Like a bridge over troubled water (I will lay me down)

di futacookies
(/viewuser.php?uid=494026)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - parte prima ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - parte seconda ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - prologo ***






 

Like a bridge over troubled water

(I will lay me down)



 


Era una splendida giornata per commettere un suicidio. Dazai non era davvero dell’umore giusto per restare fermo su una panchina in attesa di Ango. Non era nemmeno sicuro di essere dell’umore giusto per sentire be’, qualunque cosa Ango avesse da dirgli. Però era sicuro di non volere fare i conti con l’ignorare Ango troppo a lungo, perché poteva avere ripercussioni gravi e imbarazzanti e possibilmente causare incidenti diplomatici.

Era in ritardo per il lavoro. Tecnicamente non poteva saperlo, perché non aveva con sé un orologio, ma riusciva a sentire che Kunikida stava sbraitando per qualche motivo. Che peccato. Per fortuna c’era Atsushi-kun che poteva sobbarcarsi tutta la burocrazia.

Quando Ango arrivò, indossando il solito doppio petto marrone e la sua migliore espressione annoiata, Dazai fu tentato dall’idea di ignorarlo. O di dirgli qualcosa di molto cattivo. Nel dubbio, si distese sulla panchina in modo che non potesse sedersi accanto a lui. Ango sbuffò se fosse irritato o divertito, davvero non sarebbe riuscito a dirlo e si limitò a sedersi composto sulla panchina accanto alla sua.

«Dazai-kun», iniziò, sistemandosi meglio gli occhiali sulla punta del naso.

Dazai aprì un occhio, giusto per fargli che almeno lo aveva sentito, poi continuò a fischiettare.

«Nei corridoi della Divisione delle abilità speciali si vocifera che sarebbe una buona idea eliminare il soggetto A5158, pubblicamente noto come-», continuò, spiando con la coda dell’occhio la reazione dell’altro. 

«Nakahara Chuuya.», terminò per lui Dazai, che sospirò e si tirò a sedere. No, non era decisamente dell’umore giusto per questa conversazione. Avrebbe di certo preferito gli improperi di Kunikida. Si voltò quanto bastava per osservare Ango. Adesso non stava guardando verso di lui, stava fissando ostinatamente un punto all’orizzonte.

«Cosa vuoi da me, Ango?»

«Volevo solo farti un favore. Salvalo, se ci riesci. Come membro della Port Mafia, è visto soltanto come un elemento di disturbo-»

«Meno di un mese fa ha contribuito a salvare la città!»

«-ma magari», continuò, ignorando la protesta di Dazai, «come membro dell’Agenzia non sarebbe più visto come un criminale.» 

Fece una pausa. Dazai aveva assottigliato le palpebre e sembrava completamente rilassato. Nulla, dalla sua espressione ad ogni minimo gesto del suo corpo, poteva suggerire che l’informazione appena acquisita lo avesse turbato.

«Puoi anche ignorare quello che ti ho detto. Stavo solo cercando di farti un favore, perché-», non voglio che tu perda qualcun altro a causa mia, avrebbe voluto dirgli. Il fantasma di Odasaku avrebbe continuato ad aleggiare tra di loro, non importava quanto tempo fosse passato dalla sua morte.

Se Dazai fosse stato interessato a quello che Ango aveva ancora da dire, non lo diede a vedere, si alzò con una piroetta e si incamminò verso l’Agenzia. Quando fu abbastanza lontano, levò un braccio in segno di commiato. Sì, aveva davvero bisogno di sentire i latrati di Kunikida, almeno per un po’.

 

******

 

Mentre trotterellava allegramente verso la sede dell’Agenzia, Dazai fu invaso dalla consapevolezza che nulla, di questa storia, gli piaceva: né il fatto che il governo volesse attaccare così frontalmente un sottotenente della Port Mafia, né che Ango glielo avesse fatto sapere, come si aspettasse – no, come se volesse – che fosse proprio lui a salvarlo. E a portarlo nell’Agenzia. 

Cosa gli diceva che l’avrebbe fatto? Aveva tagliato i ponti con il suo passato, e tagliare i ponti con il suo passato aveva implicato tagliare i ponti anche con Chuuya, che lo volesse o meno. Non c’era spazio, nel suo presente, per Chuuya. Non c’era spazio all’Agenzia, per Chuuya. Già ospitare Kyouka-chan dava abbastanza problemi, nessuno li avrebbe più presi sul serio. 

E poi era sicuro che Chuuya non lo avrebbe mai seguito. Non poteva piombare nel suo appartamento e dirgli: “Ciao, Chuuya, Ango mi ha detto che il governo vuole farti fuori. Che ne dici di unirti all’Agenzia?”

Non era nemmeno sicuro che gli avrebbe creduto. Avrebbe pensato che fosse un’altra delle sue buffonate, gli avrebbe tirato addosso una bottiglia di vino che costava quasi quanto il suo stipendio annuale e gli avrebbe chiesto non molto gentilmente di andarsene. Seppure gli avesse dato retta, avrebbe semplicemente risposto che il governo non aveva abbastanza agenti dotati di abilità in grado di fermarlo il che potenzialmente era vero, ma Dazai dubitava che Ango si sarebbe scomodato di avvisare, se non avesse personalmente creduto alla fattibilità della faccenda.

Quindi aveva bisogno di un piano. Di un piano infallibile. Di un piano infallibile che la quasi totalità dei suoi colleghi avrebbe ignorato. Quello di cui aveva bisogno era-

«Ranpo-san!», esclamò, appena mise nell’ufficio. Ranpo era seduto sulla sua scrivania, mentre mostrava orgoglioso a Kenji-kun e Kyouka-chan la sua collezione di biglie di ramune. Atsushi-kun era sepolto sotto una pila di documenti che Dazai fece finta di non vedere, mentre Kunikida già si era alzato per venirgli incontro.

«Dazai!», ruggì, afferrando al volo alcuni dei documenti dalla scrivania di Atsushi per mollarglieli tra le braccia. Dazai li sfogliò pigramente mentre ascoltava a cuor leggero la tirata che Kunikida aveva preparato espressamente per lui. Se Chuuya fosse stato lì, di certo gli avrebbe dato ragione. Chuuya. Il pensiero gli fece un po’ stringere il cuore. Entro un lasso di tempo che gli era sconosciuto, Chuuya sarebbe potuto essere lì, ad annuire mentre Kunikida lo sgridava, oppure tre metri sotto terra. Dazai non era sicuro di essere pronto a visitare un’altra tomba.

Fece cadere con un colpo secco la pila di documenti sui piedi di Kunikida e si diresse verso Ranpo.

«Ranpo-san!», esclamò di nuovo, agitando le braccia per attirare la sua attenzione. Ranpo gli riservò una lunga occhiata, poi mise la sua collezione di biglie nelle mani di Kenji e scese dal tavolo. Dazai non perse tempo e si fiondò su di lui per prenderlo sotto braccio.

«Ho scoperto una pasticceria vicino al porto che è favolosa.», gli annunciò. Kunikida lo guardò malissimo e Yosano, che era appena entrata dalla porta, sbuffò divertita. «Ti avrei portato qualcosa, ma purtroppo non permettono asporto.», continuò.

L’espressione di Ranpo si incupì.

«Questa è, indubbiamente, una tragedia.»

«È esattamente quello che ho pensato io! Poi però mi sono detto che avrei potuto accompagnarti personalmente...», rifletté ad alta voce, mentre entrambi già stavano varcando la porta. Kunikida sbottò insulti incomprensibili mentre si allontanavano.

 

******

 

A onor del vero, la pasticceria esisteva ed era eccellente. L’aveva scoperta nei suoi pigri vagabondaggi qualche settimana prima, però si era sempre dimenticato di dirlo a Ranpo. Quale migliore occasione per chiedergli un favore. Però, uhm, come poteva chiedere a un collega di elaborare un piano per salvare un ex-collega che era anche un criminale che loro tecnicamente avrebbero dovuto combattere invece che, per l’appunto, salvare?

Dazai fissò accigliato la sua tartina, poi Ranpo, poi di nuovo la tartina. E onestamente avrebbe anche continuato, però Ranpo aveva finito di giocherellare con i suoi occhiali e aveva deciso di indossarli.

«Hai fatto incontri interessanti di recente, Dazai-kun.»

Dazai sbuffò. Quella non era nemmeno lontanamente una domanda, ma se lo fosse stata avrebbe almeno potuto dire che il suo incontro con Ango era stato tutto fuorché interessante. 

«Umph.», concordò appena. «Ranpo-san, mettiamo che io abbia un segreto-»

«Un segreto tra due persone resta tale solo se una delle due è morta.»

«Mi offro volontario!», commentò. Poi ritornò al suo discorso principale. 

«Mettiamo che io abbia un segreto e abbia bisogno di aiuto-»

Ranpo annuì. Dazai sapeva che probabilmente Ranpo aveva già dedotto sia il contenuto della sua conversazione mattutina con Ango, che la richiesta che si apprestava a fargli. Conoscendolo, ci si poteva aspettare anche che avesse già ideato il piano infallibile di cui Dazai aveva bisogno. Ma voleva sapere, o meglio, voleva la certezza di potersi fidare di lui. E del suo silenzio. Se la vita di Chuuya dipendeva dalla sua possibilità di salvarlo, e se la sua possibilità di salvarlo dipendeva anche dal silenzio di Ranpo, be’, Dazai voleva accertarsi quel silenzio.

«Sì, sì, ti aiuterò.», borbottò Ranpo, agitando una mano come per scacciare i dubbi insolenti di Dazai, che annuì lentamente. «L’idea non mi elettrizza, e non sarà semplice come ti aspetti, ma suppongo che in qualche modo si possa fare.»

 

******

 

Chiedere aiuto a Ranpo era stato già abbastanza difficile, ma venire a sapere che il piano di Ranpo prevedeva diversi interventi da parte Ango rendeva tutto più complicato. Non effettivamente complicato, perché Ango era stato sorprendentemente collaborativo fino a quel momento, quanto piuttosto conflittualmente complicato, perché l’ultima cosa che desiderava era avere un debito con lui. 

Grazie a qualche commento non richiesto al termine di un rapporto, e a qualche voce buttata a caso con i colleghi, e alla preoccupazione velatamente espressa al suo diretto superiore, Ango era riuscito a fare in modo che venisse chiesto l’intervento dell’Agenzia per fermare quelli che erano i traffici più dannosi della Port Mafia. 

Se il Presidente era rimasto interdetto dall’improvvisa e insolita richiesta, non l’aveva dato a vedere. Si era preso del tempo per pensare sul da farsi, aveva scambiato alcuni commenti con Ranpo, si era consultato con Kunikida e infine aveva convocato Dazai nel suo ufficio per chiedergli un parere sulla questione.

Dazai si era allegramente proposto volontario: se sperava di catturare Chuuya durante una delle missioni, doveva accertarsi di essere personalmente presente. Se si fosse trattata di ordinaria amministrazione, non c’era alcun dubbio che avrebbero evitato di fare prigionieri, o che almeno questi ultimi sarebbero potuti tornare all’ovile relativamente illesi, per via di una lunga serie di accordi non scritti tra il Presidente e Mori-san. Ma questa non era ordinaria amministrazione, e di certo non poteva rischiare che qualcuno dei suoi colleghi si intromettesse e mandasse tutto all’aria. Qualcuno con una ferrea morale come-

«Kunikida ti accompagnerà.»

Come Kunikida, appunto. Dazai aveva sperato di poter portarsi dietro Atsushi, che era inesperto e aveva ancora abbastanza rispetto per lui da ascoltare quello che diceva. Kunikida sarebbe stato molto più difficile da manipolare, ma sarebbe valsa la pena tentare. Ranpo sembrava assolutamente tranquillo, nonostante sapesse che Kunikida avrebbe potuto dargli delle grane. Quando mai un suo piano aveva fallito, dopotutto?

Dazai si limitò ad accogliere la scelta del Presidente con una scrollata di spalle, poi si tuffò su un divanetto per sfogliare i fascicoli che la Divisione per le Abilità Speciali aveva mandato per loro: si trattava per lo più di importo illegale di armi ed esportazione di sostanze illecite. Dazai sapeva perfettamente che quelle non erano neanche lontanamente le attività più deleterie a cui si dedicava la Port Mafia, ma sapeva che il governo avrebbe colto l’occasione per farsi pubblicità senza irritare troppo le persone sbagliate. 

«Kunikida-kun», canticchiò, strascicando il nome del collega nel modo che sapeva dargli più fastidio. «Sembra che nelle prossime settimane ci divertiremo molto»

«Solo una mente contorta come la tua può pensare ad un incarico del genere e sperare di divertirsi.», gli rispose. Poi gli diede un colpo sulla testa e ritornò a studiare i fascicoli. 

 

******

 

Onestamente, Dazai non sperava di divertirsi lavorando. Piuttosto, di divertirsi guardando Kunikida lavorare. Fino a quel momento, non avevano ottenuto granché: certo, avevano impedito una serie di scarichi di armi e forse avevano anche dovuto scontrarsi con i sottoposti della Lucertola Nera, ma di Chuuya, neanche l’ombra. E c’era da dire che Dazai se l’aspettava. Chi avrebbe mai scomodato un sottotenente per delle scaramucce da poco? Si sarebbero dovuti ritenere fortunati ad incrociare il fuoco con Hirotsu-san, magari con Akutagawa, se proprio Mori-san avesse voluto fermarli. 

Si stava annoiando. E stava perdendo la pazienza, cosa che succedeva raramente ma che poteva portare comunque molti problemi. Soprattutto a Kunikida, che in quel momento stava dormendo nel sedile passeggero dell’auto che stavano utilizzando. Dazai cercò un pennarello del cruscotto, e quando finalmente lo trovò, disegnò un paio di baffi a manubrio sulle sue labbra. L’altro si mosse appena, ma nel momento in cui la pressione del pennarello svanì, tornò a riposare profondamente. Dazai non poteva nemmeno biasimarlo.

Tecnicamente, quello doveva essere un appostamento. E sia Dazai che Kunikida erano abituati agli appostamenti. Quello che non si aspettavano era dover aspettare a tempo indeterminato uno scambio di informazioni che non erano nemmeno sicuri ci sarebbe stato. Era una specie di pista fantasma a cui si erano aggrappati in mancanza di soluzioni migliori. Ma erano passati quasi due giorni, avevano mangiato appena, non si erano lavati e Kunikida era stato sveglio per quasi sedici ore prima di arrendersi a Dazai che gli prometteva che sarebbe stato attento.

Non era proprio stato attentissimo, doveva ammetterlo, e soprattutto c’era un buco dalle tre alle cinque del pomeriggio che non ricordava e in cui era probabile si fosse addormentato anche lui. Tuttavia, le probabilità che due criminali si incontrassero alla luce del giorno erano praticamente inesistenti. Soprattutto se si trattava di informazioni fondamentali per evitare che anche il prossimo tentativo di attracco al porto di Yokohama fallisse. 

Molto più plausibile che tale scambio avvenisse con il favore delle tenebre. Ad esempio, era sicuro che il ragazzino rosso con il giubbotto verde facesse parte della Lucertola Nera. Ah, sì, ecco, c’era anche Gin-chan. Ci aveva visto giusto. Forse era il caso di svegliare Kunikida, però avrebbe potuto non fare in tempo. Meglio lasciarlo dormire. Strano però che Hirotsu-san mandasse i ragazzini a sbrigare faccende senza supervisione.

«Dazai-san.»

Appunto.

Nel momento in cui aveva aperto lo sportello dell’auto, Hirotsu l’aveva affiancato. Gli rivolse un cenno di saluto. 

«È da un paio di settimane che la Port Mafia ha problemi, ironicamente, al porto.», commentò vago, lo sguardo che saettava tra lui, Kunikida e i due giovani colleghi che stavano aspettando il loro contatto. «Ne sai qualcosa, per caso?»

Dazai si grattò il collo, a disagio. Questo non era il tipo di scontro che avrebbe voluto. 

«Be’, sì, sì, potrebbe essere stata colpa nostra.», ammise placidamente, «Ma sai com’è», continuò, «il lavoro è lavoro.»

«Credevo che il compito dell’Agenzia fosse proteggere la città, non attaccare la Port Mafia.»

«Qualcuno obietterebbe che siano la stessa cosa.»

Hirotsu non gli rispose, tuttavia si distrasse abbastanza a lungo da non notare Kunikida che scivolava verso il luogo dove si stavano scambiando informazioni. Per essere un uomo alto più di un metro e novanta, era sorprendentemente agile e aggraziato. Suppose che il meglio che poteva fare, in quel momento, era tenere Hirotsu impegnato abbastanza a lungo da impedirgli di intervenire una volta notata l’assenza di Kunikida.

«Qualcuno», osservò Hirotsu, velatamente irritato, «obietterebbe che ci sono conseguenze, per quanti mettono i bastoni tra le ruote ai traffici della Port Mafia. Tu dovresti saperlo meglio di tutti.» 

Hirotsu non era una fan della violenza gratuita, Dazai lo sapeva. Sebbene fosse a capo del braccio armato più imponente a disposizione della Port Mafia, e sebbene fosse più che ben disposto verso gli spargimenti di sangue, minacce di quel tipo non gli piacevano. C’era una lunga fila di sostenitori della tortura a cui poteva felicemente lasciare il compito di occuparsi di quanti disobbedivano. Dazai e Kunikida però non potevano nemmeno essere trattati alla pari di delinquentelli di un’associazione nemica. Ci sarebbero state conseguenze in ogni caso con un po’ di fortuna, però, non sarebbe stato lui a doverle subire.

Dazai scrollò le spalle. Alla fine non sapeva che farsene, di quelle minacce: non esisteva un solo dotato di abilità in grado di ferirlo. Quanto alle ferite convenzionali, be’, erano sempre ben accette a patto che fossero mortali e che Yosano-sensei non fosse in giro. 

