太鼓持 - Taikomochi

di _Eclipse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: una notte tranquilla ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Shangai ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Kempeitai ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Geisha ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Nuove opportunità ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: viaggio ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Tensione ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Vento di tempesta ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: 7 dicembre ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: Giorno dell'infamia ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11: Per l'imperatore ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12: Conseguenze ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13: Fuga ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14: America ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15: Dovere ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: una notte tranquilla ***


 

Capitolo 1: Una notte tranquilla


Il suono brillante dello shamisen si diffonde per le strade, illuminate dalle stelle degli ultimi giorni d'estate, dell'undicesimo anno dell'era Showa(1).
Una melodia dal ritmo veloce e incalzante che proveniva dall'interno di una casa da tè.
Sulle note di quegli strumenti ballavano, su un piccolo spazio quadrato circondato da tavoli, due donne dal volto tinto di bianco e avvolte in lunghi kimono di seta multicolore.
Agitavano i ventagli a tempo di musica.
Una magica danza fatta di eleganza e grazia.
Seduti ad ammirare le due dame vi era una schiera di uomini, alcuni accompagnate dalle consorti o dalle amanti, altri più solitari si accontentavano della compagnia del saké e del tè.
Tra di loro, una figura simile alle donne che danzavano. 
Il volto truccato con polvere di riso bianca e una passata di rossetto sul contorno del labbro superiore. Occhi e capelli argentei. Con le fini mani passava una lunga pipa kiseru all’uomo al suo fianco. Un signore di mezza età, dai capelli ingrigiti e un paio di baffetti sotto al naso, ben vestito con un completo scuro.
Prese la pipa accesa e iniziò a fumare.
-Fubuki-san, siete proprio un uomo fortunato. Poter lavorare sempre al fianco di così tanta bellezza!- commentò l’uomo ammirando le due danzatrici.
-Forse, non ho alcun privilegio rispetto a lei, io stesso posso solo osservarle da lontano-
-Pensavo che fra geisha potevate frequentarvi più liberamente-
-Io non sono una geisha, il trucco inganna. Le geisha sono artiste, sono donne, come donna è anche l’arte stessa. Potrei mai io da uomo essere un artista come loro?-
-Forse, ma non credo il pubblico apprezzerebbe un uomo che danza come una geisha- l'uomo rise di gusto e per poi apprestarsi a bere un sorso di sakè.
La musica si fermò e con un inchino le due donne si ritirarono.
-Mi dispiace signore, avrei piacere a continuare ancora la nostra conversazione, ma temo che dobbiamo andare- concluse Fubuki inchinandosi per salutare lo spettatore e poi raggiunse le due danzatrici
Fubuki Shirou, un giovane ragazzo di poco più di vent'anni proveniente dal lontano Hokkaido. Poteva sembrare una geisha a prima vista, se non fosse per il kimono blu scuro e privo di decorazioni.
All'esterno della casa da tè, un semplice edificio tradizionale dalle pareti in legno e il tetto in tegole scure, la strada era illuminata da alcune lanterne degli edifici vicini.
La luce era a malapena sufficiente per intuire la direzione verso l'okiya, la casa delle geisha.
-Quegli uomini non mi sono piaciuti, sono quasi tutti soldati…- mormorò la prima ragazza, minuta e dai capelli violacei e vestita con un lungo kimono verde e bianco.
-Non ti piacciono gli uomini in divisa Fuyuka?- scherzò la seconda, una ragazza dai capelli bluastri e occhi dello stesso colore che indossava un kimono color glicine.
-Non è per quello… una volta era diverso-
-Siamo pagate per intrattenere, non importa se un soldato o una persona comune, noi dobbiamo accontentare il cliente- osservò la seconda.
-Il padrone della casa mi ha riferito che ultimamente vengono molti ufficiali in licenza dalla Cina in cerca di distrazione prima di tornare al fronte. La cosa non cambierà per molto tempo ancora- intervenne Shirou.
-Quanto sei pessimista! Prova a guardare la vita con allegria almeno una volta!- esclamò la seconda. 
-Haruna, non essere scortese!- rispose Fuyuka stizzita.
Il ragazzo scoppiò a ridere seguito poi dalle altre due.
Camminarono per circa mezz'ora, tra i vicoli dei quartieri di periferia di Tokyo, ben diversi dal centro della città, case tradizionali in legno e dai tetti scuri, lanterne di carta appese alle pareti che illuminano la strada insieme a qualche lampione sperduto.
Si fermarono davanti ad un muro grigio con un cancello di legno e metallo. Un cartello affianco ad esso recitava "Okiya Kira".
Le ragazze entrarono invitando anche Shirou. 
Oltre il cancello un piccolo cortile selciato e poi la vera casa delle ragazze, un edificio di due piani dalle pareti bianche coperte per metà da pannelli di legno chiaro.
La porta venne aperta da una bambina che avrà avuto non più di dodici o tredici anni dai capelli di un bel blu intenso.
-Aoi che ci fai ancora in piedi a quest'ora?- domandò Haruna.
-Hitomiko mi ha detto che dovevo aspettarvi-
-E dove si trova ora?- chiese il ragazzo.
-Nella sua stanza- 
-Allora credo proprio che dovremo salutarci Haruna, Fuyuka. Anche questa volta è stato un piacere lavorare con voi-
-Ci rendete onore Shirou-kun - risposero inchinandosi per poi ritirarsi nelle proprie stanze.
Shirou invece prosegui verso la stanza di Hitomiko, preceduto da Aoi. Quest'ultima lo annunciò alla proprietaria.
-Vieni avanti- 
Hitimiko Kira, era la geisha più vecchia dell'okiya e ormai lo gestiva da qualche anno, da quando era venuta a mancare la precedente proprietaria.
Era seduta davanti ad un tavolo e stava lucidando le lenti dei propri occhiali.
La stanza era piuttosti spoglia, un tatami di bambù, il tavolo, in fondo in un angolo si poteva scorgere il futon pronto per la notte.
-Oggi è stata un'ottima serata Hitomiko-san, ecco a lei il compenso- disse il ragazzo allungandole una busta di carta.
-Spero che non ti sia preso più del dovuto- rispose l'altra mentre contava le banconote.
-La solita percentuale-
-Mi fido, erano clienti piuttosto facoltosi a quanto pare- disse la donna mentre contava il denaro.
-Molti ufficiali dell'esercito-
-La guerra fa bene ai nostri affari, se i soldati pagano così tanto, è meglio che continui ancora a lungo-
-Mi è stato chiesto dal proprietario della casa da tè se Fuyuka e Haruna potranno esibirsi ancora-
-E quando?-
-Martedì sera, pare che arriveranno altri soldati in congedo-
-E sia, puoi andare…- Hitomiko finì di contare l'incasso e salutando il ragazzo senza neanche alzare lo sguardo dal tavolo.
Un'altra serata era passata per Shirou, ora poteva tornare anche lui a casa.
Abitava non molto distante, una manciata di minuti di camminata.
Per la strada non c'era nessuno, neanche un ombra.
Era in quartiere piuttosto tranquillo dopotutto, né troppo caotico come il centro, né disagiato come altre zone della città.
Una volta arrivato per prima cosa si levò il trucco bianco dal volto con dell'acqua in un catino.
-Buonasera- Shirou sobbalzò, la voce lo prese di sorpresa.
-Atsuya! Mi hai fatto prendere un colpo!- disse voltandosi verso di lui. 
Atsuya era il fratello gemello, in tutto e per tutto uguale se non per il colore dei capelli e degli occhi.
-Pensavo fossi già partito per tornare in università- continuò.
-Ho deciso di partire domani, negli ultimi tempi diventa sempre più insopportabile, i ragazzi soprattutto i più giovani esibiscono un nazionalismo estremo, pensa che l'ultima volta alcuni di loro volevano fare il confronto tra un teschio cinese e uno giapponese per trovare prove della superiorità del nostro popolo- rispose il fratello.
-Le hanno trovate?-
-Ovviamente no, i tratti somatici possono essere differenti, ma non ci sono diversità tali da giustificare la loro tesi, ora sostengono che noi siamo superiori dal punto di vista spirituale perché serviamo l'imperatore, ma non voglio parlare di anatomia o politica come è andata la serata?-
-Piuttosto bene, anche se mi hanno scambiato per una geisha!-
Atsuya scoppiò a ridere.
-Non capita tutti i giorni di vedere un taikomochi(2)!-
-Siamo rimasti pochi, ma mandiamo avanti la tradizione di intrattenitori. A che ora hai il tram?-
-Alle sei del mattino. Spero di raggiungere l'università prima che inizino le lezioni.
-Allora chiamami quando parti così posso salutarti. Io ho bisogno di dormire- nel finire le ultime parole, Shirou sbadigliò profondamente per la stanchezza dopo un'intera giornata di lavoro e intrattenimento di ufficiali e personalità di rilievo. Si tolse il kimono, lo ripiegò con cura e si vestì per la notte e addormentarsi poi sul futon.
La mattina dopo, si svegliò presto per poter accompagnare il fratello alla banchina del tram.
Atsuya, vestito con un completo color beige con tanto di capello e un bagaglio nella mano, cercava di salire sulla carrozza del mezzo aiutato da un passeggero.
Ogni volta che partiva non sapeva quando sarebbe tornato, normalmente nel fine settimana se aveva tempo libero tornava dal fratello, ma potevano passare anche più giorni.
Quel tram era affollato di persone totalmente differenti tra loro, di tutte le classi, dalle più umili alle più benestanti, quasi tutti accumunati da un singolo particolare; l'essere stipati come uno sgombro in una scatola di latta. 
Atsuya, riuscì un po' spingendo con forza si fece strada fino ad un finestrino e salutava con la mano il fratello che era sulla banchina privo di trucco e abiti da taikomochi.
Con il trillo di una campana mossa dal tramviere, la carrozza cominciò lentamente a muoversi.
Il viaggio sarebbe stato lungo e tutt'altro che rilassante soprattutto perché il ragazzo era costretto a stare in piedi.
Dal vetro poteva vedere il paesaggio che mutava. Dalla periferia caratterizzata da molti edifici bassi costruiti in legno e pietra come da tradizione si passava in breve a costruzioni di mattoni sempre più alte e complesse fino all'arrivo nel centro
Si potevano ammirare le alte palazzine in stile occidentale che si mescolavano con i santuari e i templi unendo il vecchio e il nuovo.
Atsuya era assorto nei suoi pensieri ma la sua attenzione venne colta presto dalla conversazione di due uomini vicini a lui.
Elogiavano le imprese dell'esercito in Cina e scommettevano su quanto sarebbe durata la guerra.
Era ormai da più di un mese che il conflitto era in corso e dopo solo poco tempo la bandiera del Sol Levante svettava sulla Città Proibita a Pechino e ora vi erano numerosi scontri più a sud.
Il Giappone, anni prima, aveva già creato a nord della Cina lo stato fantoccio del Manchukuo, ma a quanto pare l'impero era ancora troppo piccolo.
Passo ancora poco tempo che arrivò alla propria fermata, non molto lontana dall'università.
Nuovamente spingendo i numerosi passeggeri riuscì a scendere trascinando con sé la propria valigia che fu costretto a tenere tra le gambe per tutto il viaggio.
Sul cemento della banchina vide il tram partire nuovamente, la carrozza di metallo tinta di giallo si mosse lentamente fino alla prossima fermata. 
"Effettivamente sembra proprio una confezione di latta per gli sgombri" pensò Atsuya riflettendo sul viaggio tutt'altro che comodo. Guardò l'orologio da polso dall'elegante cinturino di pelle. Non era in ritardo, ma non aveva molto tempo da perdere e si mise in marcia fino alla sua università della quale si intravedeva la cima della torre dell'orologio, un'imponente opera di ingegneria di colore rosso che si ergeva proprio sopra l'auditorium.

****

La voce di una donna risuonava per la stanza. Attirando l'attenzione di un ragazzetto che stava disteso sul tatami ad occhi chiusi ad ascoltarla. La donna parlava lentamente con un tono solenne e autoritario, sembrava che non provenisse da una radio posta su un mobiletto di legno chiaro, ma che fosse presente nella stanza.

"Altri successi per il nostro celeste impero, i nostri coraggiosi soldati sbarcati a Shangai irrompono nelle difese dell'ignobile nemico cinese che fugge a più riprese dal campo della battaglia dimostrando la sua inferiorità. Per terra, cielo e mare il generale Iwane Matsui avanza fino al cuore della città e della vittoria sul continente. 
Lunga vita all'Imperatore…"

La trasmissione venne interrotta quasi bruscamente da un cambio di frequenza. 
-Sai che non mi piace quando si parla di guerra, Yukimura- sentenziò Shirou che continuava a muovere un rotella per cercare qualcosa di più interessante da ascoltare.
-Shirou-sensei, parla di quello che stanno facendo i nostri soldati in Cina-
-Non è così rosa e fiori come ci fa credere la radio. Fidati, ho imparato a origliare e ascoltare cosa si confidano gli ufficiali quando lavoro- sorrise il ragazzo.
Yukimura era un ragazzino, ben più giovane di Shirou, aveva solo quattordici anni ma aveva già una mente acuta e vispa. Aveva i capelli blu e occhi azzurri come il ghiaccio, lo stesso ghiaccio della sua terra natale l'isola di Hokkaido la stessa terra di origine dei due fratelli Fubuki.
Era da molto tempo che viveva con i gemelli, o meglio con uno dei due dato che l'altro a causa degli studi risiedeva in un dormitorio dell'università.
Yukimura non si ricordava neanche più come aveva fatto a finire in quella casa, sapeva solo che i suoi genitori un giorno c'erano e il giorno dopo erano scomparsi.
Senza una casa venne accolto dalla amica famiglia del Fubuki e li seguì fino a Tokyo. Con la scomparsa dei coniugi rimase solo con i due figli.
Ormai non ci faceva più caso era quasi come un fratello minore per i due nonostante egli riservasse a loro un grande rispetto e riverenza.
-Posso almeno provare a sintonizzarci su Radio New York? Forse riusciamo a sentire un po' di quell'allegra musica americana!- esclamò.
Non era poi così difficile, nei giorni in cui il cielo era limpido, con un po' di fortuna, si riusciva a intercettare le trasmissioni di intrattenimento americane per i loro uomini nelle Filippine.
-Lascio a te l'onore, ho delle faccende da sistemare- rispose Shirou per poi abbassarsi verso il piccolo tavolino per raccogliere delle carte piuttosto importanti che stava leggendo prima di interrompere le notizie alla radio. Le sistemò rapidamente e poi si diresse verso la porta di casa.
-Non tornerò per pranzo, a più tardi- disse Shirou aprendo la porta
Yukimura lo salutò inchinandosi, per poi tornare nella stanza dove era prima cercando di sintonizzarsi sulla tanto desiderata Radio New York per sentire il jazz e lo swing delle grandi città americane, ma il tentativo andò a vuoto.
Dopo alcuni tentativi si fermò su una frequenza di musica locale che iniziò a riempire la stanza, poi si distese nuovamente sul tatami e chiudendo gli occhi si addormentò.

 

****
 

1) Era Showa: letteralmente "periodo della pace illuminata" è un lasso di tempo che coincide a due ere fa, ovvero con l'inizio del regno dell'imperatore Hirohito, nonno dell'attuale imperatore Naruhito. Hirohito (conosciuto con il nome postumo di Showa) regnò dal 1926 fino alla sua morte nel 1989. L'undicesimo anno di tale era è quindi il 1937, l'anno in cui inizia la storia.

2) Taikomochi: figura di intrattenimento maschile assimilabile alle geisha. Dal punto di vita cronologico sono dei predecessori di tali intrattenitrici, ma la loro figura verrà spiegata con l'andare avanti della storia.


Piccolo angolo d'autore…
So che dovrei portare avanti i molti progetti che ho in ballo lo so (anche se non credo che per una delle mie due storie ad Oc non sia proprio il periodo giusto).
Questo è un piccolo progetto che avevo in testa da molto tempo, ma non ho mai pubblicato per svariati motivi.
Ovviamente non potevo non metterci un pizzico (forse ben più di un pizzico) di storia ma credo che ormai vi siate abituati a questo e alle mie mille note XD
Spero che questo piccolo inizio possa essere interessante e piacevole da leggere,
Ora direi di andare altrimenti mi dilungo troppo come mio solito
un saluto

_Eclipse

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Shangai ***


Capitolo 2: Shangai

 

Un’elegante scocca bianca dalla coda rossa e un carrello fisso con due ruote, piuttosto piccole per un aereo come quello, si librava nel cielo.

Sulle ali e sulla parte posteriore della fusoliera, spiccava un cerchio rosso, il simbolo del Sol Levante.

L’abitacolo era aperto e solo un parabrezza frontale riparava il pilota dalle correnti d’aria provocate dalla forte velocità.

Il motore risuonava anche se pareva più un ronzio assordante che un possente ruggito.

Volava in uno squadrone con una decina di aerei tutti uguali se non per un numero di serie posto sulla coda.

Il gruppo stava sorvolando il mar Cinese Orientale diretti verso una grossa città a occidente.

Uno dei piloti di quel gruppo, un ragazzo dai capelli rossi coperti da un cappello di cuoio ed occhialoni da aviatore davanti agli occhi acquamarina, conduceva il mezzo stando attento a mantenere la formazione. La monotonia del suo volo venne interrotta da una trasmissione radio.

-Hiroto da quando dobbiamo scortare i bombardieri dell'esercito per le loro missioni? Hanno finito gli aerei?- disse uno dei compagni di squadriglia del ragazzo con una marcata nota di sarcasmo nella voce.

-Da quando l'esercito ha capito che gli aerei della marina possono volare praticamente ovunque- rispose.

-Sergenti Kiyama e Midorikawa. Ricordo che state usando la radio di un mezzo delle forze armate, le vostre conversazioni sono del tutto fuori luogo e per dovere vi informo anche che dobbiamo scortare aerei della marina stanziati a terra, non dell’esercito(1)- a parlare era il caposquadrone. La sua voce era severa e secca e non ammetteva alcuna replica dai sottoposti.

I due piloti si scusarono con il comandante e ripresero a volare in silenzio.

Non molto tempo dopo, all’orizzonte comparve un gruppo di velivoli più grossi e di colore marrone. Sulle ali riportavano lo stesso simbolo della squadra dei sergenti Kiyama e Midorikawa; un grosso cerchio rosso.

Le due squadre si riunirono formando un singolo gruppo che in formazione a freccia si dirigeva verso la costa.

L’obiettivo era una vera e propria metropoli, già colpita duramente più e più volte.

Hiroto cambiò le impostazioni della radio in modo da poter parlare solo con Midorikawa su una frequenza comune, ma allo stesso tempo in grado di ricevere indicazioni dal suo superiore.

-Ehi Ryuuji, guarda che roba…- disse mentre osservava la città sotto di lui.

-La periferia di Shangai è un cumulo di macerie- rispose l’altro.

Improvvisamente un fastidioso ronzio iniziò a propagarsi mischiandosi al rumore del motore.

-Stanno dando l’allarme- osservò Ryuuji.

-Prepariamoci al peggio… credo proprio che avremo un po’ di turbolenza-

-Squadra di scorta, mantenersi in formazione serrata- ordinò il comandante.

Tutti gli aerei erano uno vicino all’altro a poche decine di metri di distanza.

Al centro della formazione i bombardieri stavano lentamente diminuendo la velocità per prendere la mira.

-Se i cinesi iniziano a sparare, non credo che quei cosi rimarranno in volo molto a lungo- 

-Che cosa te lo fa pensare?- domandò Ryuuji.

-Guarda bene, bombe sotto la fusoliera e le ali, un colpo ben assestato e l’aereo esplode-

-E’ per questo che siamo qui no?-

-Non sò cosa tu voglia fare ma io non sono qui per farmi colpire al posto loro!- rispose Hiroto con una risata.

Delle macchie di fumo nero iniziarono a riempire il cielo.

-La contraerea si è svegliata…- mormorò Midorikawa.

Si potevano vedere le scie dei proiettili levarsi in alto verso lo squadrone e poi esplodere in una piccola nube di fumo.

-Tenere la formazione fino a quando non saremo sull’obiettivo- per la seconda volta il comandante vietava agli aerei di sganciarsi dal gruppo.

Uno dei caccia di scorta venne colpito, si trovava alla destra di Hiroto. I colpi della contraerea avevano spezzato una delle ali e dato fuoco al mezzo. In pochi millesimi di secondo il pilota perse il controllo e il mezzo iniziò a precipitare in vite.

-Qui rischiamo di lasciarci seriamente la pelle!- esclamò Ryuuji.

-Squadra di scorta ci stiamo avvicinando all’obiettivo, pronti a sganciare e fare ritorno- a parlare non era il comandante dei caccia, ma il capo squadrone dei bombardieri.

-Pronti… bombe sganciate- replicò poco dopo.

Una serie di bombe cadde dal cielo con un fischio. 

Dai cieli si potevano ben vedere le esplosioni dall’alto che colpivano i quartieri del centro di Shangai. Grandi nubi di fumo nero e fuoco si alzavano da terra e i botti squarciavano l’aria.

L’intera squadra cercò di prendere quota e levarsi dal fuoco contraereo. 

Hiroto tirò verso di sé la barra di controllo per alzare il muso del mezzo, poi cercò di virare verso sinistra per tornare verso la portaerei da cui era decollato. Si inclinò sul lato e poi manovrò con gli alettoni di coda per cambiare la direzione.

-Ce l’abbiamo fatta, non resta che tornare indietro- 

-Ce la siamo vista brutta Hiro, non ho mai visto un fuoco così fitto…-

-Abbiamo perso almeno un compagno di volo e uno dei quei bombardieri-

Ma quando tutto sembrava tranquillo e il peggio passato, il comandante prese parola per la terza volta.

-Aerei nemici avvistati, rompere la formazione e prepararsi a ingaggiare!-

-Ho parlato troppo presto…- ammise Hiroto con una punta di rammarico.

-Dovevamo aspettarcelo- continuò l’altro.

L’intera formazione si sciolse. I bombardieri continuavano per la rotta del ritorno, essendo loro incapaci di attaccare, mentre la squadriglia dei caccia con una serie di acrobazie si mise in posizione cercando lo scontro.

I cinesi volavano con una accozzaglia di aerei completamente differenti l’uno dagli altri. Piccoli monoplani americani dai colori sgargianti come il giallo e il blu, affianco a biplani britannici o russi di colore verde scuro e recanti ancora la stella rossa sulla fusoliera. L’unico segno che li acccumunavano era la coccarda del Kuomintang(2), sulle ali per potersi riconoscere, un cerchio blu con un sole bianco a sedici raggi.

Erano più disorganizzati, volavano ad altezza diversa e a velocità differenti in base alla possibilità del mezzo.

I velivoli nipponici avevano il vantaggio della quota. Stavano più in alto e scesero in picchiata. 

In velocità i primi aerei nipponici aprirono il fuoco. Le mitragliatrici frontali erano poste proprio al di sopra del motore rendendo i colpi precisi e letali. 

Le scie dei traccianti permettevano di aggiustare il tiro.

Hiroto dopo qualche secondo di attesa diminuì la velocità e la potenza per gettarsi anche lui in picchiata.

Dal parabrezza usciva un mirino a cannocchiale, il ragazzo allungò il collo verso di esso e chiuse un occhio per puntare il bersaglio.

Sotto di lui un biplano con un abitacolo chiuso, quasi sicuramente di produzione inglese.

Sparò qualche colpo per verificare la portata del bersaglio, ma l'aveva anticipato. Diminuì ulteriormente la potenza e appena vide che la croce del mirino sovrapporsi all'aereo nemico, il ragazzo premette il grilletto sulla leva di comando. 

Le due mitragliatrici ruggivano come leoni.

Il biplano venne colpito più volte, sulla fusoliera, sulla coda e sull'ala superiore.

Cercò allora di virare per evitare i proiettili del giapponese.

Sentendo l'aereo che iniziava a tremare per l'elevata velocità e forze a cui era sottoposto, Hiroto finì la picchiata risollevando il muso e seguendo il suo bersaglio consapevole della grande agilità del suo mezzo e riportò la potenza del motore al massimo.

Il pilota del biplano cercava in tutti i modi di levarsi il piccolo aereo della marina che lo inseguiva, virate, giri verticali, piccole picchiate, ma quel caccia bianco con l'emblema del Sol Levante era più agile e veloce.

Hiroto riuscì a posizionarsi alle ore sei rispetto al biplano e senza neanche puntarlo con il mirino sparò nuovamente.

Una scarica di proiettili attraversò il biplano strappando il rivestimento in tela della struttura in tubi di metallo.

Con una terza scarica, il biplano iniziò a lasciare uno sbuffo di fumo bianco che divenne sempre più scuro fino a che non iniziò lentamente a perdere quota e precipitare.

Hiroto poté vedere che il pilota era tuttavia riuscito a salvarsi lanciandosi con il paracadute.

-Hiro, ho bisogno di aiuto- a parlare era Ryuuji.

-Dove sei?- 

-Alle tue ore quattro, sbrigati ho uno di quei monoplani americani in coda e non riesco a levarmelo di dosso!-

Il rosso riprese un po' di quota e con un rapido giro verticale cambiò la direzione. Conosceva l'aereo dell'amico e lo riconobbe abbastanza facilmente nella mischia.

-Ci sono quasi Ryuuji, resisti ancora un po'-

-Sto facendo del mio meglio- rispose l'altro mentre muoveva l'aereo in modo da schivare i proiettili.

Hiroto raggiunse il compagno di volo posizionandosi dietro al monoplano nemico e aprì il fuoco.

Alcuni proiettili colpirono parte dell'ala di Ryuuji.

-Fai attenzioni stai prendendo me!- esclamò.

-Non è semplice come sembra… cerca di stare fermo-

-Non è facile neanche per me in questa situazione, mi state colpendo entrambi!-

Il rosso cercò di allinearsi meglio al caccia nemico e con una singola scarica gli tagliò l'ala sinistra.

Due abbattimenti in un una azione, poteva considerarsi molto fortunato.

I due passarono i minuti successivi a schivare le pallottole avversarie e ricambiando, fino a che la squadra nemica non si ritirò non prima di aver perso sei aerei contro uno solo giapponese.

La squadra si riunì. Ora poteva veramente tornare alla propria portaerei.

Dopo una lunga missione come quella, poterono avvistare la nave.

Il lungo ponte di volo era rivestito in legno verniciato con una serie di linee che indicavano la pista per il decollo. Uno ad uno gli aerei atterrarono mentre alle spalle il sole stava iniziando a tramontare.

Quando arrivò il suo momento, Hiroto si portò dietro la nave diminuì la potenza e la velocità al minimo. Abbassò poi il gancio di atterraggio sotto la coda.

Cercò di planare fino a toccare con le ruote del carrello il ponte e ad agganciarsi ad una fune di arresto; un grosso cavo metallico che serviva a frenare gli aerei in arrivo.

Il mezzo si fermò bruscamente tanto da spingere in avanti il giovane pilota. Spense il motore e saltò fuori dall'abitacolo togliendosi il cappello mentre un gruppo di uomini vestiti completamente di bianco iniziò a spingere l'aereo fino all'ascensore, una semplice pedana del ponte che si poteva abbassare fino agli hangar. 

Il giovane aspettò fuori all’aria aperta fino a che non vide arrivare il suo amico con un aereo più malconcio. Anche lui si fermò di colpo non appena il gancio si attaccò alla fune di arresto.

Ryuuji scese e si voltò ad ammirare i danni all'aereo, alcuni squarci, non gravi sul retro della fusoliera e qualche buco sull'ala sinistra.

-Direi che i danni più gravi li hai fatti tu- sorrise Midorikawa levandosi il cappello mostrando i lunghi capelli verdi.

-Ma ti ho salvato la vita!- 

-Vero anche questo… la prossima volta sarà il contrario-

-Quanti?-

-Cosa?- domandò il verde.

-Quanti abbattimenti?-

-Uno, tu?-

-Due-

-Abbiamo l'asso del giorno! Un terzo degli aerei nemici eliminati è opera tua!-

-O forse è solo fortuna-

Un terzo aereo cercò di atterrare, ma a causa dei danni subiti non riuscì a planare sul ponte. Il pilota con un’abile manovra riuscì a virare e ammarare a lato della nave.

Dalla torre di comando, che si ergeva a lato del ponte di volo, venne dato l’allarme:
-Ammaraggio! Uomo in mare! Uomo in mare!- gridava una vedette ad un altoparlante in modo da diffondere a tutta la nave il messaggio.

I marinai che erano sul ponte corsero verso il bordo per vedere prestare soccorso seguiti dai due ragazzi. Lanciarono un salvagente in acqua, vedendolo il pilota ormai naufrago vi si aggrappò con tutte le forze.

Hiroto e Ryuuji aiutarono a recuperare il compagno di volo tirando il salvagente verso la nave e lanciando una scala di corda per farlo tornare a bordo.

Con un po’ di fatica anche l’aereo venne recuperato anche se i danni erano ingenti.

Concluse le operazioni di recupero dei velivoli, la grossa portaerei iniziò il lungo viaggio di ritorno.

Il sole era tramontato del tutto, era una notte limpida e nel cielo buio si potevano vedere le stelle e la luna.

I due piloti erano nella loro camerata, un’ampia stanza dalle pareti di metallo dipinte di bianco. Completamente spoglia se non per le brande degli uomini.

Il verde stava nel letto sopra a quello dell’amico.

-Da quanto tempo siamo in mare?- domandò.

-Almeno un mese, siamo partiti quando l’esercito sono iniziate le operazioni a Shangai- rispose il rosso disteso sulla branda inferiore

-Anche se noi l’abbiamo vista per la prima volta oggi- sorrise Ryuuji.

-Un mese di noia con missioni di controllo della costa… mi piacerebbe vedere più azione- sospirò Hiroto.

-Io mi accontento di tornare a terra-

-Nella base di Sasebo, a Nagasaki... centinaia di chilometri a sud da Tokyo, un po’ mi manca casa-

-Anche a me, forse andrà meglio la prossima volta. Guardiamo il lato positivo, un mese di mare ed ora un po’ di vita tranquilla!- esclamò il verde.

I due risero e continuarono a parlare ancora qualche minuto, poi dopo l’ordine di spegnere le luci si addormentarono, mentre la nave tornava verso il porto.

****



 

1) Marina... esercito : all’epoca, in Giappone, l’aviazione non era un corpo autonomo ma era divisa nei due corpi delle forze armate, esercito e marina in perenne rivalità tra loro.

 

2) Kuomintang: era il partito nazionalista cinese e il partito di maggioranza dell’epoca. Dopo la sconfitta nella guerra civile, si ritirò sull’isola di Formosa dando vita alla Repubblica di Cina (Taiwan) nella cui bandiera è rappresentata la coccarda di cui parlo.



 

Piccolo angolo d’autore…

 

A voi già un capitolo d’azione in cui si introducono

due nuovi personaggi, Hiroto e Ryuuji, 

piloti della Marina imperiale.

Credo che possiate aver capito che la storia non sarà

solo tranquillità e svago grazie alle arti di 

Shirou e delle nostre care Fuyuka e Haruna

in fondo è il Giappone di fine anni ‘30… certamente

non la nazione più pacifica del mondo XD

Ho deciso di fare un piccolo esperimento e oltre alle note

in cui spiego qualche termine, lascio poche righe di

in cui spiego in breve qualche avvenimento

o curiosità riguardanti gli eventi nel capitolo.

Fatemi sapere se vi piace come idea, 

detto questo vi lascio la prima “lezione di storia” XD

un saluto,

 

_Eclipse

 

Shangai: conosciuta come la “Perla d’oriente” era una delle principali città cinesi durante i primi anni del 1900. Fu teatro dall’agosto al novembre del 1937 di una delle più sanguinose battaglie del conflitto tra Giappone e Cina.

I cinesi, logorati da anni di guerra civile tra le principali fazioni che si contedevano il potere e i numerosissimi signori della guerra, si trovarono privi di mezzi per poter contrastare l’avanzata giapponese. La battaglia si risolse con la conquista della città e gravi perdite per la Cina (se ne calcolano oltre centocinquantamila, di cui parecchi civili). Tuttavia la strenua resistenza del popolo cinese, nonostante i bombardamenti e la netta superiorità nipponica, portò numerose potenze straniere a schierarsi con la Cina fornendo armi, munizioni e mezzi per gli otto anni seguenti di guerra.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: Kempeitai ***


Capitolo 3: Kempeitai

 

Si era perso un'altra volta. La periferia di Tokyo pareva tutta uguale. Tutte quelle case tradizionali in legno, con il tetto di tegole scure e le porte scorrevoli non aiutavano a orientarsi.

Yukimura non trovava più la strada di casa. 

Era uscito per compiere una commissione per Shirou, restituire ad un okiya di un amica un kimono di grande valore che una giovane maiko(1) inesperta che lo aveva strappato impigliandosi in qualcosa di non meglio definito.

Il ragazzo non era certamente un sarto, ma di kimono ne aveva visti a decine e sapeva come rammendarli al meglio nascondendo sapientemente le cuciture.

Sarebbe stato sicuramente un peccato gettar via un abito come quello per uno strappo sotto la manica.

Yukimura non sapeva nemmeno come fosse fatto,  aveva semplicemente consegnato il tutto all'anziana proprietaria dell'okiya e per poi andarsene, ma perse la strada distraendosi guardando un corteo organizzato da un santuario vicino.

Numerose ballerine e suonatori di flauto e tamburi sfilavano per i vicoli. Seguendo la musica Yukimura finì in un quartiere diverso da suo.

Girovagando chiedeva indicazioni ai passanti che maldisposti a perdere tempo con un ragazzino se ne andavano via ignorando il giovane.

Girovagando, lentamente capì dove era andato a finire. 

Le strade iniziarono ad essergli familiari, dopo quasi due ore di giri a vuoto e continuò a camminare fino a che non ritrovò la strada principale e si ritrovò

vicino ad un ristorante di ramen piuttosto noto nella sua zona. Non molto distante conosceva una scorciatoia che lo conduceva verso l'okiya Kira, da lì in pochi minuti sarebbe tornato a casa.

Passò affianco all'ennesimo edificio tradizionale e imbuco una vietta laterale.

In quel passaggio nascosto sentiva qualcuno urlare e una seconda voce che imprecava. Una voce forte, severa e aggressiva.

Due uomini con un'uniforme militare color kaki. Alti e imponenti, al fianco portavano un arma. Uno di loro aveva immobilizzato una terza persona, un uomo di mezza età dai capelli brizzolati, l'altro invece lo pestava con calci e pugni.

-Allora hai imparato la lezione!?- gridò uno di quei soldati.

-Secondo me bisogna ripeterglielo un'altra volta- sghignazzò l'altro.

Il primo tirò un altro pugno alla vittima così forte che sputò del sangue per terra.

-Vi prego… pietà…- mormorò con un filo di voce.

-Pietà? Non ho sentito bene?-

-Ho famiglia…-

-Ehi guarda là quel ragazzo!- intervenne il secondo rivolgendosi al collega. L'altro si voltò e vide Yukimura che impietrito osservava la scena.

Il giovane, vedendo che il soldato stava venendo verso di lui ad ampie falcate, si mise istintivamente a correre inseguito dall'altro. Non fece che pochi metri che venne bloccato dalla mano dell'uomo.

-Guarda chi abbiamo qui- disse con una voce che mal celava una certa perfidia.

Tornò indietro e si mise proprio davanti alla vittima.

-Lo vedi?-

Yukimura mosse paurosamente il capo in segno di affermazione.

-Bene, ora tu ti dimenticherai di ciò che hai visto-

Per la seconda volta il blu annuì tremante.

-Sei proprio un ragazzo intelligente, come ti chiami?-

-Yukimura…- balbettò.

-Come?-

-Yukimura Hyouga- replicò cercando di non farsi prendere dal panico.

-Questo qui lasciamolo andare, spero che ora tu abbia imparato-

La vittima venne lasciata e scappò a gambe levate con il volto pieno di lividi e sangue.

-Allora Yukimura facciamo quattro chiacchere-

Il giovane respirava affannosamente, aveva paura, paura di finire come quell'uomo.

-Sai chi siamo noi?- esordì l'altro soldato.

Il ragazzo alzò il volto, vide che sul braccio bianco avevano una fascia bianca con una scritta rossa e annuì riconoscendo il simbolo.

-Allora chi siamo?- chiese spazientito il soldato.

-Kempeitai(2)…- mormorò

-E sai che cosa facciamo noi kempeitai?-

A quella domanda Yukimura non sapeva rispondere, Shirou gli aveva sempre raccomandato di star lontano da loro se possibile.

-No-

-Molto semplice, noi manteniamo l'ordine- mentre pronunciava quelle parole, si portò la mano sull'impugnatura della pistola che teneva al fianco come per dire con quale mezzi mantenevano l'ordine.

-Quell'uomo che hai visto, si è macchiato di gravi crimini- continuò.

-Molto gravi, un nemico dell'imperatore!- aggiunse l'altro. 

Yukimura era circondato, un kempeitai a destra e uno a sinistra.

-Affermava che la guerra in Cina fosse uno spreco di vite e risorse-

-Ovviamente siamo intervenuti, non comprendeva la necessità di allargare il nostro impero!-

-Tu che sei un ragazzo intelligente lo capisci vero?-

Yukimura annuì nuovamente, non aveva il coraggio di rispondere a parole.

-Dobbiamo lavorare tutti per la grandezza della nostra nazione. Chi non obbedisce se la vedrà con noi o con i nostri pugni!- entrambi scoppiarono a ridere.

-Ricordati di lodare l'imperatore e la nazione. Non essere stupido come quell'uomo. Ora vai!- il ragazzo venne spinto dallo stesso uomo che lo aveva acciuffato, poi i due kempeitai si voltarono e fianco a fianco marciarono verso la loro prossima vittima sconosciuta, rea di essere "antipatriottica".

Rapidamente Yukimura si apprestò a raggiungere l'okiya Kira e poi svoltare subito verso la propria casa.

Lui stesso non credeva allo sforzo appena compiuto.

Una volta giunto nella propria abitazione, aprì rapidamente la porta scorrevole, si levò le scarpe e si lasciò cadere sul tatami ansimando per la fatica, aveva corso parecchio pur di allontanarsi dai due soldati.

Sentendo il trambusto provocato, Shirou arrivò con passo svelto e trovò il ragazzo disteso.

-Che succede? Perché sei sdraiato sul tatami?- domandò incuriosito, ma rassicurati dal fatto che Yukimura stesse bene, mentre si inginocchiava al suo livello.

Il giovane alzò la schiena e incrociò le gambe.

-Kempeitai, Shirou-san!- rispose mentre respirava ancora con affanno.

-Hai fatto qualcosa che non dovevi?-

-No, non ho fatto niente di male…-

Shirou sospirò per poi alzarsi.

-Ne parliamo davanti ad una tazza di tè, così potrai ritrovare anche un po' di serenità- gli sorrise.

Pochi minuti dopo si trovarono uno di fronte l'altro seduti sul tatami, nella stanza centrale della casa. 

Il ragazzo dai capelli d'argento versò il tè in due tazze cilindriche di ceramica scura, inclinando una teiera di ghisa nera dall'aria tutt'altro che leggera, poi con grazia poso la teiera e passò una tazza al ragazzo di fronte a lui e prese la propria.

Yukimura la afferrò e quasi si scottò la lingua per aver cercato di bere quel tè fumante troppo di fretta, tuttavia quella fitta di dolore lo riportò alla ragione e alla tranquillità.

Shirou sorrise alla scena, poi con voce pacata gli chiese:

-Allora cosa è successo?-

-Ho consegnato il kimono… poi mi sono perso seguendo il corteo di un matsuri(3). Quando ho ritrovato la via di casa, ho preso una scorciatoia per tagliare la strada e li ho incontrati- il ragazzo abbassò la testa.

-Ti hanno fatto qualche domanda? O detto qualcosa?-

-Stavano picchiando un uomo… io ero lì vicino, si sono accorti di me! Ho provato a scappare ma uno mi ha preso e mi ha detto che mi devo dimenticare di ciò che ho visto!- il giovane stava iniziando a farsi prendere dall'ansia ricordando i fatti di poco prima.

-Yukimura, con calma, bevi un sorso di tè e fai un bel respiro-

Il blu seguì i consigli del più grande e poi continuò il discorso con più calma rivelando tutto ciò che si erano detti.

-Negli ultimi tempi i kempeitai sono sempre più aggressivi, non bisogna provocarli in alcun modo- proferì Shirou alzandosi.

-E come si può fare?-

-Questa è una bella domanda, non bisogna risultare antipatriottici ai loro occhi. Sempre sostenere l'imperatore, l'impero, la bandiera… tanti piccoli gesti che racchiudono tuttavia un grande significato e mai parlare male delle guerre di espansione-

-Perché? Stiamo perdendo?-

Il taikomochi sospirò, era un animo pacifico che non amava parlare di guerra e conflitti, ma che allo stesso tempo aveva come clienti numerosi soldati e ufficiali.

-Al contrario, stando a quanto mi dicono i miei clienti, o meglio da quanto origlio da loro, stiamo collezionando successi a non finire, ma a Nanchino pare che abbiamo dato il peggio di noi-

-In che senso?-

-Fai molte domande oggi-

-Non volevo recare offesa Shirou-san -

-Nessuna offesa, ormai sei grande, ma devi promettermi che tutto quello che ti dirò deve rimanere segreto- mentre pronunciava quelle parole Shirou avanzò verso il più giovane, i loro volti quasi si sfiorarono da quanto erano vicini e l'albino guardava dritto negli occhi del blu. Yukimura non aveva mai visto il suo mentore e amico così serio.

-Lo giuro- rispose con tono deciso.

-Bene- Shirou si allontanò e con le braccia dietro la schiena si portò verso l'unica finestra della stanza per guardare a quel piccolo giardino che aveva, un minuscolo appezzamento di terra con due alberi di ciliegio quasi privi di foglie, l’inverno era vicino.

-Si dice che lì, i nostri soldati si stiano dando a razzie, omicidi e violenze sulle donne della città e questo sta avvenendo da giorni. Non sono voci note a tutti, il motivo è semplice, nessuno sosterrebbe un esercito criminale. Chi viene a sapere di queste voci e prova a diffonderle viene zittito dai kempeitai con ogni mezzo, dalla violenza fisica… all'eliminazione. La loro guardia è sempre alta e la repressione del dissenso e degli oppositori è sempre più violenta dopo i fatti dell'anno scorso(4). Non devi provocarli in alcun modo, tutto quello che ti ho detto non lo hai mai sentito, né da me, né da altri… intesi? Se sapessero che sei a conoscenza di cose del genere, non credo si farebbero scrupoli nemmeno con un ragazzino  come te- Shirou era diventato più severo, sia nel modo di parlare che nell’espressione. Non voleva che per colpa sua Yukimura potesse cacciarsi nei guai.

Il più giovane a quelle parole si alzò e inchinandosi diede la sua parola.

 

****

 

Nonostante l’inverno fosse alle porte, l’isola di Formosa(5) era tutt’altro che fredda. Il cielo era limpido, non una nuvola, e la giornata era piuttosto tiepida quasi primaverile, dopotutto come isola era molto più a sud del Giappone e poco più a nord delle Filippine quindi era normale un clima del genere.

Hiroto era seduto ad un tavolo fuori da un locale della costa a godersi un po’ di aria di mare, con una brezza che gli scompigliava i capelli. Era uno dei tanti posti nati grazie alla presenza della base navale di Mako, la più grande dell’isola. I piccoli proprietari e albergatori facevano affari d’oro offrendo i loro servizi agli innumerevoli marinai che scendevano a terra prima di riprendere il mare. Il posto in cui si stava riposando non era uno di quei locali di lusso per gli ufficiali, ma il sakè era decente e a buon prezzo e anche l’ambiente era più che dignitoso nonostante qualche difetto sull’arredamento non proprio di qualità. Il punto forte non era però il servizio o l’ambiente ma la vista su tutta la baia e la base navale.

Da dove era seduto, Hiroto, poteva scorgere la grande quantità di navi presenti nella baia un insieme eterogeneo di cacciatorpedinieri e qualche incrociatore leggero, ben più grossi dei primi, ma a dominare lo sfondo vi era la portaerei su cui serviva, la Kaga. Con i suoi quasi duecentocinquanta metri di lunghezza pareva un gigante in confronto agli altri battelli ancorati.

La osservava con ammirazione, ormai erano settimane che non faceva che voli di ricognizione lungo la costa cinese.

Si destò dai suoi sogni ad occhi aperti da una pacca sulla spalla da parte di Ryuuji che lo aveva raggiunto, era rimasto fino a poco prima a parlare con una sua conoscenza nel locale.

-Questa volta l’abbiamo fatta grossa…- esordì il verde sedendosi anche lui su una di quelle scomodissime sedie di legno davanti a quel tavolo sgangherato.

-In che senso?-

-Quello che è successo qualche giorno fa, l’attacco a quel battello sul fiume-

-Non riesco a seguirti…- Hiroto era confuso, sapeva che una squadra della sua portaerei aveva affondato dei navigli sul Fiume Azzurro ma non capiva il perché fosse così grave.

-A quanto sembra, una di quelle navi che i nostri amici hanno distrutto non era cinese… era americana-

Hiroto, già pallido di suo, sbiancò in volto e sgranò gli occhi.

-Americana? Cosa ci faceva in quelle acque!- esclamò ad alta voce.

-Zitto! Vuoi farti sentire da tutta l’isola!?- lo rimproverò Ryuuji.

-Me l’ha detto il mio amico, quello con cui mi sono fermato a parlare. Ha detto che il governo americano ha rivendicato il battello come suo, o almeno così è scritto sul giornale che leggeva-

Il rosso sospirò, ora ci mancava solo di coinvolgere una qualche potenza straniera contro di loro per un errore.

-E come è possibile che sia stata colpita?- 

-Non lo so, ma mi piacerebbe saperlo- rispose il verde.

-Cosa pensi che accadrà ora? Spero che sia stato un errore e che si risolva in modo pacifico e diplomatico-

-Una volta un generale europeo disse “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”- 

Hiroto sorrise portandosi una mano al volto.

-Così non sei di aiuto Ryuuji! Potevi trovare una citazione più appropriata!- alla fine si lasciò andare ad una risata amara.

-Vedrai andrà tutto per il meglio e poi non siamo noi i responsabili-

-Come potremmo esserlo? Eravamo a pulire il ponte di volo, ancora mi dolgono le braccia!-

Anche Ryuuji scoppiò a ridere.

-Ora abbiamo solo una cosa di cui preoccuparci… tornare alla nave prima che ci capiti di nuovo il turno di pulizia!- detto ciò il ragazzo si alzò seguito da Hiroto. Si sgranchì la schiena e si incamminarono entrambi verso la Kaga, pronti a tornare in servizio nei cieli.


****



 

1) Maiko: è una geisha apprendista, dopo cinque anni di apprendistato diventano geisha vere e proprie.

 

2) Kempeitai: era la polizia militare giapponese. Nota per la sua ferocia verso i dissidenti e chi era “antipatriottico”. Teoricamente doveva agire solo nell’esercito mantenendo l’ordine nelle zone conquistate o presso i reggimenti ma presto si sovrappose anche al servizio di polizia segreta civile (Tokkou)

 

3) Maturi: festival religiosi giapponesi caratterizzati da grandi sfilate e cerimonie in onore della divinità o dell’evento.

 

4) ...fatti dell’anno scorso: noto come “incidente del 26 febbraio 1936” un gruppo di giovani ufficiali di una fazione dell’esercito attuò un colpo di stato per eliminare gli oppositori ideologici e formare un governo militare. Riuscirono ad assassinare alcune importanti personalità politiche, ma l’insurrezione venne sedata dopo 3 giorni.

 

5) Formosa: antico nome di Taiwan, all’epoca parte dell’impero Giapponese dal 1895


Piccolo angolo d’autore…

A voi il capitolo terzo, anche qui continuo a presentare

piccoli scorci della società nipponica dell’epoca,

in particolare la polizia la repressione della kempeitai.

Non molto da dire se non che anche il Giappone per certi aspetti

non si distanziava molto dai suoi alleati Italia e Germania dell’epoca

pur non essendoci un regime dittatoriale.

Rispetto al secondo capitolo, è già passato qualche mese e inoltre 

Hiroto e Ryuuji sono ora di stanza nell’isola di Taiwan.

La loro portaerei, la Kaga è realmente esistita e sto cercando

di documentarmi sui suoi spostamenti in quegli anni in

modo da essere piuttosto fedele alla realtà (dal rientro a Sasebo 

a fine settembre 1937 al ritorno al fronte cinese nell’ottobre 

stanziandosi nella base di Mako).

Nella speranza che la piccola lezioncina del capitolo scorso vi

sia piaciuta, oggi vi parlo (per chi fosse interessato)

di un’altra battaglia citata, quella di Nanchino e del perché

nel capitolo è così discussa…

Detto questo, ci vediamo alla prossima,

un saluto

 

_Eclipse

 

Nanchino: con la vittoria a Shangai dopo 4 mesi di combattimenti, l’esercito giapponese trovò la strada spianata per Nanchino, la capitale della Repubblica di Cina. La battaglia iniziò il primo dicembre 1937 e durò dodici giorni. L’evento è passato alla storia non per la battaglia in sé ma per le conseguenze. Per settimane l’esercito giapponese razziò la città e massacrò la popolazione. Non ci sono dati certi riguardo le atrocità (fonti giapponesi tendono a sminuirne l’entità, mentre le fonti cinesi probabilmente sovrastimano le vittime), stando agli osservatori occidentali, i civili uccisi furono tra i 300 e i 500 mila. Il generale Matsui fu condannato come criminale di guerra per aver permesso all’esercito tali efferatezze. Poco prima della caduta della città, diverse navi evacuarono i civili attraversando il Fiume Azzurro. Una di esse fu la USS Panay, una cannoniera americana che venne affondata da aerei (probabilmente provenienti dalla Kaga). L’incidente causò una crisi diplomatica e anche in questo caso non si è certi sul perché fu attaccata (i piloti giapponesi sostengono che non vi fosse alcuna bandiera statunitense sulla nave, al contrario gli americani sostengono che vi erano più di una bandiera in vista). Il Giappone riconobbe comunque la propria responsabilità e risarcì il governo statunitense incrinandone però le relazioni diplomatiche.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Geisha ***


Capitolo 4: Geisha

 

Con l'avanzare del tempo, arrivò l'inverno, poi il risveglio della primavera. Sbocciavano i ciliegi e in Giappone ne si ammirava la fioritura. Poi con l'estate, rimasero solo i frutti e le foglie, che con l'autunno ingiallirono, morirono e placidamente si posarono a terra. Il ciclo continua, il tempo non so arresta, come non si arrestano i grandi combattimenti in Cina.

Pechino, Shangai, Nanchino, le grandi città sono cadute. Al posto del grande sole bianco su fondo azzurro del Kuomintang, svettava sulle rovine il minaccioso Sol levante di colore rosso dell'impero giapponese.

Sempre più a fondo si spinse l'esercito, la costa non bastava e i cinesi si ritiravano sempre più nell'entroterra resistendo stoicamente nonostante la mancanza di mezzi e le infinite perdite.

Due anni, dopo due lunghi e interminabili anni, le armate nipponiche subirono un arresto in seguito alla prima vera vittoria delle forze cinesi a Changsha.

Uno smacco per il Giappone che fino ad allora aveva condotto la guerra, che stava vincendo la guerra.

L'alto comando sospese l'avanzata nella Cina centrale per concentrarsi su qualche scaramuccia a nord, al confine tra la corea e l'Unione Sovietica. Piccole battaglie per una disputa sui confini, tutt'altro che decisive ma che allo stesso tempo distolsero l'attenzione dei generali dal fronte meridionale.

Gli sforzi dovuti ai numerosi conflitti, portarono ad un blocco delle operazioni militari. Si doveva rifornire l'esercito; cibo, munizioni, armi ed equipaggiamento e cercare di ricostruire i fragili rapporti diplomatici con la vicina Russia.

Sembrava quasi che fosse stata imposta una tregua… ma solo per l'estremo oriente. A migliaia di chilometri di distanza, ad ovest, nulla erano serviti i continui appagamenti e concessioni alla Germania, che come un bambino viziato a cui era stato negato un giocattolo, aveva deciso di prenderselo con la forza varcando i confini polacchi alla ricerca del suo "spazio vitale".

Una tregua porta sollievo in Asia, una guerra sorge in Europa.

 

Le aule dell'università imperiale di Tokyo sono enormi, centinaia di studenti si riuniscono per apprendere e migliorarsi. Più piccole sono quelle adibite allo studio. 

Una stanza rettangolare con qualche tavolo e delle sedie sparse, pavimento in legno e muri tinti di bianco. Sulla parete di sinistra delle finestre facevano entrare la luce del sole, a destra invece vi erano una serie di scaffali e libri a disposizione degli studenti.

Il silenzio era pesante, come pesanti erano i libri su cui stava studiando Atsuya. Davanti a sé, sul proprio banco, giacevano i grossi tomi di anatomia insieme ad una serie disordinata di fogli di appunti e schizzi di disegni del corpo umano.

-Chi vincerà?- chiese uno dei ragazzi presenti.

-Come?- rispose un altro.

Erano quattro oltre ad Atsuya, tutti avevano tolto la giacca scura della divisa, rimanendo con la camicia bianca giusto per essere più informali e comodi.

