Esme ●
Albero
di ciliegie
{
I'll spread my wings and I'll learn how to fly, I'll do what it takes
til' I touch the sky
}
Breakaway
– Kelly Clarkson
Era
una bella giornata.
Mi
svegliai di buon umore, rigirandomi
tra le coperte leggere, infastidita e divertita dal pallido raggio di
Sole che
andava a carezzare la mia fronte. L’odore dei cornetti caldi
della mamma che
proveniva su dalle scale mi fece sorridere.
Ai
piedi del mio letto era già pronto
il vestito blu chiaro a mezze maniche che avrei dovuto indossare per
andare in
Chiesa.
Scesi
lentamente, scostando dal viso
una ciocca di capelli, andando ad aprire la finestra. Inspirai a fondo.
Mi
piaceva l’aria mattutina.
Indossai
l’abito senza prestare
attenzione all’ampia gonna che ricadde con un tonfo ai miei
piedi scalzi.
Storsi invece il naso quando presi tra le mani la stretta fascia che
avrei
dovuto mettere al bacino, cacciandola con rabbia all’interno
di un cassetto, nascondendola
tra la biancheria. Trattenere il respiro era nulla in confronto a non averlo.
Subito
dopo, mi impegnai nella ricerca
delle scarpe.
Quando
finalmente le trovai, restituii
lo sguardo alla ragazza nello specchio di fronte a me.
Aveva
i capelli castani, forse un po’
troppo lunghi e chiari, oltre che arruffati.
Le
sopracciglia erano distese sopra gli
occhi verdi, decisamente grandi e particolari per non diventare
argomento delle
discussioni più disparate.
Le
guancie erano rosse per l’imbarazzo
e la sorpresa, dello stesso colore delle ciliegie appese
all’albero davanti a
casa, che ticchettava allegramente i suoi rami sul vetro. Erano
posizionate
appena sopra le labbra piene e scarlatte in confronto alla pallida
carnagione,
piegate in un buffo sorriso simile ad una smorfia.
Non
mi sentivo particolarmente bella,
sebbene papà mi ripetesse sempre quanto fossi graziosa. La
sposa ideale che
ogni marito sognerebbe di avere, diceva con tono trasognante alla
mamma, ogni
volta che mi vedeva entrare in cucina.
Dopo
essermi pettinata, scesi le scale
con lo stomaco brontolante.
-
Esme, tesoro mio!- esclamò mia madre,
coprendosi istintivamente la bocca rossa e perfetta con una mano per la
sorpresa – Fatti vedere! Sei uno splendore!- disse
afferrandomi per un braccio,
costringendomi a ruotare su me stessa. Sorrisi nel momento il cui le
davo le
spalle.
-
Mamma ti prego…non esagerare-
mormorai debolmente, sperando che la smettesse. Non capivo affatto dove
vedesse
quest’enorme bellezza. Io mi sentivo normale.
Un’anonima sedicenne con svariati sogni nel cassetto. Sogni
sciocchi e
sprecati, a detta di mia madre. I suoi occhi scuri luccicavano di
lacrime
quando le dicevo che sarei diventata un’insegnate.
“Puah, bambini!” esclamava
con sdegno “Dovresti pensare a trovarti un marito,
anziché fantasticare su
queste sciocchezze, altrimenti i migliori
finiranno in fretta!” mi ripeteva in continuazione, come in
una fastidiosa
ninnananna.
-
E tu smettila di sminuirti, tesoro!-
fece scoccandomi un’occhiata di traverso, alzando un
sopracciglio perfetto.
Finalmente mi lasciò andare e una strana sensazione di
sollievo mi avvolse
completamente – Piuttosto Esme, siediti e aspetta tuo padre
per fare colazione
–
Si
sedette anche lei, intimandomi a
fare lo stesso, prendendo posto sulla sedia opposta alla mia. La sedia
a
capotavola spettava, naturalmente, a mio padre.
