Ignobili

di burnthemall
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ripubblico questa storia revisionata e riscritta, i capitoli saranno più lunghi anche se gli aggiornamenti meno frequenti. E' un disaster in progress, che posso dirvi XD Ma con questo nuovo format sono più contenta.

****


L'armonia nascosta vale di più di quella che appare.
- Eraclito

 

IGNOBILI 

Prologo





 

Il pensiero torna alla famigerata teoria degli opposti. Scruto il cancello dinanzi a me, troppo alto: impossibile fuggire. Oggi, pare, mi occuperò di verificarla personalmente.

Oh, quale assurdità. È solo una favola, una chimera, una menzogna. Ed un fastidioso chiodo sotto al piede. Chi ne è punto ha la disgrazia di consumare anni ricreando qualche torturata storia d’amore letta in un libro, quel libro che ti ha fatto sospirare nella speranza di trovare la tua controparte, il pezzo che avrebbe combaciato magneticamente alle lacune della tua anima: un frammento di felicità elettrica. Un’infinità di persone spreca la vita sognando di aver le proprie crepe riparate da qualcun altro. E dopo, smentite, si buttano in situazioni folli per provare al mondo di aver avuto ragione. Questa volta il principe si nasconde dietro l'uomo nero, la casta donzella riuscirà a trasformare il rospo in stallone con un tocco di bacchetta magica, ottimismo, e lacrime amare. Questa volta non si verrà accecati da splendide fantasticherie, così come aggiungere gasolio al fuoco sboccia rose cremisi. Indossa camice bianco e maschera protettiva, scegli la tua combinazione preferita – c’e ne sono tante, ma non quante credi – ed arranca contro scienza e logica nel tentativo di refutare la reale motivazione: essere un cuore in cerca di conflitto.

Ma perché dovrei essere io la cavia di questo ennesimo esperimento? 

Non ha senso leggere la storia se ne conosci la fine.

La felicità non la trovo ingannandomi con qualcuno. Di questo ne sono sicura. 

Quindi, cosa voglio ottenere aspettando dietro la palestra? 

Tiro un calcio alla ghiaia. Il cemento grigio dell'Istituto Veronesi è intonato al mio umore. Appoggio la schiena contro la parete, i mattoni ruvidi pungono le mie scapole. L’inferriata di fronte è dipinta di nero, impervia e tetra quanto i cancelli di Mordor. Tutto mi procura fastidio, persino la brezza settembrina minaccia di disfare lo chignon stile ballerina. Potrei essere al caldo in classe, rovistando l’astuccio in cerca della mia penna al gel glitterato. Potrei stare aggiornando Matilde dell’ultimo indecente spettegolio origliato in bagno. Si è discusso di me. E di lui.

Scuoto la testa, riaffiorando al presente, stizzita. Sto razionalizzando l’intenzione. Divago per evitare di pensare a cosa sto facendo qui, al perché, e come mi senta adesso.

E’ normale essere tranquilli? 

Non ho mai parlato con Tilde di queste faccende, a parte per lamentarmi di... dell’ovvio. Prevedere una tale circostanza si addice ad una mente abituata a sollazzare nel bagno delle ragazze, piuttosto che sulle nuvole tempestose dove volo. Forse sarebbe stato meglio familiarizzare con le dinamiche femminili invece di ascoltare gossip falsi quanto Giuda. Avevo errato scartando il resto come stupidamente superfluo, o in ogni caso impossibile. Una colossale ingenuità. Ho diciassette anni suonati, sono praticamente antica.

Invece sono qui, sola con le mie reazioni inopportune, attendendo l’ignoto, per un opaco motivo che sono incapace di chiarire.

Sempre che abbia interpretato correttamente quel criptico messaggio. Tiro fuori il cellulare dalla tasca dell’uniforme e ne sblocco lo schermo. Subito balza alla vista il mio coinciso enigma. Lo fisso con cipiglio. Nuovamente, fallisco nel risolverlo.

 

“Incontrami al nostro posto dopo italiano. 

Dobbiamo parlare.”

 

C’è un'altra possibilità. Potrei, medito quasi sollevata, essermi sbagliata.

La prima reazione era stata un moto d’allarme. Mi ero appena sistemata per l’ora di Latino, libro e quaderno degli appunti aperti sul banco: terrorizzata dalle declinazioni da memorizzare nel pomeriggio, non intendevo perdere un secondo di lezione. La vibrazione nella tasca della gonna mi aveva fatto sobbalzare. Il suo nome, apparso controllando lo smartphone, aveva aggravato il precario stato dei miei nervi. Avevo alzato gli occhi colmi di sgomento su Matilde mentre si sedeva accanto a me. 

“Perchè sei così agitata? La prof è ancora fuori,” aveva canzonato lei. 

Avevo inghiottito l'istinto di confessare. Normalmente le avrei avvinghiato il braccio in una morsa ferrea, parlottando a macchinetta del fattaccio. Per una volta, ero congelata nell’incertezza. Non volevo sentire cosa avrebbe risposto Matilde. Di opinioni, giudizi e condanne ne aveva sciorinate a iosa. Dal caos delle nostre recenti dispute erano sorti mille contrastanti scenari che mi pugnalavano le tempie a turno. Avevo ricacciato il cellulare in tasca, sorridendo colpevole. 

“Non è mai troppo presto per temere della propria vita,” avevo detto onestamente.

Matilde, l’immagine della serenità, stava riesumando dallo zaino il suo testo di Latino. “Non avresti motivo di preoccuparti,” aveva sgridato imperterrita, “se ti fossi preparata in tempo.”

La frecciata aveva colpito vicino al cuore. Aveva ragione. Se la mia vita fosse stata un'interrogazione avrei preso meno due. 

Non ero pronta. 

Avevo evitato ogni forma di contatto con lui perché detestavo non sapere a cosa andavo incontro. Del resto, com’era possibile essere preparati di fronte al fato oscuro? Era un ossimoro, una campagna militare persa al varco del Rubicone. 

Ma ammettevo di aver temporeggiato, sperando di rimandare l’inevitabile all’infinito. Il cambiamento era la mia nemesi. Nella mia immaginazione, stendevo imperiosa una mano verso le Parche, pretendendo di tirare le fila della mia sorte. Loro, per tutta risposta, mi sfottevano in romanaccio.

Basta. Era tempo di smetterla di logorarsi sulle domande che avrei desiderato porre; era tempo di andare ad esigere risposte. E se non mi fossero piaciute - ecco, a quello avrei potuto pensare dopo.

“Seduti!” La professoressa di Latino aveva sbattuto la porta sui cardini ed era marciata verso la cattedra.

 Perchè le insegnanti bastarde sembrano forgiarle con lo stampo alla fabbrica dei cattivi Disney? 

La Taperazzi si era aggiustata gli occhiali spessi sul naso aquilino, scrutanodoci severa. Era una donna bassa, eppure sembrava torreggiare sopra di noi quando sfilava marzialmente per i corridoi scolastici. 

Stridii di gambe di metallo sul pavimento rumoreggiavano per l’aula; i miei compagni si erano seduti dopo il saluto intonato sull’attenti, in una massa omogenea d’obbedienza. 

Io ero l’eccezione. Non mi ero alzata; le ginocchia avrebbero ceduto. Non avevo eseguito il saluto; le parole minacciavano di straripare in uno tsunami di imprecazioni immonde se avessi aperto bocca. Ero occupata a concentrare tutte le mie forze nel piano da attuare.

“Silenzio! Siamo in ritardo rispetto a Greco. Oggi tratteremo un argomento alquanto ostico…” una pausa, “Che vuole, signorina Caponeri?"

 La domanda sottintesa: come osi?

La Taperazzi aveva puntato il cipiglio feroce su di me, sulla mia mano tremante, alzata. Metà classe aveva iniziato a mormorare sbalordita, il bisbiglio cosa diavolo sta facendo sovrastava gli altri. Matilde aveva le sopracciglia perse nella frangia castana. Il parere condiviso era palese: il mio comportamento era suicida quanto bizzarro.

Concordavo in pieno. Normalmente tentavo di passare inosservata durante le ore Taperazziane; una mosca studiosa sul muro. Oggi offrivo uno spettacolo raro. 

Avevo finto d’ignorarli. Mi ero schiarita la gola, racimolando coraggio.

“Professoressa, mi sento male,” avevo guaito, “Devo andare in infermeria.”

La scusa più vecchia del mondo. Il mio cervello tendeva a svegliarsi dopo il caffè dell’intervallo.

“Vuoi morire?” aveva sibilato Matilde. Io avevo proseguito ad ignorarla.

Le labbra della Taperazzi si erano assottigliate, assumendo l’espressione letale tipica di quando stilava una nota disciplinare sul registro. Mi aveva studiato per un lungo attimo. 

“Perché mai? Oggi non ci sarà nessuna interrogazione.” 

Matilde aveva represso la sua risata con un colpo di tosse. Oh, andate all’inferno entrambe, avevo inveito silenziosamente. 

Mi ero sforzata di apparire sull’orlo del pianto. “Sto proprio male. Il ciclo è arrivato in anticipo. Potrei anche vomitare.”

I mormorii circostanti avevano assunto un tono nettamente disgustato.

“Professoressa, è vero, anche a me non sembra a posto...” aveva commentato Matilde, mezza partecipe e mezza complice, la sua parola forte della media del nove. Il mio affetto per lei era sconfinato. Poi si era girata verso di me, seria. “Mi chiedo il perché,” questa volta aveva sussurrato. 

Avevo ricambiato lo sguardo con intensità torturata, prometto che ti racconterò tutto! ma tenevo il cellulare stretto nella mano sudata.

“In questo caso...” La Taperazzi non si era neppure disturbata a completare la frase: aveva fatto un gesto come per scacciare una mosca molesta, e io ero volata alla porta.

Mostrarsi contrita era facile dopo aver mentito a Matilde. “Non so cosa mi stia succedendo,” avevo confessato in sua direzione, prima di sbattere la porta sui cardini e fiondarmi via. Già in ritardo. 

Ma dopotutto una cosa l’avevo compresa.

