Dreamland

di Juliet8198
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** Epilogo ***
Capitolo 33: *** RINGRAZIAMENTI (+annunci) ***
Capitolo 34: *** SIETE PRONTI?! ***
Capitolo 35: *** Another chapter of a new story ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Non ricordava di avere mai avuto un sogno così vivido. Se anche ne aveva avuto uno paragonabile a quello, veniva risucchiato dalle sabbie della memoria nel momento in cui apriva gli occhi. 

 

Ogni altro sogno, prima di quello, le era sempre apparso come tale. Un sogno. Un breve, fugace momento in cui l'immaginazione dipingeva il mondo attorno a lei.

 

Quello, invece, sembrava molto di più. Tutto intorno a lei, dal tessuto fluttuante del vestito che imitava una notte stellata, agli arazzi finemente decorati appesi alle pareti, fino agli intarsi dorati che circondavano le porte, palpitava pieno di vita. Poteva sentire le note malinconiche del violino che dirigeva la dolce musica che la richiamava e aveva l'impressione di odorare il profumo delle rose fresche che adornavano le finestre in vasi di ceramica. 

 

Era tutto così vivo, eppure così evanescente. Se avesse allungato la mano, avrebbe potuto sentire i vellutati petali di quei fiori? Avrebbe davvero incontrato un'orchestra che giocava allegramente per produrre quella meravigliosa musica? 

Non lo sapeva, ma voleva scoprirlo. Era da un po' di tempo che correva inseguendo la misteriosa melodia, trascinando lo strascico del pesante vestito e facendo ticchettare le scarpe sul parquet, eppure non sentiva un minimo di stanchezza. 

 

"È decisamente un sogno."

 

Il corridoio che stava percorrendo attraversava diverse stanze, cariche di mobilia ma spoglie di persone. Ognuna di esse sembrava abbandonata a se stessa e alla sua opulenza in attesa del suo proprietario, che avrebbe potuto riportarle un'anima e uno scopo. Una di esse sembrava essere un salotto pronto a servire il tè ai suoi ospiti e abbracciarli con le sue pareti ricoperte di oro e rosso. Scorgendo vagamente i dettagli dell'arredamento, si diresse verso uno specchio che partiva dal pavimento e raggiungeva quasi il soffitto della stanza. 

 

 

"Che strano."

 

Nei suoi sogni di solito riusciva ad orchestrare ogni aspetto affinché tutto apparisse come voleva, compreso il suo corpo. Poteva avere il viso più piccolo, il ponte del naso più alto, gli occhi più grandi e la pelle più chiara. Ma il riflesso che vide fu esattamente quello che incontrava ogni mattina nella vita reale; l'unica differenza rinchiusa nel fatto che era avvolto in un bustino ricamato d'argento. Provò ad immaginare con tutte le sue forze di avere qualche centimetro in più, ma nulla cambiò. Leggermente frustrata, decise di cambiare approccio. Dopo qualche istante, della polvere di stelle cadde sui suoi capelli, lasciando che striature scintillanti si intrecciassero alle ciocche scure. 

 

"Così funziona." 

 

Abbassò lo sguardo ed osservò le scarpe il cui colore rispecchiava il vestito che indossava. In un batter d'occhio, su di esse spuntarono centinaia di piccoli diamanti che, ricoprendole interamente, illuminarono il salottino con frammenti di arcobaleni. Soddisfatta, riprese la sua marcia all'inseguimento del violino che era passato ad incalzare l'atmosfera con un valzer altisonante. Qualche stanza dopo, incontrò finalmente le porte vetrate che conducevano ad un luminoso salone dentro il quale delle figure volteggiavano in coppia. Senza che nessuno le avesse toccate, le porte si aprirono presentandole quel gigantesco carillon ricoperto di lampadari, che protendevano i loro rami carichi di cristalli come salici piangenti, e tende che incorniciavano pesantemente delle finestre alte fino al soffitto. 

 

 

 

Quando mise piede nella stanza, osservò i ballerini scivolarle davanti senza fare caso a lei. Quelle presenze che popolavano la sala agitavano le crinoline dei loro vestiti eterei come fantasmi. E come tali, sparivano dalla sua mente nel momento in cui si allontanavano. I loro volti coperti da intricate maschere avevano dei lineamenti che si mescolavano in tratti confusi e nebulosi, rendendoli tutti uguali. 

 

Mentre attraversava la pista da ballo, fece comparire fra le sue mani una maschera argentata modellata con decori floreali e se la appoggiò sul viso. I fantasmi sembravano evitarla naturalmente, come se fosse parte della loro danza prestabilita, e una volta che la avevano superata tornavano a confondersi nella marea di volti indefiniti. 

 

"È tutto molto bello ma... sarebbe meglio avere un cavaliere..."

 

Con indecisione, studiò le coppie imperturbate dalla presenza degli altri partecipanti. Ognuna di esse sembrava inscindibile, come composta da due anelli d'acciaio sigillati insieme. 

 

"Uhm... come dovrebbe essere? Più simile a..."

 

Il pensiero rimase sospeso nella sua mente nel momento in cui una mano le sfiorò la spalla. Si voltò sbattendo gli occhi con stupore ed incontrò un ragazzo in un completo elegante, il cui colore sembrava imitare il vestito di lei. Sopra ad un vago sorriso e ad un piccolo naso leggermente schiacciato, era appoggiata una maschera d'argento che copriva degli occhi luminosi e metà di quel misterioso viso. 

 

-Chiedo scusa, ma sembri essere l'unica persona a non ignorarmi in questa sala, perciò... posso chiederti di ballare?- 

 

La ragazza rimase qualche istante ad osservare la sua mano sospesa in attesa di una risposta.

 

"Strano. Non avevo ancora finito di pensare a quale accompagnatore avrei voluto." 

 

Senza proferire parola, accettò la sua offerta appoggiando il palmo sul suo e lasciando che la conducesse al centro della pista. I loro piedi riposarono brevemente sul marmo color avorio prima di intraprendere una danza ritmata ma fluida. Il misterioso cavaliere aveva avvolto una mano attorno alla sua, dirigendo i passi attraverso il mare di fantasmi mentre aveva delicatamente appoggiato l'altra poco sotto le sue scapole. Lei non sapeva minimamente ballare nella vita reale ma il suo corpo seguì perfettamente la guida del ragazzo e non fallì un passo per tutta la durata della musica. 

 

Quando il ritmo finalmente si acquietò, il violoncello fece scivolare l'orchestra in una composizione lenta e suadente, costringendoli a rallentare. Per tutto il tempo, aveva impudentemente fissato il suo accompagnatore cercando di mappare i suoi tratti, che le apparivano così familiari. C'era qualcosa nelle sue labbra piene e nelle striature argentate dei suoi capelli che le suggeriva che lo conosceva molto bene, ma la sua mente le strappava quel pensiero l'instante prima che potesse raggiungerne la conclusione. Lui, d'altra parte, sembrava studiarla a sua volta con meticolosa attenzione, osservandola con un'espressione buffamente concentrata negli occhi. 

 

-È strano.- esclamò all'improvviso. 

 

Lei si limitò ad osservarlo, invitandolo silenziosamente a proseguire. 

 

-Tutto questo è così bello... da smascherare quanto in realtà sia finto. Eppure tu... sembri così vera.- concluse, portando lo sguardo su di lei. 

 

Senza accorgersene, si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito. 

 

-Grazie, che dire... è il mio sogno, è naturale che io sia l'unica cosa concreta in questo mondo... - disse studiando l'ambiente circostante. 

 

La danza e la musica cessarono improvvisamente, lasciando la stanza in un freddo silenzio. Perfino i ballerini incatenati in coppie sparirono, dissolvendosi nell'aria come fumo. La ragazza si guardò intorno confusa, prima di accorgersi dello sguardo insistente del ragazzo davanti a lei.

 

-Questo è il mio sogno.- affermò lui con risolutezza, costringendola a guardarlo negli occhi. 

 

Lei allora si ritrovò ad emettere una leggera risata, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa. 

 

"Non mi dovrò mettere a litigare con la mia immaginazione riguardo a chi è il padrone di questo sogno, vero?" 

 

-Senti, è stato bello ma ti ho creato io. Cioè... ti ha creato la mia mente, quindi questo è il mio sogno. E tu tra poco sparirai.- disse, con la sensazione di essere davvero stupida. 

 

Il ragazzo rimase in un silenzio scioccato, fissandola stranito. 

 

-Questo è il mio sogno. Sono io che ho fermato la musica e fatto sparire le altre persone. È la mia immaginazione che manipola le cose. Ma tu... tu sei qualcosa che non ho creato. Quindi, cosa sei?- 

 

"È ridicolo. Probabilmente è una trama intricata della mia mente. Al diavolo la mia fantasia..." 

 

In quel momento, in preda ad una inspiegabile frustrazione, pensò di rimuovere la maschera al ragazzo, ma non successe nulla. Provò a farlo sparire, come avevano fatto i ballerini che popolavano precedentemente la sala, ma di nuovo senza risultato. Allora, afferrò con veemenza la sottile lamina di metallo che gli copriva metà volto e provò a togliergliela ma si ritrovò con le dita incastrate ad essa. 

 

-Ma che...- 

 

Fece un passo indietro, osservando stranita quello scherzo della sua immaginazione mentre le prendeva le mani lentamente e le allontanava dalla maschera. Infine, dopo averla lasciata, la prese lui stesso stringendola sotto le dita e la rimosse, lasciando che la luce colpisse il lato nascosto del suo viso. Non appena riconobbe quei lineamenti, alzò un sopracciglio. 

 

-Park Jimin?-

 

 

 

RULLO DI TAMBURI....

Ed eccoci qua! Ladies and gentes, come promesso sono arrivata con questa nuova storia. Cosa mi dite? Vi stuzzica un po' la curiosità? Vi piace la nuova ambientazione? 

Come vi ho anticipato, anche qua i sogni hanno una parte fondamentale. Ma non fatevi ingannare, funziona in modo molto diverso da Déjà vu. 

Bene, per ora è tutto, spero che anche questa creatura vi possa piacere e preparatevi perché ci sarà da soffrire.

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Capitolo 2
*** 2 ***


"È Park Jimin." 

 

Era senza dubbio lui. Quegli occhi carichi di fuoco e pioggia, quel volto dai lineamenti dolci ma decisi e quella bocca voluttuosa li avrebbe riconosciuti ovunque. L'eccezionale vocalist dei BTS aveva una fisionomia troppo unica per poter essere confondibile. 

 

"Ma che cavolo, sono un'ARMY! Come ho fatto a non accorgermene? Era palesemente lui, anche con la maschera! Che diavolo sta succedendo?" 

 

-Sì, sono Park Jimin. E tu sei?- 

 

La voce del ragazzo la raggiunse accarezzandole le orecchie ma schiaffeggiando la sua mente, ancora incredula per la stupidità della situazione. Rimase qualche istante con la bocca leggermente aperta, cercando di fare ordine nel suo cervello.

 

"Chiudi quella fogna, ti ci entrano le mosche." 

 

Serrando le labbra di scatto, distolse gli occhi da quelli di lui e prese a studiare li arabeschi della carta da parati. 

 

-Chang Jein.- pronunciò velocemente, mangiandosi le lettere. 

 

Il suo interlocutore, allora, fece un passo avanti e piazzò il suo viso proprio davanti all'interessante visuale della ragazza. Sbattè le palpebre freneticamente, cercando di risultare impassibile, mentre un sorrisetto iniziava ad incurvare un angolo della bocca del suo seduttivo accompagnatore. 

 

-Ebbene, Chang Jein-ssi*...- iniziò  il ragazzo facendo scivolare la sua pallida mano su quella di lei -...se siamo entrambi padroni di questo sogno, come la mettiamo?- 

 

Quando ebbe terminato di pronunciare la domanda, Jein alzò un sopracciglio e gli rivolse un'espressione scettica. 

 

"La mettiamo che tra un po' mi sveglierò e tu sparirai." 

 

Aprì la bocca per dare forma ai suoi pensieri, quando fu interrotta da uno scoppio. Il rumore, simile ad un'esplosione lontana, riverberò nella stanza vuota e i timidi vetri delle finestre tremarono leggermente al suo cospetto. Istintivamente si girò verso Jimin, che la fissava con un interrogativo inespresso negli occhi. 

 

"Sei stata tu?" 

 

No, non era stata lei. E non era neppure la causa degli altri tre scoppi che riempirono subito dopo la stanza, ormai fredda a causa della mancanza di abitanti. Di tacito accordo, i due ragazzi si voltarono avvicinandosi alle imponenti porte finestre che davano sull'esterno. Quelle, come le porte del salone, si aprirono da sole, servendo una vista su un giardino di cui non si riusciva a scorgere il confine. Quando la mano di Jimin la incitò docilmente a proseguire, si affacciarono al bancone di pietra sospeso su un folto cespuglio di rose selvatiche. 

 

Gli occhi di Jein presero a studiare l'intricato labirinto creato dai cespugli, che ergevano imponenti muri di verde e convogliavano al centro in una fontana. La sua attenzione indugiò sulla statua di una donna dai tratti fastidiosamente famigliari che, piegata su se stessa, spendeva lacrime infinite che si raccoglievano nel bacino ai suoi piedi. Per qualche motivo, quella vista le strinse lo stomaco e le provocò un vago senso di sofferenza nei recessi della sua coscienza. Il dolore nei suoi occhi e nelle sue rughe appena accennate insieme alla disperazione delle sue mani, ancorate alle sue spalle nel tentativo di racimolare un briciolo di calore e serenità, sembravano parlare direttamente a lei, sua unica spettatrice. Un senso di nausea le stuzzicò la gola, ma non ne comprese il motivo. 

 

 

-Guarda.- 

 

Jimin la strappò dalla sua silenziosa contemplazione sfiorandole leggermente la mano e facendole sollevare lo sguardo sul cielo notturno, dello stesso colore del suo abito. In quella tela scura, comparve improvvisamente un fiore di fuoco, che esplose con lo stesso scoppio che avevano sentito in precedenza e fece scivolare le sue ceneri sopra la linea dell'orizzonte. 

 

-Fuochi d'artificio.- disse lei semplicemente. 

 

-Già.- replicò il ragazzo. 

 

-Vediamo se...- 

 

Lo spazio vuoto lasciato da quelle parole inespresse fu colmato poco dopo da una nuova esplosione nel cielo. Questa volta, al posto di un fiore, comparve una scritta netta e perfettamente leggibile, che lasciò dietro di sé una striscia di fumo che ne imitava la forma. Jimin. 

 

Il ragazzo si voltò verso di lei con un'espressione curiosa, quasi come se desiderasse vederla impressionata, e prese a dondolarsi sulle piante dei piedi come un bambino. 

 

-Allora? Chi è il padrone di questo sogno?- 

 

Jein lo  guardò alzando nuovamente il sopracciglio con scetticismo e studiando la soddisfazione che trasudava dai suoi occhi e dalla smorfia della sua bocca. Senza accorgersene, si ritrovò ad emettere uno sbuffo divertito. 

 

"Va bene. Vuoi la guerra?" 

 

Quando riportò lo sguardo sul cielo, le bastò pensare a ciò che desiderava e questo prontamente apparì illuminando i loro visi. Non appena le luci esplosero prendendo i contorni del volto di Jimin e delineando la stessa espressione che le aveva mostrato qualche istante prima, la ragazza vide il suo sguardo mutare da giocoso a stupito. Le stelle di fuoco che illuminavano i suoi occhi si spensero e lui si voltò per osservarla con circospezione, ricevendo un'occhiata derisoria. 

 

"Dilettante." 

 

Il ragazzo, che non sembrava soddisfatto, riportò lo sguardo davanti a sé con determinazione. Nel giro di un secondo, una nuova esplosione nacque di fronte ai due e sembrò volere imitare il viso di lei, caratterizzato da un'espressione fiera. Impaziente, Jimin si girò verso la ragazza per studiare la sua reazione. 

 

-Allora?- 

 

Alla sua domanda, lei alzò semplicemente le spalle. 

 

-Allora cosa?-

 

"Continui ad essere uno scherzo della mia mente." 

 

Le spalle di Jimin si abbassarono sotto il peso della sua delusione dopo aver visto che lei era irremovibile e un piccolo broncio fece capolino dalle sue labbra. Davanti a quell'espressione così buffa e infantile dipinta su un viso tanto elegante, Jein non poté trattenere una risatina divertita, che mascherò voltando la testa dalla parte opposta. Dopo qualche istante di silenzio, sentì la sua mano venire afferrata con determinata gentilezza e alzando lo sguardo, incontrò una giocosa dichiarazione di guerra in quello di Jimin. 

 

-E va bene allora.- 

 

Senza aggiungere altro, la trascinò dietro di sé riportandola alle porte finestre da cui erano usciti in precedenza. Al posto di incontrare alte vetrate incorniciate d'oro però, si trovarono di fronte due semplici e piccole porte basculanti in legno. Lei piegò leggermente la testa confusa, ma il suo accompagnatore si fece prontamente avanti spalancando le porte con entrambe le mani e abbracciando l'ambiente che si presentò davanti a loro. Quando alle orecchie della ragazza giunsero le note di una salsa vivace spalancò gli occhi, inorridita. 

 

La scena che le si aprì dinnanzi presentava una sala assai più piccola rispetto al salone da ballo di cui aveva preso il posto, ma ancora più gremita di gente. Queste scivolavano sul parquet consunto facendo ticchettare le scarpe da ballo e volteggiando sensualmente strette fra le braccia del partner. 

 

"Non è possibile." 

 

Continuava a fissare la scena scioccata e incredula, cercando di ignorare l'insistente tromba che le perforava i timpani. 

 

"Io odio la musica latina. Odio i balli latini. Perché sono nel mio sogno?"

 

Desiderò ardentemente che sparissero ma, con sua grande delusione, così non fu. Invece, i ballerini proseguirono imperterriti nella loro danza sfrenata, totalmente indifferenti alla loro presenza. Sentendo uno sguardo insistente su di sé, Jein si voltò e puntò gli occhi su Jimin. Lui, con un sorrisetto furbo sulle labbra attendeva impazientemente una sua reazione. 

 

"Ok. Devo ammettere che c'è qualcosa di strano." 

 

-Ebbene?- 

 

La domanda di Jimin fu accompagnata dalla sparizione del sua abito elegante, che si plasmò prendendo la forma di un paio di pantaloni attillati, molto attillati, e una camicia bianca con qualche fronzolo sul petto. Con uno sbuffo, la giovane incrociò le braccia sotto al seno e contemplò il tacito invito del suo accompagnatore, che la guardava con aspettativa. 

 

-Avanti, lasciati andare.- disse lui, riuscendo a sovrastare a malapena la musica. 

 

Jein strinse le labbra, cercando di nascondere l'irritazione, e  alzò gli occhi al cielo. Al suo comando, le morbide onde del suo vestito si ritirarono accorciandosi fino al ginocchio e trasformandosi in piccole balze. Il blu della stoffa si accese in un tramonto rosso che le raggiunse le spalle e le raccolse i capelli. Jimin la fissò per un istante con un'espressione indecifrabile negli occhi prima di allungare la mano verso di lei. Quando la afferrò, lasciandosi condurre al centro della pista, sentì una fastidiosa sensazione che le stuzzicava la mente dalla prima volta che aveva accettato il suo invito. Quella mano, per qualche motivo, le dava un senso di estraneità che non riusciva a spiegare. 

 

 

Jimin era come il vento che ondeggiava fra le fronde degli alberi. Era come un fiume che zigzagava fra i massi nel suo letto. Il suo corpo era acqua che scivolava indomabile sulle note della musica, le sue mani erano aria che la afferrava leggera e la faceva volare. Il fastidio causato dalle note ripetitive della salsa passò nell'istante stesso in cui il ragazzo iniziò a ballare, trascinando il corpo di lei in quella bellissima follia. Da quando i suoi piedi avevano preso il comando, i suoi occhi non la avevano lasciata per un istante. Le coppie che si agitavano intorno a i due presero a sbiadire nei contorni della sua visuale. In quel momento, esisteva solo lui. Una bellissima stella che brillava più di quanto potesse immaginare. 

 

Dopo un tempo indefinito, si avvicinarono ad un bancone e iniziarono a bere un liquido dal colore scuro in due bicchieri già presenti davanti a loro. Doveva essere scotch o rum, ma Jein non aveva mai bevuto quelle bevande in vita sua e in generale non apprezzava particolarmente l'alcol, perciò quando il liquido scuro toccò le sue papille gustative assunse le note dolci del caramello. 

 

-Allora...- iniziò Jimin, nascondendo la bocca con una sorsata. 

 

-Allora?- chiese lei osservandolo di traverso. 

 

-Ti ho portato in un posto creato da me.- disse, osservandola con attenzione. 

 

Dopo un istante in cui i loro occhi si studiarono, la ragazza appoggiò rumorosamente il bicchiere sul bancone. 

 

-E va bene, ammetto che questo sogno ha qualcosa di strano.- 

 

Dopo aver affermato ciò, si alzò e prese la mano del giovane, come aveva fatto lui in precedenza. 

 

-Ma adesso sarò io a dirigere i giochi.- 

 

Voltandosi dopo aver intravisto un'espressione confusa sul volto di lui, prese la direttiva e si avvicinò alle porte basculanti  che li avevano condotti lì. Cercò qualcosa nei recessi della sua memoria che avrebbe potuto aiutarla a decidere dove andare, ma sembrava che la sua mente fosse priva di idee. Perciò, senza riflettere, aprì le porte e si affacciò sulla scena che le si propose davanti.

 

 

*-ssi: onorifico formale generalmente tradotto in signore o signora.

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Capitolo 3
*** 3 ***


-Un...palazzo?- 

 

Non appena le porte basculanti si chiusero dietro le loro schiene, i piedi dei ragazzi si ritrovarono in un piccolo cortile circondato da mura dalle tinte cariche di rosso e arancione e tetti spioventi elegantemente incurvati. Jein si guardò intorno confusa, cercando di capire dove l'avesse condotta la sua mente, finché non fu colpita da un'improvvisa realizzazione.

 

-Ah! Perdonami, il mese scorso ho riguardato Hwarang...- disse infine, con leggero disappunto nella voce.

 

Jimin la fissò confuso, aggrottando le sopracciglia. 

 

-Che cosa intendi dire?- 

 

Lei si voltò per guardarlo con fare ovvio. 

 

-Che siamo dentro il mondo del drama, più precisamente nel palazzo reale. Guarda, c'è perfino quel gran fi... fidato ragazzo di Park Hyung-sik.- rispose indicando il ragazzo che stava velocemente percorrendo il corridoio di fronte a loro. 

 

Abbassando lo sguardo nel tentativo di mascherare l'imbarazzo, prese ad osservare i fronzoli del suo vestito mentre si stiracchiavano e si gonfiavano, assumendo la forma di una lucente gonna rosa pastello che le raggiunse i piedi. Infine, una camicia dal bordo decorato le avvolse le braccia e il petto. Quando alzò lo sguardo, vide che anche Jimin aveva trasformato il suo vestito in un hanbok tradizionale, simile a quello del ragazzo che era appena passato di fronte a loro. 

 

-Quindi... quello è il tuo tipo?- eruppe lui, facendole spalancare gli occhi. 

 

Jein, di tutta risposta, distolse lo sguardo, fingendo noncuranza. 

 

-Non ho idea di cosa tu stia parlando.- replicò iniziando a marciare per i corridoi. 

 

Dopo poco tempo passato ad esplorare le misteriose stanze di quell'immensa costruzione, emersero presso un silenzioso giardino che sembrava volersi nascondere da occhi indiscreti. Non era grande, ma proteggeva una varietà di piante che lo adornavano riccamente grazie ai loro variopinti colori, che si specchiavano sul piccolo stagno al centro. I due ragazzi rimasero ad osservare la scena incantati, ma non appena fecero un passo verso quella natura lussureggiante  una voce li pietrificò sul posto. 

 

-Voi chi siete? Che cosa ci fate qui?- 

 

Jein sentì un brivido freddo percorrerle la schiena. 

 

"Ops..."

 

Voltandosi elegantemente e sfiorando il pavimento con la sua gonna voluminosa, abbassò lo sguardo non appena incontrò la figura femminile di fronte a sé e si inchinò prontamente. 

 

-Sono una nuova dama di corte, vostra altezza, e questa è la mia guardia.- disse indicando umilmente il ragazzo accanto a sé. 

 

Lui, confuso dalla situazione, aveva finito per inchinarsi maldestramente non appena aveva visto il comportamento bizzarro della ragazza. 

 

La regina Jiso era avvolta in un lussuoso hanbok e possedeva quello stesso sguardo sprezzante che l'aveva caratterizzata in tutta la serie tv. Percorse con gli occhi i due giovani mentre una punta di sdegno iniziava a dipingerle la bocca. 

 

-Non ho richiesto nessuna dama di corte e non ricordo di averti mai vista fra le figlie delle case nobiliari a me vicine. Quindi, chi sei?- chiese la donna con trasudante sospetto. 

 

"E va bene, passiamo al piano B." 

 

Indicando un vago punto alla sua destra, la ragazza alzò lo sguardo. 

 

-Ma quello è il re!- urlò.

 

Nel momento in cui la donna distolse gli occhi da lei, Jein afferrò la mano di Jimin. 

 

-Corri!- 

 

I due ragazzi sentirono dietro di loro la voce acuta della donna che ordinava aspramente alle sue guardie di inseguirli. Il rumore di passi concitati dietro di loro spinse le loro gambe ad andare più veloci, ma per qualche motivo i loro inseguitori sembravano avvicinarsi sempre di più. La ragazza teneva ancora per mano il giovane mentre percorrevano i lunghi corridoi sotto la scarsa illuminazione, cercando di immaginare una via di fuga. 

 

-In questo momento avremmo bisogno di...- 

 

Jimin non fece in tempo a terminare la frase che i loro corpi si scontrarono contro un altro, producendo un lamento da tutte e tre le vittime. Massaggiandosi leggermente la fronte, Jein alzò gli occhi stupita dal fatto che riusciva a sentire un leggero dolore stuzzicarle il punto di impatto e incontrò un viso che la fece illuminare in un sorriso. Anche Jimin, una volta che ebbe puntato lo sguardo sul ragazzo di fronte a loro, sorrise. 

 

-TaeTae!- 

 

 

Gli occhi di Taehyung rimbalzarono ripetutamente prima su uno e poi sull'altra con una buffa espressione interrogativa. Avvolto nel viola e nell'azzurro dell'uniforme da hwarang, protese le labbra in un broncio confuso e si scostò i lunghi capelli dal viso. 

 

-Jimin, che ci fai qui?- chiese infine osservando il suo migliore amico. 

 

L'interpellato lo fissò con eccitazione crescente, prima di realizzare che i passi dietro di loro si erano avvicinati ulteriormente. 

 

-TaeTae, devi portarci fuori da qui, al sicuro.- rispose il ragazzo, sorridendo. 

 

Questo, dopo un attimo di esitazione, annuì e iniziò a fare loro strada. Nel giro di qualche istante, però, Jein si sentì sollevare da terra. 

 

-Ehi!- esclamò, iniziando a colpire la guardia che l'aveva afferrata. 

 

-Jein!- 

 

Jimin si voltò preoccupato e fece per avvicinarsi, prima di essere bloccato dalla punta di una spada. Una seconda guardia puntava l'arma al suo petto, osservandolo con fredda determinazione. Mentre le braccia di Jein venivano strette sempre di più dalla forza del suo assalitore, una lama si scontrò con quella sguainata contro il ragazzo, producendo un acuto pianto di metallo stridente. Taehyung, con un arco delle braccia, fece deviare la spada dal petto del suo amico e si pose davanti a lui, stringendo nervosamente l'impugnatura. L'avversario, per nulla impressionato, fece volteggiare l'arma producendo schegge di luce lunghe le pareti, terminando nell'addome del ragazzo. 

 

-No!- 

 

L'urlo di Jimin lo condusse in ginocchio mentre osservava l'amico iniziare a sanguinare. Questo alzò gli occhi su di lui, ansimando e gorgogliando qualche parola incomprensibile. Jein alzò un sopracciglio osservando la scena. 

 

-Jimin.- provò a dire, senza essere ascoltata. 

 

-TaeTae, resisti!- urlò il ragazzo, tamponando la ferita con le mani tremanti. 

 

-Jimin.- ripeté la giovane, alzando gli occhi al cielo quando venne nuovamente ignorata. 

 

-Jimin... voglio... voglio che tu sappia...- sussurrò Taehyung con un filo di voce, interrompendosi senza fiato. 

 

Le sue pupille sparirono dietro le sue palpebre, portando l'amico a scuoterlo disperato sull'orlo delle lacrime. 

 

-Jimin.- 

 

Il ragazzo alzò gli occhi dal giovane ferito, incontrando lo sguardo vagamente scettico della ragazza. 

 

-È un sogno. Non è morto veramente.- disse lei con tono ovvio. 

 

-Sì, ma...- 

 

Jein, senza ascoltare la replica del giovane, sfilò una mano dalla presa ferrea della guardia dietro di lei e puntò un dito verso il corpo moribondo a pochi passi da lei. 

 

-Bibidibobidibu, nel nome di Netflix, io ti resuscito!-

 

Non appena ebbe schioccato le dita, il sangue che aveva macchiato il fine tessuto della divisa di Taehyung iniziò a ritirarsi velocemente rientrando nella ferita, che si richiuse magicamente su se stessa come una zip. Alzando un angolo della bocca, si voltò verso il suo accompagnatore che osservava la scena ammirato, mentre la guardia che la teneva prigioniera si allontanava velocemente urlando qualcosa del tipo "È un demone!". 

 

-Visto?- disse lei alzando le sopracciglia. 

 

Dopo un attimo di assorta riflessione, Jimin si alzò in piedi e fronteggiò la guardia con la spada ancora sguainata e il nugolo di uomini che si erano riuniti dietro di essa. Il ragazzo, senza esitazione, si pose davanti i suoi avversari e ritirò il braccio, preparandosi a colpire. Quando spostò il pugno con i muscoli tesi atti a trasferire tutta la loro energia, Jein vide che non aveva minimamente sfiorato il suo avversario, fermandosi a diversi centimetri dal suo corpo. 

 

"Ha seriamente fatto cilecca?" 

 

Improvvisamente, un turbine di vento partì dalla mano del ragazzo colpendo in pieno viso la guardia e spazzandola all'indietro insieme a tutti gli uomini dietro di essa, che caddero uno dopo l'altro come tessere di uno sconclusionato domino. Il giovane si girò verso la ragazza con un sorriso fiero e soddisfatto, ottenendo uno sbuffo divertito. 

 

-Tu... sei un esibizionista.- disse infine lei, puntandogli un dito contro. 

 

-Disse quella che ha appena resuscitato una persona.- replicò lui, piegando leggermente la testa. 

 

Le risate dei due furono interrotte da Taehyung che, alzatosi in piedi, li aveva afferrati per le mani. 

 

-Andiamo!- esclamò con un tono da bambino emozionato. 

 

Trascinandosi dietro i ragazzi, la guida prese a correre verso una porta di legno, che fece scorrere velocemente prima di trascinarli in un ambiente buio e popolato di persone che marciavano imperterrite con degli auricolari nei timpani. 

Il ragazzo lasciò le mani dei due, che osservarono i suoi capelli accorciarsi e il suo corpo venire avvolto da una camicia ricoperta di piccoli atomi di luce e pantaloni che gli stringevano la vita. Jein si guardò intorno confusa, prima di vedere la schiena di Taehyung allontanarsi da loro e scomparire nell'oscurità. 

 

-Beh... non era esattamente questo che intendevo con "al sicuro" ma penso che possa andare.- disse Jimin con noncuranza. 

 

La ragazza si voltò verso di lui con un interrogativo negli occhi e il giovane sorrise divertito. 

 

-Ti andrebbe di diventare una star?- chiese, avvolgendo la sua voce nel mistero. 

 

Lei, presa alla sprovvista, non seppe fare altro che seguire il ragazzo che aveva preso a marciare sotto una bizzarra impalcatura di metallo, indifferente alla indecifrabile musica che bombardava l'ambiente facendo vibrare il pavimento sotto di loro. Quando emersero in uno spiazzo carico di attrezzatura e operatori pronti ad accoglierli al loro arrivo, Jimin afferrò un microfono argentato e si voltò per la prima volta verso di lei. 

 

-Blu può andare bene?- chiese, facendole sbattere le palpebre confusa. 

 

-Di cosa stai...- 

 

Prima che potesse terminare la frase, una ragazza le si avvicinò aprendo una valigetta metallica. Al suo interno, protetto da un cuscinetto scuro, si stagliò un microfono dello stesso colore del vestito che aveva indossato la prima volta che avevano ballato. Stupita, la ragazza afferrò l'oggetto studiando i piccoli diamanti che ne ricoprivano il manico, e vide l'hanbok di Jimin avvolgergli le gambe in un paio di pantaloni di pelle scura e accarezzargli le spalle prendendo la forma di una camicia dall'aspetto impalpabile. 

 

-Siete pronti?- 

 

La voce che era giunta dalle spalle di Jimin prese forma nel viso di un allegro J-hope, che emerse al suo fianco mettendole un braccio intorno alle spalle. 

 

-Non puoi salire sul palco così.- esclamò poi squadrando con schiettezza il suo vestiario, dal colletto della camicia fino all'orlo della gonna che raggiungeva il pavimento. 

 

Dopo un istante di confusione, la ragazza iniziò a capire perciò strinse il suo ingombrante hanbok in un paio di pantaloncini scuri e modellò la parte superiore in una maglia che catturava i colori intorno a sé. Hoseok fece un sorrisetto soddisfatto annuendo, mentre due fossette facevano capolino agli angoli della sua bocca. Namjoon allora si fece avanti radunando il resto del gruppo, che emerse dall'oscurità intorno a lei e la circondò, trascinandola in un cerchio. I BTS erano al completo e l'avevano letteralmente circondata. 

 

-Ok, ragazzi.- iniziò il leader. 

 

-Aspettate, ma io...- 

 

Le parole della ragazza furono interrotte dallo sguardo rassicurante di Jimin e dall'esclamazione di Namjoon, portandola a tacere. 

 

-Bangtan!- 

 

-Bang-Bangtan!- esclamò in coro il gruppo, abbassando le mani al centro del cerchio.

 

 

DUNQUE...

Man mano che scrivo questa storia, mi rendo conto che c'è molto nonsense in tutto ciò, ma penso che dato il contesto sia giustificato. Avete visto Hwarang? Se no, avete fatto fatica a capire il capitolo? Ero un po' indecisa sé adattare alcuni particolari che non coinvolgessero la trama perciò sono stata abbastanza generica. 

Come avrete notato, questa volta ho iniziato impostando sin da subito la storia con diverse descrizioni, in modo che possa essere più omogenea, spero che vi piaccia il modo in cui sono scritte.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Jein seguiva silenziosamente il gruppo di ragazzi che marciava davanti a lei, fendendo l'oscurità. La ragazza non riusciva a spiegarsi come potessero orientarsi così abilmente in quella foresta di fili, macchine e sbarre metalliche, dato che lei inciampava prontamente in ognuno di questi ogni due passi. Alla fine, giunsero su una piccola piattaforma leggermente illuminata, su cui i ragazzi si sistemarono uno accanto all'altro. Mentre in un attimo di esitazione osservava il gruppo che si disponeva in una fila ordinata, vide una mano protrarsi verso di lei. 

 

-Vieni.- 

 

Quella semplice parola uscì dalle labbra di Jimin insieme ad un misterioso sorriso e ad uno sguardo che Jein non riusciva ad interpretare. Era intenso, invitante, giocoso. Ma nascondeva qualcos'altro che la ragazza faticava ad identificare. Decise di afferrare la sua mano e si lasciò tirare sulla piattaforma sistemandosi accanto al ragazzo, che le rivolse un sorriso più ampio. 

 

-Adesso arriva la parte migliore.- disse lui. 

 

-Cioè?- chiese Jein incuriosita. 

 

-Chiudi gli occhi.- rispose semplicemente il giovane. 

 

Fermando una replica piccata sul fatto che "chiudere gli occhi" poteva non essere fisicamente possibile in un sogno, la ragazza fece come le era stato richiesto. Percepì il movimento della piattaforma sotto di sé che si sollevava velocemente e, man mano che essa si avvicinava al suo obbiettivo, Jein poté sentire un'ondata di suoni raggiungerla sempre più distintamente. Poi, una voce le scivolò nell'orecchio facendo involontariamente irrigidire il suo corpo. 

 

-Ora... aprili.- 

 

Quando lo fece, la ragazza rimase senza fiato. Davanti a sé un mare di luci e di vita si agitava creando onde, increspature e maree. Quel mare, pulsante di energia e di eccitazione, le diede una scossa che le pervase la mente e i muscoli.

 

-Questo è il mio momento preferito.- sentì dire al ragazzo di fianco a lei. 

 

Jein osservava ancora incredula lo spettacolo che si dispiegava davanti a sé, cercando di spingere la vista in ogni angolo per poter vedere l'estensione di quell'oceano incontenibile. 

 

Non aveva mai assistito ad un concerto. Non poteva permettersi di spendere così tanti soldi per un suo capriccio, anche se aveva l'ardente desiderio di poterne vedere uno almeno una volta nella vita. Quel mondo di luci e rumori però andava ben oltre le sue aspettative. 

 

Lo stato ipnotico in cui era caduta durante la sua contemplazione fu interrotto dal ragazzo che la trascinò sul palco. 

 

-Forza, adesso inizia il divertimento!- 

 

Jein si bloccò sul posto, alzando un sopracciglio con una punta di preoccupazione. 

 

-Ovvero?- 

 

Jimin, vedendo la sua espressione, emise una risatina acuta prima di avvicinarsi a lei senza lasciare i suoi occhi. 

 

-Somebody call me right one-

 

La voce del ragazzo la trascinò in punta di piedi in un mondo fatto di armonia, in cui la musica scivolava nell'aria avvolgendo ogni cosa.

 

-Somebody call me wrong- 

 

Una risata sguaiata interruppe l'ultima parola quando Jungkook comparve alle spalle del ragazzo, colpendolo leggermente nel collo. 

 

-Ehi, mi hai rubato la strofa!- esclamò il più giovane, fintamente offeso. 

 

Mentre Jein sorrideva leggermente di fronte alla scena, i bassi iniziarono a rimbombare facendo vibrare ogni cosa intorno a lei, dal pavimento all'aria fino alle persone stesse. La ragazza poteva sentire le onde sonore entrarle sotto la pelle, penetrarle nel cuore, facendolo battere più velocemente, e facendole esplodere le fibre nel corpo. 

 

Si guardò intorno spaesata, in quel paesaggio a lei sconosciuto e verso il quale non sapeva che sentimenti provare. 

 

Mentre la canzone continuava ad elettrizzare l'aria, il ritornello iniziò e i ragazzi presero a saltare sul palco.

 

-So what- 

 

La musica era salita ancora più di intensità, trasformando il mare di luci in un'estensione della melodia stessa. 

 

-Andiamo!- 

 

Jimin l'aveva presa per mano e la incitava a saltare con lui, ma lei lo guardò cercando di mascherare l'insicurezza.

 

-No, io non canto.- affermò con fermezza, agitando la testa. 

 

Il ragazzo allora avvicinò il viso al suo, implorandola con un broncio infantile sulle labbra. Poi, vedendo che la sua strategia non aveva effetto, convertì la sua espressione. 

 

-Te l'ho detto. Lasciati andare.- disse in un sussurro. 

 

Jein deviò lo sguardo combattuta. Sentiva l'energia e l'eccitazione dentro di sé che urlavano per poter essere rilasciate, tirandole i muscoli e facendole battere il cuore. Allo stesso tempo, però, aveva timore. Non le piaceva lasciarsi andare di fronte agli altri. Spesso aveva l'impressione che mostrare se stessa, la vera se stessa priva di freni e di inibizioni, avrebbe allontanato le persone da lei. Non era pronta a spogliarsi di fronte al mondo della veste che aveva finemente intessuto nel corso degli anni. 

 

"È solo un sogno. Perché ti fai tanti problemi?" 

 

Era solo un sogno. Eppure lo sguardo della persona di fronte a sé era pesantemente reale. La sua presa era fastidiosamente estranea a quel mondo fittizio. Era calda, concreta, fisica. La faceva sentire a disagio, come quando doveva interagire con le persone nel mondo reale. Ma quella stessa presa la invitava anche a sé con una gentilezza che stava lentamente sciogliendo la veste con cui si era coperta. Perciò, mentre riconosceva le strofe che si dispiegavano nell'aria, alzò il microfono davanti alla bocca. 

 

-We are, we are, we are

Young and wild and free- 

 

Con un sorriso, la voce di Jimin si sovrappose alla sua, leggermente tremante. 

 

-Preoccupazioni, preoccupazioni senza riposte 

Non fanno parte di tutto ciò- 

 

Mentre acquistava più confidenza, le parole scivolavano via dalle sue labbra sempre più fluidamente e sentì il gruppo di ragazzi avvicinarsi a lei. Quando il ritornello riprese, anche lei iniziò a saltare sul palco, lasciando che la musica muovesse i suoi muscoli e agitasse il suo corpo. Senza preoccupazioni, senza freni. 

 

Solo musica, luci e vibrazioni. 

 

 

Quando la canzone terminò, l'eccitazione scemò leggermente facendo rallentare i corpi sul palco. Jein, comunque, non riusciva a smettere di sorridere anche mentre Jin le si avvicinava, appoggiandosi poi scherzosamente sulle sue spalle. 

 

-Quindi... Do you know BTS?- chiese lui con trasudante confidenza.

 

Mentre la ragazza scoppiava fragorosamente a ridere, vide Jimin spalancare gli occhi. 

 

-Cavolo!- esclamò, portandosi una mano davanti alla faccia. 

 

La giovane lo guardò confusa mentre lui assumeva un'espressione sconfortata. 

 

-Non ti ho neanche chiesto se sei una nostra fan. Ho semplicemente pensato che lo fossi e ti ho trascinata qui.- continuò lui con tono grave. 

 

Jein, nascondendo una smorfia divertita, prese a marciare verso il ragazzo, alzando il microfono davanti a sé. 

 

-Già. Avresti dovuto chiedermelo.- replicò lei, alzando le sopracciglia.

 

A quelle parole, gli occhi di Jimin si incurvarono sotto una preoccupazione che mutò velocemente in confusione non appena vide la ragazza alzare il pugno al cielo e gonfiare le guance. 

 

-Waiting for you, Anpanman- 

 

Il ragazzo crollò letteralmente a terra in preda alle risate non appena sentì il modo in cui Jein aveva buffamente ingrossato la voce per iniziare la strofa, dando vita alla nuova canzone che rianimò l'energia nell'aria. Ancora sdraiato a terra, Jimin osservò la giovane che lo guardava con una smorfia soddisfatta sul volto, prima di unirsi a J-hope ed iniziare a ballare. I due scivolavano sul palco intervallando occasionalmente la coreografia con mosse "ad effetto", in cui mettevano in mostra muscoli inesistenti, o preparandosi a volare in pose aerodinamiche. Il ragazzo rimase ad osservare la scena e il sorriso di lei e per qualche motivo riuscì ad alzarsi solo all'inizio del ritornello, unendosi allo sconclusionato gruppo di supereroi a cui, nel frattempo, erano spuntati mantelli svolazzanti. 

 

Una canzone dietro l'altra, Jein aveva abbandonato sempre più il suo corpo e la sua anima alla musica, lasciando che essa fluisse dentro di sé insieme al suo sangue. Aveva concesso a se stessa di essere la ragazza spensierata che aveva sempre desiderato essere. Quella ragazza che aveva sempre represso e incatenato dentro di sé, impedendole di vivere la sua giovinezza. 

 

"Non ho tempo per questo."

 

"Ho cose più importanti a cui pensare."

 

Pensieri come quelli si ripetevano nella sua testa ogni qual volta quella ragazza chiedeva di uscire, tirando le catene che la tenevano prigioniera e urlando per poter essere liberata. 

 

 

I due ragazzi si abbandonarono sul palco, stravaccandosi per terra mentre la musica si addormentava e la folla intorno a loro si acquietava. Con un sorriso che gli sollevava gli zigomi fino agli occhi, Jimin si voltò a guardare la giovane. 

 

-E adesso?- chiese. 

 

Mentre Jein metteva in subbuglio la mente per decidere cosa fare, il canto soave di un pianoforte riempì l'aria, attirando la loro attenzione. Le note di Epiphany presero a riscaldare dolcemente l'atmosfera, appoggiandosi sulle loro orecchie leggere come farfalle; poi, gli schermi si aprirono rivelando Jin. In piedi con in mano il microfono e un'espressione assorta che gli indugiava negli occhi, iniziò a intonare la prima strofa della canzone. Dimenticandosi della domanda postale, Jein si perse nelle parole iniziando a affogare in quella dolce melodia. 

 

-I'm the one I should love 

In this world

Quel me così luminoso, la mia anima preziosa-

 

La ragazza sentiva gli occhi pizzicare ma sapeva che non avrebbe pianto. Non lo faceva mai, neanche nei sogni. 

 

-Io così imperfetto, eppure così bello

I'm the one I should love- 

 

Si era accorta di aver perso se stessa in quelle parole, ma non riusciva a ritornare. La sua anima vagava in anfratti di sé che si risvegliavano solo in rare occasioni, era persa in un viaggio impervio nel quale era difficile orientarsi. Ritrovare la strada di ritorno era quantomeno difficile, se non impossibile. Quando la pioggia intorno a Jin si fermò e prese a ripercorrere il suo cammino verso il cielo, il cuore della ragazza pulsava di dolore e di aspettativa per i versi finali. Gli occhi del cantante, però, si aprirono e si incastrarono nei suoi. Le sue labbra si schiusero ma non liberarono quella melodia imprigionata. Emisero, invece, un verso di schermo dal tono vagamente crudele. 

 

-Chi vuoi prendere in giro?-

 

Quelle parole perforarono le orecchie di Jein, dandole l'impressione che potessero sanguinare da un momento all'altro. Gli schermi intorno al giovane amplificarono la sua presenza imperiosa, proiettando tre paia di grandi occhi dominati da una luce accusatoria. Quegli occhi la fissavano come un rapace che pregustava la sua preda, consapevole che non aveva via di scampo. 

 

-Non illudere te stessa. Non cullarti in queste bugie. Tu sai la verità. Il fatto che la persona che più odi al mondo sei...- 

 

Quelle parole trasudanti di disprezzo furono bruscamente interrotte, lasciando una breve eco nell'aria. Jin era sparito, insieme a tutto il resto intorno a lei. Al posto di lui, degli enormi schermi e del mare di luci c'era solo oscurità. Ma era un'oscurità stranamente rassicurante, come una coperta avvolta intorno alle spalle in una giornata fredda. Quella coperta, si accorse, erano delle braccia che la stringevano per fermare il tremore del suo corpo. 

 

-È finito. È andato via.- 

 

La voce di Jimin la riportò alla realtà, in cui si ritrovò seduta su un palco vuoto e privo di pubblico fra le braccia di un ragazzo. Per un momento, si chiese se era stato lui a fare sparire quell'incubo. Poi, alzando lo sguardo, lo ringraziò con un sussurro, allontanandosi timidamente da lui. L'imbarazzo e l'umiliazione le bruciavano la mente facendole abbassare gli occhi. In quei terribili istanti era stata completamente inerme e indifesa. Era stata nuda davanti ad una persona a cui non voleva mostrare così tanto di se stessa. Era stata disposta a sollevare leggermente la veste che la nascondeva ed il risultato era stato quello. Vedere strappata la protezione che si era costruita con tanta fatica e venire esposta per quello che era. 

 

"È solo un sogno."

 

Giusto, doveva ricordarlo a se stessa. 

 

"È solo un sogno, basta!" 

 

I suoi pensieri cessarono improvvisamente quando si accorse di non essere più seduta sul palcoscenico solitario. Era sospesa all'interno di qualcosa. 

 

"Una bolla?"

 

La ragazza perlustrò scioccata la sottile patina che la circondava, trasformando il mondo attorno a sé in un ammasso traslucido e sciolto su se stesso. 

 

-Andiamocene.- disse il ragazzo semisdraiato accanto a lei in quella bizzarra forma di trasporto. 

 

-Andiamo in un posto che ti rende felice.-

 

 

POVERO JIN

Sono un po' crudele. Ho affidato al nostro coccoloso fratellone un compito ingrato in questo capitolo. Tenete presente, però, che questo è solo un sogno. Tutto ciò che i protagonisti vedono e sentono è una proiezione della loro mente. Alcune di queste cose hanno anche un significato simbolico, ma lo vedrete meglio più avanti. 

 La teoria su cui ho costruito questo sogno comunque è quella di Freud, togliendo i dettagli porci (perché il caro Freud era un gran bel pervertito, ve lo dico io). Se siete interessati a scoprire di più scrivetemi in privato e vi farò un breve recap della sua teoria psicologica. Assomiglia a quella di Jung su cui si sono basati per fare Map of the soul, ma ha alcuni punti di differenza, che incontrerete più avanti nella trama.

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Capitolo 5
*** 5 ***


Andiamo in un posto che ti rende felice. 

 

Jein non era sicura di sapere cosa questo volesse dire. Non che non fosse mai stata felice in vita sua, ma non riusciva ad associare un posto fisico a quel sentimento. Con gli anni, aveva imparato a ritagliarsi piccoli istanti di felicità con semplici cose, ovunque fosse.

 

Mentre la bolla si sollevava dolcemente per aria, facendo fluttuare i loro corpi sopra quel paesaggio buio e deserto, la ragazza lasciò che fosse la sua mente a decidere cosa significava "un posto che ti rende felice" per lei. E chiuse gli occhi. Quando sentì la bolla adagiarsi su un terreno umido e dissolversi nel nulla, li riaprì per accogliere con lo sguardo ciò che la attendeva. 

 

Davanti a lei si dispiegò una competizione di colori, che sembravano lottare per la propria supremazia. L'immenso azzurro del cielo si scontrava con il vivido verde dei campi, che si mescolava con il giallo allegro, il rosso sfacciato, il rosa e il blu dei fiori. Mentre gli occhi di Jein si saziavano di quel banchetto di colori, la sua pelle veniva sfiorata da una brezza gentile e appena accennata, che le scostava i capelli dal viso pettinandoli dolcemente all'indietro. Essa trasportava nell'aria il profumo di ogni fiore, che si mescolava in un'armonia che sapeva di fresco e di primavera. 

 

Forse, quello non era il luogo che la rendeva più felice sulla faccia della terra. Ma la ragazza pensò che ci andasse molto vicino. Crescendo in mezzo ai giganteschi alberi di cemento e ai campi di asfalto di Seoul, non aveva avuto molte opportunità di stare in mezzo alla natura e spesso guardava immagini di quella creatura selvaggiamente libera con un po' di desiderio. Forse era per quello che si trovava in quel posto. 

 

Con la vista appagata, si sdraiò sul terreno leggermente umido sentendo i fili d'erba che le solleticavano le guance e puntando lo sguardo sulle nuvole, che viaggiavano lentamente lungo la volta celeste. Jimin la raggiunse poco dopo, ponendo le mani dietro la testa e prendendo a contemplare a sua volta l'azzurro accecante del cielo. 

 

-Ottima scelta.- disse semplicemente il ragazzo. 

 

Jein non rispose. Rimase in silenzio focalizzandosi sull'ambiente circostante e non sulla persona accanto a lei. Quando riportava la sua attenzione al ragazzo, il senso di imbarazzo tornava su di lei stritolandole la gola. Voleva scrollare via  quella sensazione dal suo corpo e soprattutto cacciarla dalla sua mente, ma era faticoso. Sembrava che le restasse appiccicata addosso come un morbo, pronto a strapparla della sua dignità. 

 

"Basta." 

 

Lo ripeteva a se stessa. Tutti quegli stupidi pensieri erano ridicoli. Nonostante ciò, non riusciva ad abbatterli. 

 

-È un posto in cui sei stata?- 

 

La voce del ragazzo la raggiunse come un sussurro, come se avesse timore di emettere anche solo una parola. Quando vide che la sua interlocutrice si ostinava a non rispondere, emise un breve sospiro. 

 

-No.- 

 

Quella breve risposta riaccese le speranze di Jimin, che si voltò cautamente verso di lei in attesa che continuasse. 

 

-Penso... di averlo visto da qualche parte su qualche rivista... o su internet... è solo un posto che trovo rilassante.- 

 

A quelle parole, Jimin rispose con un timido sorriso. Restando in silenzio, indugiò qualche istante sul viso della ragazza, soffermandosi sui suoi occhi tormentati. Anche davanti a tanta serenità, avevano ancora quella luce turbata e insicura che le dava un'aria da animale impaurito. 

 

-Che cosa fai nella vita?- chiese lui di punto in bianco. 

 

Jein, presa alla sprovvista, si voltò a guardarlo corrugando le sopracciglia. 

 

-Intendo... che lavoro fai. Fuori da... tutto questo.- aggiunse il ragazzo, distogliendo lo sguardo da lei e puntandolo sull'ambiente circostante. 

 

La giovane esitò per qualche istante, continuando a guardare Jimin. Poi, piegò gli angoli della bocca in una smorfia. 

 

-Faccio un lavoro molto emozionante e di grande rilevanza.- rispose infine con tono carico di sarcasmo. 

 

-Ma davvero?- replicò il giovane con curiosità e un leggero divertimento nella voce. 

 

Jein sollevò le sopracciglia con enfasi e un'espressione ironica dipinta negli occhi.

 

-Proprio così. Ho l'importantissimo compito di assegnare appuntamenti a persone che devono farsi trapanare i denti.- 

disse caricando la voce sulle ultime parole. 

 

Jimin emise una breve risata davanti all'espressione della ragazza e si appoggiò sul fianco per osservarla. 

 

-Immagino che... ti piaccia molto il tuo lavoro.- disse cautamente lui. 

 

Davanti a quell'affermazione, Jein emise uno sbuffo divertito. 

 

-Diciamo che fare la segretaria in uno studio dentistico non era esattamente... il mio lavoro dei sogni.- 

 

La ragazza prese una pausa, riportando alla mente le lunghe ore di telefonate intervallate da pazienti sofferenti, tirchi e lamentosi. Dopo aver rilasciato un sospiro, proseguì. 

 

-Ma è un buon lavoro ed è ben pagato.- aggiunse semplicemente. 

 

"Ed era uno dei pochi che accettava gente non laureata." pensò con una punta di amarezza. 

 

-Dunque...- 

 

Le parole di Jimin furono tagliate da una melodia. I due ragazzi si pietrificarono sul posto, puntando lo sguardo intorno a sé. 

 

-Che cos'è?- chiese lui, passando al vaglio il paesaggio. 

 

Una voce. O almeno questo era quello che sembrava, non era chiaro alle orecchie della ragazza. Giungeva lontana, come gli ultimi sospiri di un'eco morente. Era confusa, intermittente e scivolava via con il vento. Doveva essere parte di una canzone ma faticava a coglierne le parole o i contorni della melodia. 

 

-Sembra...- Jimin iniziò a sussurrare per paura di sovrastare la voce ma essa, così come era arrivata, cessò velocemente trasportata via dal vento. I due ragazzi tennero lo sguardo intorno a sé con circospezione, ma il paesaggio sembrava essere tornato muto. 

 

-Cosa stavi per...- 

 

Questa volta, le parole di Jein furono interrotte da un fruscio basso che giungeva dal terreno. Abbassando lo sguardo, la ragazza osservò il punto da cui era giunto il rumore, indietreggiando lentamente. Poi, dall'erba fece capolino una piccola creatura. 

 

-Che... che cos'è?- 

 

Scoppiando a ridere, Jein si accorse che il ragazzo era già scattato in piedi e si riparava dietro al suo corpo. Afferrando la creatura che si era avvicinata con curiosità a lei, annusandole le gambe e solleticandole con il suo piccolo naso umido, si voltò verso il ragazzo. 

 

-Attento! È...- esclamò alzando il piccolo corpo davanti al volto di Jimin, che si ritrasse velocemente. 

 

-...un ferocissimo gattino!- concluse ridendo sonoramente alla vista del giovane caduto per terra, che tentava di allontanarsi da lei. 

 

 

-Lasciali fare. Non ti fanno del male.- ripetè Jein per la terza volta. 

 

Jimin, sordo ai suoi consigli, continuava a ritrarre le mani dai piccoli felini che si avvicinavano a lui, studiandolo con curiosità. Il primo gattino che era arrivato, addormentato sul grembo della ragazza, era stato seguito da altri cinque compagni che avevano marciato con decisione verso di loro, tentando di scalarne le gambe come se fossero insormontabili montagne. Mentre due delle creature avevano preso a saltellare lungo il corpo di Jein, mordicchiandole occasionalmente le dita e i vestiti con il loro principio di zanne, le altre tre avevano accerchiato il ragazzo, rendendolo diffidente. 

 

-Io sono più un tipo da cani.- replicò lui, squittendo leggermente quando uno dei gattini si aggrappò con le unghie alla sua camicia. 

 

Jein, davanti a quella vista, ridacchiò sommessamente prima di riportare lo sguardo al cucciolo sulle sue gambe e passando le dita sul suo piccolo muso. Quando i piccoli assalitori si allontanarono infine dal ragazzo ritornando a nascondersi fra gli steli d'erba, tirò un sospiro di sollievo e guardò con circospezione le creature rimaste. 

 

-I cani sono molto più tranquilli e affidabili.- affermò lui con determinazione. 

 

La ragazza scosse la testa con un sorriso rassegnato, senza sollevare lo sguardo dal piccolo addormentato. 

 

-Come dici tu, Jimin.- disse con leggerezza. 

 

Quando non udì nessuna replica piccata, Jein pensò che finalmente il ragazzo stesse cambiando idea. 

 

-Jein.- 

 

Il tono preoccupato del suo interlocutore le fece alzare lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi spalancati davanti a sé. 

 

-Ehm... abbiamo un problema con i tuoi amici felini.- aggiunse lui con un cautela. 

 

La giovane allora decise di puntare lo sguardo su ciò che stava guardando Jimin e allora spalancò gli occhi a sua volta. 

 

-Wow...- fu semplicemente in grado di dire. 

 

Tre tigri procedevano verso di loro lentamente, con le orecchie allerta e i baffi protesi in avanti. Mentre Jein cercava di dare un senso a quella vista, il piccolo che stava sulle sue gambe e gli altri due che giocavano intorno a lei si allontanarono dal suo corpo, raggiungendo i tre predatori. La ragazza vide i piccoli corpi gonfiarsi e ingrossarsi tingendosi di arancione e striandosi di nero mentre le zampe si allungavano e i denti si affilavano. Quando il loro corpo fu completamente mutato, si girarono verso i due umani e si unirono alla marcia dei grossi felini. 

 

-Ragazzi, siete tanto belli ma... vi preferivo in formato appartamento.- disse Jein con un leggero nervosismo nella voce. 

 

"Niente da fare."

 

Non riusciva a modificare gli animali né a farli scomparire. Decise, allora, di alzarsi lentamente e iniziare a indietreggiare un passo alla volta, seguita da Jimin che non perdeva di vista il gruppo di tigri. Questi si avvicinavano sempre più a loro, con ringhi bassi e sguardi affamati. 

 

-Ehm... dunque, qual è il piano?- chiese il ragazzo in un sussurro acuto. 

 

Jein si guardò velocemente attorno, cercando una via di fuga. 

 

-Allora... abbiamo due opzioni. O, date le tue riscoperte doti da Super Sayan, provi a cimentarti come domatore di tigri oppure...- 

 

-Scelgo l'altra opzione.- replicò velocemente Jimin. 

 

-Bene, allora... corri!- 

 

Al grido di Jein, i due ragazzi si voltarono e iniziarono a discendere la collina erbosa, calpestando i fiori che li frustavano le gambe. Sentivano i ruggiti arrabbiati dei loro inseguitori, ma non si voltarono per controllare quanto fossero vicini.

 

"Una via di fuga... ci serve una via di fuga!" pensava febbrilmente la ragazza, voltandosi in cerca di idee. 

 

-Laggiù!- 

 

Jein voltò lo sguardo nella direzione indicata da Jimin e vide una piccola capanna di legno, che spuntava come un fungo in mezzo ai fiori. Quando la ragazza annuì dirigendosi verso il piccolo rifugio lui le afferrò la mano, tirandola affinché corresse più veloce. Il gruppo di tigri continuava a tallonarli, percorrendo a grandi falcate il sentiero del loro inseguimento con le mandibole spalancate e gli artigli protesi. 

 

Nello slancio della discesa e della corsa, il corpo del ragazzo si scontrò pesantemente contro la porta, prima di afferrarne la maniglia e spalancarla. Jimin si infilò senza esitazione nell'ingresso trascinando Jein dietro a sé. Non appena la ragazza ebbe messo piede all'interno, chiuse violentemente la porta, abbandonandocisi contro e scivolando a terra. 

Jein, invece, rimase in piedi osservando l'ambiente circostante. 

 

-E adesso... dove siamo finiti?-

 

 

BOOM BABY!

