Our Own Demons

di LaMicheCoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** { Prologo ~ File - 0.0 } ***
Capitolo 2: *** { 569 Leaman Place ~ File 0.2 } ***
Capitolo 3: *** { Gli Incidenti Capitano ~ File 0.1 } ***
Capitolo 4: *** { Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 } ***
Capitolo 5: *** { Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 } ***
Capitolo 6: *** { Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 } ***
Capitolo 7: *** { Gazza Ladra ~ File 0.6 } ***
Capitolo 8: *** { Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 } ***
Capitolo 9: *** { La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 } ***
Capitolo 10: *** { Concentrati ~ File 0.9 } ***
Capitolo 11: *** { Quel Che Mi Spetta ~ File 10 } ***
Capitolo 12: *** { Sono già in caduta libera ~ File 11} ***
Capitolo 13: *** { Ho Cercato Di Urlare – File 12 } ***
Capitolo 14: *** { Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 } ***



Capitolo 1
*** { Prologo ~ File - 0.0 } ***


ood

Disclaimer: I personaggi e le ambientazioni non mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A tutti coloro che mi hanno seguito, mi seguono e mi seguiranno.
A chi ha fiducia, biscotti al cioccolato e un po’ di follia.
Alla MogliaH, alla mia Tony, a Leslie, alla Steve e alla Tonia,
alla mia Coulson di fiducia
Alla mia Splendore, alle Massoni.
A voi di EFP.
Allo zio Stan.
A me (?)
Oh, basta.
Troppo drammatico.
PARY HARD!!

 

(Se volete, andate QUI per il trailer )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Heroes?
There is no such thing.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Our Own Demons

 

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.

.

 

We are each our own devil
And we make this world
Our hell.

O. Wilde

 

 

 

 

 

 

 

{ Prologo ~ File - 0.0 }

 

 

 

 

Polo Nord.
2011.

 

Ad Harlem, Jacobson aveva imparato ad aspettare.
Aspettare che a sua madre passasse la sbronza per camminare in punta di piedi in cucina e rubacchiare qualcosa dalla dispensa. Aspettare che la schiena si fosse fatta un po’ più robusta per caricare cassoni d’acqua sulle spalle. Aspettare che le braccia fossero un po’ più muscolose per deviare il setto nasale del maniaco che aveva cercato di insidiare sua sorella.
Aspettare, dentro la cella in cui i poliziotti l’avevano cacciato a male parole e pugni nello stomaco, che l’uomo in giacca e cravatta davanti a lui dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Aveva aspettato un’intera notte che il Man In Black stracciasse la nebbia del proprio Destino, aveva aspettato che gli indicasse la porta della centrale e poi a destra, invece di sinistra, e alla fine, quando l’uomo aveva torto la bocca in un sorriso soddisfatto, Jacobson aveva capito che tutto quell’attendere aveva finalmente cominciato a germogliare.
Non sapeva quali frutti avrebbe dato, se sarebbero stati Pomi D’Oro o semplice gramigna, ma non vedeva il problema: avrebbe aspettato.
Un’intera vita ad esercitare l’arte dell’aspettare, pensava, avrebbe dovuto essergli d’aiuto in quel momento. Messo a riposo sulla lunga panca bianca della struttura provvisoria, Jacobson sedeva con sopra la testa filari oblunghi di neon candidi, sotto le suole degli scarponi isolanti una pavimentazione dalla dubbia origine e dal nome impronunciabile, il vuoto ai lati e arazzi di plastica accartocciata che sospiravano pesantemente, agonizzando, al fiato rauco della ventilazione artificiale.
Fino ad una ventina di minuti prima c’era stato Piotrowski con cui parlare: il polacco era sceso con lui nel budello di ghiaccio incrostato e aveva tenuto alta la torcia perché la luce fiammeggiasse sul lastrone congelato ai loro piedi, creando un effetto non troppo dissimile a quello che ci si sarebbe aspettati da un’epifania divina.
Quindi, quale compagnia migliore per ingannare il tempo. intanto che anche gli altri entravano ed uscivano dallo studio improvvisato del dottor Marlowe? Avevano addirittura scommesso un giro di bevute, una volta tornati a Manhattan. Piotrowski, da buon polacco, diceva che la roba su cui avevano messo le mani era una bomba sovietica o qualche altra ferraglia del genere –Nulla di buono, sosteneva, poteva venire da chi aveva dato i natali a Pierre Bezuchov(1). Jacobson, invece, era sicuro che qualche collega, uno in particolare, avrebbe dato un rene se non tutti e due, per essere al loro posto e godersi lo spettacolo in prima fila.
E tra un’ipotesi ed una teoria, una manata alla spalla, una risata, incredulità, invocazioni a Dio e colorite bestemmie in slang, dialetto e inglese, era giunto anche il turno di Fabian di incontrare lo psicologo.
Precauzione, quella, che Jacobson trovava di per sé altamente inutile: d’accordo, era stata una scoperta eccezionale, ma da lì dal richiedere un supporto per l’intera squadra onde evitare crolli nervosi, psicosi collettiva e altre amenità simili, bhè…Non che Jacobson avesse da ridire o volesse contestare gli ordini dai Grandi Vertici, però gli sembrava una misura di sicurezza davvero, davvero esagerata.
Inoltre, forse per effetto di Marlowe o per qualche calmante disciolto di nascosto negli integratori, nessuno dei compagni uscito dalla conversazione col dottore si era dimostrato così eccitato dalla situazione.
Al contrario, nei loro occhi era visibile una punta di rassegnato rincrescimento, un noncurante disappunto, quasi l’operazione cui erano stati assegnati fosse stata meno di una scampagnata non richiesta al Polo e non avesse portato altro che arsura sulle labbra e dita congelate.
Aveva provato a chiedere dove fosse finito l’iniziale entusiasmo, ma si era sentito rispondere soltanto qualche farfuglio vagamente annoiato.

Ordinaria amministrazione bofonchiavano Sono d’accordo col dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.
A peggiorare l’umore di Jacobson, poi, era anche la sensazione di non dover essere lì, di star perdendo minuti preziosi in un corridoio impersonale che risucchiava ossigeno e artigliava i polmoni come uno sgradevole attacco di panico.
Non era l’aspettare cui aveva improntato la vita, non c’era  all’orizzonte promessa o deviazione sul sentiero dell’esistenza. Era mera, fastidiosa, snervante attesa, priva di scopo e senza obiettivi.
Non sarebbe dipeso niente dal tempo sprecato ad aspettare che Fabian uscisse e gli dicesse di prendere posto su una seggiole o sgabello o qualsiasi altro aggeggio si fossero portati dietro per far riposare le terga.
Non poteva impiegare quei minuti in preziosi in niente di meglio che torcersi le dita, contare i cristalli di ghiacci spenzolanti fuori della curva gibbosa del corridoio, e ripetersi a memoria, mandare a mente ogni singolo fotogramma di quanto gli era appena successo.
Nonna Julie doveva essere messa al corrente di ogni particolare, non avrebbe sentito rimostranze di sorta a riguardo.
Jacobson appoggiò i palmi delle mani sulle ginocchia e affondò le dita nel tessuto spesso della tuta. Il casco, appoggiato accanto alla coscia, ingoiava e trangugiava il asettico della luce e un po’ balbettava, traslucido, e un po’ ansimava e boccheggiava di grigio e nero.
L’uomo curvò la schiena in avanti, i brividi che saltellavano nervosi da una vertebra all’altra. Non esistevano rumori all’infuori proprio respiro, dell’ossigeno aspirato con rabbia crescente tra i denti digrignati. Non esistevano colori, se non l’immenso, immane, pressante candore che premeva e soffocava da sopra, da sotto, dai lati, da ogni parte e in ogni dove l’occhio potesse guardare.
Per gente abituata a vestire solo ed esclusivamente di nero, tutto quel bianco faceva venire il voltastomaco e girare la testa.
Jacobson sospirò, raddrizzò le spalle e reclinò la nuca all’indietro.
Sperava solo che l’incontro con Marlowe non durasse troppo.
Nel rifugio che avevano tirato in piedi insieme al perimetro d’ordinanza, il cellulare aspettava solo di essere acceso e Jacobson non aspettava altro che digitare veloce il numero di Nonna Julie e raccontare per filo e per segno quanto era accaduto. In vivavoce, ovviamente, perché anche la piccola Sofia, dall’alto del suo metro e dieci, non si perdesse una sola parola.
Bisognava, ovvio, tener conto di un dettaglio trascurabile detto segreto di Stato, ma tanto bastava rattoppare qui, tralasciare un po’ là, omettere questo, modificare quell’latro, e il gioco era presto che fatto.
Non poteva nascondere tutto a Nonna Julie. Una scoperta del genere, un ritrovamento di tale portata andava al di là di quanto Jacobson si aspettasse e per cui avesse mai aspettato.

 

Harlem. Casa Famiglia di Nonna Julie.
2011.

 

Nonna Julie non si chiamava davvero così e di sicuro non era una nonna.
Di nomi ne aveva avuti tanti e tanti gliene erano stati affibbiati nel corso degli anni, ormai aveva perso il conto: aveva più identità di un Agente della CIA o di qualche altra organizzazione da strapazzo il suo piccolo Adrian facesse parte –Accidenti all’età che avanzava, se ne scordava ogni volta il nome.
Adrian faceva buon visto a cattivo gioco quando lei chiedeva di ripeterglielo: diceva che, in caso qualcuno avesse cercato di prenderla in ostaggio per strapparle informazioni vitali, l’organizzazione per cui lavorava sarebbe stata al sicuro anche senza memorie fasulle o altre diavolerie tecnologiche da fantascienza. Al che, Nonna Julie replicava che l’eventualità nemmeno si poneva. Qualunque brutto ceffo avesse avuto la malsana idea di intrufolarsi nella sua Casa Famiglia si sarebbe ritrovato col mattarello a spuntare dalla bocca, ma infilato dall’entrata opposta alla gola.
Non una persona poi così fine e delicata, Nonna Julia, nonostante l’aspetto minuto, le spalle strette strette, la schiena curva e i pince-nez tondi calati sul nasino appuntito e gli occhietti neri, liquidi e amabili.
Ai tempi degli spettacoli nei locali notturni di Harlem era stata la Stella Di Bronzo, acclamata per il colore saettante della pelle sotto le luci del palco, per la linea carezzevole del ventre e del seno, e i capelli che gemevano, ricci e scuri, ad ogni movimento languido del collo. Di quella danzatrice provetta e sensuale, da sogno bianco di colore, era rimasta un’adorabile vecchina con le labbra rugose, uno chignon grigio e sempre abbigliata con simpatici colletti all’uncinetto.
Incuteva ancora timore, però, e Adrian la prendeva spesso in giro, dicendole che avrebbero dovuto arruolare lei al suo posto. Caro Adrian. Era stato lui il primo a chiamarla Nonna Julie e le era tanto piaciuto da non esserlo più scrollato di dosso.
«Via le dita dalla marmellata, Sofia» ammonì Nonna Julie, col suo vocino alto e squillante, mentre si girava a guardare la bimba e si rassettava il grembiule da cucina, lasciando vistose macchie di farina e uovo tra le pieghe e i rattoppi.
Sofia, colta sul fatto, ritrasse la mano e drizzò la schiena, impettita, le labbrucce pressate l’una sull’altra e i pugni tesi contro i fianchi sporgenti. Sollevò il mento con un che di comico e imperioso all’insieme, sbatté le ciglia sottili e raggiunse a passo di marcia una delle seggiole sgangherate attorno al lungo tavolo rettangolare. Lisciò la gonnellina blu a fiori, s’arrampicò appendendosi alla schienale come una scimmietta, e infine si sedette tutta compita, gli occhi da gatta fissi sul cellulare al centro della tovaglia a scacchi bianchi e rossi.
«Chiamerà presto, Sofia.»
Nonna Julie sorrise con dolcezza e abbandonò l’impasto della torta per avvicinarsi alla bimba. Le accarezzò i capelli, pettinandoli con le dita nodose e le unghie sorprendentemente curate e smaltate di rosa pallido. Aveva detto a Sofia che Adrian era andato in viaggio di lavoro, senza specificare la destinazione, e sebbene cercasse di mostrarsi tranquilla per la bambina, non poteva negare a se stessa un’inquietudine nervosa alla bocca della stomaco.
Un crocchiolio preoccupato di sussurri e mormorii, che la teneva sveglia la notte e mal s’accordava alle rosee previsioni di Adrian sull’esito positivo della missione.
Nonna Julie era sorda al bisbiglio della preveggenza: al contrario della sorella, che era in grado di leggere il futuro di mille uomini nei granelli adamantini della sabbia, lei al massimo coglieva uno stralcio quasi inudibile di conversazione, un lampo di colori sfumati, gocce di presentimenti e poco altro. Mai come in quel momento avrebbe scambiato i cerchi dell’iride per la visione mistica di Tabitha -Convinzione, questa, che aumentò e si fece praticamente bollente, le affondò nel costato nell’istante preciso in cui il telefono prese a squillare.
Sofia si tese tutta e Nonna Julia afferrò rapida l’apparecchio. Le dita ebbero un tremito tanto improvviso da rischiare di far cadere il cellulare a terra e romperlo in mille pezzi.
«Adrian?» domandò e tossì un paio di volte per cancellare il balbettio ansioso della voce «Adrian, piccolo mio, come stai? L’op…» la bimba scattò in alto con la testa e la vecchina fu svelta a correggersi «Il lavoro?»
«Oh.» fu la risposta incolore di Jacobson dall’altra parte della cornetta, il tono smangiato da interferenze e cali di linea «Ordinaria amministrazione, Nonna Julie. Sono d’accordo con il dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.»

 

 

Triskelion.
2011.

 

«Il Colonnello sulla Linea Uno.»
Fu l’avviso professionale della segretaria, la voce al caramello addolcita da un sorriso accondiscendente e impreziosito dall’adorabile riflesso del sole sul collier di perle.
«Grazie, Sonja.»
Chiuse la chiamata precedente e premette il pulsante per dare il via libera alla nuova comunicazione. Intanto che il ronzio della cornetta andava scemando, incastrò il telefono tra spalla e orecchio, appoggiò la mano sinistra alla scrivania e portò le dita della destra a sistemare e giocherellare coi bottoni del gilet grigio.
«Il giorno in cui la Russia dichiarerà guerra all’America so che verrai a trovarmi di persona» disse, non appena al clic! della presa in chiamo si sostituì la voce impaziente del Colonnello.
Mentre l’altro iniziava e continuava e sbraitava la sua arringa, lui incurvò la bocca e prese tra indice e pollice la terminazione della cravatta scura: una macchia giallognola -Forse il residuo spumoso di un cappuccino ingollato alla buona tra un brief e l’altro- campeggiava sorniona tra le striature oblique, rovinando completamente l’elegante raffinatezza del completo.
«No, alla fine si è concluso con un nulla di fatto» replicò, nel sollevare le sopracciglia.
Roteò gli occhi al soffitto, palesando l’esasperazione di cui era preda, si girò a guardare il vasto orizzonte dei tetti newyorkesi oltre le finestre dell’ufficio e appoggiò la base della schiena tra il portapenne e un fermacarte a forma di cubo. Battè la lingua contro i denti e sul palato, si grattò la punta del naso e la guancia destra, pizzicandosi i polpastrelli con la barba ispida; abbozzò un’espressione poco interessata, gli occhi che già vagavano versi altri lidi e tutt’altri pensieri.
«Era soltanto un Pallone Sonda.» si osservò le unghie, annoiato «Ordinaria amministrazione. Niente di così eclatante come ci aspettavamo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

(1) Personaggio di “Guerra E Pace”

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Capitolo 2
*** { 569 Leaman Place ~ File 0.2 } ***


ood2

 

{ 569 Leaman Place ~ File 0.2 }

 

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio del Direttore Fury.
2013.

 

A Nicholas Fury non piaceva non capire. Non importava se l’oggetto della questione erano le istruzioni per montare un videoregistratore o la maniera più veloce per penetrare nel covo del terrorista di turno, in un lasso di tempo inferiore al minuto e mezzo. Non gli piaceva e basta. Non capire una questione, poi, che era a dir poco vitale lo faceva direttamente infuriare.
Non aveva ancora tolto la schermatura di sicurezza dall’Ufficio, né aveva intenzione di sciogliere il silenzio stampa in cui si era trincerato: osservava con l’unico occhio buono a disposizione –O almeno, l’unico occhio buono visibile al popolino- il display tridimensionale davanti a sé e il disappunto, misto ad una nota di sincera preoccupazione che il proprio riflesso sui vetri oscurati avrebbe custodito fino alla morte.
Non poteva accedere ai file, non poteva decriptarli e qualcuno stava giocando ad essere lui.
Nemmeno Nick Fury osava giocare ad essere Nick Fury, figurarsi il primo buontempone con manie criminali e suicide uscito da chissà quale confezione di cereali.
Perché, l’avrebbe capito anche un Agente di Livello Uno, il mancato accesso ai dati della Lemurian Star ed una palese modifica a quelli che erano da sempre i propri requisiti d’accettazione agli stessi, significava che qualcosa di innegabilmente losco e probabilmente anche piuttosto brutto stava mettendo le mani in pasta dove non avrebbe dovuto.
A meno che, certo, Fury non si fosse impiantato qualche dispositivo di memoria o ricordi fasulli, oppure modificato volontariamente ID e password. Una protezione ottima, ma cui dubitava di aver ricorso.
Il Direttore piegò le spalle in avanti ed appoggiò i palmi sulla scrivania lucida, senza distogliere lo sguardo dall’AI in paziente attesa.
Natasha gli aveva portato roba che scottava, da quell’accidenti di nave, e sentiva già i polpastrelli coprirsi di vesciche. Contro la schiena, una pressione come acqua in procinto di squarciare a metà la diga che aveva avuto la brillante e pessima idea di contenerla.
«Computer» esordì, dopo alcuni istanti di riflessione, la fronte che andava via via accartocciandosi per l’esasperazione -Ed una dolorosa presa di coscienza «Chi è l’Agente preposto alla sicurezza di Stark?»
«Agente Colin Hendrick, Livello Sei.»
La foto profilo dell’uomo in questione -Capelli biondo-castano più folti sulle tempie, barba, basette, occhi azzurri, un metro e ottanta per cento kili di peso ben distribuiti e compattati dall’addestramento militare di base- apparve sullo schermo, insieme alla sequela di informazioni riguardanti biografia precedente al reclutamento, Supervisore, abilità varie e variegate, nonché elenco di missioni e relativi rapporti.
Ventotto anni, originario del Queens, aveva iniziato come addetto alla sicurezza in un market indiano del quartiere, feedback positivi nel raggiungimento di obiettivi che tutto avevano tranne essere eclatanti o indispensabili per proteggere la sicurezza pubblica del Paese.
Insomma, il tipo perfetto da appioppare come babysitter al figlio di Howard perché non si desse a gaie sregolatezze o eccedesse in idiozie frattanto che la Virginia Potts non si rimetteva dall’incidente col tassì.
Adatto a tenere sotto controllo Stark, ma ancora troppo inesperto per missioni a più alto rischio.
In poche parole, l’uomo perfetto per far passare inosservata una patata bollente come quella che era appena capitata sul groppone del Direttore.
Davanti agli occhi di tutti è dove nessuno va mai a guardare. Se vuoi che nessuna si accorga dei tuoi traffici o delle tue macchinazioni, non dar loro peso e fingi che non abbiano importanza. La gente è come un branco di pecore e seguirà la direzione del tuo sguardo senza farsi domande.
«Accesso al database dell’aeroporto di Los Angeles.» ordinò quindi, premendo i polpastrelli sopra la radice del naso «Trova i velivoli di proprietà S.H.I.E.L.D. e circoscrivi la ricerca a quelli utilizzabili da Hendrick, in rapporto alla sua patente di volo.»
Ecco, forse il volo era l’unico ambito in cui l’Agente riusciva ad emergere: per il resto, tutto era nella norma –Secondo i parametri dell’Agenzia, ovviamente. Nulla di eclatante.
Era comunque la sola buona notizia della giornata, visto che e considerando che Fury voleva il bellimbusto di Livello Sei il più presto possibile. Avesse avuto una patente meno di spicco, avrebbe dovuto per forza chiedere di un pilota per evitare le cinque ore comuni. Il che, non era consigliato. Non tanto le cinque ore, quanto l’idea di rivolgersi ad una seconda persona e allargare il già pericoloso cerchio di sussurri e voci di corridoio che voleva evitare ad ogni costo.
Era anche per quello, in fondo, che aveva deciso di ingoiare la stizza e nutrire l’ego ipertrofico di Stark: utilizzare i terminali dell’Agenzia avrebbe significato rendere palese la scoperta di un intrigo su cui mai avrebbe dovuto mettere le mani sopra; cercare di decriptare il tutto tramite un computer esterno era meno plateale che sbandierare la cosa in pubblica piazza, nudo e con un boa di piume iridescenti al collo.
Stark era il solo, dopo lo S.H.I.E.L.D. a disporre dei mezzi adatti a far passare tutto inosservato, ogni cosa sotto silenzio. Certo, così il figlio di Howard sarebbe venuto a conoscenza di chissà quale segreto inconfessabile –Non era la prima volta, il Direttore ricordava anche fin troppo bene l’intrusione informatica di un anno prima, durante l’emergenza Loki-, ma se questo voleva dire avere un supporto in più –Molti supporti in più, magari molti supporti cromati a repulsori in più, riempiti di ogni sorta di arma possibile ed immaginabile, ancora nemmeno sognata dai tecnici dell’Agenzia-, allora Nick era disposto fargli sondare il database fino alla cronologia dell’ultimo Agente di Livello Uno appena reclutato.
«Manda un avviso all’Agente Hendrick: presentarsi per rapporto ufficiale sul soggetto Stark, Anthony Edward presso il 569 Leaman Place, Brooklyn Heights in tempo massimo tre ore.»

 

Stark Industries, Los Angeles.
Ufficio di Tony Stark.
2013.

 

Il badge di Hendrick gli spenzolò ciondolando dinanzi al naso e Tony si ritrasse di scatto, sussultando ed emettendo un singulto strozzato. Sarebbe anche caduto all’indietro, non fosse rimasto gelato dalla dondolio affascinante di alcuni fogli assolutamente importanti, Tony, per Dio che dalla guancia appiccicaticcia di sudore e sì-no-forse saliva si libravano in caduta fino alla scrivania.
Il silenzio che seguì a quella scena fu tanto spiazzante da rendere Stark incapace di intendere e di volere per una manciata di secondi. Quando fu di nuovo in grado di articolare una frase di senso compiuto che non fosse una sequela di insulti ai neuroni fedifraghi, trattenne un guaito dentro le guance e lo mutò in un sospiro roco, prima, e un pratico schiarirsi di gola, poi.
Con l’inguardabile camicia rossa con bretelle nere e cravatta bordeaux di Colin ad inseguirlo come un incubo –Dio, avrebbe preferito avere la Romanoff a fargli da segretaria sottocopertura, almeno aveva dove posare gli occhi senza provocare l’immediato suicidio del buongusto-, il magnate si sistemò sulla sedia e finse di ordinare le scartoffie. Il tutto a fronte bassa, perché l’Agente non vedesse le borse che s’allungavano fino agli zigomi e cominciasse così con una paternale degna di Pepper. Sulle ramanzine, almeno, Virginia aveva avuto ragione: Colin era valido quanto lei.
Non che fosse una palla al piede, s’intende. Al contrario, Hendrick si era dimostrato un valido elemento e parecchio utile –Mai quanto Pepper, però. Nessuno sarebbe mai stato come Pepper. Pepper era unica e Tony avrebbe voluto vedere lei, la mattina, sfilare attraverso i corridoi nell’accecante eleganza di un tailleur bianco, la coda di cavallo che le accarezzava le spalle e la linea della schiena, una cartelletta stretta al seno e gli occhi caldi di sole, le guance pizzicate dall’aria fresca e dal condizionatore già acceso. Avrebbe voluto lei, lì, accanto a sé, le sue dita tra i capelli, la sua voce a rassicurarlo, preoccupata e dolce, perché andava tutto bene, avrebbe superato ogni cosa, doveva solo stringere i denti e resistere e respirare, semplicemente respirare.
Ma Pepper non c’era e, sebbene cercasse di rendere la differenza tra lei e Hendrick sopportabile, e non rendere troppo chiaro all’altro l’abisso che lo separava da Virginia, era ovvio come Colin stesse facendo veramente di tutto per superare l’ostacolo del Non-Essere-Potts. Era puntuale, ligio ai suoi compiti, velocissimo col caffè: ogni mattina gli faceva trovare un cappuccino all’italiana preso da un bar a due isolati dalle Industries e un dolce senza glutine ogni volta diverso, preparato espressamente dal proprietario del locale ed espressamente per lui. Era, la sua, una gentilezza a tratti goffa, persino un po’ buffa, tipica di chi stesse tentando in ogni modo di non essere un intralcio, né una palla al piede.
Però, di nuovo, non era Pepper. Non sarebbe mai stato Pepper.
«Cosa devo firmare?» domandò Tony, alzando finalmente lo sguardo su di lui e dando un ultimo colpo di tosse per cancellare i residui di sonno che gli impastavano la bocca.
«Nulla, signor Stark.»
«E allora perché sei ancora qui?» continuò il magnate, perplesso, aggrottando la fronte «Non eri stato convocato con urgenza dal nostro Pirata di fiducia?»
Colin inarcò le sopracciglia e, a disagio, sfregò il palmo contro la barba bruna che marcava la linea squadrata e decisa della mascella.
«In verità, signor Stark, ero venuto a vedere dove fosse» disse Colin «Aveva un incontro con alcuni rappresentati della Roxxon…Mezz’ora fa.»
Tony spalancò le palpebre –Il desiderio di uggiolare per lo strazio rappresentato dalla riunione, come dal fatto di essere costretto alle più mirabolanti scuse e flautate leccate di terga per giustificare la propria assenza, aumentò a livelli insostenibili. Ebbe l’accortezza di trattenersi, però, e si morse la lingua.
«Va bene, va bene. Lo sapevo, lo ricordavo.» mentì e non gli piacque il guizzo che aveva attraversato gli occhi di Hendrick, solitamente immobili e privi di qualsivoglia emozione se non una professionale cortesia e stolido garbo. «Ma sai com’è, il ritardo è una tattica. Si capisce fin da subito chi è che comanda.»
Colin assottigliò le labbra –Non aveva creduto ad una sola parola di quanto gli aveva appena detto e non gli riusciva di nasconderlo.
«Naturalmente, signor Stark.» accondiscese, chinando educatamente il capo «Posso fare qualcosa per lei?»
«No, togli le tende e defilati.» negò il magnate e socchiuse le palpebre, piccato «L’ultima cosa che voglio è avere la tua testa sulla coscienza se arrivi in ritardo al randez-vous di Mace Windu.»
Un accenno di risata sorvolò la bocca di Hendrick, ammorbidendo i tratti altrimenti rigidi e donando al suo volto una luce e un’espressione completamente nuove. Non rideva spesso, forse troppo occupato a stare al proprio posto per permettersi un atteggiamento più disteso, meno improntato ai vincoli Datore di Lavoro-Segretario che la sua missione gli imponeva; quando, però, si abbandonava ad un tono più rilassato e disteso, il giovane mutava e alleggeriva l’ambiente, cancellava la tensione –Ed il guardingo sospetto cui Stark non mancava mai di sottoporlo.
«Allora arrivederci, signor Stark. Dovrei essere di ritorno in serata.»
«A stasera.» concordò Tony «Ah.» come ricordandosi di un pensiero improvviso, bloccò Colin sulla soglia con uno schiocco di dita ed indicò il badge appeso al collo «E’ inutile che cerchi di ingraziarti Happy con quello. Non ti prenderà in simpatia fino a quando non ti deciderai a guardare Downtown Abbey.»
Hendrick emise ancora quella flebile, sussurrata risata e si chiuse la porta alle spalle.
L’ufficio divenne un po’ più freddo e il figlio di Howard avvertì distintamente le pareti premergli addosso. Deglutì un ansimo e cercò di mettere ordine tra le carte per tenere le mani occupate, ma i polsi tremavano e le dita perdevano la presa, i fogli si mescolavano, frusciavano, in disordine, precipitavano giù, giù, giù –Precipitavano come lui, un anno prima, dal baratro stomachevole sopra la Tower, precipitavano e nessuno veniva a salvarli, precipitavano e si schiantavano a terra, precipitava e nessuno veniva a salvarlo, precipitava e si schiantava a terra.
Un urlo roco e Tony si spinse indietro con tale veemenza da far inclinare la sedia. Finì per rotolare sul pavimento, in mezzo al fascicolame, contro la superficie gelida delle piastrelle.
Non era vero. Non era vero, era solo una fantasia. Era solo una fantasia, niente di più. Non era a New York. New York era passata, New York era un ricordo. New York non esisteva più, New York non lo aveva ucciso. Era lì, al sicuro senza l’armatura. Non indossava l’armatura. Come poteva dirsi al sicuro, senza l’armatura? era al sicuro, non aveva bisogno dell’armatura certo che aveva bisogno dell’armatura, l’armatura era l’unica cosa in grado di proteggerlo, di tenere il pericolo lontano da sé, aveva bisogno dell’armatura, aveva bisogno di più armature, sempre più evolute, per contrastare chiunque gli si fosse parato davanti, per contrastare qualsiasi cosa, non era niente senza l’armatura, aveva bisogno dell’armatura, non poteva stare senza l’armatura era lì, era vivo, andava tutto bene, non sarebbe successo nulla, andava tutto bene l’armatura gli serviva l’armatura aveva bisogno dell’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura l’armatura e i Chitauri ruggivano e si mescolavano alle nuvole e al fuoco, ai fulmini di Thor, alle frecce di Clint, alle grida animali di Hulk e il mondo si sbriciolava e andava in mille pezzi e c’era polvere e i Chitauri arrivavano e sfondavano la barriera del suono e latravano come cani e il missile, Stark, occupati del missile e lui cadeva precipitava nessuno veniva a salvarlo e franava e nessuno veniva a salvarlo e si schiantava a terra e l’impatto contro l’asfalto era un boato di fuoco nelle viscere e la morte era dolore la morte era niente Pepper e Pepper non sarebbe tornata e la morte era l’alcool aveva bisogno di alcool aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno di alcool aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno di Pepper aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura aveva bisogno dell’armatura.
Sfiatando e boccheggiando, Stark premette i palmi sulle palpebre, spinse le orbite, annaspò alla ricerca di aria. Guaì una preghiera e raccolse le ginocchia al petto, la vastità dell’Universo oltre la soglia del portale che gli schiacciava il petto e gli strappava il respiro.

 

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.

 

Alexander Pierce si era versato del Bourbon e osservava Washington D.C. splendere, bianca, ai suoi piedi. Dalla cima del Triskelion dominava la città e il cielo che la circondava, i palazzi si genuflettevano al cospetto dell’imponente struttura dello S.H.I.E.L.D. e per Pierce era come trovarsi sulla cima di un faro di speranza.
Sorvola i tetti e guardava dentro le finestre dei propri concittadini, ascoltava le loro preghiere, si faceva portavoce delle loro speranze, temeva le loro paure e, le mani colme di potere e possibilità, agiva perché essi non fossero più terrorizzati dai mostri nascosti sotto il letto.
La verità era che l’arrivo di Thor, due anni prima, aveva cambiato il mondo in maniera che il mondo stesso ancora non era stato in grado di capire, tantomeno elaborare. Alieni, altre realtà, la gente doveva ancora arrendersi all’idea che quasi tutte le idee panzane di complottisti e ufologi non erano poi così folli come sembrava. L’umanità doveva ancora accettare l’idea di essere la razza dominante di un pulviscolo, quando al di sopra delle stelle vivevano divinità che evocavano fulmini con un martello o nuotavano balenottere aliene cariche di mostri poco raccomandabili e con cui era sconsigliato trovarsi faccia a faccia. Doveva capire che quanto avevano capito fino a quel momento, quanto avevano vissuto e studiato e creduto poteva benissimo essere gettato nella pattumiera o dato in pasto al trita carte.
La prospettiva di un cambio di mentalità così repentino era spaventoso e Alexander Pierce lo comprendeva. Per questo non si sarebbe dato per vinto. Le minacce si moltiplicavano, si nascondevano ovunque, sopra e sotto la terra, agli angoli delle strade, nell’aria che respiravano: la guardia doveva rimanere sempre alta, le armi costantemente cariche.
E, non fosse stato per quel ficcanaso di Stark, l’armamentario a bordo dell’Helicarrier sarebbe stato un’ottima pista di lancio. A ben pensarci, riconsiderò Pierce nell’appoggiare l’avambraccio destro sul vetro della grande finestra e portandosi il bicchiere di Bourbon alle labbra, il ficcanasare di Stark era stato un inimmaginato salto in avanti.
Costretti a ricominciare da zero con la difesa, un altro piano s’era formato, nuove direttive avevano surclassato le vecchie. Pistole e fucili potevano molto. Qualcosa di più grande poteva tutto.
Oh, un progetto caparbio e forse anche presuntuoso, Pierce ne era consapevole. Pur tuttavia, non vedeva perché la temerarietà costituisse un ostacolo. L’ordine mondiale non lo si poteva sacrificare in nome di una cosa tanto infinitesimale e soggettiva come la morale.
Che i benpensanti e i bigotti di ogni genere e forma alzassero la voce, gli gridassero contro. Pierce sapeva quale fosse l’obiettivo da raggiungere, il resto erano rumori di sottofondo da mettere a tacere premendo un semplice pulsante rosso.
«Ho appena convinto il Consiglio Mondiale Della Sicurezza a prorogare Insight» proferì Pierce e, non fosse stato per la spia luminosa sulla trasmittente che portava all’orecchio, si sarebbe detto stesse parlando da solo «Ora fa’ in modo di velocizzarne la messa in opera, intesi?»

 

Località Sconosciuta.
Cella di Sicurezza.
2011.

 
Marlowe aprì la porta della cella e fece segno al soldato che l’aveva accompagnato di chiudere e andarsene: voleva rimanere solo col soggetto, non avrebbe accettato intrusione alcuna. Il soldato provò a replicare, ma bastò l’assicurazione del dottore, il tono calmo e conciliante, perché egli si dicesse d’accordo e lo lasciasse ad un più privato colloquio.
Il soggetto, dal canto proprio, non aveva fatto una piega all’apparizione di Marlowe: era rimasto dalla parte opposta della cella, ritto dinanzi al centro della parete, il mento appena sollevato e gli occhi fissi all’angolo del soffitto. Teneva le mani sui fianchi, le dita appena flesse. Il dottore non aveva dubbi: gli avessero consegnato un paio di pantaloni dotati di cintura, il soggetto avrebbe stretto i polpastrelli alla fibbia, i gomiti piegati e le spalle un’unica linea retta che s’incrociava con la rigida perpendicolare del collo e della testa.
Invece, al soggetto non erano stati concessi non più di brache color kaki, una maglietta bianca e scarpe di tela. Classico, impersonale, il soggetto non aveva emesso verbo, né si era lamentato. A dire il vero, non aveva detto una sola parola dacché erano riusciti a bloccarlo nella sala medica.
Marlowe aveva visto il video più di una volta, ma ne sarebbe bastata una per capire come i sette soldati che gli avevano mandato contro avessero avuto la meglio su di lui in virtù della confusione e dello spaesamento creati dal risveglio inaspettato.
I sedativi non avevano avuto effetto, così come le parole che il medico capo aveva cercato invano di rivolgergli: sordo ad ogni spiegazione, il soggetto si era trincerato in un ostinato mutismo e non era più stato possibile instaurare con lui un dialogo di qualsiasi tipo. Gli occhi non dicevano nulla, la bocca era serrata e conficcata nel volto duro, marziale, i pugni costantemente chiusi, le spalle aguzze, pareva in procinto di attaccare. La rabbia di cui era preda si manifestava in improvvisi guizzi e sobbalzare di vene lungo gli avambracci, nei respiri violenti e nell’ossigeno aspirato dalle narici allargate. Non un tremito alla schiena, né ai polsi, non una bestemmia, non un grido di protesta.
Alcuni dell’equipe l’avevano considerata una resa inespressa e Marlowe, ricordando le loro espressioni esaltate, non poté reprimere un sorriso di scherno.
Stolti.
Il soggetto non si era arreso, al contrario era più combattivo che mai: studiava famelico il terreno, cercava falle e punti deboli, assorbiva ogni dettaglio dall’ambiente circostante, pronto ad usarlo contro di loro appena fosse stato possibile e quindi fuggire.
Una situazione così spinosa non permetteva test di alcun tipo ed era per questo che era stato chiesto l’intervento del dottore.
Rabbonirlo, ammansirlo, inserirlo nella realtà, chiarire chi fossero gli amici e chi i nemici, spingerlo sulla via della rettitudine e della comprensione, ecco quali erano gli “ordini” di Marlowe.
Il dottore aggiustò la cravatta nera indossata sopra una camicia bianca di ottima manifattura, passò le dita sul cranio del tutto calvo e la carnagione baluginò, balbettò di striature d’ottone sotto i neon incassati verticalmente alle congiunzioni delle pareti. Il soggetto non voltò la testa, eppure Marlowe fu in grado di intravedere il roteare veloce degli occhi dal riflesso metallico contro le mattonelle esagonali della cella.
Soddisfatto e fingendo noncuranza, il dottore s’avvicinò al tavolo al centro della stanza, afferrò lo schienale di una delle due seggiole e s’accomodò con tranquillità, pacato come un gatto ben pasciuto. Le labbra carnose modellarono un sorriso lezioso, serpentino, che non arrivò alle iridi d’ossidiana.
«Mi chiamo Edward Marlowe.» si presentò, poi, dopo aver fatto attendere il soggetto nel più completo silenzio.
Voleva renderlo non nervoso, ma guardingo, vigile. Voleva attirare la sua attenzione, voleva che l’altro si concentrasse totalmente, interamente sulle parole che stava plasmando per lui.
«Mi hanno chiamato dopo il tuo…» aggrottò la fronte, il tono divenne sardonico «Exploit con l’equipe medica. Ottimo lavoro con quelle guardie, hai dato alle Infermiere ben più di una frattura su cui lavorare.» appoggiò i polpastrelli sulla superficie del tavolo, le dita ben distanziate tra loro «Memorie riflesse?» si informò.
Il dottore inarcò le sopracciglia in un tacito invito a rispondere –Invito che, era certo, l’altro non avrebbe accolto: difatti, il soggetto continuò ostinatamente a guardare verso l’alto e non diede alcun segno di aver ascoltato. Non lo degnava di alcuna attenzione visibile, sebbene Marlowe non avesse dubbi sul fatto che l’inconscio pendesse già dalle sue labbra.
«Hai dato prova di grande preparazione, là dentro.» si complimentò il dottore, la voce ora un poco più carezzevole «Tuttavia, credo sia stato per te uno sforzo enorme, dopo tutto questo tempo. Non eri pronto, hai risposto per semplice istinto, senza pensare alle tue reali condizioni di salute. Devi essere piuttosto…stanco.»
La prima esca era stata lanciata e Marlowe notò con piacere come una ruga, seppur minima, fosse andata a disegnarsi tra le sopracciglia, proprio sopra la radice del naso.
«Decisamente stanco.» ripeté «Hai lottato e ti sei ribellato, ma sei sicuro fosse necessario? Sei sicuro ne valesse la pena? Orai hai perso ogni energia, sei sfibrato, sei stanco.» inclinò la testa su una spalla, socchiuse le palpebre «Dovresti riposarti» gli consigliò «Riposarti. Dormire. Sei così stanco…»
Il soggetto sbatté le palpebre, allargò le labbra quasi stesse annaspando e si portò la mano destra alla fronte, le dita a premere, massaggiare la pelle. Le spalle cascarono appena, qualcosa, in tutta il suo essere, cadde con un sospiro esausto.
Il dottore si adagiò meglio contro la sedia e sollevò la bocca, a mostrare i denti ed un ghigno tronfio di belva.
«C’è una branda, dalla parte opposta a cui sei tu, la vedi?» gli suggerì e il soggetto torse il collo, dando così a Marlowe la possibilità di vedere le iridi traslucide, annebbiate e opache. «Sei così stanco. Dovresti riposarti. Dormire.»
Il soggetto scosse il capo, forse in un blando tentativo di schiarirsi la testa, e ciò non fece che aumentare l’eccitazione del dottore, l’aspettativa del cacciatore dinanzi la preda sempre più vicina alla trappola ordita per catturarla.
«Non sono che pochi passi.» mormorò Marlowe e la voce era cadenzata, gradevole, una suadente cantilena di ninna nanna «Pochi passi. Solo pochi passi. Pochi passi per il riposo.»
Ed Edward continuò, sinuoso, ad insinuare sussurri nell’anima del soggetto. Non si sostituiva a lui, non prendeva il posto della sua coscienza, un simile comportamento avrebbe scatenato una repulsione immediata da parte dell’altro. Invece, agiva e mormorava perché fosse il soggetto stesso a dargli il permesso di entrare nella mente ottenebrata, più vuota ad ogni respiro, più immota ad ogni passo. La riempiva di suoni con cui contrastare un fangoso silenzio, ruscellava e gli cantava nello spirito, gli bisbigliava all’orecchio che la scelta di muoversi in direzione della branda era frutto della sua volontà, non una suggestione del dottore; che la stanchezza era una conseguenza ragionevole dell’attacco nella stanza medica; che sì, le palpebre si appesantivano davvero più si avvicinava ai cuscini ruvidi e alla coperta ammonticchiata sopra di essi; che era stanco, oh, così stanco, e presto avrebbe avuto il riposo di cui aveva bisogno, che avrebbe finalmente chiuso gli occhi e il sonno sarebbe giunto, doveva solo avanzare in direzione della branda e tutto sarebbe andato per il meglio, rilassarsi e avanzare, ecco, così. Passo dopo passo. Le palpebre pesanti. Il corpo pesante. Il respiro pesante. Rilassato. Assopito. Pesante. Passo. Dopo. Passo.
Marlowe congiunse i polpastrelli dinanzi al volto.
«Siediti sulla branda» flautò, mellifluo «Manca poco, davvero poco, siediti e presto chiuderai gli occhi e dormirai e tutto andrò per il meglio.» s’umettò il labbro superiore «Siediti sulla branda e rilassati.»
Le braccia lungo i fianchi, il corpo gravato da una stanchezza che faceva male al cuore solo a guardarla, il soggetto s’accomodò e appoggiò i palmi alle ginocchia. Il capo ciondolò in avanti. Le palpebre sbattevano sempre meno frequentemente, i lassi di tempo in cui le teneva chiuse erano di volta in volta più lunghi; l’iride vitrea s’intravedeva ormai appena in mezzo alle ciglia cascanti, i muscoli del volto molli, la bocca schiusa a liberare respiri profondi, di quella profondità di chi è sul punto di abbandonarsi completamente al sonno.
«Lasciati andare» il dottore soffiò le ultime parole verso di lui «Lasciati andare. Puoi chiedere gli occhi, ora. Chiudi gli occhi. Lasciati andare. Dormi
Il soggetto fece un ultimo, disperato tentativo di mantenersi sveglio.
Emise un roco mugolio di protesta, protese la schiena in avanti, spalancò le palpebre con sofferenza…Ma esse, traditrici, ricaddero subito a rendere vane volontà e ribellione. Le dita scivolarono sulle cosce, le spalle franarono all’indietro, la nuca affondò nei cuscini –La coscienza sprofondò in un baratro dove non esisteva nulla, se non la voce di Marlowe. Doveva non importava nulla, se non la voce di Marlowe. Dove nessuno avrebbe potuto dargli ordini, tranne la voce di Marlowe.
Edward sospirò, appagato, accavallò le gambe ed estrasse una sigaretta dall’interno della giacca scura. La impostò sul bocchino finemente lavorato e l’accese, aspirando una grossa boccata di fumo. Si godette ogni singolo istante dell’armonia creatasi tra i fili di nicotina a rigagnolare nei polmoni, ed il respiro ovattato del soggetto.
Finì con calma, non si mise fretta, mormorando di tanto in tanto un Così, bene, molto bene o Sempre più in profondità e compiacendosi dell’effetto che avevano le suggestioni sul volto dell’altro.
Quando, infine, ebbe schiacciato la sigaretta nel posacenere ed ebbe riposto il bocchino al proprio posto, Marlowe lisciò il petto della camicia e appoggiò le mani sul ventre.
«Parliamo, ora.» esordì «Raccontami tutto. Non nascondermi nulla dei tuoi ricordi.»

 

 

Brooklyn Heights, New York.
569 Leaman Place
2013

 

Il sangue sgroppò nel torace.
Fury pressò la mano contro lo sterno, piegò le spalle, sputò imprecazioni e saliva. Merda. Boccheggiò, ingoiò aria a grandi sorsate e le costole gemettero, scricchiolarono, graffiarono petto e polmoni. A costo di sembrare ripetitivo, il Direttore digrignò i denti e smozzicò, ancora e di nuovo, merda.
Serrò le dita viscose attorno al salvifico cilindretto laser che gli aveva permesso di aprirsi una via d’uscita sotto l’asfalto –Sotto l’asfalto e attraverso le fogne, aggiunse una voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico. Considerate le prospettive prese in esame dentro le lamiere contorte del SUV distrutto, Fury ringraziò i laboratori dello S.H.I.E.L.D. per avere ancora una voce atrofizzata e non richiesta da stress post-traumatico cui inveire contro. Tornato alla base, avrebbe dato un aumento di stipendio ai due capaci inglesini. L’Agente May aveva scelto bene nello stilare la lista dei componenti per la squadra da affiancare a Coulson, bisognava ammetterlo.
Nick emise un gemito di dolore mentre tentava di assumere una posizione più composta e meno da condannato a morte. Schiacciò il laser dentro una tasca del pastrano ed estrasse la chiavetta USB da un’altra: la mantenne sul palmo sinistro per alcuni secondi, prima di richiudere le dita a pugno e serrare le palpebre per un’ulteriore stilettata di dolore esplosa da tempia a tempia. Il sangue stava già coagulando e le ferite, le lacerazioni sulla fronte, allo zigomo prudevano e pizzicavano, impastando di rosso la visuale già minima dell’occhio buono.
Non seppe se considerare una fortuna o meno che Brooklyn Heights fosse deserta. Non era tardi, un’ora dopo il tramonto al massimo, eppure per le strade e dietro ai vetri delle case non si vedeva anima viva: paranoia o istinto che fosse, Nick si ritirò nell’ombra e si chiuse nelle pieghe del lungo soprabito nero, incassando la testa e appoggiando la spalla contro il muro lercio del vicolo in cui era riemerso.
Si aspettava una rappresaglia di qualche tipo, non era stupido e non era a capo dello S.H.I.E.L.D. per congiunzione astrale, ma di sicuro non se la aspettava così presto. E, soprattutto, non se la aspettava a New York.
Lo smacco irridente di Loki era nulla, adesso, di fronte alla prospettiva dell’Agenzia compromessa, della sicurezza mondiale fottuta.
Sapevano che aveva la chiavetta, sapevano cosa c’era dentro e sapevano e di sicuro non gli avrebbero permesso di decriptare quei file.
Lo avevano seguito e gli avevano spedito contro un soldato non meglio identificato, ma la cui sola vista, nel mezzo dei frammenti di vetro e dietro al rigurgito fumoso dell’esplosione, aveva fatto capire a Fury come non fosse un mercenario esaltato, disposto a tutto e del tutto privo di disciplina e qualsivoglia abilità, o conoscenza, tattica.
Un dannato killer, ecco cos’era, un dannato killer con una dannatissima mira ed una dannatissima precisione per cui lo stesso Barton si sarebbe morso le mani, fosse stato ancora nel giro dello S.H.I.E.L.D. e non si fosse dato all’eremitismo penitente.
L’essersi salvato dall’assalto in pieno centro a Manhattan non era un’assicurazione sulla vita, ma soltanto un paio di chance in più di consegnare la chiavetta ad Hendrick e portare il marcio a galla. Peccato che Hendrick non si fosse ancora fatto vedere e Brooklyn Heights non desse segno di essere abitata: al Direttore pareva di essere in un maledetto film dell’orrore. La cosa che più lo disturbava non era tanto il contesto, quanto la consapevolezza di non essere lui ad avere il telecomando dalla parte del manico. Se c’era qualcuno, al momento, in grado di decidere fra acceso e spento, fra On e Off era il simpatico killer di cui sopra.
Fantastico. Oh, ma non si sarebbe arreso. Fury non era tipo da farsi fregare e non era uomo da morire neanche se lo ammazzavano. Peccato che la gente avesse la pessima abitudine di pretendere una prova tangibile dell’ultimo fatto.
Reprimendo uno spasimo, Nick nascose la chiavetta, afferrò il cellulare e digitò velocemente alcune cifre, seguite da un’unica parola.
Maria stava lavorando secondo la direttiva Ombra Profonda e, per eccezionale che fosse, non poteva occuparsi proprio di tutto. Troppe informazioni, poi, sarebbero state deleterie in caso di sfascio, di arresto e conseguente interrogatorio.
Le persone di cui Fury si fidava erano in numero di eseguo, ma ad esse il Direttore avrebbe affidato se non la vita perlomeno qualche arto –Che poi, era esattamente quello che stava facendo. Delle tre cui aveva appena inviato il messaggio, due, dopo averlo ricevuto, avrebbero agito oltre ogni ragionevole dubbio. Riguardo alla terza…
Un dolore lancinante al centro esatto della fronte. Un lampo improvviso, una deflagrazione bianca che lasciò Nick inebetito per una manciata di secondi. Poi la sensazione di avere il naso ed il mento caldi, stranamente ed inspiegabilmente caldi, e così, fulminee, le dita e le mani.
Fury abbassò l’occhio appannato e si chiese per quale accidenti di motivo ci fosse del sangue sullo schermo. Le ginocchia cedettero e il corpo piombò in avanti.
Dietro la nuca, diede mostra di sé un perfetto foro circolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

Ringrazio quelle sante donne di Alley e Naima ~

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Capitolo 3
*** { Gli Incidenti Capitano ~ File 0.1 } ***


ood1

 

{ Gli Incidenti Capitano ~ File 0.2 }

 

 

Los Angeles Mercy Hospital.
2013.

 

 

«I dottori hanno detto che ti rimetterai.»
«Lo so.»
«Hanno detto che ti rimetterai presto.»
«Lo spero.»
«…Quanto presto, Pep?»
E qui Virginia non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al soffitto. Per l’ennesima volta si ritrovò a contare le fascette azzurrine che si rincorrevano sulla sommità delle pareti e che si riunivano agli angoli con una rifinitura blu più scura ed elegante. Il sole si rovesciava dalle ampie finestre dell’ospedale sull’intonaco bianco a bande verde acqua, che dallo zoccolo del pavimento risalivano fino alla metà dei muri, rendendoli accecanti e difficili da guardare. O forse era soltanto il pesante mal di testa e il dosaggio astronomico di medicinali a renderla fotofobica.
Gli stessi intrugli che le avevano impedito di mettere le mani al collo di Tony, a dire il vero. Almeno uno dei due poteva dirsi soddisfatto dell’effetto dei tranquillanti.
«Non lo so, Tony, è inutile che lo chiedi.» lo riprese Pepper, nel torcere il collo sul cuscino per fissarlo eloquente negli occhi.
Capiva la preoccupazione di Stark e ne era anche lusingata, in un certo qual modo, pur tuttavia stava iniziando a non sopportare più gli assalti logorroici del suo datore di lavoro su quanto aveva male, quando sarebbe tornata, se voleva qualcosa da leggere, quando sarebbe tornata, se il guanciale era ben sprimacciato e, ciliegina sulla torta, quando sarebbe tornata. Non che vegetare in un lettino d’ospedale fosse la massima aspirazione del mese, ovvio, ma più Tony continuava ad assillarla, meno aveva di sedersi dietro la propria scrivania alle Stark Industries.
«Diciamo…Due settimane? Tre?»
«Tony…»
Ringraziando la morfina, era troppo imbottita di oppiacei o qualunque altra cosa gli avessero iniettato nelle vene per replicare con più di un blando richiamo. Non poteva negare a se stessa come il ricorso ad un vocabolario non consono ad un Amministratore Delegato suo pari le avrebbe giovato volentieri alla salute –E all’umore. Purtroppo, articolare una frase di senso compiuto era uno sforzo decisamente mastodontico per la lingua quanto per il cervello, figurarsi riempirsi la bocca delle peggiori volgarità a disposizione sul mercato.
Sapeva che, per le Stark Industries come per Tony, la propria invulnerabilità era diventata leggendaria: in pratica, la consideravano più inattaccabile dell’armatura di Iron Man. Virginia poteva vantare inoltre un curriculum di tutto rispetto. Era sopravvissuta ad Obadiah Stane, a Vanko, all’invasione dei Chitauri e, punta di diamante, apice della propria carriera esistenziale, aveva vissuto fino a quel momento al fianco del genio, miliardario, playboy, filantropo Anthony Edward Stark senza essere sbattuta in cella con l’accusa di omicidio premeditato.
La notizia che Virginia Pepper Potts, l’intoccabile, la Magnifica Virginia Pepper Potts era finita in ospedale per un tassista maldestro che le aveva fratturato il bacino e giocato a frisbee coi menischi, doveva essere stato un fulmine a ciel sereno per l’intero staff delle Industries.
Happy, che non mancava mai di farle compagnia –Tranne quando c’era Stark accanto a lei- e non scordava mai di portarle un mazzo di fiori per augurarle in maniera più sommessa, e gradevole, una buona guarigione, ecco, Happy le aveva raccontato che Tony, alla notizia, aveva reagito con aplomb ragguardevole: aveva distrutto soltanto cinque tazze di caffè nel tentativo di prepararsi qualcosa per mantenere la calma. Il giorno in cui Virginia gli aveva annunciato la fine della loro storia ne aveva spaccate dieci.
In azienda, invece, era stato lo sfascio. Gente che si metteva in malattia, segretarie che si licenziavano o preparavano diffide per molestie prefabbricate, addirittura, si diceva, il povero ragazzo che le portava ogni mattina ginseng e colazione macrobiotica aveva mollato tutto, era scappato e adesso vendeva Kebab in una losca stradina di Manhattan. Questi pettegolezzi, sempre riportarti dal fedele e leale Happy, erano un toccasana per Pepper, che li ascoltava deliziata e con un caloroso sorriso sulle labbra.
Certo, la maggior parte delle situazioni erano inventate di sana pianta o ingigantite a dovere, ma era inconfutabile che la degenza obbligatoria dell’Amministratore Delegato avrebbe provocato ben più di un problema. Non tanto perché chi vi lavorava avesse poca fiducia nei confronti di Tony Stark, ma perché Tony Iron Man Stark non aveva dalla propria il tempo necessario per occuparsi delle Industries e intanto prendere a repulsori in faccia il cattivo di turno. Era stato già un miracolo che, saputa la notizia dell’incidente, Tony avesse acconsentito ad un trasferimento imprevisto a Malibu e all’abbandono dei lavori di ricostruzione alla Stark Tower.
Insomma, con tutti questi preamboli e le variabili future del caso, una segretaria non diventava una necessità: era un bisogno quasi fisico.
Per fortuna, a quello aveva pensato lo S.H.I.E.L.D. Non per buona disposizione d’animo nei confronti di Tony –Virginia era dell’idea che Fury avrebbe usato contro di lui la benda a mo’ di fionda, se solo avesse potuto- quanto come una sorta di ultimo favore in memoria dell’Agente Coulson –Oh, Phil.
La scelta, comunque, era qualcosa su cui Tony non perdeva occasione di lamentarsi, di solito dopo aver lanciato invettive gratuite al servizio sanitario, alla programmazione della ABC e al caffè imbevibile delle macchinette.
«Non mi piace che tu sia qui.» commentò Tony, reclinando la nuca all’indietro sulla seggiola in plastica  e osservando Virginia di sbieco «L’ufficio è vuoto, senza di te.»
Fossero stati ancora in una relazione stabile, Virginia sarebbe arrossita. Visto che così non era, optò per un più politicamente corretto sorriso d’accondiscendenza.
«Colin è valido quanto me.»
Stark torse la bocca, modellando le labbra in una smorfia grottesca che accentuava pericolosamente le borse sotto gli occhi e il colorito pallido del volto smagrito.
«Questo è ancora tutto da vedere.»
«Me lo ha raccomandato lo S.H.I.E.L.D.»
«Lo S.H.I.E.L.D. non è molto bravo con segretari e affini. L’ultima era una spia, assassina e pure russa, se la memoria non mi inganna.»
Un piccolo sospiro fuggì il petto affaticato e stanco di Virginia. Senza dire una parola di più, tese mollemente il braccio destro e allungò le dita, il capo appena reclinato nella direzione del magnate. Questi, dopo aver atteso un tempo prestabilito di cinque secondi per non intaccare dignità e compostezza, agguantò i lati della seggiola e si spinse in avanti, facendo sgrattare e arrancare e stridere le gambe metalliche. Pepper gli rivolse un’occhiata ammonitrice, subito dissolta da un’espressione più dolce e serena mentre, cintogli le spalle e convintolo ad appoggiarle la fronte sul ventre, gli lasciava un bacio appena sussurrato fra i capelli e una carezza accennata alla base della nuca.
«Via, Tony, non essere drammatico. Non è niente di che.» tentò di scherzare «Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»

 

Località Sconosciuta.
2011.
Appunti del Medico.

 

Il soggetto ha dimostrato una capacità di recupero invidiabile. Pur concordando col dottor Marlowe che si tratta solo di ordinaria di amministrazione e non è nulla di così eclatante come ci aspettavamo, devo ammettere che l’idea di poter studiare questo caso sarebbe più di quanto immaginato anche nei miei sogni più reconditi.
Il soggetto è arrivato in impianto refrigerato direttamente dal luogo di ritrovamento ed è stata subito allestita una equipe specializzata per occuparsene. Da quel che ho potuto capire, il progetto è di massima segretezza e il dottor Marlowe è stato incluso come supporto psicologico per affrontare la tensione derivante dalla reclusione e la totale mancanza di rapporti con l’esterno.
Ero curioso di sapere come ai vertici avrebbero spiegato l’assenza ingiustificata di parte della sezione medica, ma dopo averne discusso col dottor Marlowe ho capito che sono questioni meramente burocratiche, del tutto al di là del mio interesse e del mio ambito lavorativo.
Questa mattina abbiamo cominciato il processo per consentire al soggetto di recuperare il suo calore, nella speranza che il suo sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai assistito personalmente alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo rapidamente congelato è stato completamente rianimato.
Nonostante i fondi stanziati e le conoscenze che ci sono state messe a disposizione, non so se i vertici siano più interessati alla rianimazione o ai suoi fluidi vitali, secondo il dottor Marlowe chiederselo va oltre l’entità del nostro stipendio. E io sono d’accordo con lui.
Per quanto la mia equipe fosse dubbiosa sul recupero da parte del soggetto, quanto sta accadendo va oltre le mie più rosee aspettative: la temperatura corporea del soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie ore e le sue ferite sono state suturate per evitare emorragie. Quando la sua temperatura è stata vicina ai valori normali, le nostre supposizioni hanno trovato conferma...tessuti e sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo somministrato elettricità, farmaci cardiopolmonari e adrenalina direttamente nel cuore.
Stento ancora a crederci, il soggetto è ancora vivo. E si è risvegliato.