«In ogni caso», continuò Hirotsu, rigirandosi la sigaretta spenta tra le dita, «spero che un inconveniente del genere non si ripeta. La prossima volta potrebbe esserci qualcuno di molto più pericoloso e molto meno diplomatico, al mio posto.»

Speriamo, pensò tra sé da Dazai. Hirotsu scelse quel preciso momento per notare l’assenza di Kunikida: guardò mesto la sigaretta che stava per accendersi e con uno sbuffo spazientito la ripose, avviandosi a grandi passi nella direzione in cui si era avviato Kunikida. 

Dazai soppesò la possibilità di andare a dargli una mano, poi decise che effettivamente Kunikida era grande e grosso e molto più capace di lui e sicuramente non avrebbe avuto problemi contro un avversario del genere. A passi misurati raggiunse il sedile passeggero dove fino a pochi minuti fa aveva dormito il suo collega: se necessitavano una fuga rapida e precisa, be’, era meglio che stesse lontano dal volante.

Si vide il lampo di un’esplosione, seguito da un piccolo boato. Dalla cortina di fumo che si era creata emerse Kunikida, senza neanche un capello fuori posto. Raggiunse di corsa l’auto e si ficcò al suo interno, mettendo in moto immediatamente.

«Non credo pensino che abbia sentito.», spiegò sbrigativo, ingranando la marcia. «Se anche lo sapessero, non possono farci niente. Lo scambio avverrà», fece una pausa per guardare l’orologio, «praticamente adesso. Dall’altro lato della città.»

 

******

 

Quel giorno per Chuuya non era iniziato nel migliore dei modi: a causa di alcuni problemi minori al porto, nessuno dei suoi sottoposti era disponibile per accompagnarlo nel suo giro di bevute. Il fatto che avessero rifiutato, nonostante avessero quasi tutti paura di lui, la diceva lunga su quanto effettivamente fossero state dispiegate molte forze per impedire che la Port Mafia perdesse credibilità.

Quando aveva incontrato Kouyou, poco prima di colazione, gli aveva detto che tutto quel trambusto era stato causato dell’Agenzia, ma lui non ci aveva fatto troppo caso: era alla disperata ricerca di caffè e qualunque notizia riguardasse potenzialmente Dazai poteva aspettare almeno il quarto bicchiere di vino. 

Adesso però il Boss lo aveva convocato e Chuuya cominciava a sentirsi inquieto. Non aveva paura, chiaramente, anzi era certo che l’ufficio del Boss fosse il luogo più sicuro del quartier generale, tuttavia sentiva, nel leggero formicolio che gli infastidiva le punte delle dita, che c’era qualcosa che non andava. Arricciò il naso e si sistemò il cappello prima di uscire dall’ascensore. 

Quando entrò nell’ufficio, dalle cui finestre entrava un fascio di luce accecante, si rilassò. Se le tende non erano abbassate, significava che non c’era nulla che valesse la pena nascondere all’occhio pubblico. Qualsiasi cosa gli avesse chiesto, Chuuya l’avrebbe portata a termine e poi sarebbe andato a prendere Kajii in quel suo dannato laboratorio e l’avrebbe trascinato nel primo bar disponibile. 

Elise-chan, che stava allegramente disegnando vicino all’ingresso, lo salutò, ma il Boss non aveva ancora alzato lo sguardo verso di lui. Chuuya era rimasto con la testa piegata per un paio di istanti, finché non aveva sentito rumore di fogli messi via e un Ah, Chuuya-kun, che lo avvisava che poteva finalmente muoversi. 

Il Boss non parlò subito, anzi, restò per una manciata di secondi con le mani giunte davanti al volto, tamburellando i polpastrelli gli uni contro gli altri, con un sorriso che sembrava un ghigno indeciso. Se avesse potuto, Chuuya avrebbe sbuffato, o si sarebbe lamentato della studiata teatralità del suo superiore. Ovviamente, non lo fece. Benché apprezzasse modi più spicci e diretti, il Boss era il Boss e poteva fare quello che voleva.

«Suppongo tu abbia sentito che negli ultimi giorni abbiamo avuto difficoltà per quanto riguarda i nostri affari marittimi.»

Chuuya rispose con un grugnito e un cenno di assenso. Avrebbe dovuto ascoltare Ane-san quando poteva. 

«Si vocifera», continuò, «che dietro queste nostre difficoltà ci sia la mano di Dazai-kun.»

Chuuya si tirò a sedere dritto, come un gatto con un pelo rizzato, e attese che continuasse. C’erano centinaia di sottoposti che avrebbe potuto mandare in pasto a Dazai, c’erano almeno altri tre sottotenenti del suo stesso rango a cui poteva rivolgersi ma, ovviamente, ad occuparsi di Dazai doveva andarci lui. A volte pensava che il Boss si divertisse a vederli collaborare, con il sadico senso dell’umorismo che si ritrovava.

«Stasera ci dovrebbe essere un altro attracco.», spiegò. «Dovremmo aver preparato un escamotage che terrà impegnato Dazai-kun e il suo collega abbastanza a lungo da permetterci una scarico quantomeno tranquillo.», aggiunse, lanciando uno sguardo sconsolato alla pila di rapporti che ancora aspettavano di essere letti.

«Quello che vorrei, è che tu supervisionassi questo passaggio. Come già ho detto, non ci dovrebbero essere problemi, ma pare che la voce di questi attacchi da guerriglia si stia espandendo a macchia d’olio, e già ho perso il contatto di due fornitori abituali.»

Le spalle di Chuuya si rilassarono di botto. Aveva davvero mandato qualcun altro ad occuparsi di Dazai. Splendido. Magnifico. La sua giornata era appena stata migliorata. Assicurò al Boss che sì, certo, ovviamente me ne occuperò io, non c’è bisogno di preoccuparsi, salutò Elise-chan con un cenno del cappello e uscì dall’ufficio del Boss come se fosse più leggero di un paio di chili. In ogni caso, si disse, meglio chiedere ad Ane-san cosa sapeva a riguardo. 

Ane-san, alla fine, non ne sapeva poi molto: solo che si vociferava che ci fosse quell’idiota di Dazai, dietro i loro attuali problemi, e che stava puntando ad attività molto specifiche. Nessuno sapeva perché. Probabilmente perché si annoiava. Avrebbero dovuto dargli qualcosa da fare, a quella benedetta Agenzia. 

Il resto della giornata non fu poi granché: dopo pranzo cercò di dormire, almeno un po’, ma c’era sempre questa fastidiosa sensazione allo stomaco che non lo lasciava in pace. Forse la sera prima aveva mangiato delle ostriche non esattamente eccellenti. Forse era tutto quel caffè che beveva. Chi sa. Nel dubbio, buttò giù un’altra tazza di caffè: era ancora troppo presto per il vino. Ci sarebbe stato tempo, di ritorno dal porto, per fermarsi in qualche enoteca e regalarsi una nuova, costosa, deliziosa bottiglia di vino. 

La zona del porto non gli era mai davvero piaciuta: c’era un tanfo terribile che si attaccava ai suoi vestiti, era sempre affollata e sembrava impossibile trovare un attimo di pace. C’erano luoghi di gran lunga più belli, a Yokohama, con scogliere a picco sul mare e un orizzonte che si estendeva fin dove si riusciva a guardare. Però a lui toccava il porto puzzolente. Sospirò, osservando il profilo della nave che si stagliava contro la banchina. Diede indicazioni ai suoi uomini e si guardò intorno, circospetto.

Come il Boss gli aveva promesso, non c’era traccia di Dazai, il che era un po’ un peccato, perché con il passare delle ore gli era proprio venuta voglia di una sana scazzottata. Magari così gli sarebbe passato il mal di stomaco. Le casse di legno, con sopra dettagliate scritte in cinese, avrebbero dovuto contenere armi a sufficienza da rifornire l’intera Lucertola Nera. Il Boss sarebbe stato contento e lui sarebbe potuto partire in Hokkaido per risolvere certe situazioni che la Port Mafia aveva lasciato in sospeso.

Stava quasi per avviarsi verso il Quartier Generale, quando un improvviso trambusto attirò la sua attenzione. Ci fu un’esplosione luminosa e un disperdersi di uomini, che in parte si ritiravano goffamente e in parte correvano verso di lui. Appena i suoi occhi si riabituarono all'oscurità, Chuuya riconobbe un profilo che sarebbe potuto appartenere ad una sola persona. Un profilo dolorosamente familiare e fastidioso. Dazai era lì.

 

******

 

«Kunikida, per favore, smettila di correre!», esclamò Dazai, mentre la macchina si infilava in un vicoletto stretto e buio che, a detta di Kunikida, avrebbe dovuto portarli prima al porto. Solitamente, era lui quello spericolato alla guida spericolato nel senso che chiunque volesse sopravvivere alla corsa avrebbe fatto meglio a scendere immediatamente per cui essere vittima di tutte quelle sbandate e quelle curve prese malissimo era una novità e non una novità piacevole.

«Stai zitto, Dazai. Ci siamo fatti prendere in giro come due novellini.», sbottò contrariato. Miracolosamente, si rese conto Dazai, non stavano superando limiti di velocità, né stavano danneggiando le piccole bancarelle ai lati della strada, ma il suo mal d’auto presto gli avrebbe dato una scusa per vomitare addosso a Kunikida. 

Quando arrivarono al porto, la situazione era movimentata come si aspettavano. C’erano diverse imbarcazioni attraccate, e ci sarebbero voluti un paio di minuti a distinguere gli operai che stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro dagli uomini della Port Mafia. Per fortuna si trovavano più in alto, rispetto a tutti gli altri, per cui potevano almeno godere di una visuale completa, e fu così che Dazai trovò immediatamente Chuuya, che sbraitava ordini ai suoi sottoposti, mantenendosi il cappello in testa durante una raffica di vento. 

Okay, quindi gli era andata bene. Chuuya era lì. Adesso doveva soltanto assicurarsi di non mandare a monte tutto. In fondo, lui era Dazai. Le probabilità che mandasse a monte qualcosa erano bassissime. Oppure altissime, a seconda della giornata. Guardò di nuovo Chuuya, il modo in cui si muoveva a suo agio nei panni del mafioso e si chiese distrattamente se non fosse il caso di lasciarlo lì, nel suo habitat naturale e dargli la possibilità di difendersi da solo da qualunque cosa il governo avesse in serbo per lui. 

Di certo non gli sarebbe stato grato, se avesse saputo perché lo faceva. Probabilmente l’avrebbe odiato ancora di più, perché credeva che non fosse in grado di difendersi da solo. Perché credeva che avesse bisogno di lui. E Dazai lo sapeva, sapeva che Chuuya non aveva bisogno di lui e che avrebbe rinunciato al suo aiuto anche se gli fosse stato necessario, ma voleva disperatamente che Chuuya avesse bisogno della mano che stava tentando di tendergli. Voleva disperatamente che la prendesse senza alcun piano elaborato da mettere in atto. Invece eccolo lì, con Kunikida al suo fianco che continuava a chiedergli come avrebbero dovuto muoversi. 

«Lo vedi quel piccoletto laggiù?», chiese a Kunikida, indicando Chuuya. «Quello è-»

«Nakahara Chuuya, il manipolatore di gravità. Il tuo ex- ex partner.»

«Stavo per dire molto pericoloso, ma vedo che qualcuno ha fatto i compiti», canticchiò. Kunikida sbuffò.

«Dovremmo allontanare prima tutti gli altri.», rifletté ad alta voce Dazai. «E poi cercare di affrontarlo. Non possiamo batterlo se non ci concentriamo su di lui. Forse dovremmo immobilizzarlo.», aggiunse dopo qualche secondo. Kunikida gli lanciò un’occhiata scettica, ma non disse nulla. Si limitò ad ascoltare la strategia che stava elaborando Dazai, suggerendo qualcosa ogni tanto, sbuffando impaziente, annuendo, tirando fuori il suo taccuino per prepararsi qualche arma facile da recuperare. 

Quando Dazai fu soddisfatto del suo piano, fece cenno a Kunikida di entrare in azione: aggirarono di soppiatto alcuni container, raggiungendo così il livello del mare. Nel momento in cui la prima granata stordente fu lanciata ci fu un gran vociare e un immediato scalpiccio confuso. Degli uomini rimasti, Kunikida ne mise rapidamente al tappeto la maggior parte, mentre Dazai si avvicinava al punto in cui era rimasto Chuuya, che già sembrava essere in posizione da battaglia. 

Dazai storse il naso: l’ideale sarebbe stato riuscire a immobilizzarlo, o quantomeno toccarlo, prima che sfruttasse la sua abilità per guadagnare terreno. Così diventava tutto più difficile e ancora più difficile se si pensava che avevano combattuto insieme per anni, che conoscevano esattamente i rispettivi punti deboli, che anticipare le mosse dell’altro era per loro naturale quanto respirare. Forse, invece di un ingresso in grande stile, avrebbe dovuto optare per un attacco a sorpresa. In fondo, lui non si sentiva mica in colpa a dare una pugnalata alle spalle, soprattutto se era per un buon motivo. 

«Ehi, Chuuya! Anche tu qui?», lo apostrofò, per nulla intimorito dall’asfalto che si staccava dal suolo e puntava minaccioso verso di lui. Vide con la coda dell’occhio Kunikida che lo raggiungeva. Gli fece segno di farsi da parte e lasciargli gestire la situazione. Qualunque risposta Kunikida avesse voluto rifilargli fu oscurata dalla faccia di Chuuya che incombeva su di lui.

«Dazai!», soffiò irritato, mentre i primi pezzi di asfalto cominciavano a colpirlo. Dazai li schivò facilmente. «Sapevo che alla fine sarebbe toccato a me sistemarti!», aggiunse contrariato, sferrandogli un pugno che atterrò in piena mascella. 

Come un fazzoletto rosso sventolato davanti al muso del toro, Dazai si era mostrato a Chuuya confidando nel fatto che bastasse soltanto la sua presenza per fargli perdere completamente le staffe. Esattamente come aveva sperato, Chuuya, consapevole che i suoi poteri erano inutili di fronte a Dazai, si era letteralmente scagliato su di lui: Dazai non aveva provato nemmeno a schivare il pugno che sapeva sarebbe arrivato, e si era invece premurato di afferrare il polso scoperto di Chuuya prima che potesse distruggere completamente il porto.

«Kunikida, adesso!», esclamò, e prima che Chuuya potesse anche solo iniziare a divincolarsi, Kunikida lo aveva tramortito con un teaser. Con Chuuya accasciato ai suoi piedi, i restanti uomini della Port Mafia se la diedero a gambe in pochi secondi: se uno dei migliori dotati della mafia era stato così facilmente sconfitto, cosa avrebbero potuto loro?

«Dazai, non startene lì impalato.», lo riprese Kunikida. «Dobbiamo inseguire-», fece una pausa, gesticolando nella direzione in cui si erano dileguati i criminali, «tutti gli altri.»

«Mhh.», Dazai commentò, mentre Kunikida continuava a battere un piede per terra, impaziente. Se adesso fosse stato solo, cosa in cui aveva quantomeno sperato, avrebbe potuto caricarsi Chuuya come un sacco di patate e portarlo allegramente all’Agenzia, e tutti l’avrebbero presa come la sua ennesima stranezza e non avrebbero fatto poi chissà quali domande. «Credo», iniziò, soppesando le sue parole, dando almeno l’illusione che ci fosse un ragionamento, dietro la sua proposta, e non il capriccio del momento, «che dal momento che abbiamo catturato un pesce grosso, potremmo fare a meno di quelli piccoli.»

«Cosa diamine stai farneticando?»

«Sto dicendo», aggiunse, mentre cominciava a tirar su Chuuya per il polso, «che dovremmo portarlo all’Agenzia come prigioniero. E interrogarlo. Noi stiamo indagando per conto del governo, no? Non è un lavoro ordinario richiede misure straordinarie.», concluse, soddisfatto. 

Sentì Kunikida borbottare qualcosa di simile a “quando mai il nostro è un lavoro ordinario”, mentre quest’ultimo valutava effettivamente la sua proposta. Sicuramente nominare il governo e le misure straordinarie era stata una mossa vincente. Kunikida non era amante delle eccezioni, degli eventi straordinari e in generale di tutto ciò che potesse intralciare i suoi programmi e la sua routine, per cui servivano delle motivazioni davvero eccellenti per spingerlo a fare qualcosa che poteva costargli l’aumento delle scartoffie da smaltire ed eventuali mal di testa che Dazai sapeva gli sarebbero venuti nel momento in cui avrebbe realizzato che avevano portato all’Agenzia un sottotenente della mafia e che ci sarebbero state delle conseguenze. 

Però al momento Kunikida non dormiva da quasi due giorni escluso il sonnellino di qualche ora prima , non assumeva caffè da almeno cinque ore e il suo ultimo pasto era stato del ramen in scatola che onestamente non poteva considerarsi un pasto inoltre, cosa abbastanza offensiva, aveva sdegnosamente rifiutato lo sgombro in scatola che Dazai gli aveva generosamente offerto. Terribile, davvero. 

In ultima analisi Kunikida voleva soltanto andare a casa, farsi una doccia, e cominciare a stilare il suo rapporto, quindi la sua volontà di ferro era un po’ più facile da piegare la si chiamerà, per buona misura, e per rispetto del suo amor proprio, volontà di alluminio. 

Dazai restò comunque sorpreso nel sentirgli dire: «Okay, va bene. Portiamolo all’Agenzia. Prima che si svegli, possibilmente.»

 

******

 

Quando cominciò a riprendere conoscenza, la prima cosa che colpì Chuuya fu l’intorpidimento che provava in ogni centimetro del suo corpo: aveva le spalle indolenzite, una gamba formicolante, e in generale la spiacevole seppur non più familiare sensazione di aver avuto la peggio in una rissa. 

