Marla.
 
La nebbia che cingeva quel ricordo iniziò a diradarsi, divenne solida e granulosa.
Si accese delle sfumature dorate del sole, sfavillando come un’artemisia intessuta di stelle.
Sabbia?
Sì, era sabbia quella che ricopriva le sue mani. Le sue mani, e le sue braccia, e… ma dov’erano le sue gambe?
Ah, eccole lì. Per un attimo aveva avvertito la spiacevole sensazione di essersi spezzata in tante parti, vittima di un bimbo crudele che l’aveva smontata, disseminandone i brandelli alla rinfusa. E invece era solo distesa a pancia in giù nella sabbia.
Vi era parzialmente immersa, in effetti.
Marla socchiuse le palpebre per esaminare l’orizzonte nel sole accecante.
Il caldo era atroce, eppure lo percepiva come un disagio a malapena suggerito, senza subirlo realmente. Se avesse preso fuoco, non avrebbe battuto ciglio.
Si alzò in piedi.
“Dunque è questo il Grande Nulla? Un luogo in cui ricordi le esperienze della tua vita passata?”
Sapeva che la vecchia signora udiva ogni sua parola, e questo le dava la libertà di parlare da sola senza sentirsi stupida.
“Finora ho ricordato solo un episodio della mia permanenza in coma, e non è stato neanche troppo spiacevole. Se questo è il peggio che mi può capitare, sono più che disposta a sopportare le freddure di Tara.”
Detto questo, avanzò nella direzione in cui guardava al risveglio.
Ma si bloccò quasi all’istante. Un’intuizione improvvisa l’aveva folgorata, e reputò poco prudente esprimerla ad alta voce.
La nonnina non si era presa Tara. Le aveva negato ciò che desiderava di più, per usare le parole dell’amica. Perché l’aveva fatto? C’entrava seriamente con l’accettazione della morte? Era davvero per il suo bene o c’era sotto qualcos’altro? Una punizione, forse?
Marla riprese a camminare.
 
La sicurezza con cui si era espressa poc’anzi non rispecchiava affatto il suo stato interiore, ma darsi coraggio era il solo modo per superare indenne quella prova.
Darsi coraggio era ciò che aveva sempre fatto.
Era l’unica cosa che sapeva fare.

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Capitolo 8
*** La Spiaggia ***


Com’era dolce il profumo del vento in quella distesa di niente.
Odorava di spezie, barbabietole da zucchero e pini marittimi.
In lontananza, distingueva le sagome tremolanti di grattacieli grigi dai profili gotici. Miraggi, probabilmente. Cosa li avrebbero costruiti a fare, dei palazzi in mezzo al deserto?
O forse le regole del Grande Nulla erano diverse, tanto per cambiare.
Marla non versava una goccia di sudore – il che, va detto, le risultava ancor più penoso dato che acuiva la sua percezione del calore.
L’unico dettaglio che stonava persino in rapporto a quelle bizzarrie era un suono basso e costante, inintelligibile, che riecheggiava in un'estenuante ripetizione senza mai trovare sfogo. Ricordava un pianto. Non saliva né scendeva di frequenza, e la snervava profondamente.
Era facile smarrire i punti di riferimento, persi tra le curve sinuose delle basse dune; era naturale, quasi allettante, dimenticare il poco che sapeva.
Fu mentre tentava di rievocare le ragioni del suo peregrinare che scorse un puntino scuro ai confini del proprio campo visivo, nella direzione opposta a dove sorgevano i “palazzi”.
Era inscritto in una lunga linea azzurra, come un segno di punteggiatura apposto su un quaderno.
Un piccolo cottage in riva al mare.
Allora non è un deserto si disse Marla. Ѐ una spiaggia.
 
Approssimandosi alla meta in preda a una curiosa ebbrezza, le raffiche di calura che si frangevano su di lei deformando lo spazio e il senso della distanza, la sua scarpa s’imbatté in una curiosa reliquia: un dischetto scintillante che ammiccava nella sabbia, oro su oro. Lo raccolse.
V’era inciso un nuotatore nell’atto di compiere un’ampia bracciata.
Una medaglia?
Ce n’erano altre, moltissime altre, abbandonate tra le dune a comporre una costellazione invisibile. Non era rimasta quasi più sabbia.
Senza quasi accorgersene, s’era ritrovata a incespicare in un oceano di medaglie che tintinnavano al suo passaggio – come volessero richiamare la sua attenzione; imporle la loro presenza.
E di concerto, crebbe anche il suono penetrante che l’aveva frastornata all’arrivo.
Le vide, e loro videro lei.
Emersero con discrezione, minuscole e intangibili.
Crebbero piano, flemmatiche ma implacabili. Ricordavano animali stilizzati, sculture di carta i cui angoli potevano infliggere tagli profondi. Lepri zannute, faine anfibie, glabri cerbiatti; piccoli origami d’incubo.
Germinarono in fisionomie impossibili, accarezzando geometrie che racchiudevano cosmi dimenticati. Come parassiti monumentali, avevano più elementi in comune con gli angeli descritti nell’Antico Testamento che con qualsiasi altra forma di vita presente sulla Terra.
 
Marla corse, preda di un terrore disperato, le Creature dell’Altra Parte lanciate in una stanca, grottesca parata subito dietro di lei. Più che tampinarla, parevano essere al suo seguito: una processione funebre al contrario.
Si ritrovò lungo la linea della costa, il cottage subito davanti a lei. Non aveva senso, ma ciò era del tutto irrilevante. Superò una triglia che boccheggiava sul bagnasciuga.
C’erano altre luci oltre allo sfavillio del sole. Luci lampeggianti, feroci, crudeli. L’accecavano, la pungevano con vorace invadenza. Rumori metallici, inquirenti sconosciuti.
Marla, quando riprenderai a gareggiare?
Marla, pensi che l’infortunio comprometterà il tuo ingresso alle Olimpiadi?
Marla, ritieni di aver scelto un regime di allenamento troppo severo?
Marla, cosa provi in questo momento?
Cosa provava?
Le doleva il piede. Le doleva terribilmente il piede.
Tutte le volte che appoggiava il tallone a terra, i tendini gridavano pietà. Riusciva a malapena a zoppicare, figuriamoci correre; e in acqua le cose non miglioravano affatto.
Prendiamoci una vacanza! Camminare sulla sabbia fa miracoli per le articolazioni. Vedrai che riprenderai la forma in men che non si dica.
Le era suonata come una minaccia. Quella voce così odiosa, così appassionata, non poneva mai domande: si limitava a decretare.
Voleva prendersi una pausa da tutto, in particolar modo dall’acqua, e dove la portava lui? Al mare, naturalmente. In un fottuto cottage con vista mare.
Che aveva detto la mamma? Niente. Cos’avrebbe dovuto dire, dopo vent’anni di mutismo? Da lei non si aspettava nulla.
Avresti dovuto stare più attenta, ti sei giocata un’occasione importante.
Di nuovo la voce imperiosa.
Sei stato tu ad allenarmi! Mi sono ammazzata di fatica per rispettare il tuo programma del cazzo e guarda com'è andata a finire! La colpa è soltanto tua.
La sua voce? Era lei ad aver pronunciato quelle parole?
Ti ho messa sotto torchio perché sono tuo padre. Ѐ naturale che un padre tenti di aiutare i figli a raggiungere i loro obiettivi.
L’aveva detto in tono di scusa? Percepiva un tentativo di giustificarsi, nella sua goffa replica?
Sono i tuoi obiettivi, non i miei! Non te ne frega niente se crepo nel mezzo di una gara, basta che il mio corpo tocchi la linea del traguardo!
Uno schiaffo. Sentiva ancora il peso di quella mano pulsarle contro la guancia.
Si precipitò nella tozza casetta dall’uscio accostato e serrò subito la porta dietro di sé, bloccandola col peso del corpo.
Silenzio. Penombra strisciante e una quiete tombale.
Non si udiva volare una mosca. Anche il cupo canto delle Creature era cessato.
Un bussare discreto la fece sobbalzare.
“Marla?”
La giovane ebbe un sussulto.
“Marla, sono io. Puoi aprirmi?”
“T... Ta… Tara?”
“E chi se no? Fammi un favore e lasciami entrare. Qui fuori non mi piace per niente.”
Marla sospirò e si staccò dalla porta. Ma non si sentiva del tutto sollevata. Esitava.
“E dai Marla, piantala di temporeggiare. In fin dei conti, io ti ho fatta entrare in casa mia!”
“Tu non sei Tara, vero?” disse la giovane.
“No.”
Marla si torse le mani.
“L’avevo sospettato. Farei meglio a lasciarvi dove siete, allora.”
“Hai ragione. Ma ti avverto, Marla: questo mucchietto di ricordi non ti proteggerà per sempre.”
La ragazza si allontanò camminando lentamente all’indietro, senza perdere di vista l’uscio. L’idea di sbirciare dallo spioncino l’aveva attraversata solo per un paio di secondi.
 