Curiosità. Dev'essere stata quella la forza funesta che mi ha attratto fuori dalla classe con una bugia raffazzonata alla mia scettica migliore amica, per muovermi a piè veloce lungo il corridoio, evitando la bidella sfumacchiante alla finestra, poi giù le (rumorose!) scale antincendio, e che tuttora mi tiene appoggiata al muro della palestra a rimuginare - mezza penitente e mezza divertita.

Se non altro, sarà interessante ascoltare le sue razionalizzazioni.
 
 

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Capitolo 2
*** I ***


I




 

“Sei in ritardo,” constato a braccia conserte, lasciando trapelare la mia irritazione.

Tecnicamente è un’esagerazione. E’ arrivato appena cinque minuti oltre l’ora stabilita. Per me sono stati un’eternità, ed una scortesia. Mai far aspettare una signorina. Specialmente se i miei sospetti verranno confermati.

Mi spiace mentire a Matilde. Per cosa, poi? Lo vedo tutti giorni a scuola, ci parlavo sempre, tralasciando il mese scorso. Il punto è, non dovrebbe essere una persona così importante da trascinarmi fuori dalla classe di Latino. Ho un disperato bisogno di seguire la lezione se voglio salvarmi la media dell’otto.  Ho un accordo con mio padre e lui mantiene sempre le sue promesse. Se mi trasformo in un’alunna modello, il prossimo Giugno andrò - da sola! - in pellegrinaggio alle rovine del Vallo Adriano, scartando il piatto tedio della Polinesia. Scalpito al solo pensarci: un’intera vacanza dedicata a visitare i luoghi dei miei libri preferiti, festeggiando la maggiore età e la libertà che implica. Scattare l’iconica foto al binario Nove e Tre Quarti, soggiornare a Glastonbury tra le rovine di Avalon e la tomba di Re Artù, passeggiare nella millenaria foresta di Sherwood, dove da piccola mi pitturavo appollaiata sulla quercia di Robin Hood, nel procinto di riempire di frecce il volgo sottostante. 

E’ tutto ciò che desidero, e sono ad un passo dall’ottenere quel biglietto aereo per Londra. 

Ad una condizione. Ci sono sempre condizioni con mio padre, è per questo che è così riverito - temuto - nel suo lavoro. Dovrò, mi ha intimato, incarnare la parte della brava ragazza, la figlia perfetta, rispettosa con tutti. Senza più sgarri. Ne va del mio futuro. Ne va del futuro della mia famiglia. Ho spesso mancato di comportarmi adeguatamente, mio padre ama ricordare, ma ormai è arrivato il tempo di crescere.

“Altrimenti,” aveva detto seduto alla scrivania, le mani incrociate a nascondere la piega in giù della bocca, segno di vecchio disappunto, “Ci saranno conseguenze.” 

Io avevo annuito seria prima di sbattere la porta del suo studio, reprimendo un brivido di sconforto. Ero consapevole che mantiene sempre anche le sue minacce.

E invece eccomi qui. Sto praticamente indisponendo la mia vita (la mia mattinata, ma tant'è) assecondando una persona che mi ha deliberatamente evitato. Tale soggetto, se avesse desiderato riallacciare i rapporti, si sarebbe semplicemente presentato a casa mia, scoccando un sorriso dritto al cuore di mia madre, affascinante quel tanto da farsi invitare a cena; e avrebbe incassato serafico i miei insulti risentiti fino all’ultima forchettata di soufflè. Poi avremmo passeggiato in giardino dietro i cespugli di begonie, quelle alte abbastanza da proteggerci contro le domestiche spione, dove avrebbe confessato perché mi aveva ignorata così a lungo. E’ stata un'idiozia passeggera, nulla di importante, ti giuro. E dopo aver supplicato in ginocchio il mio perdono, io gli avrei concesso la pace. Lieto fine, sipario.

Doveva andare così.

Non gli ho chiesto il motivo del suo rifuggirmi, ovviamente. Perchè avrei dovuto mostrarmi vulnerabile? Sarebbe stato un oltraggio al mio prezioso -  e contuso -  ego. 

Eppure, oggi sono stata ridotta a sporcare i mocassini nuovi attraversando l’erba umida del campo di calcio, per arrivare qui. Mi sono sprecata a fissare le lancette dell’orologio sulla torre di fronte alla palestra, in sua attesa. Lui fa i capricci e io lo accondiscendo come la più zerbinata delle balie. Le mie labbra si assottigliano in una piega severa, un principio di vera rabbia. Forse dovrei insultarlo; ho una lista memorizzata per tali momenti. Come lo scorso sabato, a quel malaugurato pranzo al ristorante dove, giunta ad inzuppare il cucchiaio nella creme-brulè, con un sorriso sibillino Leopoldo ha annunciato...  devo fermarmi, elettrizzata da una scossa di genuino terrore. Non posso pensare a l'Apocalissi imminente se voglio mantenere un briciolo di controllo. E tenermi pronta ad attaccare, giusto in caso.

Calmati, non è lui il nemico, Cat. Questo è decisamente un pessimo inizio, bisbiglia la voce di Matilde nella mia mente; lei ormai ha preso il sopravvento alla mia coscienza e logica da una decina anni. 

Già, sarei passata per stupida e, lo concedo, leggermente pazza. Meglio insultarlo se mi fa perdere ancora più tempo. Decido però di mantenere un’espressione dura, intimidatrice, e di squadrarlo con sufficienza. Il magro sacrificio da offrire alla mia vanità è di metterlo a disagio. Provo a canalizzare la mente calcolatrice di Viola, immaginando di appropriarmi del suo gelo affilato. Quella infame ragazza della classe A ogni volta che mi scorge per il corridoio ha sempre un risolino stucchevole incollato alla faccia, ed una battutina sferzante sulla bocca una volta superatami. 

“Il Classico è un tale vilipendio!” l’avevamo beccata imitarmi una mattina tornando dal cortile. Il falsetto da Pikachu e l’espressione tragica da Didone avevano scatenato l’ilarità del suo pubblico.

Io avevo tirato su il naso, indignata.  “Quell’oca nemmeno sa cosa significa.”

“Ha voti migliori dei tuoi, scommetto di sì,” mi aveva tradito Matilde, sorseggiando il suo caffè. Ma anche lei si era accigliata studiandola ridere con le sue amiche.

Viola è la capa della fazione femminile delle Cat In Hate - come le chiama Matilde - cresciuta al passo dei trofei di scherma del loro idolo, e la ragione per cui evito metà delle compagnie in classe mia.

Viola è nota per andare dietro al suo futuro sposo da quando era tappo quanto me al primo anno di Liceo, ridicolizzato dai compagni per il viso efebico, da cherubino assessuato. Ma la pubertà ritardata era stata generosa con lui, donandogli lineamenti cesellati e una miriade di spasimanti al seguito, Viola in pole position. Non che la sua devozione le avesse mai giovato.

 Era stata scartata dal voluminoso carnet quella famosa serata in discoteca al quarto anno, causando una scena memorabile e l’ilarità di chi era nel perimetro di ascolto. Come me, purtroppo. Era scappata dalla pista di ballo dopo schiamazzi indicibili, scansando gente a gomitate meglio di Mosè col Mar Rosso, mascara e lacrime colanti lungo le guance paonazze. Nella foga quasi si era scontrata contro me e Tilde. Se fossi stata più sobria l’avrei compatita. Invece, quella sera offuscata dall'alcol, ho pensato sembrasse un panda in calore. Sono scoppiata a ridere sguaiatamente, rovesciando la coca cola corretta sulla minigonna. Matilde mi ha tappato la bocca con una violenta manata, tentando come al solito di sventare la catastrofe. Come al solito senza riuscirci. Per Viola, prima di sparire dalla circolazione, era chiara una cosa: ero stata la testimone della sua totale umiliazione. 

Questa non se la sarebbe dimenticata, avevo pensato guardandola scappare via.

“Sei nei guai,” il sussurro roco all’orecchio aveva riassunto perfettamente la situazione. Il colpevole era disceso su di me stringendomi per la vita, allontanandomi dal malfatto per trascinare le mie gambe traballanti nella ressa, in mezzo a giovani esaltati intenti a dimenarsi nelle ombre. Una mano sudata chiusa sulla mia a piroettarmi quando avevo iniziato a pentirmi; le luci psichedeliche dipingevano sulla sua faccia un sorriso insolito, tagliente. Un ballo in cui mi sono gettata quasi con brutalità, sciogliendo la tensione ed il rimorso scatenandomi al ritmo della musica techno. A fine nottata ero di nuovo spensierata e dimentica che se c’era una colpa da appuntare al petto, era quello del mio cavaliere. 

Il successivo lunedì, era chiara una cosa: ero proprio nei guai. Un paio di conoscenti mi avevano dato le spalle all’entrata a Mordor, e le ghignate alle spalle mie erano iniziate, puntuali come l'orologio sulla torre di fronte alla palestra, fino all’uscita da quella terra nefasta al tramonto. Ding, dong: è suonata la tua ora

Non era giusto. Che storia assurda si era inventata Viola? Perché non prendersela con lui? Io l’avevo fatto, pubblicamente, eppure il mio entusiastico rimprovero in corridoio era stato denunciato dalla presidenza come assalto, di cui lui era vittima. E così, allontanandomi dal nero cancello con una nota di demerito in registro, era come se avessi dato il permesso a tipe che nemmeno sapevo esistere di spettegolare; implicito réclame che malignare la Cat fosse il trend dell’anno. Ironico, soffrire io di impopolarità quando lui l'aveva così cercata e lei così rifuggito, unica dama a dargli ripetutamente il benservito una volta fattosi i muscoli. Da parte mia, faticavo a trovare qualcosa di divertente in quell’ultima catastrofe, e ho sempre scansato ostinatamente il suo tentare di consolarmi, i suoi abbracci soffocanti.

