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di Roscoe24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


                                                                                                                         “Everything comes with a price. Everything. (…)
                                                                                                                                           
                                                                          (Gerald Brom)

                                                                                             


                                                                                            ∞




“La magia ha un prezzo, Maryse.”
La donna serrò la mascella. I suoi occhi scuri come il più profondo dei pozzi scrutarono impavidi e impassibili quelli dell’uomo di fronte a sé.
“Dimmi il tuo prezzo, Stregone.”
L’uomo alzò un indice e lo oscillò da destra verso sinistra: era un no.
“Vedi, Maryse, sono un uomo d’affari molto richiesto. Ho capacità che altri si sognano, e il mio potere è immenso…” L’uomo si sporse verso la donna. Maryse non si ritrasse. Non gli avrebbe dato anche quella soddisfazione. Avrebbe mantenuto la schiena dritta e lo sguardo fiero, sebbene stesse quasi per supplicare un demone superiore.
“La conoscenza è un privilegio che quelli della tua razza hanno perso da tempo.” Gli occhi felini nell’uomo percorsero i lineamenti della donna e si fermarono con disgusto e disprezzo all’altezza della clavicola, dove una runa faceva bella mostra di sé. “Siete voi i mostri,” sibilò, “Avete ucciso Nascosti senza motivo. Mi ripugnate.”
“Eppure fai affari con noi da secoli, Magnus.”
L’uomo liquidò quell’affermazione con un gesto della mano. Poi si voltò, dando le spalle alla donna. Fece un giro completo del pentagramma in cui era prigioniero. 
“Non mettere alla prova la mia pazienza, Maryse. Ne ho poca. Molto poca.”
Maryse sospirò.
Era il suo ultimo tentativo, quello. Aveva provato di tutto, negli anni. Magie di ogni tipo, ma nemmeno l’Angelo aveva potuto aiutarla. La sua condizione era irreversibile. Tutti gliel’avevano detto, tranne il libro bianco.
Il Grimorio Proibito aveva detto che dove non arriva la magia angelica, arriva quella demoniaca.
E Maryse era davvero disposta a tutto, pur di riuscire a soddisfare il suo più profondo desiderio. Anche evocare Magnus Bane.  
“Non merito la conoscenza, quindi non posso sapere quale sarà il prezzo?”
“Esatto.” Magnus la osservò con un sorriso arrogante, e intrecciò le mani dietro la schiena. “Dipende tutto da quanto profondamente desideri che io soddisfi la tua richiesta, Nephilim.” Sputò quel nome fuori dalle labbra come se fosse un velenoso insulto.
Maryse sapeva di non avere davvero una scelta. Fissò i propri occhi antracite dentro quelli gialli e felini dell’altro. Occhi da gatto, con pupille sottili e verticali. Il Marchio del Demone.
Occhi che Maryse non avrebbe mai dimenticato, se non altro perché l’avrebbero perseguitata in sogno.
“D’accordo, Stregone. Ci sto.”





*



Erano passati vent’anni.
Vent’anni in cui Maryse aveva vissuto sempre in allerta, con la costante ansia che qualcosa sarebbe successo da un momento all’altro.
Ogni notte aveva sempre visto quegli occhi che la tormentavano in sogno. E, con il tempo, e la saggezza che l’età porta con sé, si era chiesta se il vero prezzo di Magnus non fosse stato proprio quello di farla vivere in un costante stato di allerta e paura.
Quell’ipotesi l’aveva cambiata.
Nel giro di vent’anni Maryse si era trasformata nella copia fredda e ansiosa di ciò che era stata un tempo.
Non riusciva più ad esprimere affetto come quando era più giovane e non riusciva nemmeno più a lasciarsi andare. Era diventata rigida, incapace di provare qualsiasi altra emozione che non fosse un completo e totale stato d’allerta.  
Il suo cuore era come se fosse stato trasformato in pietra, e forse era stata quella la sua punizione, il suo pagamento.
Aveva ottenuto quello che aveva chiesto, ma in cuor suo sapeva che essere sempre così distante aveva fatto di lei una pessima madre.
Magnus aveva curato la sua sterilità, ma si era preso la sua capacità di dimostrare affetto.
Amava i suoi figli, con tutta se stessa, ma non era in grado di esternarlo.
Un lieve bussare la distrasse dai suoi pensieri.
Si trovava nel suo ufficio, nell’Istituto di New York di cui era a capo da dieci anni, ormai.
“Avanti,” Disse, con voce ferma.
La porta si aprì e dalla soglia comparve Isabelle, la sua copia sputata, anche se Maryse era fermamente convinta che sua figlia fosse nettamente più bella e coraggiosa di quanto lei non lo fosse mai stata.
“Io e Jace abbiamo finito di sistemare la grande sala, mamma. Alec non sospetta niente.”
Maryse era davvero felice, ma come sempre non lo diede a vedere. Si limitò ad un cenno controllato del capo. “Perfetto. La festa comincerà tra due ore, come da programma. Ora va, Isabelle.”
Isabelle non aggiunse altro e uscì silenziosa dalla stanza.
Maryse rimase a fissare la porta. La superficie di legno intagliata da rune antiche. Erano lì da più tempo di lei.
Erano lì da prima che lei evocasse Magnus Bane per esprimere il suo desiderio.
Maryse era stata una guerriera fiera, piena di disciplina e rispetto per le regole, ma aveva sempre avuto un desiderio più forte di qualsiasi altra cosa: diventare madre.
La natura, però, l’aveva creata sterile e lei questo non poteva davvero sopportarlo. Dopo anni di ricerche aveva trovato la sua risposta ad Edom, arrivando a fare un patto con il Sovrano, Magnus Bane. Figlio di Asmodeus, Magnus era un Principe dell’Inferno, divenuto Re, quando suo padre aveva ceduto il suo posto, notando nel figlio un potenziale e un potere che nemmeno lui aveva mai avuto. La magia di Magnus era speciale, forte e imbattibile.
Asmodeus aveva cresciuto il figlio in modo che fosse fiero e spietato, una macchina priva di sentimenti.
Non era stato cresciuto diversamente da come i Nephilim crescono i propri figli, ora che ci pensava.
Le emozioni sono distrazioni. E quindi venivano eliminate.
Maryse lo sapeva bene, aveva cercato di crescere tutti i suoi figli in quel modo.
Dopo il patto, Maryse aveva avuto la prima gravidanza: un maschio, Alexander, che tutti ormai chiamavano Alec. Due anni dopo era arrivata Isabelle. E poi, quando Alec aveva compiuto nove anni, era arrivato Jace. Non era biologicamente suo figlio, ma l’aveva adottato, dopo la battaglia contro Valentine Morgenstern. Il Circolo, a cui anche Maryse aveva aderito da giovane, aveva cominciato ad esagerare. La sua veduta era diventata troppo estremista e aveva portato con sé solo morte e violenze ingiustificate verso i Nascosti. Valentine era arrivato persino ad uccidere dei bambini, perché aveva riconosciuto il Marchio da Stregone. Quello aveva fatto sì che le sue schiere si dividessero. Maryse aveva fatto parte di coloro che erano poi stati ribattezzati i Ribelli e con lei anche Stephen Herondale, il padre di Jace, che fu ucciso in battaglia proprio da Valentine, insieme alla madre del bambino.
Avevano subito moltissime perdite, ma erano riusciti a vincere, eliminando la minaccia di Valentine.
Dopo quella guerra, Maryse sapeva che Jace era rimasto solo e così le era venuto naturale prenderlo con sé.  
Jace aveva immediatamente legato con i suoi figli, in particolare con Alec – tanto che poi, una volta cresciuti, avevano deciso di diventare parabatai.
Anni dopo, era arrivato il suo ultimo figlio, la sua terza e ultima gravidanza: Max, che aveva nove anni, ormai.
Il suo desiderio di essere madre era stato esaudito per ben quattro volte e, in vent’anni, nessun prezzo era stato pagato. Era questo che la terrorizzava. Più di qualsiasi altra cosa.
La conoscenza è un privilegio, le parole di Magnus le risuonarono nelle orecchie, chiare come se lui fosse lì a sussurrargliele.
La donna rabbrividì ed ebbe la sensazione sgradevole che presto un destino infausto sarebbe calato su di lei.







Alec sospettava che i suoi fratelli gli nascondessero qualcosa. L’avevano evitato per tutto il giorno e li aveva sempre beccati in un angolo a parlottare per poi smettere quando lo vedevano spuntare.
Loro potevano anche mentire, ma il legame parabatai, quello non mente mai.
Sapeva che, nonostante gli sforzi di Isabelle e Jace di nascondergli qualcosa e di ripetergli che andava tutto bene e che non c’era niente di cui preoccuparsi, in realtà qualcosa c’era. Eccome, se c’era. Lo avvertiva nella runa pulsante che gli faceva pizzicare la pelle sul fianco sinistro.
Jace stava mentendo. E non aveva bisogno di una runa per capire che anche la sua cara sorellina aveva passato tutto il giorno a propinargli una vagonata di frottole.
Sperava solo che i suoi dubbi non ricevessero conferma.
Non ci voleva un genio per capire che gli stavano organizzando una festa di compleanno a sorpresa.
Alec odiava i compleanni perché significavano stare al centro dell’attenzione e dover dare udienza ad un sacco di persone che non ti parlano mai, ma in quel giorno specifico si sentono in dovere di farlo per rispettare una tradizione che prevede la celebrazione di un individuo che anno dopo anno si avvicina sempre di più alla fine della sua vita.
Quindi no, non gli piacevano i compleanni. E sì, era certo che la sua famiglia gliene avesse organizzato uno a sorpresa.
Per questo si era rintanato nella sala addestramenti e stava tirando con l’arco.
Era la sua arma, quella che si portava in battaglia. Aveva un talento particolare, come arciere, ma sapeva di dover imparare ancora tantissime cose.
Perfezione. Doveva mirare sempre a quella. Non poteva essere da meno, dal momento che nella sua squadra c’era Jace, il ragazzo d’oro. Lui era il guerriero perfetto e, nonostante volesse bene a suo fratello, sembrava che chiunque si aspettasse che tra di loro ci fosse una sana competizione.
Fa bene alla squadra, diceva sempre Hodge, il loro insegnante, ma Alec non ne era convinto.
Competere con Jace non faceva altro che andare ad ingigantire le sue già radicate insicurezze.
“Ehi, sei qui.”
Alec scoccò la freccia che aveva incoccato e la guardò colpire il centro del bersaglio, prima di voltarsi verso la fonte di quella voce.
Isabelle lo stava guardando con un sorriso sulle labbra. Aveva un vestito blu elettrico abbinato a delle scarpe dello stesso colore. Portava dei tacchi così alti che Alec si stupiva ogni volta della facilità con cui riusciva a camminarci.
I suoi capelli neri erano lasciati sciolti e le ricadevano sulle spalle. “Perché ti nascondi?”
“Non mi sto nascondendo, mi sto allenando.”
“Mh, l’abbiamo già fatto stamattina.”
“Non abbastanza.”
La ragazza si avvicinò e appoggiò una mano sul braccio del fratello. “Alec,” lo chiamò, disarmandolo di arco e faretra. “Per oggi basta. Vatti a fare una doccia e sistemati un po’.”
“Perché?” Chiese, anche se già conosceva la risposta.
“Perché te lo chiedo gentilmente?”
Alec a quel punto sbuffò, deciso a smettere di fare finta di niente. “Odio i compleanni, Iz. Perché me ne avete organizzato uno?”
Isabelle decise di lasciare perdere la possibilità di fare finta che Alec non avesse ragione. “Perché ti vogliamo bene ed è giusto celebrarti.” Si sporse per lasciargli un bacio sulla guancia. “Ora, lavati e cambiati. E mi raccomando, quando andremo nella sala grande fai una faccia sorpresa!”
Alec sbuffò, frustrato. “D’accordo.”




Alec aveva dovuto persino mettersi in tiro. Altra cosa che odiava. A lui piaceva mettersi la divisa, o abiti comodi come le tute e le felpe, dei jeans ogni tanto. Abiti scuri e informi che lo aiutassero a non attirare l’attenzione.
Isabelle non la pensava nello stesso modo. A lei piaceva apparire, attirare l’attenzione. Era sicura di sé ed esprimeva questo lato del suo carattere anche attraverso la moda e il suo stile.
Ad Alec andava bene, gli piaceva che sua sorella fosse a proprio agio con se stessa. La cosa che non gli andava bene era quando traslava questo suo lato di sé su Alec, costringendolo, come quella specifica sera, ad indossare abiti che mai avrebbe indossato di sua spontanea volontà.
Una camicia super aderente, blu, e un paio di pantaloni beige. Gli aveva vietato categoricamente di mettersi gli anfibi da combattimento, così aveva optato per le uniche altre scarpe che aveva: un paio di Converse blu.
Alec si sentiva a disagio e ridicolo, e ovviamente non vedeva l’ora che quella tortura finisse.
“Devo per forza vestirmi in questo modo?”
“Sì!” Esclamò la ragazza, sistemandogli il colletto della camicia. “Il blu è il tema della serata. Ogni invitato deve necessariamente avere qualcosa di quel colore.”
“Blu, Iz, sul serio? Perché sono un maschio? Chi l’ha avuta questa orribile idea?”
Isabelle alzò lo sguardo sul fratello, riservandogli un’occhiata assassina. “Io. E non è orribile, è classica e sofisticata. Il blu ti sta benissimo, e lo sapresti anche tu se evitassi di usare sempre gli stessi logori vestiti che variano dal nero al grigio topo.” Isabelle lisciò il tessuto sulle spalle del fratello e abbandonò le mani lungo i propri fianchi.
Alec emise un grugnito a mezza voce e si passò una mano tra i capelli, scompigliando quella matassa di ricci corvini che aveva in testa.
“Non voglio andarci. Odio dover stare al centro dell’attenzione, non fa per me.”
Isabelle lo prese a braccetto. “Ci verrai e sarai sorpreso. Sorridi, ogni tanto. E vedrai che la serata finirà ancora prima che tu te ne accorga.”
Alec non era per niente convinto di quello che stava dicendo sua sorella, ma decise di crederle.




Non appena varcò la soglia della sala grande, Alec fu assalito da un sorpresa! che l’avrebbe fatto sussultare davvero, se non fosse stato preparato all’evenienza.
Finse un leggero sussulto, in ogni caso, mettendo su l’espressione più sorpresa che riuscì a fingere e abbozzando sorrisi che non convincevano nemmeno lui, in realtà.
Salutò ogni membro del Clave per fare un piacere a suo padre – sapeva quanto tenesse alla politica e al fatto che il nome dei Lightwood fosse ben visto. Per questo Alec si comportò educatamente con tutti loro.
Una volta che ebbe finito di salutare i membri del Clave, si guardò intorno per trovare un angolino in cui si sarebbe rifugiato per il resto della serata.
Sospettava che anche le decorazioni fossero opera di sua sorella. C’erano palloncini blu e striscioni argentati, delle piccole stelle azzurre pendevano dal soffitto e una grossa scritta era attaccata alla parete principale: buon compleanno, Alec!
Tutto questo non aveva niente a che fare con le tradizioni degli Shadowhunter. Era una cosa tipicamente Mondana, ma ormai tutti sapevano della passione che avesse Isabelle per quel mondo.
Era attratta dalla loro visione delle cose, dalla semplicità della loro vita. I problemi delle ragazze mondane riguardavano la scelta del college, o a quale corso extrascolastico partecipare, se erano al liceo; se d’estate conveniva loro lavorare in un bar o fare la cassiera in qualche supermercato. Nessuna di loro doveva mai domandarsi se il vestito con cui stava uscendo sarebbe stato completamente in grado di nascondere una daga angelica. O se esisteva davvero un lavaggio in grado di togliere l’icore secca sui pantaloni nuovi.
Alec a volte la capiva.
Comprendeva il suo desiderio di scoprire se davvero tutto il mondo si riduceva a battaglie senza fine con creature infernali e ronde notturne. A volte invidiava il suo coraggio. Isabelle usciva di notte per soddisfare le sue curiosità sui Mondani. Alec avrebbe voluto seguirla la maggior parte delle volte, ma c’era sempre una vocina nella sua testa che gli diceva che non poteva, che era sbagliato perché lui era il maggiore e da lui tutti si aspettavano dei comportamenti esemplari.
E uscire di notte per inseguire una fantasia, una curiosità sciocca, non rientrava nei comportamenti esemplari che spettano al primo genito di una famiglia importante come la sua.
Alec a volte si sentiva in trappola, come se tutte quelle aspettative nei suoi confronti non facessero altro che andare a stringere un cappio che aveva intorno al collo e che lo faceva soffocare giorno dopo giorno.
Sbuffò, dal suo angolino che si era abilmente conquistato. Osservò gli invitati. Oltre ai membri del Clave, c’erano i rispettivi figli e altri ragazzi che normalmente vivevano all’Istituto. Non erano lì per lui, ovviamente. Quel suo compleanno sembrava più che altro una scusa per radunare persone influenti e dare l’occasione ad altri di entrare nelle loro grazie per ottenere favori politici.
Alec lo sapeva.
Molti dei ragazzi e ragazze con cui si allenava miravano ad una spiccata carriera politica. Alcuni cercavano il potere, altri lo facevano solo per seguire le orme di un genitore, convinti che in quel modo l’avrebbero reso fiero.
Non c’era spontaneità, in quelli della sua razza. Alec lo sapeva bene. L’unica eccezione potevano essere Jace e Izzy, loro erano spontanei e impulsivi – più veri e autentici di tutte le persone presenti in quella sala messi insieme, compreso Alec.
Lui stesso non ricordava un momento dove si era lasciato andare, dove un suo gesto non aveva previso come minimo dieci minuti di ragionamento, nel quale aveva analizzato i pro e i contro del suo comportamento.
Era una gabbia, la sua, dalla quale non si sarebbe mai liberato.
“Sai, c’è un enorme striscione con il tuo nome,” Esordì una voce alle sue spalle e Alec era talmente concentrato a rimuginare sui suoi pensieri che questa volta sussultò davvero. Si voltò, notando Jace che sorrideva, “Quindi non puoi nasconderti. La gente chiede di te.”
“Allora strappa quello striscione, così si dimenticheranno di me e io potrò starmene qui, in pace.”
Jace fece una smorfia contrariata, come a voler dire che un’ipotesi del genere non era nemmeno da prendere in considerazione. “Lydia Branwell non fa altro che chiedere di te. È quasi imbarazzante da tanto che è esplicita.”
Alec si sentì sprofondare nell’imbarazzo. Le sue guance si accaldarono immediatamente. “Non è vero!”
“Sì che è vero, ma non ti accorgi mai di niente perché sei imbranato con le ragazze.”
“O forse non sono attratto da qualsiasi cosa respiri, come te, Jace.” Commentò, pungente, evitando di dirgli che nell’ipotesi in cui avesse provato qualcosa per qualcuno, più che per Lydia sarebbe stato per Andrew Underhill.
Non che gli piacesse davvero. Erano amici, più che altro, e Alec non provava nessun tipo di sentimento, per lui. Aveva solo notato che fosse carino, tutto qui, nello stesso modo in cui, di solito, Jace lo notava delle ragazze.
“Touché, ma a mia difesa… non è colpa mia se le ragazze mi trovano irresistibile. Ho un certo fascino.”
“Mh-mh,” commentò Alec, “Ti ricordi cos’è successo a Narciso?”
Jace aggrottò le sopracciglia, offeso. “Non farò la fine di Narciso!”
“Allora smettila di crogiolarti nel tuo ego.” Lo punzecchiò Alec, divertito da quella reazione.
Jace gli lasciò una gomitata nelle costole. “Solo se tu smetti di crogiolarti nella tua asocialità!”
“Io non sono asociale!” Esclamò convinto, massaggiandosi la parte lesa.
Jace lo guardò con un sopracciglio alzato. “Tu sei patologicamente asociale, Alec.” Sentenziò.
Alec sbuffò sonoramente, ma non si sentì di negare, questa volta. Dopotutto Jace non aveva del tutto torto: gli unici che lo conoscevano veramente erano Isabelle, Jace e Max. Aveva qualche amico, ma anche con loro non si lasciava mai andare del tutto. Metteva sempre delle barriere per difendersi da tutte le sue insicurezze. Non sapeva se gli altri l’avrebbero capito, o se l’avessero trovato una persona gradevole, di conseguenza, anzi che rischiare di esporsi troppo non si esponeva affatto.
Il cuore di Alec e tutta la sua intera persona erano circondati da alte mura di cemento invalicabili. La sua era una fortezza di solitudine e silenzi.
“Devi fare presenza.” Jace riprese il discorso iniziale. “Ho sentito papà che si chiedeva dove fossi finito. Penso voglia presentarti ad altri membri del Clave…”
Alec emise un sospiro sconfitto. “D’accordo.”
Avere dei comportamenti corretti, la maggior parte delle volte implicava prendere parte a delle situazioni che lo facevano sentire profondamente a disagio. E insoddisfatto.  
Ma ormai c’era abituato, di conseguenza lasciò il suo angolino e si sforzò di sorridere ad ogni persona che stringeva la sua mano.



“Mi dispiace tanto Alec! Non avevo idea che il tuo compleanno si sarebbe trasformato in una serata conosci-ogni-membro-del-Clave.”
Alec sorrise e abbracciò Isabelle. Si era allontanato dall’ultimo gruppo di persone che aveva appena conosciuto, politicanti per i quali suo padre aveva simpatia e che aveva insistito lui conoscesse. Robert Lightwood aveva già deciso che il suo primogenito sarebbe stato colui che avrebbe portato avanti il nome di famiglia, contribuendo a dargli maggiore importanza intraprendendo una carriera politica.
“Non preoccuparti.” Le lasciò un bacio sui capelli. Con Izzy riusciva ad essere spontaneo. A lasciarsi andare a dei moti affettuosi che non riservava a nessun altro. “Se escludiamo i tentativi di papà di farmi entrare nel Clave a soli vent’anni, la festa mi piace. Sei stata brava.”
Isabelle strinse la presa su Alec, abbracciandolo forte. “Grazie.” Rimase in silenzio solo qualche istante, prima di aggiungere: “Ti piace quell’idea? Della carriera politica, intendo… non sei obbligato.”
“In realtà sì, e lo sai meglio di me. Ma… mi piace l’idea della politica. La cosa che non mi piace è che papà si aspetti che la farò come lui pensa sia giusto farla. Vorrei… vorrei cambiare le cose a modo mio, far parte del Clave ed essere semplicemente Alec, e non il primogenito Lightwood. Non so se capisci.”
“Capisco.” Annuì Izzy, la guancia contro il petto di Alec, “E credo che tu possa fare qualcosa di veramente buono, fratellone. Entra in politica, se vuoi, e infischiatene di quello che dicono gli altri. Cambia le cose a modo tuo. Hai un cuore così grande, Alec, e un’intelligenza caparbia. Sono sicura che se c’è qualcuno in grado di cambiare le cose, quello sei tu.”
Alec strinse Isabelle a sé. Nonostante portasse i tacchi, rimaneva comunque molto più bassa di lui. Era minuta, sebbene avesse una muscolatura definita, e ogni volta che Alec l’abbracciava, Izzy rischiava quasi di sparire. Le lasciò un altro bacio sui capelli. “Sei la mia forza, Iz. Non so davvero come farei senza di te.”
Isabelle alzò lo sguardo sul fratello. “Siamo una squadra e prima ancora di quello siamo una famiglia. Ci sarò sempre per te.”
“Lo so,” L’abbraccio durò ancora per qualche istante, fino a quando uragano-Jace non piombò su entrambi, stritolandoli con tutta la sua forza, e provocando una risata che nemmeno Alec riuscì a trattenere.





Maryse osservò i suoi figli scoppiare a ridere. Era la prima risata che Alec faceva in tutta la sera.
Non si era immaginata così il ventesimo compleanno di suo figlio.
Si aspettava più che altro che ci fossero loro come famiglia e alcuni dei ragazzi che si allenavano con i suoi figli.
Di certo non si aspettava che suo marito trasformasse quella festa in una scusa per radunare il Clave.
Ultimamente si arrabbiava sempre più spesso con Robert. Lo sentiva distante e freddo, e lei davvero non aveva idea di come fare per riavvicinarlo. O forse non voleva davvero farlo. Non che il loro rapporto fosse mai stato così caloroso… anche quando erano giovani, ma lei aveva sempre pensato che dipendesse dal fatto che entrambi fossero stati cresciuti seguendo la tipica educazione dei Nephilim: tenere sotto controllo le emozioni, non farsi sopraffare da esse.
Adesso Maryse non era più sicura che la loro distanza dipendesse dall’educazione ricevuta da giovani, ma in ogni caso non voleva pensarci. Non ora.
Ora voleva solo pensare al fatto che voleva trovare un modo per rendere piacevole quella serata a suo figlio.
Isabelle e Jace si erano impegnati tanto per organizzare qualcosa di carino e non voleva che le manie politiche di Robert rovinassero i loro sforzi e l’umore di Alec.
“Max,” Chiamò, abbassando lo sguardo verso il bambino vicino a lei. Aveva la bocca piena di cibo, quando alzò la testa verso la madre. “Potresti andare a prendere il regalo di Alec, per favore? Ti ricordi dove l’ho messo?”
Il bambino annuì e, dopo aver ingoiato il suo boccone, uscì dalla stanza senza destare troppi sospetti. Maryse lo guardò sparire oltre la soglia della porta. I suoi occhi, a quel punto, cercarono di nuovo il trio. Erano ancora intenti a parlottare chissà di che cosa e Maryse poteva chiaramente percepire l’intesa che li univa. Bastava guardarli, per capire quanto fossero uniti, quanto si volessero bene – e lei non poteva che esserne felice.
Aveva ancora un sorriso tenero a tenderle le guance, quando sentì Max che le tirava una manica del tailleur blu che indossava.
“Eccolo,” Disse, orgoglioso di aver portato correttamente a termine la sua missione. Porse il pacchetto alla madre, ma lei negò con il capo.
“Portaglielo tu, sarà felice.” La donna passò una mano tra i capelli corvini del bambino.
Max annuì e si incamminò verso i fratelli con il pacchetto stretto in mano. Quando li raggiunse fu accolto da una serie di saluti ed esclamazioni che lo misero immediatamente al centro dell’attenzione. D’altronde era sempre stato così.
Maryse pensò, con una punta di tristezza e amarezza, che i maggiori dei suoi figli fossero stati sempre decisamente più affettuosi di lei con Max. Erano sempre riusciti a dimostrargli l’affetto e l’amore che provavano nei suoi confronti, a differenza sua.
Era stata la sua maledizione. Amare i suoi figli con tutta se stessa e non essere in grado di dimostrare quell’amore.
Quel pensiero le provocò una fitta al petto, un dolore che presto di tramutò in un velo di lacrime. Si asciugò gli occhi prima ancora che qualcuno notasse quel suo momento di debolezza, e fece per incamminarsi verso i suoi figli.
Non appena fece il primo passo, tuttavia, sentì la terra che cominciò a tremarle sotto i piedi. Una scossa forte e violenta che cominciò a far tremare tutto l’Istituto nel giro di solamente qualche minuto.
Ma con la stessa velocità con cui tutto era cominciato, finì anche. La terra aveva smesso di tremare e lei aveva quasi raggiunto i suoi figli, che a loro volta si erano chiusi intorno a Max, facendo da scudo.
Le sarebbero bastati pochi passi. Dieci, al massimo, ma non riuscì mai a compierli.
Non riuscì mai a raggiungere i suoi ragazzi perché, dopo il terremoto, una palla di fuoco le bloccò la strada.
In un primo momento pensò ad un incendio, ma poi la palla infuocata le parlò – e lei capì che niente stava andando a fuoco, che era solamente un portale.
Un portale infuocato che puzzava di zolfo e cenere. Un brivido di terrore la percorse, non appena quell’odore raggiunse le sue narici: avrebbe riconosciuto la puzza di Edom tra mille.
“Maryse,” La voce uscì dal portale, che brillò ancora qualche istante, prima di chiudersi e mostrare la figura che l’aveva appena attraversato.
Magnus.
Maryse era pietrificata, così come il resto degli Shadowhunter presenti in quella sala. Avevano assistito immobili a quella scena, trovando solo dopo il tempo di reagire.
Il primo istinto di Maryse fu quello di guardare oltre alle spalle di Magnus per vedere se i suoi figli fossero disarmati.
Notò con enorme sollievo che non lo erano. Jace aveva impugnato una spada angelica, Isabelle aveva la sua frusta, e Alec aveva il suo arco. Non sapeva da dove l’avesse appena fatto comparire, ma non le importava. L’importante era che fossero armati. Notò che avevano formato una specie di scudo umano per proteggere Max.
“Magnus,” sibilò la donna, riportando l’attenzione sullo Stregone di fronte a sé. Non era invecchiato, ma di certo questo non fu una sorpresa, per lei. Magnus aveva l’aspetto di un ragazzino, venti, venticinque anni al massimo. I tratti orientali del suo viso non sembravano induriti dal tempo, contribuendo a dare l’illusione che fosse giovane. Niente del suo aspetto avrebbe dato alcun indizio della sua natura immortale e demoniaca – niente, a parte gli occhi da gatto che non si impegnava a nascondere, troppo fiero del suo sangue di demone.
“Cosa ci fai qui?”
Lo Stregone le rivolse un sorriso appuntito, una scintilla dorata fece brillare i suoi occhi di demone. “Sai perché sono qui, Nephilim. È arrivato il momento.”
Un sospiro sorpreso lasciò le bocche dei presenti, ma Maryse non prestò loro attenzione. Era troppo concentrata a reprimere le sue emozioni. Ansia e panico avevano cominciato a scorrerle nelle vene. Si stavano impossessando di ogni centimetro del suo corpo, stavano avvelenando ogni suo pensiero razionale.
Soffocò tutto. Lasciò che le emozioni andassero a posarsi in fondo al suo cuore e laggiù le tenne a bada, facendo in modo che solamente la forza per affrontare quella situazione emergesse.
“Cosa vuoi?”
Magnus le si avvicinò. Il suo passo era fluido ed elegante, come quello di una pantera – e Maryse sapeva che, proprio come il felino, Magnus era altrettanto imprevedibile.
Ma non si sarebbe fatta intimorire. Non sarebbe stata la sua preda. C’erano i suoi figli in quella stanza e lei doveva proteggerli. Quel pensiero fece sì che il suo sguardo si spostasse di nuovo alle spalle dello Stregone e fu proprio in quella frazione di secondo che notò la posizione di Alec. Aveva incoccato la freccia e stava prendendo la mira.
Avrebbe fatto centro. Lei lo sapeva. Suo figlio era il miglior arciere della sua generazione e probabilmente anche della generazione precedente.
Maryse riportò l’attenzione sullo Stregone. Non ebbe paura nemmeno per una frazione di secondo che la freccia potesse prendere lei anziché Magnus. Sapeva che Alec avrebbe colpito il suo bersaglio. E quando Alec scoccò la freccia, Maryse rimase con il fiato sospeso, in attesa: quale delle sue due nature avrebbe prevalso? Quella di demone o di Stregone? Si sarebbe dissolto nell’aria, tornando all’Inferno da dove proveniva come un demone superiore, o la ferita l’avrebbe definitivamente ucciso, come un normale umano?
Maryse non lo sapeva. Sapeva solo che quella frazione di secondo in cui la freccia lasciò l’arco fu la più lunga di tutta la sua vita.
Rimase a guardarla, quasi al rallentatore, aspettando che tutto finisse. Non le importava come, voleva solo che finisse.
Ma sarebbe stato troppo semplice. Troppo facile.
E le guerre non sono mai semplici o facili.
E, di certo, Magnus non era un avversario sprovveduto. Bloccò la freccia con la sua magia quando la punta stava per sfiorarli la parte della schiena dove era previsto fosse presente il nucleo demoniaco.
Si trovava tra due costole e, una volta distrutto quello, il demone superiore, teoricamente, sarebbe stato rispedito all’Inferno.
Era difficilissimo riuscire a centrare quel punto, se non altro perché il nucleo era davvero minuscolo e il colpo doveva essere estremamente preciso. Cercare di prendere quel nucleo era come cercare di colpire una piccola ape in volo.
Ma Alec ci sarebbe riuscito. Ce l’avrebbe fatta, se solo Magnus Bane non avesse intercettato la sua mossa.
Non si voltò nemmeno. Continuò a dare le spalle alla freccia, che era sostenuta dalla sua magia, e fissò Maryse negli occhi. La guardò come se avesse voluto incenerirla e poi, senza dire nulla, si voltò. Afferrò la freccia sospesa in aria e la spezzò in due, gettandola a terra. I suoi occhi felini, a quel punto, si posarono su Alec, che aveva ancora l’arco alzato. Incoccò un’altra freccia e Magnus gli riservò un’amara risata sprezzante.
“Non ci sei riuscito quando ero di spalle, cosa ti fa credere che tu possa avere qualche possibilità adesso?”
Alec emise un respiro profondo, lento e controllato. Per rimanere concentrato doveva evitare di rispondere a quella provocazione. Sentì ai suoi lati Isabelle e Jace che si facevano più vicini, come se volessero compattare la formazione. Alle loro spalle, Max fremeva per dare loro una mano, combattere come un vero Shadowhunter, ma Alec lo zittì bruscamente.
Gli dispiacque farlo, ma era necessario per proteggerlo.
La sua attenzione tornò sullo Stregone. Non gli rispose. Semplicemente, incoccò di nuovo e lasciò andare la freccia.
Magnus rise di nuovo, una risata derisoria e irriverente, e un lampo di magia azzurra spezzò la freccia ancora in volo.
“Sei un ragazzino ridicolo. Come pensi di potermi colpire?”
“Con un pugno in faccia, magari?” Fu Jace a rispondere. Non sapeva gestire bene le provocazioni e tendeva a lasciarsi andare all’impulso, qualche volta.
Magnus spostò l’attenzione da Alec a Jace. “Ti prego,” Lo compatì, “Non riusciresti a colpirmi nemmeno se io tenessi le mani legate dietro la schiena.”
“Adesso basta!” Tuonò Maryse. I suoi passi risuonarono per tutta la sala grande, mentre raggiungeva Magnus e si metteva in mezzo tra lui e i suoi figli. “Sei qui per me, non per loro. Lasciali stare.”
Guardò lo Stregone con fierezza, senza lasciarsi intimorire dalla sua presenza, o dal fatto che si stesse comportando come se nessuno tra gli Shadowhunter presenti fosse una vera minaccia.
Li stava ridicolizzando nello stesso modo in cui aveva ridicolizzato le difese dell’Istituto, abbattendole con facilità e riuscendo ad entrare in un luogo che avrebbe dovuto essere a prova di demone.
“Hai sempre avuto tanti difetti, Maryse, ma la codardia non ti è mai appartenuta. Ti ammiro, per questo.”
“Non aspettarti che ti ringrazi.”
“Non voglio che mi ringrazi, volevo solo dirti qualcosa di gentile, prima di infliggerti il colpo di grazia.”
Magnus abbassò il viso all’altezza di quello della donna. Una minima distanza era ciò che li separava, e Maryse sentì chiaramente i suoi figli alle sue spalle muoversi.
“Non un passo.” Intimò loro – senza lasciare lo sguardo felino di Magnus –  in tono fermo e severo. Era un ordine. “Ora, se devi uccidermi, fallo, Stregone.” La sua voce non vacillò, non c’era paura nel suo tono. I suoi occhi scuri non tremarono mai, e mai distolsero lo sguardo, rimanendo fissi in quelli del suo aguzzino. Non avrebbe mostrato nessun tipo di timore, anzi si sarebbe dimostrata coraggiosa e fiera, quasi come se fosse lei a permettergli di ucciderla. “Ma ti chiedo di avere almeno la decenza di non farlo davanti ai miei figli.”
“Mamma…” Sussurrò Max, il pianto trattenuto, mentre Isabelle lo teneva stretto a sé.
Quella vocina fu un colpo in pieno cuore, per Maryse. Sapeva che quella supplica appena uscita dalle labbra del suo piccolo era la stessa emozione che albergava nei cuori dei più grandi.
“Ucciderti? Oh Cielo, no. Non voglio ucciderti. La tua morte non mi soddisferebbe abbastanza. Voglio qualcosa a cui tieni, qualcosa senza il quale ti sentiresti persa, vuota.”
Maryse strinse la mascella. “Perché?”
“Perché te lo meriti. Tu e quelli del Circolo avete ucciso moltissimi Nascosti innocenti. Io ero presente quando Valentine ha fatto a pezzi quei due bambini. Era la mia gente, lo capisci, vero?”
“Se eri presente, dovresti ricordare che in quella battaglia io ho combattuto Valentine. Ho ucciso molti Nephilim, in quella guerra. Ho espiato i miei peccati.”
“No, per come la vedo io. Ma continua pure a raccontarti questa favoletta, se riesce a chetare la tua coscienza. Ciò non toglie, comunque, che hai un debito con me e sono venuto per riscuoterlo.”
Maryse fece un profondo respiro, cercando di quietare il suo cuore agitato. Aveva un orrendo presentimento e cercare di controllare le proprie emozioni stava diventando sempre più difficile. Ma era fermamente convinta di non voler mostrare nessuna debolezza, a quello Stregone.
“Cosa vuoi?”
Magnus rimase qualche istante in silenzio, quasi gustandosi l’elettricità che abitava nell’aria, la tensione che si era impossessata di ogni individuo presente in quella stanza. E poi, con un sorriso che tirava le sue labbra immortali, parlò.
“Voglio uno dei tuoi figli.”




La magia ha un prezzo, Maryse.
Voglio uno dei tuoi figli.

Quelle frasi le risuonarono contemporaneamente nelle orecchie. Si impossessarono di lei a livello molecolare. Divenne sorda a qualsiasi altro suono, che non fossero le parole pronunciate da Magnus.
Il suo intento di non mostrare alcuna debolezza, vacillò fino a frantumarsi quando quelle parole divennero reali.
Non erano solo parole, erano realtà.
Magnus le aveva chiesto un pagamento e adesso era venuto a riscuoterlo. E Maryse non avrebbe mai pensato che la magia avesse un prezzo così alto, un prezzo che non era disposta a pagare.
Separarla da uno dei suoi figli era inconcepibile per lei, non dopo tutto quello che aveva fatto per averli.
No.
Non avrebbe accettato una cosa simile.
Non avrebbe mai permesso che uno dei suoi figli diventasse merce di scambio per estinguere un debito.
Non avrebbe mai permesso che Magnus mettesse le mani su uno dei suoi ragazzi. Mai.
“No,” Disse, quindi, “Preferisco la morte, all’idea di permetterti di prendere uno dei miei figli.”
Magnus arricciò le labbra, con fare pensoso. Alzò una mano e dalle dita fuoriuscirono piccole scintille blu. Fiammelle innocue, che tuttavia scatenarono un potere immenso che andò direttamente a stringere le gole dei ragazzi. All’improvviso, Alec, Jace, Izzy e Max stavano soffocando, annaspando inutilmente in cerca d’aria.
Nessuno degli Shadohunter si mosse in loro aiuto. Maryse percepì a malapena Robert fare un passo e lo odiò con tutta se stessa, mentre lei, invece, si stava precipitando verso Magnus, cercando di colpirlo per fargli cessare quella tortura il prima possibile.
“Smettila!” Lo supplicò, colpendo la barriera magica che proteggeva lo Stregone. “Smettila!” I suoi pugni battevano forti contro la gabbia magica, così intensamente che presto le vennero a fare male persino i polsi, ma non le importava. Il dolore fisico diventava nullo, paragonato a quello che le stava divorando il cuore.
“Scegline uno, in fretta, o moriranno tutti e quattro.”
Una lacrima solcò il suo viso e lei la cacciò via con rabbia. Ogni suo tentativo di abbattere quella barriera venne abbandonato. Le sue mani adesso stavano lungo i suoi fianchi, mentre i suoi occhi neri fissavano con odio lo Stregone di fronte a sé.
“Scegli.” Le ordinò.
Maryse si voltò verso i suoi figli. Erano tutti e quattro a terra, le mani che toccavano le rispettive gole, come se volessero combattere delle altre mani invisibili che stringevano le loro trachee. Annaspavano, in cerca d’aria, e i loro respiri mozzati e ansanti riempivano la stanza. Non erano mai stati così vulnerabili come in quel momento, e lei non si era mai sentita inutile come in quel preciso istante.
Maryse ebbe la sensazione di sentire il suo cuore sanguinare.
Non poteva scegliere. Non voleva scegliere. Voleva tenerli a sicuro, tutti e quattro, con lei. Voleva guardarli crescere, diventare gli uomini e la donna coraggiosi, buoni, leali e giusti che sapeva sarebbero diventati.
Maryse sapeva che i suoi figli avrebbero rimediato agli errori che la sua generazione aveva fatto in passato. Aveva fiducia in loro, nelle loro capacità, nella loro visione del mondo.
“Non posso,” la voce le si spezzò, mentre lacrime salate solcavano il suo viso. “Ti prego, prendi me. Ti prego!”
Lo Stregone fece un cenno di dissenso con il capo. “Scegli, Maryse. Sto perdendo la pazienza.”
La donna si accasciò a terra, prosciugata di qualsiasi forza. L’unica cosa che abitava il suo essere, adesso, era dolore.
“Prendi me,” un sussurro, un sibilo fragile e soffocato, che tuttavia echeggiò in quelle mura silenziose. Maryse riconobbe la voce arrocchiata di Alec, e lo guardò. I suoi grandi occhi verdi la guardarono con dolcezza e lei si sentì morire dentro.
“Smetti di fare loro del male, e verrò con te.” Alec parlava a fatica. Ogni parola era rauca e sussurrata.
Magnus pose immediatamente fine all’incantesimo. I ragazzi cominciarono a respirare di nuovo e Maryse si alzò da terra solo per gettarsi verso di loro, controllando la loro condizione. Li aiutò ad alzarsi. Max piangeva, Jace e Isabelle, invece avevano uno sguardo terrorizzato e spaesato. Fissavano Alec, che si era alzato in piedi da solo.
Izzy si gettò immediatamente sulla sua schiena, abbracciandolo da dietro e cercando di tenerlo fermo. “No, Alec, ti prego, no!” Era sull’orlo di un pianto.
Jace si posizionò davanti al parabatai, invece. “Non farlo, per favore. Troveremo una soluzione.”
“Ah sì? E quale? Non possiamo competere, l’hai visto anche tu.” Alec guardò prima Jace, poi abbassò lo sguardo sulle braccia di Isabelle che lo tenevano stretto. Le accarezzò i polsi, prima di coprire le mani della sorella con le proprie. Rimase qualche istante così, prima di spronarla a sciogliere la stretta e voltarsi versi di lei.
“Starò bene, Iz.”
“NO!” Urlò lei, disperata, “Morirai laggiù. Il nostro sangue non riesce a sopravvivere ad Edom, e lo sai. Sei condannato a morte.”
“Non lo lascerò morire.” Si intromise Magnus. “Se avessi voluto ucciderlo, l’avrei fatto nell’esatto momento in cui i suoi ridicoli tentativi di uccidermi sono falliti.”
“E allora cosa vuoi fare con lui??” Sibilò Jace, voltandosi verso il demone.
Questi non sono affari tuoi, dolcezza. Il patto prevede che uno di voi venga con me. Vostro fratello è stato coraggioso e altruista. Per questo vi concederò di salutarlo.”
Isabelle lo fulminò con lo sguardo. “Ti credi tanto magnanimo, non è vero? Sei solo un demone spietato. Se gli torcerai anche solo un capello, io troverò il modo di scendere ad Edom e ti strapperò la testa con le mie mani.”
“Mi piace il tuo fervore, ragazzina.” Concesse Magnus, per nulla intimorito da quelle minacce. La guardò ancora un attimo, prima di dare le spalle ai cinque e volgersi al resto degli Shadowhunter.
“Signori, potete essere così gentili da lasciare la sala? Grazie.”
All’iniziale riluttanza di obbedire a quella richiesta, seguì l’ordine secco e autoritario di Maryse. “Uscite! ORA!”
A quel punto i Nephilim lasciarono la sala. Persino i membri del Clave obbedirono a quell’ordine. L’unico che rimase fu Robert Lightwood, ma Maryse si accorse di lui solo quando con cautela si avvicinò.
“Ho pensato che voleste salutarlo in privato,” Esordì Magnus, “E magari spiegargli come mai sua madre l’ha condannato a passare il resto della sua vita ad Edom.” Gli occhi dello Stregone si posarono su Maryse, che sostenne il suo sguardo.
Alec a quel punto si voltò verso il suo carceriere e lo fissò negli occhi senza paura alcuna. La sua voce era carica di rabbia e disprezzo. “Mia madre non mi ha condannato proprio a niente. Tu l’hai obbligata a prendere una decisione che sapevi benissimo non avrebbe mai preso. Era una scusa per ucciderci tutti, la tua. Almeno abbi la decenza di ammetterlo.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto. “Hai un bel caratterino, non è vero?” L’uomo piegò la testa di lato, come se volesse studiare il ragazzo di fronte a lui. Era indubbiamente bellissimo, alto, con i capelli neri e gli occhi di un colore molto particolare. Una combinazione che lo rendeva estremamente attraente, ma rimaneva pur sempre un Nephilim. L’arroganza scorreva nel suo sangue per natura e la componente angelica presente nel suo DNA gli aveva sempre fatto credere che fosse superiore, per diritto, a qualsiasi essere non avesse il suo stesso sangue.
I Nephilim erano egoisti, brutali, bigotti e ciecamente devoti all’Angelo e alle sue regole rigide. Seguivano una legge che non ammetteva nessuna eccezione e che era dura persino nei loro confronti.
Erano soldati dal cuore freddo, addestrati a reprimere qualsiasi tipo di emozione.
“Mi vuoi davvero dire che non sei curioso? Che la tua mente accetta tutto questo senza porsi delle domande?”
La mente di Alec era sovraffollata di domande. Ne aveva così tante in testa che a malapena riusciva a concentrarsi sull’intera situazione. Ma non voleva dare nessun tipo di soddisfazione a quel demone. Non avrebbe mai ammesso che aveva ragione.
“No. Nessuna curiosità. Nessuna domanda.”
Magnus emise un verso sprezzante. “Ovvio. Vi addestrano ad obbedire, non a ragionare. Se tua madre ti chiedesse di buttarti nel fuoco, lo faresti?”
Alec lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure. “Sto letteralmente per scendere all’Inferno, pur di salvare la mia famiglia. Tu cosa credi?” Lo sfidò. “Non si tratta di obbedire ad un ordine. Si tratta di fare la cosa giusta per chi amo. Concetto che penso tu non riesca a capire, demone.”
“Piano con le parole, ragazzino, o potrei rivalutare la mia propensione a non ucciderti.”
“Non ho paura della morte. E nemmeno di te.”
Questa è un’altra delle tantissime cose sbagliate che vi insegnano.” Magnus scosse la testa, con disapprovazione. “Se non hai domande, allora, ti concedo dieci minuti per salutarli. Ne ho abbastanza di questa dimensione.”
Alec si voltò, dando le spalle allo Stregone, e guardò i membri della sua famiglia. Max fu il primo a reagire, circondandogli la vita, stringendolo con tutte le sue forze. Un pianto scosse la sua schiena nell’esatto momento in cui Alec si chinò alla sua altezza per ricambiare quell’abbraccio. Un silenzio carino di tristezza riempì la stanza, fino a quando Robert non lo spezzò.
“Io non ce la faccio a non chiedere.” Si voltò verso la moglie. “Perché? Perché si sta portando via nostro figlio?”
Maryse, in un momento in cui un moto di cattiveria e rabbia le riempì il cuore, si chiese se quella domanda celasse la preoccupazione del marito che, senza Alec, non avrebbe potuto perseguire i suoi scopi politici. Si vergognò immediatamente per quell’insinuazione, ma una parte di lei non poté fare a meno di farle notare che mentre i suoi ragazzi stavano soffocando, Robert aveva a malapena mosso un passo nella loro direzione per tentare di salvarli.
Tuttavia, Maryse decise di rispondere. Se non altro perché, nonostante Alec non avesse chiesto niente, sapeva che in realtà voleva sapere. E lei sapeva che glielo doveva –  gli doveva delle risposte, visto il sacrificio che stava per fare.
“Ho sempre voluto avere dei figli. Mi piaceva l’idea di poter essere dell’altro, oltre che una guerriera. Volevo essere anche una mamma, ma la natura ha voluto che fossi sterile.” Fece una pausa, guardò tutti i presenti, uno ad uno. Lesse nei loro occhi la consapevolezza di quello che lei aveva fatto ancora prima che le parole lasciassero la sua bocca. Ma parlò comunque: “Non c’era rimedio alla mia condizione. La nostra magia non aveva una soluzione. I Fratelli Silenti, che hanno mantenuto il mio segreto, continuavano a dirmi che la mia condizione era un desiderio dell’Angelo – e che non avrei dovuto interferire con le sue decisioni. Non potevo accettare quella risposta. Così ho cominciato a cercare altrove, fino a quando non ho trovato il Grimorio Proibito. Lì c’era scritto che dove non arrivava la magia angelica, poteva arrivare quella demoniaca. Per questo, vent’anni fa ho evocato Magnus, gli ho chiesto se poteva aiutarmi e lui ha detto di sì. Non avrei mai immaginato che il prezzo che mi avrebbe chiesto di pagare sarebbe stato così alto.” Maryse si avvicinò ad Alec e prese il posto di Max. Il bambino si avvicinò ad Isabelle, mentre Maryse afferrò tra le mani il viso del maggiore dei suoi figli. “Perdonami, tesoro. Ti prego, perdonami. Il mio egoismo ti ha condannato.”
Alec afferrò i polsi della madre e la spronò a togliergli le mani dal viso. In un primo momento, Maryse pensò che lo facesse perché non voleva essere toccato, perché la odiava talmente tanto da non riuscire a sopportare nemmeno un minimo contatto. Ma poi il ragazzo l’abbracciò più forte che poté e le sussurrò all’orecchio: “Va bene così. Promettimi che ti prenderai cura di loro. Promettimi che farai di tutto per non farli scendere ad Edom. Non rendere il mio sacrificio vano. Morirebbero, laggiù, e io non me lo perdonerei mai.”
Maryse non riuscì a trattenere il pianto, mentre stringeva a sé il suo bambino. Ebbe l’impressione di riavere tra le braccia la versione neonata di Alec. Ricordò il suo primo pianto, la sua prima risata, la prima volta che aveva assaggiato qualcosa che non fosse latte. Ricordò i suoi primi passi e il suo primo dentino. Ricordò tutta la sua vita, ogni singolo momento dei suoi vent’anni. E non riuscì a trattenere un singhiozzo.
“Il mio bambino,” Sussurrò. “Proteggerò i tuoi fratelli, ma non posso prometterti che io non proverò a scendere ad Edom. Troverò un modo, Alec, e ti porterò via di lì. Sii forte, tesoro mio, so quanto puoi esserlo.”
Alec annuì, prima di abbracciare ancora un po’ la madre. Andava contro tutto quello che gli era stato insegnato. Mostrare debolezza, abbandonarsi al contatto, al bisogno di affetto. Ma Alec era umano, più umano di quanto ogni Nephilim avrebbe ammesso, e stava per scendere ad Edom, quindi si sentì in diritto di comportarsi più come un figlio, o un fratello, che come un soldato.
Maryse si staccò da lui per lasciare spazio a Jace e Isabelle. Si incamminò verso Robert, che non le rivolse la parola. Era deluso e arrabbiato, e lei pensò che ne aveva tutto il diritto.
“Ti prego, fai attenzione. Ci sono molti demoni ad Edom.”
“Lo so, Izzy.”
“E alcuni riescono a fiutare il sangue angelico. Tieniti sempre pronto.” Gli occhi neri di Iz erano velati di lacrime, mentre cercava di farsi forza, di non lasciarsi andare – lo faceva per Alec, per non fargli vedere quanto stesse soffrendo, consapevole che, altrimenti, lui si sarebbe caricato addosso la sua sofferenza.
La ragazza gli buttò le braccia al collo, stringendolo forte. Lui ricambiò quella stretta con così tanta intensità che arrivò persino a sollevarla da terra.
“Comportati bene, Iz, d’accordo? Sii prudente in battaglia.” La mise a terra e si rivolse a Jace, “Siate prudenti. Niente colpi di testa, va bene?”
Entrambi annuirono e Alec si sforzò di sorridere. Detestava separarsi da loro. Erano una squadra, erano cresciuti insieme. Alec non ricordava un singolo momento della sua vita dove Jace o Isabelle non fossero presenti. Separarsi da loro era il dolore più grande che aveva mai provato.
Jace percepì quel dolore, e non solo perché erano legati dal legame parabatai, ma perché la sola idea di separarsi da suo fratello lo lacerava profondamente. Si sporse verso di lui per abbracciarlo, stringendolo forte, quasi non volesse lasciarlo andare.
“Trova un modo per tornare, per favore. Noi faremo altrettanto.”
Alec evitò di dirgli che non dovevano assolutamente rischiare la vita per lui, perché sapeva che ciò avrebbe scatenato una discussione e lui non aveva nessuna voglia di litigare con loro l’ultima volta che sarebbero stati tutti insieme.
Dopo Isabelle e Jace, Alec riabbracciò Max, che aveva ancora gli occhi gonfi dal pianto e si ancorò a lui come se in quel modo avrebbe potuto impedirgli di andare via. Rimasero cinque minuti buoni stretti in quel modo, con Alec che continuava a ripetergli che tutto sarebbe andato per il meglio, mentre gli accarezzava la schiena per tranquillizzarlo.
Quando Maryse recuperò Max, Alec si rivolse al padre. Si salutarono con un abbraccio breve e qualche parola.
A quel punto, il Cacciatore fece un passo indietro e diede un’ultima occhiata alla sua famiglia, poi si voltò verso Magnus.
“Sono pronto.”
Lo Stregone aprì un portale, inondando la stanza di una forte luce arancione e rossastra, e trascinò Alec al suo interno.
Quando il portale si richiuse, di loro non rimase alcuna traccia, se non l’odore di zolfo e la consapevolezza che l’assenza di Alec sarebbe stata una presenza costante nei cuori di coloro che gli volevano bene.




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Ciao a tutti! Io me ne esco con nuove storie a caso e voi magari non mi sopportate più!
Inizialmente, questa doveva essere una OS, ma poi visto che veniva più lunga del previsto, ho pensato anzi di dividerla in due parti. Ci sarà un altro capitolo, quindi, che spero di pubblicare abbastanza presto.
Ora, questa storia nasce principalmente da un’idea che ho avuto guardando un video su YouTube
https://www.youtube.com/watch?v=R3EZHvHAqsw e mi sono chiesta cosa sarebbe successo se Magnus avesse avuto una natura più dark, più vicina al demone ed è nata questa cosa.
Credo che in alcuni punti io mi sia lasciata un po’ trasportare e sia finita nell’OOC, soprattutto con Maryse e Robert.
Vorrei sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo, qualsiasi commento è ben accetto!
Se avete letto fino a qui, vi ringrazio immensamente!
A presto!