Il cottage consisteva di un salotto, un cucinino e due camere da letto.
Dopo aver gettato un’occhiata nervosa agli interni (mobilio antiquato, finiture rustiche, un’impressione rarefatta di shabby chic), Marla si accasciò sul sofà, esausta come non lo era mai stata in vita sua.
Chiuse gli occhi.
 
Ci facciamo una partita a Sky?
Non adesso, Lilia. Sono impegnata.
Con cosa di preciso? Sei ufficialmente in pausa dal nuoto! Non hai più scuse.
Te l’ho ripetuto mille volte, non mi piacciono i videogiochi. Preferisco la vita vera.
Ma Sky è diverso! Serve a connettere le persone.
Oh, e in che modo? Ti compri un’armatura spendendo i soldi di papà e ti unisci a una lega o… una gilda, o comunque si chiamino quei circoli per nerd?
Non proprio. Incontri altri giocatori e li accompagni nel viaggio.
Tutto qui?
Ovviamente no! C’è molto di più. Dovresti crearti un account, così posso mostrartelo.
Spiegami perché non posso prendere un controller e giocarlo con te sulla stessa tv. Mi pesa dover trafficare col telefono e, detto francamente, un multigiocatore che ti costringe a loggarti da postazioni separate è la cosa più stupida che si sia mai sentita.
Ѐ un multigiocatore online! Ascolta: il senso del gioco è vivere l’esperienza da tante prospettive diverse. In questo modo si accorciano le distanze e s’impara ad apprezzare la diversità.
Vedo che ti hanno indottrinata per bene con tutte quelle scemenze woke. Allora sentiamo, signorina: com’è che a scuola non hai ancora stretto amicizia con nessuno?
Gli altri credono che dovrei essere una tipa fica solo perché sono tua sorella. Bè, indovina un po’: non sono per niente una fica. Mi piacciono i giochi strani, odio lo sport e ho un poster di Greta Thunberg in camera.
A quanto ne so, queste cose vanno di moda. Dovresti essere popolarissima.
Forse mi è mancato un modello di riferimento. Papà è sempre impegnato col calendario degli allenamenti, mamma sta tutto il giorno dietro alla casa, e mia sorella – che, detto tra noi, sarebbe anche un soggetto a posto – preferisce tirare fuori la scusa della vita vera per non giocare con me.
Sei una canaglia. Oggi però non mi va. Domani ci provo, te lo prometto.
Sì, certo. Promesse da marinaio.
 
Lilia.
Come aveva potuto dimenticarla?
Riaprì gli occhi. Era distesa su un materassino, bardata in un costume blu a pezzo unico. Nell’aria aleggiava l’odore del cloro.
Il crepuscolo tingeva di sangue una vasta piscina coperta in stile brutalista. Doveva essere piena estate.
Si sollevò dalla brandina e raggiunse il bordo della gigantesca vasca: era vuota. Perfettamente sgombra.
L’incavo nella pavimentazione digradava verso il basso rivelando una pendenza vertiginosa, e poi spariva in una tenebrosa caverna, uno slargo quadrato che conteneva profondità insondabili.
Marla si calò dalla scaletta e, zoppicando sul piede malfermo, si fece strada nell’abisso.
A muoverla non erano l’altruismo o il coraggio, ma una sorta di malsana trepidazione, la fame per l’orrido dell’indolente a digiuno di emozioni: più ricordi recuperava, più ne bramava. Anche se dolorosi, erano frammenti di lei.
Scese e scese e scese, sinché il buio non avvolse ogni cosa.
Curiosamente, riusciva ancora a distinguere il proprio corpo, quasi che l’oscurità fosse un agglomerato indipendente.
Ad ogni passo, una reminiscenza rientrava strisciando nelle propaggini del suo cervello.
S’era intrufolata di nascosto poco dopo l’orario di chiusura, confidando che il guardiano non la scoprisse.
Per quanto papà cercasse con tutte le forze di farle odiare l’acqua, Marla era testarda. Lo era sempre stata. L’acqua era parte di lei, e non voleva rinunciarvi solo perché il vecchio l’aveva costretta a nuotare sino all’esaurimento.
Provava una tale rabbia; e non sapeva nemmeno contro chi o cosa, giacché non era nella sua natura scaricare sugli altri la responsabilità delle proprie decisioni. Nemmeno su papà.
Le sessioni d’apnea erano l’unica cosa che placava un po’ quella rabbia.
Marla si riscosse.
Di fronte a lei, personificato, aleggiava il fantasma che aveva dipinto con l’occhio della mente.
Sospesa nel vuoto, con i corti capelli biondo cenere che danzavano come sottilissimi serpenti, sostava la ragazza di quella sciagurata sera. Aveva la bocca semiaperta in una smorfia volgare, impudica, gli occhi spenti e inespressivi.
L’ultimo ricordo tornò.
Ma era più una sensazione.
Persa là sotto, beata, occhieggiava il riflesso del suo corpo sulla superficie dell’acqua. Le piaceva guardare il proprio riflesso sulla superficie dell’acqua. Poteva fingere che la Marla sopra di lei fosse un’altra persona.
E l’aveva colta un sentimento egoista.
Se non tornassi più su?
Si trattava di una domanda innocente, una domanda che poteva rimanere sospesa in eterno. Proprio come lei.
Un’ondata di piacere sadico l’aveva travolta, un orgasmo sordido e vergognoso.
Mentre inalava avidamente il liquido clorato della piscina, s’immaginava il volto dello sfruttatore, divorato dai sensi di colpa; e la maschera ottusa della donnetta pavida che le aveva fatto da madre, contorta in un pianto silenzioso; e rideva.
L’ultimo pensiero, però, fu colmo di rimpianto.
Non ho creato l’account per giocare con Lilia. E ora chi glielo spiega?
Non importa, sono sicura che riuscirà a terminarlo comunque. In fondo, se ho capito bene… lo scopo del gioco non è… arrivare alla fine…
 
Tremava, inginocchiata nel buio, la mente ricomposta e una cavità immensa nel cuore.
Non era stato un incidente.
La ridondante sceneggiata che aveva imbastito, il temperamento fittizio che si era fabbricata… quella “ragazza” non aveva niente a che vedere con lei.
Lei era gretta, meschina e vigliacca; molto più della madre.
Doveva passare altro tempo con Lilia, aiutarla a farsi delle amiche.
E invece aveva tentato il suicidio. Solo il risentimento le aveva concesso di ignorare la sua smisurata paura della morte.
Poi si era ritrovata lì e aveva giocato alla sorella solidale con Tara. Che pagliacciata.
C’è ancora tempo, le aveva detto. Come se ci credesse veramente.
Poco distante, udiva uno zampettìo viscido aumentare d’intensità. Un lamento basso e gnaulante le invase le orecchie.
Le Creature l’avevano quasi raggiunta.
Rimase immobile perché non le importava o perché era impietrita dal disgusto?
Marla non avrebbe saputo dirlo.
Gli abomini si avventarono su di lei.
 
