Avventura a Portopiccolo

di DanceLikeAnHippogriff
(/viewuser.php?uid=225552)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** San Valentino a quattro ***
Capitolo 3: *** Uno di loro, uno di noi ***
Capitolo 4: *** Loro hanno tutta la notte ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

P


Ci sono dei luoghi che non dovrebbero essere disturbati. Piccoli anfratti scavati nel tempo e nello spazio che non dovrebbero intersecarsi con nessuna dimensione eppure, anche solo per caso, esistono. Non è sempre facile riconoscerli, ma a volte mentre camminate provate a farci caso. Gli edifici che vi circondando sono senza ombra di dubbio impeccabili: le sedie nei ristoranti sono disposte alla giusta distanza dal tavolo, visivamente gradevoli; i colori abbinati secondo i gusti più raffinati e gli stili più moderni; i nomi delle vie sono suggestivi, le piazze… dei piccoli mosaici. I vicoli… ipnotici.

Se vi sentite fuori luogo, inadatti, imperfetti, braccati… Allora vi suggerisco caldamente di invertire la direzione dei vostri passi e di tornare da dove siete venuti. Almeno finché il sole vi permette ancora di vedere le vostre ombre. Perché quando cala il buio verrete inghiottiti da quel labirinto di strade troppo simmetriche, da quelle rampe di scale troppo uguali e non potrete più tornare indietro. Dovrete aspettare l’alba.

 

Ma loro hanno tutta la notte.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** San Valentino a quattro ***


 

P

Come tutte le gite che proponeva Rachele, anche quella aveva avuto un piccolo intoppo.

Eppure, la gente continuava a imbarcarsi nelle imprese che proponeva. Non era certo una novità, d’altronde il suo entusiasmo era riuscito a trascinare per ben tre anni di fila il gruppo fino in Val Rosandra, amena località montana poco fuori Trieste, con l’obiettivo di cercare la strada per la famosa quanto mitica cascata che scrosciava a fine valle. Li aveva ammaliati come Cortés con i conquistadores, solo che il loro obiettivo non era la distruzione di intere civiltà bensì raggiungere la fine di un sentiero. Inutile dire che non erano mai riusciti nel loro intento soprattutto perché, come adorava puntualizzare Silvia, non avevano mai seguito un vero e proprio sentiero; amava dirlo di fronte alla biforcazione della strada che sapeva avrebbe portato solo dolori ai suoi piedi, indicando cocciutamente il cartello che segnalava il Sentiero dell’Amicizia, che si snodava ameno tra il boschetto. Chissà come però, probabilmente causa entusiasmo e scelte sbagliate, Rachele riusciva sempre e comunque a trascinarli dalla parte opposta, tra le frasche, facendoli incespicare tra radici sporgenti e sassi aguzzi, guidandoli lungo un sentiero che si apriva palesemente passo dopo passo verso dove voleva lei. Almeno potevano dire di essere diventati un gruppo di abili stambecchi. Chi ci aveva rimesso più di tutti, però, era il povero Matteo, caduto da eroe nell’adempimento del proprio dovere: scalare un infame ghiaione. E va bene, non tutti uscivano entusiasti da una giornata simile, ma ogni brontolio si spegneva nel refrigerio delle pozze, e la nuotata era immancabilmente accompagnata dalle domande di Francesca e Giulia per risolvere le definizioni delle parole crociate estive da cui non si separavano mai.

Dunque, con queste premesse, il trio di amici non fu affatto sorpreso di scoprire che il Castello di Duino, meta della loro gita, era chiuso. Giustamente, Rachele aveva scelto l’unico giorno della settimana in cui l’attrazione non era aperta al pubblico: il giovedì.

Gabriele fece spallucce, dicendo che non importava poi così tanto, e si avviò lungo la stradina per scovare soggetti ignari per la sua mefistofelica macchinetta. Federica, stoica, non batté ciglio di fronte al portone chiuso e disse che in fondo era una bellissima giornata e non aveva senso abbattersi per un piccolo incidente di percorso. Vedi: motivo principale della loro gita per il quale avevano passato due ore in un autobus di linea. Già, perché il viaggio, che a detta dell’organizzatrice sarebbe dovuto durare mezzora, si era rivelato due ore tonde ed erano arrivati

Antonia e Federica proruppero in un ululato di gioia alzando le braccia al cielo: “Esplorazioneeee!”

Detto questo, si affrettarono dietro a Gabriele, che aveva l’adorabile tendenza di sparire nei luoghi più impensati. Nonostante tutto, Federica aveva ragione: la giornata era stupenda e non aveva senso rimanere inchiodati davanti a un portone chiuso. Inoltre, era uno degli ultimi giorni di un periodo che uno studente della SSLMIT aspetta tutto l’anno. No, non la fine della sessione, non questa volta; parliamo delle due settimane di sessione straordinaria a febbraio! Quindi, non potevano né dovevano sprecare neanche un minuto del prezioso sole che baciava loro la pelle.