-
Mmm…cornetti, esatto?- fece una voce
roca ed affettuosa, proveniente dalle scale. Mio padre, la stratura
piuttosto
bassa e rotonda, percorse velocemente la distanza che ci separava,
sistemandosi
la cravatta. Scese l’ultimo scalino con un salto, prima di
salutarci tutti con
un sorriso ampio sul volto rubicondo e paffuto.
Diede
un bacio veloce alla mamma e poi
salutò me.
-
Buongiorno, principessa – fece
stampandomi un bacio su entrambe le guancie, senza nemmeno darmi il
tempo di
opporre resistenza. Insomma, avevo sedici anni.
-
Joe ti conviene mangiare alla svelta,
oppure arriveremo tardi in Chiesa – lo ammonì mia
madre, prendendo dal grande
piatto al centro della tavola un cornetto.
-
Sì Lilibeth, come vuoi tu – rispose
con voce atona, facendomi l’occhiolino e agguantando veloce
due cornetti. Aveva
promesso alla mamma che sarebbe stato a dieta anche se non ci credevo
molto.
Mamma era talmente concentrata a spalmare una dose minima di marmellata
all’interno del proprio cornetto, che neppure lo
notò.
Con
un sorrisetto mi accinsi a prendere
la mia colazione. Papà aveva già divorato il
primo, ed ora esibiva con fare
innocente il secondo nel piatto.
Mangiai
gustando appieno ogni singolo
morso, ridacchiando di tanto il tanto per le battute di
papà. Sparecchiai in
tutta fretta mentre i miei genitori si concedevano un caffè
fumante.
Terminati
gli ultimi ritocchi, ci
preparammo ad uscire sotto il caldo sole di una delle tante domeniche
estive. La
Chiesa di padre Arthur era
poco distante da casa nostra.
-
Esme, ferma dove sei!- gridò
all’improvviso mia madre, costringendo papà a
voltarsi di scatto, preoccupato.
Lei mi fissava minacciosa, come se volesse incendiarmi.
-
Cosa…cosa ce mamma?- finsi di non capire,
spostando la testa di lato come ero solita fare. In realtà,
sapevo esattamente
perché aveva gridato.
-
Non hai messo la tua fascia, vero?-
mi chiese con fare indagatore, avvicinandosi.
Papà
scosse la testa, riaprendo con le
chiavi la porta di casa.
-
Sbagli mamma. L’ho messa prima di
scende per la colazione – protestai, sperando che i miei
occhi non mi
tradissero proprio in questo momento. Smisi quasi di respirare, per
dimostrarle
che non stavo mentendo.
Lei
si avvicinò e passò decisa una mano
sul mio ventre, con una smorfia.
-
Sai che non devi dire le bugie, vero
tesoro?- mi chiese raggelandomi con quelle parole. Ero nei guai e con
le spalle
al muro. Papà sbuffo leggermente, sedendosi sui gradini in
veranda.
Mamma
mi afferrò violentemente per un braccio,
strattonandomi, mentre con l’altro andò ad aprire
la porta. In seguito mi
sentii trascinare su per le scale, mentre fissavo spaventata le unghie
che si
piantavano nell’avambraccio. Spalancò la porta
della mia stanza e mi scaraventò
senza grazia sul letto, sollevando minuscole nuvole di polvere.
Aprì
il primo cassetto della
cassettiera in legno posizionata accanto al muro, contenente tutti i
miei
vestiti. Rabbrividii e provai a scappare, mentre le sue mani
sollevavano
trionfanti una fascia bianca dalle cui estremità spuntavano
due spessi elastici
neri.
-
No mamma, ti prego…- provai a dirle,
ma su queste cose non transigeva. Mi fece togliere il vestito e mi
sentii
improvvisamente nuda, sebbene una minuta e graziosa biancheria
risplendeva
sulla mia pelle chiara.
-
Trattieni il fiato –
Era
un ordine. Cercai di trattenere
quanta più aria potessi mentre il freddo materiale di cui
era fatta la fascia
andava a circondare il mio ventre, stringendomi fino a farmi male.
Boccheggiai
in mancanza d’ossigeno quando, come se niente fosse, mamma mi
allacciò
nuovamente il vestito sulla schiena, soddisfatta.
