In The Woods Somewhere

di sunonthesea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo primo ***
Capitolo 3: *** capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** capitolo nono ***
Capitolo 11: *** capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** capitolo undicesimo ***



Capitolo 1
*** prologo ***


I passi erano lenti sul tappeto di foglie. Non aveva fretta, non aveva nessuno a correrle dietro. La ragazza si osservava attorno con meraviglia, osservando i bizzarri dettagli che il bosco in autunno poteva donare ai suoi occhi: le liane che si fondevano perfettamente con le rocce appartenenti alle montagne poco distanti, le fronte verdi delle macchie di pini in lontananza e i funghi di mille colori che sporgevano dai pieni degli alberi stessi, le loro testoline che parevano avere degli occhi che la seguivano mentre continuava il suo viaggio.

Il motivo della sua visita nel bosco era semplice: non c'era. Voleva solo rilassare la mentre, sentire l'erba accarezzarle le caviglie non coperte dalla pesante gonna che indossava o dagli stivali, stretti ai suoi piedi, oppure semplicemente abbandonarsi nel respirare l'aria fresca prodotta dalle piante che allo stesso tempo la proteggevano dal vento furente che proveniva dalle alte vette.

Voleva svuotarsi la testa, almeno per quella volta. Il silenzio la faceva stare bene, la faceva sentire un tutt'uno con la natura che tecnicamente avrebbe dovuto adorare però nel pratico la metteva sempre alla fine dei suoi numerosi impegni, con la scuola...gli amici e tutto il resto.

Era una ragazzina, ancora. Una strega, sì, ma comunque una ragazzina.

Sentiva le foglie marce del tappeto sotto i suoi piedi con il loro olezzo che sapeva di terra bagnata, un odore che ricordava con gioi dall'ultima volta che era uscita con sua madre nel profondo della foresta che pareva sempre essere minacciosa ai margini del paesino dove abitava, ma che in realtà non era nient'altro che un insieme di alberi e foglie.

Gli uccelli cantavano sopra la sua testa, i rami antichi a volte parevano voler prendere possesso dei suoi lunghi capelli scuri, che come una cascata scendevano sulla sua schiena, quasi a reclamarli come le foglie che avevano perso con le prime piogge.

Tutto era silenzioso. Non c'era un solo verso oltre a quello degli uccelli, il vento che passava tra le cime degli alberi più alti e il rumore dei suoi passi, quando all'improvviso sentì qualcos'altro.

Qualcosa di pesante stava camminando sul suo stesso sentiero, alle sue spalle. Un animale, probabilmente. Un grosso gatto, un cervo magari. Un orso.

Il sangue si ghiacciò nelle vene della giovane, costringendola a fermarsi. Non poteva andare avanti, doveva soltanto stare ferma. Totalmente ferma. Non voleva farsi attaccare, non voleva morire lì. Doveva stare ferma, immobile.

Una goccia di sudore le scese per tutta la schiena coperta da quel cardigan che anche lei aveva reputato troppo pesante, stringendo i denti solo per non mettersi ad urlare. Era una strega, doveva mantenere la calma. Percepiva l'aria entrare nei suoi polmoni, il borbottio della sua pancia e il vuoto sotto ai suoi piedi.

Non sapeva effettivamente cosa fare.

-Sangue di strega, uh?- la voce della creatura era sibilante, come se un serpente stesse parlando a pochi passi dalla sua schiena. Non era un umano, era qualcos'altro. Qualcosa che sentiva familiare, ma allo stesso la terrorizzava. Doveva scappare, doveva scappare il prima possibile.

-Cosa sei?- cercò di tenere la voce ferma per non dar prova del suo tremore, le gambe infilzate al suolo mentre delle dita lunghe e scheletriche le toccavano la schiena con una grazia che non avrebbe mai immaginato.

Tuttavia, l'essere non rispose alla sua domanda.

-Cosa sei?!- la ragazza si abbandonò all'esasperazione, voltandosi di scatto con l'intenzione di scappare.

Un paio di occhi gialli come petali di girasole che la osservavano con le loro pupille rettili fu l'ultima cosa che vide, prima di scansarsi e correre via dalla foresta.





angolo autrice:

CHE BELLO UNA NUOVA STORIA YEEEEEEEEEE



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Capitolo 2
*** capitolo primo ***


Le immagini del paesaggio correvano sotto gli occhi con una rapidità impossibile: le case, i lampioni radi e gli alberi si fondevano fuori dal finestrino del treno, lasciando Aziraphale a contemplare quel grande marasma che non riusciva a comprendere.

Non aveva mai amato viaggiare, era sempre stato radicato alla sua casa, a Londra. Però non poteva lasciarsi sfuggire un caso di quella portata. Guardò distrattamente lo schermo del portatile aperto sul tavolino in plastica -voleva chiuderlo per non avere mal di testa- ma l'aveva dimenticato lì, la mail che aveva ricevuto poco tempo prima dal comune che stava per raggiungere.

Era mal scritta, la sintassi arricchita inutilmente da espressioni ricercate da cui era formata sembrava voler abbellire il messaggio centrale: si sono registrati degli eventi di natura straordinaria dopo anni, una creatura sconosciuta pare abiti nel bosco che circonda il nostro villaggio. Richiediamo delle indagini di natura giornalistica per la documentazione.

Non aveva capito fino in fondo quel messaggio. Non era quel tipo di persona che credeva al sovrannaturale, non era un esperto di folklore o cose simili. Però, aveva bisogno di grana. Aveva un gran bisogno di soldi.

Spendere tutti i suoi risparmi nel trovare un tetto dove stare in quel soggiorno che, a quanto pare, sarebbe durato mesi non era stata proprio la mossa più intelligente della sua vita, però era arrivato a quel punto e non poteva tornare indietro.

Il villaggio in cui doveva avventurarsi, a quanto pareva dalle brevi informazioni che aveva trovato su internet, si chiamava Tadfield. Fondato da cacciatori e boscaioli, era dimenticato nel profondo del nulla. Aveva letto che era famoso per essere stato il luogo dell'esecuzione dell'ultima strega d'Inghilterra.

Pareva l'avessero trovata nella foresta, in una capanna sperduta tra gli alberi. Secondo le cronache, non aveva nemmeno opposto resistenza mentre veniva condotta al patibolo.

Aziraphale non era stupido dal terrore di cui il suo direttore gli aveva parlato, quando aveva discusso con lui in merito a quell'incarico. Si sedette più comodamente, mentre fuori dal finestrino i segni di umanità stavano venendo rimpiazzati dalla boscaglia, gli alberi che si prendevano i loro spazi mentre il treno correva veloce nel vuoto.

Si sistemò gli occhiali sul volto paffuto, quando sentì la voce metallica dell'altoparlante provenire dal corridoio del treno. Mancavano dieci minuti all'arrivo alla stazione di Bridgetown, diceva, e il meteo era deliziosamente tempestoso. Ovviamente non aveva detto quello, però poteva notare i lampi sopra la sua testa squarciare le nuvole come artigli nella carne di un animale e le gocce di pioggia iniziare a cadere sulla terra erbosa.

Dalla stazione di Bridgetown avrebbe dovuto trovare un taxi per arrivare a Tadfield, le monetine per la corsa e la mancia che tintinnavano nella tasca del suo giaccone. Non sapeva precisamente cosa avrebbe trovato, cosa avrebbe visto. Aveva letto abbastanza favole da piccolo e libri di mistero quando era cresciuto da sapere come doveva comportarsi, a grandi linee: non doveva sembrare uno scettico, non doveva dare nell'occhio. Doveva essere schivo, non fare troppe domande se non quelle estremamente necessarie. Non doveva fidarsi di nessuno.

Sarebbe stato molto divertente.

La strada davanti alla stazione di Bridgetown era vuota: i le casupole di rocce grosse erano le regine del nulla, ad un passo da essere inglobate nella boscaglia alle loro spalle. La pioggia aveva iniziato ad essere sempre più forte, quando Aziraphale era uscito dalle porte della piccola stazione. Sentiva le gocce cadere sulla sua fronte, bagnargli sempre di più i corti capelli biondi mentre si portava la sua lunga giacca color crema sul capo, nel tentativo di non essere totalmente in balia dell'acqua.

-Ci voleva solo questa...- mormorò con noia, scrutando la strada alla ricerca di qualche taxi di passaggio. Nessuna auto sembrava volersi fermare, ne erano passate due, e un dubbio sorse nella sua mente. Il sole stava per scendere oltre i monti, l'oscurità stava per divorare tutto il mondo, e lui non aveva la minima idea di cosa fare. Si sedette sul marciapiede fradicio, il volto tra le mani mentre un profondo sospiro abbandonava le sue labbra. Non doveva finire così, si aspettava molto meglio.

Certo, non si aspettava il tappeto rosso. Ma chiedere il sole nel cielo non era impossibile.

Dopo una decina di minuti, una piccola automobile bianca scalò faticosamente la strada, mettendosi proprio davanti alla stazione. Come già detto, era di dimensioni esigue, tuttavia non sembrava vecchia o poco funzionante. Nel vederla, un barlume di speranza crebbe nel cuore di Aziraphale mentre si alzava assieme alle sue valigie e alzava impacciato la mano per farsi notare.

I passi brevi sull'asfalto bagnato lo portarono davanti alla portiera, quando un ometto uscì: era alto e scheletrico, quasi non sapeva come potesse essere uscito da quella portiera così bassa, e si copriva la testa con il braccio cercando di non bagnarsi troppo la testa pelata.

-Buongiorno!- Aziraphale gli corse incontro trascinando le sue borse verso il taxi. Aveva visto quell'uomo come una valchiria che trasporta gli spiriti dei guerrieri morti verso il Valhalla.

-Buongiorno- l'uomo squadrò il ragazzo con i piccoli occhi grigi. Erano mesi che non vedeva uno straniero in quei luoghi.

-Devo andare a Tadfield- il tono di Aziraphale era al limite del depressivo, le mani che a causa della pioggia stavano per perdere il controllo sulle maniglie delle borse.

L'uomo sembrò quasi sorpreso, per poi dirigersi verso il bagagliaio. -Salti su, la pioggia sta peggiorando-.

Il taxi puzzava di fumo stantio. Aziraphale stringeva la borsa più piccola che aveva al petto, fissando il bosco attraverso la parete di vetro che lo separava dall'autista, che concentrato guidava nella pioggia più incessante.

-Cosa la porta a Tadfield?- l'uomo voleva iniziare un discorso con lo straniero, dimenticandosi la parete di vetro che lo separava dall'altro.

-Scusi?- il biondo bussò al vetro, non capendo le parole nella loro completezza.

-Ho detto- l'uomo aprì una piccola finestrella dietro la sua nuca con un rapido movimento della mano -cosa la porta a Tadfield, se posso chiedere?- era la prima volta che sentiva uno straniero dire di voler andare a Tadfield.

Perché nessuno voleva andare in quel posto. Era poco più di un villaggio, non aveva niente di interessante. Inoltre, le storie non erano poi così sconosciute.

-Sono un giornalista. Lavoro per l'Indipendent- mormorò con timidezza palpabile nella sua voce -mi hanno mandato per indagare sugli avvistamenti di quella creatura misteriosa, in realtà-

-Ah, intende Crawly- l'autista si aspettava una risposta simile. Era l'unico motivo per cui una persona desiderasse andare in quel buco. -Sì, certo. La sua storia è famosa da queste parti- una breve pausa, il bosco che iniziava ad inglobare la piccola macchina che scivolava sulla strada bagnata.

Aziraphale colse la palla al balzo, estraendo rapidamente il block notes dalla tasca del giaccone assieme alla penna. -Interessante- il suo tono semplicemente cambiava quando prendeva appunti. Più serio. Quasi glaciale. -Potrebbe dirmi di più?-

-Nessuno sa molto- l'uomo cercò di ricordare i vecchi racconti -alcuni pensano non esista, ma una ragazza l'ha visto, mi sembra. Dicono sia discendente della strega...ha presente, giusto?-

-Sì. L'ultima strega ad essere stata bruciata in Inghilterra- la scrittura di Aziraphale era piccola, quasi incomprensibile: i ghirigori a penna scura dominavano il quadernino giallo che stringeva tra le mani, in geroglifici che solo lui pareva comprendere nella loro completezza. -Oltre a questo, nessuno sa nient'altro?-.

-Assolutamente nulla. È il grande mistero di Tadfield da secoli, ormai-

-E perché lo chiamate Crawly, se nessuno sa com'è fatto?-

L'uomo rimase per un secondo stranito dalla fervente curiosità del suo cliente, una persona così...inusuale, da vedere in quelle parti, aguzzando la vista per non schiantarsi tra gli alberi e cercare di combattere l'oscurità liquida che si parava davanti alla vettura. -La ragazza ricorda occhi tipo di serpente e una esse sibilante, quindi la gente pensa sia una creatura stile mostro di Loch Ness, ma nella foresta-.

-Aspetti, aspetti- il giornalista si era perso alla "esse sibilante". Aveva parlato? La creatura sapeva parlare? -In che senso esse sibilante?-

-Oh- pensava fosse abbastanza ovvio che la creatura avesse parlato -la ragazza ricorda di aver sentito delle parole, qualcosa sul sangue di strega o cose così- una risata dura, sprezzante nella sua semplicità -ma quella è una mezza sciroccata, non molti credono a quello che dice-

-Capisco- senza volerlo, anche dalla sua bocca uscì una risata imbarazzata.

Il cartello segnalante il nome della cittadina si stagliò sulla strada oscura scoperto dai fanali del taxi, poco prima che gli stessi fari colpissero le prime case di Tadfield. Erano basse, con minuscoli giardinetti che a mano a mano andavano ad immergersi nella foresta che pareva star per divorare ogni cosa fatta dall'uomo in un solo istante, le grandi pietre che formavano quelle costruzioni parevano denti di giganti impilati da un valoroso guerriero dopo averli sconfitti.

-Siamo arrivati- il tono dell'autista era flebile, quasi un sussurro di fronte all'immensità dei boati provenienti dalle nuvole.

Aziraphale si guardò intorno, mentre le monetine dalla sua tasca passavano dalla sua mano a quella umida del tassista. Il paesaggio attorno ai suoi occhi era miserabile: una manciata di case si protraeva sulla via principale, probabilmente l'unica strada, fino ad una grande chiesa. Nessuna traccia di municipi o edificio che si distinguesse dalle piccole casette con le pietre scoperte.

Gli avevano comunicato che avrebbe dovuto andare alla chiesa per incontrare colui che aveva fatto la richiesta dell'intervento del giornale per documentare, padre Gabriel, se non andava errato, e poi doveva assolutamente trovare la ragazza di cui aveva sentito parlare sul taxi. Sembrava interessante, come fonte.

Ricordava gli anni di studi: la parola del testimone diretto vale sempre il doppio di quella di chiunque altro. O una cosa del genere. Onestamente parlando, non ricordava molto in merito a quell'argomento.

Prese le borse, per poi ringraziare rapidamente l'autista. L'aveva visto scomparire di nuovo nel suo veicolo, dirigendosi silenzioso verso il luogo da dove era venuto.

Quando non riuscì più a vedere le luci dei fanali dell'auto, che presto stavano iniziando a scomparire attraverso la boscaglia, capì finalmente una cosa: era solo, in una terra che non conosceva, alla ricerca di un mostro.

La porta della chiesa era grande, possente. Una creatura di legno che nuda si ergeva davanti ai suoi occhi. Sentiva le gocce continuare a scendere sui suoi vestiti, Sulla sua testa a ritmo incessante. Il tragitto dalla piazzola principale -dove era stato abbandonato dal taxi- al portone della chiesa gli era sembrato infinito: il peso delle borse che pareva trascinarlo verso la terra, l'acqua che gli appannava la vista mentre i rari lampioni sembravano osservarlo.

Per un attimo temette di soccombere alla stanchezza e al peso delle borse, quando si era ritrovato davanti alla porta della chiesa. L'unico edificio che si distingueva dagli altri in grandezza. Il legno non era presente solo sulla porta, ovviamente. L'intera struttura sembrava essere stata estratta da un gigantesco albero. Come se qualcuno avesse strappato un pezzo della foresta per riportarlo nella civiltà.

Non sapeva se bussare o no. Probabilmente c'era una funzione, oppure padre Gabriel non era lì dentro. In ogni caso, aveva molto timore di bussare. Non sapeva di preciso perché, ma fin da subito ogni cosa gli aveva dato il senso di essere nient'altro che uno straniero, in quella terra. Un po' come il topo di campagna e il topo di città. Aveva timore a farsi vedere, a comunicare la sua presenza in quella terra a lui sconosciuta.

L'unico rumore che riusciva a sentire erano le gocce costanti della pioggia che imperterrita continuava a scendere, i rivoletti che formava sull'asfalto che andavano irrimediabilmente a gettarsi nei tombini ricoperti di foglie. I tuoni in lontananza seguivano le lamentele del suo stomaco, scandendo il ritmo monotono che lo stava accompagnando per quei minuti che sembravano infiniti.

Quando sentì qualcosa. Muoversi. Un ringhio soffuso, una bestia affamata.

Probabilmente era solo la sua immaginazione. Era affamato, stanco e infreddolito. Il suo cervello non funzionava più come avrebbe dovuto. Sì, decisamente era la sua immaginazione.

Decise di prendere un lungo sospiro -non era il momento di spaventarsi così per nulla, andiamo- quando, assieme al rumore dell'aria che usciva dalle labbra, sentì nuovamente un ringhio proveniente dal lato destro della strada, nel vicolo che divideva due casette l'una dall'altra. Nel girare la testa, notò prima un movimento nell'oscurità, poi uno scintillio. Sembravano occhi. Sembravano lucenti, alla luce liquida del lampione.

Non ebbe nemmeno il tempo di rabbrividire e di provare un certo senso di sconforto, che la porta della chiesa si aprì.

Sulla soglia c'era un uomo sulla cinquantina, i capelli neri delineati da striature argentee in perfetto ordine. Il nero della sua veste faceva a pugni con lo splendore della sua pelle, gli unici difetti erano l'oceano di rughe che solcavano la sua pelle. -Entri dentro, entri dentro- l'espressione serafica riuscì a dargli un senso di tranquillità, quanto bastava per scacciare il ricordo del baluginio degli occhi nel buio. -La stavo aspettando- Aziraphale si sentì trascinato dentro da una mano forte, per poi sentire un moto di calore entrargli nelle ossa.

L'interno della chiesa era esattamente come se l'era immaginato: file di panche di legno scuro su pavimento chiaro, l'altare anch'esso bianco che voltava le spalle ad un'enorme vetrata, un arcobaleno di colori che si trasmetteva attraverso figure angeliche stilizzate. I suoi passi si miscelavano a quelli dell'altro uomo, un tacchettio che pareva scandire il ritmo del suo cuore vibrante schiacciato volta per volta sul pavimento freddo. Seguiva il prete come fosse la sua unica guida, la sua torcia nel buio, mentre il caldo dei termosifoni pareva scioglierli le ossa.

Era al caldo.

Era al sicuro ora.

angolo autrice:
emh...ciao? ciao. Questa è una storia un po' dark fantasy, potrebbero esserci scene abbastanza crude e basta. Ci sarà tanto fluff tho non angustiatevi.



 

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Capitolo 3
*** capitolo secondo ***


-Allora- padre Gabriel si voltò di scatto, il sorriso tirato ai lati del volto che scopriva i denti candidi come la pietra dell'altare. -Alla fine è riuscito ad arrivare- il suo modo di porsi era fisso, una cattedrale umana, l'avrebbe definito un poeta particolarmente fantasioso.

Aziraphale si sentì immediatamente a disagio, dimenticandosi improvvisamente della situazione di benessere che stava provando all'interno dell'edificio. -Scusi, c'è stato un ritardo, giù a Londra, quindi non ho potuto fare in tempo ad arrivare in orario- deglutì profondamente, cercando di farsi perdonare il prima possibile soltanto per abbandonare quel malloppo che si era formato sulla sua gola -non ho il suo numero, mi è riuscito impossibile contattarla-.

Il padre fece un'espressione accigliata, sedendosi su una delle ultime panche. -Non c'è bisogno di scusarsi, questo paese non è dei più facili da raggiungere- si guardò intorno, facendo restare impassibile il suo sorriso accogliente -e sicuramente non è Londra. O Edimburgo. O Manchester- aspettò che l'altro si sedette, sempre la sua solita timidezza nell'abbandonare le borse nel luogo indicato con un precedente movimento del capo, solo per appoggiare la schiena totalmente sulla panca. -Spero che abbia fatto un buon viaggio, signor Fell-.

-Assolutamente magnifico, grazie mille per l'interessamento- Aziraphale, nel sentire il suo cognome, si risollevò dalla posizione gobba in cui si era trovato, sbattendo gli occhi come un coniglio spaventato. Il suo cognome era la parte migliore del suo nome completo, le cui iniziali capeggiavano sulla sua borsa più grande, quella stillante d'acqua. Erano grandi, dorate: A e Z, la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto e, ironicamente, le prime lettere del suo nome completo. Non erano in molti a chiamarsi Zeke, diminutivo di Ekeziel, ed erano ancora meno le persone a chiamarsi Aziraphale.

