Mєmσiяs.

di kurojulia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dawn & Eyes. ***
Capitolo 2: *** Blood & Thirst. ***
Capitolo 3: *** Loneliness & Stoic Knight. ***
Capitolo 4: *** Remembrance & Resolve. ***
Capitolo 5: *** Past Love & War. ***
Capitolo 6: *** Might & Transmute. ***
Capitolo 7: *** Conflict & Mother. ***
Capitolo 8: *** Anger & Realization. ***
Capitolo 9: *** Fire & Memories. ***
Capitolo 10: *** Broken & Happy Ending. ***
Capitolo 11: *** Deathly & Protect. ***
Capitolo 12: *** Not Love & Hopefully. ***
Capitolo 13: *** Heart & Became. ***
Capitolo 14: *** Off & Will. ***
Capitolo 15: *** Apart & The Hunter. ***
Capitolo 16: *** Brotherhood & Departures. ***
Capitolo 17: *** Detention & Release. ***
Capitolo 18: *** Bravery & Lovingly. ***
Capitolo 19: *** Someone Else & Myself. ***
Capitolo 20: *** First & Heartbeat. ***
Capitolo 21: *** Admiration & For Someone. ***
Capitolo 22: *** Abandonment & Scar. ***
Capitolo 23: *** The Rest & The Light. ***
Capitolo 24: *** Dusk & Madness. ***
Capitolo 25: *** Noon & Princess Never Found. ***



Capitolo 1
*** Dawn & Eyes. ***


Dawn & Eyes.




 

Avevamo otto anni quando ci venne detto come sarebbe stata la nostra esistenza. Come l'avremmo vissuta, in quali panni. Seguendo quali ragionamenti, pensando a determinate e precise cose.
Otto anni erano così pochi – davvero pochi. Inutile discuterne, quella era una minuscola finestra nella nostra vita, specialmente se messa a confronto con tutto il tempo che ci si spiegava davanti. All'eternità che stavamo per imparare a conoscere.

 

Mia sorella Lilith fece di sì con la testa. Un piccolo movimento, senza nessuna emozione, per tagliare corto e chiudere quella questione. Io, voltandomi verso i nostri genitori, restai immobile con le labbra serrate, cercando di metabolizzare quelle poche ma vitali informazioni. Quelle novità che riguardavano me e mia sorella.

Poi, ci dissero che potevamo tornare nelle nostre stanze, e noi seguimmo il suggerimento. Girammo sui tacchi e varcammo insieme la porta, uscendo in quel crocevia di lunghi androni – davanti a noi c'era il ponte che collegava questo lato del palazzo con quello di fronte, rivestito della luce accecante del sole. Al di sotto, l'ampio atrio, con tutte le sue piante, fontane e statue. L'acqua zampillava, lambendo le foglie verdi e le violette e le rose.

Ascoltammo il suono dell'acqua, gli uccellini cinguettare, appollaiati sulle piastrelle dei tetti. Indecise.

 

«Lullaby», mi chiamò mia sorella. «Non voglio. Non voglio fare... quel che mi hanno detto di fare».

Riflettei un istante, guardandomi le punte delle scarpe. «Nemmeno io vorrei, se fossi in te. Sembra.... parecchio noioso. E poi... », aguzzai la vista, come se volessi cogliere qualche particolare in fondo, molto in fondo. «Se una fa l'Imperatrice, come fa a trovare il tempo per andare a caccia di lucertole?». 

Lilith non mi rispose. Lei era più matura di me, era una cosa che saltava subito all'occhio. Si sapeva. Per questo, quando sentì che sarebbe stata lei la prima Imperatrice – la madre dei vampiri –, la caccia alle lucertole non le era minimamente passata per la testa. Probabilmente, aveva invece pensato che avrebbe dovuto sposare una persona che non amava; che avrebbe dovuto imprigionare qualcuno, un figlio dei suoi, per i crimini commessi; che avrebbe dovuto tenere tutti al sicuro, per essere degna di quel ruolo, altrimenti chissà cosa sarebbe accaduto.

Non ero in grado di leggere nel pensiero, ma... era mia sorella gemella. La conoscevo. Più lei, che me stessa.

«Non vuoi diventare Imperatrice», mormorai. Alzai le spalle. «Beh, allora, faremo in modo di non fartici diventare».

 

Le presi la mano, intrecciando le mie dita alle sue, stringendola forte. Cosicché potesse sentirsi protetta.

«Ti copro le spalle, sorellina».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

La penna mi rotolò giù, scivolando via dalla presa del pollice e l'indice. Esitò appena un attimo sul polpastrello dell'indice, ma poi si scontrò sulla carta, marchiandola di nero qua e là. Ghiacciata sulla poltrona, non potei fare altro che guardare la penna, ormai ferma, e minuscole gocce di inchiostro staccarsi dalla lamina di metallo per posarsi sul bianco. Le parole, le righe che tempestavano la pagina – adesso erano tutte mischiate fra loro, in un vortice nero, di linee e simboli, e mi faceva paura. Ebbi paura.

No. Non era così.

Che sta succedendo?, chiusi i pugni. Non era di quel vortice di sentimenti che avevo paura.

 

Avevo sentito un odore familiare. Prima ancora, un rumore. Un suono che penetra nelle orecchie, insidiandosi nella testa, fino a che non puoi più dimenticarlo. La carne che si lacera – che viene lacerata, ferocemente –, i legamenti che si abbandonano a se stessi. Poi, immediatamente, ferro acre. Sangue. Ecco, era di questo che avevo paura.

Le mie narici risposero subito allo stimolo. Al sangue. Al rosso denso, invitante e preoccupante.

Ma perché mi faceva paura? Avrebbe dovuto solleticare il mio appetito, semmai. La mia biologica curiosità, i canini che si nascondevano dietro alle labbra. Invece no.

Forse perché... a palazzo non dovrebbe verificarsi qualcosa di simile. Forse, mi dissi, era perché qui a palazzo non è permesso prendere il sangue dalla giugulare di nessuno – né da qualsiasi altro punto, a onor del vero. Questo, è un posto neutro. Dove non si può cedere agli istinti della fame, né da vampiro né da demone.

 

Scattai in piedi, scostando la poltrona con l'impeto. Il buio mi circondava. La notte era avanzata da numerose ore, avvolgendo con un panno scuro lo spazio intorno a me. Il palazzo era immerso nel silenzio, il silenzio del sonno e dell'osservazione dei cieli e delle stelle.
Io, nello studio degli Imperatori, ero sola, in attesa di Bael. Avrei dovuto rimanere là fino al suo arrivo ma, dopo aver percepito tutte queste cose insieme, non potevo restare lì e far finta di niente.
Trassi un respiro profondo e attraversai la stanza, abbandonano la scrivania sotto alla finestra e la luna che mi aveva osservata fino a quel momento – arrivai alla porta, aprendola piano.

L'androne era un cimitero. Senza spettri né parenti in lacrime.


Guardai a destra, dopo a sinistra. L'odore di sangue proveniva da sinistra, non c'erano dubbi. Dovevo prepararmi a rinchiudere un membro della servitù per essersi macchiato della colpa? – aver versato del sangue era la colpa. Ironico, quasi contro natura.

 

Mi scrollai dalla testa quei pensieri, ricordandomi che io, Lullaby, ero l'Imperatrice, e certe cose non dovevo nemmeno metterle in conto. Quelle erano le regole e le regole ci servivano per non soccombere – e diventare delle bestie.

«Lilith, in realtà», mi corressi, d'istinto. «Come cavolo faccio a sbagliarmi ancora?».

 

Mi incamminai, chiudendo la porta e svoltando a sinistra, lungo quel corridoio immerso nelle tenebre. I tacchi delle mie scarpe rimbombavano tra le alte e sconfinate pareti, raggiungendo il soffitto a volta, scrollando il sottilissimo strato di polvere depositato nelle fessure. Era l'unico suono, a parte il mio respiro, che dava un cenno di vita a quel luogo. Chiusi le mani in pugni e irrigidii le spalle, di riflesso. Perché ero così preoccupata? Non ero una sprovveduta. Non ero forte come Bael, sì, ma potevo difendermi. Sapevo difendermi.

Poi, mentre avanzavo, sola, mi accorsi che l'odore di sangue si allontanava.
Ed anche molto velocemente, pensai, aguzzando la vista per riuscire a vedere la fine del corridoio.

Allora capii. Stava scappando!

 

Illuminata da quella nuova considerazione, cominciai ad accelerare il mio passo, fino a trasformarlo in una corsa. Ora il rimbombo dei miei tacchi si era trasformato in un concerto assordante. Ma non potevo lasciarlo andare, non se aveva ferito – o peggio – qualcun altro, pur di sfamare la sua fame. Con quel pensiero in testa, corsi a perdifiato nell'androne buio, riuscendo a malapena a distinguere il pavimento dal battiscopa.
L'odore di sangue era sempre più vicino. Lo stavo recuperando. C'ero quasi! Continuai ancora, senza decelerare, con la brezza che mi picchiava sulle guance – la brezza?

Mi fermai, perplessa, perché ero sicura non ci fossero finestre in quel punto.

 

«Ma questo posto... », spalancai gli occhi, rivolgendoli alla mia sinistra. Ero così presa dall'inseguimento da non rendermi conto di essere arrivata alle scale che precedevano il terrazzo, il posto segreto dove io e Bael andavamo per stare soli. Inarcai le sopracciglia. Quindi, il mio criminale era salito lassù? – questa cosa mi irritò profondamente.

Mi piegai, sfilandomi le scarpe, prima dal piede destro e poi dal sinistro. A questo punto, salii i gradini delle scale, appoggiando entrambe le mani sulle pareti che le schiacciavano.

Sì, era qui. Ora ne ero certa. Il sangue era così forte che mi sembrava di averlo addosso.

Per un attimo, pensai di aver commesso io il crimine. Che le mie mani fossero sporche.

 

Arrivai in cima, accucciandomi per non farmi vedere. Spostai gli occhi da un punto all'altro, esaminando attentamente lo spazioso terrazzo. Da sinistra, vuoto, fino a destra, desolato. Poi tornai veloce verso il centro. C'era qualcuno.
 

«Bael?», mormorai. Mi vergognai, ma ero sollevata di vedere la sua schiena. Averlo accanto era la cosa più vicina al paradiso. Lui mi faceva sentire protetta.

 

Mi misi in piedi e, scalza, mi avvicinai di pochi passi verso di lui. «Bael? Che ci fai qui? Pensavo fossi insieme ai membri del Consiglio», mi fermai. «No, no, non importa. Ascolta, lo senti quest'odore di sangue? Qualcuno ha... ».

Bael guardava oltre il parapetto. La sua mana sinistra gli era agganciata, come se volesse stritolarlo. Sotto di lui, c'era il nostro paese. Il nostro popolo. Le luci accese, ma un silenzio di tomba, il sibilo del vento notturno. Sopra di lui, la luna brillava e irradiava la sua figura, baciandolo sulle guance.

«Bael?». La mia voce tremò. «Tutto... bene?».

 

Sentii la sua risposta. I suoi denti digrignare. Un verso, un ringhio sommesso, tenuto stentatamente a bada. Una chimera rabbiosa. Disperata?

La paura mi stava solcando le labbra. «B-ba... ». Lo vidi, mentre si voltava. Le sue spalle, fasciate dagli abiti blu e neri, i suoi capelli corvini spazzati via dal vento. E il sangue che gli dipingeva un sorriso storto sulla bocca – ed una vita strappata, sui vestiti.

I denti sporgevano oltre la bocca rossa. I suoi occhi, che avevano perso tutta la dolcezza, mi stavano divorando.

 

Riuscii solo a gridare il suo nome.

 

Mentre la nostra luna venisse eclissata dal sangue.

 

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Capitolo 2
*** Blood & Thirst. ***


Blood & Thirst.







«Alyon, fratello mio, non vuoi bene a nostra sorella?».

 

La voce di Kazumi aveva un ché di lamentoso, di insistente, benché la sua fosse una frase di pura innocenza, così come l'espressione preoccupata sul suo giovane e perfetto viso di vampira.
Io, dal canto mio, aveva sentito e percepito quella domanda già svariate volte, e man mano che mi riponeva la stessa frase, essa prendeva una sfumatura sempre più... lamentosa, per l'appunto.

Al suono – ricorrente, familiare – delle sue parole, tirai un sospiro, forse un po' troppo rumoroso, quasi coprendo lo strepitio del legno che bruciava nel camino.

«Certo che le voglio bene», risposi. «Certo che sì. È la nostra cara sorella minore, il nostro importante agnellino». Seduto sulla poltrona, richiusi il libro fra le mie mani, ed intrecciai le dita sul ginocchio della gamba accavallata.


Kazumi si era sistemata vicino ai miei piedi, ostruendomi un poco il passaggio, e il fuoco del caminetto illuminava intensamente il profilo del suo viso; sebbene avesse raggiunto nove anni, Kazumi aveva spesso quel viso intristito, ed era altrettanto frequentemente in apprensione. Non usciva di casa quanto le sue coetanee e benché meno parlava degli stessi argomenti.

Non aveva amiche, solo ammiratori. Per cui – o almeno così avevo dedotto – mi stava sovente... fra i piedi, ecco.

«Quante volte hai intenzione di domandarmelo prima di metterti l'anima in pace?».

«Ma... », Kazumi sollevò il viso e lo ruotò verso di me, puntandomi due grandi occhioni oro. «Tu, quando la guardi... hai sempre... ».

«Che cos'ho?», incalzai, aggrottando le sopracciglia.

Kazumi schiuse le labbra. Il resto della sua frase rimase lì, sulla sua bocca, ad aspettare un permesso che non arrivò mai. Alla fine, scosse il capo debolmente e mi fece le sue scuse. Poi, con la medesima aria afflitta di poc'anzi, tornò a scrutare le fiamme oblique del caminetto.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quella notte, mi destai dal mio sonno con la testa pesante.


Aprii gli occhi lentamente e subito riversai la mia attenzione sul soffitto della mia camera da letto, immersa nelle tenebre, ma che attraverso le mie iridi potevo comodamente distinguere. Rimasi immobile in quella posizione, il capo che mi affondava nel cuscino di piuma d'oca, per forse tre minuti.
Non sapevo cosa stava bloccando il mio corpo. Non c'era alcun peso, non fisico, per lo meno.

Solo dopo mi resi conto che si trattava della mia sete.

Mi sento bruciare... , e con questo pensiero, riuscii a sollevare la schiena dal materasso, spinto da una sete che a stento riconoscevo. Nell'aria, flebile, dolce e invitante, riuscivo a sentire il sangue dei miei famigliari. Ognuno di loro, tutti intorno, attraversavano pareti e corridoi, porte e scale, fino a giungere alle mie narici. Il semplice odore mi inebriava il cervello.

In piedi accanto al mio letto, dovetti appoggiarmi un istante, perché quell'ondata mi aveva davvero travolto.

Devo raggiungere le cucine... lì potrò... , lì avrei potuto placare l'arsura.

 

Nelle cucine, riposti in ambienti freddi e costantemente controllati, vi erano litri e litri di sangue, conservati in sacche di plastica. Era una felice alternativa alle vene pulsanti, alla giugulare, al sangue caldo e denso che ti procuravi con i tuoi denti.
Quello era il mio preferito. Tuttavia, la mia famiglia mi aveva categoricamente vietato di cibarmi come e quando volevo io, che c'erano delle regole da rispettare a tal proposito, e che solo loro avrebbero deciso il momento adatto. Avevano già deciso che non sapevo controllarmi. Che non conoscevo “una cosa come l'autocontrollo”.

Attraversai i corridoi sostenendomi con qualsiasi cosa mi capitasse sotto il palmo delle mani. Il buio era ancora più fitto poiché non vi erano finestre da cui far arrivare la luce della luna, e il silenzio era pesante. Veniva scandito, solo ed unicamente, dai rintocchi tombali dell'orologio a cucù.

Svoltai l'angolo che portava alla camera da letto dei miei genitori.

Ma lì mi fermai. Avevo sbagliato strada. A dir il vero, avevo pienamente sbagliato. Le cucine erano al piano di sotto, ed io ero ancora al piano superiore – le scale che mi avrebbero condotto alle sacche di sangue mi erano ormai lontane.

 

A quel punto mi resi conto.

Avevo seguito il profumo. Quell'irresistibile profumo che mi aveva destato dal torpore del sonno. Piuttosto che ascoltare il buon senso, avevo dato retta al languorino che mi stuzzicava la gola e le gengive.
Mi diedi sonoramente dello stupido e quasi ne risi – a quel punto, gettai un'occhiata verso la balaustra, e il suo piano inferiore. La guardai e poi, lentamente, mi voltai verso la camera da letto dei miei genitori. Sorrisi.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Alyon... cosa hai fatto... », mia madre mi guardava. Nei suoi occhi, brulicanti e scarlatti, c'era sgomento e furia, e in quelli di mio padre disgusto e incredulità.

Entrambi mi osservavano, dall'alto capo del letto.

 

La luce della luna – colei che non mi voltava mai le spalle – illuminava fiocamente il mio volto, colorandolo di blu. Illuminava e scopriva i miei denti e i canini aguzzi sporchi di sangue, le mie labbra squarciate da un sorriso, il mento bagnato di rosso.
Inclinai lentamente il capo all'indietro e premetti il dorso della mano contro la bocca, leccando via il sangue che era rimasto – sarebbe stato uno spreco, altrimenti.
«Molto meglio... », bisbigliai mentre, con l'altra mano, mi appoggiavo alla culla – di ciò che restava della mia piccola sorellina.

 

Della nostra cara, piccola sorellina – del mio agnellino.

 

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Capitolo 3
*** Loneliness & Stoic Knight. ***


Loneliness & Stoic
knight.





Sentivo tanto trambusto. Il ché era strano, in vari sensi; a casa nostra, casa Akawa, non c'erano mai forti rumori, né si pensava anche solo di farne, perché mio padre non li amava per niente, e a nessuno sarebbe mai passato per la testa di infastidirlo.
E poi, noi vampiri, abbiamo la saggezza di non sprecare inutilmente le nostre energie, specialmente in certi momenti della giornata – e quello era uno dei famigerati momenti, dal momento che erano appena le sei del mattino.

Un orario decisamente improponibile.

 

Aprii gli occhi, uno alla volta, dandomi il tempo per abituarmi alla bianca luce del sole che filtrava tra le tende.

Ugh, pensai, non la sopporto proprio. Ma che sta succenden–

 

A quel punto – mentre io ero ancora distesa sotto le coperte – sentii mia madre urlare. Il tono della sua voce... faceva paura. Mi aveva così spaventata che, noncurante della luce, balzai subito a sedere. Gettai un'occhiata alla mia porta, chiusa, e scesi dal letto – lasciandomi il suo tepore alle spalle.

Ero ancora in pigiama, ma non potevo aspettare un secondo di più. In ogni caso, mi sarei solo affacciata per dare una sbirciata.

 


Aprii la porta silenziosamente, e infilai prima la testa fuori, per accertarmi che la via fosse libera; senz'ombra di dubbio, se qualcuno mi avesse notata mi avrebbe rispedito in camera mia seduta stante, perché "ero troppo piccola per capire". Era una sciocchezza bella e buona ma non avevo la facoltà di rispondergli a tono e... la cosa finiva lì.
Dopo essermi assicurata la via, uscii dalla stanza e richiusi la porta. Imboccai il corridoio della zona notturna della casa, superando la camera da letto dei miei genitori, e raggiunsi infine la balaustra che si affacciava al salone d'ingresso.
Mi accovacciai lì di fronte e guardai sotto di me – in tempo per capire cosa stava accadendo.

C'erano nostra madre, nostro padre, e qualche domestico, tutti intorno ad Alyon come un branco di lupi.

La voce di mio padre era un tuono. «Hai capito cosa ti sto dicendo, Alyon?», ringhiò. «Non tornare mai più in questa casa. D'ora in poi, se ti avvicinerai ad un solo Akawa, ti sarà data la caccia. Ti è chiaro?». Stette in silenzio per un istante, forse aspettando una risposta, e alla fine urlò: «RISPONDI!».

Il suo urlo mi fece tremare dalla testa ai piedi.

 

Mio fratello era fisso nel suo mutismo. Dal corridoio del secondo piano, lo guardavo ad occhi spalancati, sbigottiti – spaventata. Era vestito di nero, con una giacca e dei pantaloni, una camicia bianca. Sul suo viso c'era un leggero, leggerissimo sorriso, venerabile solo dal punto in cui mi trovavo.
Alyon alzò il viso. Le sue labbra si incresparono verso di me, mentre le mie tremarono vistosamente.