-In Europa- replicò il primo.

-Non mi interessa- rispose l'altro.

-Eddai, come fai a dirlo?-

-Perché dovrebbe interessarmi qualcosa dall'altra parte del mondo? Devo studiare per un esame se non te ne sei accorto-

-Quanto sei noioso…- lo criticò.

-C'è qualcuno che abbia le palle di scommettere?- continuò con tono scocciato.

-Dipende da quello che si scommette- intervenne un terzo ragazzo.

-Cosa vorresti scommettere? Tua madre per caso?-

-Dannazione quanto siamo fini…- esordì Atsuya portandosi una mano alla fronte dopo ciò che aveva appena sentito.

-Mai detto di essere una persona educata-

-Si è sentito…-

-Comunque denaro, c'è qualcuno che vuol starmi dietro?-

-Tu per chi scommetti?- domandò il terzo ragazzo.

-Per il cavallo vincente… Germania- rispose il primo

-Ma Francia e Inghilterra sono in due-

-Tsk, hai visto la Germania? Ha schiacciato i polacchi come scarafaggi in meno di un mese!-

-E l'Inghilterra ha un impero molto esteso e molte risorse-

-Ma che ne vuoi sapere tu! Non sono le dimensioni dell'impero che contano. Duecento yen sulla vittoria tedesca entro un mese!- Esclamò orgoglioso il ragazzo.

-Ci sto-

-State veramente scommettendo su qualcosa del genere?- chiese Atsuya stupito.

-Dovremo pur farlo su qualcosa! Ormai in Cina si è fermato tutto!-

Il rosa prese una sigaretta da un pacchetto che teneva accanto ai libri.

-Avete da accendere?-

Uno dei presenti gli lanciò una scatoletta di fiammiferi, ne prese uno e accese la sigaretta inspirando a pieni polmoni.

-Hai paura di perdere Atsuya?- domandò con una punta di scherno il primo ragazzo.

-No, solo che non mi piace l'idea di scommettere denaro sulla vita delle persone-

-Allora hai paura-

-Iwao, a volte mi chiedo come sia possibile che tu stia studiando ingegneria!- sbottò il rosa per poi continuare dopo un tiro di sigaretta:

-Sto studiando medicina, voglio aiutare la gente, curare i loro mali, mi sembrerebbe da ipocriti scommettere sulla vita delle persone di quelle nazioni in guerra!-

-Non ti sto seguendo…-

-Appunto! Per fortuna voi ingegneri dovreste avere una mente malleabile e creativa- con forza chiuse il proprio libro di anatomia e spense la sigaretta in un posacenere di ceramica vicino. Indossò alla buona la giacca e uscì dall'aula. Si ritrovò nel giardino dell'università. Le foglie degli alberi si preparavano a cadere alla prima folata di vento.

Iniziò a camminare mentre finiva di abbottonarsi la blusa.

Quell'ambiente gli stava andando stretto, a suo dire troppa ignoranza e ingenuità verso ciò che stava succedendo nel mondo, ma si consolava che non tutti erano così.

Era da tanto che non tornava a casa, non vedeva l'ora di finire quei dannati esami e tornare da suo fratello. Era curioso, entrambi vivevano nella stessa città eppure erano così distanti.

Dopo aver sospirato e calmato i propri spiriti, si voltò per tornare nella propria aula.

 

****

 

Shirou era nella sua stanza, seduto sul tatami davanti ad uno specchio, accanto a lui Yukimura era in piedi che osservava.

Il ragazzo si stava preparando per la sera. Per un taikomochi non era richiesto il truccarsi il volto, ma a Shirou non dispiaceva, anzi, aggiungeva quel tocco di mistero alla sua persona e alla professione ormai in declino. Solitamente prendeva ispirazione dalle maiko e quindi si truccò cospargendosi il volto e le mani con una mistura di polvere di riso che faceva apparire il suo incarnato pallido, bianco come la neve della sua terra, l'Hokkaido.

Guardando il proprio riflesso nello specchio controllava se vi fossero delle imperfezioni.

Si rifinì il contorno degli occhi grigi con una sottile linea di un carboncino, poi prese un sottile pennellino e con quello si passò un filo di rossetto rosso sul labbro superiore, proprio sul bordo al di sotto del naso.

Così conciato, se non fosse stato per i suoi capelli, sembrava una giovane maiko in tutto e per tutto.

-Allora come sto Yukimura?-

-Benissimo, un ottimo lavoro-

Il ragazzo si alzò e sorrise al più giovane.

-Ora non manca che il vestito- aggiunse.

Si avvicinò a un mobile di bambù contro la parete, al suo interno vi era una decina di scatole di legno contenenti dei kimono maschili.

-Secondo me dovresti indossare quello grigio- propose Yukimura.

-Questo?- domandò l'altro mostrando un kimono ancora piegato di colore grigio chiaro.

-Sì, si intona bene con i capelli…-

-E' da molto che non lo indosso-

-Con quello potresti distogliere lo sguardo dei clienti dalle geishe e rivolgerli verso di te-

-Yukimura, non mi sarei mai aspettato certi commenti da te!- Shirou iniziò ridere sommessamente mentre l'altro ragazzo arrossiva per l'imbarazzo.

-Forse hai ragione, questa sarà una grande serata ne sono certo- continuò.

-Come sempre-

Shirou si voltò di scatto verso il ragazzo, poi chiuse gli occhi.

-Ti dispiace?-

-Come?-

-Dovrei vestirmi…-

Yukimura arrosì per la seconda volta, si inchinò mormorando qualcosa simile ad una "scusa" e uscì dalla stanza. Attraverso il sottile rivestimento della porta scorrevole poteva vedere l'ombra di Shirou che si levava lo yukata da casa per indossare il più elegante kimono.

Un kimono maschile non è come quello femminile, è più semplice, manca di disegni e decorazioni, ma nella sua semplicità cela una grande eleganza e grazia e comunque è tutt’altro che facile indossarlo, vi sono più pezzi che devono essere abbinati tra loro.

-So che sei lì fuori, puoi entrare ora- esordì Shirou ad alta voce.

Timidamente l'altro aprì la porta e la sua testa fece capolino da fuori.

-Come hai fatto…- non riuscì a finire la frase che venne interrotto dal più vecchio che si era girato verso di lui.

-La luce, ho visto la tua ombra- rispose l'altro alzando il braccio verso le candele che illuminavano il corridoio esterno alla sua stanza.

Yukimura poteva ammirare l'altro, il kimono grigio chiaro si sposava perfettamente col colore degli occhi di Shirou e con quel trucco.

-Direi che sono pronto, occupati della casa mentre sono via- 

-Sarà fatto-

I due scesero al piano inferiore, il più grande stava per uscire di casa quando Yukimura si affrettò a fermarlo.

-Stavi dimenticando questo- disse per poi passarli un ventaglio chiuso.

L’altro lo prese, ringraziò e poi se ne andò.

Sulla via, proprio fuori da casa, trovò Haruna e Fuyuka, avvolte in abiti multicolore mentre tenevano un ombrello di bambù di colore rosso.

-Buonasera Shirou, quanta eleganza-

-Mai quanto voi- rispose lui.

-Ci aduli come sempre- replicò Fuyuka.

-E’ solo la verità-

-Dove dobbiamo andare questa sera?-

-Un piccolo izakaya(1)-

-Allora vedi di non esagerare con il sakè!- scherzò Haruna.

-Ho imparato ancora tempo fa a non cedere troppo alle offerte dei clienti…- sospirò Shirou, ricordando un evento non molto piacevole del passato.

-Avanti, arriveremo in ritardo se non ci muoviamo!- osservò Fuyuka.

I tre pagarano un risciò vicino in attesa di clientela e si avviarono verso il locale.

 

****

 

-Sai che non adoro i posti come quelli, Ryuuji!- 

-Non ti piace la gente che li frequenta o cosa servono?-

-Sia l’uno che l’altro-

-Ma non hai mai disdegnato un bicchiere di sakè prima di partire per una missione-

-Lo faccio solo perché è la tradizione, porta fortuna-

-Hiroto, sai che non possiamo vivere di solo lavoro vero? E ora che la nostra nave è in congedo qui a Tokyo dovremmo pensare a svagarci in qualche modo-

-Per svagarci abbiamo molto tempo a disposizione, ora in Cina è l’esercito che conta…-

-Direi quindi di sfruttare il tempo che abbiamo fin da ora, non vorrai mica sprecarlo!- esclamò il verde.

I due piloti dopo un lungo periodo di servizio al largo delle coste cinesi poterono tornare in patria. 

La loro nave era approdata nella baia di Tokyo lasciando quindi un certo grado di libertà all’equipaggio fino a nuove disposizioni.

Hiroto e Ryuuji camminavano fianco a fianco da buoni amici, vestiti entrambi con l’uniforme blu scuro della marina imperiale per darsi un tocco di eleganza anche se non erano degli ufficiali.

Erano nella periferia della capitale, la zona più vicina alla base dell’arsenale di Yokosuka.

Era da tempo che non passavano per quelle strade con tutti quegli edifici che parevano fermi al secolo precedente.

-Allora dove stiamo andando?- chiese Hiroto con tono scocciato.

-Un posto di cui mi hanno parlato molto bene, ottimo cibo e bere-

-Lo spero, non ce la faccio più del cibo della mensa di bordo!-

-Non siamo lontani-

I due camminarono ancora per qualche istante fino a raggiungere un edificio dalla quale sembrava provenire della musica. Ai lati della porta erano appese delle lanterne di carta rossa.

Entrarono nel locale.

Un uomo piuttosto basso e anziano li accolse, era il proprietario e subito fece accomodare i clienti.

-Ah soldati, avanti entrate- esordì l’uomo.

La stanza era piuttosto piccola, un bancone con degli sgabelli e un ambiente poco luminoso.

-In realtà siamo piloti della marina- precisò Ryuuji.

-E’ lo stesso, servite sempre il divino imperatore! Venite, per voi c’è posto nella sala affianco, resterete stupiti-

I due vennero guidati nell’altra stanza, molto più grande, i tavoli, molto bassi, stavano lungo le pareti mentre nello spazio vuoto al centro, una donna dai capelli blu ballava in modo elegante e sinuoso con un ventaglio, mentre un’altra dai capelli e occhi viola l’accompagnava suonando uno shamisen e cantando con una voce allegra.

Non c'erano sedie, o sgabelli, ci si doveva sedere per terra come da tradizione dei tempi passati.

-Ordinate qualcosa? Mia moglie cucina degli ottimi yakitori e abbiamo un sakè d’eccellenza- chiese il proprietario il proprietario.

-Allora yakitori e sakè per entrambi- ordinò Ryuuji.

Il piccolo uomo si congedò con un inchino e uscì dalla stanza.

-Geisha, non sono mai stato ad un loro spettacolo- disse il verde.

-Neanch’io, ma sono piuttosto brave- rispose Hiroto per poi continuare:

-Me le immaginavo più truccate, invece loro non hanno neanche un filo di rossetto…-

-Perché loro sono geisha, chi si esibisce truccata è una maiko, un’apprendista- s’intromise una figura sconosciuta dai capelli argentei, un kimono grigio e il volto completamente bianco.

-Chiedo perdono per aver udito la vostra conversazione- s’inchinò.

-Oh… non è nulla, quindi se loro sono geisha vere e proprie… tu sei un’apprendista?- domandò Hiroto.

-Più o meno- la figura aprì il ventaglio azzurro e si coprì parte del volto.

-E quindi chi saresti?- chiese Ryuuji.

-Solo qualcuno al vostro servizio, per intrattenervi o anche solo conversare amabilmente- rispose l’argenteo mostrando un sorriso.

-Siete sempre così misteriose voi geisha?- 

-E voi servitori dell’impero fate sempre così tante domande?-

Il verde si lasciò andare ad una risata allegra:
-Ci ha proprio zittito!- aggiunse.

-Possiamo sapere almeno il tuo nome?-

-Fubuki Shirou-

-Tempesta di neve bianca(2)… se non erro nella nostra marina abbiamo una classe di navi che si chiama Fubuki, giusto Hiroto?-

L’altro annuì ma in realtà non stava ascoltando, era troppo occupato a capire chi fosse veramente quella persona truccata di bianco.

-Quindi siete marinai?-

-Piloti- replicò il rosso.

-Esattamente, il mio amico Hiroto sta per diventare un asso, quattro abbattimenti nei cieli della Cina!- aggiunse Ryuuji dando una pacca sulla spalla dell’amico.

-E’ ancora lunga la strada per diventare un asso- sospirò l’altro.

-Cina? E dove di preciso?-

-Dove saremmo dovuti essere, Shangai, Nanchino…-

-A Shangai mi salvò la vita una volta- sorrise Midorikawa.

-Quindi siete anche un cavaliere e salvatore, non solo un pilota ed asso-

Hiroto rimase spiazzato da una tale affermazione.

-E’ solo un complimento per la vostra audacia e destrezza-

-Oltre che misteriose anche schiette…- rispose il rosso con una punta di imbarazzo.

In quel momento tornò il proprietario dell'izakaya, con sé aveva degli asciugamani umidi per i due clienti in modo che potessero lavarsi le mani. Poi portò una piccola bottiglia di sakè tiepido con due bicchieri e un piatto in legno di yakitori, spiedini di pollo.

-Prego Shirou serviti anche tu- propose Hiroto.

-No, non credo sia il caso- rifiutò.

-Ci devi almeno concedere un piccolo brindisi, c'è abbastanza sakè per tutti. Scusi, potrebbe portare un terzo bicchiere?-Ryuuji si rivolse al proprietario che tornò dopo pochi secondi con il bicchiere per poi lasciare i ragazzi con un inchino.

Il verde versò la bevanda per tutti.

Esitante pure Shirou prese il bicchiere e come gli altri lo alzò verso l'alto.

-A cosa brindiamo?- domandò Ryuuji.

-Direi ai piloti della marina- propose L'argenteo.

-E alle geisha- aggiunse Hiroto.

-Ai piloti della marina e alle geisha! Kampai(3)!- esclamarono in coro per poi bere.

Nel frattempo le due geisha, finirono il loro spettacolo.

La più giovane, Haruna, si inchinò per raggiungere l'altra.

-Mi dispiace miei signori ma temo che sia giunto il momento- pronunciò Shirou con un cenno di dispiacere.

-Dovete andare via di già?- chiese il rosso sorpreso.

-Al contrario ora è il mio turno!- si alzò da terra e lentamente si mise nel mezzo della stanza. La poca illuminazione rendeva l'atmosfera più intrigante.

Le due geisha iniziarono a suonare, Fuyuka con lo shamisen, mentre Haruna con un flauto di bambù.

La melodia non era più allegra e vivace, ma più lenta, dolce ma allo stesso tempo malinconica. 

Il ragazzo aprì il proprio ventaglio, iniziò a farlo ruotare a ritmo di musica, lentamente poi sempre più veloce. lo lanciò in alto e lo riprese con l'altra mano e la musica rallentò il ritmo.

Passo dopo passo, Shirou iniziò a muoversi in una serie di giri e ampi gesti con le braccia coprendosi di tanto in tanto il volto con il ventaglio azzurro. Era diverso rispetto ad Haruna, il suo modo di fare e di ballare, ma comunque elegante e aggrazziato. 

Hiroto si trovò ipnotizzato da quella danza.

-Lei è ancora più brava della ragazza di prima- commentò Ryuuji.

La danza durò diversi minuti che agli occhi dei clienti non parvero che pochi secondi di piacere prima della fine.

Con la fine della musica, anche Shirou finì di danzare e si inchinò. Anche la sua esibizione venne accolta da una serie di applausi tra i quali anche Ryuuji e Hiroto.

Il giovane si fece da parte, lasciando ad Haruno il "palco". Lei iniziò a suonare da sola il flauto mentre Fuyuka smise di suonare per intrattenere alcuni clienti del tavolo vicino.

Il proprietario era più che soddisfatto, i clienti continuavano a ordinare da bere e da mangiare per poter rimanere lì e godersi lo spettacolo.

Shirou tornò dai due ragazzi che ancora stavano finendo di mangiare gli yakitori.

-Un esibizione fantastica!- esclamò Ryuuji.

-Vi ringrazio… ma non vi ho nemmeno chiesto il vostro nome- 

-Ryuuji Midorikawa e lui è…-

-Hiroto Kiyama, molto onorato-

-Sapete, di solito non ho mai delle serate così piacevoli con i soldati o i marinai… dovrò cercare più piloti tra i miei clienti-

-Assicurati che siano piloti della marina- sorrise il verde.

-Ne terrò conto-

I tre ragazzi continuarono a parlare in tutta tranquillità, di volta in volta Shirou si assentava per andare da altri clienti dell'izakaya e lo stesso facevano Haruna e Fuyuka, ma dopo qualche minuto tornava sempre al tavolo dei piloti fino a quando non finì il tempo dell'esibizione.

-Temo che dovrò lasciare voi e le amabili conversazioni che stavamo intrattenendo- 

-Un vero peccato… spero che potremo incontrarci nuovamente- mormorò Hiroto.

-Lo spero anche io, è stato un onore-

Shirou si alzò e salutò i due piloti con un inchino per raggiungere poi le due geisha. Riscosse il pagamento per la serata e uscirono fuori dal locale.

Hiroto e Ryuuji rimasero nell'izakaya ancora un po'.

-Cosa dicevi? Non ti piacciono molto questi posti?- lo stuzzicò il verde.

-Ammetto che è stata una serata divertente, non mi aspettavo di incontrare delle geishe così…-

-Affascinanti? Ti capisco, ma ora è meglio se andiamo si è fatto tardi-

I due se ne andarono tornando verso la base. 

Lungo il tragitto, un dubbio continuava ad assillare Hiroto e a presentarsi nella sua mente, chi era veramente quella geisha dai capelli argentati?

 

****



 

1) Izakaya: locali simili alle osterie o ai pub, di solito si servono alcolici (soprattutto sakè in passato) e alcuni piatti come appunto lo yakitori per accompagnare la bevanda

 

2) Tempesta di neve bianca: è la traduzione letterale del nome di Shirou (Shirou: bianco, Fubuki: tempesta di neve). Inoltre come osservato da Ryuuji, Fubuki era il nome di una classe di cacciatorpedinieri dell’epoca.

 

3) Kampai: esclamazione durante i brindisi in  Giappone, si può tradurre grosso modo con il nostro “salute” o “cin”.


Piccolo angolo d’autore…

Ho impiegato un po’ più tempo del solito,

ma vi lascio con un capitolo più lungo.

Dopo l’azione su Shangai e brutti incontri con la kempeitai,

un po’ di vera tranquillità (o almeno nella periferia di Tokyo).

E poi è tornato il nostro Atsuya anche se in una breve 

parentesi per mostrare un piccolo spaccato della sua

vita universitaria e con chi ha a che fare ogni giorno.

Per la seconda volta vi è un salto temporale, 

siamo arrivati nell’autunno del 1939 e purtroppo in Europa…

beh non credo mi debba spiegare più di tanto, credo si sappia

o almeno si sia intuito cosa sia scoppiato.

Tuttavia in Asia invece si è ad un punto morto tanto che i nostri 

cari piloti sono tornati a casa a tempo da definirsi.

Come sempre mi auguro che il capitolo sia di vostro

gradimento, per la “lezioncina” oggi ho un argomento

più leggero  breve ma che può aiutare a capire

un po’ alcune espressioni di Hiroto e Ryuuji… vi siete

mai chiesti il perché sottolineano sempre

di essere piloti della marina e non vogliono

essere confusi con l’esercito? 

Mi sono trattenuto fin troppo per ora, 

alla prossima!
Un saluto

 

_Eclipse

 

Rivalità di interservizi: con questo termine si definisce la rivalità può sorgere tra i componenti delle forze armate. In Giappone tale rivalità raggiunse il culmine a partire dagli anni ‘20. La rivalità tra marina ed esercito era dovuta alla scarsità di risorse (soprattutto  petrolio) e sulle strategie contrastanti per poterle ottenerle: l’esercito puntava a invadere la Russia per ottenere le risorse in Siberia, la marina invece pianificava di invadere l’Indonesia (all’epoca Indie orientali olandesi) per prendere possesso dei ricchi pozzi petroliferi. Tale rivalità fu accentuata a causa di alcune sconfitte contro i russi sui confini a nord, l’esercito perse prestigio e la marina divenne l’interesse degli industriali. Allo stesso modo erano rivali anche i piloti in quanto l’aeronautica era divisa in due rami, una sotto controllo dell’esercito e una sotto controllo della marina. La rivalità fu tale che la marina creò dei propri corpi di fanteria e di paracadutisti mentre l’esercito fece costruire per sé alcuni mezzi navali tra cui alcune piccole portaerei di scorta.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5: Nuove opportunità ***


Capitolo 5: Nuove opportunità

 

Non era passato molto tempo, che Atsuya poté finalmente finire gli studi. Si stava preparando per dire ufficialmente addio al proprio dormitorio e ai suoi compagni di stanza, tra cui Iwao nonostante i grandi scontri che ebbe con quest’ultimo.

Finalmente sarebbe potuto tornare a casa per un po’ prima di trovare un lavoro, tuttavia uno dei suoi professori lo richiamò nel suo ufficio.

Il professore era un uomo di mezza età, capelli che si stavano ingrigendo, un paio di occhiali dalla sottile montatura dorata che stavano davanti a degli occhi scuri socchiusi ma attenti a tutto ciò che li circondavano.

Ben vestito con un completo scuro, sedeva dietro una scrivania di legno scuro.

Atsuya invece era dall’altra parte, anch’egli seduto.

-Volevate vedermi professore?- domandò il rosa rompendo quel silenzio imbarazzante.

-Certamente, non sareste qui se così non fosse- il professore era quasi una celebrità tra gli studenti per il suo modo di parlare intricato, quasi come se volesse farsi vanto della sua conoscenza della lingua, oltre che dell’anatomia e della patologia.

Nuovamente cadde il silenzio. Atsuya era palesemente a disagio, non sapeva cosa dire o chiedere o fare. Se ne stava seduto comodo sulla sua sedia spostando di tanto in tanto lo sguardo da un punto all’altro della stanza. Dalla fornita libreria alle spalle del professore alla finestra a lato, alla pianta nel vaso dell’angolo.

L’uomo finì di fumare il sigaro che si stava godendo da quasi un’ora e lasciò il mozzicone finale nel posacenere della scrivania affinché potesse spegnersi da solo poi con un colpo di tosse prese parola.

-Ora possiamo concentrarci sul perché sei qui nel mio ufficio-

Atsuya annuì.

-Atsuya Fubuki, fresco di laurea e quindi giudicato idoneo all’esercizio dell’arte medica, è corretto?-

-Sì è corretto-

Il professore iniziò sistemare alcune carte davanti a sé.

-Lei è anche uno dei migliori studenti del suo corso, i suoi risultati sono impeccabili-

-La ringrazio-

-Per favore non mi interrompa-

Il ragazzo abbassò la testa.

-Il nostro ateneo è noto per l’alta qualità sia dei percorsi di studi che degli studenti stessi, tuttavia non è sempre sufficiente poter accedere ai nostri corsi per essere persone di successo. Vi è sempre margine di miglioramento, sia della persona che del corso. Lei è stato valutato da me e da una commissione di miei colleghi. Noi tutti abbiamo pensato che lei è un candidato idoneo e in possesso delle competenze per poter accedere ad un percorso di tirocinio e studio presso gli Stati Uniti in modo da poter comprendere e apprendere le nuove conoscenze di ambito medico e chirurgico-

Atsuya non credeva alle sue orecchie.

-Quindi volete che io vada in America?-

-La scelta è sua, l’università ha fatto da tramite. Come ho detto in precedenza, c’è margine per migliorare lei ma anche l’ateneo. Se vuole che l’università le dia supporto, deve presentare a noi anche le scoperte scientifiche del mondo Americano ed Europeo. In alternativa può sempre provare a chiedere al governo statunitense il permesso per lavorare e studiare in autonomia, ma in via del tutto confidenziale le posso dire che sarà altamente improbabile-

-E dove andrei? Cosa dovrei fare?-

-Abbiamo dei contatti ad Ohau nelle isole Hawaii. In tale arcipelago vi è una consistente comunità asiatica, giapponese in particolare. Abbiamo i contatti con una clinica del posto e con una persona che può trovarle una sistemazione. Ve la cavate con la lingua inglese?-

-Ho frequentato dei corsi qui all'università, ma è un inglese piuttosto basilare-

-In questo caso se siete d'accordo, credo che potrete avere l'occasione di perfezionare la lingua sull'isola-

-Con tutto rispetto, professore, vorrei chiederle di poter aspettare a darle conferma, vorrei prima parlarne con la mia famiglia- Atsuya era sia amareggiato che eccitato allo stesso tempo. Amareggiato perché si sarebbe dovuto allontanare all'improvviso ma anche eccitato per l'occasione che gli si presentava.

-So bene che non è una scelta semplice… ma badi che non ha molto tempo. Posso venirle incontro, se le sarà più comodo invii un telegramma con la conferma qui all'università. Si ricordi di firmarlo, ma sarebbe meglio se passasse quando è disponibile. Può andare-

-La ringrazio per la fiducia che ha in me- il ragazzo si alzò e si congedò con un profondo inchino.

Potè quindi tornare a finire gli ultimi preparativi e salutare le poche persone rimaste. Decise di non fare parola con loro di ciò che si erano detti lui e il professore.

Entro la tarda mattinata si trovò quindi sulla solita banchina del tram in attesa di quel vagone giallo zeppo di persone ammassate.

Ormai era un passeggero abituale, dopo anni di viaggi, e non gli dava più fastidio il non trovare posto.

Il tragitto era come sempre lento, il mezzo si fermava più volte a far scendere e salire i passeggeri.

Forse quello, sarebbe stato l'ultimo viaggio su quella tratta e con quel tram.

Arrivò alla banchina vicino a casa nel pomeriggio.

Ben vestito, con la valigia in mano e il cappello sulla testa, Atsuya giunse davanti alla porta della casa del fratello. Bussò ed aprì la porta.

-Shirou? Yukimura?- chiamò i loro nomi ad alta voce, ma non arrivava alcuna risposta.

Entrò togliendosi le scarpe. Tutto ciò era strano, lasciare la casa incustodita, sia il cancello che la porta aperti, non era cosa da loro un comportamento del genere. 

Attraversò il disimpegno e il corridoio fino ad arrivare in una sala, una semplice stanza quadrata con pareti bianche e un tatami di bambù e un piccolo tavolo, solitamente utilizzata come sala da pranzo o per il tè.

I due ragazzi erano lì.

-Bentornato dottore!- esclamò Shirou andandogli incontro per abbracciarlo.

-Complimenti Atsuya- esordì Yukimura in modo più sommesso rispetto all'altro.

-Mi avete fatto prendere uno spavento! Vi ho chiamato ma non rispondevate, pensavo vi fosse successo qualcosa!-

-Niente di grave, volevamo solo aspettarti per questo-

L'argenteo si fece da parte per mostrare una serie di piatti sul tavolo.

-Io e Yukimura abbiamo cucinato per tutto il giorno per festeggiare!-

Il volto di Atsuya si dipinse con un'espressione di sorpresa. Sul tavolo vi erano delle specialità di Hokkaido, pesce, carne e anche i dolci come i dango serviti con tè verde.

Il rosa non esitò a sedersi insieme agli altri, mangiando e fare festa fino a sera.

-Ora che farai?- chiese Shirou con fare interessato.

Atsuya rimase in silenzio, non sapeva bene come dirgli dell'offerta ricevuta.

-Qualcosa non va?- continuò il fratello.

-No è solo che…-

-Che…? Non è buona educazione lasciare in sospeso una frase- sorrise.

-L'università, mi ha proposto un periodo di studio negli Stati Uniti per poter apprendere le nuove scoperte scientifiche e… favorire la collaborazione tra le nostre nazioni-

-E' fantastico!- esclamò Shirou.

-Come? Pensavo che ti avrei deluso, starò via per molto tempo-

-La tua felicità prima di tutti, hai faticato tanto per arrivare qui, ora ti viene offerta un'occasione unica-

-Io partirei senza pensarci, anzi se serve un assistente mi offro volontario- si intromise Yukimura.

-Peccato che tu sia un po' troppo giovane per venire con me!- rispose Atsuya.

-Siete proprio sicuri? Non voglio lasciarvi…- continuò.

-Io sono più che sicuro, forze quello che non è sicuro sei tu- disse Shirou con un sorriso.

-Per me va bene se scrivi almeno una lettera a settimana- gli fece eco il blu.

-Una curiosità, dove dovresti andare?- chiese il fratello.

-Ohau, mi hanno detto che vi è una numerosa comunità asiatica e di discendenti di giapponesi-

-Non ho idea di dove sia- mormorò Yukimura.

-E' in un gruppo di bellissime isole nel Pacifico, sono piuttosto vicino a casa, pensando che sarei potuto finire a New York o da quelle parti-

-E quando partirai?-

-Devo dare la conferma al mio professore, ma credo a breve-

-Allora godiamoci al meglio questo tempo prima della partenza!- Shirou alzò il bicchiere come per brindare al fratello.

Continuarono ancora a lungo a parlare dei tempi passati fino all'arrivo della notte.

Il mattino dopo Atsuya di buon ora si svegliò per andare in un ufficio postale. Fece recapitare un telegramma all'università, due semplici righe:

 

"Al professore Ogawa. Accetto vostra proposta. Passo domani per nuove indicazioni. Atsuya Fubuki"

 

Nonostante la breve lunghezza, pagò una somma piuttosto consistente poi tornò a casa per godersi del tempo con la sua famiglia.

 

****

 

Hiroto e Ryuuji raccolsero i loro effetti personali in un sacco e scesero a terra.

La loro nave la Kaga, aveva solcato per l'ultima volte le acque dell'oceano. Il comando della marina aveva deciso che sarebbero state necessarie delle revisioni piuttosto importanti e ordinò che la nave fosse mandata in un cantiere navale per degli importanti lavori di manutenzione. Secondo le stime, sarebbe rimasta in secca per quasi un anno, fino a settembre o ottobre 1940.

-E ora?- domandò Ryuuji mentre rivolgeva un ultimo sguardo alla nave

-Staremo a terra-

-Un anno?-

-Tutte le altre portaerei hanno già un equipaggio, non possiamo sostituirlo noi-

-Giusta osservazione-

-Possiamo fare voli di esercitazione qui alla base navale-

-Potrei spendere questo tempo e prendere il brevetto per aerosiluranti…- osservó Ryuuji portandosi una mano dietro la nuca.

-Vuoi provare l'ebbrezza di affondare delle navi?-

-Penso sia riduttivo usare solo i caccia contro altri aerei e poi con due brevetti posso volare in due squadre a seconda delle necessità. Credo che dovresti provare anche tu-

-Non mi ci vedo a volare a venti metri dal mare per lanciare un siluro contro un battello cinese. Penso che proverò a superare gli esami per pilotare i bombardieri navali-

-Vuoi provare l'ebbrezza di affondare delle navi?- sorrise Ryuuji facendogli il verso.

-Al contrario dei siluri, posso colpire anche a terra- rispose l'altro con una punta di sarcasmo.

-Hai ragione anche tu-

-Potremmo considerarlo come un anno di licenza- continuò Hiroto.

-Un lungo anno di noia…- rispose l'altro.

La nave davanti ai loro occhi cominciò a muoversi lentamente e sbuffi di fumo grigio uscivano dal fumaiolo a lato.

-Ora siamo ufficialmente a terra- commento il rosso.

I due rimasero qualche istante ancora sulla banchina guardando il mare, poi si ritirarono verso quelli che sarebbero stati i loro alloggi, una caserma della base di Yokosuka. Una grossa struttura simile a un cubo di cemento e mattoni. Un residuo del secolo precedente, di quando ingegneri ed esperti occidentali offrirono le proprie conoscenze all'imperatore Meiji.

Le stanze di quell’edificio erano tutt’altro che comode. Erano grigie e spente, piuttosto tristi. La camerata aveva le pareti color cemento e una serie di brande metalliche a castello.

-Ovviamente è troppo chiedere un pizzico di comodità- sospirò Ryuuji sedendosi su uno di quei letti.

-Forse lo fanno apposta, così sembra di non essere mai scesi dalla nave- osservò l’altro.

-Preferirei che non fosse così…-

-In questi giorni non abbiamo molto da fare, giusto?- domandò il rosso.

-No, fino a che il comando non ci assegna dei compiti secondari come la manutenzione degli aerei o dei locali!-

-Allora che ne dici di andare in cerca di svago?-

-Da quando proponi di andare a divertirci? Di solito sei sempre ligio alle regole e al lavoro…-

-Preferisco godermi un po' il poco tempo libero qui a terra, dato che passeremo un anno a sistemare i motori e armi- rispose il rosso.

-La cosa non mi convince… non sarà forse per quella ragazza che abbiamo conosciuto all'izakaya-

-Ryuuji!- lo riprese l'altro.

-Lo prendo per un sì- disse l'altro con un sorriso compiaciuto.

-Prendilo per quello che vuoi, semplicemente ho passato una bella serata con lei-

-Faceva il suo lavoro-

-E noi eravamo i suoi clienti-

-Da quello che so non si possono legare a nessun uomo-

-Lo so, e non è per quello, te l'ho detto, mi piacerebbe solo passare un'altra serata tranquilla-

-In questo caso ti accompagno senza alcun dubbio, ma ho delle cose da sistemare prima di tutto-

Il verde si alzò dal letto cigolante e diede una pacca sulla spalla all'amico.

-Un'ora, tra un'ora ci troviamo puntuali qui, la base ci permette l'uscita fino a non oltre le undici di sera- disse il rosso.

I due si separarono. Ryuuji fece domanda per l’addestramento su aerosiluranti, mentre Hiroto cercò di informarsi riguardo i compiti della settimana nella base.

Si ritrovarono esattamente un’ora dopo, ben vestiti con la solita divisa blu scuro. Entrambi s’incamminarono verso l’izakaya dove erano stati l’ultima volta.

Non si sentiva la musica. Entrarono e come la sera precedente vennero accolti dall’anziano proprietario.

Si sedettero nella stanza in cui era già stati ospiti e ordinarono nuovamente yakitori e sakè. 

Hiroto sentiva che qualcosa mancava, forse la musica o i balli o forse proprio la compagnia delle geisha. Ryuuji provò ad attaccare bottone per una conversazione più volte ma con ben poco successo.

Rimasero nell'izakaya, completamente silenziosa, fino a quando non videro che si stava facendo tardi. Se non fossero tornati in orario, avrebbero potuto ricevere una sanzione con i fiocchi.

Hiroto uscì dal locale mentre Ryuuji ringraziava l'anziano proprietario.

Fu allora che potè scorgere una chioma argentata uscire da un edificio a una ventina di metri distante.

Potè riconoscere il ventaglio azzurro e i suoi capelli, non vi erano dubbi era Shirou, ma non potè avvicinarsi neanche per salutarlo. Insieme a lui vi era un'altra geisha e due uomini ben vestiti che ridevano allegramente.

-Hiroto… dobbiamo andare-

Il rosso fissò per qualche secondo le due geisha, poi a malincuore si voltò e con Ryuuji, tornò in base.


****


Piccolo angolo d’autore…

Un capitolo privo di note, quasi mi stupisco!

Comunque, un altro capitoletto tranquillo, i due marinai sono

a terra per almeno un anno, Atsuya invece partirà per gli

States per poter perfezionarsi…. in effetti Ohau non è

mica male come posto per andare a studiare… ma forse no

ci sarebbero troppe distrazioni (almeno per me XD)

Oggi direi che possiamo farla semplice, niente note

e niente lezioncina… così non vi annoiate troppo!

Per ora è tutto, 

un saluto

 

_Eclipse

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Capitolo 6
*** Capitolo 6: viaggio ***


Capitolo 6: Viaggio

 

Sei tornei scandiscono il tempo in Giappone, i sei tornei di sumo dei quali ben tre sono ospitati nella capitale.

Il sumo non è solo uno scontro fisico e puro intrattenimento, esso è una vera e propria forma d'arte con il suo insieme di costumi e riti.

In molti assistono agli incontri nella speranza di veder sorgere un nuovo yokozuna(1), un lottatore così forte sia dal punto di vista fisico che morale, da poter essere riconosciuto a pieno titolo come un semidio shintoista.

Molti incontri avvengono in padiglioni all'aperto, ma nella capitale sono quasi esclusivamente al coperto in arene costruite appositamente e non molto diverse dai ring di pugilato del mondo occidentale.

Il pubblico si siede su delle tribune attorno ad un anello di paglia dentro al quale avverrà lo scontro.

Hiroto e Ryuuji erano presenti, su invito di alcune vecchie conoscenze.

-Certo che si fanno attendere- osservó il rosso.

-Si può arrivare in ritardo, ma il tempo non lo farà- rispose il verde.

-E questo chi l'ha detto?-

-Un americano importante-

-Se non arrivano, rischiano di perdersi gli scontri- 

-Sarà peggio per loro… ma probabilmente è solo Haruya che è in ritardo-

-Probabile, Suzuno non è il tipo da arrivare in ritardo-

All’interno dell’arena vi era il caos, centinaia di persone che parlavano, gridavano e piazzavano scommesse.

Dopo parecchi minuti di attesa arrivarono anche gli altri due, Haruya Nagumo soldato dell’esercito imperiale e di stanza in Cina e momentaneamente in periodo di licenza e Suzuno Fuusuke, formalmente kempeitai nella Repubblica di Nanchino, praticamente di guardia a Tokyo.

I due erano seguiti da alcune ragazze, una dai capelli viola, una giovane dai capelli blu e truccata da maiko e una terza figura, Shirou.

-Scusate il ritardo- esordì Suzuno.

-Abbiamo scoperto che queste signore lavorano per Hitomiko Kira e abbiamo deciso di invitarle- continuò Haruya.

-Quella Hitomiko Kira?- chiese Ryuuji.

-Esattamente, la figlia del signor Kira quello che fondò il nostro orfanotrofio, sono delle geisha, lasciate che vi presenti Fuyuka, Aoi e…-

-Shirou Fubuki- mormorò Hiroto.

-E’ un piacere rivedervi- rispose l’argenteo.

-Vi conoscete già?- domandò il kempeitai.

-Ci siamo visti una sera in un izakaya- disse il verde.

-Bene, sono certo che ci renderanno questa giornata più interessante- sogghignò Haruya.

I presenti presero posto sulla tribuna.

Fuyuka stava vicino ad Aoi, la più giovane era ancora alle prime armi, ancora non sapeva quasi nulla su come dovesse comportarsi una geisha in presenza di un cliente. Suzuno pareva più interessato ai preparativi dell’incontro che alle due ragazze, mentre Hiroto e Ryuuji invitarono la loro conoscenza a sedersi vicino a loro.

-Non avrei mai pensato che ci saremmo visti nuovamente- disse Shirou.

-E’ passato più tempo di quello che pensassi- replicò il rosso.

-Siete stati in missione?-

-Non proprio, al momento siamo a terra, la nostra nave è in cantiere per alcuni lavori di manutenzione-

-Spero che non vi stiate annoiando a stare così lontano dai campi di battaglia-

-Al contrario, stare a terra e godere della tua compagnia è molto più piacevole che rischiare la vita nei cieli- continuò Hiroto.

-Lo considero un grande onore-

Nell’anello dell’arena arrivò il gyoji, l’arbitro dell’incontro, vestito con un lungo abito ispirato alle vesti dell’era Heian(2) e con un ventaglio di legno in mano. Successivamente arrivarono i due imponenti sfidanti. Molto più alti di un uomo normale e molto più grossi, quasi dei titani.

Il silenzio cadde in segno di rispetto per i rituali che si sarebbero tenuti.

I due rishiki(3) si posizionarono nell’anello l’uno davanti all’altro. Batterono le mani e poi i piedi a terra per scacciare gli spiriti maligni, poi presero una manciata di sale e lo lanciarono nell’anello per purificarlo.

Alla fine dei rituali, i due sfidanti tornarono uno davanti all’altro, si abbassarono e toccarono il suolo con le mani. Solo allora il gyoji alzò il ventaglio e i due rishiki caricarono in un turbinio di colpi di mano e spinte.

Il pubblicò iniziò da subito a esultare.

-Curioso come la gente si ecciti a vedere due uomini che combattono- disse Shirou.

-Finché non è un vero combattimento, è semplice esultare e fare il tifo per uno degli sfidanti- rispose Ryuuji.

-Già, lo vedi Haruya?- Hiroto indicò l’amico senza farsi vedere da quest’ultimo.

-Lui è stato a Nanchino e si fa sempre vanto di quanti civili riuscì ad uccidere con la spada. Quel tipo di combattimento, è tutt’altro che divertente anzi, è un qualcosa di così raccapricciante da non poter essere definito combattimento- continuò.

Nel frattempo i due rishiki erano in posizione di stallo tenendosi per i fianchi in attesa che uno di essi abbassasse la guardia per poi colpire e vincere.

-Spero che voi non abbiate mai dovuto fare qualcosa del genere-

-No, non ancora almeno- rispose il rosso.

-Siamo cavalieri dell’aria, potremmo mai fare noi qualcosa di così orribile?- lo seguì Ryuuji con fare poetico e un sorriso in volto.

Nel giro di pochi secondi, la situazione sul campo cambiò e con una spinta verso l’alto, uno dei due rishiki, il più basso riuscì letteralmente a lanciare l’altro verso l’alto che cadde di schiena. Con l’avversario a terra, il gyoji lo nominò vincitore dopo non più di qualche minuto di combattimento.

A quello seguirono altre serie di incontri per tutto il pomeriggio.

Il tempo passò rapidamente, Hiroto e Shirou conversarono a lungo durante gli incontri mentre Haruya se la spassava, peccato che i suoi modi di fare piuttosto grotteschi non fecere che mettere a disagio le due ragazze.

Fuori dall’arena, poco prima di tornare in base, Hiroto si avvicinò a Shirou che aveva appena riscosso il pagamento da Haruya.

-Quindi lavori per Hitomiko Kira?-

-E’ un’amica e siamo in affari, io organizzo di solito le serate nei locali, oggi avrei dovuto aiutare Fuyuka con Aoi-

-Quindi se volessi incontrarti di nuovo potrei anche chiedere a Hitomiko?-

-Potresti, sicuramente sarebbe il modo più semplice-

-Allora alla prossima Shirou Fubuki-

-Alla prossima volta, Hiroto, è stata un incontro molto piacevole-

I due si inchinarono e poi, si separarono prendendo strade diverse.



 

****

 

Il viaggio durò parecchi giorni. Da Tokyo a Oahu in nave. Atsuya riusciva ancora a vedere, nella sua mente, il fratello e il giovane Yukimura salutarlo dalla banchina mentre saliva a bordo.

Gli americani l'avrebbero chiamata "oceanic liner", un lungo scafo nero che si stagliava di parecchi metri dal livello del mare, la murata delle cabine sopra il ponte era tinta di bianco come i due fumaioli da cui uscivano sbuffi neri di fumo denso. A poppa e su un albero a prua sventolava orgogliosa la bandiera del Sol levante.

La nave non era come i transatlantici europei, non era lussuosa o ricca di comodità, tuttavia cabina di seconda classe del ragazzo, in parte pagata dall'università, era più che sufficiente.

Un piccolo cubo di qualche metro quadro, un letto metallico, un semplice scrittoio di legno e un bagno privato piuttosto spartano. Probabilmente la terza classe se la passava molto peggio di lui.

Un oblò sopra lo scrittoio gli permetteva di vedere il mare. L'acqua era piatta come una tavola e anche il moto della nave non fu particolarmente turbolento, era più simile ad un dolce oscillare in alto e in basso appena percettibile.

Alle volte Atsuya usciva all'aperto e si affacciava sul parapetto osservando l'oceano. Mai prima d'ora si trovava così tanto lontano da casa.

Dopo quasi una settimana di viaggio arrivò a destinazione.

Da lontano potè scorgere l'isola di Oahu.

Sbarcò nel porto di Honolulu, nel quale svettava la torre Aloha simbolo della città, un’alta torre d’orologio e faro di colore biancastro e dal tetto scuro, sotto di esso a grossi caratteri scritta la parola “aloha” da cui il nome . Messo piede in terra americana, dovette passare la frontiera mostrando documenti e passaporto con una dichiarazione dell'università di Tokyo.

La guardia, un corpulento uomo dagli occhi ghiaccio lo lasciò passare nonostante alcuni dubbi a riguardo.

Finalmente dopo giorni di traversata dell'oceano era arrivato in America. Non aveva molto con sé: una valigia, i documenti, un indirizzo e molto entusiasmo. Peccato solo il forte accento nipponico e un inglese non proprio dei più brillanti. 

Fermò un taxi alzando il braccio e salì in auto.

Il conducente parlava velocemente e non sembrava interessato ad aiutare il giovane medico o almeno dal punto di vista linguistico.

Per evitare equivoci, gli consegnò il foglio di carta con l'indirizzo della clinica. Il conducente sfrecciò verso la destinazione guardando di tanto in tanto il passeggero dallo specchietto retrovisore.

Lungo il tragitto Atsuya ammirava dal finestrino la città, le case e gli edifici erano totalmente diversi da quelli in Giappone, piccole villette bianche che si mischiavano a caseggiati più grandi.

Ai bordi delle strade la gente camminava sorridente sotto al sole. Molti uomini poi indossavano delle uniformi bianche da marinaio, forse c'era una base navale vicino o qualcosa del genere.

-Cosa siete venuto a fare qui alle Hawaii?- chiese il conducente.

-Come? Potreste parlare più lentamente?- 

-Perché siete venuto qui?- 

-Sono un medico, la mia università ha organizzato un periodo di studio e apprendimento in una clinica del posto-

-Capisco-

I due non si scambiarono nessun'altra parola fino all'arrivo.

La clinica in questione non era che un edificio completamente bianco, un cartello con una grossa croce rossa sopra la porta, e molte grandi finestre per fare entrare quanta più luce possibile.

Atsuya pagò il taxi ed entrò all'interno degli ambulatori tenendo in una mano la valigia.

L'interno era spazioso e molto luminoso, pareti bianche come anche le piastrelle del pavimento.

Si avvicinò ad un banco dove vi era una donna dai capelli rossi.

-Buongiorno- la salutò Atsuya.

-Avete bisogno?-

-Sono Atsuya Fubuki-

-E di che avete bisogno signor Atsuya Fubuki?-

-Devo parlare con il dottor Williams-

-Primo piano, seconda porta a sinistra- rispose la donna in modo svogliato.

Il ragazzo ringraziò con un inchino e si apprestò a salire al piano superiore. Seconda porta a sinistra, lo studio recava sull'uscio una targhetta con il nome del medico. Bussò, attese una risposta ed entrò.

-Salve, voi siete?-

-Atsuya Fubuki, sono il medico inviato da Tokyo-

-Ah ottimo! Non vi aspettavo così presto! Prego accomodatevi-

Il dottor Williams era un uomo sulla quarantina, alto occhi chiari e capelli castani con un paio di folti baffi sotto al naso.

-Spiego rapidamente, non voglio dilungarmi inutilmente. Prima di tutto benvenuto a Honolulu, sono certo che si ambienterà rapidamente. Per il vostro alloggio, da quanto ho capito dovreste avere già una sistemazione fornita dall'università giusto?-

-Sì, un conoscente del professore che mi ha raccomandato-

-Bene, per quanto riguarda il lavoro invece, non credo ci sia molto da dire, lei è medico e questa è una clinica, piuttosto piccola a dir la verità, il resto vien da sé. E' fortunato che in quest'isola non succeda quasi mai nulla quindi sarà un lavoro anche tranquillo, il peggio che può capitare sono qualche soldato pestato in una qualche rissa inutile… sa come trattare contusioni, escoriazione e cose del genere vero?-

-Certamente dottor Williams- 

-Perfetto, allora se vuole le presto un camicie e la porto a fare un giro della struttura, lasci pure qui la valigia- il dottore pareva una persona per bene e simpatica, prestò un camicie ad Atsuya, peccato che gli fosse più lungo e più largo.

La clinica effettivamente era piccola, qualche ambulatorio, e due corsie di degenza una decina di infermiere e qualche medico in tutto al lavoro.

-Le possiamo dare questa stanza come studio privato, non è molto ma è meglio che nulla-

Lo studio era una stanza rettangolare bianca a cui era stato aggiunto in modo frettoloso un lettino, una scrivania con telefono e macchina da scrivere e telefono. Una grossa finestra permetteva una splendida vista mare e della baia, una moltitudine di navi anche di grosse dimensioni stavano ancorate alla fonda e si potevano ammirare dallo studio, tuttavia non era il porto di Honolulu, probabilmente era un altro scalo.

Atsuya era entusiasta di tutto.

Verso sera lasciò l'istituto, era sbarcato da meno di ventiquattro ore e aveva passato già gran parte della giornata al lavoro. Il personale era cordiale ed estroverso oltre che disponibile e competente.

La casa in cui era ospitato non era molto distante dal posto di lavoro.

Una villetta in stile americano con tanto di giardino, nonostante il tramonto si poteva vedere la facciata tinta di azzurro come un uovo di pettirosso.

Passò per il vialetto e suonò il campanello.

Gli aprì un ragazzo all'incirca dell'età di Atsuya dai capelli e occhi scuri quasi neri.

-Sei il ragazzo di Tokyo?- gli chiese in giapponese.

-Sì sono io-

-Entra allora, non vorrai stare fuori tutto il tempo! Io sono Taro Kimura-

-Atsuya Fubuki, molto piacere-

L'interno della casa era arredato con le ultime comodità americane, giradischi, radio, frigorifero e molto altro.

-La tua stanza è al piano di sopra, vieni te la mostro!- 

I due salirono. La camera era più grande di quello che Atsuya poteva immaginare, un letto matrimoniale, un grosso armadio, più che esagerato per quei pochi averi che si era portato dietro.

-Sarà un piacere ospitarti Atsuya! Hai già mangiato?-

-Sì ho cenato alla clinica-

-Immagino che tu voglia riposarti, se hai bisogno basta solo che tu mi chiami e arriverò- Taro uscì chiudendo delicatamente la porta.

Il rosa si tolse la giacca e la camicia e poi, gettatosi sul materasso, si abbandonò ad un dolce sonno ristoratore dopo la sua prima e lunga giornata sull'isola di Ohau.



 

****

 

1) Yokozuna: è il massimo livello che può ambire un lottatore di sumo, si diventa tali dopo aver vinto due tornei di fila o aver ottenuto un buon numero di vittorie degne di nota ed essere in possesso di determinati requisiti morali. Spesso sono considerati dei veri e propri semidei.

2) Era Heian: periodo di storia giapponese che va dal VIII al XII  secolo d.C. Il nome deriva dal nome della capitale di allora che corrisponde all'attuale Kyoto.

 

3) Rishiki: è il termine che indica un lottatore di sumo





 

Piccolo angolo d’autore…

Ebbene un nuovo incontro tra Hiroto e Shirou,

oltre che la comparsa di due nuovi personaggi non 

propriamente felici ( e credo l’abbiate capito…)

che compariranno maggiormente in futuro.

Dall’altra parte del mondo invece Atsuya è sbarcato ad Honolulu

lavoro in una piccola clinica ed è ospitate di un amico del suo

professore.

Ad ora ci troviamo leggermente più avanti nel tempo,

nei primi mesi del 1940 (considerato che nei capitoli

scorsi Atsuya si è laureato e ora è alle isole Hawaii).

Direi che lentamente ci si sta avviando nel profondo

della storia, sarà solo il capitolo 6 ma in realtà

non è che ancora l’inizio di tutto.

Essendo ora nel 1940 vi lascio, come sempre

per i più temerari la curiosità del capitolo riguardo

ciò che succede in Europa,

detto questo io vado,

un saluto

 

_Eclipse.

 

La strana guerra: qualche capitolo fa avevo parlato dello scoppio della guerra in Europa tuttavia dopo la caduta della Polonia, non vi furono scontri sul fronte occidentale per parecchi mesi. Le operazioni militari ripresero quando la Germania nel mese di aprile invase e conquistò la Danimarca e poi la Norvegia (nonostante il grosso intervento inglese per quest’ultima) per assicurarsi le ricche risorse della scandinavia.

A maggio invece iniziò la prima vera offensiva in Francia dando veramente iniziò alla guerra dopo 7 mesi di relativa calma. Poco prima della caduta francese, l’Italia si schiererà con l’alleato tedesco dichiarando guerra a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno del 1940.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7: Tensione ***


Capitolo 7: Tensione

 

In pochi mesi la situazione in Europa cambiò drasticamente. Danimarca e Norvegia caddero sotto il dominio tedesco. 

Con una mossa fulminea; l'operazione Sichelschnitt, colpo di falce, Olanda e Belgio si trovarono isolati e alle strette.

I panzer(1) tedeschi avanzavano imperterriti su Amsterdam e Bruxelles. L'invasione fu poco più che una passeggiata e ora le armate germaniche potevano invadere il vero nemico, la Francia. 

A nord al confine col Belgio era vulnerabile, niente linea Maginot(2), niente chilometri di trincee e bunker e artiglieria pesante, solo i verdi campi delle Fiandre.

Ancora una volta i mezzi corazzati e la fanteria marciarono su quel fronte già devastato poco più di vent'anni prima.

Il paese entrò in crisi e così l'alleato inglese... dopo solo tre giorni. Il primo ministro Chamberlain dovette dimettersi perché considerato troppo debole e sostituito da un uomo forte in grado di guidare una nazione esasperata.