Molte volte aveva cercato prima su libri appositi e poi su internet il significato del suo nome, ma non aveva mai trovato nulla. I suoi genitori dicevano che era il nome di un Angelo Guardiano o roba così, ma lui non ci aveva mai creduto molto, il pensiero che il suo nome fosse stato completamente inventato non gli era mai sembrato troppo distante.

Quindi, almeno per lui, rimaneva solo Fell. O meglio, A. Z. Fell. Due lettere e un verbo al passato.

-Spero lei sappia chi sono- chiese l'uomo con fare retorico, lo sguardo magnetico dell'uomo era bloccato su quello dell'altro, gli occhi scuri che parevano assumere sfumature quasi violette.

Il ragazzo si sorprese nel sentire quella domanda. Poteva essere davvero così poco ovvio? -Sì. Certo che so chi è, padre- improvvisò un sorriso imbarazzato, concedendosi di rilassare le spalle quanto più poté. Non c'era niente di cui preoccuparsi, andiamo.

-E spero anche che lei sappia il motivo della sua visita qui-

-Assolutamente. Mi è sembrato subito interessante e sono corso- l'avevano fatto correre, l'indagine su un mostro avrebbe sicuramente fatto la sua figura in mezzo alle catastrofi che erano soliti stampare sul giornale. Si ricordò improvvisamente del peso che portava nella giacca, il suo quadernino dove c'erano ancora scritti distrattamente gli appunti del taxi, e aprì la bocca per parlare. -Ho sentito che c'è un testimone diretto che ha avuto esperienze con questa creatura- aggiunse, cercando in ogni modo di non sembrare scortese in alcun modo -potrò poi parlare con lei?-

-Ah- il volto dell'uomo si indurì d'improvviso, un'espressione disgustata aveva sovrastato quella gentile -ti hanno parlato di Anatema, a quanto pare-.

-Esatto- non sapeva precisamente il nome della ragazza di cui aveva parlato il tassista, ma poteva benissimo immaginarlo.

-È natia di queste parti, fa la studiosa di...nessuno sa bene cosa- borbottò con una punta di noia nella sua voce -vive qua da tanto, ed è impegnata nel caso da quando sono iniziate di nuovo le apparizioni di Crawly, un po' di mesi fa, e a quanto pare lei lo ha incontrato veramente. L'essere, intendiamo- si avvicinò al ragazzo, guardandolo con sguardo quasi complice -ma non molti le credono. Insomma, la sua famiglia è conosciuta in giro per essere bizzarra- dopo aver detto quello, si alzò con un movimento scattante dalla panca, spianando la lunga veste nera che gli copriva il corpo intero. -Ma avremo tempo per parlarne più accuratamente domattina- lo congedò aprendo le mani, il sorriso accogliente tornato sul suo volto tirato.

-Giusto- Aziraphale aveva l'indirizzo del posto affittato nel taccuino. Era la casa terziaria di una vecchissima zia di un suo collega, quindi poteva considerarsi abbastanza fortunato. Si alzò anche lui, osservando la mano che il prete gli aveva porto da stringere. Si stupì dalla forza del prete nel ricambiare la stretta.

-Sono certo che farà un ottimo lavoro- lo sentì fiducioso, il sorriso si ampliava sempre più sul suo viso.

-Ne sono certo anche io-.

 

La casa in cui si era svegliato non era la sua.

Nel dormiveglia l'aveva notato dall'odore delle coperte: polvere e vecchio profumo che permeavano nel tessuto pesante e violetto, ben diverso da quello di detersivo a cui era abituato.

Aveva aperto gli occhi colpito dai raggi del sole che timidamente era entrato dalla finestra davanti al letto, il giardinetto di erba verde smeraldo fuori dalle vecchie mura in cui era intrappolato, finendo irrimediabilmente per alzarsi e mettersi seduto. Abbandonare quelle lenzuola non gli aveva provocato il solito fastidio, tutt'altro. L'energia e l'entusiasmo dell'iniziare le indagini correvano nelle sue vene come cavalli in un ippodromo, l'immagine della ragazza che l'aveva impegnato tutta la notte nei suoi sogni che si faceva sempre più vicina.

Come sarebbe stata? Alta o bassa? Mora o bionda? Non ne aveva idea, ma era determinato ad illuminare tutti i suoi dubbi.

La notte precedente aveva avuto il tempo di togliersi le scarpe prima di crollare addormentato, i vestiti del giorno prima erano rimasti incollati alla sua pelle tutta la notte, quindi sentì quell'orribile sensazione di umido percorrergli la pelle. La valigia era chiusa in un lato della minuscola stanza da letto, le pareti ricoperte di vecchie e polverose cianfrusaglie, integra nel suo involucro brillante. L'altra borsa era posata sgraziatamente su una sedia poco distante.

Con dei passettini stretti si avvicinò alla valigia, aprendola con un ampio movimento della mano. Prese pigramente una maglietta, una felpa e dei pantaloni, se li buttò addosso e prese dai calzini dieci sterline. 

Conosceva bene paesini nella stessa situazione di Tadfield, quattro case in croce e una chiesa, e sapeva benissimo che il centro di ogni paesino simile c'era un bar o cose così. Ed era particolarmente speranzoso in merito a ciò, poiché era quasi un giorno che non metteva qualcosa nello stomaco.

Il temporale della sera precedente aveva fatto spazio ad un cielo azzurro come i suoi occhi, l'estate che stava finalmente scoprendo le sue possibilità. La strada principale di Tadfield alla luce del giorno sembrava brillare di luce propria, le casette tutte allineate fresche nel loro essere di pietra a tratti ricoperti dal muschio. Le montagne si ergevano dal bosco ancora più vibrante alla luce del sole, mentre lui camminava con la sua solita rapidità. Sguardo basso. Velocità. Non voleva essere notato.

Aveva notato un piccolo bar quando, inaspettatamente, sentì dei campanelli di biciclette seguiti da voci infantili, che ripetitivamente chiamavano "straniero biondo! Straniero biondo!". Aziraphale era biondo. Ed era anche straniero, in quel luogo.

Si voltò quasi distrattamente, notando poi quattro ragazzini in bicicletta: quello che sembrava il più grande era sceso dalla bici, i capelli riccioluti e scuri scompigliati dal venticello mattutino e l'espressione annoiata mentre stringeva le mani attorno al manubrio. Accanto a lui, ancora in sella, c'erano altri due ragazzini: una bambina dalla pelle scura, gli occhi che parevano brillare alla luce del sole e i capelli ricci legati in una coda, e un bambino un po' più basso, i vestiti coordinati e gli occhiali tondi sugli occhi. Un altro era a pochi passi dal più grande, capelli unti e neri appiccicati alla fronte e la bocca sporca di cioccolato.

-Ciao- cercò di trovare una parola per iniziare una conversazione pacifica -bambini-. Era il primo termine che gli era venuto in mente.

-Ciao straniero- il più grande si era avvicinato con fare audace, seguito dagli altri -chi sei?-

Aziraphale non amava il modo con cui il ragazzetto lo stava chiamando, però non voleva sembrare quel tipo di vecchio che richiedeva rispetto ad ogni modo. -Mi chiamo Aziraphale- rispose con semplicità, accennando un sorriso. 

-E cosa ci fai qui?- il ragazzino con la bocca sporca aveva ancora un tono impastato dal cibo.

-È un giornalista, me l'ha detto mia mamma- la risposta l'aveva data quello con gli occhiali.

-E cosa ci fa un giornalista qui?-

-Deve indagare su Crawly. Vero?- l'unica ragazza aveva preso la parola.

-Vero- rimase sorpreso dalla documentazione di quei due. Non pensava che le notizie potessero correre così in fretta.

-Hai un nome molto stupido- borbottò quello con la bocca sporca.

-Brian!- la ragazzina lo rimbeccò, il tono severo che si udì per la strada  prima di riferirsi al giovane uomo -scusalo. È un cretino-.

-No seriamente- Brian, così si chiamava il ragazzino, scese dalla bici, le braccia incrociate al petto ed espressione dubbiosa -è strano-.

-Sì, ma non c'è bisogno di dire che è stupido- l'occhialuto prese le difese del biondo abbastanza confuso.

-Anche io dico che è un nome stupido- quello che sembrava più grande si avvicinò, mettendo il cavalletto della bici per farla restare ferma. -Ma non penso che lui sia stupido-.

-Adam, dire alle persone che hanno un nome stupido è maleducato- l'occhialuto aveva proprio intenzione di prendere le parti di Aziraphale, che, non sapendo cosa fare, si limitava a sorridere imbarazzato.

-Non sono maleducato, Wensleydale- asserì l'altro, che da quello che si stava capendo si chiamava Adam.

-Sì che lo sei- si intromise ancora la ragazza, l'atteggiamento austero che sicuramente non passava inosservato.

-Sei sempre così bacchettona, Pep-

-Non sono bacchettona, Adam, ma voglio che questo signore non si senta a disagio- si rivolse al diretto interessato -è a disagio, signore?-

-No, no- il biondo non sapeva perfettamente come rispondere, limitandosi ad annuire -il mio secondo nome è Zeke, sono sempre stato abituato a commenti del genere- tentò di buttarla sul ridere, accennando quella che doveva sembrare una risata.

-Zeke è un personaggio dell'Attacco Dei Giganti- l'occhialuto, il cui nome era Wensleydale, sembrò molto più interessato alla conversazione di quanto non fosse già prima.

-E questo ti rende una persona con il nome stupido ma figa. Cioè- Adam voleva mettere un paio di pezze -una parte del tuo nome è imbarazzante, ma una parte del tuo nome è figa-

-Anche io vorrei chiamarmi come un personaggio di un anime- Brian si limitò a grattarsi il mento con fare sognante -tipo Orochimaru-.

-A me piacerebbe chiamarmi Ymir, perché è anche il nome di una divinità nordica- aggiunse orgogliosa Pepper, quando si sentirono altri passi arrivare dalla strada.

Era una donna alta, l'aspetto severo reso tale dal corsetto che indossava sopra la lunga gonna scura. Sembrava avere la stessa età di Aziraphale, ma il trucco scuro attorno agli occhi la faceva sembrare più anziana. Teneva una borsa a tracolla, e con passo elegante si stava dirigendo verso il gruppetto.

-Cosa sta succedendo qui?- il suo tono di voce era tale e quale alla sua espressione contrita, mentre osservava i ragazzini con rimprovero.

-Stavamo parlando con lo straniero, signorina Device- spiegò subito Adam, l'espressione che aveva perso quella patina di autorità.

-E cosa gli stavate dicendo?-

-Non c'è niente di cui preoccuparsi, davvero- Aziraphale non poteva più tollerare tutta quella pressione, si stava centrando troppo l'attenzione su di lui e questo non gli stava piacendo.

Lo sguardo della donna si posò sul giovane, squadrandolo da cima a fondo. -Tu sei il giornalista, vero?- disse, incrociando le braccia al petto.

-Sì. Mi chiamo Aziraphale Fell- tentò di porgerle la mano, ma a quanto pare lei non aveva voglia di stringere mani.

-Anatema Device- si rivolse di nuovo ai ragazzini, che avevano già montato in bici pronti ad andare via. -Se vi becco ancora ad importunare il signor Fell farò in modo di usare tutte le mie capacità per farvi rimpiangere la vostra scelta- soffiò. Aziraphale pensò che fosse uno scherzo, una battuta.

Ma le espressioni terrorizzate dei bambini, uniti alla velocità con cui si allontanarono per la strada, gli fecero cambiare idea.

Si rivolse ancora al giovane, sfiorandosi con una mano i lunghi capelli scuri. -Andiamo. Dobbiamo fare due chiacchiere-.



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Capitolo 4
*** capitolo terzo ***


Il bar era esattamente come se l'era immaginato: piccolo. C'erano sì e no dieci tavoli, l'atmosfera calda e umida già di prima mattina. Aziraphale, nel sedersi, si era messo ad osservare tutte le chincaglierie distribuite per le pareti, vecchi cimeli di caccia e articoli di giornale, per poi essere riportato all'attenzione dalla voce della donna.

-Il fatto che lei sia stato intimidito da un gruppo di marmocchi dice un sacco di cose sulla sua personalità, signor Fell- il tono era metodico, quasi come quello che avrebbe potuto avere una professoressa durante un esame.

Ovviamente, il diretto interessato restò per qualche secondo interdetto, iniziando a tamburellare nervosamente le dita sul legno. -Non faccio sempre così- cercò di rispondere -nel senso, non sempre mi faccio intimidire facilmente- era una situazione che non gli stava piacendo.

-Lo spero- il tono della donna era di pura sufficienza.

-Ho fatto boxe. Per qualche tempo, almeno-

-Interessante-

-Certo, non ero il massimo, però un paio di vittorie...-

-Qua non scherziamo, signor Fell- con un breve gesto della mano, la donna ordinò due birre, per poi tornare a scrutare il ragazzo. Gli occhi scuri che parevano essere stati fatti di lava raffreddata. -Lo so che lei pensa sia tutto uno scherzo, una pagliacciata- una pausa, soltanto per bere un sorso del liquido dorato -ma noi non saremo il suo caso bizzarro della settimana su cui scrivere per far capire a quelli di città quanto sia stupida la gente di montagna-.

Aziraphale non era proprio sicuro delle intenzioni della ragazza, ma l'ultima cosa che voleva fare era cattiva impressione. -Non era mia intenzione- riuscì a mormorare, non azzardandosi nemmeno a toccare la bevanda. 

Un sorriso strafottente. -Ovvio che non lo è, era solo per vedere la sua reazione-. Gli porse la mano con energia, facendo in modo che l'altro ricambiasse la stretta con altrettanta forza. Una nuova luce stava illuminando i suoi occhi. -Possiamo darci del tu, ora?-.

-Perfetto-

-Allora- sentendo quella risposta, la ragazza prese dalla borsa dei libri e dei quaderni, post it infilati un po' ovunque e scarabocchi ai lati ritraenti la stessa figura. -Il mio nome è Anatema Device, come ti ho già detto, e sono la principale studiosa del caso Crawly, in quanto unica testimone in vita-.

Aziraphale aveva iniziato a scartabellare tutti quei fogli, leggendo sparute informazioni. -Laureata in zoologia...hai scritto davvero tutti questi saggi sui mostri?-

-Non mostri- leggermente stizzita da quell'affermazione, si premurò di rimbeccare l'altro -ma criptidi-. Si mise più comoda sulla sedia, accavallando le gambe con fare audace. -I mostri non esistono, esistono solo esseri che sanno nascondersi bene-.

-Come...com'è andato il primo incontro? Con la bestia, intendo- voleva iniziare subito le indagini, un modo per rompere il ghiaccio quasi.. Era comunque lì per un motivo.

-Tutto ciò che la gente pensa in merito a Crawly è falsa- iniziò con quella frase enigmatica, scartabellando i fogli davanti a lei. -Non è un animale, un grande serpente come molta gente crede- Aziraphale non sapeva perfettamente dove volesse andare a parare -è una persona. O qualcosa di molto simile ad una persona-.

Il biondo ripensò alle parole del tassista. -E sa parlare?-.

-Sì. Ricordo di aver sentito delle frasi che probabilmente si riferivano alla mia famiglia-

-Alla tua famiglia?-

-Esatto- mosse le ultime gocce di birra nel bicchiere con un movimento della mano, per poi continuare il discorso -la mia famiglia è tra le più antiche di Tadfield. Agnes Nutter era una mia antenata, e ha passato un bel po' di conoscenze a buona parte della famiglia-. Nel guardarsi intorno si poteva notare una buona quantità di ansia -non siamo visti di buon occhio, noi Device-.

-Immagino- non sapeva benissimo come rispondere. Non si era mai trovato in situazioni simili.

-Non puoi immaginare- scrollò le spalle, tornando ad osservare i manoscritti -ma sono cose superate, davvero. Al momento dobbiamo soltanto concentrarci su questo-. Con un movimento rapido della mano gli mostrò una foto. Era in bianco e nero, ma si potevano benissimo scorgere due occhi e una sagoma, in tutta quella oscurità. -Questa foto è stata scattata circa una settimana fa, vicino ad una proprietà privata poco distante da qui-.

Aziraphale la prese in mano, calcandosi gli occhiali sugli occhi per mettere bene tutto a fuoco. Subito, un brivido gli corse lungo la schiena. Non era la sagoma di un animale, e quegli occhi erano troppo grandi per appartenere ad un tasso. Passava le dita incredule su quello che pareva il braccio destro della creatura, cercando di capire qualcosa in più.

-L'ultimo avvistamento, almeno prima del mio, risale agli anni ottanta. Pare che all'abitante della casa sia stato sottratta una radio e alcuni dischi- la donna si piegò verso la foto, riprendendola tra le mani. -Questa volta, non si sono registrati furti-.

-Quindi, le apparizioni di questo Crawly spesso sono connesse a dei furti?-

-A quanto pare, ma la maggior parte delle volte, almeno secondo i documenti, le cose ricomparivano casualmente nell'esatto luogo in cui erano scomparse-

-Molto interessante- era un peccato per lui on avesse portato un block notes dove appuntarsi tutto.

-È esattamente così. Per questo pensiamo possa essere intelligente come un essere umano-

Aziraphale, forse, si era perso un pezzo. C'era altra gente, ad indagare? -Cosa intendi per "pensiamo"?- chiese, una punta di incredulità nella sua voce.

-Oh, forse non te l'ho detto- con noncuranza, terminò la birra di Aziraphale -ma non saremo gli unici ad indagare a questo caso. Oltre a noi, ci saranno ovviamente padre Gabriel per...- fece un ampio gesto della mano, in modo da spiegarsi meglio -rappresentanza religiosa, qua funziona così-

-In che senso?-

-Qua la gente non si fida molto della scienza. O di me, in ogni caso. Quindi c'è sempre bisogno di padre Gabriel, in ogni circostanza- si slanciò verso il giovane con fare affabile -molti pensano sia un demonio, e che questi boschi siano da esorcizzare più che da studiare-. Il suo tono non pareva essere dei più allegri.

-E oltre a quello? C'è qualcun altro?-

-Newt Pulsifer. È un esperto di informatica e di tecnologia in generale-  fece un profondo sospiro -è sempre meglio avercelo intorno-.

-Quale sarà la prima mossa?-

-Andremo nel bosco, ovviamente- era quello che il biondo sperava meno di sentire. Non era mai stato un grande fan di esplorazioni o cose così, però oramai era lì, e non poteva fare molto.

 

Anatema si era imposta come guida, mentre si dirigevano a passo veloce verso la parte a nord del paese, quella più vicina alle montagne. Aziraphale non poté fare a meno di notare l'atteggiamento autoritario della ragazza, che poco prima aveva visto addentare con cautela un panino al burro e marmellata e che si era messa a dialogare amabilmente con un'anziana signora al bancone, l'aspetto antico del trucco e dell'atteggiamento che gli avevano infuso della curiosità nel cuore: chi era quella donna? E perché lei sembrava essere gentile con tutti tranne che con lui e quei ragazzini?

-Quella signora era la mia maestra delle elementari, nel caso tu te lo stia chiedendo. Si chiama signora Tracy- la voce della ragazza lo fece riemergere dai suoi pensieri, facendolo restare sorpreso. Tra le sue abilità di cui aveva parlato c'era anche la lettura del pensiero?

-Non...non me lo stavo chiedendo-

-Sì, invece. Ho imparato a riconoscere quando una persona ha dei dubbi- si fermò di scatto, posando le mani ai fianchi e scrutandolo. Aziraphale notò solo in quel momento i suoi occhiali, brillare alla luce opaca del sole sopra le loro teste -si vede dal viso di una persona. Dal modo in cui sono chiuse le sue labbra, un po' così- strinse la bocca, fino a dare l'impressione di aver resto bianche le sue labbra rosate. -È semplice riconoscere queste cose, se fai pratica-

Aziraphale decise di non commentare, limitandosi ad annuire.

-Ed è anche la tua vicina di casa. È una donna molto disponibile, se hai bisogno di qualcosa ti ho raccomandato-

Il biondo rimase zitto nel vederla voltargli le spalle e continuare a camminare, finché una domanda non gli sorse quasi spontanea. -Dove stiamo andando?- la voce in sé era innocente, non molto diversa da quella di un marmocchio lamentoso.

-A casa mia- rispose l'altra con semplicità, quando arrivarono davanti ad un piccolo cottage, al confine ultimo con la foresta. Era piccolo, più piccolo del suo, e il giardino andava totalmente a fondersi con la foresta. Percorsero gli ultimi metri totalmente in silenzio, rovinato soltanto dallo schiocco del cancelletto agli ordini della donna, quando arrivarono alla piccola porta verde.

-Scusa il disordine- si scusò Anatema nell'aprire la porta, e subito un forte odore di spezie investì Aziraphale con tutta la prepotenza del caso.

Quella sì che sembrava la casa di una strega. Le pareti piene di barattoli contenenti vecchie erbe erano solo la punta di quello che si poteva trovare anche solo nel corridoio di quel cottage: piccoli altari erano posti un po' ovunque, assieme a vari quadri ritraenti fiori. Strumenti alchemici erano posti disordinatamente sul tavolo, quando arrivarono in cucina. Assieme a vari attrezzi tecnologici, cavi e cavetti. Un uomo era seduto dietro ad un portatile, la schiena ricurva e i capelli stopposi che parevano essere cresciuti a dismisura.