 

 

Località Sconosciuta.
Telecamera di sicurezza.
2011.

 

Un laboratorio. Un lettino al centro. Sei medici intorno. Macchinari alle pareti, un supporto circolare con innesti luminosi posizionato sopra il volto del soggetto disteso. Uno dei medici, dopo aver somministrato un farmaco tramite siringa nel braccio del soggetto, solleva la schiena e si allontana di un passo dal lettino.
I medici si guardano tra loro. Guardano le macchine. Uno dei medici scuote il capo e si toglie la mascherina, rivelando un volto di donna con labbro leporino e naso schiacciato. Dice qualcosa e subito il medico davanti a lei, si presume il capo dell’equipe, le punta l’indice contro. Il medico capo si strappa la mascherina con gesto irato e continua ad abbaiare alla collega.
La situazione si scalda, potrebbe degenerare, quando uno dei macchinari –Un elettrocardiogramma- ha un picco e poi ricade. Gli astanti si immobilizzano. L’elettrocardiogramma ha un guizzo. E poi un altro. E un altro ancora. Ripetuti. Costanti.
L’attenzione dell’equipe è ora tutta rivolta al soggetto disteso sul lettino. Nessuno dice o fa nulla per lunghi minuti, poi un brivido sembra percorrere unanime la squadra. Un movimento dei muscoli del soggetto, un guizzo di vene che partono dal polso destro e percorrono l’avambraccio.
Il medico capo fa segno ai colleghi di farsi indietro.
La gola del soggetto si solleva bruscamente e poi rimane immobile. Alcuni secondi di attesa. Le palpebre si stringono. Gli occhi, dietro di esse, hanno un fremito appena percettibile. Il polso trema. E poi, lentamente, ecco, il soggetto solleva piano le ciglia, le pupille si dilatano e si restringono, s’assottigliano, si spalancano, una ruga gli incide la fronte. Alza le spalle, si mette a sedere, si guarda intorno. L’espressione, dapprima confusa, comincia a diventare diffidente mano a mano che la vista mette a fuoco gli oggetti e il cervello comincia ad elaborare i dati e le circostanze in cui è venuto a risvegliarsi.
Il medico capo allarga le braccia, a volerlo accoglierlo e rassicurarlo. Il soggetto non dice nulla, ma una contrazione guardinga è ben visibile alla mascella, che illividisce. I medici devono essersi accorti del suo disagio e dell’atmosfera sempre più tesa che si sta creando. Tentano di alleggerire, provano a dire qualcosa anche loro.
Il soggetto diventa ancora più vigile, gli occhi guizzano uno alla volta ai visi dell’equipe e da lì si drizzano a osservare, registrare ogni cosa lo circondi, ogni cosa sia sopra la testa, davanti a sé, ai lati. Il medico capo abbassa appena le mani non appena nota l’elettrocardiogramma schizzare e lampeggiare impazzito. Il suono del macchinario ha messo in allarme il soggetto: subito si volta verso di esso, torna a fissare il medico, lo sguardo è affilato, i pugni serrati.
Il soggetto china appena la fronte e solleva appena le spalle prima di scendere con un salto dal lettino e cominciare a tirare calci e pugni per liberarsi dalla presa improvvisa dei medici. I colpi sono calcolati, i movimenti fluidi, è come una danza tale è la naturalezza con cui il soggetto si muove e cerca di farsi strada fino all’uscita del laboratorio.

 

Croydon Avenue, Los Angeles.
2013.

 

Darma si torceva le mani mentre camminava a passettini lungo Croydon Avenue. Era notte inoltrata, forse le due, forse le tre del mattino, non sapeva dare una definizione precisa dell’ora, se fosse giorno in ritardo o sera infinita, senza visione futura di stralci di luce o frammenti di alba.
Si asciugò la fronte con un fazzolettino viola già lercio di sudore e macchie di caffè, lo appallottolò tra le dita grassocce e continuò ad avanzare, girando il collo tormentato da vene rigonfie e bollicine per vedere se qualcuno lo stesse seguendo, se qualche altro lo stava fissando da dietro le tende, se c’era un cane ad annusare la sua scia impaurita da dietro i cespugli o se un borseggiatore avesse deciso di fare di lui una vittima di lavoro.
Quasi sperava che qualcuno si accorgesse della sua presenza lì, su quello stradone infinito affiancato da grigi, monotoni prefabbricati che svettano attorno a lui come cassoni mostruosi, con grandi occhi di vetro e corna di tegole spigolose e fauci di legno, artigli d’erba tosata, scaglie e squame di recinzione dipinte di bianco latte. Sperava che una casalinga inghirlandata di bigodini uscisse di corsa fuori, si fermasse sul viottolo e dalla gola spenzolante carne molla erompesse un garrulo e stridulo grido “E’ lui! E’ il tassista che ha investito quella povera ragazza!” e Darma avrebbe fatto di sì con la testa e ninnoli sul petto avrebbero ondeggiato e tintinnato e lui avrebbe teso i polsi e accettato il giusto arresto.
Perché avrebbero dovuto arrestarlo, di questo Darma ne era sicuro. Aveva compiuto un’azione riprovevole, l’aveva compiuta per mero compenso e ora, adesso, era logico che pagasse. La poverina era finita in ospedale, Darma l’aveva sentito per caso mentre ciabattava pendulo dietro l’ampia schiena del proprio salvatore, e lei non gli aveva fatto niente per meritare di finire in un lettino asettico, magari intubata, magari in fin di vita, magari in coma…Era stato spinto dalla cupidigia, dalla ricompensa e dalla prospettiva di passare ogni cosa liscia, di uscirne indenne e continuare a scarrozzare turisti qua e là per Los Angeles senza noia alcuna da parte dei poliziotti.
Gli piaceva scarrozzare turisti di qua e là per Los Angeles senza noia alcuna da parte dei poliziotti, e poi qualche dollaro in più –Tanti dollari in più- non gli sarebbero dispiaciuti. E nemmeno a sua moglie. E Darma ci teneva a Batari, voleva farla felice.
Ah, chissà che avrebbe detto sua moglie, la sua dolce Batari, sapendo che lui era lì, a bighellonare, tremante come un topo e coi capelli appiccicati alle tempie, alla ricerca di un indirizzo e di un uomo che non gli riusciva di trovare! E’ che aveva paura e la bocca dello stomaco grufolava e guaiva.
Però l’uomo che doveva incontrare era l’uomo buono che l’aveva salvato alla centrale, col viso gentile e gli occhi chiari, quindi cosa mai temere?
Dopo innumerevole scartoffie, prese in giro sull’Indonesia, ore ad aspettare sotto lo sguardo ironico, prepotente degli altri poliziotti, il signor Shea era comparso davanti a lui come un’epifania divina e Darma si era subito fidato del suo volto buono e dei suoi occhi chiari.

Vieni con me gli aveva detto e il cuore di Darma si era sciolto Sono venuto a prenderti. Andiamo via di qui.
Gli aveva messo una mano sulla schiena, il signor Shea, lo aveva fatto alzare, gli aveva offerto il caffè e scambiato uno sguardo di intesa con un collega. Un poliziotto aveva cercato di protestare, dicendo che Darma doveva essere interrogato e per nessuna ragione al mondo lo avrebbe lasciato andare, che la poverina era in ospedale e che era necessaria un’inchiesta.
Il signor Shea, col suo bel sorriso e il volto gentile e gli occhi chiari, si era chinato a sussurrare qualcosa all’orecchio del poliziotto, che era sbiancato, balbettato, spalancato le palpebre come un pesce e poi annuito. Darma era stato in grado di contare le goccioline di sudore appese ai baffi marroni del poliziotto mentre il signor Shea lo osservava soddisfatto e procedeva oltre. Aveva portato Darma fuori dalla centrale, gli aveva detto di non preoccuparsi, gli aveva chiesto se poteva aiutarlo in qualche modo e infine, prima di lasciarlo con una stretta di mano, gli aveva detto di presentarsi per al massimo le tre notte in un dato indirizzo di Croydon Avenue. Lì, gli aveva assicurato, avrebbe ricevuto l’altra metà di compenso per il lavoro così egregiamente svolto.
Vicino al signor Shea era sembrato tutto perfetto e senza fallo. Poi, via via che il tempo passava e si avvicinava l’ora dell’incontro, a Darma le cose non era parse più così cristalline e lodevoli. Al contrario, aveva cominciato a sentir montare il panico, il senso di colpa, e l’idea che un ingranaggio, nel meccanismo losco e complice in cui si era proprio malgrado trovato in mezzo, non fosse al posto in cui doveva stare. Chi erano le persone che l’avevano ingaggiato? Chi era il signor Shea? Perché aveva accettato? Oh, Batari, Batari…!
«Per fortuna, temevo non arrivassi più.»
Darma sobbalzò alla voce calma del signor Shea, dietro di lui.
«Non l’ho sentita arrivare.» si scusò Darma e la bocca divenne arida nell’incontrare gli occhi dell’uomo.
Non era più gentili e caldi: erano freddi, gelidi, lame, dischi di metallo, proiettili. Lo aspettava con le braccia conserte al petto, la testa appena sporta in avanti e nessuna espressione sulle labbra affilate.
Darma deglutì ed ebbe paura.
Raggomitolata sotto le coperte, la guancia affondata nel cuscino e gli occhi fissi all’alone perlaceo dei lampioni sulla finestra, Batari non ebbe neanche il più vago sentore di essere appena diventata vedova.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note                                            

Abbiamo cominciato il processo per consentire al soggetto di recuperare il suo calore, nella speranza che il suo sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai assistito personalmente alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo rapidamente congelato è stato completamente rianimato. ; non so se i vertici siano più interessati alla rianimazione o ai suoi fluidi vitali ; Per quanto la mia equipe fosse dubbiosa sul recupero da parte del soggetto, quanto sta accadendo va oltre le mie più rosee aspettative: la temperatura corporea del soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie ore e le sue ferite sono state suturate per evitare emorragie. Quando la sua temperatura è stata vicina ai valori normali, le nostre supposizioni hanno trovato conferma...tessuti e sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo somministrato elettricità, farmaci cardiopolmonari e adrenalina direttamente nel cuore. (Ed Brubaker’s Collection – Il Soldato d’Inverno )

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Capitolo 4
*** { Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 } ***


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{ Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 }

 

Cimitero di Arlington, Washington D.C.
Tomba di Nick Fury.
2013

 

Stark era sicuro Colin si sarebbe bagnato i pantaloni nel vedere Natasha incedere verso di loro, i capelli color sangue alla luce balbettante del sole. Invece, l’Agente aveva mostrato un insolito sangue freddo: si era scostato e le aveva rivolto un abbassarsi veloce della testa, un rispettoso inchino. La Romanoff aveva pressato le labbra, lo aveva squadrato a lungo e con la fronte aggrottata, prima di accantonare definitivamente la sua presenza per dedicarsi alla lastra ai suoi piedi.
Il Cammino dell’Uomo Timorato, chi l’avrebbe mai detto? Mace Windu un fan di Pulp Fiction. Quello proprio non lo sapeva e adesso gli era stato persino tolto il gusto di rinfacciarglielo. Era simpatico, il buon Fury. Quanto un calcio nei denti colpiti da ascesso o carie penetrante al quarto stadio, ma simpatico. Un buontempone. Un nonnino sadico. Un’emerita testa di cazzo che si faceva ammazzare dal primo cecchino che gli passava accanto e saltava sui tetti come una lepre o un gatto spelacchiato.
Tony contrasse la mascella e allargò le narici, inalò una generosa sorsata d’aria. Natasha si girò a guardarlo di sbieco, gli occhi che mandavano lampi.
«Non far finta ti dispiaccia» sibilò, velenosa.
«Non era il mio amico del cuore, ma il suo lavoro sapeva farlo.» replicò il magnate, con un calma che non credeva di possedere.
Non si disperava per Fury, non si sarebbe sciolto le trecce, battuto il petto, né gettato della cenere tra i capelli, pur tuttavia Tony aveva abbastanza senno per portare un po’ di rispetto in quel momento inatteso, un rombo a ciel sereno che, ne era sicuro, era un annuncio ancor più mesto e terribile delle trombe del Giudizio Universale.
Non era un esempio di virtù, il caro Nick, ma riguardo alle virtù Stark sapeva di doversene stare buono e zitto in un angolino, a montare da bravo bambino una nuova armatura coi mattoncini delle costruzioni.
Vedova Nera fu sul punto di replicare: schiuse la bocca ad un ingorgo di parole, quindi scosse la testa e si rivolse ad Hendrick, in disparte dietro di loro.
Era terrorizzante, la donna, faceva paura: con le palpebre socchiuse e la bocca affilata, squadrò gelida l’Agente di Livello Sei, a partire dalla testa fino alla punta delle scarpe. Le guance si contrassero con un guizzo indispettito, e la russa serrò le braccia sotto il seno. Così rigida, con le gambe a squadra, le spalle aguzze e i capelli rossi ad incorniciarle il volto illividito dalla rabbia, dal dolore, dal sospetto, avrebbe messo in fuga chiunque.
Tony, per precauzione, mosse un passo all’indietro.
«Perché Fury voleva vederti?»
Colin prese un veloce respiro, con l’aria di chi aveva risposto cento volte a quella domanda, ma sapeva di non potersi sottrarre all’idea di doverlo fare altre mille. Drizzò la schiena, marziale, intrecciando le dita dietro i reni.
Grazie al Cielo, aveva smesso i solito abiti pescati certamente a caso dall’armadio per un più sobrio completo alla S.H.I.E.L.D., nero con camicia bianca e cravatta scura; il sole appena ottenebrato dall’aria cupa del cimitero, dalla situazione e da alcune nuvole sfilacciate soffiava pulviscolo bianco e oro sui capelli corti, donandogli un’aria serena ed incredibilmente tranquilla, incredibilmente pacifica.
Stark si ritrovò a pensare che non avrebbe sfigurato in qualche congresso: ispirava tepore, ispirava fiducia.
«Il Direttore voleva un rapporto completo sul signor Stark.» disse, placido, gli occhi azzurri che sostavano un attimo nello sguardo allibito, e soprattutto infastidito, del magnate prima di tornare in quello imperscrutabile di Natasha.
La russa inclinò la testa e una ciocca rossa, in contrasto col bianco accecante della camicetta, sfrigolò su di lei come sangue; le labbra modellarono un sorrisetto poco convinto, irridente, i denti baluginarono in una saetta di belva che studi la preda prima di attaccare. Affondò le unghie nelle maniche di lino, proprio sopra la piega del gomito, le nocche s’indurirono e impallidirono, le vene spiccarono gonfie e plastiche sul dorso delle mani.
«E Fury ti avrebbe ordinato di incontrarlo di persona, di prendere un aereo da Los Angeles» calcò le ultime due parole con marcato scetticismo «Venire fino a New York, nemmeno a Washington, per un rapporto su Stark?»
«Natasha, la tua stima nei miei confronti mi commuove.»
«Non adesso, Stark.»
«Non c’era altro» Colin scosse il capo «Glielo posso assicurare, miss Romanoff.»
Vedova Nera curvò le sopracciglia in un arco perfetto, lo sguardo indurito dal dispetto quanto dal dubbio che l’altro si stesse prendendo gioco di lei –Per quanto nessuno di mente, il figlio di Howard ne era sicuro, avrebbe mai osato prendersi gioco di Vedova Nera. Era molto probabile, comunque, che l’ultima volta in cui era stata chiamata Miss Romanoff, Colin nemmeno fosse stato concepito.
«Natasha, Hendrick non mente.» si fece avanti Tony «Credo sia geneticamente incapace di mentire: ha quasi avuto una sincope quando ha cercato di negare che Chattanooga Choo Choo provenisse dal suo cellulare.»
Colin tossì e finse di sistemare l’attaccatura dei capelli alle tempie, in modo da coprire il goffo rossore che gli aveva mordicchiato la punta dell’orecchio. Tony lo fissò con un sorrisetto di vittoria stampato sul volto, gongolando ulteriormente quando l’altro sviò il suo sguardo per concentrarsi sulle lettere in bronzo sopra la lapide di Fury.
«Il buon Nicky aveva più nemici di me, il che è tutto dire.» continuò il magnate, allargando le braccia «E’ riuscito ad inimicarsi persino degli alieni, perché ti stupisci tanto se qualcuno alla fine lo ha fatto fuori?»
«Il Direttore non è morto.» li trafisse, metallica e fredda, la voce di Hendrick.
Natasha alzò il mento nella sua direzione, gli occhi semichiusi e gli zigomi affilati tanto erano sporgenti, tanto aveva contratto la mandibola. Era sul punto di ammazzare qualcuno o fare a pezzi qualcosa, era palese –Ed anche comprensibile: Tony non aveva dimenticato il modo quasi paterno con cui Fury le aveva cinto le spalle, la prima volta che gliela aveva presentata nei panni di Agente S.H.I.E.L.D. e non da Natalie Rushman.
«Il Direttore non può essere morto. Non può averci lasciati così.» sibilò l’Agente, dando poi un calcio al pietrisco e allontanandosi da loro, i pugni ficcati nelle tasche e la testa incassata in mezzo alle spalle.
«Ottimo. Avevo chiesto un segretario –Pepper aveva chiesto un segretario» chiarì Stark «E voi mi avete mandato una Drama Queen.»
«Su una cosa ha ragione, però» Natasha torse il collo ad osservare poco convinta la stele commemorativa del fu Direttore dello S.H.I.E.L.D. «Fury non ci ha lasciati così.»

 

Long Island, 2013.
(3 Giorni Fa)

 

Il locale era famoso per non essere frequentato da gente famosa. A dire il vero, il locale era famoso per non essere frequentato da gente che avesse un minimo di dignità e classe.
O anche solo rispetto per se stessi.
Era quel tipo di locale dove la gente annegava l’essere se stessi dietro un paio di cocktail infamati e infamanti, due o tre shots di liquido per lavastoviglie e concludeva la serata sbavando sul legno lercio dei tavolini un ributtante miscuglio oleoso di saliva e liquore a basso prezzo.
Era quel tipo di locale dove la colonia di blatte nel bagno poteva citare in giudizio il proprietario per il possesso dello stabile.
Era quel tipo di locale dove la muffa cresceva agli angoli del soffitto come sotto le ascelle dell’ubriacone di turno, e poi dentro le sue narici, nel suo cervello, nidificava nei polmoni, nel cuore e infine dava il colpo di grazia stroncandolo con una trombosi o un infarto del miocardio.
Era quel tipo di locale dove una persone al pari di Hansel Gamble non avrebbe mai dovuto mettere piede: Hansel Gamble era un personaggio a posto, diceva il capo del personale alla Cross Technological Enterprises, faceva ridere tutti e forse aveva una tresca con Sheila Danning, Responsabile delle Relazioni Pubbliche. Hansel Gamble era un bravo Cristo e Capo Della Sicurezza, era nato a Monaco e quando parlava masticava l’inglese come fosse un piatto di crauti. Forse era un po’ strano, d’accordo, ogni tanto arrivava al lavoro con gli occhi opachi e la camminata sbilenca, va bene. Talvolta non si capiva tanto cosa dicesse, ma perché era nato a Monaco, eh, mica perché era ubriaco fradicio quando iniziava il turno.
La cosa bella di essere Hansel Gamble era che tutti ti volevano bene perché venivi da Monaco ed eri il Capo della Sicurezza –Con la maiuscola, sì, perché faceva più figo- e probabilmente avevi una tresca con Sheila Danning, delle Relazioni Pubbliche.
La cosa magnifica di essere Hansel Gamble era che a fine giornata potevi mandare al diavolo la sua identità cretina, indossare i panni dell’innominato e innominabile ubriacone e sfondarti lo stomaco nel locale in cui l’adorabile Hansel Gamble non avrebbe mai messo piede, neanche a staccargli le gambe e lanciarle direttamente oltre la soglia.
Hansel Gamble, in fondo, non aveva bisogno di annegare mostri e fantasmi del passato.
«Scusami, tu sei…Jeremy Renner?»
Clint Barton aveva spiaccicato il fegato sul banco dei pegni perché ciò accadesse.
Occhio Di Falco, o quel che ne rimaneva, roteò gli occhi annacquati sulla ragazza che gli aveva appena rivolto la parola: stirò le labbra livide in un ghigno torto, ironico, per poi sollevare la mano che teneva il bicchierino di Bruichladdich X4 e si grattò la fronte con l’unghia del pollice.
«Sei un paparazzo?» sbiascicò, con voce rauca -Ma che, a quanto sembrava, le donne trovavano parecchio attraente ed eccitante. La ragazza si passò la punta della lingua sul labbro superiore, mosse civettuola spalle e bacino, sbatté le ciglia ed emise una risata veloce e argentina.
«Ma no, assolutamente!» esclamò, quindi, ondeggiando le dita della mano destra, come a voler cancellare anche solo la remota possibilità di essere una pazzoide armata di Reflex o anche solo di un cellulare con fotocamera integrata.
Clint inclinò pesantemente la testa e la osservò di sottecchi, le iridi slavate tra le ciglia sottili e tremule: aveva le unghie lunghe, lo smalto sbeccato, il rossetto che colava all’angolo sinistro della bocca, la ricrescita e le ascelle pezzate. L’adorabile vestitino verde mela che indossava faceva difetto in vita e l’anellone di plastica color crema sbatteva in modo inquietante contro il polso innaturalmente magro; le scarpe erano un’accozzaglia vomitevole di lustrini argentati, i tacchi alti la sostenevano per grazia divina, costringendola a claudicare con ondeggianti passettini ticchettanti.

Quanto siamo critici, questa sera. Non sei ancora abbastanza ubriaco, amico mio?
Facendo buon viso a cattivo gioco, Barton sorrise di nuovo e si prese tutto il tempo necessario per appoggiare il bicchiere, squadrare con studiato interesse la ragazza e nel frattempo gettare un’occhiata di sbieco accanto a sé. Loki lo fissava con aria innocente, i gomiti sul tavolo ed il mento puntellato sulle dita intrecciate: arcuò la bocca a modellare un sorriso ferino, nell’accogliere il suo sguardo ammonitore, gli occhi che brillavano, soddisfatti e maligni.
«Che ne dici se vai ad ordinare qualcosa e continuiamo il piacevole interrogatorio, mh?» propose l’arciere e la ragazza accettò di buon grado, scomparendo in un gran sbatacchiare e tintinnare di ninnoli.

Perché allungare così la tortura? Indagò Loki, inarcando un sopracciglio e fissando con disinteresse l’ultima conquista della serata ordinare un drink gratuito con le sole movenze dei seni Perché non portarla nei bagni come le altre?
«Perché hai ragione tu, non sono abbastanza ubriaco.»
Clint ingoiò l’ultimo sorso di whiskey, quindi si sistemò alla meno peggio sullo sgabello disarticolato. Roteò la testa in direzione del Dio Norreno, gli indirizzò un ghigno alticcio, esausto.
«Speravo che la sua voce querula potesse coprire il tuo bla bla antiquato e senza senso.»
Loki schioccò la lingua contro il palato, la carnagione pallida del volto che scintillava e baluginava alla luce oleosa del locale.
E pensare che prima era soltanto un mormorio fastidioso alla nuca.
Come, da residuato bellico che era, si fosse trasformato in una entità fumosa e tangibile, Clint non era in grado di spiegarlo: sapeva solo che da un giorno all’altro quella maledetta vocina gli si era presentata seduta a gambe incrociate sul materasso di un Motel lurido della Route 66, gli aveva sorriso con espressione serafica e da lì in poi non gli era stato più possibile liberarsene.
Aveva sentito di gente talmente preda dei sensi di colpa da avergli dato forma, nome e persino indirizzo di casa o taglia dei vestiti, ma da lì a ritrovarsi la manifestazione tangibile del proprio, letterale, strizzacervelli accanto alla tizia con cui aveva passato la notte…Bhè, Barton aveva capito di essere ancora capace di stupirsi.
Certo, Clint aveva compreso fin troppo facilmente come l’altro fosse un cancro germogliato e metastatizzato dacché Natasha l’aveva ricalibrato con un pugno in testa e lui aveva cercato di lasciarsi il mondo alle spalle. Il mondo e i morti -Una morte, in particolare- e quello, forse, dannazione, accidenti, era la punizione per aver cercato di dimenticare, di scordare la pioggia sulle guance e il tuono nel cuore, l’accozzaglia di persone vestite a lutto, la bara calata nel terreno, la commemorazione, i discorsi, il cielo plumbeo, l’urlo vomitato senza voce nel cuscino strappato a metà perché colpevole di avere ancora il suo odore, ma non il suo corpo, non i suoi occhi, non il suo tocco, non il suo cuore.
Aveva scoperto che l’unico modo per zittire il vocio di Loki era ubriacarsi fino a perdere conoscenza, fare sesso fino ad avere le ginocchia molli e i fianchi distrutti, abbrustolire il fiato unto del norreno con una boccata catarrosa di tabacco.
Clint detestava svegliarsi con una pressa al posto delle tempie, detestava trovarsi accanto chiunque, detestava tossire e soffrire di broncospasmi dolorosi e improvvisi, detestava dover bloccarsi, appoggiare una mano alla parete più vicina per non collassare a terra, le viscere praticamente in bocca e i bronchi in cortocircuito.
Però detestava ancora di più la figura sinuosa di Loki a fargli da ombra e coscienza, il suo incedere di fumo ad ogni passo, le sue dita allungate, eleganti, che tessevano nebulosi arazzi di sangue e proiettili e frecce esplosive, e trasfigurava l’aria e l’etere e lo riportava, mero spettatore, ad un anno prima, alla gabbia, dietro le sbarre.
Preferiva morire di mano propria, piuttosto che farsi uccidere dalla malia di quell’hippie bastardo.

Strano. Ricordo diversamente. Considerò il Dio e gli era alle spalle, ora, le labbra sottili sussurravano nenie e litanie all’orecchio e Clint cedeva, s’arrendeva, si genufletteva, il sangue ribolliva, perdeva la presa, la volontà si disfaceva in filamenti vani inutili, patetici Ricordo che la mia voce riempieva il tuo cuore. Riempiva il tuo animo spossato. Il tuo spirito preda della bugia della libertà. Ricordo che non avevi più dubbi, allora, ed eri quieto solo se prostrato ai miei piedi…
Con le dita che scattavano, nervose, e i polsi tremanti, l’arciere rovistò nelle tasche della giacca –Le sigarette, dov’erano le sigarette? Dove l’accendino che canta e che guizza, dove la fiammella che balugina e sorride e tiene lontano il Maligno e illumina e salva, dove dove dove?
Annaspando in cerca di aria, la presa di Loki sempre più vigorosa, sempre più inarrestabile, Clint rovesciò sul tavolo tutto quello che aveva: portafogli, documenti, fazzoletti appallottolati, il vecchio distintivo, scontrini, il numero di Sheila Danning, ed eccole, infine, intonate oh Angeli di tabacco un coro di Hallelujah!, il pacchetto di Camel e l’accendino.
Sfilò una sigaretta, la strinse tra i denti e succhiò, avvelenandosi ancora prima di accenderla; curvò la schiena, serrò le palpebre, nascose lo schiocco del fuoco dietro la mano a coppa, aspirò. Il fumo gli si rovesciò nei polmoni, guaì, latrò e Loki uggiolò, stridette, maledisse il cielo, scoppiò ed esplose in un tripudio di bestemmie.
Barton avvertì le ciglia bruciare quando il primo refolo gli abbandonò la bocca schiusa, i nervi rabbrividirono, gemiti scricchiolanti si dipanarono lungo le vene, gli strapparono il midollo e fracassarono le vertebre.
Stava già per ingoiare una seconda boccata, quando l’occhio gli cadde sul distintivo dello S.H.I.E.L.D.
Non l’aveva buttato. Era un ricordo di Coulson. L’aveva ricevuto dalle sua mani e alle sue sole mani lo avrebbe restituito, qualora avesse avuto il coraggio di accettarne la morte. Fino a quel momento era rimasto un semplice disco di metallo, col simbolo dell’Agenzia splendente nei suoi dettagli di grigio metallo.
Appunto, fino a quel momento.
Sull’anello esterno, alto appena una manciata di millimetri, era comparsa una stringa di numeri –Coordinate?- ed una parola. Non aveva significato, per lui, non aveva idea di cosa volesse dire. Esisteva, al mondo, un’unica persona che avrebbe utilizzato quel modo, per comunicargliela, e se era arrivata a tanto, allora la situazione doveva essere più grave del previsto.
«Ecco qui. Scusa se ci ho messo tanto.» cinguettò la ragazza senza nome, posandogli davanti un boccale di qualcosa e osservando schifata la quantità di roba accatastata nel poco spazio del tavolino.
Clint sorrise, di nuovo sobrio oppure non del tutto ubriaco, trascinò indietro la sedia, si mise in piedi, le scoccò un bacio sulla guancia e le piazzò in mano una banconota da cinque dollari.
«Perdonami, dolcezza, sono stato contattato dal mio agente: mi hanno rinnovato il contratto come Occhio Di Falco e intendo proprio accettare.»

 

Località Sconosciuta.
2011.
Appunti del Medico.

 

I Supervisori del progetto ci hanno intimato a procedere quanto prima con i test. A nulla sono valse le mie repliche, non hanno voluto ascoltarmi: il soggetto è refrattario ad ogni sorta di anestetico, i sedativi non hanno alcun effetto. Abbiamo cercato di immobilizzarlo, ma il soggetto ha reso vano anche quest’intervento liberandosi senza difficoltà alcuna da cinghie e legacci.
In queste condizioni è ovvio che non possiamo procedere come vorremmo e ottenere così i risultati tanto sperati e agognati dai vertici dell’operazione.
Hanno chiesto al Dottor Marlowe di intervenire, sebbene io abbia poche speranze a riguardo. Cosa potrebbe mai fare, lui, che i nostri medicinali e i nostri metodi non sono in grado? Come intervenire, se il soggetto nemmeno parla, nemmeno considera la nostra presenza?
Vorrei poter dialogare con lui. Chiedere.
Ascoltare. Non so da cosa derivi questa mia convinzione, eppure sono sempre più convinto ci sia molto di più, dentro di lui, dietro quegli occhi che ostinatamente non abbandonano i nostri volti. Qualcosa di grande e terribile, in grado di far sanguinare il cuore e stritolare il fiato tra le dita.
Non so che dire, non so cosa pensare. Non so cosa vogliono i Supervisori, né chi ci ha messo a capo di questo progetto. Non so perché questo progetto esista e mi sento confuso.
Mi sento perso e spaesato, proprio come il soggetto, mi vedo nello specchio della sua persona, c’è il mio riflesso, lì, e non capisco cosa ci faccia. Non capisco troppe cose.
Sembrava tutto chiaro quando era il Dottor Marlowe a spiegarci. Sembrava tutto cristallino e non avevo domande. Ora, invece, che siedo nel mio studio con la sola compagnia di una penna, di una luce e di questo diario, ogni cosa mi sfugge di mano. È come…E’ come uscire da una nebbia e i pensieri, dapprima offuscati e torbidi, cominciano a riprendere coscienza di sé, mi chiamano, mi chiedono aiuto. Perché esistiamo, essi domandano, Perché ci hai formulati? Qual è la risposta?
Lontano dal Dottor Marlowe il mondo è oscuro, la mia mente piena di dubbi.
Vorrei poter parlare da solo col soggetto. Chiedergli come ha la forza di dibattersi, dove l’ha trovata, per quale motivo mi sento intrappolato in una rete e perché i suoi occhi mi inchiodano alla parete, al suolo, all’aria stessa che respiro, quasi fossi io l’esperimento e non lui.
Sono confuso. Giusto e sbagliato, fatico a ricordare finanche perché sono qui. Chi ha mandato. Perché. Cosa dovrei fare. Come procedere. Per quale fine.
Devo parlare col Dottor Marlowe. Devo parlare col Dottor Marlowe al più presto.

 

RFD Washington, Washington D.C.
Penn Quarter. 810 7th St. NW

 

Colin non aveva spiccicato parola durante il tragitto dal cimitero di Arlington fino al pub. Molto probabilmente nemmeno voleva finire la propria giornata in un pub, ma Tony sentiva il bisogno fisico di triturare lo stomaco con gli alcolici e quindi la decisione era stata presa, la macchina messa in moto.
Un tavolo appartato e la luce del pomeriggio che tagliava il locale di traverso, Stark non aveva dato il tempo all’altro di sedersi che già s’era involato al bancone e ordinato per entrambi.
Hendrick non aveva fatto una piega, sebbene fosse evidente quanto poco gli andasse a genio l’idea, e il magnate ringrazia per aver tenuto la bocca cucita e lo spirito proibizionista muto.
Non aveva la forza, la non aveva la voglia di sorbirsi una ramanzina su quanto poco fosse salutare ubriacarsi alle quattro, alle cinque, a che accidenti di ora era: aveva soltanto bisogno di mettersi a tacere per un po’, smetterla di pensare, di agitarsi e di dibattersi come un pesce fuor d’acqua. Aveva bisogno del torpore che solo una sbronza in piena regola era in grado di dargli: Colin era utile unicamente come chauffeur.
Della sua compagnia, altrimenti, Stark avrebbe fatto volentieri a meno.
Già non dormiva da un numero considerevole di ore, a stento era in grado di prendere un respiro che non fosse un rantolo irrancidito dal panico, faticava a ricordare l’ultima volta che aveva posato la testa sul cuscino o su qualunque altra superficie orizzontale senza sognare il gorgo flatulento sopra Manhattan.
Quel maledetto cerchio di fumo, ribollente di Chitauri, di fuoco, quell’inferno di astri e ringhi che ancora minacciava di sopraffarlo, di inghiottirlo. Lo ghermiva ogni volta che chiudeva gli occhi, lo afferrava, lo trascinava a fondo, lo schiacciava, lo stritolava, giù sempre più giù, dove non c’era luce, dove non c’era aria, dove non esistevano neanche le stelle.
Dissimulando un ansito dietro un colpo di tosse, Tony annegò il principio di soffocamento con una generosa sorsata di qualunque cosa ci fosse nel bicchiere –L’importante era che lo rintronasse abbastanza da metterlo fuorigioco. Avrebbe persino ricorso alla benzina, fosse servito a tenerlo distante dalla realtà e dall’ansia.
L’Agente drizzò gli occhi chiari verso di lui e subito li riabbassò, storcendo l’angolo della bocca. Stark finse di non vederlo per un paio di secondi, stette al gioco, osservò un paio di avventori e diede il proprio (pessimo) giudizio all’arredamento del locale, prima di passarsi la mano libera tra i capelli, schiarirsi la gola e dedicare cinque minuti della giornata al vivere civile e alle relazioni sociali di base.
«Facciamo così.» propose, conciliante «Hai una frase, d’accordo? Una frase per dirmi cosa ti ronza nel cervello, quindi vedi che sia una frase di senso compiuto e diciamo sopra la media delle idiozie comuni solitamente sparate dalla gente in lutto, intesi? Una frase e se rispetterà queste condizioni potrei anche decidere di posticipare il mio coma etilico.»
Hendrick rizzò le sopracciglia, squadrandolo con un malcelato disgusto ed una punta di fastidio. Tony rispose alla muta provocazione con un ghigno da manuale nel mentre che s’aggiustava contro lo schienale della sedia.
«Allora?»
«Beva e stia in silenzio, per cortesia.»
«E’ la prima volta che perdi un soldato?»
Colin spalancò gli occhi, stupito: ogni traccia di rancore svanì dallo sguardo ora perplesso, indeciso, tentennante. Qualcosa passò dietro le sue iridi, un ricordo che Stark non fu in grado di decifrare –E di cui, del resto, non gli importava poi un granché.
Forse.
Il giovane s’umettò il labbro superiore, deglutì e scosse il capo.
«No.» rispose, il tono appena più basso di quanto Tony si sarebbe aspettato «Lei?»
«Sì.»
Di nuovo, una nota di palese perplessità nell’espressione altrimenti seria di Colin ed il magnate ingoiò un altro sorso di alcool per spazzare via il nodo alla gola, il dolore sordo al petto, la cenere che graffiava e scorticava i polmoni.
«Chi?»
«Non sono affari tuoi, Hendrick.»
L’Agente gli rifilò un’occhiata di fuoco tanto rapida che a Tony venne il dubbio di averla solo immaginata. Aggrottò le sopracciglia, socchiuse le palpebre, si grattò a punta di dita la linea della gola e strofinò il palmo contro il mento. Hendrick, a disagio, si chiuse nelle spalle e accartocciò le labbra, abbassando gli occhi sul sottobicchiere in plastica: il figlio di Howard poteva intravedere un frammento azzurro d’iride bagnato in un singhiozzo di sole e da un singulto paglierino della sua birra chiara ormai priva di schiuma.
«E’ che…» esordì Hendrick, disegnando una figura imprecisata sopra le venature del tavolo «Non riesco a togliermi dalla testa l’idea che se fossi arrivato prima, se non avessi tardato, sarei riuscito a…A salvare il Direttore.»
«No. Non ce l’avresti fatta.» replicò Tony, tirando poi su col naso «Avresti finito col farti uccidere a tua volta. Ho letto il tuo curriculum, Hendrick, guardiamo in faccia la realtà: non sei niente di eclatante.»
Colin incassò il colpo con grazia da manuale: addirittura, simulò un sorriso che sì, no, forse, in una realtà alternativa appositamente costruita per l’occasione, sarebbe anche potuto essere convincente.
«Non sono niente di eclatante, già.» sussurrò «E non sono neanche la signorina Potts. Mi chiedo cosa ci faccio ancora accanto a lei, signor Stark.»
«Fai sì che io abbia il mio apporto di zuccheri e carboidrati senza glutine tutte le mattine.»
Prima di ogni replica, di una risata o di un commento poco ripetibile, si frappose un brusio, qualche mormorio di protesta, il fischio del televisore mal sintonizzato: Hendrick, che aveva lo schermo proprio di fronte, alzò la fronte e impallidì di colpo. Quel perdere improvviso di colore mise Tony sull’attenti, così come l’atmosfera tesa del locale, i volti impauriti, le mani alla bocca, le sedie scostate con violenza, gli occhi sbarrati.
Il magnate si girò di scatto e lo stomaco si contrasse con un ringhio nel vedere la televisione eruttare fiamme, boati, un SUV che esplodeva nel centro di Manhattan, e poi fumo e una strada buia, un inghiottitoio di asfalto e piscio, un corpo noto, fin troppo noto, disteso, lo zoom traballante sul foro alla nuca, sul sangue, Fury, Nick Fury nell’inquadratura danzante della telecamera. E infine, nel tetro silenzio che aveva investito tutti come un’onda in pieno, una voce melliflua e sardonica, di potenza e sapere antichi quanto il tempo stesso.

«Alcuni mi definiscono un terrorista: io mi considero un Maestro.
America…Pronti per un’altra lezione?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali
Hansel Gamble è un gioco di nomi, dai film “Hansel&Gretel: Cacciatori di Streghe” e “S.W.A.T.”. Clint Barton ha davvero lavorato per la Cross Technological Enterprises come Capo della Sicurezza e Sheila Danning è il loro Responsabile delle Relazioni Pubbliche.

 

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Capitolo 5
*** { Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 } ***


ood4

 

{ Provvidenza E Non Detti ~ File 0.4 }

 

 

49 27 41 82 3 40
Canada, 2013

 

Natasha pressò la sciarpa contro la bocca e i chicchi di neve pizzicarono ridendo il tessuto.
Il sole abbacinava, sospinto sui rami gravidi e informi, respinto da una parte all’altra del cielo così azzurro da far male, e riflesso sui declivi lucidi ispessiti di ghiaccio compatto. Camminò ancora per qualche metro, quindi alzò la testa, una mano a schermarsi la fronte: non c’era niente, all’intorno, tranne la selva trapunta di goccioline balbettanti. Non un rumore, se non il proprio respiro ovattato e scomposto, unito allo scricchiolare di minuscoli cristalli sotto gli scarponi.
Cosa dovesse cercare, Vedova Nera non lo sapeva, ma era certa l’avrebbe trovato. Estrasse da una tasca del giaccone il cellulare e ricontrollò le coordinate, aggiornando la mappa e seguendo attenta le linee che andavano disegnandosi sullo schermo palpitante aloni bluastri. Non doveva essere lontana dal posto che non poteva in alcun modo mancare, dal punto disperso da qualche parte nel mezzo delle foreste canadesi.
La spia assottigliò la bocca, stringendosi soltanto un paio di secondi nelle braccia.
Non che avesse freddo, per carità: la tuta termica la proteggeva dal vento che mordeva senza sosta la porzione di viso scoperto, e bloccava sul nascere qualsiasi brivido sbocciasse al di sotto della nuca. Con le ciglia imbrinate di neve, Natasha socchiudeva le palpebre alla ricerca di un dettaglio, un particolare, qualunque segnale riconoscibile da lei e lei soltanto.
Ingoiando un’imprecazione silenziosa salita fino alle labbra, la donna si rimise in cammino.
Mentre si creava da sé un sentiero tra i cumuli più o meno duri di neve, si chiese ancora una volta per quale motivo Fury le avesse inviato quelle coordinate.
Se infatti aveva più di un dubbio sull’utilità delle cifre ancora marchiate sull’anello esterno del distintivo, non ne sussisteva alcuno su colui che le aveva mandate: ricevere il distintivo dalle mani del Direttore era un onore concesso a pochi e un onere per una cerchia molto più ristretta di individui –Tuttora Natasha aveva ipotesi, ma non dati certi sui componenti del circolo segreto di bridge. Per quanto, comunque, le proprie ipotesi avevano il novantanove virgola nove percento di verità. Il che, al momento, le provocava tremore e sospetto all’insieme, un morso di solitudine allo stomaco. Il medesimo smottamento d’animo che l’aveva colta alla notizia della per lei presunta morte di Fury.
Non era stato possibile determinare con esattezza il momento preciso, soltanto una forchetta temporale abbastanza affidabile: certo era che, quando l’Agente Hendrick era arrivato all’appuntamento con un ritardo stimato di circa venti minuti, il corpo del Direttore era ancora caldo, seppur privo di vita.
Nessuna traccia del cellulare da cui molto probabilmente Nick aveva inviato le coordinate, il che dava adito a due soli scenari: o erano state spedite un secondo prima del proiettile e l’assassino aveva poi trafugato l’oggetto in questione, oppure Fury aveva lasciato come ordine che esse fossero mandate ai diretti interessati –Alla diretta interessata si impose di pensare Natasha, giacché era impossibile che gli altri due l’avessero ricevute- nel caso gli fosse successo qualcosa.
Nessuna delle due ipotesi dava spazio all’eventualità che il Direttore si fosse salvato, pur tuttavia se era stato lungimirante al punto di architettare un simile piano, era altamente improbabile non avesse considerato una scappatoia alla morte stessa.
Si stava parlando di Nick Fury, in fondo.
Nel fitto di queste considerazioni, Natasha calcò meglio il cappuccio e deglutì un fiato denso, gelato e amaro, con la coscienza di star perdendo lucidità, ragionevolezza e sensibilità agli arti.
Si ricordò allora di un inverno di tanti inverni prima, lontani dalla memoria e dal cuore. Ricordò delle nuvole grigie e della steppa color tormalina, nera o verde slavata o tiepido azzurro o spruzzata di rosa pallido alla luce diluita del sole russo. Ricordò il borbottio del samovar e della zolletta di zucchero sulla lingua, il caffè che ciangottava amaro tra i denti.
Poi si riscosse, perché nulla di veritiero esisteva nella memoria fallata e rivista e rivisitata troppe volte. Svuotata e colmata di nuove immagini, aveva un’identità per ogni personaggio e un corredo di smaglianti ricordi adatto e invecchiato appositamente per la missione affidatale dalla Mano.
Per quel che le interessava ed importava, un reale concetto di riportare alla mente cominciava con lo scoppiettio dei proiettili per le strade di Budapest, la consistenza ruvida della garza sotto le dita mentre l’avvolgeva attorno al torace di Clint ed il primo sguardo significativo che si erano scambiati, che tutto aveva detto e nulla aveva taciuto.
Attraverso gli arzigogoli del paesaggio sempre uguale, avanti per sentieri ritorti e deviazioni improvvise, prive di qualunque segno di cosa viva o struttura dello S.H.I.E.L.D., Vedova Nera arrivò infine ad uno spiazzo circolare incorniciato di abeti e solcato da una striscia di rocce, conficcate nel terreno come merlature sul cornicione perimetrale di un castello.
Un’atmosfera così da tranquilla da porla immediatamente in allerta. Abbassò il cappuccio e osservò le ombre in mezzo ai tronchi, i rigagnoli di sole che falcidiavano rami e fronde e l’ossigeno che si condensava in soffusi respiri davanti alla bocca schiusa.
Con la punta del piede Vedova Nera smosse un poco di neve, sporcandola inevitabilmente con la terra sottostante; scoperta così una pietra non più grossa del proprio pugno, si chinò a raccoglierla, la strinse tra le dita tintinnanti di circolazione di nuovo attiva, la fece rimbalzare un paio di volte sul palmo e infine la lanciò.
Un frusciare rapido, da un cespuglio emerse la figura spigolosa e grossolana di un mitragliatore ed ecco il piccolo sasso finire la parabola in un tripudio di schegge e sibili.
Natasha arcuò le labbra in un ghigno soddisfatto e le sopracciglia sfiorarono l’attaccatura dei capelli alla fronte, gli occhi balenarono di divertimento ferino.
Il puntatore dell’arma le si volse contro con freddezza.
«Identificarsi.» ordinò, cigolando un poco nel ruotare sul punto di giuntura col corpo principale.
«Agente Natasha Romanoff. Nome in codice: Vedova Nera.»
La canna della mitragliatrice emise un ronzio e si sollevò, rizzandosi compito come un soldatino diligente.
«Benvenuta, Agente Romanoff. La stavamo aspettando.»
«Ma non mi dire.» mormorò la spia, roteando gli occhi al cielo e non facendosi remore a far trasparire una nota piuttosto acida di sarcasmo.
Il costone di roccia poco distante da lei ruggì e scivolò lateralmente su cardini nascosti: dietro di esso un corridoio che sprofondava nel terreno, alte pareti a compartimento stagno e oblunghi neon che dal soffitto spandevano sui lastroni pavimentali una luce spettrale e oleosa.
Senza aspettare l’invito ad accomodarsi, Natasha scese lungo la pedana e gettò una veloce occhiata alle casse stipate nella curva a gomito a conclusione del corridoio, agli zaini penzolanti dai ganci proprio alla destra e al pannello di controllo esattamente davanti.
«Benvenuta, benvenuta, Agente Romanoff!»
E dal costolone dopo gli zaini sbucò un uomo tracagnotto e vitale, con la faccia piena e un accenno di doppio mento; il cordoncino blu elettrico del badge sobbalzava sulla cravatta scura a righe bianche a causa del respiro affannato.
«Che posto è questo?» domandò Vedova Nera, graziando il collega e non gelandolo con uno sguardo solo in virtù del fatto che non l’aveva chiamata Miss –Ancora non sapeva se freddare l’Agente Hendrick con profondo disprezzo o appenderlo alla terrazza della base Fridge, per quell’appellativo ridicolo.
«Io la chiamo Providence» rispose l’uomo, ligio e inappuntabile nel suo completo antracite con camicia azzurro chiaro «Anche se tecnicamente non ha un nome perché, tecnicamente, non esiste. Essendo una base segreta con tutti i crismi.»
«Molto bravo.» commentò Natasha e, da come l’altro s’era ringalluzzito con un gran tremore della pappagorgia, intuì che la pungente ironia con cui aveva intriso la frase non era andata a segno.
«Se lei e i suoi…» l’Agente corrugò le sopracciglia e corrucciò il viso in un’espressione perplessa. Si alzò sulle punte dei piedi, per spiare un qualcosa di imprecisato dietro la spia. Questa, dal canto proprio, si limitò a sbattere le palpebre e aspettare che l’uomo desse una spiegazione degna di questo nome.
«Io e i miei?» gli diede l’imbeccata dopo l’imbarazzante silenzio in cui il collega si era trincerato.
«Lei e i suoi…E’ venuta da sola, Agente Romanoff?»
Un grido di allarme riverberò senza voce attraverso i muscoli e la spina dorsale della donna.
«Sì. Sono sola» i nervi si tesero con un guizzo «Perché?»
«Bhè. Dalle direttive ricevute, oltre a lei aspettavo altre due persone.»

 

Bus.
Spazio Aereo Sconosciuto, 2013

 

«Ricordi quando sono venuti a prenderti?»
Se anche la domanda l’aveva colta alla sprovvista, l’Agente May non ne fece mostra.
Con gli occhi attenti all’orizzonte fuori dall’abitacolo, attese con pazienza al limite dello zen che Coulson rispondesse alla domanda retorica con qualcosa che nulla aveva da spartire con le corse a piedi nudi nei vicoli di Coloane o il bugigattolo dentro cui l’aveva stanata, non molto dissimile da un randagio tutt’ossa per aspetto e capacità di sgattaiolare fra le gambe di qualche energumeno dotato di distintivo.
«Io sì.» e Melinda espresse il proprio disappunto contraendo sapientemente la mandibola.
Quel gesto non apportò alcuna sostanziale modifica nelle intenzioni di Coulson, badate bene, ma almeno ebbe il potere di rasserenarla ed impedirle qualsiasi rivelazione mistica non richiesta.
Sul Bus l’aria era tesa e impregnata di lutto. La notizia della scomparsa di Fury li aveva colpiti allo stomaco e aveva per un istante minato la solidità degli intenti, la validità delle motivazioni –May, soprattutto, aveva avuto il proprio attimo di smarrimento quando dalla linea criptata non le era arrivato nulla di più che uno smorto ronzio di fondo.
La missione che le era stata affidata andava ben oltre il Direttore, questo le era stato ribadito più volte, tuttavia non poteva negare che adesso guardare Coulson in faccia e tacere era diventato ancor più arduo.
Forse Skye era stata l’unica, del loro esiguo equipaggio, a non subire gli effetti destabilizzanti della notizia. Ma Skye aveva per loro la fiducia di un condannato a morte nei confronti del boia, quindi la cosa non era rilevante. Finché avesse continuato a girellare con quella sua aria spaurita e circospetta da gattino fradicio abbandonato sotto la pioggia, senza dare fastidio o creare danni, allora Melinda avrebbe accettato la sua presenza e avrebbe accantonato l’idea di gettarla fuori bordo al primo attimo di distrazione della squadra.
«Ero al Liceo.» Phil prese un respiro e reclinò la nuca sulla testiera del sedile imbottito –Il che fece pensare a May di essere appena stata assunta al ruolo di psicologa. Cosa quanto mai comica, considerando ciò per cui era stata davvero chiamata a fare sull’aereo. «A volte mi sembra ieri. Altre un tempo un po’ più lungo.»
«Non riesco ad immaginarti come un ragazzino del Liceo.» confessò Melinda, osservandolo di sbieco e rivolgendogli un sorriso a fior di labbra.
Phil rise e scrollò le spalle, le sopracciglia che disegnavano un arco stranamente tranquillo e pacifico sulla fronte piana. Ricevuta la chiamata di Maria Hill, tre giorni prima, Coulson si era ritirato nel suo alloggio senza dire una parola e non era uscito che dopo un paio d’ore.
May, convinta di trovarlo disfatto e preda della più completa disperazione, già pronta a tendergli una mano e prendere nota di qualsiasi cambiamento, di qualsiasi stranezza a livello di comportamentale, sbalzi d’umore o attacchi di rabbia, era rimasta allibita nel vederlo scendere pimpante e arzillo, senza un pensiero al mondo o lacrima negli occhi.
Entrato nell’abitacolo, Melinda si era stupita non si fosse messo a saltare od esternare la sua innegabile gioia con qualche ben poco professionale squittio ed inquietanti amenità di sorta. Si era seduto al posto del co-pilota, le aveva dato alcune coordinate e invece di spiegarle per quale motivo dovesse trascinare tutti nel nulla di una foresta canadese, aveva cominciato a rivangare il passato in un dialogo unilaterale amaro e dolce all’insieme.
«Oh, ero molto diverso da ora» l’Agente annuì «Più magro, innanzi tutto, e niente taser. Fury si è presentato con un’inguardabile camicia bianche a righine nere, gilet color senape e pantaloni verdi.»
Al silenzio imbarazzante e a tratti vagamente perplesso di May, Phil giustificò l’abbigliamento con un serafico Erano gli anni Ottanta.
«Io me ne stavo seduto a leggere un albo a fumetti di Capitan America, con due pezzetti di carta nel naso dopo l’ennesimo pestaggio dei bulletti che frequentavano –Forse frequentare è una parola grossa, insomma, hai capito- la mia scuola, quando mi si presenta quest’uomo di colore, enorme, con la faccia arcigna, la benda sull’occhio come un pirata» e qui, chissà perché, Phil si coprì l’orbita sinistra con la mano, per rendere l’idea «E la bocca serrata, quasi indispettita. Incuteva timore e rispetto, nonostante i vestiti improbabili, così appena mi ha detto di alzarmi e seguirlo per una chiacchierata, ho chiuso il giornaletto e ho obbedito senza pensarci due volte.
“Non ricordo esattamente cosa mi disse» ammise «E’ come un film muto, posso vederci mentre camminiamo sul marciapiede, lui con le spalle e la schiena dritta e un angolo delle labbra sollevato a stringere un sigaro invisibile e poi io, subito accanto, un ragazzetto mingherlino e smunto, con le dita serrate ad un vecchio fumetto e lo sguardo a metà tra l’impaurito e l’adorante. Posso ancora vedere i mattoni rossastri dell’edificio, la rete metallica che separava il giardino giallognolo dall’asfalto polveroso, posso persino sentire l’odore ripugnante del cibo della mensa e lo sfrigolio del baracchino di hot dog dove Fury si è fermato per offrirmi la colazione.»
Una risata quieta e Melinda si trovò proprio malgrado avvolta dall’intimità di quel ricordo, tanto diverso dal proprio, scapicollato approccio avuto con lo S.H.I.E.L.D.
Avevano dovuto inseguirla in tre per almeno due ore tra le stradicciole ingombre di sporcizia e mendicanti, all’interno di casinò stipati di gente sudaticcia e viscida, inglobata dalle luci singhiozzanti delle macchinette cinguettanti.
«So che ad un certo punto gli ho chiesto Perché io? Mi prendono sempre a botte quando vengo a scuola e lui, addentando il suo panino, mi ha guardato mi ha risposto: Perché non ti sei mai nascosto a casa per fuggire. Ora capisco che c’era più di una motivazione dietro alla sua scelta, ma all’epoca quella frase mi colpì: sottendeva un coraggio ed una testardaggine epica di cui nessuno mi aveva mai fatto parola e di cui persino io non ero a conoscenza.
“Era come se avesse messo in luce un lato della mia persona che fino a quel momento mi ero negato da solo, senza saperlo. Salii in macchina, allora, e scoprii che ad attenderci c’era un’altra persona: un uomo alto, con le maniche di camicia arrotolate sopra i gomiti, i baffi e i capelli già un po’ radi alle tempie e sopra la fronte. Quest’uomo mi guardò e gli occhi gli caddero sul fumetto che ancora tenevo in mano. Di’ un po’ ha cominciato, accennando al giornaletto con la punta del dito e ricordo che aveva la voce impastata e l’alito aveva il retrogusto stagnante dei liquore, nonostante fosse solo metà mattina Ma l’hanno già raccontato di quando abbiamo dovuto travestire Rogers da donna per farlo entrare in Europa?»
L’Agente May si concesse di allargare il sorriso e due fossette sbocciarono sulle guance, ai lati della bocca.
«Howard Stark?» chiese.
«Howard Stark.» confermò Phil «E’ stato alcuni anni prima del suo incidente.»
Non dissero altro per alcuni minuti, per non rovinare l’atmosfera così pacifica, per non coprire i sussurri e i mormorii della memoria, per non bloccare lo scorrere melanconico degli anni che furono. Solo quando gli strumenti di bordo segnalarono l’approssimarsi al punto di arrivo, May si decise a voltarsi verso Phil.
«Perché siamo venuti qui?»
Coulson sollevò il mento e assottigliò la bocca, umettandosi velocemente le labbra.
«Fury è ancora vivo, May.»
Melinda tacque, ma al silenzio s’accompagnò un brivido ghignante alle braccia e alla base della schiena.
«Le coordinate» chiarì Coulson «Sono state mandate sicuramente dal Direttore al distintivo che mi ha dato lui. E’ ancora vivo, May.» deglutì «Non so cosa stia succedendo, ma dovremmo essere ancora più cauti adesso: è probabile che la nostra missione venga accantonata, la nostra squadra divisa. E’ probabile che veniate assegnati ad altro o magari chiamati a stanare il Mandarino, non lo so. Accada quel che accada ti affido tutti loro, Melinda: se è stato Fury a convocarmi, se c’è Fury ad aspettarmi alle coordinate che mi ha inviato, voglio scoprire cosa vuole da me, la ragione di tanta segretezza e cosa lo ha spinto ad inscenare il proprio funerale.»

 

Località Sconosciuta.
Sala Medica, 2011.

 

L’aria era tesa, i volti scavati dall’ansia, illividiti dal disagio.
In seguito al brusco risveglio del soggetto, dai piani alti avevano stabilito che il manipolo di guardie non era sufficiente ed esso era stato affiancato da una task force più addestrata e meno compassionevole. Erano cinque uomini e il Medico Capo s’era domandato se non lo stessero prendendo in giro: il soggetto aveva sbaragliato sette soldati altamente qualificati e come supporto aggiuntivo gli mandavano cinque uomini? Poi aveva guardato il loro comandante negli occhi e aveva capito. Non aveva più replicato, non aveva neanche più osato anche solo pensare che la task force non sarebbe bastata.
Al contrario, una crescente sensazione di claustrofobia aveva cominciato a serpeggiare dentro di lui così come nell’animo dei propri collaboratori: l’impressione che, una volta concluso il lavoro, la task force avrebbe fatto sì che niente uscisse dai laboratori sotterranei era un non-detto fin troppo chiaro perché lo si potesse ignorare.
Mentre controllava per l’ennesima volta gli strumenti e si accertava della loro sterilizzazione, assicurandosi che gli strumenti funzionassero a dovere, che i macchinari avessero azzerato ogni parametro, che le fialette fossero vuote e decontaminate, il Medico Capo si accorse del dubbio.
Fino a quel momento non aveva mai dubitato della propria presenza lì, né del progetto, né della ragione per cui erano stati convocati e riuniti. Ora il camice bianco gli pesava addosso, i bottoni gli comprimevano il torace e gli mozzavano il fiato, le dita non riuscivano a stare ferme, la siringa sfuggiva dai polpastrelli scivolosi di sudore rappreso, la voce non era salda, la vista si appannava.
Non trovava ragione, non trovava motivi, ciò che era stato chiaro ora fluttuava nelle nebbia appiccicosa, spregevole dell’irrealtà.