 

"Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, la lacrime e sudore…"

 

Le parole del nuovo primo ministro, Winston Churchill furono più che veritiere. Nelle Fiandre non vi erano solo francesi, belgi, olandesi, ma decine di migliaia di uomini inglesi che mordevano il filo spinato e schivavano le pallottole, ma ad ogni colpo sparato dovevano indietreggiare di un passo fino alla costa della Manica.

I tedeschi li accerchiarono. Dopo poco più di due settimane dall'inizio della battaglia di Francia, i britannici rischiavano di perdere completamente il loro esercito. Gli aerei colpivano dall'alto come falchi e i cannoni tuonavano. Colonne disordinate di soldati si ammassavano sulle spiagge in attesa di una nave battente bandiera amica, ma esse venivano affondate una dopo l'altra. Le navi della marina erano bersagli piuttosto grandi e lenti, e la supremazia aerea tedesca rendeva quei mezzi delle trappole mortali per i profughi.

Un miracolo apparve all'orizzonte nei primi giorni di giugno, quando decine di barche, pescherecci e battelli da diporto apparvero sulle spiagge di Dunquerke sotto richiesta del governo salvando mezzo milione di soldati bloccati sul litorale da una morte certa.

Nella trepidazione del miracoloso successo, venne pronunciato un nuovo discorso in cui si esortava il popolo dell'isola e dell'impero a resistere per poter raggiungere la vittoria.

 

"Noi andremo avanti fino alla fine, noi combatteremo in Francia, combatteremo per i mari e gli oceani, combatteremo con crescente forza e fiducia nei cieli, noi difenderemo la nostra isola quale che sia il prezzo da pagare. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e per le strade, combatteremo per le colline; noi non ci arrenderemo mai!"

 

Tuttavia, nonostante le belle parole, comparve a sud un nuovo nemico, che reclamava diritti e poteri sul Mediterraneo in modo simile al suo glorioso antenato del passato. L'Italia entrò in guerra e si accinse con difficoltà a invadere la Francia dalle Alpi. Dopo pochi giorni, Parigi venne presa.

Sulla torre Eiffel venne issata la bandiera con la croce uncinata, la svastica simbolo dell'oppressione.

Per la terza volta, in pochi giorni venne pronunciato un nuovo discorso, abbandonati i toni enfatici e ottimisti del futuro, il ministro preparava la popolazione al peggio:

 

"Quella che il generale Weygand chiama la Battaglia di Francia è terminata, la Battaglia d'Inghilterra sta per iniziare"

 

E così fu dal mese successivo, decine di raid aerei e bombardamenti colpirono l'Impero britannico al cuore, a Londra. Più e più volte al giorno senza tregua tutti i giorni e tutte le notti, sirene e allarmi suonavano quando meno ce lo si aspettava e la gente per strada doveva allora correre nei bunker che erano stati costruiti o addirittura nelle gallerie della metropolitana costruita nelle profondità della terra.

Le Loro maestà, il re e la regina si rifiutarono di lasciare il paese e rimasero con il loro popolo, anche quando lo stesso Buckingham Palace venne bombardato.

Il Giappone non rimase fermo molto a lungo, vista la debole posizione del nuovo governo collaborazionista a sud della Francia, riuscì ad annettere la ex colonia dell'Indocina, ricca di risorse, sollevando grandi proteste da parte delle altri nazioni, in particolare gli Stati Uniti.

 

****

 

La tensione era così alta che quasi si poteva toccare con mano. Le riunioni del consiglio di guerra, non erano mai piacevoli. Nell’aula vi era una fila di banchi disposti a ferro di cavallo. Lì sedevano i vertici dell’esercito da una parte e quelli della marina dall’altra. Nei posti centrali vi era il primo ministro, Fumimaro Konoe e alcuni membri del suo governo. Dietro quei posti, vi era un trono in posizione rialzata, era il seggio riservato all’imperatore, ma di rado presenziava alle riunioni.

Il primo ministro, in piedi davanti a tutti e vestito con un'elegantissima uniforme recante un gran numero di decorazioni scintillanti, stava recitando un lungo discorso riguardo gli ultimi avvenimenti, l’annessione dell’Indocina francese, la firma del Patto tripartito insieme a Germania e Italia ed infine l’argomento più scottante.

-Il Congresso degli Stati Uniti ha varato, in queste settimane, una sequenza di  leggi in risposta alla nostra recente annessioni delle colonie francesi nel sud-est asiatico. Tali leggi impongono un embargo verso il nostro glorioso impero riguardanti i materiali a noi più preziosi. Nel particolare, gli Stati Uniti d’America, affiancati dall’Impero britannico, si rifiutano di commerciare e vendere le quote di petrolio e acciaio da noi richieste fino a quando non verrà ristabilito lo status quo in Asia…-

A quelle parole alcuni dei presenti si alzarono per esprimere la loro opinione.

-E’ inammissibile! Vogliono indurci ad abbandonare le nostre ambizioni per far sì che possano espandersi loro a nostro svantaggio!- tuonò uno dei generali.

-Non possiamo permetterci di indietreggiare dopo tanti sacrifici e successi in Cina!- gli fece eco un altro.

-Ordine!- sentenziò il primo ministro per poi continuare: -Inoltre, tra le misure restrittive e sanzionatorie delle potenze occidentali, vi è il completo congelamento dei nostri beni finanziari dislocati negli Stati Uniti, nel Regno Unito e le colonie da esso dipendenti…-

Per la seconda scoppiò il caos e per la seconda volta si cercò di ripristinare l'ordine.

Il capo del governo concluse il proprio discorso e poi sedendosi al proprio seggio si portò le mani davanti al volto abbassato e riprese a parlare.

-Onorevoli membri di questo consiglio, ci troviamo davanti ad una situazione delle meno piacevoli. Abbiamo poche risorse e dovremo razionarle fino a che non verrà trovato una soluzione-

Uno dei generali seduti nella fila a sinistra del ministro Konoe, un uomo piuttosto anziano e dal volto rugoso si alzò.

-Chiedo di poter parlare-

-Le viene concesso il permesso- 

-Ministro, a nome dell'esercito chiedo, per quanto riguarda le risorse, che venga data una priorità maggiore ai nostri uomini in Cina. La vittoria finale è vicina. Sarebbe disonorevole ritirarci e vanificare tutto l'operato della nostra nazioni a causa della mancanza di rifornimenti…- a quelle parole di scatto si alzò un rappresentante dello schieramento opposto, quello della marina riconoscibile per la più sobria divisa blu scuro.

-Chiedo di poter parlare anch'io-

-Ne ha il permesso- ripeté il primo ministro.

-Noi della marina ci opponiamo ad una richiesta simile! Le nostre navi necessitano di carburante e nafta affinché possano navigare e prestare supporto ai nostri uomini in Cina, ma allo stesso tempo necessitiamo di grandi quantità di metallo per rifinire la nuova super corazzata Yamato e completare gli scafi delle due gemelle e iniziare quello della "nave numero 111"-

-L'esercito invece ha bisogno di nuovi carri armati! I corazzati della seria Yi Go si sono dimostrati del tutto inefficienti contro gli analoghi sovietici. Dobbiamo investire maggiormente nei carri della serie Chi Ha e concentrare le nostre riserve di acciaio nella produzione di questi!- rispose un secondo generale.

-La Cina non dispone di armi anticarro, figurarsi se possiede dei mezzi corazzati! Ricordate che siete sul continente grazie alle nostre navi!- sbottò uno degli ammiragli.

-Noi stiamo combattendo, il vostro compito è solo di trasportarci in Cina e riportarci in patria quando necessario. La marina non è che un trampolino di lancio per l'esercito…-

-Silenzio! Questa è la sede di un consiglio militare, non siamo qui per discutere chi sia il migliore. Dobbiamo cooperare. Se necessario suddivideremo le materie disponibili in base alle vostre esigenze, un maggior quantitativo in tonnellate di metalli per la marina e una quota maggiore in ettolitri di petrolio per rifornire le forze dell'esercito in Cina e dobbiamo inoltre pensare anche alle necessità civili della nostra nazione. Il nostro ambasciatore a Washington è già all'opera per negoziare il ritiro dell'embargo- sentenziò il primo ministro.

Si alzò allora uno dei vicini al capo del governo, era un uomo di poco meno di sessant'anni, capelli rasati a zero, un paio di occhiali davanti agli occhi e due baffetti neri sotto al naso. Il ministro della difesa Hideki Tojo, esponente della fazione dell'esercito come testimoniato dall'uniforme da generale delle truppe di terra.

-Ministro Konoe, vi chiedo la parola come membro dell'esecutivo-

-Accordato, ministro Tojo-

-Come mi impone il mio ministero, devo interrogarvi su alcune questioni, il nostro onorevole ambasciatore Kensuke Horinouchi sta negoziando con il governo Statunitense, ma avete pensato a come reagire se fallisse qualsiasi tentativo di mediazione? Spero che in questa sfortunata ipotesi, non permetterete agli americani di aver ragione su di noi e ritirare le nostre truppe dal continente-

-Mi state consigliando di reagire con la forza?-

-Sto solo sollevando una spiacevole situazione che potrebbe verificarsi, come reagire spetta a voi e all'imperatore-

-Ho fiducia nei nostri diplomatici, non abbiamo bisogno di nuovi nemici-

L'assemblea prese una svolta su nuovi argomenti riguardo la situazione cinese, tuttavia la scarsità di risorse non aveva che aumentato le tensioni tra l'esercito e la marina.

 

****

 

Atsuya si stava ormai abituando del tutto alla vita nelle isole Hawaii. Si scambiava di continuo lettere con il fratello, si scrivevano su come continuava la loro vita, alcune novità, qualche volta anche piccole fotografie, soprattutto da parte di Atsuya in modo da poter mostrare il piccolo paradiso tropicale al fratello. Tralasciavano del tutto la politica e gli argomenti spiacevoli per evitare la censura nipponica.

Ogni mattina il giovane medico si alzava piuttosto presto, ma nonostante tutto il sole splendeva brillante nel cielo. Faceva colazione "all'americana" bevendo caffè nero e poi con andava presso la clinica in bicicletta. Lungo il tragitto passava accanto alle piccole case dei vicini lungo i viali alberati e costeggiati di palme. Si era fatto conoscere nel quartiere e se incontrava qualcuno salutava sempre con un sorriso. Non rappresentava lo stereotipo del giapponese chiuso e riservato, ma il contrario, anche il suo inglese stava migliorando notevolmente anche se il forte accento nipponico faticava a scomparire, ma ormai si poteva considerare alla stregua di una bizzarra peculiarità del giovane.

Come ogni giorno si presentava alla clinica, indossato il camicie bianco percorreva la corsia affiancato dal dottor Williams e da alcune infermiere.

Dopo un rapido giro di visita dei pochi degenti, poteva dedicarsi al lavoro in autonomia. Sedeva quindi nel piccolo studio che gli era stato riservato, l’aveva arricchito per renderlo più confortevole, una piccola libreria, una pianta in un vaso nell’angolo, qualche fotografia della sua famiglia sulla scrivania, tante piccole cose che gli ricordavano casa. Scriveva una relazione su tutte le novità mediche scoperte in occidente e alle volte, quando era necessario riceveva pazienti. 

Una delle infermiere bussò improvvisamente.

-Avanti- rispose il rosa mentre rifletteva a cosa scrivere nel rapporto.

-Dottore c’è un vostro paziente abituale in corsia che necessita di una visita-

-Non sarà di nuovo quel marinaio?- scherzò Atsuya alzandosi dalla scrivania.

-Temo che lo sia-

-Ci penso io, grazie  Emily-

Il medico si avviò verso la corsia, una lunga stanza con una serie di lettini affiancati, una decina in tutto, su due file opposte. Come tutto l’ospedale era ricoperto di piastrelle bianche e le ampie finestre davano una vista piacevole ai degenti aiutandoli a riprendersi del tutto.

Quando arrivò si trovò davanti a sé quattro giovani, tre completamente vestiti da marinaio in tenuta bianca e uno invece, stava seduto su una di quelle scomode brande di metallo a petto nudo. Lo conosceva bene, capelli biondi, occhi verdastri e un sorriso sulle labbra. Ormai era pure diventato amico di quei quattro da tante volte si erano presentati in quel piccolo ospedale. La maggior parte delle volte per motivi tutt’altro che gravi. Una volta o due li aveva pure incontrati nei bar dell’isola.

-Buongiorno doc!- esclamò quest’ultimo.

-Mark Krueger… so già che hai fatto, non c’è bisogno che me lo spieghi!- sorrise.

-E’ un po’ lento a capire le cose!- lo punzecchiò uno dei vicini, dai capelli biondi raccolti in una coda e grossi occhiali da sole blu.

-Sta zitto Dylan!- rispose l’altro.

-Sbaglio o è già la seconda volta questo mese? Senza contare quelle del mese scorso!- osservò il medico mentre si lavava le mani al lavandino presente nella stanza, vicino alla porta.

-Ma questa volta l’ha fatto grossa- disse un’altro dai capelli castani e occhi scuri.

-Lo stesso vale per te Erik… visto che ci siamo hai qualcosa da aggiungere anche tu Bobby? Mi sembra che vi divertiate a prendervi in giro-

Il quarto ragazzo scosse la testa per rispondere seraficamente:
-Non ti prenderemmo in giro, se tu avessi la decenza di stare più attento!-

-Guardiamo cosa hai combinato questa volta… dove?- domandò Atsuya.

-La schiena- indicò l’altro.

-Stenditi così posso vedere- 

Il ragazzo si distese prono sulla branda.

-Complimenti Mark, questa volta ti sei superato!- rise il medico.

-Mi sono addormentato dieci minuti al sole…-

-Veramente erano tre ore- gli fece eco Dylan.

-Sì direi che sono più di dieci minuti- aggiunse il rosa, -La scottatura è così estesa che non saprei nemmeno come medicare. Emily, potresti portarmi una dose abbondante di glicerina per favore?- 

L’infermiera che l’aveva accompagnato sparì per qualche istante e tornò con un barattolo di vetro scuro che consegno al dottore. Versò un po’ del contenuto in un arcella e prese poi del cotone e lo immerse nella glicerina.

Passò poi il batuffolo e lo passò lungo le ustioni. La schiena del ragazzo era completamente rossa, sembrava il guscio di una di quelle aragoste che servivano i grandi ristoranti sulla costa.

-Ahi! Brucia!- si lamentò il paziente.

-Pensa che di solito la usiamo come lassativo, ma ha spiccate proprietà idratanti. Sentiamo, cosa ti avevo detto la volta scorsa?-

-Di non stare troppo tempo al sole… cambiare le parti del corpo da esporre, alternare periodi di ombra o restare coperto-

-Esatto… e perché quando puntualmente ti trovi a terra in licenza ti ritrovo qui dopo neanche due giorni?-

-Io… non so…-

-Hai una memoria da pesce rosso e una bella faccia tosta, “Questa volta non mi succederà!” dicevi!- Dylan iniziò a ridere.

-Ma che begli amici Mark non trovi? E voi dove siete quando lui si crogiola al sole e si ritrova con un ustione di secondo grado sulla pelle? Non correrete mica dietro alle ragazze dell’isola tutto il giorno!- rispose con arguzia Atsuya accennando un piccolo sorrisetto per la frecciatina che aveva appena tirato.

-Alzati che ora ti bendo sui punti più dolorosi-

Il giovane tornò seduto, Atsuya passò delle bende di cotone per più volte attorno alla parte superiore del busto, nei punti dove la scottatura era più dolorante.

-Guai a te se torni qui ancora con una scottatura del genere… e guai anche a voi se non lo tenete d’occhio! Ormai vi conosco e so anche su che nave siete quindi stati attenti o potrei andare dal vostro ammiraglio in persona!-

-Sì dottor Fubuki- risposero in coro a testa bassa.

-E prima di andare Mark, prendi la glicerina, ho l’impressione che potrà servirti ancora, ne serve poca, intingi un batuffolo e passala sulla scottatura una volta al giorno. Potete andare-

-Grazie di tutto doc!- disse il paziente mentre si alzava di scatto.

-Ricordati che mi devi da bere la prossima volta che ci incontriamo in città-

-Sarà fatto!- sorrise l’altro mentre indossava la maglia e ad ampie falcate, seguito dai suoi amici, usciva dalla clinica.

Atsuya tornò nello studio a cercare di finire la relazione fino a che non arrivò l’ora di tornare a casa, si tolse il camicie, salutò l’infermiera Emily e il dottor Williams e poi fece ritorno nella piccola villetta che condivideva con Taro.

Aveva imparato a conoscerlo, al contrario di lui, nemmeno i vicini lo vedevano poi così tante volte. Scoprì che era lì anche lui per conto dell’università, doveva catalogare alcune specie vegetali e animali tipici dell’isola e studiarli. Molto spesso si trovava fuori da casa per lavoro, ma solitamente riusciva a tornare per la sera tarda.

Come sempre, arrivato a casa, Atsuya concludeva la propria giornata cenando e per poi fare una piccola passeggiata all’aperto durante il tramonto, prima di andare poi a riposare per il giorno successivo.

 

****

 

Erano mesi che non tornava più a Tokyo. Hiroto si trovava nuovamente per mare ma su un’altra nave. Dopo aver conseguito il brevetto di volo per i bombardieri navali, era stato riassegnato temporaneamente ad uno squadrone della portaerei Akagi, lontano anche dal suo amico Midorikawa.

Non aveva più visto Shirou. Dopo averlo incontrato al torneo di sumo insieme ai suoi amici, ebbe l’occasione di parlarci solo una o due volte, prima di dover partire nuovamente.

La nave era molto simile alla sua, erano entrambe nate come incrociatori, per poi essere trasformate, durante i lavori di costruzione, in portaerei.

Il ponte era in legno chiaro e a lato sorgeva la torre di comando.

Dopotutto le differenze erano minime, entrambe avevano dei ponti per decollare e cavi di arresto per fermarsi, eppure Hiroto non si trovava a suo agio.

Lontano da Midorikawa, lontano da Shirou… quella geisha gli stava facendo uno strano effetto.

Ora con la crisi diplomatica tra Stati Uniti e Giappone aveva ancora meno tempo a disposizione da passare a terra.

Il rosso scrutava il mare, era calmo e piatto. La nave era lenta, procedeva verso le coste cinesi senza alcuna fretta.

Alcuni operatori e meccanici stavano mettendo in posizione gli aerei sul ponte. Essi venivano sollevati dall’ascensore e poi disposti in fila sfalsati. Un miscuglio di caccia navali e piccoli bombardieri di picchiata tutti dipinti di bianco e con il solito sole rosso. Poco alla volta, aereo dopo aereo, si stavano sostituendo i mezzi, ormai considerati obsoleti con i nuovi modelli, più veloci, meglio armati, più aggressivi e potenti.

Anche i bombardieri, i vecchi biplani con il quale aveva conseguito il brevetto stavano per essere scambiati con più recenti monoplani prodotti dalla Aichi(3).

Il ragazzo si sistemo il copricapo di pelle e attese i compagni di volo sul ponte, presto sarebbe partito per un’altra missione di bombardamento.

Senza più Ryuuji in volo, non c’era gusto, ma quello era il suo compito.

Dopo poco meno di mezz’ora si trovò ai comandi del suo aereo, pronto a prendere il volo e colpire nuovi bersagli in territorio cinese.


*****

 

1) Panzer: termine tedesco che significa corazzato. Solitamente viene esteso per indicare in modo generico un qualsiasi tipo di carro armato tedesco.

 

2) Linea Maginot: colossale insieme di fortificazioni, bunker, cannoni e trincee francese, posta al confine con la Germania. Tale linea doveva essere un deterrente per una nuova invasione. Tuttavia si dimostrerà praticamente inutile in quanto l’esercito tedesco passerà da nord attraverso il Belgio aggirandola.

 

3) Aichi: azienda aeronautica dell’epoca, una delle maggiori in Giappone.




 

Piccolo angolo d’autore…

Capitolo numero 7, questa volta diciamo che

forse ho esagerato con la parabola iniziale in cui 

riassumo gli eventi del primo anno di guerra in Europa,

quindi per oggi nessuna curiosità in più, credo di avervi 

già ammorbato con l’inizio del capitolo.

Nella seconda parte possiamo vedere il consiglio

di guerra e l’inizio delle problematiche, la rivalità tra

esercito e marina, l’embargo e le ambizioni di alcuni

ufficiali che puntano a rompere l’embargo con 

la forza. Ci terrei a sottolineare che tutti i nomi

citati nel capitolo (Churchill, Konoe, Tojo…) sono

personaggi storici realmente esistiti, allo stesso modo 

i discorsi che ho riportato nella prima parte, sono piccoli

estratti di discorsi originali di Winston Churchill.

Da qui in poi vi saranno altre sequenze con

personaggi storici, spero solo di poterli rappresentare

al meglio.

Alle Hawaii Atsuya si sta ambientando bene arrivando a stringere

amicizia con alcuni ragazzi, mentre Hiroto è tornato in mare.

Direi che per ora mi sono dilungato troppo, chiedo scusa per 

il piccolo ritardo nel capitolo (di solito cerco di pubblicarne uno

a settimana) ma i festeggiamenti della Pasqua mi hanno

tenuto occupato anche durante la quarantena xD

Detto questo, vado

un saluto

 

_Eclipse




 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8: Vento di tempesta ***


Capitolo 8: Vento di tempesta

 

Le trattative tra gli Stati Uniti e l’Impero nipponico proseguirono a rilento. L’ambasciatore giapponese venne sostituito dall’ammiraglio Nomura, affiancato da un inviato speciale, Saburo Kurusu.
Giorno e notte i diplomatici cercavano un modo per alleviare il pesante embargo, ma l’inviato statunitense, il segretario di stato Cordell Hull, sembrava contrario a qualsiasi mediazione. L’embargo sarebbe rimasto fino a quando il Giappone non avesse ritirato uomini e mezzi dal continente asiatico.

 

****

 

L’ammiraglio Isoroku Yamamoto era uno delle più stimate ma allo stesso tempo controverse personalità della marina. Un eroe di guerra, combatté contro i russi a Tsushima(1) perdendo due dita della mano, ma le sue opinioni strategiche e il suo punto di vista contrastante con la dottrina e la tradizione navale non erano sempre ben accettate dai colleghi.

Lui e il suo staff erano stati incaricati di portare avanti un piano di battaglia. Una dimostrazione di forza verso gli Stati Uniti, nel caso in cui le trattative fallissero del tutto.

Stava in una delle sale del quartier generale della marina, una grande stanza poco illuminata con un grande banco rappresentante una mappa dell’Oceano Pacifico sotto gli occhi di tutti. A occidente il Giappone e la costa asiatica e a oriente gli Stati Uniti. 

Si cercava il punto ideale da attaccare. Anche se contrario, l'ammiraglio Yamamoto si era deciso a seguire la dottrina della “battaglia decisiva” e abbattere il possibile nemico con un solo singolo scontro. L’ammiraglio era consapevole dei limiti della sua nazione, non avrebbe potuto combattere a lungo contro una potenza altamente industrializzata come l’America.

-Ci sono molti obiettivi nell’oceano- osservò l’ammiraglio, -Wake è uno degli avamposti più vicini, lo scoglio di Midway è poco più a ovest, dovremmo scegliere attentamente, ma non riusciremo a colpire l'intera flotta americana con tutta la nostra potenza. Non sono basi navali e se lo fossero sarebbe troppo rischioso per le nostre forze-

-Signore, potremmo sfruttare le portaerei- intervenne un ufficiale più giovane.

-Suggerisce un attacco aereo, capitano Genda?-

-Esattamente-

-Gli inglesi sono riusciti ad attaccare con successo la flotta italiana nella loro base del Mediterraneo, a Taranto, sfruttando i loro mezzi imbarcati- aggiunse un secondo ufficiale.

-Potrebbe funzionare. Sfruttare tutta la forza aeronavale per colpire al cuore la flotta del Pacifico americana. Capitano Genda, contrammiraglio Kusaka, siete incaricati di raccogliere quanto più informazioni riusciate sui possibili obiettivi e stendere un piano d'attacco.-

-Sissignore!- i due ufficiali si inchinarono mentre l’altro usciva dalla stanza.

 

****

 

Nei giorni liberi del fine settimana, Atsuya cercava di rilassarsi come poteva. Alle volte in spiaggia con quel gruppo di marinai, quando potevano, altre volte faceva un giro in città o curava il giardino della casa in cui viveva. Quando anche Taro non doveva lavorare uscivano insieme. Quest'ultimo portava quasi sempre una macchina fotografica con sé in modo da poter scattare delle immagini di eventuali piante o insetti locali che ancora non conosceva, ma era anche utile per le foto ricordo.

Una domenica pomeriggio, i due si trovavano a passeggiare su un'altura sopra la città. Una collinetta ricoperta di erba e alberi lussureggianti. Era una passeggiata piuttosto semplice poco più di un'ora per raggiungere uno dei migliori punti panoramici dell'isola.

-Sei mai stato qui?- domandò Taro.

-No, la vista è fantastica!- il rosa si mise seduto sul prato ad ammirare il porto di Honolulu, vedeva la torre Aloha svettare, i caseggiati multicolore e il Pacifico nella sua immensità.

-Se vuoi puoi scattare una fotografia per tuo fratello, tieni- il ragazzo gli passò la macchina fotografica.

-Ne sei certo?-

-Sì, di te posso fidarmi, sai usare un oggetto del genere-

Atsuya inquadrò la baia e scattò la fotografia.

-Spero sia uscita bene-

-Guarda qui- indicò l'altro nella direzione opposta.

Il rosa si rialzò e si affiancò all'amico. Indicava una seconda baia poco distante dal porto di Honolulu.

-Vista da qui è ancora più grande!- esclamò il medico a bocca aperta.

Decine e decine di navi ancorate alla fonda, nei pressi dei moli. Navi di tutti i tipi e dimensioni. Era lo stesso porto che poteva vedere dal suo studio alla clinica del dottor Williams.

-Pearl Harbour, non ho mai visto così tante navi insieme… proviamo a scattare una foto!-

-Sei sicuro? Non credo che possiamo…-

-Siamo soli e poi è solo un ricordo, di uno dei più grandi porti militari del mondo- osservò Taro.

Atsuya non era molto propenso, ma alla fine si convinse. Fece un paio di scatti cercando di inquadrare tutte le navi. Era impressionante quella baia, trasmetteva l'idea di forza e potere.

I due scattarono altre fotografie del paesaggio circostante, la foresta alle spalle, la città poco più bassa. 

Cercarono di non farne troppe, avevano a disposizione solo un rullino e Taro non voleva che finisse del tutto a causa del costo.

Dopo la breve escursione tornarono a valle. Il posto era bello, ma non vi era molto da fare se non contemplare il panorama.

Il rosa era soddisfatto delle fotografie, non vedeva l'ora di inviarle al fratello, ma avrebbe dovuto attendere che Taro le sviluppasse e quindi doveva aspettare qualche giorno.

La giornata di riposo trascorse in fretta, forse troppo. Nel giro di una notte sarebbe tornato al lavoro. Ormai era lì da molti mesi e si chiedeva a volte quando sarebbe dovuto tornare a casa. L'isola era un posto meraviglioso ma iniziava a sentire la mancanza di casa e della sua famiglia.

 

****

 

Non passò molto tempo, che l'ammiraglio Yamamoto e i suoi due principali collaboratori e il resto dello staff di comandanti, si ritrovarono nei pressi del comando di Tokyo, nella stessa sala della volta precedente. Avevano trovato l'obiettivo ideale. Un porto militare nel Pacifico, una baia caratterizzata da un isola nel centro.

L'ammiraglio osservava con attenzione le fotografie che gli erano giunte.

Pur essendo in bianco e nero, si poteva comprendere la conformazione del porto e la disposizione della flotta, in particolar modo delle navi da battaglia. Una fila di tre corazzate costeggiava l'isola centrale.

-La base navale di Pearl Harbour. Gli americani hanno concentrato tutta la loro forza in questa zona- osservò.

-E' l'unico porto del Pacifico sufficientemente grande per contenere una flotta- spiegò il capitano Genda.

Il più alto di grado prese una seconda fotografia, sembrava scattata da un aereo e indicò l'isolotto centrale.

-Quest'isola dovrà essere uno dei principali obiettivi. Secondo i rapporti fotografici, lungo la costa sud-occidentale vi sono i moli di attracco per le corazzate e poco più sud per le portaerei-

-Le altre navi?- domandò un altro ufficiale.

-Le navi piccole non sono pericolose. Le armi più letali sono le portaerei seguite subito dopo dalle navi da battaglia, ma per giungere ad una vittoria totale dovremo sfruttare tutta la nostra forza per annullare la loro. Queste dovrebbero essere piste di atterraggio e hangar- indicò su una seconda fotografia a volo d'uccello.

-Esattamente, l'isola ne è costellata- rispose il capitano.

-Dovremo distruggerli, come anche le cisterne del carburante. Ci servirà un grande numero di mezzi- aggiunse il contrammiraglio Kusaka.

-Abbiamo sei portaerei in grado di far volare un totale di quattrocento aerei, ma necessitiamo di ulteriori informazioni. Da dove vengono tutte queste immagini?- domandò Yamamoto.

-Alcune spie sull'isola di Oahu. La principale è un diplomato dell'accademia di Etajima(2), ci ha fornito le fotografie aeree e i dati sulle acque della baia. Poi vi è una spia minore reclutata nell'università imperiale di Tokyo. Costui ci sta informando riguardo la morfologia dell'isola nascondendosi come biologo. Insieme a lui vi è un secondo inviato dell'università. Un medico che spedisce di frequente fotografie dell'isola alla famiglia, ma non è consapevole del suo ruolo, né che tali immagini giungono a noi su indicazione del suo coinquilino-

-Quali sono i dati sulle acque?-

-Una delle spie, si è immersa nella baia. Da quanto riferisce l'acqua è molto bassa, non più di una decina di metri di profondità- rispose Kusaka leggendo i rapporti dell'intelligence.

-Sarà difficile signore- obiettò un altro ufficiale.

-Come dice tenente Shigeharu?- chiese Genda.

-I nostri siluri Type 91, non possono navigare in acque così basse, vi è il rischio che una volta sganciati si schiantino sul fondale-

-Cosa suggerisce di fare?-

-Bisogna trovare un modo per stabilizzare il siluro in aria in modo che non debba farlo in acqua andando in profondità-

-Lei è in grado di fare questo?-

-Posso provare a modificare la torpedine…-

-Faccia il possibile e ci consegni i risultati- sentenziò l'ammiraglio Yamamoto per poi continuare.

-La difficoltà maggiore sarà arrivare così lontano con una flotta così grande- 

 

****

 

Hiroto era nuovamente a terra. Sapeva che nell’aria c’era qualcosa che non andava. Nelle ultime settimane le esercitazioni erano raddoppiate, soprattutto per bombardieri e aerosiluranti. Era tornato in servizio sulla Kaga, dopo più di un anno di lavori di ristrutturazione e di ammodernamento. Anche su quella nave cambiarono completamente gli aerei con mezzi più prestanti e avanzati dal punto di vista tecnologico. Almeno non avrebbe dovuto volare ancora con una cabina scoperta e far affidamento su un piccolo parabrezza per ripararsi dal vento.

Non vedeva Shirou da sei mesi, durante i quali si trovava quasi sempre in Cina, o nella base di Formosa o Nagasaki.

Ora che aveva rintracciato l’okiya Kira, poteva contattare il taikomochi in qualsiasi momento per un incontro, sempre che fosse disponibile e ovviamente dietro pagamento. Per quanto all’argenteo non dispiacessero le uscite con Hiroto, svolgeva comunque il suo lavoro di intrattenitore.

L’incontro di quel pomeriggio si sarebbe svolta proprio nella casa del taikomochi.

Un invito per una cerimonia del tè. 

Giunse davanti all’edificio, controllò che l’indirizzo fosse corretto confrontandolo con quello scritto su un piccolo biglietto di carta che aveva ricevuto. Una volta arrivato davanti alla porta, quest’ultima si aprì rivelando un ragazzo dai capelli blu.

-Siete Hiroto Kiyama?-

-Sì sono io…-

-Prego allora, da questa parte-

Yukimura condusse il rosso in un piccolo padiglione nel cortile, non più di qualche metro quadro di superficie.

-Entrate pure-

-Da quella porta?- domandò il pilota indicando una minuscola porticina di bambù.

-Esattamente, Shirou arriverà a breve-

Hiroto aprì la porta ed entrò. Si dovette piegare per passare, o meglio quasi si distese.

Quella piccola stanzetta aveva un qualcosa di misterioso e affascinante. Un tatami di bambù, una nicchia in una parete in cui poteva vedere un rotolo scritto da un calligrafo esperto appeso e una piccola composizione di fiori.

Le finestre erano schermate ed entrava poca luce creando un’atmosfera soffusa e le pareti erano di color bianco.

Si sedette sul pavimento dietro un piccolo vassoio di ceramica nera sopra il qual vi era una tazza del medesimo colore, affianco ad essa, un pasticcino e poi attese con pazienza. Dopo qualche istante si aprì la porta scorrevole a lato del ragazzo ed entrò Shirou, vestito con un kimono ispirato al periodo Edo.

-Buongiorno Hiroto-

-Buongiorno-

L’argenteo, truccato in volto come sempre, si mise davanti all’altro.

-Prego, serviti del dolce- lo invitò con un inchino.

Hiroto allungo la mano verso il pasticcino, non si fece ripetere l’ordine una seconda volta, mentre Shirou invece accendeva un braciere per scaldare l’acqua.

-Hai mai partecipato ad una cerimonia del tè?-

-No, ne ho solo sentito parlare, non so nemmeno come comportarmi…- rispose l’altro con una punta di imbarazzo. Probabilmente Ryuuji l’avrebbe aiutato durante la cerimonia, ma ora non era con lui.

-Non devi fare altro che seguire il tuo cuore. La cerimonia del tè, non è la semplice preparazione di una bevanda. Essa è armonia, priva di eccessi e di mancanze, un lungo cammino verso la moderazione e la sobrietà. E’ purezza, la stanza in cui siamo deve essere sempre pulita, ma allo stesso modo dobbiamo purificare la nostra mente dai pensieri mondani e lascivi per permettere allo spirito di emergere. E’ rispetto, della persona, del tè, del divino e di ciò che ci circonda. E’ tranquillità, un modo per liberarci dai vincoli materiali e unirci con l’universo che ci circonda, in pace e moderatezza-

Hiroto non sapeva cosa rispondere, non pensava che potesse avere così tanti significati una semplice cerimonia.

-E’ un’arte che si perde nei secoli. Il più grande maestro, Sen no Rikyu, fu il cerimoniere di grandi condottieri del passato, Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi, secondi alcuni anche per Tokugawa Ieyasu, per altri sono solo dicerie, ma che sia verità o no, il suo signore Hideyoshi lo obbligò al seppuku(3) accusandolo di tradimento per aver servito il rivale Tokugawa. Sen no Rikyu fece come ordinati, non prima di eseguire un’ultima cerimonia del tè per il suo signore- nel mentre che raccontava, l’acqua si scaldò alla giusta temperatura.

-Prendi pure la chawan, la tazza, e girala verso di me- disse Shirou.

Il rosso fece come indicato e poi la passò all’argenteo. Questi prese, da una scatola di ceramica simile alla tazza, della polvere verdastra con un lungo ma sottile cucchiaio di bambù. Trasferì quella polvere sul fondo della chawan  la riempì di acqua calda.

-La preparazione stessa della bevanda è un rituale, non solo il modo di consumarla- spiegò mentre con un frullino di bambù, il chasen, mescolava il contenuto della tazza che lentamente divenne di colore verde brillante formando una soffice schiuma. Dopo aver riposto il chasen su un panno al proprio fianco, su cui vi erano anche tutti gli altri strumenti, prese la tazza tra le mani, la girò e la passò a Hiroto.

-Prego- disse Shirou invitando l’altro a bere.

Il rosso si portò la chawan alla bocca per bere.

-Lentamente, poco alla volta, assapora il gusto è l’aroma del tè- consigliò l’altro.

Il pilota fece come indicato. Era diverso da quello che aveva sempre bevuto. Il sapore era intenso e piacevole.

-E’ di tuo gradimento?-

-Molto, sono… veramente colpito-

-Lo ritengo un complimento-

Non sapeva perché fosse così delizioso, forse per l’ambiente, la cerimonia, forse per la qualità certamente superiore rispetto agli tipi di tè, o forse proprio perché l’aveva preparato una persona come Shirou… ma ancora non capiva, chi era bene questa Shirou, una geisha, un intrattenitrice o ben altro?

Finì di bere e appoggiò la tazza sul tatami.

-Ora, dovresti pulire il bordo, ecco prendi questo- il taikomochi passò all’altro un fazzoletto di seta. Il pilota pulì il bordo della tazza e poi la diede al cerimoniere la lavò completamente prima di preparare il tè anche per sé.

Dopo aver bevuto, Shirou invitò il ragazzo ad osservare gli strumenti per la preparazione.

-Normalmente sono i miei ospiti che chiedono di poter vedere gli strumenti, ma per te che non hai mai assistito alla cerimonia, ti guido io. Sono tutti piuttosto antichi e hanno una storia. Il contenitore del tè oppure il cucchiaino di bambù, il chasaku. Prendi e osserva-

Hiroto afferrò il contenitore, una piccola scatoletta cilindrica di ceramica. La fattura era pregevole, poi passò al chasaku. Sottile poco più di un centimetro ma molto più lungo. Infine gli venne offerta di osservare la stessa tazza, dopo essere stata lavata per la seconda volta.

-La chawan è uno dei pezzi più importanti-

-E’ molto… graziosa- commentò Hiroto.

-E preziosa-

-Preziosa?-

-E’ una tazza in stile raku(4), modellata a Gion(5) nel tardo periodo Edo(6). Ha più di un secolo. Mi è stata tramandata dal mio maestro come tutto il resto. Ora prendi il chasaku. Esso è fondamentale per preparare il tè, ha un grande significato nella cerimonia. Solitamente gli si da un nome simbolico-

-Un nome? Di che tipo?-

-Questa è una decisione dell’ospite. Sen no Rikyu, prima di commettere seppuku incise un chasaku e lo chiamò “namida”, lacrime. Molti danno un nome che si riferisca a un verso di una poesia, di un haiku o anche un riferimento alla natura-

Il rosso ci pensò, gli tornò in mente un triste haiku che pronunciava sua madre ogni anno, all’avvicinarsi dell’autunno, quando era ancora bambino, un nostalgico richiamo all'infanzia

 

vento d’autunno

tremolanti cadono

le foglie al suolo”

 

-Ho deciso, “Aki no kaze”, vento d’autunno-

Shirou sorrise, prese il cucchiaio e incise i kanji del nome.

-Curioso, potrei sapere perché?-

-Un haiku, che conosco e poi perché al momento credo che siamo tutti come una foglia su un albero, una folata di vento autunnale e cadiamo. Proprio come gli alberi di adesso-

-Un pensiero che rispecchia molto la filosofia e zen, la fragilità dell’uomo e del mondo, ma non credo sia stato scelto per questo. Qualcosa ti turba?-

-Solo molti pensieri-

-Di che tipo?-

-Ci sono venti di tempesta che si avvicinano, ormai salpo molto più di frequente, le esercitazioni sono più durature e in maggior numero. Qualcosa di brutto è all’orizzonte. Quando ero in Cina non ci addestravano così tanto, soprattutto gli aerosiluranti. Ryuuji nelle ultime settimane è pressato dalle esercitazioni, volo in formazione, a bassa quota… è anche frustrato perché dove imparare a far navigare un siluro in acque profonde meno di dieci metri, ma nessuno della squadriglia è in grado. Perché tutto questo? Questo addestramento vuol dire solo una cosa, il conflitto si estenderà, dove non lo so, ma ci sarà qualcuno di potente e con una grossa flotta- Hiroto sospirò. Sapeva che non doveva rivelare niente di tutto ciò, ma con Shirou, non riusciva ad avere segreti, la sua presenza, la sua voce e il suo elegante modo di fare lo rassicuravano e gli davano fiducia.

-Capisco i tuoi dubbi. La mia famiglia ha sempre disprezzato la guerra in Cina, io, mio fratello Atsuya, anche Yukimura che hai conosciuto e che considero alla stregua di un fratello minore. L’ultima cosa che voglio nel modo più assoluto è l’estensione della guerra, ma di questi tempi sembra improbabile la pace- Shirou allungò la mano verso quella di Hiroto e la strinse.

-Se vi è tempesta, all’orizzonte, non importa quanto forte soffierà il vento, quanta pioggia cadrà a terra, quanta sofferenza e distruzione causerà. Alla fine tornerà a splendere il sole e sarà allora il momento di ricostruire ciò che è caduto e preservare ciò che è rimasto. Imparare dai nostri errori e prevenire un nuovo disastro-

Dopo quelle parole cadde qualche secondo di silenzio, poi il pilota tolse delicatamente la mano dalla stretta di Shirou, con una punta di imbarazzo.

-Temo di dover andare ora, è stato un onore assistere a questa cerimonia-

-L’onore è mio di averti introdotto in questo mondo- sorrise Shirou.

-Quanto devo per un pomeriggio come questo?-

-Nulla-

-Come?-

-Hai ben capito. Per me è stato un piacere. Non avevi mai partecipato né assistito ad una cerimonia del tè, ora ne sei stato uno dei protagonisti. Non chiedo nulla in cambio, se non di incontrarci nuovamente e trascorrere del tempo piacevole come oggi- Shirou si alzò e lo stesso fece il rosso.

-Ti ringrazio Shirou, spero di rivederti presto-

-Lo spero anche io, Hiroto-

I due si inchinarono, poi il rosso voltò le spalle e si avviò verso la piccola porta da cui era entrato.

-Aspetta, dimentichi questo-

L’argenteo teneva il chasaku tra le mani.

-Ora è tuo, spero ti possa portar fortuna e che questo “vento d’autunno” ti possa guidare lontano dalla tempesta-

Hiroto prese lo strumento di bambù e sorridendo ringraziò nuovamente per poi congedarsi e tornare in base.

Shirou rimase per qualche istante nella piccola stanza e poi con un sospiro, se ne andò anche lui.

 

****

 

Con il passare delle settimane, il piano dell'ammiraglio Yamamoto stava prendendo vita. Lui e il suo staff si trovavano questa volta all'esterno della base navale di Yokosuka. Sul tavolo di legno vi erano le decine di fotografie della base e una cartina del Pacifico con una serie di possibili rotte tracciate.

L'ammiraglio e i suoi capitano osservavano uno dei siluri Type 91. Un grosso dardo lungo poco più di cinque metri, dal diametro di quarantacinque centimetri e quasi ottocento chili di peso. La testa arrotondata era dipinta di colore rosso vivo, la coda era più affusolata e terminava con quattro alette stabilizzatrici e una piccola elica per la propulsione.

-Ammiraglio abbiamo trovato un modo per sganciare i siluri nelle acque poco profonde- esordì il capitano Minoru Genda.

-Ovvero?-

-Il tenente Murata Shigeharu ha proposto un modo innovativo per stabilizzare in volo la torpedine. Tenente, a voi l'onore-

-Grazie signore. Ammiraglio, signore, quest'arma viene sganciata a bassa quota da un aereo. Durante la fase di volo ruota su stessa e una volta in acqua deve fermarsi per potersi stabilizzare e permettere all'ossigeno propellente di fluire all'esterno spingendo la testata verso il bersaglio. Io e i miei colleghi abbiamo pensato di recuperare tempo e quindi impedire che il siluro vada troppo in profondità applicando una semplice modifica alla coda- con un cenno della mano il tenente diede indicazioni a due giovani marinai che trasportavano un impennaggio di legno che venne posizionato sulle alette della coda.

-Questo impennaggio supplementare è economico, facile da produrre e soprattutto efficiente. Impedisce che il siluro, una volta sganciato, non ruoti sul proprio asse quindi una volta in acqua, l'arma si troverà già in posizione stabile e pronto per navigare, riducendo la profondità minima per l’uso. L'impennaggio viene rimosso con l’immersione permettendo quindi al siluro di essere sganciato anche in fondali poco profondi. Sono stati eseguiti dei test, e lo sgancio è riuscito in acque di circa dieci metri di profondità come a Pearl Harbour- finì di spiegare.

-Ottimo lavoro tenente- si complimentò l'ammiraglio.

-Grazie signore!- ringraziò l'altro.

Gli ufficiali superiori si spostarono verso la cartina.

-La direzione preferenziale sarà questa, passeremo da nord per evitare di essere avvistati, poi la flotta virerà e navigherà a sud. Il tragitto è molto lungo e avremo bisogno di rifornirci in mare- spiegò l'ammiraglio indicando la rotta segnata da una lunga linea nera sulla cartina.

-Una volta giunti nei pressi dell'isola, i nostri aerei attaccheranno la flotta e gli obiettivi militari. Nel frattempo le nostre navi si allontaneranno. Attaccheremo con più ondate per massimizzare i danni sfruttando l'effetto a sorpresa. Se il piano riuscirà, gli americani saranno privi di difese, i loro aerei verranno colpiti come anche le piste di atterraggio rendendo impossibile un contrattacco efficace. Se necessario una flottiglia di sottomarini tascabili penetrerà nel porto e darà assistenza nella distruzione delle navi- continuò.

-Un piano geniale ammiraglio- si complimentò un ufficiale presente.

-Geniale? Geniale sarebbe evitare la guerra. Questa missione avrà luogo solo se i negoziati falliranno. Se si raggiungerà un accordo, ci ritireremo anche se saremo a pochi chilometri dalla costa- l'ammiraglio si tolse il proprio cappello blu scuro e mormorò:

-Spero di non dover arrivare a tanto-

 

****

 

Più passava il tempo, più sembrava improbabile trovare un accordo. Nel settembre del 1941 fallì il tentativo di organizzare un incontro tra il presidente Roosevelt e il primo ministro Konoe e quest’ultimo in seguito alla forte opposizione alla proposta di ritirare delle truppe dalla Cina, dovette dimettersi. Venne sostituito dal ministro della difesa Hideki Tojo, sostenitore della linea dura e degli interessi delle forze armate.

Egli riunì nuovamente il consiglio di guerra per discutere del piano sviluppato dalla marina. 

Come sempre le due file di banchi si opponevano, marina da un lato ed esercito dall'altra e a unirle la fila del governo, ma a differenza delle volte precedenti, sul trono dietro al banco dell'esecutivo sedeva l'imperatore in persona. Il figlio della dea del sole, Hirohito, un dio che si era fatto uomo, anche se all'apparenza era tutt'altro che un divinità. Un piccolo uomo che dietro agli occhiali dalla montatura sottile mostrava occhi socchiusi ma vigili, due fini baffetti e un'espressione annoiata. Era risaputo che l'imperatore preferisse studiare biologia marina nel laboratorio di palazzo che partecipare alle conferenze di Stato, tuttavia era ben conscio di quale  fosse il proprio ruolo e non poteva sottrarsi agli impegni e doveri della corona.

L'ammiraglio Yamamoto si alzò per illustrare il piano aiutato da una cartina che fece montare su un cavalletto.

Mostrò la rotta da seguire, come rifornirsi in alto mare, le ondate d'attacco e gli obiettivi prefissati.

Il primo ministro si alzò con fare inquisitorio:

-Quante navi ci sono nella baia, ammiraglio?-

-I nostri agenti rivelano che potrebbe esserci un numero compreso tra le quattro e le dieci corazzate. I rapporti fotografici le ritraggono singolarmente. Ci aspettiamo inoltre la presenza di non meno di tre portaerei americane. Se l'attacco avrà successo, la potenza marittima degli Stati Uniti nell'Oceano Pacifico sarà azzerata-

-Si occuperà lei dell'attacco?- rispose il ministro, già a conoscenza della risposta.

-No. Il comando è stato affidato all'ammiraglio Chuichi Nagumo, comandante della prima flotta aerea, confidando nella sua esperienza e capacità- rispose l'altro indicando il collega seduto vicino.

-Mi rivolgo al nostro divino imperatore e chiedo umilmente un giudizio sul piano dell'ammiraglio Yamamoto- il ministro si piegò in un profondo inchino davanti al sovrano.

-Se questo è il volere del cielo, allora così sia- con queste poche parole, l'imperatore stesso aveva dato l'approvazione al piano d'attacco.

-Un ultima domanda, ammiraglio, lei crede che questo piano avrà successo?- il primo ministro cercava in tutti i modi di metter in difficoltà agli occhi del sovrano il comandante della marina. Più volte i due si erano scontrati, sia dal punto di vista ideologico che personale, ma ora era Tojo che stringeva il coltello dalla parte del manico, ma allo stesso tempo doveva riconoscere l'operato del rivale.

-Ho fiducia nella nostra flotta, nei nostri aerei e nei nostri uomini, ma ho dei dubbi sulle nostre riserve di petrolio e la nostra capacità industriale. Dovremo vincere rapidamente. Possiamo agire come una piovra e allungare i nostri tentacoli sul continente e sulle isole del Pacifico. Per i primi sei o dodici, mesi di guerra potremo conseguire una vittoria dopo l'altra, ma se il conflitto dovesse prolungarsi, non ho fiducia nel successo- parole dure, pronunciate davanti al governo, ai generali, ammiragli e all'imperatore in persona, come se fosse un ultimo tentativo per rigettare un conflitto.

-Allora sarà vostro compito assicurarvi la vittoria assoluta il prima possibile- replicò il ministro Tojo.

L'ammiraglio Yamamoto si inchinò, accettando di pianificare l'attacco, aveva anche accettato la responsabilità di condurre il proprio paese alla vittoria.

 

****

 

Nonostante novembre stesse per volgere al termine, il sole splendeva forte più che mai su Oahu e scaldava l'isola. Il termometro all'esterno della clinica segnava più di venti gradi celsius.

Atsuya era rimasto solo, Taro era ritornato in Giappone con una delle ultime navi partite dal porto di Honolulu. Gli era stato offerto un biglietto di terza classe, tuttavia il medico rifiutò, nonostante le insistenze del coinquilino. Doveva finire la relazione da inviare all'università di Tokyo, non aveva tempo da perdere, i suoi professori si aspettavano dei risultati e fino ad ora non era riuscito che a inviare pochi documenti approvati dal dottor Williams.

Al momento era nel suo studio. Stava visitando un paziente disteso sul lettino contro la parete opposta alla scrivania. Una visita privata di controllo, una donna di trent'anni dai capelli biondi. Insieme a lui vi era solo Emily, l'infermiera.

-Per favore apra la bocca-

La paziente fece come ordinato. Il medico poté osservare lo stato delle tonsille, gola, lingua. Nulla da segnalare.

Gettò lo stecco abbassalingua nel cestino.

-Signora la gola è a posto, non vi è nulla di cui preoccuparsi- disse mentre scriveva su una cartella le sue considerazioni.

Il telefono sulla scrivania trillò e con un cenno Atsuya diede il permesso a Emily di rispondere.

-Dottor Fubuki, è un telefonata da Tokyo-

-Tokyo? E' per caso l'università?-

-Non so, chiedono di parlare con lei urgentemente-

-Signora vi chiedo scusa, sarò subito da lei-

Il ragazzo prese la cornetta del telefono e rispose in giapponese.

-Pronto?-

-Dottor Atsuya Fubuki?-

-Sì sono io, chi parla?-

-Sono un incaricato per un sondaggio, lei si trova ad Oahu, corretto?-

-Sì…-

-Il tempo com'è?-

-E' soleggiato e sereno, come sempre- rispose l'altro guardando fuori dalla finestra-

-Ottimo, ha mai avuto l’occasione di vedere la baia di Pearl Harbour?-

-Sì, dalla finestra del mio studio, la sto osservando in questo momento-

-Mi sa dire se ha mai visto delle grandi "navi piatte" attraccate?-

-Piatte? No, non ci sono… ci saranno forse cinque o sei navi di grandi dimensioni ma nulla di piatto…-

-Ne è proprio sicuro?-

-Si può sapere chi è lei?- domandò Atsuya sospettoso e irritato.

-E' stato un piacere parlare con lei-

-Aspetti, non provi a riattacare, mi dica chi è! Pronto? Pronto…?- la chiamata venne interrotta bruscamente dall’interlocuore.

Emily si avvicinò:

-Qualcosa non va dottore?- chiese dopo aver sentito il collega alzare la voce nella lingua madre.

-Nulla, non so chi fosse, forse qualche buontempone a Tokyo o che altro, ma non siamo qui per parlare di questo, c'è una paziente che aspetta!- con un sorriso il medico tornò dalla signora per ultimare la visita, ma dentro di sé cercava di capire ancora chi ci fosse dall'altra parte del telefono.

 

****

 

-Certo che fa proprio freddo qua fuori!- commentò Ryuuji rivolgendosi all'amico.

-Da Tokyo siamo arrivati a nord di Hokkaido, nella baia di Hitokappu- rispose l'altro.

I due osservavano come da loro abitudine il mare dal ponte della loro nave. Non avevano mai navigato in quelle acque del nord. Il cielo era grigio e soffiavano i freddi venti provenienti dalla Siberia.

-Per fortuna che partiremo a breve-

-Hai mai visto una cosa del genere?- chiese il rosso indicando l'enorme raggruppamento di navi sotto i loro occhi.