-Ciao An- borbottò la figura, senza nemmeno alzare lo sguardo -è arrivato il giornalista?-

-È qui con me- posando la borsa su una delle sedie, si sedette pure lei, invitando l'altro a fare lo stesso. -Fai pure come fossi a casa tua-.

Aziraphale non era mai stato un campione di socialità Non amava entrare nelle case altrui nell'esatto modo in cui aveva fatto, limitandosi a stare lì come un palo in attesa di ordini più chiari. Sapeva che, se si fosse anche solo osato a sedersi, tutto sarebbe finito nel peggiore dei modi.

-Piacere, Newton- con considerevole ritardo, il giovane abbandonò la vista del computer, porgendo la mano all'altro. Era successo troppe volte in una singola giornata.

-Aziraphale Fell- rispose. La stretta durò poco più che un istante, venendo prontamente slegata dall'altro.

-Adesso che ci siamo tutti e tre, penso sia ora di iniziare con la storia- la donna si accomodò meglio sulla sedia, prendendo altri libri da uno scaffale vicino al tavolo. Ne aprì uno, mostrando l'illustrazione di una bestia dalle fattezze serpentine e le classiche caratteristiche che Aziraphale aveva visto spesso per indicare un demonio: pelle rossa, corna caprine e occhi dalla pupilla felina. -Questa è uno dei primi studi sul nostro uomo, datati ai primi anni trenta del diciannovesimo secolo- gli occhi correvano veloci sulle parole, come automobili su un'autostrada -si era registrato il furto di una teiera, ma come puoi leggere qui- con una delle lunghe dita gli indicò qualche riga più sotto -è stata restituita due giorni dopo e il proprietario aveva potuto scorgerlo e l'aveva descritto a quello che era il prete del paese all'epoca, l'unico che sapeva scrivere-.

-E a quanto pare le aree più soggette sono quelle vicino al cottage della signora Tracy- Newt non sembrava uno sprovveduto. Si stava mordicchiando nervosamente il labbro, mentre il riflesso azzurrino dominava totalmente le lenti degli occhiali sporchi.

-Quindi...- Aziraphale arrivò solo poco dopo alla conclusione, sentendo l'ennesimo brivido lungo la schiena. Ovviamente, il cottage che aveva affittato era esattamente nella zona di maggiore interesse, un ennesimo scherzo del destino, del genere che lo accompagnavano da quando era nato. -Vicino a casa mia?-.

-Proprio attaccato. Esatto-

-Non sembra una cosa tanto entusiasmante-

-Sì, invece. Sarebbe molto interessante sapere perché proprio lì si concentrano gli avvistamenti, ma penso che non lo sapremo mai- Anatema si era spostata verso la cucina, prendendo una tazza per ciascuno e riempiendola di tè. L'odore acre non poté che infastidire il giovane, che non aveva mai sentito un odore così forte in vita sua. 

La padrona di casa, ovviamente, aveva notato quella smorfia disorientata, aggiustandosi gli occhiali prima di prenderne un sorso. -È una ricetta di famiglia, serve a stare svegli più a lungo e a non sentire la fatica-.

Aziraphale annuì con poca convinzione, bevendo poi anche poi lui un sorso di quell'intruglio. Era palesemente caffè unito ad una buona dose di cannella e quello che sembrava cacao. Lo ingoiò, sperando di dimenticarne il sapore il più velocemente possibile. 

-Dopo un po' ci si abitua- Newt aveva chiuso il computer, stropicciandosi gli occhi sotto gli occhiali.

-Ci si abitua a cosa?- con aria divertita Anatema fece questa domanda, ottenendo come risultato soltanto uno sguardo che rassomigliava a quello di un cane colpevole. Poi si rivolse al biondo, alzando un sopracciglio. -Non penso sia facile essere sposati con una strega-.

Aziraphale ingoiò della saliva, sorpreso dalle parole della donna. Non sembrava fossero sposati, aveva pensato fossero solo coinquilini. -Capisco- si limitò a dire, cercando di non sembrare maleducato o disinteressato.

-In realtà non è così male, davvero- Newt sembrava oltremodo imbarazzato nel parlarne -e poi, questi intrugli sono molto utili, soprattutto per quello che andremo a fare stasera- . Il tono misterioso aveva fatto rabbrividire ulteriormente il biondo, che ormai aveva capito essere costante vittima di cose che tutti parevano sapere tranne, ovviamente, lui. 

-Cosa...cosa andremo a fare questa sera?- cercò di sfoggiare un sorriso il più possibile naturale, finendo per mostrare una smorfia disgraziatamente grottesca sulle sue guance colorite. Sapeva già la risposta, ma voleva sentirlo da altri. Solo per sentirlo più distante, quasi come fosse un effetto catartico.

-Andremo nel bosco, ovviamente- le parole di Anatema arrivarono forte e chiaro al suo orecchio.

 

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Capitolo 5
*** capitolo quarto ***


Aveva sentito che spesso le persone che abitano vicino a delle foreste sentono dei rumori provenire dagli alberi, ma non pensava potessero essere così forti.

La notte stava scendendo sul bosco, una coperta atta a coprire tutto il mondo almeno per qualche ora, e le fronde parevano essere tante mani pronte a tagliargli la carne senza pietà. -Perché non potevamo venire di giorno? Avremmo visto meglio- si lamentò il biondo, stringendo tra le dita una torcia.

Si era preparato tutto il giorno, a dire la verità. Aveva preso uno zaino che teneva ripiegato in una delle sue due borse e l'aveva riempito di bottiglie d'acqua, qualche barretta al cioccolato che era riuscito a comprare nel minuscolo negozio di alimentari a fianco del bar, un maglione, un block notes e una torcia. Tutto il necessario.

Ma non si immaginava di dover seriamente andare in un bosco sconosciuto di notte.

-Perché di giorno, caro signor Fell, abbiamo più possibilità di farcelo scappare- il tono di padre Gabriel era il più deciso che avesse mai sentito, la figura statuaria dell'uomo che sembrava quasi confondersi con l'oscurità a causa della veste nera con cui l'aveva accolto la sera prima.

-E poi perché non sappiamo quali possano essere effettivamente le sue abitudini. In un documento degli anni dieci si hanno testimonianze di avvistamenti diurni, quindi potrebbe anche non essere un notturno- Anatema era quella più vicina di tutti al confine con il bosco, mentre osservava con attenzione un quadernetto illuminato da una torcia. C'erano scarabocchiati sopra delle cose di cui nemmeno Aziraphale riusciva a capirne il significato, nonostante avesse visto la ragazza stessa scriverci sopra quella mattina. 

Per lui, in realtà, ogni cosa che aveva visto, fatto e pensato quella mattina sembrava solo un sogno perverso. Quelle incisioni, quei disegni di quella creatura descritta a tratti in modo orribile, con zanne e corna e squame attraverso tutto il corpo, e in altri documenti in modo così aggraziato, quasi si trattasse di una qualche regina delle fate o perfino un unicorno, avevano istigato il dubbio nel suo cervello, quasi come ogni cosa fosse altresì un'illusione.

Forse, era esattamente così. Forse non si trovava nemmeno al margine di una tenebrosa foresta, ma davanti alla sua finestra che dava sulla giungla urbana londinese, a contare le gocce di pioggia che rapide scorrevano sul vetro. 

Probabilmente era proprio lì, però il vento freddo e quei rumori di scarpe gli fecero capire pienamente di trovarsi a Tadfield, nel profondo nulla, assieme a dei perfetti sconosciuti che avrebbero potuto benissimo ucciderlo in ogni momento opportuno.

Aveva visto abbastanza film da sapere che spesso la storia andava così: uno sventurato arriva in una cittadina ai margini di una foresta, e poi per la fine del film le sue ossa vengono usate come copricapo dai membri della setta che l'hanno sacrificato a qualche antica divinità pagana. 

Funzionavano sempre così quei tipi di storie.

Certo che funzionavano così. Probabilmente i ragazzini che aveva incontrato quella mattina non avevano mai visto qualcuno provenire dall'esterno, per questo l'avevano chiamato straniero. Erano comunità montane, isolate dal mondo.

Ma non c'era motivo per essere preoccupati, in fondo. Padre Gabriel gli infondeva talmente tanta sicurezza con il suo sguardo fiero da fargli dimenticare qualsiasi suo dubbio, quasi come fosse una magia. Più osservava i suoi profondi occhi violacei alla luce della luna, più si dimenticava del mondo attorno a lui, volendo solo e soltanto trovare l'oggetto del desiderio quasi per renderlo fiero. Anche se l'aveva incontrato la prima volta la notte prima, quando il freddo e il timore gli stavano intorpidendo i sensi fino al limite della coscienza, avrebbe benissimo donato la sua vita, per lui.

Pareva un magnete e lui un chiodo di ferro. Talmente concentrato com'era su quelle pupille, non notò una sagoma allungata che sporgeva dalla veste, che poteva essere una bottiglia o una fiala di qualche profumo.

O un'arma.

-Allora,- il tono elettricamente agitato di Newt lo risvegliò dai suoi pensieri torbidi di ansia, facendogli sbattere gli occhi dietro agli spessi occhiali da vista -vogliamo entrare?-.

 

Era cresciuto a Londra, non aveva mai avuto molte esperienze con la natura.

Sua madre si era sempre premurata di avvicinarlo alla vita dell'avventuriero, in giovane età. I campi estivi raramente funzionavano, forse perché lui riusciva sempre a trovare il modo di scampare alle attività sportive previste con degli astuti stratagemmi quali nascondersi nelle cucine, e le scampagnate con la famiglia in luoghi distanti terminavano la maggior parte con dei pianti disperati da parte del biondo perché il terreno, troppo accidentato e scosceso, era stata la causa di una rovinosa caduta con conseguente sbucciatura di ginocchio.

Non era mai stato un appassionato di natura, proprio no. E crescendo era diventato forse ancora di più un ammiratore della città, degli edifici che facevano a gara per arrivare al cielo e dei locali dalle luci neon che restavano aperti fino alla mattina, dandogli un buon rifugio quando il mondo lo teneva sveglio.

Avrebbe preferito essere in uno di quelli a bere da un bicchiere ancora sporco di rossetto e flirtare con l'ennesimo uomo dal cuore spezzato, piuttosto che camminare nella notte sopra quel manto di foglie morte. I loro passi sembravano essere soltanto dei fantasmi, i suoni della notte a coprire il rumore ovattato dei loro piedi su quei cadaveri una volta verdi.

Quella situazione, ad Aziraphale, non stava piacendo. Per nulla. Si sentiva intrappolato, nell'oscurità rotta soltanto dai raggi delle torce, e dannazione avrebbe dovuto rifiutare l'incarico.

Non perché avesse effettivamente del buio, le cose che lo spaventavano erano ben altre, ma aveva paura di cosa poteva nascondere. E non solo quella bestia che aveva imparato a conoscere durante quelle ore passate in quella sottospecie di apotecario della casa di Anatema e Newt, ma anche di orsi, tassi particolarmente disturbati dalla luce, gatti e cani randagi e potenzialmente rabbiosi, cinghiali con cuccioli, e aveva sentito testimonianze di persone che avevano avuto incontri del terzo tipo con delle trappole poste dai cacciatori, e tutte loro avevano detto che c'erano esperienze ben migliori.

Ma non poteva lamentarsi. Andiamo, aveva già fatto fin troppo la figura dello sprovveduto della grande città, pertanto era giunto il momento di legare la lingua alla base della bocca, e non slegarla mai più.

-Abbiamo fatto delle esplorazioni, in passato- Anatema era competente, e aveva l'aria di saperlo. Per tutto il tempo non aveva sorriso nemmeno una volta, nemmeno nel vedere il marito inciampare rovinosamente e scoppiare in una fragorosa risata.

Nulla.

La concentrazione le modificava i lineamenti mentre continuava a camminare velocemente, quasi come avesse tutto il bosco stampato nella memoria e avesse percorso lo stesso sentiero per secoli interi. Sembrava che il bosco fosse invero la sua dimora, e lei il suo turbolento regnante. -Abbiamo trovato un cumulo di oggetti appartenenti a tante epoche, e poco altro- il suo fiato era spezzato saltuariamente da lunghi sospiri dovuti alla fatica, ma oltre a quello continuava a parlare con il fuoco nella gola -potrebbe essere benissimo qualche sorta di discarica abusiva, ma, prendendo per buona la teoria che il nostro amico sia un amante del taccheggio, questo potrebbe essere un grande indizio-.

-In che senso "cumulo di oggetti"?- la situazione, almeno per Aziraphale, stava diventando fin troppo caotica, fin troppo fiabesca. Se aveva capito bene, cosa che dubitava altamente, avevano trovato una catasta di chincaglierie appartenenti a varie epoche, esattamente come un qualche tipo di tesoro di Smaug, e si erano subito convinti che fosse effettivamente il tesoro di questo Crawly.

Ma non avevano detto che spesso ridava gli oggetti? Quale poteva essere il senso? Come poteva una creatura reputare alcuni oggetti importanti e altri meno importanti? C'era una sorta di selezione da parte sua? Erano davvero di fronte a qualcuno di intelligenza tale da avere il senso di colpa nell'aver rubato? Forse stava fantasticando, con molta probabilità stava dando troppo sfogo alla sua fantasia, però in tal caso si era trovato davanti ad un caso eccezionale! Qualcosa di immensamente superiore a quello ci si era aspettato di trovare! Erano  davanti ad un prodigio. Ad una nuova specie. Una nuova evoluzione della razza umana.

O forse no. No, probabilmente era solo una discarica abusiva.

-Un accumulo di cianfrusaglie perfettamente conservate, alcuni pezzi paiono avere un gran bel valore storico e sarebbe impossibile pensare possano essere immondizia- alla conversazione entrò Newt, zampettando dietro la moglie e stringendo tra le mani un GPS lampeggiante.

-Giusto. Mi pare assolutamente giusto- Aziraphale era sempre più scettico, al riguardo. Era sempre stato quel tipo di persona da "se non vedo, non credo". E anche in quel caso, se quella catasta di roba non si presentava davanti ai suoi occhi, lui non avrebbe creduto ad una singola parola.

-Capisco il tuo scetticismo, signor Fell- il tono di Anatema si era addolcito, nonostante il sottotono affaticato si percepisse comunque forte e chiaro tra le sue parole. -Ma deve crederci, davvero. Non siamo dei ciarlatani- seguendo lo svolazzare della sua gonna e dopo aver svoltato un albero, il gruppo di persone si ritrovò davanti il cumulo.

E che cumulo.

Era una piramide scomposta di oggetti che troneggiava nel mezzo di una minuscola radura, i raggi impietosi della luna che mostravano tutto l'orgoglio di centinaia (migliaia!) di oggetti, scompostamente gettati lì come a far figura, come fosse un altare per compiere qualche rito antico. Aziraphale poteva scorgere un gran numero di oggetti: un grammofono rotto in un angolo, qualche centinaio di occhiali da sole di varie forme e molti dalle lenti spaccate, piatti, annaffiatoi e molte altre cose.

Sembrava la stanza di un bambino, a vederla così. Molti oggetti inutili, molti rotti senza un motivo.

Il fiato del biondo si dimezzò.

-Cosa ne pensa?- il tono del prete era grave, mentre l'altro cercava in ogni modo di comprendere qualcosa. Cosa doveva dire? Non era un esperto, ovviamente, ma poteva trarre delle conclusioni: era un bel passo avanti, nelle indagini. C'erano oggetti soltanto di un tipo, ad esempio quegli occhiali da sole, e a meno che quello non fosse una sorta di cimitero di occhiali da sole, era improbabile che fosse stato creato da molte persone insieme. Sembrava che l'essere avesse delle ossessioni precise: i dischi spaccati dei Queen e dei Velvet Underground non si contavano, e tutti quegli occhiali da sole...

Non c'era dubbio: era intelligente.

-Non sono un esperto, certo- si portò gli occhiali all'indietro, cercando di contenere l'emozione. Non si sarebbe mai e poi mai aspettato una cosa simile. Tutti quegli oggetti...non erano certamente stati buttati lì a caso. Quello era un magazzino. -Ma penso che sia stato da una sola persona, non una discarica-. Mormorava quelle parole come fossero formule magiche, quando in realtà erano solo fatti. -E pare sia stata fatta da un qualcosa di intelligente- indicò il luogo dove erano accatastati tutti i gli occhiali -guardate, sembra che sia appassionato solo di certi tipi di oggetti divisi in parti diverse- continuò, indicando all'evenienza le cose che si stava affrettando a spiegare. Anatema lo osservava corrucciata, annuendo all'evenienza. -Cosa ne dici, Anatema?-.

-Avevo già ragionato su queste cose- il suo tono non era poi così dissimile dai versi dei gufi che poteva sentire in lontananza, nei suoi ragionamenti cupi -e volevo sentire un tuo parere, ecco-. Fece un cenno a Newt, che subito si mise ad armeggiare con il suo grande zaino fino a tirare fuori una grande fotocamera. -Faremo delle foto, e le aggiungeremo alle altre-.

-In che senso alle altre?!- il biondo era sul ghiaccio sottile, parlando di calma. C'erano davvero altre lettere?! E lui era dovuto davvero andare in quel postaccio di persona?! Non poteva crederci, non voleva crederci, ma oramai c'era poco da fare. Era sempre stato bravo ad incassare tutto, a stare zitto e a mangiare ogni cosa gli fosse servita davanti agli occhi.

Sospirò, aspettando la risposta dell'altra con il nervoso che continuava sempre di più a riempirgli il petto. Anche nella foresta era costantemente considerato una pezza, a quanto pare.

-Le altre. Volevamo solo farti vedere questo di persona, perché le foto non possono rendere come dal vivo- anche padre Gabriel faceva parte di quel piano malato che l'aveva tirato via da quella casa che stava imparando a conoscere per fare quell'esplorazione insensata.

Aziraphale fece un sorriso sghembo, cercando di controllare il tremolio della sua palpebra, per poi avvicinarsi alla catasta, guidato dalla luce della torcia che squarciava l'oscurità e quella mostruosità davanti ai suoi occhi. Doveva fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

Si piegò, per poi sentire tra le mani un oggetto liscio e freddo: era un paio di occhiali da sole dalla lente rotta, uno dei tanti, per poi esaminarlo. Era  un modello vecchio, forse l'aveva visto nelle cose di suo padre, però poteva essere una buona prova. -Prenderò questo come prova- borbottò, mostrando la sua preda agli altri.

Nel fare questo movimento, si sentì vagamente osservato dalle fronde.



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Capitolo 6
*** capitolo quinto ***


Il pomeriggio a Tadfield sembrava non finire mai. L'afa entrava nel piccolo cottage come un intruso in piena notte, non riuscendo a farlo alzare dal letto. Osservava il soffitto, sentendosi costantemente degli occhi addosso. Sentiva qualcosa, alla bocca dello stomaco. Qualcosa di strano, che non riusciva ad abbandonarlo. Qualcosa lo stava fissando. Ma non sapeva cosa.

Bah, forse si era trascinato dietro le paure della notte prima, quando erano andati nel bosco senza un vero motivo.

Il soffitto era dipinto, come poteva osservare. C'erano degli angioletti dipinti con poco gusto, abbinamenti di colore che avevano del ridicolo e animali che non parevano proprio animali, più delle sottospecie di demoni presi dall'ultima bolgia dell'inferno.

Sospirò. Erano le due del pomeriggio ed erano cinque minuti che aveva aperto gli occhi, una cosa del genere non era mai successa. Aveva sempre avuto l'abitudine di dormire poco o nulla, fino a costringerlo ad imbottirsi di medicinali quando era più giovane, però quel giorno il cervello aveva deciso di recuperare tutto il sonno perso in una sola botta. 

Sensazione orribile, davvero.

Tutte le ossa erano bloccate come fossero state incollate tra di loro, i denti parevano incollati alla lingua rosata mentre gli occhi, ancora spalancati, sentiva che si stavano riempiendo di polvere, quando sentì qualcuno bussare.

Erano dei colpi duri, freddi che si sentirono in tutta la casa, e che lo ridestarono da quel suo torpore che pareva volerlo annegare nel materasso e strozzarlo nelle molle malmesse al suo interno.

Si alzò dal letto, camminando pigramente verso la porta. Chi poteva essere? Con molta probabilità era Anatema, però bussare a quell'ora non era sicuramente da lei. Lei lo avrebbe svegliato alle sei.

-Arrivo, arrivo...- era in pigiama: la canottiera era appiccicata alla sua pelle, mentre i pantaloncini scomparivano sotto il tessuto della felpa che si era buttato addosso per avere un aspetto un minimo decente. Aprì la porta con un movimento rapido della mano, trovandosi davanti uno spettacolo che lo sorprese subito: una vecchia donna dai capelli quasi arancioni era a pochi passi dalla porta aperta, il sorriso leggermente giallastro che portava la rese una figura quasi sovrannaturale, che fece sbiancare il ragazzo al primo sguardo.