E sono già qua con il quinto capitolo! Miss corona mi permette di aggiornare abbastanza frequentemente, in più volevo avere cinque capitoli per poter iniziare un po' di scambi di letture. 

Non so perché, questo capitolo mi sembra un po' noioso. Boh, sarà che a parte la scena finale non succede granché e l'avevo programmato in modo diverso. Va beh, al prossimo ci saranno più novità.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Non appena si ritrovò all'interno di quella che doveva essere una capanna, Jein alzò gli occhi e incontrò se stessa. Il suo riflesso la osservava con palese confusione nello sguardo e si voltò all'indietro nello stesso momento in cui lo fece la ragazza. Alle sue spalle, incontrò un'altra immagine di sé. Questa, però, era bizzarramente compressa verso il basso, facendole assumere le sembianze di un cerchio. Jein alzò un sopracciglio e fece una giravolta. 

 

La stanza era tappezzata del suo riflesso. Una decina di immagini di lei si guardava intorno con circospezione, si allungava e si abbassava, si piegava in onde impossibili e camminava sul soffitto.

 

-Che posto è questo?- 

 

Quando Jimin si fu alzato ed ebbe raggiunto il suo fianco, le immagini raddoppiarono. 

 

-Penso che sia un labirinto di specchi.- rispose infine Jein, con tono sommesso. 

 

Il ragazzo, osservando l'ambiente con le labbra dischiuse, si avvicinò ad uno specchio alla sua destra. La giovane si voltò a guardarlo e lo vide scuotere la testa davanti alla sua immagine. Emettendo una risatina acuta, Jimin prese a piegare e stendere le gambe, studiando attentamente come il suo riflesso lo imitava schiacciandosi verso il basso fino a diventare un disco ed estendendosi verso l'alto, allungando il collo. 

 

Jein, trattenendo una risata, gli si avvicinò lentamente e spuntò alle sue spalle. 

 

-Hai la faccia di un bradipo e le gambe di uno struzzo.- disse in un sussurro all'orecchio del ragazzo. 

 

-Ehi!- replicò lui, voltandosi verso di lei con gli occhi spalancati. 

 

La ragazza, dandogli le spalle per nascondere la smorfia divertita che si era incatenata alle sue labbra, prese a marciare verso un'apertura fra due specchi. 

 

-Forza, usciamo di qua.- 

 

 

Jein aveva parlato troppo presto. Guardava impaziente ogni angolo che voltava nella speranza di vedere un paesaggio differente dall'infinta replica di se stessa, ma puntualmente veniva delusa. Più andava avanti e più aveva l'impressione  di addentrarsi nelle viscere di quel labirinto di vetro e riflessi. 

 

-Jein, aspettami!- 

 

La voce di Jimin la fece voltare, distogliendola dal suo obbiettivo. Tre immagini del ragazzo correvano in tre direzioni diverse e la giovane si ritrovò a domandarsi quale delle tre fosse l'originale. La risposta sbucò inaspettatamente da dietro un angolo fra due specchi concavi e si schiantò contro la superficie di fronte a sé. 

 

Jimin emise un verso di dolore portandosi la mano al naso e guardandosi intorno disperatamente. Jein decise di avvicinarglisi, ridendo sommessamente. 

 

-Hai preso una bella botta.- disse, osservando il punto di impatto. 

 

Il ragazzo la guardò contrariato, corrugando le sopracciglia in una smorfia indecisa fra la sofferenza e il fastidio. 

 

-Avevo visto il tuo riflesso perciò ti ho seguito. Non avevo capito che era uno specchio.- mormorò, con tono stizzito. 

 

La giovane allora, con un accenno di divertimento ancora esitante sulle labbra, prese per mano Jimin e iniziò a ripercorrere il labirinto in cerca del suo obbiettivo. 

 

-Ma guarda un po'... da quanto tempo.- 

 

 

Una voce familiare eppure spaventosamente estranea le provocò un brivido lungo la colonna vertebrale. La sua marcia era stata bruscamente interrotta dal ragazzo dietro di sé, che si era bloccato sul posto tirando la sua mano. Anche senza vederlo, Jein sentiva la rigidità del suo corpo dai tendini tesi e la stretta nervosa. Trattenendo quella mano leggermente tremante, la ragazza si voltò. 

 

Quello che incontrò fu Jimin che guardava il suo riflesso. Quest'ultimo, però, non era come gli altri. Era Jimin, ma era un Jimin più giovane, con le guance più scavate e gli occhi intrisi di sadica ironia. Stretto nei suoi abiti di broccato che ne assottigliavano la figura già assai magra, fissava il suo possessore con sufficienza e una vago senso di superiorità. Infine, emise un sospiro fintamente affranto. 

 

-È un po' di anni che non ci vediamo, non è vero?- chiese l'immagine, assottigliando gli occhi. 

 

-Vedo che hai preso peso.- aggiunse, pugnalando con lo sguardo ogni centimetro del corpo di fronte a sé. 

 

-Come vanno le cose da quando ti sei liberato di me?- chiese abbassando la voce e piegandosi in avanti. 

 

-Sei diventato più bravo? Più bello?- proseguí, chinando il capo di lato. 

 

Jein si chiese se Jimin stesse respirando. Lo vide fissare quel mostro davanti a sé con le pupille tremanti e incapaci di sostenere lo sguardo dell'avversario, mente il terrore gli serrava le labbra e trasformava il suo corpo in cemento. 

 

Pesante, immobile cemento. 

 

Il riflesso, davanti a quel mutismo tormentato, emise un verso di scherno prima di protendersi in avanti. Dalla superficie vetrosa, sotto allo sguardo carico di orrore della ragazza, emerse una pallida mano inanellata. Essa percorse un lento viaggio che terminò sul collo del ragazzo. Lo accarezzò con una dolcezza nauseante e gli avvolse attorno le dita, provocando una scarica di adrenalina nelle vene di Jein. 

 

-Sei sicuro di non aver bisogno di me?- disse quella voce infidamente setosa. 

 

Prima che potesse capire quello che stava facendo, il corpo della ragazza aveva già agito. La sua mano aveva afferrato quella fredda che avvolgeva il collo di Jimin, allontanandola dal ragazzo. 

 

-Chiedo scusa ma... dobbiamo andare.- 

 

Quella frase, emessa in un fiato, si spense velocemente mentre la ragazza prendeva a correre, trascinando il pesante corpo del ragazzo. Voltandosi per guardarlo, vide i suoi arti ancora rigidi che avevano difficoltà a stare dietro alla sua corsa. I suoi occhi però erano la cosa che fece preoccupare di più Jein. Erano terrorizzati. Sembravano quelli di un bambino perso e solo, lontano dai suoi genitori e con lo sconforto di chi non ha idea di come trovare la strada di casa. 

 

"Facci uscire da qui! Ti prego!" 

 

Jein non sapeva a chi fosse rivolta la sua supplica. A se stessa forse. O al sogno. Nonostante ciò, pregò , implorò dentro di sè che quell'incubo cessasse. Con uno schianto che le trapassò i timpani, la sua preghiera fu soddisfatta. Disperdendo i loro riflessi in piccoli frammenti, gli specchi si sbriciolarono su stessi aprendo la strada ad un cielo in bilico fra il pomeriggio e la sera. 

 

La ragazza smise di correre e si guardò intorno, sospirando sollevata. Nel momento in cui i suoi occhi incontrarono una grande ruota panoramica che si accendeva di rosso e giallo come un fuoco d'artificio, l'odore stuzzicante di popcorn e zucchero filato le riscaldò il cuore. Dopo aver passato lo sguardo sul treno carico di persone in estasi, sui piccoli razzi che immergevano in acqua bambini eccitati e su una gigantesca tavola imbandita con tazze volteggianti, si fermò su una giostra che riecheggiava di memorie della sua infanzia. Senza dire una parola, prese a marciare trascinando il ragazzo, che si guardava intorno intontito da luci e colori. Quando giunse al suo obbiettivo, si voltò finalmente verso di lui, rivolgendogli un sorriso misterioso. 

 

-Sei mai salito su questa?- 

 

Jimin alzò gli occhi sulla grande torre a cui era appesa una fila di seggiolini, sospesi da catene dall'aspetto non troppo resistente. Scuotendo il capo, corrucciò le sopracciglia in una smorfia preoccupata quando Jein lo fece sedere su uno dei sostegni e lo chiuse dietro ad una piccola sbarra. Masticando qualche protesta, la seguì con lo sguardo mentre si sistemava nel seggiolino dietro al suo. Dopo averla vista abbassare la sbarra sul suo grembo, guardò con curiosità i suoi piedi che a piccoli passettini si avvicinavano a lui. Infine, la ragazza lo raggiunse afferrando lo schienale metallico a cui era appoggiato. 

 

-Ti faccio vedere come funziona.- disse Jein con una smorfia convinta. 

 

Non appena terminò di parlare, una campana riecheggiò sgraziatamente e la torre prese a girare facendo sollevare i seggiolini in aria. Jimin osservò i suoi piedi staccarsi da terra e rimanere sospesi nel vuoto, mentre l'aria incontrava il suo viso sempre più velocemente. Quando la giostra si stabilizzò, Jein vide il ragazzo sorridere debolmente, facendo molleggiare le gambe e socchiudendo gli occhi. 

 

-Adesso inizia il vero divertimento.- gli sussurrò allora lei, facendogli spalancare gli occhi. 

 

-In che s...- 

 

Jimin non ebbe modo di finire la frase, perché la ragazza aveva già stretto sotto le dita lo schienale del suo seggiolino e lo aveva lanciato verso l'esterno, facendolo sollevare più in alto di tutti. Scoppiò fragorosamente a ridere quando sentì la voce del ragazzo convertirsi rapidamente in un urlo, che aumentava di intensità man mano che ritornava verso di lei. 

 

-Jeiiiiiii...- 

 

La giovane era arrivata a lacrimare dalle risate quando il grido del ragazzo si allontanò nuovamente insieme al seggiolino, che aveva preso a ciondolare a destra e a sinistra come un pendolo. 

 

-Fammi scende...- 

 

Jein, ancora in preda alle risate, fece fermare lentamente la giostra, mentre il ragazzo davanti a sé tornava in posizione perpendicolare. Quando i loro piedi toccarono di nuovo il terreno, Jimin si alzò rapidamente dal supporto, contorcendosi come un'anguilla per liberarsi della sbarra che lo tratteneva. Si voltò per guardare la ragazza, che dovette soffocare un'altra risata davanti alla sua espressione carica di furia omicida e terrore di morire. Nei suoi occhi, però, uno strato di quel terrorizzato smarrimento era scomparso, lasciandogli lo sguardo più limpido. 

 

-Tu...- iniziò il giovane, puntandole un dito contro. 

 

Lei alzò le sopracciglia incrociando le braccia al petto, incoraggiandolo silenziosamente a terminare la frase. Jimin, invece, prese la sua mano e iniziò a camminare dandole le spalle. 

 

-Adesso scelgo io.- disse semplicemente. 

 

 

Jein non sapeva per quale motivo si ritrovava seduta su un cavallo di plastica che trottava lentamente in tondo, circondato da altri piccoli animali dalle tinte pastello, incastrati come lui in quella giostra rotante. Nonostante ciò, si ritrovò a fissare il ragazzo seduto accanto a lei che sorrideva con tanta innocenza sul suo nobile destriero azzurro, mentre lo incitava con un energico: "Vai Chicorita!" 

 

Quella vista fu talmente assurda e divertente da permetterle di ignorare perfino quel fastidioso organo che risuonava ripetutamente nell'ambiente. 

 

-Sembri un bambino, lo sai, vero?- disse infine Jein, scuotendo il capo con divertimento. 

 

Jimin si voltò a guardarla con un'espressione platealmente offesa sul viso. La sua piccata replica però non ebbe modo di nascere. Improvvisamente, infatti, i due ragazzi si ritrovarono sbalzati in avanti mentre le loro cavalcature prendevano velocità. La giovane abbassò gli occhi e vide che sotto di sé non c'era più un'inerme creatura di plastica. Afferrando la criniera scura e folta fra le dita, osservò ammirata i muscoli dell'animale che la stava trasportando e strinse le gambe per non cadere. 

 

Affianco a lei, sentì una sequela di lamentele che le provocarono una risata selvaggia e, voltandosi, vide Jimin guardare terrorizzato il cavallo che galoppava elegantemente, facendolo sobbalzare sulla sella. 

 

-Jein! Che facciamo? Come si fermano?- chiese il ragazzo, con panico trasudante nella voce. 

 

La giovane allora lo guardò alzando le spalle e scuotendo i capelli per aria, imitando la creatura sotto di lei. Riportando lo sguardo al suo pelo sottile e lucente, gli accarezzò dolcemente il collo, percependo ogni fibra muscolare che si tendeva e si rilassava ritmicamente. Infine, strinse maggiormente la folta criniera sotto le dita e liberò un grido nell'aria, lasciando che il suo corpo si trasformasse in vento. 

 

-Vai!- 

 

L'animale, accogliendo la sua richiesta, prese a sfiorare il terreno con le zampe possenti ancora più velocemente. 

 

-Ehi! Jein!- 

 

Le proteste dietro di lei si persero nelle sue orecchie e presto la ragazza si ritrovò in un mondo di aria e selvaggia libertà. 

 

Poi, voltandosi all'indietro, regalò un sorriso al giovane. 

 

-Lasciati andare!-

 

 

~~~~~~~

 

 

-Jein? Sei pronta? Ho firmato i fogli per la dimissione, possiamo andare.- 

 

Yong-Ho bussò sommessamente sulla porta, in attesa di risposta. Dall'altra parte, però, giunse solo il rumore gracchiante della televisione. Mordendosi nervosamente il labbro, esitò leggermente sulla superficie metallica, con la nocca sospesa per aria in indecisa attesa. 

 

-Jein?- 

 

Non ricevendo nuovamente alcuna risposta, l'uomo decise di abbassare la maniglia ed entrare. Nella stanza, davanti ad un letto che puzzava di disinfettante e intrappolata in mezzo a pareti tinte di un azzurro non del tutto rasserenante, sua figlia stava in piedi con lo sguardo assorto. Fissava la televisione con le sopracciglia corrugate e gli occhi persi. 

 

Yong-Ho aveva visto spesso quell'espressione nel viso della ragazza negli ultimi giorni. E seppur il suo intero essere urlava di ansia e dolore, voglioso di sapere dove fosse rimasta la sua anima, dove fosse finita sua figlia, rimaneva puntualmente in silenzio, osservandola con ansiosa aspettazione. 

 

-Jein, sei pronta? È ora di andare.- 

 

La ragazza non rispose. I suoi occhi non lasciavano le immagini della televisione, che mostravano le vecchie riprese di una giostra di cavalli, mentre un commentatore narrava la storia dei Luna Park di Coney Island. 

 

"Che cosa hai perso, Jein?" 

 

"Sembra che tu stia cercando qualcosa da quando ti sei svegliata."

 

Il padre ingoiò quelle domande insieme alla sua ansia e ai suoi sensi di colpa. Quei sensi di colpa che gli offuscava la vista ogni volta che guardava gli occhi freddi e privi di anima di sua figlia. 

 

Dopo qualche istante, quando le immagini cambiarono, la ragazza finalmente appoggiò lo sguardo sull'uomo e, con un cenno di assenso, afferrò la piccola borsa appoggiata sul letto. Non disse una parola mentre seguiva docilmente il padre lungo i corridoi stretti e fastidiosamente somiglianti dell'ospedale. 

 

Yong-Ho sentiva gli occhi della ragazza che non lasciavano la sua schiena ed ingoiò quel groppo in gola che gli assottigliava il fiato e gli accorciava il respiro. Una volta giunti nell'ultima sala d'attesa del reparto di neurochirurgia, l'uomo si diresse verso l'ascensore. Quando si voltò, però, Jein non era più alle sue spalle. Era ferma come un orgoglioso fiore in mezzo ad un prato di poltroncine scure e basse, con lo sguardo fisso e pieno di emozioni che il padre non riusciva a comprendere. 

 

-Jein?- 

 

Seguendo la linea dei suoi occhi, Yong-Ho incontrò una coppia di ragazzi con la pelle pallida e le spalle stanche, fermi davanti ad una macchinetta. 

 

-Dobbiamo fare qualcosa.- 

 

Il più basso dei due si strofinò le palpebre, cercando di scacciare le occhiaie e prese un sorso di caffè. L'altro scosse il capo, massaggiandosi il collo. 

 

-Lo so, hyung*, ma... sinceramente, non so più che fare fra lui che non vuole lasciare la stanza e Taehyung che si rifiuta di mangiare.- rispose il giovane, con la voce arrochita. 

 

Il più basso annuì stancamente e diede una pacca sulla schiena al suo compagno. 

 

-Scusami... non è facile neanche per te.- 

 

Jein sembrava incantata davanti a quella scena. Nuovamente, il padre fremeva per scoprire cosa avesse rapito la sua mente ma, soffocando quell'istinto, prese semplicemente la ragazza per mano, tirandola dolcemente. 

 

-Andiamo Jein.- 

 

La figlia sbatté le palpebre e riportò lo sguardo su di lui, perdendo nel processo quella misteriosa commistione di emozioni che avevano dominato i suoi occhi. Poi, annuendo, lo seguì ed entrò nell'ascensore.

 

~~~~~

 

EHILÀ!

In sto capitolo succedono un sacco di cose XD. Forse cercavo di compensare il capitolo precedente. È stato troppo veloce? Ho corso troppo in alcuni passaggi? Fatemi sapere se c'è qualcosa da migliorare, accolgo volentieri qualsiasi consiglio. 

Allora. Abbiamo chiuso con uno stacco insolito. Immagino l'abbiate capito ma nel dubbio lo dico: quando vedete questo simbolo ~~~~~~ vuol dire che la scena che segue avviene fuori dal sogno. Non dirò altro, più avanti avrete maggiori dettagli. 

 

*hyung: onorifico informale usato dai maschi più giovani nei confronti dei più grandi, letteralmente tradotto "fratello"

 

 

 

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Capitolo 7
*** 7 ***


-Era davvero necessario?- chiese Jein rivestendo la sua voce di trasudante ironia. 

 

Jimin, a quella domanda, distolse lo sguardo dalla ragazza e gonfiò leggermente le guance. 

 

-Senti... non è colpa mia se l'unica alternativa che avevo per smontare da cavallo era smontare il cavallo! Lui non si voleva fermare!- replicò con tono piccato. 

 

La ragazza scosse la testa con una smorfia divertita sulle labbra. 

 

-E va bene. Taci e voga, marinaio.- disse infine lei, guardando il suo interlocutore con altezzosità. 

 

Il giovane la fissò per un istante con una punta di irritazione negli occhi, prima di riprendere in mano i remi e sollevarli impacciatamente sull'acqua. La piccola barca molleggiò lievemente sotto la sollecitazione del ragazzo che, dopo qualche vogata, si abbandonò contro la superficie di legno.

 

Jein si fece ipnotizzare dal suono delle onde che sbattocchiavano a intermittenza contro le pareti, con quel cigolio limpido e fresco che risuonava in modo così dolce nelle sue orecchie. Abbassando lo sguardo dal cielo, lo appoggiò sul ragazzo di fronte a sé e prese a studiarne gli occhi, scuri specchi su cui si rifletteva la luce del sole morente. Benché più limpidi e più sereni, essi possedevano ancora una patina di inquietudine e smarrimento, nascosta e infida ma pesantemente presente. Guardandolo, per qualche motivo Jein si sentì in colpa. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse aiutarlo. Purtroppo, trovare le parole giuste per confortare gli altri era il suo punto debole. 

 

-Che cosa volevi fare da grande?- 

 

La giovane impiegò qualche secondo per realizzare che Jimin le aveva rivolto la domanda e attendeva la sua risposta. Sbattendo le palpebre un paio di volte, distolse lo sguardo dal ragazzo e prese a fissare le onde che circondavano la barca. Quei piccoli frammenti di tramonto viaggiavano lentamente in direzioni ignote, portando con sé l'oro del cielo e nascondendolo lontano dalla vista. 

 

-Volevo diventare una scrittrice.- rispose lei, dopo istanti di silenzio. 

 

-E tu?- 

 

Jimin, trattenendo gli occhi lontano da lei, scosse le spalle con una smorfia poco convinta. 

 

-Quello che faccio adesso, più o meno. Diciamo che le mie ambizioni si sono evolute nel corso del tempo.- 

 

La giovane contemplò quella risposta per qualche istante prima di sospirare sommessamente. 

 

"È un modo di vedere le cose." 

 

Il silenzio tornò ad aleggiare nell'aria, abbracciando i due ragazzi e lasciando che fosse il mare a riempire la conversazione. Poi, Jein sentì un respiro tremante fuoriuscire dal giovane. 

 

-Quali sono le tue paure?- 

 

La ragazza piegò il capo, sollevando un sopracciglio. 

 

-Uhm... gli scarafaggi?- 

 

Anche se non l'aveva fatto apposta, fu contenta di vedere una smorfia divertita assorbire parte della tensione che dominava le labbra del ragazzo. La pesante atmosfera che era calata su di loro si assottigliò leggermente, lasciando alla ragazza la libertà di respirare più profondamente. Finalmente, i suoi occhi incontrarono quelli di Jimin, che si erano svestiti di un altro strato di turbamento, lasciando che si rivolgessero a lei in modo più sincero e aperto. 

 

Schiudendo le labbra, si preparò a rispondere alla domanda del ragazzo ma fu bloccata dalla scomparsa della luce dal viso del suo interlocutore. Con confusione, osservò il giovane cadere sempre di più nell'ombra e si voltò in direzione del tramonto. 

 

-Oh cacchio...- 

 

 

Il sole morente non dominava più l'orizzonte. Al suo posto, un muro di acqua si ergeva con orgoglio sulle loro teste, sbilanciandosi pericolosamente in avanti. Jein fece appena in tempo a spalancare la bocca che quel muro crollò su se stesso, sciogliendosi su di loro e schiacciandoli con il suo imponente peso. La barca si rovesciò sotto la potenza del mare disperdendo i due ragazzi, che si ritrovarono spinti nella pancia di quella famelica creatura. Jimin si guardò attorno muovendo freneticamente mani e piedi e spalancando gli occhi. Quando finalmente vide la giovane cercò di avvicinarsi a lei, mentre il panico gli dominava lo sguardo. 

 

Jein gli prese la mano e, in preda alla curiosità, fece un esperimento. Aprì la bocca e provò a inspirare, rilassando la mente e lasciando che l'acqua fluisse dentro di lei. Con un sorriso soddisfatto, guardò il ragazzo e gli fece un segno di assenso. Questo, fissandola con esitazione e palese sfiducia, schiuse lentamente la bocca. Jein poteva vedere il suo petto rimanere contratto nello sforzo di trattenere la poca aria che aveva rimasto. 

 

-Rilassati.- 

 

La sua voce assomigliava ad un lontano gorgoglio, come l'eco del mare che si ode da una conchiglia. Aveva un suono buffo ma raggiunse comunque Jimin, che prese a respirare lentamente. Poi, la giovane lo vide spalancare gli occhi e osservare attentamente la sua figura. Confusa, piegò lievemente la testa di lato. 

 

-Che c'è?- chiese. 

 

Abbassando lo sguardo sul proprio corpo, emise un verso di stupore che sfuggì dalle sue labbra contro il suo volere. 

Le sue gambe erano sparite. Al posto loro, delle squame argentate le ricoprivano la pelle dalla vita in giù, diventando via via più fitte fino a convogliare in una lunga coda scintillante di luce riflessa, la cui estremità assomigliava ad un velo da sposa. La parte che la sconcertò di più, però, non fu la bizzarra appendice. Con estremo imbarazzo, si rese conto di essere praticamente nuda. La linea del suo seno era spaventosamente in evidenza, benché coperta anch'essa da piccole squame iridescenti. Incrociando nervosamente le braccia, vide con la coda dell'occhio che Jimin cercava di distogliere lo sguardo, a sua volta in visibile imbarazzo. 

 

Dopo qualche istante di irritati tentativi di modificare il suo aspetto, Jein sbuffò afferrando la mano del ragazzo, sulle cui guance si diffuse un lieve rossore. 

 

"E va bene. Comportiamoci da sirenetta." 

 

La ragazza provò a muovere la coda nell'acqua, sentendo il peso del liquido che cercava di contrastarla. Lentamente, il movimento iniziò a diventarle più famigliare, perciò strinse la mano del ragazzo e iniziò a tagliare il mare ondeggiando con tutto il corpo. 

 

 

Nel momento in cui la sua pelle fu fuori dall'acqua, le squame sparirono lasciando il posto ad un sottile vestito bianco, che si appoggiava mollemente sulle sue curve. I due giovani si trascinarono stancamente sulla spiaggia rocciosa che avevano incontrato poco tempo dopo essersi lasciati la barca alle spalle e si abbandonarono su uno scoglio dalla superficie accuratamente levigata dalla forza dell'acqua. 

 

-Questo sogno ci vuole uccidere.- sbottò Jimin di punto in bianco. 

 

Jein rilasciò una sottile risata schiudendo le labbra. 

 

-Che cosa te lo fa pensare? L'inseguimento con delle guardie reali armate o l'onda gigante da film di Hollywood?- chiese lei, con una smorfia divertita. 

 

-Non dimenticare i tuoi famelici amici felini e i cavalli imbizzarriti.- aggiunse lui alzando un dito per sottolineare la sua precisazione. 

 

-I cavalli non hanno attentato alla tua vita.- replicò lei guardandolo con scetticismo. 

 

-Eccome se l'hanno fatto!- 

 

Dopo quella determinata conclusione, Jimin incrociò le braccia al petto e fissò la ragazza con aria di sfida. Jein, rinunciando a vincere la battaglia, sollevò gli angoli della bocca e portò lo sguardo sul cielo. 

 

Era notte. Una notte ricca e brillante quanto il giorno, perché adornata di tutte le stelle che Jein poteva immaginare facessero parte del cielo. Esse però, per quanto numerose e determinate, non potevano competere con la loro regina. La luna troneggiava nel cielo con la serena grazia di una sovrana indiscussa; nella sua forma piena e tondeggiante, si stagliava come un gigantesco medaglione di opale. 

 

Senza riflettere, la ragazza indicò quella gemma brillante con un lieve gesto del capo. 

 

-Ci andiamo?- 

 

Jimin la guardò con palese confusione negli occhi. 

 

-Dove?- 

 

-Sulla luna.- rispose lei, con un lieve sorriso. 

 

Jimin emise uno sbuffo divertito dal naso e sollevò le sopracciglia. 

 

-E come avresti intenzione di andarci?- 

 

Jein sollevò un angolo della bocca, voltandosi alle sue spalle per osservare la parete rocciosa che convogliava in una scogliera a strapiombo. 

 

-Seguimi.- disse semplicemente. 

 

 

Mentre, seguendo un sentiero leggermente scosceso, raggiungevano la vetta della roccia, Jimin non aveva fatto altro che chiedere dove stessero andando e a rivolgere preoccupate rimostranze nei confronti del suo piano. Ad ognuna di esse, la ragazza rispondeva semplicemente con un divertito silenzio e una imperturbata marcia. 

 

Lo strapiombo non era così alto, ma avrebbe funzionato al raggiungimento del suo obbiettivo. Guardando la sua meta che la richiamava dal cielo, si concentrò sperando che il suo piano funzionasse. Quando sentì delle lunghe piume solleticarle la pelle delle braccia, capì di avere avuto successo. 

 

-Che... che vuoi fare?- 

 

Jimin osservava le grandi ali che erano spuntate sulla schiena della ragazza con circospezione e una punta di preoccupata consapevolezza. Jein, in risposta, gli prese la mano con un sorriso rassicurante. 

 

-Fidati.- 

 

Il giovane osservò la persona di fronte a sé combattuto. I suoi denti indugiarono sul suo labbro inferiore, tradendo la sua palese indecisione. Poi, con un sospiro, annuì. Dalla sua schiena fecero lentamente capolino un paio di candide ali, talmente grandi da abbracciare il suo intero corpo fino a toccare il terreno come un delicato mantello. Il bianco puro delle piume sembrava rispecchiare e abbinarsi con la pallida pelle del loro possessore, mentre i suoi capelli argentati catturavano la luce della luna incendiandosi di un bagliore quasi magico. 

 

Quella vista, per qualche motivo, smosse qualcosa nello  stomaco della ragazza. Non sapeva cosa fosse, ma più guardava quella figura così eterea e angelica più sentiva una bizzarra sensazione salirle dalla gola fino ad offuscarle i pensieri. Distogliendo lo sguardo dal ragazzo, tornò a fissare il bordo della scogliera con crescente impazienza. Fece qualche passo indietro, incitando Jimin a fare lo stesso. Infine, piegandosi leggermente in avanti, iniziò a correre. 

 

Quando i loro piedi lasciarono la roccia, ci fu un momento di disperata inquietudine. I loro corpi presero a cadere precipitosamente, trascinati dalla forza di gravità. Jein sentì l'adrenalina divorarle lo stomaco e velocizzare il suo cuore, a mano a mano che il mare diventava sempre più vicino. Poi, si fermò. 

 

Il suo corpo era sospeso nell'aria come un nuvola, planava sull'acqua senza raggiungerla e prese a sollevarsi velocemente. La ragazza si accorse finalmente della stretta compulsiva in cui era incatenata la sua mano e si voltò. Il giovane accanto a sé, infatti, aveva uno sguardo terrorizzato e la bocca spalancata in un grido mancato. Nonostante ciò, le sue ali si muovevano ritmicamente, spostando una grande quantità di aria. A quella vista, Jein strinse la mano intrecciata alla sua e cercò di rasserenarne il proprietario con lo sguardo. 

 

Sulla schiena del cavallo aveva pensato di potersi trasformare in vento. Volare, però, era come cavalcare il vento stesso. Dominarlo, ammansirlo e vincere su di esso. 

 

 

Per quanto la luna apparisse così bella e nobile a distanza, una volta che furono atterrati su di essa i ragazzi non poterono fare a meno di scorgerne il paesaggio con estrema confusione. 

 

-Perché c'è una montagna di spazzatura?- 

 

Jimin prese a guardarsi in giro con scetticismo, osservando pile di vestiti, giocattoli, spazzolini, scarpe e altre cianfrusaglie incastrate fra di loro in ammassi disordinati. Neanche Jein riusciva a capire. Non finché, dopo avere fatto qualche passo, poggiò il piede su un animale di pezza. Con un moto di crescente calore nel cuore, si abbassò e osservò il piccolo gatto dal pelo troppo sporco per poter essere definito bianco. La giovane notò la targhetta che gli pendeva al collo da un collare blu e ne lesse velocemente la scritta. 

 

-Sir Ronald di Chang Jein, sei luglio duemilatre.-

 

La ragazza prese a scuotere la testa incredula, rigirandosi il gattino fra le mani. 

 

-Non è possibile!- esclamò, emettendo una risata scioccata. 

 

Jimin distolse l'attenzione dalla sua esplorazione per osservare incuriosito la ragazza. 

 

-Che cos'è?- chiese sommessamente avvicinandosi a lei. 

 

Jein tenne lo sguardo sul peluche mentre delle lontane e offuscate memorie tornavano a galla nella sua mente. 

 

-È il peluche con cui sono cresciuta. Non lo vedevo da quando avevo sette anni...- disse in ammirata contemplazione. 

 

Finalmente, sollevò lo sguardo e prese a guardare l'ambiente circostante con un nuova luce negli occhi. 

 

-Una volta in un romanzo avevo letto che la luna era il posto in cui si raccoglievano le cose perse dagli uomini.- aggiunse, sollevando un calzino e osservando l'etichetta attaccatavi sopra. 

 

Calzino destro di Nick Atlas 

13 agosto 2006 

 

-Sono quasi più incuriosito dal fatto che avevi chiamato il tuo peluche Sir Ronald.- eruppe Jimin, guardandola con divertimento. 

 

Jein rilasciò una risata sonora, socchiudendo gli occhi mentre continuava ad esplorare quegli oggetti dimenticati dai loro possessori. 

 

-Ehi! Da piccola ero fissata con le storie di re Artù.- rispose semplicemente. 

 

Le sue mani, a un certo punto, incapparono in una coppia di bizzarre calzature. Non avevano esattamente l'aspetto di normali scarpe. Assomigliavano a un misto tra dei calzini e delle ballerine, ma costruite con un tessuto elastico e dall'aspetto consunto. Con un sorriso crescente, lesse ad alta voce l'etichetta. 

 

-Mezzepunte di Park Jimin, tre gennaio duemilanove.- 

 

Il ragazzo spalancò gli occhi ed afferrò prontamente gli oggetti nelle mani di Jein. Li osservò con attenzione, rigirandoseli tra le mani mentre l'emozione prendeva il sopravvento sulle sue labbra e sul suo sguardo. 

 

-Queste... sono le prime mezzepunte che ho usato quando ho iniziato ad andare a scuola di danza. Me le aveva regalate mio padre.- disse, abbassando gradualmente il tono della voce. 

 

-Non sapevo neanche di averle perse...- aggiunse, mentre un amaro sorriso prese il dominio delle sue labbra. 

 

 

Jein e Jimin ebbero modo di constatare che gli umani perdevano una quantità spropositata di calzini. Erano ovunque, di qualsiasi forma, lunghezza e colore. La giovane ne aveva trovati a strisce gialle e verdi, ricoperti di disegni di elefanti o con delle repliche grottesche di quadri famosi. Occasionalmente, trovava oggetti che le appartenevano come vestiti, cucchiai o penne. Era stupita da quante penne avesse posseduto e perso nel corso degli anni. 

 

-Jein.- 

 

La giovane si voltò verso il ragazzo che l'aveva chiamata e vi si avvicinò, poggiando lo sguardo sulla scatola di legno che teneva fra le mani. Sollevò un sopracciglio osservandone la targhetta dorata che ne decorava il coperchio, su cui era inciso il suo nome. Non ricordava di avere mai posseduto un oggetto simile, perciò quando lo ebbe fra le mani lo guardò con circospezione. 

 

-Ne ho trovata una simile con il mio nome.- 

 

Mentre pronunciava quella frase, Jimin si voltò per raccogliere un'altra scatola dall'aspetto somigliante. I due ragazzi si guardarono con un leggero smarrimento e un latente senso di inquietudine che emergeva nelle profondità dei loro occhi. 

Poi, sollevarono il coperchio e ne osservarono il contenuto. 

 

Jein scrutò confusa una manciata di piccole gocce di cristallo accumulate una sopra l'altra che riempivano il recipiente fino all'orlo. Quando alzò lo sguardo vide una targhetta catturare la luce delle gocce da sotto il coperchio. 

 

Lacrime di Chang Jein

 

La ragazza sentì un conato chiuderle la gola e offuscarle la vista. Poi, il suo sguardo cadde sul contenuto della scatola gemella, stritolata dalle mani di un inerme ragazzo. Un giglio bianco apriva i suoi petali al suo osservatore, sfoggiando tutta la sua purezza. La targhetta sotto al coperchio recitava: Innocenza di Park Jimin.

 

 

EHILÀ

Devo dire che mi piace come è venuto questo capitolo. So che ci sono un po' di cliché, come lei che si trasforma in sirena scostumata farcendo imbarazzare il povero Jimin e lui con le ali che sembra ancora più angelico di quanto già non sia mandando in confusione Jein. Lo so. Ma ehi...non potevo trattenermi dai. Park Jimin è un angelo, chiusa la questione. 

La parte della luna fa ovviamente riferimento all'Orlando Furioso di Ariosto ma ho pensato di rielaborarla a modo mio. Nel contesto del sogno potete considerare questa ambientazione come la sede della coscienza collettiva. Per chi è interessato, iniziamo con qualche lezione di psicoanalisi. In pratica, la coscienza collettiva secondo Jung è la sede nel nostro inconscio di un bagaglio culturale che condividiamo con tutta l'umanità, in tutte le culture. Diciamo che io l'ho trasformata leggermente in una sorta di luogo di connessione universale. Un posto nel nostro inconscio in cui siamo tutti collegati. Ecco, non so se mi sono spiegata. 

Detto ciò, al prossimo capitolo!

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Capitolo 8
*** 8 ***


~~~~~~

 

Kippeum si infilò velocemente nel locale con il fiato corto e i capelli ancora leggermente in disordine. Il campanello della porta emise un dolce suono nell'annunciare il suo ingresso, dal quale la ragazza aveva preso a scrutare i tavoli alla ricerca del suo obbiettivo. Dopo secondi di contemplazione, i suoi occhi incontrarono infine una figura seduta vicino alla grande finestra che dava sulla strada. Senza esitazione, la giovane prese a marciare tenendo lo sguardo puntato sulla figura. Infine, una volta raggiunto il tavolo si lasciò cadere sulla sedia rimasta libera e si passò velocemente una mano fra i capelli scompigliati. 

 

-Ti prego, perdonami! Lo so che sono in ritardo ma non ho proprio sentito la sveglia oggi!- implorò protendendo le mani giunte nel tentativo di richiedere clemenza. 

 

La ragazza di fronte a lei, però, non batté ciglio. Sembrava non essersi nemmeno accorta del suo arrivo. Teneva lo sguardo fisso su un punto di fianco a Kippeum, la quale seguì la linea del suo sguardo fino ad incontrare una ragazza seduta qualche tavolo più avanti con delle ali tatuate in bella mostra sul collo. Confusa, la giovane tornò a guardare la sua amica e prese a scuotere la mano davanti ai suoi occhi. 

 

-Ehi! Terra chiama Jein, attendiamo risposta!- disse con una leggera inquietudine incastrata nelle profondità della gola. 

 

La sua interlocutrice sbatté le palpebre un paio di volte e finalmente sembrò notare la persona di fronte a sé. 

 

-Scusami Kippeum, non mi ero accorta che eri arrivata.- rispose infine, riprendendo in mano la sua tazza e sorseggiando il suo americano. 

 

Kippeum ingoiò un groppo di ansia cercando di spingerlo oltre il torace e ricacciarlo nello stomaco, ma quello rimase incastrato nel suo petto, all'altezza del cuore. Quella di fronte a lei non era la sua migliore amica. La sua migliore amica viveva con l'orologio attaccato al polso, pronta a richiamarla ogni volta che si concedeva anche un solo minuto di ritardo. Era sempre attenta e all'erta, non si lasciava mai sfuggire niente. La persona di fronte a lei perciò aveva più l'aspetto di un fantasma che della sua Jein. 

 

-Beh... come immaginavo hai ordinato senza di me. E va bene... mi sa che opterò per un caramel macchiato.- disse con una smorfia sulle labbra. 

 

La sua amica di solito ordinava sempre per lei quando arrivava in ritardo. Conosceva già i suoi gusti alla perfezione, perciò ogni volta che Kippeum la raggiungeva, lei le rifilava una ramanzina e alla fine le allungava la sua bevanda, brontolando sul fatto che non voleva perdere ulteriore tempo ad aspettare la sua ordinazione. Quel giorno invece il tavolo era vuoto, ad eccezione fatta della tazza di americano fra le mani di Jein. 

 

-Ho già fatto. Il tuo caramel macchiato è in arrivo.- 

 

Kippeum sentì un moto di gioia stritolarle il cuore. Si trattava di una cosa così semplice eppure non poteva trattenere il desiderio di piangere. Una parte di Jein era ancora lì. Questo le sarebbe bastato. 

 

-Allora...- iniziò con voce leggermente tremante -... cosa mi racconti? Come sono andati questi primi tre giorni fuori dall'ospedale?- 

 

La ragazza cercò con tutte le sue forze di mantenere un tono leggero per tutta la frase, ma la sua voce aveva inevitabilmente preso una piega oscura verso le ultime parole. Quando vide l'amica alzare le spalle non fu sorpresa, benché uno strato di amarezza le rivestì la bocca. 

 

"Come pensavo."

 

-E tuo padre? Ti ha detto qualcosa?- proseguì Kippeum, osservando il caramel macchiato viaggiare velocemente verso il loro tavolo. 

 

Jein prese un sorso della sua bevanda, tenendo lo sguardo sulla finestra e osservando le macchine che passavano con frenesia. Con un breve sospiro, si passò velocemente una mano dietro l'orecchio, sfiorando delicatamente un punto sotto il lobo, prima di ricongiungerla all'altra. 

 

-Sì. Mi ha proposto di andare all'università.- rispose semplicemente. 

 

Fortunatamente Kippeum aveva appoggiato la sua delicata tazza sul tavolo, perché era certa che se avesse bevuto qualcosa lo avrebbe sicuramente sputato. 

 

-Sul serio? Ma è fantastico Jein!- esclamò avvicinandosi all'amica. 

 

Quella, però, portò velocemente gli occhi su di lei, rivolgendole quello sguardo di freddo scetticismo che conosceva fin troppo bene. 

 

-Kippeum... lo sai come stanno le cose. È ridicolo anche solo pensare una cosa simile.- 

 

A quelle parole, l'enorme carica di energia che aveva animato la ragazza si estinse velocemente come si era accesa. 

 

-Andiamo, avrai pure qualcosa da parte. E poi se te l'ha proposto lui vuol dire che ti vuole dare una mano.- replicò, cercando di suonare il più convincente possibile. 

 

Gli occhi di Jein rimasero incastrati nel ghiaccio mentre la ascoltava. 

 

-Non può mantenere tre persone e pagare le tasse universitarie. Anche se ho qualcosa da parte, non è lontanamente sufficiente a coprire le spese nemmeno per un anno di corso.- 

 

Kippeum, sentendo la speranza scivolarle tra le dita, emise un sospiro abbandonandosi contro lo schienale della sedia. La sua amica, impassibile come una statua, allontanò gli occhi da lei e li riportò sulla strada. 

 

-Dalla settimana prossima riprendo a lavorare.- 

 

 

La ragazza non poté trattenere il moto di rabbia che le fece colpire il tavolo con la mano. Si accorse di ciò che aveva fatto solo quando udì il tintinnio preoccupato delle tazze appoggiate alla superficie. 

 

-Stai scherzando, vero?- chiese, abbassando il tono della voce. 

 

-Jein, sei appena uscita dall'ospedale dopo due settimane di coma, non sei in condizioni di riprendere a lavorare!- 

esclamò con fin troppo trasporto, fissando intensamente l'amica. 

 

Questa abbassò gli occhi al grembo, prima di sfiorare nuovamente con la punta delle dita lo stesso punto sotto all'orecchio. 

 

-Non posso prendere più di un mese di aspettativa. Già devo ringraziare di avere ancora un lavoro, non posso permettermi di rischiare di perderlo.- rispose infine Jein. 

 

"Questo è troppo." 

 

Kippeum non amava discutere con le persone, specialmente con la sua migliore amica. Nonostante ciò, sentiva di avere raggiunto il limite di sopportazione perciò lasciò che la sua bocca sputasse tutte le parole che la sua mente aveva trattenuto.

 

-Chang Jein, se non vuoi avere rispetto per te stessa abbilo almeno per la persona che ha passato due settimane a piangere per te e a chiedersi se saresti sopravvissuta.- 

 

La ragazza si rese conto che le parole erano uscite dalla sua bocca con molta più veemenza di quanto avrebbe voluto, ma decise comunque di ignorare i sensi di colpa. 

 

-Abbilo per la persona che stava per perdere la sua migliore amica. La stessa persona che è stata al tuo fianco mentre ti consumavi nel corso di questi dieci anni fino a raggiungere l'esaurimento nervoso. Dio, Jein, ti sei schiantata contro un maledettissimo palo!- 

 

Kippeum cercò di tenere il tono della voce più basso che poteva per non fare una scenata davanti a tutto il locale ma la rabbia e lo sconforto la stavano accecando. Lei era fatta così. Era una persona che aveva lasciato le redini della sua vita alle proprie emozioni. 

 

Jein, invece, era il suo opposto. Lei era una calcolatrice, una persona che doveva analizzare ogni sua mossa e programmare il piano migliore di azione, qualsiasi cosa facesse. Era lei quella più responsabile delle due. In quel momento, però, per la prima volta dall'inizio della loro amicizia, Kippeum sentì di dover essere lei a sgridare l'amica. 

 

-Ero... solo stanca, la strada era buia e la macchina ha sbandato. Tutto qua.- replicò debolmente Jein, tenendo lo sguardo lontano da lei. 

 

-Già! Eri stanca! Ed esaurita! Forse perché passi otto ore al giorno a fare un lavoro che odi per poi tornare a casa e spendere il resto della giornata a fare da babysitter a tua madre!- esclamò Kippeum alzando le braccia. 

 

-Kiki...- 

 

La replica dell'amica fu velocemente zittita dalle parole della ragazza. 

 

-No! Ascoltami, per una volta. Hai passato quattordici anni a vivere la tua vita per qualcun altro. Non hai avuto un'adolescenza degna di questo nome perché hai dovuto iniziare a lavorare per mantenere tua madre e adesso ne stai pagando le conseguenze.- 

 

La ragazza sentiva gli occhi bruciare, ma decise di andare avanti e tirare fuori tutte le parole che aveva incastrato nel suo cuore nel corso degli anni. 

 

-Tutte le tue scelte sono state in favore della tua famiglia. Hai rinchiuso te stessa in una gabbia e ti sei fatta divorare fino all'osso. Adesso... basta. Hai raggiunto il limite.-

 

Kippeum prese un lungo respiro e catturò gli occhi dell'amica. 

 

-Ti prego, ti scongiuro, prenditi una pausa. Da tutto. Dal lavoro, da tua madre, da quella casa...- 

 

-Come faccio? Kiki, non posso andarmene... e non posso smettere di lavorare...- 

 

Jein evitava ancora lo sguardo della ragazza, ma Kippeum poteva sentire qualcosa rompersi. Come lo schianto che segue la formazione di una crepa in un grande ghiacciaio. Una piccola crepa, che poteva influenzare una massa di materia così grande. 

 

Alle superiori, il gruppo di amiche che le due ragazze frequentavano aveva soprannominato Jein "L'iceberg". Dicevano che era priva di emozioni, fredda come il ghiaccio nel suo modo di lanciare piccate e talvolta indelicate espressioni alle persone che la circondavano. Perché non versava mai una lacrima, nemmeno nella più disperata delle situazioni. 

 

A Kippeum inizialmente non piaceva quel soprannome. Tuttavia, nel corso degli anni si accorse che calzava sulla sua amica più di quanto immaginasse. Non perché fosse priva di emozioni, al contrario. Jein, come un gigantesco pezzo di ghiaccio che esponeva solo la punta in superficie, lasciava trapelare una piccolissima parte di sé al mondo esterno. Nelle profondità del mare, però, si nascondeva un mondo ricco e vasto, carico di colori e sentimenti e lacrime. Jein aveva rinchiuso quel mondo lontano dagli occhi delle persone per proteggere se stessa, ma aveva finito per dimenticare che le appartenesse.

 

-Vieni a vivere con me.- 

 

L'amica spalancò gli occhi e fissò Kippeum come se avesse detto un'eresia. 

 

-Kiki, non posso... e poi non potrei pagare l'affitto...- 

 

La voce di Jein fu interrotta dalla mano della ragazza di fronte a lei, che si sollevò davanti alla sua bocca. 

 

-Niente affitto, tanto quello lo pagano i miei. Mi basta che mi aiuti con le bollette e la spesa. Dovresti riuscirci con quello che hai messo da parte.- disse Kippeum sollevando le sopracciglia e alleggerendo il tono della voce. 

 

L'amica emise uno sbuffo incerto e portò brevemente gli occhi nei suoi. 

 

-E cosa dovrei fare se non posso lavorare?- chiese con un leggero moto di sarcasmo nella voce. 

 

"Ecco. Questa è la Jein che conosco." 

 

-Scrivi un libro.- replicò la ragazza alzando le spalle. 

 

Jein sollevò un sopracciglio, segno che la proposta era stata accolta con una buona dose di scetticismo. 

 

-Perché no? Era il tuo sogno e sono convinta che tu abbia già migliaia di storie incastrate in quella tua testolina, pronte per essere scritte!- esclamò, puntando un dito contro la fronte dell'amica. 

 

Questa scosse la testa, inizialmente con una smorfia divertita sulle labbra, poi adombrandosi sempre di più. 

 

-Kippeum, se me ne vado di casa lei... sai come la prenderebbe. Potrebbe...- 

 

L'irritazione tornò a prendere il sopravvento sulla mente della giovane, che schioccò sonoramente la lingua. 

 

-Quindi cosa hai intenzione di fare? Resterai in quella casa fino alla sua o alla tua morte? Non ti sposerai mai? Non avrai mai una famiglia tutta tua?- 

 

Quando pronunciò quelle parole, gli occhi di Jein sembrarono tingersi di qualcosa. Dolore, nostalgia, panico... l'amica non riusciva a capirlo. Non aveva mai visto la ragazza con quell'espressione e non capiva perché continuasse a toccarsi lo stesso punto sotto l'orecchio, come se avesse un tic nervoso. Forse, però, aveva trovato il nervo scoperto su cui fare leva. 

 

-Tua madre non è su una sedia a rotelle, è bipolare! E tu non sei la sua assistente sociale, sei sua figlia! Una persona che ha diritto ad avere una vita, un sogno e una famiglia! Sarà dura, ma è per il tuo e anche per il suo bene. Se vive appoggiandosi a te non sarà mai in grado di combattere la malattia da sola.- 

 

Kippeum, per un momento, pensò di intravedere un'idea di lacrima sotto alle palpebre dell'amica. In un battito di ciglia, però, questa scomparve lasciando gli occhi di Jein perfettamente asciutti. 

 

Lacrime. In dieci anni da che la conosceva non ne aveva mai viste sul suo viso. Era convinta che la ragazza le avesse seppellite tutte nel suo cuore perché non si era mai concessa di essere debole. Qualcosa, però, era cambiato in Jein. Da quando si era svegliata, aveva una fragilità negli occhi che la terrorizzava. Tuttavia in quel momento realizzò che forse quella fragilità non era un sintomo negativo. Forse aveva liberato qualcosa in lei che era rimasto sepolto per troppo tempo. 

 

Con quei pensieri nella mente, Kippeum vide la ragazza sospirare con un leggero tremore alle labbra. 

 

-Ci penserò.-

 

~~~~~~~

 

HELP

Tutte le certezze nella mia vita sono crollate. Ho iniziato a domandarmi chi sono, perché sono qui e se so davvero cosa voglio. Le torri gemelle sono davvero crollate? La terra è piatta? La torre di Pisa è dritta? Non so più niente. 

Cercate di comprendere. Io pensavo di avere finalmente raggiunto un accordo con il mio cuore riguardo a chi era il mio bias. Ero fermamente decisa a restargli fedele finché...quel maledetto Min Yoongi non è uscito con una maledetta parrucca Pantene e mi ha tagliato il cuore a fettine con la sua stupida spada! Cavolo. Dall'uscita di Agust D2 non so più niente. 

Potrei essere stata crushata da Yoongi. E adesso sento l'impellente bisogno di scrivere una storia ambientata nella Silla del 1500 dove lui è il figlio illegittimo del re e una ragazza figlia di un mercante europeo gli viene venduta come schiava. Questo però richiederebbe da parte mia una notevole dose di studio della storia. Non so, se voi mi dite che l'idea vi piace mi ci butto. 

E comunque, torniamo alle cose serie. In questo capitolo conosciamo molto di più Jein e il suo background. Abbiamo anche incontrato Kippeum o Kiki (per le mie fangirl, you know what I mean). Non saprei, questa parte è venuta più lunga di quanto avevo previsto. È noiosa? Oppure scorre bene? Fatemi sapere!

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Capitolo 9
*** 9 ***


~~~~~~

 

-Hyung! Hyung! Ha mosso le dita!-

 

La voce del più giovane del gruppo raggiunse Namjoon dal corridoio carico di porte identiche, che poco dopo fu seguita dalla comparsa del ragazzo con le pupille dilatate. Il leader guardò il suo dongsaeng* raggiungerlo velocemente vicino alla macchinetta del caffè e fermarsi davanti a lui con gli occhi carichi di aspettazione. Aspettava la sua reazione, aspettava di ascoltare quello che voleva così disperatamente sentirsi dire. Namjoon, allora, si strinse il cuore in modo che il dolore fosse meno lancinante e forzò un piccolo sorriso sulle sue labbra, tirando i muscoli più che poteva. Non era abbastanza convincente, ma non aveva la forza per fare più di questo. 

 

-È un ottimo segno, Jungkook.- 

 

Namjoon strappò fuori dalla sua bocca quelle parole false per vedere un briciolo di sollievo negli occhi del più giovane, per vedere il suo petto respirare più serenamente. In preda alla nausea, inghiottì i sensi di colpa che come un'alta marea lo avevano riempito fino a raggiungere la gola. 

 

"Prima o poi dovrai dirgli che quei movimenti alle dita sono solo degli spasmi muscolari involontari." 

 

Era vero. Avrebbe dovuto. Ma la verità era che non aveva il coraggio di distruggere l'ultima scintilla di speranza che era rimasta nel gruppo. La voleva coprire dal vento gelido della disperazione e dello sconforto, proteggerla sotto una campana di amore e di determinazione. Perciò, tirò i muscoli facciali ancora di più nel tentativo di allargare quel malandato sorriso e allungò la mano verso Jungkook, porgendogli il caffè che aveva preso per lui. 

 

-Gli stavi ancora cantando una canzone?- chiese il maggiore, osservando il ragazzo mentre ingollava il liquido bollente. 

 

Il giovane finì la bevanda in due soli sorsi, spingendola nella sua gola con una smorfia e buttò il bicchiere nel bidone. 

 

-Sì.- rispose semplicemente, lasciando intravedere un leggero velo di imbarazzo. 

 

Questa volta, le guance di Namjoon si sollevarono con più sincerità, formando due piccole fossette agli angoli della bocca. 

 

-Fai bene. Il dottore ha detto che l'udito è l'unico senso che rimane attivo durante il coma.- disse, dando una pacca sulla spalla del più giovane. 

 

-È quella nuova canzone che mi hai fatto sentire?- aggiunse poi, guardandolo con una punta di orgoglio nascosta negli occhi. 

 

Vedendo Jungkook annuire semplicemente abbassando il capo, il leader non poté fare a meno di sorridere. Quel ragazzo era sempre così insicuro riguardo a tutto ciò che non fosse il canto o il ballo eppure stava sviluppando davvero un grande talento nella composizione. Per questo motivo, quando faceva sentire a Namjoon qualcosa di nuovo che aveva prodotto il maggiore cercava di incoraggiarlo il più possibile, spingendolo a pubblicare i suoi lavori. Il momento migliore dopo averlo ricoperto di complimenti, era vedere gli occhi del minore riempirsi di soddisfazione e orgoglio e brillare come stelle di una passione così innocente che il ragazzo non poteva fare a meno di invidiare. 

 

 

Quando anche Namjoon ebbe terminato il suo caffè, seguì il suo dongsaeng lungo il corridoio costellato di qualche quadro appartenente ad un artista anonimo ed infine raggiunse la stanza duecentovenitquattro. Non appena Jungkook afferrò la maniglia, essa però gli scivolò dalle mani abbassandosi da sola e aprendo la porta. I due ragazzi alzarono lo sguardo ed ebbero un leggero sussulto non appena incontrarono gli occhi scavati e inceneriti della persona di fronte a loro. 

 

-Ciao Tae, non sapevo che saresti venuto.- disse Namjoon, cercando di non suonare troppo sorpreso. 

 

Il ragazzo doveva essere arrivato dal secondo ascensore, posto nell'altra ala del reparto, altrimenti il maggiore lo avrebbe  sicuramente visto passare. Il giovane, o l'ombra di esso, lo fissò per qualche istante con quello sguardo vuoto che gli metteva i brividi. 

 

-Me ne stavo andando.- rispose semplicemente, con la voce arrochita che rendeva le parole difficili da comprendere. 

 

-Ehi, non ce n'è bisogno. Resta ancora un po'. Jungkook, dato che è arrivato Tae che ne dici di andare un po' a casa a riposarti?- si affrettò a dire Namjoon. 

 

Il più giovane lo guardò negli occhi per un lungo istante, in cui il ragazzo lo vide cogliere ciò che pensava. Infine, annuì velocemente e salutò i compagni lasciandoli soli. Prima che Taehyung potesse scappare, il leader entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandovisi sopra. 

 

-Sono contento che tu sia venuto.- eruppe, forzando un tono leggero nella sua voce. 

 

L'amico non rispose. Rimase a fissarlo per un tempo infinito, prima di deglutire e sedersi sulla poltrona vicino alla finestra, il posto più lontano dal letto. Namjoon deglutì pesantemente e si massaggiò il collo, bloccato dalla tensione della situazione e dalla preoccupazione. 

 

"Piccoli passi."

 

Dei venti giorni che Jimin aveva passato in coma su quel letto di ospedale, quella era la terza volta che Taehyung metteva piede nell'edificio. Il resto del tempo lo passava a casa, chiuso nella sua stanza e lontano dai suoi compagni. Ne emergeva solo per prendere del cibo, che consumava rigorosamente da solo, e per andare in bagno. Quando gli chiedevano che cosa facesse tutto il giorno, rispondeva che giocava ai videogames. 

 

Namjoon voltò con apprensione lo sguardo verso il letto e fissò il volto inerme nascosto dietro alla maschera per l'ossigeno. 

 

"Perdonalo Jimin. Lo sai com'è fatto." 

 

Taehyung restava ostinatamente in silenzio, tenendo lo sguardo sulla finestra da cui si vedeva il piccolo giardino che circondava la struttura. Con un sospiro tremante, il maggiore fece un passo esitante verso di lui. Poi, raccogliendo tutto il suo coraggio ne fece un altro e un altro ancora, raggiungendo il minore e incatenando i loro occhi. 

 

-Anche Jimin sarà contento.- 

 

Quelle parole gli rasparono la lingua, tanto che Namjoon poteva quasi sentire il sapore del sangue in bocca. Quel sapore ferroso si accentuò ulteriormente quando l'amico lo fissò con gli occhi arrossati. 

 

-Non dire sciocchezze.- 

 

Nel giro di un istante, il viso di Taehyung diventò un maschera di lacrime. Esse fuoriuscivano copiose dai suoi occhi e inondavano le sue guance, contratte in una smorfia di dolore. Le sue labbra presero a tremare e a inumidirsi, bagnate dalla sua stessa amara disperazione. 

 

-Se solo ci avesse dato ascolto, adesso non sarebbe qui! Se avesse fatto dei controlli come gli avevamo detto, tutto questo non sarebbe successo!- 

 

Quelle parole, a malapena comprensibili, uscirono violentemente dalla bocca del ragazzo, interrotte a tratti dai singhiozzi che ne scuotevano l'intera figura. Sembrava che stesse affogando, trascinato nel mare del suo stesso dolore. E Namjoon non sapeva cosa fare. 

 

Protese una mano in avanti, ma poi la ritirò con rapidità, nascondendola nella tasca dei pantaloni. Non era bravo a dare abbracci alle persone. Finiva sempre per rendere l'atmosfera imbarazzante. In generale, non era il tipo che comunicava con gli altri attraverso il contatto fisico. Non era una cosa che lo faceva sentire a suo agio. In quell'aspetto, era Jimin il migliore. Il leader aveva sempre invidiato la capacità del ragazzo di riuscire a consolare le persone con una semplice stretta o una carezza sul capo. Era come una magia.

 

Mentre i sensi di colpa gli stritolavano la gola, Namjoon portò nuovamente gli occhi sul giovane sdraiato e mai come in quel momento avrebbe voluto che le loro posizioni fossero invertite. Lo desiderava così ardentemente da sentire il cuore sanguinare. 

 

"Tu avresti saputo cosa fare. Sei tu l'angelo custode di Taehyung."

 

Era vero. Il tocco magico di Jimin funzionava in modo ancora più efficace sul ragazzo. Ogni qualvolta che questo piangeva, l'amico compariva al suo fianco come un vero e proprio angelo e prendeva a cullarlo come un bambino, rassicurandolo fino a che le sue paure non scivolavano via. 

 

Namjoon strinse i denti con forza, finché non sentì nascere una leggera emicrania. 

 

"Smettila di cercare di essere lui. Adesso ci sei tu qui con Tae e, per quanto tu non sia bravo come Jimin, dovrai fare del tuo meglio con quello che hai." 

 

Il leader non aveva un tocco magico. Tuttavia, aveva le parole. Con questo pensiero in mente, raccolse nella sua lingua la conoscenza e il discernimento che aveva sviluppato in dieci anni di convivenza con il ragazzo, si inginocchiò davanti a lui e gli pose una mano sulla spalla. 

 

-È inutile pensare a ciò che sarebbe successo se le cose fossero state diverse. Non sappiamo con certezza se il risultato sarebbe stato migliore. Forse anche facendo i dovuti controlli ci saremmo ritrovati nella stessa situazione. Il dottore ha detto che il cervello di Jimin era come una bomba a orologeria che neppure loro avevano il potere di controllare.- 

 

Mentre sentiva la schiena dell'amico sollevarsi sotto lo stimolo dei singhiozzi e la sua gola incamerare aria disperatamente, Namjoon strizzò dal suo cuore ogni goccia di determinazione e autocontrollo per evitare di crollare a piangere a sua volta e si costrinse a proseguire. 

 

-Quello che possiamo fare adesso è fargli capire che siamo qui, vicino a lui, e che lo stiamo aspettando. Tu in particolare hai questo potere più di tutti noi.- 

 

Sentendo quelle parole, il più giovane alzò gli occhi immersi in quel mare incontenibile e lo fissò con una disperata rassegnazione. 

 

-Hyung...- 

 

Quella parola uscì dalla gola di Taehyung come un gorgoglio, soffocata dai suoi respiri ansimanti, ma nonostante ciò il maggiore la percepì forte e chiara, perciò aspettò che il suo amico proseguisse. 

 

-Ho paura.- 

 

Piegando le labbra in una smorfia, il ragazzo afferrò le mani del suo amico e le strinse fra le sue. 

 

-Lo so. E so che per te è ancora più difficile ma ascoltami, Tae. Se c'è qualcuno che può tirarlo fuori di lì, quello sei tu.- 

disse perforando il giovane con una bruciante determinazione che non sapeva neanche di possedere. 

 

-Parlagli. Raccontagli come ti senti, come hai sempre fatto. Digli cosa ti spaventa, descrivigli la tua giornata, condividi con lui i tuoi momenti.- 

 

Namjoon iniziò a percepire un barlume di speranza crescere timida nell'animo dell'amico, in mezzo ad una tempesta di disperazione. Avrebbe alimentato quella fiammella con tutte le sue forze, dandole il suo stesso ossigeno per crescere se fosse diventato necessario. Perciò, si alzò in piedi trattenendo la mano di Taehyung e prese a trascinarlo fino a che non ebbe raggiunto la sedia posta accanto al letto. Il ragazzo teneva lo sguardo lontano dal volto addormentato, intrappolato in un abisso troppo profondo, ma si sedette comunque raggomitolandosi su se stesso. 

 

Il maggiore guardò quel cumulo di emozioni con un leggero sorriso e indietreggiò lentamente, avvicinandosi alla porta. 

 

-Vi lascio soli.- disse infine, scivolando fuori dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle. 

 

Appoggiato alla superficie fredda, si fermò qualche istante per strofinarsi gli occhi e disperdere il fluido che ne era fuoriuscito. Poi, si staccò dal suo supporto e prese a camminare lungo il corridoio. 

 