L’esplorazione del borgo non durò molto. Si infilarono in tutti gli angoli in cui era possibile infrattarsi, esplorarono tutte le Slepa Ulica[1] che poterono trovare e fecero foto perfino ai cartelli per combattere la noia. Alla fine, però, dovettero cedere all’evidenza: nonostante il loro entusiasmo smodato, quelle quattro case in croce non erano il massimo del divertimento. Quindi, si avviarono lungo la strada principale, cercando spunti per una nuova avventura.

Quando ormai iniziava a serpeggiare a ogni passo la sensazione che forse avrebbero dovuto cercare un autobus per tornare in città con la coda tra le gambe, Gabriele si defilò su per una stradina, seguendo il richiamo della natura.

“Ma per di qua c’è il Rilke!” Esclamò, sparendo dietro i cespugli. “Ormai siamo qui, dai, tanto vale…!”

In effetti, non aveva torto. Da quello che ricordavano – e dopo una veloce ricerca su Google – il percorso non era neanche così lungo, poco meno di due chilometri, e sembrava l’alternativa perfetta per far combaciare una gita fuori porta in mezzo alla natura con un orario di rientro in città tutto sommato accettabile, lasciando spazio anche ad altri piani per la serata. Arrivati all’inizio del sentiero, la vista che si presentò loro davanti fu spettacolare: il sentiero si snodava lungo una scogliera a strapiombo sul mare che, illuminato dal sole, restituiva una sfumatura blu intenso, confondendosi con il cielo all’orizzonte. Non c’era neanche una nuvola e le fronde degli alberi si muovevano carezzati da una brezza gentile, refoli di vento che si intervallavano al piacevole tepore di quella bella giornata di febbraio. Il sentiero non era neanche così affollato, quindi avrebbero potuto godersi la passeggiata in santa pace.

“Dobbiamo immortalare il momento, facciamoci una fóto!” Propose Gabriele, stringendosi addosso alle altre vicino al parapetto che dava sul mare, e sollevò la macchinetta, pronto a colpire.

“Guarda che secondo me non viene mica bene così.” Borbottò Federica, schiacciata tra Gabriele e Antonia. “Sei tutto storto.”

“Poi vediamo, intanto falla.” Propose Rachele, già in posa con un sorriso a trentadue denti.

“Ma non gli verrà bene comunque!” Ribatté Fedo, allungando il collo per cercare di mettersi nella stessa inclinazione della macchinetta.

“Gaaaab, muoviti che il sole mi acceca!” Gemette Antonia, con un sorriso tiratissimo e gli occhi seccati dal sole.

“Ma Fedo dice che viene male…! Uffa.” Abbassò la macchinetta, guardandosi intorno, e il suo sguardo si illuminò quando notò un arbusto contorto che cresceva lì vicino. “Ferme lì!” Intimò, armeggiando con l’apparecchio per posizionarlo in perfetto equilibrio in modo che li prendesse tutti e quattro.

“Se ti cade, rido.” Disse Rachele, in tono piatto.

“Correrò il rischio.” Premette il bottone per far partire l’autoscatto e sfrecciò di nuovo in mezzo a loro. “Sorridete!” Le strinse a sé in un abbraccio, e rimasero lì, fermi, di fronte alla macchinetta, sorridendo come dei polli fino a quando la macchinetta non fece lo scatto. Una coppia di vecchietti passò lì vicino con i loro bastoni da camminata nordica, guardandoli perplessi.

Gab trotterellò fino alla macchinetta, guardando soddisfatto il suo ultimo scatto. “Ne ho fatte più di una, poi giuro che le carico su Facebook…!”

“Gna, non so quanto ci tengo…” Ridacchiò Fedo, probabilmente ripensando alle mille e passa foto che l’amico aveva caricato, ognuna che racchiudeva un prezioso momento imbarazzante di ogni persona del gruppo. “Intanto direi di incamminarci, che ne dite?”

Di comune accordo, il gruppo si avviò lungo il sentiero, fermandosi di tanto in tanto per scattare foto stupide, ammirare il paesaggio e scalare con sprezzo del pericolo le guglie appuntite che, al minimo passo falso, avrebbero potuto farli precipitare verso la loro morte. Ma nessuno di loro ci badò e continuarono a saltellare come dei capretti lungo il sentiero e fuori, fregandosene dei cartelli di avvertimento. Poi, complice il fatto che non ci fosse nessuno nei paraggi, si fermarono a metà percorso, dopo neanche un’ora di camminata, e tirarono fuori il loro pranzo al sacco, divorandolo con gusto e concedendosi una meritata sosta per spalmarsi su quelle rocce scaldate dal sole, perdendosi nel baluginio delle onde.

“Ma secondo voi quello laggiù è il faro?” Indicò Fedo, sporgendosi dal sasso che si era scelta come trespolo.

“Ed è stra lontano!” Strizzò gli occhi Rach, schermandosi la vista con la mano.

“Beh, ci siamo fatti due ore di autobus, dopotutto, mi stupirebbe se fosse più vicino, no?” Sogghignò Gab.

Rach si limitò a sbuffare, ma le sue parole non le cancellarono il sorriso dalle labbra. Avevano ancora un sacco di tempo e un sentiero da esplorare, dopotutto. Si rimisero in marcia, zaini in spalla, un po’ di malavoglia per aver abbandonato il tepore del sole ed essersi rituffati all’intero della rada boscaglia.