Passò
ancora la mano sul mio ventre,
ora freddo e piatto.
-
Ora si che sei perfetta!- esclamò
utilizzando il suo solito tono zuccheroso – E non provare mai
più a mentirmi,
capito Esme?- mi avverti ancora, sparendo dalla mia stanza.
Prima
di raggiungere nuovamente i miei
genitori, mi sedetti sul letto, fissando il pavimento lucido senza
fiato. Mi
venne da piangere, ma ricacciai orgogliosamente indietro le lacrime e
scesi da
loro, ostentando una grazia che non avevo. Non avrei mai fatto
indossare una
cosa del genere a mia figlia, se mai ne avessi avuta una.
-
Ora si che sei perfetta!- osservò
gioiosa mia madre, come se mi vedesse per la prima volta.
Papà si alzò dai gradini
barcollando e mi guardò. Lui non vedeva la differenza, ma
era solito dare
ragione a mia madre in tutto ciò che faceva.
-
Tua madre ha ragione Anne – papà mi
chiamava sempre Anne, sebbene ignorassi il perché
– Ora sei veramente uno
splendore. Il piccolo Evenson non avrà occhi che per te, in
Chiesa – Mamma
sorrise furbetta ed io provai a sbuffare.
Rinunciai
amareggiata nel sentire le
costole piegarsi una dopo l’altra.
Charles
Evenson aveva diciassette anni,
anche se mio padre si ostinava a chiamarlo “il piccolo
Evenson”. Suo padre,
Gerald Charles Evenson, possedeva una grande fabbrica tessile nei
pressi di
Columbus, appena fuori la città. Era solito regalare a me e
mia madre dei
vestiti stupendi ogni volta che, assieme al figlio ed alla moglie
Clear, venivano
a trovarci.
Mamma
stravedeva per quegli abiti. Io
cercavo sempre di nasconderli tra gli altri vestiti, sperando di non
vederli
mai più.
Non
che li odiassi. Tolto Charles
trovavo il signore e la signora Evenson due persone deliziose.
Charles
invece era noioso e petulante.
Parlava sempre delle sue imprese con gli amici e non perdeva mai
l’occasione di
dirmi che avrebbe voluto arruolarsi nell’
l’esercito, appena avuta l’età
adatta. In quelle occasioni, ostentavo qualche sorrisetto e mi voltavo
dall’altra parte, reprimendo uno sbadiglio.
I
miei genitori lo trovavano perfetto.
Un ragazzo bello – aveva i capelli scuri e gli occhi chiari
– e ambizioso,
nonché simpatico e ricco. Era sempre mia madre a
costringermi a indossare i
vestiti più belli, in previsione di una visita degli Evenson.
La
fascia stretta mi bloccava il
respiro e sentivo una strano senso di nausea annebbiarmi la testa
pesante e
confusa. Inspirando due o tre volte sentì le costole
frantumarsi sotto la
fascia e rinunciai.
Arrivammo
in Chiesa poco dopo e
ringraziai il cielo quando finalmente potei sedermi su una delle panche
disposte in entrambi i lati, con un muto sospiro di sollievo.
Mamma
e papà si sedettero alla mia
destra, lasciando libera la parte sinistra della panca.
-
Ciao Esme!-
Charles
Evenson si sedette al mio
fianco senza chiedermi il permesso. Era vestito di tutto punto, con una
cravatta blu scuro che gli circondava il collo e una giacca chiara
sopra i
pantaloni del medesimo colore. Accanto a lui, presero posto sua madre e
suo
padre, il quale, togliendosi il cappello, sorrise ad entrambi i miei
genitori.
-
Charles…- feci evitando di guardarlo
negli occhi, sperando che la messa cominciasse alla svelta.
Sentì il disgustoso
profumo da uomo di Charles pizzicarmi il naso e trattenni uno starnuto.