La seconda cosa che comprese era di non trovarsi nell’infermeria del Boss: troppe luci, lettino troppo scomodo, e un odore di disinfettante che semplicemente non era quello che usavano nella Port Mafia. Quindi doveva essere stato catturato da qualcuno, che doveva averlo trovato inconscio dopo che quel cretino di Dazai-

«Maledetto Dazai.», soffiò, più per rassicurarsi del fatto che Dazai fosse effettivamente un piantagrane della peggior risma che per offenderlo davvero. 

La terza, scomoda e terribile scoperta fu che qualcuno, in quel momento, gli stava tenendo la mano. Non se ne era accorto subito perché la mano, come buona parte dei suoi arti, era mezza addormentata, ma non c’erano dubbi: c’erano proprio una mano che stava stringendo la sua. E questa mano, dovevo ammetterlo, aveva una certa callosità familiare che sembrava suggerirgli che-

«Maledetto Dazai!», sbottò ad alta voce, aprendo finalmente gli occhi e cercando di liberarsi dalla sua stretta. Dazai non sembrò per nulla colpito dalla sua reazione, ma ovviamente, chi sarebbe rimasto colpito dalle veementi proteste di un prigioniero?

«Ah, Chuuya, buongiorno!», lo salutò accondiscendente, dopo aver posato il suo telefono in tasca. «Ti interrogherei anche adesso, se fosse possibile, così potrei farti scodinzolare allegramente verso i quartieri della Port Mafia, ma attualmente non c’è quasi nessuno all’Agenzia e a quanto pare dovrei prima discuterne con il Presidente.», annunciò. «Sentiti onorato.», aggiunse, «Non tutti i prigionieri ricevono questo trattamento.»

Chuuya era sul punto di spiegare a Dazai quanto effettivamente si sentisse onorato con la sequela di insulti più triviale che riuscisse a mettere insieme, quando la porta si aprì. All'inizio non riuscì a distinguere chiaramente un volto, sentì soltanto un ticchettio sul pavimento.

«Non so per quale motivo tu mi abbia svegliato così presto, Dazai», lo riprese una voce scocciata, «ma spero almeno di poter amputare qualche arto.»

Poi fece capolino una donna che seppur inizialmente accigliata, sembrava adesso incuriosita dalla situazione Chuuya credeva di ricordarla, non era quella che girava armata di machete? Dio, in che cazzo di guaio l’aveva cacciato Dazai?

«Dazai-kun, certo che sei proprio fuori testa.», lo ammonì con un risolino, mentre indossava un camice, «Allora, cosa devo farci con lui?»

Cosa doveva fare con lui? Cosa doveva fare con lui? Chuuya aveva un bel po’ di risposte, non tutte gentili, su quello che sarebbe potuto succedere se solo Dazai gli avesse lasciato la mano, tipo-

«Appena avrò di nuovo la mia abilità sradicherò dal suolo questo palazzo di merda.», minacciò, continuando a strattonare il braccio. La stretta di Dazai non si allentava. Dove trovasse tutta quella forza pur non avendo nemmeno un muscolo, proprio non lo capiva. Avrebbe voluto dire qualcos’altro di minaccioso e terrificante, ma fu interrotto di nuovo dalla donna.

«Ah, Dazai-kun, che briccone! Ti sei messo a giocare con i sedativi!», notò, mentre rovistava nei suoi cassetti. Dazai le rivolse un sorriso colpevole, ma prima che potesse risponderle Chuuya diede uno strattone più forte.

«Che significa che ti sei messo a giocare con i sedativi! Pazzo suicida! Se devi interrogarmi perché provi ad uccidermi! Cos’altro hai fatto? Oi!», esclamò, attirando l’attenzione della donna, «Manca qualcos’altro? Tenete sonniferi qui? Ha sempre avuto una disgustosa ossessione per i sonniferi.»

Stavolta fu Dazai a strattonarlo: «Non ho usato i sonniferi perché, come tu hai sottolineato in un insperato moto d’intelligenza, abbiamo bisogno di interrogarti e non volevo ucciderti. Perciò quando ti sei svegliato ho dovuto chiamare Yosano-sensei.»

Yosano-sensei, che assomigliava molto ad un medico da strapazzo e che sicuramente sarebbe piaciuta moltissimo a Motojirou, sorrise sinistramente mentre picchiettava una siringa. 

«Sonniferi, sì», commentò pensierosa, più rivolta a se stessa che a lui o Dazai, «è proprio quello che ci vuole.»

Poi si avvicinò a lui, spiegando a Dazai come tenerlo fermo. Se avesse avuto la sua abilità non c’era dubbio che sarebbe riuscito a liberarsi, e viste le sue doti di combattimento, di gran lunga superiori a quelle che Dazai sarebbe mai riuscito ad ottenere con quelle braccine gracili che si ritrovava, non c’era dubbio che se avesse avuto pieno controllo delle sue facoltà motorie, sarebbe riuscito a liberarsi anche senza la sua abilità. Però Dazai continuava a immobilizzargli il braccio, e il resto del suo corpo non rispondeva tanto rapidamente come avrebbe voluto, perciò parve quasi che ebbe uno spasmo nel momento in cui l’ago trovò la sua vena. 

L’ultima cosa che vide, incapace di combattere le palpebre che si facevano sempre più pesanti, fu la faccia di cazzo sorridente di Dazai, che sventolava una mano e gli augurava un buon sonnellino. Poi si fece tutto buio e non sentì più nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 - parte prima ***


Note (che probabilmente sarebbero dovute andare all’inizio del primo capitolo - ma va be’): queste storia, che ha finalmente visto la luce quest’estate, ha avuto una lunghissima gestazione. Chuuya che finisce all’ADA è un po’ il sogno nemmeno troppo segreto di ogni soukoku shipper, ma dato che io sono fissata con il canon ho dovuto riflettere a lungo per trovare una trama che mi convincesse e sostenesse questo tipo di prompt - e ciò non toglie che in ogni caso la caratterizzazione dei personaggi (salvando giusto qualcuno) mi sembra comunque in alcuni casi forzata o comunque giustificata solo dagli eventi della trama stessa della storia. 

In realtà, quello che ho appena pubblicato è la prima parte di un capitolo che per forza di cose (soprattutto per la mia pigrizia nell’editarlo) ho tagliato a metà: se alcuni temi sembrano lasciati sospesi saranno sicuramente ripresi e conclusi nel prossimo - e penultimo - capitolo. 

Per ulteriori note, alla fine! Buona lettura!


 


Capitolo 2 


(parte prima)



 

«Allora, è filato tutto liscio?», chiese Ranpo, pescando una caramella dal barattolo che si accertavano di mantenere sempre fornito.

«Come l’olio», gli rispose Dazai, distendendo le gambe sulla sua scrivania. Kunikida, stranamente non in anticipo, ancora non s’era fatto vedere. Erano stati giorni difficili per lui, costretto ad improvvisare mossa dopo mossa oltre che a dover fare i conti con la sua continua presenza. Dazai non l’avrebbe biasimato se si fosse preso un giorno di ferie ‒ anzi, sarebbe stato addirittura apprezzabile, considerando che in tal modo sarebbe riuscito a portare avanti il piano di Ranpo-san senza ulteriori intoppi.

«Eh, ovviamente non c’erano dubbi.», Ranpo sorrise sornione, masticando rumorosamente. «Dazai-kun, questo significa anche che-»

«Via, via, Ranpo-san, non sai ancora leggere il futuro. Non ci sarà bisogno di arrivare a tanto.»

Dazai ignorò l’occhiata penetrante che Ranpo gli rivolse. Se ci fosse riuscito, avrebbe anche completamente ignorato Ranpo, visto che non poteva fare a meno di pensare che secondo i suoi calcoli una semplice prigionia e qualche blanda minaccia di consegnarlo alle autorità competenti non sarebbero state sufficienti per convincere Chuuya ad unirsi all’Agenzia. E pensare che ancora ne doveva parlare con il Presidente, che forse avrebbe anche dovuto discuterne con pezzi grossi del governo che gli avrebbero semplicemente chiesto la testa di Chuuya. Cercò di non dare peso alla sensazione di nausea che gli montava nello stomaco. 

Il Presidente arrivò un quarto d’ora dopo, annuendo solennemente mentre Kunikida gli descriveva in maniera dettagliata tutte le violazioni del suo codice etico-lavorativo a cui era stato costretto ‒ Dazai sentì soltanto baffi e pennarello indelebile e nascose il suo ghigno soddisfatto. Quando Kunikida rientrò, puntando direttamente alla sua scrivania e facendo finta che lui non esistesse, Dazai capì che sarebbe stato un ottimo momento per andare a parlare con il Presidente di- be’, di tutta la questione di Chuuya. 

Fissò ostilmente la porta del suo ufficio: avrebbe proprio dovuto alzarsi. Di certo, se avesse continuato a fissarla, non si sarebbe aperta rivelando che il Presidente aveva già magicamente compreso tutto e si era impegnato per risolvere i suoi problemi ‒ non che Dazai volesse che il Presidente risolvesse i suoi problemi, ma che almeno gli spianasse la strada? Sarebbe stato molto più facile se gli avesse spianato la strada.

Quindi. La porta. Adesso doveva proprio muoversi, altrimenti sarebbero arrivati anche tutti gli altri e poi la segretaria sarebbe passata per riferirgli eventuali richieste giunte all’Agenzia e poi Kunikida avrebbe completato il suo rapporto ‒ e vista la furia con cui batteva sulla tastiera doveva già essere a buon punto ‒ e discutere discretamente sarebbe diventato impossibile. Sì, era proprio il caso che si alzasse. 

Continuò a fissare la porta. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Tutto? Avrebbe dovuto omettere qualcosa? Avrebbe dovuto cercare di convincere il Presidente che era nell’interesse di tutti mantenere Chuuya all’Agenzia a tempo indeterminato per interrogarlo? E come avrebbe dovuto dirglielo? Gli sarebbe toccato usare un tono strappalacrime per impietosirlo? Sarebbe dovuto sembrare freddo, calcolatore e disinteressato? Avrebbe dovuto casualmente proporre di convincere Chuuya ad unirsi a loro? Arricciò il naso, vagliando le sue possibilità ‒ avvertiva addosso lo sguardo divertito di Ranpo-san che lo stava giudicando. 

Poi la porta si aprì.

«Dazai-kun, una parola.», gli chiese il Presidente, facendo cenno di seguirlo. Dazai scattò su come una molla.

«Magari è la volta buona che ti licenzia.», suggerì Kunikida, senza nemmeno sollevare lo sguardo dallo schermo. 

«Nei tuoi sogni!», sentenziò Dazai, sciogliendosi un po’. In fondo, non c’era bisogno che si preparasse chissà che discorso. Mica era Kunikida, lui. Avrebbe sentito quello che il Presidente aveva da dirgli e avrebbe seguito il flusso della situazione per portarla a suo vantaggio. 

 

******

 

«Mi sembra di capire», iniziò, indicandogli la poltrona di fronte alla sua scrivania e offrendogli del tè, «che quello che sta dormendo nella nostra infermeria sia un sottotenente della Port Mafia.»

«Mhh.»

«E che, oltre a essere il tuo ex partner, sia anche un dotato estremamente pericoloso.»

«Uhm.»

«Non è una situazione semplice.», spiegò, schiettamente. «Puoi almeno giustificare la sua presenza?»

«Dovremmo interrogarlo.»

Fukuzawa gli rivolse un’occhiata scettica: «Non mi sembra in condizioni ottimali per un interrogatorio.» 

Dazai sbuffò, mentre il Presidente continuava: «Vista l’eccezionalità della situazione, stamattina sono stato costretto ad avvisare la Divisione per le Abilità Speciali. Taneda-sensei ti ha dato due settimane per ricavarne qualunque informazione pensi ti possa servire. Poi sarà prelevato dal governo e si deciderà se restituirlo a Mori-sensei oppure-»

Lasciò la frase in sospeso. Dazai tacque per qualche istante, sorseggiando il suo tè. Doveva dire qualcosa ‒ qualcosa di diverso da una tiepida scusa. Due settimane erano troppo poche. Chuuya odiava i cambiamenti: aveva impiegato mesi per adattarsi ai ritmi della Port Mafia. 

«E se, ipoteticamente, Chuuya si unisse a noi, Taneda-sensei sarebbe disposto a concederlo?»

Ci fu un lampo negli occhi di Fukuzawa che Dazai poté interpretare solamente come pietà. Fu un istante, davvero, ma forse era abbastanza per sperare di ammorbidirlo.

«Mori-sensei non ne sarà felice.», commentò, asciutto.

«Non è stato felice nemmeno quando io ho defezionato.», Dazai rispose, alzandosi. «Eppure eccoci qua.», aggiunse con una scrollata di spalle. Fukuzawa non disse più niente, quindi Dazai si congedò e iniziò a riflettere sulla sua prossima mossa. 

La proposta di Ranpo-san, che fino a mezz’ora appariva come un’estrema soluzione finale, forse era una delle poche opzioni che gli restavano. Non gli piaceva, l’idea di dover ingannare Chuuya per spingerlo a fare qualcosa che in condizioni normali non avrebbe mai accettato ‒ ma queste non erano condizioni normali e Dazai stava soltanto cercando di proteggerlo. Solo che avrebbe preferito farsi amputare la lingua piuttosto che ammetterlo ad alta voce. 

Andò verso l’infermeria. L’effetto dei sonniferi somministrati da Yosano-sensei sarebbe dovuto durare per almeno un altro paio d’ore, poi avrebbero dovuto pensare ad un metodo efficace per renderlo inoffensivo abbastanza a lungo da intavolare una discussione civile. Forse potevano sperimentare quella nuova arma su cui stavano lavorando Kunikida e Yosano-sensei. Oppure gli sarebbe toccato stargli continuamente appiccicato mentre qualcun altro si occupava di tenerlo impegnato.

«Ah, Chuuya, Chuuya», mormorò, accasciandosi sulla sedia affianco al lettino. «Quanta fatica mi costi.»

Chuuya, immerso in un sonno profondo, non accusò minimamente le sue parole. Il suo profilo era molto più affilato di come ricordava, c’erano rughe sconosciute e la sua espressione non era rilassata nonostante stesse dormendo già da parecchio. Un tempo Chuuya perdeva tutta la sua minacciosità nel momento in cui chiudeva gli occhi, sembrava sempre più piccolo, stanco e indifeso di quanto in realtà non fosse. Adesso c’era una perenne tensione sul suo viso ‒ era forse perso in un incubo, in uno dei numerosi mondi in cui non riusciva a salvarlo?

Gli scostò una ciocca di capelli dal viso e le sue dita indugiarono sulla sua fronte, sul naso, sulle labbra semi-socchiuse, spinte da una memoria muscolare che pensava di aver soppresso. Faceva quasi male guardarlo ‒ c’era un dolore sordo, nel suo petto, al pensiero che la sua vita forse appesa ad un filo che diventava sempre più labile e sempre più corto ogni minuto che passava.

«Oh!», esclamò Yosano-sensei, spalancando la porta. «Ho forse interrotto qualcosa?», chiese, ironica.

«No, affatto.», confermò Dazai, ritirando immediatamente la mano. «Stavo giusto pensando che sarebbe il caso di spostarlo, prima che svegli. Potrebbe opporre resistenza.»

 

******

 

«Chuuya~, Chuuya~, Chuuya~», cantilenò Dazai, cercando di scuoterlo. Chuuya, ammanettato e rilegato in uno sgabuzzino dell’Agenzia, continuava a dormire.

«Chuuya~», si lamentò, «lo sai che è cattiva educazione far aspettare le persone?»

Secondo i calcoli di Yosano-sensei, Chuuya avrebbe dovuto svegliarsi un’ora e mezza fa ‒ Dazai non era nemmeno sicuro stesse dormendo, probabilmente era sveglio da un pezzo e stava aspettando una buona occasione per attaccarlo. Lo scosse con maggior vigore. Chuuya schiuse una palpebra.

«Oi, idiota. Cos’è che mi avete fatto? È da un pezzo che non riesco ad attivare la mia abilità.», chiese, cominciando a dimenarsi. Dazai lo ignorò.

«Mhh~»

«Dazai, maledetto, se non inizi a parlare ti faccio a pezzi!», sbraitò, cercando di muovere le gambe quanto bastava per tirargli un calcio. Dazai lo evitò con un saltello nella direzione opposta.

«No, no, Chuuya, non ci siamo proprio:», lo riprese, picchiettando con l’indice la sua fronte, «dovresti essere molto più garbato nei confronti dei tuoi ospiti.»

«Ospiti?», domandò, guardingo.

«Be’, sì, per le prossime due settimane. Poi sarai prelevato dal governo e-», non terminò la frase, ruotando un paio di volto il polso ad indicare cose che avrebbe preferito non dover spiegare.

«E?»

«Be’, probabilmente la tua testa verrà servita al Primo Ministro come prova che si sta davvero facendo qualcosa per fermare la Port Mafia.», annunciò, osservando divertito il ghigno di Chuuya.

«Che ci provino! Finirei solo con l’ucciderli tutti.», poi lo guardò, indispettito. «E Ango Sakaguchi sarà il primo.», minacciò.

«E hai tutta la mia approvazione per questo, davvero. Ma ci sarebbe anche un’altra possibilità.», tentò, cercando di suonare quanto più distaccato possibile. Se Chuuya avesse solo subodorato la puzza di qualcosa di grosso, sotto tutte le sue bugie, non gli avrebbe dato pace finché non avesse vuotato il sacco ‒ cosa che non sarebbe successa e avrebbe portato soltanto a più bugie e ad un Chuuya molto più insistente, in un ciclo infinito di botta e risposta al sapore di menzogna.