“Sei più geloso che preoccupato!” Sono esplosa una serata particolarmente gravosa, in cui avevo estratto da Tilde i dettagli più piccanti delle mie presunte avventure erotiche con ultraottantenni incontinenti. I suoi occhi si sono sgranati, lasciandone trapelare lo sgomento. Ne ho gioito, perchè finalmente avvertivo provenire da lui un’emozione reale, in cui volevo affondare i denti. E avevo raggiunto il mio scopo: dopo quella sfuriata si era effettivamente tolto di torno. Almeno finchè non ho inevitabilmente finito per pentirmi, e una mattina mi sono seduta accanto a lui contro al muro della palestra, offrendogli una cola a mo’ di scusa. 

Ma né il mio risentimento, né la sua invidia, né gli occhi perpetuamente volti al cielo di Tilde avevano scalfito la mia tuttora disastrata condizione sociale. Non era giusto.

“Sarebbe questo il nuovo piagnucolio che ci dobbiamo sorbire, Cat?” aveva sbottato Matilde quando le lacrime cominciavano a bagnarmi le ciglia, “E’ la solfa di sempre, hai solo cambiato bersaglio.”

“Scusami tanto se la mia vita schifosa ti causa fastidio.

Lo concedo, posso essere monotematica. E’ comunque un sopruso venire trasformata nel bersaglio di tutte quelle bambolette scartate, capro espiatorio colpevole di aver assistito a varie delusioni amorose, e di essere la migliore amica della causa di quasi tutti i miei guai.

 Viola aveva goduto come un riccio del caos creatosi, forte della sua confidenza tornata con gli interessi, la nuvola nera della depressione dissipata all’ottenebrarsi della mia reputazione. La sua vita sociale era risorta dalle ceneri come l'araba fenice. Da allora si era dedicata a pianificare il proprio matrimonio, tifare il futuro consorte alle partite di basket... e tramare, seduta sulla tazza del water nel bagno femminile, di rendermi la vita una grandissima deiezine. Schifo assoluto

Come avrebbe reagito lei, qui? Probabilmente sarebbe stata felice di venire finalmente considerata. Probabilmente, da donna emancipata com’è, avrebbe aperto con un bel pianto isterico. No, avrebbe agito di furbizia. Cosa avrebbe detto? Qualcosa di più intelligente dei vari mugugni che mi vengono in mente. Dannazione, è inutile: non ho idea che potrebbe suggerirmi come comportarmi. Ho solo me stessa, e né io - Caterina - nè Matilde o Valerio nutrono false speranze sulla mia condotta con… l’altrui sesso.

So come Viola lo considera, almeno. Per puro interesse antropologico, ho ascoltato abbastanza delle sue fantasticherie da averle impresse a fuoco nella memoria.

“Viola e Vale, è praticamente destino!” teneva banco in sala mensa, mani giunte al petto e sospiro infervorato, cibo ignorato. Le sue seguaci chiosavano partecipi attorno a lei, intente ad ascoltare l’oracolo di Delfi fare la sua profezia. Essere testimone di tale moderna frenesia di massa mi aveva fatto andare l'acqua di traverso. La mano inclemente di Tilde a mi aveva martellato la schiena mentre tossivo. Ad ascoltare le idiozie di Viola e delle sue Vestali ero tentata di scoppiare - in lacrime. La rovinosa condizione del femminismo odierno; quella era la vera tragedia Greca. Avevo intercettato lo sguardo di Matilde, imitando di spararmi. Lei aveva sbuffato prima di tornare a sfogliare lo spartito. 

“Non incoraggiarle,” era giunto l’ammonimento, inevitabile come il Fato.

In effetti non ne avevo certo bisogno. Venivo accostata da sconosciute mentre entravo in ritardo ai neri cancelli, mezze timide e mezze pronte alla battaglia come un esercito con stendardi. Tizie contente di sparlare di me per i corridoi ma che volevano lo stesso chiedermi il permesso di frequentarlo, come se quella domanda assurda fosse il guanto di sfida che avrebbe scatenato la grande battaglia della nostra era. Si sbagliavano di grosso. Avevo provato più volte a smentirle, ma siamo solo amici a quanto pare era codice per: guerra sia. 

Mi ero lamentata con Matilde (un paio di volte appena!) di essere considerata la rivale nella romanza popolare, la carognetta bramosa di rubare lo spasimante sexy all’eroina di turno, e lei rideva e commentava che per non essere considerata d’intralcio non avrei dovuto smettere di frequentare Vale, ma smettere di essere attraente. Serviva qualcuna che fosse il mio opposto: priva del benché minimo gusto nel vestirsi, timida ma simpatica se messa a suo agio; un’adolescente come tante altre che si impegnano a scuola -

“Io sono studiosa!” Avevo percosso il tavolo della mensa, facendo rimbalzare sul piatto la fetta di pizza avanzata. Avevo fin troppo di cui angosciarmi. l'Apocalissi era ormai imminente, la mia salute mentale continuava a deperire, ed ora questo: Matilde, la mia roccia, la mia florida isola di buonsenso in un oceano di pattume, aveva dato fuori di testa.

“Ti piace leggiucchiare il tuoi libri, e basta. Sei pigra, Cat. Rubi i miei compiti costantemente.” Matilde mi aveva lanciato un’occhiataccia di rimprovero, mentre masticava la sua insalata, “Dicevo? Ti servirebbero degli occhiali spessi una dozzina di centimetri, soffrire d’acne cronica, o indossare roba sul beige.”

“Perché beige?”

“E’ noioso,” aveva spiegato con saggezza, “Ma tu sei tu e quindi una minaccia. E’ logico. E stai sulle balle a tutti perché stronza lo sei.”

Avevo scrollato le spalle, per nulla offesa dalla sua brutalità. Era altro ad indispormi. 

Non mi dispiace essere odiata - è una forma di adulazione, diceva mio padre. Tutta quell’energia spesa a pensarti significa che hai potere sui desideri altrui. L’odio non è un sentimento sgradevole per chi ha la faccia di bronzo come me. No, non mi sarebbe dispiaciuto - se almeno mi avessero odiato per quello che ero, più che per una fandonia. Ma sembrava che mi fosse stato negato quel lusso. 

“Allora è futile giurare di non essere interessata?” Avevo chiesto ancora, spinta dall’irragionevolezza della disperazione, “Tutto questo è così esageratamente drammatico, e privo della benché minima verità. Sta chiacchiera interessa solo perchè fa scalpore e fa arrabbiare. Non so perché diavolo continuino a discuterne.”

“Per lo stesso motivo per cui tu continui ad ascoltarle.” Gli occhi castani di Matilde avevano assunto una sfumatura meditabonda, “Lo trovo un fenomeno intrigante.” 

Non era la definizione che avrei usato io per descrivere suddetto fenomeno. Tilde era così, aveva sempre ragione eccetto per quelle rare volte in cui era categoricamente in torto. 

“Per fortuna tu ti salvi.” le avevo sorriso, perdonandola, “Promettiamoci di non litigare mai per stupidaggini simili. Tentare di socializzare all'asilo ha nuociuto abbastanza ai miei poveri nervi. Se ti perdo, finirò davvero a fare l’eremita nella casa in Hertfordshire. Sono già mezza contadina, circondata come sono da oche starnazzanti e satiri arrapati. La gente odierna è senza speranza. Capirei se avessero sentito…” 

Mi ero quasi strozzata con il cibo, presa dal terrore. 

Matilde mi aveva tirato un’altra pacca violenta alla schiena, ignara del mio panico. Mezza morta, avevo guardato intorno furtiva. Nella sala mensa nessuno aveva notato il mio triplo infarto, né ciò che di terribile avevo quasi articolato. 

La verità. 

Cautamente, avevo posato un pugno sul cuore fissando Matilde, e lei aveva annuito alla menzione del Segreto. 

Matilde si era schiarita la voce, chiedendo con delicatezza, “La notizia è trapelata?”

Avevo scrollato la testa in diniego spasmodico. “La versione più accreditata del bagno è che non sto con nessuno dopo che Vale mi ha scaricato,” avevo fatto le virgolette con le dita, esasperata, “Per la terza volta quest’anno. A quanto pare, sbavo per un altro giro.”

“Oh, questo è ancora peggio,” lei aveva strabuzzato gli occhi in un moto di finto orrore, “Se sei una donna libera significa che potresti stare con tutti! Ma proprio tutti, intendo, tipo quella rugosa della Taperazzi.”

La Taperazzi desidera ardentemente i miei - veri - compiti. “Tilde, sto mangiando. Comunque: tutti sì, ma non lui!”

“Le persone hanno pur diritto di sparlare. E’ un bisogno fisiologico, perciò il bagno. Preferiresti essere ignorata?”

Essere presa per scontata…  avevo involontariamente accennato ad una smorfia, e ciò è bastato a Matilde per notarla.

“Appunto,” aveva cantato vittoriosa, inforcando lattuga e pollo, “Il prezzo di non essere ordinari è la malfama. Congratulazioni.”

La mia porzione di pizza fu un boccone molto amaro.

Ovviamente, ero stata oltraggiata dal suo affronto. Il mio orgoglio esigeva tremenda,  sanguinosa vendetta. 

Quando mia madre mi aveva imposto di fare amicizia all'asilo - e no, la bambola di Sailor Moon non conta, tesoro - mi aveva descritto tale contratto sociale come una cosa bellissima. Avrei trovato qualcuno pronto a coccolarmi, adorabile e fedele come il nostro labrador; un corpicino con una mente malleabile, pronta ad eseguire tutti i miei desideri, proprio come i sottoposti di papà. Io, da bambina dolce ed innocente com’ero, ci ho pure creduto. Invece Matilde ha trovato me, puntandomi torva dall’altro capo della sala ricreazione; e da allora lei ha spezzato il mio spirito. Per farle piacere mi sono ridotta a sopportare i suoi insulti e le sue critiche gratuite. Lo faccio per elemosinare quel raro sguardo d’approvazione quando pensa che ciò che dico è mentalmente sano, e rispetta le unità Aristoteliche della poetica. 