Gabriele si esibì nella sua migliore imitazione di una capra di montagna, scalando un’altura a quattro zampe con una velocità sorprendente, e Antonia dimostrò una volta per tutte che era fatta di gomma riuscendo a passare tra i pali orizzontali della staccionata che separava il sentiero dallo strapiombo sul mare. Gab decise di rispondere alla sfida implicita e iniziò ad attorcigliarsi sugli alberi dando il meglio di sé come contorsionista con Fedo che documentava il tutto con l’immancabile macchinetta.

Tra soste, foto e cazzate varie, completarono il sentiero in un’ora e mezza invece che nei canonici quarantacinque minuti che millantava la guida su Google, ritrovandosi comunque con un intero pomeriggio da occupare davanti a loro: erano arrivati a Sistiana intorno alle 15:00.

Gironzolarono svogliatamente per i dintorni, scendendo fino alla zona del porto, e poi ritornarono in quota raggiungendo la strada principale. Rachele tirò fuori il telefono per controllare la loro posizione, cercando di raccapezzarsi con le fermate e gli orari degli autobus. Avrebbero potuto tornare a Trieste e decidere sul da farsi per la serata nel mentre, magari avrebbero potuto passarla tutti insieme e mangiare qualcosa di buono, unendo il tutto a un bel film spaparanzati sul divano. Si prese un momento per ammirare il paesaggio prima di proporre agli amici la lista di orari che aveva trovato, quando lo sguardo le cadde su una rientranza nella costa, come se qualcuno avesse scavato dei gradoni nella roccia per creare un enorme anfiteatro aperto sul mare. Aguzzò la vista, e notò tutta una serie di costruzioni a cubo bianche che, a primo acchito, pensava dovessero ricordarle qualcosa perché le sembrava di averle già viste da qualche parte…

“Ragazzi!” Esclamò. I tre si girarono, interrompendo il loro chiacchiericcio. “Quello laggiù è Portopiccolo! Mio padre ci è stato, mi ha detto che è davvero bello come posto! Dato che abbiamo ancora un po’ di orette davanti che ne direste di andare a guardare il tramonto da lì? Poi prendiamo un autobus e torniamo in città per la cena!” Rivolse loro un sorriso a trentadue denti. “Non penso che ci voglia neanche troppo a raggiungerlo a piedi, che ne dite?”

I tre si scambiarono uno sguardo che la ragazza non seppe decifrare. Antonia si limitò a scrollare le spalle ed emettere un “Meh” di rassegnazione: poteva valere come un “sì”.

“Non è che poi ci mettiamo due ore come con l’autobus?” Azzardò Fedo, inarcando un sopracciglio.

“Possiamo vedere dove sono le fermate e poi decidere per strada, magari, ma non penso che ci si metta più di una mezzoretta.” Fedo assottigliò lo sguardo. “Mezzoretta abbondante.” Aggiunse Rach, esitando appena. Fedo inclinò leggermente la testa, guardandola severa. “Okay, forse un’ora? Possiamo guardare GMaps, però…!” Borbottò lei, sconfitta. “E Anto ha detto che va bene.” La indicò, cercando di trascinare dalla sua parte l’amica, che alzò le mani guardandosi intorno con gli occhi sgranati, fingendo di non saperne niente.

“Se ci mettiamo un tempo decente allora a me va bene.” Rispose Fedo lentamente, tenendo ancora gli occhi socchiusi per il sospetto.

“Che bello, passiamo tutto San Valentino insieme! Yeeeeh!” Disse Gab, imitando lo scoppio di fuochi d’artificio con le mani. Tre paia di occhi lo fissarono sgranati e il ragazzo venne investito da un coro di: “Oggi è San Valentino?!”. Gab sbatté le palpebre, confuso. “Oggi è il 14 febbraio, no? Pensavo che lo sapeste. Infatti ero felicissimo che voleste passare una giornata fuori tutti insieme. Non che a me interessi della festa in sé, ma mi sembrava bello passare la giornata con qualcuno tanto per cambiare.”

“Ti giuro che non ci avevo neanche pensato.” Disse Anto. “E a questo punto, dopo la passeggiata, possiamo anche decidere di cenare insieme, no?” Lanciò un’occhiata a Rach, che era raggiante per le parole ‘dopo la passeggiata’. “E sì, sto dando per scontato che arriveremo a Portopiccolo. Insomma, guardatela.”

“Ti stai lasciando corrompere, Anto, non cedere…!” Sussurrò Fedo con fare cospiratorio. “Lei è il male!”

“E se ti dicessi che per cena potremmo avere...?” Si intromise Rach, dondolando le sopracciglia con fare ammiccante.

“INDIANO?” Dissero Anto e Rach all’unisono, con un sorriso da un orecchio all’altro.

“Siete proprio inquietanti quando fate così.” Disse Gab, facendo una smorfia inorridita. “Però ci sto.”

“Orrore a parte, a me l’indiano va un sacco! Sono curiosa di provarlo, basta che ci siano alternative vegetariane…!” Disse Fedo, pensierosa.

“Oddio, Fedo, non ti preoccupare, ci sono i samosa…” La rassicurò Anto con aria sognante. “E, in ogni caso, ci sono un sacco di opzioni vegetariane, quindi vai tranquilla.”

