𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫 || 𝙹𝚘𝚔𝚎𝚛

di Cardiopath
(/viewuser.php?uid=925105)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


𝐋𝐨𝐨𝐤 𝐦𝐞 𝐢𝐧 𝐦𝐲 𝐞𝐲𝐞𝐬

𝐓𝐞𝐥𝐥 𝐦𝐞 𝐞𝐯𝐞𝐫𝐲𝐭𝐡𝐢𝐧𝐠'𝐬 𝐧𝐨𝐭 𝐟𝐢𝐧𝐞

𝐎𝐫 𝐭𝐡𝐞 𝐩𝐞𝐨𝐩𝐥𝐞 𝐚𝐢𝐧'𝐭 𝐡𝐚𝐩𝐩𝐲

𝐀𝐧𝐝 𝐭𝐡𝐞 𝐫𝐢𝐯𝐞𝐫 𝐡𝐚𝐬 𝐫𝐮𝐧 𝐝𝐫𝐲


𝐘𝐨𝐮 𝐭𝐡𝐨𝐮𝐠𝐡𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐜𝐨𝐮𝐥𝐝 𝐠𝐨 𝐟𝐫𝐞𝐞

𝐁𝐮𝐭 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐲𝐬𝐭𝐞𝐦 𝐢𝐬 𝐝𝐨𝐧𝐞 𝐟𝐨𝐫

𝐈𝐟 𝐲𝐨𝐮 𝐥𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧 𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐥𝐨𝐬𝐞𝐥𝐲

𝐓𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐚 𝐤𝐧𝐨𝐜𝐤 𝐚𝐭 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐟𝐫𝐨𝐧𝐭 𝐝𝐨𝐨𝐫

 

────◇────

 

La prima volta che vide Arthur Fleck, nulla degno di nota accadde.

Allora non ne conosceva nemmeno il nome ed il suo volto anonimo si confondeva tra i numerosi altri schierati in fila, come statuette, su di un autobus semipieno, senza distinguersi in alcun particolar modo - lineamenti scavati, stanchi, ma non tanto insoliti da scaturire l'interesse di uno sguardo distratto e frettoloso.

Un altro giorno come tanti a Gotham.

I suoi occhi si poggiarono sull'uomo solo per qualche istante, come su molti altri, durante quei brevi ma grevi istanti che scandiscono la ricerca di un posto non occupato sui mezzi di trasporto. Quando finalmente - dopo pochi, pochissimi minuti che pure le apparvero come ore intere - individuò un sedile libero, vi si sedette con cautela, cercando di non causare rumore né di disturbare involontariamente alcun passeggero.

Il mondo era un posto terribile, ma Gotham sapeva essere forse ancor più terribilmente crudele.

Evitava sguardi che sentiva pesanti dietro la nuca, assennati e giudicanti. L'assordante e vacuo silenzio impostosi prepotentemente nell'autobus non faceva che agitarla, lasciando tanto, troppo spazio a vorticosi pensieri che avrebbe preferito celare dietro ai consueti rumori del veicolo e al chiacchiericcio concitato che solitamente lo avvolgeva. Eppure il silenzio regnava incontrastato, come una triste e amara metafora dell'indifferenza umana.

In quel luogo così vuoto eppure così pieno, avvertiva l'ineluttabile luce dei riflettori puntateli addosso - ma lo erano poi davvero? Sapeva quale fosse la verità, ma a volte la differenza tra sapere e consapevolezza è tanto netta quanto invalicabile.

Come scappare dai propri pensieri? Nemmeno la sua terapista sembrava saperlo.

Internamente, si dannava per la sua stupidità: come aveva potuto essere tanto incauta da non procurarsi previdentemente un libro, una rivista, una qualsiasi fonte di distrazione dal terrificante senso di voragine che sapeva l'opprimesse normalmente in pubblico, sui mezzi di trasporto in particolar modo?

E dunque, al momento, intenta a smorzare al meglio gli effetti di ipocondria e paranoia incontrollate, aveva altro a cui pensare, altro di cui preoccuparsi - Arthur Fleck non era che un altro sconosciuto dal cui giudizio tentava inconsciamente di scappare.

D'altronde, la mente, proprio come il destino, funziona in modi imperscrutabili.

Il tremolio ed il sudore delle sue mani, giunte come in preghiera, iniziava ad infastidirla e più volte si ritrovò a sfregarsele contro i pantaloni in un vano tentativo di asciugarle. Rivolse lo sguardo al finestrino, cercando di dissimulare calma e disinteresse. Ma il terribile tremolio della sua gamba destra non le permetteva di distrarsi mai completamente, mai abbastanza da ignorare del tutto la discussione che frantumò violentemente il silenzio di quel viaggio infernale.

Si sentì piccola, come le succedeva spesso, ed impotente. Provava spesso rabbia dinnanzi al comportamento apatico e burbero dei cittadini di Gotham, ognuno di loro tremendo giudice ed esecutore che, nel proprio piccolo, contribuiva a rendere la città un posto sempre più patetico e degradato. Ma era al contempo cosciente dell'ipocrisia del proprio odio verso quegli schivi e maliziosi individui - lei stessa non era forte abbastanza da opporsi, da alzare lo sguardo e almeno tentare di ribaltare la ruota.

