Addio

di Ghostro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Varcai la soglia dell'Hotel Day Plaza, l'albergo più lussuoso di New York, in perfetto orario. Come sempre mi diressi all'ultimo piano. Si affacciava verso il mare e la Statua della Libertà, una visione paradisiaca. Soprattutto al tramonto, quando il sole calante illuminava le acque donandole colori aurei e splendenti. Avevo sempre amato osservarlo dalla vetrata del mio grattacielo, scrutare il placido scuotersi delle onde e i raggi del sole riflettersi su di esse; solo in quei momenti ero capace di staccare dalla frenetica routine e dalla miriade lecchini e opportunisti che infestavano le mie giornate.
  Anche quella sera i miei occhi spaziavano in quell'oceano di tranquillità. Finché non sopraggiunse la notte. E il mio genio si accese; come le luci del grattacielo, di un argento luminoso ed etereo, accompagnato dalla sfumatura smeraldina dei vari faretti al neon sparsi lungo l'edificio.
  Era stato semplice il mio ragionamento, geniale per i miei collaboratori; e come poteva essere altrimenti? Quel gregge di capre al pascolo amava farsi sorprendere, stupire, e da buon pastore quale sapevo indirizzare le folle verso il mio brillante albergo, un faro in mezzo al grigiore dei palazzi limitrofi; sin dal primo giorno una folla di curiosi si era avvicinata per apprezzarne la bellezza, la magnificenza, e assaporare anche solo per un istante la sensazione di trovarsi al centro del mondo. Un effimero assaggio della mia vita: presto sarebbero tornarti al grigio delle loro, insignificanti, trascorse a struggersi di ciò che non potevano sperare di possedere.
 
Le porte dell'ascensore si aprirono lentamente ed entrai nell'attico: il mio personale ufficio e zona di ristoro.
  Subito un rumore di tacchi attirò la mia attenzione. «Buonasera, signor Argent» salutò Esmera. La segretaria mi affiancò goffamente, affrettando il passo per stare dietro alla mia andatura sicura e veloce.
  «Cos'abbiamo in programma stasera?» Ero già stanco di essere seguito da quella donna di terza categoria.
  Si aggiustò goffamente la montatura spessa, prima di prender parola: «All'una esatta avrà un appuntamento con il signor Jacobs, per dettare i termini della nuova fornitura di...»
  «Va' avanti.»
  «Alle due dovrà tagliare il nastro per l'inaugurazione della nuova sala da ballo e...» Sfogliò le note più e più volte. «Ah, sì! C'è la cena di mezzanotte con lo staff.»
  Mi fermai all’improvviso, appena prima di varcare la porta del mio studio. «Cena con lo staff? Chi l'ha organizzata?»
  Esmera si strinse nelle spalle, come se di colpo avesse avuto voglia di sparire. «Ecco... Ho p-pensato che cenare con i suoi dipendenti avrebbe potuto...»
  «Cosa?» sbottai, fissandola severo negli occhi grigi.
  La donna li abbassò mesta, torturandosi le dita. «Mettervi in buona luce…»
  Assottigliai lo sguardo. «Angeletti, in quest'albergo non si accettano perdigiorno, né persone che non sappiano gestire il proprio lavoro senza l'approvazione del capo. Non sono tenuto a dimostrare niente, piuttosto voi: dovete darmi prova che non siete uno spreco del mio denaro e della mia pazienza. E ad ogni modo, non ho certo intenzione di sprecarlo con della plebaglia» asserii sprezzante. «Potete fare questa cena, da soli. Detrarrò il costo dalle vostre paghe. Attenti: sono cari i prezzi in questo posto.»
  La rossa strinse il foglio con la scaletta al petto, torturandosi il labbro inferiore con i denti. «M-Ma certo, signor Argent. M-Mi scusi se le ho fatto perder tempo» esalò Esmera, prima di girare i tacchi e tornare alla sua scrivania.
  Scossi la testa allucinato ed entrai nel mio ufficio sbattendo la porta, rimarcando il mio sdegno.
 
«Svetlana» mormorai soave, non appena volsi lo sguardo verso l'interno della stanza.
  Seduta elegante e sfacciata sul divano dello studio, di un beige cangiante alla luce del tramonto, le gambe accavallate, la mia socia mi fissava con il suo solito sorriso malizioso e birichino. «Sorpresa!» esclamò con accento russo, e un bagliore di divertimento negli occhi chiari.
  «Magnifica come sempre» ossequiai mentre mi avvicinavo. Le presi gentilmente una mano tra le mie e ne baciai il dorso; le sfuggì un risolino compiaciuto che tentò di celare posando l'altra sulle labbra.
  Si alzò con una fluidità invidiabile e posò le mani sul mio viso. «Ti stavo aspettando» sussurrò gioviale, prima che le nostre bocche si unissero in una sola.
  Risposi prontamente al bacio, le mie mani vagarono su fianchi sinuosi e sodi, e continuai a baciarla, spingendola fino a sedere sul bordo della scrivania. Le nostre labbra si separarono con uno schiocco.
  «Questa sì che è una calda accoglienza.»
  Lei sorrise a trentadue denti e piegò leggermente la testa. «Ho pensato che ti sentissi solo... Vuoi un po’ di compagnia?» chiese con fare da innocente scolaretta.
  Stavolta fui io a ghignare. «La parte della verginella non ti si addice per niente, mia cara.» – Abbiamo commesso ben più di qualche misero peccatuccio, in quest'ufficio. –
  «Dici? Ma a vuoi uomini piace...»
  «Io non sono come gli altri uomini» ribattei prontamente.
  «Arie: te ne dai tante.» Spostò la mano sul cavallo dei pantaloni e strinse lievemente. «Tutti gli uomini ragionano con questo, nessuno escluso.»
  – Eppure nessuno ama giocarci più di te, nemmeno il sottoscritto. –
  Come se avesse letto i miei pensieri, mi lanciò un'occhiata languida e irriverente. «Prima il dovere, Symon» annunciò, allentando la tensione sessuale che era nata tra noi.
  «Non è una visita di piacere, dopotutto.»
  "Ma lo è! L'unica cosa che preferisci al sesso è il suono della tua voce ed io so come ti piace usarla.» Quel commento mi fece sghignazzare.
  «Sai sempre come prendermi…» Mi avviavo verso l'armadietto a muro.
  Afferrai un bicchiere e una bottiglia di Bourbon; bevvi avidamente dopo averlo riempito fino a metà, assaporando quel fuoco liquido che lentamente scendeva sino allo mio stomaco. Poi mi girai e diedi un'occhiata alla bellissima donna che aveva preso posto sulla sedia di pelle candida. Stava adocchiando la stanza con curiosità. Portava i capelli biondi tagliati a caschetto, le sue forme sensuali erano evidenziate da un tailleur nero senza spalline, con una vertiginosa scollatura sul petto; in parte velata da un tessuto scuro e trasparente che risaliva dai bordi e si chiudeva attorno all'esile collo. Un viso dai tratti predatori, affilati; il sogno di ogni plebeo, una intelligente e sexy realtà che solo pochi uomini al mondo avrebbero potuto godere. Io ero solo uno dei pochi privilegiati, anzi l'unico, che poteva attrarla; e sarebbe sempre tornata.
  Eppure nemmeno una simile bellezza poteva avermi, io non ero il trofeo di nessuno: aver attratto il mio interesse per tanto tempo era l’unica conquista che avrebbe ottenuto, e se la sarebbe dovuta tenere stretta con fierezza; ben poche donne erano state capaci di compiere quello che a conti fatti era un prodigio.
  «Dunque?» iniziai, togliendomi la giacca e poggiandola sullo schienale della mia sedia.
  «La catena di alberghi che rappresento vorrebbe rilevare la tua attività. Hai intensione di espandersi ed entrare nel mercato americano. Non devo certo spiegare che questo è uno degli alberghi più popolari e costosi della città, i cui introiti sono di gran lunga maggiori, nell'insieme, del nostro migliore articolo a Dubai.»
  «Fammi capire bene: da semplice socio in affari, vorresti diventare il mio capo?» domandai sarcastico.
  «No, vorremo che tu diventassi Socio Anziano della nostra catena. Abbiamo bisogno di uno come te al timone. Saresti uno dei soci di maggioranza e vedresti i tuoi attuali guadagni triplicarsi, come minimo.» Mi prese le mani tra le sue, carezzandone il dorso con i pollici. «Diverresti uno degli uomini più ricchi del mondo, Symon. Ville, palazzi, alberghi in tutto il globo, e... potremo vederci più spesso, cambiare il panorama che si vede oltre la finestra…» concluse suadente. «Da socia di poco conto, come sono ora, i nostri incontri sono così rari e infrequenti» aggiunse con una sottile nota di tristezza.
  – Già, è un vero peccato – pensai acido.
  Restai in silenzio per diversi minuti, per cercare di reprimere l'irritazione e affidarmi al mio intelletto. Quando pensai di essermi calmato a dovere, le risposi sinceramente: «Mi offri soldi, ma io ne possiedo in abbondanza. Mi alletti con un potere che dovrei dividere con altri, mentre qui sono re. Un comune amministratore di quella catena di catapecchie che chiamate alberghi. Dulcis in fundo, cerchi di corrompermi allietando la mia vista con il tuo corpo stupendo e quell'abito peccaminoso.» Sorrisi affabile. «Ma di puttanelle come te ne posso trovare a ogni angolo della strada.»
  Ricevetti un sonoro schiaffo sulla guancia; ma non mutai la mia espressione irriverente, non ce n’era ragion. «C'è un motivo, se sei solo una socia di poco conto: nessuno, nessuno, può dirmi cosa fare.» Mi alzai in piedi, ignorando il bruciore sul viso. «Sono migliore di qualsiasi altro in questo settore, mi sono creato la mia fortuna da solo, e in poco tempo. Un risultato che voi inetti non raggiungereste in una vita, e puoi star certa che ben presto della tua catena elemosinante di stamberghe non si sentirà più parlare. Né in America né nel resto del mondo. D’altronde, se sei disposta a scendere così in basso per convincermi, credo che tu lo sappia già.»
  Posai l'indice sul bottone del telefono fisso.
  «Sì, signor Argent» rispose Esmera.
  «Avvisa la sicurezza che un rifiuto è sfuggito al loro controllo. La prossima volta che qualcuno s'infila nel mio ufficio di nascosto, senza che tu faccia buona guardia, mi troverò un'altra segretaria.» Tolsi il dito prima che potesse rispondere, tornado a osservare la mia ex socia.
  «Sei solo un folle e un arrogante bastardo» sibilò Svetlana. Si alzò, racimolando ciò che restava del suo orgoglio e la sua borsetta da diecimila dollari, assieme al soprabito. «Non finisce qui. Ti avverto, Symon: se non sei con noi, sei contro di noi. Demoliremo questo cosiddetto hotel pezzo per pezzo. Ti distruggeremo» mi avvisò, prima di andarsene inviperita.
  – Staremo a vedere. –.
  Mi aveva fatto una bella sorpresa. Avrei ripagato e presto quella cortesia. Premetti di nuovo quel pulsante. «Esmera, portami...»
  Non feci in tempo a finire la frase che la segretaria aveva già varcato la soglia del mio ufficio.
  Posò alcuni fogli sulla scrivania. «Proprietà, bonifici, conti. Tutto ciò che Svetlana ha dovuto dichiarare prima di entrare in società, più alcune ricerche personali che ho svolto sui membri del consiglio della Gato Hotel Group.»
  La osservai di sbieco. Raccolsi il primo plico. «Non te li ho mai chiesti» dissi distrattamente, mentre ne osservavo il contenuto.
  «Sapevo che li avrebbe voluti visionare da quando ho ricevuto la notifica del volo di Svetlana. Prima o poi sarebbe successo, no? Era per questo che l'ha fatta controllare da quando è entrata in affari nella sua attività, no?»
  – Davvero notevole – pensai, mentre prendevo atto che le sue indagini erano dettagliate e morbosamente minuziose.
  Finito di leggere, mi accorsi che era rimasta in piedi dinnanzi a me, in silenzio. «Vuoi un applauso per caso? Mi hai fatto risparmiare qualche minuto, ma non per questo ti permetto di perdere tempo. Fuori dai piedi.»
  Allarmata, la segretaria fece un passo indietro. «M-mi scusi, signor Argent. T-Tornerò alle mie mansioni» mormorò, sottovoce, prima di girare i tacchi.
  Scossi la testa un paio di volte e mi rimisi a esaminare i segreti di quella russa. Dal volto predatorio e angelico... ma dal cuore assolutamente diabolico.
 