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Capitolo 2
*** 2. ***


L’odore di zolfo fu la prima cosa che colpì le sue narici, non appena arrivarono ad Edom.
La seconda, fu la mancanza di ossigeno e il fatto che ebbe l’impressione che il suo sangue stesse ribollendo nelle vene. Gli sembrava di avere dell’acido corrosivo che passasse per il suo sistema circolatorio, come se improvvisamente il suo cuore avesse cominciato a pompare veleno e non sangue.
Annaspava, e il ricordo della sala grande e la mancanza di ossigeno lo invasero. Lo scenario era diverso, questa volta. Sebbene la sensazione di soffocamento fosse la medesima, intorno a lui adesso c’era l’Inferno. Era diverso da come se l’era immaginato. Aveva sempre avuto una visione dantesca di Edom, immaginandoselo diviso in gironi, con fiamme rosse che partivano da ogni angolo del suolo, e un cielo costantemente nero, tempestoso.
Edom era diverso.
Edom sembrava… normale. Se si esclude il fatto che l’aria non era fatta per essere respirata da un Nephilim e che il suo sangue non riusciva a reggere quell’atmosfera.
Uno schiocco di dita, un lampo di luce blu, e Alec portò la sua attenzione su Magnus, il quale senza dire nulla gli stava porgendo una collana. Era un semplice cordino nero a cui stava attaccato un ciondolo luminoso. Sembrava una pietra trasparente al cui interno era presente un liquido brillante, dal colore indefinito.
Se Alec fosse riuscito a parlare avrebbe chiesto cosa fosse – e Magnus, che aveva imparato a leggere le espressioni delle persone, durante i suoi quattro secoli di vita, sistemò il ciondolo al collo del ragazzo e aspettò che si riprendesse, prima di dargli una spiegazione. 
“Serve per proteggerti, come puoi notare. Dentro a quel ciondolo c’è un mix del mio sangue e della mia magia. Finché lo avrai addosso, starai bene.”
Alec riprese fiato, respirando a pieni polmoni la stessa aria che prima lo faceva soffocare. Il ciondolo funzionava. In altre circostanze, avrebbe persino ringraziato lo Stregone, ma visto che l’aveva praticamente rapito e separato dalla sua famiglia con il solo scopo di ferire sua madre, Alec decise di non dire niente.
Spostò persino lo sguardo, tornando a guardare Edom.
Era diverso da Idris, non c’erano un lago mistico o boschi dove si nascondevano le più antiche famiglie di licantropi. Non c’era un villaggio, o qualcosa che facesse presumere che in quel luogo ci fosse della vita. Ma c’era una grossa distesa d’erba, talmente infinita che metteva angoscia. Era come guardare il nulla, l’assenza totale. L’aria era pesante e il cielo violaceo non aveva sole che aiutasse a conferire a quel colorito un aspetto più naturale, come se si stesse avvicinando il tramonto, o l’alba. Non c’erano sfumature che facessero presagire la presenza di una qualche luce, era semplicemente violaceo. E aveva qualche nuvola sporadica che lo rendeva meno statico, ma pur sempre innaturale.  
A parte questo, Edom sembrava un posto normale, ma nella sua normalità riusciva a trasmettere l’angoscia delle terre desolate.
“È diverso da come te lo descrivono, vero?”
Alec non rispose.
“Ti stuferai di questo giochetto del silenzio, Nephilim. Presto ti renderai conto che sono l’unica cosa che ti è rimasta.”
Non è vero, mi è rimasta anche la possibilità di morire. Ma questo Alec non lo disse. L’aveva messo in conto, comunque, non appena aveva messo piede in quel luogo. Se non avesse trovato un modo per tornare a casa, avrebbe strappato la collana che aveva al collo e avrebbe fatto sì che Edom lo uccidesse.
Davanti al silenzio risoluto di Alec, Magnus perse la pazienza e abbandonò ogni tentativo di comportarsi da buon padrone di casa. Perché doveva farlo, poi? Aveva davanti un Nephilim, uno Shadowhunter, e Magnus non doveva assolutamente niente a quelli della sua razza.
“Fai come vuoi,” sbottò, quindi. “Andiamo, voglio tornarmene a casa.” Si incamminò senza assicurarsi se il Nephilim lo seguisse oppure no.
Alec ponderò la possibilità di scappare.
Scappare, dove? Lo circondava solamente il nulla e solamente un portale l’avrebbe aiutato a fuggire di lì.
Di conseguenza, pensò che almeno per il momento la cosa giusta da fare era seguire lo Stregone – e così fece.
Camminò dietro di lui, in silenzio, continuando a cercare dettagli che avrebbero potuto aiutarlo ad orientarlo in una sua futura fuga, ma niente. In quel luogo non c’era niente. Solo erba.
Era. Tutto. Uguale.
“Da perdere la testa, non è vero?”
Alec tornò a guardare Magnus. Non si era accorto che si era fermato e voltato verso di lui, troppo concentrato a guardare ciò che lo circondava.
“L’ho creato io così. Ho modificato l’essenza di Edom.”
Alec non riuscì a stare zitto, questa volta, trovandosi a chiedere istintivamente: “Perché?”
Magnus tirò le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. A quanto pare la curiosità era una chiave per raggiungere il muro invalicabile fatto di silenzio e occhiatacce.
Ancora, perché ti importa?
Non gli importava. Voleva solo divertirsi un po’.
“Perché il fuoco e le eruzioni vulcaniche mi avevano stufato. Era tremendamente banale che Edom avesse del fuoco, e io sono tutto fuorché banale, quindi… un prato.”
Alec annuì, tornando al suo silenzio. Osservò ancora una volta il paesaggio. In lontananza non si vedeva nemmeno una montagna, o una collina. Era qualcosa di immutabile, eterno. Qualcosa che poteva rispecchiare la natura di uno Stregone.
“Sembra che tu l’abbia creato a tua immagine e somiglianza.” Disse, senza nemmeno sapere perché stava parlando. “Questo luogo non cambia mai. È sempre tutto uguale. Come te. Nemmeno tu cambi mai.”
“Mi credi così megalomane?”
“I tuoi comportamenti fanno pensare che tu lo sia.” Gli occhi di Alec si posarono sulla figura di Magnus. “Lo sei?”
Lo Stregone emise una risata di scherno, “Vuoi psicanalizzarmi, ragazzino?” Lo derise, mettendosi sulla difensiva. “Smetti di cercare troppe risposte dietro ad una mia decisione, dettata più che altro dalla semplice noia.”
“Quindi è così che fai? Ti annoi e di conseguenza crei qualcosa che faccia perdere la testa?” Chiese Alec, usando le stesse parole usate poco prima da Magnus. E, ancora, il Cacciatore davvero non si capacitava di come mai non riuscisse più a stare zitto. Detestava ciò che Magnus aveva fatto a sua madre, detestava Magnus, e detestava dover parlare troppo eppure… non riusciva a chiudere la sua boccaccia. “Qualcosa che possa provocare panico? Perché è tutto così vasto, senza nemmeno un dettaglio. Non c’è un punto di orientamento, non una via d’uscita, ma nemmeno un’entrata. È una trappola gigantesca. Hai creato il nulla. E il nulla fa paura. Vuoi creare paura.”  
“Adesso BASTA!” Gridò Magnus, e i suoi occhi si accesero di un giallo più intenso. La sua voce rimbombò come un tuono ed echeggiò nella vastità di quel luogo, facendo tremare l’aria e la terra sottostante. “Torna al tuo gioco del silenzio. È sicuramente meno stressante di sentirti fare domande stupide.”
“Io non sono stupido.” Affermò Alec, che non si lasciò intimorire da quella reazione. Non gli provocò paura, ma gli diede solo un accenno del potere che aveva Magnus. La sua magia era immensa, se un suo solo scoppio d’ira era talmente forte da riuscire a scuotere Edom. Chissà cosa era in grado di fare, con tutto quel potere. Alec accantonò quella curiosità, appuntandosi piuttosto quel dettaglio, inserendolo nella lista delle caratteristiche del suo nemico. Perché di questo si trattava. Magnus era un nemico e non perché fosse un Nascosto, ma semplicemente perché era stato meschino, l’aveva rapito e aveva goduto nel veder supplicare sua madre.
Magnus gli riservò un’occhiata furente e si voltò di nuovo, incamminandosi verso una direzione ad Alec sconosciuta.
Al Cacciatore non rimase altro da fare che seguirlo.





Alec non avrebbe saputo dire quanto fosse durata la sua passeggiata per Edom. Di certo, era stata abbastanza lunga e silenziosa.
Dopo la sua esplosione, Magnus non aveva più detto niente e ad Alec era andata bene così. Nemmeno lui voleva conversare con qualcuno che aveva provocato scompiglio e dolore nella sua famiglia.
Per un attimo si chiese come stessero andando le cose all’Istituto, come stessero i suoi fratelli, cosa provasse sua madre. Pensò a suo padre, allo sguardo che le aveva riservato quando lei si era messa a spiegare il perché delle sue azioni. Sembrava deluso e arrabbiato. Sicuramente avrebbero litigato. Lo facevano così spesso, ultimamente, che Alec non ricordava l’ultima volta che si erano rivolti una parola gentile. E ad ogni lite, Robert reagiva lasciando l’Istituto, rifugiandosi ad Idris con la scusa di dover fare qualcosa per ordine del Clave, e la sua permanenza alla Città Celeste durava sempre di più. All’inizio erano sempre stati solo pochi giorni, adesso erano diventate settimane intere.
Alec si era chiesto, più di una volta, se si amassero ancora, se avessero ancora il desiderio di passare la vita insieme. E spesso e volentieri si era risposto che, probabilmente, no, non si amavano più, ma continuavano a stare insieme per lui e i suoi fratelli, o per mantenere intatto quell’aspetto di famiglia modello che tanto piaceva al Clave.
Non gli piacevano certe regole del Clave. Non capiva perché dovevano essere così rigidi. Impedivano categoricamente l’amore tra parabatai – e Alec non capiva perché. Non che l’avesse mai sperimentato sulla sua pelle, ma…se qualcuno era stato così fortunato da trovare l’anima gemella nel proprio parabatai, che c’era di sbagliato?
Un parabatai è la persona che ti conosce meglio al mondo, una persona fidata, un migliore amico. Se da ciò nasceva l’amore perché impedirlo?
E perché impedire e vietare l’amore tra due persone dello stesso sesso?
Alec deglutì a quel pensiero. La paura di dire la verità l’aveva sempre sopraffatto, proprio perché era consapevole che se avesse ammesso di provare attrazione per i ragazzi, quelli del Clave l’avrebbero punito.
Con la derunizzazione, magari. E Alec sapeva che se gli avessero tolto le sue rune, lui avrebbe perso se stesso. Non sapeva cos’altro potesse essere, se non un Cacciatore.
Non aveva detto a nessuno la verità. Nemmeno ad Izzy e a Jace, e di solito a loro diceva tutto. Aveva solo… paura che potessero cambiare idea su di lui, guardarlo in modo diverso.
E di certo non l’avrebbe mai detto ai suoi genitori, che ne sarebbero rimasti delusi – soprattutto suo padre, che mirava a farlo sposare con una ragazza di buona famiglia, magari appartenente ad una importante cerchia politica.
Alec si era sentito solo più volte di quante gli piaceva ammettere, per via di questo suo segreto. Non si era mai innamorato, non aveva mai avuto esperienze di quel tipo, a differenza di Jace ed Izzy che in quanto ad esperienza erano simili a dei veterani.
Alec non era mai riuscito a lasciarsi andare, vergognandosi troppo della verità – sebbene provasse anche una sorta di rabbia nei confronti di quelle leggi che lo facevano sentire in imbarazzo, o sbagliato, per essere quello che era.
Aveva sentimenti contrastanti. C’era una parte di lui che avrebbe voluto ribellarsi, gridare ad alta voce fino a farsi male alle corde vocali, distruggere la gabbia dorata in cui era prigioniero. Un’altra parte di lui, invece, trovava che quella gabbia, dopotutto, non fosse poi così tanto stretta, o scomoda. Quella era la parte di sé che veniva dominata dalla paura. E nemmeno una runa del coraggio sarebbe riuscita a cancellare quell’emozione.
E, per quanto fosse triste ammetterlo, quella era la parte di sé che vinceva sempre.
“Siamo arrivati.”
La voce di Magnus interruppe il filo dei suoi pensieri. Alec alzò la testa, notando che si trovavano nei pressi di una specie di castello. Era bellissimo, questo doveva ammetterlo. Sembrava una reggia medievale, senza ponte levatoio, però.
C’era una grossa porta di legno di mogano, alta più di tre metri. Alec si chiese se fosse necessario, ma poi si rispose che molto probabilmente lo era, dal momento che quasi sicuramente una varietà di demoni faceva visita al loro Re – e alcuni di loro erano davvero alti, Alec lo sapeva bene.
La facciata del castello era in pietra nera e conferiva all’intera struttura una certa importanza. Alec era convinto che quella scelta architettonica da parte di Magnus servisse per incutere un certo timore reverenziale nel cuore di chi la osservava. Sembrava fosse stata costruita di proposito per far capire fin da subito chi fosse il Sovrano, chi è che comandava in quel luogo dimenticato da Raziel e creato da Lilith.
Chissà se l’avrebbe mai incontrata, la Regina di Edom. Chissà se Magnus l’aveva mai incontrata.
Non doveva interessargli.
“Entriamo.” Magnus ruotò il polso in un gesto quasi incurante. Scintille di luce blu fuoriuscirono dalle sue dita e la porta si aprì magicamente.
“Ti direi benvenuto, ma non so quanto questo possa essere vero.”
“Puoi sempre rispedirmi indietro, se non mi vuoi qui.”
“Bel tentativo, zucchero, ma non è così che funziona.”
Alec provò un profondo imbarazzo per quel nomignolo e pregò che Magnus non se ne accorgesse. Non sapeva nemmeno perché il suo viso stava prendendo fuoco in quel modo e decise comunque di non rimuginarci troppo.
Distolse lo sguardo dallo Stregone e lo fece vagare per la stanza in cui erano appena entrati. La porta si chiuse con un colpo secco alle loro spalle, ma Alec lo percepì appena. Era troppo concentrato sulla bellezza di quell’ingresso, sull’eleganza che emanava. Il pavimento era in marmo bianco, venato di nero. Le colonne portanti al centro di quella stanza stavano ai lati di una scala che si incurvava leggermente a destra. Tutto era di marmo. Tranne i muri, ovviamente. Quelli erano in pietra ed erano ricoperti di quadri. Alec non li conosceva tutti, ma tra il mucchio riconobbe la mano di Dalì e Monet.
Si domandò se fossero delle copie o se Magnus avesse trovato il modo di compiere il furto degli originali e passare inosservato, ma si rispose anche che non erano affari suoi. Sebbene l’ipotesi del furto lo irritasse parecchio, decise di accantonare quella sensazione in un angolo remoto di sé.
Tutta quella stanza era bellissima e… elegante. Sembrava un luogo mistico, quasi antico, ma moderno allo stesso tempo. Come fosse possibile che riuscisse a dargli quell’impressione, Alec non lo sapeva, ma era così.
La sua attenta analisi della sua prigione – perché di questo si trattava dopotutto, per quanto bella potesse essere – fu interrotta da un movimento che percepì all’altezza delle caviglie. Sussultò, pronto a reagire, ma tutto si sarebbe aspettato fuorché un gatto.
Un gatto. Ad Edom.
Era assurdo. Eppure, le sue fusa riempivano la stanza e rimbombavano tra le pareti, mentre si strusciava ad Alec. Il ragazzo non riuscì a resistere e si chinò all’altezza dell’animale. Aveva gli occhi gialli, uguali a quelli di Magnus, e il pelo grigio, striato di un grigio più scuro sulla testa e sulla schiena.
Allungò una mano verso il musetto dell’animale, che continuava a guardarlo e a fare le fusa.
“Io non lo farei se fossi…”
Alec ignorò Magnus e accarezzò la testa del gatto, che si spinse verso di lui come per fargli capire che quella era una coccola gradita. Emise un miagolio soddisfatto che fece sorridere Alec.
“…In te,” Magnus terminò la frase, ma la sua voce risultò quasi impercettibile. Alec riuscì a sentirlo solo perché erano circondati dal silenzio.
Si voltò verso di lui, dopo aver preso in braccio il gatto ed essersi rimesso in posizione eretta.
“È strano,” Commentò lo Stregone, guardando quella stramba accoppiata. “Presidente non si fa mai toccare da nessuno, tranne me.”
Alec alzò lo sguardo dal gatto per portarlo su Magnus. “Il gatto si chiama Presidente?”
“Presidente Miao.” Specificò.
“È un nome ridicolo. Senza contare che dal sovrano di Edom mi sarei aspettato un nome più minaccioso, tipo Cerbero.”
“Cerbero era un cane a tre teste. Se devi fare l’arrogante, almeno non fare commenti a casaccio.” Disse Magnus, riflettendo nel suo tono la stessa acidità usata da Alec.
Tipo suggerisce un esempio, qualcosa di diverso che richiami ad una situazione simile.” Ribatté Alec. Alzò il gatto e lo indicò con gli occhi. “Qualcosa di diverso,” Enfatizzò, prima di riappoggiarselo al petto, “Situazione simile,” Puntualizzò ancora, guardando prima Magnus e poi la reggia intorno a loro. In pratica quel piccolo insolente stava paragonando Magnus ad Ade. E credeva che l’unica differenza tra di loro fosse la scelta del personale animale domestico. Lui aveva scelto un gatto, mentre Ade un cane. Magnus lo trovò irritante.
“Metti a terra il mio gatto, Nephilim. E vieni di sopra. Avrai una stanza per te.”
Alec appoggiò Presidente a terra e gli lasciò un’ultima carezza sulla testa, prima di osservarlo andare via. Si rivolse di nuovo a Magnus. “La stanza più piccola nella torre più alta e fredda? Come un vero prigioniero?” commentò, pungente.
Magnus lo trovava davvero insopportabile. “Non tentarmi.” Non aggiunse altro. Si limitò semplicemente a salire le scale. E Alec, per la seconda volta in quel giorno, si trovò a seguirlo senza dire una parola.

 

La stanza in cui lo portò Magnus era enorme e un po’ troppo sfarzosa, per i gusti semplici di Alec, ma doveva ammettere che era bellissima.
Una bellissima prigione in cui avrebbe passato il resto della sua vita. Tutto quello spazio lo faceva agitare. Preferiva di gran lunga la sua stanzetta all’Istituto, minimalista e semplicissima.
Quella stanza, che aveva persino un terrazzo che dava esattamente su Edom, trasmetteva lo stile di vita a cui era abituato Magnus: lusso sfrenato e appariscenza. Niente dell’arredamento passava inosservato. Dall’enorme letto al centro della stanza, con le lenzuola di seta viola e un piumino dello stesso colore, ai troppi cuscini situati su di esso, che variavano da una tonalità di viola all’altra; all’enorme poltrona che stava vicino alla finestra. L’armadio, addossato alla parete alla sua destra, era il più grande che Alec avesse visto, con ante scorrevoli a specchio. Il suo sguardo si posò sulla sua figura riflessa in esso per un attimo: indossava ancora gli abiti che Izzy aveva scelto per lui – si era persino dimenticato di averli addosso – e improvvisamente il suo compleanno gli sembrava così lontano da risultare in un’altra vita, qualcosa che non avrebbe mai rivissuto. E improvvisamente, sentì di aver sprecato tutte le occasioni che aveva avuto per essere felice, per godersi momenti che aveva dato per scontato e che, adesso, non gli sembravano più tanto scontati.
Nessuno si sarebbe più preso la briga di fare qualcosa di gentile per lui.
Non avrebbe più sentito la risata di Isabelle, o le battute idiote e inappropriate di Jace. Non avrebbe più ascoltato le curiosità più strane che Max gli comunicava non appena le imparava. Non avrebbe più sentito la voce di sua madre, o di suo padre.
Cose semplici, che avevano sempre fatto parte della sua vita, che erano state così normali per lui da non capire quanto in realtà fossero importanti.
Distolse lo sguardo da sé – e mai come in quel momento aveva odiato guardare il suo riflesso, vedendo nello specchio il ragazzo che aveva avuto una vita che adesso non gli apparteneva più. Ebbe la sensazione di sentire gli occhi bruciare e li abbassò sui suoi piedi, cercando di tenere a bada le lacrime che sentiva crescere insieme al groppo in gola. Non voleva piangere davanti a Magnus. L’aveva fatto pochissime volte, in vita sua, e mai di fronte a qualcuno e di certo se era destinato a farlo anche quella volta non l’avrebbe fatto davanti ad un uomo crudele e meschino come Magnus, che avrebbe usato il suo momento di debolezza per infierire ancora di più su di lui – come se aver distrutto la sua famiglia non fosse già abbastanza.
Provò una rabbia profonda per quell’uomo, un moto d’ira quasi incontrollabile che l’avrebbe spinto a provare persino ad ucciderlo, se solo la ragione non gli avesse ricordato all’ultimo che era debole in quella dimensione dove le rune non funzionavano, e disarmato.
Alec ebbe la sensazione di sentirsi crollare il mondo addosso. Era in trappola. Non aveva una via d’uscita. La stanza era enorme eppure gli dava la sensazione di schiacciarlo sempre di più, fino a soffocare.
Era il principio di un attacco di panico – e di solito, quando riconosceva i sintomi iniziali, prendeva il suo stilo e lo passava sopra alla runa della calma, ma adesso si trovava nello stramaledettissimo Edom, il suo stilo non c’era e il suo attacco di panico non poteva essere fermato. Lo sentì crescere. Sentì la bocca diventare arida, mentre cercava di prendere aria. Non ci riusciva. Ad ogni respiro, aveva l’impressione che qualcuno gli puntasse un asciugacapelli in gola, mentre spara aria calda.
Annaspava, come se improvvisamente fosse stato circondato da acqua.
Aria.
Gli serviva aria.
Corse immediatamente verso la finestra, spalancandola. Si appoggiò alla ringhiera del terrazzo, era fredda, perché ovviamente era fatta di pietra come il resto dell’esterno del castello.
Guardò giù, verso il basso. Era in alto. Così in alto che sarebbe bastato un piccolo salto e avrebbe fatto un volo necessario a porre fine alla sua vita. E alla sua prigionia.
CODARDO! Gli strillò una voce nelle orecchie e suonò così cattiva, così pungente, ma allo stesso tempo così vera, che d’istinto si tappò le orecchie.
CODARDO! UN VERO GUERRIERO NON SI ARRENDE!
Era vero. Porre fine alla sua vita avrebbe significato arrendersi. E lui non avrebbe dovuto avere pensieri simili.
DEBOLE! SEI UNA VERGOGNA!
La voce aumentava, gridava sempre di più e Alec premeva sempre di più le mani contro le orecchie per non sentirla più. Ma la voce continuava. Gridava forte, fino a fargli vibrare i timpani.
Si accasciò a terra, chiuse gli occhi e premette maggiormente le mani contro le orecchie.
“BASTA! BASTA!” gridò, in preda alla disperazione.
Due mani si posizionarono salde e ferme su di lui. Una presa all’altezza dei suoi polsi lo fece sussultare. D’istinto, aprì gli occhi.
Magnus si era chinato alla sua altezza e lo stava guardando con i suoi occhi felini. In altre circostanze, Alec ne avrebbe notato la particolare luminosità, la loro peculiare bellezza. Ma adesso… era solo preoccupato di quello che avrebbe fatto lo Stregone vedendolo così fragile.
Due lampi di luce blu lo costrinsero a distogliere lo sguardo dalle iridi di Magnus. Osservò la magia partire dalle sue mani, ancora strette intorno ai suoi polsi. Provò a liberarsi da quella presa, ma Magnus non glielo permise. Lo strinse fino a quando la magia non raggiunse Alec. La percepì chiaramente scorrergli nelle vene e… calmarlo.
La magia di Magnus lo stava calmando.
All’improvviso il suo respiro stava tornando piano piano regolare, il suo cuore aveva smesso di martellare nel petto ad una velocità così disumana da rischiare di esplodere.
E la voce… la voce era sparita.
Magnus si accorse del suo attuale stato d’animo, quindi lasciò i suoi polsi e Alec tolse le mani dalle orecchie.
Era confuso, spaesato e imbarazzato. Si era fatto vedere debole da Magnus, ma questi sembrava non voler usare la cosa contro di lui. Se ne stava in piedi, a fissarlo in silenzio.
Alec si alzò. “Perché l’hai fatto?” la sua voce era un sussurro. Non c’era accusa in essa, solo…curiosità. L’aveva aiutato, dopo averlo strappato alla sua famiglia, perché?
“Edom riesce ad avvelenare il cuore. La magia di cui è fatto amplifica le nostre paure, le nostre insicurezze. Se non ci sei abituato, ti entra dentro facilmente e ti riduce a pezzi.” Magnus lo guardò. Alec provò una strana sensazione, sotto quello sguardo, quasi come se lo Stregone lo stesse studiando, come se si stesse assicurando che non avrebbe fatto niente di stupido.
“Era così reale…” Sussurrò di nuovo Alec, più a se stesso, in realtà, ma Magnus annuì comunque.
“Edom è l’Inferno, e l’Inferno è ingannevole.” L’uomo afferrò i polsi di Alec per una seconda volta e quando il ragazzo fece per sottrarsi di nuovo a quel contatto, Magnus lo strinse come la prima volta per non farlo sgusciare via. “Devo controllare le bruciature.”
Alec non capiva. Perché si stava comportando in quel modo, con lui? Perché sembrava si preoccupasse? Non aveva alcun senso.
“Perché?” Decise di domandargli, dunque, mentre Magnus esaminava i suoi polsi. La pelle diafana era bruciata dove le mani di Magnus l’avevano toccato. La magia così ravvicinata aveva fatto sì che i lampi di luce blu abbrustolissero la pelle – e adesso Alec aveva cinque dita stampate in ogni polso.
Magnus non gli rispose. Fece un incantesimo per curare le bruciature e poi, dopo aver esaminato il suo operato, alzò gli occhi sul Cacciatore.
“Vai a dormire, Nephilim. È stata una giornata lunga.” Si allontanò da lui, rientrò dentro e con un ultimo, fluido, movimento di polso fece comparire dei vestiti nell’armadio e alcuni piegati sul letto. Non si voltò indietro a controllare Alec, si limitò semplicemente ad uscire da quella stanza e a chiudersi la porta alle spalle.
Alec, rimasto solo, decise di rientrare. Sul letto, Magnus gli aveva lasciato un pigiama grigio scuro. Non lo indossò. Si limitò semplicemente ad appoggiare la schiena al muro che stava vicino alla finestra e a scivolare fino a che non raggiunse il pavimento, sedendosi.
In quella posizione, rimasto finalmente solo, Alec si concesse quel pianto silenzioso che aveva trattenuto per tutta la giornata.





*


“Perché l’hai fatto?”
Quella domanda continuava a tormentarlo.
Il modo in cui la sua voce si era incrinata, il modo in cui i suoi grandi occhi l’avevano guardato.
Magnus era tormentato da quel singolo attimo, dalla semplicità con cui la domanda era rotolata fuori dalla lingua del Nephilim.
Perché l’aveva fatto?
Non lo sapeva nemmeno lui. Sarebbe stato decisamente più facile lasciare che Edom lo facesse impazzire, che lo portasse a distruggere i suoi limiti e lo spezzasse fino a fargli compiere gesti estremi.
Ma c’era stato qualcosa, nella sua voce, nel modo disperato in cui si era tappato le orecchie che l’aveva fatto muovere d’istinto.
Per un singolo attimo, non aveva più visto un Nephilim, ma soltanto un ragazzo.
Un essere umano, pieno di insicurezze e… fragile. La fragilità è una cosa che rende gli esseri umani… umani. È come se fossero fatti di vetro. Basta una leggera ferita e si scheggiano, o vanno in pezzi quando un dolore più forte colpisce le loro vite. Hanno insicurezze, hanno timori, paure, che riescono a radicarsi così a fondo nei loro cuori e nelle loro menti, da arrivare persino a spezzarli.
Gli esseri umani si frantumano. Spesso è la vita a farlo, spesso arrivano a farlo da soli. La loro mente è la loro peggior nemica, in alcuni casi.
Sua madre era umana. E aveva così tanti demoni, in testa, che erano riusciti a vincere. Si era tolta la vita perché non sopportava la verità. Perché non era riuscita ad amare Magnus abbastanza, perché non riusciva ad accettare la sua natura.
Un dolore rabbioso si formò all’altezza del suo cuore, come sempre quando pensava a lei.
Una parte di lui la detestava per averlo abbandonato, per non averlo amato abbastanza, ma un’altra parte di lui, tendeva a colpevolizzarsi per non essere riuscito a salvarla, per non aver capito prima i segnali ed essere intervenuto. Se solo ne avessero parlato, forse, avrebbe potuto aiutarla – avrebbe potuto farle capire che le voleva bene, e che la sua natura demoniaca non avrebbe mai cambiato ciò.
E forse era anche per questo che aveva aiutato il Nephilim.
Per quel breve attimo in cui era riuscito a cogliere la sua fragilità, anche quella di Magnus era riemersa, e con essa anche la parte umana di sé che lo Stregone si impegnava a soffocare ogni giorno.
Erano stati entrambi solamente umani per una frazione di secondo – e quel minuscolo lasso di tempo era servito a calmare il ragazzo, a farlo tornare in sé, a zittire i suoi demoni, qualsiasi essi siano.
E Magnus non riusciva davvero a trovare una spiegazione a questa sua reazione. Erano secoli che il suo lato umano non emergeva e poi bastava guardare un Nephilim per trenta secondi mentre ha un attacco di panico e quello si faceva prepotentemente strada in lui, zittendo testardamente la sua parte demoniaca.
Perché l’hai fatto?
Un momento di debolezza, suppose Magnus. Avrebbe fatto in modo che non succedesse più.
Sospirò, sentendosi improvvisamente stanco. Osservò la sua stanza, il suo letto vuoto. Con uno schiocco di dita indossò il suo pigiama di seta verde e scostò le coperte.
Una volta coricatosi, fissò il soffitto. Era stato un momento di debolezza, continuava a ripetersi. Non sarebbe accaduto mai più. Ne era certo.





*




Alec non chiuse occhio. Nonostante la stanchezza, non ci riuscì. La sua mente era un vulcano di pensieri che non riusciva a zittire.
Voleva andarsene di lì, ma sapeva che non era possibile, che Magnus non gliel’avrebbe mai permesso. E non voleva rischiare che se la prendesse con la sua famiglia.
La sua famiglia… sentiva la loro mancanza in modo viscerale. Non si sarebbe mai abituato all’assenza che avevano lasciato nel suo cuore, come se qualcuno gli avesse scavato un buco profondo, incapace di rimarginarsi.
Non incolpava sua madre per la sua scelta. Se lei non l’avesse fatta, Alec e i suoi fratelli non sarebbero al mondo – e magari Jace non sarebbe stato accolto da nessuno, dopo la guerra.
Magari l’Angelo, o chi per lui, aveva deciso che Maryse non doveva avere bambini, ma lei aveva fatto come Lucifero, si era ribellata per riprendersi il suo libero arbitrio, il suo diritto di scegliere ed era diventata ciò che Raziel le aveva impedito di essere. Una madre.
E magari, proprio per questo, esattamente come Dio aveva punito Lucifero cacciandolo dal Paradiso, Raziel aveva punito Maryse, attraverso Magnus, mandando Alec all’Inferno.
Non si pentiva della sua scelta. Se il suo destino era stato scritto per far sì che lui finisse i suoi giorni ad Edom, a lui stava bene, purché servisse a tenere al sicuro la sua famiglia. L’avrebbe fatto altre cento, duecento volte. Aveva solo paura di non essere forte abbastanza per sostenere l’intera situazione. E la voce che gli aveva gridato nelle orecchie solo qualche ora prima ne era la conferma.
Alec era sempre stato pieno di dubbi, in vita sua. Aveva sempre avuto il timore di non essere all’altezza delle aspettative. Aveva sempre avuto paura di non essere abbastanza bravo in battaglia, o non abbastanza intelligente, abbastanza scaltro, abbastanza buono… di non essere abbastanza, in tutto.
Si rannicchiò su se stesso, circondando le gambe con le braccia e appoggiando la fronte alle ginocchia. Doveva reagire, piangersi addosso non l’avrebbe portato via da quel luogo infernale. Doveva avere un piano e prima di tutto avrebbe fatto in modo di studiare quell’ambiente a lui sconosciuto.
Sicuramente doveva esserci una biblioteca in quell’enorme palazzo. Alec si alzò in piedi, barcollando, visto che gli si erano addormentate le gambe. Osservò per un secondo il pigiama intatto e piegato sul letto, diede un’occhiata ai vestiti nell’armadio. Costatò con suo grande sollievo che erano tutti neri. Avrebbe potuto cambiarsi, togliersi di dosso gli abiti del giorno prima, che ormai erano sgualciti e sporchi, ma non lo fece. Gli sembrava una cosa superflua da fare, quando ne aveva una molto più importante in programma: trovare un modo per salvarsi. Essere coraggioso e affrontare ogni situazione senza paura, come gli era sempre stato insegnato.
Era uno Shadowhunter, dopotutto, ed era determinato a comportarsi come tale.






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Ciao a tutti!
Ecco il secondo capitolo, che non è quello conclusivo. Scrivendo mi sono resa conto che potrebbe venir fuori una mini-long, se esiste questo termine, di non so ancora quanti capitoli. Potrebbero essere tre, come di più, non lo so. Il fatto è che, per come voglio far finire la storia, mi sembra che ci sia bisogno di qualche capitolo in più che serva a sviluppare la crescita e l’evoluzione dei personaggi e che due capitoli non erano sufficienti per questo. Ora, con ciò non voglio assolutamente darmi delle arie o insinuare che verrà un capolavoro, anzi tutto il contrario. Questa storia nasce da un’idea che mi è balenata dopo aver visto un video e, onestamente, è in fase di progresso mentre scrivo, quindi molte delle cose che leggete sono improvvisate sul momento xD
Non so se c’è qualcuno tra voi lettori che sta seguendo anche l’AU che sto scrivendo, ma se così fosse il caso, vorrei dirvi che il fatto che stia scrivendo questa non significa assolutamente che abbandonerò l’altra – magari ci saranno solo dei ritardi, di cui mi scuso già.
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo, o della storia in generale per adesso – cosa pensate dei personaggi, se li trovate OOC o meno, cose così! Qualsiasi commento è ben accetto!
Vi saluto e vi ringrazio per aver letto la storia, averla messa nelle preferite/seguite/ricordate e ringrazio chi ha trovato il tempo per commentarla, mi fa molto piacere!
Alla prossima, un abbraccio! <3

 

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Capitolo 3
*** 3. ***


Alec aveva perso la cognizione del tempo. In realtà non sapeva nemmeno se, o come, il tempo passava, ad Edom. Dopo essere uscito dalla sua stanza, aveva cominciato a girovagare per quella fortezza, facendo meno rumore possibile. Nonostante questo, quel castello era talmente vuoto che anche i suoi passi controllati avevano emesso una piccola eco. Era arrivato in fondo al corridoio, e si era ritrovato davanti una grossa porta a due ante. Le aveva spinte entrambe, con il cuore che gli era saltato in gola per la curiosità. Cosa avrebbe trovato? Si era chiesto, per poi trovare risposta a quella domanda esattamente due secondi dopo: la biblioteca.
Nemmeno a farlo a posta, Alec aveva trovato il suo obiettivo al primo tentativo, ma di certo non si aspettava di rimanerne così abbagliato. Era la biblioteca più grossa e rifornita che avesse mai visto, situata su due piani – il secondo si raggiungeva con una scala di legno. Era fatta tutta di legno ed emanava un calore familiare, tranquillità, pace – qualcosa che per una minuscola frazione di secondo aveva fatto dimenticare ad Alec di essere intrappolato all’Inferno. L’aveva girata tutta una prima volta per capire effettivamente le dimensioni e la quantità di libri che contenesse – e nonostante questo non era riuscito a fare una stima corretta – e la seconda volta l’aveva girata di nuovo con l’intenzione di trovare un libro da leggere. Sebbene il suo piano iniziale, decise di non cominciare a cercare subito libri che parlassero di Edom – se ne esistevano – per non destare sospetti nel caso Magnus fosse venuto a sapere delle sue letture. Optò per qualcosa di più neutro e classico, come Il ritratto di Dorian Gray.
Con il libro in mano, Alec si diresse verso una poltrona che era situata vicino ad un camino spento. Avrebbe potuto sedersi all’enorme tavolo in legno che occupava il centro della stanza, ma era stato per tutta la notte seduto su un pavimento duro e freddo – adesso preferiva qualcosa di più comodo.
Affondò nella poltrona. Era morbida, comoda e aveva un odore particolare che Alec non seppe definire. Si tolse le scarpe e si appollaiò a gambe incrociate, prima di aprire il libro.
L’artista è il creatore di cose belle… cominciò a leggere la prefazione. Non ricordava l’ultima volta che aveva letto quel libro, ma ricordava la sensazione che gli aveva dato la prima volta che aveva letto quell’introduzione. Eletti sono gli uomini ai quali le cose belle richiamano soltanto Bellezza. Ad Alec era sempre piaciuta quella frase, e non sapeva nemmeno spiegarsi il perché – forse perché emetteva una certa sincerità, o una sorta di insegnamento che andava ricordato durante la vita.
Le cose belle devono richiamare soltanto la bellezza della quale sono portatrici. Gli piaceva quest’idea.
La bellezza in generale era un mistero, per lui, ma era qualcosa di così radicato nell’animo umano da dover necessariamente assumere una grossa importanza. A tutti piacciono le cose belle. Chiunque si ferma a guardare un quadro, ad ascoltare una canzone che reputano particolarmente bella, o una poesia. A leggere un libro, a guardare un ragazzo… Davanti alla bellezza, il mondo si ferma per lasciarsi ammaliare, conquistare.
Se almeno una di queste cose viene reputata bella, automaticamente ha tutta la nostra attenzione. Automaticamente, tutto svanisce e la nostra concentrazione è focalizzata solo su quell’unica cosa.
L’animo umano sa cogliere la bellezza, che sia essa soggettiva o oggettiva. E Alec non sapeva cosa volesse davvero intendere Oscar Wilde con quella frase, ma lui si ritrovava sempre a formulare quei pensieri.
Pensieri che vennero interrotti da un deciso miagolio che attirò la sua attenzione, facendolo sussultare. Presidente Miao si stava strusciando sulla poltrona, e miagolava in direzione di Alec.
Non pensava di aver lasciato la porta aperta, ma evidentemente l’aveva fatto e il gatto era riuscito ad entrare. Sistemò il libro aperto su un bracciolo della poltrona e allungò le braccia verso il basso per afferrare il gatto. Presidente miagolò, ma non si divincolò – piuttosto, quando Alec se lo mise sulle gambe incrociate, lui si accoccolò meglio nello spazio vuoto tra di esse.
Alec gli sorrise e mentre riprendeva a leggere, una mano aveva cominciato ad accarezzare il pelo morbido dell’animale, che esprimeva la sua felicità con delle fusa nemmeno troppo discrete. Continuò a leggere, mentre le fusa del gatto continuavano a riempire l’aria e a scandire involontariamente il ritmo di lettura. Avere qualcuno con lui, sentire il piccolo calore che emanava, gli dava conforto. Presidente lo faceva sentire meno solo, meno perso. Gli dava quell’idea vaga di casa, come se si fosse portato dietro uno squarcio di normalità sotto forma felina. D’altronde, anche loro avevano un gatto all’Istituto. Church, che non era esattamente il più dolce e docile dei gatti, ma aveva momenti di tenerezza in cui permetteva ad Alec di coccolarlo.
Per cui, sì, apprezzava la vicinanza di Presidente più di quanto si sarebbe mai aspettato.
“Che cosa stai facendo?”
Alec si era così abituato al silenzio, interrotto solo dalle fusa del gatto, che quella voce lo fece balzare sul posto. Alzò gli occhi dal libro, trovandosi Magnus più vicino di quanto si sarebbe aspettato. Era quasi davanti alla sua poltrona e lui era stato immerso nella lettura così profondamente che non si era accorto che si stava avvicinando – in definitiva, aveva fatto ciò che un Cacciatore non dovrebbe mai fare, ovvero abbassare la guardia e non tenere i sensi in allerta. Si diede mentalmente dell’idiota, prima di rispondere a Magnus.
“Leggo, mi sembra una cosa piuttosto ovvia.”
“Sulla mia poltrona, con il mio gatto? E dimmi, quand’è che ti ho dato il permesso?”
Alec in altre circostante, avrebbe provato un grosso imbarazzo per essersi appropriato di qualcosa che non gli apparteneva, ma il fatto che Magnus lo tenesse praticamente in ostaggio gli faceva pensare che potesse prendersi qualche libertà.
“In poltrona non c’era nessuno, quando sono arrivato, e il tuo gatto è venuto da me, avrei dovuto mandarlo via?”
“Non avresti dovuto entrare qui dentro, in primo luogo.”
Alec assottigliò lo sguardo. “E perché?”
Magnus ignorò quella domanda. Non voleva rispondergli, non voleva dirgli la verità su quel posto. “Sai, per essere uno addestrato ad obbedire agli ordini, fai un po’ troppe domande. E non obbedisci.”
Alec non si mosse minimamente da dov’era. “Seguo gli ordini solo quando sono dei miei diretti superiori a darmeli. Sono un soldato dell’Angelo, prendo ordini da altri soldati che hanno un grado superiore al mio. Di certo non prendo ordini da qualcuno che ha sangue di demone.” Lo guardò con sfida, e Magnus per un attimo si chiese dove fosse finito il ragazzo spaventato della sera prima.
È stato rimpiazzato da questo stronzetto arrogante, mi sembra ovvio, gli suggerì una vocina nella sua mente. E lui non poté non darle ragione. Eccolo lì, il vero Alec. La sua natura di Angelo e il fatto che fosse stato cresciuto con l’ideale che i Nephilim sono nettamente superiori ai Nascosti era venuta fuori attraverso le sue parole pungenti.
Era arrogante, come tutti gli altri – e Magnus davvero non capiva perché si stupiva di questa cosa.
Forse perché pensavi che lui potesse essere diverso. Gli suggerì un’altra vocina, più docile – una parte di sé che Magnus non sentiva da troppo tempo e che, di conseguenza, si impegnò a zittire.
Alec era un nemico, un Nephilim, un arrogante soldatino.
“E io non tollero che dei poppanti mi parlino in questo modo. Non puoi leggere qui. Esci immediatamente.” Ordinò, la sua voce uscì secca e decisa e Alec sentì un moto di irritazione salirgli dallo stomaco e raggiungergli il cuore. Lo trafisse con lo sguardo, ma poi si alzò. Presidente protestò per essere stato svegliato così bruscamente e ad Alec dispiacque non aver fatto più attenzione. Ma Magnus lo mandava in bestia, lo faceva innervosire e lo irritava. Voleva sempre avere l’ultima parola e aveva questo modo altezzoso di rivolgersi a lui, come se avesse davanti uno stupido bambino. Alec non era più un bambino e di certo non si riteneva uno stupido. Recuperò le sue scarpe, afferrò il libro, perché se Magnus doveva avere l’ultima parola, almeno lui avrebbe fatto di tutto per risultare irritante tanto quando lo era lo Stregone, e si diresse verso la porta con il libro in mano.
“Il libro…”
“Me lo porto dietro.” Tagliò corto Alec, senza dargli la possibilità di continuare, “Hai detto che non posso leggere qui, non che non posso leggere nella mia stanza.” Si fermò, davanti alla porta, e poi si voltò per guardare Magnus un’ultima volta. “O meglio, nella mia prigione.”  Aprì la porta, furibondo, e uscì chiudendosela il più rumorosamente possibile alle spalle.
Magnus rimase a guardare la porta chiusa e poi si accasciò sulla sua poltrona. Aveva un odore diverso, nuovo. Al proprio profumo, del quale era impregnata da circa trecento anni, si era aggiunto quello di Alec. Magnus non lo seppe definire, e decise anche di non darci troppa importanza.
Che diavolo gli importava quale fosse il suo profumo?
Agitò una mano e con un piccolo incantesimo recuperò il libro che stava leggendo. Si sedette sulla sua poltrona e proprio quando stava per chiamare Presidente, si accorse che il gatto aveva lasciato la stanza, probabilmente per seguire Alec.
“Traditore.” Mormorò, prima di mettersi a leggere e zittire qualsiasi altra vocina docile che sentiva salire dal cuore – un cuore che era avvelenato da così tanto tempo, che aveva persino scordato la gentilezza.







Per quanto si fosse impegnato a soffocare la sua vocina docile, sembrava che essa fosse particolarmente ostinata a farsi sentire.
Per tutto il resto della mattinata, Magnus non era riuscito a concentrarsi sul suo libro, troppo sopraffatto da quella vocina che gli sussurrava che, forse, doveva cominciare ad essere un po’ più gentile con Alec.
Perché? Aveva tuonato la sua voce interiore, quella che di solito dominava i suoi pensieri.
Perché è un ragazzo spaesato, lontano da casa e da chi ama. Merita un po’ di gentilezza. Rispose risoluta la sua vocina docile.
No, non la merita! È uno Shadowhunter!
Non può farti niente, è disarmato. E non dovresti giudicare qualcuno ancora prima di conoscerlo. Magari è diverso dagli altri.
Nella mente di Magnus era stato tutto un susseguirsi di pensieri contrastanti per almeno un paio d’ore. Era difficile gestire se stesso, quando la sua coscienza era divisa in due e non riusciva a zittirne una parte. Detestava dover ascoltare la sua parte docile, ma non poté farne a meno. E questa cosa lo irritava più di quanto gli piacesse ammettere.
Alec lo confondeva, era come se con la sua sola, petulante, presenza, riuscisse a tirare fuori un lato di Magnus che lui stesso si era persino dimenticato di avere.
Lo Stregone alzò gli occhi al cielo e fece comparire dal nulla un drink. Aveva bisogno di bere. Di solito l’alcol lo aiutava a schiarirsi le idee, o quanto meno a gestire il suo cervello iperattivo.
E se una parte di lui avesse voluto avvicinarsi al Nephilim?
Perché?
Non lo sapeva. Non sapeva rispondersi a quella domanda, non sapeva che spiegazione dare a quell’istinto che provava di avvicinarsi a lui. Perché avrebbe dovuto provare un desiderio simile verso qualcuno che, per natura, era suo nemico? I Nephilim e i Nascosti combattevano guerre da anni.
Non tutti i Nephilim e non tutti i Nascosti, gli fece notare ancora la sua Vocetta.
Bevve un altro sorso del suo drink. E fissò il vuoto. I suoi pensieri erano rumorosi e lo riempivano di dubbi. Non voleva ammettere nemmeno a se stesso ciò che la sua Vocetta gli stava facendo notare, ma non poteva non darle ragione. Ci doveva essere un motivo per cui si sentiva così inspiegabilmente attratto verso Alec – e non era un’attrazione fisica, certo, aveva notato la sua peculiare bellezza, ma sembrava ci fosse altro… sembrava che dalla sera prima, quando erano stati sul terrazzo, sentisse una forza spingerlo verso di lui, quasi come se… no, era impossibile. Frenò quel pensiero ancora prima che finisse di formularsi nel suo cervello.
Doveva zittire certi pensieri, bloccarli, non incoraggiarli. Un brivido lo percorse e lui non seppe che significato dargli. Sapeva solo che doveva smettere di pensare. Bevve un altro sorso del suo drink, finendolo.
Sapeva cosa gli ci voleva per distrarsi e smettere di pensare. Una festa. Avrebbe organizzato un mega party così rumoroso che i suoi pensieri non sarebbero riusciti a raggiungerlo nemmeno se si fossero messi ad urlare.



Alec se n’era andato nella sua stanza, furioso.
Detestava l’effetto che Magnus riusciva a fargli. Detestava che fosse inconsciamente in grado di avere una qualche conseguenza sulle sue emozioni e che lui, dopo ogni loro interazione, non riuscisse a reprimere quelle emozioni. In presenza di Magnus era come se le sue valvole della razionalità impazzissero e tutto il suo corpo venisse governato solamente da istinto ed emozioni. E Alec non sapeva gestire la sua parte emotiva perché gli era sempre stato insegnato che le emozioni vanno represse sul nascere.
Sbuffò, frustrato. Lanciò il libro sul letto, dove rimbalzò fino al cuscino, e si afferrò i capelli. Era arrabbiato, teso, stanco… tanto stanco. Non aveva dormito per ore e sebbene potesse esserci abituato per via delle ronde notturne, la stanchezza che provava adesso era diversa. Era una stanchezza dettata dal fatto che si sentisse prosciugato da tutte le sue energie. Improvvisamente, sentì il bisogno di dormire, di chiudere gli occhi, riposare le palpebre e il suo corpo, che per un attimo gli sembrò troppo pesante da poter reggere. Una piccola dormita non gli avrebbe fatto male, anzi, l’avrebbe ricaricato e lui avrebbe potuto procedere al suo piano con più lucidità.
Si incamminò verso il letto, salì sul bordo e rimase sopra alle coperte. Afferrò il cuscino, di quel viola troppo appariscente, e lo sprimacciò. Ci appoggiò la testa. Era così morbido e comodo che lo aiutò immediatamente a rilassarsi. Chiuse gli occhi e si lasciò andare ad un sospiro liberatorio, quasi volesse tirare fuori tutta la sua tensione. Funzionò, almeno un pochino. Si sentiva più rilassato, così tanto che sentì chiaramente il sonno prendere il sopravvento. Prima di addormentarsi totalmente, riuscì a percepire un piccolo corpo contro di sé. Presidente doveva averlo raggiunto e per un’irrazionale frazione di secondo Alec si chiese se quel gatto non sapesse aprire le porte. Ovviamente non poteva essere così, i gatti non sanno farle certe cose. Doveva semplicemente imparare ad assicurarsi di averle chiuse per bene, le porte.
L’ultima cosa che sentì, prima di crollare nel suo sonno, furono le fusa di Presidente.




Aveva dormito di giorno. Una cosa che non aveva mai fatto. Si svegliò a causa di un insistente bussare alla porta. Si stropicciò gli occhi e si mise seduto sul letto. Presidente dormiva accanto a lui e questa volta fece particolare attenzione a non svegliarlo. Si alzò delicatamente dal letto e andò ad aprire. Si trovò davanti Magnus e per un attimo, l’unica cosa che il suo cervello mezzo addormentato gli fece notare fu quanto fosse bello. Aveva i capelli scuri, rasati sui lati, mentre quelli al centro erano sollevati in una cresta le cui punte erano colorate di rosso e viola. I suoi occhi, di un luccicante verde dorato, erano truccati di nero – e in quel modo le sue iridi feline sembravano ancora più brillanti, ancora più belle. Indossava una camicia rossa, sbottonata quasi fino a metà torso, dalla quale si intravedevano collane di varia lunghezza – e Alec distolse subito lo sguardo, non appena si rese conto di quanto Magnus fosse ben fatto – abbinata ad un paio di pantaloni di pelle nera.
Deglutì, sentendosi improvvisamente in imbarazzo. Avrebbe voluto non aprire quella porta, ignorare l’insistente bussare dello Stregone. Almeno così avrebbe evitato di sentire le guance in fiamme. Perché poi? A lui Magnus non piaceva, lo trovava antipatico, tracotante e irritante.
Ciò non toglie che sia bello.
Alec zittì prepotentemente quella voce. Non voleva accettare una cosa simile. Non voleva formulare certi pensieri sul suo carceriere. Era sbagliato, e inappropriato.
“Ti piace quello che vedi, zucchero?” Domandò Magnus, con un sorrisetto impertinente.
Alec si svegliò totalmente e si rimangiò tutti i pensieri che aveva avuto sul trovarlo bello. Adesso, con le capacità cognitive completamente funzionanti, lo trovava di nuovo odioso.
“Cosa vuoi?” decise di domandargli, troncando sul nascere la provocazione di Magnus. Non sarebbe caduto nella sua trappola da quattro soldi.
“Dirti che terrò una festa, stasera.”
“E a me dovrebbe interessare, perché…?”
Magnus lo guardò malissimo. Il sarcasmo di quel ragazzino lo infastidiva. “Non deve interessarti, infatti. Sono venuto solo a dirti di non scendere. Stai al tuo posto. Non voglio che ti vedano. Vedi di obbedire, almeno per una volta.”
Alec non disse niente, semplicemente gli chiuse la porta in faccia. Se Magnus poteva essere scortese, anche lui poteva esserlo. Rimase davanti alla porta chiusa, tuttavia, per sentire che reazione avrebbe avuto lo Stregone.
“Vedi. Di. Obbedire.” Scandì le parole con voce ferma, quasi sapesse che Alec era ancora lì e poteva sentirlo, nonostante la porta chiusa. Alec, ancora, non disse niente e aspettò fino a quando non sentì i passi di Magnus nel corridoio.
Una volta assicuratosi di essere solo, esalò un respiro. Lo fece per cercare di scrollarsi di dosso la rabbia, il nervosismo. Non funzionò. Respirò di nuovo, più a fondo, e questa volta percepì chiaramente il suo cuore calmarsi lentamente.
Si voltò, appoggiando la schiena alla porta, e guardò la sua stanza. Doveva stare lì per tutta la sera. Non che fosse diverso da come aveva passato il giorno, quindi decise che poteva sopravvivere. Notò una piccola porta che stava vicino alla finestra e la raggiunse. Quando scoprì con sua grande gioia che si trattava di un bagno, decise che si sarebbe fatto una doccia. Avrebbe riutilizzato i vestiti che gli aveva dato Izzy pur di non usare qualcosa che gli era stato dato da Magnus, ma si rese conto che ormai erano sporchi e non era sicuro che ad Edom ci fosse una lavatrice. Probabilmente Magnus lavava i suoi vestiti con la magia, o non li lavava affatto – magari li faceva semplicemente sparire una volta usati e ne faceva comparire di nuovi.
“Idiota,” sussurrò al vento, insultando un assente Magnus, mentre si spogliava e si dirigeva verso il bagno. La doccia avrebbe lavato via un po’ della sua tensione. O almeno così voleva sperare.




 
Funzionò. Il calore dell’acqua sulla pelle fece scivolare via un po’ di tutta la negatività che essere intrappolato ad Edom portava con sé. Quando uscì dalla doccia, la stanza era immersa nel vapore e Alec dovette passare una mano sullo specchio per riuscire a cogliere il suo riflesso. Non che passasse chissà quanto tempo a guardarsi, dal momento che non gli era mai piaciuto ciò che vedeva, ma… sentì il bisogno di farlo. Per ricordarsi chi era, per vedere le rune disegnate sulla sua pelle come un costante promemoria delle sue origini.
Se era vero che Edom avvelenava il cuore, Alec avrebbe fatto di tutto per salvaguardarlo – e ricordare momenti dove era stato tranquillo avrebbe aiutato.
Non era mai stato completamente felice. Aveva sempre avuto la sensazione che alla sua vita mancasse qualcosa, che a lui stesso mancasse un pezzo, e quel vuoto era sempre stato riempito con il desiderio di essere un figlio modello, un figlio che obbedisce, sempre, anche quando obbedire significa sentirsi caricare il cuore di una dose abbondante di insoddisfazione e frustrazione.
Non sempre le aspettative che aveva suo padre nei suoi confronti lo facevano stare bene, ma Alec era convinto che la vita fosse fatta anche di sacrifici – e se non era soddisfatto a vent’anni, non voleva dire che non lo sarebbe mai stato. Magari crescendo avrebbe capito cosa significava essere felici.
Sospirò.
Adesso sapeva che quel pensiero non avrebbe mai trovato riscontro nella realtà. Era intrappolato ad Edom per il resto della sua vita, come poteva essere felice?
Non era frustrato, almeno. Il pensiero di aver preso una decisione nella sua vita lo faceva sentire più forte. Era convinto della sua scelta, l’avrebbe rifatta sempre, se significava salvare la sua famiglia.
Alzò l’avambraccio sinistro, in modo che il retro di esso fosse riflesso nello specchio, e osservò la runa del potere angelico. La prima che si era fatto, quella che più di ogni altra gli ricordava la sua famiglia. Avrebbe potuto scegliere la runa parabatai, ma quella l’aveva in comune solo con Jace.
Quella angelica, invece… gli ricordava la sua cerimonia, gli ricordava Isabelle impaziente di compiere gli anni per riceverla anche lei, gli ricordava lo sguardo fiero di suo padre e uno dei rari, ma sinceri, abbracci di sua madre. Gli ricordava la prima volta che lui e Jace avevano confrontato le rune e i posti dove avevano deciso di incidersele. Gli ricordava Max e il fatto che avesse ricevuto la sua runa solo qualche settimana prima, e lui aveva appena fatto in tempo ad assistere alla cerimonia.
Passò il dito sul contorno della runa e poi distolse lo sguardo per portarlo sul suo viso. I capelli umidi gli ricadevano arricciati sulla fronte. Li tirò indietro, invano, dal momento che ricaddero esattamente nello stesso punto. Osservò le occhiaie sotto gli occhi, cerchi più scuri che iniziavano a marcare la pelle candida del suo viso. Sospirò, di nuovo, e decise di cercare qualcosa con cui asciugarsi. Sotto allo specchio c’era un mobile con delle ante chiuse. Le aprì e ci trovò degli asciugamani. Ne usò uno per frizionarsi i capelli e uno se lo legò in vita, poi uscì dal bagno. La sua stanza era esattamente come l’aveva lasciata, ovviamente, tranne un unico piccolo particolare: Presidente stava davanti alla porta e grattava la superficie con una zampetta.
Alec sorrise. “Vuoi uscire? Raggiungere il tuo dispotico padrone?”
Il gatto lo guardò ed emise un miagolio.
“Suppongo sia un sì.”
Aprì la porta quel tanto necessario a far uscire l’animale e poi la richiuse immediatamente.
Quindi non sa aprire le porte, pensò tra sé e sé, prima di ridacchiare di se stesso. Come aveva potuto avere un pensiero simile? Era ovvio che i gatti non sapessero aprire le porte!
Scosse la testa e si avviò verso il letto, dove aveva lasciato i vestiti che gli aveva scelto Iz. Li ripiegò e li sistemò sopra al comodino. Li accarezzò, quasi come se stesse accarezzando sua sorella, e poi si diresse verso l’armadio enorme che Magnus aveva piazzato in quella stanza. Sul serio, a che serviva un armadio che occupasse un’intera parete?
Aprì una delle ante, notò i vestiti e… della biancheria. Arrossì al pensiero di Magnus che aggiunge capi simili al suo armadio, ma poi pensò che fosse una cosa logica da fare. Non doveva essere imbarazzato da una cosa logica.
Scacciò quel pensiero e tornò a guardare i vestiti. Erano tutti neri, per sua fortuna. Li passò in rassegna distrattamente, prima di notare un semplice maglione di lana e un paio di pantaloni della tuta. Afferrò un paio di boxer a caso, tolse l’asciugamano dalla vita e li indossò, prima di vestirsi completamente. Maglione e pantaloni della tuta… riusciva chiaramente a sentire Izzy nelle orecchie che lo rimproverava sulle sue discutibili scelte in fatto di moda e sorrise con affetto.
Non doveva demordere. Non doveva darsi per vinto. Sarebbe riuscito a trovare un modo per fuggire di lì. Ripensò al suo riflesso nello specchio, ai pensieri che aveva avuto… non doveva ritenersi spacciato, non doveva pensare che la sua vita sarebbe finita ad Edom… no, avrebbe trovato un modo per riemergere in superficie e per salvaguardare la sua famiglia dalla possibile ira di Magnus derivata dalla sua fuga.
Per il momento, però, non doveva destare sospetti. Doveva fare il bravo e non suscitare in Magnus dei dubbi riguardanti le sue intenzioni. Per questo decise che avrebbe cominciato da quella sera stessa. Avrebbe passato tutto il tempo in camera sua, senza cacciarsi nei guai. Annuì a se stesso, compiacendosi di quel semplice, ma efficace piano, e dopo aver riportato l’asciugamano in bagno, si stese sul letto, ricominciando a leggere il libro da dove aveva smesso, prima di addormentarsi, qualche ora prima.