~~~~~~

 

Jein riprese a fissare quelle piccole gocce scintillanti, racchiuse nella scatola che aveva in mano, e prese lentamente a distanziare la sua anima da quella immagine. 

 

Lacrime di Chang Jein

 

Inspirando una grande quantità di aria, liberò la sua mente di quegli oggetti con la stessa velocità con cui svuotò i polmoni. 

 

"Certe cose vengono perse per una ragione." pensò, chiudendo con solenne lentezza il coperchio di legno. 

 

"E non hanno bisogno di essere ritrovate." 

 

Era così che doveva essere. Ciò che non poteva vedere, non la poteva danneggiare. Non la poteva indebolire, rendendola vulnerabile. 

 

Una volta che ebbe appoggiato la scatola a terra, prese ad osservare il ragazzo accanto a lei, ancora immobile al cospetto di quel giglio così bianco e dall'aspetto così ironicamente puro. La ragazza allora si pose davanti a lui e gli prese le mani, cercando di attirare la sua attenzione. 

 

-Pensi che le cose perdute possano essere recuperate?- chiese lui di punto in bianco, senza staccare gli occhi dall'oggetto. 

 

Jein si prese un momento per pensare alle parole più giuste, ma era come scavare in una miniera di carbone. Il problema fondamentale era che lei non era ferrata nell'empatizzare con gli altri. In particolare, di fronte a Jimin in quel momento sentì una distanza chilometrica, più difficile da percorrere di qualsiasi altra interazione umana che avesse mai avuto. Il ragazzo era il suo opposto. Se lei aveva volentieri gettato lontano da sé quella parte della sua persona che riteneva inutile, Jimin vi si stava disperatamente aggrappando nel tentativo di impedire che scivolasse via. Non voleva ammettere che questa se ne fosse già andata. 

 

Cosa poteva dire ad una persona così diversa da lei? Come fare a non ferirlo con le sue parole? Mentre quei quesiti popolavano rumorosamente la sua mente come mosche, lo sguardo del ragazzo si sollevò per la prima volta e si ancorò al suo con trasudante disperazione. In quel momento, fu come se Jein potesse sentire la sua voce urlarle "Aiutami". 

 

Perciò, aprì la bocca e disse la prima cosa che le venne in mente. 

 

-Io penso che alcune cose non possono più essere ritrovate.- 

 

Quando sentì quelle parole, la luce negli occhi di Jimin si estinse definitivamente, lasciando dietro di sé solo uno spaventoso buio popolato di mostri. A quella vista, Jein strinse con più veemenza le mani che sorreggevano le proprie paure. 

 

-Questo però non ci rende degli esseri umani difettosi o rotti. Non ci toglie valore. E non ci impedisce di potere diventare forti con quello abbiamo.- 

 

La luce in quegli occhi paurosi si riaccese, prima timidamente e poi bruciando con maggiore intensità. Forse, quella era la direzione giusta. In quel momento, Jein chiuse il coperchio della scatola, spingendolo in avanti e lasciando che cadesse con un leggero schiocco. Quando il ragazzo vide quella scena, una sfumatura di panico gli tinse la bocca e le iridi. 

 

-Jimin.- eruppe la ragazza, catturando i suoi occhi. 

 

-Essere diversi dal passato non ci rende meno noi stessi. Con o senza una parte di noi, rimaniamo pur sempre... noi.- 

 

Prendendo la scatola dalle mani tremanti del giovane, la ragazza cercò di rassicurarlo con un sorriso e appoggiò l'oggetto ai loro piedi. Vedendo lo sconforto e lo smarrimento altalenare ancora nel suo sguardo, Jein gli rivolse un sorriso ancora più ampio e gli riprese le mani. 

 

-Mi porteresti in un posto?- chiese improvvisamente. 

 

Una punta di confusione si diffuse sulla fronte di Jimin, che annuì debolmente. 

 

-Dato che ci sei stato diverse volte, mi porteresti a vedere Londra? Ho sempre sognato di andarci.- aggiunse fissando il suo interlocutore con impazienza. 

 

La ragazza lo vide annuire distrattamente e abbassare gli occhi sulla scatola ai loro piedi, con una disperata brama che gli ubriacava ancora la percezione. 

 

"Devo fare qualcosa. Ma cosa?" 

 

Con urgenza, cercò di pensare al modo migliore per rassicurarlo ma la sua mente era bloccata. Non era mai stata in grado di consolare le persone e per questo risultava sempre fredda e distaccata. Poi, una domanda spuntò nella sua coscienza, illuminandola improvvisamente. 

 

"Cosa farebbe Jimin se fosse al mio posto?" 

 

La riposta arrivò rapida e istintiva. Le sue mani percorsero il profilo delle braccia del giovane, tracciando un tragitto che terminò sulla sua schiena. Avvicinò il suo corpo a quello ancora leggermente tremante del ragazzo e appoggiò il viso sulla sua spalla. E lo strinse.

 

 

E DUNQUE...

ho iniziato a studiare. È ufficiale. Pregate per me, perché ho iniziato un libro di 400 pagine sulla storia della Corea e sto già rimpiangendo le mie scelte di vita. Però volevo essere sicura di conoscere bene bene la società coreana del tempo prima di imbarcarmi nella nuova storia (che comunque non uscirà prima della fine di Dreamland) perciò non avevo alternative. Intanto sto pensando al titolo e sono indecisa tra tre alternative. Vi andrebbe di darmi una mano a scegliere? 

-Il principe del calmo mattino (fa riferimento al termine Choson, con cui i cinesi chiamavano al tempo la penisola coreana, che tradotto appunto significa calmo mattino)

-Il figlio del re

-Il principe e la schiava

Che dite? Quale vi ispira di più?

 

*dongsaeng: termine informale usato dai maschi più grandi nei confronti di maschi più giovani.

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Capitolo 10
*** 10 ***


Nel momento in cui lo strinse e le sue mani gli accarezzarono lievemente la schiena, Jein percepì i muscoli del ragazzo irrigidirsi leggermente. Le sue braccia si congelarono in un limbo di sorpresa e indecisione e i tendini del suo collo si esposero, tesi come corde di violino. Quel momento di stasi durò solo qualche istante. 

 

La ragazza attese e rimase immobile, lasciando pazientemente che Jimin recuperasse il controllo del suo corpo, rilassando uno ad uno ogni muscolo. Infine, sentì le mani del ragazzo raggiungere le sue scapole e appoggiare la testa sulla sua spalla. Quella che iniziò come una stretta leggera si trasformò presto in una silenziosa richiesta di soccorso, in cui le unghie del giovane si ancoravano disperate al tessuto del suo vestito come se avessero paura di scivolare via. 

Jein non si sentiva esattamente a suo agio, ma era contenta che le sue azioni potessero essere di conforto. Lo capì dal fatto che la pelle d'oca sulle braccia di Jimin si ritirò, lasciando al suo posto un terreno liscio e incontaminato. Lo capì anche dal fatto che la sua mandibola non era più contratta in una morsa ostinata e la sua bocca aveva cessato di tremare. Il suo petto si sollevava ad una velocità regolare, cullando con i suoi sommessi sospiri quella bizzarra composizione che avevano creato. 

 

Lei restò in silenzio. Non c'erano più parole. Ciò che andava detto era stato detto; bisognava solo lasciare che esso penetrasse nel cuore dell'ascoltatore, infiltrandosi nelle pieghe e nelle cavità, finché non l'avessero completamente riempito. E Jein era disposta ad aspettare.

 

Dopo un tempo infinito, scandito soltanto dai loro respiri e dalla cieca percezione che faceva gravitare la loro attenzione unicamente attorno all'altra persona, una parola tagliò la quiete. Sussurrata eppure rumorosa nell'imperante silenzio. 

 

-Grazie.- 

 

Jein capì e sussurrò a sua volta una risposta. Le mani di Jimin erano ancora aggrappate al suo vestito, come quelle di un bambino che cerca il conforto della madre. Nonostante ciò, la ragazza sentì che il suo cuore era ormai colmo e che la tempesta sembrava passata oltre la sua mente, perciò si allontanò da lui abbassando lentamente le mani. Le dita di Jimin indugiarono ancora qualche istante sulla sua schiena ma alla fine lasciarono andare quell'ancora e racimolarono la forza per muoversi da sole. La giovane vide negli occhi del ragazzo una timida traccia di qualche lacrima, rimasta incastrata nelle sue ciglia come rugiada su una ragnatela. Sorridendo, lasciò definitivamente il corpo del ragazzo e alzò lo sguardo, rimanendo spiazzata da ciò che incontrò. 

 

-Jimin...- iniziò a dire. 

 

Sentì l'attenzione del giovane gravitare intorno a lei, ma Jein tenne gli occhi oltre la sua schiena, incollati sul bizzarro paesaggio che li circondava. 

 

-Penso che tu abbia confuso Londra con l'Amazzonia.- concluse infine la ragazza. 

 

Con un sopracciglio sollevato verso la fronte, la giovane scrutò le piante tropicali che si protendevano verso di loro, allungando le verdi braccia le cui punte delle dita sfumavano in brillanti arancioni e rossi. Jimin si prese un istante per guardarsi intorno ed emise una lieve risatina, ancora traballante ma senza dubbio sincera. 

 

-Siamo a Londra. Purtroppo questo è l'unico posto che sono riuscito a visitare, dato che il tempo a disposizione era sempre poco.- disse il ragazzo, rivolgendo lo sguardo ad un bizzarro fiore che assomigliava ad un uccello affusolato con una cresta arancione e una lingua violacea. 

 

Jein ne seguì il corpo finché non vide ai suoi piedi una targhetta con scritto "Sterlitzia - Bird of paradise". Il giovane allora intercettò il suo sguardo e le prese la mano, tirandola leggermente verso un sentiero che tagliava quella giungla di verde. L'atmosfera era leggermente umida e afosa, tanto che la ragazza percepì la pelle imperlarsi lievemente di sudore. Inizialmente, tutto ciò che i suoi occhi riuscivano a vedere davanti a sé era la schiena non molto ampia del ragazzo e le forme bizzarre delle piante che circondavano il loro cammino. Poi, la figura che la precedeva fu circondata da un alone di luce, oltre il quale si intravedeva una parete di vetro che incontrava l'alto soffitto con una dolce curva. 

 

Dopo qualche passo, Jein trovò esposta davanti a sé una città carica di contraddizioni che si dispiegava fino alla linea dell'orizzonte. Come una creatura sdraiata al suo cospetto, Londra presentava se stessa ai suoi occhi mettendo in evidenza gli antichi monumenti neoclassici, intervallati bruscamente da imponenti grattacieli perfettamente scolpiti, mentre il grigio e il bianco degli edifici veniva talvolta sporcato da macchie di verde più o meno estese. 

 

-Questo è lo Sky Garden. È uno dei grattacieli da cui si può osservare la città ed è anche un giardino pensile.- spiegò infine Jimin, dopo aver lasciato che la sua interlocutrice trangugiasse il panorama con lo sguardo. 

 

Quando finalmente gli occhi di Jein furono sazi del paesaggio, la ragazza si girò verso di lui e gli rivolse un grande sorriso. 

 

-Grazie di avermelo mostrato.- 

 

Il giovane annuì lievemente, distogliendo presto gli occhi da quelli di lei e sfuggendo al suo sguardo di ammirazione. Poi la sua mano, ancora legata a quella della ragazza, fu tirata in avanti. 

 

-Dove andiamo?- chiese con una punta di curiosità. 

 

Jein gli rivolse una veloce occhiata divertita mentre lo trascinava verso una coppia di ascensori aperti e pronti ad accoglierli. 

 

-A fare un giro.- rispose semplicemente. 

 

Jimin aggrottò lievemente le sopracciglia, continuando a seguire docilmente la sua guida. 

 

-Ma... il resto della città l'ho visto solo dal finestrino dell'auto. Non ricordo quasi niente.- replicò. 

 

Una volta che entrambi furono dentro l'ascensore, le porte si chiusero emettendo un minimo rumore e intraprendendo lentamente la discesa, cosa che causò un leggero moto allo stomaco della ragazza. Quest'ultima, riportando infine gli occhi sul suo accompagnatore, alzò con disinvoltura le spalle. 

 

-Fa nulla. Uniremo i tuoi ricordi con quello che io ho potuto vedere da internet e vedrai che qualcosa verrà fuori.- 

 

Dopo aver ricevuto un segno del capo come gesto di approvazione, Jein sentì lo sguardo di Jimin rimanere insistentemente su di lei. Più il tempo passava, più le fibre del suo corpo sembravano scoppiettare di energia nervosa, come se delle microonde le stessero facendo agitare forzatamente. La ragazza tenne gli occhi lontani dal giovane, ma lui sembrava non voler demordere e continuò imperterrito la sua contemplazione. 

 

La discesa sembrava infinita. Ogni istante in quell'abitacolo scendeva lento come un singolo granello di sabbia in una clessidra e la giovane non riusciva più a sostenere il peso di quegli occhi che sembravano in procinto di liberare una qualche frase di rilevanza cosmica. Quando però le labbra del ragazzo si schiusero, il tintinnio sommesso dell'apparecchio ne uccise le parole, annunciando l'apertura delle porte metalliche. 

 

 

-Ok, saltiamo direttamente la parte in cui ci chiediamo dove diavolo siamo finiti e ci guardiamo attorno confusi.- eruppe Jein, alzando le mani al cielo.

 

Le porte dell'ascensore infatti non si aprirono su una caotico marciapiede londinese, accanto al quale taxi neri e autobus rossi marciavano pigramente. La scena che si propose ai loro occhi era assai diversa. 

 

-Penso comunque di avere intuito dove ci troviamo.- continuò la ragazza, adocchiando una donna che scivolava suadentemente al fianco di un uomo, il cui corpo era avvolto in un'armatura scintillante. 

 

-Io sono comunque confuso.- replicò Jimin, osservando persone che sellavano alti cavalli con pesanti bardature, lunghe quasi fino agli zoccoli. 

 

-È lecito.- rispose Jein, scuotendo il capo. 

 

Osservando un'altra donna marciare imperiosamente davanti a lei, con la testa alta e un ventaglio che sfarfallava febbrilmente davanti al viso, Jein prese a studiarne l'abbigliamento. Il suo abito si allungò fino ai piedi, tingendosi di un rosso cremisi, e si strinse intorno alla vita e al petto della ragazza, provocandole un leggero giramento di capo. 

 

"Forse è un po' troppo stretto." 

 

Mentre allentava la morsa del corsetto dal suo torace fin troppo compresso, delle maniche spuntarono sulle sue spalle, scivolando lungo le sue braccia fino a coprirle i polsi. 

 

-Credo che siamo sempre a Londra. La Londra dei Tudor.- disse Jein, una volta che il suo abbigliamento ebbe terminato di mutare aspetto. 

 

Jimin si voltò a guardarla con confusione ancora crescente, che si trasformò in sorpresa non appena un ometto con un cappello piumato e dei buffi pantaloni a sbuffo non lo affiancò con sguardo severo. 

 

-My lord, non avete ancora indossato la vostra armatura? E dove si trova il vostro cavallo?- 

 

Jein non seppe cosa fece scattare la scintilla di panico che nacque negli occhi del ragazzo, se la parola "armatura" oppure "cavallo". Era più probabile la seconda. Nonostante ciò, non poté trattenere una leggera risata davanti all'espressione sempre più terrorizzata del giovane. 

 

-No aspetti, io...- 

 

L'ometto non diede tempo al ragazzo di esprimere la sua replica che aveva già afferrato il suo braccio. 

 

-Non si preoccupi, my lord. Ci penserò io a procurarle un destriero e un garzone. Dobbiamo sbrigarci però, il suo avversario la sta attendendo.- sciorinò trafelato l'ometto. 

 

Gli occhi di Jimin si spalancarono ulteriormente, mettendo in mostra il bianco della sclera. 

 

-Avversario? Quale avversario?- esclamò con trasudante ansia. 

 

L'uomo, imperterrito, si voltò verso Jein e le rivolse un breve ma oneroso inchino. 

 

-Nel frattempo, my lady, può prendere posto negli spalti, da cui potrà vedere il suo cavaliere giostrare per il suo onore.- 

 

A quelle parole, la ragazza scoppiò a ridere definitivamente, seguendo con lo sguardo il preoccupato ragazzo che cercava di divincolarsi dalla stretta ferrea dell'ometto. Dopo averlo trascinato indomitamente, lo fece infine infilare in una tenda incoronata da uno stendardo grigio e blu, che sventolava orgoglioso nel vento. 

 

 

Jein aveva preso posto nella prima fila degli spalti, quella più vicina alla palizzata di legno intorno alla quale si sarebbe tenuta la giostra. Nelle sedute più in alto, nugoli di dame in variopinti vestiti nascondevano il viso dietro a ventagli che dovevano mascherare le loro emozionate risatine e i pettegolezzi sussurrati. Inizialmente, pensava che quella frizzante atmosfera fosse in qualche modo eccitante. Dopo poco, però, una leggera inquietudine fece capolino nei recessi della sua coscienza, rendendola straordinariamente nervosa e impaziente. 

 

"Che fine ha fatto?" 

 

"Starà andando tutto bene?" 

 

"Forse non dovevo lasciare che lo portasse via." 

 

Quelle frasi avevano continuato a rotolare nella sua mente incessantemente, conducendola in uno stato di fastidiosa paranoia. La verità era che quella era la prima volta che si separava da Jimin da quando quel lungo sogno era iniziato. Mai per un momento lui si era allontanato da lei e questo l'aveva portata a convincersi che forse c'era una qualche possibilità che la sua presenza non fosse un caso o uno scherzo del suo inconscio. Ma in quella circostanza cosa sarebbe successo? Sarebbe sparito, come il resto dei fantocci inanimati ed evanescenti che svanivano dalla sua mente nel momento in cui toglieva gli occhi da loro? 

 

La risposta arrivò poco dopo. Il ragazzo comparve ciondolando impacciatamente, probabilmente a causa della pesante armatura che gli impediva i movimenti. Allontanandosi il più possibile da un bambino che cercava di allungargli un elmo piumato, Jimin passò al vaglio gli spalti gremiti finché non incontrò gli occhi di Jein. Quando la vide, aprì la bocca e mimò un esasperato "Aiutami!". 

 

La ragazza sorrise con un guizzo di malizia agli angoli delle labbra. Infine, sollevò la mano e agitò le dita in direzione del cavaliere mimando in risposta un soave "Buona fortuna". Quando il giovane realizzò che Jein non lo avrebbe aiutato, si voltò preoccupato verso l'animale che era stato appena parcheggiato al suo fianco. Un imponente stallone dal pelo scuro come la pece scosse la testa, mostrando la sua indole poco propensa alla sottomissione. Mentre pronunciava una sequela di proteste, Jimin fu spinto dal bambino a salire sull'animale, che reagì al nuovo padrone con uno scalpiccio frustrato degli zoccoli. Poi, il bambino prese l'attaccatura delle redini vicino al morso che torturava la bocca del cavallo e prese a condurre la montatura verso una delle due estremità della palizzata di legno. 

 

All'altro capo, lo raggiunse un cavaliere seduto fieramente su un animale muscoloso e dalla folta criniera. Il cavaliere estrasse lentamente l'elmo nello stesso momento in cui Jimin prendeva in mano il proprio. Quando quest'ultimo vide infine il volto del suo avversario, il grido stupito che emise raggiunse chiaramente anche le orecchie di Jein. 

 

-Jungkook?-

 

 

HOLA 

E dunque... il piccolo Kookie è diventato un cavaliere valoroso. Come pensate che andrà lo scontro? 

Beh, se continuo a questo ritmo non temete, lo scoprirete presto. Dato che ho preso nel momento in cui ho voglia di farlo adesso pubblico abbastanza di frequente, così anche voi non dovete aspettare troppo fra un capitolo e l'altro. 

 

 

 

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Capitolo 11
*** 11 ***


-Aspettate! Aspettate un attimo, per favore, quello è un mio amico! Jungkook!- 

 

Jein osservò con crescente divertimento il ragazzo che si agitava sul cavallo nel tentativo di scendere o di allontanarsi dalla palizzata. Il suo avversario, per contro, aveva un'espressione completamente priva di emozioni di alcuna sorta. 

 

-Jungkook! Sono Jimin! Il tuo caro hyung che ti vuole tanto bene! Perché non scendiamo da... qui e andiamo a pranzo? Pago io, te lo prometto!- 

 

Jimin, dopo aver visto che il bambino al suo fianco non veniva smosso dalle sue parole, si era rivolto disperatamente all'amico di fronte a sé. Probabilmente, il suo intento era di risultare tranquillo e persuasivo, ma il suo tono più alto di qualche ottava e le sue pupille dilatate tradirono la sua agitazione. Jungkook, imperterrito, si portò l'elmo sopra la testa e se lo infilò, abbassando la visiera sugli occhi. 

 

-No, aspetta! Ce l'hai ancora per quella storia di Overwatch? Mi dispiace avere usato il tuo account per giocare e avere cancellato i tuoi risultati, giuro che è stato un incidente! Che ne dici se risolviamo la faccenda davanti ad un bel barbecue?- 

 

Nonostante il ragazzo continuasse ad agitarsi con tutto il suo corpo mentre sciorinava febbrilmente le sue implorazioni, l'amico non gli rivolse un minimo accenno di riconoscimento. Invece, afferrò la lunga lancia postagli da un ragazzo poco più giovane di lui. Jimin, finalmente, sembrò realizzare che la sua strategia era inesorabilmente fallita su tutti i fronti e prese a fissare preoccupato l'arma stretta nel pugno del suo amico. Infine, si voltò non appena il bambino gli toccò la gamba per attirare la sua attenzione e gli porse a sua volta la propria lancia. 

 

-Oh no. Non ci pensate neanche, non c'è modo al mondo che io combatta contro Jungkook! Quello mi uccide!- esclamò allora, cercando di allontanare il bambino e di scivolare giù dal cavallo. 

 

I suoi tentativi però risultarono vani, in quanto la pesante armatura gli impediva di muoversi spontaneamente, costringendogli le gambe in movimenti rigidi e contenuti. Nel giro di un secondo, perciò, si ritrovò nella mano il lungo bastone di frassino sulla cui lunghezza si arrotolavano due strisce di argento e blu, che sembravano rincorrersi fino alla cima. 

 

-I lord abbassino le lance.- annunciò una voce poderosa, che Jein scoprì appartenere all'ometto con i pantaloni a sbuffo. 

 

Il primo combattente portò la sua arma in orizzontale in modo che fosse parallela al terreno e la appoggiò ad un supporto che spuntava dalla sella. Jimin invece, cercando di evitare di sbilanciarsi, la tenne alta verso il cielo. 

 

-Aspetta Jungkook, parliamone!- 

 

La sua supplica però fu presto seppellita dalla poderosa voce che emise un ultimo tonante comando. 

 

-Cavalieri, combattete per l'onore della dama! Si dia inizio alla giostra!- 

 

Non appena l'ultima parola ebbe lasciato la bocca del buffo annunciatore, Jungkook diede un energico colpo di talloni allo sterno del destriero. L'animale, senza esitazione, rispose al comando del suo padrone protendendo gli zoccoli in avanti e prendendo a galoppare verso l'obbiettivo. Jimin tentò disperatamente di tirare le redini con la mano rimasta libera nella speranza di allontanare il suo cavallo dalla staccionata, ma l'ostinato animale tenne il muso davanti a sé. 

 

Non appena vide che il suo compagno era partito al galoppo, prese a sua volta a marciare contro di esso con cieca determinazione.

 

 

Fino a quel momento, Jein non aveva fatto altro che ridere nel vedere la buffa espressione del ragazzo che tentava di divincolarsi dal suo destino. Quando, però, notò la lancia dell'avversario avvicinarsi sempre di più al petto di Jimin divorando la distanza che li separava, uno spiacevole presentimento spuntò nella sua mente, rendendola irrequieta. 

 

"Va tutto bene. È solo un sogno. Non lo ucciderà di certo." 

 

Un metro di distanza separava i due avversari. Mentre Jimin tentava ancora di tirare le redini con la lancia che ondeggiava pericolosamente nella sua mano, Jungkook afferrò la sua mirando con precisione all'altro cavaliere. Quando l'impatto arrivò, l'aria lasciò violentemente i polmoni di Jein, prosciugandoli. L'arma dell'avversario colpì in pieno petto la lustra armatura del ragazzo, sfracellandosi in mille schegge di legno che volarono nell'aria come coriandoli. Quando la lancia fu interamente divorata dallo scontro, Jimin venne sbalzato all'indietro, cadendo da cavallo. Il suo corpo rimase in aria per qualche secondo mentre Jein osservava la scena con il panico della prescienza di ciò che stava per avvenire. 

Il ragazzo incontrò il terreno con un tonfo sordo, che giunse ammortizzato dalla paura alle orecchie della giovane. 

 

Quando la sua testa sbatté violentemente sotto la forza del contraccolpo, la ragazza si ritrovò in piedi, con i polmoni asciutti come il deserto e la gola strozzata da un cappio inscindibile. 

 

"È solo un sogno. È la stessa cosa successa con Taehyung. Non è reale." 

 

La sua testa ripeteva quelle parole, che caddero nel vuoto di una coscienza che le ignorava. Jein fece qualche passo verso il corpo di Jimin, rimasto immobile a terra, ma una folla prese ad agitarsi attorno a lei trascinandola lontano dalla staccionata. Un turbinio caotico di mani, gonne, urla ed incitazioni la trascinò in un mare di confusione e i suoi occhi persero di vista il viso contratto in una smorfia di dolore. Cercò di navigare in mezzo a quella corrente di caos, ma si sentiva trascinare sempre più in profondità. Allora iniziò a spintonare con poderose bracciate chiunque si ritrovasse tra lei e il suo obbiettivo, tirando mantelli e colpendo armature. Infine, emerse dal fondale e prese una boccata d'aria. 

 

La folla era sparita, come anche la staccionata di legno, gli spalti e gli animali irrequieti. Jimin era lì, steso a terra al centro di una stanza dalle pareti bianche, una delle quali ricoperta da specchi. Prima che Jein potesse emettere una sola parola, un ragazzo si pose davanti alla sua visuale. 

 

-Jimin!- 

 

Taehyung afferrò le spalle del suo migliore amico, scuotendolo debolmente. Il giovane scosse leggermente la testa, alzando lo sguardo sulla persona sopra di lui. 

 

-Tae?- chiese con trasudante confusione. 

 

-Hyung! È svenuto un'altra volta?- 

 

Jungkook corse al fianco del maggiore, abbassandosi per guardare con apprensione il corpo steso a terra. 

 

-Maledetto Jungkook...- iniziò a dire Jimin. 

 

Le sue parole furono tagliate dallo sguardo che finalmente rivolse alla ragazza, rimasta inerme davanti alla scena. Il suo corpo sembrava immobile, incollato al terreno e privo di ogni forza per staccarsi dalla sua prigione. Osservò impotente gli occhi del ragazzo, sperando che almeno la sua gola potesse liberarsi da quella schiavitù. 

 

-Jein!- esclamò Jimin, protendendosi verso di lei. 

 

La mano della ragazza si alzò, ma i suoi piedi non si mossero. La sua visuale fu infine ostruita da un gruppo di ragazzi che si radunò velocemente attorno al corpo sdraiato per terra. 

 

-Jimin, come ti senti?- 

 

Namjoon si fece avanti con le sopracciglia contratte e una smorfia di preoccupazione sulla bocca. Jimin, dal canto suo, prese ad alzarsi lentamente da terra guardando i suoi compagni. 

 

-È tutto a posto ragazzi, non è successo niente.- replicò semplicemente, sollevandosi.

 

Una volta che fu in piedi, però, il suo corpo prese a ondeggiare a destra e a sinistra ed ebbe un momento di esitazione, prima che Jungkook lo afferrasse per la vita, sostenendone il peso. 

 

-Jimin.- 

 

Il giovane, sentendo il tono imperioso del suo leader, si voltò con crescente apprensione verso la voce che l'aveva chiamato. 

 

-È la terza volta che svieni durante le prove questa settimana. Penso che dovresti fare dei controlli, il tuo corpo non ha mai reagito in questo modo.- 

 

Gli occhi di Namjoon avevano una luce di paterna preoccupazione che ne addolciva il viso, ma le sue parole uscirono con una fermezza e un'autorità che ammutolì l'intero gruppo. Jimin osservò l'amico con aria confusa e leggermente sorpresa, prima di distogliere lo sguardo da quello insostenibile del maggiore. 

 

-Io... sto bene, ho solo un po' di mal di testa, tutto qua. Non c'è bisogno di fare alcun controllo.- disse, passandosi distrattamente una mano fra i capelli mentre scrutava il pavimento. 

 

Jein voleva muoversi. Voleva parlare e andare da lui. Voleva capire cosa stava succedendo, perché quel sogno stava prendendo delle sembianze strane e poco rassicuranti. Quello era il momento in cui avrebbe dovuto stringere la mano del ragazzo e andare via, in un posto più sereno in cui avrebbero potuto riprendere a parlare senza preoccupazioni. Quando però il suo piede riuscì finalmente a racimolare la forza per fare un passo, un uomo si pose davanti a lei, afferrandole il braccio. 

 

-Signorina, deve uscire da qui.- disse con voce atona, prendendo a trascinarla verso la porta. 

 

-No, aspetti...- 

 

La replica sussurrata e incerta della ragazza catturò l'attenzione di Jimin, che spalancò gli occhi vedendo il corpo della giovane allontanarsi sempre più. 

 

-Jein!- 

 

La sua esclamazione fu soffocata dalla voce profonda dell'uomo, che fece indietreggiare la giovane fino alla soglia della porta. 

 

-Lei non appartiene a questo posto.- 

 

 

Quando la porta le fu chiusa davanti al viso, allontanandola dagli occhi ansiosi di Jimin, Jein sentì un senso di sconforto e smarrimento crescere dentro di sé, sciacquando via tutte le emozioni positive che aveva accumulato fino a quel momento. 

 

Abbassò le palpebre, scacciando la sensazione di vuoto che la stava risucchiando con una forza immane. Quando li aprì di nuovo, la famigliare scena che la circondò la distolse dalla spirale di ansia, facendola sentire in un qualche misterioso modo più a suo agio. Aveva sempre odiato quell'odore di disinfettante che le pressava costantemente narici, unito al pungente aroma di acqua ossigenata e al profumo sintetico di menta e fragola della pasta per impronte dentali. Le pareti verdi della sala d'accoglienza dello studio dentistico le davano la nausea e il bancone di vetro dietro al quale era seduta rifletteva fastidiosamente le abbaglianti luci sul soffitto, provocandole costanti mal di testa. Nonostante ciò, in quel momento ritrovarsi in un posto famigliare e conosciuto le fu bizzarramente di conforto, abbassando il suo ritmo cardiaco e cullando la sua mente turbolenta. 

 

-Siamo qui per l'appuntamento delle undici.- 

 

La voce nasale della donna comparsa accanto a lei, intervallata dalle grida disperate del bambino al suo fianco, provocò un moto di curiosa nostalgia nella ragazza. La signora Kim era sgarbata, saccente e aveva un figlio che scoppiava a piangere ogni volta che metteva piede nello studio, nonostante ciò avvenisse puntualmente ogni mese. Jein aveva sempre dovuto fare uno sforzo in più per rivolgerle parole cordiali e ignorare le piccate rimostranze che avrebbe tanto voluto rivolgere alla donna. 

 

-Potete accomodarvi.- replicò la ragazza con uno smagliante sorriso. 

 

La donna, con uno sguardo di sufficienza, prese a trascinare il figlio in lacrime dentro allo studio del dottore, scomparendo presto dietro alla porta chiara. 

 

Quel senso di accogliente famigliarità che fino a un'istante prima aveva solleticato la sua anima cessò presto il suo benefico effetto, lasciando che la propria inquietudine riverberasse nella stanza vuota. 

 

"Dove sarà adesso?"

 

"Starà bene?" 

 

Con una smorfia, Jein inghiottì il senso di mancanza che l'assenza del ragazzo aveva provocato e si alzò dalla sedia. 

 

"Sarà sparito. Come doveva essere. Adesso smettila di piagnucolare, dovrai continuare da sola."

 

Non fece in tempo a lasciare che quel pensiero si sedimentasse in lei, che la porta dello studio si aprì, rivelando una figura trafelata. Aveva i capelli scompigliati e sembrava aver corso per arrivare fino a lì. Ma c'era. Era di nuovo accanto a lei. 

 

-Oh, finalmente... non capisco che diavolo è successo, non riuscivo più a trovarti.- esclamò Jimin, avvicinandosi al bancone e guardandola con evidente sollievo. 

 

Jein cercò di ignorare la sensazione di completezza che quella vista le stava infondendo e abbassò gli occhi. La ritrovata serenità e la pressante gioia che le sollevò il cuore dovevano essere talmente traboccanti da trasudare perfino dal suo sguardo. 

 

-Era ora. Ce ne hai messo di tempo.- rispose semplicemente lei, cercando di alleggerire il tono della voce. 

 

Dopo un istante di silenzio, la ragazza sentì uno sbuffo divertito sfuggire dalle labbra di Jimin, che si appoggiò al bancone con un sorriso sghembo. 

 

-Chiedo scusa, signorina, non succederà più.-

 

 

I'M BROKE

E niente, ho appena speso i miei money per comprare il biglietto per il Bang Bang Con e adesso piango miseria, anche perché ho da poco comprato anche MOTS7. Maledetta BigHit che mi fai spendere i miei risparmi con così tanta leggerezza. 

Però che dire, quando finalmente mi è arrivato l'album l'ho cullato come un bambino. Ho preso la versione 2, quella dove indossano le ali. E...god bless my soul. 

Voi avete preso MOTS7? Se sì, che versione e chi ci avete trovato dentro? 

(SPOILER: io ho trovato Tae con un super make up)

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Capitolo 12
*** 12 ***


-Quindi questo è il posto in cui lavori?- 

 

Jimin prese a scrutare la zona circostante con una scintilla di curiosità negli occhi, prima di far atterrare il suo sguardo sulla ragazza dietro al bancone che continuava ad evitare il contatto visivo. Jein in risposta annuì semplicemente, emettendo un piccolo sospiro. Sollevò gli occhi dalle pile di scartoffie accatastate ordinatamente e decise infine di guardare il suo interlocutore. 

 

Il suo sguardo giocosamente insistente le era per qualche motivo insostenibile. La ragazza non era mai stata timida o timorosa. Non aveva mai temuto il contatto visivo con qualcuno; anzi, talvolta veniva accusata di essere poco rispettosa per il modo sfacciato con cui guardava le persone. Tenere gli occhi in quelli di Jimin, però, le sembrava una sfida immane. Erano come quella carta ricoperta di colla che veniva usata per catturare i topi. Lei, come un piccolo indomito topolino, si avvicinava a quella trappola mortale ed ogni volta che lo faceva sentiva le zampe rimanere intrappolate. Allora, non appena  la colla iniziava a fare presa sul suo corpo, scattava con tutte le sue forze e fuggiva via, lontano dalla funesta fine che l'attendeva. 

 

Nell'angolo del suo campo visivo notò che Jimin piegò il capo avvicinandosi leggermente a lei e la ragazza ebbe l'impressione che cercasse di intercettare i suoi occhi sfuggenti. Il topolino allora con uno scatto repentino si allontanò nuovamente, soffermandosi sulla porta chiara nella quale era da poco entrata la signora Kim. Dietro di essa, infatti, avevano preso a trapelare delle voci. Anche il ragazzo se ne accorse e si voltò in direzione del nuovo oggetto di interesse, cercando di udire cosa stesse succedendo all'interno della stanza. L'interrogativo fu presto risolto dal rumore della porta che si apriva violentemente, seguito da una marcia determinata. 

 

I due ragazzi rimasero col fiato sospeso non appena videro il volto della persona che era irrotta nella stanza, tallonata da una figura più alta e con una smorfia sofferente che gli accartocciava il viso. 

 

-Tae, aspetta ti prego...- 

 

La voce di Namjoon si abbassò gradualmente di volume a mano a mano che i singhiozzi del ragazzo davanti a sé si facevano più violenti. 

 

-Hyung, non ce la faccio! Ho bisogno di uscire da qua!- 

 

Lo sguardo di Jein prese a rimbalzare disperatamente su tre obbiettivi, ugualmente preoccupanti ai suoi occhi. Namjoon appariva più calmo del suo amico, ma il suo viso era stato segnato dallo stress con tinte scure. Taehyung invece sembrava sul punto di soffocare. I singhiozzi gli tagliavano il respiro, dandogli la forma di spasmi violenti  che gli toglievano  aria invece che donargliela. Il suo viso, poi, era bagnato da numerosi fiumi di lacrime. 

 

Infine, Jimin. Il ragazzo aveva perso tutta la giocosità che poco prima possedeva nello sguardo, lasciando posto ad una ansiosa preoccupazione, con cui osservava il suo migliore amico che si scioglieva sotto ai suoi occhi. Provò ad allungare una mano verso di lui, ma i due nuovi arrivati sembrarono non accorgersi minimamente della sua presenza. 

 

Taehyung, liberandosi dalla presa del maggiore sulla sua spalla, uscì dallo studio con l'impetuosa furia di una tempesta. Namjoon, lasciando che i suoi occhi seguissero il ragazzo, rimase in piedi in mezzo alla stanza. Infine, mordendosi con forza il labbro inferiore come se stesse soffocando un grido di dolore, si voltò e fece ritorno da dove era venuto. 

 

Quando anche il secondo ragazzo se ne fu andato, Jein portò tutta la sua attenzione alla figura silenziosa ferma accanto a lei. Quella figura, senza dire una parola, seguì i passi che aveva percorso il giovane che aveva appena lasciato la stanza e attraversò la porta da cui era entrato. La ragazza si accorse di avere prontamente seguito Jimin solo quando ritrovò il suo corpo nascosto dietro a quello del ragazzo, il quale stava ingurgitando nervosamente con lo sguardo la scena davanti a sé. 

 

Quello non era l'ambulatorio del dentista. I due giovani infatti si trovarono davanti una serie di poltrone imbottite, su cui una fila di ragazzi era arroccata come uccelli appollaiati su un ramo. A dominare il corridoio però furono le figure di Namjoon e di un uomo avvolto in un camice bianco, che parlava sommessamente con il giovane. 

 

-Siamo riusciti a rimuovere l'aneurisma prima che questo esplodesse completamente. Nonostante ciò, il cervello potrebbe aver riportato dei danni che al momento non siamo in grado di misurare, perciò dobbiamo tenerlo in coma farmacologico finché non siamo sicuri che il pericolo sia passato.- 

 

 

Il tono pacato del dottore non era riuscito ad addolcire quelle parole così taglienti e spigolose, che sembravano aver pugnalato Jimin, ferendolo fino al midollo. Jein si avvicinò a lui e vide i suoi occhi vacillare pericolosamente. Saltavano freneticamente dalle figure dei suoi compagni, chiusi in una silenziosa forma di disperazione, al dottore che aveva parlato con il leader e che aveva appena indicato l'ingresso di una stanza. 

 

La ragazza immaginò cosa essa contenesse. O meglio, chi. Dal modo in cui Jimin aveva inghiottito l'aria nella gola, con un movimento così forzato da far risaltare il suo pomo d'Adamo, Jein capì che anche lui aveva tratto la stessa conclusione. Allora, fece un passo avanti e lasciò scivolare la mano in quella del ragazzo alzando lo sguardo e lasciandosi volontariamente intrappolare da quella pericolosa colla. Si forzò a rimanere, a trattenere l'impulso di scappare da quella prigione e fissò gli occhi ombrosi del ragazzo. Non disse niente ma cercò di trasmettergli quello che la sua mente pensava. 

 

"Ci sono."

 

"Sono qui con te." 

 

Non portò quelle parole sulle sue labbra. Non avrebbe avuto il coraggio di pronunciarle e sarebbero sicuramente uscite in modo diverso da quello che avrebbe voluto. Jimin, comunque, sembrò capire perché si aggrappò alla sua mano come aveva fatto in precedenza con il suo vestito. Infine, si voltò e tornò da dove erano venuti. Jein pensava che il ragazzo sarebbe voluto entrare e affrontare quel pressante dubbio. Invece, con sua grande sorpresa, uscì dalla stessa porta che avevano attraversato prima senza voltarsi indietro. Nuovamente, la ragazza rimase in silenzio e lasciò che il giovane la conducesse attraverso il nuovo paesaggio che si aprì davanti a loro.

 

 

"Dove ci troviamo?"

 

Il silenzio copriva le loro figure come un rassicurante mantello, proteggendoli dalla tempesta da cui erano fuggiti. Per questo motivo, Jein si trattenne dal pronunciare la domanda ad alta voce, lasciandosi invece trascinare dal ragazzo attraverso una strada deserta. Jimin, d'altro canto, non sembrava disorientato. Dava invece l'impressione di sapere esattamente dove si trovasse e prese a inseguire un obbiettivo che la ragazza ignorava. 

 

La via che stavano percorrendo sembrava appartenere alla periferia di una città. Lungo uno dei lati del marciapiede, si apriva ai passanti un piccolo parco che offriva panchine e uno scivolo per bambini rovinato a tratti dalle intemperie. La carreggiata, all'altro lato, era larga ma non ospitava nessuna macchina. Nessuna persona marciava sull'asfalto e le file disordinate di edifici, benché cariche di segni di vita come panni stesi e vasi di fiori ai davanzali, erano prive di abitanti. Abituata al costante sciamare di persone e di vetture della capitale, Jein fu stranita da quella mancanza di forme di vita. Era come se la città fosse in uno stato di stasi, come se qualcuno l'avesse bloccata nel tempo, in un istante di quiete estrema.

 

La giovane fu distratta dalla sua contemplazione di quella bizzarra visione nel momento in cui il corpo di Jimin si fermò, bloccato davanti ad un condominio dall'aspetto piuttosto sgangherato. Il ragazzo prese a salire le scale dell'edificio, lasciandosi alle spalle un pianerottolo dietro l'altro. Arrivati al quinto piano, si diresse verso la prima porta a destra. 

Sollevò la mano non intrecciata in quella di Jein e indugiò sopra al campanello. Infine, affondò il dito sul tasto, provocando un trillo allegro e udibile anche attraverso le mura. 

 

I ragazzi poterono sentire il fruscio frenetico di piedi che pestano il pavimento avvicinarsi alla porta, finché essa non si aprì rivelando un uomo sulla cinquantina, con i capelli leggermente diradati sulle tempie. L'uomo rimase per qualche istante ad osservare in basito silenzio il ragazzo di fronte a sé, che si stava lentamente sciogliendo in un sorriso. Infine, rilasciò uno sbuffo e diede una pacca sul braccio del giovane. 

 

-Oi, non mi avevi detto che saresti passato! Non ti aspettavamo.- eruppe semplicemente l'uomo, illuminandosi in viso. 

 

-Scusa papà, volevo farvi una sorpresa.- replicò semplicemente Jimin. 

 

Jein, sentendo quelle parole, si voltò di scatto verso il ragazzo che la teneva ancora per mano. Sulle sue labbra si era aperta una smorfia divertita ma il suo sguardo trasudava un'espressione malinconica che spegneva l'allegria delle sue parole. 

 

Il padre di Jimin non staccò gli occhi dal figlio e continuò a dargli pacche affettuose sulla spalla. 

 

-Hai fatto bene, hai fatto bene. Entra forza, così posso offrire alla signorina qualcosa da bere.- 

 

La ragazza scattò sull'attenti spostando lo sguardo sull'uomo e affrettandosi a piegarsi in un inchino. 

 

-Salve signor Park, è un piacere conoscerla.- disse in un sussurro strozzato dall'imbarazzo. 

 

Al suo fianco, sentì Jimin lasciarsi sfuggire una breve risatina. Jein, allora, gli lanciò un'occhiata perforante quanto una raffica di dardi infuocati, che però non riuscì scalfire l'ombra di divertimento che la situazione stava provocando al ragazzo. 

 

-Mi chiamo Chang Jein.- continuò la ragazza, riportando la sua attenzione all'interlocutore di fronte a lei. 

 

Questo la guardò con una calorosa luce negli occhi, che la giovane trovò alquanto famigliare. Era la stessa gentile aura che impregnava lo sguardo del figlio e Jein non si sorprese nel riscontrare quanto i due si assomigliassero. 

 

-Forza entrate, non state lì impalati.- esclamò allora l'uomo con una smorfia divertita. 

 

Dopo essersi tolti le scarpe, i due ragazzi lo seguirono fino ad un piccolo salotto che conteneva a malapena un divano color crema e un basso tavolino. Una volta che si furono seduti, la ragazza si rese conto di un dettaglio che la sua mente fino a quel momento aveva trascurato. Il suo corpo non era più avvolto nel tessuto cremisi dell'abito che aveva plasmato in precedenza. Invece, i suoi vestiti si era modellati di loro spontanea volontà in un paio di jeans e una camicetta chiara, che scendeva morbidamente sui suoi fianchi. Osservò confusa il nuovo abbigliamento, chiedendosi quando esso avesse deciso di cambiare, ma era stata talmente tanto assorbita dagli ultimi fatti che non aveva minimante fatto attenzione al suo aspetto. 

 

Sollevando infine lo sguardo dal suo corpo, incontrò una tazza colma di caffè fumante appoggiata sul tavolino. 

 

-Mi fa piacere che sei passato. Ultimamente sei talmente impegnato che è difficile vederti anche solo una volta all'anno.- 

 

La frase pronunciata dal signor Park non suonò come un rimprovero, ma uscì dalle sue labbra con una punta di amarezza che raggiunse velocemente il figlio, trasmettendogli una scintilla di turbamento. 

 

-Hai ragione, vi ho trascurato nell'ultimo periodo. Mi dispiace.- 

 

Jimin guardò il padre con gli occhi in tempesta. Sembrava che avesse desiderato pronunciare quelle parole così ardentemente da dover esplodere. Ora che le aveva finalmente liberate dal suo petto, però, pesavano come macigni nella stanza. L'uomo osservò suo figlio, trattenendo appena dietro a traballanti barriere tutte le emozioni che quella vista gli procurava e si limitò a scompigliare i capelli del ragazzo. 

 

-Beh, adesso sei qua. È questo che conta.- 

 

Quell'atmosfera di calore e di nostalgia si spense improvvisamente nel momento in cui i presenti udirono la porta dell'ingresso chiudersi. 

 

 

HELLO

 

Come ve la passate? State bene? Che mi raccontate di bello? 

Io in questi giorni ho iniziato a partecipare a un po' di scambi letture con Dreamland e ho trovato diverse storie interessanti. Una cosa che è emersa dai commenti di quelli che hanno la mia storia è su cui stavo riflettendo in questi giorni è che uso un po' troppe descrizioni che appesantiscono la lettura. Sto valutando molto la cosa perché è proprio l'aspetto che ho cercato di migliorare di più da quando ho finito Déjà vu, perciò volevo chiedervi voi cosa ne pensate. Dovrei tagliare le descrizioni? Vi risulta pesante la lettura a causa di esse? 

Prima di iniziare a scrivere questa storia ho fatto anche un mini corso di scrittura dove incoraggiava ad usarle, perciò personalmente sono un po' confusa al riguardo.

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Capitolo 13
*** 13 ***


-Ho preso il pollo per stasera, farai meglio a fartelo andare...- 

 

La voce femminile che era irrotta nell'appartamento, rompendo l'atmosfera di nostalgico affetto familiare, si bloccò non appena la sua proprietaria entrò nel salotto e prese atto della scena davanti a sé. La donna, sulla cinquantina anch'essa, era piuttosto magra e il suo viso era stato appena disegnato da una manciata di rughe. I suoi occhi stanchi e spenti si appoggiarono su Jimin, osservandolo per qualche istante di muta riflessione. 

 

-Beh? Tu non dovresti essere in tour?- sbottò infine, alzando le sopracciglia. 

 

Il ragazzo ingoiò quello che sembrava un groppo di tensione e forzò un tono leggero nella sua voce. 

 

-E invece sono venuto a trovarvi.- disse con un sorriso nervoso. 

 

La donna rimase nuovamente in silenzio fissando il ragazzo con l'intensità di uno scienziato intento a studiare le reazioni chimiche del proprio esperimento. Infine, sbuffò piegando leggermente il capo di lato. 

 

-Era ora che venissi. Sembra che tu abbia tempo per tutto il resto del mondo tranne che per la tua famiglia.- 

 

Il tono della donna trasudava una forma di subdola accusa atta a stimolare il senso di colpa nell'interlocutore; tattica che, a giudicare dallo sguardo smarrito di Jimin, aveva avuto successo. 

 

-Perdonami mamma.- sussurrò abbassando gli occhi sulle sue mani intrecciate in una nervosa morsa. 

 

Il padre guardò il ragazzo con una smorfia di amarezza sulla bocca, accarezzandogli leggermente la schiena e cercando di riscaldarlo dal freddo che si era impossessato della stanza. 

 

-Cara, non essere così dura con lui. È il suo lavoro.- replicò l'uomo, portando lo sguardo sulla moglie. 

 

La donna, con ostinata irritazione negli occhi, incrociò le braccia al petto osservando accusatoria il marito. 

 

-Non lo difendere! Ha avuto perfino il tempo di trovare una ragazza, ma non per venire da noi.- 

 

Il corpo di Jein scattò come una molla a quelle parole, irrigidendole in un istante i muscoli e facendole spalancare gli occhi. Anche il capo di Jimin, fino a qualche istante prima abbandonato in avanti, si alzò velocemente lanciando uno sguardo scioccato verso la donna. 

 

-Mi scusi, io veramente...- 

 

La voce incerta della ragazza fu uccisa in un istante dallo sguardo di fuoco che dardeggiò dalla donna. Non disse niente ma la giovane percepì chiare e forti le parole che serbava. 

 

"Non hai il diritto di parlare." 

 

Gli occhi di Jimin avevano seguito lo scambio, rimbalzando dalla madre alla ragazza con la nervosa aspettazione di un evento disastroso. Infine, avvicinò impercettibilmente il corpo a quello di Jein e schiuse le labbra per replicare. 

 

-Mamma, ascolta...- 

 

-Questa è tutta colpa tua!- 

 

Le parole della donna ignorarono il figlio, tagliando l'aria con la precisione di una spada. Il sibilo silenzioso che ne seguì lasciò i presenti senza fiato, facendo gravitare l'attenzione sull'oggetto dell'accusa. 

 

-Se tu non lo avessi iscritto alla maledetta scuola di danza adesso lui sarebbe un uomo d'affari e abiterebbe ancora a Busan!- rincarò la donna fissando il marito. 

 

La ragazza rimase sorpresa dalla calma che possedeva lo sguardo dell'uomo. Davanti a quelle parole, i suoi occhi si spensero di quel calore che li aveva caratterizzati fino a poco prima e rimasero sulla moglie con rassegnata accettazione. 

 

-Tesoro, avresti preferito che nostro figlio non inseguisse i suoi sogni e vivesse invece una vita senza scopo?- replicò in modo pacato. 

 

La donna non sembrò avere un attimo di esitazione. 

 

-Sì!- 

 

Quell'esclamazione sembrò prosciugare il corpo di Jimin di ogni forza. Esso si accasciò in avanti, accartocciandosi in un silenzioso cumulo di sensi di colpa. Jein osservò con crescente apprensione la sua schiena che si sollevava sotto all'impeto di profondi respiri mentre le sue mani che afferravano i suoi capelli, nascondendo il viso. 

 

-Almeno adesso sarebbe ancora vicino a noi!- continuò la donna, trafiggendo il marito con il cocente dolore che trasudava dal proprio sguardo. 

 

-Smettila di fare la vittima. Non l'hai sostenuto durante il suo debutto ma quando ha iniziato ad essere famoso hai fin troppo apprezzato i soldi che portava a casa!- 

 

Quell'uomo calmo e pacato che li aveva accolti con gentilezza e che sedeva con loro sul divano era sparito. Il padre di Jimin si era alzato, fronteggiando la moglie con tono carico di rancore e uno sguardo di violenta accusa che stonava così malamente con ciò che fino a quel momento Jein aveva visto. La sua preoccupazione crebbe ulteriormente quando sentì una timida, lontana voce che sussurrava disperata. 

 

-Mi dispiace.- 

 

Gli occhi della ragazza puntarono le dita che tiravano i capelli del ragazzo al suo fianco. Anche se non poteva vedere il suo viso, immaginava l'espressione di sofferenza che sicuramente lo dominava. 

 

-È tutta colpa mia.- 

 

Jein portò immediatamente una mano sulla schiena del giovane. Avrebbe voluto tappargli le orecchie, isolarle dalle parole cariche di risentimento che continuavano a volare nella stanza come granate fra i due coniugi. Ma non poteva. Quello era un sogno. E quelle parole non potevano essere chiuse fuori. Erano dentro Jimin.

 

-Non è colpa tua.- 

 

L'unico modo che la ragazza aveva per ripescare il giovane da quella disperazione era cercare di sovrastare quei fastidiosi suoni che  lo colpivano. Sovrastare il suo rimorso. 

 

-Non è colpa tua.- ripetè, avvicinandosi ancora di più al suo orecchio e stringendo le braccia attorno al suo busto. 

 

Non sapeva se Jimin avesse ricevuto le sue parole o se le avesse comprese. Forse, era talmente arroccato dietro quella barriera di dolore da non riuscire a lasciare passare nient'altro che le voci accusatorie nel suo cuore. Dopo qualche istante, però, la sua schiena prese ad alzarsi e abbassarsi ad un ritmo più regolare, con la placida serenità di piccole onde. Allora, Jein riportò il viso vicino al suo orecchio. 

 

-Andiamo via.- 

 

 

Con grande sorpresa della ragazza, il giovane udendo le sue parole si alzò senza un attimo di esitazione e la condusse fuori dalla stanza. Dopo aver lanciato un ultimo sguardo all'uomo e alla donna intenti a ferirsi a vicenda con taglienti accuse, attraversò una porta chiara e si chiuse alle spalle il salotto. Il nuovo ambiente in cui erano entrati era una camera da letto dalle semplici pareti bianche, il cui unico decoro consisteva in un poster dei Big Bang appeso sopra al letto. Quando gli occhi di Jein caddero sulle numerose fotografie che disseminavano la scrivania e le mensole, riconobbe le guance paffute e il grande sorriso che socchiudeva gli occhi di un piccolo Jimin, ritratto insieme alla sua famiglia e ai suoi amici. Una foto ritraeva anche quello che doveva essere il giorno del suo diploma, mostrando il ragazzo fieramente stretto nella sua linda divisa e affiancato da un giovane Taehyung, che aveva un braccio intorno alla spalla dell'amico e sorrideva mettendo in mostra tutti i denti. 

 

-È la tua stanza?- chiese allora la ragazza, voltandosi con un timido sorriso. 

 

Il giovane alzò lo sguardo su di lei, annuendo semplicemente con il capo. Jein non dovette sondare a lungo i suoi occhi per scorgere il turbamento che stava emergendo dalle loro profondità. Anche se aveva chiuso dietro di sé il suono dei suoi sensi di colpa, essi molto probabilmente rimbombavano ancora nella sua mente inondando i suoi pensieri. La ragazza allora prese a scrutare l'ambiente circostante, in cerca di una qualsiasi distrazione. Il suo sguardo alla fine cadde su un lungo specchio appeso al muro, alto quasi quanto la sua intera figura. Mentre un'idea faceva capolino nella sua mente, si avvicinò all'oggetto sollevando una mano. Una volta che vi si fu posta davanti, sfiorò la superficie vetrosa con le dita. Questa, sotto al suo tocco, prese ad incresparsi come l'acqua di uno stagno che, perturbata da un estraneo, si disperdeva in cerchi concentrici. 

 

Con un sorriso soddisfatto, la ragazza si voltò e invitò con lo sguardo il giovane ad avvicinarsi. Questo si spostò rapidamente vicino a lei e si pose dietro al suo corpo. Non c'era esitazione né confusione nel suo sguardo. L'unico sentimento che Jein vi poté cogliere era il desiderio di fuggire da lì. 

 

Voltandosi nuovamente verso lo specchio, vi appoggiò una mano sopra, emettendo una leggera pressione. La superficie, come aveva fatto poco prima, prese a incresparsi e risucchiò l'arto della ragazza in un istante. Allora, la giovane si spinse in avanti, lasciando che il suo intero corpo attraversasse il mezzo dalla consistenza bizzarramente gelatinosa. Quando il suo viso emerse all'altro capo dello specchio, i suoi occhi si spalancarono in un'ansiosa realizzazione. 

 

"No." 

 

Voltò il capo a destra e a sinistra, osservando la stanza così famigliare con crescente apprensione, senza accorgersi che il ragazzo aveva attraversato a sua volta la superficie acquosa e si trovava proprio dietro di lei. 

 

"Non qui. Non volevo venire qui!"

 

Girandosi, il suo sguardo tormentato si scontrò con quello leggermente preoccupato di Jimin. Lei, allora, si riportò davanti allo specchio, schiantando le mani contro il vetro. 

 

-Andiamo via di qui.- sussurrò con la gola intrappolata nell'ansia. 

 

Le dita, però, non furono risucchiate dalla sostanza gelatinosa come poco prima. Esse invece graffiarono il vetro freddo e indifferente, imperturbato dal loro insistente tocco. 

 

-No!- 

 

Jein osservò la superficie ostinatamente integra con sconforto mentre il panico le assaliva lo sguardo. Sbatté un pugno contro l'oggetto, ma questo non si scompose e le restituì semplicemente la sua immagine sconvolta. 

 

-Jein, che succede?- 

 

Il tono preoccupato del ragazzo dietro di lei la fece voltare e puntare gli occhi in quelli apprensivi di lui. Poi, la porta della stanza attirò prepotentemente l'attenzione di entrambi, spalancandosi con veemenza. 

 

-Oh! Tesoro, hai portato un ragazzo a casa e non mi dici niente?-

 

Jein voleva sparire. Dissolversi nell'aria come vapore acqueo e volare via, sospinta dal vento. O, forse, avrebbe voluto che Jimin sparisse. Avrebbe volentieri rinchiuso se stessa in quella casa, se lui non avesse dovuto assistere a quello che li aspettava. 

 

-Tesoro, non fare quella faccia corrucciata! Così ti imbruttisci! Già dovresti ringraziare che un ragazzo così bello ti abbia rivolto le sue attenzioni, se poi non ti mantieni un po' non riuscirai a farti mettere neanche l'anello al dito!- 

 

La voce squillante della donna si infiltrò nelle orecchie della ragazza con un serpente, catturandole la mente in una morsa letale. 

 

-Mamma, scusa, dobbiamo andare.- replicò rapidamente la ragazza, prendendo a trascinare Jimin fuori dalla stanza. 

 

-E dove pensi di andare?- 

 

Quelle parole la gelarono sul posto, bloccandole le gambe che avevano quasi raggiunto la porta dell'ingresso. 