La
messa cominciò poco dopo ed io
sentivo caldo, schiacciata tra mia madre e Charles, che aveva
cominciato a
raccontarmi sottovoce dell’ultima uscita al lago con gli
amici. Evitai di
prestare attenzione concentrandomi forzatamente su padre Arthur,
impegnato a
leggere qualcosa dallo spesso libro di fronte a sé.
Per
due ore sentì lo sguardo di Charles
su di me, assieme a quello di mia madre che annuiva compiaciuta, tra
una
preghiera e l’altra. Appena padre Arthur decretò
la fine della messa, scattai
in piedi ignorando la fascia. Boccheggiai nel sentire la mancanza
d’ossigeno e
le costole incrinarsi.
Charles
mi offrì il braccio con un
sorriso disgustoso.
Accolsi
in silenzio la gomitata di mia
madre e mi affrettai ad afferrarlo, sebbene riluttante.
Dopo
la luce fioca all’interno della
Chiesa, il Sole caldo ed accecante mi diede sollievo.
Alzai
il viso al cielo e Charles mi
fissò, strabuzzando gli occhi per la troppa luce. Sentivo la
pelle bruciare
sotto il calore mattutino e sorrisi, deliziata.
Pranzammo
a casa nostra.
La
signora Evenson aiutò mamma con lo
sformato mentre papà e il signor Evenson discutevano della
Borsa, parlando
fitti tra di loro. Mamma mi costrinse a mostrare la mia camera a
Charles,
spingendoci entrambi su per le scale. In seguito mi fece
l’occhiolino mentre
andandosene, chiuse la porta alle sue spalle.
-
E così…- cominciò lui, osservando e
toccando ogni cosa – questa è la tua stanza?-
-
Sì- dissi secca. Ero stranamente
arrabbiata con quell’estraneo che si permetteva di sfiorare
le mie cose. Di
violare la mia intimità.
-
La mia è più grande e decisamente più
luminosa – affermò buttandosi sul letto e
chiudendo gli occhi. Il respiro
affannoso non era dovuto solamente alla fascia, questa volta.
-
Potresti alzarti dal mio letto?-
intimai fissandolo
minacciosa. Avevo le guancie infuocate.
Charles
aprì gli occhi e sorrise.
-
Papà ha ragione. Sei veramente la
ragazza più bella della
città, Esme -
Il
tono di voce che usò mi fece
rabbrividire. Roco e suadente e nauseante.
Mi sentì paralizzata mentre fissavo Charles alzarsi dal
letto e camminare verso
di me.
Prese
una ciocca dei miei capelli tra
le dita e le baciò con le labbra – I tuoi capelli
hanno un profumo eccezionale
– continuò. Sentivo le lacrime pizzicarmi gli
occhi ma per qualche strana
ragione non riuscivo a piangere.
Charles
mi sfiorò le labbra con un
dito, prima di passare al resto del volto. Annusò il mio
collo con fare avido
per poi leccarlo, passandoci sopra la lingua con estrema lentezza.
La
sua saliva calda e viscida mi fece
scattare.
Lo
spinsi con tutta la forza che avevo
nelle braccia lontano da me, prima di passare con orrore le dita
tremanti sul
collo umido ed evitare di vomitare. Charles ghignava osservandomi
appoggiato al
muro, passandosi la lingua sulle labbra.
-
Ti emozioni sempre per così poco,
piccola Esme?- chiese con il solito ghigno. Avevo la sua bava tra le
dita, nel
disperato tentativo di toglierla dal collo.
-
Vattene – mormorai.
-
Andiamo Esme, non credi sia ora di
smetterla di fingere? Lo so che anche io ti piaccio – disse
avvicinandosi
nuovamente. Stavolta posizionai le mani strette a pungo davanti al
viso,
aspettando il momento in cui fosse stato abbastanza vicino per
colpirlo.
Charles mi afferrò per i polsi e distrusse in pochi istanti
la mia unica
difesa.
-
Dammi un bacio- sussurrò a pochi
centimetri dal mio viso.
-
No- risposi decisa, senza smettere di
guardarlo negli occhi.