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Ciao a tutti! Ecco il terzo capitolo, dove Magnus ha determinati pensieri che blocca sul nascere… c’è un motivo per cui li ha e per cui li ha bloccati, un’idea che verrà approfondita più avanti – non troppo avanti, spero!
Ad ogni modo… spero che il capitolo via sia piaciuto, doveva essere un po’ più lungo, ma ho pensato anzi di aggiornare un po’ prima e di dividerlo. E a questo proposito vorrei chiedervi se preferite i capitoli un po’ più corti o li preferite più lunghi… non so mai come fare… di solito li scrivo più lunghi, però magari in certe situazioni è meglio dividerli per non renderli troppo pesanti… non lo so, datemi dei consigli per favore! XD
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo e della storia in generale fino ad ora, ho un po’ paura di rovinare i personaggi originali di Magnus e Alec, quindi fatemi sapere, se vi va!
Ringrazio chiunque legga, recensisca e abbia messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Lo apprezzo davvero tantissimo!
Un abbraccio! A presto! <3

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Capitolo 4
*** 4. ***


La musica arrivava fino alla sua stanza. Rimbombava nelle sue orecchie e nonostante fosse attutita dalle pareti e dalla porta chiusa, Alec non riusciva a concentrarsi. Figurarsi dormire.
A quanto pareva a Magnus piaceva fare feste super rumorose con persone alle quali piaceva gridare.
Alec non era mai stato ad una festa. Isabelle aveva provato a trascinarcelo più di una volta, ma lui era negato per certe cose. Era sicuro che, con il carattere che si trovava, sarebbe finito a fare da carta da parati, attaccato ad un muro. A differenza di Izzy, non era esattamente un animale da festa. E gli andava bene così.
Appoggiò la testa sul cuscino e rimase a guardare il soffitto. Era perfetto, non c’erano segni di usura, o del passare del tempo. E Alec si chiese se lo stesso castello non fosse protetto dalla magia di Magnus, che impediva ai segni dell’usura di far cadere in rovina l’intera struttura. Probabilmente era così e probabilmente, Magnus aveva protetto il suo castello soprattutto per evitare attacchi demoniaci, o da parte di qualcun altro. Alec era sicuro che uno con il suo potere e la sua carica avesse dei nemici. Era quasi una conseguenza naturale: chi ha a disposizione una quantità simile di potere, automaticamente fa si che persone ambiziose, ma meno potenti, provino una fitta di gelosia irrefrenabile, che si traduce in odio verso il più potente. Chissà se Magnus sarebbe mai stato vittima di un attacco, o se ad Edom esistevano fazioni che volevano ribellarsi al suo dominio per diventare i futuri sovrani dell’Inferno.
Alec non lo sapeva, e francamente non erano nemmeno affari suoi.
Recuperò il libro che aveva momentaneamente accantonato al suo fianco e riprese a leggere. Si impose di riuscire a concentrarsi, anche perché altrimenti la sua alternativa sarebbe stata fissare il muro e rimanere ad ascoltare i rumori di una festa che si sarebbe protratta per chissà quanto tempo. E onestamente non era una prospettiva che lo rallegrava.
Stava giusto per girare pagina, quando un rumore attirò la sua attenzione. Nel bel mezzo di tutto quel fracasso attutito che proveniva dal piano di sotto, Alec riuscì chiaramente a percepire qualcuno che grattava alla sua porta. Il ragazzo sorrise, pienamente consapevole di chi fosse il suo visitatore. Si alzò dal letto e si diresse verso la porta. La aprì e abbassò lo sguardo, incrociando quello felino di Presidente.
“Il fracasso infastidisce anche te, eh?”
Il gatto emise un miagolio e si strusciò sulle sue caviglie. Alec si chinò alla sua altezza per prenderlo in braccio. Presidente accostò la testa al suo petto e cominciò a fare le fusa, un gesto che fece sorridere Alec teneramente. Quel gatto era davvero l’unica cosa che lo rendeva di buon umore.
“Andiamo dentro, così staremo tranquilli.”
“Parli con il gatto?”
Una voce sconosciuta lo fece sussultare. Alzò lo sguardo dal gatto e notò che poco distante da lui c’era un ragazzo. Suppose fosse uno Stregone per via della coda che aveva dietro di sé… sembrava quella di una lucertola e Alec decise di non guardarla troppo. Sapeva che agli Stregoni infastidiva quando quelli come Alec osservavano il loro Marchio di Demone. In genere tendevano a nasconderlo – l’unico che non l’aveva fatto, anche fuori da Edom, era Magnus – ma suppose che all’Inferno potessero essere liberamente chi fossero, senza dover necessariamente usare dei glamour.
Il ragazzo si avvicinò e Alec, istintivamente, fece un passo indietro. Il suo interlocutore sorrise davanti a quel gesto, mostrando una fila di denti bianchissimi, come i suoi capelli… erano lisci e così lunghi che ricadevano sulle spalle. I suoi occhi erano di un azzurro glaciale, quasi grigio e Alec si sentì a disagio sotto il suo sguardo indagatore, soprattutto quando le sue iridi si posarono sopra alla runa di blocco che aveva sul collo. Tutte le altre rune erano coperte dai suoi vestiti, ma quella… quella era impossibile non notarla, dal momento che occupava tutta la lunghezza del lato sinistro del collo di Alec.
“Sei un Nephilim…” sussurrò, “E dimmi, cosa ci fa uno come te in un posto come questo?”
“Pago un debito,” si limitò a dire Alec, senza dare troppe spiegazioni. “Ora, se vuoi scusarmi…” Lasciò la frase in sospeso, mentre rientrava in camera sua. Con un braccio continuò a sostenere Presidente, con l’altro invece tentò di chiudere la porta. Ma lo Stregone glielo impedì.
“Non puoi tornartene là dentro come se niente fosse… Non pensi a me? Alla mia curiosità? Magnus ci ha tenuto nascosto uno come te. E cosa peggiore, ti ha tenuto in vita.”
Alec, a quelle parole, si irrigidì immediatamente – e quasi come se riuscisse a percepire il suo stato d’animo, Presidente scivolò dalla sua presa, lasciandogli le mani libere.
“Magnus ha i suoi buoni motivi per fare ciò che fa.” Disse Alec, anche se non era certo che quella frase avesse senso.
“Magnus fa solo quello che vuole, quando vuole e come vuole. E tu ne sei la prova. Un Nephilim ad Edom è una follia, un Nephilim vivo ad Edom è un insulto alla nostra gente. Siete degli arroganti figli di puttana che uccidono Nascosti per divertimento e lui anzi che farti fuori ti tiene in casa sua, come se fossi un animaletto domestico.”
“Non uccidiamo per divertimento. Uccidiamo quando c’è bisogno di farlo, quando siamo costretti a farlo. Siamo cambiati. E le nostre missioni riguardano più che altro l’eliminazione di demoni che attaccano Mondani.”
Lo Stregone emise un verso di scherno. “Cambiati? Solo qualche settimana fa uno dei vostri ha fatto a pezzi mia sorella solo perché voleva aggiungere il suo Marchio alla sua collezione! Non siete cambiati! Siete dei mostri!” La sua voce aumentò a mano a mano che parlava, arrivando ad essere un urlo che arrivò dritto al cuore di Alec. La disperazione intrinseca in quelle grida gli fece stringere lo stomaco e per un attimo Alec si immedesimò in quello Stregone, pensò a come si sarebbe sentito lui se qualcuno avesse ucciso Isabelle senza motivo. E il solo pensiero gli fece mancare l’aria. Poi si accorse che la sua mancanza di ossigeno non era derivata solo da quel pensiero terrificante, ma dal fatto che lo Stregone gli avesse portato una mano alla gola per soffocarlo.
Errore da principiante: abbassare la guardia. Avrebbe dovuto prevedere un attacco simile. Alec si diede mentalmente dello stupido, mentre reagiva a quel gesto. Se avesse avuto un’arma o anche solo il suo stilo sarebbe stato più semplice, ma non aveva niente a sua disposizione… adesso era soltanto un ragazzo che doveva vedersela con uno Stregone di chissà quanti secoli che aveva a disposizione un’infinità di incantesimi.
Dannazione!
Fece leva sulla mano che gli teneva stretta la gola per riuscire a saltare il tanto necessario da dare un calcio al suo avversario. Lo colpì in pieno petto e lo fece barcollare all’indietro costringendolo a mollare la presa sul suo collo. Alec respirò più aria possibile, ma lo Stregone gli fu di nuovo addosso. Lo caricò e lo scaraventò a terra. Alec sentì la schiena rimbalzare sul pavimento duro e freddo, mentre l’altro gli stava sopra e lo riempiva di pugni all’altezza dello stomaco. Era così doloroso che la prima reazione che ebbe il suo corpo furono conati di vomito, che lui si impegnò a trattenere. Gli serviva una strategia. Doveva reagire altrimenti lo Stregone avrebbe fatto ciò che Magnus si era rifiutato di fare fino ad ora: ucciderlo.
Alec gli bloccò le mani e lo spinse via da sé, tirandosi su con un colpo di reni non appena l’altro non gli fu più addosso.
“Non ti colpirò.” Disse, guardando l’altro che lo fissava con odio. “Non lo farò. Non siamo tutti come pensi tu. Alcuni di noi sono diversi, alcuni di noi non credono nella superiorità del nostro sangue.”
“Stronzate!” Esclamò pieno di rabbia lo Stregone, prima di sferrare un pugno in direzione di Alec. Il ragazzo lo schivò e parò i colpi successivi. Era stato addestrato a combattere corpo a corpo, conosceva moltissime tecniche di combattimento e strategie di attacco, ma in quel momento stava usando solo quelle di difesa.
Capiva la rabbia del suo avversario, ma era determinato a dimostrargli che non tutti i Nephilim erano crudeli come quello che aveva ucciso sua sorella.
Non l’avrebbe colpito. Ma lo Stregone non la vedeva come lui. Era determinato a fargli male, a colpire nei punti più dolorosi, e questo aveva aiutato Alec a parare ogni suo colpo perché a sua volta sapeva quali fossero le parti del corpo che facevano più male, se colpite.
Alec cominciava a sentire la fatica pervadergli le membra – e mai come in quel momento aveva sentito la mancanza del suo stilo. Avrebbe potuto passarlo sulla runa della resistenza e risolvere il suo problema, ma non poteva. Allontanò di nuovo da sé lo Stregone, spingendolo via con tutte le sue forze.
Era stanco, aveva il fiatone e non sapeva come fare per farlo ragionare, soprattutto perché l’altro sembrava particolarmente determinato a massacrarlo.
“Sai che ti dico? Mi hai stancato.” Iniziò a muovere le mani e da esse cominciarono a fuori uscire dei lampi di magia verde. Era una luce accecante che costrinse Alec a socchiudere gli occhi. Non sapeva come potersi proteggere da un attacco simile. Avrebbe potuto scappare, ma sapeva per esperienza che alcuni incantesimi erano in grado di seguire il proprio obiettivo finché non lo colpivano. Di conseguenza decise di rimanere fermo e provare a schivare il colpo.
Doveva mantenere i nervi saldi. Ce l’avrebbe fatta se fosse rimasto concentrato. Si mise in posizione e… la magia cessò, venendo sostituita da lampi blu. Lo Stregone si accasciò a terra e Alec riuscì chiaramente a vedere la figura di Magnus dietro alle sue spalle. Lo stava soffocando, proprio come aveva fatto con lui il giorno prima. Alec lo vide camminare fino a quando non fu di fronte allo Stregone.
“Dennis,” lo chiamò e il suo tono era freddo e infastidito, “Come ti permetti di assumere comportamenti simili in casa mia?”
Fece cessare l’incantesimo e Dennis tornò a respirare. Si alzò da terra e si avvicinò a Magnus, furioso. Il Sovrano di Edom, tuttavia, non sembrava minimamente intimorito da quella reazione – anche se Alec non poteva dirlo con certezza, dal momento che vedeva solo la sua schiena.
“Hai portato un Neph–”
“Ah-ah!” Magnus lo zittì con un gesto della mano. “Non voglio sentire una sola parola. In mia presenza devi tacere, a meno che non sia io a dirti che puoi parlare. E di certo non puoi esprimere le tue opinioni riguardo ciò che faccio o non faccio in casa mia. Sono stato chiaro?”
Dennis lo fulminò con lo sguardo. Tremava dalla rabbia, ma stava in silenzio.
“Non ti ho sentito, Dennis. Sono stato chiaro?” Il tono di Magnus era autoritario, la sua intera figura trasmetteva sovranità e potere. Qualcuno del genere andava solo temuto, e mai sfidato. Persino Dennis lo sapeva. Per questo non gli rimase altro da fare che chinare la testa e comportarsi nel modo esatto in cui Magnus si aspettava che si comportasse.
“Chiarissimo.”
“E parlerai a qualcuno di questa storia?”
“No, sire.”
“Bravo. Altrimenti ti ucciderò. Sai che lo farò.”
“Lo so, sire.”
“Adesso sparisci. Esci dalla mia vista e dalla mia casa.” Lo liquidò con un gesto della mano e rimase a guardarlo fino a che non scese le scale e sparì dalla sua visuale. Solo dopo che rimasero da soli, Magnus finalmente si voltò verso Alec. Nei suoi occhi, il Nephilim lesse ira pura.
“Ti avevo detto di startene chiuso in camera. Era troppo difficile obbedire? Sei un soldato, cazzo! Comportati come tale!”
“Non è stata colpa mia!”
“Non mi interessa!” Magnus gridò, impedendogli di spiegarsi. Il suo viso era ad un centimetro da quello di Alec e dovette alzare lo sguardo di un poco per riuscire a trovare i suoi occhi, dal momento che era leggermente più basso di lui. “Se ti do un ordine. Tu esegui quell’ordine, sono stato chiaro?”
Alec sostenne quello sguardo senza lasciarsi intimorire. “Non sono uno dei tuoi sudditi. Io non ho paura di te, o di quello che potresti farmi, perché niente sarebbe peggio di quello che mi hai già fatto!”
“Oh, ma sentitelo come piagnucola per essere stato separato dalla sua famiglia! Le famiglie sono una maledizione! I legami sono per i deboli! Guarda dove ti ha portato la tua famiglia! All’Inferno!” Magnus gli afferrò le guance con una mano, stringendogli il viso tra le dita. “Sei mio per sempre, solo perché la tua famiglia ti ha reso così debole da accettare un destino ingiusto.”
Alec si liberò da quella presa, scansando via la mano di Magnus con rabbia. “Preferirei morire, anzi che appartenerti in qualsiasi modo. Sei l’essere più spregevole di questo pianeta.” Allontanò Magnus da sé con una spinta e in un primo istinto afferrò la collana che aveva al collo e la tirò per strapparsela di dosso. Funzionò. Il cordino cedette subito e Alec riuscì già a sentire l’aria che gli veniva meno.
“ALEC!” Lo ammonì Magnus, i suoi occhi si fecero fiammeggianti. “Smettila. Adesso!”
Ma Alec era così arrabbiato, così furioso, lo detestava così tanto che non avrebbe passato un minuto di più in sua compagnia. Afferrò il ciondolo e lo scaraventò a terra. In altre circostanze, avrebbe sicuramente fatto rumore – ma la musica della festa coprì qualsiasi suono l’impatto con il suolo provocò. Il ciondolo si frantumò in mille pezzi e Alec sentì l’aria venirgli meno, il sangue ribollirgli nelle vene. Era una sensazione orribile, ma anche Magnus lo era, quindi…
“Anzi la morte.” Gli sussurrò, guardandolo dritto negli occhi. Era una cosa così stupida da fare. Perché l’aveva fatto? Cosa voleva dimostrare morendo? Ogni neurone presente nel suo cervello gli stava gridando quanto fosse stato stupido e infantile, quanto fosse stato sbagliato essersi lasciato guidare così ciecamente dalle emozioni. La rabbia l’aveva portato a suicidarsi, in pratica, e cosa aveva guadagnato? Niente. Sarebbe morto in un luogo infernale, davanti ad un uomo a cui non fregava un accidente di lui, e non avrebbe più rivisto la sua famiglia perché aveva deciso di comportarsi come uno sprovveduto.
“Tu, stupido ragazzino!” Ringhiò Magnus a denti stretti, prima di avvicinarsi a lui. Alec indietreggiò, ma la sua ritirata durò ben poco dal momento che finì contro un muro, e a quel punto, Magnus ne approfittò per afferrarlo per la gola. Alec si aspettava si sentire la presa sul suo collo farsi stretta, convinto che Magnus avesse voluto accelerare il processo, ma si stupì enormemente quando avvertì invece che la presa dello Stregone su di sé era delicata. La sua mano era a malapena appoggiata alla sua gola e, cosa che lo stupì ancora di più, lo stava facendo respirare. Proprio come la sera prima, la magia di Magnus gli stava entrando in circolo per non farlo soffocare.
Con un movimento rapido della mano che aveva libera, Magnus creò all’istante un ciondolo identico a quello che Alec aveva appena rotto e glielo sistemò al collo. Solo quando si fu accertato che il ciondolo faceva il suo dovere, allora abbandonò la presa su Alec.
Magnus lo fissò. Nell’aria c’era ancora l’odore di zucchero bruciato e incenso che lasciava sempre la sua magia. Sulla pelle del collo di Alec, all’altezza della sua gola, erano stampate le bruciature della magia, quasi come se l’avesse strangolato con l’intenzione di ucciderlo, e non per salvargli la vita.
Perché l’aveva fatto poi?
La risposta che si era dato a quella domanda gli faceva così paura che non volle nemmeno esternarla a se stesso.
Lo fissò ancora. Guardò il viso del Nephilim, il fatto che la sua giovinezza fosse così palese da non aver ancora indurito i suoi lineamenti perfetti. La sua bellezza gli faceva male al cuore, come se una parte di sé sapesse di aver trovato qualcosa di irraggiungibile. E il suo carattere, la sua forza, la sua caparbietà, la sua testardaggine e quel temperamento così difficile da gestire lo facevano uscire di testa.
C’era qualcosa, in quel ragazzo, che accendeva una parte di Magnus assopita da troppo tempo, una parte che lui era convinto non esistesse più. E odiava che avesse questo potere su di lui, detestava ciò che aveva provato quando aveva visto Dennis fargli del male e quando l’aveva visto soffocare davanti a lui, solo qualche istante prima.
Detestava il suo assurdo desiderio di proteggerlo. L’idea che Dennis gli stesse facendo del male l’aveva fatto muovere ancora prima che il suo cervello gli dicesse cosa fare. Il suo istinto aveva mosso il suo intero corpo senza che lui nemmeno se ne accorgesse. La sua magia era corsa in suo aiuto, prima che fosse Magnus a comandarla.
Era stata lei a comandare lui, a spingerlo verso Alec. E lo sentiva ogni volta che erano vicini. Percepiva quella forza che lo attirava a quel Nephilim, ma non sapeva che significato darle.
E, soprattutto, non si capacitava come nel giro di un giorno un ragazzino che fino a ventiquattro ore prima gli era estraneo, riuscisse ad avere un tale potere su di lui.
“Torna nella tua stanza, Alexander, direi che per oggi hai fatto abbastanza danni.”
Alec era troppo frastornato anche solo per riuscire a ribattere. Nella sua mente vorticavano un sacco di pensieri che non sapeva gestire, o riordinare, di conseguenza decise che forse per una volta, dargli retta non sarebbe stata una cattiva idea.
Magnus fece un passo indietro per lasciargli lo spazio necessario a spostarsi e Alec lo fece. Senza dire una parola, si incamminò lungo il corridoio diretto alla sua stanza.
“Un’ultima cosa.” Lo chiamò Magnus e Alec si voltò. “Non farlo mai più. Non provare mai più a farti una cosa del genere.”
E Alec si stupì del modo in cui quella frase più che come un ordine suonasse come una supplica.





*




Erano passati cinque giorni da loro scontro. Cinque giorni in cui Alec non era uscito dalla sua stanza e cinque giorni in cui Magnus non aveva fatto altro che pensarlo.
Era tormentato dai suoi occhi, dalla durezza che avevano assunto quando gli aveva detto che avrebbe preferito morire piuttosto che appartenergli in qualsiasi modo. E poi l’aveva fatto. Aveva provato a morire, piuttosto che stare vicino ad un essere spregevole come lui.
Era questo che pensava, che fosse spregevole.
E davvero Magnus non capiva perché gli importasse. Era sempre stato così. Aveva sempre saputo di essere crudele, ma era sempre stato ciò che suo padre gli aveva insegnato. I sovrani devono essere temuti, altrimenti non vengono rispettati. Incutere timore nei propri sudditi è necessario per essere presi sul serio.
E Magnus era sovrano di Edom da almeno metà della sua vita, e in quei duecento anni si era sentito perfettamente a proprio agio con la sensazione che gli dava la consapevolezza di essere temuto, di avere a disposizione un potere che altri passavano la vita a sognare.
Lui aveva tutto ciò che gli altri agognavano. Fama, ricchezze, un potere incommensurabile e una forza che nessuno era ancora riuscito a pareggiare.
Era una specie di divinità. E allora perché, improvvisamente, quel senso di vuoto? Perché, improvvisamente, tutto ciò che l’aveva reso appagato negli ultimi duecento anni, adesso sembrava non bastargli più?
Sai perché, sputò acida la sua voce dominante, è colpa sua. Più continui a tenerlo qui, e più le cose peggioreranno. Uccidilo e torna in te, dannazione!
Ma per qualche strano motivo, in cuor suo sapeva che quella non era la soluzione giusta.
Per la prima volta, in vita sua, non aveva idea di cosa doveva fare. Di come comportarsi. E lui di solito aveva sempre tutto sotto controllo.
Sospirò e con un vassoio pieno di cibo in mano, si diresse verso la stanza di Alec. Erano cinque giorni che gli portava cibo e acqua – e in quel lasso di tempo, si era sempre limitato ad appoggiare il vassoio a terra e a bussare. Non aveva mai aspettato che Alec aprisse – e una parte di lui sapeva che non l’avrebbe fatto, fino a che Magnus fosse rimasto davanti alla porta, perché sapeva che si stavano evitando.
Tra di loro non scorreva buon sangue. Le loro divergenze, le loro abissali diversità e tutto ciò di cui Alec lo incolpava, creavano tra di loro un divario impossibile da riempire.
Quando arrivò davanti alla stanza di Alec, appoggiò il vassoio a terra e bussò, poi si voltò per andarsene. Aveva già compiuto qualche passo, quando avvertì la porta aprirsi e una voce attirare la sua attenzione.
“Aspetta,” Disse Alec. Il suo tono uscì arrochito e Magnus si chiese se non avesse passato gli ultimi giorni in silenzio. Probabilmente era così, visto che non c’erano altre persone con cui parlare.
Lo Stregone si voltò e tornò sui suoi passi, raggiungendo il ragazzo, che se ne stava in piedi sulla soglia di quella che era diventata la sua camera.
“Dobbiamo parlare.”
“E allora parla.”
“Possiamo farlo da un’altra parte? Stare chiuso qua dentro mi sta facendo impazzire.”
Magnus annuì. Sollevò da terra il vassoio e fece cenno ad Alec di seguirlo. “Andiamo in cucina. Puoi mangiare lì.”
Si incamminò senza aspettarlo, esattamente come aveva fatto appena avevano messo piede ad Edom, e ad Alec, proprio come quel primo giorno, non rimase altro da fare che seguirlo.





La cucina di Magnus era molto bella, come il resto delle stanze in quel castello. Aveva una grossa dispensa attaccata al muro, un frigo sulla destra e un forno sulla sinistra, tutto rigorosamente collegato da un piano cottura e dai mobili pieni di ante e cassetti. Al centro della stanza c’era un tavolo di legno pregiato.
Era indubbiamente una stanza bellissima, ma trasmetteva una certa freddezza. Era troppo nuova, troppo statica, e aveva un odore sterile. Non odorava di cucina, non era impregnata di quell’odore di cibo che non va via nemmeno dopo averla pulita dieci volte.
La cucina dell’Istituto aveva sempre un buon odore di cibo, tranne quando era Isabelle a cucinare. In quel caso si sentiva sempre odore di bruciato. Alec sorrise al pensiero. Izzy era bravissima in tantissime cose, ma l’arte culinaria proprio non era tra quelle.
Si incamminò verso la dispensa, perché doveva soddisfare la sua curiosità, e cominciò ad aprire ogni sportello. Era vuoto. Come aveva immaginato. Quella cucina non veniva mai usata, o almeno non veniva usata come i comuni mortali usano una cucina. Alec era sicuro che una pentola non era mai stata lasciata sul fuoco mentre dentro bolliva uno stufato, o che in quel forno non fosse mai stata cotta una crostata. Era una cucina che serviva solo per figura. E Magnus, con ogni probabilità, faceva comparire il cibo usando la magia.
“Ma prego, fa come se fossi a casa tua.”
Il sarcasmo di Magnus lo distolse dalla sua attenta analisi. Si voltò verso di lui.
“In realtà, dovrei proprio farlo, se pensi che sono tuo prigioniero e che questo, ormai, è il luogo dove vivo.”
Magnus incassò il colpo e non ribatté. Non poteva dargli torto, dopotutto. “Vuoi dirmi quello che devi dirmi o vuoi continuare a curiosare nella mia cucina?”
“Continuerei a curiosare, in realtà, ma ho l’impressione che sia tutto vuoto, qui.” Lo provocò.
“Quanto sei intelligente!” Commentò Magnus, assottigliando gli occhi in due fessure mentre guardava Alec.
Il ragazzo non si fece scoraggiare da quel nemmeno troppo velato commento derisorio e si sedette al tavolo, dove Magnus aveva appoggiato il vassoio. Pizza e acqua. Gli poteva andare bene. Almeno lo Stregone si risparmiava di nutrirlo solo con un tozzo di pane e dell’acqua, come un vero prigioniero.
Magnus si sedette di fronte a lui. “Sto perdendo la pazienza, Alexander. Parla.”
Gli occhi di Alec quasi scattarono dal vassoio a quelli di Magnus. Lo inchiodarono sul posto e Magnus provò una strana sensazione che scacciò immediatamente. Non voleva pensare a quegli occhi, al potere che riuscivano ad avere su di lui, alla bellezza che li caratterizzava. Erano verdi e nocciola, grandi, circondati da ciglia folte e scure, ma più di ogni altra cosa, ciò che colpiva Magnus era la loro espressività, come fossero in grado di trasmettere tutte le emozioni del Nephilim.
“Perché mi chiami così?”
Alec non l’aveva notato subito, la prima volta che l’aveva fatto, troppo frastornato dall’intera situazione per porre la sua attenzione su una cosa simile, ma negli ultimi cinque giorni aveva avuto il tempo di pensare e si era reso conto che Magnus l’aveva chiamato con il suo nome intero.
“Perché è il tuo nome.”
“E tu come fai a saperlo? Non te l’ho detto.”
“Lo so e basta,” Liquidò l’argomento con un gesto della mano. “Questione chiusa. Non voglio sentire altre domande al riguardo. Voglio sentire quello che hai da dirmi.”
Alec roteò gli occhi al cielo e sbuffò, perché Magnus sapeva essere davvero dispotico. Si guardò intorno per qualche istante, prima di riportare la sua attenzione sullo Stregone.
“Volevo ringraziarti.” Istintivamente si portò una mano al collo e Magnus notò che le bruciature erano quasi svanite del tutto. “Non eri obbligato a salvarmi, ma l’hai fatto, per ben due volte.”
Magnus avrebbe sussultato per la sorpresa, ma si trattenne. Tutto si sarebbe aspettato da lui, meno che un ringraziamento.
Lui è diverso dagli altri, sussurrò Vocetta e Magnus non riuscì ad ignorarla, questa volta.
“Ma voglio che tu sappia che non l’ho fatto di proposito. Non sono uscito, ho semplicemente aperto la porta a Presidente, che stava grattando per entrare, e Dennis mi ha visto. Ho provato a chiudere subito la porta, ma ha notato la runa e me l’ha impedito.”
Gli occhi felini di Magnus catturarono la runa in questione, sul collo di Alec. “In effetti, è impossibile non notarla. È gigantesca e di cattivo gusto, se permetti un’opinione esterna.”
“Non è di cattivo gusto. È comodo averla in punto così facilmente raggiungibile. È la prima che attivo se non voglio essere rintracciato e se ce l’avessi in un punto più nascosto dovrei togliere prima i vestiti e poi attivarla. Risultato: perdita di tempo.” Spiegò, pratico.
“Non sarebbe una perdita di tempo, per come la vedo io.”
“Ah no? E sentiamo, esperto di rune, cosa sarebbe?”
“Un’occasione per vedere se sotto quegli strati di abiti neri estremamente noiosi c’è qualcosa di interessante. E, nel tuo caso, sono sicuro che ci sia.”
Alec avvampò immediatamente e abbassò gli occhi, incapace di reggere lo sguardo malizioso di Magnus. “Smettila,” gli ordinò, mentre era intento a fissarsi le mani.
“Perché? Odi i complimenti, per caso? O ti infastidisce che sia un uomo a farteli?”
Quell’ultima insinuazione fece sì che Alec tornasse a guardarlo. “Tu non sai niente di me.” Sibilò, deciso.
“No, è vero, ma so abbastanza sulla tua gente da sapere che vedute hanno. E alcune sono oltremodo bigotte e sbagliate.”
Poteva riferirsi alle vedute che avevano ancora alcuni Nephilim riguardante la loro superiorità rispetto alle altre razze, ma poteva riferirsi anche alle vedute che avevano riguardante l’omosessualità. E Alec sapeva che in questo caso specifico Magnus si stava riferendo alla seconda ipotesi.
E sapeva che aveva ragione. Ma in qualche modo il fatto che qualcuno, un estraneo, l’avesse smascherato con così tanta facilità lo infastidiva, lo faceva sentire esposto e vulnerabile. E non gli piaceva come sensazione.
“E scommetto che le tue, di vedute, sono sempre giuste.” Commentò, pungente.
“Per Lilith, no! Ma almeno non condanno qualcuno solo perché ama una persona del suo stesso sesso.”
Alec deglutì e rimase in silenzio. Non aveva mai apertamente trattato un argomento simile con un’altra persona. Si era limitato ad interiorizzare i suoi sentimenti, la sua consapevolezza, e a relegarli in fondo al suo cuore.
“Spiegami perché dovrebbe esserci qualcosa di male, in questo.” Magnus si alzò dalla sua sedia e fece il giro del tavolo per raggiungere Alec. “Spiegami perché dovrebbero avere il diritto di farti provare vergogna per quello che sei.”
Alec, ancora seduto, rimase a guardarlo con il viso rivolto verso l’alto. Magnus era vicino a lui, ma non così tanto da sfiorarlo. Aveva la voce più bella che avesse mai sentito ed era così rassicurante sentirgli dire certe cose. Ma Alec… Alec aveva passato una vita intera a tenersi dentro quello che provava, di conseguenza non riuscì ad esternare ciò che sentiva dentro di sé. E fece l’unica cosa che gli riusciva fare meglio: mettere distanze, innalzare muri.
Si alzò bruscamente e in quel modo il suo viso fu un poco più vicino a quello di Magnus – di conseguenza si affrettò a fare un passo indietro, prima di parlare.
“Tu non hai la minima idea di quello che sono. Quindi smettila di parlare di cose che non conosci.”
Si allontanò da lui, dandogli le spalle, e uscì da quella stanza diretto nella propria camera.
Magnus lo guardò allontanarsi senza provare a fermarlo. Sapeva che sarebbe stato inutile, di conseguenza, lo lasciò andare.



*



Magnus aveva fatto avanti e indietro dalla biblioteca alla camera di Alec per tutto il pomeriggio. Dopo il pranzo che non aveva mangiato, Alec era rimasto chiuso nella sua stanza. Magnus non l’aveva sentito fare nemmeno un minimo rumore e più di una volta era stato tentato di bussare.
Non farlo! Aveva esclamato la sua voce interiore, opponendosi a quel comportamento ridicolo, lui ha fatto i capricci, ricordi? Che si arrangi!
Ma deve pur mangiare, no? Suggerì Vocetta, che invece era sempre accomodante e gentile, se si trattava di Alec.
Magnus l’aveva sentita così spesso negli ultimi giorni, quella voce, che stava cominciando quasi ad abituarsi – sebbene non la sopportasse molto, più che altro perché lo ammorbidiva, lo faceva sentire debole. Un rammollito che si lascia trasportare dalle reazioni di un ragazzino. Un Nephilim per giunta.
Per me può anche morire di fame! Tornò a farsi sentire, imperiosa, la sua voce dominante.
Non lo farai morire di fame! Ricorda cos’hai provato, quando pensavi che stesse per morire!
No, a quello Magnus si rifiutava di pensare. Le implicazioni comportate da quelle emozioni lo destabilizzavano. L’intensità di quelle emozioni doveva essere dimenticata. Doveva combatterla con ogni fibra di se stesso perché, altrimenti, sapeva che avrebbe perso se stesso.
Vocetta, comunque, aveva ragione. Alec doveva mangiare. Ma Magnus decise che se il Nephilim non voleva farsi vedere, ne sentire, anche lui avrebbe tenuto il suo stesso comportamento.
Non voleva uscire perché era convinto che Magnus gli avrebbe fatto da cameriera? Bene, Magnus non gli avrebbe fatto da domestico. Lui era un re e i re non si inchinano.
Alec sarebbe stato un giorno a digiuno. E la mattina seguente, Magnus gli avrebbe chiesto se voleva fare colazione con lui. Se voleva mangiare, doveva anche uscire da quella stanza.
Sì, gli sembrava un piano che potesse mettere d’accordo entrambe le sue coscienze e farle finalmente tacere, regalandogli un po’ di pace.
Dal momento che i suoi pensieri si zittirono, Magnus tornò in biblioteca e si sistemò in poltrona, dove lesse per tutta la sera e gran parte delle prime ore della notte.





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Ciao a tutti!
Ecco il quarto capitolo. Non dovrei continuare ancora per molto, credo al massimo altri due – anche perché non l’avevo pensata troppo lunga come storia. In questo capitolo c’è una sorta di “avvicinamento” dei due, seppur non ancora troppo amichevole. Le cose cambieranno – e spero che possa risultare abbastanza credibile e graduale, nei prossimi capitoli, senza che tutto risulti troppo affrettato.
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo, o della storia in generale, se vi va!
Vi saluto e ringrazio chiunque legga, abbia messo nelle preferite/ricordate/seguite e chi ha commentato i capitoli precedenti, lo apprezzo molto!
Alla prossima! <3 

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Capitolo 5
*** 5. ***


Alec era confuso.
Aveva passato tutta la notte in bianco a fissare il soffitto, mentre nel suo cervello pensieri si accavallavano prepotentemente su altri pensieri.
E Magnus li abitava tutti.
Lo confondeva. Era così complicato provare a capirlo che Alec avrebbe voluto sapergli leggere nel pensiero.
Prima lo rapiva, strappandolo alla sua famiglia, poi gli salvava la vita e poi tornava a comportarsi come… il demone che era? Suggerì una voce nella sua testa.
Magnus era un demone, almeno per metà. E sembrava che tutto il suo carattere venisse dominato da quella sua natura.
Ma Alec aveva l’impressione che ci fosse di più – e davvero non capiva il perché ci stesse pensando. Avrebbe dovuto odiare Magnus per quello che gli aveva fatto – e in effetti una parte di sé lo detestava profondamente – ma c’era qualcosa, in lui, che lo attirava. Sentiva come una strana forza crescere dentro di sé ogni volta che l’aveva vicino.
Sfiorò il ciondolo che portava al collo. Forse era la magia che aveva addosso a sé che gli faceva questo effetto. Magari quel miscuglio di sangue e magia sentiva la vicinanza del suo proprietario e voleva tornare al suo posto, ovvero insieme a Magnus.
Sì, sicuramente era così.
E allora perché non riusciva a smettere di pensare al tono di voce che aveva usato quando gli aveva detto di provare mai più a farsi del male? Perché era quasi ossessionato dal fatto che quella frase sembrasse più una supplica?
Alec non sapeva dare un senso a tutto questo. Non sapeva come orientarsi, come gestire tutto questo.
Sbuffò, passandosi una mano sulla faccia. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, di certo non avrebbe dormito ora che era mattina presto – o almeno così sembrava dalla luce che filtrava dalla finestra. Ancora non sapeva se il tempo ad Edom scorreva nello stesso modo della sua dimensione. In ogni caso, decise di alzarsi. Doveva farsi una doccia. Si stropicciò gli occhi e si passò una mano tra i capelli scompigliati, poi si incamminò verso il bagno.



L’acqua calda aveva un effetto benefico sulla sua pelle. Alec rimase sotto il getto d’acqua con gli occhi chiusi, godendosi quella piacevole sensazione. Era bello potersi rilassare almeno per qualche istante, non avere in sensi in allerta, o non dover pensare ad un certo paio di occhi felini e dorati su di sé.
Alec aprì i propri, di occhi. Osservò la sua pelle coperta di rune, sfiorò quella sul collo, e pensò alle parole che gli aveva detto Magnus.
Almeno non condanno qualcuno perché ama una persona del suo stesso sesso.
Amore… Alec non sapeva nemmeno cosa significasse. Almeno, non in quel contesto. Amava la sua famiglia, i suoi fratelli, ma… non si era mai innamorato di qualcuno nel senso romantico del termine. Non pensava nemmeno di meritarsi un sentimento simile. Le leggi del Clave gli avevano sempre inculcato quanto l’amore tra persone dello stesso sesso fosse sbagliato e lui era cresciuto con questa idea che poi aveva fatto sì che interiorizzasse tutto dentro di sé, quando, da adolescente aveva capito che a lui le ragazze proprio non facevano effetto. Nemmeno un minimo. Jace diceva sempre che una bella ragazza ti fa accelerare il cuore e ti fa sudare le mani.
L’unica volta che il cuore di Alec aveva battuto più forte del previsto era stata quando… si vergognò al solo pensiero. Sentì l’imbarazzo crescergli dallo stomaco fino ad arrivare alla punta delle orecchie. Era certo che stesse avvampando.
E trovò quasi patetico che l’unico che fosse stato in grado di fargli provare un’emozione così pura fosse stato… Magnus.
Quando era venuto a bussare per dirgli che avrebbe tenuto una festa, qualche giorno prima, ed era vestito in quel modo, Alec aveva visto quanto fosse bello. E per un attimo si era persino dimenticato di tutto l’orribile contesto che lo circondava.
E se il suo cuore aveva cominciato ad accelerare e i suoi palmi avevano iniziato a sudare, significava che quello che aveva davanti doveva essere necessariamente un bel ragazzo.
Ed era così. Magnus era bellissimo, con i suoi tratti orientali e la pelle color caramello, la voce calda e suadente. E i suoi occhi.
I suoi occhi erano qualcosa di meraviglioso.
Alec scacciò quei pensieri con prepotenza. Spense il gettò d’acqua calda e uscì quasi di corsa dalla doccia. Il vapore riempiva la stanza e lui cercò un asciugamano da legarsi in vita. Passò una mano sullo specchio appannato e guardò il suo riflesso. Aveva il viso scavato per via del poco cibo che aveva mangiato in questi giorni – e non perché Magnus non gliene portasse, se si esclude il giorno prima in cui aveva praticamente digiunato. Semplicemente, non gli veniva fame.
I suoi occhi erano circondati da occhiaie e la sua pelle era tirata, tesa. Aveva un aspetto orribile. E sicuramente tutti quei pensieri dovevano essere frutto della sua malnutrizione e della sua insonnia, altrimenti non sapeva proprio come spiegarseli.
Quei pensieri non potevano essere reali. Non poteva davvero pensare certe cose su Magnus. Era sbagliato.  
E di certo non perché fosse un ragazzo.
Era sbagliato perché lui era crudele, spregevole, un essere che l’aveva strappato via dalla sua vita.
Respirò a fondo, perché all’improvviso l’aria sembrava pesante. Doveva calmarsi. Tutto sarebbe andato bene. Tutto si sarebbe sistemato, a tempo debito. Con quel mantra in testa, Alec uscì dal bagno con l’asciugamano avvolto in vita, per dirigersi verso l’armadio. Avrebbe cercato un altro maglione, qualcosa che lo facesse stare comodo, ma…
“Beh, ma buongiorno…”
…la voce lasciva e decisamente allusiva di Magnus lo fece sussultare sul posto. Alec si pietrificò a metà strada tra il bagno e l’armadio. Lo Stregone se ne stava seduto su quello che era diventato il letto di Alec e lo stava guardando come si potrebbe guardare un dolce. Cosa che fece sentire Alec profondamente in imbarazzo. Se avesse potuto si sarebbe sotterrato.
“A quanto pare avevo ragione…” indicò con un indice anellato l’intera figura di Alec, “Sotto quegli abiti noiosi c’è davvero qualcosa di interessante. Anche se la realtà è decisamente migliore di quello che avevo immaginato.” Magnus parlava quasi come se le sue parole non avessero un effetto devastante su Alec e continuava a guardarlo come se i suoi occhi non facessero sentire in imbarazzo il Nephilim.
Lo Stregone guardò ogni piccolo dettaglio, dalle rune, alle cicatrici; dalla peluria che ricopriva il suo petto definito, fino agli addominali.
E Alec, sotto quello sguardo così intenso, si coprì istintivamente con le braccia.
“Esci.”
“No. È casa mia, ho tutto il diritto di stare qui.”
“Ma non hai diritti su di me. Quindi esci e smetti di guardarmi così.”
Magnus non si mosse e piazzò i suoi occhi su quelli di Alec con aria di sfida. “Così, come?”
Alec sostenne il suo sguardo e lo fulminò. “Lo sai come.”
“Come se fossi desiderabile? O bellissimo? Te l’hanno mai detto? Ti hanno mai guardato come se ti volessero avere ad ogni costo?”
Alec avvampò e deglutì. La voce di Magnus gli risuonò calda e ipnotica nelle orecchie. I pensieri che aveva avuto poco prima intasarono di nuovo il suo cervello in un modo invasivo e prepotente – e il Nephilim non poté fare nulla per impedirlo. Ne fu assalito. E percepì di nuovo il suo cuore accelerare e i palmi delle sue mani sudare. Sentì le sue difese crollare, quasi come se le mura costruire intorno al suo cuore diventassero argilla nelle mani di Magnus, che improvvisamente era in grado di modellarle o distruggerle a proprio piacimento.
E proprio perché aveva la capacità di disintegrarle, Alec rispose con una sincerità che aveva sempre e solo riservato ai suoi fratelli e mai agli estranei.
“No.” Sussurrò, rispondendo alle sue domande. Avrebbe voluto gridargli addosso, intimargli di farsi gli affari suoi, di smetterla di giocare in quel modo con lui, ma non ci riuscì. Dalla sua bocca non uscì più un suono e Alec non sapeva spiegarsi il motivo di quella sua reazione. Era come se quella semplice, sincera, risposta, l’avesse prosciugato di tutte le sue energie.
Osservò Magnus alzarsi dal letto e avvicinarsi a lui. Alec non riuscì a muoversi e rimase pietrificato sul posto fino a quando Magnus non fu così vicino che dovette alzare lo sguardo per riuscire a guardare il Nephilim negli occhi.
“Inizio a pensare che tu abbia solo frequentato degli idioti, in vita tua. Dei bigotti con il paraocchi che hanno perso l’occasione di avere tutto questo.” Magnus non lasciò mai i suoi occhi, mentre parlava. Alzò una mano e Alec pensò che l’avrebbe accarezzato. Quel pensiero lo fece fremere ed irrigidire allo stesso tempo, come se provocasse in lui sentimenti contrastanti.
Come se avesse allo stesso tempo voluto e non voluto che Magnus sfiorasse la sua pelle umida e nuda.
Ma Magnus non lo toccò. Non lo sfiorò nemmeno. Alec avvertì solo il calore della sua magia addosso e si rese conto che lo stava solamente riscaldando e asciugando. E quando si chiese il perché, si rese anche conto che la sua pelle era coperta di brividi. Non sapeva se fossero di freddo o dettati dalla vicinanza di Magnus, ma evidentemente lo Stregone doveva aver pensato che fosse infreddolito e aveva risolto il problema.
Ancora una volta, si era preso cura di lui.
C’è dell’altro, in quest’uomo, gli suggerì una voce timida che partiva dal suo cuore.
“Vestiti e poi vieni giù. Devi mangiare. Facciamo colazione con quello che vuoi.”
Magnus non gli lasciò il tempo di rispondere. Si voltò e uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé una scia profumata, che solo in un secondo momento Alec riconobbe anche sulla propria pelle.


Alec era scosso.
Il comportamento di Magnus lo destabilizzava e ancora di più lo destabilizzava il proprio cuore, che reagiva a quelle strane attenzioni svegliandosi dal suo torpore e comportandosi non più solo come un organo involontario. I suoi battiti, infatti, erano aumentati ferocemente, quando Magnus gli era stato così vicino, e Alec era riuscito a percepire il proprio cuore in ogni parte di sé: dentro alle orecchie, poi fermo in gola, e infine nel petto, dove aveva continuato una corsa frenetica e inarrestabile – un tamburo da guerra indomabile che aveva persino aumentato il suo respiro. Il suo cuore e il suo corpo, reagivano istintivamente alla vicinanza di quell’uomo, senza che Alec avesse il minimo controllo su di loro.
Erano loro a controllare lui.
Ma perché?
Perché il suo cuore si comportava in quel modo? Perché reagiva a quell’uomo, per il quale invece, avrebbe dovuto provare indifferenza – o, al massimo, avversione?
Perché era così che doveva andare, giusto? Se davvero era destinato a provare qualcosa, se davvero l’indifferenza era destinata a stare fuori da questa assurda equazione, il sentimento in questione non avrebbe dovuto essere la totale avversione?
Avrebbe dovuto essere così.
Il suo cuore, tuttavia, non la pensava nello stesso modo. A quanto pareva, il suo cuore trovava giusto reagire alla vicinanza di quell’uomo, trovava opportuno ritenerlo bellissimo.
Il suo cuore era un gigantesco stupido, per questo non lo ascoltava mai. Per questo Alec lo zittì. Non avrebbe permesso alle sue emozioni di prendere il sopravvento – anche se, quando c’era di mezzo Magnus, sembrava che fossero l’unica cosa di cui era fatto Alec. Davanti a lui, il Nephilim si trasformava in un ammasso caotico di emozioni, spesso contrastanti tra loro, ma tutte ugualmente forti.
Emozioni che non sapeva gestire e che prendevano il controllo.
Lasciale fare – suggerì la voce timida che abitava il suo cuore.
NO! Non l’avrebbe ascoltata, quella voce, perché Alec aveva appena deciso di zittire il suo cuore stupido e ingenuo.
Si infilò le mani nei capelli e le lasciò lì per qualche istante con l’intenzione di calmarsi. Poi infilò dei vestiti a caso – jeans e maglione – e uscì da quella stanza diretto al piano di sotto.
Avrebbe fatto colazione con lui, ma si sarebbe impegnato a soffocare qualsiasi emozione. E magari avrebbe persino ricominciato a stare in silenzio, per evitare che qualsiasi interazione potesse provocare anche il minimo effetto su di lui.



“Ce ne hai messo di tempo.” Commentò Magnus, seduto al tavolo della cucina, quando Alec lo raggiunse. Cercò di ricordarsi il suo intento, ciò che aveva deciso di fare prima di scendere. Il silenzio, tuttavia, in quel momento non sembrava una soluzione conveniente. Decise che avrebbe mantenuto la conversazione su un piano del tutto formale, come se davanti a lui ci fosse un qualsiasi estraneo.
Perché in effetti è così. Lo conosci da solo sei giorni e guarda dove sei finito.
Giusto, poteva essere una corretta osservazione.
Alec sarebbe stato educato, niente di più.
“Scusa.” Disse solamente, perché non sapeva esattamente come rispondere. Non poteva dirgli che in realtà aveva impiegato tre secondi a vestirsi, e che il tempo che aveva passato in camera sua l’aveva usato solo per rimuginare sui suoi pensieri improvvisamente estremamente rumorosi e impossibili da chetare.
“Siediti,” Iniziò Magnus, indicando una sedia di fronte a sé. Alec fece come gli veniva detto. “Cosa vuoi mangiare?”
“Pancake, per favore.”
Educazione. Nient’altro.
Magnus non commentò la sua scelta, semplicemente mosse le mani e fece comparire sul tavolo una quantità esagerata di pancake.
Alec osservò la pila che stava davanti a sé e alzò un sopracciglio con fare dubbioso, ma prima ancora che potesse dire qualcosa, Magnus parlò.
“Devi mangiare. Non stai mangiando abbastanza.”
“Forse perché essere stato rapito mi stressa. E lo stress mi chiude lo stomaco.”
Alla faccia del rimanere solo educato. Dannazione, Alec! Che ti prende? Ancora le sue emozioni. Non riusciva a controllarne nessuna, nemmeno la rabbia. E di solito ci riusciva egregiamente.
Lo sguardo di Magnus si indurì. “Puoi, solo per una volta, provare a non essere così ostinato? Sto cercando di…” Magnus guardò altrove, mordendosi l’interno della guancia. Quasi come se non fosse sicuro di voler continuare quella frase, ma Alec era curioso, troppo curioso per lasciar correre.
“Di fare cosa, Magnus?”
Lo Stregone portò di nuovo il suo sguardo su Alec. “Di farti sentire a casa.”
“Non mi sentirò mai a casa. A casa ci sono i miei fratelli, i miei genitori, c’è il mio arco, e i miei libri. Qui non ho niente. E mi hai proibito di andare in biblioteca, l’unico posto dove potrei fare qualcosa di normale che facevo anche a casa.”
Magnus provò una sensazione strana. Proprio estranea a se stesso. Anzi che provare il desiderio di zittirgli quella bocca insolente gridandogli contro, o rispedirlo nella sua stanza dove almeno sarebbe stato in silenzio, sentì la necessità di… accontentarlo.
Era un sentimento assurdo, che lo spaventava anche un po’ – perché poteva essere la conferma di quelle implicazioni che si erano formate in un angolino del suo cervello e che lui, ancora, si stava impegnando ad ignorare. Quelle sarebbero state davvero troppo da gestire al momento.
Ed era già destabilizzante dover avere a che fare con questo lato empatico di sé stesso. Non aveva mai provato empatia per nessuno.
“Darti un arco è escluso. Ho visto come tiri. Potresti usarlo contro di me, magari mentre dormo, o mentre sono distratto. Ma… revoco il divieto di andare in biblioteca. Puoi andarci quando vuoi e leggere i libri che preferisci. Puoi persino portarci Presidente, che a quanto pare ha un debole per te. Tra scorbutici, evidentemente, vi capite.”
“Non sono scorbutico!” Si mise sulla difensiva Alec.
“Lo sei, invece.” Tagliò corto Magnus. “Allora, può andare?”
Alec guardò perplesso lo Stregone di fronte a sé, non sapendo bene che significato dare a quel cambiamento.
“Può andare,” concordò, “Grazie.”
Magnus gli rivolse un cenno del capo. Poi agitò di nuovo le mani e fece comparire una brocca con del succo d’arancia e due bicchieri.
“Adesso mangia.” Ordinò. E Alec obbedì.




I pancake erano buonissimi. E Alec riuscì a mangiare decentemente dopo giorni passati a piluccare del cibo o a digiunare. Magnus lo guardava con un sorriso sulle labbra e Alec, con la bocca piena, se ne accorse.
“Che hai da ridere?” gli domandò, dopo aver ingoiato il suo boccone.
“Non sto ridendo, sto sorridendo, Alexander. C’è differenza.”
“Non vedo differenza se il tuo intento è schernirmi. E io mi chiamo Alec.”
“Non voglio in alcun modo schernirti. Trovo carino il tuo modo di mangiare, tutto qui. E il tuo nome è Alexander. È così bello, non vedo perché devi accorciarlo.”
Alec arrossì. “Io mangio in modo normale,” borbottò, “E non lo so perché, in realtà mi chiamano tutti così da tanto tempo. Mi piace Alec come suona. Alexander sembra troppo formale.”
“Io trovo sia un nome elegante, capace di trasmettere una certa forza. Secondo me ti si addice molto.”
Il Nephilim avvampò di nuovo. Non li sapeva gestire i complimenti, o qualsiasi cosa fossero. “Non mi hai ancora detto come fai a saperlo, comunque.”
“E nemmeno te lo dirò, zucchero.”
Alec gli riservò un’occhiata severa, a causa di quel nomignolo. “Ho il diritto di saperlo.”
Magnus agitò con un movimento circolatorio il proprio bicchiere, guardando il succo d’arancia che vorticava per qualche istante, prima di prenderne un sorso.
“Magari te lo dirò a tempo debito. Ora, cambiamo argomento, per cortesia.”
“Il tuo per cortesia è il meno sincero che abbia mai sentito. In realtà mi stai imponendo di cambiare argomento, celando il tuo essere despota con finta educazione.”
“Quanto sei pungente, dolcezza.” Commentò Magnus, stranamente per nulla indispettito da quella reazione. Quasi come se si aspettasse che Alec parlasse in quel modo. “E non sono un despota.”
“Lo sei, invece.” Tagliò corto Alec, proprio come Magnus aveva fatto poco prima con lui, definendolo scorbutico. “E di cosa gradirebbe parlare, Sua Altezza Reale?”
Magnus si appoggiò allo schienale della sedia e studiò il viso del ragazzo. Si prese del tempo per guardare la sua bellezza, per cogliere i suoi dettagli. Notò una cicatrice sul sopracciglio sinistro.
“Come te la sei fatta?” gli chiese, indicando il punto in questione.
“Vuoi davvero parlare di me?”
“Perché no? Magari scopro che sei una persona interessante e non solo un Nephilim scorbutico.”
Alec alzò gli occhi al cielo, ma non rispose a quella provocazione. “Me l’ha fatta mia sorella. Non di proposito, ovviamente.”
“Sai, di solito, questo è il momento della conversazione dove spieghi com’è andata.” Lo spronò a continuare Magnus. Alec reagì a quel tono sarcastico assottigliando gli occhi. Magnus era strano. Era capace di essere crudele e pungente, ma nei suoi strani modi di fare si percepiva un certo interesse. E Alec non capiva davvero il motivo dietro al fatto che fosse interessato a lui.
Sbuffò. “Eravamo bambini. Lei stava imparando ad usare la frusta, io mi sono trovato involontariamente tra lei e il suo obiettivo e ha preso me invece dell’oggetto che doveva afferrare. Non mi ricordo nemmeno cos’era, mi ricordo solo che ho sentito un dolore improvviso e lei che si era messa ad urlare, terrorizzata di avermi cavato un occhio.”
“Ti è andata bene.”
“Direi di sì.”
“Parlami di lei.”
Alec si mise immediatamente sulla difensiva. Aveva timore che una richiesta simile avesse delle implicazioni, tipo voler portare anche Isabelle ad Edom. Non l’avrebbe mai permesso. “Perché?”
Magnus si accorse del suo cambiamento. “Rilassati. Sono solo curioso.”
Ma Alec non gli credeva.
“Alexander. Non farò del male a tua sorella. Puoi credermi.”
“E allora perché vuoi che ti parli di lei? Hai detto che le famiglie sono una maledizione, quindi non sei proprio un fan dei rapporti umani.”
“Non sono un fan di moltissime cose, questo non significa che desideri distruggerle.”
“Dimmene una.” Si affrettò a chiedere Alec, per cambiare argomento e distogliere l’attenzione da Isabelle.
Magnus aveva capito il suo giochetto, ma decise di accontentarlo. Per qualche strano, e anche un po’ spaventoso, motivo provò il desiderio di conquistare la fiducia di Alec. E non l’avrebbe mai fatto, se non si fosse mai esposto e avesse continuato, invece, a voler che fosse l’altro ad esporsi.
“Odio i jeans scoloriti. Sono orribili. Avrei persino il potere di cancellarli dalla faccia della Terra, ma non lo faccio.”
“Quanto sei magnanimo,” commentò Alec, con sarcasmo.
Magnus lo ignorò. “Ti basta come prova della mia tolleranza?”
“Ovviamente no! Non puoi paragonare la sicurezza di mia sorella a degli stupidi jeans!”
Magnus sospirò. Alec era così cocciuto e ostinato che andava a minare la sua già poca pazienza. “D’accordo. Eviteremo il discorso sorella. Quanto sei difficile!”
“A quanto pare ho un sacco di difetti. Sono scorbutico, difficile… c’è qualcos’altro?”
“Sì, in realtà. Sei cocciuto, ostinato e insolente.”
“Oh, come se tu invece fossi una persona piacevole! Sei arrogante e sfacciato, per non parlare di quanto tu sia dispotico e megalomane!”
“Megalomane?”
“Sì, e se non te ne accorgi significa anche che sei ottuso!”
“Ottuso! Senti da che pulpito. Hanno inventato quella parola per descrivere la tua gente, in pratica!”
“Io non sono la mia gente. Non siamo tutti uguali sai? Ma immagino che per te sia più facile metterci tutti dentro ad una categoria, così almeno puoi odiarci tutti indistintamente.”
Alec era furioso. Sentiva il cuore martellargli con ferocia nel petto, mentre il respiro accelerava. Improvvisamente gli venne difficile anche solo stare seduto e, diamine, avrebbe pagato il suo peso in oro per avere un arco a disposizione e andare a sfogare la sua rabbia da qualche parte, colpendo più oggetti possibili. Il suo piano di mantenere la calma era andato in frantumi. Tutto il suo corpo era in preda alle emozioni e lui si sentiva improvvisamente schiacciato da esse. Non sarebbe riuscito a resistere un attimo di più. Si alzò, finalmente, dalla sua sedia e si voltò per andarsene.
“Oh, no!” Esclamò Magnus, seguendolo. “Non te ne andrai di nuovo!”  Con un gesto della mano creò una barriera magica al posto della porta. Alec si fermò giusto in tempo, un secondo prima di rischiare di andarci a sbattere con il naso.
Si voltò verso Magnus, arrabbiato. “Lasciami uscire di qui!”
“No. Non puoi andartene ogni volta! E non provare a toccare di nuovo quel ciondolo, o giuro che questa volta ti lascio soffocare!”
Alec deglutì, cercando di buttare giù tutta la rabbia che gli si era bloccata in gola, come un sasso ricoperto di spine. “Cosa vuoi da me, Magnus?”
Le parole uscirono dalla bocca di Magnus ancora prima che lui potesse controllarle. “Non lo so. L’unica cosa che so è che voglio che tu ti senta a tuo agio, qui e con me.”
“È assurdo.”
“Credi che non lo sappia? Lo provo e basta. E devi smetterla di fuggire via da me ogni volta che litighiamo.”
“Allora smettila di essere così irritante. Prova ad essere meno demone e più umano.”
“E se quella ad essere irritante fosse la mia parte umana?”
“La tua parte umana è quella che mi ha salvato due volte. È quella che si è assicurata che mangiassi. Forse, in profondità, sei diverso da quello che credi.”
“Tu non sai di cosa stai parlando.” Magnus fece cadere la barriera magica. “Esci, Shadowhunter. Va’ dove ti pare. Ma lasciami solo, per favore.”
Alec avrebbe voluto dirgli che non poteva comportarsi così, non poteva gridargli di non andarsene e poi comportarsi come se gli desse fastidio. Ma non lo fece. Perché notò qualcosa nello sguardo luccicante di Magnus, un lampo di… sofferenza, che lo spinse ad accontentarlo. Uscì da quella stanza in silenzio e Magnus lo osservò andare via.
Non poteva dirgli come stavano davvero le cose.
Non poteva dirgli ciò che aveva capito nel momento esatto in cui aveva visto Dennis fargli del male e aveva provato il desiderio di proteggerlo. Non poteva dirgli che aveva un effetto devastante su di lui, sulle sue emozioni, o che avesse risvegliato una parte di sé che pensava non esistesse più.
Magnus aveva allontanato certi pensieri fin da subito, negandoli, relegandoli nella parte più remota del suo cervello. Aveva messo le briglie a quei pensieri che lo terrorizzavano, ma poi era comparsa Vocetta e lei aveva parlato poco, ma gli aveva fatto notare cose che già sapeva e che si era impegnato sempre a nascondere. Con Vocetta le briglie non avevano funzionato e aveva dato voce a quella consapevolezza che gli faceva paura.
Lui era diverso, diceva sempre Vocetta.
E Magnus sapeva che era vero.
Alec era diverso da tutti gli altri perché aveva qualcosa nel suo cuore. Una cosa che Magnus non aveva mai avuto.
La sua umanità.
Alexander Lightwood era venuto al mondo ignaro del fatto che dentro al suo cuore era contenuta l’umanità di Magnus Bane.
E adesso, lo Stregone non poteva più fare finta di non saperlo.