 
 
“Ti sei rivelata una splendida anomalia, piccola cara. Te lo dice una che non pensava più di rimanere sorpresa dal destino.”
La vecchia signora parlava allo schermo, come d’abitudine, ma il suo era il tono affettato di chi si rivolge a una persona speciale.
Ingollò un sorso di whiskey.
“Tutti quegli sforzi per spezzare Tara, impiantarle il terrore del trapasso e condurla da me sulla scorta di un’effimera speranza – le ho persino reso la sua ex-futura casa, ma niente, non voleva ricordare! –, i miei patetici tentativi di riforgiarla… e poi arrivi tu, principessa, e ti offri alle Creature senza che io debba muovere un dito. O quasi.”
La decrepita pappagorgia gorgogliò in una risata sommessa.
Fece girare la ruota di un telefono a disco e accostò le labbra incartapecorite alla cornetta.
“Mistinguett? Sono io, tesoro. Ho una buona notizia per te: hai cantato la tua ultima canzone. Puoi andare.”
Dall’altro capo giunse un unico, intenso sospiro.

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Capitolo 9
*** Gli Specchi ***


Quando la Stalker aveva polverizzato Marla, Tara era trasecolata.
Assistere impotente mentre la tragedia si consumava, ecco a quanto ammontava il suo aiuto.
Marla, che desiderava soltanto vivere, aveva incontrato una prematura dipartita nel tentativo di condurla fuori da lì. Non era giusto.
Si sentiva talmente prostrata che non riusciva nemmeno a piangere.
Stava ancora fissando gli ultimi brandelli d’esistenza dell’amica disperdersi all’intorno come foglie nel vento, che la figura torreggiante si era girata di soppiatto con un sorriso compiaciuto, pregustando la caccia successiva.
In quel preciso istante, Tara aveva provato un impulso selvaggio.
La sua risoluzione iniziale non era cambiata: non voleva vivere e non voleva svegliarsi, aveva chiuso con quella roba. Però Marla lo bramava con tutto il cuore.
Non avrebbe infangato la memoria dell’amica, né gettato alle ortiche le sue ultime volontà.
In un empito di ribellione, s’era slanciata verso il letto e aveva abbrancato un lembo del lenzuolo. Tanto era bastato.
Non è esatto affermare che perse conoscenza: piuttosto, si può dire che acquisì coscienza.
Il suo corpo le parve divenire più pesante, e un profluvio di emozioni le sgorgò in petto: un torrente dal corso mutevole, ramificato e irrazionale.
Lo shock le fece smarrire sé stessa per qualche attimo.
Infine, si ritrovò.
 
Sedeva in uno stanzino dalle pareti verde acido, il polso ammanettato a un tavolinetto d’acciaio. Lo scomodo loculo era freddamente illuminato da lampade fluorescenti.
Di fronte a lei campeggiava un opaco specchio bidirezionale, identico a quelli usati negli interrogatori della polizia.
Provò a voltare il capo. Alle sue spalle ce n’era uno identico.
In verità, non era quella la cosa più strana: dal momento in cui era arrivata, aveva avuto la vaga impressione che un’entità estranea si fosse insinuata nel suo cranio, subito dietro agli occhi.
Non sapeva descrivere con esattezza cosa fosse, forse perché – nell’ottica della percezione che ne aveva – era l’entità a descrivere lei. Costantemente.
Non la definiva in senso stretto, questo no, ma era come se la interpretasse a beneficio di qualcun altro. Di chi, rimaneva un enigma fuori dalla sua portata.
Armeggiando un po’ con le manette, scoprì che il lucchetto era aperto.
Che bizzarra formalità, si disse.
Prima mi arrestano, poi mi lasciano libera.
Tara ignorava che i ceppi servivano ad ancorare la sua psiche all’Anticamera del Risveglio: si trattava di una precauzione temporanea volta a favorire il recupero della memoria prima dell’imminente ritorno al piano dell’immanente. Non sempre le manette funzionavano, e non sempre la procedura di recupero andava a buon fine, ma in fondo nessun sistema è infallibile al cento percento.
Tara si guardò intorno spaurita.
Ora sento le voci. Devo essere uscita di cervello. E cos’era quella faccenda sull’anticamera del risveglio?
Ma la presenza aveva già svelato sin troppo, giacché il suo ruolo consisteva principalmente nell’osservare e nel catalogare: il fatto che quel crocicchio custodisse il segreto dello sposalizio tra corpo e anima doveva rimanere, per l’appunto, un segreto.
“Ho preso nota” disse Tara ad alta voce. L’entità non replicò.
“Certo, come no.”
La donna si diresse al primo specchio.
Esaminatolo da vicino e stabilito che era una normalissima lastra di vetro oscurato-
Normalissima un paio di palle, questa roba è inquietante da morire.”
Stabilito che, malgrado le apparenze innocue, la lastra di vetro l’impauriva, si decise comunque – e non senza una massiccia dose di ritrosia – a posarvi sopra una mano.
Fu allora che accadde.
Spandendosi a macchia d’olio come argento vivo ch’eruttasse dalla terra, un’emorragia di colore tracimò nel punto in cui Tara aveva toccato la superficie, rivelando una camera d’ospedale.
La donna rimase momentaneamente muta.
“Curioso” sussurrò.
La scenetta che s’era trovata davanti – così rigorosa nella disposizione degli attanti, i cui corpi languivano adagiati in pose plastiche degne dei preraffaeliti – aveva alcune caratteristiche familiari: una su tutte, il vaso di azalee fresche sul comodino; e anche il biglietto a forma di cuore e il motivo a pois della poltroncina.
Il resto, però, appariva del tutto alieno.
La donna dai corti capelli grigi rannicchiata nell’angolo, per dirne una, non le dava affatto l’impressione d’essere sua madre.
E il tipo sul letto cosa c’entrava con lei?
S’intuiva che doveva essere stato un bel ragazzo. Le mani delicate dalle lunghe dita, sapientemente decorate con tatuaggi tribali, suggerivano un temperamento sensibile, e il volto, nonostante i tratti spigolosi, emanava una singolare purezza.
Peccato che gran parte del suo corpo fosse straziata da orribili ustioni, alcune delle quali decisamente gravi.
La maggioranza della testa era stata risparmiata, come testimoniava il sottile strato di capelli che vi cresceva, e le altre lesioni stavano sicuramente guarendo. Certe cicatrici, tuttavia, sarebbero rimaste in via permanente, a meno che non si optasse per un intervento di chirurgia ricostruttiva.
Non osava neanche immaginare cosa si celasse sotto il camice. Quando si fosse svegliato, l’uomo avrebbe avuto una brutta sorpresa; se si fosse svegliato.
“Poveretto,” mormorò Tara “non penso che potrei sopportare un peso del genere.”
E poi si esaminò le mani.
Le mani delicate dalle lunghe dita, sapientemente decorate con tatuaggi tribali.
 