“Gna, allora va bene.” Disse lei con un sorriso beato, alzando leggermente le spalle. “A questo punto, direi di andare a vedere com’è questo posto, no?”

“Se proprio dobbiamo…” Gab le rivolse un’occhiata seccata per niente convincente.

E quindi, come ogni buona gita proposta da Rachele, il quartetto sbagliò strada per colpa del navigatore, dovendo camminare pericolosamente vicino al ciglio della strada per un bel pezzo ritornando sui loro passi. Si fermarono davanti al bivio galeotto, leggermente spaesati. La strada che avrebbero dovuto prendere – più stretta di quella principale – scendeva ripida giù per la costa, addentrandosi nel bel mezzo di un bosco. Almeno era asfaltata, indice che sicuramente veniva usata ogni tanto, ma era altrettanto vero che era chiusa da una sbarra. Decisero all’unanimità che si trattava di un ostacolo facilmente aggirabile e si avviarono lungo la stradina scavalcando la sbarra, scendendo sempre più verso il mare mentre i raggi del sole venivano inghiottiti dalle fronde.

Si erano ormai fatte le 16:00 inoltrate.

Il boschetto sembrò attutire il traffico della strada, lasciando che l’unico rumore ad accompagnare i loro passi fosse lo scricchiolio degli aghi di pino e il rimbalzo delle pigne che Gabriele si dilettava a calciare, osservandole mentre rotolavano all’impazzata giù per la discesa. Fedo si mise a canticchiare canzoni di Battiato e Rach si unì a lei, dando vita a un piccolo coretto spensierato che riecheggiava nel nulla di quel posto. Anto continuava a tenere gli occhi sulla strada che, a mano a mano, si faceva sempre più stretta.

Ad un certo punto della discesa, il pendio si aprì su un largo spiazzo costellato da albero radi e puntellato qua e là da bidoni di ferro e piccole capanne tirate su alla buona. Sembrava stranamente vuoto nonostante i chiari segni di attività. Il carbone all’intero dei bidoni sembrava recente e, nonostante non fosse un residence a cinque stelle, sicuramente gli oggetti personali di chiunque dormisse lì non avevano l’aspetto di essere stati trascurati. Sporchi sì, ma non abbandonati. Lì vicino c’era addirittura una sorta di chiesetta.

Mossero qualche passo nella radura, quasi all’erta, e si misero a esplorare un po’ i dintorni, mossi dalla curiosità.

“Sembra un accampamento di barboni.” Notò Gabriele, occhieggiando i dintorni come per assicurarsi che non ci fosse nessuno pronto ad assalirli per aver sconfinato in territorio proibito.

“A me sembra più un rifugio post-apocalittico.” Disse Anto, guardandosi in giro. “Se ti concentri abbastanza,” continuò, schermandosi le mani dal sole improvviso che li aveva colti uscendo dal riparo degli alberi, “puoi vedere un’orda di zombie che si trascina verso di noi da quei cespugli. È l’ambientazione perfetta!”

“Cervelliiii!” Ululò Fedo, alzando le braccia al cielo e accogliendo gli ultimi raggi di sole, rivolta verso il mare.

“Uhm, reghi, sono quasi le 17:30… Se vogliamo vedere il tramonto dobbiamo sbrigarci e non siamo neanche arrivati al mare…! Rischiamo di perdercelo!” Borbottò Rach, controllando l’ora sul telefono. Ci avevano decisamente messo più del previsto, la strada su GMaps sembrava più corta. Non era una novità. Inoltre, ora che il sole stava per calare, la temperatura non era più così piacevole come quella mattina.

Si avviarono di nuovo lungo la strada, a passo svelto, e non avrebbero saputo dire in seguito se fosse per la paura di perdersi lo spettacolo del sole che si spegneva nel mare o se per una strana sensazione, un certo formicolio alla base della nuca, una tensione alla base della schiena, che faceva muovere le loro gambe più veloci, come a volerli allontanare da quel posto stranamente vuoto.

 

[1] Strada a fondo cieco in sloveno.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Uno di loro, uno di noi ***


P

Tirarono un sospiro di sollievo quando i rami del boschetto si diradarono, permettendo agli ultimi raggi di sole di abbagliarli. Si presero un momento per assaporare il loro ritorno alla civiltà: erano sbucati in un piccolo porto e il rumore delle macchine si sentiva forte e chiaro, non più attutito come durante la discesa.

Si rimisero di nuovo in cammino seguendo il cartello che segnalava “Portopiccolo”, costeggiando un muro d’edera che si estendeva fino agli alberi che costellavano l’inizio del pendio da dove erano scesi poco prima. Era una visione surreale, un’onda verde e selvaggia che stringeva in una morsa lenta e inesorabile roccia e radici e tronchi, come a voler inglobare la realtà stessa. Il gruppo si mosse in reverenziale silenzio davanti a quello spettacolo, mormorando qualche parola su come sembrasse un portale per raggiungere mondi incredibili e sconosciuti.