Perché sono qui? e s’accorgeva di non essersi mai dato una risposta, di non averla nemmeno cercata, incantato com’era dal tono rassicurante del dottor Marlowe. Marlowe rendeva innocui i timori e le paure, galvanizzava la loro fatica e la ammantava col vello dorato di un fine più alto e utile –Fine di cui, però, il Medico Capo non era in grado di recuperare il filo, né di darvi un nome.
Se ripensava a mente fredda alle parole di Marlowe, alla memoria tornava solo il dondolio assonnato delle sillabe, la nenia liquida dei fonemi, ma ogni significato rifuggiva la comprensione e tra le mani restava solamente aria.
Aveva resistito all’impulso di correre da lui, non appena il terrore gli aveva agguantato le viscere e le aveva sbranate a morsi di panico e scompiglio di sangue ribollente, di pensieri scomposti, dibattuti e sbattuti da una parete all’altra del cranio. Per quanto la mente reclamasse l’effetto anestetizzante di Marlowe, la coscienza del Medico Capo si era imposta ad impedirgli qualsivoglia movimento, aveva puntato i piedi e con sbigottimento crescente egli s’era accorto di essere divenuto dipendente dalla voce dell’altro come alla morfina.
Non aveva dormito, a stento il respiro arrivava fino ai polmoni contratti ed era certo che in pochi secondi il cuore sarebbe esploso, le arterie sarebbero colate dagli orifizi, espulse in un groviglio nauseabondo e viscoso, maleodorante.
Con la coda dell’occhio vedeva gli sguardi preoccupati dell’equipe e la tentazione di afferrare ognuno di loro per le spalle, scuoterli, gridare, avvertirli Non vedete? Non vedete? Non vi rendete conto di quello che ci stanno facendo? Di cosa siamo diventati? Pecore senza volontà, burattini e pupazzi!, la voglia e la tentazione erano così violente che il Medico Capo dovette affondare le unghie nel palmo per calmarsi.  
Non poteva dare di matto, non con le guardie e la task force ad alitargli sul collo.
Se ci sarebbe stata una ribellione, essa doveva cominciare a mezza voce, crescere per mezzo di segnali e sguardi di intesa e svelarsi solo alla fine, all’improvviso, senza sospetti precedenti a minare le loro esigue speranze di avere salva la vita.
Sì. Avrebbe fatto così. Avrebbe parlato coi membri dell’equipe uno alla volta, li avrebbe risvegliati –Volenti o nolenti- dallo straniamento psicofisico di cui erano preda, di cui erano malati al punto di non ritorno e insieme avrebbero ideato un piano di fuga.
Avrebbe chiesto anche al soggetto, sì. Avrebbe fatto appello ai suoi occhi vecchi e dolorosi, al tepore che emanava dalla sua figura e l’avrebbe liberato, sì, l’avrebbe liberato dai legacci e anche se era consapevole di come non sarebbe bastato un’intera esistenza passata in ginocchio per chiedere perdono, egli si sarebbe posto al suo servizio per cercare di rimediare almeno in parte al male che gli aveva fatto e stava per procurargli.
Sì. Sì. L’avrebbe liberato e sarebbe fuggiti e avrebbero denunciato la cosa e tutto sarebbe finito.
Con la calma scaturita dalla decisione ormai incontrovertibile, il Medico Capo riempì la siringa di anestetico e spinse lo stantuffo per controllare la pressione e la funzionalità dell’ago. Doveva soltanto conficcarla nel braccio o nel collo di Marlowe perché non li avvincesse e li avvolgesse nella sua malia, ed il soggetto, accortosi delle buone intenzioni e di aver trovato in lui un buon alleato, si sarebbe aperto la strada con calci e pugni ben assestati.
La via, agli occhi della propria mente, era così sgombra da provocargli una fiammata di eccitazione attraverso il corpo.
Sorridendo, allora, si voltò tranquillamente nell’avvertire il cigolio della porta che si apriva.
Ma ogni sicurezza si disintegrò e finì a pezzi nell’incontrare lo sguardo del soggetto. Uno sguardo vuoto, vacuo, nullo. La sua intera figura era avvinta da una mollezza languida, le spalle pendule e la bocca un poco schiusa per la rilassatezza dormiente della mandibola. Le ciglia tremolavano e sbattevano, nascondendo ad intervalli intermittenti, faticosi, l’iride immota e la pupilla dilatata di sonno e di sogno.
Lo sbigottimento a quella vista fu tale che il Medico Capo non si accorse di Marlowe se non nell’attimo in cui la sua mano gigantesca gli strinse il braccio sopra il gomito.
«Il nostro amico è pronto per cominciare.» lo avvisò, un immondo sorriso sul volto pieno e appagato «Vieni avanti e siediti» disse, poi, rivolto al soggetto che obbediente mosse i passi necessari per posizionarsi sul bordo del lettino al centro della stanza.
Lì se ne stette, con gli occhi fissi al niente, al pallido fumo della mente ottenebrata, il respiro profondo che sollevava pesantemente il torace e ad ogni espirazione contribuiva ad aumentare il senso di gravità della postura e dei muscoli.
Il Medico Capo deglutì, la mano tremò con violenza, quasi perse la presa sulla siringa. Un grido squittente gli sfuggì dalla bocca storta per l’orrore.
No. No. Non poteva essere…! Non poteva…!
«Dottore, cosa le succede?» ghignò Marlowe, perfido  «Stia calmo. Si rilassi.»

 
49 27 41 82 3 40
Canada, 2013

 

Ho freddo.
«Vieni da un mondo di ghiaccio, non puoi avere freddo in Canada

La tua idea di Jotunheim è vaga e ridicola, dunque non dare a me la colpa della tua ignoranza: la proiezione di essa sulla mia persona è causa della tua erronea idiozia e dei miei commenti così poco graditi.
«Taci o giuro su Dio che ti faccio star zitto una volta per tutte trapassandomi il cervello con un cotton-fioc.»
Oh. La prospettiva mi solletica.
«Maledetto figlio di…»
«Mi perdoni, Hansel, è sicuro di stare bene?»
Clint si girò e rivolse un sorriso angelico alla donna alla guida.
«Naturalmente» assicurò, con accento tedesco bleso e stupido. «Stavo solo dicendo quanto è bello il paesaggio.»

Stai parlando una lingua del nord per dialogare con me, ossia con te stesso, in modo che lei non ti comprenda gli ricordò il norreno, irridente e mefistofelico Non sono certo che tu stia bene come dici.
La canadese sollevò le sopracciglia, assunse un’espressione improbabile e vagamente agitata, strinse le nocche attorno al volante e tornò a concentrarsi sulla strada dissestata davanti a loro.
Barton aveva incontrato Heather McNeil Hudson ad una stazione di servizio e per un attimo si era chiesto se la fortuna non avesse finalmente cominciato a girare dalla parte giusta: se doveva percorrere i sentieri aspri e costantemente uguali a se stessi delle vallate canadesi, non poteva immaginare una guida migliore della moglie di Guardian. La donna non l’aveva riconosciuto –A stento s’era riconosciuto lui stesso, con la barba incolta, la cornea giallastra e le orbite incavate-, il che gli aveva reso più semplice la pantomima di Hansel Gamble in gita di piacere tra la neve e i Sasquatch.
La storia dell’innocuo Capo della Sicurezza non avrebbe retto davanti a Puck o a Michael “Sciamano” Twoyoungmen, quindi Occhio Di Falco ringraziò la propria buona stella che il resto degli Alpha Flight fosse a gironzolare lontano dalla tavola calda dove aveva trovato Heather, seduta al bancone.
Le era capitato il suo dossier tra le mani, una volta, e i tratti angolosi, i capelli rossi stretti in una coda voluminosa e gli occhiali sgraziati, enormi, dalla montatura bianca gli erano rimasti impressi nella memoria.
Quelli e la maglietta nera con la scritta Where The Heck Is High River? che, caso volle, stava indossando anche quel giorno. Le aveva offerto una birra che lei aveva accettato più per cortesia che per reale interesse, avevano scambiato due chiacchiere e alla fine Clint le aveva detto di quel suo progettino di scarpinata mondana nelle foreste innevate.
Le aveva anche offerto un compenso per il disturbo. Compenso che lei aveva negato con garbo, alzando la mano e scuotendo piano il capo. L’avrebbe accompagnato con piacere, aveva detto, non abitava troppo distante quindi non c’era alcun problema.

Non capisco perché abbassarci a questa inutile recita Loki, regalmente accomodato nei sedili posteriori, appoggiò il mento appuntito sul pugno chiuso. Dallo specchietto, Clint lo guardava osservare con disinteresse il filare degli abeti ai fianchi della strada e l’orizzonte bollente, di cobalto liquido. Avresti potuto prendere una qualunque automobile e arrivare fino a qui con le tue sole forze.
Il Dio non aveva torto, ma ammetterlo significava confessare la cosa anche a se stesso, in fin dei conti, e Barton non ne aveva intenzione.
Aveva bisogno di un passaggio per non perdersi e Heather era stata la manna del cielo. Si sarebbe fatto accompagnare all’inizio di un sentiero e da lì avrebbe poi deviato quando il cammino lo richiedeva, scansando rami, rametti, sottobosco e passaggi impervi. Aveva scovato una via non poi così distante dal punto segnalato dalla coordinate su una carta da trekking, quindi, anche se sul filo del rasoio, la storiella della gita reggeva ancora.
Heather gli aveva persino consigliato alcuni acquisti utili per il viaggio, cui Clint aveva accondisceso volentieri a comprare. Le banconote stritolate e chiazzate d’unto aveva abbandonato non solo le dita ingiallite di nicotina, ma anche e soprattutto la loro funzione di ricarica alcolica.
Barton aveva scambiato una buona bottiglia di liquore con barrette energetiche, una fascia da tenere sulle orecchie, un nuovo paio di guanti e ramponi da neve. Il che aveva provocato una ribellione bestiale da parte dell’organismo, spasimi singhiozzanti dello stomaco, conati di vomito e striature rossastre a tracciare il grattare nervoso delle unghie sulla pelle.
Il polso di Clint ebbe un tremito e Loki, deliziato, arcuò le labbra sottili, gli occhi erano in fiamme.

Capisco. Schioccò la lingua contro il palato, lezioso La mancanza di veleno ti strugge e ti distrugge, dico bene? Non saresti in grado di condurci là, perderesti il controllo su quest’accozzaglia rugginosa di metallo e lamiere sbilenche. La strada ti verrebbe addosso, lo schianto, un vortice di vetri e tu finiresti trascinato, dilaniato in un tripudio di sangue e carne e membra squarciate e le ossa si spezzerebbero e ci sarebbe nero, ovunque, nero nero e nero, come il tuo cuore, come il tuo animo, inghiottito, irretito, la colpa, nera, il peccato, nero, la perdita, nera, il vuoto, nero, la morte, nera, il tradimento, nero, l’assenza, nera…
Clint appoggiò tremante il palmo sulla fronte e spinse fino a quando non sentì il cranio scricchiolare e gemere, i denti serrarsi, digrignarsi, il respiro guaire nella trachea e l’ossigeno mutarsi in cenere sul fondo dei polmoni. Le palpebre chiuse si riempirono di esplosioni e ritorcimenti colorati, le orecchie si colmarono del battito continuo, cadenzato, del cuore, mandibola e mascella si incollarono tra loro come mastice.
Ignorando il brusio ovattato di Heather al posto di guida, Occhio Di Falco pigiò il tasto per abbassare il finestrino e sporse la testa al vento ululante e gelido. Lo schiaffo che ricevette dalla bassa temperatura fu abbastanza per calmarlo e costringerlo a desistere dall’idea di accendersi una sigaretta.
Non fumava da quella mattina. Inutile dire che Loki ne era uscito decisamente rinvigorito.
Per l’ennesima volta, Barton si disse che era d’obbligo trovare quanto prima una soluzione a quella coabitazione forzata e non voluta.
«Siamo arrivati» annunciò Heather, una ventina di minuti dopo «Ma se vuoi un consiglio…»
Occhio di Falco non l’ascoltò oltre, slacciò la cintura e aprì la portiera. Si sporse verso i sedili posteriori per afferrare lo zaino, scese dall’auto, lo sistemò sulle spalle e sfregò il dorso della mano contro il naso.
«Grazie per il passaggio, Frau Hudson
La donna si tese in avanti per quanto permesso dalla cinghia di sicurezza, s’afferrò al bordo del finestrino ancora aperto e piegò il collo per squadrarlo, inquieta.
«Hansel, se mi permette, non credo che lei sia nelle condizioni adatte per una camminata.» titubante, si morse il labbro inferiore, prima di rialzare gli occhi con un barbaglio opaco delle lenti spesse «La prego, mi permetta di accompagnarla o di metterla in contatto con una guida. Se dovesse succederle qualcosa…»
«Allora si fidi di me: lasciatemi in ipotermia o a congelare in qualche crepaccio. Sarà meglio per tutti.»
E Clint le diede la schiena, sparì dietro una curva di abeti prima che Heather potesse replicare o chiamare in aiuto qualcuno della combriccola della foglia d’acero –Anne “Snowbird” McKenzie, magari. Non gli sarebbe dispiaciuto conoscere l’opinione di una non confermata semi-dea Inuit riguardo la palla al piede norrena che si portava dietro
Loki fu stranamente silenzioso durante il tragitto, forse perché Barton era troppo concentrato sui cambi di direzione da seguire per dare peso ai sensi di colpa o alla coscienza avvelenata, marcescente. La divinità scivolava in mezzo alle ombre e le pupille sottili di serpente non lo perdevano di vista, conficcate tra le scapole o pendenti sulla sommità del capo come una verde spada di Damocle.
Era un profilo scuro, acquoso e sottile, quasi impercettibile, ma non per questo meno ossessivo ed opprimente. A quello che pensò era due terzi del cammino, Barton si arrese: spazzò con la mano un masso meno aguzzi degli altri, vi si appollaiò sopra e tirò fuori il pacchetto di Camel e l’accendino dal windbreaker. Loki ricomparve in forma tangibile e si posizionò a gambe incrociate davanti a lui, letale e splendido nel biancore accecante della neve. Nel suo sguardo di serpentina Clint si vide stringere la sigaretta coi denti, far scattare la pietra focaia con uno click collaudato del pollice, chinare la testa sulla fiammella protetta dalla mano a coppa e poi gettare la nuca all’indietro, i polmoni gonfi di una ventata salvifica e mortale di nicotina.
Fumò in silenzio, occhi negli occhi col proprio Demone Interiore, l’animo disfatto in contrasto col sogghigno strafottente del norreno.
A distrarlo venne un rombo lontano, un tuono o il ruggito di un aereo, ma quando Clint alzò il mento non vide nulla e il cielo era sgombro come la sua mente. Schiacciò la sigaretta finita sulla roccia e riprese l’attraversata.
Non incontrò nessuno, animale o uomo, solo vento, neve e spiriti immoti. Non si stupì nemmeno quando, arrivato alla radura corrispondente alle coordinate del distintivo, ad accoglierlo furono di nuovo vento, neve e spiriti immoti.
«Bhè.» commentò e il ghiaccio cristallizzato sulla barba tremolò e ricadde «Dicono che l’aria di montagna faccia bene alla salute.»
E ora che l’aveva confermato poteva tornare indietro e sbronzarsi fino a dimenticare finanche come ci si sedeva.
Stava già per rimettersi in marcia quando uno scuotersi di foglie e ciangottare di neve sui rami grigi non lo fece girare di scatto. La figura che emerse dalla palizzata di tronchi screziati si scrollò la matassa morbida e bianca di dosso, si frizionò la fronte per staccare i rimasugli che gli infiocchettavano le sopracciglia e infine alzò la testa.
Per Occhio Di Falco fu come se qualcuno avesse premuto l’interruttore. Si spense e gli occhi, sbarrati e increduli, ingrigirono.
«Clint…»

Oh. Stupito, Loki corrugò le sopracciglia Strano. Lo ricordavo un po’ più defunto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

Non sto scherzando, Nick Fury negli anni Ottanta si vestiva davvero a quella maniera. Così come Steve si è davvero vestito da donna per infiltrarsi in Europa insieme a Bucky.

Qui per maggiori notizie sugli Alpha Flight (Regalatemi Sciamano, vi prego!)

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Capitolo 6
*** { Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 } ***


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{ Grauman’s Chinese Theatre ~ File 0.5 }

 

 

 

Stark Industries, Los Angeles.
Locale Sotterraneo.
2013

 

Negli intenti –E nei piani- di Pepper, il locale sotterraneo doveva essere un bugigattolo per archiviare scartoffie. Il che era andato benissimo fino a quando Tony Stark non era tornato dall’Afghanistan con un cerchio di luce nello sterno ed una protesi ad alta tecnologia addosso: da quel momento in poi, visti anche gli inconvenienti più o meno accidentali in cui al magnate era capitato di imbattersi, la parola d’ordine era stata “allenarsi.”
Da allora, lo pseudo-scantinato era stato trasformato in una succursale in piena regola della palestra di casa Stark, più sobria e con meno attrezzature rispetto agli inquantificabili metri quadri che davano sulle onde di Malibù.
Chiunque, ovviamente, vi poteva avere accesso e sfogare ogni frustrazione possibile alla luce ovattata che proveniva dalla strada e filtrava dalle finestre ad altezza del marciapiede. Di fatto, il solo ad utilizzarla era Tony, durante i periodi di magra tra –E durante, quando si scordava- una riunione e l’altra.
Ora che l’incidente di Virginia l’aveva costretto a tornare stabilmente dietro la scrivania, Stark ne aveva approfittato per togliere un po’ di polvere dal ring e dai guantoni. Era stato lontano troppo a lungo, risucchiato dal buco nero di Manhattan, e la palestra delle Industries aveva assunto un aspetto squallido ed un unto, con muffa agli angoli del soffitto, boccoli di lerciume sul pavimento e un odore parecchio sgradevole, in grado di annodare lo stomaco di chi si fosse avvicinato a meno di due metri.
Hogan, Tony ne era consapevole, aveva accettato con gioia di riprendere l’incarico di personal trainer. Forse con veemenza eccessiva, considerato come scricchiolavano le articolazioni del magnate alla fine della sessione quotidiana. O da come si attorcigliavano i polmoni e la bocca si macchiava di nausea –Sebbene, era inutile girarci attorno, gli ultimi due sintomi, uniti al mal di testa lancinante, erano un’ovvia conseguenze delle sbronze giornaliere.
Era anche per quello che Stark aveva deciso di riaprire il fu-archivio e distruggersi muscoli e ossa: il sudore e la fatica costituivano un valido contro bilanciamento al cervello di spugna, alla lingua gonfia e pesante, al vomito e a tutti gli altri vani tentativi di calmare gli attacchi di panico attaccandosi alla prima bottiglia di liquore che gli capitava in mano.
Non che i suddetti attacchi fossero scomparsi, sia chiaro, ma se a stento riusciva a stare sulle gambe inzuppate di acido lattico, come poteva concentrarsi sul fiato conficcato nella gabbia toracica? Stordirsi senza per forza condannare a morte il fegato, era un’alternativa cui aveva cominciato a pensare prima dell’affare Avengers e su cui era ritornato a ragionare dopo la morte di Fury e la comparsa del Mandarino.
«Il nome viene da un antico mantello cinese che significava Consigliere del Re» disse, tirando un gancio e spostandosi di lato «Riprende le tattiche di insurrezione sud-americane» chinò di scatto la testa per evitare il colpo di risposta di Happy «Parla come un predicatore battista…C’è molta ostentazione qui.» commentò «Molto teatro.»
Aveva guardato il videomessaggio del Mandarino fino a poterlo recitare a memoria, aveva ascoltato e registrato ogni intonazione della voce, ogni frase, ogni parola, aveva mandato a mente ogni suo gesto, nella speranza di comprendere la folle armonia di immagini e propositi celati dietro la figura magniloquente del terrorista.
Tony scansò un dritto di Happy, incassò la testa nelle spalle e caricò un pugno.
«Niente male.» lo canzonò una voce divertita alle loro spalle, giunta tanto all’improvviso che Stark perse ogni briciolo di concentrazione e quasi capitombolò sulle corde del ring «Per essere un soggetto da scrivania, è in forma sorprendentemente buona.»
Mentre Hogan se la rideva sotto i baffi, Stark raddrizzò la schiena, si schiarì la gola e si girò a gelare Hendrick con un’occhiata da manuale. Colin rispose chinando la fronte in un cenno di scuse, quindi scese i due gradini che alzavano la porta dal pavimento vero e proprio; teneva le braccia incrociate al petto, una cartelletta di fascicolami ben pressata alla camicia verde mela e alle bretelle color muschio –Alla cravatta della medesima tonalità e puntinata di minuscole clessidre rosse, Tony ebbe un moto a metà tra la stizza ed il travaso di bile.
Il figlio di Howard aveva supposto che, dopo la morte di Fury, Hendrick sarebbe stato richiamato immediatamente a Washington per una indagine preliminare o comunque come testimone od altro. Invece, l’Agente non aveva ricevuto istanza alcuna ed era rimasto fedele al proprio ruolo di segretario, elevandola platealmente ad ancora di salvezza nella confusione generale.
Per quanto tentasse di sembrare tranquillo e operoso come prima della scomparsa del Direttore, infatti, Tony non era riuscito a non notare i cambiamenti avvenuti in Colin in seguito al fattaccio: se sul lavoro non perdeva comunque un colpo, era efficiente e mai in ritardo, rideva assai di meno, aveva le sopracciglia costantemente aggrottate e la mandibola contratta. Pareva percorso da continui brividi sottopelle, impercettibili ad un primo sguardo, che facevano vibrare la sua persona da capo a piedi e rendevano palpabile la tensione dei muscoli al di sotto degli abiti. Dalle iridi cupe, quasi incolori, affiorava ora una striatura sottile e pericolosa, la stessa che Stark aveva visto più di una volta palesarsi negli occhi di Barton e della Romanoff.
«Che hai per me?» gli domandò Stark, ingollando quelle elucubrazioni con una sorsata d’acqua dalla borraccia all’angolo del ring «Spero siano inviti ad un party o qualcosa del genere.»
«Temo di no» si scusò Colin, sorridendo appena, nell’avvicinarsi alle corde «Sono richieste ed e-mail ed esortazioni per lei da parte della signorina Justine Hammer.» gli passò gli incartamenti «La quale, se posso permettermi, credo soffra di una forma particolarmente grave di grafomania.»
«Non mi piace che mi si porgano le cose, credevo l’avessi capito» fu la replica secca del magnate, ma un eloquente colpetto alla nuca da parte di Happy gli fece andare di traverso l’acido e roteare gli occhi al cielo.
Sistemò la borraccia, sfilò i guantoni, invitò cordialmente Colin a spostarsi mentre scendeva dal ring passando in mezzo alle corde, e infine, sbuffando e rimbrottando qualcosa tra i denti, afferrò i fogli e cominciò a scartabellarli con noncuranza.
Hendrick intanto gli si era affiancato e stava per parlargli, probabilmente per spiegare le motivazioni dietro lo stalkeraggio di Justine, quando un’idea balzana cinguettò mefistofelica nel cervello di Stark. Tolse qualsiasi attenzione –Se mai ne aveva accordata anche solo un frammento- alla Hammer e sollevò la bocca in un ghigno ferino.
Si mise a lato del ring e alzò le corde con una mano, lasciando intendere a Colin di salire. L’Agente spostò gli occhi da lui a Happy –Che si era portato una mano alla fronte-, schiuse la bocca e cercò di replicare. Cosa impossibile, visto che Tony lo prevenne egregiamente.
«Happy è stato atterrato dalla Romanoff. Sta’ tranquillo, il suo orgoglio da Boxista Alfa non potrà risentirne ulteriormente.»
Non molto rassicurato, né convinto da quelle parole, Colin s’umettò il labbro superiore con un guizzo della lingua e si succhiò veloce la bocca; strofinò i polpastrelli, diede un breve colpo di tosse e, arresosi, sbottonò i polsini della camicia, arrotolando le maniche sopra i gomiti. S’appese alle corde con una mano e si issò agile sul ring: il gesto, seppur semplice, aveva provocato uno scossone ai muscoli dell’avambraccio e lo svettare improvviso di una vena arzigogolata.
Il che fu di monito a Tony: per quanto goffo e gentile fino alla carie, disponibile ed ingenuo, Colin era un Agente debitamente addestrato di un metro e ottanta per cento kili di peso. Un suo schiaffo senza armatura a proteggerlo, e Stark era sicuro si sarebbe ritrovato a far da sostituto alla tappezzeria.
Il magnate si accomodò su una seggiola sgangherata poco lontano, gettò via la scartoffie ed agguantò lo StarkPadd debitamente a riposo nella sacca da allenamento.
Dall’alto del ring, Colin lo fissò con perplessità nel frattempo che Happy si ficcava un paradenti in bocca. Tony rispose allo sguardo del segretario sollevando le sopracciglia e accennando ad iniziare con un gesto veloce del polso.
Hendrick indietreggiò fino all’angolo delle corde e si mise tentennando in posizione. Non capiva cosa stesse succedendo, né cosa Tony volesse da lui e questo riempiva il figlio di Howard di ferina soddisfazione. Arrivò addirittura ad accavallare le gambe, per sottolineare il proprio divertimento da gatto ben pasciuto in procinto di appendersi alle tende.
«Quando ho googlato l’Agente Romanoff, è risultata essere una modella di intimo che parlava latino.»
«Nessuno parla il latino: è una lingua morta.»
Stark schioccò la lingua contro il palato e roteò gli occhi al cielo.
«Già sentito.» commentò «Comunque. Cosa succederebbe se io inserissi il tuo nome nel campo di ricerca?»
Colin fece per rispondere, ma un dritto di Happy lo costrinse a scostarsi e controbattere immediatamente con un gancio allo zigomo.
Il magnate si sarebbe aspettato di vedere la mandibola della guardia del corpo staccarsi di netto e finire sul pavimento, invece Hogan rimase in piedi con dignità impareggiabile, ciondolò un poco sulle gambe per la sorpresa, quindi si riassettò in guardia.
Hendrick fece lo stesso e la bocca si affilò, gli occhi divennero fessure.
«Probabilmente troverebbe le mie foto dell’annuario, signor Stark.» rispose, tirando un pugno al guantone destro di Happy e poi sferrandone un secondo all’addome –Hogan sfiatò per la perdita improvvisa d’ossigeno, il colore gli sfuggì dalle guance «Non gliele consiglio, avevo i brufoli.»
«Oppure quelle da impiegato del mese al market indiano.» replicò Tony, indeciso se trovare inquietante o meno il fatto che il proprietario del suddetto market tenesse una pagina Facebook e alternasse immagini della merce e delle offerte a procaci donne dell’Est Europa dai seni faraonici.
«Naturalmente.» Colin scartò di lato, abbassò la testa «Credo sia stato quello a far colpo sui talent scout dello S.H.I.E.L.D., fino a quando non hanno scoperto che ero l’unico impiegato.»
Tony abbozzò una risata accondiscendente, continuando a scorrere i vari risultati che aveva ottenuto sul giovane: non erano molti e non erano niente di eclatante, la storia comune di un comune cittadino del Queens. L’esperienza avuta con miss Romanoff la diceva lunga, però, e Stark era ben conscio di non possedere sicurezza alcuna sulla validità di quei dati.
Per quel che ne sapeva, Colin Hendrick poteva anche avere una doppia vita da Drag Queen e la notte, finito il turno da segretario, fuggire sulla Gay Street per cantare I Will Survive, vestito di rosa e con parrucca bionda in allegato.
Per quel che ne sapeva, appunto.
Un travaso di bile gli inacidì lo stomaco al pensiero che, come suo solito, Fury aveva agito in sordina e lasciando trasparire in superficie nulla più di uno sfumacchiare di onde, celando abile il ribollio mastodontico delle correnti.
E Fury era morto, poi. Dettaglio non trascurabile.
«Ha trovato qualcosa di interessante su di me, signor Stark?»
Dalla piega che prese la situazione, forse Hendrick avrebbe fatto meglio a concentrarsi sull’incontro: Happy, difatti, tentò di richiamare l’attenzione del giovane con due pugnetti scherzosi al retro della testa e Stark tutto si era immaginato, fuorché il modo in cui l’Agente reagì.
Il magnate ebbe appena il tempo di cogliere gli occhi dell’altro mutare in vetro ed ossidiana, che già Colin si era girato di scatto e mandato a sbattere Hogan contro le corde del ring con un calcio piazzato dritto dritto al plesso solare. Happy spolmonò, mugugnò qualcosa di incomprensibile e scivoloso, sbiascicante, si abbracciò lo stomaco e scivolò bocconi, continuando a sciorinare fonemi ingarbugliati.
Il tempo si sospese per una manciata di secondi, quindi Colin si gettò accanto all’ex pugile dando il via ad un rosario di scuse e richiami, la voce preoccupata, intirizzita di paura.
«Signor Hogan! Signor Hogan!»
«Happy!» esclamò Tony, saltato in piedi non appena la guardia del corpo era crollata in ginocchio «Cristo Santo, Hendrick, sei venuto qui a farmi da segretario, non ad ammazzarmi lo chauffeur!»
«Guardia del corpo…!» precisò a fatica Happy, armeggiando alla cieca per aggrapparsi a qualcosa e rialzarsi.
«Fa lo stesso.» Stark gli afferrò un braccio e Colin l’altro, lo issarono con un grugnito e lo trascinarono a viva forza fuori dal ring, fino alla seggiola su cui il magnate era rimasto ad osservare la scena qualche istante prima.
«Signor Hogan» ripetè Colin e il labbro superiore era coperto da goccioline di sudore «Signor Hogan, mi dispiace. Davvero, davvero, non volevo. Mi dispiace, signor Hogan…»
Happy agitò il guantone come a dire che non c’era niente di cui scusarsi, nonostante il colorito livido ed il collo rubizzo.
Il figlio di Howard osservò di sottecchi sia lui che Colin. Quando fu sicuro del regolarizzarsi del respiro di Happy e del tranquillizzarsi di Hendrick, prese questi da parte e gli fece cenno di uscire con lui dalla palestra. Ci volle più di un invito, ormai divenuto ordine perentorio, perché l’Agente staccasse gli occhi pallidi dalla figura di Hogan e si decidesse a seguirlo.
Prima di lasciarlo, quasi del tutto ristabilito, Tony diede una pacca sulla spalla di Happy e l’uomo si girò a ricambiare il suo sguardo con espressione stanca, ma divertita, le mani a scivolare e strofinare lo stomaco.
Fu solo davanti ad un caffè preso al bar subito di fronte alla sede delle Industries che Stark decretò fosse giunto il momento di rompere il ghiaccio tra lui e l’Agente. 
«Allora, ti sei finalmente sfogato a dovere?»
Colin, intento a seguire i bordi della tazzina a punta di dita, alzò la testa e sbatté le palpebre, tra il confuso e l’ingenuo.
«Come…?»
Tony accartocciò la bocca in una smorfia.
«Andiamo, Hendrick, non prendermi in giro. È da quando è morto Fury che sei una bomba in procinto di esplodere: contento che tu sia venuto a patti con te stesso e risolto ogni conflitto interiore, ma preferirei evitassi di prendertela coi miei…collaboratori.» a disagio, battè due volte l’indice contro il lobo dell’orecchio sinistro «Ho già Pepper in ospedale, mi faresti un favore se non ci spedissi anche il mio chauffeur.»
«Credevo fosse la sua guardia del corpo.»
«Di Iron Man? Seriamente…?»
Hendrick aggrottò le sopracciglia, sollevò piano le labbra in un accenno di sorriso.
«Non posso darle torto.» si passò una mano dietro al collo «Davvero, signor Stark, mi dispiace. Sono desolato, ho reagito di istinto.»
«Vedi di tenerlo a bada, la prossima volta, o sarò costretto a licenziarti.»
«Preferirei di no: sfigurerebbe sul mio curriculum.»
Questa volta, la risata che abbandonò la bocca di Stark fu più leggera e genuina. Non durò molto, tuttavia rimase accanto a loro, un impalpabile bagliore catturato dagli occhi sinceri di Colin. Sembrava addirittura più giovane, con quell’espressione rilassata e serena sul volto.
Accortosi della stranezza dei propri pensieri, Tony deviò il discorso su qualcosa di molto meno felice, molto meno lieve, qualcosa in grado di sostituirsi col rombo di un terremoto al torcersi bollente delle viscere e al tremito sottopelle che come una scossa gli aveva attraversato le braccia.
«Eri a Manhattan durante la battaglia contro i Chitauri?»
Colin, ovviamente stupito dalla domanda bruciapelo e dal brusco cambiamento di tono avvenuto nella conversazione, emise un suono roco, a tratti ansioso, per poi agitarsi un poco sulla sedia e sfregare la nocca dell’indice contro la punta del naso.
«Ero a bordo dell’Helicarrier.» rispose, guardando altrove «Davanti ad uno degli schermi. Tenevo sottocontrollo la zona del Queens. Volevo assicurarmi che la mia famiglia fosse al sicuro.» uno sbuffo scevro di gioia, venato di ironia e autocommiserazione «Molto egoistico da parte mia, lo ammetto.»
«Cosa hai pensato, quel giorno?»
Tony già sentiva la schiena tendersi, le vertebre praticamente scricchiolare. I polmoni guairono, il sangue cominciò ad irrancidire nelle vene.
«Ho pensato che era la fine.» Hendrick appoggiò gli avambracci sul tavolo di linoleum bianco «La fine di tutto. Di ogni cosa. Del mondo. Di noi. Di me. Della razza umana. Ho pensato a mio padre e al fatto che non lo avrei mai potuto accompagnare al MET per il suo compleanno, perché non ci sarebbe stato più nessun MET da visitare, nessun compleanno.» prese un profondo respiro, serrando le palpebre «Niente di niente. Non sarebbe rimasto nulla di noi, soltanto cenere e storia. Assoggettati ad un potere dispotico, avremmo perso finanche il nome di Essere umani, troppo stanchi e sfibrati e dilaniati per tentare una qualsiasi ribellione. Poi…»
«Poi…?» lo incalzò Stark e nemmeno si era accorto di essersi teso in avanti e del calore al torace, del respiro regolare, dei nervi tesi, sì, ma non per paura, non per terrore, non per soffocamento, bensì in attesa di un proseguo, di un continuo, della verità.
Colin riaprì lentamente gli occhi e il chiarore delle iridi era tanto violento da far male.
«Poi sono apparsi i Vendicatori.» sussurrò «E Iron Man era il loro leader.»
Era meglio per tutti, pensò Tony, se si lasciava sfumare la conversazione e si tornava al lavoro, ognuno ai propri posti, ognuno al proprio silenzio, ai propri demoni e fantasmi. Il magnate li odiava, dal primo all’ultimo, ma odiava ancora di più la nauseante debolezza che l’aveva portato a svicolare il resto del discorso, le conseguenze di esso, piuttosto che affrontare faccia a faccia non tanto l’interlocutore –Che gli importava di Hendrick? Del MET o del compleanno del padre?- quanto un ricordo indelebile, sangue e lamiere, il vuoto dello spazio, il peso della testata nucleare sopra la spalla, in mezzo alle scapole, dentro al cuore.
«Pausa finita.» dichiarò allora, la voce appena più gonfia e goffa, ostruita di fumo e dall’olezzo acidulo dei Chitauri.
Colin tirò indietro la sedia e sorrise, una mano già alla tasca dei pantaloni.
«Lasci, signor Stark, offro io.»
«Mi sembra il minimo.»
E mentre la risata dell’altro gli vibrava attorno come un’aura, il magnate delle Industries sbatté le palpebre e deglutì, il fiato una spilla incandescente attraverso le costole.
La cosa che lo sorprese –Ed inquietò- fu che in quel breve lasso di tempo non aveva avuto alcun attacco di panico.

 

Località Sconosciuta.
Cella Di Sicurezza.
2011

 

Gail Runciter era abituata alle missioni in isolamento e sapeva esattamente cosa aspettarsi da sè e da coloro con cui si sarebbe trovata a convivere.
Non appena dalle alte sfere le avevano comunicato di essere appena entrata a far parte del corpo di sicurezza, era stata conscia delle conseguenze, sopportabili o meno, cui avrebbe dovuto far fronte. Le aveva elencate mentalmente mentre stilava la lista di utili da portare e li aveva pigiati nella coscienza alla stregua di vestiti dentro una valigia.
Dapprima ci sarebbe stato il senso di spaesamento causato dalla situazione in generale. Poi avrebbe cominciato a stabilirsi una autonomia di movimenti e pensieri, un ciclo di abitudini e norme di comportamento non scritte, turni e aiuti, pause e svaghi. Poi l’equilibrio avrebbe cominciato a traballare e pendere, sarebbe arrivato il nervosismo, la pelle d’oca, l’accettazione ed il rifiuto, la claustrofobia, i gruppi, i ribelli e gli asserviti, la gerarchia e le sommosse, girandole e ghironde fino a quando tutto non si fosse assestato per venire scombussolato di nuovo, più avanti, in maniera più profonda, per arrivare all’autodistruzione più completa e devastante.
Per coi continui calcoli e le supposizioni e l’esperienza, Gail non si sarebbe mai aspettata un effetto così destabilizzante quanto quello prodotto da un membro della squadra medica. In particolar modo, dopo i flirt più o meno palesi e caldi, le battute, i sottintesi, non si sarebbe mai aspettata di trovare l’uomo con la testa affondata tra le cosce di uno dei propri Agenti.
Forse aveva sottovalutato il problema della solitudine o il proprio sottoposto non scherzava quando diceva di preferire un cocktail con Richard Gere, invece di un dopo cena in compagnia di Rihanna.
Dopo lo smacco subito per colpa del soggetto –I sette Agenti mandati knock out erano colleghi, dannazione!, ed il non richiesto arrivo della Task Force, la scoperta di due uomini in atteggiamento intimo nella dispensa era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso –E tanti saluti all’igiene, comunque.
L’immagine dell’Agente che reclinava la nuca ed esalava un ansimo da pornodivo e affondava le dita nei capelli del medico e tendeva i muscoli e sudava e gemeva non sarebbe scomparsa così presto come Runciter sperava.
Come se non bastasse, poi, il soggetto aveva deciso di dare il suo contributo alla giornata già storta e in procinto di peggiorare ancora: fuori dalla porta del suo alloggio, oltre a non esserci nessuno a montare la guardia, c’era il piatto intonso del pranzo, col purea flaccido e la carne più dura di una suola da scarpe. Secondo i calcoli di Gail, il cibo era intoccato da almeno un paio d’ore.
Non erano affari suoi, maledizione, non lo erano –Nemmeno sarebbe dovuta passare per quel corridoio, ma aveva il bisogno di sbollire la rabbia e camminare era l’unica valvola di sfogo permessa. Legale, almeno- eppure la vista di quel piatto abbandonato e dell’assenza dell’Agente di guardia –Guarda a caso, proprio lo stesso che aveva scoperto nel mezzo di una visita invasiva a domicilio!, la fecero salire il sangue al cervello.
Al diavolo gli ordini, al diavolo il non dover avere per nessun motivo, in nessun caso, contatto col soggetto, la donna entrò di violenza nella sua stanza, il corpo vibrante di rabbia, gli occhi che mandavano lampi e il petto che s’alzava e s’abbassava con violenza.
Si aspettava di trovare il soggetto disteso sulla branda, addormentato come sapeva trascorrere le giornate anche quando Marlowe non era insieme a lui per…Qualunque fosse la terapia o le sedute cui il dottore lo sottoponeva. Al contrario, il soggetto era intento a prendere a pugni l’aria, lo sguardo concentrato e duro, il un rivolo di sudore che scendendo dalle tempie andava ad imbiondirgli l’attaccatura dei capelli all’orecchio destro.
Gail si bloccò sulla soglia, il respiro ratto in gola. Il cuore perse un battito.
Intorno a lui l’aria vibrava e cantava. Ad ogni guizzo di braccia e muscoli, pulviscolo dorato sbuffava, ridacchiava e s’annodava alle striature di luce che gli tagliavano in obliquo fronte e ciglia. Emanava vigore e sicurezza, era un ritaglio eclatante ed eccezionale, un frammento abbagliante e fuori dal tempo, struggente e bello.
Il soggetto rizzò la testa e si sistemò in posizione di difesa, gli occhi guardinghi e sospettosi, sebbene più pronti alla fiducia di quanto Runciter avrebbe mai potuto pensare da parte di un uomo rinchiuso in gabbia a confronto con uno dei suoi carcerieri.
«Io…» esordì la donna e deglutì, la bocca secca, la trachea un nodulo di cartilagini e pesante sorpresa «Ho visto il piatto e…Non mangi? Non ti fa bene. Devi sottoporti ai test e…»
«Con tutto il rispetto, ma’am, ma sono dell’idea che i test si tengano comunque, con la mia salute o meno. Soprattutto, con la mia approvazione o meno.» la interruppe il soggetto e la voce di lui era così calda, che il torpore alle guance e al seno le fece immediatamente dimenticare il fatto di aver appena trasgredito alla regola numero uno: non parlare col soggetto, non avere contatto alcuno col soggetto, non permettere all’ambiente esterno di penetrare nelle difese e nella persona del soggetto.
Al diavolo, al diavolo tutto, persino al battito del cuore, al tremore ai polsi.
«Non…» tentò di riacquistare un minimo di dignità con un colpetto di tosse «Non dovresti lo stesso saltare i pasti.»
Un sorriso di accondiscendenza sbocciò all’angolo della bocca del soggetto e non raggiunse mai gli occhi, che rimasero immoti e malinconici, indispettiti e tristi.
«Posso chiederle il suo nome, ma’am?»
Gail aggrottò le sopracciglia.
«Prego?»
Il soggetto, cortese, annuì e con garbo ripetè la domanda.
«Gail» mormorò allora la donna, ignorando le proteste della ragione –In che caos si stava andando a gettare, per l’amor di Dio? «Gail Runciter.»
«Grazie mille, miss Runciter» disse lui, allora, chinando il capo in segno di saluto «Posso chiederle, allora, visto che è l’unica persona qui presente ad avermi rivolto la parola, dove mi trovo?»
«Mi dispiace. Sono informazioni riservate.»
«Comprendo.» e a Gail non sfuggì il lampo più scuro delle iridi, l’affilarsi delle pupille ed il contrarsi della mandibola «Posso però azzardarmi a chiederle un ultimo favore, prima che l’Agente preposto alla mia guardia la trovi qui e le faccia rapporto?»
Non un tremito attraversò la voce della donna, per quanto la gravità di ciò che aveva fatto le appariva ora in tutta la propria, mostruosa intensità –Per quegli occhi, però, per quegli occhi e quella voce pensò stupidamente che nessuna regola e nessun ordine poteva, né doveva esistere. Se ne sentiva avvolta, placata e sconvolta all’insieme, una commistione di emozioni da cui, in diverse circostanze, era sicura si sarebbe tenuta ben lontana.
«Dimmi.»
«Un libro.»
Gail sollevò le sopracciglia, allibita da una richiesta tanto semplice e curiosa. Si era immaginata un piano di fuga o che altro, ma un libro…Sì, certo, ne aveva più di un paio nel proprio alloggio –Quando si trattava di missioni in isolamento, la donna passava la settimana prima a fare incetta di letture, di qualsiasi lunghezza e genere.
Tuttavia non sapeva se era il caso. Se lo avessero scoperto? Come giustificare la cosa?
L’avrebbe nascosto e avrebbe mantenuto il segreto, la rassicurò il soggetto e il tono era così caldo che la donna sentì il cuore stringersi al pensiero di dirgli di no.
Era un libro, in fondo. Qualcosa con cui tenersi occupato, niente di più. Non violava alcuna regola, non andava contro nessun ordine. Era un libro. Carta stampata e caratteri ad inchiostro. Un libro. Niente di più che un libro…
Di soppiatto, allora, tornò in camera e, assicuratasi che l’Agente fosse ancora trattenuto da ben diverse e piacevoli attività, sgattaiolò all’alloggio del soggetto e gli consegnò il prezioso regalo: Il Grande Gatsby.
Gail l’aveva riletto più di una volta e forse anche in virtù le venne in mente un passaggio particolare, non appena le mani del soggetto presero il volume con uno sfiorarsi involontario di dita e pelle, ed egli, letto il titolo, sorrise –Sorrise davvero.

In Gatsby c’era stato un cambiamento semplicemente sconcertante: splendeva, né più né meno: senza una parola, né un gesto di trionfo, un benessere nuovo emanava da lui riempiendo la stanza.

 

 

Stark Industries, Los Angeles.
Atrio.
2013

 

Escludendo l’Agente Romanoff, Happy non riceveva una batosta del genere dai tempi di Battlin’ Jack. L’esplosione improvvisa all’altezza dei polmoni, la bombarda che gli aveva scosso cassa toracica e cranio, l’attimo di stordimento ed il respiro tranciato a metà…Il disorientamento era stato tale da indurlo a credere di essere ancora sul ring, parecchi anni prima.
Finanche il sapore metallico del sangue gli era parso mescolato alla polvere dei locali di bassa lega e gli occhi improvvisamente opachi aveva restituito al cervello il bagliore umido, scatarrante della folla e del marciume, dell’illuminazione fosca e dello sbrillio untuoso del sudore.
Passata la confusione e ripreso un contatto più produttivo con la realtà circostante, Happy non aveva potuto non chiedersi cosa avrebbe pensato il Diavolo Rosso di quel colpo al plesso solare. Nel silenzio della palestra vuota –Hogan aveva un ricordo sbiadito di Stark che trascinava via Colin di peso.- il ricordo di Jack Murdock gli provocò una dolorosa fitta alle tempie.
Ripensare al vecchio pugile –Al vecchio amico- gli faceva ancora male, nonostante il tempo trascorso. L’unico modo per lenire in parte la malinconia e la tristezza era intrattenersi nello studio di suo figlio, appena entrambi avevano una mezz’ora di ritagliarsi.
Happy aveva visto il piccolo Matt aprirsi la strada nel mondo e nel buio a dispetto degli ostacoli, delle sfortune che la vita gli aveva buttato addosso e ne era fiero. E forse perché lo conosceva, forse perché sapeva quanto valesse, quanto coraggio avesse e di che stoffa fosse, Happy non aveva dubbi sulla veridicità delle voci che circolavano riguardo lui e Devil.
Ovvio, si sarebbe tagliato le mani o reciso altre parti anatomiche di una certa rilevanza piuttosto che dirlo ad alta voce, o vendere la storia ai giornali. Persino a Stark aveva nascosto la cosa e non si sentiva in colpa. Gli bastava che entrambi uscissero vivi e vegeti dai loro giochi da “Guardia e Ladri”, col minor numero di ferite possibili e nei posti meno improbabili, e avrebbe continuato a convivere tranquillo con quella scompaginata dicotomia essere umano-costume –O scafandro, datosi l’alias di Tony.
Adesso che ci pensava, la storiella di Colin poteva raccontarla anche a Matt e a Foggy. Matt, ne era sicuro, avrebbe riso di quella risata piena che ad Happy ricordava il bimbetto segaligno e tutt’ossa che passava le giornate chino sui libri invece di correre e sbucciarsi le ginocchia con gli altri mocciosi di Hell’s Kitchen, pesti urlanti che non valevano neanche la metà del ragazzo.
Un pensiero improvviso e scardinato dal precedente, mentre rassettava la cravatta e faceva una compita entrata nell’atrio, fu che anche Virginia avrebbe riso di gusto a quell’aneddoto.
Per Hogan non fu difficile disegnare il profilo della donna, le belle labbra che si sollevavano e gli occhi che rilucevano tra le ciglia sottili. Immaginò la linea della spalla e le braccia eleganti in contrasto con l’azzurro smunto del lenzuolo, i capelli rossi sul guanciale bianco e il petto minuto una riga sinuosa che s’abbassava a seguire l’andamento del ventre e delle gambe appena flesse.
Il sorriso affiorò alla bocca di Hogan e questi s’affrettò immediatamente a nasconderlo quando vide arrivare Hendrick, la mano alzata in segno di saluto e la figura frettolosa di Stark che sgattaiolava via, lungo le scale e poi nei corridoi che portavano al suo ufficio.
«Signor Hogan!» lo salutò Colin e gli si piazzò di fronte, il viso affranto «Signor Hogan, volevo scusarmi per l’increscioso incidente avvenuto in palestra.»
Happy alzò una mano, come a dirgli che era tutto dimenticato.
«Mi offrirai qualcosa.» lo rassicurò «Piuttosto, chi ti ha insegnato a boxare? Vecchia scuola? Sembri uscito direttamente dalla Stillman Gym.»
L’Agente sviò l’argomento con un sorriso imbarazzato, borbottando qualcosa sull’aver avuto più di un maestro e di essersi in parte formato menando calci e pugni ai ragazzotti che volevano rapinare il supermarket indiano.
«Va a fare visita a Miss Potts?» si informò Colin, grattandosi il setto nasale e affiancandoglisi «Che fiori le porterà questa volta?»
Happy gli concesse bonariamente quel cambio di discorso e sbuffò.
«Nessun fiore. Le infermerie si sono lamentate e mi hanno accusato di star trasformando l’ospedale in un vivaio.»
L’altro rispose con qualcosa di probabilmente arguto o magari solo accondiscendente, ma Hogan già non lo ascoltava più: ogni attenzione era adesso rivolta ad un tipo losco e per nulla raccomandabile stravaccato a in una delle poltroncine di pelle color crema. Era ambiguo e Happy aveva fiuto per certe cose –Non per niente, oltre ad essere, od essere stato, la guardia del corpo di Iron Man, aveva assunto il ruolo di Capo della Sicurezza delle Industries. Lavoro che svolgeva in maniera egregia, tra parentesi.
Capelli cortissimi, tagliati quasi a zero, cranio ovale e fronte appena bombata, occhi allungati e ravvicinati tra loro, divisi da un naso sgraziato e sormontato da sopracciglia aguzze. Completo antracite, bello, di marca, e camicia bianca e stropicciata, cravatta allentata, arrotolata alla bell’e meglio sul torace ampio, tutto in lui gridava strafottenza al limite dell’irritante. La gamba destra era mollemente a dondolare sul bracciolo, le spalle di traverso e sfogliava una rivista con la grazia di uno scimmione maleducato, c’era altro da aggiungere? Ah, sì. Non indossava il badge.
Ambiguo. Ambiguo e pericoloso come lo sguardo che il tizio gli rivolse. Un’occhiata penetrante, divertita e ferina, in grado di fargli salire i brividi lungo la schiena.
«Signor Hogan…?»
Happy si sentì toccare una spalla e se non sussultò fu unicamente grazie al magistrale autocontrollo che aveva allenato in compagnia di Stark.
«Sì, Hendrick?»
«Il Rocky Mountain Chocolate Factory.»
«Come…?»
Una striatura cremisi attraversò l’orecchio di Colin, che si schiarì la gola e sfregò il pollice destro sul palmo dell’altra mano.
«Dicevo, visto che le infermiere si sono lamentate dei fiori, potrebbe portare a Miss Potts del cioccolato.»
«Del cioccolato.» Hogan aggrottò la fronte «Sei serio?»
«Lo sono…?» e Happy si morse la lingua e si trattenne dal ridere alla sfumatura interrogativa che aveva assunto l’affermazione dell’altro.
«Fiori e cioccolatini, come ai bei tempi andati.» commentò «Come hai detto che si chiama, il posto?»
«Rocky Mountain Chocolate Factory» ripeté Hendrick, diligente e molto più rilassato «E’ vicino al Grauman’s Chinese Theatre.»

 

Eric Savin attese che il grassone e l’allampanato uscissero dall’atrio chiacchierando e cianciando come vecchie comari. Quindi spinse la lingua nell’incavo della guancia, sogghignò e trasse il cellulare dalla tasca: compose un numero, guardando i tasti una volta sì e l’altra no, gli occhi che roteavano eloquenti alle impiegate rigide ed impettite, fresche di parrucchiere e adorabilmente zuccherose nei tailleur organza.
Dall’altra parte della cornetta rispose una vocettina smangiata, stridula, irrequieta.
«Savin…?»
«Taggert.» sibilò Eric, socchiudendo malevolo le palpebre «Sei mai stato al Grauman’s Chinese Theatre?»

 

 

Los Angeles Mercy Hospital.
Stanza Di Virginia “Pepper” Potts.
2013.

 

Virginia stava fingendo di non pensare al fatto che Happy fosse in ritardo e la cosa le stava riuscendo pure abbastanza bene. Vero, di tanto in tanto le capitava di bloccarsi a metà di una frase, alzare la testa dal libro e voltarsi in direzione della porta, però mano a mano che Pierre Bezuchov sciorinava le sue teorie sulla Bestia e il destino di Napoleone, quegli strappi alla lettura di Guerra E Pace andavano diradandosi.
Che poi non fosse comunque in grado di prestare attenzione allo svolgersi degli eventi e fosse costretta a rileggere sempre la stessa frase per cogliervi un senso, bhè, era un dettaglio trascurabile.
Happy non era mai stato in ritardo, al contrario, l’aveva sentito piuttosto spesso discutere con le Infermiere perché era arrivato in anticipo rispetto all’orario di visite e voleva entrare comunque, perché, in fondo, cosa cambiavano cinque o dieci minuti? Era la guardia del corpo di Tony Stark, era una persona di fiducia e di certo non nascondeva cibi, né medicinali di contrabbando nella giacca del completo o dentro al mazzo di fiori.
Pepper si succhiò le labbra per nascondere il lieve sorriso, dicendosi che Pierre Bezuchov aveva le sue ragioni per ritenersi il messo della profezia apocalittica e che sarebbe stata buona norma prestargli le dovute attenzioni.
Ma il sole che si dibatteva tra le nuvole infiocchettate di pioggia latente creava graziosi ed aggraziati giochi di luce sui petali dei narcisi, e lei si ritrovò per l’ennesima volta a contemplare i fiori che Happy le aveva portato il giorno prima e a sorridere al ricordo. Tese l’indice all’interno del libro per tenere il segno e reclinò la nuca sul cuscino, girando appena il volto per avere una visione migliore delle corolle bianche e del cuore giallo, tanto acceso e violento da far male agli occhi e piangere il cuore.
Si abbandonò ad un lungo sospiro, mentre la dolcezza lasciava il posto alla malinconia e la bocca ancora pallida si contraeva un poco.
Pepper non era una bambina ed era più che consapevole di come le gentilezze di Happy andassero oltre la cortesia ed il garbo.
Virginia lo aveva conosciuto il giorno del colloquio per il posto di segretaria alle Stark Industries e non aveva scordato le parole che Tony le aveva rivolto il primo giorno di lavoro.

Sembra che lei abbia fatto un’ottima impressione alla mia guardia del corpo, miss Potts. Le labbra si erano piegate in un ghigno di strafottenza Mi dimostri che non è stato solo grazie al tailleur di Chanel.
Era bastata quella frecciatina impudente perché ogni traccia di lusinga finisse in pezzi e la figura fiduciosa di Hapy mutasse in quella in quella irriverente di Stark.
Ed era proprio per questo, in virtù del magnate che Virginia avvertiva un fastidioso senso di angoscia torcerle la gola al l pensiero di come i fiori, i sorrisi, le visite la facevano sentire.
Sebbene la storia tra lei e Tony fosse finita da mesi, sussisteva tra loro una certa complicità, una tenerezza scevra di sentimentalismo, ancora in grado di legarli saldamente a filo doppio.
Ammettere a se stessa l’interesse per Happy e permettere ad esso di sciogliere uno dopo l’altro i nodi che la tenevano stretta a Tony, era un rischio che non si sentiva pronta, né disposta a correre.
All’imbarazzato tamburellare contro lo stipite, Virginia sobbalzò. Sollevò la testa e torse il collo; il sorriso che, nonostante le elucubrazioni di cui si era resa protagonista, le era nato sulle labbra si oscurò.
«Disturbo?»
«Assolutamente no, Colin. Entra pure.»
L’altro annuì, rassettò il cardigan beige e, afferrata una seggiola vicina alla porta, si accomodò vicino a lei.
Pepper intrecciò le dita in grembo.
«Tony ha messo mano al tuo armadio?» domandò, scherzosa, accennando alla camicia azzurro pallido e alla cravatta scura solcata in obliquo da sottili linee bianche.
La punta delle orecchie di Hendrick pizzicò di rosso e dalla risata balbettante che le diede in risposta scaturì un naturale senso di simpatia.
«No» disse l’Agente, la fronte un poco china e la mano a sfiorare la base della nuca «Ma il signor Stark ha voluto che boxassi col signor Hogan e non mi pareva adatto venire a farle visita in simili condizioni, miss Potts.»
«Virginia» lo corresse lei «E non ti preoccupare, boxare con Happy è un rito di passaggio per ogni segretario mandato dallo S.H.I.E.L.D. Chiedi pure a Natasha per conferma.»
Colin annuì, o meglio, compì un movimento con la testa che poteva assumere molteplici significati e al tempo stesso non dire nulla.
Pepper attese una manciata di secondi che l’altro continuasse la conversazione: tuttavia, Hendrick si limitava a schiarirsi la gola, palesemente a disagio, a stringere le ginocchia tra le dita e a guardarsi intorno alla ricerca di un qualcosa indefinito.
«Devi dirmi nulla?» tentò di dargli l’imbeccata lei, sollevando le sopracciglia e sporgendosi impercettibilmente nella sua direzione.
«Ahm.» Colin sfregò i palmi sui pantaloni neri e deviò lo sguardo «Io non…Sono sicuro che abbia senso, ma…»
«Ma…?»
«Ma sono preoccupato per il signor Stark.»
Virginia aggrottò la fronte ed un campanello d’allarme le risuonò nel petto, sconquassando costole e spina dorsale. Si adagiò con la schiena contro il guanciale, prese un respiro, serrò la bocca e le labbra sbiancarono.
«Perché lo pensi?»
«Le occhiaie.» rispose, passandosi più volte l’indice sul sopracciglio destro «Le bottiglie in ufficio che cerco in tutti i modi di far sparire la mattina, ma che riesce a far apparire –Mezze, se non completamente- finite il pomeriggio. Lo sguardo allucinato, a volte mi sembra quasi faccia fatica a respirare o a rimanere lucido. Come se si perdesse» scrollò il capo «Temo soffra di insonnia e in molte occasioni l’ho trovato addormentato sulla scrivania. Inoltre, devia il discorso non appena si va a toccare la battaglia contro i Chitauri. E…»
«Niente è stato più lo stesso, dopo New York.» lo interruppe Pepper e le parole scricchiolavano come vetro crepato, in procinto di rompersi «Vivi esperienze al limite e poi tutto finisce senza una spiegazione. Dei, alieni, altre dimensioni…Tony» emise un rapido colpo di tosse, girò la testa perché Colin non vedesse le ciglia inumidirsi, le iridi farsi liquide «E’ Iron Man, d’accordo. Ma è soltanto un’armatura: sotto di essa, è semplicemente un uomo. Un uomo brillante, un uomo cui tengo e per cui darei la vita. Però sempre un uomo. E gli uomini crollano, Colin.» preso coraggio, tornò a rivolgere l’attenzione su di lui «E Tony è in tensione da troppo tempo, sta arrivando al limite. Mi aveva chiesto di andare a vivere insieme e…Io ho rifiutato. Non perché non lo amassi» chiarì «Tuttavia, avevo capito che nella sua esistenza non c’era posto per me, così come non c’era posto per se stesso. Unicamente Iron Man contava, non c’era spazio per altro, né per altri.»
A punta di dita, Virginia disegnò le grinze del lenzuolo ed evitò accuratamente gli occhi pietosi di Hendrick, la bocca compassionevole, l’espressione abbattuta.
«Il Laboratorio di Malibù è stato smantellato, ogni cosa portata alla Tower di Manhattan.»
«Alla Tower?» intervenne Colin «E’ ancora distrutta…!»
«In parte.» replicò Pepper «Agente Hendrick, per quale missione pensi di essere stato chiamato?»
L’uomo corrugò la fronte e balbettò, smozzicò lettere prive di senso, confuse e perplesse, masticò risposte secche e incompiute, fece spallucce, torse il collo, si grattò il polso.
«Per proteggere il signor Stark.»
«Il signor Stark o Iron Man?»
Pepper lo osservò in silenzio mentre assorbiva l’entità intrinseca della domanda, mentre ne coglieva le sfumature e la reale portata.
«Iron Man ha molti nemici ed un’armatura per combatterli.» disse lei «Ma Tony Stark ne ha solo uno, contro cui non ha difese.»
«…Lui stesso.»
Virginia non commentò oltre e distese le dita affusolate sul tessuto spiegazzato della coperta, le dita equidistanti tra loro. Anche Hendrick rimase in silenzio, forse per rispetto, forse per ragionare o pensare a quanto aveva appena scoperto, a lei non importava: le interessava il silenzio ed il flebile, sottile profumo dei fiori che s’arricciolava impalpabile nella stanza.
«Che strano.» sussurrò, rivolgendo gli occhi alla finestra e alla luce giallastra dei lampioni che s’arrampicava sul vetro «Happy è in ritardo stasera.»