Il panico montò un poco per volta, schiumando alla stregua di un cane rabbioso, e il ringhio incombente si trasformò nel ruggito di una mareggiata, lo spettro della ragione ridotto al silenzio; la prosciugò d’ogni autocontrollo, le fece desiderare di essere già morta.
Registrò distrattamente la caduta, il brusco abbraccio del pavimento, le sue mani… dio, quelle mani oscene su cui aveva perso ogni autorità, che non poteva-che non osava adoperare per compiere una penosa verifica di sé.
Sentiva una frattura che non aveva né inizio né fine, una crepa equiparabile a una voragine irradiarsi dal proprio centro di gravità.
Il buio soppiantò la luce, il passato si sostituì al presente.
 
Aveva tentato più volte di trovare il suo posto nel mondo, ma il mondo non la smetteva di girare – e ad ogni giro seguiva un cambiamento.
Addetta all’imbottigliamento per un’azienda vinicola.
Il prodotto si difendeva egregiamente, ma l’etichetta aveva un design a dir poco amatoriale. L’azienda era fallita.
E fu sera e fu mattina.
Commessa in un negozio di dischi.
Apparentemente, nessuno comprava più i compact disc. Il negozio s’era visto costretto a capitolare.
E fu sera e fu mattina.
Cameriera in un ristorante.
Licenziata per aver preteso di essere messa in regola. Magari quei bastardi avessero chiuso i battenti.
E fu sera eccetera eccetera.
Così, le era venuta un’idea stravagante: “e se aprissi un’attività per conto mio?”
I pronostici non la davano vincente, inetta negli affari e timida com’era, ma i suoi l’avevano sempre supportata e conosceva un paio di persone che versavano nella sua stessa situazione, persone povere di fondi ma ricche di risorse; aspettavano solo un forziere in cui allocarle.
Fu così che aprì la sua bottega di tatuaggi. E fu così che conobbe Marzia.
Un giorno si presentò da lei e le chiese di tatuarle un uroboro sulla spalla.
Nello spazio di pochi minuti, lei e Tara s’erano lanciate in una fitta discussione sul simbolismo alchemico e la mistica neoplatonica, perché sì, era vero che Tara faticava a comunicare col prossimo, ma tutto ciò che riguardava metafisica e teosofia le scioglieva la lingua più di una bottiglia di bourbon – che comunque consumava in gran quantità.
Il loro scambio fu talmente intenso che ad un certo punto temette di aver combinato un disastro, eppure la sua mano rimase salda e Marzia ne fu soddisfatta.
Dopo, uscirono a fumarsi una sigaretta. Marzia in realtà non fumava, ma ogni scusa era buona per protrarre l’incontro.
Si frequentarono a lungo, sempre fingendo che il loro rapporto fosse nato da una voglia passeggera, una fluttuazione occasionale; Tara imparò molte cose da lei, che non guardava in faccia a nessuno e si esprimeva come uno scaricatore di porto.
Per certi versi, erano una l’antitesi dell’altra: Tara, artista dissoluta, bevitrice e fumatrice accanita, che si scioglieva in lacrime di fronte a una commedia romantica; e Marzia, architetto dalla reputazione inappuntabile, ma selvaggia, sagace e sboccata fuori dallo studio.
Sinché non poterono più fingere, e decisero di pianificare il grande passo.
Che cos’era quella sensazione disgustosa? Gioia?
Sì, Tara era felice. Felice e un po’ spaventata, perché la gioia è l’antitesi della disperazione, e la parola “pace” deriva da “patto” – un accordo provvisorio di non belligeranza che intercorre tra una guerra e l’altra.
La felicità è un concetto così gravido di presagi.
Divenne incauta, decise che non le bastava.
Perciò diede voce al tormento che l’assillava da tutta la vita; osò avanzare una richiesta che mai si sarebbe sognata di esternare, lei, quasi sempre passiva e accomodante, lei, modesta e di poche pretese.
Era il momento propizio per farlo.
La madre non reagì con il calore che si sarebbe attesa, ma presto capì che il suo cruccio non derivava da egoistici preconcetti, quanto piuttosto da una legittima apprensione.
“Ci hai pensato a fondo?” aveva chiesto.
“Sei sicuro di volerlo fare?”
L'aggettivo maschile non lasciava spazio ai malintesi.
“Ci penso da quand’ero bambino” era stata la sua risposta.
“Come ti devo chiamare?” gli aveva domandato.
Col padre, che pure gli voleva bene, aveva avuto qualche difficoltà in più.
“Sei sempre stata molto influenzabile” aveva esordito un giorno.
“Io capisco che la prospettiva di cambiare, di diventare qualcun altro, suoni molto… avventurosa, per così dire. Ma non si tratta solo di te. O meglio, è proprio di te che si tratta.”
Lui lo ascoltava senza batter ciglio.
“Le compagnie che frequenti, il modello di società che vi passate l’un l’altro (aveva davvero tracciato un parallelo tra la società e le malattie veneree? Oh sì, l’aveva fatto), vi condiziona a un livello profondo. Anche se ora non te ne rendi conto, tu vuoi cambiare perché te l’ha imposto la società.”
Mentre il genitore lo fissava intentamente, forse nel tentativo di capire se le sue parole avevano spezzato il “maleficio”, lui aveva emesso un lungo sospiro.
Raccolta la forza di sorridere, s’era limitato a rispondere: “Papà, sai che cerco sempre di accontentare tutti. Ma non significa che io sia stupido. Secondo te mi voglio sottoporre a questo calvario per esaudire i desideri di qualcun altro?”
Il discorso era caduto lì.
 