«Davvero? Tu mi aiuteresti a scappare da qui?», chiese, sarcastico. La sua voce, sebbene impastata di sonno, risuonava dolorosamente sprezzante alle sue orecchie. Non era il solito sfregio con cui si riferiva a lui, non era l’avversione velatamente affettuosa con cui pronunciava, esasperato, il suo nome. Era, e quasi riusciva a capirlo, perché lui si era trovato nella sua stessa situazione, prigioniero sotto un tetto sconosciuto che in altre circostanze avrebbe potuto essere amico, la voce di qualcuno che si sentiva tradito ‒ con l’unica differenza che Chuuya, disceso nei sotterranei della Port Mafia per vendicare un voltafaccia mai davvero perdonato, non l’aveva mai tradito. 

«Be’, diciamo. Insomma. Scappare, sicuro. Da qui, eh, un po’ meno.», fece una pausa. Questo era il momento in cui si giocava e possibilmente chiudeva la partita. Se avesse accettato spontaneamente, bene ‒ in fondo, gli stava mostrando una via di scampo da una morte certa. E se avesse rifiutato, avrebbe trovato il modo per trattenerlo. «Perché non ti unisci a noi

Forse fu il fatto che disse noi, marcando una distanza che tra loro esisteva da anni ma che non era mai stata ufficialmente riconosciuta ‒ perché c’era l’Agenzia contro la Port Mafia, certo, ma c’erano anche Chuuya e Dazai, che in casi eccezionali costituivano un fronte tutto loro che risolveva i problemi autonomamente ‒, forse fu il tono con cui lo disse, trattandola come una semplice transizione che non sarebbe costata fatica a nessuno, il semplice risultato di una sottrazione e un’addizione, non il totale cambiamento di peso di una bilancia che si teneva in equilibrio per miracolo. Fatto sta che Chuuya non la prese bene.

«Ahhh?»

In ultima analisi, era ovvio che avrebbe reagito così. Chuuya non era né un codardo, né un traditore ‒ e si sentiva, ed era, a tutti gli effetti, un criminale. Piuttosto che voltare le spalle a Mori-san, avrebbe preferito affrontare l’intero dipartimento governativo, e conoscendo la sua testardaggine avrebbe vinto o sarebbe morto tentando. Chuuya, al contrario di Dazai, teneva molto di più al suo onore che alla sua vita ‒ ed era un lusso, Dazai gli concesse, che poteva permettersi: la sua vita non implicava il salvataggio di altre.

Mentre Chuuya sbolliva il suo moto d’indignazione, Dazai ne approfittò per riflettere: avrebbe dovuto cercare di farlo ragionare, subito? In fondo aveva altri tredici giorni e sicuramente con il passare del tempo Chuuya avrebbe compreso quanto erano limitate le sue scelte. E avrebbe scelto lui. Loro.

 

******

 

«Oi, sensei, cos’è ‘sta roba appiccicosa che sento addosso? È questo che mi impedisce di usare la mia abilità?», chiese, appena vide il camice bianco fare capolino dalla porta. A occhio e croce era lì da quattro giorni. La luce fioca che filtrava dalla finestra oscurata serviva a malapena per distinguere le forme ‒ gli portavano da mangiare a turno, e Dazai tornava spesso per tormentarlo con quella stronzata di unirsi all’Agenzia. Come se avesse mai potuto accettare. 

«Quella roba-», spiegò con un sorriso divertito ‒ gli dava sempre l’impressione che lo stesse prendendo per il culo ‒ «-è sangue di Dazai. Un piccolo esperimento su cui stavamo lavorando io e Kunikida-kun, per capire fino a che punto funzioni la sua abilità. È stato straordinariamente entusiasta quando mi sono avvicinata a lui con un bisturi e una siringa.»

«Che schifo.», borbottò, osservando corrucciato il sangue raggrumato sul suo braccio. 

Lei scrollò le spalle. «Si fa quel che si può.», commentò, lasciandogli in grembo il vassoio. Aveva mandato indietro intatti tutti gli altri. «Mangia.», lo minacciò, inginocchiandosi affianco a lui, «Altrimenti la prossima volta dovrò presentarmi con una flebo. Chi sa che non permetta a Dazai di scegliere cosa metterci dentro.»

Chuuya afferrò di cattivo umore le bacchette e si ficcò un boccone di riso in bocca. Probabilmente era davvero orribile come gli sembrava, ma la prospettiva di qualunque cosa stesse minacciando di somministrargli era peggiore: sotto il suo sguardo arcigno vuotò rapidamente la scodella. 

«Sai, nessuno pensa davvero che sia una buona idea tenerti qui.», iniziò, riprendendosi il vassoio, «Ma Dazai non ha voluto sentire ragioni.»

Non voleva davvero sostenere quella conversazione. Voleva che quelle due settimane passassero in fretta, così avrebbe potuto risolvere ‒ be’, qualunque problema ci fosse con il governo ‒ e poi sarebbe tornato a casa e avrebbe stappato in una bottiglia in onore delle proprie vicissitudini. 

«Vuole che mi unisca all'Agenzia.», borbottò contrariato. Quell’informazione sembrò attirare l’attenzione della dottoressa, che si girò verso di lui incuriosita ‒ gli diede la spiacevole sensazione di essere sotto la lente di un microscopio, pronto per la dissezione. 

«Non vuole farti finire nella mani del governo.», rifletté. «Gentile, da parte sua.»

«Gentile. Certo. Come se Dazai fosse capace di gentilezza.»

E se anche lo fosse stato, di certo quella non era gentilezza. L’aveva praticamente sequestrato, adesso era perennemente ammanettato e chiuso in uno sgabuzzino, con l’unica, saltuaria compagnia di gente con cui solitamente si scontrava su ogni piano possibile e inimmaginabile, in attesa che un triste destino si dovesse compiere. Certo, quella era gentilezza. Sicuro. Dazai teneva così tanto a lui che il suo ultimo, strampalato piano prevedeva di tenerlo chiuso lì finché non avesse fatto quello che voleva. Gentilissimo.  

«Puoi pensare ciò che vuoi, ma dire che Dazai non sia capace di gentilezza-», si interruppe, un sorriso amaro stampato sul volto. «Non so che Dazai tu abbia conosciuto. Ma so che è diverso da questo. E so quali effetti può avere l’influenza di Mori sulle persone.», si alzò, chiaramente a disagio. «È inutile arrovellarsi il cervello in cerca di qualche secondo fine. È inutile cercare di misurare le azioni di questo Dazai con i parametri del tuo Dazai. A volte può trattarsi davvero di semplice gentilezza.», concluse, cominciando a rovistare tra i cassetti.

Chuuya non disse nulla. Avrebbe voluto protestare nel momento in cui aveva nominato il Boss, ma c’era un dolore terribile nella sua voce che gli aveva impedito di fare alcunché. Non si stava davvero arrovellando il cervello in cerca di un secondo fine. Era più che altro convinto che si trattasse di un capriccio ‒ lui ci stava bene, alla Port Mafia, si sentiva a suo agio, circondato da persone che conosceva e che lo rispettavano e più probabilmente lo temevano. E l’influenza del Boss non era tanto orribile quanto cercava di dipingerla.

Forse Dazai era cambiato, nel momento in cui si era unito all’Agenzia, o forse era quello che i suoi colleghi continuavano a ripetersi per non dover fare i conti con la consapevolezza che fosse un ex mafioso. Forse li aveva semplicemente ingannati tutti. Ma se pensava di riuscire a ingannare anche lui ‒ be’, si sbagliava di grosso. Chuuya lo aveva  visto commettere, senza neanche battere ciglio, atti che la maggior parte dei membri dell’Agenzia non sarebbe nemmeno stata in grado di concepire. Aveva visto ogni possibile sfaccettatura di Dazai e ne aveva concluso che tutti i suoi lati fossero il peggiore, perché davvero non esisteva qualcosa di buono di lui ‒ forse, all’inizio, non era esistito nemmeno un seme tremendamente malvagio, ma la sua naturale pigrizia e l’assoluta assenza di una morale aveva reso molto più facile la discesa verso la spirale di crimine in cui già era avvolto quando si erano conosciuti per la prima volta. Forse, effettivamente, anche l’influenza di Mori c’entrava qualcosa.

Ma che persone che lo conoscevano a malapena da un paio di anni gli venissero a dire che fosse cambiato, e che quello non era più il suo Dazai ‒ con qualunque implicazione questo potesse avere ‒ non era semplicemente inaccettabile. Era assurdo. Ai limiti del comico. 

«Ti darò qualcosa su cui riflettere, Nakahara-kun: perfino stare qui è meglio che far parte della Port Mafia.»

 

******

 

«Oi, Dazai! Possibile che non abbiate niente di decente da bere in questa topaia?»

Dazai, che aveva appena fatto capolino dalla porta, rise. Gli diede fastidio. Era proprio una risata. Chuuya realizzò distrattamente che non lo aveva mai sentito ridere così ‒ non c’era mai stato nulla di così autentico, spontaneo e cristallino nel Dazai che ricordava. Non con lui, almeno. 

«Ah, Chuuya, effettivamente ero sul punto di offrirti il mio preziosissimo sake, ma dal momento che questa è una topaia~», canticchiò, brandendo la suddetta bottiglia sotto il suo naso. Era di buon umore, e il solo pensiero che Dazai potesse godersi le sue giornate e il suo alcol mentre lui era rinchiuso lì, con il suo sangue perennemente addosso, senza vedere la luce del giorno, senza sapere quando sarebbe stato finalmente libero da quello stillicidio, lo mandò in bestia. 

«Il tuo sake ha sempre fatto schifo.», ringhiò. «E anche tu.», aggiunse, ripensandoci. 

Dazai rise, di nuovo, chiaramente per schernirlo. Se solo avesse potuto muoversi, se solo avesse potuto usare la sua abilità, adesso gli sarebbe toccato fare un volo dalla finestra. Oppure no, visto che ogni volta che cercava di colpirlo, Dazai miracolosamente evitava l’impatto ‒ che poi si trattasse davvero di un miracolo, o fosse soltanto il risultato della facilità con cui riusciva a leggerlo o peggio, della mancata forza che utilizzava contro di lui, be’, era tutta un’altra storia.

«Non ti facevo così schifo, prima.», sussurrò, avvicinandosi. Chuuya sbuffò. Se quello era un tentativo di flirtare?, fare leva su vecchi sentimenti per cercare di convincerlo?, testare il territorio alla ricerca di suddetti sentimenti?, faceva abbastanza schifo. Un po’ come lui. 

«Se non ti allontani dalla mia faccia ti dò una testata.», lo avvertì, buttando il capo all’indietro per darsi lo slancio. Dazai cacciò un’altra risatina, ma fece qualche passo in direzione della porta.

«Ah, Chuuya!», esclamò, squadrandolo divertito, «Certo che tu non cambi mai!»

Chuuya si rabbuiò. Un po’ perché davvero non sopportava la faccia di bronzo di Dazai, che aveva il coraggio di andare a gongolare quasi tutte le mattine da lui, rinfacciandogli il suo attuale stato di prigioniero, e un po’ perché tutto questo discorso sul cambiare non gli piaceva. 

«Perché, tu saresti cambiato?»

“Non so che Dazai tu abbia conosciuto. Ma so che è diverso da questo.”, gli aveva detto la dottoressa. Semplicemente, non ci credeva. Era molto più facile rifiutare una verità scomoda che sforzarsi di accettarla. Il fatto che adesso adoperasse il suo genio strategico per salvare le persone non implicava che lo facesse per altro motivo che soddisfare il suo gigantesco ego. Certo c’era una sorta di vitalità, una luce nei suoi occhi che prima mancava, ma era perfettamente comprensibile: in fondo l’idea di non dover più sottostare agli ordini di Mori e poter prendere propria iniziativa doveva essere elettrizzante.

«Mi vedi cambiato?»

«No.»

Il ghigno strafottente che Dazai aveva stampato in volto si fu rapidamente sostituito da un sorriso amaro. 

«Allora non sono cambiato.», gli concesse, scrollando le spalle. Poi si sedette accanto a lui. «E nemmeno tu.», aggiunse, schioccando le dita contro la sua fronte. 

«Chi ha detto che sarei dovuto cambiare?», sbottò, risentito. Non aveva mai sentito il bisogno di cambiare, non aveva mai ricevuto una mistica vocazione al bene e seppure l’avesse ricevuta probabilmente non avrebbe abbandonato la Port Mafia ‒ e di certo non avrebbe abbandonato quella merda di Dazai come era stato abbandonato lui. E adesso aveva il coraggio di fargli la predica perché non era cambiato. Se lo poteva infilare su per il culo, il suo cambiamento.

«Nessuno, nessuno.», borbottò, sollevando le mani in segno di resa. La bottiglia di sake era abbandonata tra le sue gambe. Appoggiò un gomito sul ginocchio e cominciò a fissarlo. Era uno sguardo diverso rispetto alla svergognata radiografia della dottoressa: era come se stesse cercando qualcosa. «Solo che- be’, penso sarebbe stato carino, se in quattro anni fossimo diventati diversi. Almeno un po’.», spiegò, come se fosse ovvio. «Invece ci comportiamo ancora come due ragazzini capricciosi.»

«Oi, Dazai-», minacciò, perché poteva andare la predica sul non essere cambiato ‒ no, in realtà non andava bene manco quella ‒ ma che Dazai lo vedesse ancora come un ragazzino era più umiliante di quanto potesse sopportare.

«In fondo, tu sei ancora una rottura di coglioni e sei testardo come un mulo. In più fingi di odiarmi-», aggiunse in tono canzonatorio.

«Io non fingo di odiarti.»

«-e io cerco ancora di salvarti il culo.»

Chuuya rimase in silenzio. Non gli aveva chiesto mica di proteggerlo. Nessuno aveva supplicato per avere il suo aiuto. A quanto aveva capito, nessuno gli aveva nemmeno ordinato di catturarlo e trascinarlo in quel covo di svitati ‒ e adesso voleva interpretare il ruolo dell’eroe a sue spese. Avrebbe voluto dargli una testata.

«Sai, adesso potrei facilmente darti una testata e cercare di evadere.»

«Comunque non hai la tua abilità. E seppure l’avessi, penso che non saresti in grado di cavartela contro tutti i membri dell’Agenzia.», Dazai si sporse verso di lui e poggiò la testa sulla sua spalla. «Chuuya-», si lamentò, strascicando l’ultima vocale. «Perché non ti unisci a noi? Sarebbe tutto molto più facile così.»

«Cosa sarebbe più facile?», chiese, esasperato.

«Tu.», Dazai fece una pausa, «Io.», sollevò la testa dalla sua spalla, cominciando a gesticolare ampiamente. «Tutto questo.»

«Dazai, cosa cazzo stai dicen-»

«Sai cosa sto dicendo.», gli disse, brusco. 

Era ancora seduto accanto a lui, ma si stava allontanando. Qualunque cosa Dazai stesse cercando di dire, Chuuya non era sicuro di volerla sapere. Benché avesse appena affermato il contrario, era molto più facile lasciare immutata la loro situazione. Era molto più facile fingere di odiarlo per aver lasciato la Port Mafia e per aver lasciato lui ‒ era molto più facile convincersi di odiarlo piuttosto che doversi crogiolare nella consapevolezza di non aver mai smesso di-

«Chuuya, io non ho mai smesso di-»

«Stai zitto.», gli intimò, prima che potesse terminare. «Stai mentendo.», aggiunse, guardando ostinatamente nella direzione opposta alla sua ‒ e anche se fosse stato sincero, cosa avrebbe dovuto fare? Dazai aveva compiuto le sue scelte e doveva pagarne le conseguenze, anche adesso, anche se diceva di-

«Forse.», concordò Dazai. «Oppure no.», esclamò, scrollando le spalle.

C’erano tante cose che avrebbe voluto dire ‒ e la maggior parte erano sonorissimi insulti ‒ ma nel momento in cui si girò verso Dazai, la bocca già aperta in una protesta, incontrò invece le sue labbra. 

Chuuya non aveva ancora assaggiato il sake che Dazai si era portato appresso, ma avrebbe potuto giurare che fosse proprio quello il sapore della sua bocca ‒ avrebbe voluto irrigidirsi e avrebbe voluto rifiutarlo, ma la verità era che seppure non fosse stato ammanettato a un muro e privato della sua abilità non l’avrebbe fatto comunque. 

Avevano trascorso, separati, più tempo di quanto non ne avessero passato insieme, eppure il tocco di Dazai e la pressione della sua bocca erano ancora vividi nei suoi ricordi ed erano ancora, tragicamente, come li ricordava ‒ e Dazai aveva il coraggio di parlargli di cambiamenti quando era il primo che ancora si comportava come un ragazzino innamorato. 

Nel momento in cui si staccò, a corto di fiato, un lampo indecifrabile illuminò il suo sguardo, ma Dazai fu svelto a camuffarlo sotto la solita espressione trionfante e soddisfatta.

«È ancora bello come ricordavi?», chiese, e Chuuya era ancora abbastanza confuso da potersi lasciar scappare un sì.

«Idiota.», abbaiò invece. «Vedi di sparire.», aggiunse, dandogli le spalle e ignorando tutti i suoi ulteriori tentativi di conversazione.





 


 


Note: allora. In particolare in questa prima parte la caratterizzazione di Chuuya e Dazai non mi convince per niente - soprattutto la scena del bacio, è stata una gatta da pelare non indifferente. Il dialogo con la dottoressa fa parte di una trilogia (???) di dialoghi che Chuuya avrà con membri dell’Agenzia che non sono Dazai e che cercano, pur non sollecitati da quest’ultimo, di portare Chuuya dalla loro parte. Per quanto riguarda il cambiamento - o mancanza di questo - di Dazai, la riflessione nasce effettivamente da quello che gli dice Odasaku prima di morire, ossia che niente di quello che farà riuscirà mai a riempire il vuoto che sente, quindi davvero la sua non è una mistica conversione alla filantropia, quando più forse una sua convinzione che lavorare per l’Agenzia sia la cosa giusta da fare, a prescindere da quali siano i suoi sentimenti o le sue sensazioni a riguardo. L’idea di usare il sangue di Dazai come una specie di arma (inizialmente sarebbe dovuta essere una specie di pallottola a salve, ma quell’idea è stata scartata) nasce da una curiosità personale su quanto si estenda effettivamente la sua Abilità - in questo comprende qualunque cosa porti traccia del suo dna - e spero non abbia fatto troppo schifo. Spero di riuscire a pubblicare la seconda parte la prossima settimana, ma non prometto niente a causa della mia naturale pigrizia.