-
Allora lo farò io-
Lo
vidi piegare la testa verso di me,
più bassa di lui di parecchi centimetri. Sentivo il suo
respiro e vedevo le sue
labbra avvicinarsi pericolosamente alle mie. Trattenni il respiro per
paura di
vomitare.
-
Ragazzi venite a tavola! Il pranzo è
pronto!-
Incredula
ascoltai la voce di mia madre
e vidi Charles arretrare senza però smettere di sorridere.
Sentì il cuore
battere velocemente, come se volesse uscirmi dal petto.
-
Sarà per la prossima volta- affermò
lui, aprendo la porta della mia stanza con un mezzo inchino,
lasciandomi lo
spazio per passare. Corsi fuori da essa senza nemmeno ringraziarlo.
Mangiai
in silenzio, mentre attorno a
me tutti parlavo allegramente, passandosi le varie portate. Charles,
seduto
accanto a me, deliziava mia madre con uno dei suoi nauseanti racconti.
In
seguito aiutai mamma e la signora
Evenson a sparecchiare, offrendomi volontaria per lavare i piatti.
Papà,
Charles e il signor Evenson stavano seduti in veranda a ridere
sguaiatamente,
dandosi forti pacche sulle spalle.
Impiegai
più tempo del dovuto nel
lavare i piatti per non unirmi a loro. Anche se avevo le mani gelate
preferì
l’acqua ghiacciata al sorbirmi un altro sfavillante racconto
del piccolo
Evenson.
Era
già pomeriggio quando, fingendomi
stanca, corsi in camera mia.
Naturalmente,
chiusi la porta a chiave
e mi rannicchiai accanto alla finestra, sperando che l’odore
di Charles Evenson
se ne andasse. Il letto ne era completamente impregnato.
Storsi
il naso nello sfilarmi il
vestito per degli abiti più comodi.
Serrai
le mascelle nel togliere la
fascia che come sempre, aveva lasciato due strisce violacee e pulsanti
sul mio
ventre. La buttai in un angolo e mi sedetti sul letto, guardando il
paesaggio
fuori dalla finestra. La verde campagna si estendeva
all’infinito, mentre
l’albero di emanava un gradevole aroma dolciastro che
respirai a fondo.
Improvvisamente,
mi era venuta voglia
di ciliegie.
Indossai
un paio di vecchi pantaloni di
mio padre e una camicia bianca, prima di scivolare fuori dalla mia
stanza,
costretta a passare di fronte agli altri per raggiungere
l’albero. Vidi mamma
sbiancare non appena uscì da loro in veranda.
Il
signore e la signora Evenson
arrossirono, in imbarazzo.
Charles
non se accorse neppure.
-
Voglio cogliere alcune ciliegie –
spiegai con voce decisa, guardando mamma negli occhi.
-
Tesoro ma…- balbettò lei, a disagio –
lo sai che non puoi. È pericoloso arrampicarsi sugli
alberi…-
La
voce di Charles era fastidiosa
esattamente come ricordavo - Se vuoi ti posso accompagnare…-
disse rivolto a
mia madre, più che a me.
Mamma
mi fissò accigliata per alcuni
secondi ed infine si sciolse in un sorriso tirato.
-
E va bene. L’affido a te Charles –
disse con voce neutra, poggiando la mano con la fede sopra quella di
Charles,
che le sorrise suadente.
Poco
dopo eravamo accanto all’albero,
lontani dai nostri genitori.
Charles
guardò dubbioso le ciliegie e
fece una smorfia.
-
Perché rischiare di farsi male per…un
frutto?- domandò. Io ero già salita sul primo
ramo, sfortunatamente privo di
ciliegie. La sua voce mi sembrò estremamente lontana.
-
Queste ciliegie sono deliziose. E
voglio cogliere le ultime rimaste, prima che vadano a male –
Non
attesi una sua risposta. Dal terzo
ramo in poi, Charles Evenson sembrava davvero minuscolo ed
insignificante.
Respirai
a fondo quel profumo ancora
distante. Puntavo a cogliere le ciliegie rosso rubino dei rami
più alti, quelli
che anche papà evitava di spogliare.