Poteva solo compatire, bloccata nel suo personale e violento silenzio, l'ennesimo capro espiatorio di una società marcia dalle radici, crudelmente schernito senza alcun apparente motivo se non per il crudo cinismo che adottavano le vittime di un mondo malato e perverso - perché alla fine, chi non poteva definirsi vittima a sua volta? Chi carnefice?

Non era riuscita a cogliere cosa avesse scaturito l'alterco, ma non se ne interessò - qualsivoglia litigio, o conflitto anche solo verbale non serviva ad altro se non a fomentare le sue ansie e il panico che le accompagnava. Chiuse gli occhi, in un vano tentativo di isolare suoni, voci e sguardi - eppure continuava a sentirsi una patetica ameba, una codarda e una debole, non poi così dissimile, nel proprio silenzio, dalla folla urlante di aggressori che tanto odiava.

Aveva imparato da tempo ormai, che nulla può ferire più di un silenzio.

Ma il senso di colpa che man mano andava acuendosi non faceva altro che agitarla ancor più - il caos non proveniva da fuori, ma da dentro.

Fu solo quando una fragorosa risata echeggiò tra i sedili, che finalmente ebbe il coraggio di voltarsi, spinta da un miscuglio di curiosità e timore. I suoi occhi ricaddero sull'uomo trasandato che aveva scorto al suo ingresso nell'autobus, seduto vicino al finestrino. Cercando invano di coprirsi la bocca con le mani, appariva contrito, affogando sulle sue stesse isteriche risate: il suono era vuoto, privo di gioia e quasi forzato. Le vennero i brividi al sentirlo, e fu ancor più toccata da quell'espressione quasi sofferente che l'uomo indossava a malincuore - chiunque avrebbe potuto capire che ne fosse mortificato.

La donna seduta dinnanzi a lui prese con aria infastidita il bigliettino offertole e, dopo averne letto il contenuto, si voltò indignata senza proferire parola. Almeno il peggio era finito.

Conosceva bene quei biglietti, un consistente numero di uomini e donne che aveva conosciuto ai servizi sociali se ne serviva per spiegare la propria condizione quando essa ne incapacitava la vocalità. Povere anime costrette in un modo o nell'altro a limitare e limitarsi nelle grinfie di malesseri di cui spesso non si conosceva nemmeno il nome.

Il peso dell'umiliazione iniziava a schiacciarle il petto, ed un doloroso nodo le si strinse attorno alla gola - come si poteva essere tanto indifferenti, tanto meschini da voltare le spalle ad un uomo palesemente in difficoltà? Quanta poca umanità albergava ormai nei cuori della gente? Si vide allora al posto dell'uomo e capì che nei suoi panni avrebbe certamente desiderato e apprezzato il minimo atto di sostegno, un qualsiasi gesto di compassione che potesse rassicurarlo che no, non doveva penarsi per qualcosa che non riusciva a controllare - che non avrebbe dovuto scusarsi, che non era colpa sua-

Calato nuovamente il silenzio, prese finalmente una decisione. Attese ancora un istante per calmarsi, per ripassare le parole che avrebbero di lì a poco rotto nuovamente quell'omertoso ed ignobile silenzio - le sue parole - , per convincersi che sarebbe riuscita a parlare senza ridicolizzarsi, se non per amor proprio, per assicurarsi che l'uomo stesse bene e fu allora, con voce sottile e leggermente rauca, che si liberò - anche solo momentaneamente, per un misero istante - si liberò delle catene che le attanagliavano la gola:

"Mi- mi scusi, si sente bene?"

Rabbrividì internamente per essere inciampata su di una frase tanto breve e semplice, ma proprio quando iniziava ad avvertire nuovamente la rivelatrice voragine allo stomaco che conosceva tanto bene, l'uomo si voltò verso di lei, quasi sorpreso. Non disse nulla per un paio di secondi, e lei si accorse di quanto espressivi fossero i suoi occhi.

Inizialmente non ruppe il silenzio, ma un lieve sorriso si distese sulle sue labbra e annuí col capo. Ne fu estremamente sollevata, e anche lei gli sorrise.

"Grazie." sussurrò poi semplicemente l'uomo, e nelle sue parole colse un senso di gratitudine tanto genuino quanto inaspettato. Lo accolse con altrettanta gratitudine, lasciandosi finalmente sfuggire un sospiro di sollievo. Non avevano bisogno di dire altro.