Girata l’ultima curva, con il rumore delle onde che lambivano la spiaggia di sassi nelle orecchie, si ritrovarono davanti la strana cittadina di Portopiccolo. Risultato di un desiderio di voler riutilizzare una cava abbandonata, le case si perdevano a perdita d’occhio inerpicate lungo la montagna, scavata come se un gigante avesse avuto voglia di assaggiare la costa e se ne fosse andato, deluso. Ciò che rimaneva, era Portopiccolo. Case ammassate, viuzze tortuose e simmetriche, barche a vela ormeggiate a un porticciolo. Il tutto aveva un’aria terribilmente asettica.

Il silenzio venne interrotto solo da una sgommata improvvisa, e i quattro si tolsero dalla strada con un urletto per evitare di essere investiti da un macchinone nero che si allontanò in tutta fretta, sparendo dietro la curva.

Poi, l’unico rumore tornò ad essere quello delle onde del mare, intervallato di tanto in tanto con lo stridio di un gabbiano solitario.

Di tacito accordo, il gruppetto si diresse verso le case seguendo la strada, decisi ormai ad esplorare quel posto ora che ci erano arrivati dopo tanto camminare. E poi, il sole li stava per abbandonare e sentivano un bisogno sempre più pressante di chiedere informazioni per tornare alla strada principale. Per quanto il paesaggio fosse indubbiamente bello, non li stuzzicava l’idea di rimanere bloccati in un posto che non conoscevano. Non quando avevano in programma una cena così appetitosa e l’appuntamento di San Valentino a quattro più soddisfacente della storia!

La strada passò gradualmente da cemento a lastroni di pietra liscia e immacolata, e Federica puntò a passo sicuro verso la piazza che iniziava ad aprirsi di fronte ai loro. Dove c’è una piazza ci sono negozi e dove ci sono negozi ci sono persone. Se non clienti, almeno commessi. Perché, di fatto, sembrava che quel posto fosse nient’altro che un guscio vuoto. A eccezion fatta per la macchina che se l’era filata a tutta birra poco prima, non avevano ancora incrociato una singola persona.

Lanciarono un’occhiata distratta agli alti alberi maestri delle barche, dritti e fieri nella loro perfezione immacolata, che si stagliavano bianchi contro il cielo in fiamme. La loro presenza li rassicurava. In qualche modo dovevano pur essere arrivate lì quelle barche, quindi c’era speranza che i proprietari, una volta trovati, avrebbero saputo indirizzarli verso la loro tanto agognata Trieste.

Antonia puntò il cartello che indicava la piazza e ridacchiò: “Questa piazza si chiama Piazza. E quella via? L’avete vista?” Indicò una via porticata che si perdeva alla loro destra, portando al lungomare. “Si chiama Porticato!”

“Che noiosi…” Le fece eco Federica, guardandosi intorno. “I ricchi non sanno proprio divertirsi. Tutto apparenza e niente sostanza. Questo posto ne è l’esempio lampante.” Scrollò le spalle, sospirando, e si sistemò lo zaino sulle spalle con un piccolo saltello.

Attraversarono la piazzetta e si fermarono davanti a un piccolo bar, la cui vetrata illuminata gettava ora un rettangolo di luce aranciata sulla pietra bianca. La signorina all’interno rivolse loro un sorriso smagliante, sventolando una mano in saluto.

“Come posso aiutarvi, ragazze?” Si poggiò con i gomiti al bancone, sfoggiando un sorriso ancora più luminoso di quello precedente.

“Volevamo sapere come potevamo tornare alla strada principale da qui.” Le spiegò Federica.

“Semplicissimo. Abbiamo un ascensore che porta fino all’ultimo piano del parcheggio. Da lì, si sale a piedi e si raggiunge la strada. Questione di pochi minuti.” Per buona misura, inclinò leggermente la testa di lato in un gesto che doveva risultare rassicurante, indicando loro la direzione dell’ascensore con la punta del dito. “E potrete tornarvene a casa senza problemi.” Poggiò lo straccio che aveva nell’altra mano e si affannò per uscire, le guance gonfie in maniera quasi teatrale. “Ecco, ecco, scusatemi. Da quella parte, vedete? Potete anche prendere le scale, sono oltre l’ascensore, ma vi consiglio caldamente di prendere l’ascensore vista la vostra situazione.” Accompagnò le ultime parole con un’occhiata eloquente, ma nessuna di loro capì a cosa si stesse riferendo. All’ennesimo sorriso melenso, la tentazione di distogliere lo sguardo da lei era ormai forte.

Quindi, si limitarono ad annuire e ringraziarono la commessa, avviandosi verso la direzione loro indicata. Già pregustavano la meravigliosa sensazione di relax alle gambe quando si sarebbero sedute in autobus.

Rachele si fermò di botto, gli occhi sbarrati.

“Ma Gabriele dov’è?”

***

Passò la mano sulle pareti ruvide degli abitati, le gambe che lo spingevano a salire in alto, sempre più in alto, guidandolo attraverso vicoli e strade che la sua mente non conosceva. Ma il suo corpo, stranamente, sì. La cosa non fece nascere alcun tipo di domanda dentro di lui. Si limitò a seguire quel filo invisibile che sembrava tirarlo dall’ombelico, riavvolgendolo per portarlo alla matassa, alla sua origine.