Trascorsi il resto della notte tra documenti e sporadiche uscite per fumare.
  Con un sospiro esausto mi poggiai allo schienale della sedia, la testa poggiata pigramente sul morbido rivestimento di pelle nera, rivolta verso il soffitto. Il mio sguardo spaziò sulle spesse mattonelle argentate, i faretti al neon che emettevano una luce tenue e soffusa. Fuori era ancora buio. Le luci della città da quell'altezza sembravano piccole lucciole sospese nel vuoto, come se il tempo si fosse fermato per non permettere al sole di sorgere e far cessare quello spettacolo. La stanchezza iniziava a farsi sentire, quelle luci brillanti diventavano sfocate, eteree. Dovetti strofinarmi gli occhi per mettere a fuoco. Eppure il sonno iniziò a prendere il sopravvento, un caldo torpore sciolse i miei muscoli tesi; la fatica e il peso di quella scoperta iniziavano a chiedere pegno e offuscare il mio senno.
  Nel dormiveglia mi accorsi che la porta si era aperta, portando con se un aroma forte e intenso, che mi inebriò le narici.
  «Signor Argent?» disse una voce. «Signor Argent?» ripeté. «Sym.»
  Era Esmera. Le risposi biascicando: «Che ore sono?»
  «Le quattro del mattino» m'informò. Annuii lievemente. «L-Le ho portato del caffè.»
  «Entra e chiudi la porta» mormorai assonnato.
  Fece immediatamente quanto chiesto, poi si sedette, posando la tazza fumante sulla scrivania. A stento trovai la forza per tendere il braccio e afferrarla, per sorseggiare quella bevanda tiepida al punto giusto, come piaceva a me.
  Il mio cervello si era anche preso una pausa, ma tornai presto concentrato quando notai quella rossa che a stento stava trattenendo una risata. «Ti diverto, per caso?»
  «Una macchia di caffè è finita sulla giacca» confessò in imbarazzo.
  Ero troppo assonnato per darci peso; in un altro momento avrei dato di matto. Lei lo sapeva bene. Si diresse verso l'armadio, a lato della porta, e prese una nuova camicia bianca dal cassetto delle scorte.
  «Posso aiutarla?» domandò imbarazzata.
  Non risposi, non ne avevo le forze. Lo interpretò come un invito a proseguire. Percorse il parquet a passo leggero, fino al bracciolo della mia sedia. Iniziò a sbottonarmi e togliermi la camicia; non riuscivo a mettere a fuoco, ma per un istante mi parve che di cogliere che avesse deglutito impercettibilmente alla vista del mio petto allenato e scolpito, frutto di tante ore passate in palestra.
L'apparenza era tutto, in ogni campo; sorrisi impercettibilmente, compiaciuto dell'effetto che sapevo di dimostrare.
  Esmera scosse la testa come se avesse cercato di tornare alla realtà dopo un bellissimo sogno a occhi aperti. Iniziò a infilarmi il nuovo indumento con estrema professionalità e attenzione.
  «Sai sempre cosa fare, e quando. Dal giorno in cui sei diventata la mia segretaria hai svolto il tuo compito con una professionalità che non avevo mai visto prima. Sembra che tu mi conosca da tempo.»
  Lei sorrise timidamente. «Ma io la conosco bene, signor Argent. Da tanto tempo» esalò, con una voce così soffocata che pensai di essermelo immaginato.
  Annuii: in quel momento ero talmente assorto che avrei potuto venderle l'intero hotel, se me l'avesse chiesto. «Hai svolto un ottimo lavoro con quelle ricerche. Sei stata scaltra, e abile» lodai, facendola arrossire e sgranare gli occhi. Tutti sapevano quanto fossi avaro di complimenti; maledetto sonno...
  «G-Grazie.» Si chiuse in un silenzio imbarazzato, finendo di vestirmi senza più aprir bocca.
  Quando si sporse per sistemarmi il colletto, i miei occhi si trovarono davanti il suo petto. Dove notai uno strano oggetto luccicante. Senza freni inibitori, alzai la mano e lo raccolsi, per esaminarlo da vicino: era un ciondolo a forma di serpente, le scaglie di un verde smeraldo e d’argento. «Cos'è?»
  «Ah, questo...!» Lo riprese gentilmente e lo esaminò rigirandoselo tra le mani. «La mia famiglia è originaria di un paese nella Cina Settentrionale. Shé chéng è il nome del villaggio dove hanno dimorato i miei avi.»
  «Non sembri cinese.»
  «Siamo americani da generazioni, ormai, noi Angeletti. Credo di avere più sangue italiano che orientale» affermò, assumendo un'espressione malinconica. «Ci sono giorni in cui mi sento attratta da questo ciondolo, non posso non indossarlo."
  «Cosa rappresenta?»
  Lei percorse con l'indice le scaglie dell'animale, iniziando a parlare distrattamente: «A Shé chéng il serpente è considerato sacro, un simbolo di rinascita e di vita.» Mi mostrò le scaglie multicolore. «Queste simboleggiano due aspetti della rinascita: l'argento corrisponde alla muta del serpente, il dolore e la sofferenza che il defunto ha causato alle altre anime o a sé stesso, ciò che si è lasciato alle spalle. Il verde... è la nuova pelle, ciò che rimane.» Gli occhi grigi di Esmera incontrarono i miei. Per un attimo rimasi folgorato dalla sfumatura smeraldina nelle sue iridi; non l’avevo mai notata. «Il male che infliggiamo agli altri fa sanguinare non solo i loro corpi, ma anche il nostro spirito. Dopo una vita trascorsa nell'oscurità, la nostra anima sarà consumata. E cosa resterà, quando si separerà dal corpo? Solo il nostro io interiore, la nostra nuova pelle, ma sarà così logorata che, rinati, saremo troppo fragili per sopravvivere nel nuovo mondo. Nella prossima vita patiremo tutto il dolore che in questa abbiamo causato.»
  «Mi stai dicendo che se farò il cattivo nella prossima vita sarò uno sfigato?»
  «P-Più o meno. Sì. Ma esistono degli spiriti protettori che intervengono nei modi più disparati per riportarci sulla retta via. Seguirli o meno rimane una nostra scelta» rispose la mia segretaria, prima di sorridere e scuotere la testa imbarazzata. «Mi scusi, signor Argent. Siamo nel duemilauno e non dovremmo più credere a certe sciocchezze. Lisciò le mie spalle per pianare le ultime pieghe, poi si allontanò, mettendo fine a quello strano discorso.
  «Fatto. Cosa faremo con Svetlana?»
  «Da quando siamo passati al noi?» Il caffè che finalmente stava iniziando a fare effetto, liberandomi dallo stordimento.
  «Oh, m-mi scusi! È che se lei perde il posto, i-insomma, lo perdo anch'io e... Sto parlando troppo… vero?»
  La fissai con fare ammonitorio, prima di aprire il cassetto della scrivania e raccogliere una pennetta; gliela lanciai, l'afferrò al volo solo dopo aver mancato la presa per ben due volte. «Lì ci sono le copie di tutto ciò che hai raccolto. Conservale, potrebbero servirmi.»
  «Qualcosa d’interessante?»
Sorrisi affabile. «La nostra cara amichetta russa non ci ha proprio informati di tutto, riguardo le sue amicizie. Ho scoperto che la sua compagnia compra alberghi di lusso in tutto il mondo, come copertura
  «E quali sarebbero le loro attività di punta?» chiese allarmata.
  «Denaro sporco, droga, chissà. D'altronde, quale posto migliore per smerciare se non dentro le proprie mura?»
  Esmera si torturò le dita. «Andrà alla polizia?»
  Risi di gusto. «No, assolutamente no. Userò i documenti in mio possesso come vantaggio. È più comodo tenere i propri avversari per il guinzaglio, piuttosto che lontani a meditare vendetta.»
  «Ma...» Già aggrottai le sopracciglia. «Signor Argent, è avventato ciò che vuole fare. Se questa gente commercia droga o ricicla denaro sporco, non accetterà i suoi ricatti. Potrebbero esserci delle conseguenze.» Scosse la testa e aumentò la stretta sulla pennetta. «È troppo pericoloso, potrebbe...»
  «Angeletti» vociai, alzandomi bruscamente dalla sedia. «Tu farai come ti ho detto e ne resterai fuori, capito? Prova solo ad avvicinarti alla polizia e considerati licenziata!»
  «La prego…» tentò nuovamente.
  Ma la fermai subito. «Fuori! E fa’ come ti dico!.»
  La rossa deglutì per ricacciare indietro le lacrime. Tremante, si affrettò verso l'uscita.
  – Dire a me cosa fare… – Feci un verso di stizza.
 
Il telefono squillò tre volte prima che Svetlana si decidesse a rispondere. «Cosa vuoi?»
  Mossi qualche passo verso la vetrata a muro e aggiustai la cravatta: un riflesso involontario, avevo sempre faticato a tenere a bada durante le trattative. «So cosa fanno i tuoi presunti soci. Vi consiglierei di costruire anche un bordello nei piani sottostanti dei vostri stabili, già che ci siete. Saresti la perfetta ape regina, se capisci cos'intendo…»
  La russa tacque per un istante. «Un modo pittoresco per riferirmi che sei andato alla polizia?»
  «No, sto per riferirti che se volete continuare le vostre... attività», sottolineai con particolare scherno, «dovrete sparire da questo continente.»
  «Aspetta… Tu, vorresti ricattarci?»
  Sorrisi crudele. «Piccola, ricattare è una parola troppo forte. Io lo chiamerei “scambio di favori”.»
  «Cosa vorresti che facessimo, dimmi?»
  «Su una cosa ti do ragione: un solo hotel non è abbastanza per me. Voglio creare una catena d'alberghi… e un sostengo economico, anzi, una donazione, non sarebbe male. Una sola, e chiuderò la bocca per sempre.»
  Svetlana rise di gusto. «Oh, Symon. Vorresti essere pagato? Ma questo è un ricatto… Ti facevo una persona più attenta alla retorica.»
  «Non mi serve l’influenza della mala, né i vostri soldi. Quello che voglio è eliminare la concorrenza; e magari accelerare i tempi di qualche progetto in cantiere con un po’ di liquidità extra, perché no? E per quanto riguarda le informazioni, non hai forse incontrato ieri sera un famoso Signore della Droga locale? Hai fatto male i tuoi conti, pupa. Mi aspetto cento milioni sul mio fondo estero entro le nove del mattino. Credo che la polizia sarà lieta di ricevere certe informazioni.»
  La russa ringhiò frustrata. «Va bene.»
  – Un gioco da ragazzi, baby. –
  Raccolsi la giacca. Quella nottata era stata davvero proficua. Dopo una bella dormita mi sarei sentito più leggero... e decisamente più ricco.
 
  Stavo tornando a casa a bordo della mia Mercedes argentata, quando mi trovai di fronte a uno spettacolo irritante: un vecchio e un automobilista stavano litigando in mezzo alla strada. Mancava qualche chilometro e sarei potuto affondare nel mio morbido materasso, e scivolare nel sonno, e quei due me lo stavano impedendo.
  Passarono diversi minuti, nei quali una rabbia cocente stava iniziava a prendere possesso di me; i miei occhi iniziavano a lamentare tic nervosi.
  Poco dopo, persi definitivamente la pazienza. «Ehi!» gridai iracondo, scendendo dalla macchina e raggiungendoli in pochi passi. «Andate a litigare altrove! C'è gente che vuole dormire.»
  Distrattamente, percepii l’aprirsi della portiera posteriore dell'anonima auto blu. I due mi fissarono senza fiatare.
  «Vi è presa una paresi?»
  «Signor Argent?» chiese professionale alle mie spalle.
  «Che...?!» Mi voltai, giusto in tempo per vedere un ago conficcarsi nel mio collo e uno strano liquido verde fluire nella pelle.
  «Svetlana vi manda i suoi saluti» asserì l'uomo sconosciuto, che finse di prendermi il volto con una mano.
  Qualcosa si fermò, in me. Caddi senza forze sull'asfalto e strinsi il petto all'altezza del cuore; come se un pianoforte mi stesse schiacciando, una forza maggiore che mi toglieva il respiro. Il mio volto divenne paonazzo, le vene si gonfiarono e divennero fin troppo evidenti, gli occhi quasi fuoriuscirono dalle orbite. Gracchiai qualcosa, cercai di afferrare il vuoto sopra di me mentre la testa si accasciava al suolo. Ma ero solo: non c'erano passanti a cui chiedere aiuto, il mio cellulare era troppo lontano; iniziai a tremare di paura, a rendermi conto che stavo per morire.
  Quando capii che era giunta la mia, ora calde lacrime bagnarono il mio viso.
  Spirai...