Nell'autobus calò nuovamente il silenzio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


breve avviso per capire il capitolo: ogni "pezzo" del capitolo diviso da una partizione apposita è narrato da un punto di vista diverso, alternando tra la nostra OC e Arthur. Spero di esser riuscita a rendere la sua personalità in maniera decente, mi sono resa conto che è un personaggio super difficile da scrivere. hope you enjoy xoxo ]

 

────◇────

 

𝐖𝐞'𝐥𝐥 𝐧𝐞𝐯𝐞𝐫 𝐠𝐞𝐭 𝐟𝐫𝐞𝐞

𝐋𝐚𝐦𝐛 𝐭𝐨 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐥𝐚𝐮𝐠𝐡𝐭𝐞𝐫

𝐖𝐡𝐚𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐠𝐨𝐧' 𝐝𝐨

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫

 

𝐓𝐡𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐨𝐟 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐠𝐫𝐞𝐞𝐝

𝐈𝐬 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐬𝐨𝐧 𝐚𝐧𝐝 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐝𝐚𝐮𝐠𝐡𝐭𝐞𝐫

𝐖𝐡𝐚𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐠𝐨𝐧' 𝐝𝐨

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫

 

────◇────

 

Il secondo incontro con Arthur Fleck fu ben più significativo.

Non aveva mai creduto alle coincidenze, la sua indole romantica veniva spesso a scontrarsi col suo senso pratico, arenandosi contro la necessità di agire e ragionare in maniera concreta per necessità, al fine di sopravvivere in un mondo che lasciava ben poco spazio ad inutili fantasticherie. Eppure, ecco che ancora una volta l'universo riusciva a dimostrare quanto fosse complesso il suo funzionamento – o quanto semplice, a seconda dei punti di vista.

Gotham, dopotutto, non era che una città: un'enorme metropoli, per certo, ma dotata come tutte le altre sue simili di confini ben precisi, nonostante nell'immaginario comune venissero accettati come barriere invalicabili, o addirittura irraggiungibili. Si diceva che Gotham ingurgitasse qualunque cosa o persona vi mettesse piede, senza mai lasciarla veramente andare.

Una volta dentro, ci si era per sempre.

Per questo motivo non si sorprese poi così tanto nello scorgere quei capelli trasandati e quei tormentati occhi nella la folla, che, quella volta, spiccarono tra gli altri come lucciole nella notte. Avrebbe voluto avvicinarsi sin da subito, ancora una volta incuriosita, guidata da un'imperscrutabile attrazione che quasi riusciva a visualizzare nella propria mente come un filo luminoso che la conduceva a lui.

Per un momento, si lasciò cullare da quel candido pensiero, sentendosi così stranamente affine a quell'uomo che nemmeno conosceva.

Ma poi sembrò svegliarsi come da una trance, e i suoi pensieri si fecero sempre più petulanti ed opprimenti, quasi a volerla rimproverare per le sue sciocche fantasticherie. E se poi non l'avesse riconosciuta? Se si fosse dimenticato del suo viso, del breve scambio di battute sull'autobus? Sarebbe rimasta come un pesce fuor d'acqua, pronta ad esser derisa dall'intero stormo di passanti e magari anche dall'uomo stesso. Si sarebbe sentita patetica, come già era successo mille altre volte.

E poi quell'uomo nemmeno lo conosceva, e poteva non essere tanto suscettibile a sentimenti repentini come lo era lei - molti l'avevano derisa e canzonata per la sua eccessiva sensibilità, che la rendeva la pecora nera del gregge. Ormai aveva imparato a sopprimerla quanto più possibile. 

Eppure l'uomo non le era sembrato capace di commettere cattiveria alcuna, e forse era proprio quell'aria così inusualmente gentile di sommessa bonarietà che fomentava quel fulmineo e quasi morboso interesse. Forse era la sensazione e la flebile speranza di aver finalmente trovato qualcuno affine alla sua indole, non qualcuno da cui nascondersi, ma con cui capirsi. 

Poteva inoltre vantarsi di aver avuto da sempre una spiccata intuizione, coronata da una forte empatia che l'attraeva irrimediabilmente verso le anime buone e spassionate, senza ulteriore interesse dietro le proprie azioni che il desiderio di aiutare e aiutarsi – il che spiegava il motivo per cui si ritrovava più che mai sola in quella lugubre metropoli dimenticata da Dio.

Ma poteva sbagliarsi.

Le sue osservazioni nascevano da brevi, anzi brevissimi, attimi di contatto con quell'uomo che avrebbe tranquillamente potuto rivelarsi un criminale come tanti per quanto ne sapesse. 

Eppure ne dubitava.

Quando i suoi occhi catturarono lo sguardo dell'uomo, capì che tutti i suoi timori erano infondati. Il sorriso che graziò quel fragile volto le disse tutto ciò di cui aveva bisogno: l'aveva riconosciuta e lei non aveva nulla da temere. Come contagiata, sorrise serenamente, avvicinandosi al botteghino accanto cui l'uomo si era fermato. Non ebbe il tempo di preoccuparsi di cosa dire, per come salutarlo, perché quell'individuo che appariva così bizzarramente estraneo nel caos malevolo di Gotham City le porse, esitando solo per un attimo, la mano e si presentò con fare cordiale:

"Sono Arthur, Arthur Fleck. Tu eri sull'autobus..." disse incerto, come se non fosse poi così sicuro della propria affermazione. 

Non volendo rendere imbarazzante lo scambio, si accinse a rispondere prima che il silenzio si distendesse eccessivamente: "Sì, sì – mi ricordo."