C’era una leggenda, tra i demoni superiori.
Per almeno uno di loro, nasce sempre un essere umano mortale che porti con sé la loro umanità.
Si da per scontato che dal momento in cui si nasce ad Edom, l’unica cosa di cui siano fatti i demoni sia, appunto, icore e malvagità. I demoni, in particolare quelli superiori, non sono capaci di provare emozione alcuna, nessun tipo di affetto, nessuna empatia; non sono capaci di un gesto gentile, o premuroso. Perché, per essere in grado di provare emozioni simili, bisogna innanzitutto provare emozioni.
E i demoni non le provano.
I demoni non hanno un cuore capace di renderli più buoni.
E per bilanciare questo equilibrio squilibrato, il Fato ha ben pensato che debba nascere un essere umano in grado di rendere i demoni più umani a loro volta, una persona in grado di completare il lato emotivo della creatura, quasi come il pezzo mancante di un puzzle.
Alcuni lo trovano, altri passano secoli a cercarlo, altri sono ben felici di non trovarlo mai.
Magnus aveva sempre pensato fosse una sciocca leggenda, qualcosa inventata dalle altre razze per non far apparire i demoni così mostruosi, qualcosa che servisse a dare speranza in una possibile redenzione.
Non pensava che questa cosa valesse anche per lui, però. Dopotutto, prima di essere un demone superiore, era uno Stregone. Lui era un mezzo sangue, di conseguenza avrebbe già dovuto avere una parte umana.
Non se hai lasciato che quella demoniaca la divorasse. Forse lui è qui solo per risvegliarla.
Ancora Vocetta… Magnus non riusciva più a zittirla, ormai non ci provava più nemmeno. Se avesse avuto ragione, il Destino gli aveva tirato un grosso tiro mancino.
Gli aveva fatto incontrare Maryse, che gli aveva chiesto di avere un figlio, lui l’aveva resa capace di ciò e vent’anni dopo, lui si era ritrovato ad avere a che fare con il suddetto primogenito, che si era anche rivelato il custode della sua umanità.
In pratica, Magnus si era fregato con le sue stesse mani.
Se avesse mandato Maryse al diavolo, quel giorno, Alec non sarebbe mai nato e adesso… adesso non esisterebbe un essere umano in grado di avere un qualche potere sul grande Magnus Bane.
Era lui quello che controllava gli altri, di solito.
Era spaventoso sapere che al mondo esistesse una persona in grado di poterlo manipolare, volente o nolente.
Alec non si era ancora reso conto del potere che poteva avere su Magnus, ma se un giorno l’avesse fatto? Quali sarebbero state le conseguenze di questa sua scoperta? Avrebbe usato questa possibilità a suo vantaggio?
Magnus non lo sapeva. Sapeva solo che era spaventato e odiava quella sensazione. Lui non aveva mai paura di niente.
Un miagolio lo distolse dai suoi pensieri. Magnus era ancora seduto in cucina e Presidente si stava strusciando alle sue caviglie. Lo Stregone si chinò per prenderlo in braccio e il gatto si sistemò sul suo grembo.
“Cosa devo fare con lui, mh? Sembra che a te piaccia tanto. Sapevi già chi era, non è vero? Certo che lo sapevi, tu sai sempre tutto…”
Il gatto miagolò, come a dare conferma a quelle parole. Strusciò la testa contro il petto di Magnus.
“Sei un gatto scorbutico, ti avvicini solo a me. E a lui. L’hai percepita, non è vero? Quella parte di me che abita dentro al suo cuore. Per questo ti piace tanto.”
Un altro miagolio.
Magnus lo prese come un’altra conferma. Affondò una mano nel pelo del gatto, riservandogli una carezza tranquilla, mentre con l’altra si massaggiò le tempie.
Doveva fare qualcosa.
Uccidilo, e risolvi ogni tuo problema.
Cerca di conoscerlo, e capisci che persona è. Magari non vuole farti del male.
È una cosa stupida! Perché rischiare? Attacchiamo per primi e togliamoci il pensiero!
NO!

Magnus sentiva le sue coscienze sovrapporsi una all’altra. Era così confuso e frustrato, ma di una cosa era certo… l’idea di far del male ad Alec diventava sempre più impensabile, per lui.
Era una cosa così estranea a se stesso, il desiderio di proteggere qualcuno che non fosse lui stesso.
Desiderava che Alec fosse al sicuro. Desiderava che Alec fosse felice. E per quanto potesse suonare assurdo, era quello che voleva.
Avrebbe dato retta a Vocetta. Avrebbe cercato di conoscerlo, di capire che persona fosse. E poi magari gli avrebbe persino detto la verità, se Alec si dimostrava degno di fiducia.
E se invece non si dimostrasse degno di fiducia?
Magnus ignorò quella domanda. Perché la risposta che avrebbe dovuto dare non gli piaceva.



Magnus uscì dalla cucina, con Presidente appresso, e si mise a cercare Alec. Aveva la sensazione che non l’avrebbe trovato in camera sua, ora che gli aveva dato il permesso di muoversi liberamente nel castello, quindi decise di dirigersi in biblioteca, l’unica altra stanza che Alec conosceva.
Lo trovò dove si aspettava. L’ultima volta che l’aveva visto in quella stanza, l’aveva trovato sulla sua poltrona. Adesso, il Cacciatore se ne stava seduto a terra, davanti al camino spento, con le gambe incrociate e lo sguardo basso su un libro. Non si era accorto del suo ingresso, troppo concentrato sulla sua lettura, e Magnus per un attimo si domandò cosa stesse leggendo, cosa attirasse così tanto la sua attenzione.
Lo Stregone rimase in silenzio ancora qualche istante, guardando il giovane di fronte a sé. Tolto ogni pregiudizio che potevano avere l’uno nei confronti dell’altro, dettato da anni di guerre tra le loro specie, Magnus riusciva chiaramente a vedere un ragazzo.
Era così giovane, e così indubbiamente bello che il suo cuore reagì a quel pensiero ancora prima che lui se ne rese conto. Lo sentì… sfarfallare. Il suo cuore non aveva una reazione simile da…sempre.
Nessuno aveva mai avuto nessun tipo di effetto sul suo cuore immortale, nessuno era mai stato in grado di suscitargli emozione alcuna.
E adesso… ad Alec era bastato starsene seduto a leggere un libro, con i suoi vestiti neri addosso – di tutti quelli che Magnus gli aveva messo a disposizione, lui aveva scelto, e sempre sceglieva, quelli meno elaborati – i suoi capelli scuri e scompigliati di fronte agli occhi. Due occhi bellissimi, che erano stati il primo campanello di allarme, per Magnus.
Gli occhi di Alexander, di quel colore così particolare, un misto di verde e nocciola, erano stati i primi a fargli venire i dubbi – per il semplice fatto che erano stati i primi a suscitargli un qualche effetto. Alec lo guardava e lui sentiva dentro di sé un tremito indefinito. Non sapeva ancora che significato dargli, ma sapeva che era un’emozione già troppo forte, dal momento che gli era suscitata da qualcuno che conosceva da soli sei giorni.
Magnus guardò Alec girare pagina, e l’avrebbe osservato in silenzio ancora per qualche istante, se Presidente non avesse trottato fino a lui per sistemarsi quasi con prepotenza sulle sue gambe. Il suo gatto non sapeva accettare un no come risposta, quindi non lasciò molta scelta ad Alec, se non quella di lasciarlo accomodarsi su di lui.
“Ehi, hai di nuovo aperto la porta?” domandò, accarezzando la schiena dell’animale. Magnus capì che non si aspettava che il gatto non fosse solo, quindi si schiarì la gola, attirando la sua attenzione.
Alec alzò il viso da Presidente e portò la sua attenzione su di lui. “Oh, ciao. Non sapevo ci fossi anche tu. Non ti ho sentito.”
“Ho fatto piano. Non volevo disturbarti, sembravi molto preso.”
Alec annuì e sollevò il libro per fare in modo che Magnus leggesse il titolo. Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle. “Mi incuriosisce molto.” Alec fece una pausa. Era chiaramente teso, e si vedeva che non sapeva cosa dire, visto come si erano lasciati l’ultima volta. Ma decise comunque di provare a fare conversazione. Non sapeva perché, ma la rabbia per Magnus, dopo aver visto la sofferenza solcargli gli occhi brillanti, era svanita. Adesso per lui provava… compassione. Continuava a chiedersi quale fosse la causa della sua sofferenza. Continuava a pensare al fatto che se un demone superiore riusciva a soffrire, allora forse, limitarsi a guardare solo la sua natura demoniaca potesse essere sbagliato. E se ci fosse stato altro, in lui?
E perché, improvvisamente, Alec sentiva la necessità di scoprirlo?
“Chiuso nella mia stanza, ho letto Il ritratto di Dorian Grey due volte, in questi giorni. Volevo cambiare genere.” Sussurrò, cercando di risultare il più normale possibile. Non voleva che il suo sbilenco tentativo di fare conversazione sembrasse un’accusa mal velata.
Magnus abbozzò un sorriso e si sedette al suo fianco, sul pavimento. Con un gesto della mano accese il fuoco nel camino e Alec fu immediatamente avvolto nel calore confortante emanato dalle fiamme.
“A che punto sei arrivato?” Gli domandò Magnus, sporgendosi verso il libro. Alec lo chiuse, tenendo un dito in mezzo alle pagine per tenere il segno, e si strinse il libro al petto.
“Non sbirciare. Prova ad indovinare.”
Magnus lo guardò con un sopracciglio alzato. A dire la verità, era andato lì per scusarsi, per provare a spiegarsi, per cercare di iniziare a conoscerlo e capire che persona fosse per provare ad intuire le sue intenzioni, o capire se poteva fidarsi di lui. Ma adesso… adesso sembrava così naturale assecondare il suo gioco, quasi come se le scuse non servissero, quasi come se Alec avesse capito già da solo il motivo per cui Magnus era tornato da lui.
Pensò che forse era meglio così, visto che le volte che avevano provato a legare, sentendosi in qualche modo costretti dal fatto che dovessero farlo, li aveva portati solo a discutere e litigare.
Forse era meglio ricominciare in questo modo informale e puerile. Forse era meglio non pianificare un modo per conoscersi e lasciare che tutto scorresse in modo naturale.
“Non saprei…”
“L’hai letto, giusto?”
“Dolcezza, io ho conosciuto Arthur. Vuoi che non abbia letto i suoi libri?”
Alec si morse la lingua per non lasciare libero sfogo alla sua curiosità. Avrebbe voluto chiedergli un sacco di cose: com’era stato Doyle, cosa si provasse a camminare nelle epoche, cosa si prova a sapere di poter vivere per sempre. Ma decise di non spingersi in quel territorio, timoroso di risultare invadente, o di far chiudere Magnus di nuovo a riccio.
Ed era ridicolo che proprio lui accusasse un’altra persona di chiudersi a riccio, dal momento che era sempre lui il primo a farlo. Eppure… in mezzo a tutte le sue emozioni contrastanti, in quel momento quella che riusciva a percepire più chiaramente delle altre era il desiderio di non far allontanare Magnus.
Era assurdo, proprio come aveva detto poco prima allo Stregone quando gli aveva detto che voleva che lui fosse felice, lì, con lui. Eppure era così.
Non riusciva a controllare le sue emozioni e francamente era stanco di analizzarle di continuo.
“Allora se, come dici, l’hai letto, sai cosa succede. Prova ad indovinare.”
Magnus ci pensò su. Pensò alla trama del libro e notò che il segno che stava tenendo Alec non era troppo in avanti nel libro, quindi forse…
“Alla parte dove stillano i rispettivi difetti?” Magnus non riuscì a trattenere un sorriso. L’ironia della cosa era troppa, per non suscitargli una reazione simile.
“Sì,” Alec sorrise a sua volta, “È strano, vero?”
“Un po’. Hai scelto un libro dove due persone elencano i rispettivi difetti, proprio dopo che l’abbiamo fatto anche noi. E a tal proposito…”
“Va tutto bene,” lo interruppe Alec, “Entrambi abbiamo detto qualcosa. Non serve che ti scusi.”
“E chi ti dice che sono venuto per scusarmi e non per ricevere delle scuse?”
Alec lo guardò di traverso. “La tua espressione, Magnus.” Affermò, deciso. “Scuse accettate, comunque. Spero tu possa accettare le mie.”
Magnus annuì. “Certo. Dovrei essere un po’ più comprensivo con te.”
“Sì, dovresti. Decisamente.”
Si guardarono, in silenzio. Nell’aria aleggiò qualcosa per qualche istante, qualcosa che nessuno dei due riuscì a identificare. Ebbero comunque la sensazione di aver appena stabilito una tregua. E per adesso andava bene così. Ad entrambi.
Magnus si sporse verso il Cacciatore per agguantare il suo gatto, ma Presidente gli soffiò contro e si sistemò di nuovo su Alec, tornando a sonnecchiare. “Traditore,” sibilò al felino, facendo ridacchiare Alec.
Magnus lo guardò. Ebbe l’impressione che Alec non ridesse tanto, ed era un vero peccato, perché il suo viso si illuminava, rendendolo ancora più bello.
“Leggi per me, Alexander. Ti va?”
Alec annuì e cominciò a leggere.
Per quanto assurdo fosse, Alec si dimenticò del suo piano iniziale di cercare una via di fuga, e Magnus si dimenticò di tutte le sue preoccupazioni.
Per quanto assurdo fosse, in quella biblioteca, esisterono solo Alec e Magnus, come se fossero due normalissimi e comuni esseri umani.




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Ciao a tutti! Ecco un nuovo capitolo. Ho cercato di sviluppare il loro avvicinamento, ma non so se ci sono riuscita come avrei voluto. Volevo che la cosa fosse graduale, e spero che risulti almeno un pochino credibile.
Ad ogni modo… si sono avvicinati! E Magnus ha ammesso almeno a se stesso il motivo per cui si sente spinto verso Alec. Lui è la sua umanità. E quando ho pensato a questa storia, ho pensato in automatico al fatto che Alec potesse rendere Magnus-demone più vicino al Magnus che tutti conosciamo. Non so se come idea alla fine faccia schifo, non so nemmeno se per ora è stata sviluppata in modo decente. Ho un sacco di dubbi!
Ad ogni modo, non so quanti capitoli verranno ancora fuori. Tecnicamente ne avevo pensati sei, ma non so se uno mi basterà a sviluppare il loro rapporto. Forse ce ne saranno altri due.
Non lo so, abbiate pazienza con una persona disordinata come me, vi prego! XD
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo, se vi va ovviamente! Io intanto vi saluto e ringrazio immensamente chiunque legga, recensisca o abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Lo apprezzo moltissimissimo *v*
Un abbraccio, alla prossima! <3
 

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Capitolo 6
*** 6. ***


Alec stava girovagando per il castello. Da quando, una settimana prima, Magnus gli aveva dato il permesso di poterlo fare, aveva cominciato ad esplorare il luogo dove ormai viveva da due settimane. Alcune stanze sembravano uscite direttamente da un museo: al piano di sotto, se si seguiva il corridoio di ingresso, si arrivava ad una stanza piena di opere d’arte. C’era di tutto: statue, quadri, reliquie e libri antichi. Ce n’era uno in particolare che era custodito dentro ad una teca ed era completamente ingiallito. Alec aveva provato a leggere cosa ci fosse scritto nelle due pagine che venivano mostrate, ma era una lingua che non conosceva. Più di una volta si era mentalmente appuntato di chiedere a Magnus di cosa si trattasse, se lui conoscesse quella lingua e se poteva, eventualmente, tradurgliela.
Per quanto quel libro suscitasse il suo interesse, tuttavia non era la sua opera preferita.
La sua preferita era quella che stava al centro di quella stanza. Una statua che raffigurava un giovane riccioluto. Era in piedi, e il suo sguardo puntava dritto davanti a sé. Trasmetteva una certa fierezza. Ad Alec piaceva come un materiale freddo come il marmo fosse stato modellato fino a creare un essere umano, e trovava oltremodo affascinante che la mano dell’artista fosse stata in grado di riuscire ad estrapolare un’espressione umana da un blocco di pietra.
“Antinoo.”
Alec sussultò, voltandosi alle sue spalle. Magnus lo stava fissando con un sorrisetto. Non era niente di derisorio, sembrava più qualcosa simile alla… tenerezza.
Alec arrossì al solo pensiero e lo scacciò. “Come?”
“La statua. Raffigura Antinoo.” Magnus si staccò dallo stipite d’ingresso, dove non c’era una porta, e si avvicinò ad Alec. Si sistemò al suo fianco e il Nephilim venne invaso dal suo profumo. Non sapeva cosa fosse, sapeva solo che gli piaceva – e che tutti i bagnoschiuma di Magnus avevano quell’odore, lo stesso che da qualche giorno permeava anche sulla pelle di Alec.
“La sua morte rotea intorno a circostanze abbastanza misteriose. È annegato nel Nilo, ma non si sa ancora se è stato un incidente. Alcuni studiosi pensano di sì, altri pensano invece che si sia trattato di un suicidio, altri invece ritengono che potesse essere stato ucciso per poter compiere un sacrificio umano.”
Magnus spostò lo sguardo dalla statua ad Alec, che lo stava già osservando, standolo attentamente ad ascoltare. “Quando è morto, l’imperatore Adriano ha fondato un culto in suo nome, che ben presto si diffuse in tutto l’impero. Riesci a crederci? Adriano l’ha amato così tanto che l’ha trasformato in un dio.”
“Loro erano…”
“Amanti, Alexander. Sì.”
Alec guardò di nuovo il volto del giovane riccioluto e, per un attimo, provò invidia per lui. Invidia per il suo coraggio, dal momento che aveva apertamente amato un altro uomo, davanti ad un impero intero, ma soprattutto, invidiò l’amore di cui era stato oggetto. Era stato amato così tanto che era stato addirittura divinizzato. Quanto può essere grande, l’amore di una persona, se arriva a trasformare l’altra in un dio?
Alec si chiese se sarebbe mai stato amato in maniera simile, nella sua vita, e si rispose di no, molto probabilmente. E questa volta il fatto che fosse relegato ad Edom non c’entrava niente. Nella sua dimensione, non sarebbe mai stato possibile per lui avere una storia d’amore simile. Non gli sarebbe mai stato permesso di innamorarsi di un uomo, di essere amato da un uomo.
Provò una profonda tristezza.
“Non riesco ad immaginare un amore tanto forte.” sussurrò impercettibilmente. Non aveva il coraggio di guardare Magnus. Aveva paura che, guardandolo, avrebbe associato a lui tutte le emozioni che gli faceva provare anche solo standogli vicino: il cuore che accelerava, le mani che sudavano e iniziavano improvvisamente a formicolare, come se gli stessero suggerendo di sfiorarlo, di soddisfare una curiosità che gli aveva più volte fatto domandare se la sua pelle fosse liscia come sembrava, o quanto calore trasmettesse.
“Non ti sei mai innamorato?”
“Credo che tu conosca la risposta.”
“Dimmelo tu, Alexander.”
Alec alzò gli occhi sullo Stregone, incontrò l’oro brillante delle sue iridi, striate di verde, in alcuni punti. Erano occhi innaturali, che avrebbero dovuto fargli paura, ma non era così. Non riusciva ad averne paura perché ne era tremendamente affascinato. Magnus aveva degli occhi bellissimi, i più belli che avesse visto.
“No, ovviamente. Sai benissimo che il Clave me l’avrebbe proibito con ogni suo mezzo a disposizione.”
Alec abbassò lo sguardo. Per quanto fosse stato cresciuto nel rispetto delle leggi, proprio non riusciva ad accettare la rigidità di certe vedute del Clave. L’avevano sempre fatto sentire sbagliato. E ogni volta che aveva quel pensiero, Alec sentiva nascere dentro di sé un misto di rabbia e tristezza. “Non potrò mai amare apertamente un altro uomo. Nella mia storia, non c’è un imperatore che mi ama tanto da farmi diventare un dio. La mia storia finirebbe con la mia derunizzazione e l’esilio.”
Magnus istintivamente gli afferrò una mano – e Alec, stranamente, non si ritrasse. La mano di Magnus era calda, in netto contrasto con il freddo metallo dei suoi anelli, e la sua pelle era liscia, proprio come Alec se l’era immaginata.
“Che si fotta il Clave. Tu meriti un impero intero, meriti tutto ciò che il tuo giovane cuore desidera. Meriteresti la Luna, se solo la desiderassi.”
Alec arrossì violentemente e abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello di Magnus. Tenne gli occhi fissi sulle loro mani incrociate, sul contrasto netto delle loro pelli. La sua, diafana e piena di cicatrici, e quella di Magnus, di un caldo color caramello, perfettamente curata e immacolata.
“E tu?” gli domandò, con un filo di voce, tenendo ancora gli occhi bassi. Non sapeva come reagire a ciò che Magnus gli aveva appena detto – e in gran parte il motivo era il fatto che il suo cuore si fosse piazzato prepotentemente nella sua gola, impedendogli di formulare una frase più elaborata – così decise di spostare l’attenzione da sé.
“Io cosa?”
“Ti sei mai innamorato?”
“Sono un demone, Alexander. I demoni non si innamorano.”
“Sei demone solo per metà. L’altra metà è umana. E gli umani si innamorano.”
Magnus si lasciò andare ad un profondo respiro. Accarezzò con il pollice il dorso della mano di Alec. Era così giovane, nutriva ancora delle speranze in lui. Se solo avesse saputo cosa significava per Magnus… se solo avesse saputo che la sua capacità di provare sentimenti dipendeva a lui…Magnus non si era mai innamorato perché, nonostante la sua parte umana, non aveva mai avuto un briciolo di umanità, in sé.
Suo padre l’aveva cresciuto come un demone, non come un uomo. Per quello avrebbe dovuto esserci sua madre, ma lei… lei si era tolta la vita.
Magnus, quindi, aveva sempre e solo avuto Asmodeus. E lui era un Demone Superiore per intero, di conseguenza, era in grado solamente di crescere un demone.
“È un discorso più complicato di così, zucchero.” Magnus lasciò andare la presa sulla mano di Alec. Quasi come se la fine di quel contatto stabilisse anche la fine di quella conversazione. Alec lo percepì, per questo non si stupì delle parole che in seguito lasciarono la bocca di Magnus. “È ora di pranzo. Hai fame?”
Alec annuì, anche se non aveva fame. Assecondò Magnus, evitando di insistere. “Prepariamo qualcosa noi.”
Magnus lo guardò con stupore. “Vuoi cucinare?”
“Sì. È divertente farlo, e c’è più gusto a mangiare qualcosa che hai fatto con le tue mani, rispetto a mangiare qualcosa che hai miracolosamente fatto comparire con la magia.”
Magnus non prendeva in considerazione un’idea simile da… secoli. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva cucinato, anziché schioccare le dita e far comparire i suoi pasti. E di solito, preferiva di gran lunga la magia, perché se non altro era un modo veloce ed efficace per ottenere subito ciò che desiderava, ma… se era Alec a chiedergli di fare qualcosa, dirgli di no gli risultava difficile.
“D’accordo. Cucineremo.”
Alec gli regalò un sorriso spontaneo, così luminoso che Magnus sentì il cuore che si scaldava. “Grazie.”
Lo Stregone ricambiò il sorriso e gli fece un cenno del capo. Passarono un altro secondo l’uno negli occhi dell’altro, poi Magnus si incamminò verso la cucina. E Alec, questa volta, anzi che seguirlo, rimase al suo fianco.




 
 
“Cosa vorresti preparare?” Domandò Magnus, una volta arrivati a destinazione.
Alec si guardò intorno, quasi come si aspettasse di trovare un cambiamento in quella cucina. Non ce n’erano, ovviamente. E, dal momento che aveva già curiosato in precedenza, sapeva perfettamente che la dispensa e il frigo erano vuoti.
“Non lo so, decidi tu.”
“È stata tua l’idea di cucinare, zucchero. Fosse per me avrei fatto comparire delle crepes.”
Alec lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure. “Quindi hai voglia di crepes. Potevi dirlo apertamente, senza provare a lanciare questa inutile frecciatina.”
“Non inasprirti, tesoro. Sei più piacevole, quando non sei pungente.”
Alec evitò di dirgli che era ovvio che le persone fossero più piacevoli quando non facevano commenti fastidiosi, ma evitò per due motivi. Uno: voleva sforzarsi di essere gentile, come Magnus si stava sforzando di esserlo nei suoi confronti. Due: avendo risposto in modo simile, avrebbe ammesso di essere lui stesso fastidioso, e non voleva dare questa soddisfazione a Magnus.
Di conseguenza, optò per una scrollata di spalle. “Le vuoi dolci o salate?”
Magnus si picchiettò il mento con l’indice. Portava un anello, a quel dito, notò Alec. Era abbastanza vistoso e quadrato, sulla cui superficie di metallo era incisa una M. Alec ne notò anche un altro, all’anulare, vistoso pure quello, ovviamente, la cui superficie era rotonda e sulla quale era incisa una B.
“Dolci.” Affermò infine Magnus, e Alec sorrise. “Ti faccio ridere?”
“Non sto ridendo, sto sorridendo. C’è differenza, Magnus.” Disse Alec, facendo eco alle parole che lo Stregone gli aveva rivolto qualche giorno indietro.
“Ah, adesso mi citi anche?”
“Solo quando non dici stupidaggini.”
Magnus assottigliò lo sguardo, riservandogli un’occhiata tagliente. Certi commenti erano ancora difficili da accettare – e sebbene sapesse che Alec non lo diceva con cattiveria, lui era sempre stato abituato a non tollerare nemmeno un minimo comportamento irrispettoso nei suoi confronti. Per questo fu difficile per lui non rispondergli a tono, magari indurendo la voce e mettendo subito in chiaro chi fosse quello che comandava.
Ma, si rese conto, con Alec non doveva assumere comportamenti simili. Con Alec non era il Sovrano di Edom. E, inoltre, in quelle due settimane, una delle cose che aveva capito del Nephilim era che non avrebbe mai guadagnato il suo rispetto, o la sua fiducia, con il terrore. L’avrebbe fatto con la gentilezza.
Magnus non era più abituato alla gentilezza da… quattro secoli. Sua madre era stata l’unica persona gentile con lui. Era stata l’unica a prendersi cura di lui, a fargli conoscere l’affetto.
Con lei, era scomparsa anche la speranza che Magnus potesse essere anche altro, oltre ad un demone.
“Io non dico mai stupidaggini, tesoro. Ogni parola che esce dalla mia bocca è intrisa di una saggezza profonda.”
Alec tirò le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. “Mh-mh, come dici tu.”
“Stai ancora ridendo di me? Piccolo insolente. Si può sapere perché ti faccio tanto ridere?”
“Non mi fai ridere, Magnus. Mi fai sorridere. Te l’ho già detto. E come hai detto tu, pozzo di saggezza, c’è differenza.”
Magnus incrociò le braccia al petto, infastidito e allo stesso tempo intrigato da come Alec l’avesse raggirato. “E allora sentiamo: perché ti faccio sorridere?”
Alec scrollò le spalle. “Non lo so, in realtà. È una reazione spontanea al tuo modo di fare.”
“Ah, sì?”
Alec annuì. “Sì. Quanti anni hai davvero? Cinquecento? Seicento? Eppure, a volte hai dei comportamenti che non rispecchiano quell’età. A volte, come ad esempio adesso che hai dovuto scegliere cosa mangiare, sembri un ragazzo. Con tutti i dilemmi che la giovane età porta con sé, tra cui cosa scegliere da mangiare.”
Magnus sciolse l’intreccio delle proprie braccia per alzare un indice verso Alec. “Prima di tutto non sono così vecchio come credi, e cercherò di non offendermi per queste tue insinuazioni solo perché sei carino.” Fece una pausa, aspettando che le sue parole sortissero l’effetto sperato. E infatti, le guance di Alec si colorarono immediatamente. Era bellissimo sempre, ma quando arrossiva c’era una sfumatura in lui che lo rendeva prezioso. Magnus non aveva mai provato imbarazzo, i complimenti su di lui non avevano lo stesso potere che avevano su Alec – e questo perché lui era abituato a riceverli, giustamente. Alec no. Lui non era abituato ad essere il centro delle attenzioni di qualcuno e Magnus reputava che fosse un tremendo peccato perché solo il viso del Cacciatore si sarebbe meritato tutte le odi che i poeti di ogni mondo ed epoca fossero stati in grado di scrivere. E lui ne avrebbe aggiunta anche una decina sui suoi addominali perfetti, ma questo era un altro discorso ancora.
“E secondo,” riprese parola Magnus, dopo aver passato qualche istante a guardare i lineamenti arrossati di Alec, “La mia indecisione sul cibo mi accompagna da sempre. Non c’entra niente la mia età. Mi piace pensare a cosa mangerò per essere completamente sicuro che sia effettivamente quello che voglio mangiare.”
Magnus schioccò le dita e sul tavolo comparvero tutti gli ingredienti necessari: uova, latte, farina, delle ciotole vuote, frutta, crema e crema di nocciole.
Alec non ribatté. Si diresse verso le uova e ne ruppe alcune dentro ad una delle ciotole. Magnus si diresse verso la dispensa e da un cassetto tirò fuori una forchetta, che porse ad Alec.
Il Cacciatore l’afferrò e cominciò a sbattere le uova nella ciotola.
“Quanti anni hai in realtà?” Gli domandò di punto in bianco.
Magnus lo guardò lavorare per qualche istante, poi si sedette sul tavolo. Erano uno accanto all’altro, Alec in piedi e Magnus seduto, con le gambe che penzolavano nel vuoto.
“Sai che i gentiluomini non chiedono mai l’età?” Magnus si sporse leggermente verso di lui, sfiorandogli la spalla con la propria. Alec smise di mescolare e alzò lo sguardo su Magnus. Lo trovò più vicino di quanto si aspettasse, ma con sua grande sorpresa non sussultò, ne provò l’istinto di allontanarsi.
“Non sono un gentiluomo, Magnus. Ma se non vuoi rispondermi, basta dirlo.”
Magnus sospirò, arrendendosi nuovamente a quell’istinto che nasceva dentro di sé ogni volta che era Alec a chiedergli una cosa e che lo portava sempre a volerlo accontentare.
“Ho quattrocento anni.”
“E ti reputi giovane?” Commentò Alec, con un sorrisetto sulla faccia. Magnus lo guardò con la bocca spalancata e gli occhi sgranati.
“Rimangiatelo, brutto insolente!”
Alec ridacchiò – una risata quasi trattenuta che gli fece scuotere solo le spalle, ma Magnus riuscì chiaramente a vedere il suo sorriso. Ed era così bello, che gli fece dimenticare persino che Alec gli aveva appena detto che era vecchio. Il suo sorriso gli illuminava tutto il viso e arrivava fino agli occhi, facendo ridere persino quelli.
“D’accordo, d’accordo. Scusami.” Alec alzò lo sguardo su Magnus e il suo sorriso si spense un poco, ma non per tristezza, semplicemente per non fare altro che non fosse guardare l’uomo vicino a sé. Non era difficile immaginare Magnus che cammina tra le epoche e attira l’attenzione di ogni singolo passante. Non era difficile immaginarlo dominare qualsiasi scena, sprigionare fascino e guardare l’effetto della sua personalità su altre persone. Lo stesso Alec ne era diventato una preda inconsapevole. Era difficile non farsi ammaliare da Magnus. E non solo perché fosse bellissimo, ma perché sprigionava un’energia forte, qualcosa che ti spinge necessariamente ad avvicinarti a lui. E Alec era ancora spaventato da tutto ciò, perché non si era certo dimenticato dove si trovasse e quali fossero le circostanze della sua presenza in quel luogo, ma… continuava a sentire quella sensazione forte e impossibile da ignorare che continuava a dirgli che c’era di più, c’era dell’altro, in Magnus.
Non è solo un demone.
No, era anche un uomo. E Alec sapeva che era con l’uomo che stava legando. E di conseguenza, anche il demone che era in Magnus gli faceva meno paura. Anzi, non gli faceva paura affatto. E non perché lui fosse un Cacciatore di Ombre, semplicemente perché davanti all’uomo che Magnus avrebbe potuto essere, il demone scompariva, si annullava.
“Per quello che vale,” sussurrò Alec a mezza voce, “Te li porti bene, i tuoi quattro secoli.”
“Grazie, pasticcino. Questo è quella che io chiamo una ripresa con i fiocchi.”
Alec sorrise. “Dico davvero, Magnus.”
“Lo so,” Magnus gli rivolse un sorrisetto astuto. Si sporse di nuovo verso di lui e si fermò a due centimetri dal suo viso. “Ho fame, Alexander.” Soffiò, guardando ogni dettaglio del volto di Alec, soffermandosi giusto un po’ sulla sua bocca carnosa, prima di tornare a guardare i suoi occhi. “Puoi gentilmente sbrigarti?”
Alec aveva caldo. La gola gli si era seccata e i palmi delle sue mani avevano cominciato a sudare in modo imbarazzante. Era sicuro che le sue guance avessero assunto una tonalità di rosso intenso e aveva la certezza che se avesse parlato, la sua voce avrebbe tremato. Di conseguenza, si limitò ad annuire e a finire di preparare da mangiare.
Di certo, Magnus riusciva a fargli un certo effetto – ormai questo non poteva più negarlo. Soprattutto a se stesso.





Alec finì di preparare l’impasto e poi, atteso il tempo necessario alla posa, si era messo a cuocere le crepes. Magnus aveva una cucina priva di qualsiasi genere alimentare, ma piena di utensili e oggetti. Alec non ne capiva il motivo, ma era contento che fosse così, almeno poteva utilizzarli.
Cucinò una pila di crepes, che Magnus si impegnò a farcire in vari modi senza l’uso della magia. Quando tutto fu pronto, si sedettero a tavola, uno di fronte all’altro. Magnus afferrò una crepes con la crema e le fragole, Alec una con la crema di nocciole.
“Sono buone,” Cominciò lo Stregone.
“Perché sembri stupito?”
“Perché non trasudi esattamente fiducia, in cucina.”
Alec lo guardò malissimo e si allungò sul tavolo per afferrare il piatto di Magnus e tirarlo verso di sé. O almeno, quelle erano le sue intenzioni, ma Magnus gli impedì di portare a termine quel gesto, perché sistemò una mano sopra alla sua e tirò verso di sé.
Alec sentì un formicolio sulla pelle, come una scossa elettrica, leggera e piacevole. Era il contatto con Magnus. La sua vicinanza gli provocava sempre quel formicolio, quasi come se fremesse all’idea di essere sfiorato, e quando Magnus lo faceva, come in quel caso, il formicolio si propagava per tutto il suo corpo sotto forma di elettricità.
“Non ti meriti le mie crepes dopo quello che hai detto.” Alec tirò il piatto verso di sé.
Magnus, con la mano ancora su quella di Alec, lo tirò invece nella sua direzione. “Mi hai detto che sono vecchio, direi che per amore della par condicio, ti meriti un piccolo insulto.”
“Io non ti ho insultato. Ho detto la verità. Sei vecchio. Invece la tua è solo una calunnia, visto che le mie crepes sono buone!”
Magnus lasciò la mano di Alec, smettendo di litigare per il piatto. Il Cacciatore sentì l’elettricità dentro di sé affievolirsi fino a sparire.
“L’hai ridetto.”
Alec gli sistemò il piatto davanti, ponendo fine a quella piccola discussione, nata come uno scherzo. “Sì, l’ho ridetto. Non sapevo che gli Stregoni fossero così sensibili sull’età.”
“Non lo siamo. Ma è fastidioso sentirsi dare del vecchio due volte di seguito nel giro di poco tempo.”
“Mi dispiace, scusami.”
Magnus fece un cenno di dissenso con la testa. “Non mi bastano le tue scuse.”
“E cosa vorresti, allora? Che mi mettessi in ginocchio?” Ribatté Alec, irritato. Il suo era nato come uno scherzo, perché Magnus doveva prenderlo così sul serio?
Magnus alzò entrambe le sopracciglia, e si afferrò il labbro inferiore con i denti, cogliendo una sfumatura maliziosa nelle parole di Alec, che lui colse solo dopo, ovviamente. Magnus vide chiaramente il momento in cui realizzò uno dei possibili significati di quell’affermazione: granò gli occhi e guardò altrove, le guance che diventavano paonazze.
“Sarebbe di certo uno spettacolo interessante per me.” Rincarò la dose Magnus, perché in fondo sapeva di essere dispettoso. “Ma no, grazie. Vorrei solo che tu ripetessi ciò che hai detto prima. Se lo pensi davvero.”
“Perché dovrei farlo?”
“Perché hai ferito il mio ego.” Magnus sbatté le ciglia in modo teatrale e congiunse le mani sotto al mento. Fu quel gesto che fece accendere una lampadina nel cervello di Alec. Lo stava facendo apposta. Tutto quel suo comportamento altro non era che una farsa. Magnus aveva messo in piedi tutto quel teatrino per divertirsi alle spalle di Alec, vedere le sue reazioni, farlo sentire in colpa e spingerlo ad esporsi di nuovo, proprio come aveva fatto poco prima.  
“Tu! Brutto manipolatore!”
“Manipolatore di certo, tesoro, ma brutto? Quello proprio no!”
“L’hai fatto di proposito! Volevi che mi sentissi in colpa per spingermi a ridire ciò che ti ho detto prima!”
“Potresti avere ragione, lo ammetto. Non mi piace sentirmi dire che sono vecchio, ma non è così importante. Volevo solo che tu ridicessi ciò che ha detto prima.”
“E perché?”
“Perché mi ha fatto piacere.”
La sincerità con cui Magnus pronunciò quelle parole spiazzò Alec. “Ci sono altri modi per ottenere un complimento, sai?”
“Dagli altri? Sicuramente. Da te? Non credo proprio. Non ti esponi perché ammettere certe cose ti spaventa. Non diresti mai di tua spontanea volontà qualcosa, bisogna portarti a dire quel qualcosa.”
“Prima non ero costretto a dirti niente, mi pare. E te l’ho detto, perché in quel momento lo pensavo davvero. Come vedi, credi di capirmi, ma non mi capisci affatto.”
Magnus vide la durezza nello sguardo di Alec, quella durezza che non gli piaceva vedere. Quella durezza che precedeva la sua dipartita. Si aspettava già di vederlo alzarsi e andarsene.
Con sua grande sorpresa, tuttavia, però, Alec non si mosse.
“Mi dispiace.” Disse Magnus, una frase che non aveva mai lasciato le sue labbra, non in quel secolo, almeno. “Non sono abituato a…”
“A non comportarti da demone?”
“Sì. Manipolare è nella mia natura. E non sto cercando una giustificazione, non ti meriti che ti tratti così.”
Alec lo guardò ancora per qualche istante, come se stesse pensando a cosa fare. Furono degli istanti in cui Magnus trattenne il respiro e solo quando la mano di Alec si posò sulla sua tornò a respirare.
“D’accordo. Hai sbagliato, ma sbagliamo tutti. L’importante è rendersene conto e non farlo più.”
Magnus guardò la mano di Alec che copriva la propria. “Non voglio costringerti a dire cose che non vuoi dire, o ad essere qualcosa che non sei. Devo rispettare il tuo carattere.”
“Lo apprezzo, grazie.” Alec ritirò la mano e gli rivolse un sorrisetto. “Adesso mangia, Magnus.”
Lo Stregone ricambiò quel sorriso e tornò alle crepes. Mentre mangiava e guardava Alec di tanto in tanto, si rese conto totalmente del potere che aveva su di lui. Non solo possedeva la sua umanità, e la capacità di risvegliarla, ma era anche in grado di cambiarlo – e, forse, di migliorarlo.
Era una cosa che lo terrorizzava a morte, ma che lo incuriosiva, anche. Era come guardare un precipizio dal bordo di un burrone e provare il desiderio di saltare giù per scoprire se durante il volo si aprirà un paracadute o se, invece, alla fine finirà tutto in una catastrofe.
Magnus non lo sapeva.
Ma era deciso comunque a scoprirlo.




Dopo mangiato, Alec aveva insistito per lavare i piatti, ma Magnus aveva risolto la cosa con un movimento della mano e un lampo di magia. Tutto era tornato pulito al suo posto. Alec aveva storto il naso davanti a quel modo di risolvere la situazione – e Magnus gli aveva fatto notare che non doveva necessariamente sempre fare il soldatino in ogni dannatissima situazione.
“La disciplina non è una cosa sbagliata.”
“Vero, ma se si tratta di due piatti, puoi anche chiudere un occhio, Alexander.” Disse Magnus, mentre usciva dalla cucina diretto chissà dove. Alec lo seguì.
“Dove vai?”
Magnus si fermò in mezzo al corridoio e poi si voltò verso Alec. “In camera mia. Devo prepararmi.”
“Perché?”
“Perché ti interessa?”
“Rispondi e basta, Magnus.”
Lo Stregone sospirò. Se quel tono fosse stato usato da altri, avrebbe già preso provvedimenti. Ma, ancora, si trattava di Alexander.
Brutto rammollito. Farti comandare a bacchetta da un ragazzino.
Silenzio!

E per una volta, Magnus si trovò d’accordo con Vocetta.
“Devo prepararmi per andare ad una festa. Stamattina mi è arrivato un messaggio di fuoco…”
“Arrivano i messaggi di fuoco, qui?” lo interruppe Alec, più entusiasta del dovuto per quanto riguardava quell’informazione.
Magnus lo guardò con un sopracciglio alzato. “È ovvio. Come credi mi contattino dall’altra dimensione?”
Alec si morse l’interno delle guance, improvvisamente pensieroso. “Posso mandarne uno alla mia famiglia? Solo per fargli sapere che sto bene, per favore.”
Magnus avrebbe detto di no. I contatti con la sua famiglia non erano previsti. Se Alec non avesse lasciato indietro il suo passato, sarebbe sempre rimasto legato a loro e non avrebbe… cosa?
Non avrebbe potuto avvicinarsi a lui.
È così che vuoi che accada? Vuoi che si avvicini a te perché lo costringi ad essere l’unico con cui può avere dei rapporti?
No, certo che non voleva. Ancora una volta, Vocetta aveva ragione.
Magnus non riusciva ad essere così egoista, con Alec. Non voleva essere egoista, con Alec.  
Aveva sempre pensato che le famiglie fossero una maledizione, e questo perché la sua per lui lo era stata. Aveva avuto una madre che si era tolta la vita, quando aveva scoperto cosa fosse. Il suo patrigno era stato orribile e suo padre… suo padre era il Principe dell’Inferno.
Famiglia per Magnus significava solo dolore e sofferenza.
Per Alec, famiglia, significava avere qualcuno che ti ama, incondizionatamente. L’aveva visto negli occhi di Maryse, quando lui si era offerto volontario per seguirlo all’Inferno. Quella donna avrebbe preferito che Magnus le strappasse il cuore a mani nude, piuttosto che portarsi via suo figlio.
L’aveva visto nell’abbraccio che il più piccolo dei Lightwood aveva riservato ad Alec, quasi come se non volesse lasciarlo andare.
L’aveva visto nella reazione di sua sorella, che aveva fronteggiato un demone superiore con audacia e senza paura alcuna, con una determinazione negli occhi che avrebbe fatto impallidire anche il più valoroso dei guerrieri. La ragazza era seria, quando affermava che gli avrebbe staccato la testa, se solo lui avesse fatto del male a suo fratello.
E l’aveva visto nella reazione del biondo, che si era subito messo sulla difensiva, quando Magnus aveva detto che avrebbe portato via Alec.
Nessuno di loro voleva accettare il destino a cui Alec stava andando incontro. E nessuno di loro l’avrebbe fatto, se Alec non fosse stato così determinato a sacrificarsi, pur di salvarli.
Magnus sentì improvvisamente un peso sul cuore.
Riavvicinarsi alla sua umanità implicava anche riuscire di nuovo a sentire emozioni negative. E adesso l’unica cosa che riusciva a sentire chiaramente era un senso di colpa profondo.
Era lui la causa della sofferenza di Alec. L’aveva sempre saputo, ma prima non gli era importato. Adesso… c’era più empatia nel suo cuore, qualcosa che lo aiutava a rendersi conto di cose che prima ignorava, a provare interesse per cose che prima non gli interessavano minimamente.
“Certo che puoi. In biblioteca, sul tavolo, troverai fogli e penne. Scrivi tutto ciò che vuoi dirgli, quando tornerò farò in modo di spedirglielo.”
Alec reagì d’istinto, senza pensare se potesse essere la cosa giusta o sbagliata da fare, e abbracciò Magnus. Lo strinse forte, pieno di gratitudine. “Grazie,” sussurrò al suo orecchio, prima di lasciarlo andare. Fu un contatto così veloce che Magnus non ebbe nemmeno il tempo di ricambiare la stretta, ma l’ombra delle braccia di Alec rimase su di sé per un po’ e con essa anche la sensazione che quel contatto gli aveva provocato: calore, affetto, e la consapevolezza che avrebbe fatto di tutto, per lui, se solo questo serviva a renderlo un po’ più felice.
“Prego.” Rispose Magnus, momentaneamente disorientato dalle sue emozioni. “Ora va’, o mi farai fare tardi.”
Alec annuì e si diresse, quasi di corsa, verso la biblioteca. Magnus rimase a guardarlo fino a che non sparì lungo il corridoio, e poi si diresse in camera sua.
I suoi pensieri affollavano la sua mente, confusionari e contrastanti, ma lui decise di ignorarli. Volle, invece, concentrarsi sulla sensazione di tranquillità che gli dava la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono per qualcun altro, qualcuno che non fosse se stesso.




Alec non riusciva a crederci.
Quando aveva chiesto a Magnus se poteva mandare un messaggio alla sua famiglia, non sperava in una risposta affermativa. Si aspettava, invece, una reazione irritante o che gli ridesse in faccia e si facesse beffa di lui.
Invece… Aveva acconsentito. Alec era piacevolmente stupito. E fremeva all’idea di rassicurare la sua famiglia, di dire loro che stava bene e che, tutto sommato, Magnus tendeva ad occuparsi di lui.
Voleva che non fossero preoccupati.
Li conosceva. Sapeva che sicuramente adesso stavano cercando un modo per venirlo a recuperare, ma Alec non voleva che rischiassero tanto, non quando lui iniziava ad avere fiducia nel fatto che, con il tempo, avrebbe potuto semplicemente chiedere a Magnus di riportarlo indietro.
Scappare non gli sembrava più una buona idea. Se fosse scappato, avrebbe perso la poca fiducia che Magnus provava nei suoi confronti e non l’avrebbe mai perdonato.
Se invece le cose fossero state diverse, se lui e Magnus avessero instaurato un rapporto di fiducia, forse, più in là, gli avrebbe permesso di far visita alla sua famiglia.
Alec sarebbe stato come Proserpina.
Magnus sarebbe stato come Ade.
E proprio come il dio degli inferi permetteva alla sua amata di far ritorno a casa per quei sei mesi dell’anno che coincidevano con la primavera e l’estate, forse anche Magnus avrebbe permesso lo stesso ad Alec.
Hai appena paragonato due amanti a te e Magnus?
Ignorò quella domanda. Non doveva concentrarsi su quel punto. Il punto era l’analogia. Il fatto che Proserpina fosse libera di andare e tornare dagli inferi, scandendo il passaggio delle stagioni.
Ricordati perché era inverno, sulla Terra.   
Alec lo ricordava. Cerere, la madre di Proserpina, dea della prosperità, congelava il suolo terrestre per manifestare tutto il dolore che l’assenza della figlia le provocava.
Con la sua assenza, sua madre sarebbe stata come Cerere.
Detestava l’idea di farla soffrire, ma sapeva, per il momento, di avere le mani legate.
Scacciò i suoi pensieri funesti e decise di concentrarsi solo sulla felicità che gli dava poter scrivere quel messaggio. E così fece. Scrisse tutto ciò che provava, tutto ciò che sapeva sarebbe servito a tranquillizzare almeno un po’ i cuori della sua famiglia.




Alec era ancora in biblioteca quando Magnus entrò senza bussare, ovviamente. Il ragazzo aveva la testa china su un libro scritto in latino e accanto al libro ci stava il messaggio che aveva scritto per la sua famiglia. Non si era accorto della presenza di Magnus, di conseguenza, lo Stregone rimase alle sue spalle e sbirciò il contenuto del messaggio.
Alec scriveva in modo fittissimo e spigoloso, ma la sua grafia era chiara.
Ciao,
Vi scrivo per rassicurarvi. Sto bene e Magnus non è così cattivo come può sembrare. Mi tratta bene, con gentilezza. Qui c’è una biblioteca. È una biblioteca bellissima, piena di così tanti libri che non basterebbero dieci vite per leggerli tutti.
Vi prego, non state in pena per me. Non cercate di recuperarmi. Non rischiate la vostra vita per me.
Vi prego.

Il messaggio continuava, ma Magnus a quel punto distolse lo sguardo. Non riuscì più ad andare avanti. Alec aveva pregato la sua famiglia, due volte, di non compiere atti avventati, di non rischiare le loro vite per lui.
Magnus pensò che questo la dicesse lunga su come fosse fatto il ragazzo. Era protettivo nei confronti di chi amava. Ed era estremamente altruista. A lui era permesso sacrificarsi per salvare chi amava, ma a coloro che lo amavano, non era permesso sacrificarsi per salvare lui stesso.
Era un controsenso, sebbene mostrasse una certa nobiltà d’animo.
Magnus si schiarì la gola e Alec sussultò.
“Dio, come fai a prendermi sempre alla sprovvista? Dovrei avere i sensi allenati!” Alec chiuse il libro che stava leggendo e si alzò dalla sedia, voltandosi verso Magnus. Sussultò, quando posò i suoi occhi sullo Stregone. Sentì chiaramente l’aria venirgli succhiata via dai polmoni e il cuore che gli balzava alla gola.
Magnus era bellissimo. Aveva gli occhi truccati pesantemente di nero con l’eyeliner e l’ombretto glitterato che rendevano l’oro delle sue iridi ancora più acceso e le striature di verde presenti in esse ancora più marcate. Sembravano due fari in grado di illuminare anche la più oscura delle notti.
Aveva ciocche colorate di blu e viola nei capelli scuri, pettinati in una cresta perfettamente dritta. Portava una camicia fucsia di un tessuto liscio e lucido, che teneva aperta fino a metà – e Alec non seppe se quella scelta era al fine di mostrare la miriade di collane che indossava, o servisse a mostrare il suo petto definito, la cui pelle era ricoperta di minuscoli, fitti brillantini, che lanciavano brevi lampi di luce a seconda di come Magnus si muoveva. Alec si sforzò enormemente per non far scendere il suo sguardo, ma non ci riuscì, e di conseguenza notò che Magnus portava un paio di pantaloni neri, aderenti come una seconda pelle, e ornati di una fila di borchie ad ogni lato.
“Beh, spero di fare a tutti lo stesso effetto che sto facendo a te in questo momento, zucchero, perché è oltremodo appagante essere guardati in questo modo.”
Alec arrossì violentemente. Sentì improvvisamente caldo, e la vicinanza di Magnus non lo aiutava. “Io non ti guardo in nessun modo.” Borbottò.
Magnus alzò un sopracciglio, scettico. “No, infatti. La tua espressione imbambolata deve dipendere sicuramente da altro e non dalla mia stratosferica bellezza.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Quanto sei egocentrico.”
Magnus si sporse verso di lui e Alec cercò di indietreggiare, ma sbatté contro il bordo del tavolo.
“E tu sei così ovvio, tesoro. Ti si legge in faccia ciò che pensi.” Ribatté Magnus, con un sorrisetto soddisfatto sul viso.
Alec si passò la lingua sulle labbra, a disagio. Le sentiva improvvisamente secche, come il resto della sua bocca. “Il messaggio, Magnus. Puoi ancora mandarlo, o hai cambiato idea?” cambiò discorso, volendo distogliere l’attenzione da quanto fossero ovvi i suoi pensieri su Magnus.
“Non ho cambiato idea. Sono un uomo di parola, Alexander.” Si sporse verso il tavolo e, nel farlo, le sue collane sfiorarono il corpo di Alec, mentre il suo profumo invase le narici del Cacciatore. Era un odore così buono, intenso, che stava perfettamente sulla pelle caramellata di Magnus. E improvvisamente, Alec fu colpito da un pensiero – un irrazionale, irrefrenabile pensiero. Magnus stava andando ad una festa, vestito in un modo che lo rendeva più bello di quanto già non fosse. Alec era sicuro che avrebbe attirato l’attenzione di parecchie persone. Persone che si sarebbero avvicinate a lui, che l’avrebbero sfiorato, che gli avrebbero detto cose che lui non aveva il coraggio di dire. E provò… gelosia.
Alec avrebbe voluto scacciare quella sensazione, relegarla nella parte più recondita di sé, ma non ci riuscì.
Era geloso di Magnus. E tutto questo non aveva senso, era irrazionale, perché lo conosceva da pochissimo, perché non poteva provare già qualcosa di così forte nei suoi confronti, qualsiasi cosa fosse il sentimento che provava.
Non aveva senso. Eppure… eppure lo provava. La sua gelosia era lì, nel suo cuore, così come la consapevolezza di essere attratto da lui, fisicamente e emotivamente. Non sapeva che nome dare a quel sentimento, sapeva solo che c’era e che lo spingeva a volerlo conoscere, lo spingeva a rifiutarsi di credere che Magnus fosse solo un demone, o che fosse veramente cattivo come cercava di apparire.
Aveva fatto delle cose discutibili – e lui stesso ne era la prova, e di certo non lo giustificava per quello che gli aveva fatto, anzi con ogni probabilità una parte di lui era ancora arrabbiata con lo Stregone e sempre lo sarebbe stata, ma… in Magnus c’era altro. Alec ne era sicuro. Ed era questa sicurezza che faceva germogliare in lui un sentimento che non aveva mai albergato nel suo giovane cuore.
Un sentimento senza nome, ancora, ma con una forte impronta sull’intera anima del Cacciatore.
E forse fu proprio quel sentimento a farlo agire prima ancora che il suo cervello gli gridasse a pieni polmoni che non era una buona idea. Fu proprio il fatto che, per una volta in tutta la sua intera esistenza, Alec si lasciò andare.
Non pensò.
Non analizzò la situazione nei minimi dettagli, esaminando i pro, ma soprattutto i contro dei suoi comportamenti.
Contro ogni sua aspettativa, Alec fece ciò che la sua coscienza gli aveva suggerito di fare giorni indietro: si lasciò guidare dalle sue emozioni. E le sue emozioni volevano sfiorare Magnus.
Lo Stregone era ancora vicino a lui, era tornato in posizione eretta e teneva il suo biglietto tra le mani. Era ignaro dei pensieri che stavano attraversando la mente in subbuglio di Alec. Per questo sul suo viso si dipinse un’espressione di pieno stupore quando il più giovane gli lasciò una carezza su una guancia. Era così incerto ed insicuro, che allo Stregone fece persino tenerezza, ma non si mosse. Voleva capire quali fossero le intenzioni del giovane, cosa stesse per fare.
Alec, dal canto suo, non aveva idea di cosa stava facendo. Riusciva solo a percepire le pulsazioni costanti e irrefrenabili del suo cuore agitato, che lo spingeva sempre di più verso Magnus. Ad ogni battito, Alec si avvicinava di almeno un centimetro. E quando arrivò così vicino al viso di Magnus da riuscire a sfiorare la sua bocca con la propria, il suo cuore si fermò un istante, quasi come se avesse voluto fargli capire che era arrivato a destinazione.
Ma Alec non sapeva cosa fare, non aveva mai baciato nessuno in vita sua, così si limitò ad appoggiare le proprie labbra su quelle di Magnus. Un contatto breve, impacciato, ma dolce. Un gesto così puro e spontaneo che lasciò perplesso Magnus, che non riceva un gesto così sincero da almeno due secoli.
“Hai ragione. Sei bellissimo.” Sussurrò Alec, con le guance che avvampavamo. Si rifiutò categoricamente di ascoltare quella parte di lui che stava gridando, in preda al panico, di avere avuto un comportamento troppo impulsivo. Ascoltò solo il suo cuore, che adesso stava facendo le capriole, e stava pompando felicità in ogni fibra del suo corpo.
“Perché l’hai fatto?”
Alec provò un momento di panico, all’idea di aver fatto qualcosa di sbagliato. Forse avrebbe prima dovuto chiedere il permesso a Magnus.
“Non sto dicendo che non volevo, Alexander.” Si affrettò ad aggiungere Magnus, quasi avesse letto il panico negli occhi del più giovane. “Sono solo curioso.”
“Non lo so perché,” bugiardo, lo sai benissimo perché. Era vero. Sapeva il motivo per cui l’aveva fatto. “Non è vero,” si riprese quindi, “So perché l’ho fatto. Volevo farlo io, prima che andassi alla festa e qualcun altro lo facesse al mio posto.”
Sul viso di Magnus si aprì un sorriso così luminoso che Alec non poté fare altro che ammirarlo. Era così bello da risultare irreale.
“Sono contento che tu l’abbia fatto. E, di certo, adesso non andrò a nessuna festa.”
Alec ridacchiò sommessamente. “Chiederanno di te.”
“Sicuramente, dal momento che sono io l’anima del divertimento.”
Alec sorrise. “Preferisci rimanere qui con un Nephilim anzi che partecipare ad un raduno di Nascosti?”
Magnus con un gesto della mano infuocò il messaggio che Alec aveva scritto e che lui aveva tenuto in mano fino a quel momento. Una promessa era una promessa, ma quel gesto era stato fatto anche perché così facendo avrebbe avuto le mani libere. E avrebbe potuto afferrare il viso di Alec tra di esse, accarezzargli le guance con i pollici, e osservare come quel gesto provocasse un leggero rossore sulla sua bellissima pelle candida.
“Non voglio andare ad una festa dove tu non ci sei. Non voglio andare in nessun posto dove tu non ci sei.”
Alec arrossì ulteriormente e sorrise timidamente. Magnus gli lasciò un bacio a stampo, prima di prenderlo per mano. “Andiamo.”
“Dove?”
“A guardare un film.”
Alec sorrise e, con le dita intrecciate a quelle di Magnus, lo seguì fuori dalla biblioteca.
Era inaspettatamente felice. E, nonostante ci fosse una parte di lui che ancora gli gridava quanto fosse contraria a tutto questo, lui decise, ancora una volta, di dare ascolto al suo cuore. Quel cuore che lui aveva sempre ritenuto uno stupido, ma che adesso si stava dimostrando estremamente saggio.
Quel cuore che, in quel momento, continuava a battere fortissimo e a dirgli che la direzione giusta era quella che comprendeva lui e Magnus insieme.