-Buongiorno caro, sono Marjorie Tracy, la sua vicina- la donna annuì con il capo, cercando in qualche modo di sembrare accomodante agli occhi dell'altro probabilmente notando la sua espressione inquietata.

-Buongiorno- abbassando lo sguardo, vide che la signora aveva tra le mani un cesto da cui riusciva a scorgere dei biscotti. -Molto lieto, il mio nome è...-

-Aziraphale Fell, lo so- gli fece l'occhiolino, il movimento del collo flaccido che fece tintinnare la collana di pietre che portava con orgoglio. -Anatema mi ha parlato tanto di lei, il giornalista della capitale-. 

A quelle parole, Aziraphale piegò il volto in un sorriso imbarazzato, per poi guardarsi: era un disastro. -Bene. Scusi...scusi per l'aspetto- cercò di avere un comportamento che potesse distogliere l'attenzione dal suo abbigliamento sciatto, indicando l'interno della casa. -Vuole entrare?-.

Aziraphale non era mai stato abituato a invitare persone, a stare con estranei. Si affrettava a chiudere la felpa, mentre con la mente già vagava verso altri luoghi: lui non aveva effettivamente nulla da offrire. Caffè? Zero, tè? zero. Zero assoluto. Non aveva nulla, e si vergognava terrificantemente di quelle mancanze, la voce perentoria di sua madre che gli frullava nella testa mentre lo rimbrottava a causa della sua stanza disordinata.

-Ah, la casa della vecchia Didì- mormorò l'anziana entrando a piccoli passi, gli occhi resi sbiaditi dal tempo stracolmi di meraviglia e antichi ricordi. -Quando eravamo piccole giocavamo nel cortile tutti i giorni, sono contenta che l'abbia affittato un giovane così a modo come lei- con un movimento scattante, si rivolse di nuovo all'altro, scrutandolo come sono gli anziani sanno fare. -Resterà qui quanto?-.

-Un paio di mesi, per raccogliere prove e testimonianze varie e per stendere l'articolo- 

-Interessante. Si sta trovando bene qui a Tadfiel?- quella era la domanda che Aziraphale temeva di più: cosa doveva rispondere, andiamo? Doveva mentire? Doveva per forza mentire ad una vecchietta?

-Egregiamente, grazie dell'interessamento- a quanto pare, sì. Smontando bene il cassetto sopra il fornello aveva notato un vecchio pacchetto di tè che si era portato da casa e, benedicendo tutte le forze ultraterrene per quella seconda possibilità, mise l'acqua a bollire, mentre la signora Tracy prendeva il suo posto su una delle vecchie sedie della fatiscente cucina.

I due rimasero in silenzio per dei minuti che parvero eoni interi, il cinguettio soffuso degli uccelli proveniente dalla finestra che si univa come per magia al borbottio del bollitore in un angolo della cucina. Una strana energia che stava riempiendo l'aria e di cui Aziraphale voleva sbarazzarsi il prima possibile. 

-Padre Gabriel mi ha accolto subito con calore, proprio un uomo tutto d'un pezzo- attaccò nuovamente il discorso, sedendosi anche lui davanti alla donna. Non si sarebbe di certo aspettato quell'espressione quasi spaventata da parte della donna, con le labbra strette l'una all'altra e gli occhi ridotti ad una fessura.

-Quindi, padre Gabriel è stata la prima persona che ha incontrato appena arrivato, giusto?- il suo tono sembrava quello di un investigatore sul luogo del delitto.

La confusione si prese il possesso di Aziraphale, mentre versava il tè nelle uniche due tazze pulite che aveva trovato. -Sì...?-

-E lei si fida di lui?-

-Sì, perché?- tutto stava diventando sempre più strano, l'espressione della donna che lo metteva sempre più in soggezione. Lui si fidava di padre Gabriel, perché non avrebbe dovuto? Quella cittadina già non gli piaceva, e ora si mettevano anche le vecchie di mezzo?

-No, no. Niente- il volto della signora era ritornato normale, il sorriso dolce a solcargli il viso nell'esatto istante in cui portò la tazza alle labbra intrise di rossetto. -Era solo una curiosità- gli occhi della donna si posarono inaspettatamente su un oggetto in particolare, tra la marmaglia di chincaglierie che erano sbattute in bella mostra per tutta la stanza: gli occhiali da sole spaccati che aveva preso nel bosco la notte prima, come prova per tutto quello che stava succedendo. -Quegli occhiali sembrano un po' vecchiotti, dove li ha presi?- il tono tremava. La sua figura tremava. Si era alzata di fretta, prendendo la borsa e stringendola al corpo come se avesse visto un fantasma.

Aziraphale non capiva, ma rispose lo stesso: -li ho trovati nel bosco, mi servono come prove-. Il suo tono semplice doveva mitigare le acque. Non aveva preparato del tè per vedere il suo ospite scappare alla vista di occhiali da sole.

-Li ha trovati nel cumulo, vero?-

-Be'...sì?- i passi della donna li sentiva forte e chiaro mentre si avviava verso la porta guardandosi costantemente alle spalle.

-Nel caso- il sorriso nervoso della donna si era impresso nella mente mentre sgusciava via, assieme alle sue parole, mentre apriva la porta -le consiglio di chiudere bene la porta, questa notte-.

 

Come era uscito dal letto, c'era ritornato. Aveva passato la giornata a guardare vecchi documenti a casa di Anatema, facendo sì che sotto ai suoi occhi passassero costantemente parole su parole, anche quelle di cui ignorava il significato.

Nonostante fosse sempre stato un amante dei libri e della cultura, quella si era rivelata una vera e propria tortura psicologica.

Aveva fatto un poco di spesa, mentre rincasava, e dopo essersi scolato quattro tazze di camomilla anche solo per chiudere gli occhi senza riaprirli dopo pochi secondi, aveva gettato la spugna, ritornando ad osservare il soffitto.

Alla luce della luna la stanza prendeva sfumature di colore che non si sarebbe mai aspettato: i quadri di gattini appesi alle pareti che di giorno aveva trovato irritanti e pacchiani la notte diventavano cartigli di morte, segni intraducibili in lingue sconosciute che lo facevano tremare dalla punta dei piedi fino a quella dei capelli. Ogni cosa, ogni singola cosa, la notte diventava inquietante. Ogni rumore, ogni sussurro di quel vecchio cottage sperduto nel nulla a pochi passi dalla foresta parevano delle grida demoniache, che rapide arrivavano alle orecchie spaventate di Aziraphale.

Gli mancava Londra. Gli mancava sentire il rumore della strada sotto il suo appartamento che in qualche modo lo collegava alla realtà anche in quelle nottate infinite, l'odore della città che gli impregnava sempre le narici appena metteva fuori il naso dalla finestra, la luce dei grandi palazzi che lo accompagnava fino alla fine dei suoi tormenti fino all'alba. Gli mancava la sua casa, anche se era piccola e gli costava uno, anzi, due occhi del cranio. Gli mancavano le sue morbide coperte che avevano ben poco da invidiare a quel tessuto ruvido che lo copriva fino al naso. Il ticchettio della sua sveglia sul comodino a cullarlo al posto di quei fruscii che si stavano facendo sempre più insistenti.

Erano ritmati, provenivano dal soggiorno e sembravano essere prodotti da qualcosa.

O da qualcuno.

Aziraphale li sentiva forte e chiaro anche sotto le coperte, indeciso su cosa fare e soprattutto pietrificato dal terrore. Possibile si trattasse di un ladro? In quel posto? No, probabilmente era la sua immaginazione che stava iniziando a fare brutti, bruttissimi scherzi. Con tutto quello che stava succedendo, con tutto quello che aveva visto e e sentito era normale avere incubi. Era normalissimo avere delle illusioni uditive e roba così. Era  psicologia, tutta autosuggestione. Nulla era reale. Doveva smetterla di preoccuparsi.

Ma la signora, sempre quel giorno, gli aveva consigliato di chiudere a chiave la porta. Dopo aver visto gli occhiali appoggiati. Ma non poteva essere vero. Non era vero. Era solo una storia. Era solo autosuggestione. Autosuggestione. Autosuggestione.

Una padella aveva colpito il pavimento. Due. Tre.  I passi si stavano avvicinando verso la stanza. Aveva intravisto un'ombra dalla porta. Il cuore stava scalpitando nel petto come un cavallo selvaggio. Doveva fare qualcosa. Doveva fare qualcosa.

Si alzò di scatto nel sentire i passi avvicinarsi al letto, e scagliò un cazzotto totalmente alla cieca, esattamente come era solito fare alla fine degli scontri, quando la stanchezza lo riempiva e il dolore gli appesantiva il cervello. Strinse le dita. Prese un respiro. E sentì una superficie, a scontrarsi contro la sua pelle.

Un mugolio dolorante.

Spalancò gli occhi, ritrovandosi per brevi istanti uno spettacolo singolare: una figura dal pallore sovrannaturale lo osservava con la sorpresa nei grandi occhi ambrati, per poi scattare via come una furia lasciandosi indietro una scia di capelli rossi, una cometa di coralli che terminò soltanto con l'uscita dell'essere (persona?) dalla porta.

Aziraphale sentiva i passi sul pavimento andare a ritmo con il battito del suo cuore: rapidi come i ritmi di qualche antica tribù nel centro dell'Amazzonia. Cosa doveva fare? Chi era? Chi diavolo era quella persona? Il respiro pesante dallo spavento era l'unica cosa che lo faceva sentire vivo, mentre cercava di pensare.

Era lui. Era lui. I capelli rossi, i movimenti accidentati. Aveva sentito dei sibili. Era lui. Era lui. Gli occhiali. Era venuto a riprenderli. Era lui. 

Doveva prenderlo. Almeno vederlo.

Emise una risata nervosa. Era una follia. Era una follia  e lui lo sapeva bene. Ma la gloria, la gloria! Il volto soddisfatto di padre Gabriel e quello riconoscente di Anatema! Il ritorno a casa come un eroe.

Tanto bastava per fargli infilare di corsa le scarpe e prendere il corridoio senza nemmeno prendere una felpa o robe del genere, le ali nei piedi mentre cercava di non inciampare nel buio e l'adrenalina che scattava  nelle sue vene, come se si fosse trasformato improvvisamente in qualche sorta di felino, di rettile mentre cerca di prendere la preda nella giungla.

Non era mai stato un grande fan della corsa. Non era mai stato un fan dell'attività fisica in generale (oltre a quell'unica eccezione che non poteva nemmeno chiamare "attività fisica"), però quello...

Quello era una sorpresa anche per lui. Vedere la forza con cui correva l'aveva sorpreso nel profondo, il modo in cui stava reagendo il suo corpo alla sorpresa e alla sua determinazione era totalmente nuovo. Perché non l'aveva scoperto prima, dannazione?

I respiri pesanti della sua preda erano la sua unica guida. Non era veloce come l'aveva immaginato, aveva letto che era serpentino e che era rapido, ma evidentemente le fonti erano sbagliate.

Correva, correva e correva. Senza sosta. Senza senso. Era uscito di casa con il fiatone, il panorama del giardino sotto la luna che gli dimezzava ancora di più il respiro: la sagoma stava correndo nel prato spoglio che andava a fondersi con il bosco, il grande e gigantesco bosco. Poteva ancora raggiungerlo. Era veloce, ma poteva ancora raggiungerlo. Poteva ancora raggiungerlo. Perché anche lui era veloce.

Attraversò il prato, per poi notare la figura scomparire tra le fronde. Non l'aveva ancora perso. Non aveva ancora perso. 

Non sapeva veramente cosa stava facendo, in realtà. Non aveva piani. Non aveva mosse speciali. Non aveva nulla. Continuava solo a correre. Perché non poteva fare nient'altro.

Appena entrò nel bosco si sentì quasi a casa, forse perché lo stesso ospite l'aveva invitato. Il rumore dei passi sulle foglie creava quasi un'armonia sotto i suoi piedi, una canzone di gloria mentre scorgeva tra gli alberi il rosso dei capelli di Crawly. Era la sua esca. 

I luoghi da lui conosciuti scorrevano sotto i suoi occhi come fossero frame di un vecchio video, finché la creatura non lo condusse a nuovi sentieri. Non riconosceva più quei luoghi, e la luna coperta dalle fronde non poteva più aiutarlo. Stava brancolando nel buio.

Ma a lui non interessava.

Non più, almeno. Perché lui continuava a correre. E non gli interessava nemmeno più del mostro. Non gli interessava più di nulla. Pensava solo a correre.

Quando, all'improvviso, sentì dell'acqua circondarlo. Il piede perse un colpo, il cuore un battito. Era inciampato, l'odore di erba e acqua stagnante che lo circondava. Gli occhi e le narici si stavano riempiendo dell'acqua salmastra esattamente come il suo cervello, che incapace non riusciva a muovere il corpo. I polmoni, già affaticati dalla corsa, non si erano preparati, cercando di prendere qualche accenno d'aria fallendo miseramente.

Aziraphale, dopo poco, iniziò a vedere sfocato. Poi, l'oscurità lo avvolse.

Aveva corso troppo.



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Capitolo 7
*** capitolo sesto ***


Aveva sentito una mano strapparlo dall'oscurità, trascinandolo sulla terra umida. Aveva sentito qualcosa premergli sopra il petto, l'acqua che usciva dalla sua bocca acida e bruciante nella sua gola, fino a fargli vomitare ogni cosa che aveva divorato negli ultimi giorni. Aveva sentito due braccia prenderlo, gli occhi chiusi a forza per non andare incontro alla realtà. Una parte di lui stava immaginando chi fosse la mente dietro a tutta quella premura così inaspettata, ma un'altra parte si rifiutava di credere alle idee della sua gemella.

Era impossibile. Era inconcepibile. La sua mente non riusciva a comprendere, quindi ritornò quieta.

Dopo ore che gli parvero una morte, iniziò a riprendere controllo sul suo corpo. Per prima cosa, mosse i piedi. Li sentiva ghiacciati su una superficie che gli parve legno, facendo fatica anche solo a muovere un dito dopo l'altro. Era come muovere le membra nella neve. Poi le braccia, iniziò a muovere le dita delle mani con la stessa fatica con la quale aveva mosso quelle dei piedi, e in quel momento constatò di essere su un pavimento legnoso. Per ultimi, aprì gli occhi. 

Una lama era a pochi centimetri da essi, brillante alla luce di quelle che sembravano candele. Trasalì, una smorfia a coronare il suo volto. Ci voleva solo questa. Probabilmente stava sognando. Probabilmente era morto ed era arrivato nell'altro mondo. Si era sempre aspettato un'accoglienza più cordiale, questo era da dire.

-Non ti muovere- una voce ruppe il silenzio che lo aveva accompagnato fino a quel momento. Era giovane, grave nel suo essere tesa. Proveniva da poco sopra la sua testa. Era lui a reggere la lama. 

Aziraphale decise di rimanere in silenzio, quando un'ondata di ansia gli pervase il corpo. Era stato rapito? Era stato rapito e lo stavano per uccidere? Chi avrebbe pagato il riscatto? Cosa voleva da lui? Era solo? C'era qualcuno oltre a lui nella stanza? Cosa stava per fargli? Era pronto a morire, sia chiaro, però non così. Non così, andiamo. A chi sarebbero andati tutti i suoi libri? Tutte le sue cose? Voleva prima mettere in chiaro un po' di cose. Non era pronto a morire così. -Io- iniziò a mormorare, la voce che si rifiutava quasi di uscire dalla gola.

-Tu cosa?- oltre il coltello, improvvisamente, apparve la figura che lo stava reggendo: un palco di corna coronava una massa di capelli rossi, ordinati in treccine che gli ricadevano sul volto cencioso, sopra il quale si potevano notare figure circolari dipinte con una sostanza scura. Gli occhi ambrati sembravano brillare di luce propria, una scintilla di aggressività che li rendeva non molto dissimili da fiamme. Le labbra sottili erano piegate in un ringhio che definire aggressivo era ben poco, mentre le dita tremanti erano attorcigliate al legno del manico. Come ultimo dettaglio, Aziraphale notò una grande pietra nera penzolare dal suo collo, attaccata ad un semplice cordino. -Ti taglierò la gola- sbottò ancora, scoprendo i denti che parevano essere stati limati da qualcosa -così starai zitto-.

-Sei...sei stupendo- erano state le uniche due parole che erano riuscite ad uscire dalla sua bocca. Erano vere: non aveva mai visto nessuno di così bello. Splendente e pericoloso come un esercito schierato a battaglia.

Ma probabilmente stava solo iniziando a delirare.

Vide le sopracciglia rosse incrinarsi verso il naso dritto, una luce di sdegno ad accendere le pupille così particolari. -Taci- il suo tono parve rompersi come del vetro durante una tempesta, quando allontanò il coltello così come la sua figura.

Aziraphale poté tirare un sospiro di sollievo nell'alzare il busto, trovandosi davanti il luogo in cui si era ritrovato: era una casupola piccola, le pareti di legno erano a tratti ammuffite e ricoperte di scaffali che a loro volta erano pieni zeppi di bocce, boccette e boccettine piene di intrugli e liquidi di provenienza ignota. In un angolo, vicino alla minuscola porta rosata, si trovava un caminetto, dove le fiamme zampillavano divorando il legno che era stato loro donato. Sembrava la versione mignon della casa di Anatema, ma l'unica differenza stava nel letto posto al limite dell'ultima parete, dove era posizionata una culla di legno vuota. Si guardò davanti, il proprietario lo stava fissando. Riuscì a vederlo nell'interezza, nonostante fossero entrambi seduti: aveva all'incirca la sua età, nonostante la pittura lo facesse sembrare più giovane. Indossava una blusa grigiastra che gli lasciava scoperte parti del petto scheletrico, dove si poteva notare una grande ragnatela nera che impregnava la pelle. Gli stava ancora puntando il coltello con aria spaventata, nonostante il palco gli dava un'aria di regalità.

-Chi sei?- il biondo sapeva già, aveva immaginato, e l'incredulità gli rendeva complicato pensare in modo razionale. Poco prima stava annegando, ora era davanti alla bestia su cui stava indagando, che doveva cacciare. Era davanti al suo salvatore.

-Dovrei chiedertelo prima io- l'altro si allontanò ulteriormente, andando a scontrarsi con uno scaffale che aveva alle spalle. Il rumore gli fece strizzare gli occhi. 

-Mi chiamo Aziraphale. Sono...sono un giornalista- non era mai stato il tipo da disobbedire nelle situazioni di pericolo, sputando irrimediabilmente ogni informazione possibile. La situazione non era delle migliori, quindi cercò di portare il tutto dalla sua parte.

-Cosa diavolo è un giornalista?! Sei uno di quelli? Sei venuto per prendere anche me?- quasi gridando, il rosso fece per lanciarsi contro di lui, brandendo la lama come se fosse la sua specialità -già sei venuto a rubacchiare nelle mie cose, poi ti trovo a fare cose nella mia  foresta- scosse la testa -avrei decisamente dovuto ucciderti prima!-.

Aziraphale alzò le mani, sbiancando improvvisamente. Sapeva che non sarebbe successo nulla di buono. -Uo, uo. Un attimo- emise una risatina nervosa, inginocchiandosi per essere pronto a scattare in piedi -non...non pensavo che gli occhiali fossero tuoi. E non pensavo che questa fosse la tua foresta-.

-Be', ora lo sai- l'altro si allontanò, per poi sedersi con un tonfo. -Sei stato fortunato: se non fossi stato nelle vicinanze dello stagno saresti morto annegato-.

-Ma se volevi uccidermi, perché mi hai salvato?-

-Non sono affari che dovrebbero riguardarti-

-Stiamo parlando della mia vita e del mio corpo, vorrei sapere il nome e i motivi del mio salvatore- Aziraphale tentò di accennare un sorriso -se non ti dispiace-.

-Tu dimmi cos'è un giornalista, e forse ti dirò quello che vuoi sapere-

Aziraphale accettò con un lungo sospiro. -È una persona che scrive-.

-Quindi, sei un intellettuale?-

Si sentì arrossire improvvisamente -una sorta-.

-Bene- il ragazzo che fino a poco tempo prima aveva chiamato creatura si sedette a gambe incrociate, iniziando a giocare con una delle trecce -il mio nome è Anthony Jonathan Crowley-. Crawly. -E il motivo era semplice- si sporse a prendere una boccetta di qualcosa, una strana crema verdastra -non mi piace vedere gente annegare-. Aprì l'oggetto che teneva tra le mani, annusandone il contenuto. L'espressione di disgusto era tutto un programma.

-Cos'è?- Aziraphale non sembrava nemmeno più molto curioso, sembrava spaventato. Era del veleno? Lo voleva finire con le sue mani?

-Lo stagno è pieno di miasmi e altre lordure- l'ospite si tolse il palco di corna, posandolo in un angolo, per poi avvicinarsi al biondo con fare esperto -questo serve a prevenire eventuali malanni-.

L'altro sentì un brivido percorrerlo dalla punta delle mani alla punta dei piedi, per poi notare una cosa: i suoi vestiti non erano bagnati. -Cosa ti fa pensare che io possa accettare una cosa simile?!- gridò con dello screzio nella voce, allontanandosi a sua volta. No, era troppo. Sua mamma gli aveva sempre detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti, figuriamoci pasticci offerti da un vagabondo nel mezzo della foresta.