Ricambiò la stretta e si presentò a sua volta, tentando al meglio delle sua abilità di non balbettare, né inciampare come suo solito sulle proprie parole. Si sarebbe odiata se fosse riuscita a rovinare quell'incontro per via del suo fastidioso problema.

Notò che l'uomo aveva un'aria molto più quieta di quando lo aveva visto per la prima volta, non del tutto rilassata, ma appariva sicuramente più a suo agio e se ne felicitò.

"Mi dispiace molto per quello che è successo sull'autobus, alcune persone riescono ad essere alquanto..." mille parole le vennero in mente per descrivere l'insensibile comportamento di gran parte della popolazione urbana, una meno gentile dell'altra.

"Non importa, sei stata l'unica a preoccuparsi per me, e ti ringrazio. Ciò che conta è continuare a ridere nonostante tutto, non credi?"

"E' sicuramente una bella filosofia di vita." sorrise, cogliendo sul volto di Arthur – pensò che le piaceva molto quel nome e che gli stesse a meraviglia - un'espressione, seppur incurvata in un sorriso, stanca e provata. In quel momento avrebbe voluto consolarlo, ma non sapeva bene né il perché né il come.

"Sai" continuò Arthur con una strana frenesia: "io sono un comico, mi piace far ridere la gente. Se ti va, qualche volta dovresti venire al mio show."

Per un attimo ci pensò, ancora preoccupata perché continuava a reprimandarsi che sì, quell'uomo era uno sconosciuto, che i suoi bei modi potevano facilmente rivelarsi una farsa per adescare vittime ingenue e che per l'amor del cielo, stavamo parlando di Gotham City dopotutto!

Arthur si accorse dell'esitazione che la ragazza probabilmente aveva spiattellata in viso, e aggiunse, leggermente sconsolato, ma senza perdere il sorriso: "Scusami, non avevo pensato a quanto losco potesse sembrare, ma non ho in mente nulla del genere, credimi. Mi farebbe piacere rivedere il tuo sorriso, come sull'autobus."

A quelle parole, sentì le proprie guance e le orecchie ribollire, e sapeva che probabilmente un rossore alquanto evidente avesse tinteggiato quegli stessi lembi di pelle in maniera assolutamente poco discreta. Da quando si era disabituata alla gentilezza disinteressata?

"Oh – uhm – okay, sì, certo – ne – ne sarei molto felice." Concluse pietosamente, lasciandosi prendere dall'agitazione. Un giorno, ne era sicura, si sarebbe cacciata nei guai per la sua ingenuità.

"Cosa- cosa ne dici di fare due passi assieme?" propose di getto. Almeno, passando più tempo con l'uomo sarebbe riuscita a capire che tipo di persona fosse quell'Arthur Fleck e, nel peggiore dei casi, gli avrebbe detto addio per sempre quella sera stessa. Giusto?

"Se non – se non hai altri impegni ovviamente!" farneticò, dandosi più volte della stupida per non averci pensato prima.

Arthur, che la guardava con ciò che poteva essere un misto di approvazione e tenerezza, le rispose che non aveva un granché da fare, la vita di un comico non è poi così impegnata quanto si può pensare (o così aveva detto lui).

"Sai, da piccolo mia madre mi diceva sempre che avrei dovuto lavorare per ridere. Le risposi che non se ne sarebbe dovuta preoccupare, perché tanto sarei diventato un comico."

Iniziò a ridacchiare, coprendosi la bocca con una mano. Si accorse che Arthur la guardava con intensità e, avendo paura di aver rovinato il momento con il suo acuto sghignazzare, abbassò lo sguardo imbarazzata. Lui, che fino a quel momento aveva tenuto le mani nelle tasche della giacca, prese la sua ancora intenta a nascondere la bocca e gliela spostò con gentilezza. Pur trasalendo all'inaspettato contatto fisico – le sue mani erano fredde, ma grandi e delicate, tutte angoli e tremolii – lo guardò con incertezza, e si sentì invadere da un calore che accolse con leggerezza e serenità. Non si era mai sentita così rassicurata da un essere umano prima d'allora, nemmeno la sua terapista riusciva a trasmetterle tanta calma. Andrà tutto bene, pensò.

"Hai una bella risata." sorrise lui e capì che lo pensava davvero, perché non aveva mai distolto lo sguardo mentre le parlava.

Fu allora che Arthur iniziò a tossire, lasciando trapelare risatine sempre più fragorose tra gli schioppi e gli schiocchi di quell'ennesimo inesorabile attacco. Si piegò in avanti, senza disgiungere le sue mani dalla sua, mentre con l'altra tentava di stabilizzarsi, appoggiandola sulla gamba a mo' di gobbo. Lei non osò fiatare, nonostante gli occhi della folla intorno continuavano a soffermarsi petulantemente sulla scena. Il panico iniziava a rigirarle lo stomaco, ma si fece coraggio come potette e tentò di ignorare il peso degli sguardi di quegli avidi spettatori; poggiò cautamente, allora, una mano sulla spalla dell'uomo, provando a rassicurarlo nell'unico modo che conosceva. Il cuore le si strinse e odiò profondamente tutti coloro che guardavano da lontano, giudicando silenziosamente senza mai avvicinarsi troppo, come spettatori di un circo degli orrori – un ribrezzo mai provato le inasprì la lingua e le diede la forza di non sciogliersi sotto i riflettori. Stette accanto ad Arthur fino alla fine del coro di risate sconfusionate, accarezzandogli gentilmente la schiena e tentando al meglio delle proprie capacità di supportarlo. Andrà tutto bene, pensò nuovamente.