 

10880 Malibù Point, 90265.
Casa di Anthony Edward “Tony” Stark.
2013.

 

Aveva bevuto, questo lo ricordava.
Quanti bicchieri, non lo sapeva.
Si era ritrovato per terra e non aveva idea di come, il pavimento era freddo sotto le gambe e la sola fonte di illuminazione ero lo schermo rettangolare piazzato al centro di quello che una volta era il Laboratorio di Malibù. Era vuoto, adesso, niente più macchine, niente più armature. Teche di vetro, polvere, ricordi. Chissà se a Dummy mancava Malibù, Tony non glielo aveva mai chiesto. Anche perché Dummy non era dotato di un sintetizzatore vocale e questo rendeva i dialoghi un po’ difficoltosi.
Ci avrebbe lavorato, una volta tornato a Manhattan.
Alla Tower, nel Laboratorio sotterraneo. Dove non c’era nessuno, dove era in compagnia di se stesso e di una, due, tre bottiglie di liquore e Dummy e le lamiere e lo sfrigolio eccitante della fiamma ossidrica. In compagnia di demoni e mostri che l’insonnia debellava e rendeva più vividi a seconda della quantità di caffè, a seconda della stanchezza, a seconda della frustrazione. Diavoli ed incubi, incrostati allo spirito, marcescenti, putrefatti, frutto della mente, scherzi del cervello.
Non erano tangibili, non ci si poteva affezionare loro. Non erano come le persone e Tony li odiava, odiava loro e odiava le persone, perché alle persone si finisce per attaccarsi, ad affidarsi, ad usarli come sostegno quando il mondo intorno è buio e non ci sono stelle e sei sul baratro e la sponda su cui cammini si riduce davanti e dietro e intorno e il gorgo mormora ruggisce e latra e cadere non è un’ipotesi, cadere è una soluzione, cadere è la sola alternativa.
Stark grugnì e soffocò un singhiozzo, piantò la mano contro la fronte e avvertì appiccicume e sangue impiastricciargli la pelle sudata. Aveva disegnato schemi e linee e calcoli sui palmi e sul dorso, con un vecchio cacciavite trovato per caso mentre colpiva il vuoto e urlava e abbaiava e strillava come un bambino e l’eco restituiva pianti e memorie e le pareti si dilatavano e si comprimevano, respiravano simili a polmoni di giganti, altrettanto paurosi e umidi.
Il metallo era freddo dentro la carne e Tony si era stupito di trovarla calda, quando dentro di sé non avvertiva che gelo ed orrore. Gelo, orrore, rabbia, vendetta, viscere bollenti, vene in fiamme, fiato elettrico, nervi avviluppati alle ossa, tentacoli di furia e ira e abbandono e ingiurie e bestemmie e lacrime acide, che scavavano solchi lungo le guance e intaccavano, distruggevano la trachea e l’esofago e lo stomaco.
«Fallo ripartire, J.A.R.V.I.S.» smoccolò, vomitando a stento suoni comprensibili e vermi di bile «Fallo ripartire.»

Signore tentò l’AI, conciliante Nelle sue condizioni non mi sembra il cas—
«Fallo ripartire!» latrò e allo stridere delle corde vocali si sostituì il frusciare mellifluo, accattivante del Mandarino.
Il tono aveva la cadenza di un sermone, la medesima magia, la stessa illusione di intrecci melodici e verità assolute, di padre che spiega la morale di una fiaba al bambino che lo osservava ad occhi sgranati e s’abbeverava di qualunque cosa gli pende dalla bocca ghignante.
Potere assoluto, assoluta distruzione.

I miei discepoli hanno appena distrutto un’altra imitazione americana mediocre e c’era fuoco e cenere e corpi divelti sbranati stracciati strappati disarticolati e fumo e il cielo era nero, era nero anche il dolore, come era anche il lutto Il Chinese Theatre.

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Capitolo 7
*** { Gazza Ladra ~ File 0.6 } ***


ood6

 

{ Gazza Ladra ~ File 0.6 }

 

 

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.

 
«Rapporto Missione.»
L’Ufficio era stato messo in sicurezza di modo che a nessuno venisse l’idea di ficcanasare nei suoi affari. L’unica luce presente era quella dell’ologramma al centro della stanza: una figura d’uomo patinata d’azzurro, lineamenti rigidi, lo sguardo freddo, la voce incolore.
Alexander Pierce lo osservava con le reni appoggiate al bordo della scrivania ed un bicchiere di bourbon nella mano destra. Era vestito impeccabilmente: completo grigio e panciotto, scarpe lucide, anelli d’argento alle mani, colletto inamidato e cravatta a righe. Aveva  posato gli occhiali da vista accanto ad una bottiglietta d’acqua a marchio S.H.I.E.L.D. Quando era concentrato su qualcosa, le lenti sul naso erano più un peso che un aiuto.
«Rapporto Missione.»
L’ologramma intrecciò le dita dietro la schiena, raddrizzò le spalle. Un assetto ed un portamento marziali difficili da nascondere, resi ancor più netti dai piedi distanziati e ben piazzati sul terreno, ed il petto in fuori.
«Attacco al Grauman’s portato a termine con successo.» rispose, metallico «Harold Hogan è deceduto.»
Pierce storse la bocca in una smorfia che poteva essere di soddisfazione quanto di semplice presa di coscienza. Fece roteare il bourbon nel bicchiere, gli occhi conficcati in quelli al vetriolo dell’ologramma; si portò il bicchiere alle labbra. Non bevve.
«Stark?»
«Confinato nella sua dimora di Malibù.»
«Ha avuto contatti con qualcuno?»
«Nessuno, signore.»
«Mh.»
Pierce socchiuse le palpebre solcate di rughe molli, un guizzo trapassò le iridi grigio-azzurre. Pareva in preda al sospetto, in ascolto di un bisbiglio ignorato da chiunque, tranne che da lui stesso.
«Molto bene.» disse, infine «Procedi.»
L’ologramma chinò la testa in un cenno di assenso ed obbedienza.
«Agli ordini, signore. Heil HYDRA.»
«Heil HYDRA.»
Lasciando che l’immagine si assottigliasse fino a diventare una lamina bluastra poi risucchiata dal pavimento, l’uomo allungò una mano al telefono della scrivania. Sollevò la cornetta, digitò tre cifre, quindi pressò il tasto per le chiamate rapide. Appena dall’altra parte presero la linea arcuò le sopracciglia, provocando un gran sconquasso di rughe arzigogolato sulla fronte.
«Manda gli elicotteri» disse «E fate terra bruciata intorno a Stark.»
Rimaneva un’ultima cosa da controllare: i dati contenuti nella chiavetta di Fury.

 

 

 

Località Sconosciuta.
Cella Di Sicurezza.
2011

 

 
Il dottor Marlowe sfilò gli occhiali dal naso e contrasse la mandibola: il massiccio osso zigomatico ebbe un guizzo indispettito che trasfigurò i tratti del volto. Mai come in quel momento il viso del medico era apparso come una maschera di sughero, una pantomima di lineamenti abbozzati su di un grumo d’argilla.
Qualcosa di storto emergeva dalla piega della mascella, altri occhi nei bulbi grossolani e sgraziati, una seconda bocca al di sotto delle labbra gonfie. Persino il torace a botte sembrava sul punto di esplodere. Il dorso delle mani scintillò di filamenti fulvi ed il cranio venne avvolto un momento dalla medesima aura rossa, un bagliore espanso a disegnare il contorno luminescente di una barba assai folta.
Il suo essere vibrava, tassellini di vetro bisbigliavano sulla sua figura come specchi deflettori; sul completo tremolavano schizzi intermittenti ed interferenze, microscopiche saette verdastre e azzurrine che lo mettevano a fuoco e lo sfocavano, riassestandolo su canali diversi.
La causa della sua ira era da ricercarsi nel soggetto addormentato, sulla branda dinanzi a lui.
Qualcosa nella seduta non stava funzionando a dovere. Non stava funzionando come avrebbe dovuto e come era stato in tutte le sedute precedenti e come avrebbe dovuto continuare anche nelle sedute a venire. Il dottor Marlowe lo considerava un ostacolo, un stop non richiesto e potenzialmente pericoloso.
Decisamente pericoloso
Fino a quel momento il soggetto aveva risposto senza resistenza alcuna alle suggestioni che gli erano state impartite. Scivolava nel buio mellifluo della voce del medico e non frapponeva alcuna barriera tra sé ed il proprio inconscio, si piegava docile e docile si genufletteva, dimenticava, ricordava ciò che Marlowe voleva ricordasse e soltanto nelle modalità che era Marlowe stesso a decidere.
Il risveglio improvviso del soggetto e la confusione erano stati il terreno migliore in cui intrappolare il suo inconscio: per le alte sfere era inconcepibile pensare che un uomo così addestrato, abituato a trovarsi nelle situazioni più disparate e disperate potesse cedere alle lusinghe delle stimolazioni psichiche.
Marlowe, che ne era maestro indiscusso, aveva spiegato loro come proprio l’addestramento militare era stato il tallone d’Achille del soggetto e la loro benedizione, la loro manna dal cielo ed altre citazioni bibliche di sorta: il soggetto, appena ripreso conoscenza, si era subito posto in difesa assoluta. All’erta e vigile, i sensi pronti, i nervi saldi, studiava ambiente e persone, mandava a mente turni delle guardie e i volti dei medici che si occupavano dei test, non c’era dubbio alcuno che si fosse già fatto un’idea riguardo il numero di persone coinvolte e della planimetria parziale del sotterraneo.
Un soldato come non esistevano da decenni. Un perfetto esempio di disciplina e contegno marziale.
Sul piano fisico e tattico nessuno sarebbe stato capace di prenderlo in contropiede, tanto meno ingannarlo o manipolarlo per scopi più o meno personali, per i fini più disparati. Ma in tutto in quello, il soggetto aveva dimenticato di nascondere e proteggere una parte di sé la cui importanza era pari o superiore a strategia e sopravvivenza: l’uomo che viveva dietro il militare.
Oh, come la parte molle di un mitile che apriva e schiudeva le valve alla giusta pressione, al giusto calore, così il passato del soggetto si era aperto e schiuso a Marlowe, al suo tocco sapiente, ai suoi mendaci sussurri.
Le alte sfere potevano tenere in mano la persona fisica del soggetto, lui ne aveva in mano spirito ed integrità morale, molto più malleabile e plasmabile.
Almeno finché un risveglio più profondo di quello meramente sensoriale non fosse arrivato a scombinare i piani.
L’ordine perentorio di mantenere il soggetto in completo isolamento non era stato dettato a caso, Marlowe l’aveva richiesto per motivi ben precisi: lasciare che il mondo penetrasse all’interno del microcosmo narcotizzato del soggetto equivaleva a far uscire il soggetto medesimo da esso. Mostrargli un accenno di realtà al di fuori delle mura, le brandine, le sedute, i test nebulosi avvolti in atmosfera di sogni e di oppio, significava ampliare le sue vedute, i suoi sensi, mettere sul chi vive curiosità e coscienza. Renderlo vigile in ogni fibra del proprio essere, non solo in risposta meccanica ad istinti che andavano al di là del susseguirsi delle decadi.
Fino a quel momento Marlowe era stato convinto di aver mantenuto il soggetto in una bolla impenetrabile, una gabbia le cui porte erano impossibili da spalancare e di cui era il solo a possedere le chiavi.
Fino a quel momento, appunto.
Qualcosa era intervenuto ad incrinare il legame creatosi tra manipolato e manipolatore e se il medico non ne avesse scoperto al più presto la causa, le conseguenze sarebbero state incalcolabili. Qualunque fosse stato l’evento, non si sarebbe più dovuto ripetere. Il colpevole doveva essere eliminato.
«E’ buio intorno a te» bisbigliò Marlowe, cercando di riprendere le redini della seduta «Il buio ti rende nervoso. Il buio ti fa male. Il buio ti ferisce. La luce è buona. La luce ti rilassa. Dalla punta dei piedi risale e rilassa le gambe, lo stomaco, ed il petto. La luce ha il colore che tu vuoi che abbia.» Sfregò le mani «La luce scaturisce dal fondo del buio. Ha il colore che tu vuoi che abbia, ti rilassa e ti calma. Scivola su di te, ti abbraccia e ti avvolge, ti rilassa. Che colore ha?»
Il soggetto, dalle cui palpebre semichiuse si intravedeva il disco opaco delle iridi, deglutì lentamente e lentamente sporse le labbra, a mormorare una risposta cadenzata e pesante, il tono di voce abbassato dal sopore e dal sonno.
«La luce verde di Gatsby.»
Un brivido d’allarme ragliò attraverso la spina dorsale di Marlowe e scosse le vertebre con un gran ghignare d’ossa e legamenti.
«Come dici?»
«La luce verde di Gatsby.» Ripetè allora il soggetto «Gatsby credeva nella luce verde. Il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa, domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia…»
E mano a mano che parlava, il medico osservò con orrore il processo di risveglio rovesciarsi nelle membra intorpidite: un fremito percorse i capelli e la sommità della testa, fino al naso, ramificandosi alle guance, al mento ed alla bocca. Il pomo d’Adamo si sollevò e ricadde, un singulto balzò alla gola, e le narici si dilatarono ad ingoiare una poderosa sorsata d’ossigeno. Il petto deflagrò per la potenza del nuovo respiro, i muscoli delle braccia ruggirono ed il boato che li aveva sconvolti riverberò ai fianchi, alle gambe, alle caviglie, ai piedi. Le nocche si contrassero, le dita si stesero e si serrarono, una vena emerse dalla carne, dal polso a di sopra del gomito. Le ciglia rabbrividirono, pagliuzze nere d’ombra si mossero sugli zigomi come foglie su uno specchio d’acqua. Le palpebre si incresparono, simili alle creste d’onda del mare, le correnti del pensiero s’agitarono e s’avvinghiarono, avvoltolarono sotto di esse.
Il soggetto aprì la bocca e reclinò il capo, la nuca puntellata al cuscino della branda; le spalle si piegarono all’indietro, il torace spinto in avanti: non diverso dal naufrago che getti la testa oltre il pelo dell’acqua alla ricerca di vita e salvezza, il soggetto agguantò coi denti il barlume di coscienza e si trascinò fuori dal gorgo e dal fango.
La sospensione cristallizzata nell’attimo, le palpebre spalancate, la voce ratta in gola e la trachea dilatata, le pupille gonfie e liquide ad ingoiare, assorbire ogni cosa all’intorno –Nutrirsi di ogni cosa e dell’intorno…Era sveglio.
Marlowe balzò in piedi e i cali di tensione che ne avevano minato la figura si erano di nuovo assestati sul robusto uomo di colore, dalle fattezze rassicuranti ed il sorriso gentile. Ma la paura ed il terrore rendevano gli occhi pallidi ed il fiato balbettante.
Faticosamente il soggetto appoggiò i palmi alla brandina, ne arpionò i bordi con le dita e si tirò a sedere, i piedi calzati nelle scarpe di tela aderenti al terreno ed il mento ancora piegato sullo sterno. La linea delle spalle ondeggiò mentre riprendeva equilibrio e controllo; il medico non ebbe nemmeno il tempo di proferire parola, che il soggetto aveva alzato la testa e lo sguardo era conficcato nel suo.
Il dottore non si sentì differente da una farfalla dietro il vetro di una cornice, l’ago di quegli occhi incredibilmente azzurri ed incredibilmente vivi che gli trapassavano l’addome da parte a parte.
Senza dire nulla, il soggetto drizzò la schiena e si levò in tutta la sua altezza. Una minima contrazione illividì la mandibola, un fulmine di rabbia opalescente sfolgorò attraverso la carne bianca.
«Questa volta credo sarà lei a rispondere alle mie domande.» Esordì, il tono più forte e intimidatorio, sicuro, privo di qualunque esitazione «Non sono nelle condizioni di accettare un suo rifiuto.»
«Non c’è bisogno di essere così duri» cercò di tranquillizzarlo Marlowe, con un sorriso lezioso «Sei confuso, lo posso capire.»
«Non sono mai stato più lucido.»
«Temo di dover dissentire. Sono il medico preposto al tuo recupero psicofisico in seguito alle circostanze della tua venuta qui e…»
«Chi lo ha deciso?»
Marlowe corrugò la fronte, un rivolo di sudore freddo a scivolare lungo la tempia.
«Prego?»
Il soggetto socchiuse le palpebre a fessura, il suo corpo fu attraversato da una scarica elettrica.
«Chi ha deciso che lei fosse il mio medico? Come sono arrivato qui? Dove sono?»
«Sono domande lecite, queste, tuttavia…»
«Nessun “Tuttavia”» il timbro era divenuto metallico e c’era ben poco spazio, ormai, per comprensione o cortesia di sorta «Pretendo le risposte che cerco.»
Il dottore arretrò di un passo, poi un altro ed un altro ancora, mentre il soggetto avanza ad ogni suo retrocedere. Non si faceva illusioni, Marlowe: se non avesse agito in tempo, se non avesse preso tempo, il soggetto lo avrebbe attaccato. Non lo avrebbe ucciso, il soggetto non uccideva, ma questo non gli era comunque di consolazione, né un invito a sottovalutare le sue intenzioni e le conseguenze che esse avrebbero avuto.

 

 

49 27 41 82 3 40
 Base Providence, Canada
2013

 

Avete mai ascoltato il suono che produce una sigaretta quando viene piegata e stritolata tra le dita? E’ un cantare molle di pagliuzze flaccide, uno scricchiolare di filtro e gemere inarticolato di carta. È un rumore metodico, come il tick-tock delle lancette.
Per stritolare una sigaretta c’è bisogno di una certa dose di maestria, perché abbia la stessa ritualità con cui la si fuma. La stessa devozione autodistruttiva, la stessa morbidezza di gesti, la stessa carezza coi polpastrelli mentre la si stringe tra le dita, la stessa piega delle labbra, che un po’ è sorriso, un po’ è l’anelare disperato dell’astinenza.
Natasha rompeva le Camel una per una e per Clint era un piacere guardarla. Non tanto per l’azione in sé, che, al contrario, gli provocava ogni volta un torcersi guaente di budella e viscere, quanto per la sensualità organizzata con cui estraeva la sigaretta dal pacchetto, la teneva due secondi tra pollice ed indice, inclinava il viso, lo osservava di sottecchi, quindi faceva scivolare il polpastrello del pollice fino a metà, usava la nocca dell’indice come perno e track-frush-clump, eccola distrutta.
Barton la fissava con fascinazione crescente, chiedendosi se fosse possibile per Nat non fare qualcosa senza provocare uno scompenso ormonale in qualunque essere maschile e femminile di passaggio. Probabilmente avrebbe sortito lo stesso effetto erotico aprendo una latta di pomodori.
Era d’obbligo convincerla a provare.
«Cosa ti è preso?» gli chiese Vedova, prelevando l’ennesima Camel.
Clint scrollò le spalle, a non voler dare alcuna importanza a quanto succedeva. Come se non esistesse alcun recondito, psicologico e psicolabile motivo dietro le proprie azioni, dietro le proprie scelte, dietro il proprio desiderio di autodistruzione. Come fossero soltanto dimenticabili incidenti di percorso.
«Clint.» lo chiamò di nuovo la donna «Rispondimi.»
«Che avrei dovuto fare, Nat?» sputò Barton, forse con più veemenza e acidume avrebbero voluto utilizzare nei suoi confronti.
Loki, seduto accanto a lui, si distese maggiormente sul divano e stirò le labbra sottili in un ghigno pallido. Cosa ben strana per uno spirito ciarliero e logorroico par suo, era rimasto in silenzio dalla scazzottata sulla neve fin al rendez-vous con Vedova Nera nella sala relax della Providence.
Rendez-vous.
…Diciamo più trascinamento forzato per un braccio. Molto forzato, visto che l’aveva praticamente tirato giù dal lettino dell’Infermeria dove Clint si stava infilando batuffoli di cotone nelle narici per fermare l’emorragia. Coulson se la batteva bene per essere un redivivo, questo Occhio Di Falco doveva concederglielo.
Era la questione del redivivo che non riusciva assolutamente a perdonargli. Un silenzio durato più di un anno, nessun tentativo di contattarlo o di cercarlo, di fargli pervenire un messaggio, un segno, qualsiasi cosa rischiarasse l’inghiottitoio in cui stava sprofondando, il pozzo di disperazione la cui imboccatura, ogni qualvolta alzava la testa, era sempre più lontana, sempre più irraggiungibile.
«Non stavo parlando di Coulson.»
Clint sbatté le palpebre, perplesso, e persino l’impalpabile divinità norrena concentrò su Natasha ogni attenzione. Non sembrava stupito, bensì curioso sui risvolti futuri, sugli stravolgimenti inaspettati avrebbe scatenato la risposta di Vedova.
«Parlavo della missione. Pensavo fossi uscito dallo S.H.I.E.L.D.» ennesima sigaretta sfilata, ennesimo piegarsi di nocche e falangi «Pensavi avessi deciso di dare un taglio netto a tutto. Anche a te stesso.»
Occhio Di Falco contrasse la mandibola ed abbassò lo sguardo sulle proprie mani: oltre ai graffi, ai tagli, ai cerotti e alla pelle arrossata dalla neve e dal freddo, oltre le dita gonfie, si scorgeva il tremore incontrollato dei polsi, l’incavarsi della carne nei punti in cui egli aveva affondato con forza i denti, più e più volte, per impedirsi di urlare, per impedirsi di bere, per impedirsi di piangere, per impedirsi di fumare, per impedirsi di crollare, per impedirsi di spegnersi.
Il dolore, il ritorcersi ed annodarsi delle terminazioni nervose erano gli unici bagliori di vita cui affidarsi per svegliarsi dal torpore e prendere fiato, salvandosi all’ultimo secondo dall’affogamento.
La presenza di Loki era s’era fatta pesante gravare, fumo negli occhi e nei polmoni, artigli a stringere il cuore, ghiaccio ramificato nelle vene. Non era più in grado di vederlo, eppure Clint sapeva che era lì, ovunque, su di lui, dentro di lui, attorno a lui, senso di colpa dalle fattezze tangibili al tocco della mente e dello spirito, voce di accusa mai spenta, occhi di biasimo mai cieco.
«Fury mi disse una cosa quando mi diede personalmente il distintivo» e Loki bramava le sue parole, la sua confessione, cuore, anima, respiro «Che tutte le missioni affidatami dallo S.H.I.E.L.D. avrebbero avuto la loro dose di pericolo. Ma che la chiamata alle armi del distintivo, solo e soltanto quella, sarebbe stata un suicidio.»

 

Triskelion, Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.

 

Sonja picchiettava le dita sulla tastiera, componendo alcune mail per conto di Pierce. Picchiettava e picchiettava veloce: non per niente era stata la migliore del corso di dattilografia.
Più di una volta il capo aveva lodato la celerità del proprio lavoro di segretaria, cosa che l’aveva riempita non poco di orgoglio. Un complimento da parte di Alexander Pierce apriva più porte di una chiave universale e le sarebbe bastata una raccomandazione da parte sua perché le stendessero il tappeto rosso ai piedi al Pentagono od alla Casa Bianca.
Non che avesse intenzione di abbandonare Alexander Pierce, ma era appagante sapere che con uno schiocco di dita ed una lettera firmata dalla persona giusta avrebbe potuto aspirare al posto che più le confaceva, desiderava o sognava da una vita intera.
O anche solo quel posto per cui molti avrebbero dato mani, reni ed altri organi di facile estrazione.
Arricciando l’angolo sinistro della bocca in un sorriso, Sonja premette Invio e cominciò con il nuovo paragrafo. Le unghie smaltate di rosa pallido sulla tastiera emettevano un tic tic tic come zampettio di passero, gli occhi verdi erano colmi del bagliore luminescenti dello schermo. Le lettere si susseguivano una dopo l’altra, in svelta successione sulla pagina, tic tic tic tap tap tap spazio invio maiuscolo Sonja ebbe giusto il sentore di un pizzicorio fastidioso alla nuca prima che i segni si bloccassero del tutto e la lineetta nera prendesse a balbettare, senza muoversi di un solo grafema.
Sonja era rimasta immobile, l’indice a sfiorare una lettera, il pollice della mano destra già pronta sulla barra spaziatrice, la bocca un poco chiusa, la punta della lingua a battere sulla chiostra dei denti in un muto redigere a voce il documento. Il volto era cristallizzato nella fissità più assoluta, i muscoli delle braccia irrigiditi senza apparente ragione.
La somiglianza con una statua di gesso era tale che, non fosse stato per il respiro sottile e cadenzato che solleva la camiciola rosa antico e la spilla a forma di libellula, la si sarebbe detta un androide mal funzionante o una diavoleria elettronica coi circuiti in avaria.
Una figura scivolò da dietro le spalle di Sonja e si portò due dita all’orecchio.
«Oscurate le telecamere» ordinò, autoritaria, il timbro di voce un milione di timbri diversi, irriconoscibili e non individuabili.
Non si mosse per una manciata di secondi. Quindi, forse in seguito ad una risposta positiva da coloro con cui era in contatto, avanzò dentro l’ufficio di Alexander Pierce. A passi calibrati raggiunse la scrivania, uno sguardo addestrato alle scartoffie la bottiglia d’acqua, il computer, il fermacarte, poi l’attenzione alla cassettiera e l’indice sinistro spinto sul polso destro.
Uno sfarfallio di tasselli, lampi blu elettrico e saette arzigogolate: la mano affusolata, chiaramente femminee, si scompose in quadrati microscopici e si trasmutò, cambiò forma divenendo più grossa, tozza, maschile. Le falangi si gonfiarono, le nocche s’allargarono, un reticolato di rughe attraversò il dorso e le vene che s’erano sollevate alla contrazione dei muscoli. Sottili peli grigio-biondi comparvero sulla pelle coriacea, all’anulare fece mostra di sé una fascia metallica e lucida.
La spia sfruttò la copia perfetta della mano di Alexander Pierce per aprire i cassetti uno ad uno, cercare, stanare, scovare. Con precisione millimetrica e pazienza, riuscì finalmente nel proprio intento: da sotto alcuni fascicoli contabili estrasse una pennetta USB, decorata all’estremità dal logo circolare dello S.H.I.E.L.D.
La strinse nel pugno un paio di secondi, quindi dalla tasca della divisa prese un parallelepipedo non più largo di un centimetro e largo tre. Sulla faccia superiore uno schermo digitale, ancora spento; su quella laterale, una fessura in cui la figura inserì la chiavetta.
Lo schermo si illuminò per una frazione di secondo. La spia stette immobile, ad aspettare che la barra di scaricamento e caricamento dati concludesse il proprio compito; ad essa si sostituì una striscia di coordinate numeriche -49 27 41 82 3 40-, poi un conto alla rovescia. Il marchingegno frizzò, sprigionò un esile filo di fumo e non si riaccese più.
La spia rimise la chiavetta all’esatto suo posto, chiuse il cassetto ed uscì dall’ufficio. Si avvicinò a Sonja, ancora rigida e spenta, ed attivò la ricetrasmittente.
«Missione computa. Riattivare telecamere in sessanta secondi. Mockingbird chiude.»
Così come era entrata l’Agente S.H.I.E.L.D. “Mockingbird”, nei database Bobbi Morse, abbandonò il piano del Triskelion, senza che foglia si muovesse od ombra di spostasse. Non prima, ovviamente, di aver disattivato l’inibitore neuronale applicato alla nuca della segretaria.
Il microscopico dischetto si frantumò, disintegrandosi in maniera tanto lieve che Sonja credette di aver avuto un richiesto incontro con una fastidiosa zanzara.
In tutto, l’operazione non era durata più di tre minuti.

 

49 27 41 82 3 40
 Base Providence, Canada
2013

 

Quando Koenig entrò nella stanzetta privata di Coulson, questi stava ancora tamponandosi il taglio allo zigomo. Il sangue non usciva più, eppure Phil continuava ad avere la sensazione di una sostanza appiccicosa sotto la guancia e alla piega della gola. Non aveva nulla, lo vedeva da sé, tuttavia continuava a grattare e premere e strofinare, nella speranza di essere lasciato in pace.
I vestiti inzaccherati di neve erano gettati alla rinfusa sul pavimento: Coulson li aveva sostituiti con un maglione a collo alto, pantaloni grigio chiaro e scarpe da ginnastica; sul torace spenzolava il badge che il custode della Providence aveva obbligato tutti loro ad indossare.
L’espressione di Koenig quando aveva colto lui e Barton azzuffarsi era stata a metà tra lo stupore e l’incredulità. Forse si aspettava un comportamento più serio, vista la situazione ed i soggetti coinvolti, e Coulson non poteva dargli torto. Koenig aveva ragione, ma Koenig non si era trovato a dover combattere contro colui che era stato non soltanto uno dei suoi allievi migliori, non soltanto un Agente senza pari, ma anche e soprattutto un amico leale ed un compagno di vita fedele –Almeno fino a quando la morte non li aveva separati. Letteralmente.

Erano gli ordini di Fury! Aveva provato a spiegarsi, cercando di tenere testa ad un Clint inferocito, che si abbatteva e si batteva contro di lui come una belva Non potevo…!
Occhio Di Falco non gli aveva concesso risposta, né considerazione: aveva continuato a prenderlo a pugni e Phil, alla fine, aveva reagito. Vuoi per istinto, vuoi per sopravvivenza, aveva smesso di incassare e aveva ribattuto colpo su colpo, con egual ferocia e medesima frustrazione. E pensare, era stata l’immagine fulminea che gli aveva attraversato il cervello, Che l’ultima volta in cui l’ho stretto era per fare l’amore con lui.
Un’ora prima dell’attivarsi del Tesseract, un’ora prima dell’arrivo di Loki, un’ora prima che il potere dello scettro infettasse la mente di Occhio di Falco, un’ora prima della fine del loro mondo, del loro micro-universo, Clint aveva ansimato il suo nome fino a non avere voce e Phil era stato convinto che i suoi baci gli avrebbero ustionato la pelle, tanti erano e tanto erano caldi, bollenti.
A salvarlo dalla commozione cerebrale erano arrivate le braccia di Natasha a sollevare il collega di peso, lo schiaffo risuonato come frana all’intorno. Coulson si era sollevato, ammaccato e goffo, traballando incerto sui piedi e con un capogiro niente male. Aveva cercato di prendere la parola, ma Clint l’aveva bloccato sputandogli ai piedi e scomparendo con Vedova Nera all’interno della Providence.
Da quel momento in poi non l’aveva più visto, né Barton aveva cercato un contatto con lui.
Ad essere sinceri, nemmeno lui aveva cercato un contatto con Clint o fatto alcunché per vederlo, ma ancora e di nuovo si nascondeva dietro gli ordini e gli obblighi dovuti a Fury, la segretezza, la compartimentazione delle informazioni, questo e quello, sì e no, vero e falso, giusto e sbagliato.
Idiota. Era un idiota e consapevole di esserlo.
Clint aveva bisogno di spiegazioni, le meritava, le meritava per ogni istante in cui l’aveva costretto nella menzogna e nell’ignoranza, e lui invece gli rifilava scuse su scuse, lo ingannava ed ingannava se stesso per non ammettere il disagio e la morsa fredda che gli stringeva lo stomaco alla sola idea di incontrarlo dopo gli eventi di New York.
«Posso entrare?» chiese Koenig ed era una domanda superflua: aveva già messo un piede nella camera, senza dare il tempo a Coulson di fornirgli una risposta adeguata.
«Novità?»
«Meglio incontrarsi nella sala riunioni. Ho già informato l’Agente Romanoff e l’Agente Barton.»

 

Clint non alzò gli occhi, una volta riuniti, e rimase con le spalle appoggiate alla parete nonostante gli inviti di Koenig a prendere posto. Phil non tentò nessun tipo di approccio: gli bastò l’occhiata gelida di Natasha per capire che non era il caso e tirava una brutta aria.
Si sedette allora su una delle tre sedie dinanzi al tavolo. Dietro di esso tre schermi giganteschi, sopra la superficie un computer portatile di ultima generazione –A Phil non servì guardare per sapere che era frutto della tecnologia Stark.
«Allora.» esordì Koenig, sfregando i palmi delle mani come un imbonitore pronto ad attirare il pubblico «Agente Romanoff. Lei ricorda la missione affidatale dal Direttore Fury a bordo della Lemurian Star?»
Vedova Nera incrociò le braccia sotto al seno ed annuì.
«Ricorda la chiavetta su cui ha scaricato i dati contenuti nel database della nave?»
La spia socchiuse gli occhi ed annuì di nuovo. Coulson notò una debole contrazione delle sopracciglia, una ruga sulla fronte, subito sparita. Un minuscolo segnale di preoccupazione che mise Phil sul chi vive più di quanto già non fosse; con la coda dell’occhio notò un movimento nel punto dove era fermo Barton. Anche lui aveva notato l’incrinarsi di Natasha.
«Il Direttore, per motivi a noi non noti, ha immesso al suo interno un sistema di tracciamento. Esso è fatto in modo di attivarsi appena messo in funzione, in qualunque terminale.»
«Fatemi indovinare» intervenne Natasha «Oggi qualcuno ha cercato di avere accesso ai suoi file.»
«Esattamente.»
«E voi pensate che quel qualcuno sia il mandante dell’assassino del nostro pirata preferito.» le fece eco Clint.
Coulson stava già per intervenire ed ammonirlo, perché portasse un po’ di rispetto al Direttore defunto, ma il volto contrito ed anche imbarazzato di Koenig lo ridusse al silenzio.
«Il segnale proveniva dall’ufficio di Alexander Pierce.»
«Pierce?» ripeté Barton «Quell’Alexander Pierce. Ne siete certi…?»
«L’Agente Morse ci ha inviato i dati della chiavetta, quindi sì, ne siamo certi.» Koenig girò il portatile in direzione di Natasha «Agente Romanoff. A lei l’onore.»
Vedova Nera passò alternativamente lo sguardo da Koenig al computer, pressò la lingua contro l’interno della guancia destra e si levò in piedi. Scostò i capelli rossi, sistemandosi sulla spalla, e si chinò ad armeggiare con la tastiera.
«Il drive ha un re-indirizzamento di Livello Sei. Appena avvieremo il sistema lo S.H.I.E.L.D. saprà dove siamo.»
«Quanto?» domandò Coulson.
La voce non tremò nel porre il quesito, nonostante il freddo intenso che gli aveva bloccato respiro e circolazione. Se Pierce era davvero coinvolto nell’omicidio del Direttore, questo voleva dire soltanto una cosa: qualcosa di infinitamente sporco ed infinitamente pericoloso si stava muovendo nei meandri dell’organizzazione, comprendeva trasversalmente ogni livello. Qualcosa o qualcuno stava compromettendo lo S.H.I.E.L.D., se già esso non era stato compromesso del tutto. Doveva avvisare May e gli altri sul Bus: attenzione alle missioni, alle persone coinvolte, a chi dava ordini e a chi era ordinato.
«Nove minuti.»
«Vado a preparare il velivolo a nostra disposizione.» dando prova di un invidiabile contegno, Koenig chinò il capo in cenno di saluto e sparì dalla sala.
«Cosa c’è lì dentro, Nat?»
Phil non lo aveva sentito Barton avvicinarsi e non se ne stupì: sapeva essere silenzioso. Quando voleva o quando la missione lo richiedeva. lo starnazzante Occhio Di Falco poteva rivaleggiare con Bobbi Morse, Melinda May e Natasha.
«Qualcosa di grosso: il drive è protetto da una intelligenza artificiale. Continua a riscriversi per neutralizzare i miei comandi.»
«Dobbiamo chiamare Stark?» Clint inclinò la testa e arcuò la bocca in un sogghigno ferino «Sarebbe felice di darti ripetizioni di informatica.»
Vedova Nera gli scoccò un’occhiata in tralice, continuando a lavorare per bypassare il sistema. Phil non poté fare a meno di chiedersi chi fosse già sulle loro tracce, di chi si dovessero fidare, se esisteva qualcuno di cui fidarsi, oltre ai due che gli erano accanto.
«Che ne dici di tentare con un tracer?» fece Occhio Di Falco.
«Arrivi tardi, Barton, l’ho appena lanciato.»
«Bene. Dove si va in vacanza?»
«Camp Lehigh.»

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Capitolo 8
*** { Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 } ***


ood7

{ Non Parlerò Del Tuo Peccato ~ File 0.7 }

 

 

1218 Glendon Avenue, Los Angeles.
Pierce Brothers Westwood Village Memorial Park Cemetery.
2013

 

La madre di Happy era stata gentile.
Non gli aveva tirato la borsetta addosso, non si era artigliata alle spalle del completo inveendo e maledicendolo, non gli aveva urlato contro, né sputato in faccia. Non aveva fatto nulla, in verità, e aveva raggiunto la piazzola dove avrebbero sepolto il figlio deambulando e reggendosi a stento sulle gambe. Le caviglie grosse non avevano retto il peso del grasso ipotiroideo, tantomeno il dolore di sopravvivere al figlio: un paio di passi e la povera donna era incespicata, la veletta nera sul volto enfio era scivolata di lato, a smascherare le orbite rosseggianti di pianto, e la bocca carnosa s’era spalancata ad un grido muto, azzittito dalle troppe lacrime.
A frenare la sua caduta era arrivato Colin, che in uno slancio da vero boy scout le aveva afferrato le spalle e le aveva offerto il braccio, chiedendole il permesso di accompagnarla al posto.
Lei aveva annuito, battendogli la mano guantata sul gomito e mormorando un flebile Grazie. Quando poi aveva cominciato a piovere e forti scrosci d’acqua avevano iniziato a ruggire su di loro, schiantandosi sull’erba odorosa e graffiando di grigio la superficie liscia della bara, Hendrick aveva aperto l’ombrello e le si era accomodato accanto per ripararla. Non si era spostato, né emesso fiato: unico rumore al di sopra dei tuoni era stato il cigolio dei ganci meccanici, quindi l’esplodere della pioggia contro gli spicchi di impermeabile nero.
Rosalyn, vedova Hogan e ora priva anche del conforto dell’unico figlio, era rimasta con gli occhi conficcati nel legno che soffocava il corpo di Happy; tra le sue dita il fazzoletto era divenuto presto uno straccio sfilacciato, ritorto, impastato di trucco, lacrime e gocce d’acqua.
A chi le si avvicinava per farle le condoglianze, lei rispondeva con un cenno del capo, un vago abbassarsi della fronte. Non rispondeva nemmeno –Aveva perso la facoltà di parola, ogni desiderio di rimanere in quel mondo che tanto crudelmente le aveva strappato Harold dal seno.
Tony non la biasimava e rispettava il suo silenzio, così come lei aveva rispettato i mancati Mi dispiace, signora, sono addolorato per quanto è successo, mi creda, le sono vicino, suo figlio era una persona come mai ne avevo incontrato durante la mia vita. Non c’era bisogno di ingolfarsi le labbra e appesantire la lingua con certe ovvietà: l’aveva guardato negli occhi, lui aveva guardato lei e tanto era bastato per dirsi più di quanto la voce avrebbe permesso ed espresso.
Diverso era stato il discorso con Pepper, la quale aveva smosso mari e monti, ingiunto e ordinato, gridato e firmato per essere dimessa dall’ospedale.
Stark ed Hendrick erano andati a prelevarla di persona al Mercy Hospital, accollandosi l’uno il compito di sistemarla nei sedili posteriori, l’altro di mettere la sedia a rotelle nel bagagliaio della Maserati Quattroporte S4.
Colin gli aveva chiesto perché non scegliere una macchina meno appariscente e Tony gli aveva risposto di allacciare la cintura del passeggero e lasciarlo in pace. Mentre guidava e le luci della Los Angeles gracchiante sotto il cielo plumbeo, il magnate aveva ripensato con un accenno di sorriso alla Maserati andata distrutta e le cui lamiere erano state brutalmente divorate dal fuoco, durante un racetrack vecchio di anni.
Aveva perso un gioiello di auto e guadagnato un ottimo, leale collaboratore –E amico: era stato Hogan a trascinarlo via prima che la Maserati da corsa esplodesse, salvandogli la vita. Chiunque, al posto di Happy, avrebbe preteso un lauto compenso trattandosi del famoso e ricco magnate. Harold, invece e con lo stupore di tutti gli aveva chiesto di essere assunto.
Il giorno dopo eccolo alla guida della limousine, neoeletto chauffeur e guardia del corpo. Stark non aveva mai avuto di che pentirsi della scelta.
«Non sarei qui non fosse stato per Happy.» aveva poi confidato a Pepper, nel spingere la carrozzella sul manto erboso.
«Nemmeno io.» aveva risposto lei, le mani magre giunte in grembo, il volto smunto e impassibile.
Il dolcevita nero, unito alla gonna che la fasciava fino alla caviglie e le scarpe ortopediche scure, la faceva sembrare più vecchia di almeno vent’anni. I capelli mal curati, cui aveva cercato di dare un ordine impossibile con le dita, ricadevano come paglia sulle spalle aguzze, rendendola una figura stanca, abbruttita ed abbattuta da dolori insostenibili.
Tony le aveva tenuto la mano per tutto il tempo della funzione, sordo alle parole del prete e lontano mille miglia e mille ricordi dal cimitero.
Era lì e contemporaneamente non lo era, era presente e assente, presenziava alla cerimonia per Happy e intanto si domandava cosa mai dovesse avere di confortante il soliloquio lamentoso del Padre, quando Howard e Maria erano sottoterra, erano rinchiusi, erano scomparsi alla vista e all’esistenza e di loro non era rimasta nemmeno abbastanza carne da permetterne il riconoscimento.
Edwin glielo aveva risparmiato ed era andato lui stesso all’obitorio, mentre fargli compagnia dentro una casa d’improvviso grande e vorace come l’antro di un Troll, era rimasta Peggy, nonostante i settantadue anni di lei e i ventuno di lui.
Gli aveva raccontato le storie di Capitan America che sapeva piacergli di più e delle prime missioni con Jarvis, appena conclusa la Guerra. Si era appellato alla dolce cadenza della sua voce, durante l’intero funerale, sostituendo ai passi della Bibbia lo scivolare chiodato degli scarponi alle Ardenne, sovrapponendo resoconti e documentari in bianco e nero alle condoglianze frettolose e fasulle, agli abbracci goffi di chi non ha nulla da dire, ma rimane comunque e tenta ridicoli approcci a beneficio di sé e delle macchine fotografiche e delle prime pagine.
Strano, incessante e derisorio il lavorio della memoria, che gli mostrava il paludamento viola del prete sbattere contro le composizioni fangose dei fiori e le coccarde molli di pioggia, e nel contempo esibiva un se stesso grigio ed impalpabile, un fantasma di lutto, rifiuto, rabbia e abbandono.
Era tornato in sé per un breve attimo, quando con la coda dell’occhio aveva visto Foggy Nelson estrarre un fazzoletto di stoffa dal taschino per passarselo sul naso, arrossando la pelle e accartocciandovi dentro le narici in un soffio imbarazzato, bagnato di muco.
Seppe allora che la notizia della morte di Happy era arrivata alle orecchie dei due avvocati di Hell’s Kitchen. Il che, pensò con soddisfazione affilata e gelida, gli avrebbe dato l’occasione di lanciare sul tavolo da gioco un dado decisamente inaspettato.
Un dado rosso -Tiro cieco sempre a segno.
Alla conclusione della cerimonia, Matt Murdock si alzò e gli venne vicino, aiutandosi col bastone bianco per non-vedenti. Silenzioso e leggero, pari ad un’ombra, Colin apparve alle spalle di Tony; il magnate si voltò quel che bastava a controllare Roselyn: lei e Pepper erano l’una accanto all’altra, ora, parlavano fitto e piangevano insieme.
Il magnate tornò a concentrare la propria attenzione verso l’avvocato di Hell’s Kitchen. Questi inclinò il capo in un cortese cenno di saluto.
«Signor Stark.» disse solo, per poi rivolgere lo sguardo cieco poco più a destra. La pioggia rigava le lenti scure e su di esse si rifletteva il viso circospetto, scuro di Hendrick «Temo di non conoscerla.»
L’Agente S.H.I.E.L.D. allungò la mano, attento a tenere l’ombrello sopra la testa di Tony –Che, approfittando della cosa, aveva chiuso il proprio.
«Colin Hendrick. Sostituisco la signorina Potts in qualità di segretario del signor Stark.» si presentò.
«Matt Murdock, lieto di conoscerla» a tentoni raggiunse le dita dell’uomo, dando una stretta decisa «Lei è di
Brooklyn?»
«Quasi.
Cypress Avenue, nel Queens. E’ mai stato da quelle parti?»
«Mai, in verità.»
«Un vero peccato. Al Cascada Bar fanno una torta alla cannella squisita.»
Matt annuì, con ancora quell’espressione di che avesse sentito una battuta penosa, ma per la quale buona creanza esigeva quantomeno un sorrisetto garbato.
«Dovrebbe far lavorare meno i suoi dipendenti, signor Stark: il ragazzo è febbricitante, la sua pelle scotta.»
Il lampo improvviso sopra le loro teste biancheggiò negli occhi gelidi di Hendrick. Tony notò la tensione irrigidirgli volto e muscoli, pompando una colorazione grigio-violacea attraverso le vene; il livore si appese alle guance incavate, sdrucciolando sugli zigomi fino alla base del collo.
Stark, abituato com’era al suo inappuntabile controllo, alla sua stucchevole cortesia, rimase stupito dinanzi alla palese esternazione di fastidio e dispetto: una reazione esagerata, a proprio dire, ad un commento senza secondi fini o scopi reconditi.
«Hendrick, accompagna Pepper alla macchina» disse allora, per evitare un inopportuno spargimento di sangue «Ti raggiungo subito.»
«Signor Stark.» annuì l’Agente, unendo i talloni e chinando la fronte in direzione dell’avvocato «Signor Murdock, è stato un piacere.»
«Anche per me, signor Hendrick.» e Tony si stupì di quanta innegabile menzogna ci fosse in una frase così breve e concisa –E sì che la vita di società e gli incontri tra industriali erano stati un’ottima palestra.
«Non mi aspettavo una tua visita.» Stark incontrò gli occhiali intarsiati di microscopiche gocce balbettanti, frammenti di pioggia che nascondevano sguardo ed intenzioni, pensieri, segreti e identità.
«Conoscevo Harold. La sua morte mi ha sinceramente addolorato.» Matt sistemò le lenti sul naso, le dita tracciarono una lacrima nascosta nel ridiscendere lungo la guancia «Troveranno il colpevole.»
Tony irrigidì la mascella e sollevò il labbro superiore, a intimidire un avversario invisibile: bruciava di rabbia, di dolore, di furia. Non aveva pace, né quiete, e respirare era tormento. Vibrava, più ardente del fuoco.
«Che il Diavolo se lo porti.»

 

 

Località Sconosciuta.
Cella Di Sicurezza.
2011

 
Frizzare di scariche elettriche, scintille bluastra pompate entro la carne, pressate contro le ossa a frantumare lo sterno e sbriciolare i nervi. Colpo di frusta, inarcarsi di schiena, torcersi del collo, digrignare di denti, rughe alle palpebre serrate, mandibola irrigidita, fiato spezzato, rigagnoli di saliva agli angoli della bocca rotta dal calcio del fucile.
Gli occhi azzurri si sollevarono dalle orbite incrostate di sangue, da sotto le ciglia emerse uno sguardo fermo, sicuro e saldo che commosse il cuore di Gail e quasi la spinse in ginocchio. Se resistette all’impulso di gettarsi sul soggetto fu per una sorta di incantesimo che l’avvinceva e immobilizzava, impastoiandole i piedi al pavimento: non sapeva chi dei due, se l’uomo o il Dottor Marlowe, fosse il colpevole. Tutto ciò che sapeva era di essere in balia di uno di loro e che di nessuno di loro conosceva la verità nascosta dietro la maschera.
Il medico, che prima era stato per lei –Come per tutti- l’immagine stessa della tranquillità e della quiete, la Rassicurazione per antonomasia nel loro funambolico, claustrofobico habitat, ora le appariva deforme, grottesco e non se ne fidava.
Il soggetto, al contrario, che fino a quel momento era stato il Grande No della missione, una creatura mitica dai contorni sfumati e tremuli, leggendario quanto pericoloso, aveva suscitato in lei il calore più incredibile, la solidarietà più profonda.
Le carte in tavola si erano ribaltate, il bianco era diventato nero, e lei si era svegliata quella mattina con l’immagine del soggetto ancora sfocata dal sogno, la fantasia andata a riempire i vuoti della mente nel disegnare la pelle nuda o colorare il tepore della pelle.
Gail aveva spalancato gli occhi al mondo con la voce ficcata a forza della gola, le guance rosse, bollenti e i polsi che tremavano. Il ribollio sudato delle viscere che l’aveva tenuta in un languido sul chi vive per tutta la giornata s’era disciolto in muto orrore alla chiamata d’urgenza di Marlowe, l’ordine perentorio di correre alla cella di sicurezza insieme ad un gruppo scelto.
La Task Force era stata più veloce e nel momento in cui la donna aveva messo piede nell’alloggio del soggetto, già due di loro avevano costretto l’uomo ginocchioni e gli aveva ruotato braccia e polsi dietro i reni, perché non facesse di sciocchezze, né tentasse di ribellarsi. Il loro capo, un tizio dall’aspetto poco raccomandabile, con un violento protendersi delle arcati sopraccigliari sopra il naso dritto, e i capelli alzati sulla fronte slargata, gli era accanto e si occupava di conficcargli il manganello elettrificato in mezzo alle scapole. Un altro suo collega, invece, alternava alle scariche al torace dei colpi diretti al volto, sia pugni che col calcio del lungo fucile.
Il soggetto non emetteva suono che non fosse il naturale ed improvviso svuotarsi dei polmoni, lo schianto dell’ossigeno contro i denti.
A Gail era mancato il respiro, nel vederlo così, nel contare le piaghe aperte sulle sopracciglia bionde, il setto nasale deviato, il sangue che insozzava la bocca, la curva del mento, la piega della gola e parte della maglietta bianca, lì dove, nel curvare la testa, le narici spaccate erano entrate a contatto col tessuto.
La donna inghiottì una rovente sorsata d’aria e fece per muovere un passo in avanti, ma Malorwe la bloccò con un gesto della mano.
«Stia al suo posto, Agente Runciter. Interverrà soltanto quando sarò io a dirglielo.» il Medico ingiunse al membro della Task Force di indietreggiare, si piegò per essere alla stessa altezza del soggetto e gli afferrò i capelli sulla sommità della testa, piegandogli ferocemente il capo all’indietro «Sei tu che mi stai costringendo a questo, ragazzo» sibilò e il tono di voce stridette –Gail, allibita, fu certa di avervi colto una chiara cadenza tedesca, molto probabilmente austriaca «Sono uno specialista ed un perfezionista. Amo che le cose vadano come dico io, pretendo seguano il corso che io ho dato loro. Invece tu…» contrasse la mandibola, i lineamenti si gonfiarono, divennero animaleschi «Tu mi stai obbligando. Io non vorrei, sai? Non vorrei farti del male, non vorrei proprio. Soffro alla tua sofferenza, perché è peccato mortale torturare e bastonare un mulo tanto utile, sprecare il tuo sangue prezioso. Sei un residuo bellico, ragazzo mio, un meraviglioso gioiello di metà secolo: romperti abbasserebbe sensibilmente il tuo valore finanziario.»
L’Agente Runciter avvertì un moto di nausea sconvolgerle lo stomaco, tanto che dovette serrare i denti per impedire alla colazione di salirle alla bocca. Il tono di Marlowe era diverso da qualsiasi altro tono avesse mai usato: era velenoso come cobra, strisciava e s’insinuava, era brama e odio, disprezzo e desiderio.
Lanciò uno sguardo ai membri della propria squadra e terrificata s’accorse che nessuno di loro vedeva quel che lei vedeva, nessuno sentiva quel che lei vedeva.
Era sola. Era lucida.
Era irrimediabilmente ed innegabilmente sveglia.
Il soggetto colse il suo guizzo di coscienza, da come le regalò un sorriso grato e rassicurante a fior di labbra. Un barlume appena, un frammento di luce subito scomparso, così veloce che a Gail venne il dubbio di esserlo solo immaginato, di averlo creato appositamente per darsi un appiglio e non cadere nell’abisso del panico e della follia.
«Non c’è alcun bisogno di farci guerra aperta, mein alter Freund. Dimmi chi è stato, ragazzo, dimmi chi è stato a portarti via da me, dalla mia gabbia dorata…»
Incapace di controllare i tremori del corpo, così irretito da maglie sordide e incomprensibili, l’Agente trattenne un’esclamazione di stupito terrore nel momento in cui il soggetto raccolse un po’ di saliva tra le guance e la sputò poi contro Marlowe e la sua faccia ancora distorta, contro la sua maschera di cera liquefatta.
Il Medico arretrò ringhiando e non nascose più la propria origine, abbaiando ordini in tedesco al capo della Task Force. Questi sogghignò e con un cenno ingiunse ai propri sottoposti di tenere il soggetto il più fermo possibile; alzò allora il manganello elettrificato, leccandosi ferino la bocca.
L’uomo ai suoi piedi si impose su di loro con contegno marziale, con sfrontatezza tanto ardente che Gail si sentì infiammare l’animo al solo guardarlo. Sfidava Marlowe e i suoi aguzzini senza dire una parola, eppure facendoli apparire per i vigliacchi che erano col solo cipiglio. Arrivò addirittura a sorridere, gli occhi che mandavano fiamme.
Tuttavia, per quanto coraggioso e pronto ad affrontare l’ignoto e finanche la morte, la donna non era disposta ad abbandonarlo alla mercé di pazzi furiosi, non se poteva fare qualcosa peri impedire ulteriori torture.
Così, non appena il capo della Task Force fece il gesto di calare il manganello su di lui, Gail si gettò in avanti, vincendo ogni resistenza delle membra atrofizzate, scavando nel torpore del proprio essere per frapporsi tra il soggetto e Marlowe. Ansante, aprì le braccia e con la mano aperta li sconvolse con loro la propria presenza, col petto ansante ed il sudore che le appiccicava i capelli alle tempie; diede conferma della propria volontà, della sua pienezza e del peso che essa aveva all’interno delle dinamiche farsesche di cui aveva smesso di essere mera spettatrice.
«Sono stata io.» esordì, il mento sollevato, orgogliosa, fiera «Sono stata io.»
Gli occhi del Medico si fecero liquidi di melliflua malignità, le pupille si dilatarono al punto che l’Agente se ne sentì risucchiata. Il respiro mozzato dell’uomo inginocchiato dietro di lei fece correre uno scroscio di brividi attraverso la spina dorsale.
Il capo della Task Force rimase col manganello fermo a mezz’aria. Ad un cenno di Marlowe, tuttavia, tolse la carica all’arma e la schiantò sulla nuca del soggetto. Un verso gutturale e spezzato crepitò nella gola di questi e l’Agente rimase impietrita a fissare la testa franare sullo sterno, il corpo crollare in avanti e la bocca torcersi ad ingoiare faticosamente un po’ d’aria.
«Lasciateci soli.» ordinò Marlowe «Uscite e dimenticate quanto è successo.»
E soltanto allora Gail si accorse di quanto vacuo fosse lo sguardo degli altri membri della squadra, quanto immoti e privi di qualunque luce e vita. Obbedienti, abbandonarono la cella alla spicciolata, tallonati da quelli della Task Force, invece nel pieno della loro coscienza; sulla soglia, il capo si girò e si passò l’indice sulla gola, sorridendo nella sua direzione –La donna lo affrontò senza battere ciglio, ma il freddo le bloccava il sangue nei polsi e frantumava il fiato nei polmoni.
«Miss Runciter» cominciò il Medico, inclinando il capo e osservando interessato –Lo stesso interesse che un gatto avrebbe riservato al topolino stretto negli artigli «Dunque è stata lei a contaminare i frutti del mio lavoro.»
«Io gli ho…Dato un libro.» La gola si fece secca, si coprì di piaghe sabbiose «Niente di più. Non aveva mangiato nulla. Gli ho riconsegnato il piatto, ricordandogli che non sarebbe stato salutare morire di fame e lui mi ha chiesto un libro. Tutto qui.»
«Tutto qui? Tutto qui? Oh, cara, mia cara Gail. Non è mai tutto qui. Col tuo tutto qui, col tuo libro, hai permesso al mondo di entrare in questo luogo di santa reclusione, hai permesso che altre parole si sostituissero alle mie. Che altre verità arrivassero a mettere in dubbio le verità che io volevo per lui: gli hai permesso di scoprire una realtà oltre a quella che io gli aveva offerto e creato, gli hai permesso di capire e confrontare, confrontarsi e domandare. Lo hai tratto via dal sonno, Gail, lo hai riportato alla luce e la tua voce ha coperto la mia. E per lui non deve esistere altro. Solo la mia voce. Solo le mie parole. Le mie verità. La mia realtà. Il mio credo. E tu…Tu hai rovinato tutto.»
Gail retrocedette, oppure credette di farlo. Impossibile dirlo, con gli occhi di Marlowe a pugnalarla, la sua voce a plasmare senso di colpa e dubbio e paura e frustrazione e delusione, oh, delusione, la sua voce a ricordarle quanto li avesse delusi, come avesse rovinato tutto, come fosse stato meglio, oh così meglio, se avesse espiato la sua colpa in maniera esemplare, se avesse lavato via la sua colpa col sangue, se avesse appoggiato la punta del coltello sulla vena del polso, se avesse affondato la lama, se avesse l’avesse fatta scorrere lungo l’avambraccio fino al gomito, se avesse stracciato carne e pelle, vasi sanguigni e nervi, sarebbe stato meglio, sì, non c’era soluzione, non poteva fare altro, non poteva, Marlowe aveva ragione, lei aveva ragione, perché era lei a pensare, lei a rendersi conto dello sbaglio, della delusione, della colpa, un coltello, un semplice, freddo, gelido, mortale coltello, punta, vena, lama, avambraccio, gomito, lavare via la colpa, la delusione, sì, Gail, lavala via, ascoltami, ascolta la mia voce, soltanto la mia voce, lavala via, Gail, lavava via, lava via la delusione, il senso di colpa, il dolore, lavala via, solo il sangue la laverà via, solo il freddo, solo il sangue. Delusione. Coltello. Espiazione. Lama. Colpa. Sangue.