 

«Basta», singhiozzò mia madre. «Vai via. Mi sento male solo a guardarti».

Mio padre fece uno scatto verso Alyon e lo afferrò per il braccio, spingendolo con brutalità verso il portone di casa, già aperto. Lui non faceva niente per respingerlo, per difendersi, lasciandosi trattare come un cane randagio.

 

Quando raggiunsero la soglia e la luce inondava la schiena di Alyon, io mi alzai in piedi e scavalcai il parapetto, dandomi la spinta con le mani, e in un attimo mi trovai al pian terreno – ad un passo da mia madre; lei si voltò di scatto, paonazza in volto, incredula, ma io non mi fermai e corsi verso Alyon e papà più veloce che riuscii.
Semplicemente, non potevo permetterlo.

«NO!». Urlai, ma non sapevo perché. Io ed Alyon avevamo davvero un rapporto?
Eravamo fratello e sorella. Due fratelli che convivevano, così, perché ci si erano trovati. «Non puoi mandarlo via, non ha fatto niente di male!». Eppure era bello sedermi vicino ai suoi piedi di fronte al camino, ascoltando le pagine del suo libro mentre le sfogliava. Era bello quando veniva in carrozza, fino alla mia scuola, e tutte le mie “compagne” lo guardavano con occhi ammiranti. E io mi sentivo privilegiata.

 

Mi aveva sempre concesso il suo tempo. Non mi aveva mai lasciata sola.

 

«Kazumi. Spostati, se non vuoi farti male», sibilò mio padre, cercando di allontanarmi – con il ghiaccio negli occhi; mi ero aggrappata alla vita di Alyon, infrapponendomi tra di loro, abbracciando mio fratello a me.
Tra le lacrime, scossi e scossi la testa. «È mio fratello... non puoi... ». Era come un mantra. Mi reggevo a lui sempre più forte, sempre di più, anche quando mio padre mi afferrò per la spalle e mi tirò via, facendomi male solo con la forza delle dita.


«Smettila, Kazumi!». Papà sollevò la mano e lì capì che voleva schiaffeggiarmi. Sentii l'aria spostarsi e trattenni il fiato in gola, strizzando gli occhi – spaventata a morte.
Ma lo schiaffo non giunse mai. Nessun dolore.


Aprii le palpebre.



Come un cavaliere – quello dei sogni delle mie compagne – Alyon aveva bloccato la mano di nostro pare agguantandolo per il polso, mentre l'altro braccio mi avvolgeva le spalle. Socchiusi le palpebre e reclinai la testa indietro per guardarlo. I suoi occhi neri si erano fatti seri e minacciosi, un'ombra cupa era calata a mo' di sipario. Alyon fissava nostro padre come se egli fosse il suo peggior nemico. «Facciamola finita», bisbigliarono le sue labbra.
Poi, improvvisamente calmo, abbassò lo sguardo su di me.

«Mi dispiace», disse. «ma alla fine, ho sempre mentito alla tua domanda... ».

 


E mi sorrise. Con quella accecante luce bianca che gli faceva da sfondo, il cavaliere degli Akawa mi lasciò andare.

Quello fu il suo ultimo sorriso. L'ultimo vero sorriso – malinconico, stoico, del mio vero fratello maggiore.

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Capitolo 4
*** Remembrance & Resolve. ***


Remembrance &  
Resolve.
 








Avevo inciso a fuoco quel ricordo. Non penso – nemmeno volendolo – che avrei mai potuto dimenticare, nella vita e nella morte, quella volta.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Dinanzi ai miei occhi, nel porto di Southampton, si stagliava la nave da crociera della P&O, in tutta la sua immensa grandezza; il porto era un'orchestra di rumori e odori – per lo più fastidiosi – e l'aria, sin dal nostro arrivo, ci aveva soffocato prendendoci per la gola. Il cielo era annuvolato, con piccoli sbocchi di luce bianchissima, e il clima era umido e freddo, nonostante fossimo a Maggio inoltrato.

Con un sospiro della stessa portata di quella nave, incrociai le braccia al torace, adocchiando un gruppo di uomini mal vestiti che correvano verso la passerella per l'imbarco. Lo scafo della nave veniva, di tanto in tanto, frustrato dalle onde del mare, e la sua schiuma tentava vanamente di scalfire la superficie.

 

«Oseroth!», esclamò una voce di donna. «Ti sembra il caso di lasciar indietro la tua famiglia e andartene per conto tuo?!».

Mia madre, ombrello nella mano sinistra e borsa intorno alla spalla destra, camminava svelta sui suoi tacchi – verso di me. Al suo seguito, un paio di domestici impegnati fra le valige, e mio “padre”, le labbra strette su un sigaro, lo sguardo indifferente a guardare tutto intorno. Come se ci fosse qualcosa di grandioso o anche solo vagamente interessante in quel grigio porto.

Ruotai i piedi verso di loro, senza sciogliere le braccia. «Non vedo quale sia il problema. Ho ritenuto giusto portarmi avanti con questa specie di... », socchiusi le palpebre, aguzzando la vista, alla ricerca dell'espressione più consona. «... scampagnata».

Mia madre, insieme a mio padre che si fermò prima, mi giunse davanti imbronciata. «Insieme».

«Siete stata voi ad insistere», ribattei, guardandola dall'alto in basso. «o meglio, a costringermi. Io ne avrei fatto volentieri a meno. Siete perfettamente consapevoli di quanto disprezzi questo genere di attività».

«Che lagna», esclamò mio padre, prendendo fra l'indice e il pollice il sigaro. «Bada, questo comportamento è proibito di fronte agli altri ospiti. Non metterci in imbarazzo, ti è chiaro?».

 

I domestici si guardarono, a disagio, ma anche rassegnati all'ennesima esternazione di mio padre. Mia madre mi diede un colpetto sulla spalla e lei e il suo seguito si allontanarono verso la passerella d'imbarco. Io, dal canto mio, dispiegai le labbra in un ringhio.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Il soffio del vento si era fatto più molesto.

 

Non ce l'avevo fatta. Avevo trascorso la bellezza di dieci minuti nella loro stessa stanza e persino i domestici cominciavano a trovare quei siparietti spassosi.
Ventisei. Avevo ventisei anni. Ma non era abbastanza. Neanche lontanamente abbastanza per essere apprezzato da quell'uomo, colui che aveva la nomina di patrigno, colui che aveva volentieri messo le sue sudice mani sul cognome Vixen, una famiglia di temibili demoni. Se n'era appropriato – così come con la casa, con mia madre, con la mia libertà.

 

Mi passai una mano fra i capelli, liberandomi gli occhi. La prua era quasi del tutto vuota. Ciò mi aiutò a tirare un sospiro, stavolta di sollievo, stavolta molto più piccolo.
Mi avvicinai, facendo scorrere la mano sul corrimano, guardando quelle poche persone che si godevano la vista del tramonto sul mare; sulla sinistra c'era una donna, un'anziana di una certa età, mano nella mano con una coppia di bambini. Ad appena due metri, un uomo.

L'anziana e i bambini erano esseri umani. Potevo fiutare il loro odore anche dalla mia stanza. Quel viaggio, di fatto, ospitava una quantità inverosimile di persone, tra vampiri, demoni e umani, e quest'ultimi venivano tutelati dal Consiglio, di cui mia madre e mio padre erano orgogliosi membri.
Tuttavia, quel vampiro lì infondo, quell'uomo... lo vedevo. Lo vedevo schioccare occhiate, apparentemente vuote, verso l'anziana e i due infanti.

Mi voltai, dandogli le spalle, appoggiandomi alla ringhiera con le braccia.

 

Non erano affari che mi riguardavano. Anzi, se quel vampiro avesse davvero compiuto un omicidio – perché era così che finiva, la maggior parte delle volte – ne sarei stato felice. Perché così quella sanguisuga che si fingeva il capostipite dei Vixen avrebbe avuto problemi.

Sarebbe stato meglio.

 

«Perché hai quell'espressione triste?».

Sobbalzai, persi l'equilibrio, e i miei occhi fissarono con ansia l'oceano.

Quella voce mi aveva totalmente scombussolato, preso com'ero dalle mie riflessioni. Quella voce femminile, dal tono giocoso, dolce e persino preoccupato.

Cercai di riacquistare la mia calma. E compostezza. Tornai con le braccia sul parapetto, ruotando solo allora il capo verso la voce che per poco non mi uccideva.

 

E di fronte a me – dinanzi a me – vi era forse la donna più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita. Rimasi bloccato, con la bocca leggermente aperta, gli occhi che non volevano trasmettere nessuna emozione.

 

Si teneva i capelli rossi, corti fino al collo, contro l'orecchio con una mano, nella vana speranza di non ritrovarseli davanti ai fulgidi occhi color oro. Sulle labbra rosa era disegnato un sorriso maturo, in un certo senso, oserei dire materno.
A differenza di tutte le altre donne sulla nave, lei non indossava una gonna; alle lunghe gambe portava dei pantaloni chiari e dal tessuto sottile, stretti in vita, e una camicia color sabbia – al collo un foulard verde.

Poi, in un lampo di ragione, mi ricordai della domanda che mi aveva posto – e del fatto che mi avesse dato del tu. «Chiedo venia, ma penso abbia frainteso la mia espressione. Non era mia intenzione».

La donna mi osservava inclinando il capo, come se non avesse compreso. «Non penso proprio», rispose. «Era proprio triste, abbattuta per benino. Per questo mi sono avvicinata a te». Di fronte alla mia perplessità, la donna si tamburellò il labbro con l'indice, lasciando andare i capelli. «Ho come la sensazione che tu non voglia affrontare il problema. Beh», alzò le spalle e imitando la mia posa, si sporse verso il mare. «vorrà dire che faremo amicizia. Così sarò giustificata a restare con te, finché non ti sarà passata la tristezza».

«Amicizia», ripetei bisbigliando. Che... strana persona. «Il mio nome è Oseroth Vixen, lieto di fare la sua conoscenza, Miss... ?».

La donna si volse verso di me e i capelli rossi ne seguirono il movimento, scompigliandosi – sorrise, e a quel punto non sapevo se fosse il suo viso o il tramonto a renderla così fulgente. «Kazumi Akawa, piacere mio!».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il vampiro era ancora lì.

 

Io ero solo. Kazumi se n'era andata. Lasciandomi nel petto un enorme calore. Ed una consapevolezza nuova.

Mi girai, in tempo per vedere l'anziana e la coppia di bambini allontanarsi dalla balaustra e il vampiro fare un passo verso di loro, la mano protesa nella medesima direzione.

Gli fui immediatamente alle spalle.

Gli arpionai la spalla con le dita, stringendo la presa con l'intenzione di spezzargliela. Le iridi già scarlatte, mi bastò aprire appena le labbra perché l'uomo si irrigidì come marmo. «Se non vuoi farti un bagno nell'Adriatico... ti conviene alzare subito i tacchi».

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Capitolo 5
*** Past Love & War. ***


Past Love & War.









Ryuu era sempre un passo avanti a me.


Dall'altra parte del giardino, distrattamente appoggiata ad una colonnina, lo guardavo mentre chiacchierava, amabile come al solito, con un paio di ragazze. Delle stupende fanciulle, per l'amor di Dio, su questo non si discute. Nessuno potrebbe dire diversamente. Ma difatti era così nella nostra Accademia, era difficile che qualcuno dall'aspetto mediocre riuscisse ad accederv; in parte funzionava così – mi stavo ancora chiedendo come era possibile che io mi trovassi lì, a studiare tra quelle mura tanto importanti.

Tenendo stretto al petto il mio libro di testo, continuavo ad osservarlo. Un fascio di luce gli illuminava la spalla e parte del viso – lo zigomo, l'orecchio e i capelli. Intorno, c'erano mille voci diverse, mille suoni, eppure non ne sentivo uno solo.

Abbassai gli occhi a terra. Ryuu era già promesso ad un'altra donna. Ovviamente, chi meglio di me poteva saperlo? Non capivo nemmeno perché insistevo in quello stupido tormento. Forse avevo qualcosa di davvero sbagliato, nella testa. Altrimenti non avrei saputo spiegarmi il mio comportamento.


Decisi che era ora di girare i tacchi e dirigermi verso la prossima lezione, così mi sarei avvantaggiata sugli altri. Ma quando ruotai i piedi, sentì alle mie spalle la sua camminata. L'avrei, stupidamente, riconosciuta fra mille; baldanzosa, sicura e quasi irritante.

Come faccio ad essere innamorata di un tipo del genere?, pensai, indirizzandomi senza scrupoli verso il corridoio a sinistra.

 

«Juri!». Roteai gli occhi al cielo, ma non mi fermai. Prima me ne separavo, prima l'avrei dimenticato – era già abbastanza difficile di per sé, considerando che ero sua amica da ben sei anni. Figuriamoci poi se non facevo qualche sforzo in più. Filai dritto come un soldato, imboccando la strada incorniciata dal tettuccio ad arco e la luce autunnale, calda e aranciata, che baciava le mattonelle.

«Ehy!».
Stavo per girare l'angolo e svoltare a destra quando mi sentii agguantare una treccia. «Ahia!», mi lamentai e frenai la mia camminata. Feci un passo indietro e mi voltai di scatto, guardando in faccia il mio testardissimo inseguitore.

«Ma cosa credi di fare?!», sbottai, accarezzandomi la treccia con una mano. «Guarda, mi hai rovinato l'acconciatura.. ».

«Tu fai finta di non sentirmi!». Ryuu aveva lo stesso testo che portavo io, stretto nella mano. Si appoggiò alla parete con la spalla e incrociò le braccia al petto. Era vagamente offeso, indignato, ma un sorrisetto buffo gli spuntava sulle labbra. E il suo aspetto era perfetto. Non solo era intelligente, era anche affascinante. Per questo l'ingresso in questa scuola per lui era stato così semplice, nonostante non navigasse nell'oro.

Continuò a fissarmi con lo sguardo di un curioso. Quando faceva così mi assaliva l'imbarazzo e diventavo... scorbutica. «Cosa?».

«Perché sei corsa via senza aspettarmi?».

«Come perché? Voglio dire, non è che dobbiamo per forza andarci insieme», giocherellai con il ciuffo sfuggente dalla treccia, spostando il viso di lato. Se evitavo il suo sguardo, magari, riuscivo a non rendermi ridicola. «Siamo perfettamente in grado di vivere separati. L'ubicazione delle aule le conosci».

Ryuu arricciò le labbra. Non era convinto. «Nah», fece. Poi allungò il collo per avvicinare il suo viso al mio. «Anche se ormai siamo grandi e cresciuti, io ho bisogno di te. Avrò sempre bisogno di te».


Tentennai, non volevo dargliela vinta, non volevo cedere un'altra volta a quella gentilezza. La sua strada era ben diversa dalla mia. Ben diversa.

Gli porsi il mio libro di testo, sollevando il mento. «Portamelo tu e andremo insieme». Tuttavia, io non ero né bella né intelligente. Era proprio impossibile, per me.

Me l'aveva fatta un'altra volta.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Non so perché accadde. Non so perché dovette accadere a noi. Nel nostro paese, nella nostra città, nella nostra Accademia. Il mondo era immenso, talmente tanto grande da farti venire le vertigini. Era una verità solida.
Eppure, le bombe cominciarono a cadere nel nostro paese.

Nella mia aula, seduta insieme ai miei compagni di classe, sentimmo il pavimento sotto i nostri piedi tremare vistosamente. Sentii qualcuno all'esterno iniziare a correre, nei corridoi appena fuori la classe. Qualcun altro gridò con voce dura e affrettata, ordinando di muoversi, perché non c'era più tempo. La porta della nostra classe venne spalancata. Un soldato, imbraccio un fucile, ci intimò di uscire immediatamente dalla stanza. Insieme al nostro professore, fummo trasportati fuori, riversando nei corridoi. Gli stessi in cui, solo pochi giorni prima, avevo ammirato Ryuu. Adesso era un fiume di panico umano.

 

Potevo scorgere sui visi di ognuno di quei adolescenti il terrore della morte. Il nero sporco e malvagio dei fucili. La fretta, la rigidità dei movimenti. L'aria riempirsi di polveri.

Poi, come colpo di grazia, scattò la sirena. Mi tappai le orecchie con le mani, tremando dalla testa ai piedi. La sirena urlava a squarciagola, più forte che poteva, nel tentativo di avvisare ognuno di noi dell'imminente pericolo – dell'attuale pericolo.


«Stiamo per morire».

«È la fine... è la fine... ».

 

Un'altra bomba, stavolta più vicina, scoppiò rimbombando sull'asfalto. Le pareti del corridoio e gli archi tremarono come foglie, tutto l'edificio sembrò sul punto di collassare sulle nostre teste. Esplosero le grida, l'agitazione crebbe e, infine, iniziarono gli spintoni.
Il corpo docenti non poteva nulla di fronte ai bombardamenti. Noi ragazzi non potevamo nulla di fronte alla paura di lasciare quel mondo.


Per questo si creò il panico. Perché nessuno poteva farci niente.


Le leggere spinte si tramutarono in veri e propri attacchi e tentativi di scavalcare. Mi sentii travolgere da tante, troppe persone, una valanga di esseri umani che cercavano di salvaguardare le loro vite. Uno spintone di troppo e mi trovai a terra, riversa sul pavimento, mentre tutto intorno la folla correva verso l'uscita d'emergenza dell'Accademia e il mondo ruotava a velocità folle.Cercai di rimettermi in piedi, pensando di usare le finestre per scappare, ma il calcio di qualcuno mi buttò a terra, togliendomi il fiato. Mi trascinai fino alla parete, schiacciandomi il più possibile, chiudendomi a riccio – e aspettando.

Aspettando.

 

Prima o poi sarebbe finita.

Dovevo aspettare. Volevo solo...

 

«JURI!». Una mano mi afferrò il braccio, trascinandomi via dalla parete. In men che non si dica, mi ritrovai sotto il cielo plumbeo, pieno di nuvole nere, nel giardino circondato dai corridoi.
Una stretta di ferro mi marchiava il polso, come una catena, ma sentivo anche un piccolo tremolio. Non riuscii mai a capire se fossi io a tremare o la sua mano.


Ryuu aveva il fiatone. Respirava con difficoltà, con occhi pregni di ansia, madido di sudore. «Stai bene?!».

Sollevai il volto e lo guardai, schiudendo la bocca. Cosa ci faceva lì? Perché non era ancora uscito dalla scuola? Perché? Io stavo solo aspettando la mia fine. Perché lo aveva fatto?

«Ryuu... ». Mi bruciavano gli occhi. Gli studenti stavano attraversando il giardino di corsa. «Ryuu, devi andare via da qui, è perico-».

«Non ho intenzione di restare qui e morire. Ma dovevo prima venire a prenderti».

 

Chiusi la bocca. Guardai il mio polso stretto dalla sua mano, mentre intorno a noi il finimondo stava prendendo luogo, e gli occhi mi si riempirono di lacrime roventi. Sentii un'altra esplosione e desiderai di potermi svegliare. Che potesse tutto finire.


Guardai verso Ryuu. Magari, se ero fortunata, per me sarebbe tutto finito.

 

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Capitolo 6
*** Might & Transmute. ***


Might & Transmute.





 

La mano di Juri era sudata. Il suo palmo era umido e caldo, le dita nervose e tremolanti. Mi ripetevo di stringerla più forte, di assicurare quella stretta, l'unico punto di connessione tra me e lei. Mi dissi, cercando di farmi forza, che se mi fosse malaguratamente sfuggita, Juri sarebbe morta.
Per le esplosioni delle bombe, perché qualche pazzo l'avrebbe travolta, perché un soldato dei nostri avrebbe potuto farsi prendere dal panico.


Non dovevo lasciare la sua mano.


Il rombo di un motore sopra le nostre teste ci tappava le orecchie. Correvamo a perdifiato tra vicoli e stradine schiacciate dai palazzi e, anche senza guardare, sapevamo che era un aereo da caccia. Il rumore che produceva era un inferno artificiale.


«Non ce la faccio più!», esclamò Juri, ansante. Arrestai di scatto la corsa e mi girai verso di lei, agghiacciato. Era così. Non potevamo continuare a correre in questo modo, non per molto. Non potevamo permettercelo. Sì, eravamo parzialmente protetti dagli edifici, ma avrebbero potuto caderci addosso in qualsiasi momento, se avessero sganciato altre bombe nei dintorni. E infine, sì, cominciavo ad essere stanco anch'io; avevamo corso per quasi un chilometro, senza fermarci mai, tutto per allontanarci dall'Accademia e dalle zone trafficate. E cercare di metterci in salvo.