Perciò avrei voluto inneggiare al tradimento, separare i banchi in classe, chiedere i danni morali com’era mio diritto. Eppure, tra varie rimostranze prive di mordente a vorticarmi in testa, ero stata incapace di formulare una risposta realmente adeguata, così avevo preferito tacere. Ripensandoci ora, il mio silenzio è parso come assenzione, come resa. Eppure se avessi deciso buttarmi in un dibattito serio con Matilde avrei perso sonoramente. Non ero sicura delle mie competenze in merito alle, come dice mia madre, tenere faccende del cuore. Oh, sommo schifo. Devo trovare qualcun altro per ricordarmi i detti... mi viene in mente Viola e non è un esempio di lungimiranza. Su di lei sono meglio preparata. Viola, infatti, è un argomento assai più elementare. Posso immaginare cosa le passa per il cervello quando vede lui. Sarò pure selettivamente ignorante, ma scema no.

Vale fa la sua figura, o con chi si accoppia non sarebbe affare di stato. 

Un pomeriggio meno monotono di altri trascorso nel laboratorio di chimica, la prof ci aveva ricordato come un microscopio serva a vedere realmente ciò che si liquida come un granello di polvere ad occhio nudo. Adottare una prospettiva differente dall’usuale ci aiuta a portare in primo piano ciò che si ritiene ovvio, familiare; dopotutto quasi insignificante. La verità è raramente cosa semplice, questa è stata la lezione che avevo imparato. In chimica, del resto, sono sempre stata competente. Così, quando finalmente s’è degnato di sbucare da dietro la palestra, ho colto la fugace occasione di studiarlo mentre camminava, come se fossi una ragazza normale invece di una semi sorella. Per un attimo, i miei occhi hanno faticato a riconoscerlo; il cuore no.

Valerio è’ il classico portatore di jeans, giacca di pelle e chioma nera scarmigliata, quanto basta per passare il solito, datato clichè: ragazzo cattivo, ladro di verginità, monatto diffusore di malattie veneree, e altri complimenti sui generis. Finché non conosci i suoi voti a scuola, al che gli verrebbe appioppata un’altra delicata etichetta: secchione. Ma lui non è solo questo: gli sono amica perchè è l’unico ragazzo a posto che ho conosciuto. 

Per essere un adolescente, quindi un disastro ormonale che respira, e contrariamente alle congetture di Viola e del suo fanatico seguito, non è l’ordinario predatore sornione che ti guarda senza vergogna la scollatura invece che gli occhi. Non l’ho mai sentito sciorinare i tipici discorsi sessisti mascherati da flirt. Non ha mai flirtato con me, punto. Oh, l’evitare di rimorchiarmi non è una cosa propria solo a lui. Sarò pure visivamente interessante per i miei compagni maschi, finché guardano l’inesitente scollatura dell’uniforme. Ma alla fine tutti i marpioni notano il mio sguardo da assassina e la bocca piegata in un’espressione di intenso disgusto. Una tecnica di cui vado fiera: è estremamente efficace nello scacciare i Vampiri. Per risposta l’unica è ritrarsi e bofonchiare vari commenti che suonano come è stronza, è pazza, ed il mio preferito: potrebbe morsicare

Tutte speculazioni indovinate, preciso.

Con lui non ho bisogno di ringhiare - o di fingere. Posso essere una persona intera, e finora sono state due le anime caritatevoli disposte a tollerare le mie impundenze, ascoltare i miei farnetichii, a seguirmi in avventure spericolate e vagamente suicide. La volta che sono scappata da uno degli estenuanti rinfreschi di mia madre per nuotare nello stagno di notte ero con loro, e sono stati fino all’alba a sfottermi all’ospedale quando ho inghiottito tanta acqua melmosa da darmi i crampi alla pancia. Quando c’è stato quello spiacevole infortunio al campo di Polo, ho avuto la fortuna che ci fosse Valerio a difendermi da chi mi voleva seppellita. La faccia esangue di Leopoldo ancora primeggia nei miei incubi. Mi chiedo cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente, quel giorno. 

Se lui fosse arrivato in ritardo. 

 

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Capitolo 3
*** II ***


 

II




 

Leopoldo raramente si mostra furioso. Per lui, palesare una qualsiasi emozione è considerata cosa rozza, mediocre, ignobile. Ma quel giorno di fine agosto nei suoi occhi c’erano capillari rossi a sporcare il bianco della sclera, e la bocca era piegata in un ringhio selvaggio - mezzo animale ferito e mezzo predatore in procinto di attaccare letalmente. 

Uno dei miei motti preferiti imparati dai mille libri che inalo va dicendo: tu sei quello che resisti. Più ti reprimi più ciò che ti tormenta si impossessa di te. Per questo, ogni tanto, mi sorprendo ad approvare della rigida alterigia comune alla sua famiglia. Perché la volta che perdi il controllo, offri uno spettacolo socialmente devastante i cui spettatori lasciano la scena quasi disgustati, come se hanno appena assistito a qualcosa di osceno; un abominio, tenuto incatenato, finalmente lasciato libero di agire d'istinto. A spettacolo concluso, rimane solo il rimorso e la vergogna con cui fare i conti. E quel pomeriggio, era successo proprio questo. Incredibile come un mero sentimento possa trasformare persino un’apparente statua di sale: Leopoldo passava quasi per un comune mortale. A contrastarlo, i tratti spudoratamente immobili del viso Vale, i muscoli della mascella controllati nella loro calma fittizia, e la fredda, educata efficienza con cui ha affrontato il suo avversario. 

Una faccia di bronzo che è valsa più del suo meritato trofeo placcato d'oro. 

Come era riuscito Vale a mantenere il coraggio? Forse essere alto uno e novanta dopotutto giova. D’altra parte la mia enfatica vulnerabilità - il mio metro e sessantatre, gli arti snelli adatti per ballare danza classica più che per giocare a basket, i fiocchi di seta a legarmi i capelli - è una maschera di innocenza perfetta da indossare quando si compie un crimine efferato. 

Anche io sono efficiente nell’usare le mie armi. 

E’ sempre stato così, da quando la signora Natura ha cominciato a dettar legge un botto lontano lontano. La gente è codarda, ecco tutto, anche se nessuno nella sua stupidità vuole accettarlo. Perchè, nonostante le proteste del contrario, una persona ordinaria si appaga rispecchiandosi nella superficie fosca del lago, priva dell’impulso di immergersi tra le acque a cercare il mostro accoccolato nel profondo. Quell’innata noncuranza rispetto al dubbio è puro istinto di sopravvivenza. Alla gente, Leopoldo lo sa bene, piace l'artificio. Ognuno preferisce le storie che si vanno a raccontare alla realtà senza fronzoli. Questo è un fatto che almeno io - abilissima Penelope nel tessere le mie fantasticherie - sono capace di ammettere. E di sfruttare. 

Così, nessuno ha notato - sospettato - la ragazza con i fiocchi nei capelli allontanarsi tra la folla quando il destriero ha disarcionato il suo cavaliere. Un tonfo duro sull’erba smeraldina, e il rumore a risacca di centinaia a trattenere il respiro, hanno decretato la fine dell’ultima partita di Polo stagionale. Una finale tanto agognata quanto controversa, per molti - quelli che contano - considerata come una completa disfatta. 

Se tutto fosse andato secondo i piani, sarei stata costretta, spinta dagli artigli di mia madre sulle spalle, a presentarmi sul podio e indossare un sorriso smagliante per congratularmi col team vincitore. Al leader della squadra che, trionfante, si sarebbe gloriato di fronte alla stupida massa plaudente, alzando contro il cielo blu la coppa del torneo regionale. Quello era ciò che aveva preveduto Leopoldo, declatando al tavolo dell’aperitivo le ottime probabilità di vittoria del figlio. 

Una blasfemia, avevo pensato io, intenta a ingollare limonata. Ma facilmente scongiurabile

E’ stato un gioco da ragazze.

Troppa gente si dimentica che i cavalli, grandi e grossi come sono, non sono animali predatori. Per farti temere, basta un comunissimo rinforzo negativo. Nella psicologia del comportamentismo studiano come gli animali tendono a imparare una determinata condotta se incoraggiati da specifici stimoli. Mettiamo Caligola, il cavallo preferito del clan Monterossi, sui cui Leopoldo aveva speso un malloppo per pascolarlo nel maneggio e nei propri terreni. Io e Caligola ci conosciamo da un po’, complice il trascorrere troppe estati in una certa dimora infestata da mostri, e l’essere soci dello stesso Club Ippico a Roma.

 Il mio piccolo esperimento ha presto dato risultati soddisfacenti. Bastava presentarmi - da sola - al suo box, e cavalcarlo per qualche sessione avanzata dopo aver rabbonito gli istruttori. Sì che ho il permesso, siamo praticamente una famiglia! Poi le parole magiche. Devo chiamare mio padre? E questi poveracci, adeguatamente rinforzati negativamente, mi porgevano le briglie e si congedavano, mandandomi all’inferno nelle loro sempliciotte menti.

 Lasciandomi libera di educarlo come nemmeno un dottore della CIA anni ottanta. 

Un rinforzo negativo funziona così: serve uno spavento, tipo indossare una maschera da clown, quella carinissima di IT con le zanne; e dopo aver istruito il cavallo a seguire un ordine preciso, nascondere la cosa che lo fa spaventare, come suddetta adorabile maschera. Col tempo basta il mero rinforzo a scatenare il ricordo della paura: basta la mia presenza a farlo obbedire. E’ un utile metodo d’addestramento, non così crudele come sembra. Se un cavallo ti poggia lo zoccolo sul piede, premi sul suo stinco fino a quando smette di schiacciarti; anche quello è un rinforzo negativo. Caligola è, contrariamente al suo padrone, intelligente, perciò c’è voluto appena un mesetto per addestrarlo a dovere. A lavoro terminato, il risultato ha pagato i miei sforzi: Caligola si impennava sulle potenti zampe, interrompendo il suo galoppo, ogni volta che scorgeva la mia faccia sorridente - denti in vista. 

Anche nel bel mezzo di una finale regionale. 