 

 

Hollywood & Highland, 6925 Hollywood Boulevard
Grauman’s Chinese Theatre.
2013.

 

«Mi sembra di soffocare, con tutte queste persone.»
Matt appoggiò una mano fra le scapole di Foggy, picchiando piano il palmo per dargli un po’ di conforto –E, cosa più importante, distrarlo dal fiato corto e il battito cardiaco accelerato.
La gente ondeggiava e premeva un po’ ovunque, l’avvocato ne avvertiva il profumo, il sudore, sentiva addosso la grana del tessuto, la spinta involontaria di mani, fianchi, anelli, cinture, borse, nelle orecchie martellava il calpestio aritmico di tacchi e suole e zampe.
«E’ pieno di fotografi e giornalisti e amanti dell’orrido, Matt. Mi spieghi cosa ci facciamo qui?»
«Un favore.»
La stoccata di Stark era stata così palese che sarebbe stato scortese rifiutare.

Che il Diavolo se lo porti e Matt si domandò da quanto Iron Man fosse a conoscenza di quel piccolo particolare riguardo la propria identità, se fosse stato Harold a parlargliene o se vi fosse pervenuto con le sue uniche forze e capacità.
Quale che fosse la risposta, a Devil interessava maggiormente la ragione dietro la richiesta di Stark: con la signorina Potts se n’erano andate le sue orecchie, con Happy le sue mani. La disperazione l’aveva portato a cercare occhi in chi occhi non aveva più, almeno non secondo i canoni di valutazione corrente –Così come diversi dalla nozione comune erano state le orecchie di Tony e le sue mani, prima che due incidenti glieli portassero via e lo mutilassero irrimediabilmente.
Certo, Virginia Potts era in permesso forzato per qualche settimana ancora, ma quali erano le informazioni che Stark aveva e avrebbe perso per quella momentanea sordità? Così teso al futuro, che poteva fare ora che suoni e rumori e voci s’erano azzittiti d’improvviso? Sarebbe stato in grado di capirli di nuovo, una volta recuperata la facoltà di intendere i sussurri dei giorni che saranno?
Chiunque si fosse messo all’opera contro di lui, non stava colpendo a caso: a poco a poco e se non avesse scoperto in fretta il colpevole, Tony si sarebbe ritto e invalido, attorniato da una valle bruciata di lacrime. Sordo, cieco, coi muscoli atrofizzati e la lingua mozzata.
Il suo avversario doveva averlo studiato con meticolosità invidiabile, considerato quanto a fondo era riuscito a conficcare i proiettili con soli due colpi. Se voleva sopravvivere, era d’obbligo per Stark trovare una posizione di vantaggio da cui rispondere al fuoco con altrettanta precisione.
E gli alleati, in questo frangente, non erano mai abbastanza.
«Foggy, saresti in grado di notare la diversità tra la parlata del Queens e quella di Brooklyn?»
«Non credo. Perché?»
Matt non gli diede risposta immediata, concentrato com’era a districare i fili e i nodi di tatto, olfatto, gusto e udito. Era alla ricerca di qualcosa di specifico, nel marasma carnascialesco del Grauman’s, una traccia particolare che emergesse dalla spirale confusa di suoni, odori e sapori che lo opprimevano da ogni parte. Qualcosa come…Come un olezzo strano, sì, flebile e quasi scomparso, eppure facilmente ritrovabile per la sua particolarità, per la sua caratteristica di essere un po’ carne bruciata, un po’ rimescolio di ingredienti chimici, un po’ bomba, un po’ innesco di sangue e pelle.
L'avvocato raccolse la stilla maleodorante e la pressò contro il palato, ricacciando indietro una subitanea ondata di nausea. Era carne, sì, carne sbranata dall’esplosione, ed era qualcosa di più. Era un brandello irrorato dalla bomba stessa, se bomba era visto che non c’era niente che richiamasse la composizione di un normale ordigno. Aveva più le sembianze olfattive di un provetta in cui avevano rimescolato una composizione chimica sconosciuta e priva di equilibrio, pronta a scoppiare in qualsiasi momento, non importava la cura, non importavano gesti cauti, né movimenti bruschi.
Poi, nel confuso e disorganico pulsare di mille cuori insieme, un battito cadenzato e freddo, innaturale gli assestò un pugno alla tempia destra. Arterie e ventricoli, tum tum tum tum, la calma del cacciatore che osservi la preda, il sangue irrorato a rintocchi poderosi –Forse troppo poderosi, così come troppo poderosa era la capacità polmonare, l’apporto di ossigeno ai bronchi.
Devil non seppe dire perché la sua concentrazione si fosse rivolta con tanto ardore su quel cuore sconosciuto. Tuttavia, formulata la domanda capì che in essa stava già la più inquietante delle risposte: perché così aveva voluto il chiunque senza volto. Non c’era minaccia peggiore della presenza, dell’avvertimento silenzio di uno sguardo continuamente puntato addosso, nascosto fintantoché non avesse deciso esso stesso di emergere dall’oscurità.
Matt appoggiò la mano sul gomito di Foggy: il tacito e convenuto segnale fra loro che qualcuno li stava osservando ed era meglio filarsela. E filarsela in fretta.
«Così. Che ne dici di provare il Cascada Bar, un giorno di questi? Mi è stato caldamente consigliato.»
Così com’era comparso, il battito cadenzato scomparve.
Devil si appuntò mentalmente di seguire la pista e di non abbandonarla, nonostante le curve e i dissesti del percorso. Nel frattempo, avrebbe chiamato Stark per informarlo sugli ultimi, inaspettati eventi.

 

10880 Malibù Point, 90265.
Malibù Colony Road.
2013

 

Sulla Colony Road il sole sciabordava come le onde contro le zanne di costiera, a picco sul mare.
La carrozzeria della Chevrolet Cruze gettava all’intorno staffilate di luce, abbaglianti esplosioni grigio-metallizzate, sdrucciolii di pulviscolo d’asfalto.
Un bel regalo, quello, che il Rhodey aveva fissato ad occhi spalancati all’uscita dell’aeroporto, chiedendosi per una manciata di secondi se a Tony non fosse dato di volta il cervello per affibbiargli uno splendore simile a noleggio. Aveva preso la busta consegnatagli appena sceso dall’aereo e sul cui retro era scritto a Colonnello James Rhodes, con grafia precisa e sicura; si era fatto scivolare le chiavi sul palmo, rilasciando un verso ammirato e concedendosi un sorriso. Un granello di sollievo, nella situazione turbolenta e disfatta in cui annaspavano.
Le ricerche del Mandarino e della sua cricca di spostati erano a dir poco infruttuose, un buco nell’acqua dopo l’altro. Iron Patriot scendeva in picchiata in pompa magna sul rifugio di qualche terrorista che poi si rivelava essere il custode smagrito di una pecora rinsecchita, e faceva rotta verso il suolo americano con la coda cromata tra le gambe.
Era riuscito a strapparsi una mezza giornata di permesso al solo scopo di far visita a Tony e sincerarsi delle sue condizioni, e non era nemmeno escluso che lo richiamassero in azione prima dello scadere delle ore di libero.
Il Mandarino si muoveva veloce e arguto nel buio in cui loro brancolavano senza appigli, perdendo la strada e girando stupidamente in tondo.
La Chevrolet era stato un apprezzato risollevarsi d’umore, un inaspettato colpo di fortuna in un periodo dove di essi non c’era traccia.  Purtroppo la fortuna e lo svolgersi delle sue trame è spesso gioco delle mani di chi ne detiene il bandolo. A metà del tragitto Rhodey vide lo specchietto retrovisore illuminarsi d’azzurro, un esile raggio bluastro conficcarglisi nell’orbita e una voce senza inflessione informarlo dell’inizio processo identificazione. Scansione retinica in corso.
Il volante aveva quindi cominciato a scaldarsi, incollandovi sopra i polpastrelli e bruciandogli la pelle.

Scansione impronte digitali in corso, era stato avvisato, al che Rhodes aveva sbottato in un piccato “Ma davvero?” che aveva discretamente minato l’empatia avvertita fino a quel momento nei confronti del mondo.
«E questo che significa?» esclamò, dopo che un ago innestato nel pomello del cambio gli ebbe prelevato una goccia di sangue.
Invece della voce elettronica, a rispondergli fu una dal timbro più cortese –E, grazie al cielo, umano.
«Mi perdoni, Colonnello. Una verifica era necessaria, ora che è entrato nel perimetro di casa Stark.»
«Sei il nuovo segretario di Tony?»
«Colin Hendrick, Agente S.H.I.E.L.D. Livello Sei. E’ un onore conoscerla, Colonnello.» rispose educatamente il giovane.
«Sì, proprio.» sbottò Rhodey, ruotando gli occhi al cielo e prendendo un respiro profondo «Non ti sembra di esagerare con le misure di sicurezza?»
«Considerati gli ultimi due attacchi del Mandarino, le misure di sicurezza che ho adottato sono di livello elementare.»
«Temi un attacco diretto a Tony?»
«Non posso escluderlo. Certo, il signor Stark avrebbe potuto facilitare le cose al nostro comune nemico dando in mondovisione il suo indirizzo di casa, tuttavia questa è un’informazione semplice da recuperare, specie per un uomo come il Mandarino. Per rispondere alla sua domanda, Colonnello, non posso escluderlo, ma farò ciò che è in mio potere per impedirlo.»
«L’ultima battuta l’hai recitata con una bandiera a stelle e strisce dietro le spalle?»
«…Prego?»
Rhodes sbuffò una risata e scosse la testa.
Il profilo dell’immensa villa di Stark si disegnò liquido sul parabrezza e lo schianto del sole sulle vetrate accecò il Colonnello per un paio di secondi.
La casa di Tony se ne stava appollaiata sulla scogliera come gabbiano nel nido, aggettante sull’agitato turbinio dell’acqua metri e metri al di sotto del parapetto con vista; era una conchiglia bianca in contrasto con l’azzurro bollente del cielo, un mosaico di finestre lucide simili a denti di madreperla.
«Comune nemico? Ti sei messo alle calcagna del Mandarino, Hendrick?»
«Informazioni Riservate, Colonnello. Sarò comunque da voi approssimativamente in dieci minuti, per delle pratiche che il signor Stark non è passato a recuperare.»
«E’ in confino?»
«Precisamente.»
Imprecare in vivavoce con un Agente S.H.I.E.L.D. non gli sembrava il miglior biglietto da visita, soprattutto perché Colin aveva un modo di esprimersi e relazionarsi con lui da…Bhè, vecchio. Cioè, non vecchio d’età, vecchio in senso stantio, sorpassato, dimenticato, un garbo che sulla bocca altrui avrebbe stonato, sembrando ridicolo e artificioso. Aderiva alla perfezione al timbro, l’inflessione e le pause di Hendrick, quasi fosse parte del suo essere e ne fosse impregnato fino al midollo.
Inoltre, ma forse quelle erano soltanto macchinazioni mentali insensate, lo facevano sentire in imbarazzante senso di inferiorità, alla stregua di un ragazzetto di Harlem beccato dall’attempato vicino a combinare qualche marachella e infine ripreso con una bonaria ramanzina da novantenne –E lui era di Philadelphia, eh.   
Ingoiò allora l’ingiuria che aveva fatto stagnare sulla lingua, annuendo a se stesso.
In confino.
Che modo gentile aveva usato per definire la peggior reazione del repertorio di Tony. Già dopo gli eventi di New York aveva trascorso le prime settimane rinchiuso nella fortezza semi-demolita della Tower, rifiutandosi di uscire dal Laboratorio sotterraneo e giustificando il suo comportamento con l’urgenza di nuovi potenziamenti, di nuove armature, di nuovo questo, di nuovo quello.

Cazzate.
Tony si era trincerato dentro il covo asmatico di macerie  trasformandolo nella versione architettonica dello scafandro di Iron Man: così come si riteneva al sicuro e intoccato da ogni male se protetto dalle componenti della sua gabbia cromata, allo stesso modo le pareti ancora intatte, integre del rifugio iper-tecnologico sotterraneo lo avrebbero tenuto lontano dalla bruttura esterna, dai relitti di cemento, dalla distruzione polverosa di un sogno tanto miseramente fallito. Sopra la sua testa travi e resti di mura, suppellettili, schermi e vetrati; nel grembo luminescente del Laboratorio, invece, senza finestre aperte sul mondo e con l’aria decontaminata servitagli da J.A.R.V.I.S., idee e cacciaviti e musica ad alto volume per escludere il rumore sordo del battito cardiaco gonfiatosi nella gola.
Se erano stati in grado di trascinarlo fuori dalle fauci della stanza sotterranea, era perché Pepper era stata l’unica a far breccia nel bastione della sua solitudine patologica. Avevano cominciato insieme un percorso di riabilitazione e disintossicazione il cui unico risultato era stato quello di portare Tony in pianta stabile a Malibu, gli scafandri chiusi a doppia mandata a Manhattan –E gli attacchi di panico a pressargli lo sterno, sempre e comunque, in qualunque occasione, dovunque si trovasse.
Il problema, tuttavia, era fargli iniziare un ulteriore percorso perché la smettesse di sopperire alla mancanza di armature e di ossigeno con abbondanti dosi di alcool. Lui gli era stato al fianco finché aveva potuto, e così Pepper prima dell’incidente che l’aveva costretta in ospedale.
Diffidava dell’idea dello S.H.I.E.L.D. di appioppare una babysitter a Tony, disapprovava la tendenza degli Agenti e del loro Direttore –Ex Direttore, da quanto aveva saputo- a trattarlo come un tossico incapace di provvedere a se stesso. Ma la terra stava cominciando ad annerirsi attorno all’amico e, se fosse una bruciata del tutto, forse Hendrick sarebbe rimasto l’ultimo e l’unico cui Tony avrebbe potuto aggrapparsi per non cadere.
«Non ti preoccupare, Hendrick. Me ne occuperò io.»

 

Essere scansionato due volte in meno di un quarto d’ora era quanto mai irritante, ma almeno J.A.R.V.I.S. aveva avuto il buon senso di evitare gli esami del sangue.
L’Intelligenza Artificiale gli diede il benvenuto, informandosi sul tenore del viaggio e sugli sviluppi riguardanti le indagini sul Mandarino.
«Tony ha fatto buon uso delle nostre intercettazioni, J.A.R.V.I.S.?» si informò Rhodes, sicuro che l’amico avesse fatto man bassa di informazioni e che il fedele maggiordomo invisibile non si fosse tirato indietro.
«Se può farla star meglio, signore, sono stati intercettati anche S.H.I.E.L.D., FBI e CIA.»
«Questo sì che mi rincuora.»
«Lieto di sentirglielo dire.»
Battibeccare con J.A.R.V.I.S. era inutile –Più per la facile vittoria dell’altro, che per l’opinabile questione della sua esistenza prettamente virtuale- e Rhodes decise di non tentare nemmeno. Superò l’atrio e il salotto, scendendo le scale a chiocciola che portavano al Laboratorio.
L’Intelligenza Artificiale doveva già aver avvertito Tony del suo arrivo: l’ingresso alla parte sotterranea della casa era aperto e Rhodey s’immobilizzò all’ultimo gradino, ancor prima di poggiare il piede sul pianerottolo.
L’intera stanza era occupata dalla riproduzione tridimensionale della piazzola del Grauman’s, compresa delle segnature in gesso delle vittime; Stark sostava proprio accanto al corpo virtuale di Happy, la testa bassa e gli occhi persi a cercare qualcosa, qualsiasi cosa all’interno delle orbite digitali dell’uomo. Un pannello rettangolare gravitava alla sua sinistra: su di essa l’immagine di una targhetta militare carbonizzata, da cui J.A.R.V.I.S. era stato in grado di estrapolare parzialmente l’identità di un tale -ac-- Taggart.
«Quand’è che una bomba non è una bomba, Rhodey?»
Il Colonnello sbattè le palpebre e mise finalmente piede nel Laboratorio.
L’ambiente 3D si disgregò, cubetti di svariati colori fluttuarono all’intorno, si torsero simili a correnti di un mulinello e infine si appiattirono a disegnare una mappa degli Stati Uniti. Alcuni pallini evidenziarono città e luoghi scelti secondo un criterio a Rhodes ancora sconosciuti e sopra di essi piccoli schermi squadrati riportavano i risultati di analisi e dati relativi a temperature con filtro oltre i tremila gradi.
«Rilievi termogenici.» gli spiegò Tony, mentre lui si avvicinava «Ho eliminato i luoghi dove il Mandarino ha dato spettacolo. Mi piace l’opzione della bomba a supporto di un suicidio, a Rose Hill.»
«Sì, ricordo quella notizia.» il Colonnello aggrottò la fronte «Ma è precedente agli attentati.»
«Guarda le temperature» Stark fece il gesto di lanciare un pugno di sale e dal pavimento emerse un pannello colorato, coi valori registrati al Grauman’s «Il calore supera i tremila gradi centigradi, niente residui di bomba. Entrambi soldati. Senza considerare l’odore della carne esplosa.»  
«Due militari mort—Cosa intendi con l’odore della carne esplosa
L’amico non rispose e battè le mani: diagrammi, tracciati e mappature vennero risucchiati dalle pareti e dagli angoli del soffitto. Il magnate attraversò il pavimento sgombro diretto alle scale e Rhodes gli fu subito dietro, cercando di seguire alla meglio lo scalpiccio dei suoi ragionamenti e non perdere il filo del suoi pensieri.
«Non puoi affidarti alla sola vista, Rhodey, essa è fallace. Ti porterà fuori strada.»
«Evita i giochetti da biscotto della fortuna con me, Tony.»
«Ho le mie fonti.» disse allora Stark e come suo solito non chiarì nulla.
Arrivato al salotto si voltò verso il Colonnello e gli puntò contro gli indici tesi, arcuando le sopracciglia.
«Tu devi essere la mia fonte militare.»
Rhodes strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca, con l’atteggiamento di chi ha capito benissimo quanto ha appena sentito, ma spera comunque di aver preso un abbaglio.
«Come?»
«Dammi la tua password, poi ci penso io.»
«Tony, non puoi chiedermelo.»
«E’ così imbarazzante?»
«E’ segreto di Stato.»
«E’ imbarazzante, ho capito.»
Ad interrompere sul nascere lo scatto felino che avrebbe portato Rhodey con le mani alla gola dell’amico, arrivò la voce di J.A.R.V.I.S.
«Signore, c’è l’Agente Hendrick in linea.»
Tony mosse le dita, a scacciare un insetto fastidioso.
«Se si è scordato i waffle senza glutine digli pure che può restare fuori.»
«Oddio» il Colonnello pinzò la radice del naso tra i polpastrelli, soffiando un respiro frustrato contro i denti digrignati «Tony, non puoi mandare Colin a prenderti i waffle senza glutine. Sta impersonando il tuo segretario, non il tuo galoppino.»
«Che problema c’è? Pepper lo faceva.»
«Pepper non era un Agente S.H.I.E.L.D. di Livello Sei.»
«Signore» intervenne di nuovo l’AI, con tono urgente «L’Agente Hendrick--»
«Dopo» replicò Tony «Allora, questa password?»
Rhodes pressò i palmi contro le orbite, quindi alzò le mani a chiedere un time-out.
«Va bene, d’accordo.» si passò la lingua sul labbro superiore «Warmachinerox. Con la x. Tutto maiuscolo.»
Stark lo fissò incredulo un paio di istanti, tentò di ricacciare nello stomaco la risata che gli stava raschiando la gola e infine cedette, dando il ben servito a quel poco di dignità che doveva essergli rimasta, sotto i vestiti sudati e la carnagione pallida.
«Sì, molto divertente. Smettila di ridere o ti strappo la lingua.»
«Signore» ancora, J.A.R.V.I.S. cercò di far convergere l’attenzione su di sé e sul messaggio che recava «L’Agente Hendrick---»
«Al diavolo!» inveì Tony, piccato «Che c’è?»
Non una risposta articolata e intelligibile irruppe nella stanza, bensì un unico, alto grido che fendette l’aria e deflagrò in mezzo alle pareti con la violenza di una bombarda.
«Via! Uscite di lì! Via!»
Rhodey non ebbe il tempo di chiedere di più.
Un pizzicorio alla nuca lo fece voltare verso la finestra che dava sulla scogliera e sul mare. Tutto quello che vide fu bianco, fiamme e fumo. Tutto quello che sentì fu sibilo, infrangersi di vuoto, divellersi di cemento, impatto, boato, silenzio.
Il pavimento franò sotto le scarpe ed egli scivolò nel vuoto assoluto, nel buio di un gorgo pressurizzato che gli piegò le ossa come gomma, succhiando via gli occhi e la pelle, rodendogli la carne e squarciandogli le arterie.

 

Il rombo dell’esplosione gli agguantò il volto e stracciò zigomi, ciglia e capelli. Lingue di fuoco s’arrampicarono sulle guance, agguantarono la fronte e trascinarono Tony a fondo, il clangore delle vertebre strapazzate che risuonava tra le tempie e spaccava a metà la calotta cranica. A rallentatore si sentì sbalzato all’indietro, quindi l’impatto con la parete, il terreno ringhiante, il dolore che scaricava lampi elettrici attraverso le terminazioni nervose e barbagliava, balbettava di bianco e nero dietro le palpebre serrate.
Un’enfia cortina di miasmi eruttò dalle finestre distrutte e gli abbaiò addosso, arrostendogli le braccia scoperte e il collo e arroventando i vestiti sulle carni.
Stark rotolò di lato, sfiatando saliva e ossigeno. Facendo leva sul gomito tentò malamente di raddrizzare la schiena e poco distante da sé vide il corpo di Rhodey abbandonato in mezzo alla polvere e alla macerie. Gli occhi erano chiusi, ma ancora –E per fortuna- un flebile soffio di respiro ne scuoteva le membra, e le labbra sanguinanti erano accartocciate in un gemito stridente. Neanche il tempo di formulare l’idea di avvicinarsi, che un crepitio sopra la testa lo costrinse a reclinare di scatto il capo all’indietro: una profonda fenditura si stava aprendo sul soffitto, polvere e intonaco, sottoforma di cascate di pulviscolo giallo-grigio, gli si rovesciavano addosso nella grottesca pantomima di una nevicata anticipata.
L’istinto fu più veloce della ragione e Tony si scansò un attimo prima che un blocco di cemento gli rovinasse sul torace. Costretto carponi dal dolore ai muscoli e dalla vista ottenebrata, si trascinò gattonando verso Rhodes; allungò una mano per scuoterlo e le dita erano ad un sospiro appena dalle sue scapole quando ad un secondo e ad un terzo fendersi d’aria seguì il rimbombo di rocce e muri sradicati, e cuspidi affilati di vetro gli si conficcarono nel viso, nel palmo alzato a riparare gli occhi e un guizzo rosso al sopracciglio sinistro e sangue ad impiastricciare le guance, l’incavo delle orbite, la bocca sabbiosa e incrostata di sapore metallico.
Il terreno rollò e vibrò e Stark non fu più in grado di mettersi in posizione eretta: il pavimento s’impennò e imbizzarrì, innalzandosi come cresta di spuma sui marosi. Le suppellettili, il mobilio, da ogni piano e da ogni angolo tintinnare e cigolare e frantumarsi di oggetti e cose e ricordi, il magnate cercò disperatamente un appiglio per sé, da dove poter tendersi a trattenere Rhodey per il polso.
Ma lo sconquasso provocato dalle esplosioni aveva aperto una spaccatura profonda nelle fondamenta della casa e adesso non c’era modo di fermare la rovinosa caduta verso il trascinio di onde e schiuma, giù, lungo i fianchi frastagliati della scogliera.
«Rhodey!» gridò Tony e l’urlo si perse nel frastuono della distruzione, nel caso, nel turbinare convulso di eliche e nello sciabordio d’acqua e metallo contro i faraglioni.
Le dita ebbero uno spasmo, il pavimento singultò sotto il petto di Stark.
Questi si sentì e si vide rivoltato all’indietro, il cielo sopra la testa, così la casa sempre più su, sempre più lontana –E lui sempre più a fondo, a velocità inarrestabile, incredibile e il fiato gli mancava nei polmoni e gli occhi sanguinavano e lacrimavano e Rhodes? Dov’era Rhodes? Rhodes era lontano, troppo lontano perché potesse raggiungerlo, e la nuca di Rhodes ciondolava, sbatteva contro le scapole. Per quanto inutile fosse il suo gesto, Stark tentò di torcere la schiena e tendersi nella sua direzione e il vento gli fischiava nelle orecchie sorde, ruggiva e ringhiava e strappava il fiato, strappava il cuore, strappava la trachea.
Un robusto pezzo di cemento, tre, quattro, cinque volte lui si inabissò in uno scoppio di spuma e Tony seppe che la fine era vicina. Proprio mentre acqua e cristalli bianchi gli schiaffeggiavano le guance e gli imbrattavano i vestiti, però, e il sole era una detonazione di raggi rossi e gocce opalescenti, ecco, s’accorse di qualcosa che gli afferrava il colletto e uno strattone e il mondo si ridusse alla sagoma perfetta di una portiera subito chiusa e non più odore di salino, ma di inserti in pelle, e non più chiasso di macerie distrutte, né frangersi di mare, ma un respiro affannato –Due, contando il proprio- ed il caldo ronzio dei motori sotto il ventre.
Sballottato con le reni contro il sedile nero, Stark si raggomitolò sullo schienale e tossì.
Colin era al posto del guidatore, le pupille minuscole come capocchie di spillo e le nocche bianche attorno al volante e alla leva del cambio. Colpo di frusta, lamento, Tony socchiuse le palpebre: la testa girava, la nausea gli dava le vertigini; serrò le braccia attorno allo stomaco, sfregando la fronte sul cuscinetto del sedile e mordendosi la lingua per non vomitare. Rimase così fino a quando non ebbe la sensazione che il mondo –E loro- si fosse fermato.
Allora drizzò il collo e vide Hendrick con le braccia tese, i muscoli tremanti per lo sforzo, le guance livide ed il petto ansante. L’Agente non protestò quando Tony si gettò sgraziatamente contro la portiera dell’auto, l’aprì e si ritrovò con la schiena aderente all’asfalto.
Era letteralmente capitombolato a terra e girandosi s’avvide che l’unico segno della macchina di Colin era il frammento d’interno ritagliato dalla realtà circostante. Rispetto al suolo, le gomme erano sospese dalla strada almeno mezzo metro.
«Scudi deflettori.» annaspò Hendrick, cogliendo la sua perplessità «E ruote anti-gravitazionali.»
Tony rotolò in ginocchio e nel guardare verso il promontorio, un gemito gli sfuggì dalla bocca spalancata.
Colin gli aveva salvato la vita, portando entrambi sulla Colony Road.
Dietro di loro gli ultimi resti della sua casa di Malibù venivano inghiottiti dal mare –E il corpo di Rhodey con essi.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** { La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 } ***


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{ La Realtà Dei Folli ~ File 0.8 }

 

2013
Quinjet
Spazio Aereo Non Identificato

 

«Mi ricordo la cerimonia: davvero molto sentita. Tu hai vomitato, vero?»
Clint si chiese se provocarsi una sordità temporanea conficcando gli indici nelle orecchie sarebbe servito a zittire Loki una volta per tutte. Il Dio, avvertendo il brusio tormentato dei suoi pensieri, sogghignò maligno e gli fece segno di “No” con l’indice, alla stregua di una madre che riprenda il figlioletto disobbediente con le mani nella marmellata.
Barton inspirò, concentrandosi sul cielo cosparso di nuvolaglia biancastra, sotto il muso dell’aereo.
Signore, cosa avrebbe dato per una sigaretta. Una lunga, bollente sigaretta, di quelle che ti impregnano i polmoni di catrame e ti lasciano mezzo morto dopo ogni boccata, che ti fanno lacrimare gli occhi, che ti infeltriscono la lingua e bruciano le labbra come se avessi appena morso un gigantesco pezzo di carbone. Lo sterno scricchiolava ad ogni respiro e sarebbe bastato un solo ingoio di tabacco per ammorbidire le ossa; lo stomaco si rivoltava, gemeva e guaiva, e sarebbe bastato un solo ingoio di tabacco perché facesse la fusa e si acciambellasse tranquillo dentro la pancia; i polsi tremavano e sarebbe bastato un solo ingoio di tabacco perché le dita si stabilizzassero e con esse il borbottio iroso del Quinjet, il tremebondo rollio della cloche contro il palmo.
Persino la vista cominciava a cedere e se Occhio Di Falco non poteva fare affidamento su di essa, allora tanto valeva recidersi la carotide e farla finita, giacché non esisteva neanche la più remota possibilità che Occhio Di Falco continuasse a vivere la propria esistenza se non era in grado di contare i peli nel naso del barista al Greenwich Village o le smagliature di una prostituta che adoperava la stessa delicatezza di gesti necessaria a smuovere la leva del cambio.
«Ah, mi ricordo di lei.» Loki interruppe il lavorio incessante del suo cervello allungandosi sul sedile del co-pilota, un sorriso serico sulla bocca e le lunghe gambe accavallate, la mano sinistra sul ginocchio destro e l’indice dell’altra a battere sul labbro inferiore «Kitty? Kathy? Kate?»
«Continua pure, Loki, non mi distrai affatto.»
In risposta, il Norreno reclinò la nuca all’indietro, in modo da guardarlo di sbieco coi suoi freddi occhi di serpentina.
«Sei tu che ti stai facendo distrarre da me.»
«Se blateri tutto il tempo, non vedo come potrebbe essere altrimenti.»
«I tuoi amici di là lo sanno che hai chiuso le comunicazioni con loro per potermi rimbrottare meglio?»
Colpo basso, questo, e Barton reagì contraendo la mascella e snudando pericoloso i denti. Già Natasha lo fissava convinta che avrebbe dato di matto di lì a poco, non intendeva certo avvalorare quell’ipotesi facendosi sentire mentre dialogava amabilmente con un pazzo sclerotico frutto della sua psiche instabile…
«Come immaginavo.»
Loki scrollò sdegnosamente le spalle, puntellando poi il mento sul pungo chiuso. Il sole riluceva diafano sulla pelle del Dio, tracciando solchi dorati sui gambali e le piastre del petto, sul panno verde della veste, sul collare a mezzaluna.
Sembrava così vero e tangibile che l’Agente aveva avuto più di una volta il dubbio che quel maledetto fosse lì, in carne ed ossa, e si rendesse invisibile allo sguardo altrui al solo scopo di far vacillare le proprie certezze e portarlo al baratro della follia. Che fosse capace di leggere ogni pensiero come un libro aperto, si spiegava facilmente ricordando la fastidiosa vacanza offerta dal Tesseract nel proprio cranio –Logico, no?
Per quanto terribile, un’ipotesi del genere poteva essere di sollievo, rispetto all’idea di essere ammattito del tutto. Sapersi perseguitato e tallonato da una realtà di sangue e carne era preferibile –Soprattutto, suddetta realtà, essendo di carne e sangue, poteva essere trafitta da una freccia e non c’era niente di più salutare al mondo che trafiggere una fastidiosa e logorroica realtà di carne e sangue con una freccia.
«Anche la vendetta è salutare, sai?» Loki si voltò nella sua direzione e Clint avvertì la punta gelida dei polpastrelli del Norreno graffiargli il dorso della mano. I brividi scrosciarono attraverso la spina dorsale, il bisogno di stordirsi con alcool e nicotina latrò con violenza tale da scuotergli le tempie e riempire la testa di ovatta «Non è stato gentile con te, sai? Non lo è stato affatto. Gli hai dato tutto, Agente Barton, tutto. L’ho visto. Il Tesseract mi ha mostrato ciò che eravate e che per causa sua non potrete più essere.»
«Per causa tua vorrai dire» lo corresse Occhio Di Falco e la voce era fiacca nella gola, le dita di Loki penetravano nella carne, superavano l’ostacolo della pelle e delle ossa, ingarbugliavano e annodavano i nervi a propria piacere e diletto.
«Io l’ho ucciso, sì. O meglio, ne ero convinto. Un minuscolo errore di valutazione –Voi Midgardiani siete più coriacei di quanto avessi preventivato.»
Pur mantenendo lo sguardo fisso davanti a sé, le nocche serrate alla cloche, Barton sentiva l’attenzione scivolare via insieme al sangue che l’altro gli stava succhiando per fare posto al suo, ad una colata di neve e ghiaccio, argento acido, sonante gorgoglio di cristalli invernali. Vedeva e non vedeva, c’era e non c’era, il mondo era un’interferenza, si assestava su una gamma di colori un attimo e l’attimo dopo già era in bianco e nero, distorto, i suoni gli tagliavano le orecchie, oppure sbattevano contro la fronte, le cornee, i timpani come mosconi contro il vetro e le immagini ronzavano senza sosta, senza posa, una presenza scivolava e si insinuava nella coscienza, le imponeva, ordinava di scostarsi, di sparire, svanire in fumo.
«Hai pianto per lui così tanto, Agente Barton. Così tanto e così a lungo da consumare occhi e lacrime. Bruciavi di dolore e la cenere del lutto era sterile, nessuna promessa di vita, nessun bocciolo, né gemma di esistenza era abbastanza forte per convincerti a svegliarti dal torpore. Così miserevole, così miserando, il tuo amore per lui ti ha fatto diventare pazzo. E cosa ha fatto quell’uomo, per te? Mentre tu trascorrevi le notti a vegliare sulla sua tomba e ti disperavi e a stento ti reggevi in piedi e più non riconoscevi lo scorrere dei giorni, lui che faceva? Lui viveva. Non ti cercava, non pensava a te, ha ripagato le tue urla col silenzio, non ha mai risposto quando hai chiamato il suo nome, non è mai giunto ad asciugare le tue lacrime. Mai. Mai e poi mai, ti ha abbandonato, ti ha gettato via, a che gli servivi? A che gli servivi, ormai? Avevi esaurito il tuo compito e l’avevi deluso. Ignominia! Infamia! Debole, debole, debole Agente Barton! Lui se n’è andato perché eri debole, perché eri folle, perché eri rotto, eri spezzato, eri debole. Ah, ma sei stato così forte, Agente Barton, così forte quand’eri al mio fianco. Così forte…»
«Clint?»
Barton spalancò la bocca ad un ingoio prepotente di aria, come se fosse appena sbucato con la testa fuori dall’acqua, dopo un considerevole lasso di tempo passato in apnea. Quasi gemette, annaspando e boccheggiando, avvertendo il sudore freddo stridere sulla tempie, conficcarsi nel cervello ed affondare fino alla nuca.
«Clint!»
Soltanto allora Occhio Di Falco si accorse che il muso del Quinjet era puntato verso terra e che l’abitacolo tremava. Le lamiere ringhiavano al fischio del vento che sbatteva contro la carlinga, la coda e le ali, contro il vetro traballante. Il fiato falcidiava i polmoni e attorcigliava i bronchi in trecce gelate.
Fu per mero istinto che l’Agente tornò in quota e mise a tacere le urla scostanti degli strumenti di bordo. Di nuovo sulla rotta giusta, di nuovo all’altezza necessaria a non schiantarsi miserevolmente al suolo, Clint serrò la mascella per impedire ai denti di continuare a battere e fece schizzare scariche di dolore infuocato dai palmi, tanto li strinse sulla cloche per arrestare il fremito delle nocche.
«Clint, forse è meglio che prenda il tuo posto e tu vada a riposare.»
«Ce la faccio, Nat. E’ stato soltanto un vuoto d’aria.»
A Clint non serviva vedere l’espressione di Natasha per capire che la donna non credeva ad una sola parola. La vide comunque, perché vedere ogni cosa significava anche sorbirsi le labbra contratte di Vedova Nera, le sopracciglia schizzate all’attaccatura dei capelli e persino quell’aura di schiacciante rancore che lei gli portava ogniqualvolta taceva qualcosa di fondamentale.
«Sicuro di stare bene?»

No. Non sto bene. Sto impazzendo, Nat. Sto impazzendo, sto crollando, mi sto frantumando, disintegrando, mi sto riducendo a pezzi, ad un’ombra di me stesso. Aiutami, Nat, ti prego. Ho bisogno di aiuto. Aiutami. Loki, il senso di colpa, il rimpianto mi tormentano. Aiutami. Scaccialo via, Nat, scaccialo---
«Sì. Torna in carlinga da Coulson e tienilo a debita distanza dalla mia persona.»
Poi, Occhio Di Falco fu troppo occupato a chiedersi chi avesse fatto uscire quella frase dalla sua bocca, quando in testa e sulla lingua e nel cuore aveva ben altre parole, per notare l’aggrottarsi perplesso della fronte di Natasha.
Si girò allora verso il posto del co-pilota, dove Loki era accomodato con le gambe distese e i piedi appoggiati sul pannello dei comandi. Il Dio si coprì la bocca per nascondere uno sbadiglio annoiato, quindi reclinò il capo ed un guizzo verde incattivì gli occhi ferini, un sogghigno affiorò alle sue labbra.
«E’ questo quel che succede ad essere pazzi, Agente Barton.» rise, mellifluo «L’unica realtà su cui hai il controllo è soltanto quella dentro la tua testa. Fuori, chi è abbastanza forte da aggiogarti plasma il tuo destino.»

 

«Un vuoto d’aria? E tu gli credi?»
«No. Ma tramortire il nostro pilota mentre era in volo per interrogarlo mi è sembrata un’idea da scartare a priori.»
Phil benedisse per l’ennesima volta il fatto che sguardi e parole non potessero uccidere. Nick Fury poteva tanto, poteva tutto, ma di certo resuscitare i cadaveri di Vedova Nera andava oltre le capacità di chiunque, persino quelle del Direttore –Ex Direttore, si impose di pensare, viste le circostanze.
Natasha non gli era saltata alla gola, non aveva cercato di ucciderlo, non l’aveva coperto di insulti, né lasciato in ricordo una gragnola di lividi in ogni tratto di pelle raggiungibile. A differenza di Occhio Di Falco, stava usando contro di lui freddezza e gelo, una rabbia affilata che penetrava nel costato e nella carne, parola dopo parola, indifferenza dopo indifferenza.
Phil Coulson era morto e Vedova Nera non doveva niente ai defunti. Per quanto la riguardava, aveva seppellito il leader dello Strike Team Delta sei mesi prima ed il rispetto, la lealtà, finanche la complicità che avevano era sprofondata sotto metri di terra.
A quel Phil Coulson che aveva visto tra i turbini di neve e nel biancore accecante del ghiaccio, lei non doveva niente. All’uomo era bastata l’occhiata che Natasha gli aveva lanciato per capirlo. E comprendere che niente di quello che avrebbe detto, niente di quello che avrebbe fatto, l’avrebbe più riavvicinata. Era tornato alla vita convinta di ritrovare, di riavere quel che aveva perduto: invece, aveva perso chi nella morte non aveva abbandonato il suo fianco per un singolo istante.
«Non sei intenzionata a perdonarmi, vero?»
Vedova Nera, che nel frattempo aveva allacciato nuovamente le cinture e si era assicurata al sedile, inarcò il sopracciglio destro. Mai sguardo fu più eloquente di quello, mai tanto sarcasmo, mai tanto distacco era stato visto negli occhi incolori della spia russa.
«Non hai ferito solo lui, Coulson.» disse, secca, senza giri di parole, senza tentativi di indorare la pillola o stemperare la tensione.
«Avevo degli ordini.»
«Lo so. Li aveva anche Clint, quando fu mandato ad uccidermi.»
«E con questo?»
«Gli ordini non sono tutto.» Natasha contrasse le labbra «Se adesso esegui e basta, senza pensare, senza protestare, senza nemmeno considerare la possibilità che l’ordine sia ingiusto, allora Nick Fury non ha riportato in vita un uomo, ma soltanto un manichino. Un burattino da manovrare a proprio piacimento, un pupazzo che sa annuire e dare ordini a propria volta. Un burattino senza cuore.»
«Apprezzo la metafora di Pinocchio. Non molto il tono con cui ti stai rivolgendo a me, Agente Romanoff.»
« Non sei il mio superiore. Sono un Vendicatore, ora.» replicò lei «Che è anche il motivo per cui hai deciso di tenere la bocca chiusa, se non sbaglio. Nessun Vendicatore e nessun Agente al di sotto del Livello Sette doveva venire a sapere del tuo ritorno nella terra dei vivi. Se poi ci sei davvero stato, nella terra dei morti.»
«Mi hai visto, Natasha. Hai visto cosa…Loki mi ha fatto.»
«Ho visto qualcuno con le tue sembianze vestito a lutto. Ho visto una bara calata in una fossa, su cui campeggiava una stele col tuo nome inscritto. Ho visto Clint crollare in ginocchio.» sussurrò «Ho visto gli sguardi pieni di odio che gli hanno rivolto. Gli insulti. Gli sputi. Ho visto Clint crollare e non riuscire più a rialzarsi. Ho visto di te» deviò gli occhi da lui, li diresse all’abitacolo «E ho capito che sei solo un corpo vuoto.»
Phil, se non fosse stato per le cinture e per qualsiasi norma di sicurezza, si sarebbe teso verso di lei, avrebbe cercato di stabilire un contatto prima che, con la sua battuta di chiusura, erigesse per sempre un muro impossibile da superare.
«Natasha, sono io!» esclamò «Sono sempre io, non sono cambiato! Sono io---!»
«Sempre tu?» Vedova Nera sollevò il labbro superiore in una smorfia ironica e delusa all’insieme «Se sei sempre stato così ed il tempo trascorso allo Strike Team Delta unicamente una bugia, allora preferisco la menzogna che eri.»
Coulson aprì la bocca per replicare –Testarda, dannata testarda, testarda Natasha, testardo Clint, testardo chiunque, lì dentro, incapaci di capire quanto l’ordine gli avesse stretto la gola, incapaci di comprendere quanti giorni avessi trascorso a leggere file e rapporti di vecchi missioni, il dito sollevato su un minuscolo, misero tasto che lo avrebbe messo in comunicazione con loro una volta per tutte, in malora gli ordini, in malora Fury…!
«Cessate il vostro chiacchierare, signorinelle.» la voce di Clint echeggiò crepitante nella carlinga, sbatacchiando contro le lamiere ricurve «Siamo in New Jersey. Arriveremo al Camp Lehigh in dieci minuti. Preparatevi a sbarcare. L’Agente Coulson è pregato di non fare foto e di rimanere sotto stretta sorveglianza: non è mia intenzione rincorrerlo per tutto il perimetro soltanto perché si vuole accaparrare qualche cimelio appartenente a Capitan America.»

 

2011
Triskelion, Washington D.C.
Uffici.
 

«Hanno richiesto l’autopsia?»
«Ho fatto sì che non lo ritenessero necessario. Lo stress può essere mortale, anche per un’Agente addestrata come lo era Gail Runciter.»
L’uomo alla finestra contrasse la bocca a quelle parole, per poi bere un sorso di bourbon e continuare a guardare oltre il vetro. Gli era stata risparmiata la scena del corpo di Miss Runciter abbandonato nelle docce, col collo languidamente reclinato all’indietro ed il sangue che dai polsi ramificava in minuscoli zampilli rossi, intrecciandosi all’acqua scrosciante. Non provava dispiacere, bensì disappunto: erano nelle condizioni meno indicate per perdere del personale, soprattutto personale non rimpiazzabile, né malleabile come era stata la Runciter.
Cercare di irretire qualche altro Agente nelle spire del Dottor Marlowe era fuori discussione. Inoltre, come se non fosse abbastanza, dai laboratori arrivavano notizie desolanti: il loro progetto stava andando in fumo ancora prima di pianificare un test sul campo.
«I campioni di sangue sono inutilizzabili.» l’uomo fece scrosciare il bourbon nel bicchiere tozzo, prismi di giallo paglierino si schiantarono contro i bottoni lucidi del doppiopetto grigio «Non possiamo ricavarne nulla.»
«E il soggetto non risponde più alla mia terapia.»
Accomodato sul divanetto di pelle davanti alla scrivania, Marlowe sistemò il corpo panciuto sui cuscini, le fattezze scimmiesche quali aveva assunto il giorno in cui il soggetto si era risvegliato dal sopore e dall’incanto: al contrario di quel giorno, tuttavia, non c’era niente di forzato nella sua metamorfosi. I tratti animaleschi, le dita coperte di pelo rubizzo, i lineamenti grossolani della faccia, la folta chioma rossa che ruggiva sgraziata e scomposta, persino il torace a badile non erano più una maschera di cera pigiata alla meglio, ma sembravano il solo aspetto che il medico possedesse davvero.
L’uomo alla finestra contrasse appena le palpebre, le rughe agli angoli degli occhi ebbero un fremito. Si girò ed appoggiò il bicchiere alla scrivania.
«Continua a tenere gli Agenti sotto il tuo controllo, Faustus.» ordinò «Io devo andare in New Jersey.»

 

 

2013,
New Jersey.
Camp Lehigh.

 

Il Quinjet era atterrato a cento metri di distanza dal cancello d’entrata: con gli scudi deflettori alzati, non era che una piega di ombra nell’oscurità circostante e lo sguardo poteva saettargli attraverso senza che nessuno si accorgesse della sua effettiva presenza –Salvo incappare nei fianchi, nelle ali o nel muso, oltre che inciampare e franare contro la sua inequivocabile, sebbene invisibile, solidità.
Più silenziosi della notte in cui erano immersi, i tre superarono gli anelli sgangherati del cancello e si immisero nel grande spiazzo aperto che una volta era stato il campo di addestramento di Steven Rogers: uno Steven Rogers ben più basso, ben più magro, ben più microscopico della figura erculea, eroica che i cinegiornali avevano sbandierato in ogni angolo del pianeta. Quegli occhi sfolgoranti in bianco e nero, lo sfolgorio dello scudo scagliato contro le truppe nemiche, le mani strette alle mani sanguinanti di un commilitone ferito a morte, quanto cuore, che anima grande aveva camminato sulla Terra…E poi li aveva lasciati.
La Guerra era finita e l’uomo era divenuto Leggenda. E come il Graal, come l’Arca dell’Alleanza, era divenuto un simbolo di grandezza, di pace, e tante, troppe persone si erano susseguite per cercarlo, per trovare ancora una volta il suo sorriso, sentirsi colmare di inestinguibile speranza. Niente, però, era accaduto e la stella di Capitan America, così splendente da accecare, non era stata più che un astro cadente: dietro di sé aveva lasciato una coda d’argento di sogni e amore, ma il suo cuore, la sua parte concreta e tangibile, era bruciata in fretta.
Riducendosi in cenere.
Spazzata via in un soffio di vento.
«E’ soltanto un museo a cielo aperto.» commentò Barton, che aveva sfruttato alcuni appigli di uno dei casermoni per issarsi sopra di esso e avere una migliore visuale dell’intorno «Cosa dovremmo cercare, esattamente? Lenzuola da vendere su Ebay a qualche appassionato? Sempre che Coulson non se le sia accaparrate già tutte, beninteso.»
«Puoi stare in silenzio, una buona volta? Mi deconcentri.»
Vedova Nera si mise in testa al gruppo, il palmare tenuto di fronte a sé per trovare il luogo specifico del segnale. A prima vista, come aveva già fatto intendere Barton, non c’era nulla che potesse far intendere la provenienza del file, né il suo creatore.
Soltanto ambienti mastodontici e tozzi che ai tempi del secondo conflitto mondiale erano serviti per gli alloggi dei soldati, l’Infermeria, lo stoccaggio di provviste ed armi e mezzi di trasporto. C’era ancora traccia della via che serpeggiava attorno alle strutture per i faticosi giri di campo, nonché la zona di terreno abbassato e tenuto costantemente bagnato per insegnare ai cadetti come passare sotto il filo spinato tenendo i fucili al petto e la testa abbastanza bassa per non cavarsi gli occhi. C’era ancora il palo su cui innestare la bandiera, perché venisse alzata ogni mattina come monito e faro di perenne fiducia e preghiera.
«Distrarti?» Occhio Di Falco emise un verso stizzito «Hai paura di inciampare mentre ti stai facendo un selfie, Nat? Mi immagino già gli hashtag…»
«Sarà un piacere per me staccarti la lingua di netto, Barton, se non la smetti di dire idiozie.» schioccando la lingua contro il palato, Vedova Nera rimise il palmare al sicuro, dentro una delle tasche del cinturone che aveva in vita «E’ un punto morto. Zero rilevamento calore. Zero rilevamento onde. Nessuna onda radio. Chiunque abbia creato il file deve aver usato un router per confondere le cose.»
«Solo calcinacci ed erba?» le chiese Clint, sempre appollaiato sul tetto e con le dita spinte a tenere attiva la trasmittente all’orecchio.
«E formiche. Probabilmente una nidiata di scarafaggi e topi, da qualche parte.»
«Esattamente come negli Anni Quaranta, allora.» intervenne Coulson e senza dar loro il tempo di chiedere, superò Natasha come se già sapesse dove andare e cosa fare, in che luogo dirigersi.
«Ho visto male o sta ridendo sotto i baffi, Nat?»
«Voi due non avete mai letto niente sui campi di addestramento della Seconda Guerra Mondiale?»
«Negativo. I Peanuts erano più interessanti.»
«Barton» fece di nuovo Phil, come se non lo avesse sentito «Puoi dirmi la distanza tra il campo e l’edificio di stoccaggio armi?»
«Duecentocinquanta metri. Perché?»
«Il regolamento militare proibisce lo stoccaggio di armi a meno di quattrocentocinquanta metri dal campo.» spiegò Coulson e con la coda dell’occhio vide Natasha annuire in direzione di Clint, e questi saltare dal tetto a terra senza un suono od uno spostamento d’aria.
«Conosco quello sguardo, Phil.»  commentò Barton, provocando un gemito scricchiolante nel cuore dell’altro nel sentirsi finalmente chiamare col nome abbreviato «C’è altro che ci nascondi. C’è altro che sai.»
«Forse.»
Le porte dello stoccaggio armi erano chiuse da un catenaccio ed un lucchetto. Non che fosse un problema, visto e considerando che se anche Coulson non avesse avuto con un sé una carica esplosiva da viaggio, sarebbe bastata una cocca modificata di Occhio Di Falco per farli passare.
All’interno, una rampa di scale portava fino ad un ambiente rettangolare, spazioso, ampio, col soffitto piuttosto basso. Clint fu il primo a trovare l’interruttore della luce e i neon picchiettarono prima di aprire a ventaglio coni di luce asettica, uno dopo l’altro, simili a bianche tessere da domino.
«Mi venisse un colpo.»  esalò Barton, lo sguardo fisso al simbolo dello S.H.I.E.L.D. che campeggiava fiero sulla parete di fronte a loro. Vi erano poi scrivanie coi cassetti ormai vuoti, sedie girevoli, scaffali di metallo impolverati e cadenti, e vecchi telefoni a rotella.
«Lo S.H.I.E.L.D.» disse Natasha, guardandosi intorno.
«Dove tutta ha avuto inizio.» concordò Phil e li condusse verso uno degli uffici laterali, separato dall’ambiente principale da vetri in plexiglass opachi: oltre di essa, una stanza stipata di scaffalature completamente sventrate, dove si intravedevano biocchi polvere grigia spruzzati di residui di carta giallastra, ultimo ricordo dei fascicoli che contenevano una volta.
L’intelaiatura elettrica e i cavi erano ancora in bella vista –E ancora funzionanti, stranamente- e c’erano ancora cartellette color pulce dimenticate, privi di timbri, scritte o qualsivoglia segno di riconoscimento circa il loro contenuto.
Sul muro dinanzi la soglia erano appese tre cornici e dietro il vetro rigato, a sorridere od anche solo guardarli con curiosità di occhi vuoti, due uomini e una donna.
«Il Colonnello Phillips.» fece Coulson, indicando l’uomo in alta uniforme e la bandiera americana orgogliosamente sventolante dietro le sue spalle «Howard Stark» l’uomo in mezzo, con espressione scanzonata e superba, divertita, la stessa di cui il figlio era maestro indiscusso «E Peggy Carter. Agente dello RSS. Una donna coraggiosa. E fiera. Ha amato Capitan America fino alla sua morte e non ha ancora smesso di amarlo.»
«Una perdita di tempo.»
Il commento avvelenato di Clint spezzò l’incantesimo sospeso che li aveva avvolti, rovesciando su di loro l’urgenza del presente e soverchiando la dolceamara essenza dei ricordi e della storia.
«Non è stata una perdita di tempo.» replicò Phil, sbattendo le palpebre e scrollando impercettibilmente le spalle «E’ stata…»
«Patetica» concluse per lui l’Agente «Avrebbe potuto rifarsi una vita, invece di piangere un morto.»
«Possiamo portare a termine la missione, invece che perdere tempo?» Natasha serrò le braccia al seno e li trafisse con sguardo tagliente «Vi graffierete dopo. Ora dobbiamo trovare la fonte di ogni nostro guaio.»
In un’altra occasione, Clint avrebbe sputato a terra od avrebbe imprecato in qualche slang appreso durante i suoi anni trascorsi al circo e passati in giro per l’America, invece si limitò a sbuffare una risata impertinente, contrarre la bocca in direzione di Phil e poi passare attraverso gli scaffali per cercare qualcosa di interessante o pertinente.
Qualcosa di pertinente ed interessante che si rivelò essere un fischio come sfiato di aria, proveniente dal bordo di uno degli scaffali. Corrugando la fronte, Occhio Di Falco fece scorrere i polpastrelli lungo il fianco del mobile, fino a quando non gli riuscì di trovare un punto abbastanza largo dove aggrapparsi con le nocche e tirare, rivelando così quello che era a tutti gli effetti le porte di un vano ascensore.
«Secondo voi hanno nascosto l’ascensore perché gli impiegati erano diventati pigri e mettevano su peso?»
«Sai che scocciatura, procurarsi tutte quelle divise taglia comoda?» si accordò Natasha, avvicinandosi poi al pannello fissato accanto all’ascensore e posizionandovi sopra il palmare.
Questi emise un fascio di luce bluastra che saettò direttamente a scansionare i tasti per l’inserimento del codice numerico. Tramite un controllo della consunzione di alcuni tasti rispetto ad altri, Vedova Nera fu in grado di risalire alla chiave di accesso e sgombrare loro la strada.

 

«Posso capire il concetto Precedere i tempi i tempi, ma delle entrate USB dentro una stanza che straborda tecnologia a nastro mi pare eccessivo.»
In effetti, non era possibile dare torto a Clint. Sulle prime, era parso ai tre che non ci fosse nulla di tecnologicamente comparabile, né avanzato che potesse essere loro di aiuto od in qualche modo collegato allo scopo della missione. Come aveva fatto giustamente notare Natasha si trattava di tecnologia, sì, ma tecnologia antica.
Poi, l’occhio di Coulson era caduto sulle parallelepipedo con le bocche cesellate delle drive e aveva capito che qualcosa di molto più losco si nascondeva lì dentro, dietro gli alti pannelli da registrazione e gli schermi e i computer di vecchia generazione. La telecamera posizionata su quello centrale, considerò, stava addosso ai tre come un mirino e gli faceva accapponare la pelle.
«Inserisci la pendrive, Natasha.»
Vedova Nera annuì e si chinò sulla tastiera, non appena essi vennero illuminati da un guizzo blu elettrico. Clack, altre neon si accesero in un battito oleoso, le bobine scatarrarono e ripresero a scorrere.
«Questo posto mi fa venire in brividi.» sussurrò Barton, estraendo una freccia dalla faretra e incoccandola per precauzione, l’arco puntato verso il pavimento.
«Cosa vedi?» Coulson gli si accostò e cercò il lampo grigio ferro dei suoi occhi.
«Guai.»