Si sentiva preso come da una malata euforia che cresceva in lui, ribollendo come schiuma, annebbiandogli il buon senso. Era sordo a ogni stimolo, le dita che tracciavano linee invisibili sui muri non sembravano percepire più la realtà. Era staccato da tutto. Era tutto.

Fece scivolare la mano vicino a innumerevoli campanelli tutti uguali, tutti senza nome, tutti nuovi, tutti terribilmente vuoti. Ogni passo era uguale, ogni via era uguale, ogni casa era uguale. Anche lui era lo stesso?

Sentì un brivido percorrergli la spina dorsale e accoccolarsi alla base della nuca. Il sole gli abbracciò il corpo con gli ultimi raggi morenti, spegnendosi nel mare.

Un sorriso beato gli si dipinse sulle labbra ed esalò un sospiro di liberazione, i passi che lo portavano inesorabili verso il bordo della terrazza panoramica. Forse, abbandonarsi a quell’impulso era l’unica via d’uscita.

***

“GABRIELE!” Urlò Antonia, e prese la rincorsa tirandogli uno scappellotto in volo.

“Gaaaab, ma si può sapere dov’eri finito e come ci sei arrivato qui?!” Esclamò Rach, raggiungendo gli amici sulla terrazza. “Ti abbiamo cercato dappertutto.”

“Avvertire no, eh?” Borbottò Federica, uscendo per ultima dall’ascensore, che aveva aperto le porte proprio sulla terrazza.

“Volevo scattare qualche foto col tramonto.” Disse Gab, come se fosse una spiegazione più che ovvia per la sua sparizione improvvisa. “E poi volevo tornare indietro per andare a vedere il porto. E poi mi sarebbe piaciuto passare anche per di là, secondo me ci farei delle foto bellissime.”

“Scordatelo.” Disse Fede, incrociando le braccia al petto. “Il sole è tramontato e tra poco farà buio e la tipa del negozio ci ha detto che comunque ci si mette un po’ a risalire a piedi, anche con l’ascensore.”

“Ah, c’era un ascensore?” Gabriele sbatté le palpebre, lo sguardo leggermente annebbiato.

“C’era un cartello ENORME con scritto ‘ascensore’, Gab, mi sembra strano che tu non l’abbia visto.” Ribatté Anto.

“È più bello farsela a piedi.” Sorrise lui, serafico.

“Beh, adesso che ti abbiamo ritrovato, capretta sperduta, possiamo anche iniziare a tornare, no? Ho fame…” Si lamentò Rach, iniziando a trascinarsi verso l’ascensore.

“Giusto, non ho voglia di perdere altro tempo in questo posto. È così vuoto e pulito e ordinato…” Disse Anto, fingendo un conato di vomito. Poi, poco prima di salire, aggiunse: “E quella signora era fin troppo gentile.”

Federica annuì, pensosa, e premette il bottone del quarto piano, l’ultimo. “Era decisamente strana.”

Le porte si richiusero alle loro spalle con un rumore ovattato e l’ascensore iniziò a salire, ronzando lievemente. La breve ascesa venne accompagnata da una serie di bip sommessi la cui provenienza non riuscirono a indentificare. Scesero in silenzio, guardandosi attorno cauti. Ogni persona un bip.

A quanto pareva, il quarto piano si apriva sul parcheggio coperto. Peccato che le uscite fossero sbarrate da grandi saracinesche di ferro. Da lì non sarebbero sicuramente potuti uscire. I quattro si scambiarono occhiate tra l’irritato e lo sconsolato e si arresero a tornare verso l’ascensore per fare un nuovo tentativo nei piani inferiori. Avrebbero dovuto camminare più a lungo, forse, ma almeno avrebbero raggiunto la strada principale. Dalla saracinesca, infatti, si intravedeva il percorso che portava su per la vecchia cava fino a sopra la costa.

Rachele pigiò il bottone di chiamata, che si illuminò di un pallido arancione. Ma le porte non si aprirono.

La ragazza sbatté le palpebre, confusa. “Reghi, ma… non dovrebbe essere già qui se siamo scesi poco fa?”

“Forse l’ha chiamato qualcuno?” Propose Gabriele.

Un brivido serpeggiò nel gruppo. L’eventualità che ci fosse qualcun altro in quell’enorme parcheggio immerso nella penombra non era qualcosa che le loro menti volevano considerare al momento. Per buona misura, Rachele pigiò di nuovo il bottone nell’infantile speranza di riuscire a velocizzare l’arrivo di quella tanto sospirata lattina semovente. Come previsto, non servì a niente. I cavi continuavano a ronzare incessanti e loro rimanevano bloccati in quel parcheggio senza via d’uscita.

“Anche se dovessimo rimanere qui, non è poi così male.” Esordì Gab, scrollando le spalle. “A me non dispiace come posto.”

“Ma scherzi?” Risposero le tre quasi in coro, girandosi verso di lui.

“È ordinato, silenzioso ed esteticamente bello.” Si giustificò Gab.

“Sei un alieno come loro, Gab.” Federica assottigliò lo sguardo, guardinga. “È l’unica spiegazione possibile. Come ti potrebbe piacere questo posto, altrimenti?”