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Riaprii gli occhi di scatto, respirando a pieni polmoni. Mi alzai spaventato, cercando riferimenti o qualunque dettaglio potesse a farmi capire dove accidenti fossi finito. Non ce n'erano: la stanza era completamente al buio e non potevo distinguerne né forma né dimensione. Il respiro accelerò senza freno, cominciai ad andare nel panico. «Dove sono? Che sta succedendo?»
  Silenzio.
  «Dove sono?!» gridai.
  Cominciai a correre, l'inconscia consapevolezza che prima o poi avrei trovato un ostacolo. Ma non mi scontrai con nulla. Continuai a correre in un corridoio che sembrava infinito; provai a cambiare direzione, l'effetto fu il medesimo. Urlai, mi afferrai per contenere la pressione di una disperazione che mi stava assalendo e continuai a correre. Finché le gambe non cedettero e inciampai a terra; non sentii dolore, il suolo sembrava inconsistente.
  Trattenni il fiato quando il mio sguardo si posò sugli abiti che indossavo. Riuscii facilmente a distinguerne forme e colori nonostante l'oscurità, come se fossero catarifrangenti. «Cosa sta succedendo…»
  «Sei morto» sibilò una voce alle mie spalle.
  Mi fece sobbalzare e mancare un battito; timoroso che potesse fermarsi, fissai terrorizzato il mio cuore e sospirai solo dopo aver accertato che continuava a battere, all'impazzata. Un altro miracolo accadde subito dopo, quando non si arrestò definitivamente alla vista di quello: un grande serpente dalle scaglie verde smeraldo e perla mi fissava intensamente, le iridi argentate, senza tempo. Era grande quanto un cavallo, disegni tribali argentati ne percorrevano il corpo viscido fino alla bocca, da dove la lingua biforcuta del medesimo colore sbucava sottile e inquietante.
  «Tu cosa diavolo saresti?!»
  «Shanor. Sono qui per valutare e vegliare sulle anime che attraversano questo limbo» si presentò con voce sibilante.
  Sgranai gli occhi, la bocca aperta per lo stupore e le gambe tremanti: quella creatura aveva appena parlato! Dovevo essere impazzito. Il cuore si era fermato e per lo spavento ero impazzito: era la sola spiegazione plausibile.
  «No, non sei pazzo. Il tuo corpo si è spento, la tua anima è giunta a me per essere preparata alla rinascita» mi spiegò con aria paziente.
  Non lo ascoltai, piantai le unghie nelle tempie. «Sta' zitto! Tutto questo non è reale. No, non è reale! Devo smetterla di ascoltarti.»
  Il Grande Serpente emise un sibilo esasperato. «La tua mente non è ancora pronta per trapassare, non hai fede. Il tuo giudizio dovrà essere affrontato attraverso altre forme» aggiunse, mentre la sua voce e la sua figura sbiadivano; e tutto il buio si trasformava in un'immensa distesa bianca.
 
Riaprii gli occhi, scoprendo un cielo plumbeo e pieno di nubi temporalesche. – Dove sono? –
  Non potevo muovere le braccia e le gambe. Solo i miei occhi sembravano liberi di spaziare in lungo e in largo; andai nel panico, tentai di muovermi in ogni modo possibile, eppure il mio corpo non reagiva, come se non ne avessi mai avuto uno. Una sensazione strana e sbagliata mi pervase. Sembravo un fantasma, etereo e vuoto, e quando il ricordo di un corpo solido iniziò a perdere consistenza scoprì di non volerne davvero uno; pareva tutto così strano, alieno, diverso da ciò che avevo sempre vissuto. Ero stordito e confuso.
  Poi la coltre di domande senza risposta iniziò a diradarsi, aiutandomi a mettere a fuoco.
  «Oggi piangiamo un uomo... buono, lavoratore e onesto, a suo modo» la voce alle sue spalle sembrava faticare a trovare parole di elogio, come se non ci credesse davvero.
  Mi trovavo in un campo desolato, pieno di lapidi e verdi prati. Qualcuno stava pronunciando le ultime parole, un estremo saluto a un defunto, ma non capii chi fosse, né perché mi trovassi lì. Smisi di cercare un modo per voltarmi e qualcosa all’improvviso mi girò verso i presenti... Rimasi così sorpreso da sgranare gli occhi. C'erano tutti: i miei genitori, mio fratello, alcuni dei miei soci e fornitori; c’era Esmera e alcuni miei dipendenti. Svetlana, il suo staff; m'incupii nel rivederla, avevo voglia di fargliela pagare per ciò che aveva fatto, per avermi ucciso.
  D'un tratto compresi: quella russa mi aveva fatto uccidere, avevo sentito il suo sicario mandarmi i suoi saluti. E se tutte le persone che conoscevo si trovavano lì... – No, non può essere… –
  «Addio, Symon. Che la pace di Dio sia sempre con te e che tu possa riposare in pace» disse la voce del pastore: una sentenza che calò come una scure sul collo.
  – Sono morto – realizzai.
  – Così è – rispose Shanor, come se fosse al mio fianco.
  «Si può sapere tu chi cazzo sei?!»
  «Qualcuno che vuole farti aprire gli occhi.»
  «Spiegati.»
  «Guarda gli invitati» mi esortò.
  In molti avevano i volti gravi, seri, ma ben pochi stavano piangendo o cercavano di trattenere le lacrime. Infine capii cosa stava cercando di dirmi. «Nessuno piange per me.»
  «Perché dovrebbero?»
  «E adesso, cosa succederà?» Mi consideravo abbastanza intelligente da capire quando la situazione non stava volgendo nel verso giusto.
  «Osserverai le reazioni di ognuno di loro, saranno lo specchio che rifletterà il ricordo che ti sei lasciato alle spalle. Ciò che vedremo ci aiuterà a misurare il peso dei tuoi peccati.»
  Mi alterai non poco. «Peccati? Io non ho commesso alcun…!»
  «Fa' silenzio» m'intimò la creatura, negandomi la voce; per un attimo mi sembrò di soffocare, poi anche quel bisogno divenne effimero e opinabile. «Non puoi ascoltare la voce della verità, se le tue parole sono già pronte a distorcerla.»
 
La semplice cerimonia si concluse rapidamente. Ognuno se ne andò per la sua strada senza degnarmi di un ultimo saluto, neanche per posare un fiore sulla mia tomba.
  L'ultima a congedarsi fu Svetlana, che irriverente osservò la mia foto. «Ci hai provato. Ma non hai compreso fino in fondo con chi avevi a che fare. Sei stato un soggetto divertente, Sym, ma per ogni male c'è una sua soluzione. L'hotel diverrà mio, e tutto ciò che rappresentavi sarà spezzato via.»
  Girò i tacchi e si diresse verso un SUV nero come la notte.
  – Lurida... –
  «Modera le tue parole.»
  Avrei voluto insultare anche lui, ma negandomi la parola aveva mi aveva ridotto al silenzio; e se mi avesse negato anche il pensiero...
  – Ora cosa dobbiamo fare? –
  «Attendere.»
  «Era la tua ultima fiamma, Sym?» mormorò la voce di poco prima.
  Mi sentii strattonare verso la fonte. Rimasi sorpreso nel constatare che il volto ormai vecchio e sciupato di Padre Carmine mi osservava con un triste sorriso.
  – Sono stato seppellito nel mio vecchio quartiere. –
  «Mi ricordo di quando eri un bambino birbante. Eri pestifero ma dolce. Te ne andavi sempre in giro con quella tua amichetta a combinare qualche guaio per le strade del Queens.» L'uomo iniziò a dirigersi verso la vecchia e cadente chiesa del cimitero. «Un tempo avevo una chiesa migliore, caro ragazzo, avevo una casa, una famiglia. Immagino ci sia un motivo dietro ogni disegno di Dio.» Si fermò un istante, frugando le tasche in cerca delle chiavi. «Cosa ti è successo, ragazzo? Come ha fatto quel bambino così energico a finire così, senza amici o familiari che gli volessero bene?»
  – Si è reso conto di essere più furbo degli altri e ha imparato che le persone ti usano sempre, a meno che tu non le tenga al guinzaglio. Così sono funzionano gli affari, niente di personale. –
  L'anziano pastore non poteva sentire i miei pensieri, ma tacque per molto tempo, anche dopo esser entrato in quella casetta decadente. Finché non sistemò la foto, quella poggiata sulla lapide e ora sul suo tavolo ammuffito, dandomi la disgustosa punizione di vederlo sorseggiare il tè. La tazza toccava il foltissimo e grigio sopracciglio, che gli adombrava gli occhi; ogni qual volta tentava di portarsi alle labbra la bevanda.
  «O forse sei sempre stato un ragazzo difficile» asserì all'improvviso. «Mi ricordo un giorno. Solo per sfidarmi avesti l'ardire di saltare dal pioppo del giardino, quello della vecchia chiesa, sostenendo che saresti stato l'unico bambino coraggioso a provarci.»
  – Certo che me lo ricordo – pensai nostalgico.
  «Quanto urlai quel giorno per farti scendere, ma tu volesti saltare lo stesso. E alla fine ti rompesti una gamba.»
  Repressi un sorriso ilare nel ricordare quello spiacevole ricordo della mia infanzia. Era stata una ragazzata.
  «Sono stato cacciato dalla comunità per colpa tua, ho perso i miei fedeli. Mia moglie mi ha lasciato perché sono stato così accecato dalla disperazione da dare troppe cose per scontate, e i miei figli. Sono stato schiacciato dalla vita, tanto da non riuscire più a godere del bene che ancora mi circondava.» Fece una mezza risata. «Ed eccomi qui, solo, a invecchiare in questo cimitero e parlare con la tua fotografia.»
  Rimasi spiazzato da ciò che aveva raccontato, non lo sapevo.
  «Eri giovane e incosciente, non te ne ho mai fatto una colpa. Ma crescendo sei diventato un ragazzo difficile e ambizioso. Nessuno può elevarsi a Dio, ragazzo. L’orgoglio, alla fine, ti si è ritorto contro.» Gli occhi del pastore furono su di me. «Ti ho perdonato già da molti anni, tutte le creature di Dio lo meritano. Tuttavia devo confessarlo: la tua scomparsa non ha lasciato alcun vuoto dentro di me.» Prese la cornice e l'abbassò verso la superficie della tovaglia. «Me ne vergogno, ma so che non mi ricorderò di te, Symon.»
  Quelle furono le ultime parole che sentii prima che il buio mi occludesse la visuale.
  – Cosa vuol dire?! Sei un fottuto pastore, dannazione! –
  «Hai causato sofferenza a quell'uomo, la tua colpa è grave.»
  – Ero un bambino! – protestai.
  Il serpente puntò i suoi occhi, ora brillanti, sui miei. «E come tale hai continuato a vivere, con arroganza» sentenziò, prima che lo scenario cambiasse nuovamente.
 