Quando finalmente si fu calmato, si rialzò con fare goffo e proprio mentre era sicura stesse per abbozzare delle scuse, lei lo fermò:

"Anche tu hai una bella risata."

Forse, la parte migliore della vita sono proprio le coincidenze.

────◇────

Arthur sentì il proprio cuore più leggero, più vivo e più motivato nel suo incessante palpitìo. Era felice, così felice di non aver perso la ragazza dell'autobus, di averla incontrata e di averla poi seguita: aveva capito sin da subito che tipo di anima fosse, un'indole gentile, ma soprattutto tormentata. Lo vedeva da quei piccoli gesti di imbarazzo, dalla maniera in cui la sua voce sembrava spezzarsi mentre parlava, da come cercava di scansarsi discretamente dalle persone che le camminavano troppo vicine sul marciapiede.

Lui la vedeva. Vedeva il suo portamento insicuro e i suoi occhi pieni di sincera dolcezza, vedeva il suo timido sorriso e la speranza che lo illuminava e in quella ragazza riusciva quasi a riconoscere se stesso, con le sue paure, le sue sofferenze, la sua voglia di cambiamento. Decise che aveva bisogno di aiuto, che l'avrebbe aiutata a non aver paura della propria risata, a cogliere la tragica comicità del tutto e alla fine avrebbero riso assieme.

Perché lui era convinto che anche lei lo vedesse, che riuscisse a vedere il vero lui, un lui che via via iniziava a farsi più prominente e diventava sempre più percettibile anche da chi tentava in tutti i modi di scappare dalla verità, di offuscarla, di sopprimerla. Arthur sapeva di aver trovato finalmente un'anima affine, che riusciva ad ergersi dalla grande pila di spazzatura e rottami che era ormai diventata Gotham City, una città che pensava essere ogni giorno di più senza perdono né redenzione. Si disse che avrebbe voluto tenerla con sé e rassicurarla come lei aveva rassicurato lui, starle accanto e proteggerla – proteggerla da un mondo crudele e malato – ridacchiò tra i denti al pensiero: tutti puntavano il dito contro persone come lui e la ragazza dell'autobus, ma i veri malati del mondo non si accorgevano mai di esserlo.

Non vedeva l'ora di sentire ancora la sua risata e di raccontarle le sue battute

────◇────

"Penso che nessuno dovrebbe avere il diritto di prendere la vita di qualcun altro."

In un mondo ideale avrebbe concordato con lei, ma la realtà è diversa, così distorta.

"Ogni vita va rispettata."

Avrebbe voluto che qualcuno avesse rispettato la sua.

Lei gli strinse la mano.

"Ma capisco purtroppo che chiunque oggigiorno potrebbe esser spinto ad un'azione del genere. In che razza di società viviamo? I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sono lasciati a se stessi, nemmeno le briciole. Il centro dei servizi sociali ha chiuso, ed ora non abbiamo nemmeno più un punto di riferimento."

Le sorrise, con quell'aria di chi ammira un tesoro raro che desidera tenere per sé. L'avrebbe protetta, avrebbe portato giustizia.

"Quanto vorrei che le cose cambiassero."

Oh, ma lo faranno ben presto.

────◇────

Lo strinse forte tra le sue braccia, sembrava distrutto e sull'orlo del precipizio. Quanta tristezza, quanto inesorabile dolore nei suoi occhi. Lo abbracciò ancor più forte, nascondendo la faccia nell'incavo del suo collo. Avrebbe voluto guarire ogni sua sofferenza, spazzare via con un soffio ogni preoccupazione. Avrebbe voluto sanare tutti i soprusi, le angherie subite. Avrebbe voluto giustizia.

Gli accarezzò piano i capelli, e poco a poco lo spinse a stendersi sul divano assieme a lei, guardandosi finalmente negli occhi. Li ammirò, li amò. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per anche solo alleviare parte di quell'enorme fardello che si trascinava dietro. Ma sapeva che era impossibile,che per quanto forte si potesse amare qualcuno, l'amore non sarebbe mai stato abbastanza.

Non poteva far altro che esserci per lui, sostenerlo, stare al suo fianco a raccogliere i cocci. Come aveva fatto lui per lei numerose volte – durante gli attacchi di panico, dopo una lunga e stancante giornata, quando si identificava più con il suo disturbo mentale che con se stessa. Quante volte lui l'aveva aiutata a rialzarsi, tranquillizzandola, amandola a sua volta.

E così fece, e lo baciò sulle labbra come mille altre volte, sperando che sentisse, che capisse:

Ce la faremo, ce la farai. Andrà tutto bene.