Marzia s’era dimostrata singolarmente parca di opinioni.
“Se lo vuoi fare, fallo. Il corpo è tuo.”
Avrebbe dovuto aspettarselo, da una mentalità così aperta. Non aveva manifestato il minimo dubbio, nessuna contrarietà: tipico del suo carattere. Dopotutto, tacere è acconsentire, giusto?
Definendo la transizione un “calvario”, aveva dato prova per l’ennesima volta di grande ingenuità: non fu un semplice calvario, fu uno stillicidio di sofferenze tra le più eterogenee.
Le sedute dallo psichiatra, la terapia a base di testosterone, la mastectomia, l’isterectomia. Affrontò quel percorso in una sorta di trasognata indolenza, ripetendosi che era ciò che desiderava, ciò che meritava.
Al risveglio dal primo intervento dei due previsti, fu come se si fosse ridestato da un vecchio incubo a cui ormai aveva fatto l’abitudine. Ma non doveva conviverci per sempre, e certi cambiamenti andavano compiuti; in quel momento lo seppe con certezza.
Nel frattempo, la futura moglie aveva provveduto a progettare una bellissima casetta in cui apparecchiare il loro nido d’amore.
Teneva molto a che la planimetria fosse tradotta in un reale spazio abitabile, e gliel’aveva fatto presente più volte, posticipando ancora e ancora la data del matrimonio.
Come Penelope che tesseva e disfaceva la tela, aveva riflettuto lui in seguito… con l’unica differenza che, trascorso l’intervallo stabilito, l’abitazione era stata ultimata.
Quando lo portò a visitarla, venne sopraffatto dall’emozione. La bottega che aveva fondato stava per trasferirsi in uno spazio più grande, e il matrimonio si sarebbe svolto di lì a un mese.
L’esterno appariva austero e insieme sbarazzino, mentre gli interni puntavano tutto sull’essenzialità, con pavimenti in faggio e suppellettili funzionali ma disadorne.
“Meglio così,” si disse “una volta riempita sarà davvero completa. Proprio come me.”
Ed era stato allora che Marzia aveva inferto la pugnalata.
“Non posso farlo.”
Non poteva fare cosa? Di che parlava?
“Di noi. Di me e di te. Non funziona. Mi dispiace tanto.”
Si riferiva al matrimonio? Sarebbe bastato annullarlo, non c’era fretta.
“No, mi riferisco alla nostra relazione. Ѐ finita.”
Era una questione di sesso? Era perché non avrebbero più fatto sesso come una volta?
“No, certo che no. Va bene, forse è anche per quello, ma…”
Ma?
“Non ti riconosco più! Io non ti riconosco, Tara (la violenza con cui la ferì quel nome fu peggio di qualunque percossa). Quando ti guardo in faccia vedo un’altra persona, non la donna di cui mi sono innamorata.”
E allora perché non aveva detto niente? Perché aveva aspettato di costruire una casa per tirare fuori quella storia?
“Non ne avevo idea, ok? Come potevo saperlo? L’ultima cosa che volevo era frenarti… cazzo, ero felice per te. Stavi prendendo in mano la tua vita, eri padrona di te stessa. E dopo l’operazione mi sono detta che stavo solo attraversando una fase, che mi sarebbe passata durante il trasloco. Ma non ce la faccio.”
Era scoppiata in lacrime. Vederla piangere era più di quanto potesse tollerare.
In fondo, chi stava soffrendo davvero, tra loro due?
Ancora una volta, era stato licenziato. Licenziato dal lavoro, licenziato dall’amore; licenziato dalla vita.
Quella notte si stese sul divano della sua nuova casa e bevve. Non aveva detto niente a mamma e papà.
Mentre ingollava uno dopo l’altro gli antidolorifici prescritti dal medico, scoprì che il sentimento prevalente in lui non era disperazione o rabbia, ma una frenetica smania di rimettere a posto le cose.
Forse, se ne avessero parlato meglio… forse potevano dare una svolta alla loro relazione, farla diventare un rapporto aperto… magari così sarebbero riusciti a ristabilire l’equilibrio… oppure avrebbe dovuto proporle una pausa? Una pausa sottintendeva che prima o poi avrebbero ripreso a frequentarsi… ma cosa voleva dire frequentarsi? Rimanere amici? La tensione dell’attesa, lo strazio di non sapere… che cosa tremenda.
Di tornare indietro non se ne parlava.
“Mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa” aveva decretato un noto condottiero. Non poteva essere più d’accordo. Era quello che era, e non sarebbe cambiato.
E perciò prese sonno circonfuso di questi e altri pensieri, ponderando per ultima – e assai svogliatamente – l’ipotesi del suicidio.
Togliersi la vita ora che ne aveva finalmente conquistata una? Sarebbe stato ironico. Come buona parte della sua esistenza, del resto.
Per quanto non rimpiangesse il cammino che aveva scelto, si scoprì a detestare non tanto la propria condizione individuale, ma la condizione umana nella sua accezione più vasta: perché alle persone toccava di ricevere in dote un corpo fisico?
La tragedia dell’uomo, la maledizione che lo perseguitava sin dalla notte dei tempi, s’incarnava nientepopodimeno che… nella carne. Quanto sarebbe stato bello volar fuori da quella galera e interrompere per un solo istante le miserie del mondo terreno.
 
Non fu l’alcol a tradirlo, e nemmeno gli antidolorifici (ne aveva presi due in più rispetto alla dose indicata), e neppure la sigaretta accesa che stringeva tra le dita quando si era addormentato sotto la leggera coperta di plaid; ma la combinazione di tutt’e tre le cose.
Rammentava l’acre odore di bruciato, il miasma soffocante invadergli i polmoni, e quel rossore appena velato che pulsava debolmente dietro le palpebre.
Aveva provato ad aprire gli occhi, a riscuotersi, a sollevarsi sulle braccia, ma era stato inutile. Era ormai prigioniero di una fatale letargia.
Prima che potesse avvertire il fuoco consumargli la pelle, era già svenuto a causa del fumo.
 
Si riscosse in preda a spasmi incontrollati.
Per un attimo, gli era sembrato che il suo corpo bruciasse, come divorato da una fiamma. Guardò le proprie mani.
Si trovava nella sala degli interrogatori.
Provò a issarsi da terra e ad appoggiare il peso sulle ginocchia. L’operazione non gli richiese grossi sforzi.
Attentamente, con estrema delicatezza, lasciò scorrere le dita sotto la maglietta, accarezzandosi il petto glabro, saggiando la consistenza delle lunghe cicatrici, lì dove era stato il seno.
Poi toccò il retro del braccio sinistro, in corrispondenza del gomito, la fibrosa concavità da cui avevano estratto il tessuto per ricostruire ciò che gli mancava.
Si fregò la barba incolta.
“Capisco” disse a nessuno in particolare, con una voce un po’ più profonda di quella che ricordava. La parola riecheggiò nella stanza vuota.
“La parlantina sboccata non mi appartiene, l’ho rubata a un’altra persona. In realtà sono un coglione insicuro che tenta di nascondere le sue debolezze. Scioccante.”
Si alzò in piedi.
“E no, non volevo morire sul serio, ero solo stanco di prendere pedate nei denti. Non mi sembra che ci sia nulla di strano in questo, dico bene?”
La presenza non ribatté, ma l’uomo intuì che il messaggio doveva essere giunto a destinazione.
“Lo ammetto, potrei essermi odiato per la decisione che ho preso. Per una volta che scelgo di fare a modo mio, ecco che le cose se ne vanno in malora! Di nuovo.”
Fece una pausa e guardò affettuosamente la madre attraverso lo specchio. Poi gettò un’occhiata sarcastica al vaso di fiori e al buffo biglietto che ora portava il nome dell’ex-fidanzata.
“Marzia mi ha spezzato il cuore, ma proprio non riesco a incolparla. Va detto che ha sempre avuto un pessimo tempismo… le azalee si regalano alle donne incinte. Quella troia.”
Si girò e attraversò la stanza a grandi passi, diretto verso l’altro specchio.
“Ricapitolando: non mi esprimo come dovrei, ho una percezione totalmente sbagliata dei miei obiettivi e fino a qualche momento fa non sapevo nemmeno di avere l’uccello. Bè, sapete che vi dico? Mi sta bene. Non devo per forza essere uguale a ciò che ero ieri, o diverso da ciò che sono oggi, o… che cazzo ne so, coerente. Finché quell’immagine mi appartiene, posso essere chi voglio.”
Diede una vigorosa lucidata al secondo specchio, che si aprì sulla veduta leggermente sopraelevata di una foresta: La foresta.
L’anticamera della morte, lo spazio condiviso, il primo livello. Il secondo, se si teneva conto dell’ospedale.
“Hm” borbottò l’uomo.
“Sempre più curioso.”
Francamente, non capiva perché gli venisse concessa una scelta, considerata la pena che si era dato per giungere sin lì.
Quello che non poteva sapere era che Marla non aveva ancora incontrato la sua fine, e che – per quanto infinitesimale – esisteva ancora una possibilità di salvarla.
L’uomo sussultò, esterrefatto, quasi non credesse alle proprie orecchie. Il che era comprensibile, visto che l’improvvisa rivelazione sul destino dell’amica non gli era giunta nella forma di onde sonore, ma piuttosto come un abbagliante, disarmante diluvio cognitivo.
In fin dei conti, forse la misteriosa presenza era davvero intenzionata ad assisterlo.
Abbassò gli occhi e vide ciò di cui aveva bisogno, pronto ai suoi piedi.
Dopo aver raccolto il pesante martello da muratore, Taron lanciò un’ultima occhiata alla madre, a sé stesso disteso sul letto, alla vita che era in procinto di recuperare.
E poi vibrò una violenta mazzata al secondo specchio.
Gli abeti tracimarono nello stanzino, travolsero lui, e il tavolo, e l’immagine proiettata sulla prima lastra; il sapore della morte gli riempì la bocca, e ogni possibilità divenne di colpo aleatoria ed incerta.
 