«Sono a casa» disse una voce inconfondibile.
  Adesso guardavo attraverso le cornici che sapevo trovarsi in un angolo della credenza. Notai mio fratello gemello togliersi l'impermeabile beige e sedersi sul modesto divano del salotto, la mano premuta sul volto come per calmare il mal di testa. La sua chioma castana era più folta e disordinata della mia, il volto scavato nonostante la giovane età. Per il resto, eravamo due gocce d'acqua: stessi occhi celesti, stesso volto dai tratti affilati e un velo di barba incolta. Un fisico alto e slanciato. Un tempo nessuno avrebbe potuto distinguerci, adesso chiunque ci sarebbe riuscito.
  – Ti sei mantenuto davvero male, Aaron. –
  Una figura sbucò dalla stanza adiacente, avanzò velocemente verso di lui e si sedette sul bracciolo della poltrona. L'avevo già vista da qualche parte, anche se non ricordavo dove; quel tarlo iniziò a perseguitarmi, inquieto mi spremetti le meningi.
  La donna lo ghermì in un abbraccio consolatorio. Poggiò il capo sulla sua spalla. «Com’è andata?»
  Aaron fece una smorfia. «Lasciamo perdere. Sono contento che sia finita, potremo lasciarci questa storia alle spalle.»
  Quella castana lo guardò mortificata. «Scusami. Sarei dovuta venire con te.»
  «Dopo quello che ti ha fatto? No, non sentirti in colpa, neanche io volevo andarci» rivelò, spiazzandomi.
  Osservai meglio la giovane donna. I capelli castani, il viso acqua e sapone. D'un tratto realizzai: Jessica Keaton.
  Gli massaggiava lentamente la schiena. «È successo anni fa.»
  «È venuto a letto con te fingendosi me. Eri la mia ragazza, al liceo, dannazione! Per una stupida scommessa ti ha rovinato la vita con quel... video. Quanto hai sofferto per colpa sua? Quante scuole hai dovuto abbandonare? Quante ore hai passato sdraiata sul lettino dello psicologo? Sono riuscito a trovarti appena in tempo, a salvarti da quel tunnel oscuro e senza uscita prima che la facessi finita.» Aaron si mise le mani sul volto per celare le lacrime. «Ha rubato otto anni della nostra vita, non lo perdonerò mai.»
  – Hai dimenticato che siamo stati presi di mira per tutto il primo anno? Frequentavamo un gruppo di perdenti e come tali ci trattavano. Non è colpa mia se ho realizzato che la vita è fatta di squali e prede. Se vuoi sopravvivere devi schiacciare i più deboli e guardarti le spalle dai forti. Buz mi ha sfidato e io mi sono guadagnato il posto che mi spettava sacrificando la tua stupida cotta. –
  «Le hai rovinato la vita» mormorò il serpente.
  – Era una ragazzata – mi difesi.
  «Tu agisci senza pensare alle conseguenze. Miri solo a dimostrare di essere il migliore.»
  – Se non sei il migliore, non sei nessuno. –
  «E guarda dove ti ha portato tutta questa tracotanza: a morire sul ciglio di una strada, per aver osato troppo. Hai voluto raggiungere il sole, Icaro, e ne sei rimasto scottato.»
  – La mia vita me la sono goduta. Il mio genio mi sopravvivrà! –
  «Tu sei solo un parassita. Nessuno si ricorderà di te» sputò il rettile, mostrando per la prima volta segni di ostilità.
  Deglutii. Tornai a concentrarmi su mio fratello, che ora aveva afferrato la cornice tra le mani. «Non ti ho mai perdonato, e mai lo farò. Hai rovinato la vita di Jessica, la donna che amo e che ho sempre amato. Hai arrecato solo dispiaceri a questa famiglia, soprattutto alla mamma. Ci hai accantonato appena raggiunto il successo, come merce avariata. Ti vergognavi di noi, Symon? Ti è mai importato?» Aaron iniziò a camminare avanti e indietro. «Nostra madre ha scattato questa foto durante quella gita in montagna.» Fece un sorriso amaro. «Quel giorno abbiamo gareggiato, me lo ricordo come se fosse ieri. A pochi metri dal traguardo mi hai sgambettato, facendomi sbucciare un ginocchio. Ma ti ho perdonato, ti ho sempre perdonato... Eri mio fratello.» Si fermò. Trasudava disprezzo. «Provo pena per le povere anime che hanno avuto la disgrazia di conoscerti. Dopo quello che hai fatto a Jessica, a me, alla mamma, spero solo che tu possa marcire e bruciare all'inferno» esclamò con odio, prima di gettarmi tra le fiamme del camino.
  Continuai a guardarlo basito, sconcertato, mentre il fuoco divampava e bruciava tutto. – Mi odia. –
   Potrebbe essere altrimenti? Gli hai rovinato la vita.»
  – Per aver fatto un torto a Jessica? –
  Gli occhi del serpente s’illuminarono. In un flash vidi scorci di una vita che non mi apparteneva: osservai mio fratello e un'altra ragazza presi di mira dal mio gruppo, io ero tra i bulli; ascoltai la chiamata nella quale rinunciava al college per prendersi cura di nostra madre, dopo che me n'ero già andato; lo guardai spezzarsi la schiena con i lavori più massacranti e umilianti, piangere per Jessica nelle notti insonni, mentre io iniziavo a fare carriera e attirare su di me le più importanti testate giornalistiche. L'odio riflesso nei suoi occhi assunse un'intensità sempre maggiore. E la colpa era solo mia.
  Rimasi in silenzio, meditabondo.
  Shanor ne approfittò per cambiare nuovamente ambiente.
 
Stavolta ero a casa, nella camera dei miei genitori. Mia madre era sdraiata sul letto, l'espressione assente aveva disteso le rughe sul suo viso. Mio padre era seduto accanto a lei, le lacrime agli occhi.
  – Che succede? –
  «Se avessi chiamato a casa, anche solo una volta, l'avresti saputo. Quando hai deciso di studiare a Cambridge, oltreoceano, tua madre si è chiusa in sé stessa. Vedere il figlio partire, affrontare il mondo da solo... l'ha consumata. È diventata l'ombra di ciò che era un tempo. Non ha parlato con nessuno da quando sei partito, a stento aveva la forza di mangiare. Tuo fratello dovette rinunciare al suo sogno universitario, alle sue aspirazioni, pur di restare a casa e badare a lei. Tuo padre era sempre fuori per lavoro e non aveva i soldi per permettersi di pagare qualcuno che la vegliasse. Aaron si è dovuto sacrificare.»
  – Non potevo studiare in un college mediocre, non sarei stato nessuno… – mi difesi.
  «L'apparenza: per questo hai rinunciato alla tua famiglia? Rovinavano la tua immagine agli occhi degli altri?»
  – Se l'avessi saputo... –
  «Avresti potuto venirne a conoscenza in ogni momento, bastava prendere in mano un telefono. Non l'hai mai fatto, non te n'è mai importato» tagliò corto.
  – Sono i miei genitori – sbottai irritato.
  «I genitori mediocri che un arrogante ragazzino come te non è mai riuscito ad accettare. Hai sempre voluto più di quanto potessero darti, non è così? Non è per questo che hai ricattato Svetlana, non l’hai fatto per saziare la tua avidità? Hai voluto bruciare le tappe, avere tutto e subito. Bramavi ciò che la tua famiglia non poteva offrirti. Hai dovuto sputare sangue per arrivare in alto, mentre chi reputavi mediocre raggiungeva il tuo livello senza fatica. Ti bruciava questo, vero?»
  Non risposi, punto sul vivo: in cuor mio realizzai che era vero, mi ero allontanato dai miei familiari per non vergognarmi di loro e dei miei umili natali.
  Mia madre si era addormentata. Respirava affannosamente in un vecchio letto a baldacchino. Vidi mio padre alzarsi a fatica, passarsi una mano tra i capelli bianchi e brizzolati, e raggiungere la mia cornice; la prese delicatamente tra le mani tremolanti, fissando nostalgico la fotografia al suo interno.
  «Ti ricordi di quando abbiamo costruito questo letto, assieme a tuo fratello? Eravate piccoli e io volevo fare un regalo alla mamma. Ho lavorato tutta la notte, mentre voi mi passavate chiodi e martello. Non vi ho mai visto andare d'accordo come quella notte, né ricordo altri momenti altrettanto belli passati assieme. Per un po' ho sperato che, un giorno, avremmo potuto vivere felici, come una vera famiglia. Ma più crescevate e più i problemi aumentavano, più ci dividevamo. Te ne sei andato. Aaron ha lavorato sodo, ha dovuto gettare al vento i suoi sogni per la famiglia, mentre tu ci hai abbandonato. Un giorno, la tua segretaria venne a bussare alla nostra porta, sai?» Assunsi un'espressione confusa. «Non l'avevo riconosciuta subito. Poi capii si trattasse di lei. Ci chiese di perdonarti, che avresti versato un assegno per mantenere me e tua madre, e dare a tuo fratello l'opportunità di farsi una vita. Sperai che un giorno ti saresti mostrato, che sarebbe stato il preludio a ciò che avevo sempre desiderato.» Una calda lacrima scivolò lungo la sua guancia. «Solo in seguito scoprii che quella santa donna stava rinunciando a una cospicua parte del suo stipendio, quei pochi dollari che le concedevi, per noi; per farci sperare che un giorno ti saresti ravveduto, per non tagliare i ponti.» La sua espressione si fece disperata e severa. «Ho rifiutato i suoi assegni e le ho restituito tutto, fino all'ultimo centesimo. Non ho detto nulla a tuo fratello, non posso rubargli più di quanto abbia già sacrificato. Sono finito sul lastrico, costretto a mantenere una donna che nonostante tutto ti ama alla follia con una pensione e qualche lavoretto.» Mio padre scosse la testa, in lacrime. «Eri mio figlio, il sangue del mio sangue...»
  Pronunciate le sue ultime parole, aprì la finestra e gettò con rabbia il contenuto verso la strada; la cornice si ruppe in mille pezzi, e così il mio cuore...
  «Sembra che tu non abbia causato altro che male» esclamò Shanor.
  – No, non è così. I miei soci, i miei amici... Ho fatto tanto per loro, sicuramente staranno piangendo la mia scomparsa. Portami da loro. –
  «Sia.»
 
Mi ritrovai nell'ufficio al penultimo piano, dove si stava riunendo il Consiglio di Amministrazione; il mio ritratto, quello appeso al muro, mi consentì un'ampia visione della sala. I miei soci e Svetlana erano riuniti a un tavolo rotondo, pieno di carte e bottiglie d'acqua.
  La russa prese parola: «Signori, dobbiamo prendere una decisione sul futuro della compagnia. Sarò chiara: Wall Street non attenderà i nostri comodi e ogni secondo che perdiamo a discutere farà cadere il prezzo delle nostre azioni vertiginosamente. Con la morte di Symon Argent, l'eredità della compagnia andrebbe di diritto ai suoi genitori e a suo fratello... Dei pezzenti che non saprebbero riconoscere un'azione da un titolo di credito.» Una risata generale proruppe nella sala e la bionda sorrise compiaciuta. «Consegnare l'azienda nelle loro mani significherebbe la fine per tutti noi. È per questo che ho intenzione di effettuare una scalata ostile, e assieme al vostro sostegno riuscirò nel mio intento.»
  «Quello sbruffone ci riteneva inferiori a lui e non ha mai voluto sentire la nostra opinione. Io ci sto» sbottò Francis.
  – Cosa?! Sono stato io a risollevare le sorti della tua compagnia, ingrato! –
  «Quando ho presentato la mia ipotesi di trasformare il secondo piano in un supermercato, mi ha sbraitato contro per mesi» aggiunse Lily.
  – È un albergo, non un centro commerciale! –
  Ogni membro del consiglio disse la propria. Persone che credevo amiche, a cui avevo fatto fior di favori, che avevo trattato come fratelli, mi stavano pugnalando al cuore con le loro lingue biforcute: una massa di avvoltoi che stavano lentamente facendo a brandelli la mia carcassa, strappando organi e lembi di pelle, e bevendo il mio sangue.
  «Per questa gente hai abbandonato la famiglia?» chiese Shanor.
  Non risposi, ero ferito e umiliato.
  «Per quel che vale, sono contento che sia morto. Svetlana, noi tutti ti appoggeremo» asserì Jack, il membro del consiglio a cui avevo salvato il matrimonio. «Togliete quel quadro dalla mia vista, non voglio più vedere quell’immonda faccia da schiaffi» aggiunse altezzoso e disgustato, rivolto agli inservienti.
  Prima che mi raggiungessero, il serpente ci riportò in quel luogo buio e desolato.
 
«Hai vissuto tutta la tua vita nell'arroganza, facendo del male al prossimo. E cosa ti è rimasto? Niente.»
  Caddi in ginocchio, tremante. Lacrime di frustrazione sfuggirono al mio controllo. Disperazione e rabbia montavano in me. Non avendo nulla da perdere le cacciai fuori. «Ho affrontato la vita a viso aperto, ho osato e ho vinto. Perché dovrei essere punito per questo? Se i ruoli fossero stati invertiti, gli altri si sarebbero comportati allo stesso modo!»
  «Credi che questa sia una scusa? Sei tu ad avere in mano il tuo destino, nessun altro. Hai sprecato la vita per saziare te stesso.»
  Strinsi i denti. «Me stesso, dici? Cos’hanno fatto gli altri per me? Ho dovuto cavarmela da solo, sempre! Sono stato sempre rallentato da catene e regole!»
  «E per strappartele hai fatto del male, sei diventato come quei parassiti che chiami amici. Non sei diverso da loro, non sei migliore di nessuno. Sei solo un bambino che per superare un ostacolo getta gli altri nel fango. E se fosse capitato a te?»
  «Io non mi sarei fatto mettere i piedi in testa, io sono migliore di tutta quella gente inutile e senza scopo» ribattei.
  «Eppure ti sei fatto uccidere, come uno sciocco. Per dei milioni che avresti potuto guadagnare con un po' di pazienza e accortezza. Apri gli occhi: ti credi superiore, eppure ciò che hai saputo fare in venticinque anni di vita è stato sopravvivere alle spalle degli altri, dei deboli e dei lavoratori.»
  Feci un sorriso irriverente. Risi. «Sono bravo in quello che faccio. Se quei caproni credono che dalla mia bocca esca oro colato non è certo colpa mia.»
  «Un lupo… E tutto quello che possedevi ti è stato portato via da delle capre. Sei stato appena gettato nel fango, altri stanno superando l'ostacolo servendosi di te; proprio quegli uomini che reputavi inferiori.»
  Vacillai di fronte al peso della verità. Tuttavia non mi diedi per vinto. «Certo, solo perché ora sono morto.»
  «Irrilevante.»
Strinsi gli occhi, irritato dalla sua risposta. Non volevo dargliela vinta, eppure, e per la prima volta nella mia vita, non riuscii a trovare una strada altrettanto convincente; ciò che avevo visto, la verità dietro le sue parole... Il mio retaggio sarebbe stato pressoché inesistente, la mia notorietà effimera e malleabile come cera sul fuoco.
  «Cosa succederà, adesso?» chiesi con un filo di voce.
  Il serpente fece scattare la lingua un paio di volte, come se fosse incerto sul da farsi. «Hai causato solo sofferenza e odio nella tua misera esistenza, ma il tuo giudizio è incompleto» sentenziò, lasciandomi basito.
  Chi altri dovevo incontrare?