Si strinsero l'uno all'altra e passarono l'intera notte avvinghiati come se la loro vita ne dipendesse. Si svegliarono solo nel pomeriggio, entrambi con un terribile dolore alla schiena.

────◇────

Risate, risate e ancora risate.

Ballavamo senza musica ed era perfetto.

Se solo potesse rimanere tutto così, per sempre.

────◇────

Spero tu non sia un'allucinazione

Spero tu non sia un'allucinazione

Cos'è reale? Chi lo decide? 

NON LASCIARMI

Cosa dice il becchino alla sua bara?

Morirei per te

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***


𝐁𝐞𝐠 𝐦𝐞 𝐟𝐨𝐫 𝐦𝐞𝐫𝐜𝐲

𝐀𝐝𝐦𝐢𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐰𝐞𝐫𝐞 𝐭𝐨𝐱𝐢𝐜

𝐘𝐨𝐮 𝐩𝐨𝐢𝐬𝐨𝐧𝐞𝐝 𝐦𝐞 𝐣𝐮𝐬𝐭 𝐟𝐨𝐫

𝐀𝐧𝐨𝐭𝐡𝐞𝐫 𝐝𝐨𝐥𝐥𝐚𝐫 𝐢𝐧 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐩𝐨𝐜𝐤𝐞𝐭

𝐍𝐨𝐰 𝐈 𝐚𝐦 𝐭𝐡𝐞 𝐯𝐢𝐨𝐥𝐞𝐧𝐜𝐞

𝐈 𝐚𝐦 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐢𝐜𝐤𝐧𝐞𝐬𝐬

𝐖𝐨𝐧'𝐭 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐩𝐭 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐜𝐞

𝐁𝐞𝐠 𝐦𝐞 𝐟𝐨𝐫 𝐟𝐨𝐫𝐠𝐢𝐯𝐞𝐧𝐞𝐬𝐬

 

────◇────

 

Non vedeva Arthur Fleck ormai da settimane, e nella sua mente il distacco improvviso pesava come anni e anni di separazione. Lei ed Arthur non avevano mai ufficialmente dato nome alla loro relazione, ma entrambi si erano fino ad allora sforzati di trascorrere quanto più tempo possibile assieme, traendo reciprocamente conforto dalla compagnia: il tassativo e monopolizzante lavoro di Arthur era un terribile ostacolo, ma nulla che potesse placare la determinazione di un nascente amore che entrambi percepivano quasi come fiabesco. Mai aveva conosciuto dolcezza più accogliente di quella offertale tanto calorosamente da quell'uomo: Arthur continuava a curarsi di lei in maniera totalmente disinteressata, come nessuno per lei aveva mai fatto e ne era diventa tata assolutamente dipendente. Lui aveva bisogno di lei, e lei aveva bisogno di lui – nulla di più, nulla di meno.

Chi l'avrebbe mai detto che l'amore potesse veramente nascere nei posti più improbabili.

Era consapevole che il rapporto quasi simbiotico creatosi tra loro fosse in procinto di sfociare in una dipendenza tossica – e di relazioni tossiche sapeva ben troppo -, ma nemmeno i medicinali che era abituata ad ingerire quotidianamente riuscivano ad assicurarle il sollievo che provava quando Arthur anche solo le stringeva la mano. E lui aveva dato adito ai suoi sentimenti tanto quanto lei, rendendo palese il suo incondizionato affetto con azioni e parole: lei era diventata il pilastro portante della sua esistenza, gli aveva dato forza quando il mondo lo aveva lasciato sanguinante ai bordi di un marciapiede, schiacciato dal peso dell'odio verso se stesso. Il solo pensiero di poterla vedere a fine giornata era abbastanza per non lasciarsi affogare nella tragedia che la sua vita era diventata.

Faceva tesoro dei sorrisi, dei momenti di leggerezza e spensierata allegria tanto quanto dello sconforto, della più misera disperazione condivisa reciprocamente, in modo da alleviarne le bastonate. Come poteva mai meritarsi tanta gentilezza quando nella sua vita aveva solo conosciuto violenza e rifiuto? Prima da sconosciuti, poi dalla sua stessa madre e ancora da colui che aveva scoperto essere l'unica pretesa di figura paterna a cui poteva appigliarsi. Gli aveva fatto così male - lo sdegno che colmava gli occhi di chiunque incrociava il suo sguardo era prima stato intollerabile, persino peggio dei colpi inflittigli innumerevoli volte sulle magre braccia, sul costato, in faccia. Ma anche quel disgusto quotidianamente riservatogli dalla folla gli era diventato familiare col passare degli anni.

Aveva finalmente scoperto che l'unica persona la cui risata contava veramente gli era accanto, giunta all'improvviso, quando meno se lo aspettava - che ilare scherzo del destino - e avrebbe dato qualunque cosa per scappar via con lei per nasconderla e salvarla da quella miseria, in un mondo lontano dall'ingiustizia e dalla cattiveria, un mondo fatto apposta per due. Prima di conoscerla, prima di incontrare il suo pallido raggio di sole, aveva faticato a mantenere il suo sorriso intatto, ad andare aventi quando qualsiasi senso dell'orientamento possedesse era venuto meno, a vivere e sopravvivere nella folla di maschere ed occhi di ghiaccio perennemente semichiusi. Tutti sembravano aver perso il lume della ragione tranne lui.