Sgranocchiando un biscotto nella sua portineria, la vecchia mise giù il ricevitore.
Era così facile influenzare la gente nell’Anticamera del Risveglio.
Soprattutto gente dello stampo di Taron.
 
Questi si alzò ancora una volta, spazzolandosi gli aghi di pino dalla felpa, e non ebbe neanche il tempo di chiedersi dove potesse trovarsi la sua casa e se fosse ancora integra, che un alito brinoso gli attanagliò i calcagni e gli mozzò il respiro in gola.
Il cielo color cenere venne straziato da un bagliore azzurro simile a un’aurora monocromatica, e la Stalker fece capolino tra gli alberi.
Taron trasalì.
Era lo stesso personaggio atroce che ricordava, solo che – per qualche oscura ragione – risultava ancor più ammorbante.
Il suo volto gli rimescolava le viscere in un modo che non riusciva a spiegarsi.
Era scosso al punto che rimase incantato a scrutarla nel tentativo di decifrare l’acuto, intimo disagio che gl’incuteva.
La figura si fece sempre più vicina e, folgorato da un lampo di consapevolezza, Taron infine capì.
 
“Marla?”

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Capitolo 10
*** Acqua e Fuoco ***


Il morbido viso a cuore, gli splendidi occhi azzurri, i sottili capelli biondo cenere… non c’era dubbio, sotto le spoglie di quella creatura orrenda si celava la ragazza che conosceva col nome di Marla.
Ma era come osservarla attraverso una lente deformante: tutto ciò che la rendeva amabile, tutto quel che la rendeva spontanea e affettuosa – e umana – era stato pervertito in una sorta di parodia depravata.
Dal modo in cui sorrideva, pareva preda di un’estasi che nessun vizio mortale avrebbe mai potuto eguagliare.
E allora perché sembrava soffrire tanto?
Taron si mise a correre con uno slancio precipitoso, incurante del dolore, della paura, persino della pietà. Cos’avrebbe potuto fare?
Ma soprattutto, per quanto tempo sarebbe riuscito a sfuggirle?
Uno squarcio nell’etere che rassomigliava a una voce l’apostrofò.
“O Tarooon… sono io, la tua migliore amica!”
L’uomo si appoggiò contro la corteccia di un albero, inspiegabilmente esausto. A malapena si sentiva le gambe.
“Non siamo mai stati amici,” replicò con un accenno di sarcasmo “ero carino con te solo perché volevo scoparti.”
Le lacrime gli scorrevano sulle guance.
Marla era davvero perduta? Come salvarla da un destino così crudele?
Riprese a scappare, pervaso da un gelo che minacciava conseguenze irrimediabili.
Inciampò, le betulle gli sferzarono la faccia. Il pesante fiatone gli impediva di ragionare.
La sua casa… la radura… esisteva ancora una radura?
Marla aveva parlato di fumo… e di un torrente…
“Non sei contenta? Ho ritrovato la mia vera forma!” gridò Marla tra i singhiozzi.
“Ma pensa? Anch’io!” ansimò Taron arrancando tra i rovi.
“Potremmo sederci e… fare una bella chiacchierata” aggiunse con un risolino nevrotico.
Vieni, ti racconterò la mia storia mentre muori” sibilò la Stalker a un centimetro dal suo orecchio.
Taron si voltò di scatto. Lì non c’era nessuno.
Quando tornò a guardare avanti, dinanzi a lui c’era il volto di Marla.
La ragazza si leccava le labbra come un boa in procinto di divorare un ratto.
Gli serrò gli artigli intorno alla gola con uno scatto rapidissimo e lo sollevò in aria.
“Marla…” annaspò Taron “non ho… ancora finito… con te…”
La foresta evaporò, rimpiazzata da un ambiente asettico, insolitamente lugubre, dimesso e surreale nella sua monolitica piattezza. L’odore del cloro gli punse le narici.
Lo spogliatoio di una piscina?
Nello spazio anonimo che aveva fagocitato gli alberi, Taron percepì lo stridio impietoso di un fischietto, il ripetuto sciaguattare d’infinite bracciate, e la logorante solitudine che accompagna le persone marchiate dal talento, condannate a esser sole quanto più il mondo si stringe attorno a loro.
Avvertì l’isolamento di Marla, l’abnegazione che aveva trasformato una vocazione in un dovere.
Frattanto, sentiva il proprio corpo enfiarsi e ribollire, smarrire a poco a poco la conformazione originaria, e un’inusitata, inaudita esaltazione scorrergli nelle vene alla guisa d’un veleno, facendogli perdere di vista obiettivi, sogni e speranze.
Non gli rimanevano che pochi attimi.
“Ma se proprio dobbiamo salutarci…” biascicò “almeno facciamolo come si deve.”
Prima che la sua coscienza venisse inghiottita da quel vortice, allungò davanti a sé il braccio sinistro tremante, – ora più affine ad un ramo che a un arto – le dita chiuse a pugno, e disse: “STriNgeRsi la mAno è pEr i pOliTici e… gLi aSsiCuRatOri… riCoRdi?”
Marla sbatté le palpebre con aria interdetta, quasi infastidita.
Abbassò la testa per osservarsi il torso spigoloso e allungato a dismisura.
Con un grido che svelse le radici dalla terra, lasciò andare Taron e indietreggiò, torcendosi i capelli, mentre la selva sostituiva l’allestimento precedente in una coreografia allucinatoria.
Semisvenuto e tremante per il freddo, l’uomo riacquistò gradualmente le proprie sembianze, ma il singolare volgersi degli eventi aveva la priorità sulla sua condizione, e dunque ammirò sconcertato lo spettacolo che gli si parava di fronte.
Simile a una marionetta che tentasse di liberarsi dei suoi fili, Marla si strappava brandelli di tessuto dal torace e dalle spalle, strepitando, ringhiando, consumandosi fino all’osso. Un denso vapore color grafite prese a fumigarle al centro del petto, seguito da un piceo liquame che essudò e si sparse sul terreno formando una grossa pozza.
Il simulacro senziente cadde tra i suoi secreti, agitando le estremità con la stessa, ottusa testardaggine di un ragno ribaltato. Ma non aveva ancora finito.
Per buona misura, si afferrò una caviglia storcendola fino al punto di rottura, e poi, con un paio di morsi ferini, si amputò il piede. Ripeté la procedura anche con l’altro, lasciando al suo posto un tumido moncherino punteggiato da frange di carne.
Finalmente, giacque in silenzio rimirando il cielo venato di lapislazzuli, col miasma che continuava a dipanarsi dalle piaghe. Appariva serena.
 