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Riapparvi in una stanza da letto. Non era lussuosa, ma sembrava confortevole nella sua semplicità. Mura  giallo canarino rilucevano sotto la luce soffusa di una lampada sul comodino, un vecchio parquet in legno, dello stesso colore chiaro del mobilio, dava una sfumatura rustica alla camera, e un comodo letto matrimoniale, -coperto da un lenzuolo grigio-chiaro e svariati cuscini.
  Non riconoscevo quella stanza, né riuscii a capacitarmi di come una mia foto fosse finita lì; ero confuso e volevo chiedere delucidazioni, ma il serpente sembrava svanito. Ero solo, in casa di uno sconosciuto.
  D'un tratto la porta si aprì ed entrò una figura che riconobbi immediatamente. Era Esmera. Stanca, afflitta, ingobbita, infilata in un vecchio golfino di lana. La guardai togliersi le pantofole e poggiarsi esausta sul materasso. Non ci mise molto a scoppiare in un pianto a dirotto, lasciando calde lacrime libere di solcare il suo volto. Si rannicchiò in posizioni fetale. La osservai stringersi tra le braccia e sfogare il suo silenzioso dolore. Avrei tanto voluto che Shanor mi mandasse altrove, eppure nessuno apparve per portarmi indietro. Possibile che volesse farmi vedere questo?
  Dovetti sorbirmi i suoi piagnistei fino all'esasperazione, finché la sua sofferenza non trovò pace e il mio supplizio con essa. Quando si rialzò, gli occhi e le gote arrossati avevano conferito colore alla grigia sobrietà che era solita ostentare, lasciandomi sorpreso. L'avevo sempre considerata una giovane zitella, nonostante avessimo la stessa età; e forse quello era il motivo per cui l'avevo assunta, per non avere piacevoli distrazioni durante il lavoro.
  Vestiva sempre con vecchi abiti fuori moda e smisuratamente grandi, occhiali così spessi e tondi da celare gran parte del viso, e un'espressione spaesata. Fu per me un’enorme sorpresa osservarla svestirsi. Si tolse gli abiti, restando in biancheria intima, e sciolse il chignon lasciando che i capelli le ricadessero sul viso. Infine, tolse quegli squallidi occhiali. Rimasi folgorato. Era bellissima: il viso acqua e sapone aveva tratti delicati, una folta chioma rosso fuoco che le ricadeva a onde fino alla schiena, un fisico snello che ben poco aveva da invidiare a una modella.
  Possibile che non me ne fossi mai accorto? La conoscevo da tre anni; e anche se non l'ho mai dato a vedere avevo sempre apprezzato il suo lavoro. No, ripensandoci non le avevo mai prestato molta attenzione, mai reputata degna del mio tempo. Se l'avessi saputo, avrei dovuto allontanarla e perdere uno dei pochi, validi aiutanti di cui disponevo; il solo pensiero mi fece rodere il fegato.
  I suoi occhi grigi sembravano assenti, vuoti, le tracce di pianto ben visibili sul viso. Iniziai a sospettare che Shanor mi avesse mandato qui per un motivo non appena la sorpresi a stringere il ciondolo a forma di serpente. Studiai attentamente quell’espressione vuota, distrutta; dentro di me risaliva il presagio che anche lei avrebbe distrutto la foto che mi ritraeva, e con essa ogni traccia del mio passaggio nel mondo.
  Rimase meditabonda, per un po’, prima di avvicinarsi e afferrare la cornice. Osservò con occhi lucidi la misteriosa fotografia; una che probabilmente mi ritraeva in qualche foto con i dipendenti, forse una di quelle cene pietose che avevo sempre odiato. Ma perché tenersela? Perché doversi sorbire il volto del proprio capo fuori dal posto lavoro? Mentre iniziavo a temere che la donna celasse un lato oscuro e perverso, la mia foto venne deposta sulle lenzuola. Lei si rannicchiò nelle coperte in posizione fetale e mi osservava con espressione nostalgica.
  «Ricordo questa foto, Sym» esordì all'improvviso, la voce distorta dal pianto. «Eravamo due ragazzini. Non potevamo avere più di sette od otto anni.»
  – Ma cosa...? – Io non avevo mai conosciuto Esmera al di fuori del lavoro, come potevamo essere stati ritratti assieme da bambini?
  «Pochi giorni dopo sei saltato dal pioppo di Padre Carmine.» Sorrise impercettibilmente; ma abbastanza da rendere la stanza più calda e luminosa. «Ti rompesti la gamba, e nonostante questo il giorno dopo ti presentasti a scuola. Sorridente e ingessato, come se una cosa da niente.»
  Il suo timido sorriso si spense improvvisamente; realizzai di volerlo vedere ancora una volta, prima di spirare, solo una. E scossi la testa. Cosa mi stava succedendo? Cosa mi legava a lei, perché non ricordavo nulla?
  «Mettevi coraggio e passione in tutto ciò che facevi. Non ti ho visto vacillare di fronte a un ostacolo: eri sempre pronto a superarlo, sfidando te stesso e i tuoi limiti. Ho sempre ammirato la tua sicurezza, la tua forza. Ho desiderato essere come te, e quando ho capito di non esserne in grado ho voluto semplicemente starti vicino, il più possibile, per provare anche un solo istante l'ebbrezza dei tuoi successi.»
  – È quello che vorrebbero tutti. –
  Esmera passò un dito sulla cornice, come se volesse carezzare la figura del fanciullo che ero. «Solo crescendo ho realizzato che ai tuoi occhi non ero nessuno, solo una sconosciuta. Una delle tante ragazze che ti ronzavano attorno. Forse non ricordavi nemmeno il mio nome.» Scosse leggermente il capo, le labbra serrate. «Ho accettato di vivere alla tua ombra, nell'anonimato, tanto mi bastava...» La sua voce vacillò. «Ma quando ho scoperto cosa avevi fatto a tuo fratello, cos’è successo a Padre Carmine, qualcosa in me si è spezzato.»
  – Sono diventato più consapevole del mio ruolo nel mondo. –
  «Eri cambiato. Di quel bambino solare e sorridente non era rimasto nulla. I tuoi occhi, il tuo modo di comportarti... tutto di te era diventato più freddo, come se un abisso ti avesse inghiottito, lasciando solo un guscio senza vita.» Si toccò il cuore, un mare di lacrime ora sfociava dai suoi occhi. «Hai fatto cose orribili, sei diventato meschino. E più il male dentro di tè cresceva, più io soffrivo, mi struggevo, mi disperavo.»
  – Ma cosa vuoi da me, si può sapere?! Come ti permetti di giudicare quello che faccio? Io non ti devo niente, io..!. –
  «Ho cercato di allontanarmi, di dimenticarti» esclamò Esmera, tremante. «Ma più cercavo di guardare avanti, più la tua mancanza mi faceva mancare l'aria. Alla fine, ho capito.» Sorrise, nonostante tutto, in modo genuino, nonostante. «Io ti amo, Sym. Ti ho sempre amato, ti amerò per sempre» confessò, ridendo amaramente. «Un amore che mi avrebbe consumata, che mi avrebbe distrutta, che un giorno, lo so, mi avrebbe trascinata verso la follia.»
  – Perché? – Fu l'unica cosa che riuscì a chiedere. Come poteva amare un uomo che l'aveva sempre schernita? Desiderava me e non le mie ricchezze? Possibile che mi amasse al punto da ingoiare il suo orgoglio e vivere nella mia ombra?
  «Quando l'ho capito, quando l'ho accettato, sono riuscita finalmente a trovare la pace. E allora ho tentato in ogni modo di riportare a galla quella luce che avevi perduto. Non smarrito: nei tuoi gesti, nei tuoi modi, inconsciamente qualcosa di quel bambino che ho tanto amato c'era ancora, sepolta in profondità, ma non estinta.» Si mise a sedere, afferrando saldamente la cornice. «Ho pregato la nostra comunità di riammettere Padre Carmine, ho fatto in modo che tuo fratello ritrovasse la sua amata, nella speranza che la sua ira si appianasse e poteste tornare ad essere legati come un tempo; sì, come quella volta che avevate montato il letto di vostra madre. Quant’eri raggiante, quel giorno! Ti alzasti sulla sedia, felice come non ti avevo mai visto, e saltellasti per interi minuti.» La rossa posò una mano sulla foto, quasi avesse timore di continuare. «Per mesi ho donato il mio stipendio ai tuoi genitori, a nome tuo, sperando che tentaste di riconciliarvi.»
  – Sei stata tu. – Se avessi avuto una bocca, sarebbe stata spalancata per lo stupore.
  «Si rivelò impossibile... Allora tentai di ripianare quantomeno i malumori degli altri dipendenti, far vedere loro ciò che io vedevo in te.» I suoi occhi grigi furono su di me, sembrarono sondarmi l'anima. «Io so chi sei: un uomo gentile, solare.» Sorrise a trentadue denti. «Brillante, e onesto.» Tirò su con il naso. «Lo eri...»
  L'atmosfera della stanza divenne cupa, fredda. Un silenzio agghiacciante prese il posto del calore.
  Avevo compreso. – Esmera... non farlo. –
  «Dicono che è stato un infarto, lo stress.»
  – Esmera... –
  «Ma io so che non è così. Ho sentito la tua telefonata, so cos’hai chiesto e so cosa c'è qui dentro.» Prese la pennetta dal cassetto del comò, rigirandosela tra le mani.
  – No, non farlo... –
  «Non può essere una coincidenza, non è una coincidenza. È stata lei, quella russa, Svetlana.» Esmera si alzò di scatto, passeggiò avanti e indietro.
  – Smettila! Non indagare oltre, non farlo! –
  «Ti ha ucciso perché mantenessi la bocca chiusa, per evitare che ciò che hai scoperto non venisse alla luce... Non sa che ho una copia.»
  – No! –
  Esmera prese la mia foto, la osservò per un'ultima volta, intensamente, lo sguardo carico di tutto il rammarico. «Addio, amore mio. Qualunque cosa accada, spero che nella prossima vita il destino ci faccia incontrare; e magari farmi innamorare ancora una volta di quel ragazzino che si lanciava dagli alberi.» Toccò la foto un'ultima volta, prima di sparire dalla visuale.
  – No!!! – gridai, mentre il paesaggio tornava ad essere una distesa buia e desolata.
 