-E' impressionante…-

-Oltre alla nostra conto altre cinque portaerei- 

-Praticamente tutte, si può sapere che dobbiamo fare?-

-Ho timore a riguardo Ryuuji-

-Guerra?-

-Esattamente, a noi del gruppo bombardiere hanno già accennato il piano-

-Cerchiamo di non pensarci, Hiro. Ho sentito che se le trattative andranno buon fine torneremo a casa-

I due rimasero ad ammirare l'assembramento di navi, poi il rosso propose di rientrare sottocoperta, il freddo lo stava congelando letteralmente.

La mattina dopo, ventisei novembre 1941, alle ore 6:00, l'intera flotta si mosse dalle isole Curili con destinazione l’arcipelago delle Hawaii. 

Nelle settimane appena precedenti, l'ambasciatore Nomura e l'inviato Kurusu avevano consegnato le proposte di Tokyo, la prima detta "A" prevedeva un parziale ritiro di truppe dalla Cina. La seconda detta "B" e consegnata due settimane dopo, prevedeva la rinuncia di ulteriori azioni militari in cambio di un milione di galloni di carburante dall'america.

Entrambe le proposte vennero rifiutate, anche a causa della mancanza di fiducia nel governo nipponico che aveva autorizzato il trasporto di ulteriori uomini nelle ex colonie francesi in Asia.

Il giorno ventisette, giunse in Giappone una nota del segretario Cordell Hull. Essa imponeva il ritiro di tutte le truppe dall'Indocina e dalla Cina continentale, il riconoscimento come unico legittimo governo cinese quello del generalissimo Chiang Kai-shek e l'allontanamento del Giappone dai suoi alleati europei, Germania e Italia oltre ad una serie di altre imposizioni.

Con quella nota, il governo giapponese non vide possibilità di ulteriori trattative. La flotta aveva già preso la rotta stabilita dal piano dell’ammiraglio Yamamoto. 

Lo stesso primo ministro Tojo, dopo aver letto la nota del segretario, riunì i ministri del suo esecutivo e dichiarò:

 

-Questo è un ultimatum-

 

****


1) Tsushima: battaglia navale del 1905 combattuta nello stretto di Tsushima in Corea. La battaglia fu l’apice della guerra russo-giapponese. Si concluse con la quasi totale distruzione dell’intera flotta combinata russa (21 navi affondate e 7 catturate, di contro i giapponesi non persero nessuna unità)

 

2) Etajima: città della prefettura di Hiroshima, sede di una importante accademia navale.

 

3) Seppuku: il suicidio rituale praticato dai samurai per preservare il proprio onore.

 

4) Raku: particolare metodo di produzione di ceramica giapponese.

 

5) Gion: quartiere di Kyoto, conosciuto per la grande presenza di geisha e okiya. Ad oggi è caratterizzato dai numerosi edifici tradizionali ancora presenti oltre che ad essere uno dei pochi quartieri in cui sono presenti ancora gli okiya (seppur in numero molto inferiore al passato).

 

6) Periodo Edo: periodo che prende il nome dalla capitale dell’epoca ovvero Edo (nome antico di Tokyo). Tale periodo è caratterizzato dal governo dello shogunato Tokugawa e va dal 1603, anno in cui Tokugawa Ieyasu prende il titolo di shogun dopo aver riunificato il Giappone al 1868, anno in cui in seguito allo scoppio della guerra boshin, trionfarono i clan fedeli all’imperatore Meiji ponendo fine allo shogunato.

 

Piccolo angolo d'autore…

Non so neanche io come abbia fatto,

5000 parole, oltre il doppio dei capitoli standard di questa storia…

Direi che non c'è molto da dire, ho diviso il capitolo in sezioni che si alternano, una riguardante i nostri eroi e una che riguarda i preparativi. Ho dovuto fare un serie di ricerche riguardo quest'ultimi, spero di aver rappresentato al meglio i personaggi coinvolti e spero di essere riuscito a rappresentare anche la cerimonia del tè o, in giapponese, "cha no yu".

La flotta è salpata, ma può sempre tornare indietro se si raggiungesse un accordo…

Ho notato anche che molti dei personaggi storici hanno lo stesso nome o cognome di alcuni personaggi di Inazuma Eleven (Chuichi Nagumo - Haruya Nagumo, Minoru Genda - Kojirou Genda) una strana casualità.

Ho anche modificato l’introduzione, forse riuscirò ad attirare maggior attenzione…

direi che per ora è tutto, 

un saluto

 

_Eclipse

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9: 7 dicembre ***


Capitolo 9: 7 dicembre

 

Da giorni la grande flotta nipponica solcava l'Oceano Pacifico. Il mare era particolarmente mosso e tumultuoso, come se l'acqua sapesse cosa sarebbe accaduto da lì a qualche giorno. Le nuvole erano basse e fitte, avrebbero ben nascosto le navi.

Sulla portaerei Akagi vi era l'ammiraglio Chuichi Nagumo. Stava sul ponte di comando, una cabina con ampie finestre situata all'ultimo piano della torre a lato del ponte di volo. Da quella posizione si aveva una vista dell'oceano a trecentosessanta gradi.

Un gran numero di ufficiali e marinai stavano stipati in quel minuscolo spazio. Il timoniere che dirigeva la nave, gli osservatori che scrutavano con dei binocoli le acque circostanti, un radiofonista e lo stesso ammiraglio Nagumo, in piedi nel mezzo della caotica sala di comando.

Uno dei suoi ufficiali era lo stesso capitano Minoru Genda che aveva partecipato a stendere il piano di attacco ed era lì presente.

Tra i vari marinai vi era anche un telegrafista, aveva ricevuto un messaggio in codice. Cercò di decriptarlo al meglio e poi si girò verso il suo superiore con aria agitata e occhi sgranati.

-Ammiraglio, signore! E' arrivata una comunicazione urgente da Tokyo!- nelle mani stringeva il foglio recante una sola frase di poche parole.

-Mi passi il messaggio-

L'ammiraglio Nagumo ricevette il foglio e lesse:

 

"Scalate il monte Niitaka"

 

Letteralmente non aveva senso, la vetta in questione si trovava a Formosa. Era un codice. Quattro parole che nascondevano il vero significato, ad eccezione dei pochi autorizzati. 

Le trattative erano fallite. Tokyo autorizzava l'attacco alle isole Hawaii come dimostrazione di forza dell'Impero del Giappone.

Con voce forte e decisa ordinò al radiofonista di cessare ogni trasmissione, non dovevano essere scoperti.

-Comunicate a tutte le navi di mantenere il silenzio radio fino a nuovo ordine-

Un giovane marinaio trasmise la direttiva con un riflettore presente nella cabina.

Da quel momento le navi avrebbero comunicato solo con il codice Morse.

-Rotta sud-est: destinazione 31° nord, 158° ovest- ordinò l'ammiraglio mentre osservava una cartina con disegnata la rotta da seguire.

Il timoniere presente ripetè quanto detto ad alta voce.

-Rotta sud-est: destinazione 31° nord, 158° ovest!- 

Con forza ruotò il timone, un disco di metallo piuttosto piccolo, infim0 rispetto alle dimensioni della nave che manovrava.

Il cambio di direzione venne trasmesso anche alle altre unità.

Lentamente, il Giappone si avvicinava alle coste americane.


****

 

Portaerei Kaga, 4 dicembre 1941.

Ore 15.00

 

L'equipaggio si manteneva in forma in parecchi modi. La ginnastica era un obbligo. Un corpo sano era la chiave per dei soldati di ferro e per la vittoria.

Molti uomini correvano lungo il perimetro del ponte di volo, come se fossero in uno stadio, con la differenza che chi cadeva… finiva in mare aperto.

Nella parte centrale molti eseguivano esercizi a corpo libero guidati da un ufficiale. Ryuuji e la sua squadra erano lì che si allenavano. Avevano appena ricevuto i dettagli sulla missione da svolgere.

L'esercizio fisico li avrebbe aiutati a smaltire la tensione e preparati per ciò a cui sarebbero andati incontro.

La flotta si era fermata per eseguire l’ultimo rifornimento in mare aperto. Da quel momento in poi, avrebbero continuato da sole.

Hiroto e il suo gruppo di volo, si erano riuniti per discutere il piano d’attacco.

I piloti si erano riuniti in una minuscola cabina sottocoperta, priva di qualsiasi fonte di luce se non quella delle lampadine. Una lavagna era appesa alle parete con e uno schema rappresentante la baia di Pearl Harbour affianco ad essa.

Tutti erano seduti su delle sedie di metallo rivolte verso la parete. 

I piloti erano tutti piuttosto giovani, difficile trovarne uno che avesse anche solo trent’anni, ma tutti avevano accumulato numerose ore di volo.

Un ufficiale, il capitano di corvetta Hashiguchi, illustrava come la sua squadriglia di bombardieri avrebbe colpito.

Gli obiettivi principali sarebbero state le corazzate, ancorate nei pressi della costa sud-occidentale di Ford Island, la piccola isola nel mezzo della baia, e le portaerei.

Avrebbero mantenuto una quota piuttosto elevata, circa mille metri e poi sarebbero discesi a circa cento metri sul livello del mare per poter sganciare il carico, il tutto sarebbe stato coordinato dal capitano di fregata Mitsuo Fuchida della Akagi.

In contemporanea, avrebbero attaccato gli aerosiluranti della squadra in cui pilotava Ryuuji.

Le navi non avrebbero avuto scampo.

Dopo aver eseguito il bombardamento sarebbero dovuti tornare alle portaerei, nel frattempo la seconda ondata avrebbe attaccato la base continuando il lavoro e per finire una terza ondata avrebbe dato il colpo di grazia.

La riunione proseguì a lungo, tutto doveva essere pianificato nei minimi dettagli. Al termine, i piloti furono invitati al momento di allenamento sul ponte. 

Mancavano solo pochi giorni.

 

**** 

 

3 km a sud dalla baia di Pearl Harbour,

7 dicembre 1941, ore 3:42, 

 

Due piccole imbarcazioni militari, dragamine(1) per la precisione, navigavano nelle acque circostanti il porto. L’equipaggio di una di esse, il Condor, aveva avvistato un qualcosa di anomalo. I riflettori delle due navi illuminavano il mare e uno dei marinai, vide una strana scia bianca tra le onde. Puntò una delle luci su quella schiuma, si muoveva. Qualcosa di grosso era sott’acqua e si muoveva in linea retta.

Circa quindici minuti dopo, la USS Ward, un cacciatorpediniere posto a difesa dell’entrata del porto, ricevette un messaggio dal Condor.

Il tenente Outerbridge a comando della nave lesse il rapporto:
 

-Avvistata probabile traccia di periscopio. 

Si necessitano ulteriori indagini-

 

-Signore che facciamo? Comunichiamo a Pearl dell’avvistamento?- domandò quasi ingenuamente un giovane marinaio del ponte di comando.

Il tenente rimuginò per qualche secondo poi rispose:

-No, Il Condor non è certo che sia stato avvistato un periscopio. Potrebbe essere anche una balena per quanto ne sappiamo. Macchine avanti tutta. Perlustreremo con il sonar quei fondali alla ricerca di questo fantomatico sommergibile. Comunicate al Condor che mi serve un rapporto completo di ciò che hanno visto. Se troveremo quel bastardo lo faremo colare a picco-

Con l’ordine di scaldare le macchine, la nave iniziò a muoversi sempre più velocemente. Il fumo nero si confondeva con il buio della notte.

Giunto nei pressi del luogo dell’avvistamento, il cacciatorpediniere scandagliò il mare con il sonar, tuttavia non trovò nulla, neanche un pesce di passaggio.

L’indagine durò per oltre un’ora.

Senza alcun risultato, il tenente Outerbridge tolse lo stato di allarme e diede ordine di tornare alla baia. Da lì a breve si sarebbero aperte le reti antisommergibile per far passare i due dragamine.


****

 

Portaerei Kaga, 

440 km a nord di Oahu,

 ore 5:00

 

Hiroto odiava svegliarsi presto, tuttavia quella campanella continuava a suonare destandolo dal suo sonno. 

Ryuuji era già fuori dalla branda.

-Hiro! Svegliati dobbiamo andare! E' il giorno…-

A quelle parole il rosso riprese del tutto conoscenza.

Si gettò fuori dal suo giaciglio, una scomoda rete di ferro con un materasso che aveva visto tempi migliori e molti equipaggi.

-Non dirmi che te ne sei dimenticato- lo riprese Ryuuji.

-Stai scherzando? Oggi si fa la storia. Detto tra noi non mi piace l'idea di provocare l'America, ma se il nostro paese lo ordina…-

-Noi dobbiamo agire- concluse l'altro.

-Almeno avremo un vero nemico tra le nuvole- cercò di sdrammatizzare il rosso.

-Non oggi, i cieli saranno solo nostri-

I due si vestirono quanto più velocemente possibile con la tenuta da aviatore. Una specie di tuta color marrone, dal colletto di pelo bianco, stivali neri e un giubbotto di salvataggio e paracadute, l'equipaggiamento era pesante ma in grado di salvare una vita in caso di ammaraggio o aereo in fiamme.

I due si spostarono nella mensa, una grande sala illuminata da luci artificiali. In una portaerei non era l'estetica a contare ma la funzionalità. Tutte le stanze, cabine, dormitori erano privi di verniciatura, il grigio del’acciaio dominava su tutto, come anche quel materiale. Solo gli alloggi degli ufficiali di alto grado erano più confortevoli.

La mensa era affollata più che mai, tutti i piloti erano lì per mangiare qualcosa prima di partire.

Hiroto e Ryuuji ottennero del semplice riso e pesce. Un pasto frugale, leggero ma allo stesso tempo abbastanza nutriente. Lo mangiarono in silenzio nel mezzo del caos di voci presente nella stanza, poi uscirono sul ponte come molti altri. I meccanici e il personale degli hangar stavano posizionando gli aerei. 

-Avrai la possibilità di colpire una nave ora- disse il rosso all'amico.

-In Cina era difficile trovarle…- ribattè l'altro.

-Voliamo su aerei simili- osservò Hiroto.

Sul ponte erano di fatto ammassati una serie di aerei dello stesso modello, di colore verde scuro e con i classici dischi rossi sulle ali e fusoliera. L'abitacolo era molto più lungo rispetto agli aerei da caccia, dopotutto avrebbero dovuto ospitare tre persone; pilota, navigatore, mitragliere di coda. L'unica differenza tra gli aerei dei due piloti era il carico. Un lungo siluro Type 21, opportunamente modificato per quello di Ryuuji e una grossa e tozza bomba perforante da ottocento chilogrammi per quello di Hiroto. Un solo ordigno del genere, con un po' di fortuna, poteva far saltare in aria una nave di grosse dimensioni.

I meccanici erano ancora all'opera, negli hangar al di sotto del ponte armavano i mezzi. A causa del peso ci voleva un gran numero di persone per caricare la bomba o il siluro, bisognava agganciarla sotto la fusoliera, tra i due carrelli di atterraggio. Una volta armato, il monoplano veniva spinto verso l'ascensore, portato sul ponte e sistemato in quella fila scaglionata di macchine. In totale poco meno di una trentina. 

Sul ponte di volo fecero la comparsa i comandanti dei rispettivi squadroni.

Ogni gruppo di volo si riunì per discutere nuovamente il piano molto rapidamente, poi i capi di ognuno diedero ad ogni piloti un bicchierino e versarono del sakè.

Il brindisi beneaugurante era una tradizione della marina. Avrebbe portato fortuna, allontanato il male e quel poco alcol presente dava vigore ai piloti.

Hiroto prese il bicchiere e come i suoi compagni brindò all'imperatore e alla riuscita dell'impresa. 

Indossò il proprio copricapo in pelle e gli occhiali da aviatore. Prima di salire a bordo dell'aereo, Ryuuji andò dall'amico e gli diede una banda di tessuto bianco.

-Ti porterà fortuna- 

Hiroto la guardò, era un hachimaki, nel mezzo vi era un cerchio rosso e ai lato di esso una scritta: "vittoria sicura".

Ringraziò l'amico e legò il regalo sulla fronte. I due si separarono promettendo di vedersi nuovamente lì sul ponte di volo una volta terminato l'attacco.

Erano quasi le sei del mattino, salì a bordo del proprio aereo della serie B5N2 e come tutti gli altri accese il mezzo per scaldarlo. Il motore scoppiettò per poi avviarsi, l'elica iniziò a girare sempre più rapidamente.

Il pilota salutò gli altri del suo equipaggio, due ragazzi più giovani di lui, probabilmente appena usciti dall'accademia.

-Buongiorno signore- salutò il navigatore seduto nel posto centrale dell'aereo.

-Lascia stare le formalità e chiamami Hiroto. Prima missione?-

-Sì signore… cioè Hiroto…- rispose l'altro.

-Come ti chiami?-

-Hoshi-

-Bene Hoshi, cerchiamo di svolgere al meglio il nostro lavoro e tornare a casa sani e salvi-

-Sarà fatto!- esclamò l'altro con un pizzico di esaltazione.

Hiroto aveva imparato come rapportarsi con i piloti più inesperti, a volte bastava solo qualche parola carina e di incitazione ed essi avrebbero tirato fuori dal nulla una determinazione e capacità senza eguali.

Fece un rapido controllo del mezzo, livello dell'olio, carburante, temperatura dell'acqua, tutto era nella norma, poi aprì i flap. La mano destra stringeva la barra di comando, la sinistra invece era sulla leva della manetta, per poter dare potenza all'aereo, sulle ginocchia teneva invece una tavola con una cartina per calcolare la rotta.

Alle ore 6:00 precise, dalla Akagi venne dato l'ordine di decollo.

Il primo a partire fu il capitano Fuchida, lanciato dall'ammiraglia. Dopo neanche pochi secondi, un giovane mozzo della Kaga, sventolò da prua, con un ampio gesto, la bandiera che teneva in mano. 

Quel semplice gesto era l'autorizzazione a partire. 

Il primo aereo della Kaga sfrecciò verso l'alto e così tutti uno alla volta accompagnate dalle grida esuberanti dei marinai e compagni di volo. L'equipaggio si era schierato sui bordi del ponte per assistere al decollo, lo stesso ammiraglio Nagumo, osservò le manovre dalla scala metallica che portava alla torre di comando della sua nave.

Quando arrivò il turno di Hiroto, il pilota alzò la leva della manetta verso l'alto, massima potenza. Il motore iniziò a rombare e l'aereo prese rapidamente velocità aiutato dal vento generato dalla portaerei. In pochi istanti prese il volo trovandosi sopra il mare. Chiuse il carrello e, dopo aver guadagnato abbastanza velocità e quota, i flap.

Si apprestò raggiungere la formazione della squadra. 

Sarebbe un stato un viaggio molto lungo.


****

 

3 km a sud dalla baia di Pearl Harbour,

ore 6:30

 

Dopo poco meno di due ore dalla segnalazione, la Ward ricevette un messaggio di un secondo avvistamento, questa volta da parte di una nave rifornimento.

-La Antares sostiene di aver individuato un periscopio… muoviamoci, posso capire un falso allarme, ma due no- ordinò il tenente Outerbridge.

Per la seconda volta la USS Ward prese il largo per indagare su questi avvistamenti.

Pochi minuti dopo, un idrovolante di pattuglia, confermò l’avvistamento e sganciò un fumogeno nei pressi del periscopio.

Il comandante della Ward, vedendo il denso fumo blu levarsi dall’acqua diede ordini ai suoi uomini:

-Un nostro PBY, ha confermato la presenza di un periscopio di un sommergibile non identificato in acque americane. Armate i cannoni e preparate le cariche di profondità, sono stufo di questa caccia alla cieca!-

La nave militare avvistò l’Antares.

La vedetta, armata di binocolo scrutava le acque circostanti dall’alto dell’albero maestro. Guardando attentamente, dietro la scia della nave rifornimento faceva capolino il celebre periscopio che per tutta la notte aveva fatto dannare l’equipaggio.

Rapidamente l’uomo fece rapporto al ponte di comando.

Outerbridge prese un binocolo e potè vedere lui stesso la torretta del sommergibile emergere circa un centinaio di metri dietro la poppa dell’Antares.

-Ai posti di combattimento! Pronti a fare fuoco!- esclamò.

In quel momento l’insieme di osservatori e direttori di fuoco individuarono il bersaglio e lo indicarono agli artiglieri dei quattro cannoni da quattro pollici. Le bocche da fuoco vennero ruotate verso il bersaglio e si calibrò il tiro.

Il tenente diede ordine di fare fuoco.

I cannoni spararono. Non era semplice colpire un bersaglio piccolo come la torretta di un sommergibile. Alcuni colpi caddero tra le onde sollevando delle alte colonne d’acqua.

Un proiettile fu piuttosto fortunato e riuscì a centrare la torretta esplodendo. Il bersaglio scomparì, ma poteva essersi semplicemente immerso.

La USS Ward incrociò la rotta con il possibile percorso del suo obiettivo e lanciò alcune cariche di profondità, dei grossi e pesanti cilindri di metallo contenenti esplosivo e lanciati in mare.

Anche in questo caso si alzarono dei grossi getti d’acqua salata, indice che le mine erano esplose.

Il sommergibile non riemerse, era stato colpito gravemente e stava affondando in pieno oceano. 

Outerbridge decise di inviare un messaggio al comando navale a Pearl Harbour. Erano le ore 6.53.

Esattamente dieci minuti dopo, la vedetta individuò un secondo periscopio.

-Che diamine… è ancora quello?-

-Nossignore- rispose la vedetta.

-Caricate delle nuove mine di profondità e bersagliate il percorso!- 

La nave si mise sulla stessa rotta del secondo periscopio. Era più veloce di parecchi nodi. Sganciò cinque cariche in tutto, più che sufficienti per affondare anche il secondo bersaglio.

I colpi vennero confermati.

Due sommergibili non identificati a pochi chilometri di distanza dalla base di Pearl, qualcosa non tornava e lo stesso tenente Outerbridge aveva un brutto presentimento.

 

****

 

Honolulu, 

ore 7:00

 

Atsuya si era svegliato di buon mattino. Fece una rapida colazione, bevve il suo caffè e si vestì. 

Era domenica e non era di turno all'ospedale. 

Voleva dedicarsi alla cura del giardino. 

Da quando era lì aveva iniziato a prendere confidenza con il verde e aveva trasformato l'orribile appezzamento trascurato di Taro, in un prato ben curato. Piantò dei fiori multicolore, e tagliò i rami secchi degli alberi. Il clima caldo tutto l'anno aiutava le piante a crescere e quindi c'era bisogno di una continua cura. Aveva da poco travasato un ciliegio, lo avrebbe fatto sentire più vicino a casa.

Appena messo piede fuori dall'uscio di casa, venne investito dalla luce e dal caldo. Prese il cappello di paglia che aveva lasciato, appeso ad un chiodo sporgente del portico verniciato di bianco, e delle forbici per potare un cespuglio e donargli una forma più definita rispetto a quella attuale.

Inginocchiato davanti alla pianta iniziò a tagliare i rami sporgenti o più malconci.

-Buongiorno signor Fubuki, già sveglio a quest'ora?- domandò un uomo accompagnato da una donna a braccetto.

-Salve signori Black, ho colto l'occasione per dedicarmi a questi cespugli, ma vedo che non sono l'unico già sveglio!-

-Noi andiamo alla messa, si avvicina il Natale, buon lavoro Atsuya- rispose la signora con un sorriso smagliante.

-La ringrazio, buona giornata!- replicò l’altro con un gesto della mano.

Non passarono che pochi minuti che un clacson attirò la sua attenzione.

Una Ford 1937 color verde bottiglia e decappottabile si fermò davanti al vialetto della villetta azzurra di Atsuya.

Il medico riconobbe subito l’autista. Mark Kruger, il suo celebre paziente e amico.

-Ehi doc, sempre al lavoro, anche di domenica-

-Mark! Che ci fai a terra? Pensavo avessi preso il mare…-

-La mia squadra è stata lasciata a Pearl, sulla nave serviva spazio per caricare degli aerei per Midway. Allora doc, ti piace questo gioiellino?- disse dando una pacca sulla cruscotto dell’auto.

-Di chi è?-

-Mia ovviamente! Ti ricordo che vivo qui a Honolulu… qualche volta devo farla muovere altrimenti smette di camminare. Allora che fai? Rimani lì ho salti a bordo? Ho grandi progetti per oggi!-

-In questo caso arrivo subito!- sorrise il medico. 

Lasciò il cappello, guanti e forbici. Diede una sistemata ai capelli e salì sull’auto affianco a Mark.

-Quindi che si fa?-

-Prima andiamo a prendere Erik e Bobby, dovrebbero scendere a terra questa mattina. Dylan non ha avuto la mia stessa fortuna quindi saremo solo noi quattro, una spiaggia vicina e una cassa di birra americana!-

-Mi piace come idea!- 

-Bene allora prima di tutto andiamo al porto a prendere quei due!-

L'auto accelerò bruscamente allontanandosi dal quartiere.

 

****

 

Cieli di Oahu,

ore 7:34

 

La più grande formazione di mezzi aerei mai riunitasi, stava volando da più di un ora e mezza.

Era appena giunta sull’isola. Il tempo era sereno, non una nuvola e un vento di coda piuttosto forte aveva permesso alla prima ondata di arrivare sulle Hawaii con una buona mezz'ora di anticipo.

Hiroto stava con i bombardieri a circa tremila metri di quota. Sulla destra, poco più in basso vi era la squadra si siluranti di Ryuuji. Sulla sinistra invece vedeva i bianchi bombardieri da picchiata. 

Parecchie centinaia di metri sopra la sua testa vi erano i caccia di scorta.

Dall'aereo del capitano Fuchida venne lanciato un fumogeno. Era il segnale per prepararsi. I mezzi a sinistra salirono di quota, quelli a destra si abbassano ancor di più. 

La stessa formazione del rosso doveva scendere fino a circa mille metri di altitudine. Il pilota spinse in avanti la barra di comando e manovrando con gli alettoni di coda allineò il muso dell’aereo verso il basso.

Pochi minuti dopo un secondo fumogeno venne lanciato.

-Hiroto, il capitano Fuchida ha lanciato un altro segnale, che dobbiamo fare?- chiese Hoshi.

-Non lo so, doveva lanciarne solo uno… continuiamo a seguirlo. Altitudine?-

-Quasi a quota prevista, siamo a 1450 metri circa- rispose il navigatore guardando la lancetta dell’altimetro che girava.

Il pilota continuò la sua discesa fino a giungere all’altitudine prevista.

La radio captò una trasmissione:

-To… to… to…- era il capitano Fuchida. Quelle tre sillabe erano il codice che indicava di stare pronti. Pochi minuti e sarebbero stati sopra l’obiettivo.

 

**** 

 

Honolulu, 

Ore 7:51

 

La Ford 1937 era una vera meraviglia dell’industria americana: veloce, comoda ed elegante. Andava a velocità moderata, quasi solitaria, in direzione del porto.

-Quanto ti è costata?- chiese Atsuya parlando dell’auto.

-Molto più di quello che potrei permettermi con lo stipendio attuale…. se fosse nuova. L’ho comprata di seconda mano. Il proprietario precedente me l’ha ceduta per un tozzo di pane. Aveva dei grossi debiti, l’ho acquistata con contratto regolare e lui con i soldi è fuggito non so dove. Ho avuto un po’ di fortuna-

Improvvisamente un rombo attraversò l’aria, non era un tuono, era più simile al motore dell'auto di Mark, ma più potente e anche lontano.

Atsuya alzò lo sguardo. Alcune sagome scure gli passarono sopra la testa a non più di un centinaio di metri di quota sollevando un forte vento.

-Ehi, ci sono passati vicini! Da quando i vostri aerei volano così bassi su Honolulu!?-

Mark inchiodò bruscamente l'auto e si mise a guardare il cielo, vedeva molte figure simili, ma molto più piccole, volare nella stessa direzione di quelli che erano passati pochi secondi prima.

-Non mi sembra ci siano esercitazioni programmate per oggi…-

-Forse qualcuno di importante viene a farci visita e l’aviazione è in fermento- 

-O forse qualcuno si è divertito a fare uno scherzo di falso allarme… ho conosciuto uno che ha fatto una cosa del genere, è stato spedito a pelare patate sull’Arizona… a proposito dell’Arizona, dobbiamo sbrigarci e andare da Erik e Bobby!- 

Mark accese nuovamente l'auto e partì a tutta velocità per recuperare il tempo perso.

 

**** 

 

Cieli di Honolulu,

ore 7:53

 

La flotta aerea si trovava praticamente sopra la base navale di Pearl Harbour. Gli aerei si comportavano come un grosso sciame di insetti e volavano apparentemente  in modo  casuale. 

Hiroto poteva vedere la la grandezza di quel posto. Hangar e piste di atterraggio con tanto di mezzi schierati su Ford Island, decine di navi di piccole dimensioni e sette grandi corazzate su due file ancorate lungo la costa dell’isola che formavano la “battleship row”; il viale delle corazzate. Come previsto dai rapporti dei giorni precedenti, nessuna portaerei.

La radio trasmise un secondo messaggio sempre dal capitano Fuchida:

-Tora! Tora! Tora!(2)- quest’ultimo dava il via all’attacco.

I bombardieri di picchiata Aichi furono i primi ad attaccare e puntarono il muso verso il basso. Il loro obiettivo erano gli aeroporti. Scesero a tutta velocità poi i piloti rallentarono aprendo gli aerofreni sotto le ali in modo da poter prendere la mira. Le decine di aerei disposti ai lati delle piste di atterraggio su Ford Island e Wheeler Field erano un bersaglio ideale. Fermi, inermi, privi di difesa da terra e preziosi. I bombardieri giunti a bassa quota sganciarono con grande precisione la bomba che trasportavano agganciata tra le ruote del carrello fisso. Una volta lanciata, gli aerei chiusero gli aerofreni, presero velocità e cominciarono a risalire per evitare il contraccolpo.

Una serie di ordigni del peso di duecentocinquanta chilogrammi cadde sugli immobili bersagli dell'aviazione.  Le esplosioni squarciarono l'aria. Il fumo nero si alzò dall'isola.

I bersagli distrutti tra le fiamme.

 

****

 

USS Arizona,

 battleship row,

ore 7:53

 

Bobby stava finendo di pulire il ponte, era la sua ultima mansione prima di poter scendere a terra qualche giorno.

Mentre con la scopa spazzava il legno, venne colto di sorpresa dal rumore di decine di aerei sopra la sua testa.

Alzò lo sguardo confuso come tutti gli altri marinai che stavano all’esterno della nave.

-Che diavolo ci fanno qui?- domandò uno dei compagni di Bobby.

Due aerei passarono vicino la nave piuttosto bassi di quota. Alcuni videro i segni sulle ali.

Non erano le coccarde dell’aviazione, ma dei grossi cerchi rossi.

-Questi non sono nostri…- intervenne un secondo a bocca aperta e tremante.

All’improvviso delle esplosioni.

Bobby si voltò in direzione del frastuono, lasciò cadere a terra la scopa e corse verso il parapetto.

Ford Island era in fiamme e alcuni aerei bianchi stavano risalendo verso l’alto.

Erano sotto attacco.

-A terra! Giù!- gridò una terza voce.

D’istinto il ragazzo si gettò sul punto con le mani dietro la testa.

Un aereo passò con l’intento di mitragliare i marinai. Volò appena sopra le loro teste.

Si sentiva il fragore delle mitragliatrici, i fischi dei colpi.

Si vedevano i buchi sul ponte, le scintille dei proiettili che rimbalzavano e le piccole ammaccature che lasciavano sulle piastre corazzate delle sovrastrutture(3).

Una volta sparito il pericolo, si rialzò di scatto come una molla. Il cuore batteva a mille e l’adrenalina scorreva nelle vene. I corpi di alcuni suoi compagni giacevano sul ponte inermi e insanguinati.

Venne data l’allarme. Tutti gli uomini dovevano essere ai posti di combattimento quanto più velocemente possibile. Molti marinai scesero dalla branda e si presentarono sul ponte senza neanche vestirsi, non vi era tempo per una futilità come quella in un momento del genere.

-Presto alle armi! Alle armi! Sparate a quei bastardi!- urlava quello che sembrava essere un ufficiale. 

Un secondo caccia passò in volo radente a sparare, ma questa volta nessuno si gettò a terra.

Alcuni uomini compreso Bobby si portarono verso le mitragliere di grosso calibro sul torrione, un insieme di strutture e ponti costruiti su un albero formato da tre grossi pali d’acciaio. Due o tre persone per arma in modo da garantire un continuo fuoco anti aereo.

Il ragazzo afferrò l’arma situata in una barbetta scoperta, una semplice piattaforma circolare con un bordo corazzato.

Era pesante ma riuscì a spostarla per puntare verso il nemico. Venne caricata con un grosso caricatore a nastro. 

A malapena sapeva come sparare, ma doveva fare il suo dovere.

-Arma carica Bobby, spara! Spara!- 

Il giovane  cercò un bersaglio con il mirino, un semplice insieme di cerchi concentrici, era difficile puntare, ma premette comunque il grilletto. 

la mitragliera iniziò a ruggire sputando grosse fiammate ad ogni scarica di colpi.

-Più in alto, più in alto!-

-Sto facendo il possibile, ma sono troppi e troppo veloci!-

Gli agili aerei da caccia schivavano i proiettili e rispondevano al fuoco non appena arrivavano in prossimità della nave.

Bobby continuava a sparare nella speranza di colpire qualcosa, ma vi erano troppi bersagli che aggressivamente rispondevano obbligandolo a cambiare preda ogni volta.

 

****

 

Squadra aerosiluranti della Kaga,

baia di Pearl Harbour,

ore 7:55

 

Ryuuji volava a bassa quota con la sua squadra. L’attacco con i siluri era guidato dallo stesso tenente Murata che aveva ideato la modifica per i fondali bassi. Insieme a lui vi erano altri ventitre aerei proveniente sia dalla Kaga che dalla Akagi.

Fecero un volo di ricognizioni alla ricerca di eventuali portaerei, ma come indicato dai rapporti dei giorni precedenti, non erano presenti.

Un primo gruppo di aerei della Hiryu e della Soryu stavano già lanciando sette siluri contro delle navi vicine. 

Il verde si abbassò ancora di quota in modo da essere pronto ad attaccare.

Il suo gruppo agli ordini del tenente Murata veniva da ovest e non continuò l’assalto del primo.

Il tenente guidò un attacco verso il “viale delle corazzate” ovvero gli obiettivi primari.

Nonostante la sorpresa, gli americano cercarono di organizzare un fuoco antiaereo.

Ryuuji poteva ben vedere le scie dei proiettili delle mitragliere che sparavano dalle navi, cercò di schivarli con qualche agile movimento di ali senza però togliersi dalla posizione.

Quel fuoco, seppur improvvisato, si dimostrò letale. Un aereo venne colpito al motore che si incendiò. Il pilota perse il controllo e si schiantò in acqua. Ad un altro venne spezzata di netto un'ala ed affondò. Gli aerosiluranti erano obiettivi decisamente più semplici. Volavano basso, più lentamente e non potevano cambiare la rotta fino a che non avessero sganciato il siluro.

I mitraglieri delle navi fecero cinque vittime in totale.

Il verde sospirò mentre con la tacca dell’indicatore che faceva da mirino, inquadrava la nave. Era teso, non aveva mai fatto una cosa del genere.

Un conto è essere su un caccia, l’avversario può sempre salvarsi gettandosi con un paracadute, ma colpire una corazzata con un siluro… era tutta un altra storia.

Vero era nervoso ma sapeva quale era il suo dovere. Continuò a volare fino a qualche centinaio di metri dal suo obiettivo, lo inquadrò un ultima volta.

Chiuse gli occhi e tirò verso di sé la leva per il siluro.

La torpedine, opportunatamente modificata per i fondali delle Hawaii, cadde senza il minimo rollio sul proprio asse. Si immerse nelle calde acque della baia e perse l’impennaggio in legno. In un istante venne spinto in avanti da una miscela di ossigeno che faceva girare la minuscola elica della coda.

Il verde si sentì alleggerito di un peso. Ormai aveva fatto ciò che doveva e con una virata iniziò una risalita per levarsi dal fuoco antiaereo, mentre il siluro andava verso la nave scelta lasciandosi dietro una scia di schiuma bianca.

 

****

 

USS Oklahoma,

ore 7:55

 

L’allarme suonava in tutta la nava. Si sentivano bombe ed esplosioni ovunque, gente che gridava e che correva da una parte all’altra.

Erik era dovuto rientrare sotto coperta. Le munizioni scarseggiavano, nessuno si aspettava un attacco e quindi non vi erano scorte sul ponte.

Il ragazzo era stato incaricato di recuperarle al più presto. Non era l’unico, era stato scelto perché il più veloce tra quelli della sua squadra ma decine di persone, in un via vai continuo, cercava di portare quante più armi possibile sul ponte, anche fucili se necessario.

Il giovane correva a perdifiato, sapeva che ogni secondo di ritardo era un secondo in cui la mitragliatrice era ferma. L’armeria era stata aperta. Conosceva la strada ma doveva far attenzione a non inciampare sui bordi delle porte a chiusura stagna. 

All’improvviso un botto e un forte scossone lo fece cadere a terra.

Erano stati colpiti, cercò di rialzarsi ma un secondo scossone lo fece cadere nuovamente. Le pareti di metallo e il pavimento tremarono.

Iniziò a temere il peggio anche perché la seconda volta era stata più forte. Si rialzò, il suo equilibrio era piuttosto instabile a causa delle due cadute, ma continuò la sua corsa.

Un uomo proveniente dall’armeria e con un carrello carico di scatole verdi contenenti munizioni si parò davanti a lui. Era sudato e stanco, anche lui aveva fatto un scatto fino all’armeria.

-Ti dò una mano, ma non è ora di fermarsi!- disse Erik.

L’altro con un grande sforzo spinse il carrello insieme al nuovo arrivato fino a che un terzo scosssone ancora più forte non li fece cadere per la terza volta.

-Siluri! Presto usciamo prima che colpiscano dove siamo noi!- esclamò con voce esasperata l’altro.

Erik era terra e dolorante, non riusciva a rialzarsi.

-Credo di essermi slogato una caviglia-

L’uomo rimase a fissarlo per pochi di secondi senza sapere cosa fare e poi lasciò il carrello e il ragazzo per fuggire.

L’altro imprecò, non riusciva a tornare in piedi. Nella caduta, il carrello si era schiantato contro la sua gamba e  quindi appoggiò il piede in un modo tale da provocarsi la slogatura. Strinse i denti e si fece forza. Si alzò nuovamente e iniziò a zoppicare cercando di uscire, ma un improvviso fracasso lo colse di sorpresa. Un rumore di lamiere che si spaccavano accompagnato da un lento movimento della nave verso un lato. Si stava inclinando lentamente, sempre di più. La Oklahoma era stata colpita da entrambi i fianchi da cinque siluri. La nave dietro di lei, la West Virgina era stata bersagliata invece con sette torpedini. Entrambe erano in fiamme, le esplosioni avevano dato il via a degli incendi.

Sul ponte in balia del fuoco, l'equipaggio cercò di mettersi in salvo buttandosi in acqua e raggiungere terra a nuoto se necessario, ma gli aerei da caccia continuavano a mietere vittime.

 

****

 

Squadra bombardieri,

Ore 8:00

 

Dall'alto, era difficile capire cosa stava succedendo, da terra si alzava un denso fumo di colore nero come anche dalle navi colpite. I siluri fecero breccia in diverse corazzate, ora però era il momento di un attacco dal cielo.

Il capitano Fuchida guidò lo squadrone più in basso. 

Hiroto seguì il comandante attraverso la nube di fumo. La baia era irriconoscibile rispetto a poco più di cinque minuti fa, tutti i gruppi attaccarono in modo coordinato con effetto devastante. In quel momento ulteriori bombardieri da picchiata stavano bersagliando le altre basi aeree sull'isola e i siluranti stavano finendo il loro lavoro.

Il capitano aveva dato ordine di dividersi in gruppi di piccole dimensioni e si diresse verso ovest in modo da poter flagellare le corazzate da sud. 

I primi gruppi sfrecciarono sul viale delle corazzate colpendo tre navi, Maryland, Tennessee, West Virgiania.

Lo stesso capitano venne intercettato dalla contraerea ma riferì di stare bene e non aver riportato gravi danni.

Hiroto e la sua squadra si concentrarono sulle ultime corazzate del "viale". Ormai la maggior parte di esse era danneggiata, gli incendi alzavano un fumo così denso che non rendeva semplice prendere la mira.

-Hoshi, ho bisogno della quota-

-Duecento metri-

-Duecento?-

-Sì, confermo!-

Il rosso non si sentiva a suo agio su un bombardiere convenzionale, sperava di usare un bombardiere da picchiata, ma non possedeva il brevetto per utilizzarli

-Preparatevi a ballare, anche se in fiamme, quelle navi, sparano ancora- 

Il giovane Hoshi vide saettare verso l’alto alcune scie brillanti dei traccianti, proiettili che venivano dal basso.

Hiroto rallentò per prendere la mira.

Nell'abitacolo, alla postazione del navigatore, vi era un oculare che permetteva di inquadrare un bersaglio a terra e prevedere anche la traiettoria della bomba. Hoshi si avvicinò ad esso per prendere la mira e sganciare 

Una tacca nera a forma di croce indicava il punto in cui sarebbe caduto l'ordigno anche se in modo approssimativo.

L'aereo avanzò ancora per qualche metro. La croce nera dell'oculare era proprio sopra una corazzata che non aveva subito danni.

il giovane navigatore tirò verso di sé la leva per la bomba e con un gridò comunicò lo sgancio. Hiroto virò cercando di allontanarsi rapidamente.

La carica cadde con la punta verso il basso, fischiava tagliando l'aria fino a giungere sul bersaglio, penetrò il ponte a poppa e scoppiò provocando danni mediocri. 

Il rosso era consapevole che avrebbero potuto fare un tiro migliore.

-Ed ora?-domandò Hoshi,

-Ora seguiamo il capitano, abbiamo colpito la nave, non abbiano molto altro da fare-

Il colpo non fu decisivo, ma una seconda squadra stava arrivando sulla nave e lanciò il proprio caricò di ottocento chilogrammi.

 

****

 

Honolulu, 

Ore 8:05

 

Atsuya e Mark sentivano scoppi a non finire e si apprestarono a raggiungere Pearl Harbour il prima possibile.

L'auto si fermò non appena i due poterono vedere con i loro occhi cosa stava accadendo, fumo, tanto fumo e fuoco e aerei che sparavano per tutta l'isola.

Atsuya si morse un labbro, si sentiva un nodo alla gola.

Mark imprecò più volte.

-Porca puttana che sta succedendo!?- era sconvolto, un attacco a sorpresa, fino a quel giorno gli Stati Uniti non erano in guerra con nessuno.

Poi sotto i loro occhi increduli, accadde qualcosa di tanto spettaccolare quanto atroce e terribile.

Una delle ultime navi del viale, la USS Arizona esplose violentemente in una nube di fuoco. Il botto si udì per chilometri.

Uno degli aerei del gruppo di Hiroto aveva sganciato il proprio carico. La bomba cadde vicino alla torretta dei cannoni, la numero due. Penetrò il ponte corazzato e finì nel deposito munizioni della torretta stessa. Lì giacevano impilate decine di enormi proiettili da centinaia di chili. Sette secondi dopo, la bomba detonò e così fece anche la santabarbara. In pochi millesimi di secondo, la prua venne spinta violentemente in avanti mentre il ponte venne; dapprima scaraventato verso l'alto e poi collassò in mare. Nella caduta le sovrastrutture cedettero e il torrione a tripode si inclinò di parecchi gradi verso il basso e la prua, la quale non era ormai che un ammasso di ferraglia fumante, senza forma e avvolta da un incendio.

L'olio e il carburante fuoriuscirono in acqua, ma galleggiando su di essa, prese fuoco. Ora anche tuffarsi in mare per salvarsi era diventato letale.

Mark sbiancò. Sapeva che nave era. Sapeva che su di essa vi era Bobby.

-Mark, andiamo, non possiamo stare qui!- esclamò Atsuya con gli occhi pieni di lacrime.

L'altro non rispose. Rimaneva con lo sguardo vuoto e fisso verso i rottami dell'Arizona.

-Mark, svegliati! Riprenditi! Portami all'ospedale, devo subito andare alla clinica e aiutare il dottor Williams! Mark! Ti prego riprenditi!-

L'altro sbatté le palpebre più volte, era visibilmente agitato e in stato di shock. Tremava, di paura e di rabbia. 

Una manciata di aerei mitragliarono la strada su cui erano.

I due si abbassarono nell’auto e ne uscirono indenni. 

Fortunatamente non trasportavano bombe o avrebbero raso al suolo il quartiere.

Mark riprese coscienza e spingendo sull’acceleratore partì verso l’ospedale.

 

****


1) Dragamine: piccola imbarcazione militare dedita alla rimozione di mine marine o in azione di pattugliamento costiero.

 

2) Tora Tora Tora: letteralmente la parola “tora” significa tigre, secondo alcuni storici è un riferimento ad un proverbio giapponese “la tigre viaggia duemila miglia e ritorna con successo”. Per altri invece “tora” deriverebbe dalla contrazione di due parole, “totsugeki” (attacco) e “raigeki” (fulmineo) e sostengono quindi che sia una casualità che il codice significasse “tigre”. Devo far notare che il primo messaggio del capitano Fuchida (To… to… to…) è l’abbreviazione di “totsugeki” e quindi attacco.

 

3) sovrastruttura: in ambito navale indica tutte le costruzioni del ponte al di sopra della linea di galleggiamento, tra i quali ulteriori ponti, alberi e torrioni di ogni tipo.

 

Piccolo angolo d’autore…

Ebbene, era inevitabile.  Avrei preferito dare una svolta

di altro tipo alla trama, la storia mi lega le mani…

ovviamente scherzo, avevo già preventivato tutto xD

Il capitolo in origine doveva essere più lungo, ma dato che 

in fase di stesura ho superato le 6000 parole, ho deciso

di suddividerlo in due parti per evitare che la lettura

diventasse più pesante di quello che è già.

Come avete notato da ogni inizio paragrafo, ho riportato

luogo e ora, avrete capito che l’attacco fu veramente fulmineo.

Ho cercato di rispettare e descrivere gli avvenimenti 

principali della prima ondata concludendo con

l’apice dell’attacco (che viene rappresentato

in ogni film ambientato a Pearl Harbour) ovvero

l’affondamento della USS Arizona (a tal riguardo,

ho trovato per caso un filmato originale dell’esplosione, 

pubblicato sul canale degli US National Archives. 

Pur essendo in muto e in bianco e nero… 

è più forte di ogni rappresentazione cinematografica…).

Ad oggi il relitto giace ancora sul fondo della baia 

come memoriale di ciò che è successo ed ha il

diritto perpetuo di battere bandiera statunitense.

Mi sono dilungato troppo…

come sempre mi auguro che vi sia piaciuto e che la

storia vi interessi. 

Prima che vada vi invito, chi vuole ovviamente, a lasciare

una recensione o un opinione riguardo la storia e 

la piega che sta prendendo, detto questo

Un saluto…

 

_Eclipse






 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10: Giorno dell'infamia ***


Capitolo 10: Giorno dell'infamia

 

La battleship row, Ford Island, Wheelers Field e la stessa isola di Oahu, erano flagellate dall'alto.

Le forze armate americane provarono a creare una difesa aerea, ma completamente inefficace.

Le mitragliatrici pesanti potevano fare danni, ma solo agli aerei vicini, i bombardieri erano troppo alti e i velivoli stessi erano troppo numerosi.

La USS Arizona, non era che una carcassa fumante, lo scafo d'acciaio era saltato in aria, l'esplosione fu così potente da distruggere il ponte.

La nafta fluiva nel mare rendendolo una trappola mortale per chiunque tentasse di salvarsi. Il torrione tripode di prua stava inclinato verso il basso mentre le fiamme divoravano gli ultimi rottami ancora a galla.

Tutte le navi del viale erano state colpite, USS Tennesee, da due bombe. West Virgina, due bombe e sette siluri. Pennsylvania, due siluri. Oklahoma, cinque siluri…

Dal suo comando a terra, l'ammiraglio statunitense Husband Kimmel, il comandante della Flotta del Pacifico, dovette assistere impotente al disastro. 

Mentre guardava a bocca aperta e con gli occhi pieni di rabbia e sdegno l'affondamento della flotta, un proiettile di grosso calibro infranse il vetro del suo ufficio.

Il colpo era alla fine della traiettoria, era lento e debole, ma riuscì comunque a strappare la giacca bianca e ferire l'ammiraglio al petto.

Caduto a terra venne raggiunto dal suo staff di ufficiali.

Era ancora vivo e cosciente seppur ferito.

Indicò la ferità e con un filo di voce mormorò, al vicino ufficiale delle comunicazioni:

-Sarebbe stato clemente, se mi avesse ucciso…-

 

****

 

USS Oklahoma, battleship row

Ore 8:00

 

Non erano passati che pochi minuti dall'inizio dell'attacco, la nave era stata silurata più volte.

Erik si muoveva a fatica a causa della caviglia. La nave continuava a fare un forte rumore, un basso scricchiolio, le pareti tremavano e si muovevano, la corazzata si stava capovolgendo.

I siluri avevano fatto breccia e ora lo scafo imbarcava acqua. Più ne entrava e più la nave si inclinava, in modo costante e rapido.

Il ragazzo provò ad aggrapparsi alla cosa più vicina a lui, dei tubi di cui non conosceva la funzione ma che salivano lungo la parete e la percorrevano per tutta la lunghezza. Quell'appiglio gli impediva di perdere l'equilibrio e cadere rovinosamente un'altra volta.

Improvvisamente un tuono, un botto in grado di spaccare i timpani, accompagnato da uno scossone così forte che Erik si trovò a terra nonostante la salda presa sul tubo. L'energia elettrica scomparve e le luci si spensero. Picchiò la testa, per qualche secondo ebbe la vista offuscata, ma si accorse che la nave non si stava muovendo. Si inclinò a tal punto che le sovrastrutture si schiantarono sul fondale impedendo tuttavia il totale capovolgimento della nave. Parte della chiglia emergeva dalle basse acque della baia, come una metallica cresta di scogli.

In lontananza si sentiva l'eco di voci e passi. Erik gridò con tutta la voce in corpo.

-Aiuto! Qualcuno mi aiuti!-

Più volte ripeté la richiesta fino a che non venne raggiunto da un gruppetto di uomini, più anziani di lui, più alti e grossi armati di torce elettriche. Non indossavano la candida divisa da marinaio come Erik, ma una logora canotta ingrigita, probabilmente erano macchinisti della nave.

-Sei ferito?- chiese uno di loro.

-Ho una brutta distorsione, non riesco a muovere il piede- rispose il più giovane indicando la gamba.

-Ragazzi, aiutiamolo-

Il marinaio mise le braccia sopra le spalle di due macchinisti che lo aiutarono a muoversi.

-Presto, dobbiamo andarcene da qui-

-Che è successo alla nave?-

-E' rollata, dobbiamo raggiungere i compartimenti stagni prima che lo faccia l'acqua-

Erik non rispose, in quelle condizioni era soprattutto un peso, ma cercava di darsi da fare per non rallentare il gruppo.

-Avanti da questa parte- disse uno di loro che faceva da guida.

I corridoi iniziavano ad essere sempre più caldi, pochi metri, capirono il perché. Un incendio in uno dei locali sottocoperta, le fiamme e il fumo sbarravano la via.

-Indietro! Indietro!-

Si voltarono rapidamente.

Era una sfida contro il tempo, lentamente il corridoio iniziò a bagnarsi, con qualche centimetro di acqua, Erik l'aveva capito anche se al buio a causa del rumore dei suoi passi.

Il livello si stava alzando sempre di più.

-Avanti più veloci! Verso la la sala macchine!-

Sarebbero andati nel loro regno, il punto più profondo della nave ma allo stesso tempo vicino alla chiglia che emergeva.

Percorsero le ultime decine di metri più faticosamente, l'acqua aveva raggiunto il livello della caviglia e si apprestava ad alzarsi ancora. Quando raggiunsero l'ampia cabina di controllo, appena prima della sala macchine, l'acqua era quasi al ginocchio. Non proseguirono, i motori della nave erano immensi e il locale particolarmente alto. Sarebbe stato faticoso proseguire oltre con la nave rovesciata.

-Chiudete! Chiudete!-

Uno del gruppo chiuse la pesante porta d’acciaio. Tirò una leva per assicurarne la tenuta e la sala si sigillò con un fastidioso clangore metallico. 

L'acqua era alta quasi a metà gamba.

La stanza era buia, con la torce si riusciva a malapena a far luce sui numerosi apparecchi e indicatori dello stato dei motori posti nel locale successivo.

Erik si adagiò su quello che sembrava essere un tavolo, in modo da stare all'asciutto.

Dall'esterno giungevano gli echi delle esplosioni e delle mitragliatrici.

Quella nave era la sua trappola, ma allo stesso tempo la sua unica difesa.

 

****

 

Oahu, clinica del Dr. Williams,

ore 8:10

 

L'auto arrivò a tutta velocità davanti alla bianca facciata dell ospedale.

Decine se non centinaia di persone si erano raccolte davanti alle porte aperte.