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Eccomi! Come state? Spero che vada tutto bene <3
Questo capitolo mi rende insicura su tantissimi punti, tipo la velocità con cui è successo il tutto, tra di loro, ma vorrei precisare che nel prossimo capitolo specificherò tutto, approfondendo l’idea di base che vede Alec come custode ancora inconsapevole dell’umanità di Magnus.
A proposito, vorrei sapere cosa ne pensate di Alec, perché ho paura di averlo caratterizzato male e non vorrei di certo trattare male il mio archer boy preferito, quindi se lo sto rendendo troppo OOC fatemi sapere!
Credo che il prossimo capitolo sarà l’ultimo – magari verrà un po’ più lungo degli altri – però non ne sono ancora sicura. Devo vedere mentre scrivo, in realtà, come si sviluppano le idee – che a grandi linee ho in testa, ma quando poi le sviluppo magari mi vengono in mente altri dettagli. Quindi non so, potrebbero essere uno o due – e so che l’ho detto anche nel capitolo precedente, perdonatemi!
Ad ogni modo, spero che stiate tutti bene!
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate, io intanto vi mando un abbraccio virtuale (a distanza) e vi ringrazio per leggere questa storia, recensirla o averla messa tra le seguite/preferite/ricordate.
Lo apprezzo tantissimo.
Grazie! Alla prossima, un abbraccio grande grande! <3 

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Capitolo 7
*** 7. ***


“Questa è la tua stanza.” Commentò Alec, quando Magnus aprì la porta della camera che avevano appena raggiunto.
La sua voce voleva suonare distaccata, ma non era sicuro di esserci riuscito pienamente. La verità era che la sua audacia si era già esaurita e non voleva che il suo minuscolo bacetto avesse fatto intendere qualcosa a Magnus che lui non era ancora disposto a vivere.
Improvvisamente avvertì i palmi delle mani sudare – ed era pienamente consapevole che anche Magnus se ne fosse accorto, dal momento che una delle sue mani era intrecciata a quella dello Stregone.
“È qui che mi piace guardare i film. Perché siamo qui per questo, Alexander. Guardare un film.”
Alec esalò tutta l’aria che aveva nei polmoni. “Sono strano, vero? Prima ti bacio e poi vado nel pallone.”
Perché glielo stava dicendo? Ah, sì, giusto, perché con Magnus non riusciva ad avere filtri! Dannazione!
Magnus gli rivolse un sorriso così tenero che Alec per un attimo pensò di esserselo immaginato. Quel sorriso non aveva niente a che fare con la persona che Magnus aveva voluto mostrare fino ad ora – qualcuno di egoista e brusco. Un sorriso del genere implicava bontà, gentilezza. Un sorriso simile era la conferma che Alec avesse ragione: in Magnus c’era dell’altro. Un lato che lui non mostrava agli altri.
“Sai che essere pronti a baciare una persona non implica per forza essere pronti a fare dell’altro, vero? È una cosa graduale. Deve esserci un certo grado di confidenza che ti spinge a sentirti pronto. Ci dev’essere fiducia, per riuscire a spogliarsi davanti ad un’altra persona.”
Alec batté le palpebre per qualche istante, immagazzinando quelle parole, assimilandole. “Per essere uno che dice di non provare sentimenti, questo discorso ne sembra decisamente pieno.”
Magnus fece un gesto vago con la mano che non stringeva quella di Alec ed entrò in camera sua, con Alec che lo seguiva.
“Ho avuto molti partner, Alexander. Ho imparato da loro a capire certe cose. Non le provavo direttamente, ma riuscivo a percepire i loro sentimenti. Io provavo solo… desiderio, e non si può propriamente definire un sentimento.”
Alec resistette all’impulso di sciogliere l’intreccio delle loro dita. L’idea di Magnus con qualcun altro lo infastidiva, ma ancora di più lo infastidiva l’idea che potesse pensare a lui come ad uno dei tanti.
Ma non seguì il suo primo istinto. Lasciò la mano esattamente dov’era e decise di assecondare Magnus, che sembrava in vena di aprirsi.
“Il desiderio è un’emozione. Dettata dall’istinto, ma pur sempre un’emozione. E per essere uno che le ripudia, sei stato in grado di capire un comportamento umano. Sei più di quello che credi di essere, Magnus, e non capisco perché non vuoi vederlo.”
Magnus abbozzò un sorriso amaro. “Vorrei davvero darti ragione, pasticcino. Ma mi sono guardato dentro tante di quelle volte…”
“Ma non l’hai mai fatto con i miei occhi.” Alec lasciò la sua mano solo per mettersi di fronte a lui e prendergli il viso tra le mani. “Io credo ci sia dell’altro, in te.”
“E come fai a dirlo?”
“Lo sento. È una cosa inspiegabile, assurda persino, ma lo sento dentro. Sei sfaccettato e dovresti darti una possibilità, Magnus.”
“Dammela tu, una possibilità.”
“Lo sto già facendo.”
“E come mi vedi? A parte bellissimo, è ovvio.”
Alec abbozzò un sorriso e con un gesto istintivo, come se lo facesse da tutta la vita, sfiorò il naso di Magnus con il proprio. Non si rese nemmeno conto di averlo fatto, fino a quando non lesse un piccolo lampo di stupore nel viso dello Stregone.
“Ti vedo un po’ smorfioso, e vanitoso.” Alec abbozzò un sorriso scherzoso, “Ma anche gentile e…tormentato. Soffri per qualcosa, ma non so per cosa, e ti impegni a nascondere tutto ciò che potrebbe renderti vulnerabile.”
Magnus lo guardò per un attimo negli occhi. Si concesse un unico, breve, attimo in cui potersi perdere dentro quegli occhi bellissimi, così estremamente familiari, sebbene estranei.
Era un ossimoro. Era la magia, che rendeva tutto questo possibile.
Il destino li aveva legati ancora prima che Alec venisse al mondo. E aveva fatto in modo che si incontrassero, che si conoscessero.
E alla magia non serve tempo, alla magia serve solo un istante. L’attimo. L’esatto secondo in cui due anime destinate a trovarsi e ad amarsi si incontrano e le loro vite si intrecciano per sempre. Le loro difese si abbassano e l’unica cosa che possono fare è arrendersi a quelle forze più grandi di loro che hanno voluto unirli.
Magnus sapeva che era destinato ad innamorarsi del ragazzo che adesso aveva di fronte.
La magia l’aveva scritto, il destino l’aveva scelto.
E sebbene non fosse mai stato un tipo ligio alle regole, sentiva in cuor suo che innamorarsi di Alec non sarebbe stato difficile, che con ogni probabilità l’avrebbe fatto in ogni caso – con o senza la benedizione del Fato.
“Hai le idee molto chiare, vedo.”
“E tu stai evitando il discorso. Lo capisco. Non dobbiamo parlarne, se non vuoi.”
“Non vorrei.”
Non era ancora pronto a dirgli tutta la verità – su sé stesso e su loro due.
Alec annuì e abbassò le mani dal viso di Magnus. Rimase a guardarlo qualche secondo, prima di distogliere lo sguardo e guardarsi intorno. La camera di Magnus era gigantesca e molto pittoresca, con un grosso letto che troneggiava nella stanza, pieno zeppo di cuscini di ogni dimensione, e un’enorme cabina armadio che Isabelle gli avrebbe invidiato tantissimo. Ad una delle pareti era appeso un quadro che raffigurava Magnus seduto sul suo trono, lo sguardo fisso in avanti e l’espressione fiera, gli occhi da gatto che risaltavano in mezzo ai colori scuri del dipinto. Alec si chiese se fosse stato creato da un artista o se fosse opera della magia di Magnus. Ma quando i suoi occhi tornarono su Magnus, notò nel viso dell’uomo un’espressione particolare, qualcosa che gli fece domandare anzi: “Che c’è?”
Magnus sorrise. Il modo in cui Alec si guardava in giro rendeva quella stanza, a cui Magnus era abituato da quattro secoli, come nuova. Il suo modo di osservare ciò che lo circondava dava a tutto una sfumatura diversa, come se anche Magnus riuscisse a vederla per la prima volta.
Lo Stregone aveva girato il mondo ed era convinto che ormai non esistesse più niente che potesse stupirlo o che lui stesso non conoscesse. Guardando Alec, capì che si sbagliava. E provò l’impellente desiderio di portarlo a fare un giro del mondo solo per fargli vedere le sue meraviglie e poterle guardare di nuovo con i suoi occhi, sotto una luce nuova.
Magari, con il tempo, Magnus sarebbe riuscito a guardare anche sé stesso sotto ad una luce nuova, magari alla fine sarebbe davvero riuscito a guardarsi nello stesso modo in cui lo guardava Alec.
“Niente.”
“Dimmelo, Magnus.”
“Ho detto niente.” Ripeté lo Stregone, un sorriso a tirargli le labbra, mentre avvicinava il viso a quello di Alec. Gli posizionò una mano sulla guancia, mentre l’altra andava ad appoggiarsi dietro al suo collo. Accarezzò i capelli sulla nuca, corvini e arricciati. Erano morbidi. “Non insistere, zucchero.” Lo Stregone ridusse ulteriormente la già minima distanza che c’era tra di loro e appoggiò le sue labbra su quelle di Alec. Il Cacciatore sussultò, ma lo lasciò fare. Si tirò indietro solamente quando sentì Magnus aprire la propria bocca.
“Aspetta.” Disse, e Magnus abbassò le mani, sciogliendo ogni contatto.
“Non vuoi che lo faccia?”
Alec avvampò repentinamente e guardò altrove per qualche istante. Si morse prima il labbro inferiore e successivamente l’interno delle guance, poi si decise a guardare di nuovo Magnus.
“Voglio che tu lo faccia, ma io… io non so farlo.”
Magnus sorrise. C’era una purezza in Alexander, qualcosa che lo rendeva estremamente… raro. In lui c’era qualcosa che Magnus non aveva mai visto, qualcosa che suscitava il suo interesse a livello molecolare. Qualcosa che faceva battere il suo cuore, come se avesse appena scoperto una nuova terra e lui fosse l’unico abitante di quella meravigliosa landa sconosciuta a chiunque, se non a lui.
“Posso farti vedere come si fa.”
Alec annuì. Il rossore che albergava ancora sulle sue guance rendeva Magnus particolarmente impaziente di baciarlo, ma decise di fare con calma. Sospettava che Alec non avesse molta esperienza, dal modo pudico in cui aveva appoggiato le sue labbra sulle proprie, ma non sospettava di essere il suo primo bacio in assoluto. Doveva essere bellissimo.
Di certo, non avrebbe permesso a nessuno di dire che Magnus Bane fosse un cattivo baciatore.
“Vieni qui,” sussurrò e Alec fece un passo verso di lui, riducendo a zero la distanza che li separava.
Guardò il viso di Magnus e trattenne il respiro. Non aveva idea di cosa dovesse fare, ma sapeva solo che qualsiasi cosa sarebbe successa era quello che voleva. Era stranissimo, surreale quasi, quanto desiderasse baciare quell’uomo. Non aveva mai baciato nessuno, e nessuno, prima d’ora, gli aveva fatto provare un desiderio tanto viscerale. Sentì il suo cuore martellargli nel petto, veloce e indomabile. Ormai sentiva solamente lui. Solo il suo cuore. Non ascoltava più il suo cervello, semplicemente perché non aveva voglia di sentire qualcosa che in quel momento non voleva sentire. In quel momento voleva solo assecondare il suo cuore e quella curiosità che aveva sempre silenziosamente albergato in esso che gli aveva sempre fatto domandare cosa si prova ad essere baciati da qualcuno da cui si è attratti davvero, qualcuno che suscita in noi dei sentimenti.
“E ora?” Sussurrò Alec, la gola secca.
Magnus posizionò le mani come qualche istante prima: una sulla guancia di Alec e l’altra dietro la nuca.
Non rispose alla domanda di Alec, semplicemente si sporse verso di lui e appoggiò le labbra sulle sue. Gliele sfiorò in un bacio delicato e poi in un altro, tutti contatti che Alec ricambiò, fino a quando non si rilassò abbastanza da sorridere tra un bacio e l’altro. Su quell’onda di tranquillità, il Nephilim appoggiò le mani sui fianchi di Magnus, il quale annuì come per fargli capire che andava bene.
“Sei più rilassato?”
“Sì.”
“Bene.” Magnus appoggiò di nuovo le labbra su quelle di Alec, ma questa volta non fu un semplice contatto, appoggiò le labbra su quelle del Nephilim con più urgenza, abbandonando la delicatezza iniziale per lasciare spazio alla decisione. Magnus sapeva esattamente cosa voleva e come farlo, di conseguenza spronò Alec ad aprire le sue labbra e infiltrò la lingua dentro la bocca dell’altro. Alec sussultò, ma non si ritrasse. Cercò di imitare Magnus il più possibile e di seguire una vocina dentro di sé che gli suggeriva cosa fare. Non aveva mai baciato nessuno ed era terrorizzato di farlo male, ma Magnus emise un mugolio che gli fece pensare che, in fondo, tanto male non doveva andare.
Alec non poteva crederci. Stava dando il suo primo bacio.
Ad un ragazzo.
All’Inferno.
E la cosa gli piaceva più di quanto avrebbe mai immaginato, nonostante il contesto. Di nuovo, la consapevolezza che non ci fosse niente di razionale in tutto questo lo invase, ma ancora una volta, la scacciò. Non voleva pensare a nient’altro, in questo momento, che non fosse la bocca di Magnus sulla propria, il modo in cui le loro labbra si scontravano alla perfezione e come le loro lingue si intrecciassero, complici.
Alec sentì un calore profondo all’altezza dello stomaco, che gli salì fino al cuore, che cominciò a martellargli fortissimo in petto.
Ma dei due, quello che più rimase stupito, fu Magnus.
La sua secolare esperienza si stava sgretolando sotto la stretta impacciata, ma decisa, delle mani di Alec sui suoi fianchi. Tutta la sua freddezza esemplare stava venendo distrutta dal modo che aveva quel ragazzo di baciarlo. La sua inesperienza si percepiva, ma nonostante tutto, era il miglior bacio che Magnus avesse mai ricevuto. Alec stava seguendo un istinto che andava a mescolarsi con il suo carattere altruista – e tutto questo lo portava a dare a Magnus un’importanza che nessuno gli aveva mai dato, anche semplicemente attraverso un bacio. Alec si stava impegnando non per fare bella figura, ma per fare in modo che il bacio piacesse a Magnus nello stesso modo in cui, evidentemente, stava piacendo a lui.
Il suo cuore aveva cominciato a battere, come se fosse stato risvegliato da un sonno secolare, e ad ogni battito, era come se venisse sfondata una parte di quella parete dura e rocciosa che aveva da sempre circondato il suo cuore spinoso.
Alec, con un semplice bacio, stava liberando Magnus da tutta l’aridità emotiva che l’aveva sempre attanagliato.
Lo stava liberando da sé stesso, senza nemmeno rendersene conto.
Ed era una sensazione a cui Magnus non era abituato, ma anzi che esserne spaventato, se ne sentì attratto, come una calamita fortissima a cui è impossibile resistere.
Magnus si appiccicò al corpo di Alec come se ne dispendesse la sua stessa vita, perché averlo vicino calmava la sua anima irruenta e tormentata. Una delle sue mani lasciò il viso del Nephilim, piazzandosi sulla sua schiena. Lo tirò a sé con impeto, tanto che Alec sussultò, ma ancora, non si allontanò. Si lasciò stringere e più lo spazio tra di loro diminuiva, più Magnus sentiva crescere in sé la forza di quei sentimenti che non avevano mai abitato nel suo cuore fino a quel momento. Era come se tutta la magia del mondo, come se tutta la bellezza e l’amore del mondo, fossero racchiusi dentro a quel ragazzo, e più Magnus lo tirava a sé, più lo avvicinava, più riusciva a venire a contatto con tutte quelle sensazioni. Il cuore di Alec era un cofanetto intoccato ricolmo di ricchezze che Magnus non aveva mai conosciuto. E ora che ce l’aveva a portata di mano – e di cuore – non voleva più lasciarlo andare.
Fu in quell’esatto momento che realizzò quanta importanza aveva Alec, quanto fondamentale era destinato a diventare per la sua esistenza.
Ed era sicuro che l’avrebbe tenuto con sé per sempre.
Fu Alec a staccarsi per primo, costretto dalla mancanza d’ossigeno, e Magnus soffrì quella breve separazione più di quanto si sarebbe mai aspettato.
Alec appoggiò la fronte a quella dello Stregone. Aveva le labbra lucide, gonfie, e i capelli in disordine, ma non era mai stato più bello di adesso, con un sorriso ampio e luminoso che gli apriva il viso e gli saliva fino agli occhi.
“Wow, è stato…”
“Meraviglioso.” Concluse Magnus per lui, perché era vero. Era stato il miglior bacio della sua vita.
Alec annuì. Aveva il fiatone, notò Magnus, e per una frazione di secondo lo Stregone si domandò se anche lui stesse cercando in ogni modo di calmare il proprio cuore impazzito.
“E perfetto.” Sussurrò Alec, e incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus. Era il primo in assoluto che non li guardava come se fossero qualcosa di malvagio, qualcosa di cui avere paura.
Magnus si trovò a sorridere, compiaciuto per le parole di Alec, ma anche per il modo in cui riusciva a vedersi riflesso nelle sue iridi – quasi come se non fosse cattivo, quasi come se non fosse solo un demone.
“Niente potrebbe essere più vero.”
Alec arrossì, ma non distolse lo sguardo. Si morse il labbro inferiore, quasi come se stesse ponderando se chiedere o meno qualcosa a Magnus – e lo Stregone, che aveva abbastanza esperienza, sapeva che la domanda che si stava arrotolando sulla lingua di Alec era: sono stato abbastanza bravo?
E Dio, se lo era stato.
Per questo lo baciò di nuovo e si lasciò baciare, e ancora, ancora, e ancora, fino a quando non sentì i polmoni bruciare in cerca di ossigeno. E li avrebbe volentieri ignorati, pur di continuare a sentire il sapore di Alec sulla sua bocca. Li avrebbe lasciati andare a fuoco, se questo gli permetteva di non staccarsi da Alexander mai più – che diventasse pure lui, la sua unica fonte di ossigeno.
Ma furono costretti di nuovo a separarsi – e quando Magnus sporse il viso verso quello di Alec, lui gli lasciò un delicato bacio a stampo.
“Resta qui, stanotte.” Gli sussurrò Magnus, “Non dobbiamo fare niente, voglio solo… che tu stia vicino a me.”
Alec si stupì della facilità con cui le parole gli scivolarono fuori dalle labbra. “Certo.” E si stupì ancora di più quando realizzò che non gli avrebbe mai negato niente.
Era troppo presto.
Niente aveva senso.
Eppure per Alec l’aveva.
Non si era mai sentito più vivo di adesso. Non si era mai sentito così sé stesso come quando si trovava tra le braccia solide di Magnus.
E, ancora, non si era mai sentito in pace con sé stesso come quando Magnus lo baciava.




Decisero di cenare in camera di Magnus, che aveva fatto comparire del pollo fritto dal nulla. Se ne stavano seduti a gambe incrociate sul pavimento cosparso di cuscini, i soliti che Alec aveva visto sul letto dello Stregone appena era entrato.
“Come funziona esattamente?”
Magnus staccò un pezzo di pollo fritto con un’eleganza che Alec pensò non fosse umana. Nessuno risulta così bello anche quando addenta una coscia di pollo.
“Cosa?”
“Quando fai comparire le cose.”
“Oh, dipende. In genere prendo le cose dai negozi.”
Alec inclinò la testa di lato e aggrottò le sopracciglia. “Quindi sei un furfante?”
Furfante? Siamo tornati nel 1700? Già che ci sei perché non mi accusi di essere un manigoldo?”
Alec gli riservò un’occhiata tagliente, ma fu tradito dal sorriso che aprì involontariamente le sue labbra. Magnus notò due fossette comparirgli sulle guance. Erano adorabili.
“Sai che voglio dire.”
“Mi stai chiedendo se sono un ladro, Alexander?”
“Parole tue, non mie.”
“Già, se fossero tue parleresti come un granduca medievale.”
“Tecnicamente i titoli di granduca sono stati assegnati a partire dal 1570, più o meno, mentre il Medioevo è finito nel 1492, quindi non credo la tua accusa sia fondata. Anzi, credo proprio sia storicamente errata.” Alec afferrò una coscia di pollo fritta e ci diede un morso, facendo attenzione a non sporcare troppo in giro. Quando ingoiò il suo boccone e riportò la sua attenzione su Magnus, questi lo stava osservando con un sorriso sulle labbra e un’espressione divertita.
“Che c’è?” Domandò in preda al panico, convinto di avere la faccia sporca.
“Niente,” Magnus fece spallucce, “Sei solo carino quando fai il saccente.”
Alec alzò un sopracciglio. “Mi hai offeso e fatto un complimento nello stesso momento?”
“Ci vuole talento anche per cose simili, non credi?”
Alec arrossì e guardò altrove. Si morse l’interno delle guance e riportò la sua attenzione su Magnus. “Non mi hai ancora risposto.”
Lo Stregone si pulì le mani con uno dei tanti tovaglioli che aveva fatto comparire. “No, non sono un ladro. A volte creo le cose con la mia magia, a volte le prendo dai negozi, ma lascio quasi sempre dei soldi. Tipo lo shopping online.”
Alec sorrise per il paragone e annuì, evitando di fargli notare che quasi sempre non è sempre e che in parte, quello, poteva essere un comportamento da furfanti.
“La nostra cena, ad esempio, viene direttamente da KFC.”
“E credi che se ne siano mai accorti?”
“No. Quando fanno i conti, l’ammontare dei soldi corrisponde alla mancanza di merce, quindi è come se l’avessero venduta.”
“Astuto.”
“Grazie, zuccherino.”
Alec arrossì, ma non disse niente. Continuò a mangiare in silenzio e ad osservare Magnus di tanto in tanto, che invece non lasciava mai la sua figura.
Aveva così tante domande, in testa: perché tra di loro stava andando in questo modo, se lui sentiva le stesse cose che sentiva lui, e nel caso se le aveva mai provate prima.
Ma soprattutto, secondo lui c’era una spiegazione a tutto questo?
Avrebbe voluto tempestarlo di domande, ma aveva l’impressione che così facendo avrebbe rovinato quell’attimo… dopo tutto, quella cena era la cosa più simile ad un primo appuntamento che stesse vivendo e non voleva che si tramutasse in qualcosa di spiacevole.
Alec era certo di avere tutto il tempo per poter fare chiarimenti con Magnus di tutta questa faccenda.
“A cosa pensi?” domandò Magnus, scrutandolo con i suoi brillanti occhi dorati. Avevano una sfumatura smeraldina che li rendeva ancora più particolari di quanto non li rendesse la pupilla verticale.
“A quale film vorresti guardare.” gli disse, evitando volutamente i discorsi che gli erano venuti in mente.
Magnus si prese una pausa, quasi stesse ponderando se credergli o no. Aveva l’impressione che ci fosse altro, ma non insistette, dal momento che lui era il primo che si era tenuto certe cose per sé.
“Decidi tu.”
“Sono un Nephilim, Magnus. La mia conoscenza cinematografica è quasi pari a zero.”
“Il che è una vera tristezza, zucchero, lasciatelo dire.”
Alec roteò gli occhi al cielo. “Allora illuminami e istruiscimi, grande esperto.”
“Stai usando un tono sarcastico, dolcezza?”
“Sono colpito dal tuo acume, Magnus.” Continuò il Nephilim – e Magnus, che di norma tendeva a trovare il sarcasmo irritante e fastidioso, in Alec lo trova… stimolante. Il Nephilim non aveva paura di lui. Non provava timore nei suoi confronti a tal punto da lasciarsi andare al sarcasmo.
E se suo padre gli aveva sempre insegnato che un re per essere ritenuto tale deve essere temuto, in un certo senso era contento che Alec non lo temesse. Nessuno è sincero con te, se ha paura che tu possa ucciderlo. Tenderà sempre a volerti compiacere, pur di salvaguardare la vita.
Con Alec era diverso, lui sembrava… sincero. Ogni sua reazione era spontanea, che fosse rispondere ad un suo bacio, o che fosse pungerlo con il suo sarcasmo.
Magnus accantonò il suo cibo, posizionandolo su un piatto che aveva fatto comparire dal nulla, e si posizionò carponi per avanzare verso Alec, che dal canto suo si immobilizzò sul posto. Il suo modo di accantonare il cibo non fu aggraziato come quello di Magnus, più che altro perché lo Stregone lo stava guardando in un modo che aveva appena fatto dimenticare ad Alec come funziona correttamente un sistema nervoso umano e, in generale, un cervello.
Magnus gattonò verso di lui e si fermò a due centimetri dal suo viso. Alec sentiva la gola secca e il cuore a mille.
“Sei un insolente, Alexander.” Continuò a guardarlo. I suoi occhi felini percorsero il viso del Nephilim e Alec, sotto quello sguardo scrutatore, si sentì vulnerabile come mai si era sentito in vita sua, ma al contrario di quanto si sarebbe mai aspettato, non provò l’istinto di ritirarsi, o fuggire.
Voleva restare esattamente dov’era, curioso di vedere dove tutta quella situazione l’avrebbe portato.
Voleva assecondare quel brivido e quel fremito che si erano impossessati di lui e che adesso stavano percorrendo tutta la sua colonna vertebrale.
Era sicuro che fossero i suoi ormoni a fargli provare una cosa simile – perché per quanto assurdo potesse sembrare, Magnus lo attraeva a livello molecolare, come nessuno mai aveva fatto.
Aveva notato la bellezza di altri ragazzi, prima di lui, sebbene l’avesse fatto in modo discreto e solamente per attimi brevi, tutti comportamenti volti a non farsi scoprire, troppo timoroso che uno sguardo più prolungato avrebbe fatto capire la verità a chi lo circondava.
Ma adesso… adesso non c’era nessuno a guardarlo, a giudicarlo. Adesso poteva osservare la bellezza di Magnus per tutto il tempo che voleva. Poteva lasciarsi guardare. Poteva lasciare libero sfogo al suo cuore, ai suoi desideri.
Era paradossale quanto si sentisse se stesso e, soprattutto, libero, in un luogo come l’Inferno. E come, invece, si fosse sentito in trappola all’Istituto, in mezzo alla sua gente – se si escludono ovviamente i suoi fratelli.
E probabilmente, sebbene fosse una cosa quasi scontata da dire, un pensiero simile era la conferma che non importava dove si fosse, ma con chi si fosse – e anche se conosceva Magnus da pochissimo, sentiva dentro di sé che era legato a quell’uomo a livello primordiale.
“Me l’hai già detto.” Gli rispose, quando fu sicuro che la sua voce non sarebbe uscita tremolante.
Magnus sorrise, prima di mordersi un angolo del labbro inferiore. “Vero, e di norma è una caratteristica che non sopporto. Ma se si tratta di te… diventa interessante.” Magnus alzò una mano e con l’indice percorse la guancia di Alec, scendendo a tracciare il perimetro della mascella, fino ad accarezzare il collo. Arrivò fino alle clavicole e scese, sempre di più, fino al petto. Era un contatto delicato, leggero, fatto solamente con un indice e, soprattutto, sopra alla stoffa del maglione che Alec stava indossando, eppure… il Nephilim aveva l’impressione di star andando a fuoco. Aveva il respiro accelerato e ogni molecola presente nel suo organismo stava fremendo per quel contatto. Era come se ogni parte di sé si stesse sentendo attratta da quella semplice carezza e volesse fondersi con essa.
Nessuno l’aveva mai accarezzato in quel modo, come se avesse voluto sedurlo, e onestamente non aveva mai pensato che avrebbe vissuto un’esperienza simile, rassegnato all’idea che non avrebbe mai confessato la verità e, di conseguenza, avrebbe passato la vita in solitudine.
“Vorrei farti conoscere un sacco di cose, farti vedere tantissime cose. Il mondo dovrebbe essere tuo, lo sai?”
Alec sentì il cuore salirgli in gola. Nessuno gli aveva mai detto una cosa così carina, e quando Magnus gli parlava in quel modo, sorprendentemente sincero, e con un tono vocale che sembrava ricoperto di glassa, Alec diventava come burro al sole.
“Tutto quello che vuoi, dovrebbe essere tuo.” Magnus sussurrò quelle parole, che arrivarono direttamente al cuore scalpitante di Alec. Cercò gli occhi dello Stregone, impiantandoci i suoi. Magnus lo guardava come se lo stesse scoprendo per la prima volta ogni volta che le loro iridi si incrociavano – e in cuor suo Alec sapeva che per lui valeva la stessa cosa. Guardare negli occhi di Magnus, significava leggerci qualcosa di nuovo ogni volta, qualcosa di sempre sorprendente. Ed era bellissimo.
I suoi occhi erano belli non solo per la loro particolare forma, o il loro peculiare colore, ma per ciò che erano in grado di trasmettere, di fargli provare.
Alec si sporse verso di lui e appoggiò le labbra sulle sue. Avrebbe voluto dirgli che era lui che voleva, contro ogni razionalità, contro ogni senso, voleva Magnus. Ma Alec non era un ragazzo di molte parole. Non sapeva come fare a gestirle e riteneva che spesso fossero oggetto di fraintendimento.
Così baciò Magnus. E avvicinò il viso al suo, solamente per circondargli il collo con le braccia e tirarlo a sé con così tanto impeto che Magnus, sorpreso, gli finì addosso.
Alec si trovò sdraiato tra i cuscini e il corpo di Magnus, ma non gli interessava. Si trovò persino a divaricare un po’ le gambe per fare in modo che Magnus fosse più comodo tra di esse e sopra di lui.
Il suo corpo trasmetteva un calore che accendeva Alec di un fuoco nuovo e sconosciuto, piacevole come una scossa di adrenalina.
Magnus mugugnò e lasciò che Alec lo baciasse e lo baciò a sua volta. Si sostenne sui gomiti per non schiacciarlo, mentre con le mani andava a scompigliare i suoi capelli corvini. Erano morbidi e si arricciavano sulle punte in un modo adorabile.
Alexander era adorabile e bellissimo. La cosa più pura che la sua esistenza dannata avesse mai sfiorato. Era prezioso e Magnus voleva imparare a maneggiarlo alla perfezione, senza rischiare di danneggiare niente di quella perfetta opera d’arte.
“Ci dobbiamo fermare.” Sussurrò, gli occhi chiusi e la fronte appoggiata a quella di Alec. Il fatto che lui fosse bellissimo e sotto di lui rendeva il suo autocontrollo meno ferreo di quanto già fosse normalmente. Diciamo che lo andava a distruggere proprio. E il colpo di grazia arrivò quando riaprì gli occhi e vide Alec con le labbra gonfie di baci, i capelli scompigliati e il respiro affannato.
Era una visione.
Qualcosa che rendeva i pensieri di Magnus parecchio impuri.
“Ho sbagliato qualcosa?”
Magnus sorrise davanti a tanta genuina spontaneità. “Assolutamente no, zucchero. Proprio perché non hai fatto niente di sbagliato ti chiedo gentilmente di fermarci. Ho paura che non riuscirei più a resisterti, poi, e non voglio affrettare nulla.”
Alec si sollevò, mettendosi a sedere, e Magnus con lui, ritrovandosi seduto a gambe aperte sul bacino del Nephilim. Non che fosse una posa meno tentatrice, si ritrovò a riflettere lo Stregone, ma poteva controllarsi.
Non era un animale, dopotutto.
“Sei premuroso.” Affermò Alec, come se fosse una verità confutata, ormai. In realtà quella parola entrò nelle corde di Magnus più in profondità di quanto si sarebbe mai aspettato.
Premuroso, implicava preoccuparsi di qualcun altro, occuparsi di qualcun altro. E lui non l’aveva mai fatto. Lui non era mai stato così. Premura era un concetto che implicava altruismo, un’idea che per Magnus era sempre stata profondamente estraneo.
Ma per Alec… per lui voleva esserlo. Voleva metterlo prima di tutto, persino prima di se stesso.
“Per te, sì.” Gli baciò il naso e Alec lo arricciò d’istinto. “Guardiamo un film, adesso.”
“Sceglilo tu. Sorprendimi.”
Magnus gli rivolse un sorriso e gli baciò la fronte, prima di alzarsi in piedi. Alec rimase seduto a terra qualche secondo, prima di alzarsi a sua volta.
Si guardarono per un attimo, sorridendosi. E Magnus, in quel sorriso, ci lesse tutta la normalità di una vita che non gli era mai appartenuta, ma della quale, improvvisamente, sentiva la mancanza.
Si sentì normale, si sentì umano.
E la cosa gli piacque da morire.






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Ciao a tutti! Sono tornata dopo un po’ d’assenza, ma devo confessarvi che in questo periodo l’ispirazione va e viene – perciò le cose stanno andando un po’ a rilento, sia per questa storia che per un’altra che ho interrotto per scrivere questa, ma che conto di riprendere in mano il prima possibile.
In questo capitolo non succedono grandi cose, ma volevo che avessero un momento fluff tutto loro, prima che la situazione esterna piombasse su di loro di nuovo.
Avevo detto che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo, o che al massimo ce ne sarebbe stato un altro oltre a questo, ma non credo sarà così. Penso che forse potrebbero venire fuori altri due capitoli, ma trattandosi di me – un tantino disorganizzata e a tratti disordinata – potrebbe non essere così XD
Dipende da quante idee mi vengono al momento mentre scrivo in aggiunta a quelle che di base ho in testa per costruire la storia.
Comunque, bando alle ciance. Se ne avete voglia, mi farebbe piacere cosa ne pensate di questo capitolo, se vi è piaciuto, se i personaggi sono abbastanza IC oppure no, insomma tutto quello che volete!!
Ringrazio immensamente chiunque legga la storia, la recensisca o l’abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate – sinceramente non pensavo che potesse piacere abbastanza e mi rende felice vedere i numeri che crescono, di tanto in tanto <3
Vi auguro una Buona Pasqua e spero che voi e i vostri cari stiate bene. Vi mando un grosso abbraccio!
A presto <3 

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Capitolo 8
*** 8. ***


Alec si svegliò nel cuore della notte. Gli ci volle qualche secondo per ricordare dove fosse: non era in quella che era diventata la sua stanza, bensì era in quella di Magnus e ciò che gli circondava la vita era il braccio di quest’ultimo.
Dopo il film, Australia, di un certo Baz Luhrmann, che Magnus conosceva personalmente, ma Alec non aveva mai sentito, si erano diretti verso il letto. Alec era particolarmente ansioso. Non sapeva cosa fare, come comportarsi. Sapeva solo che il panico si era impossessato di lui. E aveva paura di fare la figura dell’imbranato, ancora.
Magnus aveva fatto apparire un abbinamento maglietta-pantaloni della tuta sul suo letto.
“Puoi andarti a cambiare in bagno, se vuoi.”
E così aveva fatto. Si era dato una sistemata, lavandosi i denti con uno spazzolino che era magicamente apparso sul lavandino, non appena lui aveva chiuso la porta del bagno. Quando era tornato in camera, lavato e con quello che lui reputava un pigiama, aveva notato che anche Magnus si era cambiato. Non indossava più gli abiti che l’avevano spinto a trovare il coraggio di baciarlo, ma un pigiama di seta verde lucido. Il suo viso era pulito, libero da qualsiasi traccia di trucco, e Alec lo trovò… più bello. Magnus non aveva bisogno di truccarsi per essere bello, lo era già al naturale. Il trucco andava ad arricchire solo qualcosa che di per sé era già perfetto. I suoi lineamenti armoniosi e decisi erano ipnotizzanti. Alec non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo viso. È questo che si prova? – si era domandato, mentre guardava Magnus – quando sei attratto da qualcuno?
Sì, probabilmente. E Alec la reputava una bella sensazione. Aveva sempre temuto di essere attratto da qualcuno, in generale perché i sentimenti lo spaventavano e destabilizzavano un po’, ma adesso che li provava… sentiva un benessere partirgli dal cuore che si estendeva in ogni parte di sé, trasformandosi in un calore confortante che lo faceva stare in pace con sé stesso. È questo l’amore?
Non sapeva dare una risposta a quella domanda, per vari motivi. E uno di questo era che non si era mai innamorato, quindi non aveva metri di paragone.
“Alexander? A cosa stai pensando?” Magnus l’aveva allontanato dai suoi pensieri, mentre sfaceva il letto e si infilava sotto le coperte.
A te – aveva pensato.
“A niente.” Aveva detto.
E adesso, con il braccio di Magnus che gli circondava la vita, Alec si sentiva uno stupido per non avergli fatto quella semplice confessione. Non c’era niente di male, a dire ciò che si provava. Ma Alec aveva costruito muri intorno a sé e al suo cuore per troppo tempo, per riuscire così presto ad abbatterli ed essere pienamente in grado di esternare ciò che si portava dentro.
Era difficile essere lui. Era stato forgiato da anni di insicurezze, nei quali non si era mai sentito abbastanza, nei quali aveva cercato di raggiungere una perfezione che tutti pretendevano da lui in quanto primogenito. Era stato sottoposto ad una pressione elevatissima. E in un clima del genere, rilassarsi, o anche solamente pensare a qualcosa che non fossero doveri, era impossibile.
Per cui aveva sviluppato una sorta di auto-difesa, estraniandosi da tutti, convinto che, comunque, nessuno sarebbe mai stato in grado di amare qualcuno distante come lui, qualcuno che si portava dietro strati e strati di insicurezze e dubbi verso se stesso.
Non sapeva nemmeno se lui, in primis, fosse in grado di amare un altro essere umano.
Come si fa ad amare?
Alec non lo sapeva.
“Ti stai agitando, zucchero.” La voce di Magnus gli arrivò roca e insonnolita alle orecchie. Per un pelo non sussultò.
“Non volevo svegliarti.” Alec guardò il buio davanti a sé, mentre accarezzava il dorso della mano che Magnus teneva blandamente appoggiata al suo addome.
“Cosa tiene sveglio te, invece?”
Alec percepì Magnus muoversi alle sue spalle. Lo sentì ritirare la mano e successivamente la stanza si riempì di una fioca luce azzurra. Magnus aveva creato una palla di luce magica. Alec, a quel punto, si voltò verso di lui. Lo trovò sdraiato in costa, appoggiato su un gomito, una mano che reggeva la testa. Lui si sistemò a pancia in su.
“Vuoi davvero saperlo?”
Con la mano che aveva creato la palla di luce, Magnus gli accarezzò i capelli – con una delicatezza e una tenerezza che Alec non si sarebbe mai aspettato di ricevere da nessuno, in vita sua. Quel piccolo, spontaneo, gesto, gli fece accelerare il cuore.
“Altrimenti non l’avrei chiesto.” Sussurrò, prima di chinarsi e lasciargli un lieve bacio sulla fronte. “Parlami, Alexander.”
Alec realizzò in quel preciso momento che il suo nome suonava come una preghiera sulle labbra di Magnus. Tutte le sillabe si arrotolavano sulla sua lingua in un modo particolare, facendo suonare il suo nome come se fosse la parola più bella che qualcuno potesse pronunciare, come se fosse una canzone che riesce sempre a mettere di buon umore.
E realizzò anche che voleva parlare con Magnus, aprirsi con lui. Era attratto da lui non solo fisicamente, ma in ogni contesto. Era attratto verso la sua persona. Non riusciva ad avere filtri con lui.
Con lui, tutti i muri di cui era formato, tutti gli agglomerati di insicurezze che si portava appresso da tutta la vita, si crepavano, destinate a sgretolarsi completamente.
Alec si fidava di Magnus, lo sentiva dentro, a livello molecolare.
“Ci pensi mai all’amore?”
Prima di te, no – fu il primo istintivo pensiero di Magnus.
“In generale, no.” Fu la sua risposta. “Tu sì, invece?”
Alec voltò la testa sul cuscino per guardarlo dal basso verso l’alto. “A volte. Ho pensato spesso all’amore, o ai sentimenti in generale. Li ho sempre vissuti attraverso gli occhi dei miei fratelli, ma non li ho mai provati in prima persona. E…”
“Ti spaventano.”
“Sì. Sono imprevedibili. Non posso gestirli, e sono sempre stato abituato a gestire razionalmente qualsiasi cosa. Non ho mai pensato a me in quel contesto perché se non sono in grado di amare io per primo, come posso pretendere che qualcuno ami me?”
Magnus gli rivolse un sorriso. Era così giovane. Aveva in sé la bellezza che porta la non conoscenza del mondo, l’inesperienza. Alec portava con sé sì un sacco di dubbi, ma anche la speranza – anche se di questo non era consapevole. La sua giovane età era un privilegio, che portava con sé il lusso di poter sbagliare per capire quale fosse la strada giusta da prendere, e la possibilità di fare infinte esperienze per capire come andava un mondo che Magnus sapeva fosse marcio. Lui era pieno di cinismo, aveva perso la speranza da un pezzo, le gioie che il mondo avrebbe dovuto dargli erano sempre state frivole e passeggere. La sua intera esistenza era sempre stata caratterizzata da quella dannazione tipica della metà demoniaca del suo DNA.
Magnus era dannato. Alec era puro. Lo era così tanto che la sua purezza sarebbe bastata per entrambi, sarebbe stata sufficiente a esorcizzare tutto ciò che di demoniaco c’era in Magnus.
“Dovresti lasciare da parte le tue insicurezze, Alexander. Il fatto che tu ti veda in un certo modo non significa che anche gli altri ti vedano così. Sei amabile più di quanto credi. E sei in grado di amare.” Magnus gli accarezzò di nuovo i capelli. “Esistono così tanti tipi di amore, che cercare di ridurre un sentimento così ampio solo all’ambito romantico è un’offesa all’amore stesso. Ami così tanto la tua famiglia che ti sei sacrificato per loro. Questo significa saper amare. Hai un coraggio invidiabile.”
Alec guardò Magnus, osservò il modo in cui le iridi dell’uomo si fossero addolcite, lasciò che la sua mano continuasse ad accarezzargli i capelli, giocando con le ciocche ribelli. Era così diverso dall’inizio. Lo stesso uomo che gli aveva sbraitato che la sua famiglia l’aveva reso debole, adesso gli stava dicendo tutto il contrario, gli stava dicendo che era stato coraggioso.
“Com’è stato per te?” gli domandò e Magnus si bloccò di colpo. Smise di accarezzarlo, smise persino di guardarlo. Un lampo di dolore, chiaro ed evidente, solcò le sue iridi feline e Alec quasi si odiò per essere la causa di quella sofferenza.
“Diverso, ovviamente.” Alzò di nuovo lo sguardo su Alec, il quale prese la sua mano tra le proprie. Magnus sorrise impercettibilmente a quel gesto. “Io non ho avuto una famiglia che mi insegnasse ad amare. Ho avuto Asmodeus. E lui ha cresciuto il demone perfetto, il suo degno erede.” Magnus fece intrecciare le dita della sua mano con quelle di Alec. Gli accarezzò il palmo con il pollice, quasi il contatto tra le loro pelli lo aiutasse a trovare il coraggio per continuare a parlare. E funzionò. Inaspettatamente, Alec riusciva a risvegliare anche le emozioni legate a sua madre.
“E mia madre… lei si è tolta la vita non appena ha capito cosa fossi. Non sopportava l’idea di aver generato un mostro.”
“Non sei un mostro.” Fu la prima cosa che uscì dalle labbra di Alec, istintivamente.
“Solo qualche giorno fa hai detto che preferiresti la morte, piuttosto che appartenermi in qualsiasi modo.” Sussurrò Magnus. La verità era che quelle parole gli rimbombavano nel cervello e riuscivano sempre a ferirlo ogni volta che gli ritornavano in mente.
“È tutto diverso adesso, e penso tu lo sappia.” Alec giocò con le loro dita intrecciate, guardandole come se fossero la prova fisica di quello che aveva appena detto. “Tu non sei un mostro.” Ripeté poi. “Sei solo stato educato in modo che la gente lo pensasse.”
“E se invece io fossi esattamente così? Cosa penseresti di me?”
“Ognuno di noi ha una parte oscura dentro di sé, Magnus. La tua è solo più evidente di quella degli altri perché, anzi che nasconderla come tutti, le hai lasciato libero sfogo. Devi solo imparare a dare libero sfogo anche all’altra parte di te. Solo così sarai interamente te stesso. Non come ti ha cresciuto tuo padre, o come ti avrebbe potuto crescere tua madre. Sarai esattamente come vuoi essere tu.”
Magnus si chinò per baciarlo.
Era così grato di averlo con sé. Era così grato che fosse fatto esattamente in questo modo, che fosse empatico, intelligente, sensibile, premuroso. Nessuno era mai stato così, con lui. Nessuno l’aveva mai visto come un uomo, qualcuno degno di essere salvato.
Gli altri si erano sempre semplicemente limitati a condannarlo.
Alec, invece, cercava di capirlo.
Era così raro. Ed era meraviglioso che proprio lui, tra tutti gli esseri umani, fosse destinato a custodire la sua umanità.
“Ma tu guarda se un cucciolo di vent’anni deve essere in grado di darmi lezioni di vita.” Sussurrò ad una distanza ridicola dalle sue labbra.
Alec accartocciò la faccia in una smorfia di disappunto. “Non chiamarmi in quel modo.”
“Non ti piace?”
“No. È orribile.”
“Come sei severo, zucchero.” Magnus lo baciò di nuovo. E ancora, ancora, e ancora. Una serie di baci a stampo uno dietro l’altro che fecero sorridere Alec nel modo più luminoso possibile. “Seriamente, però. Grazie.” Gli disse Magnus, il viso ad un centimetro da quello del Nephilim, mentre gli accarezzava una guancia con quanta più delicatezza e devozione possibile.
Alec arrossì sotto a quel tocco e a quello sguardo. “In realtà io dovrei ringraziare te. Mi hai ascoltato. È stato…bello poter parlare con te senza avere paura di essere giudicato. Io… io mi fido di te, Magnus.”
“Anche io. Deve essere questa atmosfera.”
Alec rise e lo tirò a sé per baciarlo. “Dormi, Magnus.”
“Solo se vieni più vicino a me.” Magnus appoggiò la testa sul cuscino e alzò un braccio. Alec alzò gli occhi al cielo, sebbene stesse sorridendo, e si sistemò contro il suo petto. Erano occhi negli occhi, così vicini che i loro nasi si sfioravano, e Magnus lo tirò a sé per dargli un ultimo bacio. “Buonanotte, Alexander.”
“Buonanotte.”
Magnus fece sparire la palla di luce blu e, dopo poco, si riaddormentarono.



*


Alec stava iniziando ad abituarsi ad Edom. Era sicuro che per il suo sangue non si potesse dire lo stesso, ma dal momento che viveva con il ciondolo che Magnus gli aveva donato fin da subito, il problema non sussisteva. Finché avrebbe avuto quello al collo, Edom non gli avrebbe fatto nessun effetto fisico. Spesso si trovava a pensare all’effetto mentale che quella dimensione avrebbe potuto avere su di lui, ripesando alle parole che gli aveva detto Magnus… Edom riesce ad avvelenare il cuore.
Il suo cuore era destinato ad avvelenarsi? Presto avrebbe rivissuto quelle sensazioni orribili come il suo primo giorno?
Era passato un mese, da quel fatidico momento, e non aveva vissuto più esperienze simili… forse non le avrebbe rivissute più, o forse una crisi era dietro l’angolo. Dopotutto, Magnus aveva anche detto che l’Inferno è ingannevole, quindi tutta questa situazione di apparente calma piatta poteva essere un inganno della dimensione infernale stessa.
E se anche ciò che provi per Magnus fosse un inganno? Se fosse tutto architettato per convincerti a non tentare la fuga?
No, non poteva essere. Alec si rifiutava di cadere in questa logica. Si fidava di Magnus. Sapeva che lui non l’avrebbe mai ingannato in questo modo.
Ah no? E come ti spieghi i sentimenti che provi per lui? Chi ti dà la certezza che non sia tutto un incantesimo, lanciato solo per convincerti a non tornare mai più a casa?
Alec non sapeva dare una risposta a quella domanda. E non voleva nemmeno dare retta alla parte paranoica di sé.
Si fidava di Magnus. Punto. Lui non gli avrebbe mai fatto del male, o ingannato. Sapeva quanto lui tenesse alla sua famiglia, quindi non l’avrebbe mai costretto con l’inganno a non rivederli mai più. Gli permetteva di mandare loro un messaggio di fuoco ogni giorno e Alec aveva cominciato a sperare che, presto, avrebbe potuto rivederli.
Alec sperava di potersi dividere tra loro, un giorno.
Sarebbe davvero diventato come Proserpina: un periodo sarebbe stato con Magnus e un periodo sarebbe stato con la sua famiglia. Erano entrambi importanti per lui, e in un mondo perfetto Magnus sarebbe potuto salire con lui in superficie e vivere da Stregone a New York.
Ma Alec sapeva che il mondo non era perfetto, e Magnus era il Sovrano di Edom. La sua posizione e il suo potere servivano anche per tenere a bada i demoni che abitavano quella dimensione, impedendoli di invadere la dimensione terrestre.
Alec non avrebbe mai pensato di trovarsi in una situazione simile, in vita sua. E adesso che c’era voleva fare di tutto per cercare di far coesistere tutto, voleva cercare un equilibrio che avrebbe funzionato, qualcosa di stabile tra i due poli portanti della sua vita: Magnus e la sua famiglia.
Chissà se l’avrebbero capito, o l’avrebbero preso per pazzo. Chissà cosa pensavano dei suoi messaggi di fuoco. Non aveva detto loro che lui e Magnus erano una sorta di coppia perché una parte di lui era ancora spaventato da quello che avrebbero potuto pensare. Ci sarebbe arrivato, però. Ne era certo. quel mese ad Edom l’aveva cambiato. Magnus l’aveva cambiato. In un certo qual modo, il loro rapporto l’aveva reso un tantino più sicuro di sé, ed era sicuro che con il tempo sarebbe diventato coraggioso abbastanza da riuscire a gridare la verità in faccia al Clave.
Per adesso, bastava scrivere messaggi rassicuranti alla sua famiglia. Così, dopo aver finito di scrivere il suo messaggio quotidiano, si alzò dalla scrivania a cui era seduto e uscì dalla biblioteca per andare a cercare Magnus – in mancanza di uno stilo, era lui l’unico che poteva spedirli. Vagò per il castello, abituato ormai ai suoi vari spifferi, scricchiolii e piccoli echi. Incontrò Presidente sulle scale che portavano al piano terra e, dopo un miagolio del felino, lo prese in braccio, continuando la sua ricerca con il gatto stretto al petto.
Camminò ancora per qualche istante, e poi la sua attenzione venne catturata dall’eco delle note del pianoforte.
“Magnus sta suonando.” Sussurrò a Presidente, facendogli un grattino dietro ad un orecchio. L’animale miagolò in approvazione e si strofinò contro il petto di Alec, facendo le fusa ad ogni carezza che il Nephilim gli riservava.
Il ragazzo si incamminò verso la musica. Era stato in quella sala pochissime volte. Probabilmente si potevano contare sulle dita di una mano. Era una specie di sala da ballo, da ricevimento, con uno stile molto principesco: il pavimento di marmo rosa venato di grigio, le pareti ricoperte di specchi e le colonne portanti che riprendevano lo stesso colore del pavimento. Sul soffitto a cupola c’era un affresco, una riproduzione de La Creazione di Adamo di Michelangelo. Era perfetto e Alec rimase a fissarlo un attimo, studiandone i particolari. Era talmente bello che riusciva persino a distogliere l’attenzione dall’enorme lampadario di cristallo che illuminava quella stanza.
Alec rimase a fissare l’affresco ancora per qualche istante, prima di portare la sua attenzione su Magnus. Quella stanza, per quanto grande fosse, era anche la più vuota. Infatti, in essa era presente solo il grande pianoforte a coda che era posizionato al centro. Magnus era seduto e stava suonando, così concentrato a riprodurre perfettamente la musica di Beethoven che non si era accorto della presenza di Alec.
Il ragazzo si avvicinò in silenzio non volendo in nessun modo rischiare di spezzare la magia che si era creata dentro a quella stanza. Persino Presidente sembrò capire le sue intenzioni, tanto che si zittì, smettendo di fare le fusa.
Magnus sapeva suonare benissimo e Alec non riusciva a non ascoltarlo.
Rimase in ascolto fino a quando Magnus non smise di suonare e solo allora si avvicinò di più, appoggiandosi al pianoforte con un fianco.
Magnus non appena lo vide sorrise. “Da quant’è che sei qui?”
“Da abbastanza.”
“Sei evasivo.”
“E tu sei un bravissimo pianista.”
Magnus gli fece spazio accanto a sé e Alec si sedette. Presidente si acciambellò immediatamente sulle sue gambe, iniziando a sonnecchiare quasi subito. Gatto pigro.
“Chi ti ha insegnato?” Domandò Alec, una mano immersa nel pelo di Presidente.
“Ho imparato da solo. C’erano giorni dove…” Lo sguardo di Magnus si fece basso sui tasti neri e bianchi, “Dove avere a che fare con gli insegnamenti di mio padre era troppo dura, così ho pensato che dedicarmi a qualcosa che discostasse notevolmente da ciò che sentivo ogni giorno. Ho pensato che la musica andasse bene, così ho cominciato a leggerla e poi a suonarla.”
Alec premette uno dei tasti con la mano che aveva libera. Ne uscì un suono unico, che rimbombò per la sala. “A casa suonavo, un po’. Io e i miei fratelli abbiamo imparato a farlo tutti, da bambini. Il più bravo è Jace, però.”
“Parlami di loro.”
Magnus ripensò all’ultima volta che avevano toccato l’argomento, al fatto che lui avesse nominato sua sorella e Alec avesse temuto per la sua sicurezza. Si domandò se anche adesso avrebbe avuto la stessa reazione, timoroso di vedere riflesse nella realtà le sue paure. Temeva molto che, nonostante i suoi buoni propositi, nonostante gli avesse detto che si fidava di lui, una parte di Alec ancora lo vedesse capace di fare del male a chi amava.
Ma il sorriso che si aprì sul volto del giovane, scacciò immediatamente tutte le insicurezze di Magnus.
Alec si fidava. Alec non lo vedeva più in grado di far soffrire le persone a lui care.
“Loro sono… speciali.” E pronunciò quella parola con un affetto evidente, quasi palpabile. “Jace ed Izzy sono due teste calde, lui però è molto istintivo, soprattutto in battaglia, Isabelle è molto più strategica. Sono caratterizzati dalla stessa forza d’animo e sono due delle persone più leali che abbia mai conosciuto. Max, invece, è il più piccolo. Assomiglia tanto ad Izzy, e credo che sia molto sveglio per la sua età. È intelligente, come Isabelle. E curioso.”
“Come te.” Aggiunse Magnus e Alec sorrise impercettibilmente. Non poteva negarlo, così annuì, prima di continuare.
“A Jace piace mangiare quantità spropositate di cibo, ma mai quello cucinato da Izzy perché sappiamo tutti che è una frana a cucinare. Lei adora farlo lo stesso e si rifiuta di credere a quello che io e Jace le diciamo sulle sue inesistenti doti culinarie. A Max piace leggere un sacco di libri, anche se questo ci accomuna un po’ tutti. Jace ha una passione per il latino, Isabelle predilige la scienza. È un’ottima patologa forense, la migliore, in realtà.” Alec sorrise con orgoglio, a quell’ultima affermazione, e Magnus lo notò.
“Siamo diversi, ma complementari. Loro… non sono solo mio fratello e mia sorella, ma sono anche i miei migliori amici, le due persone che mi conoscono meglio al mondo.”
A quelle parole, la mente di Magnus venne invasa dai ricordi di quel giorno di un mese prima, quando Alec si era offerto volontario per seguirlo all’Inferno. Ricordò la reazione di tutti. Associò nomi a quei volti.
Isabelle, il cui primo istinto era stato stringere Alec, gettarsi sulla sua schiena e stringerlo a sé.
Jace, che invece si era piazzato davanti a lui, per impedirgli di avanzare.
Entrambi l’avevano circondato, come a voler fare da scudo tra lui e il Male, che in questo caso era rappresentato da Magnus.
Ricordò il viso rigato dalle lacrime di Max, il modo in cui aveva abbracciato Alec, quando aveva capito che non gli rimaneva altro da fare, se non salutarlo.
Ricordò persino il volto distrutto dal dolore di Maryse.
Reazioni che allora gli erano rimaste indifferenti, trovandole addirittura patetiche, ma che adesso, invece, gli stavano disintegrando il cuore.
Aveva ferito quelle persone e ferendo loro aveva ferito anche Alec.
E, ancora una volta, Alec aveva la precedenza su tutto, era lui la cosa più importante. Importava più di Magnus stesso, più dei suoi sentimenti, più delle sue insicurezze.
“Puoi andare da loro,” sussurrò.
Alec strinse il messaggio che aveva scritto poco prima, rischiando di appallottolarlo con la mano. Non riusciva a credere alle sue orecchie. “Lo faresti davvero?”
“Oh, Alexander…” Sospirò Magnus, guardandolo dritto negli occhi, “Io per te farei di tutto.”
Alec rimase spiazzato da quella confessione, così sincera e diretta che vaporizzò tutti i possibili dubbi che gli erano venuti precedentemente. Magnus non gli avrebbe mai fatto del male, non l’avrebbe mai ingannato. E Alec sentì il cuore che scoppiava in petto, sia per questa realizzazione, sia per quello che gli aveva appena detto. Non riusciva a credere alle sue orecchie, sentì l’entusiasmo che si impossessava di sé e si slanciò con così tanto impeto verso di lui che Presidente cadde dalle sue gambe, esibendosi in un miagolio di disappunto e quasi accusatorio, mentre andava a sistemarsi lontano da quegli strambi umani, in un angolo della stanza.
Alec baciò Magnus con tutta la gratitudine di cui era capace. “Grazie, Magnus.”
Lo Stregone chiuse gli occhi, trattenendo persino il respiro. Sentiva già il gelo impossessarsi del cuore, alla sola idea che Alec se ne sarebbe andato – e all’improvviso, il terrore che potesse farlo per sempre si impossessò di lui. Temette di non vederlo più tornare. Temette che la riacquisita libertà l’avrebbe spinto a non fare più ritorno da lui. E nonostante questo, nonostante pensieri simili gli tormentassero il cuore a tal punto da arrivare a sentirlo sanguinare, continuò a mettere la felicità di Alec sopra alla sua. Avrebbe potuto tornare sui suoi passi, comportarsi come il demone prepotente ed egoista che era sempre stato, ma Magnus voleva imparare ad essere un uomo, un brav’uomo. Voleva essere altruista e fiducioso, voleva che Alec fosse felice con lui non perché si sentiva costretto ad esserlo, non avendo altra alternativa se non lui, ma perché lui in primis volesse essere felice con Magnus.
“Magnus.” Sussurrò Alec, accarezzandogli una guancia. “Guardami, per favore.”
E lo Stregone, che non riusciva a negargli niente, fece come gli era stato chiesto.
“Tornerò da te, lo sai questo, vero? Io voglio stare con te.”
A quelle parole, Magnus si chiese se Alec fosse in grado di leggergli nel pensiero. Sentirglielo dire, comunque, allentò un po’ il laccio spinato che aveva improvvisamente circondato il suo cuore.
“È giusto che tu li veda. Loro… devono sentire terribilmente la tua mancanza. Io la sentirò sicuramente.”
Alec lo baciò di nuovo e appoggiò la fronte sulla sua. “Non farai in tempo a sentire la mia mancanza, perché tornerò prima.”
“Ti porti via il mio cuore, Alexander. È impossibile non sentire la mancanza del proprio cuore.” 
Alec sorrise e gli accarezzò il viso con quanta più premura e dolcezza possibili. Le sue mani scorsero delicate sulla pelle di Magnus e lo Stregone ne avvertì le imperfezioni dovute alle battaglie a cui aveva partecipato: calli e cicatrici rendevano quella pelle imperfetta, ma Magnus riusciva solamente a pensare a quanto quelle caratteristiche rendessero unica la pelle di Alec, che per lui era perfetta solo per il fatto che appartenesse al ragazzo al suo fianco.
“La metà del mio cuore che ti appartiene rimarrà qui, con te.” Sussurrò Alec, avvicinandosi a Magnus per baciargli la fronte. Rimasero immobili, entrambi in silenzio. Erano consapevoli che quello che stavano esternando era ciò che di più simile ad una dichiarazione d’amore avessero mai sentito entrambi, e nella loro vita non avrebbero mai pensato di sentirsi dire niente del genere.
Nessuno dei due aveva mai creduto potesse esistere qualcuno a questo mondo in grado di amarlo.
Magnus credeva che nessuno l’avrebbe mai amato per ovvi motivi: era un demone, un mostro. Chi ama una creatura simile? Nessuno.
E Alec credeva che tutte le sue insicurezze sarebbero state talmente insormontabili e le sue paure così imbattibili che era convinto avrebbe preferito chiudersi in se stesso per tutta la sua vita.
Ma poi si erano incontrati. E tutto era cambiato.
“Mi mancherai anche tu.” Disse piano Alec, le labbra contro la pelle di Magnus. L’uomo sentì contro la propria guancia la carta appallottolata del messaggio che Alec scriveva ogni giorno per la sua famiglia.
Non aveva dubbi che avrebbe sentito la sua mancanza, perché si fidava di lui: sapeva che non gli avrebbe mai detto una bugia. Era così sicuro di Alexander che ormai non sentiva più nemmeno quella voce dentro di sé, quella del demone che era sempre stato, che gli urlava che lo stesse manipolando. Quella voce si era assopita. E Magnus stava meglio da quando non la sentiva più.
Ma… ma sapeva anche che sentiva la mancanza della sua famiglia. Ed era giusto che li vedesse di nuovo – così afferrò la mano di Alec e ne baciò le nocche, prima di afferrare il biglietto e dargli fuoco, per mandarlo dove sapeva fosse diretto.
“Puoi già partire domani, se vuoi. Aprirò un portale che ti condurrà all’Istituto.”
“E per tornare indietro?”
Magnus fece un aggraziato gesto con la mano e dalle scintille blu che fuoriuscirono dalle sue dita nacquero due sottili anelli d’argento. Ne porse uno ad Alec.
“Basterà farlo girare intorno al tuo dito. Il mio comincerà a brillare e saprò che vuoi tornare da me.”
Alec mise l’anello all’anulare destro e lo studiò, facendolo roteare intorno al suo dito. Improvvisamente quello di Magnus si illuminò di una forte luce azzurra.
“Visto?” Gli chiese lo Stregone, sistemando il proprio anello allo stesso dito che Alec aveva scelto per sé. “Magia.”
Alec gli rivolse un sorriso meraviglioso. “La tua magia è strabiliante, Magnus.”
“Ho solo creato due anelli, Alexander.”
Il ragazzo fece spallucce. “Dal mio punto di vista da persona non-magica, anche la magia che per te risulta più semplice diventa strabiliante.”
Magnus gli rivolse un sorriso e gli baciò una guancia. “Hai una sorta di magia dentro di te, figlio dell’Angelo.” E lo Stregone pensò sia a quella che Raziel gli aveva donato, sia a quella che legava loro due. Ma non glielo disse, non ancora. “Vuoi suonare per me?” gli domandò, anzi, cambiando argomento.
E Alec, sebbene fosse timido e restio a suonare davanti agli altri, lo accontentò. Perché sapeva che Magnus non era gli altri, era Magnus e con lui gli riusciva essere completamente se stesso in ogni situazione.