Mi sentii strattonare da una forza irresistibile. Cozzai contro una parete, l’impatto mi tolse il fiato.
  «Hai capito adesso che cos’hai fatto!?» urlò una voce che riconobbi immediatamente: quella di Shanor.
  Aprii gli occhi, rimisi a fuoco. Ciò che vidi mi lasciò di stucco. Davanti a me non c'era più un serpente ma un uomo dai tratti orientali e la chioma verde brillante, gli occhi eterocromi, smeraldo e argento, la carnagione perlacea e il petto nudo solcato da tatuaggi tribali verde fosforescente. La sorpresa di vederlo in fattezze umane fu soppiantata da qualcosa di ancor più inaspettato: era in lacrime, quell'essere soprannaturale chiamato a giudicare la mia vita nella morte era in lacrime, gli occhi che emanavano lampi di un furore inaspettato rispetto alla pacatezza che fino a quel momento mi aveva dimostrato.
  «La pennetta. Svetlana starà sicuramente controllando le Centrali di Polizia, ogni distretto. Se lei provasse a varcare la soglia di una qualsiasi...»
  Shanor mi sbatté contro un muro invisibile con più forza. «E di chi pensi sia la colpa, razza di scellerato?!»
  «Mia?! Non è certo colpa mia se...!!»
  Il serpente mi afferrò per la nuca e mi costrinse a guardare in alto: nel nulla più assoluto iniziarono a formarsi numerose finestre. Proiettavano la vita di una bambina, di una ragazza, di una donna... di Esmera. Ogni ricordo, ogni attimo passato, presente e futuro era proiettato in quelle tenebre senza fine, persino il momento in cui lei stava per varcare l'ingresso della centrale.
  «È tutta colpa tua! Lei morirà per colpa tua!!»
  La sua disperazione mi mandò nel panico. Un brivido di paura mi scosse da capo a piedi. «Non è colpa mia se si farà uccidere. Il dolore che sta provando... Io non c'entro nulla!»
  Shanor mi diede un pugno in pieno viso, lacrime scintillanti strabordavano dal suo, rigido, contratto. «Non l'hai ancora capito, razza di viscido infame?»
  «Capire che cosa?» ansimai.
  «Non sono qui per te, ma per lei» vociò stridulo, indicando l'esatto momento in cui un finto detenuto le puntava una pistola alla testa.
  «Lei?» domandai basito.
  Shanor cercò di colpirmi, ma il rumore dello sembrò averlo svuotato delle forze. Si allontanò barcollando, premendo le mani sul volto. «Quel ciondolo, quello che porta al collo, appartiene alla sua famiglia da generazioni. È un oggetto sacro. Dal giorno della loro partenza da Shé chéng i suoi avi l’hanno sempre indossato affinché vegliassi su di loro.» Rapito ascoltai la sua storia, non osando muovere un muscolo per paura delle conseguenze. «Per secoli ho protetto la sua famiglia, salvaguardato la loro rinascita in un nuovo mondo. E quando nacque lei...» Un sorriso spontaneo gli si formò in viso. «Era bella, vivace, si è sempre sacrificata per il prossimo, era sempre pronta a fare del bene. A regalare un sorriso, ad affrontare la vita armandosi di speranza. Era come una piccola fiammella, pronta a infondere calore ma delicata come un fiore... E poi sei arrivato tu.» Mi fissò con odio, le mani tremanti per lo sforzo di non serrarsi attorno al mio collo. «L'hai spenta, senza curarti minimamente di ciò che le facevi. E come potrebbe essere altrimenti? Tu vivi per schiacciare gli altri, sei una locusta che tutto consuma finché non resta che desolazione. E poi cambia habitat, non appena le risorse scarseggiano. La tua arroganza, la tua presunzione, hanno rovinato le vite di chiunque abbia avuto la disgrazia di conoscerti. Hai così poco rispetto della vita da sfociare nell’osceno. Trascini chiunque provi per te all’autodistruzione.»
  «Chiunque?»
  «Tuo fratello, la sua fidanzata, i tuoi genitori... pensi che Svetlana si fermerà solo a Esmeralda? No, toccherà anche a loro, a Padre Carmine. I tuoi dipendenti a poco a poco spariranno, come chiunque lei tema possa essere in possesso di quelle dannate informazioni!!»
  Non so dove trovai il coraggio di riprender parola. «Cosa accadrà, adesso?»
  Le immagini iniziarono a scorrere secondo una sequenza precisa: la nascita, la vita e la morte di Esmera. Shanor si prostrò ai miei piedi.
  «Salvala» m’implorò in lacrime.
  «Cosa…?»
  «Salvala, ti prego. Non lasciare che muoia per causa tua!»
  «Ma cosa posso fare?! Sono morto, se non lo vedi!»
  Egli alzò il viso colmo di disperazione verso il mio. «Rinuncia al tuo potere di attrarla e lei rinuncerà alla sua volontà di seguirti.» Mi afferrò le gambe, quasi le stritolò nella sua stretta poderosa. «Se c'è davvero un briciolo di umanità in te, se c'è davvero del buono, come lei ha sempre proclamato, allora usalo per salvarla. Ti supplico: sii per una volta qualcosa di più che l’arrogante e insensibile mostro che tutti vedono! Salvala!!» mi scosse con veemenza.
  «Tu la ami» realizzai scioccato.
  Shanor si asciugò le lacrime con il braccio. «Come potrei non farlo?» Sorrise genuino. «È la donna più bella e gentile del mondo, e ho giurato di proteggerla dal primo giorno in cui ho posato gli occhi su di lei.» Si rialzò lentamente, fissandomi dall'alto in basso. «Lei è l'incarnazione stessa della speranza, così effimera e potente. Lasciarla nelle tue mani è qualcosa che ripugna ogni fibra del mio essere, ma devo farlo.» Materializzò dal nulla un coltello e aprì un taglio sul palmo della mia mano, dopo averla afferrata bruscamente; il sangue che iniziò a sgorgare. «La mia amata ha sempre avuto fiducia in te. Ne avrò anch'io, non posso fare altro.»
  «Cosa stai facendo?» domandai confuso, tenendomi la mano ferita.
  «Salvala.»
 
Sbattei gli occhi, fissando sconcertato il tramonto che mi si parava di fronte. Confuso scattai all'indietro. Attorno a me non c'era nulla, né Shanor o chiunque altro. Solo un sole calante, un silenzio disturbato dal dolce sospirare del vento e una ferita ancora aperta sul palmo.
  – Salvala. –
  Il monito di Shanor echeggiò nella mia mente, mentre mi dirigevo verso il piano a me riservato, brancolando nell'incertezza di cosa fosse accaduto…

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Le porte dell'ascensore si aprirono lentamente ed entrai nell'attico: mio personale ufficio e zona di ristoro.
  Subito un rumore di tacchi attirò la mia attenzione. «Buonasera, signor Argent.» mi salutò Esmera. La segretaria mi affiancò goffamente, affrettando il passo per stare dietro alla mia andatura sicura e veloce.
  Una sensazione di deja vù mi fece fermare bruscamente.
  «Signore, qualcosa non va?» mi chiese, alzando un sopracciglio.
  Scossi la testa brevemente. «Non è niente, va' avanti.»
  «Oh, c-certo! Alle due dovrà tagliare il nastro per l'inaugurazione della nuova sala da ballo e...» Sfogliò le note più e più volte. «Ah, sì! C'è la cena di mezzanotte con tutto lo staff.»
  Mi fermai dinanzi alla porta del mio studio. «Cena con lo staff, hai detto?»
  Esmera si strinse nelle spalle. «Ecco... Ho pensato che cenare con i vostri dipendenti avrebbe potuto...»
  – Ho tentato di pianare i malumori degli altri dipendenti, di far vedere loro ciò che io vedo in te. – Bastò il ricordo delle sue parole per farmi capire che era tutto vero: quella conversazione… era già avvenuta. Quella mattina sarei morto.
  A meno che... «Perché ti preoccupi della mia popolarità con i dipendenti?» domandai a bruciapelo, spiazzandola.
  Esmera si strinse la tabella al petto, le gote così rosse da sembrare che avesse preso fuoco. «E-Ecco, c-ci tengo c-che gli a-altri abb-biano una... buona impressione di lei!»
  «E tu che impressione ha di me?» incalzai.
  «O-Ovviamente è-è p-p-positiva, signor... Sto parlando troppo?! S-sì, forse la sto importunando più del d-dovuto.» Fece una risatina nervosa, indicando tremante la sua scrivania. «F-Forse è meglio che torni di là… e-ed è meglio che la faccia finita. Sto dicendo troppi forse?» Annuì da sola, il volto sudato. «Sì, decisamente sì! Quindi, ecco.... Forse?» E scappò come un fulmine, per quanto i tacchi le avrebbero permesso senza inciampare.
  Scossi, prima di aggiungere: «Domani, a pranzo, con tutti i dipendenti. Venga anche lei… Esmeralda.»
  La diretta interessata boccheggiò e per poco non si slogò una caviglia nel girarsi frettolosamente. Alzò l'indice, assumendo un'espressione sorpresa e al tempo stesso spaventata. «Lei c-crede... Beh, è ovvio, anch'io sono un dipendente! Che sbadata! Ma perché parlo ancora?»
 
«Svetlana» mormorai fingendo sorpresa, felice come una balena naufragata su una spiaggia di trovarla nel mio ufficio non appena volsi lo sguardo verso l'interno.
  Seduta elegantemente sul divano dello studio, le gambe accavallate, la mia socia mi fissava con il suo solito sorriso malizioso e birichino. «Sorpresa!» esclamò con accento russo e un bagliore di divertimento negli occhi chiari.
  – Ora ti aggiusto io. – «Magnifica come sempre.» Le presi gentilmente una mano tra le mie e la baciai, le sfuggì un risolino compiaciuto che tentò di celare posando l'altra sulle labbra.
  Si alzò con una fluidità invidiabile e posò le mani sul mio viso. «Ti stavo aspettando» sussurrò, prima che le nostre bocche si unissero in una sola.
  Risposi prontamente, le mie mani corsero su fianchi sinuosi e sodi, e continuai a baciarla, spingendola sul bordo della scrivania. Poi le morsi a sangue il labbro inferiore, fingendomi preda di una passione irrequieta; lei gemette di dolore, allontanandomi d’impulso per posare le dita sul labbro insanguinato; le esaminò con un’espressione disgustata, che subito celò dietro un falso sorriso.
  «Oh, mi spiace. Sai come reagisco quando ricevo una così calda accoglienza…» commentai, simulando uno sguardo passionale.
  Lei sorrise a trentadue denti, scena raccapricciante con quel labbro insanguinato, piegando leggermente la testa. «Ho pensato che ti sentissi così solo... Volevo farti compagnia.»
  La parte della verginella non ti si addice per niente.» E le lisciai i fianchi. – Già, la tua anima è così peccaminosa da inorridire il Diavolo in persona. –
  «Dici? A voi molti uomini piace.»
  «Io non sono come gli altri uomini.» – E non sono così stupido da ricadere due volte nello stesso errore. –
  «Arie.» Spostò la mano sul cavallo dei pantaloni e strinse lievemente. «Tutti gli uomini ragionano con questo.»
  – In questo momento troverei più sexy un barbone in gonnella. –
  Come se avesse letto i miei pensieri, mi lanciò un'occhiata languida e irriverente. «Prima il dovere, Symon, poi il piacere» annunciò, pensando di tenermi sulle spine.
  «Quindi non è una visita di piacere.»
  «Ma lo è! L'unica cosa che preferisci di più al sesso è il suono della tua voce» commentò, facendomi sghignazzare.
  – O le tue grida, quando ti accorgerai di quello che farò – pensai malizioso. «Sai sempre come prendermi.»
  Mi avviai all'armadietto a muro e afferrai un bicchiere e una bottiglia di Bourbon; bevvi avidamente dopo averlo riempito fino a metà, assaporando quel fuoco liquido che lentamente scendeva sino al mio stomaco e mi scaldò le vene, gelide per la pressione che sentivo addosso.
  Poi mi girai. «Dunque?» iniziai, togliendomi la giacca nera e poggiandola sullo schienale della mia sedia.
  «La catena di alberghi che rappresento vorrebbe rilevare la tua attività. Vogliamo entrare nel mercato americano. Questo è uno degli alberghi più popolari e costosi della città, i suoi introiti sono di gran lunga maggiori, nell'insieme, del nostro migliore articolo a Dubai.»
  «Quindi, da socio, vorresti diventare il mio capo?»
  «No, vorremo che tu diventassi un Socio Anziano della nostra catena.» Mi prese le mani tra le sue, carezzandone il dorso con i pollici. «Diverresti uno degli uomini più ricchi del mondo. Avresti ville, palazzi, alberghi in tutto il globo, e... Potremo vederci più spesso» concluse languida. «Da socia di poco conto, come sono ora, i nostri incontri sono così rari…»
  – Già, è un vero peccato – pensai acido, sorridendo a labbra chiuse.
  «Mi offri soldi, io ne possiedo in abbondanza. Mi alletti con il potere, eppure dovrei essere al servizio di chiunque sia il padrone delle catapecchie che chiamate alberghi, come un qualsiasi sgherro. E vuoi corrompermi con il tuo corpo stupendo e quell'abito peccaminoso.» Sorrisi affabile. «Accetto.»
  La russa mi osservò stranita. "Davvero? Sembravi sul punto di rifiutare» disse, cercando di mantenere un tono entusiasta.
  Mi alzai, aggirando la scrivania. Mi poggiai sul bordo di essa prima di prenderle la mano e baciarla. «È arrivato il momento di essere ambiziosi.» Posai l'indice sul bottone del telefono fisso.
  «Sì, signor Argent?» rispose Esmera.
  «Ci prepariamo a fare una fusione. Inizia a chiamare chi di dovere» ordinai, chiudendo la linea. «Domani ci sarà una riunione con il personale e tutti i dirigenti, e soci. Vorrei che partecipaste anche voi della Gato» asserii pacato.
  La bionda annuì, afferrando al volo la sua pochette. «Accetto con gioia!» disse, prima di alzarsi e schioccarmi un bacio sulle labbra.
  L'accompagnai alla porta. La richiusi alle mie spalle appena l'ebbe varcata, fingendomi impegnato.  Feci in tempo a sedermi che fu riaperta con forza, all’entrata di un uragano rosso. «Una fusione!» sbottò Esmera, prima di accorgersi del suo tono e tapparsi la bocca terrorizzata.
  «Sei contraria alla fusione?» Lei annuì. «Bene, perché non ci sarà nessuna fusione affatto una.» Feci segno di chiudere la porta. Basita, si mosse in automatico per compiere quanto chiesto.
  «Cos’ha tra la mani?» le chiesi, anticipandola.
  Lei dapprima mi fissò intontita, poi buttò un occhio alle carte che stringeva tra le mani. «Ah!. S-Sì, certo! Proprietà, bonifici, conti. Tutto ciò che Svetlana ha dovuto dichiarare per diventare nostra socia, più alcune ricerche personali sulla Gato Hotel Group.»
  La osservai di sbieco. «Non te li ho chiesti.»
  «Sapevo che li avrebbe voluti da quando ho visto Svetlana varcare la soglia. Prima o poi sarebbe successo, no? Per questo che l'ha fatta controllare.»
  Feci un mezzo sorriso. «Davvero previdente. Buon lavoro» lodai, facendole sgranare gli occhi.
  «Signor… È sicuro di stare bene?»
  Mi alzai dalla sedia. «Come se fossi appena tornato dal mondo dei morti» affermai compiaciuto. Annullai velocemente le distanze e mi azzardai a toglierle la montatura spessa, mentre mi fissava senza parole. «Invia questi allegati all’indirizzo che ti fornirò e cambiati, perché verrai con me.»
  Non avrei accetto un no come risposta.
 