Molti militari, marinai e membri dell'equipaggio di tutte le navi, feriti con le uniformi bianche lorde del loro sangue e di quello dei compagni. Gridavano e chiedevano aiuto. Con loro alcune donne, civili in cerca di un rifugio e conforto.

Non fu facile parcheggiare, anzi l'auto venne lasciato nel mezzo della strada e della folla. Nel cielo gli aerei sfrecciavano per continuare l'attacco, alcuni di essi sorvolavano l'isola a bassa quota e mitragliavano chiunque passasse.

Atsuya scese rapidamente dal veicolo seguito a ruota da Mark.

Si fece strada a forza tra la massa.

Molti lo guardarono con sospetto e disgusto.

-Fatemi passare! Sono un medico!- gridava.

-Largo! Fate passare!- gli faceva eco Mark.

Giunti all'interno dell'ospedale, vennero accolti da uno spettacolo orribile. I letti delle corsie non erano sufficienti, i feriti stavano accasciati su dei lenzuoli stesi sul pavimento dalle infermiere che correvano da una parte all'altra dei corridoi.

Atsuya vide Emily che disperata, portava su un carrello tutto il necessario: bende, siringhe, flaconi di vetro scuro e lenzuola.

-Emily!-

-Che ci fate qui!?- domandò con sorpresa.

-Che ci faccio!? Mi sembra ovvio! Dimmi dove posso trovare un camicie!-

-Nel vostro studio… -

Atsuya ancora non aveva ben compreso cosa stesse succedendo, l'attacco era ovvio ma ignorava il nemico e le motivazioni.

Corse in tutta fretta al suo studio, spalancò la porta e indossò in fretta e furia il camicie appeso all'attaccapanni. 

Davanti ai suoi occhi dall'ampia vetrata poteva vedere il porto in fiamme e le colonne di fuoco e fumo delle bombe.

Si lavò le mani e tornò in corsia ancora più rapidamente, tanto da rischiare di cadere più volte dalle scale.

Incrociò il dottor Williams. Con stupore e sospetto questi gli domandò:

-Atsuya, che ci fai qui?-

-Fuori ci stanno attaccando, le navi sono in fiamme, bombe cadono dal cielo e aerei mitragliano la popolazione! Sembra così anomalo che un medico vada in ospedale a prestare cure e soccorso!?- il ragazzo sbottò, tutto d'un tratto, ogni suo collega era sorpreso di vederlo e la cosa lo irritava.

-Lo so… sono solo stupito, perché… è la tua gente che ci sta attaccando- sentenziò il medico.

-Come!?-

-I giapponesi, ci stanno attaccando, i tuoi compatrioti!-

-Io… non so che dire, non è possibile…- Atsuya era sull'orlo delle lacrime, il suo paese stava bombardando a sorpresa l'isola che lo stava ospitando. Si sentiva pieno di vergogna ma allo stesso tempo umiliato dalla sua nazione, l'università imperiale sapeva che era lì, non concepiva il perché era stato abbandonato. Abbassò la testa, respirava in modo affannoso.

-So che per te è dura, i tuoi compatrioti hanno scelto la via della distruzione. Tu sei un medico, non importa la nazione, puoi ancora fare la scelta giusta e salvare delle vite- il dottore sorrise vedendo che il più giovane era venuto ad aiutare, gli diede una paterna pacca sulla spalla e poi si dileguò per tornare ai suoi doveri.

-Atsuya, va tutto bene?- chiese serio, Mark aveva capito la situazione.

Il rosa si asciugò le lacrime. Alzò la testa facendo un respiro profondo e rispose:

-Sì sto bene, devo andare, ci sono molti feriti-

-Vengo con te, avrai bisogno di aiuto-

I due raggiunsero la corsia.

Vennero travolti dalle urla di dolore, dall'odore del sangue e la vista delle ferite. Lacerazioni causate dai proiettili, schegge di bombe e metallo, ustioni.

Emily passava con il carrello a distribuire l'occorrente alle colleghe e ai medici.

-Sono lieta che sia qui dottore- quelle parole furono un sollievo, sia per Atsuya che per l'infermiera stessa.

Il ragazzo cercò di sorridere, ma era ancora scosso dagli eventi.

Si avvicinò ad un uomo steso su uno dei lettini disponibili, era pallido, sudava e tremava. Gli pose una mano sulla fronte si stava raffreddando, con la mano stringeva il lenzuolo in modo quasi convulsivo.

-Sono qui, andrà tutto bene, tutto bene- ripeté più volte il giovane mentre con due dita sul collo tastava il polso carotideo, troppo rapido. Con gli occhi osservava la ferita. Un grosso buco nell'addome, causato forse da una scheggia di bomba.

Non c'era molto che si potesse fare, perdeva sangue, lentamente ma in grande quantità. 

-Mark, passami quei flaconi scuri e una siringa- 

Il ragazzo fece come richiesto.

Il medico afferrò l'ampolla di vetro, l'etichetta riportava "Morphine", morfina. Ne prelevò una piccola quantità. Il primo paziente che gli era capitato aveva una ferita mortale, soffriva, una sofferenza inutile.

Atsuya si morse il labbro, ma sapeva che in certi casi, essere un medico voleva dire anche dover mentire. Non aveva i mezzi né il tempo per un intervento come quello, un conto era suturare una ferita da proiettile, ma quell’uomo aveva un buco di dieci centimetri all’addome che aveva lacerato i principali vasi sanguigni.

-Adesso starai meglio, sentirai solo una piccola puntura…- 

Picchiettando sul braccio trovò una vena e iniettò il farmaco.

-Grazie- balbettò a denti stretti e con un filo di voce l'uomo. Pochi istanti dopo, l'uomo si rilassò, il tremore finì e spirò, senza dover soffrire ulteriormente.

Mark gli chiuse le palpebre.

Sul pavimento vicino giaceva un ragazzo che aveva circa la stessa età di Atsuya, era cosciente, gridava disperatamente aiuto. Stava con la schiena appoggiata al muro, la giacca era stata tagliata e levata. Mostrava una grande ustione lungo il braccio destro fino alla spalla. Probabilmente delle fiamme lo avevano aggredito. La cute era stata divorata dal fuoco, in alcuni punti si poteva vedere il muscolo rosso.

-Aiuto!- gridava.

Atsuya si inginocchiò al suo fianco.

-Tranquillo ci sono io-

Il ragazzo lo fissò con degli occhi vitrei, davanti a sé aveva un medico asiatico.

Con tutta la rabbia che aveva, iniziò a gridare esasperato dimenandosi e facendosi scudo con il braccio sinistro:

-Vattene sporco muso giallo! Non toccarmi!-

Il dottore spaventato indietreggiò.

In suo aiuto venne Mark. Prese per il collo il ferito e lo spinse contro la parete.

-Il dottor Fubuki è giapponese voglio che tu lo sappia, ma anche se giapponese è qui per salvarti la vita e quel braccio! Osa solo dire ancora qualcosa contro di lui e te la vedrai con me!- il biondo gli diede un ultima spinta, poi il paziente abbassò la guardia per farsi curare.

La ferita era sicuramente importante, ma non così grave, muoveva ancora il braccio e le dita, se la sarebbe cavata con una grossa brutta cicatrice.

-Mark, chiedi a Emily il necessario per trattare le ustioni, devi bendargli il braccio, fino alla spalla-

-Non l’ho mai fatto…-

-Lei saprà spiegare, qui ci sono molti altri uomini in condizioni ben peggiori!-

Il medico passò alla persona successiva, un altro ragazzino, forse anche più giovane di lui.

Anch’egli come il primo paziente era pallido e tremava ma era ancora lucido mentalmente. A gran voce implorava aiuto e invocava la mamma.

-Guardami, ci sono io- mormorò Atsuya.

Il marinaio si voltò, vide chiaramente che il medico era asiatico, ma non gli importava la provenienza. Voleva solo essere salvato.

Il dottore dovette strappare la maglia bianca, già lacerata dall’aggressione all’esterno.

Il rosa contò almeno due fori di proiettile al fianco. Aveva già perso un paziente, questo poteva farcela, doveva farcela.

Corse a rifornirsi, una siringa di morfina, pinze emostatiche, bisturi e molte bende. Mise tutto su un vassoio chirurgico e poi tornò dal ragazzo.

 

****

 

Baia di Pearl Harbour

ore 8:55

 

L'attacco stava cessando, i bombardieri e siluranti si stavano ritirando.

Nei cieli rimanevano ancora degli aerei tra cui quello del capitano Fuchida.

Gli americano stavano organizzando le difese e la USS Nevada, una corazzata praticamente intatta, era l’unica che non era affiancata da nessun’altra nave. Scaldò i motori e levò l’ancora in un tentativo disperato di prendere il largo e salvarsi.

In lontananza comparve una nube scura di grosse dimensioni, si avvicinava veloce come il vento. 

Era la seconda ondata.

Come la prima, attaccò con grande furia la baia, ma questa volta gli statunitensi non si erano fatti prendere dalla sorpresa.

La contraerea dell’isola risultò più efficace e il tiro dei cannoni più preciso e organizzato.

Nonostante il pericolo, le squadre volarono verso i loro obiettivi. 

Altri hangar e piste di atterraggio presso Hickam Field, Kaneohe, Bellow Fields. Uno squadrone era diretto verso il porto per finire il lavoro.

Alcune navi, tra cui la corazzata Pennsylvania, poste in un bacino di carenaggio vennero colpite da alcune bombe. Presero fuoco ma i danni furono tutto sommato limitati, in precedenza gli aerosiluranti avevano provato ad aggredirle ma invano.

Per cercare di estinguere l’incendio, i marinai aprirono le porte del bacino per innalzare il livello dell’acqua, ma sottovalutarono le perdite di olio.

Quest’ultimo galleggiava sull’acqua  e a contatto con le fiamme delle navi, aggravò la situazione.

Improvvisamente una pronta risposta dell’aviazione americana fece la sua comparsa.

Due caccia  Curtiss erano decollati, da un campo secondario, poco prima dell’arrivo della seconda ondata e avevano abbattuto qualche bombardiere Aichi prima di tornare in base a far rifornimento.

Tornarono in quota poco dopo, seguiti da uno sparuto gruppetto di quattro “Hawk”. Quest’ultimi dovettero fronteggiare i ben più temibili caccia “Zero” giapponesi, più armati, più veloci ma soprattutto con un’agilità invidiabile. Due giapponesi vennero abbattuti, ma di quei quattro, uno precipitò e gli altri dovettero fare ritorno agli hangar gravemente danneggiati.

Un ultimo gruppo decollò dalla minuscola base di Haleiwa, che non era stata danneggiata. I successi furono molto limitati, un solo aereo nipponico, mentre la squadriglia soffrì una perdita a causa del fuoco amico da terra.

Gli operatori a terra facevano il possibile per armare altri aerei, ma erano poche le basi con dei mezzi intatti.

Le postazioni antiaeree furono molto più efficaci.

La USS Nevada da sola era riuscita ad abbattere, grazie ad un insieme di mitragliere e cannoni di grosso calibro, alcuni aerei.

Era una delle poche navi in condizioni di navigare ed era così grande da diventare un bersaglio ideale.

Un intero gruppo di ventitré Aichi provenienti dalla Kaga si gettarono in picchiata sulla corazzata.

Essa cercò di difendersi al meglio riuscendo a infliggere qualche perdita, ma infine il ponte venne colpito da una dozzina di bombe.

Gli ordigni non erano però abbastanza potenti e la nave si arenò all'imbocco del porto. Imbarcava acqua ed era in fiamme, ma i danni non erano gravi.

La baia era nel caos più assoluto, l'olio e la nafta incendiate, stavano raggiungendo la California, mentre la Maryland cercava di liberarsi dalla morsa dell'Oklahoma rovesciata. Dopo quasi un'ora gli aerei della seconda ondata si ritirarono, accompagnati dal capitano Fuchida per fare rapporto.

 

****

 

Portaerei Kaga, Oceano Pacifico,

Ore 10:05

 

Hiroto volava ancora alto, ma riusciva già a intravedere la formazione di navi sotto di lui.

Riconobbe la propria portaerei e ne distingueva il ponte di legno con quel grande cerchio rosso a prua.

-Siamo a casa Hoshi- disse al navigatore.

-Ce l'abbiamo fatta!-

-E' stato più lungo il viaggio che la missione…-

-Secondo i miei calcoli circa due ore- osservò Hoshi.

-E due ore sono state quelle della partenza. Prepariamoci all'appontaggio(1)-

Il rosso rallentò e prese a volare in circolo sopra la portaerei insieme al resto della sua squadra. Uno ad uno si abbassavano e appontavano. 

Quando fu il suo turno Hiroto, abbassò il muso dell'aereo verso il basso e calò il gancio d'arresto.

Si allineò con la nave e con un piccolo balzo toccò il ponte con il carrello, poi con uno scossone si fermò. Anche questa volta aveva preso il cavo al primo tentativo.

Si tolse la maschera per l'ossigeno, spense il motore e aprì l'abitacolo di vetro. Si alzò in piedi respirando a pieni polmoni e poi aiuto Hoshi ad alzarsi. 

Sulla nave tutti esultavano per la riuscita della missione. I piloti erano eroi, avevano messo in ginocchio la potenza dei grandi Stati Uniti.

-E' stato un onore volare con te Hiroto- disse Hoshi inchinandosi.

-Lo stesso per me, sei stato un ottimo navigatore- gli sorrise.

Si tolse l'hachimaki e il caschetto di cuoio e rimase ad aspettare la squadra aerosiluranti.

Non sapeva il numero dell'aereo di Ryuuji. Molti atterrarono, ma ogni volta che un pilota compariva, non era lui.

Iniziava a temere il peggio fino a quando, l'ultimo aerosilurante, completamente intatto, non si agganciò.

Da lì uscì Midorikawa, i suoi capelli verdi erano impossibili da non notare.

Hiroto corse incontro all'amico.

-Diamine, non pensavo di vedermela così brutta! Quella nave ha iniziato a sparare all'impazzata!- esordì il verde.

-Sei almeno riuscito a colpirla?-

-Certo che sì, ma temevo di non riuscire a togliermi da quella coltre di proiettili!- a quelle parole aggiunse un sorriso amaro, sapeva di esser riuscito a sfuggire per poco.

-Come è andata a te?- continuò.

-Ho colpito la nave, ma è stato un altro a dargli il colpo di grazia. Devo dire che ho avuto un buon navigatore che mi ha guidato-

-Il mio era preso dall'ansia, ma ne siamo usciti indenni- 

-Devo andare a fare rapporto- disse il rosso guardando l'orologio al polso.

-Ci vediamo più tardi, spero solo che il cuoco ci dia qualcosa di meglio per festeggiare!-

Hiroto rise, poi salutò l'amico con un gesto e andò dai suoi superiori.

Si fermò dopo qualche passo e si toccò una delle tasche sul petto. La aprì e tolse il chasaku, il cucchiaio di bambù per il tè, con inciso “Aki no kaze”. Lo rigirò tra le mani per qualche istante. Shirou aveva ragione, gli aveva portato fortuna.

 

****

 

Quando il capitano Fuchida tornò sulla Akagi alle ore 13:00 fece rapporto all'ammiraglio Nagumo.

Il comandante decise di non far decollare la terza ondata e tornare in Giappone. Tutte le navi erano state colpite e affondate, i campi distrutti, la terza ondata avrebbe dovuto passato la spugna ed eliminare le cisterne di carburante e, se fosse riuscita, colpire le porterei nel caso in cui fossero tornate a prestare aiuto. Tutto ciò era troppo rischioso, le difese si stavano organizzando, quelle portaerei disperse nel Pacifico avrebbero potuto intercettare la flotta e poi le navi principali erano state affondate.

Sull'isola venne dichiarato lo stato di emergenza e le trasmissioni radio interrotte.

A Washington, i decodificatori erano riusciti a decriptare dei messaggi per l'ambasciatore Nomura in cui lo si avvertiva di bruciare tutti i documenti importanti e consegnare al segretario di stato Hull la formale dichiarazione di guerra. Questo sarebbe dovuto avvenire con una mezz'ora di anticipo rispetto l'inizio dell'attacco, ma così non fu.

Dal comando della marina arrivò un messaggio in cui si avvertiva Pearl Harbour di un possibile attacco giapponese… con un'ora di ritardo, la flotta era già flagellata. 

Anche il rapporto della USS Ward arrivò troppo tardi, alle 7:57, quattro minuti dopo l’inizio.

 

****

USS Oklahoma, baia

di Pearl Harbour

7 dicembre 1941, 

ore 16:30

 

I marinai erano ancora rinchiusi nello scafo della corazzata. 

Erik era dolorante, non solo alla gamba, ma anche alla testa. Aveva fame, sete, gli mancava l'aria a causa del caldo.

Difficile rimanere all'asciutto con tutta l'acqua che era nella stanza.

Alcuni dei macchinisti urlavano, altri presero dei pezzi di metallo e iniziarono a picchiare sul soffitto arrampicandosi.

Erano da ore che si trovavano là sotto.

Da fuori proveniva un sommesso ronzio.

Sullo scafo decine di uomini cercavano di fare una breccia nella chiglia e salvare i sopravvissuti.

Ognuno si da fare. Battevano con martelli pneumatici, chiavi ed altri attrezzi più sofisticati.

La Oklahoma era una delle navi più danneggiate e quindi una delle ultime ad essere stata soccorsa, per dare maggior speranza ai feriti di altri equipaggi che potevano essere salvati più rapidamente.

Il lavoro era faticoso, il fumo che si stava alzando ancora dalle carcasse d'acciaio rendeva il tutto più difficoltoso.

-Qui! Qui c'è qualcuno!- gridò un soldato che stava con l'orecchio contro lo scafo.

Una piccola squadra arrivò sul posto per tagliare e rimuovere le lastre.

-Ci hanno sentito! Stanno venendo a prenderci!- esultò uno dei marinai all'interno.

Erik iniziò ridere, ma era un riso isterico.

Le porte stagne iniziavano ad avere delle perdite a causa dell'incendio a bordo che aveva dilatato il metallo.

I macchinisti colpirono con più forza il soffitto con tutto ciò che gli capitava a tiro, pezzi di ferro, legno o a mani nude.

Erik stesso provò ad aiutare i compagni.

Il livello dell'acqua lentamente stava per alzarsi nuovamente.

L'Oklahoma non era una nave qualunque, era una corazzata.

Lo scafo era pesante e l'acciaio spesso parecchi centimetri. Era stato progettato per resistere alle mine o ai siluri, anche se quelli nipponici non ebbero pietà.

Fare anche un solo buco si poteva paragonare ad un impresa titanica. Con i mezzi disponibili ci si poteva impiegare anche oltre un'ora.

Il tempo passava e la stanza si allagava sempre di più.

Quando i primi raggi di luce entrarono nella sala di controllo, si alzarono grida di gioia.

Il grosso era fatto, ma bisognava allargare il passaggio.

I marinai si arrampicarono su dei tubi che correvano lungo la parete ad aiutare gli operai.

Facevano leva con ciò che avevano e li incoraggiavano.

Ci vollero parecchi minuti prima che si riuscisse a creare un foro abbastanza largo attraverso la carena e il pavimento della sala controllo.

I sopravvissuti ormai dovevano cercare di galleggiare per non affogare.

-Avanti! Uno alla volta! Chi è il primo?- domandò ad alta voce il caposquadra.

-Il ragazzo, è ferito e non si regge in piedi!- rispose uno dei macchinisti riferendosi ad Erik.

Il moro a malapena stava a galla appoggiandosi alle spalle di uno degli uomini presenti.

-Vi buttiamo una fune-

Una grossa gomena venne gettata all'interno, Erik si aggrappò con tutte le forze e venne tirato all'esterno. Si graffiò la schiena sulle lamiere dello scafo, ma almeno era salvo.

Venne messo supino sulla chiglia in attesa di una barella.

Non vedeva bene, il cielo era grigio, sentiva odore di bruciato e urla dei feriti.

Era stato fortunato, il suo gruppo era stato trovato, ma molti altri nella Oklahoma, non ce la fecero.

Chiuse gli occhi come per isolarsi dal mondo e perse i sensi.

Quando riuscì a risvegliarsi era sul pavimento di una clinica, gamba e testa fasciate.

-Ce l'ha fatta! Sapevo che ce l'avresti fatta!- 

Erik impiegò qualche secondo a riconoscere la voce, era Mark il suo amico.

-Erik sono io! Mark Krueger!-

-Ehi ho capito… sono ferito ad una gamba non sono sordo…- sorrise anche se rispose a fatica.

-Dove sono?- domandò poi.

-In ospedale, Atsuya ti ha medicato personalmente-

-Dov'è ora?-

-Non lo so, ci sono molti feriti-

-E Bobby? Dov'è Bobby?-

-Erik…- la voce di Mark si fece più cupa e profonda.

-Non dirmelo…-

-Bobby era sull'Arizona… lui-

-Lui è vivo! Io lo so!-

-Erik- il biondo non voleva essere in quella situazione, non voleva essere lui a dover dare una brutta notizia, ma purtroppo Erik era un amico, così come Bobby.

-Hanno trovato il suo corpo, stava sparando vicino a dove è esplosa la santabarbara…- Mark pronunciò le ultime parole con un nodo alla gola e prese la mano di Erik stringendola forte a sé.

Il moro si accasciò nuovamente a terra e pianse, le lacrime scorrevano rigandogli il volto mentre singhiozzava.

-Tu eri il suo più grande amico, molto più di me o Dylan… mi dispiace Erik, mi dispiace-

 

****

 

Corazzata Nagato, baia di Hiroshima

8 dicembre 1941,

Ora locale 8:00

 

L'ammiraglio Yamamoto stava nel suo alloggio a bordo della nave. Era seduto allo scrittoio intento a leggere un libro di memorie di qualche ammiraglio famoso.

Qualcuno bussò alla porta ed entrò un giovane marinaio vestito di blu scuro e con un telegramma in mano.

-Congratulazioni il vostro piano è stato un successo, signore-

L'ammiraglio prese il messaggio, era il rapporto dell'ammiraglio Nagumo. Effettivamente l'attacco fu una vittoria, cinque corazzate affondate e tre danneggiate, alcune navi di minore importanza colpite, quasi trecento aerei fuori uso e oltre tremila vittime di cui i due terzi persero la vita, soprattutto sull'Arizona e in misura minore sull'Oklahoma. Le perdite furono minime circa trenta aerei ma anche tutti e cinque i piccoli sommergibili tascabili.

Dopo aver letto il messaggio, stracciò il rapporto che comunicava la vittoria.

-Nagumo ha deciso di non far partire la terza ondata, una mossa stolta. Ha lasciato intatti alcuni campi di aviazione e tutti i depositi di carburante. Se avesse seguito il piano, gli americani avrebbero impiegato oltre un anno a riparare Pearl Harbour. Quell’isola è ancora pericolosa- l’ammiraglio si alzò, ripose il libro nella piccola libreria della cabina e poi con un sospiro aggiunse:

-Questo non è un successo, tutto quello che abbiamo fatto. Temo che abbiamo risvegliato un gigante e lo abbiamo riempito di una grande determinazione-

 

****

 

Congresso degli Stati Uniti, Washington D.C.

8 dicembre 1941

 

Franklin Delano Roosevelt, era al suo terzo mandato come presidente. Mai prima di allora, un uomo era stato eletto per più di due mandati consecutivi.

Durante la sua presidenza aveva affrontato le conseguenza della crisi economica causata dal crollo di Wall Street, ricostruì il paese con il suo New Deal e pose fine al Proibizionismo.

Ora doveva affrontare la sfida più grande, la guerra contro il Giappone e forse le Potenze dell'Asse. 

L'aula del Congresso era gremita di politici e giornalisti. 

Il presidente, nonostante la sua disabilità che lo costringeva alla sedia a rotelle, stava in piedi dietro un podio. La sua condizione fisica era segreta, o meglio la gravità della condizione. 

Riusciva ad alzarsi grazie a dei sostegni in metallo nascosti nei pantaloni, ma difficilmente poteva camminare senza supporti.

Si schiarì la voce, davanti a sé vi era la stampa di una intera nazione.

Pronunciò un lungo discorso riguardo ciò che era accaduto il giorno prima, esordendo con parole dure:

 

"Nella giornata di ieri 7 dicembre 1941, una data che vivrà segnata dall'infamia, 

gli Stati Uniti d'America sono stati intenzionalmente e improvvisamente attaccati da forze aeree e navali, dell'Impero del Giappone"

 

Accusò di infamia la terra del Sol Levante, l’impero nel mentre trattava in modo pacifico la fine dell'embargo, si preparava a colpire a sorpresa e non solo l'America. Il presidente continuò con un elenco di aggressioni che il Giappone aveva sferrato in solo due giorni. 

 

“Ieri il governo giapponese ha attaccato anche la Malesia.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato Hong Kong.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato Guam.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato le Filippine.

Ieri notte le forze giapponesi hanno attaccato l'Isola di Wake.

Questa mattina i giapponesi hanno attaccato l'Isola di Midway."

 

L'esercito non aveva perso tempo. L'Impero britannico fu travolto dalle mire espansionistiche nipponiche con l'attacco alla Malesia e a Hong Kong. Molti possedimenti americani avevano fatto la stessa fine, tra cui il protettorato delle Filippine.

Il discorso si concluse con una richiesta: dichiarare lo stato di guerra con il Giappone.

Il Congresso votò a favore in modo quasi unanime. Solo una senatrice si oppose.

Gli Stati Uniti erano ufficialmente in guerra.


****

 

1) appontaggio: manovra di atterraggio sul ponte di una portaerei.


Piccolo angolo d’autore…

Ecco a voi la seconda parte del capitolo riguardante l’attacco,

decimo capitolo, il titolo è un chiaro riferimento al discorso di Roosevelt.
Direi che con questo si può chiudere il primo

arco narrativo, un arco caratterizzato dal conflitto in Cina 

(che verrà approfondito in seguito), dall’arte dell’intrattenimento

di Shirou, gli studi di Atsuya che si trova ora da giapponese

in un paese nemico e infine le tensioni tra Giappone e Stati Uniti.

L’attacco è stato un evento tragico, questo direi che è risaputo,

ho cercato di dar voce a diversi personaggi in modo da rappresentarlo

al meglio, senza sminuirne la drammaticità.

Come sempre mi auguro che il capitolo sia stato

di vostro gradimento, 

un saluto

 

_Eclipse




 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11: Per l'imperatore ***


Capitolo 11: Per l’imperatore

 

Tokyo,

8 dicembre 1941

 

Le strade di Tokyo erano state letteralmente invase dalla folla.

Sia nel centro della città che nei quartieri di periferia, uomini di ritorno dal lavoro e donne vestite nei lunghi kimono di seta, ma anche bambini e anziani, si erano recati all’esterno per ascoltare il grande discorso del primo ministro Hideki Tojo.

I più fortunati potevano sentirlo direttamente a casa grazie alla radio, ma i meno abbienti dovettero far ricorso a dei grandi altoparlanti dislocati in punti strategici della città, o agli apparecchi messi a disposizione dai locali pubblici.

Shirou, non si trovava nella sua dimora, era uscito per delle commissioni.

Nel ritorno, in men che non si dica, si ritrovò inghiottito nella calca. Aveva abbandonato gli abiti da taikomochi in favore di un più semplice completo all’occidentale con tanto di cappello a falda larga e pareva uno dei tanti esponenti della borghesia della capitale.

Il discorso era stato molto propagandato e in molti avevano già capito di cosa si sarebbe parlato. 

Per tutto il tempo precedente all’intervento del capo del governo, venne trasmessa musica marziale; dall’inno del paese alla marcia della marina militare fino al secondo inno non ufficiale “Umi Yukaba”: una canzone che parlava del sacrificio, e se necessario della morte, nel nome dell’imperatore e del Giappone.

Dopo aver trasmesso un’ultima volta l’inno nazionale ufficiale, il primo ministro Hideki Tojo prese parola. 

Shirou si fermò nel mezzo della folla per ascoltare. In cuor suo aveva timore di quel discorso. Si ricordava bene le parole di Hiroto, l’ultima volta che l’aveva visto un paio di settimane prima, lui aveva timore e prevedeva qualcosa di più grosso e ora era scomparso in modo repentino.

 

“Noi, per grazia del cielo, imperatore del Giappone, e seduti sul trono di una linea ininterrotta da secoli eterni, invochiamo voi, nostri fedeli e coraggiosi sudditi”

 

Il capo del governo stava leggendo, come era ovvio per chi ascoltava, un discorso dell’imperatore, ma era risaputo il figlio della dea Amaterasu non si esprimeva mai in pubblico.

 

“Con la presente dichiariamo guerra agli Stati Uniti d'America e all'Impero britannico”

 

La dichiarazione di guerra fu un colpo al cuore per Shirou. Fino ad allora aveva pensato che ci sarebbe stata un’estensione delle operazioni in Cina, ora invece il suo paese aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti e all’Impero Britannico.

Così facendo il Giappone era ufficialmente entrato nel conflitto al fianco dei suoi alleati dell’Asse: Germania, Italia e altre piccole nazioni dell’Europa centrale come la Bulgaria, l’Ungheria e la Romania, ma la cosa più importante era Atsuya. 

Ora lui era solo, in un paese nemico.

Seguì una lenta digressione in accuse ai paesi nemici, questi erano considerati colpevoli di voler destabilizzare l’Asia orientale con le loro basi e protettorati, ma allo stesso tempo di voler complottare contro Tokyo.

 

Il nostro impero, per la sua esistenza e autodifesa, non ha altro ricorso se non quello di fare appello alle armi e schiacciare ogni ostacolo sul suo cammino”

 

La voce del ministro era seria e autoritaria, il tono era duro, come duri dovevano essere i provvedimenti contro il nemico e le sue trame.

Shirou si abbassò il capello verso il volto e riprese a camminare velocemente verso casa. Ne aveva abbastanza di queste guerre, i suoi clienti non parlavano di altro ed era a conoscenza di tutto ciò che accadeva al fronte. Prima il tentato colpo di Stato degli ufficiali della fazione Kodoha(1) soffocato nel sangue, poi le battaglie e gli eccidi in Cina, successivamente una serie di fallimentari scontri di confine con l’Unione Sovietica ed ora entrare in guerra al fianco con  la Germania e allo stesso tempo la dichiarazione agli Stati Uniti.

Più che l’Impero britannico o l’America, sembrava fosse proprio il Giappone a destabilizzare l’estremo oriente: nel giro di vent’anni, a partire dal crollo dell’Impero zarista e dell’Impero Qing, aveva trasformato l’Asia in una polveriera.

Un po’ a spintoni e un po’ con le braccia si fece strada nel mare di persone.

I grandi altoparlanti continuavano a trasmettere, sentiva chiaramente la voce di Tojo anche se non voleva. Questi concluse in modo quasi melodrammatico richiamando il ricordo degli avi dell’imperatore e del popolo:

 

“Gli spiriti dei nostri antenati imperiali ci proteggono dall'alto e contiamo sulla lealtà e sul coraggio dei nostri sudditi e nella nostra fiduciosa aspettativa che il compito, lasciato in eredità dai nostri antenati, sarà portato avanti e che la fonte del male sarà rapidamente sradicata e una pace duratura sarà stabilita  nell'Asia orientale, preservando così la gloria del nostro impero.”

 

Con queste parole si concluse il discorso.

Shirou era preoccupato, per la guerra e le conseguenze che avrebbe portato ma soprattutto per suo fratello in terra nemica. 

Forse non l'avrebbe più visto, forse sarebbe morto là in America, o al contrario lui sarebbe morto in Giappone. Forse si sarebbero potuti rivedere, ma non si poteva sapere quando sarebbe finita la guerra.

La folla esplose nel delirio, alzando urla di gioia ed esultazioni. 

Le persone si prostravano in avanti per poi rialzarsi con le braccia verso il cielo gridando "banzai(2)", lunga vita all'imperatore.

Tutti erano orgogliosi di combattere i nuovi nemici, quei paesi che negli ultimi anni avevano solo oltraggiato e ostacolato il Giappone con i loro dazi ed embarghi per arginare la sua espansione sul continente.

Dopo aver rischiato di inciampare più volte, e allo stesso modo far cadere le persone della folla, Shirou riuscì a tornare a casa.

Aprì la porta scorrevole e si fiondò all'interno. Gettò il cappello e il cappotto sull'attaccapanni in modo sgraziato, senza neanche togliersi le scarpe prima di entrare, come la tradizione richiedeva.

Venne raggiunto da Yukimura, vestito di un solo yukata blu che arrivava al ginocchio e scalzo, probabilmente stava sonnecchiando fino a poco fa.

-Shiro! Mi hai fatto prendere uno spavento… hai sentito il discorso?-

-Ho sentito, ma avrei preferito scomparire e non ascoltare una singola parola pronunciata da Tojo-

-E' il primo ministro…-

-E ci ha trascinato in un'altra guerra contro altre nazioni più forti di noi e poi Atsuya è là, negli Stati Uniti!- L'argenteo si sedette sul tatami si bambù, lasciandosi cadere di peso con le lacrime agli occhi.

-Forse è riuscito a prendere una nave e tornare indietro- Yukimura si piegò inginocchiandosi affianco all'altro.

-Mi avrebbe avvertito del suo ritorno in qualche lettera-

-Potrebbe non essere ancora arrivata-

Shirou alzò la testa e incrociò i suoi occhi grigi con quelli azzurri di Yukimura:

-Apprezzo il fatto che tu voglia consolarmi, vorrei che fosse così. Sono stanco, ho bisogno di distendermi…- l'argenteo si rialzò con non poca fatica per dirigersi verso la propria stanza.

-Aspetta Shirou! Ora che faremo?-

L'altro si voltò e con un sorriso amaro rispose:

-Questi nemici non sono la Cina, se solo volessero potrebbero arrivare qui a Tokyo. Dovremo essere stoici, sopportare e tener viva la speranza che un giorno tutto finirà, nel bene e nel male- con quelle parole Shirou se ne andò.

Yukimura non aveva mai visto il suo amico e "fratello" così sconsolato e triste. Anche lui stava male, per Atsuya.

Nella sua mente risuonarono a lungo le parole dell'altro: "tener viva la speranza", speranza che un giorno tutto finirà e Atsuya potrà tornare a casa.

 

****

 

Penisola di Kau Lung,

Hong Kong

10 dicembre 1941

 

Hong Kong, una fiorente città della Cina meridionale, forse tra le più grandi.

Per quanto fosse importante, non era dominio cinese, bensì britannico da quasi un secolo; da quando dei trattati ineguali imposti all'Impero Qing in seguito alla sconfitta nelle Guerre dell'Oppio, sancirono il passaggio della città all'Impero britannico.

Non era l'unica città cinese in mani straniere, lo stesso era per la vicinissima Macao, dominio portoghese, Tsingtao che era stata tedesca fino alla Grande guerra o la frammenta Tientsin, a nord che era divisa tra Gran Bretagna, Italia, Giappone e altri.

Dopo l'attacco a Pearl Harbour i Giapponesi avevano immediatamente lanciato a sorpresa un assalto alla città, a partire dal continente, entrando quindi in guerra con il più grande impero coloniale del mondo.

Il minuscolo dominio sorgeva su alcune isole ed era difeso da una linea di fortificazioni, la "Gin drinkers line": formata trincee e bunker, ben armati, ma privi di guarnigioni.

Le brigate a difesa della colonia erano un eterogeneo insieme di inglesi, canadesi, indiani e volontari locali che attendevano i rinforzi della Cina nazionalista.

Poco addestrati e ancor meno equipaggiati, cercavano di mantenere le posizioni difensive contro un nemico ben superiore.

Verso la costa si stava organizzando l'evacuazione di Kau Lung verso l'isola di Hong Kong.

Su questa il generale Maltby aveva stabilito il suo comando in modo da condurre una difesa ad oltranza del piccolo possedimento, fino all'arrivo delle forze di Chiang Kai-Shek.

In quello stesso comando, gli ufficiali discutevano sulla tattica da adottare e biasimavano i loro pari della marina.

Uno di essi, era piuttosto giovane, ma aveva già fatto carriera in modo rapido e impressionante.

Aveva dei lunghi capelli azzurri e occhi dello stesso colore. Indossava un'uniforme, pantaloni e camicia bianca a maniche corte. Informale ma necessaria a causa del clima caldo che caratterizzava la zona.

Era lord Edgard Valtinas, figlio primogenito del dodicesimo conte Valtinas del Dorsetshire.

Era entrato nella Royal Navy più per tradizione che per vocazione. Suo padre, suo nonno e i suoi avi erano tutti marinai e capitani, gente di mare che non si faceva intimidire facilmente.

Nonostante un'iniziale riluttanza, dimostrò doti di comando e strategia non indifferenti per un ragazzo della sua età. Passò gli ultimi dieci anni a navigare per i mari delle colonie, dal Mar Rosso all'Oceano Pacifico.

I numerosi viaggi gli avevano donato un aspetto certamente più "selvaggio" e i suoi capelli erano tutt'altro che degni di un conte e al suo ritorno in patria, il padre l'avrebbe costretto a tagliarseli, ma al momento erano la sua ultima preoccupazione. I giapponesi avrebbero a breve sfondato la linea difensiva se non si fosse trovata una strategia.

Nel quartier generale stavano seduti a dei tavoli disposti ad anello i comandanti. 

La discussione era animata e caotica.

-Sir Valtinas, non posso permettervi di lasciare la baia di Kau Lung. La Gin Drinkers Line è sul punto di collassare, abbiamo bisogno della potenza di fuoco della marina- esordì un ufficiale dell'esercito.

-Potremmo sfruttare lo sbarramento di artiglieria e ricacciare i nipponici- continuò un'altro più giovane.

-Temo non sia possibile. Ho ordini precisi da Londra- rispose il capitano in modo pacato.

-E volete abbandonarci qui? Ora che ne abbiamo bisogno? La nostra forza aerea è inesistente, se voi ve ne andate avremo solo la buona volontà e il coraggio dei nostri uomini a difenderci!-

-La cosa mi rattrista, ma non posso far nulla, gli ordini sono ordini-

-E da dove provengono?- domandò il più giovane dei due ufficiali.

-Da Churchill e dal Primo Lord del Mare Dudley Pound. Ogni nave ad Hong Kong deve prendere il largo e fare rotta verso la più sicura base di Singapore. L'ammiragliato vuole raggruppare quante navi possibili, insieme alle due corazzate appena giunte dall'Europa, per poter tener in scacco l'impero nipponico. Io e i miei colleghi ci siamo già consultati. Non possiamo rischiare che le nostre navi affondino o cadano in mano nemica. Mi dispiace dirlo, ma Hong Kong non si può difendere-

-Abbiamo anche noi ordini da Churchill, ovvero non arrenderci-

-Lo comprendo, ma sono ordini diversi. A voi i vostri, a noi i nostri-

Con un violento tonfo, la porta venne aperta ed entrò un giovane marinaio vestito di bianco, dal volto paonazzo e sudato. Ansimava e stava appoggiato alla maniglia per non cadere.

-Che ci fate voi qui?- domandò uno dei comandanti.

-Notizie dall'ammiragliato!- il nuovo arrivato cercò di riacquistare un pizzico di dignità risollevandosi e passando una mano sui capelli biondi per sistemarli.

-I giapponesi… hanno attaccato le nostre navi- continuò.

-Quali?- domandò Valtinas.

-Le due corazzate arrivate dalla Home Fleet, la HMS Prince of Wales e Repulse…-

-Vada avanti-

-Delle squadre di bombardieri, hanno colpito più volte le navi al largo della Malesia...-

-Giovanotto, arrivi al dunque-

-Sono affondate! Alcuni nostri cacciatorpedinieri stanno raggiungendo il luogo per salvare i superstiti-

Il capitano Edgard Valtinas si alzò di scatto. Non poteva credere alle parole di quel mozzo. 

La Prince of Wales era una delle unità migliori della Royal Navy. 

Per prima aveva fronteggiato la temibilissima corazzata tedesca, la Bismarck, in quella lingua di mare tra Islanda e Groenlandia; lo Stretto di Danimarca. Ne uscì gravemente danneggiata ma solo per una grande dose di fortuna dei germanici: la Bismarck distrusse con un singolo colpo da quindici pollici l'orgoglio della marina britannica, l'HMS Hood dopodichè, sia la corazzata tedesca che la sua scorta, l'incrociatore Prinz Eugen, poterono bersagliare con tutte le artiglierie la Prince of Wales che si trovava in inferiorità numerica.

La Bismarck venne affondata dopo alcuni giorni di caccia che sarebbero diventati leggenda, ma ora anche la nave britannica giaceva sul fondale, azzerando la forza marina inglese nell'estremo oriente.

I vecchi comandanti guardarono negli occhi il giovane capitano.

-Ebbene, lord Valtinas… alla vista di queste funeste notizie, dobbiamo a malincuore farla salpare. Singapore ha bisogno di tutta la forza navale necessaria per respingere una possibile invasione… senza corazzate rimangono solo le navi più piccole come la vostra-

-La ringrazio per la comprensione. Spero che i vostri uomini riescano a resistere e difendere la città- rispose il capitano indossando il proprio cappello bianco.

-I nostri sono pronti a dare la vita, per il Re e la Patria-

-Per il Re e la Patria- rispose il blu, per poi eseguire un perfetto saluto militare ricambiato da tutti i presenti, voltarsi e raggiungere la propria nave nella baia di Kau Lung.

Il molo non era molto distante. 

Ancorata alla fonda vi erano due cacciatorpedinieri, di cui uno residuo del precedente conflitto mondiale.

Valtinas poteva vantare la nave più moderna tra le due e appartenente ad una delle classi meglio armate, la Tribal.

In origina la nave doveva essere consegnata alla Royal Australian Navy, ma a causa delle crescenti tensioni rimase in mano britannica.

Il capitano salì a bordo seguito dal mozzo e si presentò sul ponte di comando.

Guardò fuori da uno degli oblò, la città pareva ancora intatta e gli alti edifici e complessi costruiti "all'occidentale" non avevano subito danni, ma in lontananza si vedeva del fumo scuro salire e si potevano udire dei sordi botti, appena percettibili.

-Comandi, signore?- chiese il secondo in capo.

-Stabilire una rotta per Singapore, ci riuniamo con le forze restanti a difendere la fortezza. Levate l'ancora, macchine a tutto vapore-

-Levare l'ancora, macchine a tutto vapore!- ripetè il secondo in comando parlando nell'estremità a campana di due grossi tubi d'acciaio.

Tali tubi erano l'unico modo per comunicare rapidamente a bordo, parlando dal ponte di comando, la voce poteva arrivare alla sala macchina o alle artiglierie.

In men che non si dica, la nave si mosse verso l'uscita del porto, seguita dalla seconda.

Sbuffi grigi di fumo si alzavano dal fumaiolo e l'imbarcazione prese il largo.

-Macchine a due terzi. Voglio salutare il nostro nemico- ordinò il capitano.

Come prima, il secondo ripeté il messaggio.

-Nostromo, mi dica, siamo in linea di tiro per le alture della Gin Drinkers Line?-

L'uomo osservò una cartina della città e tracciò alcuni segni con la matita.

-Sì, siamo al limite dell'alzo, ma se spariamo vi è il rischio di colpire i nostri uomini-

-Quella linea è sguarnita, se colpiremo qualcosa è più probabile che sia il nemico, ai puntatori: calcolare traiettoria di tiro e fare fuoco con tutte le armi, usare munizioni ad alto esplosivo-

Per la terza volta il secondo in comando ripeté l'ordine.

La nave rallentò, i puntatori e le vedette calcolarono una traiettoria di tiro e la comunicarono agli artiglieri.

Gli otto cannoni da 4.7 pollici, raccolti in quattro torrette, si alzarono verso l'alto.

-Signore, armi cariche e pronte- annuncio il secondo.

Il capitano avanzò fino al vetro che dava sulla prua per vedere i cannoni.

-Voglio uno sbarramento d'artiglieria su quel settore per quanto improvvisato. Fuoco a volontà-

Un'altra volta il secondo ripeté l'ordine:

-Fuoco a volontà!-

Pochi secondi dopo, i cannoni tuonarono uno alla volta. Ogni colpo era accompagnato da una fiamma rossa che si disperdeva nell'aria.

Non appena l'ottavo cannone aveva sparato, il primo ricominciò e sparò un secondo colpo.

I proiettili volarono alti nel cielo.

Edgard sapeva in cuor suo che la città non poteva resistere in quelle condizioni, ma forse così facendo, avrebbe fatto guadagnare del tempo prezioso.

 

****

 

Alture di Hong Kong, 

10 dicembre 1941

 

Dall'altra parte della fragile Gin Drinkers Line, le armate nipponiche stavano in agguato, nascosto nelle foreste, sulle colline.

Alcuni flebili fischi si potevano sentire nell'aria, qualcosa era in arrivo. Sempre più forti e vicini. 

Erano i colpi di cannone del piccolo cacciatorpediniere che stava lasciando la baia di Kau Lung.

Ogni proiettile esplose sollevando una gran quantità di polvere e terra, lasciando un grosso cratere come traccia.

I danni furono piuttosto limitati, i colpi avevano seguito una traiettoria parabolica molto elevata, era facile prevedere dove sarebbero caduti, inoltre erano sparati da lontano e quindi imprecisi.

Dopo alcune salve provenienti dal mare, l'esercito si riorganizzò.

Era composto per buona parte da giovani uomini, alcuni coscritti, altri volontari. 

Ben motivati dalle ambizioni dell'impero e disciplinati, anche se quest'ultima dote venne inculcata con severità e violenza, violenza che veniva poi riversata dai soldati sui civili cinesi.

Nagumo Haruya si poteva considerare un veterano del fronte cinese nonostante la giovane età e si era distinto per coraggio e spirito di iniziativa, tanto da aver ottenuto il comando di una compagnia, ma allo stesso tempo era noto anche per la sua ferocia contro il nemico… sia armato che civile.

Vestiva un'uniforme color kaki, a maniche corte e fasce mollettiere bianche fino a poco sotto il ginocchio.

I suoi capelli rossi stavano sotto un pesante elmetto marrone a forma di campana.

Odiava gli elmetti, preferiva di gran lunga il ben più comodo cappello d'ordinanza di panno, leggero e rinfrescante, ma era in zona di guerra, lo sapeva bene e non era sua intenzione beccarsi una pallottola o uno shrapnel(3) in fronte.

Stava disteso a terra, circondato da cespugli e alti alberi ancora verdi nonostante l'inverno fosse alle porte. Scrutava la linea difensiva con un binocolo a debita distanza.

Affianco a lui stava Suzuno, con la medesima uniforme e con la fascia da kempeitai al braccio.

-Vedi qualcosa?- domandò il grigio.

-Le prime trincee sono quasi vuote, forse una decina di uomini in totale-

-Pensavo peggio… hai sentito i fischi e le esplosioni?- 

-Artiglieria pesante? Dove la tengono?- il rosso continuò a guardare la linea nemica muovendo rapidamente la testa alla ricerca della fantomatica "artiglieria pesante", ma quello che vedeva erano solo buche nel terreno, trincee, cespugli e sterpaglie.

-Non credo, è la prima volta che sparano dopo due giorni di assedio. Allora andiamo?- chiese Suzuno mentre con la mano destra innestava la baionetta sul fucile.

-Ci sono dei bunker che non mi convincono, potrebbero esserci dei nemici nascosti, al sicuro dai nostri mortai, pronti a falciarci con le mitragliatrici-

-Possiamo usare quello- rispose l'altro indicando un carro armato alle loro spalle, in mezzo alla vegetazione.

Un "Chi ha", un corazzato medio ed apice dell'industria nipponica. 

Peccato fosse un mezzo discreto, corazza frontale spessa non più due centimetri e mezzo, un cannone da 57 millimetri piuttosto mediocre e un peso totale di solo sedici tonnellate. 

Sarà anche stata la punta di diamante, ma non avrebbe avuto speranza in uno scontro con un qualsiasi carro britannico o americano in circolazione.

Haruya non era un carrista, ma era a conoscenza dei punti deboli del carro, ma si considerava fortunato che ce ne fosse almeno uno.

Ad altre divisioni era andato nettamente peggio, nelle Filippine veniva usato invece l'obsoleto "Yi go", buono ormai solo per dare supporto alla fanteria.

-Possiamo provare, ma questi alberi sono d'intralcio, dovremo avvicinarci- commentò il rosso.

-Allora andiamo più vicino- Suzuno si alzò tenendo il fucile in mano e dirigendosi verso il mezzo corazzato.

Il rosso lo seguì per poi arrampicarsi sul retro del carro e salire fino alla torretta.

Sul tettuccio della cupola del comandante, vi era uno sportello circolare e bussò più volte.

Lo sportello si aprì e ne uscì un uomo con il volto sporco di polvere e le mani di olio.

-Hai bussato?-domandò con un pizzico di ironia.

-Abbiamo bisogno di supporto per l'avanzata-

-Difficile, ci sono molti alberi su queste colline, non è semplice muoversi-

-Siete dentro ad un dannato carro armato, travolgeteli se necessario! Dobbiamo sfondare la linea in questo settore e ci sono due bunker per voi!-

-Possiami provarci ma sarà difficile… non abbiamo un cannone campale o di grosso calibro…-

Il capocarro sembrava tutto meno che ben disposto ad aiutare nell'offensiva.

Non aveva tutti i torti, conosceva i limiti del suo mezzo, ma anche come poterlo usare al meglio e andare all'assalto di una linea fortificata non era certamente una cosa che poteva fare.

Con uno scatto, Suzuno raggiunse l'amico, si assicurò che la fascia sul braccio fosse in bella mostra, poi rivolse uno sguardo severo al carrista.

I suoi occhi potevano far gelare il sangue a chiunque.

-Questa è insubordinazione- esordì.

-Non ho ricevuto ordini di attaccare- si giustificò il capocarro. Aveva visto la fascia da kempeitai, sapeva che non c'era molto margine per trattare con loro.

-L'ordine è sfondare in questo settore. Se non muovi il carro verso quei bunker vuol dire che non stai obbedendo agli ordini- la voce di Suzuno era fredda e tagliente come un rasoio, non ammetteva alcuna scusa.

-Questo non è un semovente d'artiglieria, non è in grado di distruggere una fortificazione…-

-E' l'arma più pesante che abbiamo. Vuoi forse impedire il successo dell'operazione?-

-No, non sto dicendo questo…-

-Allora hai timore di morire-

-No, state travisando le…-

-Il tuo è comportamento ignobile, stai andando contro la patria e l'imperatore. Potresti essere considerato un traditore!- Suzuno ci stava andando pesante.

-Nossignore, non sono un traditore!-

-Allora dimostralo, attaccherai con noi! O le pallottole inglesi o le nostre. Puoi scegliere tra morire onorevolmente battendoti contro il nemico, o perire nella vergogna lanciando disonore sulla tua famiglia per le prossime generazioni!- le ultime parole vennero gridate con una tale forza che gli altri uomini della compagnia si alzarono da terra con le armi in mano.

-Pronto a dar la vita per il mio paese signore!-

-Allora metti in moto!-

-Sissignore!- 

Il capocarro, aveva capito che non poteva sottrarsi ai suoi doveri. Rientrò chiudendo lo sportello, si sentì l'eco di qualche ordine e poi il rombo del motore da centosettanta cavalli. Dallo scarico iniziò a uscire un fumo denso grigio scuro.

-Mi complimento per le tue doti persuasive- sorrise Haruya-

-Non è difficile quando sei un kempeitai, basta solo usare le parole giuste, il resto lo fa la paura di essere processati come traditore antipatriottico-

-Preparate le baionette!- ordinò Haruya ai suoi uomini, una ventina in tutto. Tutti vestiti con la medesima uniforme e armati di fucile. Alcuni di essi tenevano legata sotto la canna una bandiera della loro patria decorata da numerose scritte, nomi di amici e famigliari ed auguri per la guerra.

-Per l'imperatore, banzai!- gridò Suzuno in piedi sul "Chi Ha".

L'urlo di battaglia venne ripetuto per tre volte, alzando le braccia verso il cielo. 

Haruya, ancora sul retro del carro, busso sulla torretta urlando:

-Avanti! Carica!-

Il corazzato ingranò e prese a muoversi cercando di schivare gli alberi, seguito a ruota dalla compagnia.

Il rosso stava seduto sul dorso del mezzo.

Dovevano avvicinarsi di qualche centinaio di metri.

Il "Chi Ha" faceva un rumore assordante, il motore scoppiettava in modo fragoroso, i cingoli rotolavano sul terreno con un acuto cigolio, alle volte alcuni alberi sottili e cespugli venivano travolti e sradicati.

Giunti a tiro delle due casematte di cemento, il carro si fermò.

Era ben mimetizzato nella vegetazione, le parti mobili e la corazza erano tinte con una fantasiosa livrea a macchie marroni, verde e giallo scuro.

Certamente gli inglesi avevano sentito il suo arrivo, alcuni uomini fecero capolino dalle trincee, armati di fucile e una mitragliatrice leggera, ben riconoscibili per il piatto elmetto “brodie” risalente alla guerra in Francia.

Il capocarro uscì dalla torretta e si rivolse verso il rosso.

-Siamo a tiro, ai vostri ordini-

-Mirate alle feritoie. Fuoco-

L'uomo tornò all'interno.

Un carro non è l'ambiente più confortevole in battaglia, ma forse è uno dei posti relativamente più sicuri.

Oltre al capocarro vi erano altre tre persone, dell'equipaggio: mitragliere, guidatore e cannoniere, stretti come delle sardine in una scatola di latta.