Avviare il sistema? Chiese una voce sintetizzata e roca, sgradevole, accompagnata da una scritta verde acido sullo schermo principale.
Natasha inarcò un sopracciglio e digitò direttamente la risposta.
«Sì.»
«Ho visto una cosa del genere in un film.» interloquì Clint «Non è finita bene.»
«Non fare l’uccello del malaugurio, Barton.» lo riprese Vedova Nera, che immediatamente raddrizzò la schiena e si allontanò dal computer, quando sullo schermo presero a scrosciare interferenze verdastre, singulti di colore, polle nere che assunsero le sembianze di un viso –O meglio, le fattezze bombate di un viso che pareva coperto da una maschera anti-gas.
«Are you my mummy?» cinguettò Occhio Di Falco –Segno, tra l’altro, del suo nervosismo crescente.
«Coulson, Philip J.» gracchiò una seconda voce, rovinata dall’incisione su nastro, e venata da un’inquietante accento tedesco «Nato l’8 Luglio del 1964.»
«Ha dimenticato il nomignolo Cheese» sghignazzò Clint, le cui dita stavano già accarezzando l’impennaggio del dardo.
La telecamera sopra lo schermo si girò lentamente, puntando direttamente su di lui.
«Barton, Clinton Francis. Nato il 18 Giugno del 1985.»
«Tenetevi pronti.» mormorò Natasha, mentre l’occhio invisibile del macchinario puntasse su di lei.
«Romanoff, Natalia Alianovna. Nata nel 1984.»
«Per essere una registrazione, è piuttosto inquietante.»
«Io non sono una registrazione, fraulein.» puntualizzò la voce, indispettita «Non sarò più l’uomo di quando il vostro beneamato Capitan America mi fece prigioniero nel 1945, ma io esisto.»
Sul computer più piccolo, a sinistra della telecamera, comparve la foto in bianco e nero di un ometto tarchiato, con tratti grezzi e bulbosi e forte prognatismo dell’arcata sopraccigliare, orecchie allungate e bocca piccola, sottile. Sgraziate lenti da vista ingigantivano gli occhietti infossati, dal taglio obliquo e perverso, come perversa era l’aura che lo circondava e che faceva torcere le viscere e lo stomaco.
«Arnim Zola…» sfiatò Coulson «Pensavo fosse morto da anni.»
«Morto? Guardatevi intorno: non sono mai stato tanto vivo. Nel 1972 mi diagnosticarono una malattia terminale: la scienza non poteva salvare il mio corpo. La mia mente, tuttavia, meritava di essere salvata in una banca dati su sessanta kilometri di nastro. Voi vi trovate nel mio cervello
«D’accordo, chi è questo Grande Fratello Mangiacrauti?»
A Clint non occorse che uno scatto di reni per mettersi in posizione e tendere la corda, il gomito una linea retta col polso e l’indice che direzionava la freccia.
«Uno scienziato svizzero al soldo di Teschio Rosso.» spiegò Phil ed allungò la mano, il palmo aperto a segnalargli di stare fermo «Una mente malata e meschina al servizio di un credo disumano.»
«Quante belle parole, signor Coulson. Eppure è stato il vostro governo a salvarmi, il vostro governo ad invitarmi qui, a proteggere la mia…Come ha detto? Mente malata e meschina, al servizio di un credo disumano.»
«Si tratta dell’Operazione Paperclip, dopo la Seconda Guerra Mondiale.» Natasha deglutì e si girò a guardare Phil, forse per chiedere conferma « Lo S.H.I.E.L.D. reclutò scienziati tedeschi con capacità strategiche.»
«Pensavano che potessi aiutare la loro causa. E ho aiutato anche la mia
«La tua causa?» Clint socchiuse le palpebre, piegando la bocca in un ghigno di sfottò «Quale? Boicottare internet per carpire i segreti di Campo Fiorito
Ma Coulson era pallido in volto e un dubbio serpeggiava nella sua mente, quasi gli toglieva il respiro.
«L’HYDRA» sussurrò.
«Taglia una testa e altre due spuntano fuori.» convenne Zola, sdoppiando il proprio volto per rendere meglio il concetto «L’HYDRA fu fondata sulla convinzione che non ci si poteva fidare di un’umanità che fosse libera. Quello di cui non ci eravamo resi conto era che portare via la libertà genera resistenza: la guerra ci ha istruito molto. L’umanità doveva rinunciare alla propria libertà volontariamente.
“Dopo la Guerra fu fondato lo S.H.I.E.L.D. e io fui reclutato. La nuova HYDRA cresceva: un bellissimo parassita all’interno dello S.H.I.E.L.D. Per settanta anni l’HYDRA ha segretamente fomentato crisi. Scatenato guerre. E se la storia non collaborava, la storia veniva cambiata.»
«Tutto questo non ha il benché minimo senso.» Vedova Nera girò gli occhi all’immagine di Zola impressa nello schermo «Lo S.H.I.E.L.D. vi avrebbe fermati.»
«Ma gli incidenti capitano.» mormorò Phil e la rabbia e la vergogna avevano indurito il viso altrimenti bonario, al punto che abbassò il braccio e strinse i pugni, non accorgendosi del lampo verde che aveva per un istante guizzato negli occhi dell’arciere al suo fianco.
«Esatto. L’HYDRA ha creato un mondo talmente caotico che l’umanità è finalmente pronta a sacrificare la propria libertà per guadagnare la propria sicurezza. Una volta completato un processo di purificazione il nuovo ordine del mondo di HYDRA sorgerà.»
«Pensate di avere vinto, dunque?» lo interrogò Clint –E c’era una nota serpentina, nella sua voce, un bagliore di ferina curiosità nello sguardo irridente.
«Certo.»
«Cosa c’è nel drive?» Coulson corrugò la fronte, la mano che andava lentamente arretrando per sfiorare la pistola.
«Il Progetto Insight richiede intuito. Così ho scritto un algoritmo.»
«Che tipo di algoritmo? Cosa fa?»
«La risposta alla tua domanda è avvincente. Malauguratamente, sarete troppo morti per sentirla.»
Subito, Natasha agguantò il palmare e spalancò gli occhi.
«Ci sono addosso!» esclamò «Dobbiamo---»
Ma le sue ultime parole furono coperte da uno schiocco, quindi un tonfo ed un grido di dolore.
Phil gemette e sporse i denti, artigliandosi il fianco destro con le mani. Più nello specifico, serrando le nocche attorno l’asta della freccia che gli si era conficcata nelle carni e che aveva fatto sprizzare sangue bollente sulla camicia, imbevendola di rosso vivo.
Vedova Nera si girò, tuttavia non abbastanza in fretta per evitarsi di trovarsi la cuspide di un dardo ad un respiro appena dalla fronte.
«Clint…?»
«Adagio, vulvetta lamentosa.» l’arciere passò la lingua sul labbro superiore, le iridi accese, folli, sfumate di ghiaccio e di verde «Non bisogna interrompere un discorso, è maleducazione. Non te lo hanno mai insegnato?»

 

2013.
Asgard.
Prigioni.

 

 
«Ti manco al punto che sei arrivato a guardarmi dormire, fratello?»
Loki torse il collo sul guanciale e sorriso maligno in direzione di Thor, ritto dietro il vetro impenetrabile della cella.
«Stavi sognando?» lo interrogò il Dio del Tuono, imperioso nel mantello scarlatto che gli copriva le spalle, e s’avvolgeva al corpo in mille pieghe brune.
«Sì.»
«E cosa sognavi?»
Il Dio Delle Malefatte ghignò.
«Midgard.»

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Capitolo 10
*** { Concentrati ~ File 0.9 } ***


ood

 

10880 Malibù Point, 90265.
Malibù Colony Road.
2013

 

Tony aveva gridato.
E lo aveva fatto a lungo.
Aveva continuato ad urlare fino a quando la voce non si era estraniata dal corpo, divenendo un suono lontano dal tempo, dalla realtà stessa. Aveva assunto una nuova forma, rovinosa e folle al pari dei resti mastodontici della casa che crollavano tra la spuma ringhiante del mare. Da qualche parte, nel cielo colorato di ruggine, gli elicotteri ronzavano ancora: mosche nere, lucide, che sputavano veleno fiammante. Le pale mulinavano nell’aria satura di salino, facendo spumare polvere e macerie, acqua e vento.
“Dobbiamo andare.”
La voce di Colin si aggiunse alle urla, pur non sovrastandole del tutto. Le mani ancora livide si chiusero attorno all’avambraccio di Stark, lo trascinarono via di peso –Quasi lo buttarono a terra, contro l’asfalto ruvido, contro la strada attraversata da bubboni di catrame affilato, ridente sotto il sole malevolo.
“Stark. dobbiamo andare!”
Tony non seppe esattamente cosa mosse il torso, né la schiena. Nemmeno le braccia o le dita che si chiusero a pugno, cozzando poi contro la mandibola irsuta dell’Agente. Al primo colpo ne seguì un secondo e Colin, ripresosi dalla sorpresa, scattò. Gli occhi azzurri erano ferro, ardevano come fuoco: si mosse più veloce del pensiero, i suoi gesti riflessi di mille gesti sempre uguali, impressi nella memoria e destinati a durare oltre lo scorrere stesso degli anni.
Artigliò il polso del magnate –Che, da parte propria, ebbe appena la percezione del proprio corpo sbalzato sopra le reni, quindi la schiena, infine le spalle dell’Agente, per poi rovinare sulla spina dorsale. Il dolore morse i nervi, strappò lamenti ai muscoli contratti.
Invece di arrendersi, o anche solo capire che sprecare minuti preziosi a darsi battaglia equivaleva a stendere un tappeto rosso di benvenuto agli aguzzini in elicottero, Tony tese il braccio destro sull’asfalto e vi puntellò sopra il palmo sinistro, dando un calcio alla caviglia di Colin perché perdesse l’equilibrio.
Dalla bocca di questi eruttò un verso sorpreso, seguito da un grugnito rabbioso –Avvisaglia dell’assalto che vide Stark schiacciato contro la strada, una mano alla gola dell’Agente, l’altra a spingergli via il volto, a tenerlo lontano così come il pugno che Hendrick, a gomito piegato, stava per sferrargli allo zigomo.
“Avresti dovuto salvare lui!” abbaiò il magnate, ruggendo saliva e fiato bollente “Lui era un uomo mille volte migliore di me!”
“Lui non era la mia missione!” l’altro.
Cristallizzato ancora nell’istante di incrinargli ogni singolo osso della faccia, Colin parve riflettere su ciò che aveva appena detto. Un guizzo azzurro attraversò le iridi confuse, cedendo poi il posto ad un’espressione più sicura. Davanti agli occhi di un esterrefatto Iron Man, l’uomo deglutì, abbassò il capò e si rialzò.
E Tony, spinto da un rinnovato fervore religioso, ringraziò ogni divinità ultraterrena esistente. Tralasciando, per ovvi motivi, la cricca asgardiana.
“Devo tenerti al sicuro.” Colin gli porse la mano, aiutandolo a rimettersi in piedi “E’ questa il mio compito.”
Il  magnate si limitò a contrarre la mandibola e girare la testa verso la frana di roccia che lentamente compiva l’ultimo canto del cigno, in un tripudio di marosi.
“Allora direi che è il momento giusto per trovare la soluzione al problema, Hendrick. E prendere una bella A.”

 

Località Sconosciuta.
Cella Di Sicurezza. 
2011

 

“Pater noster, qui es in cælis: sanctificétur Nomen Tuum: advéniat Regnum Tuum: fiat volúntas Tua,sicut in cælo, et in terra. Panem nostrum cotidiánum da nobis hódie, et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem; sed líbera nos a Malo.
La preghiera si sciolse e divenne silenzio. Non un suono, oltre il respiro. Non un movimento, oltre il pulviscolo che gli roteava piano davanti agli occhi.
Un attesa in piena sospensione. Un respiro trattenuto.
Lo stallo sulla scacchiera. La prossima mossa avrebbe deciso l’esito della partita: mangiare od essere mangiati, la giungla di marmo e tasselli. Bianco e Nero. Giusto e sbagliato.
Qualcosa –Molto- era cambiato. Il mondo non aveva la seconda delle sue facce: l’aveva mutata, semplicemente. La bocca maligna, ecco, ora era un sorriso rassicurante. La mano chiusa a pugno teneva nascosta nel palmo una pillola di violenza indorata. Il nemico era l’amico che ti appoggiava la mano sulla schiena, conficcando il pugnale negli interstizi delle vertebre.
L’orrore si ammantava di buoni propositi e fetida ferocia. Penetrato a fondo nella realtà dell’oggi, aveva cancellato dalla mente le atrocità di ieri: servizievole, aveva chinato la testa, si era offerto di aiutare e aveva versato del veleno nel calice del mondo.
Serpe infida dalle mille teste, due alla volta avevano fatto capolino nella folla, avevano bisbigliato parole di caos al loro orecchio, avevano prestato ai popoli la loro lingua perché diffondessero unicamente Verbo di inimicizia.
Negli occhi di Gail aveva visto la comprensione. La speranza. Si era aggrappato ad essa, per essa avrebbe combattuto.
Avrebbe resistito. Si sarebbe ribellato.
Serrò le palpebre, abbassò la fronte sulle dita incrociate.
“Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla…”

 

Da qualche parte sulle autostrade americane.
Notte Fonda –Forse prima della mezzanotte.
2013

 La soluzione al problema che Colin si era fatto venire in mente, era stato buttare la macchina in mare.
O meglio, recuperare un rotolo di documenti e banconote da uno scomparto nascosto del cruscotto, poi buttare la macchina in mare.
La reazione di Tony, inutile dirlo, non era stata delle più contenute. Se non fosse stato per l’immagine ancora nitida del pugno di Hendrick ad un passo dal proprio setto nasale, lo avrebbe preso volentieri a botte. La calma disperata –Il vuoto divorante, meglio dire- che lo aveva agguanto quando anche l’ultimo rimasuglio della Stark House era crollato in acqua erano evaporati come fumo. Il tonfo della lamiera contro gli scogli e poi lo sbuffo metallico della spuma erano stati lo spillo che aveva fatto esplodere il palloncino della traballante calma interiore.
Se si concentrava, Stark poteva vederne i brandelli per la strada.
“Perché lo hai fatto?” aveva sibilato, inviperito come non mai, tremando da capo a piedi.
“Perché lo S.H.I.E.LD. ci rintraccerebbe.”
Tony aveva annusato il lezzo del tradimento già dall’omicidio di Fury, tuttavia la conferma di quei sospetti da parte di Colin –O quanto meno la conferma che non era il solo a pensare che lo S.H.I.E.L.D. fosse stato compromesso- lo fece sentire meno solo. O comunque meno affetto da gravi manie di persecuzione. Gli attacchi di panico, è vero, non erano ancora risolti, ma, ehi, un passo alla volta.
La situazione, comunque, rimaneva desolante.
Se non era più possibile fidarsi –Anzi, affidarsi alle forze numeriche e armate dello S.H.I.E.L.D., ora che la casa era distrutta e le armature chiuse a chiave a Manhattan, le possibilità di scamparla senza finire in un loculo dell’obitorio si riducevano drasticamente.
Thor era ad Asgard, e Tony era piuttosto sicuro che WhatsApp non fosse tra le applicazioni preferite delle divinità iperuraniche.
Natasha era chissà dove, con chissà chi e Dio solo sapeva a fare cosa. A pensarci meglio, forse nemmeno Dio era a conoscenza dell’ubicazione della compagna Mastico-Latino-E-Trangugio-Vodka-Da-Vera-Signora-Da.
Agente era diventato uno spiedino e la lama che lo aveva trafitto al cuore aveva scavato un bel buco nella testa di Becco Di Falco.
Pepper era all’ospedale.
Happy e Rhodes…
Alla fine dei conti, rimanevano soltanto lui ed un Agente di Livello Sei presumibilmente braccato quanto lo era lui stesso. Una grama prospettiva che migliorò di qualche punto quando il buon Colin –Il buonissimo, rettissimo Colin Hendrick che andava alla messa tutte le domeniche ed era in grado di recitare a memoria ogni preghiera in latino mai scritta od anche solo vergata da qualche amanuense mezzo cieco- aveva rubato una macchina.
Una utilitaria come tante se ne vedevano in giro e la cui unica prerogativa speciale era di avere un pacchetto di mentine sotto il sedile del passeggero. Tramite un dispositivo di occultazione Colin cambiò la numerazione  della targa ed il colore della carrozzeria, di modo che non fosse più riconoscibile, né fosse possibile trovarla.
Dove hai imparato a rubare macchine, Pastore?”
“Germania.” Aveva risposto Colin, con un sorriso divertito –Diverso da qualsiasi altro l’Agente gli avesse mai rifilato durante la sua permanenza “Era questione di vita o di morte, naturalmente.”
“Naturalmente.”
Al mezzo di trasporto erano seguiti i vestiti –Questa volta comprati regolarmente, da uno sfolgorante Bryce Jensen, come si era presentato alla commessa.
Niente di troppo chiassoso, né paccottiglia di turisti. Due felpe dal primo negozio, poi quattro paia di pantaloni in un negozietto pakistano, magliette in numero di sei da una signorina dalla minigonna tanto corta da sembrare una cintura e chewingum rosa fragola che dondolava dai denti alle guance, dalle guance ai denti, dai denti alle guance.
Previdente come una nonnina, Colin aveva comprato anche intimo e maglioncini di lana.
Adesso erano in macchina ed il paesaggio scorreva oltre i finestrini come un nastro di colori sempre diversi. Anse e pieghe, ritorcimenti, nodi, ognuno di essi era un particolare totalmente mutevole e mutato rispetto a quello che lo aveva preceduto.
L’aria calda che usciva dai bocchettoni fischiava loro in faccia, facendo ardere le guance di Tony, facendolo cadere in singulti di torpore e veglia. Dapprima distanziati l’uno dall’altro il breve tempo di un respiro, presto divennero sempre più lunghi, fino a quando Stark non chiuse gli occhi col sole del primo pomeriggio tra le ciglia e li riaprì che già il tramonto stava piangendo la sua dipartita in lacrime rosse e oro.
E Tony si accorse di non provare nulla.
Non aveva più rabbia, in corpo, e nemmeno dolore. Richiuse gli occhi, cercando nel vuoto più assoluto della propria anima qualche bisbiglio di emozione, un qualsivoglia sussulto di sentimento: gli rispose unicamente l’eco del silenzio, nulla più di una squallida e piatta bonaccia spirituale.
Era convinto di svegliarsi in preda al panico, incapace di respirare, incapace di muoversi, pur dibattendosi e lottando contro i polmoni chiusi e la gola divelta. Se non il panico, certo il furore l’avrebbe sconvolto e si sarebbe trovato con le mani alla gola dell’Agente ancor prima che questi potesse fare, o agire, o contrastare la sua ira –Una disperazione tanto profonda da farli esplodere contro il guardrail, tanto distruttiva da fagocitare ogni cosa in un tumulto di lamiere per poi rilasciarlo in un boato di fiamme e carne dilaniata.
Aveva finanche messo in conto la possibilità di sciogliersi in lacrime come un bambino piagnucoloso e distruggersi la spina dorsale a causa degli sconquassi provocati dai singhiozzi.
Invece, l’unica sensazione che gli arrivava al cervello era il peso dello stesso dentro il cranio, una spinta continua e fastidiosa contro la fronte. A stento gli arrivava addosso il rollio ronzante delle ruote sull’asfalto ed il sibilo delle auto che li superavano dall’una e dall’altra parte.
“Sei semplicemente saturo di dolore e lutto.” La voce di Colin attraversò l’anestesia cerebrale simile ad una mano che si posi sulla spalla, in gesto di conforto “Devi solo elaborare il tutto.”
Stark non rispose, non girò nemmeno gli occhi, non lo rimbeccò, non cercò alcun contatto. Gli pareva di essere estraniato dalle proprie membra: un burattino a cui avessero appena tagliato i fili e che giaceva, scomposto e abbandonato, in una cassa polverosa, dimenticata da tutti.
Tic. Tic. Tic.
Il battito della freccia. Una stazione di servizio, con bar, bagni e docce, alla loro destra.
“Dobbiamo darci una sistemata.” Continuò “Qualcosa da mettere sotto i denti. Via questa polvere di dosso, poi saremo pronti per decidere un piano di azione.”

 

L’asciugamano di spugna dozzinale gli capitombolò in faccia che ancora era fermo, immobile a guardare lo scivolare delle macchine oltre il parcheggio, nella notte crescente.

Fu quello, un grugnito borbottante e piccato, il primo segno di vita che Tony riuscì a far nel buio della coscienza addormentata.

“Ti prenderai un malanno.” Spiegò Colin, sedendosi sul marciapiede accanto a lui “Asciugati i capelli.”
Hendrick doveva aver usato i phon da quattro soldi conficcati nelle pareti sbeccate e il cui getto non avrebbe nemmeno scalfito la casetta di paglia dei tre porcellini: i capelli biondi erano scarmigliati, con una buffa onda che si arcuava sopra la fronte per solleticargli la tempia; aveva indossato una delle t-shirt prese al secondo spaccio e sopra una camicia a quadrettoni rossi e bianchi, con le maniche sopra il gomito. Un abbigliamento che lo faceva rassomigliare ad uno zotico bovaro del Texas,
“Fa lo stesso.” Sussurrò Tony e le parole uscirono a pezzi dalla bocca, roche e gracchianti per essere rimaste troppo ore impigliate nelle corde vocali “Non importa.”
“Certo che importa.” Lo contraddisse l’Agente, piegando le ginocchia fasciate nei jeans lisi e raccogliendo l’asciugamano che Stark si era appallottola sulle ginocchia “Se non lo fai tu, lo farò io.”
“Come ti pare.”
Sospirando, Colin gli appoggiò la spugna sulla sommità della testa e cominciò a frizionare con vigore, attento a non sfiorare neanche per sbaglio i capelli dell’altro con le dita.
“Ti arrendi?”
“Non sono affari tuoi, Hendrick.”
“Ti stai arrendendo. Stai gettando la spugna. Stai facendo vincere i tuoi avversari senza nemmeno combattere. Questo non è l'Iron Man che conosco. Che mi ha ridato speranza quando il cielo stava crollando su tutti noi.”
“Hai ragione.” Stark lo allontanò con violenza, si strappò l’asciugamano dalla testa  e lo gettò in strada “Iron Man è rimasto bloccato nel cratere sopra New York. E’ morto sei mesi fa. E’ morto.” Ripetè “E non tornerà indietro.”
Colin non si fece impressionare. Pacato –Fastidiosamente pacato, così pacato che riuscì a stento a controllare l’istinto di spaccargli la faccis-, si rimise in piedi e lo guardò con il mento appena alzato, le spalle larghe, il petto in fuori –Autoritario come non era mai stato fino a quel momento.
“Allora resuscita.”

 

Cypress Avenue, Queens NY,
Cascada Bar.
2013

 

Il locale era affollato.
Tacchi sospiri frusciare di gonne stridere di cinture mani respiri fiato voci alta bassa baritono soprano tintinnio del bracciale contro il polso cavigliera tesa al limite una curva di pancia che crolla sulla vita scarpe basse scarpe comode scarpe scomode gemito trattenuto bicchiere contro bicchiere liquore contro bicchiere liquore contro ghiaccio paletta contro ghiaccio Ecco a voi singhiozzare balbettante di scontrini tap tap sulla cassa battere di tasti drin clash crash frash frush scopettone bagno acqua che scorre Capisci che indecenza Mi ha lasciata lei Pensi che dovrei richiamarlo Il conto No io avevo chiesto la brioche con la crema denti che scavano nella marmellata farcitura intensa odore di gomma da masticare formaggio andato a male mele profumate frutta scaduta marcio e buono lordura e pulito polvere disinfettante detersivo per i---
“Buongiorno. Posso aiutarla?”
Il tono era piuttosto titubante. Insicuro –Chiedo o non chiedo? Lo disturberò? Come mai sta in silenzio? Non si sente bene? E’ solo pazzo? Profumo gentile, delicato –Un regalo. È  troppo costoso perché lo si possa comprare con le poche mance da cameriera. Un anello d’oro contro la pelle –Ah, regalo di anniversario. Ecco cos’è il profumo. La matita dietro l’orecchio, grattare del tappo contro la tempia. Denti a mordere il labbro inferiore. Il primo stralcio di sudore, pizzicorio di angoscia e disagio.
“Un cappuccino e una fetta della vostra torta alla cannella. Me ne ha parlato un mio amico che vive a pochi passi da qui. La migliore del Queens.”
Non c’è. Non c’è odore di cannella. Molte torte, ma nessuna con la cannella.
Il televisore ronza e sputa e vomita suoni graffianti esplosioni fragore di distruzione mentre riporta la notizia dell’attacco a casa Stark –Battiti diversi, diverse emozioni. Una persona sconvolta, una grata. Disinteresse. Terrore. Macabro senso di giustizia.
Non è morto. Non ci pensare. Non ci pensare. Non ora.

Che il Diavolo se lo porti.
Concentrati. La cannella. La torta alla cannella di Cypress Avenue. La torta alla cannella di Cypress Avenue, inflessione quasi impercettibile di Brooklyn mescolata ad una cadenza che ancora non è in grado di sistemare in un complesso puzzle di assonanze e concordanze. Non americano. Non del tutto. In parte. E quella oh così infinitesimale parte, da dove viene?
“Ahm.”
Esitazione. Il battito cardiaco aumenta, un topolino in trappola, stretto in un angolo  “La torta alla cannella, dice? Mi dispiace. E’…Era” Passato? Tristezza e lutto? “Della madre del proprietario. La faceva tanti anni fa, noi non la teniamo più.”

 

Da qualche in America, lontano da L.A.
Stazione di Servizio.
2013

 
“Felice di vedere che ti unirai alla conversazione.”
Tony si chiese quanto fosse professionale spaccare il naso di un proprio dipendente con un pugno. Si chiese anche come fosse possibile che un proprio dipendente riuscisse a farlo uscire dai gangheri in maniera così magistrale: probabilmente aveva seguito un corso apposito, altrimenti non era in grado di capacitarsi della sua precisione al limite del puntiglioso per azzeccare giusto tono e parole giuste per fargli salire il sangue al cervello e schizzare di rosso tutte le pareti, nessuna esclusa.
Già il discorso di prima, fuori dai bagni, era stata una carognata. Tony odiava i giochetti psicologici: Pepper li usava per convincerlo a smettere di bere o per non comprare società che, a suo dire, erano del tutto inutili ai fini economici dell’azienda. Non che funzionassero, beninteso, e c’era sempre una bottiglia nuova nascosta nella scrivania, nella credenza, in qualche cassetto, ovunque in casa, in posti strategici in cui non sarebbe mai andata a guardare.
In quanto alle società, Stark aveva notato con una buona dose di soddisfazione che ne aveva comprato più o meno una per ogni lettera dell’alfabeto.
Il giochino di Hendrick, però, era stato odioso. Le sue parole si erano conficcate nel costato e avevano trapassato i polmoni. Camminando inebetito tra le macchine lucide di brina e nevischio sciolto, Tony era stato colto dal panico e le ossa avevano cominciato a gemere, scricchiolare, il cuore raffreddarsi nelle vene. Respirare? Nemmeno ricordava come si facesse. La bocca spalancata non traeva ossigeno e sputava rantoli, vomitava fiato purulento. Le gambe cedevano ad ogni passo, le ginocchia si slegavano dalle articolazioni, crollavano in avanti, dotate di vita propria, e i piedi scivolavano, inciampavano nei nodi di una realtà disciolta, liquefatta, che gli si impigliava alle caviglie e gli faceva perdere l’equilibrio.
Allora sì che la morte di Happy gli aveva sbranato lo sterno e divelto il bacino. Non vi aveva assistito, aveva unicamente visto la ricostruzione in digitale del Chinese Theatre, eppure ebbe comunque l’impressione di essere sbalzato all’indietro, di essere investito dalla deflagrazione, dalle fiamme e dalla cenere.
Vide Happy e la pelle staccarsi dalle ossa, i muscoli lacerarsi, gli arti strappati e squarciati dalla bomba –Quand’è che una bomba non è una bomba? Quand’è che una bomba è una bomba? Quand’è che una non bomba non è una bomba? Quand’è che sono divenuto così cieco, così indifeso, così inutile, così debole, quand’è che sono diventato meno di niente, quand’è che sono diventato meno di me stesso? Quand’è che una bomba che non è una bomba è scoppiata dentro la mia anima e l’ha uccisa e l’ha fatta a brandelli? Quand’è che sono morto ben oltre il mio corpo fisico?
C’era stato un tempo in cui la paura era solo qualcosa da annegare con l’alcool e dimenticare con una donna diversa ogni notte. Un tempo in cui la paura era un lusso che non poteva permettersi, un’espressione che non poteva mostrare al mondo: un tempo in cui era marionetta e maschera, col sorriso scanzonato e i gesti irridenti. Un tempo in cui Happy lo tirava fuori dai guai. Un tempo in cui Rhodes era il suo migliore amico e compagno di bevute, un tempo in cui Rhodes non era svenuto, un tempo in cui Rhodes non cadeva con la polvere, un tempo in cui il suo corpo non veniva inghiottito dallo scroscio ruggente delle onde.
Stark ingoiò un sorso d’aria, prima che il terrore tornasse ad avvampargli la carne di brividi gelidi. Deambulare come un idiota per un imprecisato lasso di tempo gli era bastato, non intendeva replicare. Se era tornato in sé era stato unicamente in virtù del ben di Dio che Colin aveva appoggiato sul tavolo unto della stazione di servizio, una piramide unti di intrugli al sapor di plastica che aveva visto attraverso il vetro opaco della zona ristorazione, mentre deambulava alla stregua di un morto vivente tra le strisce bianche dei parcheggi.
“Ti pago per portarlo il caffè. Non per berlo.”
Colin drizzò gli occhi azzurri su di lui, sardonico e con l’aria di un padre che si trovi sul punto di fare una ramanzina degna di nota al moccioso sbavante che costituisce la sua prole.
“In realtà quelli sono per te.” Fece l’Agente, indicando i panini e i condimenti e persino un muffin con scaglie di cioccolato “Sono senza glutine. Potremmo essere crivellati di pallottole, ma almeno non morirai per shock anafilattico.”
“Oh.” Fu l’unica cosa che Tony riuscì a mettere insieme, diviso tra l’essere stupito dal gesto e l’essere disgustato dalla battuta per nulla umoristica che il campione di pilates aveva sputato dalla mascella volitiva.
Si sedette ancor prima che Hendrick gli facesse cenno di accomodarsi ed artigliò il primo hamburger, facendo scrocchiare la carta nel toglierlo dall’involucro impregnato di olio.
“Abbiamo bisogno di un piano.” Esordì Colin, addentando il panino con affettato.
“Aspetto suggerimenti.”
“In realtà, considerando i dati che hai raccolto sull’esplosione che ha…Coinvolto anche il signor Hogan, credevo che un piano lo avessi almeno abbozzato.”
Stark rimase immobile, la bocca ancora aperta e sul punto di tranciare a metà la carne sugosa.
“Come sapevi che stavo facendo delle ricerche a riguardo?”
Colin mostrò un certo disagio –Non era un tipo cui piaceva mentire, questo Tony lo aveva capito. Era un tipo schifosamente retto e corretto. Corretto non come un buon caffè, bensì di quel buonismo zuccheroso e da ecologista che tanto lo mandava in bestia.
“Ho studiato il tuo profilo psicologico.” Rispose poi “So che non ti saresti fermato –Lo speravo. Inoltre, ho tracciato una parte dei tuoi file system. Poi J.A.R.V.I.S. mi ha bloccato e ha distrutto qualsiasi cosa nel mio terminale.” Prese un sospiro “Non sono un tuo nemico, Tony. Puoi fidarti di me.”
Il magnate contrasse la mandibola e strinse le dita attorno all’hamburger: le nocche sbiancarono, la pelle si fece livida.
“Andiamo a Rosehill. E se hai studiato il mio profilo psicologico, Hendrick, dovresti sapere che l’unica persona di cui mi fido è stata dichiarata dispersa in azione ormai settant’anni fa.”

 

Località Sconosciuta –Molto probabilmente New Jersey.
Sotterraneo.
2011

 “Quindi il nostro esperimento non sta dando i risultati sperati.”
“No, Zola. È riuscito a contrastare il condizionamento di Faustus e non risponde più alla terapia. Il suo sangue è inutile, non riusciamo ad estrapolare un solo elemento valido. Droghe e anestetici…Il suo organismo vanifica troppo in fretta, non importa la dose. Il progetto di creare un esercito deve considerarsi fallito. Concluso ancora prima di cominciare.”
“Forse non ti servirà un esercito.” Nel tono dello svizzero si udì una risata metallica “Forse vi servirà un uomo solo.”
“Un uomo solo?”
“Lui,”
“Ti ho appena detto---“
“Non servivano le droghe. Bensì qualcosa di più raffinato.”
“Ossia?”
“Un vecchio progetto. Una vecchia idea che, ahimè, complice la debolezza della mia cavia non sono mai riuscito a concretizzare. Per tua e nostra fortuna, esso non è andato perso con il mio corpo ed è ancora intatto nella mia mente. A disposizione, pronto per essere attuato affinchè il nuovo ordine di HYDRA possa finalmente sorgere.”
“Quale progetto, Zola?”
“Il progetto Soldato D’Inverno.

 

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Capitolo 11
*** { Quel Che Mi Spetta ~ File 10 } ***


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{ Quel Che Mi Spetta ~ File 10 }

 

Quinjet della Task Force S.H.I.E.L.D.
Spazio Aereo Sconosciuto.
Carlinga.
2013

 

Era un’esperienza trascendentale da santoni: il corpo e lo spirito erano due entità differenti, due unità distinte che non dovevano per forza occupare il medesimo piano esistenziale, né il medesimo luogo. Clint era però sicuro che ai santoni rimanesse comunque un punto di contatto con la coscienza estraniatasi dalle membra. Un filo, seppur esile, che perdurava a legare carne e anima, perché potessero riunirsi e fondersi una volta concluso la passeggiata extracorporea.
Più che passeggiata, il suo caso era ben catalogabile sotto la definizione di sopruso –Ma anche sfratto rendeva bene l’idea.
Certo, era in grado di vedere il proprio corpo con occhi esterni –Lui, dannazione, era esterno a se stesso e la cosa gli faceva venire la nausea; peccato che la nicchia spirituale dove era logico pensare ci fosse la sua coscienza, il cubicolo dove era incastrata la sua personalità, era occupata da una viscida serpe Asgardiana.
E sebbene coloro che gli erano attorno lo vedessero con le fattezze di Clinton Francis Barton, per Occhio Di Falco era possibile discernere realtà e menzogna. Seduto dentro la carlinga, con la testa inclinata ad ascoltare Rumlow, Loki vestiva la sua divisa, portava il suo arco alla schiena, la sua faretra, aveva attorno al polpaccio la custodia della pistola e le pallottole di riserva.
Era lui in tutto e per tutto.
Tranne per il fatto che così agghindato faceva veramente pena.
Per un istante, e in virtù meccanismo di difesa che lo portava a cercare le cose più assurde per ragionare in background sulla situazione corrente, aveva temuto di ritrovarsi impaludato in una maledetta palandrana, con spallacci e corona cornuta compresa nel prezzo. Invece la sensazione stessa di possedere carne e sangue e pelle era diventata del tutto intangibile. Lui stesso si sentiva intangibile, una nuvoletta da cartoni animati senza contorni, mero fumo dai bordi sfilacciati.
La cosa lo confondeva e lo indeboliva.
Forse Loki non aveva aspettato altro, in tutto quel tempo. Aveva atteso, annidato in un angolo della sua testa, che perdesse presa e ragione, che il fumo e l’alcool e il sesso lo sfinissero e sfiancassero e stancassero. Forse già da tempo aveva assunto il controllo o almeno racimolato abbastanza energie da sovrastarlo, da sostituirsi a lui, ma probabilmente non aveva trovato alcun motivo valido per farlo.
L’HYDRA e la sua banda di esagitati senza cervello gli avevano servito l’occasione su un piatto d’argento.
Così, ridotto ad una forma di pensiero metafisico, Clint “Occhio Di Falco” Barton si trovava ad affrontare non solo una divinità asgardiana dagli hobby alquanto discutibili, ma anche una minaccia su scala mondiale che rischiava, anzi, avrebbe sicuramente rovesciato l’ordine pubblico, gettando ogni cosa nel caos.
Non male, per una sola giornata di lavoro.
Se ne fosse uscito vivo, giurò a se stesso, avrebbe cominciato a leggere l’oroscopo, andare in Chiesa, pregare il sole e mangiare macrobiotico. Si sarebbe costruito un giardino zen in miniatura sul comodino, avrebbe aperto una palestra di yoga, avrebbe persino delineato un piano per trovare il santo graal.
Il gancio destro alla mandibola di Coulson gli aveva rivoltato il karma da cima a fondo.

 

Quinjet della Task Force S.H.I.E.L.D.
Spazio Aereo Sconosciuto.
Stiva.
2013

 

Natasha non ricordava di aver mai provato una sensazione simile. Eppure, si disse, non è molto diverso da quello che è successo sei mesi fa. Non è molto diverso da quando Coulson ti ha chiamata e ti ha detto che Barton era compromesso. Non è diverso da quando hai sentito la sua voce incrinarsi, per quel noon-detto che era un ordine non-scritto che era l’unica soluzione nel malaugurato caso in cui Clint si fosse rivelato un elemento di disturbo e di minaccia troppo pericoloso per tenerlo in vita, non importava quale che fosse il legame che teneva insieme lo Strike Team Delta.
Ci sono casi in cui il singolo e ciò che lo rende tale, che lo rende una persona e non una macchina doveva essere cestinato. Se dall’alto fosse arrivato l’ordine di rendere l’Agente Barton inoffensivo, Vedova Nera sarebbe stata costretta da cause di forza maggiore e per il bene il mondiale a dimenticare molte cose. Spontaneamente, questa volta, senza che nessuno le maneggiasse il cervello e ci giocasse a piacimento. Anche se, a conti fatti, per far fronte ad una eventualità del genere avrebbe preferito non possedere più ricordi, nessuna debolezza che avrebbe potuto rendere la sua mano meno ferma o fallire il corpo od abbassare l’arma.
Se le avessero dato l’ordine di ucciderlo, Natasha avrebbe preferito non avere ricordi di lui, a San Pietroburgo, che abbassava l’arco e allungava la mano verso di lei.

Fa un freddo cane erano state le sue parole, tanto calde da sciogliere la tormenta Andiamo a prenderci una vodka e parliamone con calma.
Aveva sempre pensato a lui come una persona atipica e la sola idea di ucciderlo, sebbene per salvaguardare la pace nel mondo, le incollava i denti per la nausea. Clint era più di un amico e meno di qualsiasi legame Natasha si era o si sarebbe mai concessa. Erano stati a letto insieme, per voglia e per necessità, per un bevuta da incoscienti e per proteggersi dal freddo che ghiacciava le ossa, per desiderio e per consolazione, per sfida, per affetto.
Non avrebbe mai potuto sparare, non con quei ricordi.
Sei mesi prima era riuscita a salvare con un colpo alla testa. Adesso era diverso. Era tutto diverso.
Quando aveva visto gli occhi di Clint offuscati dalla malia di Loki, aveva provato sensazioni diametralmente opposte a quelle che avvertiva lì, rinchiusa nella stiva insieme a Coulson.
Era come svuotata. Prosciugata da se stessa fin dalle fondamenta. Come aveva fatto a non accorgersi di quanto era capitato a Clint? Come era potuto essere così cieca?
I segni c’erano tutti. Il suo sguardo era un grido disperato.  
Perché lo aveva abbandonato? Sarebbe dovuta rimanere con lui, non permettergli di autodistruggersi. Convincerlo a farsi vedere da qualcuno. L’ex marito di Melinda May era uno psicologo valido, era una brava persona e certo lo avrebbe aiutato a rimettersi, a riaversi dallo shock e dal lutto, dal senso di colpa che lo stava sbranando giorno dopo giorno. Avrebbe dovuto insistere, perché era ovvio che Clint non stesse bene. Che qualcosa dentro di lui si fosse improvvisamente spezzato.
Aveva pensato che lasciarlo da solo, come chiedeva –Ma come i suoi occhi negavano, fosse la soluzione migliore. Che avesse bisogno di ritrovare se stesso –Clint non era mai stato un santone buddhista, non era tipo da ritirarsi su un eremo o su di un pinnacolo per meditare, per scovare il centro del proprio essere, per soffiare sulla fiamma della propria coscienza.
Tuttavia ci aveva sperato.
Anche senza eremo, anche senza pinnacolo, Natasha aveva sperato che la solitudine avrebbe permesso ad Occhio Di Falco di vedere di nuovo Clint Barton, e non Loki.
Sperava che si convincesse: non c’era nessuna divinità asgardiana annidata dentro di lui, a tarlargli l’anima. Una settimana dopo i funerali, quando era andata a stanare l’amico nel suo alloggio, questi era in camera –La stessa camera che aveva diviso con Phil, una stanza ora costellata di segni di pugni e lenzuola stracciate e abat-jour distrutte- davanti allo specchio.
Ancora vestito del completo nero, ordinato e grottesco in mezzo a quel caos, teneva gli occhi puntati sul riflesso che lo guardava dallo specchio. Si guardava e toccava i tratti decisi, la piega della bocca, pareva disegnargli, riformarli, imprimendoli sul proprio volto, pigiandoli come si fa pressione sulla creta perché prenda la forma desiderata.
L’attenzione con cui si osservava fece sbocciare brividi di angoscia lungo la schiena della donna. Un formicolio alla nuca che avrebbe dovuto spingerla a farlo retrocedere, nel momento in cui lui le aveva annunciato l’intenzione di abbandonare lo S.H.I.E.L.D.
Doveva offrirgli supporto e aiuto.
L’unica cosa che era stata capace di offrirgli era stata l’appartamento di uno dei suoi alias, da qualche parte lungo la costa Ovest.
“Non è colpa tua, Natasha.”
Le volte in cui Coulson l’aveva chiamata col nome di battesimo potevano contarsi sulle dita di una mano. In quel momento, sbattuti in malo modo nella stiva, con polsi e caviglie legate, ricordarsi l’odio che avrebbe dovuto portare all’uomo davanti a lei era troppo persino per Vedova Nera.
In fondo, Phil si stava torturando quanto lei. Forse di più. Lui era scomparso. Era morto e se anche era sopravvissuto non era mai andato da Clint, non lo aveva salvato. Non era andato da lui, non gli aveva teso la mano. Non era andato da lui. Non si era mai informato sulle sue condizioni.
Se Phil avesse saputo come stava il compagno, sarebbe comparso alla sua porta il pomeriggio stesso. Gli avrebbe tirato un pugno, quindi avrebbe chiuso la porta e il mondo, per una sera, avrebbe cessato di avere importanza.
Phil era l’aria che Clint respirava. Clint era l’impulso che faceva battere il cuore di Phil.
Coulson non era mai stato geloso, non di loro. Prima che la loro relazione si stabilizzasse, Phil voleva la stessa cosa che Clint voleva da lei: carne. Nessun pensiero. Compagnia di una notte e senza impegno. Non si erano accorti di starsi cercando l’un l’altro e quando si erano trovati, Coulson non le aveva chiesto di allontanarsi. Si era scaldato con loro. Natasha non aveva mai rimproverato il suo amico, quando questi aveva deciso di dedicarsi anima e corpo soltanto all’Agente: ne era felice.
Era il mondo di Clint, per questo il colpo era stato così violento. Il cuore di Occhio Di Falco aveva smesso di battere nell’attimo in cui gli avevano dato la notizia. Vedova Nera non riusciva a perdonargli il non averla mai smentita.
Ma aveva altro cui pensare, ora.
Il rancore era uno spreco di tempo. Tempo che sarebbe stato più proficuo usare per elaborare una strategia ed inventarsi un modo per uscire da lì il più vivi possibile.
Natasha si permise comunque un sorriso beffardo, un ghigno incolore di scherno.
“Clint chiedeva aiuto e io gli ho dato le chiavi di casa. Ero talmente occupata a non farmi coinvolgere emotivamente, che non mi sono accorta di nulla. Ho abbassato la guardia. Ho condannato tutti noi.”
Phil cercò di spostare il peso in avanti, per esserle più vicino. Quel suo modo tanto famigliare di volerla rassicurare fece curvare la bocca di Vedova Nera in un’espressione quasi intenerita –E pensare che la prima volta in cui Coulson aveva tentato una cosa del genere lei gli aveva tirato un pugno in faccia, intimandogli di stare lontano. Lui e Clint erano le sole persone autorizzate a cercare un contatto fisico con lei, le uniche cui fosse permesso di abbracciarla. Toccarla. Raccogliere i pezzi in cui si era frantumata e aiutarla a rimetterli insieme.
“Ho sempre detestato questo tuo pessimismo catastrofico.” Torcendo le labbra in una smorfia, l’uomo ignorò l’attrito che gli aveva morso la gamba ferita, mentre si trascinava ancora un poco verso di lei.
“Sono russa.”
Natasha provò a muovere i polsi e le caviglie.  Niente. I nodi li aveva fatti Clint –O meglio, Loki usando le conoscenze di Clint.
“Idee, Agente Coulson?”
Phil contrasse la mandibola e Vedova Nera si chiese se il dolore che gli abbruttiva i tratti fosse per la gamba, o per chi l’aveva trafitta.
“Ora come ora vorrei solo che arrivasse la Cavalleria.”

 

Località Sconosciuta
Cella Di Sicurezza
2011

 

Era diverso.
Lo capì subito.
L’uomo che entrò con loro, lui non lo aveva mai visto. I soldati che lo circondavano avevano gli occhi vacui –Gail era stata l’unica in cui aveva scorto una scintilla di vita e di coscienza, i suoi compagni nello sguardo avevano solo nebbia e assuefazione, servilismo mentale-, ma quelli di lui erano vividi. Non maligni come quelli di Marlowe. Gelidi era il termine esatto, Gli occhi di un uomo che persegue un obiettivo per cui non è disposto a fare sconti, per cui non guarderà mai in faccia a nessuno. Una devozione ossessiva per un bene superiore, un’espressione che lui aveva già visto, contro cui aveva già combattuto in passato.
L’uomo si sedette sulla brandina.
Si vestiva bene, aveva cura di sé, dell’immagine che voleva passasse ai suoi subordinati. Era basso, molto più basso di lui, ma la sua figura era compatta, dava idea di solidità fisica e morale. Se anche aveva dei dubbi sull’anno in cui si trovava, il completo grigio, nella sua foggia e nel suo taglio, gli fecero capire che era stato catapultato in un mondo assai distante da quello in cui era cresciuto.
Un mondo di cui non conosceva nulla. Un mondo forse ostile, un mondo forse amico. Non aveva abbastanza informazioni per deciderlo: lo avevano tagliato fuori, avevano fatto sì che rimanesse isolato, che non potesse chiedere aiuto.
Non aveva dubbi. L’ordine era partito da colui che era appena entrato. Aveva orchestrato ogni cosa. Era venuto a constare le reali condizioni in cui versava il suo piano, senza intermediari che gli indorassero la pillola.
Era calmo e lui ne capì immediatamente il motivo: l’uomo sapeva di aver vinto la partita. Era venuto per informarlo, per dirgli che non c’era più motivo per lottare. Con ogni probabilità era venuto anche per godersi la sua resistenza.
Sapeva che lui avrebbe combattuto fino a cadere in ginocchio, che non si sarebbe arreso di fronte all’evidenza, dinanzi al fallimento. Lo spettacolo lo avrebbe appagato, si sarebbe sentito un Cesare che si pasce del sangue dei gladiatori, ben sapendo quanto il loro affannare sia unicamente un inutile ludibrio.
La sensazione di avere in mano i fili del suo destino, lui ne era certo, avrebbe fatto saettare nell’uomo una scarica di piacere tale che non sarebbe stato un eufemismo definirlo il coronamento, l’apice di quello che aveva architettato e sempre sognato.
Lui lo guardò negli occhi. L’uomo si mise addosso un’espressione ferina di circostanza.
“Voglio che tu sappia quanto ti rispetti. Quanto tu sia sempre stato un esempio per me.”
Nelle mani dei soldati, i manganelli furono percorsi da scariche elettriche. Filamenti bluastri li circondarono, caricando l’aria di vibrazione e sussurri seghettati, ronzanti.
Mentre l’uomo lo guardava e si tendeva, sospeso nell’attimo prima che il sipario si alzasse, lui si mise in posizione. Non avrebbe fatto loro del male. Non erano coscienti o se le erano comunque la loro volontà era piegata, erano stati sopraffatti da un torpore ammaliante; li avrebbe tenuti a distanza.
“Sei sempre stato un esempio per tutti noi.”

 

Zona di Volo Sconosciuta.
Il Bus, Cabina di Pilotaggio
2013

 

Melinda era consapevole di come il suo comportamento veniva bollato come cinico. Era consapevole che molti ritenevano il suo voler sempre andare a fondo di un ordine, il suo questionare se qualcosa non la convinceva, una mancanza di rispetto nei confronti dei suoi superiori e della gerarchia dello S.H.I.E.L.D. in toto.
Chissà se la gente era consapevole del fatto che quanto pensavano di lei, del suo carattere, dei suoi metodi non era più importante del ronzio di una mosca in sottofondo. Erano discorsi di gente da scrivania, quelli.
L’unico istinto di cui avevano bisogno era quello che consigliava loro di che colore usare l’inchiostro per firmare i documenti da presentare al Direttore.
Il campo di battaglia era un’altra cosa.
L’istinto le aveva salvato la vita. L’unica volta in cui non lo aveva ascoltato…
Le apparenze ingannano. Il Bahrein le aveva aperto gli occhi –E intirizzito il cuore.
Forse era a partire da quel momento che il suo atteggiamento da bastian contrario, come lo aveva ben poco professionalmente chiamato Andrew, era andato peggiorando. Non era ancora un comportamento paranoico a livelli patologici –Prima che la loro relazione affondasse definitivamente, Andrew le aveva assicurato che su quel piano poteva stare tranquilla: non c’era nessuna tendeva al complottismo, nella sua psiche. Si era soltanto…Appuntita. Come una lama. Anche la sua fiducia era diventata fredda e calcolatrice. Aguzza.
L’ordine di tornare al Triskelion rientrava nelle categoria di situazioni da Puzza di bruciato. Come uno smottamento sottopelle, un pizzicore di brividi che le risaliva braccia e spalle.
Qualcosa non andava in quell’ordine, diramato in quel momento in cui Coulson nemmeno era con loro. Non le riusciva di incastrare mentalmente i pezzi del puzzle.
Ward aveva tentato di chiarire i suoi dubbi. La chiamata straordinaria aveva a che fare con quanto era successo a Tony Stark: la minaccia mondiale del Mandarino aveva bisogno di essere debellata utilizzando il maggior numero di risorse a disposizione. Soprattutto ora che, con la morte di Fury, lo S.H.I.E.L.D. stava collassando.
L’assenza di Coulson, aveva continuato Ward, avrebbe permesso anche a loro di partecipare alle operazioni, se fosse stato necessario: Phil non voleva in alcun modo che i Vendicatori venissero a conoscenza del suo ritorno, quindi avrebbero potuto intervenire in caso di necessità senza trasgredire l’ordine del loro superiore.
Perché tornare al Triskelion? La convocazione era stata perentoria e generale. Dovevano essere date le linee guida, le linee di sicurezza, decise le modalità di azione.
Il discorso di Ward era stato preciso e professionale, senza giri di parole. Come ci si aspettava da uno Speciliasta.
Si era solo dimenticato un minuscolo particolare: erano gli unici a sapere dell’assenza di Coulson.
E Melinda si era ben guardata dal farglielo notare.
Ora rimaneva da capire cosa stesse succedendo fuori delle lamiere del Bus. Fury era morto, la linea preferenziale per comunicare con lui inutilizzabile. Maria Hill non le aveva fatto sapere nulla, aveva interrotto ogni contatto. Non c’era nessuno, ora, di cui potersi fidare all’interno dello S.H.I.E.L.D.: l’unica possibilità era stringere un’alleanza con qualcuno che con lo S.H.I.E.L.D. non avesse nulla a che fare.
Skye era la candidata perfetta.

 

Coordinate Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013

 

Se avesse avuto ancora il controllo del proprio corpo, Clint si sarebbe scagliato a strappare quel ghigno indolente dalla faccia di Garret. E gli avrebbe anche tirato un pugno, tanto che era nelle spese.
John Garret fece un cenno del polso, perché i suoi schiavetti li lasciassero soli. La cabina fu presto svuotata e nonostante la ampie dimensioni, Occhio Di Falco si sentì soffocare Le lamiere laccate di finto legno, le poltrone, persino le luci al neon appese sulla parte superiore della carlinga gli stavano premendo addosso, si alleavano per schiacciarlo, per stritolarlo.
Era molto probabile –Anzi, era quasi del tutto certo- che ci fosse lo zampino di Loki. Il bastardo non lo aveva degnato di uno sguardo, non gli aveva nemmeno rivolto la parola: Clint aveva tentato ogni stratagemma per richiamare la sua attenzione, per recuperare le redini del proprio corpo, ma era come se l’Asgardiano non lo vedesse. Al contrario di quando era lui a voler essere notato, Loki non faceva piega e non dava il benché minimo segno di accorgersi della sua presenza.
Sapeva esattamente che, se gli avesse rivolto il più infinitesimale sguardo, si sarebbe creata una connessione tale da dare al Vendicatore la possibilità di ribaltare la situazione e riprendere possesso di membra e coscienza.
“Come dovrei chiamarti?”
Clint corrugò la fronte, mentre Loki curvava le labbra, deliziato. Garret, intento a versare del vino rosso in due calici, aveva proferito quella domanda con naturalezza disarmante: per lui era stato logico chiedere con chi stesse parlando, quasi avesse trapassato con lo sguardo l’incanto che mascherava Loki agli occhi dei mortali.
“Come lo hai compreso?” la voce dell’Asgardiano, alle orecchie di Clint era suonata viscida e serpentesca. Gli faceva accapponare la pelle. Si chiese se la gente al di fuori di quella situazione paradossale sentissero la stessa tonalità altezzosa, lo stesso accento da signorotto. Se rimassero incantati dal suo timbro carezzevole a suo desiderio e a suo desiderio ripugnante, tale da ghiacciare le ossa.
Garret si concesse una mezza risata. Passò il calice a Loki, che lo prese con quelle sue dita eleganti, lunghe, bianche contro il cristallo brillante del vetro. Il Vendicatore vedeva tutto quello, vedeva quanto fossero sbagliati i gesti, la cadenza e la forma delle parole, i movimenti dei polso, la posizione delle gambe, ma gli altri lo vedevano? Percepivano la nota stonata che proveniva dal suo corpo? Il sussurro gelato che scivolava dalle labbra nobili? Lo capivano che di Clint, davanti a loro, c’era unicamente un costume di pelle e di carne?
“Ho studiato molto e guardato molti video e ascoltato molti resoconti.” John si accomodò sulla poltrona di cuoio in fronte al divano dove si era posizionato Loki –Con un abbandono regale, languido, di superiorità incontrastata “Occhio Di Falco è tutto il contrario di quello che sei tu, in questo momento. Con chi ho l’onore di parlare?”
“Loki, di Jotunheim. Legittimo sovrano di Asgard, sebbene il mio trono sia tuttora occupato da chi non ritiene ne sia degno.”
L’uomo non mostrò alcuna sorpresa, né reverenza a quelle partole.
Clint si accorse che la cosa aveva procurato una certa irritazione in Loki: c’era stata una vibrazione nell’aria, un mormorio iroso che aveva smosso la carlinga, un’interferenza nell’atmosfera e nella situazione, nella bolla di ovatta un cui si giocava a scacchi il destino del mondo.
“Avverto un tremito nella Forza.” Sogghignò Occhio Di Falco –Con sommo compiacimento, avvertì l’attenzione di Loki posarsi un istante di troppo su di sé, disprezzando l’arroganza e l’indisponenza per cui era famoso praticamente dappertutto.
“E che cosa vuole Loki, di Jotunheim, al punto di prendere il possesso di un agente dello S.H.I.E.L.D. e mischiarsi ai comuni mortali?”
Il tono che Garret aveva usato era ironico, di puro scherno. Il fatto che Loki fosse disposto a passarci sopra e a fare finta di nulla, anzi, a sorridere con condiscendenza, mise Occhio Di Falco in allarme. Il sorriso di Loki era un sorriso malefico, che era certo non fosse apparso sul proprio volto –O che comunque fosse stato smorzato dai lineamenti rigidi e severi, camuffato per somigliare ad un’espressione divertita. Aveva concesso a Garret un ghigno ilare, quasi amichevole, da vecchi compagni di bevute, perché Garret stesso pensasse di aver messo l’Asgardiano di parità sociale –Dove John, comunque, si credeva un po’ più pari di lui.
“Un patto.”
“Un patto?” ora l’uomo era interessato e aveva tralasciato qualsiasi strategia psicologica gli avessero mai insegnato in situazioni simili “Che tipo di patto?”
“Uno di quei patti in cui si vince entrambi.”
“Dubito.” Fu il commento sarcastico di Clint. Commento ovviamente caduto a vuoto.
Loki accavallò le gambe e Occhio Di Falco pregò ardentemente che non avesse fatto la stessa cosa col proprio corpo. Asgardiano o non Asgardiano, si sarebbe seppellito piuttosto che mettersi in una posizione alla Basic Instinct.
“Ti ascolto.”
“Da quello che ho compreso.” Cominciò Loki, osservando il riflesso borgogna del vino, trafitto dalla luce che saettava dai finestrini della carlinga “Il vostro scopo è il mondo, non è vero?”
“Più o  meno.”
“Per farlo, avete bisogno di un esercito.”
“Che già possediamo.”
Al che, Loki piegò vezzoso il collo all’indietro, ridendo di cuore. Un suono che fece tremare le ginocchia di Occhio Di Falco. Cristo, faceva una paura fottuta.
“Forse vi serve più potente. Forse vi servono i Chitauri. O gli eserciti degli altri Regni.”

I Chitauri…?
“Tu non hai i Chitauri, Loki. Non li hai.” Clint ebbe un istante di panico e spaesamento. Si affrettò a schiarirsi la gola, sperando che la sua frase non avesse avuto il suono di un piagnucolio infantile.
La Nave Madre dei Chitauri, la loro coscienza collettiva era stata distrutta. Tony ci aveva quasi lasciato la pelle, però era stata distrutta. Ne era sicuro. Era lì. Aveva visto il gorgo esplodere e il corpo di Iron Man fiondarsi in picchiata verso la morte.
“Non posso fare a meno di notare quanto le tue, al momento, siano solo parole. Sei soltanto uno spiritello dentro uno schizofrenico Barton.”
“Garret ha centrato il punto.” Clint avvertì un formicolio e la sensazione di avere qualcosa di non troppo dissimile da gambe e braccia.
Provò ad alzare la mano e vide che aveva dita da flettere, polpastrelli con cui toccare, persino una bocca con cui parlare. Loki lo stava ascoltando. Loki, Lingua D’Argento, Signore delle Malefatte, in fondo doveva servirsi di lui per muoversi nell’intricato labirinto diplomatico dello S.H.I.E.L.D.
Pur sorvolando sulla cosa dello schizofrenico, Clint si disse che Garret, nonostante fosse un pazzo egomaniaco con una forte tendenza al controllo dittatoriale, gli aveva dato una buona occasione per tornare in carreggiata.
Il Vendicatore si avvicinò quindi al divano dove era seduto Loki e si sedette a cavalcioni del bracciolo di  cuoio.
“Mi serviva un tramite.”
“Per venire qui?”
“Per portare voi ad Asgard.” Loki ghignò, era il serpente che si attorcigliava la vittima prima di soffocarla “Venite ad Asgard. Datemi il trono che mi spetta e vi consegnerò Midgard su un piatto d’argento.”