Così, non è servito a niente Leopoldo che sugli spalti tifava contegnoso il figlio, o sua moglie che si riparava dal sole con un cappello piumato assurdo, parlottando tra la folla  attorno il campo da gioco; non è bastato il frustino degli atleti a spronare i loro cavalli. Perché io mi sono cacciata a forza di gomitate in prima fila. Ho poggiato le mani sulla balaustra di legno bianco che delimita il campo, intercettando il percorso di Caligola. E’ bastato mostrare la mia faccia sorridente, le zanne in mostra - e voilà. 

Quel giorno Leopoldo si è mangiato il fegato e ha pagato la somma puntata a chi ha avuto il coraggio di rivendicarla. Quella strega della moglie ha smesso di sorridere raggiante ed ha iniziato ad urlare inorridita, la prima tra madri angosciate e altrettanto strepitanti. Le giovani accanto erano intente ad additare il corpo a terra e poi centinaia teste erano ruotate all'unisono dall’altro angolo del prato per vedere il punto segnato subito dopo; il fischio dell'arbitro ha decretato la fine della partita e altre urla erano iniziate, gioia frammista a rabbia e accoramento. 

Io sono stata zitta. Oh, ho goduto silenziosamente, ma ho tenuto acceso il cervello.

 Ho immediatamente iniziato a indietreggiare zigzagando tra la folla formicolante, accorsa allo strillo di quella strega della Gina e ai lamentii del ragazzo riverso a terra, intento a cingersi la spalla. Vivo, purtroppo. Intento a maledire non la bendata signora, ma una tipa molto più familiare: sa bene che quando qualcosa va storto più del fato c’è il mio zampino di mezzo. E siccome la fortuna aggrada me, le sue lagnanze si sono perse nel mare di voci circostanti, un coro concitato di “Stai bene?”, “Ti sei rotto qualcosa?” e, “Peccato per il match, campione.”

Nessuno ha notato - sospettato - il nome Caterina intercalarsi alle sue imprecazioni, nessuno a meno di chi temeva la commozione cerebrale; nessuno eccetto suo padre. Ma non si sarebbe osato, mi ero detta, affrontarmi in pubblico.

 Un crimine perfetto. 

Cara Tilde, ti narro una storia: quando ero una giovinetta di tipo dieci anni, intendevo diventare giocatrice di Polo professionista. Più per distruggere i sogni agonistici del Vampiro che per bruciante passione, lo ammetto. All’annuncio dell’ambizioso progetto mammina si è premurata di spiegarmi che lo sport era una cosa da uomini. Certo, le femmine giocavano pure, ma non mi sarebbe mai capitato di sfidare un uomo ad una vera partita. Mia madre sapeva - diceva stizzita - quanto fossi competitiva, ma sarebbe giunto il giorno - aveva sospirato invocando pazienza - in cui avrei dovuto arrendermi alla natura: i maschi erano più forti delle ragazze. Avevo sprecato molti anni e lacrime per capire che, nonostante partissi svantaggiata, ciò non significava che avrei perso comunque. Combattere ad armi pari in guerra? Cesare avrebbe scosso il capo disgustato. Il fair play esiste sul campo da gioco, non nella natura. 

Mi ero concessa un piccolo sogghigno osservando il nemico prostrato a terra, prima di voltarmi. 

Roma Invicta,” avevo canticchiato sotto voce, scappando. 

Peccato che nessun altro avrebbe potuto aprezzarne la morale.

 

*

 

Camminavo di buona lena, ma non tanto velocemente da destare sospetti. Scansavo gente tra la scia di persone intente ad accorrere per fingere di aiutare - sono tutti dottori freschi di Harvard quando qualcuno famoso si fa un graffio. Quello che in realtà facevano era rovesciarsi drink addosso peggio di me, e sgomitarsi l’un l’altro meglio di me, per avere un panorama privilegiato sul nuovo spettacolo: la tragedia del Leone Caduto. 

Quante storie, avevo pensato io. Non è neppure morto.

Raggiunta un'adeguata distanza di sicurezza, mi sono voltata indietro. 

Vestiti pastello svolazzanti nella brezza calda, indicibili cappelli inglesi alla Ascot, gentlemen in completo da chiesa; vecchi e giovani, tutti lì a far baccano. E ovviamente in mezzo a loro spuntava il capo ramato di mio padre; lui e i suoi stramaledetti riflessi da squalo. E’ stato uno dei primi ad arrivare sul fatto, ed era attualmente intento a stemperare il panico generale e la rabbia degli atleti. 

La partita si era chiusa con un colpo sulla caduta, vincente. 

Ora mio padre aveva smesso di rassicurare e aveva cominciato a dirigere la calca con quel suo tono professionale che usava quando c’era una reale emergenza in corso, intimando di stare calmi, non c’era nulla da vedere (la rissa scoppiata tra le due squadre lo avrebbe presto smentito). Il suo sguardo scorreva sugli spalti oltre il campo di gioco. Cercava me.  

Mi sono sono fiondata dietro una quercia vicina. 

Nell’ombra, ho posato una mano sudata sul cuore tamburellante: paura? Pentimento? 

No, mi sono corretta, questo è il battito della felicità. 

Il Vampiro se lo era meritato - e come Dracula, sarebbe ritornato, dopotutto. 

Che esagerate, ho pensato occhieggiando un gruppo di ragazze scattarsi selfie sullo sfondo della baraonda creatosi. A dire il vero, le avrei copiate se non fossi stata l’artefice della baraonda, inviando una foto commemorativa a Tilde. 

Era meglio stare fuori dal pericolo, lontana dai miei e, soprattutto, dai suoi. Nascosta da mio padre, sotto quell’ampio vecchio albero, ero salva. Ho tirato sospiro di sollievo - prima che una mano mi acciuffasse il braccio in un moto di vera furia, piantandomi la faccia contro fino a quando il suo naso aquilino si era quasi cozzato con il mio. 

Ed erano iniziate le vere urla. 

Quante storie, avevo pensato ancora, stordita, badando di mordermi la lingua all’aggiungere, nessun morto, per sfortuna. Tempo di sembrare contrita - e mentire. Non che servisse a qualcosa, perchè Leopoldo non era un’idiota. 

Una persona normale avrebbe notato l’adorabile ragazza nel vestito bianco di pizzo e si sarebbe subito sciolta al vedere il paio di occhioni pieni di lacrime, all’ascoltare la vocina tremolante trattenere eroicamente i singhiozzi. E’ stato terribile, ho visto tutto dalla prima fila. Ho bisogno di rinfrescarmi. Quelle cretine di madri chiocce mi avrebbero accompagnato al bar, offrendomi personalmente un’altra limonata, tentando di consolarmi dato che tutti sanno quanto vi volete bene, siete come una famiglia, Caterina, vero? 

Già... una famiglia…

Quel povero ragazzo, solitamente è un asso. Vedrai che si rimetterà subito!  Finirà tutto bene, vero?

Certo, come nelle favole. Io, la Principessa sotto il maleficio; loro, quel nugolo di demoni, i Reali…

Lo hanno chiamato Leone, come se fosse il Re Leone, Lord della roccia, capo della combriccola, leader glorioso della classe duemiladiciotto, Mufasa e Simba ritiratevi pure allo Zoo a suon di fischi; voi sfigati con nomi ordinari udite il suo portentoso ruggire - pronti a fargli l’inchino. Lo hanno chiamato così, quei due squilibrati di Leopoldo e Georgina Monterossi, perché la loro hybris è un continente sconfinato mentre il buon senso è ampio quanto gli inesistenti pori delle mie guance. 

Ogni volta che mi figuro il Vampiro provo l’impulso di sghignazzare. Uno dei miei libri spiega che l’essenza di una persona è racchiusa nel proprio nome; a quello stimato autore regalerei un bel pernacchione. Appellarsi Leone, se non altro, può essere considerato in questo specifico caso come una maledizione senza perdono, un marchio nero d’infamia, una lettera scarlatta da appuntare al petto - anzi - un famigerato Meno Due della Taperazzi. L’apoteosi del peggio. 

Caterina, invece, significa purezza, ed è azzeccatissimo alla mia persona. Ma ogni regola ha un'eccezione, così eccoci a trastullarci su l'erede dell’antica e illustrissima casata nobiliare dei Monterossi, al secolo dedito più a guaire come un cagnolino randagio, perchè - povero - era intento a rotolarsi dolorante a terra dopo essere stato sonoramente sconfitto. 

Ad una persona normale, sarebbe bastato rispondere certo che ci sarà un lieto fine, mordendomi le labbra subito dopo, tentando di non far trapelare il mio riso da iena, pensando alla vera storia che non avrei mai raccontato in pubblico. Leopoldo, invece, mi conosceva da quando ero in fasce; conosceva tutte le mie armi, i pianti fasulli ed i sotterfugi. Sapeva cosa ero disposta ad architettare perché, sopra ogni cosa, io odiavo Leone. E Leopoldo la sua famiglia ricambiavano. 

Essere da sola con un Leopoldo impazzito, mentre gli occhi di tutti, per una volta, non si filavano di noi… ebbene, non avevo esattamente paura. Ero sicura che la mia marachella non fosse stata scoperta. Ero solo infastidita dalle dita che mi sciupavano la manica del vestito, strette com’erano sul mio braccio. Poi ho riportato il mio sguardo nel suo, e… avrei voluto che papà fosse qui con me. 

“Cosa è servito questo gesto idiota? Cosa credevi di dimostrare?” 

Non ho risposto. Avevo perso la voce.

“Volevi umiliarci?” Leopoldo mi aveva tirato uno strattone abbastanza forte da farmi tremare i denti. “Hai esagerato! Tu e la tua arroganza siete costate a Leone il suo meritato trofeo!” 

Non hai nessuna prova! era quello che volevo urlare. “Magari avrebbe perso comunque,” era quello che avevo borbottato. 

Merda. 

“Voglio dire - non ho idea di cosa lei stia parlando! Ho visto l’incidente dalla prima fila e sono molto, molto traumatizzata.

Se avessi pensato che fosse arrabbiato, prima, ora iniziavo aver paura sul serio, perché aveva sorriso. 

“Ho capito...” aveva quasi sussurrato, “Vuoi passare per l’ingenua, però ti conosco bene.” 