-Se non vuoi morire ti conviene darmi ascolto, sono un esperto di queste cose-

-Non mi fido-

-Non ti fidi del tuo salvatore?-

Aziraphale gonfiò le guance in segno di disappunto, per poi lasciarsi andare. Non poteva essere così male. -Cosa devo fare?- chiese, la curiosità nella sua voce che aveva superato la paura.

-Anzitutto, avvicinarti- Crowley mise due dita nel barattolo, tirando fuori un po' di quella argilla che aveva lo stesso odore di muffa caratteristico del bagno della sua scuola superiore. Aziraphale accettò riluttante, arrivando a pochi centimetri dal proprietario di casa. -Ottimo, ottimo- il rosso sembrava genuinamente soddisfatto dalla collaborazione dell'altro. Vide l'altra sua mano stringersi attorno alla base della sua canottiera, per poi sollevarla. Il grasso flaccido era stato liberato dal suo involucro, e per un secondo Aziraphale ebbe la tentazione di sottrarsi a quel tocco, ma poi, sentendo l'umido della crema sulla sua pelle, si congelò di nuovo. Era ghiacciata. -Ora predi un bel respiro, non puoi restare così teso- l'ultimo ordine arrivò alle orecchie del biondo come uno squillo di tromba che annuncia la vittoria, che prontamente obbedì. Con quel respiro si stava lasciando alle spalle qualcosa, ma non sapeva bene cosa.

I due restarono in silenzio, la crema che andava a solidificarsi sul suo corpo.

-Dove hai...dove hai preso questa cosa?- mormorò, ancora leggermente confuso. La situazione, più che pericolosa, stava prendendo una piega strana.

-L'ho fatta io- il rosso richiuse il coperchio del barattolo, riponendolo al suo posto con un movimento rapido -per combattere un male bisogna usarne uno di uguale potenza, ma in altra forma-.

-Quindi quella era argilla di stagno?- se quel tipo sperava di metterlo in confusione con quelle parole, aveva preso la persona sbagliata.

-Sì?-

-E me l'hai spalmata al posto di farmela ingerire?-

-Ovvio che sì-

-Oh, e come dovrebbe aiutare?-

-Sono un guaritore, so quello che faccio- Crowley gli scoccò un'occhiata annoiata, per poi posare le braccia sui fianchi -nel caso tu stessi dubitando, ovvio-.

-Non sto dubitando- il biondo, d'altra parte, era rimasto colpito dalla tenacia dell'altro  ne difendere le sue posizioni -sono soltanto curioso-.

Il rosso lo guardò con un'aria che l'altro non riuscì a decifrare, ma che con molta probabilità era soltanto sorpresa. -Non so da dove vieni, straniero- sputò in un sibilo, un guizzo rettile nei suoi occhi che andò subito a scomparire -ma dalle mie parti, la curiosità è il più grave tra i peccati-.

Quelle parole gettarono di nuovo il silenzio sui due sconosciuti, quando il rosso riprese  a parlare. -Puoi dire tutto, adesso. Agli inquisitori, agli sbirri. Non mi interessa- scrollò le spalle, per poi iniziare ad armeggiare con un qualche strumento a lui sconosciuto.

Ah già. Il resto del mondo. Aziraphale se n'era totalmente dimenticato. Qualsiasi cosa avrebbe detto, nessuno gli avrebbe creduto. E poi, lui non era un mostro. Era un ragazzo.  Un ragazzo con un coltello, senza la percezione di cosa sia un giornalista e che abitava nel mezzo di una foresta, ma pur sempre un ragazzo. Non voleva denunciarlo così, chissà cosa gli avrebbero fatto. L'avrebbero ucciso? No, no. Impossibile. Padre Gabriel non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Però era meglio tacere.

L'avrebbero sicuramente preso per pazzo, e l'ultima cosa che voleva era andare contro Crowley. Aveva paura della sua vendetta. 

-Non dirò nulla, il nostro segreto è salvo con me- disse in tono serissimo, portandosi una mano al cuore per suggellare un giuramento. -Puoi stare tranquillo-. Con quelle parole cercò di mettere un punto a quello sguardo severo da parte del rosso che, come risultato, divenne ancora più serio.

-Lo spero. Ne va della mia vita- fece un lungo sospiro, per poi appoggiarsi sgraziatamente alla parete dietro di lui. Con una mano iniziò a grattarsi via la pittura dalla faccia, scoprendo delle minuscole lentiggini che gli coprivano tutta la pelle del volto. -Mi sembri un tipo troppo arguto per fare il delatore, o sbaglio?- accennò subito un sorrisetto furbo, le dita che avevano preso a tamburellare sulle guance.

Aziraphale sentì un nodo di malessere allo stomaco. Soprattutto quando vide il suo ospite sporgersi nuovamente per prendere l'unguento. Non era in vena di un secondo round.

-Comunque sia, questo ti servirà- lo porse all'altro, che immediatamente sentì il freddo del vetro contro i polpastrelli. Lo scrutò con confusione, aspettando il continuo della spiegazione. -Perché abbia effetto- la spiegazione, fortunatamente, continuò -devi applicarla tutti i giorni dove te l'ho messa io, ovvero qui sulla pancia- con un movimento lieve gli sfiorò quell'area ancora scoperta, tracciando un solco leggero sull'argilla ma abbastanza deciso da far arrossire il biondo. Nessuno l'aveva mai toccato in un modo così delicato. -A dirla tutta dovrebbe durarti una settimana, e quando hai finito ritorna da me, cosicché io possa dartene altro- notando il rossore, Crowley spostò la mano, per poi alzarsi e sbattersi la polvere dai vestiti, la pietra scura che sbatteva sul suo petto marchiato da tutto quel nero. Aziraphale guardò l'unica finestra nella casa: fuori era ancora notte.

-E come farò a tornare a casa o tornare da te?- mormorò confuso il biondo. Aveva scoperto tutto per sbaglio, non aveva seguito una strada. 

Il volto di Crowley si illuminò nel frugare nelle tasche ed estrarre una strana pietra con un foro centrale, che Aziraphale aveva sicuramente visto in un qualche film tratto da un qualche libro fantasy. -È una pietra magica, se metti l'occhio nel foro riuscirai a trovare il percorso per arrivare fino a qui- con un movimento rapido la posò sul palmo aperto dell'altro, che intanto si era alzato. Non era molto più basso dell'altro, a dire la verità.

-Vuoi una ricompensa? Devo...- non riusciva a trovare le parole tanta era la meraviglia -devo pagarti?-

-Il pagamento verrà saldato a tempo debito, per ora ti lascio andare così- il rosso guardò fuori dalla finestra, lo sguardo che si perdeva tra le fronde -ma ora è meglio che tu vada, tra poco arriverà l'alba-.

 

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Capitolo 8
*** capitolo settimo ***


Appena tornato a casa, Aziraphale fece finta di aver dimenticato qualsiasi cosa. Si sedette sul divanetto all'ingresso. Prese un bel respiro.

E poi si mise a piangere. Così, tutto d'un tratto. Le lacrime di confusione e rabbia erano rimaste all'interno degli occhi per troppo tempo, cercando in qualche modo di uscire senza un effettivo successo, almeno fino a quel momento. Avevano iniziato a scorrere rapide, come le pupille di un curioso sulle pagine di un libro proibito. Sembravano voler marchiare la pelle del ragazzo a fuoco, mentre con le mani si reggeva la testa improvvisamente pesante come un macigno.

Cosa era successo? Cosa aveva fatto? Cosa aveva detto? Cosa aveva visto? Troppe cose, troppe cose. Il suo cervello cercava di dare un senso alle ultime ore, senza effettivi risultati. Aveva sognato tutto. Ogni cosa. Era la spiegazione più sensata, ma anche quella più semplice da smentire: il suo ventre era ancora sporco di quella sostanza. Lo stesso barattolo era posato sul tavolo davanti a lui, le tracce delle sue dita che permeavano sul vetro opaco.

Forse aveva mangiato qualcosa che gli aveva fatto male. Ingerito per sbaglio delle anfetamine. Qualunque cosa, veramente. Ma non poteva essere successo davvero. Era impossibile. Era impossibile. Era impossibile.

Continuava a piangere. Piangeva senza forma, senza motivo e senza senso. Semplicemente piangeva. La debolezza del suo corpo che scendeva dalle sue guance nelle lacrime. Si sentiva sporco. Si sentiva triste. Senza speranza. Conosceva il discorso, conosceva il discorso. I ragazzi grandi non piangono, i ragazzi grandi non piangono. Non piangeva quando perdeva. Non piangeva quando vinceva. Non piangeva.

E allora perché stava piangendo, in quel preciso istante?

Nulla era accaduto, nulla era successo. Ma forse era per questo che stava piangendo. La bellezza di quell'essere, di quel ragazzo, l'aveva fatto crollare. L'aveva ammaliato, tentato. Come il peggiore diavolo dell'inferno si era fatto desiderare, a tal punto da far prendere il senso ad ogni altra cosa. Stava impazzendo. Era già impazzito. E la causa di tutti erano stati quegli occhi ambrati, magnetici e feroci come il sangue che sgorga da una ferita aperta.

Stava impazzendo. Stava impazzendo. Stava impazzendo.

Un lamento solitario abbandonò la sua gola ancora in fiamme dalla corsa disperata, un ringhio animale che bramava di uscire da ore che non si era preso la briga di calcolare, strizzando quello che rimaneva dei suoi occhi con i palmi delle mani sudate e bagnate di lacrime. 

Sospirò, i bulbi oculari stanchi come la sua anima, e si preparò un tè. Guardò l'acqua muoversi fino alle bolle, per poi metterla in una tazza assieme alla bustina. Lo bevve. E per poco tempo riuscì a calmare il suo animo, l'acqua che gli scaldava le budella e che tentava di pulirlo dall'interno.

Lui amava il tè. L'aveva sempre amato. Tornava da scuola e si faceva una tazza prima di mettersi a studiare. Tornava dagli allenamenti e si faceva una tazza per prendere sonno. Per lui tè significava pace. Fuori dalla finestra vedeva le gocce di pioggia che inumidivano la notte, la luna che era andata a celarsi velocemente dietro le nuvole poco dopo il suo arrivo a casa.

Si sentiva come un marinaio che era tornato a casa dopo un lungo viaggio ai confini del mondo, le dita strette alla tazza. -Eh, è stata una bella avventura- sussurrò a se stesso, come a scacciare i demoni che stavano ancora cercando di battere alla sua testa. -È stata una bella avventura, ma non penso che si ripeterà-.

Sorrise da solo. Un sorriso disperato. Era il momento di andare a dormire. Decisamente.

Si adagiò sul letto, stringendo le dita sulla coperta. Doveva solo chiudere gli occhi. Fare profondi respiri. Nulla di più. Fare profondi respiri. Profondi respiri.

Ogni volta che si diceva quelle parole sentiva la voce dell'altro, così...così piena di premura. Così dolci, nonostante la situazione. Gli mancava il suo tocco, la sua voce. Il calore delle dita sulla sua pelle. Oddio, stava impazzendo. Stava perdendo totalmente il senno e non voleva più pensarci.

Si alzò, prendendo un libro qualsiasi dalla valigia svuotata da poco. Era piccolo, la copertina consumata e le pagine ingiallite dal tempo. Aprì la prima pagina: era un vecchio libro di fiabe. Iniziò a leggerne qualche pagina sparsa, ma ogni parola che leggeva pareva contenere un pezzo del volto di quel giovane, una ciocca dei suoi capelli insanguinati, gli occhi ambrati. In ogni parola c'era lui, quell'Anthony. Chiamarlo con il nome  cui era conosciuto come belva, nonostante fosse sì leggermente diverso, non gli dava giustizia. Non dava prova alla sua meravigliosa bellezza. All'abilità delle sue mani.

Ogni suo pensiero era legato a quella figura. A quella presenza nel bosco. Stava impazzendo? No, era già impazzito del tutto.

Posò il libro, constatando che oramai era inutile anche solo pensare di stare sveglio, osservando nuovamente lo stesso stupido soffitto. Voleva chiudere gli occhi. Doveva chiudere gli occhi e pretendere che nulla fosse successo. 

Serrò le palpebre, continuando a respirare come se fosse l'ultima cosa restante da fare per sconfiggere ogni cosa.

Poco dopo, era già invischiato nei meandri della sua mente.

 

La mattina dopo era già da padre Gabriel, il cuore in gola per cercare di assorbire tutte le informazioni che voleva urlargli in faccia. Doveva tacere. Aveva fatto una promessa, e per nulla al mondo l'avrebbe infranta. Inghiottì della saliva appena lo vide entrare, bello e splendente come un angelo dell'apocalisse.

Tuttavia aveva una bellezza diversa, da quella di Crowley. Era una bellezza ordinata, addomesticata. Mentre quella del rosso...quella del rosso era una bellezza selvaggia, pericolosa. Mai avrebbe dovuto guardarlo con occhi scoperti, giacché quella visione l'aveva immutabilmente compromesso.

Ma non era il momento di fare quei pensieri. Era il momento di parlare.

L'uomo si era approcciato con passi rapidi, come avesse avuto sopra di sé un milione di lame, il sorriso tirato sempre presente. -Buongiorno, signor Fell-.

-Può chiamarmi Aziraphale, davvero- la gente che lo chiamava con il suo cognome solitamente era pronto a farlo a pezzi, per questo preferiva quando la gente lo chiamava semplicemente Aziraphale. O Zeke. Quello che veniva reputato più comodo da dire. Ma Fell...troppe volte era stato chiamato con quel nome da gente poco raccomandabile. Non voleva che quella diventasse un'abitudine anche per gente raccomandabile che non aveva motivo di chiamarlo per cognome.

-Oh, va bene- il prete gli porse dei fascicoli. -Qui ci sono altre informazioni, per essere una creatura di cui non si conosce molto si sono raccolte davvero tante testimonianze-.

-A quanto pare- Aziraphale pensava alla notte precedente. In realtà era sempre rimasta nella sua mente, esattamente come la pietra forata che custodiva nella tasca posteriore dei pantaloni. Non si fidava a lasciarla a casa. Voleva averla vicina, anche se non sapeva bene perché. Aveva timore che qualcuno potesse rubarla? O forse perché l'aveva ricevuta proprio da lui?

Non poteva saperlo.

Se la stava ancora rigirando tra le dita, quando prese in mano i fogli. Nel leggere distrattamente quelle descrizioni così false e nello scorgere quei disegni così poco accurati, una morsa di senso di colpa lo strinse. Ci voleva poco a dire tutto, a dire il vero ci voleva meno di nulla. Quindi, perché non svuotare il sacco? Perché non risolvere quella faccenda, scrivere quello stupido articolo e farla finita? Sarebbe stato molto più semplice per tutti, quindi perché non fare quell'unico passo nel vuoto?

Perché aveva fatto una promessa. E le promesse non si distruggono in questo modo.

-Deve tenere anche questo, signor Aziraphale- l'uomo gli porse anche un'altra cosa: un piccolo foglietto. -È un messaggio da Anatema. È dovuta andare a Bridgetown da sua madre, ma entro domani tornerà-.

Aziraphale lo prese, cercando di fare spazio nelle tasche: non c'era più posto, complici tutte le carabattole che teneva e i pantaloni oggettivamente stretti. Nel vano tentativo di infilare la mano per mettere quel foglietto, sentì una serie di rumori di oggetti cadere rovinosamente sul pavimento, piccoli squilli che lui si mise a raccogliere piegandosi in un movimento rapido.

Non notò di certo un oggetto rotolare a pochi centimetri dalla scarpa del prete, la sua mano prenderla, il suo sorriso aprirsi con soddisfazione prima di metterla nella sua di tasca.

Quello, di certo, non l'aveva notato.

-Scusi il disastro ma...- cercò distrattamente di scusarsi, le dita che si sfregavano distrattamente tra di loro.

-Non c'è motivo di scusarsi, davvero- il sorriso di Gabriel era più ampio del solito, le dita a sfiorare qualcosa nella sua tasca sicuramente più ampia.

Gabriel sapeva sempre quello che faceva.

 

Era sul ring. L'odore della palestra, del sudore e del sangue che gli inondava le narici, non permettendogli di pensare a nient'altro oltre al luogo in cui si trovava. La sua mente era esattamente dove doveva essere, proprio sull'avversario.

Era un suo compagno, lo conosceva benissimo. James, era un bel nome James. Alto, bruno. Quella sua corporatura slanciata era sempre stata la sua fonte di potenza, non poteva nasconderlo facilmente. I suoi pugni erano potenti. Erano molto potenti, e i frutti di quella potenza stavano iniziando a mostrarsi sul volto del biondo. Grosse chiazze violacee sul suo volto. Grosse chiazze violacee sulle sue braccia. Grosse chiazze violacee un po' ovunque.

Il prezzo della vincita, come dicono in molti.

Il dolore lo teneva concentrato. La frenesia, l'apocalisse che stava succedendo sul ring lo stava tenendo sveglio. Ogni suo muscolo, ogni suo nervo era concentrato per la vittoria. Per abbattere James. Non era poi così complicato. Si era allenato per quello. Si era allenato per quello. Si era allentato per quello. Si era allenato per ogni singolo pugno che stava dando. Ogni singolo pugno che stava ricevendo dritto sul naso.

Sentiva il cuore battere all'interno dei suoi guantoni, unico scudo verso ogni altra forma di dolore. Erano solo un ragazzo e i suoi guantoni contro il mondo.

Mentre colpiva cercava di buttare fuori tutto, ogni sua preoccupazione. La scuola non diventava più un problema. Ogni cosa perdeva significato. Perdeva significato perché doveva solo pensare a vincere.

Sentiva distrattamente le urla del suo allenatore in un angolo. Urla grottesche, animalesche. Che certamente non avevano da invidiare nulla a quelle di una qualche bestia feroce che si nascondeva nell'angolo più oscuro della foresta pluviale, ma riuscivano nella loro confusione a scandire delle parole ben precise: incitamenti, giudizi. Tutto quello che lui si sentiva dire costantemente negli allenamenti diventava urlo durante i match, quelle gare insanguinate dove l'unico scopo era abbattere l'altro.

Prese un pugno in faccia. Era forte, per un attimo gli diede visione di costellazioni impossibili davanti ai suoi occhi chiari. Il sangue aveva iniziato a scorrere dal suo naso, il suo calore che scendeva a pari passo con la sua forza. Non poteva andare avanti. Non poteva andare avanti ma doveva. Doveva farlo. Doveva vincere

Nonostante il pugno dritto nel naso, era riuscito ancora a racimolare le sue ultime forze, tirando un montante secco. Aveva colpito James alla spalla, la smorfia di dolore che si era creata sul suo volto gli aveva ridato della speranza. Tradì un sorrisetto furbo, il sudore che continuava a scendere esattamente come il sangue. Il dolore pulsava sordo nelle sue orecchie. Stava per vincere. Stava per vincere. C'era quasi. C'era quasi. C'era quasi.

Un ultimo colpo e si ritrovò al tappeto.

 

Lo spogliatoio della palestra aveva qualcosa di mistico: l'odore del disinfettante e del sapone si mischiavano con quello del sudore e del sangue, mettendolo in quella dimensione onirica che precedeva il momento più bello della giornata: ovvero lui, sotto le coperte, con tè e un bel libro.

Ma prima di quello, doveva ancora attraversare troppe bolge infernali prima di raggiungere il suo obiettivo finale.

Era seduto su una delle panche, osservando fisso il pavimento attraverso le lenti dei suoi occhiali leggermente appannati. Nel corso degli anni era riuscito a contare le piastrelle fino all'altra panca: erano sessantadue. Sessantadue piastrelle.

Si guardava le dita. Guardava le piastrelle. Aveva perso l'incontro. Stava aspettando.

Improvvisamente sentì dei passi pesanti, dalla cadenza dura. Era l'allenatore. Era quello che stava aspettando. Alzò la testa, scontrandosi con l'immagine dell'uomo sopra di lui: era grande e grosso, più grosso di lui, e i capelli argentati, assieme alla ragnatela di rughe sul suo volto, gli davano quell'aria nobile. Arrogante. Crudele.

-Hai perso- il suo tono era duro come una roccia, mentre cercava di eliminare le pieghe sulla sua camicia bianca.

Aziraphale non rispose. Era una trappola, rispondere. L'aveva imparato sulla sua pelle.

-Ho detto che hai perso-

-Ho sentito benissimo- quel sussurro acido non era stato fatto per essere udito, ma un profondo respiro gli fece capire che forse, ma solo forse, aveva fallito nel suo intento. Abbassò la testa rapidamente, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Un silenzio schiacciava i due, quando l'uomo decise di prendere nuovamente le redini del discorso. -Ti sei distratto, dopo l'ultimo montante- una breve pausa -non avresti dovuto farti accecare dal dolore, Fell. Te l'ho detto un milione di volte-.

I due pezzetti di carta che lui teneva nel naso erano gli esempi perfetti di quello che aveva appena detto. Il pulsare che non era terminato grazie alle sue parole.