Salvezza... sopravvivenza, piuttosto.


Dovevamo trovare un nascondiglio. Un posto qualsiasi... «Lo so che sei stanca», la presi per le spalle, intimandomi di non tremare. Dall'altra parte, oltre la strettoia in cui ci trovavamo, scorsi delle automobili sfrecciare e le persone correre disordinatamente. «ma non possiamo fermarci. Resisti ancora un po'. Solo un po'».

Juri mi guardò, con paura, come se volesse piangere. Mi si stringeva il cuore. La soluzione sarebbe stata molto più semplice – se solo.

Se solo fossi ricco. Se solo fossi potente.

Se solo avessi la potenza.

Se solo non fossi me – allora avrei potuto salvarla. E lei non avrebbe dovuto provare tutto quel terrore.

 

«Che coppia di adorabili agnellini abbiamo qui».

Mi ghiacciai. Una voce di uomo, profonda, laccata di ghiaccio e buio, sibilò alle nostre spalle. Per un attimo, pensai ad un allucinazione, dovuta alla disperata ricerca di una soluzione – non avevo mai udito una tale voce, quindi faticai a capire quanto reale fosse davvero.

Le mie dita, intorno alle spalle di Juri, esitarono leggermente. Juri corrugò la fronte preoccupata, forse spaventata, forse meravigliata.

Mi voltai, cauto.

L'uomo che era appena apparso incarnava l'idea stessa del buio. Dai suoi vestiti al suo aspetto. I capelli corvini e gli occhi neri. Il mantello lungo e lucido che avvolgeva la sua imponente figura, come le ali di un pipistrello. Un sorriso, allungato e rilassato – eppure estasiato e determinato – gli increspava le labbra. Sembrava un dipinto. Uno strano dipinto che ti mette in soggezione.
Non riuscii a pensare, per i primi secondi. Io e Juri avevamo indosso le divise della scuola e sembravamo degli agnellini, proprio come aveva detto quel nobiluomo.

Poi mi ravvedetti.

Un nobiluomo!


«Chiedo venia!», mi staccai da Juri, rivolgendomi allo sconosciuto ad alta voce, per farmi sentire nonostante tutto il fracasso che avevamo intorno. Se era un nobiluomo, allora forse possedeva un rifugio. «So di chiedere tanto e di essere un impudente, ma la prego, non avrebbe un posto dove farci nascondere? Siamo lontani da casa e noi... ».

«Ma certo».

«D-davvero?».

«Ho un luogo per voi. Venite con me. Vi porterò al sicuro», lo vidi sorridere, poco prima che ci rivolgesse le sue ampie spalle. «e ti darò ciò che desideri, mio caro».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Due spilli stavano penetrando il mio collo. Squarciarono facilmente la pelle e piegano sottò la loro pressione la carne, in fondo, fino a ché le sue labbra non si macchiarono del mio sangue. Il bianco fulgido di quegli spilli – no, di quei canini – era ricoperto di rosso, scuro alla luce fievole della lampadina, in quella stanza umida e fatiscente e abbandonata. Era staccata dal tempo e i suoni erano otturati e lontani, e solo le sue pareti tremavano.

Sentii le forze abbandonarmi, sentii le mie cellule indebolirsi, slealmente. Il bruciore, il dolore.

Arrancai con le mani, respirando forte, senza riuscir a far mia una sola boccata d'aria. Poi, finalmente, le mie dita trovarono il mantello nero del nobiluomo e ne ghermirono il tessuto. Il dolore, la sensazione di dissolversi, l'angoscia di aver fatto uno sbaglio enorme. Mi sembrava che tutto si stesse amplificando. Anche il più piccolo sentimento diventava una montagna.


«Basta... basta, ti prego... ». Juri implorava l'uomo di smetterla. La sentivo, anche se indistintamente, come se avesse la voce soffocata da un cuscino.

 

Volevo anch'io che lui la smettesse. Lo desideravo e quel desiderio era ossessivo come la morte. Ma allo stesso tempo, speravo non smettesse. Non ancora. Perché lui avrebbe realizzato ciò che avevo sempre chiesto – lui ne era in grado. Per cui, se quell'uomo doveva continuare, allora che continuasse.

Le mie mani scivolarono dalle sue spalle, rovinando a terra.

«Basta!», urlò Juri.

 

L'uomo si fermò. Si staccò dal mio collo e tirò un profondo, significativo ed inebriato sospiro. Un sorriso di sangue gli illuminava le labbra. Dalla ferita sul mio collo, il sangue gocciolava copiosamente, e l'uomo ci pose il palmo della sua mano, con fermezza. «Brava ragazza», sibilò, con lo sguardo distante. «hai fatto bene ad urlare. Molto brava».
Tra le ciglia, la vista offuscata, lo vidi azzannare il suo polso, proprio come aveva fatto con la mia giugulare. Mi sentivo staccato dal mondo, schiacciato, mentre il mio sangue impregnava e inzuppava la mano dell'uomo, e lui buttava giù il proprio tramite il polso.

Poi sfilò i denti, le labbra sigillate.


E le premette sulle mie. Raggelai quando lui mi forzò ad aprire la bocca – e con orrore percepii l'orribile sapore acre e di ferro arrugginito varcare le mie labbra e la mia lingua, e scivolare lungo la gola. Ero talmente scioccato e insieme disgustato che la bile non si fece aspettare, risalendo in fretta dal mio stomaco.

Poi l'uomo mi lasciò andare e io caddi sul pavimento, sul fianco, premendo la mano sul viso per impedirmi di vomitare.


«Non versarne una goccia. È quasi sacro, per te», pallido e bagnato di sudore, riuscii solo a guardarlo dal lurido pavimento, mentre lui si alzava in piedi – sempre più somigliante ad un messaggero della morte. «È il tuo lasciapassare per la potenza, caro agnellino».


Era il mio lasciapassare.


Lo fissai, gli occhi cerchiati di rosso, le labbra rosse e viola, la pelle imperlata. Sul mio viso, e non avevo dubbi, doveva esserci qualcosa di simile alla disperazione. E alla totale follia.


Il mio corpo mi abbandonò.

Intanto che le fibre, le ossa, i legami, la pelle, i muscoli – intanto che ogni cosa, dentro di me, si muoveva e smuoveva, persi conoscenza, guardando l'uomo in nero.

 

E l'ultima scena che vidi fu Juri, stretta nella morsa di Alyon Hendrik Akawa, e il suo sangue che colava lungo il sottile collo bianco.

 

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Capitolo 7
*** Conflict & Mother. ***


Conflict & Mother.
 




 

Non era sempre stato così.


Un tempo, circa dieci anni fa, eravamo una famiglia felice, come tante altre. Quello fu il periodo più bello della mia vita... tutti i miei sogni si erano avverati; ero insieme all'uomo che amavo e avevo un figlio che sprizzava allegria e spensieratezza da tutti i pori. Era tutto come doveva essere.

Ma sapete, forse avevo sottovalutato la nostra normalità. Persino data per scontata.

E avevo sottovalutato il dolore che può infliggerti vedere due persone che tanto ami – combattersi così tanto spesso e così tanto intensamente. Come due leoni rivali.

 

Era iniziato tutto quando Takahiro, al ritorno da lavoro, aveva fatto sedere Takeshi al tavolo della cucina. Aveva undici anni. Era il ritratto della dolcezza. Gli piaceva la musica, l'arte, il sole che batte sulle guance, l'erba calda sotto le braccia. Mio marito non era proprio... Takahiro era l'esatto opposto. Tuttavia, questa diversità di caratteri non aveva mai rappresentato un problema. Almeno fin quando Takeshi non fu cresciuto abbastanza, agli esordi della scuola media.

 

«Ormai sei cresciuto», gli aveva detto, seduto di fronte a lui, un tono rigido. «È arrivato il momento di concentrarsi sullo studio e sulla tua educazione, e meno sui giochi».

Takeshi inclinava la testa da una parte all'altra. I suoi grandi occhi, luminosi come due stelle, guardavano il suo papà – spaesati. «In che sens– ».

«Si tratta del tuo futuro. Lo capisci, giusto?».


E da lì in poi, era stata la fine della pace nella nostra famiglia. Erano baste poche, semplice parole.

 

Fu così che divenne tutto un deteriorare. Takahiro ogni giorno più severo e inflessibile, Takeshi che, come risposta, ne combinava sempre peggiori. Entrambi si rivolgevano a malapena la parola, e quando accadeva, si trattava sempre di litigi – ogni giorno si scendeva un altro scalino verso la crepa.
Takahiro gli diceva di smetterla con quelle bravate da teppista e di mettere la testa a posto, Takeshi gli rispondeva di farsi gli affari suoi e spariva dalla circolazione, lasciandosi alle spalle i suoi sguardi carchi di astio.

I suoi occhi avevano perso l'innocenza. I suoi occhi avevano perso tanto.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quel mattino, dopo che fummo rientrati a casa, il tempo all'esterno aveva improvvisamente mutato i suoi colori. Una distesa di puro grigio, un'aria pesante come un macigno, soffocante. Un pesante panno attorcigliato alle nostre gole.

 

Lasciai le chiavi sul tavolo. Mio figlio mi camminò accanto.

Lentamente, lui si sedette sul divano, tanto piano da non far alcun rumore. Rimase in quella posizione, il braccio sul bracciolo, la schiena dritta contro il dorsale. Sembrava aspettare che il pericolo passasse. Dalle spalle, riuscivo a vedere solo il suo collo e la testa, il colletto della camicia sporco di polvere. Il fronte della sua camicia era sporco di sangue, costellata da piccoli strappi un po' dappertutto, ma questo l'avevo notato da prima.
Attesi. Sigillai le labbra e mi feci coraggio – dunque, finalmente spostai lo sguardo e vidi il suo riflesso sullo schermo della nostra televisione. Takeshi fissava davanti a sé e il suo volto non stava dicendo niente. Era in silenzio mortale. «Takeshi... », ma cosa potevo dirgli, realmente? Cosa poteva dire una persona, in una situazione del genere?

Io non la conoscevo. Non davvero. Cosa avrebbe fatto lei, al mio posto? Cos'è che avrebbe pensato? Cosa voleva, per Takeshi?

 

Che la dimenticasse?

 

Inspirai profondamente. In silenzio, mi sedetti accanto a lui, rivolgendomi nella sua direzione. Tuttavia, lui non si era accorto di me. Stava ripercorrendo quell'ora appena passata. Il sangue, copioso, sulla sua camicia, e la polvere e i tagli che aveva dappertutto. La sua divisa era rovinata – e la sua anima giaceva da qualche parte.

Piano, gli toccai una mano con le mie.


Le sue labbra si schiusero. Un filo di voce. «Non sono stato in grado. Non sono riuscito a salvarla. E ormai è fatta. È fatta. Lei se n'è andata per sempre. Non la rivedrò mai più. Non la rivedrò mai più... ». Takeshi guardò a terra. «È morta». Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «È morta. È... ».


Lo strinsi a me, con tutta la forza e l'amore che avevo.

Erano solo le braccia di una madre. Non potevano fare molto, non avrebbero mai potuto fare abbastanza per quel dolore. Lo stringevo a me, la sua testa premuta al mio petto, e sentii l'impulso di piangere insieme a lui. Era per empatia? Era perché mio figlio stava soffrendo come mai aveva fatto in vita sua?

Io lo sapevo. Se avesse potuto, lui avrebbe scambiato il suo posto con lei. Pur di vederla sana e salva.

Ricordai il volto di Yuki Akawa. La sua bellezza surreale. La determinazione che albergava in lei. Il suo coraggio.

Ed ora, era tutto sparito. «Mi dispiace. Mi dispiace, Takeshi. Mi dispiace da morire».

 

Lo abbracciai, mentre le sue dita si aggrappavano alle mie spalle e alla mia schiena e i singhiozzi lo prendevano per la gola come un tiranno. Il suo disperato pianto mi riempì le orecchie. Non l'avrei mai dimenticato.

 

Dio.

Dio, ti prego.

Non portarmelo via. Non farlo.

 

Aiutami a salvarlo.

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Capitolo 8
*** Anger & Realization. ***


Anger & Realization.




 

Fissavo la sua faccia, come se stessi cercando di imprimermi nella testa i suoi lineamenti, nemmeno corressi il rischio di dimenticarmeli.
A ripensarci, in molti dicevano che eravamo tali e quali, con piccole differenze. Mia moglie diceva, quando ero arrabbiato – no, seccato –, che c'era un piccolo bagliore nei nostri sguardi, ma di colori molto, molto diversi; nel mio, diceva, c'era un bagliore di colore blu. Nel suo, in quello di nostro figlio, rosso.

Era vero. Nel cipiglio incattivito di mio figlio ci vedevo del rosso. Nelle sue sopracciglia inarcate, a nascondere le palpebre, nelle grinze al ponte del naso.

Spesso pensavo che, se mi avesse mai detto "Senti papà, fammi un favore e non farti vedere mai più", non mi sarei affatto sorpreso. Né indignato o infuriato. Invece, avrei provato una sorta di sollievo perché, per una volta, era stato sincero.

Mio figlio era un ragazzo onesto. Misericordia, era davvero onesto – ma non sincero. Non con me, non con sua madre, e direi nemmeno con suo fratello minore.

 


Poi, una mattina di pioggia scrosciante, di venerdì, io e lui avevamo raggiunto il nostro culmine.

Gli avevo dato uno schiaffo e, con quel colpo, la sua testa aveva sbandato di lato. La sua guancia si era subito colorata di porpora. Lo guardavo, in cerca di una risposta; lui aveva schiuso la bocca, e i capelli – sempre lunghi, sempre arruffati – gli graffiavano la parte alta del viso. Ancora una volta, nascondendolo.

Ero spiritato. Ero così furioso e deluso da stare male. Eppure, all'esterno, indossavo mandibole serrate e una fronte distesa. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?», dovevo essere di ferro. Come tutte le volte. Volevo essere di ferro.

Lui non rispose.

«Rispondimi. Ti abbiamo cresciuto così? Ti abbiamo insegnato queste cose?». Sentii le mie narici dilatarsi, da sole. Il mio petto si gonfiò di un pesante sospiro. «TAKESHI!».

 

Con uno scatto, Takeshi vi voltò verso di me. Guardandomi dritto in faccia, lessi nei suoi occhi scuri tutto l'odio e lo sdegno che provava. Forse per lo schiaffo, forse perché di fronte a lui c'era suo padre. La guancia gli faceva male, era chiaro, ma era immobile come una roccia. Non tremava, il suo corpo non era sottomesso a nessuna emozione primordiale. Coronato dalle ciglia, il suo bagliore rosso mi penetrava da parte a parte, lasciandomi quasi sbigottito.
Takeshi alzò la mano sinistra, con la manica della felpa sulle nocche, e sollevò il cappuccio per calarselo in testa. Un gesto lento, indolente. Poi scosse lentamente la testa.

«Tu non c'entri niente con ciò che sono. Tu non sei un bel niente».

E se n'è andò.


A quanto pareva, era lui, quello di ferro.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Calpestavo il pavimento, avanti ed indietro, infuriando come un treno. La stanza era già abbastanza piccola e, probabilmente, la mia presenza serviva solo a renderla più angusta. Sbuffando dalle narici, riuscii a fermarmi, piantando le mani sul tavolo accostato sotto la finestra. Su quel tavolo c'era qualche sacchetto di cosmetici, un asciugacapelli, una spazzola...

Sollevai il capo, osservando l'ampia distesa di verde attraverso la finestra aperta.


Non riuscivo a ricordare l'ultima volta che avevo provato una tale agitazione. No, “agitazione” non era la parola giusta. Ero emozionato.

Per molte ragioni, avevo pensato che Shin sarebbe stato il primo a compiere un passo simile. Shin era sempre stato quello obbediente, il figlio docile, se vogliamo. Crescerlo, in un certo senso, era stato rilassante.

Ancora adesso, mentre attendevo l'arrivo di quel delinquente di mio figlio – ancora una volta, mi stavo sbagliando: era un uomo. Quante volte l'avevo chiamato così? Delinquente. Oppure, teppista. Quante volte mi aveva fatto infuriare? E quante volte avrei voluto arrendermi e abbandonare ogni sforzo. Volevo portarlo sulla retta via. Mio figlio maggiore non poteva essere una canaglia.
Doveva diventare la persona che avevo deciso.

Che idiota ero stato. Affondare le mani nel suo cervello per convincerlo a studiare. A frequentare un doposcuola. A vestire impeccabile. A trovare una moglie istruita e di buon educazione.

Che idiota.

 

«Papà, sei pronto? Tra poco dovremmo andare». La porta si aprì. Mi voltai, schiodando i palmi, e vidi mio figlio sull'uscio con indosso il suo abito nero da cerimonia. Si spazzolava la nuca con le dita, con un sorriso nervoso. «Anzi, potremmo parlare due minuti? Sono leggermente nel panico».

Sorrisi. «Vieni qua, vediamo cosa possiamo fare».

 

Era accaduto. Senza il mio aiuto, con le sue sole forze.

 

Mio figlio, Takeshi, era diventato un uomo.

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Capitolo 9
*** Fire & Memories. ***


Fire & Memories.






«Kukuri, allaccia la cintura». La voce di mamma mi suggeriva che era stanca, arcistanca, di ripetermi sempre le stesse cose. Quella doveva essere... la quarta volta che mi diceva di allacciare la cintura. E la mia risposta era sempre la stessa; io che mi accartocciavo sul sedile, appoggiandomi con la spalla allo sportello.

E di solito ne approfittavo per osservare fuori dal finestrino, oltre il guard rail; era da un po' che si vedeva sempre lo stesso scenario: una distesa di alberi, che si moltiplicava per quelli che, agli occhi di una bambina, erano un'infinità di miglia, così tanti da non avere una fine.

Il cielo, invece, era di un bianco accecante. Qualche nuvola grigia faceva capolino, di tanto in tanto, cercando di contrastare quella forte luce – ma non era abbastanza.

 

«Ma è scomoda», borbottai. «Mi strizza, mi dà fastidio al collo».

Papà sorrideva. Riuscivo a vedere le sue guance gonfiarsi, le rughe attorno agli occhi. «Ti tiene al sicuro e solo questo deve importarci. Per favore, eh? Fai la brava».

Non avevo nessuna voglia – e nemmeno intenzione – di allacciarla. Chissà perché ma, quel giorno non ero dell'umore per fare la figlia ubbidiente. Non mi andava proprio.


Tuttavia, decisi di accontentarla. "Così non mi avrebbero più assillato". «Okay, come vuoi».

Mamma mi sorrise, girandosi dietro, verso di me. «Brava la mia bambina».

 

Fu in quel momento, mentre guardavo il suo sorriso scherzoso, che il camion ci venne addosso.



Un urto, di una tale portata, da scuotermi dalla testa ai piedi.

Po, cosa accadde, esattamente? Improvvisamente, per un istante, mancò la gravità. Il tempo di sbattere le ciglia. Ci ritrovammo a testa in giù, aggrappati alle cinture, sospesi a mezz'aria. E dopo di ché, un altro forte urto ci riportò sulla terra.

Passò del tempo. Forse un minuto. Forse un giorno.

Quando aprì gli occhi, la macchina era invasa dal fumo. Non riuscivo a vedere niente e avevo la bocca secca. I dorsi delle mie mani toccavano il soffitto. Volevo muovermi. Volevo urlare, mamma, papà, state bene? – e la voce non usciva.


I miei genitori sedevano davanti. Erano immobili. Li guardavo.

Il fumo mi entrava nelle narici, intossicandomi la gola, i polmoni. Era insopportabile, mi sentivo soffocare, come se l'aria mi venisse forzatamente tolta.

Dopo di ché, una luce aranciata divampò all'improvviso.

Da dove arrivava? Ci misi del tempo a capire cosa fosse e cosa stava accadendo. Forse troppo tempo.

Era fuoco, pensai, era fuoco!

 

Dovevo uscire immediatamente e dovevo salvare anche mamma e papà. Sollevai le braccia e raggiunsi con le dita l'aggancio della cintura. Premetti il tasto un paio di volte e finalmente si slacciò, lasciandomi scivolare con il collo sul soffitto. «Mamma», ansimai. «Papà... ». Se uscivo dalla macchina e aprivo i loro sportelli, sicuramente avrei potuto trascinarli fuori dall'auto – stava tutto nell'uscire da qui.

Ma lo sportello – scoprii – non si apriva. Perché? Perché mio padre bloccava le portiere, per evitare che io l'aprissi per sbaglio. Quindi, non importava quanta forza impiegassi, sarebbe rimasto chiuso.