“Marla?” azzardò Taron.
“Marla?”
“Sono qui” rispose lei.
Taron deglutì.
“Vuoi ancora… uccidermi?”
Il mostro steso nel fango ridacchiò.
“Puoi biasimarmi? Sei così petulante.”
L’uomo si fece più vicino. Con immensa tenerezza, le ravviò una ciocca di capelli.
“Che cosa ti hanno fatto, stupida nerd?”
“Questa tregua non durerà a lungo,” dichiarò Marla “una volta richiuse le ferite, lei avrà di nuovo il controllo. Ѐ già un miracolo che mi sia sottratta alla sua autorità.”
“Merito del nostro patto di fratellanza” commentò Taron occhieggiando le caviglie troncate dell’amica che tentavano di riplasmarsi.
“Non è stato solo quello” replicò la ragazza.
“Ci ho riflettuto a fondo prima di ridurmi a… giocare secondo le sue regole. Taron, c’è un legame potente tra noi.”
“Un legame romantico?” disse lui.
“No, sciocchino. Tra le nostre piccole morti: io battezzata nell’acqua; tu epurato dal fuoco.”
“Aspetta,” esclamò Taron “come puoi…?”
“Ora che impersono la Stalker, siete dei libri aperti per me.”
L’uomo si morse il labbro.
“E non trovi strano che io…”
Marla sorrise.
“No. Forse l’ho sempre saputo. E vedere che sei riuscito ad accettarti mi riempie di felicità. A proposito... bei tatuaggi.”
Taron le tenne la mano. Era tagliente e gelida al tocco.
“Quindi siamo gli opposti che si attraggono. Ma ho paura che ci abbiano scambiati: io dovrei essere l’elemento fluido, e tu l’elemento…”
“…distruttivo” concluse la ragazza.
“Veramente stavo per dire che alimenta la speranza, ma se preferisci distruttivo accomodati.”
“Persa nella macchia, ho seguito il corso di un torrente,” iniziò Marla “e il torrente mi ha condotto a un filo di fumo. Da te.”
“Acqua e fuoco” sussurrò Taron.
Fece schioccare la lingua.
“Avrei voluto incontrarti a metà strada.”
“Accorciare le distanze è il sistema migliore per apprezzare la diversità” ribadì Marla.
L’uomo si esibì in una delle sue smorfie.
“Sarebbe anche una massima illuminante, se non suonasse così scontata. Chi l’ha detto?”
“La mia sorellina.”
I due si guardarono timidamente.
“Ascoltami Taron,” cominciò Marla, scossa da violenti tremiti “puoi ancora svegliarti, con un po’ di aiuto dal basso. Devo solo… piegare qualche regola, finché ne sono in grado.”
“Questa volta andiamo insieme, vero?”
La ragazza distolse lo sguardo.
“Non mi è concesso. E anche se lo fosse, non voglio più tornare.”
Riprese a guardarlo. Era tanto vicino da nascondere le stelle.
“Non sono una bella persona.”
“E invece sì” proruppe lui.
“No, io…”
“Se ti dico che lo sei allora lo sei, brutta troia!”
Marla sogghignò.
“Diretto come sempre.”
L’uomo si grattò la nuca.
“Senti, non ti ho mai considerata virtuosa né irreprensibile, figuriamoci onesta; e nemmeno devi esserlo. La gente si inculca a vicenda un modello di perfezione che non esiste, ma ciò non cambia che tutti abbiano delle zone d’ombra. Sei chiaramente una tipa incasinata; però sei anche una buona amica.”
Gli occhi di Marla risplendevano, e un sottile filo d’inchiostro le colava dalla bocca.
“Piuttosto,” disse Taron asciugandosi le lacrime “perché non puoi venire con me? Chi è questa lei di cui parlavi? Nel caso non l’avessi capito, ne ho abbastanza dei pronomi.”
“Oh, solo una dipendente pubblica che non vedrà mai la pensione. Credimi, quella sta attraversando un inferno peggiore del mio.”
L’uomo aumentò la stretta sugli artigli deformi, provocandosi delle dolorose lacerazioni.
“Dico sul serio.”
Marla soffocò l’istinto che le comandava di processare quell’anima ostinata seduta stante, e sottrasse la mano, strappando a Taron un’esclamazione di dolore.
“L’universo… è regolato da due forze contrapposte” rantolò.
“Ordine e caos?” teorizzò lui.
“Non proprio. In tutte le creature risiede un naturale… afflato alla vita. In parte è programmato, fisiologico… in parte è acquisito. Ma se questo richiamo proliferasse incontrollato attraverso l’Anticamera, non esisterebbe più la morte… il cosmo imploderebbe su sé stesso. Ecco perché lei fa di tutto per contrastarlo. La morte non è crudele: è efficiente. Risponde a imperativi sistemici… come noi.”
“Ma perché proprio tu?” urlò Taron.
Marla si stava rialzando molto lentamente.
“La vecchia mi ha scelto perché desidero ardentemente la morte pur essendone terrorizzata… o, per dirla con parole tue: mi aggrappo alla vita come una piattola alle palle di un barbone. In questa forma parassitica posso abitare lo spazio tra i due mondi… infliggendo agli altri ciò che ho già inflitto a me stessa.”
Taron la contemplò rapito mentre la sua silhouette, sorretta da un paio di piedi appena sagomati, cresceva e cresceva, la spina dorsale che si srotolava come la foglia di una drosera.
“E il ruolo del catalizzatore… ricade sulla coscienza. Fonte d’ogni afflizione, guasto ricettacolo che prende il nome di libero arbitrio.”
“M-Marla?”
La Stalker, ormai alta quanto gli alberi, lo trapassava da parte a parte con i pozzi neri che aveva per occhi. Nel suo atteggiamento era difficile scorgere qualcosa che non fosse malizia indagatrice.
“Ma ora non ho più paura” asserì chinandosi su di lui.
Gli rivolse l’espressione che si riserva a un amante.
“Taron… ti fidi di me?”
L’uomo espirò profondamente. Scoprì i denti in un ampio sorriso. Allargò le braccia.
“Più di chiunque altro” rispose con un candore che poteva essere aspettativa, rapimento o rassegnazione.
Lei gli chiuse le grinfie intorno al collo e lo issò in aria, su, su e ancora più su.
Un geyser di luce adamantina simile a una cascata invertita si sprigionò dal sottobosco, ammantò Taron nella sua tiepida corrente.
“Promettimi solo una cosa” bisbigliò Marla attraverso la maschera della Stalker.
“Promettimi che troverai mia sorella. Si chiama Lilia. Ѐ una nerd, le piace giocare a Myst, a Sky e a una marea di board game… Ma è fissata soprattutto con Sky.”
Innalzandosi tra le nubi con il volto che traboccava di gratitudine, Taron assentì.
“Farò del mio meglio, stronzetta. E pazienza se dimenticherò. Sono un agente del caos… troverò un sistema.”
 
Diretto verso strazi imprevisti e gioie insperate, ormai restituito alla veglia, aggiunse in un fil di voce: “Un giorno ci rivedremo. Fino ad allora, vivrò anche per te.”