A presto! Fede ❤

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - parte seconda ***



Capitolo 2

(parte seconda)



 

Kunikida era il nuovo partner di Dazai. Almeno, questo era quello che gli aveva detto la dottoressa. In realtà lui non l’aveva ancora visto, da quando era iniziata la sua prigionia, considerando che Dazai era quasi onnipresente per tenerlo sotto controllo. Doveva ammettere che però ne era incuriosito: sapeva perfettamente che ci voleva un autocontrollo formidabile per riuscire a sopportare Dazai, oltre che un’incredibile intelligenza per seguire qualunque via percorresse la sua mente contorta durante una missione. Ne era anche, forse in piccolissima parte , intimorito.

Non si aspettava comunque di vederlo. Invece si era presentato in un noiosissimo pomeriggio, forse una settimana dopo la sua cattura, mentre stava ancora maledicendo Dazai e i suoi capricci e quel bacio che proprio non riusciva a togliersi dalla testa. All’inizio, in realtà, era entrato il ragazzo-tigre, quello per cui tutta la Port Mafia aveva perso la testa oltre che la taglia: Mori-san a volte ne era ancora amareggiato -. Aveva fatto un gran baccano trascinando una sedia, si era scusato aveva proprio detto: “Scusa per il disturbo, Nakahara-san” e poi se n’era andato in tutta fretta. 

Poi era arrivato Kunikida: la sua ombra, particolarmente lunga, era arrivata prima di lui. Si era schiarito la voce, si era sistemato il cravattino che portava al collo e si era seduto. Chuuya non aveva protestato, non si era lamentato, non aveva alzato la voce traspariva, dalla sua calma assoluta, un senso di severità che di certo non gli avrebbe condonato il comportamento che sia Dazai che la dottoressa aveva ignorato e talvolta trovato divertente. Aveva l’impressione di trovarsi davanti ad un insegnante particolarmente impietoso.

«Non sono qui per fare conversazione.», annunciò, brusco.

Chuuya annuì. A quel punto lui sembrò rilassarsi un poco, almeno quanto bastava per perdere la postura perfetta mantenuta fino a quel momento.

«Suppongo che il motivo della mia visita sia abbastanza evidente.», continuò.

Chuuya scrollò le spalle. Non ne aveva la minima idea. 

«Chiaramente», iniziò, guardandolo dall’alto verso il basso, «per Dazai.»

Era irritante. Chuuya, costretto per terra, veniva torreggiato da questo spilungone minaccioso che affermava di essere lì per Dazai. Che significava, per Dazai? Su richiesta di Dazai? Per il bene di Dazai? Per lamentarsi di Dazai? Cosa avrebbe dovuto farsene di quello che gli avrebbe detto? Non sarebbero state certo le parole di uno che si era sobbarcato l’ingrato compito di essere partner di Dazai che l’avrebbero convinto ad unirsi all’Agenzia.

«Penso tu sappia quanto fastidio possa dare Dazai senza ulteriori stimoli esterni.», spiegò. «Da quando ti ha portato qui cosa che non avrei mai concesso, se non avesse approfittato di un mio particolare momento di debolezza è diventato fisicamente doloroso sopportarlo.», aggiunse. «Ormai si presenta qui soltanto quando sa che è il suo turno di fare la guardia, sospira, mette disordine tra i miei documenti, tampina il presidente affinché ti lasci sostenere l’esame di ammissione benché nessuno qui pensa che tu sia tagliato per l’Agenzia.»

Chuuya si dimenò, a disagio. Non c’era bisogno che gli ricordassero che lui era un criminale e che di solito si combattevano, piuttosto che intavolare conversazioni su quanto Dazai fosse una spina nel fianco. Era stata una sua scelta, quella di unirsi alla Port Mafia, e sarebbe stata altrettanto sua la scelta di andarsene, se mai un giorno l’avesse voluto di certo non avrebbe permesso a Dazai e i suoi colleghi squinternati di occuparsi della faccenda al posto suo. Non che Dazai gliel’avesse chiesto, quando poteva, di lasciare la Port Mafia. Non che l’avrebbe seguito, se l’avesse fatto. 

«Convertire criminali non rientra nelle mie mansioni. Io mi limito a seguire i miei ideali, non a impartirli ad altri.», proseguì, ignorando qualunque turbamento Chuuya stesse mostrando. «Ma è evidente che Dazai ti sia particolarmente affezionato. Ed è innegabile», disse, impedendogli di controbattere, «che la mia efficienza lavorativa dipenda dalla tranquillità dell’ufficio, che è chiaramente soggetta agli stati umorali di Dazai. Motivo per cui diventa imperativo che tu accetti la sua proposta di unirti all’Agenzia.», concluse, serissimo, sistemandosi gli occhiali sul naso.

C’erano talmente tante cose assurde, in quello che stava dicendo, che non potevano non essere vere. Se c’era un momento per protestare, era onestamente quello. Poteva sforzarsi e capire che Dazai voleva trascinarlo all’Agenzia per salvarlo dal governo e da qualunque terribile fine gli sarebbe toccata, ma che fosse costretto a cedere per- per cosa? Assicurare l’efficienza lavorativa del gigantesco imbecille che gli si parava davanti? Ci credeva, che questo Kunikida si trovava bene con Dazai. 

«Inoltre», andò avanti, mentre Chuuya ancora stava processando l’incessante sequela di insulti che avrebbe dovuto rivolgergli, «è ovvio che privare la Port Mafia di un’abilità potente come la tua contribuirebbe sensibilmente alla sicurezza di Yokohama. Senza considerare l’ancor più ovvio aspetto che pure non era mia intenzione sottolineare che avresti la possibilità di redimerti dei tuoi crimini passati.», lo osservò per qualche istante e Chuuya si sentì esposto al suo sguardo indiscreto e indagatore. «Sarebbe di certo un’esistenza più felice, quella in cui puoi metterti al servizio della giustizia.»

 

******

 

Kunikida aveva terminato il suo strampalato sermone del fuoco e se n’era andato senza dargli la possibilità di una risposta. Il che, a conti fatti, era una fortuna, perché Chuuya non avrebbe davvero saputo cosa rispondere. Quale giustizia?, avrebbe voluto chiedergli. C’era una giustizia, nella Port Mafia, ed era terribile e mieteva continuamente vittime. Era l’unica giustizia che avesse mai conosciuto e al cui servizio si fosse messo. Anche la giustizia dell’Agenzia era costata a molti: se in fondo erano la stessa giustizia, a cosa sarebbe servito cambiare bandiera? La giustizia del governo, della Divisione per il Controllo delle Abilità Speciali, lo voleva morto benché molti, in quelle quattro mura, avessero commesso crimini ben peggiori dei suoi.

E seppure fosse stata diversa, la giustizia dell’Agenzia, seppure fosse stata un ideale luminoso e autentico, avrebbe davvero migliorato la sua vita? Gli era sempre andata bene, la sua vita, e non c’era predica che potesse fargli sorgere il dubbio che quello che avesse non fosse abbastanza. 

Gli avevano detto che Dazai era diverso. Chuuya, per orgoglio e amor proprio, lo aveva continuato a negare, ma c’era, nella sua mente, un’immagine di Dazai che semplicemente non combaciava con quella che si ritrovava ormai quotidianamente davanti agli occhi, benché si sforzasse di limarla. Che Dazai avesse scoperto una felicità una serenità? che gli era negata ai tempi della Port Mafia? Che servire quella giustizia lo avesse davvero reso una persona migliore? Che non fosse più il suo Dazai?

«Chuuya~»

«Fanculo, Dazai.», sibilò tra i denti. «Se mandi un altro dei tuoi colleghi a perorare la tua causa di merda appena mi libero vi ammazzo tutti.»

«Oh?», Dazai, appena entrato dalla porta, sembrò incuriosito dal suo scatto d’ira. «Ah, Kenji-kun aveva detto qualcosa su Kunikida, prima.», scrollò le spalle. Probabilmente non aveva ascoltato nulla. «Be’, spero che non ti abbia spaventato, Kunikida sa essere-»

«Un idiota.», lo interruppe, pensando che si era davvero piegato a chiedergli di unirsi all’Agenzia pur di lavorare in pace.

Dazai emise un verso di approvazione e si avvicinò. 

«E per caso», iniziò, chinandosi verso di lui, «ti ha convinto?»

Chuuya fece una smorfia. «Tu che dici?», rispose.

«Sì?», tentò.

«Stare qui non ti ha reso migliore.», osservò Chuuya. «Ti ha reso solo più stupido. Se fossi rimasto nella Port Mafia avresti immediatamente capito che era inutile insistere e ti saresti concentrato su un obiettivo che avresti effettivamente potuto raggiungere.»

«Mi rende stupido, voler salvare le persone che-»

«Non tutti hanno bisogno di essere salvati, Dazai.», commentò, impietoso, mentre Dazai si sedeva accanto a lui. «Non tutti vogliono essere salvati. Non siamo tutti come te.»

«Ce l’hai ancora con me perché me ne sono andato?»

«Non ce l’ho con te perché te ne sei andato», sbottò, irritato. «Ma perché l’hai fatto senza di me.», cominciò a sbattere un piede per terra. «Dio, Dazai, eravamo una squadra, No? Partner e-», si fermò prima di concludere la frase. Amanti. A volte faceva ancora male pensarci. «Invece dalla sera alla mattina eri scomparso. Introvabile. Senza nemmeno lasciare una traccia. E tutto quello che il Boss aveva da dire a riguardo era che non si aspettava di rivederti presto.», fece una pausa, lanciandogli un’occhiata di disprezzo. «Hai idea di come mi sia sentito?»

«Vuoi dire che mi avresti seguito?», domandò Dazai, fissandolo dubbioso.

«Chi sa.», commentò, sarcastico. «È troppo tardi per scoprirlo.»

«Chuuya-»

«Chuuya un corno.», lo interruppe. «Sono stanco, Dazai. Vattene e basta.»

Dazai emise un lamento se non lo avesse mandato via così decisamente forse sarebbe rimasto. Ma più lo guardava e più si sentiva confuso. Più lo guardava e più pensava che forse, se le situazioni fossero state diverse, adesso ci sarebbe ancora speranza per loro. Più lo guardava e più si convinceva che il passo per raggiungere Dazai fosse infinitesimamente piccolo e che fosse anche il caso di compierlo. Quindi era meglio che se ne andasse, che quei pochi giorni che gli restavano finissero in fretta e che la Divisione delle Abilità Speciali facesse di lui quello che voleva cosa che, in ogni caso, Mori-san non avrebbe permesso. Non era sicuro che l’Agenzia ne fosse a conoscenza, o, in tal caso, quanto sapesse, ma i rapporti tra la mafia e il governo era regolati da accordi molto più ferrei di quelli stabiliti con loro.

 

******

 

«Cosa c’è?», chiese, leggermente irritato.

Quel giorno il pranzo gliel’aveva portato Kyouka-chan. Si sentiva sempre a disagio con lei: meno cerimoniosa della tigre mannara, meno pomposa di quel Kunikida che comunque non si era più fatto vedere , non aveva la prontezza di spirito della dottoressa e grazie al cielo non era fastidiosa come Dazai. Era, però, tragicamente silenziosa. Di solito apriva la porta, gli consegnava il suo vassoio e se ne andava quasi in apnea. Non oggi. Oggi era entrata, aveva lasciato il vassoio accanto a lui e aveva esitato: si era fermata ad osservarlo per un paio di istanti, indecisa, poi si era avviata verso l’uscita. Adesso stava indugiando vicino alla porta, fissando trucemente il pomello; aveva già sollevato la mano un paio di volte, per poi lasciarla ricadere. Chiaramente voleva fare dire? qualcosa. Sperava solo che non si trattasse una strampalata idea di Dazai.

«Dazai-san mi ha salvata.», gli disse infine. Ritornò sui suoi passi e si inginocchiò di fronte a lui.

Chuuya non sapeva poi molto della storia di Kyouka-chan e quel poco che sapeva gliel’aveva detto Ane-san, che continuava a lanciare improperi contro il ragazzetto-tigre che gliel’aveva portata via. Era tuttavia a conoscenza del fatto che per un periodo Akutagawa si fosse occupato di lei e l’esperienza doveva certamente averla segnata. La Port Mafia non era un centro d’accoglienza: i bambini che raccoglieva orfani, teppistelli, scappati di casa diventavano informatori, spacciatori, assassini. Anche lui era stato un ragazzino solo e tradito e aveva messo il suo potere al servizio di Mori-san, che gli aveva dato un ruolo e una parvenza di famiglia. Si sarebbe comunque unito a lui, se gli si fosse presentata una possibilità diversa?

L'abilità di Kyouka, Demone Biancaneve, apparve alle sue spalle.

«Demone Biancaneve ha ucciso i miei genitori. E nei sei mesi in cui sono stata con Akutagawa, trentacinque persone. La mia abilità è fatta per uccidere ed ero convinta non potesse essere altrimenti.»

La sua voce era controllata, quasi distaccata mentre parlava. Più che una ragazzina, gli dava l’impressione di essere un’impietosa divinità multi centenaria. Non doveva essere semplice, discutere con un perfetto sconosciuto di traumi e ferite che avrebbe di certo preferito lasciare nel passato, eppure non provava vergogna mentre gli elencava i suoi crimini.

«Pensavo che se non ci fosse stato altro modo per vivere che continuare ad uccidere, allora tanto valeva morire.», fece una pausa, fissandolo intensamente. Il suo sguardo, freddo eppure sereno, lo metteva a disagio. 

«Ero disposta a morire ero pronta a morire. E poi Dazai-san mi ha detto che lui aveva commesso crimini indicibili eppure adesso fa il possibile per aiutare gli altri, e mi ha detto che se ce l’ha fatta lui, allora ci potevo riuscire anch’io.»

Si alzò, scrollando un po’ di polvere dal kimono. Non smise di guardarlo negli occhi.

«Se ti è stata data la possibilità di cambiare, allora dovresti coglierla. Tutto qui.»

Chuuya osservò mesto la sua schiena che si allontanava. Era così facile, lasciarsi il passato alle spalle? Bastava soltanto cogliere una possibilità? Emise un verso di stizza. Non avrebbe dovuto abbandonarsi a certi pensieri questo era esattamente il tipo di dubbio che Dazai avrebbe voluto instillare in lui. Che gli importava, quanto fosse facile lasciarsi il passato alle spalle? Lui non l’avrebbe fatto. Non avrebbe ceduto ai petulanti capricci di Dazai e non avrebbe seguito i consigli di una quattordicenne, benché quest’ultima fosse riuscita a sbarazzarsi delle catene della Port Mafia. Gli andava davvero bene la sua vita? Era un’esistenza a cui si abituato rassegnato? , perciò non aveva mai sperato che potesse essere diversa migliore? 

Eppure, più tempo trascorreva in quello sgabuzzino, più diventava difficile negare che forse Dazai era davvero cambiato, che ogni sua azione non era soltanto per dare pace al fantasma di Odasaku, ma animata da un sincero desiderio di proteggere gli altri che lui stesso rientrasse tra gli altri che Dazai voleva proteggere era un pensiero che rendeva ancora più terrificante l’intera faccenda.

Aveva convissuto per anni con la certezza che qualunque sentimento Dazai avesse mai provato per lui, se mai ne avesse provati, non era stato abbastanza per tenerli insieme mentre il suo mondo cadeva a pezzi. Quando l’aveva perso non ci aveva impiegato molto a convincersi che forse era stato meglio così che continuare a vivere in quella farsa di relazione soltanto per il suo stupido attaccamento era, per l’appunto, stupido. E adesso Dazai proclamava che voleva salvarlo e che lo amava ancora. Che non aveva mai smesso. E la cosa peggiore era che lui ci voleva credere davvero ci voleva credere disperatamente, con ogni fibra del suo essere, e non poteva fare a meno di odiarsi per questo. Era debole.

Solo un altro paio di giorni. Doveva resistere solo un altro paio di giorni e poi si sarebbe potuto liberare della presenza di Dazai e di quella possibilità che insistevano ad offrirgli, quella mano tesa nel vuoto che non avrebbe mai afferrato, quella porta verso il tramonto che non avrebbe mai varcato apparteneva all’oscurità, lui, a vicoli bui e ordini concitati e alla sciocca illusione che non ci fosse altro, oltre quello.

 

******

 

«Chuuya~»

«Per l’ultima volta, Dazai, non mi unirò al tuo gruppo di fuori di testa!»

Dazai sollevò entrambe le mani in segno di resa.

«Lo sappiamo, lo sappiamo.», commentò. Poi gli fece notare le chiavi che teneva in mano. «Sono qui per proporti un accordo.», iniziò a spiegare. «Vedi queste? Servono per aprire le tue manette.», fece dondolare le chiavi dalle sue dita. «Prendilo come il riscatto che non abbiamo chiesto alla Port Mafia quando ti abbiamo catturato.»

«E il governo?»

«Potremmo sempre dire che sei riuscito a scappare. Sei o non sei un pericolo pubblico?»

Chuuya mascherò la sua risata con un colpo di tosse. Qualunque proposta avanzasse Dazai, dopo averlo accontentato sarebbe stato libero di tornare a casa, ai suoi crimini e alla sua esistenza senza speranza senza dubbi e senza la tentazione di cedere alla sempre più allettante possibilità di accettare il cambiamento. 

«Cosa ti serve?», domandò, cercando di apparire distaccato. 

«Una mano.», rispose, scrollando le spalle. «Il governo ci ha chiesto di indagare su un’organizzazione straniera che ha messo base a Yokohama. Abbiamo trovato il loro nascondiglio e oggi dovremmo tendere un’imboscata. Saresti d’aiuto.»