Ah! Però il finestrino era socchiuso, abbastanza per... per farci passare... un braccio...

 

Piansi. Piansi ed urlai. Ogni volta che aprivo la bocca per urlare, un colpo di tosse lo seguiva.

Urlavo. Piangevo.

Non potevo fare altro, a quanto pareva. Solo aspettare che le fiamme ci raggiungessero.


Poi sentii una voce. «TIENI DURO!». E lo sportello volò via, come l'ala strappata di una farfalla.

 

E a quel punto, il viso di una donna comparve, e dietro di lei, un uomo.

L'ultima cosa che potevo ricordare erano le loro voci e un esplosione. Poi, il vuoto.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Benvenuta a casa Akawa». Li guardavo, sollevando il viso verso l'alto, con occhi di vetro.

La mano della donna, posata sulla mia spalla, era gentile e delicata. Aveva un sorriso amorevole e occhi caldi come il sole. L'uomo, invece, mi ricordava il ghiaccio. Forse per via dei suoi capelli o dei suoi modi distaccati.
Qualcosa mi diceva che erano brave persone, brave persone fino al midollo, e non solo perché mi avevano tratta in salvo, estraendomi dalla macchina. E nemmeno perché avevano deciso di lasciarmi vivere con loro, senza abbandonarmi a degli assistenti sociali.

Oltre ai miei genitori, d'altronde, non avevo mai avuto nessun altro. Quindi, nella migliore delle ipotesi, una qualche famiglia mi avrebbe preso con sé.

Ma chi avrebbe mai adottato una bambina senza memoria? Senza alcun dubbio sarei un peso, per chiunque.

A stento avevo richiamato il mio nome.



Ma allora, pensai, perché questi due mi hanno portata qui?

«Kukuri», la donna mi sorrise. «C'è qualcuno che sicuramente vorrà conoscerti».

 

Mi portarono su per le scale. Non mi guardai intorno, non parlai, a stento respirai. Aspettavo solo di arrivare a destinazione, la mano dolcemente stretta dalla donna e l'uomo che ci seguiva, con il suo passo impercettibile.

La meta era una camera, una stanza, da cui filtrava la luce più calda e serena che avessi mai sentito – sulla pelle e sul petto.

E proprio lì, al centro di quella camera, una ragazzina si stava
alzando in piedi.


Una ragazzina che, col tempo, divenne il mio futuro.

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Capitolo 10
*** Broken & Happy Ending. ***


Broken & Happy
ending.





Quando la mia strada si incrociò con il casato Akawa, io avevo appena compiuto dodici anni. Ero poco più che un ragazzino.

Fu di notte. Me lo ricordo bene perché, a rigor di logica, a quell'ora dovevo essere già a letto, ma ero riuscito ad elludere le ronde notturne di mia madre per leggere il secondo volume di un fumetto.

Era passata la mezzanotte da un bel po', quando sentimmo citofonare alla nostra porta.
Capii subito che era mio fratello. Non portava mai la chiave della porta insieme a quella del cancello. Tutt'ora rimane un mistero per me.
In ogni caso, saltai giù dal letto, abbandonando il fumetto e la torcia, e mi fiondai per aprirgli – non pensai che avrei potuto imbattermi nella mamma, ero fin troppo felice che Takeshi fosse tornato a casa.
Agguantai la maniglia, la piegai verso il basso e finalmente spalancai la porta. Subito intravidi il volto di mio fratello ed un sorrisone si aprì sulle mie labbra – ma man mano che il mio campo visivo si allargava, quello scemava.

 

Lunghi capelli, rossi e bianchi. Il vino versato in un calice, la neve cristallina sull'erba.

Condividevano le stesse pepite d'oro.

Non solo. Non era solo il colore. I loro sguardi erano vitrei, bui, come il fondo di una grande e fredda tomba.


La ragazza più grande... agli occhi di un bambino quale ero, era sembrato di vedere più un soldato, che un adolescente. L'espressione era imperturbabile, rigida. Cozzava con i lineamenti delicati del suo viso. Quell'assurda e incredibile bellezza. Lei mi aveva concesso un'occhiata, breve, ma era chiaro come stesse guardando attraverso il mio corpo, come se fosse trasparente.
Ma a dirla tutta, fu la più giovane a catturare la mia attenzione. La cascata di capelli, setosi, cadevano lungo l'esile schiena, mentre i suoi bellissimi occhi erano tanto grandi quanto vuoti.
Forse stava tentando di non perdersi.

 

Avevo dodici anni e stavo guardando quelle due ragazze, mio fratello insieme a loro.

Ed in qualche modo, seppi che erano sul punto di rompersi.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Ti ho detto di smetterla di inseguirmi dovunque vada». Mentre Ai mi camminava di fronte, e i suoi lunghi capelli rossi le oscillavano sulla schiena, io me la ridevo alle sue spalle. Sotto i baffi, perché se mi avesse sentito ridere, probabilmente ora non sarei qui a raccontarlo. «Quante volte dovrò riperterlo prima che tu lo comprenda?». La nobile Ai Akawa aveva un talento per allontanare le persone, persino più forgiato rispetto a quello della sorella. Con il passare degli anni, forse, si era affinato ancora di più – o magari era la crisi adolescenziale.
Ma se c'era qualcosa che accomunava me e Takeshi, era la testardaggine – ridacchiai, mani nelle tasche.


Ai si fermò all'improvviso. Ruotò come un chiodo ben avvitato e mi rivolse un'occhiata di lampi e fulmini. «Guarda che non ho bisogno di una guardia del corpo».

«Ci mancherebbe. Non ti sto mica seguendo per questo». Inarcai un sopracciglio. «Lo sai perché lo faccio».

Ai aprì la bocca per ribattere, poi guardò in un altro punto, per evitare il mio viso. L'avevo messa in imbarazzo – e non potete immaginare quanto fosse soddisfacente.

Mi piegai in avanti, verso di lei. Era bassina, per cui dovetti curvare la schiena parecchio, prima di avvicinare la mia fronte alla sua. «Perché non lo dici ad alta voce, Ai-chan?».

«Smettila. Oppure dovrò ucciderti».

Si voltò dall'altra parte, riprese a camminare in fretta e furia. Io scoppiai a ridere – che buffa – urlandole dietro: «Sei la copia sputata di tua sorella!».

«E tu di tuo fratello – anzi, sei anche peggio!».

«Però a me piaci tu, Ai!».

 

Ai si fermò. Piantò i piedi a terra. Anche se lontana svariati metri, riuscivo a vedere le sue spalle e i pugni tremolare. «Ai», ripetei, un sorriso sulle labbra. «A me piaci tu. Mi piaci da impazzire. Potresti, quindi, non ignorarmi?».

 

Immersa nella luce diurna, anche se metà vampiro e metà demone, Ai mi sembrava una specie di angioletto. Con il viso rosso e quei grandi, vivi ed espressivi occhi oro. Mi guardava da sopra la sua spalla, la fronte increspata e un piccolo broncio. Sperai in un sorriso. Se avesse sorriso, mi sarei sentito in pace con me stesso. Mi sarebbe bastato.


«Farò... un tentativo», come se mi avesse ascoltato, lei esaudì il mio desiderio.

«Ah sì?».

«Solo perché sei tu, Shin. Solo perché sei tu».

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Capitolo 11
*** Deathly & Protect. ***


Deathly & Protect.



Quando mi raccontarono cos'era successo, com'erano andate veramente le cose – perché loro avevano dovuto fornire una verità alterata, alle autorità umane – io avevo undici anni e stavo pazientemente aspettando il suo ritorno. Perché non avevo nessun altro, a parte lei. Non avevo dei genitori, dei parenti a cui affidarmi, e di sicuro non avevo amici. Quindi, in sostanza, ciò che facevo ogni giorno era aspettare il suo ritorno dalla scuola umana.

Pazientemente.

Osservando il fuoco strepitare nel cammino della biblioteca. Lasciando danzare le mie dita sui tasti del pianoforte a corda. Sfogliando svogliatamente le pagine di un libro troppo complicato. Addormentandomi, un po' per la noia, un po' per la solitudine, con gli angoli degli occhi bagnati.
Ma mi andava bene. Ero felice, tutto sommato. Perché sapevo che era una sensazione passeggera, perché sapevo che – nel momento in cui lei avesse varcato la soglia di casa, sarebbe passata ogni brutta emozione.

 

Qualcuno potrebbe pensare che la sua morte, su di me, ebbe un impatto quasi fatale perché ero sua sorella... quindi era più che naturale. Ma no. Non era per questo. Lei avrebbe potuto essere anche un'antenata, una lontana zia, una vecchietta pelle ed ossa e ciononostante...

«Alyon è irrotto nella scuola e... insieme a lui, c'era un esercito... Lei ha... ha combattuto fino allo stremo, e alla fine... ».

Guardavo Tetsuya. Sbattei le ciglia. I suoi occhi erano lucidi, arrossati, stanchi. Cercai di ricordare se lo avevo mai visto piangere. Non ci riuscii.

«Non ce l'ha fatta», mi disse. «Mi dispiace tanto, Ai». La mia mente diventò vuota. Tetsuya mi stringeva la spalle, con le mani tremanti e il volto rigato dalle lacrime, rivolto al pavimento, mentre io cercavo ancora di capire... e capire... e capire...

Di nuovo – non ci riuscii. «Dov'è la sorellona?». Alla fine, dalle mie labbra, uscì solo questa domanda, in un tono tanto piatto quanto funereo. Non me ne resi conto. Mi ero limitata solo a parlare, d'altronde. Non capivo. Cosa stava succedendo?


Dov'era Yuki?


Tetsuya sollevò il viso. Mi guardò come se l'avessi appena accoltellato, con uno sguardo di pura sofferenza, il viola che andava in frantumi. Poi, all'improvviso, mi spinse verso il suo petto. Mi tenne stretta, in un abbraccio disperato, per quelli che furono lunghissimi minuti.

 

A bassa voce, continuai a chiedere dov'era mia sorella.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Avevo perso tutto. Era questo il mio chiodo fisso. Non c'era un altro modo per metterla, non credete? – mio padre, mia madre e infine mia sorella. Erano tutti morti. Tutti a causa di un singolo uomo e della sua brama di vendetta, di sangue, di distruzione incontrollata.

Giungendo a questa conclusione, desiderai ucciderlo io. Probabilmente non ne sarei stata in grado, non ero mai stata molto forte, non come la mia famiglia – e non avrei chiesto l'aiuto di Tetsuya, degli umani, di Tachibana o... di Shin.

Non li avrei messi in pericolo. Solo perché un singolo uomo – una singola bestia – doveva morire.

Ma poi, mi dissero che era morto anche lui, quel mattino. Che era stata la spada Anima, brandita da mia sorella, ad ucciderlo. L'aveva decapitato, se non sbaglio.

Quella notte piansi tutte le mie lacrime, fino a prosciugarmi, urlando alla notte e alla luna. Non avrei potuto fare nemmeno questo...

 

Ma dato che Tetsuya faceva il possibile per aiutarmi, insieme agli umani – a Takeshi, Sayumi-san e Shin –, io cercavo di fare del mio meglio e sorridevo.

Il buco che avevo nel petto era così ostinato, così caparbio.

Allora restavo lì. Avvolta nel mio dolore. Con un vacuo sorriso sulle labbra.

Desiderando di poterli vedere ancora una volta.


Desiderando di morire.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Dalla grande finestra, posta proprio alle spalle della scrivania, si riusciva a vedere la salita-discesa che, salendola, conduceva alla scuola, e scendendola alla piazza con i negozi e i bar. La luce la inondava come se volesse abbracciarla, scompigliando le foglie verde brillante degli alberi, i fiori che facevano capolino dalle aiuole, e le gonne grigio scuro delle studentesse. Quelle stesse studentesse indossavano i loro sorrisi, un'allegria pura, di chi aveva messo il primo passo sul mondo, e il solo osservarle ti scaldava il petto. Mi ricordavano sempre qualcuno, che di allegria ne aveva avuta a pacchi, e ne aveva distribuita ogni giorno.

I miei gomiti sostavano sui braccioli della poltrona, mentre ero rivolta verso la finestra. Ridacchiai.

Non mi ricordava solo lei. Mi ricordava anche altre persone.

Una ragazza intrepida, che avevo ingannato per bene, al tempo. Un ragazzo con il cuore più coraggioso che avessi visto in un umano. Un giovane uomo che era diventato la mia famiglia. Una ragazza che mi aveva amato e protetta come un angelo.

Un fastidioso moccioso dai dolci occhi – che era cresciuto ed era diventato il centro del mio mondo.


Li avevo visti tutti andare via, lasciarmi indietro. Ma ognuno di loro mi aveva donato gioia. Con il loro amore.

 

«Presidente, il Consiglio la sta aspettando».

 

Annuì. Un altro giorno si stava spiegando di fronte a me.

Adesso, toccava a me.

Adesso, l'avrei amata al posto loro.

 

 

 

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Capitolo 12
*** Not Love & Hopefully. ***


Not Love & Hopefully.





Non mi ero innamorato di lei.

Cavolo, no. Anche se c'era chi lo pensava, ed era pura idiozia, non era così. Ci vuole un bel coraggio per fare una cosa simile ed io... non ero un codardo, meglio che sia chiaro. Un vampiro del mio lignaggio, con alle spalle una lunga storia di ricchezza e nobiltà, non può che essere una creatura forte e decisa. Ma soprattutto, oltre a non essere un codardo, non ero nemmeno uno stupido che si gettava a capofitto in situazioni pericolose come quella.

Lei era costantemente braccata. Lo sapevo. Mio padre, un Fukanishi, faceva parte attiva del Consiglio, quindi era impossibile non venirne a conoscenza. Lui, infatti, era uno dei tanti che non amava la sua presenza nella nostra società, per via del suo carattere indomito, del suo sangue di reale e della macchia nel suo dna – credo però che non volesse toglierla di mezzo.

Dopo ciò che era successo tra me e lei – al mio party di compleanno – mio padre non sopportava neanche il suono del suo nome, perché aveva ferito suo figlio, quindi era logico pensare che lui desiderasse la sua morte. Inoltre, c'era stato quell'episodio alla sede del Consiglio, che aveva solo alimentato il suo astio.

Tuttavia, non era così. Mio padre voleva solo che lei – quella tempesta vivente – scappasse via da qualche parte, lontana dalla nostra società, che semplicemente tagliasse i ponti con noi. Con i suoi fratelli e sorelle.

Era una decisione molto astuta, a mio avviso.

Una decisione che le avrebbe salvato la vita.

 

 

Mio padre venne a parlarmene una notte. Mi aveva detto di farmi trovare nella sua stanza al Consiglio e che mi avrebbe raggiunto appena dopo la fine della riunione, perché c'era stato un deprecabile mastodontico problema.

Il problema riguardava una scuola umana.


«Yuki Akawa è morta». Lui non mi guardava. «È stata uccisa da suo zio».

«Cosa... », decisi di aver sentito male. Oppure, che mio padre avesse biascicato le parole. Lui allungò la sua mano sulla mia spalla e me la strinse.

«Ichiro, mi dispia– ».

«NO!».

Mi sentii senza fiato. Afferrai il bavero della mia giacca, cercando di allentarlo,
tentando di salvarmi da quel soffocamento. «Ma che diavolo... ».

 

Era morta? Ma che sciocchezza... no, non era così, forse era scomparsa... aveva finalmente preso la decisione migliore per tutti. Scomparsa, sì. Poteva essere la realtà. Ma non morta. Non quello. Non era possibile.

Io non avevo fatto neanche in tempo a dirle quanto poco elegante fosse. Quanto poco femminile, gentile e paziente fosse.

Non mi piaceva. Accidenti, no.

 

Chi sarebbe così idiota?

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Eccola correre. Sbucò fuori dal lato di quella microscopica casetta di montagna di umani. Una macchia bianca su uno sfondo azzurro e verde. I suoi capelli, più corti rispetto a come me li ricordavo, si agitavano per ogni suo passo spedito. Indossava un abito bianco.

La osservai, al riparo dal sole, mentre il suo viso veniva baciato dalla luce e un sorriso le riempiva le guance. Si voltava, rideva.

Se doveva raggiungere quell'essere umano, lei era sempre di corsa. Era sempre veloce – feci una smorfia, di nascosto.

Lei intercettò la mia espressione e mi rivolse un'occhiata sorniona, divertita. Io arrossii. In modo aristocratico.

E poi, sparì di nuovo... e questa volta, non stava vestendo i panni di nessuno. Era solo una ragazza.

Una ragazza viva e vegeta.

E sperai, in cuor mio, che fosse anche felice.

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Capitolo 13
*** Heart & Became. ***


Heart & Became.




Meravigliata, nelle mie pupille si riflettevano scoppi di colori, simili a fuochi d'artificio. Veli rossi, tessuti dorati. Il bianco fantasma, lo scintillio di una lama. Il blu delle onde salate.

Quello fu il primo spettacolo teatrale a cui assistetti.

«Guarda attentamente, Makoto», mia nonna si era chinata verso di me, con le labbra sempre pronte al sorriso. «non è un mondo meraviglioso, questo?».

Non riuscii a risponderle. Stringevo la sua mano, sentivo il suo calore attraverso il dolce palmo, le dita gentili. Amavo quella stretta. Amavo che lei mi avesse portata lì. Che io potessi ammirare in prima persona le opere che avvenivano al teatro Minamiza.

«Nonna», bisbigliai. «È una sensazione strana».

«Quale?».

Non sapevo esprimerlo. Mi toccai il petto, senza staccare gli occhi dal palco. «Qui», non eravamo nemmeno sedute, eravamo in piedi, in fondo, quasi alle porte: tuttavia, quella era una magia che riusciva a raggiungere qualsiasi luogo, fino ai confini. «È come se fosse pieno». Non riuscivo a smettere di sorridere.

Udii mia nonna ridacchiare, chiudere le palpebre. «Si chiama emozione. Hai trovato qualcosa di molto importante». Il suono della sua risata, il buio della sala, le danze che avvenivano sul palco, gli spettatori in religioso silenzio – quello diventò il mio più grande ricordo.

«Tienilo stretto al cuore, Makoto, e ti sentirai sempre viva».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Non dubito avesse ragione.

Furono quelle sue parole a farmi voltare verso di lei, incantata e meravigliata. Avevano avuto un forte impatto su di me. Ero così piccola, eppure avevo appena trovato il mio cammino. Sapevo chi volevo essere. Sapevo chi ero. Anche rimanendo sola, il mio sentiero era già illuminato e a me non restava altro che percorrerlo.


Forse, però, era troppo luminoso. Così tanto da accecarmi, e così... non vedevo più. Non vedevo le cose che stavano realmente accadendo intorno a me e su di me.


Non ne sapevo niente, io. Non conoscevo i miei genitori, perché loro erano scomparsi dalla mia vita, lasciandomi indietro – lasciandomi a chiedere, "quando tornano mamma e papà?". Più avanti, la domanda si era trasformata in "perché se n'è sono andati?".

Ma avevo la nonna ed era abbastanza. Avevo il teatro. Il mio sogno. Era abbastanza.

 

Avevo vissuto nel suo affetto, nella sua dolcezza e nel suo amore fino a nove anni. Dopo di ché, lei morì. Ero rimasta sola, in un fragile guscio, in una casa grande, tipicamente giapponese, con le pareti shoji che scricchiolavano ogni volta che le facevi scorrere e il tatami consumato della sala, duro sotto la pianta dei piedi. A quel punto, non mi restò altro che osservare il cielo, di notte, bevendo dalla sua tazza di tè. Pensando continuamente ai giorni passati insieme e alla passione che condividevamo.

Quindi non sapevo niente di niente. Ero così ignara ed ingenua.
 

Avevo tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, come un bambino spaventato dagli incubi. In questo modo, avevo permesso agli orribili incubi di arrampicarsi su per la mia realtà, ed io stessa lo ero diventata. Io stessa ero ormai un incubo in carne ed ossa.

Così mi aveva rivelato.

«Sei un demone». I suoi capelli bianchi mi ricordavano la pelle marmorea e nivea degli attori kabuki. Ma lo sguardo che albergava nei suoi occhi era troppo agguerrito per l'eleganza degli attori. «Makoto, ascolta la mia voce».

 

Sorrisi. Se non potevo vivere come un essere umano – se avevo perso persino la mia umanità e il mio sogno di recitare – allora, in quel caso, non avrei più ascoltato niente.


Avevo preferito chiudere il sipario e squarciare tutte le maschere. Prima, però, avrei portato in scena il mio primo ed ultimo spettacolo.
 

Sarebbe stato un primo atto degno del suo nome.