Dopo la loro conversazione, non avevano più riparlato dell’imminente partenza di Alec, fissata per il giorno dopo. Avevano continuato a suonare, con Magnus che ogni tanto canticchiava le canzoni fatte al piano da Alec. Quando invece era Magnus, quello che suonava, Alec rimaneva in silenzio ad ascoltare. Lui non sapeva cantare e preferiva di gran lunga osservare i movimenti eleganti delle dita di Magnus che si muovevano leggiadre sui tasti. Sembrava quasi li accarezzasse, con devozione e rispetto, come fossero dei vecchi amici che gli avevano donato conforto nei momenti bui della sua vita.
A questo Alec continuava a pensare. Ai momenti bui della vita di Magnus.
Siamo il frutto di quello che ci è stato fatto, era una citazione così famosa che persino lui che, prima di incontrare Magnus, non aveva mai visto un vero film in vita sua, la conosceva. (1 – V per Vendetta)
E come aveva potuto crescerlo suo padre per insegnargli ad essere un demone perfetto? Quali metodi comprendeva l’educazione di Asmodeus? E che impatto possono aver avuto sulla psiche di un ragazzino?
Alec guardò Magnus.
Si trovavano in cucina e lo Stregone si era seduto sopra al tavolo. Stava pensando intensamente a cosa avrebbero potuto mangiare.
Proponeva un cibo solo per poi cambiare idea il secondo dopo e Alec si trovò a sorridere, nonostante i suoi pensieri. Il suo modo di essere indeciso riguardante il cibo lo rendeva adorabile, ma nemmeno quello riusciva totalmente a distoglierlo dai suoi pensieri iniziali.
Proprio non riusciva a smettere di pensare ad un Magnus bambino, rimasto senza madre, con ancora un lutto così intenso che grava nel suo cuore, che viene sottoposto agli insegnamenti di qualcuno che gli inculca quanto le famiglie siano una debolezza, quanto sia importante suscitare terrore per essere rispettati, quanto sia giusto che un demone debba essere crudele.
Alec pensava a questi aspetti e, guardando Magnus, non riusciva a non pensare quanto cozzassero con ciò che era davvero. Il cuore di Magnus era stato avvelenato dagli insegnamenti di qualcuno che non era tanto interessato a fargli da padre, quanto piuttosto a crescere e forgiare l’erede perfetto.
Magnus era stato privato della possibilità di capire cosa fossero la premura, la dolcezza, la comprensione, l’altruismo. Tutte cose che dovrebbe insegnare un genitore.
Magnus non aveva avuto una mamma, ma non aveva nemmeno avuto un padre.
Asmodeus non l’aveva mai trattato come suo figlio, ma come un demone. E basta. Solo un demone da addestrare alla perfezione.
Ma Magnus era molto di più. Aveva sangue di demone, in parte, quello era innegabile, ma aveva dentro di sé più umanità di quanto riuscisse a vedere. Magnus era gentile e buono, intelligente e talentuoso. Era curioso e aveva una sensibilità in sé che tentava di nascondere dietro al suo sarcasmo. Era premuroso, soprattutto nei suoi confronti, e dolce.
E Alec avrebbe davvero voluto che tutto il mondo vedesse Magnus Bane come lo vedeva lui. Avrebbe voluto che il mondo cominciasse a guardarlo attraverso i suoi occhi, per far capire a tutti che tipo di persona era Magnus – un uomo dai mille strati, dalle svariate sfaccettature, pieno di sfumature. Tutte ugualmente sorprendenti.
Magnus sbalordiva, ma il mondo non lo sapeva, troppo impegnato ad etichettarlo sotto l’unica voce di ‘demone’.
Al Nephilim sembrava così ingiusto.
“Alexander?”
Alec sussultò, sentendosi chiamare, e guardò Magnus in viso. Lo Stregone lo stava studiando, la testa inclinata di lato e un sopracciglio alzato.
“Mi stai ignorando, dolcezza?”
“No, io… stavo solo pensando.”
“A cosa vorresti mangiare?”
“No, a tutt’altro in realtà. Scusami. Non volevo ignorarti. Dimmi tutto.”
Magnus lo studiò per qualche secondo. “Pensavi alla tua famiglia?” domandò, accantonando il discorso cibo.
Alec si afferrò il labbro inferiore tra i denti, pensieroso. Si guardò intorno qualche secondo, ponderando se fosse o meno una buona idea parlare, e poi lo fece. “Alla tua, in realtà.”
Magnus sbatté le palpebre, confuso. “Alla mia?”
“A…tuo padre.” Il tono della voce di Alec si fece insicuro, timoroso di toccare un argomento doloroso per Magnus. “Ai momenti bui della tua vita.”
“E perché?”
“Perché lo trovo ingiusto. L’opinione che hai di te stesso nasce solo da ciò che lui ti ha sempre fatto credere. Ma non è la verità.”
“E dimmi, qual è la verità?”
Alec si avvicinò a lui, sistemandosi tra le sue gambe. Appoggiò le mani sulle sue cosce e cominciò a disegnare astrattamente con l’indice sulla superficie dei suoi pantaloni di velluto rosa. I suoi occhi rimasero fissi sulle gambe dell’uomo, così belle e definite, per qualche istante, poi alzò lo sguardo. Lo guardò dritto in quegli occhi felini che per tutti gli altri erano sempre stati il simbolo della sua mostruosità, il Marchio del Demone, l’inconfondibile ed inequivocabile prova della sua malvagità, ma che lui reputava bellissimi. Per Alec, quegli occhi significavano altro. Significavano tranquillità e accettazione verso se stesso, affetto e serenità. Il Nephilim guardava quelle iridi e riusciva solo ad associarle a cose positive perché Magnus lo faceva stare bene.
“La verità è che sei stato privato della tua vera identità. Asmodeus ti ha addestrato ad essere il demone perfetto, privandoti della possibilità di essere davvero chi volevi essere. Ti ha indirizzato ad una strada a senso unico, quando avresti dovuto avere tutte le strade del mondo, davanti a te. Avresti dovuto percorrerle tutte, magari anche quelle sbagliate. Capire che non era quella la direzione in cui volevi andare e tornare indietro, riprenderne un’altra, percorrerla e scoprire se ti avrebbe portato a ciò che desideravi.” Alec gli accarezzò una guancia. “È ingiusto, perché avresti dovuto avere tutte le possibilità del mondo, perché ridurre qualcuno come te, con le tue straordinarie qualità, ad una cosa sola è un peccato terribile.” 
Magnus fu profondamente toccato da quelle parole. Anzi, ne fu completamente investito. E per la prima volta da quando Alec era con lui, avvertì chiaramente la forza dei sentimenti che provava nei suoi confronti. Lo sentiva lì, nei meandri del suo cuore che adesso stava scalpitando, quell’amore che era rimasto assopito per secoli, in attesa che le loro strade si incrociassero. E Magnus era pienamente consapevole che, se suo padre non gli avesse fatto percorrere quella strada a senso unico citata da Alec, loro non si sarebbero mai incontrati. E tutti i periodi bui, la sua sofferenza, erano un prezzo che sarebbe stato disposto a pagare di nuovo, se significava che avrebbe avuto Alexander, con sé.
Magnus gli prese il viso tra le mani e lo baciò. “Mi hai detto una cosa bellissima.” Gli accarezzò le guance con i pollici. “Ma se non fossi stato cresciuto in questo modo, io e te non ci saremmo mai incontrati. E non la voglio una vita dove tu non ci sei.”
Alec sentì il cuore che accelerava selvaggiamente a quelle parole. Nemmeno lui la voleva una vita senza Magnus.
Gli prese il viso tra le mani e sfiorò la punta del suo naso con il proprio. “Avremmo trovato un modo per trovarci. Ne sono certo.”
Magnus sospirò. Aveva paura a dirgli quale fosse la verità. Temeva che Alec si sarebbe sentito ingannato, temeva che l’avrebbe respinto, o addirittura che pensasse che i sentimenti che provava nei suoi confronti non fossero reali, bensì frutto di chissà quale strambo incantesimo.
Magnus era spaventato, ma sapeva che doveva dirgli la verità. Era giusto che sapesse. Così si fece forza e fece un profondo respiro.
“Alexander, io… devo dirti una cosa…”
Ma tutte le sue buone intenzioni vennero interrotte dalla terra che cominciò a tremare, uno scossone violento, che fece vibrare qualsiasi cosa intorno a loro. Ad Alec ricordò lo stesso tremito che aveva colpito l’Istituto, quando era comparso Magnus. Per questo lo guardò, in cerca di una spiegazione.
“Non è opera mia.”
“Lo so,” disse Alec, che non aveva pensato a lui. Aveva solo pensato che potesse sapere cosa stesse succedendo. “Chi potrebbe essere?”
“Chiunque, Alexander.” Disse Magnus, piombando giù dal tavolo e afferrando Alec per mano. Lo condusse fuori dalla cucina correndo. Non era mai successo che qualcuno prendesse di mira il suo palazzo. E se qualcuno riusciva a fare una cosa simile, doveva essere estremamente potente e, di conseguenza, pericoloso. Poteva essere solo qualcuno con un potenziale elevatissimo, tipo Lilith.
“Non sei al sicuro, qui.” Affermò, quasi preso dal panico, al solo pensiero che la Madre dei Demoni potesse in qualche modo arrivare a lui. “Devi tornare all’Istituto. Ora!” Magnus aprì un portale nel bel mezzo del corridoio. La sua magia blu creò un vortice azzurro. “Vai!” Urlò lo Stregone, mentre tutto intorno a loro cominciava a crollare.
“NO!” Gridò a sua volta Alec. “Non senza di te. O vieni con me, o io rimango qui con te.”
Non c’era tempo per discutere. Magnus avrebbe voluto saperlo in salvo e riuscire a capire cosa diavolo stesse succedendo in casa sua, nel suo regno. Ma lesse negli occhi di Alec una determinazione che non accettava compromessi. Non si sarebbe lasciato convincere ad andare senza di lui a nessun costo.
Magnus si guardò intorno per qualche istante. Tutto stava crollando e se non si fossero dati una mossa, probabilmente sarebbero finiti sotto le macerie.
Doveva portare in salvo Alexander. Era quella l’unica cosa che contava. Tutto il resto poteva aspettare.
Magnus, con ancora la mano stretta in quella di Alec, saltò dentro al portale, chiudendoselo alle spalle non appena ebbe la certezza che erano salvi.






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Ciao a tutti!
Spero vada tutto bene 😊
In questo capitolo non succede granché, me ne rendo conto, ma volevo comunque che si avvicinassero ulteriormente per rendere un pochino più credibile la faccenda secondo cui appunto sono legati dal destino. La fine non mi convince molto, ma nonostante l’abbia riletta e cercato di aggiustare il più possibile, non mi viene altro e quindi perdonatemi. Mi serviva qualcosa che facesse cambiare la scena. Nel prossimo capitolo si scoprirà la causa di tutto questo. E molto probabilmente sarà l’ultimo. Forse sarà un po’ più lungo degli altri, o forse lo dividerò e quindi ce ne saranno due. Non lo so ancora, perdonatemi!
Quasi sicuramente ci sarà un epilogo.
Queste note sono veramente inutili, me ne rendo conto, perché le sto solo riempiendo dei miei vaneggiamenti che non dicono niente, in pratica D:
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate 😊
Ringrazio chiunque legga, recensisca e abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Lo apprezzo tantissimo! Vi mando un grosso abbraccio, a presto! <3



 

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Capitolo 9
*** 9. ***


Il tonfo fu sordo.
Magnus e Alec vennero catapultati fuori dal portale come due schegge esplose da una bomba. Il pavimento attutì la loro caduta in malo modo e Alec sentì chiaramente tutto il peso del proprio corpo finire sulla sua spalla. Magnus arrivò al suo fianco, cadendo in malo modo anche lui.
“Stai bene?” gli domandò Alec, e lo Stregone annuì. Si alzò e aiutò Alec a fare lo stesso. Così facendo notò l’espressione sofferente sul suo viso e immediatamente si preoccupò.
“Sei ferito?” gli domandò, quando furono entrambi in piedi. Gli prese il viso tra le mani, controllando ogni centimetro, e quando vide che non aveva subito ferite, passò a controllare il resto del corpo. Alec gli bloccò le mani, prendendole saldamente tra le sue.
“Sto bene, Magnus. Non sono ferito. Sono solo caduto male.” Gli sorrise, per tranquillizzarlo. “Non sono fatto di cristallo, sai? Ho subito ferite peggiori, nella mia vita.”
Magnus emise un sospiro. “Scusami. Ho avuto solo paura…”
Alec appoggiò la fronte sulla sua. “Lo so.” Chiuse gli occhi, come se volesse prendersi un momento per realizzare che l’attimo in cui avevano rischiato di perdersi era passato. Magnus era lì, con lui. Lo stava sfiorando. Aveva temuto davvero che rimanesse ad Edom senza di lui, che lo lasciasse andare in un posto più sicuro da solo, e che rimanesse all’Inferno per scoprire da solo quale fosse la causa di quel crollo. E Alec non sopportava l’idea che Magnus rimasse da solo in mezzo al pericolo. Per questo si era impuntato. Se dovevano andare in un posto dove tutto intorno a loro non crollava, ci sarebbero andati insieme.
Per sua fortuna, Magnus l’aveva seguito.
“Sto bene,” lo rassicurò. “Stiamo bene.” Aggiunse, rassicurando se stesso. Ricordandosi, un’altra volta, che Magnus stava bene.
Perché qualcuno aveva voluto far crollare il suo palazzo? Perché qualcuno stava cercando di fargli del male. “Ora dobbiamo capire chi c’era dietro a quell’attacco.”
Magnus annuì. Sembrava preoccupato. Alec glielo leggeva negli occhi. E sentì nascere dentro di sé un forte moto di protezione. Lo abbracciò, stringendolo a sé più forte che poté. “Scopriremo chi è stato, insieme. Te lo prometto.” Sussurrò al suo orecchio, prima di allontanarsi quel tanto necessario da riuscire a baciarlo. Magnus ricambiò e si sciolse contro Alec. Allacciò le braccia dietro al suo collo e fece aderire perfettamente i loro corpi. Alec era alto, saldo – Magnus riusciva a percepire la sua fisicità definita anche attraverso i suoi vestiti, ma più di tutto, riusciva a percepire la sicurezza che Alec gli trasmetteva, quel senso di appartenenza, la consapevolezza che non era più da solo.
Alec lo faceva sentire al sicuro, protetto. Ed era una sensazione che non aveva mai provato in vita sua.
Era una sensazione della quale aveva creduto di non avere mai avuto bisogno in vita sua, convinto che si sarebbe sempre bastato da solo, che non avrebbe mai avuto bisogno di nessuno.
Dio, quanto si sbagliava. Se ne rendeva conto adesso, con Alec che lo stringeva a sé come se avesse voluto proteggerlo dal mondo intero.
Nessuno era mai stato così premuroso nei suoi confronti, nessuno l’aveva mai ritenuto meritevole di attenzioni gentili.
Nessuno, tranne Alec.
Perché Alexander era speciale, ed era suo. Soltanto suo.
“Grazie.” Sussurrò, la fronte appoggiata alla sua e gli occhi che andarono a cercare quelle iridi bellissime. Non si sarebbe mai abituato al loro colore, o alla loro espressiva intensità. Ma nonostante questo, nonostante avessero un potere devastante su di lui, quegli occhi erano casa. Il suo porto sicuro, il luogo dove si sentiva più a suo agio in questo pianeta. Perché era lì, in quello sguardo, che Magnus smetteva di essere un mostro e cominciava ad essere un uomo.
“Non devi ringraziarmi.” Sorrise Alec, strofinando il naso contro il suo. “Io voglio esserci sempre per te. In qualsiasi situazione. Non ti lascerò mai solo.”
Magnus sentì il suo cuore espandersi, quasi come se diventasse più grande ad ogni parola detta da Alec. Sapeva che era la verità, perché Alec era sincero. Sempre. Lo baciò di nuovo e Alec ricambiò immediatamente. A Magnus piaceva come Alec reagiva ad ogni suo tocco, quasi come se entrambi non desiderassero altro che fondersi l’un l’altro non appena ne avevano l’occasione.
“Adesso dobbiamo andare.” Affermò Alec, quando si separarono. Per la prima volta, da quando erano piombati all’interno dell’Istituto, si guardò intorno. Erano finiti nella sala degli allenamenti, che a quell’ora era deserta. “Tutti sono a cena. Potremmo andare dalla mia famiglia, passando inosservati. Non voglio che altri Shadowhunters vengano coinvolti. Non ci si può fidare, dal momento che prendono molto seriamente le leggi del Clave.”
“Anche tu.”
“In genere sì, ma adesso rispettarle significherebbe metterti in pericolo. E non ho intenzione di trasformarti in un capro espiatorio per uno dei processi inquisitori del Clave.” Alec si fece cupo in volto, a quel pensiero. “Ti giustizierebbero solo per fare di te un esempio. E non voglio questo.”
Alec lo prese per mano, facendo intrecciare le loro dita. “Andiamo.”
Magnus annuì e lo seguì in quel luogo a lui così estraneo, ma del quale non aveva la minima paura. Sapeva che finché c’era Alec al suo fianco, insieme sarebbero stati in grado di affrontare qualsiasi cosa.



*


Alec si muoveva con agilità e discrezione. Se Magnus non fosse stato letteralmente al suo fianco, avrebbe pensato che fosse addirittura in grado di rendersi invisibile. Si muoveva attraverso i corridoi dell’Istituto, cercando sempre il punto meno illuminato per far sì che nessuno li vedesse. Per Alec veniva davvero facile, dal momento che era costantemente vestito di nero – a quanto pare, aveva preso il suo ruolo di Cacciatore di ombre estremamente sul serio, cercando di diventare lui stesso un’ombra per mimetizzarsi meglio. Per Magnus il discorso era diverso. Lui non aveva niente di nero addosso e ogni volta che si nascondevano nei punti ciechi, o più bui, i suoi pantaloni rosa e la sua camicia bianca rischiavano di attirare l’attenzione su di loro. Per non parlare di quanto tintinnassero i suoi braccialetti o le sue collane, come tante campanelle che inevitabilmente rischiavano di attirare l’attenzione su di loro. Ma Alec era abbastanza bravo da proteggere entrambi. E infatti, ogni volta che sentiva un movimento sospetto, si metteva davanti a Magnus, facendogli scudo con il suo corpo. Ogni volta, le persone sporadiche che passavano per quei corridoi, non si accorgevano di niente.
Magnus fu particolarmente affascinato dall’aura che emanava Alec in versione Shadowhunter. Sembrava sicuro di sé, conscio delle sue capacità. Trasmetteva in qualche modo autorità. E una sorta di predisposizione al comando.
“Sai, zucchero, sei molto affascinante in versione Shadowhunter-guardia-del-corpo.” Sussurrò Magnus, mentre attraversavano l’ennesimo corridoio, rigorosamente incollati al muro.
Alec si voltò brevemente verso di lui. “Flirti con me in un momento simile?”
“Ogni momento è buono per flirtare con te, in realtà, ma non era questo il punto della mia affermazione.”
Alec arrossì. “E qual è il punto?”
Magnus sorrise. “Che hai un sacco di potenziale per diventare un Capo.”
“Non diventerò mai un Capo dell’Istituto, se è quello che intendi.” Ammise Alec, la sua voce piena di rammarico. “La mia vita è già scritta. Entrerò in politica, come mio padre, e porterò avanti il nome dei Lightwood.”
“E questo ti rende felice?” Domandò Magnus, sebbene conoscesse già la risposta. La leggeva negli occhi di Alec.
“No. Perché non potrò fare le cose a modo mio, dovrò farle nel modo in cui gli altri si aspettano, il che significa farle come le ha sempre fatte mio padre. Ma io non sono lui, io voglio essere me.”
“E allora sii te. Puoi fare qualsiasi cosa, Alexander.” Magnus gli afferrò una mano. “E vorrei ricordarti che sei stato tu quello che ha detto che mi merito di prendere tutte le strade che voglio. Perché per te questo discorso non dovrebbe valere? Sei per metà angelo, quindi mi piace immaginare che tu possa avere delle ali. Spiegale e vola dove vuoi volare. E, possibilmente, vola il più alto possibile.”
“Icaro è morto perché ha voluto volare troppo vicino al sole.”
“Punto 1: Icaro era un idiota, tu non lo sei. Punto 2: le sue ali erano di cera, le tue no. Sono bellissime, forti e in grado di portarti ovunque tu voglia.”
Alec non riuscì a non sorridere. Magnus aveva questa costante fiducia in Alec, che era quasi contagiosa. Se Magnus credeva in lui, automaticamente l’autostima di Alec saliva di una tacchetta, portandolo a pensare che avesse ragione, che forse anche lui doveva cominciare a credere più in se stesso. Si chinò leggermente per sfiorargli le labbra, un contatto leggero e quasi fugace.
“Niente distrazioni.” Si giustificò, quando Magnus lo guardò con estremo disappunto per non aver ricevuto un bacio appropriato. “È il primo punto alla base di una missione, se vuoi che riesca bene.”
“Tu sei una distrazione ambulante, per me. Direi che la missione è fallita in partenza.”
Alec emise una leggera risata, scuotendo la testa. “Andiamo, siamo quasi arrivati.”
“Dove stiamo andando, di preciso?”
“Nell’ufficio di mia madre. È sempre sola, a quest’ora.”
“Mi porti da Maryse? Quella donna mi odia,” giustamente, aggiunse mentalmente, senza dirlo ad alta voce. “Cosa ti fa pensare che sarebbe disposta ad aiutarmi?”
L’aveva ferita nel modo più orribile possibile, l’aveva privata di una delle cose a cui teneva di più, qualcosa che l’aveva spinta ad evocarlo, vent’anni fa. Il suo desiderio di diventare madre era così forte che era scesa a patti con lui. E lui, esattamente vent’anni dopo, le aveva portato via uno dei suoi figli, costringendola a scegliere. E lei, non volendo condannare nessuno dei suoi adorati figli, era stata costretta a guardare Alec scegliere per lei e sacrificarsi.
Magnus, se prima con la sua natura di demone che dominava ogni sua fibra, l’aveva trovata patetica, adesso con la sua nuova umanità risvegliata grazie alla vicinanza di Alec, capiva quanto avesse sofferto, e quanto lui fosse stato orribile con lei. E provava…rimorso.
“Perché glielo chiederò io, gentilmente.”  Alec cercò di rassicurarlo. Lo guardò con i suoi occhi bellissimi colmi di fiducia e speranza, e accennò persino un sorriso dolce. E Magnus, ancora una volta, sentì la fiducia che cominciava a conquistare ogni centimetro di sé. Si fidava ciecamente di Alec e di qualsiasi cosa dicesse.
“D’accordo.” Magnus sospirò. Alec gli strinse la mano e lo guidò ancora, attraversando un altro corridoio, e Magnus si chiese se non fossero finiti in un vero e proprio dedalo. Non era mai stato dentro ad un Istituto tanto a lungo da coglierne i dettagli. E adesso notava quanto, almeno quello di New York, fosse pieno di corridoi, con i muri principalmente di pietra, e illuminato da lampadine che emettevano una luce arancione.
Era così intento a guardarsi intorno, a cogliere quei dettagli che urlavano alla semplicità e all’asetticità – cosa che lo turbava alquanto, dal momento che lui tendeva sempre ad esagerare, nei dettagli – che non si rese conto che Alec, con la sua stazza da albero, si era bloccato in mezzo al corridoio. Per questo andò a sbattere contro la sua salda e muscolosa schiena. Non che gli sarebbe dispiaciuto, in altre circostanze, ma visto la situazione dove si trovavano, si accese un campanello d’allarme in fondo al suo cervello – qualcosa che gridava al pericolo.
“Che c’è?” Sussurrò, cercando la causa dell’immobilità di Alec. Si sporse oltre la sua spalla per vedere che davanti a loro ci stava un gatto. Era grigio scuro e ricordava molto Presidente, con l’unica differenza che non aveva la schiena a strisce.
“Lui è Church.” Spiegò Alec con un filo di voce, prima di voltarsi completamente verso Magnus. “Ci siamo dimenticati di Presidente!” Si sentì terribilmente in colpa per averci pensato solo in quel momento. Magnus poté leggere la sofferenza negli occhi del Nephilim. Gli afferrò il viso tra le mani.
“Presidente sta bene, Alexander.” Lo Stregone sorrise con dolcezza, mentre gli accarezzava le guance con i pollici. “Appena l’ho adottato gli ho fatto un incantesimo. Se c’è una situazione di pericolo, lui viene portato automaticamente in un posto sicuro.”
Alec si lasciò andare ad un sospiro di sollievo. “E dov’è adesso?”
“Nel mio loft, a Brooklyn.”
Il viso del Nephilim si accartocciò all’istante. “Hai un loft, qui? Perché?”
“Può sorprenderti, zucchero, ma Edom può essere una vera noia, in certe occasioni.” Fece Magnus, con sarcasmo. “Quel loft è il mio rifugio segreto anti-noia. Vado lì, quando voglio organizzare feste, per lo più con Mondani annoiati a loro volta, facilmente impressionabili da qualche trucchetto che loro scambiano per magia vera. Ingenui.”
Alec era oltremodo curioso, ma non era il momento adatto per approfondire l’argomento. “Sono contento che Presidente stia bene.”
“Lo so, zucchero. Ora, vogliamo proseguire?”
Alec annuì e si incamminò di nuovo, afferrando la mano di Magnus e guidandolo verso l’ennesimo corridoio.


*


Maryse e ne stava nel suo ufficio, in mano la lettera di Alec. Stava leggendo quelle poche righe che ormai erano diventate l’unico rapporto rimastole con il suo primo genito.
Funzionava così, negli ultimi tempi: lei stava seduta nel suo ufficio in attesa di veder comparire nell’aria il messaggio di fuoco, lo afferrava, lo leggeva per prima e se c’erano solamente aspetti positivi, allora chiamava i suoi figli per metterli al corrente delle parole di Alec.
Era davvero triste che quello fosse il loro unico rapporto. Maryse riusciva a leggere la sofferenza che provavano entrambi a causa della lontananza di Alec. Erano sempre stati un trio molto legato, si erano supportati a vicenda sempre, anche in una comunità come la loro, dove l’affetto e le sue manifestazioni non sono esattamente ben visti. Ai suoi figli non era mai importato. Si erano sempre abbracciati, e da bambini capitava spesso che dormissero tutti nello stesso letto. A volte capitava fosse quello di Alec, a volte quello di Isabelle, altre volte ancora, quello di Jace.
Crescendo insieme, il loro rapporto era diventato così forte da risultare indistruttibile. Non c’era lite che riuscisse a rompere ciò che li legasse, il loro amore era sempre stato più forte di qualsiasi loro divergenza.
E Maryse sapeva quanto fossero diversi. Diversi a tal punto che le liti di Jace e Alec erano quasi all’ordine del giorno, perché avevano due modi completamente diversi di concepire l’autorità. Entrambi testardi e cocciuti, Alec insisteva perché le regole venissero rispettate, Jace perché venissero infrante. Tendeva sempre a fare a modo suo, e Alec spesso doveva rimediare. Questo portava a degli scontri all’interno della squadra che venivano mediati da Isabelle, più testarda di tutti e due i suoi fratelli messi insieme, che si rifiutava sempre di prendere le parti di uno dei due, ma si incaponiva per farli fare pace. Sempre.
Funzionavano come l’ingranaggio perfetto, alimentati dalla loro intesa e oleati dalle loro straordinarie capacità. Era difficile trovare una squadra che riuscisse ad eguagliarli. Erano il meglio, e Maryse poteva affermarlo con un certo orgoglio. Lo sapevano tutti.
E se erano diventati i migliori, dipendeva solo dal rapporto che avevano quando non erano dei soldati.
Perché prima di essere tre soldati, erano una famiglia. Per questo Maryse sapeva quanto soffrissero per la lontananza di Alec. Più di una volta in questo mese li aveva visti dirigersi verso la sala delle armi, prima di una missione, e gettare un’occhiata malinconica all’arco di Alec, che nessuno aveva più osato toccare. Lo guardavano ogni volta, quasi come se si aspettassero che, fissandolo, avrebbe riportato Alec indietro. Ma non era mai così. Alec non tornava, e quell’arco era il doloroso promemoria della sua assenza che gravava sui cuori dei suoi figli – e sul suo – come un macigno pesante.
Più di una volta aveva visto Jace arrabbiarsi per cose futili – come un pugnale rimesso al posto sbagliato – per poi prendersela con la prima persona che gli capitava a tiro. Maryse sapeva che era solo una scusa per dare libero sfogo alla sua rabbia, alla sua frustrazione. Jace percepiva l’assenza di Alec a livello molecolare: la sua runa parabatai, che da sempre era stata una benedizione, si stava trasformando nel suo più grande fardello, una specie di maledizione. Con Alec, mancava anche un pezzo di Jace, qualcosa che andava a minare il suo equilibrio emotivo. E Jace, che non era mai stato bravo con le emozioni, si trovava sfogare questo suo disagio tramite la rabbia.
Maryse non lo giustificava, ma lo comprendeva.
Lei stessa era furiosa.
Furiosa con se stessa per aver permesso ad un mostro di portarle via suo figlio, per non essere stata abbastanza coraggiosa da impedirgli di strappare Alec dalla sua famiglia.
Furiosa per non aver mosso un dito in vent’anni. Aveva lasciato che Magnus fosse la sua spada di Damocle per due decenni. Era rimasta in attesa che lui si manifestasse e chiedesse il suo pagamento, come una sciocca – quando invece avrebbe potuto escogitare un modo per eliminarlo, una volta per tutte. Togliere il problema alla radice, rimuovere la minaccia prima che la suddetta minaccia rischi di minacciare lei stessa.
Ma non era andata così.
Semplicemente era rimasta in attesa, e si detestava per questo. Se avesse agito in modo diverso, Alec sarebbe lì con loro. Se avesse combattuto, Jace non sarebbe diventato quasi schiavo della sua rabbia, e Isabelle non si sarebbe chiusa in se stessa, manifestando solamente il suo disappunto verso chiunque e trasformando ogni suo gesto in una scusa per ribellarsi o sfidare le autorità.
Sua figlia era così profondamente ferita, che aveva deciso di punire chiunque intorno a lei per l’assenza del fratello.
In pratica, senza Alec, sia Jace che Isabelle erano diventati ingestibili. E tutti l’avevano notato. Persino Robert, che in un momento simile anzi che rimanere con loro, aveva deciso di tornarsene ad Idris perché era convinto che in quel modo sarebbe riuscito a placare le voci che avevano cominciato a girare sulla loro famiglia, dopo la scomparsa di Alec.
Maryse sapeva che era solo una scusa per prendere le distanze, per dissociarsi da quella tragedia, e lo detestava un po’ per questo. E lo detestava anche per essersi portato dietro Max, convinto che tutta quella situazione non gli facesse bene.
Era ovvio che non gli facesse bene, dal momento che il piccolo sentiva la mancanza del fratello, ma sarebbe stato ancora peggio separarlo anche dal resto della sua famiglia. Ma Robert aveva insistito, nascondendosi poi dietro la scusa che Max doveva ricominciare gli allenamenti. E Maryse aveva lasciato che il bambino seguisse il padre.
Una parte di lei era furiosa con se stessa anche per aver permesso ciò.
Maryse, proprio come i suoi figli, era diventata schiava della propria rabbia, della propria frustrazione e di quel senso di ingiustizia che le parole rassicuranti di Alec non riuscivano a placare.
Non le bastavano, quelle parole sterili. Non le sarebbero mai bastate perché non sapeva fino a che punto Alec le scrivesse di sua volontà o fosse costretto a scriverle.
Dei pezzi di carta non l’avrebbero mai aiutata a placare il suo animo in tempesta. L’unica cosa che l’avrebbe aiutata a ritrovare un po’ di pace sarebbe stata riavere Alec.
Voleva riaverlo con sé, saperlo in un posto dove nessuno gli avrebbe mai fatto del male. E quel posto era l’Istituto, non certo Edom.
Per questo, finì di leggere l’ennesimo biglietto dove Alec la rassicurava che stava bene, appuntandosi di chiamare Jace ed Izzy più tardi, dopo cena, e tornò a sfogliare il libro che stava leggendo e nel quale stava cercando un modo per scendere ad Edom a tutti i costi: era determinata a riprendersi suo figlio.
E, di certo, non si aspettava di vederselo comparire davanti da un momento all’altro.



*



Dopo quella che parve un’eternità, arrivarono davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Maryse. Entrambi avevano il cuore in gola per motivi differenti: Alec era ansioso di rivedere sua madre, Magnus aveva paura. Non gli era mai capitato in vita sua di temere qualcuno e analizzando quel nuovo sentimento, si rese conto che la sua, più che paura della persona, era paura di confrontarsi con lei, di vedere il dolore che le aveva provocato riflesso nei suoi lineamenti, o nei suoi occhi.
Fissando quella porta, Magnus provò un forte desiderio di zittire il suo cuore, ma gli risultò impossibile. Probabilmente, la condizione umana implicava anche questo: l’impossibilità di fuggire dai sentimenti negativi. Ci sono anche loro, nella vasta gamma delle emozioni umane, e non può essere tutto soleggiato. Come ogni esperienza che si rispetti, prima o poi arriva anche la pioggia – e quello era il momento piovoso di Magnus.
Con Alec era felice, lui faceva battere il suo cuore ad un ritmo gioioso, riempiendolo di tutto ciò che di positivo poteva esistere al mondo. E da quel punto di vista le emozioni erano decisamente ben viste. Alec gli scatenava tutte quelle positive. Ma, d’altro canto, se con Alec era così, con sua madre era tutta un’altra faccenda.
Lei lo faceva sentire ansioso, timoroso, e gli faceva persino provare un senso di vergogna per come si era comportato, per non parlare del rimorso.
Da questo punto di vista, le emozioni umane fanno davvero schifo.
“Andrà tutto bene.” Sussurrò Alec, stringendogli la mano. Magnus non poté fare a meno di guardare l’intreccio delle loro dita. E improvvisamente sentì il nodo di ansia che gli attanagliava il petto sciogliersi un po’. Era sempre lì, ma sembrava meno aggrovigliato, più sopportabile.
Si guardarono entrambi e fecero un grosso respiro.
“Sei pronto?” gli domandò Alec e quando lui annuì, il Nephilim aprì la porta, senza nemmeno bussare. La spalancò quasi, e una volta aperta, si rese conto che forse sarebbe stato meglio bussare. Sua madre era seduta alla scrivania, teneva un foglio in mano, e davanti a lei, seduti sulle sedie ci stavano i suoi fratelli. Tutti si voltarono di scatto, sussultando e preparandosi a reagire a quella che inizialmente era sembrata loro una minaccia. Ma quando poi tutti riconobbero Alec, nei loro volti comparve dapprima stupore, poi felicità e poi, quando notarono Magnus, sospetto.
Alec rimase immobile a fissarli per qualche istante. Era stato un mese lontano da loro, e per quanto fosse stato bene con Magnus, aveva sentito la loro mancanza. Si avvicinò a grandi passi, senza dire una parola, e abbracciò Isabelle e Jace con entrambe le braccia. Li strinse a lui in contemporanea, usando un braccio a testa, e lasciò un fugace bacio tra i capelli di Isabelle.
I due rimasero spiazzati solo per qualche istante, increduli che Alec fosse effettivamente lì con loro. E poi ricambiarono la stretta. Lo strinsero così forte che Alec sentì il respiro venirgli meno, ma non gli importava. Si sarebbe lasciato stritolare. 
E davanti a quella scena, Magnus sentì il rimorso divorarlo. Aveva pensato a quanto la distanza avesse ferito Maryse, o Jace e Isabelle, ma non si era mai soffermato, fino a quel momento, a quanto la lontananza potesse far soffrire anche Alec.
Aveva dato importanza al fatto che loro due insieme stessero bene. Aveva solo dato importanza a quella bolla quasi surreale nella quale erano finiti e in cui esistevano solamente loro due e nient’altro, se non forse il seme dei sentimenti che entrambi stavano coltivando, in attesa di vederlo germogliare.
Magnus era ancora più demone di quanto si aspettasse. Nonostante i cambiamenti che percepiva all’interno del suo cuore, grazie ad Alec, aveva ancora continuato a dare più importanza a se stesso, alla sua felicità e non aveva minimamente pensato che, per quanto Alec potesse stare bene con lui, magari si sentiva incompleto senza la sua famiglia.
Sospirò impercettibilmente, mentre guardava Alec che veniva stritolato dai suoi fratelli. Non riusciva a sentire cosa gli stessero dicendo esattamente, dal momento che le loro voci erano attutite dalla loro vicinanza, ma Magnus riuscì comunque a percepire qualcosa: ci sei mancato così tanto, Alec e ancora stai bene? Eravamo così preoccupati.
“Sto bene. Ve l’ho scritto, mi pare.” Alec sorrise e sciolse l’abbraccio. Jace ed Isabelle rimasero a guardarlo per qualche istante, quasi come se ancora non credessero di averlo davanti.
“Non sapevamo se fosse vero.” Si intromise Maryse, facendo il giro della scrivania per raggiungere Alec. Lo abbracciò e il ragazzo dovette chinarsi leggermente per ricambiare quell’abbraccio. Maryse lo strinse forte a sé, e Alec riuscì quasi a percepire in quell’abbraccio tutta la sofferenza e l’angoscia che doveva aver provato in quel periodo.
Sapeva che sua madre non era il tipo che si lasciava andare troppo ad effusioni, ma era anche consapevole di quanto li amasse.
“Non vi avrei mai detto una bugia.”
“Tu no,” Affermò la donna, convinta, “Ma lui sì.” Si staccò da Alec per guardare Magnus. L’occhiata che gli riservò era tagliente e piena di risentimento, e Magnus poteva persino capirla. Sostenne comunque il suo sguardo, senza aria di sfida o di superiorità, solamente con l’intento di risponderle, ma Alec lo precedette.
“Nemmeno Magnus avrebbe detto bugie. Non mi ha costretto a fare niente. Ero sincero nei messaggi, quando dicevo che con lui stavo bene.” Alec guardò le facce dei tre presenti. “Non è come credete che sia.” Un’espressione morbida attraversò il suo viso, per un attimo così fugace che, per un istante, Maryse credette di averlo solamente immaginato.
“Mi aveva persino chiesto se volevo tornare da voi. E l’avrei fatto, se…” Alec si interruppe, cercando di trovare le parole.
“Se…?” Lo spronò Jace.
“Se non ci avessero attaccati.”
“Da chi?” Fu la domanda che formularono all’unisono i tre Shadowhunter, le voci allarmate.
“Non lo sappiamo.” Magnus prese parola per la prima volta. “Hanno attaccato il mio palazzo, tutto ha iniziato a crollare e siamo venuti qui.”
“Hai messo in pericolo la vita di mio figlio, un’altra volta! Non solo l’hai costretto a venire con te all’Inferno, ma hai anche rischiato di farlo uccidere!” Maryse era furiosa.
E Magnus si sentì particolarmente colpito da quell’accusa. Lei non era lì. Non poteva sapere come fossero davvero andate le cose. Non poteva sapere la paura che aveva provato Magnus alla sola idea che Alec venisse ferito, solamente perché qualcuno aveva deciso di prendersela con lui.
“Attenta a come mi parli, Nephilim. Non dimenticare con chi hai a che fare.” Magnus sibilò, e sentì dentro di sé quella sensazione familiare che aveva sempre associato alla sua natura demoniaca. Come se tutta la sua anima, improvvisamente, fosse stata fatta solamente di icore velenoso. Era come se il demone che abitava dentro di sé avesse improvvisamente preso il sopravvento ed esigesse di essere rispettato, temuto. Magnus era stato solamente un sovrano dell’Inferno per troppo a lungo e, di conseguenza, se non si trattava di Alec, era facile che quella parte di sé si risvegliasse.
“Se pensi anche solo per un momento che permetterei a qualsiasi essere presente su questa terra anche solo di sfiorare Alexander, ti sbagli di grosso. Chiunque provasse anche solo a pensare di fargli del male, sarebbe morto ancora prima di tentare di avvicinarsi a lui.”
Gli occhi felini di Magnus scintillarono di un’intensa tonalità dorata. Le sue pupille si assottigliarono maggiormente e Maryse, mentre ricambiava quello sguardo e si rifiutava di lasciarsi intimidire dall’atteggiamento improvvisamente arrogante dello Stregone, fu colpita da una consapevolezza improvvisa: quell’atteggiamento non era quello di un demone nei confronti del suo ostaggio. Lo sguardo di Magnus era serio e il suo tono di voce non lasciava trasparire il minimo dubbio.
Credeva alle parole che avevano appena lasciato la sua bocca.
Avrebbe davvero massacrato chiunque si sarebbe avvicinato ad Alec con l’intenzione di ferirlo e questo atteggiamento significava solamente una cosa.
Un demone non prova un istinto di protezione così forte e viscerale nei confronti di un mortale, mai, a meno che…
“Non è possibile.” Sussurrò, guardando Magnus. “Non con lui, non mio figlio!
Magnus capì a cosa si stava riferendo, e si impietrì. Non riuscì a proferire parola. Non negò e non confermò. Rimase immobile, pensando solo a quanto questo fosse il modo sbagliato nel quale Alec stava per venire a conoscenza del loro destino.
“Di che parli, mamma?” Domandò Isabelle.
Ma Maryse non lasciò gli occhi dello Stregone. “Dillo tu, di cosa sto parlando.”
Magnus sostenne quello sguardo di sfida. Avrebbe tanto voluto gridare, o mordersi le guance fino a farsi uscire il sangue. Era frustrato, arrabbiato. Non era così, in questo modo orribile, che avrebbe voluto dire la verità ad Alec. Non era così che lui meritava di venire a conoscenza di ciò che li legava.
Davanti al silenzio di Magnus, Alec decise di prendere parola. “Di cosa sta parlando, Magnus?”
La voce spezzata del Nephilim fece stringere il cuore di Magnus. Si voltò verso di lui, incontrando i suoi occhi spaesati e incuriositi.
“Era la cosa che volevo dirti, che stavo per dirti, quando ci è crollato addosso il palazzo.” Magnus sospirò e si voltò completamente verso Alec. Prese le sue mani tra le proprie, senza nemmeno domandarsi se fosse giusto esprimersi in un gesto simile davanti alla famiglia ignara di Alec. Ma il Nephilim non si divincolò dalla sua presa, quindi Magnus reputò che fosse un gesto che poteva compiere.
Prese un profondo respiro per cercare di calmare il suo cuore agitato. Ma l’unica cosa che riuscì davvero a tranquillizzarlo fu trovare gli occhi di Alec.
Il loro potere devastante ebbe effetto su Magnus anche quella volta, tanto che gli diedero il coraggio di cominciare a parlare.
“C’è una leggenda, tra i demoni. Come sai, i demoni superiori erano angeli, una volta. Sono stati cacciati dal Paradiso, insieme a Lucifero, e una volta raggiunta la dimensione infernale, hanno sviluppato i loro poteri. La loro natura angelica si è trasformata in qualcosa di demoniaco. Ma…non sono bilanciati. I demoni sono solo… demoni. Sono il Male. E per questo, sono solo capaci di cose orribili. Si dice che Raziel avesse voluto trovare un modo per riuscire a far redimere, in qualche modo, quelli che una volta erano i suoi fratelli angeli. Con la redenzione i demoni non tornano angeli, ovvio, ma… diventano più più equilibrati tra il bene e il male, diventando persino capaci di azioni gentili. E ci riescono solamente grazie ad un essere mortale.” Magnus deglutì. “In pratica, per ogni demone presente su questa terra è destinato a nascere un essere umano che custodisce dentro al suo cuore l’umanità di quel demone, grazie alla quale lo renderà più buono, e, appunto, più umano. E tu, Alexander, sei il custode della mia. L’ho capito nel momento in cui Presidente ti è venuto in contro. Lui, prima di me, aveva percepito quella parte di me che vive dentro di te.” Magnus fece una pausa, aspettandosi una reazione da Alec, ma il Nephilim stava in silenzio. Sembrava stesse elaborando quelle nuove informazioni, così Magnus decise di continuare. “Non ne ero sicuro, all’inizio. Ma poi… la prima sera, sul terrazzo…” Lo Stregone evitò di raccontare i dettagli, consapevole che Alec ricordasse benissimo. “E poi, la sera della festa,” Ed era sicuro che Alec ricordasse anche quell’episodio. “In quei momenti ho avuto la conferma ai miei dubbi. Ho avuto così paura… Non avrei mai sopportato l’idea di poterti perdere, perché mi completi. Sei quella parte che ho perso da tempo e che mi rende migliore. Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata e ti proteggerò sempre. E mi dispiace non avertelo detto prima, ma ero spaventato. È così tutto nuovo per me. La tua vicinanza accende la mia parte umana e con essa tutta la gamma delle emozioni umane, e io non le so gestire.”
Alec rimase in silenzio. I suoi occhi cervoni erano ancora fissi in quelli di Magnus. Scrutò le iridi dello Stregone e quasi come se fosse capace di decriptare un codice misterioso di cui solo lui sapeva la soluzione, riuscì a leggerci tutta la sincerità di cui Magnus era capace.
Tutto ciò che gli aveva appena raccontato, era vero. E Alec, dal canto suo, non si stupì nemmeno troppo di venire a conoscenza di quella leggenda. Sapeva, in cuor suo, che doveva esserci una spiegazione più grande di loro per la nascita improvvisa dei suoi sentimenti nei confronti di Magnus.
Quella profezia era la spiegazione al fatto che uno diffidente come lui, si era fidato quasi subito di Magnus.
Era la spiegazione del perché, nonostante fosse all’Inferno e conoscesse Magnus da pochissimo, aveva provato l’impulso di baciarlo e aveva provato gelosia alla sola idea che qualcuno lo facesse al posto suo.
Tutti i tasselli stavano andando al loro posto.
Alec aveva provato – provava – qualcosa per Magnus perché erano legati dal filo del destino. Raziel stesso aveva voluto che loro due stessero insieme.
E chi era Alec per contrastare la volontà dell’Angelo?
“Si spiegano tante cose.” Sussurrò Alec, quasi impercettibilmente. Gli accarezzò il dorso di una mano con il pollice, mentre guardava Magnus negli occhi e, dopo anni, si sentiva al suo posto.
L’avrebbe fatto anche se non ci fosse stata una profezia ad approvare la loro unione, ma… adesso che riusciva a dare una spiegazione alla velocità con cui erano nati i suoi sentimenti sapeva che ciò che provava era più che giusto.
L’Angelo non aveva legato un uomo e una donna, aveva semplicemente legato due persone. Di conseguenza, significava che Raziel non proibiva legami tra due persone dello stesso sesso. A quanto pare erano gli uomini che disapprovavano tali legami. E Alec si rese conto di essere ancora più arrabbiato con il Clave di quanto non lo fosse già.
“Qualsiasi cosa sia… la provi anche tu.” Un sussurro disorientato attirò l’attenzione di Alec. Lasciò il viso di Magnus per portare i suoi occhi su quello di Jace. Il ragazzo si stava accarezzando sul fianco la runa parabatai da sopra la maglietta.
Jace osservò Alec, spaesato. “Tu credi… di amarlo.” Poi il suo tono si indurì, i suoi occhi si fecero freddi, glaciali. “Come puoi provare sentimenti simili?”
Alec si sentì morire dentro. Non gli piaceva essere esposto in quel modo, soprattutto se si trattava di sentimenti che lui stesso doveva ancora capire. Per quanto fosse vero ciò che aveva appena insinuato Jace, non aveva nessun diritto di parlarne. E il suo primo istinto fu mettersi sulla difensiva.
“E anche se fosse? Ti crea problemi sia un ragazzo?”
Jace emise una risata sprezzante. “Tu credi che il mio problema sia che ti sei preso una cotta per un maschio? Cristo, Alec! Il mio problema è che ti sei innamorato di Magnus Bane. Magnus Bane!” La sua voce si incrinò, i suoi occhi bicromatici si velarono di lacrime di rabbia, che trattenne. “Ci ha distrutti. Tutti. Te lo ricordi vero che solamente un mese fa ha tentato di ucciderci tutti? Ha ricattato mamma. Ti ha costretto a scendere con lui all’Inferno. Come puoi credere di amare qualcuno di simile?”
“Tu non lo conosci, Jace. Non come lo conosco io.”
“Credi di conoscerlo perché ci hai passato un mese insieme? E per una stupida profezia? È più probabile che la tua sia sindrome di Stoccolma!”
Alec ribolliva di rabbia. Jace non aveva nessun diritto di parlargli in questo modo. Non aveva diritto di credere di potergli dire cosa stava provando, quali fossero i suoi sentimenti veri. Non ne aveva il diritto semplicemente perché lui non poteva sapere. Non poteva capire la velocità con cui si erano manifestati e l’intensità con cui si erano facilmente accesi nel momento in cui aveva capito che in Magnus c’era dell’altro, oltre al demone. Era una cosa che non si poteva spiegare. Per capirla, andava solamente provata. E dal momento che era Alec l’unico a provarla, Jace non poteva credere di sapere.
“Dici così solo perché hai paura che ti venga tolto qualcosa. Non pensi a me, pensi a come questa situazione possa avere delle ripercussioni su di te, perché sei un egoista!” Alec era arrabbiato. Non avrebbe detto quelle cose se non lo fosse stato, non le pensava quelle cose, ma si rese conto di non avere più il controllo di sé. Era come se fosse esploso. L’idea che una delle persone a lui più care non cercasse nemmeno di capirlo, ma si limitasse a sparare giudizi su quella situazione lo feriva profondamente. “Non cerchi di capire cosa provo io, stai solo portando avanti l’idea che ti sei fatto.”
“Perché io so che è la verità. E quando ti accorgerai che questo è solamente un dannatissimo sortilegio allora mi darai ragione!”
“Solo perché non approvi una cosa non significa che sia sbagliata, o che la tua idea sia giusta! Perché non provi a capirmi??”
“Perché non stai ragionando!!” gridò Jace, in preda alla rabbia. “Perché questa cosa è assurda, insensata, e perché tu non sei così. Quando tornerai in te, allora potremmo riparlarne.”
Alec ridusse gli occhi a due fessure. Sentì le lacrime che gli pungevano gli occhi. Tutta quella situazione lo lacerava dentro. La rabbia di Jace, il silenzio di sua madre. Glielo leggeva in faccia che lei stessa la pensava come Jace.
“Cosa ne sai di come sono fatto io, mh? Non hai mai pensato a quanto mi sia nascosto in tutti questi anni? A quanto abbia cercato di rispettare tutti gli ideali che si erano fatti su di me? A quanto tempo ho dovuto passare a rinunciare ad essere me stesso perché gli altri si aspettavano qualcosa da me? Tu stesso l’hai fatto. Tu stesso ti aspetti che io rimedi ai tuoi danni, perché a te è permesso tutto, non è vero, ragazzo d’oro?” Alec non aspettò una risposta – e sembrò, comunque, che davanti a quello sfogo, Jace stesso avesse perso l’uso corretto della parola – e non guardò nemmeno sua madre. Sapeva che il suo silenzio era solo dovuto al fatto che Jace stesse dicendo cose che lei stessa pensava. Non riusciva a credere che due delle persone a cui tenesse di più lo stessero trattando in quel modo. Si diede dello stupido, mentre ripensava a tutti i suoi ragionamenti, al fatto che ad Edom aveva potuto pensare che Magnus e la sua famiglia avrebbero potuto coesistere, nella sua vita. A quanto pare, non era così. Era stato un ingenuo anche solo per aver sperato una cosa simile.
Guardò l’unica persona rimasta: Isabelle. Lei gli accennò un sorriso. Debole, quasi insicuro, ma che nonostante questo aveva un che di familiare. Forse lei era dalla sua parte, forse lei lo capiva un po’ di più. Alec non lo sapeva, e non aveva le forze per capirlo in quel momento.
“Ci hanno attaccati, ad Edom.” Gracchiò, lapidario. “Ho intenzione di scoprire chi è stato. Inizierò a fare delle ricerche. Se non vi indispone troppo l’idea di avere a che fare con me e Magnus, sapete dove trovarmi.”  
Si voltò e afferrò di nuovo Magnus per mano, poi uscì da quella stanza. Quando si chiuse la porta alle spalle, si rese conto della lacrima che solcava il suo viso solamente perché Magnus gliela asciugò via.
“Loro ti vogliono bene, Alexander.” Gli sussurrò, prima di afferrargli delicatamente il viso tra le mani e sfiorare la sua bocca con la propria. “Andrà tutto bene, tesoro.”
E davanti ad un gesto tanto dolce e premuroso, Alec si rifiutò di credere che i sentimenti che li legavano non fossero onesti e sinceri. Si rifiutò di credere alle insinuazioni di Jace.
Davanti ad un gesto simile, decise di credere solamente al suo cuore, che ancora una volta lo spingeva verso Magnus.