«Symon, è un piacere rivederti dopo tanto tempo. M-Ma non potevi attendere domattina per venirmi a trovare assieme a… Ma tu non sei Esmeralda?» chiese Padre Carmine, in vestaglia. Aveva i capelli disordinati.
  La donna sorrise divertita. «È un piacere rivederla, Padre Carmine.» Vedendolo assonnato, si alzò dalla sedia e si offrì di preparare il tè che aveva cominciato a mettere sul fuoco; il pastore fu praticamente costretto a sedersi al mio fianco.
  «È diventata una donna bellissima. È gentile com’era da bambina» commentò il vecchio, mentre entrambi la osservavamo destreggiarsi con l’acqua e il pentolino.
  «Così pare» mormorai, perso nei miei pensieri. La osservai come se fosse la prima volta; non l’avevo mai vista così a suo agio, mai quel sorriso genuino sul suo volto. Genuino: un termine che da tempo era sparito dal mio vocabolario.
  «Da quanto state insieme?» s’intromise il pastore.
  Mi massaggiai distrattamente il dorso delle mani con i pollici. «Non stiamo insieme, lei è la mia segretaria.»
  «Sicuro sia solo questo, ragazzo?» indagò il vecchio.
  «Sono venuto qui per lei, padre, in realtà» tagliai corto. «So che il mio comportamento è stato…»
  «Va tutto bene» mi anticipò, mettendo in mostra quei pochi denti rimastigli in una parodia di sorriso. «Eri un bambino. Monello, certo, ma innocente. Ho provato del rancore per te. Nonostante tutto ho vegliato sulla comunità e sono venuto a conoscenza delle tue azioni. Ho provato rabbia venendo a sapere che da quell’incidente non hai imparato la lezione. Le mie disgrazie non hanno portato a nulla di buono, ma Dio ci ha istruito al perdono per un motivo e vederti qui, stanotte, è il regalo più bello che il nostro Signore avrebbe potuto concedermi. Una speranza che ho covato per tanto tempo, e non solo io» concluse, con fare ammonitorio
  «Capisco» annuii, ricevendo una pacca sulla spalla. «Voglio ripagarvi.»
  Padre Carmine mi interruppe con un brusco gesto della mano. «Ciò che mi è successo da quel giorno è colpa mia, non tua, ragazzo. Non addossarti colpe che non hai. Tuttavia, se ti senti in dovere di ripagarmi, sai cosa fare.»
  Non disse altro, non ce n’era bisogno. In silenzio aspettammo che Esmera ci servisse tra tazze fumanti. Bevemmo e chiacchierammo, rimembrando i vecchi tempi.
 
«È stato un bel gesto da parte sua» disse la mia segretaria. «Tua.»
  «Non l’ho fatto per lui» risposi semplicemente, prima di bussare alla porta di mio fratello.
  Dopo alcuni istanti, la porta si aprì di scatto e incrociai gli occhi del mio gemello. Potei leggervi tutto l’odio, l’ira, le emozioni represse in tanti anni di vita… prima che mi sbattesse la porta in faccia.
  Bussai più volte. «Aaron, dobbiamo parlare» affermai risoluto, ma dalla porta non provenne altro che silenzio. «Aaron» ritentai, bussando più volte.
  «Chi è?» domandò una voce femminile dall’altra parte.
  «Nessuno. Hanno sbagliato casa» sentii rispondere, e fermai l’ennesimo pugno prima che battesse sul legno.
  «Ma… stava bussando insistentemente.»
  «Jessica, fidati: è solo un debosciato che credeva di abitare qui.»
  Anche Esmera sentì la conversazione e avanzò impettita verso la porta. La fermai: qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata inutile.
 
Erano le sette del mattino quando mi presentai davanti alla porta della casa in cui ero nato e cresciuto. Come da consuetudine, mio padre era uscito in vestaglia a prendere il giornale; mai si sarebbe aspettato di vedermi con quest’ultimo sotto il braccio davanti al giardino. Ci fissammo intensamente nei rispettivi occhi celesti, mentre Esmera manteneva un silenzio solenne, piena d’imbarazzo.
  «È stato lungo il viaggio di ritorno da Cambridge» sottolineò, riordinandosi la chioma bianca e brizzolata.
  «Una vita» concessi in un sospiro.
  «Entra a salutare tua madre» ribatté ostile, rincasando.
  Non mi ero aspettato una calda accoglienza, dopo ciò che avevo visto con Shanor. Mi attardai solo per afferrare il braccio di Esmera e sussurrarle: «Potresti fargli compagnia? Il tempo di salutarla.»
  Lei annuì immediatamente. «Va’. Lo tengo a bada io» bisbigliò di rimando, trovando il coraggio di rivolgermi un mezzo sorriso; ricambia con uno più tenue.
 
«Mamma? Sono io. Sono Symon.» Forzai un sorriso nell’osservare lo stato quasi catatonico della donna che più di tutti avevo ferito; portai una mano al volto, nel tentativo di ricacciare indietro una lacrima.
  Le afferrai il volto, ma l’esito non cambiò: mia madre non si sarebbe mai ripresa del tutto, e la colpa era solo mia. Mia soltanto: l’avevo tradita, punita con la mia indifferenza e l’orrendo crimine di non essere mai stata ambiziosa come me. Un atto riprovevole di cui mi resi conto solo quando il destino decise di ripetere ciò che avevo conquistato. Avevo sacrificato i miei umili natali. «Mi dispiace, per quel che vale» mormorai sconfitto.
  La verità era che fino a poche ore prima non sarei mai tornato sui miei passi, e nulla avrebbero potuto ripianare ciò che era stato distrutto. E non me ne sarebbe importato.
  Fino ad oggi.
  «Si raccoglie ciò che si semina.» La voce di mio padre mi raggiunse dall’uscio. Quando alzai gli occhi, lo scoprii fissarmi a braccia conserte.
  «Volevo solo stare un po’ di tempo con lei.»
  «L’hai fatto. Ora puoi anche tornartene al tuo maledetto albergo.» Dopo aver pronunciato quelle parole, sparì nel corridoio. I suoi passi pesanti pian piano si allontanarono.
 
Quando controllai il cellulare, scoprii che il tempo era agli sgoccioli. «Devo andare» mormorai, rimettendo in tasca l’apparecchio e sporgendomi verso il suo volto; le baciai la fronte.
  Mi alzai e abbandonai la stanza.
  «Bentornato…»
  Mi girai di scatto appena sentì quel flebile suono provenire dalla camera, ma come tornai a osservarla la ritrovai silenziosa. «Forse me lo sono immaginato» mormorai, chiudendomi la porta alle spalle.
 
Sceso, trovai i due in salotto. «Lei non tornerà mai più quella di un tempo» sentenziò mio padre.
  Concordavo. «È colpa mia.»
  «Lo è. Non c’è nulla che tu possa fare per rimediare. Le scuse…» Guardò verso Esmera. «Né i soldi.»
  Annuii. «Non cerco il tuo perdono. Ma concedimi di tornare a trovarla.»
  Egli non dissi nulla, per un po’. «Hai parlato con tuo fratello?»
  «Non vuole più avere a che fare con me.»
  Il più anziano annuì, poi la stanza ripiombò nel silenzio. Feci per andarmene, sapendo che restare lì impalato non avrebbe risolto nulla. «Non far passare altri otto anni, prima di farti vivo” asserì mio padre, mentre mi avviavo verso l’uscita.
  «Per ricostruire qualcosa, come ai vecchi tempi?»
  L’altro grugnì. «Vedremo.»
  Presi la mia accompagnatrice sottobraccio.
  «Tutto bene?» chiese Esmera sulla soglia della porta principale.
  «Sì, per ora. Adesso c’è un’ultima cosa da fare.» Mi voltai verso di lei. «Hai fatto ciò che ti ho chiesto?»
  La rossa annuì seria.
 