-Caricare!-

Il cannoniere prese un proiettile del peso di quasi tre chili, lo caricò nel cannone, poi passò al puntamento, prese la mira in una delle feritoie dei bunker e sparò.

Il colpo venne scagliato con un piccolo botto, schiantandosi poco sopra il bersaglio.

Il cemento armato faceva il suo dovere e resistette all'urto con danni leggeri.

Pochi secondi dopo venne sparato un altro colpo e poi un terzo ed un quarto.

La guarnigione di difesa prese a sparare con una mitragliatrice. Individuarono il corazzato grazie alla vampa degli spari.

Haruya scese a terra per ripararsi.

I proiettili di piccolo calibro rimbalzavano sulla corazza, lasciando solo delle piccole ammaccature.

Il mitragliere del carro rispose prontamente mirando i fanti nelle trincee.

-All'attacco! Ora! I bunker concentrano il fuoco sul carro, avanziamo senza farci vedere!- ordinò il rosso.

Sia lui che gli uomini della compagnia si abbassarono cercando di andare avanti riparandosi tra i cespugli.

La guarnigione di difesa era occupata a respingere il carro.

Una granata di un piccolo cannoncino lo colpì al cingolo, spezzandolo.

Di contro il "Chi Ha" riuscì dopo alcuni tentativi a colpire la feritoia del primo bunker eliminando la squadra di mitragliatrici.

Concentrò poi il fuoco sulla trincea.

Haruya e i suoi uomini continuarono l'avanzata di soppiatto, poi ripetendo nuovamente l'urlo di battaglia si alzarono di scatto caricando a grande velocità.

Sparavano e urlavano contro la guarnigione terrorizzata a tal punto da non riuscire a sparare.

Una volta nella trincea le baionette fecero il resto andando a lacerare le carni dei soldati con colpi mortali.

Una volta presa la linea, in pochi istanti vennero neutralizzate anche le restanti casematte.

Un assalto di pochi minuti, la Gin Drinkers Line si era dimostrata ancora più fragile di quanto si pensava.

-Comunicate al comando, il settore è caduto- ordinò Suzuno.

In poche ore, l'intera Gin Drinkers Line cadde. Era stata progettata per tenere a bada un nemico per almeno sei mesi, invece venne spezzata dopo solo due giorni.

Senza la prima linea, i giapponesi poterono avanzare fino al cuore di Hong Kong.

I combattimenti continuarono per giorni. L’armata britannica dovette infine ritirarsi sull’isola di Honk Kong dove affrontarono gli assalitori con grande coraggio.

La battaglia proseguì per altri quindici giorni, fino al giorno di Natale, quando le truppe di difesa, ormai isolate senza cibo né acqua, si arrese alle forze giapponesi.

I nipponici non si fecero scrupoli, razziarono la città e massacrarono a migliaia gli abitanti.

Anche sulle macerie di quella città, svettavano ora i sedici raggi del grande sole rosso, dell’impero nipponico

 

****


1) Kodoha: fazione dell’esercito che causò l’incidente del 26 febbraio del 1936 di cui ho già parlato nei capitoli scorsi

 

2) Banzai: espressione che venne usata sia come grido di battaglia che per acclamare l’imperatore (in alcune circostanze viene usata tutt’ora). Nel complesso, il significato letterale è “diecimila anni per l’imperatore”, in italiano si può rendere come “lunga vita all’imperatore”.

 

3) Shrapnel: parola di origine tedesca che può avere due significati molto simili: il primo un tipo di proiettile per cannone riempito di pallini di piombo. Una volta sparato, il proiettile esplode prima di toccare terra scagliando i pallini interni sui soldati nemici. Il secondo significato è un’estesione e può indicare una qualsiasi scheggia (di metallo o altro materiale) che viene prodotta in seguito ad una esplosione.


Piccolo angolo d’autore…

No, non mi sono dimenticato di voi poche anime

dedite a seguire questa fic pregna di storia e no, se ve lo

chiedete non sono scomparso per un mese su una sperduta isola

del Pacifico a trovare informazioni di prima mano su cosa

successe in quegli anni, semplicemente ho avuto molto da 

fare e ho dovuto spostare in secondo piano la scrittura.

In questo capitolo ritorna un po’ di gente,

Shirou e Yukimura che hanno assistito alla pubblica dichiarazione di guerra,

fino anche al ritorno di Haruya e Suzuno che non si facevano sentire da

qualche capitolo.

Una nuova aggiunta Edgard Valtinas, non credo che lo renderò 

un personaggio importante, ma non escludo la sua comparsa in futuro.

Nuovo avvenimento storico del capitolo la battaglia di Hong Kong.

Fu uno scontro minore nell’ottica dell’intero fronte, comunque simbolico

in quanto primo possedimento britannico in Asia a cadere in mano nipponica

(e poi Haruya e Suzuno sono in servizio in Cina…).

Spero di riuscire a liberarmi quanto prima e poter aggiornare,

detto questo,

un saluto

 

_Eclipse




 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12: Conseguenze ***


Capitolo 12: Conseguenze

 
 

Mentre Hong Kong tentava di resistere all’attacco, altri aspri combattimenti si stavano svolgendo in Asia. Il protettorato Statunitense delle Filippine era stato invaso da nord e in modo simile era stata attaccata la Malesia britannica e rapidamente le colonne nipponiche avanzavano verso Singapore.

La piovra stava allungando i suoi tentacoli su tutto il Pacifico meridionale.

Yamamoto prometteva non più di sei mesi di successi da sfruttare appieno per poter piegare le forze degli Occidentali, il governo di Tojo invece era convinto che le forze armate potevano brillare per molto più tempo, ma i nemici erano molti, forse troppi.

Le campagne delle Filippine e della Malesia erano attacchi per saggiare il nemico in vista della vera invasione.

Più a sud, vi era il vero obiettivo dell'impero, i grandi giacimenti di petrolio a Palenbang, sull'isola di Giava, e le numerose risorse tra cui la gomma, essenziale ai fini bellici.

Le Indie orientali olandesi con la loro ricchezza, avrebbero contribuito a mantenere l'onda di successi giapponese e aperto la strada anche alla conquista dell'Oceania e della ben più grande Australia.

I migliori generali e ammiragli stavano già stendendo i piani per lo sbarco.

L'Indonesia sarebbe stata il gioiello della corona imperiale, gli olandesi non destavano preoccupazioni, la loro marina militare era scarsa, tuttavia ben più preoccupanti erano i loro alleati britannici e americani che nonostante la perdita di numerose corazzate vantavano ancora quattro minacciose portaerei in servizio nell'Oceano.

 

****

 

Oahu, clinica del Dr. Wilson

11 dicembre 1941

 

Le sale e le corsie dell'ospedale si stavano lentamente svuotando dei feriti. Molti erano morti, ma la maggior parte si sarebbe ripresa, anche se non necessariamente intatta.

Atsuya Fubuki a stento lasciava la clinica. Molto era il lavoro da fare e troppo pochi erano i medici e le infermiere per seguire tutti i pazienti.

Si era ritrovato addormentato nel suo studio, seduto sulla poltrona e con il busto riverso sulla scrivania. L'ampia vetrata era stata oscurata da delle orribili assi di legno a causa dell'obbligo di oscuramento notturno di tutti gli edifici. Le Hawaii erano ancora vulnerabili e  si decise che era meglio non incoraggiare altri attacchi fornendo un bersaglio ben visibile a eventuali bombardieri o navi nemiche.

Il medico venne destato dal sonno dall'infermiera, Emily, che bussò alla porta.

-Avanti…- biascicò Atsuya con la voce ancora impastata dalle poche ore di sonno che era riuscito a recuperare in quei giorni.

Si levò dalla scrivania stiracchiandosi verso l'alto. Indossò il camice bianco per dare un tocco di professionalità nonostante la situazione.

Emily entrò col volto basso e ombroso.

-Dottore, ci sono degli uomini… vogliono farle delle domande-

-Chi sono?-

-Non lo so, ma sostengono di essere della polizia… anche se temo possa essere qualcosa di più grosso-

-Polizia? Non capisco…-

La porta si aprì lentamente facendo trapelare la luce del corridoio, ed entrò uno di quegli uomini, ben vestito con un completo grigio e una fedora sul capo.

Teneva una valigetta in mano.

-Dottor Fubuki? Lei deve venire con noi al più presto-

-Per quale motivo?- Atsuya scattò sulla difensiva, un po' gli ricordavano i Kempeitai del suo paese con quel loro fare arrogante e che non ammette repliche.

-Credo che lei già lo sappia, dal suo ufficio ha un'ottima vista della baia di Pearl Harbour… peccato solo che ora sia stata coperta da delle assi di legno…- rispose uno dei due.

-Cosa state insinuando?-

-Lei è giapponese, non è vero?-

-Sì e con questo?-

-Il suo paese ha attaccato il mio, questo le deve bastare. La prego si volti e non opponga resistenza- l'agente si avvicinò con delle manette in mano.

Nel vedere i due bracciali metallici, Atsuya sbottò:

-Volete arrestarmi senza accusarmi di un crimine? Non vi siete neanche identificati!-

Il secondo uomo, vestito identico al primo mise in bella mostra un distintivo brillante.

-Ora è contento? L'avverto che sto perdendo la pazienza- continuò.

L'infermiera spettatrice di tutto ciò si defilò all'istante, come se non volesse avere nulla a che fare con tutto quello che stava accadendo.

Il medico sbuffò e fece come ordinato. Venne voltato con uno scossone da parte dell'agente e ammanettato come da procedura.

Il freddo gelido del metallo avvolgeva i polsi del rosa.

-Tutto questo è assurdo!-

-Allora le consigliamo di trovare un buon avvocato… sempre che ne trovi uno-

-Vorrei almeno sapere di cosa mi si accusa!-

Con un'altra spinta Atsuya venne cacciato fuori dal suo studio.

Non fece in tempo a percorrere pochi metri di quel corridoio completamente bianco che sentì una voce alle spalle intimare ai due agenti di fermarsi.

-Fermatevi!-

Il rosa vide con la coda dell'occhio che era il dottor Wilson accompagnato dall'infermiera. 

Vedendo la piega che stava assumendo la situazione nello studio, si era allontanata per avvertire uno dei dirigenti dell'ospedale.

Il dottor Wilson si avvicinò ad ampie falcate con gli occhi furenti e pieni di rabbia.

-Che state facendo voi? Volete arrestare uno dei miei medici senza che abbia commesso nulla di cui macchiarsi?!-

-Lei chi è?-

-L'uomo a capo di questo ospedale. Chi siete voi che osate entrare e prendere uno dei miei medici per arrestarlo e farlo sfilare in manette sotto gli occhi di tutti i degenti!-

Uno dei due agenti si guardò intorno, alcuni feriti, come anche infermiere e dottori, si erano raggruppati a vedere la causa del trambusto.

-Questo è ciò che le basta sapere di noi- rispose l'altro mettendo in bella mostra il distintivo.

-Agenti federali? Le isole Hawaii non sono uno stato degli Stati Uniti, il governo federale non può intervenire direttamente sull'arcipelago, nè i suoi agenti!- rispose con la sua voce profonda il medico.

Atsuya si sentiva sollevato nel sapere che almeno il suo capo e mentore ad Oahu si stava impegnando per liberarlo.

-Lei ha ragione, ma quando si tratta di spionaggio… la polizia comune non basta…-

-Spionaggio!?- urlò sorpreso Atsuya.

Il signor Wilson impallidì a sentire l'accusa rivolta al rosa.

-Una spia? Pensate che sia una spia!? Qualche giorno fa, mentre voi bellimbusti eravate sul continente a fare la bella vita, quel giovanotto ha affrontato la pioggia di bombe e proiettili che cadeva là fuori per venire qui. Ha affrontato il rifiuto e il disgusto dei feriti nei suoi confronti perché il suo paese ci ha attaccato! Se non fosse venuto quel giorno, ma al contrario se si fosse dileguato, molte delle persone che vedete qui intorno sarebbero morte. Nonostante sia lui giapponese e il suo governo nostro nemico, si è fatto carico di curare, medicare e salvare la vita dei nostri ragazzi! Con quale arroganza potete voi accusarlo di essere una spia?!- il tono del medico non ammetteva repliche, lui e il personale della sua clinica erano stati tra i primi a prestare soccorso.

I presenti iniziarono a mormorare, alcuni annuivano concordi con le parole del dottor Wilson.

-Se non fosse stato per Atsuya forse non sarei qui neanch'io- si fece avanti un ragazzo dai capelli scuri che camminava con delle stampelle.

-Chi siete?-

-Marinaio di prima classe Eagle, sopravvissuto della USS Oklahoma… credo abbiate visto in che stato è ora. Ho riportato una frattura alla caviglia e ho passato molte ore in una stanza allagata, arroventata da un incendio nelle vicinanze. Disidratato e con un colpo di calore, Atsuya mi ha salvato dopo che sono stato tirato fuori da lì e aver gridato aiuto con tutta la voce che avevo nel corpo-

Poco dopo si aggiunse un secondo, era il giovane ragazzo ustionato. Ora si reggeva in piedi ma era avvolto da delle bende bianche e ingrassate lungo tutto il busto e le braccia.

-Io… avevo rifiutato il suo aiuto, gli ho dato del "muso giallo". Mi sento in colpa per questo, ma ha fatto in modo che il mio corpo, ustionato mentre nuotavo nella baia piena di nafta, venisse curato-

Gli occhi di Atsuya iniziarono a riempirsi di lacrime di gioia.

I due agenti iniziarono a guardarsi intorno indispettiti.

All'improvviso un terzo esordì, ma non era stato uno dei pazienti di Atsuya.

-Se è giapponese, perché è ancora qui? Portatelo via, anzi sparategli un colpo alla nuca a quel bastardo-

Altre due persone gli fecero eco.

-Andiamo- disse l'agente al collega. Voleva evitare uno scontro tra i degenti.

I tre attraversavano le due ali di folla che iniziarono a gridare e discutere, da una parte chi sosteneva il medico, dall'altra chi gli era ostile solo perché giapponese.

Uscirono in tutta fretta dall'ospedale, mentre il personale cercava di placare gli animi dei degenti.

Atsuya venne fatto salire su un'auto nera parcheggiata vicino all'ingresso, e partirono a tutta velocità verso la caserma.

 

****

 

Oceano Pacifico

12 dicembre 1941

 

I compiti di sorveglianza erano noiosi, Hiroto non li sopportava ma doveva piegarsi agli ordini dei suoi superiori.

Sorvolava ad una quota medio-alta l'Oceano Pacifico a bordo di quell'aereo da bombardamento modello B5N2. Privo di un effettivo carico di bombe si rivelava un buon ricognitore grazie alla lunga cabina di vetro e all'equipaggio di tre persone.

Il rosso doveva pilotare il mezzo e allo stesso tempo scrutare le acque sottostanti e i cieli, aiutandosi con un binocolo.

-Nessun segno di navi nemiche in questo settore- commentò il navigatore.

-Confermo, nessuna attività del nemico- rispose Hiroto annotava la posizione su una mappa che teneva sulle ginocchia.

Quella cartina non era che una riproduzione dei settori che stavano sorvolando, opportunatamente suddivisi da una griglia.

-Forse non ci stanno seguendo?- domandò il più giovane navigatore.

-Potrebbe essere, forse non vogliono rischiare le portaerei, ma anche noi non possiamo permetterci di perderle-

-E ci fanno eseguire delle missioni di ricognizione…-

-Non sono un piacere neanche per me, ma permettono di tenere allenati i riflessi e l'abilità alla guida-

Il bombardiere Nakajima, color verde scuro sfrecciava rapido e il ronzio del motore squarciava l'aria.

Per poter avere una visuale ottimale, Hiroto doveva inclinare l'aereo su un fianco, poi con una buona dose di maestria doveva cercare di mantenere il velivolo in posizione e osservare la grande massa d'acqua sotto di lui.

Tutto poteva essere un pericolo, un aereo di pattuglia, una barca in mezzo all'oceano o un sommergibile. Qualsiasi cosa si riuscisse ad avvistare andava annotata e poi segnalata alla flotta.

Hiroto era certo che gli americani si sarebbero fatti vedere, prima o poi.

Tutto andava fin troppo bene. 

Con quattro portaerei in servizio, avrebbero potuto inseguirli e vendicare l'attacco subito.

L'attenzione era alle stelle. 

-Qui non c'è nulla, torniamo indietro- disse Hiroto.

Erano almeno un paio d'ore che erano in volo e il livello carburante stava lentamente calando. 

Con una virata l'aereo invertì la rotta.

Il sole stava proprio sopra di lui, non era quindi più che mezzogiorno.

Il viaggio di ritorno fu certamente più breve, il pilota non doveva perdersi in giri panoramici e osservazioni, doveva solo tornare alla flotta e come sempre appontare sulla Kaga.

Si avvicinò con l'aereo in posizione, carrello abbassato e anche gancio d'arresto. Si avvicinava sempre di più, ma un forte vento da poppa ostacolava l'atterraggio.

L'aria spingeva in avanti il bombardiere che non riuscì ad agganciarsi.

Sul ponte della nave, vi era buona parte dell’equipaggio; meccanici, artiglieri ma anche marinai semplici. Alla vista del mancato appontaggio, dalla folla si levò un insieme di voci amareggiate. 

Hiroto dovette con forza riportare in volo l'aereo se non voleva schiantarsi in acqua, o peggio sul ponte.  Oltrepassò la prua, alzò il carrello e riprese quota per riprovare la manovra.

Virò affianco alla nave e si allontanò.

Sul ponte alcuni operatori si armarono di bandierine di colori diversi e con ampi gesti delle braccia davano indicazioni al pilota.

-Tentativo numero due- esordì Hiroto spezzando il silenzio che si era formato nell'aereo.

-Buona fortuna- gli augurò il navigatore.

Per la seconda volta provò ad appontare sulla nave.

Il vento in coda spingeva l'aereo ad una velocità maggiore del normale.

Hiroto abbassò ulteriormente la potenza del motore e si allineò al ponte.

L'aereo perdeva quota, metro dopo metro. 

Come prima, il pilota armeggiò con i vari pulsanti e leve del pannello di controllo, abbassò il carrello e gancio e si avvicinò nuovamente alla nave.

Nonostante la potenza ridotta, il vento dava una spinta sufficiente per mandare avanti l'aereo.

Il bombardiere mancò il primo cavo, poi il secondo.

Si bloccò al terzo cavo che venne preso dal gancio.

Come sempre la fermata fu accompagnata da un grosso scossone, questa volta più forte.

Hiroto e il suo navigatore quasi rischiarono di urtare il pannello di controllo con la testa.

-Un atterraggio morbido come sempre…- scherzò Hoshi

-Faccio del mio meglio per non schiantarmi- ribattè l'altro con un sorriso amaro per la battuta piuttosto triste del suo navigatore.

Il rosso aprì l'abitacolo, e venne avvolto dal tanfo dei fumi di scarico, tossì, si alzò prendendo la cartina e con un balzo uscì dall'aereo.

Come ogni volta i meccanici e gli operatori di volo vestiti di bianco, iniziarono a spingere l'aereo verso l'ascensore sul ponte e portarlo negli hangar.

Hiroto dovette fare rapporto ai suoi superiori.

Poiché non era stato avvistato alcun nemico, sia in cielo che in mare, venne congedato dopo pochi minuti.

Se ne andò sottocoperta, nella sua camerata.

Si tolse l'equipaggiamento, il caschetto, la tuta da aviatore e qualsiasi cosa potesse appesantirlo e poi si distese sul letto di metalle.

Appena toccato il materasso, la rete di ferro cigolò rumorosamente sollevando alcuni lamentele dei commilitoni che cercavano di riposare.

-Non vorrai addormentarti di già- esordì Ryuuji a bassa voce. Il verde stava sul letto più alto.

-Pensavo fossi tu quello che dormiva- rispose Hiroto.

-La tua grazia nel stenderti sulla branda, mi ha destato dal mondo dei sogni… com'è andata la missione?-

-Noiosa come tutte le ricognizioni-

-Capisco- tagliò corto Ryuuji.

-Sento la mancanza di usare un caccia…- aggiunse il rosso.

-Vuoi chiedere di essere riassegnato? Sai che sarà improbabile-

-Lo so, ma con quelli voli in modo più frenetico e divertente-

-E' anche più pericoloso-

-Dipende, io non mi fido molto del mio mitragliere, non ha mai parlato una volta, non credo di conoscere nemmeno il suo nome. Spero abbia una buona mira, se mai mi trovassi con un aereo in coda-

-Te lo auguro, io torno a dormire, a più tardi-

-A più tardi- rispose Hiroto per poi abbandonarsi tra le braccia di Morfeo.

 

****

 

Oahu,

13 dicembre 1941

 

Erano ormai trascorsi due giorni dall'arresto di Atsuya.

Le ultime notti le aveva passate in una cella singola, un quadrato dalle pareti di cemento, un pavimento ruvido, con una branda e delle grosse sbarre per impedire che fuggisse.

Non era un carcere, era una cella della centrale di polizia locale.

Più volte al giorno, Atsuya veniva scortato in una stanza scura, con solo un tavolo e qualche sedia.

I due agenti che l'avevano prelevato dall'ospedale cercavano di estorcergli una confessione, usando anche tranelli e inganni, ma la mente del medico era fine e riconosceva gli inganni dei suoi aguzzini.

Era la seconda volta che veniva messo sotto torchio quel giorno.

Stava seduto, composto cercando di nascondere il suo nervosismo sotto una maschera di impassibilità.

Davanti a lui i due federali accompagnati da un poliziotto locale in divisa blu scura.

Accesero il registratore sul tavolo nella speranza di ottenere un nastro contenente la confessione.

Il primo agente si schiarì la voce e prese poi a parlare:

-Come sempre, lei conferma di essere il dottor Atsuya Fubuki, medico presso la clinica Wilson di Oahu?-

-Confermo- rispose secco.

-Conferma lei di essere nato nell'attualmente ostile, Giappone?-

-Confermo-

-Bene, dopo le formalità i fatti. Sappiamo che lei è una spia del governo nipponico, sappiamo anche che lei è implicato nell'attacco di qualche giorno fa alla base navale di Pearl Harbour-

-Con permesso rigetto queste accuse-

-Lei ha confermato di essere giapponese-

-Non posso negarlo essendo nato a Sapporo-

-Credo che lei sia a conoscenza dello stato di guerra che impera tra i nostri paesi-

-Purtroppo ho visto con i miei occhi i danni causati dall'attacco-

-Non mi sorprende dato che lei ha collaborato con il suo governo fornendo informazioni di prima mano- l'agente prese una sigaretta e l'accese davanti all'accusato, come per dimostrare chi comandava in quel frangente.

Atsuya stava con lo sguardo fisso su quell'uomo, capelli brizzolati, volto ben rasato segnato da qualche ruga, indossava una camicia bianca con un panciotto gessato e aveva un cappello sul tavolo.

-Come ho dichiarato precedentemente e anche negli scorsi interrogatori, rigetto queste accuse-

-Ottimo signor Fubuki. Credo che allora ci possa parlare del signor Taro Kimura, lo conosceva bene?-

-Viveva nella mia stessa abitazione-

-Lei sa cosa faceva?-

-Era uno studente dell'università imperiale di Tokyo, come me-

-O forse una spia-

-Non capisco- era la prima volta che quell'agente faceva il nome di Taro e l'accusava di spionaggio.

-Il signor Kimura era dedito alla fotografia, lo conferma?-

-Sì, fotografava le isole Hawaii per catalogare le specie animali e vegetali autoctone-

-Per noi fotografava le isole per altri scopi. Nelle settimane appena precedenti all'attacco, sia lei che il signor Kimura avete spedito molte lettere… è stato da stolti inviare in una busta da lettere delle fotografie di Pearl Harbour e delle sue navi. E' così che l'abbiamo individuato. Peccato solo che sia riuscito a sfuggirci prima che potessimo acciuffarlo. In compenso abbiamo alzato la guardia su chi gli stava vicino, tra cui lei- esordì il collega gettando sul tavolo le fotografie che erano state intercettate. Atsuya trasalì, alcune delle immagini le aveva scattate lui qualche tempo prima sulle alture sovrastanti Oahu.

-Taro… una spia? Non capisco...-

-Inoltre siamo riusciti a ottenere questo- l'agente posò sul tavolo una busta gialla, la aprì e prese il singolo foglio di carta che conteneva.

-E' la trascrizione di una telefonata da Tokyo al suo studio, appena qualche giorno prima dell'attacco. Ovviamente abbiamo intercettato le sue comunicazioni e la sua corrispondenza, può immaginare la nostra sorpresa quando abbiamo trascritto e tradotto la telefonata in questione-

Atsuya non rispose. Sapeva bene di cosa parlava.

-Non si ricorda? Mi permetta di rinfrescarle la memoria: il suo interlocutore si è presentato come l'incaricato di eseguire un sondaggio ignoto, a noi ma credo anche a lei. Le ha chiesto del tempo qui ad Oahu e successivamente ha domandato se aveva mai visto la baia di Pearl Harbour. Ora si ricorda che le ha risposto?-

-Che la stavo guardando dal mio studio…- mormorò Atsuya. Lentamente stava realizzando di essere stato ingannato da quell'ignoto interlocutore.

-Successivamente le chiese se vi fossero ancorate "navi piatte" e lei rispose: "Ci saranno forse cinque o sei navi di grandi dimensioni ma nulla di piatto". Le hanno chiesto palesemente della presenza delle nostre portaerei e lei ha risposto con tutta tranquillità che vedeva almeno cinque delle nostre corazzate nella baia! Questo come lo spiega!? Ha ancora il coraggio di negare di essere una spia!?- tuonò il secondo battendo con il pugno un colpo sul tavolo così forte da farlo tremare.

Atsuya sobbalzò. Alla luce della trascrizione, non poteva negare di aver rivelato la presenza della flotta americana al suo paese, ma non si sentiva colpevole, ma confuso. Non comprendeva il perché il suo governo, lo avesse chiamato in chiaro come se fosse una telefonata di piacere, così facendo era ovvio che avrebbe passato dei guai seri se fosse stato scoperto.

-Allora, che fate? Negate l'evidenza?-

-Io, credo ci sia un errore in tutto ciò. Non sono una spia, io sono venuto qui grazie all'Università imperiale di Tokyo che mi ha permesso di completare la mia formazione apprendendo le ultime scoperte scientifiche dell'Occidente!-

-E guarda caso anche il suo amico Taro, fuggito di recente, era anche lui inviato dall'Università di Tokyo ed era una spia. Casualmente entrambi siete stati inviati ad Oahu, sede della più grande base navale statunitense nell'Oceano Pacifico. Casualmente il signor Kimura è tornato in patria dopo esser stato scoperto, casualmente lei ha ricevuto una telefonata da Tokyo e rivelato la posizione delle nostre navi. Direi che tutto ciò può essere una mera coincidenza, ma a quanto pare la sua università si dedica anche alla formazione e addestramento di spie!-

-Questo non è vero!- esclamò Atsuya alzandosi di scatto.

-Non è vero? Allora come spiega tutte queste coincidenze?-

-Se fossi una spia, non avrebbe senso abbandonarmi qui, non crede?-

-Forse ha pestato i piedi alla persona sbagliata nel suo paese, o era una persona scomoda che ha fatto qualcosa che non doveva. Qualsiasi sia il motivo, non cambia il fatto che lei è accusato di spionaggio e nega l'evidenza dei fatti-

-E continuerò a farlo se necessario!- nonostante le accuse e le prove, il medico non sopportava essere considerato una spia, si sentiva tradito da quella telefonata. Probabilmente l'attacco sarebbe avvenuto lo stesso in un modo o nell'altro.

-Signori, abbiamo sprecato altro tempo, dovremo passare a metodi più convincenti- l'agente spense il registratore e prese il nastro poi si rivolse verso il medico.

-Fossi in lei mi affretterei a confessare, se non vuole che la sua incolumità sia messa, come dire… a repentaglio. Qui ad Oahu è protetto, ma sul continente è un'altra storia-

L'agente indossò il proprio cappello e la giacca, prese i documenti sul tavolo e uscì insieme al collega.

Il poliziotto in divisa si avvicinò al medico e lo riportò a meditare nella propria cella.

 

****

 

Quella stessa sera, ad Oahu, in uno dei tanti locali per i marinai, vi era seduto al banco Mark Krueger.

Aveva già ordinato un bicchiere di whiskey americano.

Il locale era ben tenuto, pavimento in legno, luce soffusa, un lungo bancone con degli sgabelli in pelle e un barista cordiale. Alle sue spalle decine di bottiglie di ogni cosa si potesse bere.

I clienti erano soprattutto marinai e piloti, pronti a prendere il mare e affrontare il nuovo nemico.

Improvvisamente un uomo, ben più grande e vecchio di Mark, con un paio di folti baffi sotto al naso, si avvicinò al giovane ragazzo.

Si sedette al suo fianco e vedendo il bicchiere del vicino, chiamò il barista:

-Mi faccia lo stesso per favore-

-Come desidera- l'uomo dietro al bancone prese la bottiglia e ne versò mezzo bicchiere, poi lo allungò verso il nuovo cliente.

Mark si voltò alla sua sinistra e riconobbe subito il vicino:

-Dottor Wilson, non avrei mai pensato di trovarla qua!-

-Di solito frequento altri locali, ma se devo dire la mia,  ero certo che ti avrei trovato qui, Atsuya mi aveva parlato di questo posto- rispose mentre rigirava il bicchiere nella sua mano agitando il proprio whiskey per assaporarlo meglio.

-Beh, il bere è buono e costa meno che da altre parti-

Il dottore assaggiò la propria ordinazione, aspettò qualche secondo e poi deglutì.

-Non ti do torto-

-Allora cosa la porta qui, doc?- Mark palesava i primi effetti dell'alcol.

-Cercavo te-

-Me? E perché?-

-Riguarda Atsuya-

Mark sospirò, il suo amico era stato arrestato sotto i propri occhi e non era riuscito a far nulla per impedirlo.

-So che è detenuto nella centrale di polizia qui ad Oahu e che lo interrogano ogni giorno… ma lui non demorde-

-Come fa a saperlo?- 

-Ho i miei informatori-

-Crede che sia una spia?-

-Ne dubito fortemente. Cosa ha da guadagnarci una spia a restare su un'isola che sarebbe stata bombardata? Per non parlare che era con te durante l'attacco ed è rimasto sorpreso come tutti noi…-

-Ed ha voluto a tutti i costi andare in ospedale ad aiutare i feriti- concluse Mark finendo anche l'ultimo sorso del suo bicchiere e poi posarlo in modo tutt’altro che aggraziato sul bancone.

-Esattamente. Non credo che una spia si sarebbe sottoposta a tutti questi rischi-

-Anche se non lo fosse, ora è in mano a quegli avvoltoi! E non lo lasceranno di certo!-

-Dipende… uno dei tanti marinai che Atsuya ha salvato in ospedale, è il figlio di un poliziotto della zona. E' lui che mi passa tutte le informazioni. Da quanto mi ha detto pare che i federali vogliano trasferirlo sul continente- il tono del dottore era più basso, non voleva farsi sentire da orecchie indiscrete. Con lo sguardo puntava il barista assicurandosi che non fosse troppo vicino o che non stesse ascoltando.

-Possono farlo?-

-Certo che no, le Hawaii non sono uno stato degli Stati Uniti, non ancora, quindi in teoria i federali non hanno alcun potere. A trasferirlo sulla nave che lo porterà negli Stati Uniti deve essere la polizia di Oahu-

-Forse sto iniziando a capire-

-Io credo che potremmo avere l'occasione di liberarlo, ma ho bisogno anche del tuo aiuto-

-E come? Sono stato richiamato sotto e dovrò partire a breve-

-Tutto qui il problema?-

-Doc, se per lei è così semplice, lo dica ai miei superiori!- Mark era amareggiato, ma il dovere lo chiamava e sarebbe dovuto partire a bordo della USS Enterprise.

-Mark, sono un medico… lo decido io chi parte e chi sta a terra, basta un certificato con la mia firma. Entro domani posso darti dei documenti firmati e timbrati in cui dichiaro che non sei più idoneo al servizio attivo-

-Funzionerà?-

-Perché non dovrebbe funzionare? Per essere certi posso mettere per iscritto che sei stato ricoverato nella mia clinica in seguito all'attacco… Atsuya mi diceva che piloti aerei, giusto?-

-Sì, aerei imbarcati-

-Diciamo che hai perso la vista da un occhio, ti basterà indossare una benda temporaneamente, se non erro serve una vista perfetta per servire in aeronautica-

Mark era indeciso, in realtà era entrato nelle forze armate più per il prestigio derivato che non per vocazione e non era di certo sua intenzione farsi sparare mentre guidava un apparecchio nel mezzo dell’oceano.

-Se io accettassi, quale sarebbe la mia parte?-

-Parliamone di fuori, c'è troppa gente qui intorno-

Mark annuì con un cenno e uscirono in strada. Tutta l'isola era buia, le finestre delle abitazioni erano oscurate con assi di legno, in modo simile allo studio di Atsuya, anche i lampioni erano spenti.

-Allora il piano sarebbe far evadere Atsuya durante il trasferimento, nasconderlo per qualche tempo facendo pensare che sia fuggito e imbarcarlo sulla nave con false generalità. Dobbiamo tuttavia sbarazzarci di quei due scagnozzi del governo, tengono sott'occhio Atsuya giorno e notte-

Mark sospirò,  non aveva idea di come fare.

-Dobbiamo trovare anche qualcuno disposto a falsificare i suoi documenti-

-Qui entri in gioco tu, grazie ad Emily posso far rilasciare dalla Croce Rossa un lasciapassare per il continente e dei documenti falsi come di cittadino cinese in fuga. Serve una fotografia di Atsuya. Probabilmente la sua casa sarà stata messa a soqquadro dai federali, ma devi trovarne una e se possibile elimina i suoi documenti di identità-

-E dopo? Vuol farlo andare sul continente? Mi sembra rischioso…-

-Gli Stati Uniti sono molto vasti, certamente è più sicuro nascondersi lì da qualche parte che non su questi scogli vulcanici nel Pacifico-

-Ma non ha idea di come sia l’America, non conosce la società, le leggi… potrebbe cacciarsi solo nei guai secondo me!- esclamò Mark.

-Cosa hai intenzione di fare? Attraversare il mare, riportarlo a casa e tornare qui? Se non ti fidi a lasciarlo da solo, allora vai con lui e fate quello che secondo voi è la cosa giusta!- rispose bruscamente il dottore.

Mark sospirò, si passò la mano tra i capelli e poi alzò lo sguardo verso il cielo. Poteva vedere le stelle per una volta.

-E va bene… lei faccia quel certificato in cui dichiara che non sono idoneo e io farò quello che mi ha chiesto- rispose il ragazzo.

-Bene, abbiamo un patto- il medico strinse la mano del più giovane.

I due si salutarono, ma il biondo fece solo alcuni passi prima di essere fermato dal dottor Wilson.

-Ovviamente Mark, noi non ci siamo mai visti dopo l’attacco-

Con quelle parole il medico riprese a camminare e scomparì nel buio della strada.

 

****


Piccolo angolo d’autore…

 

Questa volta mi sono assentato per molto tempo…

ma ora dopo le vacanze e tutto ciò che l’estate ha portato,

sono tornato con questo capitolo, di certo non il più lungo

che abbia mai scritto ma comunque di un certo spessore.

Ultimamente mi sto concentrando molto su Atsuya e su

quello che accade nelle isole Hawaii, ma presto tornerò

a parlare di chi è rimasto in Giappone e che si è

visto molto sporadicamente in questi ultimi capitoli.

Atsuya in cella e accusato di spionaggio, Nagumo e Suzuno

fanno razzie in Cina, Shirou e Yukimura che affrontano l’entrata

in guerra del proprio paese.

Paradossalmente Hiroto e Midorikawa potrebbero essere quelli

nella situazione migliore, su una grossa nave nel mezzo del Pacifico

sulla rotta per casa e senza americani all’inseguimento.

Come sempre mi auguro che questo capitolo vi sia piaciuto…

tra l’altro negli ultimi tempi ho notato un piccolo incremento nelle 

visualizzazioni dei precedenti nonostante sia da qualche mese 

che non aggiorno, questo mi fa sperare bene!

Detto questo è ora che io mi assenti,

un saluto

 

_Eclipse


 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13: Fuga ***


Capitolo 13: Fuga

 

Oahu 

15 dicembre 1941

 

Alle prime luci del mattino, Mark Krueger si era intrufolato nella casa di Atsuya.

Si sentiva come un topo d'appartamento, aveva messo a soqquadro l'abitazione in cerca di un qualsiasi documento dell'amico.

Fortunatamente, il padrone di casa gli aveva rivelato dove poteva trovare una copia della chiave se mai fosse successo qualcosa, dato che passava gran parte della giornata in ospedale.

Era nascosta all'interno di un piccolo vaso di fiori che teneva all'esterno della porta. Purtroppo Mark dovette sradicare quei graziosi fiori bianchi, ma non si sentì in colpa, probabilmente sarebbero appassiti comunque se i federali fossero riusciti a portare Atsuya sul continente.

Il giovane si era meravigliato del fatto che la residenza fosse intatta, pensava che la polizia avrebbe perlustrato la villetta da cima a fondo in cerca di prove schiaccianti che dimostrassero la tesi dei federali.

Era nella camera da letto, il posto certamente più ovvio per tenere i propri effetti personali. Aveva completamente svuotato il cassetto del comodino, ma vi trovò solo un libro in giapponese, qualche fazzoletto di tela e altre cianfrusaglie.

Controllò ogni capo d'abbigliamento presente nell'armadio adeso alla parete, tutte le tasche dei pantaloni e anche delle camicie.

In quella stanza era rimasto un solo posto, lo scrittoio sotto la finestra.

Quella scrivania di legno, aveva tre cassetti sulla destra, uno sopra l'altro. I due inferiori si aprivano, ma all'interno trovò solo documenti scritti in modo, a suo dire, strano poiché non aveva mai visto una pagina completamente in kanji della lingua nipponica, ma solo qualche carattere.

Tutti qui fogli formavano una grossa e pesante pila di carta, probabilmente era frutto del lavoro di tutti gli anni passati sull'isola per conto dell'università di Tokyo.

L'ultimo cassetto, quello più in alto dei tre, non si apriva.

Era dotato di una serratura, tuttavia Mark non aveva la fortuna di sapere dove trovare anche la chiave per lo scrittoio.

Sapeva di dover fare in fretta, non aveva tempo da perdere a cercarla e passò quindi alle maniere forti.

Tirò quel cassetto con tutta la sua forza, lo strattonò più volte ma non si spostava dalla sua sede.

Sospirò e lo colpì con un calcio.

Il legno sottile del cassetto si sfascio e poté essere rimosso.

Allungò all'interno la mano e afferrò tutto il contenuto e lo mise sopra la scrivania.

Vi erano alcune buste piuttosto gonfie, ne aprì una e scoprì che erano piene di dollari. Contenevano tutta la paga che Atsuya si era guadagnato da quando aveva iniziato a lavorare all'ospedale.

Non stette a contare i soldi, ma ad occhio potevano arrivare quasi sicuramente a qualche migliaio.

Prese le tre buste e le mise in una borsa a tracolla in cuoio che si era portato.

Trovò anche una specie di libretto, sulla facciata vi erano alcuni kanji che sormontavano il simbolo dorato del crisantemo che risaltava sulla copertina rossastra.

Sotto quel simbolo era scritto, sia in inglese che francese: "Passaporto del Giappone".

Lo aprì e all'interno vi erano i dato di Atsuya, trascritti sia in lingua nativa che inglese i dati dell'amico, accompagnati da una fotografia in bianco e nero. 

Aveva trovato quello che gli serviva.

Mise anche il passaporto nella borsa e se ne andò chiudendo l'abitazione portando con sè la chiave.

Qualche ora dopo si incontrò con il dottor Wilson nel suo ufficio.

Il medico stava seduto dietro la sua scrivania, stava compilando alcuni documenti.

Dall'altra parte stava invece Mark che prese il passaporto e lo mostrò all'uomo.

-Ottimo lavoro, abbiamo quello che ci serve- esordì l’altro senza alzare lo sguardo dalle scartoffie.

-E per quanto riguarda me?-

Il più anziano prese un plico di qualche pagina, a lato della scrivania, e lo passò al più giovane.

-Una copia è stata inviata al comando dell'aeronautica. Pilota, lei è ufficialmente esonerato dal servizio per le ferite riportate in battaglia durante l'attacco a Pearl Harbour. Ricordati solo che sei diventato cieco dall'occhio destro. Prima che tu vada, ti farò un bendaggio che potrai togliere a casa, ma ti consiglio di fartene fare un altro quando salperai, così sembrerai un vero ferito di guerra-

-La ringrazio… ora come ci muoviamo?- chiese Atsuya.

-Da quanto mi è stato riferito si procederà al trasferimento con la prima nave in arrivo, tra due giorni. Dovrebbe portare rifornimenti ma ha il permesso di evacuare anche parte della popolazione civile americana, nella quale da ora rientri anche tu-

-Questo l'ho capito, continui per favore- Mark era impaziente di sapere come agire.

-Non è difficile, Atsuya verrà caricato su una delle volanti che ha in dotazione la polizia, il nostro agente si è offerto di guidarla. La porterà in un luogo sicuro e farà scendere Atsuya. Qui entri in gioco tu, so che hai un'auto, giusto?-

-Sì-

-Dovrai seguire la volante fino al luogo in cui verrà lasciato Atsuya, poi dovrai fare quello che ti dice l’agente e andartene-

-Per i federali come facciamo?-

-Per quello non c'è problema, non possono essere coinvolti nel trasferimento, quindi attenderanno al porto. Una volta avvertiti dalla fuga del prigioniero dovranno tornare alla centrale di polizia. Nel frattempo tu condurrai Atsuya in un luogo sicuro, ad esempio la tua casa, e gli consegnerai questi, dopodiché salirete su quella nave e partite per il continente. Ricordati di tenere con te il certificato che ti ho lasciato, è l’unico modo che hai per imbarcarti in quanto ferito di guerra- disse il medico passando al ragazzo il lasciapassare della croce rossa e un passaporto cinese, ovviamente falsificato.

-Siamo certi che quei federali non saliranno a bordo con noi?-

-Il nostro amico della polizia farà in modo di allontanarli in qualche modo, tuttavia non posso darti alcuna garanzia a riguardo, potrebbero salire sulla nave e in questo possibile scenario… non vorrei essere nei vostri panni… quindi te lo chiedo un’ultima volta: sei disposto ad aiutarci in questo piano?-

Mark si prese qualche secondo per pensare. Ormai era un civile e Pearl Harbour era stata bombardata, quindi ora stava in una zona di guerra e non erano esclusi ulteriori attacchi.

-Sì, ci sto… dopotutto era da un po’ che pensavo di tornare sul continente-

Il dottor Wilson si alzò e strinse la mano al ragazzo. 

Dopo le ultime raccomandazioni e gli ultimi dettagli, i due si congedarono.

Mark tornò nella propria casa, un minuscolo bungalow in affitto che usava insieme ad Erik, Bobby e Dylan quando stavano a terra.

L’unico rimasto, era Erik ancora convalescente. Si muoveva con l’ausilio di due stampelle ma nonostante tutto stava bene.

L’amico gli aveva detto del piano per salvare Atsuya e sapeva che a breve si sarebbero separati e forse mai più visti.

La notte prima, dell’operazione, preparò un bagaglio contenente i suoi effetti e i pochi vestiti e andò a dormire presto.

Il mattino successivo, salì sulla sua Forde del ‘37 color verde bottiglia e partì alla volta della piccola centrale.

Non voleva dare nell’occhio e alzò il tettuccio decappottabile in tela nera, nonostante fosse una bella giornata abbastanza calda.

Erano quasi le sette del mattino quando parcheggiò l’auto dall’altra parte della strada rispetto alla caserma.

Da lì a poco sarebbe iniziato il piano per la fuga.

Attese non più di dieci minuti, alle sette precise, Atsuya fu scortato in manette da due agenti. Uno di essi salì a bordo della volante, l’altro si assicurò che il prigioniero, seduto sui sedili posteriori, non potesse uscire e chiuse l’abitacolo.

I due agenti si salutarono, dopodiché la volante partì.

Mark accese il motore e quando la ritenne abbastanza lontana iniziò a inseguirla.

Cercò di ridurre le distanze il più possibile. La strada era tutt’altro che trafficata, la quasi totalità degli abitanti era ancora scossa dall’attacco e non si fidava a uscire dalla propria casa.

L’auto della polizia si allontanava sempre più dal centro abitato, si fermò in un piazzale desolato di un deposito vittima del recente bombardamento. 

Il capannone era a pezzi e ovunque vi erano detriti, polvere, lamiere di metallo e frammenti di calcestruzzo ovunque.

Le due auto si fermarono una dietro all’altra.

Il poliziotto scese, un uomo adulto vestito in uniforme e con degli occhiali da sole sul naso.

-Mark Krueger?- esordì.

-Sì sono io-

L’agente, aprì la portiera del passeggero, fece uscire Atsuya e gli levò le manette.

-Aspettate, cosa… cosa sta succedendo? Mark?- il medico era confuso e non capiva la situazione, ma allo stesso tempo era sollevato dal non avere più le manette.

-Lunga storia, ce ne andiamo via da qui così non sarai in pericolo-

-E la polizia?-

-Hai salvato mio figlio, non mi sembri una cattiva persona. Sto solo pagando il mio debito- rispose l’uomo per poi impugnare la propria pistola.

-State dietro di me, prima di lasciarvi devo fare una cosa…-

Puntò l’arma verso la propria auto ed esplose tre colpi; i proiettili infransero i due vetri, uno colpì lo sportello del guidatore, poi da distanza ravvicinata ne sparò altri tre alla portiera del passeggero che si aprì.

-Ora abbiamo inscenato un assalto alla mia volante… Mark, hai mai usato una pistola?-

-Solo al poligono di tiro…-

-Sarà più che sufficiente, per sembrare realistico il piano, devi colpirmi di striscio, al braccio o alla spalla, confido poi nell’abilità da medico del tuo amico-

Mark sgranò gli occhi alla richiesta.

-E’ proprio necessario?-

-Al porto ci sono due federali, se volete levarli di torno allora dovete ferirmi, così sembrerà che c’è una rete di spie giapponese che ha agito per liberare il loro connazionale. Ovviamente non piace neanche a me l’idea di essere colpito, lo faccio solo per saldare il mio debito, ora fallo e veloce prima che cambi idea…- l’uomo passò l’arma al ragazzo.

-Allora, che fai, spari o no?- lo incalzò.

Il giovane si avvicinò per essere sicuro di prenderlo solo di striscio.

Sudava dal nervoso, trattenne il respiro e prese la mira, doveva fare solo un graffio, se avesse sbagliato, avrebbe potuto ucciderlo.

Passò un tempo infinito, poi premette il grilletto.

Dopo il botto dello sparo, seguì una trafila di insulti e imprecazioni dell’agente.

Atsuya si avvicinò subito per esaminare la ferita.

Era stato preso di striscio poco sotto la spalla, proprio come doveva essere, usciva del sangue, ma non era nulla di grave nel complesso. Il proiettile andò a incastrarsi nella carrozzeria dell’auto come tutti gli altri.

Il medico aiutò l’agente a fasciarsi il braccio.

-Ti ringrazio- disse Atsuya.

-Siamo pari, una vita per una vita, ora va prima che scoprano l’inghippo… io cerco di tornare alla centrale-

-E’ sicuro di riuscire a guidare con quella ferita?- chiese il medico.

-E’ un graffio, fa male ma riesco a muovere il braccio… ora andate-

Nonostante la ferita aperta sotto la medicazione, si mise al volante e tornò indietro a tutta velocità, con l’auto forata dai proiettili e uno sportello posteriore che non rimaneva più serrato a causa dei danni.

Gli altri due non persero tempo e fuggirono da quel campo di macerie e detriti.

-Ora che facciamo?- domandò il medico preoccupato.

-Ce ne andiamo via da quest’isola, andiamo negli Stati Uniti. La nave salpa alle dieci, abbiamo ancora un margine di tempo. Ti spiego tutto arrivati a casa-

Il tragitto fu decisamente più breve dell’andata, il nervosismo e l’agitazione di Mark lo avevano reso più rapido del previsto.

Una volta arrivati, Atsuya ricevette la sua nuova identità, un documento con il sole bianco su fondo blu, simbolo della Repubblica cinese, e il lasciapassare.

-Sono un regalo dei tuoi colleghi di lavoro, ancora non so quali contatti abbiano per esserne entrati in possesso!-

Per curiosità il rosa aprì il libretto, le informazioni erano scritte sia in cinese che inglese e lesse: “Zhao Jie, nato a: Shangai… il giorno… professione: medico…”, in alto a destra vi era la sua fotografia che era stata rimossa dal passaporto.

-Sarebbe tutto perfetto se non che conosco una singola parola di cinese!- esclamò Atsuya.

-Non potevi di certo usare un passaporto giapponese… dottor Zhao- sorrise Mark.

Atsuya sospirò e si lasciò cadere sul divano nel piccolo soggiorno.

-Abbiamo poco tempo. Devi darti una ripulita, ti posso prestare dei miei abiti, ma fai in fretta- continuò l'americano.

Il rosa fece come consigliato e si diede una rinfrescata. Erano giorni che non faceva un bagno e sentiva la mancanza del sapone e dell'acqua.

Dovette fare tutto velocemente.

Gli indumenti che gli passò l'amico erano un po' più grandi della sua taglia, essendo Mark più alto, ma non aveva molte altre scelte.

Una camicia azzurra, pantaloni e giacca biancastri.

-Non sono forse un po' troppo eleganti?- commento il medico guardandosi allo specchio appeso alla parete bianca della camera da letto.

-Sarai pure un profugo dalla Cina, ma sei sempre un medico, devi essere credibile, e tratta bene quel completo che è uno dei migliori che possiedo!-

Era giunta l'ora della partenza. Sull'uscio di casa si, presentò Erik, zoppicante, che si accompagnava impugnando le stampelle.

-E' un vero peccato che dobbiate andarvene così… non so mai come ringraziarti per avermi aiutato- prese parola rivolgendosi ad Atsuya.

-Oh, non ce n'è bisogno, ho fatto il mio lavoro; giapponesi, americani, cinesi, se una persona è ferita o sta male non importa la sua nazionalità, da medico ho il dovere di aiutarla!-

L'altro accennò un sorriso.

-Dobbiamo andare, Erik ti faccio dono dell'auto, purtroppo dovrai venire a reclamarla al porto, la lascio in custodia alla capitaneria- 

-Non preoccuparti Mark, buon viaggio e buona fortuna!-

I due fuggitivi salirono nuovamente a bordo. Salutarono Erik, che agitava la mano tenendosi in equilibrio su una stampella, e partirono alla volta del porto.

Il molo non era cambiato per nulla da quando Atsuya era arrivato per la prima volta.

La sola differenza era nel numero di navi, una singola imbarcazione di linea.

Enorme, dallo scafo tinto di nero e un grande fumaiolo nel mezzo.

Prima di scendere dall'auto Mark, ricordandosi delle parole del dottor Wilson, si fece fare un bendaggio sull'occhio da Atsuya. Fortunatamente aveva lasciato nell'auto le garze e bende della fasciatura che gli fece il medico in ospedale per sembrare un vero mutilato di guerra. Le aveva riposte nel cassetto portaoggetti del cruscotto in quanto desiderava vederci con entrambi gli occhi mentre si trovava alla guida.

Dopo la medicazione, come promesso, l'auto venne lasciata in affido alla capitaneria di porto con indicazioni di restituirla al tale "Erik Eagle".

A passo svelto si diressero verso la rampa per l'imbarco.

Centinaia di persone, cittadini degli Stati Uniti erano lì, tutti cercavano di andarsene dalle Hawaii.

I due si misero in coda ad una delle numerose file guardandosi intorno torvi, per controllare la presenza dei due federali.

Rimasero ad aspettare il loro turno per almeno un'ora.

Un membro dell'equipaggio si presentò davanti a loro.

Gli vennero passati il passaporto cinese con il lasciapassare di Atsuya e il certificato medico e il documento d'identità di Mark.

Il marinaio fece delle storie riguardo quei documenti, ma aveva le mani legati dal lasciapassare della croce rossa e dal certificato di congedo dell'ormai ex pilota che lo rendeva un civile a tutti gli effetti, quindi avente diritto ad essere evacuato rafforzato dal fatto che era stato ferito in combattimento, almeno così sembrava.

Dopo aver riletto più volte quelle carte, l'uomo brontolando gli indicò di salire che li avrebbero sistemati nella terza classe.

Per Atsuya era quasi un sogno, quella nave si era trasformata dal suo biglietto di sola andata verso un carcere, nel suo mezzo per la salvezza, ma era tutt'altro che tranquillo.

Si sentiva teso per timore di una sorpresa dell'ultimo minuto.

La loro cabina di terza classe era piccola e angusta, da condividere con una famigliola di quattro persone. Le pareti erano di metallo color bianco e il pavimento rivestito da listelli di legno.

Le cuccette era di ferro battuto ma confortevoli e tutti loro potevano godere della vista del mare grazie ad un oblò sulla parete.

Mark sistemò il bagaglio a terra sotto il proprio giaciglio, poi insieme ad Atsuya tornò sul ponte per salutare l'isola.