 





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Ciao a tutti, spero stiate bene! 😊
Questo doveva essere l’ultimo capitolo, ma come avrete capito non è così.
Mi sto rivelando più disorganizzata di quanto credessi, ma in questo periodo l’ispirazione per scrivere va e viene. Comunque, ho deciso anzi di fermarmi qui con questo capitolo perché temevo che continuando sarebbe venuto troppo lungo e quindi avrebbe creato anche una discrepanza con gli altri, che comunque hanno più o meno tutti questa lunghezza.
Nel prossimo capitolo vorrei dare un po’ di spazio alla figura di Isabelle, perché vorrei avesse una parte tutta sua. Quasi sicuramente il prossimo capitolo inizierà con il suo punto di vista.
Non sono molto sicura della fine di questo capitolo, più che altro perché la lite tra Jace e Alec l’avevo immaginata in modo diverso, ma alla fine, per come si è sviluppata la storia, questo modo è forse quello un po’ più coerente. Non lo so, sono piena di dubbi. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Ad ogni modo… spero almeno di essere riuscita a spiegare la faccenda dell’umanità di Magnus custodita da Alec. Non è una cosa troppo elaborata, come concetto è anche piuttosto semplice, però spero almeno che sia carino da leggere…
La faccenda che i demoni superiori erano angeli viene menzionato ne LA MANO SCARLATTA di Cassandra Clare, dove viene scritto che “…il sangue di fata poteva essere usato per evocare i Demoni Superiori, un tempo annoverati tra gli angeli sommi e in seguito caduti.” Quindi non è assolutamente una mia idea, ma della scrittrice originale.
La faccenda di Raziel che unisce due persone, invece, me la sono inventata.
Credo di aver detto tutto. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate! Io ringrazio chiunque legga questa storia, l’abbia messa tra le seguite/preferite/ricordate e chiunque trovi il tempo per recensirla. Mi fa davvero moltissimo piacere!
Vi saluto, ci vediamo al prossimo capitolo, che con ogni probabilità questa volta sarà davvero l’ultimo!
Un abbraccio, a presto! <3 

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Capitolo 10
*** 10. ***


Isabelle stava ancora fissando la porta da dove suo fratello era appena uscito.
Le parole che erano uscite dalla sua bocca le ronzavano nelle orecchie, insieme a tutto ciò che era stato detto da Jace.
Odiava le liti tra i suoi fratelli, e uno dei motivi principali era perché entrambi erano delle teste dure che non riescono a fare pace di loro spontanea volontà, troppo testardi e dediti a quell’ideale di maschio alfa che mai si piega ai sentimenti per fare retromarcia, tornare sui propri passi e cercare un modo per imboccare la via della pace.
E visto che, in pratica, i suoi fratelli erano degli zucconi senza speranza, toccava ad Isabelle fare il lavoro sporco. Toccava a lei costringerli a confrontarsi fino a che non avessero fatto pace. E la maggior parte delle volte era estenuante.
Izzy sapeva che avrebbe fatto in modo che Alec e Jace avrebbero fatto pace anche questa volta.
L’unica differenza era che nell’attuale caso specifico, la causa della lite non era stato qualcosa di futile come una parola detta al momento sbagliato, o una divergenza di opinioni, o il modo di voler gestire una missione.
Alec e Jace si erano detti cose pesati, cose che Izzy non pensava avrebbe mai sentito.
E, se di solito si limitava a farli chiarire senza volersi schierare mai da nessuna parte, questa volta non riusciva ad essere neutrale come la Svizzera.
Questa volta avrebbe voluto prendere la parte di entrambi, perché capiva entrambi, ma c’era una vocina dentro di sé che le sussurrava che fosse giusto dare ascolto ad Alec e convincere Jace a fare lo stesso.
Per questo, nonostante capisse le preoccupazioni di suo fratello, decise che forse era più giusto cercare di fargli accettare la possibilità di ascoltare meglio Alec.
“Jace…” Lo chiamò e il biondo si voltò verso di lei. Erano rimasti in silenzio, lei, il ragazzo e Maryse. Per questo quando la sua voce lo ruppe, sia suo fratello che sua madre si voltarono verso di lei.
“Noi dobbiamo aiutarlo.”
Isabelle sapeva che questa volta tentare di avvicinarli non sarebbe stato facile come le altre volte, perché la lite in cui erano coinvolti era decisamente più pesante.
Per questo si aspettava la reazione che poi effettivamente Jace ebbe. Il biondo la guardò con gli occhi ridotti a due fessure, quasi non credesse alle sue parole.
“Dimmi che stai scherzando, Iz!”
Lei si avvicinò con cautela. Lanciò una fugace occhiata a sua madre, che la stava studiando, come se volesse capire le sue intenzioni. Isabelle afferrò la mano di Jace.
“No. Sono seria. Ha bisogno di noi. Ha chiesto il nostro aiuto e noi dobbiamo provare a capirlo.”
Jace guardò l’intreccio delle loro mani. Quella di Izzy così piccola a confronto con la sua. E di solito un gesto simile gli avrebbe dato conforto, l’avrebbe fatto sentire capito, meno solo… ma non in quel momento. Non quando Isabelle sembrava intenzionata a voler supportare quella follia secondo cui Alec provava dei sentimenti per qualcuno che aveva ferito tutti loro.
Così tirò via bruscamente la mano.
“No che non dobbiamo!” Gridò. “Non dobbiamo capirlo. Alec è confuso. Dobbiamo solo chiarirgli di nuovo le idee.”
“Come puoi dire una cos simile? Non puoi pretendere di sapere le cose meglio di lui!” Isabelle si stava arrabbiando. “Non credo alle cose che Alec ha detto su di te, e credo che nemmeno lui le pensi. Ma sentirti parlare così mi fa dubitare che le cose che ha detto in atto di rabbia possano essere vere!”
Jace fu colpito da quelle parole, tanto che si ridusse al silenzio. Isabelle vide chiaramente lo stesso lampo di dolore che poco prima aveva attraversato il viso di Jace quando Alec gli aveva rivolto quelle parole. Sapeva di aver aperto una breccia.
“Io voglio bene ad Alec. E a te.” Le disse, con un filo di voce. “E a te.” Aggiunse rivolgendosi a Maryse. “Non permetterei mai che qualcuno gli faccia del male, e ho solo paura che Magnus Bane possa fargliene. È un demone immortale, Iz. I suoi sentimenti non possono essere gli stessi di Alec. Lui è… sensibile e sai quanto tenda ad amare con tutto se stesso. Se solo Magnus dovesse stancarsi di lui, Alec finirebbe in pezzi. È questo che mi spaventa. Io vorrei solo tutelarlo.”
Isabelle prese di nuovo le mani di Jace tra le sue e questa volta il ragazzo le strinse. “Lo so, Jace. Ma dobbiamo fidarci di lui. Alec è intelligente e se si fida di Magnus sicuramente un motivo c’è. Quindi, fidiamoci di Alec.”
Jace annuì. “Fidiamoci di Alec.”
I due ragazzi si voltarono verso la madre. Maryse era restia a tutta questa fiducia nei confronti di un demone, ma sapeva che adesso la cosa migliore da fare era restare uniti ed evitare ulteriori discussioni.
“Fidiamoci di Alec.” Disse, quindi. “Andiamo a sentire cosa hanno scoperto. Debelleremo la minaccia e poi cercheremo di risolvere questa situazione.”
Isabelle e Jace annuirono. E, insieme alla madre, uscirono dal suo ufficio.


*



Alec avrebbe davvero voluto concentrarsi sul libro che aveva davanti.
Avrebbe voluto davvero.
Ma non ci riusciva.
Continuava a sentire la voce di Jace, a vedere lo sguardo di Jace. Non sopportava quell’espressione, non negli occhi di qualcuno a cui lui teneva così tanto.
Jace l’aveva guardato con rabbia, quasi con disprezzo, come se lui fosse un ingenuo che non capisce cose elementari e si fa ingannare da qualcuno di malvagio.
Jace aveva avuto la presunzione di capire cose che in realtà ignorava completamente e questo faceva arrabbiare Alec.
Jace, suo fratello e parabatai, si era limitato a giudicare, senza ascoltare.
E questo lo feriva perché un comportamento simile se lo sarebbe aspettato da suo padre, o da qualsiasi membro del Clave a caso, ma non da qualcuno a cui la sua anima era legata e che lo conosceva a fondo.
Si sentiva diviso tra due fuochi.
Da una parte c’era Magnus. Dall’altra, la sua famiglia.
E provava una profonda tristezza all’idea che li avrebbe avuti come due cose ben distinte nella sua vita e non come un unico intero.
Provava tristezza all’idea che la sua famiglia non avrebbe mai accolto Magnus, quando l’unica cosa che voleva Alec era che lui entrasse a far parte del nucleo familiare.
“Alexander,” lo chiamò delicatamente Magnus.
Si trovavano in camera di Alec. Il Cacciatore aveva portato lì lo Stregone e poi si era recato in archivio per prendere tutti i libri che potessero parlare di attacchi demoniaci, magia, e crolli. Aveva lasciato Magnus in camera, dove pensava che fosse più al sicuro, lontano da occhi indiscreti – occhi che l’avrebbero condannato. E Alec non voleva, Alec voleva proteggerlo.
Alzò lo sguardo su di lui. Erano seduti sul suo letto, uno di fronte all’altro. Avevano un libro ciascuno davanti, ma nessuno dei due riusciva a concentrarsi davvero. Alec per i pensieri che gli ronzavano in testa, Magnus perché riusciva chiaramente ad avvertire quanto Alec stesse rimuginando e perché aveva paura che le cose tra di loro rischiassero di cambiare a causa di tutto ciò che Magnus aveva taciuto.
Non avrebbe sopportato se Alec avesse smesso di fidarsi di lui.
“Vorrei parlare di una cosa.”
“Ti ascolto.”
Magnus si scoprì nervoso. Era una delle tante nuove emozioni che riusciva a provare grazie alla vicinanza di Alec. Lui era diventato la sua bussola emotiva.
“Quello che hai scoperto… Io stavo per dirtelo, prima che il palazzo ci crollasse addosso. Non volevo tenertelo nascosto.”
Alec annuì. “Suppongo sia stato destabilizzante anche per te scoprirlo.”
“Sì.” Lo Stregone si allungò per afferrargli una mano. “All’inizio scoprire il potere che avevi su di me è stato devastante. Temevo che potessi usare questo vantaggio a tuo favore, ferirmi. Ma tu sei… sei così buono, tesoro mio, e dopo aver superato i miei problemi di fiducia ho capito che se deve esserci un essere umano in grado di possedere il mio cuore, sono contento sia tu.” Magnus si portò la mano di Alec alle labbra e ne baciò le nocche, una ad una, con dolcezza e devozione. “Sei speciale, Alexander.”
Alec sentì il suo cuore accelerare. Le labbra di Magnus a contatto con la sua pelle lo fecero tremare dentro e improvvisamente si sentì fremere dalla voglia di averle sulle proprie. Per questo si sporse verso Magnus e appoggiò la mano che aveva libera sulla sua guancia, prima di appoggiare le proprie labbra sulle sue.
“Mi fai provare cose che pensavo non sarei mai stato in grado di provare.” Sussurrò Alec, la fronte appoggiata a quella di Magnus. “Cose che pensavo di non meritarmi.” Alec lo baciò di nuovo. “Se io ho il tuo cuore, puoi stare certo che tu hai il mio. Lo avrai sempre.”
Magnus afferrò il viso di Alec tra le mani e lo tirò a sé per baciarlo. Fece scontrare le loro labbra con delicatezza, prima di approfondire il bacio. Le loro bocche si muovevano in sintonia, in un modo così perfetto che Magnus aveva l’impressione che prima di baciare Alec non avesse mai davvero saputo cosa significhi baciare qualcuno. Tra di loro c’era una scintilla, che cresceva sempre di più ogni volta che i loro baci si approfondivano. Ed erano legati da qualcosa di così forte e profondo che Magnus aveva l’impressione che il suo cuore sarebbe esploso.
Forse era così che ci si sentiva, a baciare qualcuno se si è emotivamente coinvolti.
Forse era quello l’amore.
“Sei una distrazione, Bane.” Sorrise Alec sulle sue labbra.
“Non è colpa mia. Se mi dici cose bellissime, devo necessariamente baciarti. È una regola.”
Alec accennò una risata. “Allora ti dirò sempre cose bellissime.”
Magnus in risposta gli lasciò un bacio a stampo. E un altro. E un altro ancora. Facendo sorridere Alec ogni volta. Il suo sorriso era meraviglioso.
Alec rimase a guardarlo per qualche istante, prima di parlare di nuovo: “Visto che siamo in vena di confidenze, posso chiederti una cosa?”
Magnus annuì.
“Come facevi a sapere il mio nome? Hai sempre evitato di rispondermi, prima…”
Magnus emise un lieve sospiro. Cominciò a tracciare disegni astratti invisibili sul dorso della mano di Alec con un polpastrello. “Nove mesi dopo che tua madre era venuta da me per invertire la sua condizione, ero curioso di sapere come fosse finita. Sapevo di esserci riuscito, la mia magia riesce sempre, ma… volevo vedere il frutto di quell’incantesimo. Sono andato nel mio loft a Brooklyn e ho usato la magia per aprire una finestra su tua madre. Riuscivo a vederla, nel suo letto d’ospedale, e tu eri tra le sue braccia. Eri così piccolo. Ha sussurrato il tuo nome: Alexander. Ricordo di aver pensato che fosse un nome bellissimo.”
“E perché non l’hai fatto anche con i miei fratelli? I loro nomi non li sapevi, significa che l’hai fatto solo con me.”
“Perché tu eri il primo. Il vero miracolo. Non mi interessava sapere di loro.”
Alec annuì. Rifletté per un attimo sul significato della cosa. Su come loro due fossero stati legati da Raziel, ma fossero stati aiutati da una magia che nasce dall’inferno per esistere entrambi, dal momento che Alec, senza quella magia, non sarebbe mai venuto al mondo.
Il loro legame era qualcosa che univa inevitabilmente i loro due mondi. Sarebbero stati un ponte, forse, tra i Nascosti e i Nephilim.
“Sarei un miracolo, quindi?”
“Il mio miracolo.”
Magnus alzò le mani sul viso di Alec per accarezzare i suoi lineamenti. Tracciò ogni suo tratto con delicatezza e devozione, quasi avesse avuto paura di vederlo dissolversi nell’aria, se l’avesse toccato con più decisione. A volte faceva ancora fatica a credere che tutto questo fosse reale, che Alexander fosse reale. Faceva ancora fatica a credere che un demone spietato come lui avesse ricevuto un dono tanto prezioso, un dono che gli aveva dato la possibilità di scoprire cosa fosse l’amore.
Magnus non aveva mai visto nessuno al suo fianco, non aveva mai voluto nessuno al suo fianco.
Con Alec era diverso. Non riusciva più ad immaginarsi senza di lui. Non sarebbe più stato in grado di non averlo nella sua vita.
Voleva tutto con lui.
Voleva innamorarsi ogni giorno sempre di più. Voleva essere sincero, buono. Voleva diventare la persona che Alec meritava.
Sarebbe diventato un uomo migliore solo per Alec, per renderlo felice ogni giorno per il resto della sua vita.
“Voglio meritarti, Alexander.” Gli sussurrò, incatenando i suoi occhi dorati in quelli di Alec. Il Nephilim rimase un attimo colpito da quella frase, capendola in pieno solo un secondo più tardi. 
“Non devi dire così. Sembra altrimenti che ci sia qualcosa che non va, in te. E non c’è niente che non vada, in te.”
“Ho fatto tante cose brutte. Sono stato tante cose brutte. Tu, invece, sei così… puro. Mi sento così marcio dentro, a volte, che ho il terrore di contaminarti.”
Alec lo abbracciò con impeto e con decisione, lo strinse così forte a sé che Magnus sentì il respiro venirgli mancare per un breve istante.
“Non dirlo mai.” Affermò Alec, il viso incastrato nell’incavo del collo di Magnus, le sue labbra che sfioravano la pelle dell’altro ad ogni parola pronunciata. “Non c’è niente di marcio, in te. Sei perfetto come sei. I tuoi lati, tutti, formano l’uomo che mi fa battere il cuore come mai avrei pensato fosse possibile. Non sminuirti, non accusarti.” Alec sciolse l’abbraccio solo per guardare Magnus in viso e posare le proprie labbra sulle sue. “C’è una luce, in te, Magnus. Devi solo riuscire a vederla come la vedo io.”
Il cuore di Magnus gli saltò in gola. Andò ad incastrarsi nella trachea e li rimase, battendo forte come un tamburo di guerra, deciso e inarrestabile.
Non riusciva a credere che parole simili fossero destinate a lui. Alec era davvero il suo miracolo. La sua possibilità di redenzione.
E Magnus sapeva di amarlo.
Anche se non aveva mai saputo cosa significasse amare, anche se nessuno gliel’aveva mai spiegato, in cuor suo sapeva che doveva essere questo l’amore.
E Alec era amore nella forma più pura che possa esistere.
Magnus sorrise, nel modo più devoto possibile, mentre guardava gli occhi di Alec e ci leggeva dentro tutto ciò che c’è di buono al mondo. Sperava solo di riuscire a trovare presto il coraggio per confessargli i suoi sentimenti.
“La mia luce sei tu, Alexander.” Affermò e sorrise quando vide il Nephilim arrossire. Era ancora più bello quando arrossiva, Magnus non si sarebbe mai stancato di notarlo. “Vieni qui.”
Alec obbedì. Si avvicinò ancora di più a Magnus, fino a quando lo Stregone non allungò le braccia verso di lui per circondargli il collo. Una delle sue mani cominciò a giocare con le ciocche corvine ribelli sulla nuca, mentre la sua bocca cercava quella di Alec e la sua lingua lo spronava ad aprire le labbra.
Alec impiegò mezzo secondo ad assecondarlo. Schiuse la bocca e lasciò che Magnus facesse intrecciare le loro lingue. Ogni volta che si baciavano Alec sentiva il cuore espandersi e il suo stomaco sfarfallare, come se fosse davvero improvvisamente abitato da una miriade di farfalle euforiche. Le labbra dello Stregone erano morbide e si muovevano esperte. Alec sapeva che tutta quell’esperienza era dovuta a tutte le avventure che aveva avuto, ma non gli interessava. Non in quel momento. Non quando Magnus era lì con lui e gli aveva appena detto cose bellissime.
Si fidava di lui. Anche quando si trattava di sentimenti. Sapeva di avere un’importanza diversa da tutti gli altri, per Magnus, e non solo perché i loro destini erano stati legati da forze sovrannaturali.
Sapeva che i loro cuori erano destinati ad appartenersi, ad amarsi. Erano destinati a battere all’unisono al ritmo di quell’amore incondizionato e devastante che Alec sentiva crescere nel suo.
Era certo che stesse crescendo anche nel cuore di Magnus.
Improvvisamente, sentì nascere dentro di sé il bisogno di sentirlo ancora più vicino. Perciò, come se la già misera distanza che li separasse fosse, in realtà, troppa per i suoi gusti, Alec si sistemò a cavalcioni su Magnus. Lo Stregone fu sorpreso da quel gesto, ma assecondò i movimenti del Cacciatore. Lasciò che Alec si sistemasse sopra al suo bacino, mentre le sue mani andavano a posizionarsi sul viso dello Stregone. Magnus avvertì la callosità delle mani dell’altro sulla pelle del viso e rabbrividì.
Le mani di Alec potevano essere letali, erano capaci di maneggiare con destrezza armi in grado di uccidere, ma con Magnus… erano così delicate, così premurose.
Lo Stregone sentì il cuore accelerare a quel pensiero, come se avesse avuto un altro segnale di quanto potesse essere speciale lui per Alec. La sua eccezione. Per questo lo tirò ulteriormente a sé: addome contro addome, i bacini che collidevano. Le mani di Magnus vagarono automaticamente sulla schiena di Alec, percorrendo tutta la sua lunghezza, prima di insinuarsi sotto alla maglietta. Gli accarezzò la pelle nuda: tracciò l’ampiezza delle sue spalle, scese piano verso la colonna vertebrale, e Alec lo lasciò fare. Magnus avvertì la superficie epidermica riempirsi di brividi e, quasi come se ne fosse stato contagiato, sentì anche ogni centimetro del proprio corpo rabbrividire. Ad ogni loro ulteriore contatto, Magnus sentiva un crescente desiderio dentro di sé, come se ogni bacio, ogni carezza fosse fatta di fuoco devastante che bruciava ogni parte di se stesso.
E più il fuoco continuava a bruciare, più Magnus non riusciva a trovare la volontà dentro di sé per fermarsi. Diventava sempre più difficile resistere ad Alec, al suo corpo contro il suo, alle sue labbra che adesso erano scese, audaci, sulla curva del collo dello Stregone e stavano lasciando una scia di baci che stava facendo esplodere il fuoco di cui Magnus, improvvisamente, sentiva di essere fatto.
Non era più un uomo. Era solo fiamme incandescenti e desiderio.
Voleva Alec come non aveva mai voluto nessun altro in vita sua.
“Alexander,” sussurrò, la voce rauca. Si sentiva preda di ogni suo istinto, desiderio. E sapeva benissimo che era tutto nelle mani di Alec.
Si sentiva come argilla che il Cacciatore avrebbe potuto maneggiare con facilità. Avrebbe potuto chiedergli qualsiasi cosa, in quel momento, e Magnus gliel’avrebbe concessa.
Alec gli lasciò un bacio in mezzo alle clavicole scoperte, prima di far incrociare i loro occhi.
Fu una visione, per Magnus.
Alec aveva le labbra gonfie e arrossate dai baci, i suoi capelli erano disordinati, arruffati in ogni direzione, le sue gote erano rosse e i suoi occhi… Dio, i suoi occhi. Lo stavano uccidendo. Erano così carichi di curiosità e bramosia, di aspettativa e impazienza, devozione, di passione e… amore.
Brillavano in un modo quasi accecante, in un modo che rese Magnus schiavo di quelle iridi che già adorava, ma che adesso lo stavano guardando con una sfumatura nuova. Avrebbe fatto di tutto, purché gli occhi di Alec avessero continuato a guardarlo così intensamente per sempre.
Si sentiva desiderato per l’uomo che era. Ed era una sensazione senza eguali.
“Potresti chiedermi qualsiasi cosa, e sarebbe tua.” Magnus tracciò con il pollice la linea delle labbra di Alec, gli accarezzò il viso e poi afferrò una delle sue mani e l’appoggiò sul proprio petto, all’altezza del cuore. “Lo senti?”
Alec rimase in silenzio, quasi avesse paura che un minimo rumore avesse potuto sovrastare ciò che si stavano dicendo. Percepiva sotto il palmo il battito cardiaco di Magnus. Il cuore dello Stregone stava letteralmente impazzendo, come se stesse correndo freneticamente verso un’unica meta: Alec.
Il Cacciatore annuì.
“Sei l’unico al mondo che ha questo potere. L’unico in grado di far vivere il mio cuore in questo modo. Per questo, è tuo.” Magnus si sporse per baciarlo piano. “Io sono tuo.”
Alec appoggiò la fronte a quella dell’altro. Chiuse gli occhi, mentre quelle parole gli risuonavano nelle orecchie e andavano ad imprimersi nella sua mente per sempre.
Faceva ancora fatica a credere che una cosa così bella potesse essere capitata a lui. Non riusciva ancora a capacitarsi del tutto di quanto potenti fossero i sentimenti che provava per Magnus.
Era sempre stato convinto che non si sarebbe mai innamorato, e che nessuno l’avrebbe mai amato. Ma l’uomo che aveva davanti, le parole che uscivano dalla sua bocca erano la prova evidente che non era così.
Alec si era innamorato. Ed era amato. Il suo cuore, a quel pensiero, accelerò. Riaprì gli occhi per incontrare quelli dorati di Magnus.
“Una volta ti ho detto che preferirei morire, piuttosto che appartenerti in alcun modo.” Sussurrò Alec. “Adesso voglio che tu sappia che preferirei morire piuttosto che non appartenerti. Non voglio essere di nessun altro, se non tuo. Non voglio donare il mio cuore a nessun altro, se non a te.”
Magnus sorrise. Avrebbe voluto dirgli che lo amava, confessarglielo. Dirgli che sapeva che era presto e forse poteva anche sembrare assurdo ad occhi esterni, ma lui ne aveva la certezza: era innamorato di Alec.
Avrebbe voluto farlo, ma decise di aspettare. Voleva che il momento fosse un altro, più tranquillo. Magari non quando Alec aveva appena discusso con la sua famiglia e un palazzo era crollato loro in testa.
Avevano tempo.
Per questo si limitò a baciarlo, cercando di trasmettere attraverso quel bacio tutti i sentimenti che provava per lui. E Alec ricambiò con la stessa intensità, quasi avesse percepito le intenzioni di Magnus e volesse fargli capire che per lui era lo stesso, che ogni sentimento, anche quello più infinitesimale, era ricambiato. 
“Dobbiamo concentrarci.” Sussurrò Magnus, staccandosi da lui. Era consapevole che se avessero continuato a baciarsi in quella posizione – con Alec ancora a cavalcioni su di sé – non sarebbero riusciti a concludere niente. E Magnus voleva risolvere questo mistero il prima possibile, per potersi poi concentrare unicamente ed interamente su Alec.
“Quindi sono davvero una distrazione?” Il Cacciatore sfiorò con il proprio naso quello di Magnus.
“Sì. Una bellissima distrazione, ma pur sempre una distrazione. Risolviamo questa faccenda, così possiamo pensare a noi.”
Noi.
Una parola semplice, che tuttavia pronunciata da Magnus assumeva tutto un altro significato.
Diventava importante. Fondamentale. Diventava in grado di trasmettere una promessa futura, in cui lui e Magnus sarebbero stati insieme.
Ad Alec piaceva.
“D’accordo. Concentriamoci.” Si allontanò da lui, tornando ai piedi del letto, dove era seduto fino a qualche istante prima. Adesso gli risultava più facile riuscire a concentrarsi sul libro che aveva avuto davanti fino a poco prima.
Sapeva che Magnus era con lui, e in cuor suo sapeva – sperava – che Jace e la sua famiglia avrebbero capito quanto lo rendesse felice.
Tutto si sarebbe risolto. Un passo alla volta e con quanta più calma possibile, ma si sarebbe risolto.
Alec voleva avere fiducia in questo.






Magnus ed Alec stavano cercando informazioni da una ventina di minuti, quando sentirono bussare alla porta della camera di Alec.
Si scambiarono un’occhiata. Alec si alzò dal letto e fece cenno a Magnus di stare dietro di sé. Maledisse la mancanza di un’arma a portata di mano, ma si preparò comunque a reagire. Avrebbe usato il suo allenamento, se fossero stati attaccati.
Alec sentiva i nervi a fior di pelle e cercò di calmarsi. Doveva rimanere lucido, altrimenti non sarebbe stato in grado di affrontare la situazione.
“Alec, siamo noi.” Disse la voce di Isabelle, dopo istanti di silenzio. Il ragazzo si rilassò visibilmente. Aveva senso, in effetti. I membri della sua famiglia erano gli unici a sapere della loro presenza in quell’Istituto.
Alec era più teso di quanto si fosse reso conto.
“Entrate.”
La porta si aprì, mostrando Isabelle, Jace e Maryse. Nella stanza calò momentaneamente il silenzio, che Izzy si impegnò a rompere.
“Vogliamo darvi una mano.”
“Al plurale?” Domandò Alec, guardando Jace negli occhi.
Il biondo sostenne il suo sguardo. “Sì, al plurale.”
“Quindi sei improvvisamente d’accordo con le mie scelte?”
“No. Ma mi fido di te. Voglio farlo anche questa volta, nonostante io non sia d’accordo.” I suoi occhi bicromatici si posarono su Magnus solamente per una frazione di secondo, poi tornarono su Alec. Guardò il suo parabatai, suo fratello. Avevano un legame che andava al di là del sangue. Le loro anime erano legate per l’eternità ed era proprio grazie a quel legame che riusciva a capire la portata dei sentimenti di Alec. Riusciva a sentirlo più felice, più tranquillo e meno tormentato. E tutto questo era merito di Magnus. Ma questa consapevolezza lo destabilizzava perché tra tutte le persone che al mondo avrebbero potuto fare felice Alec, l’unica in grado di farlo veramente era Magnus, uno Stregone che aveva scombussolato la sua famiglia.
Jace non era certo sarebbe riuscito a perdonarlo con la stessa facilità con cui, apparentemente, ci era riuscito Alec.
Non subito, almeno.
Non quando il ricordo delle nottate passate in bianco erano ancora così vivide nella sua memoria.
Ne ricordò una in particolare. La prima notte che Magnus aveva portato Alec con sé ad Edom.
Lui se ne stava sdraiato sul proprio letto, lo sguardo fisso sul muro alla sua sinistra, quello che sapeva lo separava dalla stanza di Alec. La sua camera era sempre stata spoglia e minimale, ma la consapevolezza che la stanza accanto fosse vuota la rendeva ancora più grigia. Sentiva l’assenza di Alec a livello molecolare, come se gli fosse stato strappato via un pezzo. E si era maledetto per tante cose: aver permesso a quel dannato Stregone di portare via Alec, aver permesso che fosse Alec quello a sacrificarsi. Perché non ci aveva pensato lui? Se avesse pensato più velocemente di suo fratello, adesso Alec sarebbe stato al sicuro.
Si colpevolizzava per non aver fatto di più, per non essere stato in grado di impedire ad Alec di andare ad Edom.
Ricordò come quei pensieri l’avessero fatto girare nel letto così tante volte da sgualcire le lenzuola. Ricordò come, preda dello sconforto a causa di quei pensieri, si era alzato per andare in camera di Izzy e quando aveva aperto la porta l’aveva già trovata sulla soglia. La sorella aveva lo stesso dolore dipinto sul volto. La stessa angoscia e la stessa preoccupazione.
Si erano abbracciati, senza dire una parola, così forte da sentire mancare il respiro – fino a quando Jace, però, si era reso conto che non era solo una sensazione, ma era qualcosa di reale e non dipendeva dall’abbraccio.
Il suo respiro stava davvero venendo meno, il suo cuore stava accelerando, e dentro di sé sentiva solamente del freddo panico.
Isabelle si era preoccupata immediatamente. “Jace!” gridava, “Jace, cosa succede?”
“Alec!” aveva sussurrato lui, per quanto la sua gola serrata glielo permettesse. “Alec sta male!”
E poi tutto era finito con la stessa velocità con cui era arrivato. E Jace ricordò la rabbia che l’aveva invaso dopo quel momento, all’idea che Magnus avesse potuto fargli del male.
E fu quel ricordo, quella sensazione viva di rabbia pulsante, che lo fece parlare di nuovo, in presenza di quello Stregone malvagio.
“Anche se non capisco come tu faccia a fidarti di qualcuno che ha provato a strangolarti. Due volte.” Aggiunse Jace, perché al ricordo di quella prima notte, si aggiunse anche quello di giorni dopo, quando aveva avuto la stessa sensazione – consapevole che fosse di nuovo Alec quello che stava soffrendo.
Aveva parlato rivolgendosi ad Alec, ma i suoi occhi non avevano mai lasciato la figura di Magnus. Voleva studiare la sua reazione a quelle parole, vedere che faccia avrebbe fatto, udendole. Pensava forse che nessuno l’avrebbe mai scoperto? Forse aveva sottovalutato la forza di un legame parabatai.
Ma il viso di Magnus non trasmise niente di ciò che Jace si era aspettato. Il biondo pensava che avrebbe visto il panico per essere stato scoperto, ma invece nei suoi occhi lesse solo… tristezza e ansia. Lo vide guardare Alec come se volesse accertarsi che fosse lì, che stava bene. C’era apprensione nei suoi occhi.
E il fatto che non stesse ribattendo per provare a difendersi da quelle accuse poteva significare solo una cosa: non stava a lui parlare di quell’accaduto, perché non era stato lui a compiere quei gesti.
Jace era sconvolto. Guardò prima Magnus e poi Alec.
“Non è stato lui.” Sussurrò, fissando il parabatai dritto negli occhi.
“Si può sapere di cosa state parlando?” Domandò Maryse. Lei era all’oscuro di tutto. Jace non aveva parlato alla madre di quegli episodi. Ne aveva parlato solo con Isabelle – che era con lui entrambe le volte. Insieme avevano deciso di non parlarne alla madre per evitare di farla preoccupare ulteriormente.
Alec sospirò. “Jace si riferisce alla mia prima notte ad Edom. Ho avuto un attacco di panico, che mi ha fatto mancare il respiro. Magnus mi ha aiutato a farlo passare con la sua magia.” Evitò di dire che i pensieri che aveva avuto l’avevano quasi portato a porre fine alla sua vita. Non voleva farli preoccupare ulteriormente. Ma se non ci fosse stato Magnus, Alec non sarebbe qui, adesso. A quel pensiero, allungò una mano verso lo Stregone, facendo intrecciare le loro dita. Magnus assecondò quel movimento.
“La seconda volta, invece, abbiamo litigato. Ero così arrabbiato che ho pensato che l’unica cosa da fare fosse togliermi il ciondolo che mi permetteva di sopravvivere all’atmosfera di Edom.” Usò la mano libera per mostrare la collana, nascosta sotto al colletto della maglietta. “Stavo soffocando. Magnus ha ricreato il ciondolo per permettermi di sopravvivere.” Si voltò verso lo Stregone e gli sorrise, grato di essere stato salvato. Di nuovo.
Poi si rivolse a Jace.
“Come vedi, le tue congetture sono sbagliate. Come vedi, la fiducia che c’è tra me e Magnus è arrivata dopo molte liti e molti scontri. Abbiamo costruito questo rapporto in poco tempo, quindi posso capire la tua perplessità, ma credimi Jace, non è stato facile per nessuno dei due arrivare dove siamo adesso. Per questo vorrei che tu la smettessi di vedermi come una vittima, qualcuno che è stato soggiogato o costretto. I miei sentimenti sono reali. Prima lo accetti, prima torneremo alla normalità – se, anche tu come me, desideri farlo.”
Jace si sentì un idiota. Aveva dato per scontato che la situazione fosse come lui se l’era immaginata. Aveva agito da testa calda, senza riflettere troppo, come faceva sempre.
Aveva pensato ai suoi sentimenti, a come si era sentito quando Alec era andato via, e a quello che aveva provato quando aveva visto Alec tornare insieme a Magnus, professando dei sentimenti che Jace stesso aveva percepito.
E si era sentito tradito. Quasi come se Alec l’avesse pugnalato, perché anzi che essere furioso con Magnus come lo era lui, aveva finito per innamorarsi di quell’uomo.
Ma non aveva pensato ad Alec.
Una delle persone più importanti della sua vita.
Si sentiva un egoista. E solamente adesso si rese conto di quanto il suo comportamento avesse potuto far soffrire Alec.
“Mi dispiace.” Disse, avvicinandosi ad Alec. Lo abbracciò con tutta la forza di cui era capace. “E voglio che tutto torni com’è sempre stato.”
Alec lasciò la presa sulla mano di Magnus per ricambiare la stretta del fratello. Gli era mancato. E sapere che fosse così propenso a tornare alla normalità lo faceva sentire leggero. Gli faceva vedere di nuovo quella speranza che abitava in fondo al suo cuore, secondo la quale la sua famiglia e Magnus avrebbero potuto fare parte di un unico nucleo. Alec ebbe la certezza, in quel preciso momento, che tutte le paure che aveva avuto negli anni stessero svanendo.
Il Clave non l’avrebbe mai accettato – e di certo, sarebbe stata una battaglia ardua, dalla quale rischiava persino di uscire da perdente – ma la sua famiglia… loro non sembravano infastiditi dal fatto che Magnus fosse un uomo, erano solamente turbati per quello che rappresentava: qualcuno che poco tempo prima li aveva feriti.
Ma Alec sapeva che quell’uomo non c’era più. O almeno, esisteva ancora perché sarebbe sempre stato una parte di Magnus, ma non era più il lato che dominava lo Stregone.
Magnus non era più solamente un demone, adesso era un uomo, con tutte le sfaccettature che l’umanità e l’emotività portano con sé.
Era sicuro che le cose sarebbero andate per il verso giusto, con il tempo.
Alec sorrise a quel pensiero, prima di sentire altre due braccia aggiungersi a quell’abbraccio. “Ci sei mancato così tanto, Alec.” Ammise Isabelle. “Siamo contenti che tu sia qui.” Poi la ragazza si voltò verso Magnus. “Non sarà facile perdonarti, spero tu possa capirlo. Ma ci impegneremo per imparare a conoscerti, per vederti come ti vede Alec.”
Lo Stregone annuì. “È più di quanto mi sarei mai aspettato. Grazie.”
Isabelle gli sorrise e Jace gli fece un cenno del capo. Poi guardò Alec. Vide il sorriso sul suo viso e ci lesse la consapevolezza di essere amato nello stesso modo in cui lo era prima che la verità su di lui venisse fuori. Era come se si fosse tolto un peso, era tranquillo.
Magnus non aveva avuto idea, prima di acquistare la sua umanità, di quanto Jace ed Isabelle fossero importanti per lui. Ma adesso… adesso era chiaro come il sole d’estate che erano le persone più importanti della sua vita. Erano cresciuti insieme, fianco a fianco. Avevano condiviso gioie e dolori. Erano tre cuori e tre anime che non avrebbero mai smesso di essere legati, che non avrebbero mai smesso di volersi bene.
Provò un moto d’affetto istintivo nei confronti di quei due, che rendevano Alec felice.
E Magnus si stupì di quel sentimento. Alexander e la sua vicinanza erano in grado di fargli provare affetto anche verso altre persone, persone che erano importanti per lui e quindi, come un’automatica conseguenza, diventavano importanti anche per Magnus.
A quel pensiero, lo Stregone spostò la sua attenzione su Maryse. Anche lei era importante per Alec. E la donna era rimasta piuttosto silenziosa. Non sapeva come interpretare tutto questo. Probabilmente, lei lo odiava ancora e l’avrebbe odiato per chissà quanto tempo. Eoni, forse. L’eternità.
Un concetto che per Magnus era tutto fuorché astratto. E capì di non voler passare altro tempo con il rimorso. Voleva chiarire con quella donna.
“Maryse? Possiamo parlare?”
La donna fu tentata di rispondergli con un secco no. Era ancora arrabbiata, sebbene non lo desse a vedere. Gliel’avevano insegnato, dopotutto. Le emozioni sono una distrazione, le emozioni non vanno manifestate.
Ma a forza di non manifestare la sua rabbia, in quel periodo, ne era diventata schiava. Era diventata una parte fondamentale di lei, tanto che non riusciva più a lasciarla andare, a liberarsene. Era diventata la sua zavorra e il suo salvagente allo stesso tempo, qualcosa che l’affondava, ma che l’aiutava a stare a galla, a non sprofondare in quel dolore causato dalla lontananza di Alec che l’avrebbe portata alla pazzia.
Ma poi guardò Alec.
Il suo bambino. Era diventato un uomo bellissimo e coraggioso, altruista e amorevole. Un po’ scontroso, ma protettivo in un modo raro.
Alec aveva un cuore forte e buono. E per quanto detestasse ammetterlo, riusciva a vedere quanto Magnus lo rendesse felice solamente con la sua vicinanza.
Il suo amore per suo figlio fu più forte della sua rabbia. Fu ciò che le fece cambiare idea: sapeva che se avesse rifiutato l’offerta di dialogare di Magnus, Alec ne avrebbe sofferto.
E probabilmente solo l’Angelo sapeva quanto avesse sofferto suo figlio nell’ultimo periodo della sua vita, prima di essere più sereno come lo era adesso.
Per questo, disse: “Certo, Magnus. Possiamo.”






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I’m back, dopo mesi. Vi chiedo scusa, ma in questo periodo ho veramente pochissimo tempo per scrivere e di conseguenza si accumulano ritardi – non so se c’è qualcuno tra di voi che sta leggendo anche l’altra long, ma vi assicuro che tornerò a scrivere anche quella.
Questa storia è diventata più lunga di quanto mi sarei mai aspettata. È nata come una OS, ma scrivendo mi sono resa conto che certi aspetti andavano approfonditi e quindi alla fine è venuta una long pure questa.
Avevo detto che questo doveva essere l’ultimo capitolo, ma visto che era tanto che non aggiornavo ho preferito fermarmi qui e pubblicare.
Il prossimo sarà l’ultimo e poi ci sarà un epilogo. Spero di riuscire a trovare un po’ di tempo per scrivere e pubblicare in tempi decenti, ma se così non fosse vi chiedo già scusa in anticipo.
Spero che il capitolo via sia piaciuto. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va, ovviamente!
Ringrazio chiunque legga, abbia messo tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque trovi anche il tempo per lasciare una recensione! Lo apprezzo veramente tanto!
Vi saluto, un abbraccio!
Alla prossima! <3 

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Capitolo 11
*** 11. ***


L’ultima volta che erano stati da soli, faccia a faccia, nella stessa stanza, Maryse aveva fatto un patto con lui.
Un patto che le aveva portato i suoi figli, la cosa più importante della sua vita. Ma a quale prezzo?
La magia ha un prezzo, Maryse.
Il suo prezzo da pagare, evidentemente, era che lo stesso demone che aveva provato a ricattarla e a distruggere la sua famiglia era anche la persona in grado di rendere felice suo figlio.
Era la persona a cui Alec era legato da una magia sovrannaturale, dalla volontà di Raziel in persona.
Non avrebbe mai immaginato che incontrando Magnus, vent’anni fa, avrebbe contribuito a dare inizio ad una profezia.
Si chiese se Raziel non avesse programmato tutto nei minimi dettagli. Si chiese se l’Angelo, dall’alto della sua onniscienza, guardando Magnus avesse sentito il desiderio di provare a redimerlo. Se fosse riuscito a redimere niente meno che il figlio di Asmodeus, significava che c’era speranza per tutti – e forse, da un punto di vista più meschino (e si sentì blasfema solo per averlo pensato), significava che il potere angelico era nettamente superiore a quello demoniaco, un’ulteriore conferma di ciò che si sapeva già.
La classica storia del bene che vince contro il male.
E forse proprio per questo suo piano, Raziel l’aveva creata sterile. L’Angelo conosceva i suoi figli, tutti, e conosceva anche Maryse. E proprio perché la conosceva, sapeva che si sarebbe recata da Magnus.
E sapeva che lo Stregone non si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di essere creditore nei confronti di un Nephilim.
L’Angelo li aveva legati indissolubilmente. E poi aveva scritto nel destino che il primogenito di Maryse fosse colui che custodisse l’umanità dello Stregone.
Raziel aveva stabilito la supremazia del suo potere facendo sì che Alec e Magnus fossero legati, che fossero destinati ad innamorarsi, e che questo amore fosse in grado di cambiare entrambi.
Il loro amore avrebbe fatto redimere Magnus, spingendolo ad abbandonare la sua natura demoniaca per tirare fuori quella umana, e avrebbe cambiato Alec, rendendolo più felice, più in pace con se stesso e meno tormentato.
Un piano perfetto.
Un piano che legava inevitabilmente due mondi. Ma a quale prezzo?
La magia ha un prezzo, Maryse.
A quanto pare, tutta la magia aveva un prezzo, persino quella angelica, che convenzionalmente è vista come quella buona.
Perché Maryse sapeva, ne aveva la certezza, che il loro amore sarebbe stato ostacolato. Il Clave non avrebbe mai accettato la relazione tra due uomini e, soprattutto, non avrebbe mai accettato che un soldato dell’Angelo fosse legato ad un demone superiore.
Alec avrebbe dovuto percorrere una strada tutta in salita, fatta di occhiatacce e commenti maligni. Avrebbe dovuto lottare contro pregiudizi vecchi di secoli, contro persone che avrebbero cambiato opinione su di lui, solo perché amava un maschio.
Raziel non aveva previsto che la stupidità dell’uomo ostacola qualsiasi progresso. Non aveva previso che gli esseri umani, quelli limitati e gretti, amano calcificarsi in tradizioni retrograde e bigotte per sentirsi più al sicuro, perché il cambiamento li terrorizza e non voglio abbandonare quella sensazione di sicurezza che le tradizioni gli trasmettono.
Il prezzo del legame tra i due mondi l’avrebbe pagato Alec. Forse sarebbe stato bandito, esiliandolo in qualche luogo lontano e remoto, dove l’avrebbero costretto alla solitudine. O, molto più probabilmente, l’avrebbero punito con la derunizzazione, privandolo di tutto ciò che la natura angelica portava con sé e relegandolo a vivere una vita da Mondano. Ma tutti sapevano che un Nephilim difficilmente riesce ad adattarsi alla vita dei Mondani.
Non poteva accettare tutto questo.
Lei sarebbe stata sua alleata. Non l’avrebbe lasciato solo, mai. Se c’era un prezzo da pagare, l’avrebbero pagato insieme. Se c’era una battaglia da combattere, l’avrebbero combattuta fianco a fianco. Erano soldati, dopotutto, e combattere era ciò a cui erano stati addestrati fin da bambini.
Non avrebbe permesso a nessuno di fare del male a suo figlio. Nemmeno se quel qualcuno era il Clave.
La donna sospirò a quei pensieri, e guardò Magnus, in piedi di fronte a lei. Si trovavano nella camera di Jace, che era situata proprio accanto a quella di Alec.
Magnus aveva detto che voleva parlarle in privato e così si erano spostati lì. Ma adesso si guardavano in silenzio.
Maryse posò lo sguardo su Magnus e lo vide così diverso rispetto a vent’anni prima. Il suo aspetto era immutato, ovviamente, ma rispetto a quella volta sembrava più… vulnerabile. Non aveva più davanti un demone superiore, o uno Stregone, ma un ragazzo.
Solo un ragazzo.
E sembrava addirittura che non fosse nemmeno più vecchio di lei di almeno quattro secoli.
Provò un profondo senso di tenerezza, come se fosse il suo istinto materno a suggerirle come comportarsi.
“Magnus,” cominciò, “Non pensare troppo a come iniziare. Parlami e basta.”
Magnus giocò con l’anello che portava all’anulare destro, gemello di quello che portava Alec. Non sapeva davvero da dove cominciare. Si sentiva così meschino, così in imbarazzo. Aveva fatto del male a quella donna, così tanto e così profondamente che faceva persino fatica ad immaginare il grado di dolore che doveva aver provato.
Essere umani è una fregatura: le emozioni sono intense, sempre. E se si tratta di emozioni positive come la felicità, o l’amore, o la curiosità, provarle intensamente regala solo ulteriore gioia.
Ma per quelle negative… la fregatura arriva lì. Quando si prova intensamente rabbia, ansia o dolore, o imbarazzo, disagio, sembra che ci sia un mostro dentro la nostra pancia che ci divora dall’interno e ci si sente preda di quel mostro. Diventa così grande, così selvaggio e ingestibile, che l’unica cosa che ci rimane da fare è aspettare che finisca di divorarci. E, a volte, diventa soffocante assecondare la fame del mostro.
Magnus sapeva per certo che le emozioni negative non gli piacevano, ma sapeva anche che non poteva farci niente. C’erano. Per questo andavano accettate e metabolizzate. Avrebbe dovuto imparare a gestirle esattamente come quelle positive.
“Mi dispiace per tutto il dolore che ti ho provocato. Portarti via Alexander è stato… orribile, da parte mia.”
La donna annuì. “Sei stato crudele.”
“Lo so. Non chiedo il tuo perdono, non lo merito, chiedo solamente, se pensi possa essere possibile, di non vedermi solo come un Demone.”
“Vuoi che anche io, come i miei figli, impari a guardarti come ti vede Alec?”
Magnus annuì.
“E perché hai voluto parlarmi in privato per chiedermelo?”
Magnus la guardò dritta negli occhi. Aveva sempre pensato che trasmettessero una certa fierezza, autorità. Maryse era il tipo di donna che non si lascia intimidire, da nessuno, e aveva cresciuto i suoi figli nello stesso modo.
Era una donna forte, combattiva, che era stata piegata solamente due volte nella sua vita e tutte e due le volte era stato lui la causa.
Si era piegata a lui quando avevano stretto un patto, vent’anni prima. E l’aveva rifatto quando l’aveva costretta a guardare Alec andare ad Edom con lui.
Sono esperienze, traumi, che non possono essere perdonati facilmente, né tanto meno possono essere dimenticati.
“Per darti la possibilità di dirmi di no. Volevo che ti sentissi libera di negare la mia richiesta senza che tu ti potessi sentire in qualche modo spinta ad accettare per via della presenza di Alexander.”
Maryse si stupì di quell’accortezza. Una sottigliezza simile implicava necessariamente empatia, implicava un cambiamento.
Il Magnus che aveva conosciuto all’epoca non le avrebbe mai riservato una simile premura. Se ne sarebbe infischiato dei suoi sentimenti e avrebbe agito solamente per il proprio tornaconto.
Il Magnus che le stava di fronte, invece, era completamente un’altra persona. Era qualcuno in grado di immedesimarsi nei sentimenti altrui, era in grado di empatizzare con gli stava di fronte.
Era un uomo nuovo, un uomo in grado di essere sensibile e accorto.
Era diventato un uomo che, con il tempo, Maryse sarebbe stata in grado di perdonare.
“Tempo, Magnus. Dammi del tempo e imparerò a vederti sotto un’altra luce.”
Magnus si sentì il cuore leggero. Il mostro non lo divorava più, adesso. Ora provava solamente un profondo senso di sollievo e gratitudine.
“Grazie, Maryse. Non ti deluderò.”
La donna annuì. “E non ferire Alec. Per nessuna ragione.”
“Non gli farei mai del male. È troppo prezioso, per me.”
“Spero tu sia sincero.”
“Lo sono, credimi.”
Maryse sospirò. Sembrava davvero che fosse sincero. Decise di fidarsi, perché in fondo Alec si fidava di lui e lei sapeva che la fiducia di suo figlio va guadagnata a fatica. Quindi se si fidava Alec, poteva fidarsi anche lei.
“Ti credo. Ora torniamo di là, dobbiamo scoprire cosa è successo ad Edom.”



*


Chiunque in quella stanza riteneva che fossero una squadra stramba: un demone superiore e quattro Shadowhunter concentrati a scoprire cosa si celasse dietro il crollo di un palazzo ad Edom.
Era una collaborazione che non si era mai vista nella storia, ma c’è sempre una volta per tutto. O almeno così pensava Alec.
Chiusi nella sua stanza, i componenti di quella nuova squadra, erano chini su libri di testo che parlavano di magia oscura, magia antica, magia demoniaca e persino magia angelica o Seelie. Tutti i tipi di magia esistente, ma nessuno di questi riusciva a dare una spiegazione sufficiente.
Alec iniziava a perdere le speranze, a credere che non avrebbero mai trovato spiegazione per quel crollo improvviso. E senza una spiegazione, non avrebbero trovato la causa, e senza la causa non avrebbero trovato il colpevole. Era come guardare un serpente che si morde la coda. Sospirò, senza tuttavia darsi per vinto, e continuò a leggere il suo libro, fino a quando Isabelle non ruppe il silenzio.
Era seduta a gambe incrociate sul pavimento. I suoi lunghi capelli neri, che fino a qualche istante prima le coprivano il viso a causa della testa tenuta china sul libro, adesso le incorniciavano i lineamenti in maniera perfetta. Erano talmente lunghi che arrivavano fino al suo costato. Alec sorrise impercettibilmente per un attimo – un solo angolo della bocca alzato – al pensiero di quanto sua sorella tenga particolarmente alla cura dei suoi capelli.
“Un crollo così implica necessariamente una grande quantità di energia, giusto?”
Alec distolse l’attenzione dai suoi pensieri per seguire il ragionamento della sorella. Si rese conto che tutti fecero lo stesso. Loro tre erano seduti sul pavimento, mentre Maryse era sul letto. Magnus, invece era seduto alla scrivania di Alec.
“Sì, esatto.” Rispose Jace.
Alec capì dove voleva arrivare. “Quindi i nostri rilevatori hanno sicuramente percepito qualcosa.”
“Non è detto che il crollo possa aver avuto delle conseguenze anche qui, nella nostra dimensione, però. Se fosse partito tutto da Edom, non riusciremmo a percepire un granché.” Fece notare Jace.
I tre si guardarono. Sapevano che Jace aveva ragione. Non bisognava dare per scontato niente. Anzi, bisognava pensare che la situazione fosse abbastanza complessa perché, di solito, lo era sempre. Potevano dirlo con esperienza, ormai.
“C’è un modo per scoprirlo.” Affermò Magnus. I tre ragazzi e Maryse si voltarono verso di lui. I Nephilim rimasero in attesa di spiegazioni, così lo Stregone procedette a spiegarsi. “Potrei tornare ad Edom. Se la fonte di energia proviene da lì, io riuscirò a percepirlo.”
“Assolutamente no!” Affermò categorico Alec, alzandosi in piedi. “Non tornerai ad Edom. Non da solo. È troppo pericoloso.”
Non da solo?” Ripeté Magnus. “Non verrai con me, Alexander. Sei più utile qua, dove i tuoi poteri funzionano e dove l’atmosfera non rischia di ucciderti.”
Alec per tutta risposta mostrò il ciondolo che Magnus gli aveva fatto. “Non morirò.”
Ma Magnus stava già scuotendo la testa in segno di diniego. “Non voglio che tu venga con me. Sei più al sicuro qui, dove hai la tua squadra e il tuo arco.” Lo Stregone si alzò dalla scrivania per raggiungere Alec. Gli afferrò le mani tra le proprie. “Farò presto. E sarò più tranquillo, sapendoti al sicuro.” Spostò le mani sul viso del Nephilim, accarezzandogli le guance con i pollici. “Fidati di me, Alexander.”
Alec chiuse gli occhi. Era terrorizzato all’idea di lasciare Magnus andare ad Edom da solo. Si potevano celare una miriade di pericoli in quel luogo ostile. E l’ultima cosa che voleva era che lui fosse lì da solo.
“Mi fido di te, ma non è una questione di fiducia. È una questione di rischio. E tu rischieresti troppo, andando da solo.”
“Ho combattuto da solo per quasi quattro secoli, so badare a me stesso.”
“Ma adesso non sei più solo.” Alec incatenò i suoi occhi a quelli di Magnus, supplicandolo con lo sguardo di non andare. Voleva proteggerlo e se non fossero stati insieme, non sarebbe riuscito a tenerlo al sicuro.
“Alec…” Fu sua madre a parlare. Lo chiamò con dolcezza e con comprensione. “Magnus ha ragione. Se ci dividiamo, riusciremo a scoprire più cose in meno tempo, e di conseguenza riusciremo prima a risolvere questa questione.”
Alec detestava la razionalità che si celava dietro il ragionamento di sua madre e dietro il piano di Magnus. Detestava che entrambi avessero ragione perché significava che doveva separarsi da Magnus e lui non voleva. Non quando rischiava di non riuscire a proteggerlo, a tenerlo al sicuro. Lo strinse così forte a sé e in maniera così inaspettata che a Magnus mancò il respiro per qualche secondo.
“Tornerai da me, hai sentito? Devi tornare da me.” Sussurrò al suo orecchio, stringendolo sempre più forte a sé ad ogni parola che pronunciava.
Magnus ricambiò quella stretta con la stessa intensità, prima di scansarsi leggermente per riuscire a guardarlo negli occhi. Gli accarezzò il viso con tutta la devozione di cui era capace.
“Tornare da te è l’unica cosa che voglio. E sai che ottengo sempre quello che voglio.” Sorrise per cercare di sdrammatizzare e tranquillizzare Alec.
Il Nephilim annuì, un piccolo sorriso tirò i suoi lineamenti tesi e preoccupati. Si chinò leggermente per lasciargli un bacio a stampo.
“Fai attenzione. Io ti aspetto qui.”
Si separarono e, dopo un attimo in cui rimasero a guardarsi, Magnus passò ad organizzare il lato pratico del suo trasferimento ad Edom.
“Aprirò un portale. L’energia verrà percepita dai vostri sensori?”
“Sì. È meglio se andiamo fuori.” Rispose Alec, cercando di non pensare a quanto questa situazione lo rendesse nervoso e agitato. Doveva rimanere lucido, altrimenti la missione – e Magnus – sarebbero stati compromessi. E lui non voleva che Magnus rischiasse anche la più piccola ingiuria solo perché lui non riusciva a pensare lucidamente. “Passeremo dai corridoi laterali, evitando quello principale per non rischiare che altri Nephilim ti vedano.”
Magnus annuì. Era in buone mani, lo sapeva. Alec era un soldato eccezionale e un uomo ancora migliore.
“Andiamo, ti seguo.”
Alec fece un profondo sospiro, riordinò tutte i suoi pensieri e i suoi sentimenti, e uscì da quella stanza, seguito da Magnus e da Isabelle e Jace, che non vollero sentire nessuna ragione: non l’avrebbero lasciato solo nemmeno questa volta. E Alec volle bene ad entrambi un po’ di più di quanto già non gliene volesse per quel gesto.