 

-Pensi di potere uscire da questa casa senza avermi prima permesso di offrire il pranzo a questo splendido ragazzo?- 

 

Deglutendo, Jein si voltò a guardare l'espressione splendente di gioia sul viso della donna.

 

"Se adesso scappo, rischio di irritarla." 

 

"Ma se resto..." 

 

Mordendosi nervosamente il labbro, abbassò lo sguardo e si diresse in cucina, facendo strada al ragazzo che continuava a seguirla in silenzio. La giovane sentiva il peso delle sue domande inespresse e della sua apprensione, ma non ebbe il coraggio di affrontare i suoi occhi. 

 

-Allora, come ti chiami, bel ragazzo?- cinguettò con trasudante allegria la donna. 

 

-Park Jimin.- rispose cordialmente lui, sollevando il capo dalla tavola. 

 

-Ebbene, Jimin, cosa ti ha portato ad avvicinarti a mia figlia? Sai, di solito i ragazzi le stanno alla larga perché è troppo intimidatoria.- replicò la donna, ammiccando in direzione del giovane con fare platealmente provocatorio. 

 

Jein, in quel momento, avrebbe tanto voluto avere una pala per poter scavare le mattonelle della sala da pranzo e seppellire il suo corpo lì, insieme al suo imbarazzo. 

 

-Vede, io...- iniziò a dire Jimin, con una risata nervosa intrappolata sulle labbra. 

 

Le sue parole furono interrotte dal piatto ricolmo di cotolette di maiale e riso che gli fu spinto davanti al viso. 

 

-Avanti, mangia, che sei tanto magro!- esclamò la donna sedendosi di fronte ai due ragazzi e osservandoli con curiosa aspettazione. 

 

-L'ho fatto con tanto amore perciò non fare complimenti!- continuò poi, avvolgendo le mani lievemente paffute attorno al viso. 

 

Mentre il ragazzo ringraziava la donna, abbassando gli occhi con un sorriso indeciso tra l'imbarazzato e il confuso, Jein tenne lo sguardo basso senza toccare il cibo nel piatto. 

 

-Ah, Jein, dato che sei qui dovrei chiederti un favore.- 

 

La ragazza serrò gli occhi e sospirò profondamente, preannunciando nella sua mente ciò che sarebbe seguito. 

 

-Potresti prestarmi un po' di soldi?-

 

 

WHAT'S UP?

Dunque, vi preannuncio già che molto probabilmente questo sarà l'unico capitolo di questa settimana perché sono abbastanza impegnata e poi domenica è il giorno X. Come vi avevo detto, ci sarà il Bang Bang Con, perciò mi dispiace ma non esisterò per nessuno! Quindi un saluto a tutti e ci vediamo la prossima settimana!

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Capitolo 14
*** 14 ***


"Se lo ignori, non esiste." 

 

Era questa la tattica che Jein si era abituata ad usare. Chiudere gli occhi e ignorare il rumore attorno a lei. Aveva imparato che in questo modo le cose che la minacciavano o la spaventavano perdevano potere su di lei. Quindi chiudeva gli occhi, le orecchie, la mente e il cuore. E fingeva che intorno a sé non esistesse nulla. 

 

-Jein, ti ho fatto una domanda.- 

 

Silenzio. I suoi occhi, per qualche motivo, non riuscirono a rimanere chiusi. Si ritrovò a fissare il piatto intatto, percependo con pesante consapevolezza lo sguardo ansioso di Jimin accanto a lei. 

 

"Se lo ignori, non esiste."

 

Prese con controllata lentezza le bacchette appoggiate sul tavolo e iniziò a riempirsi la bocca di cibo. I suoi occhi non si alzarono neanche per un istante dalla cotoletta di maiale. 

 

-Jein, mi stai ignorando di nuovo?- 

 

La voce di sua madre era salita di tono e aveva preso quel suono strozzato tipico che assumeva quando iniziava a perdere il controllo. 

 

"Vorrei che Jimin non fosse qui." 

 

Quando deglutì il cibo, il boccone non sapeva di cotoletta di maiale. Sembrava avere il sapore di sabbia e, non appena fu spinto giù per la gola, scese con una tale lentezza da farla quasi soffocare. 

 

-Jein! Sto parlando con te!- 

 

La voce si stava convertendo in un grido, ma non aveva ancora raggiunto il punto di rottura. 

 

"Ti prego, fa che almeno Jimin possa sparire." 

 

La sua preghiera cadde nel vuoto. Il ragazzo era ancora accanto a lei, con lo sguardo che rimbalzava tra lei e la madre. Jein non si voltò a guardarlo, ma sentiva la sua confusione e il suo pressante desiderio di aiutarla. Lei, però, lo sapeva. Come la ragazza non aveva potuto spegnere le voci dei suoi sensi di colpa, lui non poteva mettere a tacere i suoi demoni. 

 

-Jein, maledizione, ti ho chiesto dei soldi! Ho bisogno di soldi!- 

 

Ed eccolo. Il punto di rottura. Le bacchette saltarono giù dalla tavola, cadendo sul pavimento con un fastidioso tintinnio che fece sobbalzare leggermente Jimin. Jein continuò imperturbata a portare il cibo dal sapore sabbioso nella sua bocca, rischiando di strozzarsi ad ogni boccone, ma costringendo il suo corpo a rimanere imperturbato. Poi, il piatto le venne violentemente sfilato da sotto le mani e finì scaraventato nel lavello. 

 

A quel punto, la ragazza alzò gli occhi. Sua madre stava davanti a lei, coi pugni appoggiati sulla tavola e quello sguardo che la giovane conosceva fin troppo bene. 

 

-Mamma, sai già qual è l'unica ragione per cui posso darti dei soldi.- 

 

Il suo tono di voce, in forte contrasto con quello della donna, uscì freddo e quasi stantio. Non stava replicando, stava affermando un fatto. Un fatto che l'interlocutrice non apprezzava. 

 

-Io non le prendo le medicine! Non sono pazza!- 

 

Jein abbassò gli occhi e li incollò all'estremità destra della sedia di fronte a sé. In uno stato quasi ipnotico, lasciò che la sua mente assorbisse l'immagine, riempiendo i suoi pensieri e svuotandoli di tutto ciò che era inutile. 

 

-Non ti senti in colpa? A dare a tua madre della pazza?- 

 

Gli occhi bruciavano ma rimasero piantati sull'immagine che anestetizzava la sua mente e silenziava il dolore. La voce di sua madre era scesa di qualche tono e aveva assunto un sibilo sinistro che alimentò la stretta alla gola che le alleggeriva la testa. 

 

-Smettila di ignorarmi!- 

 

Le palpebre di Jein si serrarono ancora prima di sentire l'impatto. Il bicchiere volò sul pavimento, provocando uno schianto che tagliò le orecchie della giovane, tanto da darle la sensazione che stessero per sanguinare. 

 

"Se lo ignori, non esiste." 

 

-Maledetta sgualdrina! Di' la verità, hai preso il primo ragazzo che hai trovato per potertene andare da questa casa, non è vero? Oh, non vedrai l'ora di andartene e lasciare tua madre qua, da sola, senza soldi e senza un aiuto!- 

 

La morsa si strinse ancora di più e il tipico mal di testa che quegli episodi le provocavano tornò a salire, offuscandole la vista. 

 

"Non è lei a parlare." 

 

Strinse le mani sul suo grembo, tenendole nascoste sotto al tavolo, finché non sentì le dita perdere sensibilità. 

 

-Non so nemmeno come ho fatto a partorirti! Sei una stro...- 

 

-Basta.- 

 

Jein alzò gli occhi di scatto sulla figura che si era alzata in piedi e che aveva bloccato l'ennesima ferita con una voce straordinariamente ferma e autoritaria. Quella figura che si girò verso di lei porgendole la mano e assorbendola nel suo sguardo. I suoi occhi scuri sembrarono abbracciarla, avvolgerla sotto la loro calda protezione, escludendo all'esterno ogni fonte di dolore. La ragazza, come aveva fatto tante volte ormai dall'inizio di quel sogno, afferrò la mano protesa verso di lei e lasciò che la sua coscienza smarrita trovasse rifugio fra le braccia di Jimin, che la circondarono in una stretta accogliente. 

 

-Ti porterò in un posto dove nessuno ci possa ferire. Un posto sicuro, dove potremo restare.- 

 

Jein non replicò. Annuì semplicemente, chiudendo gli occhi contro il petto del ragazzo e lasciando che lui la trasportasse ovunque la sua coscienza avrebbe desiderato. Per lei non aveva importanza la meta. In quel momento, era già al sicuro. 

 

~~~~~~

 

I corridoi dell'ospedale erano sempre deserti alle due del pomeriggio. I pazienti solitamente si riposavano, perciò neppure i parenti venivano a fare visita a quell'ora per non disturbare. Gli infermieri si godevano quei piccoli momenti di tranquillità che seguivano il pranzo seduti nelle proprie guardiole, a volte perfino intenti a schiacciare un pisolino prima di essere costretti a ricominciare la frenetica corsa da un stanza all'altra.

 

Il signor Park contemplò quella quiete in silenziosa osservazione, mentre percorreva il tragitto che ormai conosceva a memoria. Quando entrò nel grande ascensore, si accostò alla parete metallica, assorbendo passivamente la voce elettronica che lo avvisava della chiusura delle porte. 

 

Il silenzio. Fino a una decina d'anni prima, se gliel'avessero chiesto, non avrebbe saputo neanche definire che cosa fosse. Con due figli maschi in casa il silenzio era un lusso. Ogni giorno era un costante cicaleccio, un concerto di risate, litigi e urla. Ogni tanto, alla sera, sentiva il mal di testa salire, dopo aver dovuto sopportare i battibecchi dei bambini a tavola. Non avrebbe mai immaginato quanto gli sarebbero mancati. 

 

Odiava il silenzio. Gli ricordava i giorni subito dopo la partenza di Jimin, quei giorni in cui suo figlio minore si chiudeva in camera senza sapere con chi litigare, in cui la tavola sembrava sempre colma di cibo ma carente di qualcosa. Non c'era più la musica hip hop che trapelava fastidiosamente dalla porta troppo sottile della camera del ragazzo. Non c'erano più le sue scarpe abbandonate disordinatamente sul pavimento. 

 

Se c'era una cosa che il signor Park odiava più del silenzio, quella erano gli ospedali. Percorrere quei corridoi gli dava la nausea. Fosse stato per lui, avrebbe preso fra le braccia il corpo di Jimin e lo avrebbe portato a piedi fino a casa, per sdraiarlo sul suo letto. Sarebbe stato accanto a lui ogni giorno, ogni singola ora, finché non avesse riaperto gli occhi. Al diavolo il lavoro. Non gli importava. Non era mai stato importante come la sua famiglia. 

 

Invece era lì. A Seoul. Lontano da casa sua, costretto a fare il pendolare da Busan per non perdere il posto. Costretto a vedere il figlio nel weekend, quando aveva qualche giorno libero dal lavoro. 

 

Cercò di scacciare quei pensieri dalla sua mente e si fece strada finché non riconobbe la porta della stanza duecentoventiquattro. Bussando un paio di volte attese pazientemente, percependo delle voci sommesse provenire dall'interno della stanza.

 

-Salve signor Park.- 

 

L'uomo salutò Hoseok con un debole sorriso e un cenno del capo mentre il ragazzo si faceva da parte per farlo entrare nella stanza. Quando il suo sguardo incontrò anche Jungkook, che stava seduto accanto al letto di suo figlio, non fu sorpreso. Ogni volta che arrivava in ospedale lo trovava lì. Namjoon gli aveva detto che il giovane non lasciava il fianco di Jimin neanche sotto minaccia. L'uomo, a quel pensiero, sorrise tra sé e sé scuotendo impercettibilmente il capo. 

 

-Andate un po' a riposarvi. Avete pranzato?- chiese l'uomo con tono pacato. 

 

Hoseok annuì distrattamente, prima di guardare con aria accusatoria il più giovane, che invece di rispondere tenne lo sguardo sul pavimento. Il signor Park non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un altro sorriso lievemente divertito. Ricordava fin troppo bene i vari episodi in cui suo figlio lo chiamava e finiva per lamentarsi di quanto Jungkook fosse testardo e di quanto la cosa lo irritasse.

 

-Avanti, andate un po' a casa.- ripetè con un tono fintamente imperativo. 

 

Il più grande dei due ragazzi sorrise leggermente mormorando un "Agli ordini!" mentre il più giovane prese ad alzarsi lentamente dalla sedia. Quando finalmente si allontanò dal letto, l'uomo gli diede una pacca sulla spalla emettendo uno sbuffo divertito. 

 

-Mi raccomando, mangia e riposati, altrimenti quando Jimin si sveglia ti sgriderà fino alla fine dei tuoi giorni.- disse infine, strappando un sorriso al ragazzo. 

 

Jungkook annuì mormorando qualche frase a fior di labbra e uscì, seguendo il suo hyung e chiudendosi la porta alle spalle. Non appena la stanza fu vuota, l'uomo esaurì ogni traccia di divertimento e si accomodò sulla scomoda sedia. C'era di nuovo troppo silenzio. Forse non avrebbe dovuto mandare via i ragazzi. Il chiacchiericcio allegro di Hoseok gli avrebbe fatto un po' di compagnia e avrebbe potuto stimolare anche Jungkook a rilassarsi un po'. 

 

"No, quei ragazzi vengono qui ogni giorno, almeno adesso hanno la possibilità di stare un po' a casa a riposarsi." 

 

Il signor Park concordò con quella convinzione nel suo cuore. Ma il silenzio era davvero troppo pesante. Abbassando gli occhi sul ragazzo sdraiato sul letto, circondato dall'odore di disinfettante e di coperte sterili, con il bellissimo volto nascosto dalla maschera per l'ossigeno, l'uomo voleva piangere. Nonostante ciò, si trattenne. Aveva pianto fin troppo in quei giorni. 

 

-Ehi.- 

 

La sua voce uscì leggermente tremolante, perciò si schiarì la gola pirma di ricominciare. 

 

"Se ti sente così, si preoccuperà a morte." 

 

-Che mi racconti? Sai, il piccoletto era ancora qui, anche oggi. Avevi ragione tu, è proprio testardo.- 

 

Questa volta, il suo tono risultò più rilassato e riuscì a terminare la frase con un lieve risatina. 

 

-Namjoon sembra molto stanco. E Tae...- 

 

L'uomo abbassò lo sguardo, sentendo la nausea salire nuovamente. 

 

-Beh, lo conosci com'è. Ha bisogno del suo tempo. Quel ragazzo è un groviglio di emozioni e ogni tanto si perde nel tentativo di ritrovarne il capo.- disse semplicemente, soffocando nella sua mente l'immagine del ragazzo che guardava il suo migliore amico e se ne andava dall'ospedale in lacrime. 

 

Voleva bene a Taehyung. Gliene voleva quasi come se fosse stato figlio suo. Per questo, quando lo vedeva così distrutto provava un dolore quasi paragonabile a quello di vedere Jimin su quel letto. Deglutendo a fatica, emise un lungo sospiro. 

 

-Tuo fratello è nervoso come non mai.- 

 

La frase doveva suonare divertente alle orecchie del suo ascoltatore, ma l'uomo realizzò che uscì con fin troppa amarezza per poter raggiungere il suo intento. 

 

-Tua madre... non dorme più alla notte.- 

 

Afferrando la mano del giovane, studiò le dita corte che aveva ereditato da sua moglie. 

 

-Ha detto che in attesa che ti svegli preparerà un quintale di kimchi.- 

 

Il signor Park si passò una mano fra i capelli distrattamente. 

 

-Così appena ti svegli lo mangiamo tutti insieme, con il gruppo al completo.- 

 

Un sospiro più lungo e tremante degli altri uscì dalle sue labbra. 

 

-Appena ti svegli...-

 

~~~~~~

 

SONO TORNATA

Cavoli, una settimana senza scrivere è stata lunghissima. Non credevo. Comunque, oggi capitolo un po' lacrimoso. Forse più di un po'. Va beh, ragazzuoli, cosa pretendete? Ormai mi conoscete. 

Dunque, dato che ho sempre continuato a pensare a voi anche mentre mi guardavo il Bang Bang Con, vi ho fatto un regalino che spero vi piacerà. Per tutti coloro che non sono riusciti a vederlo, ho fatto qualche screen dei miei momenti preferiti. Al popolo di EFP avviso che dovrete passare su wattpad per vederli, perché non sono in grado di caricarli XD perdonatemi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** 15 ***


~~~~~~

 

Quando Jein sollevò gli occhi dal suo libro, dopo un tempo che poteva essere infinito, si accorse che si era già avvicinata l'ora di pranzo. Strofinandosi le palpebre, afferrò il segnalibro appoggiato sul comodino accanto al suo letto e lo infilò fra le pagine con delicatezza. Odiava rovinare i libri. Lo considerava un atto esecrabile, punibile con la galera. Per questo motivo, quando ripose l'oggetto nella sua piccola libreria, si prese qualche istante per ammirarne la perfetta organizzazione per genere e autore. Ogni componente, in piedi in mezzo ai suoi compagni come un orgoglioso soldatino dall'uniforme priva di pieghe e increspature, si presentava davanti a lei mostrando uno stralcio di ciò che si celava al suo interno. 

 

Con un lieve sorriso, Jein contemplò l'idea di creare qualcosa che potesse fare parte di una libreria come quella. Il pensiero che un giorno una ragazza avrebbe potuto riporre una sua creatura nella propria variegata collezione le stuzzicava un senso di eccitazione che non pensava di poter provare. Non era una brutta prospettiva. 

 

I suoi ragionamenti furono interrotti dal concitato suono di padelle contro il fornello e dall'odore di ramen che iniziava timidamente a fare capolino nella stanza, infilandosi sotto la porta. Con uno sbuffo sollevato, la ragazza rilassò i muscoli della schiena. 

 

"È un giorno buono."

 

Con gli anni, Jein aveva imparato a leggere i segnali indicatori che le rivelavano lo stato d'animo di sua madre. Il primo era vederla cucinare. La donna cucinava solo quando era di buon umore. Il secondo era quando si metteva 

spontaneamente a fare i lavori di casa. Quello era un fermo indicatore del fatto che stava vivendo una giornata buona. 

 

Con la mente più serena, Jein si diresse verso la porta per uscire dalla stanza. Durante il breve tragitto, i suoi occhi inciamparono in un oggetto che, negli ultimi giorni, aveva costantemente catturato la sua attenzione, trasmettendole un misterioso senso di inquietudine. Lo specchio verticale appeso alla sua parete le restituì l'immagine di una ragazza dal corpo bloccato nel ricordo di qualcosa che le sfuggiva dalle dita, il viso chiuso in una smorfia di sofferente confusione. 

 

"È solo uno specchio."

 

Quel pensiero non fermò la sua mano, che di sua spontanea volontà si sollevò dal suo fianco dirigendosi imperterrita verso la superficie di vetro. Appoggiandosi su di essa, si compresse contro il freddo oggetto in aspettativa di qualcosa. Ma di cosa? Non lo sapeva. O, almeno, non lo ricordava. Era come se un'immagine fumosa e distorta comparisse nella sua mente per un istante, per poi sparire senza lasciare traccia del suo passaggio. Come una serie di diapositive che venivano rapidamente messe e tolte da un vecchio proiettore, diverse apparizioni avevano fatto capolino nella sua testa da quando si era svegliata dal coma. Esse, però, la lasciavano velocemente come erano arrivate, senza darle modo di dare loro un ordine. 

 

 

Sua madre aveva cinguettato allegramente per tutto il tempo in cui finiva di preparare il pranzo. In alcuni momenti, si apriva anche nel cantare qualche canzone della sua adolescenza, invadendo la cucina con la sua voce squillante e scuotendo i fianchi in un tentativo di tornare ai tempi in cui prendeva lezioni di tango. 

 

Jein non amava la quantità di rumore che la donna produceva, ma teneva per sé quella considerazione. Aveva imparato ad apprezzare e proteggere quelli stralci di tempo in cui l'umore di sua madre era sopra le montagne. Doveva farlo, perché sapeva che essi poi giungevano al termine. 

 

Non appena la scodella le fu presentata davanti agli occhi, l'odore di miso le invase piacevolmente le narici. Dopo qualche scherzoso richiamo da parte della moglie, anche suo padre raggiunse la tavola e si accomodò al suo posto. Nonostante l'acquolina che il piatto le stava stuzzicando, la ragazza si prese un istante per assorbire quella bizzarra visione che si proponeva davanti a lei. Non ricordava da quanto tempo suo padre non pranzava con loro in un giorno infrasettimanale. Si trovava sempre al lavoro e, anche qualora fosse a casa in ferie, si chiudeva nel suo studio per tutto il giorno ed usciva per sgranocchiare qualcosa solo a pomeriggio inoltrato. Invece, quella settimana aveva preso un permesso apposta per potere rimare con la famiglia ed ogni giorno trascorreva i pasti a tavola. 

 

Iniziando a sorseggiare lentamente il brodo, la mente di Jein contemplò cosa implicasse quel cambiamento nell'uomo. Suo padre era sempre stato dedito al lavoro, sopratutto da quando sua madre aveva perso il suo. La ragazza non lo aveva mai incolpato per il fatto che spendeva poco tempo a casa. Sapeva che lo faceva per mantenerle e lo apprezzava profondamente per i sacrifici che faceva. Quel comportamento, perciò, la confondeva non poco. 

 

Mentre iniziava a portare alla bocca i noodles, sua madre si sistemò meglio sulla sedia, ondeggiando leggermente per suggerire la sua impazienza. 

 

-Dunque, non mi hai raccontato com'era andata poi con Kippeum l'altro giorno! Dove siete andate di bello?- 

 

Non appena ebbe ingoiato il boccone, la mente di Jein si divise a metà. L'indecisione le stava spaccando la testa dal momento in cui aveva parlato con la sua migliore amica, fino a farla ritrovare in bilico come un funambolo fra il desiderio e la fredda concretezza. La parte di sé che amava sognare, che ogni giorno viaggiava all'esplorazione di una vita in cui avrebbe potuto essere libera, aveva costantemente giocato ad un violento tira e molla con quella parte che era invece pesantemente consapevole di quanto le sue azioni avrebbero potuto influire sulla sua famiglia. Le parole di Kippeum, però, avevano alimentato un fuoco che lei non pensava di possedere. Quella timida fiammella che si era accesa in lei da quando si era svegliata dal coma. O, forse, da un tempo di cui non ricordava. 

 

La sua mente, un lungo battibeccare di opinioni contrastanti, aveva infine lanciato una moneta. E la sorte aveva deciso. 

 

-Kiki mi ha offerto di andare a vivere con lei.- 

 

Stringendo i denti, lasciò che le sue parole calassero sui presenti. Non sapeva che reazioni aspettare, sopratutto da parte della donna seduta di fronte a lei. Lanciandole un'occhiata veloce, tornò a concentrarsi sulle fette di manzo accuratamente adagiate nella sua scodella, pungolandole leggermente con le bacchette. 

 

-Ma è una notizia fantastica!- 

 

Per un breve istante, Jein serrò le palpebre sentendo la paura scemare velocemente dalle sue vene. Quando le riaprì, sua madre la fissava estasiata con gli occhi che brillavano di quella luce che, anche nei giorni buoni, raramente si presentava. 

 

-È una bellissima idea! Stareste così bene a vivere insieme! Potresti finalmente imparare a goderti la vita come una ragazza della tua età invece che atteggiarti da vecchia!- esclamò, scoppiando a ridere al termine della frase. 

 

La ragazza ingoiò una replica a quell'affermazione e forzò un tono leggero nella sua voce. 

 

-Mi ha detto che potrei mettermi a scrivere. In questo modo non dovrei tornare a lavorare allo studio. Dovrei contribuire solo per comprare la spesa.- 

 

Con una rapida occhiata, la ragazza controllò la postura di suo padre. L'uomo non sembrava avere neanche sentito la notizia. Continuava semplicemente a succhiare i suoi noodles, ingoiando silenziosamente il cibo con gli occhi bassi. Probabilmente non concordava con l'idea. Jein era ansiosa di conoscere la sua opinione, ma non si spinse a chiedergliela esplicitamente, preferendo invece lasciare che sua madre riempisse il silenzio cicalando concitata sulle varie cose necessarie per il trasferimento. Sembrava essere già pronta a mandarla fuori di casa il giorno stesso. 

 

Riportando gli occhi sul suo piatto, la giovane lasciò che la donna sciorinasse a ruota tutte le sue idee, ascoltando passivamente mentre terminava il suo pasto. 

 

 

Non appena il suo piatto fu vuoto, sua madre la fece alzare dalla sedia incitandola ad iniziare ad inscatolare la sua roba per il trasferimento. A poco era servito replicare che ancora non aveva preso una decisione in merito e che stava solo valutando la proposta. Nel giro di qualche minuto si era ritrovata chiusa in camera sua con una pila di scatoloni che non sapeva neanche fossero presenti in casa. 

 

Il suo corpo rimase in piedi, precariamente ondeggiante sul suo baricentro come se l'indecisione della sua mente influenzasse anche i suoi muscoli. Ferma in mezzo alla stanza, contemplò l'ambiente attorno a sé con smarrimento. Cosa fare? Cogliere l'opportunità e andarsene prima che sua madre cambiasse idea o restare e riprendere la sua vita come se nulla fosse accaduto? 

 

I suoi occhi percorsero l'ambiente in cerca di una risposta, come se essa potesse spuntare fuori da una fessura della libreria o dal cassetto dei calzini e potesse trotterellare verso di lei dicendole semplicemente cosa fare. Non era così facile. Poi, il suo sguardo si soffermò su un oggetto infilato nella mensola dedicata alla musica. Senza esitazione, i suoi piedi la portarono di fronte ad esso e le sue dita ne accarezzarono il dorso con amorevole attenzione, come se avesse paura di fargli male. 

 

Sfilando delicatamente l'album dalla sua postazione, lo voltò in modo da poter osservare la colorata mongolfiera che faceva da protagonista sulla copertina. Lentamente, lasciò cadere sul suo palmo il photo book dalla copertina rigida racchiuso al suo interno  e iniziò a sfogliarne le pagine. 

 

The most beautiful moment in life 

YOUNG FOREVER 

 

Il titolo del suo album preferito svettava sulla prima pagina bianca, dandole un senso di curiosa nostalgia. Le sue mani presero a sfogliare le immagini una dopo l'altra, divorandole alla ricerca di qualcosa che Jein non riusciva a identificare. Poi, si fermarono. Degli occhi familiari, più giovani di quanto la sua mente ricordasse, la osservavano attraverso la carta e Jein sentì un bizzarro senso di mancanza aprire una voragine in lei. Aveva l'impressione che qualcuno avesse inciso sul suo cuore un lungo e meraviglioso poema, che era stato poi cancellato grossolanamente, lasciando intravedere qualche lettera sparsa in qua e in là. 

 

Che cosa aveva perso? 

 

Quella domanda evaporò dalla sua mente nel momento in cui la ragazza udì bussare alla porta. Mentre riponeva velocemente l'album al suo posto, suo padre sgusciò silenziosamente dentro la sua stanza. 

 

-Possiamo parlare?- 

 

Con un leggero senso di confusione Jein annuì senza dire una parola, seguendo con lo sguardo l'uomo che si sedette sul suo letto, invitandola a fare lo stesso. Una volta che si ritrovò al suo fianco, il padre alzò gli occhi su di lei. 

 

-Io...- iniziò, esaurendo però il resto della frase. 

 

Dopo un istante di esitazione, aprì nuovamente la bocca. 

 

-Dovresti accettare l'offerta di Kippeum.- 

 

Gli occhi della ragazza si spalancarono, saltando sul viso dell'uomo per studiarne l'espressione. 

 

-Sei... sicuro?- chiese con cautela. 

 

Suo padre non le aveva mai chiesto niente. Non le aveva chiesto di iniziare a lavorare per potergli dare una mano. Non le aveva chiesto di prendersi cura della casa e di sua madre mentre lui era al lavoro. Non le aveva chiesto di rinunciare all'università a causa della mancanza di soldi. In generale, l'uomo non aveva mai comunicato molto con lei, ma lei sapeva quello che doveva fare e lo eseguiva senza che lui dovesse ingoiare il suo orgoglio e chiedere. Lei lo faceva volentieri, perché sapeva quanto poteva essere difficile domandare aiuto. 

 

Quella richiesta, però, era quel genere di cosa che suo padre non aveva mai fatto. Era diverso. Da quando era uscita dall'ospedale lo aveva percepito chiaramente. Qualcosa nel modo in cui lui la guardava era cambiato. Lo vide anche in quel momento, nello sguardo che le rivolse prima di rispondere. 

 

-Jein...- la sua voce, solitamente inflessibile, esitò leggermente. 

 

-In questi anni io... ti ho lasciata sola. Ti ho costretta a crescere più velocemente di qualsiasi altra ragazza e ti ho caricato di responsabilità che mi sarei dovuto prendere io.- 

 

La ragazza osservò l'uomo con crescente realizzazione. Non si sarebbe mai aspettata di ricevere quelle parole da lui, di vederlo così vulnerabile nell'aprirsi a lei. 

 

-Ti prego. Voglio vederti vivere la tua vita.-

 

Jein sentiva gli occhi bruciare. Non pensava neanche che le sue orecchie stessero ancora ascoltando. 

 

-Non preoccuparti per noi. Ce la caveremo. Io farò in modo che le cose funzionino.- 

 

Pronunciando quelle parole, l'uomo prese la mano di sua figlia e la strinse fra le proprie.

 

-Voglio che tu sia felice.- 

 

~~~~~~~

 

I SWEAR TO GOD...

Se al prossimo scambio letture ricevo l'ennesimo commento sulla lunghezza delle mie descrizioni....

 

 

 

...resuscito il Titanic, mi lego alla prua come una polena sgangherata e mi schianto contro l'iceberg. 

 

 

 

Ma sto bene. Davvero. 

 

 

 

Va beh, scusate lo sfogo. Questo capitolo può essere un più noioso dato che è di passaggio e, sinceramente, è venuto più lungo di quanto mi aspettassi. Ma non temete. Il prossimo sarà un bomba! Tenetevi pronti, perché vi sorprenderò con effetti speciali.

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Capitolo 16
*** 16 ***


Quando Jimin aprì gli occhi non sapeva se avesse effettivamente dormito. Il tempo in quel luogo scorreva in modo bizzarro e del tutto arbitrario. Secondo la sua percezione erano passati anni, ma essi erano volati con la sollecitudine di giorni. Quanto tempo era trascorso nel mondo reale? Ore? Settimane? 

 

"Non ha importanza." 

 

Il mondo reale. No, non aveva importanza. Quel pensiero si concretizzò maggiormente nella sua mente non appena iniziò a percepire il profumo di pancake che saliva dal piano inferiore. Con un lieve sorriso, si sollevò dal letto leggermente stropicciato che conservava ancora il calore del secondo corpo che fino a poco prima lo aveva occupato. 

Uscendo dalla stanza, si diresse verso la porta che si affacciava al lato opposto del corridoio. La cameretta che vi si trovava oltre era ancora avvolta in una semi oscurità, provocata dalle pesanti tende calate sulla finestra. Jimin sollevò brevemente lo sguardo, puntandolo sul soffitto. Un cielo stellato si dispiegava fino ai confini delle pareti, dipinte di un accogliente blu notte e illuminate da piccoli punti di luce argentata.

 

Il ragazzo contemplò attentamente il disegno, ingoiando il lieve groppo alla gola che iniziava a fare capolino. 

 

"Le stelle si sono spostate di nuovo." 

 

Succedeva spesso. Il colore delle pareti di alcune stanze cambiava, così come la posizione e la forma di alcuni mobili. Per quanto si sforzasse di mantenere il sogno stabile, sentiva che ogni tanto quella creatura misteriosa si dimenava, sfuggendo dalla presa salda della sua mente. Cercando di scacciare l'inquietudine, abbassò gli occhi sul lettino accostato al muro, in cui un piccolo fagotto di coperte era raggomitolato. Con una smorfia divertita, Jimin si avvicinò a quel bozzolo che aveva preso a sollevarsi e abbassarsi e si sedette accanto ad esso. 

 

-Ma dove sarà andato Minho?- chiese gonfiando la voce di curiosità. 

 

Dal fagottino di coperte fuoriuscì una risatina malamente contenuta, che fece allargare la smorfia sulle labbra del giovane. 

 

-Accidenti, me lo devono aver rubato! E al suo posto... mi hanno lasciato un baco!- esclamò con trasudante drammaticità. 

 

A quel punto, la risatina scoppiò incontrollata, trapelando chiaramente anche attraverso gli strati di coperte. Il ragazzo allora circondò con le braccia il bozzolo, che prese a dimenarsi sotto di lui. 

 

-Signor baco, mi sa dire che fine ha fatto Minho?- chiese poi, caricando maggiormente il peso sul piccolo corpicino che scalciava energicamente. 

 

Da sotto le coperte si udì un acuto "No!" che scatenò una risata nel petto di Jimin. 

 

-Me lo dica signor baco, per favore!- esclamò strofinando il viso sul fagottino in preda ad una risata così acuta da sembrare uno squittio. 

 

-Va bene. Se non me lo vuole dire, dovrò costringerla!- 

 

Detto ciò, le sue dita presero a infilarsi dentro gli strati di coperte, raggiungendo la pelle del bambino nascosto sotto di esse e prendendo a solleticarla energicamente. Dopo qualche secondo in cui il bozzolo aveva preso a dimenarsi ancora più freneticamente, finalmente emerse un bambino con i capelli scompigliati e le guance sollevate in un sorriso. 

 

-Papà, sono qua! Sono io, papà!- esclamò agitando le braccia per attirare l'attenzione del ragazzo. 

 

Questo, senza un attimo di esitazione, afferrò il corpo del bambino e lo sollevò davanti a sé.

 

-Minho! Dove ti eri cacciato? È ora di colazione!- 

 

Mentre il piccolo riprendeva a ridere emettendo degli squittii acuti, Jimin lo avvicinò al suo corpo, appoggiandolo al suo fianco e prendendo la via per il piano inferiore. Prese distrattamente ad accarezzare i capelli scuri della piccola testolina nel tentativo di appiattirli nel tempo in cui le sue gambe scendevano le scale di legno chiaro. Quando i suoi piedi atterrarono al piano terra, appoggiò il bambino lasciando che corresse in cucina come un topolino affamato e ingoiò il sospiro che stava per sfuggirgli dalle labbra. 

 

"Due gradini in meno."

 

 

Seguendo l'odore dolce dei pancakes, mischiato a quello boschivo di sciroppo d'acero e all'aria limpida che penetrava dalla finestra, giunse in cucina. Seduto al piccolo tavolo circolare, Minho stava già affondando la forchetta in una torre dorata, colante di liquido ambrato. Infine, stagliandosi contro il paesaggio del lago e degli alberi, elementi in competizione per chi avesse il verde più brillante, stava lei. In piedi davanti ai fornelli, con la testa bassa sulla padella e i capelli avvolti in una crocchia. 

 

Jimin si avvicinò alla schiena della ragazza e avvolse le braccia attorno alla sua vita, appoggiandosi a lei. Mentre le sue mani si fermavano sul suo ventre, posò la testa sulla sua spalla incastrando il naso nell'incavo del suo collo. 

 

Jein aveva un profumo. Non sapeva definire di cosa; non riusciva ad associarlo a niente che conoscesse. Era così tenue da essere difficilmente percepibile, ma la sua pelle emanava costantemente quel lieve odore che sapeva di lei. 

 

-Buongiorno.- mormorò, muovendo appena le labbra. 

 

I suoi occhi caddero sugli arti che stavano versando delicatamente un mestolo di impasto nella padella, prima di spargerlo leggermente con movimenti circolari. Quando la sua mano sinistra si fermò posandosi sul bancone, la propria  la raggiunse, adagiandosi sulla sua gemella. A quel gesto, un leggero ma cristallino tintinnio metallico si diffuse nell'aria brevemente, attirando la sua attenzione sui due anelli dorati che si erano scontrati a causa del suo gesto. 

 

-Buongiorno.- 

 

Il ragazzo percepì la rilassante vibrazione che la voce della ragazza trasmise alla sua gola. Con gli occhi, percorse un tragitto dai tendini del collo all'orecchio, fermandosi sul piccolo neo nascosto sotto al lobo. Senza neanche accorgersene, vi appoggiò le labbra sopra. Gli piaceva quel piccolo dettaglio segreto. Lo aveva scoperto per caso in una delle sue esplorazioni del corpo della ragazza ed era diventato il suo piccolo tesoro piratesco. La x in quella bellissima mappa che ormai conosceva a memoria. 

 

-È inutile che fai il ruffiano, i pancakes sono solo per mio figlio.- borbottò Jein, strappandolo dalla sua contemplazione. 

 

Jimin prese a mugolare sommessamente, riprendendo a baciare con più veemenza il profilo della giovane. 

 

-Per favore...- 

 

Il ragazzo trascinò l'ultima parola, facendo ondeggiare il tono della voce in toni più alti. 

 

-No. Te li fai da solo se li vuoi.- 

 

La replica scherzosamente piccata di sua moglie provocò una smorfia divertita nel giovane. 

 

-Dai... quando li preparo io finiscono sempre per avere il sapore di quello schifo preconfezionato che avevano cucinato Jungkook e Hobi-hyung in Canada...- replicò il ragazzo, prendendo a strofinare la guancia contro quella di Jein. 

 

Il silenzio della ragazza gli fece capire che stava iniziando ad avere presa su di lei, perciò riprese a mugolare, assomigliando sempre di più ad un gatto che faceva le fusa. 

 

-Ti prego...- 

 

La giovane, continuando imperturbata la sua sequenza di azioni che stavano portando alla creazione di un'altra torre fumante di pancakes, rimase qualche istante in silenzio. 

 

-Che cosa mi dai in cambio?- chiese infine abbassando il tono della voce. 

 

Jimin si lasciò sfuggire un ghigno soddisfatto, riprendendo a sfiorare con le labbra il piccolo tesoro nascosto sotto il lobo del suo orecchio. 

 

-Una sessione di coccole sul divano?- 

 

Per la prima volta da quando Jimin aveva messo piede in cucina, Jein si voltò verso di lui. Il suo viso era accartocciato in quell'espressione accigliata che esprimeva con energia il suo scetticismo e la replica silenziosa che il ragazzo intuì essere qualcosa del tipo "Chi è dei due quello che vuole le coccole?". 

 

Nonostante ciò, dopo qualche istante passato a fissarsi a vicenda, la ragazza gli porse infine il piatto carico di cibo con una smorfia di sufficienza. Lui allora, socchiudendo gli occhi a causa del sorriso che nacque sulla sua bocca, le sfiorò le labbra con un veloce bacio. 

 

-Grazie amore.- 

 

Non appena si fu voltato accomodandosi accanto al bambino che mangiava con vorace soddisfazione, udì la voce della ragazza riprendere a parlare. 

 

-Attento, Park Jimin. Uno di questi giorni quel divano, il nostro comodissimo divano a cinque posti, potrebbe trasformarsi in una panca di legno lunga la metà di te.- 

 

A quelle parole, il ragazzo ingoiò il suo primo boccone senza masticare. 

 

 

Il fuoco che scoppiettava allegramente nel camino non scaldava effettivamente la stanza, ma illuminava con un bagliore aranciato i due corpi sdraiati davanti ad esso, incastrati in un abbraccio. Jimin accarezzava i capelli della ragazza fra le sue braccia, pettinando la lunghezza delle ciocche con le dita e sfiorandole il viso. Lei aveva socchiuso gli occhi, abbandonandosi alle attenzioni di lui e disegnando inconsciamente delle figure immaginarie sulla mano che le stringeva la vita. 

 

-Potresti... ricambiare... un po'... di coccole... ogni tanto...- sussurrò il ragazzo, interrompendosi a tratti quando poggiava un lieve bacio sul capo di Jein. 

 

La replica della giovane iniziò con un basso mugolio. 

 

-Ti devo davvero spiegare le dinamiche della nostra relazione disfunzionale? Io sono quella in carica degli aspetti pratici e tu delle coccole. Abbiamo ruoli diversi.- 

 

Jimin rise leggermente contro il cuoio capelluto della ragazza, prima di proseguire il suo percorso che lo portò sul collo di lei, appena sotto la mandibola. Era vero. Erano molto diversi sotto quell'aspetto. Jein non era espansiva e aperta al contatto fisico come lui. Inizialmente, aveva dovuto aiutarla ad abituarsi al suo tocco, facendola gradualmente uscire dalla tana in cui si era rinchiusa. Ma anche dopo tanto tempo, era ancora raro che lei prendesse l'iniziativa in quell'ambito. Al ragazzo però la cosa non pesava. Gli piaceva cullarla, prendersi cura di lei, ricoprirla di attenzioni, trasmettendole i suoi sentimenti con le proprie azioni. Non aveva bisogno che lei ricambiasse. La giovane aveva i suoi particolari modi di dimostrargli il proprio amore e a lui questo bastava. 

 

Lo stato ipnotico in cui entrambi erano caduti nella sequenza di carezze e baci fu interrotto dallo scalpiccio intermittente e rumoroso di piccoli piedi che si avvicinavano. 

 

-Papà!- 

 

Nel giro di un istante, la coppia fu seppellita da un corpicino che si era buttato su di essa, provocando gemiti di dolore. 

 

-Papà, papà, andiamo fuori? Dai, andiamo fuori a giocare!- esclamò Minho saltellando sulla pancia della madre. 

 

-Tuo figlio vuole giocare.- mugugnò Jein con il respiro mozzato dal peso del bambino. 

 

Jimin sgusciò da sotto la giovane e sollevò fra le braccia il piccolo che si dimenava come un'anguilla. 

 

-Certo, quando è ora di farcirlo di pancakes è tuo figlio, ma quando bisogna giocare diventa mio.- replicò lui, fissando la moglie. 

 

Questa, sollevandosi lentamente dal lungo divano e stendendo le braccia in aria, lo guardò con una smorfia divertita. 

 

-Attento, signor Park, ricorda la panca di legno...- mormorò lei lasciando la stanza. 

 

 

In uno spiazzo erboso illuminato dal sole e circondato da alti alberi, che come antichi guardiani li proteggevano con le loro chiome fluenti e i loro tronchi forti e massicci, Jimin guardò suo figlio dimenarsi nel tentativo di ballare. Con una risata sommessa, prese le braccia del bambino e le guidò nel movimento di un'onda, che si trasformò in un qualche modo in una sconclusionata coreografia simil hip-hop. Spingendolo con le braccia, il piccolo lo fece sdraiare sull'erba bassa, che gli punzecchiò la schiena, e prese a stringergli il collo tentando di lottare. Mentre il ragazzo lo afferrava e prendeva a solleticargli la pancia con una pioggia di baci, un grido tagliò l'aria togliendogli il respiro dai polmoni. 

 

-Jimin!- 

 

Il giovane, sentendo la preoccupazione con cui il suo nome era stato urlato, prese in braccio il bambino e iniziò a correre verso la casa di legno che si affacciava su un limpido lago. I suoi piedi lo portarono velocemente verso la figura in piedi sul portico sospeso sull'acqua, con le mani strette intorno alla balaustra e gli occhi incollati davanti a sé. Prima di domandare cosa fosse successo, Jimin seguì lo sguardo di Jein. Una parete di roccia era comparsa davanti a loro, sostituendo lo sconfinato bosco che prima ne prendeva il posto. Da essa scorrevano delle alte e copiose cascate, che si riversavano nel lago agitandone le acque. Spingendo lo sguardo ancora oltre, il ragazzo scorse anche il profilo scuro di un gruppo di montagne che coprivano il cielo, in precedenza privo di ostacoli. 

 

-Non c'erano mai stati cambiamenti così grandi.- sentì bisbigliare alla ragazza accanto a sé. 

 

Jimin tentò di concentrare la mente sul paesaggio per eliminare quegli intrusi che lui non aveva creato, ma senza successo. Cercando di rallentare i respiri affannosi che avevano preso a scuotergli il petto, si sistemò il bambino fra le braccia e afferrò la mano di Jein. 

 

-Non è niente. Andiamo dentro casa.- disse semplicemente, prendendo a trascinare la ragazza verso la porta di legno. 

 

Improvvisamente, però, i due corpi si congelarono quando una voce, lontana eppure distintamente famigliare, prese ad aleggiare nell'aria. Saltellando armoniosamente fra una nota e l'altra, dispiegò una canzone di cui Jimin non riuscì a cogliere distintamente le parole. Eppure, sapeva a chi apparteneva. 

 

-Papà.- 

 

La voce sottile di suo figlio fece abbassare i suoi occhi ansiosi su quelli grandi e scuri sotto di lui. 

 

-Perché lo zio Jungkook sta cantando?-

 

 

BAAAAAAAM!

Shipper, scatenate l'inferno! Wow, non vedevo l'ora di scrivere questo capitolo. Ero talmente impaziente che l'ho pubblicato un giorno prima di quando avevo programmato. Che dite? Sono dolciosi insieme? 

Mi fa ridere la cosa perché con questa storia ho fatto l'opposto che con Déjà vu. Mentre lì vi ho fatto fare il collo lungo prima di vedere la ship salpare, qua al sedicesimo capitolo ho premuto l'acceleratore a manetta XD

Giusto per essere chiari, c'è stato un time skip, quindi per Jein e Jimin sembrano essere passati anni, in cui hanno costruito la loro casetta sul lago e si sono sposati. Beh, ovviamente, non si sono legalmente sposati ma capite che intendo. 

Adesso voglio proprio vedere un po' di scleri. Non temete e scatenatevi!

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Capitolo 17
*** 17 ***


Jimin rimase per lunghi, trascinati istanti a fissare il bambino con la bocca dischiusa e la paura dipinta negli occhi. 

 

Minho non aveva mai visto Jungkook. Non doveva sapere neanche della sua esistenza. Ma la cosa, in effetti, non doveva sorprenderlo. Quel bambino non era fatto di carne e ossa. Era fatto di pensieri ed emozioni. I suoi pensieri e le sue emozioni, uniti a quelli di Jein.

 

-Jimin...- 

 

La voce di sua moglie lo distolse dagli occhi grandi e curiosi del piccolo fra le sue braccia. Quando appoggiò lo sguardo su di lei, vide apprensione e ansia. 

 

"No. Io devo proteggerla." 

 

-Andiamo dentro casa.- disse perentoriamente, riaprendo la porta di legno intagliato sopra alla quale era appesa una ghirlanda di fiori di campo. 

 

-Jimin.- 

 

Ignorando la richiesta di attenzione di Jein, appoggiò Minho per terra e si diresse in cucina, dove chiuse le tende della finestra in modo che la vista sulle cascate fosse ostruita. 

 

-Jimin.- 

 

La sua mano fu afferrata da una leggermente più piccola che, con delicatezza, lo fece voltare all'indietro. Gli occhi di lei erano pronti a catturare i suoi in un presa inscindibile e lui ci cascò in pieno, rimanendo a fissare la ragazza che amava benché volesse fuggire dalla sua preoccupazione. 

 

-Jimin, quella era la voce di Jungkook.- 

 

Abbassando lo sguardo a terra, il giovane sentì il petto venire trafitto da una pioggia di affilate frecce. Rimorso, colpa, codardia. I suoi respiri nascevamo come timide farfalle dalle ali ancora bagnate, incapaci di volare, che morivano rapidamente prosciugandolo dell'ossigeno. Sapeva che quella era la voce di Jungkook. 

 

"Mi dispiace. Ma io... devo pensare a lei." 

 

-Non è parte del sogno. Viene dal mondo reale. Ma tu... non ti stai svegliando.- la voce di Jein divenne gradualmente più profonda, fino a cadere negli abissi di un sussurro. 

 

Jimin sapeva dove voleva andare a finire quella conversazione. E sapeva che l'esito non gli sarebbe piaciuto. 

 

-Non ha importanza.- replicò con determinazione, scuotendo il capo. 

 

Rifiutandosi di guardare negli occhi la giovane fece per allontanarsi, ma fu nuovamente fermato da una mano inanellata. 

 

-Jimin. Dobbiamo uscire di qui. Questo sogno sta durando troppo.- 

 

Le labbra del ragazzo si strinsero in una smorfia di dolore, benché nulla lo stesse fisicamente ferendo. Ma il boccone amaro che quelle parole gli avevano provocato era troppo difficile da inghiottire e rimase perciò ad indugiare nella sua bocca. 

 

-Se non facciamo qualcosa, potremmo rimanere intrappolati qui. Non so cosa sia successo... là fuori, ma di certo non è niente di buono. Dobbiamo trovare un modo di svegliarci.- 

 

Jimin alzò il mento, riportando gli occhi davanti a sé. Questa volta, non tentò di scappare dallo sguardo di Jein; prese invece a fissarla con insistenza, cercando di entrare nei recessi del suo cuore attraverso le finestre dell'anima. 

 

-Vuoi svegliarti? E cosa ne sarà di noi? Cosa ne sarà della nostra casa, della nostra vita insieme, di nostro figlio?- chiese con crescente freddezza.

 

La ragazza non sembrò ferita dalle schegge di gelo nascoste nella sua voce. Invece, prese anche l'altra mano di lui, avvolgendola insieme alla gemella fra le sue, in un bozzolo di affetto e calore. 

 

-Jimin, tutto questo... non è reale.- disse semplicemente. 

 

-Questa casa non è reale. Questa vita non è reale. Neanche nostro figlio lo è.- 

 

Jimin si sentì soffocare. Jein lo guardava con lo sguardo di un passeggero su una nave sul punto di affondare. Con quello sguardo di amareggiata rassegnazione carico di consapevolezza verso il proprio destino. 

 

-Lo so, ma tu lo sei. Noi lo siamo. Questo mi basta. Questa può essere la nostra realtà.-

 

Il giovane la avvicinò al suo corpo e, liberando le mani dalla sua presa, le avvolse intorno alla figura di lei, racchiudendola dentro al suo spazio personale. Appoggiò il capo sul suo e la strinse di più, tremando per paura che sparisse da un momento all'altro. 

 

-Ti prego. Non ha importanza se rimarremo qui per sempre. Io voglio stare qui, con te. Ti terrò al sicuro. Potremo vivere senza il peso delle nostre responsabilità e delle nostre paure.- mormorò contro i suoi capelli. 

 

Jein, le cui braccia gli avevano circondato la vita, sollevò una mano e prese ad accarezzargli la schiena. 

 

-Non possiamo fuggire per sempre dalle nostre responsabilità. Abbiamo delle persone che contano su di noi.- replicò dolcemente lei, cercando di coccolare le orecchie del ragazzo con un tono rassicurante. 

 

-E se... quando ci sveglieremo non ricorderemo più tutto questo?- 

 

"Non fare l'illuso... sicuramente succederà." pensò lui amaramente. 

 

Sentì Jein inspirare profondamente per prepararsi a rispondere al suo quesito, quando un suono improvviso la interruppe. 

 

 

Un cigolio basso e legnoso entrò in punta di piedi nell'ambiente, lasciandoli a contemplare le pareti circostanti con occhi sgranati. Dopo qualche istante, seguì un altro cigolio, più lungo e lamentoso del precedente. I due giovani si guardarono per lunghi istanti. Le stesse emozioni sembravano specchiarsi nello sguardo di entrambi, riflettendo ansia e confusione. Poi, arrivò uno schianto. 

 

-Dobbiamo uscire da qua!- urlò Jein, scattando verso la porta d'ingresso. 

 

Un altro schianto riverberò nell'aria, scuotendo i loro corpi e provocando un tremore nel pavimento. Sembrava che qualcosa di molto pesante fosse caduto al piano di sopra. Il rumore era talmente forte da fargli sbattere i denti. 

 

-Aspetta, Minho...- 

 

Gli schianti si moltiplicarono, seguendosi a ruota uno dopo l'altro e riempiendo l'aria di terrore e vibrazioni. Gli occhi di Jimin scattarono da una parte all'altra, cercando disperatamente il bambino mentre il suo corpo veniva trascinato verso l'esterno. 

 

Poi, il soffitto schioccò come un gigantesco pezzo di legno secco che veniva spezzato in due. Con la violenza di un terremoto, precipitò verso il basso seppellendo il salotto dove poco prima il ragazzo aveva vissuto momenti di serenità con sua moglie. 

 

-No!- 

 

Jimin si ritrovò all'esterno, sul portico sospeso sul lago. Un grido gli graffiò la gola quando la casetta di legno, quella dimora che aveva costruito per vivere con la sua famiglia, si piegò su se stessa come una vecchia signora stanca, cadendo pesantemente sulle sue fondamenta. 

 

-Jimin...- 

 

La voce di Jein gli soffiò nell'orecchio mentre le sue braccia gli stringevano il corpo. Jimin non la ascoltò. 

 

-Minho è lì dentro! Dobbiamo andare a prenderlo!- 

 

Liberandosi dalla presa debole della ragazza, si precipitò sulle macerie fumanti di polvere e legno sbriciolato. Prima che potesse affondare le mani in quello che una volta era l'androne dell'abitazione, la sua schiena fu riscaldata dal calore di un altro corpo. 

 

-Minho non esiste. Questa casa non esiste.- 

 

Jimin voleva piangere. Era troppo chiedere di poter avere una vita serena, con la donna che amava e una famiglia che avrebbe potuto crescere nella pace? 

 

-Tutto ciò che ci resta siamo noi due. Ti fidi di me?- 

 

 

I piedi del giovane seguivano la ragazza silenziosamente, pestando occasionalmente ramoscelli stesi sul terreno e schiacciando muschio o piccoli funghi che sorgevano sotto agli alberi. La sua mente però era ferma sul portico di una casa che non c'era più. Fissava il profondo blu delle acque del lago, imperturbato dagli eventi che lo circondavano, e cercava il riflesso del tetto spiovente e delle lucide assi di legno che costituivano le pareti. 

 

Jein aveva suggerito di seguire il corso delle cascate fino alla fonte per cercare una risposta al motivo per cui erano intrappolati lì. Diceva che dovevano seguire gli indizi che il sogno stava loro dando e le cascate sembravano un buon punto di partenza. Jimin non aveva replicato. Da quando avevano lasciato alle loro spalle le macerie della loro vita famigliare non aveva aperto bocca. Sentiva gli sguardi preoccupati che la ragazza occasionalmente gli lanciava di sottecchi, ma non si spinse a fare nulla per rasserenarli. 

 

Doveva fidarsi di lei. Lui si fidava di lei, ma non era così che le cose dovevano andare. Doveva essere lui a prenderla per mano, rassicurarla, portarla verso la via che li avrebbe condotti in salvo. 

 

"Non sei in grado neanche di prenderti cura di lei..." 

 

Gli occhi di Jimin si sollevarono, scrutando il paesaggio circostante. Alberi, alberi ovunque. Arbusti, rocce incrostate di licheni. Ma nient'altro. Il giovane avrebbe potuto giurare di avere sentito quella voce attorno a sé, ma sembrava essere stata solo una suggestione. 

 

"Volevi proteggerla? Non farmi ridere... sei solo un codardo." 

 

Era sicuro. La voce veniva dalla sua sinistra, ma tutto ciò che vedeva era il solito, ripetitivo paesaggio. Poi, da dietro il tronco di un albero frondoso emerse per un breve momento un sorriso. Quel diabolico sorriso, trasudante di disprezzo e autocompiacimento che aveva già visto nel labirinto di specchi. I suoi muscoli non fecero in tempo a scattare verso il bersaglio, che esso era già sparito nel nulla. Dietro di sé rimase solo una traccia di oscurità, eco del buio che dominava la mente del ragazzo in quel momento. 

 

 

-Credo che siamo arrivati.- 

 

La zona pianeggiante che era emersa nel loro tragitto sembrava essere la sommità di quella roccia scura da cui piovevano le cascate. Infatti, i due ragazzi incontrarono un fiume copioso che veniva trascinato dalla sua stessa potenza e dalla gravità verso il ciglio del precipizio, prima di gettarsi nel vuoto. Gli abbondanti schizzi provocati dalla caduta si disperdevano nell'aria e, colpiti dalla luce, dipingevano davanti ai loro occhi piccoli arcobaleni. 

 

-Adesso cosa facciamo?- 

 

La voce roca di Jimin uscì dalle sua labbra per la prima volta da quando avevano intrapreso il cammino verso le cascate. La sua gola gli stritolava le corde vocali, impedendogli di parlare senza far trapelare un raspante tremolio. Jein, che fino a prima era intenta a studiare il percorso del fiume per trovarne l'origine, si voltò verso di lui. Doveva avere una brutta cera, perché gli occhi di lei si appesantirono di emozione nell'istante in cui si soffermò ad osservarlo. 

 

La giovane fece qualche passo verso di lui e gli afferrò il volto fra le mani. Abbassandogli dolcemente la testa, giunse infine a poggiare la fronte contro la sua. I loro occhi erano così vicini che Jimin iniziava a fare fatica a distinguere i limiti del suo sguardo con quello di lei. 

 

-Andrà tutto bene.- mormorò Jein con un debole sorriso. 

 

-Anche quando ci sveglieremo. Andrà tutto bene. Non mi dimenticherò mai di te.- aggiunse socchiudendo gli occhi. 

 

-Sei parte della mia anima adesso. Sarai sempre con me, anche quando saremo lontani. Io sarò dentro di te e tu sarai dentro di me.- 

 

Una lacrima, solitaria viaggiatrice sulla sua guancia, raggiunse la bocca di Jimin, scalò il dosso delle sue labbra e atterrò sulla sua lingua. Sospirò profondamente, gustando il sapore salato della sua paura e lasciò che le parole di Jein entrassero dentro di lui. Le fece penetrare nella sua mente e le forzò dentro le feritoie del suo cuore, in modo che non lo lasciassero mai. 

 

"Lei sarà sempre con me. Ovunque andremo. Non abbiamo bisogno di una casa per essere una famiglia." 

 

Quando finalmente ebbe la forza di alzare lo sguardo e sciogliersi dalla presa di lei, il respiro gli si mozzò nel petto. 

 

-Jein...- 

 

 

Le cascate. Non erano cascate. Ne avevano l'aspetto, ma non appena i due ragazzi posarono lo sguardo sulla loro fonte capirono che erano stati terribilmente ingannati. Quelle montagne di cui avevano visto solo l'orma in precedenza si stagliavano davanti a loro in tutta la loro massiccia forza. Quelle che prima erano solo macchie scure contro l'azzurro del cielo avevano preso una forma e un viso. In realtà, più di uno. 

 

Il primo volto che attirò l'attenzione di Jimin, colpendolo con la violenza di un pugno nello stomaco, fu quello di Taehyung. Il suo bellissimo viso, con i suoi grandi occhi curiosi e la sua buffa bocca, era accartocciato in una maschera di sofferenza, incisa nella pietra con cruda violenza. Le cascate scorrevano sulle sue guance, fuoriuscendo da feritoie che dovevano costituire le palpebre, e ne percorrevano il corpo stretto in se stesso come se cercasse di proteggersi. Accanto a lui, il volto di Namjoon, impresso nella roccia con linee più morbide e meno trasudanti di dolore e disperazione, generava un singolo rivolo d'acqua dal suo occhio destro. Uno dopo l'altro, Jimin abbracciò con lo sguardo quelle giganti copie dei suoi amici, ognuno prigioniero della roccia e generatore di torrenti che costituivano il fiume ai loro piedi. 

 

Infine, i suoi occhi atterrarono su tre figure strette in un abbraccio. Suo padre era precariamente in piedi mentre circondava la moglie e il figlio minore. Sembravano sorreggersi a vicenda, senza però riuscire a sostenere il peso delle loro lacrime. 

 

Quando finalmente riportò gli occhi su Jein, vide anche le statue che attiravano la sua attenzione. Sua madre abbandonata sul terreno, accucciata come una bambina e rassicurata da un uomo con il viso privo di rigagnoli. E, infine, una ragazza che guardava di fronte a sé come se stesse disperatamente cercando gli occhi di Jein. Doveva essere Kippeum, l'amica di cui aveva spesso sentito parlare. 

 

Prendendo la mano della ragazza, richiamò l'attenzione di lei con una lieve stretta. 

 

-Andiamo. Dobbiamo uscire da qui.-

 

 

RAGA

Ce l'ho fatta. Ho vinto il primo scambio letture della mia carriera (?)! 

 

 

 

Se volete passare a dare un'occhiata al servizio c'è anche la mia storia nella pagina dedicata alla classifica della lista 9, se non sbaglio. 

Ebbene, fortuna che questo doveva essere un capitolo di passaggio. Io, boh, non so che dire. È successa un botto di roba.

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Capitolo 18
*** 18 ***


Nel momento in cui le parole uscirono dalla bocca di Jimin, la foresta che circondava il fiume si aprì su un sentiero battuto misteriosamente illuminato dai raggi del sole. I due ragazzi indugiarono per un attimo sulla possibilità prima di guardarsi reciprocamente negli occhi. Non c'era bisogno di parole. La famigliarità e la confidenza che esisteva fra i loro sguardi era l'unica forma di comunicazione di cui avevano bisogno. Perciò, nel silenzio più totale, la decisione fu presa. 