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Capitolo 14
*** Off & Will. ***


Off & Will. 




 

La porta si richiuse alle sue spalle, producendo un triste e basso cigolio, il più solitario che avessi mai sentito – lasciandosi dietro uno strascico di nome silenzio.

 

Fu in questo modo che finalmente, dopo la bellezza di due settimane, ricalò la pace nella mia vita. Una totale, indiscutibile e rilassante pace.

Già, esatto.


 

Ero stato sottoposto a questa seccatura per fin troppo tempo. A ben vedere, sin dal suo arrivo non avevo pensato altro, se non che fosse tutto una gran scocciatura per me. Ero stato costretto – dall'oggi al domani – a condividere la mia stanza con una ragazza. Una ragazza che avevo ben presto scoperto essere una creatura sovrannaturale e dal pessimo carattere. Dovevo pensare a lei, assicurarmi che nessuno scoprisse la sua natura, sennò questa scocciatura sarebbe cresciuta in maniera esponenziale. Infine, dopo che lei mi aveva raccontato di come se la stessero passando i demoni e i vampiri, mi ero interessato al sintomo della follia manifestato dai primi, e così avevo cominciato ad ingarbugliarmi la testa... ancora di più.

Quindi.

Quindi, per quale ragione mi sentivo così frustrato? Come se... mi fosse stata fatta un'ingiustizia.

 

Mi lasciai cadere sul bordo del materasso. Il suo. Beh, il suo ex letto.

Sospirai, pesantemente. Non l'avrei dimenticata molto presto, non avevo il minimo dubbio su questa cosa. E forse, tutto sommato, il suo carattere non era così terribile. In definitiva...

Quella ragazza sarebbe stata una scocciatura, proprio fino alla fine.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Erano passati pochi giorni e in effetti, la mia vita era tornata alla sua normalità. Ogni piccolo frammento della mia routine era tornato al suo posto, incastrandosi alla perfezione.
Purtroppo.

A lei avevo mostrato solo le cose che mi facevano comodo. Quelle di cui avrei fatto volentieri a meno, invece, me l'ero tenute per me. Anche se sapevo che sarebbe stata in grado di aiutarmi.


«Allora, cinese, mi hai capito? Oppure devo mettermi a parlare la tua lingua del caz– ». Di questo, per esempio, non ne avevo parlato con lei. In realtà non ne avevo parlato con nessuno – perché? Perché era una perdita di tempo, dalla A alla Z, e soprattutto non rappresentava un vero problema. Non c'era bisogno di agitarsi. Avevo già trovato la soluzione.

«Allora?!». Ero molto semplice. Loro mi esponevano le richieste, io li accontentavo; così, erano contenti per un po' e mi lasciavano stare per qualche giorno. E io continuavo a farmi gli affari miei. Era semplice.

 

Solo che, questa volta, c'era qualcosa di diverso.

Erano visibilmente nervosi. Scalpitavano come cavalli – o tori – e sembravano persino a disagio.

Fissavo il suo petto, la collana argentata che pendeva al collo dell'idiota. Con le spalle al muro del corridoio – vuoto, ovviamente –, ero circondato. C'era lui e altri due. Com'è che si chiamavano, in effetti? Bah.

«Veramente non sono cinese», dissi, a bassa voce.

«Non cercare di prendermi in giro. Lo so che tu e quella ragazza siete amici. Molto amici. Sempre appiccicati. Quindi avrai sicuramente il suo numero. Muoviti e dammelo. Hai capito?». Era vero. Lo avevo. Avevamo scambiato i contatti alla fine delle lezioni, il primo giorno, in modo da essere reperibili. Alzai lo sguardo e lo puntai sull'idiota. Aveva un espressione davvero orribile. E questo tizio pensava di far cascare ai suoi piedi... quella ragazza? – chi mi faceva più pena, lei e o lui?

Aprii la bocca per rispondere e... «No, veramente non ce l'ho. Non me l'ha dato. Non siamo granché vicini».

Cosa?

Ma ero – ero impazzito? Per caso avevo sviluppato una qualche sorta di masochismo? Che risposta stupida. Che stupido.

L'altro sorrise. Un ghigno che gli apriva la bocca. «Ah. Ah, certo, come no. È così?». Lo guardavo, interrogativo, cercando di capire dove volesse andare a parare. O a colpirmi. Poi si mosse, in fretta, strappandomi il cellulare dalla tasca del pantalone. Indietreggiò subito e si mise ad armeggiare con lo schermo, cercando di indovinare la password per sbloccarlo. «Ehy!», esclamai, buttandomi in avanti per riprendermelo. Ma subito, gli altri due uomini delle caverne mi afferrarono per le braccia.

Ero incatenato.

«Che rottura. La password? Cos'è, il compleanno di tua mamma?». Provò a schiacciare qualche tasto. Non avrebbe indovinato tanto facilmente, lo sapevo bene. Però, a vederlo con il mio cellulare, mentre invadeva la mia privacy – invadeva me –, cercava di fare chissà che cosa... mi agitava. «Ah, no. Boh, mal che vada si bloccherà». Si rigirò l'apparecchio da una mano all'altra. Mi lanciò un'occhiatina. «Sai, è strano. Fino ad ora hai fatto il bravo cagnolino e hai obbedito come si deve. Non hai fatto troppo schifo. E adesso, rovini tutto... », fece una pausa, si illuminò. Come se quel cervello bacato avesse capito qualcosa. Discutibile. «Ahhh. Ora ho capito. Quella sventola ti piace!».

 

Sgranai gli occhi.

 

Lui scoppiò a ridere. La sua risata mi echeggiò nella testa. «Ma sei proprio scemo, allora! Ma davvero pensi che una così ti possa mai filare? Maledizione, mi fa male lo stomaco... che scherzo della natura... ». Gli altri due ridacchiavano. Non mi interessava. Non mi interessava.

Lui mi guardò. Con malizia. «Stai tranquillo. Ci penserò io, alla tua amichetta, in tua vece».

 

Il mio corpo si mosse da solo. Con le braccia bloccate, spostai la gamba destra e scagliai un calcio alla tibia del bullo. Quello si piegò, elencando una fila di imprecazioni, e io ne approfittai per sfuggirgli. Con l'unico braccio libero, chiusi il pugno e lo caricai contro la faccia dell'altro bullo ancora in piedi, per poi afferrargli il collo e la spalla e buttarlo addosso all'altro.

Ero libero, adesso. Nel giro di qualche secondo. Respirai profondamente. Sollevai il volto e guardai l'idiota per eccellenza.

 

Sorrisi. Yuki sarebbe fiera di me.

 

«Ti conviene iniziare a correre».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Mi asciugai la nuca e la fronte, con un sospiro. Seduto sulla panchina di pietra, rivolto verso il grande atrio ricolmo di verde e bianco, il sole mi baciava il viso. Sembrava che mi stesse dicendo “bravo, bravo”, come una mamma orgogliosa del proprio bambino. Mia madre sarebbe stata orgogliosa del mio operato. Pensandoci, no, tutta la mia famiglia lo sarebbe stata.

Sollevai il telefono. Sbloccai il telefono, disegnando una “H” con l'indice.


Se non raccontavo subito questa storia ad Hokori, non me l'avrebbe mai perdonato.

 

 

 

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Capitolo 15
*** Apart & The Hunter. ***


Apart & The Hunter.






«Potete pensarci su e darmi una risposta domani mattina».
L'uomo davanti a noi era imponente, massiccio, grossi muscoli che si incastravano magistralmente tra loro. I pugni pressati contro i fianchi, ci rivolgeva uno sguardo serio, forse perché in quel momento indossava la sua divisa ufficiale – eppure benevolo, perché ci conosceva da quando eravamo solo degli infanti.
Sì, lo conoscevamo da tempo. Da prima ancora che quelle rughe, intorno alla bocca e vicino agli zigomi comparissero e, normalmente, lo consideravamo come uno zio.
Quando non dovevamo imparare da lui. Adesso, per esempio, dovevamo vederlo come un maestro. «Mi rendo conto che è importante. Pensateci. Non è da decidere su due piedi».


Mi torturavo le mani già da un po'. Smisi, solo per intrecciare le braccia dietro la schiena.

Non sapevo davvero che scelta fare. Forse ero solo troppo piccola ed immatura per decidere.

Con la coda dell'occhio guardai Christian, la neve che gli si era depositata sulle spalle. Essendo gemelli avevamo la stessa età, ma ai miei occhi lui era un adulto fatto e finito, da cima a fondo.
Era la sua espressione, attenta e intelligente? Oppure erano le sue scelte, ponderate e giuste? – avevamo entrambi undici anni, eppure mi sentivo come se tra noi ci fosse un baratro infinito.

«In questi anni, vi è stato dato un assaggio di questa vita; gli allenamenti, le nozioni e alcuni dei segreti che vi circolano intorno. C'è molto altro da sapere e da imparare. Ma allo stesso tempo, c'è molto da rischiare». Il maestro abbozzò un sorriso. «Pensateci stanotte. Si tratta della vostra vita e di come volete viverla – se come normali cittadini o come cacciatori di creature».

 

Chiusi i pugni. Cacciatori. Cittadini. Quale delle due?

 

Christian si voltò verso di me, strinse la mia mano nella sua, sentii il calore della sua pelle raggiungermi – rassicurarmi. Le sue labbra si incurvarono e un dolce sorriso gli illuminò il viso. Poi, si voltò verso il nostro maestro, con un velo di determinazione negli occhi.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Balzai il recintato, dandomi la spinta con le mani, ed atterrai sulla morbida erba. Non mi fermai. Corsi, attraversando il grande campo verde, con la lama dei due pugnali che picchiavano contro le mie cosce. Sollevai la testa, controllando la torre diroccata che si stagliava a poco meno di una decina di metri da me. Una leggera coltre di polvere si sollevò al passaggio del mio obiettivo. La vidi sbuffare e fuoriuscire da una piccola finestra quadrata.


A quel punto, accelerai.


Raggiunsi la base della torre e mi lanciai all'interno, trovandomi di fronte infinite scale a chiocciola che svettavano verso la cima della torre. Guardai in alto, intravedendo un paio di piedi calpestare uno scalino, e poi scomparire. Era veloce.

Se avessi salito scalino per scalino, non l'avrei mai raggiunto. Digrignai i denti. Avrei fatto diversamente.

Saltai sulla balaustra della scala. Il legno si piegò all'istante, come carta. Allora feci un altro salto, arrampicandomi velocemente sulla balaustra più sopra. Continuai così, ancora e ancora, mentre sentivo la struttura sotto di me cedere ad ogni piccolo colpetto – e sopra di me, udivo i suoi passi scattanti, la polvere sollevarsi ad ondate.

Non dovevo dimenticarmi di questi suoni.

Mi arrampicai ancora e finalmente raggiunsi la cima. Ero senza fiato e madida di sudore, ma ero qui. Mi guardai attorno, lentamente, ispezionando la cima della torre.


Non c'era. Com'era possibile?

Era scappato? E da dove?

Ruotai su me stessa, più volte. La cima della torre era tutta aperta, priva di finestre o parapetti, con delle colonnine che facevano da base per il piccolo tetto spiovente. Mi avvicinai al bordo, aggrappandomi alla colonnina, e guardai in giù. Era davvero molto alto. Sentivo le vertigini solo a dare un'occhiata veloce.

Forse è tornato giù? Ma non può essere saltato da qua, pensai, mettendo un piede indietro, oppure si è nascosto da qualche altra–

 

Improvvisamente, una ventata d'aria arrivò dall'alto e subito dopo un paio di braccia mi inchiodarono. Il suo avambraccio premeva contro il mio collo mentre l'altro mi bloccava la spalla.
«Presa». Corsi subito con le mani, cercando di liberarmi. Era forte, proprio come temevo, oltre ad essere veloce. Le mie unghie graffiavano. No. Non ce l'avrei fatta. Non così.

Mi sentivo la testa leggera, gli angoli della mia visuale diventavano neri.


Pensai a Christian. Pensai al suo sorriso. Alla sua decisione, alla sua determinazione.


Lasciai le braccia dell'uomo e afferrai i pugnali ai miei fianchi, con quel briciolo di lucidità che mi era rimasto in corpo. Ruotai la lama e sferrai un colpo in direzione del mio petto – piuttosto che fallire, sarei felicemente morta!

«HOKORI!». L'uomo mi lasciò andare, io arrancai sulle mie stesse gambe, e fermai il pugnale. La sua punta premeva sui bottoni della mia camicia. Mi voltai di scatto, sollevai la gamba destra e la sferrai al volto del mio avversario, colpendolo in pieno – quello accusò il colpo, fino a sbilanciarsi e cadere sulle ginocchia. Allora lo afferrai dalla nuca, spingendolo a terra, e bloccandolo con un ginocchio sul petto.

«Frena, frena, Hokori!», urlò l'uomo. Lo vidi battere una mano a terra, la guancia rossa. «Stai per caso cercando di uccidermi?!».

«Oh– », cavolo! «Scusa! Mi dimenticavo che sei un po' invecchiato, per queste cose!».


Il mio maestro si stava massaggiando la faccia, borbottando qualche lamento di dolore e forse anche di indignazione. Sollevò la schiena, tirandosi a sedere. «Per poco non ci lasciavo le penne. Dobbiamo rivedere alcune cose, ma», si passò una mano dietro al collo. «Sei stata brava, Hokori».

«Ma non direi. Ti ho perso di vista, mi hai bloccato, e la mia soluzione al problema era di uccidermi», roteai gli occhi. Non molto efficace.

A pensarci ora, era stata proprio una pessima idea. Avrei dovuto tentare di accoltellare lui, che so, al fianco oppure alle braccia...


Il maestro scosse la testa. «Ti sei lasciata condizionare. Sapevi che ero io e non un nemico da cacciare», mi guardò, sorridendo. «tuttavia, è chiaro come il tuo orgoglio di cacciatore sia del tutto sbocciato. Tanto intenso quanto prezioso. Un cacciatore non vorrebbe mai essere il pasto di un demone, oppure lo schiavo di un vampiro. Lo so. Per questo dico che sei stata brava». Lo guardai. Ero orgogliosa di essere una cacciatrice. Di starci provando. «Stai andando bene, Hokori. Anche Chris sarebbe fiero di te».

Guardai in basso. Lo sarebbe stato? – a lui cacciare non era mai piaciuto, d'altronde. Però, pensavo, sarebbe stato fiero di vedermi combattere per proteggere gli umani.


Sorrisi. Non mi sarei fermata.


Per me, e per te, Christian.

 

 

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Capitolo 16
*** Brotherhood & Departures. ***


Brotherhood & Departures.







Quella domenica, mi ero soffermato a studiare mio fratello minore. Non mi capitava spesso, d'altro canto vivevamo nella stessa casa, e di sovente ci incrociavamo nei meandri della residenza; lui, in particolare, non metteva quasi mai piede fuori casa – eccetto per incontrare Yuki, con cui aveva avuto un certo battibecco – quindi potevo incontrarlo quando volevo. Io, contrariamente, uscivo spesso per incontrare le mie dolci compagnie e... beh, sdradicare i soliti pensieri.

Anche quella domenica avrei dovuto recarmi in città. Tuttavia, man mano che la sera si avvicinava e il cielo diventava di un freddo, intenso petrolio, un senso di angoscia e oppressione si era impossessato di me. Per questo scelsi di non uscire di casa.

Mi dissi... rimani lì. Stai accanto a lui. Potrebbe avere bisogno di qualcosa – di te, forse.

Non capivo cosa mi preoccupasse così tanto. Non era come da bambini, quando io e Tetsuya eravamo costretti a quelle sedute di soggiogamento, infinite sessioni. Adesso ne eravamo entrambi liberi. Conservavamo solo i ricordi e le ferite.

 

Tetsuya stava leggendo. Sdraiato sul divano, di fronte al camino, teneva con una mano il libro e l'altro braccio dietro la testa. Io mi ero appoggiato con i gomiti sul dorsale del sofà, sul bordo, e lo fissavo già da dieci minuti abbondanti.

Ad un certo punto, Tetsuya sospirò infastidito, e sollevò gli occhi dalle pagine. «La smetti di fissarmi? Mi stai consumando».

Sogghignai. «Non posso farci niente se il mio adorabile fratello è così... adorabile!».

«Sì, certo. Come no. Che c'è?», chiese, per poi tornare sul libro. «Dimmi di cosa hai bisogno e basta».

Eppure, anni fa, quando eravamo ragazzini, Tetsuya non si sarebbe mai rivolto a me con questo atteggiamento. Non fraintendetemi, a me non importava affatto. Poteva anche darmi del bastardo, se voleva. Sapevo benissimo che lui mi voleva bene, e tanto mi bastava. Solo che non potevo fare a meno di chiedermi cosa fosse cambiato, durante questi nove anni – in lui, tra di noi, in noi.

O forse era solo l'adolescenza. Che ne so.

«No, è che... », mi grattai il mento. «È da tutto il giorno che ho un brutto presentimento».

A quel punto, Tetsuya mi guardò con le sopracciglia appena aggrottate, sopra la copertina del suo libro. «Non ti facevo così sensibile. O intuitivo».

«Perché non lo sono». Esatto. Ma d'altra parte, sono un vampiro. E i vampiri hanno fiuto per tutto. Dei cani da caccia molto intelligenti e molto avidi. «Mah, sarà solo stress represso!».

Mio fratello mi fissò, con la stessa espressione di poc'anzi, come se stesse domandando: “Tu soffri di stress?”, e mi venne da ridere. Non aveva nemmeno idea.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quella notte, imparai una lezione.

 

 

Mi affacciai alla finestra del salotto, contemplando la luna alta in cielo. Il clima era freddo, quasi ghiacciato, decorato dalla luce rossa della luna piena. Era tanto bella quanto inquietante. Quella finestra dava su un ammasso indistinto di alberi, che si allungava per un bel pezzo, quindi c'era ben poco da guardare: tuttavia, restava una delle mie finestre preferite.

La luna rossa, il freddo dell'inverno. Forse era stata proprio la luna ad agitarmi, considerai, tirandomi indietro e richiudendo la finestra.

Tetsuya era ancora sul divano. Avevamo cenato insieme – bistecche al sangue –, punzecchiandoci a vicenda, parlando di un po' di cose, e lui finalmente mi aveva svelato del suo battibecco con Yuki, che onestamente mi aveva fatto un po' ridere. Ma, in realtà, ero felice di sapere che lui si appoggiasse ancora a me, e che non mi vedesse solo come un casanova. Un casanova da quattro soldi, per giunta!

Mi sporsi oltre lo schienale del sofà. Si era addormentato, il libro aperto sul petto.

Volevo scrivergli qualcosa sulla fronte. Una penna, mi serviva una penna. Mi guardai attorno, ma a primo acchito non mi sembrò di trovarne nessuna. Scattai rapido da un punto all'altro della stanza, cercando una penna – o un pennarello –, rovistando tra le librerie, sulle poltrone, sul tavolo, ma non ne vedevo traccia.

 

Gettai un'occhiata verso Tetsuya. Dormiva come un agnellino.

Se mi fossi dato una mossa, forse potevo cercarla in camera mia.

 

Muovendomi silenzioso come un fantasma, superai le porte del salotto, lasciandole socchiuse alle mie spalle. Mi voltai sulla destra, trovando subito la scala che conduceva al piano superiore della residenza. Salii in fretta i gradini in marmo, cercando di fare il minimo rumore; era complicato perché a quell'ora la casa diventava parecchio silenziosa, gli inservienti finivano di sbrigare qualche lavoro e poi filavano a riposare.
Quando raggiunsi la cima delle scale, feci per svoltare l'angolo, dove si trovava la porta della mia camera. Alzai il piede – e mi bloccai.

Quello che percepii, chiaramente, nitidamente, come se mi fosse sui vestiti – era un forte odore di sangue.


Sapete, quando un vampiro o un demone sente odore di sangue, perde interesse per qualsiasi altra cosa. Persino sulla possibilità di scrivere la faccia del fratello.

Mi voltai, puntando il corridoio di fronte. Come un automa, camminai lentamente, procedendo dritto. Mi sentii in trance. Non importava altro, in quell'istante. Non era tanto il desiderio di berlo, quel sangue, ma di scoprire a chi apparteneva. La curiosità insaziabile, l'aspettativa incendiante.
Continuavo a camminare e l'odore era talmente forte da accendere i miei occhi di scarlatto, senza che me ne rendessi conto.

 

In quel momento, sebbene breve, ero un tutt'uno con quella luna.

 

Raggiunsi una porta, chiusa. Misi la mano sul pomello, ruotandolo lentamente, assaporando i suoni gracchianti del chiavistello, e infine la porta si schiuse. La spinsi, in un singolo semplice gesto.