-Scusi-

-Non devi scusarti- terminò seccamente l'allenatore, sedendosi a fianco del ragazzo. L'energia che emanava non gli piaceva. Stava tremando.

Non avrebbe dovuto perdere. Non avrebbe dovuto. Aveva commesso uno sbaglio a perdere, e ora era giusto scusarsi. Era giusto. Era giusto. Era giusto.

-Sei troppo poco competitivo, ragazzo mio- il lungo sussulto sconsolato dell'allenatore realizzò tutto quello che aveva previsto in merito a quel discorso. Lui non era adatto, non era mai stato adatto. Mai. Mai. Mai. Era sempre stato troppo molle. Troppo distratto. Era sempre stato un rammollito.

-Questo sport non fa per te. Hai buona tecnica, sei forte- quelle parole erano vere, Aziraphale era forte. Lottava come se fosse un orso. -Ma sul ring non sei competitivo, non hai questa caratteristica. Pare che tu stia lì solo per far piacere a me, non è così che funziona- si voltò verso di lui, puntandogli un dito contro il petto. -Devi combattere per te stesso, non per far felice gli altri, capito?-.

Aziraphale annuì, per poi chiudere la borsa.

 

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Capitolo 9
*** capitolo ottavo ***


Aveva finito la pastura.

L'aveva messa per sette giorni, ed era durata per sette giorni. Ogni volta che la sera tardi lo applicava sentiva qualcosa andare via, come un peso.

Probabilmente, Crowley aveva avuto ragione.

Crowley. Avrebbe rivisto Crowley! L'avrebbe rivisto in quella bizzarra casetta, avrebbe di nuovo parlato con lui. Avrebbe di nuovo sentito la sua voce, visto i suoi occhi. I suoi capelli. Avrebbe rivisto Cowley a breve, e questo lo riempiva di gioia. Come quella di un bambino la notte prima di Natale.

Doveva andare di notte. Doveva uscire quando tutte le luci del paese già erano spente in modo da non destare strani sospetti, sgusciare nella notte e sperare di non incasinare ogni cosa com'era solito fare. Doveva essere silenzioso. Era la priorità.

Appena aveva visto il sole scendere, si mise le scarpe più pesanti che era riuscito ad infilare nella valigia, vecchi scarponi perfetti per l'occasione, e una felpa. Prese anche una torcia: non poteva permettersi di fare la figura della volta prima.

Allo specchio che aveva scoperto all'interno dell'armadio più grande non vedeva una figura forte, come quelle dei film o dei libri che spesso leggeva per svagarsi, piuttosto vedeva un ragazzino troppo cresciuto, che pretendeva di fare il grande solo per darsi quel senso di sicurezza in più.

Era uno degli aspetti della sua vita che voleva -doveva- eliminare al più presto.

-Puoi farcela- il sussurro gli arrivò alle orecchie, mentre si aggiustava il ciuffo biondo con un movimento rapido della mano paffuta. Poteva farcela, andiamo. Era molto semplice. Doveva solo camminare. Era semplice. Andava, veniva e tornava. Era molto semplice. Doveva fare attenzione. Doveva fare tanta attenzione. Ma sarebbe stato molto semplice. Semplicissimo.

Prese un respiro, sentendo la pietra nella tasca rigirarsi nel suo dito sinistro. L'aveva ritrovata vicino alla porta di casa, su un piccolo tavolino scricchiolante posto proprio davanti a quel legno così vecchio. Non aveva avuto la necessità di toccarla per giorni, quindi non sapeva precisamente l'ubicazione in cui l'aveva lasciata e se quello fosse una fonte di preoccupazione. Però, era davvero importante? Stava per incontrare di nuovo una creatura -una persona- che fino a qualche tempo prima era fermamente convinto non fosse nemmeno reale. La sua vita stava già prendendo pieghe abbastanza strane, non aveva bisogno di altre preoccupazioni.

E con quel pensiero nella testa, si chiuse la porta alle spalle.

 

Nell'appoggiarsi la pietra all'occhio si sentì come il protagonista di un romanzo fantasy. Per una persona che aveva letteralmente passato tutta la sua infanzia tra romanzi che parlavano di bei protagonisti che per sbaglio si ritrovavano catapultati in situazioni assurde e finivano per salvare il mondo, quella situazione stava prendendo una piega straordinaria. L'insicurezza era volata via appena era arrivato davanti al bosco, il respiro affannato che si mischiava con il vento. All'inizio non vide niente oltre a quelle fronde che aveva imparato a conoscere fin troppo bene, quando iniziò a sentire una strana sensazione attorno alle dita, come un prepotente prurito ai polpastrelli. Dopodiché, davanti ai suoi occhi una lunga linea rossa si materializzò.

Andava direttamente nel mezzo del bosco. Il suo compito era quello di seguirla.

C'era da fidarsi? Quello era un altro paio di maniche. Seguire una magia misteriosa di un sasso poteva non rivelarsi la cosa più sicura del mondo da fare, però...

In determinate situazioni bisognava solo fidarsi della pancia, di quel desiderio di rivedere al più presto quelle iridi brillanti come le galassie più lontane anche solo per qualche minuto. Per qualche secondo. Qualche secondo era abbastanza, davvero. Gli bastava vederlo. Anche solo sentire la sua voce tra le fronde.

Era abbastanza. Era abbastanza. Era abbastanza.

Continuava a camminare, i ricordi di quella prima notte in quel bosco che gli inondavano il cervello: il suo tremore nel compiere i primi passi, simile ad un bambino che mette per la prima volta le dita tra le onde del mare. L'odore pregnante della foresta che gli inondava per la prima volta le narici. Si sentiva così cresciuto, così...grande. In un certo senso. Si sentiva in qualche modo il re della foresta, il regnante di quelle foglie e quegli alberi così possenti, antichi. Il regnante di ogni cosa che strisciava e camminava su quel pavimento di foglie marce.

Però sapeva che quel posto aveva già un re. Ed era meglio non cercare di detronizzarlo.

Prese la torcia, la luce della luna non era una fiaccola abbastanza potente per guidarlo in sicurezza, sempre seguendo la linea rossa. Si chiese per qualche minuto cosa fosse davvero quello strano ragazzo.

Di certo non si trattava di un essere umano. Era troppo perfetto per esserlo. La sua bellezza gli fece pensare subito ad un elfo, una fata dei boschi. Aveva visto un film, da piccolo. Uno su una principessa guerriera che cercava di difendere il suo bosco, la sua casa. Probabilmente si trattava di una cosa simile. Un principe della foresta. Però, quella magia lo rendeva qualcosa di diverso. O forse erano solo illusioni ottiche. Probabilmente erano solo illusioni ottiche. Ne aveva viste tante nella sua vita, ma mai così. Sempre stato affascinato dalla magia, dalle fiabe. Adesso che si trovava dentro una di quelle, non gli faceva molto effetto. Forse perché la più grande magia era quel ragazzo. Quel misterioso, fugace ragazzo.

Aveva iniziato a riconoscere alcuni luoghi, mentre si inoltrava nel profondo delle fronde: la pila di oggetti era l'anticamera di quel regno in cui era per sbaglio entrato, e sapeva che a breve avrebbe dovuto prestare particolare attenzione per non cadere di nuovo in quel piccolo lago. Il silenzio nella foresta non era mai un vero e proprio silenzio: il rumore dei suoi passi era accompagnato dai richiami degli uccelli, cupi segnali che un tempo erano presagi di morte, quando un flebile lamento si unì a quel quadretto pacifico: sembrava un pianto lieve, e proveniva proprio da un luogo a pochi passi dalla fine della linea rossa.

Perse un battito. Ne perse due. Doveva trovare la fonte di quel lamento, anche se, di nuovo, un sospetto con basi solide si stava creando nel suo cervello. E, di nuovo, non voleva crederci. D'un tratto smise di camminare, iniziando inspiegabilmente a correre. Stava correndo, correva attraverso il bosco verso il luogo da cui pareva provenire il lamento, quando si ritrovò davanti una scena che lo fece quasi mancare: una figura era sdraiata a terra, una figura che conosceva fin troppo bene, con i denti di una trappola ben infilzati nella carne della gamba. Era vivo, altrimenti non avrebbe emesso quei fievoli lamenti, però il puzzo di sangue che sgorgava copioso dalla ferita profonda fecero scattare il biondo.

Non si aspettava di vederlo così, però doveva per forza fare qualcosa. Qualunque cosa. -Ehi- il saluto era breve, mentre a passi ampi si era avvicinato. La sua smorfia di dolore parlava abbastanza bene per lui. -Cos'è successo?-.

Nel sentire quelle parole, vide Crowley strisciare via spaventato e digrignare i denti, quasi si trattasse di un animale appena colpito da un cacciatore. Gli occhi parevano indemoniati, mentre la casacca sbrindellata e insanguinata lo rendeva in un certo senso ancora più miserabile. -Hai fatto tutto tu- quel sibilo gli arrivò al cervello come una freccia, mentre con le braccia doloranti cercava di scappare dalla figura dell'altro. 

-Cos...cos'ho fatto io?- un moto di senso di colpa gli riempì le budella, mentre cercava di osservare meglio la ferita: la carne era stata squarciata, e le tenaglie erano ancora infilzate nella carne. Non era un esperto di medicina, per carità, ma sapeva che lì era situata una vena abbastanza importante, essere umano o meno. Inoltre, perdere così tanto sangue non era proprio il non plus ultra del benessere.

-Hai parlat-ngk- venne interrotto da un sussulto di dolore mentre Aziraphale passava rapido la mano sulla ferita, cercando un modo per togliere la tenaglia. -Hai parlato. Hanno distrutto la mia casa. Hai distrutto la mia casa- nonostante i respiri affannati e i mugolii di dolore, il suo tono era minaccioso. Aziraphale sapeva che se non fosse stato in quella situazione di svantaggio, l'avrebbe sicuramente fatto fuori. Anche se lui non aveva fatto niente, non aveva fatto parola a nessuno di quell'incontro. Aveva sempre tenuto la pietra con sé, quindi...

Si ricordò di dove aveva trovato la pietra. Qualcuno l'aveva presa, l'aveva usata prima di lui. Aveva commesso uno sbaglio, era colpa sua. Era tutta colpa sua. Era tutta colpa sua.

Ma non era il momento di piangere sul latte versato. Era il momento di agire.

-Sei ferito- aveva programmato di dire una frase intelligente, ma quelle due uniche parole erano state le sole ad uscire dalle sue labbra.

-Ho not-ahi ahi ahi ahi potrestismetterlagrazie?-

-No, è una ferita bella profonda. Certo che è bella profonda, è una trappola da caccia- il suo cervello, quando faceva dei ragionamenti complessi tipo per salvare una vita, aveva l'abitudine di non pensare troppo alle parole, lasciandolo mormorare frasi stupide e senza senso.

-L'ho notato-

-Se la togliamo potresti morire dissanguato- era un bene che si fosse ricordato di mettere gli occhiali, mentre si preparava. Alla luce della torcia riusciva a vedere ben poco, e senza occhiali avrebbe visto ancora meno. -Ma se non la togliamo, sarà impossibile medicarti-. Doveva ragionare in fretta, se non voleva vederlo morire proprio lì. Aveva notato che i suoi respiri si stavano facendo sempre più lievi.

-Non mi interessa morire- nonostante il fiato corto, l'altro riusciva ancora a formulare frasi sensate. -Senza più la mia casa, ogni cosa è inutile-.

-Smettila di blaterare- una cosa che odiava era quando le persone interrompevano i suoi ragionamenti con le parole. Quell'ordine secco riuscì a zittire Crowley, che stancamente appoggiò la testa sulla terra, forse per accettare la sua morte con tranquillità.

Gli venne un'idea. Folle, ovviamente. Si alzò sbattendosi nel modo migliore la terra dal corpo, quando si tolse la felpa con un movimento rapido. Osservò infine il corpo dell'altro giovane, la tenaglia che brillava alla luce della torcia posata a terra con un bagliore sinistro.

E poi lo prese, cerando di mettere la gamba ferita in una posizione privilegiata rispetto all'altra. Era impossibile anche solo pensare che potesse camminare con un arto così maciullato, e non era abbastanza forte per prenderlo sulle spalle. -Cosa staresti facendo, per curiosità?- il sussurro sarcastico si udiva in mezzo ai singhiozzi, mentre il peso del ragazzo a prima vista cercava  di abbatterlo. Aveva coperto la gamba con la felpa, dovrà pur esserci un modo per togliere il sangue dai vestiti, per poi prendere l'ennesimo grande respiro della serata. Non si aspettava una cosa così, nossignore. Si era aspettato una cosa più calma, non un'impresa di pronto soccorso. Ma oramai era lì, e non poteva farci nulla. 

Vedeva le mani rapide del suo ospite correre sul medaglione che teneva al collo, quel reticolo scuro sul petto che continuava ad alzarsi e ad abbassarsi ritmicamente, e stringerlo come se fosse l'unica cosa importante. Aziraphale provò della compassione per lui, non poteva negarlo. Chissà quanto era spaventato. Quanto timore e dolore stava provando in quel momento. Le sue smorfie parlavano per lui, il modo in cui digrignava i denti ad ogni passo che Aziraphale compiva in direzione di casa erano delle pugnalate nel cuore del biondo, ma non doveva mollare. Non doveva mollare, solo concentrarsi sul suo obiettivo. -Sto cercando di ripagare il mio debito- mormorò, aumentando il passo. Non aveva modo di usare la roccia, l'unica sua guida era l'istinto.

 

Le gocce di sangue tamburellavano alla fine della caduta sul pavimento legnoso, mentre Aziraphale entrava con il peso dell'incoscienza dell'altro tra le braccia. Aveva perso i sensi un paio di volte, nel ritorno a casa, e ogni volta che richiudeva gli occhi per troppo tempo il biondo lo scuoteva preoccupato con un movimento di braccia, mettendo in pausa per pochi istanti la costante ricerca della retta via. Camminava, pensava alla via e scuoteva l'altro, accertandosi che stesse ancora respirando. Aveva passato l'intera settimana a farsi fantasie su come sarebbe stato bello toccarlo, e ora era in quella situazione. Quella sì che era ironia del destino.

Stava decidendo quale fosse il posto migliore dove procedere: sul letto? No, troppo scomodo per entrambi. Troppo grande. Troppo vecchio. La sedia del tavolo? Non ne parliamo, il ragazzo a malapena era vivo. Sul divanetto? Perfetto. Era semplicemente perfetto. -Adesso arriva la parte complicata...- borbottò esasperato, il sudore dovuto allo sforzo che gli imperlava la fronte e gli rendeva umide le braccia nude, a cui i capelli rossi dell'altro giovane erano appoggiati.

-In che senso...?- le parole di Crowley erano state talmente rade durante tutto il viaggio che quasi Aziraphale sussultò, le fare quei rpidi passettini verso il divanetto. Era piccolo, ma era abbastanza per permettere ad Aziraphale di medicarlo e per lui di essere in una posizione comoda. Lo scaricò sul tessuto imbottito a fiori con tutta la grazia di cui fu capace, ottenendo come risultati una lunga lista di imprecazioni sussurrate.

Doveva ancora lavorare sulla sua percezione di grazia.

La trappola era ancora nella gamba, orribile come un morso nelle sue sfumature rosso di sangue. Aziraphale riusciva a vederla grazie alla luce accecante che era riuscito ad accendere all'entrata, che subito aveva avuto uno strano effetto sul rosso. Continuava a guardarla con quegli occhi ambrati dilatati dal dolore e dalla meraviglia, le labbra abbandonate in un'apertura quasi innaturale. -Che razza di stregoneria è questa?- sussurrò a fatica, mentre l'altro gli alzava il piede. Era un bene che si stesse distraendo, forse non avrebbe sentito troppo dolore.

Aziraphale aveva preso degli asciugamani dalla valigia da usare a mo' di bende e del disinfettante che aveva portato, per poi osservare la trappola. Un movimento rapido, e avrebbe eliminato almeno quella disgrazia. Doveva essere rapido, utilizzare subito l'asciugamano per fermare l'emorragia. -Non voglio spaventarti- mormorò, appoggiando saldamente le mani sul metallo della trappola -ma ora farà male-. 

-Cos- l'altro non ebbe nemmeno il tempo di abbassare gli occhi, che il biondo gli strappò dalla pelle i denti della trappola in un solo movimento, il sangue che eruttava dalle ferite come l'acqua sgorgava da una cascata. Aziraphale dovette mordersi il labbro per non perdere i sensi, un aiuto era arrivato dall'urlo di dolore penetrante che l'altro aveva emesso, stringendone il piede nudo e sporco di terra saldamente. Aveva visto telefilm sulla medicina per anni, sapeva cosa fare. Prese in uno scatto il disinfettante, imbottendone uno degli asciugamani e passandolo sopra la carne, per pulire le ferite da tutto quel sangue. Dopodiché circondò la pelle diafana con l'altro in modo be stretto, facendo in modo che l'emorragia si fermasse. Doveva solo sperare che quei telefilm che davano a tarda nottata fossero fonti di intrattenimento accurate.

Vedeva le dita di Crowley stringersi ai braccioli del divano, il blu delle vene che si faceva sempre più nitido sotto la pelle. I suoi mugolii di dolore che andavano lentamente a diminuire, per ritornare ad essere dei semplici respiri. Non più rapidi, solo rumorosi. Evidentemente si stava abituando al dolore.

Aziraphale si inginocchiò davanti al divano, osservando soddisfatto il suo lavoro. Non era di certo uno splendore, ma sarebbe bastato. -Com'è?- accennò un sorrisetto timido, cercando di iniziare una conversazione. Era stata una nottata lunga per entrambi.

-Starei meglio se non mi avessero distrutto la casa, ma hai fatto un buon lavoro- Crowley rilassò le spalle sullo schienale, inspirando profondamente dal naso. Era intontito dal dolore, ma qualcosa riusciva ancora a dire.

Il biondo si alzò, scrutando la pozza di sangue che si era creata sotto il divanetto e poi i capelli dell'altro, che sciolti erano straordinariamente simili. -Vado a prepararti un tè. Hai perso davvero tanti liquidi- borbottò evasivo, per poi andare in cucina. Nell'accendere l'acqua si lavò le mani dal sangue, vedendone i rivoli nello scarico. Non si sarebbe mai aspettato una cosa simile, ma oramai era lì. Non poteva tirarsi indietro.

Dopo poco il tè era pronto, ma quando tornò in cucina con la tazza in mano l'altro si era già addormentato, le labbra aperte da cui scoccava un rivolo di saliva e il capo reclinato. Sembrava più giovane, quando dormiva. Indifeso.

Il biondo sorrise, posando la tazza sul tavolo e buttandogli addosso una coperta. Era stata una lunga nottata.

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Capitolo 10
*** capitolo nono ***


Aveva passato tutta la notte a vegliare sul suo ospite, osservando i movimenti del suo petto come fossero dei segnali divini. Sembrava ipnotizzato, nel guardarlo. Poteva bearsi della sua carnagione così pallida, come i raggi della luna che entrava dalla finestra, che lasciava scoperte le vene bluastre come le sue labbra, che così andavano a contrastare i capelli di fiamma, che pigri scivolavano sul tessuto. Era quello che lo colpiva di più: la loro lunghezza, quel senso di antichità che emanava da ogni singola particella di quel corpo così vivo e morto allo stesso tempo. Una dualità che a lui sembrava impossibile costringere in una sola persona.

Era orribile. Era stupendo.

Con le prime luci dell'alba si iniziarono a sentire i primi mugolii leggeri, che lentamente si trasformarono in sbadigli. Uno battito di palpebre, due. un lamento annoiato. Crowley si stava svegliando. -Dove sono?- borbottò assonnato. Anche appena sveglio sembrava un bambino, qualcosa di assolutamente non offensivo che ispirava nient'altro che protezione. Aziraphale svariate volte nella notte aveva sentito il folle bisogno di avvicinarsi, sdraiarsi vicino a lui. Si era poi proibito di fare una cosa simile per non cedere al sonno.

E gli effetti si vedevano bene.

La prima cosa che Crowley vide al suo risveglio fu un'espressione stanca, le iridi azzurre come il cielo circondate da profonde occhiaie violacee. Il biondo era sempre stato il migliore a fare le notti in bianco, ne faceva più di quanto avrebbe dovuto. Un po' per lo studio, un po' per altri motivi. Come la lettura.

Era un esperto in materia, e ora che una nottata senza sonno poteva rivelarsi nobile aveva un motivo in più per non chiudere occhio.

-Sei a casa mia- si stropicciò le palpebre, cercando di avere un aspetto sano coronando il tutto con un sorriso pigro. -Cioè- la sua parlata rapida prese subito il posto di quella lenta e calma che stava usando -non è mia, l'ho presa in prestito, ma ti ho portato qua io. Questa notte-.

Crowley aprì la bocca confuso, guardandosi attorno. -Non...- pareva cercare le giuste parole per descrivere quello che stava effettivamente provando, un'inspiegabile matassa che non riusciva a districare nella sua mente.

Il biondo non voleva che si sforzasse, aveva una ancora una ferita da trappola medicata in fretta e furia alla gamba.

La ferita. Doveva controllare la ferita.