 

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Capitolo 12
*** { Sono già in caduta libera ~ File 11} ***


ood11

{ Sono già in caduta libera ~ File 11}

 

Sulla Strada Per il Tennessee
Autostrada
2013

 

Alla radio trasmettevano Arms, di Christina Perri. In una situazione differente sarebbe stato un sottofondo perfetto per qualcosa di ben più intimo –Intimo? Doveva avere le sinapsi ridotte a scoppiettante pop corn- una di quelle situazioni che ricalcavano la scena di una commedia romantica, col protagonista al volante che racconta, ma non ha parole da far uscire, è tutto sottinteso, tutto lasciato all’immaginazione dello spettatore; e c’è lei, illuminata dal sole o da un pomeriggio autunnale, che guarda avanti e ride, gira gli occhi su di lui, una sintesi perfetta di complicità e armonia.
Quante ne ha viste, di sciocchezze simili, con Pepper? In realtà nessuna. O forse una, di sbieco, mentre si occupava di stilare la lista di qualche componente per una qualche invenzione di qualche importanza. La musichetta melodica, strimpellata da una voce al dolcificante, gli arrivava all’orecchio sotto forma di tintinnaboli cinguettanti e non vi aveva mai prestato viva attenzione: li aveva accantonati in una parte recondita del cervello, dove prendevano polvere gli scatoloni coi ricordi di Peggy e di Jarvis, dell’infanzia in collegio, del cibo ungherese di Hanna.
Forse, gli sovvenne il pensiero, avrebbe dovuto avere maggior considerazione per quei film dalle tinte color miele. Non tanto per il loro dubbio gusto, né per la trama infarcita di crema e panna, bensì perché guardarli significava essere seduto sul divano con Pepper accanto e un cartone di pizza e un commento sarcastico sulle labbra. Avrebbe significato essere normale, una volta tanto, anche per soli novanta minuti. Normale e senza grilli per la testa, senza supercattivi da combattere, senza cose da costruire, senza vita da riparare, da sistemare col nastro adesivo per darle una parvenza di solidità.
E anche se era Happy a fare gli occhi dolci a Pepper, non importava. Anzi, Happy poteva stare con loro, gli piacevano quei filmetti allo zenzero, avrebbe fatto la mossa e…

Happy è morto.
La consapevolezza arrivò simile allo schianto di un camion contro un calesse. Lui, ovviamente, era il calesse: antiquato e sgangherato, ridicolo dinnanzi alla crudeltà della vita, inutile al rumoreggiare e stridere di ruote e asfalto, dei nemici che guadagnavano terreno e lo ghermivano nella notte, peggiori di un incubo –Peggiori perché non erano un incubo, erano reali e non sarebbero scomparsi all’avvicendarsi del mattino.

Happy è morto. E anche Rhodes. E adesso sono qui, in una macchina presa in prestito insieme ad un Agente di Livello Sei e cerco di salvarmi la vita nell’unico modo che mi riesce –Improvvisando.
“Dovresti dormire, non arrovellarti su pensieri che ti tolgono sonno ed energie.”
Non è la prima volta che Colin gli fa la paternale.
Ma è la prima volta che la paternale assomiglia ad un ordine da campo di battaglia. Della serie: Se non dormi, soldato, non sarai pronto per l’arrivo dei crucchi e allora ci ritroveremo i crauti in posti decisamente poco piacevoli.
“Pensa a guidare, Hendrick, e dimmi se ti serve il cambio.” Tagliò corto Stark, piccato.
È un fatto personale, con lui, una scaramuccia di proporzioni belliche epocali. Tony non ha intenzione di dimenticare il suo insulto tanto presto –E concentrarsi sulla ripicca contro l’Agente, su quanto gli abbia fatto rodere lo stomaco e abbia costituito uno schiaffo imperdonabile al suo io-bambino-che-legge-in-un-angolo lo aiuta ad allontanare la testa da un mondo troppo da adulti consapevoli perché gli possa piacere.
“Non sento la fatica.” Gli ricordò l’altro “Guiderò io per tutto il tragitto. Tu hai bisogno di riposare, io di un caffè di tanto in tanto.”
 “Guarda che non serve fare l’ubermensch. Non hai la Hill e nemmeno il vecchio pirata Fury da impressionare per avere una stellina in più sulla lista degli Agenti buoni. Fury è morto, bellimbusto, lo S.H.I.E.L.D. è stato rivoltato come un calzino e tu sei soltanto un innocuo, ingenuo, patetico reietto che cerca di darsi un tono, fingendosi più grande di quel che è.”
Quant’era facile ferire gli altri. Irrobustire il dolore, farne una lama, un coltello da affondare più e più volte contro gente innocente, contro gente abbastanza coraggiosa da affrontare la sofferenza, da sobbarcarsene il peso sulle spalle senza recriminare, senza cedere –Senza cercare un colpevole, consci che l’unica cosa utile in certe situazioni è la necessità di mettere sempre un piede davanti all’altro.
“L’innocuo, ingenuo, patetico reietto sta anche cercando di salvarti la vita” E d’improvviso, sotto la sferza degli occhi azzurri di Colin, Stark avvertì il morso della vergogna sbranargli lo stomaco, togliergli il fiato, recidere e strappare il respiro dai polmoni “Non c’è di che.”
Il magnate abbassò lo sguardo –Chi mai era riuscito a tanto?- e riacchiappò in silenzio il fumetto comprato alcune ore prima alla stazione di servizio. Lo aveva afferrato con la stessa voracità di un bambino, attirato dai colori sgargianti in puro stile anni ottanta, dalle inconfondibili stelle e strisce, dallo scudo in bella vista che pareva fendere l’aria nella sua direzione: una vecchia perla, apparsa come una pura epifania divina, cui Stark si era aggrappato con trasporto da vero fedele.
Hendrick aveva inarcato le sopracciglia, quando lo aveva appoggiato sul rullo untuoso della casSa, uno sguardo confuso, perplesso, a tratti non si capiva se infastidito o meno dalla presenza della carta stampata in mezzo alle merendine, ai fazzoletti e altre millanta porcherie a poco prezzo prese per il viaggio fino in Tennessee.
Ed era stato proprio il fumetto il motivo della loro litigata –Litigata, che vocabolo da vecchia coppia di sposini che si contende il telecomando-, il casus belli. Le continue occhiate lanciate da Hendrick al fumetto, mentre Tony lo leggeva attento contro le ginocchia –Una posizione abbastanza scomoda, ma Agente Perfettini gli aveva già rimbrottato la mania di mettere i piedi sul cruscotto gnè gnè gnè-, lo avevano stizzito alquanto.

Che c’è?
Mi chiedo come tu faccia a leggere quella porcheria, aveva sibilato Colin, con malcelato disprezzo, le labbra strette in un cordone stretto e rancoroso.
E’ Capitan America, Hendrick. Tutti leggevano Capitan America, quand’ero bambino. Tu no? Non che la cosa mi stupirebbe, si intende.
No. Non lo leggevo. E’ soltanto propaganda.

Scelta di parole sbagliata. Se anche aveva cominciato a provare una certa compatibilità emotiva dovuta alle circostanze contingenti nei confronti di Colin, lo sconsiderato commento rivolto al suo idolo lo aveva depennato dalla lista di coloro cui  far mandare, ad opera della santa Pepper, gli auguri di Natale.
Non parlarono per lungo tempo.
Cominciò a nevicare e volteggii e sbuffi bianchi rotearono loro intorno; dai bocchettoni della macchina ruggì un boato di aria calda, in netto contrasto con la patina argentea che si arrampicava pian piano sui finestrini.
Nessuno dei due avvertiva il bisogno di parlare. Entrambi, considerò Stark, erano troppo esausti. Pensare, cercare un contatto umano abbisognava di energie che non potevano permettersi di spendersi: la solitudine era l’unica compagnia cui affidarsi, cristallizzando il mondo in un attimo che non era prima e non era dopo, dove il passato scompariva sotto il manto nevoso ed il futuro era impossibile da intravedere oltre i vetri appannati.
Un’insegna attirò l’attenzione del magnate, che chiuse il fumetto e pulì il finestrino con la manica.
“Fermati!” intimò all’altro “Fermati subito!”
Il Texaco T, come recitava il traballante cerchio di metallo posto sopra il parasole gravido di neve, era una sottospecie di minimarket pseudo messicano, una struttura dismessa, un rettangolone di muratura sgraziato che le lampeggianti lucine natalizie rendevano grottesco e ridicolo. A Tony non interessava la merce in scadenza all’interno, né le grandi occasioni sponsorizzate da tranci di scatoloni aperti alla meglio su cui campeggiavano scritte in pennarello indelebile, bensì la cabina telefonica, quel relitto dei tempi andati, l’armadio preferito di Superman, la sua ancora di salvezza.
L’orlo dei pantaloni si inzaccherò di neve nel correre verso l’affare di vetro lurido e le mani, a contatto con la cornetta gelida, si riempirono di brividi; con Hendrick a fare da palo, intabarrato in una giacca gonfia di imbottitura, ed un indiano di legno che osservava con occhi vuoti le profondità dell’infinto, il magnate digitò veloce alcune cifre ed attese lo scatto dall’altra parte della cornetta.
“Pepper sono io.” Esordì, la voce resa incerta dal freddo e dalla linea altalenante “Non ho molto tempo. Perciò, innanzitutto, perdonami per averti messo in pericolo. Sono stato un egoista e uno stupido, non accadrà più. Inoltre è Natale e…Avevo preso un regalo. Happy aveva preso un regalo.” Si corresse “Un coniglio.” Un sorriso stanco “Enorme, Pepper. Grosso, troppo grosso. L’ho consigliato io ad Happy. E’ a casa. Dovevi entrare, di ritorno all’ospedale, e vederlo lì e Happy avrebbe…” un groppo alla gola, un cappio a lutto a serrare la carotide “Devi anche perdonarmi perché non posso tornare. Devo trovare questo tipo. Tu devi stare al sicuro, so solo questo. C’è anche Agente di Livello Sei, qui con me. Saremo al sicuro. Non temere.”
Fuori il vento gli trapassò il costato, violento, lo ghermì di neve, di ghiaccio. Colin si spazzolò i capelli biondi con le dita, per far cadere i fiocchi incastrati tra le ciocche; alzò la testa e il sorriso rassicurante che gli rivolse, insieme al poncho preso in prestito, come gli ricordò, dall’Indiano di legno fu abbastanza per compiere il primo passo e mettere un piedi davanti all’altro.

 

Da qualche parte, Queens
Marciapiede
2013

 

Dalla casa proveniva il profumo famigliare di una torta, lasciata a raffreddare sul davanzale. Murdock non la vedeva, tuttavia ne percepiva la consistenza, la durezza fragrante della crosta a contatto con l’aria, il respiro morbido dell’impasto e del ripieno gonfio, denso di marmellata di more. Sapeva anche a chi apparteneva, quel prodigio culinario: il canto mormorato a mezza bocca, scivoloso tra le rughe delle labbra; la spuma del sapone per piatti che inanellava le dita affusolate e forti, nonostante gli anni; il tintinnio degli orecchini contro il lobo ed il principio della gola, quando piegava la testa…
“Buongiorno, May.”
Un sussulto di sorpresa, un gemito della ceramica all’impatto improvviso con la spugna ruvida. La finestra, al piano di sopra, che si apriva ed un cuore in allerta, che batteva e batteva e batteva e rimaneva guardingo. Mani strette alla balaustra, presa salda, oltre il limite umano, il propagarsi catarroso di crepe all’interno del cemento –Peter Parker era appena accorso per capire il perché della visita di Matt Murdock ed il suo allegro rivolgersi alla zia.
“Matt, caro!” esclamò la donna e l’avvocato si fece sfuggire un sorriso, genuino, spontaneo alla sua voce sinceramente cordiale “Che piacere vederti.” Frullare di pelle e tessuto, May si stava asciugando le mani in una pezzuola ruvida, ancora impregnata da precedenti lavaggi e lavori domestici “Qual buon vento ti porta qui da noi?”
“Lavoro, May. Il ragazzo che devo difendere dovrebbe abitare da queste parti, ma non mi riesce di trovarlo. Mi chiedevo se…”
“Ma certo che ti aiuto Matt, caro.” Lo prevenne May, senza nemmeno dargli il tempo di finire la frase “Dove dovrebbe abitare questo giovanotto?”
“A Cypress Avenue.” Rispose l’avvocato, appoggiando il palmo della mano sinistra sul dorso della destra, ancorata al bastone bianco “Si chiama Colin Hendrick, lavora per un market indiano qui vicino. Il suo appartamento dovrebbe trovarsi al numero ventisei, non poco distante dal Cascada.”
Un lieve tentennare –Perplessità, dubbio- percepì il collo di May tendersi per un attimo, segno che quanto gli era stato appena detto non rientrava tra le sue conoscenze contingenti.
“Ci deve essere un errore.” Disse infatti la donna “Quel palazzo è sfitto da anni.”

 

Rosehill, Tennesse
Strada Principale
2013

 

Rosehill si presentò ai loro occhi sottoforma di un filare di palazzetti tracagnotti, campagnoli, tutti uguali a se stessi e intervallati di tanto in tanto da un bar o da una drogheria, un unico negozio di scarpe e vestiti, un sarto, un market che vendeva ogni cosa, dal terriccio al sapone per le mani. Le macchine erano per lo più camioncini scrostati, stracolmi di robaccia per i campi e attività manuali di sorta; gli uomini indossavano per la maggior parte camicione a scacchi, erano per la maggior parte baffuti e indossavano, per la maggior parte, stinti cappellini con visiera. Le donne avevano addosso magliette sformate, trafugate da qualche outlet che metteva tutto a due dollari, e macchiate lì dove si era staccata più di una manciata di lustrini e paillette; i capelli di molte di loro erano stoppie incollate da polvere e neve, poche, invece, avevano cercato di agghindarsi e acconciarsi come insegnava una rivista di moda vecchia di almeno cinque anni.
Tony affondò le mani in tasca, soffiando via un refolo di fiato condensato; Colin, al suo fianco, indicò una rientranza nella via, uno spiazzo rettangolare illuminato a giorno dai bagliori sussurranti delle candele; sciogliendosi, la cera era colata fin sull’asfalto, bianche, sempiterne lacrime a memoria della tragedia. L’asfalto divelto si apriva sotto le croci e le cornici simile ad uno spruzzo di schiuma cementificata; filoni di fiori grassocci, finti, dai colori spenti tempestavano l’intorno, cingendo la zona in un cordone di petali stinti e corolle a poco prezzo.
Colin superò Tony in silenzio, per andare ad accovacciarsi davanti a quell’altarino popolare che ancora sapeva di cenere e carne maciullata. Socchiuse gli occhi chiari e le candele disegnarono strani riflessi nel suo sguardo fattosi improvvisamente lontano.
Stark si morse la lingua prima di chiedergli cosa gli fosse preso, anche perché la sua voce dovette lasciare il posto al pigolio curioso –E finanche guardingo- che giunse dietro di loro.
“Siete qui perché vi piace il turismo nero?”
Hendrick girò la testa, sorridendo da sopra la spalla.
Il bambino, imbacuccato in una felpa più grande di lui, mise su l’espressione più sospettosa del suo repertorio, con labbro sporto e sopracciglio destro inarcato compresi nel prezzo; somigliava ad un buffo ammasso di grigio e marrone, convinto di sembrare più grosso di quel che era, con la sciarpona di lana grossa e i guanti senza dita –Fuori dall’orlo, la pelle era arrossata dal freddo e dal nevischio scioltosi sui capelli castani.
 “Qual è la versione ufficiale?” gli chiese l’Agente, alzandosi in piedi e facendo un cenno a Tony perché si mettesse più in ombra. Erano in un paesello dimenticato da Dio nel Tennesse, certo, ma non era comunqueo una ragione valida per essere meno prudenti.
“Una fuga di gas.” Il bambino si allontanò di un passo, non appena Colin piegò il ginocchio a terra per essere alla sua stessa altezza. Probabilmente odiava il comportamento semi-paternale degli adulti nei suoi confronti, a Tony non occorse molto per capirlo. Riconosceva anche un paio di comportamenti di quando era in collegio…
“Tu sei Tony Stark?”
“No, non lo sono.” Ribatté il magnate, schiarendosi la gola e calcando meglio il cappello con la visiera sulla fronte “Affatto.”
“E tu chi sei?” gli chiese Colin, spostando per una frazione di secondo l’attenzione del bambino su di sé “Vuoi dirci come ti chiami?”
“Harley.” Rispose il piccolo, tendendo il collo per osservare meglio Tony da oltre le spalle dell’Agente “Lo sai che i giornali ti hanno dato per morto?” lo informò.
“Sì, i giornali dicono cose come questa, in assenza di notizie migliori.”
Colin permise ad un sorriso di trasparire sulle labbra –Sorriso che contagiò anche Harley, diamine, pensò Tony, quell’uomo è un genio della manipolazione.
“Cos’è successo?” chiese ancora, una volta che Harley ebbe di nuovo gli occhi nei suoi “E’ importante.”
“Dicono che questo tipo abitasse qui intorno.” Il bambino scrollò le spalle, aggirò Hendrick e andò a sedersi dinanzi al cerchio di luci. L’alone bianco-argenteo filò striature e carezze e bagliori tra le ciocche un tempo tagliate a scodella ed ora un mero guazzabuglio di nodi; gli occhi, intelligenti e vivi, ruotarono per cercare le figure di Stark e di Hendrick nel momento in cui essi gli si accomodarono accanto “Aveva vinto un sacco di medaglie nell’esercito. La gente dice che un giorno è impazzito e ha fatto, sai…” fece un gesto con le mani, un incrocio tra una palla da rugby e una sfera un po’ storta “Una bomba. E si è fatto saltare in aria. Qui”
Colin scosse piano la testa, drizzandosi in piedi. Tony non disse una parola, non emise suono, e studiò i suoi occhi, il suo sguardo, la tensione della mandibola nello sfiorare a punta di dita le ombre nere impresse sui muri di mattoni –Istantanee di morte, macabre polaroid che avevano catturato l’ultimo respiro di persone la cui sola colpa era stata trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
“Sei persone morte, giusto?” domandò Hendrick, lasciando cadere la mano e girandosi appena a guardare il bambino “Sei. Non cinque. Sei.”
Harley annuì.
“Sì.”
La mente di Stark volò immediatamente al ragionamento che Colin aveva formulato, guardando le ombre. Tra le sei vittime era annoverato lo stesso autore della tragedia, il che voleva dire…
“Pensaci.” Tony si voltò verso il piccolo, la cui espressione rifletteva in maniera assai eloquente la sua perplessità “Sei morti. Solo cinque ombre.”
“Sì, ma…” Harley si strinse nelle spalle –Probabilmente, da come abbassò gli occhi, non credeva nemmeno lui alla replica che stava per fare “Dicono che le ombre sono i segni delle anime salite in cielo. Tranne che per l’uomo-bomba, lui è finito all’Inferno perché non è rimasta la sua ombra. Per questo sono solo cinque.”
“E tu ci credi?”
“E’ quello che dicono.”
Era un bambino, in fondo, e la tragedia, salvo che per pochi, era unicamente una fonte inesauribile di trafiletti sui quotidiani, di servizi televisivi a cadenza mensile, interviste pilotate, gente mai vista che si faceva ritrarre davanti alle ombre. Se i grandi dicevano che le ombre erano i segni delle anime, cosa gli importava? Non avrebbe cambiato la sua vita, qualunque essa fosse. Era una nota a margine, un qualcosa da tirare fuori qualora si fosse ritrovato nella situazione in cui, durante un discorso, il suo interlocutore avesse ricordato il nome di Rosehill soltanto per l’eco della tragedia.
“Sai cosa mi ricorda questo cratere…?”
Tony colse il rizzarsi delle spalle di Colin, un fiotto di azzurro nella penombra delle candele, ma fu troppo occupato a contenere lo spasmo sofferente ai polmoni per accorgersi di come l’Agente si fosse prontamente messo in allarme al vago accennare del bambino agli eventi di sei mesi prima.
“Non ne ho idea.” Borbottò Stark, avvertendo la voce mancare e le parole farsi balbettanti “E non—Non mi interessa.”
Ma Harley, estatico, desideroso di sapere, di conoscere, di ascoltare da uno dei diretti interessati, reclinò la nuca all’indietro e alzò le braccia al cielo, le allargò per dare l’idea dello squarcio che si era nel cielo della Grande Mela.
“Quel gigantesco portale a…” rise, lo sguardo luminoso ed eccitato “A New York! Lo ricorda anche a te?”
Uno. Due. Tre. Quattro. Per ogni respiro Tony aveva cominciato a contare un numero, perché la mente si allontanasse dal fiato affannato ed ogni numero era un cerchio che il dito scavava sulla tempia, perché il cervello andasse in loop e silenziasse l’estasi di Harley, facendo tacere il rombo devastante che gli stava frantumando le orecchie e torceva i polmoni e disintegrava la trachea.
“Non ne voglio parlare.”
“Ritorneranno?” impossibile frenare la curiosità di un bambino, era una valanga di sensazioni ed emozioni e ricordi e immagini e ruggiti ed esplosioni lampi scrosci urla sangue boati fiamme fuoco vuoto vuoto d’aria vuoto nel petto vuoto pneumatico oltre lo spazio vuoto vuotovuotovuoto v u o t o “Gli alieni.”
“Forse.” La voce rapida il respiro rarefatto nella trachea “Non…”
“Questo argomento ti mette a disagio?”
“Non lo so posso prendere fiato un secondo---?” come se fosse facile, come se l’aria potesse davvero arrivargli ai polmoni, come se davvero potesse respirare –Ma non era facile l’aria non arriva ai polmoni non poteva respirare non poteva non poteva.
“Ci sono cattivi a Rosehill? Ti serve una busta di plastica per soffiarci dentro?”
Respira. Respira. R e s p i r a.
“Prendi medicine?”
“No.” La voce che balza alla bocca, un singhiozzo disperato, un urlo acido ricacciato a forza nell’esofago.
“Dovresti prenderle?”
“Probabile.”
“Hai lo stress post-traumatico?”
“N—“
“Stai diventando completamente pazzo?”
Sì. No. Forse. Non sono pazzo. Forse lo sono. Forse la pazzia è umana e io non sarei umano se non fossi pazzo e pazzo è questo mondo e questo mondo è normale e pazzo è ciò che è successo e sarebbe da pazzi non esserne sconvolti e sarei pazzo se non lo fossi e forse pazzo è normale è normale la pazzia in un mondo pazzo dove nulla c’è che non lo sia---
“Vuoi che la smetta--? Posso smetterla se vuoi!”
“Mi mandi fuori di cervello---“

Click. No, click non rendeva l’idea, no. Era un rumore troppo infinitesimale. Troppo parodistico. Gli ingranaggi si scardinarono con un boato metallico di dentelli, le viti si disarticolarono in ogni loro più minuscolo componente che tlingtlangtlong andò a cozzare contro le pareti del cranio e si rovesciò nel cuore una cascata di fitte e scariche allucinanti che abbagliarono gli occhi e scoccarono un unico, salvifico, ossessivo ordine nella sua testa Fuggi scappa fuggi corri voi mettiti in salvo corri corri corri fuggi corri scappa corri corri scappa scappa scappa scappacorrifuggi---Un corpo caldo, nel gelo che irretisce le ossa. Battito cardiaco armonico, regolare, che dà il tempo, che scandisce il respiro, cadenzato nel ronzio ovattato e anestetizzato, vibrante del cervello. Un contatto umano, nella girandola animale di pensieri sconnessi, un punto saldo nella realtà che si sfalda e si sfascia e si sgretola e schegge di cielo che si staccano dalla volta dell’universo e si frantumano e spuma di stelle che rovente brucia i bordi del Creato.
La mia armatura mi serve la mia armatura la mia armatura la mia armatura la mia armatura metallo freddo metallo calotta guscio guscio dove nascondermi calotta da cui rinascere protezione difesa attacco nascondiglio fuoco e ghiaccio la mia armatura la mia armatura non ti serve l’armatura Tony cerca di respirare cerca di prendere fiato concentrati su di me concentrati sulle mie parole non ti serve l’armatura l’armatura è ciò che mi tiene lontano dal mondo anche se sono circondato niente piò ferirmi niente ti ferirà qui Tony sei al sicuro concentrati su di me qui nessuno vuole farti del male dentro l’armatura sono protetto ma qui ti proteggerò io ci sono io al tuo fianco non ti devi preoccupare devi soltanto respirare respirare respirarerespirarerespirare r e s p i r a r e r  e  s  p  i  r  a  r  e.
Colin lo aveva fatto sedere e Tony nemmeno se n’era accorto. Ne prese coscienza riemergendo dal panico, dalla confusione che aveva ovattato i pensieri e, come una pressa, stretto il suo corpo fino a far scricchiolare le ossa, inaridire il sangue nelle vene. Cominciò a tossire, perché l’aria era fredda nella gola e non si aspettava di ingoiare un fiotto tanto veloce tanto in fretta tanto improvvisamente, aveva dimenticato per secondi eterni cosa significasse respirare e che si dovesse fare. L’ossigeno aveva il sapore della neve, ma era rancida quanto la paura e divenne acido nello stomaco e corrose l’intestino, sbranandolo a poco a poco.
Tony artigliò una manata tremante di neve e la gettò contro Harley, non essendo in grado di formulare un’accusa più articolata di quella. Si avvide poi delle dita di Colin sulle spalle, sulle braccia che sfregava e frizionava per riattivare la circolazione, del torace che gli premeva sulla schiena, del suo fiato che gli rizzava i peli sulla nuca.
“Il tipo che è morto.” Tony, in un moto di stizza, spintonò via Hendrick, nonostante l’aiuto che gli aveva dato per riprendersi, nonostante la mano tesa con cui lo aveva appena rimesso in piedi –Il freddo alle membra non si acquietò, i brividi della debolezza sghignazzarono lungo la spina dorsale “Parenti? Una madre? La signora Davis dove sta?”
Harley si grattò il naso con la manica della camicia a scacchi che teneva sotto il giaccone; pensò un poco alla cosa, valutando la distanza a spanne.
“Dove sta sempre.” E Colin non poté impedirsi di girare gli occhi al cielo e far arrivare le sopracciglia direttamente al principio della fronte.
“Visto.” Sebbene ancora livido in volto e col fiato mozzo, Tony annuì in una approvazione a bocca spalancata –Unicamente, però, per ossigenare cuore e cervello “Ora sei di aiuto.”

 

Cypress Avenue, Queens
Appartamento di Colin Hendrick – O supposto tale.
2013

 

“Tana per il Diavolo.”
Matt se lo aspettava. Non era andato a casa di May Parker con l’unico intento di parlare con la vecchia zia: gli interessava anche e soprattutto lanciare l’esca, attendendo con pazienza che il Ragno fuoriuscisse dal buco zampa dopo zampa e si incamminasse verso la tela di bugie e macchinazioni di cui stava cominciando ad intravedere la trama.
“Qual buon vento ti porta qui, Uomo Ragno?” gli domandò Devil –Il cui udito, tranne lo zampettare dei topi ed il respiro del ragazzo, non avvertiva nulla- voltandosi nella sua direzione “Cerchi casa?”
“In effetti mi sto proprio accertando che il padrone non ci sia.”

Ftump. L’Uomo Ragno si era appena appeso ai muri e dallo scivolio dei piedi Matt ne individuò il cammino dalla parete fino al soffitto.
“Cosa sta succedendo?” sotto la patina di noncuranza, l’avvocato colse nella voce del ragazzo una nota di urgenza, i primi barlumi di panico “C’entra il Mandarino?”
Il Mandarino. Un’entità astratta e pubblica allo stesso tempo. Un burattinaio di paura, di fiato sospeso, di menzogna, di omicidio, l’uomo del Chinese, l’uomo che aveva ucciso Happy, l’uomo che aveva sulle mani il sangue di Rhodes e, sebbene non ci credesse –Vuoi per testardaggine, vuoi per istinto- Stark.
Fury morto. Il Mandarino. Un Agente senza dimora dalla temperatura corporea insolitamente alta. Doveva esserci una connessione, doveva esserci, Devil si rifiutava di credere a simili, catastrofiche coincidenze. Che il Mandarino fosse la causa e la morte di Fury l’effetto? No, era improbabile. L’omicidio di Fury non era stato scenografico: aveva sì colpito l’America, ma diametralmente opposto alla maniera in cui il Mandarino operava. Egli, in fondo, si poneva come Maestro ed un Maestro insegna, un Maestro usa immagini e scene se non tangibili quantomeno riconoscibili. La morte del Direttore era stato un colpo inferto con crudeltà ad una cerchia ristretta di persone, rispetto alla totalità del popolo americano –E, da quanto aveva potuto apprendere e capire, il Mandarino non dava lezioni private.
“E’ uno specchio per le allodole.” L’Uomo Ragno lo trasse via dal guazzabuglio disordinato di pensieri “Questo appartamento. Non capisco il motivo per cui avrebbero dovuto darti un indirizzo sbagliato.” Parlata agitata, frettolosa, tentativo di nascondere il fatto che conosceva il motivo ed il nome per cui Matt era lì “E’ soltanto uno specchio per le allodole.”
“Un’illusione.” Concordò Matt “Per nascondere qualcosa di più grande.”
Uno specchio per le allodole. Un riflesso che attirasse l’attenzione, mentre il vero male serpeggiava nascosto, dietro le quinte, assai meno visibile di un terrorista orientale dai modi magniloquenti…

 
Rosehill, Tennesse
Walker’s
2013

 

 

Stark sollevò il bavero della giacca, che spuntava dal poncho malandato. Sì, non lo aveva ancora tolto, gli teneva caldo. Colin, al suo fianco, affondò le mani nelle tasche del giaccone di pelle, dando un’occhiata veloce al magnate.
“Come pensi di fare?” gli domandò, indicando il locale con un cenno impercettibile della testa.
“Improvviserò.”
“Ti serve un piano.”
“Io ce l’ho un piano: improvvisare.
E mentre tornava a girare il volto verso il Walker’s con un sorriso tronfio sulla faccia, il cozzare di una spalla ben tornita costrinse Tony a voltarsi, di nuovo, chinarsi a terra per raccogliere un vecchio cellulare e quindi allungare la mano in direzione di…Beh, una donna assai piacente, con occhi neri da paura, una sventola un po’ selvaggia –Dannazione, era così che Happy aveva chiamato Pepper quando lei se n’era andata dall’ufficio la prima volta, impettita, infastidita dal tono superficiale e decisamente misantropo con cui le si era rivolto al colloquio; nonostante il grosso nodo cicatriziale che le tagliava in obliquo la guancia sinistra, da sopra la radice fino all’angolo della bocca, il suo viso aveva un’attrattiva particolare, olivastro e circondato da una svolazzante e disordinata chioma fulva. La camicetta bianca era l’unica cosa con una parvenza innocente, nella sua figura, il resto –Dagli stivali alti alla giacca nera con cappuccio e pellicciotto- le conferivano un’aria di sfida e pericolo –Aria che, lo si sapeva, per Stark era un ordine a chiare lettere di oltrepassare il perimetro di sicurezza.
“Bel taglio di capelli. Le dona.” Lo sbuffo di Colin, dietro le spalle, era un chiaro monito a sbrigarsi e rimandare a dopo gli incontri romantici.
“Bel poncho.” Rispose lei, le labbra piegata un un’ironia sfrontata.
“L’ho preso da un indiano. E’ un regalo prezioso.”
“Oh, non ne dubito.” La donna arcuò le sopracciglia nere –Il sinistro, notò Tony, era tagliato in maniera non intenzionale, una cicatrice piccola, minuta, un barbaglio bianco impercettibile “Le auguro una buona serata.”
“Possibile che tu debba correre dietro ad ogni gonna che vedi anche in una situazione del genere?” fu il rimbrotto velenoso di Hendrick, nel mettere la mano sopra i tre cerchi di vetro incastonati verticalmente sulla porta di ingresso.
“Dovresti divertiti di più, Colin. Altrimenti dov’è il vantaggio di essere morti?” Stark bloccò l’Agente prima che potesse fare un solo passo dentro al locale “Tu rimani qui e fai da palo.”
Col senno di poi, sarebbe stato meglio che Colin entrasse con lui. Purtroppo il senno di poi è una di quelle meraviglie umane che non funzionano mai perché, appunto, costituiscono dei lampi di genio troppo tardivi per essere di una qualche utilità.

Col senno di poi se Colin fosse entrato con lui, di certo Tony avrebbe avuto meno possibilità di trovarsi ammanettato e con la faccia sbattuta contro il tavolino sporco di noccioline dalla donna-faina –A conti fatti, non possedeva un’aura pericolosa. Lei era pericolosa a livelli schizzoidi, con evidenti manie di protagonismo ed una dose di sadismo niente male.
Il col senno di poi, evidentemente, non aveva funzionato e fu con i polsi stretti dietro la schiena che Tony schizzò fuori dal Walker’s e fu ad occhi sgranati che Hendric lo fissò, stralunato, e fu con un gesto di immediato allarme che gettò via il fiammifero con cui stava per accendersi la pipa e fu con un moto di stizza che lo riprese Stark perché non era proprio quello il momento di fumare e avevano un problema dietro le spalle quindi che si sbrigasse ad usare una qualche manovra alla Chuck Norris dello S.H.I.E.L.D. prima che finissero arrosto.
E fu con un moto di orrore che Tony si accorse come al problema della donna-faina fosse appena andato a sommarsi il problema dell’uomo-noce, uscito da una macchina nera e lucida al pari del carapace di un insetto: non ci voleva un genio per capire che l’obiettivo era il fascicolo di Davis.
Gli occhi dell’uomo-noce fiammeggiarono, lo sguardo di Colin virò in freddo metallo.
“A lui ci penso io.”
“Hendrick, io sono ancora ammanettato!” provò a protestare il magnate.
Protesta che cadde nel vuoto. L’Agente scattò in avanti, agguantò il coperchio di un bidone dell’immondizia e lo scagliò senza complimenti verso l’uomo-noce, colpendolo sotto la mandibola ed impedendogli di fare fuoco.
Tony rimase interdetto per un istante, per poi, l’istante dopo, gettarsi a corpo contratto dentro la vetrina del negozio immediatamente opposto al Walker’s. Nel turbinio seghettato delle schegge che gli volavano attorno s’immaginò Pepper immersa fino alla gola dalle scartoffie per pagare tutti i danni arrecati a Rosehill. Grazie a quella prospettiva rassicurante, il cervello alla deriva gli evitò di accusare totalmente il dolore dell’impatto contro il pavimento. Non fu lo stesso nell’involarsi oltre il bancone –Una tavola calda? Interessante- quando la donna-faina ebbe alzato il fucile per fare ficcargli un pallettone in mezzo agli occhi.
Non doveva più fidarsi delle rosse –A parte Pepper. Erano subdole, al pari della Romanoff. Ed erano dannatamente veloci, notò, cozzando contro il muro. Non l’aveva sentita arrivare. Un attimo prima era ancora fuori, sulla strada, e l’attimo immediatamente dopo eccola a stanarlo dal suo nascondiglio –C’era tattica, nelle sue mosse, strategia, era un passo davanti a lui perché ragionava come si ragiona sul campo di battaglia per cogliere di sorpresa il nemico.
Il che voleva dire che, per farla finita e portare a casa la pelle, era necessario essere due passi avanti e adattare il pensiero ad una logica militare, migliorandolo con una sana dose di inventiva e improvvisazione.
Punto uno, impedirle il contatto visivo con occhi, volto e altre parti del corpo scoperte. Le sue mani bruciavano, la sua carne ustionava, era un’arma al pari di Davis, ma, al contrario del ragazzo, era perfettamente collaudata e non avrebbe fatto cilecca.
Punto uno bis, sfruttare il fuoco a proprio vantaggio. Essere una persona capace di estrarre conigli dal capello porta al rischio che, se non si è attenti, chiunque può rubare il cappello ed estrarre una volpe: schivando, saltando, usando le suppellettili della tavola calda come trampolini di lancio per un modus operandi suicida, Stark fu in grado di avvolgere gli anelli delle manette alla carotide della donna-faina e quella, in risposta ad un furioso istinto di sopravvivenza, aumentò la propria temperatura corporea al punto di liquefarle. Bingo. Impedimento maggiore superato, ora restava la pazza ad orologeria.
Punto tre. Scienza. Un sottotitolo perfetto alla sua autobiografia Un trucchetto sfigato ed una battutaccia –A Tony venne quasi da ridere al pensare a quanto i bulli si assomigliassero, così convinti di essere al di sopra di ogni cosa grazie ad un paio di muscoli ben sviluppati, strampalati poteri mistici ed una presa di acciaio. Un microonde e le medagliette di Davis strappate al dossier che la madre, convinta di avere a che fare con la donna-faina, gli aveva mostrato mescolati insieme erano una ricetta perfetta –Insieme ad un bel liquido per pulizia infiammabile, ovviamente. Il muro di fuoco non l’avrebbe mai fermata, tuttavia era un ottimo escamotage per prendere tempo e rallentarla: il vero spettacolo venne annunciato dal trillo fischiante del microonde e dal crocchiolio picchiettante delle tags.
La deflagrazione si gonfiò vermiglia dentro lo stomaco metallico dell’apparecchio, unito al soffio rovente del gas che Stark aveva liberato staccando di netto la presa del bocchettone.
L’esplosione fu uno schiaffo bollente, una rapida, cocente staffilata che fece vibrare il portellone dietro cui Tony aveva trovato riparo. Le orecchie ronzavano e la testa doleva, faticava a mettere insieme i pezzi, a far combaciare gli eventi; dentro il cranio rimbombava il silenzio assordante della detonazione improvvisata, il naso era incrostato di polvere e di cenere, del lezzo della carne dilaniata. Le ginocchia tremarono quando si mise in piedi, unica figura eretta tra le pareti sventrate della tavola calda. Cercò Colin, tra le teste della gente schiamazzante che correva da una parte all’altra di Rosehill, ma non lo vide.
Un cigolio scoppiettante attirò l’attenzione del magnate: la donna-faina dondolava disarticolata sugli alti cavi della corrente, una figura gibbosa e fumante, una marionetta senza vita gettata via alla fine dello spettacolo. Una visione terrificante, che segnava però la fine di uno dei due problemi.
La domanda era…E l’altro?
Un brivido attraverso la spina dorsale.
Suono liquido di metallo che si scioglie.
Tony si girò di scatto, il fiato rappreso in gola. La cisterna d’acqua, sopra la sua testa, emise un gemito raccapricciante e doloroso. L’uomo-noce sogghignò, la mano che brillava di arancio e di oro mentre liquefaceva le possenti gambe di sostegno. I lacci che trattenevano il corpo metallico si staccarono con uno schiocco secco, la cisterna traballò senza più alcun appiglio e Stark, maledicendo se stesso, maledicendo Hendrick di cui non vedeva nemmeno l’ombra, cercò una via di fuga dal disastro imminente. Non trovò altro che una rete protettiva a bloccargli il passaggio: l’acqua gli si rovesciò impietosa addosso, un muggito gelido, mani umide artigliate alla pelle e ai vestiti, marosi ringhianti che gli strapparono il fiato e più di un battito cardiaco. La cisterna, ormai divelta e spaccata, rovinò a terra coi resti dei sostegni, bloccando in parte la gamba di Tony, chiudendogli ogni possibilità di fuga, trattenendolo, costringendolo a terra. L’uomo-noce, fradicio ma illeso, fece scintillare gli occhi maligni e la cornea si velò di fuoco crepitante.
Un passo, un altro, un altro ancora, vicinò ad ogni secondo di più –E Stark non poteva muoversi, non poteva reagire, non poteva fare nulla se non cercare di liberare la gamba. I centri nervosi gridavano allarme e pericolo, trasmettevano scariche di panico –L’uomo sempre più vicino, troppo vicino…

Stonk.
Il coperchio del bidone scavò un solco nella tempia destra dell’uomo noce e, prima che questi potesse reagire, Hendrick gli fu addosso. Schiantò una mano sulla nuca e sfruttò il proprio slancio per conficcare il volto dell’uomo-noce direttamente nell’asfalto; ancora a ginocchia piegate l’Agente saltò verso Stark, che ringraziò quei dannati cento kili per un metro e novanta, abbastanza in forma da sollevare gli spessi tralicci e liberargli la gamba.
Hendrick agguantò il magnate per le braccia, sollevandolo di peso e spintonandolo via, convincendone il corpo a muoversi con sonore manate sulla schiena. Stark incespicò, le caviglie ridotte a polvere, la vista che andava e veniva, la lucidità ridotta a meno di niente a causa del dolore lancinante delle ossa. Si voltò, non sentendo i passi dell’Agente dietro le spalle, e lo spettacolo dell’uomo-noce che si rimetteva in piedi gli ghiacciò il sangue.
“Colin!”
Ma l’Agente doveva già aver colto il movimento dell’avversario: facendo perno sulla gamba sinistra, ruotò il torso e la violenza del calcio che arrivò allo zigomo dell’uomo-noce fu tale da sradicare ogni connessione tra le vertebre cervicali, tranciando a metà il fascio filamentoso dei nervi.

 

Località Sconosciuta
Laboratorio
2011

 

Non avrebbe mai potuto far loro del male. Erano persone innocenti, private di volontà e coscienza, che agivano per ordini perversi instillati nel loro inconscio dalle parole seducenti del Dottore. E mentre il corpo doleva e i muscoli trasudavano scariche elettriche e il sangue impazziva nelle vene, si disse che per nulla al mondo avrebbe mai alzato le mani per ferirli: tenerli a distanza, senza ucciderli, aprirsi una via di fuga, senza che fosse bagnata di sangue.
I legacci gli scavarono i polsi, quando provò a tirare per spezzarli. Digrignò i denti e vide l’uomo col doppiopetto sorridere del suo tentativo: aveva la preda in pugno, lo comprese immediatamente.
La preda era in lui. Impotente, costretto ad un sedile che bruciava la pelle come le fiamme dell’Inferno, stretto al torace, ai polsi, alle gambe, al collo perché non potesse muoversi più del dovuto –Abbastanza libero, però, perché avvertisse col cuore e la mente una via di fuga. Il corpo continuava a lottare, dove trovava una boccata di respiro, si contraeva e si disfaceva in grugniti di dolore. Per l’uomo era piacevole vederlo combattere contro l’inevitabile, lo comprendeva dai suoi occhi lustri di ferina soddisfazione.
Quale che fosse, comunque, il desiderio di ludibrio del suo aguzzino, non avrebbe smesso di muoversi, di tendersi, di fare forza e tentare di recidere i legacci che lo costringevano indietro.
Le macchine singultavano a ritmo del suo cuore impazzito, alla pressione cardiaca che si schiantava contro le costole, alla temperatura che aumentava ringhio dopo ringhio, al gonfiarsi dei muscoli, del fiato che erompeva dalle narici dilatate. Le tempie, pressate da un semicerchio di metallo, erano un tormento di sofferenza e fiamme tanto spostava la testa e faceva strusciare il capo contro gli uncini gelidi.
Si fece avanti il medico, gli occhi incolori, la mascella sbilenca, le dita lasse attorno ad un morso di cuoio.
Serrò i denti ancor più strettamente, il mento alzato in segno di sfida, gli occhi azzurri che vibravano di sdegno e spirito che mai si piega.
Un ruggito di dolore artificiale nelle ossa, un urlo  eruttato dalla bocca ora aperta –Quando la richiuse, il morso scricchiolò per la violenza della sofferenza, per il tentativo di mordersi della lingua, di soffocare nel proprio sangue piuttosto che respirare e sottomettersi. Il cervello pompava informazioni alla velocità della luce, gli riempiva il cranio di immagini, di piani per evadere, di smentite, di lucida constatazione di tali, mirabolanti follie.
Coi capelli appiccicati alla fronte per il sudore, sollevò il capo, perché lo sguardo incenerisse il suo aguzzino, ora seduto al suo fianco per non perdersi nemmeno un istante.
“Non c’è alcun bisogno di essere testardi, Capitano.” Lo derise  “Presto il dolore non sarà nemmeno più un ricordo.

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Capitolo 13
*** { Ho Cercato Di Urlare – File 12 } ***


ood


{ Ho Cercato Di Urlare – File 12 }





B r a m a.

Desiderio.
Libertà.
Ricordi.
Dolore.
Cosa è ricordo, cosa dolore, cosa menzogna, cosa realtà, cosa sogno?
Ovunque sento dolore, un dolore che mi spezza, un dolore che mi dilania.
Mi dibatto, mi ribello, mi divincolo, mi oppongo.
Troppa violenza, nelle loro mani.
Poca forza, nei mie pugni.
Dolore. Dolore. Dolore.
Tuono, tormento, terrore.
Libertà!
Io sono libero!

Io sono!



R u g g i n e.




Frammenti di immagini che scolorano.
Pezzi di coscienza che stridono, frantumati da lampi di sofferenza.
Pezzi.
Frammenti.
Sono soltanto pezzi.
Sono soltanto frammenti.
Frammenti di storia.
Pezzi di ricordi.
Frammenti di dolore.
Pezzi di me.


D i c i a s s e t t e.





Coordinate Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013


Ad averlo saputo, Skye si sarebbe fermata un po' prima.
In verità la sua intenzione era stata del tutto diversa -All'inizio. Si era svegliata di soprassalto, col cuore in gola ed il sudore appiccicato alle tempie: non ricordava cosa avesse sognato, né cosa avesse sentito nel tramestio caleidoscopico della sua fase REM, ma la sensazione di qualcosa di storto, pauroso, terrificante, le era rimasto addosso come una seconda pelle. Aveva preso aria a grandi sorsate finché il senso di soffocamento non era passato e si era guardata intorno, aveva contato ogni oggetto presente nell'alloggio, aveva elencato a memoria i personaggi del suo romanzo preferito, aveva riconosciuto tre odori differenti, lì, attorno a lei, e aveva trovato conforto nei suoni rollanti dell'aereo.
Era scesa dal letto e dopo un bicchiere d'acqua aveva acceso il portatile per mettersi al lavoro.
Il non sapere dove fosse Coulson la metteva in agitazione: era l'unico, in quella squadra, a trattarla come un essere umano e non come un cucciolo smarrito, lasciato ad uggiolare sotto la pioggia. Non che gli altri la facessero sentire a disagio o fuori posto -Non di proposito almeno, tuttavia avvertiva sempre una specie di spartiacque, tra lei e loro, quasi lei fosse un elemento chimico di dubbia composizione, difficile da amalgamare col resto.
Con Coulson quell'idea spariva.
Coulson la trattava e considerava a metà tra una recluta ed una nipote recalcitrante e bastava così perché riuscisse a farla sentire a casa.
Non averlo intorno, non sapere nulla sulla sua sorte le faceva venire le vertigini.
Phil non aveva detto a nessuno di loro, tranne a May, dove sarebbe andato, quando sarebbe tornato, chi avrebbe incontrato, cosa avrebbe fatto, se sarebbe sopravvissuto. Non aveva inviato alcun messaggio, non aveva cercato di mettersi in contatto, non aveva lasciato tracce: Skye sapeva soltanto che era partito per un qualche in codice S.H.I.E.L.D. sconosciuto ai più -Quindi, il database dello S.H.I.E.L.D. era il posto migliore dove andare a spulciare.
Le difese informatiche non erano niente male e la giovane impiegò mezz'ora buona per superare i firewall e svicolare all'interno delle stringhe di uno e di zero senza che gli anticorpi digitali la rincorressero, alla stregua di Willy Coyote con Beep Beep. Aveva saltellato da una cartella all'altra, ognuna più criptata della precedente, e quando si era accorta di aver perso la strada di casa era stato troppo tardi.
Al pari di una valanga la sua curiosità l'aveva trascinata a fondo, la disperazione l'aveva travolta in pieno e lei era caduta nella Tana del Bianconiglio, novella Alice nel Mainframe delle Meraviglie.
Il Dark Web personale dello S.H.I.E.L.D. era un campo minato di sicurezza, password, codici di accesso che si rigeneravano più velocemente di quanto lei riuscisse a bypassarli: più di una volta era stata costretta ad una manovra evasiva e aveva digitato con tale forza sulla tastiera da sentire i polpastrelli bruciare.
Ma non le era stato permesso di riprendere fiato.
Strano a dirsi e capiva, capiva quanto fosse assurdo, il sistema di sicurezza si stava facendo...Aggressivo. Non stava solo cercando di tenerla fuori: voleva sbranarla, voleva estirpare chiunque osasse avanzare, senza autorizzazione, nell'intrico informatico dei loro segreti.
Quando le riuscì di toccare il fondo del Pozzo era trascorsa più di un'ora e Skye era a pezzi.
Le tremavano le dita ed i polsi, e il sudore aveva tracciato una linea dal principio della nuca alla base della schiena; la lingua guizzò a toccare le labbra, trovandole secche, morse, persino, al punto di farne stillare una goccia di sangue. Avrebbe voluto alzarsi e bere di nuovo, ma la curiosità fu più forte della sabbia che le disidratava la gola.

Progetto InSight...” sussurrò, mentre il cursore si spostava diligentemente sulla cartella.
Sulle prime non capì: c'era una lista di nomi, suddivisi per nazionalità, quindi per sesso, infine per età, e ogni nome riportava il domicilio, l'occupazione corrente, addirittura il gruppo sanguigno. Alcuni di quei nomi Skye li conosceva: di Stephen Strange, ad esempio, sapeva che era un chirurgo di fama mondiale, tuttavia non riusciva a comprendere il nesso tra lui e Jessica Jones, un'anonima ragazza di Hell's Kitchen.
Chiuse la schermata, non prima di averne fatto un download, quindi passò al file seguente.
Fu allora che si tappò la bocca con le mani.
Dio...! Dio, non erano nomi a caso.
Gli occhi s'ingigantirono. Si ficcò le nocche nei denti per non gridare, il battito del cuore che rompeva i timpani e pulsava e pulsava e pulsava contro le tempie, sbiancando i contorni della sua visuale e scagliando fitte roventi allo stomaco. Sentì le lacrime pizzicare sulle ciglia, mentre il respiro sgroppava ed il panico le mordeva i polmoni.
Non erano nomi a caso. Dio del cielo, quelli erano...

Obiettivi.”
La voce di Ward.
Ambigua.
Tagliente.
Skye non lo aveva sentito entrare, né aveva udito lo sblocco di accesso alla porta; si girò nella sua direzione, la mano destra che scattava ad afferrare il bordo superiore dello schermo, in un gesto istintivo ed inutile.
Grant nascose il passepartout elettronico nella tasca dei pantaloni, prese la pistola e la puntò contro di lei.
Non pareva intenzionato a farle del male, ma Skye si tese comunque. Gli occhi dell'altro erano come vetro: illeggibili e freddi, vuoti se non per il riflesso di lei, del suo sguardo impanicato, della lacrima che stava scendendo sulla guancia.

Come...?” sussurrò, inciampando sulla domanda. Si schiarì la gola, si leccò le labbra, riprese fiato “Come potete fare una cosa del genere? Lo S.H.I.E.L.D...”
Lo S.H.I.E.L.D. è solo un acronimo desueto e inutile.” replicò Ward “Un tempo questa agenzia aveva grandi idee e molta fantasia, ma col tempo si è lasciata irretire dalla burocrazia e ha perso di vista la cosa più importante.”
Ossia?”
Ossia che non esiste alcuna libertà da difendere. È solo una grande menzogna. Questo mondo-” un sorriso ironico gli abbruttì i tratti del viso “Questo mondo è soltanto caos. Un guazzabuglio di idioti, di individui patetici, per la minor parte pericolosi, per la maggior parte inutili. InSight.” indicò il computer con un cenno del mento “InSight è il futuro. E' l'algoritmo perfetto. Presto non ci saranno più libero arbitrio, né disordini: ogni cosa sarà epurata e tutti conosceranno una nuova epoca d'oro, un nuovo Impero cui essere asserviti nella consapevolezza di essere niente, se non un branco di pecore bisognose del pastore.”
Se non fosse stata terrorizzata, Skye avrebbe riso. Parole del genere le davano la nausea e da come la guardava, mentre le pronunciava, forse nemmeno Ward ci credeva -Non del tutto. Forse gli avevano inculcato quei concetti a forza, forse le aveva imparate più per rimanere tra i loro ranghi malati che per lealtà al Sommo Ideale.

Questa—Idiozia dell'Impero fa tanto Star Wars, lo sai?” lo canzonò “A quale assassino di bambini appartiene questa bandiera davanti a cui dovremmo sottometterci, come tanti soldatini senza cervello?”
Grant non rispose, si limitò al silenzio mentre un bagliore bianco, proveniente dal computer, costringeva la giovane a voltarsi.
I dati sullo schermo si disfecero in colonne di numeri, cascate di codici, catene di formule, tutte scardinate, tutte in disordine, tutte prive di inizio, di fine, di significato, quindi un lampo, rosso, poi nero, di nuovo rosso, ancora nero -E così rimase, così, nero, mentre dagli angoli rigagnoli scarlatti si spargevano a disegnare la forma di sei tentacoli, il contorno di due orbite vuote, la sommità gibbosa di un teschio.
A Skye le parole morirono in bocca.
Il logo dell'HYDRA la fissava sogghignando.
Sbeffeggiandola.
Deridendola.

No.” bisbigliò “No, non è possibile. L'HYDRA è stata distrutta dopo la Guerra!”
Ci sono ideali che non potranno mai scomparire.” replicò Ward ed abbassò la pistola, un dito appena, consapevole di quanto lei, in quel momento, non rappresentasse alcun pericolo “E l'HYDRA ha trovato terreno fertile in molti cuori, per molti anni, ancor prima degli anni Quaranta. La vostra suffragetta col costume a stelle e strisce ne ha rallentato l'avanzata, certo, ma non l'ha fermata: ci vuole molto di più di un frisbee e di una misera provetta da laboratorio per farlo. ”
Il sorriso di Grant era così gelido da fare male. Così folle, nella sua freddezza, da far accapponare la pelle. Era crudele, in ogni piega, in ogni fossetta.

E adesso, dopo anni vissuti a proliferare nell'ombra, annienteremo qualunque ostacolo si ponga sulla nostra strada. Nessuno potrà---”
Skye sobbalzò, colta alla sprovvista, nel sentire il clangore del pugno impattare contro la nuca di Ward. Gli occhi dello Specialista si rivoltarono nelle orbite, le dita persero la presa sulla pistola, le ginocchia si piegarono, le spalle ed il torso cascarono, la guancia premuta contro il pavimento.
Melinda May sbuffò e si massaggiò le nocche.
“Oh, sta' zitto.”







A l b a


Sono nato.
Sono vissuto.
Sono morto?
Non credo.
Non lo so.
Ma vorrei.
Sono nato? Quando?
Ricordo il cielo grigio come fumo.
Ricordo le strade strette.
Ricordo l'odore delle sigarette.
Forse ho chiamato qualcuno amico.
Forse ho amato.
Forse ho pianto.
Forse dimentico.
Dimentico?
Ricordo...




H o m o

Non ricordo.
E' nero.
E' tutto così nero.
E' tutto così bianco.
E' tutto così vuoto.
Non ci sono colori.
Non ho colori.
Non ho niente.
Non ho più niente.
Non sono più niente.
Sono ancora vivo.
Dimmi, ti prego, se ancora vivo.
Dimmi, ti prego, se ancora
sono.


N o v e



Asgard.
2013.


Clint gridò.
O forse ebbe l'impressione di farlo.
Non gli importava.
Gridò.
Si gettò su Loki, convinto di avere unghie con cui poterlo graffiare, nocche con cui poterlo colpire, mani con cui poterlo strangolare.
Il Dio lo scaraventò indietro e rise e con quella risata sparse al vento i brandelli coscienza raggranellati a fatica dall'arciere.
Ovunque era fumo.
Fiamme. Fumo. Sangue.
Thor gli aveva descritto Asgard, una volta, e Clint aveva espresso il desiderio di visitarla -Chissà quando, chissà come, chissà in quale futuro. Non era lucido, no, Thor gli aveva detto di Asgard forse per convincerlo ad andare con lui, là dove c'erano sapienti che avrebbero potuto aiutarlo, cerusici che lo avrebbero curato, non ricordava, non ricordava bene, le sue proposte, sebbene sincere, erano sfumate nel tumultuare del lutto, nel rancore, nel pianto.

Ma Occhio di Falco ricordava perfettamente la descrizione che lui gli aveva fatto:
Válaskjálf, il Palazzo di Odino, il Pendio dei Caduti, dalle Torri d'Oro e le Pareti d'Argento; Himinbjörg, il cardine del Bifrost, dimora di Heimdall, il Dio dagli occhi lattei, che coglie la trama di un fiocco di neve a Galassie di distanza; i pomi d'oro di Idunn, la cui luce si rinfrange contro le vetrate di Søkkvabekkr, il palazzo di Sága. Ricordava di aver chiuso gli occhi per immaginare i fiumi e le cascate e l'acqua mutare in astri e firmamenti tra gli spruzzi e la spuma.
Fumo, fiamme, devastazione, cenere, lapilli.
Clint mostrò i denti, recuperando forma dalla rabbia che gli incendiava le viscere.
Loki avanzava tra i soldati Asgardiani e la facilità con cui muoveva il suo corpo lo stava facendo impazzire. Eccolo mentre estraeva una freccia, la incoccava e mentre questa era in volo subito, rapido, lesto, scivolava sotto le gambe di un avversario, saltava, gli chiudeva la corda dell'arco attorno alla gola, gli conficcava il ginocchio nella spina dorsale. Una torsione del busto, uno scatto del polso, il riser che si compattava in un bastone d'acciaio, il lampo del metallo, Loki colpì, schivò, danzò tra le spade e gli scudi, letale e perfetto.
Il fatto che gli Asgardiani stessero massacrando le truppe alleate non aveva importanza.
Gli assalti dell'HYDRA si facevano via via sempre più deboli, le fila si facevano via via sempre più sottili.
Il Norreno li aveva condotti lì attraverso la Pietra di Kulja, senza fallo aveva camminato alla loro testa, passo dopo passo su un sentiero bianco di faggio, e quando la nebbia si era alzata a ghermire le caviglie con un gesto aveva dissipato le tenebre.
Aveva sorriso e aveva ordinato l'attacco.
Ora morivano, attorno a lui, uno dopo l'altro, e Loki non poteva essere più incurante.
Quando scattò, Clint provò a tendersi, ad abbrancare la sua coscienza in quell'attimo, in quell'istante in cui il proprio cuore aveva battuto all'unisono col suo, spinto dall'adrenalina. Il Norreno perse un istante l'equilibrio, Occhio di Falco assorbì l'impatto rotolando contro il selciato, il Dio si rimise in piedi, la spia si rannicchiò per evitare la lama di un Asgardiano, il figlio di Laufey agguantò il pugnale che teneva allo stivale e lo affondò nello sprazzo di fianco lasciato scoperto dall'armatura.
"Li stai uccidendo!" gridò allora Clint "Sono il tuo popolo!"
"Loro non sono
niente." sibilò l'altro, mentre con calcio si scrollava l'avversario di dosso e correva verso le porte d'oro del palazzo "La loro vita non conta. La loro morte sì." proseguì "La loro morte sarà il trono su cui siederò ad ammirare la venuta del mio Regno."
Le guardie all'ingresso caddero ancor prima di riuscire a scorgerli.
Forse Occhio di Falco avrebbe dovuto sentirsi fiero di poter, da solo, affrontare gli
Einherjar, i Valorosi, il corpo scelto di Odino, invece non provava che nausea e vertigine: avvertiva la presa sulla realtà sfumare, la propria coscienza svanire, la sensazione dell'Io scolorire e diventare un mero sfondo da palcoscenico, su cui Loki, il primo attore di quella tragedia, si muoveva seguendo le battute del suo copione.
Il rombo del tuono lo riscosse -E come avrebbe potuto essere altrimenti? Non era stato soltanto il suono. Era stata la scarica elettrica che crocchiolando gli era zampettata sulle gambe ed era deflagrata d'improvviso nelle ossa, scoccando fulmini e scrosci di folgore contro lo sterno e i muscoli e i nervi.
Loki alzò gli occhi e la spia cadde in ginocchio, le braccia spalancate: la paura del Norreno fu la sua ancora di salvezza.
Risalì fino ad infrangere con la sommità del capo la superficie della propria Anima, si riappropriò della voce, al punto da urlare e gridare con la pioggia che adesso gli graffiava il volto e gli colava nelle guance e dentro la gola.