Vidi un letto. Grande, matrimoniale. Dalle coperte rosse.

No, no, un attimo. Non erano coperte. Erano petali, tanti, numerosissimi petali. Il loro profumo si unì a quello del sangue, stordendomi per un secondo.

Continuai a guardare, fino a ché non riconobbi due figure distese.

 

Fu così che, sulla soglia della loro camera da letto, vidi mia madre e mio padre morti, l'uno accanto all'altra.

Il loro sangue che sgorgava dalle gole, spandendosi come una grande e orribile rosa.

Una rosa che sapeva di morte.

 

 

Avevo imparato una lezione, quella notte.
Avevo imparato a fidarmi del mio istinto. E ad evitarlo.

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Capitolo 17
*** Detention & Release. ***


Detention & Release



 

Ogni domenica, mamma e papà andavano a cercare mio fratello, dovunque lui fosse, e gli ricordavano che era la domenica. Allora Keiichiro si immobilizzava, lasciando qualsiasi impegno, qualsiasi gioco, e guardava i nostri genitori sbarrando gli occhi e stringendo le labbra, come se volesse urlargli addosso qualche orribile frase. Ma non lo faceva. Naturalmente, alla fine, mio fratello non faceva altro che seguire i nostri genitori, abbandonandosi tutto alle spalle.
A quel tempo, lui aveva otto anni ed io sette. Dei bambini. E come ogni bambino che si rispetti, molto spesso capitava che io e Yuki fossimo alle prese con qualche gioco dei nostri; il più delle volte si trattava di andare a spasso nel bosco, rischiando di romperci tutte le ossa, rincorrendoci tra un ramo e l'altro, mentre Keiichiro strepitava ogni volta che alzavamo la voce, impaurito alla possibilità che ci facessimo davvero male.

Poi nostra madre arrivava, apparendo all'improvviso, spesso proprio alle nostre spalle. Era molto bella. Ma aveva uno sguardo strano, il più delle volte. Come se i suoi occhi non riuscissero a vedere bene.

«Kei, è domenica», diceva, dolcemente, toccando la spalla di mio fratello maggiore. Si rivolgeva a me e a Yuki, con altrettanta gentilezza: «Per voi è il momento di riposare, bambini».

 

Riposare?, mi chiedevo, squadrando il cielo notturno sopra le nostre teste. Ma se erano appena le otto di sera! Anche Yuki era in dubbio, e inclinava la testa di lato, con una buffa espressione interrogativa. Io e lei ci lanciavamo un'occhiata, ponendoci la stessa domanda.

«Non preoccupatevi», diceva Keiichiro, un sorriso storto. «Giocheremo domani. Ve lo prometto, okay?».

 

E spariva, portato via da nostra madre, lungo il sentiero costeggiato dai pini.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«BASTA!». Le urla di Keiichiro mi destarono. Scattai sulla sedia, quasi sul punto di rovesciarmi a terra, e spalancai gli occhi di fronte a me. Ansimante, sperduto, avvertii una fitta lancinante alla tempia e mi lamentai rumorosamente. La testa mi faceva un male incredibile. Un male insopportabile.

Mentre percepivo gli aghi nella mia tempia, riuscii a sollevare la testa, lentamente, e a trovare i nostri genitori di fronte a noi. Un panno rosso – il mio sangue, capii – mi copriva la vista, ma riuscivo ancora a vederli.
Erano seduti su due poltrone di velluto scarlatto; mio padre aveva le gambe accavallate, mia madre le mani in grembo. Entrambi avevano un sorriso serio, imperscrutabile. Mio padre si voltò verso di me. Le pupille nere come il petrolio si allargarono come se volessero risucchiare tutto il viola dei suoi occhi – per poi stringersi come lame aguzze.

«Tetsuya!», gridò ancora mio fratello.

Mi girai di scatto, verso la mia destra, scuotendomi dall'interno. Keiichiro era accanto a me. Come tutte le domeniche da un po' di tempo a questa parte. La sua faccia, i lineamenti delicati tipici di un ragazzino, erano chiazzati di sangue. La bocca ringhiava, sporca di rosso, e i lunghi canini stridevano sull'arcata dei denti inferiore. Le sue gengive erano di un intenso rosa.

Anche questo era tipico della nostra domenica.

Lo fissai, sbuffando dalle narici e respirando ansioso.

 

Era stato un sogno breve, ma era stato un bel sogno. Rivedere per un attimo i nostri giochi, pericolosi e stupidi, era stato bello.

Ma la nostra realtà era questa. Adesso ero tornato alla nostra quotidianità. A Keiichiro che sbraitava, i polsi legati e bruciati dalle corde, le sedie a cui eravamo costretti, il muro rovinato dai colpi.

I nostri genitori, l'uno accanto all'altra, che ci osservavano con la vacuità di una bambola.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

«Basta dormire!».

Lentamente, aprii le palpebre. Mi ero addormentato senza nemmeno farci caso. Circondati dal verde del prato, immersi nella calma della natura, con il solo cinguettio e fruscio delle foglie a ricordarci che il tempo scorreva ancora, nonostante tutto... era inevitabile addormentarsi. Specialmente perché la luce era calda, abbagliante, anche al riparo sotto l'ombra di un albero – e io ero pur sempre un vampiro.

Tuttavia. Tuttavia, nonostante l'ambiente, il mio sonno era stato... terribile. Davvero, davvero terribile. Quei ricordi mi avevano attanagliato, all'improvviso, crudelmente.

E lei mi aveva salvato, con la sua voce. Con quella piccola esclamazione, che non avevo colto subito. Colei che, orgogliosamente, portava corti capelli del colore del ciliegio. Sorrisi, mentre il suo volto – preoccupato – occupava il mio campo visivo. Ero sdraiato sull'erba e mi ero preso l'ardita libertà di usare le sue gambe come cuscino. Ma d'altronde, qual era l'alternativa?

 

«Perché stai sorridendo?», borbottò, con tono un po' offeso. «Fino a poco fa non mi sembravi tanto allegro... era un incubo?».

C'era qualcosa che mi frullava per la testa da molto tempo, ormai. Persino troppo. Non sapevo come dirglielo e non sapevo nemmeno se volevo farlo. Sapete, non potevo rischiare che si montasse la testa.

«Hai una faccia buffa. Niente di più, niente di meno».

Un vampiro come me non avrebbe – e immagino che non dovrebbe – mai palesato il suo sentimento per un essere umana. Peraltro.

«Come sarebbe a dire una faccia buffa?! E io che ti ho svegliato perché sembravi sofferente!».

Eppure, non mi sentivo più un vampiro da un po'. Indubbiamente, non mi sentivo un vampiro normale. Ma poi, chi aveva il compito di decidere cosa fosse normale, per noi? – per me?

«E dovrei ringraziarti?».

«Beh... no. Non è che devi... senti, lo sai che c'è?». Corrugò le sopracciglia. «Io ti avevo portato il budino, insieme al nostro pranzo. Ma adesso, dato che sei così ingrato, me lo mangerò tutto io. Ben ti stà».

 

Spostai lo sguardo verso l'alto, incrociando il suo, che tentava di apparire il più indignato possibile, e che però cedeva sempre a concedermi una sfumatura affettuosa. Mi sentivo stordito. Ogni volta che quel luccichio turchino mi guardava, perdevo la mia compostezza. Mi perdevo. E poi mi ritrovavo, lì, accanto a lei – ad una piccola, indifesa essere umana.
No, non ero per niente un vampiro normale, nemmeno per sbaglio. Ormai non ero né un vampiro né una qualsiasi altra creatura di quel mondo. Ero solo Tetsuya. Un ragazzo che era nato, cresciuto, che a volte osservava vacuamente ciò che aveva intorno. Forse con un cuore.

«Sayumi».

Ma mi rendeva felice.

«Okay, tieni il budino. Non sono così cattiva».

E pensai che, a quel punto, avrei potuto palesare qualsiasi sentimento.

«Non voglio il budino. Non ora».

«Allora me lo mangio io».

«Come vuoi». Mi alzai, mettendomi a sedere. «Sayumi?».

«Sì?».

«Sono innamorato di te», sorrisi, fino a sentire le guance dolermi. «Voglio stare con te. E preparati, perché sto per baciarti».

 

Il budino le finì sulla gonna.

 

 

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Capitolo 18
*** Bravery & Lovingly. ***


Bravery & Lovingly.




 

I miei genitori, quando ero piccola, mi dissero che mi misero questo nome perché, appena nata, gli ero sembrata un fiore in procinto di sbocciare. Con le guance rosa, gli occhi lucidi dal pianto, e la pelle luccicante – l'avevo trovato strano, parecchio strano. Un bebè che ricorda un fiore... però, soprattutto, mi aveva fatto sorridere.

Perché, ancora una volta, avevo avuto la conferma che loro avevano sempre pensato a me. Non facevano altro che pensare a me. Sin dal primo battito del mio cuore, mi hanno amata immensamente. Mi hanno sempre pensata, in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza, facendo tutto con me al centro di ogni cosa. Nei loro progetti, io c'ero sempre.

Pensandoci da adulta, dopo tutto questo tempo, mi veniva una gran tristezza. Una tristezza che a volte sapeva di calore, altre volte di pura malinconia.

 

Vorrei avergli detto qualcosa. Ma che cosa, poi? – le parole non sono mai abbastanza. Anche se avessero vissuto per tutta la loro vita, arrivando anche a cent'anni, per poi morire nel calore del loro letto – e non nel gelo dell'oceano – avrei sempre avuto il rimpianto di non avergli detto abbastanza. Di non avergli ripetuto quanto li amavo e quanto gli ero grata. Quanto non volevo che mi lasciassero. Che non importava la mia età, avrei sempre avuto bisogno dei miei genitori.


C'erano state numerose volte in cui avevo pianto lacrime amare, desiderando di essere morta insieme a loro. E poi, dopo poco, mi davo della stupida ingrata – erano morti, facendo tutto il possibile per salvarmi la vita, e io avevo il coraggio di chiedere di morire?

Vanificando ogni cosa.

Ma non era facile. Ero stata da sola. Su quell'isola. Circondata dalla paura, dalla morte, dall'ignoto. Con la consapevolezza che nelle profondità dell'oceano, a pochi chilometri dalla terra su cui stavo vivendo, si era formato un grumo di persone e di morte. Persone che avevo visto, indicato, a cui avevo stretto la mano, con cui avevo anche riso.

E poi, i miei genitori. Le grosse buche che avevo scavato, con tutte le mie forze, quelle poche che mi erano rimaste.


Gli ultimi baci.


Le ultime promesse.


E l'eterno addio.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Per essere il marito di mia cugina te la sei decisamente presa comoda, prima di farti vedere, eh?». Scosse la testa. «Cominciavo a credere che tu fossi solo una sua allucinazione».

«Sono più che reale. Se vuoi, posso anche prov– », la mia gomitata lo fermò in tempo. «Non avevo il benché minimo interesse a– », un altro colpetto tra le sue costole. «... beh, ora sono qui, no?».

Mio cugino spostò lo sguardo su di me, corrugando la fronte, e io tirai gli angoli della labbra in un sorriso imbarazzato.

 

… già, avrei dovuto immaginarmelo. Voglio dire... forse era stata proprio una stupida idea, la mia, ma io e Tetsuya eravamo sposati già da un anno e ci tenevo davvero tanto a presentarlo a mio cugino. E pensai che fosse importante anche per lui, malgrado le brutte maniere che stava dimostrando a tavola, perché sapevo che mi voleva bene. Anzi, a dir il vero, era stato proprio lui a farmi pressioni affinché lo andassi a trovare in Scozia con Tetsuya; mi diceva, “quando ti decidi a farmelo conoscere?”, oppure, “non è che è un qualche gangster giapponese?” e a quel punto mi veniva da ridere perché no, non era un gangster. Era solo un vampiro con poteri di fuoco e lunghe zanne.

Alla fine poi, ne avevo parlato con Tetsuya, e lui era rimasto sorpreso. Non conosceva nessuno della mia famiglia, ad eccezione di mia zia, con cui avevo vissuto a Yoshino. Pensai che forse non voleva. Invece no. Aveva sorriso, era andato a prendere la carta di credito e il computer e aveva acquistato due biglietti per la Scozia.

Sì, molto... molto velocemente.

 

Ed ora eccoci qui.

Ad un tavolo bianco e rotondo, imbandito di scones, pasticcini, tè caldo agli agrumi ed uno stupendo mazzo di anemoni che giaceva steso accanto a me, un pensiero da parte di Keith.

E per Tetsuya, invece, uno sguardo supponente e ironia a palate, pensai, osservando prima mio marito alla mia sinistra e poi mio cugino, seduto di fronte a noi. Mi mordicchiai le labbra.


Subito dopo – avvertendo il mio sguardo su di lui – Tetsuya si inclinò verso di me, sussurrandomi all'orecchio. «Per quale ragione devo sopportare questo piccolo omuncolo?».

«Ehy!», esclamò Keith, alzando in piedi e sbattendo le mani sul tavolo. «Non parlarle all'orecchio! È maleducazione, non lo sai?!».

«Keith, d-dai, stai calmo».

 

Si rimise seduto, sbuffando. «Io sono seriamente preoccupato». Mi rivolse i suoi occhi verde-acqua, penetranti proprio come li ricordavo. «Ti ho lasciato in Giappone quando avevi solo quattordici anni e adesso sei una donna di ventiquattro». Lo vidi incupirsi, spegnersi. Come se si sentisse in colpa. Poi tornò a guardarmi, con una luce determinata e, al contempo, di scuse. «Ci siamo visti pochissimo in questo lasso di tempo e mi dispiace molto per questo. Mi dispiace perché io e te siamo un po' ciò che ci rimane, no? E la mia assenza ha generato delle conseguenze. Se ci fossi stato... », forse i miei occhi si erano fatti lucidi, perché li sentii bruciare... una lacrima stava per varcare la soglia, quando Keith continuò. «... non avresti sposato questo bellimbusto rifatto».

«Cosa?».

«Cosa?».

 

Nel caso ve lo steste chiedendo, no, Tetsuya non uccise mio cugino Keith. E no, Keith non imparò a trattarlo bene.

Però, sapete, sono quasi certa che impararono a stare nella stessa stanza.

Per il mio bene.

Perché queste due persone mi amavano e io amavo loro.

 

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Capitolo 19
*** Someone Else & Myself. ***


Someone Else & Myself





«Hai capito? Tu entri, fai un giretto, tanto per», il ragazzo più grande mi sorrise. «e ti arraffi il tesoro. Facile, no?».

 

Non feci in tempo a rispondere che, con uno spintone, fui gettato fuori dal colonnato che ci aveva fatto da scudo fino ad ora. Incespicai sui miei piedi per qualche metro prima di ritrovare l'equilibrio e soprattutto la calma – poi mi pietrificai. I miei occhi erano puntati a terra, la mia schiena incurvata come il guscio di una lumaca. Stavo cercando il coraggio di fare il primo passo, ma era difficile. Il centro commerciale stava bisbigliando tutto intorno a me, come se avesse già capito tutto. Le persone sfilavano da tutte le parti, in coppie o in famiglia, e si sentivano risate, schiamazzi, i suoni improvviso e frastornanti dei cabinati di videogiochi, i motori delle scale mobili e dell'aria condizionata installata al soffitto.

«Takeshi, ti muovi?». Sobbalzai. Dovevo muovermi. Se facevo il primo passo, poi gli altri sarebbero venuti da sé. Automatici.

Alzai la testa, raddrizzai la schiena. Per prima cosa, dovevo passare inosservato, giusto? – allora tirai su la cerniera della felpa e mi calai il cappuccio sulla testa. Qualcosa, nella mia testa di quattordicenne, mi disse che in questo modo nessuno si sarebbe curato di me.

Poi, sotto gli sguardi inquisitori dei miei compagni, le mie gambe di piombo si iniziarono a muovere.

Ecco, esatto. Proprio così. Un passo alla volta.


Il negozio era a poco meno di dieci metri. Di fronte ad una panchina, con un bel cane dal pelo grigio e bianco, e una coppia di anziani che borbottavano.

Cercavo di camminare senza trascinare la gomma sul pavimento. Dovevo evitare rumori superflui. Dovevo passare inosservato. Non c'ero. Non c'ero.

Un'ombra.

 

 

E così, sbattendo le ciglia, lo scaffale del negozio apparve dinanzi a me. Le ciglia tremarono, stupite, il mio sguardo si spostò da un punto all'altro. Non riuscivo a concentrarlo su un punto unico. Ci vedevo un po' male, dovevo portare gli occhiali, ma non lo facevo mai perché non era molto fico. O almeno così avevano detto i miei compagni.

E adesso invece desideravo sentirne il peso sul setto del naso, o dietro le orecchie. Ero abbastanza vicino agli scaffali da vederci, ma la vista continuava ad appannarsi. Senza ragione.

Sollevai una mano. Le mie dita colmarono tutta la distanza tra me e un coltello da caccia. Avevo i palmi sudati. Toccai l'impugnatura gommosa. Non sapevo se mi stavano guardando, tuttavia lo presi. Stretto nella mano, notai a malapena il peso del coltello. Me lo rigirai sul palmo, lo esaminai attentamente, poi la infilai nella tasca, insieme all'oggetto.

«Serve aiuto?».

«No, grazie, sto guardando in giro», annuii e mi girai, continuando a guardare gli scaffali, stavolta quelli di un'altra corsia.

 

Respirai. I battiti cardiaci mi rimbombarono nella testa e nelle orecchie. Mi aveva spaventato a morte, probabilmente avevo appena perso dieci anni di vita.

Ma perché mi ero cacciato in quella stupida prova? Così l'avevano chiamata. Una prova. Per vedere se ero uno apposto, se meritavo di stare insieme a loro, se non ero fonte di vergogna – e soprattutto, dovevo dimostrare che la codardia non era nel mio sangue. Beh, se continuavo così, avrei solo dimostrato come sapevo svenire.

Cos'altro volevano?, mi domandai. Il tirapugni. Volevano un tirapugni, giusto.

 

Era un oggetto piccolo. Non pensai che avrebbe rappresentato un problema, di sicuro non quanto un coltello. Camminai lentamente, guardando prima a sinistra, in mezzo agli occhiali da sole e ai guanti a strappo, e dopo subito a destra. Il mio sguardo andò anche verso il soffitto, alla veloce ricerca di telecamere. Non ne vidi.

Eccolo, mi fermai. L'avevo trovato. Era proprio alla fine di questo scaffale sulla destra, accanto alla cassa.

Anche stavolta, concentrai tutte le mie attenzioni sul tirapugni di ferro. Brillava leggermente, uno scintillio qua e là. Era freddo, liscio e pesante. Lo guardai fra le palpebre e lo lasciai scivolare sulle mie dita, riconoscendo quanto largo mi calzasse. E riconfermai, era pesante, ma quei ragazzi sarebbero stati in grado di maneggiarlo. Forse. Supposi. Non mi interessava, a quel punto.

Mi voltai.

Volevo solo andarmene da quel negozio.

«Scusa un attimo, ragazzino».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

L'erba era fresca. Non fredda, non calda. Un grande, immenso letto naturale, che di tanto in tanto ci aveva solleticato le guance. Su cui i miei – e i suoi, soprattutto – capelli affondavano, confondendosi nel verde sfolgorante e vivo.

Sollevai la testa, tirando su con me qualche sottile ciuffo d'erba, e mi rigirai sul fianco. Sorrisi, quando la vidi stesa sulla schiena.

«Lo sai... », accarezzai la sua pancia, percorrendo gentilmente l'ampia circonferenza. «... quando nascerai e diventerai un po' più grande, il tuo papà ti porterà nella sua città... e ti farà conoscere tante persone, tanti luoghi, tanti ricordi... ». La mia mano si trattenne nella parte bassa, ed aspettai. Sentii un piccolo colpetto. Leggero, mantenuto. «Sei già molto più brava della mamma a misurare la tua forza».

Ridacchiai, scorrendo il mio sguardo sul suo viso. Per fortuna si era addormentata, altrimenti mi avrebbe riconfermato che non sapeva misurarsi. Anche se sembrava così delicata e angelica, mentre dormiva, in mezzo all'erba del prato e alle lavande.