Rachele e Antonia si scambiarono un’occhiata di assenso e riportarono lo sguardo sull’amico, che le fissava con una strana calma nel volto. Una calma così penetrante. Così glaciale. Ci si poteva quasi perdere. Ci si poteva quasi lasciar convincere da quelle parole. Da quel sorriso così gentile.

Poi, l’ascensore arrivò e infranse quell’atmosfera con un ding.

 


 

 

Note dell'autrice: Nonostante le mie azioni dicano il contrario, non ho affatto abbandonato questo mini-progetto...! Infatti, eccomi con il TERZO capitolo di questa storiella, aggiornata giusto in tempo per il MESE DI HALLOWEEN <3

Spero che vi siate gustati la lettura...!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Loro hanno tutta la notte ***


P

Le porte aperte dell’ascensore furono come un tacito richiamo alla realtà e il gruppetto si ammassò all’interno, premendo il pulsante del piano inferiore per continuare la ricerca della via d’uscita. Rimasero in silenzio ad ascoltare i bip meccanici che accompagnavano la loro discesa, la tensione che si infittiva a ogni secondo. L’unico che sembrava rimanere intoccato dalla situazione era Gabriele, poggiato alla parete con sguardo vagamente assente.

Terzo piano.

“Oh, ecco perché ci ha messo così tanto!” Squittì una signora parandosi di fronte all’ascensore.

I quattro si scambiarono un’occhiata confusa. Non si aspettavano che ci fosse davvero qualcuno a parte loro lì. E la cosa iniziava a non piacergli affatto.

Senza aspettare una risposta, la signora si infilò dentro l’ascensore, seguita a ruota da un uomo con in braccio un cane. L’animale, incredibilmente docile, non accennò neanche a voler annusare quelli che per lui avrebbero dovuto essere nuovi elementi, e rimase immoto, abbandonato tra le braccia del suo padrone.

“Sembra che non respiri neanche…” Sussurrò Antonia alle amiche.

Frastornati da quell’incontro improvviso, si accorsero troppo tardi che gli intrusi avevano già premuto il bottone per salire al piano successivo e si arresero ad attendere che quei due arrivassero al loro piano.

La signora, al contrario del cane e di quello che presunsero essere il marito, si rivelò alquanto loquace e attaccò subito bottone con i quattro. Fu inspiegabile la velocità con la quale riuscì a condensare il racconto della sua vacanza di una settimana nel breve tempo che trascorse nel viaggio dal terzo al quarto piano. Le porte si aprirono, rivelando nuovamente il parcheggio che i ragazzi avevano già esplorato poco prima, e la signora si sporse per guardarsi intorno. Poi, rientrò, visibilmente delusa. Rachele selezionò in tutta fretta il terzo piano, rivolgendole di sottecchi uno sguardo diffidente.

“Siamo qui che cerchiamo di trovare la nostra macchina da un po’ ormai.” Sospirò lei con fare teatrale, lanciando ai ragazzi un’occhiata carica di complicità. “Dopo un po’, certe cose le si dimentica.” E si abbandonò a una breve risatina, coprendosi la bocca con la mano.

Federica e Antonia le rivolsero un sorrisino tirato di circostanza, non sapendo come rispondere. In tutto questo, né cane né marito si erano mossi.

Finalmente, le porte si spalancarono per rivelare il terzo piano e i quattro si catapultarono fuori prima di essere trattenuti per l’ennesima volta in quel maledetto ascensore. Prima che potessero tirare un sospiro di sollievo, la signora bloccò la porta con la mano e li fissò, un sorriso stampato sulle labbra.

“Non preoccupatevi, ragazzi. Prima o poi si trova sempre quello che si cerca.” La linea del suo sorriso si curvò ancora di più, in quello che doveva essere un atto rassicurante. Lasciò che la porta si richiudesse, e con l’ultima lama di luce che ancora le illuminava il volto, aggiunse: “Abbiamo tutta la notte, giusto?” E si lasciò andare a una risata sfrenata, ovattata dalle pareti dell’ascensore.

Rimasero a fissare la fesa di luce che si accorciava sempre di più, sparendo nel pavimento, e il gelo gli invase le ossa. Sentivano un’improvvisa adrenalina pervadergli le gambe, che li spingeva a correre, correre, correre. Quel pizzicore che prende l’interno coscia e i polpacci, che ti allerta a scappare. E quando ogni fibra del tuo corpo ti urla di non rimanere lì inchiodato come un cerbiatto davanti alla canna del fucile di un cacciatore, tu prendi e scappi.

E così fecero.

Uscirono a passo spedito dal parcheggio, provando un muto sollievo al vedere che l’uscita quella volta non era bloccata da una grata. L’aria fresca della sera li accolse come un abbraccio. Non si erano accorti di quanto tempo avevano passato dentro il parcheggio, le luci calde di quel posto li avevano privati del senso del tempo. Il cielo era scuro, ormai. Fortunatamente, la strada si vedeva ancora.