Alle dieci e quindici minuti, la sirena della nave squillò, poco dopo vennero lasciati gli ormeggi e prese placidamente il largo.

Il rosa poteva vedere la figura della torre Aloha, ormai tinta in modo da essere invisibile la notte, che l'aveva accolto al suo arrivo, rimpicciolirsi sempre di più.

Ormai erano per mare al sicuro.

 

****

 

Tokyo

20 dicembre 1941

 

Haruna Otonashi conosceva ormai da anni Shirou Fubuki. 

L'aveva incontrato la prima volta quando era arrivato a Tokyo, bussando alla porta dell'okiya Kira offrendo i servigi di taikomochi.

Non sapeva per quale motivo Hitomiko aiutò quel ragazzo a farsi un nome, ma da allora divenne uno stretto collaboratore anche se ormai entrambi lavoravano principalmente in autonomia.

Sempre elegante, come si conveniva ad una geisha; indossava, nonostante il freddo di inizio inverno, un lungo kimono di colore blu. 

Il cielo era grigio e alcuni fiocchi di neve cadevano a terra trasportati placidamente dall'aria.

La geisha si riparava il capo con un ombrello di carta color rosso vivo, oltrepassò il cortile e bussò.

Yukimura aprì la porta:

-Signorina Haruna! E' un piacere vedervi!- esclamò sorpreso.

-Anche per me Yukimura… Shirou è in casa?-

-Sì, prego entrate, deve far freddo lì fuori!- disse il blu accompagnando le sue parole con un gesto del braccio che la invitava ad entrare.

La geisha sorrise, posò l'ombrello bagnato dalla neve all’esterno ed entrò nell'abitazione dell'amico.

-Vado a chiamare subito Shirou, sarà contento di vedervi-

Il giovane si assentò lasciando la donna sull'uscio.

Era stata ben poche volte a casa dell'argenteo, si stupiva ogni volta di come fosse più grande di quello che sembrava.

Alle pareti erano appesi dei rotoli di carta con dei grossi caratteri scritti con inchiostro di china.

Non li conosceva, probabilmente erano caratteri antichi, retaggio della lontana influenza cinese sull'arcipelago.

Quasi certamente erano non erano opera di Shirou, a vista sembravano piuttosto datati e la carta dei rotoli era visibilmente ingiallita, mentre l'inchiostro non era più brillante come alla sua stesura.

Mentre si interrogava sul significato di quei caratteri, immaginando anche lontanamente la loro pronuncia, Yukimura tornò in compagnia di Shirou.

-Buongiorno Haruna, a cosa devo la visita? Questione di lavoro?-

-Salve Shirou, no non è per lavoro che sono qui, solo una visita di cortesia-

-In questo caso, prego seguimi e gustiamoci una tazza di tè caldo-

Il ragazzo fece strada attraverso il corridoio vicino che conduceva alla piccola sala che usava per la cerimonia del tè.

-Prego, dopo di te- disse Shirou aprendo la porta e facendo accomodare l'amica.

I due si sedettero sul tatami di bambù.

L'ultimo ad entrare fu Yukimura che chiuse la porta.

-Spero tu non ti offenda se ne non ci saranno cerimonie particolari, credo che una semplice tazza sia molto più significativa per un pomeriggio tra amici-

-Per nulla, anzi, preferisco sia informale-

Il più giovane nel frattempo aveva già acceso il fuoco e per scaldare l’acqua e preparato le tazze.

-E’ un peccato che tu abbia deciso di non seguire le orme di Shirou, sono certa che saresti stato un ottimo taikomochi, Yukimura- commentò Haruna osservando il ragazzo disporre il necessario per il tè.

-Ho fatto del mio meglio, ma ognuno deve seguire la sua strada- aggiunse l’argenteo.

-E credo che la mia sia un’altra, ma ancora non so quale possa essere- concluse il blu.

-Hai ancora tempo per comprendere quale sia il tuo destino- rispose Shirou.

Dopo qualche istante di silenzio imbarazzante, Haruna alzò la testa e chiese:

-Hai qualche notizia di Atsuya?-

-No, qualche giorno mi sono messo in contatto anche con la sua università, il suo professore, il dottor Ogawa, non riceve lettere di Atsuya da mesi… spero solo stia bene- il giovane abbassò la testa sospirando. 

-Sono certa che se la stia cavando, è un ragazzo in gamba- lo consolò Haruna.

-Ma ora è scoppiata la guerra, noi siamo qui, lui è in un paese nemico. Per quanto abile, è un estraneo e ostile per il popolo americano-

-Dovremo aspettare la fine del conflitto- esordì il blu porgendo una tazza di tè ad Haruna.

-Direi che non abbiamo altre alternative, spero solo finisca presto… in Cina sono ormai più di quattro anni che va avanti- rispose Shirou amareggiato.

-A proposito di guerra ho sentito che ora vogliono allargare la coscrizione- Haruna cercò di deviare la conversazione.

-Da chi l’hai sentito?- domandò Shirou.

-Alcuni ufficiali dell’esercito che ho intrattenuto qualche sera fa. Dicevano che ormai servivano molti più uomini e il governo avrebbe esteso la coscrizione obbligatoria-

-Era ciò che temevo…- sospirò l’argenteo.

-Questo vuol dire che io e Shirou dovremo partire per la guerra?!- esclamò Yukimura stupito.

-Non è detto, ho solo riportato un pettegolezzo- la geisha cercò di correre ai ripari per non destare preoccupazioni.

-Il mio maestro, Nishioka Hide, sarebbe partito volontario per il fronte pur di servire il paese, ma lui era figlio di un’altra epoca- aggiunse Fubuki.

-In che senso?- Yukimura pareva interessato a questo misterioso Nishioka Hide, aveva ovviamente sentito il nome in passato e sapeva che era stato il maestro di Shirou, l’aveva visto qualche volta, ma non si ricordava molto di questa persona.

L’argenteo si schiarì la voce e iniziò a raccontare.

-Il maestro Nishioka era discendente di una lunga tradizione di taikomochi che serviva la famiglia del daimyo di un piccolo dominio. Quando scoppiò la guerra Boshin(1), si armò e seguì il suo signore in battaglia per unirsi ai clan fedeli alla causa imperiale: Satsuma, Choshu, Tosa e molti altri, tutti coalizzati per rovesciare il potere dello shogun. Amava raccontare che quando partecipò alla battaglia di Ueno, qui nei pressi di Tokyo,  si trovò nella prima ondata, guidata dal clan Satsuma e fu circondati dai lealisti. Un colpo di fucile uccise il cavallo del suo daimyo che cadde a terra. Fu allora che il maestro, impugnando la spada si parò davanti al suo signore per proteggerlo e duellò contro uno shogitai(2) venendo ferito ad un braccio. Il resto è storia, la battaglia fu vinta, ma non raccontava questo episodio per farsi vanto della sua abilità nel combattimento o per essere stato testimone di uno scontro entrata nella storia del nostro paese, ma per insegnarmi che un taikomochi non è solo intrattenitore del suo signore, ma anche consigliere e guardia. Il mio onore dovrebbe spingermi a difendere questo paese-

-Sono passati più di settant'anni da allora, non ci sono più daimyo e samurai da servire!- lo rimproverò Haruna.

-Ma abbiamo ancora un imperatore, al posto dei daimyo e samurai abbiamo generali e ammiragli. La storia non cambia, continua il suo ciclo, a volte si ripete altre volte cambia solamente maschera- rispose l'argenteo.

-Ti conosco bene Shirou, non saresti adatto per la guerra, sei un artista non un soldato. Per quanto il tuo onore ti impone di partire so che in realtà la chiamata alla armi sarebbe terribile per te- replicò la geisha per poi di finire di bere il suo tè. 

Non aveva tutti i torti, sulle spalle di Shirou gravava il peso della tradizione e della storia, ma anche il timore di essere coinvolto in questo grande conflitto.

-Potresti aver ragione…-mormorò l'altro.

Yukimura provò a prendere le redini della situazione e questa volta cambiò lui l'argomento della discussione:

-Non hai più visto il pilota? Quello che era venuto qui per la cerimonia del tè?-

-Perché lo chiedi?-il taikomochi era confuso e non capiva il senso di quella domanda così improvvisa.

-Nelle ultime settimane vi siete incontrati di frequente, credo che sia un buon cliente… sarebbe un peccato perderlo con i tempi che passano- il ragionamento di Yukimura non faceva una piega e con la guerra in corso vi era il rischio concreto di perdere un cliente affezionato e conseguentemente denaro.

-Non sapevo avessi trovato un cliente fisso- si intromise Haruna interessata.

-Un giovane pilota della marina. Purtroppo non lo vedo più da tempo, mi aveva confidato che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa di grosso e sarebbe partito, ma non sapeva nè quando nè per dove-

-Di solito siamo noi geisha ad avere le attenzioni dei clienti-

-Mi pare anche ovvio, noi taikomochi ormai ci contiamo sulle dite di una mano- sorrise Shirou mostrando la propria mano destra.

Haruna cercò di nascondere una risata, una domanda sciocca le attraversava la mente, ma poi si sciolse e chiese schiettamente:

-Almeno sa che sei un uomo? Sai… il trucco, i kimono, i ventagli…-

Il volto di Shirou arrossì per l'imbarazzo.

-Aspetta, non starai insinuando…-

-Non insinuo nulla, dico solo che il trucco può trarre in inganno, e un kimono nascondere le forme. Alle volte capita che alcuni clienti rimangano ammaliati da una geisha, alcuni si innamorano perdutamente, ma non saranno mai corrisposti-

Yukimura, sentendo quelle parole, scoppiò a ridere. Shirou arrossì ancor di più.

-No, no nel modo più assoluto! Come puoi pensare ad una cosa del genere!?- ribattè visibilmente imbarazzato.

-Sto solo scherzando, prendi tutto così seriamente che finisci per non goderti più la bellezza che ci circonda. Voglio dire, sei troppo teso, l'ho visto e l'ho sentito dal primo momento che sono arrivata. So che sei preoccupato per Atsuya, per la guerra, ma vedrai che tutto si sistemerà-

Shirou sospirò, poi guardò dritto negli occhi blu scuro della geisha.

-Si dice che le geisha non siano altro che mere intrattenitrici, ragazze dedite al canto e alla danza, ma nascondono una profonda saggezza che viene manifestata all'occorrenza- l'argento sapeva che l'altra aveva ragione, ma non era semplice per lui non preoccuparsi.

La ragazza si alzò con grazia ed eleganza.

-Mi dispiace, ma temo di essermi trattenuta fin troppo a lungo-

-No al contrario!- intervenne subito il padrone di casa.

-E' stato un piacere, vi ringrazio per l'ospitalità-

I due giovani l'accompagnarono alla porta dove si salutarono per l'ultima volta.

-Spero che tornerà a farci visita in futuro- disse Yukimura.

-Certamente, è stato un pomeriggio molto piacevole- rispose la geisha con un sorriso, poi prese l'ombrello per ripararsi dalla neve per poi tornare all'okiya.


****

 

Hong Kong

25 dicembre 1941

 

Il giorno di Natale sarebbe dovuto essere di festa, se la città non si fosse trovata assediata da forze superiori sotto tutti i punti di vista.

Nelle prime ore del mattino, gli ufficiali britannici e il governatore della colonia, alzarono bandiera bianca.

La resa fu firmata al terzo piano del lussuoso Peninsula Hotel; un imponente edificio bianco in stile neo-coloniale che fungeva da quartier generale giapponese. 

Per le strade della città, l'esercito nipponico sfilò mettendo in mostra il vessillo del Sol Levante, il grande sole rosso con i suoi lunghi raggi che ora sventolava sugli edifici chiave della città.

La parata dei vincitori fu breve e semplice.

 I fanti incutevano timore; marciavano con passo cadenzato e sulla spalla tenevano il fucile con ancora la baionetta innestata, una schiera terrificante di uomini, vestiti con uniformi kaki, armati e impazienti di iniziare il saccheggio.

Dopo la dimostrazione di forza e superiorità delle forze armate, i comandanti chiusero gli occhi e finsero di non vedere le efferatezze.

Haruya si trovò, come suo solito, con Suzuno seduto su un cumulo di macerie provocate dal colpo di uno dei tanti cannoni da campo schierati.

Sorridevano entrambi godendosi la gloria della conquista.

-Più semplice che a Nanchino- commentò il ragazzo dai capelli grigi.

-Allora che ne dici di divertirci un po' come allora?- sul volto di Haruya si disegnò un ghigno malefico.

-Purtroppo sarà l'ultima volta che ce la spasseremo…-

-Perché? Non dirmi che è arrivato un generale che disapprova i saccheggi!- sbottò il rosso.

-No, sono stato richiamato, vogliono che svolga il mio servizio in patria, dovrò estirpare il dissenso e mantenere l'ordine-

-Allora che sia una giornata indimenticabile…- dopo aver pronunciato quelle parole, Haruya si alzò da quell'insieme di calcinacci, polvere e sabbia, imbracciò il fucile e gridò ad una donna che cercava di tornare a casa a passo spedito, dai capelli lunghi neri e spettinati e dai vestiti logori e sporchi.

Ella non si voltò, accelerò il passo, probabilmente aveva inteso il pericolo.

Haruya avvicinò l'arma alla guancia, prese la mira attraverso il piccolo anello metallico all'estremità e sparò.

Il proiettile attraversò la base del collo della donna. Cadde a terra stringendosi con le mani dove era stata ferita.

Perdeva sangue, molto, ma era ancora viva, si stava aggrappando con tutte le forze a quel sottile filo di vita residuo.

Haruya si avvicinò, raggiunto poi dall'amico.

Guardò la donna che giaceva in mezzo alla polvere di una buca della strada, causata dei bombardamenti.

-Cinese...- commentò con disgusto, per poi alzare il fucile verso l'alto e darle il colpo di grazia con la baionetta.

Il donna non si scompose, non emise neanche un grido, solo qualche singhiozzo dovuto alla ferita al collo e attese rassegnata l'arrivo della morte, 

La lama le lacerò la parte bassa del petto incastrandosi tra le costole.

Haruya dovette fare forza con una gamba e dare uno strattone per liberare la lama. 

La polvere iniziò a mischiarsi con il sangue in una poltiglia bruna e collosa. 

Il rosso guardò compiaciuto il lavoro appena svolto, poi si rivolse all'amico:

-Avanti, ci sono molti insetti da eliminare-

Suzuno caricò la pistola che teneva al fianco.

Come molti dei loro commilitoni, si diedero al crimine.

La strada era deserta, nessuno osava uscire dalla propria casa.

Quando riuscivano a scorgere anche solo un volto, un'ombra, da una finestra, i due soldati sparavano.

Riuscirono a colpire alcuni civili innocenti, la cui colpa era stata solo di aver fatto capolino dal vetro per vedere se la strada era sicura.

-Avanti Haruya… facciamo sul serio-

-Una irruzione in qualche casa?- propose l'altro.

-Esattamente!- il malefico ghigno di Suzuno avrebbe fatto gelare il sangue anche al più coraggioso degli uomini. Loro non erano soldati, non combattevano per il loro paese, ma per il piacere di uccidere e quando non erano sul campo di battaglia trucidavano i civili.

Haruya si avvicinò all'ingresso di una palazzina di mattoni rossi in stile europeo, non era stata toccata dalla guerra, praticamente era intatta.

Con due calci ben assestati sfondò il portoncino in legno.

I due si divisero; il rosso, con il fucile in mano, salì le scale al piano superiore. 

Suzuno invece buttò giù una porta di un appartamento al piano terreno.

Delle grida disperate si sollevarono, ma furono prontamente smorzate da tre colpi di pistola in rapida successione. Uscì e raggiunse l'amico al piano successivo.

Un terzo ingresso venne forzato dalle gambe dei due soldati. 

Fecero irruzione nella casa.

 Il lungo vestibolo era in ordine, dei cappotti erano appesi agli attaccapanni a muro. Entrarono in una porta sulla sinistra, sul tavolo vi erano dei piatti di ceramica, Suzuno si avvicinò ad una stufa a gas sulla quale vi era un grosso tegame messo a cuocere. Non lo toccò ma percepì che era caldo, probabilmente chi era in casa si era nascosto quando aveva sentito le urla e gli spari.

-Fuori! Uscite dal vostro nascondiglio! Sappiamo che siete qui!- urlò Haruya.

Suzuno ripose la pistola nella fondina che teneva sulla pancia. In quanto sergente della kempeitai portava al fianco una lunga spada, molto simile ad una katana anche se non forgiata a mano da un artigiano esperto, ma dall'arsenale navale di Toyokawa, insieme ad altre migliaia di sue simili.

Afferrò l'impugnatura e la sguainò con un singolo e fluido gesto.

La lama fischiò trapassando l'aria.

Brandiva l'arma con una mano e iniziò a perlustrare l'abitazione, palmo per palmo.

Era una dimora di un certo livello, non mancavano di certo le comodità come la moderna cucina a gas, importata probabilmente dai coloni inglesi del luogo, quasi certamente i proprietari erano benestanti; forse commercianti o piccoli borghesi.

Il salotto, alla destra del vestibolo, era vuoto. Solo un vecchio divano e una poltrona, vicini ad un tavolino di legno sormontato da una radio.

-Da questa parte!- indicò Nagumo le ultime porte, tre in totale.

Si avvicinarono ed entrarono in due stanze differenti.

Il grigio era nella camera padronale, una stanza quadrata con un letto matrimoniale, un grosso armadio e uno specchio al muro, con le pareti tappezzate da una orribile carta da parati a fiori.

Si guardò intorno, fece qualche passo verso la finestra e la trovò chiusa.

Si avvicinò verso il letto, stava per abbassarsi quando un urlo, di una voce femminile proveniente dall'altra stanza, attirò la sua attenzione. Uscì e si riunì con il compagno che gongolava tenendo una ragazza di non più di sedici anni per i lunghi capelli neri.

Era cinese e stava piangendo e tremava di paura.

-Guarda chi ho trovato nascosta sotto al letto della sua cameretta…- cantilenò con un tono di scherno Haruya strattonando la ragazzina.

-Ci saranno anche i suoi genitori…- osservò l'altro.

-Venite fuori! Se non volete che vostra figlia faccia una brutta fine! Sappiamo che siete qui!- gridò il rosso. Quella situazione lo divertiva, gli sembrava una specie di nascondino, con la differenza che chi si nascondeva, non poteva salvarsi.

La prigioniera iniziò a urlare anche lei, nella sua lingua madre, sconosciuta agli aguzzini.

-Falla stare zitta, odio quando strillano- ordinò Suzuno.

Il rosso la spinse a terra e poi le afferrò nuovamente i capelli.

-Zitta!- tuonò guardandola negli occhi pieni di lacrime.

La porta della camera padronale cigolò e fecero capolino due figure, un uomo e una donna, a testa chinata.

Avevano circa quarant'anni, l'uomo indossava degli occhiali di corno ed era vestito con una camicia bianca e dei pantaloni grigi, la moglie vestiva con un abito rosso.

-Finalmente… pensavate di nascondervi? Suzuno a te l'onore-

Il grigio si avvicinò con la spada tra le mani.

La ragazza riprese il suo grido disperato quanto incomprensibile per i due soldati.

Improvvisamente l'uomo iniziò a parlare nella lingua dei due invasori.

-Fermi! Vi prego!-

-Parla la nostra lingua… da quando ci sono cinesi così colti?- lo schernì il rosso.

-Lavoro per una compagnia commerciale, sono stato nel vostro paese molte volte prima di tutto ciò- rispose l'uomo.

-Questi non ti rende una persona più importante… per la mia spada siete tutti uguali-

-Perché? Perché fate tutto questo!?-

-Per schiacciare i nemici del nostro imperatore, per la gloria della nostra nazione, per sopravvivere il forte deve eliminare il debole- rispose Suzuno.

-I civili e le persone disarmate per voi sono una minaccia? Cosa potrebbero mai fare donne e bambini innocenti?!-

-Oh, loro non sono pericolosi, sono solo un modo per divertirci- replicò il rosso. 

-Questi sono crimini, i vostri generali…- non riuscì a ultimare la frase che venne zittito da Nagumo:

-I nostri generali ne sono consapevoli… quasi tutti… e ci hanno lasciato ventiquattro ore di libertà, possiamo fare tutto ciò che vogliamo come ricompensa per la conquista-

La sua risposta inorridì l'uomo, era davanti a dei mostri. La moglie si strinse a lui.

-Un'ultima volontà?- chiese in modo inquisitorio il grigio.

-Risparmiate almeno mia figlia…-

Suzuno non rispose, levò la spada verso l'alto e vibrò il colpo tra la spalla e il collo della vittima. Il corpo cadde riverso in un lago del suo stesso sangue.

La moglie urlò, la figlia venne obbligata a guardare la scena in lacrime.

La spada, ancora insanguinata, venne passata all'amico che pose fine all'agonia della moglie. 

Dopo aver spezzato un'altra vita restituì l'arma.

-Cosa ne facciamo di lei? La uccidiamo come i genitori?- domandò il kempeitai.

-Avevo ben altri piani per lei…- rispose l'altro afferrando il volto in lacrime della ragazzina.

-Credo potremmo divertirci un po'... prima di riunire la famiglia- spiegò.

Suzuno sorrise maleficamente, aveva già capito, non servivano ulteriori chiarimenti.

La ragazza venne fatta alzare con la forza e portata nella sua stanza.

Suzuno e Haruya non furono gli unici sciacalli.

Come a Nanchino, Hong Kong non venne risparmiata dalle efferatezze dell'esercito nipponico che per giorni flagellarono la città caduta.

L’inverno del 1941 sarebbe stato lungo e rigido.


****

 

1) Guerra boshin: guerra civile che durò dal 1868 al 1869 e che vide contrapposti due schieramenti; i clan fedeli all’imperatore Meiji e i clan fedeli allo Shogunato Tokugawa. Fu un conflitto relativamente poco sanguinoso tanto da essere considerato quasi una rivoluzione “pacifica”.

Degno di nota in questa guerra fu la nascita dell’unica forma di repubblica dell’intera storia giapponese, la Repubblica di Ezo, che venne fondata dalle ultime sacche di resistenza leali allo Shogun sull’isola di Hokkaido. Tale breve ed effimera repubblica visse per circa 6 mesi; dal dicembre 1868 al giugno 1869.

 

2) Shogitai: erano un corpo d’elitè fedele allo shogunato. Erano stati incaricati di difendere il tempio di Kan’ei-ji presso Ueno. Nonostante la feroce resistenza, vennero quasi totalmente sterminati (circa trecento vittime) durante la battaglia dai clan imperiali, mentre il tempio venne raso al suolo dalla moderna artiglieria, dei clan Tosa e Saga, che sparavano colpi esplosivi. 

I restanti Shogitai cercarono di ritirarsi a nord per unirsi alla “Coalizione Settentrionale” o alla Repubblica di Ezo e continuare la guerra contro i clan imperiali.

 

Angolo d’autore…

Credo che questo sia uno dei capitoli più lunghi con 

poco meno di 6000 parole… devo forse ridurre la lunghezza?

Comunque sia ci siamo spostati dalla flotta giapponese,

il piano di fuga è riuscito, Hong Kong è caduta e sono

tornati i nostri cari Shirou, Yukimura e Haruna.

Temo che con l’andare avanti con la storia dovrò innalzare 

il rating a rosso… credo che la parte di Haruya e Suzuno non sia

molto conforme al rating arancione, dovrò farmene una ragione 

a riguardo…

Come sempre io spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto,

spero di riuscire ad aggiornare a presto e non come negli ultimi

tempi XD

Quindi un saluto,

 

_Eclipse

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14: America ***


Capitolo 14: America

 

27 dicembre 1941

Baia di San Francisco

 

Dopo una decina di giorni di viaggio, Mark e Atsuya giunsero nel Nuovo Mondo, gli Stati Uniti.

Il medico poteva tirare un sospiro di sollievo, per tutto il tempo non aveva fatto altro che guardarsi intorno sospettoso, con i nervi a fior di pelle.

Aveva il timore di poter essere scoperto, al punto che rivolse solo poche parole spicciole alla famiglia che viaggiava nella stessa cabina.

La nave attraccò nel porto e uno alla volta i passeggeri scesero con i loro pochi averi sulla banchina.

-Ora sei ufficialmente libero, nessuno può sapere che sei qui!- esordì Mark dando una pacca sulla spalla di Atsuya.

-E' ancora presto per dirlo- mormorò l'altro.

Passarono il controllo dei documenti da parte degli agenti della polizia all’ufficio della dogana.

Il lasciapassare fu considerato valido.

-Zhao Jie, quindi siete cinese- osservò il poliziotto mentre leggeva il passaporto falsificato.

-Sì, ovvio…-

-Eh non ve la passate bene! Cani giapponesi…-

-Oh no, tutt'altro che bene- rispose Atsuya, teso come una corda di violino.

-Ora ci siamo anche noi, vedrete che li schiacceremo!- l'agente restituì il passaporto e si lasciò andare una risata gracchiante, poi passò alcuni documenti al rosa.

-Il lasciapassare è chiaro, rifugiato di guerra e così sia, andate-

I due giovani, con il permesso del poliziotto si allontanarono a passo spedito.

-E ora?- chiese il medico.

-Non so-

-Siamo arrivati a San Francisco, ma non abbiamo un posto dove andare-

-Potremmo anche non fermarci qui-

-E dove vorresti andare?-

-Dalla mia famiglia, sono anni che non la vedo-

-Dove vive?-

-New York-

-E dove si trova di preciso?- domandò il giapponese.

-Non distante… solo dall'altra parte della del continente, sulla costa orientale-

-Ah, piuttosto lontano-

-Possiamo arrivarci via treno in qualche giorno-

-Arrivarci?-

-A meno che tu non voglia rimanere qui, in una città a sconosciuta a migliaia di chilometri da casa tua e… in un paese in guerra con il tuo- Mark sussurrò le ultime parole cercando di non farsi sentire.

Erano appena usciti dall'ufficio della guardia di frontiera, era già buio ma nonostante tutto le strade erano ancora gremite di gente.

San Francisco era più simile a Tokyo di quanto non pensasse.

Le palazzine in mattoni, i tram che percorrevano le strade in pendenza costeggiate dai lampioni che rischiaravano l’oscurità, sullo sfondo poteva ammirare il Golden Gate Bridge, illuminato, che aveva accolto la nave al suo arrivo nella baia.

-Allora? Abbiamo abbastanza denaro per un viaggio da costa a costa, il mio trasferimento era durato quattro giorni su un treno delle reclute-

-Se proprio insisti… e poi ricordo che i soldi che stai usando sono quelli che ho guadagnato in anni di onesto lavoro!-

Mark sorrise, prese il suo bagaglio e si incamminò verso la banchina del tram seguito a ruota dal rosa.

Non sapendo la direzione per la stazione e chiese indicazioni ad una signora in attesa. 

Avrebbero dovuto aspettare un po' prima che arrivasse il tram giusto, non troppo tempo in realtà.

Comprarono due biglietti a bordo e si sedettero nei primi posti liberi.

La lenta accelerata ricordava al medico di quando doveva prendere lo stesso mezzo, la "confezione di latta per gli sgombri" di colore giallo, per andare in centro e frequentare l'università, erano passati anni da allora, da quando passava intere giornate sui libri di scuola, da quando litigava con alcuni suoi compagni di corso, da quando aveva visto per l'ultima volta la sua famiglia.

Con tutto quello che era accaduto; l'attacco, il servizio in ospedale, l'arresto e la fuga, non aveva avuto molto tempo per pensare al fratello e Yukimura.

Non si sarebbe mai immaginato di vivere un'avventura come quella. 

Pensava che dopo l'università avrebbe aperto un proprio studio, conosciuto una bella ragazza da sposare e perché no, avere dei figli.

Ora si trovava dall'altra parte del mondo e si stava allontanando sempre di più. 

-Tutto bene?- gli chiese Mark notando quanto fosse assorto nei suoi pensieri.

-Sì, stavo solo pensando… sto realizzando solo ora tutto ciò che è accaduto nelle ultime settimane e di quanto ormai sia lontano da "Shangai"-

-Deve essere dura…-

L'altro sorrise:

-Spero solo che mio fratello stia bene e Yukimura non si cacci nei guai-

Nuovamente calò il silenzio, interrotto solo dalla fiumana di gente che saliva a bordo e scendeva dal vagone.

Mark teneva il conto delle fermate in modo da capire a quale scendere.

Arrivati a quella prestabilita, uscirono dal mezzo.

La stazione era proprio davanti a loro, uno stabile di colore bianco splendente, con due piccole torri ai lati e tre archi sulla parete frontale con gli ingressi.

Sopra l'arco centrale vi era una scritta nera, di metallo: "Southern Pacific".

la Southern era una delle maggiori compagnie ferroviarie, ed una delle poche in grado di fornire collegamenti da costa a costa.

Ironicamente, pur essendo nata per unire il Pacifico meridionale, si espanse fino a diventare una delle linee principali nelle grandi pianure.

Con il bagaglio in mano, i due entrarono.

L'ambiente era enorme, bianco come l'esterno, dall'alto pendeva un orologio e sparsi vi erano i tabelloni degli orari.

Si diressero verso la biglietteria, sulla sinistra; un insieme di semplici sportelli, dalle finestrelle sbarrate.

Dietro di essi vi era una giovane donna dai capelli biondi raccolti.

-Buongiorno, posso esservi di aiuto?- domando mostrando un sorriso smagliante.

-Salve, avremmo bisogno di raggiungere la East Coast, New York per la precisione- rispose Mark.

-New York? E quando dovete partire?-

-Il prima possibile-

-Allora vi chiedo di aspettare qualche istante-

La donna si alzò per andare a consultare un tabellone alle sue spalle con indicati orari e destinazioni dei vagoni della compagnia.

-Il primo treno disponibile è domani alle sette del mattino. Segue la tratta meridionale fino al capolinea a New Orleans per circa due giorni e mezzo di viaggio. Per arrivare a New York dovrete cambiare la compagnia e proseguire con essa-

-Va più che bene-

-Perfetto, in che classe desiderate i vostri posti?-

I due si guardarono indecisi sul da farsi.

-Ricorda che sono i miei soldi, ci terrei portarne un po' con me se mai dovessi tornare in patria- sussurró Atsuya.

-Non ti facevo così tirchio!- ribatté Mark dandogli un colpetto con il gomito.

-Ci faremo andare bene una terza classe- affermò rassegnato.

-Due biglietti di terza classe, ottimo-

Mark pagò quanto dovuto e la donna restituì due biglietti di carta su cui aveva scritto il giorno di imbarco, la tratta e poi sovrapposto il timbro della compagnia ferroviaria.

-Grazie e arrivederci da parte della Southern Pacific-

-Un'ultima domanda, se possibile- disse l'americano

-Certamente mi dica pure-

-Siamo appena arrivati in città, conosce un posto a buon prezzo dove potremmo stare per la notte?-

-Vi un ostello per i viaggiatori dall'altra parte della strada. Non è un albergo di lusso e da quanto so potreste dover condividere la camera, ma il prezzo è onesto-

-La ringrazio, arrivederla-

I due si congedarono e raggiunsero l'ostello designato.

Non ci avevano fatto caso all'arrivo, eppure vi era un piccolo edificio cubico tinto di giallo con delle finestre quadrate dagli infissi bianchi, che recava un cartello che ben indicava cosa fosse.

Era tutt'altro che grande, la stessa ricevitoria era una stanzina rettangolare dalle pareti verdastre e un pavimento in legno, alla quale si accedeva direttamente dall'ingresso.

In fondo il banco con un uomo anziano dai capelli grigi dietro di esso.

I due presero una stanza per la notte e l'uomo segnò la prenotazione su un grosso libro mastro.

-205, Secondo piano, quinta stanza sulla destra. Non ci sono molti clienti in questo periodo, la stanza è tutta vostra- indicò le scale affianco al banco, dando le chiavi ad Atsuya.

Ringraziarono e salirono al secondo piano.

Era un lungo corridoio rettangolare, piuttosto stretto, sulla destra vi erano gli ingressi delle camere.

Il quinto era quello più distante.

La camera effettivamente era più una camerata, con tre letti a castello in legno allineati, una finestra sbarrata dalle imposte e una plafoniera alla parete per illuminarla.

Il mobilio scarso, solo un armadio e il bagno era in comune con il piano.

-Poteva andare molto peggio- commentò Mark.

-Abbiamo percorso l'Oceano con una famiglia nella nostra cabina, sopravviveremo- rispose serafico Atsuya stendendosi su un letto per tastarne la comodità.

-E ora?-

-Aspettiamo e ammazziamo il tempo fino a domani-

-Non abbiamo molte altre scelte, è già sera… anzi potrei già andare a dormire-

-Sei così stanco?-

-No, ma domani dovremo svegliarci presto-

-Come vuoi, io cercherò un posto dove mangiare qualcosa, buonanotte-

Mark uscì dalla stanza, mentre il giapponese se ne andò direttamente nel letto, dopo aver caricato una sveglia su un piccolo mobile a cassettiera. Erano solo le ventuno, ma durante la traversata del Pacifico non era riuscito a chiudere occhio, era sempre nervoso della comparsa improvvisa di qualche agente nascosto sulla nave.

Non si levò neanche i vestiti, si infilò sotto le coperte e chiuse gli occhi.

Il mattino dopo, nel massimo della puntualità, quell'arnese armato di campanelli chiamata anche sveglia, suonò alle sei esatte.

Avevano circa un'ora prima della partenza, giusto il tempo di potersi rinfrescare e fare colazione, poi andarono diretti alla stazione e al binario in particolare.

Il treno che dovevano prendere era enorme, decine di carrozze trainate da una singola e lunga locomotiva di colore nero.

La terza classe non era la migliore per il confort ma certamente era la più economica.

I posti che avevano riservato erano due divanetti blu scuro, uno davanti all'altro, in un piccolo scomparto vicino al finestrino.

Quegli stessi sedili erano usati per dormire la notte dato che erano abbastanza lunghi per far stendere una persona, anche se non del tutto.

Gli interni del vagone erano tutti in legno chiaro che facevano risaltare ancor di più i due sedili.

I due giovani si sedettero uno di fronte all'altro.

Alle ore sette e dieci minuti, la locomotiva emise un lungo fischio acuto e il treno cominciò il suo lungo viaggio.

 

****

 

29 dicembre 1941

Baia di Tokyo

 

La portaerei Kaga era tornata ufficialmente in base insieme al resto della squadra.

Gettata l'ancora tutto il personale di bordo, dal più umile mozzo al più abile pilota, ebbe la possibilità di toccare terra dopo settimane di navigazione.

La nave sarebbe rimasta alla fonda solo per qualche giorno, il tempo per potersi rifornire di nafta, munizioni e viveri.

Con il sacco dei loro effetti personali, Hiroto e Ryuuji scesero sulla banchina.

Volevano raggiungere il grigio complesso della base di Yokosuka, la loro casa per quando erano a terra.

Oltrepassarono la rete metallica che separava il molo dalla base vera e propria.

-Amata terra, non ne potevo più delle onde!- esclamò Ryuuji mentre andava in direzione degli alloggi.

-Sai che staremo qui solo qualche giorno, vero?-

-E’ sempre meglio di nulla. Allora che farai? Andrai a trovare quella geisha di cui mi hai parlato tanto?-

-Passerò a farle un saluto, e tu?-

-Sono tentato di vedere se anche Haruya e Fuusuke sono in licenza… ma ho poche speranze a riguardo-

-Dov’è che dovrebbero essere? Cina come sempre?-

-Credo di sì, la loro unità è sempre stata schierata là-

Arrivarono entrambi nel dormitorio, era identico a l’ultima volta che l’avevano lasciato, con le brande di metallo e le pareti di cemento, e lasciarono i loro averi all’interno di alcuni armadietti.

-Hiro, amico mio… non vorrai presentarti così alla tua geisha- lo riprese Ryuuji con tono tagliente.

-Cosa vuoi dire?-

-Siamo scesi dalla Kaga con la tenuta da aviatore, per favore indossa almeno l’uniforme!-

-E poi che altro dovrei fare? Sfoggiare sul petto la sesta classe del Nibbio d’oro?(1) -

-Potrebbe essere una buona idea, sei abbattimenti in Cina ti sono valsi una medaglia-

-E’ un pezzo di latta-

-Veramente la tua dovrebbe essere in oro, sia la base che il nibbio, non certo un "pezzo di latta" come dici tu- commentò Ryuuji.

-E va bene, ho capito, mi cambio d’abito!- sbuffò il rosso compiacendo l’amico che si lasciò sfuggire una risata.

Riprese il sacco dall’armadio e si cambiò nel bagno.

Vestiva ora l’uniforme base della marina imperiale: un completo di pantaloni e giacca blu scuro con colletto alto, un cappotto a doppio petto che arrivava al ginocchio della medesima tonalità e dai bottoni dorati e infine un cappello con visiera, tuttavia si rifiutò di indossare la medaglia, troppo formale per l’occasione.

Si fermò davanti all'amico in attesa di un giudizio.

-Perfetto, ora sei un vero pilota della marina!- esclamò Ryuuji approvando il cambio d'abito.

-Mi sentirei più a mio agio in vesti civili…- bofonchiò l'altro.

-Ti ho sentito, ora vai, non staremo qui tutto il tempo del mondo, in quelle acque abbiamo una guerra da vincere!-

Il rosso sospirò e si congedò dall'amico.

Doveva essere di ritorno per la sera o sarebbe stato sanzionato dai superiori, il tragitto era piuttosto lungo: da Yokosuka alla periferia di Tokyo, per fortuna il tram arrivava fino al centro della capitale.

Dopo numerose visite, Hiroto, si ricordava bene del quartiere in cui lavorava Shirou: un insieme di vie costellate da case e locali dai tetti in ardesia, ben differenti dai palazzi nel cuore della città, era un luogo che riusciva a fondere l'antico e austero Giappone feudale, con il nuovo, aggressivo ed evoluto Impero nipponico.

Hiroto scese dal tram, il cielo era coperto da nubi, faceva più freddo del previsto, il respiro si trasformava in vapore e sentiva che le proprie mani stavano congelando.

Si mosse rapidamente verso l'abitazione della geisha.

La strada era innevata e non vi erano molti passanti a causa del tempo.

Vide una coppia di kempeitai, avvolti in un lungo cappotto di lana marrone,  recante sul braccio la fascia distintiva, che riconoscendo l’uniforme del pilota lo salutarono portando la mano alla fronte.

Hiroto ricambiò frettolosamente il saluto senza fermarsi, aveva ben altro da fare che curarsi degli agenti della kempeitai o tokkou di pattuglia.

Continuò fino ad arrivare al portone in legno di Fubuki.

Era socchiuso e poteva vedere la sagoma di una persona, decise quindi di entrare.

Il cigolio dei cardini attirò l’attenzione della persona nel cortile.

-Salve!- esclamò.

-Buon pomeriggio…- rispose il rosso non capendo chi avesse davanti a sé.

La figura era imbacuccata per tenersi al caldo, cappotto, una sciarpa che copriva il volto  fino al naso e un berretto per la testa.

In mano teneva una pala e stava spostando la neve dal sentiero di ciottoli del cortile.

Il ragazzo si tolse il cappello e abbassò la sciarpa per farsi riconoscere.

-Siete voi, il pilota se non sbaglio-

-Sì a meno che non vi siano altri piloti tra i clienti-

-Non direi, per Shirou siete l’unico o per lo meno l’unico abituale. Temo che non mi abbiate riconosciuto… sono Yukimura-

-Oh sì, so chi siete, l’aiutante-

-Diciamo che mi occupo della casa, commissioni, accoglienza dei clienti e cose di questo tipo, ma non credo che siate qui per me!- sorrise il più piccolo per poi riprendere subito il discorso:

-Se siete venuto per incontrare Shirou, devo dirvi che non è qui, deve incontrarsi con delle geisha dell’okiya Kira per un evento abbastanza importante, ma se è di vostro gradimento posso riferire del vostro passaggio e forse organizzare un incontro-

Hiroto non rispose, si prese qualche secondo per pensare, non aveva molto tempo prima di ripartire e Shirou era impegnato con qualcosa di grosso.

-No, resterò solo qualche giorno e non voglio essere di disturbo, ma vorrei che sappia del mio passaggio e che conservo “Aki no kaze” con grande cura. Vi auguro una buona giornata- si congedò con un inchino.

Yukimura ebbe appena il tempo di ricambiare il saluto che il rosso era sparito.

Deluso e amareggiato tornò in caserma.

Ryuuji lo avrebbe rimproverato sicuramente, ma non voleva insistere, forse anche se avesse aspettato il ritorno di Shirou anche solo per un saluto, non avrebbe avuto la possibilità di tornare in orario.

Con la mente annebbiata dai pensieri, si fermò per fare un respiro profondo.

Sarebbe passato molto tempo, ma sarebbe tornato anche a costo di aspettare la fine della guerra.

Dopo essersi calmato ritornò sui suoi passi verso il tram per la base di Yokosuka.


****

 

31 dicembre 1941

New York

 

Viaggiare per treno era stato più scomodo del previsto.

Quasi tre giorni passati ad annoiarsi guardando dal vetro il paesaggio mutare all’esterno, dalla città di San Francisco ai deserti del sud, le vaste pianure degli stati centrali e poi scorgere in lontananza gli alberi delle paludi del Bayou a New Orleans e poi rapidamente prendere la coincidenza della compagnia convenzionata con la Southern Pacific.

La seconda tratta non fu più entusiasmante della prima, ma almeno era più breve, un giorno e mezzo  intervallato da alcune soste per rifornirsi di carbone.

La locomotiva si fermò al Grand Central Terminal, a Midtown Manhattan, sbuffando fumo e vapore.

I due ragazzi presero quel poco che avevano con loro e scesero dal vagone.

La banchina del binario era affollata come non mai: persone in attesa di amici e parenti in arrivo, passeggeri di altre linee che sbarcavano e viaggiatori che al contrario salivano a bordo.

-Benvenuto a New York!- esclamò Mark dopo che Atsuya mise piede fuori dal vagone.

-Non pensavo ci fosse così tanta gente a quest’ora!- rispose l’altra cercando di seguire il biondo facendosi strada nella mischia.

-E’ la vigilia di Capodanno, chi aveva l’occasione di tornare, l’ha colta per divertirsi-

I due attraversarono la stazione per intero, una delle più grandi al mondo, con decine di binari e scambi e centinaia di passanti ad ogni ora del giorno.

L’atrio principale era riccamente decorato da sculture di foglie di quercia, enormi finestre con inferriate, nel mezzo vi era il banco delle informazioni: un chiosco circolare in marmo e vetro, sormontato da un inusuale orologio sferico con quattro quadranti.

L’unica nota negativa era l’altissimo soffitto: doveva essere tinto di un brillante azzurro o turchese, ma era completamente sbiadito, crepato e coperto da una patina grigiastra e che dava alla stazione un aspetto più trascurato di quello che era.

 Atsuya era rimasto ad ammirare l’atrio per diverso tempo, era una sala maestosa, messa a confronto la stazione di San Francisco era una fermata di campagna.

-Non è il momento di fare il turista- disse con tono scherzoso l’americano.

-Di che ti preoccupi? Siamo arrivati…-

-In realtà non abbiamo ancora finito, dobbiamo prendere un taxi per Long Island-

-Ed è lontano?-

-Non troppo, ma voglio fare una sorpresa alla mia famiglia-

Uscirono dalla stazione e si trovarono subito davanti all’enorme strada.

Faceva molto più freddo rispetto a San Francisco e, ovviamente, alle Hawaii. Il cielo era sereno ma privo di stelle, era rischiarato dalle miriadi di luci della Grande Mela, dai lampioni agli enormi grattacieli di Manhattan.

Atsuya era rimasto letteralmente a bocca aperta: il Giappone poteva solo sognare una città di quel genere.

Poco distante, si ergeva la monolitica sagoma del Hemsley Building, con tutte le sue piccole finestre quadrate e il tetto piramidale di colore verde sormontato da una piccola cupola, il tutto ovviamente illuminato da centinaia di lampadine.

Il medico si voltò poi verso il viadotto che passava sopra la sua testa,  e vide un altro palazzo più basso, ma comunque maestoso ai suoi occhi, all’apparenza costruito in mattoni che si innalzava davanti a lui.

-E voi a New York vivete dentro case come quelle?- domandò meravigliato il nipponico.

-Certo che no, solo Manhattan ha tutti questi edifici, gli altri quartieri sono più tradizionali-

-Per me è incredibile anche solo pensare che ci siano palazzi del genere!-

-Io preferisco una casetta isolata, come ad Oahu, gli appartamenti da queste parti sono costosi e scomodi, piccoli e con decine di condomini, non si può star tranquilli… a meno che uno non sia ricco e si possa permettere un attico, in quel caso sarebbe l’equivalente di una villa. Comunque, caro signor turista, ti stupisci di questi blocchi di cemento da quattro soldi e non hai fatto caso a quello!- esclamò Mark indicando la guglia lucente di uno dei grattacieli in prossimità della stazione: il Chrysler Building.

Elegante, alto, brillante, con i suoi settantasette piani, le sculture delle aquile e la guglia in acciaio inossidabile era di certo il simbolo dell’opulenza americana e della città stessa.

-E’ enorme! Quanto tempo e uomini sono serviti per costruirlo!?-

-Non so quanti operai hanno lavorato al progetto ma è stato costruito in un anno e non molto tempo fa, ne saranno passati solo nove o dieci dall’inizio dei lavori- Mark avvistò un taxi e con un cenno gli indicò di fermarsi.

-Non è possibile, meno di un anno…- commentò il rosa.

-Eppure è la verità, ma non è l’edificio più alto,  poco dopo il suo completamento, venne ultimato l’Empire State, ben più grande-

L’auto accostò davanti a loro, completamente gialla con un’insegna sul tettuccio e caratterizzata dalle forme rotondeggianti del cofano e dei parafanghi.

Entrambi salirono a bordo, Mark diede l’indirizzo e partirono a tutta velocità.

Il traffico era impressionante, Atsuya non aveva mai visto così tante auto in circolazione, nemmeno a Oahu, e le strade stesse erano molto più larghe per consentire il transito di tutti i mezzi.

Si stavano allontanando dal Manhattan, in lontananza i due potevano scorgere la guglia dell’Empire State Building che dominava la metropoli.

Il viaggio fu più lungo di quello che pensasse, si erano dovuti allontanare parecchio e la città stessa era mutata, dai grattacieli alle piccole palazzine fino ad arrivare poco fuori dal Queens, in un quartiere di ville e magioni.

L’auto si soffermò davanti ad un cancello argentato. Mark pagò il tassista promettendo al giapponese di restituirgli quanto aveva speso.

-Eccoci arrivati e direi ancora in tempo, prima dell’arrivo degli invitati-

-Invitati?-

-Per il Capodanno, la mia famiglia è solita organizzare una festa per celebrarlo-

-Non mi hai mai parlato della tua famiglia-

-Perché non ne ce n’era bisogno- il ragazzo si avvicinò al cancello e suonò il campanello.

-Beh, devo immaginarmi che sia gente altolocata se vivono in quartiere del genere…- disse il medico mentre osservava la casa dalle sbarre del cancello, pareva piuttosto imponente.

-Non direi altolocata, più semplicemente benestante…- rispose con imbarazzo l’americano.

Dal cortile fece capolino la figura di una signora vestita di nero con un una cuffia di pizzo bianca sulla testa. Era una donna adulta di circa quarant’anni con una torcia per rischiarare il vialetto.

-Sia chiaro, andatevene via! Non vogliamo scocciatori questa sera! Andate a tormentare qualche altra famiglia!- urlò a squarciagola.

-Credo che non siamo i benvenuti…- mormorò Atsuya.

-E se fossi una persona che non vedi da molto tempo, Brigit?- rispose Mark.

La signora si avvicinò al cancello ed esclamò:

-Oh siete voi! Grazie al cielo state bene signor Mark! La vostra famiglia era in pensiero per voi! Entrate, prego!-

La donna aprì il cancello facendo strada nel cortile.

-Pensavo foste dei giornalisti, ronzano sempre da queste parti a Capodanno, vogliono fotografare le feste di questo quartiere e chi vi partecipa… ma se mi è permesso, chi è il giovane con voi, signor Mark?-

-Non preoccuparti, non è un giornalista è un mio amico che ho deciso di invitare come ospite, piuttosto, non siamo in ritardo per la festa, vero?-

-Certo che no, non sono nemmeno le diciannove, gli invitati arriveranno tra non meno di un’ora-

Arrivati all’ingresso, Atsuya capì che la famiglia di Mark era forse un po’ più che benestante.

L’abitazione era santuario in onore dell’Art Déco, l’esterno era sobrio ma elegante, una facciata bianco avorio, ma con ampie finestre e un bordo in rilievo a motivi floreali tracciava il confine tra il pianterreno e quello superiore, il cortile era un grande giardino con cespugli verdi privi di fiori e un viale piastrellato che conduceva dal cancello all’uscio.

Per quanto la facciata fosse semplice, la forma dell’abitazione non lo era affatto: ai lati dell’ingresso vi erano due finestre in particolare, o meglio due bovindi(2), completamente in vetro alti quanto tutta la parete.

Al di sopra si poteva notare una terrazza e posteriormente il primo piano e probabilmente ve ne era anche un secondo ma Atsuya non riusciva a scorgerlo dal basso.

La donna aprì la l’uscio per farli accomodare, il giapponese venne travolto dalla luce proveniente dall’atrio, una grande sala rettangolare con due scale principali. Le pareti erano tinte in color avorio e attraversate da linee per formare dei rombi turchesi riccamente decorati all’interno da inserti del medesimo colore quali triangoli o segmenti che li dividevano in parti uguali.

La pavimentazione era anch’essa inusuale, piastrelle chiare che si incastravano in intricati motivi geometrici. Dal soffitto pendeva un lampadario formato da decine di pendagli di vetro tubulari, che illuminava tutto l’atrio.

-Certo che vivi in un posto molto strano…- mormorò il medico cercando di non farsi sentire dalla domestica.

-Questo stile andava molto di moda, fino ad un decennio fa- rispose l’altro.

Dalla scalinata dal corrimano d’ottone davanti ai due ragazzi, comparve una seconda donna, alta ed elegante quanto Marlene Dietrich, vestita con un lungo vestito da sera blu notte, i capelli nascosti da un turbante verde scuro, aveva sicuramente più di cinquant’anni e il volto era segnato da alcune rughe, anche se lo sguardo veniva distolto dal trucco sapientemente usato e dai gioielli che indossava come una ricca collana argentata con dei piccoli pendagli di brillanti.

-Brigit, non saranno per caso già arrivati i nostri ospiti… - la dama si fermò a metà della scala, sgranò gli occhi mentre con la mano destra, coperta da un guanto di seta, si coprì le labbra per nascondere l’espressione di sorpresa:

-Mark! Non sai che gran sollievo vederti qui a casa! Io e tuo padre eravamo così preoccupati, non abbiamo ricevuto tue notizie da quel giorno, tuo padre sarà sicuramente felice di sapere che stai bene e anche tua sorella e tuo fratello maggiore, peccato che solo che non sia in città! Brigit, per cortesia chiamate subito mio marito, deve sapere subito del ritorno del nostro Mark!-

La signora corse ad abbracciare il figlio, Atsuya potè notare quanto fosse sollevata nel vedere che stava bene.

-Avresti potuto scrivere una lettera, almeno per avvertire del tuo ritorno!-

-Volevo farvi una sorpresa… purtroppo non sono riuscito a tornare prima di Natale- ribatté il figlio facendo sorridere il rosa che stava dietro di lui.

Il padrone di casa, il signore Krueger arrivò quasi di corsa, era un uomo non troppo alto, un po’ in sovrappeso, dai capelli ormai grigi. Portava degli occhiali pince-nez che contornavano gli occhi marroni ed indossava un frac scuro per l’occasione.

-Che piacere vederti qui in salute, mi hai tolto un gran peso dal cuore, tua madre io eravamo veramente…-

-Molto preoccupati- lo precedette il figlio per poi continuare: 

-Vorrei presentarvi un mio amico, il dottor Zhao Jie, probabilmente non sarei qui se non fosse stato per lui. Mi farebbe piacere se potesse stare da noi per un po’ di tempo-

La richiesta inaspettato del giovane lasciò abbastanza sorpreso il padre.

-Spero non sia un problema- aggiunse il biondo.

-No, certo che no, è solo una richiesta inaspettata, non avrei mai immaginato un tuo ritorno, soprattutto con un ospite…  ad ogni modo non mi sono presentato, Richard Krueger, lei è mia moglie Olivia-

-E’ un grande onore conoscervi signori- rispose Atsuya stringendo la mano all’uomo.

-Credo abbiate molte cose da raccontare, ma a breve arriveranno i nostri ospiti per festeggiare la fine dell’anno e dobbiamo anche aggiungere due posti in più a tavola…- disse il signor Kruger.

-Capisco, mi occupo io di mostrare la stanza degli ospiti a Zhao-

Con un cenno di assenso i padroni di casa si allontanarono.

Le camere erano al piano superiore, quattro in totale, divise equamente nell’ala destra e sinistra del piano.

Atsuya venne accompagnato fino all’ingresso della sua stanza. Questa era in perfetta linea con l’esagerato stile Art Déco, le pareti erano di colore blu scuro decorate con dei motivi a foglia di palma dorati  e un pavimento in parquet a spina di pesce.