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Capitolo 11
*** Inizi ***


Firestarter93: ehilà
Lil_m1st: ehi
Firestarter93: forse, visto il contesto, avrei dovuto dire “howdy!”
Lil_m1st: aspetta, non è mica una citazione di
Firestarter93: Undertale, mi hai beccato
Lil_m1st: non pensavo che voi vecchietti giocaste roba moderna… sempre che quel numero non sia solo per bellezza
Firestarter93: per tua informazione, sì, sono nato nel ’93. incredibile quante fregnacce si possano cacciare in una sola frase
Lil_m1st: ???
Firestarter93: innanzitutto, non sono vecchio. sono nel fiore degli anni
Lil_m1st: è quello che direbbe un vecchio
Firestarter93: secondo, Undertale ricorda moltissimo Mother, che risale all’89… se ti senti “moderna” a giocare un titolo che ricalca un classico degli Anni ’80, buon per te!
Lil_m1st: vedo che hai studiato… e cosa ci fai qui?
Firestarter93: cerco di recuperare la sanità mentale. ultimamente il lavoro mi sta facendo impazzire… tu perché sei qui?
Lil_m1st: per la tua stessa ragione, credo… solo che ancora non lavoro. ehi, non sarai mica uno stalker?
Firestarter93: nah, preferisco infastidire la gente dal vivo
Lil_m1st: è proprio questo che significa la parola “stalker”
Firestarter93: te l’assicuro, non ho nessuna voglia d’insidiare le ragazzine… la politica anti-molestie di Nintendo è troppo rigida, e poi il sotterraneo delle torture m’impegna già abbastanza
Lil_m1st: sei strano. non riesco a decidere se trovarti simpatico o inquietante
Firestarter93: incontrandomi dal vivo ogni dubbio sparirebbe. ho il corpo completamente ustionato
Lil_m1st: stai scherzando?
Firestarter93: sì. è ustionato solo al 70%
Lil_m1st: giuro che se mi prendi in giro… ma com’è successo?
Firestarter93: incidente sul lavoro, diciamo. a a a, ferma, sento che stai per compatirmi, non voglio la tua pietà! altrimenti il giudice dirà che ho fatto leva sul complesso della crocerossina, e per quello ti danno due anni extra
Lil_m1st: da come ne parli, non l’hai presa tanto male
Firestarter93: in realtà, l’ho presa abbastanza male. faccio ironia perché mi secca imporre agli altri le mie disgrazie. ma allo stesso tempo, da bastardo egoista che sono, non riesco a evitare di coinvolgerli… anche se si tratta di estranei
Lil_m1st: sta tranquillo, tengo attiva la chat proprio per avere delle conversazioni reali. non amo fingere di trovarmi in un mondo completamente artefatto, sarebbe alienante
Firestarter93: artefatto… alienante… non ti esprimi come una che ha appena perso i denti da latte
Lil_m1st: lo so, grazie per avermelo ricordato. sono la classica tipa introversa che ha imparato a socializzare dai libri
Firestarter93: non dovrebbe essere così per tutti?
Lil_m1st: a quanto pare no, e finora non mi è stato di grande aiuto. se succede una disgrazia, mi chiudo a riccio e… vorrei essere un po’ più come te
Firestarter93: essere me ha i suoi vantaggi. tatuaggi gratis ogni volta che voglio, per esempio… ma poi finisce che te ne penti. hai avuto una disgrazia?
Lil_m1st: no, ho detto “se” succede una disgrazia. quindi tatui la gente per vivere?
Firestarter93: già, sono una specie di Michelangelo che dipinge sulle chiappe altrui
Lil_m1st: bello. e… non darmi della ficcanaso… come hai fatto dopo… l’incidente?
Firestarter93: ti dirò, quel che mi è pesato di brutto è stato non poter nuotare. non ho mai amato fare attività fisica, ma quando sono in acqua è come se me ne dimenticassi
Lil_m1st:…
Firestarter93:?
Lil_m1st:…
Firestarter93: sei ancora lì?
Lil_m1st: sì, scusa. il mio gatto stava cercando di staccare la presa della console
Firestarter93: lo fa per il tuo bene. devi uscire all’aria aperta, vivere
Lil_m1st: tu senti da che pulpito
Firestarter93: per me non conta. quando sei adulto, spesso ti viene voglia di scappare dalla vita. bada, è molto diverso che farsi inseguire dalla morte
Lil_m1st: profondo… ma a differenza di te, io odio l’attività fisica in generale. soprattutto il nuoto
Firestarter93: come mai?
Lil_m1st: non saprei. la sorella di una mia compagna è… morta da poco. durante un’apnea
Firestarter93: oh. si allenava per una gara?
Lil_m1st: era una nuotatrice professionista. dopo una storia del genere, la voglia di entrare in acqua mi è passata per sempre
Firestarter93: “per sempre” è un tempo molto lungo… ho l’impressione che quella ragazza si portasse dentro una montagna di stress
Lil_m1st: sì, ma non ha pensato alla sua famiglia, a chi si stava lasciando alle spalle. è rimasta in coma a lungo. sembrava quasi che ce l’avrebbe fatta, e invece…
Firestarter93: credo che, potendo, avrebbe scelto di disfare il suo gesto
Lil_m1st: bella consolazione
Firestarter93: questa compagna di classe… siete in buoni rapporti?
Lil_m1st: oh, sì. è la mia migliore amica. La mia unica amica. Prima non ci calcolava nessuno, adesso ci guardano come se fossimo due appestate.
Firestarter93: d’ora in poi avrà bisogno di tutto il tuo sostegno. magari potreste sfruttare la situazione a vostro vantaggio… vedere se in mezzo alla folla c’è qualche anima affine… una che non sia morbosa e pettegola
Lil_m1st: immagino di sì. quando sono andata al funerale… ecco…
Firestarter93: preferisci cambiare argomento?
Lil_m1st: no, è ok. mi fa bene parlarne con qualcuno. dicevo, al funerale suo padre era veramente distrutto. continuava a ripetere “non dovevo forzarla, non dovevo forzarla”. riuscivo a malapena a guardarlo… faceva paura
Firestarter93: fatico a immaginare cosa si provi… e la madre?
Lil_m1st: lei ha detto solo una cosa. ha detto “non dovevo lasciartelo fare”. per certi versi, è stato addirittura peggio
Firestarter93: che abbiano torto o ragione, il destino dei genitori è rimproverarsi comunque per qualcosa. in caso contrario, è probabile che non siano dei buoni genitori
Lil_m1st: però chi ci ha sofferto di più è la mia amica… lei… s’incolpa del suicidio, capisci, si sente responsabile per non essersi accorta che la sorella stava soffrendo
Firestarter93: un momento…
Lil_m1st: anzi, non è così. lei aveva capito che c’era un problema, ma non ha fatto nulla per aiutarla… continuava a chiedere attenzioni, tormentarla con stupide richieste… mai una volta che l’abbia ascoltata davvero
Firestarter93: Lil, stammi a sentire. quella ragazza sapeva quanto le volesse bene la tua amica. Tutte le… richieste di attenzione, le pretese, le stupidaggini che la costringeva a sopportare… non c’è prova più grande del suo affetto
Lil_m1st: come fai a dirlo? la conoscevi?
Firestarter93: no, ma mi ricorda una persona che ho incontrato anni fa. o forse è passato solo qualche mese. non ne sono sicuro
Lil_m1st: la vecchiaia che avanza?
Firestarter93: può darsi. dopo l’incendio, ho perfino problemi a visualizzare il suo volto… e non chiedermi come si chiama
Lil_m1st: allora perché te la ricorda?
Firestarter93: era molto espansiva, sicuramente aveva uno stuolo di ammiratori. ma allo stesso tempo, c’era un che di tragico in lei… un malessere radicato. e nonostante il peso che portava, il suo pensiero era sempre rivolto a me. non so dove sia finita
Lil_m1st: la conoscevi molto bene
Firestarter93: non la conoscevo nel vero senso della parola, ma mi ha cambiato la vita. senza di lei, non sarei quello che sono oggi
Lil_m1st: un vecchio strambo che adesca le ragazzine online?
Firestarter93: un falso maestro di vita che dà consigli maldestri a una persona in lutto
Lil_m1st: ?
Firestarter93: alla tua amica, intendo. puoi condividere con lei queste perle di saggezza, quando la vedi
Lil_m1st: c’è la possibilità che smetta di parlarmi, ma farò un tentativo. non erano poi tanto male
Firestarter93: se dovessi passare per il Suffolk, fai un salto a trovarmi. il primo tatuaggio lo offro io
Lil_m1st: i miei saranno entusiasti. Suffolk nello Stato di New York?
Firestarter93: no, nell’Anglia Orientale
Lil_m1st: ci proverò, però non prometto nulla… avanti, abbiamo una foresta da attraversare
Firestarter93: forte! adoro le foreste

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