«Poi me ne potrò andare?»

«Sì.», promise Dazai. «Sarai libero come l’aria.», aggiunse, facendo svolazzare le dita.

Chuuya ci pensò per qualche istante non gli sarebbe costato nulla, andare con loro e collaborare pur di potersene andare. Era anche curioso dell’opportunità che gli si presentava: se mai avesse voluto accettare di lavorare per l’Agenzia, be’, quello era un assaggio della vita che avrebbe vissuto che avrebbe potuto vivere, se fosse stato meno codardo. 

«Okay. Va bene. Solo per questa volta.», specificò, mentre Dazai si avvicinava per liberarlo. «E poi me ne vado.», aggiunse, sgranchendosi finalmente i polsi.

«Certo.», acconsentì Dazai.

«Bene.»

«Già.»

«Ah, Dazai?», lo chiamò, aspettando che si voltasse per sferrargli un pugno sotto la mascella. «Questo è perché mi hai tenuto rinchiuso qui due settimane.» 

Poi afferrò il suo cravattino e lo baciò. Dazai rimase immobile in un primo momento, facendogli credere che lo avrebbe rifiutato. Quando stava quasi per allontanarsi, gli afferrò i capelli e rispose con forza, la sua lingua che si faceva spazio nella sua bocca, una mano che gli sosteneva la nuca per poter approfondire ancora di più il contatto. Era anche più bello di come se lo ricordava.

«E questo per cos’è?», chiese Dazai, una domanda appena sussurrata sulle sue labbra. Chuuya scrollò le spalle e sgusciò fuori dalla stanza prima che Dazai potesse fare altre domande. 

«Allora, stupidi detective, ho sentito che avete bisogno del mio aiuto per portare a termine i vostri incarichi»

La dottoressa ghignò. Kunikida ridusse gli occhi a due fessure.

«Allora hai accettato, Nakahara-san!», esclamò Atsushi, tirandosi in piedi. 

«Be’, l’alternativa era finire nelle mani del governo.», spiegò candidamente Chuuya, appoggiandosi a una scrivania.

«Già.», rispose prontamente un piccoletto con gli occhiali che non ancora mai visto. Il suo sguardo lo metteva a disagio. «Bel cappello», gli concesse, indicando con il mento il basco che portava in testa.

«Bene.», cominciò Dazai. «Visto che ci siamo tutti», i suoi occhi si soffermarono per un istante su Chuuya, prima di includere il resto dei presenti, «direi che possiamo anche fare un riassunto di quello a cui stiamo per andare incontro. Kunikida, prego.», concluse, sollecitando l’altro a prendere il suo posto.

Chuuya si aspettava qualche commento infastidito, o almeno una forma di protesta da parte di Kunikida, ma quest’ultimo si alzò senza un lamento e fece esattamente quello che gli aveva chiesto Dazai. 

«Abbiamo a che fare con un’organizzazione criminale che negli ultimi tre mesi ha causato il rapimento di una serie di dignitari e politici di vario livello e il loro rilascio dietro lauto riscatto. La Divisione per il controllo delle Abilità Speciali non sembrava venirne a capo e perciò ci ha chiesto di occuparcene.», fece una pausa, poi aggiunse: «Il nostro obiettivo è entrare nel loro quartier generale, liberare gli ostaggi e arrestare le menti a capo dell’organizzazione. Ci sono domande?»

Chuuya rimase interdetto per qualche istante lui aveva molte domande. Avevano intenzione di andare lì senza un piano? O peggio, il loro piano era semplicemente andare lì e improvvisare? Mori-san non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Avrebbe richiesto una dettagliata spiegazione di ogni singolo passaggio e almeno un piano di riserva, in caso le cose si mettessero male. Questo comportamento era da selvaggi. Fuori di testa. Si guardò intorno, in attesa che si levasse qualche dubbio simile ai suoi, ma l’unica cosa che trovò fu lo sguardo apologetico di Dazai che gli spiegò, senza troppi giri di parole, che lì le cose erano diverse. 

«Ho bisogno di una sigaretta.», annunciò e in un primo momento non fece caso al levarsi di un lamento comune. Poi Yosano-sensei gli si parò davanti, indicando prima il cartello vietato fumare e poi lanciandosi in una sgridata sugli effetti negativi del fumo e sul perché quando si sarebbe ammalato di tumore ai polmoni lei non lo avrebbe curato. Chuuya avrebbe voluto controbattere che, grazie tanto, lui non sarebbe venuto a farsi curare da lei, ma vide che i toni della tirata non si smorzavano e quindi ripose in segno di resa il portasigarette.

 

******

 

«Voi siete una banda di idioti.», riferì a Dazai e quest’ultimo si limitò ad accogliere il suo commento con un verso concorde. Dazai era orribilmente di buon umore il che non faceva che farlo incupire ancora di più, perché qualunque cosa lo rendesse così allegro non poteva che essere negativa.

«Kunikida-kun!», esclamò Dazai, dandogli una pacca sulla spalla e ignorando completamente il minaccioso suggerimento di stare zitto, visto che speravano nell’effetto sorpresa , «Non ti sembra un giorno perfetto per morire?», chiese, allegro. 

Kunikida sbuffò senza neanche degnarlo di uno sguardo. Il tipo col basco, Ranpo-san, si lasciò scappare un colpo di tosse. Il disagio di Chuuya aumentò. 

Aveva accettato solo perché Dazai gli aveva promesso che poi sarebbe potuto tornare alla Port Mafia non avrebbe voluto assistere a queste comiche scenette familiari, non avrebbe dovuto fargli male sapere che quella era la quotidianità di Dazai e che non sarebbe mai stata anche la sua. Aveva accettato e avrebbe portato a termine la sua missione e non si sarebbe lamentato e non ci avrebbe pensato più al diavolo Dazai: qualunque cosa fosse successa in quelle due settimane era già un fantasma che apparteneva al passato.

Kunikida fece cenno di fermarsi e si bloccarono tutti immediatamente: guardò verso l’altro lato della sala, dove dovevano farsi strada Atsushi-kun e gli altri. Quando li vide, dopo lo scorrere di qualche manciata di secondi, fece loro segno di aggirare il gruppo di malviventi che stava controllando gli ostaggi.

«Adesso», spiegò Kunikida, esplicitamente rivolto a lui, «cerchiamo di mettere questi tizi, chiaramente dei gregari, al tappeto, senza fare troppa confusione.»

Gli lanciò uno sguardo dubbioso, come se volesse mettere in dubbio la sua capacità di non fare confusione, e poi si rivolse a Ranpo: «Ranpo-san, tu dovresti restare indietro con Kenji per liberare gli ostaggi e portarli al sicuro.»

Ranpo arricciò il naso.

«Se ne può occupare Tanizaki-kun.»

«Potremmo aver bisogno di Neve Sottile.», obiettò Kunikida, che continuava a lanciare occhiate agli ostaggi legati sul pavimento.

«Allora Yosano.», protestò Ranpo, che pareva essere intenzionato a proseguire con loro a tutti i costi.

«Potremmo aver bisogno anche di lei.», aggiunse Kunikida, impaziente.

«Stai dicendo che non avete bisogno di me?»

Kunikida sembrò mortificato: chinò il capo e si lanciò in una serie di scuse, parlando di come ovviamente avrebbero avuto sempre bisogno del più brillante detective dell’Agenzia, anzi di Yokohama, anzi del Giappone e che non era assolutamente sua intenzione suggerire che sarebbero riusciti a portare a termine l’incarico senza l’aiuto del più prezioso membro dell’Agenzia. Chuuya pensò che sarebbe scoppiato a piangere.

«Va bene.», disse alla fine, chiaramente sconfitto, «Se ne può occupare Tanizaki.»

«Bene.», commentò Dazai, giungendo le mani, «Adesso che siamo tutti d’accordo, potremmo occuparci di quelli?», chiese, indicando due uomini nerboruti che stavano correndo verso di loro.

Chuuya sentì a malapena Kunikida dire: «Tsk.», prima che cacciasse un foglietto di carta e facesse apparire un teaser. 

«È così che mi avete beccato, l’altra volta?», domandò a Dazai, che restò pigramente dietro di loro, mentre Chuuya sferrò un calcio che fece cadere l’altro uomo, che Kunikida si premurò di tramortire.

Dazai scrollò le spalle. «Tu sei stato molto più facile da battere, chibi

Chuuya non voleva fare davvero brutta figura con i colleghi di Dazai, perché probabilmente lui si era già dilungato con storie che lo facessero sembrare ridicolo e stupido e incapace e non aveva alcuna intenzione di dar loro motivo di credere che ci fosse anche solo un briciolo di verità nelle sue parole. Perciò non voleva davvero cominciare a litigare nel mezzo di una spedizione in cui avrebbe dovuto fungere da supporto anche perché fino a quel momento la sua utilità era stata pari a zero. Ma l’urlo di indignazione partì prima che potesse lucidamente riflettere sul fatto che Dazai avesse aperto bocca proprio per suscitargli quella reazione.

Qualunque risposta Dazai potesse volergli dare fu interrotta da Kunikida, che gli diede una botta in testa e gli intimò di pensare a fare il suo lavoro. Dazai, straordinariamente, obbedì. Si lanciò davanti a loro, ricongiungendosi con gli altri membri e liberando gli ostaggi. Mentre spiegava sommariamente la situazione, indicando appunto Kenji e Tanizaki che li avrebbero scortati in un luogo sicuro, Chuuya non poté fare a meno di notare lo sguardo malinconico con cui li osservava. 

«Sai, Chuuya-kun», lo chiamò la dottoressa, affiancandosi a lui, «non devi per forza sentirti così a disagio.»

Chuuya guardò Dazai, che stava arruffando i capelli di Atsushi probabilmente congratulandosi per la moltitudine di corpi semisvenuti ai loro piedi e il suo disagio non fece che aumentare.

«Avevi ragione, sensei.», borbottò, quasi più a se stesso che rivolto a lei, «Non è più il mio Dazai.»

La dottoressa gli rivolse un verso interrogativo, ma fu distratta da uno degli scagnozzi che cercò di rialzarsi e colpì prontamente con il piatto del machete. Se avesse dovuto scegliere un membro dell’Agenzia di cui avere davvero paura, era lei.

«Su, andiamo avanti.», li incoraggiò Kunikida, «Ho l’impressione che non sarà sempre così facile.»

 

******

 

«Via, via!», esclamò Dazai, rompendo il silenzio che diventava sempre più teso ogni volta che sbirciavano in una stanza e la trovavano desolatamente vuota. «Non c’è bisogno di fare così!», aggiunse, parandosi di fronte a loro. «Seppure il più potente portatore di abilità dovesse attaccarci, mi basterebbe stendere un braccio per neutralizzarlo, quindi-», quindi perché hai chiesto il mio aiuto?, avrebbe voluto chiedergli Chuuya. «-non c’è bisogno di farmi vedere quei musi lunghi!»

Yosano-sensei ridacchiò, Ranpo-san annuì, Atsushi sembrò sorridere sinceramente e anche Kyouka, che era pronta a sfoderare il suo pugnale e la sua ben più minacciosa abilità al minimo rumore, si rilassò. Chuuya continuò ad osservare Dazai, che adesso di era posto alla testa del loro corteo e dovette sforzarsi per reprimere un moto d’affetto. Era diverso, certo, ma questo Dazai che si preoccupava dei suoi compagni e cercava di fare la cosa giusta non era poi così male era un Dazai di cui avrebbe potuto innamorarsi.

Innamorarsi di Dazai il solo pensiero avrebbe dovuto farlo innervosire. Invece c’era una pletora di possibilità ai suoi piedi che non aspettavano altro che essere colte. Gli sarebbe andato bene, tornare alla Port Mafia dopo aver avuto un assaggio di un’altra vita, una che avrebbe potuto davvero renderlo felice? Sarebbe bastata la fedeltà nei confronti del Boss per legarlo ad una dimensione sempre più vaga e lontana?

Sbuffò, infastidito. Non era certo il momento per certi pensieri. Magari, dopo, quando avrebbe portato a termine il suo incarico, avrebbe trovato il coraggio di ingoiare il suo orgoglio e chiedere di poter restare chiedere a Dazai di accoglierlo nella sua vita come non aveva fatto anni prima. Oppure sarebbe semplicemente scappato e avrebbe finto che le ultime due settimane e tutto il tumulto interiore che gli avevano causato in realtà non fossero mai esistite.

«Be’, questa è l’ultima porta.», annunciò Dazai, piazzandosi di fronte ad essa. «Se non c’è nessuno nemmeno qui significa che chiunque sia dietro questi crimini è riuscito a s-»

Non riuscì a terminare la frase che la porta fu scardinata e lanciata contro di loro.

«Dazai!», urlò Chuuya, che si aspettava che fosse stato colpito ma mentre lui era impegnato a preoccuparsi inutilmente, Dazai si era chinato e Demone Biancaneve aveva tranciato l’ammasso di ferraglia, che era spezzato sopra le loro teste. 

«Che c’è, ti stai preoccupando per me?», chiese Dazai a bruciapelo, ma Chuuya lo ignorò completamente e si buttò nella mischia. 

C’erano almeno una decina brutti ceffi nello stanzone in cui erano entrati, e sembravano tutti dotati di abilità Chuuya calcolò che se si fosse mosso abbastanza rapidamente sarebbe riuscito ad abbatterne un paio prima che riuscissero ad attaccare. Certo che per buttarsi in un covo di personaggi del genere i membri dell’Agenzia dovevano avere una sfacciataggine assurda se qualcuno fosse stato ferito, alla dottoressa sarebbe bastato un dito per curarlo, ma era comunque un comportamento da sconsiderati. 

«Vacci piano con la tua gravità.», commentò Ranpo, fermandolo prima che potesse lanciarsi contro i primi avversari. «Non è adatta al combattimento al chiuso.»

«E noi cerchiamo di non fare vittime, se possibile.», precisò Kunikida.

E allora perché sono qui?, avrebbe voluto strillare, ma fu superato da Atsushi, che già sfoderava gli artigli, e non ebbe neanche il tempo di protestare.

Fu attaccato alle spalle e nonostante il bruciore dei reni riuscì a saltare abbastanza in alto per schivare un secondo colpo. Fece cenno agli altri di dispersi e si diede lo slancio per atterrare sul tavolo, che poi spedì immediatamente contro il suo avversario. A pensarci bene, fu quasi una fortuna che questo fosse riuscito a spostarsi di lato, perché altrimenti Chuuya era sicuro che gli avrebbe fracassato il cranio. Cercare di combattere con delle limitazioni non solo territoriali, ma anche morali, diventava molto più difficile. Tutte le strategie a cui era abituato improvvisamente non servivano più a nulla e come se non bastasse non riusciva a regolare la sua forza d’urto quale sarebbe stato l'attacco che avrebbe ucciso qualcuno o che avrebbe fatto collassare l’edificio?

Recuperò una delle gambe del tavolo, ormai in frantumi, e la spedì nello stomaco dell’altro, che si accartocciò su se stesso per il dolore. Kunikida ne approfittò per tramortirlo e ammanettarlo. Si scambiarono uno sguardo d’intesa male e poi Chuuya si guardò intorno per accertarsi che stessero tutti bene malissimo.

La prima persona che vide, con un certo disappunto, fu Dazai. Dazai non era mai stato amante della lotta, in particolare dei corpo a corpo che lo costringevano ad uno spreco di energie che probabilmente neanche possedeva, per cui Chuuya avrebbe voluto urlargli di avere almeno la decenza di farsi da parte e lasciarli lavorare in pace. Invece si rese conto, con disappunto ancora maggiore, seguendo la sua figura snella che praticamente danzava da un punto all’altro della stanza, che non era affatto d’intralcio: si muoveva tra i vari combattenti, allungando talvolta le dita, lasciando l’avversario indifeso abbastanza a lungo perché fosse messo fuori gioco.

«Non male, eh?», gli chiese Ranpo, scuotendolo dalla sensazione di immobilità che lo aveva invaso mentre si accertava che Dazai fosse effettivamente al sicuro e non stesse in realtà saltando da un pericolo all’altro.

«Perché sono qui?», domandò in risposta, afferrando una mattonella staccatasi dal pavimento e mandandola, con una parabola perfetta, su un braccio che stava strattonando la dottoressa.

«Per dare una mano.», gli rispose con una scrollata di spalle.

Chuuya grugnì. Si sentiva preso per il culo.

«Perché sono davvero qui?», ritentò, lanciandogli un’occhiata penetrante. 

Ranpo sbuffò e si sistemò meglio gli occhiali sul naso.

«Perché volevamo capire se fossi davvero capace di comportanti- be’, come uno di noi.»

Come uno di loro. Come se in realtà fosse stato una qualche bestia selvatica che stavano decidendo se valesse la pena addomesticare e forse era davvero così. 

«Non dovrei dirtelo», continuò Ranpo e allora stai zitto, avrebbe voluto intimargli , «ma questo dovrebbe essere il tuo esame di ammissione. Se dovesse andare tutto-»

Qualunque altra cosa Ranpo avesse aggiunto fu zittita da uno sparo. 

Chuuya si voltò in tempo per vedere una figura sottile allontanarsi per una rampa di scale laterale il suo primo istinto fu quello di muoversi per seguire il fuggitivo. Poi ruotò il capo quanto bastava per incrociare gli occhi sbarrati di Kyouka. Una sensazione quasi animale gli suggeriva di restare fermò lì, a fissare il muro oltre le spalle di Kyouka. Poi sentì Kunikida e Atsushi strillare il nome di Dazai e vide con orrore Yosano-sensei, con la camicia già quasi zuppa di sangue, che cercava di tamponargli una ferita. 