Thor!” chiamò “Thor! Thor---!”
Loki gli coprì la bocca, lo ricacciò indietro, ma lo sforzo gli costò abbastanza da dare ad Occhio di Falco la possibilità di annidarsi, lì, in un punto dove il Norreno lo avrebbe creduto indifeso, ma così vicino da dargli la possibilità di ritrovare il filo dei propri pensieri non appena ne avesse scorto la matassa.
Clinton!” berciò il Dio del Tuono ed era una figura maestosa, incoronata di fulmini, gli occhi come braci, Mjolnir in pugno “Cosa significa tutto questo?”
Le labbra di Loki si torsero in un ghigno derisorio -E adesso, s'accorse Clint, l'altro stava parodiando le sue movenze alla perfezione, al punto che provò ribrezzo nel vedersi così, allo specchio.
"Significa
guerra, oh Tonante.” lo derise e rapido incoccò la freccia “Credevi davvero che lo S.H.I.E.L.D avrebbe permesso al vostro stuolo di cosmonauti di viaggiare indisturbati da un mondo all'altro? Facendo il bello ed il cattivo tempo in virtù di qualche vecchio culto pagano? Lo ammetto.” fece “Tracciare una rotta sicura non è stato facile, ma ne è valsa la pena.”
Siete in inferiorità numerica.” Thor avanzò di un passo, le saette che s'intrecciavano e sibilavano sulla testa del Martello “I tuoi sodali stanno morendo. Ti fermerò, Clinton, sebbene il mio cuore pianga nel doverti chiamare
nemico.”
Spostati, ragazzone.” lo mise in guardia Loki, il gomito ora teso all'indietro, il profilo della freccia a baciare la guancia striata di pioggia “Ti stai frapponendo tra me e la mia giusta vendetta.”






B e n e v o l o


Pagina e inchiostro.
Tabula rasa.
Foglio bianco, senza confini.
Non ha inizio né fine questa mia coscienza che non ha coscienza di sé.
Non ho parole da scrivere.
È tutto così...Distante
La mia mente.
Mia?
E' vuota.
Qualcuno parla.
E' una eco.
Mi riporta il suono il pozzo infinito del nulla.
Cammino su cerchi concentrici di voci.
Al centro esatto della mia volontà svuotata il ginocchio si piega.
Mi inchino.
Mi genufletto
Mi prostro.
Non ho volontà se non quella che mi è imposta.


Coordinate Sconosciute.
Velivolo dello S.H.I.E.L.D.
2013.


Cosa facciamo, adesso?”
Si erano riuniti tutti attorno al tavolo, per decidere un nuovo piano, una nuova strategia.
Melinda aveva impostato il pilota automatico, mentre Skye, insieme a Fitz, si era premurata di legare Ward il più stretto possibile e rinchiuderlo nel Modulo di Contenimento. A buon conto, comunque, Leo aveva messo al tappeto il gnaulante Grant con un colpo di
Night-Night Gun -E l'hacker si era astenuta dal domandare a quanto stesse il rapporto tra azione necessaria e soddisfazione personale.
Jemma aveva tentato di tracciare una pista che li conducesse a Coulson a partire dal suo DNA, ma egli, ovunque fosse, era ben schermato ed ogni modello teorico, ogni ipotesi, ogni calcolo si era rivelato inutile.

Se l'HYDRA ha preso il controllo dello S.H.I.E.L.D---” Fitz non riuscì a finire la frase.
Nessuno di noi è più al sicuro.” completò per lui Simmons “E la chiamata al Triskelion è di certo una trappola.”
Una trappola in cui noi dovremo fingere di cadere.” sentenziò May, incurante delle tre paia di occhi schizzate a fissarla, allibiti “Possiamo fidarci unicamente di noi, noi tutti in questa stanza. Dobbiamo impedire all'HYDRA di lanciare InSight.” si girò verso l'hacker “Skye, trova un modo per disattivare il loro programma e fatti aiutare da Leo. Jemma.” la giovane annuì “E' probabile che Ward sia la nostra chiave per entrare al Triskelion senza essere scoperti -Quantomeno non subito. Estrapola una traccia vocale, le impronte digitali, tutto quello che ci permetterà di superare i controlli di base.”

Nella tensione generale, Skye alzò la mano.
E Coulson?” domandò “E' sicuramente in pericolo e forse ignaro di tutto quello che sta succedendo. Non possiamo abbandonarlo.”
La donna inclinò il volto, le braccia incrociate sotto al seno. Il suo volto era imperscrutabile.
Sono ormai sicura che l'indizio su cui Phil è stato chiamato ad indagare sia legato alla morte del Direttore. E che quest'ultima sia stata orchestrata dall'HYDRA.” disse “Se c'è un posto dove abbiamo più possibilità di ritrovarlo, quello è il Triskelion.”
Bene, allora.” Leo si schiarì la gola e si strofinò le mani, forse per simulare una sicurezza che non aveva “Entriamo, liberiamo Coulson e salviamo il mondo. Ho dimenticato qualcosa?”
Sì.” replicò May “Evitiamo di farci uccidere. A differenza della loro la nostra testa non ricresce, una volta tagliata.”



B e n v e n u t a



Grido.
Non lo so.
Urlo.
Forse.
Sono vuoto.
Dolore.
Mi riempono di dolore.
Mi colmano di sofferenza.
Di parole.
Parole che mi piegano.
Parole che mi cancellano.
Ho mai avuto ricordi da cancellare?
Colori da sbiadire?
Una vita da riscrivere?



Asgard.
Prigioni.
2013.


Sangue.
Il sangue colava dalle braccia e dalle gambe e dal petto. Ustioni e pus gli tappezzavano la pelle. Cenere cadeva dai lembi della divisa e dai capelli. Le sopracciglia erano una macchia indistinta sopra gli occhi, la cui sclera era rossa di lacrime e di fumo.
Arrancò in avanti e gettò la testa della guardia ai piedi della cella.
Dietro di essa, Loki Laufeyson dilatò le narici, rilasciò uno sbuffo divertito.
Sorrise.

Sei davvero riuscito ad arrivare fin qui.” commentò “Mi complimento. Credevo che mio fratello ti avrebbe inchiodato col Martello al suo altare di folgori.”
Un rantolo annaspante, un suono inarticolato, la bocca formicolante, la lingua incapace di arrotolare le lettere contro il palato.
Se si era salvato, era stato per l'urlo di Sif.
Thor aveva abbassato Mjolnir prima del colpo finale e lo aveva abbandonato nella sua pozza di sangue diluito, stramazzato a terra dopo che l'ennesimo fulmine gli aveva fritto la cornea dentro il cranio. Forse convinto di averlo, se non ucciso, quantomeno reso inoffensivo, il Dio del Tuono aveva fatto roteare il Martello ed volato via nel volgere d'un baleno.
Errore da principiante.
Anche in ginocchio, era riuscito ad andare avanti. A quattro zampe, come un cane, e quando palmi e ginocchia avevano perso la presa allora aveva cominciato a strisciare, più verme che serpe, spingendosi in avanti coi gomiti, le dita, i polpastrelli. Aveva trovato un punto per recuperare il fiato, ricordarsi come respirare, fare una stima dei danni, delle ossa rotte, dei traumi, delle contusioni.
Quindi era ripartito di nuovo, con la testa che doleva e la visuale ridotta ad un puntolino non più grande dell'unghia del mignolo.
Le ultime energie che possedeva erano state spese per farsi dire come aprire le celle dei prigionieri ed uccidere il loro carceriere.
La parete divisoria ebbe un guizzo, quindi si disattivò e scomparve.
Loki, le mani dietro alla schiena, mosse prima un piede e poi l'altro, le pantofole che non emettevano suono nel loro morbido scivolare sulla pietra.

Sei stato bravo.” disse, all'arciere e sorrise, tendendo la mano alla sua guancia “Mi hai servito bene.”
Nell'istante in cui le dita di Loki gli toccarono la pelle, Clint spalancò la bocca alla ricerca di aria. Così come era stato bandito dal suo corpo, ecco che ci faceva ritorno, come un elastico tenuto teso troppo a lungo e poi rilasciato in un attimo, con il riverbero del rinculo che minacciava di spezzarlo. Sbatté le palpebre, gli mostrò i denti, in uno sprazzo di lucidità cercò di mettergli le mani al collo----Ma Loki fu più rapido e lo abbattè con un pugno.
Rise, mentre il corpo dell'altro si accasciava a terra.

E ora.” sussurrò “Che inizi il Secondo Atto.”




U n o

Sono mai morto.
Non ricordo di essere morto.
Sono mai vissuto?
Non ricordo di aver vissuto.
Sono mai esistito?
Non ricordo di essere esistito.
Non ricordo.
Non.
Ricordo.
Chi sono.
Se sono.
Se.
Sono.
Mai.
Stato.
Sono.
Solo.
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.

Vuoto

Vuoto


Vuoto


Vuoto


Vuoto.
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Aiuto
.
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Aiuto
.
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Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.








V a g o n e M e r c i


Località Sconosciuta.
2011.


Alexander Pierce si avvicinò.
Sorrise.

Gli avevano tolto il morso dalla bocca e le labbra si erano chiuse, una linea dritta, spianata, senza fossette, senza rughe. Gli occhi avevano una fissità vacua, in attesa che qualcuno dicesse loro
cosa vedere, chi vedere, quando vedere. Non c'era più alcuna tensione nei muscoli delle braccia o della schiena o delle gambe. Vaghe scosse elettriche si rincorrevano attraverso le falangi, a mero riflesso delle scariche che si erano susseguite durante il processo di indottrinamento -Pierce aveva osservato tutto, senza spostarsi di un millimetro, e i piedi indolenziti valevano la pena delle ore trascorse a guardare gli spasimi di quel corpo farsi di volta in volta sempre più radi, sempre più miseri, patetici, la sua volontà indomabile, irreprensibile, scardinata brano a brano dalle ossa e dai nervi, fino a che di lui non era rimasto nulla se non una bambola, priva finanche del desiderio di essere mossa.
L'uomo inspirò l'odore acre della stanza, del sudore, provando un piacere quasi fisico, osceno, da orgasmo, e si chinò, davanti a lui, attese che l'iride azzurra di spostasse, che la pupilla lo mettesse a fuoco.
Alexader Pierce sorrise.

Buongiorno, Capitano.”
Steve Rogers non batté nemmeno le palpebre.
“Pronto ad obbedire.”

















A i u t o.


































Note

Cioè. Cos—Quanti anni sono passati..?

OH SHIT.

Se avete piacere passatemi pure a trovare qui!

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Capitolo 14
*** { Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 } ***


ood13

{ Affonda I Denti nella Mia Carne – File 13 }


Strada del Tennesse.
Macchina rubata presa in prestito.
2013


Avevano lasciato Harley a Rosehill, una figuretta intabarrata nel giaccone, gli occhi volti nella loro direzione, a pregare entrambi di non abbandonarlo, di portarlo via da lì.
Niente da fare, ometto, era stata la risposta di Colin, E' pericoloso, dove stiamo andando.
La verità era che non avevano la benché minima idea di dove stessero andando.
Hendrick si era messo al volante e aveva dato gas, uscendo dal paesino il più in fretta possibile. Non appena l'ombra di Harley s'era assottigliata fino a sparire, l'Agente aveva sospirato e quel sorriso compiacente, quasi dolce, che aveva rivolto al bambino aveva lasciato il posto ad un'espressione immobile, determinata -Quasi fredda. Non aveva chiesto niente a Tony, non gli aveva rivolto la parola, si era immesso sulla prima strada disponibile e adesso guidava e guidava e guidava, il paesaggio che scorreva oltre i finestrini, stracci appannati imbevuti di nevischio, luci e pioggia.
Tony non aveva intenzione di rompere il silenzio, né di tendere la mano per primo -Figurarsi porgere l'altra guancia. Con la fortuna che aveva, probabilmente l'altro gli avrebbe tirato un ceffone tanto forte da fargli girare la testa a trecentosessanta gradi come un gufo.
Si teneva occupato guardando un po' la strada, un po' i fascicoli rubati alla signora Davis, un po' Hendrick, il suo profilo delineato dal bagliore delle auto che passavano loro accanto, la piega della mandibola, il lampo intermittente dell'iride azzurra, le nocche bianche, ancorate al volante.

Ti piaceva Chuck Norris, da ragazzino?”
La maschera indifferente di Colin s'incrinò e le sopracciglia si contrassero.
Cosa?”
Chuck Norris. Sai, Walker Texas Ranger.”
Non ho idea di cosa tu stia parlando.”

Stark arricciò la bocca per lo sdegno e si battè la cartelletta color pulce sul ginocchio.
Mi spieghi che razza di creatura sei, Hendrick? Non leggevi Capitan America, non guardavi Walker Texas Ranger...Non che io voglia conoscere i tuoi sordidi ed oscuri segreti puberali, ma come accidenti occupavi le tue giornate di adolescente?”
La risposta di Hendrick fu un mero spallucce -E a Tony quel gesto parve piuttosto strano: avrebbe dovuto significare una certa noncuranza o una cosa del tipo Ma, boh, cose così, come fanno tutti, ma la fronte si era corrugata e gli occhi erano andati per un attimo fuori fuoco. In quell'istante, in quel preciso momento, non solo non era riuscito ad acchiappare l'immagine che cercava, pareva non avere davverp idea di cosa facesse da ragazzino per divertirsi.
Il tassello di luci sul suo viso si era scomposto, frammentato, uno dei pezzi aveva perso l'incastro e poi, ecco, in meno di un secondo, un battito di ciglia, era ritornato come prima -Solo una goccia di sudore era scivolata, non vista, dalla tempia dietro l'orecchio.

Perché questa domanda, all'improvviso?”
Il magnate, che s'era inconsciamente sporto verso di lui, tornò ad accomodarsi sul sedile.
“Ho ripensato al modo in cui hai steso quell'energumeno.” rispose Stark, squadrandolo da sotto le ciglia “Un autentico calcio rotante alla Chuck Norris.”
L'espressione dell'Agente da perplessa mutò in fastidio.

Sei veramente impossibile.” sibilò “Ti ho salvato la vita, di nuovo, e ancora hai da ridirne. Sembra quasi che ti stia mettendo i bastoni tra le ruote, invece di aiutarti.”
E' il modo in cui lo fai, Hendrick.”
Intendi il calcio rotante? Allo S.H.I.E.L.D.---”
Lascia perdere il calcio rotante.” sbottò allora il magnate “Per quale motivo sei qui, Hendrick?”
Che razza di domande sono? Sono qui per proteggerti. E' la mia missione.”

Tony inarcò il sopracciglio e dalla bocca sfuggì un verso sarcastico, acido.
Per proteggermi? La tua idea di protezione è quella di farmi da chaperon?”
Se ti impedisce di ficcarti in qualsivoglia situazione dall'alto potenziale suicida, allora sì!” Colin sollevò le mani dal volante, esasperato, e subito riprese il controllo “Dio mio, Tony, non sono io ad aver dato il mio indirizzo di casa in mondovisione, sfidando un terrorista egomaniaco a venirmi a prendere! Io sono quello che ti ha salvato da morte certa più di una volta!”
Già.” il tono di Stark s'era fatto amaro, adesso. Teneva la mano sinistra sui fascicoli, la mano destra sulla maniglia della portiera “Il mio mondo è in frantumi. Happy e Rhodes sono morti, non ho più notizie di Pepper. Persino monocolo Fury se n'è andato e lo S.H.I.E.L.D è compromesso. Vedova Nera, Occhio di Falco, Thor, il Gigante Verde...Non ho modo di contattare nessuno di loro. Sono qui, chiuso in macchina, su una strada dimenticata da Dio, da solo con te.” socchiuse le palpebre, il battito cardiaco che accelerava contro la gola e dentro ai polsi “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato tu. Ci sei sempre tu.”

L'iride azzurra di Colin si mosse tra le ciglia bionde a cercare il suo sguardo.
Toc. Toc. Toc.
La freccia che scoccava verso una piazzola di sosta, l'auto che seguiva docile la curva del volante, i pneumatici che trangugiavano e ciancicavano il ghiaino ed il sale mescolati sull'asfalto.
Hendrick spense la macchina, appoggiò le spalle contro il sedile.
Chiuse gli occhi e prese un respiro.

Quindi.” esordì, le mani aperte sulle cosce, perché Tony le avesse bene in vista “Il succo di questo discorso farfugliante è che non ti fidi di me?”
Non mi fido di chi non ha un lato oscuro” replicò Stark, il corpo già teso, la mente già pronta ad elaborare un piano di fuga “Sono uno all'antica.”

Hendrick piegò il viso sul poggiatesta, sulla bocca una traccia di sorriso che il magnate non seppe interpretare. Non replicò alla sua accusa. Se ne stette lì, nella penombra, a guardarlo, a fissarlo, mentre il nervosismo serrava il respiro di Tony e gli bloccava i polmoni e istupidiva il pensiero e appesantiva le gambe.
Perchè sei qui?” domandò di nuovo e le sue parole parvero aggiungere condensa a quella che già appannava il parabrezza.
La risposta potrebbe non piacerti.”
Tu dammela lo stesso.”

Il tempo si sospese, si dilatò nel colmarsi dello spazio tra i loro respiri.
Poi furono soltanto le labbra di Colin, ruvide, calde, che si schiudevano sulle sue.


Triskelion, Washington D.C.
Ufficio di Alexander Pierce.
2013.


Almeno la vista dall'ufficio di Pierce era ottima: le vetrate coprivano un terzo della stanza, già di dimensioni ragguardevoli, e spaziavano sull'Hudson, sul suo placido scorrere sotto un cielo da cartolina. Da lì, da dietro la scrivania, o col braccio poggiato sui vetri come in quel momento, Alexander Pierce poteva decidere il fato del mondo, la vita e la morte di ognuno di loro -Gli sarebbe bastato premere un tasto, dare il via al progetto InSight e avrebbe avuto l'umanità prostrata ai piedi.
Il perché volesse fare conversazione, nel frattempo, conversazione con lui sfuggiva al senso logico di Phil.
C'era qualcosa, sotto, ingranaggi in movimento, pezzi del puzzle ancora da incastrare, fili da tirare da una parte e dall'altra...Coulson aveva la netta impressione che Pierce avesse da giocare ancora una mano, un ultimo giro, all-in.

Sa perché faccio parte del Consiglio, signor Coulson?”
Dacché due omoni tutto Heil HYDRA e manganello facile lo avevano portato lì, Pierce non gli aveva ancora rivolto la parola. E nemmeno prima di allora, prima che lo S.H.I.E.L.D. si rivelasse il tentacolare nido di serpi che era, l'uomo aveva mai avuto l'occasione di parlare con lui faccia a faccia: era consapevole del merito che Pierce aveva avuto nella promozione di Fury a Direttore e sapeva come quest'ultimo lo ritenesse una persona non di cui fidarsi, poiché Nicholas Fury non si fidava neppure di se stesso, bensì una persona cui la propria stima e riconoscenza potesse andare senza stringere troppo i denti in una pantomima di sorriso.
Oltre a ciò, Phil si scoprì ben felice di non aver mai approfondito una eventuale conoscenza.

Mi illumini.”
Non lo feci per mio desiderio. Fu Nick a chiedermelo.”

Coulson rabbrividì -Nemmeno la madre di Fury aveva mai osato chiamarlo Nick ed era la sola persona in grado di fargli mangiare i sandwich tagliati in diagonale.
Eravamo entrambi disincantati. Sapevamo che, nonostante tutta la diplomazia e le strette di mano e la retorica, per costruire un mondo migliore a volte è necessario distruggere quello vecchio.”
Dubito che Fury avesse in mente un trio di Helicarrier killer. E sono certo che la parte sulla distruzione funzionasse solo come metafora. Lo ha preso troppo alla lettera, sempre se posso permettermi.”

Alexander Pierce sorrise alla sua battuta e fu il sorriso tra i più freddi con cui Coulson avesse avuto a che fare. Il sorriso di un uomo potente, al di sopra del bene e del male, al di sopra della politica e dei sedicenti politicanti, un uomo disposto anche alla più turpe delle azioni pur di raggiungere il proprio obiettivo.
Capisco perché Nick ti tenesse in così alta considerazione.” disse, passando ad un tono più informale “E il perché ti abbia strappato alla fredda mano della morte per riaverti con sé. “
Adorava il modo in cui piastrellavo i bagni.”
Non ne dubito.” Pierce trascinò la sedia in avanti, in modo da potersi accomodare dinanzi a Coulson “Sei un uomo pieno di risorse, Philip Jay Coulson. Fury ti definiva il suo Occhio Buono.”

Phil ostentò un sorrisetto divertito.
In realtà, signore, soffro di una leggera forma di astigmatismo, ma mi è sempre sembrato scortese farlo notare al Direttore: andava fiero dei suoi nomi in codice.”
Sai per quale motivo ti ho voluto qui?”
Tutti i suoi amici dell'HYDRA erano fuori a trucidare persone innocenti e lei non aveva compagnia per il tea delle cinque?”

L'uomo puntellò i gomiti sulle ginocchia e sporse le spalle in avanti, le labbra appoggiate sugli indici uniti.
“Vedi, Phil -Posso chiamarti Phil?, Fury è...il passato.”

E quindi.” la voce di Coulson vibrò di una nota molto, molto bassa e molto, molto pericolosa “Tornando alla metafora di prima, lo hai distrutto.”
L'Agente non seppe dire se fu pena o semplicemente circostanza l'espressione che passò sul viso dell'altro.
“Non credere che per me sia stato facile. Nick era un buon amico, tuttavia il suo modo di agire e di pensare era sorpassato, superato. Affidare il futuro del mondo ad un manipolo di superuomini sarebbe stato come aspettare un tiro di dado da parte di Dio: del tutto casuale e potenzialmente letale per la razza umana.”

Il Progetto Vendicatori era stato limato in ogni dettaglio.” replicò Phil “Le loro personalità calibrate a trovare l'equilibrio perfetto. La loro storia, la loro indole, le loro capacità erano state calcolate e dosate a fronte di dieci, cento, mille variabili. Non sarebbero stati un manipolo di superuomini, niente sarebbe stato lasciato al caso! Il Progetto Vendicatori è nato per portare sulla scena mondiale degli eroi, persone straordinarie capaci di affrontare minacce e combattere battaglie per noi insostenibili.”
Alexander Pierce lo guardò per lunghi minuti, quindi levò i palmi delle mani e li batté tre volte tra loro, in un lento, sardonico schernire.
Un discorso edificante.” gli concesse “Mi complimento. E dimmi, dopo aver creduto tanto strenuamente in questi sedicenti eroi, dopo essere addirittura morto per loro...Dove sono finiti? Perché non sono qui a salvarti, a fermare l'HYDRA, a bloccare InSight?”
Coulson contrasse la mascella e tacque.
Pierce gli rispose con un arcuarsi veloce delle labbra -Un bagliore trionfante nel fondo degli occhi.

Permettimi di sottolineare quanto vana sia la tua speranza. Bruce Banner è uno degli obiettivi primari di InSight e sarà tra i primi ad essere cancellato dall'equazione. Occhio Di Falco è una bomba mentale ad orologeria, una marionetta con cui Loki ancora si diletta e si balocca -Un nostro Agente esterno, diciamo, attivo sul suolo Asgardiano. Tony Stark sta seguendo passo dopo passo il cammino che abbiamo tracciato per lui e se malauguratamente dovesse deviare dal sentiero che gli è stato imposto, il nostro più letale soldato si occuperebbe della sua sparizione -Questa volta in maniera definitiva. Lo stesso Thor.” aggiunse “Presto non costituirà più un nostro problema. Vedova Nera subirà lo stesso destino di Banner—Non capisci, ancora? Il vostro Progetto Vendicatori non è che una fallace lettura di tarocchi. Sei stato sgozzato inutilmente su altare idolatro: il tuo sacrificio sarà pure servito nella breve distanza, ma senza un collante, senza un leader, i tuoi pedoni sono andati alla deriva, uno dopo l'altro.” un sorriso accondiscendente “L'algoritmo Zola, al contrario, è pura perfezione.”
Phil avrebbe tanto voluto agire in modo improvviso e molto, molto stupido: avvertiva il bisogno quasi fisico di muoversi d'impulso, di sfruttare la forza che gli era rimasta per scattare, catapultarsi in avanti e deviare il setto nasale di Pierce con una testata alla James Kirk. Ogni parola che usciva di bocca all'uomo gli dava la nausea e gli torceva le budella -Non fosse stato per Vedova Nera e per Clint, Dio, Clint, incastrato nel claustrofobico labirinto della sua mente, del suo lutto, della sua pazzia, Clint che nei suoi ricordi ancora rideva e gli faceva l'occhiolino e gli prendeva la mano, di notte, per dirgli che sarebbe andato tutto bene, se non fosse stato per loro avrebbe rischiato la vita anche e solo per la soddisfazione di spaccare il labbro di quell'idiota e provocargli un bell'occhio nero.
Non può essere perfetto. E' impossibile. Nessun algoritmo, per quanto geniale, può portare ad un simile risultato.”
L'algoritmo di Zola può. È in grado di leggere ogni riga del libro digitale che è diventato il ventunesimo secolo, di calcolare ciò che è stato e ciò che sarà, per distruggere qualsiasi ostacolo, qualsiasi minaccia capace di opporsi all'HYDRA, oggi e in futuro.”
Sai.” intervenne l'Agente “Ero convinto che il nemico aspettasse sempre l'ultimo momento per svelare il suo piano malvagio. Il tuo bel discorso mi rincuora, significa che presto ti vedrò sconfitto.”
Temo che qui non si tratti di uno di quegli sceneggiati che tanto ami, Phil.” Pierce parve quasi mostrargli i denti “Ti ho detto dell'algoritmo Zola e di InSight per un motivo ben preciso.”
Sono tutto orecchi.”
Ti concedo un'ultima possibilità prima di essere irrimediabilmente piazzato nella Lista dei Cattivi. Prendi il posto di Fury, diventa il nuovo Direttore dello S.H.I.E.L.D. e collabora con me, lavoriamo insieme per costruire il nuovo mondo sulle ceneri del vecchio.”

Tra le varie virtù per cui Coulson era diventato famoso c'era la sua ormai iconica pazienza.
Tuttavia, in quel frangente, nemmeno gli anni trascorsi come A.S. dell'Agente Barton valsero a fermare la sua reazione: scoppiò a ridere.
Sguaiatamente.
Alexander Pierce attese che finisse, prima di tornare a parlare.

Potrai credermi pazzo, ma anche io, come Nick, vedo in te molto più di quanto permetta la vista e sono certo che lui per primo ti avrebbe designato come erede alla sua morte.” si alzò dalla sedia, le mani sulle ginocchia, il volto allo stesso livello di Coulson “E' il passato delle persone a predire il loro futuro, Phil. Tu sei morto e sei rinato a nuova vita: puoi decidere tu, adesso, in questo stesso istante, la variabile che ti inserirà o meno nel Programma InSight. Lascia perdere le idee retrograde di Fury, dimentica i Vendicatori: gli eroi non esistono. Io e te sappiamo cosa vuol dire sporcarsi le mani e sacrificare ogni cosa, sacrificare se stessi per il mondo: InSight è la sola salvezza dal caos, l'unica via che porterà all'equilibrio e all'ordine definitivo, eterno. Cosa ne dici?”
La risposta di Phil fu uno sputo, un grumo schiumoso di saliva che andò a colpire l'uomo proprio alla congiunzione delle sopracciglia.
Mi dispiace, Pierce.” disse “Io credo ancora negli eroi.”


Strada del Tennesse.
Macchina rubata presa in prestito.
2013


Era stato il primo uomo con cui era andato a letto?
No.
Era stato il sesso migliore della sua vita?
Nemmeno.
Era stato doloroso?
Assolutamente sì, Cristo.
Tra loro non c'era stata ricerca di dolcezza alcuna, non moine, a stento baci, ma i denti di Colin gli avevano marchiato la pelle e la carne così tante volte che Tony si era ritrovato a pregare di morire dentro la sua bocca, di liquefarsi nella sua lingua e tra le sue guance, giacché altrimenti non avrebbe più trovato un posto in cui l'altro avrebbe potuto lasciare il proprio segno.
Dammi mille morsi, poi cento, poi ancora mille, poi di nuovo cento, mordimi, mordimi, mordimi, affonda i denti altre migliaia di volte, mentre m'inarco, mentre perdo fiato e sensi e vertigine, mille, mille, mille volte, confondi carezze e graffi, soffocamento e abbraccio, mano alla gola ed al viso, dita strette al collo, dita serrate alle dita, le spalle a sovrastare l'ombra dei corpi intrecciati, la pelle che puzza di sudore e di morte, aggrappati a me con le unghie, io ti strapperò il respiro e dei tuoi ansimi farò strage, scempio di te entro la coppa dei palmi aperti, sulla lingua carne e cuoio, il sedile premuto contro la guancia, la maniglia conficcata tra le scapole, strappa dalle viscere e dallo stomaco e dall'inguine ansimi e guaiti e gemiti, accorda con la mia voce un suono gutturale di bestia, voglio sentire, voglio soffrire, voglio pregare, voglio toccare la morte con la mano e poi scivolare, di più, ancora di più, ancora e di nuovo, mille volte, cento, ancora mille e poi di nuovo cento, ancora, ancora, ancora—Oh, Dio.
Riaprì gli occhi e li richiuse subito.
Il dolore gli aveva sferzato la testa, uno schiocco di frusta in mezzo alla fronte -Era certo di non aver provato una simile fitta nemmeno dopo le peggiori sbronze.
Aveva male, male ovunque, e aveva un freddo cane. I jeans arrotolati alle caviglie gli avevano bloccato la circolazione, al punto che i piedi sembravano percorsi da migliaia di formiche; aveva la lingua impastata, la gola che bruciava e, per l'amor del cielo, non tentò nemmeno di mettersi a sedere. Agguantò con una mano il poggiatesta del sedile del passeggero e cercò quantomeno di issarsi, in modo da trovare una posizione più comoda e togliersi Colin di dosso.
Hendrick se la dormiva beato, coi capelli biondi scarmigliati sulla fronte, il torace e le spalle nude; lungo la spina dorsale, le scapole, il bacino una ragnatela di cicatrici. Tony le aveva toccate tutte mentre l'altro pizzicava finanche la più bassa nota del suo essere ed aveva sperato, forse, che sotto i polpastrelli la sua storia sarebbe venuta a galla, come nodi d'un arazzo. Ne aveva una particolarmente spessa sulle vertebre, una scudisciata bianca, non troppo recente, ed una molto, molto vecchia, che sotto le dita aveva assunto la forma di un foro di proiettile, bombato come una minuscola palla.
Stark gemette e si coprì il volto con la mano.
Avrebbe dovuto annoverare il sesso in macchina con un Agente di Livello Sei dello S.H.I.E.L.D. tra le pessime, pessime idee, con l'aggravante della strada sperduta in Tennesse e l'essere braccati senza sosta da un terrorista egomanico -Sì, quella definizione gli era piaciuta.
Fece scivolare il bacino all'indietro, serrando i denti e le palpebre. Sperava solo che nel marsupio di Mary Poppins dell'Agente ci fosse un analgesico od il viaggio, da lì in poi, sarebbe potuto rivelarsi piuttosto problematico.
L'ennesimo sospiro, mentre si sosteneva la fronte con il pugno.
Doveva imparare a contare fino a dieci.
Finire ad amoreggiare con la sua autoproclamata guardia del corpo non avrebbe portato alcun beneficio alla situazione, anzi. Tony aveva accolto il tutto come una cura palliativa, un modo per spegnere il cervello, far raffreddare il server, quindi riavviare il sistema e ritrovare la propria lucidità. Nulla, se non il bisogno della carne che chiama la carne, lo aveva spinto a cedere sotto il corpo dell'altro, ad agguantargli il volto, afferrargli i capelli, tirarli per costringerlo a mostrare il pomo d'Adamo ed il lampo della clavicola, il principio del petto, niente se non l'adrenalina, se non la necessità, se non la brama di annegare, toccare il fondo del baratro, darsi la spinta e poi risalire ad infrangere con la testa la sottile cresta della realtà.
Il risultato? Il peso dell'altro gli stava anchilosando le gambe e non sentiva più le ginocchia, c'era un odore alquanto sgradevole in macchina, e nella fretta avevano fatto cadere il fascicolo del soldato Davis, i cui fogli erano tutti mescolati e sparpagliati tra i pedali, la leva del cambio e la maglietta dell'Agente.
Allungandosi quel tanto che poteva nonostante l'ingombro l'occhio cadde su una sigla, scritta a mano, sul bordo di uno dei file: MIA.

MIA?” il magnate girò il foglio ed il senso di quelle tre lettere contribuì ad aumentare il mal di testa in maniera esponenziale. “AIM.”
Avanzate Idee Meccaniche?

Tony sussultò
Colin era sveglio, sveglissimo, e lo stava fissando da sottinsu, gli occhi azzurri e innocenti sotto la frangia, un lato del viso ancora premuto sul suo ventre, il respiro che gli solleticava l'ombelico. Raggelato in una specie di buffering emotivo, Start permise all'altro di sollevarsi, tendersi e baciargli la spalla nuda, mentre adocchiava anche lui la scritta a pennarello.

Non sono gli stessi che hanno modificato l'armatura per l'esercito? L'Iron Patriot?”
...Scusami?”

Torcendosi contro i sedili posteriori per non gravargli addosso, Hendrick gli sfilò il file di mano.
Ma sì, non ricordi? Avrebbe dovuto guidarla il Colonnello Rhodes.”
Non sto parlando dell'Iron Patriot.” replicò Tony, la cui voce aveva assunto una lieve nota di panico “Ma di questo.” ed indicò il punto in cui le labbra dell'Agente erano sostate poco prima.

L'altro quasi rise, scuotendo il capo, leggendo da cima a fondo il contenuto del foglio, accartocciandolo contro il palmo e buttandolo infine ai loro piedi.
“Non voglio sentire una parola circa il tuo terrore del contatto fisico non richiesto, non dopo quanto è successo.”
Stark provò a replicare, ma il lato pragmatico del suo cervello, una sorta di salvavita che si attivava meno spesso di quanto avrebbe dovuto, gli consigliò di lasciar perdere.

Dobbiamo entrare nei loro sistemi.” disse “Ho ancora l'ID di Rhodey e la sua password. Ora ci serve soltanto un computer da cui accedere.
Un sorriso scaltro si profilò sulla bocca ancora rossa di Hendrick.
Sai, poco fa abbiamo passato il Concorso Natalizio di Miss Chattanooga.”
Almeno fammi rimettere i pantaloni, prima di sfogare su una giovane donzella i tuoi dubbi sessuali, Agente.”



Località Sconosciuta.
2011


La stanza era stretta, vuota, grigia.
Bruno era lì da ore, costretto in ginocchio, con la gola sempre più secca e la netta sensazione che di lì a poco o avrebbe vomitato, o non avrebbe più avuto uno stomaco per farlo.
Una goccia di sudore colò dai capelli alla tempia.
Era troppo tardi per pentirsi, ma si chiese lo stesso se sarebbero stati clementi: forse tenerlo chiuso lì dentro, per un tempo indefinito, senza cibo o acqua, forse era quella la sua punizione. In fondo, non aveva fatto nulla, letteralmente, ma non con cattiveria! Era davvero convinto che la sua piccola banda a Little Italy avrebbe potuto scalare la gerarchia, dritti fino al vertice della piramide, ma i soldi che l'HYDRA gli aveva dato non erano abbastanza, non con Yannicck Doppietta che si sarebbe fatto persino le strisce pedonali, e Angel che voleva diventare una modella e per rimanere magra si era votata ad una dieta di coca e sigarette elettroniche, e Ninì, la sua bella Ninì che voleva operarsi e se si fosse operata, gli aveva promesso, oh, se lui le avesse dato i soldi per operarsi lei gli avrebbe schiuso le gambe, a lui, proprio lui, proprio a Bruno dai riccioli rossi che beveva vino e cantava O Sole Mio con la passione d'un gatto innamorato, a lui avrebbe mostrato per primo la piccola fica che le avrebbero costruito tra le cosce.
Quindi, insomma, non era colpa sua. Non era colpa neanche degli altri. Loro avevano i loro bisogni e cercare di fare le scarpe ai poco di buono di Little Italy mica era facile, c'era gente che faceva il mafioso già nella culla, mentre lui ci aveva pensato da poco, a quel progetto, e i soldi che l'HYDRA gli aveva dato erano parecchi, sì, erano un bel gruzzolo, ma non abbastanza, perché un progetto funziona bene e va in porto soltanto se c'è un team felice, dietro, a supportarlo, e per rendere felice il suo team Bruno aveva bisogno dei soldi per la coca e l'eroina e l'operazione di Ninì e i suoi antidolorifici, perché se bella vuoi apparire un po' devi soffrire, Brunello mio adorato, e io voglio essere bella, ma non sono mica scema, mica sono una martire.
Uno scrollone gli fece rialzare il volto -Doveva essersi addormentato o doveva essere crollato o svenuto o chissà cosa. Aveva cominciato ad immaginarsi Ninì che gli mostrava i bei seni e le cosce e il tempo si era diluito tra le sue gambe, scivolando nelle sue labbra umide.
Davanti a lui stavano due uomini: uno, a destra, era basso e ben vestito, si vedeva che era una persona ammodo e abituata a comandare da come portava il gilet di grigio e aveva le scarpe lucide, a punta, il genere di scarpe che Bruno aveva sognato di portare insieme ad una giacca bianca e larga, insieme a tanti anelli d'oro e un crocifisso enorme sul petto e gli occhiali da sole. L'uomo accanto al tipo basso era la persona più immobile che il ragazzo avesse mai visto.
Immobili gli occhi, immobili i muscoli, immobile il respiro, immobile il volto e qualsiasi espressione su di esso.

Steven.” disse l'uomo col gilet “Permettimi di presentarti un giovanotto assai intraprendente, il signorino Bruno Chianti. I suoi amici gli hanno dato un soprannome davvero adorabile, sai? Lo chiamano Lambrusco.
Pari a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono addosso.
Un liquido caldo impiastricciò i pantaloni della tuta di Bruno, dalla cui bocca cominciò a ruzzolare un grumetto di suoni indistinti, di singhiozzi, di preghiere, a loro, a Dio, a sua madre, a Ninì, che avessero pietà, pietà, per favore, avrebbe spiegato, avrebbe spiegato loro tutto, vi prego, vi prego, non uccidetemi, vi prego.
Il tipo col gilet appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo e, vista la presa, certo non lo fece per conforto. Le unghie scavarono la carne e Bruno, come un cane ben addestrato, tacque.

Vedi, Steven.” continuò allora, con la sua voce carezzevole “Noi ci aspettavamo grandi cose da Bruno, qui. Ci eravamo convinti che sarebbe divenuto buono col tempo, proprio come il vino, e invece, ahimè, la sua annata deve essere stata proprio pessima, perché è diventato fin da subito aceto.”
Bruno pigolò, guaì, lo stomaco strizzato, il piscio che gli insozzava le cosce.
L'intraprendenza non è niente senza disciplina, Steven. Senza rigore. Ogni azione sbagliata, non appena compiuta, genera di per sé una punizione eguale. Prendi il coltello, da bravo.”
Prima che potesse impedirlo, Bruno avvertì gli intestini svuotarsi in un colame maleodorante. Il tipo col gilet storse il naso, mentre la faccia di Steven continuava a rimanere neutra e gli occhi persistevano ad inchiodare il ragazzo a terra, mentre il braccio destro si spostava, la mano raggiungeva la cintola, le dita afferravano il manico del coltello.
Voglio che tu lo punisca, Steven.” il tipo con il gilet tolse la mano dalla spalla di Bruno e questi, ormai raggelato, emise un singhiozzo “Voglio che gli tagli la gola. Voglio che tu lo uccida.”
Il giovane scoppiò a piangere, a gridare, lacrime e muco mescolate sulle guance e sulla bocca spalancata ad un vomito di parole e di preghiere, ancora, di urla, di strilli, di fiato ripreso a sorsate rumorose.
Steven, allora, spostò gli occhi per la prima volta da lui e Bruno lo vide contemplare il coltello, poi di nuovo lui, poi il coltello, ancora, mentre alle ciglia saliva un'espressione pari all'orrore e il corpo si tendeva all'indietro, quasi a volersi allontanare, sebbene i piedi si ostinassero a rimanere ben ancorati a terra.

Steven.” lo richiamò il tipo col gilet “Ti ho detto di ucciderlo.”
Ancora silenzio, ancora la figura del suo carnefice tentennava ed il suo sguardo perdeva freddezza, recuperava umanità.
Bruno si tese in avanti, rapido, lesto, crollò col volto sul cemento, ma non smise di dibattersi, di piangere, di implorare.

"No!” urlò “Per l'amor di Dio non lo fare! Salvami! Salvami! Ti prego, ti prego! Non uccidermi! Non uccidermi! Abbi pietà! Non voglio morire! Non voglio! Non voglio morire! Non voglio morire! Non voglio morire!”
Steven!” abbaiò allora il tipo col gilet, rosso in viso “Uccidilo! E' un ordine!”

Si dice che il cervello impieghi alcuni secondi, prima di spegnersi.
Bruno li contò uno ad uno -Oppure si ritrovò semplicemente a contare le lacrime del suo carnefice che gli picchiettavano sul viso, una ad una.



Tennesse.
Concorso Natalizio di Miss Chattanooga.
2013


Fuori dal Liceo che ospitava il Concorso Natalizio di Miss Chattanooga era posteggiato un variegato assortimento di auto e di van: della polizia, dei pompieri, del primo soccorso, delle emittenti televisive che l'un con l'altra si rimbalzavano la palla di questa o di quella favorita, e ciacolavano di quanto fossero belle le illuminazioni, quanto fosse freddo l'inverno, quanto calorosi i voti dei giudici e gli applausi degli spettatori.
Con un rotolo di cavi sulla spalla, il capello e lo sguardo basso, Tony superò un paio di pompieri e di addetti ai lavori con l'aria di chi sa esattamente dove sta andando, cosa sta facendo e di chi non si farà fermare da niente e da nessuno per portare a termine il proprio lavoro. Il tutto il prima possibile e in tempo per la cena.
Colin caracollava subito dietro di lui, una valigetta degli attrezzi in mano e un cappellino con visiera calato sul volto che diceva a tutti: Ehi, guardatemi, sto cercando di passare inosservato.
Di buono c'era che non aveva minimamente accennato alla loro sessione di allenamento in macchina, né aveva cercato, fuor di quel bacio sulla spalla, un secondo contatto. Certo, Stark lo aveva colto sul fatto mentre lo osservava, sornione come lo Stregatto, oppure mentre, cambiando marcia, il filo delle nocche arrivava a sfiorargli la coscia.
Dubitava che l'Agente avesse per lui un qualche serio interesse, ma già il trovarsi a rimuginare sulla questione lo innervosiva parecchio.
Stark attese che il tizio davanti al van di Live Channel Five si togliesse dai piedi, quindi montò e si piazzò subito davanti ai monitor, staccando uno dei jack mentre Hendrick chiudeva i portelloni alle loro spalle, si toglieva il capello e passava le mani tra i capelli, a sistemare le ciocche bionde.
Sfortuna volle che la velocità di connessione fosse troppo lenta per il loro bisogno e nell'attimo in cui Colin, richiamato dal borbottio del magnate, gli si fece vicino per controllare lo schermo, clank, tlung, clonk--

Ne abbiamo già parlato.” era il tizio con occhiali e capello, le lenti brillanti d'un riflesso zafferano, l'espressione scocciata in volto “Mi scusi, signore, non so chi lei sia...”
Tony si voltò subito, l'indice alle labbra, il movimento della sedia girevole a coprire la mano di Hendrick che si allungava all'indietro, sul tavolo da lavoro, ad afferrare un cacciavite a stella.
L'espressione dell'addetto ai lavori mutò in adorazione e sorpresa, spalancò la bocca come un bambino davanti all'albero di Natale, la voce più rapida, balbettante, Mamma ti devo richiamare, sta succedendo qualcosa di magico...!

Basta una parola e lo tramortisco.” bisbigliò Colin, all'orecchio del magnate “Sarò delicato, non se ne accorgerà nemmeno. Il segno del cacciavite gli rimarrà per tre, quattro giorni al massimo.”
Lascia fare a me.” fu la replica di Tony, tra i denti, incastrata in un sorriso di repertorio “Abbassa la voce.” disse, cercando di zittire l'uomo ed il suo nuovo mantra -Tony Stark è nel mio furgone...! Tony Stark è nel mio furgone! “Non è vero.”
Sapevo che eri ancora vivo!” esclamò l'addetto ai lavori e quando Stark gli fece cenno di salire non se lo fece ripete due volte, chiuse i portelloni e rimase un paio di secondi così, adorante, con gli occhi strabuzzati, la bocca aperta ad un circolare wow.
Posso dire, signore--”
Sì..” e Tony avrebbe voluto far tacere sia il farfugliare esaltato del tizio sia la risata tossicchiante di Colin, dietro le spalle.
Sono il suo più grande fan!”
Oh, cielo.” fu il commento a mezza bocca dell'Agente “Una groupie.”
Allora.” Stark richiamò l'attenzione dell'addetto ai lavori su di sé “Questo è il tuo furgone o entrerà qualcun altro?”
No, no, no, solo noi due, cioè---Noi tre, insomma, lei è uno dei Vendicatori?”

Colin rise a quella domanda, ma ebbe la buona creanza di camuffare il tutto dietro la mano chiusa a pugno.
No, io sono--”
Il mio autista.” tagliò corto Tony “Ti chiami?”
Gary.” si presentò l'uomo e Stark, buon viso a cattivo gioco, gli tese la mano e la strinse -Per sua sfortuna l'addetto ai lavori percepì il gesto come un permesso ad espandere il contatto fisico, quindi coprì le dita del magnate con quelle dalla mano libera, traendolo quasi a sé -Oh, cielo, non si aspettava mica un abbraccio, vero?
La distanza è giusta.” lo avvisò e da come Colin parve sul punto di un principio di apnea, la sua espressione doveva essere quantomeno...particolare, a metà tra il disagio ed il desiderio di scacciare Gary dalla propria comfort-zone con un colpo di repulsore. “Ricevo molti complimenti, tranquillo.”
Oh, bene, voglio solo dire---”
Cosa vuoi dire. Dai.”
Io non so se se n'è accorto, ma...Ho impostato tutto il mio look imitando il suo.”

Gary si tolse il capello, passò la mano tra le ciocche scure, un po' per mostrarle a Stark, un po' aggiustarle, metterle in ordine, perché risaltassero, perché facessero la loro bella figura “I miei capelli non sono a livello. Devo mettere un prodotto.”
“Beh. Sì”
Ennesimo suono grufolante proveniente dal setto nasale di Colin -Era questo il livello di controllo che insegnavano allo S.H.I.E.L.D.? Non era una sorpresa che l'HYDRA avesse fatto la nidiata tra le loro fila, visto il quoziente intellettivo generale.

E, ora, sa, non vorrei metterla a disagio--” Non lo era già abbastanza? “Ma devo farle vedere una cosa--”
Tanto che Gary si arrotolava la manica della camicia sopra il gomito, Colin si fece vicino e Stark avvertì distintamente il petto dell'uomo contro la schiena ed il fiato che ad ogni respiro gli sfiorava l'orecchio e la tempia.
Bum!”
Ci fu un istante di silenzio, in cui Tony socchiuse le palpebre ed inclinò il volto.
Un Chucky di Happy Days ispanico?” tentò, nella speranza non tanto di aver trovato un senso alle linee abbozzate del tatuaggio, quanto di finire quella tortura sociale senza uscirne matto.
Gary ridacchiò, forse scambiando le sue parole per una battuta. Hendrick gli pizzicò invece il braccio ed inarcò le sopracciglia, schiarendosi la gola.
Oh-” esclamò allora il magnate “Oh, scusa, sarei io?”
Eh, uh, sì, insomma.” l'addetto ai lavori tentennò in punta di piedi sul filo dell'imbarazzo “L'ho fatto riprendere da un pupazzo che avevo, perchè non avevo una foto da dargli, perciò...”

Okay, basta, la sua già bassa sopportazione stava arrivando al limite consentito, Colin continuava a respirargli addosso e l'altro lo stava mandando al manicomio con il suo balbettando balbettare balbettoso.
Senti-!” e gli si lanciò contro, le mani sulle spalle “Gary, stammi a sentire un minuto.” lo spinse verso i portelloni, lo costrinse in un ritaglio di spazio in cui non avrebbe potuto non ascoltarlo o non prestargli attenzione “Non voglio tarparti le ali. Siamo tutti e due sovra-eccitati.”
Io mi sento quasi tachicardico.” commentò Colin, un sorriso di sbieco sulla bocca, le reni poggiate contro il tavolino, la schiena a nascondere il computer portatile, le braccia serrate al petto, il cacciavite ancora in mano.
Ho un problema.” lo ignorò Tony, mantenendo il contatto visivo con Gary “ Do la caccia a dei cattivi. Devo recuperare una piccola cosa da alcuni file criptati, ma non ho molta benzina. Adesso.” alzò il dito indice “Tu vai sul tettino, va bene, e ricalibri l'ISDN. Pompala del quaranta percento.”
Okay.”
E' una missione. Tony ha bisogno di Gary.”
E Gary ha bisogno---”
Di farlo con circospezione. E adesso vai.”

Un paio di colpi dal tettino all'interno e Colin che, su cenno di Tony, rispondeva a Gary con due colpi dall'interno del van al tettino.
Che caro ragazzo.” disse “Potrebbe mandare un curriculum alla tua azienda, no? È sprecato in un camioncino come questo.”
Possiamo concentrarci sull'AIM e non sul Presidente del mio Fan Club?”

Hendrick sorrise e si appostò di nuovo alle spalle di Stark. Le dita di questi danzavano sulla tastiera senza bisogno che gli occhi seguissero il loro percorso. Perfetta sincronia, perfetto movimento, perfetto accordo tra cervello e mano, tra pensiero e azione.
Il ventre molle dell'AIM si aprì subito, schiuso dal filare di codici che Tony aveva modellato per accedervi: sulla destra dello schermo una maschera con le anteprime di cinque video, rinominati con nome e cognome dei candidati ad Extremis -Drew Grey, David Samuels, Jack Taggart, Ellen Brandt, il Sergente Chad Davis.
Il cursore si spostò su quest'ultimo, fece partire la riproduzione, comparve il volto di un ragazzo giovane, un volto comune, un volto che non trasmetteva cattiveria, né desiderio suicida.

Quale considereresti il momento clou della tua vita? Domandava una voce fuori campo e le labbra chiare del ragazzo si sollevarono appena e c'era una nota fiera negli occhi Credo...il giorno in cui non permisi al mio infortunio di sconfiggermi.
Fu la volta di Ellen Brandt, dopo, della Donna Volpe il cui corpo si era sovraccaricato al punto da pulsare di luce dorata, il volto una maschera di fuoco, la bocca una voragine d'Inferno. Era bella, lì, nel video, rilassata, sfrontata, con un sorriso irridente sulla bocca -Le mancava parte del braccio sinistro, non rimaneva che il moncherino della spalla e poco più.

Le iniezioni sono somministrate periodicamente, l'immagine cambiò e c'era un uomo, adesso, un uomo dalla barba folta, i capelli biondi, lunghi fino alle spalle -Un uomo che Tony conosceva bene, fin troppo, e la cui sola vista gli fece trattenere il respiro, L'assuefazione non è tollerata. Chi non si adeguerà alle regole sarà estromesso dal programma.
Un altro video, un'altra scena, un seminterrato, il profilo dell'uomo, il titolo del file -Injection Test.

Un tempo inadeguati, emarginati, voi sarete la prossima iterazione dell'evoluzione umana, i polpastrelli battevano sulla tastiera, nervosi, tap tap tap, Progetto Extremis, Fase 1, tre anni prima, il 25 giugno 2009, i candidati che venivano portati in uno scantinato adibito a laboratorio e c'erano computer e c'era postazioni cui legarli, assicurarli, bloccarli se fosse stato necessario, se la pazzia avesse preso il sopravvento e la sofferenza avesse accecato loro la mente e acuito i sensi e imbestialito le forme e l'adrenalina li avesse spinti alla ribellione ed alla lotta, Beh, signori, prima di cominciare sappiate che un giorno, pensando alla vostra vita, nessun ricordo sarà intenso come il glorioso rischio cui avete prudentemente deciso di sottoporvi. Oggi inizia la gloria, l'ago che scivolava sottopelle, il gemito, i denti stretti, Cominciamo!, vene di fuoco di lava di fiamma e cenere e lapilli e gli arti che ricrescevano e le urla e le grida ed il soggetto accanto a Ellen Brandt che ululava, si dimenava, gli occhi come bracia, Andiamo, andiamo, dobbiamo andarcene da qui! Via, via, presto! Portateli via! La mascella che si protrudeva, la bocca spalancata, luce, luce bianca, luce e boato e bianco e bianco boato e bianca luce lampo, tuono, scoppio, deflagrazione.

Una bomba non è una bomba quando fa cilecca.” sussurrò Tony “Le cose non funzionano sempre, giusto, amico? È difettoso, ma hai trovato un compratore.
Tling. Stong. Crash.
Stark scartò di lato -Colin era arretrato, il cacciavite gli era caduto di mano, il piede aveva cozzato contro la cassetta degli attrezzi e c'erano martelli e viti e chiodi e nastro adesivo ovunque.

Hendrick?” Tony si alzò dalla sedia girevole, la fronte corrugata.
L'Agente pareva un animale in trappola, gli occhi stralunati, una mano ai capelli, l'altra aggrappata al bordo del tavolo da lavoro, il respiro ratto nei polmoni, il petto che si alzava, si abbassava, si alzava, si abbassava, a frequenza sempre più rapida, sempre più fuori controllo.
L'ho già visto.” ansimò, le pupille due capocchie di spillo conficcate nei bulbi oculari “L'ho già visto. Ho già visto quell'uomo. Io conosco quell'uomo. L'ho già visto. L'ho già visto.”
Tony mosse un passo nella sua direzione, con cautela, i palmi aperti, le dita ben distanziate tra loro.
Killian?” lo interrogò, scandendo ogni lettera, cercando il suo sguardo “Hai visto Aldrich Killian?”
Colin annuì, quindi negò il capo, si coprì un occhio con la mano, serrò l'altro dietro le palpebre.
Lo hai visto?” ripetè Stark “Dove? Con chi?”
Con Pierce. Al Triskelion.” deglutì “Ho visto Aldrich Killian insieme ad Alexander Pierce.”



Località Sconosciuta
2011


Quando Alexander Pierce venne a prenderlo, Steve era ancora seduto a terra.
Aveva sangue sulle mani e sangue tra i capelli e sangue sulla schiena e sangue sui piedi e sangue negli occhi e sangue nei polmoni e sangue nello stomaco e sangue nelle viscere e sangue nel cuore e sangue nelle vene.
Era ancora nella stessa stanza dove era avvenuta la sentenza di Bruno e il corpo dell'italo-americano era sempre a terra, in un una pozza di lordura, rigido, maleodorante; attorno a lui giacevano altri sei cadaveri, con la testa schiacciata, col petto maciullato, con gli occhi strappati dalle orbite, con le dita dilaniate, con la lingua recisa, con le ginocchia divelte, con l'ombelico squarciato, con i polsi spezzati, con lo sterno fracassato.
Gli era stato ordinato di aspettare l'arrivo dei suoi aguzzini, togliersi i vestiti, sopportare senza reagire ogni loro sopruso -Erano volati pugni e calci e ginocchiate, persino morsi, uno di loro si era levato la cintura e adesso uno squarcio si apriva sulla schiena del soldato, all'altezza delle vertebre-, quindi, dopo due ore di tortura, ucciderli tutti.
E così era stato.
Steve aveva eseguito ogni ordine alla perfezione, non aveva emesso suono durante le sevizie e tanto meno durante l'esecuzione. Non aveva provato gioia, non aveva provato dolore.
Non aveva provato niente.
Gli era stata affidata una missione e lui l'aveva portata a termine.
Prima che Pierce venisse a prelevarlo, erano trascorse altre tre ore e ventisette minuti e sedici secondi, diciassette, diciotto, diciannove...Durante quel lasso di tempo, Steve si era semplicemente seduto ad aspettare, senza mettere a fuoco nulla, la mente svuotata di ogni pensiero, la mano destra stretta al coltello.
E quel coltello, il cui filo era ancora arrossato dal sangue e da umori e coriandoli di pelle, lo aveva offerto a Pierce non appena questi aveva messo piede nella stanza.
L'uomo si portò un fazzoletto bianco al naso e gli fece un cenno, perché rinfoderasse l'arma.

In ginocchio.” ordinò e Steve, senza badare al sangue che formicolava negli arti immobili, fece quanto gli era stato detto e stette in silenzio e attese e non ebbe rimostranze e non si ribellò al ceffone inanellato che s'abbatté sulla sua guancia.
Alzati. Vieni con me.”

Il soldato lo seguì ed i suoi occhi non videro mai lo sguardo che si lanciarono gli altri membri dell'HYDRA nei corridoi, non le occhiate degli specialisti che attendevano lui e Pierce lì, nella camera dove ancora e di nuovo e di nuovo e ancora avrebbero cancellato e riscritto qualsiasi idea si ostinasse a covargli nella mente.
Siediti.”
Steve si accomodò sulla chiese-longue ed appoggiò i gomiti sui braccioli. Due assistenti gli legarono i polsi e le caviglie ed egli allargò le dita sopra i graffi scavati con le unghie sull'imbottitura di pelle. Gli fermarono il collo e il soldato aprì la bocca, ad accogliere tra i denti un morso di cuoio.
Chiuse gli occhi quando le tempie furono incastrate tra le due piastre metalliche, ma prima che arrivasse l'oblio e con esso le scosse ed il tuono ed il lampo ed il ruggito e la bombarda e lo schock ed il panico ed il vuoto, il vuoto più nero, l'Abisso, il Gorgo, udì la voce di Pierce accanto a sé.

Ad ogni azione sbagliata, Steven, non appena è compiuta corrisponde una punizione eguale. Ti cancelleremo un'altra volta, vista la tua opposizione di coscienza di questa mattina, ma sei un ingenuo se pensi che ti permetterò di dimenticare il volto del giovane Bruno mentre lo uccidi.”
Steve spalancò gli occhi.
E di lui non rimase altro se non un ultimo, disperato grido.











Note

Ho lanciato indizi a manetta, in questo capitolo!

E, oh, e il piccolo Bruno Chianti non è un personaggio nuovo alle mie storie. Lo trovate anche, sebbene in altra veste, in Cor Mortem Ducens!

Mi raccomando, non scordatevi di passare per di qua!


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