 

Il sentiero sembrava il corpo di un serpente placidamente steso al sole, che conduceva i due giovani attraverso il mare di verde con curve morbide. Jimin iniziava a chiedersi se fosse la via giusta. Non sembrava che stessero salendo sulle montagne né che scendessero a valle. Il paesaggio non era cambiato neanche di un ramoscello. Il ragazzo aveva quasi la sensazione di camminare su un tapis roulant fermo davanti alla stessa immagine. L'unico segnale del fatto che stavano proseguendo nel percorso erano le continue svolte in una direzione o nell'altra. 

 

Quando i loro occhi incontrarono finalmente un cambiamento, Jimin si ritrovò a contemplare la novità con confusione. Il sentiero si separava in due affluenti, che si disperdevano nella foresta allontanandosi sempre di più l'uno dall'altro. Il dettaglio più curioso però fu la comparsa di due famigliari oggetti, ognuno posto su una diramazione del sentiero. 

 

Jein, con le sopracciglia aggrottate, fu la prima a fare un esitante passo avanti prendendo ad avvicinarsi all'oggetto posto a destra. Una volta giunta davanti ad esso, si chinò e lo afferrò fra le mani. Jimin non poteva vedere la sua espressione in quel momento. Vide solo la schiena della ragazza che si contraeva, irrigandosi come fosse pietra. Quando finalmente la giovane si girò, il ragazzo poté scorgere il mare di emozioni che offuscava i suoi occhi, facendola lentamente affogare.

Jein gli porse la scatola, lasciandola nelle sue mani come fosse un peso insostenibile e si aggrappò disperatamente al suo sguardo. 

 

-Che cosa ci fanno queste qua?- chiese Jimin con tono minacciosamente basso, osservando con circospezione l'oggetto di legno fra le proprie mani. 

 

Il luccichio della targhetta dorata su cui era inciso il nome di Jein lo infastidiva. Con crescente rabbia e irritazione, sollevò leggermente il coperchio e sbirciò il contenuto, sotto gli occhi ansiosi della ragazza. Benché ancora protette dalla luce, le gocce di cristallo nascoste all'interno presero ad illuminarsi con riflessi variopinti, come se fossero meravigliose opere d'arte. Ingoiando la sua inquietudine, Jimin richiuse la scatola e guardò la ragazza. Annuendo debolmente, vide lo sguardo di lei sciogliersi sotto al peso di quelle paure che pensava di avere seppellito dietro di sé. Poi, lui abbassò lo sguardo sulla scatola gemella ancora appoggiata a terra. Con amara codardia, distolse gli occhi da essa. 

 

Non aveva bisogno di aprirla per sapere cosa contenesse. 

 

-Perché sono qui?- chiese di nuovo lui, più a se stesso che alla sua compagna. 

 

Lei, dopo qualche istante in cui cercò di navigare il mare della sua inquietudine, lottando con le onde di smarrimento e terrore che tentavano di spingerla in profondità, rispose. 

 

-Penso che il sogno ci stia suggerendo che abbiamo bisogno di loro. Forse dobbiamo portarle con noi.- 

 

Jimin, a quelle parole, arricciò il naso in un'espressione di disgusto. 

 

"Non ho nessuna intenzione di portarmi dietro la lapide di ciò che ho perso." 

 

Emettendo un sibilo stanco, abbassò la testa fissandosi i piedi. Qualsiasi cosa pensasse, era inutile. Sapeva che Jein aveva ragione. Era la prima volta che il sogno riproponeva loro qualcosa che avevano lasciato negli scenari precedenti. Doveva per forza significare qualcosa. Ciò nonostante, questo non toglieva il fatto che Jimin odiava l'idea di dover tenere tra le mani quel fardello. Quando però sua moglie ebbe ripreso la sua scatola, stringendola e alzando lo sguardo con quella rinnovata forza e cocciuta determinazione che lui aveva sempre ammirato, si decise a fare lo stesso.

 

Una volta preso l'oggetto fra le mani, il ragazzo lasciò che i suoi occhi indugiassero per qualche istante sul suo nome scritto sul coperchio di legno, prima di allontanarli per riportarli su Jein. Lei, con il sopracciglio sollevato e le labbra corrucciate, contemplava qualcosa di fronte a sé. 

 

-Che direzione prendiamo?- 

 

 

I due ragazzi si ritrovarono fermi nel bel mezzo del bivio a contemplare le due strade identiche, saltellando con lo sguardo da un'opzione all'altra. Dopo istanti di meditabondo silenzio, Jein si schiarì nervosamente la gola. 

 

-Le nostre scatole erano poste una a destra e una a sinistra. Forse vuol dire che dobbiamo dividerci.-

 

-Non se ne parla.- 

 

La testa della ragazza scattò di lato verso il giovane, il cui tono aveva replicato in modo rapido e risoluto alla sua proposta. 

 

-Se il sogno ci sta...-

 

-Non mi interessa cosa ci sta suggerendo il sogno.- 

 

Dopo aver interrotto le sue parole, Jimin finalmente staccò gli occhi dal bivio e li agganciò a quelli di Jein. 

 

-Io non ti lascio per nessuna ragione al mondo.- affermò con irremovibile risolutezza, avvicinandosi impercettibilmente a lei. 

 

-Se dobbiamo compiere questo viaggio, dobbiamo farlo insieme.- 

 

Ormai ad un soffio dal viso della ragazza, il giovane sussurrò le sue ultime parole, le quali conservavano un tono talmente imperioso da risultare ancora più ferme di quelle pronunciate a voce alta. Jein, con gli occhi intrappolati in quelli di suo marito, non poté fare altro che annuire. 

 

Mentre lui la prendeva per mano e si dirigeva verso la diramazione di destra, quella dove era appoggiata in precedenza la scatola di lei, la ragazza si ritrovò a pensare a quanto fosse bizzarra la loro relazione. Era vero che lei era la persona più pratica e lui la più affettuosa. Lei aveva un carattere forte, a volte crudamente distaccato. Lui era affettuoso, gentile e premuroso. Ma era il capo. Quando era ora di prendere una decisione, riusciva a dimostrare un'autorità che la lasciava spiazzata e anche, per qualche motivo, buffamente imbarazzata. Jein aveva imparato ad ammirare quel lato di Jimin ancora prima di intraprendere quel viaggio. Lo rispettava già da quando erano viaggiatori di quell'avventura che era la loro vita insieme, come una famiglia. 

 

 

Jein aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo appoggiato sulla mano intrecciata alla propria, che la conduceva sul sentiero. Quando, infine, il corpo davanti a lei si fermò, alzò gli occhi. 

 

In mezzo alla radura, spuntava una porta che non sembrava essere attaccata ad alcuna parete. Era semplicemente posta lì, come un totem solitario circondato da sconosciuti. Sopra di essa, in caratteri chiari ma eleganti, svettava una scritta che fece spalancare le palpebre della ragazza. 

 

Magic shop

 

Non appena i due ragazzi si furono avvicinati, notarono il cartello incorniciato da arabeschi appeso sulla superficie di legno. Dopo aver ingoiato un groppo di tensione, Jein prese a leggere ciò che vi era scritto sopra. 

 

-Benvenuti nel Magic shop! Volete liberarvi di un ricordo negativo che vi assilla? Siete in cerca di un'emozione positiva da aggiungere alla vostra collezione? Il Magic shop fa per voi!

Compro/vendo qualsiasi tipo di ricordo, incubo, sogno o paura! 

Non si accettano resi.-

 

Una volta terminato di leggere, la ragazza guardò Jimin, che teneva lo sguardo sulla scritta con circospezione. Facendo schioccare la lingua sul palato nel tentativo di alleggerire l'atmosfera, la giovane sollevò le spalle. 

 

-Beh, credo che siamo nel posto giusto.- affermò, abbassando lo sguardo sulla scatola che ancora teneva in mano. 

 

Dopo un attimo di esitazione, le labbra di Jimin si stesero in una smorfia di incertezza e la sua mano, sciogliendosi da quella di Jein, afferrò il pomello dorato della porta. 

 

Il loro ingresso nel negozio fu annunciato da un allegro campanello, che tintinnò attirando l'attenzione sui nuovi ospiti. L'interno era raffinatamente arredato con poltrone in pelle, tappeti persiani e quadri dal sapore europeo. La giovane abbracciò con lo sguardo lo spazio ampio costellato di librerie, teche di vetro recanti oggetti ornati di targhette e porte. Tante porte dai colori diversi. In particolare, si ritrovò a studiare curiosamente una porta dal colore blu come la notte. 

Sentendo lo spazio di fianco a sé vuoto, distolse lo sguardo e notò che il suo compagno si era avvicinato al bancone dove avrebbe dovuto essere il negoziante. Non appena lo ebbe raggiunto, il giovane poggiò esitante la mano sul campanello esposto in bella vista davanti a loro. 

 

Nel momento in cui il trillo breve ma limpido si diffuse nell'aria, una figura emerse da dietro il bancone. I due ragazzi saltarono all'indietro, fissando il giovane che era improvvisamente spuntato davanti ai loro occhi e che li fissava con un largo sorriso che gli socchiudeva le palpebre. Jein, superato lo stupore, si fermò a fissare inebetita il negoziante, avvolto in una camicia che ne ingentiliva la bella figura e i cui capelli biondi ne contornavano il viso, rendendolo ancora più seducente di quanto già non fosse. Ma, sopratutto, ne studiò i lineamenti, perfettamente identici a quelli di suo marito. 

 

-Salve, benvenuti nel Magic shop.- 

 

Anche la voce era la stessa. Frusciava nell'aria con quella giocosità e quella musicalità che solo Jimin possedeva. Il ragazzo, infatti, fissava la persona davanti a sé con confusione e un pizzico di disagio. 

 

-È uno scherzo?- furono le prime parole che disse. 

 

Il ragazzo dalla parte opposta del bancone emise una breve risata che distese le sue labbra carnose e passò lo sguardo su tutta la lunghezza del suo simile. 

 

-Assolutamente no.- replicò semplicemente incrociando le braccia. 

 

Poi, fece rimbalzare lo sguardo fra Jimin e la giovane, prima di soffermarsi sulla seconda e rivolgerle uno sguardo misteriosamente intenso. 

 

-Ma non vi aspettavo insieme.- disse piegando leggermente il capo. 

 

Jein si sentiva in trappola. Erano secoli che quegli occhi, quegli occhi che conosceva così bene, non la facevano sentire così vulnerabile. La giovane era intrappolata in essi, come se l'avessero ammaliata con un qualche incantesimo che non riusciva a spezzare. 

 

Fortunatamente, suo marito si pose davanti a lei, rompendo il contatto visivo che le stava prosciugando le energie. 

 

-Che cosa intendi?- chiese lui, socchiudendo le palpebre in una silenziosa minaccia. 

 

Il negoziante non sembrò irritato dall'interruzione e rivolse invece al ragazzo un sorriso divertito. 

 

-Vedi, c'erano due sentieri per un motivo.- replicò, prima di allontanarsi dalla coppia e avvicinarsi alla porta da cui erano da poco entrati. 

 

-Questa era la porta da cui doveva entrare Jein da sola.- disse. 

 

-E questa è quella da cui saresti dovuto entrare tu.- aggiunse, indicando una porta gemella posta accanto alla prima, che era passata inosservata ai due ragazzi. 

 

-Per quale motivo? Perché dovevamo arrivare da due porte diverse?- chiese allora Jimin, mantenendosi distante con circospezione. 

 

Il ragazzo dai capelli biondi scivolò verso di loro facendo ondeggiare il corpo in maniera sensuale, prima di porsi nuovamente dietro il bancone e poggiare il viso sulla mano.  

 

-Il viaggio che vi attende non è facile. Vedrete cose che vorreste tenere lontane dai vostri stessi occhi... dubito che vogliate mostrarle a qualcun altro. Dovrete mettere in mostra la parte più debole di voi. Quella che vorreste... uccidere.- 

sussurrò, sibilando come un serpente che attanaglia la preda. 

 

Jein, sentendo quelle parole, abbassò lo sguardo. Era pronta? Era pronta a mostrare ad un'altra persona la sua interezza? 

 

Mordendosi le labbra, sentì il suo cuore dividersi nell'incertezza. Amava Jimin. Ma aveva paura. Sapeva che aveva cacciato negli abissi della sua coscienza tanta oscurità e non credeva di essere pronta a lasciarla libera, sopratutto davanti a lui. 

 

Poi, sentì il tocco rassicurante di una carezza sul braccio. 

 

-Hai detto che sono parte della tua anima. Che tu sei dentro di me ed io dentro di te. Perciò non ha importanza che cosa ci aspetta. Siamo uniti. Se il viaggio che ci attende è così tremendo, tanto più avremo bisogno l'uno dell'altra per superarlo.- disse dolcemente Jimin al suo orecchio. 

 

Jein chiuse gli occhi. Affrontare le proprie paure da sola o con la persona che amava? 

 

Con un sospiro, sollevò le palpebre e abbandonò il peso delle sue insicurezze alle sue spalle. Quando guardò nuovamente il ragazzo, lui capì. 

 

Il negoziante, che aveva assistito allo scambio con assorta curiosità, emise un breve mormorio. 

 

-Molto bene, allora. Se le cose stanno così...- 

 

Allungando le mani verso i ragazzi, si riaprì in un sorriso sbarazzino. 

 

-Presentatemi la merce.- 

 

 

IT'S VERY CALDO 

Giuro che sto morendo. Potrei uccidere dal caldo che sto patendo. Non ho neanche voglia di scrivere uno spazio autrice decente, perdonatemi. 

 

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Capitolo 19
*** 19 ***


Le due scatole di legno scivolarono sul bancone fino a giungere al cospetto del negoziante. Questo, dopo aver passato lo sguardo su di esse con curiosa attenzione, piegò leggermente il capo. 

 

-Avete della merce decisamente interessante.- mormorò prima di porsi davanti alla scatola di Jein. 

 

Mentre ne sollevava il coperchio, la ragazza gli perforava le mani con il nervosismo del suo sguardo e il ragazzo ne studiava con circospezione ogni mossa. Il giovane dai capelli biondi immerse le dita all'interno dell'oggetto e le sollevò davanti al suo volto lasciando ricadere una cascata di gocce iridescenti, che ritornarono nel loro contenitore con un tintinnio irritato quasi come se fossero state disturbate dal gesto. Il giovane, allora, sollevò un angolo della bocca in una smorfia di muta ammirazione. 

 

-Lacrime... mi sono stati portati tanti oggetti ma queste... questa è roba rara. Un oggetto perso, o dimenticato. Per di più  in un arco di tempo così ampio. Hanno un valore quasi inestimabile.- affermò mantenendo gli occhi su quelle preziose perle trasparenti. 

 

-E qui? Troverò qualcosa di altrettanto unico?- chiese retoricamente spostandosi davanti alla seconda scatola, con un tono vagamente giocoso. 

 

Una volta sollevato il coperchio, passò qualche istante di nervosa immobilità. Il negoziante non diceva una parola, non muoveva un muscolo. Restava semplicemente lì, a contemplare il giglio dal colore così nitidamente e incorruttibilmente bianco. 

 

-Voi girate con roba che scotta.- esclamò infine dopo un lasso di tempo interminabile, richiudendo velocemente la scatola e ponendola lontano da sé. 

 

-Ma non siete giunti in un negozio qualunque.- continuò, riportando un sorriso sbarazzino sulle proprie labbra -Io ho il pagamento adeguato.-

 

Così come era arrivato, il giovane sparì in un batter d'occhio dietro al bancone, lasciando i due ragazzi in un perplesso silenzio. Mentre i minuti passavano e Jimin studiava l'ambiente circostante con minuziosa attenzione, Jein emise un sospiro. 

 

-Cosa pensi che sia questo posto?- 

 

Riportando lo sguardo sulla sua compagna, il ragazzo cercò di sondarne lo stato d'animo. Confusione, smarrimento, inquietudine e anche una leggere curiosità. Gli occhi di lei erano come pozzi profondi in cui lui aveva dovuto imparare a calarsi, sempre più a fondo e sempre più in basso, per riuscire a raggiungerne le acque. Eppure, sentiva che ancora qualcosa gli sfuggiva dalle dita. Il suo secchio non riusciva a toccare il fondale di quelle cavità, come se ancora non avesse accesso ad una parte di lei, una che era stata ben nascosta dalla luce del sole. Forse il viaggio che li attendeva gli avrebbe finalmente permesso di portare a compimento quell'esplorazione. 

 

-Pensate a questo posto come a una stazione dei treni.- 

 

L'improvvisa ricomparsa del negoziante fece trasalire i due ragazzi, che si allontanarono di qualche passo dal bancone. 

 

"Ma questo non può fare un'entrata normale, per una volta?" pensò Jimin, in un moto di irritazione. 

 

-Che cosa intende dire?- 

 

Jein fu la prima a riprendersi dallo spavento e si era già riavvicinata al ragazzo con il sopracciglio sollevato e un tono di scettico interesse. Il giovane dai capelli biondi, dopo aver poggiato una piccola scatola scura davanti a sé, portò le mani sotto il mento con il modo di fare di un bambino e il sorriso di un adulto terribilmente pericoloso. A Jimin quel tipo dava decisamente sui nervi. 

 

-Posti come questo o come la Luna, che avete già visitato, sono punti in cui migliaia di passeggeri passano brevemente per poter raggiungere le loro destinazioni. Sono come una specie di tappe obbligatorie dell'itinerario di ogni persona che compie questo tragitto.- affermò, mantenendo ostinatamente gli occhi in quelli di Jein. 

 

Sì, a Jimin decisamente quel tipo non piaceva. Forse, il fatto che avesse la sua faccia lo irritava ancora di più. O forse era il fatto che sembrava provarci spudoratamente con sua moglie. 

 

-Normalmente, le coscienze dei viaggiatori vagano da sole e incappano incidentalmente in altre come loro solo in posti come questo.- continuò il giovane, avvicinando impercettibilmente il viso a quello di Jein, che sembrava non riuscire a distogliere lo sguardo da quello ammaliatore di lui. 

 

Facendo scivolare il braccio intorno alla vita della ragazza con lenta solennità per attirare l'attenzione del ragazzo di fronte a loro, sollevò sull'obbiettivo uno sguardo scintillante di sfida. 

 

-Dove vuole arrivare con questo discorso?- chiese con tono fintamente curioso. 

 

Invece di percepire il suo come un avvertimento, il negoziante sembrò prenderlo come un divertentissimo scherzo, tanto che iniziò a ridere squittendo acutamente come era solito fare lui stesso. 

 

-Ci sto arrivando. Mentre la maggior parte delle coscienze si incrociano fugacemente in posti come questo per poi continuare il viaggio da sole, voi siete una curiosa eccezione alla regola. Vi siete incontrati dal momento che il sogno è iniziato e avete proseguito insieme per tutto il tragitto.- 

 

Chiudendo le braccia con un enigmatico sorriso, il giovane contemplò i due appoggiandosi al bancone. 

 

-Siete una misteriosa anomalia.- affermò in assorta osservazione. 

 

-Ma bando alle ciance!- esclamò improvvisamente, rompendo la pesante atmosfera che si era venuta a creare. 

 

Come se nulla fosse successo, si aprì in un largo sorriso e con movimenti eleganti sollevò il coperchio della scatola scura, esponendo il contenuto ai due clienti. Appoggiate su un cuscinetto di pregiata seta che scintillava sotto le luci calde del negozio, stavano due chiavi dall'aspetto antico e vagamente raffinato. Le impugnature bronzee rimandavano un riflesso offuscato dal tempo ed erano modellate in motivi vegetali, legati a due nastri di colori diversi: nella prima blu, nella seconda argento. Le loro mani, che sembravano conoscere più di loro in quel frangente, afferrarono inconsciamente ognuna la propria chiave e la strinsero nel palmo, lasciando che essa li solcasse la pelle con i suoi decori. La prima finì nel pugno di Jein, la seconda in quello di Jimin. 

 

-A cosa ci serviranno?- chiese la ragazza con tono risoluto.

 

Il negoziante si appoggiò le dita sulle morbide labbra, distese in un nuovo sorriso enigmatico. 

 

-Spoiler. Non posso rivelarvi tutto subito. Dovrete scoprirlo da soli. Ma credetemi se vi dico che quando arriverà il momento, lo capirete.- rispose lui, lasciando che la sua voce si disperdesse nell'aria con la stessa misteriosa aura della frase appena pronunciata. 

 

-Ebbene, ora vi attende una scelta!- 

 

Spostandosi da dietro il bancone, il ragazzo biondo portò il corpo sinuoso vicino a due porte, invitando con la mano i due giovani. Una volta che vi si furono avvicinati, osservarono con circospezione le due superfici identiche. Una blu e l'altra argento. 

 

-Quale porta scegliete?- domandò il giovane con semplicità, come se avesse appena chiesto loro quanto riso gradivano nel piatto. 

 

La domanda sottintesa però era evidente: quale percorso volete compiere? 

 

Jimin, dopo un istante, aveva già preso la decisione. Facendo scivolare le dita in quelle della moglie, strinse la mano della ragazza che lo guardò con incertezza. Cercò di distendere i nervi in un sorriso rassicurante, prima di fare un passo avanti. Il pomello della porta blu ruotò senza problemi sotto alla sua presa, perciò il giovane si portò oltre la soglia senza indugio. Una volta che essa fu varcata, vide dietro di sé il negoziante. 

 

-Buona fortuna.- disse agitando impercettibilmente la mano, prima di sparire. 

 

 

La radura in cui emersero era diversa da quella in cui si trovavano in precedenza. Era più oscura, più fredda e sembrava meno ospitale nei loro confronti. I nodosi alberi erano talmente alti da dare l'impressione di raggiungere il cielo e sostituirlo con le loro folte chiome. La luce del sole non illuminava il loro cammino come era stato in precedenza. Sembrava che essa non riuscisse a penetrare la fitta cappa di rami, foglie e tronchi che popolavano l'ambiente, perciò il sentiero che presero a percorrere rimase immerso in una semioscurità che di tanto in tanto infondeva loro brividi lungo la schiena. Prima di intraprendere il loro cammino, i ragazzi si erano infilati al collo i nastri recanti le chiavi, perciò ad ogni passo che compivano i due oggetti rimbalzavano sul loro petto colpendoli con la loro pesantezza. 

 

L'unico suono che accompagnava il loro percorso, oltre al tonfo sordo delle chiavi contro il loro sterno, fu l'accartocciarsi degli arbusti sotto i loro piedi. Per il resto, il loro tragitto fu immerso nel più totale silenzio, in cui si infilava la fredda umidità del sottobosco e l'odore stantio di muschio. 

 

Quando, finalmente, iniziarono a intravedere la luce del sole, videro che essa si posava insistentemente su una gigantesca parete di pietra chiara. No, non un parete. Una cinta muraria. Quando i loro piedi furono abbastanza vicini, i due ragazzi sollevarono lo sguardo sull'altezza della costruzione. 

 

-E ora?- 

 

La voce di Jein si perse nel vuoto, mentre la sua testa china verso l'alto cercava di stimare l'altezza del muro. Sembrava più o meno come un palazzo di quattro piani, ma non poteva esserne sicura non avendo termini di paragone con cui confrontarlo. Era alto, questo era certo. 

 

Il secondo problema era l'ampiezza. Voltandosi a destra e a sinistra non fece altro che vedere la pietra chiara distendersi all'infinito, allungando le sue braccia molto oltre lo sguardo della ragazza. 

 

-C'è una porta.- 

 

La voce di Jimin le fece riportare gli occhi davanti a sé. Ebbene, era vero. C'era una porta nel bel mezzo del muro. Ma chiamarla semplicemente "porta" sembrava quasi un'offesa. Era una superficie alta almeno la metà della cinta di solido acciaio levigato, recante un'enorme maniglione circolare, un tastierino numerico e quello che sembrava un lettore palmare.

 

Deglutendo inconsapevolmente, la ragazza si avvicinò alla maniglia, ma nel momento in cui tentò di farla girare, il metallo non si mosse. Invece, una voce elettronica emerse da chissà quale anfratto. 

 

-Riconoscimento numerico. Digitare il codice.- 

 

Jein sollevò gli occhi al cielo, cercando inconsapevolmente la fonte della voce con una smorfia scettica. 

 

"Seriamente? Come dovrei indovinare la combinazione?" 

 

Sbuffando, si massaggiò la fronte avvicinandosi al tastierino. 

 

"Va bene, ce la possiamo fare. Se questa è la mia parte di sogno, deve per forza essere un numero legato in qualche modo a me." 

 

Iniziò a sfiorare i tasti con le dita finché non comparve nello schermo la sua data di nascita. 

 

Errore

 

-Cavolo.- 

 

"Va bene, riproviamo." 

 

La data in cui aveva conosciuto Kippeum. 

 

Errore 

 

La data in cui sua madre aveva perso il lavoro. 

 

Errore 

 

"Oh andiamo, potresti darmi un indizio!"

 

Riprese a digitare, combinazione dopo combinazione. Nulla. 

 

La data in cui aveva iniziato la scuola. La data in cui aveva iniziato a lavorare. Niente. 

 

La data in cui Kippeum le aveva fatto il suo primo regalo. 

 

Errore

 

Con un lungo sbuffo esasperato, fece cadere la testa contro il freddo metallo, emettendo un tonfo che rimbombò su tutta l'ampia superficie. Con la faccia spalmata sulla porta, si voltò verso il ragazzo accanto a lei che dall'inizio di quel supplizio non aveva emesso una parola. Questo, sollevando le spalle, la guardò con un sorriso innocente. 

 

-Non guardare me, non ho gli strumenti per aiutarti.- 

 

Mentre un lampo di irritazione prendeva piede nella sua mente, si bloccò, spalancando gli occhi. 

 

-Forse ti sbagli.- mormorò con crescente decisione. 

 

Le dita si appoggiarono nuovamente sui tasti e scivolarono velocemente digitando i numeri nella sua testa. 

 

Password corretta 

 

Con un sorriso fiero, sentì il suono elettronico che le indicava di avere avuto successo e sollevò lo sguardo orgoglioso.

 

-Beh? Che cos'era alla fine?- chiese Jimin, divertito nel vederla gongolare dalla soddisfazione. 

 

Con una smorfia incredula, la ragazza riportò gli occhi su di lui. 

 

-La data in cui ho conosciuto i BTS.- rispose, alzando le mani al cielo. 

 

-Riconoscimento palmare. Appoggiare la mano sul lettore.- 

 

L'aria di trionfo abbandonò velocemente il viso di Jein al suono della voce metallica. Con una leggera incertezza, avvicinò la mano allo scanner e vide una luce verde attraversare la superficie. 

 

-Scan eseguito. Riconoscimento vocale. Pronunciare il proprio nome.- 

 

Alzando il sopracciglio con insistenza, la ragazza sollevò nuovamente lo sguardo al punto indefinito da cui proveniva l'altoparlante. 

 

-Chang Jein.- 

 

Silenzio. 

 

-Chang Jein. Accesso negato.- 

 

La giovane spalancò gli occhi sollevando i palmi in aria. 

 

-Stai scherzando? Questa è la mia parte di sogno! Non puoi negarmi l'accesso!- 

 

-Accesso negato.- ripetè indifferente la voce metallica. 

 

Percependo una sottile risatina alle sue spalle, Jein si voltò verso il ragazzo che tentava malamente di nascondere una smorfia. 

 

-Ah, lo trovi divertente? Provaci tu allora!- esclamò, incrociando le braccia sotto al seno. 

 

Dopo un istante di perplessità, Jimin si aprì in un'espressione furba e si avvicinò alla grande porta sollevando lo sguardo. 

 

-Park Jimin.-

 

Di nuovo, ci fu il silenzio. 

 

-Accesso consentito.- 

 

Sotto gli sguardi strabuzzati dei due la porta emise un sonoro rumore idraulico, come se dei grossi pistoni si fossero finalmente distesi, e la superficie scattò impercettibilmente verso di loro staccandosi dalla parete. 

 

Jein, osservando la porta che aveva preso ad aprirsi di propria iniziativa, sollevò per l'ultima volta gli occhi al cielo. 

 

-Seriamente?-

 

 

LEZIONI DI PSICOANALISI

Ok ragazzi, stiamo entrando nel vivo della storia, perciò chiunque è curioso di conoscere di più sulla teoria psicoanalitica che mi ha dato l'ispirazione per ciò che succederà da ora in poi, la lezione inizia ora. 

Per chiunque non sia interessato, faccio solo un piccolo annuncio. Dato che ho notato che alcuni lettori faticano a stare dietro a due aggiornamenti a settimana, per ora mi limiterò a farne uno fisso al mercoledì (scanso equivoci). Fatemi sapere se questa modalità vi piace oppure preferivate come prima. 

 

Dunque, iniziamo. Come vi avevo anticipato, questa storia si basa sulle teorie di Freud, perciò faremo un breve riassunto della sua visione dei sogni e della struttura della psiche (chiedo scusa al popolo di EFP che non riuscirà a vedere le immagini). 

 

 

 

Per Freud la mente era come un iceberg. La punta che è fuori dall'acqua, la parte più piccola dell'iceberg, è la parte conscia, quella dei nostri pensieri consapevoli. La coda nascosta sotto l'acqua, la parte assai più grande, è l'inconscio, un insieme di pensieri, desideri e impulsi di cui non siamo consapevoli e a cui normalmente non abbiamo accesso. 

Ora, cosa c'entrano i sogni in tutto questo? Normalmente, a dividere conscio e inconscio c'è la Guardia, quella che in questo capitolo è rappresentata dalla cinta muraria con la porta blindata. La Guardia impedisce fondamentalmente ai pensieri inconsci di salire in superficie, per permetterci di avere una psiche equilibrata. Quando siamo addormentati però la Guardia si abbassa o si allenta, perché la nostra attenzione è minore. Quindi, i nostri pensieri inconsci riescono ad uscire e "salire in superficie" travestiti da sogni. 

 

 

 

Quello, invece, che Jein e Jimin stanno cercando di fare è il percorso opposto. La loro parte cosciente sta scendendo in profondità verso l'inconscio e per questo ha incontrato la Guardia. 

 

 

 

Ora, immaginate cosa ci dice di Jein il fatto che la sua guardia sia un'enorme cita muraria con un portone degno del caveau di una banca, perfettamente chiuso anche se è addormentata e che non solo non lascia uscire niente ma non lascia neanche ENTRARE niente. Detto ciò, traete voi le vostre conclusioni. Ma tenete bene a mente quello che ho detto, perché in futuro ci tornerà utile.

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Capitolo 20
*** 20 ***


~~~~~~

 

I colori davanti agli occhi di Jein si rincorrevano e fuggivano, si scontravano in misteriosi connubi e si sposavano in perfette armonie. La ragazza aveva passato gli ultimi venti minuti a fissare il quadro dell'artista anonimo posto davanti a sé nel corridoio del reparto di neurochirurgia. Erano leggermente in ritardo con le visite di controllo. 

 

A forza di fissare insistentemente l'immagine astratta, i suoi occhi avevano iniziato a bruciare e sentiva emergere un leggero mal di testa, perciò distolse lo sguardo. Spostando il peso su un fianco, incrociò le gambe facendo cigolare la sedia metallica e spinse la sua osservazione fino al termine del corridoio. In fondo, poteva intravedere la sala d'attesa principale, quella con la macchinetta del caffè e le poltroncine basse. Immaginò di girare a destra e infilarsi nel secondo corridoio, quello di fronte all'ascensore. Dopo un paio di svolte, sarebbe giunta nella stanza in cui era stata ricoverata fino ad appena una settimana prima. 

 

Con una smorfia, abbandonò il viaggio che la sua mente stava percorrendo e prese a fissare la porta dell'ambulatorio in cui sarebbe dovuta entrare per la visita di controllo. A forza di rimanere seduta lì, in un corridoio deserto, nel totale silenzio senza sapere che cosa fissare, cadde in uno stato quasi ipnotico, in cui i suoi pensieri presero le briglie della sua attenzione. Immagini casuali e assurde apparivano come flash dietro ai suoi occhi, abbagliandola e lasciandola a brancolare in confusione. 

 

Un angelo. La Luna. Delle scatole gemelle. Una casa affacciata su un lago. Un... bambino. 

 

Jein sbatté le palpebre un paio di volte. 

 

Una persona. C'era una persona con lei? Un ragazzo? Non ne era sicura. 

 

Una canzone. Una melodia confusa e lontana ma che significava qualcosa, ne era sicura. Inconsapevolmente, la sua gola iniziò ad emettere le note che la sua mente stava ripescando da chissà quale anfratto della sua memoria. 

 

 

-La visita è finita?- 

 

Jungkook, nervosamente seduto sul ciglio della poltroncina, alzò gli occhi sul suo hyung. Yoongi scosse brevemente la testa, riprendendo a sorseggiare il suo americano. Ogni volta che il medico faceva la visita giornaliera, il giovane diventava un bandolo di ansia e apprensione. Ma, d'altronde, non aveva tutti i torti. Ogni giorno speravano di ricevere buone notizie e ogni giorno ricevevano lo stesso verdetto. 

 

"Finché non siamo sicuri che l'aneurisma si sia completamente chiuso, non possiamo decretare un miglioramento." 

 

Se i nervi di Yoongi erano irritati, quelli di Jungkook stavano per esplodere a causa dell'impazienza. Il maggiore osservò il piede del più giovane tamburellare velocemente sul pavimento, i suoi occhi fissi per terra, concentrati in chissà quale nefasto pensiero. Il ragazzo fece per aprire la bocca, nel tentativo di rasserenare il suo dongsaeng, quando quest'ultimo alzò di scatto la testa come un cane che aveva fiutato un nuovo odore. 

 

Yoongi lo vide spalancare gli occhi e aggrottare le sopracciglia, mentre sembrava tendere l'orecchio verso il suono che aveva preso a diffondersi debolmente nell'aria. Sembrava la voce di una ragazza che mormorava una canzone fra le labbra. 

 

Il più grande guardò con stupore mentre Jungkook si staccava di scatto dalla poltroncina, alzandosi in piedi e dirigendosi verso il corridoio che portava agli ambulatori. Sembrava avere fatto una scoperta sensazionale, dal modo in cui si muoveva rapidamente e concitatamente, perciò Yoongi fece per seguirlo. Quando entrambi giunsero sulla soglia del corridoio, però, l'unica cosa che videro fu una porta che si chiudeva. Era deserto. Le sedie erano vuote e l'aria era riempita solo dal pressante silenzio. 

 

-Tutto a posto?- chiese a quel punto il maggiore, fissando gli occhi febbrili del più giovane. 

 

Questo rimase ancora qualche istante ad analizzare l'area, come in cerca di qualcosa che si fosse nascosto alla sua vista, ma nulla si mosse. A quel punto, scuotendo debolmente la testa, si voltò e tornò nella sala d'attesa. 

 

-Qualcuno stava cantando la canzone che ho composto. Quella che ho fatto per Jimin hyung.- mormorò infine in risposta. 

 

Yoongi fissò il profilo contratto del suo dongsaeng attraverso il ciuffo di capelli che gli raggiungeva gli occhi. Lo contemplò nel suo modo di abbassare lo sguardo con imbarazzo, di farsi assorbire dai suoi pensieri e di corrucciarsi buffamente quando qualcosa non lo convinceva. Era grande, grosso e muscoloso eppure talvolta gli ricordava un bambino. D'altronde, era così. Era un bambino cresciuto troppo in fretta. 

 

Il maggiore, contemplando quei pensieri, diede brevemente una pacca sulla spalla al minore senza pronunciare una parola. 

 

-Sarà stato qualcuno che ti avrà sentito cantare dalla stanza di Jimin.-

 

"So che sei nervoso, ma non farti ossessionare dai tuoi pensieri." 

 

"Va tutto bene." 

 

Non erano frasi che Yoongi era solito dire ad alta voce. Neanche con il più giovane. Si limitò a trasmettergli quello che voleva dire con quel semplice gesto e Jungkook, che aveva la sua stessa scarsa propensione alle parole, capì all'istante. 

 

-La visita è finita. Potete tornare nella stanza.- 

 

La voce dell'infermiera attirò la loro attenzione, distogliendoli dai loro pensieri. Con un segno di assenso, entrambi si diressero verso la stanza di Jimin, lasciandosi alle spalle la silenziosa sala d'attesa. 

 

~~~~~~

 

Quello che li accolse oltre la porta fu un buio gentile. Non quel genere di buio che divora voracemente tutto ciò che cade nella sua trappola, unificando il mondo in un impietoso nero. Era un buio che lasciava intravedere loro i contorni dell'altra persona, anche se l'ambiente circostante era ancora un mistero. 

 

Non si chiesero dove fossero finiti. Ormai non si facevano più quella domanda. Si lasciavano semplicemente trascinare dalle correnti del sogno, placidi come ramoscelli cullati dalle onde. 

 

La prima fonte di luce ad emergere si stava dirigendo verso di loro. Quando Jimin si accorse che aveva due occhi e che puntava direttamente nella loro direzione, afferrò il braccio di Jein trascinandola al suo fianco. Accanto a loro, sfrecciò una macchina in quella che gradualmente si stava rivelando essere una strada. 

 

Il tragitto della vettura fu bruscamente interrotto da un ostacolo. Un palo della luce che si conficcò nel paraurti dell'automobile producendo un orribile schianto metallico. I due ragazzi guardarono nervosamente dai finestrini, da cui si intravedevano gli airbag esplosi nell'abitacolo e un principio di capelli che spuntava fra il bianco. 

 

Un gruppo di persone si avvicinò alla macchina con il telefono in mano, gridando aiuto e chiedendo un'ambulanza. Jimin distolse lo sguardo non appena notò che Jein stava girando intorno alla vettura e si portava vicino al finestrino del guidatore. Quando vide i suoi occhi spalancarsi con un'oscurità terrorizzata e agonizzante, fu al suo fianco in un istante. Attraverso il vetro si vedeva un volto incosciente, schiacciato dall'airbag contro il poggiatesta e sporco a tratti di sangue fresco. 

 

Jimin sentì un moto di nausea stringergli lo stomaco e alleggerirgli la testa. Sarebbe potuto svenire se non fosse stato in un sogno. Era Jein. Quel volto che amava e che venerava era tumefatto e sanguinante e inerme e più lo guardava più si sentiva svenire dalla sofferenza che la vista gli provocava. La vera Jein, quella al suo fianco, deglutì pesantemente con un leggero tremore e infine distolse lo sguardo. Lui non ci riusciva. 

 

All'improvviso, sentirono una forza prendere il sopravvento sul loro corpo. Era una sensazione bizzarra, come se un'enorme calamita li stesse attirando a sé, trascinando i loro piedi. Era come se si trovassero su un nastro trasportatore. Il pavimento si spostò, conducendoli lontano dalla vettura, dalle persone che gridavano aiuto cercando di aprire la portiera e dal volto sfigurato. Jimin, ritornando violentemente in sé come se avesse trascorso quegli istanti in apnea, afferrò rapidamente la mano della ragazza. Lui stava tremando più di lei. 

 

 

L'oscurità si dissolse lentamente in una stanza che Jimin aveva già visto. Doveva essere la camera di Jein. Una seconda versione di lei era sdraiata sul letto e fissava placidamente il soffitto mentre una ragazza marciava avanti e indietro per la lunghezza della camera, con il viso chiuso in un'espressione irritata e borbottando come una pentola a pressione. 

 

-Jein, sono stufa di questa storia. Non puoi andare avanti così!- 

 

La ragazza non sembrò minimante turbata dalle parole dell'altra. Rimase in silenzio, con gli occhi incollati al soffitto e un'apatica espressione sul viso. 

 

-Se non ci parli tu con i tuoi genitori, lo faccio io! Questa storia deve finire!- 

 

La testa della giovane sdraiata scattò di lato verso l'amica. 

 

-Certo, così magari capiti nel giorno in cui mia madre ti odia e ti becchi un coltello nella schiena.- mormorò freddamente lei in risposta. 

 

La ragazza in piedi fermò la sua marcia, pestando un piede a terra con irritazione. 

 

-Va bene, non è un piano perfetto. Ma devi andare via di qui!- 

 

Assorto nel contemplare la scena, Jimin si accorse improvvisamente del sussurro che la vera Jein, quella accanto a lui, aveva emesso. 

 

-Forse avrei dovuto ascoltare Kiki.- 

 

 

La gigantesca calamita li attirò nuovamente a sé e il nastro trasportatore invisibile fece spostare i loro corpi in un ambiente ancora più luminoso. Un corridoio largo si presentò davanti a loro come la scena di un film di cui erano gli unici spettatori, forzati ad osservare i personaggi appoggiati agli armadietti che recitavano la loro scena. 

 

-Jein, ma come fai ad essere sempre così... così... impassibile?- 

 

Una ragazza guardava con un misto di ironia e ammirazione la falsa Jein, che rispose semplicemente con una scrollata di spalle. 

 

-Che cosa pretendi? Lei è l'Iceberg! È la sua natura essere freddamente cool!- replicò un'altra ragazza, cinguettando allegramente in direzione della prima. 

 

Una giovane, che doveva essere Kippeum, fissava la scena con un'espressione crucciata sul viso. Seguiva infastidita lo scambio tra le due ragazze e poi rimbalzava sul viso di Jein, soffermandosi sui suoi occhi. Lei, d'altro canto, non pareva minimante toccata dalla situazione. Sembrava essere assorta nel suo mondo, un mondo a cui nessuna di quelle persone aveva accesso, fatta forse eccezione per Kippeum. 

 

La vera Jein, accanto a lui, emise uno sbuffo divertito. 

 

-Kiki ha sempre avuto un bel caratterino. Anche se allora non aveva ancora il fegato di farsi valere.- mormorò con un lieve ghigno sulle labbra. 

 

Jimin si aprì a sua volta in un timido sorriso, posando lo sguardo sulla ragazza appoggiata agli armadietti. 

 

-Tu invece sembravi una gangster. Se fossi stata nella mia scuola avrei pensato che fossi una bad girl che portava un mare di guai.- 

 

Appena finì di pronunciare quelle parole, sentì il braccio bruciare e si accorse che Jein l'aveva colpito con un'espressione fintamente offesa negli occhi. Lui allora si lasciò sfuggire una risata, che fu bruscamente interrotta dal movimento delle figure nel corridoio. Dopo che le due ragazze sconosciute se ne furono andate, Kippeum si avvicinò a Jein e le afferrò una mano costringendola a voltarsi verso di lei. 

 

-Non mi piace il modo in cui parlano di te. Se le loro parole ti feriscono...- 

 

-Non hanno detto niente di che. Sto bene e, inoltre, non m'importa.- 

 

Detto ciò, la falsa Jein si chiuse in una semplice scrollata di spalle e si allontanò dall'amica, che la guardava con apprensione. 

 

 

Il nastro trasportatore li trascinò in silenzio vero la scena successiva, lasciando che l'angoscia di Jimin crescesse sempre più. 

 

-Sembra che stiamo andando indietro nel tempo.- sentì mormorare da Jein. 

 

Non fecero in tempo ad abbracciare con lo sguardo il nuovo ambiente che una frase violenta come una frustata tagliò l'aria. 

 

-Cosa vuol dire che hai perso il lavoro?!- 

 

La falsa Jein era in piedi in mezzo alla stanza, con i muscoli del viso contratti in una smorfia di pura rabbia e incredulità. Sua madre, di fronte a lei, si stava accartocciando su se stessa con un'espressione vergognosa. 

 

-Hanno detto che a causa delle numerose assenze non potevano più chiudere un occhio.- sussurrò la donna in risposta.

 

Jein dava l'impressione di volersi strappare i capelli uno ad uno. Contemplava la donna con amarezza e delusione. 

 

-Se avessi preso le medicine avresti potuto andare al lavoro regolarmente!- urlò rabbiosamente. 

 

Jimin, che osservava la scena con il cuore in gola, si accorse che la ragazza accanto a sé si era chiusa in un'espressione di sofferenza che non le aveva mai visto negli occhi. Era rimorso, misto a terrorizzata colpa. 

 

-Io le prendo le medicine, non è colpa mia...- pigolò la donna con le lacrime agli occhi. 

 

-Non è vero! Ho visto che le butti nel water, non dire bugie!- 

 

Ogni parola sferzava l'aria con una violenza inaudita e sembrava ferire i presenti, tagliandogli la pelle e l'anima. La donna si alzò con slancio dal suo bozzolo e puntò gli occhi rabbiosi sulla ragazza. 

 

-Smettila di trattarmi come se fossi tua figlia! Non hai nessun diritto di dirmi quello che devo fare!- 

 

Jein spalancò ancora di più gli occhi davanti alla donna pietosa davanti a sé. 

 

-E allora inizia a comportarti da madre!- gridò con la gola raspante di rabbia. 

 

-No...- 

 

Jimin portò velocemente lo sguardo sulla creatura accanto a sé, che si stava incupendo sempre di più. Aveva iniziato a tremare. 

 

-Non è colpa tua... perdonami...- mormorava con lo sguardo fisso sulla donna distrutta al centro della stanza. 

 

-Perdonami...-

 

 

*CRYING IN JAPANESE*

Ma raga...vogliamo parlare di Your eyes tell? No, non ne vogliamo parlare perché appena ho sentito Jungkook partire per l'Everest con quel falsetto celestiale io ero passata ad altra vita. 

Va beh, sciocchezze a parte... Ho vinto un altro scambio letture! Se continua così l'andazzo mi sa che farò un capitolo apposta per i premi... non pensavo ne avrei mai avuto bisogno lol. 

Comunque, ecco il bollino del primo posto dello scambio di _AnaMariaS_ 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** 21 ***


Ad ogni parola, Jein sembrava avvolgersi sempre di più in una matassa di sensi di colpa e cieca sofferenza. Jimin non si accorse di essere rimasto a fissare la ragazza con sgomento e una stretta al cuore. Non l'aveva mai vista così fragile. Anche nelle situazioni in cui il suo passato e le sue insicurezze avevano provato a pugnalarla, il suo turbamento non aveva mai raggiunto il punto di rottura. Forse, a forza di piegarsi sotto il peso delle sue responsabilità, stava finendo per spezzarsi. 

 

Realizzando ciò, Jimin le avvolse le braccia attorno al busto, trattenendola accanto a sé in uno spazio confortevole dove potesse sentirsi al sicuro. Nonostante la stesse stringendo, però, la ragazza non sembrava venire raggiunta dal suo tocco. La matassa di dolore la ricopriva sempre più, chiudendola fuori dal mondo, isolandola in quella solitudine che l'aveva sempre protetta nei momenti di crisi. Ma non poteva più andare avanti così. A forza di rinchiudersi nel suo mondo, di ingoiare la sua sofferenza mandandola giù, sempre più giù, nel profondo della sua anima, si stava lasciando divorare dal cancro dei sui stessi sentimenti. Sarebbe sparita, uccisa da se stessa. 

 

In quel momento, mentre cercava di riportare la ragazza in superficie, di riportarla da lui, Jimin realizzò le implicazioni di tutto ciò. No, non l'avrebbe lasciata cadere. Avrebbe nuotato fino al fondo in cui si era seppellita, se fosse stato necessario. Con quei pensieri in mente, la sua bocca si aprì per pronunciare le parole che Jein aveva la necessità di sentire. 

 

-Non è colpa tua.- 

 

La sua voce era ridotta ad un sussurro. Benché non ci fosse più nessuno intorno a loro, il ragazzo aveva appoggiato la bocca al suo orecchio, in modo che lei sola potesse sentire quelle parole. Oppure per fare in modo che esse penetrassero più facilmente dentro di lei. L'unica risposta che ricevette fu un tremore crescente nel suo corpo.

 

-Jein. Non è colpa tua.- 

 

Quel fragile corpo, involucro di quella altrettanto fragile anima, sembrava sul punto di rompersi. Ma Jimin ne avrebbe tenuto insieme i pezzi, a costo di stringerla per il resto della vita. 

 

-Io...- 

 

Una piccola voce arrochita si fece strada nel loro abbraccio, risvegliando le speranze del giovane. 

 

-Io... l'ho sempre colpevolizzata... ogni volta, per ogni cosa che faceva. Ma non era colpa sua...- aveva mormorato la ragazza. 

 

Jimin rimase in silenzio, ma prese ad accarezzarle con meticolosa cura la testa mentre sentiva il tremore diminuire lentamente. Il pollice dell'altra mano prese a sfiorare il viso di Jein con estrema attenzione, come fosse una delicata porcellana sul punto di infrangersi. 

 

-Era difficile... era difficile distinguere quando era la malattia a farla agire e... e quando invece era in sè.- 

 

Jimin era sul punto di rispondere, quando si accorse che una figura era comparsa nuovamente nel salotto precedentemente vuoto. Questa volta, i loro corpi non si erano spostati e la scena non sembrava cambiata. Ma il ragazzo poté notare come la Jein che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza fosse più giovane di quella furiosa che poco prima vi risiedeva. 

 

La ragazza fra le sue braccia aveva probabilmente percepito la sua esitazione, perché sollevò il capo per contemplare a sua volta cos'altro riservava quella spiacevole messinscena. 

 

La falsa Jein si diresse verso la porta d'ingresso, che a quanto pare aveva preso a suonare insistentemente da un po'. Una volta aperta, rivelò oltre di essa una piccola Kippeum con indosso uno spendente sorriso. 

 

-Ciao Jein!- 

 

La giovane, con ancora la maniglia stretta in mano, rimase immobile a fissare la sua nuova interlocutrice. Sbatté un paio di volte le palpebre, prima di aprirsi sempre più in un'espressione stupita.

 

-Ciao... Kippeum. Scusa ma... come fai a sapere dove abito?- chiese alzando un sopracciglio. 

 

Su quel viso così giovane quell'espressione, che normalmente risultava minacciosa e scettica, appariva assolutamente adorabile agli occhi Jimin. Ancora fra le sue braccia, la vera Jein osservava la scena con ipnotica attenzione, come se essa la stesse risucchiando dentro di sé. Almeno aveva smesso di tremare. 

 

-Ecco... ho chiesto all'insegnante. Volevo consegnarti il materiale di questi giorni e vedere se ti eri ripresa.- replicò con un timido sorriso la ragazza sulla soglia della porta. 

 

Alzò una mano, facendo dondolare brevemente un sacchetto sul dito in modo da catturare l'attenzione della falsa Jein. 

 

-Ah... ti ringrazio.- rispose semplicemente lei.

 

Il sorriso sulle labbra di Kippeum si fece gradualmente più ampio e la ragazza fece per aggiungere qualcosa, prima di essere interrotta da una voce trasudante di rabbia. 

 

-Jein! Chi è alla porta?- 

 

La voce di sua madre. Nel momento in cui si diffuse imperiosamente nel salotto e raggiunse le due figure, l'atmosfera si raffreddò bruscamente, lasciando i presenti in un insostenibile silenzio. Jein, perdendo quella scintilla di calore che le aveva dipinto gli occhi per un breve istante, abbassò lo sguardo a terra e afferrò velocemente il sacchetto. 

 

-Perdonami se non ti invito ad entrare ma... non è giornata. Grazie ancora per avermi portato questi.- disse in un soffio la giovane Jein, tenendo gli occhi lontani dall'interlocutrice. 

 

Questa prese ad osservarla con un'espressione congelata. Il sorriso sulle sue labbra si era velocemente estinto, lasciando posto ad un angosciata apprensione. Forzandosi ad indossare una smorfia convincente, fece un breve inchino mentre continuava a scrutare la giovane di fronte a lei. 

 

-Oh... tranquilla, non c'è problema. Io... ci vediamo a scuola.- mormorò infine allontanandosi dall'ingresso. 

 

La giovane Jein chiuse la porta con un lieve tonfo. Rimase per qualche istante ferma lì, con la mano ancora sollevata sulla maniglia e il corpo rigido nella sua posizione eretta. 

 

-Jein!- 

 

Assottigliando gli occhi, la ragazza abbandonò a malincuore quella piccola ancora e lasciò la stanza. 

 

 

Jein non sapeva come sentirsi. Non pensava di essere così vulnerabile. Credeva di essersi creata una corazza abbastanza forte nel corso degli anni, che le avrebbe permesso di non essere più scalfita dagli eventi che la circondavano e di rimanere in piedi nonostante tutto. Doveva rimanere in piedi. Se si fosse messa in ginocchio, sentiva che il suo intero mondo sarebbe crollato. La sua corazza si sarebbe disciolta nel nulla, lasciandola esposta alle parole e alle azioni delle persone. E invece eccola lì. In piedi per miracolo, in bilico su un baratro di cui non riusciva a vedere il fondo. Appoggiata all'unico sostegno di salvataggio in grado di trattenerla lì. Jimin. 

 

Non pensava che le sarebbe bastato rivivere alcuni episodi della sua vita per crollare. Eppure le sue certezze venivano sempre più distrutte, divorate scena dopo scena, da quei ricordi che aveva chiuso in un angolo della memoria, lontani dalla vista. 

 

La sua attenzione fu finalmente distolta da quel salotto nuovamente vuoto grazie ad una mano gentile e familiare che le accarezzò il braccio. 

 

-Se vuoi, ti posso portare via da qui.- aveva mormorato Jimin. 

 

Lei, dopo un attimo di esitazione in cui contemplò la dolce tentazione che le era posta dinnanzi, scosse il capo. 

 

-No.- replicò semplicemente. 

 

Inalò una generosa quantità di aria, la trattenne per qualche secondo nei polmoni e infine la rilasciò. 

 

-Non possiamo uscire da qua. Questo posto è diverso. Inoltre...- si interruppe, prendendo un altro profondo sospiro.

 

-... devo farlo.- concluse infine, lasciando che la sua voce scomparisse. 

 

Non appena quelle parole si esaurirono nell'aria, la stanza prese a girare. I loro corpi non si mossero, ma le pareti si spostarono come porte girevoli, portando con sé l'intero salotto e rivelando, ancora una volta, il corridoio di una scuola.

La falsa Jein era appena entrata nell'adolescenza e, nonostante ciò, manifestava già dei tratti da ragazza. Seduta ad un banco in un aula abitata da sommessi brusii, si stagliava fiera nella sua determinata solitudine. Il libro appoggiato davanti a lei sembrava assorbire tutta la sua attenzione, tanto che non si accorse del rumore causato dalla sedia accanto a lei che veniva spostata. Un'ancora più piccola Kippeum, che al contrario portava ancora i tratti della sua infanzia sul corpo, si sedette abbassando il capo in imbarazzo. 

 

-Perdonami. Sono stata assegnata a questo banco.- mormorò con un lieve rossore sulla punta delle orecchie. 

 

Jein, alzando lo sguardo, pose con cura il segnalibro fra le pagine e si voltò verso la nuova arrivata. 

 

-Tranquilla. Sono Jein.- rispose lei in tono secco. 

 

La piccola ragazza accanto a lei si rilassò in un sorriso che le gonfiò le guance in modo adorabile. 

 

-Sono Kippeum, ma puoi chiamarmi Kiki.- disse in uno slancio di sicurezza. 

 

Sentendo quelle parole, la falsa Jein si lasciò sfuggire uno sbuffo carico di sarcasmo. L'altra Jein, quella vera, aveva invece un leggero sorriso sulle labbra e sentì nella sua testa le parole che seguirono ancora prima che la sua copia le pronunciasse. 

 

-Anche no.- 

 

 

Mentre la stanza prendeva a girare nuovamente su se stessa, la ragazza sentì un verso divertito uscire dalle labbra che erano ancora vicine al suo viso. 

 

-Bene, vedo che certe cose non cambiano mai.- disse Jimin con tono divertito. 

 

Jein si voltò a guardarlo con una leggera sfida nascosta nello sguardo. Non aveva le forze per mettersi a fare della vera ironia della situazione, ma sentiva l'energia positiva che proveniva dal ragazzo riuscire a scalfire la massa di negatività che ancora non si decideva a mollarla. 

 

Quando le pareti smisero di girare, davanti a loro si presentò un nuovo salotto, più grande di quello in cui si trovavano poco prima. Contemplandolo con attenzione, Jein ebbe modo di riconoscere la vecchia casa che avevano lasciato quando lei aveva iniziato le scuole medie. Aveva dei ricordi vaghi degli ambienti e delle stanze. Era comoda, ma la ragazza non vi era particolarmente attaccata. Non riusciva a ricordare il motivo per cui non sentiva alcun legame affettivo con essa. 

Dalla porta, poi, fece il suo ingresso una bambina. Aveva indiscutibilmente il suo viso, ma le guance erano più paffute e gli occhi erano più stretti. Quella piccola Jein non poteva avere più di otto anni. 

 

Togliendosi le scarpe e riponendole con cura nella scarpiera, posò lo zaino a terra e si guardò in giro confusa. Cercava qualcosa con lo sguardo, soffermandosi sulla porta della cucina, da cui si intravedeva il locale vuoto. Gli occhi della bambina passavano ogni angolo dell'ambiente con estrema attenzione, come un piccolo detective in cerca di una prova. 

 

-Mamma!- esclamò la bambina, spostandosi nella casa. 

 

Entrò nella sua cameretta, ma ne uscì immediatamente non trovando l'oggetto della sua ricerca. Una misteriosa e inquietante sensazione prese il dominio dello stomaco di Jein. C'era qualcosa di terribilmente familiare in quella scena. La sua mente sapeva che cosa avrebbe seguito quegli avvenimenti ma la sua coscienza si rifiutava di riconoscerlo. 

 

-Mamma!- 

 

Ad ogni esclamazione della bambina, ad ogni passo che compiva, la testa della ragazza urlava disperata. 

 

"No!"

 

"Fermati!" 

 

La ragazza non capiva. Voleva gridare eppure non ci riusciva. Era come se la voce le si fosse intrappolata in gola, un boccone fastidioso e ingombrante che le impediva di respirare. Iniziava a ricordare. E pregava con ogni parte del suo essere che quella scena si fermasse. Che tutto sparisse. Che la bambina evaporasse nell'aria, prima di varcare la soglia di quella stanza dove già si stava dirigendo. 

 

"No, fermati... ti prego..." 

 

La bambina ignorò i suoi sordi richiami e varcò quella soglia. Jein si chiuse le orecchie, ma la voce confusa della bambina la raggiunse comunque. 

 

-Mamma?- 

 

Una domanda. Una semplice domanda. 

 

Eccolo, il punto di rottura. Jein lo sentì con tutta se stessa. La crepa che aveva inciso la sua armatura era finalmente esplosa, creando un infausto schiocco. Ormai, quell'incrinatura si era trasformata in una frattura. Una frattura irreparabile. 

 

-Mamma? Stai bene?- 

 

Jein non voleva vedere. Ma la sua testa non era concorde. Voleva che lei vedesse. Voleva costringerla a partecipare nuovamente a quella scena, con sadica soddisfazione. Infatti, i corpi dei due ragazzi furono trasportati dentro quella stanza. La camera dei suoi genitori. 

 

Jein si coprì gli occhi. Ma aveva davvero senso? Era in un sogno. E il sogno la costrinse a guardare la bambina che scuoteva il corpo esanime e immobile della madre mentre borbottava con la sua piccola, confusa voce. 

 

-Mamma? Mamma?- 

 

La ragazza si accovacciò su se stessa. Si chiuse le orecchie e serrò gli occhi ma la voce e le immagini erano lì, dentro di lei, e disintegrarono il suo corpo, staccandole l'armatura cementificata su di esso pezzo dopo pezzo. Ogni frammento rimosso era come una lacerazione della carne. Infine, la stanza esplose in un fragore di vetri.

 

 

BONJOUR

Oggi sarò breve. Ho vinto un altro scambio lettura! Uiiiiiiiiiiii

Lo scambio in questione è di GreyMoon1234.  Dateci un'occhiata, se siete interessati. 

Ps: aspetterò l'arrivo dei risultati dei primi contest e poi pensò proprio che farò il capitolo per i premi, se mai ne vincerò.

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Capitolo 22
*** 22 ***


Era buio. 

 

Jein non sapeva distinguere se il buio fosse intorno a lei o dentro di lei. Oppure se le due realtà si compenetrassero in un unico connubio. L'unica percezione che aveva era un crudo, freddo, impietoso buio. Il suo corpo era immobile, accartocciato su se stesso, bloccato in mezzo a quell'oscura solitudine da catene invisibili. Con gli occhi fissi davanti a sé, spalancati come quelli di un morto, la ragazza non sentiva niente. I suoi sensi erano stati addormentati dalla sua volontà, che aveva distrutto ogni cosa attorno a lei come estremo gesto di autoconservazione. 

 

Non c'era più nulla. 

 

Era al sicuro. 

 

Aveva fatto così per tutta la sua vita. Dissociazione. 

 

Aveva allontanato ciò che la turbava di più, staccandosi dai sentimenti che la perseguitavano come dei fantasmi nella notte e come inquietanti ombre durante il giorno. Non aveva fatto i conti con la realtà. 

 

La mente non dimentica. Nulla. 

 

Anche se era una bambina di appena otto anni e pensava che sua madre stesse solo dormendo sul pavimento, quelle immagini erano tornate a lei non appena aveva imparato cosa volessero dire le parole "tentato suicidio" e "barbiturici". Fu quello il periodo in cui scoprì che sua madre era malata. Di una malattia dentro la sua testa. 