Mi aveva letto nel pensiero. Non era la prima volta che capitava con il padre della mia Nemesi. 

C’era un'altra cosa che mi era sovvenuta riguardante Leopoldo. Se trami contro di lui non devi commettere fesserie. Questo l’ho imparato col trascinarmi vari anni di fallimenti sulle spalle. Essere efficienti è arduo. Giocare contro gli adulti lo è ancora di più. Specialmente contro uno intelligente quanto sadico - uno che, per appagare la sua sete di vendetta, dopo avermi tirato fuori la verità come nemmeno un torturatore CIA anni ottanta, mi avrebbe voluto trascinare oltre la folla e piazzarmi di fronte all’arbitro, solo per il malvagio piacere di vedere la finta innocente crollare sotto pressione -  

“Come la vogliamo mettere con il tentato omicidio di mio figlio?” aveva chiesto sibillino, interrompendo la corsa folle del mio cervello. 

“Prego?” Ero ancora più smarrita. 

Il suo sorriso si era allargato, tutto zanne alla IT, una visione terribile nella sua rabbia mostruosa. Eppure, il suo contegno era appena più saldo di quanto mi fossi aspettata, come se la mia difesa smorzata gli avesse ridato il controllo sulle sue emozioni - e su di me. Ma non era solo quello.  

Il gruppetto di ragazze starnazzanti era abbastanza vicino per captare il nostro alterco; giusto una manciata di secondi dal messaggiare tutti dello scandalo extra che tale disastrosa partita avrebbe regalato ai gossipponi dell’Olimpo Romagnolo. Un paio di ridacchianti bambini stavano rincorrendosi tra i tavoli dell'aperitivo, ora che genitori e babysitter erano distratti. Un uomo attempato ci aveva sorpassato, sorseggiando il suo cocktail come se nulla fosse, l’unica persona che aveva ignorato il pandemonio creatosi. 

La gente ancora brulicava intorno a noi. Ergo, non sarei stata torturata in maniera plateale

Ciò ha mancato di rasserenarmi. Una tortura ci sarebbe stata, solo non sarebbe avvenuta dove altre persone avrebbero potuto intervenire. Essere consapevole dell’inevitabile mi ha fatto rabbrividire. Anche la mia agitazione è passata inosservata nel clamore. Il breve momento di serenità era già svanito ed il mio istinto mi gridava di perdere: chiedere scusa, supplicare aiuto, scappare da quella situazione in cui non avrei trovato alcun lieto fine.

Quel moto d’istinto di sopravvivenza ha quasi taciuto il mio orgoglio; per un attimo avevo capito perché la gente normale non và a svegliare i draghi dormienti. Poi, come al solito, l’ego aveva prevaricato su ogni ragione: non volevo rinunciare alla battaglia prima del colpo finale, anche se si fosse trattato di un fendente che mi avrebbe mozzato il respiro. Questa era una cosa di cui Leopoldo era consapevole, e che aveva sfruttato a suo favore. Ho imparato il gioco dalla sua famiglia, dopotutto. 

Leopoldo contava sul mio rifiutarmi di arrendermi. Non avrei aperto bocca per attirare l’attenzione su di noi, sul fatto che mi stava ancora stritolando il braccio e rovinando il vestito. Non avrei detto: questa intimità improvvisa mi rende leggermente inquieta. Non avrei detto: Leopoldo, mi fai paura. L’ultima cosa che avrei fatto - di questo eravamo consapevoli entrambi, io a malincuore - era chiamare i miei genitori. Ero, in tutti i sensi che contavano, da sola.

Mi aveva intrappolata.

Oh, non che qualcuno sarebbe corso ad aiutarmi se avessi gridato al maniaco. Sarebbe stato un faux pas, un suicidio sociale, uno smacco alla gerarchia di quell'antico circolo d’elite cui, aimè, il mio ingombrante cognome faceva parte da generazioni centenarie. Ed i leader della combriccola, i Lord della roccia a cui era educato fare la riverenza, si chiamavano Monterossi - i Reali, de facto, tra gli ultimi Principi dell’aristocrazia Romana.

Così, bastava il suo cognome per decretare che tale signore fosse autorizzato a bullizzare una teenager terrorizzata. Mi rimaneva solo da piangere.

 Eppure, l’orgoglio che mi ha messo tante volte nei guai aveva vinto su ogni emozione che minacciava di traboccare dagli occhi. Non avrei rinunciato alla mia dignità. Non mi sarei concessa di arrendermi, anche di fronte all fauci schioccanti del leone. Ho alzato il mento, sperando di andargli di traverso.

Leopoldo aveva assottigliato gli occhi grigi al mio gesto: al rifiuto di prostrarmi a terra... come quel perdente di suo figlio. 

Lo hai fatto arrabbiare di più, aveva bisbigliato Matilde, apparsa giusto in tempo per commentare il mio suicidio sociale.

“Hai visitato molte volte il cavallo di Leone,” Leopoldo aveva ricominciato a parlare, sibillino, “Pensi che lo staff non mi abbia tenuto aggiornato, ragazzina? Caligola non ha mai disarcionato mio figlio in gara, perciò ho il sospetto che centri tu. Devi aver tramato qualcosa di folle per farlo disobbedire, solo per svergognarci. Se io chiamassi il trainer di Leone qui, converrebbe che ciò sia un atto assai grave. La tua intromissione avrà serie conseguenze, ti assicuro.” 

Calmati, ti provoca per farti reagire, ha ragionato Matilde. Invece di calmarmi, mi è salito il panico. Leopoldo mi aveva ricordato mio padre. 

“Conseguenze che potrebbero non giovarti, mia cara. Sono tentato di raccontare a tua madre la tua malefatta. O forse è meglio portarti all'ospedale con mio figlio, tanto sei praticamente una di noi. Così ci potrete spiegare la vostra versione in tutta tranquillità.”

Santa pupazza. Suo figlio avrebbe narrato all’equipe medica, col braccio fasciato, gli occhi lucidi e la voce tremolante, di essere stato la vittima di una pazza carnefice, inventandosi qualunque fandonia fosse più attendibile, anzi, inventandosi di essere stato abusato come Caligola. E addio mondo dei liberi, buongiorno prigione di massima sicurezza. Addio Londra! 

Il panico mi ha avvolto più strettamente della mano di Leopoldo.

 Mantieni la tua versione! Matilde mi ha praticamente urlato contro. 

“Eeep,” ho squittito. 

Silenzio.

Caterina, sei troppo stupida, Matilde aveva gettato lo straccio immaginario.

Ci eravamo guardati soltanto; lui nauseato, io atterrita. 

Ho schiarito la gola. “Si è trattato di un comunissimo incidente, forse è addirittura caduto perchè andava troppo veloce - ” 

Oh, no. L’espressione di Leopoldo era diventata ancora più aggressiva. L’insinuazione che Leone potesse aver sbagliato lo aveva solo reso più risoluto ad accusarmi. 

Ho fatto marcia indietro, il coraggio a pezzi. “Non voglio andare all’ospedale - c’è il sangue, l’odore mi da giramenti di testa...” Ho ridacchiato come una scema del primo anno di fronte al flirtare di Vale. 

La faccia di Leopoldo comunicava che lui non era impressionato dal mio biascicare. Dio, ecco l’errore: perchè non ho costruito un alibi decente? Ero stata così presa dalla mia idea geniale che avevo dimenticato la fase successiva: l’interrogazione Taperazziana. Ho guardato a terra, come per trovare risposta. Aveva piovuto in mattinata, i sandali bianchi si erano sporcati grazie all’erba ancora umida. Nella mia testa rimbombava una familiare voce aspra: Meno Due, signora Caponeri! 

“Sono così scioccata per quello che è accaduto… insomma... vorrei andare a casa, temo di scoppiare in lacrime se assisto alla sofferenza di suo figlio.” 

Ho riportato i miei occhi nei suoi. 

Merda.

No, non ci crede per niente.

“Mio figlio…” era giunto il ruggito, il tono improvvisamente rauco, come se Leopoldo faticasse ad articolare le parole, “Il mio unico figlio è quasi morto - per colpa tua. Tutti i trofei del mondo non valgono un suo capello. Dice che si è rotto un braccio!” 

Leopoldo aveva cinto il mio braccio con più vigore. Avevo storto il viso persa nel dolore. Non sapevo più cosa inventarmi. Ho aperto di nuovo bocca, incerta se continuare a negare o se per iniziare a supplicare -

“Suo figlio sta bene.”

Ci siamo voltati entrambi. 

Un cavallo grigio chiaro scuoteva la coda intrecciata, fermatosi dirimpetto noi. Il suo cavaliere ha tirato le briglie, ancora vestito con l’uniforme candida da Polo, elmetto nero e frustino saldo nel pugno guantato. Doveva aver saltato la ringhiera per raggiungerci al trotto, sfruttando la calca per fregarsene delle regole.

Era stato il vincitore di oggi, in tutti i sensi, compreso quello che contava: aveva segnato lui il punto del match.

La cosa non era sfuggita a Leopoldo. 

“Guarda chi ci grazia… hai trovato il tempo di raggiungerci a chiacchierare, invece di stare ad ascoltare le tue lodi.” Leopoldo lo aveva soppesato con gli occhi ancora assottigliati, calcolatori, per nulla meno minaccioso. “E come faresti a saperlo, Valerio?”

 

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Capitolo 4
*** III ***


 

III





 

Augusto, il destriero di Vale, aveva sbuffato contro Leopoldo; la mascella schiumante a masticare il morso era un palmo dal mio naso. Ho guardato Vale. La sua espressione rimaneva avvolta nell’ombra. Le sue spalle, fasciate nell’uniforme bianca della squadra, coprivano il disco del sole, i cui raggi ne tracciavano la silhouette slanciata; un ritratto chiaroscuro che aveva preso vita. La sua apparizione mi aveva tolto il fiato. Sembrava un’illustrazione nei libri di favole che leggevo da piccola... anche se qui, il malvagio antagonista della situazione, era il Principe, intento a fissare il mio migliore amico come se fosse in procinto di ordinare di mozzargli il capo. 