Si gettò immediatamente accanto a lui forse c’erano altri, in quella stanza, che avevano più diritto di stargli affianco in un momento del genere, ma con una punta di egoismo volle convincersi che Dazai non avrebbe voluto qualcun’altro mentre non poteva fare altro che restare steso, immobile, ferito, vulnerabile.

«Idiota-», mugugnò, chinandosi verso di lui.

«Ehi!», Dazai protestò flebilmente, «Non è colpa mia se mi hanno sparato.», aggiunse, e poi fu scosso da più colpi di tosse. 

Chuuya alzò lo sguardo quanto bastava per incontrare quello in preda al panico della dottoressa, che non riusciva in nessun modo a fermare l’emorragia e cercava, invano, di usare la sua abilità su di lui.

Solo quando Ranpo, scuotendo la testa, si chinò su di lei per allontanarla da Dazai, Chuuya realizzò quanto fosse terribile la realtà che stava per abbattersi su di loro. 

Una parte di lui, irrazionale e già distrutta dal dolore, voleva gridare che Dazai semplicemente non poteva morire. In fondo solo una persona praticamente immortale avrebbe potuto tentare di suicidarsi così spesso e sopravvivere ogni volta Dazai non poteva morire perché non ne era capace e perché c’erano così tante persone che avevano bisogno di lui. Perché Chuuya aveva bisogno di lui: anche solo per odiarlo, per potergli rinfacciare una volta in più che lo aveva abbandonato. Per baciarlo ancora una volta, per permettergli di guidarlo verso quegli scenari di salvezza che aveva voluto mostrargli a tutti i costi. 

«Chuuya-», lo chiamò, il volto contratto dal dolore per la ferita.

«Stai zitto.», lo minacciò. «Kunikida ha già chiamato un’ambulanza e presto sarei come nuovo, come se non fosse successo nient-»

«Chuuya.», lo richiamò, con una voce così ferma da far scomparire il resto: le proteste della dottoressa che ancora sperava di salvarlo, i singhiozzi di Atsushi, le dita di Kunikida che tamburellavano inquiete sul suo taccuino, i respiri pesanti dei criminali ormai fatti prigionieri. L’unica cosa che esisteva, in quel momento e forse solo per pochi altri momenti era Dazai.

«Promettimi», gli disse a fatica, «che ti prenderai cura di loro.»

«Dazai, maledizione, cosa diamine stai dicendo?», protestò, ma Dazai gli strinse il polso, facendo una smorfia per lo sforzo.

«Promettimi», ripeté, «che ti occuperai di loro al posto mio.»

Chuuya restò in silenzio. Non c’era bisogno che fosse lui a badare i suoi colleghi, perché se proprio ci teneva allora Dazai avrebbe anche potuto sopravvivere abbastanza a lungo per farlo personalmente e l’avrebbe fatto, Chuuya ne era sicuro, se solo fosse riuscito a farlo stare tranquillo finché non fossero arrivati i soccorsi, allora sicuramente tutto si sarebbe sistemato e non ci sarebbe stato bisogno di promesse strappate in punto di-

«Promettimelo!», minacciò Dazai, con uno slancio di energie che doveva essere costato ogni briciolo di energia rimastogli, perché poi si accasciò tra le sue braccia, con occhi appena socchiusi e un respiro lentissimo.

«Io-», esitò. Poi la mano di Dazai, dolorosamente familiare, scivolò nella sua. «Sì. Sì, va bene.», accettò. «Certo.», aggiunse, ricambiando dolcemente la sua stretta.  

«Bene.», fu l’ultimo commento di Dazai, sussurrato così debolmente che Chuuya ebbe l’impressione di esserselo immaginato. 

Restò paralizzato, con il corpo ormai privo di vita di Dazai tra le braccia per quelli che sembrarono istanti interminabili. Poi Yosano-sensei fu di nuovo in ginocchio, afferrando il polso di Dazai per trovare un sentore di battito. Chuuya non aveva bisogno di guardarla per sapere che non c’era. Non c’era più niente. Non c’era più battito, non c’era più Dazai, non c’era più la flebile speranza che gli aveva permesso di mantenersi lucido negli ultimi minuti. 

Restarono tutti in silenzio per altri, interminabili istanti. Poi le sirene della polizia e dell’ormai inutile ambulanza li riscossero dal loro torpore. Il primo a parlare fu Ranpo.

«Mi occuperò io del-», fece una pausa, distogliendo lo sguardo da Chuuya, «-cadavere. E del rapporto alla polizia.»

«Non se ne parla!», ruggì Chuuya non avrebbe abbandonato Dazai nemmeno se cadavere. 

«Nessuno di voi è nelle condizioni per farlo.», si oppose Ranpo, piazzandosi a braccia incrociate di fronte a lui. «Tornate all’Agenzia. E riposate.», consigliò, addolcendosi appena.

«Ranpo-san ha ragione, dovremmo andare.», concordò Kunikida, atono. Lanciò un ultimo, sofferto sguardo a Dazai e poi si avviò a grandi passi verso l’uscita. 

«Chuuya-san, andiamo.», lo esortò Atsushi, le guance ancora bagnate da lacrimoni. 

Si abbassò accanto a lui, chiuse gli occhi di Dazai e poi, rialzandosi, tirò Chuuya su con lui. E Chuuya si lasciò trascinare, troppo stordito per pensare qualunque altra cosa se non che, se non fosse stato vincolato dalla promessa appena fatta, avrebbe ridotto in polvere l’edificio e lasciato che seppellisse tutti loro.







 

 


 

Note - in ordine:

  • Il sermone del fuoco di Kunikida può sembrare così stupido da parte sua da sfiorare l’OOC, ma alla fine era soltanto mosso dal desiderio di lavorare in pace. Il dialogo con Kunikida, e poi quello con Kyouka chiudono questa miniserie di confronti estranei a Dazai - volevo che Chuuya interagisse con quanti più membri dell’Agenzia possibili senza che la cosa risultasse forzata (e spero di esserci riuscita). 
  • L’impressione di Chuuya di Kunikida come insegnante impietoso è un riferimento nemmeno tanto velato al fatto che Kunikida appunto lavorasse come insegnante prima di unirsi all’ADA. 
  • Per quanto riguarda Kyouka, non sono sicura che il tempo trascorso alla Port Mafia e le persone uccise in quel periodo siano effettivamente informazioni corrette ma spero che la mia memoria non mi abbia tradito (in caso contrario, be’, sorry).
  • Non credo di averlo menzionato nelle note precedenti - anche se a questo punto dal testo risulta evidente - ma si parte dal presupposto (ahimé, off-canon) che Chuuya e Dazai abbiano avuto una relazione prima della defezione di quest’ultimo. 
  • I membri dell’Agenzia che non hanno un modus operandi ma si buttano più o meno confusamente in qualunque missione ci sia da portare a termine viene a) da numerose situazioni in cui hanno dato prova di essere completamente disorganizzati e b) dal fatto che le loro abilità sono abbastanza formidabili da concedere loro una linea d’azione così spericolata. 
  • Yosano-sensei contro il fumo mi è sembrata un’aggiunta ovvia perché lei viene dal campo medico e anche se non mi sembra che Chuuya nell’anime fumi, nel manga (o forse nell’antologia) ci sono sicuramente un paio di scene in cui lo fa. 

Ora, per quanto riguarda la morte di Dazai e l’abilità di Yosano: recentemente ho completato la lettura della light novel 55 minutes che, oltre a darmi un gran mal di testa, mi ha anche fornito spiegazioni a riguardo: l’abilità di Yosano potrebbe funzionare su Dazai solo nel momento in cui non dovesse più arrivare sangue al cervello (che è l’effettiva “sede di controllo” delle abilità) ma dovesse ancora esserci battito. Si tratta di una situazione estrema con possibilità di riuscita minuscole per cui, be’, a Dazai è andata male (tra l’altro viene anche confermato - cosa che penso sia stata anche citata nel corrente arc - che Dazai sa manipolare il proprio battito cardiaco al punto di riuscire a fingerne l’arresto in maniera superficialmente convincente).

Il terzo e ultimo capitolo non so quando arriverà, perché pur essendo già terminato ha comunque bisogno di una pesante revisione e di una parziale riscrizione e non ho idea di quando effettivamente avrò il tempo o la forza per occuparmi di una mansione del genere. Spero che fino a questo punto la storia vi sia piaciuta, io mi sono divertita davvero moltissimo a scriverla e per una volta sono soddisfatta del risultato!

A presto! Fede ❤

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - epilogo ***


Note: siamo, finalmente, alla fine. Non so perché ho aspettato tanto per postare, visto che alla fine ho aggiunto solo poche righe qui e lì, ma probabilmente il pensiero che il finale non rendesse giustizia a quella che considero una delle migliori fic che io abbia scritto mi ha bloccato un po'. Ci sono, nonostante il finale, ancora parecchi fili narrativi lasciati in sospeso, che spero di riprendere in singole one shot in un futuro prossimo (spero). Potrebbe esserci un po' di ooc sparso, ma dovrei essere riuscita ad usarlo con moderazione (onestamente, l'unica caratterizzazione di cui sono soddisfatta al 100% è stata quella di Ranpo, cosa che non mi aspettavo affatto!).
Ringrazio di cuore tutti i lettori di questa storia, e mi auguro che questo finale non vi lasci delusi!
Fede






 

Capitolo 3

 




«Onestamente», iniziò Dazai, lasciandosi pigramente cadere sulla poltrona di fronte alla scrivania di Ango, «perché l’hai fatto?»

Ango, che spaventosamente non era cambiato di una virgola nei due anni in cui era stato via, si sistemò gli occhiali e poi poggiò il mento sulle mani giunte. Aveva uno sguardo indecifrabile ‒ Dazai cercò di non sembrare impaziente, o infastidito, ma più ci pensava, meno riusciva a raccapezzarsi su tutta quella storia. E più non riusciva a raccapezzarsici e più diventava evidente che l’unica soluzione disponibile era quella che meno gli piaceva.

Era stato manipolato.

E gli toccava pure ammettere che era stato manipolato grandiosamente, perché il sospetto non gli era venuto che negli ultimi mesi ‒ era stato manipolato perché era convinto di  non poterlo essere, perché pensava di essere più furbo di Ango e aveva ignorato il più che mai importante particolare che anche lui, come ogni altro essere umano, aveva delle debolezze e quelle stesse debolezze erano state sottilmente usate contro di lui.

Quando gli aveva rivelato per la prima volta del suo piano di salvare Chuuya portandolo all’Agenzia, Ranpo-san aveva suggerito che sarebbe potuto essere necessario forzare la mano di Chuuya e che per farlo gli sarebbe servito l’aiuto di Ango. Quando Dazai si era finalmente arreso all’idea che una conversione mistica non gli avrebbe risparmiato l’umiliazione del chiedere un favore, era stato costretto a rivolgersi ad Ango e sperare che accettasse di inscenare la sua morte ‒ non era stato piacevole, trovarsi su quella stessa poltrona e sentirsi giudicato per le sue azioni e i suoi fallimenti.

Ango ‒ che nella mente di Dazai era mosso dal rimpianto e dall’antica amicizia che li aveva legati ‒ aveva ovviamente accettato, proponendogli, in cambio della sceneggiata che avrebbe allestito, un lavoro sotto copertura. 

Niente di troppo complicato, gli aveva promesso, doveva solo infiltrarsi in un circolo criminale che stava indirettamente minacciando Yokohama e smantellarlo dall’interno ‒ ed era stato relativamente facile, davvero, ma negli ultimi mesi non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che quell’ultima proposta fosse il vero motivo che aveva spinto Ango a rivelargli della minaccia che incombeva sul capo di Chuuya, se mai fosse stata una minaccia realmente esistente e non una verosimilissima frottola, o, peggio, un diretto ordine di Ango.

«Alla fine abbiamo ottenuto quello che volevamo entrambi, no, Dazai-kun?», commentò asciutto, evitando il suo sguardo. «Il governo si è sbarazzato di un pericolo per la città e tu del senso di colpa per aver lasciato Chuuya alla Port Mafia anni fa.»

«Non mi sono mai sentito in colpa per-», protestò, ma si interruppe di fronte all’evidenza che il rimorso per essersene semplicemente andato non gli aveva dato tregua da quando si era unito all’Agenzia. Si imbronciò ‒ l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era che Ango si offrisse di mettere una pezza sui suoi problemi.

«Ma», cominciò Ango e Dazai si tirò immediatamente a sedere dritto, «se proprio lo vuoi sapere», aggiunse, giocherellando con il tappo della sua penna, «un ordine di cattura per Nakahara-kun c’era davvero.», sospirò. 

Le spalle di Dazai si rilassarono di botto ‒ quindi, sì, era stato ingannato, ma non completamente. C’era ancora dell’orgoglio da difendere.

«Tuttavia», continuò, ignorando il disordinato tumulto che stava animando il suo interlocutore, «non negherò di aver avuto un’influenza non indifferente nell’emanazione di quel mandato.»

Dazai sbuffò. Era stato completamente ingannato.

«Su, su.», lo esortò Ango, vedendolo la sua espressione contrariata. «Hai fatto qualcosa di buono per gli altri, alla fine.», commentò, alzandosi dalla sedia e prendendo posto accanto a lui. Dazai si ritrasse istintivamente. «Non ti fa sentire meglio?»

Dazai si incupì. Ango non poteva sapere che, negli suoi ultimi istanti di vita, Odasaku gli aveva detto che nulla sarebbe riuscito a riempire il vuoto che sentiva ‒ ma che se proprio nulla avrebbe fatto la differenza, allora era meglio fare qualcosa di buono. Ma cosa aveva fatto di buono, precisamente? Aveva strappato Chuuya al suo habitat naturale nell’egocentrica certezza che sarebbe stato meglio all’Agenzia e si era convinto che lo stava facendo soltanto per proteggerlo da una minaccia praticamente inesistente. Aveva inscenato la sua drammatica morte per strappargli una promessa che altrimenti non gli avrebbe mai concesso e aveva lasciato tutte le persone che gli volevano bene nell’orribile convinzione che lui fosse morto quando in realtà era in perfette condizioni. 

Cosa c’era di buono, in tutto questo?

Ango, che fino a un certo punto doveva essere stato in grado di seguire il percorso dei suoi pensieri, decise che forse era il caso di cambiare argomento.

«Cosa farai adesso, Dazai-kun?»

Dazai si alzò di scatto, improvvisamente infervorato.

Cosa avrebbe fatto? Se si fosse semplicemente presentato alle porte dell’Agenzia, lo avrebbero riaccolto? Li avrebbe trovati tutti sani e salvi e meravigliosamente fastidiosi come li aveva lasciati? Ci sarebbe stato Chuuya, seduto a quella che un tempo era stata la sua, inutilizzata, scrivania? Quel pensiero fu straordinariamente dolce ‒ se avesse pensato possibile correre immediatamente lì senza incorrere nell’ira dei suoi colleghi, probabilmente lo avrebbe fatto.

Ango si alzò a sua volta, porgendogli una cartellina.

«Prima che tu decida di saltare all’azione, magari vuoi dare uno sguardo a questa.»

Il suo tono era fastidiosamente paternalistico. Non aveva bisogno del supporto di Ango. Non aveva bisogno che tirasse i fili immaginari della sua sporca coscienza per costringerlo a trascinare Chuuya all’Agenzia. Non aveva bisogno che si comportasse come se gli avesse appena fatto un favore, come se adesso fossero pari ‒ come se Ango fosse finalmente riuscito a riperare l’impronunciabile torto di avergli portato via Odasaku.

«Noi non saremo mai pari.», specificò Dazai con durezza, voltandosi e raggiungendo a grandi passi l’uscita.

Riuscì a malapena a sentire la voce malinconica con cui Ango disse: «No, suppongo di no.»

 

******

 

«Guarda guarda chi ha riportato la marea!», esclamò Ranpo-san, pescando una manciata di patatine dalla busta. Oltre lui, stravaccato dietro la sua scrivania, come se fossero passate solo poche ore invece che due anni, nell’ufficio non c’era nessuno.

«E dove sono», Dazai fece una pausa, indicando le scrivanie vuote, «i nostri stimati colleghi?»

Ranpo sbuffo, divertito.

«La verità? L’Agenzia è stata chiusa più di un anno fa e io torno qui ogni giorno in caso ti decidessi di farti vivo.»

Dazai assottigliò lo sguardo.

«Non è vero.»

«No!», esclamò Ranpo, riempiendosi di nuovo la bocca. «Se fosse stato così ti avrei fatto trovare un biglietto. Forse.»

«Ah.», commentò Dazai, appoggiandosi a una sedia per attutire il colpo.

«Sono tutti fuori per i giri di pattuglia. Non c’è nessun mistero da risolvere, niente di divertente da fare. Di’, Dazai, hai qualche indovinello divertente per me?»

Dazai diede un colpetto di tosse. Si sedette sulla scrivania di Kunikida, sperando che ancora fosse la sua scrivania, e cercò di stropicciare quanti più documenti possibili.

«Come faccio ad annunciare che sono vivo senza che mi ammazzino?»

«Questo non è un indovinello. Ma potrebbe essere comunque divertente.», si tirò su a sedere e inforcò gli occhiali. «Vediamo un po’: Atsushi-kun potrebbe svenire per lo shock, e poi probabilmente piangerà tutte le sue lacrime ‒ come al tuo- be’- non funerale ‒, Akiko mi rinfaccerà che aveva ragione a nutrire seri dubbi sulla tua mancanza di battito mentre ti facevo portare via dalla scientifica. Il Presidente ti farà le congratulazioni per non essere morto e a Kunikida-kun partirà un embolo. Chuuya-kun-»

Fu interrotto dallo squillo del telefono.

«Ecco, potresti iniziare a rispondere al telefono. Sai che sorpresa!», sbuffò, alzandosi e trascinandosi verso la cornetta. «Davvero, il fatto che non abbiamo lasciato nessuno qui, nemmeno per rispondere al telefono- Sì? Pronto? Sì, Atsushi-kun. Non è ancora rientrato nessuno. Sì, quando tornano li avviserò. Se me lo ricordo. Sì, va bene! Va bene! Guarda che non è necessario riportare sempre, mica sono Kunik- Pronto? Atsushi-kun?»