 

Ricordava quel momento. Fu come un interruttore che accese improvvisamente una luce nella sua coscienza. Veloce come uno schiocco di dita. Quel giorno la sua mente crebbe di dieci anni e assunse sulle proprie spalle le responsabilità e le conseguenze di quello che aveva appreso. 

 

"Se lei non è in grado di prendersi cura di se stessa, dovrò farlo io." 

 

Solo in quel momento Jein capì da quando aveva avuto inizio. Kippeum le aveva ripetuto tante volte che il suo rifiuto di lasciare quella casa era dovuto ad una sua forma di ossessione, ma la ragazza non le aveva mai dato ascolto. Aveva ragione e non se ne era mai resa conto. L'immagine di sua madre stesa sul pavimento, l'arrivo dei paramedici che la caricavano febbrilmente su una barella e le ore passate in quel corridoio d'ospedale accanto ad un uomo sull'orlo del crollo erano sempre rimasti con lei. Ogni volta che guardava la donna vedeva quella scena. Nell'anticamera della sua mente, quel filmino veniva proiettato continuamente, fotogramma dopo fotogramma, per poi riavvolgersi e ricominciare da capo. Era sempre stato con lei e l'aveva attaccata alla donna in maniera morbosa. 

 

La causa della sua incapacità di andarsene non era sua madre. Era lei. 

 

 

Il corpo rimase immobile. Gli occhi non lasciarono il punto davanti a loro. Il buio non scemò. Mancava qualcosa. Assorbita nel vortice di pensieri che l'avevano trascinata in quel limbo, non si era accorta dell'assenza di qualcosa di fondamentale. O meglio, qualcuno. 

 

Non mosse le membra, che erano sul punto di infrangersi al minimo movimento. Voltò semplicemente il capo a destra e sinistra. Nero. Freddo. Buio. Lui non c'era. Se ci fosse stato, la sua scintilla avrebbe illuminato quel posto. Eppure non c'era. Dov'era? Dov'era Jimin? Aveva bisogno di lui. Perché non c'era? Lo voleva vicino a sé. Aveva bisogno di lui. 

 

Dov'era? 

 

Dov'era. 

 

-... Jimin?- 

 

Non era sicura di avere emesso un suono quando le sue labbra avevano mimato il suo nome. Nonostante ciò, l'oscurità divenne gradualmente meno tenebrosa e una voce lontana prese a bisbigliare nell'ambiente. 

 

-Jein!- 

 

Stava urlando ma sembrava un sussurro tanto era distorta. La sua voce. Jimin. Dov'era Jimin? Aveva bisogno di lui. 

 

Jimin. 

 

-Jimin...-

 

-Jein!- 

 

Un'eco disperata si diffuse nell'aria con più prepotenza. Si stava avvicinando. 

 

"Sono qui." 

 

-Jimin.- 

 

La luce. Improvvisa, accecante, quasi troppo brillante per i suoi occhi intorpiditi dall'oscurità. Ma era calore ed era lui. Le sue braccia la raggiunsero mentre il suo corpo si lanciava su di lei. Le sue braccia. Il suo viso preoccupato. Il suo calore. La sua luce. Aveva rotto quel velo in cui la sua mente l'aveva rinchiusa. L'aveva trovata, sfondando il muro del suo isolamento. 

 

-Jein, sei sparita all'improvviso! Era diventato tutto nero, non riuscivo a trovarti, io...- 

 

La ragazza appoggiò la testa sulla sua spalla e, finalmente, respirò. 

 

"Jimin." 

 

Non disse una parola. Si strinse a lui, sempre più forte, sempre più vicina, fino quasi a farsi male. La sua presenza non aveva cacciato i suoi demoni. Essi erano ancora lì, con lei, appesi alle sue spalle, abbarbicati sulla sua testa. Le tiravano i capelli. Le strappavano la pelle. La frustavano con fiamme di fuoco. Ma il dolore era più sopportabile accanto a lui. La sua presenza era come una medicina che addormentava i suoi sensi e li concentrava sull'amore di lui. 

 

Il ragazzo smise di parlare e avvolse il corpo di lei con tutto se stesso. 

 

"Non ti lascio più andare." 

 

La ragazza respirava lentamente e profondamente contro la sua spalla. Lui strinse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime con tutte le sue forze, e affondò il viso nei suoi capelli. 

 

-Vorrei poter cancellare tutto quello che ti è successo.- mormorò con voce ovattata. 

 

La ragazza non si mosse. 

 

-Vorrei avere una spugna e lavare via tutto quanto. Tutti gli incubi e tutto il dolore che hai subito.- 

 

Le lacrime premevano negli occhi del ragazzo con imperiosità ma non poteva. Se lei non riusciva a piangere, lui non poteva farlo. 

 

-Dio, quanto vorrei poterlo fare...-

 

Il silenzio che gli rispose lo fece preoccupare. L'aveva strappata alla sua oscurità, ma l'aveva davvero raggiunta? Oppure era ancora intrappolata dentro di sé? 

 

-Jimin.- 

 

Fu l'unica parola che disse. La voce rauca appena udibile contro la sua spalla lo fece riscuotere. Lei c'era. E aveva bisogno di lui. 

 

-Non ti lascio. Non ti lascio più.- mormorò, stringendo ancora di più il corpo di lei.

 

 

In quel nuovo, luminoso ambiente fece il suo ingresso una bambina. I suoi piccoli piedi scalpicciavano uno davanti all'altro con un po' di indecisione e decisamente poco equilibrio. Le piccole mani si agitavano per aria come le ali di un passerotto che tenta di volare per la prima volta, o come il bilanciere di un funambolo in bilico su una fune. 

 

Jimin spalancò gli occhi. 

 

"No. Basta. Non ancora." 

 

"Non può sopportare più di così." 

 

Con dolore, mischiato a tenerezza, osservò quel piccolo corpicino che barcamenava a destra e a sinistra con una risata simile ad uno squittio. Poi, comparvero due figure. Un uomo si accovacciò davanti alla bambina e aprì le braccia. 

 

Deglutendo pesantemente, Jimin si accorse che Jein stava osservando la scena con le palpebre dischiuse e gli occhi vitrei. 

 

La piccola guardò l'uomo e, continuando a ridere, si mosse verso di lui prima con incertezza, poi con sempre più sicurezza e determinazione. Quando finalmente lo raggiunse, vi si accasciò addosso perdendo l'equilibrio. L'uomo la prese in braccio e sorrise mentre lei lo guardava fiera, adorante. La seconda figura si fece avanti non appena la bambina protese le braccia verso di lei, sbilanciandosi oltre l'abbraccio dell'uomo. La donna, giovane, magra e con un luminoso sorriso sulle labbra, si avvicinò ai due corpi richiamata dalle piccole manine. La bambina si gettò su di lei non appena fu alla sua portata e la donna prese a ricoprirle le guance di baci, sotto le risa scatenate della piccola. 

 

Infine, la famiglia si allontanò, sparendo nella luce come se fosse diventata parte integrante di essa. 

 

Jimin emise un sospiro tremante e impercettibile, stringendo i denti con l'imperante paura del buio. Se fosse calato di nuovo, non sapeva se sarebbe più riuscito a salvare la ragazza. 

 

-Capisco.- 

 

I suoi occhi saettarono sul volto di lei. Jein guardava il punto in cui la famiglia era sparita e sollevò timidamente un angolo della bocca. Non disse nient'altro. Rimase semplicemente lì, ferma. Il suo corpo era immobile, ma non sembrava più sul punto di sbriciolarsi. I suoi occhi erano fissi davanti a lei ma non erano vitrei. Erano vivi. 

 

 

Jimin non sapeva quanto tempo fosse passato in quel limbo luminoso in cui non esisteva nient'altro che loro. Due corpi amalgamati insieme, in un abbraccio che sembrava un prolungamento della loro anima. Poi, comparve una porta. Dal nulla, in mezzo al bianco candore della luce, si stagliava la sua facciata lucida. Il ragazzo osservò la superficie blu notte aggrottando le sopracciglia e stringendo involontariamente le braccia intorno al corpo di lei. 

 

Jein guardò la porta per interminabili secondi, sotto allo sguardo ansioso di Jimin. 

 

-Restiamo qua.- mormorò lui contro la sua pelle. 

 

Chiuse gli occhi e pregò. 

 

-Dobbiamo uscire.- disse infine lei. 

 

La bocca del giovane si contrasse in una smorfia. 

 

-Andrà tutto bene.- aggiunse lei con un sorriso. 

 

A Jimin piaceva quel sorriso. Era ferito, martoriato, distrutto e guarito. Restaurato. Vincitore. Ingoiando le sue angosce, seguì i passi di lei, che la stavano portando verso la porta dopo aver sciolto dolcemente l'abbraccio. Quando lui fu accanto a lei, Jein posò la mano sulla maniglia e la abbassò. 

 

 

Acqua. Non c'erano altre parole per definire l'ambiente in cui erano emersi. Una piccola piattaforma impediva ai due corpi di cadere nel mare agitato da piccole perturbazioni che li circondava. La superficie rifletteva il blu infinito del cielo che troneggiava su di loro, lontano eppure apparentemente incombente. Acqua, cielo e poi... un materasso e una ragazza. Un'altra falsa Jein con le mani tremanti davanti al viso e il corpo disteso su quella barca di fortuna. 

Il materasso scivolava sull'orlo dell'acqua dolcemente, come se volesse cullare quella forma di vita che trasportava. 

 

Dopo qualche istante di contemplazione, il giovane si accorse che dal viso della ragazza scorreva qualcosa. Lacrime. Una goccia alla volta, scendevano sulle sue guance ad ogni singhiozzo. Sembravano non finire mai. Jimin non aveva mai visto qualcuno produrre così tante lacrime. 

 

Abbassando lo sguardo, infine, si accorse che quei rigagnoli scendevano sul tessuto del materasso e scivolavano nel mare, producendo piccoli cerchi concentrici. Una dopo l'altra, facevano tutte lo stesso percorso. Nascevano dai suoi occhi, viaggiavano per il suo corpo e morivano unendosi ad un essere più grande. Un dubbio balenò nella mente di Jimin. 

 

-È... un mare di...- 

 

-Lacrime.- concluse Jein, interrompendo la sua voce. 

 

I due ragazzi contemplarono quel corpo acquoso che si estendeva a vista d'occhio, oltre l'orizzonte della loro visione. 

 

-Sono rimaste intrappolate qui dentro per anni. Le ho imprigionate, costringendole ad accumularsi senza dare loro l'opportunità di uscire.- continuò la ragazza in un mormorio. 

 

Quelle parole sembrarono attirare l'attenzione della giovane sdraiata sull'acqua. Alzò gli occhi e parve notare per la prima volta i due visitatori. Il suo sguardo era terrorizzato. 

 

-Chi siete?- chiese con la voce incollata alla gola.

 

Jimin non fece in tempo ad aprire la bocca.

 

-Andate via!- urlò la falsa Jein, stringendosi le braccia attorno al corpo. 

 

-Non avvicinatevi!-

 

I suoi occhi erano spalancati e saettavano da un corpo all'altro, la bocca era contratta in una smorfia sofferente. 

 

-Non vogliamo farti del male.- 

 

Il ragazzo si fece avanti, sforzandosi di aprirsi in un sorriso rassicurante che potesse accompagnare il suo tono accondiscendente. 

 

-Bugiardo!- replicò la giovane, fissandolo con rabbiosa sofferenza. 

 

Jimin, a quelle parole, sentì una fitta all'altezza del cuore. Pensava di capire chi era quell'essere davanti a sé. E se aveva ragione, il rigetto lo feriva in maniera fin troppo profonda. 

 

-Smettila di piangerti addosso.- 

 

La voce fredda di Jein fece spostare l'attenzione del ragazzo su di lei. Anche la figura sdraiata sul materasso si voltò verso la ragazza, con una furia che le incendiava lo sguardo. 

 

-E smettila di isolarti.- continuò la ragazza, con un tono più caldo benché costantemente imperioso. 

 

Terminato di pronunciare quelle parole, fece un passo avanti. La piattaforma terminava appena oltre la punta del suo piede. Oltre di essa, c'era solo acqua. Quando Jein provò a muovere un secondo passo, però, la giovane distesa emise un sibilo quasi animalesco. 

 

-State lontani!- 

 

In un istante, l'acqua si condensò in un freddo, spinoso ghiaccio. La figura urlava selvaggiamente contro di loro e ad ogni grido, aumentava la superficie congelata. I due ragazzi si ritrovarono stretti l'uno all'altra non appena lance e pugnali emersero dal terreno ghiacciato in forma di appuntite stalagmiti. La figura stessa, che portava i tratti di Jein, si stava velocemente trasformando in una statua di ghiaccio. 

 

La sua pelle si stava macchiando di un grigio trasparente, le sue membra diventavano rigide e spigolose. Fino a che i suoi occhi non divennero cristalli luminosi. 

 

-Andate via!-

 

 

BREVE ANGOLO BREVE

Volevo solo condividere il mio tentavo di edit per festeggiare il superamento delle 100 stelline alla storia. Spero vi piaccia, anche se non è nulla di professionale. 

(Come al solito il popolo di EFP rimarrà a bocca asciutta. Sorry)

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** 23 ***


Nel giro di pochi istanti, l'intero ambiente si trasformò in una gigantesca caverna ghiacciata. Non c'era più traccia del cielo azzurro, al suo posto invece si trovava un soffitto oscuro e carico di minacciosi spuntoni pendenti sulle loro teste. 

 

Ovunque i due ragazzi guardassero non vedevano altro che quello. Pugnali lucenti e appuntiti emergevano ad ogni batter d'occhio, circondando i loro corpi e punzecchiandoli con le loro affilate estremità. Il mostro stava di fronte a loro con occhi luccicanti e labbra tese in un ringhio animalesco. 

 

Jimin dovette ammettere a se stesso di essere un po' intimorito. 

 

-Che facciamo?- chiese a bassa voce senza distogliere gli occhi dalle potenziali armi puntate contro di loro. 

 

Jein si prese qualche istante per contemplare la loro situazione. 

 

-Dobbiamo cercare di avvicinarci a lei senza finire infilzati come un kebab.- mormorò in risposta con un tono così serio da stonare con la frase appena pronunciata. 

 

-Ottimo.- replicò il ragazzo con sguardo circospetto. 

 

Stringendo i denti, mosse il piede in avanti di qualche centimetro. Una stalagmite rispose prontamente al suo movimento spuntando dal pavimento e mirando al suo petto. La sua affilata punta si fermò non appena toccò il tessuto della sua maglia. Era così vicina che il suo corpo levigato rifletté l'espressione terrorizzata negli occhi del ragazzo, che deglutì nervosamente fissando l'arma. 

 

-Andate via!- 

 

La voce della creatura ghiacciata al centro della stanza sembrava il cavernoso verso di un predatore che cercava di proteggere la sua tana. Risuonando nella sua bocca, emetteva un eco talmente grottesca da trasmettere al ragazzo una scia di brividi lungo la schiena. 

 

-Perché dobbiamo andare via?- 

 

Jein fissò la sua controparte con la testa alta e il fuoco negli occhi. Il mostro ringhiò alle sue parole e assottigliò le palpebre. 

 

-Voglio restare da sola.- rispose con voce bassa.

 

-Non voglio restare sola.- 

 

Un bisbiglio sottile rimbalzò fra le pareti un paio di volte, trascinando quelle parole nell'aria. Jein e Jimin si guardarono attorno confusi. Non c'era nessun altro in quella specie di caverna a parte loro. Da dove proveniva quella voce? Anche la statua di ghiaccio studiò l'ambiente circostante con circospezione e un soffio felino sulle labbra. 

 

-Non mi lasciate sola.- 

 

La voce era quella di Jein. Sembrava provenire dalle pareti stesse, che continuavano a palleggiarsi quel suono lasciando infine che il vuoto lo assorbisse, zittendolo. Era certo. Non c'era nessun altro lì con loro. Ciò poteva solo significare che quella voce veniva dalla caverna stessa. 

 

-Taci!- esclamò rabbiosamente la falsa Jein, facendo saettare i cristalli dei suoi occhi da una parte all'altra. 

 

-È colpa mia!- 

 

Jimin sentì il pugno che gli aveva stretto lo stomaco fino a poco prima tornare a rinsaldare la sua morsa, provocandogli un moto di nausea. La ragazza accanto a sé, però, aveva uno sguardo che non dava segni di vacillamento. 

 

-Lei è l'Iceberg! Non sente niente!- 

 

La voce era cambiata. Più acuta, con un tono di ironia nel sottotesto della frase. Il corpo ghiacciato continuava a fare scattare la testa da una parete all'altra, accucciandosi leggermente come se fosse pronta a sferrare un attacco. Era un buon momento per approfittare della sua distrazione, il ragazzo lo sapeva. 

 

-Lasciatemi stare! Andate via!- 

 

Quelle ultime due parole erano diventate una sorta di mantra per quella statua animalesca. Continuava a ripeterle, mormorarle, masticarle fra i denti mentre cercava la fonte di disturbo. 

 

-Mi dispiace.-

 

Jimin iniziò timidamente a compiere qualche passo in avanti. 

 

-Scemo, dove credi di andare? Riporta le tue belle chiappe qui prima che lei ti trasformi in una statua da esibire ai matrimoni dei milionari!- sentì sussurrare dietro di sé. 

 

Con un ghigno divertito e il cuore più leggero, si voltò verso la ragazza che lo stava incenerendo con lo sguardo. La sua ragazza. La sua Jein. 

 

-Ti fidi di me?- chiese con la tutta la sicurezza che riuscì a spremere dal suo corpo scombussolato. 

 

Jimin intuì la risposta ancora prima che essa fosse pronunciata grazie al lampo minaccioso che attraversò gli occhi della giovane. 

 

-Niente cagate alla Titanic, Park Jimin!- 

 

-Jimin...- 

 

Le teste dei due ragazzi si alzarono all'unisono, sintonizzando la loro attenzione sulla voce che rimbalzava fra le pareti. 

 

-Dov'è Jimin?- 

 

 

Il ragazzo abbassò lo sguardo su Jein, che esponeva un leggero imbarazzo sulla linea della bocca. 

 

-Ho bisogno di Jimin. Dov'è?- 

 

Il diretto interessato, con il sorriso più ampio che avesse mai prodotto dall'inizio di quella bizzarra avventura, lanciò un ultimo, languido sguardo alla sua compagna che aveva vergognosamente abbassato gli occhi a terra. 

 

Fece un passo e poi un altro ancora. Nulla. Nessuna punta di ghiaccio pronta a perforargli il petto. 

 

"Bene." 

 

-Io non ho bisogno di nessuno!- 

 

La falsa Jein sbraitava all'aria abbassando le orecchie come un animale circondato dal pericolo. Jimin sentì dei passi leggeri dietro di sé e, gettando uno sguardo rapido alle sue spalle, vide che la ragazza aveva preso a seguirlo. 

 

-È colpa mia, non è vero?- 

 

Una nuova voce. I corpi dei ragazzi si bloccarono per un momento al suono del disperato lamento di una donna. Jein si era bloccata con le orecchie protese, pronta a sentire cosa aveva da aggiungere sua madre. Il giovane, nel frattempo le afferrò una mano e riprese lentamente la sua avanzata. 

 

-Certo che è colpa mia.- 

 

La ragazza non fece opposizione alla forza trainante che la faceva andare avanti. Dopo qualche esitazione, riprese a camminare con sicurezza, mantenendo la stretta stretta che condivideva con il ragazzo. 

 

-Perdonami. È colpa mia se adesso ti trovi qui.- 

 

La voce della madre di Jein sembrava rotta. Non dal ghiaccio o dall'eco della caverna, ma dal pianto. 

 

-Sì! È esattamente colpa tua!- urlò la statua di ghiaccio con rabbia cieca. 

 

-Perdonami...- 

 

I due ragazzi erano ormai a qualche metro di distanza e, fortunatamente, erano lontani dall'attenzione e dagli occhi del mostro, intento a cercare ossessivamente la fonte della sua sofferenza. 

 

-Mai! È tutta colpa tua!- esclamò. 

 

Jimin era a due passi dalla schiena della falsa Jein. Allungò un mano. 

 

-È tutta...non...- 

 

La voce cavernosa si ruppe. Ai ragazzi era parso di sentire lo schiocco di un ghiacciaio che si spezza. Il rombo fu basso, ma penetrante. 

 

-Non... non è...- 

 

Le braccia di Jimin raggiunsero finalmente il corpo ghiacciato. Lo strinsero nella stessa maniera in cui avevano fatto con  quello della sua vera Jein. Sotto i polpastrelli iniziò a sentire l'umidità del ghiaccio che si scioglieva. 

 

-Va tutto bene.- mormorò con tutta la dolcezza che riuscì a raschiare dalla sua voce. 

 

-Sono qui, va tutto bene.- 

 

Il mostro ansimava sull'orlo delle lacrime, perdendo gradualmente il suo colore grigiastro e la sua fredda corazza. 

 

Il ragazzo si sentì toccare la spalla e si voltò verso la sua compagna. I suoi occhi erano come il sorriso che poco prima gli aveva rivolto. Morti e resuscitati. Fragili e rinforzati. 

 

"Tocca a me." 

 

Jimin capì. Con un breve passo, si fece indietro lasciando spazio alla ragazza. Questa si portò davanti al mostro, che si girò verso di lei come se avesse sentito il richiamo della sua padrona. 

 

Ci furono lunghi istanti di silenzio. Il ragazzo guardava nervosamente la scena, sentendo l'impazienza e l'incertezza fargli inciampare il cuore. Le due figure identiche si fissavano negli occhi. Una terrorizzata, ferita, furiosa. L'altra calma, sicura e calorosamente accogliente. 

 

 

Jein non era sicura di quello che stava facendo. Fino a quel momento, tutto quello che aveva fatto era stato spinto dall'istinto, insieme ad una serie di intuizioni e veloci ragionamenti. In un modo o nell'altro, se l'era sempre cavata. Ma come si affrontava la parte più oscura di sé? 

 

Aveva toccato il fondo e ne era risalita, ma era stato solo grazie all'aiuto di Jimin. L'ultimo passo lo doveva fare lei. Davanti a sé, stava in piedi la personificazione di tutto ciò che odiava. 

 

"Dovrei liberarmi di lei?" 

 

Era davvero la soluzione giusta? Eliminare quella parte della sua anima che odiava? Eliminare la vecchia Jein, insieme alle sue paure, alla sua rabbia e alle sue insicurezze? 

 

"E ritrovarmi esattamente al punto di partenza." 

 

No. 

 

Sollevò una mano e la allungò verso quella debole e volubile frignona collerica che stava in piedi, tremante, al suo cospetto. 

 

"Non ti caccerò più via." 

 

Gli occhi, i suoi occhi, carichi di lacrime si sollevarono dalla mano al suo viso. La stava implorando. 

 

"Davvero?" 

 

La falsa Jein sollevò una mano a sua volta, esitante. 

 

"Mai più." 

 

Le loro mani si unirono. La falsa Jein ebbe un tremito e iniziò ad illuminarsi. Sempre di più. Stava evaporando nell'aria come pulviscolo dorato, scivolando dalle dita della ragazza. Ogni parte di lei, infine, sparì. 

 

Al suo posto, apparve un'altra porta dalla superficie blu. Ma sulla sua sommità vi era la scritta "EXIT". 

 

 

Non si apriva. Jein provò insistentemente ad abbassare la maniglia, ma essa girava a vuoto. La porta non si muoveva. Sollevando un sopracciglio, si voltò verso il ragazzo che non aveva lasciato il suo fianco. Prima di aprire la bocca ed esprimere la sua perplessità, però, abbassò lo sguardo. La chiave. 

 

"La chiave! Come ho fatto a non pensarci?!" 

 

Sfilandosi il nastro blu dal collo, prese saldamente il mano l'oggetto leggermente pesante. La serratura sembrava combaciare con la dimensione dei denti, perciò senza ulteriore esitazione infilò lo strumento nella toppa. 

 

Un giro. La maniglia ebbe un leggero sussulto. 

 

Prima di riprovare, la ragazza si voltò e prese per mano Jimin. Lui aveva un'ansia negli occhi che lei riusciva a comprendere perfettamente. Una volta passata quella porta non avrebbero avuto più nessuna certezza. 

 

Si sarebbero svegliati? 

 

Si sarebbero ricordati di tutto quello che era successo? 

 

Nulla era sicuro. Loro lo sapevano bene. Ma Jein ingoiò l'angoscia che tentava di instillare il dubbio in lei e strinse la mano del ragazzo che amava. Se dovevano farlo, dovevano farlo insieme. 

 

Abbassò la maniglia e dallo spiraglio che si aprì fra la porta e la cornice poté solo intravedere il bianco più accecante che potesse immaginare. Nient'altro che quello. Un bianco infinito. 

 

Prendendo un bel respiro, spalancò la superficie e fece un passo oltre la soglia. Non appena il suo piede ebbe varcato quel nuovo mondo bianco, una mano invisibile la prese, afferrandole saldamente le membra, e la strattonò in avanti. 

 

-Jein!- 

 

La mano di Jimin era sfuggita dalla sua. Spalancando gli occhi, la ragazza vide che il giovane era intrappolato al di là della porta e sbatteva freneticamente contro quello che sembrava un muro invisibile. La sua voce si spense velocemente e la porta si chiuse sulla sua espressione disperata. 

 

-No!- 

 

Serrò le palpebre, accecata dal bianco e terrorizzata da quella morsa che la stava trascinando da qualche parte. 

 

E poi, il nulla. 

 

 

-Jein!- 

 

Lei era andata via. Era scivolata dalle sue dita come il vento e lui non aveva potuto fare niente per impedirlo se non guardare i suoi occhi terrorizzati e cercare di penetrare la forza invisibile che gli impediva di seguirla. Nel momento in cui la superficie blu si schiantò contro la sua faccia e le sue mani, il suo corpo precipitò. Il vuoto sotto di sé lo ingoiò improvvisamente, dandogli la sensazione di cadere dalla sommità del cielo. Cadeva e cadeva, senza fermarsi. L'aria gli frustava la schiena e gli graffiava la faccia, ma non faceva abbastanza resistenza per impedirgli di continuare la sua avanzata. 

 

Lo stomaco si rivoltò su se stesso sentendo la gravità che lo attirava e la sua mente sanguinava in cerca di una soluzione. Non ce n'erano. Lei era sparita e lui era ancora incastrato lì. In quell'incubo. 

 

Si fermò. Dopo tanto, troppo tempo. Quando aprì gli occhi, si trovò davanti un salotto famigliare, con un arredo famigliare e un irritante negoziante fastidiosamente famigliare. 

 

-Bentornato.- 

 

La copia bionda e civettuola di sé stesso si avvicinò al suo corpo spiaccicato su un tappeto persiano, ondeggiando i fianchi. 

 

-Hai fatto un buon viaggio?- chiese con tono suadente, abbassandosi sul suo viso. 

 

-Dov'è Jein?- 

 

Si alzò di scatto dal pavimento e si portò all'altezza di quegli occhi sereni e placidi, fissandoli con furia accecante. L'interlocutore non sembrò affatto turbato dal suo fare minaccioso. 

 

-Ha compiuto il suo viaggio. Adesso le opzioni sono due, ma non sono sicuro a quale delle due sia andata incontro.- 

rispose semplicemente, sollevando le spalle. 

 

-Quali opzioni?- sputò prepotentemente Jimin, senza lasciare andare le sguardo dal negoziante. 

 

-Non posso rivelarti tutti i segreti di questo posto. Anche perché adesso tocca a te.- 

 

Il giovane raddrizzò la schiena, tendendo il suo corpo in nervosa aspettazione di un pericolo. 

 

-Cosa intendi?- 

 

La sua copia indicò semplicemente con il capo una porta dalla superficie argentata. Jimin passò uno sguardo scettico e perplesso sul legno. 

 

-Come vi avevo detto, eravate destinati a giungere qui individualmente. E anche i vostri viaggi hanno un termine individuale. Non potevi uscire dalla sua porta. Devi compiere il tuo viaggio personale.- 

 

Jimin si voltò velocemente frustando l'aria con il viso e rivolse un'occhiata priva di fiducia verso l'altro ragazzo. 

 

-Quindi se compio il viaggio e arrivo alla fine potrò svegliarmi?- chiese, abbassando il tono della voce. 

 

L'interlocutore alzò di nuovo le spalle, come se i problemi del mondo non lo coinvolgessero. 

 

-Può darsi.- 

 

Jimin riportò gli occhi sulla superficie argentata. Trasse un respiro. 

 

"Come farò senza il tuo aiuto?" pensò amaramente. 

 

Infine, allungò la mano e abbassò la maniglia.

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Capitolo 24
*** 24 ***


~~~~~~~

 

-Me lo spieghi di nuovo, per favore.- 

 

Namjoon osservò l'uomo leggermente più basso di lui emettere un sospiro. Anche ripetendo la spiegazione, la situazione non sarebbe cambiata. Namjoon lo sapeva. Ma sperava davvero di essere troppo stupido e di non aver realmente capito la portata delle parole che il dottore gli aveva appena rivolto. 

 

-Nel cervello di Jimin si è formato un altro aneurisma. Può succedere, purtroppo, anche se non ne sappiamo la causa. Può essere una condizione cronica o può essere una patologia genetica. Il problema fondamentale è questo: se lasciamo che l'aneurisma cresca, c'è un'alta possibilità che esploda e questo porterebbe a morte certa. Ma sottoporre il paziente ad un'altra operazione dopo così poco tempo dalla prima può recare gravi danni al sistema nervoso.- 

 

Il giovane si portò le mani sul volto, aggrappandosi alla propria pelle e strofinandosi gli occhi. Sentiva già un principio di mal di testa emergere e stuzzicarlo, nel tentativo di farlo esplodere una volta per tutte. 

 

Quanto era passato ormai? Un mese? Il tempo sembrava non contare all'interno di quel posto. Scorreva lento come miele, una goccia alla volta, scivolando placidamente e incollandosi alla sua mente. Era come se volesse fargli sentire tutto il peso di ogni minuto che Jimin passava rinchiuso in quella stanza. 

 

Dopo aver emesso un pesante sospiro contro le proprie dita, abbassò la barriera dietro alla quale si era nascosto e tentò di convivere con il perforante fastidio che gli trapanava i pensieri. 

 

-Qual è la percentuale di successo dell'intervento?- chiese a bassa voce, riportando gli occhi sull'uomo in camice che lo fissava pazientemente. 

 

Il suo interlocutore abbassò brevemente lo sguardo, prima di schiarirsi la gola. 

 

-Cinquanta percento di riuscita. Venticinque percento di riuscita senza causare danni cerebrali.- 

 

Il petto di Namjoon si alzò e si abbassò con estrema difficoltà. Tremava, come se un macigno da migliaia di quintali gli fosse stato scaricato sullo sterno. Non respirava. Non arrivava ossigeno al cervello. I suoi pensieri erano offuscati quanto i suoi occhi. 

 

Venticinque percento di possibilità di riavere il Jimin che conosceva. Cinquanta percento di riaverlo e basta. 

 

Non era una scelta, quella. Era una scommessa. Per quale stupido motivo si era proposto come amministratore delegato in sostituzione dei genitori di Jimin? 

 

-E se lo lasciassimo stare? Se non lo facessimo operare?- chiese con voce ancora più bassa. 

 

Il ragazzo vide una smorfia attraversare brevemente il viso del dottore. 

 

-L'aneurisma sta crescendo molto velocemente. Potrebbe esplodere nel giro di giorni e, anche se questo non succedesse, nel momento in cui lo svegliassimo dal coma lo stress della situazione potrebbe causare la rottura.- 

 

Aspettare che muoia o accettare la scommessa? No, quella non era una scelta! Era un bivio con una strada a fondo chiuso da una parte e un sentiero sospeso su un burrone con rischio di frane dall'altra. 

 

"Come lo dico ai ragazzi?" 

 

La gola gli si chiuse, diminuendo ancora di più l'apporto di ossigeno. 

 

"Come lo dico a Tae?" 

 

-Ne parlerò con i suoi genitori e le farò sapere la decisione.- rispose infine, congedandosi velocemente dal dottore. 

 

L'uomo, con sguardo comprensivo, annuì allontanandosi dal giovane. 

 

Namjoon si ritrovò seduto nella sala d'aspetto con le poltroncine basse con la testa fra le mani e il petto tremante. Il trapano che gli perforava le meningi si era fatto più sfacciato e insistente. Il suo fastidioso rumore gli riempiva i neuroni fino al nucleo. 

 

-Allora? Ci sono novità?- 

 

Sentendo la voce di Yoongi, il giovane alzò brevemente lo sguardo. Fu sufficiente a trasmettere la sua risposta al maggiore. 

 

-Grandioso.- mormorò quest'ultimo, lasciandosi cadere accanto al suo amico. 

 

-Qualsiasi cosa sia successa, non sei costretto a prendere una decisione da solo. Parlane con i suoi.- 

 

Namjoon annuì distrattamente. 

 

Decisione... gli sembrava quasi irrisorio chiamarla decisione, quella. 

 

Aveva bisogno di distrarsi. Aveva troppe cosa da fare. Doveva chiamare il padre di Jimin, doveva riunire i ragazzi e spiegare loro la situazione, doveva contattare i manager e aggiornarli una volta presa la... decisione. 

 

-Tae è nella stanza?- 

 

La risposta che ricevette da Yoongi fu un semplice mugolio. Annuendo nuovamente, il più giovane si alzò nonostante avesse il corpo legato da invisibili elastici che gli costringevano i movimenti e gli affaticavano i muscoli. Sentiva la testa fastidiosamente pesante. 

 

Prima che potesse rendersene conto, si trovava già dentro la stanza con il singolo, grande letto al centro. I suoi occhi allora si posarono sulla figura addormentata sulla scomoda sedia, il corpo arrotolato su se stesso e la testa appoggiata al cuscino, rivolta verso il ragazzo incosciente. Vedere quei due volti vicini per, un momento, lo riportò indietro nel tempo a quando per lui era normale entrare in camera da letto e trovare Jimin e Taehyung addormentati insieme, abbarbicati l'uomo all'altro come due cuccioli. Dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire a ritornare al presente e ricordarsi che uno dei due non era addormentato. 

 

Quando anche Yoongi fu rientrato nella stanza ed ebbe chiuso la porta dietro di sé, Taehyung si svegliò. 

 

-Scusa Tae.- mormorò il maggiore. 

 

-Hyung...- mormorò il ragazzo con le ciglia incollate dal sonno e la voce più cavernosa del solito. 

 

-...cosa ha detto il dottore?- aggiunse, cercando di uscire dalla fase di dormiveglia in cui era ancora immerso. 

 

Namjoon deglutì pesantemente. 

 

"Devi dirglielo." 

 

-Ne parliamo quando ci saranno tutti.- replicò lui febbrilmente. 

 

Taehyung alzò la testa verso di lui, fissandolo con i suoi grandi occhi scuri. Essi analizzarono Namjoon per qualche istante, prima di lasciarlo libero dalla loro presa. Aveva capito che qualcosa non andava. Lui aveva sempre avuto una sensibilità che gli permetteva di comprendere quello che le persone nascondevano. 

 

-Va bene.- disse in risposta. 

 

Namjoon lo osservò mentre faceva scivolare la mano in quella inerme del suo migliore amico, giochicchiando con quelle dita tanto più corte delle proprie. 

 

-Hei, Jimin... vuoi sapere cosa abbiamo fatto ieri?- 

 

 

La stanza di Jein sembrava un fantasma di se stessa. Le dava una fredda sensazione di estraneità, con le sue mensole vuote e l'armadio spoglio. Non che si fosse portata via così tante cose. Aveva inscatolato giusto i suoi libri preferiti e i suoi album, oltre che ai vestiti. In fin dei conti, la sua vita si era riassunta in quattro scatoloni e un trolley di modeste misure. Era quello il valore della sua esistenza? Non credeva. Nonostante ciò, osservare la mancanza di quegli oggetti dalla stanza a cui essi appartenevano le dava una sensazione di cambiamento che le solleticava lo stomaco e le trasmetteva un senso di vertigine. 

 

Quattro scatoloni e un trolley non erano molto, ma erano una somma di quello che Chang Jein era. E Chang Jein stava per uscire da quella che era stata la sua vita per ventiquattro anni per imboccare una strada nuova e inesplorata. 

 

Rivolgendo un'ultima occhiata al suo ormai vecchio habitat, si voltò e uscì dalla stanza. Entrando in salotto, sentì il sommesso sbuffare della macchina di Kippeum, ferma davanti a casa in attesa del suo arrivo. La ragazza al suo interno doveva essere sicuramente impaziente, ma sapeva anche che quel momento aveva necessità di spazio. 

 

Il tremito eccitato che aveva invaso il corpo di Jein morì velocemente nel momento in cui i suoi occhi si posarono sulla figura singhiozzante seduta per terra. Con la schiena appoggiata al divano, sua madre si stava sciogliendo in un mare di lacrime che sembrava farla affogare nella sua impetuosità. Dalla sua gola usciva un rauco lamento, strozzato dai singhiozzi convulsi che le stringevano il petto. 

 

Una lancia perforò il cuore di Jein.  Rimorso. 

 

"Forse non dovrei farlo..." 

 

"Forse è la decisione sbagliata."

 

Le lacrime che continuavano a scendere sul volto della donna e la sua voce simile a un grido d'aiuto non facevano che spingere la lancia sempre più in profondità, torcendola, rivoltandola nella ferita, lacerandole le interiora e strappandole le carni. 

 

-Perché... te ne... vuoi andare?- urlò finalmente la donna, interrompendo la frase ad ogni sobbalzo del suo petto. 

 

-Io...- 

 

Jein avrebbe voluto rinchiudersi in una minuscola scatola e sparire. Per sempre. Sarebbe rimasta lì, da sola, in un piccolo e buio spazio che le avrebbe recato conforto. Niente pianti. Niente sensi di colpa. Nulla. 

 

"No." 

 

Non era così che doveva andare. Una parte della sua mente si ribellò violentemente davanti a quella idea, lacerando i pensieri che dominavano la sua coscienza. 

 

-Mamma, io non ti sto abbandonando.- disse a bassa voce, avvicinandosi alla donna. 

 

-Bugiarda!- 

 

L'accusa volò nell'aria come una freccia e si piantò nella sua testa, trovando terreno morbido in cui affondare. Poi, si fermò contro un muro di acciaio. 

 

Nella mente di Jein comparve una timida striscia di luce. Luce, calore. Ne aveva bisogno. Ne aveva serbato una piccola quantità dentro di lei, ma era davvero sufficiente?

 

-Mamma...- iniziò con il tono più dolce che riuscì a racimolare. 

 

-Non me ne sto andando per sempre. Sono sempre qui.- 

 

Dovevano bastarle. Doveva trovare la forza in quella luce e in quel calore residui, farne la sua fonte di ristoro e di energia. 

 

-Mi odi, non è vero?- pigolò la donna, sollevando gli occhi carichi di lucidi goccioloni. 

 

Il suo volto era sfigurato da un'espressione disperata. La sua bocca era contratta in una smorfia di dolore, il suo naso arricciato a causa del continuo aspirare e la fronte era tempestata di rughe. 

 

Jein si accovacciò davanti alla donna, abbassandosi al livello dei suoi occhi. 

 

Luce, calore. Delle braccia che la avvolgevano facendola sentire al sicuro. La ragazza deglutì il groppo di angoscia che aveva preso a risalirle la gola. 

 

-No, non ti odio.- rispose. 

 

-Invece sì! È per questo motivo che te ne stai andando!- 

 

La giovane sentiva gli occhi pizzicare fastidiosamente, mentre la parte frontale della sua testa sembrava sempre più pesante. Tutte le emozioni che aveva serbato per anni sembravano essersi accumulate nel retro della sua gola, pronte a saltarle addosso tutte assieme. 

 

-No, mamma, ti sbagli.- mormorò con voce appena udibile. 

 

C'era qualcosa incastrato nel suo palato che le impediva di parlare. Il petto non riusciva a sollevarsi per respirare. 

 

-Non mi lasciare da sola.- 

 

La donna la guardava con occhi imploranti. Era disperata. Sembrava sospesa sull'orlo di un baratro. 

 

A quel punto, Jein sollevò le braccia e le protese verso di lei. Le passò attorno alla donna e strinse il corpo di quella bambina rinchiusa nel corpo di un'adulta, appoggiando la fronte contro la sua spalla. 

 

-Ti voglio bene.- 

 

Qualcosa di bagnato strisciò lunga la guancia di Jein. Nel momento in cui la ragazza fece questa scoperta, il suo petto aveva già preso a sollevarsi convulsamente incamerando aria e ricacciandola fuori senza trattenerla. Aveva le guance completamente inondate. 

 

-Ti vo- 

 

I singhiozzi uccisero tutte le potenziali parole che le avrebbe voluto rivolgere. Le avrebbe voluto dire che non era sola, che era comunque a dieci minuti di distanza, che andarsene non voleva dire abbandonarla a se stessa. Nulla di tutto ciò uscì dalle sue labbra. Esse erano troppo impegnate a tremare, mentre le lacrime le continuavano a bagnare insistentemente trasformando ogni tentativo di suono in un gorgoglio. 

 

Trascorsero diversi minuti in cui, oltre al ticchettio paziente dell'orologio, per la casa non si sentì altro suono che i loro singulti. Jein non sapeva perché, ma non riusciva a fermarsi. Era come se qualcuno avesse aperto un rubinetto e si fosse dimenticato di chiuderlo. Non sembrava esserci fine all'acqua che il suo corpo poteva produrre. 

 

Finalmente, riuscì a smettere di singhiozzare. Dovette deglutire più volte per tirare fuori un suono dalla sua gola. 

 

-Ti voglio bene, mamma.- 

 

Sollevando gli occhi, infine, vide che la donna aveva capito. Aveva ancora le ciglia umide, ma il suo sguardo era su di lei ed era sereno. 

 

Era ora di andare. 

 

~~~~~~~

 

ANGST A VOLONTÀ 

Eh, lo so... gli ultimi capitoli sono stati un po' tosti. Ne sono consapevole. Ma ormai mi conoscete, lo sapete che sono un torturatrice di lettori di pressione lol. 

Dunque... dal prossimo capitolo entreremo nell'inconscio di Jimin. Cosa vi aspettate di trovare? Che aspetto avrà? Largo alle teorie!

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Capitolo 25
*** 25 ***


Quando, richiudendosi la porta argentata alle spalle, Jimin si ritrovò in un'altra radura, non fu sorpreso. Senza esitazione e con passo sostenuto, iniziò a tagliare la natura in un'impetuosa marcia. L'ambiente non era oscuro come quello oltre la porta blu. Al contrario, era decorato da alberi bassi e dalle chiome ancora in fase di crescita, bagnate da una pioggia di sole che rimbalzava sul terreno in arzigogolati decori. C'era un chiaro sentiero di terra battuta ad indicare la via; esso era privo di ostacoli e presentava talvolta qualche timido fiore lungo il ciglio che sembrava in procinto di accogliere la sua venuta. 

 

Grazie alla sua marcia concitata, il sentiero lo portò presto di fronte ad una porta. La prima della serie che probabilmente lo attendeva. Era semplice, con una classica maniglia e non recava neppure una serratura. Sembrava quasi accogliere i visitatori ad attraversarla, come se nulla potesse impedire di aprirla. Essa era incastrata in mezzo alle braccia di un muro, una piccola struttura che non doveva essere più alta di due metri, la cui estremità era maldestramente decorata con del filo spinato. Il dettaglio, però, che attirò maggiormente l'attenzione del ragazzo fu la presenza di due figure assai conosciute accasciate contro gli stipiti della porta in un lieve assopimento. 

 

-Hyung?- 

 

I suoi occhi rimbalzarono un paio di volte fra la figura di Yoongi e quella di Jungkook in confusione. Al suono del suo richiamo, il primo emise un sommesso brontolio impastandosi la bocca per scacciare il sonno. Il secondo, invece, si ritrovò in un istante con gli occhi spalancati e gli arti tirati in posizione eretta. 

 

-Kookie?- chiese nuovamente Jimin in tono indagatore. 

 

Il diretto interessato, ignorando il suo richiamo, prese a tastarsi il corpo febbrilmente perquisendo ogni tasca e scomparto alla disperata ricerca di qualcosa, finché non abbassò lo sguardo per terra. Con uno sbuffo si accovacciò e raccolse un oggetto che Jimin identificò come una sorta di pistola giocattolo. 

 

-Nome...- 

 

Il ragazzo voltò la testa verso il maggiore, che aveva appena parlato abbandonando la fine della parola in uno sbadiglio. 

 

Il giovane lo guardò senza capire. 

 

-Dimmi il tuo nome.- ripetè Yoongi con tono leggermente scocciato e uno schiocco della lingua. 

 

Il ragazzo lo osservò per qualche istante con sguardo interrogativo. 

 

"Sul serio?" 

 

-Ehm... Park Jimin.- rispose infine. 

 

Il suo hyung prese a scorrere con lo sguardo dei fogli appesi ad una cartellina fra le sue mani, passando svogliatamente in rassegna quella che sembrava una lista. Quando anche l'ultimo foglio fu sottoposto alla sua attenzione, emise un breve sibilo con la punta della lingua. 

 

-Niente. Nessun Park Jimin.- disse rimettendo a posto i fogli. 

 

Jimin alzò le braccia al cielo con un leggero sbuffo. 

 

-Oh, andiamo, hyung...- 

 

La sua protesta fu interrotta dal suono di qualcosa che sembrava grattare il muro. Fermandosi con la bocca ancora aperta, si guardò in giro. Nulla. Poi, all'improvviso, una figura emerse dalla parte interna della barricata e saltò oltre il filo spinato in un unico, agile balzo. La figura aveva i suoi stessi lineamenti e indossava uno dei tanti costumi di scena con cui si era esibito in passato, una salopette di jeans sopra ad un maglione acceso da un giallo accecante. 

 

-Jk.- 

 

Yoongi non voltò neanche lo sguardo mentre chiamava l'amico con tono svogliato e una leggera nota assonnata nel retro della gola. Il più giovane, d'altro canto, non se lo fece ripetere due volte. In un attimo, scattò in avanti verso la copia di Jimin puntando davanti a sé quella sorta di pistola giocattolo. Da essa spuntarono due piccole molle che si attaccarono all'obbiettivo e gli trasmisero una scarica elettrica che lo piantò sul posto. Dopo che il fuggitivo ebbe perso conoscenza, Jungkook se lo caricò sulle spalle con sconvolgente naturalezza. 

 

-Ma che diavolo...- 

 

Jimin non fece in tempo a finire la frase che Yoongi, con la bocca aperta in un altro sbadiglio, lo interruppe. 

 

-Non sei sulla lista perciò non posso farti entrare.- disse, richiudendo leggermente gli occhi. 

 

Jimin deglutì brevemente. 

 

"Che faccio?" 

 

"Con Jein era stato diverso... qua non sembra che ci siano molte alternative..." 

 

"Se lei fosse qua, sarebbe diverso..."

 

Il ragazzo fece per aprire la bocca quando una voce dietro di lui lo sovrastò.

 

-Chang Jein.- 

 

 

Jimin voltò di scatto la testa, rivolgendo tutta la sua attenzione alle proprie spalle. Con il cuore che batteva rumorosamente nelle sue orecchie, chiuse brevemente gli occhi. 

 

Era giusto illudersi che lei fosse davvero lì? 

 

Sarebbe bastato un istante, uno solo, per fargli gustare quella dolce bugia. Per farlo sentire meno solo. Quando riaprì gli occhi, lei era lì. Era lì, in piedi davanti a lui, con un lieve sorriso sulle labbra ed era più bella che mai. Sembrava attirare i raggi del sole sui suoi capelli, creando una sorta di aureola che la avvolgeva in un bagliore quasi divino. Jimin si ritrovò con la gola secca. 

 

-Uhm... ah, eccoti qua. Chang Jein. Sì, puoi entrare.- 

 

La ragazza annuì brevemente e si mosse in avanti prendendo la sua mano, senza lasciare che il sorriso lasciasse la sua bocca. E fu in quel momento che l'illusione finì. 

 

Jimin abbassò amaramente lo sguardo sulle loro mani intrecciate deglutendo, quasi disgustato da quel contatto. Non era lei. Quella... cosa era  solo un fantasma rimasto a vagare nella sua mente. Una proiezione senza anima. Lo sentiva dal contatto freddo e impalpabile sotto le sue dita. La sua Jein non aveva un corpo, era vero, ma ogni volta che la toccava sentiva un suggerimento del calore della sua pelle e riusciva ad intuire quell'odore che apparteneva solo a lei. 

 

No, quella non era Jein. 

 

Nonostante ciò, si lasciò trascinare da quella copia della ragazza che amava oltre la porta senza serratura, nelle braccia di quell'oscurità che ormai gli era divenuta quasi famigliare. Quel buio confortante fu improvvisamente tagliato da un grido. 

 

-Jimin!- 

 

"Tae." 

 

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia cercando sempre più freneticamente da dove venisse la voce del suo migliore amico. Poi, il buio prese ad impastarsi su se stesso, modellandosi lentamente fino a prendere le sembianze della loro sala prove. Al centro della stanza, i suoi amici erano riuniti attorno ad un corpo inerme steso sul pavimento. Il suo. 

 

Jimin allontanò gli occhi dalla figura incosciente ma non poté fare a meno di incollarli sul suo migliore amico, inginocchiato accanto a lui e in preda a quella che sembrava una crisi respiratoria. 

 

-Tae, stai tranquillo, sta arrivando l'ambulanza.- 

 

La voce di Namjoon doveva risultare rassicurante, ma Jimin riusciva comunque a percepire la nota di panico che la permeava nel profondo. Dopo qualche istante, due uomini fecero irruzione nella stanza con una barella, su cui caricarono il suo corpo in silenzio e con meticolosa attenzione. 

 

Tae non sembrava staccargli lo sguardo di dosso. 

 

-Dove lo portano, hyung?- 

 

Quando il suo amico si ritrovava in una situazione che lo confondeva o lo faceva sentire smarrito, la sua voce assumeva i toni di quella di un bambino e i suoi occhi diventavano ancora più grandi. Jimin vide il suo leader osservarlo in preda ad una crescente preoccupazione. Sapeva che Namjoon aveva difficoltà a sostenere quello sguardo che Tae gli stava rivolgendo, per questo non lo sorprese vedere qualche istante di esitazione sulla sua lingua. 

 

-Non lo so, ma ve lo faccio sapere appena arriviamo in ospedale.- 

 

Il ragazzo, terminato di parlare, ingoiò quello che sembrava un enorme groppo di angoscia e rivolse un timido e davvero poco convinto sorriso al resto del gruppo.

 

-Andrà tutto bene.- disse infine, prima di seguire la barella che stava velocemente lasciando la stanza. 

 

Jimin ebbe giusto il tempo di lanciare un ultimo sguardo alle spalle tese del suo leader e agli occhi pesantemente angosciati del suo migliore amico, prima di venire nuovamente risucchiato dall'oscurità. 

 

 

Mentre la stanza prendeva a sciogliersi e ricomporsi come morbida pasta modellata da una misteriosa e invisibile mano, il ragazzo si accorse della presenza che lo aveva seguito in quel percorso e che gli rimaneva silenziosamente alle spalle. Con una smorfia di disgusto, si voltò verso il fantasma di Jein e contemplò il sorriso così palesemente finto sulle sue labbra. 

 

-Vattene.- 

 

Disprezzava quella falsa felicità che gli veniva posta dinnanzi. Disprezzava quell'illusione fasulla, che non aveva niente da spartire con la ragazza che amava. Ma disprezzava ancora di più se stesso per lasciare che una parte di sé indugiasse in quell'illusione, in quel desiderio di averla ancora lì, con lui, al suo fianco. 

 

La falsa Jein, apparentemente immune al suo aspro comando, si fece avanti e gli prese la mano. Quel gesto, che la sua Jein aveva compiuto così spesso, era così estraneo e sbagliato da dargli un senso di vertigine, costringendolo a scivolare via dalla presa come se avesse toccato dell'acqua bollente. Fortunatamente, il suono di singhiozzi strozzati fu un'ottima distrazione da quell'angoscioso gesto. 

 

-Hyung, ti prego, non te ne andare.- 

 

Jimin riconobbe immediatamente la propria voce. Voltando la testa davanti a sé, notò che l'ambiente aveva preso le sembianze del loro dormitorio. L'intero gruppo si trovava riunito nel salotto, coronato dal grande divano su cui la maggior parte dei ragazzi era nervosamente appollaiata, apparentemente senza la forza o la volontà di parlare. 

 

Il suo corpo, la sua copia di sé, era invece seduta sul pavimento e pigolava sommessamente come un pulcino. Mentre piccoli singhiozzi gli sconvolgevano la schiena, passò lo sguardo sul principale oggetto di interesse. Hoseok aveva gli occhi pesanti, incollati al pavimento, e le mani nervosamente strette l'una nell'altra. 

 

-Jimin, io...- 

 

Gli tremava la voce. Il ragazzo che osservava la scena si ritrasse per un istante. Ricordava fin troppo bene quel giorno. Avrebbe di gran lunga preferito non doverlo rivedere ma a quanto pareva la sua mente non era molto in sintonia con i suoi desideri. 

 

-Noi... siamo una famiglia. Non... te ne puoi andare...- 

 

La voce pietosa del giovane in lacrime era appena udibile ma il silenzio assoluto che regnava nella stanza ne amplificò comunque la portata. Sollevò gli occhi lucidi sul suo hyung e lo guardò con implorante disperazione. Jimin ricordava i suoi pensieri al tempo. Pensava di non poter lasciare andare quella famiglia che aveva così faticosamente contribuito a costruire. Quando Hoseok aveva espresso la sua intenzione di lasciare il gruppo, era stato come vedere il castello di sabbia in cui aveva messo così tanto amore e forza di volontà venire velocemente distrutto dallo sciabordio del mare e infine sciacquato via dalla risacca, come se nulla fosse mai esistito. Era quello il suo valore? Era quello il reale valore che aveva quel gruppo che considerava come una delle parti fondamentali della sua vita? 

 

La verità era che l'idea che uno dei membri se ne andasse gli dava la nausea. Aveva bisogno di loro. Di ognuno di loro. Si rendeva conto di quanto terribilmente egoista fosse quel suo desiderio di tenerli accanto a sé, ma non poteva farne a meno. Sapeva che allontanare uno degli elementi di quell'insieme così perfettamente coeso avrebbe portato ad un crollo di tutti gli altri. Lui per primo. 

 

Quel giorno, non aveva fatto altro che implorare Hoseok di non andarsene e piagnucolare come un bambino. Per fortuna, arrivò il momento in cui Yoongi si alzò e sparì dalla stanza. Quando ebbe fatto ritorno, aveva in mano il suo portatile. Senza dire una parola, premette semplicemente play. E una canzone partì nell'aria. 

 

-Gli addii sono per me una lacrima

Senza nemmeno accorgermene, sboccia nei miei occhi- 

 

La voce di Yoongi uscì dalle casse con una memoria malinconica e un po' amara e Jimin sentì di faticare a mantenere il groppo di lacrime giù nella gola. 

 

-Le parole che non ho avuto il coraggio di dire scorrono

E il rimpianto latente striscia sulla mia faccia- 

 

Bastarono quei pochi versi per trascinare l'intero gruppo in un mare di lacrime, in cui ognuno affondava sempre di più. Quando i vari componenti alzarono gli occhi e si guardarono per la prima volta dall'inizio di quella conversazione, Jimin rivisse il sollievo nel vedere la sincerità dietro allo sguardo di ognuno. Hoseok si lasciò scappare un singhiozzo talmente forte da spaventare i presenti. 

 

-Scusatemi ragazzi...- mormorò inghiottito dalle lacrime. 

 

-Scusatemi...- ripetè sotto allo sguardo sempre più caldo e accogliente dei membri. 

 

Dopo qualche istante, in cui provò a fermare le lacrime e a calmare gli spasmi che gli sconvolgevano il petto, abbracciò con gli occhi tutti i componenti. 

 

-Riproviamoci. Insieme.-

 

 

YOU'RE MY TEAR...

Ebbene, se non aveva già capito la canzone a cui ho fatto riferimento alla fine, adesso dovreste esserci arrivati XD. Da quando ho sentito che Outro tear era dedicata ai ragazzi quando stavano pensando di sciogliersi mi si sono torte le budella e dovevo inserire l'episodio. DOVEVO. 

Dunque, iniziamo a vedere l'inconscio di Jimin. Se la guardia di Jein era una cassaforte da banca nazionale, quella di Jimin è un timido muretto con due guardie un po' particolari...

Non mi piaceva molto questo capitolo appena lo avevo scritto ma adesso che l'ho riletto ho avuto modo di apprezzarlo maggiormente perciò non l'ho cambiato come avevo in programma di fare. 

Ebbene, belle creaturine, per ora è tutto, vado a prepararmi per il funerale (perché Aperonzina sicuramente mi uccidera dopo che avrà letto della falsa Jein XD)

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Capitolo 26
*** 26 ***


Jimin guardò uno per uno i volti dei suoi compagni in lacrime e mantenne lo sguardo su di loro anche quando iniziarono a diventare macchie offuscate di colore. Con una sensazione dolce sulla punta della lingua, osservò la sua famiglia scomparire, trasformandosi in insiemi confusi che si amalgamavano in un unico, melmoso connubio. La sua famiglia. Quella che non lo aveva mai abbandonato anche quando era stato stupido, anche quando era stato egoista e anche quando piangeva come un bambino. 

 

Sentiva alle sue spalle la presenza insistente del fantasma, percepiva quegli occhi freddi e fasulli su di lui, ma tenne ostinatamente lo sguardo davanti a sé. Non aveva bisogno di una falsa felicità. Avrebbe presto raggiunto quella vera, quella che lo aspettava dall'altra parte. 

 

Jimin deglutì nervosamente a quel pensiero, distanziando per un momento la sua attenzione dalla stanza che iniziava a prendere forma. Cosa ci sarebbe stato "dall'altra parte"? Jein lo avrebbe davvero aspettato lì? Se anche si fosse riuscito a svegliare, come avrebbe fatto a trovarla? 

 

Mentre i colori davanti a sé ricominciavano ad assemblarsi in insiemi organici, il ragazzo scacciò quei pensieri dalla sua mente. Non ci doveva pensare in quel momento. Non aveva importanza. L'importante era arrivare all'ultima porta e attraversarla, come aveva fatto Jein. Sempre se quello che il fastidioso negoziante aveva detto era vero. 

 

 

La scena che prese finalmente vita davanti a lui lasciò per un attimo il giovane perplesso. C'era la copia di sé, più giovane di qualche anno, e c'era lo specchio della sua stanza nel dormitorio. Null'altro. Jimin osservò in confusione la figura rannicchiata a qualche metro dall'oggetto, con gli occhi che indugiavano brevemente su di esso prima di allontanarsene con la stessa veemenza di una mano scottata dal fuoco. Dopo interminabili secondi di silenzio e immobilità, la copia si fece timidamente avanti e si pose davanti allo specchio, in piedi e con le mani aggrappate alla sua cornice. 

 

Il volto di Jimin si accartocciò lievemente. Non amava gli specchi. Per un verso, erano strumenti impietosi. Riportavano la realtà esattamente così com'era, senza filtri, senza edulcorazioni, senza scuse vuote e prive di sincerità. Dall'altro verso, riportavano un'immagine che passava attraverso la censura della mente. Quel giudice severo che sedeva nella sua coscienza, pronto a passare al vaglio l'oggettivo riflesso e a cerchiare con un pennarello rosso le parti difettate. 

 

La sentiva nella sua testa, la voce di quel giudice imperioso mentre faceva stridere il pennarello sull'immagine. 

 

"Quelle disgustose labbra, così grosse da sembrare quelle di una ragazza!" 

 

Un cerchio ben marcato sulle labbra. Jimin vide la scena davanti a sé riflettere spaventosamente quel pensiero. Nel riflesso nello specchio, che guardava la copia di se stesso con uno sguardo confuso e sofferente, qualcosa iniziò a cambiare. La sua bocca prese a dilatarsi in maniera spropositata, invadendo grottescamente il volto. Quelle labbra che aveva sempre odiato sembravano rispondere al suo disprezzo con sfacciataggine, espandendosi sempre di più, richiamando sempre di più l'attenzione. Quando finalmente fermarono la loro crescita, la voce del giudice si fece di nuovo avanti. 

 

"E quelle guance, così grasse da farti sembrare un bambino!" 

 

Gli zigomi del riflesso si gonfiarono come se qualcuno stesse insufflando aria al loro interno. Jimin sentì un rivolo di nausea salire ai lati delle mandibole mentre guardava il suo volto dilatarsi sotto un pennello invisibile e crudelmente giocoso. La copia di sé, ancora posta davanti allo specchio, aveva gli occhi fissi sull'immagine ma era sconvolta da respiri affannosi che sembravano soffocarla invece che nutrirla di aria. 

 

"Quel naso così largo, assomiglia tanto a quello di un maiale." 