Vale aveva spezzato il momentaneo incanto, lanciandosi giù dal cavallo con facilità tipica di chi era socio del Club da quando gattonava. Una volta atterrato, aveva fatto quei due passi che gli servivano per schierarsi fermamente di fianco a me. 

Il respiro mi si era mozzato di nuovo in gola. Valerio voleva proteggermi

Ero tornata a guardare le mie scarpe sudice. Oh Dio, anzi, Tilde: quale sdegno. Mi ero resa conto di essere diventata la damigella in pericolo della fiaba. Che immane caduta di stile passare da Machiavelli a Cenerentola, rotolare giù dal soleggiato balcone dei Medici fino alle puzzose stalle di Caligola. Il clichè era umiliante. 

Lui, accanto a me, tanto vicino da avvertire il calore del suo corpo sudato, il respiro ancora rapido, era invece a suo agio, i tratti decisi del viso rilassati. Sembrava in tutto e per tutto un padrone di casa, educatamente sorpreso nello scoprire un senzatetto pulcioso - Leopoldo amava vestirsi d’Armani, ma sorvoliamo - mendicare fuori dalla porta. 

“Se permette, signor Monterossi,” Vale aveva poggiato lo scudiscio sul petto di Leopoldo; quello aveva lasciato la presa su il mio braccio (finalmente!) per scansare l’asta con un gesto infastidito. 

Leopoldo non era arretrato di un centimetro. I due si erano squadrati per un momento troppo lungo per mantenere l’illusione di creanza - stavo assistendo infatti ad un duello - e io avrei voluto disperatamente essere alta un venti centimetri in più per rendermi altrettanto minacciosa.

“Ero accanto a lui, l’ho visto perfettamente.” Vale aveva annunciato nel suo tono profondo e sempre un po’ roco, prima di aggiungere, appena un accenno di canzonatura a colorare la voce, “Questa mattina, se si ricorda, ha piovigginato. Il prato è ancora umido. Il cavallo deve essere scivolato su un tratto fangoso. Bisogna riconoscere che Leone andava troppo forte rincorrendo la palla. Succede, quando si è presi dal gioco.” Le labbra di Valerio erano stirate in un sorriso pieno di comprensione e privo del benché minimo biasimo. Le sue parole erano lo stesso dei macigni.

Entrambi sapevano che Leopoldo non avrebbe potuto chiedere - esigere - la penalità per un errore di suo figlio. Leone era stato in linea con la palla prima di cadere e Valerio non aveva commesso fallo galoppandogli vicino. Probabilmente Leopoldo aveva intuito che Valerio si era trattenuto dall’attaccare perché consapevole del tratto di terreno sdrucciolevole... sempre se avesse deciso di credere a quella versione. Si trattava di una scusa plausibile che mi scagionava completamente. La colpa cadeva su suo figlio e la sua testa calda. Oh, Tilde, questo sì che era umiliante

Se Leopoldo aveva incassato il colpo non lo aveva fatto notare, l’unico presagio del suo risentimento era l’evitare di controbattere  immediatamente.

Solo Leopoldo faceva passare il silenzio come stridente

Nonostante Vale avesse dimostrato una sicurezza granitica, io, conoscendo lo strumento di morte in forma umana che era quel quasi secondo papà come mi era capitato di appellare una volta per scherzo, e che per tale offensivo epiteto avevo finito di mangiare la mia cena reclusa nella camera degli ospiti, ecco, io non ero altrettanto sicura di poggiare i piedi su un terreno meno scivoloso.

“Un’analisi perspicace,” Aveva detto tale strumento di morte in un sibilo inquietante, “Lei dipinge un giudizio obiettivo, naturalmente.” 

Leopoldo si era ripreso abbastanza da tornare alla consueta formalità.

Valerio aveva inclinato il capo (in segno di ringraziamento o per dire touché?) ciocche di capelli neri sfuggite dal casco gli ricadevano sugli occhi scuri, prima di aggiungere, sempre serafico, “Per quanto riguarda la condizione fisica di Leone, le ripeto quello che ho detto all’arbitro. Si è fatto appena un graffio, forse una leggera contusione alla spalla. Gli sono stato accanto quando era a terra - l’ho aiutato ad alzarsi personalmente.” una breve pausa, “Dopo aver concluso il match, naturalmente.”

Questo era il motivo per cui Vale cui era l’attaccante di punta della quadra. Lui giocava sempre per vincere.

Il ghiaccio in cui era avvolto Leopoldo si stava in incrinando. Un muscolo della sua mascella si era contratto ed il volto si andava oscurando. Quello era l’espressione d’odio che riservava a me tapina quando combinavo qualcosa di grave, tipo tirare una giocosa manata al Matisse appeso nel suo soggiorno (avevo cinque anni, nemmeno sapevo chi fosse sto signore!). Avrei voluto avvertire Valerio del pericolo, invece potevo solo tacere per non provocare il nemico ulteriormente.

“Appena un graffio, capisco. Una tale fortuna... lei mi conferma la versione della sua amica…” Il suo sguardo assassino si era posato su di me, provocandomi un sussulto. Ma Leopoldo era già tornato a studiare Valerio; lui, il mio opposto, non dava segno di resa in questo show di dominanza, e Leopoldo alla fine aveva mancato di contenere l’impeto di furia nel suo tono: “Eppure mio figlio, ancora adesso, urla dolorante a terra. Vuole negare anche questo?” 

Schiamazzi da voci femminili non lontano da noi. Avevo sentito il nome Leopoldo provenire da loro. Mi era venuta la pelle d'oca, come per un presagio. 

Leopoldo aveva sbraitato troppo forte. Le ragazze che si erano fotografate in pose goliardiche ci stavano additando, le bocche spalancate. I loro occhi si rispecchiavano sgranati nei miei. Forse non avevano captato le parole esatte di Leopoldo, però ci avevano riconosciuto. 

Dio, no, ti prego, non farmi questo, ho iniziato a balbettare mentalmente. Perchè lo sapevo, cosa avevo combinato. Presto anche questo episodio di violenza romagnola sarebbe stato immortalato sui social media, la mia faccia incrinata dallo stress spiattellata su tutti gli smartphone del liceo, la protagonista dell'ennesimo scandalo, Viola ed il suo seguito di sadiche serpi ad esultare per i corridoi scolastici - quella scema di Caterina non ne fa una giusta! - una dolorosa fotografia della mia vita rovinata da un altro sbaglio - la mia fragile reputazione definitivamente distrutta, Londra troppo lontana... per colpa mia... 

La realtà che avevo davanti si era dissolta nell’incubo, nell’inevitabile futuro da reietta che mi aspettava, ed il cuore rischiava di scoppiarmi contro lo sterno mentre una sensazione familiare di panico annichiliva ogni ragionamento logico… d'istinto, avevo mosso un passo indietro… ed il braccio di Valerio si era fatto strada sulla mia schiena, la mano guantata contro il pizzo del vestito, impedendomi di arretrare. Saldo, confortante. Il respiro aveva smesso di bruciarmi i polmoni. Ho alzato lo sguardo sul suo profilo controllato. 

Mi aveva salvato.

(...e un'altra parte della mia mente che non smetteva mai di scervellarsi mi aveva riportato indietro nel tempo a nemmeno dieci minuti fa, alla sensazione della mano di Leopoldo che mi tratteneva dallo sgusciare via, a come mi fossi sentita imprigionata in una situazione dalla quale volevo soltanto allontanarmi, e nonostante sapessi che Valerio desiderava darmi coraggio, aiutarmi a non perdere, quella parte di me che non la smetteva mai di pensare continuava a ripetere: scappa.)

Non sono scappata, naturalmente.

Valerio aveva scrollato la testa divertito, come se avesse sentito una storiella un filo troppo ridicola per credervi, ignorando l’esplosione di Leopoldo, il mio attacco di panico, e la nuova audience. Era deciso a proiettare l’immagine a chi ci monitorava che questa fosse una conversazione dilettevole. Una recita intelligente. 

D'altra parte - sei sicuro che sia la mossa giusta? E se questo ti strozza e nessuno muove muscolo per soccorrerci? - volevo chiedergli. Mi sono morsa la lingua. Avevo il cuore pesante per un’altra ragione. Io ormai non facevo più parte di quel duello. Non dissimilmente dalle ragazze affamate di ciarle e selfie, ero diventata una mera spettatrice con un posto in prima fila per il prospettivo macello; quello e nient’altro.

“Infatti,” aveva ripreso Vale, a voce moderata, “Suo figlio ha eseguito una caduta perfetta, da manuale. Si è semplicemente ributtato giù appena la folla è accorsa.” 

La sua mano si è chiusa a pugno sulla mia schiena, come per frenare una scossa di adrenalina. “E’ sempre stato teatrale, Leone... un interprete da urlo.” 

Uno sghignazzo aveva interrotto la protesta indignata di Leopoldo. Mi sono tappata la bocca e ho ingoiato una nuova risatina folle. 

Moriremo davvero, ho constatato a Matilde. La spavalderia di Vale era semplicemente troppa, rasentava l’autosabotaggio. 

La mia risata isterica, genuina, li aveva fatti voltare entrambi verso di me, come se si fossero improvvisamente ricordati che ero lì anch’io. Se non fosse stato per la mano di Vale che ancora mi cingeva lo avrei creduto. Anche lui sorrideva, per la prima volta guardandomi davvero. La piega della sua bocca aveva assunto una sfumatura canzonatoria, come se mi stesse sussurrando all’orecchio, ti è passato lo spavento? 

Forse la sua oltraggiosa belligeranza era stata un siparietto per rallegrarmi. Avevo ricambiato il sorriso, grata. Un momento di pace. Poi Valerio aveva riportato lo sguardo su Leopoldo e, con secca sfronteria che lasciava trapelare tutto il suo disprezzo, aveva concluso: “Credo che suo figlio si stia semplicemente godendo le attenzioni del pubblico.” 

Tilde, avrei voluto applaudire.