Alla parete di destra vi era un grande letto dalle lenzuola bianche e dalla parte opposta una cassettiera con un grande specchio.

-Questa era la stanza di mio fratello maggiore, ma da quando se ne è andato è diventata la stanza degli ospiti. Anche se non viene utilizzata spesso, è sempre pronta per accogliere ospiti. Se vuoi darti una rinfrescata, dalla porta a sinistra puoi accedere al bagno, su questo piano ne abbiamo due e ognuno è in comune con due camere. La biancheria da bagno pulita la puoi trovare nell’armadio- spiegò l’americano.

-Detto così sembra di essere in un albergo di alta classe!- esclamò Atusya.

-Più o meno… la mia famiglia ci tiene a fare una bella impressione con tutti, ah non preoccuparti per il cambio d’abito, ti faccio trovare qualcosa… qui in camera, anche se dovremo prima o poi rimediare a questa mancanza. Ci incontriamo al piano di sotto dove vi è l’ingresso- 

Mark uscì dalla stanza chiudendo la porta.

Il ragazzo si guardò intorno, lo stile della stanza non gli si addiceva, preferiva un ambiente più sobrio senza tutti quei fronzoli.

Si affacciò alla finestra, da lì poteva vedere il primo piano dalla forma a ferro di cavallo, nel cui centro vi era una piscina rotonda.

Il bagno era alla francese, di gran lunga più semplice rivestito di piastrelle bianche che tuttavia gli ricordavano l’ospedale ad Oahu.

Come consigliato, si fece una doccia, ormai erano passati tre giorni dall’ultima volta che aveva potuto usare acqua e sapone.

Una volta finito tornò nella camera, avvolto nell’asciugamano per coprirsi.

Trovò ben piegato sul letto tutto il necessario per la serata: giacca, pantaloni con bretelle, panciotto e farfallino neri, camicia bianca con gemelli ed anche un paio di scarpe di vernice, poco più grandi delle sue, abbinate al resto del completo.

Non si era mai dovuto vestire così elegantemente, tanto che ci volle più tempo del previsto per indossare tutto quanto, chiudere i polsini della camicia con i gemelli, sistemare il farfallino affinché non pendesse di lato e cercare di pettinare i propri capelli che erano tutt’altro che noti per essere ordinati.

Si guardò nello specchio della camera, aveva un aspetto decisamente più curato del solito.

Raggiunse Mark nell’atrio dell’ingresso. Stava aspettando nei pressi delle scale.

Come suo padre indossava un elegantissimo frac nero dalla giacca a coda di rondine e completo con un farfallino bianco.

-Che classe! Di norma ad un evento del genere bisognerebbe indossare una “cravatta bianca”, peccato solo che non ho un altro completo da prestarti, ma ammetto che lo smoking non sfigura affatto su di te- esordì con un sorriso.

-E’ la prima volta che ne indosso uno, da dove vengo io le vesti eleganti sono di tutt’altro tipo!-

-Beh direi che non sarebbe il caso presentarsi questa sera con in vesti tradizionali “cinesi” attireresti troppo l’attenzione. Ora che sei pronto direi di raggiungere la gli altri invitati, saranno sicuramente nella sala da ricevimento-

-Sala da ricevimento? Non è forse esagerato avere un’intera sala solo per le feste?- domandò Atsuya sempre più sorpreso dalla ricchezza della famiglia Krueger.

-In realtà è la sala da pranzo, ma in occasione di eventi speciali viene sgomberata del mobilio inutile. Ad ogni modo, ricordati che non devi essere Atsuya, ma il dottor Zhao Jie da Shangai. Tienilo ben a mente- si raccomandò Mark, pronunciando le ultime parole sottovoce per non farsi udire da nessuno, nonostante fossero i soli nel corridoio.

-Non preoccuparti, ci tengo alla mia persona e… alla mia incolumità- 

I due raggiunsero l’ala della casa designata ai festeggiamenti.

Una porta in vetro dagli infissi di legno tinti di bianco conduceva alla sala da pranzo.

Era più piccola di quello che si immaginava il giapponese, anche se era comunque una stanza di dimensioni importanti che si sviluppava più in lunghezza che in larghezza.

Le pareti erano di un color verde tenue privo di tutte le decorazioni che caratterizzavano i muri della casa, anche il pavimento era più sobrio, rivestito di piastrelle bianche.

Nel mezzo dell’ambiente erano stati disposti dei tavoli coperti da tovaglie candide e sopra di essi, in mostra come dei trofei, una serie di pietanze da far venir l’acquolina in bocca a chiunque le guardasse: carne, pesce, verdure e su un tavolo più distante vi erano numerosi calici, coppe e diverse bottiglie di vino. In un angolo della stanza vi era un giradischi che riproduceva vinili delle migliori “big band” del momento, da Glenn Miller a Benny Goodman, rendendo l’aria della festa frizzante e colorata.

Gli invitati erano circa una ventina, la maggior parte di loro erano coppie con i relativi consorti. Le loro vesti eleganti rendevano chiaro il loro livello della scala sociale, le donne in particolare agghindate con bracciali e collane splendenti.

-E tutti loro chi sono?- chiese Atsuya con imbarazzo alla vista di tutti gli altri ospiti, si sentiva fuori luogo in mezzo a loro, in parte perché era l’unico asiatico.

-Amici di famiglia, soci o investitori di mio padre- replicò l’altro dirigendosi verso uno dei tavoli seguito dall’amico.

-Persone molto influenti suppongo-

-Nessuno di loro è un Rockfeller-

-Non sembrerebbe a prima vista… te lo chiedo di nuovo, di cosa si occupa tuo padre?- domandò per la seconda volta in modo più insistente il giapponese.

-E’ nel settore dell’industria alimentare, la mia famiglia è stata piuttosto fortunata… ha fatto affari d’oro con la Grande Guerra inviando rifornimento in Europa e successivamente ha avuto la fortuna di continuare a produrre e vendere durante la Crisi- mentre parlava, Mark, prese un piatto di porcellana e iniziò a scorrere lo sguardo sulle delizie davanti a sé indeciso su cosa prendere.

-Ora si spiegano molte cose-

-Sono piuttosto indeciso, l’arrosto di maiale sembra squisito, ma anche il salmone ha un aspetto decisamente invitante!-

-Non credo vi sia nulla di male nell’assaggiarli entrambi- Atsuya si portò una mano alla bocca per coprire il sorriso che gli era sfuggito nel vedere l’amico in quella situazione.

-Certo che no, vi sono piatti in abbondanza, a nessuno dispiacerà! Sono così contento di essere tornato a casa e poter mangiare bene nuovamente! I pasti della marina sono tutt’altro che commestibili…-

Mentre scherzavano davanti al buffet, una ragazza poco più giovane di loro con un urlo di gioia:

-Oh Mark! Sei tornato!- si avvicinò al biondo e lo strinse in un abbraccio proprio sotto lo sguardo sorpreso di Atsuya.

-Per favore Daisy, sii più educata ed evita di renderti protagonista di certe sceneggiate- la rimproverò la signora Krueger che l’aveva seguita.

-Cosa avrei dovuto fare? Sono passati due anni dall’ultima volta che l’ho visto!- 

-Anche io sono felice di rivederti ma preferirei se potessi lasciarmi- replicò con tono quasi implorante stretto ancora nelle spire dell’abbraccio.

-Non ci si può mai divertire con te! E chi è il bel ragazzo al tuo fianco?-

-Daisy lui è il dottor Zhao Jie, un mio caro amico, Zhao lei è mia sorella Daisy-

-Daisy? Come Daisy Buchanan de Il grande Gatsby?-

-Non pensavo conosceste i romanzi di Scott Fitgerald, dottor Zhao, sono noti anche in Cina?- si intromise curiosa ed interessata la signora Krueger.

-Certo che sì, molti... libri sono tradotti in cinese…- esitò, mentendo, il medico, Il grande Gatsby era stata una delle numerose letture nei giorni tranquilli ad Oahu.

-Pensate che Fitzgerald trascorse parte della sua vita non lontano da qui, anzi si dice che i quartieri di East e West Egg(3) siano ispirati a dove siamo ora- aggiunse la signora con un pizzico di eccitazione nella voce.

-Con tutto il rispetto madre, credo che al nostro ospite non interessi la vita di uno scrittore ormai defunto- irruppe Daisy.

-Non ti ho insegnato ad essere così irriverente, ti pregherei di fare attenzione a come ti esprimi, soprattutto ad un evento importante come questa sera! Chiedo scusa per il comportamento di mia figlia e spero che vi possiate divertire dottor Zhao, purtroppo la mia presenza è richiesta altrove- si scusò la signora Krueger la cui attenzione era attirata dal marito poco distante che le faceva cenno di avvicinarsi, probabilmente per essere presentata alla coppia di ospiti con cui stava amabilmente conversando.

-Dottor Zhao… ebbene come avete conosciuto mio fratello?- 

-Ah… è difficile da spiegare…-

-Diciamo che è una storia molto lunga e non vuole annoiarti- lo salvò Mark.

-Allora spero che per non farmi annoiare, voglia almeno concedermi il piacere di bere un calice di vino in compagnia-

-Lo conosci da cinque minuti e già ci provi con lui!- scherzò il fratello.

-Voglio solo fare amicizia e conoscere questo grande ospite che hai portato come un souvenir dalle Hawaii! Se non vuole seguirmi allora berrò...-

-Oh no, sarebbe un vero piacere- la interruppe Atsuya.

La ragazza sorrise compiaciuta:
-Allora da questa parte, dottore- aggiunse.

-Vi prego chiamate solo Zhao-

-E io vi prego di darci del tu, cosa gradisci? Abbiamo una selezione di vini dall’Europa, merce ormai rara-

-Veramente non saprei, ho bevuto del vino solo in pochissime occasioni- ammise il medico.

-Per quanto mi piaccia, non sono un’esperta, quindi signor cameriere due coppe della migliore bottiglia che ha!- ordinò al giovane dietro al tavolo che prontamente servì quanto richiesto.

Atsuya prese la sua coppa: rotonda, bassa, con un lungo stelo di vetro e riempita quasi fino all’orlo di un vino bianco e frizzante, dall’odore dolciastro.

-Zhao, non ci rimane che brindare, a questa festa, mio fratello che è tornato a casa sano e salvo… si potrebbe brindare anche a te che sei qui come ospite speciale-

-Ospite speciale? Non pensavo di essere tenuto in così grande considerazione- 

-Se Mark ti ha portato fin qui, deve esserci un buon motivo, no?-

-Forse…-

-Non essere modesto! Alla salute!- 

Atsuya alzò la coppa per il brindisi e la portò alle sue labbra lasciandosi inebriare dal dolce sapore del vino.

Daisy era una ragazza affascinante dai capelli biondi e occhi come quelli del fratello, tagliati a caschetto, vestita con un abito beige adornato di frange e lustrini che arrivava alle ginocchia. Dava l’apparenza di essere un lontano ricordo, una reliquia dei “Ruggenti anni ‘20” come lo era anche la casa in pieno stile Art Déco e in qualche modo anche la sua famiglia. 

La sua figura spiccava tra tutti gli invitati, una flapper(4) in tutto e per tutto, dall’abbigliamento al carattere irriverente, mondano e forte, così diversa da tutte le altre donne americane dopo la Grande Depressione abbandonarono il lusso e la stravaganza, ripudiati fortemente dalla società, per il rigore e la sobrietà.

Parlarono a lungo sorseggiando champagne estraniandosi dalla folla di facoltosi ospiti della famiglia Krueger. Loro erano gli estranei, un giapponese e una flapper in mezzo ad una ventina di smoking neri e abiti da sera privi di personalità.

-Per quanto tempo rimarrai qui?- domandò la ragazza.

-Non so, dipende da quanto tempo vorrete ospitarmi!-

-In questo caso, se la decisione stesse a Mark, staresti qui in eterno!-

-Non vorrei essere inappropriato, ma desidererei tornare a casa un giorno…- mormorò sconsolato.

-Deve essere dura essere lontano da casa-

-Soprattutto quando c’è una guerra in corso-

-Da quale parte della Cina provieni?-

-Shangai-

-Sai, hai un accento strano, diverso da quello degli abitanti del quartiere cinese a New York…-

In quell’istante Atsuya sussultò. Fino ad allora nessuno aveva prestato attenzione al suo accento nipponico, probabilmente perché quasi nessuno aveva mai parlato con un vero cinese, al contrario di Daisy.

-Forse è perché la Cina è un paese molto grande- continuò la ragazza.

-Forse è così anche per l’America- aggiunse Atsuya nervoso, cercando di giustificare la sua parlata.

-Ovviamente, ogni stato ha un modo di parlare differente, a volte cambia anche da città a città-

-Zhao, Daisy, venite è quasi mezzanotte, non vorrete perdervi i fuochi d’artificio!- esordì Mark di ritorno, dopo una lunga e noiosa serata passata a rispondere alle infite domande su Pearl Habour da parte di alcuni invitati.

La maggior parte dei presenti si era spostata all’esterno, vicino alla piscina nel cortile centrale.

Il gruppetto di ragazzi arrivò appena in tempo per lo spettacolo.

Con lo scoccare della mezzanotte, il cielo scuro si riempi di scie ed esplosioni colorate, con grande stupore e meraviglia di Atsuya.

Lampi e scintille rosse, verdi, gialle e blu, l’ultimo saluto ad un anno che portò la guerra ad un nuovo livello: mondiale.


****
 

 

1) Sesta classe del Nibbio d’oro: onorificenza militare giapponese, conferita per meriti speciali. L’ordine consisteva in sette classe, in ordine di importanza, la sesta era riservata ai soldati e sottufficiali.

 

2) Bovindi: tipologia di finestra in cui ante e infissi seguono un percorso ad arco orizzontale, la parola deriva dalla contrazione dei termini inglesi “bow window”.

 

3) East e West Egg: quartieri fittizi presenti ne Il grande Gatsby che pare siano ispirati alla Gold Coast di Long Island, a trenta chilometri dalla città di New York.

 

4) Flapper: la generazione di donne dei Ruggenti Anni ‘20, riconoscibili per il loro stile come capelli corti, abiti corti (un abito all’altezza del ginocchio era già considerato corto) e trucco eccessivo, per ballare il charleston, ascoltare la musica jazz e perché violavano le norme morali dell’epoca (bere alcolici, fumare, guidare un’automobile e una vita sentimentale più libera e indipendente) proponendo una immagine della donna più emancipata. Con l’avvento della Grande Depressione la figura delle flapper scomparvero in quanto considerate inadeguate con la società post-crisi. Figure simili erano presenti anche in Francia (garçonnes), Germania (neue Frauen) e curiosamente anche in Giappone (modern girls, abbrevviato anche come moga) anche se in quest’ultimo caso, la figura delle moga venne soppressa con l’avvento della società ultranazionalista e militarista nipponica degli anni ‘30 poiché considerata come simbolo dell’occidentalizzazione. Venne quindi favorito un ritorno all’immagine precedente della donna definita come “buona moglie e saggia madre”.


Angolo d’autore...

Mi sono nuovamente fatto attendere e desiderare xD

Questo capitolo mi ha fatto dannare e l’ho riscritto più e più

volte tuttavia non capivo il perché non andasse bene…

poi l’ho capito l’errore… mi ero dimenticato di Atsuya e Mark 

nella traversata del Pacifico e ho dovuto cestinare tutte le idee 

e riscrivere da capo tutto quanto!

Il lato positivo è che il lavoro non è stato sprecato e posso riutilizzarlo

più avanti nei prossimi capitoli.

Non c’è molto da dire qui se non che i protagonisti sono i due fuggiaschi

e il loro arrivo nel nuovo mondo, interrotto da un piccolo stralcio del ritorno

di Hiroto. 

Mi auguro come sempre che la storia sia di vostro interesse, 

ormai è passato più di un anno da quando ho iniziato a scrivere e i 

capitoli si sono fatti sempre più corposi e lunghi con l’andare

avanti della storia. Ho iniziato anche un primo lavoro di revisione

dei primi capitoli in modo da migliorare ciò che si può migliorare

e riscrivere le parti peggiori (e mi sono accorto che ve ne sono molte).

Con questo, direi che mi sono dilungato abbastanza, 

al prossimo capitolo!

Un saluto

 

_Eclipse

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Capitolo 15
*** Capitolo 15: Dovere ***


Capitolo 15: Dovere

 

20 gennaio 1942

Mar Cinese Meridionale

 

L'invasione giapponese della Malesia britannica, si stava rivelando un brillante successo.

Uomini e carri armati avanzavano lungo la penisola con l'obiettivo di raggiungere la fortezza di Singapore.

L'offensiva nipponica poteva continuare solo grazie ai convogli di rifornimento provenienti dall'arcipelago o dall'Indocina, questo lo sapeva bene il capitano Valtinas. Aveva prestato servizio per breve tempo nella Mediterrean Fleet, il ramo operante nell’omonimo mare della Royal Navy, che guerreggiava ormai da anni con la Regia Marina italiana per la supremazia del mare e tutelare i carichi di rifornimenti diretti alle forze in Africa, senza che nessuna delle due fosse riuscita a infliggere all'altra una sconfitta decisiva in modo da poter ribaltare la situazione.

Il capitano aveva preso l'iniziativa: poiché la East Indies Fleet era priva di sommergibili, chiese e ottenne il permesso di formare una piccola squadra di cacciatorpedinieri per attaccare i navigli giapponesi facendo perdere loro quanto più materiale possibile.

Tre navi in totale, che navigavano in fila una dietro l’altra, tutte piuttosto obsolete. La stessa classe Tribal condotta da Hong Kong a Singapore era stata ceduta alla marina australiana come previsto dagli accordi.

Gli scafi erano completamente tinti di bianco, come anche le sovrastrutture, i cannoni e i loro scudi, solo i fumaioli erano di colore più scuro.

Lord Valtinas stava in piedi sulla plancia all’aperto della sua nave.

Indossava la divisa estiva della Royal Navy a causa del caldo tropicale, nonostante fosse gennaio, un candido completo formato da una giacca a maniche corte, pantaloncini e calzettoni al ginocchio. Il vento scompigliava i suoi lunghi capelli e l’odore della salsedine riempiva la sue narici. 

Con un binocolo scrutava l’orizzonte, a prua non vi era alcuna traccia di traffico navale, solo un mare blu increspato dalle onde.

Il cielo era limpido e il sole splendeva più che mai, la rotta che stava seguendo era la più probabile per intercettare un convoglio, stando ai rapporti aerei.

Erano giorni che i tre battelli navigavano in quel settore, senza alcun avvistamento.

Il sole stava iniziando a tramontare, quando uno dei tanti osservatori in plancia chiamò a sé l'azzurro.

-Capitano Valtinas, sir, navi avvistate a babordo!-

Il giovane comandante si spostò verso il parapetto di sinistra e si affiancò al marinaio, un ragazzotto vestito di bianco con un cappello di tela sul capo.

-Siete riuscito a identificare la loro bandiera?-

-Nossignore, la bonaccia non le permette di sventolare- rispose l'altro.

Il capitano alzò il binocolo che teneva al collo e osservò il naviglio all'orizzonte.

Vedeva delle piccole sagome di color grigio scuro, lunghe e abbastanza larghe, con delle sovrastrutture imponenti e regolari.

-Senza dubbio mercantili, ma saranno amici o nemici?- commentò.

-Sir, i vostri comandi?- chiese il primo ufficiale che aveva lasciato la sua postazione per controllare i bastimenti in lontananza.

-Per quanto ne sappiamo potrebbero essere rifornimenti americani dalle Filippine. Avviciniamoci senza destare troppi sospetti, noi non vediamo la bandiera loro non vedono la nostra, dobbiamo capire chi sono-

-Subito signore!- esclamò l'uomo.

L'ordine venne recepito e inviato al timoniere che virò di qualche grado a babordo e in contemporanea, con un riflettore venne ripetuto, in codice morse, ai cacciatorpedinieri che seguivano.

-Comunicate alle artiglierie di armare i cannoni- il capitano non perdeva d'occhio l'orizzonte, voleva essere pronto ad ogni evenienza.

Il primo ufficiale si portò ad uno dei numerosi tubi portavoce e avvertì gli artiglieri che si misero al lavoro a caricare le armi.

Il vento non soffiava, era troppo calmo.

Il convoglio procedeva lungo la sua rotta senza curarsi della squadra di cacciatorpedinieri.

Edgar Valtinas era nervoso, ma non lo dimostrava, gli serviva solo una folata d'aria che alzasse la bandiera di quei dannati mercantili.

Cercava comunque di apparire freddo e impassibile.

-Voglio una stima continua della distanza di quelle navi- per la terza volta venne inviato un imperativo del comandante.

Dietro la plancia scoperta, in posizione più rialzata, vi era una torretta sovrastata da un lungo cilindro che ruotò verso la squadra di navi ignote.

Il telemetro, era l'unico strumento in grado di misurare una distanza con un buon grado di accuratezza.

Un insieme di prismi, lenti e specchi permetteva di stimare la lontananza di un qualsiasi oggetto.

Il funzionamento era relativamente semplice e il risultato abbastanza preciso; l’operatore non doveva far altro che cercare di ricostruire l’immagine sfalsata della nave identificata girando una semplice rotella e confrontare il numero di giri con una scala graduta.

Gli osservatori fecero il possibile pevalutare la distanza del convoglio; sette miglia.

Le armi avevano una gittata tale che, potenzialmente, avrebbero potuto colpire quei bersagli, ma le granate sarebbero cadute con molta probabilità in acqua.

-Alla sala macchine, passare da motori a due terzi, a motori avanti tutta. Avviciniamoci a loro-

Dopo pochi attimi il cacciatorpediniere prese velocità sbuffando una grande quantità di fumo nero.

Nel frattempo i telemetristi stimavano la nuova distanza ad ogni miglio percorso.

A circa cinque miglia di distanza, una piccola brezza incominciò a spirare.

Il capitano, che non aveva perso di vista le navi per un singolo secondo, potè vedere attraverso il binocolo la bandiera che sventolava, bianca con un sole a sedici raggi di colore rosso.

Il cuore gli batteva a mille, li aveva trovati, era riuscito a scovare un dannato convoglio di rifornimento giapponese.

-Comunicare alla scorta di prepararsi ad aprire il fuoco-

In men che non si dica i riflettori passarono il messaggio in codice.

A quattro miglia di distanza, il capitano diede l'ordine tanto atteso:

-Bersagli a quattro miglia, sparare un colpo di prova!-

Uno dei cannoni da quattro pollici a prua sparò un singolo colpo.

Il proiettile si schiantò nel mare alzando una colonna d'acqua dopo aver eseguita una traiettoria a parabola.

Aveva mancato il bersaglio, ma le vedette e i telemetristi giudicarono il colpo buono.

-Signori, fuoco a volontà!- 

Con il secondo comando, tutti i cannoni dei tre cacciatorpedinieri presero a sparare verso i mercantili con scarsi risultati.

Le salve si dispersero senza raggiungere gli obiettivi, ma Edgar Valtinas non era preoccupato, le due flottiglie provenivano da direzioni opposte e si stavano avvicinando.

Due scintille provenienti dalle imbarcazioni nemiche affondarono nei pressi delle navi inglesi.

I giapponesi avevano armato i loro convogli con qualche cannone di piccolo calibro.

La forza britannica superava grandemente i nipponici per volume di fuoco anche se poteva sparare solo con i cannoni prodieri dato che le tre navi erano in una fila sfalsata.

Dalle torrette scudate dell’ammiraglia, continuavano a esplodere colpi a grande velocità. I marinai faticavano, dovevano mantenere alto il ritmo per garantire un elevato rateo di fuoco.

Per caricare un singolo proiettile, serviva un uomo piuttosto forte, dato che potevano pesare più di venti chili. 

Una volta inserito, si seguivano le indicazioni degli osservatori che comunicavano la stima della distanza, l’elevazione del cannone e l’angolazione della torretta, poi si sparava e si ripeteva la procedura.

Il rombo dell’arma era accompagnato da una vampa di fuoco e fumo. Le granate esplose lasciavano dietro di sé una scia lucente, che segnavano il cielo, in modo da poter seguire la traiettoria.

L’artiglieria britannica non era particolarmente precisa, ma quella giapponese non era da meno.

A circa tre miglia e mezzo, il capitano Valtinas potè vedere i primi colpi a segno: un esplosione sulla sovrastruttura della nave di testa del convoglio, seguita pochi secondi dopo da una seconda sul ponte.

Diede l’ordine di virare a tribordo in modo da permettere il tiro alle due torrette posteriori e massimizzare i danni.

Dalla prima nave si potevano vedere delle fiamme a livello della plancia.

Pochi istanti dopo anche un secondo e un terzo mercantile vennero danneggiati, 

Le tre navi non davano alcuna tregua e continuavano a riversare una pioggia di fuoco contro i bersagli.

I giapponesi smisero di sparare consapevoli che le armi di piccolo calibro sarebbero servite a ben poco.

Tutto andava bene, fino a quando un sibilo iniziò a infastidire gli osservatori sulla plancia dell’ammiraglia.

Una specie di ronzio che si poteva percepire a malapena quando i cannoni ricarivano, ma che si stava avvicinando e diventava sempre più forte.

Alcuni uomini portarono lo sguardo verso l’alto e dai binocoli distinsero tre piccole sagome nere nel cielo.

-Aerei in arrivo sir!-

-Continuate a mettere pressione alle navi e armate la contraerea- 

I tre velivoli si stavano abbassando a tutta velocità.

L’ammiraglia non era indifesa e a mezza nave possedeva un letale impianto di cannoni “pom-pom” da due pollici.

Un gruppo di uomini lo raggiunse e lo puntò verso i tre aerei per poi sparare.

Quell’insieme di cannoncini, per quanto goffo e tozzo all’apparenza, era in grado di dissuadere qualsiasi assalto da parte del nemico.

Il cielo si riempì degli sbuffi neri dei colpi dell’antiaerea.

Il capitano osservò i tre aguzzini dal cielo, aerei bianchi, della marina.

Disposti a triangolo si gettarono sulla fila di navi britanniche sparando con le mitragliatrici.

-State giù!- gridò l’azzurro gettandosi a terra. La raffica rimbalzò sugli scudi e le sovrastrutture blindate causando solo qualche scintilla e ammaccatura, dopodiché la squadriglia riprese quota sotto il fuoco nemico.

In plancia non parevano esserci feriti.

-Ordini al timoniere, invertire la rotta, torniamo alla base- ordinò il capitano amareggiato.

-Con tutto il rispetto, sir, vorrei chiederle per quale motivo- lo seguì il primo ufficiale.

-Forse non li ha visti, ma quelli sono aerei della marina. Questo era un colpo di avvertimento. Per quanto improbabile, quei mercantili sembravano privi di scorta, ma a quanto pare nelle vicinanze vi è una portaerei e quindi una flotta nemica. Se restiamo c’è la possibilità di trovarsi davanti ad un avversario che non possiamo fronteggiare. Quindi, a tutte le navi: lanciare i propri siluri a ventaglio e invertire la rotta- spiegò.

Il primo ufficiale annuì e ripetè l’ordine.

Ogni vascello lanciò dai quattro ai sei siluri verso il convoglio nella speranza di colpire qualcosa, anche se a circa cinque chilometri di distanza era difficile prevedere dove sarebbe andata la torpedine, poi come ordinato virarono per tornare a Singapore.

In lontananza Edgar vide due alte colonne d’acqua distanti tra loro. Almeno un mercantile era stato colpiti dai siluri e forse, con un po’ di fortuna, qualcun altro sarebbe affondato per le fiamme.

Era stato un successo limitato. Il sole stava tramontando del tutto, il cielo era di colore rosso-arancio e la flottiglia stava tornando in base.

Ormai era chiaro che qualsiasi tentativo di intercettare un convoglio sarebbe stato un rischio enorme con la flotta giapponese in quelle acque.

Con le linee di rifornimento protette dalle portaerei, Singapore aveva le ore contate.

 

****

 

23 gennaio 1942

Harbin, Impero del Manchukuo

 

Quando a Suzuno venne comunicato che sarebbe tornato in patria, non si sarebbe mai aspettato di venir dislocato in Manciuria.

L’Impero del Manchukuo, era nato per mano del Giappone circa una decina di anni prima. Sfruttando un presunto attacco terroristico cinese alla Ferrovia della Manciuria del sud gestita dai giapponesi, l’armata nipponica del Kwantung si mise in marcia dalla Corea senza un’autorizzazione da parte del governo.

L’offensiva si placò in pochi mesi, il governo centrale del Kuomintang di Chiang Kai-shek era più interessato a combattere la fazione comunista capeggiata da Mao Zedong o le numerose cricche di  signori della guerra locali, i quali si erano spartiti la Cina come un branco di iene fa con le carcasse, che pensare a come respingere l’invasione.

A capo della Manciuria venne messo l’imperatore Kangde, già conosciuto in Cina per essere stato, da bambino, l’ultimo regnante della dinastia Qing con il nome di cortesia Xuantong.

Kangde, in realtà non era che una facciata, una figura fragile, scheletrica la cui salute era aggravata da una grave forma di miopia che lo costringeva ad indossare occhiali con lenti spesse quanto fondi di bottiglia e la cui più grande passione, fin da quando era “il sovrano della Città Proibita”, era picchiare personalmente gli eunuchi di corte e far fustigare i giovani paggi che rifiutavano i suoi corteggiamenti. La stessa moglie l’imperatrice Gobulo Wanrong, secondo i pettegolezzi, aveva iniziato a fumare oppio a causa delle perversioni del marito.

Se Kangde era un mero fantoccio, il burattinaio che ne tirava i fili era il Giappone o meglio il braccio armato nipponico in Manciuria: l’armata del Kwantung stessa.

Il regime militare era una vera e propria cleptocrazia e aveva portato ad una corruzione dilagante, brigantaggio diffuso e uno dei comandanti dell’armata; il generale Kenji Doihara puntava a trasformare la regione in una immensa piantagione di papaveri per arricchirsi con il traffico di oppio.

In quel calderone caotico della Manciuria, brillava tuttavia la gemma di Harbin.

Situata nel nord del paese, quasi al confine con l'Unione Sovietica e di fatto fondata dai russi negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e da lì a poco diventò una colonia vera e propria dell'impero dello zar Nikolay II.

La città era molto più simile ad un omologa europea che asiatica, la via centrale si distingueva per gli edifici dalle facciate bianche e padiglioni dorati in stile barocco e neo-bizantinto, tipico delle grandi città russe come Mosca e Leningrado. L'impronta zarista era messa in evidenza dal numero di chiese ortodosse come la Cattedrale di Santa Sofia la cui cupola verde scuro svettava alta nel cielo.

Oltre a luoghi di culto cristiani e santuari cinesi, e giapponesi, vi erano anche alcune sinagoghe.

Harbin ospitava una florida comunità ebraica, immigrata dall'Europa. Fino alla conquista da parte del Giappone, gli ebrei erano più di trentamila, per poi diminuire costantemente a causa del supporto nipponico all'antisemita partito fascista russo, che messo al bando nella madrepatria, si era rifugiato in Manciuria.

Nonostante la popolazione più che dimezzata era una delle comunità più grandi dell'estremo oriente insieme a quella di Shangai, anch'essa formata da immigrati dal Vecchio continente alle quali si poteva aggiungere anche la curiosa comunità di Kaifeng(1), nella Cina centrale, ormai quasi del tutto scomparsa, ma presente da secoli e integrata perfettamente nella cultura cinese.

Suzuno era arrivato da poco, aveva viaggiato via nave fino a Dalian, territorio sotto controllo diretto del Giappone, e poi via treno in un vagone militare.

L'alto comando lo aveva premiato per i suoi successi al fronte ed era quindi stato trasferito in un territorio meno ostile ma che necessitava di una sorveglianza continua e spietata.

Tuttavia la sorveglianza e l'eliminazione del dissenso non erano che i compiti più semplici e comuni da svolgere, da quando era giunto appena un paio di giorni prima, gli era stato accennato dai superiori che la kempeitai collaborava con la "Divisione per la prevenzione epidemica dell'armata del Kwantung" situata a Pingfan, circa una ventina di chilometri a sud di Harbin.

Il grigio venne inviato a visitare gli impianti della "Divisione", il suo superiore aveva messo a sua disposizione un'auto con tanto di autista per condurlo a destinazione.

Pingfan non era che l'insieme di una decina di villaggi, in parte abbandonati dopo l'occupazione e laciata la città, Suzuno non vide altro che campagne e boschi, risaie e campi di papavero, fino a quando dopo poco tempo giunse al complesso della "Divisione": un edificio dalle pareti giallastre su due piani, e dalle tegole del tetto rosse, circondato dai boschi privi di foglie.

Al di sopra dell'ingresso vi era anche una piccola terrazza.

Scese dal mezzo, il proprio autista comunicò che sarebbe rimasto ad attenderlo.

Il grigio si strinse nel cappotto colore kaki e indossò i pesanti guanti in pelle; in Manciuria il freddo era tale da poter consumare le carni fino all'osso.

Attraversò il viale fino all'ingresso ancora imbiancato dalle nevicate dei giorni precedenti. 

Dovette suonare un campanello per annunciare la sua presenza.

Dopo qualche istante il portone si aprì e fece capolino la figura di quello che pareva essere un medico: vestito con un lungo camice bianco, capelli neri ben pettinati e in ordine, un paio di occhiali dalla montatura fine che incorniciavano un volto rasato dall'espressione fredda, gelida quanto l'inverno mancese.

-Sottotenente Suzuno Fuusuke immagino-

-Sissignore, a voi il mio identificativo- passò al medico i propri documenti che confermavano l'identità e l'appartenenza alla Kempeitai.

L'uomo lesse alla veloce e poi fece cenno di entrare.

-Prego mi segua. Le verranno fornite le debite informazioni in un luogo più consono- la voce del medico era apatica, distaccata.

Il kempei non potè fare altro che seguirlo.

I corridoi parevano tutti uguali: anonimi, tinti di bianco e dal pavimento grigio, le porte che conducevano a chissà quali locali erano chiuse e non si sentiva il minimo rumore, solo i passi dei due uomini.

Svoltando sulla destra, trovò delle finestre che davano sull'interno del complesso.

Suzuno si fermò un istante a osservare: era immenso, riusciva a vedere solo una minima parte degli edifici, tra cui un enorme blocco cubico di colore grigio cemento, ben più alto rispetto al primo piano su cui si trovava, a prima vista pareva quasi una fortezza o un carcere.

-Prego non si fermi, siamo quasi giunti al mio ufficio- lo rincalzò il medico con quell'insopportabile tono distaccato.

Proseguirono lungo il corridoio.

Dai vetri delle finestre Suzuno cercava di farsi un idea di dove fosse: riusciva a vedere dei grandi capannoni dal tetto spiovente, e alcune grosse ciminiere che fumavano, probabilmente il locale caldaie di quella piccola città.

Una cosa in particolare lo incuriosì: un piccolo gruppo di persone, quattro o cinque, una affianco all'altra distese nella neve, con un singolo uomo avvolto in un lungo cappotto che passava tra loro.

-Per favore non faccia caso a ciò che vede, il mio ufficio è questa porta sulla destra, dopo di lei-

Il kempei entrò seguito poi dal dottore che richiuse la stanza.

Anche l'ufficio aveva un'atmosfera asettica, le pareti erano dei medesimi colori che caratterizzavano il complesso: grigio scuro fino a metà altezza e poi bianco. L'ambiente era spoglio, vi era solo una scrivania con qualche sedia, alcuni archivi in alluminio e qualche scaffale con dei libri. Nessuna finestra, le uniche luci erano erano due plafoniere, una opposta all'altra.

-Si accomodi sottotenente- lo invitò il medico mentre si apprestava a sedersi dal suo lato della scrivania.

-Sottotenente Suzuno… per noi è un piacere che la Kempeitai locale abbia uomini come lei, ligi al dovere, fedeli all'imperatore e feroci con il nemico. Mi è giunta voce che è stato promosso per la sua capacità nel reprimere la resistenza a Hong Kong, è vero?- domandò con finto interesse il medico.

-Inizialmente sergente a Nanchino e successivamente, a Hong Kong, mi hanno promosso a sottotenente, un ufficiale di basso rango ma pur sempre ufficiale- rispose l'altro rimarcando i suoi successi anche a Nanchino.

-Perdoni la mia sbadataggine, non mi sono presentato, sono il dottor Saitou Juro, ma potete chiamarmi dottor Saitou, mi occupo dei collegamenti con la Kempeitai di  Harbin oltre che gestire un mio laboratorio di ricerca-

-L'onore è mio dottor Saitou, il mio nome e occupazione già la conoscete- replicò secco l'altro.

-Ovviamente, ma credo che voi non sappiate il perché vi troviate qui-

-Nossignore-

-In questo caso le dò il benvenuto alla sede centrale dell'Unità 731 del Kwantung-

-Unità 731? Questa non è la Divisione per la prevenzione epidemica? Pensavo che sarei dovuto venir qui per non so quale tipo di visita medica o profilassi…-chiese confuso 

-Quello era il vecchio nome del complesso e lei non è qui per una visita medica. Questo è un grande centro di ricerca diretto dal dottor Shiro Ishii, già a capo di un precedente istituto a Zhongma, non troppo lontano da qui- spiegò il dottor Saitou.

-Quindi se questo è un centro di ricerca, io a cosa vi servo?-

-A questo ci arriveremo più avanti sottotenente. Qui nella sede di Pingfan, svolgiamo ricerca in ambito sanitario e biologico. Non posso dirle esattamente che tipo di ricerche, ma sono di estrema utilità per il nostro esercito-

-Fin qui ho capito… quindi?-

-Formalmente, per i villaggi vicini, questa struttura non esiste, o meglio non esiste un centro di ricerca, ma una grossa segheria… ciò di cui noi abbiamo bisogno in quanto segheria sono dei "maruta", tronchi. E' qui che entra in gioco la Kempeitai, ci fornisce i nostri "tronchi" indispensabili ai fini della ricerca-

-E cosa sarebbero di precisi questi "tronchi"?- domandò sempre più confuso e perplesso Suzuno.

-Dipende, ci sono molti tipi di alberi e quindi molti tipi di tronchi… di norma sono prigionieri cinesi, manciù, dissidenti, criminali, briganti, sono certo che qui ci siano anche dei prigionieri russi catturati durante le schermaglie di confine, ma se è necessario la Kempeitai fornisce anche cittadini comuni senza che abbiano commesso un vero crimine: uomini, donne, bambini o vecchi, non importa, a noi basta ricevere questi "tronchi"- il medico pronunciò quel lungo elenco con una freddezza inquietante e Suzuno aveva intuito a cosa sarebbero servite probabilmente quei "tronchi"

-Quindi quello che volete sono persone, mi sta dicendo forse che le usate in qualche… esperimento? E' legale?- 

-Legale o non legale non fa differenza, i cinesi sono un popolo inferiore, non trovo una grande diversità tra l'uso di un topo e un cinese o un russo, anzi vi è il vantaggio che loro essendo umani, rendono la ricerca molto più rapida e accurata. Sono certo che prima lei abbia visto da una finestra, alcuni "tronchi" distesi nella neve, potrei dirle che sono in quella posizione da circa sei ore. I miei colleghi stanno valutando quanto tempo sia necessario affinché il corpo vada in ipotermia, l'effetto del congelamento degli arti e, nel caso in cui sopraggiunga la necrosi, si sta cercando un modo per rivitalizzare la parte interessata. Ad oggi non lo abbiamo ancora trovato e probabilmente a quelle persone verrà rimossa l'appendice morente, ma gli esperimenti continuano ed è per questo che necessitiamo di cavie. Questo è il suo compito: formare una squadra e fornirci il materiale di cui abbiamo bisogno, è per questo che l'ho convocata qui, non tutti i kempei sono in grado di svolgere un compito di questo tipo. Sono certo che lei non ci deluderà- sul volto del medico si disegnò un ghigno appena accennato.

Suzuno non era estraneo alla violenza aveva massacrato decine di civili giusto per il piacere di uccidere, ma quell'esperimento era un qualcosa di molto più sadico e feroce.

-Dottor Saitou, mi permetta di dire che… è un incarico molto forte, soprattutto dal punto di vista del carico emotivo, come lei ha affermato: non tutti sono tagliati per questi genere di lavoro-

-Lei sta rifiutando?- la voce del dottore si era fatta più bassa e severa.

-Non è ciò che ho detto, è solo che non sarà semplice creare una squadra-

-Se non sarà possibile, mi aspetto che lei faccia il suo dovere da solo. In fondo sono cinesi… non mi stupirei se scoprissi che alcuni colleghi tedeschi stanno eseguendo i medesimi esperimenti con chi loro ritengono inferiore: ebrei, slavi… l'elenco è lungo. E' la legge della vita, il più forte sopravvive il debole viene annientato. In questo caso il debole viene reso utile in quanto il suo sfruttamento da un punto di vista scientifico garantirà la sopravvivenza del più forte, la sua vita non è di alcuna importanza, verrebbe comunque spazzato dalla natura, tanto vale metterla al servizio di chi è superiore. Queste ricerche cambieranno la medicina e aiuteranno lo sforzo bellico. Lei potrà contribuire al progresso della scienza e della società, le assicuro che sarà ben ricompensato e poi ci pensi, lei non ha fatto di certo meglio di noi, ho letto i rapporti su di lei… a quanto pare a Nanchino si dilettava con un suo compagno d'armi a gareggiare armati di spada a chi eliminava più locali. Converrà con me che questo è un vero spreco di vite. Chi viene portato qui non muore, o meglio la morte è dovuta alle complicazioni durante l'esperimento o perché ormai sono ridotti ad uno stato di totale inefficienza e inutilità da un punto di vista scientifico e quindi come per tutte le cavie da laboratorio i soggetti devono essere soppressi. Io anzi noi, l'Unità 731, abbiamo grande fiducia in lei, confidiamo che faccia il suo dovere verso l'impero e il progresso. Non ci deluda, riceverà istruzioni su come consegnare i "tronchi" dai suoi superiori. La riaccompagno all'auto se non le dispiace, ho molto lavoro da svolgere- concluse il medico per poi alzarsi, aprire la porte e fare cenno di seguirlo.

Tra tutti gli incarichi che gli erano stati affidati, quello era di gran lunga quello più strano e inquietante. 

Sì soffermò davanti alla finestra di prima. 

Ora distese nella neve vi erano solo due persone, le altre erano scomparse, forse morte o in alternativa sarebbero andate incontro ad atroci sofferenze continuando ad essere usate come cavie.

Una volta fuori dalla struttura, dottor Saitou lo trattenne qualche secondo per salutarlo:

-Le auguro una buona giornata sottotenente, so bene che accetterà l'incarico, mi auguro di rivederla presto-

-Lo stesso per me dottore, faccia attenzione con le sue ricerche-

Il kempei si congedò con un inchino, poi salì a bordo dell'auto e fece ritorno al comando di Harbin con sulle spalle un grosso carico di dubbi riguardo l'essere all'altezza di tali ordini.

 

****

 

25 gennaio 1942

Periferia di Tokyo

 

Era sera e il cielo era limpido, risplendevano le stelle e la luna.

Le strade e i tetti erano imbiancati dalla neve, gli ultimi fiocchi erano caduti nel pomeriggio.

Ad una ad una si spegnevano le luci e le lanterne della via.

Shirou si avvicinò alla propria, appesa all'esterno affianco all'uscio.

Con un lieve soffio la fiamma si estinse lasciando al suo posto un filo di fumo.

Rientrò nella sua dimora. 

Non si sentiva stanco, non tentò nemmeno di assonarsi. 

Al contrario Yukimura si era già coricato, esausto dall'intenso lavoro della giornata: spalare il vialetto nel cortile, rassettare la casa e lucidarla per renderla presentabile e riparare un piccolo armadietto nella sala da tè, le cui assi di legno erano state spezzate da uno sgarbato cliente palesemente ubriaco che si era lasciato cadere a peso morto su di esso. Ovviamente venne cacciato poco dopo da Shirou con una non discreta dose di rabbia, causando qualche imbarazzo agli altri due clienti presenti.

Come un fantasma inquieto, l'argenteo non faceva altro che andare avanti e indietro da una parte all'altra dell'edificio, passando per la cucina, il corridoio e il soggiorno. 

Si soffermò lì in quell'ultima stanza.

Era buia e la poca luce che entrava era quella pallida della luna e delle stelle che penetrava dalle finestre, oltre alla radio che ascoltava di tanto in tanto con Yukimura, vi era solo un tavolino, una libreria e, appese alla parete, due spade.

Si avvicinò con un pizzico di esitazione e iniziò a fissarle.

Erano una sopra l'altra posate su un supporto in legno.

La prima, quella più in alto, era più lunga e grande della seconda. Il fodero era scuro, l'impugnatura era in pelle di razza color bianco, avvolta da delle bande nere di cuoio.

La seconda, più piccola era molto simile, sia nei colori che nella forma.

Andò alla ricerca di un fiammifero e accese una candela per rischiarare l'ambiente.

La posò sul tavolo e lasciò che l'oscurità venisse cacciata dalla debole fiammella.

Tornò davanti alle due spade, allungò il braccio destro ed afferrò la più grande.

Al contrario di quello che sembrava non era così pesante e la rigirò più volte nelle sue mani.

Sul fodero era inciso un mon, lo stemma dei daimyo e dei loro domini.

Shirou si sentiva un senso di angoscia divorarlo dal profondo a tenere quell'arma.

Non era la prima volta che la maneggiava, di tanto in tanto ne curava la lama per non farla arrugginire in modo irrimediabile, proprio come gli aveva insegnato il suo maestro; Nishioka Hide, la katana era la sua.

Strinse la presa sull'impugnatura e con un rapido gesto, pulito e aggraziato, sguainò la spada.

La lama riluceva anche nella penombra. Era di puro acciaio di un'epoca lontana, di quando il Giappone era diviso in domini e clan in perenne rivalità.

Provò goffamente a sferrare qualche colpo  portando l'arma sopra la propria testa per poi abbassarla davanti a sé con tutta la sua forza.

Il filo della lama tagliava l'aria con un fischio. Non sembrava poi così difficile da usare ed era ben bilanciata.

-Shirou, che stai facendo? Tutto bene?- 

L'argenteo si voltò di scattò sorpreso verso l'origine della voce.

Yukimura se ne stava in piedi avvolto in uno yukata blu scuro e si stropicciava gli occhi assonnati.

-Mi hai fatto prendere un colpo!- esclamò l'altro mentre cercava di rinfoderare la spada.

-Sentivo dei passi, avanti e indietro e poi uno strano rumore… perché hai in mano la katana del maestro Hide?-

L'altro giovane mise l'arma al proprio posto, sull'espositore, dopo qualche secondo di silenzio si girò verso il blu.

-Riflettevo-

-Un modo strano di riflettere-

-Pensavo al maestro Hide… ormai è scomparso da molto tempo, forse non te lo ricordi neanche-

-Ero piccolo, ma certo che me lo ricordo! Per chi mi hai preso?- 

L'altro sorrise, era ovvio che Yukimura si ricordasse di lui, almeno in parte, non era uno stupido.

-E' grazie a lui se oggi siamo ciò che siamo-

-Alle volte ti esprimi in un modo troppo complesso…- commentò il più giovane.

-Il maestro Hide lasciò a noi la sua fortuna. Quando il suo signore morì in seguito alle ferite riportate in battaglia, lo nominò erede dei suoi possedimenti, a patto che si prendesse cura della propria moglie affinché non rimanesse vedova e sola. Il maestro accettò e rimase accanto alla donna per tutta la vita, senza che si sposasse o avesse figli. Un'intera esistenza dedicata al mantenimento dell'ultimo desiderio del suo signore. Quando ci trovò per la strada qui a Tokyo, non eravamo che poco più che bambini. Ci accolse nella sua casa e mi insegnò l'arte dell'intrattenimento, della conversazione, la cerimonia del tè. Mi tramandò le sue conoscenze affinché diventassi un taikomochi come fu lui. E' grazie all'eredità del suo signore se Atsuya ha avuto l'occasione di riprendere gli studi e diventare poi un medico. E' grazie a lui se, in un certo senso, anche tu hai ricevuto un'istruzione superiore ed ora vivi di rendita come mio assistente e tuttofare…- le ultime parole furono pronunciate con un sarcasmo ben poco velato, che fecero arrossire d'imbarazzo Yukimura, poi continuò:

-Tutto questo è accaduto solo perché il maestro Hide ha impugnato quella spada. In passato i taikomochi erano intrattenitori, ma anche consiglieri, strateghi e se necessario soldati e samurai ed il maestro era un samurai. Se il suo signore, per quanto piccolo e insignificante, non avesse abbracciato la causa imperiale e fosse sceso in battaglia, noi non saremmo qui a parlare di ciò, forse non saremmo qui affatto- nuovamente l'argenteo prese la spada, la sguainò e la portò davanti al proprio volto.

La curva appena accentuata del dorso della lama stava davanti al suo naso.

-Questa è rimasta appesa a quella parete da quando l'imperatore Meiji impose il bando delle spade, la legge Haitorei(2). Nessuno, neanche un samurai, sarebbe potuto uscire dalla propria abitazione con una katana al proprio fianco. Ironico non credi? Il maestro Hide la dovette abbandonare nonostante l'avesse impugnata più volte nel nome dell'imperatore stesso, spezzando vite a Ueno, Aizu, al passo Bonari, forse era presente anche al leggendario scontro a Toba-Fushimi e alla conquista del castello di Osaka, dove ebbe inizio la guerra.

Sono passati ormai sessant'anni, dall'ultima volta che questa lama e il più piccolo wakizashi fossero sguainati ed io temo che presto o tardi anche noi dovremo impugnare queste armi, proprio come il maestro Hide- Yukimura colse in quelle parole la tristezza, le angosce e i timori di Shirou. Per quanto fosse stato toccante la storia del maestro Hide, il più giovane sentì che l'argenteo aveva in cuor suo paura. Paura di doversi scontrare con la ferocia della guerra, ma allo stesso tempo sentiva un forte senso di inferioritá verso il proprio maestro.

-Sai che non siamo obbligati a combattere…- 

-Forse, almeno per ora. Tuttavia come taikomochi,  sento il dovere di fare qualcosa- per la seconda volta ripose l'arma nel fodero per poi rimetterla al suo posto.

-Dovere? Pensavo che avessimo già fatto questo discorso tempo fa con Haruna. Il maestro Hide seguì il suo signore. Tu non hai alcun daimyo a cui hai giurato fedeltà, al contrario hai dei clienti che ti sono fedeli. Non devi vivere all'ombra del maestro Hide. Sono certo che sarebbe molto dispiaciuto all'idea che uno dei suoi "figli" dovesse partire per una guerra come questo. Mi sentirei lo stesso se tu dovessi "impugnare quella spada" sono certo che anche Atsuya, ovunque lui sa, sarebbe preoccupato.

Shirou sospirò, aveva ascoltato a testa bassa quelle parole, come un cane bastonato. Alzò lo sguardo verso il ragazzino e lo guardò negli occhi.

Sorrise, era felice, si sentiva più leggero dopo essersi sfogato in quel modo e consolato da Yukimura.

-E' un peccato che tu non abbia voluto apprendere le arti di un taikomochi. Come ho sempre detto, sei molto più saggio di quello che sembra, Yukimura- l'argenteo posò una mano sulla spalla del più giovane, poi si avvicinò alla candela, la spense e senza dir nulla si coricò nella propria stanza seguito dal ragazzo.



 

****

 

1) Kaifeng: situata nella Cina centrale, Kaifeng è sede di una minuscola comunità ebraica. Le origini risalgono probabilmente al IX secolo, quando la città era un importante snodo della Via della Seta. Con il passare dei secoli, gli ebrei che si erano stanziati nella città si sono integrati completamente nella società mantenendo la proprie tradizioni e credo religioso. Ad oggi la comunità conta tra le 500 e le 1000 persone (è difficile quantificarne il numero a causa della politica di persecuzione religiosa), che tuttavia cercano di vivere secondo i precetti dell’ebraismo.

 

2) Haitorei: editto del 1876 che sanciva il divieto di portare la spada (eccetto i militari e le forze dell’ordine), pena la confisca dell’arma.

 

Angolo d’autore….

 

Rieccomi reduce da una lunga sessione di esami!

Finalmente ritorna un po’ di azione, con lo scontro navale

nel Mar Cinese Meridionale, erano troppi capitoli che non si 

sparava… beh forse non così troppi, alla fine era solo 

lo scorso capitolo quello tranquillo…

Ad ogni modo il filo conduttore di questo capitolo è il

dovere, declinato in varie forme: il dovere di Edgard di difendere

la colonia di Singapore, Shirou che si sente in dovere di far qualcosa

come il suo maestro e infine Suzuno che ha il dovere in quanto kempei

di obbedire agli ordini, per quanto assurdi o perversi che siano.

Avrei voluto aggiungere un’ultima parte a questo capitolo, ma poi

mi sono accorto che avrei sfiorato le 21 pagine e un totale di 8000

parole e quindi sarebbe stato tutt’altro che leggero.

Spero come sempre che anche questo capitolo sia di vostro gradimento,

anche perché noto con piacere che di tanto in tanto nuove persone

inseriscono la storia tra le preferite o le seguite anche se non si 

fanno sentire e tutto ciò mi fa comunque piacere.

Con questo io concludo, 

un saluto

 

_Eclipse

 

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