 

E così, sotto al fastidioso stridio del pennarello rosso, il riflesso assunse un muso animalesco. Il giovane vide la figura mostruosa che prendeva forma davanti a sé mentre un conato gli faceva sussultare lo stomaco. 

 

"E infine... quel corpo così... grasso!" 

 

Il mostro intrappolato nel riflesso sembrò implodere sotto alla sollecitazione di una bomba. Il suo ventre, le sue braccia e le sue gambe si espansero fino a sembrare palloncini legati assieme da un mago. Un insieme di rotoli e grasso che sembravano strabordare da ogni estremità, a malapena contenuti dai timidi vestiti. 

 

Jimin aveva l'impressione di sentire l'acido dello stomaco risalirgli lungo la gola, bruciando tutto ciò che trovava lungo il cammino, e raggiungere le sue tonsille, pronto a fuoriuscire da un momento all'altro. La copia di sé stava di fronte a quell'oggetto maledetto, quello specchio in cui era intrappolato un mostro di grasso e di imperfezioni, e graffiava la superficie liscia con disperazione. Con gli occhi serrati, impiastricciati di lacrime e di disgusto, lasciava che le sue unghie scivolassero sul vetro senza riuscire a lacerare quell'immagine di sé che, in fondo, sentiva appartenergli inconsciamente. Ogni volta che si guardava, nelle pareti della sala prove o nell'intimità della sua stanza, nel vanity del camerino o nello schermo del cellulare, quell'incubo era sempre rimasto davanti ai suoi occhi. Invisibile alla sua percezione fisica ma pressante nella sua mente. 

 

Non riusciva a togliere lo sguardo da quella mostruosità. Era così grottesca da provocare disgusto ma, per la stessa ragione, non permetteva agli spettatori di distogliere l'attenzione. Questo finché due braccia non gli avvolsero timidamente il busto, circondandolo in un freddo abbraccio ancorato a due mani strette sul suo ventre. 

 

Un brivido percorse tutta la lunghezza della spina dorsale di Jimin, dalla base del collo fino all'estremità della schiena. Non sentiva nessun reale contatto. Non sentiva il soffio di un respiro sull'epidermide, né la pressione di un petto sul suo dorso. Non veniva solleticato da delle ciocche scure né accarezzato dalla morbidezza di una pelle chiara come la luna. Eppure sapeva che il fantasma di Jein era dietro di lui e che aveva appoggiato il capo nell'incavo del suo collo. 

 

-Non aver paura, amore mio. Ci sono io con te.- aveva sussurrato nel suo orecchio quella voce così famigliare da essere nauseabonda. 

 

Così dolce. Così tentatrice. 

 

 

Jein non amava usare nomignoli. Non le importava il modo in cui Jimin la chiamava, tanto che talvolta tollerava persino quando lui la soprannominava la sua piccola sirenetta. Nonostante ciò, non era mai lei a prendere l'iniziativa in merito e, quando il ragazzo provava a suggerirle di fare un tentativo, riceveva in risposta uno scettico sopracciglio sollevato. Sapeva che Kippeum ci aveva messo anni di persuasione e anche un pizzico di corruzione per riuscire a farla abituare a chiamarla Kiki. Jimin ci avrebbe dovuto mettere quantomeno altrettanto impegno per riuscire a cavare un qualche risultato a sua volta, ma questo per lui non era mai stato un problema. Era disposto ad aspettare. 

 

Ma una volta, solo una, successe. Il ragazzo sentì il ricordo sfuggirgli dalla memoria non appena vi rivolse la sua attenzione, perciò vi si aggrappò disperatamente con le unghie. Forse era a causa del sogno, forse era per quanto in profondità si stava spingendo. Ma non avrebbe mai lasciato andare quel ricordo, anche se avesse dovuto cancellare tutto il resto per farvi spazio. 

 

Ricordava di avere Jein fra le braccia, con il capo appoggiato al suo petto mentre respirava sommessamente. Quella volta la sua pelle sembrava bruciare di calore come una stella. Pareva addirittura emettere luce propria, da quanto era splendente. O forse era solo la percezione completamente edulcorata di un ragazzo innamorato che stringeva fra le mani il suo tesoro più grande. Ricordava di averle accarezzato i capelli per un tempo indefinito fino a quando, assorto nella sua contemplazione, non aveva lasciato che le sue labbra si schiudessero. 

 

-Ti amo.- 

 

Era la prima volta che le rivolgeva quelle parole. Forse aveva paura, ma in quel momento era troppo ubriaco di lei per poterne ricordare razionalmente il motivo. Aveva paura della sua reazione. Di ricevere una semplice scrollata di spalle o un sorriso canzonatorio. Di non riuscire a farle capire quanta sincerità era contenuta nelle sue parole. Invece, Jein aveva sollevato il volto, appoggiando il mento sul suo petto nudo e stabilendo un contatto visivo. Gli occhi di lei sembrarono bussare alla porta della sua coscienza e timidamente infiltrarsi dentro di essa, accomodandosi in quella nuova, accogliente residenza. Infine, con un timido sorriso sulle labbra, aveva parlato. 

 

-Ti amo anch'io, mio bellissimo angelo.- 

 

 

Il ricordo era più doloroso con lei accanto, attaccata alla sua schiena. Gli sbatteva violentemente in faccia quello che non aveva, quello che sperava di recuperare senza avere effettivamente la garanzia di avere successo. Quel gigantesco FORSE che pendeva sulla sua testa come una scure. 

 

Eppure, aveva bisogno di lei. Stando di fronte alla mostruosità che la sua mente aveva partorito, guardando il suo corpo reagire al disgusto verso se stesso, sentiva il viscerale bisogno di lei. Delle sue parole, del suo abbraccio confortante, della sua presenza. E Jimin si odiava. Voleva piangere. Voleva così disperatamente piangere perché lasciò che il fantasma fasullo, disgustosamente impalpabile di lei lo confortasse. Lasciò che la sua mente indulgesse nell'idea di lei, nella sensazione che fosse ancora al suo fianco, pronta a sostenerlo in quel momento in cui stava così disperatamente vacillando. 

 

Si odiava, ma non poteva farne a meno. Fare a meno di lei, o anche solo dell'idea di lei, gli avrebbe tolto la vita. 

 

-Io ti posso aiutare.- 

 

Sussultando leggermente, il giovane alzò gli occhi dal pavimento su cui si era concentrato nella sua autocommiserazione. La scena non era cambiata, ma la mostruosità nello specchio era sparita, lasciando il posto ad un'altra versione di Jimin. Il ragazzo, inerme spettatore, contrasse il viso in una smorfia. Il riflesso, quello che lo aveva minacciato nel labirinto di specchi. Lo aveva già incontrato ed era ancora lì, per torturalo. Quell'immagine fiera, altera, avvolta in un elegante completo di broccato che guardava con trasudante malizia il corpo accartocciato davanti allo specchio. Come un predatore. 

 

Aveva lo stesso sguardo che aveva rivolto a Jimin nel labirinto e, in seguito, nella radura. Un'impietosa vanteria, unita ad una punta di altero disprezzo e perfino di ribrezzo. 

 

La copia di sé che aveva le guance macchiate dalle lacrime guardò il suo interlocutore con smarrimento e un'infinita quantità di domande nello sguardo. 

 

"Come puoi aiutarmi?"

 

"Come puoi porre fine a tutto questo?" 

 

"Posso davvero essere... come voglio?"

 

Il riflesso sorrise con un'espressione quasi paterna e condiscendente. Si abbassò, accovacciandosi fino a raggiungere lo stesso livello del ragazzo sconvolto davanti a sé. 

 

-Devi solo accettare il mio aiuto. Dimagrirai, diventerai esattamente come le persone vogliono che tu sia.- 

 

Un lampo di realizzazione tagliò la mente di Jimin. Eccolo. Ecco il momento che aveva disperatamente cercato di ricordare, senza riuscirci. Perché in quel preciso istante, quando la sua copia accettò l'offerta del malizioso riflesso, questo sfoderò dalla tasca un candido giglio bianco. Lo contemplò per qualche istante, tenendolo delicatamente fra le dita e studiandone i grandi petali, aperti allo sguardo dello spettatore. Poi, vi soffiò lievemente sopra e aprì la mano. Il fiore, lasciato libero, si sfaldò come se nulla lo tenesse assieme. I suoi componenti si staccarono uno dopo l'altro e presero a volteggiare nell'aria, attraversando lo specchio e allontanandosi dai presenti. 

 

Con uno sguardo soddisfatto, il riflesso si protese in avanti e attraversò a sua volta la barriera che lo teneva intrappolato in un mondo di due dimensioni. Uscendo dalla superficie vetrosa, allungò gli arti perfettamente magri e tonici e si aggiustò i vestiti eleganti che gli fasciavano il corpo. Senza imperfezioni. Senza cerchi di pennarello rosso. 

 

Guardò il ragazzo spaventato a terra e lo prese per mano, facendolo sollevare. 

 

 

Jimin osservò la scena senza sapere cosa dire o cosa fare per fermare ciò che stava per avere inizio. Non lo avrebbe visto, ma la sua mente ricordava. Gli innumerevoli pasti saltati. Le ore trascorse in sala prove, senza un minuto di pausa, senza introdurre carboidrati nel suo corpo che potessero dargli un minimo di energia. Gli svenimenti fra le braccia dei suoi compagni non appena metteva piede nel backstage. Gli sguardi preoccupati dei suoi amici, che lo vedevano perdere sempre più peso, fino a sparire nei suoi vestiti. 

 

Non aveva modo di fermarlo, perché era già avvenuto. Con quell'amara consapevolezza in bocca, vide la stanza sciogliersi nuovamente in confusi spruzzi di colore.

 

 

JIMIN SAID BANG

No. Non si fa. Park Jimin, non puoi iniziare il teaser di Dynamite dicendo Bang a noi. Cattivo. 

E poi vai in giro con quei capelli alla Danny Zuko, che tu sia maledetto! 

Non ce la faccio. Penso che quando uscirà l'mv intero sarà la mia morte. Pregate per me.

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Capitolo 27
*** 27 ***


Voleva scappare. Lo desiderava così ardentemente da sentire male al petto. Ma sapeva che non poteva. Non con la prospettiva della persona che lo aspettava. Nonostante ciò, serrò gli occhi in un morsa e strinse i denti più forte che poteva. La tentazione era grande. Abbandonare quel viaggio, rinunciare alla speranza di uscire di lì e accontentarsi di nutrirsi della sua immaginazione sarebbe stato così facile. Così conveniente. E così maledettamente meno doloroso. 

 

La sua mente sembrava incastrata in un disperato loop di frenetici pensieri. 

 

"Perché devo essere solo?"

 

"Voglio Jein." 

 

"Voglio Tae." 

 

"Voglio mio padre." 

 

Un soffio di vento freddo gli sfiorò la pelle, facendo scattare i suoi nervi come fuochi d'artificio. Il fantasma di Jein gli aveva dato un bacio sotto all'orecchio. Una serie violenta di brividi prese a camminargli sul corpo, giocando a far tremare le sue dita. 

 

"Smettila!"

 

"Allontanati da lei!" 

 

Il fantasma continuò con estrema lentezza a tracciare un percorso con le labbra dalla sua mandibola alla sua clavicola. Jimin tremava sempre più violentemente, ma le sue mani non si mossero né i suoi piedi si allontanarono. 

 

"Io... non ce la faccio." 

 

Silenziosamente, una lacrima prese a farsi strada sul suo viso. Jimin la lasciò fare, perché sapeva che non avrebbe avuto modo di fermarla. Né lei, né le sue sorelle che poco dopo la seguirono. 

 

 

-TaeeeeeeeeTaeeeeeeee!- 

 

Al suono della propria voce, le ciglia di Jimin sfarfallarono sulla sua pelle. Aprì leggermente gli occhi umidi ed inglobò velocemente la nuova scena che aveva preso piede. 

 

-Brutto sssssssscemo che non sei altro... vieni quaaaaa!- 

 

Una copia di sé fece il suo ingresso in un parco avvolto nel buio della notte, silenzioso come le stelle. La copia barcollò leggermente verso una panchina solitaria, abbandonandosi sul freddo metallo e catapultando la testa all'indietro. Pochi istanti dopo, Taehyung lo seguì con il telefono in mano puntato sul volto del ragazzo ubriaco e il viso contratto in una risata spasmodica. 

 

-Taaaaaaaeeeeee... zioooooo, dobbiamo parlare...- 

 

La copia di Jimin divorava le parole con il suo forte accento di Busan e la lingua incollata alla bocca dall'alcol. Il ragazzo che osservava la scena per un momento dimenticò tutto. Il fantasma alle sue spalle, la sua solitudine, le sue insicurezze. 

 

Sbatté le palpebre un paio di volte, sciogliendo l'appiccicume delle lacrime residue, e osservò il volto del suo migliore amico sparire, divorato da una risata profonda e talmente forte da impedirgli di respirare. 

 

-Taeeeeee, smettila di ridere, cretinoooo! Dobbiamo parlare di cossssse sssserie!- 

 

Taehyung sembrava sordo ai richiami dell'amico, mantenendo il telefono davanti al suo volto mentre si afferrava la pancia dolorante a causa delle risate. 

 

-Ascolta, zio... tuuuu... non ti puoi comportare così! Noi ssssssiamo una famiglia!- aveva esclamato lamentosamente la copia di Jimin. 

 

Lentamente, il ragazzo ubriaco sembrò perdere le energie che lo avevano animato all'inizio della scena e abbandonò il capo sulla spalla del giovane accanto a lui. Taehyung, per contro, si era zittito improvvisamente abbassando lo sguardo a terra. Jimin poteva vedere il rimorso riaffiorare nei suoi grandi occhi scuri e formare delle piccole chiazze di tristezza. 

 

-Ssssiamo una famiglia... quindi dobbiamo comportarci come tale...- continuò la copia, trascinando ogni parola sulla lingua. 

 

Il suo amico sembrò trarre un respiro tremolante, incerto. Teneva gli occhi lontani dal ragazzo appoggiato alla sua spalla e aveva abbassato il telefono, passandolo nervosamente da una mano all'altra. 

 

-Non posssssiamo essere egoisti. Dobbiamo fare le cose insieme e dobbiamo ri... rispettarci a vicenda...- 

 

Il tono della copia si era abbassato di qualche ottava, facendo assumere alla sua voce normalmente acuta e limpida un certo rauco raspare che gli dava un tono più serio, più malinconico. 

 

-Ti voglio bene come un fratello, sssssscemo. Ci tengo a te e ci tengo a tutti gli altri, perciò voglio che le cose tra di noi funzionino.- 

 

Taehyung deglutì rumorosamente con il mento leggermente tremante. Sembrava un bambino. Era una cosa che succedeva spesso e Jimin la trovava inesorabilmente adorabile. Il modo in cui si mordeva le labbra quando veniva rimproverato, il modo in cui tirava le maniche delle maglie per coprirsi le mani quando era nervoso e lo sguardo corrucciato che mostrava quando era contrariato. Era uno dei motivi per cui non riusciva mai a restare arrabbiato con lui per troppo tempo quando litigavano. 

 

-Scusami.- mormorò il suo amico facendo vibrare la sua voce profonda nel petto. 

 

La copia di Jimin diede al ragazzo una pesante pacca  sullo stomaco, facendo strozzare il malcapitato compagno con la propria saliva a causa del colpo. 

 

-Non devi chiedere scusa a meeeeeee... e la prossima volta... non litighiamo più per una stupida scatola di ravioli al vapore, ok?- 

 

Taehyung, una volta ripresosi dal colpo, prese ad annuire scuotendo la testa su e giù con energia e facendo volare la sua folta frangetta di capelli. 

 

Jimin abbracciò la scena con lo sguardo senza accorgersi del sorriso che aveva timidamente  invaso la sua bocca. Lo stupido incidente dei ravioli. Lo stupido Taehyung che all'età di vent'anni si comportava ancora come un bambino viziato. Gli mancava. 

 

Con una sensazione di malinconia che cresceva come alta marea dentro al suo corpo, disse addio al parco notturno e alla panchina solitaria che portava in grembo le due figure. Chiuse nuovamente gli occhi. Questa volta, avrebbe combattuto per impedire alle lacrime di scendere. 

 

"Mi stai aspettando anche tu... non è vero?" 

 

 

Nel giro di pochi istanti, il cielo buio e costellato di stelle era diventato un soffitto famigliare. L'erba del parco si era appiattita in un pavimento e il piccolo spazio era diventato più claustrofobico a causa dei tre letti a castello a ridosso l'uno dell'altro e del settimo letto singolo che lasciava un minimo spazio vitale per il transito. Il primo dormitorio che aveva diviso con il suo gruppo. 

 

Jimin ingurgitò l'ambiente con gli occhi, cercando di allontanare la sua attenzione dalle mani del fantasma che gli accarezzavano il ventre con movimenti lenti e così disperatamente affettuosi. Indugiò sul letto in basso dell'ultima struttura, quella più vicina alla finestra. Il suo letto. Non gli mancava l'invivibile strettezza della stanza o le notti passate a calpestare mutande, magliette o sneakers disseminate sul pavimento nel tentativo di raggiungere il bagno e finendo inesorabilmente per sbattere contro uno dei letti o il piede di qualche malcapitato. Doveva però ammettere che gli mancava addormentarsi al suono dei sei respiri che popolavano la stanza e, nel caso di Namjoon, del lieve russare di cui tutti si lamentavano. Gli mancava anche schiantarsi sul materasso con i muscoli urlanti di dolore e il viso sconvolto dalla stanchezza e vedere lo stesso sguardo imbambolato dal sonno negli occhi dei suoi compagni. Gli mancava anche sentire i rimproveri di Jin ogni qualvolta i più giovani andavano a dormire tardi perché erano rimasti troppo tempo davanti ai videogiochi o le ramanzine piccate di Hoseok sul disordine che dominava la stanza. 

 

Jimin osservò attentamente quell'ambiente in cui erano stati stretti, compatti come sardine, con i corpi sprizzanti di energie e le menti cariche di sogni inespressi. Forse era stato quel periodo di estrema intimità a trasformarli in un gruppo così unito. La vicinanza fisica si era, col tempo, evoluta in vicinanza emotiva. 

 

-Tae non ce la faccio...- 

 

Jimin aveva provato ad ignorare per più tempo possibile i singhiozzi sommessi del ragazzino coi capelli a scodella e la pelle scurita dall'abbronzatura che era abbandonato sul grembo del suo migliore amico. Quello, a sua volta, aveva gli occhi leggermente umidi e le labbra contratte in una smorfia di tristezza. Quegli occhi così grandi, che erano ancora più evidenti quando aveva solo diciassette anni e che lo facevano assomigliare ad un cucciolo di beagle. 

 

-Lo so Jiminie, lo so...- aveva mormorato accarezzando la testa dell'amico. 

 

Lo spettatore, stranamente, non sentì nessun grumo incastrarsi in gola né sentì gli occhi bruciare davanti al ricordo. Per qualche motivo era solo nostalgico. 

 

-Tae... continuiamo a lavorare, a provare fino a perdere la voce e ballare fino a che le gambe non cedono... ma non serve a niente!- 

 

I singhiozzi risucchiavano il respiro e le parole della copia di Jimin, che stringeva gli occhi nel tentativo di fermare le lacrime. Il suo amico era sul punto di crollare a sua volta, perciò tenne la bocca serrata e lo sguardo davanti a sé. 

 

-Non debutteremo mai! Non abbiamo speranze!- 

 

La voce rabbiosa del ragazzino risuonò nella piccola stanza, affondando nella stoffa della maglia di Taehyung e ringhiando dalla disperazione. 

 

Jimin, sospeso in una sorta di trance, si avvicinò silenziosamente alle due figure abbarbicate l'una all'altra. Quello che stava facendo non aveva senso e non avrebbe cambiato le cose. Ma, forse, lo avrebbe aiutato a sentirsi un po' meglio. 

Zigzagando fra i letti, raggiunse i due ragazzini e si inginocchiò davanti a loro. Quelli, in risposta, sembrarono non notare minimamente la sua presenza. 

 

-Ti sbagli.- 

 

Gli occhi del ragazzo osservarono le labbra tremanti della sua copia e le sue mani arpionate al tessuto slavato della t-shirt di Taehyung, sordo alle sue parole. 

 

-Debutterete tutti insieme. E sarà dura. Dovrai sudare ancora di più e soffrire ancora di più. Ma raggiungerai vette che mai avresti pensato di poter anche solo sfiorare.- continuò imperterrito il giovane, cullando con lo sguardo quei due marmocchi insicuri. 

 

-E quando le raggiungerai ti renderai conto di quanto sia difficile respirare lassù. E quando te ne renderai conto ringrazierai il cielo perché anche se ti troverai nel posto più freddo e isolato del mondo, sarai lì insieme ad altre sei persone che si sentono esattamente come te.- concluse sospirando sommessamente. 

 

Non seppe come o perché, ma i due ragazzini alzarono lo sguardo. I loro occhi avidi di successo e pieni di disperata fame di dimostrare il loro valore lo fissarono intensamente con una punta di scioccata speranza. Lo avevano sentito? Avevano capito quello che aveva detto? Prima di scoprire la verità, il mondo riprese a mescolarsi e a confondersi, sciogliendo lo sguardo della sua copia, che lo fissava con un'intensità disarmante. 

 

 

Jimin emise un altro sospiro. 

 

"Quanto ci vorrà perché questo viaggio finisca?" 

 

I suoi occhi atterrarono brevemente sull'unica figura che sembrava non venire divorata dal vortice di colori confusi attorno a loro, che continuava a rimanere al suo fianco nonostante il mondo cambiasse. 

 

Il fantasma lo guardò, piegando lievemente il capo con una smorfia giocosa sulle labbra. 

 

-Perché mi fissi?- mormorò la sua voce maliziosa. 

 

"Non è lei." 

 

Il ragazzo scosse seccamente il capo ma non fu capace di distogliere lo sguardo. Lei si avvicinò di qualche passo, alzando un sopracciglio con un velo di divertimento negli occhi. 

 

"Non è lei." 

 

Si avvicinò alla sua figura ancora accovacciata davanti ad un letto che non c'era più e protese la mano verso di lui. Gli accarezzò la guancia senza lasciare alcuna traccia sensoriale del suo tocco e passò lentamente il pollice sul suo zigomo. Si accovacciò a sua volta, inginocchiandosi davanti a lui con gli occhi carichi di qualcosa che Jimin non riusciva a leggere. Era la norma per lui non riuscire a capire cosa passasse per la testa della ragazza, ma questa volta era diverso. Sembravano acque ben più insondabili e assai più pericolose di quelle a cui era abituato. 

 

Quando lei fu al suo livello, afferrò la sua mano e la condusse  vicino alla sua bocca con la gentilezza di un ballerino che guida la sua dama. Socchiudendo le palpebre, il fantasma di Jein baciò le nocche della mano appena più grande della sua, una alla volta. Con estenuante lentezza e con strabordante dolcezza. 

 

"Non è lei."

 

Jimin, con uno sforzo estremo, strappò i suoi occhi dalla ragazza per concentrarsi sul nuovo ambiente circostante. Si trovava di nuovo dentro al loro primo dormitorio, ma questa volta la sua copia era spaparanzata sul pavimento del piccolo salotto in cui il gruppo di solito condivideva i pasti. Si udì un cigolio lamentoso e lo schianto della porta di ingresso, i cui cardini non erano mai stati aggiustati nonostante lavorassero decisamente male. Quando il rumore perturbò la stanza, si udì in lontananza un sommesso "Ops". 

 

La copia di Jimin si sollevò a sedere, incrociando le gambe e guardandosi attorno. Dal corridoio dell'ingresso, allora, emerse un ragazzino allampanato, con indosso dei ridicoli pantaloncini rossi e un berretto dei New York Yankees con la visiera maldestramente rivolta all'indietro. Non appena il nuovo arrivato vide il sedicenne Jimin sul pavimento, spalancò gli occhi e iniziò a boccheggiare con crescente imbarazzo. 

 

-Ah... ciao! Scusa per la porta, io... sono Taehyung, quello nuovo. Piacere!-

 

 

VMIN OVERLOAD, I'M INTO THAT, I'M GOOD TO GO

Sorry, Dynamite mi si è incastrata nella testa e non se ne vuole andare. Che ci devo fare? 

Comunque, questo capitolo è davvero VMIN overload. È venuto propio spontaneo. Quando ho saputo del dumpling incident DOVEVO metterlo. Era un imperativo morale. E quindi... niente. 

Come avrete ho fatto una piccola modifica alla struttura del testo. Per rendere la lettura più scorrevole ho separato i caporiga con uno spazio. È una cosa che mi alleggerisce come lettrice perciò ho pensato di applicarla come scrittrice.

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Capitolo 28
*** 28 ***


Jimin spalancò gli occhi e rimase a fissare con crescente meraviglia il giovane, che si stava toccando il retro del collo in un gesto di estremo imbarazzo mentre incollava lo sguardo al pavimento. 

 

Doveva ammettere che i suoi ricordi erano davvero accurati. Rammentava ancora alla perfezione i gesti, le occhiate e il tono della voce del suo migliore amico nel giorno in cui lo conobbe per la prima volta. A guardarlo così, però, gli appariva decisamente più basso e più infantile di quanto se lo ricordava. Taehyung a sedici anni assomigliava decisamente ad un bambino. Vedendo gli occhi stralunati della sua copia sul pavimento, il ragazzo ebbe quasi l'istinto di ridere. Già. Taehyung a sedici anni assomigliava ad un bambino, se teneva la bocca chiusa. 

 

Nel momento in cui Jimin lo sentì parlare per la prima volta, il netto contrasto quasi cozzante tra il suo viso innocente e la sua voce profondamente baritonale lo fece rimanere di sasso. La sua giovane copia rimase infatti in silenzio ad osservare quel bizzarro elemento che aveva appena rumorosamente fatto irruzione nella sua nuova casa, con una voce assurdamente affascinante e un marcato accento che gli strideva nelle orecchie. Da dove veniva? Sembrava mescolare una serie di cadenze e dialetti diversi, ma aveva vagamente il suono di Gyeongsang. 

 

-Io sono Jimin.- replicò semplicemente la sua copia, aprendosi in un sorriso che gli socchiuse le palpebre, riducendo drasticamente il suo campo visivo. 

 

Taehyung sollevò finalmente lo sguardo, rilassandosi a sua volta in un sorriso che gli metteva in mostra tutti i denti. Era strano, quel suo modo di sorridere, ma era anche irresistibilmente adorabile. 

 

-Piacere Jimin...ssi?- 

 

La sua voce si sollevò di qualche tono al calare della frase, accompagnata da un'espressione interrogativa negli occhi. La sua copia continuò sfacciatamente a fissarlo con curiosità. 

 

-Di che anno sei?- gli chiese allora seccamente. 

 

Taehyung arruffò le sopracciglia in un cipiglio indeciso. 

 

-Novantacinque.- replicò allungando le labbra in una sorta di broncio bambinesco. 

 

Jimin osservò la sua copia con uno sbuffo divertito, mentre poteva quasi sentire di nuovo il pensiero che in quel  momento era lampeggiato  nella sua testa. 

 

"Ma questo da che pianeta è caduto?" 

 

-Allora Jimin va bene. Sono un novantacinque anche io.- mormorò infine il ragazzino, sollevandosi finalmente da terra. 

 

Il sorriso tornò sul volto di Taehyung velocemente come se n'era andato e gli fece brillare gli occhi di una particolare luce che Jimin aveva sempre trovato invidiabile. 

 

-Spaziale.- 

 

La copia corrucciò il viso in confusione, osservando il ragazzino con il berretto rosso. 

 

"Ma questo come parla?"

 

Lo spettatore, fermo nell'angolo della scena, sentì un piacevole solletico al petto. Quel solletico aveva sollevato parte del peso che gli comprimeva lo sterno e che lo faceva respirare a fatica. Aveva anche leggermente allentato la morsa di angoscia che minacciava di chiudergli la trachea. Era come una bibita ghiacciata in un giorno di arsura o come una fontana di cioccolato dopo un mese senza dolci. Una sensazione di piccola, ma indomita allegria che risolleva la giornata. 

 

-Ehi, Jimin, dovrebbe essere arrivato il tizio nuovo...- 

 

La voce di Namjoon fece improvvisamente irruzione nel salotto, annunciando la sua imminente presenza nella stanza. Quando il corpo del ragazzo fece il suo ingresso, però, il silenzio calò su tutte le figure presenti. 

 

-Oh ciao, sei arrivato! Tu devi essere Taehyung, giusto? Io sono Namjoon!- 

 

Jimin non ce la fece. Fu più forte di lui. Il suo petto scoppiettò leggermente in una breve risata, che lo portò a singhiozzare in modo imbarazzante. Non poteva farne a meno, d'altronde. La faccia di Tae davanti al ragazzo più grande, che aveva fatto il suo glorioso ingresso con solo un paio di boxer indosso e i capelli scarmigliati, era la cosa più divertente dell'universo. Il ragazzino aveva velocemente percorso il corpo di Namjoon, per poi lasciarsi scappare un'espressione sconvolta in cui le sue labbra avevano assunto una buffa piega all'ingiù e infine abbassare gli occhi sul pavimento il più velocemente possibile. 

 

 

La scena venne lavata via come un dipinto sciolto dall'acqua. I colori persero chiarezza man mano che l'inchiostro sbiadiva e veniva spinto via fino a formare nuove immagini, nuove forme, una nuova composizione.

 

La risata che era nata nel petto di Jimin morì velocemente, senza avere il tempo di crescere e lasciargli una piacevole sensazione nell'anima. Tornò la solitudine. Tornò l'angoscia insieme alla disperazione e all'incertezza. E tornò la pesante consapevolezza del fantasma che lo teneva per mano al suo fianco. Stava ridendo sommessamente. Ma quella risata era così... priva di corpo. Priva di anima. Assomigliava a quella di Jein ma non aveva quella calda allegria e quell'incontenibile ironia che esplodevano in lei. 

 

Il petto di Jimin tornò ad essere oppresso da macigni pesanti quanto il mondo. 

 

-Pronto?- 

 

La voce di suo padre riempì il piccolo salotto della casa in cui era cresciuto. Il suo tono leggermente impaziente aveva attirato lo sguardo dei due ragazzini spaparanzati sul divano, intenti a giocare ai videogiochi. Erano sospesi a mezz'aria, pendevano dalle sue labbra come se fossero ancorati ad esse con un amo. 

 

-Ho capito, grazie mille. Fra quanto?- 

 

L'uomo continuò la conversazione cercando di appianare la voce e non lasciare trapelare alcuna emozione, ma l'impresa non gli riuscì completamente. Jimin poteva ancora percepire le note di eccitazione e fierezza velate da una sfumatura di preoccupazione e apprensione. La sua copia lo fissava con le palpebre spalancate, incapaci di chiudersi. Erano talmente fisse sull'uomo che il ragazzo poteva giurare che i suoi occhi erano pronti a versare un mare di lacrime, dato l'inusuale scintillio che vi aveva preso piede. 

 

-Perfetto. La ringrazio, arrivederci.- 

 

L'uomo abbassò il telefono e chiuse la chiamata. Dopo un lungo, interminabile istante di silenzio, voltò lo sguardo verso il maggiore dei suoi figli. Tutte le emozioni che fino a qualche momento prima aveva orgogliosamente tentato di nascondere, inondarono improvvisamente il suo viso come alta marea. 

 

-Hai passato l'audizione. Fra due settimane devi essere a Seoul.- mormorò con la voce leggermente tremolante. 

 

Le dita della copia di Jimin fecero scivolare il controller che fino a poco prima stringevano nervosamente, provocando uno schianto di plastica sul pavimento. Finalmente serrò gli occhi, stringendo le palpebre così forte che anche se le lacrime non avessero voluto uscire, furono strizzate fuori a forza. 

 

Jimin osservò quello che era stato l'inizio di tutto. Un ragazzino che a sedici anni stava realizzando il suo sogno, che di lì a poco avrebbe lasciato alle spalle la famiglia per ritrovarsi completamente solo in una città fin troppo grande per lui. Ricordava quanto era felice, quel ragazzino. Aveva appena vinto la lotteria della vita. Il biglietto di un treno che capita una sola volta. E lui era pronto a salirci, su quel treno. Lo era per davvero. Nonostante ciò, c'erano cose che era difficile lasciare indietro. Era doloroso il pensiero di non poterle impacchettare e infilare in valigia, insieme alle magliette e alle sue sneakers preferite. 

 

Una di queste si alzò dal divano in uno scatto, lanciando il controller che aveva stritolato fra le mani e chiudendosi in camera sbattendo violentemente la porta. Le spalle della copia sussultarono dalla sorpresa, mentre lo spettatore sentiva una vecchia ferita riaprirsi in uno squarcio pulsante, come se qualcuno l'avesse perforata con una lancia. Pensava che ormai fosse guarita, ma si sbagliava. Non c'era alcuna cicatrice, solo carne viva, sensibile e sanguinante che veniva lacerata sempre più dai suoi sensi di colpa. 

 

Suo fratello aveva solo quattordici anni quando lui se n'era andato da Busan. Era un moccioso con cui litigava fin troppo spesso e che in alcuni giorni gli faceva fortemente desiderare di essere nato figlio unico. Era il suo peggior nemico e il suo miglior amico, prima di conoscere Tae. 

 

-Vedrai che gli passerà.- 

 

Suo padre, con un tono di voce magicamente confortante, gli aveva passato una mano sulla schiena, osservandolo con un sorriso incoraggiante. 

 

Jimin lo aveva guardato con il volto diviso a metà. Una parte che voleva abbandonarsi alla felicità, l'altra che indulgeva nel mare di sensi di colpa che lo stavano affogando. Traendo un lungo sospiro, la copia si alzò a sua volta dirigendosi verso la porta che era appena stata chiusa con fin troppa veemenza e vi si appoggiò contro con tutto il corpo. 

 

-Jihyun.- disse con tono appena sufficiente a penetrare il legno dell'ostacolo. 

 

-Non appena te ne andrai, venderò tutte le tue cose su Ebay e trasformerò la tua stanza nella mia salagiochi! Perciò non pensare neanche di ritornare perché tanto io qua non ti voglio!- sentì urlare rabbiosamente in risposta. 

 

La figura appoggiata alla porta si accovacciò, accartocciandosi su se stessa come un pezzo di carta sciupato e spiegazzato. I suoi occhi persero la scintilla di felicità e soddisfazione che fino a prima erano riusciti a conservare mentre una parola si incideva nella sua testa, marchiata a fuoco dalla sua sadica coscienza. 

 

"Perdonami."

 

 

Mentre l'aria sembrava diventare più rarefatta intorno a Jimin e il suo petto bruciava come se fosse stato trafitto da una raffica di proiettili, una fredda carezza gli sfiorò la guancia. 

 

"Basta. Lasciami stare." 

 

-Lasciami stare.- mormorò con voce insufficientemente decisa.

 

-Amore mio, se è troppo doloroso per te possiamo andarcene.- rispose lei, sorda al suo blando ordine. 

 

Avvicinandosi ancora di più al suo corpo con la sua gelida presenza, arrivò a centimetri dal suo orecchio con la stessa solennità di qualcuno che sta che confessare il segreto più ambito del mondo. 

 

-Possiamo tornare a casa nostra. Quella che abbiamo costruito insieme. La nostra casa sul lago.- 

 

"Stai lontana da me." 

 

Jimin tenne lo sguardo davanti a sé e al corridoio di una scuola che stava lentamente prendendo forma. 

 

-Possiamo tornare da nostro figlio.- sussurrò lei, facendo penetrare la sua voce in ogni fibra del corpo del ragazzo. 

 

La instillò dentro di lui come un cancro, un morbo maledetto che divora dall'interno, portandoti all'autodistruzione. 

 

"Ti prego." 

 

"Torniamo alla nostra vita." 

 

Quel tarlo era ancora dentro di lui, si era impiantato nel suo stomaco cibandosi delle sue paure e delle sue insicurezze dal momento in cui la casa che aveva immaginato per la sua famiglia era crollata su se stessa, fragile come carta. 

 

Doveva rimanere concentrato. Jein lo aspettava. Tae lo aspettava. Il gruppo e la sua famiglia lo aspettavano. 

 

-Staremo al sicuro...- 

 

Il trillo della campanella interruppe quel veleno corrosivo con puntualità provvidenziale. Il corridoio della sua vecchia scuola si presentò a lui con il suo fiume impetuoso di studenti assonnati e le sue file infinite di armadietti cigolanti e un po' ammaccati. E lì, appoggiata alla superficie metallica con estrema eleganza, c'era niente meno che lei. 

 

Kim Miyon. 

 

Jimin vide distrattamente la sua copia avvicinarsi a lei con una terribile t-shirt troppo hipster perfino per l'epoca e i pantaloni calanti come allora adorava portare. 

 

-Volevi parlare? O avevi solo voglia di vedermi?- 

 

Il quindicenne si appoggiò accanto alla ragazza portando il peso su una gamba in una posa cool e un'espressione sbarazzina sul viso. Allora era convinto di essere un gran figo, sopratutto da quando aveva iniziato ad uscire con una delle ragazze più belle della scuola. 

 

Miyon sembrava essere la perfezione fatta a persona. I suoi capelli lunghi e lucenti erano sempre in ordine e il suo viso così ben proporzionato portava costantemente quel lieve strato di trucco appena notabile e che ispirava a pensare che fosse una bellezza naturale. Era diventata la sua ragazza quattro mesi prima, dopo essersi proposta a lui sotto l'enorme sorpresa di tutti i suoi amici, che lo osservavano con invidia ogni volta che sfilava per i corridoi con lei. 

 

Si sentiva il re del mondo. In quei quattro mesi aveva avuto più autostima che in tutta la sua vita. Doveva immaginare che, proprio per questo motivo, la caduta sarebbe stata assai dolorosa. 

 

-Voglio rompere.-

 

CI SIAMO QUASI! 

Ebbene sì, cari lettori, lettrici, gatti, topi, porcospini vari...

Manca davvero poco al gran finale. Penso che in circa cinque capitoli chiuderemo la storia. Mi sembra volata questa esperienza in confronto a Déjà vu. Pensavo anche che fosse più corta ma come numero di parole siamo più o meno lì. 

E dunque, dato che la chiusura è imminente, sono già work in progress per la prossima creatura. 

Vi avevo parlato in precedenza dell'idea ispirata a Daechwita ma, sadly, penso che non sarà lei la vincitrice questo giro. Non la sento ancora pronta dal punto di vista della trama e conosco ancora troppo poco della storia coreana per poter scrivere un'ambientazione coerente. 

Detto ciò, ho altre due idee che stanno macinando nella mia testa. La prima verrebbe probabilmente in forma di storia breve e sviluppava l'idea dei membri dei BTS come personificazioni delle stagioni (lo so, è un'idea molto figa). Purtroppo anche lei non la sento ancora pronta nella mia testa perciò forse per ora la metterò da parte in un angolino della mia mente. 

L'ultima proposta, forse quella definitiva, è un AU sulla hanahaki. Mi piaceva molto l'idea è forse la unirò al concetto di anima gemella (da un punto di vista più scientifico che spirituale). Sono molto carica perché ho in mente di renderla molto più allegra rispetto alle precedenti, anche se la nostra dose di sofferenza quotidiana ci sarà sempre in una certa misura XD se no non potrebbe essere una storia sulla hanahaki. Forse, forse, forse... potrei avere già pronta la copertina. 

Se sono abbastanza convinta, potrei fare anche il reveal al finale di questa storia. Cosa dite? 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** 29 ***


La copia di Jimin rimase congelata sul posto, più ferma e priva di vita di una statua. Gli occhi spalancati erano fissi sull'ovale del viso della ragazza con una supplica e un disperato interrogativo scritti nelle pupille. Miyon, per contro, manteneva lo sguardo al pavimento e le braccia incrociate al petto, come a voler sottolineare la distanza fra di loro. 

 

-Cosa... perché?- 

 

Quando finalmente la copia riuscì a parlare, la lingua inciampò nelle due brevi parole e la voce assunse un tono acuto, simile alle implorazioni di un bambino. 

 

La ragazza non sembrò farvi caso. Sbuffò semplicemente, passandosi una ciocca di seta scura dietro all'orecchio in un gesto perfettamente misurato. 

 

-Jimin, sei un ragazzo molto... dolce. Ma non sei il mio tipo.- replicò infine lei, sollevando per la prima volta gli occhi su di lui. 

 

Quello fu il primo schiaffo della giornata. Il suo sguardo. Quando Jimin poté finalmente incrociarlo, vide qualcosa che fece più male delle parole. Indifferenza. La più totale, insipida, asettica indifferenza. Per lei tutto ciò non aveva importanza. Lui non aveva importanza. Non aveva valore. 

 

Non che Jimin fosse innamorato di lei. All'età di quindici anni non sapeva neanche cos'era l'amore. Aveva sicuramente una cotta. Forse era per quello che la chiamavano così, una cotta. Perché bruciava tremendamente. 

 

-E in più... Jae è tornato single.- 

 

Ed ecco il secondo schiaffo. Questo lo colpì più forte del precedente. In effetti, ciò che bruciava di più era il suo ego. Non tanto l'idea che lei voleva lasciarlo. No, non era quello il punto. 

 

Perché non lui? 

 

Perché lui era sbagliato? 

 

Cosa c'era di sbagliato in lui? 

 

Non era abbastanza bello? 

 

Non era abbastanza simpatico o intelligente? 

 

Cosa avevano altri che lui non possedeva? 

 

-Cosa... cosa intendi dire?- aveva mormorato la copia in un filo di voce. 

 

Non era stupido. Sapeva che Jaebum era l'ex di Miyon. Era il tipo più popolare della scuola, con i suoi stupidissimi centottanta centimetri di altezza e il suo corpo da atleta. Ma non era giusto. 

 

Perché lui non poteva andare bene così com'era? 

 

Era davvero così terribile il suo aspetto? 

 

Era basso, questo era vero, ma era forse per questo che non poteva essere considerato? 

 

-Mi dispiace Jimin. Ci si vede in giro.- 

 

Detto ciò, Miyon si staccò dagli armadietti e si allontanò da lui senza voltarsi indietro. La copia non poté fare altro che rimanere lì, ferma in mezzo ad un corridoio vuoto con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa come un pesce impalato. 

 

Jimin guardava la scena con una sensazione di gelo nel petto. Il dolore si era gradualmente trasformato in una sorta di anestetico che gli aveva addormentato i sensi. Era come se avesse chiuso fuori tutto. Tutto ciò che gli si avvicinava assomigliava ad un oggetto contundente pronto a trafiggerlo. 

 

Non era per Miyon. A distanza di così tanti anni non gli importava neanche più di quella faccenda. Rimpiangeva di avere sprecato quei quattro mesi al suo fianco, quello era certo. Ma non era quello il problema. 

 

La sua copia, dopo minuti di immobilità, sembrò uscire dal suo stato di glaciazione. Come se qualcuno l'avesse finalmente liberata, rompendo lo strato di roccia che ne impediva i movimenti, si slanciò in avanti con impeto, dirigendosi verso il bagno. 

 

Jimin fu a sua volta condotto a seguirlo dalla spinta invisibile che aveva già provato in precedenza e in un batter d'occhio si trovò ad osservare lo stretto abitacolo della latrina, con le sue pareti vandalizzate da pennarelli di vari colori e il pavimento disgustosamente umido. Poteva quasi sentire ancora l'odore stagnante dell'aria, che sembrava amplificare la sensazione di nausea che gli si era accumulata in gola. 

 

La copia si abbandonò sulla tavola chiusa del water e si portò le mani davanti agli occhi. E pianse. Pianse come un moccioso. 

 

-Patetico.- 

 

Una manciata di brividi gli percorse la spina dorsale, facendogli sbattere i denti nervosamente. Voltandosi leggermente, Jimin poté vedere l'ultima persona che avrebbe desiderato incontrare di nuovo nel suo cammino. Appoggiata alla parete laterale, la lunga e slanciata figura avvolta in strati di broccato teneva lo sguardo puntato verso il basso, sul corpo singhiozzante del ragazzino in lacrime. 

 

Non ne poteva più. Guardare quegli occhi così superbi e fieri, uniti a quel tono di voce condiscendente e trasudante altero disprezzo, gli facevano venire voglia di prendere a pugni se stesso. Sarebbe stata una cosa assai strana e piuttosto malsana, probabilmente. Ma a Jimin non importava. 

 

-Pensavi davvero di avere una chance con la ragazza più popolare della scuola? Tu?- 

 

Il corpo magro ed elegante di quella versione di Jimin così sbagliatamente sprezzante si piegò in avanti verso il ragazzino seduto sul water. 

 

-Non sei altro che uno stupido sfigato.- 

 

Le parole velenose uscirono dalla bocca di quell'essere con la dolcezza del miele. Era come se stesse raccontando una storia della buonanotte ad un bambino sul punto di addormentarsi. 

 

-Uno sfigato con cui nessuno vuole avere niente a che fare.- 

 

Il tono si fece più aspro, facendo inacidire il miele nella sua voce. Jimin voleva davvero prenderlo a pugni. Gli prudevano le mani dalla voglia pressante che sentiva. 

 

"Stai zitto." 

 

-Povero sfigato... solo, senza qualcuno che ti ami... e così brutto.- 

 

La copia quindicenne sembrò sobbalzare a quelle parole, inciampando nei suoi stessi singhiozzi ma tenendo il viso nascosto nelle mani. 

 

-Anzi, penso che il termine giusto sia... scherzo della natura.- 

 

-Basta!- 

 

 

La voce di Jimin rimbombò leggermente nell'abitacolo, prima di essere assorbita dal nulla. Era diventato tutto nero, come se qualcuno avesse improvvisamente spento l'interruttore della luce. La claustrofobica latrina era sparita, come anche il ragazzino in lacrime raggomitolato su se stesso. Erano rimasti solo lui e la sprezzante figura in broccato. Anche  il fantasma di Jein era ancora costantemente incollato alla sua schiena con la sua disgustosa presenza. 

 

Sul viso magro e perfettamente proporzionato della figura si fece velocemente strada un sorriso altalenante tra il compiaciuto e il divertito. 

 

-Pensi davvero di poter scappare? Da tutto?- chiese con quel tono di voce zuccheroso che aveva assunto in precedenza. 

 

-Da me?- 

 

Il suo corpo asciutto si avvicinò a Jimin con suadente lentezza in una camminata che esprimeva tutta la sua alterigia. I suoi passi non parevano toccare neppure il pavimento. Sembrava volare, dalla delicatezza con cui si muoveva. 

 

-Tu hai bisogno di me.- 

 

Il ragazzo si ritrovò quel viso perfetto a centimetri dal suo. Gli aveva soffiato quella frase a fior di labbra, quasi gliela volesse instillare dolcemente come una medicina benefica. 

 

-Tutto ciò che ho detto è vero. È inutile negarlo.- 

 

Jimin si ritrovò un braccio avvolto in scintillante oro e voluttuoso nero attorno al collo, mollemente appoggiato alla sua spalla. In quel momento, il giovane ebbe l'impressione di avere le spire di un serpente attorcigliate al corpo, pronte a stringere da un momento all'altro sulle sue vie respiratorie. E proprio come davanti ad un predatore, si sentiva paralizzato. Le sue membra erano immobili, pietrificate dal terrore. 

 

-Sei uno sfigato. Uno scherzo della natura. E nessuno ti ama.- 

 

Il serpente continuò a stringere, avviluppandosi sempre di più al suo corpo finché Jimin non si ritrovò gli arti della figura con il sorriso altero completamente incollati addosso. 

 

-E hai bisogno di me.- mormorò infine, portando una mano davanti alla propria bocca. 

 

Quelle dita affusolate e più lunghe delle sue stringevano lo stelo di un giglio. I suoi petali bianchi e intatti sembravano sprizzare di vita e di linfa, con la superficie vellutata leggermente imperlata da qualche goccia di rugiada.

 

Jimin aveva iniziato a tremare. Tutto il corpo sembrava in preda alle convulsioni. Aveva paura. Aveva anche un bruciante odio che gli infiammava il petto, scontrandosi in una corrente turbolenta con il gelo del dolore che quelle parole avevano recato. Ribrezzo. Rabbia. Rassegnata accettazione. 

 

Nessuno lo amava. 

 

Jein non c'era. 

 

Forse non era mai esistita. 

 

E anche se fosse esistita non avrebbe mai amato uno come lui. 

 

Un essere indegno. 

 

Insulso. 

 

Nessuno lo avrebbe mai amato. 

 

Con un dolce sorriso sulle labbra, la figura in broccato sembrò percepire i suoi pensieri. Si portò il fiore alle labbra, assaporandone la dolcezza e il fresco profumo. E, infine, spinse il corpo inerme di Jimin in un baratro di oscurità. 

 

~~~~~~~

 

Gli occhi di Jein erano sul punto di chiudersi. Doveva essere passata almeno un'ora da quando si era messa davanti allo schermo del computer, ferma a fissare il cursore lampeggiare come un semaforo giallo. Era rimasta così tanto tempo con gli occhi su quella piccola linea intermittente da essere vicina a cadere sotto ipnosi. Magari l'avrebbe aiutata a trarre fuori un'idea, finalmente. 

 

Niente. 

 

Non le usciva nulla. 

 

Aveva sperato di riuscire almeno a buttare giù uno scheletro di struttura per la sua storia, ma sembrava che il suo cervello fosse in standby. 

 

Calma piatta. 

 

Nessun segnale di vita. 

 

Peggio della linea retta in un elettrocardiogramma. 

 

Uno sbuffo le sfuggì dalle labbra, facendo svolazzare uno ciocca di capelli per aria. 

 

-Allora, le opzioni sono due. O scrivi qualcosa, o ti alzi dal di lì e ti mangi i manggaetteok che ho comprato.- 

 

La voce di Kippeum fu in grado di farle staccare gli occhi dal trattino lampeggiante. Quando finalmente rivolse lo sguardo all'ambiente circostante, la sua vista ci mise un po' ad aggiustarsi alla differenza di luminosità, tanto che per qualche istante un balletto di puntini colorati dominò il suo campo visivo. La testa le girava leggermente e forse per questo non riuscì a focalizzarsi immediatamente sulla figura della sua migliore amica, ferma accanto alla sua sedia. 

 

-Ok, scelgo io. Alza le chiappe e vieni a mangiare.- 

 

Non le ci vollero ulteriori incoraggiamenti. In un attimo, il sedere dolorante della ragazza si era staccato dalla sedia mentre le sue gambe un po' traballanti la conducevano di loro iniziativa verso la cucina. Senza aggiungere una parola, Kiki fece scivolare il piattino di ceramica sul bancone rialzato, spingendolo fino a che non si trovò sotto al naso della giovane di fronte a lei. 

 

Jein afferrò velocemente una pallina di riso, tastandone la consistenza gommosa sotto le dita prima di infilarsela in bocca. 

 

-Non capisco. Avevi detto di avere un sacco di idee per il libro. Che cos'è che ti blocca?- 

 

Kippeum le rivolse uno sguardo distratto mentre si sedeva sull'alto sgabello con una gamba piegata sul ventre ed una stesa a penzoloni. Diceva sempre che sedersi in maniera normale non le piaceva. 

 

-È proprio questo il problema. Ho un sacco di idee ma non so come amalgamarle insieme in un'unica storia che abbia un senso.- spiegò Jein, agitando per aria le mani cariche di palline di riso. 

 

Kippeum la guardò per un istante con uno sguardo indeciso e le sopracciglia aggrottate. 

 

-Cavolo, se ne sapessi qualcosa di storytelling potrei almeno darti una mano...- mormorò, abbassando infine lo sguardo. 

 

Jein continuò a masticare silenziosamente la pasta morbida, tentando di pompare energia nel cervello ad ogni movimento della mascella. 

 

La sua testa in quel periodo  assomigliava ad un quadro di Kandinsky. Linee geometriche dalle forme contrastanti vorticavano sullo sfondo scuro della sua mente, sfoggiando i loro bellissimi colori individuali. I blu, i rossi, i gialli lottavano fra di loro senza riuscire ad amalgamarsi, mentre i cerchi, le rette e gli angoli combattevano per riuscire ad incastrarsi. 

 

Nel silenzio della stanza si sentiva solo il masticare di denti e la timida voce del telegiornale che parlava dalla televisione. 

 

-Forse potrei...- 

 

-... Park Jimin dovrà sottoporsi ad un altro intervento per rimuovere il nuovo aneurisma emerso. I membri e la famiglia non hanno ancora condiviso i dettagli della prognosi ma è certo che l'intervento avrà una percentuale di rischio piuttosto elevata.- 

 

Gli occhi di Jein si erano ritrovati incollati al televisore senza che lei se ne fosse accorta. La sua bocca si era chiusa con uno scatto, tacendo la sua voce e focalizzando tutta la sua attenzione sulle parole che uscivano dalla giornalista. 

 

-Jimin... è in ospedale?- 

 

Kippeum la fissò per qualche istante. Jein non la stava guardando negli occhi; aveva ancora lo sguardo fisso sullo schermo, ma l'amica poteva vedere quell'espressione smarrita che sembrava lontana chilometri. Quella che la ragazza aveva assunto spesso da quando si era risvegliata. 

 

-Non lo sapevi? È stato ricoverato qualche giorno dopo di te e ha già subito un intervento al cervello. Sembra che da allora sia ancora in coma.- 

 

Man mano che le parole uscivano dalla propria  bocca, Kippeum studiò lo sguardo nel viso dell'amica per captarne ogni flessione e cambiamento. Qualcosa vi era passato attraverso alla velocità della luce, così solerte che non era riuscita a cogliere cosa fosse. Sapeva, però, che doveva avere a che fare con il motivo per cui Jein sembrava rimasta incastrata in un altro mondo. 

 

La ragazza sbatté le palpebre un paio di volte, prima di abbassare gli occhi sulle candide palline di riso sul tavolo. L'amica poteva quasi sentire il suono del suo cervello che lavorava a velocità supersonica, triturando informazioni e impastandole in qualcosa che era assai curiosa di scoprire. 

 

Poi, vide la giovane alzarsi dallo sgabello senza una parola e dirigersi verso lo studio con la rigidità di un robot. 

 

-Ehi, tutto a posto?- chiese con tono forzatamente leggero. 

 

-Mi è venuta un'idea.-

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Capitolo 30
*** 30 ***


Taehyung aveva dovuto lavorare con l'immaginazione. 

 

Non era stato facile all'inizio. Non lo era stato affatto. La prima volta che vide il suo migliore amico incosciente, steso su un letto di ospedale e ricoperto di tubi, aveva sentito il sangue evaporare dal suo corpo. Si era chiesto come faceva a stare ancora in piedi, data l'evidente necessità di svenire. Poi era scappato, come un codardo. Come un pessimo amico. Era riuscito ad arrivare fino a casa prima di buttarsi sul water e svuotare il suo stomaco della colazione che non aveva mangiato. Le lacrime gli avevano impedito di guardare le sue mani tremanti stringere debolmente la superficie di ceramica e la gola bruciava come se fosse stata graffiata da lame appuntite mentre cercava di fare uscire dal suo organismo qualsiasi demone lo stesse tormentando. 

 

Non che le volte successive fossero andate meglio. Il suo corpo sembrava rifiutare l'idea di Jimin in quello stato. La rigettava fisicamente, costringendolo a sedersi e a calmare l'alta marea che cresceva nel suo esofago. Quando i suoi occhi si posavano sul ragazzo steso nel letto, un'immagine si sovrapponeva al viso inerme. 

 

Jimin che sorrideva, socchiudendo le palpebre.

 

Jimin che rideva buttando la testa all'indietro e accasciandosi contro la cosa più vicina a lui. 

 

Jimin che sonnecchiava sommessamente con i capelli scompigliati, le labbra contratte in un adorabile broncio inconsapevole e le guance gonfiate dal sonno. 

 

Quando le due immagini iniziavano a battagliare per prevalere l'una sull'altra, il cervello di Taehyung andava in tilt. Se si concentrava sulla realtà, sul corpo comatoso costantemente accompagnato dal ronzio fastidioso delle macchine a cui era attaccato, non riusciva a rimanere nella stanza. Era costretto a chiudersi in bagno finché il suo stomaco non decideva di smetterla di spingere fuori il cibo che non aveva mangiato. Era solo concentrandosi sulla seconda immagine, quella dell'amico che conosceva, vivo e sprizzante di felicità, che riusciva a calmare i tremori del suo corpo. 

 

Utilizzando quello stratagemma, era riuscito a rimanere seduto accanto al letto d'ospedale per diverse ore ogni giorno. Parlava con lui, con il suo migliore amico, come faceva normalmente. Si lamentava del comportamento di Jungkook o dei rimproveri paterni di Jin oppure gli raccontava dei nuovi pezzi che aveva iniziato a scrivere e gli chiedeva la sua opinione. 

 

-Non sono sicuro se farla sentire a Namjoon-hyung. Cosa ne dici? A te piace?- 

 

Quando le sue domande cadevano nel vuoto, immaginava il caldo sorriso di Jimin che lo osservava con entusiasmo e gli rispondeva che sì, gli piaceva un sacco la sua nuova canzone e che Namjoon l'avrebbe adorata. Quando piangeva, lo vedeva attaccato alla sua schiena, con la braccia attorno a lui e la testa appoggiata alla sua, intento a dondolarlo come un bambino mentre gli sussurrava parole confortanti. 

 

Era una strategia che funzionava, apparentemente. La nausea se n'era andata e il suo corpo non sembrava più sull'orlo dello svenimento. Perciò, continuò in quella maniera ogni giorno. 

 

Gli mancava il suono della sua voce. 

 

Qualche volta, riascoltava le loro canzoni pur di sentirla ancora. A volte riguardava le loro interviste per vedere il modo in cui si voltava verso di lui, nel tentativo di nascondere una risatina o per scambiare una battuta che solo loro avrebbero potuto capire. 

 

 

-Tae, è ora.-

 

La voce di Namjoon perforò la bolla che si era creato con lo scopo di escludere dal suo campo d'attenzione l'ambiente in cui si trovava. Per quanto fosse costosa e ben arredata, non voleva guardare la camera d'ospedale. Quando però il suo hyung si avvicinò timidamente a lui, stringendogli brevemente una spalla, dovette prendere atto del manipolo di infermieri fermi sulla soglia della porta. 

 

Era ora. 

 

Era ora di rischiare di perdere il suo migliore amico per sempre. 

 

Un fiotto di nausea ritornò a solleticargli la gola, ma Taehyung la rigettò indietro deglutendo con veemenza. 

 

Non poteva affrontare quel pensiero in quel momento. La sua testa non lo avrebbe potuto sorreggere. 

 

Il ragazzo intrecciò le dita fra quelle di Jimin, immaginandolo mentre piegava il capo con un'espressione rassicurante. 

 

"Andrà tutto bene TaeTae. Non fare il fifone." 

 

Taehyung emise un lungo sospiro. 

 

-A dopo.- 

 

Non aggiunse altro. Gli bastava questo. Lo avrebbe rivisto, dopo. Era come augurargli buona fortuna prima di vederlo salire per un'esibizione individuale e attendere il suo ritorno. O come salutarlo prima che partisse per Busan per visitare la sua famiglia. 

 

Sciogliendo le dita dalla debole stretta, lasciò che il suo lungo mignolo si incastrasse in quello così buffamente piccolo dell'amico. 

 

"Promesso?" 

 

~~~~~~

 

Jimin non era sicuro di dover sentire dolore in un sogno. Perché quello era un sogno. Ogni tanto, si rese conto, se ne dimenticava. 

 

Il sordo bruciore che però provò al cranio e alla base della schiena sembrava tremendamente reale. Dopo che la figura in broccato lo aveva spinto nel nero di un vuoto senza fondo, si era ritrovato a cadere per lunghi agonizzanti istanti fino ad incontrare una superficie dura. Il suo corpo vi si era schiantato contro con tutta l'energia della caduta, ricevendo una frustata di dolore lungo le appendici. 

 

Il mal di testa era accecante. Aveva l'impressione che qualcuno gli stesse trapanando il cervello con un martello pneumatico, mentre gli incendiava le meningi con una fiamma ossidrica. Non era affatto una bella sensazione. 

 

Quando finalmente riuscì a fare a patti con il bruciore, sollevò lentamente la schiena guardandosi attorno. 

 

Nero. 

 

Buio. 

 

Null'altro. 

 

Premendo i palmi contro il pavimento freddo su cui si trovava, riuscì a issarsi in piedi. 

 

-Ti sei fatto male?- 

 

La voce del fantasma si infiltrò nella sua spina dorsale e la scosse leggermente. Una carezza gelida gli sfiorò una scapola prima che una pallida mano si infilasse fra la sua e vi stringesse attorno le sue dita inconsistenti. 

 

Jimin rimase in silenzio. Era nel bel mezzo del nulla. Sentiva l'oscurità cercare di isolarlo ancora più di quanto già non fosse. Aveva bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi. Seppur falso. Seppur frutto solo della sua immaginazione. 