Ma più che mai grazie a quel fatuo ed inaspettato incontro con una singolare anima affine, aveva capito che per vivere in quel mondo utopico che tanto desiderava, avrebbe dovuto crearselo - se Gotham riusciva ormai a comprendere ed ascoltare solo la violenza, violenza è ciò che avrebbe avuto.

-

"Non muoverti, rendi tutto più difficile così." provò a rimanere seria, ma uno sghignazzo le proruppe dalle labbra guardando il volto di Arthur contorcersi in smorfie esageratamente drammatiche.

Seduto sul suo sgabello, lui sorrise, ma con uno sguardo giocoso continuò con le sue buffonate mentre lei guidava il pennello sul suo volto tra risatine e sciocchi battibecchi. Infine gli diede un bacio:

"Vai e mostragli quanto vali."

"Li stenderò tutti."

-

Gotham finalmente lo vedeva, riusciva a vedere il vero lui, la sua miserabile e tragicomica esistenza che non era più la sua, ma quella dell'intera città.

Le maschere della folla si erano fuse in un unico volto, l'unica maschera in simbolo.

C'era solo voluta una piccola spinta e quello sporco e malato sistema era collassato sotto il peso della verità, assaltato al suon di un grido di giustizia più potente di qualsiasi politico corrotto, più amaro di ogni promessa infranta e più sanguinoso di qualunque.

Era l'urlo della vendetta, il richiamo della rivolta e soprattutto, l'inizio della fine.

-

Strinse una mano sulla bocca come a evitare che il prorompente urlo di dolore riuscisse a squarciare il silenzio. I suoi occhi sgranati erano puntati sul televisore e minacciavano di scoppiare in un sonoro pianto, fomentati da un incredulo senso di orrore che le cresceva in petto man mano che le inquietanti immagini si susseguivano sullo schermo. Quello che vedeva davanti ai suoi occhi non era che un fantasma che, era sicura, sarebbe presto tornato a tormentarla.

-

Uno, due, tre colpi alla porta chiusa a chiave.

Le strade non erano sicure, gli appartamenti potevano esserlo ancor meno.

Non voleva aprire la porta – no, no, no, no, no, no –, era terrorizzata, tremava, chi poteva mai essere? A quell'ora chi mai poteva volere qualcosa da lei – lei che solitamente era tanto ostracizzata - se per il vicinato era norma evitare il suo uscio – l'uscio della pazza -come fosse una piaga?

Ancora un colpo, non forzato, lieve come gli altri tre.

In preda al panico si avvicinò in punta di piedi alla porta, cercando di non far rumore. Spiò dall'occhiello e ciò che vide la fece rabbrividire: un uomo, un uomo il cui volto pur ricoperto di cerone e sangue e pittura colorata riconobbe immediatamente. No, no, no, no-

Sorrideva, uno di quei suoi sorrisi sgargianti, che solo poche altre volte aveva potuto ammirare. Il vermiglio sorriso che gli si stendeva in volto appariva ora quasi grottesco così fuori posto su quell'accecante volto bianco. Eppure i suoi occhi - così brillanti e speranzosi, come poteva lasciarlo lì fuori? L'uomo che pensava di aver amato così tanto? L'uomo con cui aveva condiviso così tanto?

Era spaventata, era confusa e, soprattutto, indecisa sul da farsi. Arthur – o almeno chiunque fosse quell'uomo alla porta che una volta era stato il suo amato Arthur – non le avrebbe mai fatto del male, mai; ma come poteva fidarsi di lui, di Joker, dopo tutte le verità nascoste e settimane di silenzio? Settimane di silenzio compensate solo dagli agghiaccianti aggiornamenti del telegiornale, l'unico mezzo rimastole per avere notizie dell'uomo che credeva esser stato speciale.

Un altro tocco, un risolino, un sussurro del suo nome.

"Lo so che ci sei, fiorellino – apri la porta, sono qui per te."

Quelle parole, pronunciate con una smielata dolcezza che quasi la nauseava, le gelarono il sangue. Decise di chiamare il suo nome, il suo vero nome, da uomo ormai morto e sepolto, sperando disperatamente di suscitare una qualche reazione che potesse farla sperare che forse Arthur fosse ancora lì con lei. D'altronde, sapeva che non avrebbe più potuto nascondere la sua presenza e temeva che presto quell'imprevedibile uomo che bussava alla sua porta avrebbe perso la pazienza. Ciò che ricevette in risposta al suo tentativo di parlare con Arthur e non con quel mostro che si faceva chiamare Joker, fu una prorompente risata.

"Su, fiorellino" riuscì ad articolare tra uno sghignazzo e l'altro: "sono impaziente di vedere il tuo splendente sorriso, non sai quanto mi è mancato." canzonò appoggiandosi alla porta con uno sguardo sognante – era certa che qualunque cosa gli fosse successa, quell'uomo aveva ormai perso ogni contatto concreto con la realtà e ciò la spaventava non poco.