Proseguirono con la fretta che gli mordeva le caviglie, incitando di tanto in tanto Gabriele, che si fermava ora su un punto ora su un altro “per fare foto”, diceva. Lo trascinarono via, sentendo l’urgenza crescere a ogni passo, l’inquietudine che aveva preso a montare in paura. Quella strana sensazione alla nuca non accennava a sparire e le loro gambe continuavano a muoversi, come se il loro corpo fosse conscio di non poter affrontare qualunque cosa fosse quella da cui si stavano allontanando. Come se fosse consapevole di essere nient’altro che preda.

Quando riuscirono a sentire i rumori della strada principale, a scorgerla, accelerarono il passo.

Arrivarono alla fermata senza fiato, lasciandosi alle spalle l’enorme cartello che, a lettere bianche, recitava “Benvenuti a Portopiccolo”.

Una corriera si fermò poco dopo, caricandoli a bordo. Non riuscivano a credere alla fortuna che avevano avuto nell’arrivare proprio al momento giusto per trovare un passaggio verso casa. Dopo aver timbrato i biglietti mostrandoli al conducente, che li approvò con un cenno del capo, si sentirono finalmente cose se tutta quella storia fosse ormai un ricordo lontano. Davanti a loro avevano la magnifica prospettiva di una cena insieme, di un divano e di un film.

Si avviarono lungo il corridoio alla ricerca di un posto dove sedersi, cercando di non disturbare gli altri passeggeri, tutti intenti a guardare il loro telefono o a sonnecchiare contro il finestrino.

“Ehi.”

Continuarono a cercare posto, guidati dalla stanchezza, e ignorarono quel primo richiamo.

“Ehi, voi quattro.”

Si voltarono. Era l’autista.

Li aveva richiamati cauto, girando appena il capo verso di loro, gli occhi sbarrati e vitrei.

Le porte dell’autobus si chiusero con uno sbuffo.

Sussurrò: “Voi non dovreste essere qui.”

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Epilogo ***


P

A distanza di mesi, ci sono ancora molti dettagli sulla nostra avventura in quel luogo che turbano i nostri sonni e le nostre giornate.

Uno fra tutti, il tempo.

Le ore sembravano non passare mai in quel tardo pomeriggio di metà febbraio. Le teorie che ci siamo scherzosamente scambiati in merito lasciavano sempre un alone di inquietudine nelle nostre menti, come un acquerello troppo umido che si allarga a macchia d’olio sul foglio, inesorabile, lento. Il viaggio non poteva essere durato più di due ore e il nostro arrivo a Sistiana sarà stato intorno a mezzogiorno. Avremo finito di camminare per le due e mezza di pomeriggio, massimo le tre, e ci siamo diretti verso quel posto maledetto per le quattro. Quel giorno, il tramonto era previsto per le 17:30. Abbiamo controllato più volte per esserne sicuri. Ma non possiamo averci messo così poco, siamo tutti concordi su questo punto. Né a giungere né a scappare da Portopiccolo. Nei nostri ricordi come nello spazio-tempo, rimane un buco che non sappiamo colmare.

In secondo luogo, le persone.

La totale assenza di forme di vita, a eccezion fatta per la commessa e la peculiare coppia che abbiamo incontrato nell’ascensore, è un elemento che non riusciamo a ignorare. Perfino la natura sembrava ammutolire in quel posto; più ci si allontanava dal mare e più l’unico accompagnamento che si aveva erano i propri passi e una costante tensione che intorpidiva la nuca. Come se sguardi aguzzi come aghi seguissero ogni movimento di chi si avventurava tra le dedaliche vie di quella cittadina. Eppure, allora eravamo coscienti di essere soli. Ora anche quella sicurezza si sgretola come un castello di sabbia asciutta.

In terzo luogo, la perfezione.

Non c’era un singolo elemento fuori posto, dalle case costruite come se uscite da una singola matrice alle pietre squadrate del selciato, della stessa grandezza e colore. I campanelli non avevano nome, le tavole nei ristoranti erano imbandite per clienti che chiaramente non erano lì. O che non erano ancora arrivati. La pulizia in quelle vie, sebbene piacevole a prima vista, denotava un che di malato e maniacale. Come se questo dettaglio dovesse distogliere da altro, da un segreto laido e immondo. Da qualcosa di indicibile, che rubava il sorriso dagli occhi di quella commessa fin troppo cordiale.

Se siamo qui a raccontare la nostra storia, è soprattutto per mettere in guardia il viaggiatore incauto che, meno fortunato di noi, potrebbe trovarsi perso tra le vie di Portopiccolo dopo il tramonto. Corri. Non guardare indietro e corri. Il tempo è qualcosa di misterioso e prima che sorga la luna a rischiarare la tua via, potrebbe essere troppo tardi. Tu, di tempo, non ne hai più.

 

Ma loro hanno tutta la notte.


 

Note dell'autrice: Ammetto di essere MOLTO, ma MOLTO felice di aver finalmente concluso questa storia. Anche perché si tratta della prima "storia" a capitoli che inizio e finisco (ed era anche ora!), quindi so' soddisfazioni!

Gli ultimi capitoli li ho scritti molto di getto, lo ammetto, ma mi piacevano così com'erano quindi non ho voluto ritoccarli più di tanto. Erano spontanei e tanto mi bastava. Spero che questa breve storiella vi sia piaciuta, che vi abbia divertito e, soprattutto, almeno leggermente inquietato <3

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3907184