Fuori dalle mura dell’Istituto, lontani da occhi indiscreti e dalle telecamere della sicurezza, Magnus aprì un portale con un movimento fluido ed esperto delle mani. Un grande cerchio arancione si aprì davanti a lui, scalpitante di elettricità ed energia.
Alec riuscì a percepire l’odore di zolfo tipico di Edom uscire da quel portale. E insieme a quell’odore che era in grado di perforargli le narici, riuscì anche a sentire di nuovo la preoccupazione e l’angoscia invadergli le viscere con prepotenza.
Si avvicinò a Magnus, afferrandogli un braccio. Lo Stregone si voltò.
“Torna da me. Promettimelo.”
Magnus appoggiò le labbra sulle sue. “Te lo prometto, tesoro mio.” Gli sorrise dolcemente, prima di voltarsi e sparire dentro al portale.
Quando si fu chiuso, Alec rimase a guardare il punto specifico in cui Magnus era scomparso. Sentì le lacrime che gli pungevano gli occhi e improvvisamente ebbe la sensazione che il cuore gli fosse appena stato strappato via dal petto con ferocia.
“Tornerà.” Sussurrò Isabelle, che si era avvicinata. “È in gamba. Niente gli impedirà di fare ritorno da te.”
Alec deglutì per provare a darsi un contegno, per provare a buttare giù quell’orrenda sensazione di panico che provava al pensiero di avere Magnus lontano da sé, in un luogo dove nessuno gli avrebbe coperto le spalle e dove erano stati attaccati.
“Lo spero. Non lo sopporterei, se gli succedesse qualcosa.”
Davanti a quelle parole, Isabelle e Jace si limitarono ad abbracciarlo. Non l’avevano mai visto così. Non riuscivano ad immaginare ciò che doveva provare, l’intensità dei suoi sentimenti verso Magnus. Ma era evidente che fosse un’intensità profonda, radicata nel suo cuore in modo irreversibile.
Alec era innamorato di Magnus.
Fu un pensiero che colpì entrambi. Lo realizzarono in quel momento e, per un attimo, smisero di vedere Magnus come un demone, o uno Stregone, e lo videro soltanto come qualcuno a cui Alec teneva moltissimo.
E si resero conto, in quel momento, che avrebbero fatto di tutto perché Alec fosse felice. Avrebbero fatto di tutto per aiutarli a stare di nuovo insieme.
“Dobbiamo tornare dentro.” Spezzò il silenzio Isabelle. “Finiamo questa cosa e aiutiamo Magnus.”
Jace annuì, concorde.
Alec li guardò entrambi e sorrise, grato per l’ennesima volta di averli nella sua vita.






Tornati dentro all’Istituto, Alec, Jace ed Izzy aspettarono che gli altri Shadowhunter uscissero per i vari giri di ronda e si diressero verso la sala degli schermi per fare qualche ricerca. Non c’era nessuno, per fortuna, così poterono fare le loro ricerche con calma.
“Vediamo, sappiamo che c’è stato un crollo, giusto?” cominciò Isabelle, digitando sulla tastiera touch che era comparsa sullo schermo. “E sappiamo anche che non è stato provocato da qualcosa di naturale perché l’unico posto in cui il crollo si è manifestato è stato il palazzo di Magnus.”
“E perché ad Edom non ci sono calamità naturali, tipo i terremoti.” Aggiunse Alec.
“Giusto. Quindi qualcuno l’ha provocato.”
“Pensate ad un incantesimo a distanza?” Domandò Jace. “Se così fosse implicherebbe una quantità di magia notevole, per non parlare della potenza che deve avere l’individuo in questione.” Il ragazzo parlava, ma i suoi occhi rimanevano fissi sullo schermo. Era appena apparsa una mappa, che cominciò a tracciare una riga blu per le strade di NY, fino a che non si fermò in un punto specifico. Una pallina blu aveva cominciato a lampeggiare in un luogo specifico.
“Sapete, a volte detesto quando abbiamo ragione!” Esclamò Jace. “Non promette niente di buono!”
Alec osservò quello schermo. Suo fratello aveva ragione: il risultato della loro ricerca non portava a niente di buono. Implicava che c’era qualcuno nella loro dimensione che aveva fatto un incantesimo e se quella magia era arrivata fino ad Edom significava che era molto, molto potente. La prima cosa che gli venne in mente fu chi potesse essere di tanto forte da riuscire a gestire una magia simile, la seconda fu che quel qualcuno, estremamente potente, voleva Magnus e lui era ad Edom – il luogo dell’attacco – tutto solo. E se il nemico avesse previsto tutto? Se avesse previsto che si sarebbero separati e lui sarebbe tornato ad Edom da solo? E se prevedeva un altro attacco?
“Dobbiamo andare a dare un’occhiata.” Affermò. “Potrebbero esserci degli indizi.”
“Quindi, Talto?” Domandò Isabelle, osservando il punto blu sulla mappa. Le coordinate segnavano proprio la Chiesa di Talto.
“Non dovete venire con me, se non ve la sentite.”
La ragazza si ritenne offesa da quell’affermazione. “Stai scherzando, spero! Cosa ti fa pensare che ti lasceremo andare da solo? Siamo una squadra!”
“Già. Tre entrano e tre escono.” Jace citò le parole della sorella. Era un mantra che ripetevano sempre, da quando erano bambini e si addestravano insieme. Isabelle aveva sempre ribadito il concetto che fossero prima di tutto una famiglia, poi una squadra e, in quanto tale, era fondamentale che tutti e tre entrassero in battaglia e tutti e tre ne uscissero, vivi. Si coprivano le spalle. Alec tendeva a farlo un po’ più degli altri, mentre Jace tendeva a gettarsi più a capofitto nello scontro, Isabelle riusciva ad equilibrare la sua impulsività con attacchi più ponderati, ma sebbene i loro stili di lotta e le loro strategie fossero diversi erano sempre stati complementari. Una squadra che funzionava alla perfezione perché tra di loro c’era una profonda sintonia anche fuori dal campo di battaglia.
“Quindi…Talto?” Domandò Alec, facendo eco alle parole pronunciate dalla sorella poco prima.
“Talto.” Risposero in coro Jace ed Izzy.
Dopo essersi diretti all’armeria, aver recuperato l’armamentario necessario, e aver avvertito Maryse della loro destinazione, i tre uscirono dall’Istituto diretti verso la Chiesa di Talto.





La Chiesa di Talto era sempre stato un luogo di culto che portava con sé una storia oscura, un passato fatto di demoni e riti sacrificali fatti in nome di demoni superiori. Gli Shadowhunter, nel corso della storia, si erano sempre impegnati a combattere il male che veniva inflitto in quella Chiesa e dal momento che erano anni che non venivano effettuate cerimonie in quel luogo, si vociferava che i Soldati dell’Angelo fossero riusciti, con la loro perseveranza e il loro onore, a debellare qualsiasi movimento propenso ai sacrifici, alla magia oscura e all’adorazione del male.
Evidentemente non era così.
La storia degli Shadowhunter tendeva sempre a dipingerli come degli eroi invincibili, superiori a qualsiasi entità, senza contare quanto, in realtà, potessero apparire superbi e sciocchi a sottovalutare chiunque poteva essere un potenziale nemico.
Sentendosi superiori a chiunque e credendo di essere dotati di poteri invincibili, erano vittime di una sicurezza tale che li portava a sottovalutare delle possibili minacce che li avrebbero resi più vulnerabili di quanto si sarebbero mai aspettati.
Dei bersagli facili alla mercé di chiunque fosse abbastanza vendicativo e arrabbiato con i Figli di un Angelo che aveva sempre insegnato ai suoi Soldati quanto il loro sangue valesse di più di quello di coloro che per metà era demoniaco.
Alec aveva sempre pensato che sottovalutare un nemico fosse l’errore più grande che un guerriero potesse commettere. Ecco perché lui e i suoi fratelli tendevano sempre a non farlo.
L’edificio che si trovarono davanti era imponente e piuttosto intimidatorio. La facciata della Chiesa era costruita interamente con la pietra color antracite e il rosone, al centro di essa, era formato da vetri scheggiati color opale.
Era un monumento gotico, carico di importanza storica e religiosa, ed era invisibile agli umani, che al suo posto vedevano un magazzino abbandonato.
Alec ne avrebbe persino ammirato la tetra bellezza, se non fosse stato un luogo di culto teatro di tanti massacri e sofferenze.
“Arrivati fin qui, direi che l’unica cosa che ci rimane da fare è entrare.” Jace ruppe il silenzio in cui erano caduti per guardare l’edificio.
Si guardarono tutti e tre per qualche secondo, fecero un profondo respiro ed entrarono.




Entrarono con cautela e nel modo più silenzioso possibile. Controllarono i loro passi, in modo da evitare che le suole delle loro scarpe producessero anche il minimo rumore in grado di rivelare la loro posizione.
Isabelle era indubbiamente la più brava, in questa tecnica, dal momento che riusciva a non emettere nessun tipo di rumore nonostante avesse i tacchi.
Si guardarono intorno: la navata centrale era più larga delle due laterali, il soffitto era a volta e si poteva chiaramente vedere la struttura interna della cupola che, esternamente, sormontava la chiesa. Le pareti, in pietra, erano arricchite da arazzi a tema religioso, che per lo più raffiguravano un’interpretazione dell’Apocalisse in cui era il Male a vincere contro il Bene, e non il contrario.
In uno in particolare l’Arcangelo Michele veniva trafitto da Lucifero con la sua stessa spada all’altezza del cuore, mentre questi mostrava la sua forma demoniaca e sorrideva sadico e vittorioso per la sconfitta del nemico.
L’Angelo ribelle che uccideva un fratello.
In quella Chiesa veneravano il male, l’occulto. E tutto era stato predisposto in modo che si percepisse la presenza del demoniaco: gli arazzi, le vetrate color rosso sangue, l’altare di pietra situato alla fine della navata principale.
Tutto era stato predisposto per portare i fedeli a veder concretizzare ciò in cui credevano e, d’altro canto, ad intimidire chi, invece, vedeva in tutto ciò la manifestazione del male puro.
Chiunque credeva in Dio e trovava in lui conforto e salvezza, in quel luogo oscuro avrebbe provato disagio e, forse, persino paura.
La mente è terribilmente facile da condizionare.
Continuarono a perlustrare la Chiesa fino a che non appurarono che era vuota, e poi si avvicinarono all’altare: era imponente, in pietra nera e aveva delle incisioni in una lingua che nessuno di loro tre conosceva.
Alec studiò i simboli, nel tentativo di capire qualcosa, ma anche quelli gli sembravano sconosciuti.
“È sicuramente una lingua demoniaca.” Cominciò Jace, che tra i tre era quello che era più propenso allo studio delle lingue e dei simboli. “Ma non ricordo niente di così specifico.”
Alec si avvicinò ulteriormente, osservando quei simboli più da vicino. Non ricordavano niente nemmeno a lui e, dal silenzio in cui era immersa Isabelle, sicuramente nemmeno a lei.
“Aspettate.” Affermò l’arciere. “Lo vedete anche voi?”
“Sangue.” Rispose Isabelle.
“Ed è pure fresco.” Concordò Jace. Da vicino riuscirono a vedere il liquido scuro che era rimasto intrappolato tra i solchi delle incisioni. “Significa che qualcuno è stato qui di recente.”
“E quel qualcuno ha fatto un rito di sangue, o qualcosa di simile.” Alec sfiorò con le dita il liquido scuro. Era viscoso e appiccicoso, denso, come si aspettava, ma… “È inodore.” Sussurrò, guardando i suoi fratelli.
“Non è sangue umano.” Isabelle seguì il suo ragionamento. “Il che può essere una buona notizia, perché nessun Mondano è stato sacrificato, ma è anche una cattiva notizia perché…”

“È il sangue di un demone.”

Una voce alle loro spalle la interruppe, finendo la frase per lei. I tre si voltarono, mettendosi subito in guardia dopo aver individuato la possibile minaccia.
Alec per una frazione di secondo non riuscì a credere ai suoi occhi. Sbatté le palpebre, quasi non riuscisse a capacitarsi effettivamente di chi avesse davanti, quasi come se fosse una specie di miraggio tramutatosi in realtà.
La voce che aveva interrotto Isabelle era quella di Dennis. Alec non fece in tempo a riprendersi da quella sorpresa che accanto allo Stregone comparve un’altra figura.

“Definirmi un demone è offensivo, non trovi, Dennis? Io sono il Re.”

Alec riuscì chiaramente a percepire il suo sangue che si gelava nelle vene e lo stomaco attorcigliarsi su se stesso.
L’uomo vicino allo Stregone era Asmodeus.





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Ciao a tutti! Sono tornata, con un imperdonabile ritardo! Vi chiedo scusa, ma è sempre un periodo incasinato ultimamente e faccio fatica a trovare tempo per scrivere.
Questo doveva essere l’ultimo capitolo, ma invece ho preferito fermarmi qui perché altrimenti avevo paura che sarebbe venuto troppo lungo e perché era tantissimo che non aggiornavo.
Ad ogni modo, il prossimo penso proprio che segnerà la conclusione di questa storia e conterrà anche l’epilogo di cui vi avevo parlato.
Venendo a questo capitolo, è un po’ di passaggio verso la soluzione del mistero, ma non sono brava a scrivere capitoli di passaggio quindi ho paura che in realtà sia noioso D:
Se ne avete voglia, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate!
Ringrazio chiunque continui a leggere questa storia, l’abbia messa tra le preferite/seguite/ricordate perché seriamente non mi aspettavo che raggiungesse quei numeri e ringrazio anche chiunque recensisca! Lo apprezzo infinitamente!
Un’ultima cosa: lo ribadisco sempre anche a costo di risultare ripetitiva e di questo scusatemi, ma volevo assicurare, nel caso ci sia qualcuno tra di voi che stava seguendo anche l’altra long, che la riprenderò in mano e continuerò a scriverla. Ho messo un po’ in pausa per scrivere questa perché non riesco a scrivere due cose completamente diverse contemporaneamente, ma tornerò, promesso!
Vi saluto e vi ringrazio ancora per la pazienza e per tutto, in realtà!
Un abbraccio, alla prossima! <3  

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Capitolo 12
*** 12. ***


Il loro primo istinto, fu mettersi nella solita posizione da combattimento. I tre cercarono di trattare chi avevano davanti come un qualsiasi demone, senza farsi sopraffare dalla consapevolezza che invece avevano a che fare con un Principe di Edom.
Ma tutte le loro buone intenzioni vennero spazzate via nell’esatto momento in cui Asmodeus alzò una mano e tutta l’aria presente nei loro polmoni venne meno.
Stavano soffocando.
Di nuovo.
E questa volta non c’era nessuno che poteva aiutarli.



*



Maryse aveva un brutto presentimento.
C’era qualcosa che le solleticava la base del collo, come una morsa fredda che si era impossessata della sua nuca, un formicolio inquietante, come quando si ha la sensazione di essere seguiti.
Qualcosa gravava sul suo cuore, rendendolo pesante e angosciato.
I suoi figli erano fuori in missione, come era successo altre migliaia di volte, eppure in qualche modo, questa volta era diversa.
Era diversa perché Alec aveva passato l’ultimo mese ad Edom ed era tornato insieme al suo attuale Sovrano dopo che erano scampati quasi per miracolo ad un crollo che avrebbe dovuto ucciderli.
Non c’è niente di positivo, quando il palazzo del sovrano di Edom crolla.
Questa volta era diversa perché gli indizi avevano portato alla Chiesa di Talto, un luogo che non aveva mai portato niente di buono, quanto piuttosto distruzione e sofferenza.
Maryse era terribilmente preoccupata.
Si fidava dei suoi figli, conosceva le loro capacità, ma… era anche consapevole che esistono forze, nel loro mondo, molto più forti di tre ragazzi dotati. E quella volta in particolare, Maryse capì che era diversa dalle altre perché ebbe l’impressione di riuscire a percepire quelle forze malvage.
E improvvisamente non riuscì più a pazientare, non riuscì più a tranquillizzarsi.
Uscì dal suo studio e si diresse verso la sala delle armi. Avrebbe raggiunto i suoi figli a Talto.




*





“Chiamalo.”
La voce del Demone arrivò alle sue orecchie fredda e minacciosa. Il suo viso era così vicino a quello di Alec, che riuscì a sentire il suo respiro addosso.
“No.”
Il Demone gli afferrò la gola e strinse forte. “Chiamalo.”
Alec sentì le lacrime che colavano ai lati degli occhi, tanto che quella stretta era forte, ma non cedette.
“No.” Ripeté con decisione. Fissò il Demone negli occhi. Erano gli stessi di Magnus, dello stesso luminoso oro, la stessa pupilla felina, eppure erano così diversi. Erano crudeli. Meschini. Trasmettevano tutta la malvagità di cui il Principe di Edom era in grado di infierire al prossimo.
Asmodeus lasciò la presa e Alec prese un profondo respiro.
“Stupido mortale!” Gridò, appoggiando il proprio palmo sull’addome di Alec e mandandogli una scarica di magia. Fu come ricevere una scarica di pugni in pieno stomaco che provocò ad Alec una serie di conati di vomito. Era così doloroso che tornò a non respirare per qualche istante.
“Chiamalo.” Sibilò a denti stretti. “O la prossima sarà molto più dolorosa.”
Alec fu pervaso da un moto di rabbia. Non avrebbe mai messo Magnus in pericolo. Mai. Guardò Asmodeus con tutto l’odio di cui era capace.
“Non mi fai paura. Niente di ciò che mi farai mi spingerà a tradirlo e a farlo cadere nella tua trappola.”
Asmodeus gli rivolse un sorriso appuntito, da predatore. “Vedremo.” Affermò, nel suo solito tono di voce freddo e raccapricciante. Con un movimento della mano fece comparire una lama – e se Alec rimase immobile davanti a quella minaccia, riuscì chiaramente a vedere Jace ed Isabelle agitarsi.
Alec sapeva che di qualsiasi cosa fosse fatta quella lama, avrebbe fatto male, e stava già per prepararsi al dolore, ma poi gli occhi di Asmodeus vennero attratti da qualcosa e Alec capì che aveva notato il suo anello. Lo sguardo del demone era fisso sopra alla testa di Alec, rivolto alle sue mani, legate sopra al suo capo. Alec, Isabelle e Jace erano appesi in quel modo: i polsi legati sopra alla testa da un incantesimo che bruciava la loro pelle. La stessa magia che li teneva appicciati al muro di pietra della chiesa, immobilizzati all’altezza del busto e delle gambe.
“Lo chiamerò da solo.” Affermò. “Sono certo che questo sia un dono di mio figlio, riesco a percepire la sua magia.”
Nonostante le proteste di Alec, il suo agitarsi in ogni modo per impedire ad Asmodeus di prendere il suo anello, il Demone riuscì comunque a sottrarglielo. Alec non avrebbe potuto fare più di tanto, legato com’era e si odiò per essere una preda così facile. La sua vulnerabilità aveva reso vulnerabile anche Magnus.
“Dennis, occupati di loro. Devo chiamare mio figlio.”
Lo Stregone, rimasto in disparte ad osservare il suo Signore, obbedì e si avvicinò ai tre Nephilim.
Nel giro di qualche istante, Talto si riempì di grida di dolore.



*





395 anni prima…

Magnus camminava in un campo di riso. L’acqua e le foglie gli solleticavano i piedi. Gli piaceva stare lì, con l’acqua alle caviglie, e guardare la mamma che lavorava.
Era un lavoro stancante, diceva, ma se c’era lui con lei era tutto meno faticoso. Il bambino guardò la madre, chinata sull’acqua, le mani immerse in essa. Le toglieva solo ogni tanto, per asciugarsi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Ciocche corvine le ricadevano sul viso, sfuggendo dalla stretta crocchia in cui sua madre legava i capelli ogni volta che lavorava.
Mamma era bella, mamma era gentile.
Ogni sera, dopo che il sole era tramontato, tornavano a casa. Passeggiavano per strada, mano nella mano, e si dirigevano verso casa. La mamma gli preparava da mangiare e accendeva il fuoco nel camino. Si sedevano insieme e mangiavano. La casa era sempre poco illuminata, solamente la fioca luce del fuoco la illuminava, e probabilmente era per questo che Magnus aveva l’impressione che la notte fosse decisamente più lunga del giorno. Il buio non gli piaceva un granché, ma la mamma, che lo sapeva, gli diceva che il buio non doveva fargli paura.
“Non devi temere nulla. Tutto rimane uguale, di notte, è solo la nostra percezione che cambia, piccolo mio.”
Ma poi Magnus aveva cominciato a vedere al buio. Riusciva a vedere i contorni nitidi nello stesso modo in cui riusciva a vederli di giorno, riusciva a cogliere i dettagli. E quando l’aveva detto alla mamma, felice di questa sua nuova condizione, sul viso della donna era comparsa una smorfia preoccupata.
“Non devi dirlo a nessuno, tesoro. Hai capito?” L’aveva stretto forte a sé, dopo quelle parole, e Magnus non ne aveva capito il motivo.
Perché la mamma non sembrava felice? Lui poteva vedere nel buio e non aveva più paura dell’oscurità!
Si era trovato ad annuire, comunque, perché lui aveva sempre voluto obbedire alla mamma.
Ed era andata bene, per qualche mese. La loro vita continuava. La mamma lo portava nei campi di riso e tornavano a casa insieme dopo che aveva finito di lavorare. Cenavano insieme, davanti al fuoco, la mamma gli raccontava le favole.
Ma poi… poi gli occhi di Magnus sono mutati. Si sono trasformati. Erano diversi, quasi come quelli di un animale. Avevano cambiato colore: non erano più ambrati, come quelli della mamma, ma erano diventati dorati e assomigliavano a quelli dei gatti. Magnus l’aveva visto nel suo riflesso nell’acqua. E aveva capito che era una cosa brutta quando la mamma l’aveva immediatamente portato via dal campo di riso, nonostante il sole fosse ancora alto nel cielo, e le altre donne che lavoravano con lei fossero ancora impegnate alla piantagione.
Mamma l’aveva preso in braccio, facendo in modo che Magnus tenesse il viso nascosto nell’incavo del suo collo, quasi come se altri non avessero dovuto guardarlo in faccia.
Magnus l’aveva capito dal suo passo affrettato e da come era corsa dentro casa. Solo tra le quattro mura, l’aveva messo a terra e aveva smesso di fare in modo che il suo viso fosse nascosto.
Magnus aveva sentito le lacrime salirgli agli occhi e pungerli come tanti piccoli spilli. La mamma non gli voleva più bene?
“Tesoro, ascoltami. Devi stare qui, intesi? Non uscire di casa, mai. Non farti vedere. Le altre persone non capirebbero.”
Cosa non capivano gli altri? Avrebbe voluto chiederle, ma in realtà la cosa che gli premeva era un’altra.
Non mi vuoi più bene? Ma quella domanda gli si bloccò in gola non appena la mamma lo strinse forte a sé per abbracciarlo. Era un bene che lo abbracciasse, giusto? Gli abbracci sono belli e pieni d’affetto.
Magnus era così confuso. Non capiva cosa stava succedendo. E la mamma sembrava così preoccupata. 
“Ce ne andremo da qui, piccolo mio. Te lo prometto.”
Gli aveva lasciato un bacio sulla fronte. E Magnus aveva pensato che fosse un altro buon segno. Mamma gli aveva dato un abbraccio e un bacio, quindi, forse, anche se sembrava molto preoccupata, gli voleva ancora bene.
Forse non dipendeva da lui.
Magnus se n’era convinto, in quel pomeriggio in cui era stato a casa da solo, mentre mamma era tornata ai campi di riso.
Ma poi il sole era calato ed era arrivato il buio. Ma con il buio la mamma non era tornata. Al suo posto, a casa, si era presentato un uomo alto che aveva gli occhi come i suoi.
“Tua madre si è uccisa, Magnus. Non accettava quello che sei. Ma io sì, io lo accetto. Vieni con me.”
Magnus aveva sentito il suo piccolo cuore rompersi nel petto.
La mamma aveva smesso di volergli bene.
La mamma non c’era più perché a Magnus erano venuti gli occhi gialli.
E adesso, l’unico che gli rimaneva era l’uomo alto con gli occhi gialli come i suoi. Per questo afferrò la sua mano e lo seguì.
Insieme, sparirono nella notte, invisibili ad altri occhi.
Invisibili ad occhi che, con il tempo e con più consapevolezza, Magnus avrebbe definito umani. A differenza dei suoi.





L’uomo dagli occhi da gatto, come i suoi, si chiamava Asmodeus. E aveva detto delle cose strane. Ad esempio, aveva detto a Magnus che era un Re e che questo faceva di lui un Principe.
“Perché?” domandò Magnus, confuso, stringendo ancora la mano di quell’uomo, l’unico ormai che gli era rimasto.
“Perché sei mio figlio, Magnus.”
Magnus non ricordava di aver mai visto quell’uomo, fino ad ora. Lui si era sempre sentito un po’ diverso dagli altri bambini del villaggio, che avevano una mamma e un papà, mentre lui aveva solo la mamma. Era capitato spesso che chiedesse a sua madre dove fosse suo padre, ma lei aveva sempre detto che era morto.
Forse la mamma era bugiarda?
Dopo tutto, gli aveva detto che l’avrebbe portato al sicuro, ma poi non era mai tornata. Gli aveva detto che gli voleva bene, l’aveva abbracciato, e poi, anzi che tornare da lui, si era fatta tanto male.
Quindi forse la mamma diceva le bugie.
Magnus provò una forte rabbia, sentì il suo piccolo cuore riempirsi d’ira, quasi come se lo stesse avvelenando.
La mamma l’aveva abbandonato. La mamma gli aveva sempre detto che gli voleva bene, quando non era vero.
Alzò gli occhi sull’uomo al suo fianco. “Tu riesci a vedere al buio?”
Era notte. E quella era una cosa che gli premeva chiedere, quasi come se ai suoi occhi di bambino fosse la prova che cercasse per capire se quell’uomo dicesse la verità. Se era vero che era il suo papà, e i loro occhi erano uguali, dovevano avere anche le stesse capacità. E se la risposta di quell’uomo fosse stata affermativa, forse lui diceva la verità.
“Riesco a fare moltissime cose, figliolo. Vedere al buio è una di queste.”
Magnus a quelle parole si sentì meno solo, meno… diverso.
Esisteva qualcun altro al mondo, in grado di vedere ciò che vedeva lui. E non poté fare a meno di notare che quell’uomo, suo padre, a differenza di sua madre non l’aveva nascosto in casa non appena i suoi occhi avevano cambiato forma e colore.
Quell’uomo non si vergognava di lui, come aveva fatto la mamma.
“E cos’altro sai fare?” domandò, quindi, curioso di conoscere qualcuno che evidentemente gli assomigliava tanto.
Asmodeus sorrise, come se stesse per rivelargli un segreto importante, o un trucco veramente speciale. Alzò la mano che aveva libera, quella che non teneva quella di Magnus, e aprì il palmo verso l’alto. Un forte odore di zucchero bruciato riempì l’aria, mentre una palla di luce azzurra galleggiava, sospesa in aria, sopra al suo palmo.
Magnus lo guardò con stupore, affascinato da qualcosa che non riusciva a capire, ma che comunque sentiva estremamente familiare.
“Che cos’è?”
“Magia, figliolo. La stessa che scorre nelle tue vene. Ti insegnerò ad usarla, se vorrai.”
Magnus era talmente rapito da quella sfera lucente e del blu più bello che avesse visto che si trovò ad annuire.
Asmodeus sorrise, ma questa volta il suo sorriso era più… appuntito. Magnus non riuscì a trovare un altro modo per spiegare l’espressione che comparve sul volto del padre.
“Ecco, tieni.” Gli porse la sfera luminosa e Magnus in un primo momento si ritirò, timoroso che si sarebbe bruciato.
“Stai tranquillo.” Cominciò, allora, Asmodeus. “La mia magia non può ferirti.”
Magnus fu incerto per un attimo. Guardò la sfera blu e, dopo un attimo di esitazione, sentì qualcosa muoversi dentro di lui, all’altezza del suo stomaco. Realizzò solo in un secondo momento che era curiosità. Era curioso di scoprire se sarebbe stato in grado di gestire quella nuova scoperta. La magia.
La magia esisteva.
E lui stesso poteva crearla, a detta di suo padre.
Per questo allungò le manine verso di lui e accettò la sfera blu. La guardò galleggiare sopra i suoi piccoli palmi, seguire ogni suo minimo movimento.
Ed era vero, la magia non lo feriva.
“Sai, figlio mio, la mia magia non può ferire te, ma può fare del male agli altri. Puoi usarla per questo, se vuoi.”
Magnus sentì un moto di paura crescergli all’altezza del cuore. “Perché dovrei far del male agli altri?”
Gli occhi di Asmodeus si accesero ancora di più, un barlume intenso attraversò i suoi occhi dorati rendendoli ancora più luminosi nel buio della notte.
“Perché loro ne hanno fatto a te.” Indicò il villaggio che si stavano lasciando alle spalle e nel quale Magnus aveva vissuto per tutta la sua breve vita. “Ti hanno sempre additato, non è vero? Un bambino senza padre, figlio di una meretrice, un bastardo. Non ti lasciavano giocare con gli altri bambini, non è vero? Per questo tua madre ti portava ai campi di riso con lei.”
Magnus sentì le lacrime pungergli gli occhi. Era tutto vero. Come faceva lui a saperlo? Non gli interessava. Gli interessava solo che Asmodeus sapesse e che, a quanto pareva, gli importasse.
“Ti hanno fatto soffrire, emarginandoti. Al tuo passaggio, le loro voci si affievolivano, sussurrando commenti maligni su di te.”
Era vero anche questo.
“Tua madre ha permesso tutto questo e poi ti ha abbandonato.”
Un’altra, dolorosa, verità.
Magnus sapeva di star piangendo, ormai. Il dolore che stava provando gli stava spezzando il suo cuore a metà.
“Io non permetterò mai niente di tutto ciò. Farò in modo che tutti ti rispettino, Magnus. Farò in modo che nessuno riuscirà più a ferirti.” L’uomo si chinò all’altezza del bambino. “Devi punirli per il male che ti hanno fatto.” Fissò il figlio negli occhi. “Puniscili, Magnus.” Gli ordinò, perentorio.
Il bambino in un primo momento, esitò. Guardò il villaggio avvolto nelle tenebre e nel silenzio. C’erano intere famiglie che stavano dormendo un sonno tranquillo, un sonno dal quale si sarebbero risvegliati presto per un’altra giornata lavorativa.
Erano famiglie che l’avevano visto crescere e con le quali lui era cresciuto. Ma se ripensava alla sua crescita, non vedeva altro che momenti in cui vari occhi si erano posati su di lui con diffidenza, con cattiveria. Sentiva le loro voci sussurrare parole offensive: bastardo, era la più frequente.
Le donne avevano sempre portato via i propri bambini, quando lui provava ad avvicinarsi ai suoi coetanei per giocare.
Erano stati cattivi, tutti. Persino la sua mamma era stata cattiva con lui, abbandonandolo e dicendo bugie.
E questo pensiero tramutò improvvisamente il dolore lacerante di Magnus in una rabbia incontrollabile. La sentì salire dalle profondità del suo essere, attraversare ogni sua viscera e arrivare fino alle sue mani, dove si concentrò sulla sfera luminosa che ancora fluttuava sopra di esse. La vide espandersi fino a raddoppiare e triplicare.
Asmodeus lo guardò con una luce orgogliosa negli occhi e un sorriso soddisfatto.
“Puniscili, figlio mio.”
E Magnus obbedì. Lanciò la sfera sul villaggio, che prese immediatamente fuoco. E rimase ad ascoltare le grida di coloro che l’avevano ferito per tutta la vita.
Adesso, nessuno di loro poteva più fargli del male.
Avevano avuto ciò che meritavano.




Asmodeus aveva aperto un portale, così aveva chiamato la grossa porta tonda che era nata da un movimento circolare della sua mano. Magnus ne era rimasto affascinato.
Nell’aria si sentiva ancora l’odore di carne bruciata e le grida degli abitanti del villaggio squarciavano il silenzio della notte. Erano grida di dolore e sofferenza, delle urla così forti e strazianti che erano sicuramente arrivate al Cielo, chiedendo una misericordia che lì, in Terra, non avrebbero mai ricevuto. Non quando, almeno, l’unica entità che camminava sulla Terra in quel momento era Asmodeus, risalito dalla bocca più recondita dell’Inferno per andarsi a riprendere la sua progenie a qualsiasi costo.
Il Re voleva il suo erede al trono. Ma questo il piccolo Magnus non poteva saperlo. Come non poteva rendersi conto della gravità delle sue azioni.
Asmodeus aveva giocato con il suo dolore, facendo leva su di esso per ottenere ciò che voleva, ma anche questo il piccolo Magnus non poteva saperlo.
Ai suoi occhi di bambino, Asmodeus era l’unica persona che gli era rimasta al mondo, l’unico che d’ora in avanti sarebbe stato al suo fianco.
Per questo gli obbediva.
E gli aveva obbedito anche quando gli aveva ordinato di saltare dentro al portale. Magnus l’aveva semplicemente fatto. Aveva chiuso gli occhi ed era saltato. Quando li aveva riaperti, si trovava in posto completamente nuovo, diverso dal villaggio dove aveva sempre abitato.
L’aria era impregnata di un odore acre, forte e puzzolente, come di uova marce. C’erano piccole eruzioni vulcaniche che scoppiettavano zampilli di lava e una cortina di fumo che rendeva il tutto estremamente grigio e oscuro.
“Dove siamo?”
“Ad Edom, figlio mio. Questa è la tua nuova casa.”
“Ma è un po’… tetra.”
“L’Inferno è tetro, Magnus.”
“Non mi piace.”
“Quando sarà tuo, potrai modificarlo come meglio crederai.”
“Mio?” Fece eco alle parole del padre, stupito e incredulo.
“Ma certo. Questo è il mio regno, quando sarai più grande diventerà tuo. Ma prima, devi imparare ad essere come me, altrimenti non sarai mai in grado di regnare. Vuoi essere come me, figliolo?”
“Sì.” Magnus aveva risposto senza nemmeno comprendere bene il significato di quella domanda. Per lui, essere come Asmodeus significava saper usare la magia, far uscire dalle mani sfere blu e creare portali in grado di trasportarti ovunque tu volessi. Di certo, non poteva sapere che diventare come lui avrebbe significato macchiarsi di omicidio, terrorizzare chiunque senza un apparente motivo, essere egoista e meschino, crudele. Non poteva sapere quanto la sete di potere l’avrebbe consumato. Sempre di più, sempre più forza. Si sarebbe preso tutto ciò che desiderava, senza badare alle conseguenze sugli altri perché suo padre gli avrebbe insegnato che gli altri non contano.
Sono delle nullità, paragonati a te, Magnus. E le nullità vanno schiacciate. Schiacciali tutti, figlio mio. Dimostra chi sei. Era il mantra con cui sarebbe cresciuto.
E di certo, Magnus non avrebbe mai, mai, sospettato che diventare come suo padre avrebbe significato perdere la sua parte umana.
La magia ha un prezzo. E quello era ciò che lui aveva dovuto pagare per essere uno Stregone così potente. 




Magnus osservò le macerie del suo palazzo, mentre quei ricordi gli ritornavano alla mente. Sentiva le guance bagnarli il viso, il rimorso e il senso di colpa lo stavano letteralmente divorando, quasi come se avessero voluto spezzarlo a metà. E forse era quello che si sarebbe meritato per aver ucciso un intero villaggio di innocenti a soli cinque anni.
Era un mostro.
L’assenza di empatia e la sua incapacità di provare emozioni avevano fatto sì che non elaborasse mai ciò che aveva effettivamente fatto quella notte di così tanti anni prima. Ma nonostante il tempo passato, i suoi ricordi erano nitidi come se fosse avvenuto poche ore prima.
Riusciva ancora a sentire le grida, l’odore acre di carne bruciata. Riusciva ancora a sentire la soddisfazione che aveva provato quando era stato convinto di punire qualcuno che meritava quella fine.  Quella sensazione, così viva all’interno del suo cuore, andò ad alimentare il suo senso di colpa, ingigantendolo così tanto fino ad arrivare a trasformarlo in disprezzo verso se stesso.
Si era fatto manipolare da suo padre, è vero, ma era lui quello a cui era piaciuto massacrare quella gente.
Mostro, ecco cos’era.
Ecco perché sua madre si era uccisa. E per la prima volta in quattrocento anni, anzi che odiare sua madre per ciò che aveva fatto, la capì.
Un cuore umano, buono come lo era stato quello della donna che l’aveva messo al mondo, non poteva sopportare gli orrori che, invece, un cuore marcio come il suo era in grado di elaborare. E quella notte ne era la prova. Magnus era stato cieco riguardante la sua malvagità per troppo tempo. Ma adesso la vedeva benissimo. Chiara come la luce del sole, la sua cattiveria era lì, incisa indelebile nella storia, nelle sue azioni. E ce n’erano state così tante nel corso dei suoi quattro secoli di vita che avrebbe riempito pagine intere di un libro maledetto.
Lui stesso era maledetto. Maledetto dal suo cuore oscuro che era stato avvolto nelle tenebre così tanto che aveva dimenticato cosa volesse dire ricevere un po’ di luce.
Alexander era quella luce. Ma ripercorrendo la sua vita, le sue terribili azioni, non era sicuro di meritare quella luce meravigliosa.
Lacrime copiose continuavano ad inondare il suo viso. Pianse tutto il dolore e il rimorso, tutto il senso di colpa che provava. Pianse tutto ciò che non era riuscito a far venire fuori negli ultimi quattro secoli. Pianse persino per la morte di sua madre. Un lutto che non aveva mai elaborato.
Magnus, inginocchiato davanti alle macerie del suo palazzo, con le mani immerse nella polvere, si lasciò andare ad un pianto disperato e liberatorio, quasi come se le sue lacrime avessero potuto lavare via tutto ciò che di malvagio aveva compiuto.
Razionalmente, sapeva che tutto ciò non era possibile. Ma sapeva che era un inizio. Pentirsi era il punto di partenza per ricominciare, per provare ad essere un uomo migliore e per essere finalmente in grado di meritarsi Alexander e il suo amore.
Voleva credere che tutto ciò fosse possibile, anche per uno come lui. E per la prima volta in vita sua, si trovò a pregare Raziel affinché lo ascoltasse e fosse disposto a perdonarlo per tutto il male che aveva fatto.
Redenzione. Era quello di cui aveva bisogno. E se era vero ciò che leggende dicevano, allora aver trovato Alexander significava avere una possibilità.
E quasi come se Raziel avesse voluto mandargli una risposta divina al suo flusso di coscienza, notò l’anello al suo dito illuminarsi.
Alec lo stava chiamando. E lui avrebbe risposto.




*




Maryse raggiunse la Chiesa di Talto in piena notte.
Era un edificio che le aveva sempre trasmesso un certo timore, quasi come se sapesse che dentro a quel luogo dimenticato da Dio, la Speranza, la Pietà e la Fede non entravano da secoli.
O almeno, non la Fede come la intendeva lei. Supponeva che anche i discepoli di vari culti demoniaci reputassero fede i loro credi. Era errore comune credere che con fede si intendesse solo ciò che riguarda Dio, senza contare che ogni individuo ha un dio diverso.
Non era certa, tuttavia, che i culti malvagi che avevano luogo in quella chiesa venerassero davvero un dio, quanto piuttosto l’Inferno e tutte le creature che lo abitavano. Era fede anche in quel caso? Non ne era sicura.
Accantonò tutti quei pensieri che adesso non le servivano ad un granché. Doveva rimanere lucida. E lasciare che la propria mente vagasse su digressioni inutili alla sua missione non era il modo giusto di rimanere lucida. Si passò lo stilo sulla runa del silenzio, in modo che nessuno l’avrebbe sentita arrivare, e aprì il portone lentamente, cercando di fare meno rumore possibile. Poi si incamminò all’interno di quel luogo di perdizione.


*


Jace ed Isabelle erano ancora legati al muro, sanguinanti e feriti, ma consapevoli che avevano passato di peggio.
Il bersaglio prediletto da quello psicopatico di Dennis era Alec. Lo Stregone aveva passato quella lama demoniaca sulla pelle di Alec più volte di quanto fosse davvero necessario. Si divertiva a torturarlo, pur di compiacere il suo Signore, e si vedeva.
Jace sentiva lo stesso dolore che provava Alec, ma sapeva che nonostante il legame parabatai, il dolore che Alec provava direttamente sulla sua pelle era lacerante.
E nonostante questo, nonostante adesso Alec fosse immobilizzato a terra, con le braccia e le gambe aperte, i polsi e le caviglie bloccati dalla magia, ancora non si azzardava a parlare. E sia Jace che Isabelle sapevano che questo suo essere restio a parlare di Magnus era inutile, dal momento che Asmodeus era in possesso dell’unico oggetto che avrebbe attirato Magnus nella sua trappola, ma sapevano anche che Alec era caratterizzato da una lealtà ferrea e che non avrebbe mai parlato. Nemmeno sotto tortura e quella ne era la prova.
Provarono entrambi una forte rabbia perché quella a cui era sottoposto Alec era una pratica inflittagli solo per puro piacere. Non era più necessario estorcergli informazioni, dal momento che, purtroppo, Magnus li avrebbe raggiunti a momenti, eppure Dennis continuava ad infliggergli dolore.
E Talto continuava ad essere impregnata dalle grida dell’arciere.
Dennis si chinò su di lui e afferrò il viso del Cacciatore con una mano. Alec, d’istinto, lo morse. Dennis ritirò bruscamente la mano e guardò il Nephilim come avrebbe potuto guardare un cucciolo indisciplinato che ha l’ardire di mancare di rispetto al proprio padrone. Per questo lo schiaffeggiò e Alec emise un basso verso gutturale, quasi come un ringhio. Se solo fosse stato uno scontro alla pari, se lui non fosse stato immobilizzato al pavimento, a quest’ora avrebbe già conficcato una delle sue frecce nel cervello di Dennis.
Lo guardò con tutto l’odio e l’astio di cui era capace, per quello schiaffo.
“Non guardarmi in quel modo, la tua superbia non ti servirà a niente. Abbi piuttosto l’umiltà di ammettere la sconfitta e implora pietà.”
“Mai.” Ribatté Alec, negli occhi il fuoco dell’orgoglio e dell’ira. “Non implorerei pietà nemmeno nel caso in cui avessi a che fare con un avversario temibile, figuriamoci davanti a te, che altro non sei che un pietoso servetto.”
Dennis sibilò e afferrò Alec per la gola, stringendo la trachea resa sensibile da tutte le torture precedenti.
“Tu, piccolo insolente.” Strinse ancora di più e dal suo palmo fuoriuscì la magia che andò a bruciare la sua pelle. Alec soffocò un urlo, sia perché non voleva dargliela vinta, sia perché sentiva l’aria venirgli meno. “Non fai più tanto l’arrogante, adesso, vero?”
“Lascialo stare, psicopatico!” Urlò Isabelle.
“O quanto meno slegalo, codardo. E vediamo allora se ti sentirai ancora superiore.” Commentò Jace, un sorriso beffardo stampato in viso, che andò a tirare il labbro spaccato da un pugno che si era preso precedentemente dallo stesso Dennis per non aver tenuto la bocca chiusa. “Slegalo, e lottate alla pari.”
“Alec ti farebbe a fettine.” Rincarò la dose Isabelle. “Per questo lo tieni legato, perché sai che non avresti nemmeno una misera possibilità.”
“O magari non lo slega perché non vuole disubbidire al suo padrone, che dici, Iz?”
“Oh, ma certo. Stai dicendo che abbiamo davanti solo un insignificante schiavetto ubbidiente che fa tutto ciò che il suo padrone gli comanda?”
“Esatto. Una misera pedina senza un minimo di spina dorsale!” Sibilò Jace a denti stretti, la voce grondante di disprezzo.
“SILENZIO!” Urlò Dennis, così forte che la sua voce riecheggiò tra le mura della Chiesa. Almeno quella reazione servì a lasciare il collo di Alec. “Siete degli arroganti ragazzini viziati, che pensano che tutto gli sia dovuto perché vi hanno cresciuti con la convinzione che il vostro sangue sia speciale. Vediamo se hanno ragione, mh? Vediamo se è diverso o uguale a quello di tutti gli altri.”
Dennis si alzò dal pavimento e abbandonò Alec per dirigersi verso Isabelle e Jace. Si posizionò davanti alla ragazza e la guardò con un intenso disprezzo.
Alzò la mano che teneva la lama demoniaca all’altezza di una guancia di Isabelle e ci incise un taglio. Il bruciore le fece stringere i denti, mentre sentiva chiaramente il sangue le che usciva da quel taglio.
“Vedi? È uguale a quello di tutti gli altri. Rosso e dall’odore ferroso che caratterizza la morte.” Sibilò, prima di percorrere tutto il perimetro del volto della ragazza con il palmo della mano libera che brillava di magia. Isabelle sentì il viso andarle a fuoco e la pelle che friggeva sotto quel tocco crudele. Resistette per qualche istante, non volendo dare a quel mostro la soddisfazione di sentirla urlare, ma poi Dennis aumentò l’intensità del calore e allora Isabelle cominciò a strillare, incapace di trattenersi.
Alec e Jace, intrappolati, cominciarono a divincolarsi e a gridare.
“Lasciala stare! Torna qui!” Disse Alec.
“Prendi me!” Esclamò Jace.
Dennis si fermò per qualche istante. “Oh, ma è davvero toccante. Siete disposti a sacrificarvi per lei. Davvero molto dolce. Peccato che non mi importi!”
Fissò di nuovo Isabelle negli occhi e cominciò di nuovo la sua tortura. Ma questa volta Isabelle non cedette tanto facilmente. I suoi fratelli erano disposti a sacrificarsi per lei, ma lei era disposta a fare lo stesso per loro. E dopo che Dennis si era apertamente beffato di loro, del loro rapporto e della lealtà che li univa, non gli avrebbe permesso di godere del suo dolore, non gli avrebbe permesso di trasformarla nell’anello debole della catena. Fissò i suoi occhi antracite ricolmi d’odio in quelli grigi del suo boia e non abbassò mai lo sguardo, nemmeno quando il dolore divenne lancinante. Non emise un suono, nemmeno quando riuscì chiaramente a percepire l’odore di pelle bruciata del suo viso che continuava a friggere sotto quel tocco magico malvagio.
“Dennis, smettila. Adesso!” Una voce giunse alle spalle dello Stregone. Dennis si voltò e alla vista del suo Sovrano smise immediatamente di torturare la ragazza.
“Non dobbiamo fare tutto adesso, mi spiego? Prima di cominciare dobbiamo aspettare mio figlio.”
Dennis annuì e si fece da parte, obbedendo ciecamente agli ordini del suo Signore.
Isabelle tirò un impercettibile sospiro di sollievo e così fecero Jace e Alec, felici di non vedere più la sorella che veniva torturata, ma sapevano che il loro sollievo sarebbe durato giusto qualche secondo, consapevoli che, per loro, il peggio doveva ancora arrivare.




*



Asmodeus fissava suo figlio e Magnus riusciva chiaramente a percepire il suo sguardo addosso. Lo stava esaminando, studiando. Il giovane Stregone lo sapeva. C’erano delle cose che ormai aveva imparato, dopo aver vissuto cinque anni ad Edom con suo padre.
Magnus, a soli dieci anni, si trovava davanti ad una prova.
Come sempre, gli suggerì una minuscola parte del suo cervello, che tuttavia il suo orgoglio si sbrigò a zittire. Suo padre lo metteva alla prova solo per il suo bene, per insegnarli come essere un sovrano temuto e rispettato quando, una volta pronto, avrebbe ereditato il trono infernale. E non sarebbe mai stato pronto se avesse tentennato ogni volta davanti ad un compito.
Imparare ad obbedire era la chiave per imparare a comandare. Solo ricevendo ordini avrebbe imparato poi a darli.
E inoltre, se non si fosse mai dimostrato severo o duro, nessuno l’avrebbe mai rispettato, quando sarebbe stato abbastanza grande. Gli altri avrebbero dovuto temerlo già adesso, avrebbero dovuto imparare subito ad avere paura di lui, perché come diceva sempre suo padre, lui era speciale. Aveva un dono che lo rendeva superiore agli altri. Per questo, doveva annientare chiunque avesse l’ardire di sfidare la sua autorità, o il suo sangue nobile.
“Mio Signore, vi prego…” L’uomo in ginocchio davanti a loro trattenne a stento le lacrime. Era uno Stregone, la cui pelle squamata faceva da monito alla sua natura mezza demoniaca. Era più grande di Magnus, ma rimaneva comunque estremamente giovane, vista la sua natura eterna. Doveva avere poco più di vent’anni.
“Non disubbidirò mai più ad un vostro ordine, vi prego, vi scongiuro!”
E Magnus sapeva benissimo che cercare di smuovere pietà in suo padre era completamente inutile. Anzi, chi supplicava tendeva ad innervosirlo. E, onestamente, anche Magnus provava la stessa cosa. Detestava i piagnucoloni, coloro che si abbassavano a supplicare pur di aver salva la vita. Non avevano orgoglio. Non avevano un briciolo di amor proprio.
E Magnus provò istintivamente un moto d’odio per qualcuno che sarebbe disposto persino a strisciare come un patetico verme, pur di aver salva la vita. Coloro meritevoli di stima non strisciano, non supplicano, dovrebbero piuttosto mostrare fierezza e spavalderia. Dovrebbero affrontare la morte a testa alta, accettando le conseguenze delle proprie disdicevoli azioni.  
Ovviamente non era il caso di colui che avevano davanti Re e Principe dell’Inferno. Quell’individuo senza spina dorsale non si stava prendendo la responsabilità di qualsiasi cosa avesse fatto.
E Magnus non poteva più di sentire i piagnistei di quell’uomo. E non gli importava se era uno Stregone come lui, non gli importava neppure quale fosse il suo crimine, dannazione – perché quell’uomo era un codardo, immeritevole di qualsiasi opportunità di redenzione. L’unica cosa che Magnus voleva era che l’altro smettesse di riempire le mura del palazzo reale con l’eco delle sue frignate. Così, percependo lo sguardo del padre ancora su di sé, pienamente consapevole che si aspettava una reazione da lui e da lui soltanto, Magnus agì. Ormai sordo a qualsiasi parte di sé non fosse quella che gli stava gridando che quello smidollato era solamente un’offesa per la sua specie, Magnus mosse solamente due dita, lanciando un incantesimo che pose fine alla vita di quel ragazzo – e alle sue suppliche.
Guardando il corpo esamine di quel ragazzo, ormai accasciato sul pavimento del palazzo, Magnus sapeva che aveva fatto esattamente ciò che suo padre voleva. E ne ebbe la conferma quando, dopo aver spostato lo sguardo dal cadavere al padre, vide un sorriso orgoglioso aprirgli il viso.
“Bravo figlio mio, nessuna tolleranza per chi mina la nostra autorità. Un sovrano che mostra pietà è un sovrano che non verrà mai temuto, o rispettato. E sai cosa fanno ai sovrani, quando non li temono?”
Magnus fece un cenno negativo con il capo.
“Li uccidono.”





*




Magnus arrivò davanti alla Chiesa di Talto con un portale. Non ebbe il tempo di domandarsi nulla, riguardo al perché le coordinate che gli aveva riferito la sua magia l’avessero portato in un luogo tanto oscuro e tracotante di magia nera, perché la sua attenzione fu catturata tutta da Maryse, che si trovava esattamente davanti al portone pesante della chiesa.
La donna osservava la superficie intagliata di simboli, che Magnus sapeva appartenessero alla lingua demoniaca. Le si avvicinò, cercando di non essere troppo silenzioso per non spaventarla.
“È lilim.” Le comunicò, annunciandosi.
Maryse si voltò verso di lui. “Nella sua forma più antica.” Confermò, annuendo impercettibilmente con il capo. “L’ho studiato, da giovane, ma non avrei mai pensato di vederlo da qualche parte che non fosse un libro.”
“Io non avrei mai pensato di trovare un Nephilim in grado di leggerlo.”
Maryse alzò un unico angolo della bocca, un accenno di un sorriso tirato che mal celava la sua tensione e apprensione.
Magnus se ne accorse, e improvvisamente se ne sentì contagiato.
“Maryse perché sei qui?”
“Ho un presentimento, Magnus. Uno di quelli brutti.”
Magnus si sentì gelare il sangue nelle vene. “Credi che siano in pericolo?”
Che Alexander sia in pericolo? Aggiunse, mentalmente, ma non lo disse per non sembrare insensibile. Maryse doveva essere preoccupata per tutti i suoi figli. E in un certo senso lo era anche lui, ma in realtà la sua preoccupazione più grande era Alec. La preoccupazione che provava per i suoi fratelli era solamente un riflesso di ciò che avrebbe provato Alec se a loro fosse successo qualcosa.
“Non lo so. Tu perché sei qui?”
“L’anello,” Cominciò alzando la mano a cui lo portava, “Si è illuminato. Alexander mi ha chiamato.”
“Allora forse hanno solo delle novità. Forse non è successo niente e i miei presentimenti sono solo delle sciocche sensazioni senza importanza alcuna.”
Si guardarono, cercando di aggrapparsi a quelle parole, ma la verità era che nessuno dei due ci credeva.
“Entro io per primo, tu rimani a coprirmi le spalle, va bene? Se dovesse succedere qualsiasi cosa, interverrai.” Disse Magnus e Maryse fece una smorfia contrariata.
“Non me ne starò in disparte!”
Magnus afferrò la donna per spalle. “Se davvero il tuo presentimento è giusto e sta davvero succedendo qualcosa di infausto, là dentro, tu potresti essere la nostra unica occasione di salvezza. Se entriamo insieme, e dovesse succederci qualcosa di brutto, chi ci porterebbe in salvo? Nessuno sa che siamo qui, Maryse, e di certo non c’è nessuno più determinato di te a salvare le nostre vite.”
L’uomo aveva ragione, Maryse lo sapeva. Come sapeva anche che continuare così avrebbe solo portato una perdita di tempo. Razionalmente, l’idea di Magnus era la migliore a cui potessero accingere in quel preciso momento e in quella determinata situazione. Per questo Maryse annuì.
Guardarono un’ultima volta la porta e poi la spinsero all’unisono per entrare a Talto.





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Ciao a tutti! Dopo un’attesa infinita sono tornata e mi dispiace davvero pubblicare con così tanto ritardo, ma ho davvero pochissimo tempo per scrivere e questo causa dei ritardi immensi di cui mi sento in colpa. Perdonatemi.
Come avrete notato, nemmeno questo è l’ultimo capitolo e forse dovrei smetterla di dirlo. Questa storia era nata inizialmente come una OS nella mia testa e poi si è trasformata in una storia di – teoricamente – solo due capitoli e poi si è trasformata in una vera e propria long. La verità è che l’idea iniziale ha portato poi altre idee e la voglia di svilupparla un po’ di più, ma comunque siamo arrivati lo stesso vicino alla fine. Il prossimo penso proprio che sarà davvero l’ultimo capitolo che, a questo punto, penso conterrà anche quello che all’inizio, nella mia testa, doveva essere l’epilogo.
Ho pensato di pubblicare per due motivi: il primo è l’immenso ritardo per cui volevo cercare di fare ammenda almeno un po’ e il secondo è il fatto che non avevo preventivato di scrivere il passato di Magnus, ma poi ho pensato fosse necessario introdurre un po’ della vita di Magnus e di come fosse arrivato ad essere ciò che è. Quelle parti hanno allungato il capitolo e non volevo che fosse troppo lungo rispetto agli altri, quindi ho pensato anzi di fermarmi qui e poi continuare con l’ultimo.
Vorrei fare due precisazioni: 1. Ad un certo punto, quando Magnus ha dieci anni, sente la famosa vocina dentro di sé che in qualche modo accusa suo padre. Vorrei precisare che in quel contesto non è legata alla presenza di Alec, come invece succedeva nei primi capitoli, innanzitutto perché Alec non è ancora nato (capitan ovvio, mode on) e in secondo luogo perché ho pensato che fosse giusto che aver vissuto i primi cinque anni della sua vita con sua madre dovesse venire fuori, in qualche modo. Su questo punto, comunque, tornerò nel capitolo successivo, dove verranno spiegate molte cose, legate soprattutto alla vita di Magnus.
La precisazione n.2 invece riguarda il finale di questa storia. Non vorrei “traumatizzarvi” troppo, quindi se volete sapere preventivamente qualcosa sulla fine, potete scrivermi in privato. Non so quanti di voi vogliono lo spoiler, quindi, per sicurezza non lo scriverò in queste note.
Queste note sono venute lunghe come il capitolo, a momenti! Mi scuso per essermi dilungata così tanto.
Ringrazio chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e chiunque recensisca, o legga silenziosamente. Non mi aspettavo certi numeri, quindi avete tutta la mia gratitudine!
Se vi va, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questo capitolo.
Vi ringrazio e vi mando un abbraccio!
Alla prossima! <3

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