 

Gli ci volle qualche istante per notare la porta argentata che era comparsa davanti a sé. Quando finalmente prese atto della sua presenza, si fece avanti appoggiando la mano sulla maniglia, gelida quanto il fantasma al suo fianco. Jimin non sapeva esattamente cosa aspettarsi a quel punto. Se quella era l'ultima porta, avrebbe dovuto affrontare qualcosa di simile al mostro di ghiaccio chiuso nella coscienza di Jein. Si era ritrovato spesso durante il percorso a pensare a cosa avrebbe trovato lui a quel punto. Di certo, un mare di Park Jimin che schiamazzavano l'uno contro l'altro non era in cima alle sue aspettative. 

 

 

Il ragazzo non sapeva se essere stranito, sollevato o terrorizzato. Lasciandosi la porta alle spalle, aveva fatto due passi prima di bloccarsi in mezzo all'ambiente completamente bianco, fortemente in contrasto con l'oscurità da cui proveniva. Davanti a sé, il caos più totale si scatenava senza apparentemente riconoscere la sua presenza. 

 

La prima figura a passargli davanti agli occhi fu una copia di sé che doveva risalire ai tempi del suo debutto, data la sua pelle pesantemente abbronzata e gli occhi circondati da eye-liner. Il ragazzino corse lungo il suo campo visivo come un bolide, con la maglia sfacciatamente sollevata su quella pretesa di addominali che al tempo era convinto di avere mentre urlava a squarciagola "SONO UN GRAN FIGOOOOO". 

 

La seconda figura ad attirare l'attenzione di Jimin fu una versione di sé ancora più giovane, vestita con il body scuro che usava ai tempi in cui frequentava la scuola di danza. Con occhi spalancati e un po' spaventati fissava un'altra copia, vestita con un elegante completo rosso e intenta a ripassare la coreografia di Fire. 

 

-Accidenti.-

 

In un moto di frustrazione, la copia digrignò i denti stringendo i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. Poi, riprese a ripetere ogni movimento ancora e ancora, tornando sugli stessi cinque passi e commettendo continuamente lo stesso errore. Come un loop. E a ogni sbaglio, il suo sguardo si faceva più rabbioso e la sua bocca si storceva sempre più in una smorfia di rabbia e frustrazione. 

 

A distogliere l'attenzione dalla figura persa nella sua irritazione, fu il passaggio di un Jimin avvolto in abiti chiari e con i capelli biondi illuminati dal biancore della stanza. Con un gatto placidamente addormentato fra le braccia, fischiettava sommessamente la melodia di Serendipity passeggiando per la stanza come se non vi fosse altro abitante, lasciando di tanto in tanto una carezza dietro alle orecchie dell'animale. 

 

Gli occhi di Jimin dardeggiavano da una parte all'altra dell'ambiente senza sapere dove posarsi. C'erano copie intente a cantare finché il viso non gli si arrossava dallo sforzo e il collo non mostrava i tendini tesi. C'erano versioni di lui da bambino, che correvano zigzagando fra le gambe dei presenti con una risata sulle labbra e i capelli scuri che li solleticavano la fronte. C'erano dei Jimin sdraiati sul pavimento, madidi di sudore e con i muscoli tremanti o accovacciati su se stessi con la schiena sconvolta dai singhiozzi. 

 

Dovevano essere almeno una cinquantina. Una cinquantina di Park Jimin caoticamente diversi l'uno dall'altro. 

 

-Silenzio.- 

 

La voce imperiosa sembrò riuscire a porre fine a quel guazzabuglio di suoni. Jimin si guardò attorno incuriosito, cercando con lo sguardo il possessore. Le copie, allora, si aprirono in due sponde davanti a lui, presentandogli esattamente ciò che cercava. 

 

La visione lo pungolò brevemente con un moto di rabbia e disgusto. Era ancora lì. Seduto su un maledettissimo trono intarsiato in oro, rialzato dal pavimento grazie a due gradini marmorei, come un cacchio di essere superiore. 

 

Un angolo della bocca di Jimin si contrasse in una smorfia. La figura avvolta in broccato lo osservava dall'alto della sua regale seduta con sufficienza, gli occhi appena posati su di lui ma il mento ostinatamente dritto. Non avrebbe neppure abbassato la testa per guardarlo. Come se non fosse degno neanche del breve movimento. 

 

-Benvenuto.- 

 

Il viso magro e altero si contrasse in una smorfia di scherno. 

 

-Ti piace il mio... reame?- 

 

Lo stava puntellando. Stava cercando di spremere da lui ogni goccia di risentimento e cieca rabbia che poteva ottenere. Il problema era che ci stava riuscendo. 

 

-Tutto questo... può stare in piedi solo grazie a me.- continuò la figura sul trono, mormorando le ultime parole con fierezza. 

 

Jimin era a un passo dal salire sul quel maldetto affare dorato e prenderlo a pugni finché non avesse visto il sangue scorrere su quel ghigno disgustoso. 

 

-Se tu sei qui, è solo grazie a me.- 

 

Jimin non  era mai stato una persona violenta. Nonostante ciò, mai come in quel momento aveva sentito i muscoli tremare dalla voglia di ammazzare di botte qualcuno. 

 

-Dovresti essermi grato.- 

 

Fece un passo avanti, l'inerzia del pugno che aveva preparato pronta a trascinare il suo corpo. Si fermò. 

 

"Respira."

 

"Calmati."

 

"È esattamente quello che vuole." 

 

-Non capisci? Io sono qui per aiutarti.- 

 

Per la prima volta da quando l'aveva incontrata, la copia in broccato sembrò manifestare un tono di voce sincero. I suoi occhi avevano perso parte della loro aspra alterigia e lo guardavano con un principio di dolcezza. 

 

-Sono qui per proteggerti.- 

 

Jimin abbassò la testa. Aveva desiderato che qualcuno lo proteggesse. Dagli occhi del mondo. Da se stesso. 

 

Forse avrebbe dovuto...

 

"No."

 

La mente del ragazzo sembrò risuonare come un bicchiere di cristallo colpito da una forchetta. 

 

"Tu hai già chi ti protegge." 

 

Quando alzò il capo, Jimin passò lo sguardo sulle figure che lo circondavano, ognuna intenta a fissarlo con occhi attenti. I suoi occhi. Ogni copia era così diversa dal resto del gruppo da non sembrare appartenere alla stessa persona. Eppure lo era. Erano parte di lui. Lui era loro e loro erano lui. Con le sue stranezze, le sue debolezze, il suo incorreggibile perfezionismo e la sua intransigenza verso se stesso. Con le sue lacrime. Con il suo corpo imperfetto. Lui era tutto ciò. 

 

Il ragazzo abbracciò i presenti con lo sguardo e, infine, sollevò gli occhi. Lungo le pareti chiare della stanza in cui era rinchiuso, delle immagini furono proiettate come scene di un film. 

 

La sua famiglia che lo abbracciava quando finalmente era riuscito a tornare a casa dopo due anni di assenza. 

 

Le pacche affettuose dei suoi hyung sulla sua testa durante il suo compleanno. 

 

Gli abbracci di Taehyung, avviluppato al suo corpo come un koala in carenza di affetto. 

 

Jimin non si accorse di avere un sorriso sulle labbra. Quando finalmente rivolse la sua attenzione alla figura seduta sul trono, intenta ad osservare le scene sulle pareti, il suo sguardo era limpido e la sua mente cristallina. 

 

-Non ho bisogno di te.- 

 

La voce uscì dalla sua gola con una sicurezza che non pensava di possedere. Fu come se fosse stata pompata fuori dal suo stesso cuore. 

 

-Ci sono già delle persone che mi amano.- 

 

La figura in broccato si voltò verso di lui. I suoi occhi erano fragili, veli sottili di carta pronta a strapparsi. La sua pelle era traslucida, la luce la attraversava come fosse vetro. Con una smorfia contrariata, abbassò lo sguardo a terra. Infine, sparì. 

 

Si dissolse nell'aria come una manciata di raggi di sole, assorbiti dal bianco accecante della stanza. 

 

Il trono si dissolse in una nuvola di oro che si disperse nell'atmosfera. 

 

Al suo posto, una porta. La scritta EXIT sulla sommità catturava l'attenzione per il suo contrastante colore rosso sulla superficie argentata che sormontava. 

 

Jimin fece un passo. Ne fece un altro e un altro ancora. Prima di accorgersene, si era ritrovato con la mano sulla maniglia. 

 

Era stato facile, tutto sommato. 

 

Finalmente era il momento. 

 

Doveva andare. 

 

Jein era dall'altra parte. 

 

La sua famiglia era dall'altra parte. 

 

I ragazzi erano dall'altra parte. 

 

Contraendo le labbra, fece per afferrare la chiave appesa al collo, ma finì per stringere solo la stoffa della sua maglia. All'improvviso, sentì il suo collo tirare verso destra. 

 

Il fantasma di Jein lo fissava con grandi occhi imploranti. Fra le dita stringeva la grossa chiave, ancora legata a lui. Tirando, la ragazza fece avvicinare ancora di più il viso di Jimin al suo. 

 

-Resta con me.- 

 

La sua voce miagolò l'implorazione mentre la mano libera gli accarezzava il petto. 

 

-Ti prego.- 

 

I suoi occhi, i suoi bellissimi occhi scuri, erano lucidi, splendenti di lacrime pronte a cascare come gocce di una fontana. 

 

"Che cosa stai facendo?" 

 

"Vattene!" 

 

"Sei vicino ad uscire da questo posto!" 

 

Il fantasma strinse ancora di più la chiave, aumentando la tensione del nastro argentato finché il suo viso non si ritrovò accoccolato al petto tremante del ragazzo. 

 

-Non mi lasciare.- 

 

Jimin non riusciva a respirare. Aveva paura di sentire il suo odore salirgli nelle narici e bloccarlo lì una volta per tutte. 

 

Poi, una piccola pressione sulla gamba gli fece abbassare lo sguardo. E Jimin si sentì definitivamente soffocare. 

 

-Papà...- 

 

La sottile voce di Minho uscì dalle labbra contratte in un broncio. Con gli occhi inumiditi da timide lacrime, il bambino inspirò brevemente aria sollevando il piccolo naso schiacciato. 

 

-Papà, non te ne andare...- 

 

Jimin non riusciva a staccare gli occhi dal viso ormai singhiozzante. Le guance paffute, che Jimin aveva visto solo gonfiarsi dalle risate quando gli faceva il solletico, erano rigate da rivoli di lacrime. 

 

Prima che potesse fermarle, esse erano anche sul suo volto. 

 

Doveva andarsene. 

 

Doveva ma...

 

Come poteva? 

 

Minho. Minho era lì. Lei era lì. Potevano ricostruire la loro casa. Potevano vivere come una famiglia. Potevano...

 

... essere felici. 

 

Una mano si sollevò di propria iniziativa. La mano rimase sospesa per qualche istante prima di avvicinarsi lentamente, molto lentamente alla schiena della ragazza stretta a lui. Era pronta ad appoggiarsi su di essa e stringerla fra le sue braccia. 

 

Poi, un cigolio. 

 

La mano si bloccò a centimetri dalla pelle fredda e gli occhi di Jimin dardeggiarono verso la porta. 

 

La superficie argentata non era più chiusa. 

 

Come era possibile? 

 

Non aveva usato la chiave per aprirla. 

 

Perché? Perché era aperta?

 

Un sottile velo di luce penetrava dalla fessura. 

 

La mano di Jimin si allontanò velocemente mentre il suo corpo si spostava verso la porta socchiusa. 

 

La fessura luminosa si espanse ancora di più. Gli occhi del ragazzo non riuscivano a distinguere i dettagli delle sagome che vi si intravedevano oltre. Sette teste sembravano stagliarsi contro quell'infinita luce. 

 

Poi, una mano si fece avanti. Era grande, con dita lunghe ed elegantemente affusolate. Così famigliare nella sua bellezza. 

 

Un viso gli sorrise in un modo fin troppo unico. Il labbro superiore della figura si sollevò fino a mostrare tutti i denti, creando un buffo rettangolo di gengive che risollevava il cuore. Gli occhi di Taehyung sembravano più brillanti della luce che stava alle sue spalle. 

 

Jimin guardò il suo migliore amico. Aveva ancora delle lacrime impiastricciate fra le ciglia, ma poteva vedere chiaramente quel viso sorridente che lo stava chiamando. 

 

Taehyung era venuto a chiamarlo. Doveva andare. 

 

Prese un lungo respiro. 

 

E allungò la mano.

 

 

BUONSALVE

Ci siamo quasi. Due capitoli e ci siamo, siete carichi???? 

Devo dire che questo capitolo è stato tosto. Di solito non ho bisogno di riscrivere intere parti dei capitoli ma con questo l'ho dovuto fare perché è troppo importante. Inizialmente la parte della sfida tra Jimin e la copia malandrina era ancora più corta perciò ho cercato di darle più risalto, anche se in effetti rimane comunque piuttosto breve. Comunque Jimin è un individuo generalmente equilibrato, pur con i suoi problemi di autostima, perciò la sua sfida era meno ardua di quella di Jein. Il fulcro delle sue difficoltà infatti è stata alla fine la falsa Jein e l'illusione della famiglia che avevano insieme. 

 

Spero che non vi abbia deluso la soluzione finale. Ci tenevo a dare a Tae un ruolo importante e volevo sottolineare come il loro legame è molto forte perciò ho pensato che fosse la persona giusta per venire a salvare il nostro eroe intrappolato. E adesso... beh adesso basta scoprire cos'è successo nella vita reale!

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Capitolo 31
*** 31 ***


Quando aprì finalmente gli occhi, Jaehee ebbe l'impressione di essere ancora nel sogno. Il bianco accecante della stanza in cui si trovava sembrava un prolungamento di quello che l'aveva strappata via. Via da lui. 

 

Il corpo della ragazza non voleva rispondere ai suoi richiami, perciò mosse gli occhi freneticamente attorno a sé. 

 

Dove l'aveva portata quella mano invisibile? In quale nuovo, estraneo ambiente era stata trascinata? 

 

Jihun. 

 

Dov'era Jihun? 

 

Il suo sguardo trasudante di panico non l'aveva abbandonata neanche quando la stretta invisibile l'aveva spremuta fino a farle perdere i sensi. 

 

Jihun era rimasto bloccato lì. 

 

Doveva andare da lui. 

 

Il bianco attorno a lei però non rivelava altro che una finestra al suo fianco e una ragazza addormentata vicino al suo ventre. La sua migliore amica miagolava sommessamente come un felino, probabilmente a causa della scomodità della posizione, ma sembrava non avere intenzione di svegliarsi. 

 

Le dita di Jaehee si mossero di qualche millimetro e il breve spostamento sembrò provocare un effetto farfalla in tutto il suo corpo. Nella sua testa si scatenò un tornado. Nonostante ciò, tentò un movimento più consistente e riuscì a spostare il braccio fino a portare la mano al suo viso. Aveva qualcosa in bocca che le dava fastidio. Non riusciva a deglutire bene. E la maschera trasparente fissata sulla sua faccia le impediva di avere una visione completa dell'ambiente circostante. 

 

-Jaehee!- 

 

La sua migliore amica si era svegliata. Prima che la ragazza potesse accorgersene, si ritrovò la figura corvina a centimetri dal suo viso con il respiro tremante e gli occhi offuscati dal sonno e dalle lacrime. 

 

"Dov'è Jihun?" 

 

La sua bocca non si mosse. Doveva avere una sorta di tubo infilato in gola perché non riusciva ad unire le labbra, le quali erano spiacevolmente screpolate e leggermente bagnate di saliva. 

 

Jaehee sentiva gli occhi pizzicare. La sua testa sembrava processare le informazioni ad un lentezza spaventosa, tanto che ci mise qualche istante per considerare l'avvenuto ingresso di due figure. Quando si avvicinarono al suo campo visivo, poté pallidamente riconoscerle come un dottore e un infermiere. 

 

-Signorina, adesso dovrebbe respirare col naso per un minuto circa. Dobbiamo toglierle il respiratore e il sondino. Sarà un po' fastidioso ma se segue le nostre istruzioni ci metteremo poco.- 

 

Jaehee non poteva fare altro che guardarli e sbattere le palpebre. 

 

-Se ha capito quello che ho detto, sbatta le palpebre due volte per favore.- 

 

E così fece. Quando iniziarono l'estrazione, la giovane dovette forzare il respiro fuori dalle sue narici infuocate. Il viscido scorrere del tubo che le percorreva la gola le dava la voglia pressante di rimettere. Un principio di lacrime le bagnò gli angoli degli occhi mentre sentiva un lieve sapore di sangue stuzzicare le sue papille. 

 

I due uomini la liberarono dall'impedimento visivo che fino a prima le aveva ostruito la visuale e la invitarono a muoversi solo quando se la sarebbe sentita. 

 

Jaehee mosse la testa a destra. Poi a sinistra. 

 

Jihun non c'era. 

 

Era nella sua testa. 

 

Era rimasto intrappolato lì. 

 

Una singola lacrima, solitaria viaggiatrice in una terra arida, si avventurò sulla sua guancia mentre fissava il soffitto. 

 

Jihun non c'era. 

 

 

La sua migliore amica le svolazzava attorno come un colibrì mentre la osservava mangiare. Cicalecciava sommessamente, distribuendo generosi sorrisi e risate al termine di ogni frase, che pronunciava mentre studiava Jaehee portare lentamente il cucchiaio alla bocca. La ragazza aveva gli occhi sull'obbiettivo, che conduceva tremolante la sbobba insipida. Ma non vedeva. Le orecchie sentivano, ma non ascoltavano. Le dita percepivano ma non affondavano nella sensazione tattile della coperta sterile. 

 

Appoggiò il cucchiaio al piatto. Lo stomaco non avrebbe accettato altro per quel pasto. O forse per l'intero giorno. I blandi rimproveri dell'amica erano un ronzio lontano, non potevano perforare la barriera insonorizzata che la sua mente aveva sollevato. 

 

Che senso aveva? Quale scopo poteva avere vincere la guerra se tutto ciò che essa seguiva era un infinito, divorante senso di sconfitta? Di perdita? Di mancanza? 

 

Non erano i sentimenti di un vincitore, quelli. 

 

No, lei non era una vincitrice. Aveva sconfitto i suoi demoni ma in cambio che cosa aveva? 

 

Nulla. 

 

Il vuoto. 

 

Una sagoma buia allora occupata da lui. 

 

Ma lui non esisteva. Giusto? 

 

 

La porta socchiusa della camera d'ospedale faceva penetrare i suoni del corridoio nell'ambiente. Non che a Jaehee importasse. Era sorda. Sorda al mondo e alle persone che lo popolavano. Forse era perché aveva passato così tanto tempo a seguire la voce dei suoi pensieri, durante quelle settimane assorbite dal coma. Forse per quel motivo non sapeva più come ascoltare. 

 

-Il paziente della trecentosei è in fibrillazione! Portate il kit di rianimazione, subito!- 

 

Le voci concitate degli infermieri si trascinavano nella periferia della percezione della ragazza, senza riuscire a distoglierla totalmente dall'ipnosi in cui si era autoindotta. 

 

-Qual è il nome del paziente?- 

 

Jaehee sbatté brevemente le palpebre per lubrificare gli occhi, placidamente appoggiati sulla televisione. 

 

-Lee Jihun.- 

 

 

Che senso aveva? 

 

Non ne aveva, questa era la risposta. 

 

Non lo avrebbe mai saputo. Non gli avrebbe mai potuto chiedere se anche lui ricordava quello che era successo o se era solo frutto del suo cervello troppo fantasioso. 

 

Forse era così. Forse era davvero frutto del suo cervello e quello che stava facendo era follia pura. 

 

Probabile. Ma la mente solitamente razionale di Jaehee era ormai andata in blackout. Non guidava più le sue azioni. Esse erano ormai in balia dei suoi sentimenti, veri o fasulli che fossero. 

 

Con le ginocchia piantate nel terreno umido, la ragazza guardò il volto della persona ancora seduta nella sua mente. L'immagine era molto bella. Riprendeva il suo sorriso allegro, il suo dolce viso incorniciato dai capelli scuri. Gli occhi brillanti e scherzosi. Il naso dalla curva delicata. 

 

Jaehee si portò le mani tremanti al viso quando si rese conto delle lacrime che avevano iniziato ad uscire dai suoi occhi. Arrivarono i singhiozzi. Arrivò un lamentoso mugolio dalle profondità della sua gola. 

 

Era ridicola, ma non poteva farci niente. L'orma lasciata nella sua anima era indelebile e inequivocabile. Lui era stato lì. Aveva lasciato il suo segno e al suo posto rimaneva solo uno spazio vuoto. E per quanto Jaehee tentasse di soffocarlo con palate di terra sembrava non colmarsi mai. 

 

La ragazza riuscì a porre fine ai singulti. Si accovacciò davanti alla lapide, abbracciandosi le ginocchia al petto e beandosi del magnifico silenzio che ricopriva il cimitero. 

 

E guardò l'immagine. 

 

L'aveva incontrato. L'aveva conosciuto e l'aveva amato. 

 

E da quel momento in poi l'avrebbe lasciato continuare a vivere dentro di lei. 

 

 

Suji chiuse il libro con così tanta violenza da provocare uno schianto sordo. Strinse la copertina fra le dita, increspando lievemente le lettere del titolo. Dreamland.

 

La giovane posò l'oggetto sul letto, fissandolo con circospezione come un predatore intento a studiare la sua vittima. Se non fosse stato per quel dannatissimo ultimo capitolo...

 

Perché? 

 

Perché Jihun doveva morire? 

 

Che razza di schifo era? 

 

Suji fece un lungo respiro. Doveva calmarsi. Se avesse continuato a rimuginare a quel modo avrebbe preso a parolacce l'autrice e probabilmente sarebbe stata sbattuta fuori dall'evento. In effetti, non era stata una grande idea quella di rileggere l'ultimo capitolo del libro poche ore prima di andare al firmacopie. La sua intenzione era solo prepararsi mentalmente per l'incontro ma aveva finito per inveire contro Chang Jein, contro le ingiustizie del mondo, contro la vita e contro se stessa. 

 

Non aveva senso sprecare tutte quelle energie. 

 

Prese un altro respiro e, infine, infilò il libro nella borsa. 

 

 

La sala in cui era stata condotta non era particolarmente spaziosa. Avrebbe potuto contenere all'incirca una trentina di persone e, dato il numero di astanti in piedi contro le pareti, era evidente che l'audience aveva superato la capienza massima. 

 

Quando finalmente il tavolo di fronte a lei si riempì con tre persone, i nervi di Suji iniziarono a crepitare come fuochi d'artificio, facendole dondolare le gambe nel tentativo di sciogliere la tensione. Chang Jein non appariva molto diversa dalla foto sul retrocopertina del libro. Nella fascia di ragazze dall'aspetto mediocre, lei probabilmente ricadeva più sull'attraente, grazie ai suoi occhi espressivi e al carisma che trasudava dalla sua persona. 

 

Nel rivolgersi all'intervistatrice e nel richiedere l'assistenza della sua editrice, quest'ultima qualità trasudava in modo pungente. Era singolare. Attraeva l'attenzione dei presenti come una calamita grazie al suo modo di fare spontaneo e giocoso, ma per qualche motivo dava allo stesso tempo una sensazione di distacco. Attirava le persone pur mantenendole a distanza. 

 

-Adesso abbiamo lasciato una decina di minuti liberi per le domande del pubblico prima di procedere col firmacopie. C'è qualcuno che vuole fare qualche domanda a Jein-ssi?- 

 

La mano di Suji era dritta come un portabandiera, orgogliosa nella sua determinazione. 

 

-La ragazza dell'ultima fila, prego.- 

 

Il microfono fu passato fra le mani di una ragazzina che non doveva avere più di quattordici anni e che indossava ancora l'uniforme scolastica. 

 

-Ecco... Io volevo sapere... è vero che la storia è basata sulla sua esperienza personale?- 

 

La giovane seduta al centro sorrise con misurata compostezza. 

 

-È vero, in una certa misura.- 

 

Le mani sembrarono scatenarsi ancora più numerose, ma Suji non aveva intenzione di demordere. 

 

-Sì, la ragazza qua in seconda fila.- 

 

-Quindi esiste davvero Jihun? Si chiama così nella vita reale? Dove si trova? È riuscita ad incontrarlo?- 

 

Al fuoco di domande sparato dalla giovane con i capelli color verde acqua, Suji fece una smorfia contrariata. Certo, capiva la curiosità. Anche lei avrebbe voluto sapere se Jihun esisteva veramente. Ma questo non autorizzava a sottoporre l'autrice ad un interrogatorio  e a ficcanasare in quel modo nella sua vita privata.

 

Ancora una volta, Chang Jein guardò l'interlocutrice con un sorriso cordiale, seppur leggermente meno aperto. 

 

-La risposta a tutte le tue domande è... forse.- 

 

La frase si concluse con un misterioso sorrisetto che scatenò un turbinio di voci e di richiami. Suji però vide i suoi occhi. La giovane donna non sorrideva con gli occhi. Solo con la bocca. 

 

-La signorina al centro, prego.- 

 

Non appena le fu passato il microfono, Suji lo strinse in mano per un istante, sperando che la determinazione incrollabile che fino a prima l'aveva infuocata le permettesse di non tremare mentre parlava. 

 

-Perché Jihun è morto?- 

 

L'autrice alzò lo sguardo verso di lei, rivolgendole tutta la sua attenzione. Ancora una volta, mostrando un sorriso di circostanza sotto ad occhi vitrei. 

 

-Nella storia Jihun era malato di tumore al cervello e, purtroppo, non aveva molte speranze di sopravvivere. Nella vita capita spesso di sperare nel classico "Per sempre felici e contenti" e nella letteratura di solito troviamo quella soddisfazione che cerchiamo ma che ci viene sempre inesorabilmente negata. Ho voluto, per una volta, dare un finale che rispecchia la realtà. Jaehee ha vinto in un senso, riuscendo ad abbracciare se stessa in tutta la sua interezza e ad accettarsi per quella che era. Ma doveva perdere in un altro. E ha perso Jihun, pur con la consapevolezza che il loro legame era vero. Questo, purtroppo, è quello che succede nella vita reale.- 

 

Chang Jein sollevò sempre più gli angoli della bocca man mano che abbassava il microfono e, dopo aver fissato per un attimo Suji, distolse lo sguardo privo di emozione. 

 

 

I piedi della ragazza dolevano a causa della mezz'ora passata in fila. Ormai era rimasta solo una persona a separarla dal tavolo a cui l'autrice era seduta. 

 

Suji prese, per l'ennesima volta, a mordicchiarsi le pellicine delle dita. Il lieve bruciore che il gesto provocò la distolse per un attimo dal nervosismo e riuscì a calmare la sua mente, per quanto il suo stomaco sembrava sfarfallare imperturbato. 

 

-Ciao, come ti chiami?- 

 

L'autrice le sorrise, sollevando gli occhi scuri su di lei e increspando brevemente le sopracciglia. 

 

-Suji.- borbottò in risposta la più giovane. 

 

Mentre il pennarello indelebile tracciava una breve dedica sulla prima pagina della sua copia, la ragazza cercava di vomitare le parole che serbava nella sua testa. 

 

No, non ne aveva il coraggio. 

 

La punta scura lasciò la superficie pallida e l'oggetto scivolò nuovamente fra le sue mani. 

 

-Ti ringrazio per essere venuta, Suji.- 

 

Chang Jein la guardava con un sorriso diplomatico mentre riprendeva in mano il suo libro e lo stringeva al petto. 

 

"Ora o mai più." 

 

-Io... spero che Jaehee e Jihun possano comunque stare insieme, in un modo o nell'altro. Loro... il loro legame è forte.-

 

Nascondendo il viso con un profondo inchino, Suji trotterellò via senza guardare l'espressione della sua interlocutrice. 

 

 

-Sei stanca?- 

 

Kippeum sghignazzò brevemente al suono del brontolio contrariato che uscì dalla sua amica. 

 

-Non ne potevo più... odio fare queste cose.- 

 

La giovane pose davanti al viso di Jein un americano ghiacciato mentre la osservava sbuffare sommessamente. 

 

-Lo so. Ma le pubbliche relazioni sono importanti se vuoi continuare a vendere libri. Così poi potrai ripagare la tua migliore amica di tutti i sacrifici che ha fatto in questi mesi.- 

 

La ragazza stravaccata sul divanetto scoppiò a ridere, posando gli occhi stanchi su Kippeum. 

 

-Hai ragione. Ti avevo promesso una vacanza a Maui in un resort cinque stelle, devo vendere almeno un altro migliaio di copie.- replicò ridacchiando. 

 

Di punto in bianco la porta della stanza si scostò leggermente, rompendo la quiete in cui erano immerse le due amiche. Oltre l'uscio comparve il viso dell'editrice che aveva seguito Jein nel processo di pubblicazione. 

 

-Chiedo scusa, Jein-ssi, ma ci sarebbero dei lettori che vorrebbero incontrarti. A causa di circostanze particolari non hanno potuto partecipare all'evento.- 

 

Jein guardò la donna con un sopracciglio sollevato. 

 

"Seriamente?"

 

-Per favore, Jein-ssi, so che è stata una lunga giornata, ma hanno detto che ci tengono molto ad incontrarti.- 

 

La giovane si morse l'interno della guancia annuendo distrattamente mentre si rimetteva seduta in modo composto. Quando si fu accomodata ed ebbe appoggiato l'americano sul basso tavolino da caffè di fronte a lei, si voltò nuovamente verso la porta. 

 

Fissò due figure entrare nella stanza e chiudersi la porta alle spalle. 

 

E Jein ebbe un'indomabile bisogno di aria.

 

 

DAN DAN DAAAAAAAAN

 

Chi sarai mai entrato? Lo scopriremo nel prossimo episodio! 

Curiosi? Fate bene, perché la prossima settimana avremo il tanto atteso epilogo! 

Questa storia mi sembra davvero volata e nonostante ciò ho una gran voglia di ricominciare a scrivere. Perciò preparatevi perché sto già iniziando a mescolare gli ingredienti per la nuova creatura!

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Capitolo 32
*** Epilogo ***


-Jimin...- 

 

Jein sbatté le palpebre brevemente. Per un istante aveva dimenticato l'ambiente in cui si trovava. 

 

-... ssi.- 

 

Lui era fermo sulla soglia della porta e la fissava. La giovane avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non poteva. I suoi occhi. La osservavano con un misto di nervosismo, aspettazione e... cos'altro? Dolcezza? 

 

Non poteva essere vero. Non poteva essere davvero lui. La cosa non aveva alcun senso! Questo avrebbe significato che lui... che anche lui... 

 

Oppure era semplicemente una fortuita coincidenza. Molto fortuita, apparentemente. 

 

-Jungkook-ssi. Prego, accomodatevi.- 

 

Dopo istanti di imbarazzante silenzio, Jein si era accorta anche del ragazzo che tallonava l'oggetto delle sue attenzioni. I due, a seguito del suo invito, si fecero avanti accomodandosi sul divanetto di fronte al suo. Non appena si furono seduti, la giovane si trovò davanti proprio quegli occhi che avrebbe così tanto voluto evitare. E lo fece. 

 

-Vi chiedo scusa per la mia sorpresa ma... ma non mi aspettavo di... vedere entrare voi.- mormorò Jein tenendo lo sguardo sul suo americano. 

 

Attraverso il riflesso del tavolino di vetro, poteva vedere il viso di Jimin fisso su di lei. I suoi capelli erano tornati al loro scuro colore naturale, facendo risaltare spiccatamente la sua pelle diafana che sembrava brillare sotto le luci della stanza. 

 

Jein avrebbe continuato a fissarlo. Lo avrebbe fissato per l'eternità, se avesse potuto. 

 

No. Doveva assolutamente capire qual era lo scopo di quella visita. 

 

-Siamo noi che dobbiamo scusarci per usare il tuo tempo libero, Jein... ssi. Purtroppo per ovvie ragioni non potevamo partecipare all'evento come pubblico ma...- 

 

Jimin si fermò e sembrò prendere aria per un lungo istante. La giovane, allora, alzò finalmente gli occhi su di lui. 

 

La sua voce. 

 

Era la sua. 

 

Le delicate note del suo timbro, il modo vellutato in cui accarezzava le orecchie dell'ascoltatore. Persino quell'adorabile modo di pronunciare le s. Erano tutti suoi. 

 

-... desideravo davvero incontrarti.-

 

 

Jimin aveva il disperato bisogno di aria e di libertà. L'ultimo anno l'aveva incastrato in una routine talmente estranea alla sua quotidianità da arrivare a farlo sentire alienato. Quando prima impiegava ore nella sala prove ad esercitarsi nelle coreografie, in quel periodo non aveva fatto altro che fare fisioterapia per riattivare i muscoli intorpiditi. Invece che incidere le canzoni per un nuovo album, passava ore ad ascoltare la musica cantata da altri. Al posto di essere in tour, viaggiando di città in città ed esibendosi per decine di migliaia di persone, era incastrato in casa. A riposare. 

 

Capiva bene la situazione. Non poteva rischiare un altro aneurisma, i medici erano stati chiari. Un altro incidente simile e sarebbe stato caput. The end. Niente più seconde chance. 

 

Lo capiva. Capiva anche che il suo stile vita precedente non era esattamente rilassante e che di certo non lo avrebbe aiutato a "evitare ogni genere di stress fisico, psicologico o emotivo". 

 

Lo capiva davvero. Eppure... che ne rimaneva della sua vita, una volta privata della sua parte più importante? Il suo lavoro era ormai una componente indissolubile della sua stessa identità. Senza di esso, Park Jimin era vuoto. Non era nessuno. 

 

Da quando aveva realizzato tutto ciò, aveva cercato uno scopo. Qualsiasi cosa pur di ritrovare una parte di se stesso oppure di scoprire qualcosa di nuovo a cui appartenere. E Jimin sentiva qualcosa stuzzicargli i sensi e poi sfuggirgli via come acqua fra le dita. Gli rimanevano solo gocce di coscienza, frammenti di idee confuse che si intrecciavano nella sua mente. 

 

Da quando si era svegliato cercava qualcosa. Ma cosa? Non riusciva a capirlo, per quanto si spaccasse la testa nel tentativo di scoprirlo. 

 

Era qualcosa di molto importante, ne era sicuro. Era qualcosa di molto vicino al suo cuore. Anzi, Jimin avrebbe perfino potuto dire che prendeva una grande porzione di esso. Ma perché non riusciva a capire cos'era? 

 

Sepolto da quella marea di soffocanti pensieri, non ce l'aveva più fatta. Dopo essersi frettolosamente infilato un berretto e una mascherina, era uscito di casa e aveva iniziato a vagare per le strade di Seoul. Forse quel qualcosa che cercava gli sarebbe spuntato davanti come un Pokemon. Lui avrebbe dovuto solo tirare fuori una pokeball e catturarlo, ricongiungendosi finalmente con esso. 

 

Già. Gli sarebbe piaciuto se tutto fosse stato così facile. 

 

 

In effetti, era stato così facile. Era stato ridicolmente facile quanto passeggiare lungo un viale commerciale e fermarsi davanti alla vetrina di una libreria. Era stato così facile, quanto vedere un manifesto pubblicitario e osservare una foto. 

 

Incontro con Chang Jein, autrice del romanzo di successo Dreamland! 

 

Sotto alla scritta, l'immagine di un libro si presentava insieme alla foto di una giovane donna. 

 

Chang... 

 

Jein. 

 

 

Jimin non poteva farne a meno. Nel momento in cui se l'era ritrovata davanti, era come se un'alta marea di ricordi gli avesse inondato la mente. Ogni minimo dettaglio di lei era lì, nella sua memoria. Dalla cortina scura dei suoi capelli, all'espressione dei suoi occhi fino al buffo modo in cui corrugava le sopracciglia. Le sue labbra, che lui conosceva così bene. I suoi zigomi alti, che le davano quasi un aspetto aristocratico. 

 

Ma c'era ancora un dettaglio che non riusciva a vedere. Quella sarebbe stata la prova definitiva. Se avesse confermato quello, non avrebbe avuto più dubbi. 

 

Jimin si accorse troppo tardi di aver seguito involontariamente il filo dei suoi pensieri. Il suo corpo doveva essersi mosso da solo, portandolo a compiere l'azione che meditava nella sua testa. Quando si accorse del modo in cui Jein aveva improvvisamente incamerato aria, con un secco sibilo, si rese conto di quanto compromettente era la sua attuale posizione. 

 

La sua mano si era allungata in avanti, fino a raggiungere il viso della giovane. Le sue dita, curiose esploratrici, avevano raggiunto il suo orecchio e scostato dolcemente le ciocche di capelli. Infine, avevano sfiorato il pallido collo fino a scoprire un'area nascosta sotto al lobo. Lì, un piccolo puntino scuro venne alla luce rivelando il suo segreto all'osservatore. 

 

Jimin si congelò per un istante. Poi, rapidamente, ritornò seduto sul divanetto alle sue spalle abbassando lo sguardo sulla bibita che gli era stata posta davanti. 

 

-Chiedo scusa, avevate... una cosa fra i capelli.- mormorò brevemente. 

 

"Certo, come se le avessi toccato solo i capelli." 

 

Mentre tentava di soffocare l'imbarazzo e il rossore affondando nel suo tè ghiacciato, Jimin sentiva lo sguardo rovente di Jungkook perforarlo da parte a parte. La bruciante curiosità del suo dongsaeng era comprensibile. Gli aveva improvvisamente chiesto di seguirlo ad un incontro completamente casuale senza spiegargli le sue motivazioni o la ragione del suo senso di urgenza. In più, aveva passato cinque minuti fermo davanti alla porta di quella stanza prima di racimolare il coraggio di entrare e di affrontare la più grande delusione della sua vita. 

 

Jungkook aveva tutte le ragioni per essere sospettoso. 

 

Mentre i presenti sorseggiavano sommessamente le loro bevande, il silenzio calò pesantemente nella stanza avvolgendoli in una coltre di imbarazzo. 

 

Doveva fare qualcosa. 

 

Quella era Jein. La sua Jein. Non poteva uscire da quella stanza senza aver ottenuto una qualche conferma che lei ricordasse quello che era successo. 

 

-Sono rimasto molto colpito dal fatto che la storia traeva ispirazione da vicende reali. È la verità, Jein-ssi?- 

 

La giovane sollevò lo sguardo su di lui. Quel modo che aveva di evitare i suoi occhi quando era in forte imbarazzo era inconfondibile. E Jimin lo trovava fin troppo adorabile. 

 

-Ah, ecco... sì, è così.- 

 

Jein si interruppe ingoiando un sorso di americano e sembrava non intenzionata a continuare. Evidentemente, lo sguardo insistente di Jimin riuscì a farle cambiare idea. 

 

-A seguito di un incidente stradale ho passato un mese in coma. Questo romanzo è il risultato di...- 

 

La giovane donna deglutì visibilmente, evitando in modo assai accurato gli occhi attenti e ansiosi del suo interlocutore. 

 

-... dei sogni, se così vogliamo chiamarli, che ho avuto in quel periodo.- 

 

Non appena ebbe finito di parlare, Jein affondò nuovamente la labbra nel bicchiere appannato dal freddo dei ghiaccioli al suo interno. Kippeum, al suo fianco, la scrutava con la stessa bruciante curiosità che Jimin percepiva in Jungkook. 

 

-Se posso chiedere, Jein-ssi, in che periodo siete stata in ospedale?- 

 

Jimin non avrebbe mollato la presa. Era uscito da quel posto per lei e ora che l'aveva trovata non se ne sarebbe andato a mani vuote. 

 

Jein sollevò finalmente lo sguardo su di lui. Ci fu un lungo istante di contemplazione reciproca. Le loro bocche tacevano, ma i loro occhi sembravano parlare una lingua tutta loro. 

 

"Ricordi? Ricordi di noi?" 

 

"Certo che ricordo, come potrei non farlo?" 

 

"Avevo una tremenda paura che fosse tutto solo nella mia testa." 

 

"Anche io." 

 

Jimin sbatté le palpebre. Quando le riaprì, rivide lo sguardo della donna che gli aveva dichiarato il suo amore mentre era stretta fra le sue braccia. La donna che aveva sposato in un matrimonio fasullo di cui loro soli erano i presenti. La donna che gli aveva assicurato che lui era parte della sua anima. 

 

-A dir la verità, è successo nello stesso periodo in cui anche tu, Jimin-ssi, ti trovavi in ospedale.- mormorò lei in risposta. 

 

Non evitava più il suo sguardo. Anzi. Lo cercava e vi affondava dentro, sguazzandoci come se fosse il suo habitat naturale. E lo era. Quella era casa sua. 

 

Jimin non ce la fece più. 

 

Il suo cuore stava esplodendo e la sua mente andò in blackout. 

 

-Sposami.- 

 

In sottofondo, molto lontano dalla percezione di Jimin, si udì il suono di qualcuno che tossiva violentemente. In seguito scoprì essere Jungkook, che si era strozzato con il suo cappuccino. 

 

Ci fu un momento di stasi. 

 

"Oh no. Ho fatto un casino." 

 

Jimin era pronto a mettersi in ginocchio per scusarsi con lei per la sua uscita completamente causale, finché non vide l'angolo della bocca di lei sollevarsi insieme a un sopracciglio. Il suo viso si contrasse in un'espressione giocosa. 

 

-Mi dispiace, ma non accetto proposte di matrimonio prima di almeno tre appuntamenti, Jimin-ssi.- 

 

Jimin fissò la ragazza. Avrebbe voluto saltare in piedi e iniziare a gridare come un pazzo. Avrebbe aperto le finestre e urlato al mondo tutta la sua follia. 

 

Invece, si schiarì la gola. 

 

-Ci sto.- 

 

-Ad una condizione.- 

 

Le parole di Jein fecero diminuire il sorriso sul volto di Jimin. Sospeso su un filo, pronto ad affrontare una rovinosa caduta, fissò nervosamente la giovane contorcendosi le mani in attesa. 

 

-Se avremo un figlio lo chiameremo Minho.- 

 

Mentre il sorriso tornava ancora più prepotentemente sul volto di Jimin, si sentì in sottofondo un altro suono di qualcuno che tossiva con violenza. In seguito avrebbero scoperto essere Kippeum, che si strozzava con la sua bevanda. 

 

-Affare fatto.-

 

 

 

THE END!!!

 

Mamma mia. Ci credete che è finita? Io no XD

Che ne dite? Il finale è un po' cheesy, lo so. Ma dopo avervi fatto soffrire per bene vi meritavate un po' di sdolcinerie. E sì, i due piccioncini vissero per sempre felici e contenti. 

All'inizio avevo pensato ad un finale diverso. Ma Ho deciso che non potevo lasciare in sospeso anche loro come avevo fatto in Déjà vu, volevo che avessero un vero happy ending. Ed ecco qua. 

Ma non è finita! Mi raccomando, passate al prossimo capitolo dei ringraziamenti perché ci saranno anche delle sorprese!

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Capitolo 33
*** RINGRAZIAMENTI (+annunci) ***


Oh ragazzi, abbiamo un po' di robe di cui parlare. Come al solito, se sono arrivata fino alla fine è solo grazie al supporto, silenzioso o meno, che mi avete dato e per questo vi sono davvero tanto grata. 

 

Voglio che tutti quelli che si sono presi il tempo di leggere questa storia fino a questo punto sappiano che vi ho visti, ho visto il numerino della vostra lettura, e già solo questo mi ha aiutato ad andare avanti. Una storia non può esistere senza dei lettori, perciò senza di voi Dreamland non avrebbe potuto prendere vita. 

 

Come al solito, vorrei fare degli shoutout specifici alle persone che hanno mostrato il loro supporto. 

 

Per wattpad a coloro che hanno votato e commentato come gatti001 , ilovepaytonEmma07  e a TheLittleStellarfox  e CallMeVeo che hanno continuato a mostrare interesse per la mia storia anche oltre il nostro scambio letture. Grazie mille. 

 

Per EFP, ringrazio due personcine che hanno seguito la mia storia ovvero Fenice_blu e CrisBo (che dopo avermi fatto sputare sangue con la sua storia ha deciso di venire a soffrire con le mie XD apprezzo il tuo sacrificio, soldato). 

 

E poi. E poi. Lo sai già che te hai un posto speciale in questo sezione, infatti ti ho fatto una sorpresina speciale, cara Aperonzina . Io non so come fai a starmi ancora dietro dopo due storie e tutta la sofferenza che ti ho fatto patire, a quest'ora dovresti già esserti stufata di me. E invece eccoti qua, a recensire ogni mio capitolo. Praticamente ormai sei la mia editor XD 

 

Ho pensato che a questo punto ci voleva un encomio speciale, perciò se sei su EFP vieni a fare un salto su wattpad. 

 

E infine ci siamo. Oggi annunciamo titolo e copertina della nuova storia! Mi dispiace per i miei lettori di EFP che non riusciranno a vedere le immagini, perciò ho pensato di fare una cosina speciale solo per voi. Metterò un'anteprima della sinossi in esclusiva solo qua! 

 

Perciò ecco a voi... Il principe del calmo mattino. 

 

La vita da principe esiliato non era facile. Min Yoongi poteva fidarsi solo delle persone che vivevano sotto il suo tetto e la cosa, sinceramente, gli era sufficiente. Per questo preciso motivo, quando Namjoon si presentò alla sua porta con una schiava dalle sembianze così uniche da parere scesa dal cielo, sapeva che era una pessima idea prenderla con sé. E allora per quale motivo aveva deciso di acquistarla? 

 

Il mondo di Diana era cambiato nel giro di istanti. Dal godersi il suo primo viaggio con suo padre alla scoperta di quel meraviglioso mondo orientale di cui aveva tanto sentito parlare, all'essere in catene, venduta, sfruttata e schiavizzata in un paese di cui non sapeva niente. Infine, si era ritrovata sotto la proprietà di un uomo dall'atteggiamento scontroso e distaccato. Quanto sarebbe stata impervia la strada verso la sua libertà? 

 

Ed ecco qua! Alla fine, grande plot twist, ho deciso di ritornare ai miei piani originali grazie anche all'incoraggiamento di Aperonzina. Principalmente, avevo paura a scrivere questa storia a causa della mia ignoranza riguardo alla cultura tradizionale coreana. Ma piano piano mi sono emerse molte idee in testa e la trama ha iniziato a prendere forma molto velocemente fino a che ho pensato "Questa storia merita di essere raccontata". In queste settimane finalizzerò la struttura generale e inizierò a scrivere i primi capitoli. Siete curiosi di sapere come sarà? 

 

Se volete vedere la copertina e i moodboard dei protagonisti, mi trovate su wattpad con lo stesso nome utente.

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Capitolo 34
*** SIETE PRONTI?! ***


Siete pronti?! 

 

Ebbene sì. Ci siamo. Ho finito la revisione di Dremaland e domani pubblico la BRAND NEW STORIA!!! 

 

E per festeggiare vi sparo subito tre capitoli così, nello stomaco. Basta, non ho altro da dire. Spero di vedervi numerosi anche nella nuova creatura.

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Capitolo 35
*** Another chapter of a new story ***


Dunque, questo era un capitolo speciale che avevo scritto per festeggiare il raggiungimento delle mille letture su wattpad e al tempo non era nulla di particolare se non un piccolo crossover diventeremo ma... l’idea si sta sviluppando in una cosa molto più grande perciò d’ora in poi tenete a mente i dettagli che troverete in capitoli come questi.

 

-Datti una calmata.- 

 

Jein poteva vedere l'impazienza vibrare nel corpo di Jimin, agitandolo e rendendolo quasi elettrostatico. 

 

-Sei tu quella nervosa qui.- ribatté lui con un sorriso sghembo sulle labbra eleganti. 

 

Jein corrucciò le sopracciglia e arricciò la bocca ma non rimbrottò una risposta. Aveva ragione, d'altronde. Il suo corpo era teso come se ogni fibra fosse stata congelata ineluttabilmente, mentre la sua mente sembrava un'autostrada bloccata nel bel mezzo di un mastodontico incidente. Un incidente fra un tir e un titano, evidentemente. 

 

Non aveva motivo di essere così nervosa. Stava semplicemente per incontrare il resto delle persone che il suo fidanzato considerava come una famiglia, nonché le stesse persone che lei sosteneva e ammirava da ben prima di conoscere Jimin. Aveva già incontrato Jungkook e non era stato così difficile. 

 

Davvero, doveva darsi una calmata. 

 

-Sono curiosi di conoscerti, sopratutto Tae.- 

 

Alla menzione di quel nome, gli occhi del ragazzo si illuminarono impercettibilmente. Jein, a quella vista, riuscì almeno a rilassare le spalle e sciogliere il bandolo nervoso di rughe sulla sua fronte. 

 

Jimin, non appena fu davanti alla porta, iniziò a bussare ripetutamente sulla superficie. Sembrava un bambino incapace di contenere l'entusiasmo. Dopo qualche istante, infine, la maniglia si abbassò. 

 

Jein si costrinse a sollevare lo sguardo, nonostante il suo corpo lottasse contro di lei con tutte le sue forze. Il suo forte istinto di autoconservazione, però, si dissolse come una bolla di sapone non appena incontrò due grandi occhi sorridenti. 

 

-Ciao. Tu devi essere Jein-ssi. È davvero un piacere conoscerti, Jimin mi ha parlato tanto di te.- 

 

Kim Taehyung era ancora più bello della sua controparte nel mondo della sua mente. La sua pelle sembrava brillare come il sole anche sotto alle luci soffuse dell'ingresso e il suo viso aveva delle proporzioni così eleganti da apparire scolpite appositamente per creare uno degli esseri umani più affascinanti del mondo. Ma, soprattutto, Jein poté sentire l'ondata di calore e gentilezza che irradiava dal suo sguardo come se fossero palpabili. Come se potessero allungarsi e stringerla in un abbraccio.

 

Se Jimin gli aveva raccontato tutto, quello sguardo allora stava trasmettendo molte parole che la fecero sentire in imbarazzo. 

 

-Te l'ho detto, Tae non vedeva l'ora di conoscerti.- rimbeccò il ragazzo accanto a lei, non appena notò il modo in cui la giovane aveva abbassato gli occhi al pavimento. 

 

Quel momento di calore e inaspettata accoglienza fu bruscamente interrotto al suono di una cascata di metallo che cadeva sul pavimento, unito ad un sonoro e irritato "Aish!". 

 

Quando i tre sulla soglia della porta si voltarono verso la fonte dell'interferenza si udì una nuova voce intervenire. 

 

-Hobi, calmati. Siediti e lascia che finisca io di preparare.-

 

Jein piegò lievemente il capo, confusa. Una voce di donna. Era calma, dalla cadenza quasi musicale. Straniera. 

 

-Oh? Beatrice?- esclamò Jimin con un'espressione sorpresa sul viso. 

 

Jein si voltò verso di lui, sollevando un sopracciglio. 

 

A quell'esclamazione seguì un sommesso scalpiccio di passi che si avvicinavano. Una donna che doveva avere all'incirca la sua età, con un viso definito da marcati tratti occidentali e capelli di uno sfolgorante color rame, si affacciò al corridoio dell'ingresso, appoggiandosi allo stipite della porta. 

 

-Ciao Jimin. Scusa di non averti detto niente, Hobi ha pensato di farvi una sorpresa e farmi  preparare il pranzo.- 

 

Jein non poteva fare a meno di contemplare la donna con confusione sempre crescente. Era vagamente familiare... ma non riusciva proprio a ricondurre nella sua mente alla ragione per cui i suoi tratti non le risultavassero nuovi. 

 

-Non mi dire... hai cucinato la pasta?- 

 

Jimin spalancò le palpebre e la ragazza pensò che avrebbe iniziato a saltellare sul posto da un momento all'altro. 

 

La donna annuì con un ampio sorriso sulle labbra. 

 

-Ho cucinato le lasagne.- 

 

La sconosciuta si staccò dal suo appoggio e si avvicinò con passi lenti al trio ancora fermo all'ingresso. Per qualche motivo, non sembrava intenzionata ad allontanare gli occhi da Jein. La fissava con un'intensità che la metteva a disagio, come se le stesse scrutando l'anima. 

 

-È davvero un piacere conoscerti, Jein-ssi. Mi chiamo Beatrice. Beatrice e basta. Sono italiana, perciò non amo gli onorifici.- 

 

Con un'espressione cauta ma cortese, Jein fece un breve inchino sotto allo sguardo attento dell'interlocutrice. 

 

-Piacere mio, Beatrice-s... ehm, Beatrice.- mormorò, portando imbarazzata lo sguardo al pavimento. 

 

-Amore amore amore vieni a vedere, non vorrei che qua la roba si bruci!- 

 

La voce concitata di Hoseok risuonò energicamente nel corridoio, aumentando di volume man mano che il ragazzo si avvicinava sempre di più. I suoi occhi ansiosi non sembrarono lasciare la figura della donna per un istante durante il breve tragitto. 

 

Beatrice scosse il capo con un sorriso sconsolato e, mormorando una rassicurazione, tornò in quella che doveva essere la cucina. 

 

-Jein-ssi?- 

 

Al richiamo della voce del giovane, la ragazza portò la sua attenzione sul volto luminoso che la fissava curiosamente. 

 

-Oh? Sono arrivati?- 

 

La voce profonda di Namjoon fece capolino dalla prima porta del corridoio, anticipando la comparsa del volto sorpreso del diretto interessato. 

 

A quell'esclamazione, poi, seguì l'apparizione di altri due sguardi curiosi, lontani in età eppure così simili nel loro stupore fanciullesco. Jin e Jungkook osservarono per qualche istante i nuovi arrivati, il primo con incurante insistenza, il secondo con timida riservatezza. 

 

-Che state a fare lì? Venite qua a presentarvi!- esclamò allora Jimin con tono esageratamente lamentevole. 

 

I più grandi si sciolsero in una risata imbarazzata, seguita dai loro passi decisi che li portarono alla presenza del trio, mentre il più giovane rimaneva silenziosamente alle loro spalle. 

 

-Ci devi scusare, Jein-ssi, ma è da quando Jimin è tornato a casa seguito da un Jungkook sconvolto che urlava "Hyung è impazzito!" che siamo ansiosi di conoscerti.- affermò Namjoon con una lieve risata. 

 

Jein non poté fare a meno di seguirlo al ricordo del modo in cui il più giovane del gruppo si era quasi strozzato davanti alla proposta di matrimonio di Jimin. 

 

-Non c'è problema, è un piacere conoscervi. 

 

 

 

La lasagna era decisamente troppo per il suo stomaco. Squisita, senza ombra di dubbio. Ma il suo fisico non era pronto a digerire quella bomba di colesterolo che le era stata posta davanti. Nonostante ciò, per evitare di risultare scortese, continuò a mangiare un boccone alla volta. E a ogni forchettata che finiva nella sua bocca Jein lanciava una curiosa occhiata alla coppia seduta davanti a lei. 

 

Beatrice sembrava surreale. Non era il suo aspetto, benché le sue sembianze le ricordassero qualcosa che non riusciva a riportare alla memoria. Era l'aura che la circondava in quel modo così enigmatico, così... misterioso. Come se fosse stata una mistica creatura spuntata fuori da qualche libro di fantasia. 

 

Poi, c'era lo sguardo di adorazione che si dipingeva negli occhi di Hoseok ogni volta che i loro visi si incrociavano. Non sapeva che il ragazzo fosse in una relazione; doveva essere un fatto miracolosamente sfuggito ai media. Eppure guardarlo accanto a lei, con il corpo pronto a legarla in un abbraccio o a sfiorarla con un'intima carezza, sospeso sulle sue labbra come se respirasse solo per lei... 

 

Non vi era dubbio. 

 

-Non te l'avevo detto. Hobi-hyung si è fidanzato.- disse Jimin, facendole distogliere lo sguardo dalla coppia. 

 

Un sorriso le comparve sulle labbra. 

 

-Congratulazioni- pronunciò sommessamente, riportando gli occhi sugli interessati. 

 

Beatrice sorrise con un lieve rossore sul viso. 

 

-Grazie. Siamo ancora nel bel mezzo dei preparativi, ma stiamo già uscendo di testa.- rispose lei, emettendo una breve risata. 

 

-Eccome! Hobi è più ingestibile del solito...- borbottò Yoongi, scavando con la forchetta nel cibo con un'espressione corrucciata sulla labbra. 

 

-Ehi!- 

 

Il summenzionato si voltò verso il maggiore con le sopracciglia sollevate. 

 

-Ha ragione, hyung, perdonami.- aggiunse Namjoon, con un sorriso giocoso sulla bocca. 

 

L'offesa che si dipinse platealmente sul volto di Hoseok costrinse Jein a rilasciare una risata divertita. Mentre rideva, riportò lo sguardo sulla donna di fronte a lei e al modo in cui si prodigò velocemente per rassicurare il giovane, prendendo ad accarezzargli i capelli in un gesto di disarmante naturalezza. 

 

Jein si accorse di averla fissata per davvero troppo tempo quando l'intero tavolo si ammutolì, percependo una qualche sorta di tensione fare capolino dentro la stanza. 

 

-C'è che qualcosa che ti turba, Jein-ssi?- chiese Beatrice, piegando lievemente il capo. 

 

La ragazza continuò a contemplarla in silenzio. 

 

-Perdonami, è solo che hai un'aria vagamente familiare...- 

 

Sulle ultime parole, la sua mente si accese come una centrale elettrica, mandandole numerosi segnali che la fecero improvvisamente scuotere. 

 

"Il JFK!" 

 

La donna sembrò intuire i suoi pensieri e annuì abbassando il capo. 

 

-Potresti avermi visto sui notiziari per... l'incidente di New York.- mormorò sommessamente. 

 

L'incidente... la sparatoria all'aeroporto dove i membri avevano rischiato di essere feriti se non fosse stato per...

 

Jein sollevò il capo, fissando la donna con intensità ancora maggiore. 

 

Se non fosse stato per la persona che si era frapposta fra la pistola e i ragazzi. 

 

Le sue palpebre si spalancarono. 

 

Non era possibile...

 

Lei era...

 

Beatrice sollevò appena gli angoli della bocca in un sorriso enigmatico. 

 

-Jimin ci ha raccontato un po' di cose su di voi... sul vostro incontro...- iniziò, tenendo lo sguardo sul tavolo. 

 

Jein si ritrovò a pendere dalle sue labbra. La sua mente, per qualche motivo, non riusciva a distogliere l'attenzione dalle sue parole e il suo petto trattenne il seguente respiro nella gabbia toracica. 

 

-Non sei l'unica ad essere stata vittima di... circostanze particolari.- 

 

Jein, se possibile, spalancò ancora di più le palpebre. 

 

Che cosa sapeva? 

 

Quanto sapeva? 

 

Anche lei era rimasta intrappolata in quel mondo come loro? 

 

-La mia storia, credimi, è folle tanto quanto la tua.- 

 

 

 

Jein, dopo l'abbondante pranzo, si era ritrovata a passeggiare in circolo nel salotto del dormitorio nel tentativo di aiutare la digestione. Forse anche nel tentativo di aiutare la sua mente a formulare tutte le informazioni che le erano state trasmesse.

 

In quale pazzo sistema era incastrata la loro realtà? 

 

Sogni che fanno incontrare le persone... 

 

Loop temporali...

 

Dio, se non fosse stato per Beatrice, Jimin non sarebbe neppure stato vivo quando lei era finita in coma.

 

Il solo pensiero le fece saltare il cuore in gola. La ributtò indietro ai momenti in cui la sua coscienza piangeva per lui, quando nella sua mente era convinta che non si sarebbe risvegliato. 

 

I suoi occhi presero a studiare le mensole della stanza, passando al vaglio ogni oggetto lasciato pigramente a prendere la polvere. 

 

La sua mente non riusciva neppure a concepire la grandezza di tutto ciò. 

 

Per un momento, si distrasse sentendo le voci sommesse alle sue spalle. In un divano nella stanza attigua, Beatrice passava le dita gentili tra i capelli del suo fidanzato, placidamente sdraiato sul suo grembo con gli occhi dischiusi. 

 

Con un sorriso, Jein si voltò per lasciarsi alle spalle quel momento di intimità e riportare il suo sguardo sui vari oggetti di fronte a lei. 

 

Finché un libro non attirò la sua attenzione. La catturò avidamente, impedendole di distogliere lo sguardo anche solo per un istante. Era sotto una sorta di ipnosi. Allungò la mano e, gentilmente, ne accarezzò la copertina man mano che lo sfilava dalla sua postazione. 

 

Il principe del calmo mattino. 

 

Lo aprì. E iniziò a leggere.

 

 

YOU ARE VERY WELCOME... IN THE JU

 

Dopo l'MCU... dopo il BU... Ecco a voi il JU! Universo integrato di Juliet! 

Ok, la verità è che il capitolo non è questo granché. L'ho scritto un po' in fretta e l'idea nasce fondamentalmente come fan service. Consideratelo ai limiti del canone perché per essere davvero legittimo avrei dovuto strutturare Dreamland in modo molto diverso. Questa invece è una cosa che avevo pensato già a metà storia e non avevo pianificato come renderla una cosa seria. 

Ciò detto, questo non toglie che non possa esserci un "seguito" a questo extra... un seguito che includa anche Yoongi e Diana, magari... 

Cosa dite? Vi è piaciuta la sorpresa? Sareste curiosi di vederla sviluppata in qualcosa di più concreto?

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