Eppure,
in quel momento, desideravo
quelle ciliegie succose e pericolose con tutta me stessa.
No.
In realtà non erano le ciliegie in
sé che volevo.
Ero
finalmente libera e leggera,
lontano da tutto e tutti. Il cielo rossastro risplendeva sopra la mia
testa ed
io non ero mai stata così vicina a sfiorarlo.
Mi
alzai in punta di piedi su un grosso
ramo, allungando un braccio in alto mentre con l’altro
restavo ancorata alla
corteggia. Senti Charles gridare un avvertimento e sorrisi, pensando a
quanto
fosse sciocco. Io non avevo paura.
Raggiunsi
i rami più alti con facilità.
Volevo raggiungerli e guardando verso il basso provai una certa
compassione per
mia madre e per il “piccolo Evenson”. Loro non
sapevano quanto fosse splendido.
Ne vedevano solamente il lato pericoloso.
Finalmente
le ciliegie brillarono
attorno a me, inebriandomi con il loro profumo. Ne colsi una e la
mangiai,
sputando in aria il nocciolo. Erano la cosa più buona che
avessi mai
assaggiato.
Con
una mano presi un lembo della
camicia bianca stendendolo a formare una coppa e cominciai a riempirla
con
tutte quelle che riuscivo a cogliere. A mia madre sarebbe venuto un
colpo, nel
vedere l’utilizzo della sua preziosa camicetta bianca.
La
mano cominciava a pesare e guardai
il frutto dei miei sforzi, con soddisfazione.
Fu
allora che la vidi.
Una
ciliegia solitaria brillava
irradiata dalla luce del Sole, terribilmente distante. Doveva essere
mia. A
fatica mi rizzai a sedere per poi alzarmi sulle gambe e cominciai a
camminare
nella sua direzione, come affascinata.
Ancora
un passo, mi dicevo, e ce
l’avrei fatta.
Con
il braccio libero teso mi spinsi in
avanti, sentendo ogni mio muscolo allungarsi in quella direzione.
E
un attimo dopo caddi. Semplicemente.
Scivolai
sul ramo dove stavo camminando
e persi l’equilibrio, piombando nel vuoto.
Vidi
la ciliegia allontanarsi e la
delusione avanzare, mentre come un uccello ferito cadevo nuovamente
verso
terra, abbandonando il mio posto tra le nuvole.
Mi
sentivo leggera e spensierata, i
capelli lunghi che si libravano in aria.
Non
mi rendevo conto di quanto fossi
vicina allo spappolarmi al suolo.
Vidi
il volto di Charles impallidire
rapidamente e gli sorrisi per la prima volta.
Era
ancora così piccolo ed io così leggera.
Vedevo
il cielo rossastro oltre le
foglie con una chiarezza sorprendente e mi chiesi se stessi sognando.
Un
secondo dopo, tutto era sparito.
E
l’oscurità si impossessò di me con
facilità disarmante.
Non
ebbi nemmeno il tempo di gridare.
Note
Autrice ~
Ecco
il primo capitolo, in gran parte
inventato, che parla della caduta dall’albero.
Non so se Esme sia caduto dopo essersi
arrampicata per cogliere qualcosa. Probabilmente no, ma siccome sono
una
divoratrice di ciliegie, le ho inserite nella storia.
Non so neppure se la madre di Esme l’abbia
soffocata in questa maniera. E se Charles Evenson sia stato oppure no
suo amico
d’infanzia. Mi piaceva pensare che fosse così,
perciò l’ho scritto.
Grazie a tutti quelli che recensiranno
e ai coraggiosi che hanno lasciato un commentino
all’introduzione. Vi ammiro
*-*
Al prossimo capitolo, nel quale, a
narrare i fatti, sarà Carlisle.
Un bacio, T.G
P.S.: Sono andata a controllare. Nel
1895, ovvero negli anni del primo incontro tra Esme e Carlisle, le
donne
indossavano vestiti larghi, con ampie gonne e pizzi pregiati.
Questa è l’immagine del vestito che
indossa Esme per andare in Chiesa.
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