Tornai a parlare con la pancia. «Yuka», Yuki non voleva che la chiamassi così, perché aveva paura che si abituasse a quel nome, e non era sicura di volerle dare proprio quello. «lo sai, per tutto questo tempo ne sono successe di tutti i colori. Eppure, tutto quel che è accaduto nella mia vita, da quando ho conosciuto la tua mamma, non l'ho mai considerato brutto. Non quanto le cose che avevo fatto prima. Beh, a parte quando lei morì. Per quello non ci sono parole, piccola. Non farmi domande, te lo spiegheremo più in là. In ogni caso», mi lasciai cadere sulla schiena, girando la testa per guardare il viso di mia moglie, accarezzando quello della mia futura bambina. «se tutto questo non fosse mai successo... ».

Se tutto questo non fosse successo... ora non saremmo qui, non è vero?

E io starei vivendo in balie di prove. Alla mercé delle mie angosce. Invece ero lì.
 

Ero vivo, respiravo, ed ero libero.
 

E lo sarei stato per sempre.

 

 

 

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Capitolo 20
*** First & Heartbeat. ***


First & Heartbeat.





Spalancai la finestra della mia camera e una folata di vento autunnale mi spazzò via i capelli dalla fronte. Di fronte a me, si estendeva a macchia d'olio il bosco, circondando la nostra residenza in un grande abbraccio. Mi lanciai fuori, scavalcando la finestra, senza curarmi di cosa ci fosse ad aspettarmi laggiù. Non mi interessò minimamente; poteva anche esserci un bel letto di spine, una vasca di piranha, una nube di veleno mortale.


Anzi!


Sarebbe stato quasi meglio. Così forse quel primitivo si sarebbe sentito in colpa per aver scatenato il mio fastidio – no, la mia rabbia. Come al solito.

 

Invece, atterrai sul morbido. Foglie morte e folta erba ricopriva una buona parte di quel terreno, proprio accanto alla parete della casa. Sdraiata su quella nuvola verde, schioccai la lingua. Tsk. Gli era andata bene.
Mi tirai su e, una volta in piedi, cominciai a cmaminare. Ecco qua. Quella sarebbe stata l'ennesima scampagnata solitaria.

Beh, non me ne importava proprio niente. Un fico secco, per l'esattezza. La solitudine non mi dispiaceva affatto, sapeva essere confortante; e poi, se non avevi mai saggiato la compagnia e l'amicizia, allora il problema non si poneva. Non sapevi cosa ti stavi perdendo, no? Ed era il mio caso.

 

Calpestavo le foglie secche con foga, mentre attraversavo il bosco, che scricchiolavano sotto le mie scarpe come cocci di vetro. Ogni volta che litigavo con lui, uscire nel bosco mi aiutava a tranquillizzarmi. Mi faceva sentire un po' compresa. La natura poteva capirmi. Mi capiva. Ma non lui. Non mio padre. L'uomo che, in teoria, avrebbe dovuto amarmi con tutto se stesso – non faceva nemmeno lo sforzo di capire. Capire cosa gli dicevo. Eppure lui lo sapeva che le cose erano già abbastanza complicate, che vivere come una mezzosangue era una rottura...

 

Mi morsi le labbra, fermandomi. Ero circondata dagli alberi gialli, cespugli spogli e una valanga di foglie riempivano la strada intorno a me. Mi sentivo così arrabbiata che la natura, per quella volta, non faceva che peggiorarmi l'umore. Nemmeno lei riusciva a tranquillizzarmi.

Le cose andavano male, andavano male dappertutto, a 360°.

Camminai per qualche altro metro. Mia madre diceva che la mia età non mi aiutava a trovare la pace dei sensi. Mio padre diceva che una ragazzina di tredici anni non poteva pretendere di comportarsi da adulta e, tantomeno, di fare la bambina. Allora, esattamente, cosa dovevo fare? Restare chiusa in camera mia ad aspettare di crescere, come una pianta? Ma se nessuno mi dava dell'acqua e del sole, sarei morta ben presto. Questo lo sapevano?

Mi sedetti su un masso sporgente, tirando le ginocchia al petto. Stupido di un padre. Stupido.

 

Quanto era stupido!

 

E quanto ero stupida io. Sentii un rumore. Non mi agitai. Ero nel bosco, quindi i rumori erano normali. Rimasi nella mia posizione, la fronte schiacciata sulle ginocchia.

Il rumore si ripeté. A quel punto, l'avevo ascoltato un po' meglio – e non mi sembrò tipico del bosco. Sembrava più... il tentativo di aggirarsi silenziosamente.

 

Beh, anche se c'è qualcuno... , che me n'è importava? L'importante era che mi lasciassero stare, tutto qua.

 

«È lei».

Alla voce di uomo che mi solleticò le orecchie – mi irrigidii. Sollevai la testa dalle gambe e tutti i miei sensi si accuirono, insieme, coinvolti in un turbinio di emozioni. Sentii un odore distinto, quello di un demone. Lo sentivo tutti i giorni su mio padre quindi non potevo sbagliarmi – in mezzo all'odore dell'erba, dei fiori e della selvaggina, percepii quello dei demoni.
Mi alzai dal mio masso e feci un paio di passi veloci in avanti, per poi girarmi.

«E mi hanno chiamato per una ragazzina?», sbottò la voce.

 

Schiusi la bocca. Una figura si stava facendo largo tra il fogliame, apparendo dallo stesso punto in cui mi ero seduta poco prima. Alto, imponente, spalle larghe, un viso indurito. Un espressione di noia, di freddezza, di esperienza. Lo fissai con labbra tremanti, immobilizzata.

Avevo paura. Avevo molta paura.

 

L'uomo scavalcò il masso, con aria scocciata. Poi sollevò la mano destra all'altezza del suo viso. E quella, di fronte ai miei occhi inquieti, crebbe di dimensione – no, non proprio; le sue dita crebbero, allungandosi come artigli, mentre si colorava di un nero simile al carbone.
Il demone stava osservando la trasformazione della sua mano, come se volesse assicurarsi che andasse bene – e alla fine, si girò a guardarmi.

 

Io ruotai i piedi e cominciai a correre.

 

Forse mi ero dimenticata di respirare. Correvo talmente tanto e talmente forte che mi facevano male i piedi. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto distante fossi da casa, mentre mi davo della cretina e la paura mi attanagliava, così, all'improvviso.
Faticavo a respirare ed ero completamente scordinata, con le gambe, con le braccia – mentre pensavo a quanto pericolosamente ero lontana – e allora decisi anche di gettare un'occhiata alle mie spalle. Proprio in tempo per notare il demone che mi inseguiva.


Veloce come una saetta.

 

Il mio piede, invece, si incastrò contro la radice di un albero, facendomi ruzzolare a terra per un paio di metri. Mi girai sulla schiena, tirai un colpo di tosse.


La sua ombra nera si stava avvicinando. Ma per quanto volessi avere controllo sul mio corpo, non riuscivo a rialzarmi.

Mi rivoltai, per rimettermi in piedi, ma qualcosa mi afferrò la caviglia, strattonandomi con violenza. Le mani mi scivolarono sul terriccio e sull'erba, facendomi perdere quel poco di presa che avevo ottenuto, e cozzai il mento a terra.
La mia caviglia venne liberata subito dopo e cercai di approfittarne per rimettermi in piedi, ma le sue mani mi afferrarono per la vita ribaltandomi.

 

Adesso, sdraiata sulla schiena, potevo guardare chiaramente in viso il mio assassino.

Perché non vi erano dubbi. Era colui che avrebbe preso la mia vita.

Non aveva le sopracciglia, notai. Mentre congelavo di paura, tirando le braccia al petto per difendermi, fu quella la seconda cosa che vidi in quell'uomo. Niente sopracciglia e gelidi occhi grigi – che mi fissavano, opachi.

Il demone separò le dita della mano gigantesca, rivelando gli artigli innaturali. La alzò sopra la sua testa. Stava prendendo la mira. Stavo per morire. A tredici anni, mentre non ero né un'adulta né una bambina.


La sua mano si lanciò contro di me ed io urlai.

 

E fu quella volta che, tremante dalla testa ai piedi, l'elettricità prese il sopravvento su di me.

La scarica più forte, intensa e incontrollabile. Essa partì dalla punta delle mie dita, dilatandosi in meno di pochi secondi, ricoprendo un raggio di dieci metri.

In lacrime, aprii lentamente gli occhi. E gridai di nuovo.


Perché quell'uomo senza sopracciglia era appena morto, immobile sopra di me.

 

 

 

 

 

***

 

 

 


 

Quella fu la prima volta che uccisi una persona.

Un vecchio, brutto ricordo. Un incubo che non mi lascerà mai – che, di tanto in tanto, mi capiterà di richiamare, involontariamente. Potrei ancora rivedere l'uomo senza sopracciglia, il suo corpo carbonizzato e il ghiaccio che permeava i suoi occhi.

Ma non ne avevo paura. Non più. Poteva anche capitare, non sarei scappata.

Perché ormai, se le ombre provavano ad assalirmi, io potevo difendermi – io sapevo come difendermi. Io avevo qualcuno qui, qualcuno che avrebbe fatto sparire qualsiasi macchia dal mio cuore e dalla mia mente, con la sua semplice presenza. Con il più piccolo sorriso.

Era il ritratto di Takeshi, persino da addormentata. Solo che, in quel momento, stava per caso nascondendo gli occhi che aveva ereditato.

La strinsi dolcemente a me.

 

Yuka, lo sai?
 

Le Guerriere Dorate erano già fiere di te.

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Capitolo 21
*** Admiration & For Someone. ***


Admiration & For Someone.





 

Quando ero solo una bambina e dovevo presentarmi a qualcuno avevo un modo preciso per farlo – e probabilmente molto irritante per chi mi ascoltava; dicevo il mio nome e cognome, fieramente, e poi cominciavo uno sproloquio sui miei genitori. Esattamente. Che potevano fare di tutto, che avevano fatto di tutto, che loro erano le persone più incredibili del mondo, soprattutto – e a quel punto, il mio interlocutore faceva un sorrisetto o un espressione divertita, e io gli assicuravo che era così.


Non li stavo solo elogiando, in poche parole. Era proprio così. Perché di persone incredibili, sin da quando cominciai ad avere consapevolezza del mondo intorno a me, ne avevo conosciute a bizzeffe – e cavolo se erano strepitosi.

 

Ma mamma e papà erano imbattibili.

E io... volevo essere come loro.

 

 

La prima volta che vidi mia madre usare i suoi poteri avevo sette o otto anni.
Né lei né mio padre ne avevano parlato o fatto accenno; sulle prime, quando finalmente ne parlarono, qualche anno più tardi, in una spiegazione limpida e chiara – cioè, per quanto assurdo fosse il contesto –, mi offesi perché me l'avevano tenuto nascosto per tutto quel tempo. Ne parlai anche con Zen. Ero in vita già da un po', accidenti, e solo adesso sentivo parlare di poteri paranormali, strane abilità e... vampiri, demoni, streghe, dei. E tanto altro.

Ma poi capii.
Non ne avevano mai fatto accenno perché non aveva proprio nessuna importanza.

 

Una sera ne presi coscienza.

Stavamo guardando un film alla televisione. La luce nella stanza accanto era accesa e nel nostro piccolo salotto si era creato un contrasto, tra la lampadina gialla e il chiarore bluastro dello schermo. Con la testa sul petto di papà e il suo braccio intorno alle spalle, era facile che cadessi in preda al sonno. Mamma era accanto a me e la potevo sentire mentre cercava i popcorn nel sacchetto di carta. Ero cullata dai suoni della mia casa, della mia famiglia.

Poi, la corrente saltò, facendoci piombare nell'oscurità più fitta. Scattai sull'attenti, aggrappandomi alle spalle e al collo di mio padre, più forte che potei – dovete sapere che soffrivo il buio. Ne avevo paura, perché credevo volesse mangiarmi.

Immediatamente, papà mi avvolse tra le sue solide e forti braccia. Sentivo le sue carezze sulla testa e la sua voce nelle orecchie.

 

E in men che non si dica, un bagliore azzurro e bianco illuminò a giorno il salotto. Per me fu come vedere la soluzione a qualsiasi problema. Mia madre, in piedi sul divano, con il braccio rivolto verso l'alto. L'elettricità lambiva la sua pelle, fino alla spalla, e il suo sguardo era calmo e dolce.
Furono quei pochi elementi a farmi giungere ad una conclusione – io ne avevo bisogno per essere forte. Per essere imbattibile.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Dopo un anno, purtroppo, io ero ancora io. Dopo dodici mesi di tentativi, di sforzi, di allenamenti, ero ancora la solita anonima bambina.

Senza abilità particolari, priva di... coraggio. Per dirne una.

 

Ma io ne ero convinta, qualcosa doveva accadere, prima o poi. Mamma mi aveva spiegato tutta la storia delle Guerriere Dorate e che un tratto indistinguibile in ognuna di loro erano gli occhi color oro. E io avevo gli occhi di quel colore. Ero fortunata!, pensai, perché questo voleva dire che anch'io ero fantastica come mamma, nonna e le nostre antenate.

L'ho pensato.

 

 

Quella mattina, intorno a mezzogiorno, il sole picchiava così forte che dovetti mettermi all'ombra del grosso albero di fronte casa. Il calore di quella giornata e i raggi solari mi avevano investita con violenza, facendomi girare la testa.
A cavalcioni sul ramo dell'albero, mi rigiravo tra le dita quel lungo nastro rosso che avevo al polso. Mamma me l'aveva regalato poco dopo la mia nascita, come un amuleto. Non sapevo da dove proveniva, se non ché era parte di un oggetto molto, molto importante.


Nascosta dalla chioma verde dell'albero, potevo udire distintamente i cinguettii degli uccellini.

Chiusi gli occhi, mentre una brezza mi solleticava il collo e mi spostava i capelli.

 

«Yuka!». Ecco qua. La mia pace era andata a farsi benedire. «Ehy! Perché mi stai ignorando?».

Aprii un occhio e guardai in basso. «Guarda che ti sento! Non sono sorda!».

«E allora rispondi, tigrotta!».

Zen Osawa. Ah, non avevo proprio voglia di vederlo, oggi. Mi sentivo di pessimo umore. Come se non bastasse, lui aveva già dimostrato di non essere comune come me; immaginai perché i suoi genitori erano entrambi vampiri. Storsi il naso. Così sembrava che volessi dare la colpa a papà, e non mi piaceva.


«Perché quel muso lungo? Yuki ti ha tolto le bambole?».

«Prima di tutto, non gioco con le bambole. E secondo, non ho mai dato motivo di mettermi in punizione. A differenza tua».

Zen arricciò il naso e sbuffò. «Quanto sei antipatica». Beh, tanto meglio, pensai, così mi avrebbe lasciata da sola alle mie delusioni. E invece no. Cominciò a canticchiare. Una canzone che si intitolava “Yuka è un'antipatica di prima categoria”, a quanto pare!

«Zen... ».

«Di priiiimaaaa~ categoooriaaaa~!».

«Zen, senti un po'... ».

«La più acida del mond– ».

«Basta, hai rotto!».


Scattai come un gatto con la coda pestata e afferrai la prima cosa che mi capitò sotto mano, senza nemmeno guardare, e la lanciai di sotto, dritto dritto sulla testa di Zen. Poi ritornai nella mia posizione, braccia conserte, scocciata come non mai.


«AHHHHH!!».

In quel momento, avrei potuto pensare: “Ben ti sta”. Ma quell'urlo tanto acuto e improvviso non era tipico di Zen. Lui non avrebbe mai urlato a quel modo, specialmente perché non gli avevo certo lanciato un'ascia.

Allora mi sporsi e guardai in basso.

E vidi Zen mentre stava combattendo con un serpente di notevoli dimensioni.

 

Terrorizzata, lanciai un urlo anch'io, chiamando il nome del mio amico a squarciagola. Lui lo stringeva appena sotto la testa con le mani, ma la pelle del serpente era scivolosa come acqua. Riusciva a scattare, repentino, aprendo le zanne e allungando la lingua biforcuta sul viso di Zen – ed entrambi si contorcevano, lui con la schiena sull'erba e sulla terra, l'animale sopra di lui, abbastanza lungo da arrivargli ai piedi con la fine della coda.
Il serpente spalancò la bocca, con le mandibole estremamente mobili.

Guardai gli occhi scuri di Zen, dalla cima del mio ramo. Il loro ardore. La loro determinazione. Quell'incendio che li animava.

 

Saltai giù dal ramo, le mani protese in avanti, come un proiettile vagante. Atterrai sopra Zen, sui miei piedi, e strappai il serpente dalla presa del mio amico. «No, Yuka!».

 

E a quel punto, dal profondo del mio corpo crebbe un fragore blu. Era come se dentro la mia anima abitasse una seconda persona che, in quel momento di panico, era uscita per aiutarmi – sotto forma di pura elettricità.
Fu un esplosione di energia che mi annebbiò la coscienza. Le mie mani stringevano il serpente e il mio viso era travolto dall'adrenalina e dalla paura. Non capivo cosa stavo facendo e cosa stava succedendo.

Tutto quello che volevo era salvare Zen.

Non importava altro.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Buongiorno, bella addormentata».

 

Strizzai gli occhi, mugugnando a bassa voce. Per il momento, era il massimo che potessi fare. Sentivo la gola bruciarmi e il corpo pesante come un macigno. Pensai subito che, alla fine, quel serpente fosse riuscito a mordermi.
Ma mia mamma, seduta sul bordo del letto accanto a me, era la personificazione della calma. Se fossi stata morsa, non credo lo sarebbe stata – allora mi tranquillizzai.

Poi, però, mi tornò alla mente tutto il resto. Mi tirai lentamente a sedere, appoggiandomi alla testata del letto. Riconobbi la camera come quella dei miei genitori. Sulle coperte e sul pavimento si stagliavano gli ultimi raggi del sole, arancioni e rossi, colorando il parquet d'autunno.

Mentre mi torturavo le mani, riflettei su come iniziare quel discorso.

«E papà?».

«È andato ad accompagnare Zen a casa sua. Dopo quello che è successo oggi, non poteva certo tornare da solo». Lei ridacchiò. «Anche se non voleva proprio andarsene».

«Oh... c-capisco».

Mamma doveva aver interpretato i miei pensieri. Ci riusciva sempre, d'altronde. «Sta bene, sai? E sta bene solo grazie a te».

«Ma... gli ho lanciato un serpente contro».

Lei arcuò un sopracciglio. «Beh», disse. «è un modo di giocare un po' tragico, devo dirtelo. Non è il caso di farlo di nuovo».

Annuii, con lo sguardo basso.

«Ma tu l'hai salvato subito. Non hai esitato un attimo a prendere quel serpente. Nonostante potessi essere tu quella a farsi molto male. E questo ti fa onore, piccola».

Guardai mia madre. Non me ne ero nemmeno resa conto, ma avevo gli occhi lucidi di lacrimoni. Sentii tutta la mia frustrazione e la delusione sormontarmi come un'onda. «Volevo solo essere speciale come te e papa. Volevo dimostrare di essere forte e coraggiosa e degna del mio nome. Di questo nome. Non voglio essere solo... una bambina che ha paura del buio. Se è questo che devo essere, io non... ».

Mamma non rispose subito. Io mi bloccai, trattenendo un singulto. Sentivo i suoi occhi addosso, ma percepivo uno sguardo pacato, di chi stava pensando affondo. Poi, un caldo sorriso le apparve in volto. La sua pelle era colorata dalla luce del tramonto. «Allora, ci sei riuscita. Sei speciale. Proprio come pensavamo io e tuo padre».

«Perché dici... ».

«Perché sei speciale, Yuka, e l'hai già ampiamente dimostrato. Lo sei. E sono pronta a scommetterci la mia vita».

Ancora, mi sorrise.

«Sei la creatura più speciale di tutte».

 

 

 

Salve di nuovo.

Il mio nome è Yuka Akawa e sono una mezzosangue – un vampiro, un demone. E un'umana.

 

Ero appena diventata imbattibile.

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Capitolo 22
*** Abandonment & Scar. ***


Abandonment & Scar.




Mia nonna mi tirava. Le sue dita stringevano il mio braccio, come un anello di ferro. Come una catena che trascina la sua bestia.

«Nonna Ismet?». Fissai i suoi capelli neri oscillarle sulla schiena, con la confusione dipinta in viso. Lei non mi degnava di uno sguardo, mentre continuava a camminare a passo svelto e deciso, calpestando l'erba – i fiori. Qualsiasi cosa si mettesse nel suo cammino.

Il cielo sopra di noi era plumbeo. Una tela di caotici grigi. Di tanto in tanto, qualche raggio di luce faceva capolino dalle fitte nuvole. Quei raggi facevano male.

«Nonna, mi fai m-male». La sua mano era grande, il mio braccio era piccolo, troppo piccolo. Mi stringeva come se volesse portarselo via. Come se non importasse se, alla fine di quel percorso, solo l'arto fosse con lei. Appoggiai la mia mano sulla sua, cercai di scollarmela di dosso.