Prese la decisione al tempo stesso più incosciente e coraggiosa di tutta la sua vita, spinta anche dal terrore di ciò che le sarebbe potuto succedere se avesse finito per suscitare l'ira di quell'individuo ormai pericolosamente instabile: con una risolutezza che non sentiva affatto in cuor suo, aprì la porta.

L'uomo fece un passo indietro e, vedendo finalmente il volto del suo adorabile fiorellino, proruppe in un sorriso tanto genuino quanto preoccupante. Colmò poi la distanza tra i due corpi e, chiudendo la porta alle sue spalle, strinse la donna tra le sue braccia in una morsa che parve quasi asfissiarla. Per un attimo, ascoltando l'impetuoso battito del cuore di Joker ed il suo incostante respiro, quasi riconobbe in lui l'ombra del suo ormai amante scomparso.

L'illusione venne presto spezzata dal suo crescente panico che, come una serpe, si attorcigliava al suo stomaco e offuscava i suoi pensieri: respirare, in quella stretta opprimente, diventava sempre più difficile e quasi le sembrò di iniziare a fluttuare, non riuscendo più a toccare il pavimento. Provò a parlare, a pregare di liberarla, ma i suoi gemiti le morirono in gola.

Quando l'uomo allentò la morsa sembravano ormai passati secoli e la sua scura espressione non fece altro che fomentare la terribile sensazione di trovarsi sull'orlo del precipizio, a pochi secondi dal perdere l'equilibrio e precipitare nell'oscurità.

"Ho bisogno- le pillole- io-" affannò disperatamente, tra un gemito e l'altro. Ma l'uomo non si mosse e continuò a fissare il suo volto come se fosse la più maestosa tra le opere d'arte che avesse mai visto. Poi sorrise, e mai nella sua vita le fece desiderare tanto di cancellare quello stupido ghigno dalla sua faccia, di rubare quell'allegria a suon di pugni e insulti.

"Arthur- Lascia- Lasciami andare" provò ad allontanarsi spingendo contro il petto dell'uomo, ma ogni suo sforzo fu inutile – le braccia tremavano incontrollabilmente e più i minuti passavano, più si sentiva esausta.

"Dopo tutto quello che ho passato per ritrovarti, come potrei lasciarti andare ora?" e mentre sussurrava questa ed altre moine nel tentativo di calmarla, una sua mano iniziò ad accarezzarle il volto, asciugando le lacrime cha avevano cominciato a rigarlo.

"Su, su – ora va molto meglio, no?" canzonò, come stesse parlando ad una bambina: "che ne dici di mostrarmi un bel sorriso ora, eh?"

Prima ancora che potesse realizzare cosa stesse succedendo, l'uomo prese le mani della ragazza tra le sue e le poggiò sul suo volto, sporcandole di pittura e-

sangue?

Intontita, realizzò troppo tardi le intenzioni dell'ormai rinomato criminale e non potette che trasalire quando le sue stesse mani, ormai macchiate di quel vermiglio liquido, iniziarono a tracciare sotto i comandi dell'uomo un largo sorriso sulla sua faccia. Era nauseata.

"Sei bellissima."

Quel bacio inaspettato, quella violenza che si mascherava da passione, fece scattare qualcosa di improvviso nel cuore della ragazza: il pianto si tramutò in isteria, poi in risate e ancora in convulsi gemiti , alternati a sghignazzi raggelanti. Un senso di profonda apatia inizò a pervaderla, al punto tale che non riuscì più a riconoscere nemmeno cosa fosse reale e cosa no. Accarezzò il volto di quel mostro e danzò con lui sulle note di una melodia maledetta, mentre ancora le lacrime si confondevano coll'acuto squillio delle risate. Quella frenetica e scanzonata melodia pervase completamente la sua mente, quasi automatizzando i suoi movimenti - nemmeno si accorse di avere una pistola in mano.

"Raccontami una barzelletta, Arthur."

 

────◇────

𝐖𝐞'𝐥𝐥 𝐧𝐞𝐯𝐞𝐫 𝐠𝐞𝐭 𝐟𝐫𝐞𝐞

𝐋𝐚𝐦𝐛 𝐭𝐨 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐥𝐚𝐮𝐠𝐡𝐭𝐞𝐫

𝐖𝐡𝐚𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐠𝐨𝐧' 𝐝𝐨

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫?

 

𝐓𝐡𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐨𝐟 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐠𝐫𝐞𝐞𝐝

𝐈𝐬 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐬𝐨𝐧 𝐚𝐧𝐝 𝐲𝐨𝐮𝐫 𝐝𝐚𝐮𝐠𝐡𝐭𝐞𝐫

𝐖𝐡𝐚𝐭 𝐲𝐨𝐮 𝐠𝐨𝐧' 𝐝𝐨

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫?

 

 

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫

𝐖𝐡𝐞𝐧 𝐭𝐡𝐞𝐫𝐞'𝐬 𝐛𝐥𝐨𝐨𝐝 𝐢𝐧 𝐭𝐡𝐞 𝐰𝐚𝐭𝐞𝐫

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3939089