Seduti entrambi sui tavolini esterni del bar vicino al molo, osservammo le forze dell’ordine far sfilare in manette tutti i membri del consiglio mafioso della Gato, inclusa Svetlana; lo sguardo carico d’odio che lanciò nella mia direzione valse tutte le fatiche operate per incastrarla.
  «Ottimo lavoro» lodai.
  Esmera era stata strategicamente posta al di fuori della visuale degli sfilanti, dietro il telone bianco del gazebo. Lei arrossì fino alle punte dei piedi. «Ho solo indagato sugli sporchi segreti di Svetlana. Mai avrei pensato di visionare le riprese delle telecamere per incastrarla, né gli strani movimenti con i Signori della Droga locali che attuava mediante, e sotto la protezione, dei suoi amici Francis, Jack e Lily.»
  «Su, non essere modesta: li abbiamo incastrati per merito tuo.»
  «Perché me l’hai detto… tu» mi corresse.
  «Beh, ho avuto un po’ di tempo libero per cambiare prospettiva…» Sorseggiai il frappè all’arancia.
  «È un peccato che per incastrarli hai dovuto minare la credibilità della tua società.»
  «Non è importante, Esmeralda. Giusto stasera, ho spostato tutte le mie proprietà in un fondo destinato alla mia famiglia. Lo scandalo sarà presto dimenticato» dichiarai tranquillo.
  «Aspetta, vuole… Vuoi ricominciare tutto daccapo?»
  «No» le risposi; e salutai con un sorriso vittorioso Svetlana che veniva trascinata in macchina.
  «Ma…»
  Posai il bicchiere ormai vuoto e spostai lo sguardo su di lei. «Vieni con me.»
  Esmeralda mi seguì fino al terrazzo del bar, che affacciava direttamente sulla strada; il rumore, il vento, non mi impedirono di poter ammirare un’ultima volta il suo viso. La sua chioma che in quel momento svolazzava assecondando le raffiche furenti, donandole una bellezza selvaggia che mai avevo notato in lei prima d’ora.
  — Sono stato cieco. —
 «Che c’è?» domandò confusa.
 «Sai perché ti ho portata qui?» La vidi scuotere la testa. «C’è solo una persona, in verità, con cui sento di dovere di scusarmi, una molto importante.» Le tirai una ciocca dietro l’orecchio. «Sei tu, Esmeralda.»
  La rossa strabuzzò gli occhi, osservandomi tremante. «C-Come sai il mio nome? Non l’ho mai detto a nessuno.»
  Sospirai divertito, prima di poggiarmi al ringhiera. «Ti ho data per scontata per troppo tempo.» Respirai profondamente. «So tutto. Mi ricordo di te, di quando mi vedesti saltare dal pioppo di Padre Carmine, degli anni bui al liceo, di Jessica e dei miei genitori. Della buona impressione che volevi farmi fare davanti agli impiegati...»
  Esmera mi fissò senza dire niente.
  «Symon» sussurrò.
  «Lasciami finire.» Le presi una mano tra le mie, stringendola. «Io vedo il mondo in modo diverso, fatto di squali e prede. Per sopravvivere bisogna calpestare gli altri, e non mi pento di ciò che ho fatto. Ho sacrificato la mia luce all’oscurità. Ma alla resa dei conti, quando ho scoperto che ancora lottavi per una causa nella quale persino mia madre aveva gettato la spugna… Comincio a capire che un amore incondizionato, come il tuo, io non posso ignorarlo.» Mi specchiai nelle sue iridi così pure e innocenti, così vive e piene di speranza. «Ha ragione, sai? Quella vecchia storia del ciondolo. Siamo noi a decidere cosa essere e l’eco delle nostre azioni si ripercuote sulla nostra vita. E se io sono qui, su questo terrazzo, è solo e soltanto per merito tuo.»
  «Mio?» mi chiese, stupita.
  «Hai sempre visto del bene in me. Perché?» le domandai di getto.
  La sua espressione si addolcì, facendomi sentire in soggezione. Quando tentai di distogliere lo sguardo, lei afferrò il mio viso, con dolcezza, e lo volse nuovamente verso di lei. «Perché…» Sorrise genuinamente. «Perché ti amo» rivelò a bassa voce, come se fosse un segreto tra noi due, solo per noi. «Ti ho sempre amato, perdutamente. Ho sempre ho lottato e per sempre lotterò, per te. Contro chi ti accusa, e anche contro te stesso. Finché un giorno non diverrai l’uomo che sei davvero, di cui io sono già fiera» concluse in lacrime, sporgendosi verso di me, gli occhi chiusi.
  Erano le parole più belle che qualcuno mi avesse mai detto e quelle che avrei disprezzato. Eppure soffiarono brezza calda sul mio cuore freddo ed egoista, riscaldandolo più di quanto chiunque altro avesse mai fatto; vederla lì, vicino a me, bellissima e così innocente, mi destabilizzò. Era dunque questo l’amore? Quell’emozione che sapeva spronare qualsiasi uomo o donna a superare i suoi limiti, anche e fino a sacrificare sé stessi per il bene altrui?
  Le avevo fatto del male… Eppure eccola lì, davanti a me: l’unica capace di trovare lode in una vita trascorsa a infliggere dolore, l’àncora che cercava di riportare indietro la mia umanità. Eppure sapevo, in cuor mio, che in futuro l’avrei ferita ancora. E proprio questa consapevolezza mi fece ritrarre, ben più della promessa fatta a Shanor, che ora pulsava sotto forma di un taglio sulla mano.
  Posai due dita sulle sue morbide labbra, l’allontanai. «Non posso.» Vedere la sua espressione confusa, ferita, delusa, rafforzò la convinzione che fosse la cosa giusta da fare; e questa consapevolezza mi diede la forza di continuare.
  «Io…» Una lacrima le solcò il viso. «Scusami, credevo che…» Tentò di voltarsi, di scappare, ma le afferrai il polso e la tirai tra le mie braccia; lottò per divincolarsi, tuttavia non mollai la presa, la strinsi saldamente.
  «Sono io che devo scusarmi» le sussurrai. «Da quando ti conosco no ho fatto altro che deluderti, ho lasciato che il tuo amore per me diventasse dolore e rimpianto, e proprio per questo io…»
  «Quello che dici non ha senso!» mi anticipò, stringendo i lembi della mia camicia bianca fin quasi a strapparla.
  «Ce l’ha, invece. Se fossi a conoscenza quello che so io» esalai, stringendola più forte. «Non posso darti ciò che cerchi, non ne sono in grado. Se non ti allontanerai da me, ti farò del male.» Ricordai la sua morte, la disperazione che avevo visto nei suoi occhi. «Smettila di cercarmi, smettila di vivere per me, di essere la mia ombra.» L’allontanai per guardarla negli occhi, che in quel momento si ostinava a mantenere chiusi ermeticamente, come se un volta riaperti l’incanto fosse destinato a spezzarsi, come il suo cuore. «Guardami» la pregai dolcemente, e quando si decise ad aprirli potei leggervi dentro tutto il male, tutto il dolore.
  «Perché?» sussurrò. «Perché mi hai fatto venire con te, se avevi intenzione di allontanarmi?»
  «Perché volevo dimostrarti che l’uomo che tu hai amato esiste, da qualche parte e ti ama, che il ricordo che avrai di me non sarà solo quello di un bambino sorridente. Quando un giorno ripenserai a questo momento, e comprenderai perché l’ho fatto, spero con tutto il cuore che ti ricorderai di me, dell’uomo che hai visto sotto questo guscio vuoto. Perché, ora che l’hai riempito, ora che conosco il tuo segreto, so che ti consumerei.»
  «Questo non ha senso, Symon! Tu non… Non puoi lasciarmi entrare nella tua vita e poi mandarmi via, non puoi! Non lo accett…»
  L’abbracciai ancora una volta e parlai con il cuore, come mai avevo fatto in tutta la mia vita. «Esci dalla mia ombra, Esmera. Esci e splendi come il sole. Liberati di questa vecchia muta che sono io, è solo un intralcio. Tu sei brillante, sei un raggio di luce in questo mondo buio e corrotto, e meriti di essere felice in questa vita e tutte le altre che vivrai. Io sono tornato indietro solo per questo.»
  Esmeralda non mollò la presa, consapevole che se l’avesse fatto tutto sarebbe finito. A malincuore dovetti sciogliere il nostro abbraccio, il nostro legame, piegando le sue deboli resistenze.
  «Addio» le dissi. «E grazie di tutto.»
  «Aspetta» sussurrò, tentando di fermarmi. «Sym, aspetta!»
  Corsi, via, con quanto fiato avevo in corpo, allontanandomi sempre di più per resistere alla tentazione di tornare indietro. Persi la cognizione del tempo, dei minuti e delle ore, dello spazio. Ero insensibile alla fatica, sordo a qualsiasi suono e cieco dinnanzi al mondo sconfinato.
 Quando mi fermai, quando tutto tornò alla normalità, scoprii di essermi diretto verso casa; e ironia della sorte, quello in cui mi ero fermato era lo stesso incrocio dove tutto era iniziato…  
  E dove tutto sarebbe finito. «Signor Argent?» chiese una voce decisa e professionale al tempo stesso: la voce del destino, giunto alle mie spalle.
  «Fa’ ciò che devi» sussurrai , senza voltarmi, mentre un ago si conficcava nel collo e uno strano liquido verde fluiva nel mio corpo.
  «Svetlana vi manda i suoi saluti» asserì l'uomo che mi aveva appena assassinato.
  Caddi senza forze sull'asfalto e strinsi il petto all'altezza del cuore. Il mio volto divenne paonazzo, le vene fin troppo evidenti e gli occhi quasi uscirono fuori dalle orbite. Stavolta non tremai di paura. Stavo per morire e accettai il mio destino con il sorriso sulle labbra.
  Spirai…
 
«Hai mantenuto la promessa» disse Shanor, non appena comparve nel mio campo visivo.
  «Non l’ho fatto per te.»
  «Cosa, allora, se posso chiedere?»
  Fissai il vuoto con espressione pensante, per poi voltarmi verso di lui. «Ho sempre creduto che sacrificio o amore fossero debolezze, che solo i più forti potessero sopravvivere. Eppure… Lei sarebbe morta per me, avrebbe scalato mari e monti se l’avessi chiesto, anche affrontare Svetlana.»
  Il serpente annuì. «Lei l’avrebbe fatto.»
  «E anche tu, ritengo» aggiunsi. «Hai violato le regole permettendomi di tornare indietro nel tempo, l’hai fatto per lei, per salvarla da un destino orribile nella prossima vita. Hai addirittura pregato me, un semplice umano, di fare ciò che tu non avresti potuto.»
  «Hai compreso cos’è l’amore?»
  Passarono diversi attimi di silenzio, finché non decisi di proferir parola. «Ho compreso che lei sarebbe stata capace di cambiarmi, se l’avessi permesso. Sì, anche di provare amore. Ma non era destino che accadesse. È arrivato il momento, vero?»
  Egli annuì. «C’è qualcosa che vorresti chiedere, prima di andare?»
  «Mio fratello… Mi perdonerà un giorno?» chiesi a bruciapelo.
  Per tutta risposta serpente mi concesse di scorgere un’ultima volta la scena del mio funerale: i miei genitori, Esmera… e anche Aaron e Jessica; tutti erano in lacrime, i volti sconvolti dalla sofferenza, e contro ogni logica risi genuinamente. Non godevo nel vederli soffrire, ma poter scorgere cos’avesse prodotto il suo amore incondizionato mi fece comprendere, una volta per tutte, quanto fosse speciale. «Grazie… per tutto» asserii, mentre l’immagine svaniva.
  «È il momento» annunciò il serpente, aprendo un spiraglio di luce accecante nelle tenebre più profonde.
 Esitai solo un istante. «Cosa succederà, adesso?»
 «Il mio potere ha agito sulla tua anima. Non soffrirai, ma sarai condannato a rinascere.» Prima che varcassi la soglia, la sua voce mi trattenne. «Grazie. Sembra che Esmeralda avesse davvero visto qualcosa di buono. I tuoi peccati avranno un peso, nella tua prossima vita. Ma la tua pena sarà meno grave di quanto fosse prima.»
  «Arrivederci, allora» salutai, prima di varcare la soglia…
 
*
 
Correvo per la mia vita. Una tigre dai denti a sciabola m’inseguiva, ed era affamata. Se non avessi fatto perdere al più presto le mie tracce, avrei perso ben più del braccio. Avanzai a stento nella foresta di palme giganti, le stelle azzurre prossime al tramonto illuminavano il mio cammino. Quei globi luminosi bersagliavano il mio occhio buono; la mia solita fortuna! Ansimavo, correvo con il cuore in gola.
  — Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio morire!! —
  Nella fretta mancai di notare un sasso, che mi fece inciampare e rotolare a terra; nell’impatto persi la presa sulla lancia rudimentale e non ebbi modo di raccoglierla: la tigre era già su di me. Sentì le fauci della bestia serrarsi sulla gamba e iniziò a trascinarmi. Sotto di lei, mentre urlavo di dolore; come mi voltai, la trovai a un passo dal mio volto.
  Chiusi gli occhi, non volevo assistere al momento della mia dipartita. Il dolore che mi ero aspettato non arrivò mai. Coraggiosamente aprì l’occhio buono, e subito lo sgranai: una lancia era sbucata dalla bocca della fiera, il suo sangue ora sgorgava copioso dallo squarcio appena aperto.
  Urlai spaventato mentre la carcassa si piegava di lato, rivelando alla luce del tramonto azzurro una visone surreale, come se la Dea Ajeta avesse mandato un suo messo: una donna dagli occhi grigioverdi e la chioma ardente e ribelle che si palesò di fronte a me, il volto sorridente e gentile che mi fece perdere un battito. Era bellissima. La pelle di tigre bianca che le fasciava il corpo sinuoso indicava che fosse una cacciatrice provetta, una delle migliori.
  «Sei ferito» disse apprensiva, con una voce dolce come il miele.
  Strappò un lembo del suo stesso manto per fasciarmi il braccio e la gamba, mentre la osservavo rapito. «Ma tu sei un Cavaliere della Dea?» domandai inebetito, rapito dalla sua bellezza.
  Lei sorrise raggiante, offrendomi la mano. «Sono Eshmeda. E tu?»
  Non avevo un nome, ero sempre e solo… «Ultimo» risposi balbettando.
  «Ultimo? Che nome strano…»
  «Non ho un nome.»
  Eshmeda scosse la testa e sorrise. «E Ultimo sia, allora? Sono sollevata di essere arrivata in tempo. Ma dov’è il tuo clan?»
  «Sterminato» risposi, rabbuiandomi.
  Lei mi carezzò il viso con la mano, il volto triste e compassionevole. «Mi spiace per il tuo clan.»
  Non capii perché, ma vederla in quello stato mi fece male e fui travolto dall’improvviso desiderio di rincuorarla. «Non è colpa tua. Se non mi avessi salvato, sarebbe scomparso definitivamente.»
  Lei rispose con tristezza. «Allora non hai nemmeno una casa.»
  Scossi la testa. «Vivo alla giornata.»
  «No, è troppo pericoloso» sbottò, dandomi la mano per aiutarmi a rialzarmi. «Verrai con me, fuori discussione» sentenziò e fischiò con l’altra mano.
  Una grandissima lupa bianca apparve dalla foresta di palme e subito la donna di fuoco mi aiutò a salire in groppa al suo dorso, ignorando le mie proteste: «Non fa nulla, dico sul serio.»
  «Ah, finiscila» mi ammonì divertita. Salì e battè i talloni sulla schiena della belva per spronarla. «Nessuno di noi dovrebbe restare da solo. Mai.» Lo affermò con solennità… e un pizzico di ilarità.
  Sorrisi mio malgrado, e prima che me ne accorgessi il mio corpo stanco si era poggiato al suo; avvolto in quel magico tepore mi lasciai trasportare, mentre una sensazione di familiarità si faceva pian piano strada nel mio cuore in frantumi.
 
Angolo Autore:
Salve!
Per chi non ha mai letto questa storia, apparteneva a un vecchio contest a cui avevo partecipato. Si chiamava Stelle d’Oriente e l’aveva indetto Dollarbaby. L’avevo cancellata, ma ora come potete vedere è pronta e corretta, e rivista in minime parti perché rientra nel mio grande progetto di riunire tutte le storie dei vecchi contest in una maxi long.
Ritornerà da Te, Salvare il Natale… circa, e questa, sono tre storie assolutamente separate ma che ora sono collegate da una trama superiore; che, al momento, non sto sviluppando. Ho altri lavori da portare a termine, prima.
Tempo di collegamenti?
Innanzitutto, mettiamo ordine sulla linea temporale.
Questa è la prima, Ritornerò da Te è temporalmente successiva e Salvare il Natale è l’ultima.
E se per Salvare il Natale il collegamento erano Serah e Bruce, protagonisti di Ritornerò da te, la cui leggenda risuona ancora dopo secoli - è stata romanzata -, nonché l’Apocalisse, qui c’è la riposta al twist di Ritornerò da te.
Bruce è il Primo, reincarnatosi dopo essere passato da Shanor.
Symon Argent è l’Ultimo, che abbiamo appena visto reincarnarsi.
Ovviamente chi non ha letto le altre due storie non capirà un’acca di ciò che sto dicendo, ma vabbè.
Alla prossima
Spettro94

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