Poi lei si voltò, appena appena, e il suo sguardo vitreo mi trafisse come un ago, togliendomi la voce – mentre gli alberi, intorno a noi, ululavano insieme al vento.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Provai un enorme dolore, quando diventai una strega. Un dolore tanto forte da spezzarmi.

 

Abbassai il bicchiere sul bancone e un cubo di ghiaccio rotolò sotto ad un altro. Il mio drink aveva un bel colore ambrato. Sembrava miele.

«È libero, questo posto?».

 

Ricordavo ancora... come la trasformazione fosse considerata pericolosa. Non era detto che la donna prescelta sopravvivesse. Non era strano che morisse. Perché il dolore che provi – dall'interno, alle ossa, agli organi, al collo – era tanto insopportabile quanto visionario. Quando poi finiva quel processo...

«Charlotte? Ti sei addormentata?».


Inclinai le labbra in un sorrisetto e sprofondai la guancia sulle nocche. «No. Ti stavo solo ignorando». Di fronte alla sua espressione teatralmente indignata, continuai: «Sai, l'ultima volta che ho lasciato un posto libero, sono rimasta delusa». Spostai lo sguardo verso la mia sinistra, ed alzai le spalle, incurante. «Prego, accomodati».

«Ti voglio ricordare che sei tu quella che ha fatto la pazza», lui si sedette sullo sgabello accanto. Fece un cenno al barista, lontano un paio di metri, indicando il mio drink. «Non è che ti avessi rifiutata, sai?».

Ci pensai su un secondo. «Immagino di essere stata un filo precipitosa, ad attaccarti, eh?».

Un bicchiere di whisky comparve di fronte al mio compagno – mah, conoscenza forse era più appropriato. Mi voltai verso di lui, in tempo per osservarlo ingollare un sorso del suo alcolico. «Che cosa ci fai qua? Non dovresti essere in Giappone, signor so-tutto-io-delle-streghe?».

Keiichiro indugiò a buttare giù il secondo sorso. Non voleva rispondere, o cosa? No, mi stava solo provocando. Quando mise giù il bicchiere, io ero già annoiata dal suo atteggiamento.

Ma non abbastanza da alzarmi e andarmene, a quanto pareva.

«No, niente affatto. Ho tutta la libertà di viaggiare dove voglio. Quindi, se voglio tornare in Irlanda... », lo vidi avvicinarsi a me, con un caldo sorriso sulle labbra, i capelli biondi sulla fronte. «... a cercarti, posso farlo. Quando voglio». Si ritirò indietro di poco, mantenendo un po' di quella vicinanza. «Mio fratello non ha problemi se decido di andarmene in giro».

«Ah, davvero». Strofinai leggermente il polpastrello sul bordo del bicchiere e quello sibilò per me.

 

Dopo la trasformazione, rimasi nel mio sonno profondo per un mese. Fu il periodo più piacevole della mia infanzia. Il periodo in cui provai meno odio e solitudine. Al mio risveglio, il mio collo era stato marchiato da quel dannato collare nero. Il marchio di fabbrica. Il simbolo che indicava che ero di sua proprietà. Una cosa tanto barbara quanto stupida...

 

«Allora, hai riaperto il tuo negozio?».

«Per forza. Altrimenti rischiavo grosso».

«Suppongo che non smetterai di lavorare come strega... sottobanco».

«Non lascerei mai il mio lavoro principale».

«Certo. Lo chiami così perché è la tua fonte più grossa di introiti».

«Mi piace il lusso, cosa vuoi? E tu, che parli tanto, non stai forse vivendo grazie al tuo spropositato patrimonio?».

«Ah, no. Non più. È demotivante, quindi penso di cercarmi un lavoro o qualcosa del genere».

«Ti fa onore. Immagino».

«Immagini?».

«Potresti quasi sembrare il classico padre di famiglia. Il ché cadrebbe a fagiolo. Anzi, la tua presenza stasera, quella sì che è un perfetto tempismo».

«Ah, sì? Perché?».

«Perché sono incinta. E tu sei il padre».

 

Poi ci fu la comprensione... le “lezioni”, l'immersione nella natura, lo sguardo vitreo di Ismet verso gli alberi, il diario rosicchiato dal tempo... quella donna era ancora viva, là fuori, da qualche parte – no, non da qualche parte. Lei era ancora laggiù, nel regno di quel dio da quattro soldi. Avevo perso l'occasione di ucciderla. Ma in compenso, avevo guadagnato qualcosa di molto meglio – un potere incommensurabile. Che non usavo. Però lo avevo.

Non si sa mai.

 

«Ti sto prendendo in giro. Sto scherzando. Buon Dio, nemmeno ti avessi accoltellato... ».

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Capitolo 23
*** The Rest & The Light. ***


The Rest & The Light.




 

C'era qualcosa che avevo bisogno di sapere. Era più forte di me.

«Bapho». Provai a riflettere, prima di parlare. Provai ad elaborare. Dunque, cominciai. «Ho bisogno di sapere una cosa, da te. Tu hai... tu hai provato tanto ad ucciderli, eri arrabbiato e deluso. Te lo potevo leggere negli occhi», e nella mente, così come nello spirito. «e poi, alla fine, li hai lasciati andare, salvandoli da un catastrofico ed infinito dolore qual è la perdita di una persona amata». Forse era un preambolo troppo lungo.

Baphomet respirò silenziosamente dalle narici, mentre mi ascoltava senza parlare, gli occhi chiusi. La testa appoggiata sui cuscini.

«Tu sapevi di Anima», mormorai. Aveva le palpebre chiuse. Appariva addormentato, ma sapevo che era sveglio. No, non era proprio così: era sveglio in parte, quella che gli permetteva di parlarmi, mentre il suo corpo si riposava. Riguadagnava le energie per non sparire. Pian piano. «Sapevi che, nel crearla, avevo attinto ai tuoi poteri più del solito... », mi fermai, come se servisse a qualcosa. «... in modo da renderla in grado di uccidere persino te».

Udii qualcosa di simile ad un sorriso, un versetto divertito. Era appena uscito, scappato dalle sue labbra nere, tanto da sembrare un'allucinazione. Le palpebre chiuse di Baphomet tremarono impercettibilmente. «Ciononostante», continuai, con un pizzico di confusione – e sonnolenza. «Tu mi hai lasciato vivere. Per tutto quel tempo, e anche adesso. Mi dirai mai perché? Oppure... ».

Oppure mi lascerai a vagare nell'oscurità? Eppure mi sentivo come se avessi ritrovato la luce. Era fievole, fragile, ma era abbastanza.

«Desideri così tanto che ti uccida?».

Spostai la mano lungo il cuscino, seppellendo le dita tra i miei capelli e i suoi, sparpagliati nel suo nido. Lo guardai, aprendo un poco la bocca. Sdraiati, in attesa di cadere in un lungo sonno.
Avrei dovuto... dovevo davvero dire qualcosa? Perché, una volta, molto tempo fa, gli avrei risposto di sì. Senza tentennamenti. Sì, ti prego. Uccidimi. Voglio che tu mi uccida, una volta per tutte, perché sento un nodo alla gola da migliaia di anni. «No. Non voglio. Non è quello che voglio». Non più.


«Allora, non è necessario che tu mi ponga ancora queste domande».

«Bapho».

Non rispose.

Feci un sorriso, arrendevole. Va bene, Baphomet, avevo capito.

Sussurrai di nuovo il suo nome. Lui chiuse le labbra. «Quando ci risveglieremo, la luce ci sarà ancora? Tu ci sarai ancora?».

Baphomet aprì i suoi occhi e i rettangoli bianchi mi osservarono, minuziosi, ma anche stanchi. «Non cesserò mai di esistere. A prescindere da ciò che provo. A prescindere da qualsiasi cosa. Perché io sono un Dio, Ismet».

Sorrisi. La mia mano raggiunse la sua e le sue lunghe dita la raccolsero. Chiudemmo le palpebre, crogiolandoci nella sicurezza che non saremmo mai stati separati. Che il nostro nido sarebbe sempre stato la nostra casa. «È proprio vero, Bapho».

 

Per ancora un po' di tempo, finché ci sarà ancora qualcuno là fuori, la luce ci sarà.

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Capitolo 24
*** Dusk & Madness. ***


Dusk & Madness.




 

Ne avevo sentito parlare.

E da come ne parlavano, sembrava una sorta di sogno etereo. Un'utopia fatta di carne e di ossa. La Elena di Troia del 1400. Una dea scesa in mezzo a noi, creature immonde – scusate, mi sono fatto prendere la mano. In ogni caso, non c'era una voce che fosse in contrasto con le altre, era un fatto su cui nessuno pensava di aprire un dibattito – meno male, perché altrimenti la nostra comunità avrebbe dovuto decisamente rivedere le sue priorità.

Ah, di cosa sto parlando?

Della mia futura sposa. Della futura Imperatrice di tutti i vampiri e di tutti i demoni.

Sapevo qualcosa di lei. Sapevo che Lilith non era il suo vero nome, bensì Lullaby; che sua sorella era morta in circostanze che mi erano oscure e che Lilith era il nome di quest'ultma, adottato poi dall'altra, per salire al trono al posto suo. Ascoltando una storia del genere chiunque giungerebbe alla conclusione che la mia futura sposa abbia assassinato sua sorella, giusto? – intrecciai le dita davanti al mio naso, osservando la sala gremita, le luci basse, la notte che indugiava intorno a noi.

A breve, sarebbe apparsa. Non avevo esattamente idea di come fosse fatta né di quale fosse il suo carattere. Eravamo promessi sposi sin da bambini ed in effetti l'avevo incontrata, per allora. Avevo cercato di richiamarla alla memoria, ma... ricordavo solo un'unica cosa, su di lei.

 

La porta in fondo alla sala si aprì con un boato. La gente, negli abiti eleganti da ballo, spostò l'attenzione in quel punto. I loro occhi, celati da maschere veneziane, e i loro sorrisi, convergevano sulla porte a due ante. Sollevai lo sguardo, appena sopra le mie dita, osservando i tre uomini in completo nero. Erano attenti ad ogni minimo spostamento d'aria, al pulviscolo concentrato nell'atmosfera, al respiro del gentiluomo due metri più in là. Solo quando gli ospiti si fecero indiero, ben consapevoli dell'etichetta, gli uomini entrarono nella sala, seguiti da altre figure. Venivano verso di me.

Io, accomodato sulla poltrona di velluto di fronte alla finestra, attesi.

Gli uomini si divisero, aprendomi la visuale sull'invitata.

Sorrisi. «Lady Lilith Akawa». La luce fioca delle candele gettava una calda penombra sui capelli color del miele, lisci e infinitamente lunghi sulla sua schiena. La maschera veneziana celava i suoi rinnomati occhi oro, consentendomi di osservare solo le labbra sottili e rosa. Non sorrideva, nemmeno un po'.
La vidi piegare appena la schiena e prendere due lembi del suo vestito rosso. Inclinò la testa in avanti, chiuse le palpebre.

«Sir Bael Thàrros». Le sue labbra erano ancora immobili. «È un piacere incontrarvi dopo tanto tempo. Spero che... ».

«Ma davvero?».

Lei fece uno scatto con la bocca, richiudendola. «Scusate?».

Gongolai. Forse non avrei dovuto punzecchiarla. Non ancora, per lo meno. «Perché non balliamo, Lady Lilith?».

 

Fu la prima volta che toccai la sua mano. Il suo guanto, per la verità, perché ogni nobildonna indossava i guanti ad un ballo. Eppure, nonostante la sua pelle mi era lontaa, fu abbastanza per percepire tutti i suoi stati d'animo – tutta la riluttanza, la diffidenza, la freddezza. Tutto ciò che albergava in lei. I nostri palmi si toccarono, mentre giravamo, guardandoci negli occhi delle maschere, entrambi intrattenitori per un pubblico di vampiri e demoni.

Era come se il tempo e lo spazio si fossero fermati, annebbiando lo sfondo, trasformando tutto questo in uno strano sogno sfocato.

«Ne è passato di tempo, vero?».

«Mi dispiace non riuscire a ricordare molto di voi, sir Bael».

«Nemmeno io ricordo molto». Ridacchiai. «Ma ricordo bene che eri molto più allegra di così».

Lei sembrò sul punto di ritirarsi. «Ero solo una bambina, a quel tempo, perciò... ».

«Perché tante cerimonie? Dammi del tu. Se dobbiamo sposarci, almeno impariamo a conoscerci». Avvicinai il mio viso al suo, fin quando i nasi delle nostre maschere non si toccarono. «No, Lilithuccia?».

Senza smettere di danzare, il suo viso si rabbuiò. Una fitta ombra. «Vuoi litigare, genio?».

Molto meglio, pensai. «Voglio conoscerti. Voglio quella bambina di molti anni fa».

«Quella bambina è... ».

«Morta?», bisbigliai. «Con... la tua cara sorella?». Non erano affari miei, eppure Lilith non sembrava restia dal parlarne. O accennarne. Annuì lentamente, mentre le sue dita si intrecciavano alle mie. «Mi dispiace molto, Lilith. Spero che quelle due bambine riescano a trovare la felicità, prima o poi», le dissi, abbozzando un sorriso. «Lo spero sinceramente».


Lilith sollevò il viso verso di me. La mano sulla mia spalla si spostò sulla sua maschera, sollevandola fino a rivelare il magnetico sguardo di sole. Era leggermente sorpresa – ma soprattutto concentrata. Come se stesse leggendo uno strano codice. Infine, mi sorrise dolcemente.

 

Ciò che ricordavo di quella bambina – di quell'incontro –, e mai avrei dimenticato, era quel raggiante sorriso pieno di luce.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Il suo sangue mi colava dalle mani come una pioggia rossa. I denti, loro urlavano di dolore.

Mossi un piede sulla pozzanghera. Scivolai, sul pavimento bagnato, e mi ritrovai in ginocchio, con il suo fianco sotto al mio viso – e il suo corpo, che non si muoveva, che se ne stava fermo come un manichino. Intorno a noi, su quel solitario terrazzo, tiravano fischi di vento.

Allungai le dita sul suo braccio. La scossi. La scossi.

La scossi.

«Lul... ». La mia voce era un ringhio gutturale. Il verso che farebbe una bestia in catene. E se ero davvero una bestia, allora Lullaby non stava dormendo. Afferrai il suo avambraccio, serrandoci le dita intorno. Mi tremavano.

No, un momento. Non ero stato io, giusto? Non potevo essere stato io.

Era stata la fame. Era stato questo fuoco nella mia gola e nella testa. Questo caos che era sprigionato dentro di me. Le placche di ferro che pressavano il mio cervello, fino a schiacchiarlo completamente.

Aprii gli occhi e la guardai. Aveva le palpebre socchiuse e tutto l'oro insito nei suoi occhi era sparito. Non riuscivo a distinguere i suoi colori. I suoi bellissimi colori. La bocca socchiusa faceva spuntare i denti bianchi, come se qualche parola le fosse rimasta sulla punta della lingua.
Strisciai, mi sollevai sulle ginocchia, per poterla guardare – ancora e ancora e ancora.

Lullaby era morta. No. Io avevo ucciso la mia Lullaby.

 

E fu in quel lampo di lucidità – effimero, breve, inutile – che mi recisi la gola.

E sprofondai nel letto rosso, accanto a lei.

Con un cielo stellato sopra di noi, la sua mano stretta. Per l'ultima volta.

 

 

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Capitolo 25
*** Noon & Princess Never Found. ***


Noon & Princess Never Found. 







Riflessi negli occhi di una bambina, schizzi di sangue scintillarono come cristalli sporchi. Colpiti dalla tenue e pallida luce della luna, che se ne stava lì, a guardare inerme, come aveva sempre fatto – osservava con il suo sguardo materno la fine di quell'amore. La fine di molte cose, tutte insieme, nello stesso istante in cui anche lui si spense, accanto a lei, in uno specchio rosso scuro.

La fine del loro amore. La fine della nostra società, per come l'avevamo vissuta fino a quel momento.

La precaria, instabile fine della mia famiglia.









***








«... potrebbe essere vero che, la nostra principessa, non sia del tutto preparata a ricoprire il ruolo dei compianti Imperatori, cionondimeno noi non possiamo certo pensare di–».

«La principessa dovrebbe, e questo è il minimo sindacale, soffrire i suoi genitori per tutto il tempo che riterrà necessario. Non possiamo gettarla su un trono e pretendere che–».

«È compassione questa che state dimostrando? Perché io sono più che certo che si tratti solo di una subdola manipolazione mentale, tutto pur di mettere le vostre mani sul potere del trono».

«Quale onta. Come potete anche solo pensare una cosa del genere?».

«Signori. Per l'amor di... se avete desiderio di discutere, allora potete farlo fuori dalla sala delle riunioni».

«È così. Gli Imperatori sono andati incontro ad una fine quanto più tragica possibile e la principessa deve... ».

 

Sollevai le palpebre. Provai a guardare la sala, che si apriva dinanzi a me, apparentemente infinita – ma la mia vista mi tradì. Ciò che scorgevo erano solo figure indistinte, macchie scure che impregnavano le pareti, il pavimento, l'aria.
Mi veniva da vomitare.


«Principessa», uno di loro si rivolse a me, con il sorriso più caloroso del suo reperetorio – suppongo. «perché non si stende e riposa, nella comodità delle sue stanze? Mi sembra più che provata, se posso permettermi... ».


Di tutte le cose che gli avevo sentito dire, quella era l'unica sensata. Non sincera. Ma sensata.

 

Mi alzai in piedi dalla poltrona e scivolai fuori dalla porta della sala. Mi lasciai alla spalle i loro sguardi inquisitori e un silenzio di tomba. Appena fui fuori dalla stanza, le loro voci crebbero gradualmente, fino a tramutarsi in nuovi litigi – nuove discordie.

A questo punto, non mi restava altro che tornare indietro, come uno spettro.

Nell'unico luogo in cui non mi sentissi una bambola di legno, con i sottili fili che strozzavano le mie articolazioni, e giocavano con la mia testa.

La mia testa... anche se nelle mie stanze ero lontana da tutto questo, in realtà, la mia testa non se ne liberava mai. Perché i pensieri correvano sfrenati e io ero troppo giovane, troppo bambina, per riuscire a metterci un freno. Ma la domanda era: volevo farlo? Volevo fermarli? Smettere di pensare ai miei genitori, morti l'uno accanto all'altro – era la cosa giusta?


Spalancai le finestre.

La città sembrava addormentata. Era mattina. Il cielo era plumbeo, le strade erano silenziose come il fondo di un cimitero.

In onore degli Imperatori, la comunità si era spenta.

Per quanto? Perché?

Il loro silenzio li avrebbe riportati indietro? I miei genitori? – salì sulla finestra, sul davanzale bianco, e il vento mi abbracciò possessivo. Guardai giù, avvolta in quel freddo straniero, tra le chiome degli alberi che circondavano il palazzo. Pensai a cosa sarebbe successo.


«Mi mancate. Mi mancate così tanto che non riesco nemmeno a pensare. Mi mancate. Perché? Perché a voi? Perché è successo? Vi rivoglio indietro». Misi un piede oltre la finestra e il vento mi tirò giù. «Mi mancate».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Rujiya!».


Sbuffai, tirandomi su in piedi, e raccogliendo l'arco che mi era scivolato a terra. Mi spostai la treccia dietro al collo, tirai giù il cappuccio, e sorrisi in direzione della voce – poi la voce divenne un ammasso di schiamazzi e risate, e nascosi la freccia sporca di sangue.

I bambini mi assalirono, saltandomi intorno, afferrandomi le mani, concitati. «Calma, le braccia mi servono ancora. Cosa c'è? Niente di brutto, spero».

«Abbiamo saputo che eri a caccia e volevamo venire a cercarti».

«Tra un po' è l'ora del pasto, lo sai? Devi mangiare anche tu!».

Sollevai i bambini da terra, quelli che si erano aggrappati alle mie braccia. Non me la raccontavano giusta. «Ah sì? Tutto qua? Siete sicuri che», i loro sguardi si fecero timidi. «non ci sia nient'altro?».

«... e poi speravamo ci raccontassi qualche altra storia del tuo passato».

 

Sorrisi.

Un arco alle spalle, una treccia intorno al collo, ed un gruppo di bambini irrequieti. La foresta ci salutava, il verde brillante delle sue foglie ci sospingeva.


Guardai in alto, oltre le fronde, osservando la lontana silhouette del palazzo. 

Un nostalgico passato.

«Allora, stavolta vi racconterò di... ».




 

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