Ranpo si girò verso di lui, sbattendo violentemente la cornetta.

«Davvero, questi giovani d’oggi, fanno sempre tutto il contrario di quello vorresti!», sbottò, tornando a sedersi. 

Dazai annuì supportivo. 

«E quindi?», chiese, nel tentativo di recuperare la conversazione, ma Ranpo-san già non lo ascoltava più. Era ritornato alla sua scrivania e aveva frugato tra i cassetti finché non aveva trovato carta e penna e aveva scarabocchiato qualcosa in tutta fretta.

«Quindi», gli rispose, allungandogli quello che scoprì essere un indirizzo, «se vuoi fare una grande entrata in scena, di suggerisco di andare lì. In fretta.»

Dazai guardò esterrefatto prima il biglietto, poi Ranpo-san, che adesso non sembrava più avere l’aria di urgenza mantenuta fino a pochi attima prima ed era completamente assorto dal tentativo di recuperare una biglia di vetro da una bottiglia di ramune. Guardò un’ultima volta l’indirizzo, poi lo appallottolò e se lo infilò in tasca, lanciandosi in strada per fermare il primo taxi disponibile.

 

******

 

«Merda, Kunikida, ma quanti sono?», domandò Chuuya, staccando parte del suolo per lanciarlo contro le centinaia di figure che si ammassavano sul porto.

«Non lo so!», sbottò in risposta, masticando un’imprecazione sottovoce. «Poeta Doppo! Teaser!»

Teaser. Pff. Così non sarebbero andati da nessuna parte. All’Agenzia erano davvero troppo teneri. La cosa peggiore era che per quanti uomini Chuuya sembrava mettere al tappeto ‒ ed erano davvero tantissimi, considerando il suo raggio d’azione e la sua rapidità ‒ c’era sempre qualcuno pronto ad avanzare e sparare. Se solo non fosse stato certo che le invasioni zombie fossero qualcosa di assolutamente irreale adesso crederebbe che una minaccia del genere si stia abbattendo su di loro. 

«Dobbiamo trovare l’originale. Altrimenti sarà inutile.»

Chuuya grugnì. Trovare l’originale. Tra centinaia di cloni. Splendido.

Il Presidente aveva affidato a lui e Kunikida il compito di indagare contro un folle che millantava di poter soffocare l’intera Yokohama. Quando avevano capito come ‒ attraverso lo sfrenata duplicazione del suo corpo, che in una decina di minuti sarebbe riuscito praticamente a sotterrare la città, erano rimasti inorriditi.

«Quindi? Che si fa? Non possiamo continuare ad eliminarli finché non si stancano?»

Kunikida emise un verso di stizza. Adesso le copie avevano occupato tutto il molo e stavano straripando, alcune cadendo in acqua, altre occupando le stradine collegate. 

«Non ha senso.», rifletté Kunikida. «Dobbiamo eliminare l’originale.», ribadì.

«Ottimo!», esclamò, sarcastico. «E dove pensi che potremmo trovarlo?»

Kunikida sbuffò, ma non fece altri commenti. La situazione era già abbastanza difficile senza che si desse al sarcasmo. Sapeva che presto sarebbero arrivati rinforzi, ma non poteva fare a meno di pensare che neanche un esercito intero sarebbe riuscito a compiere l’ecatombe necessaria e trovarne l’autore ‒ e considerando che grazie alla sua abilità lui già valeva quanto un esercito, be’, la situazione sembrava mettersi male.

«Per quanto ne sappiamo potrebbe dall’altra parte della città. Potrebbe anche non essere a Yokohama ‒ se tutte le sue copie hanno la sua stessa abilità, basterebbe che una soltanto ci abbia attirati qui e abbia iniziato a moltiplicarsi.»

«Stai dicendo che siamo caduti in una trappola?»

«Non sto dicendo che siamo caduti in una trappola.», specificò Kunikida, irritato al solo pensiero. «Sto dicendo che potrebbe essere una possibilità.»

Chuuya approfittò della breve pausa offerta da un’altra granata stordente per pensare. Atsushi e Kyouka sarebbero stati lì tra poco, e allora che avrebbero fatto? Certo, la loro forza d’urto era sicuramente maggiore di quella di Kunikida, ma seppure tutti i membri dell’Agenzia si fossero materializzati lì, dubitava che avrebbero fatto la differenza. 

E probabilmente era una trappola.

«Io dico», annunciò, pronto a trascinarsi dietro Kunikida, «che dovremmo andarcene.»

Kunikida soppesò la sua proposta. Chuuya si affacciò dal container dietro il quale si erano nascosti per dare un’occhiata ‒ ormai c’erano così tante copie che gli sembrava impossibile che non fossero già morti soffocati dai corpi. Stava per voltarsi verso di lui per sollecitare una fuga più rapida, quando con la coda dell’occhio vide una figura che si muoveva verso il faro.

«Kunikida!», esclamò, trascinandolo per la manica della camicia. «Ce l’ho! L’originale, credo.»

Kunikida si affacciò immediatamente e videro una figura sottile e nervosa che si allontanava con calma dal pandemonio che aveva creato, dove i suoi duplicati aumentavano esponenzialmente a velocità allarmante.

«Dovremmo tornare all’Agenzia, riorganizzare le forze e poi muoverci per attaccare.», spiegò Kunikida, ma Chuuya a stento si tratteneva dal lanciarsi verso il faro.

«Ho un’idea.», gli propose. «Ma non ti piacerà.»

Kunikida alzò gli occhi al cielo. 

«Se stai per dire che vuoi usare Corruzione-»

«Abbiamo ancora uno dei proiettili con il sangue di Dazai, no?», obiettò Chuuya, che già aveva iniziato a togliersi i guanti e riporre accuratamente giacca e cappello.

«Ma è all’Agenzia!», sbottò Kunikida.

«Be’, allora vai a prenderlo. Se non facciamo qualcosa adesso per quando avremo riorganizzato le forze non ci sarà più una città da difendere.», lo spicciò.

Attese, per qualche istante, che Kunikida continuasse con le sue proteste. Intanto però le copie aveva già attirato l’attenzione dei passanti, che osservano incuriositi l’incessante duplicarsi ‒ avevano rinunciato ad attaccarli per dedicarsi unicamente a quello. Seppure Kunikida avesse delle rimostranze etiche non era quello il momento di preoccuparsene. 

Respirò a fondo. Erano passati almeno due anni da quando aveva dovuto usare la forma più autentica del suo potere ‒ e, a differenza delle altre volte, non aveva la certezza che si sarebbe risvegliato.

«Oh, garanti dell’oscura disgrazia, non risvegliatemi.»

 

******

 

L’autista non riuscì a portare Dazai fino a destinazione. A un certo puntò inchiodo, sbottò spazientito qualcosa su una strada chiusa per motivo sconosciuti e Dazai non perse neanche un istante ad ascoltarlo: scese in tutta fretta e realizzò che tutto il perimetro del porto era controllato dal governo. Nessuno entrava o usciva senza permesso. E tecnicamente lui non risultava più nell’albo dei membri dell’Agenzia, per cui non poteva far valere la sua autorità in alcun modo.

Con la coda dell’occhio vide un lampo vermiglio e dovette trattenere un’imprecazione: non potevano essere stati così stupidi o disperati da aver permesso a Chuuya di usare Corruzione. Doveva raggiungere Chuuya. Doveva raggiungere Chuuya e salvare lui e tutti i presenti da se stesso.

Approfittò di un gruppo di giornalisti che stava a tutti i costi tentando di aggirare la sicurezza per infilarsi in un vicoletto laterale. Quando arrivò al molo ‒ o meglio, a quel che ne restava ‒ emise un gemito impaziente. Da quanto tempo Chuuya stava portando avanti questa distruzione? Quanto tempo aveva per raggiungerlo e fermarlo?

Corse verso il faro, dove poteva quasi distinguere la sagoma di Chuuya e i gravitoni che stava lanciando. Si scanzò di lato e rotolò, evitando per un pelo di essere colpito. Si rialzò, corse per qualche metro con la testa bassa e il fiato corto e poi si trovò di fronte Atsushi, Kunikida e Kyouka che lo fissavano, pallidi in volto, come se avessero appena visto un fantasma.

Avrebbe dovuto dire qualcosa. 

Qualcosa che fosse una flebile spiegazione, delle scuse, qualunque cosa. Invece restò muto, respirando affannato, ricambiando il loro silenzio sgomento, terrorizzato dall’idea di spezzare la tensione che si stava creando ma allo stesso tempo incapace di sopportarla.

«Io-», iniziò, sollevando appena il braccio.

Atsushi si aggrappò al braccio Kunikida, incapace di rispondere.

«Vai! Lo uccideranno!», strillò Kyouka, che si era ripresa molto più rapidamente degli altri due, indicando Chuuya. 

Dazai annuì, superandoli a fatica e addentrandosi nel campo minato alle loro spalle. Chiunque avesse dovuto combattere Chuuya non aveva lasciato alcuna traccia di sé, completamente risucchiato dai suoi buchi neri ‒ Dazai non era nemmeno sicuro di poter contare sulla forza della sua abilità per poter sopravvivere.

Per riuscire a toccarlo, rifletté, avrebbe prima dovuto farsi vedere da Chuuya e costringerlo ad abbassarsi al suolo. Aveva bisogno di qualcosa per attirare la sua attenzione- qualcosa- qualunque cosa- afferrò un sasso, si assicurò di aver preso una buona mira e lanciò. Dazai non aveva mai avuto una buona mira, e infatti mancò Chuuya di qualche metro, ma lui, che seppure fosse stato colpito di certo non avrebbe avvertito alcun dolore, si fiondò sul molo, appena in tempo per evitare i proiettili dei cecchini del governo. 

Dazai fu sbalzato indietro dall’impatto, ma buttò una mano alla cieca nel tentativo di toccarlo e quella che si aspettava potesse essere una gentile carezza si tramutò in un schiaffo involontario. Chuuya si sgonfiò come un palloncino, cadendo pesantemente al suolo, senza dire una parola ‒ se fosse arrivato troppo tardi, non se lo sarebbe mai perdonato.

«Riposa, Chuuya.», mormorò, accarezzandogli piano i capelli. «Hai già sofferto abbastanza.»

 

******

 

Quando Chuuya aprì gli occhi e vide il candido soffitto dell'infermeria, credette per un istante di essere morto. Poi sentì una mano sudaticcia e familiare stretta nella sua, ed ebbe la certezza che quella non poteva essere l’Agenzia. 

«Sono morto?», mugugnò. «Kunikida ha sbagliato la mira?»

Dazai rise ‒ non l’aveva mai sentito dire, non così sinceramente, nemmeno quando era stato in cattività all’Agenzia.

«Kunikida non ha sbagliato mira-»

«Quindi non sono morto?»

«-perché non ha sparato il colpo.»

«Dazai, maladetto, così mi confondi. Sei un’altra allucinazione?», chiese, pur già consapevole della risposta.

Ovviamente era un’altra allucinazione, come ce n’erano state per mesi, dopo la sua morte, come talvolta si presentavano negli incubi in cui non riusciva a salvarlo. 

«Un’allucinazione, eh? Interessante.», commentò Dazai, chinandosi verso di lui.

Chuuya arricciò il naso. L’odore della pella di Dazai gli diede quasi la nausea. Quella non era- le sue allucinazioni non erano mai così- non avevano l’odore di Dazai. Un tremito gli scosse tutto il corpo. Quella non era un’allucinazione. Ma non poteva nemmeno essere Dazai. Dazai era morto. Eppure era lì, davanti a lui, ricoperto di bende, con un ghigno assolutamente compiaciuto e il suo odore inconfondibile. Era lì- era vivo.

«Devo vomitare.», annunciò, tirandosi a sedere.

Dazai lo sostenne mentre si alzava e Chuuya si abbandonò per un istante tra le sue braccia.

«Torno dopo più di due anni in cui credi sia morto e la prima cosa che mi dici è che devi vomitare. Dovresti smetterla di essere così romantico.», suggerì, alzandosi per prendergli un bicchiere d’acqua ‒ Chuuya bevette avidamente: di fronte all’ipotesi che quello fosse davvero Dazai e non uno scherzo della sua mente prigioniera del lutto, gli si era seccata la gola.

«Quindi ti sei finto morto?», gli chiese, restituendogli il bicchiere.

«Sì.», gli rispose, secco.

Non aveva abbassato lo sguardo, ma cercava in ogni modo di evitare i suoi occhi. 

«E adesso sei tornato?»

«Già.»

«’fanculo, Dazai. Avrei preferito fossi un’altra allucinazione.»

Chuuya gli diede le spalle e si tirò le coperte fin sul naso. Era arrabbiato con lui? Certo, naturalmente. Era furioso. Ma allo stesso tempo quasi non riusciva credere al miracolo che si compiva di fronte ai suoi occhi. C’erano stati molti dubbi, sulla morte di Dazai, e c’era una pista piena di buchi che non portava ad alcun colpevole. Non importava quanto tutti all’Agenzia si fossero impegnati per giorni, settimane e poi mesi, non erano riusciti in alcun modo a venire a capo del mistero. E adesso scopriva, per suo immenso sollievo, che non c’era nessun mistero perché Dazai non era mai morto.

«Chuuya-»

«Perché lo hai fatto?», sbraitò, voltandosi per guardarlo.

«Avevo i miei motivi.» 

I suoi motivi. Certo, lui aveva i suoi motivi. Che cazzo gliene fregava dei suoi motivi? Aveva trascorso la maggior parte degli ultimi due anni perdendo tempo, sonno e lacrime che peraltro Dazai non si era mai nemmeno minimamente meritato, e adesso non poteva avere nemmeno una spiegazione. Nemmeno delle scuse. Perché lui aveva i suoi motivi.

«Chi sapeva?», domandò, accusatorio.

Dazai non poteva aver fatto tutto da solo. Anche l’ultima volta che era scomparso dalla circolazione si vociferava che non avesse fatto da solo – perché poteva essere bravo, sì, poteva essere furbo, poteva essere uno dei più temuti dotati di abilità di Yokohama, ma di certo se si fosse dovuto occupare di tutto da solo avrebbe fatto qualche errore, ci sarebbe stata una pista che solo Chuuya avrebbe potuto seguire, perché lo conosceva meglio degli e a volte credeva di conoscerlo anche meglio di quanto non conoscesse se stesso. 

Dazai esitò, prima di rispondere.

«Allora?», insistette, alzando la voce.

«Ango. E Ranpo-san.», si arrese, sebbene fosse evidente che avrebbe preferito non parlarne.

«Per caso pianifichi di morire di nuovo?», lo accusò, sulla difensiva. 

Era davvero una domanda stupida, se ne rendeva conto. Non c’era un vero motivo per cui avrebbe dovuto farlo. Ma Dazai già gli era scivolato tra le dita due volte, in passato, e per una volta avrebbe soltanto voluto una rassicurazione. La promessa che non se ne sarebbe andato, che quando avesse riaperto gli occhi lo avrebbe di nuovo trovato lì. La certezza che non l’avrebbe perso di nuovo.

«No.», rispose precipitosamente. Poi, con voce quasi titubante, chiese: «Posso restare?»

«Forse.»

Chuuya si rigirò verso il muro prima di rispondere: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era permettere a Dazai di leggerli in faccia quanto in realtà non desiderasse altro che restasse con lui. E prenderlo a pugni, certo, ma soprattutto che restasse lì, a vegliare su di lui mentre dormiva. Era così stanco.

«Io ti amavo, sai? Ti amavo davvero tanto.», rivelò, mentre scivolava nel sonno. «Non c’era bisogno di farmi soffrire così.»

 

******

 

Nel suo sonno agitato, tra un incubo e il successivo, Dazai era sempre lì – Chuuya si era svegliato più e più volte, a volte con ancora impresse negli occhi immagini di sangue, morte, vuoto che risucchiava tutto per non lasciare più niente intorno a lui e poi il suo sguardo terrorizzato si posava su Dazai, che stava leggendo il suo stupido libro sul suicidio come se non ci fosse nessun altro posto al mondo dove avrebbe voluto essere, e allora Chuuya si rilassava abbastanza da arrendersi ad altri dieci minuti di un sonno che sapeva sarebbe stato tutt’altro che ristoratore.

 

******

 

«Quindi non sei un’allucinazione?», chiese di nuovo, quando riuscì finalmente a restare.

«No.», confermo, quasi scocciato, schioccandogli un paio di dita in fronte.

Quindi era davvero Dazai. Davvero Dazai tornato per restare. Dazai che non sembrava intenzionato ad andarsene – Dazai che era rimasto chi sa per quanto tempo su una scomoda sedia di plastica perché lui aveva desiderato che non lo lasciasse solo.

Era forse arrivato il momento di vivere la possibilità che non si erano mai concessi, che era stata loro strappata ‒ dalla morte, avrebbe voluto dire, se non che in realtà l’aveva distrutta Dazai e i suoi stupidi motivi che già sapeva non gli avrebbe mai rivelato.

Eppure adesso Dazai era lì, incollato alla sedia affianco al suo lettino, e l’aveva svegliato dai suoi incubi peggiori, gli aveva medicato personalmente le ferite, accertandosi che non si sentisse più solo o abbandonato. Dazai era lì per rimediare ai suoi errori e in fondo era tutto quello che Chuuya desiderava – che si prendesse cura di lui.

«Ti prego, dimmi che hai portato dell’alcol.»

«Solo del sakè di seconda marca.», gli rispose prontamente Dazai, indicando con mento una bottiglia sulla scrivania della dottoressa.

Chuuya si concesse un piccolo sorriso. Il sake di Dazai aveva sempre fatto schifo, ma per una volta se lo sarebbe fatto andar bene.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3939426