Dopo le parole infuocate di Vale c'era stato altro silenzio. Un silenzio prolungato, cupo, tombale. Perfino Matilde aveva mancato di commentare la scena che aveva assistito spaparanzata sull'immaginario divano nella mia testa; segno che ero distratta da qualcosa, pressante abbastanza da escludere ogni altra esecuzione mentale e che era riconducibile ad un impulso così riassunto: ho paura di guardare Leopoldo. 

Dovevo farlo, per giudicare quanto eravamo nei guai. 

E… ciò che avevo visto mi confondeva.

Leopoldo indossava la familiare espressione di scorno, la piega della bocca sottile leggermente arricciata in una maschera di aristocratica derisione. Le vene del collo erano tese, smentendo la sua apparente flemma. Eppure, il suo comportamento era quasi... passivo. Dopo tale, come definirlo, colpo, mi sarei aspettata un esplosione nucleare. Eravamo entrambi andati troppo oltre. Tuttavia, più l’impudenza di Valerio aumentava, più Leopoldo era indietreggiato nella sua impervia corazza di ghiaccio. Era evidentemente stanco dei suoi dieci minuti di vulnerabilità; immobile, come se avesse ordinato ai capelli biondi di smettere di ondeggiare nel vento; algido, se non per gli occhi luccicanti di un'emozione terribile.

Se si fosse trattato di un altro uomo, avrei pensato che si stesse comportando da adulto. Se solo si fosse trattato di chiunque altro… invece mi toccava l'incarnazione del motto mai perdonare e mai dimenticare.

Una persona che per essere più pericolosa preferiva rinunciare alla propria umanità. 

Che cosa stava architettando in quella scacchiera che era la sua mente? Questo non sono mai riuscita a intuirlo, né sono mai riuscita a precedere una sua mossa. Sapevo solo - io meglio di Vale - che non sarebbe finita qui. L'unica cosa su cui potevo ragionare era la presente situazione, che probabilmente Leopoldo stava analizzando da tutti i punti di vista possibili per trovarne un punto debole. E forse stava zitto perchè la debolezza più grande era nel sangue del suo sangue: Leone e le sue istrioniche furberie avrebbero stemperato l’accusa che fosse successo un infortunio grave. Se avesse deciso di presentare un reclamo all'arbitro, sarebbe stato il peso della parola di Leopoldo contro la reputazione candida di Vale - testimone chiave dell’inscenata. Un opponente impervio. Infine, a screditare ulteriormente la sua posizione, i lamentii di quel Leone codardo riguardo ferite inesistenti sarebbero stati smentiti all’esame degli ispettori, costando ai Monterossi oltre al trofeo anche la buona nomea...

 Interessante.

Eravamo in stallo, quindi. Nessuno avrebbe potuto prevalere sull’altro. 

Non era una vittoria, lo ammetto. Ma (ma!) non era una sconfitta completa. 

Non male. Avrei, una volta al sicuro, potuto continuare a godere della mia marachella e del fatto che probabilmente l’avrei spuntata anche questa volta... e nel momento in cui concludevo il mio ragionamento, mi ero resa conto che lo sguardo di Leopoldo mi stava trafiggendo

“Lo trovi divertente, vero?” aveva chiesto, la voce bassa quasi si era persa nell'aria colma di schiamazzi.

Mi aveva letto nel pensiero.

Istintivamente avevo irrigidito il mio corpo; non volevo arretrare ancora. 

Avvertendo la mia esitazione Vale era corso in mio aiuto. 

“Sono dispiaciuto per quello che è successo,” aveva risposto come se la domanda di Leopoldo fosse stata diretta a lui, “Si è trattato di un malaugurato incidente. E’ un sollievo che nessuno si sia ferito sul serio.” Era seguita una pausa, lunga, come se anche Valerio stesse indugiando, “E’ sempre brutto quando scherzi innocenti finiscono male.”

Leopoldo aveva riportato l'attenzione su di lui con uno scatto serpentino del collo. Il suo controllo era stato spezzato. Perché ora…? Vale era riuscito nell’impresa con la meno offensiva delle bugie. 

Leopoldo aveva aperto bocca come per rispondergli, e si era bloccato. Come se si stesse sforzando di sembrare rilassato, aveva sorriso sottilmente. “Una fortuna per tutti noi.”

All’assitere alla sua reazione composta, al suo aquiescere, la sorpresa mi aveva preso contropiede. Tilde, c’era qualcosa che non capivo. 

Leopoldo si era rivolto di nuovo a me, il suo viso tornato ad essere una maschera imperscrutabile. Mi ero sforzata di imitarlo. 

“Come va, Caterina?” 

Potresti avere ragione, aveva sussurato Tilde.

“Prego?” avevo balbettato.

“Ti è piaciuta la gara?” 

Leopoldo si stava comportando come se avessimo discusso civilmente del tempo fino ad ora. 

Ero ufficialmente senza parole.

Avevo intercettato lo sguardo di Vale, confidando che fosse altrettanto scioccato.  Che sta facendo questo pazzo? Era il mio implicito commento. 

Ma dai lineamenti congestionati del mio amico trepalava un'emozione diversa dalla confusione. Era… era furioso. Tanto da lasciarmi stordita. L'energia letale - puro fuoco - che emanava era l’opposto dell’inverno di Leopoldo; sembrava un vulcano in procinto di eruttare. Perché era così arrabbiato...? La confusione mi aveva assalito ancora.  

Per leggere questi tizi serve un manuale d’istruzioni, ho confidato a Tilde. La mia semi allucinazione era l’unica persona sana a cui potevo ormai rivolgermi.

Disquietata dall’essere stata spiazzata anche da Vale, sono tornata a fronteggiare Leopoldo. Non che fosse meglio conversare con il Diavolo in persona...

 Dì qualcosa! Non fare la damigella moscia, ti prego, era stato il lamento di Tilde.

 La pausa era durata troppo. Leopoldo accennava alla sua smorfia stomacata, quando ho raffazzonato la mia giustificazione.

“Sicuro. Io... ecco…” mi sono morsa il labbro, “Tifavo per suo figlio.”

In una parte recondita della mia mente, arredata con divani immaginari, ho praticamente sentito Tilde tentare di soffocarsi con un cuscino in preda alla disperazione.

Nessuno mi aveva creduto, naturalmente.

Leopoldo aveva annuito. Il lato della sua bocca si era arricciato, questa volta nel più minuto dei sorrisi. “Tifavi il team dei vincenti. O così avrebbe dovuto essere. Suppongo debba congratularmi con lei, Valerio.”

 Vale era stato zitto; quelle non erano congratulazioni.

Leopoldo aveva volto il capo verso il campo da gioco. Le due squadre si scambiavano insulti e minacce, i giocatori erano lobotomizzati dall’adrenalina e dal testosterone; l'arbitro era sull’orlo dell'esaurimento nervoso. L’assenza dei rispettivi Capitani - uno sparito in un buco nero, l’altro piazzato testardamente accanto a me - contribuiva all’aumentare della tensione. Leopoldo scrutava imperterrito la scena. Mi ero chiesta se la rabbia che trapelava da lui fosse rivolta verso suo figlio, nascosto dalla muraglia di persone esaltate. 

Leopoldo aveva sospirato. “Il risultato sarebbe stato diverso senza questo clima bizzarro. Suppongo lei debba ringraziare… la pioggia per il suo successo. Se permette ad un adulto di darle un consiglio: un trionfo deve essere meritato. Appoggiarsi ai capricci del caso rende deboli di carattere. Non mi permetterei mai di insinuare che approfittare della caduta di Leone sia una codardia -”

“Non lo è se è secondo le regole!” Avevo sbraitato prima di ricordarmi che avevo una versione da mantenere. Senza indugiare, mi ero piantata davanti a Vale, come per fargli scudo. Vale mi aveva trattenuto per la vita prima di togliere la mano in un lampo. 

Leopoldo aveva notato il gesto ed il suo sorriso si era tramutato in un sogghigno. 

“Giusto. D'altra parte interrompere il match non sarebbe stato contro le regole. Sarebbe stato semplicemente fair play.” 

Avevo sbattuto le palpebre. La frase suonava familiare. 

Leopoldo ci aveva considerato entrambi come se fossimo insetti. “Suppongo che ciascuno di noi porterà con sé preziose lezioni da questa giornata. Si goda il suo trofeo, Valerio.” 

E Leopoldo si era voltato su di me.

Attenta, aveva sussurrato Tilde senza più speranze per la mia salute mentale e fisica.

“Potrei chiederti, ancora una volta, che ne pensi del risultato di oggi,” una secca risata, “Cosa futile, come ben sappiamo. Tu non sei una persona onesta ed io non insulterò oltre la mia intelligenza. Ti lascio giubilare, ragazza, per ciò che importa. Dopotutto, sei così giovane, e ci si butta col cuore piuttosto che con la testa in situazioni del genere.” Leopoldo aveva calcato l’inflessione su quelle parole per qualche recondito motivo, “Te lo dico senza rancore: mio figlio può fare a meno delle tue premure, va’ a festeggiare col tuo amico.” 

Aveva mosso un passo verso di me. Per la seconda volta, eravamo noi a fronteggiarci.

“Ricordati questo consiglio: hai una vita colma di privilegi ad aspettarti. Devi trovare quello che ti soddisfa genuinamente per apprezzarla, invece di gloriarti della tua meschina malignità.”

Meschina? Io?” avevo quasi urlato.

“Caterina non è maligna,” Questo era Vale.

La risata di superiorità era stata di Leopoldo. “Mi rifiuto di assecondare una persona incapace di distinguere l’agonismo dal proprio insopprimibile bisogno di prevaricazione.” 

Entrambi avevamo fallito a replicare. 

Leopoldo aveva continuato, stranamente solenne, “Vittorie del genere hanno magro valore, mia cara ragazza. Anzi, ti rendono solo più affamata. Non dimenticare nemmeno questo.” 

Ci aveva dato le spalle e si era immerso tra la folla a lunghe falcate, prima che potessi recuperare la prontezza di ribattere.

Non ero mai stata più confusa in vita mia.

 

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