Improvvisamente un senso di angoscia riempì il corpo provato di Aziraphale. Già si immaginava la ferita nera, intrisa di parassiti e di infezioni. Non era pronto ad amputare una gamba. Non ne aveva i mezzi.

Si inginocchiò nuovamente ai piedi del giovane, spostandosi dalla sedia che aveva usato come rifugio notturno, per poi aprire i lembi scuri dell'asciugamano intriso di sangue secco. Già si prospettava l'orrore, ma inspiegabilmente la gamba era pulita.

Non un filo di sangue. Non un segno di ferita. La pelle era liscia come quella di un neonato.

-Avrei dovuto dirtelo- sul volto di Anthony si era aperto un sorriso malizioso, mentre abbassava lo sguardo nel punto dov'era il biondo. -Le ferite non sono roba per me-.

Aziraphale non capiva. Era impossibile. Era una ferita aperta. Era una ferita enorme. Come aveva fatto a guarire così in fretta? Di nuovo, il dubbio di aver sognato ogni cosa si prese il possesso della sua mente. Stava odiando quel ragazzo in quel momento. Lo stava detestando con tutta la sua anima. Lui si era preoccupato. Lui aveva fatto casino. Per scoprire che aveva anche quell'abilità? Davvero? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto essere sempre in bilico tra sogno e realtà? Per quanto tempo ancora?

-Avresti dovuto dirmelo prima, così ti avrei direttamente lasciato là- sbottò in risposta, sfiorandone la pelle ancora incredulo.

Una risata debole si udì, che precedeva uno sbadiglio. -Sei simpatico-.

Avrebbe voluto urlare un secco tu no, ma capì di non poter fare molto. Doveva comunque essere sempre gentile con gli ospiti, era una cosa che gli avevano insegnato molto tempo prima. Interminabili attimi di silenzio riempirono la stanza, quando il biondo sospirò pesantemente. Era il suo modo di avvertire di star per iniziare una conversazione. -Quanti anni hai?- mormorò, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. Uno scrittore particolarmente romantico avrebbe descritto quella scena come un fedele che si prostra alla sua divinità, quando la realtà era ben diversa. Il sentimento di ossequio, di terrore c'era. Ma Aziraphale aveva imparato nel tempo a temere solo le persone giuste.

Crowley si umettò le labbra, quasi a dover riflettere sulla risposta. -Ventitré primavere- rispose, non riuscendo tuttavia a nascondere i calcoli che aveva fatto rapidamente aiutandosi con le dita. Era da tanto che non rispondeva ad una domanda simile. In realtà, era da anni che non rispondeva ad una domanda.

Aziraphale, nel sentire la risposta, rimase per un secondo interdetto. Aveva un anno in meno di lui? Solo un anno? Impossibile. Quell'aria e quella parlata così antica non erano sicuramente caratteristiche di un suo coetaneo. Doveva indagare più a fondo, poiché tutta quella situazione non gli tornava. -In che anno sei nato?- alzò il sopracciglio, gli occhi azzurri che brillavano di quella forza indagatrice. Era pur sempre un giornalista, ficcare il naso era il suo mestiere.

-Anno del Signore 1498- si grattò la nuca color del sangue, deliziandosi dello sguardo scioccato dell'altro. -Anno più, anno meno. Quando vivi isolato dal mondo, cose come questa sono abbastanza inutili-.

Inutile dire che Aziraphale perse otto battiti in un colpo solo, il cervello che doveva correre come un ronzino impazzito per stare dietro a tutto quello che stava sentendo. Quindi, ricapitolando: quel tipo, Anthony Jonathan Crowley, riusciva a guarirsi da solo, viveva da solo in una catapecchia nel mezzo di una foresta secolare e in più aveva apparentemente più o meno cinquecento anni.

Come già detto in passato, non era questo che si era aspettato quando aveva accettato di andare in quel buco di paese. Si aspettava delle vecchiette snervanti, contadini e boscaioli.

Non un immortale in casa sua.

-Com'è possibile?- il suo sussulto doveva essere in qualche modo nascosto, come un pensiero per sé stesso. Ma apparentemente, l'altro lo sentì forte e chiaro.

-Magia- lo sguardo dell'altro sembrava disperso in nebbie lontane, mentre le mani erano tornate a stringere il medaglione che portava al collo. Aziraphale giurò di aver visto qualcosa guizzare al suo interno. -Pura e semplice. Magia potente, antica- un sospiro intriso di malinconia lasciò le sue labbra sottili -non...non chiedermi cose strane, non so come questo tipo di cose funzionino-.

-Oh-.

Magia. Quella parola l'aveva colpito come un fulmine a ciel sereno, nonostante l'avesse già immaginato. Magia. Magia. Magia. Quella città era piena di magia, Anatema era piena di magia. Lui era pieno di magia. Ogni cosa in quella cittadina traboccava di magia e lui l'aveva realizzato solo in quel momento. Si sentiva uno sciocco, un idiota. La verità era a pochi passi dal suo naso e lui l'aveva scoperto solo adesso.

-Ora, so quello che starai pensando- Crowley parlava come se avesse conosciuto ogni cosa del mondo, e forse era così, gesticolando in modo quasi preciso. -La magia non esiste, è stupida. Oppure io sono pericoloso, o cose così-.

-Non è vero-

-Sì che è vero- la risposta secca lo fece arrossire come uno schiaffo in pieno volto -ma io non sono malvagio in nessun modo. Sono un guaritore- Aziraphale notava della paura nel suo tono, addolcendo gli occhi fino a quel momento quasi severi. Quegli occhi ambrati erano terrorizzati. Chissà quante cose aveva passato. Si strinse di più sulla poltrona, ingobbendo le spalle e stringendo con le mani i piedi piccoli e ancora sporchi di sangue e terra. -Non ho mai fatto del male a nessuno, lo giuro-. Sembrava così piccolo, in quel preciso istante. Un ragazzo. Non un immortale, un guaritore, mago o cose simili. Solo un ragazzo. Il biondo gli fece un grande sorriso, cercando di sembrare accogliente il più possibile.

-Io ti credo, non mi fai paura- sussurrò, stringendo le mani attorno ai braccioli. -Mi hai salvato la vita, non potrei mai temerti-. Falso. L'aveva temuto. Aveva avuto paura di lui. -Adesso spiegami cos'è successo-.

-Stavo andando in cerca di erbe, vicino ai grandi massi- Aziraphale si aspettava della resistenza da parte sua, e invece il dialogo si creò subito. Forse aveva voglia di parlare. -Sono tornato, e la mia casa era distrutta. Tutta- il biondo notò che si stava grattando le braccia quasi in modo compulsivo, senza smetterla per un secondo. Avrebbe voluto abbracciarlo, in quell'istante. -Temevo che chiunque avesse fatto una cosa simile fosse ancora nei paraggi, così sono corso via- un sorriso furbo si creò sul suo viso -sono incappato in una trappola per orsi, ed eccomi qua-.

-Non...non hai una famiglia che ti possa ospitare? Qualcuno con cui stare?-

Vide lo sguardo del rosso rabbuiarsi, per poi pentirsi di aver aperto la bocca. Era stato uno sciocco a chiederlo. Un vero e proprio idiota. Ovvio che non aveva nessuno, povera gioia! Aveva solo da guardarlo: probabilmente, erano secoli che non parlava con un essere umano. Era stato uno stupido. Stupido, stupido, stupido.

-Scusami- accennò dopo pochissimi istanti, ingoiando un grumo di saliva. Aveva sofferto abbastanza per la nottata, non voleva rovinargli pure la mattina.

-Niente, niente- Crowley fece un gesto evasivo con la lunga mano pallida, come a scacciare una mosca o un brutto ricordo. -So che non sei stato tu. Non avresti avuto motivo per fare una cosa del genere, inoltre non mi sembri proprio il tipo...- gli fece un sorrisetto sotto i baffi. -Sembri abbastanza spaventato, ti metto in soggezione o sbaglio?-.

-Non mi metti minimamente in soggezione. È solo...-

-Spaventoso?-

-Strano, solo tanto strano-.

Notò la reazione divertita dell'altro. Probabilmente era una risposta che si aspettava, ma a cui non aveva accennato in quanto seconda opzione. La gente l'aveva sempre e solo considerato come la prima opzione, l'avevano sempre descritto così e in nessun altro modo. Era abituato al primo aggettivo, sentirne altri gli faceva un effetto bizzarro.

-Immagino- Crowley guardò verso la finestra, i raggi del sole ad illuminargli le efelidi rossastre sul suo volto. -Sembri una brava persona, mi piaci-.

Alla parola "sembri", Aziraphale si costrinse a non grugnire. Sembrare!? L'aveva letteralmente trascinato via da una situazione di morte! E poi si ricordò di essere effettivamente davanti ad un immortale, e stette per mordersi la lingua.

-Anche tu sembri un tipo a posto- borbottò il biondo, per poi  alzarsi. Doveva farsi una doccia. Doveva mangiare. Diede uno sguardo al suo ospite, i suoi vestiti laceri e insanguinati. -Hai intenzione di stare qui per molto?-.

 

-Sembro un vero idiota- allo specchio, con i vestiti di Aziraphale addosso, Crowley sembrava più piccolo, più giovane. Non erano sicuramente vestiti della sua epoca, sia ben inteso, però si era abituato allo scorrere del tempo, al cambiare delle stagioni e delle generazioni. Per questo aveva deciso di collezionare oggetti provenienti dal paese, in modo da non perdere il contatto con il mondo che cambiava. Forse era un sentimentale, un peccatore, ma aveva sempre provato una sorta di divertimento nell'osservare quelle cose incomprensibili per lui. Quegli oggetti rotondi e brillanti con quelle persone sopra erano i suoi preferiti: Queen, si chiamavano. Non sapeva bene chi fossero, e si domandava sempre chi fosse l'effettiva regina tra di loro. 

Voleva appenderli, però spaventavano gli uccelli.

-Non è vero, hai un certo stile- il biondo osservava compiaciuto il ragazzo con la sua vecchia maglietta di Elton John infilata nei pantaloni neri. Certo, i rimasugli di terra erano ancora nei suoi capelli e sul suo volto, e la chiazza scura riusciva ancora a spuntare dal colletto della maglia, ma assomigliava quasi ad una persona normale. Quasi. -E poi questi sono gli unici miei vestiti in cui non navighi, sei sicuro di mangiare abbastanza?- era sempre stato un po' nella sua natura, prendersi cura degli altri. Pensava alle altre persone più spesso di quanto avrebbe dovuto, a volte spingendosi fino ai limiti della salute mentale. Fare domande scomode era parte integrante del suo essere, tra le altre cose.

Restava comunque un giornalista.

-Non sono affari che dovrebbero riguardarti- il sibilo del rosso era fin troppo chiaro, i suoi occhi che sbattevano come a volersi svegliare da un pessimo incubo. Aziraphale non poté non tradire una smorfia d'offesa.

-Sei mio ospite, è un affare che dovrebbe riguardarmi- rispose severo l'altro, apparendo dietro la sua immagine riflessa -non è nel mio interesse farti morire di fame-.

-Questo l'avevo capito- il suo singhiozzo annoiato precedette una sorta di passo indietro, fino quasi a scontrarsi con l'altro. -Se ti può interessare, ho mangiato tante erbe. Diciamo, solo erbe- scosse le spalle con sufficienza, chiedendosi chi fosse quella persona sul suo petto. Non sembrava quasi umano, era troppo brillante! E poi, come diavolo avevano fatto a metterlo su una maglietta? Avevano fatto come per i libri stampati, oppure era una magia? Forse era anche lui un mago, ma non aveva sentito nulla in lui. Quindi era normale. Almeno lui. Almeno lui era normale. Poteva fidarsi, di quel tipo un po' strambo. Poteva fidarsi.

-Lo vedo...- con fare sbrigativo gli diede una pacca sulla spalla, dirigendosi verso la cucina -adesso io ti preparo qualcosa da mangiare, e ti conviene renderti presentabile-. Prese un uovo. Prese una pentola. -Voglio farti conoscere delle persone-.

 

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Capitolo 11
*** capitolo decimo ***


Crowley mangiava le uova sul tavolo, guardandosi intorno come se stesse per essere lui stesso divorato da qualcuno. Non amava quello che stava succedendo, il modo in cui stava venendo trattato. Quel biondino si stava comportando in modo troppo socievole, troppo amichevole. E quella storia delle persone non gli piaceva per niente.

Non era una cosa a cui era abituato.

Con le lunghe dita prendeva il bianco dell'uovo, per poi metterlo tutto in bocca. Nessuno era stato abbastanza paziente da insegnargli le buone maniere a tavola, e questo si poteva benissimo vedere. Però erano anni -secoli- che non mangiava delle uova. Erano calde, erano salate. Erano buone.

Decisamente diverse dalle erbe di cui si era ingozzato durante tutto quel periodo. Per questo poteva dirsi grato all'altro, che lo osservava dall'altro lato del tavolo con uno sguardo indagatore. Sembrava fosse lì per studiarlo, non per ospitarlo, nonostante cercasse di nasconderlo attraverso occhiate che rasentavano il tenero.

-Allora- il biondo attaccò il discorso, stringendo le mani per appoggiare il mento. -Cosa...sei?-

-Te l'ho detto- con la bocca ancora piena, il rosso fece un movimento con la mano, di pura irritazione. L'aveva già detto, non c'era bisogno di ripeterlo. -Sono una persona esattamente come te-.

-Ma hai detto di essere nato molti secoli fa-

-Ma ti ho anche detto che io sono uno stregone, e che sono cose che non ti devono interessare- terminò il discorso infilandosi tra i denti un gigantesco pezzettone, cosa che fece storcere il naso ad Aziraphale. Non era per niente quello che si era immaginato, mentre lo osservava. Non era etereo, non era occulto. Era solo una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Alcuni abbastanza rivoltanti.

-Vuoi dell'acqua?- azzardò con un sorriso, adocchiando la bottiglia che teneva vicino al tavolo.

-No grazie- il sibilo dell'altro arrivò chiaro e tondo alle sue orecchie.

Aziraphale sospirò esasperato, senza però darlo a vedere. Non doveva essere scortese con gli ospiti. -Ti piacciono le uova?-.

-Da morire-

-Bene, in merito a questo...-

-Non azzardarti a chiedermi cose sul mio passato, su quello che ho fatto per essere qui tra i vivi- in un brontolio decisamente innervosito, il rosso strinse le dita attorno alla tovaglia, quasi a dover contenere un urlo. -Non sono cose che ti riguardano-.

Aziraphale abbassò lo sguardo, aspettandosi già quella risposta. -Non volevo mica...-

-Volevi, invece- ogni parola che pronunciava era un ringhio sommesso, il richiamo di una bestia antica, ma le sue parole erano comprensibili, vive. Anche il biondo si sarebbe comportato così, se fosse stato letteralmente strappato dalla sua vita, dalla sua quotidianità.

Poteva capirlo.

-Qua sei protetto, intesi? Non c'è nessuno che vuole farti del male- dopo qualche secondo di silenzio decise di fare la sua prossima mossa, osando quasi posargli la mano sulla spalla. L'altro non sembrò gradire.

-Ovunque le persone vogliono farmi del male- il tono del rosso diventò decisamente più cupo, mentre continuava ad ingozzarsi di uova. -È una cosa normale, davvero-.

-Non penso sia una cosa poi così tanto normale, non trovi?-

-Per te forse no, guardati- lo indicò giudicante, il dito ancora sporco di albume -sei biondo, parli bene l'inglese e sei un intellettuale. È normale che la gente non voglia farti del male- distolse lo sguardo, aggiungendo una frase in un mormorio -e probabilmente sei anche tu uno di quei bastardi-.

-Potresti ripetere a voce più alta, per cortesia?- Aziraphale sarà anche stato un ingenuo, ma non avrebbe mai permesso di essere preso in giro in quella maniera.

-Ho detto- il ragazzo si alzò in uno scatto dal tavolo, continuando a puntare il dito verso l'altro. I suoi occhi ambrati brillavano di pura rabbia. -Che tu sei uno di loro. Adesso mi stai trattando bene, ma a fine giornata sarà abbrustolito come un maialino!-. Dalle labbra schiuse si potevano vedere i denti digrignati. 

-E cosa te lo fa pensare, di grazia?- Aziraphale era arrivato al limite della sua gentilezza. Va bene essere gentili con gli ospiti, ma quando questi iniziano a fare supposizioni assurde e in modo così aggressivo era il momento di reagire.

Non si era reso conto di aver urlato. Spesso lasciava andare la sua rabbia libera come un cane lasciato senza guinzaglio in un prato, senza nemmeno esserne a conoscenza. E spesso, quando lo scopriva, stava male. Non era mai stato bravo a dominare la rabbia, anche perché in lui si manifestava in modo strano: mai tutto d'un colpo, più come un'onda. La rabbia iniziava a crescere, si liberava e poi andava a morire sulle spiagge dei suoi occhi sotto forma di lacrime.

Tutta la sua rabbia iniziava con il fuoco e terminava con l'acqua, ma fortunatamente quell'elemento l'ospite non riuscì a coglierlo, poiché di tutto quello colse solo l'urlo graffiato provenire dal biondo dall'altra parte del tavolo. Fu come colpito da una scarica elettrica, sedendosi immediatamente e restando immobile sulla sedia come un albero colpito da un fulmine, gli occhi vitrei davanti a lui. -Perché hai urlato in quel modo?- bisbigliò con tono piatto, abbandonando le mani a penzolare ai lati della sedia. Mai era sembrato più simile ad un bambino spaventato come in quel momento.

Aziraphale lo guardava fisso negli occhi, per poi sentire tutta la sua rabbia scemare dai suoi occhi, che come al solito divennero umidi. -Scusa, non volevo spaventarti- borbottò, passandosi poi una mano sugli occhi per scacciare via le lacrime.

-Nemmeno io volevo trattarti in quel modo- l'altro parve essersi scosso via quella patina di compostezza che aveva preso tutto d'un tratto, tornando ad appoggiare i gomiti sul tavolo. -È solo che...è solo che non sono mai stato abituato a ricevere tutto questo-  continuò, accennando un sorriso timido -e non sono mai stato un grande amante dei rumori forti in generale-.

-Capisco- il biondo si sedette davanti a lui, cercando di non tamburellare le dita sul tavolo. -Cosa...come stai?- non sapeva come attaccare una conversazione normale, a quel punto, per poi scuotersi nel sentire una notifica provenire dal cellulare. Era Anatema. Le aveva scritto poco prima, chiedendole di venire nel minor tempo possibile.

Cinque minuti, e sarebbe arrivata alla sua porta.

-Come ti ho già detto- il ragazzo finì l'uovo in un ultimo boccone, guardandosi poi attorno. -Starei meglio se fossi a casa mia-.

 

Anatema era alla porta, incuriosita. Aveva letto di fretta e furia i messaggi di Aziraphale poco prima di uscire per fare la spesa, correndo subito alla casa che aveva affittato. Sembrava proprio un'emergenza, a giudicare dal quintale di errori grammaticali e di battitura.

Aveva bussato un paio di volte, ottenendo in risposta nulla oltre a qualche sparuto colpo dall'altro lato del legno, quando dopo qualche minuto vide la figura del giovane uscire.

Pareva veramente a pezzi: le occhiaie erano ancora più accentuate, gli occhi umidi da palesi rimasugli di lacrime. La maglia era sporca di qualcosa di rosso, i capelli erano arruffati. Sembrava uno studente durante l'ultima settimana di scuola. -Buongiorno- fece un cenno con la mano timidamente, un sorriso che sembrava una smorfia da teatro.

-Non crederai mai a quello che sto per dirti- nonostante il look da cadavere ambulante, l'entusiasmo del biondo era qualcosa di fuori dal comune. Sfoggiava un sorriso smagliante, come quello di una madre alla recita  del proprio pargolo, mentre indicava con un dito l'interno della casa.

Anatema non voleva rovinargli la festa dicendogli che sentiva dei rumori un po' troppo forti e sospetti provenire dal salotto.

-Cosa succede?- tutto quell'entusiasmo poi, non le stava nemmeno piacendo più di molto. Non conosceva benissimo quel tipo, e con molta probabilità si trattava di un grande e stupido scherzo. Era già pronta a girare i tacchi e andarsene.

Il ragazzo prese un lungo, liberatorio respiro, mentre cercava in qualche modo di fare ordine nella sua testa. Sembrava come se stesse facendo una verifica, oppure un test per prendere la patente. Ad ogni modo, sembrava molto impegnato a pensare, fino al punto da assumere un'espressione pensierosa che non aveva nulla a che fare con il sorriso con cui si era presentato. -Hai presente l'oggetto del nostro studio, Crawly- sbottò in un sospiro, portando i palmi delle mani unite dal naso ad indicare la ragazza ancora più confusa davanti a lui.

-Sì, perché?-

-Non ci crederai mai ma...- si avvicinò a lei, con fare da cospiratore -è lì! È nella mia cucina!-. Nel pronunciare quelle parole sembrava spiritato, un qualche spirito boschivo che cerca di persuadere una giovane a seguirlo per entrare in possesso del suo cuore.

Ricevette in realtà solo un'occhiata poco convinta, unita da un movimento secco con la testa. -Suvvia, Aziraphale- Anatema in realtà faticava a trattenere una risata imbarazzata, mentre si aggiustava la borsa sulla spalla. -Se volevi invitarmi bastava dirlo-.

-No! Io...- quella felicità aveva lasciato rapidamente spazio alla fretta del mantenere il contatto con lei, per non farla andare via ad ogni costo. -Io sto dicendo sul serio! Non sto scherzando! È qui, nella mia casa! Non è un mostro, ti racconterà tutto dentro-. Era quasi commovente, da guardare. Una persona che pareva essere stata così maltrattata dal mondo intero per essere in quello stato che cercava in ogni modo di convincere una persona dall'altra parte così fresca e ben curata, quasi come si trattasse di un passaggio uscito fuori da Notre Dame de Paris.

-Scusa, ma ora devo andare a fare la spesa- Anatema ne aveva abbastanza di quella mezza messa in scena, voltandosi per andare verso la macchina, quando sentì qualcosa stringerle la manica. Era una morsa, qualcosa che non poteva essere slegato facilmente. Era un morso, dita che si trasformavano in denti per tenerla stretta come una preda tra le fauci del predatore.

-Almeno dai un'occhiata dentro- nel girarsi, gli occhi azzurri di Aziraphale gli erano sembrati più convinti che mai.

 

Il tavolo era vuoto, non c'era nessuno. Il piatto con i rimasugli delle uova era ancora abbandonato sulla tovaglia. Aziraphale, nell'arrivare in quella stanza, stette per crollare in una crisi di pianto. Evidentemente, non si aspettava una cosa del genere. Fino ad un secondo prima Anthony era lì, che si gustava le sue uova, e adesso la sedia er scomparsa.

Era scomparso. Si era nascosto. I rumori di prima, si era nascosto mentre lui era alla poarta. QUel viscido! Era così che si ringraziava? A questo punto, però, era il suo compito trovarlo. Solo per non fare una figura orribile davanti ad Anatema. Solo per non ritrovarsi qualcosa di distrutto in una casa non sua.

-Allora, cosa dovrei...?-

-Tu siediti, io torno subito- con un ordine perentorio, per poi dirigersi a passi rapidi verso le altre stanze. Cosa non avrebbe fatto per averlo lì! Sicuramente aveva fatto la figura dell'idiota davanti a lei. Oddio, era abituato a fare la figura dell'idiota con pressoché ogni persona, ma almeno adesso voleva avere un atteggiamento serio! Era pur sempre lavoro, dannazione!

In quale luogo poteva essersi nascosto, in così poco tempo?  Sicuramente, c'erano molti luoghi in cui nascondersi. Molti anfratti. Ma alcuni erano troppo...nascosti. Impossibili da notare ad una prima occhiata. Se si era nascosto in quei cinque minuti in cui lui era stato alla porta, supponendo che non avesse usato qualche magia, non era di certo andato in posti impossibili.

Controllò in armadi, dietro mobili e perfino dietro il frigo, ma a quanto pare non c'era, il tutto sotto lo sguardo perplesso di Anatema, che tentava senza successo di mettere insieme i punti di tutto quello che stava succedendo da quando era entrata in quel cottage.

Sapeva che il tempo per essere ancora considerato una persona sana di mente stava per scadere, esattamente come i posti in lui aveva ancora speranza di trovare Anthony per presentarlo all'altra, quando un'idea gli attraversò la mente come una meteora: sotto il letto.

Era sotto il letto.

Corse verso la camera da letto, sentendo dei rantolii provenire proprio da sotto il letto ancora disfatto. Aveva fatto centro. Si inginocchiò, guardando sotto. Anthony era in posizione di attacco, i denti digrignati  e gli occhi spalancati. Era un gatto pronto ad attaccare. -Chi è quella persona- ringhiò, quelle palle ambrate puntate direttamente verso il biondo, quasi come a voler individuare il punto migliore per colpirlo. Il ciondolo pendolava nell'oscurità, sopra il volto distorto di Elton John.

-Non è nessuno, davvero- Aziraphale si guardava nervosamente alle spalle, porgendo poi il palmo aperto all'altro. Non voleva rendere la situazione più difficile di quella che già era. -Ti farà solo qualche domanda, nient'altro-.

-Ti ho detto niente domande! È così difficile da capire?-

-Non ho voglia di litigare ancora, Crowley-

-E allora lasciami stare qui. Tra poco andrò via, davvero- quell'atteggiamento così aggressivo andrò a scemarsi in una serie di grugniti che in qualche modo avevano formato quelle parole. Da quella bestia meschina, il ragazzo si mise in posizione fetale, la guancia posata sul pavimento polveroso.

-No. Non adesso- Aziraphale restò interdetto da quelle parole, accennando una risata. -Devo ancora saldare il mio debito ricordi?-. Crowley gli aveva salvato la vita, era il momento di ricambiare, giusto? Giusto? 

Crowley sembrò pensoso per qualche secondo, per poi annuire. -Hai ragione- un sorriso gli illuminò il volto per qualche secondo, per poi lasciare che l'espressione si indurisse. -Tanto, non ho nessun altro posto dove andare-.

Aziraphale sentì quelle poche parole colpirlo come delle frecce scoccate direttamente al suo cuore, sentendo poi le dita dell'altro aggrapparsi alle sue. -Tra l'altro, penso che sia anche una persona che tu potresti conoscere-.

Dopo averlo fatto sgusciare fuori dal letto, lo guidò verso la cucina, dove poté finalmente gustare l'espressione sorpresa della donna. Era come se il suo viso si fosse trasformato in gomma, a giudicare dal modo in cui aveva aperto la bocca.

Quello che non si era decisamente aspettato, in verità, era la reazione dell'altro. Se prima i suoi occhi erano scontrosi, in piena burrasca, adesso sembravano strabuzzati, quasi come se stessero per uscire dalle orbite del rosso. Era sorpreso, l'aria sembrò mancargli nei polmoni. -Agnes- riuscì a sussurrare, le gambe tremanti e la pelle che era impallidita di colpo. -Sei tu-.



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Capitolo 12
*** capitolo undicesimo ***


La luce del primo sole premeva sulle sue palpebre, facendogli sbattere per la prima volta dopo quasi un giorno intero di sonno.

Erano anni che non dormiva per così tanto tempo, era quasi emozionato, nello svegliarsi. Alzò il busto, portando i capelli ramati dietro le orecchie infreddolite e stanche da tutto ciò che aveva sentito. Nel sentire le ossa schioccare come dei legnetti rotti dalla suola di una scarpa, il suo sangue si ghiacciò nelle vene. Prese la sua tracolla con un movimento rapido, facendola penzolare dalla spalla. Era una sensazione nuova. Tutto era nuovo.

-Margot! Margot, esci fuori!- gridò poi, ricordandosi come era arrivato lì, in quel punto della foresta. E soprattutto, con chi. I suoi occhi si spalancarono, mentre incerto faceva i primi passi sul pavimento di foglie. Era scalzo, sentiva ogni cosa sulla sua pelle. -Non...non è divertente-.

Improvvisamente, da un cespuglio, emerse una bambina: era magra, scheletrica quasi, e il nido di capelli scuri le copriva per buona parte il volto coperto di terra. Vestita di stracci, poteva avere sia venti che otto anni, a giudicare dal suo sguardo. -Sono qui- squittì con poca convinzione, avanzando a tentoni verso l'altro. 

Il rosso le corse incontro, stringendola poi al petto. Era come se avesse appena ritrovato una cosa che temeva di aver perso. Sentiva il calore della bambina pervadergli il collo, le dita che correvano nei suoi capelli stopposi, come per provare che fosse davvero lei. -Dio sia lodato...eccoti qui- le strinse le spalle con le dita nodose, osservandola brevemente. L'aveva trascinata con lui, erano forse giorni che non mangiava. -Come stai? Ti sei fatta male da qualche parte?-

Margot scosse la testa, per poi stringere con le piccole e tozze dita la pelle della guancia del ragazzo. -Dov'è la mamma? Ti ha detto dove andava?- la voce tremolava, mentre gli occhi vagavano per la foresta alla ricerca di qualcosa di famigliare. Non era mai andata così lontana da casa sua, la mamma l'aveva sempre proibito.

Nel sentire quelle parole, il sangue di Crowley si gelò nelle sue stesse vene, al solo ricordo dei giorni passati. Sua madre, sua madre, sua madre. Dov'era, quella donna? Perché non era con loro? Ricordi confusi nella sua mente si accalcavano come ubriachi in una rissa da taverna: uomini che entravano in casa, nella loro casa, e subito trascinavano via quella donna. Lui che prendeva la ragazzina in braccio, sentendo il peso di quel medaglione sul collo e della bisaccia sulla spalla. Un'energia non sua nelle vene. Loro due che correvano, i cori e i canti nella piazza principale che riuscivano a vedere solo attraverso il filtro delle fronde.

Erano poche parole, una sola frase: "bruciate la strega".

La strega. Quella donna. La loro madre.

La gola si fece secca in un secondo, al solo pensiero di dover dire la verità alla bambina davanti a lui. Sua madre era morta, era morta, era morta. Non li avrebbe aspettati da nessuna parte, dovevano fuggire. Era questo il loro destino: quello di fuggiaschi.

Ma lui aveva ricevuto ordini precisi, e li avrebbe rispettati anche a costo della vita.

-È andata via- decise di ammettere, un sorriso amaro ad abbellirgli il viso. -Ma staremo bene. vedrai-.

Mentre l'espressione della bambina diventava sempre più confusa, dei passi lenti si sentirono in lontananza, a scrocchiare nelle fronde. Crowley si alzò, sapeva che qualcuno li stava cercando, e l'obiettivo era quello di non farsi prendere. Prese la bambina in braccio, sentendone di nuovo il peso, e la trascinò nuovamente nel fitto della foresta.

 

Si era svegliato sul letto di Aziraphale, sotto lo sguardo di Aziraphale, e con la mano di Aziraphale sulla fronte. Il mal di testa lo stava facendo impazzire, facendogli desiderare di nuovo di tornare a dormire.

Non era pronto per svegliarsi. Non era pronto per ritornare alla realtà. Voleva ancora restare nei suoi ricordi.

-Come stai?- appena gli occhi dell'altro si aprirono, Aziraphale si gettò subito come un'acqua su di lui, iniziando a tempestarlo di domande come al solito.

-Cos'è successo? Dov'è la ragazza?- la sua voce era impastata dal sonno e dalla nausea, ma era in qualche modo vigile, austera come al solito. -Dov'è la ragazza? Dov'è?- si alzò di scatto, per poi sentire nuovamente la mano del biondo freneticamente cercare di farlo tornare sul letto.

-Sei svenuto, hai battuto la testa- il labbro inferiore di Aziraphale stava tremando -e Anatema è andata via da poco-.

Crowley sospirò pesantemente, gettando nuovamente la testa sul cuscino. -Mi hai portato tu qui?- chiese ancora, il tono di chi sapeva già la risposta.

Come aveva previsto, Aziraphale annuì.

-Grazie per avermi preso, allora- si grattò la nuca, lo sguardo sfarfallante, per poi voltarsi sull'altro lato del letto. C'erano così tanti oggetti dall'uso a lui ignoto, così tante cose da vedere e percepire e toccare. C'era così tanto da fare. -Aziraphale- scandì il suo nome con precisione, evitando il contatto visivo.

L'interpellato sospirò paziente, sedendosi ai piedi del rosso. -Chi è Agnes, Crowley? E perché hai reagito così nel vedere Anatema?- la voce era simile a quella di una maestra d'asilo, mentre allungava la mano sulle coperte. Non si aspettava una risposta, ma valeva la pena tentare.

Crowley non rispose, limitandosi a sbuffare.

-Capisco che tu voglia mantenere i tuoi segreti-  continuò, abbassando lo sguardo solo per non incontrare anche solo lontanamente quello dell'altro. -Ma vorrei almeno...-

-Era mia madre- un flebile sussurro si udì nella stanza, assieme ad un breve movimento di coperte. -O meglio, era la donna che mi ha accolto quando nessun altro era disposto a farlo. Mi ha insegnato tutto quello che so e...- prese un profondo respiro, Aziraphale poteva scorgere il petto alzarsi dalle coperte spostate -e quella ragazza le assomiglia davvero molto-.

-È una sua discendente- aggiunse il biondo, lasciando che l'altro si rialzasse seduto sulle coperte. Ogni movimento era studiato, ogni singola cosa dava a lui il senso della fluidità delle spire di una serpe.

-Lo so-.

Vennero inghiottiti da un'imbarazzante silenzio. I due erano soli, il battito della pioggia improvvisa che batteva fuori dalla finestra nel primo pomeriggio. Le gocce risuonavano come un'oscura melodia, cercando di riempire il silenzio che si era creato.

-Io sono riuscito a sentire dell'energia, in lei- le dita del rosso andarono al medaglione, stringendolo nel palmo come a volerlo assorbire nella pelle. -La magia è destinata ad unirsi ad altra magia, è una delle cose che Agnes mi aveva insegnato-. La sua espressione pareva vacua, distratta. Il muro era l'obiettivo dei suoi occhi ambrati, le labbra semichiuse.

Aziraphale rifletté su quelle parole per un secondo: la magia era destinata ad unirsi ad altra magia. Anatema era una strega, era davvero come lui. Allora perché erano così diversi? Perché Crowley era così bello?

-Ma una cosa che non mi spiego è una sola- il monologo del rosso era destinato a continuare, a quanto pare -perché ho incontrato prima te, e non prima lei? Perché mi hai salvato tu e non lei?- il suo tono era quasi rabbioso, il sibilo di un serpente.

Era una gran bella domanda, non c'era nient'altro da dire. Forse troppo diretta, nel tono. Perché il biondo si alzò di scatto, uscendo rapidamente dalla stanza e lasciando il rosso da solo.

 

Perché aveva reagito così? Non lo sapeva nemmeno lui, forse. Non voleva più sentire la sua voce, non voleva più sentire le sue parole. Era orribile, era stupendo. Ma lì aveva toccato il fondo. Forse l'aveva ferito l'ultimo pezzo, l'ultima domanda.

Perché era stato lui a salvarlo, e non lei? Cosa aveva lui di speciale? Perché era arrivato a quel punto? Uno sconosciuto era nella casa che aveva affittato con i suoi guadagni, nel letto dove lui aveva dormito. Uno sconosciuto aveva i suoi vestiti, la sua maglietta di Elton Jonh e i suoi pantaloni. Uno sconosciuto aveva mangiato le sue uova, che lui aveva perfino cucinato.

Uno sconosciuto stava facendo parte della sua vita, e non poteva fare assolutamente nulla. Era davanti al frigorifero, riusciva a malapena ad osservare il suo riflesso in mezzo a tutte le calamite che ne adornavano la facciata metallica. Dio, quanto sembrava patetico. Sua madre gli aveva sempre detto di non fidarsi degli sconosciuti, di non accettare le caramelle dagli sconosciuti. E adesso, cosa stava facendo? Aveva deciso di adottare un mostro, ospitare uno spettro. Una creatura che fino a pochi giorni prima pensava non fosse nemmeno reale.

Era uno sbaglio. Cosa stava facendo? Cosa stava facendo? Ma soprattutto, cosa doveva fare? La stanchezza che percepiva nelle ossa non era minimamente comparabile a quella che sentiva nel cuore. A quella che sentiva nella sua anima. Doveva scacciarlo? Doveva mandarlo via? Era in grado di dire una parola secca, una frase per cacciarlo ufficialmente dalla sua casa e dalla sua vita. Farlo tornare di nuovo nelle nebbie del dubbio, dell'immaginario.

Però, era davvero in grado di fare una cosa simile? Non era mai stato in grado di essere così, era sempre stato un rammollito. Non poteva gridare, non poteva fare la voce grossa. E poi, dove poteva andare quel ragazzo solo come un cane, senza una famiglia e senza altri amici, da secoli considerato come un animale selvatico? Per Crowley non c'era riparo. Per Crowley non c'era casa.

Doveva avere pazienza. Doveva avere pietà.

Ritornò sui suoi passi, un sospiro pesante a lasciare le sue labbra ancora umettate di saliva, e poi cercò di incontrare lo sguardo di Crowley, seduto sul letto ad esaminare i capelli. Alla luce biancastra che entrava dalle finestre, sembravano quasi marroni, senza i riflessi sanguinanti che lo rendevano così etereo.

Cercava di farsi una treccia con le dita sottili, ma il tremore in esse e il sonno rendevano tutto complicato. Sembrava un bambino alle prime armi con un giocattolo, mentre cercava di smontarlo e rimontarlo senza successo. La sua irrequietezza era svelata attraverso gli occhi, che come dei gatti nella notte girovagavano nelle sue orbite.

Aziraphale non poté non tradire un sorriso, mentre si avvicinava al letto. -Vuoi una mano?- propose, allungando le mani con accoglienza. Aveva delle nipoti, sapeva come fare una treccia.

Crowley alzò lo sguardo, scrollando poi le spalle con indifferenza. -Sono capace, grazie- mormorò, gli occhi immediatamente bassi.

-Non mi sembra-

-Devo solo riprenderci la mano-

Dopo aver pronunciato quella frase caustica, il ragazzo ritornò a incastrare le sue dita nei capelli, sperando di riuscire a legarli in qualche modo. Passavano come liquidi sulla sua pelle, senza dare cenno di volersi legare l'un l'altro. Un grugnito di sconforto, seguito da un altro. Il ticchettio dell'orologio al muro  e i profondi sospiri di Aziraphale, i suoi occhi sulla scena come quelli di un'insegnante davanti ad una classe silenziosa.

Continuava a muovere le dita, a grugnire. Continuava a incrociare, legare, mettere assieme. I movimenti rapidi, i piccoli pugni sul materasso dovuti al nervoso. Continuava, continuava e continuava.

-Hai bisogno di una mano, Anthony?- ripropose il biondo, una risatina che lasciava le sue labbra rosate.

Uno sguardo truce a volte può dire più di mille parole.

 

-Non pensavo che fossi così bravo a fare le acconciature- la voce del rosso era alta, estasiata nel sentire le dita tozze del biondo passare attraverso le sue ciocche. Da dove veniva lui era raro che gli uomini sapessero padroneggiare certe abilità.

-Ho delle nipoti, a Londra. Figlie di mia sorella maggiore- rispose l'altro con semplicità, le gambe incrociate sulle coperte. -Quando ero piccolo ho imparato molte cose, sui capelli-.

Le ciocche si stavano raccogliendo sui suoi palmi aperti, una vecchia spazzola che aveva trovato in uno dei cassetti a fare da guida per eliminarne tutti i nodi al suo interno. 

-Capisco- il rosso posò la testa sul ginocchio, beandosi di quel contatto. Erano secoli che nessuno lo sfiorava così, in modo talmente calmo. L'ultima volta che qualcuno gli aveva toccato i capelli non era stata un'occasione molto piacevole.

-Tu avevi dei fratelli? Delle sorelle?- Aziraphale voleva iniziare una conversazione, odiava il silenzio che si creava ogni volta che erano assieme.

-Avevo una sorella, si chiamava Margot- rispose, lo sguardo lontano diretto a chissà quale luogo oltre la porta di legno. Un sorriso malinconico, gli occhi chiari che tradivano l'alone di tristezza che Aziraphale aveva imparato a riconoscere. -Era così dolce, così...pura- una risata amara -l'unica luce in questo mondo di tenebre-.

-Immagino-

-Era curiosa, intelligente. L'ho vista andare via da un giorno all'altro senza nemmeno averle dato il tempo di essere una bambina- la sua voce si incrinava come il vetro posto al gelo. -Era la mia gioia, la mia famiglia- un ultimo sospiro, le lacrime che andavano a sciogliere il sorriso. -E poi, è andata via. È andata via per sempre, mentre io sono qui. Come nostra madre prima di lei, è andata via da me. È andata via da me per sempre- non si accorse di aver trasformato la sua voce in un grosso singhiozzo, le braccia che andavano a richiudersi sulle ginocchia. Quelli che sembravano ruggiti erano solo semplici rantolii tremanti di un ragazzo spaventato, i capelli sfuggiti dalla presa del biondo poiché portati assieme al cranio in mezzo alle esili braccia.

Le lacrime andavano a bagnare il ciondolo scuro, che pareva pulsare come fosse il suo stesso cuore.

-Ehi, ehi- Aziraphale notò l'avanzare della scena con confusione, non capendo come reagire. Avrebbe dovuto sinceramente aiutarlo? Lasciarlo sfogare? Era troppo, era troppo. Ma lui doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa. Si piegò su di lui, cercando di coprirlo con il suo stesso corpo. Era mostruosamente piccolo, in confronto a lui. Così fragile, così minuto. Forse la sua magia riusciva a ricucire le ferite della carne, ma dell'animo...niente riusciva. -Ci sono qui io, va tutto bene-. Sentiva sul petto la sua schiena che si inarcava con i suoi profondi respiri. -Qui sei protetto, qui sei al sicuro-.

Lasciò che le sue lacrime continuassero incessanti, mentre le carezze non si fermavano mai sulla sua nuca. L'aveva capito, ormai.

Sarebbe stato compito suo proteggerlo, da adesso in poi.

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